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Dai Quaderni Rossi

ai movimenti globali:
ricchezze e limiti
dell’operaismo italiano
Interviste ai principali esponenti
dell'operaismo italiano degli anni '60 - '70
realizzate nel progetto di conricerca

Ringraziamenti a
www.autistici.org/operaismo/

edizione pdf
a cura di
marco1955
Il lungo percorso della conricerca è cominciato nell'autunno del 1999 per
iniziativa di un piccolo gruppo di militanti, scientificamente alquanto "scalzi" ma
determinati nel tentativo di costruire nuove ipotesi critiche dell'esistente.
Intraprendendo una simile strada, di fronte ad un generalizzato quadro di
apparente accettazione e con il fardello delle sconfitte e dei fallimenti dei
percorsi passati, si può pensare di dover cominciare ogni volta da zero. Ma così
non è: dietro di noi abbiamo limiti e ricchezze, intuizioni ed errori, grandezze e
tragedie di chi, in modi e contesti molto diversi, ha comunque provato a
cambiare il mondo. E alle spalle del futuro ci sono anche i migliori nemici, nostri
ma soprattutto della modernità capitalistica. Tutti insieme ci consegnano
ambivalenti eredità che, fuori da ogni folcloristica riproposizione identitaria,
possiamo utilizzare per un grande sogno da costruire. O se non altro per non
ripetere ciò che già è risultato deleterio.

La nostra conricerca è dunque stata incentrata su quei soggetti che, a livelli


differenti, sono stati protagonisti in particolare delle esperienze dell'operaismo
politico degli anni '60 e '70, o che comunque hanno avuto un'internità nei
movimenti e nel dibattito di quei due ricchissimi decenni. Abbiamo quindi
cercato e intervistato coloro che hanno dato vita alle prime esperienze operaiste
sul finire degli anni '50, che hanno partecipato ai Quaderni Rossi e a Classe
Operaia, che hanno dato vita a Potere Operaio e hanno successivamente preso
parte ai vari percorsi imboccati dall'autonomia operaia intesa nel senso più
ampio. C'è poi chi non ha fatto la scelta della partecipazione ai gruppi organizzati
e che è comunque stato pienamente partecipe del grosso dibattito politico e
culturale degli anni '60 e '70. E' importante premettere che gli intervistati
configurano un quadro quantitativamente e soprattutto qualitativamente
significativo, ma senz'altro non compiutamente esaustivo rispetto all'enorme
numero di figure che hanno attraversato i percorsi in questione. Alcuni sono
purtroppo morti (senza far torto a nessuno, facciamo solo i nomi di Guido
Bianchini, Alessandro Serafini, Gianfranco Faina, Luciano Ferrari Bravo, Emilio
Vesce, Lucio Castellano, Guido Neri, Anna Chicco...); una piccola parte ha scelto
di non essere intervistata; gli altri (e sono indubbiamente numerosi),
potenzialmente interessati, ci auguriamo di incontrarli nel prosieguo di questo
percorso. E' anche così che il qualificante prefisso con- può diventare per questa
ricerca non solo un'ambiziosa evocazione, ma innanzitutto un concreto obiettivo
da realizzare processualmente, ogni volta con un nuovo inizio.

Il fine della ricerca non è in nessun modo storiografico, per quanto dalle
interviste emerga comunque una ricostruzione critica di quei percorsi che mai
era stata fatta o tentata prima. Inutile poi sottolineare come il progetto non sia
mosso da alcun intento vagamente celebrativo o apologetico: solo una spietata
analisi critica tesa a evidenziare i limiti e i nodi irrisolti o mai affrontati da quelle
esperienze può servire gli interessi della ricerca di progetti nuovi di
trasformazione. L'obiettivo analitico, dunque, sta nel capire come si è formata
una certa soggettività (a livello individuale e collettivo), quali ne sono stati i limiti
e le ricchezze, quali i percorsi successivi, per giungere a ragionare sui nodi politici
aperti nel presente e in prospettiva futura (queste sono le categorie temporali
che ci interessano).

Inizialmente sono stati preparati


un Documento di presentazione
e una Traccia di intervista da
sottoporre alle persone
contattate. La Traccia è servita
per rendere la complessità dellle
questioni affrontate: di volta in
volta si è focalizzata l'attenzione
su determinati temi specifici,
nodi e punti in essa contenuti
sono stati ampliati o ridotti dai
singoli intervistati. Ciò nel
permanere comunque dei nuclei
focali della ricerca.
Il Documento di presentazione è
risultato ben presto poco
adeguato da molti punti di vista:
è tuttavia servito per dare
un'idea di come è partito il
progetto. La scelta di definire
questo percorso conricerca è
indicativa del richiamo alle esperienze cominciate in Lombardia e Piemonte tra la
fine degli anni '50 e l'inizio dei '60, di cui Romano Alquati è stato il principale
protagonista. Anche nei decenni successivi piccoli gruppi e singoli militanti hanno
fatto esperienze di conricerca, a riprova della grosse capacità di anticipazione che
quegli esperimenti hanno avuto. Non c'è nella nostra scelta un intento
esclusivamente simbolico ed evocativo, ma innanzitutto una decisa opzione per
ciò che la conricerca presuppone: la creazione di una complessa rete
controformativa in cui si superino i classici ruoli di intervistato ed intervistatore,
le sue finalità politiche e non sociologiche, e nello stesso tempo il controutilizzo
delle scienze sociali per un progetto di trasformazione. Ciò criticando anche il
diffuso culturalismo che nella sinistra ha portato a trascurare o addirittura a
rifiutare le scienze sociali, identificando (sulle orme di De Sanctis, Croce e
Gramsci) la Cultura con quella umanistica.
Abbiamo quindi cercato di usare una metodologia che, per quanto empirica, può
essere una base di partenza per altri "ricercatori scalzi" che volessero
intraprendere un percorso simile.
Sono state intervistate 58 persone, alcune delle quali più volte.
I colloqui sono stati sbobinati e rivisti dagli intervistati, una parte dei quali li ha
sistemati in alcune sue parti, senza tuttavia mai togliere quel carattere di
chiacchierata che permette a chi le legge di seguire agilmente la trattazione di
temi di livello alto.
Il materiale è integralmente consultabile nella sezione Interviste. In Riviste sono
scansite molte copertine dei principali luoghi del dibattito politico e culturale
degli anni '60 e '70. Ogni rivista e giornale di movimento è accompagnato da
un'ampia nota bibliografica.
Importante è poi la Bibliografia, che cerca di fornire una guida ragionata (per
quanto sicuramente non esaustiva) dei principali testi non solo del filone
operaista, ma più in generale utili per la costruzione di nuova conoscenza critica.
Cliccando Il dibattito oggi si può avere uno spaccato delle riviste e dei link più
interessanti dell'attuale panorama politico.

Viene infine presentata una Ricerca sul femminismo che, con presupposti simili
alla presente conricerca, parte dalle protagoniste dei percorsi degli anni '70 per
porre e affrontare le questioni aperte nell'oggi.

Dopo due decenni di un buio politico


soffocante, solo qua e là squarciato da
sporadici lampi critici e attraversato dalla fede
di caparbi militanti, oggi inizia a intravedersi
una nuova alba di lotte. Significative minoranze
vanno dicendo e urlando che un altro mondo è
possibile: ciò è importante, anche se non
ancora sufficiente. Dobbiamo saperlo
progettare, nella pluralità e nel sincretismo.
Ciò che del passato è morto lo dobbiamo
seppellire senza lacrime: il continuismo non
solo non ha speranze, ma è deleterio. Ciò che
ancora può essere vivo, dobbiamo utilizzarlo
criticamente, per andare oltre, non per tornare
indietro. Questa conricerca può essere
l'importante inizio della costruzione di una
dinamica rete di un dibattito aperto e
progettuale. In questo ci si potrà avvalere di
diversi mezzi, dai convegni alla carta stampata
ai supporti telematici. Il percorso da noi fatto e
descritto può fornire anche un interessante modello sperimentale per la
diffusione di esperienze simili, magari su nodi e livelli differenti, ma con la
possibilità di collegarsi tra di loro, di mettersi in rete. Come si potrà leggere nelle
interviste, indipendentemente dai percorsi successivi nessuno dei soggetti
contattati butta via niente di quelle esperienze, è giustamente autocritico e
soprattutto è interessato a nuove forme di riflessioni sull'oggi e non solo sul
passato. Nella fase aurorale dei nuovi movimenti diventa quindi più che mai utile
iniziare a porre i tanti nodi politici nuovi, aperti o irrisolti. Con nessuna nostalgia
per ciò che è definitivamente trascorso, con la preziosa eredità di chi un altro
mondo ha cercato di costruirlo. Ricercando ex novo e ancora una volta la
profezia di un sogno possibile...
DOCUMENTO DI PRESENTAZIONE

"Quando da una parte troviamo quelli che dicono: domani scoppia tutto e il
vecchio mondo crollerà, e dall'altra parte quelli che dicono: per cinquant'anni
non si muoverà niente, e i primi sono smentiti dai fatti e i secondi hanno ragione
dai fatti, noi qui stiamo con i primi, noi qui dobbiamo stare con quelli che si
sbagliano"
(M. Tronti, Operai e capitale)

DA DOVE PARTIAMO

Nell'attuale panorama antagonista il dato prevalente è la crescente


frammentazione ed atomizzazione dei soggetti e degli ambiti che si propongono,
con diversità molteplici e ben poco comunicanti, in una dimensione di lotta al
capitalismo. Chiusi in un localismo con poca progettualità, si è persa la capacità
di un confronto che non sia una semplice rincorsa di scadenze, ma che inizi a
muoversi in un tendenziale percorso di superamento delle carenze esistenti per
andare verso una direzione ricompositiva. In tale direzione uno dei primi nodi
che individuiamo è la necessità di superare la contrapposizione tra teoria e
prassi, ovvero la contrapposizione tra una teoria intesa come sterile discussione
ed analisi dell'esistente senza l'obiettivo del suo superamento, ed una prassi che
spesso si traduce in un vivere politicamente alla giornata senza porsi il problema
di continui passaggi a livelli progettualmente più alti. Una teoria che sia
realmente antagonista non può limitarsi a fotografare il capitale dal suo punto di
vista, ma deve, partendo dalla propria parzialità di classe, porsi su un terreno di
irriducibile contrapposizione e progettata distruzione dell'attuale sistema; ed in
questo si deve unire alla prassi in una processualità virtuosa e che sappia
continuamente arricchirsi. Non si è su un terreno rivoluzionario se ci si limita ad
analisi che non sappiano congiungersi al continuo agire e sperimentare. Di fronte
ad una realtà in costante movimento, discontinua e gerarchizzata in molteplici
livelli, non è sufficiente né la sola (e spesso supposta) conoscenza né il semplice
(e spesso supposto) essere contro. Oggi c'è chi ha rinunciato a scommettere sulla
classe, nell'acritico entusiasmo per un'innovazione tecnologica (che è
propriamente innovazione capitalistica) ritenuta portatrice di forme di
liberazione sempre più diffuse, armoniosamente e profeticamente marcianti
verso il superamento del capitalismo senza nemmeno doversi più curare delle
vecchie questioni (classe, lotte, rifiuto del lavoro, soggettività antagonista).
Dall'altra parte c'è chi è ostinatamente arroccato su posizioni resistenziali,
nell'inconcludente ed inutile difesa di ciò che, ancor prima che dalle forme di
recupero e sussunzione del capitale, è stato sconfitto dalle lotte e dal rifiuto di
classe. C'è una sostanziale incapacità di guardare alla composizione e a quella
soggettività di classe (in quanto insieme di bisogni, conoscenze, volontà,
comportamenti) a cui spesso si fa riferimento e nel cui nome si vorrebbe agire;
guardarvi non per piegarsi al suo volere, ma per agire su di essa, radicalizzarne gli
aspetti conflittuali, forzarla continuamente e progettualmente a passaggi di
livello nella direzione di scontro con il capitale. In termini marxiani, le lotte
impongono al capitale dei passaggi su nuovi terreni. E' su questo nuovo terreno
che dobbiamo portare la sfida, sapendo leggere da un punto di vista di classe la
tendenza, agendo su di essa, anticipandola, controusandola e progettualmente
deviandola verso i nostri fini. Indietro non si torna: intestardirsi nella difesa
(sindacale e vertenziale) di ciò che è passato, vuol dire non solo essere sconfitti,
ma rinunciare a costruire un percorso antagonista progettualmente organizzato.
Il processo di scomposizione e frammentazione che il capitale è riuscito ad
imporre e mettere in atto si riproduce nei nostri ambiti politici anche a livello
teorico. Continua infatti ad essere prevalente una settorializzazione
dell'intervento politico: gli "studenti", gli "immigrati", i "lavoratori" e così via.
Anche in questo caso non si riesce a leggere e a controusare (nei termini di cui si
parlerà più avanti) il processo di costante lavorizzazione dell'agire umano. Ed
attorno al lavoro (uno dei nodi fondamentali e trasversali del nostro agire contro)
e alla lotta contro di esso dovremmo iniziare ad avere una capacità di
tendenziale ricomposizione politica. Il partire dai propri limiti, dai propri errori e
dalle proprie insufficienze non significa assolutamente limitarsi a fotografare una
situazione che non è adeguata; al contrario ciò è indispensabile per ri-attivare,
con chi è ancora intenzionato a scommettere sulla classe, una capacità di
confronto e dibattito che sappia continuamente mettersi in discussione ed in
gioco come soggettività antagonista. Lo scopo di questa ipotesi di inchiesta è
iniziare a conoscere, discutere e approfondire politicamente, in una processualità
aperta, alcuni nodi legati alle trasformazioni del capitale e della classe in un
percorso mirato alla ricerca della costruzione di una soggettività politica
antagonista.

RI-PARTIAMO DAL PASSATO PER GUARDARE AL FUTURO

Quello che qui ci interessa non è né fare delle ricostruzioni storiche né elaborare
delle considerazioni che, ex-post, giudichino i vari punti di vista che si sono
espressi all'interno del movimento. Gli ambiti antagonisti cercano spesso di porsi
su un terreno di continuità con gli anni '70 nell'esclusiva ricerca di una radicalità
"identitaria" e, molte volte, nella sua folcloristica immagine. Quello che manca è
la capacità di usare e contestualizzare esperienze e intelligenze per confronti non
rivolti al passato ma che si pongano l'obiettivo della costruzione di un percorso
antagonista rivolto al presente e soprattutto al futuro. Per fare ciò (ed è rivolta a
questa composizione discriminante che intende iniziare a muoversi la nostra
inchiesta) vogliamo contattare alcuni di quei soggetti che con percorsi, posizioni
e livelli differenti sono stati interni alle esperienze e agli ambiti dell'operaismo e
dell'Autonomia Operaia, in contiguità a questi o i cui punti di vista, anche se
critici e da essi diversi, hanno avuto un'importanza per il loro bagaglio teorico-
politico. Sempre tenendo ben presente lo scopo dell'inchiesta e il suo obiettivo
temporale (il presente e il futuro), si vuole affrontare l'analisi soggettiva delle
ricchezze e soprattutto dei limiti che i propri percorsi, punti di vista e/o proposte
politiche hanno avuto, e quanto ciò serva o possa servire rispetto alla realtà
odierna. L'analisi dei propri limiti è un elemento fondamentale: solo attraverso
l'autocritica è possibile migliorare per salire ad un livello più alto. Sia per ciò che
riguarda il passato che per il presente, la capacità autocritica è purtroppo
abbastanza rara: è molto più facile e comoda l'autocritica degli altri o
l'addebitare la causa di certe sconfitte esclusivamente alla repressione,
inevitabile risposta all'innalzarsi dello scontro di classe. In un dibattito interno al
movimento dobbiamo partire dalla constatazione che oggi a inibire e frenare lo
sviluppo di percorsi antagonisti non è la repressione ma il consenso e
l'accettazione rispetto all'esistente: ciò è verificabile sia all'interno della classe
che negli ambiti e tra i soggetti antagonisti. Torna ancora una volta il nodo della
soggettività politica e della necessità di invertire la tendenza.

INIZIARE A MUOVERSI IN TRE DIMENSIONI

Trasformazioni del lavoro e delle forme di accumulazione capitalistica, vecchi e


nuovi paradigmi produttivi, frantumazione e atomizzazione o supposta fine della
classe: su questi nodi si sono sviluppate varie e diversificate forme di dibattito
che hanno prodotto non solo elaborazioni teoriche ma anche modi d'agire e
proposte politiche che sempre più paiono prendere le distanze dal terreno della
contrapposizione al capitale. Vogliamo perciò iniziare a ragionare e approfondire
i nodi legati a tre dimensioni.
1) Il capitale: composizione, trasformazioni, forme di produzione e nuovi modelli
di accumulazione, tendenza, forme di dominio, soggettività capitalistica.
2) La classe: composizione tecnica e composizione politica, subordinazione e
autonomia, forme di accettazione e di rifiuto, dove e quali soggetti esprimono
conflitto, tendenza, soggettività di classe. Capitale e classe sono le due parti
dell'attuale sistema, legate tra loro da rapporti di dipendenza, subordinazione e
contrapposizione. La classe è però la parte che dà il capitale attraverso
l'erogazione di lavoro: ciò fornisce alla classe quell'autonomia che è alla base
dell'irriducibile antagonismo in un sistema basato su un rapporto di
sfruttamento. Antagonismo non tra capitale e lavoro oggettivisticamente intese
come statiche e al loro interno indifferenziate entità fatalisticamente destinate a
contrapporsi, ma antagonismo tra capitalisti e lavoratori in quanto classe che
rifiutando il lavoro, negandosi come forza-lavoro, nega se stessa come parte del
capitale. Benché la classe esprima spontaneamente forme di rifiuto e di conflitto
(il nodo della soggettività di classe), ciò non può bastare a rendere possibile un
percorso antagonista di radicale contrapposizione e progettata alterità. E qui,
affrontando il nodo del superamento della spontaneità, cominciamo ad
addentrarci nella terza dimensione, per noi la più importante ed in qualche modo
a tutte trasversale nel nostro ipotizzato percorso.
3) La costruzione della soggettività politica antagonista che, dinamicamente
dall'interno dei processi di classe, ma rimanendo al contempo qualcosa di
differente, li sappia continuamente portare ad un livello più alto, rompendo e
superando il precedente, verso la loro ricomposizione e in un progettuale
percorso di uscita dal capitalismo. All'interno di questa dimensione iniziamo a
buttare sul tappeto, in ordine sparso, alcuni nodi. La formazione. Qui il discorso
va affrontato su più livelli. Il capitale investe sul discorso della formazione in
modo sempre più strategico; purtroppo la stessa lungimiranza non è propria
degli ambiti antagonisti. Nel nome di una visione che continua ad identificare il
lavoratore esclusivamente con il produttore di merci materialmente tangibili, gli
interventi politici su scuola e università vengono considerati come fase di gavetta
e passaggio nell'attesa di entrare nel cosiddetto "mondo del lavoro" (ed anche in
questo caso la terminologia capitalistica si impone). Nel processo di costante
lavorizzazione della società e dell'agire umano, lo studente, in quanto
contribuisce alla produzione di cultura (in quanto merce) e alla formazione della
propria capacità umana (in quanto merce), in quanto dunque coproduttore di
forme di materialità intangibili (e sempre più strategiche), è già a tutti gli effetti
un lavoratore, anche se non direttamente salariato. I luoghi della formazione
(sempre più diffusi) assumono dunque un aspetto antagonisticamente strategico
e in qualche modo trasversale a tutti gli ambiti di intervento politico. Che
formazione si esprime poi negli ambiti politici antagonisti? Come si possono
eventualmente anche controusare i mezzi della formazione capitalistica dal
punto di vista dell'agire di classe e rivoluzionario? Strettamente legato al discorso
della formazione è quello della militanza, non in quanto astratto modello valido
per ogni situazione e contesto, ma come agire politico di singoli e collettivi che si
ponga un discorso di costruzione e continuità di percorsi antagonisti. La
comunicazione. Negli ambiti di movimento ci sono attualmente alcune radio,
molti giornali a diffusione locale e qualcuno a livello nazionale. Non sarà
moltissimo ma non è nemmeno poco. Quello che invece manca del tutto o quasi
è un progetto o anche solo un dibattito sul discorso comunicativo. E poi i mass
media capitalistici esistono e contano parecchio: o si fa finta di niente, o sarebbe
il caso di iniziare a confrontarsi anche su questo terreno. Il che non significa,
come ipotizza e fa qualcuno, un loro supposto utilizzo che, nella pratica, si
traduce nell'abbandonare il proprio essere contro. Vuole invece dire non
rinchiudersi in uno sterile rifiuto, ma, come per gli altri ambiti, pensare e
sperimentare forme di effettiva contrapposizione. Su un livello più profondo la
comunicazione tocca poi tutta una serie di aspetti dell'agire politico e della
costruzione di percorsi (dagli interventi alle riunioni, dai volantini agli slogan). Il
radicamento. Innanzitutto è importante sottolineare la differenza tra
radicamento e consenso. Spesso, riproducendo inconsciamente le logiche dei
partiti (le cui azioni sono finalizzate al prendere voti) si mira nel proprio agire
politico ad arrivare indiscriminatamente alla "gente". Ma prerogativa dell'agire
politico antagonista è la capacità di discriminare, di far prevalere la propria
parzialità di classe e, all'interno della classe, di quella parte e di quei soggetti che
producono conflitto. I soggetti di classe effettivamente o potenzialmente
rivoluzionari e ricompositivi non sono necessariamente quelli percentualmente
più numerosi o più colpiti. Negli anni '60 l'operaio-massa era soggetto centrale e
ricompositivo nelle lotte in quanto produceva conflitto ed era in una posizione
strategicamente centrale. Essendo la realtà gerarchica, non tutti gli ambiti sono
uguali. L'intervento politico e l'ambito che si sceglie costituiscono una
scommessa, che va continuamente verificata ma sviluppata progettualmente
negli anni.

L'organizzazione. Tale parola è ormai da molto tempo coperta da un generale


ostracismo da parte degli ambiti antagonisti, tanto che, nelle rare occasioni che
la si nomina, è preventivamente necessario sottoporsi ad un rituale di doverose
premesse e rassicurazioni: che non si stanno proponendo forme partitiche, che
non ci si è convertiti a concezioni dogmatiche e ortodosse, e via di questo passo.
Non si corrono rischi se invece si usa la parola autorganizzazione, termine che
però, al di là di alcuni innegabili ed importanti significati che riveste
nell'immaginario comune, negli ambiti di movimento ha creato molte confusioni
(o almeno le hanno create un suo uso distorto). La realtà che abbiamo di fronte
ed in cui siamo inseriti è composta da numerosi livelli rigidamente gerarchizzati:
tali livelli sono completamente funzionali ed anzi indispensabili allo sviluppo del
sistema capitalistico. Non si può pensare che il solo far parte di un ambito
antagonista faccia sparire, come per un colpo di bacchetta magica, tale gerarchia
di livelli, appianando le differenze di saperi, conoscenze, intelligenze, esperienze
che i soggetti hanno (anche per proprie scelte soggettive). Il non negare tale
realtà non significa assolutamente accettarla, o proporre forme organizzative
semplicemente speculari a ciò a cui ci si vuole contrapporre. E qui iniziamo a
sviluppare il nodo, già citato in precedenza, del controuso dei mezzi capitalistici.
Tali mezzi (e dunque anche l'organizzazione in quanto mezzo finalizzato al
potenziamento dell'agire) non sono neutri, però presentano una fondamentale
ambiguità ed ambivalenza: se il capitale li usa per il proprio sviluppo, la classe li
può controusare contro il capitale e per i propri fini. Nel controuso delle loro
potenzialità per i propri scopi la classe deve però da subito metterli in
discussione in quanto mezzi capitalistici, e quindi controusarli anche in direzione
di un loro superamento e nella costruzione di alterità. Quindi l'organizzazione
non come proposizione di magici modelli staticamente validi una volta per tutte
ma come dinamico e processuale strumento che dia potenza ed efficacia ad un
agire collettivo composto da soggetti che partono inevitabilmente da livelli
differenti; dunque non forma perpetuante le gerarchie esistenti ma contro di
esse, in un tendenziale livellamento, verso l'alto però, e non masochisticamente
verso il basso! La progettualità. E' il frutto di una dimensione collettiva capace di
individuare la tendenza di una realtà in continuo movimento e sapere agire su di
essa, piegandola e deviandola verso i propri fini. La progettualità come continua
elaborazione, sperimentazione e verifica di una processualità virtuosa tra teoria e
prassi. Non progettualità come una o più parole d'ordine valide ovunque, ma
come dinamico arricchimento e ricomposizione di specifici territoriali che si
muovono, partendo da posizioni comuni, verso una direzione comune e
continuamente da verificare nei suoi passaggi. Le lotte. Conflitto e lotta generica
sono categorie differenti da quella della lotta di classe, che implica
consapevolezza, radicalizzazione, progettualità e organizzazione dello scontro
non in generale, ma contro il capitalismo. Le lotte, cambiando la realtà e i
rapporti di forza, incidono sui soggetti in esse coinvolti e quindi sulla soggettività
politica che in esse si esprime.

RICERCARE PER TRASFORMARE E COSTRUIRE ALTERITA'

Questo documento vuole essere un primo momento di confronto sui nodi e sulle
ipotesi in esso contenute. Riteniamo importante partire da un qualcosa che per il
momento chiamiamo inchiesta, parola magica di cui molto spesso si sente
parlare ma poca ne viene fatta e ancora meno ci si intende sul suo significato e la
sua utilizzabilità in senso antagonista. Per evitare di riportare semplici definizioni
e differenze teoriche, vorremmo rifarci e ripartire da chi l'inchiesta e la
conricerca (e sono due cose diverse) l'hanno fatta. E magari proponendoci di
iniziare a controusare un pò alcuni mezzi capitalistici, assumendo in maniera
critica e problematizzante l'ambivalenza sistemica per svilupparne la faccia
autonoma, controusabile dalla classe, in un percorso di conoscenza e tendenziale
approfondimento delle contraddizioni volto ad una dinamica e progettata rottura
degli equilibri che di volta in volta si vengono a costituire. Questa ipotesi di
progetto vuole ambiziosamente essere l'inizio di un percorso che sappia
sedimentarsi e verificarsi continuamente, produrre processualmente nuova
conoscenza sulla realtà non per fotografarla ma per trasformarla, aprire e
arricchire un dibattito che non sia fine a se stesso ma che possa essere
strumento dell'agire politico antagonista, di un agire che ci porti
progettualmente ad essere in modo sempre dinamicamente nuovo dalla parte di
chi si sbaglia.
TRACCIA DELL'INTERVISTA

1) PRESENTAZIONE DEL SOGGETTO:


- percorso di formazione politica e successivi passaggi
- percorso e collocazione negli anni '70 ed eventuale appartenenza ad ambiti politici
organizzati
- eventuali lavori teorici fatti (libri, riviste, documenti…)
- il suo percorso successivo
- il suo percorso attuale.

2) ANALISI DEI PROPRI PERCORSI POLITICI:


- analisi delle ricchezze e i limiti del proprio percorso e/o della propria proposta politica
- analisi e giudizi su quanto c'era d'altro (altri ambiti, altre riviste, altre proposte
politiche e/o teoriche…)
- quanto tali ricchezze e tali limiti possano essere attualizzabili nel contesto odierno e
in prospettiva futura.

3) PRIMA DIMENSIONE - IL CAPITALE:


- analisi delle trasformazioni e dei nuovi modelli di produzione e di accumulazione
capitalistica
- analisi tendenziale di tali forme
- forme di dominio e sue trasformazioni anche legate all'ambito politico istituzionale.

4) SECONDA DIMENSIONE - LA CLASSE:


- giudizio del soggetto intervistato sull'esistenza della classe
- trasformazioni della classe
- sua composizione tecnica e sua composizione politica
- analisi della soggettività di classe che oggi si esprime
- giudizio su quali soggetti esprimono forme di conflitto e quali tendenzialmente
possano esprimerle
- opinione sulla possibile configurazione di soggetti trainanti e ricompositivi (se sì,
quali)
- eventuali ipotesi di scommesse politiche su soggetti e ambiti in una dimensione di
contrapposizione al capitale.

5) TERZA DIMENSIONE - LA COSTRUZIONE DELLA SOGGETTIVITA' POLITICA


ANTAGONISTA:
- punto di vista del soggetto sull'importanza o meno di parlare di soggettività politica
antagonista e cosa si intende con tale categoria
- rapporti di tale categoria con quella di identità
- opinione del soggetto sulla possibilità che la soggettività politica antagonista nasca
esclusivamente dalle lotte e dalla classe o, pur sviluppandosi dinamicamente
internamente alla composizione di classe e nelle lotte, rimane al contempo qualcosa di
differente da esse.

Nodi legati alla soggettività politica antagonista.


5a) Formazione:
- scienza e processi di costruzione del sapere
- analisi della nuova figura dello studente nell'ambito dei processi di lavorizzazione e
fabbrichizzazione della società e dell'agire umano
- se e come su tale ambito si possa politicamente intervenire
- giudizio sulla formazione che si esprime negli ambiti antagonisti e ipotesi su quale
formazione si possa progettualmente pensare.
5b) Militanza:
- analisi ed ipotesi su come ripensare il discorso della militanza al di là di astratti
modelli e in una fase in cui molti parlano di una crisi della politica (ed opinione su tale
questione).
5c) Comunicazione:
- analisi dell'evoluzione dei mass-media e loro ruolo
- ipotesi su come sia possibile pensare ad un discorso antagonista sulla comunicazione
sia rispetto a quella capitalistica sia rispetto a quella che si propone in una dimensione
di contrapposizione
- ruolo della comunicazione e del linguaggio nella loro globalità (quindi volantini,
slogan, riunioni, interventi e via dicendo) in un percorso antagonista.
5d) Radicamento:
- punto di vista del soggetto sulla categoria di radicamento
- analisi di dove e come può essere ipotizzato.
5e) Organizzazione:
- analisi delle forme di organizzazione che si sono date negli ambiti antagonisti e loro
limiti
- analisi dell'evoluzione e della crisi di forme partitiche tradizionali
- possibilità di ripensare ad un discorso sull'organizzazione che si muova
dinamicamente rispetto alla realtà e alla composizione politica della classe
- se e come sia possibile controusare alcuni mezzi capitalistici (ed anche
l'organizzazione in quanto mezzo).
5f) Progettualità:
- opinione su come possano darsi forme di progettualità
- se debbano essere legate ad una o più parole d'ordine unificanti o si debbano
muovere nel senso di una ricomposizione di specifici territoriali nell'ambito di un
percorso comune.
5g) Lotte:
- analisi delle categorie di conflitto e lotta di classe, sue implicazioni nella costruzione
di un percorso antagonista.

6) GIUDIZIO DEL SOGGETTO SULLA NECESSITA' DELL'INCHIESTA IN GENERALE E COSA


SI INTENDE CON TALE CATEGORIA:
ciò anche nella sua configurazione storica a partire dalle esperienze degli anni '50-'60,
e discussione sulle sostanziali differenze tra l'inchiesta in termini generali e l'inchiesta
come intervento politico (autoinchiesta operaia, conricerca).

7) GIUDIZIO SULLA NOSTRA INCHIESTA E SUA DISPONIBILITA' A PARTECIPARVI

8) EVENTUALI PROPOSTE DI SOGGETTI DA CONTATTARE


INTERVISTE
ROMANO ALQUATI (DICEMBRE 2000 - "SUL SECONDO OPERAISMO POLITICO")
ALBERTO ASOR ROSA (24 OTTOBRE 2001)
MARCO BASCETTA (16 OTTOBRE 2001)
PAOLO BENVEGNU' (13 SETTEMBRE 2001)
FRANCO "BIFO" BERARDI (19 NOVEMBRE 2001)
LAPO BERTI (12 LUGLIO 2000)
SERGIO BIANCHI (15 OTTOBRE 2001)
SERGIO BOLOGNA (21 FEBBRAIO 2001)
ALDO BONOMI (17 OTTOBRE 2000 - 8 NOVEMBRE 2001)
GUIDO BORIO (27 OTTOBRE 2001)
PAOLO BURAN (22 NOVEMBRE 2000)
BRUNO CARTOSIO (15 MAGGIO 2000)
ANDREA COLOMBO (15 OTTOBRE 2001)
GIOVANNI CONTINI (7 SETTEMBRE 2001)
DARIO CORBELLA (21 FEBBRAIO 2000 - 28 MARZO 2000)
VALERIO CRUGNOLA (5 FEBBRAIO 2000 - 26 APRILE 2000)
GIAIRO DAGHINI (1 AGOSTO 2000)
MARIO DALMAVIVA (19 FEBBRAIO 2001)
MASSIMO DE ANGELIS (1 LUGLIO 2001)
ALISA DEL RE (26 LUGLIO 2000)
FERRUCCIO DENDENA (10 GENNAIO 2000 - 24 GENNAIO 2000 - 8 FEBBRAIO 2000
- 13 MARZO 2000 -8 MAGGIO 2000)
RITA DI LEO (11 DICEMBRE 2000)
VALERIO EVANGELISTI (18 MARZO 2000)
SILVIA FEDERICI (18 DICEMBRE 2000)
CARLO FORMENTI (13 DICEMBRE 1999 - 31 GENNAIO 2000)
FERRUCCIO GAMBINO (10 GIUGNO 2001)
PIERLUIGI GASPAROTTO (APPUNTI 31 MAGGIO 2000)
ROMOLO GOBBI (14 DICEMBRE 2000)
MAURO GOBBINI (11 DICEMBRE 2000)
CLAUDIO GREPPI (23 SETTEMBRE 2000)
ENRICO LIVRAGHI (7 SETTEMBRE 2000)
ROMANO MÀDERA (2 DICEMBRE 2000)
ALBERTO MAGNAGHI (28 AGOSTO 2001)
BRUNELLO MANTELLI (6 FEBBRAIO 2001)
CHRISTIAN MARAZZI (5 LUGLIO 2000)
MARIA GRAZIA MERIGGI (21 APRILE 2000 - 14 OTTOBRE 2000)
SANDRO MEZZADRA (3 APRILE 2001)
VINCENZO MILIUCCI (11 LUGLIO 2000)
ENZO MODUGNO (18 GENNAIO 2001)
GIORGIO MORONI (7 LUGLIO 2001)
YANN MOULIER BOUTANG (7 LUGLIO 2001)
TONI NEGRI (13 LUGLIO 2000 - 15 OTTOBRE 2001)
GIANCARLO PABA (7 SETTEMBRE 2001)
MARIO PICCININI (10 GIUGNO 2001)
FRANCO PIPERNO (31 AGOSTO 2000)
DOMENICO POZZA (21 NOVEMBRE 2000)
MARCO REVELLI (24 LUGLIO 2001)
VITTORIO RIESER (3 OTTOBRE 2001)
PIER ALDO ROVATTI (11 MARZO 2000 - 6 GIUGNO 2000 - 16 OTTOBRE 2000)
RENATO ROZZI (12 MARZO 2001)
ORESTE SCALZONE (24 MAGGIO 2000)
RAF "VALVOLA" SCELSI (20 GIUGNO 2000)
EMILIO SOAVE (27 OTTOBRE 2000 - 27 DICEMBRE 2000)
MARIA TERESA TORTI (17 GIUGNO 2001)
MARIO TRONTI (8 AGOSTO 2000 - 9 AGOSTO 2001)
BENEDETTO VECCHI (20 APRILE 2001)
PAOLO VIRNO (21 APRILE 2001)
LAUSO ZAGATO (1 NOVEMBRE 2001)
INTERVISTA A ROMANO ALQUATI – DICEMBRE 2000

- Qual é la tua estrazione sociale e qual è stata la tua prima formazione?

Contrariamente a quel che tutti credevano e credono io non sono affatto d’estrazione proletaria, ma
medio-borghese, forse più aristocratica che borghese. Mio padre nel ’45, quando lo vidi l’ultima
volta, era un generale (aveva ricevuto anche un’onorificenza speciale – “nastro azzurro”? – perché
era il più giovane generale italiano: quarant’anni). Anche suo padre era morto generale; e pure i
suoi due fratelli minori sono diventati generali della Nato. La mia nonna paterna era di una nobile
famiglia napoletana, con qualche zio ministro. Mia madre invece veniva da una ricca famiglia di
agrari cremonesi, ed aveva avuto la tradizionale educazione di collegio delle signorine
aristocratiche, cosicché quando poi si ritrovò ancor giovane vedova e senza reddito non sapeva fare
nulla… Mio nonno materno fu uno dei primi imprenditori agricoli padani ed impiantò varie cascine
“moderne” nei dintorni di Cremona, assicurando l’avvenire ai suoi dieci fratelli, che come
ringraziamento gli voltarono subito la schiena. Era democratico\liberale e piuttosto antifascista. Poi
fu derubato di tutto da un notaio e si trovò a sua volta in estrema miseria: ma rimase una persona
colta, di grande dignità e fascino. Morì all’ospizio dei poveri. Mi fece capire molte cose! Quando
nel ’45 mio padre scomparve, disperso, forse ucciso dai partigiani1, la mia famiglia crollò presto
nella miseria più nera e a lungo non ricevette aiuti da alcuno.
Mio padre ebbe una storia molto avventurosa e “diversa” e delegò molto a me fin dalla mia prima
infanzia, investì moltissimo in me per certi suoi sogni, e mia madre era abbastanza concorde con
lui. Per cominciare non gli bastava ripetermi che mi aspettava l’Accademia militare di Livorno,
perché era la più rigida, ma che già a 14 anni sarei entrato nel collegio militare. In vero era una
persona ambivalente. Si fidava di me e fin da bambino mi lasciò sempre incredibilmente libero. Mia
madre pure, ma con una certa apprensione… Questo futuro generale pieno di ferite, di medaglie e di
promozioni sul campo a 15 anni aveva lasciato la scuola senza diplomarsi per fuggire a Fiume con
D’Annunzio al quale rimase legato2, poi fu fascista di sinistra, in dissenso antiborghese con lo
stesso Farinacci; nel ’26 subì un processo politico e rischiò la pelle, e dovette espiare, con la
carriera militare, e fu volontario in tutte le guerre del suo tempo. Quando nel ’45 scomparve avevo
dieci anni. Io nacqui e crebbi in caserma, da una caserma all’altra; ma in Croazia e Slovenia; così
prima lì e poi nello sfollamento nella campagna cremonese e alle elementari cominciai a legarmi ad
amici di condizione proletaria-contadina, per la loro schiettezza, lealtà e generosità e capacità di
cavarsela da sé e di fare molte cose (ma non erano certo tutti così, non generalizzo). Anche perché
mia madre mi trasmise subito qualcosa d’avverso ai formalismi ed alle esteriorità, cominciai presto
a non sopportare l’ipocrisia delle famiglie degli ufficiali, e poi di certi funzionari statali. Giunsi a
Cremona dalla Slovenia nella primavera del ’43. Il crollo economico e sociale della mia famiglia e
la sua espulsione dal suo ceto d’origine nel ’45 (credo che non abbiano mai perdonato il precedente
idealismo anticonformista dei miei genitori, di marca aristocratico\cavalleresca, con santi, eremiti
ed eroici cavalieri dell’ideale e grandi artisti e geni, tutti strettamente italici), favorì una certa
lumpen-proletarizzazione graduale di tutti noi, che sotto restavamo abbastanza aristocratici. Altra
ambivalenza. Abbiamo vissuto anni di vera fame, in cui anch’io fui personalmente travolto e
semidistrutto, umiliato ed offeso, emarginato e molto risentito (e passai pure per un vero e proprio
durissimo e dolorosissimo ed ingiusto naufragio scolastico alla terza media3), vittima di altra
ingiustizia; ma sempre con una certa fierezza nella memoria di mio padre e dei miei nonni. Ripeto,
questo tracollo fu sentito presto da me come qualcosa di ambivalente: una grande tragedia
quotidiana, ma anche un’ulteriore liberazione!

1
Con altri avevo notato negli anni ’60 che nel giro degli “operaisti politici” erano parecchi i figli orfani d’importanti personaggi del
fascismo. E che c’erano vari di noi senza padre ed allevati da madri straordinarie.
2 Quando nacqui D’Annunzio, poiché mi chiamarono Romano, mandò un telegramma “piccolo ma grande nel nome”. Mussolini mi
tenne in braccio.
3
Benché avessi otto e nove nelle materie letterarie, fui respinto in matematica per l’odio di una giovane professoressa di matematica
per la mia famiglia. Fu una ferita da cui non sono ancora guarito oggi.

1
Cominciai presto ad odiare il sistema sociale ed i suoi governanti ed i potenti locali ed universali:
anche per un certo ostracismo (che subivo pure dalle ragazze ricche mie compagne di scuola; salvo
vere eccezioni: indimenticabili). Sono stato pure abbastanza cattolico fino a circa 14\15 anni. Nel
’50, anno santo, vinsi una specie di campionato provinciale di catechismo e fui inviato a Roma ad
incontrare Pio XII. Malgrado questo, la mia fede era ormai debolissima. A Roma incontrai un
cugino di mio padre che era il grande capo dell’ordine (ex eretico) dei Frati minori francescani, il
quale secondo i miei parenti avrebbe potuto trovarmi facilmente un lavoro. Costui mi deluse
talmente che persi la mia fede residua, e tornai a Cremona miscredente e quantomai ribelle: ma
dopo aver visitato per più di un mese più volte tutte le principali chiese e musei e rovine romane mi
sentii abitante di quella città com’era allora in buona parte la sua gente. I primi anni ’50 furono
importanti. Segnarono una svolta, preparata poco a poco. Ci furono alcuni incontri: anni prima un
primo balordo (Elio Uccelli, ex ufficiale di Marina), poi diventato sociologo e professore di
sociologia a Roma, amico di Ferrarotti, mi aveva già incuriosito alquanto sulla sociologia e la
scienza sociale: ricordo che mi fece leggere Il suicidio di Durkheim. Nel ’53 il moroso di mia
sorella, che era una persona davvero straordinaria perché era un ricco imprenditore agrario e
tuttavia molto colto e “marxista” (Pino Quaini) mi fece leggere vari libri socialcomunisti del
marxismo classico: mi regalò un basco scarlatto in cui aveva scritto con la biro “La ragione non ha
fretta”, K. Marx. Morì poco dopo in un incidente d’auto nel quale anche mia sorella si fracassò tutta
e poi non fu più la stessa. Dunque, mostrai subito una notevole ambivalenza: cultura scientifica e
cultura umanistica originalmente insieme.
Comunque frequentai il liceo classico. Capitai con una galleria di insegnanti uno più deficiente
dell’altro, finché cominciai presto a farmi una cultura mia parallela a quella, e poi sempre più
contrapposta; contro il loro modo meschino di interpretare la Grecia classica cominciai a studiare ad
esempio le religioni misteriche, a studiare molta letteratura all’indice, e storia dell’arte andando
anche in giro in autostop; e attraverso Pavese approdai a Frazer, ed attraverso il Ramo d’oro alla
storia delle religioni antiche ed all’etnografia ed antropologia culturale, al mondo dei primitivi e
dell’animismo, e alla religiosità agraria mediterranea e ai primi interessi per la storia degli eretici…;
e feci studi irregolari di filosofia direttamente sui grandi libri: in sempre più aperta contrapposizione
a quegli insegnanti. Nel ’54, alla vigilia della maturità classica, fui costretto a lasciare la scuola.
Nel ’55, Paolo Caruso, mio amico d’infanzia, m’introdusse per qualche mese fra i giovani socialisti,
dove lui si era inserito come leader per motivi pratici, ma del socialismo non gliene fregava (quasi)
niente; e lì poi io ebbi le prime curiosità sul sindacato. Paolo è stato decisivo per tutta la mia vita
successiva. Se non fosse rimasto mio amico anche nell’adolescenza, dai tempi della sua maturità al
collegio S. Giuseppe di Torino, io oggi non sarei quel che sono. Era a suo modo molto generoso,
quasi paterno… Lui si iscrisse a Milano a Filosofia ed io cominciai ad istruirmi tramite lui. Mi
stimolò a fare anche i primi viaggi all’estero in autostop, però io ero apolide perché nato in Croazia
e fino al ’57 non ho avuto il passaporto4. Intorno al ‘52\’53 incontrai il poliedrico Felice Abitanti e
tutto il giro di pittori di professione e storici dell’arte cremonesi, e divenni un giovane intellettuale
“umanistico” un poco bohemien con un’insaziabile fame di conoscenza. Cominciai a dipingere, un
poco segretamente, ma seriamente, anch’io. Andavamo a fondo in molti nodi dell’arte storica e di
quella contemporanea; mi ricordo la prima grande personale di Picasso a Milano, a Palazzo reale…
Poi in un primo soggiorno milanese di due o tre mesi (Via Kramer…) vendetti a madame della
“Famiglia artistica” milanese in Piazza Cavour anche qualche dipinto, guadagnando bene, e capii
che avrei potuto vivere dipingendo. Ma alla fine di quell’anno (’55?) decisi di non dipingere più.
Conservo ancora l’ultimo mio olio, molto ironico sulla mia pittura! Si concluse allora la mia vita
d’intellettuale “umanista”. Decisi allora di darmi alla politica nella “prospettiva del comunismo”.
In quell’anno conobbi anche Pierre Carniti, uno strano democristiano, il quale mi trascinò nello
studio dell’economia e dell’economia agricola cremonese, ecc.. E nelle questioni sindacali, sebbene
io fossi “ideologicamente” lontano da lui: fummo molto amici per un paio d’anni. Però avevo da

4
Lo seguii fra l’altro anche in alcune vicende nel mondo del cinema: aveva vinto un premio nazionale per un soggetto
cinematografico. Era creativo, avventuroso…

2
poco incontrato Montaldi (tramite il Club Ulisse) e poi Renato Rozzi, che diventerà un paziente e
sapiente mio fratello maggiore, e poi Giovanni Bottaioli, vecchio militante politico operaio
internazionalista: furono incontri decisivi. Ed avevo cominciato a frequentare le minoranze storiche
antistaliniste alla sinistra del PCI, prima del “rapporto Kruscev”. Ciò sancì la seconda svolta nella
mia vita: mi ri-formai. A quel punto avevo scelto “Che fare”…! E l’ho fatto per molti anni.

- Qual è stato il tuo apprendistato politico?

Con Montaldi un giorno verso la fine del ’55 ci dicemmo “non si può continuare con la
disperazione e l’angoscia dostoijewskiana, bisogna acquistare efficacia nel provare a cambiare
qualcosa di questo mondo”, e “mentre la cultura tradizionale della sinistra è basata sulla storia e la
filosofia noi dobbiamo studiare soprattutto economia e sociologia”. E così facemmo per alcuni anni.
Cominciai applicando la scienza sociale che apprendevo soprattutto alla questione della
burocrazia… Nel frattempo io, avendo fatto fin dagli anni del liceo il disegnatore tecnico
autodidatta e l’assistente edile per un ingegnere che fu mio secondo padre5, poi presi un diploma di
tecnico dell’edilizia e cominciai la vicenda di capo cantiere nei cantieri-scuola per disoccupati e
reduci: ebbi allora la fortuna di avere come mio capo (in un cantiere di vari mesi e con 70-80
addetti) proprio Renato Rozzi, allievo di Paci e di Musatti, ecc.! Nel ’57, ottenuto finalmente il
passaporto, feci il mio primo viaggio a Parigi con Danilo. Conobbi Castoriadis, Léfort, Morin e
Goldmann, e Lyotard, e altri. Entrai in corrispondenza con alcuni di Socialisme ou Barbarie e di
Pouvoir Ouvrier e in specie con Daniel Mothé, che verrà a trovarci a Cremona.
Nell’inverno ’57\’58 in un secondo e meno breve soggiorno milanese, con l’aiuto di Carniti fui un
sindacalista in prova nella zona di Piazza Napoli ed a Corsico. Stava iniziando il grande boom nella
re-industrializzazione. Presi contatti con fabbriche grandi e piccole soprattutto tayloristiche e proto-
fordiste e con lavoratori milanesi ed immigrati, anche se non proprio ancora dal Sud. Era l’anno
dopo i fatti d’Ungheria, e nell’autunno lo stesso Di Vittorio aveva parlato del primo “autunno
caldo”, soprattutto milanese: sebbene a Torino il movimento operaio tradizionale fosse stato
duramente sconfitto. Non volli diventare sindacalista, così all’inizio della primavera del ’58 tornai a
Cremona. Con l’esperienza indiretta e diretta di un’intera fase storica d’anticipo rispetto al
movimento operaio locale, ma con un certo anticipo pure rispetto al ritardatario movimento operaio
ufficiale dell’Italietta, che magari cominciava a non essere più tale; sebbene con anni di ritardo
rispetto agli USA e perfino alla Francia. In quei mesi a Milano avevo conosciuto sia gli intellettuali
delle “riviste del disgelo” (da Ragionamenti, Questioni, ecc. fino a Passato e Presente), in
particolare guardavo a Pizzorno, con occhio ambivalente. Fra l’altro insieme a Montaldi incontrai
Vittorini, nella sua casa di Porta Ticinese… Ma dall’altro lato Paolo Caruso mi introdusse nel giro
di Enzo Paci, e lì mi legai a Nani Filippini ed a Guido Davide Neri, a Mainoldi ed altri: vissi anche
con loro nelle prime comuni di fenomenologi che precedettero Via Sirtori. Dei miei studi e delle
mie prime ricerche in quegli anni ho già scritto più volte. Nel ’58 proprio a Milano si tenne il primo
congresso italiano di sociologia, con delle sezioni importanti sulla nuova industrialità ed il rapporto
di lavoro. Fu un’altra importante occasione d’incontri e conoscenze.
Tornato a Cremona nel ’58 feci le ricerche\intervento col gruppo di Unità Proletaria e scrissi alcuni
opuscoli su una fabbrica di ceramiche e le sue operaie piene di silicosi, sulla “fabbrica verde”, sul
nuovo cottimo e salario, su Giovanni Bottaioli (che era morto proprio fra le mie braccia mentre
lavoravo per lui e trasportavamo insieme una levigatrice su per delle scale; mi aveva lasciato erede,
anche dei suoi libri). Allora ebbi due incarichi pagati. Conobbi Bosio che mi finanziò una ricerchina
multidisciplinare su un paese rurale vicino a Cremona, un poco atipico, però: Bosio non ebbe su di
me alcuna influenza. Ebbi dal vecchio Fortichiari, e da Seniga (col quale già nel ’57 insieme a
Giorgio Galli, ed in contatto coi genovesi di Azione Comunista avevamo fatto un intervento
astensionista nella campagna elettorale) la commessa di una “Storia del movimento operaio

5
Aveva anche studiato a Brera e dipingeva: mi regalò i suoi colori, anche quelli ad olio.

3
italiano”, per la quale lavorai moltissimo (all’Istituto Feltrinelli di Milano) portandola a termine in
tempo relativamente breve e con grande interesse.
Poi all’inizio del ’60 ho conosciuto Pierluigi Gasparotto, che allora viveva già in Via Sirtori, e con
lui ho cominciato ad assaggiare le nuove inchieste nelle fabbriche milanesi, e nell’estate del ’60 ci
siamo trasferiti a Torino, dove io ero già stato a presentare il Diario di un operaio di Mothé e
qualcos’altro. Dal ’60 e la vicenda torinese è cominciata una nuova fase della mia vita, della quale
ho già scritto qualcosa un paio di volte6 e non ho voglia di ripetere.
I fatti vissuti torinesi di cui mi ricordo con maggior piacere sono: i primi colloqui (procurati da G.
della Rocca, ma poi allargatisi spontaneamente su indicazione degli stessi intervistati) con operai
FIAT nelle loro case; il ritrovamento in un buio antro senza finestre della vecchia Camera del
Lavoro in cui rimasi sei mesi con Gasparotto dell’originale del volantino che proclamava
l’insurrezione di Torino nel ’45; la mia relazione sulle “giovani forze” (letta nel salone della
Federazione del PSI nel ’61); la redazione con Soave di uno schema di colloquio onnicomprensivo
e i colloqui successivi della seconda ondata senza Panzieri di mezzo (sarà lui a rivenirci a cercare
nell’autunno del ’61); la riuscita dei primi scioperi alla FIAT rinnovata nel ’61; lo schiaffone in
piena faccia che diedi, al picchetto alla FIAT-ricambi di Stura, da sulla bici (prestata da Angelo
Dina a Ivrea) al capitano della celere che aveva cercato di travolgermi con la sua jeep (presente
Romolo Gobbi); l’organizzazione a Stura, sotto la tettoia del tram ed in una piola, insieme a
Romolo ed a Banzato7 della risposta all’accordo separato della UIL che diverrà la celebre rivolta di
Piazza Statuto, e la redazione (appoggiato sul tetto di un’auto sotto il palazzo della UIL stessa) di un
documento che rilanciava la lotta (sempre con Gobbi, Banzato e qualche membro giovane della
FIOM); momenti del grande sciopero della Lancia (che fu anche l’occasione dell’inizio della mia
rottura definitiva con Panzieri). Le interviste e lo sciopero all’Olivetti di Ivrea. Gli operai che nel
’65, tre anni dopo, avevano ancora con sé la copia spiegazzata del Gatto Selvaggio, ecc..

- Nel tuo ricordo della tua intricata formazione ed auto-formazione d’adolescente c’è un accenno
esplicito al problema della cultura e ad una ricerca di “differenza culturale”.

Si, è voluto. Il fatto è questo: io, come d’altronde anche Gasparotto e qualcun altro, Greppi talora ad
esempio, fummo sempre trattati in primo luogo dai sostenitori intellettuali nostrani di sinistra di
Panzieri e dei “suoi” Quaderni Rossi prima, e poi da sostenitori analoghi di Classe Operaia, ma a
dire il vero anche da alcuni collaboratori romani e veneti di queste riviste, come dei bruti rozzi ed
ignoranti perché ritenuti privi di “cultura esplicita”8 umanistica, ossia (alla maniera tradizionale)
perché giudicati privi di dottrina storico-filosofica e letterario\artistica. Ma era un giudizio
sbagliato: noi tenevamo nascosta la nostra cultura umanistica perché non la consideravamo
importante; anzi per certi aspetti allora ci sembrava negativa! Però in una nostra polivalenza,
sapevamo di averne anche più di loro, che si specializzavano, ma fuori della specializzazione
rispettiva spesso sapevano poco. Loro invece stimavano solo quella! Così ci sentivamo sempre più
distanti da tutti quelli di loro fatti così! Questo è un nodo importante.
Ad esempio, in seguito, benché avessi fatto lavoro professionale in vari istituti di ricerca scientifica
(a cominciare dalla Soris di Cominotti) e malgrado io mi sia laureato a Torino prima nell’indirizzo
economico con una tesi d’econometria con dentro molta matematica e matematica\statistica, e
dialogando con Contini e soprattutto Egidi (già all’avanguardia allora in Italia nella matematica per
le scienze sociali), e fossi uno dei rari in Italia ad esempio a conoscere Lazarfeld e ad aver fatto
ricerche multivariate alla Hymann, analisi fattoriali ecc., per il semplice fatto magari che parlavo ed
usavo pure nel giro operaista di metodi qualitativi, non sono stato creduto perfino da taluni
accademici umanistici del nostro entourage un vero “scienziato” sociale. E’ una vicenda esemplare,
per questo voglio riprenderla. E’ stato proprio l’aver sempre tenuto per me la mia formazione
6
Si trova qualcosa in Sulla Fiat ed altri scritti, antologia curata da G. Bianchini; in Camminare per realizzare un sogno comune,
libretto del ’94, e in un recente breve memoriale sull’Operaismo politico, del 2000 inizialmente abbozzato per un progetto di Tronti.
7
Al ritorno in città io in bici e lui sulla Lambretta chiacchierai la prima volta con Marino Guglietti.
8
Dizione di Gramsci.

4
umanistica come una vicenda di gioventù e comunque strettamente privata, a farmi ritenere da quasi
tutti d’estrazione sociale proletaria. La cosa ha avuto anche risvolti buffi.
Fra l’altro ho fatto anche qualche esplorazione “empirica” di quali erano le funzioni effettive della
“cultura umanistica” nella nostra società dopo il boom. Anche questo è stato molto importante! Ho
già avuto modo di dire e scrivere che la questione della “cultura esplicita” è una delle tre o quattro
che nel giro dell’operaismo politico è implicitamente presente come un nodo importante, un vertice
di un poligono, che però rimaneva sullo sfondo e non é mai stato granché tematizzato in quelle
riviste.9 E’ molto significativo l’uso che fin dai suoi esordi cattolici ne ha fatto sempre Toni Negri,
il quale fra l’altro fu di estrazione sociale piuttosto umile (mi pare figlio della maestra di Poggio
Rusco), il che ai miei occhi aumentava il suo merito. Essendo anche diventato barone in una
disciplina più utile di quella di altri, parlava del “lavoro culturale” come faccenda di tattica, una
specie di copertura necessaria anche ad uscire dall’isolamento, ottenere sostegni nell’arretratezza
del mondo della sinistra culturale ed accademica italiana: Toni era consapevole dell’ambiguità della
faccenda; ed anche il Cacciari del pensiero negativo, a sua diversa maniera, e poi allora Tronti, il
Tronti di allora. Ma altri in specie a Roma? Buio pesto! Per me esemplare è stata la vicenda di Asor
Rosa: la più divergente dalla mia10.
Due parole su quest’esempio. Il fatto che conta in queste misere storielle è che malgrado certe prese
di posizioni nietzschiane contro i valori e ciò che poi si riduce ad un valore, ad esempio questo
figlio del ferroviere, mi pare, (Asor Rosa) abbisognava di un’emancipazione personale mediante un
ingresso, tradizionalmente specialistico inoltre, nella cultura umanistica accademica; per cui
contraddiceva poi in tutta la sua pratica “professionale” certe sue sparate trasgressive: lui voleva
salire dove io era nato, e dopo il mio tracollo ed espulsione da quel mondo ne avevo piuttosto
disprezzo. Inoltre un altro nodo era quello dell’importanza che si dà alla propria professione: alcuni
di noi l’avevano messa in secondo e terzo piano o non l'avevano neppure: vi avevano rinunciato! E
di quale professione uno va a scegliersi: noi anche per sopravvivere, come proletaroidi, noi della
ricerca partecipata e conricerca cercammo di fare dei lavori che potessero servirci anche per la
nostra militanza politica! A Torino, fra l’altro, era colto da un lato Soave, dall’altro Rieser11. Ma
Panzieri?12
Quello che conta di questa vicenda è che nei dintorni di quelle riviste come da un lato non riuscii
mai a fare davvero passare in quei contesti “operaisti” proprio fra i capi la questione della
“soggettività operaia”, non trovai nemmeno la conoscenza e la sensibilità necessaria a discutere e
trattare nemmeno della “cultura esplicita”, e poi inoltre ad attaccare a fondo l’arretratezza culturale

9
Ma bisogna chiedersi qual era, salvo eccezioni, la concezione della cultura che prevaleva in quell’ambito. Sarebbe indicativo ad
esempio riscontrare cosa ne pensa la stessa Rita di Leo, che trova “intelligentissimi” e “coltissimi” tutti quelli che, a cominciare da
Panzieri, sanno parlare un poco d’arte e letteratura e di filosofia, con taglio salottiero. Ecc.
10
Intendiamoci, io intorno al ’62 e fino al ’65 ed oltre fui anche amico di Alberto. Apprezzai certe recensioni su Mondo operaio, il
suo articolo contro i valori sul secondo numero di Classe operaia e il suo libro Scrittori e popolo, che mi regalò con dedica. Certo.
Eppure troviamo nei suoi scritti fin dall’inizio degli anni ’60 davvero una robusta ed effettiva e credibile presa di distanza da una
certa tradizionale cultura accademica italiana? Ad esempio non riuscii mai a farmi spiegare cos’era davvero quella mitica “crisi della
borghesia”… Lui mi trattò sempre come un incolto assoluto, che lui cercava anche generosamente di indottrinare un poco. Ricordo
ad esempio quando andai coi “compagni romani” ad un’esecuzione del Messia di Handel a Sant’Andrea della Valle (presente
Andreotti), e poi Alberto mi spiegò chi era questo musicista e perché proprio quell’oratorio lì era importante… Ed io lo ascoltai
compunto, ma capii subito che su questo ne sapevo più di lui; però non feci trapelare nulla! E questo capitò anche in altre occasioni.
Se ne rideva con Gobbini.
11
Che conosceva molto bene la musica anche antica, e col quale (poiché lui fu uno dei pochi ad intuire la mia segreta cultura
umanistica e fin dal mio primo arrivo a Torino mi aveva detto “tu sei un intellettuale marcio” per dirmi che lui non credeva alla mia
“proletarietà”, e col quale vari anni in seguito mi incontrai a certi concerti, fra l’altro ad un’esecuzione di Carissimi, del quale nel ’56
coi soldi del primo stipendio avevo comprato il Jonas, o di Monteverdi, cremonese, che cominciai a cercare di ascoltare fin dai miei
sedici anni…
12
Nel periodo dal ’61 al febbraio del ’62 in cui ci fu un rapporto anche personale stretto fra noi, e soprattutto suo nei miei confronti,
che non contraccambiai mai molto, a casa sua, nel suo salotto avemmo un certo dialogo culturale nel quale si confidava su tutta la sua
storia a partire da sua nonna commerciante ebrea di granaglie ad Ancona, ecc., ed i suoi gusti e preferenze: tranne che sulla storia
della filosofia non aveva proprio niente da insegnarmi: aveva abitato a Roma con Mafai ecc. e preferiva Picasso e Kandinski, ma per
motivi piuttosto ideologici, amava ad esempio il Vivaldi più popolare, ma faceva dei commenti banali ed incredibilmente
esibizionistici. Il fatto è che a queste cose lui, anche lui, dava molta importanza; io invece poca. Lo sfottevo pure, e lui allora si
attaccò a me con un vero odio\amore, e quando rifiutai il suo progetto politico ruppe con me con un odio da amante tradito (erano
presenti anche sua moglie, la vera traduttrice di Marx, e Tronti).

5
degli intellettuali di sinistra italiani! Cominciando da quelli che ci sostenevano senza capire quasi
niente! La questione era però importante e non solo tattica: e rimase aperta! E forse sta ancora lì.
Non si trattava soltanto di superare la contrapposizione pure crociana e gramsciana e storicista fra la
cultura umanistica e la scienza sociale e la cultura tecno-scientifica, come anche altri pure fra noi
(lo stesso Panzieri) voleva. Ma si trattava di combinarle con un taglio trasversale entrambe, però in
una maniera peculiare, e questo contava anche per il nostro metodo! Bisognava portare molto più
a fondo lo studio, la ricerca, l’esplorazione di questa peculiarità. E lasciar perdere tutto il resto!
Ma per la grandissima maggioranza dell’intellettualità sinistra, ed anche estrema, ciò non avvenne
proprio! E fu davvero male!
Il discorso e lavoro culturale, secondo me, doveva essere soprattutto questo. Dovevamo dedicarci a
scavare nei fondamenti metodologici ed anche epistemologici della scienza sociale e della
sociologia? Certo, al minimo! Partire da lì. Vedremo dopo qualcos’altro.
Alcuni di noi, in quanto proletaroidi, campavano con la ricerca sociologica: questa era considerata
dai più nell’operaismo politico degli anni ’60 una questione privata. Però alcuni di noi volevano che
se ne discutesse anche in termini “pubblici”: ci sembrava che l’argomento già meritasse
osservazione, ricerca, studio e riflessione, anche “politica”, verso l’uscita dal labirinto del feticismo
del capitale. Ma nella ricerca e conricerca che facevamo come gruppi che si richiamavano
criticamente anche alla classe operaia ed alla tradizione storica del comunismo che si era detto e si
diceva scientifico in maniera abbastanza oggettivistica e che nel ‘900 non mise più in questione la
scienza-galileiana (cercando magari il difficile incrocio con eventuali altre concezioni della
scientificità) noi non eravamo certo degli scienziati sociali tipici, professionisti tipici. Infatti lì in
questo impegno militante collettivo a parole eravamo quasi tutti abbastanza d’accordo di tagliare
trasversalmente la scienza sociale galileiana per “soggettivizzarla” anche in senso politico, nei
metodi e nei contenuti, tenendo conto della ricomposizione e risoggettivazione di classe di quegli
anni, oltreché delle nuove determinazioni della società specifica in rinnovamento verso l’integrale
attuazione della società-fabbrica occidentale; e così almeno quella ritardataria nostrana. Ciò esigeva
un “discorso culturale” ben più profondo e radicale non solo di quel che potevano capire i picisti di
allora, ma gli stessi fiancheggiatori ed anche alcuni redattori dei Q.R. e di Classe Operaia! Infatti
non capivano. Questo è il fatto!
Usare la scienza guardando ad esempio pure alle critiche di Nietzsche ed ai fenomenologi ed agli
esistenzialisti, e ai cosiddetti scienziati dello spirito, ed a Freud e poi più sotto a Jung, ad esempio. E
poi pure cercando un vaglio critico di vari altri interessanti pastrocchioni che (come Morin)
proponevano ambigue ma interessanti insalate, e guardando molto fra alcuni scienziati\filosofi,
compresi certi politologi… Ripeto, per cercare anche di uscire dal labirinto della teoria marxiana
del feticismo capitalistico, ecc. Chi davvero almeno tentò di farlo? Non proprio i “barbari incolti”?
Era questo il “discorso culturale” sul quale avremmo dovuto concentrarci tutti quanti. Ed essendo
molto in pochi, lasciar un po’ perdere nel lavoro di ricerca politica la storia dell’arte, della
letteratura, della musica e della stessa filosofia.
In altri termini, questa diventava la questione della teoria e della pratica politica “di parte operaia”
da tenere distinte ma mai separate13, e dell’eventuale riproposta critica oppure no, ieri, di un nuovo
tipo d’intellettuale organico, e dello scambio coi militanti operai ed i militanti politici operai e della
formazione reciproca di entrambi e della posizione decisiva del metodo, la questione di un’élite
magari interna alla classe, ecc.; nel contesto capitalistico in trasformazione ed innovazione in quella
tardiva reindustrializzazione e dei movimenti, verso la lotta e la lotta della classe operaia. Se
l’operaismo doveva davvero essere “politico” ed in un significato particolare, c’era da fare un
immenso lavoro di scoperta, di produzione e d’acquisizione di un’enorme e in gran parte nuova
conoscenza e di critica di questa, di vaglio critico, di ri-interpretazione, di nuova rappresentazione.
Di sperimentazione ed esplorazione di un terreno vastissimo ed in gran parte nuovo. Un immenso e
difficilissimo lavoro per esplorare nientemeno che le possibilità di dare un altro corso alla storia e
trasformare quella società. E noi eravamo quattro giovani gatti, e senza una lira ed esposti in

13
Come dirà pure Kosik in Dialettica del concreto.

6
posizioni d’avanguardia e presi fra vari fuochi. Si sapeva pochissimo anche degli operai nuovi e
vecchi, e c’era un vuoto teorico anche intorno alla classe operaia e ad altre forze potenzialmente
antagonistiche. Ma questi fiancheggiatori e sostenitori intellettualeggianti “d’estrema sinistra” di
cosa si beavano? E a cosa i nostri stessi compagni dedicavano buona parte del loro tempo? Allora si
poté fare molto poco, troppo poco. Dopo qualche anno tornai a studiare e ricercare per conto mio.
Ed ancora oggi a mio parere certe questioni stanno ancora lì, malgrado tutto.

- Perché hai parlato di “secondo operaismo politico”?

L’operaismo italiano degli anni ’60\’70 era definito “politico” dai protagonisti stessi. Perché ci sono
stati altri operaismi ai quali essi si sono espressamente contrapposti e dai quali sono stati anche
duramente attaccati. C’è stato e c’è ancora fra l’altro l’operaismo populista ed assistenziale (di
derivazione cristiana), e l’operaismo sindacale, e una combinazione dei due; e questi si sono
caratterizzati nel considerare gli operai, i proletari operai, come una “quota debole” della
popolazione, e quindi bisognosa d’aiuto; e questi operaisti amavano gli operai, l'operaità stessa. Gli
operaisti “politici” al contrario s’interessavano ai proletari operai perché contro ogni universalismo,
li vedevano come una parte forte, una forza. Una forza\parte almeno potenziale da cercare di
mobilitare per ottenere la trasformazione generale e radicale del sistema sociale capitalistico
complessivo e da conseguirsi mediante una capacità d’influire, un potere, sui centri di decisione
dell’intero movimento del sistema sociale, e in specie di riuscirci mediante il partito politico, come
organizzazione di quella parte contro il capitalismo detentore dell’insieme. Ci sono stati però pure
movimenti (come ad esempio poi la CISL ed in specie la FIM di Carniti, la FIOM un poco, e frange
del PCI) che si sono mossi almeno a tratti al confine fra i due operaismi italiani degli anni ’60\’70.
Inoltre si trattava di un secondo operaismo politico appunto perché proprio per questo aspetto
decisivo e “politico”, anche per certe condizioni di ritardo ed arretratezza del capitalismo italico
ancora agli inizi degli anni ’60 e nella reindustrializzazione post-bellica, in specie nella rivista
Quaderni Rossi si guardò molto al primo operaismo politico, ossia all’operaismo social-comunista a
cavallo fra i due ultimi secoli, col suo modello di partito di massa non più solo di opinione ma di
organizzazione dell’agire politico, riferita agli operai di mestiere. Ed in specie al modello
bolscevico. Per questo aspetto decisivo si trattò di una ripresa, di un ritorno, o di una regressione.
Però ci tengo a precisare che a Torino nel ’60-’61, prima ed al di fuori della nascita dei Quaderni
Rossi di Panzieri, il gruppo dei con-ricercatori si era mosso esplorativamente, sperimentalmente, sia
forzando la tradizione consigliare verso nuovi modelli, sia cercando di andare oltre la
politicizzazione di peculiari momenti della lotta e dei movimenti più propri dell’operaio-massa
(dell’addetto linea di grande serie) dove ci fu e cercando strade per farla convergere verso questi
nuovi modelli. Questo è importante ancora oggi.
Formulerei la seguente ipotesi generale sul secondo operaismo politico e sulla notevole importanza
che ebbe in Italia (ma la vicenda italiana interessò pure operaisti politici di altri paesi europei ed
anche extraeuropei), malgrado l’esiguo numero iniziale di coloro che davvero tirarono la carretta…
La sua importanza è stata soprattutto nell’anticipazione, nel fatto che, anche per il ritardo
dell’ingresso generalizzato dell’industria italiana nella “seconda fase” (che oggi si dice)
tayloristico-fordista, alcuni peculiari intellettuali piuttosto comunisti seppero anticipare d’alcuni
anni l’arretrato movimento operaio “istituzionale” italiano funzionando come una vera avanguardia
a partire da alcuni punti davvero traenti. Avvertendo fin dagli anni ’50 che ci si trovava in una
transizione verso una nuova industrialità capitalistica ormai anche in Italia, che si stava
generalizzando un’organizzazione scientifica di nuova concezione del lavorare industriale, inteso
non come un settore ma come una trasversalità tendenzialmente universale, una nuova maniera di
lavorare e condizione del lavoratore operaio sia negli stabilimenti che nella società complessiva, e
per alcuni operaisti anche una nuova soggettività operaia. Questi “secondi operaisti politici”, ed in
particolare quelli che erano passati per la conricerca dal ’57 al ’62, compresero studiando
direttamente il come e le conseguenze, che sia il cosiddetto taylorismo come quell’organizzazione
scientifica di massa del lavorare operaio, sia il cosiddetto fordismo come nuova politica di salari
7
meno bassi per il consumo di massa della nuova produzione di massa cambiavano la società
industriale capitalistica anche italiana introducendo una nuova ambivalenza, in cui criticare e
combattere la faccia negativa ma valorizzare quella positiva della medaglia! Una nuova
rappresentazione della nuova società industriale capitalistica fu introdotta in una sinistra in cui sia
l’intellettualità sia la leadership italiana (e non solo) era ancora ferma ad una visione ottocentesca
del capitalismo e della società, dell’industrialità e del lavoro. Inoltre ciò avvenne pure attraverso la
conoscenza (rarissima a sinistra) di un’importante letteratura internazionale anche di grande-destra.
Questi giovani intellettuali di peculiare operaismo comunista erano già convinti che la vecchia
visione e strategia socialcomunista che aveva come referente la prima antica operaità dell’operaio
“professionale” (il quale si muoveva nella stessa cultura dell’altra parte dell’artigiano dimidiato,
ossia della borghesia imprenditoriale; e quindi era scientista, tecno-scientista, sviluppista, per la
programmazione totale ed autoritaria, e sacrificista ed universalista, ecc. ecc.) era come chiusa in un
labirinto che ritroviamo anche nel pensiero e nella strategia di Marx e della socialdemocrazia
classica e poi degli stessi bolscevichi, e non avrebbe mai potuto trovare la strada per uscire dal
capitalismo uscendo anche dalla classe operaia stessa, senza una nuova teoria e strategia e un nuovo
soggetto sociale per farla camminare. E pertanto era necessario trovare un nuovo referente sociale,
socio-economico, per avviare il superamento del capitalismo.
Ma il nuovo referente sociale forte, potente e collettivamente forte anche se singolarmente debole
ormai c’era, era lì anche in Italia: era proprio quello che fu chiamato l’“operaio-massa” di nuova e
seconda operaità e soggettività operaia, che la nuova organizzazione scientifica e così razionalizzata
del lavorare stava diffondendo pure in Italia. Giovani operai senza qualificazione singolare,
unskilled, ma abbastanza scolarizzati, provenienti da famiglie di contadini e piccola borghesia
proletarizzati che il movimento operaio socialcomunista riteneva a torto estranei e refrattari alla
lotta di classe contro il capitalismo stesso, eso-aggregati scientificamente dal nuovo capitalismo.
Questi nuovi operai avevano per slogan “più soldi e meno lavoro”, e potrebbero essere definiti dei
nihilisti fordisti, potenzialmente mobilitabili pure contro se stessi. La “rude razza pagana” che tanto
ha scandalizzato il populismo; e così pagana (malgrado ad altri livelli di realtà fosse anche
religiosa) pareva proprio necessaria! Ben poco li identificava profondamente con la tecno-scienza
ecc. Così i secondi operaisti politici sulla scorta delle precedenti esperienze internazionali,
scommisero sulla possibilità, la potenzialità di un loro coinvolgimento in una lotta di classe per la
trasformazione complessiva del sistema sociale. Ma da farsi col partito. Nuovo. Che non c’era. E su
questa strada in quegli anni si ebbero in effetti movimenti (e ricomposizioni e risoggettivazioni) di
forza straordinaria, per una serie di condizioni anche contingenti tardive, e per il fatto che anche una
parte crescente dei sindacati operai fu trascinata nella presa di coscienza del nuovo capitalismo e
della nuova industrialità e delle risorse che offriva anche ai lavoratori il nuovo terreno.
Ma anche questo nuovo referente operaio aveva i suoi limiti, e solo una nuova organizzazione
politica poteva portare verso il loro superamento la nuova classe operaia in ricomposizione. Parve
subito a molti secondi operaisti politici che mentre la loro rappresentazione socio-economica ed in
alcuni casi anche antropo-culturale fosse adeguata ed importante, essi non sapevano e soprattutto i
più nemmeno vollero elaborare una linea politica e, soprattutto limitati dalla tradizione
“organizzativista” del socialcomunismo classico, una concezione del comunismo e del partito
comunista adeguata alle condizioni nuove; e rimasero anch’essi fermi all’imitazione della banca del
1910, così intendendo il “leninismo”… Così si votarono al fallimento, rapido; malgrado tutto. Non
che la rivoluzione fosse davvero dietro l’angolo!
All’interno di questo secondo operaismo politico, dai Q.R. in poi (e dalla rinuncia temporanea dei
conricercatori a sperimentare modelli politici diversi per allearsi prima con Panzieri e poi coi
“romani”) si distinguono però almeno due momenti e vicende abbastanza diverse: soprattutto per la
scala dell’agire. Mentre intorno alle prime due riviste si mossero poche centinaia fra intellettuali e
militanti ed inoltre il partito di massa al quale si guardò sperando di trasformarlo è stato il PCI, dal
’69, a mio parere l’anno in cui la lotta di classe-operaia italiana raggiunse il suo culmine, i nuovi
periodici interessarono migliaia e decine di migliaia di militanti diversamente collocati nel
lavoro\occupazione, ed allora alcuni “gruppi” cominciarono a considerare se stessi il partito e
8
soprattutto si contrapposero al PCI, sebbene adottando a loro volta, piuttosto il vecchio modello
bolscevico di partito! Entrambi fallirono.
Oggi siamo in un’altra ulteriore particolare transizione e passaggio di fase, e sebbene tutti ignorino
quell’esperienza storica trascorsa e perfino molti suoi protagonisti l’abbiano cancellata dalla
memoria, adesso da un lato si ripropongono molte questioni che già si erano poste in quell'altra e
precedente transizione al taylorismo-fordismo, e dall’altro chi andasse a guardare vedrebbe che
molte peculiari odierne questioni hanno le loro radici in Italia nelle vicende di quegli anni. Voglio al
riguardo sottolineare che, avendo già discreta conoscenza della letteratura di critica
dell’organizzazione scientifica e del fordismo che già circolava in Usa ed in Europa fin dagli anni
’20 e ’30 del ‘900, magari pure fra pensatori di “grande destra”, i secondi operaisti politici ebbero,
nel loro “oltre Marx” e “oltre Lenin” fin da prima di iniziare la loro comune e temporanea
esperienza, già quella visione critica che molti intellettuali della sinistra italiana cominciano ad
avere solo oggi, quarant’anni dopo, in questa nuova transizione: ad una terza operaità?
iperproletaria?

- Il ’68 farà esplodere una “questione giovanile”: tu cosa ne pensavi?

Noi, i più legati fra noi, non solo a Torino, eravamo relativamente giovani. Però non tutti
sprovveduti come oggi qualcuno dice. Questo non è proprio vero! Alcuni di noi in certi campi erano
già più preparati di molti specialisti italici; anche se non ancora di tutti! C’era qualche apprendista,
come all’inizio Romolo Gobbi, che però era intelligente ed imparava in fretta.
A mio parere è relativamente facile mettere in relazione questa nostra relativa giovinezza con quella
degli studenti universitari del ’67\’68: noi e loro tutti rampolli della borghesia oppure di una certa
piccola borghesia: in un significativo e complesso ricambio generazionale! Se si va a vedere quasi
tutti i leader del ’68 italiano, in specie universitario, per tutta l’Italia (poi giustamente cavalcarono
Reich e Marcuse) provenivano dalle file dell’operaismo politico; e taluni erano passati anche nella
FGCI (come Sofri o Piperno) appena prima di incontrare quest’operaismo. Ricordo che Rostagno (il
quale veniva da Torino ed aveva una strana prima moglie impiegata alla FIAT che ci procurò dei
colloqui) volle venire a fare delle interviste insieme a me, e mi trattava da suo maestro, ecc. Ed
anche Guido Viale prima e dopo l’esperienza di simpaticissimo “ragazzo alla pari” in Inghilterra
girava intorno a Classe Operaia. Anche Franco Audrito, che andrà nella delegazione nazionale
degli studenti universitari a “trattare” con il ministro (ed è colui che lo taciterà dicendo “tu ministro
parla solo se sei autorizzato dall’assemblea”), era stato due o tre anni con noi in prima fila. Ecc. Ma
il discorso è da farsi anche o soprattutto per la massa degli universitari in rivolta: in specie nel
primo anno: una rivolta che a Torino, a Trento e da qualche altra parte era partita nell’autunno del
’67, ma in certe Facoltà (senz’altro in Toscana) era stata preceduta da certi scioperi fin dal ’65, ’66.
Orbene, pensavo che noi per alcuni non trascurabili versi eravamo anche fra gli anticipatori di una
grande rivolta giovanile.
Per il fatto che ero ormai un “cane sciolto”, a Torino io personalmente, malgrado fossi trattenuto da
grossi problemi privati, nell’inverno ’67\’68 seguii da vicino quella rivolta; anche perché leader e
interi nuclei traenti venivano di continuo a stanarmi. Ricordo che mentre Romolo Gobbi in un
primo tempo era stato duro e sarcastico contro questi figli dei borghesi e prossimi dirigenti in
un’Italia capitalistica più moderna anche grazie a loro14, io pur rinunciando a discuterne con
Romolo, insistevo comunque su certi risvolti di una loro ambivalenza, e fui subito vicino a loro,
almeno proprio fin quando misero lo studio ed i rapporti scolastici in relazione al prossimo-futuro
destino lavorativo di una buona parte di questi giovani e purtroppo non “fuggirono” davanti alle
fabbriche, dove gli operai avevano ben poco bisogno di loro15! E partecipai per loro fin quando
lottarono sul terreno dell’Università d’élite e della loro formazione.

14
Ma nel ’69 con Soave metterà su un gruppo “ studenti e operai”.
15
Conta assai la previsione di Shumpeter di una prossima proceduralizzazione pure del lavoro degli alti dirigenti.

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Ma in una città come Torino vennero alla luce subito delle componenti, dei filoni peculiari, quando
presto confluirono nella grande rivolta gli studenti medi: quelli degli istituti tecnici! Qui non era più
solo questione nemmeno di piccola borghesia in proletarizzazione. C’erano soprattutto i figli di una
vecchia classe operaia locale, e qualche figlio di nuovi operai. Magari loro pure in contrasto coi
padri?…
Questo cambio generazionale avvenne quasi contemporaneamente per quasi tutto l’Occidente più
avanzato. Partì dagli Usa, e ripeto che non fu solo una questione di piccola borghesia e borghesia
subito per come si collegò alla guerra del Vietnam, come molti film anche commerciali ci hanno
mostrato. E aveva grosse influenze sociali ed economiche (e qui il discorso da farsi é già enorme)
ed investiva anche il mondo politico, istituzionale e no, soprattutto investendo le dimensioni
soggettive. Questo è il punto. Bisognerebbe ricostruire nel tempo ed in generale e poi anche dentro
il proletariato e poi dentro il grande gruppo sociale degli “operai di fabbrica” la storia di alcune
decisive trasformazioni soggettive, mostrate dalla rivolta dei giovani studenti.
Infatti l’imprevista esplosione del movimento studentesco innanzi tutto universitario anche e di più
nell’arretrata Italia, nelle varie e importanti componenti della “contestazione globale” non mise in
questione solo l’organizzazione della fabbrica tayloristica che si estendeva alla società cominciando
a mostrare nei rapporti e scambi organizzati la razionalizzazione e la società-fabbrica di cui noi
parlavamo già da vari anni. Colpendo pure assai il lavorismo e il tecnicismo produttivista del
movimento operaio socialcomunista e cattolico tradizionale ed anche italico. No, non solo già
quest’enormità che già vedevamo fra i giovani operai. Inoltre centrò anche l’ambivalenza del
fordismo, mostrando, come dire, “la parte maledetta” di quel fordismo dei cosiddetti alti salari nel
del consumo e superconsumo, e consumismo, di massa, sul quale dalla fine degli anni ’50 in specie
in centri del Nord convennero anche gli operai-massa ed in specie proprio e di più gli immigrati dal
‘sud: quelli che i cineasti continuano a mostrarci solo come i poveri arrivati con gli scatoloni di
cartone e che dormivano ammucchiati in certe carissime soffitte (e che adesso da anni sono
proprietari di alloggi e manifestano da razzisti contro gli extracomunitari…). Alcuni di noi
conoscevano già l’ambiguità etica ed ideologia, soggettiva, di questi ex contadini scolarizzati entrati
nelle fabbriche razionalizzate. Conta questa scolarità. E l’ambiguità della stessa grande
rivendicazione “più soldi e meno lavoro” stessa. E vedevano anche che gli studenti nel ’67\’68
coglievano e mostravano un nodo di contraddizioni che andava anche al di là di alcune componenti
dello stesso rifiuto del lavoro e dell’etica lavorista del movimento operaio istituzionale e
“tradizionale” medesima, contraddizioni sulle quali puntammo anche noi agli inizi degli anni ’60 in
termini di politicità poco più che congiunturale della questione salariale e di politica economica (su
cui poteva anche convergere il sindacato…). Linea ambivalente e rischiosa che giungeva fino agli
stessi “autonomi” del primo e di più del secondo Rosso negli anni ’70, vicino proprio al proletariato
giovanile. C’erano componenti soggettive d’enorme importanza che neppure quell’operaismo
estremo seppe cogliere e trattare nei termini della nostra prospettiva politica. La questione del “più
soldi” e per farne cosa diventava ben più problematica e scabrosa, e certi aspetti fino allora ignorati
pure dagli eredi dell’operaismo a cavallo fra gli anni ’50 e ’60 non potevano più stare nascosti in
secondo piano! Momenti del nostro nihilismo incontravano momenti del loro…
Certi aspetti pure di contenuto del socialcomunismo erano ormai fuori luogo per una doppia e
contrapposta serie di ragioni soggettive, messe sul piatto sia da una nuova generazione di piccolo-
borghesi e borghesi, sia dalle stesse giovani-forze operaie. Si apriva un grosso nodo di
contraddizioni; da un lato il consumismo e l’edonismo, che coinvolgeva anche i servizi pubblici
riproduttivi e certi aspetti del welfare clientelare; dall’altro i costi umani, sociali, culturali,
ambientali e soggettivi, etici in fondo, del consumismo di massa; moltissimi giovani studenti
occidentali non solo non volevano più pagarli, ma chiedevano che la società ormai capitalistica (e
non più solo borghese) cambiasse strada rispetto a tutto questo! Ciò fu capito da una parte degli
operaisti alla sinistra del PCI solo dopo il ’77 bolognese, e dagli altri mai! Ciò fu capito ben presto
dal padrone collettivo che cominciò a spostare qui sopra la sua combinazione del bastone con la
carota: la carota dell’edonismo operaio e poi iperproletario, ed il bastone dello sfruttamento nella

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nuova precarietà, anche soggettiva: rivolgendo qui sopra anche le nuove tecnologie e modelli
organizzativi.
Di questo conversavo e litigavo con Franconi, il meno distante e più aperto, Dalmaviva, Magnaghi,
e la Bressan, la Baba (Rosalba Serini) e parecchi altri neo-operaisti, ecc., cercando di farli desistere
dalla proiezione del marxismo\leninismo storico su quel movimento; ma loro malgrado tutto non mi
davano retta. Questi poi furono fra i fondatori di La Classe e poi del Potere Operaio nazionale, dopo
la loro “fuga ai cancelli di Mirafiori”: cancelli mitizzati, simbolizzati, ma dai quali restavano fuori!
Fuori non solo in senso fisico. Magari con la pretesa di dirigere politicamente quelli che si
muovevano dentro! Ma questa è un’altra storia, che però a sua volta andò pure a toccare dopo
qualche anno l’importantissima questione del “proletariato giovanile”, nei primi anni ’70.
Già a Genova, in piazza nel ’60, “le magliette a strisce” non erano certo tutti giovani borghesi… e
neppure in Piazza Statuto: giovani di diversa estrazione sociale si mischiavano in piazza. D’altronde
fin dal ’60-’61 avevo parlato di “giovani forze operaie”, e di non piccole minoranze di giovani
operai disponibili ad una “nuova” proposta comunista. Certo: gli addetti macchina taylorizzati e alle
linee erano quasi tutti immigrati giovani; ma anche perfino fra i giovani ex-allievi FIAT di seconda
categoria e pure di prima, e torinesi, la conricerca mostrava un generale disincanto e movimenti e
mobilitazioni, anche soggettive: risoggettivazioni e inizi di rivolta. I meridionali addetti-linea
scolarizzati: questi furono l’“operaio massa” come la nuova avanguardia di massa in
ricomposizione coi vecchi militanti che per una decina d’anni trascinò ed assimilò altri! Orbene
malgrado le differenze, che però bisogna ri-stabilire attentamente, non c’era qualche scambio e
comunanza almeno con una certa parte di quegli studenti in rivolta, di nuova generazione? E perfino
certe parole d’ordine della contestazione studentesca (contro la gerarchizzazione, l’autoritarismo, la
razionalizzazione capitalistiche pure sociali ecc.) non avevano un analogo significato
nell’organizzazione tayloristica del lavoro? Ed alcune non partivano magari proprio da certe rivolte
operaie? Solo equivoci? Assonanze esteriori? A mio parere, malgrado le sensibili differenze interne,
era in corso una grande rivolta giovanile internazionale non tutta destinata, almeno
nell’intenzionalità di non piccole avanguardie-collettive, alla modernizzazione del capitalismo. In
Italia questi ribelli furono rifiutati e denigrati dai partiti sedicenti “operai”, con Amendola in testa,
ma gli altri a ruota…16

- Quindi, tu ti distinguesti dagli altri ex-operaisti perché non fosti favorevole al fatto
(probabilmente iniziatosi proprio a Torino) dell’uscita degli studenti, in specie universitari, dai
luoghi dove era nata la loro rivolta, per proiettarsi idealmente od effettivamente sugli
stabilimenti dove erano più o meno in loro lotta gli operai.

Si. Mi contrapposi ai vari residui ed eredi dell’operaismo-politico che volevano portare il


movimento studentesco ai cancelli di certi stabilimenti abbandonando la lotta sul terreno della
scuola e soprattutto dell’università. E questa loro fuga avvenne proprio per il fatto che, non solo i
leader di quel movimento prima erano stati quasi tutti con questo nostro operaismo, ed in una
maniera piuttosto ideologica, religiosa direi, ma perché comunque gli operaisti pure in quattro gatti
in certi luoghi erano stati una cassa di risonanza notevole delle lotte operaie e diffusori efficienti
pure di mitologia operaista. Gli “studenti”17 avevano preso da noi pure la capacità comunicativa. Ed
io ero sfavorevole anche al recupero dogmatico, acritico, del marxismo-leninismo storico proprio da
parte dei giovani. Per loro meglio Marcuse, e anche Reich… Ma il movimento studentesco passò
come una meteora e nell’Università non conquistò nulla!
Bisogna però premettere qualcosa d’altro. Toccato il massimo del mio operaismo con il libretto
FIAT punto medio, studiando la situazione internazionale ormai cominciavo a capire che da un lato
c’era da aspettarsi un nuovo “balzo tecnologico” ed organizzativo di trasformazione internazionale
non solo del settore meccanico, ma di tutto il macchinario meccanico e il lavoro “meccanizzato”,

16
Fra l’altro a me risulta che a Valle Giulia Tronti c’era andato…
17
Alcuni di questi avevano smesso di studiare da un pezzo.

11
con la fine dell’azienda processiva, degli investimenti estensivi d’ulteriore sviluppo ecc. E già si
affacciava il primo decentramento ecc. E che dall’altro lato quella nuova e dirompente centralità
operaia avrebbe toccato un tetto e poi avrebbe cominciato a ristagnare per mancanza di direzione ed
organizzazione politica e sbocco politico. Cosicché era opportuno non tanto andare a testimoniare il
proprio operaismo ideologico-affettivo ai cancelli degli stabilimenti, applaudendo alla lotta degli
altri; senza neppure la capacità di mettere in atto una rozza conricerca (le due culture ri-diventavano
anche due diverse “culture politiche”), cosicché magari certi capi dell’ex movimento venivano da
me o magari da Rieser a chiedere quali problemi c’erano in quella data situazione operaia o in
quell’altra. Ma semmai cercare di aggiungere alla lotta degli operai quella d’altri agenti sociali in
altri nodi strategici e critici di quella società in movimento. Come appunto il nodo socialmente e
politicamente e già strategicamente importante dell’Università, della scuola e della formazione in
generale. Pure per avere un’effettiva maggiore forza e peso sulla politica. Infatti nel ’69 il
capitalismo ed i politici del governo italiano chiusero la lotta degli studenti proprio con la
liberalizzazione degli accessi, che portò nell’università massificandola ma senza nessun
adeguamento di indirizzo didattico e di risorse una massa di ceto medio in via di proletarizzazione
(ed iper-proletarizzazione) il quale malgrado tutto si sentì promosso e si godette una promozione
che in vero nascondeva proprio l’iper-proletarizzazione avviata! Questo ceto medio in
iperproletarizzazione con molti figli di operai ed ex-operai loro stessi da allora stava lì, in quel
nodo, senza che nessuno nel “movimento” prendesse atto della sua presenza e proponesse o facesse
qualcosa con loro! Tuttavia proprio a partire dal ’68 si sviluppò proprio l’operaismo e la proiezione
all’esterno pure dei professori di una sinistra un poco nuova, che si andò anche moltiplicando, e con
loro di tutta un’intellettualità, in fondo formata tradizionalmente nella vecchia cultura e cultura
politica ottocentesca di cui dicevo prima: professori operaisti come militanti ideologi\agitatori, in
fuga altrove. Che magari davano il 30 politico collettivo a chi andava a cercar di supportare lotte
altrui, altrove. Fra l’altro io fin dalla metà degli anni ’60 sono stato sempre contro il “lottismo”, il
turismo lottista di chi andava e va a godere lo spettacolo delle lotte degli altri. Ed anche per i
movimenti degli operai insistevo sul “radicamento”.
Ed infatti, dai primi anni ’70, nella previsione della sconfitta dell’ondata dell’operaio massa, che
pure non sembrava ai più avere ancora raggiunto il suo culmine, cominciai a studiare per conto mio
proprio questo ceto medio in ipeproletarizzazione, e l’industrializzazione della società e da un lato a
parlare di intellettuali-massa e di proletariato intellettuale anche al di sopra della classe operaia; e
dall’altra di “operaio sociale” e di una crescente nuova operaietà che (come sempre avevo
sottolineato già prima) ora diventasse ancor più indipendente dalla manualità e muscolarità; nel
“passaggio in produzione” di questo nascente iperproletariato, che passava anche nella nuova
università di massa senza pedagogia ed organizzazione e risorse idonee. Mi radicavo lì. Avevo una
certa coscienza del rischio di ripercorrere per inerzia soggettiva e ulteriore carenza di conoscenza
certe vecchie strade, e magari d’illudermi sull’emergere di una nuova avanguardia di massa che
facesse precipitare di nuovo tutto quanto intorno a sé ed ai propri movimenti ed interessi. E questo è
un rischio che si ripropone anche oggi! Cominciai a pubblicare qualcosa su ciò solo più tardi, nel
‘74\’75, e poi nel ’76 il tutto si riassunse abbastanza nel libretto collettivo18 Università di ceto
medio e proletariato intellettuale. Ma oggi la questione dell’iperproletariato affettivo e cognitivo ed
intellettuale (e magari di un’eventuale nuova operaietà) è già cambiata un’altra volta.

- Fu allora che diventasti anche tu professore universitario, sebbene atipico…

Negli ultimi anni ’60 e primi anni ’70, poiché per diventare professore universitario non era
indispensabile la laurea, avrei potuto diventare professore facilmente, e fare anche carriera. Ma

18
Scritto con Nicola Negri e Sormano.

12
questo proprio non mi venne neppure in mente. Fu solo dopo l’ingresso di questi studenti lavoratori
in iperproletarizzazione lì dentro che comincia ad esplorare gli atenei… Cominciai a Trento, nel
’71, dove con lo stimolo di Massimo Egidi entrai nel “laboratorio” di Vittorio Capecchi per seguire
alcune lauree di ricerca di certi studenti-lavoratori (i “geometroni”) in seminari serali, soprattutto
decentrati a Verona. Fu una maniera di avviare una specie di conricerca o ricerca per “ricercatori
scalzi” proprio su questo nascente iperproletariato, da una lato, ed il suo muoversi nell’università
dall’altro. Nel frattempo a Torino, a Scienze politiche, dove mi stavo laureando in economia,
incontrai il professore di sociologia industriale, il socialista, mezzo lombardiano mezzo gauscista,
Enzo Bartocci che mi chiese di fare qualcosa di simile. Bartocci stava per trasferirsi a Roma, così
riuscii a subentrargli nel ’73: era preside Bobbio.
Certo, la mia posizione nell’università non è stata confrontabile con quella di un grande barone
come Toni Negri. Io fui prima un incaricato precario e poi un associato, non volli mai fare davvero
un concorso per diventare ordinario per evitare certi condizionamenti soprattutto da parte di una
certa sinistra istituzionale…19 Comunque non avevo ad esempio il potere per magari trasformare
neppure la mia cattedra in una base per la lotta di classe operaia, come fece Toni negli anni ’60-’70
col suo istituto (e poi i suoi colleghi gliela faranno pagare al tempo dell’istruttoria di Calogero20).
Ma il fatto importante è che fin dal ’70 quando entrai a Trento e poi subito a Torino non fui
d’accordo proprio su questo farne una base per proiettarsi altrove, limitandosi a questo uso
differente e tardo-operaista (non arrivava nemmeno davvero all’operaio sociale) e paleo-comunista
di questo vertice della formazione scolastica, ormai di massa. Il fatto era già che l’università proprio
come vertice della formazione era già essa stessa baricentrale e strategicamente per il presente ed il
futuro dell’arretrata società italiana e mondiale: era ormai anch’essa e di più potenziale “fabbrica
del soggetto”, e non solo dell’attore; ormai anche più di moltissimi stabilimenti
taylorizzati\fordizzati dell’industria della fase classica, in via di conclusione. Il terreno della
formazione non solo professionale, anzi; ma della capacità lavorativa ed attiva più in generale, e
della personalità, dell’identità, e della soggettività che avevano luogo anche nella scuola pubblica.
Doveva ormai essere un terreno baricentrale di ricerca, d’elaborazione ed anche di scontro. E poi fra
l’altro le caratteristiche qualitative del movimento studentesco, come ho già detto prima, nel
passaggio dall’università d’élite a quella di massa, le componenti di quella “contestazione globale”,
magari sono state più vistose a Trento e in quel mondo di tradizioni cattoliche (ormai anche
d’operaismo cattolico…): lo slogan dell’“uomo nuovo” venne da lì. I primi universitari avevano già
ulteriormente sottolineato talune grosse carenze strategiche dell’operaismo politico e di tutta quanta
la tradizione socialcomunista anche nel senso di certi contenuti del leninismo (di cui si era
considerato quasi solo l’aspetto organizzativo). Ma poi tutti gli altri studenti seguirono.
Ma anche come professore universitario a Torino da un lato ho cercato di fare capire, con
scarsissimo successo, a docenti e ricercatori di questa Facoltà (che è stata a lungo di “sinistra”)
l’occasione che certi settori del nuovo proletariato intellettuale offrivano per una lotta nuova e
differente sul terreno dell’università cui partecipassero anche loro. Dall’altro mi sono proposto
subito come il piccolo centro di una diffusa rete di conricerchine di ricercatori scalzi (soprattutto
insegnanti\militanti di scuola media in proletarizzazione, e così talora in lotta per conto loro, per lo
più simpatizzanti o militanti locali di Lotta Continua, più che di Potere Operaio: questi ultimi erano
più chiusi e rigidi); ed operatori di “servizi pubblici” a loro volta sempre più importanti, e spesso
ex-operai e militanti di fabbrica (magari del PCI) diventati così impiegati di nuova estrazione e
qualità soggettiva, in specie dal ’75, quando le sinistre si trovarono in mano il governo locale. Il mio
Corso di “sociologia industriale” era rivolto soprattutto ai nuovi studenti lavoratori e faceva appello
alla loro esperienza lavorativa e riproduttiva per studiare e rappresentare le grandi trasformazioni
che stava mostrando il sistema e la società industriale italiana, evidenziandone anche certe
dimensioni politiche. Fare incontrare le loro esperienze con la teoria anticapitalistica per farle
19
Alla fine degli anni 70 Martinotti mi fece fare la domanda, ma solo quella, per poi poter manovrare a vantaggio di altri ed i miei
ex-compagni di Classe Operaia divenuti baroni per manovre a vantaggio di Accornero come candidato del PCI e direttore del
CESPE, ecc.
20
Penso che il nostro barone rosso avesse mai messo in preventivo la galera!

13
crescere insieme. Questo fra l’altro attrasse anche ricercatori e docenti da altre sedi e regioni, più o
meno militanti dei nuovi partitini, cui prestavo una specie di consulenza esterna21 di metodo e di
merito, cosicché facevo un poco di conricerca diretta e indiretta a Torino, e poi un’inchiesta-
continua indiretta e diffusa su vari nodi italiani; ma anche esteri: venivano spesso soprattutto
sociologi francesi e tedeschi. Finché quelli dei vari partitini armati non fecero terra-bruciata.
Continuai a lavorare così nell’Università per mio conto, poi pur ritrovandomi in un progressivo
isolamento. Finché negli anni ’80 mi trovai chiuso in un piccolo ghetto, ed allora provai ad aprirmi
un poco ai centri sociali, ecc. Ne ho ricavato solo la pubblicazione fuori da ogni rete commerciale di
una mezza dozzina di libretti. Nel 2000 ho scritto una nuova versione del mio Modellone nelle mie
nuove Dispense, intitolate Nella società industriale d’oggi, che non mi sembra proprio male. Presto
andrò in pensione.

- Proprio tu continui ad insistere ed anche a recriminare sulla questione della soggettività e della
soggettività collettiva e della soggettività-operaia e d'altra parte batti ancora sulla soggettività-
politica e parli tuttora di contro-soggettività ecc.; d’altronde vediamo che pure persone
riflessive ed autocritiche sono ancora sorprese e nell’intervista prorompono dicendo:
“soggettività che cosa? ma cos’è poi?”. Puoi ri-prendere qualcosa di questo?

Per me questa è sempre stata una questione centrale. Alla quale ho sempre tenuto molto e per la
quale in passato mi sono sentito sempre più frustrato e deluso dei miei “compagni”. Non ho mai
creduto che fosse un grande nodo facile, ed anche ora per comunicare un poco ho l’impressione di
doverne trattare a lungo. E’ una delle questioni più complesse, oltre che difficili. Il fatto che fu
sempre ignorata negli anni ’60 e ’70 anche da quasi tutti i miei amici “compagni” operaisti mi rivela
già tutto un grande semplicismo, una grande e davvero eccessiva semplificazione, piuttosto nella
tradizione oggettivante ed economicistica del socialcomunismo storico, almeno a partire da Marx.
Dirò magari dell’altro dopo, a riguardo anche dell’altra grande questione e grande nodo restato sullo
sfondo: della questione dell’operaità. Adesso e preliminarmente due parole sulla soggettività, allora.
Per quel che mi ricordo, credo di averne sentita per la prima volta la parola da Paolo Caruso e poi
da Renato Rozzi. Forse nel ’56-’57. Il contesto immediato era allora quello di Enzo Paci e certi suoi
allievi, e meno immediatamente della fenomenologia e dell’esistenzialismo, ed un poco della
psicanalisi. Da Heidegger a Freud magari passando per le prime chiacchierate su Lacan, Bataille e
Merlau-Ponty (nel ’59 ero andato in montagna con La fenomenologia della percezione nello zaino),
ed il primo Sartre sul quale si è laureato Paolo, e la sua problematizzazione dell’intersoggettività. Si
tratta a questo troppo alto livello di questioni ontologiche, in cui non solo la fenomenologia ma
anche Freud, in specie l’ultimo Freud, procedono radicalmente in questa prospettiva ontologica, ed
in cui si cercava soprattutto di dare senso al primo (rimasto l’unico) volume di Essere e tempo, che
pareva sprofondasse parecchio nel niente. Pure in questa radicalità antimetafisica ed antiscientifica,
contro il cogito cartesiano e il rapporto soggetto-oggetto (entrambi però ineliminabili) e
l’idealismo\realismo; cogito e contrapposizione soggetto-oggetto che per noi erano (e sono) in
giuoco pure come base della scienza galileiana, della tecno-scienza, condivisi assai dallo stesso
scientismo marxista. Per me derivava da questi discorsi un senso forte di disagio ed apprensione,
ma anche di speranza. Perché d’altronde io non solo volevo capire di più dei limiti e pregi della
tecno-scienza come mezzo, e poi pure feticcio, ecc.; ma volevo ad esempio capire di più
dell’ambivalenza che malgrado tutto sentivo nel “comunismo scientifico” di Marx e nella sua
“rottura epistemologica”, e poi anche dei bolscevichi. Però, qui fra i più radicali si volava troppo in
alto… Rispetto al nostro voler costruire macchine contro, al medio raggio. Questa filosofia con la
sua soggettività astratta, con la sua metafisica che in certe dimensioni pareva inadeguata, ci serviva
poco. Magari la più radicale poteva stimolare un certo orientamento critico, ma le vie di mezzo a
chi voleva cambiare il mondo offrivano allora quasi solo entità astratte ed irreali.

21
Non feci mai parte di nessuno di quei “gruppi”.

14
Allora mi ero concentrato sulla “logica specifica dell’oggetto specifico”, dove specifico già voleva
dire capitalistico e nella sua ambivalenza. Nella (e contro la) società industriale ed appunto
“specifica” al centro della soggettività ed intersoggettività era già da alcuni decenni il taylorismo.
Ossia l’organizzazione scientifica e così razionale dell’agire umano in lavorizzazione; agire che
alterna e combina momenti di riflessione consapevole a momenti silenti, inconsapevoli, (quasi
automatici). Organizzazione la quale oggi dall’esercito e dagli stabilimenti passando pei servizi alle
persone sta estendendosi all’intera società fabbrica di capitale, coi suoi rapporti e scambi
mercantilizzati. Qui la comunità era ipotizzata ed esplorata come (un residuo?) peculiare, sia inclusa
che includente la società. Qui le persone agenti pagano qualcosa, or più or meno, della libertà in
cambio della potenza, cercando un punto più o meno statico d’equilibrio fra vantaggi e svantaggi
dell’appartenenza e dipendenza, e vantaggi e svantaggi dell’autonomia. Però per noi
quest’equilibrio doveva essere criticato e rotto soggettivando per valorizzare e promuovere
esperienza diversa da quella talora mossa dall’innovazione e rivoluzionamento capitalistici contro la
vecchia routine, e comunicando in reciprocità, coinvolgere e mobilitare forze sociali nella
progettazione di un radicale (e rapido…) movimento della parte alta del sistema sociale.
Ma allora poi subito in un’altra dimensione meno alta (su un livello di studio e osservazione della
realtà diverso e parecchio meno alto, nei dintorni del mio medio raggio), una dimensione pseudo-
fenomenologica (e pseudo-esistenzialista), e una dimensione più junghiana, pure, e tra psicanalisi
applicata qui come peculiare psicologia e psicoterapia da un lato, e al contempo dialogando pure in
una dimensione d’antropologia soprattutto culturale, dall’altro, dimensione d’antropologia urbana e
metropolitana22, ecc., si parlava di soggettività in una maniera più ambigua, di compromesso, e
contraddittoria, proprio per questa contraddittorietà, e relativa, ed ibrida: meno impraticabile pure
per me. In fondo noi dovevamo assumere e criticare proprio il soggetto effettivo di fronte
all’oggetto effettivo, una soggettività attiva e lavorativa effettiva effettivamente osservata e vissuta,
e farlo con varia sistematicità; ma semmai criticamente, con una certa consapevolezza dei limiti e
delle conseguenze e pure tentando di spingere queste assunzioni oltre certi bordi… Cercando
appunto l’incontro anche con la suddetta “rottura epistemologica marxiana”, come più tardi la
chiamerà Tronti. Si parlava anche in Italia, magari intorno a Pizzorno (libro chiave sarà presto
Comunità e razionalizzazione) e sulle “riviste del disgelo” pure italiane già di nuovo di una “scienza
sociale soggettiva”: ecco, quest’oggetto misterioso era quanto mai attraente. Infatti non si trattava
solo di Shutz, dell’etnometodologia e dell’interazionismo simbolico! Anche nell’uso critico del
cosiddetto “funzionalismo” (dice bene Guglietti che funzionalista in vero era semmai
implicitamente il PCI, e razionalista, oggettivista, ecc.). Tuttavia in ben pochi “operaisti”
studiavamo qui dentro, e criticavamo: contro Gramsci ma non del tutto, magari col giovane Lukàcs,
ma solo in parte, o con Weber, malgrado i suoi limiti, o con Adorno ed Horkhaimer, sebbene
avessero chiuso troppo in fretta certe grosse questioni, e con loro allievi od orecchianti, ecc., ecc.
Da Husserl alla scienza altra, passando pel delirio o sogno della “scienza operaia”… Quasi solo i
“barbari incolti” si fecero carico di ciò: gli altri in fondo di fatto vedevano abbastanza il “discorso
culturale” ancora nei termini Desanctis-Croce-Gramsci. Certo, come ho detto prima, meno il Tronti
di allora, Negri che l’usava come tattica di copertura, sebbene parecchio, e ieri anche Cacciari e
qualche amico di De Caro (replico, oltre ad un nucleo di “barbari”)23. Non erano solo problemi
cognitivi, ma a mio parere malgrado tutto c’era anche un risvolto etico e religioso (ma non in senso
confessionale). La questione che mi riproporranno negli anni ’70 (ma già si affacciava allora) alcuni
filosofi (fra i quali Neri, Rozzi) è quella della presenza del male in tutti noi, e nella tecnica stessa,
anche al di fuori della società capitalistica. La tecnica (al di fuori della quale l’uomo non esiste)
facilita la vita ma dà anche la morte. Come diceva Guido Neri con Rozzi, critica non solo
dell’economicismo, ma anche dello sguardo (solo) tecnoscientifico sul mondo, e della sua
ambivalenza! Come già non si disse granché sull’uso capitalistico delle macchine, neppure si
approfondì l’uso capitalistico della tecnoscienza. Tantomeno si è progettato o approfondito l’avvio
22
E non più solo dei residui contadini del nostro Sud, come da Carlo Levi a De Martino, che pure erano di gran lunga il meno
peggio. E c’era anche un Pavese che accennava un pochino agli operai di città e non solo ai Langaroli.
23
Magari in certi momenti rari, a Torino se ne chiacchierò un poco con Rieser, Mottura, Di Palma…

15
di una progettazione dell’uso comunista! Il comunismo tradizionale ed operaio non si è granché
occupato di questo, e non ha nemmeno detto granché sull’interiorità umana, non avvedendosi
nemmeno granché della propria religione! Nella tradizione comunista classica (operaia), pure
leniniana (da non confondersi con lo stalinismo di moltissimi picisti), mancava tutta
un’ambivalenza, pure lì in alto! Ma sugli statuti della scienza a livello internazionale si stava già
incominciando a muovere l’epistemologia (scientifica) di parte padronale che cercherà man mano di
recuperare quel che potrà sulla via di nuovi paradigmi scientifici più flessibili e di più flessibile
razionalità, per allargare ulteriormente il campo alla scienza-galileiana e così tecnoscienza: per
nuove razionalizzazioni e macchinizzazioni capitalistiche.
E’ bene sapere anche che come molti altri di noi, io non sono entrato nella mia maggiore crisi
all’inizio degli ’80 e tantomeno con la caduta del muro. Ma ho vissuto una crisi anche più profonda
verso la metà degli anni ’50 ossia ai tempi del mio primo incontro con la religione marxista e
socialcomunista succeduta all’altra cercando una via d’uscita da certe trappole e labirinti: la
questione del feticismo mi si prospettava più come neo-comunista (ad esempio nel ’60) che come
operaista: il comunismo operaio più come rielaborazione del comunismo che come fede operaista:
quindi, operaismo critico e sperimentale. Ambivalenti?
Inoltre per me fin dal ’56-’57 si era aperto un altro squarcio, o due, anche per capire un poco meglio
l’operaietà e la soggettività operaia effettiva: da un lato la conoscenza di D. Mothé di cui presentai a
Torino nel primo 1960 il Diario di un operaio, e la lettura di altri diari di operai americani e di
romanzi su storie di operai taylorizzati americani e loro storie di vita pubblicate pure in Italia. E poi
saltava fuori pure tutta una certa letteratura storica e sociologica europea su questo. Mothé ad
esempio diceva che gli operai venivano trattati anche dalla sinistra come monumenti (al partigiano),
o come mere mani o meri stomaci, ma erano invece persone intere con i loro valori e la loro
quotidianità, le loro sofferenze, le loro memorie ed i loro immaginari e desideri, ed i loro piaceri e
gratificazioni anche materiali, o anche spirituali, ecc. Che gli intellettuali soprattutto di sinistra
ignoravano, ma lui un poco descriveva. Questo primo squarcio… Dall’altro lato a Milano ed a
Cremona avevo cominciato anch’io a mettere il mio naso antropologico (“con quel naso che ti
ritrovi”, mi diceva Renato) nella vita e nelle case degli operai. Fra l’altro anch’io ho dato una mano
a Danilo Montaldi per Milano Corea. Mi ingerii fra lavoratori in fabbriche taylorizzate, più o meno,
della zona sindacale di Piazza Napoli a Milano, poi guardai ai semilumpen dell’Ufficio tecnico
comunale cremonese, alle ragazze silicotiche delle ceramiche cremonesi, agli operai della terra
ovvero della “fabbrica verde” o di certe fabbriche medio-piccole di Cremona (l’Ocrim): su un
versante l’organizzazione dell’occupazione lavorativa nello stabilimento, dall’altra parte la vita ed
appunto la soggettività, la cultura soprattutto, nelle loro case e quartieri… Da allora mi abituai a
praticare una mia abbastanza sistematica “osservazione partecipante” antropo-socio-culturale che
mettevo anche in prospettiva variamente politica, la quale all’inizio fu una sorta di antropologia
operaia e\o proletaria.
“Personalmente” avevo una forte curiosità per le persone di formazione ed educazione diversa dalla
mia, fin da bambino. Questa derivava anche dal fatto idiosincratico che, proprio per la mia origine
piuttosto aristocratica, mi trovavo sempre a disagio anche con certe dimensioni dei ruoli sistemici
degli altri e coi rapporti terziari, e che sempre cercavo di personalizzare i rapporti con tutti quanti,
passando comunque pei ruoli, anche nella metropoli. Trasformare i rapporti in relazioni, aspirando
ad un’altra maniera di comunicare e ad una socialità quasi sempre impossibile. Anche molto con le
donne: in specie con le proletarie, proletarie due o tre volte (nella doppia e tripla presenza). Ma
quello che ne ricavavo dovevo tenermelo quasi tutto per me, in specie dopo l’adolescenza
cremonese. E ben di più a Torino e nel lavoro politico “operaista”.
Così cominciai presto a sostenere, inascoltato, anche in sedi politiche pure operaiste o di
comunismo critico, purtroppo critico più del PCI che della tradizione comunista in generale, non
solo la necessità di passare pure per i singoli anche a proposito dei membri della classe operaia,
dicotomica e no, pei singoli o gruppi, ecc., d’accordo abbastanza (ma con riserve) con l’amico
Renato Rozzi. Ma anche, in collegamento con ciò, sforzandomi di capire com’erano davvero e di
cosa davvero deprecavano e combattevano o si sentivano vittime, o avevano bisogno e desiderio e
16
cosa sognavano, ecc., gli operai: i vari tipi di operai. Perché ci era già evidente che non c’era
un’operaità sola, ma ce n’erano diverse e compresenti; e l’egemonia passava dagli uni agli altri, a
seconda ed in interazione con trasformazioni economiche e sociali, e di altro, ma sempre più a
seguito anche di interazioni con precise politiche culturali che anche il padrone italico cominciò
presto a fare, anche con nuovi mezzi di comunicazione di massa: dai rotocalchi stampati e la radio
ed il cinema alla TV. Io sono solito dire che il padrone ha vinto a cavallo fra gli anni ’70 e ’80 più
coi rotocalchi che con le stesse nuove tecnologie, pure spettacolarizzate! Oggi tutto questo è
archeologia, interessa gli storici! Penso da tempo che ormai l’operaismo comunista e
socialdemocratico, come dice Pentenero, sia uscito dall’immaginario iperproletario, e bisogna girare
pagina.
Orbene, la (loro) soggettività. Come l’intendevo allora? Direi: ciò per cui si è veramente se stessi,
distinguendola quindi anche dall’identità… Direi: l’insieme delle condizioni che fanno il vero
soggetto, con sua autonomia e originalità ed intenzionalità e capacità d’iniziativa personale e di
gruppo e nel gruppo. E così era anche questione di una soggettività collettiva. Qualche spunto ho
trovato dopo in diversi scritti di Toni Negri, il quale si dichiarava per l’appunto filosofo del
soggetto… Ma poiché il soggetto in questo senso mostrava di essere in vero abbastanza e sempre
più raro, presto mi accontentavo di molto meno. Certo, la soggettività proletaria\operaia andava
letta soprattutto nei movimenti e nelle lotte. Ma senza escludere anche il momento dei singoli, ed
approcci piuttosto antropologici (però evitando lo psicologismo: per questo la fenomenologia…).
Ma ci si può chiedere perché mai questioni così elementari ed ovvie erano negate o rifiutate anche
all’interno di una cultura politica comunista? Per rispondere un pochino ri-uso anch’io alcune
comode distinzioni, come fra l’altro quella fra soggettività politica e soggettività operaia che usate
anche voi. E che si potrebbe poi incrociare con la distinzione che pure voi fate fra militanti operai e
proletari e militanti politici, cercando di non finire a parlare del sesso degli angeli… Fu per questo
che all’inizio degli anni ’70 ho messo gradualmente al centro la formazione, il grande baricentro
della formazione (e della comunicazione, della conoscenza, dell’intrattenimento, la questione
difficile e complessa del piacere, ecc.) e il “grande ambito” della riproduzione della capacità-
attiva\lavorativa umana-vivente (in mercificazione): e della tecno-scienza applicata a ciò. La
formazione dell’intera personalità nella capacità-lavorativa, per il lavoro\occupazione e per la
sopravvivenza e riproduzione, e quindi anche quella della soggettività, proletaria, operaia,
politica… E magari ipotizzando che il grande padrone mondiale, verso la globalizzazione o quella
ulteriore, magari perseguiva una loro sovrapposizione e convergenza verso un’unica cosa. Inclusa
certa contro-formazione alla conflittualità ed alla lotta. Pure per dei fini, con del senso.
Comunque si può anticipare una risposta semplificata alla suddetta domanda, come ipotesi: la
cultura e tradizione politica e religione comunista storica immaginava gli operai (professionali)
come gli eroi del lavoro e della tecnoscienza che si sacrificano con ogni virtù pel bene della
collettività. E chiuso! Con un dogmatismo robusto e contagioso. Puri angeli del bene; il male se
c’era era tutto delle componenti parassitarie del capitalismo, del fascismo e semmai
dell’oscurantismo cattolico. E la soggettività? Ma gli eroi della rivoluzione s’identificavano davvero
con gli eroi del lavoro?
Nei secondi anni ’80 in qualcuno dei miei libretti ho rimesso in giro una definizione nuova e più
ibrida della soggettività in cui era in primo piano la dimensione “culturale”, a metà fra la
concezione umanistica e quella antropologica della cultura. Adesso mi rifaccio a quella. E’
fondamentale premettere anche qui che di per sé la soggettività ed anche quella proletario\operaia
implica qualcosa d’autonomo ma in sé non è nient’affatto antagonistica. Pertanto se talora qualcosa
d’antagonistico appare dobbiamo spiegarcelo, chiederci come mai. Ed allora ciò è magari spontaneo
(quanto? come?) od è stato indotto da altri, e da chi e come e perché e con che conseguenze. No? La
contro-soggettività è stata sempre abbastanza rara: quando la si intravede bisogna osservarla a
fondo; e magari qualificarla in certa progettualità?, farla crescere ed usarla?
La soggettività ad ogni maniera cambia col tempo, e quindi anche coi luoghi. E questo poneva già
pure la tediosa questione del materialismo storico… Frasi come “la cultura dominante è la cultura
delle classi dominanti” erano per me vere ipotesi di lavoro. Anche la soggettività operaia e
17
proletaria però, con l’operaietà dentro la proletarietà e come forma storica e contingente di questa
cambiava e magari là dove non è ancora estinta cambia ancora adesso (ma quali sono le
determinanti dell’operaità nella proletarietà? Questo qui non si è ancora detto!) sta cambiando nel
tempo storico, e quindi nei diversi luoghi, anche all’interno della stessa Italia. Nell’incrocio con le
culture locali, che sembra siano state per secoli le più forti anche dentro il capitalismo. Ed hanno
determinato i più forti conflitti. Lo dice anche Màdera… Si tratta delle varie forme soggettive
dell’operaietà, e in quelle della proletarietà, che si rideterminano anche nei luoghi diversi.
Cambiava e cambia anche quantitativamente e non solo qualitativamente: ora ce n’è di più, ora ce
n’è meno. Però per l’ipotesi di almeno implicita autonomia, quando ce n’è tanta magari è più
fondato ipotizzare dell’antagonismo. E’ bene anche distinguere fra modernità e cultura occidentale,
più o meno nel capitalismo, e nell’industrialità capitalistica. Malgrado tutto anche più o meno come
fa Huntington (che trovo più provocante di Hardt col suo impero… che colleziona dogmatici
pappagalli: penso che ci sia una certa differenza fra Hardt e Negri, e preferisco il secondo. Penso
che Toni da un certo momento in poi non abbia più trovato i partner giusti). Ed io direi: “lo scontro
delle culture”, assai locali, nella civiltà capitalistica tendenzialmente globale. C’è poi in specie lo
scontro delle culture politiche, ma anche il sub-scontro delle culture proletarie ed operaie. Ciò
nell’interagire con l’ambivalenza della globalizzazione… Però, in primo luogo, proprio nel suo
incontro e scambio con le grandi dimensioni degli “interessi” economici e politici. Non isolare la
soggettività. Non separare cultura e religione dall’economia e dalla politica. Tuttavia, in secondo
luogo, anche nella cultura e nella religione vedere quelle locali in interrelazione con la tendenza,
mirata alla globalità. Huntington può servire ai sinistri per uscire dall’economicsimo e
dall’universalismo. Servire ad una certa critica del materialismo storico più piatto…
Ma era ed è poi tanto difficile mettere tra parentesi certe ideologie, anche nostre, ed andare a vedere
com’erano davvero fatte le persone proletarie? Com’erano fatte dentro? Intanto e ad esempio Marx
aveva detto pressappoco: “non le loro coscienze ma quello che sono costretti a fare”: da cosa? per
cosa? E quest’ipotesi si mostrava già buona: per certi fini a certi livelli andava proprio bene così.
Ma alla fine degli anni ’50 nella sinistra storica era già una mezza rivoluzione andare a vedere
com’era davvero qualsiasi cosa, anche questa! Ma ad altri livelli e per altri fini proprio si
riproponeva ciò che il giovane Lukàcs aveva cercato di riproporre come il nodo della “coscienza di
classe”, fallendo malinconicamente. Ed allora era addirittura blasfemo da quelle parti chiedere
<“come sono dentro” i nostri referenti monumentalizzati?>.
E c’è per me la grande questione dell’ambivalenza: oggettiva nel senso dell’ambivalenza del
capitale di cui gli operai sono una parte, cosicché, come dice Pentenero, il capitale era la grande
risorsa anche per loro. E appunto l’ambivalenza soggettiva: ipotesi di ambivalenza della soggettività
operaia, in cui la parte autonoma era ben piccola rispetto a quella di membri di quel sistema-
specifico lì. Ambivalenza non tanto nel senso che stai sul filo del rasoio e non cadi né di qui né di
là, ma in quello che magari per farlo dovevi prima cadere da tutte e due le parti insieme! Ripeto
ancora: nei primi anni ’60 nello stesso triangolo industriale gli operai che si dicevano anticapitalisti
erano pochi. Ma ancora nei primi anni ’70 e seguenti rimasero solo una più vasta minoranza. Ma
come lo erano? E perché? Ci sono state davvero in certi particolari momenti storici consistenti
minoranze antagoniste: come mai? Per quali alterità più o meno oniriche? E temporanee? Da cosa
allora dipendeva? Io ho già messo in giro varie ipotesi…
Se il proletario è colui che ha solo la sua capacità, e nel capitalismo la mercifica e l’affitta, e n’è
spossessato rimanendone solo titolare formale, e così si presenta soprattutto nella sua contingente
forma operaia, come allora è l’operaietà stessa come contenuto storicamente transitorio di essa? E
se in generale e come ho già anticipato l’operaietà industriale è l’avere la capacità e la forza di
attivare ed innovare il macchinario e l’organizzazione tecno-scientifici capitalistici trasversali,
com’è stato quel contingente “comunismo operaio” nelle sue precedenti stagioni?
Ripartiamo adesso molto schematicamente dalle differenti proletarietà operaie e operaità, come le
propone da tempo una vera e propria piccola tradizione.
Come sapete benissimo, ci sono stati gli operai dell’artigianato poi sussunti dal capitalismo e
diventati gli operai professionali di fabbrica, però affiancati ed integrati negli stabilimenti dalle
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donne ed i fanciulli, gli usnkilled della prima fase storica, in specie nella prima manifattura. Nella
prima fase dell’industria che giunge fino alla “grande industria” di Marx. Il momento più studiato è
stato quello dell’ambigua ed ambivalente aristocrazia operaia… Dice il Pentenero: “dobbiamo
andare a guardare davvero nel nodo dei rapporti fra i militanti politici ed il potere: tutti quei
militanti che quando vincevano e prendevano potere si trasformavano sempre più in padroni… E’
così ancor oggi, per gli hackers ecc.: erano tutti avidi arrivisti e quelli che ce l’hanno fatta oggi sono
padroni di ricche imprese…”. Però non per tutti fu o perfino è tuttora così, anche perché perdevano
molto spesso: qui il comunismo storico o comunque l’uscire dal capitalismo vissuto come una
religione, erede anche d’altre religioni, ed eresie…
Poi è arrivata la razionalizzazione tayloristica e fordista che ha messo nelle fabbriche i contadini
come “operai-massa” combinati in maniera nuova anche con i professionali che mutano. In Italia
questa seconda fase, che dico “classica”, è partita subito nel primo dopoguerra in alcune fabbriche
soprattutto torinesi, ma poi la nuova industrialità si è allargata lentamente al resto del lavoro
occupazionale e di quello industriale, cosicché la composizione statica di classe proletaria ed
operaia (del grande gruppo sociale operaio in senso sociologico: ma io dicevo e dico anche che in
certi periodi è stata molto la classe dicotomica a fare la classe sociologica!) ha visto a lungo uno
spettro ampio di condizioni. Il clou sono stati (e sono adesso in altri paesi e continenti) i contadini
giovani scolarizzati, nella grande serialità del sistema uomo-macchina. Voglio ricordarvi solo come
i rari giovani comunisti, piccolo-borghesi in rivolta, nel ’60-’61 ce l’avessero con l’automobile, con
gli elettrodomestici: odiavano le mogli proletarie che compravano a rate rendendo i mariti operai
“schiavi delle cambiali”, perché erano già “schiavi della pubblicità!”… Non c’era mai
l’ambivalenza, la considerazione dell’ambivalenza anche degli operai comunisti stessi: o tutti di qui
religiosamente nella religione del comunismo, o tutti di là nella religione “della vita quotidiana” e
nel feticismo del capitale e del capitalista. Nella cosalità, ripete Màdera da Marx.
Poi è venuta la terza ed odierna fase che io dico dell’iperindustrialità e dell’iperproletariato
nell’ipercapitalismo: tutto iper; ma qui che operaietà c’è? Ma c’è ancora? Ma cosa é l’operaità in
generale24? Adesso abbiamo qui e nell’Occidente la complessa e complicata soggettività iper-
proletaria. Un bel nodo! Nella nuova ambivalenza della trasversalità del lavorare specifico. Ci
vorrebbe anche un G. Anders dell’inizio del nuovo millennio, ma capace d’ambivalenza…
Comunque negli ultimi vent’anni non ho fatto quasi altro che proporre ipotesi sull’iperproletariato
nell’Occidente! Con la psichicità (timica ed emotiva, della mente e dell’anima, incarnate: lavorare
mentale di iper-proletari ulteriormente e sempre più proceduralmente scolarizzati, diplomati). Col
lavoro formalmente autonomo e schiavistico, il ritorno d’artigianalità nelle nuove tecnologie
scientifiche, il graduale prevalere del lavoro di consumo e dell’essere anche occupati nella
riproduzione della capacità umana, con l’ulteriore femminilizzazione dell’occupazione; con quella
che anche voi chiamate la colonizzazione culturale, e le nuove conflittualità, ecc. ecc. Sono un po’
stufo. Anche a me piacerebbe uscire anche da questi linguaggi, girare pagina, magari rovesciando
Kelly o assumendo gli “abitanti” di Magnaghi, ma vedendoli anche mobili nell’infosfera, nel
virtuale, nella “comunità senza territorio” e sempre provvisoria di cui racconta Bifo Berardi? Però
molti problemi (non solo nei livelli alti) sono rimasti sempre quelli ottocenteschi, sempre aperti;
anche nell’interpretazione storiografica.
Adesso lascio a voi il bell’esercizio di provare ad ipotizzare cosa corrisponde sul piano della
soggettività e soggettività operaia a queste tre grandi epoche e figure della proletarietà e lì dentro
dell’operaietà. E’ anche un ulteriore riscontro dell’ipotesi scabrosa del materialismo storico:
ambivalenza…
Come ho scritto da molte parti anche di recente, la questione storiografica per me centrale è che,
malgrado ciò che più in generale la cultura proletario\operaia ha nell’industrialità in comune con
quella del capitalista industriale da cui proviene nella dimidiazione dell’artigiano della civiltà
contadina, pur tuttavia ci sono stati alcuni periodi anche in Italia in cui vaste minoranze e perfino
fugaci maggioranze operaie hanno mostrato una cultura ed una soggettività loro diversa! Ed allora

24
Su questo ho già scritto qualcosa, anche in dialettica con Maurizio Pentenero. Intervistate lui!

19
mi vado chiedendo e chiedo anche a voi: come mai? Questo a mio parere dovrebbe essere il
principale nodo di ricerca storiografica per degli storici non conformisti, tutt’oggi! A mio parere
anche il successo di romanzi storici come Q e certi di Evangelisti (quelli dell’Inquisitore) deriva
molto dal loro scavare già un poco lì dentro e in questa direzione…
Però ora complico ulteriormente il quadro magari regressivamente, guardando ancora indietro,
indugiando ancora nelle eredità del mondo trascorso, perché se è relativamente facile parlare della
soggettività-politica e delle grandi culture politiche tradizionali del movimento storico operaio,
appunto piuttosto “tradizionale”, io mi chiedo e chiedo se non sia il caso anche di incrociare le due
e non solo riscontrare, mediante il nodo dei militanti politici ed operai, l’esistenza di una peculiare
soggettività politica proletaria ed inoltre operaia! O invece è plausibile oggi un “comunismo post-
operaio25”? D’iper-proletarietà non più operaia e che neghi se stessa? Basta!

25
Ma da chiamare senz’altro con altro nome.

20
SUL SECONDO OPERAISMO POLITICO
Romano Alquati

Accenno qualcosa pure su alcuni libri di Romano Màdera, credo pochissimo conosciuto, anche per
dire di me parecchi anni fa: circa dal ’60 al ’651. Ci sarebbe tantissimo da dire, soprattutto su questi libri,
naturalmente; mi limiterò ad una piccola parte. Tralascio il punto di vista di genere perché allora non
c’era: c’erano le donne, non le femministe. Fare la storia di vecchie esperienze è anche di cattivo gusto:
tipico di chi non ha presente, e tantomeno futuro! Ma adesso ci sono cose ed atteggiamenti che tornano,
deformati. Può valer la pena di testimoniare qualcosa. So già che qualcuno pensa che io metta dentro
quell’operaismo troppe cose. Io invece dico che ve ne ho messe troppo poche: una parte l’ho omessa di
proposito, l’altra l’ho dimenticata. I cambiamenti del presente rinnovano una fame di conoscenze
storiche; noi siamo anche circondati da tanti bravissimi storici che però non danno nulla. Io non ho mai
creduto di essere un notevole “intellettuale”, ossia un professionista della cultura umanistica esplicita. Gli
intellettuali non mi hanno mai granché entusiasmato, e comunque non ho mai scritto per intellettuali, ma
per militanti, con una scrittura peculiare. Cerco di scrivere pezzi di macchine (di guerra?) magari contro
l’odierno macchinismo. Per questo, a differenza di miei autorevoli vecchi compagni di strada, non smetto
e non sprofondo per la sconfitta dei primi due operaismi politici e l’inabissarsi dei vecchi operai, segno
che il loro pensiero non era davvero tutto negativo?… C’è già sempre per me un nuovo medio raggio…
Comunque, so di aver capito varie cose che altri non ha mai capito, e di averle anche capite in buona parte
prima.

Due prime parole su di me

Non so se Màdera abbia mai letto qualche mio libretto, magari quando stava con Gambazzi, nel
primo Rosso. Quello buono. Ci sono state fra noi a distanza di una quindicina d’anni molte coincidenze,
soprattutto linguistiche. Quando nei primi anni ’80 ho letto, un poco superficialmente, ammetto, il primo
libro di Màdera2 intitolato Identità e feticismo3 non sono stato sorpreso tanto dalle sue principali
affermazioni, ma solo dalla profondità della sua conoscenza di Marx e di alcuni marxologi 4: a mio parere
forse pochissimi altri negli anni ’705, potevano vantare una simile conoscenza dei testi marxiani (e
marxisti). Concordo che la questione del feticismo, e specificamente del feticismo del capitale e non solo
di quello della merce, è basilare nel pensiero di Marx. Ed essa è stata un poco aggirata dagli “operaisti
politici di seconda battuta” nostrani, ma solo un poco…; ed è stato giusto così. Comunque, quel libro
maderiano era duramente contro Tronti a solo pochi anni dall’uscita di Operai e capitale ed appariva in
un momento di massimo richiamo dell’interpretazione trontiana di Marx, sebbene in cerchie ristrette e
particolari, ed era scritto da parte di un giovane milanese (a ventisei\ventisette anni!) che pure aveva fatto
e magari stava facendo ancora una certa sua esperienza di un operaismo analogo; questo era abnorme…
Tuttavia per quanto concerne l’attacco forte ma ambivalente allo stesso Marx e l’incerta (nel ’77) apertura
a Nietzsche6 e Freud e di più a Jung che quel testo maderiano pure conteneva, leggicchiandolo malgrado
tutto mi ero ritrovato proprio a casa mia; rispetto innanzi tutto alle discussioni con alcuni amici alla fine
degli anni ’50 e poi riguardo a certi temi di riflessione nell’esperienza del movimento-operaio 7 non
piccola che ho fatto negli anni ’50, ’60 e ’70 ed i numerosi diversi e ricchi dibattiti che già allora si sono
ripetuti nel nostro giro e con filosofi e scienziati sociali8, pure al di fuori della ripresa di Marx e dei
classici del “marxismo”, con alcune oscillazioni, in specie secondo alcune fasi… Orbene, Màdera nel ‘77

1
Nel merito delle mie res gestae non entro, perché ne ho già scritto qualcosa in testi pubblicati, ma di più in altri non
pubblicati. Ci vorrebbero domande precise e particolari.
2
Che lui mi aveva donato personalmente a casa sua vari mesi prima
3
Scritto, mi pare nel ’77, edito ed esaurito da Moizzi.
4
Oltre ad esempio Rosdolsky, il Rubin soprattutto, appena uscito da noi, e vari altri.
5
Forse solo Grillo e qualche altro specialista che ora non ricordo.
6
Ma anche Tronti era ed è alla sua maniera nietzschiano…..
7
Con la minuscola. Il movimento degli operai.
8
Pure americani e francesi, anche dal vivo.

1
mi riportava lì. A vent’anni prima: ai miei venticinque anni. Come ho già scritto, eravamo già per certi
aspetti post-moderni ante marcia9.
Restando a me, ripeto cose che ho già scritto di qua e di là, anche più volte. Sono stato cattolico
fino a quindici anni, e poi proprio mai più. In seguito ho mantenuto una discreta curiosità antropologica
per tutte le dimensioni della religione e della religiosità, ma io dal ’50 di cattolico credo proprio di non
avere più avuto proprio nulla. Ero arrivato a Marx dal ’52-’53 in un contesto di militanti
“comunisti\storici”10 e consigliari o di “operaismo–rivoluzionario”, per lo più trotzkisti o ex trotzkisti,
tutti fortemente antistaliniani e critici della burocratizzazione dei partiti comunisti, neppure solo europei.
Burocratizzazione che alcuni di loro, francesi (Castoriadis11 e quelli di Socialisme ou Barbarie e Pouvoir
Ouvrier), ed analoghi inglesi (per Shop stuard, ecc., da New university left, ecc.), ed americani (News and
letters ecc.), e spagnoli, e dell’est, tutti un po’ visionari e retro, a grande differenza da noi, facevano
risalire almeno in parte allo stesso Marx, oltreché al leninismo (in specie dal ‘918 in poi); criticavano
molto la caduta nel socialismo realizzato.
Sia io che vari miei amici cremonesi, e pure milanesi, non abbiamo mai avuto nulla a che spartire in
positivo con Stalin e lo stalinismo. Semmai io mi misi a riflettere un poco su Stalin dopo, nei secondi anni
’60. Ma fin da giovani noi c’incontrammo, seppur su linee diverse, a dialogare con locali “minoranze
storiche” sia trotzkisteggianti, sia “internazionaliste”, pure bordighiane. Così verso la metà degli anni ‘50
il nostro incontro d’adolescenti con l’altra grande ideologia e religione fu subito con Marx e con Lenin (e
la Luxemburg e Trotzki, ecc.), coi testi che si potevano leggere in italiano ed in francese. Per me fu
determinante l’incontro nel ‘55 con Giovanni Bottaioli, un quadro operaio internazionalista rientrato da
un lungo soggiorno nella Parigi operaia, che fra l’altro m’impressionò subito con la sua critica della
vicenda dei fronti popolari, e con la sua idea piuttosto leninista dell’operaità di mestiere (con la faccenda
dell’“opportunismo bianco” di quegli operai…): l’altra metà dell’artigiano e dell’artigiano\contadino
dimidiato: un apprezzamento degli operai, il suo, ma assai critico. Così fin da allora non credo di essere
mai stato populista proprio in nessun senso di questa parola; ma semmai da subito operaista, ed in una
maniera insolita, fra gli intellettuali di sinistra italiani, complicata e forse un poco originale. Tuttora
difficile da capir bene. Ed oggi la ritengo retrospettivamente un poco inopportuna per la rigidità con cui
l’intesi, anche in seguito. Talora ho sentito gli operai quasi come l’altra parte delle macchine, in
un’apertura schizoide alla tecnoscienza… Ma solo talora…
Dico inoltre subito che non è proprio vero quel che dice anche Rozzi, che io sono stato figlio di
Montaldi. Non è proprio mai stato vero! A cominciare subito dalla qualità della mia concezione
dell’operaio, a molto altro. Fra l’altro questa differenza mi pose in una forte differenza verso l’idea
piuttosto populista che tutto il buono veniva “dal basso”: per me il capitalismo doveva essere combattuto
insieme dal basso e dall’alto.
Attraverso l’amicizia con operai-sociologi come D. Mothé superai subito la venerazione
dell’artigiano di fabbrica, ossia dell’operaio artigiano e di mestiere (che appunto Màdera ci ripresenta
chiuso, col marxismo ed il socialcomunismo storico, nel labirinto del capitalismo; se non fosse per taluni
apporti esterni…). Ma mi posi subito, già a Cremona, nella prospettiva della fabbrica nell’organizzazione
scientifica classica, di tipo “taylorista”, e in una dimensione di “operaio-collettivo” da ricomporre
attraverso i vistosi “frantumi” (Friedmann, Navillle...) dell’operaio-massa. Nel ’57 criticavamo il
“metellismo” degli intellettuali di sinistra italici12; e io guardavo a Jünger, quello di Tempeste d’acciaio e
di L’operaio13: questi libri li stimo ancora molto. L’operaio capace come membro di un immenso
collettivo, non solo di reggere, pur soffrendo e morendo, ma pure di fronteggiare, gestire e co-produrre
l’enorme potenza della tecno-scienza e del macchinario semiautomatico, per la sua stessa sopravvivenza e
in un movimento da cui poteva uscire qualche risorsa o condizione per cambiare qualcosa proprio di
quella tremenda condizione e società. Comunque non nel sacrificismo etico comunista-proto-operaio e poi
grottescamente stalinista. Anche nel taylorismo, si doveva e poteva rivendicare e valorizzare dietro alla
miseria delle mansioni formali dei singoli la forza, la capacità e finanche la produttività “collettiva”:
ripeto, malgrado la miseria e il vuoto professionale di moltissimi singoli lavoratori di grande serie;

9
Anche per questo poi, oltre trent’anni dopo, non ci siamo fatti tanto abbindolare da certi “post” finti.
10
Le minoranze storiche, in specie trotzkiste e bordighiane, ma anche un poco libertarie… “luxemburghiane” già allora.
11
A differenza da Gasparotto, la mia idea di autonomia non risaliva a Morandi, ma a Castoriadis.
12
Pure l’unico romanzo italiano che insceni l’operaio comunista, ma di cinquant’anni prima! Meglio il frammento gaddiano
(La meccanica) o certi spunti dei romanzi torinesi di Pavese.
13
Questi libri li aveva la mia sorella maggiore, che aveva un moroso di insolita cultura.

2
appunto. Qui proprio niente di populista. Semmai il contrario. Ed avversione pel consumismo e fastidio
per ogni andata al popolo, agli umili, ai sottomessi, ai subordinati14. Malgrado tutto dico che nemmeno il
mio amico Gasparotto andava al popolo nel senso che qualcuno ha frainteso: é troppo facile… Ma della
mia idea degli operai, collettivi, proletari capaci ormai soprattutto collettivamente nell’occupazione,
presenti ed innervati in tutto il ciclo della fabbrica e della società fabbrica tecno-scientifica e talora un
poco in dialettica col loro stesso feticismo, magari riparlerò un poco in seguito. Comunque nella
rappresentazione jüngeriana c’era parecchio che non mi quadrava ed io volli andare a guardarci subito
dentro, con diffidenza, criticando: proprio perché sentivo nel vecchio operaismo fra i due trascorsi secoli
qualcosa di religioso, ed in vari sensi. Tantopiù in un embrionale revival italico a fine anni ’50 e per un
operaismo di ritorno.
Già dall’ottocento era evidente che piccoli borghesi emarginati e senza soldi per arrivare a contare
dovevano trovare una forza che li sostenesse, che li portasse. Per un borghese umiliato ed offeso ed
espulso e pieno di un risentimento che in gran parte però ritengo ancora oggi giusto, gli operai com’erano
effettivamente nella loro nuova composizione e ri-composizione, e non solo la mitica classe operaia,
potevano valere per me una scommessa di rivalsa contro “il sistema”? avere una funzione personale e
privata di vendetta15? Ma gli operai com’erano effettivamente dentro, in specie in quegli anni, chi li
conosceva? Ed in particolare quelli della nuova industria tayloristico-fordista ormai prevalente di cui il
movimento operaio di sinistra non sembrava essersi ancora nemmeno accorto? A Milano prima (inverno
’57\’58) ed a Torino affiorarono subito crescenti motivi di dubbio. Però una certa faccia della nuova
medaglia con delle potenzialità c’era; d’altronde non c’erano alternative. Dunque esplorai coi nuovi
operai anche un certo operaismo di ritorno, sedicente “politico”. Anch’esso ambivalente. Pure davvero
regressivo.
Insisto sulla questione dell’antistalinismo mio e dei miei compagni. Infatti avvertii subito che gli
staliniani anche da noi si mostravano operaisti, non solo, ma pure proletaristi: con un segno opposto al
mio: loro esaltavano il proletariato come tale16, fermi al modello ottocentesco dell’operaio professionale
della vecchia grande-industria; mentre Marx (ed anche Lenin) talora volevano abolirlo, abolendo insieme
la classe e lo stato e tutte le classi, e così la società di classe: solo che allora il marxismo (come dicevo in
accordo con Màdera) stava piuttosto in un labirinto perché l’operaio professionale al quale guardava nel
suo lavorare e nella sua capacità e nella sua soggettività “spontanea” in gran parte aveva la stessa cultura
e visione che avevano molti dei suoi padroni ex-artigiani: salvo certi spunti del proletariato 17… E questo
ha condizionato assai pure la teoria ed ideologia socialcomunista finanche nella grande vicenda
bolscevica e nel suo fallimento, e da noi ciò si protrasse fino agli anni del secondo dopoguerra. Ripeto, il
vecchio e “primo” operaismo progenitore comunque era fra i rivoluzionari di professione del partito,
almeno fra certi fondatori del bolscevismo, per l’estinzione almeno del proletariato, e della stessa classe-
operaia al limite! Karakiri della classe operaia per una nuova civiltà… Se l’esperienza bolscevica avesse
potuto proseguire probabilmente anche la soggettività di quegli operai si sarebbe alquanto trasformata e
con loro quella del partito, e la sua stessa forma. Ma sulla cosiddetta rivoluzione russa, rivoluzione
mancata, ho sempre trovato molto carente la storiografia disponibile. Avevano posto sul tappeto la
contraddizione forte di una classe operaia che doveva saper andare anche contro se stessa; però da sola
quella “professionale” non ci sarebbe mai riuscita! Questi comunisti stalinisti invece proprio non si
sognavano neppure l’estinzione della stessa classe operaia! Ma diventavano sempre più altrettanto
apologetici della vecchia operaità e proletarietà anche molti nelle minoranze comuniste d’opposizione
storica allo stalinismo. Comunismo ideologicamente, religiosamente, operaista, ed anche operaio, in senso
positivo; inoltre, ripeto, riferito ad una operaietà di mestiere ormai tendenzialmente minoritaria.
Al contempo18 con questi primi incontri con tali operai vecchi e nuovi, mi sono formato in un
contesto di filosofi nietzschiani, freudiani e junghiani, esistenzialisti 19 od anche adorniani o weberiani e

14
Ricordo fra l’altro certe mie note in un libretto di Velleità Alternative. Il mio intervento contro Bermani nel quale negavo
che a Cremona fossimo mai stati figli di Bosio e respingevo il mito della storia dal basso, e che laggiù in basso ci fosse
qualcosa di davvero alternativo, e dicevo che la storia di coloro che tutt’oggi non sono considerati dagli scrittori di storia era
quella degli operai da un lato e della classe operaia dall’altra, nell’epoca in cui furono centrali, e che ho dato a Sergio Bologna.
15
Eppure Nietzsche rifiutava il risentimento!
16
Poi talora furono perfino politicamente e culturalmente con gli operai contro i tecnici.
17
E non tanto “operai”.
18
Intorno a Paolo Caruso e poi in alcune comuni milanesi fino alla Via Sirtori di Giairo Daghini.
19
Anche il Sartre di Questioni di metodo ed il Merlau-Ponty di Umanismo e terrore e di Le avventure della dialettica.

3
fenomenologi (soprattutto critici puntuali della scienza galileiana e così pure dello scientismo oggettivista
vetero-comunista e del funzionalismo picista; che però fra gli intellettuali picisti e di sinistra era
comunque esso stesso isolato, ed assai minoritario, in un perdurante prevalere di certo storicismo
crociano-gramsciano...20). E d’altro canto o perfino insieme, c’era un contesto di nuovi antropologi e
sociologi magari weberiani in specie critici dello stesso funzionalismo, ma attraversandolo nella ripresa di
ricerca sul campo o “empirica”. Cosicché la mia conoscenza ed esplorazione degli scritti di Marx, pur
procedendo, fu fin dagli inizi e dopo sempre critica, molto circospetta. Mi dicevo “marxiano” perché ho
sempre rifiutato di considerarmi un “marxista”: Montaldi per questo mi sfotteva.
A Cremona c’era un nucleo d’intellettuali con una certa nuova cultura cosmopolita 21. Questi
cremonesi (e parmigiani e piacentini) sapevano quasi tutto delle avanguardie storiche artistiche e
filosofiche, fra i due secoli trascorsi, dei poeti e scrittori “maledetti”, degli artisti “maledetti” e dei filosofi
“maledetti” contrari alla cultura borghese, e molto sulla storia del movimento operaio internazionale 22; ma
anche sulla scienza e su quella dell’uomo e sociale. Capita che la provincia sia più avanti di Milano. Ed a
Milano poi ho incontrato nel ’57 ad esempio lo svizzero Filippini ecc., che con la grande cultura di destra
europea (e col pensiero negativo…) aveva notevole dimestichezza. Ed altri. Guido Neri, soprattutto.
Già dalla fine degli anni ’50 consideravo lo stesso Lenin un critico di Marx, che l’aveva
pesantemente trasformato in alcuni aspetti, per poterlo usare davvero in maniera “rivoluzionaria”, e le cui
modifiche erano decisive: non un revisionista perché questa parola ha sempre avuto un significato
diverso, spregiativo in maniera particolare (però Panzieri tra noi a Torino diceva che Lenin era stato il
primo revisionista…). Malgrado tutto c’erano fra noi pure perplessità e critiche anche su Lenin ed il
miglior bolscevismo23, al quale accennerò magari dopo24. Pertanto avevo iniziato a studiare Marx pur
condividendo da una ventina d’anni prima di Màdera alcune delle forti e chiare critiche che il milanese
rivolgerà a Marx nel ‘77, ed al Marx che Màdera tuttora preferisce: appunto quello più maturo 25. Alcune
ma non altre… Ma su altro ero magari più critico di lui.
In particolare nel mio giro già si pensava e diceva dagli anni ’50 proprio che il modello marxiano,
pur offrendo ancora la migliore rappresentazione del capitalismo e della nostra civiltà complessiva 26 che
si trovasse in giro, “si dà la zappa sui piedi” perché, appunto muovendo dalla teoria del feticismo
estremizzata, non concede vie d’uscita per nessuno! Se le cose stavano allora così come lui scriveva, non
si usciva, non si poteva proprio uscire, dal capitalismo. Per salvare almeno l’utopia bisognava cambiare
strada. Ma d’altra parte ero convinto anch’io con alcuni altri che in Marx c’erano lacune, omissioni, errori
e contraddizioni, alcune delle quali aprivano nuovi o altri cammini. E d’altronde che, se la si esplorava
con una certa sistematicità, la realtà effettiva nel ‘900 ed il capitalismo dal livello medio in giù e di più
negli anni ’50\’70 e la diffusione del taylorismo anche da noi non erano proprio così come egli li
rappresentava. Anche se paradossalmente a mio avviso ora per certi aspetti nuovi sta diventando sempre
più così; onde quel modello “chiuso” di Marx, se davvero esiste, si capisce più oggi di ieri ed è più vero
oggi di ieri. Bisogna chiedersi perché… Questa é un’ipotesi importante! Per cui Marx non è certo ancora
un cane morto e scommetto che verrà riscoperto in nuovi aspetti all’inizio del nuovo millennio, malgrado
tutto. Inoltre, come dicevo, ci sono appunto anche in Marx altri nodi e filoni e singoli momenti e
frammenti che contraddicono una certa o una cert’altra dimensione di quel modello marxiano “chiuso”
medesimo, ma inconcluso27 e con enormi vuoti e lacune rispetto ai suoi stessi progetti. Allora alcuni di

20
Si diceva che solo i vecchi azionisti… e si favoleggiava sul miracolo del vecchio Il Politecnico, ripreso da Adriano Olivetti
negli anni ’50 con Tecnica ed organizzazione: cose di Torino e dintorni…
21
Sbaglia Toni Negri a snobbarli e deriderli: sono arrivati tutti a vertici anche internazionali, ciascuno nella propria
specializzazione; ed in fondo lui era specialista dello storicismo e loro erano più aggiornati di lui anche nel pensiero filosofico!
Io ero più giovane di Toni, dei romani, di sei o sette e più anni; una generazione, che segnò una mia carenza di studi filosofici
e di storia del movimento operaio e socialcomunista, un gap rispetto a loro. Ma non su altri terreni…
22
Io stesso feci un libro sulla storia del Movimento Operaio italiano, per Fortichiari\Seniga, nel ’58.
23
C’erano alcuni bucariniani, fra l’altro…
24
Premetto che, salvo un paio, non erano marxisti né marxiani i giovani studenti abbagnanesi, socio-filosofi un poco valdesi,
reduci da Danilo Dolci, che allora criticavano e disprezzavano assai, i quali stavano nel 60\62 con Panzieri soprattutto perché
questi lavorava presso l’editore Einaudi e per l’entratura di Raniero fra certi intellettuali) e che questo marxista membro allora
del comitato centrale del PSI si illudeva di portare al marxismo.
25
In Italia in quei decenni le persone che avessero davvero letto Marx (tradotto con enorme ritardo) a mio parere erano meno
di venti. Dopo il ’68 questo numero non crebbe granché.
26
In specie nella “parte alta”, dico io.
27
Interrotto sulle classi, in riferimento a rendita, interesse e profitto. Ma a noi piaceva dire che era stato perché sulle classi non
c’era altro da dire…

4
questi frammenti si potevano ancora (o già) negli anni ’50\’70 usare per esplorare ricerche per altre vie
d’uscita contro lo stesso Marx, cosicché si cominciò già allora a parlare del Marx oltre Marx, “tirandolo
pei capelli”, ma avendolo davvero attraversato a sufficienza28; e perfino contro le modifiche leniniane,
importantissime, del modello marxiano. Un cane morto sembrerebbe invece ormai oggi Lenin. Ci tornerò
perché questo non lo digerisco. Ma Marx non era neppure collettivista come i marxisti, come Màdera ci
ricorda, citando il Manifesto: era per la proprietà individuale contro l’espropriazione e collettivizzazione
perpetrata dal capitalismo29! Espropriazione che istituisce la “proprietà privata”, compresa la proprietà-
privata “pubblica”… Tronti, dal canto suo, collocava la sua prospettiva nel “capitale sociale”… Una cosa
che gli intellettuali di sinistra non riuscivano a capire, una distinzione importante: alla fine dell’800 il
movimento operaio organizzato internazionale aveva abbastanza smantellato la società dei “proprietari”
borghesi e co-costruito la “società-capitalistica” al posto della vecchia “società borghese”: appunto la
nuova società di massa. Come diceva Gehlen, il capitalismo non sboccava nell’individualismo, ma al
contrario nella società e nella cultura di massa. E proprio senza alcun “ascetismo”… Diceva Tronti
“dentro e contro il capitale sociale”, e non solo contro una mitica piccola borghesia concorrenziale di
proprietari privati. Rivedremo un minimo. Questo “dentro e contro” fu anche per me decisivo…: un
grande discrimine, che però univa. Ambivalenza… Ma anticipo che ciò che sembrò riaprire per noi i
giochi verso l’immaginazione almeno dell’avvio di un’uscita dal labirinto capitalista fu
l’approfondimento che riuscimmo a realizzare della nuova figura dell’operaio-massa. Fine del
socialcomunismo dell’operaità di mestiere, inizio della nuova utopia del comunismo nihilista
dell’operaio-massa! Così iniziarono gli anni ’60 per noi.
A Torino nei due sottogruppi più o meno sociologici il bello era proprio l’apertura, la convivenza
dei diversi, il continuo confronto aperto. Quando nel ’63 circa ci si chiuderà e si comincerà a
cristallizarci, comincerà l’impoverimento soggettivo nostro.
Anticipo subito alcuni primi grossi nodi (ipotetici) da approfondire sul rapporto Marx-Lenin,
buttandoli lì: Marx non era lavorista, ma Lenin si! Lenin non era granché operaista, ma Marx si!
Entrambi erano scientisti, sviluppisti, razionalisti, industrialisti, tecnicisti, statalisti, in fondo anche se
tatticamente, un po’ oggettivisti, ecc.30 La religione comunista vecchia e collettivista riferita agli operai di
mestiere conteneva pure tutto ciò. Così era pure Panzieri, ovviamente… E così però era fra gli altri anche
il movimento operaio organizzato italiano, e forse a Torino più che altrove; e malgrado tutto nella mia
ambiguità un pochino schizoide, ero (e magari sono tuttora) coinvolto in qualcosa di tutto questo anch’io.
In questa religione piuttosto inconsapevole. Ma già allora pensavo che se era vero che ci si dovesse
occupare del rapporto classe-partito, su ciò era importante capire anche com’era “la classe”, e soprattutto
soggettivamente, perché del vecchio ed obsoleto partito qualcosa si sapeva; ma nessuno mai volle
preoccuparsi di questa soggettività della classe, in specie di quella in ricomposizione e nuova. Dal ’61 al
’66. Il mio é stato un operaismo ritardatario esplorativo, ma pure già nuovo ed anticipatore: appunto
molto diffidente…
Qualcuno mi diceva che ero fabbrichista perché studiavo il lavoro ed i lavoratori della nuova
fabbrica: io mi troverò d’accordo col primo Tronti che ho letto, che diceva che bisognava studiare proprio
quel che si odiava, per poterlo distruggere. Tutti questi fastidiosi cretini invece… Inoltre si confondeva lo
“stabilimentismo” (e lo stabilimento come luogo del lavoro artefattivo prevalentemente manuale) col
fabbrichismo che invece è amore pel Produrre31 capitale… Non sono mai stato davvero un fabbrichista. E,
ripeto, la sinistra italica era ferma a vecchi schemi ottocenteschi del lavorare industriale capitalistico e
dell’operaietà e proletarietà.
Orbene, semmai il nostro “operaismo” nei primi anni ’60 ha dovuto essere contingentemente,
temporaneamente stabilimentista malgrado noi, proprio volendo muovere contro la fabbrica per superarla,
e proprio perché in primo luogo in Italia in quel momento il taylorismo con la nuova organizzazione
scientifica e così razionalizzante del lavoro era ancora piuttosto circoscritto a certi stabilimenti, ed in
specie nei suoi eccessi; e lì creava malvivibilità ed invivibilità insopportabili, anche come prezzo del
fordismo potenziale: allora magari certi stabilimenti potevano essere esplorati come luoghi (non esclusivi)

28
Il che è capitato a pochissimi anche per la vastità e l’enorme complessità e complicatezza della sua opera (in-semplificabile)
che tuttavia a mio parere ha più il difetto della eccessiva semplificazione, che quello contrario di cui veniva dai più accusato.
29
Devo sottolineare che purtroppo Màdera sembra usare le parole proprietà e possesso in un significato quasi opposto a quello
che ha nel diritto, creando una forte confusione al riguardo.
30
Ad esempio, Lenin plaudì al taylorismo!
31
Con la maiuscola.

5
di “mobilitabilità”32 dei nuovi proletari contro l’esistente e per “qualcos’altro”, ma allora non più
nell’industrialismo ottocentesco al quale aveva guardato il social-comunismo storico! La dizione
taylorismo\fordismo diceva già una grande ambivalenza. Ma in essa il momento del consumo finale, con
la rivendicazione e concessione mediante lotta di relativamente alti salari e l’avvio del consumismo di
massa (il fordismo in senso più stretto) si poneva ancora piuttosto come luogo dell’“integrazione”. Da noi
a quel tempo non si poneva ancora in primo piano l’ambivalenza del consumare eccedente, eccessivo,
consumistico dispiegato, che fu raggiunta solo nella seconda metà degli anni ’70; e i costi-umani
dell’accumulazione capitalistica erano pei più soprattutto quelli dell’artefare, e molto più vistosamente se
si andava a guardare lì dentro come funzionava effettivamente la nuova maniera di produrre in grande
serie, come facevamo noi: altro che integrazione, che “paradiso FIAT”, ecc.! Allora questi costi li pagava
soprattutto chi poneva mano alla manipolazione del tangibile! “Il produttore sul luogo di produzione
(ormai tayloristica)” ci si imponeva! Lì, nel boom, c’era la maggiore forza, e forse lì prima o poi questa
forza poteva essere mobilitata “per altro”.
Inoltre bisognava scalzare la fede stalinista che tutto il male derivava dalla cosiddetta anarchia
della distribuzione e circolazione capitalistica, e basta, e che la questione del comunismo era
essenzialmente questione di pianificazione centrale dell’esistente. Ma, sottolineo, lo stabilimento incluso
nella fabbrica non era solo il luogo del maggior risvolto di malcontento; ma era pure in quel momento
(primi anni ’60), sebbene relativamente, il luogo della massima forza! Non solo luogo scoperto nella
realtà effettiva per piangere e denunciare, nuova occasione di pianti ed indignazioni; ma al contempo
luogo di una grande ed accresciuta forza-umana vivente da vedere ed esplorare come potenziale di
liberazione, di uscita… Fra l’altro l’operaismo politico rovescerà la visione paleo-comunista dell’anarchia
del capitalismo mettendo in campo l’esistenza ed il funzionamento del “Piano del capitale” che riduceva
la concorrenza fra imprese con la competitività in buona parte pianificata… ed enfatizzando la
concorrenza fra proletari. Che da parte nostra invece bisognava tornare a ridurre il più possibile. E
rinviava però all’effettiva soggettività proletaria di quella fase dell’operaità. Pertanto il produttore di
merci e beni\merce (anche e di più collettivo) era allora e doveva essere in un breve volger d’anni
comunque il nostro referente privilegiato, anche a prescindere dalla sua soggettività. Questo era uno dei
pochi orientamenti in cui era d’accordo anche Panzieri. Oggi certo non è più così.
Certo, la soggettività operaia o proletario-operaia, quella vecchia, dei vecchi professionali e
quella nuova dei nuovi unskilled scolarizzati, andava letta soprattutto nei movimenti ed in specie nelle
lotte. Ma come? E solo lì?
A Torino c’era anche il vertice, l’avanguardia, un po’ strana e folle, del nuovo capitalismo
industriale e fordista33. Fra l’altro, il grande boom di nuova industrializzazione in Italia quasi coincise con
la rivolta ungherese e certi esiti del rapporto Kruscev. Però, come ho detto, era in notevole ritardo rispetto
agli USA, ma anche rispetto ai principali paesi dell’Occidente europeo, inclusa la Francia. Ci si poteva
valere, se si voleva e sapeva farlo, dell’esperienza degli altri che ci avevano preceduto, e non di poco.
Questo nella sinistra italica lo seppero fare ed ebbero la tenacia e la caparbietà di farlo in pochissimi. Io
pure studiai in una vasta letteratura scientifico-sociale anche operaista straniera, una complessa sintesi
delle esperienze dell’industria e società industriale capitalisti taylor-fordisti precedenti la nostra. Questa
era conoscenza, e forza. Nel mio piccolo seppi valermene nella grande ignoranza italica ed in specie data
quella del “movimento operaio ufficiale” italico, ripeto, fermo all’800. Ad esempio, nel ’58-’59, allorché
la Di Leo (che molto mi insegnerà sull’Unione Sovietica) ancora ragazzina faceva la sua ricerca sui
contadini del Sud io a Cremona scrivevo un opuscolo sugli operai della “fabbrica verde”, e un altro sul
nuovo cottimo, ecc. Un secolo di distanza fra noi… La compresenza dei non contemporanei? Quando a
Torino nel ’60 cominciammo la ricerca, il clima locale del “movimento operaio ufficiale” era di sconfitta
e rassegnazione: dicevano tutti che gli operai con buoni stipendi in quello che, come ho detto prima,
ormai chiamavano “il paradiso FIAT” e delle grandi fabbriche taylorizzate, non avrebbero più partecipato
a lotte. Eppure noi cominciammo, da soli, in quattro o cinque un lavoro d’esplorazione per la lotta e di
mobilitazione e d’organizzazione di militanti vecchi e nuovi su nuovi obbiettivi, sicuri delle grandi
potenzialità di lotta che offriva il nuovo terreno34. C’era stato l’esempio francese ed americano… E dopo
solo qualche messe ci fu la nuova lotta, con le “giovani forze”, e allora le “mosche cocchiere” di Torino

32
Grossa questione la mobilitabilità.
33
Parve subito che si era molto frainteso V. Valletta…
34
Qui Panzieri e gli abbagnanesi non c’entrano!

6
ebbero il loro breve momento di una certa soddisfazione e divennero un esempio ed un riferimento,
malgrado tutto!
In vero limitatissimo era il taglio con cui fra i panzieriani stretti35 si pensava alla cosiddetta “classe
operaia”. Essi al più volevano studiare scientificamente qualche aspetto della forza lavoro come forza
produttiva del capitale. Nella ricerca sul nuovo capitale (che se si fosse davvero fatta sarebbe già stato
molto…), che Panzieri vendeva in giro ma non aveva nessuna idea neppure su come iniziarla 36. Su
pochissimi aspetti dell’effettivo rapporto classe-partito Panzieri, e non solo lui, in vero fu disposto a
cercare (o meglio a lasciarci cercare, nella misura in cui dipendevamo da lui) dati e conoscenze. Ma non
tanto per un qualche tatticismo, bensì proprio per la sua vecchia ed inadeguata e modesta visione
strategica, da trozkista\luxemburghiano, da trotzkismo italiano37 inchiodato al vecchio socialcomunismo
dell’operaità di mestiere.
Però è importante che, almeno, ci si renda conto di cosa significa questa mia ipotesi pure di un
movimento operaio italiano e soprattutto torinese lavorista, operaista, scientista, tecnicista, sviluppista,
produttivista, statalista, oggettivista, nazionalista, maschilista e “mestierista”. E che forse tantopiù lo
erano proprio certi militanti comunisti, che stavano in prevalenza ancora nel PCI: i più duri col
capitalismo e col riformismo; spesso duri anche con la stessa FIOM che avvertiva certi cambiamenti. I
quadri comunisti pre\’60 erano tutti per il progresso scientifico e tecnico e lo sviluppo economico;
odiavano i capitalisti perché secondo loro lo impedivano o frenavano! Però ora si trovavano di fronte ad
un capitale e capitalisti nuovi, che portavano gradualmente il sistema industriale italiano ai livelli
internazionali, e questo li metteva in crisi. Su tutta questa serqua di caratteristiche “ideologiche”,
religiose, ed altro, comunque, avevo, con altri, anche riserve e perplessità già dagli anni ’50; non solo
dunque sul partito bolscevico, la separatezza, l’autoreferenza, gli apparati, la burocrazia ecc. Quando a
Roma, credo nel ’61, Illuminati mi chiese <ma Stalin?> gli risposi che per me era qualcosa come
Garibaldi… Con il diffondersi dell’operaio-massa ed il taylor-fordismo si diffusero operai che dico di
nichilismo fordista, ai livelli bassi di realtà: i quali nella ricomposizione e risoggettivazione sembravano
poter andare anche contro se stessi… Questo!
Spesso chiedevo rompendo le scatole piuttosto: perché gli operai e i tecnici vecchi e nuovi,
rispettivamente, da un lato come grandi gruppi sociali in senso piuttosto sociologico e dall’altro lato la
problematica classe-operaia (in senso “dicotomico”, di quelle che poi Tronti chiamerà “le due grandi-
classi-parti”), di dubbia osservabilità empirica e talora un tantino metafisica, erano talora
soggettivamente diversi dalla borghesia? E com’erano e da dove venivano le eventuali differenze di ieri e
dei primi anni ’60? Che talora proprio c’erano! Nella lunga storia plurisecolare degli operai, e non solo in
Italia od in Europa. Infatti, io ho scritto più volte sui passaggi storici dagli operai come artigiani nelle
proto-fabbriche e poi come operai professionali (integrati dalle donne e dai fanciulli ancora nella grande
industria) agli operai-massa, ripeto sovente ex-contadini o loro figli, giovani e scolarizzati 38.
Ma cos’è un operaio se non è tanto questione solo di manualità?, di braccia? Come io non ho mai
creduto che fosse39? Anticipo che io intendevo ed intendo tuttora l’“operaio” industriale come <(il
proletario) attivatore ed innovatore trasversale del macchinario tecnoscientifico e dell’organizzazione
razionalizzata mediante tecno-scienza>. Comunque da dove prendevano nei primi anni ’60 gli operai
questi momenti di soggettività antagonista peculiare? Da quei partiti storici che spesso non avevano mai
incontrato? E da dove venivano o dovevano prendere spunti e spinte per voler uscire dal capitalismo?
Oltre che darli. Certe genealogie…, di certe soggettivazioni… Era evidente una tradizione, anche
selettiva, interna, relativamente autonoma, che trasmetteva una cultura propria da una fase storica
all’altra, trasformandosi: questa ri-soggettivazione non veniva tutta solo da fuori… Dall’esterno? Tutto da
élite esterne? O tutto solo dalla nuova esperienza del lavoro di fabbrica? In specie di quello nuovo di
35
Non del gruppo con cui io stavo e che nel ’60\’62 aveva fatto almeno una parte della ricerca sul campo e nel ’62 si separò da
Panzieri.
36
Ho già scritto altrove che il “suo” pezzo sui Q.R. sull’uso capitalistico delle macchine era il frutto di una sua conversazione
con me, e che lui ne tagliò tutta la parte più ricca, quella che esplorava la questione dell’uso alternativo, neocomunista, delle
macchine e della tecnoscienza. Lui che aveva pubblicato Strumilin!
37
Ben diverso da quello francese.
38
Poi, se volete, pure di questi “operai sociali” dalla metà degli anni ’70. Operai della distribuzione, della riproduzione (e
della cura), ecc. ecc., ed operai di fatto autonomi: è stata un’idea che ha retto? E nel ‘75\’76 avevo ribaltato l’idea di Marx
mettendo il nuovo proletariato “intellettuale”, fra l’altro, al di sopra degli operai38. E poi sempre al di sopra degli operai e
quindi includente, posi il proletariato stesso.
39
Ed oggi c’è magari un operaio cyborg e retizzato?

7
questa fase classica, nell’organizzazione scientifica esogena e nella serialità ed alto automatismo? Non
anche innanzitutto dalla ricomposizione fra vecchi e nuovi operai che si andava gradualmente realizzando
nei conflitti, nel crescere delle mobilitazioni? Ma anche da qualcosa di più profondo, sotterraneo e
diffuso? Infatti era chiaro che almeno un pochino in particolari momenti storici certe (spesso vaghe)
diversità soggettive dalla borghesia c’erano state davvero e si riaffacciavano: malgrado le comuni origini
lontane: le due metà dell’artigiano\contadino avevano talora fra loro qualche differenza soggettiva. E
queste differenze si manifestavano; ma allora da dove altro le differenze venivano? Vi pare una domanda
da poco? E’ anche questa una domanda rimasta ancora piuttosto aperta. Storie anche molto lunghe. Però
proprio questa era una questione importante per cercare quell’uscita dal feticismo… Ma poi qual era la
politicità di tutto questo, nel politico e rispetto alla politica?
Riprendendo il filo di prima, posso anticipare ultra schematicamente che a mio parere Marx (più
deduttivo che induttivo, malgrado tutto…), spessissimo spingeva astrattamente al limite estremo le
tendenze in atto, e ragionava assai riferito a quel punto terminale immaginato. Ma di solito nella realtà
storica sua innanzi tutto, ma poi pure nostra di allora, un secolo dopo (e perfino ancora oggi), le tendenze
effettive non avevano quasi mai raggiunto quel limite estremo. Spesso erano addirittura solo agli inizi…
Cosicché per moltissime variabili del suo presunto modello “chiuso”, la realtà effettiva di quel dato
momento storico in cui si faceva il riscontro empirico, o anche l’intervento, era molto più indietro, e
talora anche diversa, nel senso che sembrava poter stare perfino su un’altra traiettoria, e questo già
rispetto alla vecchia operaità di mestiere; ma tanto più ora, nel ’60, rispetto alla nuova operaietà, la quale
diffondeva nuovi momenti soggettivi anche là dove l’operaio della grande serie non c’era… L’altra faccia
della ricomposizione. Quindi, come ho già detto, a maggior ragione c’era anche ancora pure per noi la
possibilità di modificare la tendenza da lui intravista, anche se magari solo temporaneamente, di modo
che magari il processo non andasse a sboccare proprio nel punto previsto da Marx; ed allora anche noi
potevamo far qualcosa in questa direzione: già a livelli medi, ma soprattutto medio-bassi. La realtà poteva
diventare un’altra da quella prevista e rappresentata in certi testi40. Almeno fino al medio livello; ma
magari arrivare, per una volta, anche un pochino più su41, come poi avverrà alla fine degli anni ’60:
quando si pose la possibilità di un salto mai visto prima, ma non ci fu un partito adeguato a raccoglierla.
Certo per capirlo bisogna anche intendere qualcosa della faccenda dei livelli…42 Io ed il gruppino che nel
’60\’61 lavorava e ricercava con me anche in autonomia da Panzieri43 non avevamo certo mai creduto che
avremmo fatto la rivoluzione… Però si poteva esplorare almeno la forza, le probabilità della vecchia
utopia in quel momento storico e in quel luogo dato.
Tuttavia il fatto è anche (molto) che gran parte anche dei miei pochi interlocutori in specie
lombardi avevano già esplorato appunto fin d’allora l’utilizzo di Nietzsche e di Freud e Jung, e Husserl (la
scienza altra) e perfino di Heidegger ecc., per ricercare la suddetta via d’uscita dalla trappola marxiana.
Dentro il nuovo muoversi del proletariato. Come conoscevamo molti dei critici del taylorismo e del
fordismo degli anni ’30 e ’50. E quasi su tutto ciò ci si ritrovò nel ’62\’63, almeno in apparenza, e
temporaneamente, più o meno, anche con un altro gruppo d’intellettuali, in specie romano, o meglio con
alcuni di loro. A parte la questione del PCI. A me però sembrava che dopo un’ottantina d’anni leggere
Nietzsche riuscisse a dare ormai molto meno di quel che alcuni dicevano, in specie dopo l’avvio del
consumismo di massa e del cosiddetto fordismo – fine anni ’50 in Italia – , però qualcosa allora offriva
ancora. Anche la psicanalisi, forse. (Ma oggi, con l’edonismo obbligatorio, con il licitazionismo, come
dice il milanese, la portata di Nietzsche non si riduce ancora?)
Comincio a dire subito molto semplificando e banalmente che c’erano anche da noi due tipi di
marxiani\nietzschiani già all’inizio degli anni ’60: i nietzschiani tecnocratici iper-razionalisti della “critica
di tutte le ideologie” e poi dell’autonomia della politica come tecnica settoriale specializzata e che presto
sboccheranno nel PCI come “partito laico”: e invece, diciamo, i neovitalisti e nihilisti-attivi che cercavano
di usare questo filosofo, l’utopia nietzschiana, pure per aprire Marx…; ciò anche per una rilettura o
lettura nuova ed originale di certi comportamenti effettivi del grande gruppo sociale degli operai in nuova
ri-composizione, e magari in ri-soggettivazione, ri-scoperti sul campo, con ricerche sociologiche,
inchieste operaie e sprazzi di conricerca: comportamenti ed atteggiamenti e soprattutto vissuti operai

40
Studiare proprio quel che si odia, per cambiarlo, aveva scritto Tronti nel suo primo libro, e a me questo era piaciuto.
41
Sottolineo l’enorme importanza che ha per me questo mirato salire di livello!
42
Fra l’altro ciò malgrado mi sembra proprio che non sono mai stato strutturalista…
43
Ed anche e diversamente dagli abbagnanesi, ma tantopiù quelli.

8
spesso ben lontani proprio dalle estraneità previste da Marx, e poi ri-sottolineate dal Màdera. Lontani
proprio da certi aspetti della rappresentazione marxiana del “feticismo del capitale”. Sottolineo:
soprattutto i vissuti operai della loro situazione oggettiva di livello meno basso ed i loro slanci
mostravano ancora un gap mutevole rispetto all’astratta deduzione marxiana. Replico, gap da cui, rimarco
in aggiunta, si poteva forse partire pure per evitare soggettivamente con un’iniziativa politica che gli
operai in ricomposizione si riducessero davvero anche nelle loro teste e loro inconsci a capitale variabile:
iniziativa magari “di partito”?, ma eventualmente di un partito assai diverso dal PCI. Questo sogno!
Partito come? Infatti ripeto che a cavallo degli anni ’50 e ’60 anche a Torino si esplorava un poco
qualche idea su un partito nuovo, che poi si dirà “leggero”, che offrisse un supporto di organizzazione e
coordinamento politico anche e soprattutto alla classe operaia emergente all’epoca dell’operaio-massa.
Ripeto pure, verso l’esplorazione della suddetta possibile via d’uscita (negli anni ’60 italici) dal cerchio
chiuso o labirinto del capitalismo rappresentato da Marx, dalla gabbia d’acciaio di cui aveva detto Weber.
Tronti fu un poco a cavallo dei due orientamenti nietzschiani, ed anch’io (però io col mio, da quasi tutti
disprezzato, interesse per la soggettività operaia e proletaria effettiva44, pure collettiva che non pensavo
fosse di per sé granché antagonista, se non in certe rare ma importanti occasioni: fra scienza sociale e uso
dell’ideologia e della stessa religione45. Ri-vedremo46).
Ma, ripeto ancora, il fatto che conta qui è che quel Marx del feticismo rispetto almeno alla
questione degli operai, e poi anche a quella molto intrigata della classe operaia, all’inizio degli anni ‘960
appariva proprio “sbagliato”; per fortuna. Ripeto di nuovo pure che proprio per questo c’erano
probabilità di esplorare avvii di strade d’utopica uscita dal capitalismo. Strade che allora si ponevano
all’attenzione, noi lo sottolineavamo proprio in termini di contingente, temporanea47, “centralità
operaia”: centralità per lo sviluppo ulteriore del capitalismo contro le teorie ristagniste dei “monopoli”
per le quali solo il piano statale e la nazionalizzazione potevano rilanciare lo sviluppo dell’“economia” 48:
vangelo di PCI e PSI nazionali fino alla metà degli anni ’60. Ma pure centralità operaia e della fabbrica
variamente, diversamente, aperta, e di nuove lotte su questo terreno, nuovo nell’arretrata Italietta 49. Allora
prevedibile centralità operaia nella nuova industrialità di un capitalismo anch’esso un poco nuovo. Dopo
qualche anno anche il PCI, che da decenni aveva messo la questione operaia in secondo o terzo piano, era
prevedibile allora ne sarebbe stato alquanto scosso: e sull’esito di questo probabile scossone c’erano
ipotesi diverse. Ma a Torino nel PCI c’era sempre stata, anche al vertice, questa fronda che dico
ordinovista, talora duramente bastonata dal vertice nazionale del partito…, fronda che poteva capire un
poco la novità delle classi e della loro lotta… Per un verso legata ad una fronda operaista nazionale
piuttosto trotzkista (Foa, Trentin, soprattutto; e con loro Panzieri “il siciliano”). Per un certo verso
migliori erano i locali: tenuti insieme magari da Garavini, sempre un poco velleitario. Noi nel ’61 e
dunque già in un secondo momento cooperammo coi dirigenti e quadri locali del “Movimento operaio
ufficiale” torinese di fronda; modernizzante? Ambiguo…
Nel Movimento Operaio istituzionale torinese ci chiamarono gli “zengakuren50” o all’inizio anche
gli “anarco-sociologi”; ma almeno pel sottogruppo non abbagnanese, le cose non stavano proprio così.
Eravamo tutti chi più chi meno sociologi multidisciplinari ma di formazione abbastanza leninista, poi chi
più o meno anche di simpatia trotzkista51 ed\od anche luxemburghiana. Io, ripeto, mi ero ri-formato
ideologicamente a Cremona abbastanza in senso comunista\collettivista, con la lotta di classe, l’odio di

44
Su questo i miei libri non pubblicati (anche per la contrarietà di Panzieri) sugli operai ed i militanti e gli attivisti di partito
della Fiat e dell’Olivetti e quelli della Lancia soprattutto e alcuni accenni di lotte operaie e sulla classe operaia italiana
complessiva a metà degli anni ’60, di cui circolarono frammenti.
Comunque è vero che la nozione di soggettività per quel che circolava, pochissimo, era insufficiente, povera e mancava di
molte mediazioni, ecc., come sostiene Gasparotto. Ma intanto preciso che quella che avevo in testa io non solo era ben diversa
da quella che ritroviamo in Montaldi, e nei commenti sui personaggi atipici, ma era pure meno piatta e povera di altre; ma non
mi risulta che sia mai stata discussa fra noi, e tanto meno con Panzieri, che non volle mai neppure sentirne parlare: neppure di
soggettività operaia collettiva!
45
Fu Pavese a metterci nel ’53-’54 sulle orme di Frazer e di una maniera radicalmente diversa di studiare la storia della
religione…
46
Colgo l’occasione per far notare che il Toni Negri un poco deleuziano di Parigi ripropone vari aspetti del nietzschianesimo
riproposto dal Màdera del ’77, e così sta continuando.
47
Che fosse temporanea ce lo suggeriva già la situazione americana, anche dai diari di P. Romano o di J. Boggs, operai…
48
Ma cos’è mai quest’economia? Non sarà per caso l’accumulazione capitalistica?
49
Tuttora di cartapesta, aggiungeva sempre Sergio Grossi.
50
Ma fra gli zengakuren c’era anche un nucleo forte di comunisti, teoricamente rigorosi e ferrati più di noi nel leninismo.
51
Ma del Trotzki del 1905 e della Rivoluzione permanente: non di Maitan.

9
classe ecc., pur senza mai essere stato nel PCI: a Cremona ed in Lombardia allora impraticabile. Cercavo
di tenere insieme il giovane Lenin anche con il pensiero libertario, tipo Castoriadis; ma non era proprio
facile. Da cui una perenne mia ambiguità: da un lato sempre riserve, dall'altro di rado assolute chiusure;
mi trovavo spesso sul confine fra gli uni e gli altri in certe rotture (ma non in certe altre…). In verità
molto spesso io mediavo… A Torino in fondo ero anche meno operaista di Tronti; nel senso che ero più
pessimista: magari entusiasmavo gli altri, ma dentro di me ero più scettico; inoltre non credevo che senza
il partito, il “partito nuovo”, perché non avevo fiducia nella capacità di rinnovarsi in tempi rapidi del PCI,
la nuova classe avrebbe potuto fare più che tanto, anche da noi. E senza un lavoro “politico” nuovo anche
inventivo verso la forma-partito rinnovata, rifatta. Ma il partito nuovo non era all’orizzonte. Malgrado le
apparenze, non confidavo più che tanto sulla cosiddetta spontaneità operaia, anche appunto sulla
“spontaneità organizzata” (e questa fu una delle prime grosse questioni che buttammo sul tappeto), anche
nei momenti più alti ed acuti. Inoltre, alle soglie del ’68, sentivo che la prorompente crescita operaia era
legata al momento magico ed al circolo virtuoso di quella che Gallino e Momigliano (nostri maestri
scientifici) chiamavano “l’azienda processiva”: poi in una prevedibile recessione i padroni avrebbero
preparato una ripresa della forza capitalistica anche per via tecnologica, restituendo alcune botte agli
operai ricomposti. Si cominciò a fantasticare sul nuovo balzo tecnologico che stavolta si doveva
caratterizzare per investimenti risparmianti lavoro. Fra i quattro tipi d’investimento che aveva classificato
Gallino. Perciò malgrado trascinassi tanti altri, non mi aspettavo più che tanto anche dalla nuova ondata
di grandi lotte dei nuovi operai ricomposti e risoggettivati. Pochissimi capirono il mio scetticismo.
Tuttavia pensavo che si fosse in lotta col tempo perché il padrone strategico si muove sempre progettando
con grande anticipo, e che si dovesse portare la lotta il più in avanti ed in alto possibile, anche perché poi
in seguito eventualmente si potesse ripartire da condizioni non deboli ed arretrate sul nuovo terreno.
Magari con altre forze. Dal ’71 già si sentiva l’inizio del riflusso dell’ondata offensiva operaia e l’ho
scritto da più parti: assai per questa mancanza di una vera funzione di partito, d’organizzazione e
direzione politica sia nel senso del politico che della politica. Né credevo alla supplenza sindacale; e che
il sindacato ormai potesse fare granché. Dopo però si cominciò a sentire anche l’inizio della sconfitta
storica del comunismo collettivista solo nella proprietà, ma non nel possesso, e della proprietà privata di
stato, e della disfatta di questa religione pressoché mondiale. Parlavamo già dagli inizi degli anni ’70 di
un nuovo ulteriore balzo tecnologico, che arrivò inavvertita, e favorì, già dal ’75 52, quando l’ondata
operaia aveva già superato la punta più alta, una batosta imprevista in quantità ed in qualità, batosta anche
a questa piccola borghesia che si vestiva come le guardie rosse… Tuttavia… Ma questo sarà il dopo, sarà
gran parte dell’esito.
Faccio presente che noi nel primo Quaderno Rosso non c’eravamo. Fu realizzato in un accordo “di
vertice” di Panzieri con Foa, Trentin, e altri romani e Garavini ed altri sindacalisti torinesi. Noi entrammo
solo nel secondo, e nelle deludentissime Cronache dei Q.R. in alternativa a quelli là. Questo
compromesso con Panzieri (e Tronti) ed il socialcomunismo operaio storico, ripeto, quello degli operai di
mestiere, fu un prezzo molto alto che pagammo per valerci di questa rivista; come poi di Classe
Operaia…, che pure consideravamo già la migliore e la più importante di quelle prime riviste del secondo
operaismo politico.
Sono stato relativamente movimentista, anche perché sul partito nuovo c’era ben poco da sperare!
Ma in specie dal ’64 davo molta attenzione a chi parlava, assai in ritardo, di rinnovamento del vecchio
partito storico, il quale dicendosi “operaio” pareva comunque ricattabile dalla crescente evidenza dei
grandi cambiamenti e della conflittualità e combattività dei nuovi operai nel boom, dell’operaio-massa,
come l’abbiamo subito chiamato. Dentro e contro anche il partito, dentro e contro anche la politica
istituzionale: per sottrarre anche questo terreno al padrone. Lenin in Inghilterra diventava davvero
Togliatti in Italia, come avevo commentato l’editoriale di Tronti. Però non ritenni mai me stesso adatto a
questo lavoro politico-istituzionale. Rimasi sempre a seguire ed a premere da fuori. In seguito anche con
una perenne quotidiana discussione e pure litigio coi gruppi extraparlamentari operaisti post ’68, dei quali

52
La sinistra socialcomunista giunse al governo locale proprio col declino della lotta di fabbrica e degli operai, ed a Torino
dopo il ’75 una componente di giovani amministratori figli del ’68 prenderà presto e con forza crescente la distanza dagli
operai, chiamati spregevolmente i ruscun, a costo di pagare prezzi elettorali… Questi accusavano le testardaggini, anche
difensive ormai, operaie di essere il maggiore ostacolo all’ordinovismo adesso imprenditoriale. All’imprenditorialità
rosso\scolorito locale. Lo slogan loro contro la FIM era <amministrazione come politica!>. Anche gli emiliani venivano da
scolari a Torino. Anche i “cumpagn suvietic” che ammiravano più la FIAT che la lotta operaia.

10
non feci mai parte53! Nemmeno nel ’70\’75 gli operai presero più che tanto sul serio i partitini, anche se li
usarono per comunicare, coordinare, ricattare, ecc. Votarono PCI. Ma siamo tornati al dopo… E’ che
adesso mi sento assai oltre. Ma torno indietro.
A Torino entrai subito dalla fine del ’60 in dialettica coi quadri e dirigenti dei partiti sedicenti
“operai”. Soprattutto coi socialisti, ma non tanto grazie a Panzieri, che loro non amavano 54, ma proprio
malgrado Panzieri che era sostenuto quasi solo da socialisti e comunisti di vertice romano. Fu un dialogo
con dirigenti socialisti (Dosio, Muraro, Alasia, Migliardi, Giovana, ecc.) costruito tutto da noi pur da
posizioni diverse nella nostra ricerca autonoma da Panzieri. E’ assai esagerato dire che diventammo la
FIOM torinese per qualche mese. No. Però, come alcuni di noi, anche quei socialisti per lo più
consideravano “il partito” solo il vecchio PCI. Era quello il “partito-reale”… Convergemmo
dialetticamente pure con dirigenti sindacali comunisti55 come Garavini, Fernex, Pugno e Piero Frasca (del
quale ho un ottimo ricordo) ad esempio nella stesura del documento per l’assemblea dei comunisti delle
grandi fabbriche di Milano (’61?), che poi Garavini ebbe paura di leggere e fu letto da Gobbi (io non ero
iscritto…), col quale interloquì direttamente Togliatti, ecc. Gobbi più volte si prese le botte al mio posto e
ne sono ancora dispiaciuto, però non c’erano alternative. Ripeto, questo ed altro senza Panzieri e gli
abbagnanesi… E comunque non eravamo indifferenti nemmeno alla politica istituzionale, alla necessità di
contrastare il padrone anche nell’uso di questo terreno, ecc. Solo che a parer nostro il PCI di allora non lo
faceva! Non sapeva farlo! Ero quindi movimentista mio malgrado. Ma lo ero effettivamente: mi muovevo
molto anch’io!
Su questo ritornerà fra noi soprattutto dal ’65 la faccenda abbastanza tattica, almeno per me,
dell’“operaismo politico bis” (che pure chiuse e liquidò alcune novità ed esperimenti nostri, significativi,
dei primi anni ’60). Ripeto che fra il molto altro, il secondo operaismo-politico aveva uno spazio notevole
anche nell’“ordinovismo” ancora caratteristico del “movimento operaio ufficiale” torinese malgrado certe
vetustà soprattutto “politiche”. A parte l’operaismo neopopulista del sindacato (in specie FIM) e dopo
sviluppato da molti gruppetti populisti post-sessantotto.
Su questa base di com’erano, e perché, gli operai effettivi all’inizio degli anni ’60, in specie in certe
componenti, ancor oggi dissento da almeno una metà di quel libro importante del giovane Màdera, dove
fa proprie ancora troppe delle astratte forzature contenute nel modello presunto marxiano: lo ribadisco a
vent’anni dalla morte (almeno nell’Occidente) di quella transeunte ed effimera centralità operaia
medesima. Essendo piuttosto movimentista, io fui parecchio interessato alla distinzione fra il politico e la
politica (istituzionale), oggi politichetta, e rivolto soprattutto al primo, e magari ad una dialettica dei due.
Sono più di trent’anni che parlo di “politicità intrinseca” di questo e di quello… D’altronde in uno dei
primi Q.R. De Caro56 aveva criticato e respinto l’approccio istituzionale ed istituzionalista alla storia, ed
al presente, esclusivo nel PCI. Le questioni politiche però non furono granché indagate a fondo nei primi
anni ’60. Allora dal ’64 mi incentrai anche sul punto di incontro fra militanti ed attivisti: su quel grande
travaglio che avveniva lì. Ma dal ’65 gli “operaisti politici” di ritorno, persa la fiducia nella “nuova classe
operaia” e nelle sue “giovani forze” (dissi io) fusesi dialetticamente con le vecchie, abbandonarono il
“movimento degli operai57” proprio alla vigilia della più grande esplosione di lotte operaie della storia
italiana ed in parte pure europea, sebbene queste fossero il canto del cigno58 della lotta di classe operaia
nostrana; e parecchi regredirono a vecchie formule ed alcuni anche all’entrismo59: così nell’inizio del ’66
me n’andai da lì anch’io e mi privatizzai; e continuai a studiare e ricercare ed a con-ricercare con nuovi
compagni. Guardando poi dall’esterno anche un poco all’autonomia del politico e financo al partito laico,
magari come “armamento leggero”; ero almeno curioso, pur nel mio forte pessimismo, sul comunismo
operaista e politico dei quadri, che si era fatto più forte proprio da quando se ne intravedeva la sconfitta
ed il futuro declino, che poi fu di una rapidità incredibile. E sono tornato di tanto in tanto a dir la mia con

53
Per due opposte ragioni!
54
Lo chiamavano con disprezzo “il siciliano”.
55
Nel sindacato, a Torino poi, capirono prima, perché comunque dovevano restare più a contatto con gli operai, ed avevano
preso una stangata già dal ’55-‘56…
56
Dal quale ho imparato molto.
57
Da non confondersi col “movimento operaio”, sé-dicente; tantopiù “istituzionale…
58
Come disse ad un convegno organizzato poco dopo il ’70 dalla Passerini, ecc., un vecchio operaio proprio contro di me.
59
Compreso Toni Negri, per un poco. Poi egli ricambiò di nuovo idea quando entrò per la prima volta in quelle lotte anche
l’operaio massa del Petrolchimico di Porto Marghera, sette od otto anni dopo la FIAT! Una dozzina d’anni dopo le lotte della
Renault di cui aveva già parlato Castoriadis.

11
alcuni testi che sono perfino riuscito a pubblicare ed hanno lasciato ancora un certo segno, perché ancora
anticipavano60… E in cui cominciavo, alla metà degli anni ’70, a prendere le distanze anch’io dagli operai
vecchi e nuovi pure fra loro ricomposti, esplorando anche altre “nuove forze”.
Però, secondo me, e me quasi solo, replico pure che sarebbe stato necessario allora conoscere e
valorizzare anche quello che c’era nei vissuti operai, in senso ampio, e dunque nella loro sconosciuta e
ripudiata soggettività, passando anche per gli individui61, l’effettiva soggettività operaia, che, ripeto, certo
non era tutta e sempre soggettività antagonista: tutt’altro! Ma talora sì. Solo il padrone capiva questo e
l’usava e ne cercava il controllo; gli intellettuali organici “marxisti-leninisti” e piccolo-borghesi del
movimento operaio “istituzionale” purtroppo no62. La religione comunista\collettivista solo per la
proprietà oscurava la vista. Già negli anni ’50 dicevamo che solo il padrone più avveduto aveva letto e
capito Il capitale di Marx… E che Marx era stato capito più da certa destra che dai sinistri democratici. E
poco dopo anche Nietzsche e Freud, e Weber, ecc.63 64

Ritorno un poco a Màdera.

Ma è uscito nel ’97 un altro importante libro di Màdera (il suo terzo), più politico e soprattutto
meno chiuso e rigido: L’alchimia ribelle, con una bella parte contro Severino65; e nel ’99 l’ancora più
sintetico L’animale visionario, Il saggiatore, (il quarto66); entrambi sempre fondati sulla teoria marxiana
reinterpretata67 del feticismo. Le analisi teoriche di questo milanese sono comunque opposte a tutte quelle
fatte nell’ambito operaista, da Tronti a Negri, per non parlare dei marxisti tradizionali (cominciando da
Panzieri...). Egli parla di un Marx che, così, non l’ha mai valorizzato (quasi) nessuno, di un Marx per lo
più quasi sconosciuto! Due paroline in prima istanza.
All'inizio del nuovo libro del ’97 Màdera nomina (fra il molto altro) quello che secondo lui è forse
il nostro maggior nemico, il più nefasto prodotto del feticismo capitalistico: questo è la “cosalità”. Ma
cos’è questa cosalità alla quale l’umanità occidentale ormai appendice della grande macchina, del grande
automa, per di più, è sempre più ridotta? Orbene, le “cose” nel materialismo (volgare) possono essere
intese come la materialità sensibile contro le astrattezze, contro le idee e le idealità: le cose sensibili, che
si percepiscono coi sensi e sulle quali si può appoggiare il nostro senso della realtà 68. Ma oggi il lavoro
umano occupato e dipendente nel nord del mondo è ormai prevalentemente riproduttivo, lavora e
consuma nei servizi primari di riproduzione della capacità umana, ed è proprio qui il regno
dell’intangibile; e tantopiù in quello cosiddetto autonomo. Il buono qui allora è invece anche che Màdera
non vuol affatto dirci che il nemico è il tangibile; le cose oggi non si possono più intendere come il
sensibile, o come il materiale\sensibile. Il nemico semmai oggi è una cosalità intangibile, insensibile.
Oggi arretra la percezione, e non solo l’esperire sensibile. Non per nulla però fin dalle sue origini
l’adattamento umano ai diversi e mutevoli ambienti é culturale e richiede l’onirico, il visionario,
l’immaginazione, ecc. Màdera ripartendo da qui (anche contro Gehlen) ce n’offre (già dal ’77) una
concezione “immateriale”, nel senso di insensibile, importante; anche se un pochino a spizzichi e dispersa
fra le pagine. E lì c'è dunque una critica forte della cosalità come momento del feticismo, poi pure
capitalistico, anche immateriale ed intangibile (e non dal punto di vista della metafisica). Il feticismo

60
Come quello sul proletariato di ceto medio, del ’76…
61
Come replicava Rozzi a Montaldi a Cremona nei secondi anni ’50. Ed ora dice che forse questo era anche il pensiero segreto
di Danilo…
62
Pizzorno ci ripeteva che la politica era il principale ascensore verso l’alto e il potere di una piccola borghesia povera. Ed io
pensavo che lo era in maniera particolare nella sinistra la vicenda degli intellettuali organici… Intellettuali piccolo-borghesi
cercavano nella forza-lavoro soprattutto operaia la forza per imporre certi loro progetti: che però non erano tutti uguali e vanno
valutati anche in relazione e certi bisogni e magari perfino desideri degli operai in senso lato, nella loro complessa
articolazione e composizione.
63
Ed ora usa Husserl per dare vita alla scienza cognitiva… verso l’intelligenza artificiale.
64
Mi ha sempre stupito la virulenza dell’odio dei vecchi picisti per Adorno\Horkheimer; eppure quanto, soprattutto il
secondo, ha saputo anticipare, forse cominciano a capirlo solo oggi!
65
Edizioni Palomar.
66
Se si tralascia quello su Jung, che è piuttosto buono nel suo genere.
67
Malgrado egli si dichiari contro la discussione e l’interpretazione… Ma io no.
68
“Andare alle cose”, diceva anche Husserl e poi i fenomenologi…

12
capitalistico poi sfocia nella nostra assenza di controllo, consapevolezza e quindi progettazione autonoma
nel lavorare, nel lavorare-specifico, aggiungo io, lavorare in tutti i sensi, anche nella propria
riproduzione, semplice e allargata, anche nel tempo libero e nel consumo; e dunque anche nel consumo
finale e nella politica: e questo è appunto il nucleo più rilevante della nostra cosalità. Questo oggi è un
nodo assai importante, in cui scavare molto… Storia generica e categorie specifiche.
Purtroppo nel farci la storia del feticismo a mio parere Màdera partendo giustamente dalla merce e
dal feticismo della merce oscilla fra una merce impropria, pre-capitalistica, e la merce in senso proprio,
che è appunto quella capitalistica, e fa una certa confusione fra certi momenti generici ed impropri del
feticismo medesimo ed il feticismo della merce specifica, e del valore, del denaro in senso proprio, ossia
dentro il capitalismo ed il capitale, ed in fine col feticismo del capitale. Così si confonde un poco il lungo
processo generico di centinaia di migliaia d’anni d’uscita dall’animalità, la quale rimane al di sotto come
momento incluso e trasformato, con appunto lo sviluppo del relativamente recente feticismo del capitale:
che magari ormai sta declinando a sua volta?

Màdera (in parte) va contro Gehlen, ritornando a Jung e di lì ripartendo, per arrivare oltre Jung (ed
oltre Marx). Egli non è laicista. Ha scritto anche un libro che s’intitola Dio il mondo che a me non è molto
piaciuto69. La necessità che Màdera propone e m’interessa di più però non è tanto neppure quella di
riconsiderare le religioni più o meno tradizionali, dall’animismo e la superstizione (riguardo alla magia),
al monoteismo della civiltà contadina, ed i movimenti eretici ed i protestantesimi più radicali: come
funzionano oggi, ecc.; cose che pure mi interessano molto. Bensì è, negli altri suoi testi e in specie negli
ultimi, soprattutto la necessità di criticare e capire la “religione della quotidianità capitalistica”, la sua
genealogia, tendenza, portata: questione ritrovata anch’essa in Marx. Il capitalismo stesso come religione!
I modelli di vita che nella nostra società in specie i mass-media, i rotocalchi, con grande potenza
continuamente propongono ed impongono, colonizzando le menti: modelli presi vissuti ed osservati come
dogmi di una religione tendenzialmente globale, spesso però compatibile con altre: nuove ed antiche. Che
sovente riprendono slogan circolati nelle lotte della classe operaia del fordismo classico, ed appunto
momenti di quella soggettività-operaia di cui gli operaisti non vollero granché occuparsi. E lì dentro
semmai si rinnova la religione della tecnica, la religione della tecnoscienza e la tecnica realizzata come
Dio (che ripeto, ritrovammo negli anni ’50 nel marxismo-leninismo e nella vecchia tradizione e vecchia
religione comunista\collettivista). Replico che di religione mi sono sempre interessato molto anch’io.

Di Màdera mi convince poco il suo modo di essere più junghiano di Jung, questa maniera
(abbastanza di moda) di mettere in sequenza “logica” e “razionale”, in fondo, e per contenuti, miti di
luoghi e tempi diversissimi, in maniera del tutto autoreferente, come se intorno a ciascun mito ci fosse
allora il vuoto, non esistessero interessi e condizioni sociali ecc. Mi pare che per orrore, giusto, del
materialismo storico più scemo si cada nella mera razionalizzazione. Dalla padella nelle brace. E’ come
quel mettere in sequenza logica autonoma ed autoreferente i sogni collegandoli e confrontandoli solo fra
loro e codificandoli e perdendo proprio la portata dei simboli70, e soprattutto staccandoli completamente
dalla persona che ha sognato e\o che ha raccontato il sogno: si fa la cabala 71 pei giocatori del lotto,
razionalizzazioni che non capisco a cos’altro servono se non a coprire magie, a sostenere religioni, finti
psicanalisti a centomila lire all’ora…
Come ho appena detto, Màdera non è contro Marx, è contro il suo sistema chiuso sacralizzato dai
“marxisti72”. Egli recupera un Marx particolare. Oggi semmai in giro si recupera qualcosina del primo
Marx, quello dei Manoscritti giovanili e qualcosa di quello dei Grundrisse. Ma il Marx vecchio, in
particolare quello dell'ultimo libro de Il capitale, non lo recupera più nessuno: il nostro studioso milanese
invece lo fa. Con una ragguardevole conoscenza, in senso pure politico, e con continuità e coerenza.
Màdera tira fuori una definizione “nuova” (e strabiliante?) di comunismo che prende dal Marx
dell'ultimo libro de Il capitale. Ai tempi delle minoranze storiche, pure noi dagli anni ’50 facevamo una
critica al socialismo basata sulla differenza tra proprietà e possesso: la proprietà (dico io) è formale, il
possesso è di colui che di fatto decide: nel socialismo reale non decidevano gli operai, e neppure i

69
Meglio il corrispondente libro di C. Formenti “Piccole apocalissi”.
70
Cosa che Jung deprecava. Vedasi il suo diario.
71
Con un b solo, non la Kabbalah degli ebrei della Diaspora…
72
Egli fa un uso di Marx che non è quello di Negri, il quale è più marxiano, più tradizionale.

13
tecnici…73 Però Màdera tira fuori da Marx questa definizione: “Il comunismo é il possesso collettivo che
consente la realizzazione della proprietà individuale”. Questo slogan é più significativo se possesso e
proprietà s’intendono come li pongono il diritto ed anch’io... Marx diceva: l’individualità solo nel
collettivo altro, ma il collettivo altro solo nell’individualità piena e nella proprietà individuale. Contro
l’espropriarci capitalistico74. Marx proprio non è marxista! A questo comunismo del tutto diverso – se non
opposto – da quello “marxista” e social-comunista storico e degli stessi movimenti e partitini operaisti di
sinistra degli anni ’70, pure Màdera si riferisce. Allora, un ritorno a Marx, questo si, di buona portata?
Tramontata anche da noi la prospettiva del “comunismo operaio” pure a quest’altra idea di Marx potrebbe
ora rifarsi l’avvio di un progetto di un “comunismo post-operaio” o “comunismo iper-proletario”, per la
soppressione dell’iperproletariato, anche come moltitudine?…

Come ho detto, Lenin critica duramente Marx, si accorge di molti suoi limiti. Ad esempio, quasi
tutti sanno che Marx è stato entusiasta della Comune di Parigi, mentre Lenin sosteneva che non ci si
poteva accontentare di quella, ha criticato più volte l'ingenuità operaista di Marx: gli operai sono per il
russo dei “tradeunionisti bianchi”… Anche Lenin, dunque, è “oltre Marx”: purtroppo solo per pochi
aspetti75. Forse per altri è prima di Hegel? Non è comunque del tutto vero che solo peggiora ulteriormente
il peggio di Marx come Màdera talvolta sembra pensare! Comunque io sostengo che proprio oggi in
Europa ed in Italia riaprire un dibattito spregiudicato su Lenin, i bolscevichi ed i menscevichi, sarebbe
importante e si scoprirebbe anche di grande attualità.
Màdera, dal canto suo, sostiene la necessità di andare oltre l'operaismo ingenuo. Così c'è pure una
valorizzazione e soprattutto una critica importante di Gramsci. Il milanese non porta invece a fondo le
considerazioni su Lenin: ne fa un accenno, ma si ferma lì, a una battuta. La critica di Lenin negli ultimi
anni non l’ha fatta nessuno. Silenzio di colpo soprattutto degli ex leninisti! In generale, il leninismo è
stato abbandonato da un giorno all’altro attraverso una congiura del silenzio. Chiederei dunque di non
lasciare così implicita la critica a Lenin. Non si può far sparire così all’improvviso Lenin come hanno
fatto i sopravvissuti ex-leninisti di tutti quei movimenti, senza nemmeno provare a dire perché da quel tal
giorno lì non valeva più niente! Questo puzza!
Storicamente ci sono stati tre filoni di critica a Lenin che circolavano nei nostri dintorni già alla
fine degli anni ‘950. Uno (passato poi attraverso la volgarizzazione dei socialdemocratici del primo
dopoguerra) è quello fra l’altro della Luxemburg, che ha dato poi origine al filone consigliare: in sostanza
è quello che respinge il bolscevismo come “guardiano notturno della rivoluzione” 76. Il secondo filone
critico è quello che sostiene che i bolscevichi hanno preteso di fare l'ingegneria delle anime, decidendo
cosa è bene e cosa è male per gli altri al posto degli altri, negando loro il diritto di scelta e financo
d’espressione, di comunicazione ecc.; e li accusa di sopraffazione ecc. (come se intorno ai lavoratori
altrimenti ci fosse il vuoto, non ci fosse la potenza formativa del capitalismo, una sopraffazione molto più
forte, che appunto ripropone la questione centrale della formazione). A me in particolare questa critica
ricorda quelli che Kosik aveva chiamato “le anime belle”! In Màdera c'è soprattutto un terzo nucleo
critico. E’ un poco la questione che ho già detto e ripetuto prima e sta nel problema del feticismo: di
settori o momenti della piccola borghesia che (come noi) vogliono salire al potere (centrale e generale,
perfino) essendo appunto o mostrandosi operaisti, lavoristi, scientisti, tecnicisti, sviluppisti, ecc., e quindi
con la forza contrattuale della forza-lavoro unita, oltre la concorrenza interna; ma anche con
qualcos’altro… Questione già accennata anche del ruolo effettivo degli intellettuali organici (e dei limiti
della spontaneità, ecc.). Della politica come ascensore della piccola borghesia ambiziosa ma povera: il
potere, si sa, serve a realizzare gli ideali…

73
Fra altri, ne il Convitato di pietra Preve azzecca una definizione e dice che malgrado la pubblicizzazione della proprietà nel
capitalismo, anche in quello del socialismo reale, nel capitalismo socialista ecc., c’è sempre proprietà privata: proprietà privata
statale. Quindi non solo la proprietà è pure una pre-condizione, ma quella statale è sempre e comunque privata. Ma lo stato è
in crisi…
74
Se penso a quante volte sono stato tacciato d’individualismo di sinistra (e allora magari come fascista, ecc.).
75
Fra l’altro negli anni ’50 c'era chi (come Pizzorno) diceva di essere leninista ma non marxista, cosa che sembrerebbe essere
una contraddizione.
76
Mi pare che nel numero 2 di Classe Operaia Negri abbia trattato efficacemente di soviet e partito bolscevico: la terza
internazionale…

14
Con una certa relazione col feticismo voglio accennare ad un altro nodo scabroso, di quelli che
fanno indignare anche bravi democratici più intelligenti della Rossanda. A Torino fin dagli anni ’60 mi è
apparso vistoso che c’erano stati e c’erano ancora capitalisti piuttosto grandi, ancora in carica, in
funzione, in Europa e nel mondo, i quali avevano colto certe negatività del loro stesso sistema, e della
tecno-scienza e del modo in cui la loro civiltà la utilizzava, ed in certo senso “se ne vergognavano” e
comunque se ne dispiacevano, e non solo sognavano di liberarne l’umanità, anche perché pensavano che
il capitalismo alienava pure loro, ma si erano impegnati contro ciò anche più a fondo, con maggiore
radicalità non solo di Adriano Olivetti, ad esempio, ma della stesso movimento operaio social-comunista
storico; di solito più tecno-scientista di loro. Io non sono mai stato “tecnofobo” e neppure “scientofobo”.
E non lo sono nemmeno oggi. Ma affermo che il modo superficiale e spesso disinformato con cui la
cultura democratica soprattutto italica ha guardato a certe grandi vicende storiche degli anni ’30 è poi
purtroppo sboccato in una riconferma (stalinista, in fondo) del tecno-scientismo e del progressismo e
sviluppismo e produttivismo economicista del Movimento operaio “ufficiale”; e fino alla sua base! E più
di quelli stessi socialcomunisti democraticisti di cui anche Màdera dice che sono stati in fondo da noi
anche i più convinti ed effettivi e spesso eroici realizzatori del cattolicesimo.

Questi libri di Romano Màdera sono importanti dal punto di vista teorico, e soprattutto nella parte
distruttiva; ma non permettono di intervenire granché sulla “realtà esterna”. Egli propone una pratica
complessa di “sincretismo solidale”, che egli spera si allarghi a macchia d’olio, soprattutto in aspetti
formativi: comunque si spera, si tende, si mira, ma si esclude un’organizzazione che intervenga ad
accelerare, ad intensificare e soprattutto a coordinare: si ritiene che il pluralismo lo escluda, e debba
essere spontaneo; ma neppure a questo io mi sento del tutto estraneo, perché a metà degli anni ’70 anch’io
con altri ho praticato momenti di conricerca formativa che avevano vari aspetti e presupposti comuni con
la pratica dei maderiani oggi. Ma mentre noi sperimentavamo anche quello, con molto altro, loro adesso
si affidano solo a quello, che certamente è al suo interno già d’enorme complessità. E tuttavia a mio
parere tuttora non esclude davvero altro, di praticarlo insieme ad altro. Non solo nel sincretismo con altri,
parallelamente, ma convergendo parallelamente anche nel colpire e negare qualcosa. Sarebbe l’odiata
dialettica che Màdera attaccava già nel ’77? Per il resto sembrerebbe talvolta che si debba aspettare che
succedano le cose, che altre forze antagoniste agiscano (stanno già sempre agendo…), valorizzando
magari degli aspetti o degli eventi che in questi termini maderiani non sono mai stati molto valorizzati.
Però più in generale si può dire che, una volta che le cose sono successe, si può al massimo fare il
giornalista, o quello che io chiamo il “turista sovversivo”. O parlarne, o commentare. E non è poi così,
facile e vero che non si discute e non s’interpreta, come lui vuole… Comunque Màdera rifiuta un
orientamento neo-leninista: valorizza gli antagonismi, ma non accetta di starvi dentro e di orientarli in
nome di una qualsiasi “astratta verità che viene da fuori”. C’è una forte condanna di chi vuole muoversi
come organizzatore, o élite avanguardistica: in sostanza vi è una forte condanna pure del ruolo
(tradizionale?) del militante. Oggi sono tutti libertari. Bene. Ma per riprendere consapevolezza e
controllo, e progetto, questa propensione anti-organizzativa è proprio tutta indispensabile?

Ad esempio, la formazione, dico io, è sempre anche violenza: violenza sulle anime e sulle menti
(pure sui corpi), di solito altrui, ma l’autoformazione è pure violenza su se stessi. Ma per cosa? Non a
caso anni fa a Genova in certi centri sociali i ragazzi mi dicevano d’essere contro ogni formazione, ma per
il contagio, la contaminazione. Comunque, oggi se una certa ingegneria delle anime non la fai tu, la fa
certo tutt’oggi il padrone, malgrado certe potenzialità della rete nelle quali declina proprio la padronanza;
e lui la fa ancora e senz’altro, ancora con efficacia ed efficienza. Allora spesso bisogna ancora scegliere
tra almeno due violenze, e bisogna farlo per “salvare la dignità umana”77; non è meglio allora farlo
consapevolmente78 che senza rendersene conto, illusi: bisogna usare ancora la violenza pure per mettere
fine alla violenza? Il vecchio paradosso? Questo è comunque parte dello “sguardo tecnico sul mondo”?
Ma il fatto è anche che non tutte le violenze si equivalgono! Anche in termini qualitativi. Se non si
scava anche qui e non si sceglie qui dentro, limitando, anche nel tempo, anche interpretando ed un poco
discutendo79, di molte di queste conflittualità del sincretismo antagonista secondo degli scopi comuni non

77
Màdera usa questa espressione, che afferma essere insieme roboante e patetica, ridicola; però in fondo si tratta di quello.
78
Il feticismo e la cosalità distruggono la consapevolezza…
79
Cose che Màdera ripudia.

15
te ne fai molto. Infatti, lì neghi proprio il progetto comune, gli scopi comuni. Resta solo una comune
maniera di sentire?…
Inoltre è necessario porre la differenza fra la semplice conflittualità e l’antagonismo. Si può essere
in conflitto e lottare per prendere il posto dell’avversario e voler fare quello che fa lui, occupare la sua
posizione. Questo non è antagonismo. Molte volte poi è perfino meno peggio la civiltà capitalista del
mondo che vorrebbero alcune di queste persone che sono o si mostrano in conflitto! L’essere “arrabbiati”,
dunque, non vuol dire essere antagonisti. L’antagonismo è in relazione con l’alterità: questa non è
necessariamente unica, ce ne possono essere più di una; allora bisogna ancora scegliere! E nella scelta
magari tuttora la vera linea é il metodo... Scegliere anche i criteri della scelta. Oppure conformarsi,
conformare.
Di tutto ciò era consapevole non solo il gruppo bolscevico, ma ad esempio anche Gramsci quando
parlava di formazione dei militanti. Io di Lenin, dal ’54 circa fino a dieci anni dopo, rileggevo soprattutto
il Che fare?. La questione del metodo. Sono sempre stato stupito di come egli malgrado tutto fosse spesso
più consapevole dei limiti ed i rischi della sua politica di molti dei suoi stessi critici; malgrado tutto nelle
condizioni generali ancora allora vigenti l’esplorazione meno peggiore pareva la sua… poi l’ottobre rosso
(durato solo qualche anno: nel ’21 era già fallito?) rimane lo stesso il maggior evento storico del ‘900 80.
Già negli anni ’950 la mia generazione ha fatto talora (almeno un poco) i conti con questo nodo oggi
rimosso. Ma oggi la realtà è davvero molto cambiata e siamo solo all’inizio di una nuova ulteriore fase. Si
può rivedere tutto quanto, anche la storia, assai diversamente da solo qualche anno fa. Ma come si
riproporrebbero oggi certi atteggiamenti e stili di ieri?
Premetto che io metto i desideri ben al di sopra dei bisogni. Ero passato un poco per Jung anch’io!
Oggi ci sono quasi solo più bisogni: negatività, mancanze, adesso “indotte dal sistema”, con la pubblicità,
la promozione, i modelli e le mode, ecc. Il padrone ha vinto forse più coi rotocalchi che con le nuove
tecnologie! Si oppongono forse i desideri radicali… Ma chi ne parla? Inoltre, ad esempio, si può e si deve
ancora essere in grado di individuare certi interessi, bisogni e desideri che la gente o altri ha ma non
sente, non avverte con coscienza: avere questa presunzione? Pur mirando alla consapevolezza anche
altrui, o a mettere pure gli altri in condizione di controllare la propria situazione ed in specie il proprio
lavorare specifico e pure riproduttivo, di progettarlo, di esperire ecc.: il micropezzettino della
megamacchina. O essere, in partenza, all’inizio, in grado di fare una critica che altri non si trovano in
grado di fare, d’avere informazioni e soprattutto conoscenze che essi non hanno. Noi allora lo pensavamo,
anche assumendoci certe contraddizioni. Ecc. ecc. Ancora oggi non tutti gli esperti sono equivalenti, in
particolare nella dimensione di un avvio di uscita dal feticismo, e non c’è una maniera unica di usarli: ci
sono livelli in cui un certo specialismo in certe cose piuttosto che altre può servire. La mia ipotesi è che
sono tuttora opportuni dei formatori: antagonisti. Dei contro-formatori. Dei violentatori d’anime altrui in
alternativa alla formazione capitalistica. Il problema è, come si diceva un tempo, che il formatore deve
essere formato. E come lo è, e quindi come forma e per cosa… Contro-formare, come, con che fini,
metodi, contenuti, ecc. Oppure, come quasi tutti, conformare o lasciar conformare.
Oggi la formazione81 si trova al centro di tutti i differenti percorsi. Che adesso se ne parli tanto e
sempre di più di per sé non è una gran buona cosa per noi! Bisogna stare attenti: occorre distinguere
scopi, contenuti, risorse e metodi: metterli a confronto rispetto a certi fini: ad esempio il suddetto
riscoperto (dal Màdera) comunismo secondo Marx! Metterlo al confronto col muoversi…
Quello che il padrone ha saputo fare di più e meglio è proprio la formazione ideologica dell’“iper-
proletariato”, coi mass-media (coi rotocalchi…), con l’intrattenimento. Dunque, la soggettività non è una
zona bianca, neutra. Essere pluralisti, ma che si tratti d’antagonismi veri: soprattutto nella maniera di
porre e di vivere, ma anche nei contenuti! Non c’è più l’ortodossia della linea unica; per me che anche
negli anni ’60\’70 ero abbastanza “movimentista” mio malgrado forse non c’è mai stata; ce ne possono
essere tante. Ma ipotizzo che quasi tutte lasciano un certo spazio pure ad un nuovo “contro-lavoro” di
nuova militanza, non escludono necessariamente neppure un certo (residuale?) radicamento, magari
mobile, nell’arco delle 24 ore, magari in deterritorializzazione; purtroppo però dalle nostre parti ben pochi
si deterritorializzano, ed i più di loro si riterritorializzano subito, e poi si ancorano lì…: in produzione con
la minuscola e in riproduzione, semplice ed allargata… Entrambe e sempre più la seconda sono adesso
Produzione: ancora di capitale, nella sua ambivalenza, ed accumulazione. Purtroppo, forse, qualcosa che

80
Con la guerra ed il taylorismo, tutt’oggi in funzione, seppure mutato dentro…
81
Che io privilegiavo già più di trent’anni fa.

16
in Italia si vede ben poco è proprio l’esodo: da noi gli italici esodavano molto di più negli anni ’50\’70:
che cos’era la stessa migrazione? Adesso esodano ad esempio molti islamici, venendo qui, sempre di più,
inesorabilmente. Finché sono minoranze… Diventiamo islamici? Speriamo che il capitalismo islamico sia
migliore82? E basta?

Ripeto. Il capitolo de Il capitale sul feticismo delle merci è quello che impressiona di più gli
intellettuali, almeno da cinquant’anni. Ma da questi le merci vengono sempre identificate con i beni
tangibili: per costoro, quindi, l’operaio proletario (e in quest’accezione il termine più importante per me è
proletario, non operaio) produce le merci, che sono delle cose (nel senso del sensibile, del tangibile: cose
tangibili), per costoro; è il “materialismo volgare”. Però ho già detto e ripeto che la cosalità di cui parla
Màdera non si riferisce, invece, alle cose tangibili. Il feticismo delle merci non è il feticismo delle cose
tangibili. Pure Foucault, Sartre e altri intellettuali, anche esistenzialisti (soprattutto francesi), pensano
solo alle cose tangibili. Inoltre mentre le cose diventano persone, le persone e i rapporti sembra che per
loro non diventino, non siano diventati, cose… Che la reificazione ai suoi vari livelli di realtà non ci sia
stata. Si limitano alla prima metà del feticismo delle merci, alla metà meno importante! Si veda ad
esempio Spettri di Marx di Derrida: è tutto incentrato sul feticismo delle merci intese come cose tangibili.
Ma anche il proletario, quello che io chiamo l'agente-lavorizzato-umano, è merce, ed allora il discorso
deve cambiare completamente. Ma di questo Derrida non s’accorge: eppure sono secoli…: è come la
storia del sapere che non si deve mercificare e non può essere mercificato, eppure la proletarizzazione lo
fa da secoli, e lo fa soprattutto. Noi, innanzi tutto noi, siamo ancora merce! Quindi, non si può andare
contro le merci (intese come cose sensibili) solo in nome dell’uomo d’oggi, perché anche questo è
tutt’oggi merce; anche se adesso intorno alla rete si intravede finalmente qualcosa che legittima discorsi
se non sulla fine almeno sulla riduzione della proprietà stessa e del vecchio mercato della proprietà contro
denaro e allora delle vecchie merci: si riapre il discorso della neo-merce (che aveva iniziato ingenuamente
fra gli altri il mio amico Marco Merlini). Siamo ancora merce, magari in affitto, da sempre in affitto,
innanzi tutto noi! La prima neo-merce! Sono secoli che la capacità-lavorativa umana si cede in leasing!
Non lo dico come ipotesi provocatoria. Inoltre, solo giù in basso, dal medio raggio in giù c’è la differenza:
le merci non hanno tutte lo stesso valore-d’uso; perché fra l’altro il valore-d’uso finora si è piuttosto
trasformato ma non è per niente finito83. Sebbene magari adesso per alcuni avrebbero cominciato a finire
proprio le merci! E’ da vedersi… Poi, ripeto, occorre passare dal feticismo delle merci al feticismo del
capitale. Ponendo anche l’ambivalenza dello stesso capitale, che contiene come sua parte anche i
lavoratori proletari, iperproletari: con le loro lotte.
Il nodo di Marx che nel recente passato è tornato di più nei dibattiti teorici è quello del formidabile
Frammento sulle macchine nei Grundrisse. Alcuni di noi l’avevano scoperto leggendoli in francese
all’inizio degli anni ’60. I Quaderni Rossi lo pubblicarono, mi pare, nel ’62. Con questa faccenda a mio
parere da allora sempre fraintesa del General Intellect, che metterebbe completamente fuori gioco la
teoria del valore\lavoro di Marx; la quale però fra noi era già molto dubbia e usata magari solo
“tatticamente”, per altre ragioni a cavallo fra gli anni ’50 e ’60. Nondimeno già da allora, dai primi anni
’60 io rompevo le scatole a coloro che si limitavano alla prima parte di quel profetico frammento
ricordando che subito dopo Marx dice in sintesi pressappoco: <ma il capitale è limite a se stesso e non
può fare a meno di misurare il valore col lavoro ed il lavoro col tempo, anche intensificato>, e così la
teoria del valore\lavoro cacciata dalla porta ritorna dalla finestra. Ritorna! E’ ancora tutta lì, in Marx! E
magari per qualcuno il frammento non faceva altro, malgrado tutto, che riproporre la contraddizione fra le
misteriose forze produttive e gli imprecisati rapporti di produzione… E gira questa assurdità del General
intellect di per sé alternativo al capitalismo, mentre ne è sua forza produttiva! Ed è singolare il fatto che è
stata proprio l’industrialità tayloristica a metterci sulla sua strada. Comunque a qualcuno pareva già allora
che, almeno in Occidente, ormai la tecno-scienza facesse tutto lei, anche o innanzi tutto le macchine. Oggi
ormai lo pensano quasi tutti! Ma questo è falso!

82
C’è chi, come Cacciari, sostiene che c’è incompatibilità fra l’Islam e la tecno-scienza. Io non dimentico le immagini di quel
figlio d’un Emiro che alla guida di un mostro tecnologico volante aveva abbattuto vari caccia supersonici di Saddam… Ci
sono arabi che sanno l’inglese…
83
A mio parere la tesi del primo libro di Formenti va corretta. Ma sono più fondati ed importanti a mio parere i suoi libri
successivi, compreso Incantati dalla rete: molto utile. Una merce questa con un ottimo valore d’uso…

17
Oggi però si ri-propone pure un’interpretazione diversa di quel Frammento: la contraddizione del
pur ambivalente capitalismo con certi momenti e forze che lo muovono, che già aveva visto quel Marx lì
come potenziale, quanto mai tecno-scientista, è forte e comporta proprio il fatto enorme che da tempo ci si
propone, almeno come ipotesi di ricerca…, il fatto di una forte trasformazione del capitalismo. Tantopiù
con la grande ondata e “canto del cigno” delle lotte operaie degli operai ricomposti degli anni ’60\’70:
grande ondata internazionale che ha avuto conseguenze ben più profonde di quel che crede Màdera:
sboccando in una sorta di comunismo capitalista… E sfociando nel ridimensionamento (e magari verso
l’estinzione) delle classi dicotomiche, dello stato, della proprietà privata, ed altro (della dipendenza fissa
del salariato ad es.). Ipotesi… In cui adesso si avvantaggia il capitalismo84. Tanto che alcuni tardigradi
comunisti collettivisti nella sola proprietà formale che ieri ne sognavano l’abolizione 85adesso vorrebbero
tornare indietro e salvarne qualcosa, perché non si ritrovano più niente in mano. Ma rispetto alla sostanza
del frammento marxiano c’è chi ha risposto: <se il capitale è a partire da un certo momento storico,
adesso già arrivato, irriducibile limite e contraddizione a se stesso, allora magari la conseguenza è che da
questo momento esso può cominciare a morire, che il capitalismo fa passi verso la propria estinzione>.
Questa è una risposta con la quale ci si deve confrontare! Estinzione la quale però si pensa, fra costoro,
che sarà lunga; richiederà molto tempo: ben più di un secolo. (Forse) il capitalismo ha cominciato a
finire; od almeno a trasformarsi radicalmente a livelli medio-alti, ed oggi si comincia a vederlo, in specie
nei dintorni della rete? Sebbene noi affermassimo già dai tempi del boom che il capitale aveva davanti
ancora almeno centinaia di anni, contro quelli che a partire dall’Imperialismo di Lenin predicavano che
coi monopoli i capitalisti erano, già dagli anni ’50 o prima, all’“ultimo stadio”: cosa falsa, perché invece
finora poi sono sempre saltati fuori altri stadi nuovi imprevisti ed inattesi, e magari peggiori dei
precedenti; mentre invece quest’altra ipotesi dell’avvio lento verso un futuro magari prossimo declino
perlomeno di un certo capitalismo-classico di mercato per un ipercapitalismo di neo-mercato e reticolare
e biotecnologico, ma pur sempre basato sul profitto, è ben diversamente importante! Comunque evviva!
Ma allora si presenta anche una questione più grossa e più profonda, che mi ripropone un’altra
volta l’amico Guido Davide Neri (il quale però non crede al declino del capitalismo e tantomeno che
questo possa avvenire ad opera della tecnica, e che comunque poi ne verrebbe il “socialismo” e neppure
un “neo-socialismo”), ma s’intravede ad esempio in alcuni scritti dello stesso Tronti, e Cacciari 86 di
qualche anno fa, negli anni ’80: si può dire più o meno: <noi abbiamo fatto l’errore di attribuire al
capitalismo una serie di trasformazioni molto grandi e profonde dell’umanità, del suo pensare e sentire,
che in verità hanno preceduto il capitalismo consentendo anche la sua affermazione, ed esso le ha
sussunte magari dando talora loro una certa curvatura anche tenendole un poco nascoste nel suo profondo
e riproducendole un poco “dietro” e dentro di sé; ma adesso (secondo alcuni ottimisti in questo (per
molti) presunto visibile declinare del capitalismo) almeno in certi aspetti, queste dimensioni precedenti
restano e si riproducono un’altra volta – almeno la terza – , mostrandosi come le vere questioni grosse
della nostra condizione sociale (ed “umana”) in senso ampio, e noi ce le ritroviamo davanti. Adesso
dobbiamo affrontare proprio queste, permanenti dietro il capitalismo che comincia a cedere e ad
andarsene…87>. Ebbene qualcosa del genere intorno a noi qualcuno lo sussurrava già nel passaggio dagli
anni ’50 agli anni ’60. Ed il nodo non è tanto piccolo, e nemmeno facile da affrontare. Cosa si risponde a
costoro? Perché anche a partire da Marx qualcosa si può rispondere…

Di nuovo a proposito del trascorso “secondo operaismo politico”

Procedo ancora senz’ordine. Premetto: non lo dico per campanilismo, perché fra l’altro io sono
lombardo, ma sono tuttora convinto che Torino, poi città onirica, sia riuscita malgrado tutto ad essere il
centro e l’avanguardia anche del capitalismo industriale “classico” e manifatturiero, ossia del tangibile,
italiano; ossia di quello scientifico che negli anni ’60 chiamavano neo-capitalismo, taylor\fordista; e della

84
Ma c’è anche chi dice che nel tempo dell’effimera egemonia ed ondata politica operaia si è fatto proprio tutto ciò che serviva
al capitalista collettivo per tirare avanti per un altro trend: l’odierno.
85
Da Stato e rivoluzione.
86
Io sono stato molto vicino a Cacciari a partire da un certo suo articolo su Aut Aut (del ’66?) e da certi libretti a circa la metà
degli anni ’60. Malgrado già lì si vedesse nel taglio un poco tecnocratico il futuro sindaco…
87
Guido Neri però non vede alcun declino del capitalismo.

18
classe operaia e dei grandi gruppi sociali operai e delle loro lotte in quest’Italia arretrata, ed anche
della militanza operaia (ed operaista) e così anche dell’elaborazione di una politica di parte operaia.
Almeno dal primo dopoguerra fino all’inizio degli anni ’70, allorché si sentiva già la prossima “sconfitta”
storica e catastrofe dei movimenti che guardavano a quella classe-operaia. Ma, rivedremo subito, non
sconfitta della lotta internazionale di quegli operai, i quali finché furono “avanguardia di massa” fecero
passare nel capitalismo alcune delle trasformazioni fondamentali nelle quali tuttora ci troviamo
nell’ambivalenza odierna (nella quale, ripeto, adesso il maggior vantaggio l’ha il capitalista sociale e
collettivo): il capitalismo sa usare pel suo sviluppo le vittorie parziali dei suoi nemici contro di lui, ne ha
bisogno! Dall’altro lato magari, dal ’72-’73, il primato passò alla Milano delle grandi assemblee operaie
autonome88. Torino, coi suoi bellissimi dintorni, che chiamavo la città manchesteriana89, perché c’erano
tutti gli stabilimenti disseminati fra le abitazioni, non c’era ancora la tripartizione delle zone urbane. Però
erano stabilimenti frammisti in una città sabauda, ancora anche in buona parte monarchica! Che ancora
oggi considera Agnelli come il nuovo monarca. E forse i Savoia con la loro eredità erano davvero ancora
il suo bello! Invasa da quasi seicentomila ex-contadini soprattutto meridionali e maschi e piuttosto
giovani. Ma non c’era che una borghesia ristretta, una limitata piccola borghesia di ex servi di corte ed ex
barotti. Un deserto che si ravvivava un poco solo nei grandi scioperi. Io lavoravo con la Soris e Cominotti
e con la futura IRES. Andavo ad intervistare anche dei cosiddetti imprenditori da archeologia industriale.
Lasciamo perdere.
L’“avanguardia di massa”: la dizione… credo d’averla inventata proprio io e mi piace ancora. Essa
scandalizzò molti stupidi. A me pare che come un obiettivo si possa quasi riproporre oggi, magari con
altro un ossimoro: “l’élite di massa”? Élite dispersa e plurale… Tele-ricomponibile, ma sempre plurale.
Però magari non più qui! Avanguardia di chi? A quel tempo del proletariato al livello arretrato italiano.
Ma oggi? Nell’arretratezza italica odierna?
Orbene, a partire dal ’62 fino al ’65 in questa città sono stato un trontiano, un poco critico e talora
diffidente, e per certi aspetti lo sono ancora. Considero tuttora Tronti uno dei maggiori rappresentanti
europei di una certa ripresa internazionale post-stalinista di Marx e Lenin, della valorizzazione politica
comunista\collettivista degli operai, ed altro. Non poco altro. A prescindere da altri grandi nodi (come ad
esempio quello di quella che Tronti chiamerà “la rottura epistemologica marxiana” che anch’io dovrei
riprendere ben di più nel mio discorso, almeno come già si fece all’inizio degli anni ’60), la differenza
fondamentale di Tronti rispetto al “marxismo” allora corrente è stata per me la valorizzazione e la
modifica della più nota formulazione marxiana del “doppio carattere”. Ci sono nel feticismo del capitale
quattro o cinque grandi antinomie, una dentro l’altra. Dalle quali si traggono vari “doppi caratteri”.
Mentre in parte Marx e di più il marxismo storico sottolineavano soprattutto la dicotomia ed antinomia fra
lavoro-astratto e lavoro-concreto incluso nel primo, dunque in un discorso sul lavoro, e sul doppio
carattere del lavoro, Tronti spostava il discorso sul lavoratore, collettivo, e come classe operaia. Così
trovava anche in Marx qualche brano in cui si parlava del doppio carattere del “lavoratore”. Un’ipotesi
di lavoro… Era solo uno spunto, ma qui si toccava una “contraddizione” in Marx d’enorme portata perché
apriva la ricerca esplorativa di quella determinata e peculiare via d’uscita anche dal labirinto marxiano cui
prima accennavo (in più di un secolo di storia); e quindi il discorso veniva ad incentrarsi sul lavoratore
nel capitalismo. E dentro e contro. Tronti scriveva più o meno, “il lavoratore proletario è colui che
lavora ma può anche (almeno per un tempo limitato) rifiutarsi di lavorare, d’essere lavoratore-
specifico”, può anche andare contro se stesso. Magari, ripeto, un piccolo spunto, forse profetico, ma che
mi confermava un’ampia prospettiva, un poco utopica…
Fra l’altro Tronti poneva la questione del doppio-carattere, e dell’ambivalenza, anche con queste
altre parole: la “forza-lavoro, che dà il capitale, è la classe operaia in potenza”; a parte l’operaietà… Io
dico la capacità-umana-vivente lavorizzata e neo-merce è la grande classe parte in potenza. Questo punto
di partenza era decisivo, ed a mio parere ha una sua validità ancora oggi! A parte l’operaietà.
Si ri-metteva così in scena, sul proscenio, il lavoratore proletario ed operaio; probabilmente per
l’ultimo spettacolo. Allora si constatò che questo stesso lavoratore poteva contare ed esistere finché

88
Dei tempi di Scalzone; prima dell’arrivo di Toni Negri.
89
Già nel mio libro collettivo del ’67 io proponevo all’attenzione prima il passaggio alla “metropoli” (più o meno
manchesteriana) e poi quello nuovo in corso alla “città-regione”, chiacchierando magari con Magnaghi o con Greppi, e poi da
questa alla “megalopoli” che anticipava la città diffusa dispersa al di fuori, che molti constatano oggi. E poi le ho confrontate
con i successivi modelli di D. Bell e di Lévy, ecc.

19
esisteva la sua fabbrica, in senso pure volgare, il suo stesso stabilimento, il suo posto di lavoro,
l’attivazione del suo sistema di ruoli! Infatti, si vide, si era ben visto, in particolare in Europa nel ’18\’19,
che senza la fabbrica volgarmente intesa (ossia innanzi tutto il luogo di lavoro artefattivo e valorizzativo,
allora per lo più tangibile e collettivo), la stessa classe operaia di quel tempo si dissolveva e s’annullava…
Sorgevano allora nel primo dopoguerra fra l’altro ulteriori questioni: ad esempio, se esiste la classe
comunque in una qualche autonomia, come classe proletaria appunto pure soggettiva contro se stessa, se
esiste un’organizzazione opportuna, può esistere ancora davvero la classe proletaria? in via di
autoestinguersi in un progetto generale di nuova civiltà…? Progetto che ad ogni modo non ci fu. I
bolscevichi partirono e rischiarono con un progetto molto parziale, che poi non riuscì a crescere gran che
strada facendo, ma presto precipitò. Però fu comunque fondamentale pur nei suoi grandi limiti, anche del
bolscevismo storico come comunismo “operaio”. E magari: esiste la classe proletaria pure senza il lavoro
dipendente che io chiamo artefattivo?
La borghesia cristiana (prima protestante, però) e poi il socialismo, ribaltando la precedente
mentalità e costume ostili al lavorare ritenuto maledetto ed ignominioso, diffusero e promossero l’etica
del lavoro, ma anche molta stima del lavoratore, il quale si sacrifica per gli altri, accumula sempre più per
gli altri, ecc. L’operaio (professionale) eroe del lavoro accumulativo ed innovativo. Così lo videro anche i
socialcomunisti.
Parentesi. L’idea diffusa fra certi intellettuali sinistri che gli imprenditori industriali ed i padroni
stessi odiassero gli operai come tali è molto sbagliata. A Torino mi resi subito conto che se c’erano una
notevole quantità di padroni gretti e imbecilli, ce n’erano pure di “operaisti”: padroni operaisti! Ma non
era un paradosso. Poi certi comunisti come ad esempio noto lo stesso Garavini, figlio di uno dei maggiori
imprenditori tipicamente torinesi90… Altrettanto falsa era stata anche l’idea che i fascisti odiavano il
lavoro. In particolare poi lo stalinismo soprattutto esaltò la condizione proletaria come tale. Legato
all’operaità di mestiere, portò avanti una venerazione “artigianesca” e porotoindustriale della tecnica, che
non arrivò mai (fino a Togliattigrad, rimasta a lungo colà isolata) davvero alla grande industrialità e
tecnologia del taylorismo\fordismo, desiderata da Lenin, con la grande serie, l’automatismo spinto e
l’esoprogrammazione minuta e lo svuotamento degli esecutori? pure con questo?, ecc. Che ha cambiato
agli occhi delle masse occidentali “operaie” la visione della tecnica e della tecnoscienza del produrre e
della propria identità! Che negli operai-massa estratti dal proletariati contadino era già molto differente.
Questo ribaltamento è successo un poco in tutto l’est europeo e parti asiatiche dell’impero sovietico, onde
lì adesso c’è un iperproletariato meno svuotato (dal taylorismo) di quello dell’Occidente; cosicché lì
comunque attendono ancora qualcosa d’altro, mentre qui non aspettano più nient’altro che quello che c’é.
Comunque, tornando indietro: marxisti contro Marx?… Si, ma anche Marx, “ingenuo”, si affidava alla
tecnica (liberata dalla rivoluzione?) mica poco. Anche le forze soggettive marxiste non sembravano poter
portare gli operai contro se stessi ed oltre se stessi, per uscire dal suddetto labirinto. Io ho sempre pensato
che il clou di tutta questa faccenda si concentrasse in quest’alternativa di sogni: liberare questa tecnica
qui, come voleva chi era convinto che il comunismo\religione degli operai eroi avrebbe liberato l’uomo
dal capitalismo e così dal male, liberando la tecnica dalla negatività che il capitalismo le ha imposto, però
sostanzialmente facendo allora crescere questa tecno-scienza qui91; oppure dall’altra parte l’invenzione di
una tecnica e di una scienza completamente diverse, e di un modo di produzione e lavoro completamente
diverso, come sognavano pochi utopisti o profeti piuttosto disarmati, fra cui io stesso. Ma queste diversità
il comunismo reale (e religioso) storico non pensò mai sul serio nemmeno da dove cominciare ad
immaginarle. C’era fra noi anche qualche raro timido tecnofobo, però magari a sua volta un po’
scienziato… Il Panzieri del controllo operaio sulle imprese del padrone amava la Jugoslavia di Tito…: ci
andò, mi pare, nel ‘61 con la Beccalli, che forse veniva da lì. Era tecno-scientista e sviluppista anche lui,
ovviamente. Torniamo a noi allora.
C’è ancora una questione particolare un poco teorica sulla quale vorrei dire due parole. Il doppio
carattere è riferito alquanto al valore-d’uso della merce forza-lavoro, che io da molti anni preferisco
chiamare capacità-lavorativa-umana-vivente e calda. Merce specialissima. Ma qual é il suo valore d’uso,
che in questo caso specialissimo conta più di quello di scambio? Marx diceva e Tronti riproponeva: la sua
misteriosa “capacità di creare un valore maggiore del proprio valore”. Ed io aggiungo, sia nel suo

90
Sarebbe importante che degli storici facessero la conta su quanti grandi imprenditori in Europa e nel mondo siano stati col
comunismo!
91
Le forze produttive, quelle lì che ci sono, che liberate dai rapporti di produzione malefici si sviluppano magnificamente!

20
funzionamento attivante di breve, che in quello innovante di periodo meno breve. Si ma come? Perché?
Con che portata? Prerogativa di capitale-umano? Intanto da quel che Tronti ne ha scritto io dico che é una
questione che va studiata su livelli di realtà differenti, verticalmente articolata. Ad ogni modo, merce che
consumandosi riproduce con incremento anche se stessa?, e viceversa nel consumare? In fondo la
questione del feticismo del capitale e del proletario-operaio nella cosalità ci portava proprio qui! Io dicevo
e dico: questa prerogativa la merce specialissima ce l’ha non solo perché è vivente, e come tutto il
biologico nella sua carnalità (carne e sangue, diceva Marx…). Ma perché é “vivente-umano”! Allora da lì
solo si parte per arrivare in prima istanza alla psiche, alla mente, allo spirito...: alla soggettività singolare
e collettiva perché queste sono esclusive dell’umano, e quindi del valore-d’uso della capacità-vivente-
umana e non più animale. Sì ma comunque sempre come valore d’uso dal doppio carattere di una merce!
Concepita pel capitalista ed il suo sistema nel suo primo carattere; ma forse non nel secondo. Questo vale
anche per la “soggettività-operaia”, in fondo. Differente nelle varie fasi dell’industrialità e dell’operaietà,
come in quella prima transizione-interna si constatava molto facilmente. Semmai bisognerebbe
rovesciarla in soggettività-contro, alternativa ed autonoma, a partire dal suo secondo carattere. Come
allora provammo a fare! Magari! Perché finora questo é riuscito solo un paio di volte nella storia e solo
temporaneamente; però se non esci dal capitalismo ti ritrovi che da un lato hai cambiato “solo” qualcosa
in basso in questo sistema (però l’hai anche cambiato, questo l’hai fatto); e dall’altro hai mutato anche
certi contenuti bassi di questa stessa merce specialissima, che rimane tale! In fondo é questo che Marx
intendeva quando diceva che la maggior forza produttiva, ed innovativa, del capitale é la classe operaia
rivoluzionaria! Datori anche conflittuali di capitale. E’ così anche rispetto al suo stesso valore
d’uso\utilità specialissimo ed esclusivo. Personalmente sono rimasto sempre legato alla questione del
doppio carattere del lavoratore, proletario, professionale o massificato: da decenni assumo il punto di
vista di un’ambivalenza: oggettiva nel senso che ipotizzo la realtà capitalistica come ambivalente, anche
se poi prevale una delle due facce; ed ambivalenza nel senso soggettivo che mi sforzo d’avere io uno
sguardo ambivalente. Il legame fra ambivalenza soggettiva ed oggettiva, diciamo, passa per me ancora per
la questione del doppio carattere; però rivista.
Ribadisco concludendo: questo doppio carattere qui, questo del lavoratore operaio contro lo stesso
lavoro, magari contro se stesso, diventò pure qui da noi nel ‘900 il fulcro di un operaismo peculiare, che
si ritenne anche “operaismo politico”. Al quale alla fine degli anni ’50 da noi qualcuno ri-pensò,
passando magari anche per la Resistenza. Proponendo il tardivo “secondo operaismo politico”, all’inizio
assolutamente minoritario.
Infatti, crebbero in Italia almeno due diversi operaismi, secondo due vecchie tradizioni
internazionali. Uno normale, diffuso ovunque, mondiale, d’origine borghese e cristiana, piuttosto
populista, il quale vide gli operai come parte debole della società capitalistica, le vittime deboli,
bisognose d’aiuto, di sostegno, di solidarietà umana, ecc. (ma ci sono anche gli oppressi forti, con
potenzialità di uscita…, questo li interessava poco!). Questo operaismo amava (e tuttora ama) i proletari,
la proletarietà stessa e di più l’operaità di mestiere: li esaltò ed ancora li esalta (perfino in certe
interpretazioni del General-Intellect!!…) nella loro erogazione collettiva e combinata nella cooperazione
di forza-lavoro e di capacità sia esogena che endogena (almeno un tempo…), “in produzione”, dentro il
grande e crescente macchinario sviluppato dalla tecno-scienza92, producendo ed accumulando capitale, la
ricchezza come capitale, nei ruoli di fabbrica; ma non solo capitale tangibile. In cambio di salario-di-fatto,
e consentendo così quasi a tutti quanti di sopravvivere, a diversi livelli di reddito e di consumo. Operai
deboli ma altruisti… Operai eroici: il culto di questo immaginario eroismo operaio, culto peloso
strumentale… Allora, nessuna estinzione della classe operaia in programma! Ripeto che così erano anche
gli stalinisti. Il sindacato cercò di far leva su questo, rappresentandolo, anche o soprattutto a Torino.
Ma contro questo crebbe un altro operaismo che diciamo e si è detto “politico”, che, già con la
socialdemocrazia della Prima internazionale ma poi secondo l’esempio bolscevico, vedeva gli operai
come una forza, una grande forza innervata sull’intera articolazione della produzione ed accumulazione
industriale del capitale e del capitalismo. Costoro compresero che questa aveva potenzialità anche nuove
di essere rovesciata in una grande contro-forza. Così se gli operai (“magari!”) potevano giungere a negare
se stessi, la dimensione della loro lotta poteva superare i limiti del tradeunionismo e allora poneva la
questione del potere generale sull’intera società da togliere al padrone collettivo per trasformarla
radicalmente, per cambiare radicalmente lo stato di cose esistente, il corso della storia: la questione della

92
Abbastanza come il soldato\operaio di Jünger.

21
capacità di incidere nei centri di decisione e comando effettivo sull’intera società, magari cominciando
con l’impossessarsene, e che per questo obiettivo che poi deve articolarsi man mano in una successione di
grandi scopi, pone il partito, come organizzazione politica di una parte: della classe-operaia come grande-
parte93. Cadendo anche in una tradizione organizzativista del primato del partito su tutto, anche sugli
scopi… Cambiare la direzione della storia. Il che ancora oggi per Tronti costituisce la vera politica, quella
che oggi è crollata! La questione del potere, proprio del potere operaio per abolire e superare questa
società era la cosa più importante! Ma non necessariamente secondo il modello leninista, che
presupponeva l’élite ed i rivoluzionari di professione che intervenivano anche dall’esterno portando
capacità d’elaborazione e teoria e magari ideologia e religione. Magari religione implicita, forse
inconsapevole…! Questo primo operaismo politico si impose fra socialdemocrazia e primo comunismo-
operaio. Ed ho già ripetuto che esso nei suoi momenti più avanzati non amava né il proletariato e la
proletarietà, né i proletari-operai e la loro operaità, tantopiù “professionale”, perché motore vivente del
capitalismo e della sua società di classe specificamente conflittuale. Volevano superare il capitalismo
anche superando le grandi classi “dicotomiche”. E lo stato…
Premetto di nuovo, sia il secondo operaismo politico dei primi anni ’60 che i suoi eredi non si
intesero mai con marxisti innanzi tutto italiani perché mentre questi ultimi erano irriducibilmente
economicisti loro invece erano “politicisti” ed usavano “politicamente” anche la dimensione del salario-
di-fatto e dell’economicità capitalistica; e questo è stato importantissimo.
Orbene, la cosa più importante che va sottolineata perché ha qualificato il secondo operaismo
politico differenziandolo radicalmente dal primo, come ho già ripetuto, è stata l’avvento sulla scena ed il
divenire gradualmente maggioritario dell’operaio-massa”. Lo slogan dell’operaio massa era “più soldi e
meno lavoro”: un certo nihilismo al livello basso di realtà (che poteva anche combinarsi con religioni
varie e diverse ad altri livelli) da un lato faceva piazza pulita del sacrificismo tecno-scientista e
produttivista, degli eroi del lavoro, ed aprendo all’edonismo; e che fino ad un certo punto si inscriveva
nella linea di salari meno bassi del fordismo pure nostrano, linea che poteva essere forzata oltre certi
limiti aprendo prospettive più radicali. Orbene il “secondo operaismo politico” nella transizione dei primi
anni ’60 è ripartito da qui; ma tenendo conto e facendo leva sulle nuove differenze del capitalismo e
dell’industrialità e dell’operaietà. Il secondo operaismo politico fra l’altro comprese che nelle condizioni
(fordiste) eccezionali e nell’ambivalenza degli anni ’60\’70, anche per la rapidità d’alcuni aggiornamenti
tardivi ed imitativi nostrani, la rivendicazione salariale spinta oltre certi limiti solo apparentemente era
questione economica ma in vero diventava politica, e poneva al solito la questione del partito 94. Magari
come armamento leggero, sarà detto dopo… Ma anche l’operaismo politico si sdoppia: c’è il primo dei
primi anni ’60 che pensa in grande anche perché molti di quei pochi fanno riferimento al PCI…; e poi c’è
il secondo periodo dell’operaismo politico post-sessantottesco dei partitini (che ebbe per leader Toni
Negri) che si muovono su una scala di lotte ed interventi molto più grande e quindi con problemi nuovi e
diversi, ma fanno riferimento a se stessi e proclamandosi loro il nuovo partito della classe (però piuttosto
coi soliti vecchi modelli della banca del 1910): cosicché erano contro il PCI, ed il quadro istituzionale ed
istituzionalista in cui quello continuava a muoversi: nel decadere dello stato democratico dei partiti
parlamentari italici, verso l’autoreferenza.
Aggiungo subito che a mio avviso95 pure per il coesistere delle due suddette diverse e contrapposte
concezioni operaiste, populista e politicista, c’erano negli anni ’60 due differenti atteggiamenti sulla
posizione e condizione operaia, ed entrambi provenienti da molto lontano. Il primo in Italia assolutamente
prevalente dal ’22, dal ’45, dal ’48 e dal ’55 di coloro che commiseravano e piangevano i poveri operai,
miseri, laceri e sempre sconfitti: voglia di piangere? una sinistra sempre piangente che vedeva il crollo
finale dell’umanità industriale provocato dai monopoli, nel ristagno, ecc. e magari (come la FGCI)
sperava nel terzo mondo, nella negritude, ecc. Un secondo atteggiamento, “ambivalente”, risalente alla
piccola ripresa di lotte operaie dal ’57-’58, dall’avvio del boom fordista (contemporaneo ai fatti di
Polonia e soprattutto d’Ungheria), e tipico di giovani intellettuali (fra i quali c’ero anch’io con un gruppo
di compagni), ma anche in maniera diversa di giovani operai – le “giovani forze”, scrissi io – che pur
prendendo atto della durissima nuova “condizione operaia” dentro e fuori degli stabilimenti, come ho già

93
Le espressioni “grande classe-parte”, “classe come grande-parte”, in una dualità, sono di Tronti.
94
In Italia negli anni ’60\’70 fu partito del salario più la DC.
95
Come colse M. Revelli in un suo attacco a Tronti, credo nel ’92, su un Quaderno del Manifesto, in cui si disperava
sull’olocausto degli operai.

22
ripetuto, vedeva anche l’aspetto positivo della sua ulteriore enorme forza, potenziale contro-forza,
magari a certe condizioni, pure politico-soggettive, disponibile in una certa parte (quale? quanta?) per
una lotta contro; in partenza proprio contro gli aspetti più immediatamente negativi e dolorosi della
nuova situazione e condizione, ma volendo usare il fatto che gli operai erano pur sempre gli attivatori di
quella anche nuova e ancora cresciuta immensa potenza. E magari non solo potevano usarla anche per
sé, ma poi magari perfino, in significato alto, “contro di sé”, oppressi forti!… Così l’inizio del primo
editoriale su Classe Operaia Tronti riprendeva i cinque o sei anni di esperimenti ed esperienze di
mobilitazioni, di nuovi gruppi o piccole élite, e prime lotte di nuovi militanti giovani, espressi molto
spesso dal nuovo e giovane operaio-massa (molti ex-contadini proletarizzati ma scolarizzati)… Così da un
lato: basta con quel compiacimento perpetuo della sconfitta, ma cercare come meglio usare questa forza!
E dall’altro: non puntare più tanto sull’anello debole del capitalismo, ma sull’anello forte della classe
operaia… (e qui Torino allora…: sono ancora chiuso qui da allora). “Cambiare segno”.
Tronti “in politica” era “togliattiano”. I trontiani, riprendendo il “dentro e contro” e questo doppio
carattere qui dei lavoratori, proposero nel ’64 questa seconda e ben più ambiziosa strada, in una
situazione nuova della fabbrica e della società-fabbrica in Italia. Che, pur sviluppista, costringeva a
problematizzare il tecnicismo e lo scientismo, e che aveva riferimento al punto anticipatore e più avanzato
della lotta operaia in Italia che era allora ancora Torino: ci fu dal ’62 al ’65 un certo strano asse fra alcuni
romani ed alcuni torinesi. Convergemmo ad esempio sulla constatazione che la fortissima pressione
salariale, la quale per le condizioni del cottimo comportava un forte e complesso risvolto organizzativo,
con lo slogan “più soldi e meno lavoro”, colpiva il fatto che nel salario il padrone (comprando ed\od
affittando col contratto) pagava i gesti e così “la mano” o “il braccio” ma in vero poi consumava
accumulativamente tutto il corpo del salariato, inclusa la psiche, la mente, lo spirito, il sapere e la
conoscenza anche endogena alla classe: ed incluso anche il corpo sociale vivente dei congiunti (a
cominciare dalle casalinghe… e dall’intera comunità operaia residua): senza riconoscerla e pagarla.
Inoltre legato a ciò colpiva appunto il fatto (già denunciato da Marx) che il padrone collettivo, sociale,
pagava il singolo ma usava e consumava il lavoratore in una cooperazione collettiva integrata e
macchinizzata, di cui le condizioni organizzative e tecnologiche e scientifiche e il macchinario, il lavoro
trascorso, erano di sua proprietà, però erano prodotte, attivate e innovate continuamente dall’operaio di
fatto collettivo e ricomposto ed a sua volta sociale e conflittuale (la partecipazione conflittuale allora era
studiata anche dai politologi); e tutto ciò non era riconosciuto e pagato che in minima parte. La forte
pressione sulla contrattazione collettiva del salario, ma a Torino anche sull’organizzazione del lavoro e
dell’impresa96, puntava a togliere al profitto una parte delle sue fonti, ed una fonte del potere capitalistico.
A ciò si univa la componente keynesiana fordista per cui (fra l’altro) allora l’alto salario incrementava
l’occupazione, che dava ulteriore forza97… oltreché consentire una maggiore copertura degli alti costi
della riproduzione della capacità-umana ancora a carico del proletariato: che al livello dei singoli, delle
famiglie, proprio non ce la poteva più fare (fra l’altro ormai la tecnoscienza l’aveva in mano il padrone!) a
riprodursi da solo. Su ciò insistevamo nel nostro intervento di mobilitazione, e questa riappropriazione
nell’intensità ed ampiezza che raggiunse in quelle lotte divenne pel sistema italico più che altrove
questione “politica”98. Fin che durava l’impresa processiva… Inoltre bisogna sottolineare la politicità
intrinseca ai rapporti ed ai movimenti che andavano crescendo, nei confronti del dominio, e così pure lì
dentro una certa risoggettivazione. Malgrado un’ambivalenza (il mancato cambiamento istituzionale, il
consumismo, ecc.) che poi consentirà al capitalismo ulteriormente rinnovato (l’odierno
ipercapitalismo…) già dagli ultimi anni ’70 un suo uso di quasi tutto quanto ciò.
E’ stato detto che il comunismo è il movimento che distrugge l’ordine delle cose presente. Tuttavia
fra pensiero negativo ed una qualsiasi idea di comunismo rimane forse una divaricazione: alla
prospettiva del comunismo si richiede l’indicazione, almeno in negativo, di alcuni grandi scopi. Almeno
provvisori.
Quest’altro doppio carattere (del lavoratore…) allora è pure al centro della cosiddetta proto-
trontiana un po’ scandalosa ma importantissima “strategia del rifiuto”, qui il nichilismo attivo
nietzschiano… andava ad incontrare una sorta di nihilismo (fordista) operaio. Questa costituiva forse la

96
Che sboccherà nella rivendicazione del “nuovo modo di fare l’automobile”, cominciando con le isole, il job enlargement ed
enrichement, ecc.
97
Fra l’altro nel ’73 farò la mia laurea nell’indirizzo economico sulle curve di Phillips.
98
A mio parere l’esempio di questa riappropriazione influirà pure sul primo femminismo.

23
parte più importante e provocatoria dell’inizio del periodico Classe Operaia, e già prima una delle due
anime dei Q.R.. A mio parere è proprio oggi uno degli aspetti di maggior portata ed anticipazione da ri-
esplorare. Da ben pochi intellettuali della sinistra notata e soprattutto capita99. Riesplorare da parte degli
storici. Anche rispetto al futuro di allora ed all’oggi. Io sono stato uno dei pochi a caldeggiare ed un poco
a suggerire la strategia del rifiuto, anche perché talora la ritrovavo in certi comportamenti di quegli
operai: ad esempio, lotte a gatto selvaggio che non rivendicavano niente. Però attraverso di esse cresceva
una presa operaia, un potere operaio dal basso, sulla produzione e sulla sua organizzazione: mancava
comunque sempre l’incontro con un potere dall’alto, mancava il partito della classe operaia…, ma intanto
questa crescita di un potere operaio, piuttosto negativo, era un grande obiettivo e risorsa. Il pensiero
razionale dice: prima gli scopi e poi i mezzi per conseguirli e quindi l’organizzazione migliore per quegli
scopi. Lo scopo principale era il potere. Ma ci si può chiedere il potere non è a sua volta un meta-mezzo?
Una meta-funzione? Per quali meta-scopi? Questo potrebbe essere un problema. Dicevo, un “potere-
negativo”. Infatti la questione del potere ha due aspetti: quello negativo è lo scopo di togliere il potere ai
capitalisti i quali senza il potere di decisione generale sul sistema non possono più tenere insieme fra loro
i momenti del sistema, ed allora negare un grande scopo dei capitalisti. Ed il “potere-positivo”, ossia la
risorsa per elaborare e realizzare scopi propri.
Intanto lo scopo medio-basso dell’organizzazione era prevalentemente negativo: togliere ai
capitalisti il potere, tutto quanto il potere, poi (solo poi?) il movimento dei proletari avrebbe inventato il
mondo alternativo trasformando la società-fabbrica ed estinguendo anche se stessi… In Russia nel ‘919
ciò era stato bloccato al primo passo! Essendo stata fermata al primo stadio quella rivoluzione non
possiamo valutare la potenzialità del suo progetto, l’alterazione non poté iniziare, e neppure la
trasformazione e quindi lo sviluppo della nuova forma alternativa. Per questo non dobbiamo cadere in
certi equivoci quando cerchiamo di capire la strategia bolscevica ed in specie leninista (del Lenin che si
rifiutava non solo di scrivere la storia…, ma soprattutto di prefigurare la società-comunista) e trotzkiana
(proprio a partire dalla “rivoluzione permanente”). Ma adesso vorrei sottolineare qualcosa a questo
riguardo. Ho iniziato questo testo scombinato parlando di Màdera e della sua contrapposizione a Tronti.
Però il fatto è che la “strategia del rifiuto” era già anche un’anticipazione magari parziale, embrionale,
dell’orientamento maderiano stesso e di certi atteggiamenti dei giovani d’oggi. Questo oggi va
valorizzato! Ripeto, alcuni di noi dicevano: se con l’organizzazione si prendono nelle proprie mani il
potere di decisione ampia sul sistema, poi questi movimenti che si risoggettivano crescendo in questa lotta
si inventeranno e costruiranno il nuovo mondo, la nuova civiltà… In vista di altre ulteriori, successive
rivoluzioni. E si pensava che già i bolscevichi nel ’17-’18 ponessero abbastanza così la questione! Falso?
Si vedeva la storia dell’Occidente negli ultimi millenni come un succedersi d’ondate rivoluzionarie (il che
però non significa necessariamente progressive, tutt’altro) mosse da nuove minoranze ulteriori contro la
“stasi” del movimento di ieri che ha vinto, di maniera che non solo la trasformazione evolutiva, o
l’alterazione, ma la stessa rivoluzione non si fermava mai! E si notava il procedere della rivoluzione da
una minoranza che quando poi vinceva diventava conservatrice e “statica” e difendeva il nuovo ordine da
nuove minoranze “rivolutive” nate sul nuovo terreno conquistato ieri100.
Tronti insisté anche sull’unilateralità contro l’universalismo dei social-picisti democratici, e fece
bene.
Operaità. Qualcuno101 ha cercato (negli anni ’80) di farmi passare per un veneratore delle “mani
callose”. Niente di più falso. Chi ha abbozzato per primo fra noi discorsi sull’intelligenza collettiva
diffusa, sull’imprenditorialità e sull’innovatività diffusa, sulla forza-invenzione poi ripresa da Ferruccio
Gambino (ancora piemontese), e altro? Fin dagli anni ’50 degli operai stessi mettevo in evidenza tutto
l’altro che stava dietro la mano. Già nel 1960 conricercavamo sui tecnici, sugli stessi impiegati
amministrativi, ecc. Nella loro sopravvivenza complessiva. E sul territorio. La fabbrica nel territorio, dove
tutto sta insieme102… Il mio interesse per la “soggettività operaia” medesima veniva da qui. E non c’era
proprio niente di populista, ma si trattava sempre del rapporto reciproco fra altri settori della classe
operaia e gli operai...
99
Qui purtroppo il “discorso culturale” e la ricerca di una copertura nella cultura accademica di sinistra non consentì granché di
chiarire…
100
Questa teoria molto generale si è sviluppata ben prima di Deleuze e dello stesso Nietzsche.
101
Pure Magnaghi, purtroppo, nell’introduzione a un libro di due signore che attingevano proprio ad invenzioni mie… ”Dopo
Metropoli”.
102
Con Mottura, mettevamo in piedi un progetto sulle “zone”…

24
Per quanto l’Italia arrivasse tardi e fosse un poco tutto un revival, tuttavia adesso non si trattava più
di lottare in primo luogo contro l’arretratezza del nostro capitalismo, ma contro il capitale sociale più
sviluppato e maturo della Fase classica, e nella società capitalistica.
Una cosa che pochi hanno colto è che in vero anche fra gli operaisti politici che furono per qualche
anno miei compagni di strada, ben pochi e poco cercarono di chiedersi e di comprendere chi erano gli
operai! Io mi sono sempre sentito diverso da quasi tutti gli altri perché cercavo di capire cos’era
l”operaità”. Ambivalente. Nei miei libri perduti la questione era assai questa! Non interessò quasi
nessuno. Io avevo elaborato una teoria ed un metodo d’inchiesta partecipata, una prassi, che consentisse
di rilevare ed andare più in fondo in questo. Faccio quest’ipotesi storiografica: l’operaismo politico degli
anni ’60-’70 si mosse tenendosi coi suoi giovani al centro di un grande poligono costituito dall’operaità
e dal movimento operaio, dalla cultura esplicita (umanistica non poco) e dalla politica-istituzionale,
dalle generazioni (donne e ambiente ancora non si coglievano) interrelate fra loro; ma allora tenne questi
grandi snodi sullo sfondo, non si preoccupò o non fu in grado di tematizzarne e di approfondirne
adeguatamente e con coerenza alcuno.
Una delle cose cui tengo di più è stata già alla fine degli anni ’50 la maniera in cui proposi la
questione dell’“autonomia degli operai”, del “movimento degli operai103”, che andava crescendo, dalle
istituzioni del Movimento operaio: il che non significa che questo a sua volta dagli operai non fosse usato,
fin dove un poco ci riuscivano! E proprio per questo possiamo parlare di mancanza di una direzione
politica e di uno sbocco politico almeno un poco adeguato: questo uso da fuori era la delizia ma anche la
croce della faccenda. Senza autonomia non ci sarebbe stato niente, ma senza capacità di usare la politicità
tutto era comunque plafonato, anche il potere operaio.
La cosa che in quegli anni risultava più provocatoria nei confronti dei comunisti-storici era il
prendere in contropiede la contrapposizione bolscevica fra spontaneità e organizzazione buttando lì
queste due parole “organizzazione-spontanea”! La spontaneità dell’inizio degli anni ’60 era già di nuovo
almeno un poco “organizzata”. Nei miei scritti del ’60 e ’61 sul ritorno delle lotte alla Fiat quello che
mettevo più in luce era che i nuovi scioperi erano più forti dove c’erano meno compagni.
L’organizzazione ripartiva dal basso. E solo dopo qualche anno i “vecchi” compagni (che chiamavano gli
immigrati “i moru” e per questo isolavano i nuovi quadri chiamandoli “capelloni”, ed erano spesso
all’inizio xenofobi se non razzisti) si “ricomposero soggettivamente”, risoggettivizzandosi.
L’organizzazione partiva dal basso, nel mobilitarsi sulle piccole cose; sì, ma poi per crescere
qualitativamente aveva bisogno di qualcos’altro. Ma subito come qualche mobilitazione partiva, anche su
questioni minimali, cominciava ad affacciarsi la questione dei militanti, magari militanti nuovi, di nuovo
tipo, qualcosa d’embrionale in questo senso si presentava quasi sempre, si ritrovava di nuovo già lì. C’era
sempre da chiedersi se nella prospettiva storica era mai davvero esistita, almeno in Europa, la cosiddetta
spontaneità allo stato puro. Anche in questo grande ricambio taylorista della composizione di classe che
faceva entrare nel grandissimo stabilimento semi-automatico ad esempio prima contadini cattolici veneti e
poi sempre ad esempio, pugliesi, calabresi, ecc. Si sentiva che fin dalle origini storiche il mondo dei
lavoratori proletarizzati e diversamente operaizzati aveva avuto sempre a che fare con forze soggettive
anticapilistiche più o meno organizzate, i cosiddetti “portatori di coscienza” o “formatori” di parte, con la
loro propaganda, ecc. Malgrado tutto. E che fra l’altro l’esperienza del lavoro industriale classico dava
agli immigrati da mondi altri nuove chiavi e risorse interpretative per confrontarsi con predicazioni
ideologico-politiche anche vecchie, antiche, ritrovandoci ora qualcos’altro... e ricomprendendo
qualcos’altro, magari ex-post. Cosicché la classe e gli stessi proletari operaizzati e le forze soggettive
anticapitalistiche sembravano comunque essere andate avanti insieme, talora perfino quasi coincidendo...
Quasi! Ma talora proprio no. Ecc. E’ una bella storia. Questo è il punto! Sottolineo pure che questo
“secondo operaismo-politico”, in specie di Classe Operaia, proprio nella sua più forte differenza ed
ambivalenza, fu quasi per niente avvertito e tantomeno capito dall’intellettualità sinistra italica che
appoggiò i Q. R. e poi Classe Operaia. Si videro chiari se non altro alcuni grandi limiti dell’intellettualità
di sinistra italiana, sia d’anima umanistico-storicista che scientifica… Non capirono quasi niente!
Apprezzarono solo gli aspetti più deteriori ed in fondo vetusti: tradizionali, ciascuno nel suo filone.
Sostennero gli uomini che in fondo tra noi avevano meno da dire e ripetevano vecchie solfe. Questo è
importante! L’aspetto “culturale” e culturalista più tradizionale. E proprio questo non è ancora finito
neppure oggi; lo si vede non solo nelle commemorazioni.

103
Come ben diceva Eugenio Delpiano.

25
Soltanto quattro gatti nell’operaismo politico e dintorni riuscirono a cooperare un pochino e a
confrontarsi ricercando e sperimentando qualcosina di nuovo: in notevole isolamento; se non fosse stato
per molti militanti, pure militanti operai di vecchia ma anche di nuova maniera d’erogazione di capacità-
lavorativa… Questione ancora grossa.
Gli intellettuali si scandalizzavano sulla “rude razza pagana” esaltata da Tronti senza vedere che
malgrado tutto, nella sua “ingenuità”, questa dizione coglieva una certa dimensione nihilista dei nuovi
operai unskilled “fordisti” ed unilaterali, e propensi all’iperconsumo, all’edonismo e pure alla
distruttività104, che il padrone strategico ha utilizzato poi, fino ad oggi; e che di lì ci era necessario passare
per cercare di avviare un’uscita dal feticismo del capitale! Ciò è appunto da vedersi e riscontrarsi
soprattutto nel grande e chiarissimo slogan “più soldi e meno lavoro” che riassume l’essenza dell’operaio-
massa della stagione taylorista classica.
Invece per me e qualcun altro il grande nodo problematico e di divisione stava a questo riguardo
semmai nello slogan “la classe operaia come classe politica”, la classe sempre necessariamente
strategica, che sempre anticipa i capitalisti, rispetto alla quale il partito (di quella classe) bastava che
s’incaricasse della tattica, e via! Così poi il partito come armamento leggero. E laico. Col PCI? Ma d’altra
parte la massa operaia non prendeva tanto sul serio i partitini: ne usava alcuni per scopi che restavano
circoscritti! Allora solo e proprio così alcuni con Tronti proposero la classe come strategia e il partito,
storico, il vecchio PCI, come tattica. D’altronde, di contro, dicevano gli altri, se il partito nuovo
(conservando però già la forma del vecchio) doveva svilupparsi, non era inevitabile che fosse prima un
(vecchio) partitino? E non diceva Mao che il dovere della minoranza (vetero) comunista\collettivista era
di diventare maggioranza? E bla, bla, bla?
E la strategia di questa classe operaia era vista tendenzialmente appunto come quella “strategia del
rifiuto”: una faccenda un poco oscura che creava anche fraintendimenti. Molti non avvertivano tutta
l’importanza dell’appropriazione operaia di potere, del potere, né in negativo, né in positivo e la politicità
di ciò. Allora soprattutto da parte di alcuni si chiedeva: perché, la classe in senso marxiano e
“dicotomico”, come una parte di due in conflitto, (quand’anche non i singoli operai raggruppati, ma la
classe operaia – ma cos’era? – ), sarebbe “la classe politica”?, e come?, e con che conseguenze e
prospettive. Ecc. In quel momento storico preciso e particolare, eccezionale per combattività e un poco
anche per antagonismo di massa, e non solo in Italia. Si diedero risposte anche un poco diverse che si
attuarono negli anni successivi e dal ’67 al primo ‘77. Rimase anche scetticismo, perplessità. Ad alcuni
sembrava che classe già più politica fosse invece quella capitalistica. Ma secondo quale significato di
questo aggettivo fondamentale? “politica”? Ed in fondo è peculiarmente in questo che l’operaismo-
politico ritenne di potere essere o andare “oltre Lenin”. Ma ripeto che di Lenin oggi gli ex leninisti non
parlano. E’ perfino ridicolo!
Tronti mi pare fin dal ’63 cominciava a dire qualcosa nella direzione del partito come armamento
leggero! E poi laico. Comunque: “linea ed organizzazione”… Dunque: si voleva uscire dal modello della
banca del 1910! Che in vero forse fu più tipico di socialdemocratici e staliniani che non dei bolscevichi
almeno per un aspetto decisivo: i quadri medi ed anche la base bolscevica non doveva essere fatta di puri
esecutori stupidi, ed all’inizio non lo fu!! E questo fa un’enorme differenza dal taylorismo.
Ad ogni modo, da un lato ci si disinteressava della dimensione associativa dei proletari social-
comunisti, pure importantissima, ma da spostare altrove. Ma dall’altro cos’era questa “linea”? Come già
in tutta la tradizione social-comunista operaia storica, il partito rinnovato veniva sempre posto come
“organizzazione”, il grande strumento, il grande mezzo: ma per cosa? Ma? Ho già risposto: per il potere,
negativo ed anche positivo! Ma per cosa il potere? Per quello che il movimento nel suo crescere
soggettivo vorrà… Se si ha presente la dimensione religiosa, soteriologica (dirà Cacciari), della tradizione
socialcomunista, questo silenzio sui grandi-fini diffondeva perplessità e grandi freddezze se non ripulse.
Ripeto che molti sottovalutavano la questione del potere, della conquista operaia di potere, che giunse a
livelli prima mai immaginati, ma poi appunto: poiché solo saliva dal basso, si fermò. Lotta di classe
operaia per il comunismo… Per la rivoluzione comunista. Bum! Cioè? Di nuovo, la rivoluzione
comunista che intanto mira a strappare il potere ai padroni che non possono farne a meno e far precipitare
in una crisi radicale il capitalismo e potere per cambiare il corso della storia… Non gli operai come
gruppo sociale, ma la “classe operaia” nel suo movimento di lotta che prendeva potere era la strategia!

104
Mai ecologisti, non pochi mandavano le mogli a battere il marciapiede per i “più soldi…” ed i più consumi, e queste ci
andavano senza protestare granché…, e magari andavano a farsi la loro giocatina periodica a S. Vincent…

26
Non una soggettività qualsiasi, ma “soggettività operaia”, seppur nel doppio carattere del valor-d’uso di
una merce. La lotta di classe operaia crescendo avrebbe mano mano posto sul tappeto gli ulteriori
obbiettivi! Purtroppo il “poi” operaio non c’è mai stato! Come intendono dire oggi quegli scienziati che
dicono che la natura è evolutiva, mentre solo l’umanità è rivoluzionaria (rivolutiva) ed è passata
attraverso continue rivoluzioni, e precisano che la rivoluzione non è questione di materia, di contenuti
materiali, ma questione di forma!! Però sul piano della forma della società capitalistica da “distruggere”
si poteva presumere che data la forma del sistema e delle sue grandi negatività e malvivibilità, vari di
questi scopi, soprattutto in partenza, sarebbero stati abbastanza precedibili e predicibili! Ma la questione
del potere era la condizione per realizzare qualsiasi obbiettivo. Certi scopi “iniziali” sarebbero stati
magari una rettifica forte d’obbiettivi intermedi mobili e transitori e temporaneamente finali, ma
comunque quelli (controversi…) del comunismo storico\religioso, dopo il disastro del “socialismo reale”,
ossia dello stalinismo? E dei suoi obbiettivi? Certo, magari c’era il lato tattico, il rischio dell’isolamento,
una sorta di politica delle alleanze… non solo per la proprietà formale e non solo per proprietà dei mezzi,
non tanto per la pianificazione centrale statale e la proprietà privata di stato, non per l’apparato
burocratico, ecc. Comunque gli scopi restavano impliciti. Il giusto rifiuto di “prefigurare” la civiltà
futura ha comportato il rifiuto di pensare e proporre degli obbiettivi strategici espliciti. La classe
strategica si muoveva nel crescere della strategia del rifiuto. Che, ripeto ancora, non era tanto questione di
rifiuto d’obbiettivi e di scopi. Ma di fare intanto crescere potere in vista della loro realizzazione. Però
innanzi tutto questione del rifiuto di offrire al padrone grandi rivendicazioni, valoriali in più sensi, sulle
quali quello potesse aggiustare la sua risposta solo come pura riproduzione immutata dal medio raggio in
su del suo sistema! Ma le lotte, le mobilitazioni in lotte aperte partivano sempre da obbiettivi, anche
negativi (contro questo o contro quello), di livello basso di realtà. Il “miglioramento”, l’”innovazione” è
qualcosa che per sua natura si proponeva al padrone, che spesso introduceva lui il cambiamento: il
padrone arretrato costretto, quello avanzato magari di buon grado… Entro certi livelli e dentro certe
compatibilità. E questo era anche il senso dello slogan “prima la classe operaia”… Nel senso che essa si
mobilitava per prima e il padrone arrivava dopo, davanti alla forza doveva accettare di introdurre
trasformazioni: che partendo dal basso potevano salire. Magari. E che però in un secondo tempo
servivano più a lui! E’ la questione dell’uovo e della gallina?: ma intanto spostare l’accento su questo
“prima”! Questo era il versante in cui più chiaro era il ricorso alla scienza ed alla scientificità e alla critica
delle ideologie.
Ma c’erano trasformazioni interne al movimento che la classe stessa, ovvero il proletariato, per
crescere anche contro se stessa “doveva” realizzare “autonomamente”, in specie trasformazioni
soggettive, di soggettività anche collettiva, che in parte nel movimento delle lotte già avvenivano!
Risoggettivazioni. Del tutto spontanee? Endogene? Certo, si sottolineava la portata formativa del crescere
del movimento di lotta stesso. E qui sia l’uso della scienza che la critica delle ideologie a mio parere
poteva e doveva combinarsi con l’ideologia\religione: per mobilitare in specie, per avere la forza: non
solo la forza-invenzione, ma la forza-trasformazione! C’era quest’ambiguità scabrosa, difficile da non far
precipitare dal filo del rasoio su cui era costretta a stare. A mio parere non si faceva politica in quella (e
questa) società riferiti a soggetti di massa come la mitica classe operaia senza un certo uso (laico?) della
dimensione ideologico-religiosa! Ma già il partito rinnovato doveva essere leggero e laico; tanto più per
noi che partito non eravamo! Solo lo strumento, quindi. Ma allora cos’era la linea? Fino dal ’60 noi
dicevamo a Torino: la linea è il metodo. Nel ’63\’64 però il contesto era già diverso. Tuttavia la linea era
la continua rielaborazione contro-funzionale di quest’atteggiamento! Niente esplicitazione di grandi fini,
rifiuto (nietzschiano) dei valori come tali: di qualunque cosa si ponesse solo come “valore”. E comunque
prevalenza dei desideri sui bisogni: semmai desideri radicali (dicevo io). Tuttavia io pensavo che con
questo laicismo un poco si esagerava: così si poteva procedere verso la sognata demercificazione della
capacità-umana-vivente? Verso la liberazione del e magari dal profitto? Verso l’uscita dal labirinto
capitalistico? O “almeno” riportare certe risorse a potenze per un altro senso? Non solo molti lo
prendevano per opportunismo, ma proprio il rifiuto di parlare esplicitamente, neppure in negativo, di fini
che almeno si ponessero come confini, delimitazioni, innanzi tutto di metodo, ma anche a grandi linee di
certi nodi di contenuto, poi ha creato grandi equivoci, deviazioni e pasticci ed autoreferenze folli. Inoltre a
mio parere bisognava combinare la dimensione laica dell’organizzazione efficace-efficiente, e a sua
maniera scientifica, con una nuova dimensione ideologico-religiosa immanente aperta e plurale da mettere
da qualche parte, come l’associazionismo, come faceva la chiesa: un qualche rinnovato e plurale “sol
dell’avvenire” liberamente mobile. Però avendo consapevolezza ed anche distacco; nel senso che per me
27
religione vuol sempre dire anche impostura! Cinismo… Ma un sole da non mettere in orizzonti tanto
lontani, come faceva il PCI della doppiezza, sempre ai prolegomeni dei preliminari della lotta pel
socialismo, che poi non era neanche il comunismo... Almeno, si era d’accordo sull’“attualità del
comunismo!”. “Comunismo subito!”. Senza dire cos’era, né pensarlo! Questioni scabrosissime! Negli
ultimi anni ’50 si litigava perché Lenin un giorno aveva detto che dire la verità è comunista, un altro
giorno più avanti che comunista è non dirla, però possederla, cercarla. Il che significa che intanto c’è pure
un’idea di verità… Ribadisco in fine che rivolutivo non significa progressivo, e bisogna stabilire dei
criteri… Ma possono esserci anche rivoluzioni regressive.
Un’altra cosa che va detta agli odierni edonisti verbali è che in quelle vicende noi ci si divertiva
anche, e parecchio: credo che poi nessuno di noi, almeno, in quest’età dell’edonismo coatto, abbia avuto
il divertimento, momenti di gioia, ed il giuoco collettivo che abbiamo avuto allora noi. C’era grande
libertà di inventare, di sperimentare, circolava fantasia. Poi però…
In fine ripeto una precisazione. Io non ho ripreso il mio interesse per la soggettività da Montaldi:
invece entrambi l’abbiamo tratto da un contesto comune. Ma con una notevole differenza fra noi. Mentre
il mio amico e compagno puntò soprattutto su personaggi e inizialmente atipici e proprio per la loro
atipicità, diversità anche eccezionale, io negli anni ’50\’70 mi sono occupato soprattutto di ciò che era più
“tipico”, comune, della soggettività proletaria e poi lì dentro della soggettività e ri-soggettivazione
operaia, sia individuale o almeno singolare che collettiva. E del suo modificarsi storico in specie in
Italia, nel passaggio dalla vecchia figura dell’operaio professionale, derivata dagli artigiani in fabbrica,
alla nuova dell’operaio-massa: spesso ex contadini immigrati dal nostro Mezzogiorno, e giovani
scolarizzati. Così come ora cerco di cogliere qualcosa dell’odierna soggettività iper-proletaria. In
particolare ho esplorato un poco il suo variegato soggettivo antagonismo, quando c’è davvero stato, fra
spontaneità e rapporto anche indiretto con forze-soggettive. E in certi momenti storici e soprattutto in
quegli anni abbastanza straordinari. Lì dentro allora ho cercato di vedere qualcosa anche della soggettività
militante e in specie dell’antagonismo soggettivo di certi militanti105, confrontandoli pure ad esempio con
quella di certi attivisti di partito, ecc. ecc. Ed ho messo il proletario al di sopra dell’operaio! L’operaio
come forma storica, transitoria, forse oggi trascorsa, della proletarietà.
Ma questo l’ho fatto piuttosto da solo. Quasi nessuno in ambito “operaista” della soggettività
operaia ne volle mai granché sapere; e non mi pare di averne mai dibattuto con alcuno. Solo qualche
chiacchiera con amici. Nondimeno non mi pare che le mie ipotesi su questo nodo fossero così
sprovvedute o lacunose come magari qualcuno dall’esterno può avere immaginato. Ma? Certo ho potuto
fare poco. E non ho mai pubblicato nulla del molto che ne ho scritto.
Nel ‘65 ho fatto mia esplorativamente anche l’ipotesi soprattutto “romana” del “partito in
fabbrica”, che per una parte dei romani voleva dire: PCI in fabbrica! Ed allora, anche dopo il mio “ritiro”,
nel primo ‘66, ho fatto per alcuni anni ricerche proprio sulla differenza fra militanti ed attivisti di partito
in fabbrica (come però anche sulle residuali potenzialità delle cellule e sezioni di strada). Questo nodo
come punto d’incontro e scontro fra operai e partiti storici della sinistra, in specie PCI. Distribuimmo (nel
’65?) nelle fabbriche di Torino un volantino mandatoci dai Romani (Accornero...) contro il progetto
amendoliano di liquidazione del PCI da trasformarsi in partito “laburista”... Nei primi anni ’60 non fui
mai molto contro il PCI come tale, ma contro certi suoi grossi e forti settori; e tantomeno fui contro il
sindacato come tale, malgrado tutto. Non credevo che se si fosse disintegrato il PCI ed il sindacato i
partitini in perenne concorrenza sarebbero stati il nuovo partito e tutto sarebbe andato molto più avanti.
Ma pensavo che la critica del PCI dovesse essere portata molto più a fondo, alle radici.
Come ho già detto, gli operaisti politici picisti romani scoraggiati dalle scarse ripercussioni nel PCI
smisero l’avventura di Classe Operaia proprio alla vigilia delle più grandi lotte operaie della nostra storia
nazionale; c’era delusione della classe operaia come tale. Scoperta dei suoi persistenti limiti. Più che
disincanto. Anche un’ulteriore intensificazione delle lotte per qualche altro anno non poteva ribaltare il
PCI nel senso sognato. Lotte operaie (di classe operaia…?) che neppure i movimentisti fecero l’ipotesi
decisiva che sarebbero state qui in Europa le ultime. Io personalmente, sebbene Classe Operaia
cominciasse ad allontanarsi dalla classe operaia fin dal ’65, rimasi lì nel mensile ancora un annetto, anche
per una certa mia curiosità sulla “lotta di partito” della quale non avevo mai avuto una significativa

105
E in questo le biografie di militanti pubblicate da Montaldi mi sono servite. Ma anche quelle raccolte da altri, e da me
stesso. Come vari diari, film, ecc. Qualche studio di specialisti. Come Giovannino Levi. Fra l’altro non a caso a Torino non
poco ha fatto la Passerini, con taglio ben diverso dal mio. E qualche straniero di passaggio.

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esperienza diretta (ma non m’iscrissi al PCI). “L’operaismo politico” di Tronti di fronte alla minaccia di
gruppismo perpetuo, di minoritarismo, preferì chiudere. Ma ritornò ad un vecchio modello, e si concentrò
sul lavoro all’interno del PCI106. Nuovo entrismo? Fu dentro e contro il gruppo dirigente di centro-destra
del PCI; ma mi parve con poca capacità progettuale generale, ecc. Con poca elaborazione ed invenzione
“politica”. Per un paio d’anni: ’65-’66. Anche con poco successo. Forse l’operaismo politico era nato
morto: la classe, il nostro ascensore, aveva corsa troppo breve e magari tendeva ad andare piuttosto da
un’altra parte, dove l’aspettava il padrone strategico internazionale: ed in vero il partito adeguato proprio
non c’era. Comunque Tronti è stato il vero operaista politico: ha pensato la politica, il partito, lo stato
solo in relazione a quelle prime due operaietà: finite quelle…
Riprendendo la storia oltre gli anni della mia diretta partecipazione, e tornando di nuovo più
indietro, a mio parere non è tanto vero che l’operaismo più noto dei successivi gruppetti extraparlamentari
e partitini in concorrenza reciproca, in specie negli anni ’70, fu tutt’altra cosa da quest’operaismo politico
di Tronti! Invece lo fraintese ma vi si ispirò a suo modo, oscillò fra i due suddetti modelli: spesso
mediandoli (come ha fatto pure il “sindacato-politico” ad esempio di Carniti, inclusa la FIM, del quale fu
supporto tutta una costellazione di gruppi operaisti). Accadde però che quelli che seguirono l’operaismo
politico negli anni post-’68 considerassero se stessi, ciascuno se stesso contro gli altri, il nuovo partito!
Per alcuni partitini degli anni ’60\’70 (in specie Potere Operaio e Lotta Continua e poi di più
l’Autonomia) la differenza col precedente operaismo trontiano ed in particolare col ’62-’64 (e la
coesistenza di movimentisti con entristi) fu soprattutto questa! Aberrante: il nuovo partito “della classe”
c’era già ed erano loro!
Il PCI si smuoverà, ma con un ritardo di almeno dieci anni: e sarà il capitombolo operaista di
Berlinguer. Poi venne per loro, in vista della sconfitta operaia, l’interessante “autonomia del politico”.
Voglio precisare che io ho sempre visto in apparenti svolte di Tronti la notevole continuità e coerenza di
un disegno già visibile dal ’62 ed anche prima e che giunse fino qui. Formare un nuovo gruppo dirigente
da riportare nel PCI per sbaraccare… Nuovo per metodi, obbiettivi e conoscenze (e competenze), con la
forza di movimento della classe operaia, studiata, capita, ecc. L’autonomia della politica per Tronti non
doveva essere autonomia dalla classe operaia, ma un nuovo rapporto fra partito adesso non più di massa
ma leggero (ed il cambiamento è grosso!) e la classe operaia, magari in un’altra nuova composizione. Ma
questa linea si allargò in seguito nel PCI dopo le lezioni del ‘75 coi nuovi giovani amministratori
capovolta come autonomia dagli operai! Non solo dal vecchio operaismo populista. Fu ripresa per linee
loro dai partiti di Governo (al tempo di Craxi) e divenne autoreferenza della politica, anche per
l’opposizione. Fino a Tangentopoli. Ed alle bande trasversali che sfruttavano i partiti annidate al loro
interno per un mare di particolarismi speculativi. Che però gran parte del popolo italico in fondo
ammirava ed invidiava ponendosele a modello; ancora oggi… Ed oltre. A me la vicenda dell’operaismo
“politico” parve presto fallimentare. E ripeto che si sentì presto a Torino pure l’aria della sconfitta e della
fine di quell’ondata di lotte di quegli operai lì, in quell’articolazione davvero transitoria. All’inizio del ’66
su quello chiusi pagina.
Certo, mi lamento ancora una volta: di questa classe che può negare e perfino già talora nega se
stessa, malgrado aperture teoriche (come ad esempio sulla valorizzazione del volontarismo di Gramsci e
la questione dei bolscevichi che fecero comunque la rivoluzione anche contro Il capitale di Marx) non si
volle aprire un discorso ed un’esplorazione sulla soggettività, su come soggettivamente era fatta,
composta: ripeto ancora, soggettività non “necessariamente” antagonista. Ma dal ’65 si riaprì una
divaricazione fra noi. Alcuni movimentisti più rigidi nel ’65 se n’andarono. Io come ho già detto e
ripetuto prima, malgrado tutto restai per un altro poco, ma per ragioni ormai diverse e minori rispetto a
quelle del ’64, e me n’andai nella primavera del ’66. Per sempre. Nel ’66 l’esperimento dell’“operaismo
politico” era già concluso, in maniera, ripeto, a mio parere e bilancio, piuttosto fallimentare, nel
conseguimento dei suoi scopi “politico-istituzionali”, nei quali per un poco pure noi fummo attratti e
trattenuti.
Ribadisco, fu però, ed è, per quella classe operaia una sconfitta comunque solo in parte: proprio
perché, come sempre ho sperimentato e già sapevo, quella classe operaia non era mai stata per me proprio

106
Io restai fuori, cane sciolto; ma non ignoravo la questione del partito storico: che molto in ritardo con Berlinguer si
muoverà. Male. Verso gli operai, quando già saranno sconfitti.

29
tanto bella107! Solo alcune minoranze arrivarono per un poco a sentirsi e a ritenersi in lotta contro il
capitalismo. C’erano comunque dei nuclei anche non piccoli, dei filoni formidabili, un po’ in tutte le
generazioni; magari almeno in certi momenti: dove una soggettività operaia alternativa, ed allora
antagonista, combattiva, la si era incontrata davvero. Lì la parte espropriata dell’artigiano dimidiato aveva
sviluppato davvero una soggettività autonoma ed anche alternativa, e non sarebbe tornata ad unirsi a
quella borghese alla prima occasione. Ed i suoi frammenti sono ancora qui in giro ed in movimento
tutt’oggi. E questo oggi può riproporsi allo studio degli storici. In fondo in questo paese cos’altro c’è
stato nell’ultimo secolo trascorso da studiare di tanto meglio? Ma si trattava per la grande massa proprio
dei “più soldi e meno lavoro”, e quasi nient’altro. Nessun ascetismo, disse Gehlen… Sconfitta solo in
parte, nel senso che loro un certo ingresso nella società affluente di massa e nel consumismo di massa,
pure “culturale” magari, l’hanno avuto ed un poco i loro figli l’hanno ancora: e questo sembra bastargli?
Anche se l’Italia a mio parere resterà in serie B. La grande ondata ad un dato punto cominciò a rifluire, ed
alcune condizioni poi a peggiorare; ma non altre. Tuttavia “non sconfitta” perché altre grandi
rivendicazioni, talune perfino implicite, sono passate e perdurano o sono venute meno producendo nuovi
momenti d’ambivalenza, hanno costruito un nuovo terreno sul quale ci troviamo oggi noi, nel quale
(forse) si riproduce in termini nuovi una nuova ambivalenza! Pur dentro quel feticismo, rinnovato.
Almeno ambivalenza potenziale: nel senso che talora la faccia positiva per noi in certi aspetti va
nuovamente costruita, imposta; ma a partire da talune realtà della nuova situazione del capitalismo. Delle
quattro grandi conflittualità di cui parla Màdera, quella degli operai contro il capitale nel ‘900 non è stata
certo la più forte. Così se è vero che a cavallo fra gli anni ’50 e ’60 una grande forza sociale esplosiva
l’avevamo trovata, però poi non si mostrò tanto disponibile neppure quando entrò in una grande lotta di
massa. Il fatto è che essa si ricompose su grandi fini suoi: più soldi e meno lavoro e semmai un poco una
diversa organizzazione del lavoro. E questi scopi gli operai li conseguirono abbastanza. Solo più o meno
vaste avanguardie operaie in seguito a tutto un “lavoro politico” si mostrarono disponibili per
qualcos’altro! Gli operai e pure la classe operaia, oltre al proletariato, erano un sistema complesso, molto
differenziato al suo interno. Le grandi riforme arrivarono comunque molto tardi, dopo che i movimenti
che le avevano rivendicate erano già scomparsi. Non è tanto vero che sono state le riforme a sconfiggere
le lotte: al contrario il varo molto ritardato delle riforme ne facilitò la funzionalizzazione in mera
modernizzazione capitalistica, graduata nel tempo e circoscritta. Ho fatto molta ricerca sul campo su
questi terreni. Anche rispetto alle donne. Dove qualcosa c’è stato e sta continuando ancora, non
dappertutto è morto. Inoltre io non ho mai contrapposto a tavolino riforme a rivoluzione.
Queste considerazioni su una vicenda trascorsa ormai sono consegnate a degli storici, un po’
particolari. Ma in quegli anni di grandi movimenti la storia risultava da interazioni impreviste, per certi
aspetti non c’era alcuna progettualità. L’operaità era in quegli anni molto differenziata ed eterogenea, ma
cosa c’era in comune? Il fatto centrale era l’entrata rapidissima di milioni di contadini e di figli
scolarizzati di contadini nella grande industria taylorizzata! Che non vuol dire i grandi stabilimenti o i
grandi capannoni. L’“operaio-massa”: chi per primo ne ha parlato in Italia, usando anche questa dizione?
Ma solo in apparenza, alcuni di noi dicevano, 0 più 0 era uguale allo 0 del gruppo omogeneo perché
vuoto. Dietro c’era ben altro! L’operaità non erano gli operai occupati sul posto d’occupazione, e meno
che mai la mera manualità. Proprio il fatto che nella mia concezione dell’operaità non c’era nessun
vincolo “muscolare” o del “tangibile” consentì nei primi anni ’70 l’esplorazione dell’ipotesi dell’“operaio
sociale”. Tanto che adesso chiedo <ha qualche senso proporre oggi una nuova operaità?> Lo chiedo
davvero! Comunque va colta la nuova forma della proletarietà.
Voglio sottolineare di nuovo che già nei primi anni ’70, facciamo nel ’73, prima con la questione
del proletariato intellettuale e poi dell’iperproletariato, io ho cominciato a mettere la classe-iperproletaria
al di sopra degli operai! Questa fu un’indicazione importante, che contribuì all’autunno del ’77 a
Bologna108.
Dunque, come dicevo, per me e qualcun altro nell’incontro con Tronti e il “suo” gruppo romano era
sembrata riaprirsi la ricerca collettiva nella prospettiva strategica sul lavoratore che può negare se stesso

107
Mi ricordo alle quattro del mattino in una buia gelida notte invernale del ’63 in un picchetto alla Spa di Stura, in uno
sciopero davvero fallito… O quando dovevano venire gli operai dell’OM di Brescia a picchettare Mirafiori… Lo dico in
riferimento a un libro di Romolo Gobbi.
108
E su alcune cose che diceva e faceva allora Bifo ero d’accordo (assai meno in seguito).

30
e non di rado lo fa effettivamente, e sulla sua soggettività e la sua storia. Sull’altra faccia di questo doppio
carattere. Potenziando, forse, con la teoria, o la dottrina, un cammino di scoperta e d’invenzione che a
partire dai secondi anni ‘50 noi al Nord avevamo incominciato da soli, e in scambi soprattutto con “forze
antisistema” d’oltralpe. Ma deviandoci anche non poco verso binari piuttosto già morti. Quest’ambiguità
operaista fra l’altro legittimò la mia conricerca personale su momenti di “rifiuto del lavoro”, fino al ’75
(quando la ricerca mia isolata cominciò a rilevare e a far conoscere invece la fuga proprio di molti
militanti dagli stabilimenti e dal lavoro operaio dipendente). Infatti, ripeto ancora, fin dal ’70-’71 sempre
anticipando non solo nella lettura della classe e del suo movimento, ma anche rispetto allo stato stesso
della classe, avevo visto la fine della centralità operaia e delle grandi industrie manifatturiere
verticalmente integrate della seconda fase del capitalismo industriale, quella dell’artefattura
fordista\taylorista classica e tipicamente rigida dei beni tangibili in specie voluttuari. E abbozzato un poco
la situazione nuova che gli altri cominciarono a vedere solo dal ’77 o solo negli anni ’80.
Oggi molti vedono il maggior pregio dell’operaismo politico dei primi anni ’60 nell’analisi socio-
economica del cosiddetto neo-capitalismo, ed il maggior limite nell’incapacità di elaborare una proposta
politica (e per di più post-statale e post-partito ottocentesco) all’altezza di quest’analisi. D’accordo. Se
Lenin aveva preso come modello la banca o l’impresa all’inizio del taylorismo classico chi si richiamava
a Lenin negli anni ’60 continuava a guardare a quel modello ormai invecchiato d’impresa, ed oggi non sa
guardare neppure all’impresa iperindustriale ed ipermoderna. Figurarsi anticipare, ecc. Fra l’altro chi oggi
insiste su questo limite di proposta politica, poi a sua volta e tuttora di solito non sa proporre quasi nulla.
Ma inoltre io ripeto che un grande limite è stato anche quella specie di “organizzativismo” per cui il
leninismo, ad esempio, è stato visto quasi solo come questione d’organizzazione, senza vedere il processo
di rielaborazione dei fini col crescere del movimento e delle rivendicazioni, o almeno dei bisogni e
desideri: i grandi mezzi senza i grandi scopi! Laicità? Spontaneismo? Chi vuole il partito laico mette
l’accento sulla potenza dell’organizzazione efficiente: se non l’attacchi al partito-religione proponendo un
sistema di fini in partenza come primo programma del rinnovato comunismo a che ti serve? Se per il
sincretismo di chi si muove, o di chi si muove contro, o di chi si muove in una rosa di grandi scopi?

Altro, minore

Per la cronaca, Toni Negri si affacciò a Torino nel ’62\’63 quando il primo gruppo di Torino si era
già sciolto, e n’era nato un altro. Nondimeno fra i Torinesi e Toni non ci fu mai una gran bel rapporto,
nemmeno dopo, ai tempi di Potere Operaio e perfino della stessa Autonomia Operaia. Di cui io non feci
parte, sebbene discutessi con vari di quei compagni. In fondo negli anni ’60 sono stato forse il “torinese”
meno ostile a Toni. Ma io ho sempre fatto la distinzione fra il Negri dirigente politico pratico ed il Negri
pensatore teorico del politico e soprattutto della politica, ed ho sempre stimato e stimo molto tuttora il
secondo, ma non il primo: così sono stato e sono magari tuttora anche negriano, un allievo pure di Negri,
nella teoria d’alto livello. Cosa di cui credo lui non sia stato e non sia nemmeno tanto compiaciuto. Infatti,
questa distinzione Toni non la può accettare perché dal suo punto di vista, ovviamente, non può darsi
questa contrapposizione fra teoria e pratica politica quotidiana, che nega la prassi: nemmeno come tattica
e strategia. Inoltre io non ho mai gran che apprezzato il suo interesse (tattico?) per un certo taglio
tradizionale italico del cosiddetto “discorso culturale” ch’egli conduceva dialogando in specie con Asor
Rosa. Quasi tutti gli intellettuali (piuttosto tradizionali) che girarono intorno alle due riviste videro
sempre soprattutto in Asor Rosa, Negri, e Cacciari, e diversamente in Tronti, i grandi intellettuali che dal
loro taglio umanistico e tradizionalmente filosofico (secondo quei fiancheggiatori, magari crociani)
tenevano su tutto, in queste nostre riviste, ad un livello di qualità alto: contro di noi incolti dell’inchiesta
partecipata, ecc. Rozzi e ignoranti... (“I barbari”, ci apostrofò un giorno lo stesso Asor Rosa). Però in una
certa intellettualità anche italica a mio parere più avanguardistica di loro ci fu chi avvertì (e sapeva) che
anche nel discorso “culturale” inteso con una taglio meno vecchio e tradizionale questi “umanisti”
avevano ben poco da insegnarci! Questa é una questione molto importante! Quale concezione della
cultura umanistica avevano alcuni dei più apprezzati intellettuali dei Quaderni Rossi ed anche di Classe
Operaia? Eccetto il Tronti di allora, e forse il Cacciari di allora che ai livelli più alti (ma solo lì)
tutt’oggi mi sembra aver retto di più, e talora Toni, seppero davvero dare qualcosa di decisivo e di nuovo
a noi della ricerca scientifico-politica sulle fabbriche e sulla società-fabbrica nella politicità intrinseca

31
di ciò? Tutto sommato non ci riportarono indietro, deviandoci da un nostro percorso avviato nel ’60? che
almeno sul piano della conoscenza ci avrebbe portato un poco più lontano, e con molti meno equivoci?
Comunque sia, Toni non ha mai sopportato le critiche torinesi, nei diversi momenti e tempi, alla
sua pratica. E subito cominciò ad avere grande antipatia per Torino e la stessa classe operaia torinese di
cui sentiva dire, e antipatia per chi faceva politica con gli operai a Torino: anticipando a Torino a lungo
gli altri. Odiava Torino. Come se noi, compresi certi torinesi, l’amassimo… Qui il “dentro e contro” di
Tronti, dentro e contro questa città malvivibile, era praticato necessariamente. Già nel ’63-’64, anche altri
veneti che pure m’invitavano da loro, non credevano a quel che raccontavo e non credettero granché di
una lotta d’operai e magari di classe alla Fiat ed a Torino, almeno fino a quando anche a Marghera non
scoppiò finalmente lo sciopero del Petrolchimico. Oggi l’antipatia di Toni per il Nord-ovest si è
trasformata in odio, anche retrospettivo, con esternazioni perfino ridicole109. Aveva ripresa da me la
previsione del prossimo “balzo tecnologico”, ne parlava, ma quando arrivò lui stava al Parco Lambro ad
espropriare alcune salumerie, così non se n’accorse nemmeno. Eppure i suoi lavori migliori e del giusto
taglio sono stati i suoi due saggi di Contropiano, col discorso shumpeteriano sulla crisi… Comunque, fra
l’altro, per parlare del Negri meno conosciuto, credo che La fabbrica del soggetto e Fine secolo siano due
libri che Negri scrisse all’inizio degli anni ’80 (quando era in carcere) piuttosto importanti: come visione
della realtà erano ormai, a quel momento, non poco sbagliati, fuori gioco, fuori misura, tardivi (come
d’altronde le lezioni su Lenin); però erano ricchi di intuizioni importanti 110, anche per il futuro. La
fabbrica del soggetto è un titolo che viene da lontano, nella storia, che sarebbe stato bello ancora una
dozzina d’anni prima111. Esso conferma semmai ben al di là del produttivismo e del tecno-scientismo
sviluppista, e ad esempio pure oltre certe idee gramsciane, che si poteva fare uso della presenza proletaria
nella fabbrica del padrone contro di lui (e della classe contro se stessa); sebbene, dico io, alla lunga
sarebbe stato ancora del capitalista il maggior vantaggio, in specie senza un ulteriore rilancio. Questo é
anche il senso de “la classe che (talvolta) precede il capitale”, di cui alcuni facevano un dogma ridicolo:
certe lotte vinte dagli operai costringono il capitalista collettivo ad innovazioni, pure grandi, allo
sviluppo, in specie premendo sulla sua parte più arretrata. Così c’è stata pure una certa soggettivazione, o
ri-soggettivazione, e ri-composizione dei diversi proletari lavoranti… Per un certo tempo. Però quei libri
mostrano al contempo vari limiti dell’operaismo, e si pone pure la domanda su chi fosse (o sia) quel
soggetto. Se bastasse. Ma esiste ancora oggi il soggetto? Oggi sembra affacciarsi non solo già una nuova
soggettività ma anche qualche nuovo soggetto?…
La tradizione ordinovista (che a Torino fu molto forte) oggi continua un pochino soprattutto con
qualche rifondatore, magari vicino o dentro il residuo sindacato: rimane purtroppo l’idea della gerarchia
delle competenze, e gerarchia formale, per di più, d’inquadramento, che diventa anche nell’immaginazione
di certi “marxisti”, gerarchia della capacità rivoluzionaria, la gerarchia delle competenze per costoro si
ribalta senz’altro in questa. Il discorso sul General Intellect si basa sul pensare che più si è forti di
competenza (tecnico-scientifica) e più si è costruttori del comunismo (nel vecchio significato). Anche le reti
o le nuove tecnologie e competenze sono intese e vissute così. La composizione tecnica viene sempre letta
come composizione politica. Si tratta di un’idiozia, la stessa che ha caratterizzato la tradizione social-
comunista in specie ai tempi dello stalinismo. In essa e nel suo tecno-scientismo e produttivismo la struttura
del partito ricalcava la struttura della competenza tecno-scientifica o addirittura del comando nella
produzione, e poi viceversa: dunque, chi era capo nella produzione era capo nella cellula, mentre semmai
dovrebbe essere spesso il contrario. Lo avversavano solo gli anarchici… Ma nella rivoluzione culturale
cinese almeno in apparenza era stato per un poco l’opposto: chi aveva meno competenze e soprattutto meno
potere aziendale estrometteva coloro che n’avevano di più. Ciò fu uno scandalo anche fra i nostri
intellettuali democratici: ad esempio si vedano alcuni film esemplari e di gran successo e prestigio i quali
qualche anno dopo denunciarono quello scandalo! Avevano un punto di vista “borghese 112”, si, ma anche la

109
Fra l’altro certi giochini pure ad altri sono possibili perché ben cinque miei libri, di cui però hanno potuto leggere certe
stesure di parti, sono andati perduti, ed anche il mio archivio, per cui da una lato mi saccheggiavano senza citarmi, e dall’altro
magari mi attaccavano…
74 Come, ricordo, qualche anno prima la “sostanza-valore” rimase lì ignorata.
111
Essendo inoltre stato io assurdamente, ridicolmente scambiato per un “fabbrichista” da molti cretini.
112
Come L’ultimo imperatore di Bertolucci o Lanterne rosse lo scandalo è che si toglie il comando a chi è più scolarizzato!:
nell’ultimo film di questo regista (che parte anch’esso da una visione borghese) si narra con orrore la vicenda di un infermiere,
meno dotato di competenze, che dirige l’ospedale al posto di chi ne ha di più, ossia del medico, e ciò porta al disastro, ha un
alto costo pure in termini di vite umane…

32
concezione socialcomunista\collettivista e della sinistra democratica ha quasi sempre coinciso con questa!
Eccezione, l’obiettivo di Mao nella rivoluzione culturale era quello della sostituzione di una gerarchia
basata solo sulle competenze del lavoro capitalistico e sulla scolarità per questo con una gerarchia politica,
differente, più sua, anche nell’organizzazione del lavoro, negli apparati: sparare sul partito!… Che oggi si
estingue da sé. Si trattava sempre del dover scegliere tra due o più violenze113, di andare così contro un
nemico “esterno” a noi. Purtroppo, oggi le competenze sono tutto più o meno per tutti!
L’esempio storico già più importante era stato per noi semmai quello che riguardava l’aristocrazia
operaia all’inizio del ‘900, spesso idealizzata, angelicata… Ma la stessa individuazione d’operai (in senso
lato di tecno-proletari) e così militanti almeno potenziali collocati in punti strategici della rete della
produzione ed accumulazione del capitale per combatterla, non era e non è affatto la stessa della tecnolatra
gerarchia politica per competenze tecniche: il pensare che la competenza tecno-scientifica sia già o almeno
possa rovesciarsi facilmente in coscienza politica antagonista! Per cui ad esempio i baroni dei policlinici o
dei politecnici… E’ idiota! Nemmeno il padrone capitalista, ragiona così. Forse dei tecnocrati di sinistra, di
quelli che sognano la scuola media e l’università privata confindustriale… Ma già prima della prima guerra
mondiale per gli stessi proto-socialisti anche a Torino la formazione dei militanti non era volta ad acquisire
maggiore competenza tecno-scientifica per il lavoro-specifico; ma si usava questa militante per negare
quella lavorativa, per “negare” la stessa condizione proletaria. La stessa classe. In sostanza per “negare” se
stessi. In questo modo si formava dunque una nuova soggettività, pure antagonista. Già Gramsci nel ’17\’18
si poneva in questa dimensione: la formazione era quella come militante, non per insegnare nozioni per la
produttività (come invece faceva il mutuo soccorso). Poi di qui si torna indietro. Nondimeno fra gli anni
’60\’70 poi non pochissimi operai giunsero a negare consapevolmente se stessi, e la stessa classe operaia; e
con vari esiti. Il nodo era formare semmai i militanti comunisti non alla tecnica o alla scienza ma alla lotta,
ad un’organizzazione alternativa, magari per scopi alternativi. Ma questi obbiettivi? E d’altronde c’é chi
come me da decenni cerca anche di sperimentare un uso critico, alternativo, della scienza, cambiando
qualcosa dei contenuti e soprattutto dei metodi correnti. Tempo perso?
Fra l’altro, la cosiddetta “composizione di classe” di cui mi sono occupato malvolentieri per qualche
mese nel ’65\’66 su Classe Operaia, era in verità l’articolazione tecnica della forza-lavoro, del capitale-
variabile: nella divisione tecnica del lavoro-specifico. E’ significativo che essa resta quella di cui parlava
ancora Negri qualche anno fa, e spero che oggi l’abbia dismessa: essa è relativamente statica (si muove
quasi solo nell’innovazione, che si muove nel solco dell’accumulazione capitalistica, però spostando avanti
l’ambivalenza): si osserva come è strutturata in quel momento la gerarchia e la divisione tecnica del lavoro,
delle competenze, e la si ricalca: si cerca di costruire lì sopra l’organizzazione politica. Quella che
c’interessava in altre sedi era invece la ri-composizione politica, che implicava un processo in atto, ed era
quindi almeno dinamica e riproponeva la questione della spontaneità e dei militanti, ecc. E’ mai esistita
un’effettiva e piena spontaneità, fin dalle origini storiche? E non solo in Europa? E si riferiva molto alla
contro-soggettività: singolare o perfino individuale, e collettiva. In questo senso si può dunque esplorare
anche oggi di ri-composizione, magari plurale, per convergenze parallele; il che non significa affatto
omogeneizzazione, ugualizzazione, indifferenziazione, magari nel vuoto, ecc. (come magari intanto avviene
per larghe maggioranze…), ma convergenza degli antagonismi differenti anche dentro l’iperproletariato
globale, almeno potenziale114. Possibilità, opportunità o no di ri-inventarla, perché adesso non sembra che ci
sia granché, nella conflittualità odierna. Ma forse riuscendo a guardare con occhiali nuovi… Ma?
In fine ripeto: io non ho ripreso l’idea di mettere al centro l’autonomia più o meno operaia e
proletaria da R. Morandi, ma piuttosto da Castoriadis (e paradossalmente dallo stesso Lenin); orbene, sia
Tronti che Negri (e prima Panzieri) nutrivano un grande disprezzo per questo pensatore libertario
(Castoriadis), un po’ folle, il quale però diceva già quarant’anni fa alcune cose che Toni Negri dice solo
adesso. E che lo disprezzasse Tronti, comunista in senso stretto e classico da sempre, e da sempre nel PCI,
si capisce; ma Toni?: mi disse che quello là non lo interessava perché era “istituzionalista”. Bo?

113
Tutto ciò non ha molto a che fare con il maoismo di quelli che erano i filo-cinesi italiani, che si rifacevano a quando Mao
era più vicino a Stalin, ed a Stalin stesso.
114
Sappiamo che non c’è proprio il mercato unico mondiale per chi offre capacità di lavoro, che non c’è la libera mobilità
della forza-lavoro in offerta!

33
Altre due parole sulla conricerca

In realtà la conricerca come l’intendevo io non è mai davvero decollata, rimase in un limbo, però la
parola è stata ed è ancora suggestiva: è rimasta fino ad oggi un’idea. La mia era diversa da quella di Montaldi.
Dopo i primi anni ’60 è tornata sempre, ogni tanto con qualche ri-abbozzo, legata ad iniziative individuali o
locali ma non collegate fra di loro. Negli ultimi anni su di essa ho fatto un’ulteriore pensata: il frutto di ciò è
Camminando per realizzare un sogno comune (’94), che rappresenta la continuazione di un altro mio libretto,
Per fare conricerca (‘93). Nel passato è stata fatta soprattutto una teoria dell’avvio della conricerca ed una
certa messa in pratica dal ’60 al ’63, e poi dal ’64 al ’65. C’è questa parola suggestiva che colpisce
l’immaginazione: scienziati sociali militanti che si mettono a fare la ricerca alla pari con coloro che prima
erano solo oggetto d’intervista e basta; una volta finita l’intervista, l’intervistato rimaneva lì e non ne sapeva
più nulla. C’era poi quello che veniva soprattutto immaginato, poco praticato, sul modello degli assistenti
sociali115, da gente non di formazione operaista, profondamente anti-leninista e assai populista: essi volevano
solo coinvolgere gli intervistati, se non altro nei fini, nei mezzi, specie in vista di una pubblicazione, ritenendo
l’altra ricerca una forma di esproprio. A Torino c’erano Ciafaloni e Fofi (reduce, il secondo, da Dolci e
Scotellaro) che erano suggestionati in questo senso populista, che oggi ha un poco successo presso certi
giovani intellettuali, presso alcuni cineasti. Per noi, invece, non aveva quel taglio: era fatta in tutt’altra maniera
e con tutt’altri soggetti. C’era dunque gente di taglio assistenzial-populista che sapendo che ricercavo sugli e
con gli operai (e gli impiegati) mi aggrediva proclamando che quello che il popolo dà deve restare al popolo,
anche in termini proprio giuridici.
Noi la praticavamo anche sperimentalmente, parallelamente all’inchiesta sociologica sugli operai e i
lavoratori occupati nelle fabbriche nuove e vecchie, grandi e piccole. Già quest’ultima poteva crescere solo a
macchia d’olio con gli ulteriori indirizzi fornitici dagli stessi operai e da qualche militante di sindacato o
partito, e quindi con un primo loro coinvolgimento. La conricerca non si basava affatto sulla qualificazione
professionale, sulle competenze del mestiere; coinvolgeva operai (e impiegati e tecnici ed operatori) in un
lavoro sistematico di ricerca su tutto l’arco della loro sopravvivenza e conflittualità e lotta, alla pari con gli
intellettuali e ricercatori “esterni” a quel dato ambito lavorativo, dove però un poco ci si “radicava”, anche se
talora si trattava di un lavorare esterno al luogo di occupazione, a cominciare dal loro lavorare auto-
riproduttivo. Dunque già si anticipava una concezione del lavorare diverso dall’artefare, e tantopiù dal produrre
manuale, tangibile. Questo rapporto e scambio era reciprocamente anche formativo. Poneva esplicitamente
ipotesi politiche sulla lotta legate alla teoria, messa così alla prova, in maniera che quel conoscere mobilitativo
trasformava l’operaio anche in un peculiare militante (non solo ideologico…) e faceva crescere il militante e
talora la lotta verso l’alto, finché lui stesso pure operava come con-ricercatore tirandosi dietro altri, come noi
d’altronde ci tiravamo dietro giovani apprendisti. Poi i militanti conricercatori si collegavano fra loro (magari
in una redazione di fogli di fabbrica od operai, anche preesistenti) in una certa rete, allora faccia a faccia e col
telefono… Ma era un lavoro lento, che richiedeva molto tempo e radicamento per crescere ed anche per
allargarsi. In fondo era solo una sistemazione di un tradizionale lavoro d’organizzazione politica di militanti, in
cui non si portava solo la coscienza come ideologia, o come religione, ma ci si basava sulla conquista di nuova
conoscenza da un punto di vista peculiare. Di nuovo c’era una certa sistematicità scientifica, e la realtà in cui e
su cui s’indagava, e su cui gli stessi militanti anche vecchi avevano bisogno di conoscere, e poi ancor di più i
nuovi lavoratori (magari immigrati) spesso spaesati e sconvolti dal nuovo. Nella conricerca vecchi militanti e
lavoratori torinesi s’incontravano e scambiavano con i giovani operai immigrati e magari neo-lottanti, ma senza
tradizioni di partito e neppure esperienza sindacale, ecc. Ciò s’inseriva nella ri-composizione e nella ri-
soggettivazione ed andava avanti anche da solo, nella spontaneità e nell’organizzazione spontanea nella lotta.
Che però da sola non bastava. Sapevamo che per saltare oltre aveva bisogno di un partito di tipo nuovo. Che
non eravamo noi. Partito che (forse) se ci fosse stato avrebbe potuto portare a fondo anche la conricerca,
portando la lotta fino ai livelli più alti…
Montaldi ha ripreso l’idea dell’inchiesta condotta e diretta insieme con gli indagati da Guiducci, ma l’ha
fatto in termini molto diversi sia da lui che da me: successivamente non ha fatto più niente di simile. Quando io
l’ho ripresa qui a Torino, c’era quel gruppo che indagava sul campo continuamente diviso in due: ce n’era una
metà (ripeto, composto da quattro, cinque, sei persone) con cui questo discorso aveva una prospettiva, almeno
preso “grosso modo”. L’altra parte, quella che poi ha fatto i Quaderni Rossi (tra cui Panzieri), non ha mai

115
Dalle quali uscivano la Gisella di Juvalta, la Monica Brunatto, l’Anna Chicco, e altre (erano state tutte con D. Dolci, molto
deluse), che vennero subito con me aderendo alla conricerca come l’avevo abbozzata io!

34
accettato la conricerca. Quando, nel ’61, con quelli ci siamo riappacificati la conricerca è stata messa da parte,
nell’apparenza dei rapporti ufficiali, nascosta semmai dietro rapporti normalmente “giornalistici” con operai
(in lotta, nuova) fino al momento in cui è avvenuta la definitiva rottura. In Classe Operaia non c’è mai stata
tanta vera e propria conricerca, con quella sistematicità che volevo io. Neanche per un’ostilità, ma perché non
c’era nessuno che la portasse avanti oltre il primo passo. Nel ’66, finita Classe Operaia, io non ho più militato
ed ho fatto qualcosina per conto mio. Nel ’71 e negli anni successivi all’università di Trento posso dire di aver
portato avanti la conricerca con studenti a Verona. Poi con laureandi e laureati a Torino soprattutto negli anni
’70. D’altronde io facevo, ripeto, non solo per sopravvivere, anche della sociologia scientifica e pure con
metodologie quantitative, tecniche statistiche ecc.
Montaldi, l’anno che è morto, aveva incontrato Ciafaloni e insieme avevano fatto un progetto di
un’inchiesta operaia che non è mai stata fatta: in questo progetto c’erano altri personaggi come Pino Ferraris di
Biella, ex appartenente al PSIUP, e qualcun altro. Ripeto, di questo e d’altre cose di Montaldi possono avere
qualcosa, a Cremona. Montaldi prima, nelle Autobiografie della leggera, aveva una sua teoria. Quella cosa,
come l’intendeva, l’aveva già fatta ad esempio Pavese per La luna e i falò, e lui aveva pubblicato su Presenza
lo schema di intervista di Pavese ai Langaroli. Era il cercare i miti e i riti della gente ricollocandoli nelle classi
sociali. Ricordava anche De Martino. Quando Montaldi ha fatto queste Autobiografie della leggera i sociologi
l’hanno attaccato duramente, in particolare Luciano Gallino, dicendo che non era scienza, non c’era
generalizzazione; sostenevano che, oltre ad essere estraneo alla scienza, era addirittura negativo, si andavano a
prendere gli individui “diversi”. Qualcosa del genere l’avevano già detto per Milano-Corea. Il cremonese c’era
rimasto molto male: per pararsi dalle critiche lui aveva quindi cercato di dare a ciò una dignità scientifica
basandosi su Riesmann, autore di Visi nella folla e La folla solitaria (libri da cui ha anche tratto dei film
Kazan). Si è dunque attaccato a Riesmann per avere questa dignità scientifica, ma quelli dicevano che la
scienza o la fai secondo certe regole o non la fai, per loro il suo sforzo non stava in piedi. Ebbe però l’avallo di
Pizzorno che l’aveva in parte ispirata. E fra gli intellettuali infiammò Pasolini. E interessò così un poco
Panzieri.
Noi, fra Torino, Milano e Locarno116, caldeggiavamo anche l’ipotesi di una scienza altra, che ci veniva
da Husserl e da Enzo Paci; ma in vero questa non c’era. La scienza altra doveva pure avere connotazioni
soggettive, coinvolgere e assumere il soggetto del ricercare, parlare dell’individuo, ecc. Non riuscimmo a farla
crescere abbastanza nella pratica. In questo senso ci sono stati dei precedenti negli Stati Uniti, e in Germania
intorno a Rosa Luxemburg. In Francia negli anni ’50 c’erano degli ex trotzkisti: c’erano Pouvoir Ouvrier, e
Socialisme ou Barbarie che esploravano qualcosa di una sorta di conricercare con operai…: quando ha chiuso
questa rivista alcuni sono diventati sociologi di professione. C’era lì il segretario di Merlau-Ponty, Léfort,
l’algerino Lyotard, Castoriadis, credo pure Derrida, e c’era Morin. Anche alcuni di loro sono passati per la
fenomenologia, per Husserl, in particolare e pel suo libro, La crisi delle scienze europee117 da cui viene anche
il concetto di “scienza galileiana” che io uso molto. Meno per Foucault e Deleuze.
Alla metà degli anni ’50, quando mi sono messo a fare qualcosa anch’io, c’erano dei segnali in questo
senso. Ma dopo, con Tronti, la scienza altra diventava la “scienza operaia”, che implicava un discorso difficile,
delicato e complesso. Allora io cercai di sperimentare ancora qualcosa, con non poca ideologia, ma ancora non
si andò lontano. Classe Operaia è stato il luogo dove qualcuno ha cercato più che altrove di fare pure con me
la mitica “scienza operaia” con spunti di conricerca e sprazzi di teoria. Oggi sono un poco critico rispetto a
questa operaità. Però non mi autocritico solo sul nome… Ripeto che Tronti era più operaista di me nei tre o
quattro anni in cui lo è stato. Tuttavia non tutto è adesso da buttare.
La conricerca è stata abbastanza un aborto, ma meno della mia progettazione sulla soggettività. La
conricerca non l’ha fatta più nessuno? Ma?
Una delle esperienze più importanti dal ’68 in poi è stata quella dei cosiddetti “ricercatori scalzi”. Per
alcuni anni (fino ai primi anni ’80) tutta una processione di quadri, di operatori dei servizi pubblici, di
insegnanti di scuola media in nuclei locali, tutti bravissimi, malgrado già sentissero la sconfitta e le sue ragioni,
venivano da me a chiedermi consulenza per una tipo di ricerca sistematica e rigorosa su ipotesi anche
teoricamente significative, adatta a loro, ai loro mezzi intellettuali e tecnici talora precari: ma non era precaria
l’intelligenza a suo modo collettiva, nel corpo a corpo, e l’inventiva, e l’antagonismo. Ora non sono tutti morti.
Molti sono ancora lì in giro sui nuovi terreni e nei cyberspazi, e sono perfino cresciuti.

116
Filippini e alcuni suoi amici (Pedrolli), Giairo Daghini.
117
Tradotto in italiano dal mio amico Filippini allorché anch’io vivevo un poco con lui nella comune di via Sirtori.

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Inoltre quel modello poteva camminare, almeno iniziare il cammino, solo nelle condizioni trascorse
della fabbrica verticalmente integrata nella grande impresa delle fasi iniziali del grande ciclo e lungo secolo
americano (Arrighi). Che offriva talora (a noi le offrì) grandi concentrazioni di portata strategica, anche fisiche.
Oggi nella de-spazializzazione e tele-frammentazione fino al domicilio e nella mobilità continua, richiedendo
radicamento, non sarebbe granché praticabile. Oggi bisogna rovesciare: creare dei centri inizialmente virtuali
dove l’iniziativa di nuovi militanti dispersi potrebbe riferirsi e convergere. Ed è diventato del tutto vano voler
ricomporre e rimontare le sequenze di processi polverizzati e dispersi per pezzi di mansioni nei cinque
continenti; ma occorre partire da certe ricorrenze, che ora ci sono e ora no, e coinvolgere i singoli o i
microgruppi di quasi\militanti sul come, il perché, le portate, e le conseguenze e le potenzialità alternative.
Facendo anche nuove classificazioni fondate perché con le balle che circolano in giro non si sa e non si capisce
più niente… Oggi o si può conricercare con chiunque perché tutti sono al lavoro in tutti i momenti della loro
vita: oppure bisogna tirar fuori testimoni particolari, attirare i militanti dispersi e isolati, con mezzi nuovi, e
metterli a confronto, farli tele-incontrare: ad esempio, fare contro-comunicare i comunicatori…
Questa questione del fare parallelamente anche altri modi d’inchiesta è importante anche per oggi.
Infatti, la conricerca è abbastanza bene non sia proprio il punto di partenza ma già un punto d’arrivo, per
ripartire. Oggi ad esempio malgrado ci siano in giro tantissimi sociologi c’è in giro pochissima conoscenza
attendibile di come stanno davvero le cose per una grande quantità di nodi importanti della situazione (in
specie italiana). Di solito c’è da parte degli stessi ricercatori un uso ideologico dei risultati del ricercare sul
campo che ci offre rappresentazioni stravolte, inattendibili, in cui imitano i grandi intellettuali di riferimento…
Il più rimane nei cassetti. C’è un grande bisogno di conoscenza effettiva. Non ci serve tanto o niente
ricomporre dal basso grandi processi: questo ormai è anche impossibile. Ci occorrono ricorrenze e loro
spiegazioni, correlazioni e nuove e differenti classificazioni tipologiche, ecc. Bisogna coinvolgere i partner a
partire da questo e poi di più negli aspetti soggettivi. Non basta il “cosa sono costretti a fare”… Inoltre sono
molto utili anche certe autobiografie, racconti terra terra degli stessi protagonisti, in specie in certi ruoli e
sistemi di ruoli: cosa fanno per davvero, come lo vivono, come lo valutano. C’è un grosso lavoro di conoscenza
da fare anche prima, intorno… Sia coi professionisti che coi ricercatori scalzi del nuovo millennio. Bisogna
interessarsi in particolari di certi ruoli, non tanto perché lì il lavoro è più intelligente, ed allora si pensa
(sbagliando) più consapevole, scambiando ciò con una coscienza “politica”; ma perché anticipa il futuro, nel
bene e nel male: teniamo conto che l’Italia è ancora e più di prima un paese arretrato!
Tuttavia, è certo che la parola conricerca ha affascinato. Io, come Negri, ho inventato pure delle
espressioni verbali magiche: sto parlando non solo d’ideologia opportuna, di “ideologia controllata”, ma di
mito, magia, religione. Dicevamo: le rivoluzioni, anche quelle parziali, pezzetti di processi rivoluzionari o di
rivoluzioni-processo118, non si fanno tanto con la scienza, ma parecchio con le parole magiche. Bisogna tenere
insieme le due cose: con la scienza si costruiscono i presupposti, certe risorse, ma le mobilitazioni si fanno
pure con la magia e con la religione, con l’ideologia; il partito laico appariva una contraddizione di termini:
semmai si trattava di religione razionalista, ecc. Negri è stato abile a mettere in giro delle parole magiche:
duravano magari due o tre mesi, però su queste dentro i partitini facevano le battaglie e anche le scissioni.
Anch’io ne ho inventate certune, alcune hanno funzionato fino a livelli di massa, e ben più a lungo.
Anche Tronti stimava Touraine. Dopo la Bolognina, era Asor Rosa con lui e il suo giro a gestire
Rinascita, e infatti ci si trovava come uno dei loro riferimenti di nuovo Touraine. Assieme a certi sociologi di
riformismo borghese che noi anni prima avevamo rifiutato. Touraine è un sociologo di destra, però c’era l’idea
che certi destri capissero la lotta operaia e la condizione operaia molto di più dei sinistri, ed avessero pure un
certo odio per il presente. Ma anche Socialisme ou Barbarie o Castoriadis prendevano ad interlocutore
Touraine.
Ho prima richiamato di continuo il nuovo lavoro tayloristico nella nuova industria ed il nuovo operaio,
in senso ampio. Sulla Renault c’era un libro\diario di Mothé che io ho presentato a Torino nel ’60. Allora degli
operai nel PCI quasi non si parlava: neppure di quelli vecchi in nome dei quali ci si candidava. Nel ’58 ci fu un
convegno sulla sociologia italiana, per l’Einaudi uscì Comunità e razionalizzazione di Pizzorno119, in un
momento in cui degli operai non scriveva nessuno. Questo libro parlava delle trasformazioni produttive e del
territorio. Anche Montaldi si è rifatto a questo testo in Milano-Corea. Successivamente sono poi uscite cose
mediocri, ma tutte in Italia venivano da lì. In quei tempi Rinascita aveva la teoria che i “monopoli”
rappresentassero la fine del capitalismo: si aspettava solo che i padroni glieli consegnassero per gestirli col

118
L’idea che dicevamo luxemburghiana…
119
Mi pare nella collana che curava Panzieri.

36
piano centrale. L’Italia poi per loro era tutta arretrata, impaludata nel ristagno. Di conseguenza, non c’erano
studi sugli operai e le fabbriche. In varie annate di Rinascita anni ’50 quasi solo un paio di testi di Montagnana
parlavano dell’industria e del nuovo lavoro. L’obiettivo del PCI era allearsi con la (piccola) borghesia.
Elettoralmente d’obbligo? La doppiezza era morta? Chi di noi era più colto andava a leggersi direttamente la
letteratura americana: lì c’erano le analisi sulle relazioni umane, le sue critiche, il taylorismo, il fordismo. Si
pensi agli studi di Merton sulla la scienza, la burocrazia. Dunque, se uno voleva capire il nuovo lavoro, quello
dell’operaio-massa, andava a leggersi la letteratura americana. O i suoi derivati francesi. Io, ed anche
Gasparotto, leggemmo di quella sociologia, scienza dell’organizzazione, tecnologia, molta economia micro e
macro, antropologia, urbanistica e geografia, demografia, legge pure, ed un poco di politologia, oltreché di
storia e filosofia. Dietro la mia conricerca, come dietro la mia ricerca scientifica atipica sulla nuova fabbrica e
gli operai e gli impiegati come grandi gruppi sociali nel taylorismo\fordismo ecc., c’erano anche questi studi.
Mai interrotti.
Ma adesso qualche esempio di con-ricerca qualcuno potrebbe farla, e magari la sta facendo a mia
insaputa, proprio oggi: d’altronde adesso c’è tanto di meglio da fare? Io ho messo in giro qualche libretto, di
difficile lettura, e qualcosa in rete. Però la conricerca va riinventata daccapo forse all’inverso. E non solo molti
“compagni” curiosi, con voglia di conoscere e capire, non sono morti e nemmeno tanto pentiti, sebbene
autocritici: piuttosto sono cresciuti; e ci sono perfino dei giovani…, sparsi e magari isolati in giro. Non
possono contattarsi con la rete? Confrontarsi, ecc.? Non possono con-ricercare così, con la rete? La rete
facilita ed accelera la conricerca, sembra fatta apposta! E poi con le radio, ecc.?
Ora ci sono nuove macchine-contro da costruire. E magari se gli operai non erano tanto i lavoratori del
braccio ma gli attivatori\innovatori del macchinario e dell’organizzazione tecno-scientifici, esiste oggi una
nuova operaità, una potenziale nuova classe operaia, e che potrebbe negare anche se stessa?
Però sarebbe meglio parlare del presente e del prossimo futuro.

37
INTERVISTA AD ALBERTO ASOR ROSA – 24 OTTOBRE 2001

- Qual è stato il suo percorso di formazione politica e culturale e le figure di riferimento


nell’ambito di tale percorso?

Il mio percorso di formazione, se si può definire così, ha coinciso con la frequentazione della
facoltà di Lettere e Filosofia qui a Roma e con l’iscrizione, più o meno precoce, alla sezione
universitaria comunista de La Sapienza. Io venivo da un liceo di periferia, dove non c’era interesse
ed esperienza politica: stiamo parlando degli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale. Il
percorso di formazione coincide con la mia amicizia con alcuni personaggi più o meno miei
coetanei, come Mario Tronti, Umberto Coldagelli, Gaspare De Caro, che è un nome che poi si è
perso ma che allora aveva una qualche importanza. Queste persone mi avevano tutte preceduto
nell’iscrizione alla cellula della FGCI, quindi sono stati gli artefici di questa bella trovata che poi ha
“infelicitato” buona parte della mia vita, come della loro del resto. Per parlare di questo
bisognerebbe soffermarsi su ciò di cui si occupava uno studente di Lettere o di Filosofia nei primi
anni ’50, di come era fatta e in che cosa si impegnava una sezione universitaria comunista in quella
fase. A parte le letture formative nei rispettivi campi di interesse (letterario, filosofico, storico, noi
eravamo abbastanza distribuiti da questo punto di vista), le prime cose importanti sono state alcune
letture di Marx, in particolare le Opere filosofiche giovanili, direi quasi ovviamente; quindi le
letture della tradizione comunista italiana, come gli scritti e i discorsi di Togliatti, e da un certo
momento in poi anche Gramsci. Un po’ più avanti, per quanto mi riguarda, ci sono i filosofi del
pensiero marxista negativo, quindi la Scuola di Francoforte, ampiamente praticata, Lukàcs, e poco
altro direi. La sezione universitaria comunista era una sezione di massa perché credo avesse più di
200 iscritti; teneva insieme professori e studenti, e da un certo momento in poi, fino al ’56, è stata
diretta da Tronti.
Tra le figure di riferimento, dal punto di vista politico-filosofico, ci sono senza alcun dubbio Lucio
Colletti, Galvano Della Volpe e politicamente Ingrao. Questa cosa non è durata tanto tempo, in
quanto mi riferisco ad un periodo che approssimativamente potrebbe andare tra il ’52 e il ’56: in
quell’anno il riferimento della sezione universitaria comunista viene meno perché alcuni di noi non
rinnovano la tessera e se ne vanno, altri la rinnovano ma senza più fare attività. Quindi, comincia un
nuovo periodo.

- Iniziava dunque a formarsi quel gruppo romano che successivamente sarà una delle
componenti importanti nella formazione dei Quaderni Rossi.

Naturalmente un passaggio importante è stata la discussione sul XX Congresso e sui fatti di


Ungheria. L’anno precedente (questo non è documentato ma è vero) c’era stata una discussione tra
di noi molto intensa sulle elezioni delle Commissioni Interne alla Fiat, cosa che in genere non viene
ricordata. Non è da enfatizzare, tuttavia la discussione sul perché e sul come la grande maggioranza
FIOM alla Fiat fosse venuta meno, anche in maniera abbastanza clamorosa e fragorosa, noi la
facemmo piuttosto precocemente. Poi naturalmente questa discussione è stata superata di intensità e
di volume dal dibattito sul ’56 che per quanto ci riguarda, o forse per quanto mi riguarda, verteva
soprattutto intorno a due punti: la natura dello stato e della società sovietica, cercando di
interpretare meglio la formula della degenerazione del sistema socialista; e ciò con una
sottolineatura particolare, che evidentemente era premonitrice, sul fatto che le rivolte in Ungheria,
prima in Polonia e prima ancora a Berlino erano state quasi tutte rivolte operaie, quindi anche
questo faceva sorgere dubbi e problemi sulla reale natura dello Stato socialista sovietico che,
perlomeno nei paesi di espansione e di influenza, sembrava destinato a venire in conflitto
soprattutto con l’elemento sociale che avrebbe dovuto fondarne il potere. Questo è ciò che ci
attrasse verso Panzieri, perché Raniero era un socialista con forti venature trotzkiste, il quale cercò
anche lui di interpretare a suo modo questa tematica post-1956 e, insieme con l’amico e compagno

1
Libertini, elaborò le Tesi sul controllo operaio, pubblicate dal mensile che lui dirigeva, cioè Mondo
Operaio. Tali Tesi davano una risposta a questi interrogativi di fondo, con l’idea di una democrazia
proletaria che nasceva dal basso, che controllava ed era in grado di controllare gli assetti più
dichiaratamente statuali del sistema socialista. Credo che sia stato questo l’elemento di contatto che
ci ha spinti a trovare in lui un punto di riferimento. Panzieri penso di averlo conosciuto io
personalmente attraverso la mediazione di un’altra persona che girava nel nostro ambito, una storica
dell’economia che si chiama Ester Fano, la quale lo conosceva in quanto era filosocialista.

- Analizzando l’esperienza dei Quaderni Rossi, non in chiave di ricostruzione storica quanto di
giudizio critico, quali limiti e ricchezze individua?

Non è una domanda a cui sia facile rispondere. Proseguo per un istante ancora nell’andamento
cronologico. Con Panzieri abbiamo lavorato a Roma più o meno fino al ’58-’59, poi lui si è
trasferito a Torino perché aveva rotto i ponti con il Partito Socialista e aveva trovato un posto da
Einaudi. Avendo mantenuto con lui un fitto rapporto epistolare, abbiamo partecipato fin dall’inizio
all’idea della fondazione di una rivista che poi sarebbe uscita qualche anno dopo, attraverso
l’unificazione, mediante la mediazione di Raniero, di alcuni gruppi diversi, che erano forse tre:
quello romano che ho cercato di descrivere, e che nel frattempo si era arricchito della presenza
ancora più giovanile di Rita Di Leo; quello operaista radicale (diciamo sul versante “gatto
selvaggio”) costituito da Romano, da Romolo Gobbi e da Pierluigi Gasparotto, che stava tra Milano
e Torino; e questo gruppo torinese che si era formato rapidamente intorno a Panzieri, composto da
giovani più filosocialisti che comunisti e di caratterizzazione più nettamente sociologica, e cioè
Rieser, Mottura, De Palma, la Beccalli e così via. Quindi, il gruppo è composito fin dall’inizio, i
Quaderni Rossi nascono forse da una mediazione tra queste tre componenti, che poi erano quattro,
nel senso che Raniero non coincideva né anagraficamente né mentalmente con nessuno di questi
gruppi; c’era qualcuno della sua generazione, ma in posizione molto defilata. Dunque, era un
gruppo curioso, costituito da un soggetto apparentemente anziano (in realtà poco più che
quarantenne) e da questi gruppi di venticinque-trentenni, differenziati tra di loro e mai amalgamati.
La ricchezza di questa esperienza (anche se sembra una battuta) è consistita nell’averla fatta. In
precedenza elementi dissenzienti rispetto all’asse centrale del Movimento Operaio italiano c’erano
stati, c’era il filone trotzkista ad esempio, ma con un livello di elaborazione molto modesto; quindi,
in un certo senso io penso che i Quaderni Rossi rappresentino il momento della rottura del
monolitismo della tradizione socialcomunista. Se le cose non si misurano dagli effetti ma dal fatto
di esserci, mi pare che questo sia un dato positivo, anzi quasi miracoloso tenendo conto della gabbia
molto forte che, non solo culturalmente ma anche organizzativamente, quella tradizione possedeva.
I limiti erano congeniti all’esperienza stessa, perché questa era estremamente minoritaria, non ha
mai avuto un seguito di massa. Dopo il primo numero, quindi molto rapidamente, questo organismo
molto differenziato al suo interno si divide ancora più fortemente, e per un motivo non banale direi,
nel senso che il grande sciopero alla Fiat del ’62 ridisloca le posizioni: all’inizio tutti erano molto
d’accordo nel sostenerlo e nel valorizzarlo, ma poi non più tanto d’accordo sul modo di affrontare le
conseguenze. Queste, per esempio, furono rappresentate dal fatto che se fino al primo numero uno
dei tentativi dell’operazione era quello di portare dentro una serie di quadri sindacali di rilievo,
questi fuggono tutti dopo quella esperienza e dopo l’accusa di tipo tradizionalissimo (che ci era
venuta da certi quadri sindacali ma soprattutto politici) di essere gli strumenti di una manovra
provocatoria. Da qui i limiti di tutte queste esperienze, che non sono in grado di cambiare il mondo
facendole, però forse al tempo stesso non bisognerebbe impedire di farle quando c’è la possibilità.
La rottura con Raniero è avvenuta proprio su questo terreno, cioè sulla valutazione del che fare
dopo che questo gigantesco sciopero non dico che avesse rapidamente convalidato e avvalorato le
nostre ipotesi precedenti, ma certamente le aveva sostanziate di una materialità che prima era
difficile immaginare che sarebbe scattata così velocemente e anche in maniera così massiccia.
Quindi, Classe Operaia nasce come risultante di questa spaccatura e ad opera di coloro i quali

2
ipotizzano che il grande sciopero dei metalmeccanici apra un processo di una certa natura; gli altri,
invece, compreso Raniero, non dico che si tirano indietro, ma non fanno la stessa ipotesi, pensano
cioè che il cammino tradizionale debba essere ancora percorso. Sulla prima valutazione avviene (se
si possono usare queste parole enfatiche) la saldatura tra il gruppo operaista radicale di Alquati e
compagni e il gruppo di Roma, mentre gli altri continuano a fare ancora tre numeri dei Quaderni
Rossi, fino a che Raniero sopravvive.

- Quali sono invece stati i limiti e le ricchezze di Classe Operaia, nelle sue diversità rispetto
all’esperienza dei Quaderni Rossi?

Classe Operaia era un giornale di intervento, Quaderni Rossi no. Classe Operaia faceva il tentativo
di essere contemporaneamente una rivista di impianto e di impostazione teorica e di intervento
militante, doveva essere un giornale di organizzazione operaia, sulla base dell’ipotesi trontiana che
bisognasse ritradurre, modellandola sulla realtà operaia di quegli anni, l’ipotesi leninista di
organizzazione. Quindi, non solo facevamo il giornale, ma andavamo (dove naturalmente risultava
possibile alle nostre limitatissime forze) a distribuirlo davanti alle fabbriche e cercando di
organizzare gruppi operai consenzienti. In questa seconda fase, tra l’ultima parte dei Quaderni
Rossi e Classe Operaia, si aggiunge un nuovo protagonista che è Negri, portatore di una ricca
esperienza politica, perché lui era il segretario della Federazione Socialista a Padova e aveva un
seguito molto più consistente del nostro, di natura sia intellettuale sia operaia. Quindi, il suo
ingresso allarga di parecchio (anche se parliamo sempre di un’esperienza limitata) le dimensioni
iniziali del gruppo. Dunque, ci sono dei punti di riferimento a Torino, a Milano, a Padova, a Pisa, a
Firenze, a Roma e qualche cosa nel Sud, a livello di gruppi organizzati e operativi sul doppio
versante del dibattito culturale e dell’attività militante.

- Romano ipotizza che l’operaismo si sia mosso all’interno di un particolare poligono, che ha
come vertici la politica e il politico, gli operai e l’operaietà, la cultura e la questione degli
intellettuali, e una dimensione giovanile e generazionale. Riguardo ai vertici di questo
poligono, quanto secondo lei l’operaismo ha saputo costruire delle diversità effettive rispetto
alla tradizione socialcomunista?

Su tre dei quattro vertici mi pare che non ci possa essere discussione, mentre sull’ultimo (quello dei
giovani) ho qualche dubbio. Dunque, il disegno di Romano mi sembra abbastanza esatto. C’era una
dimensione politica fortemente connotata in senso marxista, in taluni anche leninista mentre in altri
un po’ meno: ad esempio, i compagni del Nord di questo gruppo lo erano assai meno, ma tra noi e
Toni Negri su questo c’era un sostanziale accordo, quindi c’era l’idea di una politica che si fa
organizzazione, tema molto dibattuto e molto sentito, una politica che organizza le forze. La partita
veniva tutta giocata sull’idea (che poi è diventata di dominio comune, ma allora lo era molto meno)
che ci fosse un soggetto nuovo dello scontro politico e cioè l’operaio-massa: tutto quello che era
accaduto tra gli anni ’50 e ’60 e che il Movimento Operaio tradizionale, sindacato anche, stentava a
riconoscere, era un argomento ricorrente nel dibattito e nell’analisi di Classe Operaia, del gruppo
torinese, milanese e così via. Quindi, l’idea era di mettere insieme queste due cose e rendere la
miscela esplosiva senza necessariamente ricorrere al linguaggio delle armi. Poi fu aperto un fronte
di tipo culturale e intellettuale, di polemica contro tutte le posizioni più tradizionali del Movimento
Operaio, di polemica filosofica sui fondamenti della tradizione comunista italiana, e anche un
discorso sulla questione degli intellettuali nel loro rapporto con la classe operaia. Quindi, c’era una
certa ricchezza di campi di indagine, di presenza e anche del loro intreccio, per cui non credo si
possa definire questa un’esperienza primitivista. Sulla questione giovanile sono un po’ meno
d’accordo, innanzitutto perché i protagonisti a questo punto della loro storia sono dei trentenni:
sono giovani, ma non nel senso in cui più tardi questo termine è diventato una caratterizzazione di
tipo socio-antropologico. Diciamo che si tratta di giovani intellettuali militanti secondo me non

3
identificabili con le pulsioni giovanili contemporanee, che semmai si sono presentate qualche anno
più tardi attraverso il ’68, ma in processi rispetto a cui onestamente io credo che noi abbiamo
influito abbastanza limitatamente: dire che abbiamo precorso i movimenti giovanili del ’68-’69 mi
sembrerebbe un po’ presuntuoso e arrogante, anche se qualche cosa può essere passato. Secondo me
non c’era il senso di una rappresentanza, non facevamo distinzione, un problema giovanile in
quanto tale non l’abbiamo mai affrontato, mentre le altre tre cose sì erano molto rilevanti, erano
materia del dibattito con il tentativo di costruire anche una forma di cultura politica nuova.
All’interno di questo gruppo di Classe Operaia, dopo la separazione dal gruppo sociologico
(definito in maniera molto schematica), la circolazione era fortissima: le differenze originarie, sia
pure magari attraverso litigi furibondi, tendevano a osmotizzarsi, è stato un periodo bello e anche
divertente.

- Rispetto al nodo della cultura (così come su quello della politica) è indubbio che l’esperienza
operaista abbia portato degli importanti elementi di critica e novità. Complessivamente, però,
quanto è riuscita a mettere fino in fondo in discussione la concezione della cultura (a sinistra
prevalentemente intesa come cultura umanistica) ossificatasi nel Movimento Operaio e nella
tradizione socialcomunista e il modello dell’intellettuale organico? Quanto è riuscita a creare
altro e quanto ha avuto dei limiti?

Quello che posso dire è che in quel periodo tra il ’62 e il ’68 ci sono state alcune uscite specifiche
su questo terreno. Sui Quaderni Rossi Coldagelli e De Caro pubblicarono le tesi sulla ricerca
storica, io pubblicai le tesi sulla cultura e la classe operaia, poi nel ’65 uscì Scrittori e popolo che
andava ad abbattere un quasi dogma della tradizione intellettuale com’è vista, Mario Tronti in ogni
intervento che faceva proponeva una versione del marxismo diversa da quella dominante. Più in
generale (anche se oggi la rievocazione può apparire un po’ grottesca data la qualità dei problemi),
praticamente ogni uscita nostra era volta a cercare di criticare e demolire la vulgata culturale
comunista dominante, cioè quella della produzione idealistica e gramsciana. Facevo prima i nomi di
Della Volpe e di Colletti, i quali in qualche modo (forse non più a questa altezza, ma sicuramente
negli anni precedenti, in quelli formativi) avevano spinto in questa direzione poiché anche loro,
diversamente e su terreni differenti, erano estranei alla versione gramsciana e nazionalpopolare
della cultura comunista dominante. Sinteticamente si potrebbe dire che loro (anche Colletti) intanto
riportavano l’attenzione sulla lettera dei testi marxisti, spingevano a rileggerli direttamente. Tronti
in Operai e capitale usa ampiamente la teoria marxista ma in una forma completamente diversa da
quella tradizionale, fino a rovesciare persino alcune impostazioni non solo della vulgata marxista
ma del marxismo inteso nel suo senso più stretto. Quindi, una battaglia culturale c’è stata. La
domanda su che effetti ha prodotto, di fronte a tutta la storia successiva, è forse una domanda non
dico mal posta, ma che non serva tanto a capire quello che è successo. Diciamo che si scavò una
nicchia di presenza. Al silenzio degli inizi ha corrisposto poi un’apertura di dibattito anche violenta
nel nostro caso, quindi non era del tutto innocuo questo tipo di posizione; ma naturalmente cose di
questo genere non sono destinate a passare direttamente nella maggioranza, se no sarebbero diverse
e sarebbero la maggioranza. Da parecchio tempo io ho smesso di credere all’idea di un processo in
cui c’è una presenza che viene misurata in base agli effetti che produce: se usassimo questo criterio
di misura dovremmo arrivare rapidamente alla conclusione che è del tutto innegabile che la storia è
malvagia e traditrice, ma questo si sa in partenza. Quindi, è importante il movimento vitale che uno
crea e i cui effetti forse sono ancora da valutare fino in fondo, magari si potranno vedere tra qualche
anno, forse si sono persi.

- Ci può tracciare un profilo biografico, politico e culturale, di una figura importante qual è stata
quella di Galvano Della Volpe?

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Un profilo biografico non saprei tanto farlo, perché io Galvano Della Volpe l’ho più letto che
conosciuto. Nel periodo precedente, cioè quello universitario, un centro importante di dibattito fu
l’Istituto Gramsci, dove, per circostanze che non mi ricordo, esercitavano un ruolo significativo e
avevano una presenza costante sia Della Volpe sia Colletti. Non mi ricordo chi lo dirigesse e perché
ci fossero queste presenze, comunque loro facevano lezione a un pubblico che in sostanza era il
medesimo de La Sapienza e dell’università, ma con la differenza che lì il discorso era più
direttamente teorico-politico. Della Volpe io l’ho conosciuto in quegli anni e l’ho studiato con
grande interesse perché era una rara testimonianza di discorso teorico, culturale, analitico, critico-
letterario e filmografico, che non facesse riferimento, direttamente o indirettamente, a un filone di
stampo idealistico: mi riferisco non solo alla tradizione italiana crocio-gentiliana, ma in particolare
al grande padre di tutti gli idealismi, cioè Hegel. Della Volpe, invece, si spostava sul filone Kant,
nell’estetica soprattutto, ma anche nell’impostazione dei problemi teorico-politici e nella lettura di
Marx. Colletti, senza essere così legato al modello kantiano, sicuramente esprimeva un’istanza anti-
hegeliana fortissima, e quindi leggeva Marx come il superatore della tradizione idealistica della
filosofia classica tedesca. Dunque, della tradizione marxista accantonava tutto quello che invece a
quella tradizione faceva indubbiamente riferimento: Engels stava nella parte spuria del marxismo, e
di Marx valorizzava le parti che invece erano più originali rispetto alla figura del grandissimo
maestro idealista. La lettura diretta de Il capitale, che poi ha portato negli anni immediatamente
successivi alla lettura dei Grundrisse, andava in questa direzione, alla sostanza politico-economica
del pensiero marxiano. Galvano Della Volpe, invece di invocare Hegel sul piano della ricerca
estetica, con un livello e un argomento che a me interessava moltissimo si rifaceva a Kant, cioè
leggeva Kant passando attraverso Marx e viceversa: questa era una vera rivoluzione. Poi tra l’altro
questa scuola kantiana di origine dellavolpiana a Roma è sopravvissuta fino all’anno scorso perché
uno degli allievi estetologi di Della Volpe, cioè Garroni, ha proseguito questo filone. Ciò, per
esempio, contribuì presto a smontarci, e a smontare in me, anche l’ipotesi di Lukàcs come
alternativa al filone gramsciano, perché per un breve periodo di tempo ciò era accaduto: Lukàcs
sembrava il vero marxista che si poteva contrapporre a questo bolso filone storicistico gramsciano.
Invece, Della Volpe ha contribuito a demolire anche questa ipotesi dialettica, certamente la più
prestigiosa e ricca, ma in ogni caso pur sempre discutibile; infatti, Lukàcs non era molto popolare
fino a quando non lo abbiamo scoperto in Storia e coscienza di classe, testo che però, in seguito al
suo rinnegamento, non circolava in Italia.

- Successivamente alla fine di Classe Operaia ci fu la significativa esperienza della rivista


Contropiano, di cui lei fu uno dei fondatori: qual è, anche in questo caso, il suo giudizio
critico?

Contropiano è naturalmente un po’ diversa dalle cose precedenti. Classe Operaia si conclude sulla
base di una discussione interna non del tutto limpida secondo me, soprattutto intorno al tema
rinnovato e ripresentatosi del rapporto con il Partito Comunista, sull’idea del ritorno al PCI che
alcuni realizzano e altri no. Ciò mette fine alla storia di Classe Operaia e fa nascere l’esigenza di
una rivista non più di intervento ma di elaborazione teorica e culturale che riprenda
quell’esperienza, però con tempi più lunghi e con un livello di elaborazione intenzionalmente
differente. Mario Tronti non vuole partecipare direttamente all’iniziativa, anche se vi collabora
all’inizio, perché, uscito dall’esperienza di Classe Operaia, ritiene che sia più opportuno un periodo
di riposo e di cesura. Quindi, la rivista nasce dall’associazione di tre personaggi, cioè Negri,
Cacciarti ed io. Massimo era comparso nel frattempo (ciò per motivi anagrafici, in quanto lui ha una
decina di anni in meno di noi), era molto giovane, aveva 23-24 anni. Contropiano doveva essere
una rivista molto teorica e molto culturale sui problemi di fondo, forse con una più netta
caratterizzazione culturale, nel progetto di più lungo periodo. Dopo il primo numero c’è una crisi
verticale perché, con una coincidenza per certi versi positiva ma per altri un po’ squassante, mentre
la rivista esce si aprono le agitazioni studentesche e operaie tra il ’68 e il ’69, e anche qui c’è una

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riflessione interna tra di noi sul significato e sul peso da attribuire a quanto stava accadendo. La
divisione avviene in sostanza su questo giudizio di fondo, che riporto un po’ estremizzando per
farmi capire meglio: la questione era se il ’68-’69 apriva in Italia un periodo prerivoluzionario
oppure no. Negri pensava di sì, io pensavo di no, ritenevo cioè che un processo simile dovesse
essere più complesso e più lungo: lui chiede in sostanza di far cadere tutto il discorso sul partito,
questione che la rivista aveva cominciato ad affrontare e di cui si era fatto carico soprattutto Mario
Tronti. Siccome io non era d’accordo, Toni uscì dalla rivista, che è rimasta quindi affidata a me e a
Massimo, proseguendo fino al ’71.

- Qual è stato il peso della figura di Gaspare De Caro all’interno del gruppo romano e
dell’esperienza dei Quaderni Rossi e di Classe Operaia?

Gaspare (che io non vedo credo dal ’65, forse incontrandolo per la strada non lo riconoscerei
nemmeno) era e presumo che sia un uomo di estrema intelligenza, uno di quelli che più
rapidamente, ma anche con grande raffinatezza di strumenti, ha trasferito queste problematiche
classeoperaiste sul terreno dell’indagine storica e culturale: lui ha scritto delle cose molto
importanti. Per esempio, scrisse per Einaudi (probabilmente, ma non ne sono del tutto certo, quando
lì c’era Raniero) un’introduzione a La rivoluzione liberale di Gobetti che fece epoca e che, caso
unico della storia, è scomparsa dal catalogo della casa editrice: è stata sostituita da un’altra
presentazione, cosa in sé assolutamente legittima a distanza di decenni, ma è scomparsa
letteralmente, se uno legge il catalogo Einaudi non vi trova traccia. Credo che riuscirebbe molto
difficile ad ognuno di noi spiegare che cosa è accaduto poiché la rottura è avvenuta quando Classe
Operaia era ancora in corso, quindi non si può dire neanche che sia avvenuta in uno degli snodi sui
quali mi sono un po’ soffermato. E’ avvenuta, per quanto mi ricordo e per quanto possa apparire
paradossale, su una critica ad un eventuale moderatismo di Classe Operaia, come se un certo
tentativo di legare elementi operai, nell’organizzazione e nel sindacato, nonostante i passaggi
realizzati dopo Quaderni Rossi, apparisse compromissorio. Poi Gaspare è sparito, più che una
scomparsa è stato un inabissamento nel nostro passato: nessuno l’ha più visto, senza che si sia mai
realizzata una spiegazione su questo argomento. Lui ha lavorato per quarant’anni in una delle
redazioni dell’Enciclopedia Italiana, a due passi da qui dove siamo adesso: non c’è stata nessuna
occasione, né procurata né casuale, per rivederlo. Era un uomo estremamente insofferente,
prontissimo a inalberarsi: l’unica spiegazione banale è che gli dessimo noia. Poi lui, per quanto ci
risulta, ha continuato a frequentare il gruppo di Negri dopo il ’68, quando Contropiano si è scisso e
Toni ha imboccato la strada di Potere Operaio. Qualcuno ci disse che Gaspare partecipava a queste
riunioni, ma non mi pare che ce ne sia nessuna testimonianza, né scritta né orale.

- Insieme ad Enzo Grillo aveva tenuto una relazione al centro Serantini di Bologna nel ’72, di cui
è uscito un ciclostilato intitolato “L’esperienza storica della rivista Classe Operaia”.

Rispetto a De Caro, non saprei proprio cosa dire: l’ipotesi più probabile è che non ci sopportasse
più, che la nostra amicizia gli desse noia. Ho come l’impressione che il fatto che questi 5-6 (perché
parliamo di un gruppo quasi amicale) fossero non sempre d’accordo, anzi sovente in disaccordo, ma
legati da una solidarietà profonda che si è prolungata per tutta la vita, lui lo considerasse una cosa
poco tollerabile.

- Un’altra figura che, arrivata successivamente, è stata significativa nel gruppo romano è quella
di Aris Accornero.

Aris Accornero ha lavorato con noi a partire da Classe Operaia, perché lui in quel momento era un
giornalista sindacale de l’Unità, poi ha fatto altre cose, ha diretto (o prima o dopo) i Quaderni
Sindacali della CGIL, anzi credo che li abbia fondati. Aris ha collaborato a Classe Operaia sotto

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pseudonimo, poi non credo che sia stato in Contropiano, mentre ha collaborato a Laboratorio
Politico. Anche lui ha partecipato molto alle nostre discussioni, era pure un ex operaio, quindi con
delle conoscenze sul campo molto precise. In tutta la fase formativa non esisteva, Aris è infatti un
piemontese che è venuto a Roma a lavorare per l’Unità nei primi anni ’60. E’ un tipo
piemontesissimo, quindi sul piano personale con qualche difficoltà di scambio; peraltro lui è poi
diventato il marito di Rita, dunque lo vediamo molto sovente. La Di Leo è l’altra giovanissima del
gruppo al tempo dei Quaderni Rossi, lei veniva dal Sud: Raniero le fece pubblicare (anche quella fu
una cosa molto scandalosa in tema di dibattito culturale) un testo sui braccianti che rovesciava a
colpi di spada le categorie più consolidate. Si fece un casino infernale, anche nei confronti di
Panzieri che aveva pubblicato una cosa che non si sapeva come poter giustificare. Poi da allora Rita
ha fatto Classe Operaia, è stata in Contropiano. A questo punto abbiamo descritto quasi
nominativamente per intero questo gruppo romano.

- Secondo lei, quanto un’analisi critica di queste esperienze può oggi, in un contesto parecchio
diverso, essere utile nell’affrontare gli elementi e le grandi variabili tuttora aperte, a partire
dalle questioni della politica e della cultura?

Voi insistete molto sul discorso dell’utilità rispetto all’analisi di queste vicende. La mia opinione è
che, non da oggi ma ora in maniera più rivelata e lampante che negli anni passati, si vede che il
vecchio mondo politico, il vecchio assetto di potere, le idee dominanti sono arrivati al capolinea. Su
questo diamo un bilancio molto negativo degli ultimi 10-15 anni. In questo senso io penso che non
dovrebbe essere del tutto inutile portare all luce il fatto che sono esistite delle possibilità diverse: la
conclusione tragicomica a cui stiamo assistendo, o forse vi abbiamo già assistito, non era forse poi
così fatale come qualcuno può credere. E penso (se l’ottimismo non è del tutto cancellato
dall’esperienza) che un qualche spazio per ripensare la nostra situazione con categoria diverse da
quelle dominanti possa esserci, e forse qualche segno che qualcosa si muove c’è, ma sono segnali
ancora molto incerti. Questa parte della storia è stata cancellata, quindi c’è stato il tentativo di
cancellarne anche i protagonisti, i quali si sono difesi in vario modo, taluni vi hanno rinunciato, altri
lo hanno fatto in termini non produttivi. Insomma, secondo me si potrebbe affermare
tranquillamente che l’aratro della storia ha cercato di spargere la terra su queste possibilità sconfitte
sul nascere, nel momento in cui prendevano corpo. Non c’è solo la questione del tempo, ma c’è il
fatto che la storia è stata ricostruita in un certo modo, quindi diciamo che se uno reagisce
disseppellendo forse va anche bene. Ormai non solo ci vogliono fare credere che di fronte a noi c’è
una sola possibilità, ma ci vogliono addirittura far credere che nel passato c’è stata una sola
possibilità. Si cerca di far credere che la complessità della storia non sia mai esistita, non è destinata
ad esistere per il futuro e addirittura non è esistita per il passato: ciò anche se gli strumenti per
reagire non è che siano moltissimi.

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INTERVISTA A MARCO BASCETTA – 16 OTTOBRE 2001

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e l’inizio della tua attività
militante?

Il mio è un percorso piuttosto classico di studente medio del ’68, all’epoca avevo 16 anni: ho
cominciato con le lotte nei licei, che avevano già l’università come punto di riferimento, quindi con
i conflitti nelle scuole dove circolava molta ideologia spicciola, ma anche tanta voglia di conoscere,
di scoprire un contesto sociale più vasto e di trovare una propria collocazione in questo ambito
Dentro questi conflitti cominciavano a circolare delle letture, molte letture e questo era un fatto
fondamentale, frequentando anche gli universitari e gli studenti più grandi venivano suggeriti o
trasmessi numerosi testi. Il tipo di letture e di contatti che anche molto casualmente finivi con
l’avere ti indirizzavano in una certa direzione di pensiero piuttosto che in un’altra, certe cose ti
apparivano come un’apertura sul nuovo, altre meno. Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 le
letture sulle quali siamo capitati noi (ossia un vivace gruppo di un liceo romano) erano i Quaderni
Rossi, Operai e capitale, Contropiano, era la prima traduzione italiana dei Grundrisse che appariva
proprio in quegli anni, oltre alla scuola di Francoforte e autori come Hans Jurgen Krahl e Sohn
Rethel. Il particolare azzardo teorico che si trovava in questi testi ha avuto un elemento di forte
attrazione per me e per altri compagni dell’epoca, perché sembrava tradurre un pensiero di alto
profilo teorico in una prassi possibile. Riusciva cioè a restituire la ricchezza delle prassi attraverso
le sue implicazioni teoriche, e la potenza della teoria attraverso la sua incarnazione pratica. Sulla
base di queste letture e di queste prime esperienze: lotte in corso, forti, vincenti e che mettevano in
campo nuovi soggetti, quando l’insieme del movimento si è andato frammentando in organizzazioni
politiche ci siamo trovati più vicino a Potere Operaio, che aveva raccolto questa tradizione
all’interno del movimento degli studenti e poi del movimento studenti-operai del ’69-’70.
Successivamente molti si sono allontanati dalla prassi organizzativa del gruppo, ma è rimasta questa
impostazione di fondo che riguardava soprattutto un certo modo di leggere il conflitto. Anche in
molti compagni che non sono rimasti dentro Potere Operaio e nell’esperienza posteriore
dell’Autonomia fino alla fine degli anni ’70, ma che hanno abbandonato l’attività politica diretta o
si sono inseriti dentro strutture particolari di lavoro, è rimasta questa impostazione e questo modo di
leggere la realtà che poi è rivenuto fuori anche alla fine degli anni ’80 e nei primi anni ’90, quando
si riallaciavano alcuni nodi. Questa lettura era sostanzialmente l’idea del conflitto come motore, un
elemento indispensabile alla dinamica sociale: un conflitto che non era letto in termini morali di
equa redistribuzione delle risorse, ma in termini di potere, di produzione di modi di vita.In modo
materialistico. Circolava una parola d’ordine assai famosa all’epoca che diceva: “la classe operaia è
una variabile indipendente”, quindi un elemento che non si lasciava governare dalle compatibilità
del sistema economico, ma in questa sua indipendenza ed autonomia lo sospingeva a un gioco di
azioni e reazioni che dislocava diversamente gli equilibri generali del sistema, la condizione delle
persone, incideva anche sui modi di vita, soprattutto sui modi di vita operai che hanno conosciuto
una trasformazione radicale a cavallo tra gli anni ’60 e gli anni ’70, lì c’è proprio un cambio di
mondo. Per quanto riguarda me personalmente, oltre a queste letture e a questa tradizione italiana
avevo un forte rapporto con la Germania, e quindi sentivo fortemente l’influenza di Hans Jurgen
Krahl, quindi della parte teoricamente più radicale della SDS, che allargava questa prospettiva ad
altre tematiche che poi sarebbero rivenute fuori. Per esempio, c’è tutta la critica che Krahl rivolgeva
a Jurgen Habermas, cioè la critica alla divisione tra ragione discorsiva e ragione strumentale che
impoveriva l’idea di prassi, laddove invece la prassi non era mera prestazione lavorativa ma un
concetto più ampio che conteneva in sé o sussumeva (come si era soliti dire a quel tempo) anche
elementi relazionali, intellettuali, politici, più ricchi della pura prassi manuale. Si tratta di un
discorso che poi, parlando di postfordismo e del nuovo modello che si è affermato nel corso degli
anni ’80 e ’90, tornava di nuovo come elemento importante, come strumento di lettura utile.

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- Quali sono state, secondo te, le ricchezze e i limiti dei movimenti degli anni ’60 e ’70 e delle
proposte politiche di matrice operaista?

La ricchezza è stata appunto quella di restituire o conferire al conflitto una sua ragione strutturale, e
quindi nel vederlo non come un fatto volto semplicemente ad ottenere delle cose, ma come motore
stesso della dinamica sociale verso un superamento dello stato di cose esistente. Dunque, era una
cultura del conflitto che lo rendeva più vicino e congenito alla partecipazione diretta di tutti i
soggetti. E lo vedeva da una parte come motore dello stesso sviluppo capitalistico, e dall’altra come
sua negazione radicale, che continuamente si riproponeva su livelli sempre più avanzati, perché
aveva in realtà come bersaglio finale e principale la contestazione radicale del lavoro salariato.
Quindi, non era solo una critica della condizione più o meno sfavorevole all’interno del lavoro
salariato, ma era un agire all’interno del lavoro salariato avendo come orizzonte la sua abolizione.
Però, non era un orizzonte inteso nel senso del sol dell’avvenire, ma era un orizzonte che incideva
direttamente sui comportamenti del presente, per esempio sulla valutazione che si dava della lotta
salariale: ad essa si conferiva non un senso puramente rivendicativo, ma un senso teorico radicale,
perché il fatto di puntare su rivendicazioni salariali che uscivano dalle compatibilità riconosciute e
dal sistema economico, in qualche maniera poneva il tema di una dismisura incolmabile tra i
bisogni dell’individuo e la condizione del lavoro salariato. Perché si chiede sempre di più? Perché
fino a che esiste il lavoro salariato non è data la libertà degli individui, la loro autonomia, la
possibilità di esprimere tutte le potenzialità.
I limiti sono stati, credo, quelli di un certo schematismo, la proposta di un modello rigido, freddo e
spesso troppo astratto, una difficoltà a leggere i processi su scala globale, perché tutto veniva
racchiuso dentro una lettura del rapporto di produzione capitale-lavoro nei paesi avanzati. Ciò era
anche ragionevole da un certo punto di vista, nel senso che avevi di fronte un terzomondismo che
funzionava anche come fuga dall’analisi della realtà; dall’altra parte, però, c’era anche una lettura
un po’ troppo, categoriale, di scarnificazione e riduzione dei processi al loro senso teorico puro, e
quindi una scarsa capacità di cogliere contraddizioni, confusioni, scarti, e questo conduceva a dei
cortocircuiti politico-organizzativi con risvolti settari e poca capacità di convincere.

- Da questa ricerca si può ricavare una peculiare ipotesi. L’importanza dell’operaismo


(intendendo con questa categoria un insieme di esperienze che, pur provenendo da una più o
meno comune matrice politica, hanno seguito percorsi differenti ed hanno avuto varie
sfaccettature) è stata quella di essersi collocato in una fase particolare, ossia l’entrata
ritardata dell’Italia nel taylorismo-fordismo, portandovi una lettura socio-economica
completamente nuova ed individuando nell’operaio-massa una figura non solo potenzialmente
anticapitalista ma anche in grado di muoversi contro se stessa. Il limite fondamentale su cui
sono franate le diverse ipotesi è costituito dall’incapacità di una proposta ed un progetto
politico, quindi nuovi fini ed obiettivi che fossero adeguati alla rottura che si era stati in grado
di operare dal punto di vista teorico con la tradizione socialcomunista, formatasi sulla figura
dell’operaio di mestiere, da cui il lavorismo, lo scientismo, il tecnicismo, il produttivismo che
l’hanno caratterizzata e continuano a caratterizzarla oggi. Quello della politica è dunque un
nodo baricentrale nell’analisi di quelle esperienze trascorse, ed è altrettanto baricentrale ed
irrisolto nell’oggi, seppur in tutt’altro contesto.

E’ un nodo irrisolto anche perché quell’impostazione, proprio per il tipo di lettura del conflitto che
dava, in realtà era in rotta con il passato. Cioè considerava la prefigurazione di una società futura
come una menzogna, un inganno, una favola, un elemento sulla base del quale la classe operaia
veniva ingannata, le veniva richiesto di compiere sacrifici nel presente in nome di un radioso futuro.
Invece, questo giocare nella contingenza, il rifiuto di quella che si chiamava allora la politica dei
due tempi, cioè prima i sacrifici e poi le riforme, l’agire quasi secondo gli insegnamenti di

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Machiavelli, nel giocare le categorie generali interamente dentro la contingenza, era in qualche
maniera in contraddizione radicale e teorica di fondo con l’idea di progetto, di società futura ecc.
Laddove, però, questa idea, fosse anche il frutto di una storia millenaria di inganni, è molto radicata
nella testa dei soggetti, ancor più lo era allora; forse oggi sarebbe più facile operare al di fuori di
questa categoria del progetto della società futura. Però, sull’altro versante si riconoscevano dei
soggetti reali, appunto l’operaio-massa, cioè l’operaio di linea immigrato dal meridione e mandato
magari dai parroci, mentre la vecchia tradizione comunista considerava solo la vecchia figura
dell’operaio di mestiere, politicizzato, e i nuovi operai li riteneva una minaccia, una massa amorfa,
una moltitudine minacciosa che avrebbe rotto la coesione e la capacità di progetto e di pensiero
della classe operaia. Invece, questo soggetto entra, in maniera molto contingente e molto vissuta, in
radicale contraddizione con le condizioni di vita in cui si trova, con il lavoro salariato dentro cui è
inserito, e crea una realtà di conflitto che incide sulle condizioni di vita della classe operaia, cosa
che invece la lunga marcia verso il sole dell’avvenire non riesce più a fare. C’era dunque questo
doppio elemento, la capacità di includere nuovi soggetti, ma nello stesso tempo l’incapacità di
tradurre questa inclusione in una grande visione progettuale. Tuttavia, non si trattava solo di
un’incapacità, era una cosa realmente voluta, insita in quel modo di vedere le cose.

- Come le categorie moderne della politica e del politico, intese come gestione e come progetto di
trasformazione, possono secondo te essere ridefinite, reinterpretate, ripensate anche in
relazione al venire fuori di ancora embrionali ma già importanti movimenti che sembrano
marcare una discontinuità grossa rispetto a due decenni particolarmente difficili come gli anni
’80 e ’90?

Io credo che questa contraddizione di fondo tra contingenza e progetto sia una cosa che tuttora
segna l’epoca in cui viviamo, le condizioni in cui ci troviamo a muoverci. Questo perché partiamo
da un terreno di (mi si scusi il bisticcio) radicale sradicamento, in cui le tradizioni sono state messe
in crisi dove non addirittura spazzate via, in cui le identità sono tutte fragili, e aggiungo tra
parentesi, per fortuna, perché laddove riemergono come momenti identitari forti lo fanno in forme
mostruose, come nelle piccole patrie etniche o nei fondamentalismi. Quindi, questo forte
sradicamento è parecchio in contraddizione con un disegno compiuto di società verso la quale
muovere. Però, nello stesso tempo è una condizione che ha in comune molte cose: diciamo appunto
una comunità dei senza comunità (o dei senza più comunità), la quale non nel senso di un progetto
generale di società diversa, ma entrando nel merito delle condizioni di vita e della cooperazione
sociale incomincia a riconoscere e anche ad articolare i modi di vita che vuole difendere dalla
sussunzione capitalistica, o che vuole affermare come miglioramento della propria condizione.
Dunque, è di nuovo dentro una contingenza, nella dimensione di una soggettività che si crea e si
riconosce nel momento in cui agisce, non è data cioè sociologicamente, ma è data dai processi
vitali, produttivi, lavorativi, comunicativi, intellettuali dentro i quali è inserita. Nel mentre agisce
sviluppa anche i suoi temi, i suoi terreni, le sue parole d’ordine. Si differenzia, a partire da un
patrimonio comune, sviluppandolo in questo suo differenziarsi, invece di confluire, di rinuncia in
rinuncia, verso una volontà generale, un bene comune. Moltitudine contro popolo per dirlo con una
formula che richiama due concetti classici e che è tornata in primo piano. Il movimento contro la
globalizzazione liberista, secondo me, funziona abbastanza così. Infatti non è che lo si possa
spiegare come una sommatoria sociologica di indios della Selva Lacandona, sindacati di sinistra,
organizzazioni cattoliche, volontarie ecc.: è un insieme che trascende in qualche modo queste
singole storie ancora troppo strettamente identitarie, le rimescola proprio in una moltitudine
chiamiamola antagonistica (per quanto sia abusato il termine) che afferma dei suoi temi, dei suoi
punti di vita, delle sue rivendicazioni, attraverso le quali è leggibile un disegno di rapporti sociali in
controluce, ma non un disegno che annulli e sacrifichi questa molteplicità. Non ci sono più i
marxisti-leninisti che dicono che la società ideale è la Cina, o i figli dei fiori che già hanno la loro
rappresentazione di società ideale attraverso le comuni agricole con amore, musica ecc.

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- Quali sono stati i tuoi percorsi successivi alla fine della militanza nelle esperienze politiche di
cui stiamo parlando?

Io ho smesso abbastanza presto di fare il quadro politico nel senso di militare in un’organizzazione
impegnata direttamente nelle lotte, che ne segue tutti i percorsi, le azioni, che si dedica
integralmente a questo. Ho cominciato, nel ’75, a lavorare come giornalista in un testata come Il
Manifesto che allora aveva un punto di vista molto diverso da quello di Potere Operaio; però ho
continuato, non senza suscitare diffidenze e contraddizioni, a seguire un impostazione analitica di
matrice operista e ad avere un dialogo, con interruzioni e rallentamenti, con i compagni con cui
avevamo avuto la stessa esperienza politica nei primissimi anni ’70, e con i quali poi, alla fine di
tutti i rimescolamenti, abbiamo ricominciato a costruire seminari, riunioni, momenti di
aggregazione, le esperienze delle riviste Luogo Comune e poi DeriveApprodi, alle quali ho
partecipato. Abbiamo lavorato a diverse pubblicazioni, tra le quali un libro uscito alla fine anni ’80
che si chiamava Sentimenti dell’al di qua, in cui abbiamo cercato, di fronte ad un mondo
completamente trasformato, che era stato attraversato da questo enorme processo di riconversione
produttiva, e anche da una profonda trasformazione delle mentalità, di riesaminare senza nostalgie e
da un punto di vista rigorosamente materialistico il nuovo paesaggio produttivo e sociale e i suoi
abitanti, rimescolando un po’ tutto, e ricostruendo un filo che cercava di ritrovare, anche nei luoghi
più impensati, la dimensione del conflitto, le contraddizioni, le potenzialità critiche.

- Quali sono stati i numi tutelari del tuo percorso di formazione, oltre a quelli che hai già citato?

E’ un percorso molto eclettico, diciamo pure incoerente, c’è dentro un po’ di tutto, così che vale
forse la pena di citare solo le cose più inconsuete come i romanzi di Ballard o quelli di Bioy
Casares, straordinariamente illuminanti sulla natura della società in cui viviamo.

- Quali sono oggi, secondo te, i filoni di ricerca politicamente più fecondi?

Secondo me il filone più interessante è quello di analisi e critica della proprietà provata intellettuale:
credo che questo sarà proprio uno dei nodi più aspri del conflitto nei prossimi anni. Per dirla in una
formula, ma si tratta di una cosa molto più vasta di questa, è la questione dei brevetti, delle
recinzioni del sapere, dell’appropriazione capitalistica della cooperazione sociale e intellettuale,
questo credo che sia il tema dominante. Un altro tema cruciale riguarda lo sviluppo del concetto di
sicurezza, come elemento oppressivo di estensione oltre misura del controllo, come forma di
esistenza postmoderna dello Stato, laddove esso rinuncia ai suoi compiti sociali ed economici
affidandoli interamente al privato, esiste sempre di più, invece, come portatore di un concetto di
sicurezza apparentemente ottenuto per via di consenso ma in realtà imposto, che è un sistema
pervasivo di controllo e di disciplinamento delle vite. Vedo questi due temi come quelli più
importanti sui quali lavorare, laddove sia il primo sia il secondo hanno a che fare con la gestione
della forza-lavoro, con la gestione della mobilità della forza-lavoro. La questione dell’immigrazione
è assolutamente cruciale perché le politiche contro l’immigrazione coincidono oggi con la politica
di controllo della forza-lavoro in generale, rappresentano una leva che agisce non solo direttamente
su quell’ambito ma su tutta una serie di altri ambiti contigui.
Il lavoro produttivo contemporaneo sarebbe impensabile senza questo suo essere messo in circolo
da soggetti viventi, non semplicemente e neanche principalmente oggettivato nel sistema delle
macchine, ma appunto circolante attraverso le soggettività concrete. Il sapere è un’enorme posta in
gioco e la sua regolazione, la sua appropriazione, la sua recinzione è il processo al quale stiamo
assistendo oggi. L’appropriazione privata dei saperi e del tessuto intersoggettivo da cui scaturiscono
è un processo brutale e selvaggio come è stata la recinzione delle terre alle origini della rivoluzione
industriale; solo che oggi, invece delle terre, si recinta la conoscenza, il linguaggio, la
comunicazione.

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INTERVISTA A PAOLO BENVEGNU’ – 13 SETTEMBRE 2001

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e l’inizio della tua attività militante?

Ho cominciato ad interessarmi alla politica quando ero giovanissimo, in ambiti legati a quelle che
erano le prime avvisaglie di una ripresa dei movimenti nel nostro paese, cioè nel ’66-’67-’68. In
un’età tra i 14 e i 16 anni, ho dunque iniziato a frequentare una sede dell’allora PIUSP a San Donà,
dove vivevo con la mia famiglia. In particolare, ero molto interessato alla frequentazione della
locale Camera del Lavoro: questo era forse un fatto personale e soggettivo, non era legato ad
un’analisi politica bensì ad un percorso di formazione che aveva a che fare con un certo tipo di
letture che avevo fatto individualmente, un interesse che si era sviluppato a partire da una base di
tipo personale. Però, probabilmente era una situazione che stavano attraversando anche altri, per
ragioni che è difficile definire. Comunque, mi sono trovato a frequentare questi ambienti,
cominciando a sviluppare una qualche militanza nel Partito Socialista di Unità Proletaria, poi sono
stato attivo nel ’68-’69 in quei movimenti che si sono espressi anche nelle periferie. Io ricordo
soprattutto la partecipazione e il coinvolgimento mio personale, ma anche di altri giovani della mia
età: dagli studenti (io studiavo al liceo scientifico), alle lotte operaie, alle grandi manifestazioni che
ci sono state nel ’69, allo sciopero sulle pensioni, questi momenti estremamente alti di
partecipazione operaia. La cosa che mi ricordo, che adesso è difficile da vedere e da pensare, era il
fatto che all’epoca ogni manifestazione e ogni sciopero generale comportava la chiusura di tutte le
attività; c’erano cortei che si muovevano nelle varie zone affinché lo sciopero fosse effettivamente
generale e si concludevano con il blocco dell’allora statale che portava da Venezia a Trieste, una
sorta di autostrada, un’importante linea di comunicazione. Già allora, proprio per la vicinanza con
Porto Marghera, mi colpì il fatto che c’erano degli operai e dei lavoratori che abitavano in quella
zona e che riportavano e comunicavano socialmente questa grande esperienza della lotta al
Petrolchimico per gli aumenti uguali per tutti. Io ne sentivo parlare proprio da questi lavoratori che
erano pendolari.
Nel ’70 mi sono iscritto all’università di Padova, alla facoltà di Scienze Politiche: devo dire che
questa è stata un’esperienza che mi ha segnato, innanzitutto perché, casualmente oppure no, proprio
al primo anno come matricole eravamo un gruppo di compagni che poi hanno formato il CDA, il
comitato di base di Scienze Politiche, molti dei quali hanno poi avuto, attraverso storie diverse, una
partecipazione ai movimenti degli anni ’70. In quel contesto sono entrato in contatto con compagni
che magari facevano il secondo, terzo o quarto anno, che erano in facoltà e che già militavano o
comunque facevano riferimento a Potere Operaio. La cosa straordinaria era il livello assolutamente
alto e diverso dal punto di vista della lettura dei processi materiali e anche dell’approccio da parte di
queste figure rispetto sia alla sinistra riformista sia a quella che allora si definiva la sinistra
rivoluzionaria. C’era il partire sempre nella lettura della realtà, delle lotte, dei processi che erano in
corso dai punti più alti dello sviluppo capitalistico e dal punto di vista delle lotte operaie. Questi
compagni ci hanno insegnato a leggere i Grundrisse, a conoscere la storia degli operai americani, ci
hanno messo in contatto con le lotte operaie di Porto Marghera. Quindi, per me come per altri si è
aperto un orizzonte e una chiave di lettura assolutamente diversa, più alta e con strumenti teorici più
avanzati rispetto a quelle che erano le proposte politiche sia del PCI di allora sia dei gruppi alla sua
sinistra. Io ho cominciato a militare in Potere Operaio e all’epoca avevo una situazione di
pendolarità, nel senso che vivevo a Padova ma stavo anche a San Donà, e proprio qui ho iniziato a
fare attività insieme ad altri compagni, in particolare del Petrolchimico e della Zanussi (già questo è
particolarmente indicativo di quali erano i percorsi). Dunque, c’erano studenti dell’università di
Padova, operai del Petrolchimico e operai di avanguardia della Zanussi, e abbiamo costruito la
sezione di Potere Operaio a San Donà. Questo processo si è diffuso, adesso non dico che sia
cominciato là, ma almeno per un breve periodo ci fu la capacità da parte di questo soggetto politico
di passare attraverso le avanguardie di fabbrica anche per costruire le sue sezioni nel territorio. La
zona che va da San Donà a Pordenone era di pendolarità nei due sensi, uno verso Marghera, quindi

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vero il Petrolchimico e la grande concentrazione chimica, e l’altro verso la grande industria
metalmeccanica. Nei paesi più grossi da cui proveniva questa pendolarità e dove tra l’altro c’erano
studenti dell’università di Padova o delle facoltà di Venezia, si formarono sezioni, cellule e gruppi
che facevano riferimento a PO e che hanno fatto anche un’importante attività politica nel territorio.
L’esperienza più importante allora fu l’entrare in contatto con questa realtà, quindi leggere e
studiare determinati testi, proprio perché iscritto a Scienze Politiche o perché in contatto con questi
compagni, e poi c’è stata l’esperienza di lavoro comune con le avanguardie di Porto Marghera. Ho
lavorato insieme a compagni che ritengo straordinari, che avevano diretto la grande lotta sugli
aumenti uguali per tutti al Petrolchimico, capaci di leggere all’interno delle lotte operaie e
all’interno dei movimenti del capitale in maniera certamente molto alta. Questa è la prima fase della
mia esperienza politica.

- Quali sono stati i tuoi percorsi successivi alla fine dell’esperienza di Potere Operaio?

Io sono stato all’interno di Potere Operaio e vi sono rimasto dopo la scissione di Rosolina, come
avvenne non solo per me ma per la stragrande maggioranza dei compagni.

- Buona parte dei veneti inizialmente rimase in Potere Operaio.

Non tutti i veneti, rimase la sezione di Padova di PO: devo dire che con questa allora si intendeva
soprattutto quel gruppo di compagni che erano più giovani, con un’età media che poteva andare dai
20 ai 30 anni. Dunque, potevamo avere alle spalle un’esperienza sì importante, però io nel ’72
avevo 20 anni e per gli altri mediamente questa era l’età, c’era chi ne aveva qualcuno di più, oppure
c’erano quelli più giovani ancora, come un gruppo consistente di studenti medi. Questi furono
compagni che rimasero in Potere Operaio e che parteciparono a quella fase che andò dal ’72-’73
fino a lambire il ’74 in cui PO tentò in qualche maniera di resistere, però in realtà il processo di
disgregazione e di crisi del gruppo era avanzato. Noi mantenemmo rapporti con compagni di Roma,
Torino, Milano, però era evidente il fatto che non esisteva più un soggetto politico organizzato, con
il suo gruppo dirigente stabile, con la sua capacità di iniziativa politica. Io, con altri, feci
l’esperienza anche di Linea di Condotta, che fu una rivista per noi abbastanza importante che
conteneva elementi significativi di autocritica rispetto all’esperienza precedente di Potere Operaio
ed elementi forti di critica delle esperienze che venivano proposte allora, cioè dell’Autonomia
milanese, quello che sarebbe stato Rosso. Sulla base dell’analisi delle teorie che erano prodotte in
quella rivista noi pensammo ad un modello di pratica politica e ad un modello organizzativo
sostanzialmente di tipo leninista: in contrapposizione con la proposta dell’Autonomia, noi
mantenemmo l’idea di un’organizzazione stabile, per quanto fosse povera la nostra impostazione
teorica, comunque eravamo ancorati ad un modello organizzativo classico leninista. All’esaurirsi
dell’esperienza di Potere Operaio decidemmo di dare vita ai Collettivi Politici per il Potere Operaio,
questo fu il passaggio che avvenne in quella fase tra l’esaurirsi della storia di PO e la nascita di un
nuovo progetto politico.

- In occasione della seconda occupazione della Fiat ci fu anche la breve esperienza di Fuori
dalle Linee, una sorta di quotidiano gratuito di cui ne uscirono alcuni numeri.

Noi fummo partecipi anche di questa esperienza, era un foglio di lotta che fu distribuito anche da
noi. Mi ricordo che andammo su a Torino con un folto gruppo di compagni di Padova, tutti peraltro
molto giovani, partecipando come agitatori politici a quella fase di lotta e diffondemmo quel
giornale nelle fabbriche più importanti pure del Veneto. Quella che facemmo allora fu una scelta
dettata anche dal fatto che c’era un impoverimento oggettivo nella nostra capacità di iniziativa
politica. Con alcune persone, che poi erano il gruppo dirigente di allora, le figure più importanti e
significative, al di là dei ruoli di responsabilità definita, il direttivo di questo ambito politico,

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tentammo di ragionare, credo anche con intuizione felice, su come uscire da una situazione di stallo
che vedeva di fatto i compagni ritrovarsi in alcuni luoghi di aggregazione ma senza poi produrre
materialmente alcunché dal punto di vista di una qualche iniziativa politica efficace. Eravamo
diventati un gruppo di compagni che aveva una qualche attività in alcune facoltà e scuole, che
partecipava alle scadenze ma senza un progetto politico chiaro e definito: questo era il prodotto
della fine dell’esperienza di Potere Operaio e della sua dissoluzione. Noi abbiamo cominciato a
interrogarci sul che fare a partire dal fatto che comunque avevamo alcuni elementi di analisi e di
teoria generale, e rispetto a questi abbiamo tentato di dare vita ad un nuovo percorso politico e
organizzativo. Puntammo molto (e, ripeto, fu un’intuizione sicuramente felice) proprio sul
trasferimento dei nostri compagni, strutturammo il nostro gruppo in collettivi che dovevano
lavorare in alcune situazione territoriali determinate. Avevamo come soggetto di riferimento quel
tipo di analisi che allora facemmo sulla realtà, anche perché i soggetti sociali più vicini a noi erano
una fascia di giovani proletari che lavoravano nelle piccole fabbriche, nei laboratori, con
occupazioni di tipo precario. C’era, cioè, questa presenza diffusa di un proletariato che non aveva
esattamente le caratteristiche classiche dell’operaio della grande fabbrica. Ciò non perché noi
avessimo fatto una riflessione sulla fine della fabbrica fordista, che allora non era neanche
concepibile, ma in quanto si trattava di un dato oggettivo della realtà con cui ci confrontavamo, o
comunque era quello che potevamo immediatamente fare in quel momento. Quella fu sicuramente
un’operazione importante e felice, che portò a un radicamento sociale effettivo e ad una crescita:
cominciarono a delinearsi una serie di aree di intervento, quelle tradizionali della bassa padovana
ma anche altri luoghi come l’alta padovana, dove cominciò ad estendersi una trama di presenza
organizzata e di iniziativa politica che portò ad una crescita importante e consistente del soggetto
politico. Ciò probabilmente incontrava il farsi di una ripresa dei movimenti dopo il ’73, nel ’75-’76
si iniziavano ad intravedere ed emergevano alcuni elementi che poi sono esplosi nel ’77. Niente mai
succede all’improvviso, c’è sempre un percorso politico e sociale che porta all’evidenziarsi di
alcuni fenomeni.
Dopo di che il discorso si fa più complesso e articolato. Verso la fine del ’75 e l’inizio del ’76
c’erano diverse realtà con cui eravamo entrati in contatto e avevamo visto crescere alcuni elementi,
c’erano stati fenomeni importanti di rottura all’interno di organizzazioni come Lotta Continua o
altre, cominciava a delinearsi sul piano nazionale la possibilità di una nuova area e di un nuovo
soggetto politico, anche con un consistente radicamento sociale, almeno in alcune situazioni. Noi
spingemmo nella direzione di far partecipare a questo processo anche l’esperienza di cui facevamo
parte. Per una serie di ragioni questo dibattito fu molto limitato al nostro interno, nel senso che non
avevamo i meccanismi di un congresso politico, quindi la scelta che fu fatta da un gruppo di
compagni (che era allora molto ristretto, che poi ebbe comunque un suo sviluppo) fu quella di
aderire a questa ipotesi: quindi, ci fu una prima divaricazione che, però, non fu significativa, non
incise cioè sui livelli di massa e di radicamento sociale. Da qui si divaricò il percorso mio e di altri
compagni rispetto a quello che era cominciato con Potere Operaio ed era arrivato alla costituzione
dell’esperienza dei Collettivi Politici, che erano comunque nati dalla separazione con quelli che
avevano scelto la strada dell’Autonomia Operaia. Insieme ad una parte consistente dei compagni del
Veneto, anche appartenenti a situazione che in qualche maniera aderirono a questo progetto, noi ci
chiamammo fuori, ci fu dunque questa divaricazione.
Poi c’è di mezzo la fine degli anni ’70, io ho subito tre carcerazioni successive per motivi diversi,
l’ultima delle quali per il 7 aprile. Dal ’76 all’80, o perché in carcere o per altri motivi, pur
mantenendo una serie di legami politici comunque di fatto sono stato fuori dalle esperienze
concrete, successivamente ho ripreso i contatti e il lavoro politico. Tra la fine degli anni ’70 e
l’inizio dell’80-’81, il livello sia di repressione sia di sconfitta che il movimento aveva subito
imponeva la verifica, almeno in sede locale e in determinate realtà, della possibilità di tenere in
campo una certa soggettività politica di una qualche consistenza, di modo che non fosse travolta dai
processi di disgregazione dei movimenti e dal livello di scontro che ormai si era raggiunto, da un
lato con l’iniziativa repressiva dello Stato e dall’altro con la scelta delle organizzazioni combattenti

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di alzare il tiro, oltre al dato obiettivo che cominciavano alcuni processi pesanti, il pentitismo, la
dissociazione di massa, tutta una serie di fenomeni che avevano minato pesantemente le esperienze
che erano nate negli anni ’70. Dopo di che, per una serie di motivi soprattutto di carattere personale
(in quanto, come altri compagni, mi sono trovato a dovermi confrontare con i problemi materiali
della vita), sono andato a fare l’operaio lavorando in una fabbrichetta anche 9-10 ore al giorno per il
semplice motivo che quello era l’unico modo con cui potevo garantirmi la riproduzione materiale.
Tra l’altro avevo scelto personalmente di non fare alcuna richiesta che potesse in qualche modo
corrispondere a una qualche forma di abiura rispetto al mio passato: non ho chiesto, ad esempio, il
famoso perdono giudiziario o tutte queste cose che poi avrebbero permesso anche a me, come ad
altri, di usufruire di certe cose. Del resto mi ero laureato in Scienze Politiche con il massimo dei
voti, in un contesto che stava cambiando potevo magari anche trovare una diversa collocazione.
Dunque, ho fatto questa esperienza in fabbrica che per me è stata importante, mi ha permesso di
leggere con un occhio interno una seria di situazioni e anche di percepire alcune realtà che poi si
sono mostrate nella loro pienezza. Mi riferisco anche a realtà negative: per esempio, io ho visto
crescere una capacità di attrazione delle parole d’ordine leghiste, cosa che all’epoca sembrava
inusitata, però io iniziavo a vedere operai, anche giovani, che in una fase di crisi generale e di fronte
all’assenza di un’opposizione reale nel paese alla fine si indirizzavano verso questi orientamenti.
Poi ho avuto la fortuna di essere selezionato per il nuovo stabilimento che il Corriere della Sera
faceva a Padova e, avendo anche una maggiore tranquillità dal punto di vista materiale ed
economico, ho ripreso a interessarmi in forma diretta prima alle questioni sindacali e poi a quelle
politiche: non avevo mai perso l’interesse, ma mi ero un po’ estraniato o messo fuori. Il consiglio di
fabbrica al Corriere della Sera cui ho partecipato è stata un’esperienza certamente importante e
significativa, nel senso che era segnata dalla presenza allora egemone di Essere Sindacato, e quindi
di una posizione critica rispetto alle linee sindacali maggioritarie, una pratica politica di forte
democrazia al proprio interno, con la scelta di partecipazione costante dei lavoratori e dei loro
delegati ai momenti di contrattazione e di decisione. Altrettanto importante era che, almeno nella
prima fase, c’è stata la decisione di dare vita al movimento dei consigli, che fu presa proprio dal
consiglio di fabbrica del Corriere della Sera: la prima assemblea al Teatro Nuovo di Milano fu fatta
su iniziativa dei compagni del consiglio di fabbrica del Corriere della Sera, allora riuscendo a
coinvolgere anche i delegati della CISL e della UIL quando ci fu il famoso taglio della scala mobile.
Questo mi ha portato successivamente anche in Essere Sindacato qui a Padova, poi nella campagna
di raccolta delle firme per il referendum abrogativo di quella parte dello Statuto dei Lavoratori che
sancisce la validità degli accordi e dei contratti firmati dalle cosiddette organizzazioni sindacali
maggiormente rappresentative anche fuori dalla verifica materiale della disponibilità dei lavoratori a
riconoscersi in essi. Qui a Padova mi pare che raccogliemmo 7-8.000 firme, quindi fu un lavoro
significativo. L’altra esperienza importante fu all’epoca delle pensioni, non solo per la
partecipazione alle lotte che ci furono e che portarono alla caduta del governo Berlusconi, ma
successivamente anche per le manifestazioni e le iniziative contro la riforma Dini. All’epoca io ero
già entrato in contatto con compagni che facevano riferimento a Rifondazione Comunista, ero
sicuramente un suo simpatizzante: il fatto che Bertinotti, che era allora il leader di Essere Sindacato,
avesse fatto la scelta di diventare segretario del partito per me era stata una cosa sicuramente
importante, aveva anche cambiato il mio punto di vista. Si capiva dal metodo, dal linguaggio, dalla
proposta che si poteva pensare a una forza politica in questo paese capace di innovarsi e di
interloquire realmente con il movimento operaio. Quindi, ho cominciato a guardare con interesse a
questo percorso politico. L’altra esperienza straordinaria fu quella che portò me e altri compagni
che avevano dato vita al coordinamento dei delegati, con una serie di delegati di fabbrica importanti
qui a Padova, a partecipare al penultimo congresso della CGIL. Con molte realtà di fabbrica
riuscimmo ad avere risultati importanti: in larga maggioranza questa situazione non si è ovviamente
poi riprodotta sul piano generale perché noi non avevamo né la capacità né la possibilità di fare tutti
i congressi ovunque, agivamo sicuramente in una condizione di grande inferiorità rispetto a quello
che era l’apparato dominato dai DS che ha gestito poi una larga parte del congresso. Però,

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ottenemmo risultati importanti e soprattutto cominciammo a costruire, insieme ad altri compagni,
una rete di fabbrica significativa. Questo ha permesso a me e ad altri, poi anche per tramite del
partito, di entrare in contatto con realtà significative, in particolare con compagni della Zanussi di
Pordenone. In questo periodo mi sono iscritto a Rifondazione, come semplice militante, non
partecipando di fatto, se non lateralmente, all’attività del partito, però riconoscendomi in esso,
anche se non tanto sulle pratiche della federazione di Padova, che storicamente era non solo
egemonizzata dai cossuttiani, ma era anche fisicamente diretta e governata da uno dei soggetti
principali dell’accusa del 7 aprile. Quindi, c’era per me un problema proprio di difficoltà personale
ad entrare in comunicazione, pur avendo superato alcuni aspetti della questione tuttavia c’era un
problema evidente di poca possibilità di un dialogo e di un confronto con soggetti che erano
portatori (e poi si è dimostrato anche nei fatti) di una cultura nemica di quello che poteva essere un
progetto di classe vero, degli autentici stalinisti che rappresentavano il peggio della tradizione dei
comunisti italiani, proprio la sintesi più negativa. A prescindere da questo, nel ’98 ci fu per me
un’esperienza veramente straordinaria e di grande anticipazione: con i delegati della Zanussi e di
altre fabbriche organizzammo una manifestazione che, secondo le cifre della questura, portò in
piazza 4-5.000 operai delle fabbriche del Veneto e le cui parole d’ordine erano “contro i bassi salari,
contro la precarizzazione del lavoro, per la riduzione della giornata lavorativa”, quindi con
contenuti alti. Fu nel settembre del ’98 ed era proprio in netta e chiara contrapposizione con la
piattaforma della Confindustria veneta, che poi è diventata la piattaforma della Confindustria
nazionale nonché il programma del governo Berlusconi: già allora questi avevano fatto dieci punti
in cui si diceva “via l’articolo 18, via le tutele alle lavoratrici che sono in maternità, controllo
ispettivo da parte dell’Inps, apertura massima ai contratti a termine e a tutte le forme di
precarizzazione del lavoro ecc.”. Insomma, un programma molto preciso e dettagliato che poi,
anche per il sostegno che questa componente di Confindustria ha dato a D’Amato, è diventato la
base del programma che oggi Confindustria discute con questo governo che l’ha già assunto. La
cosa importante era che questa iniziativa era nata su un tessuto operaio vero, cioè di delegati che si
erano riuniti, avevano scritto i testi dei documenti e dato vita a questa manifestazione. La cosa non
continuò proprio perché ci fu la rottura all’interno di Rifondazione Comunista: ciò determinò anche
un blocco delle capacità di mobilitazione, ognuno doveva pensare a se stesso, a rimettere in piedi
processi organizzativi, a riconsolidarsi. Ci fu sostanzialmente un forte arretramento dovuto al fatto
che si era rotta Rifondazione e questo aveva pesato sicuramente tra i lavoratori e tra le avanguardie
di massa, al di là della soggettività e dei singoli che magari avevano fatto anche scelte diverse. Sulla
parte più avanzata dei lavoratori, al di là delle ragioni, proprio la scissione in sé è stata percepita
come un elemento di indebolimento. Ciò ha pesato veramente, nel senso che ha reso meno credibile
(e ciò è durato per una certa fase in maniera consistente e significativa) un’alternativa alle linee
concertative, ai programmi del governo Prodi, alle politiche dei DS e dei vari governi che si sono
succeduti nell’ambito del centro-sinistra; ed ha reso meno credibile anche una capacità di
opposizione reale ai processi di ristrutturazione e di riorganizzazione capitalistica. Quindi, questa è
stata un’esperienza importante ma che non ha avuto continuità: io credo che dentro di essa ci
fossero, invece, elementi di anticipazione della fase in cui siamo adesso. Io non sto dicendo che essa
non si è sviluppata perché nel frattempo c’è stata la rottura di Rifondazione, in quanto ciò sarebbe
un’analisi sbagliata, anche se certamente è stata vissuta come un arretramento per fasce significative
delle avanguardie di fabbrica: però, dico che là c’erano alcuni elementi di anticipazione rispetto alla
fase che invece adesso stiamo attraversando e che vede in campo anche le soggettività politiche che
in parte provengono o sono state interne a quel tipo di esperienza.
Dopo la scissione io ho deciso di impegnarmi particolarmente nel partito, e al congresso del ’99
sono diventato segretario della federazione di Padova, e adesso, da settembre, sono anche
responsabile regionale lavoro di Rifondazione. Per il lavoro che abbiamo fatto negli anni, per i
rapporti che abbiamo coltivato, al di là del fatto che le cose non possono ripetersi e non si ridanno
nella stessa forma, io credo che in questo ci sia un filo di continuità rispetto alla mia esperienza, c’è
un elemento che penso sia interno. L’esperienza che ho fatto nel passato e i rapporti che ho avuto

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con questi grandi intellettuali di parte operaia, o operai intellettuali, certamente mi danno strumenti
e riferimenti per calibrare nel presente la mia iniziativa politica. Gli strumenti che noi abbiamo
usato nel passato, come l’inchiesta o un certo modo di analizzare la composizione della forza-lavoro
e di classe, gli elementi della soggettività politica che si possono determinare in questi processi, a
mio avviso sono stati strumenti utili per il mio lavoro politico, ma credo che anche all’interno del
partito questa cosa abbia funzionato abbastanza. C’è sicuramente una parte di compagni che,
avendo certi strumenti di analisi e di riflessione, ha capito che alcune cose stavano cambiando.
Quando noi abbiamo detto prima che si vedevano segnali di disgelo dei movimenti e poi abbiamo
detto che la ritirata era finita, avevamo fatto questa scommessa e questa analisi proprio ragionando
su elementi anche parziali di esperienze di lotta operaia o di ripresa dei movimenti sulla base degli
strumenti e dell’analisi che credo sia il patrimonio fondativo dell’esperienza operaista in questo
paese.

- Quali sono stati, secondo te, le ricchezze e soprattutto i limiti delle esperienze operaiste?
Quanto la loro analisi può essere utile nel focalizzare i nodi aperti nel presente e in prospettiva
futura?

Ci sono alcune cose che sono il patrimonio teorico fondativo dell’operaismo in Italia e partono dal
punto più alto del pensiero marxista. Io dico sempre che l’operaismo in Italia ha insegnato a leggere
i Grundrisse, che sono qualcosa sicuramente di straordinario; e poi l’operaismo ci ha insegnato a
guardare agli Stati Uniti, così come Marx che aveva detto che la forma più alta di sviluppo
capitalistico era allora (e si parla del 1850) quella degli Stati Uniti d’America, proprio per la
caratteristica che aveva lì il lavoro, cioè di essere lavoro senza un attributo particolare, il lavoro
astratto era la il carattere fondante di questa forma più alta della società borghese. Questa capacità
di Marx di intuire lo sviluppo della società a partire dal suo punto più alto, e avendo individuato
questo negli Stati Uniti, aveva indicato una strada su cui secondo me l’operaismo italiano si è
collocato. Qua noi abbiamo avuto le più grandi nefandezze di questo mondo, negli anni ’60
Togliatti è arrivato a dire che erano i mezzadri i soggetti centrali, ciò mentre si preparavano le lotte
al Petrolchimico di Marghera, oppure c’erano i terzomondisti, i maoisti, tutti questi qui che abbiamo
conosciuto. Non c’è paragone dal punto di vista degli strumenti di comprensione della realtà:
chiunque pensi e progetti un superamento del modo capitalistico di produzione deve fare i conti con
Marx, con la sua analisi e con la sua teoria del capitale, quella è la strada che bisogna percorrere, la
base teorica fondamentale. E naturalmente questa riflessione deve partire dalla capacità di
confrontarsi sempre con il punto più alto dello sviluppo capitalistico e con il punto più alto dello
sviluppo delle lotte operaie. Anche la lettura di quelli che sono i processi di modificazione della
società che abbiamo conosciuto traggono motore dalla risposta capitalistica al blocco
dell’accumulazione che si era determinata a partire da quella composizione di classe che aveva
messo in crisi il modo di produzione capitalistico alla fine degli anni ’60 e all’inizio degli anni ’70.
Oggi siamo in una fase che parte da là, ciò è indispensabile per capire la situazione in cui ci
troviamo, che stiamo attraversando, che forse si sta concludendo. Però, anche qua è necessario
essere molto attenti a quello che diciamo, perché dobbiamo imparare a ragionare sui tempi più
lunghi, avere la comprensione che le accelerazioni molto spesso sono nefaste. Secondo me, questo è
stato uno degli elementi che ci ha fregato: altri più di me hanno avuto la capacità di intuire e di
analizzare i processi della ristrutturazione capitalistica, di fondarli su una forte base marxiana e su
grossi strumenti teorici, però c’è stato un cortocircuito tra questa capacità di analisi e la
determinazione della risposta. I processi reali hanno tempi lunghi, hanno bisogno di maturare, di
capire e comprendere la tendenza, e non si può cortocircuitare su questo tipo di cose: io credo che
questa sia stata un po’ la base di alcuni errori che abbiamo commesso. Dunque, abbiamo avuto
strumenti teorici importanti, abbiamo compreso una parte significativa dei processi di
trasformazione, abbiamo letto correttamente tutta una serie di questioni, però poi abbiamo
cortocircuitato sul terreno della proposta politica e della risposta, cioè non abbiamo pensato che

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anche questi processi che noi leggevamo e che erano comunque in fase di sviluppo dovevano avere
dei tempi di maturazione, di crescita, di consolidamento.

- Dalla presente ricerca emerge un’ipotesi sulle esperienze del trascorso operaismo. Se questo da
una parte è riuscito a rompere e ad andare avanti rispetto alla tradizione socialcomunista in
una lettura socio-economica nuova e soprattutto nell’individuazione dell’operaio-massa non
solo come figura anticapitalista ma anche per la sua potenziale capacità di muoversi contro se
stesso, dall’altra parte non si è riusciti a rielaborare un progetto politico nuovo.

Non solo di tipo nuovo, secondo me c’era un’ansia eccessiva, nel senso che le intuizioni dal punto
di vista della teoria e la necessità di differenziarsi rispetto ad altre soggettività e ad altre proposte,
spingevano ad anticipare i tempi della reale maturazione dei processi. Era come non comprendere
che i tempi sono comunque lunghi e ci vuole un percorso di consolidamento, di rafforzamento, di
insediamento anche culturale, di costruzione di un senso comune attorno a proposte che possono
essere concrete e realistiche, però non basta vincere sul terreno della teoria, bisogna vincere anche
sul terreno della pratica, bisogna poi essere capaci di trasportare lì tutto il resto. La capacità teorica
e l’intuizione è stata formidabile, perché certamente la lotta al Petrolchimico sugli aumenti uguali
per tutti nel ’68 è stata veramente un’eccezionale anticipazione; ma questo elemento di formidabile
anticipazione poi non è diventato capacità reale di egemonia sui movimenti, perché sono stati fatti
degli errori grandi. Uno sbaglio importante è, per esempio, stato quello di non comprendere che la
scelta fatta allora dal sindacato di formare il sindacato dei consigli era una bella risposta: in realtà,
ci siamo separati dal contesto che avevamo in qualche maniera contribuito a far crescere. Poi c’è
stata l’idea forte e certamente vissuta e partecipata da moltissimi compagni e avanguardie che si
potesse arrivare veramente alla rottura: però, non è stato così, noi abbiamo perso clamorosamente
pensando che fosse possibile in quel contesto e in quella situazione dare l’assalto al cielo, pur
essendoci elementi che potevano anche andare nella direzione di un’analisi e di una proposta di un
certo tipo. Non era vero, noi abbiamo fatto un errore che si può dire strategico, non siamo stati
capaci di comprendere che probabilmente il problema della rivoluzione in Occidente doveva porsi
in altro modo.

- Ci fu anche un’incapacità nel guardare alla dimensione del processo. Il discorso


sull’irreversibilità dei rapporti di forza, ad esempio, andava proprio nella direzione opposta:
questi possono crescere e poi ritornare indietro, non si può pensare che essi stiano su una
freccia unidirezionale e immanentemente orientata. Viceversa, si finisce per pensare che la
rivoluzione sia sempre dietro l’angolo, non considerando invece la dinamica costruzione di
percorsi capaci di stare dentro i processi, per rovesciarli, romperli e trasformarli, ma non certo
negandone l’esistenza.

Adesso non so se bisogna riferirsi ai tempi lunghi di Braudel, però bisognava guardare a processi
molto più ampi. Guido Bianchini sintetizzava in maniera molto semplice certi ragionamenti dicendo
che noi non dovevamo partire dalla rivoluzione d’ottobre, perché questa era stata un colpo di culo!
Nella storia possono starci i colpi di culo, per carità, però non capitano sempre.

- A proposito di Guido Bianchini, che è una delle figure centrali che purtroppo non possiamo più
sentire, potresti tracciare un profilo dell’importanza che ha avuto per il suo pensiero e il suo
agire politico?

Adesso ho riportato questa battuta di Guido, che però non era solo tale ma proprio un modo suo di
riflettere e di pensare sulle cose. Quindi, anche il suo distaccarsi all’inizio di un certo tipo di
dibattito e discussione, la sua presa di distanza era comunque significativa. Però, ci sono compagni
che possono dire più di me rispetto a queste cose, io non mi sento adeguato: all’epoca ero molto

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giovane, le mie frequentazioni erano sicuramente rare rispetto a questi compagni con cui, per tutta
una serie di vicende, ci siamo in seguito visti poco. Con Guido ho avuto modo di parlare e di
vedermi un paio di volte dopo anni, poco prima che lui morisse. Una sera, ad esempio,
presentammo il libro di Cartosio insieme alla redazione di Altreragioni e poi in un’altra occasione, e
lui aveva sempre questa capacità di sintetizzare in battute molto efficaci discorsi politici generali. Io
ho avuto la fortuna di essere invitato alla presentazione dell’ultimo libro di Luciano Ferrari Bravo a
Verona, però ci sono compagni che possono parlare meglio di me sia di Luciano sia di Guido.

- Rispetto ai movimenti che oggi si stanno affacciando sulla scena, quali sono, a tuo giudizio, i
nodi politici aperti?

Il primo problema è quello di fare fuori politicamente tutta questa lettura apologetica sul
postfordismo. Ci sono state delle proposte culturali, dei libri e dei testi che sicuramente hanno fatto
danni da questo punto di vista, nel senso che hanno contribuito ad oscurare un elemento che oggi è
più importante e più visibile di ieri, ossia la ripresa di una nuova soggettività di massa di parte
operaia, che si incontra (e questo è il dato sicuramente straordinario e importante) con una ripresa
generale dei movimenti. Non è che nascano a caso, non c’è nulla che non abbia radici profonde. Nel
Veneto abbiamo avuto una partecipazione straordinaria ai cortei dei metalmeccanici che hanno
portato in piazza e reso visibile questa nuova soggettività di massa di parte operaia, soprattutto
lavoratori giovani. La cosa che mi ha più colpito al corteo dei metalmeccanici a Padova era la
partecipazione molto consistente delle lavoratrici della Omnitel, che sono contrattualmente
inquadrate tra i metalmeccanici, anche se non c’entrano proprio per niente con quello che è
l’operaio di fabbrica classico, se non perché anche all’interno di questi che sono i punti più alti
dell’innovazione capitalistica, i settori avanzati della new economy, si riproducono un po’ i sistemi
e i metodi della catena di montaggio, sia nei modelli organizzativi interni sia nelle modalità non
solo dell’assunzione ma anche contestualmente all’interno del lavorare. Noi qua non abbiamo la
fabbrica fordista, abbiamo una diffusione della catena di montaggio. Ciò si può vedere anche tra i
cosiddetti lavoratori autonomi: se non è quello ad alta professionalità, che può essere paragonato al
professionista in senso classico, anche questi sono soggetti che sono legati ai tempi e ai metodi di
una catena di montaggio che si è diffusa nel territorio: non si concentra più nella grande fabbrica,
ma è dispersa e strutturata dentro la fabbrica a rete. Il problema di ridurre sempre i tempi in cui una
determinata operazione viene fatta non è un rimosso dal punto di vista capitalistico, ma è per esso
una conquista che si riproduce: recenti studi in cui questi dati vengono resi pubblici dimostrano che
è sempre questa la tendenza. I compagni di Altreragioni sottolineano come in Francia (dove questi
dati ci sono) si dimostra che resta sempre dal punto di vista capitalistico il problema del tempo, e
quindi della quantità di operazioni che si fanno in una giornata, in un’ora, in un quarto d’ora. La
Zanussi che mette all’asta una certa quantità di lavoro e di produzione tra i suoi stabilimenti che ha
in Europa, su quale base lo fa? Sulla base della disponibilità della forza-lavoro che sta in questo
stabilimento piuttosto che in un altro di ridurre sostanzialmente i tempi in cui viene fatta una
determinata operazione, perché di questo si parla. Il padroncino che va in competizione con un altro
padroncino per portare x pezzi in quella fabbrica, può avere anche altri elementi, ma quello alla fine
determinante è il fatto che si riescano a fare x pezzi in un determinato tempo. Non è solo il
problema che la valorizzazione capitalistica passa comunque attraverso questo, perché lo scontro è
sempre su questo tipo di terreno. La cosa straordinaria è che se noi andiamo a leggere all’interno di
una qualsiasi realtà produttiva anche i comportamenti soggettivi, il modo di rapportarsi al lavoro, lo
scontro è sempre sul fatto poi di quanto ti fanno lavorare e quanto tu riesci a non lavorare, quanto
riescono a sfruttare la tua forza-lavoro e quanto tu riesci a non farti sfruttare. Questo è un problema
che si può porre collettivamente ma che può essere posto anche nel comportamento del singolo
operaio, pure nella forma dello spostarsi da un posto di lavoro all’altro, sulla base anche di questa
ragione e non solo di una motivazione economica che pure è rilevante e importante.

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- Quali sono, secondo te, le continuità e le discontinuità tra questi movimenti definiti no global e
i movimenti passati?

Ci sono ovviamente forti elementi di discontinuità, ma ci sono anche elementi che in qualche
maniera riprendono alcune fila e tracce del passato. Io credo intanto che importante sia questo
elemento che non è nuovo ma comunque si è riprodotto: negli anni ’60 il movimento non aveva
queste caratteristiche ed era probabilmente su contenuti diversi, ma aveva comunque questa
dimensione internazionale. Noi abbiamo visto prima le lotte degli studenti a Berkley e le lotte
operaie negli Stati Uniti, e poi abbiamo visto le lotte operaie nelle fabbriche dell’auto e i movimenti
studenteschi in Europa. Anche allora abbiamo avuto un certo tipo di esperienza: noi abbiamo visto
Seattle, il movimento ambientalista, il movimento operaio, alcune soggettività di massa negli Stati
Uniti strutturarsi e organizzarsi in un certo modo, e in Europa abbiamo visto Genova. A differenza
di Nizza o Praga, dove il movimento si è espresso ma in una forma diversa da Seattle, a Genova
abbiamo visto la presenza forte del Movimento Operaio (perché la FIOM e i sindacati
extraconfederali non erano una presenza testimoniale ma costituente, di massa e significativa) e
abbiamo avuto la presenza di un forte movimento articolato di movimenti diversi. Io credo che
questi movimenti siano segnati in negativo rispetto alle esperienze che abbiamo avuto negli anni
’70, c’è un filo rosso che unisce la ripresa dei movimenti nel punto più alto dello sviluppo
capitalistico e poi il riprodursi di questi fenomeni su scala globale e assume caratteristiche simili in
contesti diversi, ed è ciò che abbiamo già un po’ conosciuto nel passato. Però, partiamo dal fatto che
in questo movimento si intrecciano culture e storie che sono sicuramente eccentriche rispetto a
quelle del movimento operaio e della tradizione comunista: basti pensare alla forte presenza dei
cattolici, oppure di quello che ha voluto dire l’esperienza zapatista come elemento di
differenziazione. Pur partendo da un certo tipo di pratiche, poi in realtà c’è stato un discorso di
critica rispetto proprio alle pratiche su cui questo movimento era nato e si era sviluppato. Per
svilupparsi in potenza in parte ha dovuto negare i suoi elementi fondativi, ma per crescere
ulteriormente. Per quanto riguarda la situazione italiana, al di là di alcuni segmenti minoritari, è
importante che molte delle soggettività che sono presenti in questo movimento siano segnate
dall’esperienza degli anni ’70, con poca voglia di riprodurli, nel senso che c’è un potente vaccino
che funziona in questa direzione. C’è molta attenzione all’esigenza di pluralità e di incontro tra
soggettività, culture, movimenti, soggetti sociali diversi: per me la presenza dei contadini, ad
esempio, è un fatto straordinario, però è un elemento che sta dentro la crisi del modello di
accumulazione capitalistico. E’ una cosa che era stata vista o letta da alcuni segmenti minoritari del
movimento negli anni ’70, ma sullo schema classico m-l o di tutte queste stupidaggini qua, mentre
oggi invece abbiamo qualcosa di diverso e più ricco: la critica al modo di produzione capitalistico
incontra soggetti che prima erano estranei al movimento, ma proprio per le stesse caratteristiche che
i processi di accumulazione e di valorizzazione del capitale hanno assunto. Io direi banalmente che
ci troviamo in una fase in cui la dimensione stessa raggiunta dal capitale impone l’estensione e
l’intensificazione dei processi della valorizzazione capitalistica, andando a inserire la
contraddizione specifica del modo di produzione capitalistico in aree della società e in luoghi che
prima erano estranei ad essa. Questo è, secondo me, l’elemento di novità. Il capitalismo nasce senza
Stato, Genova era una città che non esisteva in questo senso ed è stata la sede naturale di nascita del
capitale nella sua forma moderna, e già dentro una dimensione che aveva come punto di riferimento
l’ottica mondiale. Il capitale attualmente usa altri strumenti, altri mezzi, altri sistemi, altre
possibilità, è ovvio: adesso usa Internet e prima usava le lettere di credito che giravano per l’Europa
o arrivavano fino ai porti dell’Asia minore o in Sud America o in estremo oriente, c’era comunque
una circolazione su scala planetaria, e anche questi processi si davano su base planetaria. I processi
originari di accumulazione capitalistica hanno avuto comunque questa dimensione, poi abbiamo
conosciuto altre fasi, ma tutto si può dire tranne che il capitale non abbia questo orizzonte fin dalla
sua nascita. Al di là dei mezzi e dei sistemi che sicuramente sono importanti, perché le tecniche
hanno comunque la loro rilevanza, io credo che l’elemento importante di novità e anche la base

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materiale su cui si sviluppano questi movimenti sia un altro. Citavo prima il discorso sui contadini,
che possono essere i Sem Terra o i contadini francesi o alcuni segmenti del mondo del lavoro
agricolo nel nostro paese, che entrano in contraddizione obiettiva e materiale con quelli che sono i
processi di valorizzazione del capitale. Allo stesso modo entra in contraddizione con questi la stessa
riproduzione della vita del paese, le condizioni in cui si riproduce la vita sono quelle che
conosciamo, e la necessità intrinseca del capitale alla valorizzazione entra in contraddizione con
questi processi. Io credo che questo sia l’elemento fondamentale. Come diceva Marx, insomma: il
capitale ha bisogno di valorizzarsi come se in corpo avesse l’amore. Dunque, un capitale non esiste
indipendentemente da queste possibilità di crescere e di valorizzarsi: è una spinta interiore potente e
ineludibile, e non riguarda il singolo capitalista ma riguarda il capitale. I capitalisti veneti hanno
accumulato enormi capitali sullo sfruttamento della forza-lavoro facendo un mazzo così agli operai
in fabbrica: oggi cosa stanno facendo? Stanno praticamente comprando tutto, stanno comprando gli
aeroporti, le municipalizzate, le autostrade: investono i loro capitali in segmenti e in settori che
prima erano estranei, e in questi importano e impongono un modello capitalistico. Quindi, i rapporti
che sono propri del modo di produzione capitalistico e delle necessità intrinseche di valorizzazione
sono obiettivamente in contraddizione con bisogni e aree sempre più vaste della società. Hanno
vinto, ma non hanno convinto: si sta creando su questa base un’opposizione sempre più larga. E ciò
non solo nelle periferie, ma anche nel cuore dell’impero. Questi movimenti si muovono su scala
globale ma hanno un forte radicamento e hanno dimostrato una grande potenzialità di crescita in
paesi che sono dentro il cuore dell’impero, dell’Occidente capitalistico.

- Se tu dovessi fare una domanda a una delle persone che sono state interne alle esperienze
operaiste, che domanda faresti e a chi?

A me interessa l’interlocuzione in particolare con Ferruccio Gambino. Io credo che lui abbia fatto in
questi anni un lavoro straordinario di resistenza ad alcune mode intellettuali e ad alcune culture che
oggi hanno in realtà perso la loro capacità di impatto perché si devono confrontare con i dati
materiali della realtà. Questo lavoro è stato importante perché ha mantenuto ferma la barra sulla
lettura e l’analisi concerta della realtà. C’è questa sua insistenza nella critica alle analisi
postfordiste, che portano ad una perdita nella capacità di lettura della realtà e della situazione
complessiva: la dimensione che ha assunto il lavoro su scala planetaria va in contraddizione con
tutte le teorie della fine del lavoro, della perdita di consistenza del lavoro salariato come soggetto
antagonista. Perché poi alla fine, gira e rigira, questa produzione teorica andava nella direzione di
oscurare questo elemento che è ancora vitale e centrale della contraddizione, della possibilità
comunque di superare il modo di produzione capitalistico.

- L’operaismo, rompendo in questo con la tradizione socialcomunista, aveva proposto come


elemento forte il discorso del rifiuto e della lotta contro il lavoro senza aggettivi, non quindi del
lavoro salariato, intendendo con lavoro non la generica attività umana, bensì l’attività che dà
capitale. Ciò scandalizzò (e scandalizzerebbe oggi, se ci fosse qualcosa del genere) la sinistra
in generale, riformista o rivoluzionaria che fosse, formatasi su una cultura lavorista,
sviluppista, tecnicista, scientista. Quanto è rimasto di quel discorso, quanto si è perso, cosa può
essere oggi riproponibile?

Per me rimane sempre un tema centrale, perché è il cuore della critica al modo di produzione
capitalistico. Liberarsi dal lavoro significa liberarsi dal lavoro salariato, liberarsi dalla costrizione al
lavoro significa rendere attuale una possibilità di superamento del modo di produzione capitalistico.
Mi pare che poi ora sia una necessità ancor più evidente: adesso la messa al lavoro e il lavoro non
sono neanche più un elemento di progresso e di crescita civile e sociale, diventano veramente
antagonisti. Ciò è assolutamente rilevabile in una realtà come questa, ma non lo dico io, lo afferma
l’Unione della Camere del Commercio del Veneto: qua hanno raggiunto il limite dello sfruttamento

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possibile, ma di tutto, andare ancora oltre in questa direzione non significa nemmeno più un
progresso dal punto di vista materiale. Ciò al di là di quella che è la contraddizione tra capitale e
lavoro e di tutto il discorso marxiano che conosciamo, che a un certo il lavoro diventa una base
miserabile rispetto allo sviluppo delle forze produttive. Quello di Marx è un discorso di critica al
lavoro, perché lui parla esattamente di questo quando dice che il furto del tempo di lavoro è una
fase miserabile della produzione di ricchezza rispetto alle potenzialità che lo sviluppo della tecnica
e della scienza hanno messo in campo: quindi, lavorare diventa un limite alle possibilità e alla
potenzialità di crescita e di sviluppo della soggettività di ciascuno e di tutti, proprio a partire da
questo. Oggi c’è un elemento ulteriore, ossia il fatto che i limiti sono anche fisici: quindi, se c’è un
dato in più con cui noi dobbiamo fare i conti, se c’è un nuovo elemento di critica al modo di
produzione capitalistico che si coniuga e aggiunge la sua efficacia all’elemento classico, è proprio
quello che si fonda sull’opposizione che il capitale oggi determina nei confronti della natura e delle
possibilità stesse di riproduzione della vita umana e del pianeta, siamo a questo livello della
contraddizione. Ad esempio, qualche tempo fa Cartosio parlava del tentativo fatto ancora negli anni
’70 e ’80 all’interno della rivista Primo Maggio di ragionare su questi temi coniugando
l’ambientalismo alla critica classica del movimento operaio al modo di produzione capitalistico,
allora erano temi avanzati: oggi diventano questioni del presente, sono cose di cui si può parlare
concretamente e materialmente con la gente, possono diventare senso comune. Per dire una
banalità, lasciando perdere quelli che sono gli esempi classici, che possono essere la storia del
Petrolchimico di Marghera e quello che ha determinato come inquinamento nell’ambiente terrestre
e nella laguna, oggi il semplice fatto che in una determinata area si concentrano i più grandi luoghi
di produzione di massa dei tacchini e dei volatili determina una quantità di deiezioni che sta
praticamente distruggendo le falde, e porta nella laguna una quantità di fosfati enorme. Qua si tratta
di fare delle scelte, ma tutte queste sono cose strettamente connesse e correlate una con l’altra,
perché un certo tipo di produzioni ha a che fare con i livelli di salario: la produzione di massa dei
tacchini e delle galline ha lo stesso valore che avevano gli stabilimenti a Detroit, intorno a cui si
sentiva l’odore intenso di maiali in quanto c’erano grandi allevamenti che servivano a produrre la
carne che veniva utilizzata per riprodurre la forza-lavoro delle fabbriche fordiste della catena
dell’auto. A salari di merda corrisponde un prodotto alimentare di merda, e questo ha tutta una serie
di conseguenze. Sono elementi di critica ulteriore che noi possiamo fare, che possono ritornare
indietro e mettere in discussione proprio quell’elemento di cui si parlava prima, cioè la critica al
lavoro, che poi è quella di cui parlava Marx, cioè la critica al lavoro astratto.

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INTERVISTA A FRANCO “BIFO” BERARDI – 19 NOVEMBRE 2000

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e quali sono state eventuali figure
di riferimento nell’ambito di tale percorso?

Io mi sono iscritto alla FGCI a quattordici anni. Se dovessi dire qual è l’alternativa che negli anni
’60 (in particolare nel ’64, quando appunto mi sono iscritto alla FGCI) si presentava più
immediatamente a un ragazzino che facesse politica era già quella tra un’impostazione di tipo
tradizionale stalinista e un’impostazione di tipo libertario, che poi poteva avere mille
caratterizzazioni, anche quella maoista. Nel mio caso io direi che l’elemento di più immediata
identificazione è stato quello del rifiuto, di una specie di fastidio per lo stalinismo interno al
Movimento Operaio. Insomma, per farla breve, sono stato espulso dalla Federazione Giovanile
Comunista Italiana nel ’67, quindi dopo due anni e mezzo di militanza all’interno di quel partito.
Sono stato espulso perché avevo distribuito un volantino che finiva con le parole “osare pensare,
osare parlare, osare agire, osare fare la rivoluzione”, che era uno degli slogan della rivoluzione
culturale. Quindi, la rivoluzione culturale è stata subito molto al centro di tutta la questione, dei
miei interessi o decisamente delle mie mitologie in quel periodo. Mia sorella era ad esempio iscritta
all’Unione Marxisti-Leninisti, quindi quel tipo di immaginario da guardie rosse nella mia
adolescenza è stato molto presente. Ciò anche se io non sono mai stato maoista, sentivo la
rivoluzione culturale come il processo probabilmente più attraente, più interessante, più complicato
ma non sono mai stato maoista. Dire oggi non sono mai stato maoista rischia di essere una frase che
non significa niente, mentre riferita agli anni ’60 è differente: il maoismo condensava una quantità
di cose che appartenevano molto di più alla mitologia subculturale che all’identità politica, è come
dire mi piace di più Michael Jackson o Madonna, con rispetto parlando. Nel senso che nessuno era
in grado allora, e probabilmente nessuno è in grado neanche oggi, di dare una valutazione storica su
quello che è stato il maoismo, che forse è stata la cosa più importante del XX secolo: questo proprio
perché si è trattato neanche di una linea politica, ma di una modalità culturale estremamente ampia.
Per cui il maoismo è stato buono e cattivo, violento e non violento, autoritario e libertario, tutto e il
contrario di tutto. Comunque, nella rottura con il PCI per me questo passaggio è stato importante.
Poi negli stessi anni, per la precisione nel ’66, io ho anche cominciato a lavorare con la redazione
emiliana di Classe Operaia, cioè con Potere Operaio che si stava formando in Emilia. Per la
precisione durante il contratto dei metalmeccanici del ’66 ho cominciato a lavorare con altre tre
persone che costituivano in quel momento il nucleo di intervento operaio: facevamo intervento in
alcune fabbriche di Borgo Panigale, alla Sabiem, alla Calzoni. Nel ’67 ho cominciato a fare
intervento da solo in una fabbrica che stava vicino a casa mia e che si chiamava Ico, produceva
siringhe. Il periodo tra il ’67 e il ’68 era naturalmente anche l’anno degli studenti, quindi ho
partecipato a tutta quella vicenda in modo molto intensivo, però il mio impegno più specifico era
alla Ico; soprattutto all’ora di pranzo, ritornando dall’università a casa dei miei dove andavo a
mangiare la pappa, mi fermavo alla Ico, diciamo da mezzogiorno e mezzo alle due, facevo un’oretta
lì a chiacchierare, e per un anno era l’appuntamento quotidiano con questa fabbrica. Era una
fabbrica con degli aspetti interessanti, perché si trattava di un settore che si chiamavano i vetrai di
seconda lavorazione, c’erano 450 operai, prevalentemente operaie, condizioni di assoluta non
sindacalizzazione, con anche condizioni salariali e di lavoro pesanti, alcuni facevano delle
lavorazioni con il cobalto ad altissima nocività. Insomma, non era la situazione classica, aveva dei
caratteri abbastanza da situazione di sottosviluppo. Alla fine di questo anno di intervento ero
diventato amico di tre o quattro operai con i quali avevamo costituito il Comitato di Base della Ico,
all’inizio si chiamava così poi lo avevamo chiamato Comitato Operaio. Mi pare nell’ottobre-
novembre del ’68 (già nel pieno del movimento degli studenti, infatti diciamo che poi la presenza
degli studenti ha finito per diventare l’elemento che ha dato la spintarella finale a questo processo di
organizzazione), abbiamo organizzato uno sciopero autonomo: era l’autunno del ’68, quindi rispetto
al tessuto bolognese era una cosa assolutamente eccezionale. C’erano delle richieste soprattutto

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relative al salario, aumenti in paga base e così via: a quel punto è intervenuto il sindacato e lo
sciopero è diventato ufficiale, organizzato con tutti i crismi, è durato per un certo periodo di tempo,
mi pare da ottobre a dicembre del ’68. Alla fine sul piano salariale si è ottenuta una vittoria
notevolissima: la cosa che mi dava molto orgoglio era il fatto di sapere che il padrone, tal
Romagnoli, andava dicendo in giro che io gli avevo personalmente rubato una cosa come non mi
ricordo quante centinaia di milioni, perché aveva fatto i calcoli e quello era ciò che gli costava
quella cosa che lui imputava personalmente a me perché per un anno stavo lì davanti. Questa è stata
la mia esperienza di raccordo diretto fra situazione degli studenti e situazione operaia. Anche perché
poi alla fine di questa vicenda, quando sono partiti gli scioperi, il picchetto era già cosa abbastanza
nuova. Siamo nell’autunno del ’68, c’era già stata l’estate di Porto Marghera, però ancora eravamo
agli inizi, il rapporto operai-studenti si stava in quei mesi sperimentando e a Bologna i picchetti
comuni in quella occasione erano stati una cosa importante.
L’esperienza della Ico ha cominciato a farmi riflettere sulla questione che poi ha caratterizzato tutto
il mio rapporto successivo con Potere Operaio, che è il problema dell’organizzazione, che è il punto
su cui io ho sviluppato dapprima una forte identificazione nell’ipotesi di PO, mentre da un certo
momento in poi ho anche sentito che il mio rapporto con PO andava in crisi. Dunque, era la
questione dell’organizzazione: in che senso? Fin dalla lettura dei Quaderni Rossi e di Classe
Operaia, lettura che avevo fatto da quattordici anni in poi, quindi certamente un elemento di
formazione primaria per quanto mi riguarda, la cosa che mi aveva convinto in quella impostazione
lì era l’idea secondo cui il problema dell’organizzazione non è il problema di soggettività ma è il
problema di composizione. Naturalmente adesso lo dico con delle parole che forse non avrei usato
allora, però il concetto mi era assolutamente chiaro: il problema dell’organizzazione non è il
problema del partito, non è il problema della costituzione di un nucleo di soggettività esterno
rispetto al processo, è tutt’uno con il processo medesimo. Anzi, ricordo che nel maggio del ’68 era
in corso una vicenda pisana, perché mi pare che fossero stati arrestati una decina di studenti per una
cosa accaduta a Pisa, ci fu una manifestazione nazionale l’11 maggio del ’68: in essa io e gli altri
due che costituivamo il nucleo originario di Potere Operaio a Bologna distribuimmo un documento
tutto centrato sul tema dell’organizzazione la cui tesi era che il compito del movimento degli
studenti era stimolare una forma di autorganizzazione che esplicitamente non si costituisse in
partito. Quindi, diciamo che stavamo già assumendo come punto di riferimento polemico
ovviamente il marxismo-leninismo, l’Unione e tutte queste formazioni qui, ma anche quelle ipotesi
che, all’interno della stessa area operaista, si muovevano verso una formulazione di un’ipotesi di
tipo organizzativista, soggettivista, di partito. Ecco, questa questione, sulla faccenda della Ico,
diventò per me un po’ un elemento di prova, perché lì era facile convincere quattro operai a
partecipare alle riunioni di Potere Operaio, cosa che facemmo anche per un po’; poi io mi opposi
all’idea che gli operai della Ico dovevano diventare militanti del gruppo, mi sembrava una cosa che
avrebbe finito per rovinare i rapporti con la situazione di massa, con la fabbrica ecc., e proposi che
le riunioni si facessero soltanto nel bar davanti alla Ico e così via, e che la finisse questa pratica di
portarsi gli operai a casa per costituire con loro una struttura organizzativa. Ora non voglio
esagerare l’importanza della questione, ma dal mio punto di vista questo è stato un po’ l’elemento
di riflessione critica, da un certo momento in poi decisamente critica, nei confronti della storia di
Potere Operaio.
Nel ’69 io sono stato a Bologna nel corso della primavera e poi invece l’autunno dello stesso anno
l’ho fatto prevalentemente a Milano, dove con Toni Verità facevamo intervento alla Autobianchi di
Desio e per un certo periodo anche all’Alfa Romeo di Arese, dove mi ricordo che distribuii il
volantino sulla conclusione del contratto dopo il 19 novembre, in cui si diceva una cosa come “ecco
il primo contratto bidone” e mi presi un cazzottone da parte di un dirigente sindacale. Comunque,
l’autunno del ’69 l’ho fatto a Milano. Debbo dire anche che il rapporto con Potere Operaio in
qualche misura lo vivevo in maniera sovrapposta rispetto al rapporto più interno alle vicende del
movimento studentesco bolognese, in quanto da una parte ero militante del Collettivo di Filosofia di
Bologna, e quella era in qualche modo la mia collocazione sociale più naturale; poi dall’altra parte

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invece partecipavo alle riunioni nazionali o a quelle locali di Potere Operaio. Io non intervenivo alle
assemblee studentesche come Potere Operaio, intervenivo perché ero io, come studente; questo
ancora una volta era in qualche modo un po’ la convinzione che io avevo di una separazione
organizzativa, per cui il movimento si dà le proprie forme di organizzazione e il gruppo o la
struttura politica Potere Operaio per me non era un’organizzazione. Mi è sempre un po’ dispiaciuta
l’identificazione di PO come organizzazione, ma era invece (e in questo senso io lo valorizzavo) un
nucleo di elaborazione teorica vorrei dire, cioè era il luogo nel quale un certo numero di persone che
provengono dalle esperienze più differenti elaborava ipotesi, teorie, cose di ogni genere, che poi
trovavano la verifica politica nel movimento, ma che non si doveva sovrapporre in qualche modo al
movimento. Ovviamente la mia era un’impostazione (così si definiva allora, così credo che
possiamo definirla) di tipo spontaneista; poi se volessimo trovarle dei titoli nobili potremmo dire
anarcosindacalista. Ammetto che l’impostazione anarcosindacalista mi è sempre parsa quella più
affascinante, mi riferisco soprattutto all’esperienza dei Wobblies, degli International Workers of the
World americani: è un’esperienza in cui l’autorganizzazione non ha una dimensione politica
formale e ufficiale, questa mi è sempre sembrata la cosa con cui mi identificavo di più.
Il problema di questa sorta di differenziazione tra esperienza di movimento e momento
dell’elaborazione è certamente entrato in crisi a partire dal gennaio del 1970, quando c’è stato il
convegno di Firenze, il primo convegno (o congresso, non so) di Potere Operaio. In realtà quello
non aveva nessun carattere di ufficialità, si trattava di un incontro molto informale, molto di ricerca;
però, al tempo stesso cominciava a trasparire un progetto, un’intenzionalità che aveva un carattere
esplicitamente leninista, bolscevico, anzi è la prima volta che io sento parlare del leninismo come il
progetto che deve diventare elemento di definizione del gruppo. Ricordo con molta precisione,
peraltro devo chiarire che io sono praticamente malato di una specie di superfetazione della
memoria, ma non c’entra niente Potere Operaio, sono in grado di ricordarmi il gelato che ho
mangiato il 14 di giugno del 1961, se era alla vaniglia o al cioccolato e così via! Comunque, ricordo
molto bene la dinamica di quel convegno: la componente romana essenzialmente (Piperno, Ceccotti
e così via) che sostenevano in maniera esplicita un discorso di formalizzazione politica di partito;
mi pare che Negri lì avesse una posizione più ragionevole, però sostanzialmente attratta dalla
posizione dei romani; poi c’era invece la posizione di Sergio Bologna che a questa cosa resisteva in
maniera implicita, però non polemica, forse perché la polemica non è poi nel suo stile; e invece il
gruppo di Porto Marghera, io e alcuni altri bolognesi che eravamo lì che ci opponevamo a questa
cosa in maniera esplicita. Negli atti del convegno (che poi sono stati pubblicati) ci sono due
interventi, uno dei quali quello mio, in cui la proposta della bolscevizzazione viene respinta
radicalmente. Poi bisognerà dire che a quello che non so se si chiamava convegno o congresso
l’ipotesi dei romani uscì maggioritaria: il giornale da quel momento in poi cominciò a
caratterizzarsi su una posizione molto più impoverita. Se si segue la prima serie di Potere Operaio,
quella dell’autunno del ’69, e poi invece quella della primavera del ’70, io ho l’impressione che si
noti un impoverimento drastico del discorso, anche del linguaggio, vorrei anche dire della grafica.
E’ come se da una fase sperimentale e spontaneista si fosse passati in qualche modo a scimmiottare
un linguaggio più m-l. Nei mesi della primavera del ’70 stavo tra Bologna e Torino, ma in ogni caso
il mio rapporto con la sezione bolognese di Potere Operaio comincia a diventare un po’ più
problematico perché sede per sede, città per città, il problema del rapporto tra linea spontaneista
(fino a quel momento vorrei dire predominante) e linea bolscevica cominciava a porsi. Quindi, ad
esempio nel periodo subito dopo il convegno di Firenze mi ricordo che io e Franco Piro (che in quel
momento era segretario della sezione bolognese) andammo ad incontrare quelli di Porto Marghera,
c’era Augusto Finzi e un certo numero di operai del Petrolchimico e di militanti, non mi ricordo
esattamente chi ma erano molti: la discussione fu tutta puntata sul come impedire che Potere
Operaio andasse sulla strada della bolscevizzazione. Questo per dire che il tentativo di fermare
quella scelta fu almeno abbozzato in maniera seria: non durò molto, perché poi debbo dire che
eravamo evidentemente in minoranzissima, alcune realtà come Porto Marghera e Bologna e direi
basta, poi delle persone come Sergio Bologna, che aveva una posizione molto dubbiosa ma che non

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credo che avesse voglia di impegnarsi in una battaglia. Quindi, direi che nel corso della primavera
del ’70 le resistenze antibolsceviche, per dire così, si sono rapidamente dissolte. A quel punto
Franco Piro, il quale non è mai stato un mostro di coerenza e invece ha sempre avuto una
predilezione diciamo per il potere anche (nella piccola misura, successivamente ha pensato alle cose
in grande), dopo qualche mese scelse di allinearsi sulla posizione nazionale. Io mi ricordo che fu
una cosa anche proprio di dispiacere personale, vivevamo insieme, stavamo nella stessa casa in quel
periodo, per cui il fatto che lui avesse deciso di assumersi questa responsabilità mi parve una cosa
personalmente sgradevole. Io con Franco avevo avuto un rapporto molto intenso fra il ’68, il ’69 e il
’70, poi da quel momento abbiamo un po’ allentato ogni rapporto, io ho anche cambiato casa a un
certo punto.
Dopo di che nell’autunno del ’70 succede una vicenda per cui io ho dovuto scappare da Bologna: ci
fu una manifestazione operaia alla Ducati e alla fine il servizio d’ordine di Potere Operaio
organizzò un corteo grosso che arrivò fino a una scuola, la Laura Bassi, dove alla mattina c’era stato
uno scontro tra studenti e polizia e i poliziotti non mi ricordo se avevano arrestato, fermato o
semplicemente cacciato fuori dalla scuola il nucleo studentesco che ci stava dentro, per cui PO
decise, dal momento che era una sua scuola, di andarla a recuperare. Io, essendo sempre più
spontaneista e sempre meno organizzativista, il giorno prima non ero andato alla riunione nella
quale si era deciso che nel caso accadessero certe cose si sarebbe compiuta un’azione militante e
organizzata. Per cui non lo sapevo e ho seguito il corteo senza sapere cosa sarebbe successo, negli
ultimi trenta metri tutti si sono tirati giù il passamontagna e io no perché non ce l’avevo! Insomma,
il risultato è che c’è stato uno scontro rapido ma violentissimo, due poliziotti hanno anche avuto
qualche ferita, uno con il setto nasale rotto, è stato un vero scontro frontale: io ero lì come un fesso,
l‘unico a faccia scoperta, quindi dal giorno dopo ero ricercato ufficialmente, per cui sono scappato
la sera stessa e ho iniziato un periodo di latitanza che è durato fino alla primavera del ’72, quindi
circa un anno e mezzo. E’ stata una latitanza che ho fatto a Roma nel corso del ’71, però il mio
rapporto con Potere Operaio è diventato sempre più esterno, nel senso che frequentavo le riunioni
nazionali, non avevo più una sede stabile. A Bologna continuavo a passarci, perché poi bisogna dire
che a quell’epoca (io me lo ricordo benissimo) la latitanza era uno sport abbastanza facile:
insomma, lì veramente il contropotere cittadino funzionava, nel senso che i poliziotti non erano
tanto nella predisposizione di cercarti accanitamente se questo non diventava indispensabile.
Insomma, per farla breve, nel ’71 io sono stato prevalentemente a Roma, dove vivevo a casa di un
noto scrittore del quale non occorre fare il nome, vivevo in una casa amica, frequentatissima, dove
passava tutto il mondo letterario romano, io ero noto come il latitante, questo anche per dire che la
cosa aveva delle caratteristiche che oggi sono del tutto inimmaginabili. Nel ’71 ho fatto anche molto
Roma-Torino, soprattutto d’estate mi ricordo, fra maggio, giugno e luglio continuavo ad andare a
Torino, poi passando per Bologna frequentavo le riunioni di PO. Ma, insomma, nel ’71 il mio
rapporto con Potere Operaio era il rapporto di un vecchio amico, nel senso che in fondo ero stato tra
i fondatori della sezione bolognese e quindi comunque avevo un rapporto molto intimo con quella
situazione, ma non mi sentivo un militante e meno che mai un dirigente. Ero stato nell’Esecutivo
Nazionale che si riuniva a Firenze mi pare dall’autunno del ’69 fino all’estate del ’70, poi dalla fine
di quell’anno in poi non ne facevo più parte, non so se per decisione personale o perché qualcuno
mi aveva fatto notare che la mia posizione era troppo distante. Ma, insomma, mi sentivo sempre di
meno in sintonia con le posizioni dell’organizzazione. Questo fino al congresso del luglio del ’71,
che si tenne all’Eur, nel quale io sono dichiaratamente uscito dall’organizzazione.
Debbo anche dire che ci sono alcuni particolari che ho dimenticato, come il fatto che nella
primavera del ’70 esce un mio libricino che si chiama Contro il lavoro, pubblicato da Feltrinelli.
Quel libricino si riferiva soprattutto alla discussione interna a Potere Operaio ed aveva un carattere
esplicitamente antileninista, contrario alla svolta. In quel periodo Toni Negri (mi ricordo
precisamente anche in che occasione), prima che il libro uscisse però quando era ormai in
tipografia, mi disse: “Ho letto il tuo libretto, avresti dovuto prima parlarne dentro l’organizzazione”.
Gli dissi che non mi era neanche passato per la mente di fare una cosa di quel genere. La cosa fu

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molto amichevole, lui non mi rimproverò, mi fece semplicemente notare che un militante avrebbe
dovuto comportarsi in una certa maniera; io gli feci notare che invece mi sembrava che se uno
scrive una cosa è roba sua e non è dell’organizzazione. Dico questo perché in qualche modo
cresceva la distanza, il disaccordo su quel punto specifico che non è un tratto caratteriale, è una
questione politica, teorica relativa al rapporto tra organizzazione e movimento; su questo punto io
credo di avere avuto un’estraneità profonda nei confronti dell’ipotesi organizzativista, ma anche
vorrei dire dello stile organizzativista. Ma debbo dire anche che secondo me questa estraneità mia
apparteneva alla grande maggioranza dei militanti di Potere Operaio. In qualche modo io ho sempre
percepito un doppio discorso interno a PO: da una parte un discorso ufficiale che si faceva al
congresso, al convegno, all’incontro, insomma nei luoghi della discussione politica, dove in fondo
l’assunzione di un’ipotesi di tipo leninista (quindi la costruzione della struttura di partito,
l’identificazione dell’organizzazione come il luogo che in qualche modo deve dirigere il
movimento), tutto questo faceva parte del linguaggio ufficiale; però, nella discussione non ufficiale,
diciamo così, la percezione di sé del militante di PO era di tipo spontaneista. Cioè, anche se il
discorso ufficiale era quello di tipo leninista, noi ci sentivamo comunque i meno leninisti di tutta la
famiglia. Debbo dire che questo ho continuato a percepirlo nel comportamento quotidiano: io per
anni ho fatto il nomade, andavo tra Torino, Milano, Bologna, Roma, Ferrara, ma anche altre
situazioni (non in Veneto), dove avevo un certo numero di amichetti, generalmente dell’area di PO,
più o meno militanti, ma tutti con un rapporto molto free sul piano organizzativo, e però gente che
poi interveniva in una fabbrica, lavorava in una fabbrica saltuariamente, faceva questo e quello, con
un riferimento politico generale all’organizzazione, ma poi con l’organizzazione poteva avere anche
un rapporto militante ma molto ironico, cioè “sì, d’accordo, il venerdì c’è la riunione di partito e
faccio finta di essere un militante di partito, ma in realtà sono un agitatore anarchico”. Questo
elemento di autoidentificazione libertaria, spontaneista, per me è sempre stato il segnale di
riconoscimento più forte del militante operaista; e la forma organizzativa leninista in qualche
misura era sovrapposta a questo tipo di identità. Forse non è stata la stessa cosa a Roma. Da un
certo momento in poi alcuni settori e componenti hanno finito per prendere molto sul serio quella
svolta anche sul piano personale, fino alle conseguenze poi diciamo della scelta di organizzazione
armata. Ma fin quando l’esperienza di PO è stata viva e attiva direi che sul piano culturale
l’identificazione fondamentale non era quella leninista ma era quella spontaneista.
Nel ’72 sono stato arrestato, subito dopo la morte di Feltrinelli: la settimana successiva,
evidentemente nell’ambito delle ricerche e delle indagini, mi hanno arrestato, sono stato in galera
per sei mesi e quando sono uscito, nell’estate del ’72, per alcuni mesi ho cominciato a fare lavoro
politico a Francoforte. Ho dimenticato un piccolo particolare, e cioè che dopo il congresso di Roma,
nel luglio del ’71, io ho chiesto ufficialmente (e mi sembrava una bizzarria estrema e un segnale di
tipo polemico) l’iscrizione a Lotta Continua. Cosa per cui per due mesi ho anche frequentato la sede
bolognese di LC, contemporaneamente sul giornale Lotta Continua usciva un articolo di Guido
Viale che mi attaccava personalmente per Contro il lavoro, questo libretto considerato come un
segnale di follia estremista. Dico questo perché in fondo il rapporto di militanza io l’ho considerato
come una cosa molto alla cinese, fatto di gesti simbolici, in cui non ha nessuna importanza la
fedeltà di partito, mentre ha importanza il fatto di spostare un poco gli elementi simbolici che
definiscono il quadro. Per cui in quel momento Lotta Continua ai miei occhi rappresentava una
componente più spontaneista di quanto fosse Potere Operaio; anche se sapevo benissimo che la
sostanza teorica di quello che Potere Operaio aveva elaborato aveva uno spessore molto maggiore
di quello che aveva prodotto Lotta Continua, però in quel momento mi sembrava importante
accentuare un discorso sul carattere di spontaneità del movimento, quindi insomma un discorso di
tipo antibolscevico. Il mio rapporto con Lotta Continua poi è sempre stato molto amichevole anche
perché nella vita quotidiana era la gente che frequentavo di più; abbandonata la casa con Franco
Piro mi ero trasferito a casa di un gruppetto di persone di LC con cui poi ho vissuto nei vent’anni
successivi. Tutto questo aveva dunque dei caratteri che mi fa un po’ ridere vedere come politici,
facevano parte proprio del quotidiano. Nel ’73, quindi dopo essere uscito dal carcere, ho passato un

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periodo a Francoforte dove c’era una piccola sezione di Potere Operaio fatta di operai della Opel di
Russelscheim con cui ero in contatto. Poi avevo anche fatto uscire un opuscoletto che si chiamava
Classe operaia multinazionale (lì a quel punto avevo ripreso i rapporti con Negri anche), dove si
tentava un poco di riproporre un percorso di autorganizzazione non leninista a livello
internazionale, partendo dai circuiti spontanei di movimento degli operai immigrati. E’ anche il
periodo in cui escono un certo numero di copie di Potere Operaio dedicate proprio al problema
dell’immigrazione: mi ricordo che c’era un numero che si chiamava Friulani negri d’Europa,
sull’immigrazione friulana, sulla sua capacità di funzionare come elemento di autorganizzazione a
livello europeo. Cioè, si tratta di una serie di intuizioni che in fondo dal mio punto di vista
costituiscono il vero contributo di Potere Operaio, mica l’organizzazione di qua o di là, ma
l’individuazione di alcuni nuclei di grande potenza autorganizzativa, come l’individuazione del
fatto che l’immigrazione è un fattore di autorganizzazione culturale, quindi politica ecc. Sono poi
intuizioni che hanno lavorato molto al di là della crisi politica, della fine politica del gruppo.
Nel ’73 io per puro caso a quel punto mi trasferii a Torino: stavo con Claudia da poco tempo e lei
aveva avuto un lavoro, faceva l’animatrice nei grandi magazzini, la pagavano benissimo, lei e delle
sue amiche andavano a fare le majorette, e allora fu chiamata alla Rinascente di Torino nel
febbraio-marzo del ’73, cioè mentre la Fiat stava per esplodere, lì poi c’è stata l’occupazione. Per
cui in quel periodo io mi sono piazzato a Torino per alcuni mesi, da febbraio-marzo, e ho seguito
tutta la fase finale della lotta contrattuale e poi l’occupazione di Mirafiori. Ormai il mio rapporto
con Potere Operaio non aveva più il carattere organizzativo, nel senso che non andavo alle riunioni
delle sezioni, però i miei amici erano tutti militanti di PO per cui vivevo con loro e facevo le cose
che facevano loro, allora in quel caso ero amico di Toni Verità che in quel periodo era a Torino,
c’era Paolo Albani, poi ero amico di Paolo Bertetto, di uno che si chiamava Cicci ma non ricordo il
cognome, Umberto o Maurizio Piana; insomma, c’era tutto questo gruppetto di persone con cui
vivevo e con cui andavo a fare lavoro politico a Mirafiori e distribuivo i volantini di Potere Operaio
anche se non partecipavo alla loro elaborazione. Quello che nell’occupazione di Mirafiori secondo
me fu molto significativo, che io considerai in qualche modo come una conferma dell’ipotesi
spontaneista, è che tutto ad un tratto lì, nel periodo dell’occupazione, emerse con assoluta chiarezza
che non c’era proprio bisogno di qualcuno che andasse a insegnate agli operai quello che dovevano
fare perché lo sapevano perfettamente da soli: insomma, perché l’acquisizione dei percorsi di
organizzazione della lotta era un fatto talmente diffuso che la presenza di Lotta Continua e Potere
Operaio ai cancelli serviva come elemento di circolazione, non come elemento di direzione politica.
Ecco, la direzione politica non poteva esistere all’esterno del percorso medesimo del movimento e i
gruppi potevano funzionare come elemento di circolazione, di rappresentanza culturale, di
informazione certo. Debbo dire che non saprei dire a partire da quando, ma in quegli anni io andavo
sempre più convincendomi del fatto che l’esperienza dei (come vogliamo chiamarli?) gruppi
extraparlamentari, insomma di quel tipo di avanguardia, non era stata, non era e non doveva essere
una funzione di direzione politica, ma doveva essere quella di un elemento di circolazione culturale
e di informazione. Tra l’altro io in quegli anni cominciavo anche ad occuparmi di tutta la questione
che poi mi ha portato alla radio, a Radio Alice, cosa che è esplosa tra il ’76 e il ’77, ma io a Bologna
con un gruppetto di persone (che peraltro venivano da Potere Operaio) di questa cosa ne stavamo
parlando dal ’72: cioè del tema del rapporto tra informazione e movimento direi che io
personalmente ho iniziato ad occuparmene da quando ho letto un libro che si chiamava Per una
strategia socialista dell’informazione, edito da Guaraldi, in cui c’era una cosa di Enzensberger e
una di Baudrillard (forse del ’73). In quel testo erano posti i problemi che poi ci hanno portato a
Radio Alice, cioè: l’informazione deve essere considerata come una specie di ristabilimento della
verità proletaria contro la bugia borghese, o deve essere invece più laicamente considerata come
uno degli elementi dell’autorganizzazione del sociale? La base è su questa problematica qui, che poi
vuole dire emanciparsi dall’eredità leninista e stalinista, anche sul punto specifico
dell’informazione; liberarsi dall’idea che noi siamo portatori di una verità contro la menzogna
borghese e rendersi conto del fatto che non c’è nessuna verità e nessuna menzogna, c’è

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semplicemente un processo di autorganizzazione di un’area, di un movimento, di una classe, di
questo o di quello. L’occupazione di Mirafiori per me è stata un’esperienza esilarante, anche
proprio molto divertente sul piano di quello che accadeva. Ho partecipato a dei cortei interni, perché
poi avevo degli amici operai. Paradossalmente io ho incontrato le droghe durante l’occupazione di
Mirafiori a Torino, cioè ho scoperto, perché me lo dicevano questi ragazzi interni, che dentro i
reparti della Fiat si facevano le canne; siccome io venivo dall’idea che le droghe fossero un pericolo
per l’integrità del proletariato, scoprivo tutto ad un tratto che invece erano un modo per ridurre i
ritmi di produzione e via dicendo. Quindi, lì l’occupazione di Mirafiori io l’ho vissuta anche come
una specie di esplosione di comportamenti niente affatto bolscevichi e molto hippy, molto
settantasettini in anticipo; quando io poi sento parlare degli indiani metropolitani nel ’77 mi viene
sempre in mente che i primi indiani metropolitani io li ho incontrati a Torino nel ’73, questi che si
mettevano il cordino rosso intorno alla testa, facevano dei cortei in cui nessuno gridava delle parole
d’ordine sensate, dicevano le assurdità più complete, giravano con dei tamburi ecc.

- All’interno però si produssero livelli di lotta molto violenti, si svilupparono anche le BR.

E’ nello stesso periodo, però quella cosa lì è alle meccaniche, i miei amici erano tutti delle
carrozzerie; credo che anche proprio storicamente la formazione delle BR a partire dal ’73 è tutto un
fenomeno interno alle meccaniche, mentre le carrozzerie sono anche poi il luogo in cui è più forte
Lotta Continua essenzialmente. Per quanto riguarda l’occupazione del ’73, anche se certamente
questo aspetto è importante, però io non l’ho visto per nulla, poi ciascuno vede quello che vuole
vedere. Inoltre mi ricordo che subito dopo ho anche scritto delle cose sull’espressività dei cortei: mi
aveva fatto impressione questa cosa di un piazzale sul quale c’erano 5000 macchine da mandare al
collaudo e questi passavano e attaccavano lo scotch sui clacson, per cui dopo un po’ c’erano 5000
macchine che urlavano come pazze e questo corteo che girava intorno. Era una specie di girone
infernale però al tempo stesso completamente allegro, con un senso della partecipazione assurda e
felice che poi io ho trovato in quello che è successo dal ’75 al ’77 da noi, a Milano e così via; tutta
quella energia niente affatto bolscevica, niente affatto novecentesca, niente affatto storica e seriosa
già l’avevo sentita nell’occupazione di Mirafiori.
Poi che succede? D’altra parte l’esperienza di Potere Operaio per me si era già in qualche misura
esaurita, diciamo pure tra il congresso di Firenze del gennaio ’70 e il congresso di Roma del luglio
’71. Nel periodo successivo ho continuato a seguire direi più come amico degli amici di Potere
Operaio che come militante o come dirigente del gruppo, con cui però, ripeto, continuavo ad avere
un rapporto, perché poi incontravo tutti quelli che contemporaneamente ne facevano parte, nel
frattempo ero diventato amico di Oreste Scalzone, continuavo a frequentare Negri ogni volta che
andavo a Milano; ma non mi sentivo, e credo che non fossi più percepito, come uno a cui si
dovessero raccontare tutte le cose. Questo mi ha certamente molto aiutato qualche anno dopo,
perché io non ho avuto nulla a che fare con gli arresti del ’79, cioè non sono mai stato interpellato
per quella faccenda. Allora, debbo dire che nel frattempo era successo il ’77 e quella vicenda mi ha
portato così nell’occhio della magistratura che credo che sapessero perfettamente tutto della mia
vicenda. So anche di una cosa che disse il giudice che si occupa delle vicende bolognesi del ’77, il
quale fu interrogato da Calogero nel ’79, perché questi tentò di aprire un filone bolognese e
Catalanotti (che appunto era il giudice che aveva perseguitato il movimento a Bologna nel ’77) gli
disse a mio proposito che il mio rapporto con Potere Operaio non aveva nulla a che fare con quello
che era successo nel ’77, in qualche modo evitando un coinvolgimento dei bolognesi nella
situazione del 7 aprile o del 21 dicembre. Il che vuol dire da una parte che erano ben informati, ad
esempio sapevano che io non ero stato al convegno di Rosolina perché neanche sapevo che c’era,
nessuno me lo aveva detto, non appartenevo più all’organizzazione. Poi Oreste mi aveva parlato del
convegno di Rosolina, ma insomma per me ormai la questione interna a Potere Operaio era
diventato un argomento molto distante. Al tempo stesso debbo dire che però invece la continuità sui
temi di Potere Operaio nel ’77 è assolutamente lineare, cioè dal mio punto di vista l’esperienza fatta

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fra il ’67, ’68, ’69, ‘70 e ’71 se si vuole, comunque l’esperienza di quella che io considero la fase
essenziale di PO, quella precedente alla svolta leninista, riemerge pura e puntuale nel momento in
cui a Bologna si determina una situazione di movimento, ossia dopo il ’75. E A/traverso, che io poi
faccio con un gruppetto di persone, alcune uscite dalla fine di Potere Operaio (ma alcune), riprende
i temi che erano quelli dello spontaneismo operaista pre-convegno di Firenze. La rivista esce dal
maggio del '75 e quindi ha un po’ accompagnato la formazione del movimento di Bologna, quello
che arriva poi al marzo ’77, e l’impostazione che noi abbiamo dato è stata tutta centrata sull’idea di
un processo di autorganizzazione in cui la soggettività politica non gioca nessun ruolo, se non un
ruolo di strumento di informazione, di strumento ecco, mai di direzione ma sempre e soltanto di
strumento. Poi nel ’75 disponevamo di alcuni strumenti culturali nuovi, avevamo letto l’Anti-Edipo,
avevamo vissuto l’esperienza del movimento femminista e del movimento gay come degli elementi
molto importanti di ridefinizione della prospettiva politica. Quindi, a quel punto quando parliamo di
autorganizzazione non pensiamo più soltanto alla fabbrica, ma il processo di autorganizzazione
significa la vita quotidiana, la forma dei rapporti urbani, il rapporto tra classe o tra proletariato
giovanile e ambiente urbano. Anche quello di proletariato giovanile è un concetto che risente di
questa contaminazione tra problematica operaistica classica e dimensione urbana non più riducibile
all’identità operaia. Però, al di là di questi elementi fenomenologici, relativi alla nuova
composizione sociale, il metodo resta il medesimo, cioè resta quello secondo cui l’azione politica
non è azione di direzione, ma è lo strumento dell’autorganizzazione sociale.

- Analizzando le esperienze politiche a cui sei stato interno e i movimenti che si sono sviluppati
negli anni ’70, hai evidenziato quelli che sono stati i limiti di un’impostazione organizzativa che
ha rischiato di tendere alla chiusura in partitini che riproducevano impostazioni tradizionali.
Tuttavia si pone il nodo che è rimasto irrisolto (nella teoria e nella pratica) del rapporto tra
movimenti e forme organizzative: se da una parte si è teso alla chiusura in orticelli
precostituiti, dalla parte di quella che tu definisci una posizione spontaneista si è evidenziato il
problema del non sedimentare passaggi effettivi che dessero efficacia, efficienza e progettualità
all’agire politico. Dunque, quali sono i limiti che tu analizzi per quanto riguarda questa
posizione che tu chiami spontaneista?

Dal mio punto di vista la mancata continuità organizzativa non è affatto responsabilità dello
spontaneismo ma è tutto il contrario. Cerco di spiegarmi. Si pensi a quello che succede dopo il ’77,
diciamo dopo il convegno di settembre: succede che si ha un movimento che socialmente aveva
raggiunto una vastità considerevole e che in fondo conteneva al proprio interno una quantità di
competenze sociali, scientifiche, tecnologiche, comunicative che poi abbiamo visto all’opera nei
vent’anni successivi, nel senso che se oggi cerchi di vedere, molto di quello che è successo di nuovo
sul piano scientifico, culturale, comunicativo e perfino industriale, scopri che per buona parte le
energie nuove si sono formate nelle esperienze operaiste. E poi potrei anche dire dei nomi, insomma
Potere Operaio e Lotta Continua: da lì, da quell’ambito viene fuori buona parte del personale
politico dell’innovazione degli anni ’80 e ’90. Bene, noi abbiamo rinchiuso quelle potenzialità
dentro la forma organizzativa, contemporaneamente esplode un movimento, del quale noi vogliamo
essere la direzione, ma quando questo movimento giunge al culmine, diciamo nel ’77 e poi
particolarmente nel convegno del settembre ’77, non c’è assolutamente la capacità (questa è la
stupidaggine più grossa che abbiamo fatto) e l’idea di dare una forma direttamente sociale a quelle
potenzialità, cioè di dire “da questo momento in avanti noi costituiamo centri di autorganizzazione
sociale, radio, televisioni, agenzie di informazione, questo e quello”. Invece, tutto questo viene
riproposto all’interno della forma di organizzazione classica. Allora, per le forme di organizzazione
extraparlamentare e tradizionale questo pone un momento di tensione fortissima, fine di Lotta
Continua, creazione dei gruppi dell’Autonomia che hanno continuato a sopravvivere in maniera
sempre più grama. Nel riflusso del post-’77 questo ha finito poi per diventare la forma rigida vorrei
dire dell'organizzazione stalinista: certo, nell’esperienza delle Brigate Rosse esplicitamente

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stalinista. E contemporaneamente noi (penso agli anni tra il ’77 e i primi anni ’80) ci siamo perduti
per strada il 90% della ricchezza sociale che si era andata costituendo. Naturalmente lì bisogna
anche tenere conto del fatto che di mezzo c’è il 7 aprile, che non è un episodio di scarso rilievo: al
di là del peso quantitativo e del numero di persone coinvolte, l’effetto politico distruttivo di
quell’evento è come una bomba atomica. E il 7 aprile non ce lo siamo cercati, è stata proprio
un’iniziativa politica di parte statale da nessun punto di vista giustificata. Però, noi in quel periodo,
invece di pensare che dovevamo continuare il gioco del muro contro muro, già dal settembre del ’77
dovevamo essere capaci di dire “qua l’esperienza leninista è finita, perché è finita già da tempo ma
ora lo è in maniera evidente, e iniziamo un’esperienza di autorganizzazione sociale simile a quella
che in Germania si è prodotta”. Gli anni ’80 tedeschi sono stati molto più interessanti e più vivi che
quelli italiani anche perché il movimento ha saputo darsi delle forme di autorganizzazione
territoriale, sociale e così via: in Italia non abbiamo avuto né la possibilità, a causa dell’attacco
repressivo, ma neanche l’intelligenza. Lì c’è stata secondo me una strada sbagliata, perché il
momento in cui il problema si è posto è stato il settembre del ’77 al convegno di Bologna, anche per
la potenza simbolica che aveva assunto quell’evento, nel senso che in qualche modo l’attesa era che
lì si condensavano dieci anni di esperienza e si aprivano i dieci anni successivi. Io ero latitante,
quindi il convegno di Bologna l’ho seguito al telefono, non c’ero di persona ma ho cercato di capire
quell’evento, che d’altra parte avevamo lanciato io e Guattari, quindi è proprio una cosa che noi
abbiamo minuziosamente preparato, sbagliando tutto: per esempio, abbiamo sbagliato nel lanciare
l’appello sulla repressione, cioè noi non avremmo dovuto concentrare l’attenzione sulla repressione,
non doveva chiamarsi convegno contro la repressione, doveva chiamarsi convegno per la
sperimentazione di nuove forme della società. Tra l’altro debbo dire che poi siamo stati fessi anche,
perché nella nostra esperienza precedente avevamo imparato che non bisogna mai mettere l’accento
sulla repressione come se fosse l’unico punto dello scontro. Comunque lì la concentrazione sul
problema del muro contro muro, sul problema della repressione ci ha portato a creare una situazione
favorevole ad una svolta di tipo militarista, non c’è dubbio. Quella doveva essere l’occasione invece
per lanciare un processo di sperimentazione.

- Spesso quando si parla di leninismo ci si riferisce a un qualcosa di assolutamente


decontestualizzato che ripropone delle rigidità quando addirittura non dei feticci di forme
organizzative precostituite. Questo ha però molto poco a che fare con il Lenin che ha indagato
la soggettività operaia, la nascita del capitalismo in Russia, quindi una dinamica di contesti che
andavano mutando in cui si è posto nella teoria e nella prassi il nodo del rapporto tra
spontaneità e organizzazione. In questo senso non si danno soluzioni organizzative staticamente
valide ed esportabili in qualsiasi contesto, però lui è riuscito a porre la questione ed affrontarla
nell’ambito di un processo reale. Rispetto alle chiusure di cui parlavi tu, questo Lenin non è
stato molto studiato.

Lenin, per grande o grandissimo che sia stato, è un uomo che pensa al XX secolo. E’ veramente il
pensiero del XX secolo, da molti punti di vista: l’analisi dell’imperialismo, il rapporto tra Stato
come cervello e realtà sociale come articolazione in qualche modo decerebrata, la stessa nozione di
lavoro intellettuale. Il Che fare? è un libro geniale per capire il rapporto tra lavoro intellettuale e
lavoro produttivo nell’epoca del capitalismo industriale nascente: ma tutte queste sono delle false
piste quando invece sta per l’appunto modificandosi l’essenziale di questa questione. Per esempio,
si veda il problema del rapporto tra lavoro intellettuale e lavoro sociale: in Lenin c’è un lavoro
sociale operaio senza autogoverno e un lavoro intellettuale senza produttività sociale, quindi il
problema del partito è mettere le due cose in correlazione, il partito è la coscienza del processo che
manca al lavoro produttivo, solo stante questa condizione il lavoro produttivo potrebbe darsi quella
coscienza storica. Tutto questo, al di là della patina idealistica, è perfettamente funzionante nella
realtà della società industriale, ma noi negli anni ’70 dovevamo creare le condizione per pensare la
società postindustriale. Il fatto essenziale della nostra esperienza è che noi abbiamo fatto l’ultimo

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movimento della classe operaia industriale ma contemporaneamente abbiamo anche fatto il primo
movimento di autorganizzazione del lavoro mentalizzato. Il ’77 è questo, ma anche il ’68 in fondo è
questo, cioè è anche il lavoro di quello che dice Krahl, cioè il primo movimento di
autorganizzazione del lavoro tecnico-scientifico, è la prima volta in cui il sapere non concepisce più
se stesso come qualcosa di esterno rispetto alla composizione sociale, ma il sapere concepisce se
stesso come articolazione interna al sociale. Non era Lenin la chiave: a ripensarci (già lo pensavo
allora ma lo penso ancora di più adesso) mentre la riproposta di Marx aveva degli elementi
straordinari, perché lì proprio il concetto di general intellect ti permette di impostare il problema dal
punto di vista più avanzato possibile, la riproposta di Lenin era comunque, anche nella migliore
delle ipotesi, una strada che ci portava in una direzione inutile o pericolosa. Mica perché Lenin era
più soggettivista o più malandrino, ma semplicemente perché poneva un problema troppo
strettamente determinato da quella composizione del lavoro intellettuale e del rapporto tra lavoro
intellettuale e lavoro operaio. Debbo dire che poi non diciamo la contrapposizione ma la
separazione sempre più chiara tra una componente leninista e una componente che si può chiamare
spontaneista o come ci pare (io uso l’espressione composizionista, oppongo il composizionismo al
leninismo, ma non ha importanza), quella differenziazione per me era già chiara nel ‘70-’71. Però,
debbo dire che a livello di movimento il problema era percepito in maniera mi pare abbastanza
sfumata, mentre dentro Potere Operaio sì ovviamente, il problema era all’ordine del giorno. Nel ’76
questa questione diventa assolutamente chiara: da una parte c’è l’esperienza di Rosso, io per un
periodo ho lavorato nella redazione di Rosso alla fine del ’75 e ho rotto nel dicembre di quell’anno.
L’occasione della rottura è stata un corteo femminista nel dicembre del ’75 a Roma nel quale si
introdusse il servizio d’ordine dell’Autonomia Operaia di Centocelle e il servizio d’ordine di Lotta
Continua che pretesero di entrare nel corteo femminista, ci fu un piccolo scambio di insulti e anche
qualche schiaffone; io ero in redazione a Rosso e chiusi il giornale scrivendo in prima pagina
“Attacco squadrista contro un corteo femminista di militanti dell’Autonomia”. La cosa mi provocò
uno schiaffone da parte di Daniele Pifano, che si precipitò in redazione, e uno scontro violentissimo
con lo stesso Pifano, Miliucci e anche con Negri, dopo di che io considerai concluso il mio rapporto
con Rosso, abbandonai la redazione, ma in fondo considerai concluso il mio rapporto con
l’Autonomia organizzata milanese e romana. Poi come sempre le mie rotture tenevano conto che
c’erano dei miei amici lì, non è che potevo non salutarli per strada, però in qualche modo la
separazione era compiuta. Debbo dire che la separazione è diventata poi utile negli anni successivi
perché il movimento di Bologna ha avuto una caratterizzazione esplicitamente e marcatamente
distinta da quella dell’Autonomia padovana-milanese. Lì debbo dire che il problema si ripropone,
ancora una volta il problema Lenin mi pare un impaccio, una cosa che ti costringe a parlare di
argomenti che non appartengono più al presente e che comunque ripropongono sempre il rapporto
tra lavoro intellettuale e lavoro operaio nei termini che non sono più quelli all’ordine del giorno.

- A proposito del discorso sul general intellect, categoria molto usata negli ultimi anni
soprattutto in relazione al cosiddetto postfordismo, c’è una critica che viene fatta: il rischio di
guardare ad una gerarchia professionale e capitalistica e di riproporla immediatamente come
gerarchia politica, nel senso del porre chi ha più competenze professionali automaticamente
come soggetto trainante a livello politico. La sovrapposizione immediata tra la gerarchia
professionale e quella politica è stata ciò che ha caratterizzato il socialismo reale, per cui la
cellula politica di fabbrica era quella che aveva maggiori competenze professionali.

Riguardo al concetto di general intellect non mi pare che la questione sia questa, anche perché il
ragionamento che lì svolge Marx non è un ragionamento di tipo politico, è un ragionamento sulla
composizione sociale e sulla potenza produttiva, se si vuole anche politica che questa composizione
sociale rende possibile. In quelle pagine dei Grundrisse il general intellect non è indicato come il
settore avanzato, come il reparto d’avanguardia, come la forza politica di organizzazione: niente di
tutto questo, è indicato come la potenza oggettiva di trasformazione del processo di produzione

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capitalistico. Cioè non c’è un’accentuazione di tipo sovversivo nel concetto di general intellect,
questo verrà da sé. La potenza che il general intellect mette in moto all’interno del processo di
produzione globale cosa determina? Determina la possibilità di un’emancipazione dal lavoro,
questo è il ruolo che obiettivamente svolge il general intellect. La soggettivizzazione del concetto di
general intellect non è nelle pagine dei Grundrisse, cioè non è che Marx dice “voi che rappresentate
il general intellect adesso organizzatevi per far questo e per far quello”, non c’è questo. Le parole
che lui usa sono: “la potenza sociale della scienza e della tecnologia (o della tecnica) all’interno del
processo di produzione di plusvalore ha queste linee di tendenza e giunge il momento nel quale gli
uomini cessano di fare ciò che le macchine possono fare al posto loro”; non è che dice “dovete
organizzarvi perché questo diventi possibile”. Lì in quelle pagine direi che proprio la tensione
soggettivista è ridotta al minimo, quasi allo zero. Io ho sempre avuto simpatia per un’ipotesi nella
quale la politica non ci fa fare nessuna fatica, cioè non è che noi dobbiamo fare qualcosa, per cui
dobbiamo organizzare gli operai fuori dalla fabbrica, dobbiamo costituire il reparto d’avanguardia,
dobbiamo batterci perché questo o perché quello. Non c’è nessuna fatica da fare, si tratta
semplicemente di assumere consapevolmente la direzione del processo medesimo. D’altra parte la
cosa che da Tronti in poi mi pare forte in tutto il pensiero operaista è l’idea secondo cui c’è
un’alleanza fortissima tra classe operaia e capitale, che è l’alleanza che si manifesta poi con lo
sviluppo tecnologico. Cos’è lo sviluppo tecnologico? E’ il risultato di una pressione comune degli
operai che vogliono lavorare di meno e dei padroni che vogliono avere meno rompicoglioni tra i
piedi, questo è il punto: e quanto più casino fanno gli operai tanto più i padroni saranno indotti a
sostituirli, il risultato è che si lavora di meno, e il risultato è anche che l’intera società gode di una
maggiore potenza produttiva del general intellect, dell’intelligenza trasformata dei macchinari ecc.
Lo schemino di fondo funziona alla perfezione negli anni ’60 e ’70, cioè negli anni ’60 e ’70 accade
proprio questo, ossia che la pressione operaia incontra una disponibilità capitalistica all’innovazione
e il risultato è quello che accade poi con l’introduzione dell’informatica: è a quel punto che noi
abbiamo perso il filo del ragionamento, perché nel momento in cui cominciamo a pensare che
compito dei rivoluzionari sia quello di opporsi alla ristrutturazione tecnologica a quel punto non ci
si capisce più niente, per cui inizia quel processo in cui sembra che la soggettività debba costituirsi
al di fuori del processo di autorganizzazione sociale, del processo di costituzione del general
intellect e c’è quel periodo di soggettivismo scatenato che poi coincide con la disfatta. Ecco,
l’elemento forte (forte allora ma forte anche oggi) consiste invece nel riconoscere che c’è
un’alleanza tra soggettività autonoma, tra composizione autonoma della società e interesse
capitalistico; quando quell’alleanza si determina è un’alleanza sempre conflittuale, però accanto alla
conflittualità bisogna anche riuscire a vedere la cointeressenza. Se si perde di vista la cointeressenza
si crede nel fatto che la soggettività sia capace di costituire il mondo, e io non ci credo, diciamo che
si crede nel fatto che il mondo sociale è il prodotto della volontà politica che si costituisce in
elemento totalitario, perché poi il punto è questo, se si crede nella potenza costitutiva della volontà
politica l’unica cosa è fare come fa Pol Pot per cui quelli che hanno gli occhiali li mandiamo nei
campi di concentramento; altrimenti è dall’interno della dinamica sociale che bisogna trovare gli
elementi capaci di produrre l’innovazione.

- C’è un’ambivalenza nell’innovazione capitalistica, per cui da una parte c’è l’apertura di tutta
una serie di nuove potenzialità che possono controusarsi criticamente in un’altra direzione; c’è
però l’altra faccia della medaglia, quella oggi dominante, che è il discorso del dominio, dei fini,
di dove tendono processi capitalistici che non sono dati oggettivamente ma sono il frutto di
quello che tu chiamavi uno scambio conflittuale. In Marx c’è il rischio del trovarsi in un circolo
chiuso, per cui c’è un’eccezionale individuazione delle linee di tendenza, però resta irrisolto il
problema che nell’ambivalenza dello sviluppo il prevalere di una direzione o di un’altra non è
deterministicamente e oggettivamente dato.

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Io vado in una direzione diversa da quella che tu suggerisci, e la direzione nella quale vado io è
questa: se c’è un problema nel pensiero di Marx sta nel concetto di struttura e sovrastruttura. Cioè
quello che manca, se si vuole, al discorso di Marx rispetto al general intellect e alle implicazioni che
questo contiene, è l’idea secondo cui c’è una sfera della soggettività o della soggettivazione che è la
sfera del culturale, non dell’organizzazione politica. Il vero problema è che si tratta di creare le
condizioni culturali, antropologiche, quotidiane, abitative, relazionali, psichiche, comunicative e
così via perché un processo di autorganizzazione della società possa liberarsi dei vincoli che il
comando capitalistico determina. Però, Lenin individua una modalità specifica di questo
autocostituirsi del culturale, ed è una modalità specifica che non si può assolutizzare; dopo di che il
leninismo ha detto “dal momento che nella Russia del ’17 ci si è costituiti in partito e il partito ha
rappresentato il reparto d’avanguardia della classe operaia, e la classe operaia ha rappresentato il
reparto d’avanguardia della società, così bisogna fare dovunque”. Solo che nel frattempo la classe
operaia era diventata maggioranza della società mentre in Russia ne era una piccola parte, il lavoro
tecnico-scientifico non era più un elemento emarginato ma era diventato elemento centrale: era cioè
cambiato tutto. E’ questo il punto: io non nego affatto che il leninismo sia stato un’esperienza
puntualissima ed efficacissima, ma nel 1917 a San Pietroburgo e non nel mondo per tutto il XX e il
XXI secolo. Dopo di che è vero che come tu dici c’è un limite interno all’impostazione di Marx dei
Grundrisse, ma quel limite (che è più di Engels che di Marx) è relativo alla distinzione
deterministica tra struttura e sovrastruttura, l’idea secondo cui la struttura determina la
sovrastruttura, cioè l’economico determina il culturale: non è così perché il culturale fa parte
dell’economico e l’economico fa parte del culturale. Lì è tutta un’altra questione che è relativa alla
rigidità del materialismo dialettico su questo punto.

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INTERVISTA A LAPO BERTI – 12 LUGLIO 2000

- Qual è stato il suo percorso di formazione politica e culturale e l’inizio della sua attività
militante?

Bisogna risalire parecchio indietro. Il mio primo incontro con una politica attiva non è
particolarmente precoce, avviene all'inizio degli anni ’60, prima ero di simpatie comuniste, anche
perché ero cresciuto in una famiglia di orientamento di sinistra anche se mio padre era molto poco
politico e di impianto culturale anarco-individualista, diciamo così, però ovviamente con simpatie
per il mondo della sinistra in generale. Invece, io, fin dalle medie e dal liceo, avevo canalizzato le
mie simpatie (stiamo parlando degli anni ’50) verso il Partito Comunista e il mondo comunista.
Allora stavo a Milano, perché la mia famiglia si era trasferita lì subito dopo la guerra e quindi io le
scuole le ho fatte quasi tutte a Milano (avevo fatto solo la prima parte delle elementari a Firenze).
All’inizio degli anni ’60, invece, diciamo tra il ’62 e il ’63, riprendo rapporti con Firenze per motivi
strettamente personali (nel senso che era di Firenze quella che poi sarebbe stata mia moglie),
ricomincio a frequentare quella città e prendo contatti con un vecchissimo amico di infanzia, con
cui eravamo stati ragazzini insieme, che era Giovanni Francovich. Giovanni faceva già parte di
organismi politici, militava, aveva già un’esperienza, era stato nell’area socialista, non so bene a
cosa avesse partecipato, ma comunque militava e la cosa interessante in quel periodo era che lui e
un altro gruppetto di amici fiorentini più o meno coetanei erano dentro i Quaderni Rossi. Quindi, io
mi unii immediatamente, ci fu un incontro di idee e di valutazioni che ci portò molto rapidamente a
concordare e a vedere nei Quaderni Rossi un’esperienza importante, innovativa, nella quale valeva
la pena di impegnarsi. Il mio arrivo ai Quaderni Rossi praticamente coincise con la fine della
partecipazione di tutti quanti quelli di questo gruppo e poi di molti altri, perché dopo il numero 3 ci
fu la famosa rottura e iniziò l’esperienza che poi avrebbe portato a Classe Operaia. Quindi, diciamo
che io mi sono immesso in quel circuito da Firenze, dunque tramite il gruppo di provenienza
prevalentemente socialista, direi quasi esclusivamente socialista, PSIUP, e questa era già una
piccola differenza perché invece io, come ho già detto, ero più di orientamento comunista: allora
non c’erano tra comunisti e socialisti le divisioni quasi genetiche che poi sono riemerse in tempi più
tardi, però la differenza culturale era notevole anche allora, si avvertiva. Quello di Firenze era un
gruppo composto da un po’ di giovani della mia età, che frequentavano l’università, e poi c’era
anche qualche operaio, di tipo un po’ particolare ovviamente, avanguardie, operai molto intellettuali
e di età decisamente più avanzata della nostra. Anche gli operai (i due o tre che c’erano, perché poi
non stiamo parlando di masse) erano di provenienza socialista, anarchica e forse solo un pratese,
che però non ebbe un grande ruolo, era proprio di provenienza comunista. Quindi, c’era questo
gruppo fiorentino che faceva parte dei Quaderni Rossi (ne faceva parte Giovanni Francovich,
Claudio Greppi era nella redazione) e loro ruppero, e io con loro, anche se avevo poco da rompere
perché non avevo fatto neanche tempo ad entrarci nei Quaderni Rossi, e iniziò poi tutta quella fase
di dibattito che portò alla formazione di Classe Operaia, alla quale io ho partecipato per intero. Tra
l’altro molte delle riunioni preparatorie si tennero a Firenze, anche successivamente le riunioni di
redazione erano spesso a Firenze, in un periodo curammo proprio noi la pubblicazione di Classe
Operaia, ci sono alcuni numeri che sono stati fatti nel capoluogo toscano.
Questo è un po’ l’inizio dell’esperienza politica, io la faccio risalire a quel periodo lì, perché le cose
precedenti praticamente non contano, anche le letture, la conoscenza di Marx che io avevo in
precedenza si viene tutta riformulando e riplasmando sulla base dell’influenza del dibattito che c’è
in Quaderni Rossi e poi in Classe Operaia, il che in buona parte vuol dire sotto l’influenza di Mario
Tronti, perché questi è vero che allora era un primus inter pares, però insomma molto primus. Parlo
per me, ma credo di poter parlare anche per altri, il fascino intellettuale che esercitava in quella fase
Tronti non lo esercitava nessun altro all’interno del gruppo, quindi le discussioni, le idee, gli
orientamenti, il materiale intellettuale su cui si lavorava era in buona parte quello che proveniva
dagli scritti e dai discorsi di Tronti che venivano commentati e discussi ogni volta che ci

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ritrovavamo per conto nostro; quando uscì Operai e capitale naturalmente fu oggetto di lunghi e
accesi seminari che si tennero nel nostro gruppo di Firenze, fu studiato come un classico. Insomma,
ci appropriammo un po’ tutti quanti di questo orientamento che Tronti proponeva con Classe
Operaia e con il libro Operai e capitale, quindi l’idea del rovesciamento di prospettiva e tutte le
cose che è inutile andare a ricostruire, sono già state abbondantemente ricostruite e possono essere
oggetto di studio, ma sarebbe assurdo farne l’oggetto di un racconto. Quello che io posso dire è
l’impressione intellettuale che faceva la lettura di questi lavori di Tronti e la discussione che si
svolgeva all’interno di Classe Operaia, in buona parte appunto guidata da interventi e relazioni di
Mario: era l’idea di essere finalmente approdati a possedere degli strumenti intellettuali innovativi e
che consentivano di guardare in maniera operativa la realtà sociale e politica del paese in quel
momento. Avevamo un po’ tutti l’idea di avere in mano uno strumento che funzionava, finalmente
un qualcosa che non erano solo arzigogolature cartacee, ma un potente strumento di analisi della
realtà sociale e che consentiva anche di enucleare una posizione politica chiaramente visibile,
trasparente. Questo era un po’, credo, il fattore che suscitò anche entusiasmo nell’adesione di molti
di noi a quell’esperienza; si tenga presente che io allora avevo 22-23 anni, altri più o meno la stessa
età, poi c’era una fascia un po’ più esperta, Tronti deve avere un quattro o cinque più di noi, che
però allora contavano. L’elemento di focalizzazione intellettuale fu quello.
Quindi, la mia esperienza politica nasce proprio all’insegna dell’operaismo puro, perché non c’era
sedimentata una cultura politica talmente solida dalla passata esperienza con cui dovessi fare i conti
più di tanto: mi sono appropriato di quella cultura e quella per molto tempo è stata la mia cultura
politica, la base su cui poi si è evoluta la mia ricerca, il mio orientamento e anche i miei
comportamenti. Un aspetto molto rivelante, almeno per me ma anche per il gruppo fiorentino che
faceva parte di Classe Operaia, era che noi fin da subito tentammo (in maniera forse un po’ troppo
meccanica, ma quelle sono cose che si capiscono dopo, quando si diventa più grandi, più vecchi) di
tradurre in intervento politico le elaborazioni. E mi ricordo questa cosa che ora col senno di poi mi
sembra terrificante: facevamo un lavoro militante, intanto di diffusione del giornale, un tentativo di
intervento in alcune lotte operaie tramite volantini firmati Classe Operaia. E ciò veniva fatto,
facendosi un mazzo terrificante, in tutta la Toscana, perché se è vero che tra Firenze e Prato c’erano
alcune concentrazioni operaie (in particolare la metalmeccanica e il tessile, però questo già era
un’altra cosa perché non era fatto, salvo pochi casi, di grandi industrie), poi le grandi industrie
erano nel resto della Toscana, a Piombino le acciaierie, a Rosignano la chimica, a Pisa la Piaggio
ecc. Quindi, noi quando partivamo ci facevamo giornate intere in giro per tutta la Toscana a vendere
il giornale, la cosa terrificante era che qualcuno lo comprava, mi sarebbe piaciuto sapere perché poi
con molti di questi non siamo mai riusciti a instaurare rapporti diretti, salvo il fatto che ormai dopo
un po' ci riconoscevano, quando ci vedevano arrivare ai cancelli delle fabbriche dicevano “ah, ecco
quelli del gatto selvaggio”, perché era quello poi il momento che aveva reso un po’ famosa la sigla.
Comunque questa esperienza, che vista con il senno di poi mi sembra di un’ingenuità e anche di una
rozzezza politica stratosferica, dal punto di vista dell’esperienza soggettiva nostra fu sicuramente di
grande importanza, perché intanto ci fece vedere le fabbriche davvero, anche proprio come
strutture, ci fece vedere gli operai, ci fece capire parecchie cose su come si muovevano, cosa erano
le lotte, ci consentì di entrare un pochino dentro, anche se rimanendo fondamentalmente esterni,
salvo qualche raro interlocutore che avevamo in ciascuna di queste fabbriche. In ognuna di queste
c’erano uno o due punti di riferimento con i quali ti ritrovavi quando si trattava di fare il volantino,
per capire qual era il taglio, la parola d’ordine più significativa, che poteva meglio raccogliere il
clima del momento ecc.; però, insomma erano rapporti molto blandi, però a noi hanno fatto capire
parecchie cose. Quindi, tutta l’esperienza di Classe Operaia, che si conclude nel ‘65-’66, per chi vi
ha partecipato (di nuovo parlo per me, ma credo che valga non solo per me) è stata molto
importante sotto tutti e due gli aspetti: dal punto di vista della maturazione intellettuale,
dell'acquisizione di strumenti critici, di lettura del marxismo, e dal punto di vista della prova
pratica, del mettere alla prova e cominciare a saggiare il significato della militanza. Si tenga
presente che allora militanza o la facevi dentro il PCI o non la facevi, quindi era un’esperienza

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completamente nuova per chiunque, perché il fatto che un po’ di gente senza nessuna tessera, senza
nessuna etichetta se non un giornale si presentasse davanti alle fabbriche affermando che si stava
occupando degli operai e dal punto di vista degli operai, era una cosa abbastanza grossa, anche se il
fenomeno in sé era piccolo e limitato. Dunque, fu un’esperienza molto importante, io posso dire
tranquillamente che mi ha segnato, forse le tracce ci sono anche ora; intellettualmente mi hanno
segnato (sembro saltare molto di palo in frasca) questa esperienza dell’operaismo e del rapporto con
Tronti da un lato e dall’altro all’università l’esperienza con Enzo Paci e la fenomenologia, che poi
ho abbandonato perché io abbandonai abbastanza rapidamente l’università (facendo una cazzata, ma
quello l’ho scoperto solo parecchio tempo dopo). Ci sono dunque i sedimenti intellettuali che da un
lato ha prodotto l’esperienza di Classe Operaia e dall’altra questa esperienza precoce della
fenomenologia; precoce perché io ho frequentato il corso di Paci il primo anno che lo faceva, era
alla Statale a Milano, era morto Banfi e lui era subentrato, quindi anche lì c’era un po’ un clima
pionieristico, e questo precede la storia di Classe Operaia ovviamente, stiamo parlando del ’58.
Queste due esperienze, tutte un po’ sulla frontiera, anche se molto diverse tra di loro per contenuto e
anche implicazioni intellettuali, sono rimaste un poco sempre come poli: non mi sono mai posto il
problema di conciliarle perché probabilmente era un’impresa disperata, però erano due poli di
esperienza intellettuale che mi hanno sempre influenzato molto.
Dopo le cose cambiano di parecchio. Alla chiusura di Classe Operaia, come ben si sa, ci fu la
decisione di proseguire l’intervento politico e di procedere verso l’organizzazione, ci fu una rottura
con Tronti, che invece considerava chiusa l’esperienza di Classe Operaia sotto tutti i profili e
quindi non vedeva alcun modo di riprenderla, anche se inizialmente mi sembra di poter dire che
Mario seguì con un qualche interesse la nascita di Potere Operaio. Dopo di che c’è stata
l’esperienza di Potere Operaio, che io mi sono fatto dall’inizio alla fine, fino al famoso convegno di
Rosolina per intendersi. Sarebbe lungo parlarne. Come giudizio complessivo, anche questa per me è
stata un’esperienza importante, però molto meno sul piano intellettuale devo dire, sono stati
sicuramente minori gli stimoli. Lì c’era la leadership intellettuale di Toni Negri, però io non posso
dire che il pensiero di Toni Negri ha avuto su di me e sulla mia esperienza un’influenza analoga a
quella che ha avuto quello di Tronti. L’esperienza di Potere Operaio io me la sono vissuta appunto
tutta, me la sono vissuta da militante, anche da responsabile dell’organizzazione per alcuni settori,
però con un crescente disagio. Non ho condiviso tutta una serie di passaggi, quelli diciamo verso
l’organizzazione spinta, la centralizzazione, poi tutto l’inizio di discussione sulle problematiche
della lotta armata e quant’altro: non li ho mai condivisi perché tutto sommato il mio impianto
restava quello operaista e vedevo in quelli un’evoluzione dove l’operaismo non c’entrava più
niente, anzi veniva buttato a mare. Io non condividevo la valutazione di Tronti che l’operaismo
avesse chiuso interamente il suo ciclo e aderii a Potere Operaio con l’idea che quello fosse un modo
per portare avanti, anche se in maniera diversa e in termini differenti, l’esperienza operaista, cosa
che, se fossi stato un po’ più intelligente politicamente, avrei dovuto capire che non era così già
dopo poco tempo; alcuni più intelligenti di me lo capirono rapidamente, come Sergio Bologna ad
esempio. Forse non è tanto un problema di intelligenza, se ne può parlare anche di questo: a parte la
battuta io non credo di essere stato più stupido di Sergio, penso di avere avuto un’idea diversa del
ruolo della militanza e quindi di essere rimasto attaccato al pezzo fino alla fine, anche quando non
condividevo quasi più niente di quello che Potere Operaio faceva, perché prima di tutto veniva
l’impegno sul piano pratico. Si tenga presente che questo ha significato anche una scelta di vita,
perché io poi sono abbastanza radicale nelle mie scelte, e mentre molti compagni allora (più
intelligenti di me, in questo caso davvero, o diciamo più furbi) tentavano e riuscivano a tenere il
piede in più scarpe, io questo non l’ho fatto: sono uscito dall’università perché, nonostante avessi
avuto a che fare forse con alcuni dei pezzi migliori che l’università italiana offriva in quel periodo,
mi sembrava che fosse un posto di cadaveri e che non aveva senso stare a perdere il tempo lì dentro.
E dunque quando mi sono dato alla vita militante ho fatto la vita militante, vivendo di espedienti e
mangiando tanti pomodori, e questo anche quando era passato il momento in cui potevi pensare di
recuperare, anche per ragioni di età perché, essendo io nato nel ’40, a un certo punto, tanto per dire

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un anno, nel ’70 avevo trent’anni, quindi non è l’età in cui uno inizia qualche cosa. Dunque, ci sono
state anche queste cose qua.
Dopo di che, sempre procedendo un pochino per sommi capi, perché forse è meglio che intanto
delineiamo i passaggi, se la memoria non mi gioca brutti scherzi l’esperienza finale di Potere
Operaio si accavallava con l’esperienza nascente di Primo Maggio: lì ho ritrovato Sergio Bologna,
ho ritrovato un po’ anche me stesso, ho ritrovato il senso di un lavoro intellettuale. Se non sbaglio
io ho cominciato a cooperare esplicitamente a Primo Maggio con il numero 3 o 4. Lì ci
incontrammo con Sergio su questo benedetto lavoro su Marx e la moneta, che è stato la mia
dannazione ma anche la mia salvazione per certi aspetti. Io stavo lavorando già da un po’ su questi
temi e in Primo Maggio, su impulso di Sergio che scrisse quel primo articolo su Marx e la moneta,
poi venne costituito un seminario, un gruppo di lavoro che andò avanti per parecchio tempo e
lavorò molto seriamente, ha prodotto parecchia roba, non tutta pubblicata. Io mi sprofondai nel
lavoro di questo seminario, ho scritto parecchie cose in quel periodo su questa problematica, a
partire da una rilettura dell’analisi che Marx fa del ruolo della moneta, del modo in cui la
concepisce, la moneta e il credito nella loro funzione nell’economia capitalistica: io ritenevo che la
lettura marxiana non fosse più sufficiente e proponevo passaggi ulteriori. E quello un po’ alla volta
è diventata addirittura una specializzazione professionale, scientifica, al punto che poi questa cosa
mi ha aperto anche le porte dell’università: ciò avvenne in particolar modo perché c’era Augusto
Graziani che, anche lui un pochino attratto dalle esperienze extraparlamentari (lui di tutt’altra
provenienza politica) e colpito un po’ da questo lavoro che stavamo facendo sulla moneta, decise di
mettere insieme un gruppo di lavoro sulla moneta a livello più elevato, diciamo scientifico-
accademico, anche se con una libertà di orizzonti totale, di cui facevano parte un po’ di giovani
universitari, docenti e l’unico non accademico ero io. Anche questo gruppo ha prodotto varie cose,
scritti, ha pubblicato volumi, ha curato opere, e sulla scia di queste cose sono stato chiamato a
insegnare all’università della Calabria, dove ho insegnato per tre anni. Credo di essere uno dei non
numerosissimi docenti universitari italiani che hanno insegnato senza essere laureati (io allora non
lo ero, avendo come ho detto abbandonato l’università, anche se poi a più riprese avevo fatto ogni
tanto un po' di esami): non credo che siano tanti questi casi, uno è celebre e mi ha sempre
inorgoglito, si tratta di Napoleoni. Io ho avuto degli studenti che si sono laureati avendo come
relatore me che non ero laureato, e questo alla lunga non reggeva dentro l’istituzione, allora un
giorno hanno deciso di laurearmi e alla tenera età di 46 anni mi sono laureato. Poi ho insegnato
ancora a Napoli; quando mi hanno chiamato per venire qua stavo ancora vedendo se c’era la
possibilità di entrare all’università, perché avevo capito che tutto sommato la scelta giovanile era
stata un po’ una cazzata, dopo quattro o cinque anni di esperienza di lavoro all’università mi ero
reso conto da un lato che mi piaceva insegnare e dall’altro che comunque è la vita più comoda che
possa esistere al mondo per uno che vuole anche fare un po’ ricerca, occuparsi anche di altre cose.
Però questo non avvenne e l’ultima cosa di cui posso parlare in termini di biografia, prima di
arrivare al mio lavoro attuale, è che a Milano insieme con altri compagni decidemmo, un po’ prima
della metà degli anni ’80, di creare una sorta di centro studi socio-economici che è l’Aaster: fummo
Aldo Bonomi ed io ad avere un po’ in mente queste cose, eravamo tutti usciti più o meno scottati e
bruciati dalle esperienze politiche che avevamo fatto, e allora l’idea era di provare un po’ a fondare
politica e professione. Questo tentativo che mettemmo in essere allora era questo, il tentativo di fare
ricerca però non così per niente, in astratto e per qualunque committente (ammesso che si trovasse,
cosa che non fu facilissima all’inizio), ma ricerca dentro un quadro di idee e di ipotesi diciamo pure
politiche, anche se in senso molto lato: c’era tutto il discorso e il ragionamento sull’autonomia nel
sociale, quindi sullo sviluppo, che era un po’ un’articolazione di questa problematica, o perlomeno
un’affiliazione. Cominciammo a lavorare su questo, facemmo una prima esperienza in comune
ancora prima di fondare quella che fondammo come una società, e credo che tale esperienza sia
stata molto importante per tutti e due sia dal punto di vista della ricerca che dal punto di vista
politico, anche se poi i contenuti praticamente ci furono scippati dall’attuale direttore del TG1: era
una ricerca sugli operai, non è mai stata pubblicata, noi la chiamammo “la paura operaia”. La

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facemmo tra i cassaintegrati, con un metodo che era anche quello credo abbastanza innovativo dal
punto di vista della metodologia della ricerca, che era certo non rigorosa e noi non l’avevamo
ancora perfezionata. Tramite il sindacato (era la CISL) che ci era servito un po’ ad aprirci le porte
per accedere a questi ambienti, organizzavamo in varie sedi riunioni a cui partecipavano quindici,
venti, trenta cassintegrati: noi facevamo loro un’introduzione in cui sviluppavamo un’analisi
abbastanza brutale della situazione socio-politica, dalla quale in linea di massima emergeva perché
loro si trovavano cassintegrati e perché avevano poca speranza di uscirne, aprendo poi il dibattito
per vedere come reagivano. Non era una provocazione in senso negativo, lo era in senso positivo,
era il tentativo da un lato di fornire loro una visione razionalizzante della situazione in cui erano
venuti a trovarsi, e dall’altra di costringerli un pochino a ragionare su un futuro che, almeno
secondo noi, non poteva essere certo quello di un ritorno al passato, e sulla base di questo poi
vedevamo le reazioni, si apriva la discussione. Insomma, ne succedevano di tutti i colori, con Aldo
ricorderemo finché campiamo quell’operaio che un giorno se ne uscì dicendo che per loro era come
Matausen, mancava solo la soluzione finale. Depositammo questa cosa in uno scritto che poi
appunto non è mai stato pubblicato, non so se Aldo poi l’abbia recuperato o in qualche modo
utilizzato, ma comunque non l’abbiamo mai pubblicato. Dopo di che abbiamo appunto fondato
questa società, che ha ovviamente avuto una vita stentatissima per un po’; poi quando ha cominciato
a funzionare, come spesso avviene, sono cominciate a emergere anche divergenze
nell’impostazione e nella gestione della cosa, o forse quello era un pollaio piccolo e sicuramente
due galli, come potevamo essere Aldo e io, non ci stavamo, quindi si sono create tensioni, abbiamo
litigato e io ho deciso di andarmene via. Direi che il dissenso verteva fondamentalmente anche sulla
metodologia della ricerca, il che è stata la salvezza e la fortuna dell’Aaster ovviamente dal punto di
vista della crescita economica e quant’altro, ma lui a mio modo di vedere si era legato un po’ troppo
al Censis di De Rita, mutuandone linguaggio, problematiche e via dicendo, quindi tra l’altro
sbilanciandosi molto di più di quello che io ritenevo utile sul sociale; a me sembrava che fosse
molto importante più un’analisi economica, e soprattutto ci si sbilanciava sul sociale con una
strumentazione che io non condividevo. Non mi piaceva quel modo impressionistico di fare ricerca
nel sociale che è tipico del Censis di De Rita, dove finché c’è un grande affabulatore come lui, uno
molto intelligente, ancora ancora riesce ogni tanto a indovinarne qualcuna, ma quando non c’è
quello devi fare o come Aldo, che ha provato a imitare fino in fondo De Rita (e secondo me c’è
riuscito abbastanza bene), o altrimenti devi seguire altre strade.
Io mi sono separato dall’Aaster, quindi ormai qui siamo agli anni ’90, e per un po’ ho provato a fare
il free-lance come si dice, a lavorare da solo sempre nel campo della ricerca economica perché la
mia specializzazione è quella, facendo formazione, qualche contratto all’università ecc. Però, devo
dire che era un periodo in cui era particolarmente difficile fare questo lavoro, finché non è capitata
l’occasione di venire qua, e questa occasione è capitata fino a un certo punto, non è cioè piovuta dal
cielo. Alla fine degli anni ’80, tramite alcuni amici che giravano anche nel seminario di teoria
monetaria di Graziani, mi ero avvicinato al centro studi del PCI, il Cespe, e lì era nato un progetto
di ricerca nel cui ambito io mi ero occupato di due cose: una era la problematica delle
privatizzazioni e l’altra era quella dell’antitrust, questo prima che l’Antitrust esistesse e prima che
venisse varata la legge, anzi mi ricordo benissimo che conclusi questo saggio sull’antitrust nel
settembre del ’90 mentre in parlamento veniva appunto approvata la legge sulla concorrenza in
Italia. Quindi, questi due lavori erano, almeno a sinistra, abbastanza pionieristici (perché non credo
che a quell’epoca nessuno si fosse occupato di queste problematiche), ed erano poi, un po’ com’è il
mio costume intellettuale, un tentativo di ragionarci sopra senza fare ricorso a stereotipi ma
cercando di capire i fenomeni in sé, quello che significavano e di elaborare poi su questa base un
punto di vista. Erano tra l’altro entrambi i due saggi tutto sommato favorevoli alle tematiche che
prendevano in oggetto, quindi io portavo avanti un ragionamento in cui non c’era un rifiuto di
principio dei processi di privatizzazione, anzi si cercava di indicare quali potevano essere argomenti
a favore addirittura delle privatizzazioni, e lo stesso anche per la problematica della concorrenza:
come ci si può immaginare, all’interno della sinistra di derivazione comunista (ma non solo quella)

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queste ancora allora (quindi solo dieci anni fa) erano un po’ bestemmie per i più. Quindi ci furono
notevoli discussioni e pressioni perché certi toni venissero ammorbiditi, certe cose dette in maniera
più soft, ma insomma di fatto sono uscite come io le avevo concepite. Dopo di che, questa Autorità
è stata formata la prima volta (la legge è dell’ottobre del ’90), subito dopo viene costituita. Essa
funziona così: c’è appunto l’Autorità, che è un organismo collegiale composto di cinque persone
che sono nominate dai presidenti della Camera e del Senato e c’è un presidente tra questi cinque, e
loro sono quelli che applicano la legge sulla concorrenza e decidono su tutti i casi che vengono
proposti. Poi, sotto questa Autorità, ma ovviamente facente parte dell’insieme, c’è una struttura
(attualmente siamo 170-180) che, secondo una serie di procedure che sono in parte dettate dalla
legge, analizza i diversi casi che possono configurare un’infrazione delle leggi della concorrenza:
queste analisi vengono proposte al Collegio, ai cinque che prendono la decisione e assolvono o
condannano. E’ un procedimento che assomiglia abbastanza a quello di un tribunale. Tra i primi
cinque che furono nominati nel novembre del ’90, siccome essendo in Italia è ovviamente un
organismo rigorosamente spartito da manuale Cencelli, c’era il rappresentante di quello che era già
PDS, il quale conosceva questi miei lavori: io lo venni a trovare perché mi interessava continuare a
occuparmi di questo discorso, visto che appunto cominciava a esistere una struttura che dava
attuazione alle problematiche di cui mi ero occupato, venni qui, me ne tornai a casa carico di
relazioni, documenti e cose del genere. Qui l’avevano formato inizialmente come un nucleo molto
ristretto, in un periodo successivo si posero il problema di un ampliamento e appunto mi fu
proposto se ero interessato a venire a lavorarvi, mi fecero un contratto di due anni che io accettai,
anche se era un grosso rischio perché accettavo di trasferirmi da Milano a Roma con un contratto di
due anni dopo di che non si sapeva cosa ne sarebbe successo; inoltre l’ambiente era molto difficile,
a me totalmente estraneo, lo è in parte anche tuttora dopo sette anni che ci sto. Però, dopo i due anni
il contratto mi è stato rinnovato per altri quattro, dopo di che c’è stato un concorso che ho vinto e
attualmente sono a ruolo, come dirigente di questo organismo. E così siamo arrivati all’oggi, quindi
è insomma un percorso un po’ complicato.

- Qual è il suo giudizio politico sull’esperienza di Classe Operaia, analizzandone le ricchezze e


soprattutto i limiti? Come analizza il dibattito interno e le posizioni che si svilupparono dentro
Classe Operaia?

Non è mica facile dare un giudizio. Butto lì delle cose perché, nonostante varie volte mi sia
ripromesso di ritornarci un po’ più sistematicamente a ragionare sul senso di questa esperienza, in
modo da formarmi anche un giudizio diciamo così storico sulle vicende a cui ho avuto la fortuna o
il difetto di partecipare, in realtà poi non l’ho mai fatto; quindi sono giudizi che, nonostante
vengano dopo molto tempo, non sono per niente sedimentati e sono un po’ così all’impronta,
dunque li si prenda come tali. L’esperienza di Classe Operaia secondo me è stata molto importante
perché ha consentito di smarcarsi rispetto a una lettura canonica del marxismo, a una visione della
politica italiana marcata dal confronto comunisti-socialisti: quindi, ha aperto orizzonti, io la leggo e
la ricordo così. Probabilmente aveva ragione Tronti quando diceva e dice che quell’esperienza
aveva esaurito la sua spinta politica innovativa già nel ‘64-’65. Io non ho mai capito fino in fondo
cosa avessero in mente i comunisti di Classe Operaia, cioè Tronti e gli altri, perché anche Classe
Operaia era abbastanza equamente divisa tra gente di provenienza comunista (buona parte del
gruppo romano) e gente proveniente da altre esperienze (socialista, con nessuna esperienza o
addirittura di esperienza cattolica com’è il caso di Toni Negri). Dunque, cosa avessero in mente fino
in fondo i comunisti non l’ho mai capito: io ritengo che loro avessero in mente anche una battaglia
politica dentro il partito, che risultò abbastanza rapidamente impraticabile, se per battaglia politica
si intende una cosa dove conquisti posizioni, non una cosa che fai per testimonianza. Quindi, questo
è il motivo per cui è finita. Il motivo positivo, l’ho già detto, secondo me è fondamentalmente di
apertura: io venivo da una fase, che poi per molti di noi è anche continuata, in cui la nostra cultura
era fatta di Marx più Marx quelli bravi, altrimenti quelli un po’ meno bravi avevano una cultura che

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era fatta di commentatori di Marx, divulgatori di Marx ecc., anche un po’ di Mao Tse-tung e di
Lenin; quindi l’impatto con Classe Operaia, dentro alla quale per le soggettività che ne facevano
parte viaggiavano, anche se un po’ sotteraneamente, filoni culturali diversi e che comunque si
traducevano in ogni caso in una lettura del marxismo e della vicenda del movimento operaio diversa
da quella dominante, questo comunque ebbe un effetto di apertura positivo. Dopo di che si poneva il
problema di andare oltre e secondo me, in quel caso se vuoi è di nuovo una lettura parziale che io
faccio anche di quello che è successo dopo, si trattava di andare oltre e recuperare una capacità di
coniugare un’analisi critica del marxismo e dell’esperienza del movimento operaio con le più
importanti correnti culturali anche più lontane dal marxismo. Noi eravamo troppo abituati (e questa
è un’autocritica sia personale sia collettiva che faccio) a vivere dentro il giardino del marxismo
senza guardare di fuori: questo tra l’altro ha avuto secondo me come conseguenza, probabilmente
da giudicare nefasta, il fatto che poi quando è venuta meno la capacità di tenuta, di attrazione di
questo modello, di questo mondo chiuso sulla dottrina più o meno articolata, più o meno rozza, più
o meno ortodossa del marxismo, quando questo vincolo è venuto meno c’è stata un’esplosione in
cui ci sono quelli che sono andati con Luhmann, quelli che sono andati con Foucault e mille altri
diversi, salvo alcuni casi personali ovviamente, ma come elaborazione collettiva tutto c’è stato
tranne che un confronto aperto tra queste culture che portasse a una maturazione. Io credo di poter
dire che molti di noi, quando hanno mollato (e uso proprio questo termine) il marxismo, si sono
lasciati catturare da altre culture, da altri orientamenti filosofici, economici ecc.; non si sono posti
fino in fondo il problema invece di metabolizzare i motivi per cui il marxismo, almeno nella forma
in cui era stato recepito e vissuto, non era più sufficiente, e i motivi per cui c’era bisogno di
confrontarsi e anche di attingere da altre culture. Forse come corollario di quello che dicevo prima
(anche se a questo ripeto ci sono arrivato un po’ tardi) c’è la limitatezza dell’orizzonte politico che
secondo me non ci ha mai portato a fare i conti fino in fondo con le dottrine politiche dominanti,
altre (il repubblicanesimo, la democrazia ecc.) e l’elaborazione su queste problematiche: per noi
quando si parlava di democrazia o era la democrazia socialista o era l’imbroglio borghese, non
siamo mai andati molto al di là di questo tipo di elaborazione (sempre con qualche eccezione di
alcuni che personalmente magari avevano fatto degli approfondimenti), ma mi sembra che questa
cosa non sia mai diventata patrimonio collettivo. Questa è secondo me una cosa che ha avuto effetti
devastanti per tutti quanti, mica solo per noi (per la sinistra alternativa, l’altra sinistra o comunque
la vogliamo chiamare) ma per l’intera sinistra: secondo me è un problema tuttora irrisolto per
l’intera sinistra, nonostante la quantità di sproloqui che sono stati fatti negli ultimi anni anche a
sinistra sulla democrazia, il liberalismo e quant’altro. Questi sono alcuni elementi di giudizio
politico, molto all’ingrosso e sommari, che mi vengono da fare sull’esperienza nel suo complesso.
Secondo me è quello che proprio ci è mancato nelle diverse fasi, e il difetto è stato crescente man
mano che si andava avanti, perché questo difetto forse in Classe Operaia era minore, è stato molto
più pesante e ha avuto effetti molto più devastanti via via che si andava avanti, quando si è assunta
la dimensione di movimento, si è preteso di fare discorsi politici di carattere generale e addirittura
suggerire modelli di società: aver perseguito questo senza essersi confrontati con queste
problematiche è una roba devastante. E’ un campo ancora da arare, è ancora tutto da fare. Per me è
diventata un po’ una fissa, tra l’altro ci sto scrivendo sopra una cosa, anche visto il luogo in cui
abito e le cose di cui mi occupo quotidianamente: occupandomi di concorrenza e mercati, di
economia concorrenziale, del ruolo dei monopoli, dello Stato, del rapporto tra Stato e economia
ecc., queste problematiche sono costrette ad affrontarle quotidianamente, e mi rendo conto quanto
siamo indietro. Ci muoviamo ancora (se così posso dire, parlo della sinistra che è quella che
interessa di più ovviamente) tra una sinistra che o si rifiuta, mette mano alla pistola appena sente
nominare certi termini e nella migliore delle ipotesi per parlare di queste cose rifrigge tematiche e
stereotipi che proprio non reggono in alcun modo, oppure un’altra sinistra che invece cala le brache
in maniera vergognosa e diventa più liberista dei liberisti, senza sapere neanche che cos’è il
liberismo. Io vedo la sinistra oscillare tra questi estremi e mi sembra che ancora una volta sia
abbastanza deserto il campo in cui si tratterebbe di fare i conti con le cose stesse (usando una

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terminologia husserliana), quindi ragionare sui concetti ma partendo dalle cose. Questo mi pare che
sia ancora da fare e in qualche modo questa deficienza attuale la riconnetto a quella chiusura di
orizzonte politico che c’è stata nell’esperienza della sinistra italiana e anche della sinistra
alternativa. Ora ovviamente io sono portato a esprimere prevalentemente i giudizi critici e negativi,
forse è più interessante questo che stare a dire quanto è stato bello quello e quanto è stato bello
quell’altro: indubbiamente ci sono stati aspetti, sia dal punto di vista dell’esperienza che anche dal
punto di vista degli eventi politici che si sono prodotti, che sono positivi, che comunque hanno
avuto ricadute positive, lungi da me buttare tutto a mare. Però, riguardando un po’ in prospettiva,
come suggerisce una conversazione come quella che stiamo facendo, mi vengono da dire queste
cose, pensare quanto ci ha condizionato e quanto ancora condiziona quella storia lì. Forse noi non
ce ne siamo neanche resi conto nelle esperienze extraparlamentari di quanto, pur ribellandoci e pur
rifiutando tanti stereotipi, eravamo vittime ancora della cultura del marxismo così come si era
sedimentata nella versione terzinternazionalista, comunista ecc. Apro una piccola parentesi: dire che
io l’avevo capito sarebbe dire troppo e non voglio assolutamente rivendicarlo, però sicuramente una
componente del mio disagio, soprattutto nella fase potoppista, deriva certamente un po’ da questo,
c’è questa componente che è l’insoddisfazione per l’incapacità di confrontarsi con altre culture, di
avere un orizzonte di ricerca teorica e di confronto politico più ampio. Devo dire che questa cosa fu
anche in parte consolidata dall’esperienza che io ho fatto: mi sono occupato (forse anche questa fu
una scelta che era un pochino un tentativo di tirarsi fuori da una situazione che mi piaceva sempre
meno) dei rapporti internazionali di Potere Operaio, ne sono stato responsabile per diverso tempo
insieme con Ferruccio Gambino, ho girato parecchio e ho conosciuto molti ambienti in Svizzera, in
Francia, in particolare in Germania, ambienti dove il peso della tradizione marxista e comunista era
molto inferiore (un giro che ho frequentato a lungo allora era quello di Cohn-Bendit, che
sicuramente tutto era tranne che un marxista). Mi aveva dato da pensare questa cosa, le difficoltà di
dialogo che c’erano tra noi, tra i gruppi italiani (in particolare il nostro) e i gruppi della sinistra
alternativa tedesca, svizzera ecc. erano proprio impressionanti; per cui pur partendo qualche volta
da elementi comuni, da valutazioni comuni della situazione, da schieramenti comuni su tematiche e
su fronti sociali, poi dopo i ragionamenti che se ne sviluppavano e i linguaggi che si parlavano
erano completamente diversi. Quindi, questo già allora mi aveva dato molto da pensare.

- Quali erano invece il dibattito e le varie posizioni interne a Classe Operaia? Ad esempio sul
discorso classe-partito si evidenziano in modo chiaro le divergenze che poi saranno uno degli
aspetti che porteranno alla fine dell’esperienza.

Lì credo che si possa dire che all’interno di Classe Operaia si sono enucleate, anche se non sono
venute alla luce in tutta chiarezza, le due posizioni classiche: quella movimentista, che un po’
sottovaluta il problema dell’organizzazione e comunque lo subordina, quindi è basista, è
democraticista ecc., ed è quella a cui mi iscrivo io; e una posizione invece che tende ad accentuare il
problema del partito, il problema dell’organizzazione, il problema della guida e compagnia bella.
Dentro Classe Operaia queste cose sono state in tempi successivi rappresentate da Tronti stesso, poi
però ognuno se le viveva dandogli delle curvature proprie. Io sono abbastanza dell’idea che, al di là
di quello che era il discorso che veniva sviluppando Tronti, così lucido, con i suoi passaggi, dove
appunto a un certo momento arriva il partito, il gruppo Classe Operaia non ebbe un’evoluzione in
quel senso lì, un’evoluzione verso il partito, rimase invece divisa orizzontalmente. Sicuramente, ad
esempio, quello fiorentino era un gruppo più movimentista, molto più interessato all’analisi delle
lotte, alle problematiche dell’autorganizzazione delle lotte, delle forme spontanee di organizzazione
delle lotte piuttosto che alla problematica del partito: ovviamente con questa ci confrontammo
perché ce la mise sul tavolo Tronti, però questo era un po’ l’orientamento. E devo dire che
probabilmente alcuni di noi, me compreso, sono confluiti in Potere Operaio perché almeno
inizialmente in esso si vedeva la faccia movimentista. Poi dopo anch’io sono arrivato a vivere la
fase di stretta organizzativa, il dibattito parossistico sul partito e via dicendo, e credo di avervi

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anche partecipato, in parte di averlo anche condiviso, cosa di cui mi pento assai. Secondo me il
ragionamento sul partito come organizzazione è stato un fattore fortemente regressivo dentro lo
sviluppo dei gruppi, soprattutto nel nostro, in Lotta Continua è stato un po’ diverso, LC è sempre
stata un po’ più movimentista anche se ha avuto una fase partitica, anzi quando si sono messi a fare
il partito erano quasi più rigidi dei potoppini. Questa problematica del partito che a un certo punto si
è imposta, secondo me ha snaturato tutti i geni positivi che erano maturati dentro questa esperienza.
Io continuo a pensare che di questa esperienza (sia la nostra, sia quella di Lotta Continua, sia quella
anche di altri organismi che in quel periodo nacquero) la parte movimentista era quella più
interessante, quella più sana, quella più innovativa: era lì che bisognava probabilmente lavorare per
capire come far crescere verso forme politiche nuove, invece con l’imposizione della problematica
del partito gli si impose un andamento regressivo in qualche modo. Io non so se avrebbero potuto
esserci altri sviluppi, ma sicuramente in questa maniera questi sviluppi furono bloccati. Ci
mettemmo a scimmiottare i grandi partiti, tutt’al più facendo la faccia un po’ più feroce, facendo un
po’ più rumore degli altri. Il ’68 anche in Italia ha rappresentato una grande innovazione, però in
parte andava ad agganciarsi e a innestarsi su cose che già esistevano, cose molto minoritarie, che
non avevano carattere di massa, però c’erano: quindi, probabilmente era quella la fecondazione che
sarebbe stata utile che si sviluppasse e andasse avanti, il cortocircuito con la tematica
dell’organizzazione secondo me ha castrato tutto questo. Ciò, coniugato con quello che dicevo
prima, cioè quello che secondo me è un orizzonte politico eccessivamente ristretto, coartato, ha
fatto il resto. Non c’è stata la possibilità appunto di procedere verso elaborazioni di idee politiche
diverse, forse avrebbero potuto nascere se ti confrontavi con i problemi della libertà, della
democrazia, sulle esperienze storiche di queste problematiche, sia in campo capitalistico sia in
quello che allora era il campo socialista (poi si è capito che non lo era, era capitalistico anche
quello). Insomma, secondo me c’è ancora un interrogativo, poi la storia non si fa con i se, però lì c’è
stato uno snodo e resta interessante l’interrogativo di cosa sarebbe potuto succedere se invece di
andare lì magari si andava di là: questo non ce lo dirà più nessuno, anche perché sono irripetibili
quelle esperienze, non credo che ci siano le condizioni perché si ripeta qualcosa di simile.

- Quali sono i suoi cosiddetti numi tutelari, ossia figure e autori di riferimento che hanno avuto
un particolare peso nei suoi percorsi?

Marx indubbiamente, me lo sono letto e studiato in italiano, in tedesco, in francese, in tutti i modi
possibili e immaginabili. Credo di aver avuto (perché ora un po’ di cose sono dimenticate) una
conoscenza di Marx molto approfondita e di essermi anche immedesimato con molto del lavoro
fatto da lui, con la sua esperienza, già dalla sua lettura del capitalismo e così via. Quindi,
sicuramente è un autore che ha pesato tantissimo anche se poi, forse proprio per questa indigestione
giovanile, ho passato anni non leggendo più nulla di Marx, adesso ogni tanto mi vado a riprendere
qualcosa ma non ho più utilizzato esplicitamente materiali marxiani. Poi Husserl per me è stato
importante: è stata importante quella lettura che feci con Paci, poi me lo sono letto anche per conto
mio in parte, ci sono ritornato molto di recente. Però quella lettura fatta con Paci de Le meditazioni
cartesiane per me è stata molto importante dal punto di vista della costruzione di un atteggiamento
mentale, di un modo di affrontare le cose, arriverei a dire (forse esagerando un pochino) di uno stile
di vita. Questo accento posto da Husserl sull’esigenza di ritornare alle cose, ripartire dalle cose per
fondare una scienza analitica è un pensiero che non mi ha mai abbandonato. Quindi, sicuramente
Husserl, e dunque in questo senso il suo interprete italiano, Paci, che era persona di notevole
fascino. Poi un autore che ho usato molto, ho letto molto, su cui ho lavorato parecchio è
Schumpeter, che come economista non marxista è la persona che ha capito di più del capitalismo in
assoluto, è insuperato, nonostante abbia scritto tutte le sue cose più importanti nei primi
quarant’anni del secolo. Questi stanno su un palchetto bene in vista in alto, poi bisogna scendere di
molto per trovare altre persone. Indubbiamente, lo dicevo prima, per me è stata importante
l’esperienza del rapporto con Tronti, ma in quel contesto, poi con Mario dove è andato non ci siamo

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praticamente più visti; l’ho rivisto di recente, ho letto qualche cosa di suo, soprattutto i suoi lavori
sul pensiero politico inglese che ho trovato interessanti e utili anche perché ci sono cose a cui sono
ritornato anch’io. Sicuramente una persona importante, anche proprio sul piano della vita, che mi ha
aiutato, è stato Graziani: questi è una persona alla cui libertà mentale devo certamente molto, perché
lui ha avuto il coraggio di introdurmi in un ambiente accademico, di darmi una legittimazione che
nessun altro mi avrebbe dato, quindi ha facilitato di molto il mio lavoro. Poi Graziani ora è un po’
irrigidito, ma è una persona di grande intelligenza, di grande cultura, è veramente una persona
stimolante. Però non è nel pantheon, è una persona, un amico poco più vecchio di me che per me ha
avuto un ruolo importante. Autori poi se ne possono citare tanti, però mi colpisce la domanda, non
mi ero mai posto il problema: in realtà mi vengono da enumerare poche persone e pochi autori in
prima battuta, forse ho letto troppo in vita mia, bisogna leggere meno!

- Qual è il funzionamento di questa azienda in cui lavora? Come vede, da questa angolazione, lo
sviluppo di tutta una serie di processi capitalistici?

Questo qui è un punto di osservazione interessante per tante ragioni. Intanto perché si parla di una
cosa di cui in Italia non si è mai parlato, cioè la concorrenza: da quando sto qua dentro quello
stimolo di ragionare su cos’è questa cavolo di concorrenza, perché in Italia si è arrivati nel ’90 a
fare una legge sulla concorrenza e mettere in piedi una struttura, un’amministrazione pubblica che
ha il compito di farla rispettare, mi ha portato anche a rileggere un po’ tutta la storia italiana. Questo
è un paese in cui, per quanto abbia avuto sempre forti correnti liberali, almeno a livello di potere,
abbia avuto industriali che hanno sempre starnazzato “evviva la concorrenza, evviva il capitalismo
della concorrenza ecc.”, poi tutto quello che è stato fatto è esattamente il contrario. E’ un paese in
cui si sono costruiti monopoli pubblici e privati a tutto spiano; i privati fin dalle origini, fin dalla
nascita dello Stato italiano hanno sempre fatto di tutto per non dover affrontare la concorrenza e per
ottenere la protezione dello Stato, tutt’oggi piangono quando questa protezione viene meno. Quindi,
questo è un paese che ha elaborato nel suo Dna economico-politico un sostanziale rifiuto di tutto ciò
che è mercato, competizione, concorrenza: non stiamo ancora dicendo che questo è un bene o un
male, stiamo semplicemente rilevando un fatto. In ciò è sorretto dalle due culture dominanti: la
cultura cattolica e la cultura marxista, talvolta prendendo lucciole per lanterne qualche volta con
buoni motivi, hanno fatto di tutto per tenere lontana dall’Italia una cultura della concorrenza e del
mercato. L’Italia è arrivata nel ’90 a dotarsi di una legge sulla concorrenza, ultimo paese europeo a
farlo e esattamente cento anni dopo che lo avevano fatto gli Stati Uniti. Notando bene che gli Stati
Uniti hanno varato una legge sulla concorrenza nel 1890 con l’obiettivo di fare il culo a Rockfeller,
accusato di mettere a rischio la democrazia del paese con i suoi trust petroliferi ecc., quindi con già
una forte componente di rapporto (tutto da verificare, però vissuto nella realtà politica di quel paese)
tra legislazione sulla concorrenza, democrazia, limiti al potere economico, questa è la problematica;
in Italia questo bisogno non l’abbiamo mai sentito fino al 1990. Dubito che non l’abbiamo sentito
perché non esisteva il problema della concentrazione del potere economico, non esisteva il
problema della democrazia, anche economica ecc.: credo che dipenda dal fatto che le culture e le
forze politiche dominanti che le hanno rappresentate hanno trovato molto più facile lavorare dentro
una situazione che faceva perno sul ruolo dominante dello Stato. E nel ’90 noi ci ritroviamo questa
legge che ci viene di fatto imposta dall’esterno, dall’Europa: tutti gli altri paesi europei ce l’hanno, a
livello europeo esiste dal ’57, cioè da quando si è varata la Comunità Economica Europea esiste una
legislazione, in Germania ce l’avevano dagli anni ’50, in Inghilterra idem, la Francia un po’ dopo.
Arriviamo noi ultimi, l’iniziativa di legge (anche ciò è abbastanza significativo) fu presa da deputati
della Sinistra Indipendente, quindi neanche allora è stato uno dei maggiori partiti a proporre che
l’Italia si adeguasse ma è stata una minoranza, e ora c’è questa cosa.
Ci vorrebbe un discorso lungo (che io spero di fare in questo libretto che sto scrivendo) se
effettivamente ha senso coniugare l’esistenza di un regime economico fatto di mercati in cui prevale
più o meno la concorrenza perché questo è il sistema economico che meglio garantisce libertà e

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democrazia, se dunque ha senso argomentare questi nessi, quindi questo sarebbe un discorso lungo.
Io mi sono fatto la convinzione che ha senso: certo si deve andare molto lontano per dare un senso a
questi nessi, credo che comunque sia importante ragionarci sopra. Dire che effetto fa questo in Italia
è tutt’altro discorso ancora. Al di là del fatto che ci sia qualcuno che giudichi positivo innovare le
regole del gioco, innovare le modalità con cui funziona il sistema economico andando verso
un’apertura dei mercati, un controllo del potere economico, un’abolizione il più possibile dei
monopoli, sia quelli pubblici sia quelli privati, qui a parole ormai oggi molti sono a favore di questi
cambiamenti, sinistra compresa, tranne le frange, tranne Bertinotti. Se si guarda il panorama delle
forze politiche (compresa Alleanza Nazionale e questo è eccezionale) dai DS, passando per gli ex
democristiani di varia tendenza e ricollocazione, per arrivare fino a AN, tutti ti dicono che
dobbiamo svecchiare il paese, che ci vuole un sistema economico in cui ci deve essere più
concorrenza, in cui si deve garantire la competizione, che sono inaccettabili le posizioni di
monopolio e così via: lo dicono tutti, su come lo argomentano stendiamo un pietoso velo perché
evidentemente queste culture non si improvvisano, invece tutti quanti si sono trovati a
improvvisarle negli ultimi 4 o 5 anni, massimo negli ultimi 10, datiamo dal crollo del muro, quindi
diciamo 10-11. Quando poi si passa a provare a farle queste cose succede un casino tremendo,
perché prendere sul serio questa trasformazione vuol dire incidere profondamente su un sistema di
potere economico e politico che ha una storia centenaria. Mi rendo conto che sono cose dette in
maniera un po’ rozza e uno può dire che è chiaro che i dirigenti democristiani delle partecipazioni
statali non sono la stessa cosa dell’autarchia mussoliniana: invece secondo me si può argomentare
che c’è una sostanziale continuità più che centenaria (ormai sono quasi 150 anni) nel nostro paese,
in cui si è venuto costituendo un sistema di potere economico e politico intrecciato e bloccato (fino
a pochissimo tempo fa) su pochissimi centri di comando, di nuovo sia economico che politico. Dico
cose ampiamente note, si tratta di alcune posizioni di potere economico, alcune famiglie come ben
sappiamo, alcune posizioni di potere nello Stato, e spesso dialoganti e intrecciate tra di loro: lo Stato
non ha fatto quasi mai cose che potessero dispiacere ai privati, e i privati viceversa hanno cercato di
utilizzare sempre lo Stato. Quindi, questo intreccio c’è sempre stato, poi una delle cose più
devastanti della nostra storia è secondo me la totale continuità che c’è sempre stata nelle élite
dirigenti, di nuovo in quelle sia dell’economia che della politica, se si va a vedere non possiamo
rifarci in trenta secondi la storia dall’unità d’Italia a oggi, ma basta un esempio: la vicenda della
grande impresa pubblica che nasce con Mussolini e che chiude ora, non è un caso, l’IRI nasce nel
’33 e chiude nel 2000, in una sostanziale continuità di funzioni, di gruppi dirigenti, di uomini (la
Banca d’Italia, le grandi famiglie ecc.). Quindi, dire che vogliamo andare verso un sistema aperto,
verso un sistema non protetto dallo Stato ecc., vuol dire rompere parecchie posizioni di potere.
Questo è un paese in cui (come spesso si dice, i giornali lo riportano e ci ricamano sopra) ci sono x
leggi, perché nessuno sa quante sono effettivamente, si parla qualche volta di più di centomila
quando in Francia o in Germania sono tre o quattromila: ma perché? Perché buona parte di queste
leggi, se le si va a vedere, sono leggi che non sono state fatte dallo Stato: sì certo formalmente le fa
il Parlamento, o il Re prima, però di fatto sono fatte da gruppi di pressione che con queste leggi
tentano di garantirsi posizioni di privilegio, che vanno da quelle più piccole a quelle più grandi
(esenzioni da questo, facilitazioni su quest’altro e così via). E qui si può modulare quanto pare,
andiamo dalle migliaia di miliardi delle sovvenzioni pubbliche all’industria privata, o parliamo dei
modi con cui gli ordini professionali si organizzano per suddividersi il mercato tra di loro e
impedire che aumenti il numero dei notai piuttosto che dei geometri fino ai farmacisti. Insomma,
come ti muovi in Italia c’è una legge che tutela e protegge il privilegio di qualche gruppo che nel
corso del tempo è riuscito a quotarsi al mercato della politica, a portare a casa un privilegio e a non
farselo più togliere: quando tu provi a toglierglieli starnazzano come dannati. Noi in un certo senso
un pochino proviamo a fare questo, però appunto lo si prova a fare in Italia, in un contesto che è
quello italiano, con un personale che è quello italiano, e questo dice tutto. Però, la partita che è in
ballo è questa, cioè è una partita in cui un organismo come questo, che è sicuramente un corpo
estraneo nel tessuto economico e politico del nostro paese, in qualche modo per forza è veicolo di

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un’innovazione nelle regole del gioco economico: per forza perché ormai ce lo impone la Comunità
Europea, il fatto che stiamo dentro a cose più grandi di noi, e noi (questo organismo qua di cui
faccio parte) ne siamo in parte veicolo. Quindi, in qualche modo, volenti o nolenti,
indipendentemente dalla bravura, dal coraggio o dalle palle che hanno i cinque di cui parlavo in
precedenza, delle cose le fai, perché hai una legge che te lo impone; poi si scatenano dinamiche
nuove, nel senso che anche nell’economia italiana e in generale nel pubblico si è cominciato a
capire che, essendoci una legge nuova che consente di rompere i coglioni a qualcun altro, ci si mette
a giocare, cioè ci sono quelli che vengono da noi a dire “guarda che lui fa questo, fa quell’altro”: si
innesca un processo nuovo che è fondamentalmente di messa in discussione di posizioni di potere
date. Questo non vuol dire ovviamente cancellazione delle posizioni di potere, però è di messa in
discussione delle posizioni di potere date. Questa cosa, coniugata con altri processi che comunque
vanno in quella direzione (e il primo di questi è l’apertura, l’adesione al Mercato Unico Europeo) in
pratica ha fatto venire meno quelle barriere che proteggevano una parte sostanziosa del nostro
sistema economico, l’ha messo immediatamente in rapporto con tutto il resto. Da qui tra l’altro tutta
la sofferenza delle regioni e anche della Padania, io spiego così quel quid di razionale che ci può
essere nel bossismo, c’è anche questo, cioè la paura di fronte a questa apertura che
improvvisamente si è data rispetto a mercati molto più ampi, a modalità molto più dure di
competizione: non è solo questo ma secondo me c’è anche questa componente. Poi ovviamente
questa cosa ha devastato il Mezzogiorno, dove si viveva di protezione in tutti i sensi, di lavori
fasulli, di soldi erogati in maniera clientelare dagli organi dello Stato.
Secondo me la vicenda dell’Antitrust, quindi l’apertura dei mercati alla concorrenza, è un pezzo di
questa vicenda che sta mettendo sotto tensione la realtà economica e politica del nostro paese, in
parte riplasmandola: qui dipende da chi gioca e come si gioca e come si pensa di poter giocare per
portare avanti processi un po’ più in una direzione piuttosto che in un’altra. E da questo punto di
vista devo dire che le mie valutazione sono estremamente pessimistiche, perché mi sembra che
nessuna delle forze politiche attualmente in campo, nessuna esclusa, ci capisca un cavolo in questa
vicenda. Dico proprio nessuna delle forze politiche in Italia, sia quelle per le quali puoi avere
qualche simpatia (le mie simpatie ormai sono prossime allo zero) ma anche quelle che consideri
ostili: insomma non ce n’è nessuna, neanche voglio dire il buon Berlusconi, che pure dovrebbe
essere quello che più trae vantaggio dall’andare in questa direzione, nessuna forza politica ha avuto
e ha il coraggio e l’intelligenza politica di puntare anche solo in parte su questi processi di
modificazione e di innovazione che vengono avanti; quasi tutte le forze politiche mi sembrano
principalmente impegnate a difendere spazi di orticelli precostituiti. La cosa più clamorosa in
questo senso, e anche quella che mi dispiace di più perché in fondo lì dentro poi ci stanno le persone
a cui posso essere stato più vicino in passato, è Rifondazione sotto questo profilo, che proprio si
rifiuta di ragionare su queste cose, dice “no, no, no perché quello è il diavolo e basta”: si fanno il
segno, cioè si fanno la falce e il martello e così esorcizzano il diavolo. Dal punto di vista dell’analisi
è forse più interessante capire perché un Berlusconi non decida questo: spara su tutti, dice “noi
siamo liberisti, noi siamo per il mercato, noi siamo per la concorrenza”, ma non è assolutamente
vero, quelle sono solo le sue sparate pubbliche poi nella sostanza politica non lo è affatto; e non lo è
perché probabilmente anche lui realisticamente si è reso conto che le forze e i poteri che tengono il
paese vincolato ai vecchi modelli che dicevo prima sono talmente forti che se tu vuoi conquistare la
maggioranza ci devi fare i conti, devi cedere a queste forze. E queste sono forze alle quali non puoi
dire che togli determinati privilegi, che togli loro certe sicurezze ecc., devi un pochino accarezzarle:
in questo Berlusconi è molto simile a forze contrarie alla sua. Più difficile da capire Alleanza
Nazionale: se c’è un partito nato e cresciuto statalista mi sembra AN, che oggi quando può spara a
favore della concorrenza, “liberalizziamo qua, liberalizziamo là, privatizziamo ecc.”; non riesco a
capire cosa le sia successo, se lo fanno semplicemente perché cercano di catturare un po’ di
elettorato che ha un pochino di tradizione liberale, non lo so, non riesco a capire proprio, messe in
bocca a loro queste cose fanno proprio effetto. Queste sono un po’ di considerazioni.

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Da qua cosa si vede? Non voglio assolutamente fare un corso accelerato di politica ed economia
della concorrenza, ma questo vale un po’ per tutte le legislazioni che nel mondo si sono poste il
problema: fondamentalmente ci si pone il problema di colpire i cartelli, cioè gli accordi più o meno
segreti che si fanno tra imprese per dividersi il mercato, tenere alti i prezzi ecc., quindi per non farsi
la concorrenza. Dunque, uno degli oggetti è questo, colpire i cartelli, quindi questo vuol dire
scoprirli, dimostrare in tribunale che esistono, costringerli a smontarli e far loro pagare multe salate:
lo stiamo tentando di fare con i petrolieri, abbiamo dato 600 miliardi di multa perché secondo noi
siamo riusciti a dimostrare che le grandi società petrolifere avevano costituito un cartello per
governare il mercato a loro piacimento. Quindi, la prima cosa sono i cartelli. La seconda cosa è
quando grandissime imprese, che occupano una posizione esorbitante su un determinato mercato,
sono di gran lunga i principali produttori su un determinato mercato, usano questa loro posizione
per mettere in atto tutta una serie di pratiche che impediscono ad altri di entrare in quel mercato,
oppure di mettere sul mercato prodotti a prezzi più bassi e concorrenziali: questo è quello che, in
linguaggio della concorrenza, si chiama abuso di posizione dominante ed è un’altra delle cose che
noi colpiamo. L’ultima cosa di cui si occupa l’Autorità per la concorrenza è che quando due società
si fondono tra di loro per fare una società unica devono prima chiederci il permesso, ovviamente al
di sopra di una certa soglia, se lo fanno due negozietti qui accanto non devono assolutamente
chiedere il nostro permesso, c’è una soglia che è determinata da un livello di fatturato che è indicato
esplicitamente. Quando due società che stanno al di sopra di questo livello si fondono tra di loro
devono venire da noi e chiederci il permesso di attuare questa fusione, oppure quando una società
ne compra un’altra, perché noi dobbiamo valutare se l’entità che nasce da questa fusione o da
questo acquisto può essere pericolosa perché troppo grande e può impedire ad altri di operare e
quindi mantenere il mercato sufficientemente libero e competitivo. Sono queste le cose di cui ci
occupiamo. Ci si rende conto di che cosa significa occuparsi di queste cose per un paese in cui
appunto i cartelli sono addirittura la norma, al punto tale che c’era una cultura giuridica per cui
bisognava addirittura razionalizzarli: noi, dal punto di vista della concorrenza, consideriamo i
consorzi come cartelli, però i consorzi sono protetti dalla legge in Italia, quindi una cultura giuridica
precedente a quella della concorrenza non ci vedeva nulla di male nel fatto che le aziende si
mettessero d’accordo tra di loro per fare quello che gli pareva ai danni dei consumatori, questa era
una cosa che non veniva mai presa in considerazione prima. Quindi, hai un paese che dovresti
rovesciare come un calzino perché cartelli veri o mascherati esistono a tutti i livelli e in tutti gli
ambiti. L’altra cosa sono le posizioni dominanti: in un paese in cui fino a poco tempo fa erano
pochissimi i gruppi industriali, i gruppi economici che dominavano, ci si può rendere conto anche di
cosa vuol dire stare a valutare ogni volta quando questi nelle cose che fanno abusano del potere e
quindi infrangono la legge.
Certo, è un lavoro enorme, colossale da fare, in cui questo organismo tutto sommato è un pigmeo,
poi si tenga conto che questo è un organismo comunque, siccome siamo in Italia, frutto di
spartizioni partitocratiche, quindi comunque con valenze politiche, immagino che ognuno avrà i
suoi suggeritori; però, nonostante tutto questo è un organismo che sta dentro, e agisce a mio modo
di vedere positivamente, questi con processi di mutamento che incidono e che stanno incidendo
anche sui rapporti di potere. Da questo punto di vista è un processo secondo me molto importante,
anche se portato avanti (per quello che abbiamo già enumerato) in maniera molto carente e
difettosa, ed era il motivo che utilizzavo dieci anni fa per dichiararmi entro certi limiti a favore
anche dei processi di privatizzazione, perché anche i processi di privatizzazione sono in realtà
processi che incidono su costellazioni di potere date, le scombinano; poi, per il modo in cui
vengono realizzate, ne riprodurranno delle altre che magari piaceranno ancora meno di quelle
precedenti, però resta il fatto che per la prima volta in questo paese da quando esiste si scombinano
costellazioni di potere in maniera sostanziosa. Ciò non è mai avvenuto, è sempre avvenuto tutto per
passaggi molto leggeri, molto concordati, molto guidati, non si è mai sbaraccato come in parte si sta
facendo ora. Si pensi alla vicenda e al ruolo di Mediobanca in questo paese, è servita sempre ad
attutire tutto, a gestire tutto, ad evitare gli scontri, a ricomporre tutto in famiglia, purché gli assetti

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di potere rimanessero quelli. Io devo dire che, fin da quando mi occupai di privatizzazioni nel ’90, e
poi anche quando me ne sono rioccupato di recente (un paio di anni fa ho pubblicato un volumetto
sul tema), mi è sembrato sempre che si trattasse di valorizzare in primo luogo questo aspetto, la
valenza politica delle privatizzazioni in quanto processo che incide sugli assetti di potere dati. E
siccome gli assetti di potere che erano dati in Italia fino a non molto tempo fa hanno creato sfracelli
in questo paese, secondo me c’era una priorità che consisteva nello smantellare questi assetti di
potere, qualunque fosse la cosa che poi ne sarebbe risultata. Certo poi li si giocava e si gioca la
partita politica: se tu hai qualche voce nel gioco politico puoi cercare questi processi di portarli in
una direzione piuttosto che in un’altra, però intanto apri la partita, apri il gioco. E le privatizzazioni
si prestavano e si sono prestate (in misura molto minore di quella che io avrei auspicato) a essere
questo: lo sono state solo in parte perché i soliti noti sono riusciti a tenere ferme le mani anche su
quello, e questo grazie anche alla sinistra, alla “intelligenza” e al “coraggio politico” della sinistra.

- Negli ultimi anni, soprattutto all’interno del dibattito sul cosiddetto postfordismo, si è molto
parlato dell’epocale ridimensionamento quando non della scomparsa dello Stato-nazione:
secondo lei come si va riconfigurando il ruolo dello Stato e degli organi di potere e decisionali
sovranazionali?

Secondo me è uno degli aspetti della crisi generale e delle difficoltà che si stanno vivendo. Lo
Stato-nazione sta finendo per tante ragioni, era un tema su cui avevo cominciato a riflettere già
quando con Aldo Bonomi ci occupavamo di sviluppo locale, di regionalismi ecc.; già allora anche
solo occupandosi di quella tematica era facile vedere come il contesto in cui era opportuno
ragionare era un contesto europeo, un contesto in cui diventavano tendenzialmente protagoniste le
regioni ed entrando in conflitto con lo Stato tra l’altro. Qui c’è di nuovo un altro elemento che se si
vuole porta a spiegare la Lega e il leghismo, quindi non solo con un trucidismo di Bossi ma con
ragioni reali, di fondo, che stanno dentro i mutamenti economici e politici. Quindi, lo Stato-nazione
non è più in grado di rapportarsi alla complessità e alla dimensione dei processi, anche perché
appunto le aree economiche rilevanti tendono a essere sovranazionali; gli Stati non riescono a
ricollocarsi dentro queste aree più ampie con una loro funzione, anzi come vediamo in Europa forse
l’unica cosa buona che fanno è quella di cedere sovranità ai livelli superiori. Proprio nella misura in
cui lo Stato nazionale vive anche e consapevolmente una sorta di eutanasia, cedendo sovranità ai
livelli superiori, si creano inevitabilmente spazi per formazioni politiche a livello inferiore,
comunque entra in tensione questo mondo, e lo Stato non governa più questi processi. Quindi,
secondo me questo è il processo che attualmente stiamo vivendo già da parecchio tempo.
Quello che tuttora manca è la capacità di governo dei processi o (perché forse a quel livello parlare
di governo è dire troppo) capacità di mediazione tra i processi ai livelli sovranazionali, perché
l’Europa ancora non c’è da questo punto di vista: è una grande cosa, è una cosa contraddittoria, è
una cosa che, come tutte le unioni, è nata prevalentemente sul terreno economico, non conosco
un’unione che sia nata su un altro terreno in tutta la storia, però è rimasta troppo a lungo solo
un’unione economica e quindi soffre del fatto che non ci sia stata la capacità di integrarla con una
vita politica e sociale più articolata di quella che abbia ora. Poi soprattutto mancano sedi e
organismi adeguati a livello mondiale. L’economia ormai (come appunto sappiamo senza bisogno
di usare la parolaccia mondializzazione) è un’economia che per grosse parti e settori ha di per sé
natura globale, planetaria, gli operatori si muovono avendo questo in mente, le grandi imprese ma
non solo quelle si muovono sapendo che il loro terreno è il mondo, e in questo mondo non ci sono
organismi in grado di fronteggiare i processi che vengono scatenati da questa interazione tra grandi
operatori. Si stanno facendo delle cose ma produrranno risultati troppo tardi. Poi nel nostro paese
tutto questo è aggravato dal fatto che noi avevamo uno Stato che era da buttare già da un pezzo, e
quando ci decideremo a buttarlo del tutto sarà sempre troppo tardi, perché è uno Stato che sotto tutti
i punti di vista (anche proprio in quello specifico, pesante, di amministrazione pubblica) è un
disastro, perché è stato funzionale a tutto quel mondo di cui parlavamo prima, ha vissuto di quello, è

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cresciuto in maniera cancerosa dentro quel mondo lì e con quel mondo in parte sta cominciando a
crepare. Però è un processo lungo, che non so neanche se si compirà mai perché poi si intreccia
anche con altri meccanismi del potere e della trasmissione del potere che non si vedono in
superficie: parlo del potere che è in mano alle persone, che è fatto di relazioni tra persone, tra
famiglie, è un potere che non vedi perché non è situato da nessuna parte, che fa un cumulo di
relazioni tra uomini che occupano posizioni nello Stato, uomini che occupano posizioni nella
politica, uomini che occupano posizioni nell’economia, che sono amici e parenti tra di loro e che
collocano i loro figli e nipoti in determinati posti. Questa è l’infrastruttura del potere ed è ancora più
difficile da far cambiare.

- Il nodo della classe: c’è chi parla di una sua scomposizione e frammentazione, c’è chi parla di
una sua polverizzazione, c’è chi parla della sua fine. Lei cosa ne pensa?

Questa è proprio una cosa di cui non riesco a parlare, mi era venuto in mente appunto leggendo il
documento di presentazione. Cos’è la classe? C’è qualcuno che è in grado di mostrarmi in natura un
qualche cosa che si chiama classe? Ma dico in natura proprio, poi concettualmente si possono
inventare tante cose. Io francamente non la vedo. Una volta che è venuto meno un modo di
produzione che produceva forti omogeneità e che vedeva queste omogeneità rinforzate dalla
condivisione di ideologie, di fini, di motivi etici, di abitudini, e che è venuta meno questa cosa
credo che siamo d’accordo tutti, poi si può divergere su cosa ha generato questo venire meno ecc.,
ma una volta venuto meno questo che senso ha parlare di classe? Ora lo dico, mi viene in mente per
la prima volta: realmente l’uso del termine classe è invalso e ha avuto un senso finché si poteva
parlare di due, tre classi, ma in una situazione in cui si dovrebbe parlare di 57, 62, 111 classi forse
quella è una cosa che interessa chi si occupa di scienza naturale, che deve classificare gli animali,
gli insetti ecc., ma ha interesse per chi analizza la società? Sono domande che mi faccio.
Certamente io ho vissuto la fase in cui tutti quanti ci siamo detti cosa ne restava della classe operaia,
che trasformazioni subiva; dal momento in cui è stato chiaro che non aveva più senso parlare di
classe operaia perché non c’era, intanto perché cominciavano a non esserci più gli operai e
comunque quelli che rimanevano avevano comportamenti e valenze sociali diverse da quelli del
passato, da quel momento lì in poi io mi sono chiesto che senso potesse avere continuare a parlare
di classe. Certo, ci possono essere convenzioni linguistiche, allora va bene, uno decide che
chiamiamo classe tutte quelle aggregazioni di persone che sono caratterizzate dalle seguenti cose,
allora possiamo chiamare classe l’aggregazione di tutte quelle persone che condividono un qualche
cosa, una finalità, uno stile di vita, uno stile di lavoro, una condizione ecc.; però, se utilizzando il
termine classe, invece, si vuole suggerire che c’è una continuità rispetto a una configurazione di
classi che c’era prima, questo mi pare addirittura fuorviante. Certo, io oggi potrei fare l’esercizio di
ricostruire delle classi, sia come esercizio analitico, intellettuale, sia come esercizio anche di pratica
politico-sociale, ma con un senso e con modalità che segnano una cesura netta rispetto ai contenuti
e al senso che ha avuto il termine classe nella società che ci siamo lasciati alle spalle. Allora mi
chiedo appunto che senso ha parlare di classe, perché vedo questo rischio, che se ne inferisca una
sorta di continuità dove invece quella che va letta è la discontinuità.

- Se, nell’ambito di questa conricerca, dovesse fare una domanda a una persona che è stata
interna ai percorsi di cui lei ha fatto parte, a chi la farebbe e che cosa chiederebbe?

Non mi viene in mente né la persona né la domanda. Mi piacerebbe un’altra cosa, mi piacerebbe


svolgere con alcuni di questi personaggi che abbiamo anche nominato (Tronti, Romano Alquati,
Gasparotto, Negri) una conversazione del tipo di quella che abbiamo fatto noi stasera. Mi
piacerebbe fare una cosa di questo genere, perché credo che abbiamo preso tutti strade un po’
diverse, nessuno di noi ha buttato via il bagaglio, io sicuramente sulle esperienze che abbiamo fatto
in comune sono più critico di quanto lo sia Toni Negri, su questo non c’è dubbio; credo che

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parlando con Negri di Potere Operaio ne verrà fuori una valutazione e un quadro abbastanza diverso
da quello che ne faccio io. Però, anche per chi può avere poi, riflettendo, valutato come “cazzate”,
errori e quant’altro le cose fatte, mi sembra di poter dire che nessuno le ha buttate. Quindi, ci siamo
ritrovati tutti quanti a farci i conti, a farne tesoro e a cercare strade nuove, altre strade, utilizzando
quello che secondo ognuno di noi era possibile utilizzare di quelle esperienze e buttando via quello
che consideravamo solo un fardello pesante che rende più difficile andare avanti. Questo è un
lavoro e un esercizio che credo abbiamo fatto in maniera diversa, in questo senso c’è chi ha buttato
via di più e chi ha buttato via di meno, ma non c’è nessuno che abbia rinnegato. Certo, ci sono delle
cose da cui io penso che bisognava liberarsi per aprirsi altre strade, per ragionare e per ritornare alle
cose, ripartire da un’analisi delle cose, elaborare nuove soluzioni, nuovi pensieri, introdurre nuove
immagini della realtà in cui si vive, e c’erano certe cose di cui ti dovevi liberare perché pesavano,
erano zavorra. Io credo di averlo fatto molto, qualcuno mi può anche forse rimproverare di questo,
qualcun altro l’ha fatto meno, però credo che nessuno di noi abbia buttato via in questo senso
l’esperienza fatta. Quindi, mi piacerebbe una conversazione su a che punto stiamo e perché ci
stiamo, essendoci stati tra l’altro percorsi poi individualmente molto diversi, perché almeno io con
molte di queste persone per un certo periodo ho avuto incontri solo occasionali; finita l’esperienza
politica militante sono finiti anche i rapporti personali, che pure con alcune di queste persone sono
stati anche molto intensi, anche sul piano proprio dell’amicizia, della frequentazione, con molte di
queste persone e di altre che non ho nominato abbiamo passato anni stando assieme 12 ore al
giorno, ragionando su tutto insieme, affrontando tutto insieme. Sono state esperienze anche molto
pesanti in senso positivo sotto questo profilo, umanamente impegnative, quindi a maggior ragione
non si buttano. Infatti, io vedo una cosa strana, che succede solo con queste persone: quando capita
di incontrarsi, anche per caso, dopo tantissimo tempo, non c’è intanto nessun imbarazzo
nell’incontrarsi e c’è subito una certa facilità di intendersi, di parlare, anche se poi magari
approfondendo ci troveremmo su sponde lontanissime su tante cose, però è come se si sia stabilito
per una volta un legame nell’esperienza che continua a produrre qualcosa. E questa non è una cosa
da buttare in un’esperienza collettiva, anche se poi è diventata quasi evanescente e quasi invisibile:
però, insomma non è da buttare.

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INTERVISTA A SERGIO BIANCHI – 15 OTTOBRE 2001

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e l’inizio della tua attività
militante?

Il mio percorso di formazione politica inizia nel 1973, quando avevo quindici anni. Abitavo in un
piccolo paese in provincia di Varese, però frequentavo per via di degli studi (ho fatto il liceo
artistico) il capoluogo. Il ’73 è stato un anno cruciale. L’affacciarsi in quel periodo alla politica per
me ha voluto dire vivere una serie di tensioni incrociate, sia generali che particolari. Generali
perché è stato l’anno in cui i gruppi extraparlamentari presenti in quell’area territoriale stavano già
cominciando a vivere una crisi, soprattutto il Gruppo Gramsci, che era egemone nella città di
Varese, ma ciò valeva anche per altri gruppi sparsi nell’area provinciale. Io sono di famiglia
operaia, quindi vivevo molto una socialità di carattere operaio, e all’interno del tessuto delle piccole
fabbriche che caratterizzava tutta la mia zona di origine in quel periodo era in atto una forte
sindacalizzazione, con una fioritura di Consigli di fabbrica legati alla FLM, perché quella era
un’area fortemente metalmeccanica. Affacciarsi alla politica in quel periodo voleva dire anche
seguire le lotte che si erano espresse dal ’68 in poi, di cui a me arrivavano solo gli echi, compresi
quelli della straordinaria esperienza dell’occupazione operaia della Fiat a Torino, dei fazzoletti
rossi, nel ’73, appunto. Alla fine dello stesso anno poi veniva elaborata da parte di Berlinguer,
l’allora segretario del Partito comunista, la strategia del “compromesso storico” in seguito alla
vicenda del colpo di Stato in Cile; si tratta di un evento che mi è rimasto particolarmente impresso,
perché aveva suscitato molto clamore, agitazione e dibattito appassionato. Questo è il contesto
generale nel quale è nato il mio interesse per le questioni politiche.
Poi, in tempi molto rapidi, si è costituito un collettivo politico territoriale nel paese dove abitavo, e
la mia militanza si è ritrovata divisa tra questo collettivo territoriale e l’impegno in un collettivo
studentesco interno alla scuola che frequentavo, una delle prime realtà che nasceva già autonoma
rispetto alla presenza dei gruppi extraparlamentari, e nello specifico del Gruppo Gramsci, che stava
vivendo la fase del suo scioglimento. Quindi c’era già un’avvisaglia del dibattito attorno alle
tematiche dell’Autonomia operaia. La cosa rilevante dell’esperienza politica di quella realtà
territoriale di paese era rappresentata dal fatto di essere un collettivo di coetanei, persone che
avevano dai 15 ai 20 anni, giovani operai che avevano concluso la scuola media inferiore ed erano
andati subito a lavorare in fabbrica, dunque tutti presenti massicciamente nel tessuto delle piccole
fabbriche della zona. Il paese dove è nato il collettivo era collegato in maniera ininterrotta ad altri
paesi simili. Un aggregato urbano percorso da due direttrici di viabilità fondamentali: la strada
statale varesina, che collega Milano a Varese, e parallelamente la linea delle Ferrovie Nord Milano.
Su queste due direttrici era concentrato tutto il flusso del pendolarismo sulla metropoli e sul
capoluogo. Quindi, sulle queste due direttrici si condensava sia la presenza dello sviluppo
ininterrotto delle piccole fabbriche, sia quello di quei piccoli condensati abitativi. Dunque, il tessuto
urbano, al di là della definizione del perimetri comunali, era abbastanza omogeneo. Questo
collettivo, nel giro di uno o due anni, ha originato altri collettivi nei paesi circostanti, il triangolo
forte era costituito da Venegono Inferiore, Venegono Superiore, Castiglione Olona, dove c’era
appunto un tessuto di piccole fabbriche, però c’era anche una grossa concentrazione, una fabbrica
chimica, la Mazzuchelli. Queste tre situazioni di collettivi di paese hanno poi dato metaforicamente
l’“assalto” all’unica cittadina vera e propria della zona che era Tradate, collocata geograficamente
al centro di queste direttrici tra Milano e Varese, l’unico centro urbano abbastanza rilevante per la
zona, dato che contava quasi 20.000 abitanti.
Dal punto di vista della formazione politica ritengo di avere avuto la fortuna di non passare
attraverso l’esperienza dei gruppi extraparlamentari, non ho neanche sfiorato il percorso di
militanza al loro interno. Non appena mi sono affacciato all’impegno politico ho subito approcciato
dal punto di vista teorico le tematiche dell’allora costituenda Autonomia operaia, che per molti
aspetti sviluppava una continuità con tutta la tradizione operaista. Quella tradizione è stata

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velocemente assunta non solo da me ma anche da tutto il circuito di persone che, vivendo
materialmente la condizione operaia, si erano trovate a rivolgere l’attenzione a quel tipo di apparato
teorico che più forniva elementi utili a un impegno politico in fabbrica. Quindi, c’era una nascente
struttura di consigli di fabbrica fortemente “inquinata” da elementi “estremisti”, non controllati
dalle confederazioni sindacali. Mi ricordo che in quella fase la FLM era una specie di zona franca,
di porto di mare dove confluivano le soggettività più disparate di impegno politico, di provenienza
ideologica ecc. Dunque, il mio orientamento teorico si è sviluppato immediatamente sui testi
classici dell’operaismo: questa cosa è stata però anche favorita dal fatto che il gruppo egemone
nella zona, che era appunto il Gruppo Gramsci, stava vivendo la fase dello scioglimento confluendo
nella sua stragrande maggioranza nell’Autonomia operaia, per cui è diventato abbastanza
automatico il fatto che girassero prevalentemente in quel circuito i testi teorici di derivazione
operaista. Un’altra cosa che ha avuto peso dal punto di vista del mio orientamento teorico è stata la
lettura dell’ultimo numero, il 50, di Potere Operaio che si intitola Ricominciare da capo non
significa tornare indietro, che erano un po’ le tesi di scioglimento di una parte del gruppo di Potere
operaio. Poi girava abbastanza un giornale di agitazione che si chiamava Rosso, nato nel Gruppo
Gramsci e che aveva avuto in tempi brevi un innesto da parte di una serie di soggetti di provenienza
operaista. Quindi, la mia formazione è stata da subito fortemente orientata rispetto a quel tipo di
riferimento, anche perché le alternative che c’erano nella zona erano costituite da gruppetti più o
meno insignificanti di marxisti-leninisti, oppure dall’altra parte c’era il grosso impegno sindacale
che però era egemonizzato dal Partito comunista e dalle confederazioni sindacali, che in quel
momento risentivano di tutta la teorizzazione del “compromesso storico”. E con queste ultime
posizioni il conflitto si è dato immediatamente dentro le situazioni territoriali e di fabbrica.
Altre influenze teoriche sulla mia formazione sono dipese dalla lettura dei testi classici
dell’anarchismo, che però ho abbandonato perché poco utilizzabile nella contingenza che vivevo.
Molto più rilevante è stato invece l’influsso dei testi situazionisti che avevo conosciuto tramite
rapporti con alcuni studenti della scuola che frequentavo e che collaboravano alla rivista milanese
Puzzle e soprattutto con Riccardo D’Este, un personaggio straordinario nella sua particolarità di
pensiero e pratica radicale.
Tornando alla specificità di cui stavo parlando nel nostro collettivo territoriale una contraddizione si
è rivelata subito proprio da un punto di vista generazionale: il nostro ambito era costituito a
stragrande maggioranza da giovani e giovanissimi operai che dimostravano un’indisponibilità ad
accettare le condizioni del regime di fabbrica, l’identità operaia stessa, e non avevano assolutamente
intenzione di percorrere il terreno sindacale nei termini classici, di un gradualismo di lotte che
puntava alla conquista di obiettivi parziali per migliorare le condizioni di vita. Quell’area di giovani
operai rimase fortemente influenzata dalle tematiche operaiste: una parola d’ordine come “rifiuto
del lavoro” aveva in sé una forte capacità di suggestione, nel senso che corrispondeva a un bisogno
materiale e immediato di non accettare quelle condizioni di vita, solo dopo si è capito che aveva
anche un suo rilevantissimo fondamento teorico. Quindi, se quello slogan era stato approcciato
puramente come parola d’ordine liberatoria ma generica, confusa e un po’ estremista, in realtà poi si
è passati a un agire sistematico di costruzione di una consapevolezza attorno a un concetto che
sembrava improponibile in un tessuto sociale che risentiva anche di una sorta di bigotteria della
tradizione operaia da una parte e clericale dall’altra, perché quello era un territorio ancora
fortemente egemonizzato dalla tradizione e dalla cultura cattolica. Quello fu il contesto di genesi di
una vicenda che si è snodata tra la fine del ’73 e per tutto il ’74 attorno a un lavoro prevalentemente
operaio, perché per i soggetti quello era il problema: ciò che gli interessava era fare casino dentro i
posti di lavoro, contestare la condizione del regime di fabbrica. Però da lì a poco tempo si è capito
che non si poteva organizzare alcun tipo di vertenza dentro le singole fabbrichette, quindi si è
passati a elaborare una diversa strategia. Ciò, tra l’altro senza grandi indicazioni, perché fino al ’76
non è che ci fossero chissà quali relazioni politiche con altre situazioni di lotta. Nei primi anni si era
proprio un gruppo di operai, di autodidatti, anche le forme di acquisizione dei saperi viaggiavano
senza alcun tipo di trasmissione da parte di personaggi che avevano dietro una certa memoria. Era

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un lavoro certosino di ricerca paziente di testi che venivano scoperti man mano, di una loro
ricostruzione filologica, un lavoro di autoformazione, di studio appassionato in piccoli gruppi, di
situazioni seminariali fatte la sera, dopo il lavoro, dentro una sede che avevamo affittato al centro
del paese e che suscitava scandalo e riprovazione non solo tra i benpensanti ma anche tra i
personaggi della sinistra istituzionale. Comunque si è capito quasi subito qual era il problema: una
ricomposizione di forza operaia dentro una situazione così frantumata dal punto di vista produttivo
era quanto mai improbabile, l’unica possibilità era quella di tentare di ricomporla sul territorio, per
poi ritornare nelle fabbriche, diversamente non si poteva organizzare nulla di realmente incisivo. Si
è quindi dato vita a una lotta che ancora adesso vive nella memoria di quel territorio: l’occupazione
di un centro sociale. Bisogna tenere conto che quella occupazione fatta a Tradate è stata realizzata
autonomamente proprio da quella situazione che non si è avvalsa del supporto di alcuna realtà
politica preesistente, e si è trattato della seconda occupazione di un centro sociale in Italia, fatta alla
fine del ’75. È stato occupato un grande spazio di proprietà della Curia, tra l’altro in una
contingenza molto particolare perché pochi mesi prima la sinistra istituzionale era riuscita dopo
trent’anni ad andare al governo di quella cittadina, e immediatamente è scoppiato loro tra le mani
quel tipo di contraddizione. Certo, dentro l’occupazione vivevano anche tutti i contenuti di
agitazione ludica, dei bisogni culturali, della critica dell’uso del tempo libero, della liberazione del
corpo, della legittimità dell’uso delle droghe leggere, della sessualità, delle differenze di genere,
della libertà dai vincoli e retaggi famigliari ecc.; ma l’elemento forte del programma di occupazione
era quello di fare un centro sociale che nulla c’entrava con quella che poi è stata l’esperienza dei
centri sociali della metà degli anni ’80 e poi quelli degli anni ’90 che abbiamo conosciuto. Il nostro
centro sociale era immaginato come un posto che doveva servire a ricomporre le varie figure del
lavoro operaio frantumate sul territorio. E questo al di là dell’esito dell’occupazione in sé, che si è
risolta in tre giorni di feste straordinarie, di assemblee permanenti, di agitazione, di casino, una
piccola Comune di Parigi insomma. Poi, ovviamente c’è stato lo sgombero forzato. Ma
quell’esperienza riuscì a condensare molta forza territoriale, tant’è che due anni dopo il centro
sociale, attraverso una trattativa molto dura e lotte continue, è stato concesso dalle autorità locali.
Alla fine l’amministrazione comunale ha dovuto concedere per un periodo un pezzo del municipio,
finché poi ha trovato una sistemazione definitiva, che esiste tuttora, ciò proprio perché c’era una
pressione costante e molto forte. Comunque, l’elemento conflittuale era prevalentemente
generazionale. Mi è capitato di ridiscutere con i mie compagni di allora di quella vicenda e di
analizzarla a fondo. Il nostro giudizio finale è che il suo limite è consistito nel non essere stati
capaci di trovare mediazioni e alleanze con altre soggettività operaie. Lì c’era una soggettività che
spingeva fortemente sul terreno del rifiuto del lavoro operaio e che faticava a trovare mediazioni,
perché l’aspirazione era prioritariamente quella di uscire dalla fabbrica, cosa che poi è avvenuta
qualche anno dopo in maniera definitiva: più nessuno, infatti, è rimasto in fabbrica. Non sto
parlando di qualche persona, di un piccolo gruppo bensì di centinaia di soggetti che erano radicati
nei luoghi di lavoro. Persone che tra l’altro in quegli anni avevano anche intrapreso un percorso di
rappresentanza politica nei Consigli di fabbrica. Era gente rappresentativa, però si trattava di
componenti che esprimevano un tipo di tensione molto determinata che faticava a relazionarsi ad
altre culture operaie. Quella è stata la vera contraddizione che abbiamo vissuto. In varie occasioni
ho provato a interrogare a vent’anni di distanza i miei compagni sul senso di quello che è stato fatto.
Le persone che allora furono protagoniste di quella storie mi hanno risposto che era l’unica cosa che
si poteva fare, perché comunque la questione dell’andarsene dalla fabbrica per loro aveva il
significato di liberarsi da una situazione che non sopportavano più, che avevano ereditato per
condizioni di classe, di trafila famigliare ma che non gli apparteneva.
Quel movimento ha costituito una rottura culturale dentro quel territorio, perché la rivolta era anche
dentro la famiglia, con il figlio operaio incazzato che si scontrava con il padre operaio
sindacalizzato, il quale riteneva folli le argomentazioni e le proposte del figlio. Quindi, è stato una
contraddizione lacerante che ha spaccato quel pezzo di società.

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La componente studentesca c’era ma era quantitativamente minoritaria. Le scuole superiori erano
concentrate a Varese. Como faceva provincia a sé, anche se territorialmente era molto vicina. Poi
c’erano le cittadine di Saronno e Gallarate con la presenza di Istituti tecnici. A Tradate gli
insediamenti scolastici delle media superiori sono arrivati dieci anni dopo, prima c’erano solo quelle
inferiori. Lì c’era il soggetto della formazione di massa della scuola media inferiore: quindici anni e
poi subito in fabbrica a lavorare. Si trattava perlopiù di figli degli immigrati degli anni ’60,
meridionali di seconda generazione, ed erano quelli che da bambini avevano vissuto in quei territori
una condizione particolarmente difficile. Non tanto loro come ragazzi, perché la socializzazione
scolastica avevano contribuito a stemperare e poi a estinguere tra autoctoni e immigrati meridionali
quei fenomeni di razzismo esplicito che invece avevano subito i loro genitori. Però, è chiaro che
quei ragazzini erano comunque stati testimoni di una condizione pesantissima di razzismo espresso
dentro le relazioni sociali di quel territorio. Dunque, erano anche giovani particolarmente incazzati,
perché avevano consapevolezza delle angherie subite da parte dei loro genitori, dei loro percorsi
duri e faticosi di insediamento. Quindi si trattava di persone veramente determinate nello spaccare
quella situazione, persone che sentivano un grado di nemicità rispetto la realtà istituzionale
consolidata, il tipo di cultura ufficiale che esprimeva, insomma si trattava di persone predisposte a
una grossa conflittualità. Tant’è che una buona parte dei fratelli maggiori di quei ragazzi che erano
confluiti dentro le nostre strutture di lavoro politico e di movimento frequentavano o erano partecipi
degli ambienti di una malavita spicciola e spontanea, non di quella organizzata, erano gruppi che
esprimevano un’illegalità che negli anni ’70 in quel territorio ha avuto una certa consistenza. C’era
un pullulare di bande diffuse in ogni paese che si occupavano prevalentemente del procacciamento
di denaro attraverso ladrocini vari e rapine. Molti ragazzi del nostro movimento erano i fratelli
minori di costoro. Abbiamo anche avuto contrasti rispetto a quelle bande di malavitosi locali,
perché il nostro agire di fatto prosciugava un indotto naturale che avrebbe alimentato questi circuiti,
per cui sono nate anche delle tensioni. Però, proprio facilitati dal fatto che le relazioni erano anche
di parentela, le abbiamo sapute gestire attraverso mediazioni che non sono mai sfociate in conflitto
aperto, perché in ogni caso quei malavitosi ci vedevano non come alleati ma comunque come
schierati con una critica esplicita agli assetti sociali ufficiali. Quindi ci individuavano come persone
che comunque fuoriuscivano dalla norma, anche se ci vedevano ovviamente come dei pazzi che
perdevano tempo a fare un casino sociale insensato, dato che la loro unica preoccupazione era
semplicemente quella di recuperare denaro da consumare senza passare per l’obbligo di un destino
operaio. A loro sembrava assurdo non imboccare una scorciatoia che si dimostrava più veloce e
appagante.

- Qual era il rapporto tra metropoli e progetto metropolitano e una situazione territoriale e di
provincia come la vostra?

È stato un rapporto piuttosto anomalo, già per quanto riguardava le relazioni tra i paesi e le cittadine
di provincia. Per esempio, la distanza geografica esistente tra la nostra area territoriale sia a Como
che a Varese era uguale. Eppure, per una serie di questioni urbanistiche e viarie, erano due rapporti
completamente separati, proprio dal punto di vista della socialità, delle relazioni, degli scambi. A
Como c’era una presenza di Potere operaio, a Varese invece quella presenza era pressoché nulla.
Non c’è mai stato un grande rapporto tra Como e Varese dal punto di vista politico. A Varese, una
città molto ricca, tradizionalmente di destra, c’era comunque una forte presenza studentesca di
orientamento extraparlamentare e anche una presenza operaia extrasindacale, in un paese limitrofo
al capoluogo era insediata la grande concentrazione della Ire-Ignis. Per alcuni anni c’è stata una
considerevole iniziativa da parte dei Collettivi Politici Operai, le strutture di intervento legate al
Gruppo Gramsci. Poi però è successa una cosa curiosa. Formalmente il Gruppo Gramsci, dal punto
di vista dell’indicazione della sua direzione politica, si è sciolto dentro l’area dell’Autonomia, ma a
Varese una sua componente militante ha invece dato vita a Lotta Continua, che prima non c’era. La
costituenda Autonomia ha vissuto un fattaccio in zona, perché uno dei militanti storici del Gruppo

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Gramsci, uno dei più attivi, più riconosciuti, più generosi, è incappato in una brutta storia di lotta
armata (una delle prime) che è la vicenda della fallita rapina di Argelato, il che ha creato una
situazione di grande scompiglio e tensione. Quindi, di fatto, quell’area (tra l’altro maggioritaria) che
avrebbe dovuto linearmente costituire la presenza dell’Autonomia a Varese, in realtà negli anni ’74
e ’75 era quasi nulla. Non è che questo circuito non ci fosse, ma la sede storica del Gruppo Gramsci
si era estinta, le intenzioni prevedevano l’insediamento di una nuova sede che avesse il progetto
politico dell’Autonomia alla sua base, e invece ciò non è accaduto. Quindi, paradossalmente si è
ritrovata una situazione come la nostra a far nascere e a far vivere i contenuti dell’Autonomia,
mentre i quadri politici storici stavano in città, dentro questioni un po’ delicate. Di conseguenza non
c’è stato un grande rapporto politico con quella realtà. Poi, passati un paio di anni, la situazione si è
un po’ tranquillizzata, e l’Autonomia all’inizio del ’76 ha dato vita a una sua forma di
rappresentanza politica vera e propria nella città di Varese. Tuttavia, è sempre stata una realtà da
tutti noi vissuta con un forte disagio: infatti, mentre il nostro percorso era di costruzione reale,
quotidiana, di presenza, di sviluppo di lotte, di crescita collettiva, quella varesina aveva tutto
l’aspetto di una situazione prefabbricata, che non aveva nessun tipo di programma politico
fortemente concentrato e attento ai problemi territoriali, al radicamento sociale ecc. Era una
situazione che recitava semplicemente una serie di parole d’ordine e faceva dell’esemplificazione il
proprio modo d’agire. Coglieva una situazione sociale di disagio, di comportamenti trasgressivi
quando non di illegalità esplicita e cercava di amplificarli per mezzo di forzature di carattere
simbolico ed esemplificativo. Insomma, si trattava di agitazione di forme spettacolari più che di
costruzione di un processo di radicamento. In realtà, quel tessuto militante che ha dato vita a quella
situazione prefabbricata non ha mai avuto il tipo di progetto e di pratica che avevamo noi, e ciò ha
creato anche una dimensione sì di raccordo, di scambio e di coordinamento politico, ma anche una
forte differenziazione che aveva la sua ragione di disaccordo in due esperienze fondamentalmente
diverse. In più la situazione varesina è stata fin dall’inizio condizionata da una componente di
soggettività strutturata proveniente dal settore di servizio d’ordine del Gruppo Gramsci, che viveva
con una forte tensione la tematica della costituzione di un ambito di carattere armato. Quella
tensione ha poi generato, alla metà del ’77, una scissione interna all’ambito dell’Autonomia
varesina e la costituzione di un’organizzazione armata separata, con tutti i crismi a essa connessi.
Quindi, si sentiva quel tipo di tensione: traducendo in parole povere, una buona parte di quella
soggettività militante poco credeva alla costruzione di un processo di movimento come lo
intendevamo noi, ed era fortemente tesa alla costituzione di un progetto politico che contenesse
l’elemento della pratica armata come questione strategica e si basasse quindi su un investimento di
carattere soggettivo orientato in quella direzione. Questo ha dunque fatto nascere non pochi
problemi di relazione con Varese.
Quanto ho detto riguarda il nord della provincia, volendo schematicamente orientare la questione in
termini geografici. A sud, invece, sempre nel periodo tra il ’75 e il ’76, il rapporto andava meglio
con l’aggregato di Saronno. Anche quello era originato da percorsi che non sono mai riuscito a
capire bene in termini di formazione, perché si trattava di confluenze miste dal punto di vista della
soggettività, non era una situazione puramente autonoma come la nostra. Noi eravamo proprio nati
come autonomi subito, non avevamo dietro una filiazione, non eravamo figli di alcuna tradizione e
di alcuna esperienza precedente. Anche generazionalmente noi non avevamo dirigenti,
anagraficamente non c’era nessuno che avesse più di trent’anni, eravamo tutti ragazzi. Saronno,
nonostante non fosse una situazione con una struttura di movimento forte come la nostra, si è però
subito caratterizzata con un impianto politico-teorico molto più vicino a noi dal punto di vista delle
intenzioni. Loro agivano con criteri che erano molto più simili ai nostri, per cui si dava
materialmente uno scambio di relazioni, c’era un incontrarsi sulle lotte, stabilire campagne di
intervento sul territorio che erano molto affini. Siamo poi entrati in rapporto anche con la situazione
di Olgiate Comasco, una realtà molto vicina alla nostra perché si trattava di un collettivo puramente
operaio, serio, dove tutta la socialità era costruita attorno alla fabbrica Sisme, una concentrazione
medio-grande. Il modello della Sisme ci ha insegnato che avere un radicamento dentro una fabbrica

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medio-grossa era molto importante, tant’è che poi abbiamo cercato di imitare quel modello
infilandoci in molti dentro l’unica fabbrica della nostra zona di concentrazione medio-alta, la
Mazzuchelli, che stava a Castiglione Olona. Io sto citando dei paesi che equivalgono a dei rioni di
una città, questo per dare un’idea delle brevi distanze e delle piccole aree di cui sto parlando. In
quella fabbrica ci ho lavorato anch’io e lì abbiamo fatto un’operazione che controvertiva la tensione
di cui parlavo all’inizio, perché se l’orientamento di massa di quei ragazzi era di dire «non ne
possiamo più della fabbrica», io ero tra quelli che invece dicevano l’opposto. Io avevo avuto la
fortuna perlomeno di diplomarmi, però poi sono andato a lavorare per un breve periodo in fabbrica.
E lì c’è stato un grosso tentativo di avere una presenza dentro la Mazzuchelli, quindi di farsi carico
di una relazione meno elementare rispetto a tutti i problemi della composizione operaia, perché non
si poteva porre la questione del semplice rifiuto netto e basta.
Tutto questo faceva parte delle buone intenzioni, poi la cosa si è bruciata in tempo velocissimo per
via degli eventi che storicamente conosciamo. Ciò per dare un’idea di quella che una volta si
chiamava l’intenzione della centralità operaia. Francamente a noi degli studenti non ce ne importava
nulla, se non di quelli che erano anche operai perché tornavano a casa e facevano lavoro nero,
oppure dividevano lo studio con il lavoro, o comunque erano calati fortemente dentro un tessuto di
relazioni che erano prevalentemente operaie, di lavoro dipendente classico. Da lì non si scappava, lì
vivevi quella condizione, non è che si potesse far finta di niente, la società era permeata da quelle
relazioni e il problema era unicamente quello. Tutto ciò che si modificava negli equilibri sociali del
territorio, anche dal punto di vista istituzionale, anche per conquiste minime si fondava sulla forza
che comunque proveniva dalle fabbriche, non si poteva prescindere da quel rapporto. Certamente
noi abbiamo rappresentato e forzato nel movimento anche tutta un’altra serie di tematiche che poi
sono state chiamate quelle «dei bisogni», per cui eravamo anche quelli aperti ad altre esperienze,
per esempio avevamo preso appieno tutto il filone underground, ma ciò non ha voluto dire inquinare
minimamente la consapevolezza che la questione centrale era di carattere materiale e riguardava la
dimensione operaia.
La vicenda che ho raccontato può sembrare una specie di storia del “gruppo della via Pal”, ma
bisogna considerare che messi tutti assieme costituivamo un aggregato che contava, compresa l’area
amicale larga, 500 persone. Sto parlando di iniziative e manifestazioni che siamo riusciti a fare sul
territorio, certo mettendo insieme davvero tutti, mentre l’area militante quotidiana contava un
centinaio di soggetti. In quel centro sociale, dove noi siamo stati veramente ogni giorno, ogni sera
per un periodo lungo, per anni, si vedevano tutti i giorni cento persone, a volte di più. Questo è
significativo della quantità di soggetti con cui siamo entrati in rapporto, al tipo di espansione e di
realtà sociale che rappresentavamo. Facendo una divagazione, si pensi che a distanza di dieci anni
dalla repressione e dalle altre cose che hanno azzerato tutto, comunque dalla fine di quell’aggregato
con quelle caratteristiche, un po’ per gioco alcuni di noi hanno dato vita a una lista elettorale nella
cittadina di Tradate che ha guadagnato il 10,5% dei voti, cioè un punto o due in meno del Partito
comunista, e una parte di queste persone avevano vissuto anche la storia della galera, erano stati
additati come terroristi. Quindi, hanno ottenuto un simile risultato elettorale ed hanno portato in
consiglio comunale due eletti, ciò dà l’idea del peso sociale che ha avuto quella storia. Non stiamo
dunque parlando di persone che non avevano una internità alle relazioni reali, non era un qualcosa
di avulso dal contesto sociale. La presenza non era solo nelle fabbriche, un altro settore forte di
intervento è stato quello dell’ospedale, lì c’era il presidio ospedaliero di zona. Poi ci sono state le
lotte sui consultori, c’è stata una diramazione in un ciclo di lotte sui servizi che è stato
fondamentale.
A partire dalla metà del ’75 sono iniziati i rapporti con Milano, ma per necessità, perché come realtà
eravamo cresciuti. A Milano nel frattempo, per percorsi propri, c’era stata l’esplosione dell’area
dell’Autonomia, quindi è venuto anche abbastanza naturale cercare rapporti con una situazione
metropolitana. Ciò si è espresso attraverso canali molto pratici: a partire dalla metà del ’75 c’erano
una serie di cortei a Milano del cosiddetto proletariato giovanile, dalle periferie si convergeva sul
centro, c’erano tematiche forti e coinvolgenti come quelle dell’autoriduzione e della

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riappropriazione di spazi fisici e merci. I primi approcci sono nati proprio dall’andare lì perché lì
c’era il tipo di casino che ci interessava, perché c’erano altri come te, perché c’era un riconoscersi
in un’area sociale che si andava formando. Poi da questo, però, sono nati anche rapporti
formalmente politici che hanno contribuito a innalzare il dibattito nel nostro territorio, si è entrati in
relazione con situazioni di lotta più alte dal punto di vista qualitativo, sia nella discussione che nella
pratica. Quindi, ciò è stato fondamentale dal punto di vista della crescita, però aveva anche i suoi
risvolti negativi, nel senso che quello era il periodo (’75-’76) in cui l’area dell’Autonomia non era
omogenea a Milano, come ovunque peraltro, ma viveva di tensioni e divisioni tra gruppi che
avevano intenzioni e progetti diversi. Dunque, questi diversi progetti, rispetto alle situazioni
territoriali e provinciali che incrociavano, cercavano di stabilire egemonia, com’è normale che sia:
il problema era quello delle relazioni anche a volte casuali che stabilivi con una trafila piuttosto che
con un’altra. Per esempio, la zona di Como città ha seguito una trafila condizionata da quella parte
di Potere Operaio che poi ha avuto relazioni con il progetto di Senza Tregua; la parte di Olgiate
Comasco invece, che geograficamente dista pochi chilometri da Como, si è orientata verso l’area di
Rosso. Ciò avveniva per questioni a volte casuali, di trafila di relazioni. A Milano, convivevano
grosso modo quelle due aree dell’Autonomia (sto parlando del ’75-’76, quindi prima che si
formalizzassero le strutture armate ecc.). C’era l’area di Potere Operaio che non si era sciolta subito,
che dopo aver trovato un accordo politico e programmatico con settori fuoriusciti da Lotta
Continua, soprattutto con militanti del suo servizio d’ordine e con altri gruppi, aveva dato vita a
Senza Tregua. Quello era un filone con un impianto teorico fortemente operaio, un’area che aveva
una presenza operaia molto più forte dell’altra, quella di Rosso che, anche se veniva dalla stessa
tradizione, era meno radicata dentro le realtà operai milanesi e provinciali. Quindi, era abbastanza
casuale il tipo di trafila che ti trovavi a seguire. Evidentemente quella era una fase in cui quei gruppi
e quelle aree dell’Autonomia andavano tentando di formalizzare e coordinare il lavoro politico,
quindi anche la nostra situazione ha vissuto un po’ l’esperienza del tentativo di colonizzazione, io lo
chiamo così, di filiazione della situazione di movimento, perché chi se l’accaparrava riusciva poi a
costruire la propria forza organizzata con maggiori diramazioni sui territori. Però, anche se questo è
accaduto, la nostra situazione ha sempre mantenuto un margine di autonomia molto ampio rispetto
ai processi politici centralizzati.
L’area di Rosso, però, aveva avuto su di noi una maggiore influenza. La teorizzazione dell’operaio
sociale poteva sembrare una cosa bizzarra, prevedeva un innesto di tematiche che rischiavano di
snaturare la tradizionale militanza in fabbrica, le tenuta della centralità operaia, per capirci. Ma per
come la vedevamo noi quel tipo di intuizione era pertinente alla materialità della soggettività che ci
trovavamo di fronte. Non si trattava di una concessione ai temi “fricchettoni” rispetto a quelli della
condizione operaia. Te ne rendevi conto subito analizzando la situazione, facendo inchiesta.
L’operaio era sociale. Quando parlavo dello studente che ci interessava proprio perché era nel
contempo anche operaio volevo dire esattamente questo. Dunque, quel tipo di teorizzazione ha
avuto su di noi, e subito, una grande suggestione, perché forniva un elemento di interpretazione
illuminante. Era proprio quello il tipo di figura operaia che ci trovavamo davanti, un nuovo strano
operaio che si scontrava con l’altro, quello più tradizionale perché legato al sindacato e al partito.
Quindi, bisogna ammettere che quel tipo di intuizione per noi è stata forte e utile. Il limite semmai è
consistito nel fatto che quell’intuizione non si è tradotta in un lavoro di inchiesta serio, anche se
l’inchiesta è stata proposta e agita. Occorre ammettere che quel tipo di intuizione poi si è inverata
negli anni successivi. Ora è una banalità dire che l‘operaio è prima di tutto sociale, ma dirlo allora
era una mezza bestemmia, anche rispetto ad altre componenti dell’Autonomia, non dico al sindacato
o alla sinistra ufficiale, ma anche con gruppi di compagni con i quali ti trovavi a lavorare in zone
circostanti. Il limite è stato quello di non lavorare con gli strumenti tradizionali e classici della
nostra provenienza: in parte non ce n’è stato il tempo, l’evolversi convulso della situazione ha
bruciato la possibilità di concentrarti su quel tipo di lavoro, soprattutto dopo il ’77.
In una situazione del genere ci si doveva far carico anche di tutti i disastri che accadevano in
generale: cosa si poteva dire ad esempio riguardo la lotta armata? Non si poteva assumere un

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atteggiamento di indifferenza. Mi riferisco a quando se ne doveva discutere, ad esempio, dentro un
bar, perché, chiaramente, questo argomento era più facile da affrontare dentro le fabbriche. Ma la
tua vita sociale, il tuo agire politico comportava anche il fatto di parlare al bar della stazione, perché
tu stavi lì, non è che potevi andartene, tu contavi perché stavi lì tutti i giorni sotto il lampione. È
qualcosa che è molto simile alla presenza mafiosa sotto il lampione, tu conti qualcosa nel territorio
in rapporto al fatto che sei disponibile a star lì tutte le sere sotto quel lampione, e le persone ti
riconoscono per questo. Quindi, per il fatto che rappresenti un’area sociale che è in rivolta, devi
tener conto e dare risposte riguardo anche all’ultima cosa lontana che accade. È chiaro che ciò
distoglieva forze, energie e tempo da dedicare al lavoro politico; le mediazioni purtroppo erano
anche di questo tipo, però la convulsione è stata talmente forte per cui è venuta meno la possibilità
di usare il tempo. L’errore generale, secondo me, è stato quello di non essere riusciti a trovare il
tempo per agire le mediazioni necessarie. Però, è anche vero che gli elementi di
sovradeterminazione dentro il movimento sono stati tanti e tali da bruciare questa condizione, mica
solo per noi che eravamo la periferia della periferia del mondo, le ha bruciate per situazioni molto
più ricche e molto più strategiche. Quando ce ne si è resi conto, i giochi purtroppo erano fatti, cioè
non c’era più il tempo per recuperare quel tipo di scarto, rimaneva semmai solo il tempo per
elaborare una strategia di resistenza.

- Quali sono stati, secondo te, i limiti e le ricchezze dei percorsi a cui sei stato interno e più in
generale dei movimenti degli anni ’60 e ’70, in particolare delle esperienze di matrice
operaista?

Mi limito ancora a parlare della mia piccola esperienza militante fatta in un paese di provincia. La
ricchezza principale consiste nell’essere stati protagonisti di una rottura sociale che credo sia stata
unica dal dopoguerra in poi, dal punto di vista del voler rompere un assetto sociale, culture, forme
esistenziali, modi di essere. La nostra, come esperienza collettiva, era anche una rivolta di carattere
esistenziale. Era fortemente maturata a partire da condizioni materiali, ma aveva però anche tutti i
caratteri di una rivolta esistenziale complessiva, perché si mettevano in discussione anche le
relazioni affettive, di genere, relazionali, famigliari. È stata una cosa molto forte da questo punto di
vista, è rimasta anche nella memoria della storia di quel territorio. Dal punto di vista politico i limiti
erano gravi: di elaborazione teorica, di organizzazione, poi tutto il resto veniva a catena. I limiti
sono stati tanti, ma riflettendo sugli errori posso dire che sono stati minori di tante altre situazioni
similari. Ad esempio, nella nostra realtà, che è stata fortemente sottoposta alla repressione, alla fine
l’elemento veramente devastante e distruttivo è stato quello dell’eroina. Questa è una cosa su cui mi
sono sempre interrogato, perché da noi la falcidia vera e propria non è stata la repressione, ma
l’eroina. A proposito di questo ho già scritto delle cose sul libro Settantasette. La rivoluzione che
viene, in cui parlo di quel periodo tremendo che è seguito al convegno di Bologna e
fondamentalmente al dopo Moro. Cosa si è scatenato dentro quell’esperienza e quella storia di
movimento? Lì c’è stata proprio una scissione interna e tutto si è sfaldato nel giro di pochissimo
tempo.
Dal punto di vista politico, secondo me, quell’esperienza conteneva in sé la capacità di una
mediazione, nonostante tutto, e si differenziava da realtà simili perché non era una situazione
estremista nel senso corrente del termine. Anche perché, se nei primi due anni la caratterizzavo
come un’esperienza generazionale limitata proprio ai giovanissimi, invece negli anni successivi, dal
’77 al ’79-’80, quella realtà era riuscita a coinvolgere soggetti più anziani: eravamo arrivati a
relazionarci con persone che avevano oltre i trent’anni, che non vivevano la condizione del
giovincello insomma, quindi ciò vuol dire che le mediazioni si era capaci di farle. Iniziative
ingestibili sul territorio noi non ne abbiamo mai fatte, nel senso che non si è mai prodotta una
lacerazione forte e una nemicità con il tessuto sociale in generale. Nonostante rivendicassimo
apertamente l’appartenenza a un’area politica riconosciuta in generale e criminalizzata o agitata

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come estremista, anzi come estremismo dell’estremismo, non c’è mai stata un vivere una
condizione di strappo assoluto con il resto dell’ambito sociale in cui eravamo inseriti. Una delle
scelte fondamentali era costituita dal fatto che quel movimento non intendeva esercitare strappi dal
punto di vista dell’uso della forza e della violenza, non è mai accaduto nulla di devastante o di
lacerante sul piano delle relazioni sociali per tramite dell’uso della forza, un uso di cui, d’altra parte,
potenzialmente disponevamo con grande abbondanza.
Un altro elemento di ricchezza è stato, nel bel mezzo del processo di criminalizzazione e di
repressione, la capacità di intuire che si andava verso la fuoriuscita di massa dalla fabbrica da parte
di questi soggetti, e quindi non solo di quelli che erano i nostri militanti, l’area amicale, quella del
movimento vero e proprio, ma diciamo della variegata soggettività che componeva il movimento e
le sue aree sociali affini. Su questo abbiamo immediatamente dato vita a un dibattito sulla questione
della costruzione di processi cooperativi sociali alternativi a quelli della fabbrica. Abbiamo dunque
fatto in tempo a esemplificare la costruzione di catene di lavoro cooperativo alternativo al lavoro
dipendente di fabbrica, cioè abbiamo fatto in tempo a esemplificare l’inserimento dentro
cooperative di lavoro autocostituite, abbiamo fatto un bar che poi per la gente del movimento è
valso come uno dei punti di resistenza e di trincea rispetto al dramma che è accaduto. Tuttavia,
l’idea era quella di costruire le catene dei bar, delle librerie, dei cinema, le catene insomma della
produzione della resistenza davanti all’attacco che si profilava. Quella è stata una grande intuizione,
non siamo riusciti a svilupparla adeguatamente perché poi la situazione è degenerata in tempi
velocissimi. Avevamo cioè avuto perfettamente la consapevolezza che la fuoriuscita massiccia dal
lavoro di fabbrica così come si profilava, senza offrire delle alternative, poteva rappresentare quello
smarrimento di identità che poi ha collimato anche con il fatto di non capire assolutamente più che
identità si avesse, e ciò ha coniugato al sentimento della sconfitta la disperazione per il disastro
subìto in generale.
Gli elementi di povertà sono quelli rintracciabili dentro tutta la storia di quel movimento che è
andato a finire come sappiamo, non è che da noi ci sia stato qualcosa di particolarmente miserabile
che ha sopravanzato la limitatezza generale. Se c’è una cosa da rimproverarsi è che sicuramente non
c’è stata la capacità di essere fermi dal punto di vista di una serie di affermazioni teoriche, di
pratiche, di modi di essere, di comportamenti, del veicolarli nel sociale, coniugandoli però a una
grande capacità e duttilità tattica. È però anche vero che noi vivevamo il problema dell’essere
circondati da condizioni generali di un certo tipo. Siamo sempre stati considerati dentro l’area
dell’Autonomia come quelli più di “destra”, ma non con un atteggiamento di polemica politica:
eravamo di “destra”, detto anche ironicamente, perché praticavamo molto la mediazione politica,
nel senso che non puntavamo alla rottura esemplificativa, e qui mi rifaccio agli accenni polemici
rispetto alle situazioni che ho definito prefabbricate. Per noi era un problema di agire
quotidianamente dentro un territorio dove le rotture potevi darle tenendo fermissime le tue
affermazioni, il tuo modo di essere, però le esemplificazioni non potevano avere il carattere della
spettacolarità, perché ciò non sedimentava niente nei soggetti, era solo un agitare un po’ di elementi
di ribellismo stupido che però non andavano a consolidare nessun processo reale di potere sul
territorio. Questo non significa ovviamente che abbiamo visto tutto giusto, sicuramente no, però non
c’è stato il tempo per metabolizzare una serie di processi di mediazione utili a evitare danni
peggiori, che sono capitati comunque.
Tutto è scoppiato dall’esito del ratto di Moro, quello è stato il crinale. In una situazione come la
nostra ha preso il sopravvento una forma di disperazione basata sull’esaltazione della teoria del
desiderio. Sergio Bologna, a tempo debito, l’aveva detto esplicitamente: se si teorizza a fondamento
della liberazione il desiderio di per sé, disancorato dai processi di liberazione che devono segnare
passaggi materiali, è inevitabile finire in una certa direzione. Questi temi del desiderio, guarda caso,
si innestano sempre nei momenti di crisi. A metà degli anni ’90, quando i Centri sociali sono andati
in crisi, molte situazioni hanno cominciato a elaborare una serie di teorizzazioni che mi hanno
ricordato molto quel periodo: c’è stata la fase dei rave, è risaltata fuori, ad esempio, la teoria
dell’uso dell’ecstasy come processo di liberazione. Tutte queste cose, guarda caso, si innestano

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sempre in un momento in cui c’è lo smarrimento e la perdita del rapporto con i processi materiali di
liberazione, e, guarda caso, danno sempre vita a una fase di autoesaltazione davanti al disastro, per
cui vivono il fuoco d’artificio e poi l’esito è quello della devastazione psichica e fisica. Si lacera
infatti il tessuto che è stato costruito, le relazioni sociali saltano, si disgrega tutto e poi ci si ritrova a
curare i feriti dal malessere psichico, che sono peggio dei feriti fisici, perché comportano danni
maggiori, come comunità ci si deve far carico di gente che sta male, ed è veramente pesante, è una
cosa che distrugge qualsiasi ipotesi di lavoro politico. Se hai duecento persone che stanno male o
cinicamente le abbandoni, o devi rivolgere tutte le energie che hai all’autocura.
È un po’ la situazione che si è venuta a creare nel nostro territorio, dove alcune persone hanno
rivolto gli ultimi dieci anni della loro esistenza a questi temi. Una sorta di avvitamento attorno al
problema irrisolto del malessere che ha distrutto l’appartenenza a quella comunità.
L’autocommiserazione sul fatto che quell’esperienza è finita nel disagio è insopportabile. Perché
equivale a non rendersi conto che una classe intera è stata attaccata e distrutta, nel suo
protagonismo, nel suo irradiare potere sulla società. Non c’è attenzione sul ragionare del perché è
andata così per evitare che un domani si ripeta l’errore, c’è solo un autoconsolarsi attorno al fatto
che la gente sta male, allora l’unica cosa diventa il costruire le situazioni per curarsi
psicologicamente, fare un pochino di vita sana ecc.

- C’è una differenza fondamentale tra i territori di provincia e le dimensioni metropolitane, e


riguarda le diverse forme in cui si esprime il radicamento. Nelle situazioni territoriali c’è
solitamente un legame più stretto tra radicamento sociale e radicamento nella lotta, quindi con
la proposta che viene portata avanti, il che dà continuità ad un’esperienza non solo attraverso
il discorso della mediazione, quanto praticando molto di più una presenza costante e
quotidiana. Nelle realtà metropolitane, invece, il progetto politico, per estensione del territorio,
delle situazioni produttive, sociali ecc., salta maggiormente. Per esempio, l’esperienza milanese
della costruzione di Rosso è consistita nell’insistere sempre su una dimensione e una campagna
differente, rincorrendo quello che emergeva: alcune volte si è trattato di un’anticipazione di
breve periodo in grado di cogliere elementi di tendenza che c’erano effettivamente, molte altre,
però, è stata incapace di sedimentare una presenza reale che configurasse un costante processo
di evoluzione. Nei territori di provincia quello che aveva un senso era la continuità di presenza,
che si costruiva in anni di radicamento, nell’essere lì quotidianamente. In situazioni simili non
si poteva non avere i piedi per terra, perché una divaricazione tra quello che si proponeva e
quella che era la realtà veniva immediatamente all’occhio come qualcosa di impraticabile.
Nelle metropoli, invece, si poteva giocare su un discorso di massificazione della potenza:
laddove, per esempio, le fasce di intervento in provincia erano una certa fabbrica perché c’era
quella, una determinata condizione del proletariato giovanile che numericamente era quello,
nella metropoli la situazione era completamente diversa, perché si poteva bruciare interamente
una situazione e ripresentare lo stesso progetto due mesi dopo in un altro quartiere, in un’altra
fabbrica, in un’altra scuola. Nei territori provinciali si aveva una verifica dell’intervento e del
progetto, nei territori metropolitani no.

Sono assolutamente d’accordo. Nei territori provinciali accade ciò che fai accadere tu. Nella
metropoli, invece, hai la sensazione che qualcosa può accadere indipendentemente da te, dentro la
quale poi ti ci puoi infilare con le cose che dici, che fai. Nel territorio provinciale si ha l’idea che la
questione sia inanellata giorno per giorno su quello che specificatamente fai tu, e hai la sensazione
che l’andare avanti, fermarti e tornare indietro è condizione di una militanza che è come una goccia
che cade sul sasso, tutti i giorni. Quindi, il problema è quello di una presenza costante, quotidiana, e
ogni conquista è il prodotto della tua soggettività che l’ha conquistata. L’esperienza della militanza
di paese è qualcosa che forgia una soggettività molto più temprata e dura, senz’altro.

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- Da questa ricerca viene fuori un’ipotesi particolare. Le varie esperienze operaiste, ivi
compresa quella dell’Autonomia, hanno rotto con la tradizione socialcomunista portando
(soprattutto nella prima fase, caratterizzata dall’entrata ritardata dell’Italia nel taylorismo-
fordismo) una lettura socio-economica nuova e individuando nell’operaio massa, e in parte
dopo nell’operaio sociale, una figura non solo potenzialmente anticapitalista, ma anche in
grado di muoversi contro se stessa. Il limite grosso è consistito nell’incapacità di elaborare un
progetto e una proposta politica che, nell’interrelazione dinamica con i movimenti e con le
soggettivazioni emergenti, portasse a fondo quella rottura, sedimentando rapporti di forza, ma
soprattutto ponendo nuovi fini ed obiettivi. Il progetto politico e il processo politico sono
dunque stati i limiti su cui sono cadute le varie ipotesi operaiste.

La sconfitta dei progetti politici (tutti, non solo quelli “estremisti” ma anche quelli giocanti dentro la
sinistra istituzionale) che allora si riferivano all’operaismo credo sia secca e incontrovertibile. Altra
cosa è sostenere che gli impianti teorici operaisti, dal punto di vista dell’analisi e dell’anticipazione
delle trasformazioni dei processi produttivi e sociali siano stati smentiti dall’evolversi delle cose.
Chi lo sostiene o è stupido o è in malafede.
La vicenda dell’operaismo non ha nulla di lineare ma, piaccia o no, è uno dei pochi filoni di
pensiero ad aver fondato una vera e propria tradizione che ancora oggi dimostra una straordinaria
vitalità e intelligenza nell’interpretare il reale. Ben altra miserabile fine hanno fatto coloro che
appartenendo ad altre tradizioni l’hanno a suo tempo ridicolizzata, isolata, criminalizzata,
incarcerata. Alla fine, però, nell’immondezzaio della storia ci sono finiti loro.

- Il nodo della politica rimane nell’oggi centrale ed irrisolto, e si ripropone anche rispetto a
questi movimenti che si stanno affacciando sulla scena nazionale e internazionale. Come pensi
che si possa iniziare ad affrontare la questione, anche in relazione alla vostra esperienza di
rivista e di casa editrice?

Il nodo della politica, all’altezza di questi tempi, se sarà sciolto lo sarà dai movimenti stessi, non
credo sia problema delegabile ad alcuna ipotetica avanguardia. Da questo punto di vista le modalità
del suicidio del movimento del ’77 ha se non altro sgombrato il campo dagli equivoci una volta per
tutte.
Secondo me chi intende svolgere un qualche ruolo diciamo culturale in rapporto a questi nuovi
movimenti deve convincersi al metodo della modestia, che è prima di tutto disponibilità a capire.
L’atteggiamento che ritengo giusto è quello di andare avanti a discutere con la massima passione
ma anche con la massima serietà. Occorre essere molto rigorosi nella costruzione di strumenti di
servizio culturale. Ad esempio, l’inchiesta che è stata lanciata qualche anno fa è una cosa
francamente deludente, nel senso che pochissime situazioni sono riuscite a ottenere risultati
decorosi. O si pensi in quale stato versa la rete di diffusione dei materiali culturali dentro i
movimenti e alcune loro strutture, come i Centri sociali.

- Rispetto ai nodi che abbiamo affrontato, quali sono, secondo te, gli autori e i filoni di ricerca a
livello internazionale più fertili dal punto di vista della riflessione teorica e politica?

Se si deve parlare della proliferazione a livello internazionale di cose di derivazione o di ispirazione


operaista, bisogna dire che c’è un fermento molto interessante. In Francia, soprattutto stimolato
dall’attività di un’area di nostri compagni che sono là da una ventina di anni. Sicuramente si è
riusciti a condizionare un dibattito prevalentemente accademico e militante, circoscritto; una serie
di nostri temi sono penetrati nella discussione politica francese, che è sempre stata dominata
dall’egemonia trotzkista. La stessa esperienza di Futur Anterieur è stata di fatto portata avanti

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nell’alleanza e nel confronto tra un’area di riflessione teorica trotzkista e l’area operaista. In
Germania l’operaismo ha ormai una sua tradizione. C’è un fermento in Spagna, con iniziative
editoriali importanti che non solo si fanno carico di rieditare i classici dell’operaismo italiano, ma
anche testi più recenti. Ci sono compagni che stanno facendo un lavoro straordinario dentro case
editrici importanti, è un po’ un’operazione come quella che fu Materiali Marxisti dentro la
Feltrinelli negli anni ’70. C’è una significativa presenza in Inghilterra, Canada e negli Stati Uniti, in
ambiti non solo accademici. Insomma, c’è un fermento di diffusione di questi temi e di questi
impianti teorici ormai a livello europeo e internazionale. Si tenga presente che negli ultimi
vent’anni i testi classici dell’operaismo sono stati tradotti praticamente in tutto il mondo. Certo,
resta una cosa ancora circoscritta, di nicchia, prevalentemente di dibattito intellettuale.
Riguardo le aree di riflessione teorica che condizionano i nuovi movimenti credo che un
considerevole ruolo lo abbia svolto il circuito che si raccoglie attorno a Le Monde Diplomatique.
Deleuze è stato un’autore molto letto negli ultimi dieci anni con risultati importanti dal punto di
vista dell’elaborazione di nuovi paradigmi. L’equivoco dei teorizzatori del «pensiero debole» pare
invece fortunatamente risolto. Poi c’è il filone del pensiero «felicista», quello del sicuro progresso e
liberazione attraverso lo sviluppo informatico comunicativo che sopravvive nonostante il chiaro
approdo nei lidi della nuova destra. Pensieri che hanno condizionato il dibattito e la ricerca per tutti
gli anni ’80 e ’90.
Personalmente a me interessa solo tutto ciò che si riferisce alla trasformazione dei rapporti materiali
di produzione e riproduzione. All’attuale movimento andrebbe detto che ogni minuto perso rispetto
a questo riferimento è un minuto perso rispetto ai processi di liberazione.
Per cui la grande battaglia da fare dentro il movimento, per gli strumenti che abbiamo, la cultura
che portiamo, è questa: con tutte le mediazioni possibili, con tutto il rispetto dei passaggi e delle
differenze, però il principio fermo su cui non derogare è la questione di riportare tutto a questa
banale questione, che tra l’altro è quella fondante dell’intera nostra storia; il problema è infatti
ancora quello antico del come si lavora, come viene sfruttata la gente ecc.

- Quali sono stati i numi tutelari del tuo percorso di formazione, intesi sia come figure sia come
testi di riferimento?

Sono quelli classici e ricorrenti dentro la tradizione teorica operaista. Con alcuni nei termini della
semplice lettura dei testi, soprattutto coloro che dal ’67 al ’77 hanno preso la strada che sappiamo;
con alcuni degli altri ho avuto la fortuna di una conoscenza e di una frequentazione personale
intensa, quotidiana, anche per lunghi periodi. Parlo in particolare di Toni Negri, Luciano Ferrari
Bravo, Giairo Daghini, Nanni Balestrini, che non è stato un teorico dell’operaismo, però
sicuramente una sua, per così dire, articolazione artistico-poetica. Con queste persone ho condiviso
innanzitutto l’amicizia, poi la militanza, il carcere, l’esilio. Con Sergio Bologna non ho vissuto
nulla di tutto questo ma è stata una delle persone il cui pensiero ho sempre considerato
importantissimo, per rigore, lucidità, acume. Questo per quanto riguarda i “padri nobili” della
riflessione teorica e classica dell’operaismo, i «cattivi maestri».
Ma ho avuto l’ulteriore fortuna di rapporti con decine di altri soggetti della tradizione militante di
derivazione operista appartenenti alla mia generazione e a quella precedente, tra questi Alberto
Magnaghi, Franco Piperno, Franco Berardi (Bifo), Lucio Castellano, Paolo Virno. Poi c’è stato il
rapporto fondamentale con Primo Moroni che, anche se non è ascrivibile appieno alla tradizione
operista, comunque è stata una persone che ne ha sicuramente seguito fino in fondo e molto
profondamente il senso, la storia, le radici.

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INTERVISTA A SERGIO BOLOGNA – 21 FEBBRAIO 2001

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e quali sono state eventuali figure
di riferimento nell’ambito di questo percorso?

Si può cominciare dalla politica universitaria che praticai in particolare nei primi due anni di
università. Provenendo da un tipo di formazione cattolica, stavo nell’Intesa, ma era proprio l’anno
in cui ci fu una specie di ribaltone al suo interno e aveva vinto la corrente che propugnava l’unità
d’azione con l’UGI, cioè con i laici, tra cui anche i comunisti. Ho aderito subito a questo tipo di
corrente unitaria e i primi due anni li ho fatti insieme, laici e cattolici. Poi, siccome una cosa era la
politica universitaria in quanto tale e altra erano le relazioni concrete di facoltà, quello più attivo
nella mia facoltà (Lettere e Filosofia di Trieste) era un gruppo di comunisti e io ho lavorato
sostanzialmente con loro, in maniera abbastanza integrata. Nel ’56 c’è stato l’intervento sovietico in
Ungheria e loro sono entrati tutti in crisi, per cui una parte se ne è uscita dal partito.
Ho smesso di seguire la politica universitaria quando sono venuto a Milano, qui era molto diversa la
situazione, nel senso che c’era una struttura molto più pesante dell’UGI, interamente gestita dai
comunisti, e quindi dalla FGCI, se non sbaglio erano Occhetto e altri che la gestivano. La presenza
cattolica non me la ricordo, non si faceva notare, almeno nella facoltà di Lettere e Filosofia. Però,
con questi qua non mi trovavo, anche perché era molto stretto il rapporto tra l’Unione Goliardica
Italiana (con tutte le vicende che questa ebbe e che sono conosciute) ed il sistema dei partiti. Non
mi trovavo a mio agio con questi comunisti della Milano-bene, non mi andava di iscrivermi al
Partito Comunista, quindi a Milano ho sostanzialmente abbandonato la politica universitaria. C’è
stato un anno-due di transizione, la mia famiglia non aveva mezzi e mantenermi a Milano era un
problema, sicché io ero sempre a caccia di borse di studio (ne vinsi una appena arrivato) e di
lavoretti precari, ma soprattutto volevo laurearmi nei tempi prescritti. Nell’inverno ’58 vinsi una
borsa di studio di sei mesi per la Germania, frequentai per un semestre l’Università di Mainz
(Magonza) dove cominciai a preparare la tesi; appresi per bene il tedesco, visitai diverse città e in
particolare Berlino. Il Muro non c’era ancora, ricordo l’impressione che mi fece Berlino Est, la
parata del Primo Maggio del ‘59, si respirava ancora un’aria molto “popolare” e “democratica”, la
gente parlava liberamente. Quella permanenza in Germania segnò la mia vita per sempre. Tornato
in Italia, ebbi un periodo di crisi, stavo quasi per abbandonare l’Università, tornai a rifugiarmi a
Trieste. Poi nel ’60 mi ripresi e ritornai a Milano, alla disperata, senza una lira, vivevo in una specie
di antro di pochi metri quadri, lo spazio sufficiente per un materasso buttato sul pavimento, sopra il
baretto della Statale in via Festa del Perdono; accanto c’erano due stanze senza servizi – il cesso era
quello nel cortile del bar, da qualche parte doveva pure esserci un rubinetto per lavarsi – ci vivevano
Carlo Gallone e suo fratello Chicco, il pittore; tramite Carlo, di origine triestina pure lui, ebbi i
primi contatti con i compagni che prima dei Quaderni Rossi stavano facendo intervento nelle
fabbriche, e ovviamente nel luglio ’60 c’è stata una svolta. Si tratta insomma dei primi compagni,
come Gasparotto di Milano o Emilio Soave di Torino, che sull’onda del luglio ’60 ma anche un po’
prima, avevano iniziato un rapporto con le fabbriche, e avevano fatto delle azioni di propaganda.
Quindi, mi ero legato un po’ a loro, poi alla fine del ’60 o nel gennaio del ’61 abbiamo messo in
piedi una Comune, la “numero due”, perché quella “numero uno” era stata messa in piedi da Giairo
Daghini in via Sirtori con il gruppo di filosofi allievi di Enzo Paci che per circa dieci anni fu un
punto di incontro e di riferimento; loro esistevano già da tre anni, noi abbiamo fatto la “Comune
numero due”. All’interno di questa Comune le cose poi sono andate molto rapidamente perché
eravamo gli unici a Milano (o tra i pochi) che ospitavano tutti, quelli che facevano le lotte nel Terzo
Mondo, c’era qualcuno illegale, qualcuno che scappava, servivano posti dove poterli far dormire, da
noi la porta restava sempre aperta. Ci capitavano sfigati e personaggi importanti, come Castoriadis,
o altri che lo sarebbero diventati, come Agostinho Neto. Nel ’61 ho quindi cominciato a partecipare
all’attività dei Quaderni Rossi, che è andata avanti per due anni. Nei Quaderni Rossi io stavo più
che altro ad ascoltare, a imparare, non avevo né l’esperienza né il profilo tali da poter partecipare

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attivamente alle discussioni, facevo manovalanza, andavo a distribuire i volantini, facevo ciò che
era necessario ma alle riunioni non ho portato nessun contributo mio particolare. Credo di aver fatto
un solo lavoro per i Quaderni Rossi, era una cosa su Brecht che fu fatta con Franco Fortini, si
trattava dell’intervento di Brecht al congresso degli scrittori del ’35, credo di averlo tradotto io, non
mi ricordo esattamente ma penso di sì. Mettevo a loro disposizione la mia conoscenza della storia
tedesca, nel ’61 mi ero laureato e poi subito dopo avevo mollato le tematiche della mia tesi, che
erano l’opposizione religiosa al nazismo, ero passato ad occuparmi di storia del movimento operaio
e stavo preparando un primo lavoro sulla resistenza tedesca. Nel settembre del ’61 ho iniziato a
lavorare a quest’opera, prima presso la Biblioteca dell’Istituto Feltrinelli, poi in Germania, in
particolare alla Humboldt di Berlino Est; era il dicembre 1961, quattro mesi dopo la costruzione del
Muro. La città che ricordavo festosa e rilassata due anni prima era diventata un Lager; ne ebbi un
tale trauma che non ci misi più piede sino al 1983. Nel ’63 il libro sulla resistenza tedesca al
nazismo era pronto ma la casa editrice fallì prima che andasse in bozze, quindi niente da fare. Ne
avevo una sola copia, scritta con la Olivetti Lettera 22. Non cercai un altro editore, ero troppo
demoralizzato, sicché il libro rimase nel cassetto; era la prima opera organica di uno storico italiano
sulla resistenza tedesca. Più volte pensai di riprenderlo in mano, alfine invecchiò. Alla metà degli
Anni ’70 Giancarlo Buonfino mi chiese il manoscritto perché stava preparando il suo libro su
Weimar. Subito dopo iniziarono i suoi disturbi psichici, che lo avrebbero portato al suicidio nel
1980. Non ho più avuto coraggio di chiedere ai familiari la restituzione del mio manoscritto.
Comunque, gli anni dal settembre del 1961 al dicembre 1963 sono stati il periodo in cui ho
cominciato a lavorare parecchio sulla storia politica tedesca, la resistenza, la storia dei comunisti,
degli anarchici, del movimento operaio, dei consigli operai tedeschi, erano un po’ queste le cose che
trasmettevo ai compagni dei Quaderni Rossi. Però, direi che non ho svolto un ruolo né dirigente né
di rilievo all’interno dei Quaderni Rossi, ero lì a imparare il linguaggio, a imparare la storia. Loro
quasi tutti venivano da famiglie o da esperienze comuniste o socialiste, io avevo fatto solo un po’ di
politica universitaria. Poi dopo, quando nel ’63 c’è stata la rottura, quando Panzieri non ha più
voluto continuare, ho aderito al gruppo che avrebbe fondato Classe Operaia con Negri, Tronti, Asor
Rosa, Alquati ecc. Ecco, qui invece svolsi un ruolo abbastanza attivo, l’editoriale del secondo
numero l’ho scritto io, lì ho scritto parecchio, magari con pseudonimo perché avevo già
incominciato a lavorare in azienda. Ci entrai perché coi lavoretti editoriali non riuscivo a campare.
Fu un’esperienza importante anche se la vita di azienda non mi andava. Fui assunto alla Direzione
Pubblicità e Stampa della Olivetti, che allora aveva sede in via Clerici a Milano. Era l’ufficio nel
quale la memoria di Adriano Olivetti era più viva, quella che era stata la sua segretaria personale
lavorava nella segreteria del direttore. Allora l’Olivetti era all’avanguardia in Europa per la grafica
e la pubblicità, lo sarebbe stata anche nel design. Ci lavoravano intellettuali d’eccezione. Franco
Fortini se n’era appena andato ma manteneva un rapporto di consulenza, Giovanni Giudici era
rimasto e strinsi con lui un rapporto di amicizia. Durante la pausa del pranzo scriveva le sue poesie
e me le faceva leggere. Aveva la fortuna di lavorare con grafici d’eccezione, come Pintori e
Bonfanti. Lui scriveva i testi, faceva il copy writer per la linea delle macchine da scrivere e da
calcolo. Io facevo il suo stesso mestiere, ma per i calcolatori elettronici. L’Olivetti stava muovendo
i primi passi nell’informatica e mi trovai a dover inventare slogan per quel baraccone che era l’Elea.
Bene o male però scrivemmo la storia dell’advertising europeo. Me ne andai spontaneamente dopo
esser stato trasferito due volte per indisciplina o disadattamento. Fu un’esperienza importante –
Romano se lo ricorda perché venne a trovarmi nell’ufficio di via Baracchini a Milano – perché mi
permise di conoscere da vicino la realtà di fabbrica (dovevo per ragioni d’ufficio visitare tutte le
aziende dove erano installati i nostri calcolatori e dove venivano prodotte le nostre macchine).
Nascono da questa esperienza certi articoli su Classe Operaia firmati grottescamente Sergio Trieste
(una trovata brillante di Toni che ogni volta che ci pensava scoppiava nella sua risata satanica).
Naturalmente negli Anni ’60 un’esperienza per me fondamentale è stata la partecipazione al
progetto dei Quaderni Piacentini e l’incontro con due persone straordinarie come Grazia Cherchi e
Piergiorgio Bellocchio. Non ricordo bene come li abbia conosciuti, se sia stato Fortini il tramite o

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qualcun altro. Loro comunque erano molto amici di amici di Panzieri; Bellocchio deve aver anche
partecipato a qualche riunione dei Quaderni Rossi. Mi hanno contattato come esperto di storia
tedesca, un genere abbastanza raro e apprezzato nella Sinistra di allora. Infatti i miei primi lavori
sulla rivista riguardano proprio la storia del movimento operaio tedesco. La presenza in Quaderni
Piacentini mi diede naturalmente accesso a un pubblico molto più vasto dei gruppi operaisti, se non
sbaglio io sono stato l’unico di questa corrente di pensiero a scriverci. Decisi di pubblicarvi articoli
di sfondo teorico, il primo dei quali fu scritto con Ciafaloni sul problema dei tecnici (l’esperienza
alla Olivetti aveva lasciato tracce). Ma poi l’articolo che fece storia fu quello sul maggio francese.
Ma non anticipiamo troppo i tempi.
Dopo la rottura nei Quaderni Rossi ho fatto tutta l’esperienza di Classe Operaia e nel ’67, quando
l’abbiamo smessa, non ho aderito a Contropiano, ma ho continuato a tenere in piedi questo
gruppetto di Classe Operaia che si era costituito a Milano, lavorando o tentando un rapporto con la
Fiat e con Torino. I contatti con i veneti continuavano, un giorno Toni capitò a casa mia, in via
Giuriati 11 a Milano, con un certo Cacciari. Nell’autunno del ’67 tenemmo il famoso seminario nel
quale presentai il lavoro sui consigli operai in Germania che sarebbe stato pubblicato, assieme ad
altre relazioni del seminario, rielaborate, nel libro Operai e Stato, edito da Feltrinelli nel ’72. Un
seminario importane se non altro perché lanciò la mia idea dell’“operaio massa”. Nel ’66 avevo
cominciato a insegnare a Trento, come supplente di Umberto Segre, lì ho avuto un ruolo nella
formazione di questo movimento trentino che, nel momento in cui è scoppiato ed esploso nel ’68,
ha invece avuto nei miei confronti un atteggiamento di rigetto, per cui mi ha trattato come
qualunque altro docente. Il fatto è che a quel punto lì io ero già orientato sull’Università di Padova,
perché mi era stato procurato da Toni un posto di assistente nel suo istituto. Nel ’68 abbiamo
giocato le nostre carte operaiste dentro il movimento antiautoritario studentesco. Si è costituita
quindi tutta una rete di Classe Operaia arricchita dei contatti con il movimento studentesco romano
che Toni aveva costruito; io ho rimesso in piedi tutta la rete milanese, poi molte delle persone
chiave che hanno determinato quello che abbiamo fatto nel ’69 li avevo conosciuti a Trento.
Insegnando a Trento, avevo finito per avere pessimi rapporti con il giro di Rostagno, Boato e tutti
questi, ma ottimi rapporti con gli studenti-lavoratori, che poi non frequentavano ma seguivano
attivamente quel che succedeva dalle loro residenze. Che io fossi un punto di riferimento tra i
docenti lo sapevano tutti. Quindi, il nucleo che poi intervenne alla Fiat nel maggio del ’69, cioè il
gruppo di Dalmaviva e altri, era tutto composto da studenti-lavoratori di Trento che io avevo
conosciuto e incontrato lì, più tutto il gruppo dei tecnici della Snam Progetti, con i quali abbiamo
fatto un opuscolo per Linea di Massa e che sono ancora in pista sostanzialmente.
Trento per me è stata indubbiamente un’esperienza di grande importanza proprio per la possibilità
di stabilire rapporti e di reclutare la parte migliore del movimento. Non è che adesso voglia fare
polemica con il movimento studentesco trentino, ma gli studenti-lavoratori avevano un’altra
impostazione, avevano un altro taglio, un altro atteggiamento, fortemente orientato al lavoro sociale
o al lavoro di fabbrica o al lavoro di quartiere, e non avevano i grilli per la testa di alta politica tipici
degli altri: erano proprio due razze diverse. Quindi, da qui è nata La Classe: io ho fatto l’editoriale
del primo numero che era appunto il dire “ragazzi, cominciamo subito direttamente dal colpo
grosso, dal bersaglio grosso, puntiamo alla Fiat, è inutile che stiamo qua a girarci intorno”. E se
vogliamo quella è stata l’azione più importante che ho fatto, cioè di essere riuscito a mettere
insieme un gruppo dal nulla e quasi da solo, con l’aiuto di questi compagni torinesi e di altri
compagni un po’ del vecchio giro di Classe Operaia, c’erano i comaschi, i lodigiani, c’era insomma
un po’ questo giro attorno a Milano che Classe Operaia aveva sedimentato, e abbiamo messo un
detonatore alla rabbia degli operai Fiat, sì da farla esplodere. I primi volantini alla Fiat
materialmente li abbiamo scritti Dalmaviva ed io (“la lotta continua”, diceva il primo, da cui ha
preso il nome l’organizzazione di Sofri), quindi sono partiti questi 15 giorni di primi scioperi gestiti
direttamente da Dalmaviva e dal suo gruppo che non erano neanche capaci a gestirli, e che
speravano che l’organizzazione La Classe desse loro una mano e invece non gliel’ha data, nessuno
si muoveva. Poi alla fine ha cominciato a venir giù qualche veneto, è venuto Emilio Vesce a dare

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man forte, ma di fatto loro si aspettavano una struttura: io avevo loro promesso o fatto credere che
La Classe fosse una struttura, una mini-organizzazione in grado di dare manforte. Non li avevo
ingannati, la verità è che la struttura del gruppo non la conoscevo bene neanch’io. A quel punto
Sofri ha dato il fischio e ha fatto venire giù tutto il suo giro. E’ capitato lì tutto il giro di Potere
Operaio pisano, loro avevano messo in piedi il movimento studentesco torinese che faceva capo a
Viale e in quattro e quattr’otto hanno preso in mano la situazione perché erano molti di più. Poi
sono arrivati in massa i trentini. Quando finalmente Piperno e i romani de La Classe hanno deciso
di muoversi e di venire su, appena arrivati hanno fatto subito l’alleanza con Sofri. A questo punto,
visto che loro due hanno gestito tutta la parte successiva, io mi sono tirato da parte, limitandomi a
“tenere” le porte di Rivalta assieme a Vesce e Pietrostefani. Poi le cose sono andate come sono
andate, c’è stato corso Traiano, è stata una grande stagione di democrazia operaia diretta. Finita la
stagione, il sindacato ha ripreso il controllo della situazione con l’autunno caldo, quando appunto
c’è stata questa specie di serrata; insomma, quando sono ripartire le lotte dell’autunno caldo a
maggior ragione noi eravamo fuori perché a quel punto erano fuori tutti, anche Lotta Continua.
Facendo un passo indietro, c’è da dire che l’altro lavoro importante che abbiamo fatto a Milano era
quello con i CUB della Pirelli. Il CUB aveva due componenti, una che faceva riferimento a Mosca e
l’altra che faceva riferimento a Raffaello De Mori, non andavano d’accordo tra di loro; De Mori,
indebolito abbastanza da questi scontri interni, cercava alleati fuori, è venuto a cercarci e quindi
abbiamo fatto insieme l’opuscolo Lotte alla Pirelli, quello di Linea di Massa. Visto il successo, con
i compagni studenti-lavoratori di Trento che erano tecnici alla Snam Progetti, abbiamo fatto un altro
opuscolo. L’opuscolo alla Pirelli e in gran parte anche l’altro li ho scritti sui loro racconti. Questo è
stato un periodo molto molto intenso, in cui ho svolto un ruolo indubbiamente abbastanza decisivo.
Quando quella fase si è chiusa e nel settembre del ’69 abbiamo costruito Potere Operaio direi che
era già una forzatura. In quel caso lì io ho sbagliato, come hanno sbagliato tanti altri, a voler forzare
le cose, a voler forzare la costituzione del gruppo come un partito: ho scritto di nuovo l’editoriale
del primo numero di Potere Operaio, quindi avevo un ruolo ancora di riferimento, però ricordando
la cosa oggi ammetto che è stata una forzatura e da lì è nato un po’ tutto il seguito di errori
successivi. Ulteriore forzatura poi, dopo la strage di piazza Fontana, è stata quella di voler costituire
un gruppo iperbolscevico, quindi c’è stata la prima segreteria di PO fatta da Toni, da Piperno e da
me. Era il non voler ammettere che in realtà non avevamo molto dietro, quasi niente, eravamo
ancora un gruppetto. In Classe Operaia eravamo quattro gatti ma avevamo una potenza
intellettuale, che è deflagrata nel ‘68-’69, noi avevamo qualcosa da dire rispetto agli altri, avevamo
una teoria. Nel ’70 la nostra teoria l’avevamo già tutta spesa, contava tutto la forza organizzativa.
Quando poi loro a mia insaputa hanno fatto una serie di scelte (la scelta del rapporto con Il
Manifesto, la scelta del rapporto con Feltrinelli ecc. le avevano gestite sempre Toni e Piperno
tagliandomi fuori), mi sono sentito un po’ preso in giro e me ne sono andato: “o facciamo la
segreteria in tre o se la volete fare solo voi due me ne vado”. Me ne sono andato, anche perché non
ero assolutamente d’accordo sullo stile con cui portavano avanti i rapporti con Feltrinelli e tutta
questa roba vaga, nebulosa, mai esplicitata, sul passaggio a forme di lotta dura e magari violenta. Se
dovevano tagliarmi fuori potevano dirmelo in una maniera più esplicita, “togliti dai piedi” e allora
facevamo una battaglia politica; invece, ci furono delle manovre sottobanco, è stato un
atteggiamento un po’ antipatico. Chiaramente viste adesso sono cose su cui ci si ride, però credo
che quelli più giovani l’hanno pagata cara perché non hanno avuto la possibilità di vedere un
chiarimento pubblico: se ci fosse stato uno scontro pubblico tra me e loro in cui si diceva “io sono
d’accordo su questo e io su quell’altro”, mettevamo nero su bianco e i compagni giovani avevano
qualcosa con cui confrontarsi. Invece è stata una cosa ambigua, io me ne sono andato senza fare
nessun documento chiamiamolo di “uscita”, per il solito discorso “la situazione è delicata, non
creiamo difficoltà, se dico perché non sono d’accordo debbo mettere in piazza dei propositi che
sono ancora nebulosi, con il rischio di far opera implicita di delazione”. Però, secondo me, molti
compagni dopo l’hanno pagata questa cosa; loro hanno potuto tranquillamente dire in giro che io
m’ero allontanato temporaneamente per stanchezza ma ero sempre d’accordo, cosa che non era

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vera, mentre a me rimproverarono, anche negli anni successivi, di non essere stato chiaro. Quindi,
perpetuare questa situazione di ambiguità e di poca chiarezza è stata una cosa che naturalmente mi
ha danneggiato moltissimo, ha danneggiato loro e soprattutto ha danneggiato i compagni che non ci
capivano niente. Questo è stato un mio errore grave.
Dopo di che io mi sono tirato da parte completamente per uno o due anni, lavorando soltanto con
dei gruppi di base a San Donato Milanese, dove gli studenti-lavoratori di Trento impiegati all’ENI
di Metanopoli avevano costituito un circolo operaio, diventando oltre che una struttura di fabbrica
una struttura territoriale. Devo dire che è stata una delle esperienze più solide dei comitati di base di
quegli anni, perché il comitato di base della Pirelli a un certo punto è sparito, mentre questi qui sono
ancora vivi, ancora hanno una struttura di presenza sul territorio dopo tanti anni, molti ormai se ne
sono andati dall’azienda, i due o tre che hanno fondato il nucleo originario a San Donato sono
ancora lì con un circolo culturale. Allora avevano una presenza in fabbrica consistente, quando
dichiaravano sciopero si faceva sciopero davvero, ma avevano anche questa presenza territoriale,
hanno cominciato ad affluirvi studenti, gente di realtà vicine. Però, per me non era completamente
soddisfacente, avevo bisogno di qualcosa di più, e poi non è che servissi molto, ormai loro avevano
una maturità politica tale che potevano fare tutto da soli, la mia era un una presenza storico-
simbolica, chiamiamola così.
La collaborazione saltuaria a un comitato non mi poteva bastare. Quindi, nel ’73 ho messo in piedi
Primo Maggio, che poi è diventato fino a quando è finito un po’ l’unico punto di riferimento di una
presenza politica. E’ stata una rivistina che arrivava comunque a tirare due o tremila copie o anche
di più, sembrava niente ma in realtà finiva proprio nei punti giusti, quindi secondo me ha avuto un
peso. In carcere per esempio andava moltissimo, un po’ anche perché Moroni era il libraio che
riforniva di libri quelli che stavano dentro, non so quanti numeri andassero in carcere ma ne
andavano veramente tantissimi. Quando poi sono partite le 150 ore, sono stato il primo docente in
Italia a fare il corso universitario delle 150 ore a Padova, è stata anche quella un’esperienza non
male; abbiamo anche lavorato con Primo nel creare materiali didattici per le 150 ore. Conobbi
Primo Moroni tramite Buonfino, percepii immediatamente che si trattava di una persona singolare,
con la quale mi sarei trovato a mio agio, un uomo che non apparteneva al ceto intellettuale, un ex
ballerino, ma con una sensibilità, una curiosità e una passione per la cultura che ho trovato in poche
persone. Primo ha inventato un modo di essere, un sistema di relazioni, purtroppo irripetibili perché
solo la sua bizzarra e ricchissima personalità sapeva produrre.
Di quegli anni è anche la collaborazione a Il Manifesto e la collaborazione saltuaria a Lotta
Continua diretta da Deaglio, ma non sono sicuro di aver dato il meglio. Forse qualche articolo l’ho
azzeccato, forse sono riuscito a mettere in giro prototipi d’immaginario, ma, pur essendo la parte
più “pubblica” della mia attività, quella con il maggior numero di lettori, non è quella che nella mia
percezione è più in evidenza. Ho sempre avuto la sensazione di rivolgermi ad un pubblico
sostanzialmente estraneo, di muovermi in casa d’altri, tant’è che quando, dopo vent’anni, decisi di
non scriverci più, da Il Manifesto nessuno si sognò di alzare il telefono per dirmi “grazie, ciao”
oppure “perché” oppure “ci dispiace”.
Nel ’77 ho ripreso un po’ di tentativi di analisi e di impostazione teorica, è uscita La tribù delle
talpe. La rivista Primo Maggio aveva seminato moltissimo (la tematica sulla moneta, sugli IWW,
sui trasporti – i portuali di Genova – sulla Cassa Integrazione, sulla storia orale, sulla storia tedesca,
il postfordismo ecc.). Non so che effetto fa oggi, a rileggerla, o farà tra vent’anni. Ma siamo riusciti
a fare una rivista che si distingue dalle altre, c’era stile, c’erano idee o almeno spunti di riflessione.
Non era un prodotto ripetitivo. Aveva del sangue, non era lo smorto erudito eloquio di tanta
storiografia o sociologia italiana. Era figlia del suo tempo ma anche il modo di stare dentro quel
tempo così difficile, complesso e agitato, aveva la sua originalità, la sua dignità. Almeno così a me
pare.
Il tutto si chiude poi nell’80 quando vado all’estero, lascio l’università, perdo anche il posto, sto in
Germania due anni e lì trasferisco parte della mia attività sulle riviste tedesche o nelle attività dei
compagni tedeschi. A Brema lavoro con l’organizzazione dei disoccupati, con gruppi sindacali

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alternativi al sindacato, riprendo i rapporti con Karl Heinz Roth, scrivo su Autonomie. Quando Roth
costituisce la Fondazione d’Amburgo di Storia Sociale (l’Hamburger Institut) praticamente scrivo
quasi solo per loro, quindi c’è un grosso periodo di collaborazione e anche di produzione che non è
mai stata tradotta in italiano. Quando torno in Italia, nell’84, riprendo i rapporti con Moroni, entro
un po’ nelle sue attività che diventano interessanti quando mette in piedi Conchetta; organizzo una
serie di attività dentro Conchetta con Primo e in questo modo apro un dialogo con il movimento dei
centri sociali. C’è poi un tentativo di riprendere di nuovo un ragionamento politico, Quaderni
Piacentini erano chiusi, Primo Maggio stava per morire, gli ultimi numeri credo che fossero
dell’86, Sapere era finito.
Riprendo il tentativo di rimettere in piedi una rivista dopo la prima guerra del Golfo, nasce
Altreragioni. Chiamo a raccolta vecchi compagni di Quaderni Piacentini, Franco Fortini, Edoarda
Masi, alcuni compagni di Primo Maggio come Primo Moroni, Bruno Cartosio, Pier Paolo Poggio,
Lapo Berti, altri di potop come Ferruccio Gambino, altri ancora di Sapere come Giovanni Cesareo,
figure come Michele Ranchetti. Mi aiuta Giovanna Procacci, che poi prenderà in mano con
Gambino la rivista. Sono gli anni in cui stringo una specie di sodalizio con Franco Fortini. Su
Altreragioni – titolo inventato da Fortini – espongo per la prima volta le mie ipotesi sul lavoro
autonomo e il postfordismo. Ci muoviamo tra l’ambiente dei valdesi e quello dei centri sociali. Le
riunioni si fanno alla Libreria Claudiana o in Conchetta, da dove la tematica del postfordismo viene
rilanciata in tutto il circuito dei centri sociali. Altreragioni mette a fuoco il problema del
revisionismo storico, sul quale apriamo un altro fronte di battaglia culturale, in stretto contatto con
Karl Heinz Roth. E’ da qui che nasce la mia ultima ricerca storica, Nazismo e classe operaia. Dopo
l’esperienza di Altreragioni - chiusa dopo una fragorosa litigata con Valerio Marchetti - c’è la
LUMHI (Libera Università di Milano e del suo Hinterland “Franco Fortini”), forse tra queste due
cose c’è qualcos’altro, ricordo le cose vecchie e quelle recenti le ho dimenticate o rimosse!
Sicuramente c’è l’amicizia con il direttore dell’istituto Goethe di Milano, un grande organizzatore
di cultura, che ha dato vita e intelligenza a questa città morta, un uomo schietto, un grande studioso
della cultura araba in Europa. A quei tempi la Repubblica federale tedesca era rappresentata a
Milano da un console come Steinkuehler, un uomo colto, un diplomatico-storico, che stava nel
Kuratorium della Fondazione di Roth.
LUMHI è stata la cosa più interessante degli ultimi anni, è stato il più grande fallimento della mia
vita ma anche la cosa che aveva dentro di sé, rispetto al vecchio operaismo, le potenzialità più
grosse, c’era questo discorso del lavoro autonomo. Penso che sia stata veramente la porta per uscire
dalla storia dell’operaismo tradizionale: questa storia io la vedo che nasce alla metà degli anni ’50
con i primi gruppi, prosegue con i Quaderni Rossi e Classe Operaia, entra nella vicenda ‘68-’69,
nella storia della Fiat, si protende su tutti gli anni ’70, poi c’è la sconfitta alla Fiat, nell’80, poi ci
sono le grandi ristrutturazioni nelle fabbriche italiane, la repressione, l’ondata di arresti, Potere
Operaio come nemico numero uno della storia. La storia operaia più o meno si conclude alla metà
degli anni ’80, e con la storia operaia si conclude la parabola dell’operaismo (in un certo senso la
fanno rivivere come fantasma proprio il 7 aprile e la stagione giudiziaria e carceraria che segue).
Dopo di che c’è il vuoto, questi movimenti dei centri sociali sono una cosa molto bella, sulla quale
l’operaismo gioca un ruolo semplicemente di memoria, ma non dispongono di un saldo discorso
teorico. Immodestamente penso che il tentativo di dare un nuovo orizzonte teorico al tema della
composizione di classe lo si ha solo con questo discorso sul lavoro autonomo. E lì avviene appunto
la rottura totale con tutto e con tutti, sia con i centri sociali che preferiscono fare il discorso sulla
proletarizzazione o sulla precarizzazione, sia con Il Manifesto, sia con l’ambiente della sinistra
sindacale, dei cobas, dei rifondatori. Insomma rifiuto la cittadinanza di questo ambiente, mi sento
un apolide. Se dovessi ancora fare politica, comincerei col scrivere un “Manifesto degli apolidi”.
Ma con quest’ultima batosta ormai la stanchezza era arrivata, l’amarezza era al colmo e ho deciso di
chiudere, avendo perduto anche una persona per me importantissima, come Primo Moroni. Però
sono convinto che il progetto di LUMHI e il discorso sul lavoro autonomo rappresentano il futuro,
prima o dopo qualcuno raccoglierà il testimone e lo porterà avanti. Non come ha cercato di fare

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Aldo Bonomi, storpiando il discorso del lavoro autonomo, portandolo nelle secche di una
chiacchiera senza costrutto, non a caso apprezzata sommamente dagli ambienti politici dei due Poli.
Lui ci ha fatto i quattrini, noi – Marco Cabassi, Christian Marazzi, Vittorio De Gara e tanti altri - ci
siamo trovati a pagare 50 milioni di debiti di LUMHI, ma tutto sommato non dobbiamo pentircene.
Noi abbiamo posto le premesse per il futuro, altri si sono avvoltolati nella melma del sottogoverno.
Ho dimenticato un’esperienza che per me è stata molto importante ed è quella di Sapere, la rivista
di critica della scienza diretta da Giulio Maccacaro, con Giovanni Cesareo come caporedattore. Lì
ho conosciuto Luigi Mara e il gruppo di Medicina Democratica ma anche scienziati di fama
internazionale, critici della scienza, come Hrayr Terzian. Ricordo che il numero contro il nucleare,
che si apriva con un saggio scritto da Giovanni Cesareo, Massimo Pinchera e da me, vendette
decine di migliaia di copie. Attorno alla rivista si raccolse tutta la vera ecologia italiana, se mai è
esistito un movimento ecologico e ambientalista era quello, le battaglie antinucleari, le battaglie
contro la nocività in fabbrica. Chi non ricorda il numero su Seveso? Quella è stata un’esperienza
ricchissima per me, che tra l’altro si colloca proprio nel periodo in cui si chiude la mia esperienza
diretta nei gruppi, e prosegue in parallelo a Primo Maggio. Successivamente, quando Sapere
chiude, è ripreso dall’editore e dato in mano a Bernardini, un fisico che difendeva la scelta nucleare,
tutto il gruppo redazionale originario se ne va e apre Scienza e Esperienza, io collaboro
saltuariamente a quella attività. Maccacaro muore nel ’77, Terzian, divenuto rettore di Verona,
muore nel ‘85.
Dunque, tutto sommato è una di quelle classiche storie, la mia, di cui uno dice “rifarei tutto quello
che ho fatto”. Tutto, tranne quel modo di uscire da Potere Operaio, che secondo me rimane un buco
nero: è stato un errore non aver spiegato le ragioni del mio allontanamento. Speculare all’errore di
aver voluto fondare un partitino. Ma Potere Operaio è anche una parentesi, dura un anno la mia
permanenza nel gruppo, mentre la storia che vi ho raccontato si distende su un periodo di
quarant’anni. Potere Operaio non solo non esaurisce l’operaismo ma forse lo tradisce, impiccandosi
al piolo del modello tardobolscevico.

- Analizzando complessivamente i limiti e le ricchezze dei percorsi di cui hai parlato, quali sono
oggi i nodi che rimangono aperti e che vanno ripensati?

Io non posso dare un contributo su una delle parti più complesse, che è ad esempio il rapporto tra
Autonomia e lotta armata, da quello veramente sono stato fuori totalmente: sarebbe certo da
analizzare il passaggio dai gruppi politicamente organizzati ai gruppi armati, il passaggio da Lotta
Continua a Prima Linea o da Potere Operaio a Brigate Rosse, oppure a Proletari Armati e a tutte
queste sigle. Questa secondo me rimane una cosa dal punto di vista storico e politico che andrebbe
indagata a fondo; probabilmente non si è detto tutto, non si è riusciti ad analizzarla. Secondo me si
tratta di un momento chiave, però lì dentro non ci sono mai stato, l’ho visto sempre molto
dall’esterno, quindi non riesco a dare un contributo su quello.
Per quanto riguarda il periodo precedente possiamo dividerlo in quattro grandi fasi. C’è innanzitutto
il periodo della preparazione, diciamo ’56-’67. Nel lungo periodo della preparazione c’erano sì
mille limiti, però mi sembra che rispetto alle forze in campo più di così non si poteva fare. C’è stata
una produzione forte, intensa e incisiva di teoria, personalmente almeno ritengo che sia stata l’unica
produzione di pensiero politico innovativo in questo stramaledetto paese. Allora, quale semmai è
stato il limite intrinseco? E’ stato il limite di voler continuare a ragionare ancora dentro un’ottica
comunista, di considerarsi eredi del movimento comunista. Non si è approfondito abbastanza il fatto
che in realtà, e questa era la vera natura di questo movimento, noi rompevamo con la storia del
comunismo, pur dichiarandoci marxisti, era davvero la prima rottura, non era una delle tante eresie
comuniste come i bordighisti, i trotzkisti, tutti questi qua che avevano rotto con i comunisti dicendo
“i veri comunisti siamo noi”. I trotzkisti, i bordighisti, i marxisti-leninisti sono sostanzialmente
custodi di dottrine formulate negli Anni ’20 e ’30. I movimenti extraparlamentari tipo Lotta
Continua pongono l’accento sull’attivismo, non sulla teoria. Noi siamo stati i soli a credere che era

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possibile e necessario costruire un pensiero politico nuovo, marxista, senza debiti col comunismo.
Ma poi siamo ricaduti nella trappola. Non ci spettava, non ne avevamo nessun diritto, di dire “i veri
comunisti siamo noi”: noi dovevamo dire “noi con questa storia non abbiamo nulla a che fare e
punto, c’è qualcuno che per incidente è stato iscritto al PCI ma per il resto mentalmente,
strutturalmente, teoricamente con questa storia abbiamo chiuso”, questo dovevamo dire e questa era
la verità. Non avendo detto questo, avendo mantenuto questa ambiguità, sono successe le cose che
sono successe, c’è chi ritorna all’ovile, chi anzi diventa più comunista dei comunisti, alcuni
rientrano nel partito, Cacciari, Tronti, Asor Rosa, una cosa che sa di marcia indietro. E c’è chi ci
prende per provocatori. Avremmo creato meno odi e sospetti nel PCI se ci fossimo dichiarati
anticomunisti. Toni Negri e quelli di Potop, continuando a dire “noi siamo il comunismo”, non
hanno fatto altro che scatenare odio contro di sé da parte di un partito che, paranoico per natura, si
convinse di aver a che fare con strumenti dei servizi segreti. Invece avremmo dovuto dire “noi
siamo anticomunisti”, questo dovevamo dire. A pensarci bene, il comunismo cos’è stato? Che esiti
ha avuto? E’ stata una delle più orribili forme di sfruttamento della classe operaia, ha ammazzato i
migliori comunisti, ha emarginato i migliori comunisti: tutti i compagni comunisti con cui io ho
lavorato è gente presa a calci dal partito. Il comunismo ha divorato la rivoluzione, e il lascito del
comunismo spesso è mafia. Quindi, c’è stato il fatto di essersi trascinati dietro questo equivoco per
tutta la storia degli anni ’60, poi i gruppi, poi Autonomia, per non parlare di quelli dei gruppi
armati, che si dichiaravano gli unici veri e puri comunisti. Avremmo dovuto dire subito, agli inizi
degli anni ’60, “noi siamo i veri anticomunisti e vogliamo chiudere questa maledetta storia, magari
in alcuni paesi del cosiddetto Terzo Mondo i comunisti sono riusciti a fare la rivoluzione, ma in
questi cavolo di paesi occidentali sono riusciti soltanto a spingere sia la classe operaia sia la
mentalità ribelle o anticonformista dei giovani sia il radicalismo borghese a sottomettersi
all’ideologia dominante, cioè a servire ancora meglio il capitale”, questo dovevamo dire. Quando un
ex comunista è andato al governo ha smantellato più pezzi di socialismo lui che tutti i governi
precedenti. La storia del comunismo occidentale è la storia di una corsa verso destra. Non c’è altro,
a pensarci bene. Quindi, quello è stato indubbiamente il grande limite di molti compagni operaisti,
però, a parte questo, bisogna riconoscere che Quaderni Rossi e Classe Operaia sono stati
un’esperienza di peso: se si pensa che eravamo quattro gatti senza una lira, anche senza contatti
reali con la classe operaia, c’è stato uno sforzo di intuizione del movimento di classe che non va
sottovalutato. Il ’68 è stata ancora una grande cosa, anche lì siamo riusciti a rovesciare
l’impostazione originaria, cioè a imporre l’unità operai-studenti. Abbiamo dato una valenza operaia
a una cosa che rischiava di diventare, come negli altri paesi, una ribellione antiautoritaria. Dopo di
che cominciano i dolori, certamente: noi abbiamo sbagliato a fondare Potere Operaio, abbiamo
sbagliato a fondare un gruppo extraparlamentare. Dovevamo continuare a lavorare nel sociale, a
costruire alternativa nel sociale, a costruire centri operai un po’ dappertutto, a costituire i centri
sociali già allora, spazi alternativi, spazi liberati: abbiamo sbagliato, ci siamo lasciati affascinare
dalla vecchia idea, dalla vecchia ambizione di conquistare il potere, siamo di nuovo ricaduti nella
“sindrome del comunista”, e abbiamo tentato di mettere in piedi un aborto di partito bolscevico che
aveva di nuovo in testa la dittatura del proletariato, e quindi inevitabilmente doveva essere bruciato
da chi aveva un’opzione molto più decisa come quella della lotta armata, dovevamo fare
qualcos’altro, su questo non ho dubbi. Non è che agli altri gruppi, come Lotta Continua, sia andata
molto meglio, per non parlare dei gruppi m-l: insomma, la storia dei gruppi extraparlamentari è
stata in gran parte una storia di merda, perché hanno voluto tutti riprodurre la politica tradizionale,
le dinamiche di partito. Non è un caso che poi siano saltati tutti, per implosione interna”.

- Tu hai tirato fuori due variabili sicuramente determinanti: una è la teoria e l’altra è la politica.
Romano sostiene che l’operaismo si è mosso all’interno di un poligono i cui vertici sono la
politica, la cultura, gli operai e l’aspetto generazionale. Di teoria ne è stata costruita tanta, è
sicuramente frutto di un laboratorio collettivo di lavoro e anche però di apporti soggettivi che

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le persone vi hanno portato. Approfondendo questa questione, quali sono stati i tuoi punti di
riferimento, i tuoi numi tutelari e i libri che sono stati fondamentali nel tuo percorso?

Il punto di riferimento è solo Marx, non c’è altro. Io ho letto meno filosofia di altri e ho fatto più
indagine storica. Però, di numi tutelari o punti di riferimento c’è solo Marx. Lenin pochissimo,
tranne quello del periodo precedente il 1905, il Lenin spontaneista. Grandissima figura Lenin,
ricordo ancora l’emozione a vederne le spoglie nel Mausoleo della Piazza Rossa. Ma chi ha
distrutto la sua opera, chi ha cancellato il suo stile, chi ha sepolto la sua potenza ribelle, eversiva? Il
comunismo. Non mi ha dunque attirato il bolscevismo, fin dall’inizio. Mi sembravano molto più
importanti i consigli operai degli scritti della Luxemburg, di Liebknecht o dei tanti teorici come
Pannekoek, che pure indubbiamente hanno scritto qualcosa di importante. Marx e solo Marx, letto
sulla base della storia delle dinamiche di classe. Queste sì sono state determinanti, dentro la storia
delle dinamiche di classe c’è una riserva inesauribile di teoria rivoluzionaria. Per il resto ancora e
solo Marx, che continuo comunque a considerare un maestro di libertà del pensiero. E’ un autore
che uno legge tutta una vita. Sono stato capace di lavorare solo su alcuni aspetti minori della teoria
marxiana, minori nel senso che Marx non ha dedicato loro un’elaborazione compiuta, penso al
discorso sulla moneta, avviato da Primo Maggio sulla spinta del mio saggio sugli articoli della
“New York Daily Tribune” del 1857, cose minori, ma non da buttar via; su altre cose hanno
lavorato solo gli altri, sulla moneta probabilmente un pezzettino di originalità l’abbiamo data anche
noi. In Marx trovi il futuro teorico, se mai ce ne sarà, che valga qualcosa. E’ ancora il più moderno
pensatore dei moderni.
Per quanto riguarda gli altri due poli, la cultura io la metto dentro la teoria, se per cultura
intendiamo Asor Rosa e Scrittori e popolo, o gli scritti di De Caro, Coldagelli, sulla storia e il
pensiero economico: in che senso Romano la scompone?

- Lui la mette come vertice di un poligono con cui l’operaismo ha cercato di fare i conti, anche se
non è stato poi capace di indicare delle dimensioni che portassero a dei percorsi diversi.

Non poteva neanche farlo, non aveva le risorse umane né le strutture per lavorarci; a quel punto
l’operaismo avrebbe dovuto dire “rivediamo le radici metodologiche del pensiero sociologico,
rivediamo le radici metodologiche della storiografia ecc.”. Noi con Primo Maggio abbiamo
affrontato questa prospettiva ambiziosissima, un pezzettino piccolo piccolo di lavoro lo abbiamo
fatto, nel tentativo di costruire un approccio operaista alla storiografia: dalla storia come storia di
classe alla storiografia come “militanza”, dalla storia orale al revisionismo storico, dalla soggettività
nella storia al rapporto tra storia e memoria, dall’insegnamento della storia al suo uso pubblico. Più
che altro dei carotaggi, ma nessuno ha saputo o voluto continuare. Abbastanza tuttavia da dare
spunti sufficienti a chi volesse riprendere in mano la materia.

- Della figura di Gaspare De Caro abbiamo chiesto a molti degli intervistati: è una delle persone
che è stata dietro ma che comunque ha politicamente elaborato molto ed è stato parecchio
critico rispetto a quei percorsi.

Io tra l’altro con Gaspare ho avuto un legame di forte simpatia; non sono mai riuscito a condividere
quella sua astiosa avversione verso Tronti. Che lui fosse un personaggio dall’influenza intellettuale
superiore alla sua presenza fisica nelle sedi politico-culturali, è un dato di fatto. I rarissimi incontri
con lui erano sempre di grande intensità. Il lavoro svolto sul pensiero economico nell’“Enciclopedia
Italiana” è di grande spessore.

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- Ma anche in quel poco che ha scritto è sempre stato attaccato da tutti.

Sì e no, è anche stata una persona che ha goduto di un grande rispetto. Romano è stato molto più
attaccato, tanto per dire. Indubbiamente Gaspare ha esercitato autorità, avendo la capacità di aprirti
il cervello, di svelarti le cose, un dissacratore formidabile. Malgrado le sue critiche feroci, io per
Tronti ho avuto una venerazione per un certo periodo, Operai e capitale è stata una pietra miliare
nella mia formazione, mi ha aperto la porta di molte stanze marxiane. Ho continuato ad avere un
grande rispetto per Tronti anche dopo che lui ha fatto la scelta di entrare nel PCI. Ma non se ne è
uscito anche lui disgustato? De Caro e Tronti sono cresciuti insieme a Roma, quindi l’eccesso di
certe separazioni si spiega spesso con la condivisione di certe esperienze. Comunque, confermo che
De Caro ha avuto un peso, ha continuato a pensare allo stesso modo, ha mantenuto la sua aria
beffarda e questa coerenza di stile alla fine paga. Mario Tronti in quel suo tentativo di far entrare
nel PCI linguaggi diversi è sembrato troppo spesso un donchisciotte. Ma almeno non si è
imbaronito come altri.

- Romano sostiene che nell’ambito operaista da una parte si è portata avanti una critica alla
figura classica dell’intellettuale organico, visto come portatore di cultura umanistica, dall’altra
però non si è riusciti ad andare a fondo e tutto sommato ciò che ne è uscito non si distanziava
poi molto dalla figura dell’intellettuale organico e dalla concezione della cultura umanistica. In
questo senso l’operaismo si è trovato a fare i conti con il vertice della cultura, senza riuscirci
molto o comunque con dei grossi limiti.

Sono d’accordo fino a un certo punto, se è vero che Classe Operaia ha prodotto molti professori
universitari e molti intellettuali tradizionali, bisogna riconoscere a Toni Negri che era un professore
universitario un po’ diverso dagli altri, altrimenti non sarebbe finito in galera. Non si può
dimenticare che l’Istituto di Padova era qualcosa che nella storia universitaria italiana non si trova
così facilmente, anche nel comportamento agli esami, non era una cosa che succedesse dappertutto
che sei docenti dessero il voto politico a tutti. E’ finito in galera per qualche ragione o no? Ha
ragione Romano quando dice che si sono prodotti dei baroni universitari, però dei baroni anche un
po’ meno baroni degli altri. Anzi, proprio Toni che aveva usato gli strumenti baronali prima degli
altri (era in cattedra credo già alla metà degli anni ’60, mentre Tronti e Asor Rosa ci sono andati
qualche anno dopo), proprio lui usava l’università in maniera che non possiamo definire
tradizionale. A Toni va riconosciuto questo merito, anche il modo di aver messo insieme
quell’Istituto, di essere riuscito a imporre certe persone, di aver creato questo gruppo. Toni era
veramente uno che rompeva le palle dentro l’istituzione, che non restava zitto, non
dimentichiamocele queste cose. Allora, il fatto stesso di diventare docente universitario poteva
essere semplicemente una scelta di per sé tradizionale: è vero, però è altrettanto vero che siamo stati
professori un po’ diversi, un po’ particolari, ce ne fossero di professori così nell’università di oggi!
Da noi c’era la passione della ricerca, c’era sangue nelle vene, c’era comunicazione con gli studenti.
Detto questo, non dimentichiamoci che ciascuno è andato per la sua strada ad un certo momento,
elaborando una propria idea di presenza culturale. Il discorso sulle “strutture di servizio” che fu
elaborato all’interno della Calusca, tanto per dirne una, e che fu a fondamento del modo in cui
Primo Maggio si collocò nella sua epoca, non mi sembra riprodurre lo schema dell’intellettuale
organico. Siamo alle solite, questo schema è indissolubilmente legato al concetto di partito come
guida, come avanguardia. Se c’è stata subalternità alla figura gramsciana dell’intellettuale organico,
lo si deve all’“equivoco comunista” di cui si è parlato poc’anzi.

- Il discorso è diverso. Si pensi ad una figura come Asor Rosa, ad esempio, alla sua concezione
della cultura e della figura dell’intellettuale, questo poi anche al di là delle collocazioni
successive.

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Sono state due scelte opposte, Asor Rosa ha fatto una scelta baronale, tradizionale, in certi casi
criticata pesantemente anche nell’ambiente tradizionale accademico. E credo che più di uno del giro
romano l’abbia fatto. Ma Toni è stato un barone di ben altro genere, diciamocelo chiaramente. Io
l’ho sempre pensato, mi son portato dietro la convinzione che è finito in galera quasi più per queste
ragioni che per altre implicazioni. L’accanimento contro di lui è un tipico accanimento accademico,
baronale, universitario, che passava tra i professori di diritto ed arrivava ai magistrati. Il problema è
un altro: c’è una differenza fondamentale tra chi, pur avendo avuto un ruolo importante nel primo
operaismo – come Asor Rosa – poi non ha ritenuto di dover orientare le sue scelte intellettuali in
base a quella teoria, né nel “senso” del suo agire né nel metodo del suo pensiero. Ha chiuso
precocemente il suo pensare operaista. C’è chi invece è rimasto attaccato a certe ipotesi tutta la vita
ed ha condotto tutta la sua attività di ricerca e riflessione sotto il segno di quel demone che si era
impadronito di lui agli inizi degli anni ’60. Come Luciano Ferrari Bravo, tanto per citare un nome.
Nel primo caso, anche padri fondatori dell’operaismo si sono poi avviati verso una strada di banale
accademismo, nel secondo caso c’è gente che ha mantenuto la tensione morale e intellettuale tutta la
vita. Tendo a pensare che gli operaisti siano gente del secondo tipo e siano gli unici, nella storia
italiana recente, ad aver tentato di costruire un pensiero politico diverso da quello comunista, quindi
diverso dallo schema dell’intellettuale organico, che dice di essere organico alla classe, in realtà è
organico solo al partito.

- Soprattutto all’inizio degli anni ‘70 è avvenuta un qualcosa di particolare: c’è stato un vertice
di poche persone che ha dato teoricamente la direzione, sotto di esso si è formata
un’intellettualità di massa che ha potuto funzionare in maniera molto produttiva e proficua
perché sotto c’era la committenza che era quella del movimento e delle lotte. Ed è stata una
cosa unica, mentre negli anni ’60 questo era un modellino più piccolo, nel senso che comunque
funzionava più su un discorso di tendenza, negli anni ’70 si è dato proprio un sapere altro,
contro, che era prodotto da una direzione di teoria politica precisa e dal fatto di essere riusciti
a mettere al lavoro intellettualmente e politicamente un grosso strato di persone. E’ per
esempio il discorso che Romano ha fatto su Università di ceto medio.

C’è una grossa differenza: mentre negli anni ’60 questa produzione era quasi autoreferenziale, si
faceva una produzione teorica in assenza di movimenti, la produzione teorica degli anni ’70 di fatto
era anche una mediazione, e certe volte poteva essere anche un impoverimento di una ricchezza
reale di movimento, ed era quella la cosa straordinaria. Quindi, se vogliamo, ciò che fa la differenza
è la capacità maggiore o minore del suo ceto intellettuale di riuscire a cogliere di quel movimento
tutta la ricchezza. Secondo me non è mai riuscito a coglierla del tutto, cioè il movimento era molto
più ricco, forte, la differenza probabilmente è questa. Era quindi molto più facile fare gli intellettuali
negli anni ’70, perché sostanzialmente avevi di fronte a te una tale ricchezza di comportamenti
eversivi, di fantasie ribelli, di desideri d’innovazione ecc., che in fin dei conti il tuo compito era
quello di formalizzare un po’ le cose. Invece, negli anni ’60 dovevi inventare quali fossero o
dovessero essere questi comportamenti, cioè era invenzione pura. Comunque, tutto sommato la cosa
ha funzionato.

- Questa è stata la cosa unica nella formazione di un certo tipo di sapere altro che è avvenuto
grosso modo in Italia e poi ha avuto delle sfaccettature a livello internazionale, comunque è
stato questo il livello di ricchezza: un movimento che faceva la richiesta di elaborazione e di
teoria politica e nello stesso tempo c’era un ritorno dall’alto. Ciò ha fatto sì che si formasse
una vasto quadro intellettuale legato soprattutto al costruire una teoria e una prassi per il
movimento, laddove era un discorso di costruire la teoria per le lotte. Poi lì c’è stato
ovviamente un uso dell’università ma come c’è stato un uso anche di altri ambiti, anche di parte
del sindacato. Finiti e soffocati quelli che erano i livelli di conflittualità si è poi di nuovo rotta
questa circolarità, per cui se si vuole in quel periodo l’università era una forma di costruzione

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di un qualcosa d’altro, per cui è vero che Scienze Politiche ha avuto un peso determinante ed è
stata poi attaccata, e in generale è stato così anche da altre parti, ad esempio a Torino Scienze
Politiche, in una dimensione diversa, ha rappresentato un momento grosso di elaborazione.
Questa dimensione si è chiusa con la caduta delle lotte. L’altro nodo molto importante è quello
della dimensione politica: tu hai fatto giustamente tutta una serie di critiche alle forme dei
gruppi extraparlamentari e ad un certo modo di vedere la politica, che individuerei sempre
come politica di gestione. La politica può infatti essere due cose: da una parte la capacità di
mettere in piedi degli strumenti che producono trasformazione sociale che effettivamente si
realizza, dall’altra parte la politica come forma di gestione, che poi può essere di gestione
istituzionale nel senso di come la viviamo adesso, può essere di gestione di qualche istituzione
altra, che potrebbe essere il discorso di una forma partito, di una forma organizzativa che
comunque sovradetermina un rapporto dialettico tra costruzione di movimento e costruzione di
un ambito più alto. Nel discorso che tu facevi mi sembra che venisse fuori questa cosa, nel
senso che c’è stata una soggettività che ha saputo costruire, anche se in maniera alternata, in
alcuni momenti in modo più forte e in altri con debolezze maggiori, una politica come capacità
di dare a uno sviluppo di conflitto sociale spontaneo una direzione politica, e in alcuni momenti
intervenendo e ribaltando gli esiti di un conflitto: era come quando tu dicevi che nel ’68 siete
intervenuti portando una certa posizione, in altri momenti la si trova diverse volte questa cosa.
Nefasta è stata poi l’ultima forzatura, quella sulla lotta armata, ma lì c’era già un
cortocircuito, nel senso che un certo agire politico non dava più dei risultati perché comunque
all’interno di un livello di scontro di classe c’era un’incapacità affinché le lotte avessero
ancora quel peso politico che avevano in un periodo precedente: allora c’è stata la “furbizia”
di una sovradeterminazione della lotta armata che pareva che nell’immediato portasse dei
risultati e poi invece nella realtà destabilizzava più che destrutturare. Dunque, lì è stato il
cortocircuito poi risultato nefasto, però in altri momenti un determinato agire politico ha dato
dei risultati. E’ quindi questo l’elemento di riflessione che si potrebbe fare sulla politica: come
un momento di gestione ha un senso in quanto necessità di governare la dimensione o
istituzionale o capitalistica o anche la dimensione del partito “staccato” dalla realtà sociale e
che la sovradetermina; dall’altra invece la politica come elemento di trasformazione, cioè come
capacità di dare una propulsione e una dimensione di indirizzo forte ad un discorso di conflitto.
Dipende dunque da quale dimensione si riesce a far prevalere. Da sempre c’è una lettura dei
conflitti di classe, poi è venuto fuori il discorso di fare la storia dell’altro movimento operaio,
che tante volte è stata fatta più sul conflitto spontaneo che su questa capacità di muovere le due
cose.

C’è anche da dire che io, forse contrariamente a voi, vedo invece una debolezza in queste formule
organizzative proprio per l’esaltazione del conflitto: cioè, veramente noi dovevamo creare conflitto
o dovevamo creare invece coesione? E’ quello che dicevo prima, se avessimo continuato a lavorare
ovunque come abbiamo lavorato ad esempio a San Donato, creare realtà territoriali, realtà di
fabbrica che diventavano sostanzialmente egemoni, avessimo fatto più che mille fuochi mille realtà
alternative invece di puntare sempre ai conflitti, non avremmo prodotto qualcosa di diverso, ma
avremmo fatto qualcosa che nel momento in cui si decideva davvero di fare un conflitto mettendo
insieme tutte queste cose si riusciva a dare una botta più grossa. Io ho vissuto questo provare e
riprovare a provocare conflitto, questa ricerca costante del conflitto, come una pratica abbastanza
defatigante, una pratica in cui ogni volta dovevi dire se avevi vinto o se avevi perso, una coazione a
ripetere. A parte il fatto che il conflitto poi era delegato ad altri. Torniamo un attimo indietro. Negli
anni ’60 – la conricerca, secondo me, è funzionale a quanto dirò – eravamo convinti che dentro il
corpo della classe operaia ci fosse già intera la conoscenza della liberazione, la sapienza della
solidarietà, della coesione, della ribellione. Eravamo convinti che nel patrimonio genetico della
classe operaia ci fosse il conflitto come forma d’identità sociale, ma ci fosse anche una memoria
delle dure sconfitte e quindi una, come dire, “prudenza” che andava rispettata. Il tema della

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“passività operaia” per esempio, nessuno l’ha sviluppato come noi. Nella cultura comunista esso è
legato all’idea dell’opportunismo servile, dell’acquiescenza, del tradimento. Per noi i periodi di
“passività operaia” erano perfettamente integrati nei periodi di conflitto, di cui ne rappresentavano
una premessa. Ora, questo apprezzamento, questa comprensione verso la “passività operaia” non si
spiega se non dentro una visione del corpo sociale che attribuisce ad esso un’intelligenza collettiva.
Questa intelligenza è muta, oppure si manifesta con segni criptici, per capire come porsi al suo
stesso livello occorre appunto lo sforzo della “conricerca”, la costante dimestichezza coi problemi
della fabbrica, la conoscenza dell’ambiente, soprattutto di quello tecnologico, la conoscenza dei
sistemi disciplinari, la conoscenza o la comprensione dei linguaggi informali, dei metalinguaggi, la
conoscenza della storia. Una volta trovata la lunghezza d’onda giusta, stabilito un livello di
comunicazione accettabile, si può partire. Per dove? Per iniziare tutto il lavoro di forecasting delle
dinamiche interne, una volta conosciutene le leggi non scritte. Perché? Perché il tuo ruolo deve
essere quello dell’anticipatore, ma non nel senso tradizionale della “guida”, del “venitemi dietro”,
quindi dell’avanguardia comunista, ma quello del detonatore e, subito dopo, del comunicatore, di
chi socializza la lotta, la traduce in immagine, ne rappresenta il senso. E’ il momento
dell’autonomia della tua azione e della tua parola dal movimento reale. Quindi sono tre momenti, il
primo nel quale si sta “incollati” al soggetto collettivo, se ne sviscerano tutti i segreti, se ne mettono
a nudo tutte le risorse, il secondo in cui si studia il momento di piazzare il detonatore, il terzo il
momento della rappresentazione del conflitto e della sua socializzazione, in modo che contagi il
resto della società, che sedimenti qualcosa prima di essere bruciato o sconfitto, in modo che
deponga, si direbbe oggi, un “valore aggiunto” che viene incorporato dalla società, metabolizzato.
E’ una dinamica di accumulazione, si potrebbe dire. Non si può dire che ci sia una “direzione
intellettuale”, è una dinamica tutta diversa. Si può dire invece che si sviluppa “una tecnica”. Alla
figura dell’intellettuale (o dell’agitatore) che per me sa tanto di egocentrismo e di ciarlataneria, ho
sempre contrapposto – desiderando esserlo – la figura del tecnico. Forse non è mai stato notato ma
l’operaismo, oltre che una teoria, ha sviluppato una tecnica o delle tecniche (la “conricerca” è una di
queste). In questo senso a me pare che noi siamo stati degli intellettuali più moderni dell’agitatore
ottocentesco, che oggi ancora, tra l’altro, imperversa. Basta guardare lo stile, il tratto di alcuni
leader no-global. E la tecnica, se è di alta classe, richiede conoscenze sofisticate, non speranze o
entusiasmi, richiede sudore e rimboccarsi di maniche, applicazione, tenacia, precisione. Un
facilone, uno dalla parola facile e dal linguaggio difficile, non può essere un operaista.
Altra cosa quando il conflitto si dispiega e si riproduce per inerzia, diventa rituale. E’ il caso degli
Anni ’70. Quando diventa un modo di giustificare la propria esistenza. In quel caso lì l’operaista
deve per forza essere selettivo, andare controcorrente, quasi remare contro. Da un lato. Dall’altro
deve misurarsi con la complessità e la ricchezza del movimento, quando scopre che non è solo la
classe operaia a inventare la politica e la ribellione ma sono mille altri soggetti. Deve a questo punto
scegliere: o fossilizzarsi in un’ideologia, cioè indossare una divisa che lo distingua dagli altri,
restando vittima della logica gruppuscolare, oppure lasciarsi travolgere e invadere da quel che gli
succede attorno, far ricorso solo alla propria tecnica per trovare, elaborare e consegnare agli altri
“un senso” di quello che fanno. Anche questo procedimento non può essere chiamato “direzione
intellettuale”. Ripeto, è la tecnica che rende l’operaismo forte, duro a morire, resistente di fronte al
cambio di stagioni politiche, sociali, storiche – non è l’ideologia. E la teoria operaista senza la
tecnica non è nulla. Gli Anni ’70 quindi vanno sempre valutati per quel che hanno dato di
straordinario e di unico nella storia italiana ed europea e per quel che hanno prodotto di ciarpame, di
scimmiottatura della politica. Ma poiché le dottrine politiche sono fatte da uomini, non
dimentichiamo neppure che gli uomini e le donne “operaisti” non hanno sempre brillato di virtù. Ci
sono gli operaisti che hanno messo il vestito in naftalina appena una sezione del PCI ha loro aperto
uno spiraglio d’ingresso e gli operaisti che si sono sputtanati scambiando per azione rivoluzionaria
tanta spazzatura degli Anni ’70.
La cosa che non ho detto e che secondo me non va dimenticata è la dimensione internazionale,
questo operaismo italiano ha avuto una dimensione internazionale. Era un sacco di tempo che in

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questo cavolo di paese non si vedeva un pensiero politico che avesse una forza egemonica, sia in
Germania, su una parte dell’autonomia tedesca, ma anche in altri paesi. Tra l’altro è una cosa che
dura ancora, vedo che si riproduce anche adesso, in Spagna, o anche negli Stati Uniti, nell’America
Latina, ci sono magari dei piccoli gruppi. La diaspora seguita all’ondata di arresti del ’79/’80 ha
fatto la sua parte nel diffondere questo pensiero. L’operaismo è un boccone pesante da mandare giù,
non è una cosa che si liquida così, non è una cosa di moda con cui ci hai passato un periodo e via.
Questa dimensione internazionale non va dimenticata (alcuni dei migliori americanisti italiani bene
o male sono usciti da questa scuola), perché ci dava un’arma in più, una possibilità in più di
dialogare, ci dava uno strumento in più per comprendere le dinamiche del capitale e la soggettività
operaia. Tra l’altro questo aspetto dei rapporti internazionali è stato proprio seguito da me dentro
Classe Operaia quindi mi sono abituato sin dall’inizio a pensare che “o si riesce minimamente ad
avere una conferma a livello mondiale di certe cose, o si è fregati”. Per questo il maggio francese lo
abbiamo vissuto come una cosa nostra ed abbiamo saputo rappresentarlo con efficacia. Sono sempre
stato molto poco italiano, io, forse dipende dalle mie origini triestine. Le regole non scritte di questo
paese, di cui sono cittadino mio malgrado, mi sono sempre state ostiche. La dimensione
internazionale ha costituito un utensile essenziale della nostra tecnica di lavoro politico. Questa cosa
non è mai stata valorizzata, non si è mai fatta una riflessione seria, non si è mai fatto un bilancio,
non tanto della penetrazione delle nostre teorie all’estero, quanto del peso che la dimensione
internazionale ha avuto nella costruzione dei concetti base. Varrebbe la pena una volta di ricostruire
questa vicenda, perché secondo me rispunterà fuori e ci verrà restituita, ne sono convinto. Qua oggi
di queste cose e di queste nostre storie ne parliamo solo noi, altrove non è così.

- Una delle critiche più grosse che si può fare a Toni Negri è il discorso che lui ha fatto per tutti
gli anni ’70 sull’irreversibilità dei livelli di forza.

Da questo punto di vista è un esempio classico, lui è rimasto tale anche nelle cose che dice adesso
su Seattle, il conflitto come forzatura ma anche come elemento costituivo. Il conflitto come un
momento dell’identità, come “il” momento della costituzione, della politica, della costituzione della
classe. Il conflitto come atto costitutivo: questa per me è una forzatura. Questa concezione tra l’altro
attribuisce sempre grande valore alla visibilità. L’“altro” per essere tale deve essere visibile,
manifesto, e il suo conflitto quanto più è clamoroso tanto più gli conferisce un’identità, una divisa
inconfondibile. E’ da questo pertugio che rientra in gioco la logica tradizionale della politica. Io
preferisco l’immagine della trave mangiata dall’interno dal tarlo, preferisco un percorso non
visibile, non spettacolare, preferisco l’idea della crescita silenziosa di un corpo estraneo alla
visibilità che ti rende ostaggio dell’universo mediatico.

- Sul discorso che facevamo prima direi che è un problema di ricomposizione, non di conflitto:
dunque, il percorso politico in quanto riesce a ricomporre.

Sì, di coesione. E devo dire che tenere insieme e gestire le due cose quella sì è la politica: su quello
non si è riusciti. Sono stati sostanzialmente trent’anni di esperimenti, diciamoci la verità. Siamo
riusciti a portare a compimento questa cosa della Fiat nel ’69, che ha dato un indirizzo diverso ai
destini del paese nel decennio successivo e se uno ci pensa dice “diamine, riesci a portare a
compimento una cosa così, però non riesci a governarla”. E se ci pensi non avevi nemmeno gli
strumenti per governarla (o forse non volevi governarla) perché quello che avevi elaborato erano i
lineamenti di una scienza della dinamica della lotta operaia, che ti metteva in grado di fare da
detonatore, ma non avevi una teoria o una conoscenza del governo di un movimento di classe. In
quel senso lì è stata una scienza dell’esplosione, che rifiutava di esser anche scienza di un governo
delle lotte (meno comunista di così si muore). Tuttavia però, al tempo stesso, l’operaismo è
longevo, detto meglio, è una tecnica che ha dimostrato molto meno obsolescenza di altre, è un

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sistema di pensiero che ti consente di attraversare molte stagioni e di comprendere molti linguaggi
diversi. Gli altri hanno fatto fini miserevoli, non è che questo sia consolante. Ogni tanto ci penso e
mi chiedo se sia un caso che in quel poco che c’è nelle generazioni successive la memoria
dell’operaismo sia forse la sola rimasta del retaggio Anni ’70. Chi si ricorda di Lotta Continua, se
non la politica e la cultura ufficiali? Ci sarà ben una ragione se trent’anni dopo l’operaismo riesce
ancora a parlare ai giovani.

- Quello che dicevi tu prima è sicuramente vero, anche andando a guadare su Internet si vede
che a livello internazionale, dalla Spagna agli Stati Uniti all’Australia, c’è una notevole
attenzione e un grosso dibattito sull’operaismo, per alcuni versi addirittura più che in Italia.

Certe volte penso che quella di Potere Operaio sia stata una storia tragica, forse più di altre, poi in
realtà a guardare quella di altri gruppi c’è da cambiare idea. Si pensi a questi che hanno fatto le
grandi carriere nel sistema della comunicazione, noi avremo avuto i nostri Fioroni, d’accordo, ma
insomma non abbiamo avuto nessun figlio di puttana che ha gestito una rete televisiva! Anche la
vicenda di Sofri per certi aspetti è quasi più dilacerante che quella del 7 aprile, quando si pensa a
Gasparazzo-Marino. Alla fine degli anni ’70 uno guardava alla propria storia con una certa tristezza
e magari pensava più di una volta di aver sbagliato tutto. Oggi più vado avanti e più divento
indulgente con la mia storia, più sono portato a fare il paragone con la situazione di oggi, con questi
giovani rincoglioniti di shopping e di telefonini. E’ un fatto che l’operaismo non è scomparso dalla
memoria di quei segmenti delle generazioni successive che continuano a non volersi lasciar
omologare. All’estero non vanno dimenticati i paesi di nuova industrializzazione che in vent’anni
hanno dovuto bruciare le tappe di una storia del movimento operaio che da noi è durata cento anni.
Pensiamo alla Corea, per esempio, o all’Argentina. In questi paesi la novità della lotta operaia di
fabbrica, che rappresenta una dimensione recente del conflitto, porta a riscoprire l’operaismo. Io ho
tirato i remi in barca da qualche anno, però ancora di recente ho fatto delle esperienze in Messico
piuttosto che in Austria che mi hanno fatto percepire il grande interesse che c’è in giro per il mondo
ancora per la nostra storia. Molto ha voluto dire il rapporto con i radical americani e quando i tuoi
libri circolano nel paese egemone, circolano dappertutto. Se andate a consultare i cataloghi della
Public Library di New York trovate più titoli miei di quanti ce ne sono alla Sormani di Milano.
Eppure ho scritto davvero poco, se uno toglie gli articoli di rivista. Molto ha voluto dire il circuito
universitario. Quando i tuoi testi finiscono nella Biblioteca di un’Università, cioè in un sistema di
vasi comunicanti, oggi reso velocissimo da internet, fai presto a essere conosciuto. E questo per uno
come me, che non ama essere italiano, aver più amici ed estimatori all’estero che non in questo
fottutissimo paese, è una grande consolazione.
Ma quel che nessuno dice e che noi siamo troppo “spompati” per dire, è che il paradigma operaista
sarebbe oggi più applicabile che mai: pensa a come sta insieme il ciclo produttivo postfordista; è un
susseguirsi di catene di subfornitura, collegate tra loro in maniera virtuale dai linguaggi del
computer, in maniera reale dal sistema dei trasporti e dai lavoratori di questo sistema. Se si fermano
loro si ferma tutto. Hanno fatto tanto per creare un modello di accumulazione labour saving e son
finiti nella trappola di un modello transport intensive. Ci fosse in giro un Hoffa con lo spirito di
Lenin, accoppiato a un paio di buoni hacker, altro che talebani!

- Dal momento che tu conosci bene anche quella realtà, com’è la situazione in Germania? Anche
lì sembra esserci una frammentazione forte.

Non si può parlare della Germania in due parole. Per quanto critico sia oggi verso l’esperienza del
comunismo, quello tedesco ha avuto peculiarità che non possono essere dimenticate e per le quali,
come si vede da Nazismo e classe operaia, ho sempre provato interesse, rispetto e partecipazione
emotiva. La repubblica di Weimar è stata un periodo drammatico ma ho sempre pensato, a
differenza della lettura canonica, che sia stata un periodo di politica “estrema”, dove l’utopia e la

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speranza, l’ambizione e la tensione, sono state portate al massimo. Purtroppo se ne conoscono solo
alcuni aspetti, ormai ridotti a cliché, però davvero sono l’unico momento del Novecento in cui
ritrovo qualcosa degli Anni ’70, nel bene e nel male. Quando ho ricostruito l’analisi sociologica sul
lavoro autonomo, per esempio, ho scoperto un’altra faccia nascosta di Weimar che anticipa di
cinquant’anni i discorsi recenti. Ci siamo sempre lasciati guidare dal cliché del paese che rimane
isolato dal fordismo, che prolunga la fase pre-fordista sino all’avvento di Hitler. Invece è un paese
postfordista, un sistema di microimprese, di subappalti, di precarietà, di sistemi a rete. E qui il
comunismo in effetti fu un velo che rese ciechi, di un operaismo di maniera. Hanno capito meglio
questa realtà i sociologi del versante cristiano-sociale di quelli del versante marxista. Oppure quelli
con reminiscenze anarchiche. Leggere gli scritti di Lederer sulla condizione socialpsichica del
presente produce una grande impressione, perché è alla stessa altezza della Secessione austriaca
nella formulazione del paradigma del Moderno. Non c’è stato nessun paese europeo – nemmeno
l’America del 29 – a subire la miseria come il proletariato weimariano. Dimentichiamo che sulla
Germania, dall’inizio del secolo, si abbatté un’ondata di emigrazione dai paesi dell’est senza
precedenti, che ridusse le metropoli a livelli analoghi delle grandi agglomerazioni sudamericane di
oggi. Gran parte passò via e andò oltreoceano ma non dimentichiamo che la pelle bianca negli Stati
Uniti, a parte le componenti irlandesi e fiamminghe, l’hanno portata i tedeschi. E’ una
deformazione professionale, la mia, di certo. Cominciai a bazzicare la cultura tedesca dal ginnasio,
quando delle vicine di casa, le signorine Sacher, sì, Sacher come la torta, che abitavano due piani
sotto di noi a Trieste, mi diedero le prime lezioni di tedesco. Ma quando pubblicai la mia tesi di
laurea sulla Bekennende Kirche, quando tradussi Bonhoeffer, nel ’67, non avevo ancora chiaro
quale fosse il filone cui agganciare l’operaismo italiano. Voglio dire che nel periodo di Classe
Operaia non avevamo corrispondenti in Germania. L’”altra Germania” cui siamo stati legati fino ad
oggi nasce con il ’68. E rivaluta subito Weimar. Ma Dutschke passa via in fretta, senza vederci. E’
Proletarische Front il vero tramite con i radicali tedeschi che continua in parte sino ad oggi. E sono
gli Anni ’80 quelli in cui i miei rapporti con i neue soziale Bewegungen si fanno più intensi, sono
questi gli anni in cui si sprigiona la grande energia innovativa di una middle class che poi si spegne
nell’ondata un po’ sciovinista della riunificazione ed infine riafferma la sua volontà egemonica alla
metà degli Anni ’90, quando Kohl è travolto da “Mani Pulite”, e si aggancia al carro di Schroeder e
di Joschka Fischer. Roth è sempre stato molto critico verso questa middle class, rimproverando ogni
tanto la mia ingenuità; ha sempre ritenuto che negli “alternativi” si celasse un profondo
conservatorismo. Penso che abbia avuto ragione. Per quanto riguarda invece i gruppi
dell’Autonomia, ho perso i contatti da troppo tempo. E’ pur sempre una generazione che ha le radici
nel ’68. Continuano a leggere con molta attenzione le cose che si scrivono in Italia. Nessun rapporto
ho avuto invece con movimenti e gruppi politici nella ex DDR, mi dicono che persino il PDS abbia
una base sociale di grande interesse e Gysi è un politico di grande spessore e forse il più brillante
oratore del Parlamento tedesco, è uno spirito giacobino, assai poco comunista. Diciamo pure che mi
è interessata di più l’innovazione invisibile in questi anni. Solo gli imbecilli di casa nostra possono
dire che la Germania è un paese immobile, tradizionalista, incapace di adattarsi alla fantasia della
new economy, incapace di riforme e quindi “inceppato”. La Germania è il paese dell’innovazione
invisibile ma poiché come marketing è un disastro, vende di se stessa il cliché che le hanno cucito
addosso. Che vuol dire innovazione invisibile? Vuol dire che non è solo innovazione tecnologica o
del business, è innovazione dei rapporti sociali, del modo di vivere, del modo di prendere le
decisioni, è vedere problemi dove altri non li vedono e cercare di risolverli. Insomma noi siamo
succubi del paradigma tecnologico-scientifico quando parliamo di innovazione, mentre
l’innovazione che conta è quella nella gestione dei rapporti sociali, è l’innovazione
nell’amministrazione pubblica, è l’innovazione nel pensiero politico. Ma alla tua domanda iniziale,
è vero o no che oggi in Germania nell’area radical c’è molta frammentazione, no, non so
rispondervi, da troppo tempo guardo altrove, da troppo tempo non ho né cerco dei contatti con
quell’ambiente. Sono un apolide e non ho problemi di fidelity, né geografici, né ideologici.

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INTERVISTA AD ALDO BONOMI – 17 OTTOBRE 2000

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e quali sono state le persone e le
figure di riferimento nell’ambito di tale percorso?

Se devo interpretare il mio percorso lo faccio con due metodi, uno freddo e uno caldo: questo tanto
per capirci, il che poi significa un metodo tutto orientato ai principi di razionalità e un metodo
invece tutto orientato ai principi del sentire, come mi chiedete voi rispetto a una ricostruzione in cui
il pensiero viene coniugato a un discorso di biografia e quindi quando si ragiona di una biografia
non si può non coniugare il sentire e il pensare. Però, mantenendo questi due livelli di
interpretazione, che sono poi una retorica del discorso, non è altro che questo, io credo che il livello
freddo sia quello che mi fa dire che la categoria di interpretazione con cui vivo oggi è quella del
sincretismo biografico. Questo non è termine mio, a ognuno il suo, è un termine che ho preso da
Romano Màdera nel suo ultimo libro, L’animale visionario; fondamentalmente Màdera è uno che
tra noi ha usato molto di più e molto meglio la categoria del sentire (tra l’altro è uno che consiglio
di andare a sentire). Io credo che questa intuizione del sincretismo biografico sia importante perché
è solo attraverso un processo di sincretismo biografico che io riesco a tenere assieme
fondamentalmente tre o quattro cose: l’esperienza degli anni ’70, sociologia a Trento, il carcere e il
fatto di essere oggi un editorialista de il Corriere della Sera e uno che dirige un istituto di ricerca.
Insomma, è solo attraverso un processo di sincretismo biografico che riesco a tenere assieme tutte
queste cose che appartengono tutte quante alla mia vita, non ho fatto nessuna operazione di
rinnegamento da questo punto di vista. Però, è ovvio che tenerle assieme è assai difficile e lo si fa
solo con questo sforzo razionale in cui si cerca di tenere assieme due cose che sembrano
radicalmente opposte: essenzialmente quella che era la cultura extrasistemica e invece il massimo di
essere dentro il sistema, perché io faccio il sociologo e quindi so benissimo che il Corriere della
Sera non è l’ultimo luogo extasistemico di questo Paese, è un luogo sistemico.
Allora, come vedo il percorso e quanto la mia memoria degli anni ’70 ha inciso sulla cultura poi
successiva. Io credo che in mezzo, che fa da mediazione a questo sincretismo, sempre se lo
approccio attraverso la categoria della razionalità, ci vedo questa forma intermedia perché se no
altrimenti sarei diventato matto, non sarei riuscito a tenere assieme questi due opposti: la forma
intermedia è l’AASTER, con tutti gli annessi e connessi. Però, fondamentalmente io mi rendo conto
che questo sincretismo biografico è possibile perché alla fine degli anni ’70, negli anni ’80 io mi
sono percepito (e qui comincia anche una parte non solo di razionalità ma anche di sentire) sconfitto
come generazione antagonista o come generazione che aveva sognato di cambiare il mondo.
Ricordo proprio bene che la scelta definitiva avvenne dopo il 7 aprile, quando nei fatti viene messo
in galera un intero ceto politico; ma il 7 aprile è stato un evento scatenante molto di più di quello
che si possa immaginare perché è stata la ratifica che tutto ciò che era fuori dal sistema era
comunque illegale, è stata una delle cose più pesanti, ho preso atto che quella esperienza era finita e
mi sono ricordato fondamentalmente di tre cose. La prima è che dovevo comunque sopravvivere e
andare nel mondo, quindi mi sono ricordato allora che avevo studiato sociologia. Questa cosa che
per tutti gli anni ’70 non mi era servita perché poi se io ricordo i miei percorsi, questi sono stati: la
facoltà di Sociologia, poi sono venuto a Milano, poi sono entrato in Controinformazione, poi ho
fatto l’esperienza di Libri Rossi insieme all’area con Balestrini e tutti gli altri, ho fatto qualche
periodo con l'Autonomia Operaia, poi mi sono avvicinato all’esperienza di Alfabeta nella fase
terminale e poi alla fine questo discorso qui si è proprio concluso. Dunque, arrivando dentro questo
percorso mi sono reso conto per prima cosa che ero sociologo, quindi mi sono reso conto che avevo,
diciamo così, una mediazione di professionalità e non solo di militanza rispetto al mondo, e questo
mi pare importante. Una seconda cosa è che mi sono reso conto che probabilmente rispetto agli anni
’70 c’erano state due cose che avevano scavato nel mio profondo, e anche qui riemerge il sentire e
non più il processo razionale: il primo processo è che io mi sentivo e, devo dire, mi sento ancora
oggi responsabile, anche se so benissimo che dal punto di vista del diritto le responsabilità sono

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individuali e ognuno ha risposto negli anni ’70 a quello che individualmente ha fatto; ma dal punto
di vista politico le responsabilità sono collettive, e quindi io mi sentivo responsabile della sconfitta
di una generazione, o sconfitta di un desiderio politico. Perché è inutile dire palle, alla fine degli
anni ’70 quel grande movimento tumultuoso dentro al quale ci stava di tutto (dal radicalismo
politico al terrorismo alla lotta armata alle ambiguità ecc.), nei fatti era finito ed era sconfitto.
Quindi, una responsabilità politica di silenzio della politica che ho mantenuto da allora, tanto è vero
che io da dopo gli anni ’70 in avanti non ho più fatto politica nel senso tradizionale del termine, nel
senso di percepirmi come un soggetto dell’autonomia del politico. Questo a differenza di molti altri
che avete intervistato, penso ad esempio a Toni Negri o ad altri che hanno comunque continuato ad
essere soggetti di riferimento nell’autonomia del politico, io ho scelto la strada del silenzio rispetto
a questa cose. Ho scelto la strada del silenzio e della riflessione. Nello stesso tempo ho cominciato a
riflettere su dove si era sbagliato e fondamentalmente mi era parso che noi avevamo guardato (per
usare un linguaggio a me caro oggi e che allora non avevo) solo alla punta della piramide, alla punta
molto alta, con un chiaro concetto socialdemocratico (ciò inteso in senso proprio): avevamo
guardato solo alla punta della contraddizione delle dinamiche produttive, avevamo osservato molto
bene la Fiat, avevamo osservato molto il capitale, avevamo osservato addirittura (ci si figuri) le
forme dello stato imperialista delle multinazionali, cioè quella dimensione di vertice rispetto ai
processi. Avevo chiara la sensazione che molto della sconfitta stava nei fatti di non aver saputo
osservare il cambiamento reale che in questi anni era avvenuto sotto i nostri occhi. Quindi, noi
guardavamo alla punta della piramide pensando che nella punta della piramide lo scontro tra questi
due soggetti antagonisti e soggetti del capitale, lo scontro tra capitale e lavoro insomma, avrebbe
determinato fino in fondo i cambiamenti, mentre invece i processi di ristrutturazione erano
cambiati. Emblematico è che noi avevamo guardato alle lotte alla Fiat, all’occupazione della Fiat,
anche al corteo dei capi che era stato l’esatta simbologia rovesciata di questo processo, ma il vero
problema è che mi resi conto allora che dentro le mura il processo era svuotato e i veri processi reali
erano avvenuti fuori dalle mura. Fu allora che capii che se lavoro poteva essere fatto era quello di
ricominciare battendo il territorio, quindi introducendo questa categoria. Devo dire che ho
razionalizzato negli anni dal punto di vista di una teoria queste cose qua, se lo penso negli anni ’80
è stata una scelta molto più a naso, molto più spontanea. Tanto è vero che, finita questa esperienza,
avendo memoria dell’esperienza di sociologia di Trento, mi rivolsi agli unici ambienti che potevano
accogliere soggetti un po’ disperati, e questi in quell’epoca erano fondamentalmente un mix di
ambienti cattolici e ambienti tolleranti della cultura sindacale o altro: le due figure di riferimento
con cui incominciai a ragionare furono fondamentalmente l’esperienza della Corsia dei Servi e
Sandro Antoniazzi che era allora segretario della CISL. Questi mi diedero un “lavoro” all’Enaip, ci
si figuri, quindi un ente di formazione professionale, come si aiuta un reduce, un soggetto sconfitto
da questo punto di vista. Mi ricordo che, proprio partendo da questa intuizione, incominciai negli
anni ‘81-‘82 a fare l’operatore di comunità, lo feci per conto dell’Enaip in una vallata alpina a
Campo Dolcino, sono stato due anni a insegnare ai montanari come bisognava fare lo sviluppo
locale: quindi, si pensi un po’, un soggetto che aveva pensato di cambiare il mondo che poi si
ritrova in una vallata alpina a parlare di piccoli frutti, di allevamento delle capre, di agriturismo, di
problemi di questo genere. Però, ciò ovviamente dentro un problema di sviluppo locale, che erano
processi diametralmente opposti al problema della grande fabbrica, della grande impresa, dei grandi
conflitti, delle grandi polarità ecc. Soprattutto un ragionamento di questo genere andava nella
direzione delle periferie, non più nella direzione del centro: infatti, abbandonai anche fisicamente
Milano e Torino, che erano l’epicentro, i luoghi dove si leggevano questi processi, e cominciai a
fare per due anni questa esperienza di operatore di comunità. Dentro a questo discorso incominciai a
ragionare sulla categoria dello sviluppo, lo sviluppo locale, le forme di riaggregazione dei soggetti,
le forme comunitarie. Ovviamente il tutto con uno iato fortissimo con le categorie precedenti, che
erano fondamentalmente classe e conflitto. Da questo punto di vista, se vogliamo avere un
riferimento colto, era come il dibattito tra Lutero e Thomas Münzer: Thomas Münzer che stava
dentro i processi radicali del populismo e Lutero che stava dentro la Riforma, la modernizzazione, è

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un dibattito che si ritrova nelle categorie weberiane. Quindi, feci quei due anni di territorio, di
esperienza di comunità, devo dire in parte anticipando i tempi: questo dell’anticipo dei tempi è un
discorso che mi ha pesato ma anche a volte sottoposto a critiche, perché mentre io facevo questo
processo c’era ancora gente che andava avanti tranquillamente con un processo di conflitto e di
antagonismo. Insomma, se devo fare un parallelismo tutto dentro gli anni ’70, io ho fatto allora
quello che molti reduci della lotta armata hanno fatto dopo andando a lavorare al Gruppo Abele,
penso a Segio o ad altri amici che conosco, oppure a gente che oggi si occupa di tossicodipendenti,
per cui c’era un problema di questo genere. Feci allora questo e lo feci in maniera forse anche meno
esposta perché non andai a lavorare in una comunità di tossicodipendenti, andai a lavorare in una
comunità viva, in un territorio vero, ovviamente però portandomi dietro il desiderio.
Ho sottoposto a critica tutte le metodologie, eccetto una cosa che non ho mai sottoposto a critica: il
problema che bisogna studiare i processi reali affinché cambino i rapporti tra i soggetti, questo non
l’ho mai dimenticato e credo di non averlo dimenticato nemmeno adesso, anche quando scrivo sul
Corriere o quando dirigo l’AASTER o quando scrivo del distretto del piacere. L’attenzione ai
processi reali, ai soggetti, al loro mutamento è una cosa che ho imparato da lì. Devo dire che mi resi
conto, e questo è molto importante, che la mia professionalità non derivava certamente da quei
pochi anni passati a Trento in cui poi fondamentalmente il problema erano le fabbriche e non
studiare la sociologia, io qua dentro dico sempre come battuta che se c’è uno che non conosce la
metodologia della ricerca sociale o della statistica sono io, tanto è vero che ho fatto l’esame di
statistica davanti alla Ignis di Trento, quindi qualsiasi laureato che viene a lavorare per me qua
dentro mi insegna la metodologia in maniera molto più raffinata di quello che so io, dal punto di
vista proprio della professionalità. Però, mi resi conto che anche le professionalità venivano
dall’esperienza radicale di quegli anni. Io lo dico come battuta ma non è secondaria: quando tu hai
imparato a gestire un’assemblea oppure quando hai imparato a rispondere interrogato di fronte a
una corte d’assise, in cui a seconda delle risposte che davi dipendeva quanti anni di galera ti
prendevi, è chiaro che tu impari ad avere una capacità di comunicazione, una capacità di leadership,
una capacità di reggere l’impatto che è certamente un quid superiore, cioè dalla sfiga ti deriva un
quid superiore che altri non hanno. E siccome iniziavano allora i grandi anni della terziarizzazione,
dentro cui il processo tra capacità comunicative e capacità di muovere era fondamentale, è chiaro
che io mi ritrovai su territori in cui c’erano le mie capacità comunicative, la mia capacità di
mobilitazione, la mia capacità di fare inchiesta. Ricordo che secondo me una delle cose più belle
pubblicate da Controinformazione fu l’inchiesta alla Fiat sul primo numero, c’era proprio un grande
metodo rispetto a questo, grande attenzione, grande capacità di fare il metodo dell’inchiesta ai
soggetti; quando tu hai fatto inchiesta dentro le fabbriche, è chiaro che ti ritrovavi con una
professionalità aggiornata dal radicalismo della politica. Questa capacità aggiornata nello stesso
tempo si doveva però confrontare con delle cose incredibili, che erano fondamentalmente queste:
venivamo dagli anni in cui ad esempio noi avevamo avuto una rappresentazione del potere secondo
me veramente banale, lo dico recuperando le teorie foucaultiane della microfisica dei poteri.
Andando in quella vallata alpina che era poi la Val Chiavenna mi resi conto che cos’era la
microfisica dei poteri della Democrazia Cristiana ad esempio: noi pensavamo che i democristiani
fossero un branco di bastardi, cattivi, erano il male assoluto (adesso lo dico per cercare di far
capire), e invece lì scoprii che i democristiani erano fondamentalmente tessuto profondo di
mediazione e grande capacità di inglobare il processo. Nei fatti è quello che poi ha portato la
posizione leninista dell’assalto al palazzo d’inverno ad essere sconfitta, perché tu assalivi il palazzo
d’inverno e questo era un luogo vuoto perché i luoghi pieni erano quelli della mediazione sociale,
dentro i quali le classi venivano rimescolate. Sono tutte analisi ex post, perché poi negli anni ’70
queste cose non erano chiare. Allora scoprii anche quello dentro questo discorso, questa grande
capacità della mediazione sociale, questa grande capacità del potere della microfisica dei poteri.
Quindi imparai (altra cosa che sottoposi a critica) che il problema non era la punta della piramide
ma il potere era la microfisica dei poteri rispetto a questo.

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Quindi, in un mix anche qui sincretico, di sincretismo tra esperienza del territorio ed esperienza
della radicalità politica, in cui però il territorio e la mia esperienza di azione di comunità
rimettevano in discussione le categorie precedenti. Ovviamente la dimensione del silenzio aveva un
concetto molto preciso: nonostante tutto io non avevo dimensioni etiche di cui pentirmi rispetto a
quegli anni, nel senso che ne ho viste tante, ho visto magari anche cose che non si raccontano
perché comunque oggi non c’è ancora una riflessione critica su tali questioni e appartengono ancora
agli scontri tra commissioni stragi, balle e fantasie di questo genere ecc. Scelsi la via del silenzio ma
del silenzio con dignità, cercando di aiutare questa generazione che arrivava da questo punto di
vista. Mentre io ero a Campo Dolcino l’unica militanza politica che mantenni ancora la ricordo con
molto affetto, fu la militanza politica con Primo Moroni, che poi è stata una delle figure con cui ho
attraversato molto spesso gli anni ’70. Anche perché dopo l’esperienza di Controinformazione dove
fui arrestato fondamentalmente mi occupai di strutture di servizio, la Calusca era una struttura di
servizio così come Libri Rossi, cioè erano quelle strutture che stavano dentro il movimento senza
essere protagonisti ma con una dimensione culturale, ciò dal ‘75 in avanti. Anche perché
probabilmente, essendo stato uno dei primi che ha visto la dimensione della galera rispetto alla lotta
armata, forse ho anche capito prima (adesso questo non lo voglio dire) che forse quella era la strada.
Perché dopo il ’75, quando sono uscito di galera, le soluzioni erano molto semplici, o te ne stavi
zitto e da una parte oppure andavi in clandestinità: siccome io in clandestinità non ci sono andato la
scelta era molto chiara. Anche questo provocando magari sospetti, critiche, “ma come, questo se ne
rimane qua mentre invece la rivoluzione è alle porte?”: forse avevo capito che la rivoluzione non
era alle porte già allora. Però, non lo so, non lo posso dire perché non ho mai nemmeno scritto né
altro su questo. Comunque, in quegli anni lì, cioè negli anni ’80, con Primo Moroni riprendemmo in
parte in mano Controinformazione, da cui ero uscito dopo il carcere, e Controinformazione di
quegli anni se si vuole era un giornale che aveva incominciato ad anticipare la fine di questi
processi e diceva “va be’, cerchiamo di uscirne al meglio”, era quello che si poneva già il problema
del carcere, il problema della soluzione politica. Ci si ricordi che erano gli anni feroci del dibattito
tra quelli del 7 aprile, Do you remember revolution?, e i puri e i duri dall’altra parte, in cui se ne
dicevano di cotte e di crude; erano gli anni in cui ci si scannava dentro le carceri tra queste
posizioni, non erano cose facili da questo punto di vista. Allora, il problema era cercare un punto
della mediazione (vedete che ritorna fuori una parola di questo genere rispetto a queste cose qua),
questo furono gli ultimi numeri di Controinformazione, i quali ragionavano sia con Rossanda che
con Toni Negri e ragionavano anche con gli irriducibili. Una mediazione senza forza tra parentesi,
perché poi la mediazione era portata avanti da due sciagurati come me e Primo Moroni che non
avevano dietro niente, non erano soggetti dell’organizzazione. Però, da questo punto di vista era una
mediazione culturale, perché il problema era come si chiudeva mantenendo dignità. Questo mi pare
che sia il quadro generale.
Sempre da questa esperienza di due anni di lavoro di territorio capii due cose. Prima cosa, siccome
credo di non essere scemo, è ovvio che anche andando in una dimensione periferica come questa
alcune cose le intuii: intuii che mancava una connessione tra quelli che erano i bisogni sul territorio
e i processi di sviluppo che venivano dall’alto. Quindi, mi immaginai una figura di raccordo tra
dimensione locale dello sviluppo, dimensione locale dei soggetti e, diciamo così, i processi alti
dello sviluppo. E mi immaginai questa figura professionale dell’agente di sviluppo del territorio che
era fondamentalmente un soggetto che andava nel territorio e non più nelle fabbriche (attenzione,
questo è veramente importante, fuori dalle mura), e che partendo da questa dimensione territoriale
riconnetteva la domanda sociale o anche il conflitto sociale (non sono parole che mi fanno paura), o
il conflitto o la domanda o l’inclusione, le tre grandi variabile, rispetto ai processi più generali di
ristrutturazione e di cambiamento. Studiai questa figura professionale e, partendo da lì, feci una
prima esperienza di formazione di quelli che non si chiamavano ancora agenti per lo sviluppo del
territorio, questa sarà una denominazione che gli darà la Comunità Economica Europea negli anni
successivi, feci un progetto di tecnici per lo sviluppo del territorio. Si pensi un po’, rispetto alla
memoria di Controinformazione, la Fiat, l’Alfa Romeo ecc., partii invece dalle comunità montane

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della Lombardia: quindi, quelle aree di periferia del punto più alto in cui era caduta la
ristrutturazione capitalistica. Dunque, mi ritrovai per altri due anni a formare operatori dello
sviluppo. E devo dire che quando assunsi questa posizione e cercai di riconnettere le intelligenze
che potevano lavorare con me inevitabilmente vai alla tua storia, alla tua identità, se tu non l’hai
rinnegata ti ritrovi sempre rispetto a queste cose, è una scimmia ed un’opportunità
contemporaneamente. Quindi, ad esempio, quando feci il progetto di tecnici per lo sviluppo del
territorio lo inventai e lo diressi, poi chiamai a discutere di queste cose le reti di conoscenza che io
avevo sviluppato negli anni ’70, ed ecco spiegato perché nella prima fase di quello che poi
diventerà l’AASTER c’è un nucleo di persone che si “sfanga” la vita sopravvivendo dopo gli anni
’70. Dunque, ci ritrovi Aldo Bonomi più orientato ai problemi sociologici, Lapo Berti che era più
orientato ai problemi economici (anche Lapo aveva attraversato gli anni ’70 in un certo modo), c’è
Alberto Magnaghi che era uscito dalla galera dal 7 aprile, ma era uno che dalle esperienze degli
anni ’70 aveva colto prima di noi le problematiche del territorio essendo uno che lavorava dentro la
facoltà di Architettura, in Quaderni del Territorio ecc. C’era Ganapini, invece, che era un altro
“sciagurato”, non veniva dagli anni ’70, come noi, da una radicalità, veniva più dal PCI, ma aveva
sviluppato le posizioni ambientaliste, non dimentichiamo che le culture cominciavano a cambiare
da questo punto di vista; c’era Franco Gatti, che adesso è morto, era un collega di Alberto
Magnaghi, importante, bravo. Mettendo assieme questa struttura incominciammo a progettare per
conto dell’Enaip, e per conto della Commissione Europea, questo progetto di tecnici per lo sviluppo
del territorio. Io ormai ho cinquant’anni, credo che se faccio un’operazione di sincretismo
biografico la cosa importante è che devo dire che le sfighe a volte sono certamente dure da
affrontare, ma sono anche opportunità, faccio solo un esempio: se io non avessi avuto la sfiga di
essere segnato come estremista venendo da quegli anni, se fossi stato un professionista normale mi
sarei mosso nella dimensione locale, nazionale e avrei avuto opportunità, ma il vero problema era
che siccome qui eri un po' segnato a dito, diciamo così, le professionalità erano tutte occupate dai
famosi professori di sinistra, di sinistra per bene per intenderci, quelli che erano stati con il Partito
Comunista, con il compromesso storico, perché poi questo era, allora io fui costretto a scartare di
lato e devo dire che da questa sfiga venne fuori l’opportunità perché io andai a Bruxelles, e devo
dire che ci sono arrivato prima degli altri. Oggi come oggi la Commissione Europea è
fondamentale, nell’82-‘83 chi pensava che fosse un qualcosa che si occupava di agricoltura?
Insomma, era già importante allora, ma non aveva certo il ruolo che ha oggi. Quindi, andai a
prendere i rapporti con la Commissione Europea, non per intuizione teorica, dicendo “arriva
l’Europa”, semplicemente perché capii che i processi di legittimazione potevano venire prima da lì
che da altre situazioni in cui era più difficile.
Quindi, feci questa operazione verso l’Europa; una seconda operazione importante, che ha avuto poi
importanza nell’evoluzione della mia vita professionale ma anche politico-culturale, è che ad un
certo punto mi chiesi chi allora, mentre noi negli anni ’70 avevamo praticato le teorie che ho detto
prima, aveva invece continuato a studiare la dimensione del territorio, lo sviluppo locale, fuori dalle
mura, chi era stato fuori dalla mura e non dentro le mura dell’impresa: qui ovviamente la figura
emblematica ed importante è quella di Giuseppe De Rita, a cui mi feci presentare da un mio amico
frate, padre Camillo De Piaz, vedete come le reti di relazioni sono poi le reti di sopravvivenza. Il
mio amico frate mi disse: “Visto che fai questi lavori qua, dovresti parlare con De Rita”.
Ovviamente io sapevo chi era, il rapporto CENSIS già allora era un punto di riferimento per
chiunque masticasse un po’ di sociologia; mi ricordo ancora che andai da De Rita chiedendogli di
fare il comitato scientifico, di rappresentare il comitato scientifico di questa roba organizzata da
questi sfigati. Poi insomma io credo che se mettevi insieme Bonomi, Berti, Magnaghi e un po’ di
gente dei tempi, erano tutti segnati: Magnaghi veniva dal 7 aprile, Berti era l’unico che non era stato
in galera, io venivo dall’esperienza degli anni ’70, eravamo tutti un po’ segnati. Andai da De Rita e
devo dire che mi presentai a lui dicendo “sono questa persona qua, ho questa storia, sto facendo
questa operazione dei tecnici per lo sviluppo del territorio”. Mi ricordo ancora il primo incontro in
cui De Rita sorridendo mi disse: “Va be’, sei matto, mi sembra una cosa folle, io ho già provato a

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fare queste cose trent’anni fa quando facemmo gli operatori di comunità – stiamo parlando degli
anni cinquanta, erano operatori che andavano nella comunità locale, si occupavano di sviluppo e di
tutte queste cose – fu un fallimento; però, se ce la fai, prova, io ci sto a fare parte del comitato
scientifico”. Tanto è vero che mi ritrovai con questo progetto tecnici per lo sviluppo del territorio
che aveva come comitato scientifico De Rita, Lombardini e Mottura, ecco un altro che ritorna dei
Quaderni Rossi. Però, la componente dei Quaderni Rossi, era contaminata da che cosa? Dalla parte
del discorso dell’agricoltura pugliese, del territorio, Napoli, dalla parte napoletana, non solo Fiat,
cioè Mottura che è un’altra parte fondamentale. E questo “baraccone” con un progetto dell’Europa
formò venti tecnici per lo sviluppo del territorio di cui c’è ancora memoria qua, ho ancora le
ricerche, facemmo le ricerche su tutto il territorio delle comunità montane. Dal punto di vista
teorico scopersi allora il meccanismo della ricerca-azione, quella che Alquati chiama la ricerca
partecipata, nel senso che mi resi conto che una figura di questo genere, che era un mix tra un
militante, un professionista, un generalista, perché poi era un militante di territorio, per applicare il
meccanismo di ricerca doveva non più avere a che fare con il metodo quantitativo classico, i dati
statistici, ma doveva incominciare ad occuparsi del posizionamento degli attori, gli attori sociali
erano i nostri referenti, quindi ovviamente il problema era ricercare assieme agli attori sociali,
sviluppare un meccanismo di empatia e coinvolgimento con gli attori sociali e da lì andare avanti.
Quindi anche dal punto di vista teorico lì incominciai a ragionare sui processi della ricerca-azione
che per me sono stati un processo in cui ho riportato assieme il metodo dell’inchiesta di fabbrica
rivista rispetto al territorio e rispetto al problema del conflitto: l’inchiesta di fabbrica era solo
orientata a cogliere la dimensione del conflitto, la ricerca-azione era più ambigua da questo punto di
vista, nel senso che ovviamente accompagnava i soggetti all’inclusione, allo scambio, al conflitto,
ma anche a tante cose, quindi abbassare il tasso di ideologia interpretativa da questo punto di vista
fu assolutamente importante. Quello con De Rita fu per me il primo incontro con l’establishment
della ricerca, del potere, però anche qua un establishment né pecchioliano né accademico, ma
establishment che viene dalla cultura, di nuovo un mix tra cultura cattolica e comunitarista italiana.
Alla fine di questa esperienza di ricerca e formazione tra venti allievi, questo comitato scientifico
con tutti quanti noi assieme, nasce (siamo mi pare negli anni ‘83-84) il problema: “va be’, abbiamo
fatto tutto sto bel casino, adesso cosa facciamo?”. L’AASTER nasce lì, sotto forma di associazione,
nel senso che io, Berti, Magnaghi eccetera con un gruppo di nostri allievi che avevano fatto con noi
l’esperienza decidemmo di formare in primo luogo un’associazione culturale, Associazione Agenti
Sviluppo Territorio, e dopo di che di formare l’impresa. Apriti cielo! Formare l’impresa dentro la
cultura della sinistra significa diventare chissà che cosa. Anche qui anticipando i tempi, nel senso
che siamo negli anni ‘83-’84. Questa roba dell’anticipo dei tempi mi ha sempre portato dei problemi
di invidia, da quello che so (è una cosa di cui non me ne curo) ci sono anche malelingue rispetto a
questo, nel senso che quando tu sei un po’ troppo avanti vai incontro a queste cose. Mi ricordo
allora che tutti quanti dicevano “va be’, questi li abbiamo persi”, detto da dei compagnucci duri,
puri e forti che poi magari oggi lavorano per Berlusconi, questo fa molto ridere, che oggi si sono
venduti completamente e che però in quegli anni ti facevano un culo così perché dicevano “ah, ecco
qua, traditori della classe operaia, hanno fatto l’impresa nell’84, sono venduti al capitale ecc.”. Poi
si è visto nel corso degli anni chi si è venduto e chi non si è venduto, però questo è un problema di
cui ormai non mi occupo più; devo dire che sono cose che mi hanno fatto anche soffrire dal punto di
vista personale, sempre partendo dal punto di vista della passione. Comunque, ci demmo la forma
impresa, senza nessun problema, e la forma impresa del lavoro autonomo e del lavoro indipendente.
Siamo nell’84, quando nessuno pensava a questa cosa qui, anticipando i tempi: si pensi a quante
sono oggi le forme di autorganizzazione sociale rispetto a queste cose. Faccio solo un inciso: devo
dire che questa mia esperienza fu quella che mi convinse di avere delle cosa da dire a un certo
punto, negli ultimi anni di vita di Primo, quando questi (che lavorava all’AASTER, che stava dentro
questo processo qua) mi convinse, siccome io avevo perlomeno intuito quello che stava avvenendo
dentro i centri sociali, di porre questa famosa questione, “centro sociale: impresa o ghetto?”. Apriti
cielo anche lì: il vero problema è che poi oggi come oggi i centri sociali sono tutti imprese ben

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dialoganti con i poteri, molto di più di quello che magari dialoga l’AASTER, nel senso che essa non
ha rapporti politici e istituzionali, ha rapporti di mercato e professionali, ma ne ha molti di meno di
quelli che ha un centro sociale. Nessuna critica da questo punto di vista, è una cosa normale, però il
vero problema derivava poi da questa esperienza precedente la cultura per poi porre questi problemi
che mi pare siano stati posti negli anni ‘94-’95, non mi ricordo più nemmeno esattamente, anche
perché avevamo fatto queste cose dieci anni prima. Il vero problema è che non è che ci abbiamo
ragionato tanto intorno teoricamente, l’impresa era innanzitutto la forma di sfangarsi la vita, perché
tutti quanti dovevamo lavorare, è oggettivo. Ricordo che la prima ricerca che prese l’AASTER era
una ricerca di 20 milioni dalla Provincia di Como e su quei 20 milioni ci stavamo in dieci: ci si
rende conto che era ovviamente la spartizione della miseria. Era un contenitore di sopravvivenza in
primo luogo, perché dovevamo sopravvivere, erano anni bui in questo Paese, erano anni in cui eri
appestato, eri segnato a vita, erano anni difficili se non ti eri pentito o se rispetto al grande dibattito
giudiziario te ne stavi anche solo zitto, nel senso che dicevi “va be’, c’è stata una grande tragedia
collettiva ma dentro alla quale i conti si fanno in altra dimensione, non andando a”. Quindi, luogo di
sopravvivenza anche economico, se si vuole usiamo pure il termine luogo di mutualismo. Credo di
non essere smentito da tutte queste persone perché poi è stato un luogo di mutualismo per ciò che ha
potuto fare, nel senso che è stato un luogo di mutualismo che ha dato a Magnaghi appena uscito di
galera un posto, poi egli negli anni successivi ha riposizionato la sua posizione e oggi è un barone
accademico di Firenze, però in quegli anni aveva bisogno di un luogo in cui potesse ricominciare a
parlare e a dire le proprie opinioni. E’ stato un luogo di transizione anche per Lapo Berti, credo che
nessuno ne parlerà male perché è stato un luogo in cui avevamo la sopravvivenza, quei pochi soldi
sono stati garantiti per cui poi arrivi magari all’Antitrust o ti posizioni meglio, in maniera un po’ più
consolidata: ogni tanto adesso incontro in via Veneto Lapo Berti ben vestito come sono ben vestito
io, ma c’è molta dolcezza in questa cosa qui, perché c’è stato un meccanismo di questo genere. E’
stato un luogo di sopravvivenza anche più radicale, nel senso che noi abbiamo cercato per quello
che potevamo di ospitare qui gente che usciva di galera in quegli anni: insomma, dentro l’AASTER,
poi se ne dimenticano, però c’è passata la Besuschio, nel senso che noi l’abbiamo tenuta qua su
raccomandazione della Rossanda. Non è stato facile devo dire, perché ovviamente è chiaro che non
è che la Besuschio andava in un luogo sconosciuto, la magistratura poi ti chiamava e ti diceva: “Sì,
va be’, Bonomi, lei non è che ha un’impresa, noi sappiamo chi è lei”. Hanno lavorato qua la
Besuschio, la Grazia Drena, sono passati anche compagni così, in questo cercando con molta
difficoltà di esprimere meccanismi di solidarietà rispetto a quegli anni lì, e l’impresa era un
contenitore che dava questa solidarietà. Io non mi pento di queste cose qua, devo dire che sono state
scelte giuste comunque. Dunque, uno è stato un luogo di sopravvivenza; due, cosa ben più
importante, è stato un grande punto di osservazione. Quali erano i punti di osservazione? Non ne
avevi più, non esistevano più i gruppi, non esistevano più le organizzazioni, non esisteva più il
partito, entrava in crisi la politica, questa era già entrata in crisi ben prima del crollo del muro di
Berlino da questo punto di vista per noi, non c’erano più i giornali, non c’erano più le riviste ecc.
Dovevi avere un punto di osservazione, ognuno cercava di farsene uno, in tanti modi, sono gli anni
in cui cominciano a fiorire tante microesperienze di osservazione. L’AASTER era certamente un
luogo di osservazione, di che cosa? Delle dinamiche sociali, tanto è vero che allora ci lavorava
Moroni, ci lavoravano tante persone. Terza cosa, incominciava ad essere anche un luogo un po’ più
strutturato, ovvio, iniziava anche ad essere un laboratorio di esperienze. Dentro il quale si discuteva
moltissimo, perché ricordo che dentro l’AASTER, dentro la forma impresa c’era uno scontro, è
inutile dirlo: lo scontro tra la posizione più ambientalista rappresentata da Alberto e la posizione più
di sviluppo rappresentata da me, c’era questo dibattito, poi alla fine si è sciolto nel senso che
Alberto è andato avanti per la sua strada e io sono rimasto all’AASTER e l’ho portata avanti.
Quindi, c’era questo discorso qua, grandi dibattiti, grandi discussioni, comunque quello è stato un
contenitore importante che ci ha permesso di attraversare gli anni ’80 ed arrivare agli anni ’90. Non
c’è dubbio che quella è stata un’esperienza anche di grande solidarietà, la ricordo come
un’esperienza di solidarietà che ha redistribuito reddito e, tra parentesi, ha messo assieme anche più

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generazioni, perché poi dopo l’esperienza di tecnici dello sviluppo ne facemmo un’altra di agenti di
sviluppo in area metropolitana con il progetto Marozia. Quindi, ero andato in Val Chiavenna e alla
fine ero tornato a rileggere i processi delle aree metropolitane, perché ad un certo punto facemmo
questo programma Marozia di agenti di sviluppo per aree metropolitane con la Regione Lombardia.
E ricominciammo ad analizzare la composizione sociale cambiata della metropoli, quindi dentro il
discorso degli anni ’70 da questo punto di vista e di rivisitazione di questo. Queste furono le grandi
operazioni degli anni ’80.

- A metà degli anni ’80 avete fatto anche una ricerca dal titolo La paura operaia.

Quando noi tornammo a Milano, dentro a questo, ad esempio, facemmo questa ricerca sulla paura
operaia, la facemmo io e Lapo sui cassaintegrati dei corsi delle 150 ore e ci accorgemmo come il
soggetto si percepiva. Ricordo allora, credo che l’abbia detto anche Lapo, che quello che ci aveva
colpito erano queste frasi che dicevano: “Siamo come gli ebrei, ormai siamo nei campi di
concentramento". Quindi, questa soggettività radicale che era il soggetto di riferimento degli anni
’70 la trovammo completamente distrutta dai processi di ristrutturazione, perché dentro le mura
c’era il vuoto e tutti i processi erano fuori dalle mura. Tendenzialmente noi negli anni ’90
scoprimmo i distretti industriali, i distretti produttivi, i microsistemi produttivi e poi ci ritrovammo
a fare i conti con la paura operaia. Devo dire che maliziosamente io e Lapo ogni tanto ci ricordiamo
ancora di una cosa: noi eravamo più malmessi di Gad Lerner, perché questi mi ricordo che allora
stava a Radio Popolare, venne da noi, gli demmo la ricerca, gli demmo anche l’idea e scrisse il libro
sugli operai Fiat che fu la sua fortuna da cui andò avanti. Ogni tanto quando io e Lapo ci vediamo
diciamo sempre: “Ci ha fottuto bene allora Gad, ci ha preso l’idea, ci ha preso la ricerca”; però,
allora noi questo potevamo fare, senza nessuna acrimonia, era normale, non ho nulla da dire, Gad
Lerner in quel momento era posizionato meglio di noi, lo è ancora oggi da questo punto di vista, è
rimasto un amico.
Devo dire a onor del vero che in quegli anni ’80 una figura che io ricordo, e mi pare giusto dirlo,
non ho nessun problema a dirlo anche se adesso è in Forza Italia, che ebbe un ruolo importante
rispetto a questi processi fu Sergio Scalpelli. Questi era allora il direttore della Casa della Cultura di
Milano ed era l’unico punto di riferimento che incominciò a dare legittimazione agli esclusi degli
anni ’70. Fu anche una figura importante di “garantista” in un’epoca in cui il vero problema erano i
forcaioli, poi i forcaioli li vedremo dopo come riappaiono ai tempi di Tangentopoli. Quindi,
tornammo a Milano e ricominciammo a dialogare con la città, ma l’unico punto di dialogo con la
città che avemmo fu questo qua, la Casa della Cultura, diretta allora da Sergio Scalpelli: lì ricordo
che potemmo fare dei dibattiti in cui presentavamo le nostre cose, quindi ricominciammo ad avere
uno spazio pubblico. Ricominciammo a dialogare con la città e ricominciammo a dialogare anche
con la sinistra, diciamolo chiaramente, e non solo: i luoghi erano fondamentalmente due, la Casa
della Cultura e la CISL di via Tadino dove era segretario Sandro Antoniazzi. Ricordo allora che
organizzai un dibattito con Giuseppe De Rita e Rossanda in cui si ragionò degli anni ’70, dei
problemi dello sviluppo ecc., ma si ragionò anche dei problemi dei detenuti politici e via dicendo:
quella fu un po’ la sintesi. Devo dire che un’altra persona che ci seguì con interesse in tutta questa
esperienza fu Rossanda: nascono da allora le mie frequentazioni con lei, che fu molto attenta a
questo. Rossanda ci seguì da due punti di vista: ci seguì dal punto di vista della solidarietà, nel
senso che credo che al di là degli scazzi che io ho con lei (è ormai noto l’abisso che c’è tra me,
Revelli e Rossanda sul problema del lavoro, del lavoro autonomo, dibattito ormai chiaro a tutti),
però non ci siamo mai scannati perché io ho un grande ricordo di Rossana (ce l’ho ancora) come
persona che capì questi processi qua e credo che lei abbia un ricordo di me di una persona che è
stata solidale rispetto ai processi. Quindi, c’è un grande rispetto, pur nelle differenze, perché poi lei
rimaneva una che secondo me non ha fatto i conti fino in fondo con quelle categorie degli anni ’70
con cui io probabilmente li ho fatti; non ha fatto fino in fondo i conti con la socialdemocrazia,
oppure diciamo che non ha fatto i conti fino in fondo con il comunismo da questo punto di vista.

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Dunque, questo è fondamentalmente il tratto con cui attraversammo gli anni ’80. Gli anni ’80 sono
gli anni della sopravvivenza, del punto di osservazione e del ricominciare a sviluppare una tua
teoria dei processi, perché poi non dimentichiamoci che, stando dentro la dimensione del territorio,
facevamo le ricerche sulla paura operaia, sui distretti, sui meccanismi di sviluppo, incominciammo
ad occuparci allora del Mezzogiorno, iniziammo cose di questo genere, insomma la storia è
complicata, ne abbiamo fatte tante. Però, gli anni ’90 sono stati invece gli anni dell’attraversamento.
Sono stati difficili perché sono stati gli anni in cui rispetto al meccanismo della memoria ormai
questa non c’era più, nel senso che inizia allora la soluzione individuale rispetto ad essa. Sono
anche gli anni del rampantismo, del gene egoista dell’impresa, i tardi anni ’80 sono tutti quelli in
cui la cultura egemone diventa la cultura imprenditoriale, i master alla Bocconi. Quindi, anche per
una struttura di nicchia basata sul territorio sociale e composizione sociale, che poi è territorio,
problemi sociali e problemi di mutamento della composizione sociale come l’AASTER, divennero
anni difficili, nel senso che eravamo veramente minoranza. Però, li attraversammo ed io pensai, e lo
dissi anche ai miei colleghi con cui lavoro, che questo era un ciclo che non sarebbe durato molto,
che poi sarebbe riemersa la grande questione sociale nel mutamento di questo Paese, che poi è
esplosa negli anni ’90.
Negli anni ’90, sempre dal punto di vista biografico, è importante tener conto che De Rita diventa
presidente del CNEL, e poiché io non avevo mai smesso i miei rapporto sodali, di scambio, di
comunicazione con lui, questi mi chiamò al CNEL e, per essere chiari, mi disse: “Caro sciagurato,
ce l’hai fatta, sei sopravvissuto, quando ti avevo incontrato negli anni ’80 ti avevo detto che eri
matto, che questa operazione di fare gli operatori di comunità era già fallita”, mentre invece gli
agenti di sviluppo incominciavano ad essere una realtà, si tenga presente che oggi fanno tutti corsi
di agenti di sviluppo, dappertutto, lo sviluppo locale ormai è dentro i programmi della Comunità
Economica Europea, negli anni ’80 questo non avveniva. Quindi, lui mi disse: “Io avrei bisogno di
te, visto che sono diventato presidente di questa istituzione, per riconnettere questa istituzione al
territorio, e l’AASTER potrebbe darci una grande mano perché potrebbe essere il soggetto che ha il
polso della dimensione del territorio, della composizione sociale ecc.”. Dunque, De Rita mi chiamò
nel ’90 e mi disse: “Vuoi fare per noi la prima conferenza nazionale sull’immigrazione?”. Si tenga
presente che la prima conferenza nazionale sull’immigrazione aveva come committenti il presidente
del Consiglio che si chiamava Andreotti, il vicepresidente del Consiglio che si chiamava Martelli e
De Rita che era il presidente del CNEL, a cui era stata affidata tale conferenza. Da allora io usai la
rete di territorio che mi ero costruito negli anni ’80 incominciando a fare inchiesta in tutto il Paese,
mi ricordo che andai da Como fino a Trapani. Questo percorso fu una cosa molto bella, fu una delle
ultime cose che feci, diciamo così, di ricerca vera, nel senso di ricerca in prima persona perché
ormai poi, essendo diventato vecchio, molto spesso mi ritrovo a dirigere le ricerche degli altri ma a
non farle più in prima persona. Però, mi ricordo che allora io, Moroni e un gruppo di giovani
partimmo da Como e facemmo gli incontri con tutte le comunità degli immigrati negli anni ’90-’91.
Facemmo un rapporto che ritengo che sia una delle cose più belle che abbiamo fatto, come La
paura operaia era una delle cose più intuitive che facemmo quando tornammo a Milano oltre a
questi bei rapporti sullo sviluppo locale delle comunità montane e via dicendo: il titolo di questo
rapporto era Riconoscere e riconoscersi, cioè riconoscere il nuovo che avanza nella composizione
sociale e riconoscersi, quindi ricambiare il proprio posizionarsi. Questo è un grande racconto di
cosa erano le comunità degli immigrati nel ’91 da Como a Trapani. Si tenga presente che questo era
un Paese che non si percepiva ancora come Paese di immigrazione ma si percepiva ancora tutto
come Paese di emigrazione, e oscillava in continuazione (il che sarà poi una questione aperta, non
risolta ancora oggi) tra buoni sentimenti e sentimenti di bastardi da questo punto di vista. Facemmo
questo grande racconto e portammo gli immigrati alla conferenza con il governo; se si vuole,
sempre tornando ai sentimenti, quando mi sentii rilegittimato rispetto alla sfiga, all’emarginazione,
fu quando, nella conclusione della conferenza, di fronte a 2000 immigrati, al governo ecc., il
presidente del CNEL chiudendo la conferenza disse: “Un ringraziamento particolare ad Aldo
Bonomi che è quello che ci ha permesso, andando in giro per il Paese, di fare una conferenza

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partecipata”. Devo dire che quella fu la prima ed ultima conferenza sull’immigrazione, non ne ha
più fatte questo Paese, ha fatto solo le leggi, non è più stato in grado di dialogare con i soggetti;
tanto è vero che con De Rita riprovammo a rilanciare una seconda conferenza ma non ce la si fece a
farla. Devo dire che a quella conferenza lì c’era anche Moroni, andavo proprio in giro a fare questo
lavoro qua, fu un’esperienza esaltante nel senso che cominciammo a capire che c’era il sociale che
veniva avanti. Con una seconda cosa: non ci si dimentichi che noi eravamo territorializzati (che non
è una brutta parola, come una volta si era fabbrichizzati noi eravamo territorializzati fuori dalle
mura), quindi l’altra seconda grossa intuizione è che stando sul territorio vedemmo prima degli altri
la nascita della Lega. La cosa nacque anche così, ricordo che allora mi chiamò sempre De Rita e mi
disse: “Qui nel governo (e quindi Amato, Andreotti ecc.) non hanno capito niente, cos’è questa
Lega, cos’è questa roba? Tu sei l’unico in questo senso che può spiegarlo”. Vedete che tornano
fuori le comunità montane, io incominciai a fare ricerca negli anni ’80 nelle comunità montane della
Lombardia dove nacque la Lega negli anni ’90: dunque, quella dimensione di sviluppo territoriale,
di periferia ecc., era un luogo che avevo presidiato e quindi vidi il nascere del fenomeno del
leghismo, che non è un fenomeno di arretratezza ma è un fenomeno del moderno che viene avanti.
Quindi, scrissi un primo saggio di 80 pagine con un po’ di ricerca sul fenomeno della Lega, lo
presentammo a Milano e anche lì Gad Lerner arrivò (vedete che poi ci sono sempre le figure che
tornano), fece quell’articolo su L’Espresso in cui De Rita, presentando affrettatamente la mia
ricerca, disse una frase che è poi rimasta storica e che era: “Va be’, ma che volete, comprateli se
non riuscite a contrastarli”, e da lì ne uscì un grande casino.
Quindi, negli anni ’90 noi ci posizioniamo su queste due cose qua: nuova composizione sociale e
immigrazione e il fenomeno leghista che veniva avanti dal territorio. Se si legge l’opuscolo su
Haider che abbiamo pubblicato dalla Bollati Boringhieri si vede che è la sintesi di dieci anni di
lavoro su questi problemi qua. Oltre a queste due c’è una terza cosa importante ed è che, partendo
dalla nostra condizione soggettiva (perché non ci si deve dimenticare che noi eravamo e siamo tutti
partite Iva), cominciamo a porre la terza questione: la questione del lavoro autonomo e del lavoro
indipendente. Questi sono stati i tre grandi temi degli anni ’90: immigrazione, Lega e composizione
sociale. Questi, coniugati in forma colta, danno origine a tre rapporti che mi sono molto cari:
sull’immigrazione abbiamo fatto i rapporti per il CNEL, sulla Lega siamo andati avanti perché poi
con De Rita ci occupammo della questione settentrionale. C’è un tomo di ricerche in cui ci
occupammo di tutti i problemi della questione settentrionale, problema che nasceva nella parte più
moderna del Paese, e la questione settentrionale la affrontammo come sempre andando a vedere la
competizione delle imprese, la crisi della rappresentanza, la crisi del sindacato, di Confindustria, dei
CNA, le autonomia locali, i sindaci, le autonomia funzionali, le camere di commercio, i processi del
lavoro e le banche. Facemmo un rapporto, lavorammo per cinque anni su questo, credo che rimarrà
alla storia perché chiunque vorrà capire quegli anni dovrà andare a rivedersi quel cofanetto del
CNEL in cui ci sono tutti i racconti di questi soggetti sulla questione settentrionale, ma parte dalla
questione del leghismo. L’esperienza e il ragionamento sul lavoro autonomo porta poi ad affrontare
il progetto Moriana, che conoscete, è inutile che ne parli. Anche lì si tratta di un cofanetto in cui c’è
ormai tutto quello che siamo riusciti a capire del lavoro autonomo in sette metropoli europee,
Valencia, Berlino, Parigi, Milano, Napoli, Torino e Genova. Negli anni ’90, sempre facendo
professione perché io allora lì sono il direttore dell’AASTER, sono al CNEL e faccio queste cose
qua, un altro incontro importante di recupero dalla memoria è l’incontro con Marco Revelli, che
veniva da quella storia lì: vedete che poi gli ambiti di riferimento sono questi. Se si vuole vedere il
problema è che non è cambiato nulla, nel senso che il comitato scientifico, o il gruppo pensante
degli anni ’80 era Magnaghi, Lapo Berti, Bonomi, De Rita, Lombardini, Mottura, con quelli
iniziammo a fare questo discorso qua. Poi ognuno ha fatto la sua strada, nel senso che giustamente
le persone crescono e quindi ci sono anche altri spazi, come l’esperienza dell’Antitrust per Lapo.
C’erano importanti forme di solidarietà minuta, Magnaghi andò a fare l’accademico ma continuò a
discutere di questo, tanto è vero che continuiamo a dibattere, l’ultima volta ricordo che c’è questa
cosa che è pubblicata dall’Università di Torino ed è una riflessione sullo sviluppo locale tra me,

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Magnaghi e De Matteis, in cui ci siamo rivisti a discutere di questi problemi. Se si vuole la rete
degli anni ’90 è poi quella che è il comitato scientifico di Moriana, in cui ci sono Revelli, Carlo
Formenti, che è un altro che viene da lì, Enzo Rullani, un altro che si occupa di sviluppo locale del
nord-est. Quindi, la rete dei saperi è rimasta dentro questo grande percorso dagli anni ’70 in avanti.
Negli anni ’90 un’altra delle cose fondamentali su cui l’AASTER è cresciuta è il terreno dello
sviluppo locale. Quello che era un discorso apparentemente di minoranza negli anni ’80 diventa di
notevole rilevanza sia a livello europeo sia a livello italiano. Dal rapporto con la Società per
l’Imprenditorialità Giovanile e dal mio lavoro per il CNEL nacque la grande impresa delle Missioni
di Sviluppo, costruite in quelle che si possono definire le aree tristi (quelle dell’osso e non della
polpa, per usare un’espressione di Rossi Doria), in zone di emarginazione e di degrado (il quartiere
Zen di Palermo, per esempio). Erano due gli obiettivi che si ponevano le 16 Missioni di Sviluppo
costruite su tutto il territorio: promuovere lo sviluppo locale e favorire l’autoimprenditorialità.
Quindi, si può vedere come questi due temi, che sempre hanno accompagnato l’AASTER fin dalla
sua nascita, si siano imposti come argomenti grossi e importanti. Da qui venne fuori anche il
discorso del Prestito d’Onore: si tratta infatti di una mia idea di cui discussi con Carlo Borgomeo, il
quale va citato come una delle figure per me importanti in questi percorsi. Voglio ricordare, infine,
l’esperienza dei patti territoriali al CNEL di De Rita, questione di cui oggi mi sembra si possa
facilmente verificare l’importanza.
Per chiudere con un bilancio. Si vede che il mio sincretismo biografico è dentro questa cosa qua, è
un mix di cultura degli anni ’70 rivisitata criticamente negli anni ’80 e rivisitata negli anni ’90,
questo è il percorso. Dopo di che negli anni ’90, dirigendo un istituto di ricerca, avendo un punto di
osservazione un po’ più qualificato, mi posi il problema di comunicare un po’ di più perché poi, se
c’è una cosa che abbiamo sempre avuto come metodo, le ricerche dell’AASTER le conoscono in
pochi, le conosce una rete che ha frequentato questi luoghi e i committenti con cui abbiamo
lavorato; allora pensai di aver accumulato un po’ di cose da poter dire all’esterno. Scrissi dunque i
due libri che sono Il trionfo della moltitudine il primo, edito da Bollati Boringhieri, in cui
ricominciavo a pensare in forma politica e culturale, mentre prima pensavo solo attraverso quello
che facevo tanto per capirci; il secondo è stato Il capitalismo molecolare, in cui c’erano tutti i
percorsi di ricerca che avevo fatto. In più c’è Il manifesto per lo sviluppo locale con De Rita, in cui
riprendevo il dibattito con Magnaghi. Ciò fino all’ultimo libro, più estremo e che però è
contaminato dalla riflessione sul lavoro autonomo, ed è Il distretto del piacere, se uno lo legge
capisce benissimo che la sostanza del problema è la forma del lavoro autonomo, poi incardinata in
un distretto dell’ipercomunicazione. Dopo che ho scritto Il capitalismo molecolare, anche qui per
onor del vero senza che nessuno mi presentasse, il Corriere della Sera mi chiese se volevo
collaborare: dissi di sì, mi ritagliai lo spazio, da cui non mi sono mai mosso, sul Corriere
Economia, in cui faccio ogni tanto degli editoriali che riguardano poi i problemi dello sviluppo,
della questione sociale ecc. I maligni pensano che, siccome ci scrive De Rita, io sia stato presentato
da lui, non è vero, sono stato chiamato da loro dopo il successo de Il capitalismo molecolare. Devo
dire che è dentro questa produzione libresca che a un certo punto si consolidarono i rapporti tra me
e Marco Revelli, che poi è entrato nel comitato scientifico di Moriana, e abbiamo cominciato a fare
un po’ i bibì e i bibò: sono gli anni in cui scrivemmo su Il Manifesto tutti i grandi temi del
postfordismo. Però, anche qui i grandi temi del postfordismo precipitano in un altro lavoro
dell’AASTER, che è quello che abbiamo fatto per il CNEL ed è il tomo sul postfordismo, che è il
convegno fatto a Brescia. Dentro questo discorso di territorio l’altra rete che agganciammo fu quella
della Fondazione Micheletti di Pier Paolo Poggio. Tanto è vero che se oggi penso qual è il capitale
sociale dell’AASTER, intendendosi per capitale sociale una rete, questa è una rete che parte da
Torino dove ci sta Marco, ci sta Alfredo Salsano della Bollati Boringhieri; ad esempio io oggi sono
molto più torinese di quanto sia milanese dal punto di vista del riferimento culturale, nel senso che
io sono nel comitato scientifico dell’Einaudi, pubblico spesso con la Bollati Boringhieri e discuto
molto con Salsano, Revelli, De Luna, questo quadro torinese. In questa rete c’è Milano, dove c’è
l’AASTER, quindi Carlo Formenti e gli altri. Devo dire che a Milano con la scomparsa di Moroni

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io mi sono molto ritirato a vita privata, nel senso che Primo era poi (penso di usare una parola dolce
nei suoi confronti e non una parola brutta) anche il mio mediatore sociale rispetto a questo: io
lavoravo, facevo ricerche ecc., dopo di che lui mi mediava con le forme di quello che era rimasto
dei movimenti, socializzava i materiali dell’AASTER che si trovavano in Calusca. Su quello
nascevano delle leggende metropolitane, tutti quanti a dire “ma chi cavolo è l’AASTER?”; so anche
che i cattivi dicono “dove pigliano i soldi questi che sono uno dei più grossi istituti di ricerca?” ecc.
Li si lasci dire, i soldi vengono dai committenti, dalle cose che facciamo, dai nostri percorsi, non mi
sono mai preoccupato di queste cose. A Milano però vivo molto poco dal punto di vista culturale e
sociale, anche perché credo che Milano sia la città in cui maggiormente si è sviluppata la modernità
e l’anomia, mentre a Torino hanno ancora retto alcuni processi qui non è così. Tanto è vero che a
Milano poi i miei ambiti di riferimento sono la Camera di Commercio, dove ogni anno studio il
rapporto in cui cambia la composizione sociale e scrivo per tale rapporto, l’AASTER, che è un
punto di riferimento e di lavoro: però, Milano è il luogo del lavoro, non è il luogo della
socializzazione di queste cose, lo è molto di più Torino. Poi, andando avanti, un’altra rete che si è
creata è la Fondazione Micheletti a Brescia, dove incominciammo a lavorare sui problemi della
Lega, il leghismo ecc., con Pier Paolo Poggio, che è uno storico e ci chiamò a raccolta su questo.
Poi nel nord-est c’è Enzo Rullani e una struttura di riferimento, e ultimamente anche nel Friuli
Venezia Giulia. Questo è un asse di lavoro che è rimasto sulla questione settentrionale, con in più
alcuni punti di riferimento nel Mezzogiorno d’Italia, saltando in parte Roma che è stato solo il
luogo di osservazione rispetto all’esperienza del CNEL, c’è Napoli con cui lavoriamo. Quindi,
questa è la rete in cui ci muoviamo. Se si può sorridere, anche qui dal punto di vista della passione,
uno o due mesi fa è venuto qui Folena dicendo: “Sappiamo che voi siete i più bravi e tu sei il più
bravo sulla questione settentrionale e sui grandi cambiamenti: vogliamo capire che cosa è
successo”. Niente da dire se non la miseria di un ceto politico che arriva quando i buoi ormai sono
scappati dalla stalla: è chiaro che nella questione settentrionale la questione per la sinistra
socialdemocratica è persa ormai, si tratta di continuare un lavoro di lunga lena, di lunga deriva su
questi grandi processi e andare avanti.
Quindi, come si vede, molta passione ma un giudizio di sintesi in cui coniugo quelle che sono state
le sofferenze degli anni ’70, i sogni, i desideri e le tante cose imparate, l’attraversamento solidale
degli anni ’80 e il ricominciare a fare cultura negli anni ’90. La storia è proprio questa, è una storia
minuta, piccola, credo anche di dignità. E’ una storia che, siccome ha avuto un po’ di successo,
causa il fatto che tutti quanti si chiedono come si faccia ad andare dalle galere alla pagina de il
Corriere della Sera: lo si fa semplicemente stando sui processi reali e avendo delle cose da dire,
senza vendersi e senza svendere nessuno.

- Nel dibattito sul cosiddetto postfordismo si è posta una grande attenzione ai processi di
trasformazione capitalistica; un nodo che a livello generale è stato toccato meno è quello
dell’organizzazione. Ad esempio tu prima parlavi della scelta della forma impresa, quindi
affrontavi la questione dell’organizzazione della ricerca. Da questo punto di vista, come si può
iniziare ad affrontare tale nodo?

La sintesi a cui sono arrivato io nel dibattito su fordismo e postfordismo è molto semplice, l’ho
anche scritta: io credo che il vero problema sia la farfalla del postfordismo. Si tratta di questo
animale strano che ha queste ali che si dispiegano, in cui le due ali del ‘900 erano
fondamentalmente capitale e lavoro da una parte e Stato e mercato dall’altra, le due ali della farfalla
erano queste per tutto il secolo scorso. Questi due paradigmi sono quelli degli anni ’70, sono passati
trent’anni e credo che i paradigmi ci siano ancora tutti, però oltre a questi due vanno introdotti due
paradigmi assolutamente nuovi che sono da una parte territori; tra capitale e lavoro si insinua
prepotentemente la dimensione territoriale perché più globale corrisponde a più locale, perché le
fabbriche non sono fabbriche da capitalismo urbano industriale ma territorializzate (uso i termini
del ‘900 per spiegare queste cose qua), perché la competizione viene fatta tra sistemi territoriali e

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non più tra sistemi di impresa e anche perché (altro dato che nessuno vuol dire ma bisogna farlo) i
meccanismi dei lavori si dispiegano e non in una dimensione fabbrichista: come dice il sociologo
tedesco Ulrich Beck, i nomadi multiattivi stanno sul territorio, sia i precari che le partite Iva
eccellenti fanno questi discorsi qua. Quindi, la dimensione territoriale come luogo della crescita di
una nuova composizione sociale, di nuovi modelli produttivi ecc. Insomma, i Quaderni Rossi degli
anni 2000 sono i Quaderni del Territorio, non sono i quaderni della Fiat, per usare la metafora da
cui siete partiti voi con Tronti. Tra l’altro i Quaderni Rossi noi li ripubblicammo con un’altra casa
editrice alla fine degli anni ’80. Questo è il primo paradigma, il secondo è che tra Stato e mercato,
proprio perché abbiamo a che fare con una composizione sociale completamente mutata, si insinua
prepotentemente il problema del valore dei legami. Questa cosa va spiegata: se la società è una
società del frammento, una società della scomposizione sociale definitiva, una società
dell’individualismo proprietario (per dirla con Pietro Barcellona), il vero problema è che prima
ancora di porsi la questione del soggetto (la questione degli anni ’70) bisogna porsi il problema di
che legame si ricrea all’interno della composizione sociale. Quindi, il vero problema è che il valore
di legame è fondamentale.
E qui viene il problema dell’organizzazione, che è molto semplice: io credo, ne sono profondamente
convinto, che i modelli organizzativi vengano dal basso e non vengano dall’alto. Dunque, in questo
io sono proprio molto liquidatorio rispetto a qualsiasi modello leninista di calata dall’alto dei
modelli organizzativi, la forma-partito, l’organizzazione ecc. Quindi, ecco perché c’è questa grande
attenzione per tutta quella spontaneità nascente rispetto a questi processi, anche perché poi dietro ci
sta un ragionamento molto semplice: credo che dal punto di vista epocale dalla transizione dal
fordismo al postfordismo stia avvenendo quello che è avvenuto nella transizione dall’agricoltura al
capitalismo urbano industriale, al fordismo. Allora, vengono deportati migliaia di soggetti che
prima stavano nelle campagne verso il lavoro urbano industriale, questo meccanismo di
deportazione è simile al meccanismo di deportazione che c’è oggi da dentro le mura a fuori dalle
mura. Ciò è avvenuto con la classe operaia, perché è stata deportata, le espulsioni, la
cassaintegrazione ecc. è stata la deportazione sui processi produttivi territoriali. Il vero problema è
che allora non c’era ancora nei primi del ‘900 né il sindacato né il partito, e incominciarono a porsi
dentro questa nuova composizione sociale forme di mutualismo, di autorganizzazione, di università
popolari per la socializzazione dei saperi ecc. Io credo che se si hanno le lenti per guardarli sono in
atto gli stessi processi, ovviamente in forma completamente diversa. Le comunità che si formano su
Internet oggi come oggi, se si parla con Formenti, sono le equivalenti di quelle che erano un tempo
le università popolari in cui la maestrina dalla penna rossa insegnava ai contadini a leggere e a
scrivere; ma questo fenomeno di aggregazione di grappoli comunitari dentro il linguaggio della rete
in cui cerchi di autodeterminarti, che cosa è se non un luogo neutro in cui tu cominci a imparare a
socializzare il sapere per navigare e per stare dentro a una composizione di questo genere?
Altrettanto dicasi del problema che i lavoratori autonomi si pongono di nuove forme di mutualismo,
di solidarietà, di rappresentazione attualmente embrionali, è molto più evidente quelle che sono
l’azione di mercato delle assicurazioni, però questo problema è posto all’ordine del giorno e mi pare
che sia un’altra grande questione. Quindi, io dico attenzione a tutte queste forme di
autorganizzazione dei soggetti dal basso. Dunque, il problema dell’organizzazione lo risolvo in
questo modo, in maniera molto spontanea tanto per capirsi, molto meno leninista, ma anche questo
credo in sintonia (se vogliamo dire qualcosa della cultura degli anni ’70) di quella cultura di
radicalità che ha avuto una sciagura, io me ne rendo conto che si possa dire oggi: insomma, se il
movimento degli anni ’60 e ’70 avesse continuato la sua sperimentazione originaria dentro la
composizione sociale in divenire e mantenendo lo slogan “la fantasia al potere” avrebbe certamente
prodotto molto di più del fatto che poi a un certo punto invece qualcuno gli ha detto che il problema
vero era mettere il leninismo al primo posto, e lì ci hanno fottuto tutti. Credo che questo sia il
bilancio conclusivo dell’esperienza. Quando noi abbiamo incontrato Lenin invece che i processi
dell’autorganizzazione siamo diventati come tutti gli altri, una serie di partitini che si scannavano
tra di loro in nome della purezza della linea, ne abbiamo visti di tutti i colori dal punto di vista

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dell’egemonia. Credo che questo si possa dire con il senno di poi, però questo è un bilancio forte, so
che Revelli sta scrivendo quest’ultimo libro sul ‘900 in cui parla della maledizione del leninismo,
questo è il quadro.

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INTERVISTA AD ALDO BONOMI – 8 NOVEMBRE 2001

- Quali sono stati i tuoi numi tutelari, intesi da una parte come persone o autori di riferimento
nel tuo percorso di formazione, dall’altra come figure che ritieni particolarmente importanti
per analizzare i nodi aperti nel presente?

Se quello che stiamo facendo è un ragionamento che in parte riguarda ciò che io ho chiamato il
sincretismo biografico, credo che bisogna riflettere non tanto in termini di numi tutelari oppure di
figure di riferimento intellettuali, ma cercando di capire qual è stato il mio capitale sociale o quali
sono stati i miei beni relazionali. Secondo me, questa è una categoria anche socio-politica
importante, intendendosi con essa quella rete di relazioni che permette al soggetto di essere meno
solo, per dirla banalmente; come sostiene Bourdieu, è il problema per cui una monade, cioè un
soggetto, in base a un meccanismo di relazioni riesce ad aumentare il suo raggio d’azione, il suo
raggio di comunicazione, il suo raggio di socialità, il suo raggio di comprensione dei processi.
Allora, diciamo subito che da questo punto di vista, se devo fare un po’ di sincretismo biografico, io
ho avuto una sfiga tremenda rispetto ai processi di inizio. A differenza di quelli che hanno la mia
biografia in termini di età e di esperienza politico-culturale, almeno per gli anni del ’68, qual è stata
la mia sfiga? Non voglio qui citare e scomodare Pasolini, il quale diceva che eravamo i figli della
borghesia, affermazione in cui non c’è dubbio che parte di verità c’era: infatti, era un movimento
figlio di un’élite che esprimeva un disagio anche a fronte della carenza di processi di
modernizzazione, di cambiamento e di problemi di questo genere. Però, senza adesso arrivare lì,
anche perché poi di queste cose ne sono state fatte delle banalizzazioni, se penso alla prima parte
della mio biografia non c’è dubbio che io nasco con un capitale sociale estremamente povero. Ciò
dipende innanzitutto dal luogo di provenienza: io arrivo da un piccolo paesino della Valtellina che,
pur essendo zona di confine e di frontiera, non è mai stata né per tradizione né per storia un luogo di
grandi reti lunghe, bensì di reti corte e comunitarie, in cui è fondante la dimensione della montagna
anche come luogo della chiusura. Vengo da una famiglia che si sarebbe detto un tempo piccolo
borghese di un paesino della Valtellina, con tutti i deficit e i pregi di una dimensione di questo
genere: il deficit primo è quello delle reti relazionali bassissime, che mi si sono complicate
ulteriormente quando a 6 anni sono andato via e ho studiato in un collegio, che nella società laica è
ciò che c’è di più simile all’istituzione totale. Ho dunque studiato in collegio a Pesaro dai 6 ai 18
anni, facendovi quindi le scuole medie e la maturità. Il vero problema è che io non avevo né le reti
di relazione della comunità locale valtellinese, né le reti di relazione pesaresi. Lo dico perché nel
vostro racconto e nel vostro grande affresco di storia vi sarà anche capitato di vedere biografie di
intellettuali, compagni, militanti che sono nate dentro il liceo, dove ad esempio Gad Lerner stava
con Agnoletto: c’erano una serie di scuole o università di riferimento, che ovviamente producevano
reti. Ma questo non vale solo per il movimento dal ’68 in avanti, basti pensare che una parte della
sinistra riformista di questo paese (come Occhetto o Craxi, ad esempio) si è formata dentro le
federazioni studentesche, che erano poi le fucine di formazione politica precedenti, i luoghi in cui
uno formava le sue relazioni di capitale sociale. Dunque, nella fase adolescenziale e nella prima
parte del mio romanzo di formazione io avevo un capitale sociale bassissimo, che non mi si è
nemmeno implementato con questo salto di totale discontinuità nel passare dalla Valtellina e dal
collegio a Pesaro direttamente dentro la facoltà di Sociologia di Trento. Quella facoltà mi
affascinava, mi interessava, avevo fatto una parte del movimento studentesco pesarese ma l’avevo
subito lasciato: quando sono precipitato a Trento, ero uno che era stato per i primi sei anni della
propria vita in un piccolo paese della Valtellina, per gli altri otto in un’istituzione concentrazionaria,
che quindi nega l’aumento delle relazioni, pur essendo nella dimensione dell’area pesarese. Se lo
rileggo oggi, devo all’essere stato a Pesaro per otto anni il fatto che poi ho scritto, quando avevo 50
anni, Il distretto del piacere, perché quello era un luogo (l’ho detto anche nel libro) che io
osservavo dalla finestra del collegio vedendo la spiaggia, il loisir e tutto il resto: quindi, è una cosa
che mi è rimasta, è stata una specie di ritorno alle mie origini. Allo stesso modo, in molti miei scritti

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il tema della Valtellina torna, con la questione della comunità locale, del territorio ecc. Quindi, devo
dire che queste non sono due radici che non riconosco, anzi le riconosco e hanno avuto un influsso;
sono radici che mi hanno magari dato molto come punto di elaborazione concettuale e culturale,
probabilmente il mio ritorno continuo all’interrogarmi sul concetto di comunità dipende parecchio
dal fatto che, a differenza di altri intellettuali, ricercatori o sociologi, non vengo da una situazione
metropolitana; quindi, la dimensione dello spaesamento, del rimanere senza paese, della
microdimensione e dell’entrare in una realtà allargata, è una questione che ho presente. Quello
pesarese è stata un luogo di formazione, perché non c’è dubbio che se non fossi andato dalla
Valtellina ad una “zona rossa” come l’Emilia Romagna e la parte finale delle Marche credo che non
avrei mai incontrato il dibattito con il comunismo, chiamiamolo pure così. Io ero figlio di un
sindaco democristiano di un piccolo paese della Valtellina, il comunismo l’ho incontrato sui banchi
di scuola del liceo di Pesaro perché il mio compagno di classe era iscritto alla FGCI, quindi ho
cominciato a capire cosa erano queste cose lentamente. Dunque, lo sradicamento dalla Valtellina a
Pesaro è stato importante, però ciò è avvenuto senza quell’accumulo di capitale sociale che
probabilmente altri miei coetanei avevano avuto dentro le loro esperienze di liceo; soprattutto, si
tenga presente che gli anni importanti per la formazione di una persona, dai 6 ai 18, io li ho giocati
tutti in termini individuali, nel senso che non ero dentro una comunità di riferimento. Quindi, basso
capitale sociale e invece forte identità dei luoghi di provenienza, cosa che mi è sempre rimasta, o
forse si tratta di rimpianto. Partendo da questo posso dire che, al di là delle dimensioni amicali ed
affettive, reti di relazione, capitale sociale, beni relazionali che mi hanno aiutato a vivere ne ho
avuti pochi, sono uno che probabilmente ho dovuto imparare a sopravvivere. Dico anche, come ho
già affermato nella precedente intervista, che questo confronto con le istituzioni forti ti costringe a
vivere oppure uscire. Dunque, credo che ciò mi abbia rafforzato, se uno sopravvive a questa
dimensione di sradicamento iniziale è probabilmente più forte di fronte all’essere sradicato e
all’andare nel mondo. Già nell’altra intervista dicevo che se uno risponde ad un interrogatorio in
corte d’assise o davanti ad un tribunale ha poi certamente meno imbarazzo a discutere in pubblico,
in un’assemblea o in situazioni di questo genere. Quindi, quando io arrivo a Sociologia a Trento non
ho capitale sociale, non ho reti di relazione, ci arrivo individualmente, non con qualcuno che veniva
come me dalla Valtellina o da Pesaro: ci arrivo con una compagna di vita con cui stavo e basta.
Dunque, da questo punto di vista le reti di relazione ho dovuto con difficoltà costruirle.
Se faccio un bilancio, di capitale sociale proveniente dalla politica, da tutta quell’esperienza che va
dal ’68 in avanti, ne ho conservato poco. Anche perché io credo che si trattasse di un luogo di
negazione dei beni relazionali: se devo fare una critica a quel modello del fare politica, dico che
questo distruggeva i beni relazionali, perché era un modello del fare politica basato sulla categoria
amico-nemico, sia nella dimensione del nemico esterno, sia anche in una categoria amico-nemico
giocata all’interno. Quindi, diventava un meccanismo di estrema selezione, leadership, slittamento
verso l’alto, in cui il problema dei beni relazionali, della solidarietà di gruppo non c’era. Cito un
esempio: mi è capitato un mese e mezzo fa di andare a cena con Dalmaviva e Magnaghi, che
parlavano delle loro esperienze “comunitarie” dentro Potere Operaio, perché si sentiva una specie di
comunità; io, invece, non ho un racconto specifico di comunità di appartenenza dentro il quale la
militanza politica produceva beni relazionali. E non ho nemmeno l’impressione di un meccanismo
dentro il quale questo far politica producesse beni relazionali: io non ce l’ho, forse può essere un
limite mio perché, arrivando privo di reti di relazione e di capitale sociale, a questa mancanza non
ho poi saputo sopperire. Però, ho l’impressione che più che creare valore di legame e legame
sociale, c’era la forma dei gruppi e dei gruppuscoli l’un contro l’altro in disquisizione teorica e di
egemonia, c’era il problema di chi poneva l’egemonia: nella grande dimensione ciò si verificava a
Milano tra il Movimento Studentesco, Lotta Continua, Avanguardia Operaia ecc., ma anche in
piccolo a Trento il problema era questo. Dunque, ho un ricordo di queste realtà in cui si distruggeva
il valore di legame e il capitale sociale. Anche perché, appartenendo ai microgruppi, si era più in
una dimensione da setta che in una dimensione aperta. E credo che alla base di questo ci siano poi
forme che ritroveremo negli anni: è una generazione in parte perduta da questo punto di vista,

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perché non ha saputo costruire valore di legame e capitale sociale, quindi alla fine si ritrovano
alcune cose su cui riflettere, senza fare nessuno esempio perché non sta a me dire. Si ritrovano
percorsi di autovalorizzazione individuale, ognuno di noi li ha fatti e chi li nega sbaglia: chi facendo
professione nell’informazione, chi nel mondo della ricerca, chi facendo professione accademica, o
facendo autopromozione individuale. Ciò portandosi dietro tutti i rancori di quel modello senza che
ce ne fossero più i fondamenti: probabilmente non c’erano nemmeno allora, vista a posteriori la
disquisizione tra anarcospontaneisti, lottacontinuisti, operaisti, trotzkisti, marxisti-leninisti “linea
nera” e “linea rossa”, oggi può fare veramente sorridere. Il vero problema è che queste cose che
possono far sorridere dal punto di vista del dogmatismo ideologico, sono poi invece quelle che
hanno sedimentato meccanismi di pettegolezzo, rivalità, rancore. E’ una generazione che non ha
saputo produrre capitale sociale e percepirsi come generazione collettiva: ha perso in una
dimensione di segmento, si è valorizzata in una prospettiva individuale e si percepisce certo come
generazione complessiva, però non ha mantenuto quei legami che di solito si mantengono. Da
quello che leggo spesso nella storiografia o nella letteratura, mi pare che anche la dimensione della
Resistenza non fosse meglio, ciò senza voler fare nessun parallelismo politico: mi sembra che anche
di quel grande patrimonio della Resistenza il problema fosse quello dei gruppi e dei gruppetti. Però,
c’è una differenza fondamentale: la Resistenza ha vinto culturalmente, quindi dentro la retorica
della vittoria tutto si è ricomposto, ed è poi andato a ricomporsi nella dimensione del parlamento,
quindi gli scazzi tra i socialisti, i comunisti e via dicendo li abbiamo visti dispiegati sul piano
politico; la nostra generazione, avendo perso, non ha mai potuto dispiegare tali problemi se non nel
chiacchiericcio, oppure nelle ricostruzione che oggi fa Sette, il supplemento del Corriere della Sera,
in cui lentamente vengono fuori i rancori, mentre io credo che bisogna proprio lasciar perdere
queste cose. Quando avete iniziato questa conricerca vi avevo già detto che si tratta di un percorso
delicato, proprio perché ci sono dietro cose che magari nessuno ha voglia di dire ma che invece
sono lacerazioni soggettive, che rimandano a questo discorso del capitale sociale e dei beni
relazionali. Intendo dire che poi la Resistenza dispiegandosi ha prodotto capitale sociale e beni
relazionali, ha prodotto un’egemonia, ha prodotto una cultura, una retorica di riferimento, dentro la
quale però si sono consolidate amicizie, reti di potere ecc., mentre qui mi pare di non vedere le
grandi cordate. Emblematico da questo punto di vista sono alcuni grossi temi che sono rimasti
aperti, importanti questioni su cui non si è mai fatta riflessione collettiva: state cercando di farla voi
con la ricerca mettendo assieme le cose, ma è difficile perché era un movimento magmatico. Però,
questa non produzione del capitale sociale e dei beni relazionali mi pare un problema importante,
che non era secondario perché poi lo ritroviamo nell’analisi politica che si può fare dell’oggi. Ma
soprattutto, proprio perché il valore di legame e il capitale sociale non erano punto di riferimento,
tutto si pensava che fosse ascrivibile alla logica dei poteri: il problema era la leadership,
l’egemonia, la conquista del palazzo d’inverno. Dunque, logica amico-nemico e conquista della
punta della piramide, mentre non ci si occupava dei processi. Se uno analizza bene, ciò che portò
alla crisi di quel movimento non fu costituito solo da elementi di sconfitta politica, di repressione
tra amico-nemico, ma fu proprio la loro malattia dal punto di vista della crisi del soggetto e del
personale. Nel movimento, nel magma, a un certo punto i temi della solidarietà, della persona, dei
beni relazionali, del rapporto ecc., vengono posti attraverso due grandi fenomeni: il primo è la
questione femminile, che pone quel contenuto di genere e della persona che la politica
completamente negava. Si pensi a quanto ciò a un certo punto rompa questo discorso, sono le donne
di sinistra a porre il problema, perché lì non c’era la risoluzione. La seconda grande questione, dopo
aver citato le donne, è il dibattito successivo de “il personale è politico”. Quando viene posto questo
problema, il movimento comincia ad entrare in crisi perché la politica è tutta autonomia del politico,
è tutta verso l’alto. Da una simile amarezza personale questo movimento è però stato in grado poi di
produrre due grandi riflessioni drammatiche su ciò: la questione di genere e quella de “il personale è
politico”, i due grandi temi che sono quelli aperti. Se dovessi fare una valutazione storica, anche se
non è mio compito, il giudizio complessivo è che questo magma ha prodotto molto nella sua fase
nascente, pochissimo nella sua fase mediana e molto nella sua fase di decadenza e di fine. Se

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vogliamo schematizzare, la prima fase era quella della grande utopia, della fantasia al potere, della
dimensione desiderante e del sentire che non era stata ancora contaminata dalla realtà fredda e
metallica degli interessi da una parte (la classe operaia ecc.) e del potere dall’altra. Quando iniziano
a entrare dentro queste due categorie, tipiche della sinistra tradizionale del ‘900, abbiamo la fase
peggiore del movimento, i gruppi, le ideologie, gli scontri, i contrasti, gli spettegolezzi ecc.
Ovviamente ciò viene anche acuito dal fatto che si entra in una fase di repressione in cui tutto è
metallico. Le uscite sono state due: la deriva metallica fino in fondo, la lotta armata per essere
chiari, e invece la deriva di riscoperta della persona, perché poi la differenza di genere nasce da lì
così come la questione de “il personale è politico”. Bisognerebbe fare il contrario di ciò che si fa
con la grappa, di cui si taglia la testa e la coda e si tiene il cuore. Sarebbe necessario un processo di
distilleria con questo discorso: tenere la testa e la coda e togliere il corpaccione intermedio, che ha
dato il peggio di sé.
Qui cominciano a delinearsi più che i personaggi le correnti di pensiero che mi hanno dato molto:
nella prima parte sono quelle libertarie o quelle che arrivavano alla forma-partito partendo dalla
Rosa Luxemburg. Fondamentalmente io mi sono formato su questi due grandi filoni di riferimento,
l’approccio al marxismo e alla forma-partito mediato dalle teorie luxemburghiane e spartachiste, e
le forme desideranti che rimandavano all’utopia, all’anarchia ecc. Questo mi pare importante,
mentre non sono mai stato un esegeta delle grandi dispute ideologiche tra marxisti-leninisti “linea
rossa” e “linea nera”, non mi hanno mai appassionato. L’altro grande filone è invece quello de “il
personale è politico”, della creatività, che è legato al primo però, sta sommerso dentro tutta questa
fase e poi ritorna fuori. Quindi, se devo rispondere più concretamente, non ho mai avuto né maestri
di pensiero né figure di accompagnamento, non ho mai sofferto del fascino della leadership, pur
avendo frequentato dentro Controinformazione da Toni Negri ad Antonio Bellavita che l’ha diretta,
oppure avendo conosciuto Sofri dentro Lotta Continua e via dicendo. Il vero problema, per
sviluppare categorie di cui parlerò dopo, è che il male di questo movimento è quando al suo interno
ha cominciato a venire avanti un primo popolo che ha parlato per il secondo. Il secondo popolo è la
dimensione del movimento dell’utopia, desiderante, del personale; a un certo punto è invece
apparso il primo popolo, questa élite intellettuale e di autonomia del politico che ha cominciato a
parlare per il secondo, nel quale c’erano gli studenti e gli operai uniti nella lotta, tanto per capirci,
perché il secondo popolo era questo. Dunque, quando ha cominciato a venire avanti un primo
popolo che parlava per il secondo sono iniziate le sciagure, e il primo popolo ha portato il secondo
alla sciagura. Se si fosse invece rimasti sulla composizione sociale del secondo popolo il problema
avrebbe avuto una risoluzione. Da questa fase qui non mi porto dietro captale sociale e nemmeno
valore di legame: sì, certo, c’è una solidarietà che rimane nella sconfitta, quella solidarietà
elementare che tu hai con chi è stato carcerato come te, con chi è stato represso come te, quindi ti
poni il problema di un’intera generazione ed è chiaro che senti più amico chi ha vissuto come te
alcune vicende di questo genere. Ma da qui non credo di poter arrivare a dire che ciò ha alimentato
in me un capitale sociale sul quale poi ho costruito la sopravvivenza per quegli anni e l’uscita, non
ne ho questo ricordo. Tanto è vero che a tutt’oggi io frequento poco quella che era la dimensione di
allora, pur essendo uno che probabilmente conosce quasi tutti: ho conosciuto Sofri in Lotta
Continua, ho conosciuto tutto il dibattito dentro Potere Operaio, ho seguito il Gruppo Gramsci,
Controinformazione, sono stato in carcere con alcuni di questi, quindi ovviamente ci sono reti di
relazione, ma ben poco si è trattato di un capitale sociale alimentante. Questa è forse una posizione
anomala rispetto a quelli che invece avevano la comunità di riferimento prima, per cui sono
cresciuti dentro di essa, hanno fatto i gruppi, hanno fatto le leadership. Tanto è vero che io oggi mi
sento come uno che ha avuto questa esperienza, essa mi ha segnato, sono solidale con chiunque
l’abbia percorsa, ma non è stato il mio romanzo di formazione principale proprio perché mi hanno
insegnato di più la prima e l’ultima fase, mentre della seconda ne sto facendo una rivisitazione
critica. E’ forte dare un giudizio di questo genere, ma mi pare che noi (e qui lo dico come entità
collettiva) non abbiamo costruito un ceto, né un ceto politico, né un ceto culturale, né altro:
abbiamo costruito tante individualità, tante professionalità, tante tecnicalità che si sono poi (come

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ho detto prima) disperse come molecole. Probabilmente, siccome era un movimento avvelenato dal
potere, non avendolo conquistato ne ha pagato tutti i prezzi.
Diversa è invece la terza fase, in cui è finita questa esperienza: credo che invece lì la mia fortuna
dipenda molto dalla mia capacità di creare legame sociale. Forse questo discorso qui mi era rimato
proprio come una carenza: come sempre, avendo un meccanismo di assenza, dal momento che nei
primi anni del romanzo di formazione non ero riuscito a soddisfare una dimensione di reti di
relazione, e ciò vale anche per la seconda fase, quella della politica come luogo di reti di relazione,
ho investito molto invece nelle reti di relazione successive, quelle che dipendono poi dal mio
cominciare a fare il ricercatore sociale. Anche perché nell’attività di ricerca sociale il problema del
valore di legame e della costruzione di reti di relazione era una delle fisse che avevo. Quindi,
cominciano a delinearsi delle reti di capitale sociale in base alle quali ho costruito l’AASTER, su
questo non c’è dubbio: se non avessi avuto queste reti sarebbe stato tutto molto diverso. Questo
meccanismo del capitale sociale, che oggi sono in grado di denominare in questo modo, è stato il
motore vero della terza fase della mia biografia. In primo luogo, non facevo più politica,
meccanismo che invece brucia il capitale sociale, perché lo porta o verso la logica amico-nemico,
che è nemica della logica del capitale sociale e del bene relazionale, o verso la logica del potere, per
cui porta verso l’alto: quando tu vai verso la logica del potere usi il capitale sociale per raggiungere
il potere, quindi diventa una funzionalità e non una rete. Invece, quello della ricerca sociale è un
meccanismo basato sul capitale sociale, nel senso che riconosce il soggetto, crea relazioni tra i
soggetti ecc. Questa terza fase è perciò densa di relazioni sociali. In circa vent’anni di professione o
anche un po’ di più, ho accumulato un capitale sociale minuto e diffuso che significa la conoscenza
della dimensione territoriale: banalmente, conosco tanti amministratori locali, tanti sindaci, tanti
rappresentanti di impresa, tante imprese locali ecc. Questo è un grande patrimonio, perché vuole poi
dire conoscere la rete dei soggetti. Dietro a questo capitale sociale diffuso si sono costruite anche
vere e proprie reti di relazione, che sono quelle che hanno poi portato, intorno al lavoro di ricerca e
all’AASTER, alla strutturazione di un discorso di associazione culturale. La ricerca è un’attività che
incorpora un lavoro tecnico-politico, dentro il quale è ovvio che l’acceleratore viene premuto una
volta sulla tecnicalità e una volta sulla politica con la p minuscola, non la politica del potere ma la
politica dei fatti, del realizzare delle cose. Dunque, questi 20-25 anni hanno prodotto una rete in
primo luogo con altri istituti di ricerca, ovviamente non simili al mio: io mi occupo di territorio, di
problematiche dello sviluppo, della composizione sociale, mentre ad esempio in questi anni si è
consolidato un rapporto con la Fondazione Micheletti che è un istituto storico. Si è poi consolidato
un rapporto con quello che io chiamo il gruppo di Rullani, intendendosi con questo quei ricercatori
e accademici di territorio che hanno incominciato a studiare per primi il fenomeno del
postfordismo, iniziando a ragionare su questo. Oppure delle individualità o dei luoghi di produzione
culturale come può essere l’Einaudi e la Bollati Boringhieri a Torino, o Marco Revelli, e anche in
questo caso il tema è il postfordismo, la transizione ecc. Per cui questo capitale sociale e questa rete
di relazioni, che non è quella diffusa data dalle ricerche, è una rete che confluisce in quella che io
ridendo chiamo AASTER di serie B o di serie A, che poi è il vero capitale sociale dell’istituto di
ricerca, perché questo da solo e senza consenso non funziona. Quindi, mi sono posto il problema di
come questo capitale sociale e queste reti di relazione (non da immettere immediatamente nel
meccanismo della ricerca) possano diventare un capitale sociale che sia socializzabile, e su ciò
abbiamo ragionato per fare l’associazione. Non sono ingenuo, quindi non faccio un racconto di
questi ultimi anni come se riguardassero solo un capitale sociale diffuso nel volontariato, nelle
imprese, nei soggetti con cui ho lavorato, negli enti locali, o solo reti di relazioni intellettuali: si
sono consolidate anche reti di potere, intendendosi quelle che ti derivano dal rapporto con il
committente. I committenti sono soggetti che ti danno dei soldi per fare degli interventi, quando tu
gli interventi li fai bene e accompagni questi committenti si costruisce una rete che ovviamente è
una rete di potere perché produce informazioni, denaro, punti di vista, punti di osservazione. Credo
che sia passando su tutte e tre le reti (il capitale sociale diffuso, il capitale intellettuale e la rete di
potere) che poi arrivi anche a scrivere sul Corriere della Sera: si rendono conto che hai prodotto dei

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libri, che hai fatto delle cose, che hai un punto di vista e un punto di osservazione e quindi puoi
scrivere su quel giornale. Se devo parlare della rete di potere che più ho consolidato, è stato
importante il rapporto con De Rita (che non è un rapporto di potere, ma è un rapporto di amicizia e
di consuetudine che già ho spiegato nella precedente intervista). Lui è stato dieci anni al CNEL e
abbiamo lavorato lì, dentro un’istituzione che ha rapporti con il territorio e consolida delle reti,
perché costruisci i rapporti con le banche, con le camere di commercio, con quelle che sono le
autonomie funzionali che stanno sul territorio; o, ad esempio, con reti lunghe come quelle che
permettono di andare a Bruxelles o reti ancora più ampie. E, sempre a proposito del capitale sociale,
certamente devo ricordare (cosa a cui già ho fatto cenno nella prima intervista) un rapporto per me
importante che è quello con Carlo Borgomeo. Questa è la mappa. Rispetto a ciò c’è un punto
interrogativo, che riguarda i due modi di usare il capitale sociale: da una parte può essere letto come
strumento che uno usa per consolidare il suo potere (è il meccanismo che io ho criticato rispetto agli
anni ’70), allora c’è la politica che usa la rete di relazioni semplicemente per selezionare amici e
nemici e per andare verso l’alto. Anche in un istituto di ricerca o nella logiche economiche e
competitive il capitale sociale può essere usato in questo modo. Oppure, rimane il problema della
socializzazione. Ritengo, infatti, che il capitale sociale vada socializzato: se c’è una rete di
produzione di informazione, di conoscenza ecc. questa va resa pubblica, non è che ognuno si tiene
la sua e se la usa, questa è una cosa che mi ha sempre dato fastidio. Però, non bisogna nemmeno
praticare il meccanismo esattamente inverso, che è quello per cui si dice: “siccome tu sei uno che
appartiene alla mia comunità, il tuo capitale sociale è mio e il mio è mio”. C’è un problema di
reciprocità: se il capitale sociale è un bene disponibile, si tratta di un meccanismo che entra dentro
una logica di dono, di scambio e di rete, non è un qualcosa che c’è in un posto, per cui si va lì e lo si
prende. Il capitale sociale è come la fiducia: è un bene che più si pratica e più aumenta, meno lo si
pratica e più diminuisce. Il meccanismo di fiducia tra le persone è aleatorio, ma più le persone si
danno e si donano fiducia, più questa aumenta, se non si dà fiducia all’altro questa non ha senso. Il
meccanismo del capitale sociale è lo stesso: più uno aumenta questa rete di scambio permanente tra
le persone di gratuità, in cui ci si dà delle cose (oppure ce li si scambia anche commercialmente),
più il capitale sociale cresce. L’istituto di ricerca va avanti con una logica da mano aperta e non da
mano chiusa, perché se tu lo tieni in una logica da mano chiusa muore presto.

- Nelle categorie del moderno, la politica può essere interpretata in almeno due modi: da una
parte, esiste la politica come gestione e amministrazione, non necessariamente istituzionale,
può trattarsi anche di gestione di un’organizzazione, di un conflitto o di un gruppo; dall’altra
parte, c’è il politico come progetto di trasformazione e creazione di un qualcosa che allo stato
presente delle cose non c’è. Partendo dall’analisi dei nodi aperti nell’oggi, come declineresti o
rideclineresti la questione della politica?

Se devo riflettere su che cosa è oggi la politica, punto primo la penso come una cosa con la p
minuscola e non con la P maiuscola. Quindi, oggi la politica è la negazione dell’autonomia del
politico, può sembrare un controsenso, invece mi pare un’affermazione importante. E se la politica
è la negazione dell’autonomia del politico non saprei definirla meglio di come l’ha definita
Massimo Cacciari: la politica è in primo luogo dire al tuo prossimo che non è solo. Cioè, la politica
significa ricominciare a ritessere valore di legame tra gli individui spaesati, soli e dentro la
moltitudine: è innanzitutto creazione di valore di legame e ampliamento del capitale sociale dei
soggetti. far politica oggi significa ampliare le reti di relazione dei soggetti. Credo che la politica
come agire amministrativo e come statualità abbia poco da dire, non per altro, ma perché ormai
dall’agire amministrativo e dalla statualità capitale sociale e beni relazionali non ne arrivano più:
mentre prima la conquista dello Stato, il ripartire dalla statualità per redistribuire beni relazionali
aveva un senso, perché c’era il welfare, oggi come oggi quel meccanismo discendente o ascendente
è sempre più arido, nel senso che il welfare è smantellato. E allora la politica che cos’è? E’ puro
esercizio dell’agire amministrativo delle funzioni globali o tecniche? No, credo che sia l’esatto

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opposto, è il creare beni relazionali che aumentano la capacità dei soggetti di autorganizzarsi e
autocostruirsi. Questa è la politica oggi.
Molto spesso noi studiamo, teorizziamo, raccontiamo ciò che prende corpo nella società, poi, però,
quando questo lo vediamo trasferirsi in politica ci rifiutiamo di riconoscerlo. Al punto, a volte, di
assumere posizioni elitarie, di disprezzo e condanna di quella parte della composizione sociale che
ha votato per l’avversario. Beh, intanto propongo di ragionare in maniera fredda. Allora, partirei
ricordando che in questi anni nell’elaborazione teorica di sinistra, partendo dalle riflessioni di
Michel Foucault, noi abbiamo parlato, discusso, ci siamo confrontati intorno al tema della
biopolitica: abbiamo detto che ormai i processi dell’economia e i processi sociali riguardano la nuda
vita, intendendosi con questo il pensare, il sentire e il procreare degli individui; che questi processi
erano riassunti ed esemplificati nell’avanzata di due fattori di potenza tecnico-economici: la new
economy, variamente intesa, che investe la sfera della comunicazione, del sentire, del ricordare, del
desiderare umani; l’ingegneria genetica che investe fondamentalmente il Dna e la biologia
dell’uomo e del vivente. Pensiamo solo ai brevetti del genoma, del nostro Dna, allo sviluppo delle
macchine intelligenti, alle biotecnologie, e abbiamo la misura di quanto la messa al lavoro del
nostro pensare, sentire, ricordare, riprodursi, riguardi ormai la nostra nuda vita, il nostro corpo reale.
Quando poi, invece, incontriamo la rappresentazione politica, sia pure banalizzata, di questi
processi, il loro riflesso in politica, continuiamo a usare le vecchie categorie del Novecento. Ecco
allora: da una parte gli interpreti del liberismo, dall’altra quelli della statualità; da una parte gli
interpreti del libero mercato, dall’altra quelli delle regole; da una parte gli interpreti dello strapotere
dei mezzi di comunicazione, dall’altra quelli che ne sono privi; da una parte gli onesti e dall’altra i
disonesti.
Durante l’ultima campagna elettorale, ad esempio, se ne sono dette a iosa. Io credo che il
“berlusconismo” sia un sottoprodotto della biopolitica. Noi abbiamo spiegato questo fenomeno in
termini di populismo, di neopopulismo: identificazione tra il popolo, entità indistinta, e il carisma
del soggetto. Bene; poi abbiamo molto sorriso del Berlusconi che assumeva molteplici facce e
molteplici ruoli perché per le categorie del ‘900, che ci dicono che un padrone è ciò che più di
lontano c’è dall’operaio, è un’assurdità il Berlusconi-operaio. Ma a ben guardare cosa voleva fare
Berlusconi dicendo: “Io sono un operaio, un artigiano, un commerciante, un industriale, una
massaia, un giovane, un lavoratore autonomo”? Voleva far scattare un meccanismo di
comunicazione diretta tra il soggetto e le figure della scomposizione sociale avvenuta. Parlare con
le tante individualità accompagnandole e facendogli sentire che si è come loro. Questa mi pare una
grande intuizione. E vorrei precisare che tutto questo prescinde dai mezzi di comunicazione. Qui
non abbiamo a che fare con il Berlusconi delle tv; no, è nel messaggio, nel programma, nella cultura
politica di Forza Italia che troviamo questi elementi. Dopodiché, è ovvio che la diffusione del
messaggio biopolitico riuscirà più facile a uno che, nelle sue precedenti esperienze professionali,
abbia interiorizzato fino in fondo il marketing, il marketing oriented, la comunicazione, la
pubblicità, che sono tutti strumenti che poi permettono di raggiungere il segmento, il target. E’
ovvio che una grande professionalità dell’agire comunicativo serve. Ma attenzione: c’è stata anche
una grande capacità di esporre il proprio corpo e il proprio modello come simbolo. Mi pare
emblematico che l’unico corpo che abbiamo visto esporsi, con cui sviluppare identificazione, è stato
quello di Berlusconi. Mentre invece i corpi che attaccavano Berlusconi erano delle maschere, di
comici spesso, facce, non so come dire, intermedie, non corpi contro corpo.
Siamo di fronte a fenomenologie del moderno, il che, fra l’altro, fa dell’Italia un laboratorio
avanzato in cui si fanno avanti forme politiche dell’ipermodernità, con tutte le ambiguità e le
ambivalenze che questo comporta, certo; ma tutt’altro che una repubblica delle banane! Del resto,
già a proposito di altri fenomeni, come la Lega, o come il successo austriaco di Haider, che
comunque hanno più a che fare con il neopopulismo, io ed altri abbiamo messo in guardia dal
vedervi fenomenologie del passato che tristemente ritornano; erano e sono interpretazioni
ipermoderne dei processi di spaesamento, sradicamento, distruzione delle appartenenze, di
anomia… Poi, diciamolo onestamente, biopolitica, identificazione della leadership,

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ipercomunicazione, eccetera, tutto questo lo vediamo già completamente dispiegato in quello che è
il modello americano, il che conferma che probabilmente noi siamo già un pezzo della provincia
americana. Siamo di fronte a fenomenologie che richiedono un di più di analisi e un di più di
elaborazione politica per contrastarle.
Vediamo più da vicino i diversi processi che abbiamo di fronte. Un primo processo è che ormai non
si produce più per un mercato indistinto e in continua espansione, ma si tende a produrre per il
singolo individuo. La grande aspirazione del capitalismo è quella di riuscire a produrre “merci
personalizzate”. Solo attraverso un discorso di personalizzazione noi riusciamo a stare dentro un
meccanismo di profitto. Oggi non a caso non parliamo più di “catena del valore” ma di “ragnatela
del valore”. La catena del valore legava la produzione delle merci dentro le mura delle imprese e,
una volta prodotto il bene, si presupponeva un mercato di utenti e consumatori in continua
espansione e disponibili ad acquistare “un’automobile di qualsiasi colore purchè nera”, come diceva
Ford. Bastava distribuirla un’automobile o una lavatrice affinché fosse acquistata come un bene
necessario. Oggi la ragnatela del valore inizia ponendo al centro non la produzione della merce ma
le informazioni e i desideri del singolo utente-cliente che vuole, adesso sì, una macchina di un certo
colore e non di un altro, una merce su misura. La catena del valore sta a monte del processo
produttivo, la ragnatela del valore sta a valle, ed entrambe si incontrano quando il bene, la merce, si
incontra con l’utente-cliente. Allora, in questo meccanismo di sempre maggiore personalizzazione,
del mercato, della merce, il soggetto non è più preso in considerazione nella società nei vari cicli,
ora come produttore, come cittadino, come consumatore, ma il soggetto diventa fondamentalmente
un “utente-cliente”. E mi sembra evidente che questo è stato il meccanismo sul quale si è costruito il
discorso elettorale: tanti utenti-clienti. Ovviamente con una professionalizzazione, una tecnicalità
che ha permesso di raggiungere più utenti-clienti possibili. Ma questo credo fosse chiaro anche
all’altro schieramento, perché non è un caso che avessero pensato anche loro ai guru americani per
raggiungere il maggior numero di utenti-clienti possibili. Probabilmente qui, fra i due soggetti, ha
pesato una grande disparità di disponibilità economica. Uno aveva la potenza dei mezzi per pagarsi
le tecnicalità adeguate e qualcuno non le aveva. Seconda considerazione. I dati sui lavori ci dicono
che ormai tra forme del lavoro individuale e forme del lavoro collettivo prevale anche
quantitativamente, non più solo qualitativamente, come egemonia di modello, la forma individuale.
Sul totale degli occupati, sommando gli occupati ufficiali e quelli sommersi, le posizioni di lavoro
individuale rappresentano il 50,9%. Ovviamente qui si fa una forzatura delle categorie che
definiscono il mercato del lavoro perché un lavoro a tempo determinato è un lavoro salariato,
normato, e non individuale. Ma, in realtà, se vieni mandato per sei mesi in un’impresa, poi ritorni
disoccupato e magari, aggiornando le tue capacità, vieni mandato da un’altra parte, in realtà è la tua
capacità individuale di essere messo al lavoro che è in gioco. E lo stesso vale per le forme dei lavori
sommersi, neri, precari, in cui ognuno si deve arrabattare per inventare qualcosa. Non c’è dubbio,
comunque, che in questo 50,9%, rientrano sia il lavoro imprenditoriale in senso stretto, che gli
imprenditori di aziende dell’information communication technology fino agli specialisti, ai tecnici
del settore; poi i tanti che fanno piccola, media, grande impresa e impresa artigiana; tutti i lavoratori
autonomi che esercitano professioni liberali, in tutti i settori produttivi e, attenzione, non stiamo
parlando solo dei professionisti che sappiamo, ma di tutte le nuove professioni, tipo marketing,
pubblicità, consulenze, eccetera; poi abbiamo i tanti giovani e meno giovani che lavorano in forme
di lavoro atipico, sempre più tipico, come il caso del milione di partite Iva; poi i tanti lavoratori
della conoscenza, che hanno nel loro sapere, nelle loro competenze, costantemente aggiornati, i
propri mezzi di produzione; infine i tanti operatori del terzo settore, che operano privatamente per il
bene pubblico, lungo la filiera dell’out-sourcing degli enti locali, che sono organizzati in imprese
sociali, cooperative. Ora, tutte queste figure io le definirei come “capitalisti personali”, imprenditori
di se stessi. Capisco che è una forzatura, ma io credo che possiamo dire che la nostra società è
sempre più caratterizzata dal mito e dalla forma del capitalismo personale. Se è così, ecco spiegato
l’altro grande e potente meccanismo identificatorio: “Facciamo tutti come lui”; “facciamo tutti
come lui, che ce l’ha fatta”.

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Mentre il capitalismo prima prendeva corpo nel padrone e la fabbrica, restando per il resto un’entità
astratta, oggi il capitalismo è dentro di noi, nel senso che siamo diventati imprenditori di noi stessi
per stare sul mercato e sopravvivere. E questo capitalismo personale si vede anche su come i
soggetti determinano e immaginano il loro futuro. Fino all’altro ieri non pensavamo di dover essere
noi i protagonisti del nostro futuro. Fin quando eravamo soggetti al lavoro, dentro la società, operai,
salariati, impiegati, ecc., delegavamo il nostro futuro alla statualità che ci accompagnava dalla culla
alla tomba. Ora non è più così. Prendiamo alcuni numeri: in ambito previdenziale la quota delle
attività finanziarie – sto parlando dell’Italia – destinate a polizze vita o a fondi pensione personali,
non collettivi quindi, non l’Inps, sono passati dal 7% del ’98 al 10% del 2000, e si fa un trend già di
crescita al 12% nel 2002. Lo sanno bene le banche, che hanno individuato in questo il mercato del
futuro. Per una vecchiaia più serena solo il 18,9% degli italiani pensa di affidarsi e spera nello
Stato; il 29,2% sceglie genericamente di risparmiare o di giocare in borsa; il 26,7%, di cui il 45%
dei più giovani, pensa alla stipula di un’assicurazione privata. Ecco che il capitalista personale deve
essere intraprendente per disegnare il proprio futuro contando solo ed esclusivamente su cosa? Sui
meccanismi del privato e della finanza, sui meccanismi del capitale, quindi, e non più della
statualità. Allora, se questa è la composizione sociale che viene avanti, la sfida politica è tra chi è in
grado di porsi sia sul versante dell’intraprendere che su quello dell’autotutela. E io credo che tra i
due venditori di futuro, il più credibile per la cultura del capitalismo personale sia apparso
Berlusconi. Altro esempio: i numeri della case di proprietà. Allora, noi possiamo anche sorridere di
questi argomenti, ma l’identificazione passa anche attraverso cose elementari. Berlusconi dice che
abolirà la tassa sulle donazioni e sull’eredità. Bene, come si risponde a questo? “Lo fa per lui”. Ma
vogliamo renderci conto che una famiglia media italiana che deve lasciare un’eredità a un figlio, se
ha un appartamento di proprietà e magari un pezzo di eredità ricevuta precedentemente, una casa da
qualche altra parte, inizia ad avere il problema di non far tassare 500-600 milioni e più. Ecco che
uno dice: “Ma anch’io sono come lui, anche se lui ha i miliardi a palate”. Quindi il discorso con cui
la sinistra ha fatto campagna elettorale, difendendo, e giustamente io dico, il welfare, la statualità,
ecc., è stato sconfitto da quello del capitalismo personale. Sembra prevalere il modello americano
della privatizzazione del welfare. E io credo che questo non sia un caso: bisogna rassegnarsi al fatto
che probabilmente, fra quelle europee, siamo la società più americana. Ovviamente un’America
senza protestantesimo, senza quella lunga tradizione al capitalismo personale che ha sviluppato pesi
e contrappesi, e regole, nel governo dei poteri; un’America cattolica, quindi senza quel grande
quadro di regole che hanno loro. Ecco perché poi in Italia si dispiega in modo così plateale la
questione del conflitto d’interessi. Non c’è dubbio che le regole non ci sono e questo è il problema;
però, non si vincono le elezioni dicendo solo: “Le regole!”, perché gli altri vogliono le passioni e le
regole non producono passioni. L’accompagnamento del capitalismo personale produce passione.
Terzo punto, ancora di analisi. Siamo, come dice Cacciari, dentro la dimensione dell’individualità
compiuta. La comunità originaria e l’appartenenza di classe, i due grandi pilastri che hanno
caratterizzato tutto il ‘900, si sono depotenziati. Siamo dentro la società della moltitudine. L’uomo
democratico e consumatore, capitalista personale, vuole sempre più libertà di essere utente e
consumatore, produttore e consumatore di informazioni, opportunità, eventi ecc., e, nello stesso
tempo, ha paura del futuro. Quindi, l’uomo democratico e consumatore vuole essere utente e
produttore di informazione al meglio e dall’altra parte ha un grande desiderio di affidarsi. Quindi,
vuole far da solo e dice: “basta con lo Stato che mi dice…”, e dall’altra parte però pone una
domanda di protezione. Ma a chi si deve affidare, se lo strapotere della biopolitica, del tecnico-
economico, ha ormai delegittimato tutti gli altri poteri, statualità, nazione, rappresentanza,
rappresentanza delle passioni, cioè partiti, sindacati? Da una parte afferma: voglio fare da solo,
voglio anche sbagliare da solo, non voglio più che qualcuno mi dica cosa devo fare; e però questo
crea insicurezza. A questo punto, mi sembra evidente che si affiderà a chi, di nuovo, sia riuscito a
essere il miglior venditore di futuro. Pensiamo solo al tema della sicurezza, – tanto sentito proprio
perché una società così competitiva, anomica, produttrice di solitudine crea smarrimento,
insicurezza, paura del futuro – dirottato tutto nella diffidenza verso l’altro, il diverso, lo straniero.

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Insomma, io credo che Berlusconi, il berlusconismo, si è posto con un grande messaggio biopolitico
di identificazione con i singoli capitalisti personali, un messaggio di futuro. Un messaggio,
ovviamente, dall’alto verso il basso, forte, pesante, direi opprimente, pericoloso. Ma a questo cosa
si è contrapposto? Sui problemi, la sinistra si è posta come il difensore delle regole, il grande
innovatore dall’alto e il soggetto della macroeconomia: l’Euro, il risanamento finanziario, le regole
certe. Questo è stato il discorso: “Noi in 5 anni vi abbiamo portato in Europa, noi abbiamo risanato
lo Stato”; macroeconomia. Tant’è vero, questo, che tutti i soggetti della macroeconomia, di destra o
di sinistra, hanno attaccato Berlusconi ed erano giustamente per la sinistra. Ma l’Economist cos’è?
E’ semplicemente il portavoce dei grandi interessi della macroeconomia, finanziaria, degli apparati,
delle regole. E qui, di nuovo, abbiamo visto la perfidia, dell’altro soggetto. Berlusconi non si è
proposto come un attore della macroeconomia; ha detto: bene, questa è la modernizzazione
dall’alto, ma c’è un problema di modernizzazione dal basso, di microeconomia che riguarda i tanti
capitalisti personali di questo paese; bene, abbiamo risanato, ma attenzione che non basta avere solo
l’Euro, bisogna avere anche banche efficienti che accompagnano sul territorio i tanti capitalisti
personali; non bisogna solo avere le regole europee, bisogna avere anche strade, autostrade che
permettono di commercializzare e produrre. Quando è andato alla lavagna per dire: “io farò queste
cose”, “collego Alba a Torino”, parlava del passante di Mestre. Mentre noi eravamo tutti lì a
guardare Santoro, i tanti capitalisti personali dicevano: “Ma sì, è vero che abbiamo avuto l’Euro, è
vero che il denaro costa meno, però io ci metto due ore a fare Bergamo-Brescia e mi sono rotto i
coglioni. E questo che cos’è se non di nuovo biopolitica? La vita del quotidiano sussunta dentro
l’economico.
Un “io diviso” è la contraddizione. Faccio un esempio banale. L’io diviso è avere il portafoglio a
destra e il cuore a sinistra. Era avere di fronte un capitalista personale che diceva: “Vi abbasserò le
tasse, vivrete in una società che vi riconosce come capitalisti personali e, quindi, già solo per questo
libererà la vostra energia”; quindi il portafoglio a destra. E dall’altra parte il cuore a sinistra che
diceva: ma come? Il capitale ci porta a meccanismi di competizione con l’altro, a un individualismo
sfrenato, mentre noi siamo persone che vogliono mantenere il valore di legame, la reciprocità, la
socialità. Ma cosa significa questo se non che il conflitto è entrato dentro di noi, che il nostro io è
diventato schizofrenico? Detto altrimenti: la società italiana si percepisce ed è, in parte,
sufficientemente ricca e affluente, caratterizzata dal capitalismo personale, per affidarsi alla destra,
o a Berlusconi, per un futuro possibile; ma, nello stesso tempo, insufficientemente coesa per essere
governata dalla destra, nel senso che tutti i meccanismi di coesione sociale precedenti sono saltati, e
se l’unico valore di legame è l’individualismo proprietario, beh, insomma, il problema resta aperto.
Dunque, riparto dai ragionamenti di analisi fatti prima. Credo che bisogna fino in fondo partire
dall’io diviso. Prendere atto che il capitalismo è entrato dentro l’antropologia del soggetto, che
viviamo nella fase del capitalismo personale, in una società della moltitudine, di una dimensione di
massa dove si sono completamente depotenziate le categorie di classe e dentro la quale ognuno è
monade, nomade, multiattivo e dove la dimensione del lavoro invade tutta la nostra vita, salta la
separazione tra tempo di vita e tempo di lavoro e la forma che prende il tempo del lavoro è as soon
as possible, “il più presto possibile”. In questa situazione come ricreiamo un valore di legame? In
una situazione in cui i soggetti si sentono sempre più soli, vogliono più libertà, ma non sanno a chi
trasmettere le proprie paure, credo si aprano grandi spazi all’autocostruzione, autorganizzazione dal
basso, alla creazione di legami nuovi tra i soggetti, fondati su reciprocità, solidarietà, socialità. Oggi
per “fare società” si può intanto ripartire dall’altra polarità dell’io diviso: dalla persona,
dall’individuo che si contrappone alla spersonalizzazione delle relazioni umane.
Teniamo presente, comunque, che il messaggio biopolitico che abbiamo visto dispiegato dal
berlusconismo è un messaggio, appunto, completamente calato dall’alto; è un soggetto che si pone
col massimo di potenza, che si identifica col comune sentire, pensare, agire, con la voglia di
“libertà” degli individui, chiedendo loro di affidarsi a lui in nome di un unico valore di riferimento,
il capitalismo di mercato. Ma poi la libertà in senso sociale, la libertà di fare dei soggetti? Quale
sarebbe la “base” di tali processi, che non potranno, immagino, essere solo volontaristici? Ma è

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proprio scavando nelle forme del lavoro individuale, in quelle che chiamiamo nuove professioni,
che appare chiaro che sempre più per milioni di persone il trovare lavoro, il cambiare lavoro, il
continuare a lavorare dipende dal ‘capitale sociale’ del soggetto. Quello che per il sociologo
francese Pierre Bourdieu è quel sistema di relazioni interpersonali tra il singolo individuo e
l’ammontare di capitale umano, di reti di relazioni, di beni relazionali in grado di produrre un
effetto amplificatore del singolo individuo e del suo posizionamento nella scala sociale. Ora, è
chiaro che se la capacità di relazionarsi dell’individuo è sussunta solo dal primo lato della nostra
dualità, dal nostro essere capitalisti, cioè, individui proprietari, le reti di relazione verranno
utilizzate per ottenere il massimo di competitività del soggetto e il massimo di profitto personale e
quindi il ‘capitale sociale’ perderà il suo aggettivo ‘sociale’ per essere a tutti gli effetti un capitale.
Il capitalismo allora ci apparirà come naturale, anzi l’unica natura possibile. Se viceversa si parte
dall’altra polarità dell’io diviso, dalla persona, e il termine capitale sociale perde, nella misura in cui
è alimentato non dal desiderio di profitto ma dalla socialità, dalla reciprocità, dalla gratuità, la sua
valenza competitiva e diventa bene relazionale, valore di legame, allora quello stesso capitale
sociale può diventare capacità di autorganizzarsi della società, bene non individuale e scarso, ma
riproducibile. Si crea società, allora, rendendo bene pubblico, disponibili ai tanti, alla moltitudine al
lavoro in forma individuale, i beni relazionali che permettono di aumentare il senso, il reddito, il
sapere, il comunicare e di abbassare la soglia della solitudine, dell’incertezza del futuro. Quindi,
solo agendo sulle due polarità dell’io diviso, il capitalista, l’imprenditore individuale, il lavoratore
individuale che tende ad ampliare il suo capitale sociale, e la persona con la sua angoscia di essere
moltitudine privo di legami sociali con l’altro da sè, con la sua solitudine e con il suo desiderio di
socialità, è possibile costruire società. Ricordando al primo, all’individuo proprietario, come dice il
filosofo Cacciari, che “la proprietà obbliga” si riuscirà a temperare con principi di responsabilità
l’animale imprenditore che è dentro di noi e solo ricordando, sempre con Cacciari, la suddetta
citazione, ossia che “politica significa dire al tuo prossimo che non è solo”, si svilupperanno
percorsi di reciprocità, di valore di legame dentro la moltitudine che delineeranno una società
possibile oltre la società e l’economia della competizione.
Credo che un’analisi attenta del voto ci dica che questo è possibile. Proprio nel nord dove era
passata la prima ondata di biopolitica, o di neopopulismo, si vede che dove cominciano a sorgere
elementi di autocostruzione, di autorganizzazione, di nuove forme di aggregazione dei soggetti,
dove avendo lasciato le forme-partito, le forme di appartenenza precedenti, migliaia di soggetti si
mettono assieme, beh, il risultato non è così devastante come si temeva. Dove ci sono state
aggregazioni dal basso come la lista “Solidarietà” in Trentino, o “Insieme per il Nord” nel Veneto le
cose sono andate meno peggio di quello che si prevedeva. Ovviamente, nel Mezzogiorno, dove
arrivava per la prima volta, l’ondata di identificazione è passata come un fiume in piena, come del
resto era successo con il leghismo e il berlusconismo al nord. Di fronte alla biopolitica, alla new
economy, alla globalizzazione, vediamo che una prima forma di reazione è quella della nostalgia.
Uno dice: “Ah, com’era molto più ordinata, e molto più conflittuale, molto più densa di luoghi di
rappresentanza delle passioni e degli interessi, la società di un tempo”. Vero, la società di un tempo
ci appariva più ordinata; io, però, ho sempre pensato che dal disordine poi nascano i processi di
cambiamento e mi pare che anche tutte le teorie della sinistra avessero pensato questo. E’ un po’
strano che adesso le uniche teorie in voga siano quelle dell’ordine… Quindi una grande nostalgia
per una borghesia imprenditoriale che non c’è più, per un rapporto capitale-lavoro in cui era ben
rappresentato sia il capitale che il lavoro, per un welfare che stava in mezzo e redistribuiva quel po’
di risorse che poteva; quindi una grande nostalgia del fatto che tanti stessero alla catena di
montaggio. Bah! Il secondo modo di reagire è quello di opporre resistenza. Ovviamente la
resistenza può essere quella più becera, che vede il fascismo che avanza, ma non mi pare ci sia in
giro resistenza di questo genere. L’altra resistenza invece dice: bene, a fronte di questo, ci si
organizza e ogni volta che c’è un evento dei padroni, dell’economia dei flussi, della rete, si
organizza la risposta; è la mobilitazione del popolo di Seattle, che è l’insieme di tutti coloro che
resistono, da chi resiste per difendere il proprio formaggio, o la loro qualità della vita locale, a chi si

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oppone alle biotecnologie, eccetera, eccetera. Benissimo, tutte scelte anche giuste, ma io non credo
che queste forme di resistenza possano risolvere i problemi di cui abbiamo parlato. Io dico che non
c’è alternativa al fatto di accettare fino in fondo la sfida. Bisogna metterci molta soggettività nella
costruzione del sociale. Mentre prima la soggettività te la dava il conflitto, qui invece te la devi
produrre tu. Per rispondere alla biopolitica l’unico modo è costruire spazi liberati, movimenti
liberati, pena la delega e l’identificazione. Beh, in questo siamo un grande laboratorio. Io credo, a
differenza di tanti intellettuali, che bisogna essere contenti di vivere in Italia. E mica perché è bello
vivere con Berlusconi, ma perché è bello vivere una nuova fase di costruzione della società che
viene.
Arriviamo a Genova: posso dire che sia dal punto di vista politico sia da quello squisitamente
sociologico la definizione di movimento è decisamente impropria, poiché rimanda ad una categoria
tutta novecentesca. Nell’ultimo dopoguerra, ma soprattutto dopo il ’68, a partire dalle forme
tradizionali di composizione di classe, che riguardavano essenzialmente l’operaio-massa e i suoi
aggregati, a un certo punto si è delineata una forma spuria che ci siamo abituati a chiamare
“movimento”: si trattava della sintesi di ciò che avveniva dentro le mura della fabbrica, dove c’era
la classe operaia, e fuori dalle mura, ossia sul territorio. Da lì nasce, cresce e si aggrega l’operaio
sociale. Ma quello che è apparso da Seattle in avanti non è una categoria ascrivibile a questo
percorso e a simili composizioni: ciò che viene avanti oggi è una cosa che non saprei denominare se
non come un percorso forte proveniente dai processi di civilisation e non più di kultur, per usare
macrocategorie novecentesche. Le parole d’ordine non sono più quelle del ‘900, producono infatti
pochissime discriminanti politiche: c’è forse qualcuno per la fame nel mondo? Qualsiasi essere
umano, che riconosce il fatto di essere tale, pensa che l’altro abbia diritto a mangiare, alla tutela
della salute, a un ambiente eco-compatbile e via di questo passo. Ritornando a quanto accennavo
prima nell’analisi dei movimenti passati, oggi si può dire che quello che viene avanti non è il primo
popolo, il tessuto della militanza novecentesca, che può essere assunto attraverso la forma-partito o
quella dei portavoce, di cui costituisce una variante dolce. Non porrei quindi attenzione al primo
popolo, che interpreta il secondo o rappresenta la moltitudine, ma piuttosto rifletterei proprio sul
secondo popolo e sulla moltitudine: sta qui il fatto nuovo di Genova. Il secondo popolo, dunque,
rappresenta le forme nuove di espressione culturale e politica, microcomunità locali che stanno nel
volontariato, nelle parrocchie, nell’azione locale e in quella ambientalista; sono queste realtà ad
essersi mobilitate. Pensiamo al Nord-Est, ad esempio: non c’è dubbio che molti siano stati
mobilitati a partire dalla rete dei centri sociali, ma se ne facciamo un problema di numeri
certamente la mobilitazione più interessante e innovativa è quella delle tante microparrocchie e
microassociazioni che sono andate a Genova in nome di grandi principi umanitari e non in nome di
uno scontro tra l’Impero e la moltitudine. Questo è quindi il secondo popolo che si è reso evidente a
Genova, che si è mobilitato, che è cresciuto dentro le società occidentali: è fatto di azione locale, di
volontariato, di comunità, di attenzione e intervento su problemi come quello della salute. Si tratta
di temi che nella globalizzazione ci appaiono drammaticamente irrisolvibili, mentre invece
diventano affrontabili attraverso un rapporto con l’altro da sé e con la comunità, con quello che io
chiamo il mettersi in mezzo. Il secondo popolo ha imparato da tempo a mettersi in mezzo: penso ad
esempio a quello straordinario laboratorio di tragedie che è stata la ex Jugoslavia, alla Bosnia,
qualcosa che ha anticipato quello che oggi, dopo l’11 settembre, stiamo vivendo. Lì il secondo
popolo, questo tessuto di volontariato, comunità e azione locale, si è messo in mezzo. Il militante
era colui che, partendo da interessi materiali, vi coniugava le passioni. Qui, invece, molto spesso si
parte non dagli interessi materiali, ma dalle passioni e dal sentire. Il secondo popolo sente più che
rappresentarsi per interesse: sente, dunque, i problemi dell’ambiente, dell’immigrato, della sua
identità, della salute, le grandi parole d’ordine universali.
Genova è stata anche l’espressione della moltitudine, intendendo con tale categoria la classe senza
un’identità precisa. Per la prima volta nella società occidentale e nell’era moderna si è fatta avanti
una composizione sociale che non nasce all’interno dei meccanismi della produzione di fabbrica,
ma in una dimensione di produzione diffusa. Non mi ha sorpreso che a un certo punto, nella cronaca

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del dopo Genova, si sia scoperto che attorno a quel gippone dei carabinieri dove ha trovato la morte
Carlo Giuliani ci fosse il commercialista, il barista, quello che aveva un negozio. Nella
scomposizione sociale avvenuta, è questa la nuova moltitudine che si mobilita, è questa la
civilizzazione che viene avanti. Però, è sbagliato pensare che il secondo popolo e la moltitudine
siano piegabili a un primo popolo che li interpreta usando le categorie del ‘900. Il problema, in
termini teorici, è la perdita del soggetto, ma a questa cosa dobbiamo abituarci. Oggi il rapporto è
immediatamente tra soggetto e oggetto e per questo la politica è in crisi. Per tutto il ‘900 il modello
produttivo di riferimento produceva la sua composizione sociale antagonista; ora, invece, la
globalizzazione dissolve la composizione sociale, la distrugge, non la crea più. Così, la new
economy non significa new society; la globalizzazione distrugge comunità locale e meccanismi di
aggregazione, si fonda sul rapporto tra grandi processi globali e l’individuo. In questo contesto di
dissoluzione della comunità, il problema sta in quello che io definisco il “fare società”. Dunque, se
la comunità locale non è più un dato naturale, se è tutta dissolta, dobbiamo renderci conto che la
questione è quella di creare artificialmente la società. Secondo una massima di Martin Heidegger,
che ha condizionato tutto il pensiero europeo e occidentale, prima viene il pensare, poi il costruire e
quindi l’abitare un territorio. Non sono d’accordo con questo schema di ragionamento, anzi lo
rovescerei sostenendo che il problema è abitare un territorio, poi ipotizzare come costruirlo
artificialmente e infine pensarlo.
La nuova politica significa essenzialmente ripartire dalla persona e non da categorie come quelle di
classe e società, perché la vera questione posta sul tappeto è quella dell’uomo con i suoi diritti.
L’unica parola d’ordine, se la si vuole trovare, è quella di chi dice non di essere contro la
globalizzazione, ma che dentro di essa bisogna globalizzare la solidarietà, i diritti, le opportunità. E’
questa la questione elementare dal punto di vista politico, rispetto a cui il secondo popolo ha già una
sua pratica: esso, infatti, è cresciuto in questi anni mobilitandosi per le cose minute (il problema
dell’ambiente o quello della salute, ad esempio), quindi ha una pratica di mobilitazione. Poi ci sono
dei momenti in cui questa pratica precipita dentro eventi spettacolari non creati dal movimento, ma
da una globalizzazione che ha bisogno di legittimare se stessa, facendo i G8 tanto per intenderci:
questa è stata la produzione dell’evento. E’ un qualcosa che è diventata una merce, in tutti i
momenti in cui ci sono eventi spettacolari, là ci sono momenti di mobilitazione. Ora, noi dobbiamo
considerare che dal fordismo al postfordismo, e da quest’ultimo alla globalizzazione, c’è stata una
discontinuità forte: per usare un’espressione di De Martino, c’è stata un’apocalisse culturale, molto
simile a quella che tra ‘800 e ‘900 ha sancito il passaggio dal mondo agricolo al capitalismo urbano
industriale. Chi avrebbe pensato che quella moltitudine di pezzenti massacrata dai cannoni di Bava
Beccaris (con la stessa violenza che si è vista nel massacro di Genova) avrebbe poi elaborato al suo
interno una grande capacità di autorganizzazione? Invece, nacquero le leghe operaie e contadine per
tutelare i proprio diritti, le mutue per darsi solidarietà, le università popolari per darsi un linguaggio,
nacquero insomma tante forme di autorganizzazione. Allora, riguardo sia al secondo popolo sia alla
moltitudine, ritengo che sia necessario lasciar crescere il loro linguaggio e le forme di
autorganizzazione, che embrionalmente sono già tante. Inoltre, ha già i suoi modelli e i suoi saperi,
che si chiamano, ad esempio, “Medici Senza Frontiere” o Gino Strada. Il nostro, invece, è un
linguaggio datato: si può fare lo sforzo, come sociologi e ricercatori sociali, di vedere la novità e
quindi interpretarla, ma le nostre pratiche sono sempre dentro i meccanismi amico-nemico e del
conflitto. Invece, sta venendo avanti un linguaggio molteplice: chi l’avrebbe mai detto che si
sarebbe fatto mutualismo facendo professione, facendo impresa, facendo consulenza?

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INTERVISTA A GUIDO BORIO – 27 OTTOBRE 2001

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e l’inizio della tua attività
militante?

Sono nato a Torino e ho vissuto in questa città buona parte della mia vita. Ho incominciato a fare
politica molto presto, con l’inizio degli studi di scuola media superiore. La mia formazione è legata
ad un periodo particolare: infatti, ho iniziato la prima classe dell’istituto superiore per geometri
“Castellamonte” nell’autunno del ’68. Ancora ragazzino, con i pantaloni corti, mi sono ritrovato in
una realtà sociale in cui nascevano e si sviluppavano conflitti e lotte. Il “Castellamonte”, insieme al
“D’Azeglio” e al “Peano”, è stata una delle scuole più combattive in quegli anni a Torino,
fortissima come movimento degli studenti medi. Nell’autunno ’68 c’è stata, da ottobre a dicembre,
una catena continua di lotte, di scioperi, di occupazioni del mio e di altri istituti a Torino. Questi
movimenti sono durati con alti e bassi per molti anni, c’era partecipazione di massa e conflitto
sociale non solo nelle scuole, ma anche nelle fabbriche, nel territorio e nella città.
Precedentemente ho frequentato le elementari e le medie inferiori dai padri rosminiani. I miei
genitori decisero, non senza sacrifici, di mandare tutti i quattro figli in una stessa scuola privata,
anche per avere più tempo per l’attività lavorativa che svolgevano: avevano un laboratorio di
rilegatoria. Ma la scelta di un certo tipo d’educazione veniva anche da un retroterra vissuto: mia
madre è nata in una famiglia cattolica antifascista originaria della provincia di Novara, mio padre è
stato in collegio dai padri salesiani per molti anni, lì apprese il mestiere di artigiano restauratore di
libri. Mio padre era abbastanza autoritario e non intendeva discutere in famiglia: decideva e così
doveva essere. Mia madre era di vedute aperte e aveva un carattere molto tollerante. La scelta, di
non frequentare il liceo dai preti, ma di andare in una scuola pubblica, è stata per me una prima
forma d’opposizione alla famiglia. Mia madre mi ha spinto ad avere un’attenzione per la letteratura,
la narrativa e i romanzi. Le letture a lei piacevano molto, così raccontava, a noi figli, le trame dei
romanzi; ci diceva: “leggi questo libro”, “segui questo autore”. Amava molto anche la musica
classica e lirica, ma non è riuscita a trasmetterci anche questo interesse.
Sempre nell’ambito famigliare ho avuto un indirizzo precoce verso scelte sociali e politiche di
partecipazione dai miei fratelli maggiori, in particolare da Battista. Egli ha sette anni più di me.
Dagli ultimi anni ’60 aveva fatto tutta l’esperienza del movimento studentesco e universitario
torinese e dell’assemblea operai-studenti, militando poi per alcuni anni, a livello intermedio, in
Potere Operaio. Successivamente ha vissuto altre esperienze sociali e politiche inerenti alla
psichiatria alternativa lavorando a Reggio Emilia sotto Jervis nei primi anni ’70, poi a Trieste sotto
Basaglia. Nella seconda metà degli anni ’70, tornato a Torino, ha intrapreso un precariato
universitario in vari istituti, a Scienze Politiche. Poi ha trascorso dodici anni negli Stati Uniti.
Sicuramente per me Battista è stato una figura significativa, un punto di riferimento importante,
soprattutto nei primi anni ’70. Se mia madre mi indirizzo verso la letteratura, mio fratello mi
sottolineò l’importanza di studiare. Era lui che portava a casa La Classe poi Potere Operaio e che
mi portava alle riunioni dell’assemblea operai-studenti. Mi fece conoscere Operai e capitale, Sulla
Fiat e altri scritti, Sindacato e Partito, Operai e stato e ciò che scriveva in quegli anni Negri. Mi
consigliò altri libri della collana Materiali Marxisti, Opuscoli Marxisti; sempre da lui avevo
indicazioni su riviste come Aut Aut, Critica del Diritto, Quaderni del Territorio, Quaderni del
Progetto (dove aveva pubblicato un saggio Guido Bianchini), e su altre pubblicazioni del
movimento. Politicamente quando Potere Operaio si divise, nel ’73, partecipò all’esperienza delle
assemblee operaie autonome, seguì in quell’anno le lotte alla Fiat e fu interno al dibattito dell’allora
nascente Autonomia Operaia. Partecipò alla redazione del giornale Rosso e collaborò ai primi
numeri della rivista Controinformazione. Dopo il ’77 incominciò a non condividere più la linea
politica di questa area, soprattutto quella lottarmatista, e si dedicò ad altro interrompendo la
militanza politica. Questa, per lui, non era mai stata molto pratica, ma di ricerca, d’analisi e di
discussione. Ancora oggi molti mi ricordano come il fratello minore di Battista.

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Come ho detto, la militanza politica l’ho incominciata quando avevo 15 anni, da allora ho seguito le
lotte e ho partecipato ai movimenti sociali nati in una situazione qual era quella torinese. Allora
tutto era rivolto alle lotte in Fiat. A Torino ci sono stati tre cicli di lotta importanti: il primo nel ’69
dalla primavera all’inverno, il secondo nel ’73 culminato con l’occupazione dei cancelli di
Mirafiori, l’ultimo nella primavera-estate del ’79 quando ci sono stati i blocchi delle merci e i
presidi nei corsi e nelle zone intorno ai grandi insediamenti industriali dell’auto. Il mio è stato un far
politica in ambiti di base, nei movimenti e nei territori sociali: fuori da istituzioni, partiti e sindacati.
La militanza consisteva nell’essere interni e promuovere una rete informale di rapporti; nell’andare
a costruire e animare le riunioni in cui si discuteva cosa fare e come fare le lotte. Si stava
fisicamente là dove c’erano i picchetti, gli scioperi, le manifestazioni, i cortei, gli scontri. Allora la
politica la intendevamo soprattutto come una presenza continua di agitazione e di aggregazione
collettiva nelle scuole, nei quartieri della periferia e ai cancelli della Fiat.
Ho militato in Lotta Continua dall’inizio del ’70 fino al ’73, quando ne sono stato, in pratica,
espulso. Lotta Continua era in quegli anni a Torino un gruppo molto presente, contava migliaia di
militanti e simpatizzanti. Dalla fine del ’72 ho seguito il nascere dell’area dell’Autonomia Operaia,
e lì mi sono collocato. Ho fatto tutto il percorso di quest’ambito; in particolare il mio riferimento
specifico era la rivista Rosso e i collettivi politici che si erano formati nelle varie realtà regionali.
Complessivamente l’intervento dei collettivi era abbastanza instabile, cresceva o si dissolveva senza
molta continuità. I gruppi erano composti da operai, per lo più molto giovani, da studenti e
giovanissimi. L’interesse e l’intervento maggiore si incentravano sulle lotte operaie. C’era molta
internità anche nei movimenti giovanili che hanno poi dato vita ad esperienze come quella del ’77;
qui a Torino è stata una cosa un po’ anomala se confrontata con i movimenti sviluppatisi in altre
città, ma ricca di contenuti e di differenze. E’ di quel periodo la ricerca fatta da Alquati e da altri
ricercatori di Scienze Politiche sull’università di ceto medio.

- Qual è stata la tua esperienza di militante politico? Come analizzi, più in generale, il nodo
della militanza, sia in riferimento ai percorsi in questione, sia da un punto di vista complessivo?

La mia formazione non si è mai disgiunta dalla formazione politica, sono cresciuto con la tensione a
fare politica prima con una forma di partecipazione e di militanza di base poi passando a forme di
militanza intermedia. Questo è stato abbastanza totalizzante e mi ha condizionato nel bene e nel
male. Mi ha dato delle caratteristiche e una tensione specifica, a relazionarmi, ad osservare, ad agire
socialmente. In qualche modo non posso dire di aver deliberatamente scelto con una
consapevolezza data dalla maturità. Altri compagni, di una generazione precedente alla mia, si sono
formati e hanno intrapreso i percorsi politici in un periodo diverso, quando le lotte e i conflitti
avevano un peso sociale differente. Dall’altra parte, però, credo di aver vissuto un’esperienza
formativa ricchissima, di aver dovuto confrontarmi e muovermi sin da giovanissimo in un contesto
irripetibile.
La mia esperienza di militanza politica è stata, dai 15 ai 26 anni, legata alla pratica politica di
costruire lotte e costruire forme organizzative che si legassero al tessuto e al conflitto sociale:
collettivi d’intervento, comitati, volantini, giornali, fogli d’agitazione erano il risultato e lo
strumento di un agire politico quotidiano e continuo. Il confronto con la realtà, la necessità di
verificare i risultati in termini di riuscita delle lotte, degli scioperi, delle occupazioni sono stati il
banco di prova dell’attività politica. Tuttavia, devo dire che questo non è stato un muoversi
spontaneo, né tanto meno individuale, in qualche modo invece si legava ad una progettualità più
generale. Si tendeva alla costruzione di forme organizzative che avessero una valenza di rottura col
quadro istituzionale, con la politica dei partiti politici. Il fine di metatendenza era costruire un agire,
un percorso organizzativo e anche un progetto che avesse dei caratteri rivoluzionari e
anticapitalistici.
Per questo in me c’è stata sempre l’attenzione a quello che era il dibattito teorico e politico
dell’operaismo. In questo, come ho detto, sono stato indirizzato: mio fratello Battista, poi Guido

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Viale, Mario Dalmaviva ecc. E’ molto importante il nodo degli incontri, del contesto, degli indirizzi
per la formazione di un militante politico, anzi io credo che siano, in un certo modo, essenziali
all’origine. In seguito la maturazione porta a fare scelte, a confermare o ad allontanarsi dalle
premesse formative, ma non credo sia possibile crescere molto solo singolarmente o isolati da una
dimensione politica e sociale precisa e data. Questa origine poi te la porti dietro come un bagaglio
genetico, ti caratterizza in certe particolari specificità, d’impostazione mentale, di retroterra
culturale, ti limita o ti potenzia la prospettiva in cui ti troverai e ti muoverai. Col tempo altre
esperienze si sovrappongono e condizionano nuovamente e anche profondamente la soggettività
degli individui, ma alcuni tratti della formazione iniziale, in genere, permangono indelebili. Sono
sempre stato convinto che le esperienze siano fondamentali, e quindi queste vanno selezionate e
portate avanti con scelte consapevoli, scelte di adesione e allo stesso tempo di partecipazione alla
costruzione di un progetto. La crescita politica e il regresso o il cambiamento di direzione sono
direttamente connessi con dimensioni individuali e dimensioni collettive. Il dove ci si colloca è
fondamentale. Ci sono alcune posizioni che danno una potenza grandissima alla proposta e al
progetto perseguito.
Il confronto con il contesto e nell’ambito politico in cui si sceglie di stare ha una valenza formativa
primaria. Il relazionarsi, individualmente e collettivamente, al contesto permette un su e giù
continuo di elaborazioni e di sintesi che potenziano l’agire e che contribuiscono a indicare come va
radicata la progettualità. La partecipazione a un ambito politico, sia esso formale o informale,
permette di far sì che si possa esprimere una dimensione teorica non separata, ma anzi finalizzata
all’agire politico. Certo ci sono differenti livelli di realtà, e a questi devono corrispondere altrettante
dimensioni di militanza e di elaborazione teorica. Queste differenti collocazioni devono essere
legate e unite: la progettualità consiste anche nel mettere in relazione queste differenze e nel
condurle a continui momenti di sintesi.
A partire dal ’74 ho incominciato anche a frequentare alcuni ambiti nazionali, andavo a Milano a
seguire le assemblee autonome poi vennero a cercarmi Miliucci e altri compagni romani e
incominciammo a seguire i comitati autonomi operai di Roma. Dal ’73 presi alcuni contatti con dei
veneti delle assemblee autonome e poi nel ’75 con i compagni dei collettivi politici veneti:
Marongiu, Sturaro, Despali e altri. A Milano entrai in rapporto con Pancino, Mancini, Fabrizio,
Mainardi e altri a Napoli e nel sud. Sempre in quegli anni a Torino si costituì una redazione che
faceva inchiesta e ricerca sulle lotte in Fiat, nel sociale e sulla nuova composizione dei giovani e
degli studenti e poi stilava cronache e osservazioni sulle lotte. Questi articoli venivano poi stampati
sulla rivista Rosso e in altre pubblicazioni. All’inizio mio fratello era la figura trainante, poi il tutto
assunse una dimensione un po’ più estesa e collettiva.
Devo dire però che, come già prima era stato per Potere Operaio, poi anche per l’autonomia a
Torino queste esperienze non assunsero mai una dimensione così vasta come avvenne a Roma, nel
Veneto o con caratteristiche differenti in Lombardia e a Milano. Nonostante le sostanziali analogie,
c’erano molte differenze tra le diverse situazioni territoriali e regionali: come composizione e
attivazione dei settori sociali che erano coinvolti o esprimevano le lotte; come diversità del modo di
emergere, di radicarsi e di tenuta della conflittualità; come percorsi di costruzione e di espressione
del quadro militante e quindi degli specifici aspetti organizzativi o di autorganizzazione, delle
influenze e delle caratterizzazioni delle forme di partecipazione e militanza. Andrebbe fatta una
ricerca approfondita su queste peculiarità locali, non tanto con scopi storiografici, quanto per
acquisire elementi per una riflessione politica sulle ricchezze e sui limiti effettivi di queste
esperienze e di quei conflitti.
La qualità di questa presenza era però significativa, c’era anche una specificità della situazione
torinese: le forme di espressione del conflitto operaio e sociale erano abbastanza particolari. Si
davano forti esplosioni di lotta con una partecipazione di massa estesa e poco controllabile che poi
rifluivano, in un muoversi sotterraneo delle tensioni e delle forme d’insubordinazione. Anche le
forme della militanza, le caratteristiche delle avanguardie di lotta interne, del tessuto e della rete
organizzativa, delle relazioni e dell’uso operaio del sindacato o degli organismi spontanei che si

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formavano e si scioglievano erano particolari e specifici. La lotta operaia, lo scontro di classe alla
Fiat é stato allo stesso tempo un punto di riferimento, anzi un epicentro trainante politicamente, ma
anche una realtà conflittuale non esportabile e poco riproducibile altrove. Un momento molto
mitizzato, ma poco colto nella sua specificità.
Ci fu in quegli anni una forma di presenza diffusa, sostenuta da piccoli gruppi o addirittura da
singoli, che sicuramente si avvicinava al concetto di conricerca, anche se non né assunse il nome e
rimase per lo più in una dimensione informale. Era un attività finalizzata all’intervento specifico
che si fondava sulle necessità di approfondimento e di conoscenza per le lotte e l’attività politica.
Era un modo di ricercare, riflettere politicamente e socialmente anche in qualche modo strutturato,
proposto da compagni più anziani che si realizzava in ambiti tra i più disparati. Avveniva, per lo
più, in alcuni ambiti, seminari o in gruppi di ricerca nelle università, soprattutto a Scienze Politiche
e ad Architettura, dove insegnavano Alquati, Egidi, Guglietti, in alcuni ambiti bassi del sindacato e
in alcune sedi politiche.
Anche i livelli redazionali di alcune riviste hanno contribuito a queste attività: penso alle inchieste
sulle lotte operaie fatte dai primi numeri di Controinformazione. Devo dire che il giornale Rosso in
quegli anni ha avuto una buona capacità di anticipazione, non é stato solo il megafono delle lotte, è
stato anche uno strumento di analisi, in cui si facevano delle ipotesi e poi si verificavano queste
letture delle tendenze sociali. Questi fogli avevano la capacità di proporre forme differenti di analisi
della politica e della società: la ricchezza era data proprio dalla diversificazione dei contributi. La
rivista Rosso è stata, a mio giudizio, un’esperienza molto diversa dal giornale Potere Operaio. Il
tutto si è sviluppato con poca continuità, ma con significativi alti e bassi sia di partecipazione, sia di
qualità di proposta.
Col tempo la mia collocazione nel contesto sociale e politico si è modificata: non mi collocavo più
solo negli ambiti di base, ma partecipavo anche ad una dimensione intermedia di militanza politica,
continuavo ad agire a Torino e in Piemonte, ma intervenivo anche in ambiti nazionali. Allora
l’autonomia si raggruppava in una forma organizzativa che aveva molto la dimensione di una
federazione di forze con una specificità, una peculiarità e un differente radicamento territoriale da
zona a zona e da regione a regione. Questa nuova posizione intermedia richiedeva sicuramente
capacità ed esperienza sproporzionate alla mia giovane e immatura formazione. Il coinvolgimento e
l’impegno militante mi hanno portato però a incrementare la mia formazione politica molto
rapidamente non solo come internità ad un dibattito politico nazionale, ma anche nelle dimensioni
della militanza organizzativa. C’era una grande sproporzione tra le forze e le capacità che,
individualmente e collettivamente, si riuscivano ad accumulare e le necessità che il conflitto politico
richiedeva. Tuttavia, la carenza più grossa, che poi ha prodotto la sconfitta politica con le grandi
dimensioni che anche oggi paghiamo, non va ricercata in questa divaricazione, ma
nell’inadeguatezza progettuale.
Ora tutti ricordano molto la dimensione illegale e diciamo così nascosta dell’autonomia che
indubbiamente era perseguita, ma questa non era quella predominante. La forza e la ricchezza di
quell’esperienza, a mio giudizio, è consistita nella corposità della dimensione di massa, nelle forme
aggregative dell’intervento politico, nelle energie destinate alla costruzione degli ambiti collettivi
che miravano alla diffusione dei conflitti e delle lotte, nel segno sicuramente anticapitalista.
I limiti più importanti vanno cercati nel non essere stati capaci di potenziare la crescita del proprio
progetto e di misurare questa costruzione con i tempi effettivamente necessari per lo sviluppo e
l’estensione di un radicamento. Bisognava tenere conto delle aperture, delle chiusure e dei tempi
dati dallo scontro tra le classi, dai rapporti di potere e di forza effettivi che si instauravano e che
cambiavano tra esse, e non di quanto accelerava o determinava la pressione di altre forze politiche o
di altre proposte organizzative. Mi riferisco da un lato al PCI ed ad altre forze istituzionali, e
dall’altro alle tendenze militariste.
Quando lo scontro di classe cresce, al suo interno si muovono solitamente sempre più forze
organizzative che propongono diverse progettualità fondate su sezioni di classe o ambiti di

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proletariato che hanno composizione politica differente1. In questo muoversi si evidenzia una
contrapposizione che ha come fine l’egemonia politica. In questi momenti si producono quasi
sempre delle dinamiche particolari. La proposta più forte riesce a polarizzare la situazione nel breve
periodo e acquista una potenza trainante. Si instaurano così dei rapporti di forza anche all’interno
delle componenti della soggettività e dei movimenti di classe. Questo rapporto di forza interno alle
soggettività collettive diventa abbastanza importante perché, sebbene può essere ribaltato da
dinamiche di movimento, in genere dà forza alla forza politica maggiore. Così avviene che la forza
è data non tanto da una progettualità adeguata, ma dalla posizione nel rapporto di forza interno alle
soggettività e alla classe. La forza dell’uno è sancita dalla debolezza degli altri e viceversa. Per
questo si produce sovente un effetto polarizzante che porta tutti a misurarsi e a cercare di competere
sui tratti salienti della proposta della forza o delle forze trainanti. Il percorso proposto da queste,
diventa l’unico effettivamente considerato e concretamente praticato. Ciò porta alla determinazione
di rapporti di condizionamento difficilmente eludibili, anche perché tutto quello che si va a muovere
al di fuori o in contrapposizione a queste egemonie rischia di essere continuamente depotenziato,
annullato o disperso.
Ciò è avvenuto anche negli anni ’70 quando ha prevalso la dimensione lottarmatista, che era
inadeguata ma ha prevalso togliendo spazio di movimento a tutto ciò che si muoveva in una
dimensione antagonista: tutte le proposte che agivano in quel momento in qualche modo ne sono
state coinvolte o hanno dovuto confrontarsi con quella dimensione che allora, per i motivi sopra
detti, ha acquisito un peso politico condizionante. Già allora, non è che non si capissero gli esiti di
quei percorsi, ma diventava difficile sottrarsi a quelle dinamiche se non individualmente.
Un’alternativa andava costruita in altro modo: collettivamente contrapponendo un progetto
adeguato capace di contrapporsi a questa tendenza, non accettando di misurarsi sullo stesso terreno
di competizione armata, ma perseguendo un progetto di effettiva autonomia politica della sezione di
classe che tendeva ad essere anticapitalistica.
Riflettendo anche oggi io considero la posizione intermedia della militanza politica come
baricentrale, quindi d’importanza fondamentale. E questo lo dico non tanto per l’esperienza
personale maturata, ma proprio perché, secondo me, è questa la dimensione centrale per qualsiasi
progettualità che abbia il fine di creare rotture delle compatibilità capitalistiche e da queste far
scaturire una possibile alternativa antisistemica. E’ questa una soggettività politica che viene ad
avere contemporaneamente autonomia e dipendenza perché fa tramite, collegando e potenziando,
tra quanto c’è e avviene a livello di massa e quanto si progetta a livello teorico in elaborazione
rivoluzionaria. Rompe le due dimensioni spurie della spontaneità senza indirizzo, o dell’astrattezza

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Io condivido l’editoriale di Linea di Condotta scritto nel ’75 da Piperno e credo che sia significativo per comprendere i
concetti e le dinamiche che cerco di spiegare. In questo articolo intitolato “Da Potere Operaio a Linea di Condotta” si
afferma che: “In prima approssimazione possiamo ritenere che la composizione politica di classe operaia abbia in Italia
due articolazioni: una sezione che vive la propria natura di classe operaia riconducendola e rappresentandola come forza
lavoro, come lavoro salariato, ed una sezione che è classe operaia perché è lotta contro il lavoro salariato contro la
forma di ‘forza lavoro’. Ovviamente si tratta a questo livello di approssimazione di una composizione politica che certo
nasce e si innerva in una composizione tecnica di classe, ma non coincide ed equivale a questa. In altri termini, la
funzione politica è una funzione della lotta mentre la composizione tecnica è funzione del processo lavorativo nonché
delle esigenze di valorizzazione. Ora, lo scontro tra le classi in Italia è segnato dalla presenza, rilevabile nella prassi
sociale, di queste due anime di classe operaia. Entrambe infatti si dispiegano in quanto soggettività agenti e s’applicano,
vicendevolmente intrecciandosi e contraddicendosi, al rapporto con il capitale. Ma non c’è chi non veda quale
squilibrio, sul terreno politico, corra tra queste due anime. Mentre infatti la classe operaia come lavoro salariato trova
una sua rappresentazione organizzativa definita e articolata nel Movimento Operaio – rappresentazione che le consente
una egemonia politica generale sul proletariato – la sezione di classe operaia che è lotta alla forma di forza lavoro non
ha alcuna autonomia politica perché, essendo priva di dimensioni organizzative e progettuali adeguate, è costretta a
crescere applicandosi, tramite le condizioni oggettive del processo produttivo – la famosa spontaneità o struttura interna
– alle occasioni che la dinamica della forza lavoro nel suo relazionarsi al capitale le offre; essa vive quindi di esistenza
subalterna che la fa partecipe delle sconfitte del lavoro salariato senza consentirle, d’altro canto, di utilizzare
significativamente le vittorie. La conquista dell’autonomia politica è quindi oggi il tema fondamentale per questa
sezione di classe – perché senza autonomia politica ogni disegno di egemonia sul proletariato e di dittatura sull’intera
società civile è destituito di fondamento”.

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finalizzata alla separazione dalla teoria dalla politica. Intorno a questa baricentralità si dà
progettualità e processualità. E’ il livello intermedio che permette di agire e muoversi
consapevolmente tra un livello di massa e un livello di élite. Sempre in questo su e giù, c’è anche la
reale possibilità di evitare che un esasperato e ripetuto tatticismo si sostituisca ad un’effettiva
progettualità politica. In questo muoversi senza uno sguardo capace di osservare orizzonti più ampi,
e di mirare a fini effettivamente antisistemici, si ricade quando si tenta di costruire un percorso in
cui si coniugano solo agitazione e militanza immediata.
Tornando alla mia formazione, posso affermare che questa si è compiuta, e ne ha segnato
specificamente alcune caratteristiche del mio modo di essere, durante il ciclo di lotte degli anni ’70.
Ripeto che non era già data, non avevo esperienze precedenti. Sono cresciuto in un periodo in cui la
militanza politica richiedeva alle persone che intraprendevano questi percorsi di fare dei salti
abbastanza rapidi, nella forma della partecipazione, del coinvolgimento, dell’assunzione di
responsabilità. Ovviamente questi salti rapidi hanno avuto un carattere contingente: c’è il fatto che
la giovane età non sempre permette di avere una maturità umana e una visione d’insieme
politicamente adeguata. Devo però dire che altri compagni che erano ben più vecchi di me, oltre che
per età anche per esperienza politica, ed erano collocati in posizioni più alte, hanno avuto anche
delle incapacità ben più grosse e deleterie di quelle di militanti della mia generazione. E si è visto
anche nella tenuta successiva, quando ci si è trovati di fronte a un intervento repressivo dispiegato.
Si sono operate scelte inadeguate che non tenevano conto, o non comprendevano, la reale
situazione: ciò ha prodotto danni anche grandi e questi li abbiamo pagati a caro prezzo. Nel
movimento e nell’area dell’autonomia io ero interno agli ambiti che si assunsero funzioni di
proposizione e di costruzione di quei percorsi politici a Torino e in Piemonte, ma anche sul livello
nazionale: già a cavallo dei vent’anni avevo questo livello di militanza politica.
Secondo me, come ho detto, la collocazione intermedia è importante. La consideriamo anche
nell’ipotesi che noi facciamo in questa ricerca. Ci figuriamo un triangolo composto da un vertice
composto da pochi soggetti capaci di esprimere un pensiero politico realmente autonomo e
alternativo, un tracciare la direzione di un percorso, nell’indicare i tratti sostanziali di un progetto ed
una base rappresentata dal movimento vero e proprio, cioè da un magma di partecipazione e di
presenza per lo più spontanea che era massificato e grosso, però aveva una presenza e una
partecipazione forte ma anche informale. La collocazione intermedia è centrale; dà un livello di
continuità, cioè di militanza intesa come crescita e come presenza non all’interno di singole lotte,
ma in percorsi che erano propositivi, di elaborazione e di organizzazione dal punto di vista delle
proposte. Ha il ruolo di estrarre, evidenziare e dare potenzialità alla politicità intrinseca presente
nelle lotte.
Questa medietà è il tessuto dei militanti che faceva una ricerca, che produceva saperi e conoscenze
specifici delle lotte che reggeva proprio le lotte sociali, le lotte operaie, le lotte proletarie.
Produceva un supporto alle lotte potentissimo ed era l’elaborazione di una teoria e di un sapere, di
una conoscenza alternativa e con fini altri che era molto importante, perché tendeva ad esprimere e
meglio costruire un punto di vista di parte: di classe2. Si tratta di una collocazione che induceva un
atteggiamento, anche di anticipazione, per il relazionarsi con il mondo delle idee, con
l’organizzazione di classe, con la diretta esperienza sociale che doveva confrontarsi sempre con i
due estremi del triangolo: da una parte con le indicazioni e la teoria politica che rappresentava la
nostra area, l’operaismo; dall’altra parte, si aveva un continuo rapporto e contatto con la situazione
di lotta vera e propria.
Questo portava a una formazione politica specifica dei militanti, che era abbastanza ricca perché il
dover costruire lotte, il dover stare all’interno di situazioni sociali, il dover comunque avere un

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Montaldi nell’introduzione ai Militanti politici di base questo nodo lo approfondiva cosi: “Posti i criteri di una ricerca
come inseparabili dal punto di vista di classe che fa proprio l’esercizio della dialettica – e assunta anche la ricerca come
un momento della conoscenza della realtà e allo stesso tempo dell’attività pratico critica tendente alla sua
trasformazione – si individua nel militante politico di base il fattore attivo che da una condizione e una cultura assai
specifiche tende al massimo scopo di organizzare la classe di cui fa parte e di ricostruire la società.

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radicamento per verificare le proprie ipotesi, era una cosa sicuramente significativa. Dentro questo
ovviamente c’era una maturazione particolare, che si dava appunto in quei periodi specifici e che
probabilmente è unica: formare dei militanti sociali e politici se non ci sono le lotte è una cosa
abbastanza diversa o impossibile dal formarli quando invece i movimenti si danno, con tutti i limiti
o meno che questa cosa può avere e che magari sarebbe poi il caso di approfondire.
Un altro aspetto importante da sottolineare è la dimensione collettiva che assunse il dibattito
politico e teorico, la ricchezza dei contributi prodotti da più ambiti e il continuo confronto che non
poteva non assumere anche la dimensione della competizione. Io non ho mai avuto un percorso di
specializzazione. Sicuramente non di specializzazione teorica, ma neanche pratica. C’era una
divisione dei ruoli e una ripartizione o divisione del lavoro politico, c’era un confronto, c’era una
capacità di intervenire in determinate dimensioni di elaborazione della teoria politica. Si dava vita a
continui processi di costruzione di elaborazioni teoriche più o meno elevate, perché ci si doveva
confrontare con le ipotesi che collettivamente o individualmente nascevano. Sovente i luoghi di
elaborazione e di confronto erano indefiniti o sicuramente instabili: non duravano. La nostra storia è
una storia anche di continue rotture, dissidi, frammentazioni, contrapposizioni di gruppi e di singoli.
Questa mancanza di sintesi e di progettualità veniva vissuta non come un’incapacità, ma come il
prezzo pagato alla conquista di un passaggio in avanti. Questo a mio avviso è stato un carattere
originario che ha accompagnato l’operaismo in tutto il suo cammino, ma ne ha anche minato molto
le potenzialità.
Il far politica portava a non costruirsi una specializzazione. Solo quando si smetteva di militare ci si
trovava con delle capacità che potevano essere riconvertite facilmente e vendute bene nel mercato
del lavoro. Ciò che dava però potenza alle capacità era la collocazione: essere contro ed essere
dentro, come si affermò allora. Poi c’è il nodo della cooperazione: il capitale usa le capacità altrui
come proprie risorse all’interno di una finalità sua, ossia valorizzare ed accumulare capitale, potere,
dominio. Il progetto rivoluzionario deve impostarsi per essere capace di invertire questo processo:
utilizzare le capacità presenti, inventarne e costruirne altre per farle cooperare in una dimensione
che potenzi le lotte e i conflitti tanto da intaccare, mettere in crisi, fermare lo sviluppo capitalistico,
e quindi cambiando i rapporti di forza impedire che si esplichi il processo capitalistico. Le forme di
liberazione crescono e si realizzano sottraendosi all’accumulazione e chiudendo gli spazi alle forme
di dominio perseguite dai capitalisti.
La “professione” che si svolgeva era il far politica, e questo ovviamente ha segnato in termini
particolari sia la formazione sia il modo di essere. Per me l’essere rimasto ad avere come
caratterizzazione centrale la politica, il far politica, il doversi misurare con tutti i problemi che ne
conseguono, sotto alcuni aspetti ha un costo: la precarietà è forse un limite, il non vedere mai i
risultati effettivi del proprio agire, anzi il dover procedere di sconfitta in sconfitta. Oggi
l’aspirazione di tutti è il volersi realizzare individualmente all’interno della società, con una
presenza dentro il sistema, in cui ognuno ha il suo bel ruolo e la sua bella casellina: bene, se questa
cosa a te non interessa, in realtà il non avere specializzazioni tecniche non lo vivi affatto come
limite. L’avere semplicemente come necessità la politica in qualche modo permette anche la
costruzione di un’identità personale, di un rapporto con la dimensione collettiva che è sicuramente
importante. In quegli anni ciò costituiva un elemento forte, che ha determinato le sorti, la vita e le
vicissitudini di molte persone, e credo che tutto sommato sia la cosa più significativa che a uno
possa capitare. Questa collocazione politica era sicuramente in contrapposizione alle istituzioni,
però era anche parecchio legata a quella che era la realtà e la processualità delle lotte: quindi, i
limiti e le ricchezze di come uno si è formato sono molto legati alle necessità e alla volontà di stare
all’interno di questi conflitti.

- Come si caratterizzano, secondo te, i vertici di questo ipotizzato triangolo individuato nella
ricerca? Quali ne sono stati e ne sono i limiti e le ricchezze dal punto di vista della capacità di
proposizione politica?

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Io sono abbastanza convinto che siano proprio poche le persone che possano essere individuate
come vertici di questo triangolo: tre, quattro o al massimo cinque. Sono i soggetti che hanno dato e
rappresentato realmente una direzione. Si tratta di coloro che sono stati trainanti all’interno
dell’operaismo: Tronti, Negri, Alquati, per certi aspetti Bologna e magari qualcun altro. Loro nel
bene e nel male hanno espresso un punto di vista caratterizzante fondativo.
Alcuni di loro li ho frequentati e con essi mi sono rapportato in termini differenti. Sicuramente già
nei primi anni con la lettura dei testi, seguendo i loro interventi all’interno di ambiti specifici, e ciò
in particolare per quello che riguarda Tronti e Alquati, che io ricordo di aver visto in assemblee o
averli sentiti in lezioni universitarie, e poi dopo anni ho conosciuto direttamente. Con Toni Negri,
invece, ho avuto un rapporto che era non tanto personale, quanto di militante all’interno di una
stessa area e proposta politica. Nella seconda metà degli anni ’70, avevo un’attenzione e un
confronto con quanto lui diceva e portava avanti che sicuramente costituiva un elemento importante
per me e per la proposta politica che sostenevamo. Per quanto riguarda Romano Alquati devo dire
che dall’inizio degli anni ’80 all’87 sempre più mi ero convinto che fosse necessario conoscere
questa persona e avere delle possibilità di approfondire il suo punto di vista e quanto proponeva. La
conoscenza personale è successiva, incominciò quando uscii in semilibertà dal carcere, avendo già
prima letto, studiato e considerato molti dei suoi testi, mi sono posto il problema di incontrarlo. Ho
incominciato ad andare alle sue lezioni all’università e poi a fargli domande. Per quanto riguarda
Mario Tronti, infine, si tratta di una conoscenza che è avvenuta solo nell’ultimo periodo, con questa
ricerca e le interviste che gli abbiamo fatto.
Io penso che ai vertici di questo triangolo vada riconosciuta una grande capacità nell’essere stati in
grado di introdurre delle proposte politiche, dei modi di vedere e di elaborare teoria che sono stati
significativi e determinanti. Hanno studiato e prodotto una teoria rivoluzionaria che si arricchiva di
nuovi saperi e interpretazioni decisamente significativi; un nuovo modo di interpretare Marx, di
leggere lo sviluppo capitalistico e la composizione di classe che in questo si dava. Era una capacità
senza precedenti in Italia, riferita a un punto di vista di classe, in grado sovente di anticipare i punti
di crisi e gli elementi di conflitto. L’operaismo italiano è diventato anche un punto di riferimento
importante a livello internazionale. All’interno sono stati la matrice fondativa di molti percorsi
politici e sociali, l’elemento della formazione politica e rivoluzionaria per più generazioni.
L’operaismo ha saputo sciogliere alcune ambiguità, dare battaglia politica al riformismo e allo
stalinismo che dominavano nel movimento operaio: è stato qualcosa di preciso, di netto, di chiaro.
Tronti, Negri, Alquati sono stati importanti per il loro peso politico e sono determinanti e ancora
oggi: non sono né superati né sostituiti da altri. Tuttavia, non si può dimenticare che singolarmente
il loro punto di vista teorico e le loro scelte andrebbero oggi riconsiderate e in qualche modo
rimeditate. Rimeditate anche e soprattutto criticamente, perché se sono stati i numi tutelari per la
formazione di migliaia di persone che hanno fatto militanza politica negli anni ’70 e ’80, è
altrettanto vero che alla resa dei conti il loro progetto politico di trasformazione e rivoluzionario
non si è dato.
Questo dovrebbe portarci a capire in termini critici perché ciò non si è dato. Certo non tutto può
essere imputato alla soggettività loro o dell’operaismo, ci sono anche altre condizioni che sono
mancate: pensiamo per esempio all’anomalia italiana come continuità di conflittualità nei confronti
del resto dell’Europa e come questa disparità di scontro e di lotte abbia permesso al capitalismo, già
molto globalizzato negli anni ’60 e ’70, di isolare e affrontare singolarmente la situazione creatasi
nel nostro paese. Però, alcuni interrogativi vanno comunque posti. Perché, dunque, non si è stati
collettivamente in grado di costruire una processualità e una progettualità capace non dico di fare la
rivoluzione, però di accumulare e costruire un percorso politico che sapesse confrontarsi e
contrapporsi, in un periodo di tempo lungo e consistente, alla dimensione capitalistica e sistemica.
Questa è, secondo me, una cosa importante che va ragionata anche individuando le peculiarità e le
scelte e le traiettorie di ognuno di loro.
Se devo fare un’analisi del punto di vista, del modo di essere e di agire di Toni Negri, sicuramente
bisogna riconoscere che è stato capace di muoversi sui livelli alti, con una profondità filosofica che

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gli permette di agganciarsi in una dimensione internazionale, ad un dibattito elevato: questo è
certamente uno dei suoi punti di forza. Un suo limite è invece costituito dal fatto che solo raramente
è riuscito a collocare il suo far teoria in una dimensione politica di medietà (ad eccezione di due bei
saggi usciti scritti alla fine degli anni ’60 e poi pubblicati su Contropiano con il titolo “La teoria
capitalistica dello stato nel ’29: John M. Keynes” e “Marx sul ciclo e sulla crisi”). Gli è mancata la
capacità più importante di un dirigente politico rivoluzionario, capacità consistente nell’essere in
grado di costruire teoria potente nel rapporto tra movimenti e progetto.
In generale quando ha cercato di assolvere a questo compito ha fatto i maggiori pasticci. I tentativi
di costruire forme d’organizzazione politica sono stati completamente carenti, anzi su questi i fatti
hanno evidenziato i suoi limiti più grossi. Molte volte ha applicato un modellino abbastanza potente
di costruzione dell’organizzazione politica che sull’immediato sembrava funzionare, ma che nel
medio periodo è stato completamente inadeguato. Si basava sull’attuare continue forzature pratiche
e teoriche, che esaltavano la spontaneità informale o le linee di tendenza non ancora concretizzate,
che procedevano rompendo continuamente. Questo modo di muoversi ha fatto sì che la
processualità, in termini di radicamento, di consolidamento del tessuto organizzativo e della
progettualità, non si consolidasse mai. Il modo con cui Negri è stato all’interno ad alcune esperienze
politiche, il modello che ha adottato in determinati percorsi di costruzione di ricerca e di riviste,
vedendolo con il tempo, lo si può notare come sempre uguale: cioè, è il cercare di avere una
direzione di un processo di costruzione teorica, decentrando a terzi l’articolazione specifica di
alcuni temi e categorie collaterali, magari anche importanti. Così pure è costruita l’organizzazione
del lavoro, dell’inchiesta che risente molto della dimensione in cui si fanno le cose nell’università.
Quindi, probabilmente lui, consapevolmente o inconsapevolmente, questo modello di intellettuale
che ha potere dentro l’università in maniera completamente diversa lo ha riportato anche all’interno
delle organizzazioni politiche e del suo far politica, e ciò è sicuramente un aspetto sul quale
bisognerebbe ragionare, capendo se è questo il modo di agire più efficiente e efficace per una
proposta rivoluzionaria.
In altre parole, credo che vada imputata un po’ a tutte le esperienze che hanno girato intorno ai
gruppi di Negri, il fatto di non aver mai affrontato il problema della formazione dei militanti
politici. Sono convinto che Toni a più riprese abbia inteso l’agire rivoluzionario come suo agire
individuale, senza considerare in alcun modo la necessità fondamentale della dimensione collettiva
e inoltre abbia inteso la costruzione di un progetto politico come il saper legare attorno a sé persone,
esperienze, parti che già esistevano; per cui, in realtà, si tratterebbe di confederare, di mettere
insieme, di far stare dentro una stessa stanza o di un’organizzazione soggetti e militanti che già
esistono.
Questo limite c’è anche nella teoria che legge molto il soggetto e poco la processualità. Che non si
preoccupa del divenire, del piegare e condizionare la tendenza per portarla fuori dalla dimensione
capitalistica, ma esalta comportamenti sociali o politici, o la composizione tecnica facendola aderire
alla composizione politica, senza porsi il problema fondamentale del cambiamento e della
trasformazione rivoluzionaria come passaggio processuale, cioè di costruzione, di liberazione, di
contrapposizione “per sé” e contro il capitale. C’è stata invece poca attenzione alla costruzione di
un quadro politico militante specifico, e nel fare agire questo soggetto militante nella realtà sociale
con continuità, scegliendo dove collocarlo. Nessuna attenzione a qualificarlo a sviluppare delle
caratteristiche veramente autonome nel modo di collocarsi, di radicarsi, di agire nella classe: questo
è un limite, che poi sulle vicissitudini organizzative si è rivelato come estrema debolezza e fragilità.
Per un lungo periodo Negri ha avuto la capacità di cogliere l’anticipazione di una tendenza di
movimento o di composizione di classe: per esempio, l’esperienza di Rosso è stata molto
significativa per questo, se uno va a guardarsi i numeri della rivista nota che si introducono degli
elementi di dibattito, di riflessione e di inchiesta su particolari e possibili espressioni di conflitto, di
ricomposizione di settori e strati sociali, magari sempre con qualche mese o anno di anticipo
rispetto poi all’esplosione, all’apparizione e all’emergere di lotte e di conflitti di questo genere. Ciò
è stato da una parte significativo, dall’altra però non sufficiente, perché in realtà un discorso di

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progettualità politica dovrebbe essere ben più capace soprattutto di dare una continuità, che non è
una continuità organizzativa ma è invece una continuità più profonda, di costruzione e di sviluppo
di processualità. Sotto questo aspetto credo che bisognerebbe proprio andare a rileggere tutta una
serie di cose, guardarle con il senno di poi, per capire come certe forzature fossero inadeguate.
C’è forte in Negri per tutti gli anni ’70 la volontà di spingere in avanti, di arrivare a delle forzature
sul discorso delle lotte. Si dice: la lotta, il potere, la forza di classe, di sue parti e di segmenti
organizzati sono arrivate ad un livello che è irreversibile. Questa visione sul contingente potrebbe
anche essere considerata un modo tattico necessario per portare avanti la lotta, per condurre il
conflitto verso dimensioni più avanzate; in realtà, però, da un punto di vista teorico, se non si
guarda solo all’immediatezza ma ad una progettualità di respiro più ampio, ciò è stato un grande
errore politico e addirittura una catastrofe. Non si è stati cioè capaci di cogliere politicamente qual
era il reale livello di forza e l’effettiva possibilità di scontro; continuare a fare delle forzature ha
portato sempre più ad un'incapacità di essere interni ai conflitti possibili e sviluppare e indirizzare
un processo di ricomposizione che fosse effettivamente di accumulazione di conflitto e non di
dispersione, distruzione o di riutilizzo dal punto di vista capitalistico di quello che le lotte
esprimevano in termini di rapporti di classe.
Questa è, secondo me, una cosa molto significativa su cui poco si è ragionato e capito. Sulle
forzature un gioco si può sempre fare, se però si ha coscienza di qual è la situazione reale: io sono
convinto che questa cosa in Negri non ci fosse e non c’è ancora oggi. Una dimensione di proposta
politica deve essere capace di leggere qual è la situazione reale: io posso forzare, però devo sapere
che forzo e che quella forzatura ad un certo punto devo fermarla o comunque muoverla in termini
diversi. Forzare per portare avanti le lotte è una cosa importante e che va fatta; forzare di continuo è
invece un grosso errore. Col senno di poi le lotte posso rileggerle in termini più critici, quindi
guardando di più alle debolezze che alle caratterizzazioni positive; invece, tante volte l’operaismo
ha fatto una cosa diversa: nelle ricostruzioni storiche ha esaltato il massimo della potenza rispetto a
quello che era già avvenuto, e invece non è stato capace di fare l’esatto contrario, cioè una lettura
critica del passato e, rispetto all’avanti, delle proposte che guardassero e puntassero di più agli
elementi positivi.
Questo modo di relazionarsi può dare forza quando bisogna portare avanti percorsi di costruzione di
lotte, però chi fa questo deve essere consapevole anche delle debolezze: quindi, deve essere capace
di mettere all’interno di una dimensione di progetto il lavorare per lo sviluppo, però sapendo che
dove ci sono effettivi elementi di debolezza bisogna lavorare per chiuderli, per risolverli. Dunque,
se io spingo perché un processo vada in una determinata direzione punto più sugli elementi di forza
che su quelli di debolezza, vado a spingere perché quelli si sviluppino e si rafforzino, però con la
consapevolezza che devo comunque fare i conti con le carenze insite e individuate nella situazione,
perché se no poi verranno fuori e avranno degli effetti ancora più nefasti. Per esempio, sul terreno
del militarismo, della lotta armata, della violenza e via dicendo, l’errore fondamentale secondo me
non avviene nella seconda metà degli anni ’70, quando ormai le cose erano troppo in movimento
perché fosse possibile determinarne un esito diverso; l’errore, proprio progettuale, avviene all’inizio
degli anni ’70. Anche lì c’è stato un tentativo di risolvere in termini organizzativistici una debolezza
che era effettiva all’interno della processualità del conflitto.
Le lotte hanno dei cicli di crescita e di riflusso che sono abbastanza rapidi: sono un qualcosa fatto
ad onde, vanno e vengono, crescono e hanno una forza nel momento in cui impattano, poi la
medesima diminuisce. Una delle difficoltà politiche grosse era quella di dare stabilità al discorso del
conflitto, e lì si è fatto un cortocircuito, nel senso che si è pensato di poter fare un certo uso della
violenza e di determinate forme di lotta: di per sé queste, collocate in un certo modo con una
determinata funzione, in lotte crescenti, se ben combinate con la lotta di massa possono potenziarla,
ma in realtà lì si è usato il discorso della delega. Il discorso della rappresentanza, quindi, è stato
proprio sbagliato su quel terreno in quegli anni: si è imboccata una scorciatoia, per cui ciò che la
lotta e il conflitto sociale non dava come risultato politico veniva poi cortocircuitato e costruito con
un discorso di organizzazione. Si sono sottratti militanti al radicamento e alle situazioni conflittuali

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per spostarli su un terreno di confronto con lo Stato e la politica partitica che non poteva che essere
perdente. Con questo si è buttata alle ortiche la politicità intrinseca delle lotte e si è separato il
contributo progettuale che la soggettività politica poteva dare a queste per percorrere una strada
solamente soggettiva che poteva facilmente essere isolata e quindi battuta su un terreno favorevole
all’istituzione statuale. Questo è stato l’inizio che era già presente all’interno dei gruppi e che poi ha
avuto tutto lo sviluppo successivo. Si tratta di un problema grosso, perché evidentemente ha portato
poi a fare delle scelte che sono sì diventate irreversibili. Per questo dico che il discorso di Negri è
sempre stato incapace di capire che non è vero che i livelli di scontro e di forza sono irreversibili,
proprio perché in uno scontro tra classi possono sempre ribaltarsi, un momento di forza può
diventare un momento di debolezza: l’agire politico è appunto la capacità di aprire o di chiudere
spazi rispetto ad un processo d’accumulazione di forza e di contrapposizione.
Queste sono alcune considerazioni su Negri, poi si potrebbe dire molto altro, come per esempio il
fatto che lui ha sempre avuto un’attenzione maggiore al soggetto (e alcune volte questo era il
soggetto capitalistico). Anche quando ha avuto una maggiore attenzione alla classe, l’ottica era
soprattutto quella di misurarsi sul soggetto, mentre inesistente era l’attenzione alla processualità.
Alquati è invece il contrario, secondo me: ha sempre avuto una forte attenzione al processo, al
cercare di cogliere come divengono le cose, alla formazione, alla costituzione e all’articolazione di
una classe da una parte e del capitale dall’altra. Ha puntato molto su forme di conricerca che si
soffermassero sul nodo della soggettività. Tronti ha deciso di tentare di sviluppare una processualità
interna al PCI non considerando che una forza politica come quella, portatrice di un progetto ben
definito che non puntava affatto a consolidare un’autonomia di classe, e fondata su una
composizione politica di classe assai definita, poteva essere condizionata certo più stando fuori che
entrandovi dentro.
Credo, però, che punto di forza sostanziale di Negri, Alquati e Tronti sia il discorso della politica
come politica rivoluzionaria, come dimensione di massima categoria capace di trasformare, di
ribaltare e di costruire progetto, ed è anche la cosa che caratterizza l’operaismo.

- Affrontiamo dunque il nodo della politica, nella sua distinzione tra politica e politico, ma anche
nell’approfondimento del problema della formazione militante e soprattutto della categoria da
te usata di politica rivoluzionaria.

Per quanto riguarda il discorso sulla politica, io sono convinto che alcuni passaggi che si sono fatti
andrebbero esplicitati in una rilettura critica, concentrando l’attenzione su alcuni elementi che sono
di fondamentale importanza. Il primo è che la sociologia, la storia, la filosofia, la scienza della
politica sono una dimensione che appartiene in particolare alla scienza borghese: quindi, in quanto
tali, queste discipline possono essere utilizzate, ma non hanno niente a che vedere con il politico. La
politica rivoluzionaria, cioè il costruire un processo di trasformazione ed in particolare il mestiere
del militante politico, è una cosa completamente diversa: questa diversità bisogna saperla cogliere
ed essere in grado di esprimerla, di costruirla e di fare una formazione specifica che non è, appunto,
quella del sociologo, dello storico, del filosofo, ma è una cosa particolare e specifica diversa.
Io proverei a ragionare su un’affermazione forte e dico: in realtà la politica è l’unica forma di
scienza che non è galileiana, che non può diventarlo mai. Intanto, non è riproducibile, non è
ripetibile: se noi guardiamo all’agire politico dentro i percorsi rivoluzionari (quelli che sono arrivati
a un determinato livello oppure no, che sono falliti o meno) ci accorgiamo che non sono ripetibili.
Mentre invece una delle caratteristiche fondamentali della scienza galileiana è che una volta
costruiti gli algoritmi si possono ripetere, diffondere, allargare e utilizzare in termini di potenza.
L’agire politico rivoluzionario, invece, è dato molto più da capacità di intuizione, di muoversi in
una maniera particolare, con dei fattori che sono quelli solo in quel momento lì e non lo saranno
mai più in qualsiasi possibilità sociale, rivoluzionaria, conflittuale. Ciò anche se magari ci sono dei
cicli che si possono ritrovare: ad esempio, le esperienze delle forme di lotta si trovano trent’anni
prima da una parte e trent’anni dopo in un’altra area geografica. Però, di per sé la dimensione

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politica è unica, ed è unica anche la capacità che ci vuole per esprimerla: sicuramente si muove
anche in una dimensione di irrazionalità e non scientificità del modo di essere. Alquati oggi dice:
teniamo conto della religione, della cultura, della politica e dell’economia, queste due coppie non
possono essere contrapposte.
A volte rispunta una dimensione che in parte è positivista, per cui siamo abituati a pensare anche il
marxismo e tutto ciò che ne consegue con queste caratteristiche: in realtà, quando l’agire politico
rivoluzionario è stato effettivamente tale, lo si è potuto vedere e constatare solo a posteriori e mai a
priori. Non si può cioè dire che una cosa è rivoluzionaria perché viene etichettata in questo modo,
va sempre posta a verifica, e la verifica, purtroppo, è sempre dopo, anche quando viene tentata
mentre il processo si dà: sovente è al termine di un ciclo che si fa il bilancio, che si vede come sono
andate le cose, dove si è arrivati, come vi si è arrivati e quelli che sono stati i limiti effettivi.
Prima, e nel mentre, si possono intuire, si può pensare che determinati percorsi possano andare da
una parte o da un’altra. Però, la capacità di aprire o di impedire che si chiudano determinati spazi, o
aprirli e chiuderli per l’avversario politico, per la classe avversa, è la grande dimensione della
politica. Io non credo alla progettualità intesa come costruzione già a priori di qualcosa che poi
viene definito e fatto. La progettualità politica non è quella dell’architetto, non è quella di chi ha poi
da verificare in termini quantitativi e misurabili il progetto. Il processo politico è l’agire tra
un’indicazione di tendenza che si dà, ma che non è assolutamente definita, un discorso di direzione
(per esempio, di uscita dal capitalismo), e poi sapersi muovere all’interno di questo con una
capacità effettiva nel portarlo avanti verso una direzione. Dopo di che, anche lì, il discorso della
svolta, della regressione o dell’accelerazione dell’avanzamento, e le forme di ciò, sono sempre in
continua ridefinizione. Diciamo che non c’è mai niente di stabile, la politica rivoluzionaria non è
una cosa che una volta fatta ed inventata poi perdura, non ha procedure definite, non ha esiti certi.
E’ una cosa che continua a cambiare, a ridefinire, a ridare, oppure indietreggia. E ciò proprio
perché, in ultima analisi, è legata ai rapporti di forza e ai rapporti sociali.
Questa caratteristica, questa dimensione in alcuni momenti è stata colta: per esempio, quando si è
identificato il salario come elemento di espressione di potere e di contrapposizione di classe, ciò è
sicuramente stato importante e significativo, ma paradossalmente il salario può diventare, ed è
diventato, anche un’arma impugnata dal capitalista per ribaltare i rapporti di forza. Finché, a livello
di spontaneità di classe o di proposta politica, ci si è mossi su questo terreno i risultati hanno avuto
una dimensione positiva d’induzione di crisi, di destabilizzazione e destrutturazione della
dimensione capitalistica e di quella parte del ciclo; nel momento in cui c’è stato uno scollamento, di
nuovo chi ha fatto passi in avanti è stata la controparte, cioè il capitale. Va anche detto che nello
scontro tra classi è valida la metafora dell’altalena: quando una parte è più in alto l’altra è più in
basso, quindi i rapporti di forza che si instaurano tra le classi non sono mai stabili e non sono mai
slegati dal fatto che se una classe ha l’iniziativa l’altra non ce l’ha e viceversa.
Io credo che su questi terreni bisognerebbe di nuovo riflettere: se altro si può dire sulla
composizione di classe o su altri nodi, sicuramente il problema di costruire qualcosa che non c’è
costituisce un terreno che rimane forte e significativo.

- Hai toccato l’importante questione della politica rivoluzionaria come processualità dialettica di
destabilizzazione e rottura degli equilibri della controparte e propria costruzione progettuale e
accumulo di una forza che è per natura reversibile.

Un altro elemento di analisi legato a questi rapporti che noi abbiamo colto nella ricerca è che
quando una classe o una proposta politica è avanti l’altra necessariamente subisce una regressione, e
va aggiunto che subisce anche un discorso di distruzione. Da una parte ci sarebbe un grosso capitolo
da aprire riguardante il rapporto tra l’individuale e il collettivo; dall’altra parte, credo che non si
siano fatte riflessioni adeguate su quel che concerne la dimensione del consumarsi, dell’estinguersi
o del dissolversi della soggettività politica rivoluzionaria e della forza di classe. In qualche modo si
è sempre guardato alle singole persone, per cui analizzando le loro traiettorie si può vedere o

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identificare un percorso che ha più continuità e coerenza con certe scelte intraprese, oppure una
traiettoria che ha più rotture, scollamenti e allontanamenti da quella determinata direzione. Questo è
sicuramente vero, in quanto i comportamenti umani sono non sempre irrazionali, sono passibili di
cambiamento, per cui sarebbe assurdo pensare che mentre uno può diventare rivoluzionario e
mettere la politica come la tensione più importante in una parte della sua vita, non possa poi
cambiare ed avere altro per la testa. Ciò è sicuramente da tenere in considerazione, però io credo
che ci sia anche altro e di altrettanta importanza.
Più in generale bisogna guardare la dimensione di classe, le relazioni interne ad essa e i rapporti con
il capitale e nel capitale. Per questo lo studio, la ricerca, e la comprensione di ciò che sta avvenendo
e la decisione di intervenire per influenzare questi processi è fondamentale: in ultima analisi queste
sono parti fondamentali di una progettualità che non può non assumere una dimensione collettiva.
Se non c’è la progettualità politica, cioè la possibilità che si realizzi effettivamente (anche in forme
diverse e non solo come lo si può prefigurare o indicare) una trasformazione rivoluzionaria, per
esempio la fuoriuscita dal capitalismo, è chiaro che la soggettività, i conflitti, le lotte che si
indirizzano in questa direzione, quindi contro il capitale, in qualche modo ne vengano distrutti.
Sicuramente vengono distrutti nel confronto e nel conflitto, vengono trasformati e in qualche modo
depotenziati, perché anche per raggiungere certi obiettivi bisogna metterci della forza, questa nel
momento in cui si scontra con un’altra forza diminuisce di potenza; dunque, c’è anche un discorso
di distruzione effettiva nello scontro oltre che per l’agire progettuale del capitale, cioè della
distruzione o del riutilizzo di ciò che ad esso è avverso.
Su questo terreno, se non si dà progettualità adeguata interviene inevitabilmente qualcosa di
irrazionale che porta al suicidio. Noi il discorso del suicidio lo abbiamo visto in termini palesi
all’interno di alti momenti di regresso della storia rivoluzionaria, ad esempio in Russia dopo gli anni
’30 c’è stato il suicidio di Majakovski e c’è stata una generazione intera che si è fisicamente
distrutta. Certo questa scelta è stata portata delle condizioni contingenti. Ora, anche quando non c’è
la distruzione fisica, c’è il discorso della distruzione politica. Quindi, il fatto che una soggettività
politica rivoluzionaria si sia disciolta lo vedo non tanto o non solo nella dimensione individuale
delle singole persone, quanto invece come dimensione più globale e collettiva dovuta all’assenza di
una progettualità rivoluzionaria adeguata. Cioè, se un disegno, delle aspirazioni, delle tensioni non
possono realizzarsi in qualche modo vanno a distruggersi. Poi le distruzioni sono diverse, assumono
delle valenze differenti: però, secondo me, su questo bisognerebbe riflettere di più, perché sono
convinto che si tratti di un grosso nodo e che abbia un’importanza rilevante.
Da una parte, uno che fa politica non può presentarsi dicendo determinate cose perché il discorso
diventa controproducente, c’è ancora un certo positivismo che continua a contagiare e ad essere
pesante, per cui si guarda sempre agli ideali e si ha paura, anche nell'analisi, di mettere a fuoco
determinati processi che invece sono veri, importanti e significativi. Il fatto che la lotta di classe ha
un percorso oltre che di costruzione, di possibilità e di libertà anche di distruzione di queste, specie
sul breve periodo, cammin facendo è importante e deve essere considerato anche nell’affrontare le
categorie politiche oltre che magari quelle “filosofiche”. Poi c’è tutto aperto il discorso delle forme
di espressione dell’azione politica che non sono affatto quelle utilizzate dalla borghesia, c’è il
problema del rifiuto della democrazia, del considerare forme propositive e decisionali
profondamente differenti da quelle che solitamente si considerano.
Se io dovessi usare una metafora per descrivere un processo rivoluzionario userei quella del cancro,
che mi sembra la più adeguata per quanto riguarda il fronte della distruzione. Nel cancro, infatti,
avviene che determinate cellule mutano di stato, cambiano e non rispondono più a quelle che sono
le esigenze sistemiche. Quando è letale un cancro? Quando il proliferare di queste cellule
aggredisce degli organismi e delle parti indispensabili di un corpo; invece, un cancro può
tranquillamente convivere con una persona se si colloca in organi che non sono vitali. Il processo
rivoluzionario è un qualcosa di questo genere qui: è proprio il fatto che si diffondano all’interno
della società delle individualità che si aggregano in una dimensione collettiva e diventano un
elemento di destabilizzazione e di rottura degli equilibri, fino a quando la società non è talmente

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non solo destabilizzata ma destrutturata da arrivare al collasso e alla morte del sistema dominante.
Allora, se il problema è quello della distruzione e dell’uscita dal capitalismo, la questione della
rivoluzione è proprio questa, cioè della capacità di essere distruttiva per il sistema attuale. Quindi,
ciò dovrebbe portare ad una riflessione effettiva su cosa è un processo rivoluzionario. E’ chiaro che
nella consapevolezza di chi lo deve agire bisogna comprendere che una cosa è dove si progetta,
un’altra è invece come questo si vada a rappresentare all’esterno, perché non si può certo andare in
piazza a dire di voler essere il cancro. Però, ci dovrebbe essere la consapevolezza del modo in cui
bisognerebbe agire politicamente. Questa metafora qui la dice lunga anche su un altro aspetto:
perché muoia un essere vivente non è certo necessario che il 51% delle sue cellule siano
contaminate o cambino, basta che ce ne sia una piccolissima parte rispetto alla globalità che però è
collocata in punti particolari, capace di rompere gli equilibri, di fare un “danno” tale che gli
equilibri diventano insostenibili. Questo credo che sia un altro dei problemi che comunque un
discorso di trasformazione deve affrontare: quando noi diciamo che siamo contro il positivismo, lo
scientismo, lo storicismo ecc., bisogna poi anche riuscire a concretizzare in una processualità
politica qualcosa di effettivamente altro, che non ricada in una dimensione di quel genere lì.
In realtà, quello che si è sempre cercato di fare è mascherare questa necessità di distruzione con il
discorso degli ideali, e quindi con una forma utopica: ora non è il caso di entrare nel merito, ciò ha
una potenza ed una trazione e tradizione sicuramente significativi. Però, in realtà la realizzazione
della trasformazione sta proprio nella capacità di costruirla e di metterla in atto. Nel suo ultimo
libro, Lavoro e attività, Romano parla di un suo concepire la prassi in termini diversi: è un elemento
che accenna molto genialmente come novità e modo di intendere la pratica politica. Questo è un
terreno che andrebbe approfondito, perché non solo la teoria e la pratica sono inscindibili, ma sono
due cose che in realtà devono essere un tutt’uno. Questo è il discorso grosso che oggi non si riesce a
realizzare: c’è una separazione tra quella che potrebbe essere la questione della tattica e della
strategia, che andrebbe di nuovo interamente rivista e definita. C’è poi il rapporto tra
organizzazione e spontaneità, noi abbiamo delle tradizioni storiche che cercano di presentare o…o:
o si è per la spontaneità e allora si sposano tutta una serie di testi sacri (da Rosa Luxemburg agli
anarchici), oppure si è per l’organizzazione e quindi si opta per Lenin, la Terza Internazionale ecc.
Anche questo è un problema che nel momento in cui viene agito come ideologia non ha nessun
significato; invece, quando lo si vede come fattualità, come capacità di metterlo in campo, ci si
accorge che non c’è separazione tra organizzazione e spontaneità, dipende, in quel momento
particolare, su quale tasto e dimensione bisogna spingere di più perché ci sia uno sviluppo
dell’accumulazione della forza, del conflitto e via dicendo. Quindi, non esiste progettualità nella
mera spontaneità, non esiste conflitto nella mera organizzazione: il mettere insieme questi due
elementi è l‘essenza del processo rivoluzionario, se no questo non si dà.
Dunque, i diversi modi di muoversi su quel terreno non possono essere canonizzati, non ci può
essere un lavoro da farmacista che col bilancino dice “la ricetta della rivoluzione è tot parti di
spontaneità e tot parti di organizzazione”: i momenti specifici in cui il processo si dà costituiscono
dimensioni completamente differenti. Una cosa che mi fa sorridere, che secondo me è un paradosso,
è il fatto che tutti parlano di Kronstadt come repressione da parte dei bolscevichi: sicuramente c’è
stata una repressione, dopo di che nessuno si ricorda che quella particolare avanguardia e
soggettività che si è formata a Kronstadt in realtà è intervenuta in almeno tre momenti forti della
rivoluzione russa, e in due di questi è stata propulsiva ed è stata utilizzata dallo stesso Partito
Bolscevico per la costruzione del processo rivoluzionario. Solo nell’ultimo momento, nella terza
fase, il Partito Bolscevico ha deciso di attaccare quella che era la composizione politica e sociale di
Kronstadt, mentre prima invece è stata utilizzata in termini differenti. Allora, anche in questo caso il
problema è di capire quali sono i livelli di composizione politica e tecnica di classe che più possono
produrre un processo rivoluzionario, come ci si rapporta a questi, come li si fa crescere, come li si
sviluppa e non li si porta in vicoli ciechi. Allo stesso modo, la storia di tutte le rivoluzioni ci dice
che ci sono dei fulcri e dei momenti particolari in cui avviene la congiunzione e l’intreccio di
determinate componenti, che sono sicuramente quelle della massa, del progetto, delle avanguardie

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ecc.: queste solo confluendo e agendo in un determinato modo costruiscono delle rotture. Ciò è
sicuramente significativo: se uno guarda alla rivoluzione russa, a come si sono sviluppati i cicli di
lotta a Pietroburgo e a Mosca vede già una diversità fondamentale tra quelli che erano gli esiti di
un’insurrezione e quelli che erano gli esiti di un’altra; se poi li si guarda nella dimensione più
generale europea, si notano ulteriori differenze tra le rivolte in Germania e la rivoluzione russa. E
così è per qualsiasi processo rivoluzionario, proprio perché l’accumulo di soggettività e di conflitto
non è dato dappertutto allo stesso modo e nella stessa dimensione. Dunque, ciò poi può essere
spiegato, si può dire che lì non poteva che avvenire quella determinata cosa: ma non è
assolutamente vero, sono talmente tante le variabili, è una cosa talmente irrazionale un processo
sociale rivoluzionario da risultare “ingovernabile”, nel senso di irripetibile.
Di Lenin la sua grandezza è stata quella di praticare una prassi capace di intervenire e di realizzare
dei percorsi e un processo che pareva assolutamente impossibile da realizzare. La miseria di ogni
leninismo è stato nel voler riproporre non la determinazione nell’inventare altri percorsi
rivoluzionari, ma una serie di ricettine astratte dalla realtà in cui avevano un tempo funzionato. Il no
logo vale anche per la produzione sovversiva.
Il progetto deve avere una dimensione mobile, procede per passaggi, per stadi, per salti. Simile è
anche il discorso del radicamento che è sicuramente parte fondamentale della progettualità. Il voler
realizzare a tutti i costi un passaggio in un determinato momento, rende, quasi sempre, questa
determinazione fallimentare. Il radicamento è il modo che permette di realizzare il disegno politico.
Si costituisce nella capacità di collocarsi dove diventa possibile far maturare una situazione, nel
proporre e nel far crescere in quelle situazioni un qualcosa di veramente diverso, che costruisce
differenza, nel far estendere e maturare qualitativamente questa diversità e in questo si accumulano
forza e capacità che poi deve venir usata quando si determinano le condizioni per cui una forzatura
in grado di rompere alcuni equilibri diventa possibile, praticabile, attuale. E’ un percorso che
ricomincia sempre dalla necessità di partire dal problema dello sviluppo delle lotte, della
contrapposizione del creare rotture rivoluzionarie, nel superare la spontaneità e nel realizzare
progettualità.
Sicuramente la politica rischia di sembrare un mero gioco dialettico, ed è effettivamente un rischio
in cui si può cadere rendendo sterile la propria teoria e il proprio porsi, ma al contempo la dialettica
è nella politica. La politica affronta sempre una realtà che è ambivalente, e il saper individuare e
cogliere più aspetti in uno stesso fenomeno è quanto ha saputo magistralmente capire e indicare
Marx. La politica è saper cogliere le ambivalenze, adeguarsi, aderire e fare forza su di esse, ma non
per convivere adeguandosi a queste, ma per usarle in un processo di trasformazione con un fine
preciso. Le ambivalenze vanno considerate e al momento opportuno trasformate facendo leva sulle
contrapposizioni che generano.

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INTERVISTA A PAOLO BURAN – 22 NOVEMBRE 2000

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e quali sono state eventuali figure
di riferimento nell’ambito di questo percorso?

Voglio premettere che la mia storia è quella di un attore di secondo piano che uno ha persino pudore
a raccontare, per il suo carattere personale e privato, oltreché per il suo esito poco brillante. Si tratta
inoltre di un’esperienza essenzialmente intellettuale, di studio e riflessione, anche se per un lungo
periodo mi sono illuso di poter contribuire ad una certa evoluzione politica. Infine, credo che si
tratti di una vicenda molto poco rappresentativa. Detto ciò, vi posso raccontare la mia esperienza
personale, se questo può servire alla vostra riflessione.
Io sono di Biella: ho fatto il liceo lì, ho cominciato a fare politica, come tutti i giovani di allora,
nell’ambito del movimento studentesco nelle scuole medie. Prima dello scoppio del movimento
studentesco, quindi fino al ’67, benché venissi da una famiglia di sinistra, avevo una posizione
politica - diciamo – “progressista”, e una forte opzione per il realismo politico: avevo letto fin da
adolescente Machiavelli, Hobbes, Hegel. Ricordo questo particolare perché è uno dei motivi che,
quando poi ho fatto una scelta politica di sinistra, mi hanno orientato su posizioni, diciamo così, del
filone trontiano e marxiano, mi sembrava corrispondere a questa idea di individuare delle forze reali
nei processi in atto che potevano sostenere e far marciare un’ipotesi di sinistra, o - come allora
pensavamo o speravamo - un’ipotesi rivoluzionaria. Un’altra motivazione dell’adesione alle
posizioni operaiste sta nel fatto che nel biellese c’era un gruppo operaista piuttosto forte: non la
federazione comunista, ma la federazione giovanile e una parte dei funzionari più giovani erano
trontiani, cioè si riconosceva nell’analisi e nell’esperienza di Classe Operaia degli anni ‘60. Nel
1969 sono venuto all’università a Torino, e sono entrato in contatto con Romolo Gobbi, che aveva
rapporti politici con i biellesi. Con Romolo c’è stato un lavoro di riflessione e di studio durato
parecchi anni: non abbiamo praticamente mai fatto intervento politico diretto, Gobbi aveva smesso
di fare intervento di fabbrica. Abbiamo sempre guardato al PCI o al sindacato, con l’idea che il PCI
prima o poi sarebbe stato travolto dalla sua sclerotizzazione interna e quindi passibile di svolta in
senso operaistico; per quanto mi riguarda, questa ipotesi è poi continuata in forma meno radicale fin
negli anni ’80, come prospettiva di forte modernizzazione della cultura economica e politica del
partito. Quando ho conosciuto Alquati nel ’74 anche lui era abbastanza orientato in questa
direzione, direi fino al ’76-’77.
Quindi, la mia è stata un’esperienza di tipo intellettuale: ho partecipato ad una serie di inchieste
operaie o di analisi economiche fatte da gruppi di studio universitari, alcune nel biellese, poi alla
Fiat con Gobbi e poi con Alquati in un lavoro sul movimento sindacale a metà degli anni ’70 presso
l’Istituto di Scienze Politiche. Quando abbiamo fatto questa ricerca sul sindacato curiosamente
Alquati era molto attento alle dinamiche amministrative, era il momento in cui sembrava che le
Regioni potessero dare ancora qualcosa, mentre le sinistre vinsero le elezioni comunali a Torino e si
formò la giunta Novelli. Dal punto di vista politico la cosa ha avuto pochissimo successo. Secondo
me anticipava in una certa misura l’interesse scientifico che oggi c’è per il territorio – e per il
“locale” sotto il profilo economico, culturale ecc.; mentre invece dal punto di vista sia delle
dinamiche politiche (soggettività, aggregazione territoriale delle forze in campo), ex post direi che
era un’ipotesi che non ha marciato.

- Tu hai partecipato con il gruppo di Biella all’ultima fase di Classe Operaia?

Ho cominciato a occuparmi di politica subito dopo la fine della fase Classe Operaia, che è durata
fino al ’67. Mi ero iscritto alla FGCI alla fine del ’68, avevo fatto il movimento studentesco a
Biella, dove abbiamo avuto come maestro di politica uno studente universitario del PSIUP che
sarebbe poi entrato nel gruppo di Romano, Eugenio Delpiano: un giovane di grande intelligenza e
costanza, che ha contribuito a formare politicamente molti studenti della mia generazione e a

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suscitare quel poco di movimento che c’è stato nelle scuole biellesi. Invece, le inchieste operaie a
Biella abbiamo cominciato a farle nel ’69, l’università ho iniziato a farla nello stesso anno, al tempo
dell’autunno caldo. C’erano incontri settimanali di lettura delle opere di Marx, nel biellese, a
Novara e a Torino (questi ultimi con Gobbi): erano veramente delle scuole politiche organizzate su
base volontaria, e secondo me sono state un’enorme esperienza di apprendimento e di riflessione.
Una cosa che già alcuni anni dopo non poteva più funzionare: ma per dire qual era il clima, allora io
mi ero iscritto a Matematica e sul tavolo avevo le due pile di libri: quelli di analisi matematica, che
studiavo con poco interesse per seguire i corsi, e a fianco Il capitale o le riviste politiche che
leggevo avidamente per capire cosa succedeva nel mondo.

- Una cosa che a noi interessa è come avviene il processo di formazione. Per esempio, Daghini
ha fatto un discorso sugli incontri, nel senso che in realtà uno si forma anche rispetto a chi c’è
già prima, rispetto a quanto questo lo indirizzi in una certa direzione: è dunque una cosa
particolarmente importante quelli che sono i numi tutelari o chi ti indirizza in un determinato
modo, ti passa un metodo di guardare le cose, di agire politico, di riflettere. Tu hai già detto
che Delpiano è una persona eccezionale: ci puoi dire qualcosa di più su questa figura e sui tuoi
processi di crescita, anche rispetto al particolare ambiente biellese?

Penso che in quel periodo Delpiano fosse marcusiano, ci istruiva sui possibili fronti di critica
dell’esistente: anche per me il “pensiero negativo” di Marcuse ha avuto molta importanza nel capire
che il modello di modernizzazione allora prevalente non risolveva tutti i problemi ma aveva delle
falle e degli scompensi interni enormi: iniquità, e quindi fragilità, possibili crepe su cui agire, anche
se il trionfo del “neocapitalismo” pareva in grado di risolvere tutti i problemi. Il problema era quello
di sganciare il pensiero di sinistra da una tradizione pauperista che era stata fino allora prevalente, e
che non consentiva di comprendere e rapportarsi criticamente allo sviluppo neocapitalistico degli
anni ’60, per cui non si poteva continuare a parlare puramente in termini di oppressione. Ma il vero
salto mentale è stato per me rappresentato dalla scoperta delle riflessioni di Tronti, e dalla
frequentazione del gruppo di Gobbi, e prima ancora del gruppo dei giovani comunisti di Biella.
Questi personaggi invece avevano un forte approccio operaista, erano tendenzialmente più operaisti
di Romano che invece era sempre più attento (almeno quando l’ho conosciuto, più tardi) alle
problematiche degli impiegati, dei tecnici, degli studenti ecc. Invece, lì c’era una posizione
operaista molto dura. L’idea era quasi “noi come giovani intellettuali o giovani in formazione non
abbiamo nessuna arma e nessuno strumento in mano per approfondire le contraddizioni, per aprire
prospettive nuove, se non quella di contribuire a rinsaldare il fronte della classe operaia, in
particolare l’emergenza degli operai nuovi, gli operai di linea”. Erano posizioni di forte polemica,
infatti dopo pochi mesi di intervento ai cancelli delle fabbriche siamo stati messi sotto processo dal
PCI locale: sostanzialmente noi forzavamo la partecipazione ai conflitti e all’esplosione dei conflitti
al di là delle scadenze sindacali che invece puntavano a disciplinarli e canalizzarli. E facevamo leva
sugli operai di linea, che nel biellese erano essenzialmente operai delle filature, contro invece il
tradizionale strato d’avanguardia dei tessitori che erano gli operai specializzati, base di riferimento
del PCI locale e anche del sindacato.

- Nel gruppo di Biella c’era anche un certo Maggia.

Sì, Giulio Maggia era senz’altro la figura di maggior spicco e intelligenza tra i giovani comunisti
biellesi. Se dovessi spiegare le scelte di allora, credo che la scelta verso il PCI fosse dettata
essenzialmente dal realismo politico: Maggia e gli altri che gli ruotavano intorno puntavano a
studiare e ipotizzare delle strategie che avessero qualche possibilità di successo a medio termine,
mentre altre persone privilegiavano un aspetto espressivo, credevano molto nella continuità politica
delle lotte e nella presenza quotidiana nei conflitti. Partendo da posizioni di quel tipo, io ho aderito
allora, nel ’68, al PCI e - sia pure con una serie di scontri o tensioni - sono poi rimasto nel Partito

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Comunista fino a una decina d’anni fa, quando mi sono reso conto che la crisi si stava manifestando
ma non dava i risultati che io speravo, anzi forse faceva emergere il lato peggiore. Avevo creduto
che quando la crisi fosse esplosa le forze sociali rappresentate nel PCI avrebbero imposto le loro
esigenze e il loro punto di vista, rompendo le burocrazie: invece abbiamo visto che quelle sono
rimaste, quello che teneva in piedi questa macchina era essenzialmente la forza della burocrazia che
è capace di sopravvivere anche senza una base di riferimento, una cosa che veramente non avevo
previsto.

- Quando ti sei iscritto all’università hai avuto un rapporto con il movimento studentesco?

Moderato. Quando sono arrivato a Torino il movimento studentesco aveva già lasciato il posto ai
gruppi organizzati che si contendevano il controllo delle assemblee. Allora era sostanzialmente
predominante Lotta Continua, che non mi convinceva per niente, forse era il massimo di quel
concetto di espressività e azione diretta che io ho sempre trovato poco interessante.

- Intanto sono maturati anche i tuoi percorsi professionali?

Molto lentamente. Mi sono laureato in Filosofia sfruttando tutti i margini di libertà nei piani di
studio, scegliendo quasi solamente esami di sociologia, storia contemporanea, economia. In quegli
anni con Maggia eravamo riusciti ad aprirci un qualche spazio nel movimento sindacale di Biella,
abbiamo fatto un paio di studi sulle prospettive del settore tessile, in un’ottica che era quella
operaista classica, cioè sostenere la modernizzazione per guidarla o per trarne vantaggio in termini
politici, anziché invece difendere la struttura economica tradizionale in un’ottica populista:
pensavamo che una struttura più moderna dell’industria tessile biellese potesse contribuire a
formare anche in quell’area una classe operaia che noi immaginavamo avesse dei livelli di
conflittualità tipici nelle linee di montaggio. Questa cosa allora era un po’ penetrata anche nel
movimento sindacale attraverso i contatti che riuscivamo a intrattenere.
Successivamente ho conosciuto Romano e ho partecipato ad un lavoro anche moderatamente
retribuito (io ero ancora studente) sul sindacato a Torino, durato fino al ’77: sia questa che quelle
precedenti sono state per me esperienze molto utili, più formative di qualsiasi corso universitario.
Nel ’77 mi sono laureato e l’anno dopo sono entrato all’IRES, iniziando il mio percorso
professionale.

- Hai parlato del fatto che comunque nel biellese c’era un insediamento di classe operaia tra i
più antichi, almeno come tradizione storica e probabilmente anche come organizzazione
operaia, sindacale e politica, e di questa situazione particolare di ciò che avveniva nella
dimensione più ampia: in parte hai già un po’ detto qual era il vostro punto di vista, ma cosa
aveva di specifico e cosa aveva di diverso rispetto ad esempio alla situazione torinese?

Mi pare che ci fossero delle notevoli somiglianze: anche a Torino il movimento operaio era ancora
essenzialmente ispirato dalla cultura degli operai di mestiere, con una filosofia gestionale di
ispirazione “ordinovista”, che a noi sembrava andare in direzione opposta allo sviluppo dei conflitti.
Nel biellese c’era poi una fortissima mitologia della Resistenza che a Torino era un po’
ridimensionata. In entrambe le situazioni negli ultimi anni ’60 si era formata una leva di giovani
quadri comunisti su posizioni trontiane: a Torino la sezione universitaria, a Biella la federazione
giovanile. Entrambe le situazioni sono state “normalizzate” rapidamente dai vertici delle due
federazioni, mettendo a capo delle strutture giovanili i figli dei dirigenti di partito. Molti dei quadri
più vivaci se ne sono andati, lasciando un residuo di “eretici” che hanno continuato a cercare spazi
di discussione negli anni seguenti, rinunciando ad una polemica diretta, e cercando invece un
approfondimento di riflessione.

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- Rispetto al movimento studentesco, dalle interviste emerge da una parte il discorso del ’68
come momento di innovazione della dimensione capitalistica, per cui molti sono stati alla
finestra; dall’altra parte, chi vi è politicamente intervenuto ha fatto il tentativo di spostare gli
studenti davanti alle fabbriche, però non in un senso di tendenziale ricomposizione delle lotte,
ma come reclutamento di distributori di volantini. Ciò senz’altro sull’immediato può aver dato
dei risultati in termini di potenziamento delle lotte operaie, però più in generale ha
probabilmente significato una sottovalutazione sia dei cambiamenti della figura studentesca e
dei suoi movimenti, sia del discorso della formazione e delle sue ambivalenze. Questa è tra
l’altro una considerazione che Romano faceva già negli anni ’70, ad esempio in Università di
ceto medio.

L’idea di andare ai cancelli io l’ho sempre trovata poco utile e interessante. Ci andavo anch’io per
vedere e per capire, sono andato qualche volta a distribuire o raccogliere questionari, ma mi è
sempre parso ridicolo l’atteggiamento quasi di mitologia servile nei confronti degli operai che c’era
in molti studenti di sinistra. Alcuni erano di estrazione borghese e vedevano in questo una specie di
rigenerazione sociale. Io ero di estrazione operaia quindi non avevo nessun bisogno di riciclarmi,
venivo da quell’ambiente lì e ne ho sempre percepito l’importanza delle questioni senza bisogno di
enfasi ideologiche. L’operaismo trontiano non era l’ideologizzazione della virtù salvifica della
classe operaia, era il tentativo di individuare in una certa fase una forte possibilità di intervento sui
meccanismi del sistema. Per quanto riguarda l’aspetto specificamente studentesco, nel ’72 con
Gobbi avevamo fatto un’iniziativa piuttosto anticipatrice e interessante. Lui aveva concordato con i
vertici del sindacato torinese (nella persona del suo leader, Emilio Pugno) un lavoro in direzione
degli impiegati, in base a questo ragionamento: “gli studenti che hanno vissuto in qualsiasi forma
l’esperienza del movimento diventeranno domani impiegati e dirigenti di fabbrica, saranno
un’importante risorsa per il movimento operaio: per cui il punto in cui portare gli studenti non sono
le officine ma sono gli uffici”. Su questa base si è fatta un’inchiesta tra gli impiegati e un convegno
con il sindacato, che forse ha contribuito alla penetrazione della CGIL fra i colletti bianchi delle
fabbriche torinesi, senza volerne esagerare l’importanza. Quasi tutte le cose di cui parlo viste ex
post mi sembrano cose marginali. Qualche volta ce lo dicevamo fra noi già allora: “stiamo
‘giocando alla guerra’, facciamo finta di essere partecipi o di riuscire a influire in qualche modo”. In
effetti non saprei dire se tutto questo ha avuto un qualche impatto se non su noi stessi, che abbiamo
partecipato a un’esperienza sentendoci inseriti in un momento storico.

- Qual è la tua esperienza lavorativa e professionale all’IRES, soprattutto in rapporto


all’esperienza di formazione politica?

C’è da dire che tra le due fasi si pone uno spartiacque temporale oggettivo. Ho cominciato a
lavorare all’IRES nel ’78: tra quell’anno e l’82-’83, quindi a cavallo della sconfitta Fiat, secondo
me è maturato un cambio di fase abbastanza radicale. I primi anni in cui ero all’IRES continuavo
essenzialmente a guardare fuori, e quindi vivevo le mie ricerche all’IRES come un lavoro - forse
più interessante di altri - ma relativamente secondario rispetto alle cose che ritenevo veramente
importanti. Nell’82 avevo ancora scritto un articolo per la rivista Laboratorio Politico intitolato La
classe ostile, in cui mi ero posto l’obiettivo di fare un bilancio dell’esperienza conflittuale a Torino
come elemento centrale del potenziale antagonistico di quegli anni. “Classe ostile” voleva dire che
l’antagonismo che si determinava spontaneamente nelle lotte operaie era un’enorme risorsa politica
che nessuno aveva raccolto e che però aveva ancora dei margini e delle possibilità di crescere, di
esprimersi e di continuare a pesare. Invece così non è stato, vista ex post questa è stata forse l’idea
più sbagliata che abbia mai avuto in tutta la mia vita, cioè l’idea che nonostante tutto sopravvivesse
una soggettività operaia in quantità e qualità paragonabile a quella che avevamo visto in passato. Lì
c’era anche l’idea di provare a ridefinire questa soggettività operaia in modo di rottura rispetto alla
tradizione socialista e comunista, cioè come un qualcosa che non mirava per niente a fini gestionali,

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che non entrava facilmente in sintonia con le culture e con le procedure di mediazione politica
dentro cui il Partito Comunista lavorava, sottolineando polemicamente il fatto che gli operai
sembravano prediligere il modello tedesco a quello sovietico (un fatto che oggi ci pare scontato, ma
che allora suonava scandaloso). C’era un po’ il tentativo di dire “se vogliamo utilizzare questo
potenziale di conflitto bisognerebbe comportarsi diversamente e ragionare in termini in qualche
modo postcomunisti”.

- Tu hai dato una lettura significativa della soggettività operaia quando l’hai posta nei termini di
una dimensione gramsciana, hai parlato dell’utilizzo di un potenziale da portare avanti nella
dimensione capitalistica, anche con scelte politiche e ideologiche abbastanza forti. Tuttavia, la
soggettività che si è formata successivamente ha fatto la stessa strada, con meno dimensione e
spinta ideologica; però, buona parte della soggettività che si è formata negli anni ’60 e ’70 (il
che è un po’ alla base della nostra ricerca, quello che volevamo capire) dall’essere dentro e
contro, consapevolmente o inconsapevolmente ha poi assunto una dimensione prevalentemente
sistemica. Se si va a vedere, a parte i disastri che possono aver fatto certi percorsi di
accelerazione ai quali tu adesso hai accennato, tutto quello che si è salvato da questa
distruzione in realtà si è ricollocato, consapevolmente o inconsapevolmente, all’interno di una
dimensione sistemica che è quella che tu stavi dicendo a proposito di quella soggettività
precedente. Se uno guarda dove sono collocati adesso i quadri dirigenti o medi di quella
soggettività lì, si vede che senza ideologia però hanno fatto lo stesso percorso. Tu cosa ne
pensi?

Penso che sia vero e lo riscontro anche autobiograficamente. La mutazione è avvenuta negli anni
’80, e secondo me è stata un cambiamento di epoca. Spesso si associa la crisi del movimento
comunista al crollo dell’Est, ma secondo me si sarebbe verificata lo stesso. Tronti ha scritto (mi
pare citando Dahrendorf) sostiene che in fondo la lotta di classe era anche la sostanza effettiva della
democrazia politica come l’abbiamo conosciuta. Quindi, pensare di far sopravvivere una
soggettività politica in assenza o nello svaporamento del conflitto di campi di forze dentro la società
è un problema che secondo me non ha soluzione. Io mi sono privatizzato non per scelta, ma per
l’esaurirsi degli spazi di discussione: non perché a un certo punto abbia detto “basta, il privato conta
di più”, ma perché non ho più trovato sedi e occasioni in cui fare un discorso. Sono rimasto nel
Partito Comunista fino al momento in cui ha cambiato nome, un fatto che io ho considerato
estremamente positivo perché dicevo “cribbio, finalmente non ci diciamo più comunisti, dovremo
dire cosa siamo, cosa vogliamo, ragionare su progetti, su strategie, su interessi da rappresentare in
modo strategico ecc.”. Invece poi, come dicevo, è sopravvissuta solo un’oligarchia. E il primo
effetto è stato la scomparsa delle sedi di dibattito; fino al 1990 non era così, c’erano ancora
occasioni per discutere, pur facendosi un fegato così per il fatto di doversi confrontare con una
cultura vecchia di decenni. Ricordo che di ritorno dalle riunioni mi chiedevo “ma perché devo
andare lì? si ripetono delle giaculatorie che non trovano riscontro nel resto della società attuale, che
non hanno nessun credito presso nessuno, non rappresentano interessi reali, sono solo il software di
un sistema di potere che si gestisce grazie a una serie di riconoscimenti reciproci”. Però, c’era
sempre l’idea che con molta fatica si riusciva comunque a portare un discorso di innovazione, ormai
molto poco antagonistico e più giocato su prospettive di sviluppo, di ritessitura di un tessuto civile e
di organizzazione più moderno, più equo rispetto a certi interessi e a certe forze sociali. Negli anni
’90 abbiamo assistito ad un rapido spappolamento di questa struttura di discussione. Anche dopo
aver lasciato il PDS, ho continuato a chiedere agli amici che ci sono rimasti se sopravvivevano sedi
in cui si potesse discutere di politica, e tutti mi rispondevano che sono completamente scomparse.
Ci sono alternative? Il tessuto nuovo dei movimenti di volontariato io lo trovo un ripiego
individuale: valido al pari del mio, ma solo per l’equilibrio personale. Io faccio il mio mestiere
cercando di farlo decentemente, altri cercano di aiutare chi ha bisogno: sono soluzioni individuali
accettabili, ma politicamente non ci vedo niente di promettente o di utilizzabile. Francamente, nel

5
leggere il vostro documento, mi veniva da pensare che oggi ragionare in termini di soggettività
antagonistica è proprio una cosa che non mi riesce di fare. Non dico che la soggettività non sia più
importante: ma mi sembra importante come componente nuova e innovativa dell’ordinamento
costituito, come un meccanismo del sistema. Il sistema in parte si sta modificando, in forme che non
avevamo ben previsto: introduce degli elementi di feedback, di riadattamento con una certa
intelligenza oggettiva. Alcune cose che diceva Romano in senso antagonistico negli anni ’70 sul
cervello collettivo secondo me hanno marciato come componenti del capitale, di riorganizzazione
sociale del sistema. Dal lato antagonistico e rivoluzionario francamente non riesco più a vedere
nulla da tempo, anzi la mia preoccupazione attuale, almeno in Italia ma un po’ in generale, è che
una reazione conservatrice alimentata dal senso di incertezza o dal timore del cambiamento soffochi
anche la componente democratico-liberale di questa soggettività, producendo un arretramento
complessivo di questa modernizzazione intelligente del sistema che potrebbe essere vista come un
effetto indiretto e a distanza del movimento degli anni ’60 e ’70.

- Prima accennavi a un discorso di bilancio che avevi fatto in un articolo su Laboratorio Politico
negli anni ’80: se tu dovessi oggi fare un’analisi critica, secondo te quali sono stati i limiti e le
ricchezze che si sono espressi nei movimenti, negli ambiti e nelle opzioni politiche degli anni
’60 e ’70? Quanto credi che una tale analisi critica possa essere politicamente utile in
prospettiva odierna e quindi non come semplice ricostruzione staticamente memorialistica?

Viste ex post, adesso, tutte quelle riflessioni potrebbero essere definite storicamente come un
tentativo di rovesciamento politico del periodo keynesiano: c’era il discorso sul salario, sul rapporto
tra lotte e sviluppo, c’era l’idea di utilizzare la componente neocorporativa implicita nel modello
keynesiano, l’aggregazione sociale, il forte rinnovamento culturale, lo sradicamento di masse sociali
dalle campagne, il crogiuolo urbano. Nell’articolo sulla “classe ostile” criticavo il richiamo - allora
molto diffuso - alla memoria storica e sostenevo che l’assenza di memoria storica è di per sé una
fonte di innovazione politica e comportamentale: nel processo di industrializzazione si è liberata
un’enorme vampata di nuova cultura, di nuova mentalità che poteva essere raccolta e valorizzata.
Ormai quelle opportunità mi sembrano esaurite: può darsi che dipenda da un limite di conoscenza,
non ho più molte frequentazioni con ambienti operai, però vedo nelle dinamiche conflittuali odierne
una forte presenza di ritualità. Mi rendo conto che è un discorso da uomo vecchio che non riesce a
cogliere frontiere nuove; tra l’altro mi sono quasi sempre abbastanza riconosciuto nell’analisi di
Mario Tronti, e i suoi ultimi scritti sono di un disperante pessimismo, forse più disperante persino
del mio perché io ritengo che tutto sommato in forme imprevedibili la divina provvidenza ha tratto
dalle lotte e dai movimenti di quegli anni una qualche forma di modernizzazione del sistema, una
serie di valori diventati linguaggio corrente e disponibilità naturale. Per quanto riguarda invece
prospettive più forti e politiche in senso proprio, condivido la delusione e lo scoramento di Tronti.

- Sicuramente c’è una differenza tra soggettività in qualche modo sociale e diffusa e soggettività
politica: già su questo bisognerebbe trovare degli strumenti di comprensione e di ragionamento
che sono differenti. Per esempio, rispetto a questa ambivalenza che c’è nella soggettività,
secondo me è vero che da una parte spinge comunque una dimensione che è quella capitalistica
e quindi in realtà quello che c’è di meglio poi, non trovando altri sbocchi a un problema, questo
lo risolve dando delle spinte innovative a quella che poi è una dimensione sistemica, se non ha
un segno politico forte: in fondo il trontismo era questa cosa qui, dare un segno particolare alla
soggettività e dare una soggettività politica. Noi abbiamo intervistato Tronti, da parte sua c’è
sicuramente una forte comprensione di cosa non ha funzionato, lui dice “avevamo visto rosso,
però in realtà non era il rosso dell’alba ma quello del tramonto”. Dall’altra parte Alquati dice
che è cambiato molto, ma non sono cambiate le cose fondamentali, nel senso che il capitalismo
è il capitalismo, e la lotta di classe non è solo quella degli operai e della classe che viene fatta
contro il capitale, ma è anche quella che il capitale fa contro la classe: quindi, bisogna fare

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attenzione a non confondere i rapporti di forza con quella che è la contraddizione intrinseca
che comunque continua ad esistere. Sostanzialmente Romano dice che la potenzialità che si
formi una soggettività, che questa soggettività assuma una dimensione contro, una dimensione
politica, non è cancellata; sono i rapporti di forza che oggi danno una certa dimensione, però
non è vero che siamo nel postindustriale, non è vero che non esistono più le classi, non è vero
che non esistono più le contraddizioni. Il problema è che queste non hanno una dimensione
sociale e politica in grado di esprimersi. Romano sostiene che probabilmente ci vuole ancora
un periodo estremamente lungo di tempo, però questa dimensione attuale non è data così per
assoluta, in forme nuove e diverse possono darsi altre dimensioni. In questa ricerca noi
cerchiamo più che altro di capire come si è formata questa soggettività: una delle ipotesi che
noi facciamo è che questa soggettività, nonostante tutto, nonostante i percorsi, il cambio di
contesto, ha mantenuto delle caratteristiche per cui, anche dove adesso è collocata, ha dei segni
di diversità.

Su questo sono d’accordo, però è diventato un fatto di società civile, di ricchezza della società
civile: dalla critica del potere che aveva corso negli anni del movimento è derivata oggi una
tecnologia del consenso, la ricerca di modi più sofisticati e rispettosi di gestire decisioni politiche,
amministrative, infrastrutturali, per risolvere i problemi con il consenso anziché con l’imposizione.
Una soggettività nata per organizzare in modo antagonistico le istanze di chi sta in basso, è evoluta
in una filosofia gestionale, molto moderna e positiva, ma dentro la logica del sistema. Anche il mio
attuale impegno di ricercatore a supporto dell’azione pubblica può essere visto in questa
dimensione.
Un altro esempio che farei è il fenomeno ecologista: quando è scoppiato mi ricordo che abbiamo
fatto una lunga discussione (come quelle che si facevano con Romano che duravano dodici ore).
Perché Romano generalmente, correttamente dal punto di vista operaistico, quando scoppiavano le
cose nuove ci vedeva sempre una promessa di forte innovazione e di arricchimento del bagaglio di
issues rivoluzionario; mentre invece io sostenevo che il capitalismo era perfettamente in grado di
assorbire e metabolizzare le tematiche ambientali. Anche queste secondo me sono diventate un
normale correttivo, confluito in una migliore gestione della macchina del sistema. Dal punto di vista
invece delle soggettività, le trovo praticamente inutilizzabili, nel senso che approvo le mobilitazioni
per la tutela dell’ambiente se non assumono posizioni nostalgiche e reazionarie, però mi sembrano
una componente per una migliore “gestione del condominio”.

- Nella lettura delle interviste che abbiamo iniziato a fare è venuta fuori la considerazione che
fino a un certo punto c’è stata una soggettività che ha pensato nei termini della totalità,
successivamente o in una dimensione più bassa, diciamo intermedia, c’è stata invece una
soggettività che aveva sì un’influenza politica forte, ma che si è specializzata. Tra l’altro c’era
secondo noi una piramide: c’erano alcuni soggetti che avevano un’autonomia effettiva e che,
tra gli anni ’60 e ’70, non si contavano neanche sulle punte della dita di una mano; sottostante
c’era un quadro intermedio che lavorava perché c’era un livello superiore di intellettualità che
dava la direzione e sottostante una committenza, che erano le lotte, che facevano sì che ci fosse
questa produzione di un sapere che in qualche modo era altro, anche sistemico però critico, con
una certa capacità. Questo quadro era estremamente grosso e ampio, è poi quello che si ritrova
nelle università, nella ricerca, in diversi ambiti. Nel momento in cui è mancato il sopra e
soprattutto il sotto, questo quadro si è riformato nella dimensione dello specialismo. Per
esempio, quella ecologista in Italia è una dimensione di specialismo, per cui molti di questi
hanno trovato poi la professione però in una dimensione che non aveva più nessuna valenza
politica di indirizzo. Con questo bagaglio di esperienze è chiaro che nella professione sono
diventati tra i più bravi, questo è un dato di fatto; però, dall’altra parte, si tratta di una
dimensione quasi esclusivamente sistemica, consapevolmente o inconsapevolmente.

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Anche gli intellettuali e gli specialisti che più sembrano percepire le proprie attuali posizioni in una
linea di continuità con le loro posizioni passate, secondo me di fatto sono operatori di una nuova
tecnica gestionale del sistema. Il che non è una cosa da disprezzare, perché come accennavo c’è il
rischio che ci sia un brusco arretramento e prevalga ancora la logica del denaro al di sopra di tutto,
in termini brutali.

- Infatti la riflessione è proprio questa, che se alcune persone non facessero al meglio la loro
professione la società sarebbe molto peggio di quanto è, su questo non ci sono dubbi, però
queste sono risorse che sono state tolte da una dimensione politica e immesse in una
dimensione sociale e istituzionale di gestione. Questo vale anche per l’insegnante,
probabilmente quello che ha in passato letto Tronti o che è andato a scuola da Romano, ha una
visione della formazione che è sicuramente differente da quella di chi si è formato in altro
modo. E questo comunque rimane un qualcosa in più di risorsa che costruisce ancora non
antagonismo ma ambivalenza.

Anche nel partecipare all’innovazione del tessuto civile, alla difesa di forme rispettose di
organizzazione ecc., c’è una componente di impegno morale: si tratta pur sempre di soggettività,
uno viene coinvolto sul piano dell’impegno personale, anche dentro una logica gestionale. Anche
perché, come dicevo, la sussistenza delle innovazioni maturate negli scorsi due decenni non appare
scontata.

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INTERVISTA A BRUNO CARTOSIO – 15 MAGGIO 2000

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e l’inizio della tua attività
militante?

Vengo da una famiglia di comunisti del ’21, lo erano sia mio padre che ha fatto militanza sia suo
fratello che è stato antifascista, partigiano e poi è stato anche funzionario e rappresentante del
partito in provincia di Alessandria. Per cui, di fatto, questa è stata la mia formazione, e a questo, che
era contemporaneamente un mondo politico, ideologico, intellettuale e soprattutto sociale, ho
appartenuto fino alla fine degli anni ’60. La mia era una famiglia di lavoratori, non di intellettuali né
di studiosi: mio padre faceva il fonditore, suo fratello faceva il ferroviere, mia madre faceva la
stiratrice. Questa, in termini molto schematici, è la mia formazione. Quindi, quel mondo arriva a me
attraverso questo tipo di filtro che non è intellettuale o intellettualizzato, passa attraverso le
esperienze di rapporti tra le persone, con i militanti, la frequentazione della sezione del PCI, o della
festa dell’Unità, o di una quantità di discussioni, o di presenza all’interno di cose come la
cooperativa di consumo che i militanti comunisti, insieme con altri, avevano messo su subito dopo
la guerra e in cui c’entrava mio padre. C’erano, insomma, cose di questo tipo, e poi tutti i rapporti
sociali: quello in cui abitavo era un posto di gente assolutamente comune, di lavoratori, e i rapporti
sociali erano importanti per questo tipo di comunanza anche di vita. Del resto sono il primo nella
mia famiglia ad essere andato all’università e ad essersi laureato, sono il primo intellettuale della
famiglia. Per quanto riguarda più strettamente me, io mi sono iscritto per la prima volta a 13 anni
alla FGCI e, fino a che la sezione è stata viva, sono rimasto iscritto, poi si è chiusa.
Successivamente insieme con altri abbiamo fatto delle attività di tipo culturale e politico al di fuori
del partito. Il teatro di tutto questo è Tortona, in provincia di Alessandria. Poi, più o meno tutti
quelli che costituivano questo gruppo, che avevamo chiamato Movimento Culturale la Resistenza (e
questo ovviamente ha anche un altro tipo di rimando ideale molto forte), siamo entrati nel PCI. Io
ne sono uscito nel ’69, altri ci sono rimasti e poi le cose sono andate in modi diversi, ma fino a quel
momento è stata una storia di gruppo per certi versi abbastanza interessante, perché la nostra attività
era contemporaneamente di tipo politico e culturale. In un paese di 30.000 abitanti, noi avevamo
letteralmente mosso le acque, in quanto prima non esisteva niente del genere e, dopo che ci siamo
messi insieme noi, abbiamo cominciato a fare una serie di attività e anche ad esercitare un certo tipo
di attenzione nei confronti del posto, della società dei conflitti o dell’assenza di essi, degli interessi,
delle speculazioni in particolari edilizie e così via: erano cose che, fino a quel momento, neppure
dentro al PCI erano state fatte con lo stesso livello di pubblicità e anche un po’ di giovanile
presunzione. Loro erano impegnati dentro al consiglio comunale, noi invece facevamo delle cose
che mettevamo in piazza attraverso volantini, manifesti, iniziative pubbliche, un giornalino; poi
abbiamo cominciato a fare il giornale del partito, che abbiamo portato avanti per un certo periodo.
Tutto ciò fino alla fine degli anni ’60, poi una parte di noi sono venuti all’università, a Milano in
particolare, e qui poi hanno cominciato a succedere tutta una serie di altre cose, che per un certo
periodo hanno voluto dire partecipare al movimento e però rimanere dentro al PCI, e partecipare al
movimento qui e poi riportare a casa, in provincia, quello che succedeva nella grande città e il suo
significato. Successivamente questo ha però portato anche a divisioni e a rotture; nel caso mio, tra il
’69 e il ’71, dopo che mi sono laureato, sono andato per due anni a insegnare a Montreal, in Canada.
E’ inutile che io dica che paio di anni siano stati quelli, e si è definita quella ramificazione interna a
questo gruppo che, in qualche modo, riproduceva in piccolo quello che succedeva su una scala
molto più ampia: persone che erano state dentro un’area più o meno coincidente, intorno al PCI o
tra esso e il PSI, si sono diversificate, si sono divise e sono andate ognuno per la sua strada.
Questa è una cosa di cui non ho ancora parlato molte volte: in Canada insegnavo italiano e nello
stesso tempo però, in particolare con un altro compagno e poi con un gruppo di altri compagni, ho
messo in piedi un movimento politico, che abbiamo chiamato Movimento Progressista Italo-
Québecchese (in Québec, così come in tutta l’America del Nord, non si poteva utilizzare il termine

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comunista). Tale movimento l’abbiamo prima messo in piedi a partire da gente che veniva a lezione
da me, da persone che abbiamo conosciuto, che erano già più o meno vagamente di sinistra, perché
anche lì erano anni di fermento naturalmente, quindi c’erano alcuni elementi di riferimento comuni:
la guerra contro il Vietnam, l’assistenza ai rifugiati renitenti alla leva americana, i rapporti con
quello che succedeva in termini di movimento nero, per i diritti civili, rivolte urbane e così via.
Sono gli anni della nuova sinistra, del movimento, quindi c’era molte persone che si erano già, per
conto proprio, più o meno indirizzate in quel senso, e lì abbiamo dato forma a questo gruppo, che è
nato come gruppetto piccolo e che poi invece si è allargato, ha fatto una serie di attività,
manifestazioni, nei due anni in cui sono stato lì abbiamo fatto un giornalino che si chiamava Il
Lavoratore e che poi ha continuato a vivere per altri otto anni, cioè fino alla fine degli anni ’70.
Quando mi è capitato di discutere di queste cose (è la seconda o la terza volta che ne parlo in molti
anni), mi è successo anche di pensare che questa cosa qui che abbiamo iniziato in due gatti ha avuto
poi una durata e, tutto sommato, un’importanza politica e sociale che è stata superiore a quella dei
nostri gruppi che erano nati in quegli anni lì e che, con il ’75, erano praticamente spariti tutti.
Questa comunque rimane una parte molto interessante intanto in termini strettamente politici, e in
parte però per un insieme di insegnamenti, di educazione o di cose che ho capito e che poi ho usato
quando sono tornato a casa, cioè l’impossibilità di costruire un gruppo o un’attività politica,
ideologica, di creare un qualcosa di più o meno omogeneo politicamente e ideologicamente, senza
tenere conto dell’ambiente sociale, delle provenienze sociali, delle difficoltà di comunicazione,
delle remore ad accettare certi contenuti ideologici, o la difficoltà anche di costruire un approccio
teorico discretamente coerente: queste sono cose che richiedono molto tempo, molta attività di
formazione. Questo della formazione politica è un aspetto che noi allora, in quei due anni, abbiamo
curato in modo straordinario, con riunioni su riunioni, seminari su seminari, secondo me senza
mirare mai troppo alto, ma sempre riuscendo a far fare un passo avanti e aggiungendo ogni volta dei
pezzi di analisi della realtà in modo tale da farli diventare patrimonio condiviso. Secondo me c’era
molto poco dottrinarismo e molta capacità di rapportarsi con la realtà, che era complessa, in termini
di casta e classe, in termini di approccio linguistico: eravamo in Québec, dove c’era anche un
conflitto culturale e linguistico, in quegli anni tra l’altro molto forte, con delle spinte indipendentiste
che avevano dato origine anche a dei movimenti clandestini, con azioni armate (in un caso
addirittura tragica, quando venne sequestrato il ministro del lavoro Laporte, che poi venne ucciso).
Quindi, anche affrontando di petto il rapporto con questo tipo di avvenimenti: nei confronti di
questo tipo di cose noi quale atteggiamento abbiamo e in che modo lo organizziamo? Insomma,
c’era tutta una serie di domande che partivano quasi sempre da dei dati molto reali e tornavano poi
alla realtà in termini di analisi e di tentativo di modifica della realtà stessa. Io allora ero abbonato e
mi arrivava regolarmente Potere Operaio, corrispondevo con esso e prima ancora con Classe
Operaia, mi tenevo in contatto regolarmente con tutta una serie di compagni, alcuni dei quali erano
rimasti dentro il PCI, altri ne erano usciti, altri non vi erano mai entrati, appartenevano appunto
all’esperienza di Classe Operaia e poi di Potere Operaio; ricevevo poi una parte della posta della
stampa della sinistra italiana. Quindi, c’era costantemente questo rapporto con quello che succedeva
in Italia, e però tutto questo veniva filtrato con l’esperienza quebecchese e nordamericana. Per cui,
per esempio, nel nostro Movimento Progressista Italo-Québecchese esistevano e hanno convissuto
per cinque o sei anni dei compagni emigrati che erano iscritti al PCI italiano, ed erano militanti per
esempio della FILEF (Federazione Italiana Lavoratori Emigranti e Famiglie). Questo per
sottolineare come, nonostante noi ci muovessimo su un terreno che non era di partito e che risentiva
molto fortemente del tipo di analisi che veniva dalla nuova sinistra americana e da quella italiana,
secondo me eravamo sufficientemente poco dottrinari da ammettere la convivenza dentro il
movimento di persone che erano su posizioni politicamente più moderate; però, il rapporto con
quello che era possibile fare era tale per cui anche dei moderati riuscivano a rapportarsi a questo
movimento. Io sono tornato a casa nel ’71, gli altri erano tutti residenti lì e sono andati avanti, e con
loro siamo poi rimasti in contatto regolare per cinque o sei anni, tutti gli anni passavano da casa
mia, ci vedevamo, ci scrivevamo, mi mandavano il giornale, dibattevamo una serie di questioni.

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Poi, soltanto negli ultimissimi anni, credo ’79 o ’80, il gruppo si è slegato, perché anche lì una serie
di persone è entrata in posti di lavoro diversi: uno si è messo a fare l’avvocato, l’altro ha traslocato,
l’altro è diventato un ricercatore di una qualche importanza e si è trasferito a Baltimora, un altro è
andato a stare ad Ottawa. Quindi, il gruppo alla fine si è disperso, sedimentando però un qualcosa
che è rimasto dentro la comunità, e alcuni di questi, perlomeno un paio, hanno continuato poi a fare
politica all’interno della comunità italiana, nel rapporto tra essa e governo provinciale del Québec,
grazie proprio a quella specie di apprendistato politico. Dunque, la cosa ha avuto un esito direi
naturale, cioè un movimento che è diventato qualcosa d’altro e i suoi militanti si sono distribuiti su
una serie di attività e hobby diversi. Però, è finito in questo modo, non è finito né con grandi litigi,
né con rotture interne, né con un’incapacità di rapportarsi a quello che esisteva, quindi questo
secondo me rimane un fatto tutto sommato positivo.
Dunque, io sono tornato nell’estate del ’71, naturalmente un po’ di cose erano già successe, come
Piazza Fontana eccetera, e ho trovato in Italia una realtà profondamente diversa da quella della metà
del ’69, quando sono andato via. Ormai era una realtà in cui il movimento generale non esisteva
praticamente più, esistevano tutta una serie di formazioni politiche, cioè i gruppi. Non esisteva più
un luogo o dei luoghi in cui si faceva politica: l’università, intorno all’università, i rapporti con le
fabbriche, i luoghi di aggregazione dei lavoratori-studenti, ossia luoghi in cui tutto era molto in
movimento e coesistevano posizioni diverse, tra le quali c’era una dialettica a volte anche molto
viva però aperta. Due anni dopo questo era tutto cristallizzato. Mi ricordo di aver partecipato a una
manifestazione qui a Milano, se non sbaglio a settembre del ’71, forse la prima grande
manifestazione a cui ho preso parte dopo il mio ritorno, in cui era per me impressionante vedere le
formazioni e i ranghi chiusi e inquadrati di un gruppo dopo l’altro; ci fu anche il fatto che in
quell’occasione, dalle parti di Città Studi di piazza Leonardo da Vinci, vennero poi trovate (se non
sbaglio in una macchina o in un furgone) delle bottiglie molotov preparate, che poi non furono usate
ma erano pronte. Quindi, c’era stato un salto di qualità a cui ero stato estraneo, perché appunto il
tipo di pratica politica che avevamo cercato di mettere in atto in Québec era sostanzialmente
diversa, ed era molto più aperta, flessibile e non dottrinaria. L’altra cosa importante che viene da
questo soggiorno negli Stati Uniti e che poi mi ha anche portato a questa sensazione in parte di
estraneità, è tutta la lezione proveniente dal femminismo. Di nuovo un’esperienza di movimento, di
grandi coinvolgimenti personali e di gruppo su questioni di dimensioni variabili dal molto piccolo e
molto personale al molto grande e ai giudizi sulla società, sulla storia e così via, che però si
articolava in termini di pratica politica secondo modalità non rigidamente gerarchizzate. Quindi,
quando sono tornato qui e ho trovato queste formazioni così rigidamente chiuse e dottrinarie
(perché poi lo scontro interno era molto forte), da una parte c’era la mia esperienza personale dentro
un tentativo di organizzazione, dall’altra c’era una rimaturazione di temi, di questioni e di modalità
dell’agire politico che venivano dall’esperienza femminista, cioè di movimento, che mi hanno
portato a rifiutare di riconoscermi, di schierarmi, di entrare in una, l’altra o l’altra ancora di queste
formazioni, nonostante che, sul piano poi dell’analisi, l’interlocuzione rimanesse assolutamente
viva e sensata. Voglio dire che le analisi dello sviluppo capitalistico, dei rapporti e della
composizione di classe che venivano da Potere Operaio mi sembravano le più acute; il rapporto con
l’organizzazione e la capacità di rapportarsi al sociale che veniva da certe componenti di Lotta
Continua mi pareva accettabile. D’altro canto, però, non ero disposto ad accettare la rigidità
ideologica e la crescente rigidità organizzativa di Potere Operaio, così come non ero disposto ad
accettare il casino ideologico di Lotta Continua, o quella dose di populismo o di generica
accettazione di quasi tutto in modo un po’ troppo indiscriminato, che impediva di dare giudizi su
tutta una serie di esperienze e che permetteva che stessero insieme, sotto lo stesso ombrello, cose di
tipo molto operaio o operaista e altre di tipo molto populista e generico. Mentre invece non mi
riconoscevo proprio nel tipo di costruzione politica e organizzativa di realtà come il Movimento
Studentesco della Statale di Milano, poi diventato Movimento Lavoratori per il Socialismo, o anche
Il Quotidiano dei Lavoratori e Avanguardia Operaia, che mi sembravano anche loro tra i più
dottrinari, ma di un tipo di dottrinarismo che apparteneva ad un ambito che avevo del tutto ormai

3
abbandonato: riproducevano in piccolo il Partito Comunista, con una esasperazione dei difetti della
ortodossia, della linea, della coerenza politica, senza però quel patrimonio di partecipazione, di
militanza, di presenza operaia e di gente comune che avevo conosciuto e che comunque rimaneva
per me un dato difficilmente trascurabile. Queste sono le ragioni per cui, a quel punto lì, vedevo le
persone, partecipavo alle situazioni, alle manifestazioni, alle riunioni, ai dibattiti, leggevo, cercavo
di capire, ma non c’era possibilità di identificazione. D’altro canto, quel patrimonio che tra il ’68 e
il ’71-‘72 mi era venuto come arricchimento, secondo me fondamentale, dal movimento femminista
e dalle sue analisi della società americana, chiaramente rimaneva difficile da mettere in pratica
perché come patrimonio teorico rimaneva, però ovviamente quello femminista non è un movimento
a cui puoi partecipare, in questo riconoscendo sicuramente la necessità della separazione. Per
quanto riguarda questo particolare aspetto, va aggiunto che mia moglie (che era stata per un anno
con me in Canada) era poi una militante femminista nel Gruppo del salario per il lavoro domestico
di Padova, che qui a Milano aveva un gruppo piuttosto forte, non in termini numerici, ma come
presenza personale, dal punto di vista della capacità di essere presenti e di articolare un discorso dei
contatti: lei era militante qui, e lo è stata fino al ’75 o ’76. Quindi, i contenuti di quel rapporto con il
femminismo americano erano una presenza vivente, non soltanto una specie di acquisizione o
retaggio intellettuale, perché in casa la dialettica e la discussione su questi temi era costante.
Alcune delle persone con le quali ho parlato di più dopo il ritorno, sono quelle con cui poi abbiamo
messo in piedi Primo Maggio. Io sono tornato nel ’71, i miei rapporti erano con le persone che
rimanevano dentro o venivano da Potere Operaio: per esempio, ho mantenuto contatti con l’ufficio
internazionale di Potere Operaio, perché mi sembrava possibile mantenere un rapporto
reciprocamente utile, per loro e per me, intorno a tutta una serie di questioni delle quali io, a quel
punto, avevo già cominciato ad occuparmi in modo abbastanza stabile, cioè le questioni della storia
operaia e della realtà politica e sociale degli Stati Uniti. Quindi, mi veniva bene di interloquire con
alcune di queste persone, alcune che rimanevano dentro e altre che invece non lo erano più, come
Sergio Bologna, che era uscito nel ’71; ed è con queste persone che poi abbiamo cominciato a
discutere di un progetto di rivista. Abbiamo iniziato a parlarne nel ’72 e il primo numero è uscito
nel ’73, se non sbaglio in maggio. I presupposti di queste discussioni erano abbastanza comuni, nel
senso che quello che ho detto della mia posizione nei confronti del movimento vale o valeva in
parte anche per queste altre persone; le discussioni che hanno portato a Primo Maggio sono state
relativamente più ampie di quello che successivamente si è cristallizzato nel gruppo che poi lo ha
fatto effettivamente. Comunque, le persone che hanno iniziato questa rivista sono state, oltre a me,
Sergio Bologna soprattutto, Franco Mogni, Primo Moroni e Giancarlo Buonfino. Alcuni, come
Sergio Bologna, erano passati attraverso il movimento e non venivano dal PCI, altri, come Primo
Moroni, venivano dal PCI, se ne erano allontanati e avevano costeggiato (non erano ancora passati
attraverso) il movimento in quegli anni, ne erano stati però sollecitati positivamente e avevano
preso decisioni riguardanti la loro vita: Moroni aveva smesso di fare quello che stava facendo e, nel
’71, aveva messo in piedi una libreria a cui diede il nome di Calusca dal posto dove si trovava, e
con lui cominciammo a discutere di questa cosa. Franco Mogni era un emigrato argentino in Italia,
figlio di italiani, lavorava nell’editoria, da Mondadori, e pur avendo rapporti con il mondo
dell’emigrazione latinoamericana, con Lotta Continua in quel momento, anche lui veniva dal Partito
Comunista argentino, da cui si era poi distaccato in anni recenti. Pur intrattenendo rapporti, come
del resto Sergio Bologna, con Lotta Continua, nessuno di noi era membro di alcuno dei gruppi
allora esistenti: questo è il presupposto di fondo, cioè di riuscire a mettere in piedi un’iniziativa
contemporaneamente di segno politico chiaro, di un qualche impegno culturale, di una certa
rilevanza, capace di contribuire sul piano dell’elaborazione teorica alla vita dei movimenti, o del
movimento in generale, senza però riconoscersi in nessuno dei gruppi allora esistenti. Questa è stata
la nostra scommessa, la quale era assolutamente condivisa da tutti noi, che in parte esemplificavamo
nella nostra storia, in misura maggiore o minore, esattamente questo tipo di collocazione dentro o
attorno al movimento. Il primo numero della rivista è uscito nel ’73, in esso c’era una proposta di
discorso che era assolutamente dominante, forte e che poi ebbe una certa “fortuna”, anche più di

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quello che si sarebbe meritato e di quello che noi avremmo voluto: era il discorso sugli IWW, su
questo movimento sindacalista rivoluzionario statunitense, gli Industrial Workers of the World, che
per noi costituiva una proposta importante in più di un senso. Da una parte aveva a che fare con il
discorso che era presente in Sergio Bologna e che io stavo cercando a quel punto ormai di portare
avanti in modo abbastanza serio e stabile, cioè un discorso sulla classe operaia negli Stati Uniti. La
vulgata, il senso comune era che negli Stati Uniti non c’è classe operaia, che sono tutti integrati, che
non c’è sinistra, che gli operai sono sempre stati docili, perbenisti e servi del padrone, che gli Stati
Uniti erano la culla dell’imperialismo e che tutti erano imperialisti: da parte nostra è iniziato un
discorso che ha mandato a quel paese e distrutto questo tipo di immagine, quelle cose non erano
vere. Da lì abbiamo cominciato a battere questi terreni che poi ebbero un seguito, perché il discorso
che abbiamo iniziato noi con Primo Maggio aprì poi tutta una serie di interessi. Apro una piccola
parentesi: anni dopo un ricercatore che si chiama Nando Fasce (che aveva cominciato allora anche
lui, un pochino dopo di noi, ad occuparsi di operai americani) ha fatto una specie di censimento
della produzione saggistica su questi argomenti, e ha verificato che fino all’uscita del primo numero
di Primo Maggio in Italia erano stati pubblicati, dall’inizio del ‘900, mi pare tre saggi di prima
mano sulla classe operaia negli Stati Uniti. Le cose cambiano con l’uscita di Primo Maggio e infatti
negli anni ’70, poco per volta, verrà poi fuori un numero considerevole di lavori in questa direzione.
L’altra ragione per la quale ci interessavano gli IWW era legata al fatto che questa era
un’esperienza di sindacalismo rivoluzionario non comunista, cioè era un sindacalismo
rivoluzionario che aveva preceduto la formazione dei partiti comunisti, che tra l’altro era stato
guardato con grande interesse e valorizzato come esperienza di grande rilievo da parte di Gramsci,
il quale aveva anche indicato in uno dei fondatori dell’IWW, Daniel De Leon, un riferimento
teorico importante rispetto al discorso che riguardava i consigli operai, i consigli di fabbrica e così
via (si tratta in particolare del Gramsci de L’Ordine Nuovo). Quindi, per noi era importante far
vedere che non esisteva soltanto da una parte il sindacalismo filo-padronale e dall’altra quello a
egemonia comunista o social-comunista, ma esisteva anche un’altra possibilità con caratteri diversi,
che non riproduceva la struttura del partito leninista, ma, pur ovviamente dandosi un minimo di
struttura gerarchica o organizzativa interna, si muoveva in tutt’altri modi, con margini di flessibilità,
di libertà di iniziativa e con un tipo di struttura che oggi diremmo a rete, più di movimento che non
quella rigidamente burocratica che era stata poi tipicizzata appunto dai partiti comunisti. Dunque, ci
interessava questa come proposta anche politica, e infatti poi questo tipo di proposta politica fu in
realtà recepita e gli IWW divennero una specie di cosa popolare nella sinistra di movimento, con
delle estremizzazioni e con delle forzature che non stanno nel discorso storico e politico corretto,
ma che appunto il movimento ha preso, fatto proprie, ricreato come voleva, istituendo soltanto un
riferimento più o meno di comodo o di convenienza con quell’esperienza, mentre in realtà poi noi
cercavamo di mantenere un quadro storico-politico un po’ più corretto e fondato. Naturalmente ci
sono poi tutta un’altra serie di discorsi che riguardano Primo Maggio, la storia sua e di tutti noi.

- Quanto, allora, l’analisi della classe e del capitale negli Stati Uniti, quindi il guardare ad una
realtà capitalistica più avanzata, poteva essere importante come possibilità di anticipazione
rispetto a quello che succedeva qui? Quanto e come tale discorso può essere oggi valido e
attualizzabile?

Bisogna dire due parole sul noi, poi però il discorso diventa sull’io. Per noi era importante
analizzare la società statunitense, perché attraverso le esperienze dei gruppi e quelle del movimento
del ’69, dell’autunno caldo, del ‘70 e così via, eravamo convinti che i partiti che fino ad allora
avevano dominato la realtà politica italiana erano entrati in una fase di crisi, e che comunque
esistevano a livello di movimento, cioè al di fuori dei partiti, delle capacità di organizzazione e in
parte di autorganizzazione di movimento, che rendevano le persone capaci di dare forme politiche
organizzate e significative alla loro presenza, aspirazioni, intenzioni e progetti politici in modo tale
da intervenire nella società italiana. La società degli Stati Uniti degli anni ’60 fino ai primi anni ’70

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a noi sembrava incarnare proprio questo tipo di possibilità: era una società nella quale il mondo
della politica aveva assolutamente dominato la realtà di quel paese fino ai primi anni ’60, così ci
sembrava allora, in realtà non era vero, perché già alla metà degli anni ’50 il movimento contro la
segregazione razziale aveva creato ostacoli e tirato fuori delle realtà e delle possibilità
assolutamente inaspettate, ma questo noi non lo sapevamo ancora adeguatamente, pensavamo che
l’inizio della contestazione del sistema politico appartenesse ai primi anni ’60, quando il movimento
per i diritti civili diventò una realtà grande, in realtà era già cominciato prima. Quindi, il movimento
per i diritti civili, poi il movimento contro la guerra, il movimento delle donne, il movimento delle
minoranze, incluse quelle chicana e indiana, poi i movimenti di classe operaia degli ultimi anni ’60.
Noi siamo stati i primi ad occuparci dei movimenti di classe operaia. Tra il ‘67-’68 e il ‘74-’75
negli Stati Uniti c’è la più grande ondata di lotte operaie della sua storia, noi siamo stati i primi ad
accorgerci di questa realtà, e siamo stati i primi ad aver guardato ad essa e cercato di capire che cosa
voleva dire. Questo, bisogna dire, lo abbiamo fatto contemporaneamente a quello che ha fatto una
parte delle persone che appartenevano alla nuova sinistra negli Stati Uniti: che gli operai c’erano e
che le loro attività avevano un senso ce ne siamo accorti contemporaneamente noi qui e loro là.
Questo è anche uno degli aspetti che erano importanti di quegli anni, la comunicazione tra cose che
avvenivano a livello territoriale molto ampio con scarti temporali minimi. Dunque, il discorso era se
i movimenti sono in grado di modificare il quadro politico e di contribuire ad accelerare la crisi di
quei partiti che, secondo noi, erano evidentemente portatori ormai di un immobilismo, di un’assenza
di critica e di trasformazione del quadro sociale, politico e istituzionale. Questo era il nostro
ragionamento e sulla base di quello che succedeva negli Stati Uniti la nostra risposta era sì: a noi
interessava cercare di mettere in circolazione le nostre analisi della realtà statunitense, pensando o
sperando di contribuire a rendere ciò uno strumento per l’analisi anche della realtà italiana.
Ovviamente sapevamo quali erano le diversità: quando parlavamo degli Stati Uniti abbiamo sempre
parlato di realtà di casta e classe. Qui in Italia non esisteva una separazione di casta paragonabile a
quella che il razzismo istituzionale aveva creato negli Stati Uniti, non esistevano gli afroamericani, i
neri, non c’era un movimento simile; ovviamente gli immigrati meridionali nelle città industriali
non erano una realtà di questo tipo. Però, tenendo conto delle diversità e scontate alcune di esse,
secondo noi era importante che, dentro il quadro politico italiano, esistesse una capacità di cogliere
e di interloquire con i movimenti di base. In questo stava anche una parte della nostra critica nei
confronti dei gruppi, che vedevamo come limitati, chiusi e quindi incapaci di contribuire in modo
ampio a un movimento più generale che portasse avanti quel tipo di iniziativa. Ci sembrava che i
gruppi, cioè le chiusure, le separazioni, le contrapposizioni, riproducessero un qualcosa che,
qualche anno prima, era già avvenuto negli Stati Uniti con effetti disastrosi per il movimento: quello
che qui cominciò a succedere tra il ‘70-’71 e il ‘73-’74, negli Stati Uniti era successo tra il ’69 e il
‘71-’72. Quindi, in un certo senso era questo il tipo di “vantaggio” che noi pensavamo di poter
avere, cioè di riuscire a guardare a quella situazione e capire che qualcosa di analogo stava
succedendo, o c’era il rischio che succedesse, anche qui. Infatti, in buona misura si riprodusse un
tipo o una serie di fenomeni analoghi, a partire per esempio dalla tangente delle azioni armate. Là il
cosiddetto partito armato, che è una costola del movimento degli studenti, si stacca dalla nuova
sinistra, non è più disponibile ad accettare il movimento del giorno per giorno e ritiene di poter
spingere e di dare un’accelerazione e una direzione di tipo “leninista” al movimento nel suo
complesso attraverso le azioni esemplari. Questi sono i movimenti dei Wetherman, dei
Revolutionary Yank Movement uno e due, e così via, e iniziano con le azioni armate, di sabotaggio,
le esplosioni di strutture nel ’69: tra quell’anno e il ’71 questo porta alla frantumazione e alla
distruzione del movimento. Lo Students for Democratic Society finisce praticamente nel ’69,
quando, all’interno del suo ultimo congresso, emergono queste forze tangenziali in direzione della
lotta armata, della scelta della clandestinità e così via. Quindi noi, in un certo senso, cercavamo di
anticipare questi movimenti provando a introdurre elementi di un discorso per una pratica della
politica di movimento che contribuisse all’accelerazione della trasformazione, ma che evitasse le
derive e le tangenti armate, perché ne vedevamo il limite. Era anche parte della nostra critica

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all’idea di partito leninista che stava dentro i gruppi: per noi il piccolo partito leninista, di quadri
militanti di avanguardia, era una struttura superata, e questi che danno vita alla deriva armatista
riproducevano, o cercavano di riprodurre, un modello di quel genere.
Questo era un aspetto, l’altro era quello che aveva a che fare con i movimenti di capitale, cioè con
la trasformazione del capitalismo in quanto tale. Lì il discorso non era esattamente lo stesso, anche
se poi, nel giro di qualche anno, anche in questo caso si diedero delle coincidenze secondo me
abbastanza significative. Ma qui lo sfalsamento temporale è più forte, nel senso che il capitale
italiano arrivò ad attuare strategie analoghe a quelle del capitale americano con qualche anno di
ritardo, cioè a partire essenzialmente forse dalla seconda metà degli anni ’70. A noi sembrava
importante cogliere un aspetto, cioè l’accoppiata di ristrutturazione capitalistica e di modifica dei
comportamenti nei confronti della classe operaia. I movimenti di ristrutturazione, che avevano
caratteri che in Italia non ebbero, tuttavia cominciarono negli Stati Uniti negli anni ’60: il trasloco
degli impianti, l’introduzione prima di meccanizzazione spinta e poi di automazione, la sostituzione
del lavoro vivo con i robot, la robotizzazione di alcuni segmenti di lavorazione, soprattutto nel ciclo
dell’automobile. C’era una cosa che avveniva negli Stati Uniti e non in Italia, ossia lo spostamento,
il trasloco delle grandi fabbriche dalle vecchie e tradizionali grosse concentrazioni operaie verso gli
stati del sud, non sindacalizzati, dove le fabbriche erano più piccole, più moderne, con classe
operaia non sindacalizzata. Il tentativo di allargare la classe operaia con gli immigrati del sud
avevamo visto che aveva ottenuto ciò che in inglese si chiama back-fire, cioè si era rivoltato su se
stesso, perché gli immigrati è vero che non avevano la formazione politica e sindacale della vecchia
classe operaia di fabbrica, però rapidamente avevano cambiato le loro posizioni e avevano dato vita
a dei movimenti di insubordinazione che erano stati tipici degli anni ’60. Negli Stati Uniti questo
fenomeno era successo prima, quando erano arrivati i neri, che erano diventati rapidamente
avanguardie nei movimenti di insubordinazione. Quindi, anche qui riuscivamo a rimettere un po’
insieme le cose. Però, negli Stati Uniti questa trasformazione (trasloco e trasformazione degli
impianti, nuova classe operaia non sindacalizzata) avviene prima che in Italia; qui, nella seconda
metà degli anni ’70, questo processo si sviluppa attraverso l’introduzione nelle fabbriche
automobilistiche di un quantità di giovani, che non condividono né l’etica operaia né la pratica di
lotta, che ormai era diventata comune, di vecchi operai, giovani di movimento e immigrati nel corso
degli anni ’60 fino all’esplosione del ’69, ’70, ’71. Questi giovani invece sono un’altra cosa e, da
parte della Fiat per esempio, sono il preludio al 1980: dopo l’occupazione di Mirafiori del ‘73, la
Fiat cambia politica e comincia ad immettere, dentro il processo produttivo, una quantità di giovani,
e tendenzialmente ad emarginare gli operai che hanno fatto le lotte dai primi anni ’60 ai primi anni
’70, che secondo me si concludono esemplarmente con l’occupazione del ’73. Dal ’73 all’80 la Fiat
prepara, diciamo così, il colpo di Stato, su due livelli: da una parte con l’inizio delle trasformazioni
interne, la preparazione della ristrutturazione, che ha un procedere lento e in parte contrattato, però
contemporaneamente introduce tutta questa gente, che poi nell’80 sarà presa alla sprovvista, non
avrà gli strumenti per reagire, non saprà, non gliene importerà, non sarà coinvolta in quella lotta di
resistenza degli ottanta giorni. Con però una variante per quanto riguarda l’Italia, ossia che qui c’è
un movimento operaio (non soltanto sindacale, ma nel suo complesso) particolarmente forte, che
nessuno lo sa che è analogo a quello americano, il quale aveva appunto dato vita a questa
lunghissima ondata di lotte, tra il ‘67-’68 e il ‘74-’75, proprio in risposta alle trasformazioni dentro
la fabbrica e all’attacco antisindacale e antioperaio che aveva cominciato a manifestarsi e che era
presente sia a livello di fabbrica sia nella società. Noi però cerchiamo di capirlo e di istituire un
rapporto tra quella resistenza operaia là e la resistenza operaia in Italia fino al ’73, e cerchiamo di
dire: “Guardate che, anche se ci sono degli elementi di diversità, ci sono però degli elementi di
somiglianza”. Ma in Italia la situazione era “troppo” a favore della classe operaia, che era più forte
che negli Stati Uniti, per cui l’attacco antioperaio è più mediato, meno esplicito e diretto, arriverà
soltanto nell’80, mentre invece là arriva nel ‘75-’76. Poi, però, si riproduce nell’80 esattamente
come in Italia: quando viene eletto Reagan, il suo primo atto, nell’81, è la distruzione di un
sindacato, quello dei controllori di volo. A questo punto, però, la coincidenza diventa perfetta,

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l’attacco antioperaio della Fiat e quello del reaganismo sono in perfetta sincronia. Dunque, il
ragionamento (e questo è il discorso che riguarda di più me, perché poi non eravamo in tanti a
ragionare sulla classe operaia o sui fenomeni di classe negli Stati Uniti) era sulla coincidenza di
Stato e capitale nell’attacco antioperaio, nei limiti dell’azione sindacale a difesa degli operai.
Bisogna dire che tali limiti sono molto più forti negli Stati Uniti che in Italia, nonostante tutto credo
che il sindacato qui abbia mantenuto, proprio anche per la storia recente, un rapporto con la classe
operaia diverso, più interlocutorio e aperto, anche se il suo tentativo è stato sempre quello di
riportare dentro e dietro di sé la classe operaia, però non era stato un sindacato così fortemente
burocratico e autoritario come quello americano. Quando lo Stato e il capitale attaccano gli operai e
il sindacato, i primi per una parte sono anche disposti a mandare a quel paese il secondo, perché il
sindacato era cattivo, cioè era burocratico, autoritario, non era operaista. Mentre invece in Italia,
proprio perché qui il ’69 e il ’70 hanno una loro storia, in quanto poi alla fine di quel ciclo di lotte
arriva lo statuto dei lavoratori, proprio perché si formano i consigli di fabbrica in cui entrano anche
altre forze diverse da quelle sindacali, il sindacato italiano mantiene un’elasticità di rapporto con la
classe operaia che quello americano non ha. Ciò è quello che salva il sindacato ed è quello che in
parte salva la classe operaia italiana, perché l’attacco antioperaio, antisindacale e antipopolare degli
anni di Reagan non ha eguali, se non in Inghilterra o in Cile. Invece qui, tutto sommato, le cose
vanno in modo diverso, anche per una ragione che a questo punto è tipica dell’Italia e non più degli
Stati Uniti, perché il movimento, clandestino e non, là è stato completamente spazzato via. Qui, per
poter spazzare via il movimento armato, il partito armato e la lotta armata clandestina, è necessario
salvare un qualche tipo di rapporto con gli operai, attraverso il rapporto o la mediazione sindacale,
proprio per escludere la possibilità che quel rapporto e quel favore iniziale che il partito armato
aveva avuto all’interno delle fabbriche potesse solidificarsi. Per favore iniziale intendo quando
hanno fatto le prime azioni dimostrative nel ‘72-’73, poi l’equivoco si è sciolto, successivamente
dentro le fabbriche le Brigate Rosse e Prima Linea reclutano ma non riusciranno mai ad essere in
nessun modo egemoni. Anche perché il movimento che non si fa egemonizzare dal partito armato
cerca però di mantenere una sua forza, una sua identità e una sua capacità di interlocuzione, a volte
funzionante e a volte no, con il sindacato o con parti di esso: in Italia c’è un rapporto molto più
complesso che non negli Stati Uniti.
Essenzialmente però questo è il punto finale del discorso, cioè quello che succede dopo gli anni ’80
in Italia e negli Stati Uniti: a un certo punto cominciamo a capire (queste sono analisi che ho scritto
nell’ultima cosa che ho pubblicato) che quella a cui il grande capitale e lo Stato degli Stati Uniti
hanno dato vita negli anni ’80 non è una grande ristrutturazione industriale, ma è ciò che a un certo
punto io ho chiamato una mutazione capitalistica e poi ho chiamato la terza rivoluzione industriale.
Quindi, è un fenomeno molto più grande e molto più impegnativo. Bisogna pensare che, quando
cominciavamo a scrivere di queste cose e a guardare all’introduzione dell’automazione, ai robot, e
iniziavamo a capire che i computer cominciavano ad avere un ruolo nell’organizzazione della
produzione, parlavamo ancora di grandi computer, di enormi scatoloni, che erano dislocati in locali
appositi all’interno delle fabbriche e che riuscivano a funzionare in condizioni di stabilità climatica
e di temperatura: dunque, noi avevamo davanti agli occhi delle immagini di atti di sabotaggio che
c’erano stati ai computer semplicemente facendo saltare l’impianto di condizionamento, per cui
esso si surriscaldava e andava in tilt. Si pensi invece nell’arco di sette, otto, dieci anni quanto è
cambiato quel tipo di immagini, di realtà: non c’era più il cervellone che governava tutto il
processo, ma una serie di stazioni, di postazioni, di collegamenti in rete dentro la fabbrica, che
muoveva tutto quanto attraverso centri nevralgici dispersi, e i computer non avevano più bisogno di
quella specie di isolamento, anche un po’ magico, nel quale erano collocati negli anni ’70. Quindi,
c’è una rapidità di evoluzione terribile, enorme, per cui prima pensiamo a una ristrutturazione, poi a
una mutazione capitalistica, dopo di che abbiamo capito che era la terza rivoluzione industriale. A
quel punto, però, quello che succede nella grande industria italiana coincide con quello che succede
nella grande industria americana: quel concetto di centro e di periferia che avevamo usato quando
vedevamo che al centro, cioè negli Stati Uniti, succedeva qualcosa che poi in periferia, qui, sarebbe

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arrivato nell’arco di uno, due, tre, quattro, cinque anni, non tiene più. Ora il mondo intero è fatto di
una serie di centri e una serie di periferie: i centri possono essere negli Stati Uniti, in ognuno dei
paesi d’Europa, nell’Asia orientale, in India, in America Latina. Il capitale si dota di una rete i cui
nodi possono essere dislocati ovunque, e le maglie di questa rete possono essere più fitte o più rade
a seconda delle diverse collocazioni nel globo; però, noi qui siamo dentro questa rete, e qui esistono
i centri ed esistono le periferie, esattamente come negli Stati Uniti. Anche lì la società si trasforma,
è quella che a un certo punto ho definito la terzomondizzazione degli Stati Uniti. Infatti, se si
guarda all’andamento della distribuzione della ricchezza dalla fine degli anni ’60 ad oggi, le
sperequazioni aumentano enormemente, perché la configurazione sociale degli Stati Uniti diventa
sempre di più una realtà fatta di centri e periferie, e queste ultime sono lasciate a se stesse
esattamente come le periferie brasiliane o quelle indiane o quelle giapponesi. Questa però è la realtà
degli anni ’90, ormai quello che succede negli Stati Uniti succede anche qui con uno scarto
temporale che a volte è di due o di sei mesi, ma essenzialmente è la stessa cosa.
Detto questo, rimane vero che il modello sociale, produttivo e politico in questo caso italiano non è
quello statunitense: allora, questo è il dibattito attuale sull’adozione o meno del modello americano.
Adottare il modello americano vuol dire approfondire delle implicazioni di quel tipo di realtà,
significa cioè creare la terzomondizzazione dell’Italia, della Francia, della Germania. Adottare il
modello statunitense oggi vuol dire approfondire le sperequazioni sociali, la distanza tra i ricchi, i
meno ricchi e i poveri, concentrare le ricchezze nelle mani di una minoranza sempre più piccola
della popolazione. Perché l’Italia, la Germania e la Francia non sono gli Stati Uniti? Essenzialmente
per le inerzie dei sistemi politici, che sono diversi e quindi ci sono delle inerzie che continuano;
soprattutto perché i movimenti sindacali sono diversi dagli Stati Uniti e hanno avuto una tenuta
organizzativa molto più grande, e ciò perché comunque, nonostante tutte le critiche che si meritano,
hanno mantenuto una capacità di interlocuzione con le classi operaie molto maggiore rispetto ai
sindacati americani, e, in confronto ad essi, si sono mantenuti come strutture molto meno
burocratiche e autoritarie, per cui sono state anche meno abbandonate dai lavoratori. Infine, perché i
movimenti sociali in Italia hanno mantenuto una complessità diversa e più lunga: la repressione, che
negli Stati Uniti ha fatto letteralmente piazza pulita tra il ’68 il ’73, in Italia non c’è stata. C’è stata
una repressione terribile nei confronti del partito armato e, come ricaduta sociale, nei confronti del
movimento diffuso, ma in Italia comunque è rimasto un tessuto, liso, stracciato e con qualche altro
difetto, ma tutto sommato è rimasta una sensibilità un po’ più presente che negli Stati Uniti.

- Questo perché a tuo giudizio?

La strategia repressiva negli Stati Uniti era diversa ed è stata più violenta. Tutti i movimenti di
repressione negli Stati Uniti, con l’unica eccezione del fascismo in Italia, sono stati più violenti; essi
hanno sempre una violenza ed una brutalità che noi non conosciamo, a parte la parentesi fascista.
L’antisindacalismo statunitense è stato un fenomeno di una brutalità, di una violenza, di una
sistematicità e di una diffusione senza precedenti, neppure all’interno degli stessi Stati Uniti, in
quanto la determinazione e la decisione con cui la classe politica ha condiviso, accettato e accolto la
repressione dei movimenti sociali, del movimento operaio, dei movimenti di protesta, ha avuto
livelli di unanimità che in Italia comunque non ci sono stati. Se noi facciamo un discorso
comparativo, siamo costretti anche a trattare la nostra sinistra in modo diverso da come la
tratteremmo se parlassimo soltanto del quadro italiano, perché comunque l’attacco è stato per forza
differente con l’esistenza di un partito di sinistra come il PCI, di un sindacato a egemonia
comunista, l’esistenza di voci al di fuori del PCI a lungo negli anni ’70 e poi ancora negli anni ’80,
perché comunque Il Quotidiano dei Lavoratori è durato più a lungo che non Avanguardia Operaia,
il giornale Lotta Continua è durato più a lungo che non il gruppo, Il Manifesto dura ancora
attraverso tutti questi anni, così come altre riviste: tutto sommato una rivista come Primo Maggio è
durata fino alla fine degli anni ’80, negli ultimi tempi facevamo fatica a farla, però il fatto che tutto
quanto cospirava per chiudere la bocca a una rivista di questo tipo era una ragione per andare

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avanti. Ci sono stati ovviamente movimenti come quello del ’77, che non è stato solo partito
armato, ma è stato una serie di altre cose, riviste come Controinformazione, riviste di altro tipo, che
hanno continuato ad esistere. Il livello dell’attacco è stato per forza più selettivo: per poter attaccare
il partito armato, è stato necessario permettere di vivere ad una parte della sinistra che non si
riconosceva nel Partito Comunista, proprio per poter esercitare una rottura. Da parte di questa
sinistra è stato fatto uno sforzo, secondo me gigantesco, per poter continuare ad esistere e dire che
non è tutto partito armato. E’ questo che negli Stati Uniti non c’è stato, perché la reazione è stata
terribile, ha proprio letteralmente spazzato via i movimenti sociali. Invece, in Italia, pur con tutte le
contraddizioni interne, i limiti interni e i compromessi di classe della nostra sinistra, anche quando
quella di governo o di suo appoggio ha fatto proprie le leggi dell’emergenza per reprimere il partito
armato, anche in quel momento, nonostante tutto, la sinistra non armata ha conservato una voce, e
questo è quello che ha fatto sì che le cose fossero diverse, così come il fatto che comunque esistesse
nelle fabbriche uno statuto dei lavoratori, il fatto che comunque esistessero dei consigli di fabbrica,
in cui potessero trovare sbocco anche e comunque componenti che non erano quelle che si
riconoscevano strettamente nel sindacato.

- Continuiamo nell’analisi del percorso di Primo Maggio, soprattutto nel suo rapporto con i
movimenti che si sono sviluppati negli anni ’70, per poi declinare e frantumarsi sul finire del
decennio.

Abbiamo cercato di muoverci lungo una serie di filoni: uno era quello della storia dei movimenti
operai, un altro era quello dell’analisi della società e delle trasformazioni sociali in atto, dei processi
produttivi. Alcune delle ricerche erano quelle del ciclo produttivo della Fiat, riproducendo proprio i
percorsi, cercando di capire in che modo funzionava la fabbrica. L’ultima cosa andava nel senso di
quello che dicevo prima, cioè di quello che stava succedendo sotto gli occhi, che non sapevamo
ancora che cos’era nel suo complesso, però cercavamo di capirne dei filoni: il discorso sul denaro, il
suo ruolo e l’importanza della crescente finanziarizzazione dell’economia. Questo è stato un
discorso che io ho praticato molto poco all’interno della rivista, proprio per questioni di expertis,
ma è stato importante, proprio perché abbiamo colto all’inizio uno dei fenomeni che poi sarebbero
arrivati a caratterizzare questa fase dell’evoluzione capitalistica, cioè la finanziarizzazione
dell’economia e il ruolo del denaro. Poi abbiamo cercato di capire in parte il movimento del ’77, ma
devo dire che non ci piaceva molto: abbiamo provato a capire quello che c’era dentro, Bologna
pubblicò da Feltrinelli un libretto intitolato La tribù delle talpe, che però riproduceva pezzi di Primo
Maggio ed elementi del dibattito interno e intorno alla rivista, e che era proprio il tentativo di fare i
conti un po’ con questo movimento e tutto quello che implicava. Poi negli anni ’80 abbiamo cercato
di tenere d’occhio queste cose, però a quel punto facevamo anche molta fatica e i discorsi erano
meno facili. C’è poi un altro filone, che è quello di storia e uso delle fonti orali in particolare, che
poi abbiamo anche praticato con alcuni interventi secondo me di grande importanza, sia dal punto di
vista della teoria e della ricerca con le fonti orali, sia dal punto di vista della messa in pratica: c’è,
per esempio, quella ricostruzione della biografia di Primo Moroni fatta da Cesare Bermani che,
secondo me, rimane un pezzo di grande importanza e bellezza.
Negli anni ’80 facevamo fatica (è questo è un discorso che non vale solo per Primo Maggio, ma per
un certo tipo di lavoro intellettuale) perché noi siamo nati dentro al movimento e ci siamo mossi
dentro e intorno ad esso per tutti gli anni ’70; negli anni ’80 l’atomizzazione del movimento fa sì
che esso, come interlocutore, non esista più. Allora, un intellettuale, o un gruppo di intellettuali, o
un gruppo intellettuale e politico, che vuole fare della cultura politica, che si trova a muoversi in un
contesto privo di movimento, si trova in una posizione estremamente difficile. A quel punto, non
posso più dire che avessimo negli anni ’80 un progetto forte: sì, avevamo un progetto riconoscibile,
nel senso di un certo tipo di critica della società, ancora dell’adattamento dell’analisi a quello che
succedeva nella società americana, il confronto tra quello che accadeva lì e quello che succedeva
nella società italiana, la messa a punto di strumenti per l’analisi anche della società italiana; però,

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non avevamo più un interlocutore o un punto di riferimento. La diversità tra la ricerca di tipo
accademico e la ricerca politica che si riconosce nei movimenti sociali, o che riconosce nei
movimenti sociali i propri interlocutori, sta proprio qui: l’intellettuale accademico va avanti a ruota
libera, è indifferente quello che succede intorno a lui, mentre l’intellettuale che vuole usare magari
gli strumenti, le modalità e i criteri della ricerca accademica (perché poi abbiamo fatto ricerca di
alto livello) ma per rapportarsi al movimento, se esso non c’è, con che cosa si rapporta? Dunque,
questa era la difficoltà, per cui teniamo in piedi una serie di ipotesi: documentare quello che
succede, gli spezzoni di movimento, documentare le lotte operaie, documentare la soggettività, la
ricerca sulle fonti orali. In un certo senso, per tenere vivo un aspetto del discorso: sappiamo che nei
movimenti ci sono le fasi alte e quelle basse, sappiamo che quelle basse sono fasi di riflusso, però
teniamo conto che, anche nelle fasi di riflusso, le soggettività che sono state protagoniste nelle fasi
alte rimangono vive, spesso attente e capaci di individuare aspetti importanti della realtà. Quindi,
testimonianze orali, sulle lotte, ricostruzione di questi fatti, proprio per mettere in circolo quello che
tendenzialmente si stava cominciando a sotterrare, non si davano cioè più informazioni sulle lotte
operaie: è come se nei media fosse passata la parola d’orine “chiuso con gli operai, non esistono
più, della classe operaia non se ne parla più”, e noi cercavamo invece di far vedere che c’erano, che
esistevano.
Poi c’era questo tentativo di capire la mutazione capitalistica. Infatti, eravamo stremati dalla storia
di Primo Maggio, si era dato un evidente calo nelle vendite (avevamo toccato le 5.000 copie per
numero, ed eravamo a venderne 600-700-800), facevamo fatica a farlo, a distribuirlo, a venderlo:
perché poi la distribuzione militante, la struttura dei punti rossi, messa in piedi da Moroni, era
crollata, le librerie di movimento non esistevano più, c’era la rete delle Feltrinelli più un certo
numero di altre librerie, per cui diventava anche difficile distribuire, dovevamo rivolgerci a
distributori “normali”, i quali ti portano via il 60% del costo. Quindi, dopo aver tenuto viva la
rivista negli anni più duri in cui volevano farcela chiudere, alla fine, quando ormai non c’era più
questo senso di oppressione, l’abbiamo chiusa noi, perché la circolazione era difficoltosa, perché
facevamo fatica a farla, perché facevamo fatica a pagarla. Allora, dopo aver smaltito il peso del
farla e del pagarla, e del pagare i debiti con chi ce la stampava (con il quale siamo rimasti in ottimi
rapporti, perché gli abbiamo dato tutto quello che gli spettava, il che non è poco), dopo un po’
abbiamo ripreso un’altra fase di dibattito e, dopo una lunga serie di discussioni molto articolate, con
gruppi un po’ a fisarmonica ma sempre molto ampi, siamo usciti con un’altra rivista, che si
chiamava Altreragioni. L’abbiamo fatta per alcuni numeri, poi Sergio Bologna se ne è andato, dopo
di che siamo rimasti lì ancora un po’ e poi ho smesso anch’io, perché nel frattempo avevo iniziato
anche a fare altre cose e non ce la facevo più. Però, se non mi sbaglio, nel ’92 lì ho pubblicato un
pezzo che riguardava appunto la mutazione capitalistica, e che era il risultato sia della mia analisi
particolare di quello che succedeva negli Stati Uniti, sia però in parte anche dei discorsi che
facevamo all’interno del gruppo redazionale e lì intorno.

ANALISI DEI PROPRI PERCORSI POLITICI


- Mantenendo questa visuale comparativa con gli Stati Uniti, quali sono stati i limiti e le
ricchezze dei percorsi politici a cui hai direttamente preso parte e, più in generale, dei
movimenti degli anni ’70?

C’è un qualcosa che secondo me è stato molto importante in questo rapporto con gli Stati Uniti, che
voleva dire rapporto anche con persone, con gruppi e con fette di movimento lì attive. Secondo me
è stato molto importante in alcune direzioni: uno, perché è entrato in sintonia e in interrelazione con
alcuni percorsi dell’operaismo italiano. Come Alquati è in grado di spiegare meglio e più
dall’interno di me, si tratta di una parte di discorsi che vengono fuori da componenti politiche, in
parte interne e in parte esterne al PCI, e che passano attraverso tutta una serie di canali, da Classe
Operaia, ai Quaderni Rossi, a Classe, a Potere Operaio, a Contropiano e così via; sono in parte
interni ad alcuni gruppi, esperienze, individui che vanno appunto da Montaldi, ai suoi rapporti con

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Socialisme ou Barbarie, a gruppi, forze o componenti di una specie di operaismo francese. Ci sono
alcune cose e libretti, come Diario di un operaio di Mothé, che hanno una grande importanza, che
circolano, che diventano monumenti del discorso sulla soggettività e che contribuiscono allo
spostamento dell’attenzione nei confronti della soggettività operaia. Penso, per esempio, a quando
nei Quaderni Rossi viene tradotta l’inchiesta operaia di Marx: c’è tutto uno spostamento in
direzione della rilevazione della soggettività. Quando Montaldi fa le Autobiografie della leggera,
quando fa i Militanti politici di base, quando pratica questo tipo di ricerca, è una ricerca che ha al
fondo la documentazione di soggettività complesse, esistenti e attive o attivizzabili al di fuori delle
formazioni partitiche esistenti. Quando Ernesto De Martino fa la ricerca nel Sud, quando Gianni
Bosio scrive che le isole di ignoranza sono le isole di resistenza, quando fa l’elogio del
magnetofono come strumento per la rilevazione dell’esistente, questi sono discorsi che non sono
tutti in collegamento tra di loro, però esistono, in modo più o meno atomizzato, e che poi, in
qualche maniera (ovviamente in modi che sono analizzabili e ricostruibili, spesso proprio attraverso
i rapporti personali tra le persone) confluiscono negli anni ’60 e producono quella straordinaria fase
di studio, di ridiscussione dei classici del marxismo, di analisi delle esperienze marxiste, o non
strettamente marxiste, o della non ortodossia marxista, di analisi dell’esistente, della fabbrica, della
soggettività e di inizio della rottura dello schema partitico, che diventa non soltanto adozione di un
modello non ortodosso nell’analisi, ma anche individuazioni di modalità, di comportamento e di
azione che stanno fuori dai partiti: esiste cioè la possibilità di fare delle cose fuori dai partiti.
Quando parlo di questo, non faccio un discorso che si limita alla politica in senso stretto, ma molto
più ampio. Per questo all’inizio, quando parlavo della mia esperienza e della mia formazione, ho
fatto riferimento a quel gruppo di persone, in cui eravamo tutti giovani, di sinistra, più o meno
comunisti (alcuni lo erano, alcuni no, alcuni lo sarebbero diventati strada facendo), che però ci
guardavamo intorno e vedevamo delle cose che cinque o dieci anni prima non c’erano e che magari
qualcun altro dieci anni prima non vedeva. Per esempio, prima citavo Gianni Bosio, si pensi al
Nuovo Canzoniere Italiano, tutta la ricerca sul canto sociale, il fatto che comincino a girare per
l’Italia i dischi del sole, gli spettacoli del Nuovo Canzoniere Italiano: forse bisognerebbe proprio
dedicare una parte del discorso per far capire ai giovani come tutte queste cose qui si coagulassero,
in che modo, nella formazione delle persone, interagissero contemporaneamente lo Sputnik, le
rivolte urbane negli Stati Uniti, il Nuovo Canzoniere Italiano, i canti della Resistenza e tutte queste
cose qui, e la possibilità e il senso che esisteva una situazione di crescita economica, sociale,
culturale all’interno della quale dei giovani non soltanto trovavano stimoli enormi, ma anche
trovavano gli spazi per fare delle cose. Studiavamo anche molto negli anni ’60, Gramsci ad
esempio; adesso è stato appena ripubblicato I dannati della terra di Frantz Fanon, quelle erano cose
che noi leggevamo quando uscivano. Ovviamente poi andavamo al cinema, ai cineforum, a teatro:
con quel gruppo di Tortona di cui dicevo prima, io e il mio amico organizzavamo i pullman e
portavamo le persone a vedere gli spettacoli di Brecht al Piccolo Teatro (Schweyk nella seconda
guerra mondiale, L’anima buona di Sezuan, Vita di Galileo e così via). Era una situazione in cui
cose molto diverse tra di loro, che a noi oggi possono apparire separate e lontane, interagivano e si
rafforzavano l’una con l’altra. E capivamo che per guardare a certe cose avevamo bisogno di
rompere degli schemi: negli Stati Uniti stavano succedendo delle cose che noi non potevamo capire
guardando a quella realtà con gli occhi dei nostri padri. Non c’è assolutamente niente da fare, lì la
realtà ha imposto l’adozione di modelli teorici di tipo diverso. Il mondo, nell’arco di pochi anni, ti si
allarga completamente davanti, e questo grazie da una parte agli Stati Uniti, alla guerra nel
Vietnam, dall’altra ai satelliti artificiali, allo Sputnik, alle bombe da 50-60 megatoni: quando
succedono queste cose, ti pongono dei problemi che tu devi analizzare, cercando di modificare la
strumentazione teorica che hai a disposizione, questa è la cosa fondamentale. Per cui, quando poi
hai adottato questo tipo di comportamento, tutto quello che succede negli anni ’70 e ’80 ti passa
sotto gli occhi ponendoti continuamente degli interrogativi: tu sei abituato a guardare alle
soggettività, in che modo si esprimono, e allora ti poni gli interrogativi, in che modo capisci e cerchi
di capire. Guardi il capitale, ma quello che succede negli Stati Uniti o in Brasile o in India non ti è

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più estraneo, perché hai imparato che non è tanto l’imperialismo che sta occupando tutto il mondo,
ma che ci sono delle dialettiche di vario tipo (di classe, di casta, politiche, istituzionali,
trasformazioni profonde sul piano istituzionale che succedono). Quando, negli anni ’60, parte il
movimento delle guardie rosse in Cina, tu puoi anche avere evitato di occupartene fino ad allora, ma
in quel momento devi per forza aprire gli occhi sulla Cina, perché vedi quello che succede lì come
necessario per la tua formazione: poi non diventi “cinese” (o magari sì, alcuni lo diventano) però
quella è un’esperienza che tu sottoponi all’analisi. E’ questo il nodo che si stringe in questi anni, tra
la seconda metà degli anni ’60 e la prima metà dei ’70, e questa secondo me è una trasformazione
decisiva: le trasformazioni decisive passano attraverso questo periodo.
Torniamo al filone dell’operaismo italiano (che non è l’unico, ma è uno dei più alti a livello
internazionale). Per esempio, sia il sindacato sia il partito non avevano mai guardato dentro la
fabbrica: una delle cose che viene direttamente dall’operaismo e da questa ricerca sulla soggettività,
da questo contatto con essa, è quello di guardare a come e dove si esprime la soggettività operaia in
questi anni, quindi diventa necessario guardare alla fabbrica, perché essa diventa sempre di più
luogo di movimento. Ovviamente al fondo di questo movimento teorico c’è il presupposto che
questa massa operaia un po’ indistinta (quella della fabbrica taylorista) sia significativa, ma questa è
una delle cose che abbiamo imparato dagli IWW, che vengono dall’analisi del fordismo, dall’analisi
degli anni ’30 negli Stati Uniti, ci viene cioè da quelle esperienze che per prime si sono rapportate
con la fabbrica fordista. Quindi, la figura dell’operaio-massa, che oggi viene largamente disprezzata
come figura teorica, è in realtà uno strumento fondamentale per capire che bisogna guardare dentro
la fabbrica, che bisogna guardare i processi produttivi e a chi vi sta dentro. Infatti, secondo me, con
alcuni svarioni, superficialità o volontarismi, per questa via negli anni ‘70-’80 noi arriviamo a
capire, con sufficiente adesione al reale, quello che sta succedendo. Credo che dalla lezione
dell’operaismo venga questa capacità di capire quello che accade, perché il luogo principale della
trasformazione, dell’attacco antioperaio, antisindacale e antipopolare, è la fabbrica; quindi, guardare
a quella realtà è quello che permette di capire prima di tutti gli altri che cosa sta succedendo e anche
di rapportarsi con questi fenomeni. Ciò ci permette anche di essere in anticipo sui tempi, perché
adesso tutto il parlare che si fa di modello americano, di flessibilità, di adozione del part-time, delle
reti e così via, ha per oggetto diretto e immediato il mondo del lavoro, della fabbrica e la sua
trasformazione: noi siamo tra quelli che a queste cose abbiamo guardato per primi. Qui, ripeto,
c’entra sia quello che è più autoctono (cioè dai Quaderni Rossi a Montaldi a Alquati a Classe
Operaia e quella componente lì), sia quello che veniva dalla gente di Socialisme ou Barbarie, dagli
operaisti americani di Detroit (con i quali siamo entrati in contatto nella seconda metà degli anni ’60
o, per quanto riguarda me, alla fine di quel decennio). Questo secondo me è uno dei contributi
principali, che ovviamente in sé non esaurisce le necessità di rinnovamento teorico, però è un
contributo importante in quella direzione. Ripeto, il partito e il sindacato erano stati fuori dalla
fabbrica, non avevano mai analizzato veramente quello che vi avveniva dentro, quindi è importante
quello che succede su questo terreno.

- Quali sono invece stati i limiti?

I limiti stanno nel fatto che anche i movimenti e i gruppi che ne sono espressione, come tutte le altre
strutture sociali, tendono ad autoriprodursi, a prolungare la propria esistenza e legittimità al di là del
dovuto, anche quando ormai hanno smesso di avere senso. Ovviamente io non posso immaginare
che il mio punto di vista sia condiviso, largamente oppure no, però è il punto di vista che ha retto il
mio rapporto con la realtà politica di questi anni: secondo me è questo irrigidimento in gruppi che
ha portato ad un indebolimento del movimento nel suo complesso. In parte questo tipo di
evoluzione è ovvia, ma in parte non lo è, perché non c’è niente che sia sempre e soltanto ovvio al
mondo: per cui, per esempio, le controtendenze sono state troppo deboli. Noi, Primo Maggio, che
abbiamo cercato di dar voce ad una controtendenza, forse avremmo potuto farlo meglio, di più,
forse avremmo potuto a nostra volta essere meno chiusi, non lo so, questo starà ad altri dirlo; però,

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quello che abbiamo cercato di fare, con le forze e capacità che avevamo, era in parte questo, cioè di
lavorare al di là delle linee di frattura che separavano i movimenti. Da questa situazione esce un
altro elemento che, secondo me, è poi caratteristico della seconda metà degli anni ’70 e in parte del
movimento degli anni ’70, del ’77 e così via: l’autoreferenzialità, l’incapacità di interloquire con
quello che ti sta intorno. Ciò vale per i gruppi prima, poi soprattutto movimenti o spezzoni di esso:
il movimento dell’Autonomia smette ancora di più dei gruppi (se è possibile, ma è così) di pensare
di rivolgersi ad altri diversi da se stessi. I gruppi nella fase iniziale avevano tutti ipotizzato come
destinatario naturale della propria azione la classe operaia, e avevano cercato in ogni modo di
interagire con essa, a volte riuscendoci e a volte no, di più o di meno, a volte in modo “giusto” o
“sbagliato”, però avevano fatto questo; i movimenti della seconda metà degli anni ’70, inclusa
Autonomia Operaia, sono autoreferenziali, nel senso che pensano di racchiudere in sé tutte le
regioni della propria esistenza. Questo, secondo me, è un errore politico e teorico di straordinaria
rilevanza, ed è una delle ragioni che porta alla totale separazione e alla fine del senso sociale ampio
e diffuso dei movimenti degli anni ’70. Diventano movimenti generazionali, soltanto giovanili e che
si rivolgono ad ambiti sociali che molto spesso non hanno nessun rapporto con la classe operaia, o,
meglio, che anche quando hanno rapporto con la classe operaia non derivano da essa il proprio
senso, ma spostando gli aderenti di classe operaia fuori da essa per ricevere il senso
dall’appartenenza al gruppo: non è la classe operaia che dà senso al gruppo, ma è il gruppo che dà
senso a quei pochi operai che riesce a portare verso di sé. Questo, secondo me, è il limite più
grande, e questa è proprio la deriva più importante che tende a privare il movimento in generale, e i
movimenti come suoi componenti, di senso e di valore. Dopo di che, questo movimento ha
comunque un suo senso: negli anni della repressione, i movimenti che sono il prolungamento del
’77 conservano un loro valore, ce l’ha quel filone che passa da lì e diventa poi i centri sociali, in una
situazione di atomizzazione, di attacco antipopolare, di distruzione delle forme di aggregazione di
sinistra, questi diventano punti di coagulo, e in quanto tali diventano estremamente importanti
perché non tutto vada a ramengo. Però, non cessa quel carattere di autoreferenzialità che fa sì che
questi siano essenzialmente dei luoghi chiusi, con pochissima capacità di interloquire con l’esterno,
con la classe operaia e con i cambiamenti profondi nella società. Diventano cioè fenomeni difensivi,
di chiusura e di autodifesa, e come tali rispettabili, però in questa chiusura e autodifesa si definisce
anche il limite, cioè l’incapacità di avere un senso ampio e una capacità di interlocuzione con i vasti
fenomeni sociali che attraversano la società. Per cui, per esempio, si dà la totale separazione rispetto
alla classe operaia, e delle trasformazioni ad essa interne questa gente qui non capisce più niente,
salvo pochissime eccezioni, tra queste (si tratta soprattutto di individui) nomino, per esempio, Primo
Moroni. Dire Moroni vuole però dire parlare di un individuo, che riesce a coagulare un qualcosa
intorno a sé, alla libreria (che ha una storia lunga e complessa) e al centro sociale di via Conchetta;
tuttavia, rimane un individuo, i centri sociali in quanto tali credo che raramente riescano a produrre
analisi dell’esistente, del sociale, molto raramente riescono a interloquire con la classe operaia o con
quello che succede nelle fabbriche, né dal punto di vista dell’analisi né dal punto di vista umano,
sociale, concreto, pratico. Questo non vuol dire sminuire l’importanza di quello che fanno, che anzi
negli anni ’90 sarà estremamente importante; però, secondo me, ciò vuol dire avere la dimensione
realistica dei limiti di questo tipo di movimento, e della sua grande diversità rispetto a quello che
succedeva in Italia nella seconda metà degli anni ’60 e nei primi ’70.

- Se dovessi citare alcuni libri, autori e figure che hanno avuto una particolare importanza nel
tuo percorso politico e culturale, di chi parleresti?

Questa è una domanda che non mi piace, perché il processo di formazione è lungo e complesso.
L’unica cosa che posso dire è che non c’è stato un libro che per me è stato il vangelo, non c’è stata
una rivelazione, non ho mai avuto questo tipo di esperienza. Mi rendo conto che forse questo può
anche essere inteso come una dose di supponenza o di arroganza, ma quando nei primi anni ’70
vedevo tutti questi miei coetanei che scoprivano la classe operaia, io posso dire che ci sono nato

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dentro e non ho mai avuto bisogno di figurarmeli come un qualcosa di diverso da quello che sono,
né meglio né peggio, perché ci sono letteralmente vissuto dentro per i primi vent’anni della mia
vita, li conoscevo nei loro pregi e nei loro difetti, sapevo quanto sono attendibili o quanto non lo
sono, quanto è importante un movimento di classe operaia e anche quali sono i limiti delle capacità
di analisi di un gruppo di operai. In quegli anni ho insegnato sempre alla Statale di Milano e lì c’era
il Movimento Studentesco, poi diventato Movimento Lavoratori per il Socialismo: vedevo il tipo di
dottrinarismo che questa gente metteva nel loro lavoro e nel tentativo di capire che cosa succedeva.
Ciò era legittimo, era anche meritevole, in quegli anni la gente studiava e loro erano persone che
studiavano; ma quando partivano dai libri e si fermavano ad essi, perché usavano quello che vi
imparavano per proiettare addosso alla realtà un’etichetta, un’immagine, una struttura, io li
mandavo a quel paese. Alcuni di loro erano miei studenti e io dicevo loro quanto era sterile questo
tipo di discorso: “Tu con la realtà ti ci rapporti in un modo diverso, ti costruisci una teoria e poi
però la metti a confronto con la realtà, e dal confronto della teoria con la realtà riorganizzi un’altra
teoria, ed è questo il tipo di procedimento”.
Per quanto riguarda me, il rapporto è questo, poi posso dire del rapporto con esperienze: il rapporto
con l’esperienza della vita di classe operaia in mezzo alla classe operaia, il rapporto con gli Stati
Uniti, anche nel senso proprio di vedere quello che succedeva dentro le città, come si muovevano
queste persone, cosa facevano, in che modo mettevano in gioco la propria vita. Perché poi la
militanza è anche questo, cioè mettere in gioco la propria vita, i propri valori, le proprie
appartenenze, le proprie convinzioni: lì ho visto gente fare questo in modo molto deciso,
comportarsi in modo coerente con quello in cui credevano e trasformare le proprie vite sulla base di
quello in cui erano arrivati a credere. Poi, una volta tornato qui, in sostanza il tentativo è stato di
non ripudiare nulla, cioè di riuscire a dare a quella che credo sia stata l’importanza della mia
formazione precedente il valore che ha e all’importanza delle mie esperienze successive il valore
che hanno. Dopo di che ci sono altri che hanno fatto forme di militanza diverse dalle mie, più
militanti, combattive, d’avanguardia, alla testa di movimenti, altri che lo hanno fatto meno di me: io
ho fatto quello di cui sono stato capace e quello che ho avuto il coraggio e la forza per fare, né più
né meno. In questo c’è anche la consapevolezza dei limiti, per esempio non sono mai andato dentro:
il fatto di non essere stato una vittima non lo vedo come una macchia sul mio onore, credo che
abbia a che fare con la posizione che io e altri abbiamo preso in quegli anni, cioè di essere dentro e
in rapporto con il movimento ma senza identificarcisi totalmente, cercando di mantenere un
rapporto critico, quindi un minimo di distacco critico, altrimenti non si riesce ad esserlo. Questo è
quello che è successo.

- Prima parlavi del movimento femminista: secondo te, all’interno dei movimenti antagonisti,
qual è stato il suo ruolo e la sua importanza, le sue ricchezze e i suoi limiti?

L’importanza è stata straordinaria; anche questo è un discorso che andrebbe fatto più estesamente e
più in profondità. L’importanza è stata straordinaria perché ha fatto emergere una separazione di
genere che fino a quel momento era stata rimossa, sommersa, non dichiarata e, per quanto riguarda
le donne, subita e imposta; ha fatto emergere l’esistenza di questo come problema. Dal ‘69-’70 in
avanti nulla più ha potuto essere come se il femminismo non ci fosse stato, qualsiasi pezzo di
elaborazione teorica non poteva più parlare soltanto al maschile: questo è un contributo secondo me
di straordinaria importanza. Un’altra cosa è la messa in discussione dei principi della gerarchia
all’interno delle organizzazioni, e questo secondo me è un contributo che non è passato in generale;
è passato nel caso mio, io sono convinto che questo tipo di esperienza per me sia diventata
fondamentale. Credo che potrebbe essere assunto come uno dei significati o una delle indicazioni
profonde: l’organizzazione sì, la burocratizzazione no. Se i movimenti avessero avuto la duttilità
sufficiente per appropriarsi di questo tipo di indicazione, avrebbero avuto storie diverse, secondo
me molto più aperte. Il limite però, da un certo punto in avanti, anche da parte delle femministe, è
stato quello del prolungamento della chiusura: a un certo punto, secondo me, avrebbero dovuto

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ributtare al di fuori, intorno a sé, una proposta forte proveniente da questo tipo di assunti che erano
diventati ormai tipici del femminismo, e quindi costringere gli altri a fare i conti con questo, in un
certo senso chiamare tutti a fare i conti con questo. Mentre invece c’è stata una chiusura, quella
tendenza all’autoriproduzione dei meccanismi e all’autoreferenzialità che, nel caso del femminismo,
è durata e ha avuto un minimo di legittimità in più rispetto agli altri movimenti, derivante dal fatto
che il femminismo ha continuato ad allargarsi, a diventare un movimento sempre più ampio,
travalicando completamente i confini organizzativi del movimento. Allora, è possibile che ci sia
stata la presunzione, un po’ equivoca, di dire: “Visto che noi, le nostre idee, le nostre parole, il
nostro pensare si sta allargando così tanto, non abbiamo bisogno di rimetterci dentro un movimento
che non siamo soltanto noi”. Però, in realtà, alla lunga questo è diventato un limite. Poi c’è stata una
certa chiusura anche nel senso che, negli Stati Uniti in particolare, è diventato un fatto in parte
accademico: quando le università hanno aperto i dipartimenti di Woman’s Studies, cioè di studi
sulle donne, naturalmente il muoversi all’interno di quell’ambito e allargare l’esistenza di questi
diversi ambiti nelle varie università diventa una questione di potere, quindi non è più fine a una
trasformazione sociale, ma ad un prolungamento di se stessi in quanto tali e gestori di una fetta,
piccola, ma comunque di una fetta di potere. Dunque, secondo me questo è un limite anche di quel
movimento, come in realtà di molti movimenti, cioè la progressiva inerzializzazione e la chiusura in
se stessi.

IL CAPITALE
- Negli ultimi anni si è sviluppato un grande dibattito sul cosiddetto postfordismo, da molti visto
come una svolta epocale. Da molto tempo tu analizzi, a proposito degli Stati Uniti, le
trasformazioni capitalistiche, dall’informatizzazione, alla robotizzazione, ai cambiamenti
urbanistici, alla produzione a rete e così via, parlando di terza rivoluzione industriale per
sottolinearne il mutamento forte. Mantenendo quest’ottica comparativa tra Stati Uniti e Italia in
particolare, e tenendo presente la compressione dei tempi rispetto alla diffusione dei modelli e
delle trasformazioni capitalistiche di cui prima parlavi, come analizzi, anche tendenzialmente,
le evoluzioni del modello capitalistico?

Il capitale non vive mai nel vuoto, vive di relazioni: se noi oggi facciamo questo tipo di discorso,
dobbiamo per forza ragionare sui rapporti che il capitale instaura con le società all’interno delle
quali agisce. Prima parlavo di terza rivoluzione industriale: a me non piace l’espressione
postfordismo, perché credo che la realtà attuale sia complessa, nella quale il fordismo convive con il
postfordismo e con il pre-fordismo. Questa convivenza di Ford, pre- e post-Ford, è secondo me la
caratteristica della fase attuale: paradossalmente, nel momento in cui il grande capitale, a partire
dalla necessità di rispondere a dei movimenti sociali, si lancia in un’avventura alla quale poi si dà il
nome di terza rivoluzione industriale, non va soltanto avanti, ma va anche indietro. Per poter andare
avanti, il capitale ha bisogno anche di recuperare delle forme di rapporto pre-fordista, cioè di
sfruttamento totale, brutale, che non ha niente a che fare con la fabbrica fordista. Quella fordista è
una fabbrica grande e ordinata, il grande capitale della terza rivoluzione industriale va oltre il
fordismo, nel senso che ridefinisce e ricostruisce la grande fabbrica, il lavoro ad essa interno,
l’ordine dentro di essa, mantiene viva la grande fabbrica fordista e ridà vita alla piccola struttura
produttiva pre-fordista, in cui lo sfruttamento è totale, assoluto e al di fuori di ogni regola. Mentre il
rapporto di lavoro fordista rimane regolato, mentre partono (non dappertutto e non allo stesso
modo) degli sforzi immani per regolare il rapporto di lavoro nella fabbrica postfordista, siccome in
un certo senso non ci si può occupare di tutto, il rapporto di lavoro nella fabbrica pre-fordista torna
indietro ai rapporti di quelle piccole fabbrichette dello sfruttamento totale al di fuori di ogni regola.
Una delle novità di questa terza rivoluzione industriale (la seconda rivoluzione industriale era
proprio quella degli anni del fordismo) è che, prima di tutto, questo tipo di compresenza di ogni
livello di sviluppo storico è diffuso in tutto il mondo, sia nei centri che nelle periferie; l’altro aspetto
è che questa fase di ridefinizione totale ha bisogno di distruggere il sindacato come agente

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intermedio tra una classe operaia, che si vuole non organizzata, e il capitale, che si vuole essere
l’unico agente e portatore di organizzazione. Secondo me, questo è quello che è successo negli Stati
Uniti, cioè si è ridotto il sindacato ad essere una forza essenzialmente trascurabile, il cui unico
valore rimane quel tanto di capacità di controllo sulla classe operaia che è ancora in grado di
esercitare nella fabbrica fordista, in modo da renderlo irrilevante e incapace di esprimere un’azione.
Il sindacato nella fabbrica postfordista non ha la capacità e la forza per cercare di esercitare un
controllo sui processi, e non ce le ha nella fabbrica (o nel laboratorio, o nella fabbrichetta, o nella
bottega) pre-fordista, perché lì il sindacato non ci entra, non esiste più, figuriamoci se entra in questi
posti che aveva già abbandonato da tempo: ma il capitale rimette in moto anche queste strutture.
Non è un caso quello che, proprio in questi giorni, veniva fuori da quel Circus della settimana
scorsa con l’attacco nei confronti di Cofferati, con Tronchetti Provera che parla del sindacato come
di un impedimento e Calleri, uno degli ex vicepresidenti della vecchia gestione della Confindustria,
definisce i sindacati come delle pastoie: questo è quello che pensano i nostri rappresentanti
confindustriali. A noi a sinistra il sindacato può piacere o può non piacere, lo si può criticare o non
criticare, però, come (citando un vecchio operaio) diceva in un suo scritto Paul Romano, un giovane
operaio dell’operaismo americano: “Un sindacato è meglio che niente sindacato”. Quale che sia il
sindacato è comunque meglio di niente sindacato, perché se non hai sindacato sei nelle mani del
padrone. Invece, Jimmy Hoffa, quel vecchio imbroglione e malfattore che era il presidente del
sindacato dei camionisti, diceva: “In fondo, questa gente qui, cioè i padroni, non hanno mai davvero
accettato l’esistenza del sindacato”. E questo nella terza rivoluzione industriale diventa uno dei
cardini attorno a cui gira l’azione del capitale. Là, negli Stati Uniti, il sindacato l’hanno fatto fuori,
in Italia non ci sono riusciti come avrebbero voluto, proprio perché comunque questa sinistra,
questa storia, questo post-’69, qui ha permesso che ci fosse una resistenza maggiore. Però, ora
questo è il chiodo su cui battono, e quando un giorno sì e l’altro anche sulla stampa, dalla
Repubblica al Corriere in avanti, si continua a leggere i peana e le esaltazioni del modello
americano, questo è quello che vuole dire; quando si parla di modello americano significa una
società nella quale il sindacato viene distrutto e viene ridotto a non contare più nulla. Questo è il
senso, il capitale nella terza rivoluzione industriale è il capitale della controrivoluzione anti-operaia,
antisindacale, antipopolare, è un capitale che non vuole ostacoli di nessun tipo, non vuole dover
affrontare alcuna mediazione: quindi, mira alla distruzione di ogni forma di organizzazione operaia,
alla frantumazione e all’atomizzazione dei contrappesi di classe. Questo secondo me è l’aspetto
rilevante, che ovviamente si accompagna a tutta una serie di altri fattori che sono quelli della
mondializzazione, cioè il capitale che si sposta ovunque, in tutto il mondo, dove trova terreno più
conveniente, che sposta enormi quantità di capitale da un mercato all’altro grazie all’esistenza delle
reti informatiche, che cerca di pagare meno tasse che può in giro per il mondo (si pensi a
quest’ultimo esempio della Fiat che va in Olanda in modo da evitare di pagare miliardi e miliardi di
tasse allo Stato italiano). Questo è il capitale multinazionale, o comunque transnazionale: quel
capitale che fino a un certo punto ha ritenuto di avere responsabilità nei confronti della società alla
quale apparteneva ora non esiste più. Il vecchio slogan “Quello che va bene per la General Motors
va bene per gli Stati Uniti”, come tutti gli slogan va preso come una forma di autopubblicità, ma un
minimo di fondamento ce l’aveva, perché attraverso la presenza di quel grande capitale e delle sue
fabbriche, negli Stati Uniti una ridistribuzione di ricchezze attraverso i salari c’è stata fino agli anni
’60; le cose sono cambiate da lì in avanti, fino a quando il capitale ha preso il sopravvento, dalla
seconda metà degli anni ’70 in poi. Ora la General Motors fa strettamente e soltanto i suoi interessi,
senza tenere più conto dei destinatari sociali del rapporto di lavoro, che sono quelli degli Stati Uniti:
la GM nasce lì, i suoi destinatari, i suoi interlocutori, quelli di cui si dovrebbe occupare, sono i
lavoratori degli Stati Uniti, ma non è più così da almeno 15-20 anni. Questa è una trasformazione
profonda, il capitale che va dove vuole, dove gli conviene di più, senza nessun rispetto per la
propria appartenenza nazionale. Il capitale si è sempre mosso internazionalmente, ma ha sempre
mantenuto un centro, un proprio baricentro, ora non è più così: si mantiene gli head-quarters, cioè la
case madri, negli Stati Uniti semplicemente per ragioni di equilibrio politico, perché gli Stati Uniti

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tutto sommato continuano a garantire una stabilità politica che molti altri posti non hanno. Ma al di
là di quello nulla, intorno a sé seminano terzomondizzazione, cioè seminano in giro per il mondo
miseria, disoccupazione, sottoccupazione, tempo parziale, ossia tutte le forme più strettamente
convenienti per loro, tendenzialmente non contrattabili. Questo è, secondo me, il tratto dominante di
questa terza rivoluzione industriale e della presenza del capitale, che in questa fase è la forza
assolutamente dominante all’interno di questo tipo di conflitto, lo è stata per tutti gli anni ’90 e
continua ad esserlo.

LA CLASSE
- Negli ultimi anni alcuni hanno individuato la centralità di un soggetto di classe: c’è chi ha
parlato del lavoratore autonomo di seconda generazione, chi del general intellect, chi (proprio
in riferimento a Seattle) ha coniato l’espressione di cognitariato. Secondo te, esiste o può
tendenzialmente esistere un soggetto di classe centrale nelle lotte?

Io non sono in grado di dirlo o di fare una previsione; diffido molto di tutte queste definizioni che in
parte sono state ricordate, perché mi sembrano tutte estremamente parziali e poco lungimiranti. Ho
guardato a Seattle, ho cercato di capire che cosa è successo e succede, che cosa vuol dire, credo che
sia un fenomeno (anche con tutti i prolungamenti che ha avuto e che ci sono stati dopo, inclusa
l’ultima manifestazione a Washington) estremamente importante, dal punto di vista delle modalità e
del suo esistere, del fatto che è successa una cosa così, dopo anni che cose né così né di un altro tipo
non succedevano. E’ dunque estremamente importante che avvenga una mobilitazione di questo
tipo e su questi temi, che avvenga negli Stati Uniti è ancora più importante. Però, i contenuti politici
e la capacità di proposta politica di quel movimento secondo me sono da una parte ancora molto
preliminari, germinali, e quindi imprecisi, in una certa misura perfino indescrivibili, cioè non si
possono analizzare perché non si possono descrivere; dall’altra parte sono generici e compositi, non
contengono un programma. Dopo di che, dico anche che va benissimo, l’antiglobalizzazione
capitalistica come parola d’ordine per il momento mi basta, però su quello bisogna costruire, e
bisogna farlo secondo quello che, un certo numero di anni fa, io avevo definito un nuovo
paradigma. Io non sono un teorico, di nessun tipo e con nessuna pretesa, però mi è capitato, proprio
a partire da queste cose qui, di rileggere alcune delle cose che avevamo pubblicato su Primo
Maggio e avevo ritrovato questo mio pezzo dell’85 o ’86 in cui parlavo di necessità di un nuovo
paradigma, in cui gli elementi dell’ambientalismo, della difesa dell’ambiente e della vita, quindi
anche dell’uomo, diventassero parte centrale di una rielaborazione teorica, che poi io non sono in
grado di fare, però ritengo che sia fondamentale che ci si prenda a muovere su quel terreno. Allora,
Seattle ha messo in contatto elementi di questo tipo: c’erano i sindacati, gli ambientalisti, gli
anticapitalisti, quelli che difendono il lavoro o l’ambiente, però questo deve diventare un
programma, molto più composito e comprensivo di quello che è ora. Noi avevamo tradotto il saggio
di un finlandese che si chiama Yussi Raumonin sul capitalismo di rapina, che parlava di come,
nell’analisi del capitalismo, sia stato trascurato proprio l’aspetto della distruzione ambientale;
quindi, anche questo alla fine era diventato uno degli elementi su cui cercavamo di fissare
l’attenzione, non riuscendo ad andare oltre ai pochi tentativi che abbiamo fatto. Comunque, il punto
credo che sia questo. Seattle ha messo insieme delle persone, che si trovano di fronte ad un’esigenza
straordinariamente grande, ossia l’elaborazione di un programma che deve essere per forza molto,
molto ambizioso e comprensivo, e qui devono coesistere linee di provenienza (dei passati
movimenti o delle passate esperienze) che sono tutte separate tra di loro: o si riesce a creare l’ibrido
tra tutto questo, che diventa sufficientemente comprensivo, oppure le speranze sono poche. Non
dico che non ci si riuscirà, dico che è difficile, dico però anche che è il compito che bisogna darsi;
bisogna essere il meno dottrinari possibili nella fase iniziale di questo discorso, è necessario essere
il più pragmatici possibili, il più politicamente flessibili possibile. Però, se ci si riuscirà o chi ci
riuscirà o quando, io non sono in grado di dirlo: credo che questa sia la linea, la strada. Ma (per
rendere esplicita una cosa che è implicita) se questa è la strada, è evidente che non c’è un soggetto,

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o un soggetto unico: il soggetto, a questo punto, credo che debba essere molteplice se la strada deve
essere così composita.

- All’interno della mobilitazione di Seattle qual è stato il ruolo dei sindacati e delle altre
componenti? Già a Washington, per quanto riguarda i sindacati ad esempio, le posizioni erano
un po’ differenti.

I sindacati a Seattle hanno portato delle loro parole d’ordine principali, a cui se ne sono aggiunte poi
delle altre strada facendo o nel rapporto con le altre forze che erano lì presenti, e in parte lo stesso è
successo a Washington. Però, dentro il sindacato americano sono venute fuori delle cose che fino a
due anni fa o a un anno e mezzo fa non c’erano: per esempio, c’è il discorso nei confronti degli
immigrati, anche di quelli clandestini, che è del tutto inedito all’interno del sindacato americano.
Senza un’esperienza di contatto, confronto e discussione sulla questione della globalizzazione del
capitale, io non so se ci sarebbe stata questa trasformazione dentro il sindacato. Se a capo del
sindacato le forze riformatrici non avessero messo una leadership riformatrice, non so se sarebbe
andato a Seattle: lì i sindacati americani erano la componente numericamente più forte. Non so se il
sindacato avrebbe avuto la forza per portare un’ipotesi come quella che ha portato a Seattle,
facendola addirittura passare attraverso Clinton, il che non è un grande obiettivo, però è un obiettivo
concreto, cioè quello di dire: “Mettiamo in discussione la difesa dei diritti dei lavoratori in tutti gli
stati toccati dalla globalizzazione; questa non deve vivere sull’assenza di diritti, ma deve vivere sul
rispetto dei diritti”. Da parte del sindacato americano questa è un’apertura in direzione
internazionale che il sindacato burocratico e autoritario di cui parlavamo e che è entrato in crisi non
avrebbe fatto e portato avanti. Quindi, ci sono segnali di spostamenti reciproci. D’altra parte, gli
ambientalisti non hanno mai interagito con il sindacato americano; i giovani dell’anticapitalismo un
po’ sciolto e avventuroso, non avrebbero mai accettato di partecipare ad un’azione insieme con il
sindacato americano. Le trasformazioni in atto ci sono, alcune di queste riguardano i modi. Per
esempio, mi è capitato di sottolineare (non solo io, naturalmente) che una manifestazione come
quella di Seattle richiede una lunga preparazione (l’ho scritto su Carta), e le lunghe preparazioni le
fanno non gli individui, ma i gruppi. Questi gruppi hanno discusso tra di loro e hanno concordato
delle parole d'ordine e dei modi di comportamento: ci hanno messo un anno a farlo, e questo è un
modo. Un altro modo di funzionare è che quasi tutto quello che si sono detti e scambiati è passato
attraverso Internet, e questo è uno strumento che i movimenti non hanno mai usato, o l’hanno fatto
senza uscire dalla propria stretta autoreferenzialità. In questo caso, invece, la rete viene usata,
esattamente come fa il capitale, per comunicare qualcosa di vitale, di decisivo. Quindi, questo è un
cambiamento di un modo di funzionare che però è anche sostanziale. E’ esattamente come quando il
movimento operaio aveva adottato, come strumento organizzativo, il giornale, cioè la stampa, che
era una cosa dei padroni; ora questi movimenti antagonistici usano, o cominciano a usare, un altro
strumento del padrone, cioè la rete, contro di lui. Di per sé questi sono tutti fatti molto positivi e
importanti, bisogna vedere poi quali sono i contenuti che ci vanno dentro, la capacità di durare, di
elaborare prospettive, quanto da questa antiglobalizzazione viene fuori un discorso chiaramente
anticapitalistico. La globalizzazione non è la globalizzazione, la globalizzazione è la
globalizzazione capitalistica: allora, quanto viene fuori di questo, quanto riesce a passare? Questa è
una cosa che a me interessa molto. La globalizzazione è nelle cose, a partire dalle autostrade ad
arrivare agli aerei e alle reti di comunicazione, è un processo che va avanti da 500 anni: è la
globalizzazione del capitale, ed è l’estensione del comando capitalistico sulle società il problema.

– Come pensi che si possa iniziare ad affrontare un discorso sulla soggettività politica?

Rispetto a questo, l’unica cosa che so è che chiunque oggi si ponga dal punto di vista del che cosa
fare, non può farlo al di fuori di questo ambito complessivo, questa è l’unica cosa di cui sono certo.
Dopo di che noi dobbiamo continuare ad affrontare problemi spiccioli, lo sciopero qui, la protesta

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là, la centrale nucleare lì, il padrone criminale oppure le morti sul lavoro. Però (in un certo senso
questo è un vizio di origine) siccome noi siamo cresciuti nel periodo in cui abbiamo studiato per
formarci, continuo a credere che non sia possibile ragionare sul che cosa fare, come fare, quando e
dove, senza studiare. Il mondo era già complicato negli anni ’60, lo è ancora di più nel duemila,
questa è l’unica cosa che so.

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INTERVISTA AD ANDREA COLOMBO – 15 OTTOBRE 2001

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e l’inizio della tua attività
militante?

Io sono del ’54, quindi nell’ottobre del ’68 ho cominciato il ginnasio al Mameli di Roma, che l’anno
dopo sarebbe diventata una scuola con una componente di Potere Operaio molto forte,
probabilmente la più forte in città. Lì abbiamo fatto il movimento, poi nella primavera del ’69 è
uscita La Classe e già il Mameli era in quell’area; quando, con l’autunno caldo, si sono formati i
gruppi, se non tutto il comitato di base del Mameli certamente il 90% è entrato in PO.
Personalmente sono stato in Potere Operaio fino al ’71, ero nella sezione di Primavalle, che ha
avuto più tardi una storia tragica e negativa. Io sono però uscito prima, dopo il congresso in cui
Franco Piperno lanciò il partito dell’insurrezione, poi negli anni successivi ho fatto il movimento
diffuso, quel tanto di autonomia vera che c’è stata a Roma, cioè non i Volsci. Infatti, a Roma di
solito quando si dice autonomia si intende il collettivo di via dei Volsci, un gruppo che veniva da Il
Manifesto peraltro; c’erano invece una serie di comitati di base e di circoli di quartiere autonomi
che non facevano capo ai Volsci e che hanno fatto il ’77 quanto l’autonomia organizzata di Daniele
Pifano e di Vincenzo Miliucci.

- Quali sono stati, secondo te, i limiti e le ricchezze dei movimenti degli anni ’60 e ’70, dei
percorsi a cui sei stato interno e delle proposte politiche di matrice operaista?

L’operaismo ha avuto una serie di intuizioni molto forti, sia negli anni ’60 che negli anni ’70. Negli
anni ’60 hanno avuto un esito pratico e concreto preciso, negli anni ’70 no, ma restano delle
intuizioni che si sono dimostrate poi fondate, e in qualche modo sono persino a monte del lavoro
che una parte di noi continua a fare, chi prima con Luogo Comune e poi con DeriveApprodi, chi con
Posse e prima con Futur Anterieur. L’intuizione degli anni ’60 è stata quella di lavorare sulla
composizione di classe. All’inizio di quel decennio, da quello che mi è sembrato (perché io ai tempi
ero bambino), il Movimento Operaio italiano continuava a puntare tranquillamente sull’operaio
professionale. Noi qua a Il Manifesto abbiamo una quantità di compagni torinesi, anche di quella
generazione, e parlano dell’operaio che faceva i baffi alle mosche, quello era l’operaio politicizzato,
professionale, capace di gestire. Il sindacato proprio non aveva alcuna coscienza di come le cose
fossero cambiate. L’operaismo italiano, prima coi Quaderni Rossi e poi con Classe Operaia, ha
iniziato a lavorare sull’operaio-massa; ha cominciato a capire che quel tipo di operaio, inizialmente
del tutto depoliticizzato, che arrivava portato dal parroco, con tendenze al crumiraggio spinte, senza
nessuna professionalità e quindi, secondo il Movimento Operaio tradizionale, senza alcuna
possibilità di detenere potere, era invece il vero soggetto sovversivo, che poteva fare esplodere
l’equilibrio su cui si erano basati tutti gli anni ’50. Era anche il soggetto nuovo per una quantità di
altri motivi, che immagino che i compagni che avete sentito avranno già illustrato più e meglio di
me. Questi sono stati gli anni ’60, poi c’è stata la grande lotta operaia della primavera del ’69, che
col senno di poi si può dire che sia stata l’unica davvero non sindacalizzata. Allora non ci sembrava
così, noi abbiamo fatto i gruppi nell’ottobre del ’69, con l’autunno caldo: la realtà è che il solo
momento in cui il sindacato è rimasto completamente fuori è stata la primavera ’69. Con il
sindacato dei consigli, in realtà, hanno dimostrato una buona capacità di recupero, poi trascinati
naturalmente; però, quello che noi ci aspettavamo e che sembrava realizzato nella primavera del ’69
nell’autunno non si è verificato, il sindacato ha dimostrato un’ottima capacità di rientrare in campo,
e questo ha condizionato tutti gli anni seguenti. L’altra grande intuizione, per dirla con le parole che
usava Toni quella dell’operaio sociale, se la si guarda con il senno di poi era molto forte, perché nel
’77 il termine postfordismo credo che non l’avesse usato nessuno, non c’era assolutamente
consapevolezza della fine del sistema di fabbrica come modello di produzione: l’intuizione
dell’operaio sociale, e cioè l’intuizione di una classe operaia non necessariamente legata alla

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fabbrica, che non metteva necessariamente in opera e in produzione quelle funzioni lì (la ripetitività
e via dicendo), era un’anticipazione molto forte di quello che sarebbe successo dopo. La terza
grande intuizione dell’operaismo italiano, che c’è in queste cose e ancora prima, è quella di Tronti,
ed è un po’ la chiave di lettura che condiziona tutto l’operaismo di allora e di adesso. E’ quella che
capovolgeva il discorso, che era sempre: “c’è una ristrutturazione del capitale cui fanno seguito le
lotte operaie, le lotte operaie corrono dietro alla ristrutturazione del capitale”; rovesciare la cosa è
dire: “no, il capitale deve correre dietro a quella lotta operaia e ristrutturare per inseguirla e
recuperarla”. Ciò ti portava dal livello di soggetto antagonista ma in qualche modo secondario,
comprimario, al livello di attore principale a cui gli altri corrono dietro. Come in tutte le intuizioni
forti c’era una forzatura, nel senso che oggi uno non potrebbe riprendere Lenin in Inghilterra e dire
che Tronti aveva ragione, naturalmente la realtà è infinitamente più sfumata e più ambigua; però,
certo lì c’era un punto di rottura molto forte che è ancora valido. Anche oggi, per concludere, fase
in cui quello che resta dell’operaismo lavora sulla fine degli operai, su quello che in Luogo Comune
e in DeriveApprodi abbiamo chiamato general intellect (anche lì con un’intuizione dubbia, che
prende delle cose e altre le perde, ma insomma è quello che fuori dalla fabbrica mette in produzione
il sapere e via dicendo), anche lì c’è una rincorsa del capitale. La differenza è che quando Tronti nel
’64 scriveva Lenin in Inghilterra, il discorso era tutto sulle lotte, cioè “tu lotti, conquisti potere e
quelli ristrutturano e cambiano”, era quindi tutto in un discorso di potere; nella dimensione attuale
(detta con termine orrendo postfordismo) il recupero cammina su altri terreni, nel senso che il
movimento operaio, proprio perché lavora sui linguaggi e sul sapere, crea delle cose che quando
compaiono (si pensi al ’77, a tutta la rivoluzione linguistica che ha comportato) lo fanno come
antagoniste e poi vengono inseguite e recuperate proprio per essere messe in produzione, per
diventare elementi di profitto. Il modello, ancorché vecchio secondo me però del tutto valido, resta
quello tra linguaggi del ’77 e pubblicità: la pubblicità italiana per tutti gli anni ’80 ha campato sul
’77. Se oggi si legge il testo di Naomi Klein No Logo (che è un’inchiesta giornalistica, un buon
libro in questo senso) riguarda il come tutto il capitalismo moderno si basi in grande stile
esattamente su quel modello: inseguire quello che gli sfugge, che lo contrasta come linguaggi, stili
di vita ecc., e metterlo in produzione. Questo è diverso, naturalmente, dal modello di Tronti, però
mantiene una somiglianza stretta.

- Dalla ricerca che stiamo facendo si può ricavare un’ipotesi peculiare sui percorsi
dell’operaismo italiano, ed in parte riguarda dei nodi cui tu hai già accennato. La ricchezza
dell’operaismo è stata quella di essersi collocato in una determinata fase, quella dell’entrata
ritardata dell’Italia nel taylorismo-fordismo, portando in essa una lettura socio-economica
completamente nuova, e soprattutto individuando nell’operaio-massa una figura non solo
potenzialmente anticapitalista ma anche in grado di muoversi contro se stessa. Dall’altra parte,
il limite è stato quello di non essere riusciti ad andare fino in fondo con quelle fondamentali
rotture rispetto alla tradizione socialcomunista, rielaborando una proposta politica ed un
progetto adeguati, quindi nuovi fini ed obiettivi. Quello della politica è dunque un nodo
baricentrale nell’analisi di quelle esperienze trascorse, ma anche tutt’oggi fondamentale e
irrisolto.

Qui faccio un discorso un po’ diverso da quello che (per come li conosco) penso che vi abbiano
fatto i compagni che avete sentito. Io vedo due limiti. Il primo lo dicevate voi, ed è stato un limite
molto forte: è vero che in Italia il taylorismo è arrivato tardi, per cui i compagni più grandi di noi
hanno individuato quel punto di rottura che poi voleva dire anche obiettivi concreti, cioè significava
che l’aumento salariale non era una stupidaggine riformista rispetto ai grandi discorsi sul potere, ma
era la leva che scardinava infinitamente più di qualsiasi nuovo modo di fare produzione e quindi era
una cosa con una valenza strategica immediata. Capire questo è stato fondamentale e molto
importante; quello che non abbiamo capito allora è che era la fine di quel ciclo. Io prima dicevo che
l’intuizione di Toni dell’operaio sociale (poi piena di limiti per altri versi ma buona) era preziosa,

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ma in qualche modo è anche arrivata tardi, nel senso che noi abbiamo scambiato un tramonto per
un’alba, e per colpa nostra fino ad un certo punto, nel senso che in Italia effettivamente quell’alba è
arrivata al tramonto. E questo è stato un bel limite, perché noi almeno fino al ’74, abbiamo
proseguito su un’ipotesi, per cui non vedevamo che quella era una figura che stava per scomparire;
poi lo shock petrolifero, la grande ristrutturazione del ’74 (che ha preparato di fatto la sconfitta del
’78-’80 più di ogni altra cosa), un po’ ci hanno aperto gli occhi. A quel punto i gruppi e le aree della
sinistra extraparlamentare, come le assemblee operaie, hanno fatto una specie di tentativo di
rincorsa, hanno capito che lì c’era una trappola, però con tutta evidenza non ci è riuscito nessuno ad
evitarla. Potere Operaio secondo me l’aveva intuito persino prima, però la sua reazione era stata
quella del partito leninista, che con tutta evidenza non ha funzionato. Lotta Continua, che poi è il
gruppo che rende meglio ragione del movimento italiano, perché ne rappresenta la medietà, tentò di
fare l’inserimento nelle istituzioni con le elezioni del ’75. Quelle, ancorché opposte, erano tutte
risposte alla stessa sensazione, cioè l’aver capito tardi che non era l’alba ma il tramonto. Il libro di
Toni, Dall’operaio massa all’operaio sociale, esce nel ’79, e quindi a cose chiuse e terminate,
mentre una cosa del genere poteva essere quella che è stata, un’intuizione teorica, ma, a differenza
del lavoro degli anni ’60 rispetto all’operaio-massa, senza più possibilità di intervenire e di
trasformarsi in un discorso tattico-strategica come era stato per l’aumento salariale. Questo perché
erano cambiate le cose, per cui quelli erano all’offensiva e si preparavano ad una battaglia campale
in cui hanno notoriamente stravinto. Un altro limite, che secondo me i compagni hanno visto di
meno, è che c’era un’ambiguità nel movimento degli anni ’70 non abbastanza indagata. Noi
continuavamo a parlare di operaismo e di movimento operaio, ma in realtà il movimento è stato
fatto da un corpo militante e dirigente che in larga misura non veniva da lì: era un corpo militante
borghese, studentesco. Lì c’è stata una rottura interiore, di cui secondo me la sorte di Potere
Operaio non rende ragione, ma quella di Lotta Continua sì, e LC è stata la medietà del movimento
italiano, anche a livello operaio (a Torino, ad esempio, c’erano praticamente solo loro). E’ stata una
rottura molto più profonda della semplice sconfitta campale, per cui quel movimento si è trovato
(credo per la prima volta) a fare i conti non tanto con l’essere stato sconfitto sul campo (il che era
successo in un altro centinaio di casi), ma ad essere sconfitto dentro la testa dei suoi singoli
militanti. La contraddizione è poi quella del ’68-’69 italiano, cioè di un movimento che è durato
dieci anni perché c’è stato il ’69, perché è stato un movimento operaio, ma con un corpo militante
che operaio non era. Ricordo un articolo a modo suo molto bello di Luigi Manconi uscito su Il
Manifesto dopo l’arresto di Sofri, in cui diceva: “Noi di Lotta Continua siamo così antipatici alla
gente perché la realtà è che abbiamo provato fare la rivoluzione, abbiamo perso e a quel punto
siamo tornati alla nostra origine: eravamo borghesi, professori ecc., abbiamo perso e siamo tornati
lì”. Ora, questo nella lotta di classe non si dà: non è che se una classe perde può dire “torno alle mie
origini”. Quello è stato un limite enorme dell’esperienza italiana, e forse non solo di questa. Credo
che sia il limite che ha trasformato una sconfitta anche pesantissima e storica in una rotta
disordinata come sono stati gli anni ’80. La prima volta in cui ho avuto la sensazione che se ne
potesse cominciare a intravedere l’uscita è stata con Genova, perché i vent’anni seguenti sono stati
completamente oscurati e recuperati.

- A proposito di Genova, come pensi che si possa iniziare ad affrontare il nodo della politica e
del politico, il rapporto movimenti-progettualità?

Onestamente non lo so, noi come DeriveApprodi ma con un po’ tutta l’area, anche con i più lontani,
abbiamo lavorato su alcune ipotesi, due fondamentalmente. La prima è l’esodo, cioè una lotta
politica che non si propone più la presa del potere, ma l’autonomizzazione e l’allontanamento da
esso. Poi ci sono i discorsi noti sulla moltitudine, sulla democrazia non rappresentativa, i forum
come struttura di una democrazia non rappresentativa e quindi forme dell’esodo. Io credo che siano
tutti elementi validi, non mi pare che si compongano ancora in un quadro politico degno di questo
nome, cioè con una sua possibile progettualità anche soltanto all’orizzonte. Sono da mettere insieme

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tanti tasselli che però non formano ancora un disegno compiuto, anche se ci sono. Quello che
ritengo valido dell’operaismo è che secondo me il punto di coagulazione, quello che permetterebbe
o permetterà a questi tasselli di comporsi in una prospettiva politica, è rappresentato dalle lotte della
nuova classe operaia, perché alla fine non si può mai dare un progetto politico a una cosa che non
c’è, o che ancora non c’è. Quindi, l’ordine va in qualche modo invertito: prima questa classe
operaia (che non si chiama così ma che lo è, flessibile, precaria, con contratti a termine, che magari
si sente addirittura imprenditrice di se stessa, creativa, ma invece è classe operaia) trova quello che
si può definire l’equivalente dello sciopero, come dice Paolo Virno, e quindi qual è la lotta
continua, non la grande esplosione come Genova, ma quotidiana, sul potere; poi, una volta che è
stata trovata (e la trova chi lavora, non gliela si dà con le riviste o con le fanzine), quella
mobilitazione può fare da elemento di precipitazione per i tasselli che noi continuiamo a tirare fuori,
alcuni sono validi e altri no, però senza quell’elemento lì restano come tante cose scollegate. Una
volta che ci fosse (e io non ho dubbi che ci sarà, però il quando è un altro discorso), una volta che
quella classe operaia si muovesse e quindi trovasse questo elemento, allora si darebbe la
precipitazione. La cosa paradossale è che, essendo cambiato il sistema di fabbrica, devono cambiare
anche gli strumenti di lotta e di mobilitazione, quindi ti trovi nella difficoltà davvero inedita da
almeno 200 anni di dover inventare delle forme di lotta. Una volta che le hai inventate, allora tutti
quegli elementi che da diverse fonti e diversi luoghi di ricerca sono stati messi in campo, diventano
un progetto e una prospettiva politica; altrimenti, per il momento sono analisi e ricerca, ma
prospettiva politica no. Anche se poi con l’entusiasmo della situazione uno può dire che i forum
sono la forma della democrazia non rappresentativa, ma questo non è vero naturalmente: i forum
sono tutt’al più un’allusione di un’allusione di un’allusione di questo. Però, è vero che se ci fosse
quell’elemento di precipitazione, i forum diventerebbero un’altra cosa. Quindi, Genova è insieme
un’enorme ricchezza e un’enorme limite. Un’enorme ricchezza perché è stata una vera cosa di
movimento per la prima volta negli ultimi vent’anni, e non stroncata: la cosa enorme è che per la
prima volta non è stata stroncata nelle 48 ore seguenti dal ricatto del prototerrorismo e della
violenza, che è l’arma che è stata usata dall’80 in poi. Dunque, c’è una cosa molto importante; allo
stesso tempo, se non diventa continua, cioè se non si trasforma in un qualcosa capace di fare la lotta
nei luoghi di lavoro, ha poca prospettiva e poco futuro.

- Tu che lavori in un giornale, come analizzi il rapporto esistente tra la costruzione di Genova
come movimento e come partecipazione e i media?

Enorme, prezioso e pericoloso. Prezioso perché Genova è stata Genova, lì poi c’è anche un ruolo
della violenza di piazza effettivo: Seattle senza scontri non sarebbe stata Seattle, lo stesso vale per
Göteborg e per Genova. Non perché ci sia un’importanza in sé dello scontro di piazza, a differenza
di quello che succedeva 20 o 30 anni fa; ma perché quello ti permette di diventare una cosa
mediatica. Insomma, Genova l’hanno costruita il Genoa Social Forum e il Corriere della Sera. Io
ero al mare nei giorni della mobilitazione, quindi seguivo tutto attraverso i giornali: il Corriere ha
aperto su Genova tutti i giorni a giugno. I media sono importanti, bisogna saperli usare. Infatti, i
padovani continuano a cercare di fare scontri finti, mediatizzati (poi a Genova non gli è risuscito, in
altre occasioni notoriamente sì) perché bene o male una conoscenza dei media ce l’hanno, e quindi
sanno che alcune cose vanno fatte, poi cercano di minimizzarle, anche se a Genova non ci sono
riusciti. Tuttavia, questo è anche pericoloso, perché un movimento fortemente mediatico ha più
difficoltà a diventare quello che deve diventare. Il limite del movimento di Genova (cosa che credo
abbiano detto proprio tutti, di tutte le aree) è il contrario dell’operaismo di Tronti, cioè il fatto di
muoversi a ruota degli appuntamenti degli altri: grandi scadenze, tu ci vai, però questo con tutta
evidenza regge poco nel tempo. La forte mediatizzazione non facilita la trasformazione del
movimento in un movimento pervasivo e diffuso, capace di fare il conflitto quotidiano: ti lega cioè
alla forma della grande manifestazione di risposta e non a quella dello sciopero e del suo
equivalente quotidiano, ancorché duro, violento ecc. Aggiungerei, però, che c’è stata una vera

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vittoria mediatica su Genova, perché il fatto che dopo la trappola del prototerrorismo sia scattata ma
non del tutto costituisce una cosa enorme. A Roma all’inizio degli anni ’90 la Pantera è stato un
movimento studentesco fortissimo, ci andavo e lo seguivo per il giornale: noi negli anni passati non
avevamo mai fatto assemblee così numerose. Era un movimento fortissimo numericamente,
stroncato in due mesi e raso al suolo dal fatto che ogni volta che si muovevano (poi c’era il fatto che
erano buonisti, davvero troppo buoni) gli dicevano “state per diventare terroristi”. Quando Vignone
(un presunto ex brigatista che poi in realtà è stato anche assolto) parlò, ci fu un grande attacco
mediatico. I media sono una cassa di amplificazione, una minaccia e anche un campo di battaglia:
secondo me su Genova sono stati un campo di battaglia su cui per la prima volta abbiamo vinto noi.

- Quali sono gli autori che nell’oggi possono essere significativi e di riferimento (anche critico)
per i nodi politici aperti nel presente?

Ballard, i suoi due libri Cocaine Nights e Super-Cannes sono eccezionali. So che è strano, perché
Ballard è un romanziere di fantascienza e non un teorico, ma secondo me non ci sono testi che
descrivono la situazione del lavoro meglio di Cocaine Nights e soprattutto Super-Cannes, che è un
grandissimo libro sull’organizzazione del lavoro oggi. Tra i testi più teorici le cose di Christian
Marazzi sono ottime, così come quelle di Toni, Il lavoro autonomo di seconda generazione è un
libro pieno di contributi. Però, se dovessi indicare un autore solo direi Ballard.

- Tu fai il giornalista politico, segui in particolare la politica istituzionale. Questa è


principalmente amministrazione e gestione di quello che c’è, dunque ha tutta una serie di
meccanismi suoi propri. Invece, il politico, inteso come percorso di trasformazione, o la politica
che si fa nei movimenti, sono qualcosa di rovesciato, nel senso che rappresentano la capacità di
mettere in atto un processo in cui intervengono soggettività singole e collettive e in cui si tenta
di costruire un disegno per ricercare e realizzare quello che non c’è. Quella del politico è una
delle categorie dell’operaismo che resta un nodo irrisolto.

Del tutto irrisolto, e credo per i motivi che ho detto prima, ossia che senza lotte operaie, ancorché
postfordiste, non si può risolvere. Io non sono d’accordo sul fatto che la politica sia solo
amministrazione; il problema è che è la politica dei partiti di centro-sinistra ad essere la riduzione
ad amministrazione e gestione, e la forza della destra italiana è di non essere semplicemente questo,
ma di essere invece un progetto politico, magari sgangherato, magari ridicolo com’è spesso
Berlusconi, ma piuttosto forte. E’ indubbio quale dei due sia più moderno, perché una tendenza a
ridurre la politica a pura amministrazione c’è ovviamente nella modernità e nel postfordismo, ed è
secondo me incarnata nel centro-sinistra italiano meglio che in chiunque altro al mondo: hanno fatto
la campagna elettorale vantandosi di dire “noi amministriamo meglio di voi” e basta. Berlusconi
ricorda molto per certi versi (anche se più sgangherato e con collaboratori meno capaci) una
componente reaganiana, quindi pure di idealità forte e di politica. Noi no, intendendo con questo noi
non soltanto l’operaismo. Però, io credo che lì veramente il punto sia quello, considerando anche
che si esce da vent’anni di sconfitta (ammesso e non concesso che ne stiamo uscendo). E’ vero che
la mancanza di un progetto politico è stato un problema molto forte negli anni ’70.

- Sono d’accordo su quanto tu dici, perché comunque il capitale ha una dimensione politica che è
estremamente forte. Quello che affermi a proposito del riformismo e dei DS, si può vedere
anche all’interno del Genoa Social Forum, ad esempio: c’è stato un tentativo solamente di
amministrare un qualcosa che poi in realtà gli è scoppiato in mano. C’è infatti stata poco la
capacità di prevedere che a Genova sarebbero confluiti vari elementi: non solo il discorso del
G8, la continuità con Seattle, Praga, Göteborg ecc., ma anche la prima risposta al cambio di
governo, che ha sicuramente avuto un peso sulla riuscita quantitativa dell’evento. L’11
settembre e quanto successo dopo sono sicuramente dei bastoni tra le ruote di un movimento

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che stava crescendo; purtuttavia c’è stato fino a questo momento uno spiazzamento e una
difficoltà nel fare i conti con la nuova situazione. C’è un balbettare e rimasticare vecchi slogan
e posizioni terzomondiste, antiamericane, pauperiste ecc.; non c’è un ragionare sul come
cambia e cambierà la realtà qui dove siamo, in Occidente. Se assumiamo l’ipotesi che le lotte
vengono fuori non dalla depressione ma su un livello di ciclo avanzato, in cui acquisti forza da
una simile dimensione, allora ci sono delle difficoltà oggettive per un discorso di movimento.

Per il movimento la guerra è stata un disastro, perché ha cambiato e spiazzato tutto. Io non so se mi
illudo, però quello che spero è che ad una prima fase di spiazzamento ne segua un’altra differente.
Secondo me, le persone avvedute già l’11 settembre sera sapevano che tutto era cambiato, in
particolare per ciò che riguarda il movimento e il dopo Genova, e che sarebbe arrivata una fase più
difficile. Non è escluso che, se questa cosa continua e prosegue nel tempo, si trasformi nel suo
contrario. La prima reazione è stata esattamente come quella che descrivete voi, cioè pessima, piena
di evocazioni terzomondiste, antiamericane nel senso più scemo del termine ecc.; vivere sarà più
difficile, perché questi saranno più nei guai. Segnalo però una cosa in più, che secondo me è quella
più grave: è passato ancora poco tempo, però è vero che il movimento non vi ha ancora iniziato a
guardare, almeno a Roma. Veicolata dalla guerra, gli americani stanno rispondendo ad una crisi che
in tutta evidenza avevano già da prima; noi ci troviamo con un movimento che è cresciuto sulla
lotta al neoliberismo e che tra poco non avrà più il nemico, perché questi invece usano la guerra per
scaricare quel tipo di neoliberismo e reintrodurre una sorta di keynesismo di guerra. Infatti, il
movimento, più che discutere se prendere a ceffoni D’Alema (e poi non prendercelo, peraltro…),
dovrebbe misurarsi su questa dimensione. Alcune cose vergognose e puramente di facciata, come
l’appoggio ai palestinesi, il discorso di Berlusconi ecc., in termini geopolitici non è vero che non
significhino, ma ci riguardano fino ad un certo punto; però, sono lo specchio di quello, cioè di una
rapidissima riconversione che probabilmente avrebbero dovuto fare comunque. L’altro elemento su
cui bisognerebbe lavorare, ma è una cosa su cui questo movimento ha lavorato sempre poco (c’è a
proposito un buon testo fatto dalla Manifestolibri), riguarda il come questa dimensione incentiverà i
sistemi di controllo e repressione, che sono non diversi ma completamente opposti a quelli fordisti,
proprio contrari. Non sono panottici, quelli che tendono a escluderti e a dire “vai fuori e fai quello
che ti pare, purché non entri nelle mie enclave protette”. Su queste cose mi pare che il movimento,
soprattutto a Roma, sia sempre stato in una situazione pessima. Per quanto riguarda quello che
dicevate rispetto al prima di Genova, penso che lì ci sia stato un errore clamoroso fatto da una parte
del movimento (Padova, per dirla in una parola) che è costituito del rapporto con le istituzioni, con
Bettin, con i verdi, lì vedo i rischi. Quando dicevo prima che l’esodo è un’intuizione ma non
precipitata, è perché poi la sua declinazione concreta diventa piccola imprenditoria di movimento.
L’esodo l’abbiamo tirato fuori per primi noi nel primo numero di Luogo Comune, nel ’91, e certo
non avevamo in mente neanche vagamente una situazione di centri sociali che diventano piccola
imprenditoria appoggiata dai partiti di sinistra; però, spesso quella è stata la copertura teorica di
questo. La realtà è che l’esodo senza conflitto operaio non può che essere questo, proprio
pragmaticamente. Per questo anche Paolo, che è stato il primo a puntare fortemente (anche troppo)
sull’esodo, oggi è quello che più di tutti dice che se non troviamo una forma alternativa allo
sciopero è inutile che ci muoviamo.

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INTERVISTA A GIOVANNI CONTINI – 7 SETTEMBRE 2001

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e l’inizio della tua attività
militante?

Io ero entrato nel PCI fiorentino, che era una realtà che in fondo con gli operai aveva un rapporto
molto indiretto: in parte ce l’aveva, ma gli operai fiorentini erano pochi e particolari. Prima che nel
Partito Comunista ero stato nel movimento studentesco (io avevo vent’anni nel ’68). Una data per
me fondamentale è stata quella dell’assemblea operai-studenti a Torino nel luglio del ’69. Io già
leggevo La Classe, mi piaceva di più rispetto alla pubblicistica comunista, che francamente io non
sopportavo molto; l’alternativa era il maoismo, che era ancora più deprimente. La Classe invece mi
piaceva parecchio: però, ero convinto che quanto loro dicevano fosse un po’ un’immaginazione,
anche perché a Firenze le caratteristiche sociali della città sono particolari, è una realtà di artigiani,
di piccole fabbriche, di poche grandi fabbriche come la Galileo che sono state importanti forse più
per il ruolo politico che non per il ruolo produttivo, oppure la Pignone. Era dunque una realtà
diversa rispetto alla situazione delle città del Nord, o anche rispetto alle città della costa, Pisa ad
esempio, che aveva la Piaggio e altre fabbriche. Le nostre cosiddette grandi fabbriche lo erano per
modo di dire, erano abbastanza marginalizzate rispetto alla vita della città. Per me andare a Torino e
vedere quello che succedeva al palazzetto dello sport fu proprio un trauma, perché improvvisamente
mi sembrò che tutto quello che leggevo come metaforico fosse invece sostanzialmente vero. Fu una
svolta, infatti uscii dal PCI ed entrai nel gruppo che poi diventò Potere Operaio (ancora non si
chiamava così). Il nostro problema a Firenze è che siamo sempre rimasti in una situazione molto
marginale, perché il conflitto sociale di quegli faceva soprattutto perno sulle città del Nord; noi in
realtà facevamo il tentativo, sempre frustrato, di entrare in contatto con gli operai, e poi invece gli
operai ci picchiavano. Avevamo Arrighetti che era il nostro quadro di riferimento: era una specie di
signore aristocratico, è un peccato non poterlo intervistare perché era una figura significativa.
Quindi, l’esperienza di Potere Operaio qui a Firenze la ricordo come abbastanza settaria, con molte
lotte interne, direi non troppo interessante. Io ricordo un massimo interesse quando ero nel PCI e
leggevo La Classe, e poi quando andai a Torino; però, siccome ci siamo andati in un modo molto
ideologico, parecchio legati alle beghe fiorentine, tutto sommato la mia esperienza dell’operaismo
riguarda più che altro un corpo di teorie che venivano utilizzate all’interno di un gruppo abbastanza
piccolo e litigioso, che non aveva però un rapporto diretto con gli operai, ce l’aveva solo in forma
indiretta.
Nel periodo in cui ero a Cambridge, sono poi tornato a Torino e ho anche pubblicato delle cose
sull’operaismo, sul terrorismo e i suoi effetti sul quadro militante degli operai torinesi: in quegli
anni era abbastanza terrificante quello che raccontavano. C’era uno delle Brigate Rosse che fu
ammazzato in via Fracchia a Genova ed era un militante del sindacato: io parlavo con i suoi
compagni dieci anni dopo e loro mi dicevano che, quando scoprirono che lui era nelle BR, questa
cosa ebbe uno spaventoso effetto deprimente nelle lotte. Questo perché loro erano tutti emigranti
che si vedevano insieme, quindi non c’era solo un rapporto politico, ma anche di amicizia
personale, si scambiavano i prodotti siciliani, sardi, friulani, le mogli e i bambini erano amici,
facevano grandi tavolate. Cioè, le lotte alla Fiat sono anche state un tentativo di risocializzarsi dopo
lo sradicamento completo che è avvenuto con l’emigrazione biblica degli anni ’50 e ’60. Allora,
scoprire che uno di loro (tra l’altro quello che faceva sempre il moderato, perché aveva questa
doppia figura) era stato ammazzato in un conflitto a fuoco fu una cosa che li scompaginò
completamente. Tornando a studiare quegli anni a distanza di qualche lustro, penso che un limite
dell’operaismo ne era anche la forza, perché permetteva delle anticipazioni: però, c’era una grande
astrattezza. Si parlava di operaio-massa senza mai considerare quali erano le provenienze regionali
di questi operai, le sottoculture che loro portavano con sé. Se uno volesse provare a leggere le lotte
alla Fiat (io ci ho provato, ed infatti è stato un fallimento) come il trapianto a una generazione di
distanza delle lotte contadine al Nord sarebbe un errore: io lo posso dire per esperienza, in quanto

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ho provato a verificare queste ipotesi e non tornano. Non c’è dubbio che le lotte contadine forse
hanno avuto un ruolo nello spingere gli operai a emigrare. Quando intervistavo la gente a Torino mi
raccontavano spesso che erano emigrati per motivi politici, cioè loro vivevano in paesini
meridionali dove non succede mai nulla, tranne quello che combinano la mafia o la DC (che poi è la
stessa cosa), con una terribile cappa di piombo: loro erano giovani ed emigravano perché avevano
bisogno di lavorare, però anche perché là cercavano la città degli operai, cercavano la città del
conflitto, la grande metropoli operaia. E poi quando erano là sarebbe assolutamente riduttivo
pensare che le lotte fossero semplicemente la riedizione, a partire dalla cultura intatta, della
jacquerie contadina nella metropoli, questo non funziona. Una cosa che veramente andava fatta di
più era prendere in considerazione gli operai come classe concreta. Invece, c’era sempre un
tentativo di vedere l’aspetto universale, astratto, l’operaio senza più professionalità: tutte queste
cose, se si va a vedere bene, non erano poi così vere. Era sì senza professionalità però la voleva
avere, tutto il rapporto con la professionalità secondo me ha continuato ad agire potentemente
all’interno di quegli anni, molti dei conflitti nascevano dal fatto che la Fiat chiamava decine di
migliaia di persone e non era assicurato nessun servizio. Si pensi a Nichelino, questo posto
pazzesco che ho visto allora, una roba da non credere, una tale povertà di qualunque tipo di servizio
che uno può capire che poi scoppiava corso Traiano. Però, secondo me nel considerare gli operai,
gli operaisti usavano un po’ il telescopio: ho l’impressione che li osservassero da lontano tutti
insieme. Questo poi aveva anche la sua forza, perché è vero che certe cose venivano previste e poi
succedevano effettivamente; però, forse veniva previsto e succedeva qualcosa che era vero nel
breve periodo e che poi magari non sarebbe più stato vero in un lasso di tempo più lungo. Di fronte
agli operai come mi sembravano dal ’69 al ’71 (soprattutto gli operai di Torino, che erano quelli che
conoscevo di più), io ero un ragazzino, avevo poco più di vent’anni, ma mi sembrava assolutamente
certo che ci fosse una rivoluzione sociale che stava per scoppiare. C’era un radicalismo diffuso, di
massa, condiviso: andavi davanti alle porte della Fiat e lì si discuteva sempre dello sciopero, della
fermata ecc. Però, ho l’impressione che poi fosse tutto molto legato alla fase e questa fosse
qualificata dall’emigrazione. Questa emigrazione noi la consideravamo ma non abbiamo davvero
avuto quella sensibilità che invece avevano un po’ i sociologi, come Alasia, che invece avevano
anni prima guardato l’emigrazione proprio nelle sue manifestazioni concrete. Anche i sociologi
come Alberoni trattavano della socializzazione anticipata: questi che quando arrivano hanno già
un’idea ben precisa di quello che vogliono fare e poi però questa socializzazione anticipata urta
contro una realtà che loro non erano riusciti veramente a prevedere, e che è una realtà in cui sei un
disgraziato. Questo è un elemento che io poi ho ritrovato dopo. Un’altra cosa importante che noi
abbiamo sottovalutato secondo me era anche il ruolo del sindacato di base in quegli anni là. Al
tempo dei Quaderni Rossi Foa all’inizio c’era, però dopo lui e Rieser se ne sono andati rispetto a
Classe Operaia. Insomma, in realtà queste lotte erano anche il risultato di una serie di catene che si
relazionavano al sindacato e che erano legate al problema dell’emigrazione. C’erano queste
associazioni di gente venuta da tutte le regioni italiane e che ritrovava un’unità nella lotta e poi
anche nella vita quotidiana, nel divertimento, nelle cene. Tutto questo aspetto secondo me a noi
sfuggiva in pieno. E questa era poi anche una cosa che progressivamente portava a una specie di
normalizzazione, questo lo dice anche Paul Ginsborg nel suo libro: noi abbiamo preso della gente
esacerbata da condizioni assolutamente insostenibili e contingenti, c’era tutto questo aspetto dato
dalla mancanza delle scuole, degli ospedali, dalla mancanza di tutto. Nichelino della fine degli anni
’60 era una cosa incredibile, non c’era niente, era proprio un quartiere dormitorio: non facevi la
spesa, le mogli là diventavano pazze, non sapevano come portare a scuola i bambini. Però, è chiaro
che questo tipo di contingenza finisce per essere facilmente smontata dal fatto che aprono le scuole,
che si realizzano un po’ di infrastrutture, che la gente si sposta, si assesta, che trova un modus
vivendi a distanza di qualche anno o di un decennio dal momento dell’emigrazione. In fondo nella
nostra ipotesi c’era l’idea che questa classe operaia fosse invincibile, credo che l’80 non fosse
prevedibile: era una composizione di classe che aveva tanti lati sovversivi, quindi potevano sì
esserci dei momenti di arresto, ma per poi ricominciare. Io invece mi ricordo che quando successe

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la vicenda dell’80, pensai che quella era la fine per un lungo periodo: infatti sono passati vent’anni,
avevo ragione, l’ho anche scritto. Mi ricordo che c’era uno storico francese che si arrabbiò; io dissi
che quella era una botta di quelle storiche, non è che dopo due anni sarebbe ripartito un ciclo di lotte
alla Fiat. Ciò per tutta una serie di motivi, quelli che dicevo ora, poi anche per la strategia della Fiat,
che non puntava più in quegli anni sulle assunzioni di massa ma sulla robotizzazione, le isole e via
dicendo.
Io l’operaismo l’ho un po’ abbandonato a metà degli anni ’70, quindi non so bene quale sia stato
l’itinerario successivo. Sono poi tornato su quegli argomenti come storico: rispetto alla concretezza
che un’indagine empirica mi dava, mi colpiva invece l’astrattezza, almeno la mia. Ora io non so se
posso parlare per l’operaismo, ma certamente per gli operaisti fiorentini sì, erano quelli che
conoscevo meglio. C’era sempre questo ricorso alla classe in generale: certo, una generalizzazione è
necessaria, però credo che sarebbe stata una cosa importante se noi avessimo avuto una maggiore
articolazione e una maggiore capacità di renderci conto poi che tra l’idealtipo e la concretezza ci
sono tutta una serie di passaggi intermedi. Tra l’altro, nella dialettica politica di quegli anni, Lotta
Continua, che poi aveva come difetto una totale ignoranza e mancanza di teoria, proprio per questo
quella realtà la riusciva a incontrare molto meglio. Poi riuscivano anche a capire bene chi erano
realmente gli operai, ci andavano a mangiare insieme, ci andavano a letto insieme, c’era il famoso
discorso sulle donne di Lotta Continua che seducevano gli operai: era vero, il risultato è poi Sofri e
Marino, ma come lui facevano tutti. Facendo questo, però, nel breve periodo loro capivano subito,
facevano un sacco di cose, organizzavano i mercatini rossi (che secondo me erano delle
stupidaggini abominevoli), con questa specie di prefigurazione di un consumo alternativo: mi
sembrava una tale stupidaggine, poi magari a pensarci non lo era neanche, chissà. Però, sicuramente
loro erano meno astratti e ideologici di noi e quindi avevano più successo sull’aggregazione. Perché
noi in fondo con gli operai non avevamo un rapporto molto diretto, ciò almeno per quanto riguarda
la mia esperienza: sono stato alcuni mesi a Torino alla fine del ’71, facevamo certo questi grandi
volantini. Al nostro interno c’erano sicuramente Dalmaviva e gli altri che le cose le conoscevano
molo meglio; quindi, io forse faccio parte del lato cretino, cioè della parte insurrezionalista che ha
recuperato Lenin e tutte queste cose qua, ma che non ha realmente avuto un’esperienza degli operai
per come sono realmente, di quali erano le cose che interessavano davvero gli operai. Infatti, noi
siamo andati a Torino pensando che Dalmaviva non fosse abbastanza insurrezionalista: in realtà,
ripensandoci oggi, loro erano veramente molto più dentro di noi, però sempre con questa
astrattezza, per cui parlavano con alcuni quadri, poi vedevano tutta la Fiat come una specie di
campo di battaglia dove bisognava bloccare qua e bloccare là. Ma poi la prospettiva, lo sbocco
politico? Tutte queste cose erano sottovalutate. C’era il discorso che non si doveva prefigurare
nulla, e va bene: però bisognerà pure che tu inventi un processo politico, non può esserci solo la
lotta in fabbrica all’officina 14, avrai bisogno di creare delle forme di organizzazione. Tutto questo,
secondo quello che ricordo, noi non lo prendevamo in considerazione, perché in fondo pensavamo
che in questo modo si sarebbe evitato di fare come i bolscevichi, di calare sulla classe questa specie
di corona di ferro del partito che la strangola. C’è ad esempio una cosa che mi ha colpito quando
sono tornato alla Fiat e chiedevo agli operai: ma perché è partito questo ciclo di lotte? In quella fase
volevo vedere i rapporti con le lotte contadine nel Sud, ancora non sapevo cosa queste erano
veramente state, cosa che ora so, il grado di amnesia che c’era stato subito dopo, la velocità con cui
tutto era stato stravolto da un lato con l’uccisione di massa dei sindacalisti, dall’altra con la riforma
agraria voluta dalla DC e gestita dalla mafia. Questo non lo rifarei più, già verificai che non era
così, ma comunque volevo che mi rispondessero in un certo modo e non lo fecero. Io però insistevo:
ma perché nasce questo ciclo di lotte così importante? Allora veniva fuori l’emigrazione, il
problema delle case, dei trasporti, tutti i problemi che c’erano in quel periodo. E poi mi dicevano:
“ma poi c’erano un sacco di studenti che venivano davanti a Mirafiori, di fronte a tutte le porte era
pieno di universitari, noi cafoni meridionali, poveri disgraziati che non erano andati a scuola
vedevamo certe ragazze con le pellicce…”. Ora non è che io voglia fare un discorso neopasoliniano,
però paradossalmente noi senza rendercene conto, con la stessa nostra presenza davanti ai cancelli,

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provocavamo quegli eventi che credevamo di esserci limitati semplicemente a documentare, a
socializzare, trasportando l’informazione: eravamo noi stessi che queste cose le provocavamo.
Quindi, questo è un altro elemento di concretezza storica dei processi che noi invece avevamo fino
a un certo punto.
Ora, cosa si potesse fare io non lo so, perché poi purtroppo quando si fa la storia di un periodo
bisognerebbe sempre cercare di non introdurre degli elementi controfattuali; però, d’altra parte gli
elementi controfattuali sono anche quelli che servono per giudicare. Certamente (e questo lo posso
fare) se io oggi ritorno con il pensiero a quegli anni vedo e so che da un lato ci sono degli operai che
hanno una loro fisionomia, molto variegata, dipendente dalle esperienze pregresse e dalla
contingenza che li vedeva in una situazione di grossa crisi; dall’altra vedo questi gruppi, soprattutto
i gruppi operaisti, in particolare Potere Operaio che è quello che conosco meglio (infatti io non ho
fatto l’esperienza di Classe Operaia), che tutto sommato in quella situazione avevano un ruolo
importante, per come eravamo pochi l’abbiamo avuto, veramente abbiamo dato delle informazioni,
abbiamo suggerito delle parole d’ordine. Però, c’era questo rifiutarci sempre di porci il problema di
raccogliere la cosa da un punto di vista organizzativo: questo credo che sia stato uno sbaglio grosso,
un elemento di grande debolezza. Naturalmente tutto quello che dico si riferisce quasi
esclusivamente alla fase torinese, che per me è stata molto breve, perché invece la situazione
fiorentina era diversa: qui non c’erano emigranti, c’era una classe operaia (come quella della
Galileo) che era praticamente il Partito Comunista a Firenze, anche la Pignone era più o meno la
stessa cosa. C’era cioè uno spazio per certa sinistra sindacale e stop: noi potevamo poi illuderci di
controllare la sinistra sindacale, ma francamente non è vero. Ora sto facendo delle interviste ai
delegati sindacali di quegli anni e si vede che c’era una dialettica, però di un certo tipo. La rottura
del rapporto sindacato-operai che nel Nord per diversi anni c’è stata, qui credo che si sia verificata
soltanto nel ’69, per poco tempo, poi si è subito richiusa e non si è verificata più. Qui infatti la storia
di Potere Operaio è un po’ una storia di combriccole in lotta per il potere interno poco interessante,
anche se io ho fatto parte di queste cose. Successivamente in questa vicenda c’è la virata verso la
lotta armata, però anche questa è una cosa che ha poco interesse, se non nella storia degli
ammazzamenti successivi che non portano da nessuna parte. Alla Fiat (e questo lo dico con
un’esperienza di storico più che di partecipante), per quello che mi hanno detto gli operai che
intervistavo nell’81-’82, questa radicalizzazione fu deprimente per le lotte. Perché poi dentro le
lotte alla Fiat c’era sempre stato un certo grado di violenza, i bulloni che volavano, i cortei armati
che spazzavano i reparti (come si diceva allora); però, quando si passa da quelle cose lì alla
gambizzazione dei capi e all uccisioni, e soprattutto quando vengono arrestati i primi brigatisti che
sono gli stessi che lavorano con te, allora questo crea un cortocircuito molto negativo proprio per le
compagini semispontanee di operai di diverse regioni che attraverso la militanza nel sindacato o di
base hanno creato queste forme di consociazioni, questa sociabilità particolare che forse non c’era
mai stata. Nessuno ci ha scritto nulla, non ce ne si è neanche accorti, non c’è stato nessun progetto
politico che ci si sia minimamente legato a queste cose qua, mentre era una concretezza ricchissima:
forse l’ha fatto il PCI, però solamente per raccogliere dei quadri, senza nessuna prospettiva che
fosse legata anche alle cose che avevano fatto dentro la fabbrica, a questo tipo di lotte. Perché il
Partito Comunista era, ancora di più di Lotta Continua, cieco dal punto di vista teorico ma
veramente pieno di sonde tattiche che gli permettevano di capire tutto, con un’enorme struttura era
una specie di superpolizia. I successi comunisti nel triangolo, e non solo, della metà degli anni ’70
nascevano anche da queste cose, ma si tratta di un puro sfruttamento di qualcosa e non della
capacità di partire da ciò per fare qualcos’altro; è il grande successo dei festival dell’Unità, che
erano un po’ quella cosa portata a un livello istituzionale. Su questa sociabilità era forse possibile
costruire altro: qualcosina Lotta Continua cercava di fare, noi non l’abbiamo neanche vista, cioè noi
ritenevamo che non era questo che ci interessava.

- In alcuni punti della tua analisi hai toccato il nodo della politica e delle carenze rispetto a un
progetto politico che sapesse guardare al di là della contingenza tattica. Da questa ricerca

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verifichiamo come buona parte degli operaisti abbiano appiattito il nodo della politica e del
politico sul problema dell’organizzazione e della forma-partito. Non c’è dunque stata, e non c’è
oggi, un’attenzione alla politica intesa nel senso del progetto e di grandi obiettivi altri rispetto
alla tradizione socialcomunista. Dunque, da una parte c’è un operaismo che rompe e va avanti
attraverso una lettura socio-economica nuova di una fase connotata dall’entrata della
capitalisticamente ritardata realtà italiana nel taylorismo-fordismo, e soprattutto attraverso
l’individuazione dell’operaio-massa come figura non solo anticapitalista ma anche come figura
che può rompere con il lavorismo, lo scientismo, lo sviluppismo di una tradizione formatasi
sull’operaio di mestiere, da qui c’era poi il discorso della classe contro se stessa; dall’altra
parte c’è un operaismo che torna indietro nell’incapacità di rielaborare un nuovo progetto
politico, nuovi fini ed obiettivi.

Torna al leninismo.

- C’è però un Lenin che ribalta questo discorso, ponendo prima i fini e gli obiettivi, poi i mezzi
(ivi compresa l’organizzazione) per raggiungerli. Il leninismo di certe esperienze operaiste è
stato l’organizzare il partito (partitino in quel caso) come la banca del 1910…

Sì, è vero. Io purtroppo poi nell’esperienza che ho fatto ero schierato con Piperno, che in Potere
Operaio era il massimo assertore di questa necessità in fondo di costruire un partito leninista. C’era
invece Sergio Bologna che faceva dei discorsi poco percepiti, forse poco capiti, sul fatto che non era
questo che noi dovevamo fare, però poi alla fine non lo stava a sentire nessuno. Bologna ancora
aveva una sua audience nel congresso di fondazione di Potere Operaio nel ’69, ma negli anni
successivi era un po’ sparito. Lui aveva detto delle cose interessanti proprio riflettendo su cosa era
la politica e su cosa non doveva essere, cioè sul fatto che non si doveva riprendere questo schema
tra l’altro nella forma più vuota. Perché è vero che in Lenin poi il discorso è quello degli obiettivi,
ma siccome noi non dovevamo prefigurare, e anche gli obiettivi sono una prefigurazione, allora
c’era soltanto la forma-partito. Io ho questo ricordo stranissimo (perché poi ero un ragazzetto) di
essere passato attraverso un momento di grande entusiasmo di fronte a queste lotte, il fatto di
sentirsi all’interno di un processo che probabilmente era non per sempre, ma era una fase molto
rivoluzionaria. Questo non si può negare, e se lo si è negato si è sbagliato, dimenticando il grado di
violenza sociale che c’era in quegli anni e che partiva così, questo c’era davvero. Quando ero a
Torino io ho visto più volte cortei spontanei che uscivano fuori anche da fabbrichette, quindi era
una situazione particolare. Negare questa cosa o dimenticarsene significa fare della cattiva storia, né
si può dire che erano fantasie degli operaisti che si erano inventati tutto: gli operaisti l’avevano
pensato prima, poi questa cosa è successa, dopo non c’è stata nessuna capacità di trasferirla sul
terreno politico, quando lo si è fatto lo si è fatto in un modo assolutamente vuoto, cosa che poi ha
portato anche al terrorismo come esito normale. Se ci si pensa, avere una struttura politica vuol dire
che essa fa delle cose, però nessun programma perché non bisogna prefigurare, dunque alla fine le
uniche cose le puoi fare soltanto te: e allora cosa fai? Siccome siamo pochi e decisi facciamo le cose
decisive, e quindi c’è stato tutto il casino che poi è successo. Ma prima della tragedia c’è stata anche
la farsa degli organigrammi, delle battaglie interne, queste sono cose di cui veramente ho un
pessimo ricordo. A Firenze si facevano della battaglie per il programma politico contrapposto al
progetto politico, si era arrivati a questi nominalismi stucchevoli. Molti poi se ne sono andati,
Sergio Bologna se ne è andato e la cosa si è notata perché era un personaggio già ben adulto e
pensante, ma ce ne sono stati tantissimi altri che hanno attraversato Potere Operaio e se ne sono
andati via. E’ stata proprio un’occasione persa, anche se devo dire che era comunque difficile. Lotta
Continua aveva fatto i mercatini rossi e le grandi campagne ideologiche che riecheggiavano in
modo assolutamente palmare quelle fatte in tutt’altro contesto dal PCI negli anni ’50, il
“fanfascismo” pareva una riedizione delle cose contro il “generale peste”. Non c’è stata proprio
fantasia politica, mentre c’è stata questa grossa fantasia analitica e capacità di rendersi conto di che

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cosa era questa classe operaia nuova. Tutto ciò sempre con il limite di non capire bene che questi
operai meridionali immigrati poi erano appunto operai meridionali immigrati: perché tale aspetto
andava forse tenuto in conto più di quanto lo si sia fatto. Anche se poi è vero che questi operai
immigrati si comportavano in un certo modo non perché riproducessero sic et simpliciter le cose
che avevano fatto i loro genitori o loro stessi da giovani in paese con le lotte contadine, ma perché
c’era una certa cultura anche dell’anti-Stato, dell’illegalità, c’erano questi aspetti: la jacquerie
meridionale è una tradizione, però essa si era attaccata a un discorso di sindacalismo radicale, e su
questa cosa bisognava lavorare. Forse bisognava ritirare fuori anche gli anarcosindacalisti, certe
cose fatte da loro. Mentre il PCI si riallacciava a tutto, Gramsci, Togliatti, tutto indietro fino
all’uomo di Neanderthal, noi non abbiamo mai neanche lontanamente cercato di trovare anche solo
delle continuità, degli stimoli nella tradizione passata. In fondo in quegli anni lì erano ancora vivi
degli anarcosindacalisti, si sarebbero potuti se non altro intervistare: ma poi erano diventati fascisti
e allora niente! Io non saprei nemmeno oggi dire cosa si sarebbe dovuto fare, posso semplicemente
parlare del limite dell’astrattezza. Questa fa il paio con la cecità politica, perché nel momento in cui
tu vuoi uscire dal comportamento di questa gente come operai e vuoi organizzarli in una forma
politica, ecco che non ti basta più dire che sono operai-massa dequalificati, che sono la negazione
della negazione e tutte queste robe qua, ma hai bisogno anche di sapere chi sono positivamente,
cosa vogliono. Dare quindi in qualche modo una serie di obiettivi. Questa è una cosa che non è stata
fatta per nulla, i mercatini rossi di Lotta Continua erano una cosa ridicola, erano l’anti-
supermercato. Noi cosa si è fatto? Facevamo il discorso sul partito, senza dire che cosa voleva fare
questo partito: comunismo subito che vuol dire?

- Sicuramente il nodo della politica, in tutt’altro contesto, va oggi posto con peso baricentrale,
anche rispetto ai nuovi movimenti.

Io non sono andato a Genova, però ho un po’ seguito le vicende dell’antiglobal, di un progetto
politico alternativo, non rivoluzionario nel senso bolscevico, la presa del palazzo d’inverno: se si
vuole è una cosa un po’ minimalista, ma per la prima volta c’è questo discorso sul consumismo che
non è moralistico, in cui si tira in ballo anche la sopravvivenza dell’ambiente. E’ diverso dire: “il
consumismo è un peccato”, dal dire: “guardate che se continuiamo con questo livello di consumo
probabilmente andiamo tutti a rotoli”. Questo discorso secondo me apre delle possibilità di
mobilitazione politica su obiettivi intermedi molto maggiori di quanto ci fossero allora. A quel
tempo era una cosa settoriale, quella della classe operaia, e non è stata fatta; oggi non si sa chi deve
fare questa cosa, c’è questa percezione che esistono dei poterei sovranazionali che si muovono in un
certo modo, sto ad esempio leggendo un libro sulle compagnie farmaceutiche in Africa ed è
sicuramente un discorso antiglobal. Quindi, mi sembra che oggi il discorso della politica sia molto
meno distante, molto più visibile, e tra l’altro la gente si muove parecchio più volentieri per una
prospettiva politica che non per costruire un’organizzazione senza oggetto o semplicemente per
continuare a lottare. L’operaio-massa è una cosa che piace molto a chi lo vede dall’esterno, ma poi
l’operaio-massa in carne e ossa vorrà fare magari il piccolo imprenditore, vorrà andare in pensione.
Quel discorso rischia di non avere tenuta sul lungo periodo dell’arco della vita personale. Questo
discorso antiglobal purtroppo è anche pieno di ideologismo, non si sa mai bene come distinguere tra
quello che è sostenibile e quelle che sono balle; però, è sicuramente qualcosa che, a naso e da
esterno, mi sembra molto più ricco di possibilità di mobilitazione per ottenere dei risultati. In
America fanno queste cose un po’ buffe del non voler fare tagliare gli alberi: una ragazza sta lassù,
si fa venire i geloni vivendo due anni e mezzo sulla sequoia, ma vive sulla sequoia perché non vuole
che sia tagliata. Mi sembra che oggi ci sia un’immediata sensibilità alla politica nella forma proprio
dell’ottenere dei risultati parziali, il che se si vuole è anche nella tradizione riformista. Per questo mi
preoccupavano un po’ i black bloc che sfasciavano tutto, perché li vedevo come un qualcosa che
può bloccare la crescita di questo movimento, perché la gente si spaventa. Allo stesso tempo dentro
ci sono i cattolici, c’è tutto questo associazionismo cattolico impegnato che a me non è che faccia

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impazzire. Credo comunque che sia un movimento che andrebbe analizzato, io ne so poco. Però, mi
sembra che i temi in ballo siano temi che vanno nella direzione della politica, e proprio di una
politica che ha delle tappe intermedie, se no non si capirebbe la crescita. Si pensi al ’68: perché
ebbe questo successo? Perché voleva delle cose precise, ad esempio: “non vogliamo più che i
professori siano queste merde che ci hanno rovinato la vita fino ad oggi”. Io mi ricordo delle cose
terribili, robe da suicidarsi da quanto erano tremendi. Quindi, c’era la cultura beat, noi andavamo a
scuola vestiti come pappagalli, ci torturavano in un modo sadico, e ad un certo punto si è detto
basta: il grande successo è stato quello lì. Allo stesso modo dentro le fabbriche c’era il discorso di
condizioni di lavoro assolutamente insopportabili, così questa nuova ondata libertaria ha fatto
cortocircuito con quelle situazioni e ha prodotto quello che c’è stato. Poi nelle fabbriche c’erano
anche questi operai meridionali con certe esperienze pregresse, che avevano delle condizioni di vita
di merda. Oggi mi pare che ci sia meno la reazione immediata a un’ingiustizia e ad una sofferenza
che ti fanno patire, e più un’azione maggiormente meditata rispetto alle prospettive del lavoro, della
vita. Si pensi a tutta questa vita fatta di lavoretti precari che sembra una gran meraviglia: io non
sono giovane per fortuna e ormai questo problema non mi tocca, però ho un figlio e se non è per lui
è per i suoi amici, in ogni caso tocca tutti quelli che hanno la una età. Questi sono problemi che
riguardano tutta la vita, sono problemi di prospettiva. E l’altra cosa è il discorso ambientale. Però,
secondo me questa situazione avrà bisogno proprio di una prefigurazione: quello che noi avevamo
aristocraticamente rigettato credo che oggi sia la cosa che si pone all’inizio di questo processo di
nuova radicalizzazione e di nuova politicizzazione. Qui si tratta anche di cambiare i comportamenti,
quindi legare la trasformazione collettiva a quella personale. Io penso che un certo discorso
anticonsumistico vada fatto, bisognerà trovare il modo di farlo senza farlo da cattolici: non perché
se no si va all’inferno, ma perché se no si crepa tutti.

- In questo quadro come analizzi il rapporto movimenti-progettualità? Da una parte sembra


esserci chi pensa che tutto si produrrà dal basso, più o meno spontaneamente, quindi c’è un
certo rifiuto di un possibile discorso sul progetto e sui grandi obiettivi. Dall’altra c’è chi cerca
di usare questi movimenti nell’ottica di una politica intesa come gestione istituzionale, senza un
reale percorso di interrelazione progettuale. Nell’un caso e nell’altro viene piuttosto trascurata
la questione del politico inteso come progetto di trasformazione.

Io sono un po’ troppo esterno. Una cosa che mi ha colpito è questo movimento che nasce attraverso
Internet, improvvisamente gente che non ci aveva mai pensato si coinvolge. Quel poveraccio che è
morto a Genova era un amico di un amico di mio figlio, pare che fosse un tifoso di calcio, parecchio
fricchettone, che alla politica non ci aveva mai pensato, si è trovato dentro questa situazione. Ciò è
emblematico. Qui forse il problema è quello di riuscire a inventare delle forme di socializzazione,
non dico la comune perché è una cosa assolutamente datata, ma delle forme che tengano insieme
gente che sta dentro questo movimento e si collega a una prospettiva di lungo periodo, però già
comincia a fare i conti con dei comportamenti quotidiani diversi, dal tipo di lavoro che uno sceglie
al rapporto con il consumo. Di questo ne parlavo anche con Paul Ginsborg, è una cosa che sembra
utopistica però non lo è, perché poi è convincente, si dice: “se si continua in questo modo qui, se
altri 20 paesi arrivano al livello di sviluppo nostro è un disastro”. Probabilmente si va verso una
forma abbastanza catastrofica in tempi piuttosto brevi: bisogna poi vedere se questo è vero, io non
sono sufficientemente esperto per dirlo. Ho l’impressione che lo sia, perché sento e leggo delle cose
che mi paiono convincenti. Ad esempio, sulla questione dei cibi geneticamente modificati, io per un
periodo pensavo che si trattasse di una specie di neo-oscurantismo; però, ho parlato con dei normali
agronomi che, in un modo del tutto non politico, semplicemente constatando un dato di fatto, mi
hanno detto che facendo queste cose all’aperto si mettono in moto tutta una serie di ibridazioni
incontrollabili, e quindi veramente non si sa poi cosa può succedere, che risultati può produrre. E’
vero che noi siamo tutti il risultato di modifiche genetiche, però distribuite dentro millenni e milioni
di anni e non in un così breve periodo. E poi c’è il problema dell’introdurre Dna proveniente da

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animali sui frutti, il cavallo dentro la fragola… Su tutte queste cose probabilmente c’è anche
bisogno di un supplemento di informazione e di convincimento. E’ anche una dimensione molto
interclassista alla fin fine direi: certo, ci sono interessi sulle multinazionali farmaceutiche, ma chi
sono? Non l’ho mai incontrata io personalmente. E’ un movimento particolare, molto diverso dal
classismo della nostra giovinezza. Io sono un po’ disinformato, però vedo che qui ci sono tutta una
serie di punti molto concreti, e mi sembra che questa concretezza sia un grosso elemento di forza.
Certo che poi la gestione della manifestazione di Genova dimostra anche la grossa debolezza,
perché poi bastano quattro che vanno a spaccare le vetrine per mobilitare la polizia e suscitare
quello che c’è stato. Evidentemente la polizia non è stata geneticamente modificata, e quindi ritorna
fuori in queste forme con grande sorpresa anche mia: infatti gli slogan mi hanno sorpreso, con
questa polizia fortemente autoritaria e quindi succede il casino. Non mi sembra che sia un gran
successo come sono andate le cose a Genova, credo che adesso un sacco di gente avrà paura e non
ci ritornerà; c’erano molte persone che erano lì per i motivi più strani e magari potevano essere
persuase a compiere un processo di maturazione politica, ma non certo essendo bombardata dagli
elicotteri con i gas urticanti.

- Nell’oggi, secondo te, quali altri nodi aperti emergono dall’analisi critica delle esperienze
operaiste?

Un elemento molto importante dell’operaismo è costituito dal fatto che capì come funzionava la
fabbrica, quindi il lavoro, e anche quali erano gli obiettivi che in modo ancora poco esplicito gli
operai cominciavano a porre, quali erano i problemi. Dunque, è un discorso molto su quella che noi
chiamavamo la composizione di classe, che poi si può anche chiamare l’antropologia e la sociologia
del lavoro. Questo è un terremo che oggi come oggi rimane tutto sommato abbastanza misterioso,
non mi risulta che ci sia molta gente che studia quello che pensano e dicono gli operai. Io ora sto
facendo una ricerca sugli stampisti, e questi non sono più neanche operai, si danno grandi pacche
sulle spalle con i padroni, si occupano di cose fatte al computer, si divertono molto. Però, non credo
che loro siano rappresentativi, infatti mi sono simpatici i padroni stampisti che sono ex operai e si
divertono a fare questi pasticci meccanici, lavorano tantissimo. Però, c’è tutta una fascia sommersa
di cui anche la sinistra parla sempre più come manovalanza, queste famose figure che devono
cambiare sempre il mestiere perché se no il sistema non funziona. Questi qui come la pensano, cosa
dicono? Immagino che siano dentro questo movimento atiglobal, e magari si mobilitano soprattutto
sui grandi temi dell’ecologia, del debito estero, dell’Aids in Africa, sul monopolio dei farmaci da
parte delle multinazionali: questo è un buon segno, sono le cose che agitano e appassionano anche
queste persone. Probabilmente loro hanno dei problemi concreti che li portano a veder con maggior
rapidità una tale situazione; ciò oltre al fatto che sono giovani e quindi sono più interessati in
generale alla politica e alle sorti del mondo perché sono destinati per ragioni evidenti a vivere più
dei vecchi. Forse una cosa che potrebbero fare è cercare di vedere (come quando prima parlavo di
forme di prefigurazione nell’oggi) cosa fare anche nell’ambito della loro attività lavorativa. Gli va
davvero bene continuare a fare voli pindarici, un giorno il distributore di pizze e l’altro il
programmatore di computer? Oppure no? Forse sì, ma magari gestendoli in un altro modo. Questo è
dunque un altro tema che io vedo. Non credo che si arriverà mai più a porre la questione del lavoro
con quella forza che aveva all’interno dell’analisi operaista, anche perché la classe si è frammentata,
è diventata più vecchia da una parte, dall’altra è diventata instabile e non più fisa quando è giovane.
E poi perché sembra appunto che l’interesse politico vada più alle grandi questioni mondiali, i
grossi problemi di politica e di etica, che non al problema della propria concreta sopravvivenza e
del proprio concreto lavoro. Però, certo su questa cosa qui non si sa molto, tranne gli scritti più
giornalistici, che ogni giorno cambiano, in cui c’è una sostanziale mancanza di analisi. Sarebbe
importante avere una mappa anche soltanto del lavoro giovanile, sapere qual è l’incidenza del
lavoro degli extracomunitari nella varie aree e regioni. Manca quindi un lavoro come prima cosa
semplicemente informativo, poi magari c’è e io non lo so, ma non credo. Poi non ci sono libri sulla

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soggettività del lavoro giovanile frammentato, ad esempio; in quegli anni là uscivano testi come
quelli di Danilo Dolci sui contadini, di Rocco Scotellaro sempre sui contadini, poi altri sugli
immigrati, sugli operai. C’era tutta l’inchiesta che ha preceduto la nascita dell’operaismo, si pensi a
Montaldi, questa inchiesta sulla società, la sociologia politica, la conricerca. Tutto questo non c’è e
sarebbe molo interessante che vi fosse. Io faccio ricerche sulla piccola impresa (e mi pagano per
questo, è il mio lavoro), scopro dei mondi che non sospettavo. Sono dei mondi del tutto non
conflittuali, se si vuole, e non credo rappresentativi, però sono molto interessanti. Ci sono dei
rapporti tra operai e padroni che sono cambiati moltissimo in quella situazione. Proprio oggi, dove
sono andato a fare le interviste, c’era un giovane figlio del padre che era operaio e diceva che la
fabbrica padronale non funziona più, perché nessuno può dire “tu fai così”, in quanto si sa che lui ne
sa più di te: ciò è quindi anche basato su una nuova professionalità che si è formata
nell’informatica, che non c’era prima ed ora c’è. Ci sono delle cose che io arrivo difficilmente a
capire: c’è l’operaio che è lì, ha il computer e programma le macchine secondo gli schemi che gli
sono arrivati, però poi questo stesso operaio viene incitato dall’azienda a programmare anche quello
che poi un altro dovrà controllare, e alla fine a fare il progetto. Quindi, questo qui è un operaio?
Forse per il salario, ma loro guadagnano il doppio del normale. Ovviamente è chiaro che le
associazioni di categoria ti pagano le ricerche quando dietro ci sono queste situazioni, perché viene
fuori un’immagine dell’impresa che è molto bella, sembra una specie di falansterio, la realizzazione
di una sorta di socialismo utopistico. Poi ci sono invece quelli che fanno tutt’altro, anche
semplicemente quelli che prendono degli stampi e ci fanno 500 miliardi di bottigliette di plastica, e
allora qui è tutto un altro discorso. Ma nessuno lo sa, a nessuno gliene frega nulla, non so nemmeno
se i sindacati ne siano a conoscenza. L’altro giorno, per esempio, nell’ambito di una ricerca sui
delegati sindacali c’è stato un incontro a cui erano presenti tutti i vecchi tromboni che conoscevo
dagli anni ’60 di Firenze, queste cose non mi interessano granché. Mi ha invece interessato vedere
come un giovane delegato, un ragazzo di 28 anni, non sapesse niente della storia sindacale della sua
fabbrica, del suo settore, della sua categoria: era un delegato sindacale, non uno a caso, cascava
proprio dalle nuvole. Diceva: “io faccio il delegato sindacale alla Pignone perché ci credo”, di
nuovo, è l’impegno antiglobal che ti porta a fare il delegato sindacale; “però, da noi in effetti fare un
discorso salariale è difficile, perché c’è un numero enorme di persone che ha dei salari che sono tre
volte quelli sindacali, per cui cosa facciamo?”. Ciò in quanto sono legati alle mansioni, a vari
parametri, per cui di fatto prendono stipendi che sono tre volte i miei, viene da pensare che forse è
l’unico settore che è rimasto simile al pubblico impiego, ma è fatto notoriamente da persone che
lavorano da poco. Però, su questa cosa ci si potrebbe pensare un po’.

- Quali sono stati i tuoi numi tutelari nell’ambito della tua formazione politica e culturale? Quali
sono le figure e gli autori che possono essere più utili nella lettura dei nodi aperti nel presente?

Per quanto riguarda la mia esperienza, io a quei tempi là ero molto piperniano, però oggi non direi
proprio. Poi avevo letto il Tronti di Operai e capitale, mi era piaciuto, ma certo è un bel manifesto
molto ideologico ripensandoci oggi. Io devo dire che tenderei più a rivalutare l’esperienza che non i
maitre-a-penser. Retrospettivamente Sergio Bologna mi sembra uno che avrebbe potuto dire delle
cose importanti, però era un po’ timido: mi ricordo che era interessante starlo a sentire, però era
piuttosto schivo. Per quanto mi riguarda devo dire che dopo questa esperienza fui molto colpito dai
Montgomery e da questi storici della classe operaia americana, che sono radicali ma hanno una
fortissima attenzione al dato empirico della classe operaia. E’ per esempio importante The making
of the english working class di E.P Thompson. Più che dai teorici dell’operaismo che conoscevo
allora, sono rimasto colpito e legato a questi studiosi della classe operaia americana e inglese che mi
piacevano perché avevano questa dimensione empirica. Mi ricordo che una volta Gian Maria
Cazzaniga definì gli operaisti italiani i giovani hegeliani del capitale collettivo: era cattiva come
affermazione, però l’approccio di un E.P Thompson non c’era molto. Lì c’è l’idea di questa classe
operaia che viene fuori nel suo farsi, non è qualcosa che è già prevista, questa cosa che cresce

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facendo delle esperienze e imprevedibilmente diventa la classe operaia. In fondo ciò sottolinea
l’importanza della soggettività rispetto a dei meccanismi di costruzione della classe operaia
semplicemente a partire dalla condizione fatta al lavoratore, come si diceva; invece, la questione è
come il lavoratore considera la condizione che gli è stata fatta, anzi quale condizione considera il
lavoratore che gli sia stata fatta. Ciò è importante, poi ci sono le cose che cominci a fare, quelle che
non è prevedibile che abbiano certi sviluppi e invece ce li hanno. Questo fa parte della politica:
tanta gente è andata a Genova e non vorrei che tornassero tutti quanti con il mito dei black bloc,
anche se mi sembra che tra i ragazzini sia un po’ così, ma per forza, chi è che esce vincente da
quella situazione? Devo dire che a me sono piaciuti molto questi studiosi, poi non a caso E.P.
Thompson era anche interessato al disarmo unilaterale, ai problemi dell’ecologia, le stesse cose del
movimento antiglobal in fondo.

- E’ una figura generalmente abbastanza trascurata dagli operaisti.

Sì, oppure molti operaisti lo hanno riscoperto dopo. Questo libro era già uscito in traduzione nel
’69, nessuno di noi l’aveva letto, neanche sapevamo che esistesse; l’avessimo saputo magari le cose
sarebbero andate in modo un po’ diverso. Perché poi il movimento sociale qui c’era: mi viene un
po’ la rabbia per il fatto che noi abbiamo sperperato un’occasione, invece questi ex operai di
Mirafiori ora votano tutti per Berlusconi, sono persuasi che quello gli faccia i pranzi. Con questo
non voglio dire che noi ci fossimo illusi, o che in realtà loro erano dei disgraziati e invece noi
pensavamo che fossero chissà che: perché probabilmente a forza di sbagliare la gente poi trova gli
sbocchi che trova. Allora, è vero che l’emigrante che va a Torino fa una fine più triste di quelli che
sono rimasti in paese: ho provato nell’82 a fare delle interviste anche ad operai che erano ritornati
nel Sud trovando delle situazioni di disperazione. Ciò perché chi era rimasto si era sistemato negli
anni della Cassa per il Mezzogiorno e del ruba ruba generalizzato, aveva costruito la casa in
campagna, aveva intrallazzi vari; chi era tornato aveva la memoria delle lotte, che però in tasca non
gli aveva fatto venire nulla di permanente. Quindi, la cosa poi è politicamente finita con un niente:
la vittoria del PCI cosa ha significato per questi qui? Che rapporto c’è tra quella e ciò che loro
avevano fatto? Non molto, per giunta poi il PCI va in crisi, crolla il Muro e sembra che si scoprano
le colpe degli operai di Mirafiori., viene vissuto così da loro. Nel frattempo si sono comunistizzati,
anche perché era l’unica struttura che rimaneva. Non voglio mica fare del moralismo, ma è per dire
di come poi loro votano Berlusconi, Marino accusa Sofri di essere il mandante dell’uccisione di
Calabresi: sia che sia vero sia che sia falso, il fatto che questo qui abbia deciso questa specie di
vendetta la dice lunga su questo rapporto che alla fine è stato un rapporto mancato, si sono sentiti un
po’ anche abbandonati.
Tornando agli autori e alle figure significative, sono belle le cose di Montaldi. Era un operaista?
Non lo so, parlava sempre di classe operaia, però lui era molto un etnologo. Quelle cose a me
piacciono molto, ma anche Bosio, tutti libri usciti tardissimo, troppo tardi. Tra l’altro, una cosa che
dico come storico orale che ha intervistato soprattutto operai, è che questi qui avevano avuto la
fortuna, cominciando presto, di intervistare delle figure socialmente straordinarie. Si sarebbe dovuto
fare di più, si pensi se ci fosse stato qualcuno che avesse intervistato gli anarcosindacalisti: invece,
se ne sa pochissimo. Quindi, queste cose per me restano importanti indipendentemente da un certo
ideologismo che si può trovare negli scritti di Montaldi, ma anche in quelli di Bosio. Io continuo a
insistere sull’importanza dell’elemento empirico, e vedo come un limite del nostro operaismo
questo aspetto molto astratto. Ciò anche se intorno giravano delle persone come Rozzi di Psicologi
e operai, un sacco di gente che ha fatto delle analisi empiriche; però, nella vulgata di quello che
arrivava a noi giovani ventenni nel ’68, io ho più il ricordo di una cosa molto astratta, quasi una
specie di passe-partout analitico. Invece, la conricerca era stata fatta con gli operai, queste cose
erano state costruite. Probabilmente c’è stato un momento in cui tutto questo è stato cristallizzato,
raffreddato, è diventato una specie di testo sacro, come per quanto riguarda l’operaio-massa. In
fondo, il libro di Tronti ha avuto questo carattere di utilizzare in un contesto molto filosofico una

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serie di cose che erano nate invece da una ricerca che era in mezzo alla politica, che io non ho
conosciuto ma che mi sarebbe piaciuto conoscere perché penso che sia stata un’esperienza
interessante. C’era il Panzieri della ricerca, ad esempio.

- Panzieri, però, era piuttosto ostile rispetto alla conricerca: cercò di riprendere il discorso
dell’inchiesta in buona parte in una forma sociologica conflittuale rispetto a chi portava avanti
l’ipotesi di una ricerca militante, usando e controusando anche gli strumenti sociologici.

Tuttavia Panzieri aveva una grande esperienza politica, era stato in Sicilia, lui aveva una forte
tempra teorica, e quindi poneva le cose in modo molto astratto, però dietro c’era sicuramente tutto il
resto, che magari era meno presente in altri operaisti. Poi è vero che Panzieri aveva una componente
anche dottrinaria, io ho studiato le Tesi sul controllo operaio ed era una roba dottrinarissima, quindi
effettivamente molto empirico probabilmente non lo era. Lui pensava che i consigli di gestione
fossero il punto dove si creava il controllo dal basso degli operai, ma era una pura illusione.

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INTERVISTA A DARIO CORBELLA - 21 FEBBRAIO 2000

PRESENTAZIONE DEL SOGGETTO


- percorso di formazione politica e successivi passaggi
- percorso e collocazione negli anni ‘70 ed eventuale appartenenza ad ambiti politici organizzati
- il percorso successivo
- il percorso attuale.

ANALISI DEI PROPRI PERCORSI POLITICI


- analisi delle ricchezze e dei limiti del proprio percorso e/o della propria proposta politica
- analisi e giudizi su quanto c’era d’altro (altri ambiti, altre proposte politiche...)
- quanto tali ricchezze e tali limiti possano essere attualizzabili nel contesto odierno e in
prospettiva futura
- differenze tra l’attività militante nelle aree metropolitane e quella nella provincia (analisi di
tali differenze legate agli aspetti della soggettività politica, alle forme di militanza, di
radicamento, di lotta, di comunicazione...) e quanto tale analisi possa essere attualizzabile.

Io sono entrato nella scuola superiore nel ‘68. Saronno, dove io abitavo, non era sicuramente un
crogiolo di lotte particolarmente all’avanguardia, però risentiva comunque di quello che
succedeva in generale, nel ‘68 e nel ‘69, a livello milanese e nazionale. Inizialmente, così come
probabilmente hanno fatto tanti giovani, mi sono avvicinato alle posizioni anarchiche: con tre o
quattro compagni abbiamo infatti formato un gruppo anarchico a Saronno. Abbiamo ovviamente
cominciato con letture di testi e con l’attività di contro-informazione a livello scolastico.
All’inizio degli anni ‘70 ci siamo avvicinati ad un collettivo che proveniva dall’area del Gruppo
Gramsci di Varese, accostandoci così maggiormente alle posizioni dell’Autonomia Operaia. Qui
a Saronno noi avevamo più una connotazione studentesca, in quanto per la maggior parte
eravamo studenti medi e universitari; qualcuno già iniziava a lavorare, però non in fabbrica,
bensì come marginale. Invece il Collettivo di Caronno Pertusella, con cui c’erano dei rapporti
stretti, era più tipicamente operaio. A partire dalla metà degli anni ‘70 abbiamo cominciato a
militare in questo Collettivo Autonomo qui a Saronno: l’area di intervento era quella della
contro-informazione, generalmente politica, su tematiche sociali più che di fabbrica. C’era anche
un intervento di fabbrica, però dall’esterno, nel senso che, a parte qualche compagno che
lavorava alla Parma, il resto della composizione non era tipicamente operaia. Secondo me è stata
una militanza molto politica e poco sociale: si cercava continuamente di avere un’internità nel
tessuto sociale, ma in realtà erano scelte molto politiche. La nostra collocazione politica generale
era quella all’interno dell’ambito che faceva riferimento alla rivista Rosso: qua in provincia
siamo anche riusciti a sviluppare un buon intervento sociale e politico. Tutto sommato la
provincia di Varese era, ed è tuttora, molto ricca, con una composizione produttiva di piccole e
medie fabbriche: rispetto a Milano era un polo abbastanza importante, magari anche un po’
sottovalutato, nel senso che è sempre quella metropoli ad essere vista come il centro, mentre
invece la provincia è comunque interessante.
Nel 1980, durante una rapina in banca, sono stato arrestato insieme ad altri tre compagni; sono
stato scarcerato dopo otto anni e mezzo. All’uscita dal carcere, ovviamente, la situazione era
completamente mutata, la rete di compagni che c’era negli anni ‘70 non esisteva più e anche le
condizioni oggettive, rispetto al decennio precedente, erano radicalmente cambiate. Ho tentato di
lavorare con un collettivo giovanile di Saronno che faceva riferimento all’area dei centri sociali:
l’ultima iniziativa pubblica è stata una festa estiva fatta nel 1997, dopo di che si è sciolto tutto.
Adesso mi sto avvicinando alle posizioni più ortodosse marxiste-leniniste.

La mia rilettura personale di quel periodo è, tutto sommato, quella di un movimento molto ricco
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di volontà, ma profondamente segnato dall’estremismo. Lo slogan che potrebbe riassumere quel
periodo, almeno per come l’ho vissuto io, è “Vogliamo tutto e subito”, cioè un credere che
fossero maturi i tempi di un processo rivoluzionario che invece era, visto con il senno di poi,
abbastanza impensabile. Sia in me stesso sia in moltissimi altri compagni che ho conosciuto,
anche negli anni successivi e in carcere, il limite grosso che ho riscontrato è stato di elaborazione
teorica. C’era moltissima disponibilità, energia e voglia di fare, ma c’era poca preparazione e
capacità di analisi: c’era una scissione molto grossa tra l’elaborazione teorica, ad esempio, di un
Toni Negri, di un Piperno o degli altri che scrivevano su riviste, e la capacità poi di concretizzare
nell’intervento politico, nel giorno per giorno. Questo vale pure per quanto riguarda delle
intuizioni che magari erano anche corrette, come, ad esempio, il passaggio tra l’operaio-massa e
l’operaio sociale: non avevamo la preparazione teorica, e anche politica, per metterle in pratica.
Secondo me, un altro grosso limite e problema che abbiamo avuto negli anni ‘70 è stato quello di
pensare che quelle che erano delle intuizioni teoriche di medio e lungo periodo potessero vivere
nel presente. Ad esempio, noi, probabilmente, pensavamo che l’intuizione dell’operaio sociale
come figura ricompositiva fosse una realtà, mentre invece si trattava chiaramente di un soggetto
che avrebbe potuto porsi al centro della scena della ricomposizione di classe solo nel lungo
periodo: si trattava di una tendenza, invece noi ci aspettavamo che i tempi fossero più rapidi. Mi
ha colpito e mi ha fatto molto riflettere un libro-intervista a Mario Moretti, in cui spiega la genesi
delle Brigate Rosse come un’ultima spiaggia. Lui, parlando dell’esperienza del gruppo della Sit-
Siemens, collettivi operai e Cub, dice che a un certo punto si erano resi conto che si stava
chiudendo un ciclo, le grosse lotte degli anni ‘60 si stavano esaurendo; quindi, sostiene Moretti,
o riuscivano a dare un peso politico a quelle vittorie, oppure ci sarebbe stato il riflusso.
Ripensandoci con il senno di poi, è drammatico pensare che un movimento rivoluzionario si
fondi non su un momento espansivo e di attacco, ma su un momento in cui la classe si sta
rinchiudendo in se stessa. Comunque, Moretti ammette questo limite e secondo me è abbastanza
vero: io soggettivamente, ma anche altri compagni della nostra area, non avevamo questa
percezione. Però è vero che nel ‘78, quando ci fu, da parte delle Brigate Rosse, l’operazione
Moro, ci rendevamo conto che, da una parte, eravamo ad un punto di non ritorno e, dall’altra,
anche in una grossa crisi che non sapevamo come affrontare. Per esempio, a Milano molti
compagni scelsero la lotta armata come scorciatoia, senza una grossa progettualità, per cui ci fu
tutta la proliferazione di sigle, piccoli gruppi, magari anche di quartiere, e di compagni che
iniziarono a fare azioni armate, senza una progettualità che potesse ricomporli. Noi non
riuscimmo a far fronte a questa situazione, proprio per mancanza, come dicevo prima, di capacità
di analisi politica e, probabilmente, anche di radicamento. I compagni che erano più radicati
vennero via dalla fabbrica e scelsero strade che poi si sono rivelate delle scorciatoie che non
portavano da nessuna parte. Secondo me, il nostro grosso limite è dunque stato quello di aver
tentato di risolvere una situazione di tendenziale chiusura di una fase politica con l’entusiasmo
giovanile, ma senza essere supportati da una preparazione politica e teorica che ci permettesse di
farlo. Alla fine degli anni ‘70 le ultime riflessioni teoriche, nell’area milanese ma anche in
provincia, erano sul fatto che non riuscivamo a radicare un intervento.

- Questi limiti li vedi legati al fatto che, oggettivamente, gli eventi e le situazioni in quegli anni
si sono susseguiti in modo molto rapido, oppure ad una vostra mancanza soggettiva?

In parte tali limiti vanno imputati anche al fatto che furono determinati da altre cose. Bisogna
intanto dire che una grossa differenza tra l’area dell’Autonomia Operaia e i gruppi combattenti
come le Brigate Rosse stava nella visione della violenza e dell’uso della forza: per noi era uno
strumento, una scelta tattica a cui magari si era anche costretti dalla realtà dei fatti; le BR
avevano invece, come discriminante, l’uso della lotta armata come scelta strategica. Tanto è vero
che la loro politica ne era poi determinata, arrivando ad un’estremizzazione, in quanto
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l’importante era la scelta strategica, che era quella della lotta armata. Per noi, invece, era
fondamentale l’internità alla classe e alle sue dinamiche sociali, mentre l’uso della violenza e
della forza era subordinato a questo. Però, il fatto che comunque lavorassimo in una situazione in
cui si veniva sovradeterminati da cose che noi non riuscivamo a governare, ci spiazzava
continuamente. Tentavamo di tenere sempre aperta la dialettica tra intervento di massa, classe e
uso della forza e organizzazione della violenza; ma questo non era facile in una situazione in cui
altri, sostanzialmente molto più organizzati, dettavano tempi e scadenze completamente diverse.

- Ferruccio Dendena ha parlato di una grossa compressione dei tempi in cui si è sviluppato il
movimento e il percorso dell’Autonomia, sostenendo, metaforicamente, che un bambino in
fasce non può guidare un’automobile. Secondo te, che ruolo e che peso ha avuto ciò rispetto
ad un discorso progettuale e organizzativo?

Questo discorso è vero. Da una parte, come dicevo prima, c’era sostanzialmente un’immaturità;
dall’altra è anche vero che ci misuravamo con la chiusura di un ciclo: stava davvero
scomparendo quella figura che veniva definita operaio-massa e si stava scomponendo una
composizione di classe che era stata presente sulla scena negli anni ‘60 e ‘70. A quel tempo i
nostri riferimenti erano l’Assemblea Autonoma di Porto Marghera o quella dell’Alfa Romeo,
però già questa azienda incominciava a scontrarsi con il problema della ristrutturazione che, nel
giro di vent’anni, l’ha poi praticamente portata a chiudere; la stessa cosa avveniva nelle grosse
fabbriche di Milano. Da una parte ci trovavamo con un movimento in fasce, nel senso che era
estremamente giovane, composto da giovani operai o da studenti, con poca esperienza di lotta di
classe e di fabbrica; dall’altra iniziava pesantemente la ristrutturazione all’interno delle fabbriche
e anche nel tessuto sociale della classe operaia, e a questo noi non riuscivamo a dare risposte.
Inoltre la ristrutturazione era estremamente veloce e noi non siamo riusciti a starle dietro.
Rileggendo quelle fasi, nei giorni scorsi pensavo a quando la colonna milanese Walter Alasia
delle Brigate Rosse sequestrò Sandrucci, un dirigente del personale dell’Alfa Romeo: la trattativa
per il rilascio verteva sul bloccare 2.000 licenziamenti che ci dovevano essere in quella fabbrica.
Il fatto che una forza che si definisce rivoluzionaria sequestri il dirigente del personale di una
multinazionale e poi chieda di non licenziare 2.000 operai, dà il segno dell’incapacità e della
pochezza strategica di una proposta di quel tipo. Ciò dimostra che non si lottava su un terreno
offensivo ma su un terreno difensivo, tamponando le falle e cercando di frenare una
ristrutturazione che, invece, non eravamo in grado di frenare, né avevamo gli strumenti, perché
era molto più grande di noi.
Il tutto era complicato dal fatto che era un movimento estremamente giovane, magari con delle
grosse intuizioni teoriche, ma con l’incapacità di farle vivere nel concreto. Una di queste grandi
intuizioni poteva essere la parole d’ordine del salario sociale, che allora non era nella forma in
cui oggi se ne parla (ad esempio del salario di cittadinanza, come dicono in Francia): consisteva,
ad esempio, nelle lotte a Milano sulle autoriduzioni, che andavano dai trasporti al cinema.
Intorno al ‘73-’74 i collettivi metropolitani giovani entravano nei cinema senza pagare il biglietto
oppure, attraverso l’autoriduzione ai concerti, si riappropriavano della musica: si trattava di una
forma embrionale del discorso sul salario sociale. Non si è però riusciti a collegarla al resto,
ridando fiato ad un discorso molto più ampio. Prima parlavo dell’Alfa Romeo, che per noi a
Saronno è stato un polo importante: noi siamo anche cresciuti soggettivamente sui picchetti a
quella fabbrica, perché era un periodo in cui l’Alfa comandava squadre di operai al lavoro il
sabato mattina, in quanto allora stavano preparando la Giulietta; noi andavamo a tentare di
bloccare i cancelli facendo il discorso “No agli straordinari, lavorare tutti e lavorare meno”. Noi,
in quanto disoccupati, studenti o operai della piccola fabbrica, dicevamo: “Rifiutatevi di fare gli
straordinari, che l’Alfa Romeo assuma”. Ma, anche lì, a parte alcuni contatti sporadici con le
avanguardie di fabbrica, non siamo in realtà riusciti a far partire un movimento al suo interno su
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queste parole d’ordine; restavamo un soggetto abbastanza estraneo al corpo della classe e della
fabbrica. Il tutto era poi complicato da un livello che non era determinato da noi. Ad esempio, mi
ricordo un volantino che distribuimmo alla Parma di Saronno dopo che a Milano era morto un
poliziotto, se non erro si trattava di Custrà; gli operai ci dicevano: “Dite delle belle cose, però
intanto a Milano hanno ammazzato un poliziotto: voi su questo cosa dite?”. Questo, ovviamente,
ci metteva in una posizione di difficoltà nel gestire le cose e complicava tutto.
Prima parlavo della provincia di Varese come polo abbastanza importante rispetto a Milano.
Secondo me, tra l’attività militante nelle aree metropolitane e quella nella provincia, tutto
sommato, non c’erano grosse differenze, nel senso che la provincia la si poteva vedere come una
metropoli allargata sul territorio. I poli industriali c’erano anche in provincia; forse, anzi,
nell’ultima fase erano più in provincia che a Milano. Se uno guarda Milano e la provincia nelle
rispettive estensioni territoriali, Saronno o Tradate diventano quartieri della metropoli, come
Baggio o la Valona: magari c’era più difficoltà di spostamento (a Milano ci si sposta con la
metropolitana e in provincia no), però non credo che ci fosse una grossa differenza.

- Secondo te, che ruolo hanno avuto la repressione e, all’interno del carcere, il pentitismo e la
dissociazione? Qual è stato invece il peso del documento dei 51? Che conclusioni si possono
trarre rispetto ai limiti soggettivi di un movimento che è stato annientato nel giro di pochi
anni?

E’ ovvio che quello che dico lo faccio con il senno di poi, non c’è nessun tipo di critica o di presa
di distanza da quella storia. E’ certo che, probabilmente, non poteva che andare così; però, riletta
oggi, uno dei nostri limiti è stato quello di accettare questo meccanismo, di gatto che si mangia la
coda, della repressione - lotta contro la repressione e via di questo passo. Fu un continuo
innalzamento dello scontro, il quale molto spesso, anzi quasi sempre, non era dettato dai nostri
tempi e dalle nostre scelte, ma da quelle dell’apparato repressivo dello Stato. Noi, un po’
ingenuamente, siamo stati dentro a questa cosa, per cui c’erano i primi compagni arrestati, i
comitati contro la repressione e via di questo passo. Questo è stato un limite anche nel senso che
assorbiva un grosso impegno di lavoro e di energie, non si faceva nient’altro che quello, per cui
ci siamo un po’ mangiati la coda: i compagni venivano arrestati, bisognava trovare i soldi per gli
avvocati, e alla fine non si riusciva a fare nient’altro, a svolgere il lavoro politico che avremmo
voluto fare su altri terreni.
Personalmente, devo dire che il periodo del carcere, per me, è stato di grande crescita, nel senso
che comunque mi ha messo in contatto con altri compagni e con altre realtà che mi hanno
arricchito. Dall’altra parte, anche la dissociazione e il pentitismo sono la dimostrazione di quelli
che, secondo me, erano i limiti di quel movimento: era giovane, immaturo, basato molto sulla
disponibilità soggettiva e poco su gambe teoriche e di radicamento reale. Quando questo
movimento si è soggettivamente scontrato con i propri limiti e con una sconfitta storica, è
crollato. Poi continuiamo a dirci che, nella nostra esperienza stretta, il fiore all’occhiello è che
non ci sono stati né pentiti né dissociati: continuiamo a farne un vanto, ma soggettivamente, nel
senso che i compagni che sono stati arrestati soggettivamente hanno tenuto, ma per loro ragioni
personali. Il fatto che poi a livello alto, di massa, ci sia stato questo dilagare della dissociazione
e, peggio ancora, del pentitismo, dimostra i limiti che aveva il movimento. Io credo che non si
possa imputare alla repressione la sconfitta di un movimento rivoluzionario: se esso è solido, ha
le gambe per camminare ed è radicato socialmente, nessuna repressione lo può sconfiggere. Noi
siamo stati sconfitti proprio perché abbiamo fatto una scelta che non era matura rispetto ai tempi,
fu forzata, e poi ne abbiamo pagato le conseguenze, in quanto non era il momento di fare certe
cose: noi le abbiamo volute fare, più basandoci sul una disponibilità soggettiva che su una forza
di classe reale.

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- Sempre Ferruccio ha parlato della tenuta, di fronte alla repressione e al carcere, dei
militanti della provincia arrestati, mentre, per quanto riguarda quelli di Milano, c’è stato un
crollo quasi totale; da qui si sono addirittura configurati dei teoremi giudiziari che,
sovradimensionando notevolmente quella che era la realtà dei fatti, hanno disegnato un
livello di forza del Coordinamento Autonomo delle province di Varese e di Como capace
addirittura di ricostruire e far ripartire un progetto organizzato anche nella metropoli. Quali
sono state, secondo te, i motivi di questa tenuta?

Secondo me è stata una tenuta sostanzialmente soggettiva: derivava certamente anche da rapporti
collettivi di fiducia e di rispetto reciproco, però non è che essa dimostri un particolare livello di
preparazione o di organizzazione molto superiore.

- Secondo te, che ruolo ha avuto il documento dei 51 nell’area dell’Autonomia?

Io non riesco a dare dei giudizi, mi viene difficile entrare nel merito. Nel momento in cui il
movimento comunque è stato sconfitto perché era partito con il piede sbagliato, tutto il resto è
venuto un po’ di conseguenza. L’immaturità del movimento provoca poi l’immaturità soggettiva,
il crollo soggettivo, la dissociazione, il pentimento. Io allora l’ho vissuto abbastanza da esterno:
secondo me quello dei 51 era comunque un documento di dissociazione, però era abbastanza
comprensibile che soggetti che non avevano scelto la lotta armata o, quanto meno, quel tipo di
lotta armata imposta dalle Brigate Rosse, tentassero di tirarsi fuori. L’errore stava a monte, per
cui mi viene difficile dare un giudizio nel merito, era già una storia finita. E’ certo che sarebbe
stato meglio una soluzione collettiva che non svendesse una storia e una prospettiva di ripresa
futura; però, a quel punto lì, c’era probabilmente poco da fare.

- L’analisi dei limiti e delle ricchezze che hai fatto rispetto al percorso dell’Autonomia, quanto
può essere utile nel mutatissimo contesto odierno?

Io in questi mesi sto rivedendo la mia storia personale e credo che mi abbia, ad esempio,
insegnato il fatto che le forzature soggettive non pagano mai. Noi, probabilmente, abbiamo
vissuto la dialettica tra avanguardia e massa in modo molto autoreferenziale: ci ritenevamo
avanguardie di una massa ma, in realtà, eravamo molto separati e non riuscivamo invece a
leggere le reali dinamiche sociali e di scomposizione della classe. Io, tutto sommato, penso
ancora che l’avanguardia abbia una funzione: non credo che finché le masse non si muoveranno
non potrà succedere niente, ma ritengo anche che o questa funzione di avanguardia è supportata
da una capacità di analisi, teorica, di lettura delle dinamiche e degli avvenimenti oppure diventa
un agire, più che da avanguardia, da settore separato. Questo è, secondo me, un errore
fondamentale che abbiamo commesso. Io, rispetto all’oggi, sento personalmente la necessità di
approfondire questi strumenti teorici. Sicuramente altri compagni saranno stati più preparati di
me, comunque noi facevamo tutta una serie di riferimenti teorici al marxismo, al leninismo, alla
rivoluzione bolscevica, ma erano più parole d’ordine e slogan che comprensione e assimilazione
reale di quelle teorie. Forse l’1-2% di tutti i compagni che si dichiaravano marxisti avranno letto
Il capitale o altri lavori fondamentali; ci dichiaravamo tutti leninisti, ma chi avrà mai letto le
opere di Lenin? Eravamo una minoranza. Secondo me, invece, sono fondamentali la
preparazione teorica, lo studio, il lavorare veramente, ancor prima che sulla pratica, sugli
strumenti teorici di comprensione della realtà, senza scorciatoie e illusioni. Noi tutti, più o meno,
facevamo riferimento alla classe operaia, ma pochissimi avevano esperienza di lavoro in
fabbrica, di lavoro sindacale, pochi erano reali avanguardie di classe; molti, invece, facevano
riferimenti un po’ idealistici. Forse eravamo molto idealisti e poco teorici. Io, oggi, vorrei
ripartire più con il piede della teoria, dell’analisi, del dotarmi di strumenti di comprensione reale
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che di ricerca di scorciatoie. Ad esempio, leggendo nella prefazione del documento queste tre
righe di Tronti, ne capisco il senso ma non lo condivido: comprendo che umanamente uno debba
stare dalla parte di chi vuole agire piuttosto che di quelli che dicono che, dal momento che non
succederà niente, tanto vale starsene a casa a vedere la televisione; però l’agire non vuol dire
illudersi che ci siano scorciatoie. Non è che se noi decidiamo che domani scoppia tutto e il
vecchio mondo crollerà, esso poi crolli davvero: mi sembra che, ripartire su questo terreno,
significhi ripartire ancora sul terreno della soggettività più che della classe. Secondo me, non ci
sono scorciatoie: io credo che i teorici del marxismo, cioè Marx ed Engels, e Lenin,
nell’applicazione delle teorie marxiste, ci abbiano insegnato qualcosa. Allora, o veramente noi
cerchiamo di capire le dinamiche, per esempio, della classe e, al suo interno, della
ricomposizione, il livello del dominio del capitale e la maturazione del grado dello scontro,
oppure facciamo ancora una volta dei percorsi più idealistici che politici e più soggettivi che
collettivi. Per cui io non sto né con quelli che dicono che domani scoppia tutto, perché non è
vero, né con quelli che dicono che per cinquant’anni non succederà niente ed è meglio starsene a
casa: anche se non scoppia tutto comunque c’è da fare un grosso lavoro di studio, di lettura, di
comprensione, anche di radicamento, di costruzione di quadri che, nel momento in cui le
contraddizioni davvero scoppieranno, siano pronti ad agire come avanguardie della classe.
Invece, per quello che vedo, c’è ancora molta soggettività e molta approssimazione
nell’affrontare le questioni: o, almeno, questo è quello che ho visto in questi anni per quel poco
che ho fatto, poi magari ci sono collettivi di compagni che lavorano benissimo e si muovono in
modo corretto, però mi sembra che ci sia ancora troppa approssimazione, troppa poca
preparazione politica per affrontare le questioni.

IL CAPITALE
- analisi delle trasformazioni e dei nuovi modelli di produzione e di accumulazione capitalistici
- analisi tendenziale di tali forme
- forme di dominio e sue trasformazioni anche legate all’ambito politico istituzionale.

Io diffido molto delle analisi che pongono troppo l’accento sul nuovo. Negli anni ‘80 e ‘90
sembrava che la classe fosse sparita, che gli operai non esistessero più, che ci fossero nuove
figure e nuovi livelli dello sfruttamento: a me sembra che ci sia poco di nuovo. Ovviamente, ci
sono state delle grosse trasformazioni all’interno della classe e del tessuto produttivo: basta
guardare alla realtà milanese, dove oggi grosse fabbriche non ce ne sono più, mentre gli anni ‘70
erano i tempi della Pirelli, della Breda, della Falck, dell’Alfa Romeo, fabbriche che oggi sono
state espulse da Milano. Possiamo dire abbastanza tranquillamente che nel Nord Italia non ci
sono più grosse fabbriche, anche Torino non credo che ormai possa definirsi un grande polo
industriale. Da questo punto di vista c’è una relativa novità, però non credo comunque che ci sia
una qualità diversa dello sfruttamento capitalistico, oppure che ci sia una novità sostanziale che
provochi una cesura con quello che c’è stato prima. Marx ne Il capitale già analizzava la fase
matura del capitalismo in cui predomina, ad esempio, il capitale finanziario rispetto a quello
produttivo, la stessa cosa quando Lenin scrive dell’imperialismo come fase matura del
capitalismo: diciamo che si stanno verificando queste situazioni, per cui il capitale diventa
sempre più capitale internazionale, multinazionale, diventa capitale finanziario che ormai non ha
più i confini dello stato; la produzione si sta dislocando a livello mondiale e globale, quella che
banalmente si chiama globalizzazione ma che, ripeto, già Marx, Engels e poi Lenin avevano
analizzato come l’imperialismo che sussume tutto il mondo nel suo modo di produzione
capitalistico. Da questo punto di vista, per esempio, dall’89 in avanti, dal famoso crollo del muro
di Berlino, una grossa novità e un dato sicuramente interessante politicamente sono
l’unificazione europea, il fatto, cioè, che l’imperialismo europeo si pone nel mondo come polo
imperialista con una volontà ben precisa di contrastare e di prendere la scena. Giustamente
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diceva Romano Prodi che loro con mezzi democratici e pacifici sono riusciti a realizzare quello
che Hitler non era riuscito a fare con la guerra: l’Europa unita è una realtà, bene o male sotto
l’insegna del marco, apparentemente senza bisogno di guerre. Poi, in realtà, le guerre ci sono
state: si pensi alla guerra del Golfo per certi versi, la guerra del Kosovo è stata dettata dalle tappe
dell’unificazione europea, la guerra in Cecenia e quelle provocate dal disfacimento dell’impero
russo sono comunque all’interno di questo quadro di ricomposizione dell’imperialismo. In questa
situazione alle avanguardie di classe si pone sicuramente un nodo grosso, perché ormai parlare di
forma-stato non ha più molto senso, quindi non ha nessun senso parlare dell’intervento a livello
nazionale: o oggi cerchiamo di essere all’interno di queste dinamiche quanto meno europee,
oppure si è oggettivamente tagliati fuori. Dunque, ci scontriamo con questa grossa realtà che è il
polo imperialista europeo che si pone sul palcoscenico del mondo con una moneta unica, una
politica tendenzialmente unica, un esercito che nel Kosovo ha cominciato a forgiarsi e che si dà
strumenti sempre più di unificazione (adesso abbiamo visto che stanno lanciando il progetto di
un aereo da trasporto truppe completamente europeo): da questo punto di vista sicuramente ci
saranno momenti di attrito, di frizione e di scontro con l’imperialismo nord-americano. Ciò lo
abbiamo visto anche a Seattle: io, per esempio, non credo molto al fatto che il vertice del Wto sia
fallito per le manifestazioni e l’opposizione dell’antagonismo. Leggevo, ad esempio, un fondo di
Ignacio Ramonet su Le Monde Diplomatique in cui, secondo me, lui sovrastima questo dato,
dicendo che finalmente la società civile e i movimenti di opposizione hanno bloccato il Wto. A
mio parere, invece, Seattle è un primo esempio proprio di come l’imperialismo europeo si
contrapponga all’imperialismo nord-americano, in quanto ha i suoi tempi, i suoi ritmi e i suoi
interessi da mettere in campo. Ad esempio, sul terreno della guerra e del settore dell’armamento
gli europei vogliono marciare ad una loro reale autonomia, per cui hanno il loro aereo caccia-
bombardiere, quello di trasporto truppe; gli Stati Uniti continuano a proporsi come leader su
questo terreno, gli europei vogliono sviluppare le loro tecnologia anche nel campo delle
comunicazioni satellitari, per cui c’è tutta la missilistica, il progetto Aviano e via dicendo. In
questo senso, ad esempio, l’irruzione sulla scena della Cina nel prossimo decennio sarà
fondamentale: il fatto che il Wto a Seattle si sia bloccato dipende anche da questo, perché la Cina
deve entrare e lo fa con le sue potenzialità.
Da questo punto di vista purtroppo noi, inteso come classe e avanguardie di classe, scontiamo un
ritardo drammatico. Nel ’91 con la guerra dell’Iraq abbiamo assistito anche ad un movimento
contro la guerra abbastanza numeroso; già nel caso della guerra del Kosovo siamo stati
abbastanza assenti, tutto sommato. Questo forse perché essa ci ha trovato impreparati, o forse
perché in una fase di profonda ristrutturazione, oppure perché magari non ci si aspettava che un
governo di centro-sinistra operasse su un terreno così tipicamente da centro-destra: se una guerra
di quel tipo l’avessero fatta Berlusconi o Fini ci sarebbe sembrato più naturale, invece questa
cosa pone più problemi per lo svilupparsi di un’opposizione di classe. Il ruolo del sindacato
confederale sicuramente ha giocato da freno per lo svilupparsi di un’opposizione operaia alla
guerra. Sono tutti passaggi da superare nel tempo.

- Tuttavia negli ambiti antagonisti, pur con tutti i limiti, l’analisi e il giudizio sulla sinistra
istituzionale (dal PCI negli anni ‘60-’70 ai DS e simili oggi) sono da molto tempo tali da non
lasciare molti margini di dubbio circa il suo ruolo e le sue funzioni. Non pensi, dunque, che i
problemi stiano nei limiti soggettivi della costruzione di una progettualità e di una proposta
politica a livello antagonista?

Fino a che, però, la maturazione di questi argomenti appartiene a piccoli gruppi e settori e non
riesce a diventare patrimonio della classe rimane un discorso limitato. Io, ad esempio, lavoro in
una piccola fabbrica, dove siamo in 22 nella litografia che stampa più 14 nella cartotecnica che
fa lavori di assemblaggio, e mi sono trovato a scontrarmi con questa contraddizione: da una parte
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la consapevolezza che il sindacato confederale ha precise progettualità socialdemocratiche di
connivenza con gli interessi della borghesia nazionale, però, d’altra parte, ci si misura con il fatto
che almeno quel sindacato nella piccola fabbrica e in alcune realtà comunque è un momento di
tenuta su certi discorsi di diritti. Questo perché riuscire oggi, per esempio, a fare un discorso di
auto-organizzazione nella piccola fabbrica è quasi impensabile; per cui da una parte vanno bene
l’auto-organizzazione, i Cobas piuttosto che altre sigle, però anche questi percorsi non riescono a
diventare un momento aggregativo a livello di massa, rimangono comunque patrimonio di
piccole e poche avanguardie e non riescono a farsi progettualità di massa. Allora, a quel punto, io
personalmente ho scelto di stare comunque all’interno del sindacato confederale perché, quanto
meno, mi dà degli strumenti per lavorare nella piccola fabbrica, nella realtà in cui sono,
ovviamente con tutte le contraddizioni che questo comporta.

- Negli ultimi tempi, ad esempio rispetto a Seattle, si è parlato molto dell’emergere di questa
cosiddetta società civile: tu cosa ne pensi?

Da questo punto di vista sono un po’ vetero, nel senso che io comunque continuo a pensare che
esistano le classi e faccio fatica a misurarmi con terminologie differenti: la società civile non è
che non esista, ma mi sembra che sia una mistificazione. Indubbiamente all’interno del
movimento di opposizione al Wto c’erano anche componenti di classe significative, anch’io,
durante lo svolgimento del vertice, leggevo alcuni articoli su il Manifesto sull’affermarsi,
all’interno dei sindacati o comunque della classe operaia americana, di nuovi soggetti immigrati
(messicani, centroamericani) che arrivano al nord e lavorano nelle piccole industrie senza diritti e
tutele: il sindacato tradizionale americano fa fatica a misurarsi con queste novità e questi nuovi
soggetti perché è il sindacato tradunionista della classe operaia americana, per cui garantita.
Questo è sicuramente è un aspetto interessante, però è marginale rispetto a quel movimento.
D’altra parte, leggendo i giornali e cercando di capire, è pur vero che i sindacati americani sono
stati un polo portante del movimento di Seattle, ma forse, tutto sommato, lo sono stati non da un
punto di vista progressista e di superamento delle contraddizioni, bensì di difesa e di
arroccamento: nel momento in cui il sindacato americano chiede, per esempio, barriere doganali
o dazi per difendere la produzione americana, sicuramente non si tratta di un dato positivo, è una
posizione protezionista, non di sviluppo.
Non credo che ci siano scorciatoie per il progresso del modo di produzione capitalistico nei paesi
in via di sviluppo. Ovviamente è sottoscrivibile, da un punto di vista etico e anche di classe,
qualsiasi posizione contro il lavoro minorile o contro il supersfruttamento: però quelli sono i
passaggi dell’accumulazione capitalistica. Oggi il capitale va in Albania piuttosto che in
Thailandia perché fa lavorare i bambini e fa lavorare in certe condizioni: è giusto opporsi a
questo, ma non elevando barriere protezionistiche, bensì sviluppando semmai un movimento di
classe antagonista e internazionalista che aiuti la classe operaia e il proletariato di quelle nazioni
a lottare contro quei livelli di supersfruttamento. Ipotizzare che dal ricco Occidente si riescano a
mettere paletti per impedire questo è, secondo me, abbastanza illusorio, non ci credo molto. Mi
sembra che i cicli dello sviluppo capitalistico si stiano ripetendo: negli Stati Uniti nell’800
morivano le operaie perché stavano chiuse a lucchetto nella fabbrica, adesso queste cose
succedono in Cina o altrove; nelle manifatture inglesi i bambini lavoravano 10-11 ore al giorno,
adesso lavorano in Pakistan per fare i palloni. Da un punto di vista etico e anche di classe, trovo
estremamente corretto opporsi a questo, però non certo con posizioni favorevoli alle barriere
doganali o a qualcosa del genere, non penso che sia ciò che frenerà l’estendersi del modo di
produzione capitalistico; anzi, un po’ cinicamente, la sua estensione avvicina quello che Marx
analizzava come il momento in cui, diffondendosi il proletariato a livello planetario, maturano
anche le condizioni per il superamento del modo di produzione capitalistico e per un passaggio a
un modo di produzione superiore, che sarà quello del comunismo.
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LA CLASSE
- giudizio del soggetto sull’esistenza della classe
- trasformazioni della classe
- sua composizione tecnica e sua composizione politica
- analisi della soggettività di classe che oggi si esprime
- giudizio su quali soggetti esprimono forme di conflitto e su quali tendenzialmente possono
esprimerle
- opinione sulle possibile configurazione di soggetti trainanti e ricompositivi (se sì, quali)
- come cambia o deve cambiare l’attività politica rispetto alle trasformazioni nelle forme di
produzione e nella composizione di classe
- eventuali ipotesi di scommesse politiche su soggetti e ambiti in una dimensione di
contrapposizione al capitale.

Negli anni ’60 e ’70 si è chiuso un ciclo che è stato quello della ricostruzione del dopo-guerra in
Europa, ed è stato il ciclo sostenuto dall’operaio-massa; in Italia, ma anche in Francia, in
Germania, in Gran Bretagna, c’è stata la ripresa economica, c’era da ricostruire e da rilanciare
un’industria. Gli anni ’70 hanno chiuso quest’epoca e questa fase e il capitalismo si è apprestato
al salto successivo, che è stato quello dell’internazionalizzazione dei flussi di capitale. Gli anni
’80 ne sono stati la preparazione, negli anni ’90 abbiamo visto la caduta del muro di Berlino, la
fine della guerra fredda, l’internazionalizzazione delle dinamiche politiche, l’emergere di questo
nuovo polo europeo che si struttura. Io non credo, tutto sommato, che ci siano nuove figure
emergenti, c’è una dislocazione differente: l’Occidente, il cuore della metropoli imperialista,
diventa sempre di più il cervello, con il terziario, il capitale finanziario, i servizi, e la produzione
viene dislocata nelle aree più confacenti allo sfruttamento capitalistico. D’altra parte assistiamo
ad una ripresa forte dei flussi migratori, per cui le crisi in un paese in via di sviluppo spingono
masse sempre maggiori di persone a muoversi: in Asia, all’interno della Cina, ci sono flussi di
centinaia di migliaia di persone che si spostano dalla campagna verso le metropoli e poi (cosa
che comunque andrebbe approfondita) dai paesi più poveri verso quelli più ricchi. Questo può
essere un veicolo positivo di comunicazione sociale che, diffondendo il modello di produzione
capitalistico, diffonde anche l’opposizione di classe e la presa di coscienza del proletariato. Io
non penso che ci siano figure nuove da cercare, non credo più che ci siano figure centrali attorno
alle quali si possa ricomporre la classe: penso semmai che le dinamiche del capitale spingono
verso una ricomposizione della classe, solo che non sarà più una ricomposizione a livello
nazionale ma sarà forzatamente a livello internazionale; attorno a quali figure francamente non lo
so. Sicuramente il capitale, diffondendo il proprio modello di produzione e approfondendo i
livelli di sfruttamento, spinge verso una tendenziale proletarizzazione anche figure che una volta
magari erano più assimilabili al ceto medio, per cui tecnici, impiegati, soggetti che, pur facendo
parte della metropoli imperialista, comunque subiscono condizioni di sfruttamento che saranno
sempre maggiori e sempre più gravi. Non me la sento di dire intorno a quali dinamiche si
potrebbe dare una ricomposizione di classe nel prossimo futuro. Certamente io credo che il
capitale stesso per le sue dinamiche procederà di crisi in crisi, per cui, come dicevo prima,
l’affacciarsi sulla scena mondiale di nuove potenze, come la Cina, l’India, per altri versi il
Brasile, scombussolerà vecchi rapporti ormai consolidati: questo spingerà alle crisi, per cui a una
maggiore mobilità del proletariato a livello internazionale e globale, a crisi sempre più violente,
per cui guerre più o meno locali oppure più o meno generali. Questo può essere un terreno sul
quale l’agire delle avanguardie funziona da stimolo per una presa di coscienza della classe. Non
credo più, come negli anni ’70, in figure carismatiche attorno alle quali si ricompone la classe:
semmai si ricomporrà attorno a dinamiche sociali. Da questo punto di vista, per esempio, i flussi
migratori possono essere un enorme veicolo di proletarizzazione e di comunicazione a livello
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internazionale, ma ciò non vuol dire che l’immigrato diventerà la figura centrale.

- Negli anni ’70 si sviluppò un ampio dibattito sulla terziarizzazione, da alcuni vista come un
processo di proletarizzazione e da altri come un processo di cetomedizzazione:
tendenzialmente abbiamo visto un sostanziale verificarsi della prima lettura. Ad esempio, per
quanto riguarda il lavoro cosiddetto autonomo, vediamo come il formale possesso dei mezzi
di produzione sposta in realtà la centralità dell’attenzione direttamente sul discorso del
dominio; anche sull’autonomia, poi, viene giocato un grosso livello di mistificazione. Come
vedi, in un’ottica ricompositiva, questo tendenziale processo di proletarizzazione?

Secondo me c’è un limite: da una parte il capitale spinge queste figure verso una tendenziale
proletarizzazione, dall’altra ha però ancora degli spazi per gratificarle. Tutto sommato non si
muore di fame, mettiamola così: si è sfruttati, però comunque si lavora. Per cui il processo dalla
proletarizzazione alla presa di coscienza probabilmente richiede qualche passaggio ulteriore,
tanto è vero che ancora molti, che pure sono oggettivamente in condizioni di subordinazione al
modo di produzione capitalistico, vivono però nell’illusione dell’indipendenza, proprio perché il
capitale ha ancora margini di “privilegi” da poter spendere, almeno all’interno della metropoli
imperialista. Tuttavia, tendenzialmente queste figure saranno sempre di più spinte verso una
proletarizzazione e un peggioramento delle loro condizioni di vita e di lavoro. Ciò avverrà, da
una parte, per la necessità del capitale di controllare sempre più strettamente tutto il ciclo della
produzione, da quella materiale a quella immateriale, e dall’altra anche per le crisi, che
imporranno al capitale di ristrutturarsi continuamente e, quindi, di appesantire sempre di più le
condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori in generale.

LA COSTRUZIONE DELLA SOGGETTIVITA’ POLITICA ANTAGONISTA


- Cosa significa per te la categoria della soggettività? Qual è l’importanza che tu attribuisci al
discutere di questo nodo?

Io credo nel ruolo della soggettività come figura di avanguardia nei confronti della classe, credo
nella soggettività innanzitutto come memoria, stimolo al suo mantenimento. Penso che la
soggettività abbia il compito di approfondire sempre di più la propria preparazione teorica e
capacità di analisi per svolgere il ruolo, da una parte, di memoria e, dall’altra, di potenziale
avanguardia nel momento in cui le condizioni di crisi del modo di produzione capitalistico
dovessero metterci in una condizione di scontro di classe maturo a livello della messa in
discussione del potere capitalistico. Però, rispetto agli anni ’70, penso che sia da evitare qualsiasi
scorciatoia di tipo soggettivistico, quelle che allora ci hanno portato a misurarci su noi stessi e
non sulla maturità della classe e dello scontro di classe.

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INTERVISTA A DARIO CORBELLA – 28 MARZO 2000

- Che ruolo attribuisci alla militanza, soprattutto in un momento in cui molti parlano di una crisi,
della fine di un modello o addirittura della sua fine tout court?

Io credo che la militanza sia fondamentale, intesa sia come studio e approfondimento delle analisi
dei classici, sia come lettura attenta della realtà della diffusione del sistema capitalistico nel mondo,
ossia quello che passa sotto il termine di mondializzazione. E credo che sia fondamentale anche dal
punto di vista proprio della militanza, per cui dell’informazione, della contro-informazione e
dell’organizzazione capillare, per quanto possibile in una fase come quella che stiamo
attraversando, che è controrivoluzionaria, per cui con rapporti di forza estremamente sfavorevoli al
proletariato. Però il ruolo dell'avanguardia di classe e della parte più cosciente è quello di mantenere
la memoria e comunque di costruire l’organizzazione, anche in una fase di arretramento e di
debolezza.

- Parliamo del nodo dell’organizzazione, ripartendo e attualizzando l’analisi delle ricchezze e


dei limiti dei percorsi di cui hai fatto parte negli anni ’70. Molte volte quando si parla di
organizzazione non si guarda alla complessità e alla profondità di tale categoria, ma si pensa
(in maniera semplificatoria e distorta) alla banale riproposizione di vecchie forme e modelli
partitici.

Attualmente, nella rilettura che sto facendo io, anche rispetto a quello che dicevo la volta scorsa,
evitare e superare la visione soggettivistica della politica per me vuol dire anche rivedere il concetto
di organizzazione all’interno dei rapporti di forza complessivi che la classe sviluppa. Per cui, in
questo momento, per me organizzazione vuole appunto dire approfondimento teorico, studio, analisi
della situazione e lenta costruzione, ossia tessere quella tela di relazione all’interno dei soggetti più
coscienti. In questa fase porsi da una parte l’obiettivo del costruire adesso un’organizzazione, un
partito rivoluzionario, e dall’altra parte l’obiettivo di percorsi di lotta che vadano ad incidere nella
realtà sociale, rischia di essere fuorviante, perché in realtà non se ne ha la forza: allora si rischia di
percorrere ancora strade sostanzialmente di soggettivismo. Nelle esperienze che oggi guardo
(dall’esterno, nel senso che non le vivo in prima persona) mi sembra proprio di vedere un po’ la
ricerca spasmodica del fare qualcosa per stare all’interno delle presunte dinamiche sociali, ma come
forzatura soggettiva. Secondo me, invece, questo è assolutamente da evitare, nel senso che, come
dicevo la volta scorsa, quando si daranno le condizioni favorevoli alla costruzione di
un’organizzazione proletaria che si confronti con il potere di classe, con la borghesia, in quel
momento si porrà anche il problema della forma dell’organizzazione. Adesso, secondo me, è
prematuro.

- Bisogna però considerare il fatto che il capitale è riuscito a imporsi e a incidere così
profondamente sulla soggettività di classe, che quel sistema di culture, bisogni, comportamenti
appare completamente piegato e indirizzato all’interno della funzionalità dello sviluppo
capitalistico. Come pensi, dunque, che possa essere invertita questa tendenza? Non pensi che
sia fondamentale agire in questo senso?

Intanto io credo che ci sia bisogno di restare il più possibile legati ad una visione di classe delle
questioni. Quando si parla di soggettività, bisogna sempre cercare di riferirsi a quella di classe,
perché tutte quelle letture delle realtà sociali che passano per altre categorie, come, ad esempio, il
giovanilismo o le controculture, e che però in realtà prescindono da una lettura di classe della
società, portano a delle analisi sbagliate; per cui ci si costruisce un concetto di soggettività
d’avanguardia autoreferenziale, che in realtà poi non c’entra invece niente con le dinamiche di
classe che si danno realmente nella società. Da quel punto di vista io credo che il capitale stesso nel

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suo estendere il modo di produzione a tutto il mondo e estendere il suo sfruttamento su tutta la
società, su tutti i momenti della vita sociale (dalla produzione di beni e di merci alla riproduzione),
porti a emergere anche le contraddizioni. Non è la soggettività d’avanguardia che deve fare
emergere le contraddizioni, perché esse emergono automaticamente. Il problema dell’avanguardia
di classe è quello di indirizzare le risposte del proletariato a fronte delle contraddizioni che
emergono, ma non è nostro compito educare piuttosto che contrastare le dinamiche del capitale:
esse sono quelle che sono, il capitale stesso porta a galla le proprie contraddizioni e il compito
dell’avanguardia è quello di saperle sfruttare nel modo migliore.

- Le contraddizioni portate dal capitale e dal suo sviluppo creano molte volte dei conflitti che
però non sono antagonisti rispetto al sistema capitalistico: non rientrano dunque in un processo
di lotta di classe, di alterità rispetto al capitale, ma sono per lo più frutto di un bisogno, da
parte di individui o di gruppi, di ottenere determinati privilegi o forme di potere totalmente
inserite nelle logiche funzionali proprie di questo sistema.

Indubbiamente, soprattutto all’interno delle metropoli imperialiste, il capitale ha dei grossi margini
per poter corrompere il proletariato. Ieri stavo leggendo un articolo da una parte sulla ripresa della
sindacalizzazione negli Stati Uniti d’America e dall’altra sugli effetti della fusione tra gruppi nel
campo dell’automobile. La fusione tra Daymler Benz e Chrysler ha portato il fatto che adesso il
centro direzionale è a Stoccarda, per cui i sindacalisti americani devono andare lì a discutere con i
dirigenti. L’articolo riportava le parole di un sindacalista che diceva che è difficile sindacalizzare
una classe operaia che lavora alla Mercedes (non mi ricordo di quale stato degli Stati Uniti stesse
parlando), in quanto è difficile sindacalizzare un operaio che va tutte le mattine in fabbrica in
Mercedes. E’ ovvio che il capitale ha dei grossi margini. Guardiamo, per esempio, il ciclo di
espansione del capitalismo statunitense: sono dieci anni di continua espansione e crescita. Dunque,
il capitale ha grossi spazi per corrompere ampi settori di classe: il problema è che, per fare questo,
fa esplodere contraddizioni da altre parti. Comunque, l’estensione del modo di produzione
capitalistico porta, con velocità differenti, a livellare lo sviluppo capitalistico a livello mondiale, e
questo porterà indubbiamente a momenti di crisi: allora, in tali momenti, verrà meno tutta questa
possibilità di corrompere ampi settori di classe operaia e di proletariato nella metropoli imperialista;
a quel punto esplodono le contraddizioni. Ma le contraddizioni non possono esplodere adesso.
L’esempio che facevo prima degli operai della Mercedes è ovviamente un caso specifico, non vale
per tutta la classe operaia nordamericana; però, indubbiamente, non è secondo me possibile fare un
discorso contro-culturale, per fare capire ai lavoratori della Daymler-Chrysler che ci sono altri
modelli culturali. Non si tratta di un problema culturale: loro vivono in quella realtà e vanno a
lavorare con la Mercedes, e finché le vacche grasse vanno avanti la loro realtà sarà quella lì.
Quando le vacche grasse finiranno, a quel punto ci sarà il problema di quali contraddizioni
esploderanno e di come le avanguardie di classe saranno in grado di starci dentro e gestirle nel
modo migliore per andare verso il superamento del modo di produzione capitalistico.

- E’ però vero che i soggetti di classe che hanno espresso le punte avanzate delle lotte non erano
deterministicamente quelli che stavano peggio o i più colpiti da un punto di vista unicamente
economico.

Questo è vero. Però bisogna secondo me tenere presente che tutto il ciclo degli anni ’60 e ’70,
quello che ha dato vita al ‘68-’69 e poi alle lotte degli anni ’70, è stato un ciclo ancora all’interno
dell’espansione del capitalismo, ad esempio in Italia. E’ stata una fase del ciclo lungo che è partito
nel dopoguerra. E’ vero che la soggettività che ha espresso le lotte negli anni ’70 non era quella che
viveva più direttamente le contraddizioni più pesanti della classe; anzi, per molti aspetti, a livello
soggettivo, eravamo anche l'espressione di una piccola borghesia, non tanto del proletariato. Per
buona parte era così, si pensi anche a come sono venuti fuori i singoli soggetti: molti uscivano

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dall’università, da strati sicuramente non marginali del proletariato. D’altra parte mi viene da dire
che, tranne la rivoluzione bolscevica nel ’17, mai quelle del proletariato sono state lotte per mettere
in discussione il modo di produzione capitalistico. Alla fin fine, anche le lotte per le 8 ore
lavorative, o adesso per le 35 ore settimanali, o per la sicurezza, non sono lotte in antitesi al modo di
produzione capitalistico, ma per migliorare le proprie condizioni. Quindi, non ci vedo niente di
strano sul fatto che settori di classe lottino per le proprie condizioni di vita anche all’interno del
modo di produzione capitalistico e del suo sviluppo. Indubbiamente lo sviluppo capitalistico, dal
momento in cui sale alla ribalta la lotta di classe, è da leggere sempre in modo dialettico, per cui le
lotte del proletariato spingono avanti determinate richieste e il capitale, per rispondere ad esse, si
modernizza, si ristruttura, spinge avanti le forze produttive, le sviluppa: è un continuo rincorrersi, in
termini dialettici, non vedo niente di male in questo.

- Nella tua analisi delle esperienze degli anni ’70 avevi evidenziato un grosso limite nella
mancanza di radicamento, soprattutto in certi settori di classe. Come vedi il nodo del
radicamento, sia riferito all’analisi critica dei tuoi percorsi sia rispetto all’oggi?

Rispetto agli anni ’70 credo che vada riferito a quello che io dicevo essere il grosso limite di quei
movimenti, cioè l’esternità, in buona misura, ad un tessuto di classe reale. Questo non vuol dire che
molti compagni non abbiano anche fatto un percorso all’interno delle fabbriche, per cerare
avanguardie di classe dentro ad esse: ma il movimento in quanto tale era esterno a quella realtà e
non ne capiva le dinamiche. Pensavamo di essere avanguardie di una classe, ma questa andava per
conto suo, ancora all’interno di un ciclo di espansione capitalistico: noi invece credevamo ad una
possibile crisi rivoluzionaria in tempi brevi. E’ invece ovvio che la classe aveva le sue dinamiche e
andava per conto suo, eravamo noi che non avevamo capito, che fraintendevamo alcuni dati magari
anche presi dalla realtà, ma che non indicavano una possibilità di crisi rivoluzionaria. Nel ’68-‘69 e
poi negli anni ’70 c’era la teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto, per cui alcuni teorici
sostenevano che il capitale era ormai giunto a non si sa quali soglie di crisi, per cui tendenzialmente
crollava il saggio del profitto: evidentemente non era vero, il capitale aveva ancora amplissimi spazi
per manovrare, per aprire mercati e tutto quello che oggi chiamiamo globalizzazione, e che allora
non riuscivamo ancora a leggere.
Rispetto all’oggi internità, per me personalmente, vuol dire essere nel mio posto di lavoro,
all’interno di dinamiche anche lì di rapporti tra soggetti, tra proletari che si pongono il problema
della lettura e dello studio della realtà, capendo però che quella è la classe, non mi posso inventare
soggetti che non esistono. Oggi la classe è quella lì, anche quella corrotta dal capitale, quella che
magari ha due lavori o una soglia di benessere abbastanza buona: perché tutto sommato, almeno
all’interno della metropoli imperialista, i margini delle soglie di benessere o di relativo benessere ci
sono, per cui è inutile inventarsi una classe disposta a lottare su chissà che cosa quando in realtà
questa disponibilità non c’è.

- Affrontiamo il nodo della comunicazione e dei linguaggi, sempre mantenendo il doppio taglio di
analisi dei tuoi percorsi e di attualizzazione del discorso nell’oggi, soprattutto in un momento in
cui il nodo della comunicazione ha, in generale, assunto un peso grosso e nuovo.

Io credo che la comunicazione dipenda molto dai soggetti a cui ci si rivolge e da quello che si vuole
dire, nel senso che penso che alcuni strumenti di comunicazione servano per raggiungere
determinati soggetti che interessano e per dire alcune cose. Da questo punto di vista non credo che
le tecnologie moderne diano molti strumenti in più rispetto a quelle che usavamo negli anni ’70, e
che sono tuttora quelli che si possono usare. Sicuramente il computer è utile, perché più nessuno
ciclostila i volantini, ed è più comodo per impaginare un giornale o un bollettino. Però la
comunicazione è comunque interazione tra soggetti, per cui non credo che sia cambiato molto: il
giornale che si faceva negli anni ’70 lo si può fare ancora adesso, il volantino, il tazebao, il

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manifesto sono rimasti quelli. Secondo me c’è molta ideologia nel dire che oggi l’informatizzazione
pervade tutta la società, salvo che poi, come abbiamo visto anche recentemente al vertice di
Lisbona, saltano fuori i dati secondo cui in Italia è una percentuale minima quella delle famiglie
medie che hanno il computer o navigano su internet; e allora i governi europei si pongono il
problema dell’informatizzazione della società, perché essa in realtà non è avvenuta. Le cose che le
avanguardie di classe possono e vogliono dire alla classe, si possono dire benissimo anche
prescindendo da internet o dagli strumenti della tecnologia moderna, non ne vedo questa particolare
importanza. Anche perché poi le dinamiche reali, quelle sociali, interpersonali, di lotta, sono sempre
comunque fisiche, non possono essere virtuali. Penso, per esempio, all’Esercito Zapatista o a
Marcos che utilizzano il mezzo di internet per riuscire a mettersi in contatto con gli studenti
nordamericani, o con quelli europei, o con i lavoratori dell’Alfa Romeo: indubbiamente come cosa
è interessante, dà uno strumento in più, dopo di che nella Selva Lacandona ci sono loro e intorno ci
sta l’esercito messicano, da lì non si sfugge. In tempo reale puoi venire a sapere cosa sta
succedendo, dopo di che, però, tu sei qua e loro sono là; e allora lì si gioca ancora di nuovo tutto sui
rapporti di forza, le strategie internazionali, la corretta analisi dei rapporti di classe e via dicendo. E
internet può anche aiutare, ma io non credo che sia uno strumento molto più efficace di quelli che
avevamo già.

- Cosa ne pensi dello strumento dell’inchiesta, parola che molto spesso viene usata, ma poca ne
viene fatta e ancor meno ci si intende sui suoi significati?

E’ uno strumento sempre utilissimo. Al di là delle mode, io penso che chiunque faccia politica, bene
o male, nel piccolo o nel grande, opera una forma di inchiesta: nel momento in cui io mi approccio,
ad esempio, ai miei compagni di lavoro per capire che disponibilità hanno alla lotta, al dibattito,
all’approfondimento teorico, già nel mio piccolo opero un’inchiesta, nel senso che analizzo una
realtà e, per farlo, devo in qualche modo studiare, e l’inchiesta è uno strumento di studio. Se poi
l’inchiesta, intesa come si intendeva negli anni ’70, è usata bene, è anche uno strumento di
intervento politico, nel senso che nel momento in cui ti metti in relazione con altri soggetti, con altri
proletari o con operai in una fabbrica, già ponendo quelle domande e studiando quella realtà
interagisci con essa. E’ un po’ come nella fisica moderna: dalla teoria dei quanti in avanti si dice
che non c’è più un esperimento assolutamente perfetto in sé, perché nel momento in cui si analizza
il comportamento di una particella già se ne modifica il comportamento stesso. Io penso che
l’inchiesta abbia la stessa funzione.

- Se tu dovessi segnalare dei libri e degli autori da leggere e altri da non leggere, chi indicheresti
e perché?

Come dicevo all’inizio dell’intervista, io sto riavvicinandomi molto ai classici del marxismo e del
leninismo. Credo che quelli non siano mai letti abbastanza e che invece li abbiamo dati molto per
scontati, nel senso che magari uno li leggeva, spiegava agli altri e tutti pensavamo di aver capito il
capitale. Rileggere i classici del marxismo può sembrare una sciocchezza, uno può chiedersi il
significato che abbia nel 2000; secondo me, invece, è molto utile per capire anche quello che sta
succedendo oggi e per capire l’attualità sia delle analisi fatte da Marx e da Engels, sia anche proprio
il metodo di analisi, sempre basato sulla dialettica e sul materialismo dialettico. Io penso che
rileggere i classici non sia mai abbastanza.

- Ti viene invece in mente qualcuno che, in questo senso, non indicheresti?

No, non credo che da questo punto di vista sia possibile evidenziare un soggetto o una corrente di
pensiero.

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INTERVISTA A VALERIO CRUGNOLA – 5 FEBBRAIO 2000

PRESENTAZIONE DEL SOGGETTO:


- percorso di formazione politica e successivi passaggi
- percorso e collocazione negli anni ’70 ed eventuale appartenenza ad ambiti politici organizzati
- eventuali lavori teorici fatti (libri, riviste, documenti…)
- il percorso successivo
- il percorso attuale.

Nasco da una famiglia antifascista, politicizzata a sinistra anche se non comunista: i miei genitori
erano vicini al Partito Socialista. Mio padre è stato in carcere sotto il fascismo, credo che sia stato il
primo processo politico che ci fosse stato a Varese, nel ’42, ancora prima della Resistenza e della
caduta del regime. Quindi ho una formazione anche laica dal punto di vista filosofico-culturale. I
miei due fratelli, più grandi di me di 12 e di 10 anni, e mia cognata (la moglie di mio fratello),
quando ero giovane militavano nello PSIUP, una formazione che, almeno per alcuni aspetti, si
collocava alla sinistra del PCI. Quindi ero già politicizzato prima del ’68: avevo qualche esperienza
di militanza giovanile nel campo della scuola. In qualche modo ero già formato o comunque
politicamente interessato ed orientato. Ho fatto il ’68 milanese, anche con Carlo Formenti ed in
particolare con Romano Màdera. Poi, sempre con Romano, a Varese e a Milano abbiamo dato vita
al Gruppo Gramsci. Successivamente, nel giugno del ’70, sono passato a Il Manifesto. Diciamo che
sono stato politicamente attivo principalmente a Varese, ma anche a Milano, fino alla fine del ’69.
All’inizio del ’70 mi sono rotto una gamba e nel marzo dello stesso anno è morto mio padre. Questa
cosa ha cambiato radicalmente la mia vita: io ho dovuto iniziare a lavorare, mia madre ha avuto una
serie di grossi problemi personali ad accettare la morte di mio padre ed anche un certo sentimento di
difficoltà rispetto al fatto che io fossi l’ultimo figlio di genitori relativamente anziani, con gli altri
due figli maggiori decisamente fuori casa. Quindi sono stato in qualche maniera risucchiato sia a
Varese, come luogo biografico, sia nel cercarmi un lavoro: poi ho fatto l’insegnante per molti anni e
lo faccio tuttora, anche se svolgo anche qualche altra attività. Dunque questo evento in qualche
misura ha condizionato le mie scelte. Il mio orientamento originario, prima della politica intesa in
senso forte, era la psicoanalisi, ed era la ragione per cui mi ero iscritto a filosofia. Mi interessava
questo settore: siccome però non sopportavo la dimensione medica (il corpo, il sangue, i cadaveri e
via dicendo), l’aspetto della psichiatria non potevo affrontarlo e quindi mi sono orientato a filosofia
con questo intento. Poi di fatto il ’68 ha imposto una centralizzazione degli interessi nella
dimensione della teoria politica o comunque di riflessione di militanza praticamente a tempo pieno
in quegli anni: la stessa cosa era per Màdera e, per quello che ricordo, anche per Formenti. Si
viveva tutti con otto ore da dedicare a studi molto intensi, altre otto da dedicare alla politica in
maniera altrettanto intensa e quel poco che restava per lavarsi, mangiare, dormire o magari uscire
con una ragazza piuttosto che andare in giro con gli amici o vedere un film. Quindi si trattava di una
vita decisamente dispendiosa che mi ha concentrato in maniera monopolistica fino al ’72, anno in
cui sono riuscito a laurearmi: ho fatto una tesi su Gramsci (ho avuto anche una borsa di studio
all’Istituto Gramsci) con una particolare attenzione rispetto alle problematiche consigliari. Questo
era un tema che in qualche misura mi aveva sempre interessato e che mi interessa ancora: anche se,
devo dire la verità, la mia riflessione su questi argomenti, anche quelli del vostro documento, si è
interrotta molti anni fa. Quindi fin dal principio manifesto la mia grossa difficoltà a interagire, temo
di avere pochi contributi da darvi in senso positivo, posso dare dei contributi in senso critico,
sempre partendo da una dimensione di amicalità o comunque di non ostilità rispetto a questo genere
di ricerca, anche se mi pongo come distante.
Nella primavera del ’70 ho dunque aderito a Il Manifesto, anche a partire da legami che avevo con
quella che allora era la sinistra sindacale, per la quale ho lavorato per diversi anni. Ho seguito il
centro di ricerca della CGIL, facendo appunto una serie di ricerche sia a Varese sia in provincia, ed
anche a Milano (in via Fontana), proprio sull’organizzazione del lavoro ed in qualche misura sui

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temi dei contropoteri dei lavoratori organizzati a partire dai consigli di fabbrica, che allora
nascevano. Mi occupavo del tema dei delegati, che in qualche modo avevo incontrato proprio a
partire dalla prima esperienza del Gruppo Gramsci milanese e che avevo sviluppato con una
maggiore vicinanza non tanto alle ali più radicali, che erano quelle che stavano alla CISL, ma nelle
aree più attente anche alla istituzionalizzazione in qualche modo di questi movimenti e che erano
poi la sinistra sindacale della CGIL. Non avendo io nessuna formazione di ordine cattolico non ho
mai avuto una particolare simpatia per la CISL; mi sono comunque sempre sentito di abitare in uno
spazio per certi aspetti più prossimo alla tradizione istituzionale delle sinistre, se non altro perché lì
dentro magari c’erano meno fermenti intellettuali però più patrimonio, storia, memoria, cultura
politica, e quindi si trattava anche, per così dire, di un fronte generazionale diverso. Ho sempre
molto patito anche l’aspetto giovanilistico di questi movimenti, comunque l’esclusiva base
generazionale che mi sembrava in qualche modo rendere più opaco il messaggio politico, con il
pericolo di trasformare sempre questi fenomeni in qualcosa di minoritario. Non ho mai avuto
passioni per il minoritarismo, per la testimonialità, ho un sentimento di ostilità verso questo ordine
di logica, che mi sembra invece che in qualche misura si ritrovi un po’ nel vostro documento,
magari non necessariamente intenzionalmente; anche se a volte, e lo so per primo io, è bene e giusto
accettare di essere minoranza ed attrezzarsi a resistere in questa condizione. Mi riferisco quindi al
minoritarismo come spirito, la logica di testimonianza come pura manifestazione di un’identità di
sé, che però risulta sterile, viene fatta per se stessi: tutto quello che facciamo per noi stessi è
legittimo, non voglio sindacare questo, però se vogliamo essere anche politici dobbiamo pensare al
problema di una qualche fecondità dell’agire politico: se questo resta sterile non serve ad una prassi
di trasformazione del mondo, e se questa non si fa con i mezzi concretamente possibili in una data
circostanza storica ciò diventa un lavoro fondamentalmente inutile, ed allora è meglio dirigersi su
altre strade, impegnare le proprie energie altrove.
Io ho vissuto negli anni ’70 in una cultura iper-politicista, venivo inoltre da una famiglia
politicizzata: ho sempre avuto un’idea molto alta della politica. Oggi non ce l’ho più: questo non
solo perché la politica è cambiata, è in un certo modo degenerata; la politica attuale non mi interessa
più (mi ha interessato per un certo momento a livello locale, cosa di cui mi sono anche “pentito”,
ma ne parleremo più avanti). Ho dunque avuto negli anni ’70 questa idea alta della politica, come se
fosse il centro del mondo e la portatrice di un punto di vista generale superiore su cui potevano
convergere contributi etici e scientifici di altri ambiti e campi disciplinari; quindi come se il sale del
mondo e la sua via cruciale di trasformazione passasse attraverso la politica. Di questo non ne sono
più convinto. Prima di tutto perché mi sono reso conto che questa centralità non c’è, e non c’è
innanzi tutto nell’ordinamento sociale, soprattutto oggi che la forma dello Stato ha cambiato
sostanzialmente natura. La democrazia come istituzione, alla quale io credo profondamente, è
qualche cosa che si è prosciugata, tende a diventare fortemente un guscio vuoto o comunque un
terreno di dominio e di puro esercizio del consenso, di tecnica, ma non è più in grado di esprimere
contenuti forti e nemmeno grandi ambiti di trasformazione. Questo non è imputabile a nessuno,
sono processi in atto che attraversano lungamente il ‘900: mi sembra che siamo giunti ad una sorta
di esaurimento della forma politica classica e in questo spazio o ci si rattoppa a cercare di far
qualcosa a livello di moderatismo politico, come fanno i DS provando in qualche modo a contenere,
oppure mi pare che, se vogliamo trovare qualcosa di fondamentale che riapra delle situazioni di
conflitto rispetto al mondo capitalistico e alle sue logiche, forse non è tanto nella preminenza della
politicità che dobbiamo cercare. In questa direzione vedo strade chiuse: se poi mi si chiede dove
cercare sinceramente non lo so dire. Mi sembra di essere in una sorta di transizione nel buio, di
attraversare da tanto tempo una specie di deserto, come poteva accadere alle figure della Bibbia: ho
il senso di un esodo biblico in cui sai bene che porti con te nello zaino, o sul cammello, poche cose
e forse neanche tanto quelle indispensabili, la tua personale sopravvivenza quanto semmai quella
delle generazioni successive; però non sai bene dove stai andando, né quale sia la meta, né in fondo
perché porti con te quelle cose, se non perché tu attribuisci loro un segno ed un valore. Oltre
all’elemento di valore autobiografico mi sembra di fare molta fatica a dire se questo ha ancora un

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qualche intrinseco valore oggettivo che gli altri facilmente riconoscano, al di là di miti e liturgie alle
quali non sono interessato proprio perché mi pongo in una dimensione irreligiosa e pagana in
maniera completa rispetto alla politica: ivi compreso concetti come capitale piuttosto che classe, i
quali appunto non mi interessano come segnali forti di ordine ontologico, semmai come
soggettivazioni o come un possibile ordine di ricerca; ma non credo più che abbiano una densità
ontologica e uno spessore concettuale forte che ci possa fornire una bussola o una guida in questo
andare nel deserto. Tra l’altro in parte le piste che possiamo seguire non sono determinabili da noi
ma da macro-processi nei quali non siamo neanche un minimo ingranaggio: alludo ai processi in
atto di mondializzazione e di globalizzazione, dove possiamo forse immaginare una ripresa di
conflittualità che venga anche da Sud o comunque nei paesi nei quali è invece in atto un processo di
formazione di una base industriale. Si pensi ad esempio alla Cina, che comunque ha una tradizione
forte, se non altro oggettivata dalla rivoluzione, di egualitarismo, mentre quello in atto è un
processo di formazione di classi molto accelerato e in un certo senso violento: questo rappresenta in
qualche modo un conflitto che non potrà che essere un macro-conflitto, visto che si tratta di
1.200.000.000 persone. Non è come il conflitto che poteva esserci a Torino o ad Arese: si giocano
partite e modelli per tutta una parte dell’Asia. Rispetto a questi fenomeni io, da esterno (da lontano
o pur andandoci a guardare), penso che le nostre conoscenze siano pari a zero. Aprendo una
parentesi, internazionalismo è un’altra parola che non mi piace, non l’ho mai sentita dotata di molta
forza, anche perché il quadro politico in cui abbiamo operato per lungo tempo era poi quello degli
Stati e dei riferimenti nazionali. Già tutta la storia del ‘900 dimostrava che la classe operaia in fondo
aveva una nazione, non era vero che non avesse un sentire nazionale; magari questo è pure stato un
forte elemento di ostacolo, ma è anche in un certo senso ambivalentemente stato un elemento di
forza: si pensi al ruolo che la classe operaia ha svolto nella Resistenza proprio in qualche modo
come classe nazionale. Per quanto io non abbia nessuna simpatia per il togliattismo, mi sembra che
questo centrasse questo tipo di prospettiva.
Negli anni ’70 il discorso sulla politica forse era un’illusione, comunque sia ci collocavamo in un
orizzonte di centralità della dimensione politica, sia nello scontro con lo Stato ma anche
nell’intenzione di permeare la sua azione. Secondo me sarebbe stato molto volgare e pacchiano
pensare ad una rivoluzione come insurrezione, conquista del potere, nel senso leninista: erano
argomenti che non avevano alcun senso e dai quali per mia fortuna sono sempre stato abbastanza
distante. Però mi sembrava che ci fosse data questa opportunità di usare la leva della politica per
una trasformazione in senso forte della società. Ho creduto che fosse possibile il discorso che faceva
Il Manifesto, soprattutto tra il ’72 e il ’75, che l’Italia potesse entrare dentro ad una società di
transizione; questo però richiedeva dall’altra parte (e questa è stata un’intuizione geniale che ha
avuto Il Manifesto) che anche i paesi dell’Est tornassero ad essere società in transizione e dunque si
sbloccasse una critica radicale dell’esperienza stalinista e dei comunismi reali. Io ho aderito a Il
Manifesto a partire dal famoso editoriale del primo numero della rivista intitolato Praga è sola: tra
l’altro devo dire che trovo allucinante che invece oggi Il Manifesto si muova in qualche modo
dentro ad una logica di nostalgia del comunismo realmente esistente. Nessuna sinistra può rinascere
in Italia, in Europa e nel mondo se non attraverso una presa di distanza radicale di tutta l’esperienza
sovietica e maoista, per non parlare di peggio, come ad esempio Pol Pot, che non penso nemmeno
che c’entri molto con queste esperienze. I regimi totalitari hanno prosciugato qualunque idea di
società alternativa. Quindi si sconta inevitabilmente questa povertà: io sono sempre stato anti-
sovietico, estraneo a questa mitizzazione o a qualunque altra, non sono mai stato filo-castrista. Ho
sempre pensato che dall’altra parte ci fossero altrettanti inferni, anche perché li ho visti da subito. Io
ho avuto un cugino che era legato al PCI, per mestiere faceva l’import-export per il partito ed aveva
sposato una romena: per due volte (nell’estate del ’68 e poi nel ’69) ero stato con lui in Romania e
mi ero subito reso conto di qual era l’aria che tirava, poi nel ’70 sono anche stato in Cecoslovacchia.
Bastava avere gli occhi: se uno va con l’incantesimo di cercare quello che sogna di vedere lo trova
dappertutto, dopo di che a quel punto la realtà diventa sempre appagante. Per cui non sono mai stato
persuaso che l’idea di una società di transizione potesse assumere quei modelli: concordavo dunque

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con questa tesi molto forte de Il Manifesto, oggi dimenticata anche perché oggettivamente non c’è
più un referente dall’altra parte, le cose sono andate in tutt’altra direzione, siamo stati sconfitti sia là
sia qua. In quei tempi la tesi sosteneva che l’unica carta che poteva essere giocata era quella di una
duplice e convergente transizione che tenesse fondamentalmente anche conto di una dimensione di
democratizzazione sostanziale delle due società e che restituisse in qualche modo una centralità
all’elemento del lavoro come perno fondamentale di trasformazione attiva della società. Questa
ispirazione la porto ancora con me, penso che sia un elemento costante, anche se non lo frequento
più, magari perché i miei interessi si sono spostati altrove: ma se questa evidenza concettuale
tornasse fuori in qualche modo ci sarei, perché sicuramente avrebbe per me un grande richiamo.
Non sempre però mi sembra di vedere una ricerca in questo senso nell’ambito della politica: in
fondo quello che mi ha interessato all’inizio degli anni ’70, con la tesi di laurea, l’esperienza di
militanza ne Il Manifesto ed il lavoro nel sindacato, ruotava intorno a questo tema, cioè allo stesso
tempo l’emancipazione del lavoro e il lavoro come forza emancipatrice. La famosa frase di Bobbio
(che a dire la verità ho scoperto un po’ dopo), “la democrazia si ferma ai limiti della fabbrica”, mi
sembra vera: ho sempre pensato che ad essere cruciale fosse un processo di estensione della
democrazia, al di là dei suoi limiti, e che la cosa importante fosse un trasferimento di poteri
decisionali e una socializzazione delle capacità e delle possibilità di decidere, dalle macro-decisioni
alle micro-decisioni, al governo in qualche modo dell’economia, come trasferimento di poteri alle
classi lavoratrici anziché all’elemento del capitale. Ripeto che questa è una dimensione che mi
interessa ancora perché, al di là di tutte le grandi trasformazioni che sono intercorse nelle strutture
produttive, nell’organizzazione sociale, nello Stato, nei processi di involuzione della democrazia,
questa resta la sfida cruciale delle società occidentali. E’ un passaggio difficile, però non ne vedo
altri, visto che i processi rivoluzionari e di sovversione sociale non hanno strada, comunque sono
consumati o non hanno mai trovato una base di appoggio sostanziale nelle società occidentali
evolute: in fondo le rivoluzioni sono avvenute in paesi che erano sull’orlo di una catastrofe, come
estremi tentativi di salvare un paese che non aveva altre alternative. Sono state le guerre a favorire
le rivoluzioni, in condizioni ordinarie questa via è chiusa e non oggi o dal capitalismo: è chiusa
perché non c’è oggettivamente, qualunque sforzo volontaristico va incontro ad un’impotenza.

- Hai prima parlato della tua vicinanza alla sinistra sindacale. All’interno del Gruppo Gramsci
molti erano addirittura delegati sindacali, magari nella CISL.

La grande maggioranza del Gruppo Gramsci lavorava vicino alla CISL. Io comunque, per tutto il
tempo in cui sono stato nel Gruppo Gramsci, mi sono occupato fondamentalmente di studenti e di
rapporti politici, in una sorta di divisione del lavoro: una promozione del movimento degli studenti,
direi con dei buoni risultati per allora, mentre oggi il tema degli studenti mi vedrebbe molto
perplesso, sul discorso della formazione parleremo poi in seguito.
Per tornare all’appartenenza ad ambiti politici organizzati, quando nel ’75 c’è stata la prima
alleanza con Avanguardia Operaia e poi nel ’76 con Lotta Continua, ho lasciato insieme con altri il
PDUP, di cui diciamo che appartenevo alla corrente de Il Manifesto, e ho cessato abbastanza
verticalmente il rapporto con la politica attiva. Il Manifesto l’ho sempre letto e lo leggo ancora,
anche se con sempre meno convinzione, però non ho più fatto politica: sono stato in qualche modo
elettoralmente vicino al PCI della fine degli anni ’70. Anche se non ho mai condiviso il
compromesso storico, ho tuttavia sempre avuto una certa ammirazione per la figura di Berlinguer:
comunque mi sembrava che lì ci fosse un nucleo forte di tenuta, che poi invece si è dissolto
abbastanza in fretta. Ho amato molto il Berlinguer operaio di Torino del 1980, con il giornale
“siamo qui”, che ben sapeva che probabilmente quel tipo di lotta alla Fiat era destinata ad essere
sconfitta, che le persone che doveva difendere conducevano una lotta radicale ma in verità di
retroguardia, che in fondo le posizioni anche abbastanza estreme non corrispondevano alla sua
identità politica: ma lo faceva proprio perché comunque quella era la collocazione, la radice storica
del partito. Questa figura mi è sempre piaciuta in questo senso, ho avuto un’ammirazione

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spontanea, anche pre-politica in un certo modo, comunque di una difesa identitaria che non era
tanto quella dell’identità comunista, rispetto alla quale Brelinguer avrebbe potuto fare molto di più:
quella che chiamava la spinta propulsiva della rivoluzione russa era definitivamente finita nel ’56,
non c’era più niente da fare, avrebbe dovuto avere molto più coraggio prima anziché restare
subordinato ai consensi di Cossutta o di qualche altro vecchio stalinista, gli sarebbe decisamente
convenuto sbarazzarsi di questi rottami che ancora sussistono in certi pezzi della sinistra. Quello
che mi piaceva era un’altra cosa, questo senso forte del lavoro e del valore emancipativo dei suoi
diritti: sembrava che fosse possibile una tenuta di questo elemento insieme classista e nazionale del
PCI. Il Partito Comunista, per quanto avesse molti elementi ambigui, poteva tenere sia sul piano
democratico, cioè di una tenuta delle istituzioni democratiche del paese, sia nello stesso tempo con
una capacità di promuovere un’azione riformatrice di fondo nella società e con uno spostamento a
favore delle classi lavoratrici in senso sostanziale. E’ una cosa che poi non è avvenuta, ma mi
sembrava che ci fosse questo indirizzo, per cui non dico di avere simpatizzato in senso aperto però
sono stato a guardare e, se dovevo riferirmi a qualche cosa, era quel tipo di sinistra del PCI che
osservavo per vedere se c’erano delle evoluzioni, compreso l’ingraismo, almeno in una certa epoca.
Ho continuato comunque a lavorare con il movimento sindacale fino all’82-’83, sempre dentro
all’ipotesi originaria, anche se il sindacato perdeva sempre più vitalità e diventava sempre più
burocratico: infatti me ne sono andato proprio per uno scontro con uno di questi burocrati che un
anno dopo ha rubato la cassa e si è venduto al padronato, e oggi gira con mercedes. Però le
committenze che venivano fuori erano di altra natura, riguardavano cioè la storia del movimento
operaio più che la ricerca a caldo dei processi produttivi, cosa di cui invece mi ero occupato nella
prima metà degli anni ’70. Questa cosa ha sortito anche alcune pubblicazioni, una sulla storia del
movimento sindacale: il libro si chiama “La sindacalizzazione difficile”, era edito da Vangelista,
oggi non si trova più. Si trattava di un percorso nella formazione di una soggettività all’interno di
una classe di recente formazione, che aveva una base contadina in loco più una base di
immigrazione. Era un libro interessante, è stato anche valutato positivamente all’esterno, da storici
dell’economia o dell’industria.
Smesso questo, ho fatto per un certo numero di anni il marito: nell’85, anno in cui ho divorziato, le
cose sono cambiate, perché ho ritrovato con Romano Màdera e Carlo Formenti una pista più legata
alla ricerca autobiografica, ed è un lavoro che facciamo ancora: ciò ha dato vita ad un gruppo di
persone che si raccontano la loro esperienza autobiografica senza nessuna finalità di immediatezza,
è semplicemente un lavoro fatto per sé e su di sé, però senza perdere in questa ricerca la dimensione
dell’alterità, la dimensione collettiva o quanto meno del gruppo, dunque del noi. Quindi l’ambito
della ricerca mia, ma anche di Màdera e Formenti, è andata in questa direzione, cercando in qualche
misura una riflessione che riguardasse più che altro lo stile di vita, le modalità in cui noi spendiamo
l’esistenza, non tanto nella loro politicità esterna, ma in una sorta di intrinseca politicità, nel senso
più lato del termine. Ciò non riguarda né lo Stato né i poteri ma riguarda propriamente una ricerca
di un’alternativa di esistenza che fuoriesca dai moduli inaccettabili del mondo capitalistico, per il
quale nessuno di noi è minimamente portato o attratto: mi piacerebbe guadagnare di più per
comprare un maggior numero di dischi, di libri o per viaggiare, ma al di là dell’esigenza di un
numero maggiore di beni strumentali conformemente ai miei bisogni, non ho nessun interesse per
questo ordine di vita, lo trovo assolutamente privo di fascino, al di là del peso costrittivo che poi
invece tutto questo ha come pesante coazione e negazione della vita stessa. E’ forse questo il centro
contestativo e antagonistico su cui io porterei poi la riflessione come contributo “propositivo”.
Nello steso tempo la seconda metà degli anni ’80 erano quelli imperanti del craxismo, poi di
Tangentopoli, l’impantanamento radicale del PCI. Ho fatto una scelta molto controvoglia, dicendolo
anche apertamente e pubblicamente, e questo anche Romano Màdera l’ha fatto, è stata una
decisione che in qualche maniera avevamo preso insieme: abbiamo aderito a DP. Questo non perché
DP ci piacesse, anzi devo dire che mi era proprio estranea, mi sembrava anzi rinsecchita, una forza
politica morta: ma avevo bisogno di testimoniare con qualcuno che io non ce la facevo più, mi
sembrava di avere una tomba addosso, mi sentivo fortemente schiacciato da un regime

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particolarmente oppressivo e con una sinistra tradizionale ormai chiusa in un’impotenza radicale,
pur avendo ancora il 30% dei voti. Per cui mi sembrava di avere bisogno di uno spazio diverso dove
poter manifestare il mio essere contro: non mi interessava il contenuto e il progetto, che mi erano
estranei, ma la possibilità di raggiungere determinati fini concreti. Ormai ero giunto alla
convinzione, e ce l’ho tuttora, che in fondo le organizzazioni politiche non possono essere strumenti
totali e globali: la politica può essere come un autobus su cui posso salire da qui a là perché mi
interessa la data cosa, che interessa anche alle altre persone che salgono su questo autobus. Con
queste persone possiamo dunque andare fino a là insieme, non pretendo di avere altro: se uno poi
vuole avere di più io tollero quel di più che a me non interessa e l’altro può tollerare quel di meno
che io non voglio metterci, o un altro di più che non c’entra assolutamente nulla. Ero insomma
arrivato ad un’idea strumentale, di non starci nell’adesione ma, siccome mi interessava un progetto
più piccolo ma forse più utile, non me ne fregava niente, non avevo un’onorabilità per cui dovevo
dire sono stato in DP o in un’altra organizzazione, cosa che ritengo poverissima, arida, scarsissima.
Anzi ciò potrebbe essere in un certo senso un esercizio di mortificazione, visto che tanto il mondo ci
chiede di essere mortificati, un sacrificio identitario, tanto non è possibile che io esterni e rovesci
nel mondo tutta la dimensione della mia soggettività: questo vale per tutto, dal rapporto amoroso a
qualunque altra dimensione, la ricerca, la teoria, la vita ma anche la politica. Accettando quindi
questo scarto e questa limitatezza del proprio fare (che in qualche misura inerisce all’esistenza), un
rapporto puramente strumentale è accettabile anche con chi non ti piace al 100%. Quindi
considerando non il lungo periodo ma l’immediato, sentivo la necessità di rompere quell’orizzonte
estremamente stagnante, se non altro testimoniando nella città dove vivevo una contrapposizione
forte rispetto a quell’involuzione e degenerazione della politica. Quest’esperienza si è chiusa, anche
perché DP si è sciolta, è nato il processo di sconvolgimento dell’89, con la Bolognina e tutto il
resto, sono dunque intervenuti tutta una serie di mutamenti. Nel ’90 ho cominciato a interessarmi
nuovamente alla politica locale: sono stato candidato al consiglio comunale per il PCI, rischiando di
essere eletto. La cosa mi lusingava per certi aspetti (anche se per altri no), in quanto mio padre era
stato assessore dopo la Liberazione, mio fratello era stato nel consiglio comunale, mio cognato è
stato a lungo assessore alla cultura, il fratello del nonno di mio padre era stato consigliere socialista
all’inizio del ‘900: io ero l’unico elemento della famiglia che non ero arrivato in questo consiglio
comunale! C’era insomma questa linea di impegno nella città che mi gratificava. Pochi giorni prima
delle elezioni ho avuto un infarto finendo in coma, quindi le cose sono andate in altro modo.
Nell’inverno del ’92 era poi nata una lista che aveva il nome La Rete, che sembrava essere in
qualche modo un fenomeno nuovo, un po’ fuori dagli schemi, meno ideologico: insomma, un
autobus più fruibile. C’erano molti miei carissimi amici che avevano promosso questa lista, persone
di grande valore sul piano umano, che magari venivano anche loro da Il Manifesto, che avevano
fatto esperienze abbastanza vicine alle mie, se non altro generazionalmente; c’erano poi cattolici ed
ex-comunisti molto stimabili, altre persone che magari non avevano avuto nessun impatto con la
politica, e c’erano molti giovani. Questa lista prese quasi il 6%: io vi ho aderito, anche se non mi
sono candidato, e l’ho sostenuta fino a che questa esperienza non si è rapidamente involuta, a quel
punto me ne sono andato.
Tutto ciò sempre con una logica localista. Sono dunque stato attratto da una duplice prospettiva. Da
una parte mi interessa il globale, perché alla fine degli anni ’80 ho iniziato ad occuparmi di realtà
del Terzo Mondo, ho iniziato a viaggiare in questi paesi (cosa che ho fatto soprattutto tra il ’92 e il
’97): sono stato in molti paesi africani, in Asia (Nepal, India del nord). Ho iniziato a lavorare con
alcuni organismi non governativi, anche qui sempre con la logica di autobus: io non sono né di
Mani Tese, né dei Fratelli dell’Uomo né del Coi, però queste organizzazioni per le quali lavoro,
oltre ad offrirmi qualche opportunità professionale, comunque operano per uno spostamento
dell’asse di giustizia nei rapporti tra Nord e Sud del mondo. Questa dimensione mi sembra cruciale,
sia per un processo di ripartenza possibile di una domanda di maggiore equità globale sia perché
forse è da lì che possono anche venire alternative per noi, perché nel momento in cui i paesi in via
di sviluppo vorranno ottenere una fetta maggiore della torta anziché avere meno che le briciole,

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anche il nostro stesso sviluppo e la nostra stessa ricchezza dovranno essere poste in crisi. Il mio
timore naturalmente è che questo comporti una chiusura corporativa del mondo occidentale in una
difesa della ricchezza, però questa è la grande partita dentro alla quale tutte le altre vanno situate, se
non altro per la dimensione quantitativa che riguarda un rapporto di persone di 1 a 4. Mi sembra che
nel mondo ci sia una dualizzazione abbastanza forte, anche se questo naturalmente passa attraverso
grossissime stratificazioni, elementi identitari, di ordine nazionale, religioso e culturale molto
diversi. Il peso dei regimi politici è inoltre considerevole: l’Africa ha avuto dei pessimi regimi, la
Cina di Deng è invece stata capace di governare un processo di riforme. Esiste quindi una
specificità delle politiche di cui bisogna tener conto. Questo dunque non consente di mettere
insieme il povero ghanese che vive vendendo limoni di pessima qualità con il contadino musulmano
di un altro paese: non c’è una possibilità di unificazione a questo livello o comunque è facile
enunciare che la politica deve essere globale, poi farla è tutta un’altra cosa. Però mi sembra che
queste organizzazioni, pur con i loro limiti e le loro modestie, abbiano, come me, poche pretese
rispetto al fare e invece forti esigenze sul piano della ricerca intellettuale, sapendo però che quello
che ricerchiamo non solo non lo vedrò io ma forse non lo vedranno neanche i nostri nipoti. Quindi
c’è questa ricerca, mentre nella dimensione del fare è anche possibile ridurre le pretese, purché in
cambio ci sia una maggiore domanda di efficacia: pretendo cioè che, laddove voglio agire, possa
farlo anche più limitatamente, nel locale, pensando in qualche modo globalmente. Mi scuso per
questa frase un po’ imbecille, “pensare globalmente, agire localmente”, ma è abbastanza vera,
comunque ha una sua autenticità minima. Quindi mi piace spendermi in queste cose, che non hanno
niente di direttamente militante: ho fatto per queste organizzazioni delle attività, delle
pubblicazioni, anche due cd-rom per Mani Tese (un terzo lo sto facendo); quindi sia nel campo
della nuova comunicazione multimediale sia in quello più tradizionale. Oltre al mio lavoro di
professore di filosofia, faccio per queste organizzazioni anche corsi di aggiornamento e di
formazione, inclusa quella nell’ambito delle scuole, degli studenti, dei giovani. Questa cosa in
verità risulta sempre molto difficile perché tutte le volte che mi è capitato di andare a parlare nelle
scuole ho sempre visto una grande ignoranza: magari a molti giovani piace il sub-comandante
Marcos, che a me dice meno che zero, in quanto mi sembra già un’esperienza decotta e vecchia in
partenza, del tutto improduttiva; mentre invece al di là di un generico solidarismo c’è poco dal
punto di vista di esperienze dell’altro. La capacità dei giovani ad adattarsi ad un mondo globale mi
sembra che sia più scarsa della mia. Al di là di curiosità o magari della facilità che oggi si ha nel
contattare uno di Pechino in tre secondi attraverso internet, mi sembra che sia molto difficile
trasformare i buoni sentimenti possibili. La maggioranza di noi ha cattivi sentimenti, sono
prevalenti quelli egoistici o comunque di chiusura. In ogni caso i sentimenti contano poco, non sono
di per sé molto politici, o comunque potrebbero essere un terreno per: ma oggi come oggi trovo
anche i buoni sentimenti estremamente sterili. C’è bisogno di una maggiore dimensione di
conoscenza e anche di razionalità, cosa che invece non vedo assolutamente assolta.
Mentre alla fine degli anni ’80 ho partecipato ad alcune riviste come Marx Centouno, su argomenti
come quello del nascente fenomeno leghista, successivamente ho decisamente spostato il mio
campo di interesse fuori dall’Italia, come terreno osservativo mi interessano più le problematiche
dei paesi africani, che mi hanno in qualche misura coinvolto. Ciò se non altro perché mi sembra di
vivere comunque l’esperienza dell’Africa fatta non da turista becero, quello che va con “Avventure
nel mondo” a fare dei safari e fa le fotografie agli uomini anziché agli elefanti, o agli uni e agli altri
trattandoli tutti e due nello stesso modo, e poi torna a casa per fare vedere le foto agli amici. Io non
faccio questo genere di turismo, ho sempre cercato di vedere persone che mi potessero introdurre
dentro alla realtà sociale di questi paesi, o comunque vado con questa intenzione osservativa, di
vedere l’agire degli uomini in queste dimensioni di miseria estrema e di forte disgregazione tanto
nel mondo rurale come in quello urbano. In questi contesti la politica per ora non esprime niente.
C’è un processo molto forte di degenerazione umana ed antropologica del mondo nero:
prostituzione, elemosina, vita di espedienti. Ci sono insomma processi di sottoproletarizzazione, se
vogliamo adottare una categoria che non va assolutamente bene ma permette in qualche maniera di

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avvicinarsi al problema. C’è comunque l’accettazione di uno stato di dipendenza a partire da una
condizione di depauperamento interiore, di svuotamento culturale, di resa e di disperazione, rispetto
a cui il rapporto con il bianco è soprattutto di tipo strumentale, legato all’immediato: “mi offri
questa penna, io la vendo, posso mangiare e bermi una birra e per questa notte il problema della
pancia è risolto, domani mattina cercherò un’altra opportunità”; oppure le donne diciottenni o
sedicenni che ti accostano perché vedono comunque nel bianco la possibilità di un’opportunità di
sbarcare il lunario. Molti vanno per fare del turismo sessuale, come tanti di quelli che vanno a Cuba.
Anche l’Africa mi interessa dunque in questa prospettiva molto disincantata, non perché vi veda
un’alternativa o un mondo diverso: anche se comunque il mio problema è quello di sentirmi a casa.
L’avevo notato anche rispetto a questo documento: non mi è piaciuto, non mi appartiene dal punto
di vista del linguaggio, anche della logica, c’è in parte un’estraneità neutra, in parte una distanza,
nel senso che la mia esperienza è andata in una direzione parzialmente diversa, anche se non ho
soffocato il problema del lavoro. Ritengo fondamentale lo sviluppo in senso forte di un’idea di
democrazia e nello stesso tempo di liberazione del lavoro, in quanto questi due elementi secondo
me vanno fortemente insieme: non c’è espansione della democrazia senza liberazione del lavoro ma
non c’è viceversa liberazione del lavoro senza espansione della democrazia. Quindi tutte quelle
esperienze radicali che prescindono dal nodo della democrazia ed in qualche modo di una sua
accettazione, con i suoi limiti, mi sembrano decisamente sterili, impotenti e dannose; così come non
condivido il liquidare stupidamente la questione dello Stato semplicemente con poteri
esclusivamente negativi che gravano sulla società e non anche come un ambito che è in qualche
maniera anche un risultato di conquiste, uno spazio fruibile che ha un suo rilievo ed anche un valore
sostanziale. La democrazia non è in nessun modo riducibile al capitalismo. Però nello stesso tempo
questo documento solleva in me anche una simpatia in un certo senso, a partire da questo senso di
estraneità: se sei nel deserto (per tornare a questa metafora) tutto ciò che ti permette di immaginare
che la tua notte lì non la passi al nudo sotto le stelle, ma che ti fa un pochino sentire prossimo a
casa, è sempre confortevole. Non avendo cioè casa ed essendo nel deserto, tutto quello che può
anche solo somigliare a forme antiche della vecchia casa, anche se non è quella che posso abitare o
che mi piacerebbe trovare al fondo del cammino (non per me, ma magari per le prossime
generazioni), mi interessa. Così, in un certo senso, stando in Africa, anche se non è la mia casa e
non mi appartiene sul piano culturale, ho la percezione di stare un pochino più a casa, proprio
perché quanto meno le pressioni esistenziali del mondo capitalistico lì sono scaricate. Questo
dipende certamente anche dal fatto che lì vivo una condizione di privilegio, sul piano economico,
sociale, culturale, “razziale”, in quanto ho la pelle bianca e questa è sinonimo di privilegio: un
bianco è comunque considerato ricco, non importa poi se qui uno fa fatica a vivere. Ho conosciuto
un professore universitario che prende £.300.000 al mese e viaggia con auto come la vecchia Fiat
che si vedeva in giro in Italia trent’anni fa, e sono arrivate dall’Egitto piuttosto che dal Marocco, e a
sua volta erano magari arrivate dall’Italia meridionale vent’anni prima. Quindi si tratta di una
situazione estrema. Ci sono forme che io non sono capace di accettare, sul piano proprio biografico,
esistenziale, prima ancora che ideologico: la competitività, la socialità, il disinteresse per la
dimensione affettiva oppure la riduzione dell’elemento dell’affettività ad una cattiva erotizzazione,
ma soprattutto l’atomizzazione del vivere, la chiusura in un individuo povero. C’è la negazione del
grande messaggio di emancipazione che è nato con la modernità, che era quello di sviluppare
l’individuazione al massimo grado, mentre mi sembra che questa oggi sia estremamente negata.
Il vero punto di partenza secondo me non è la dimensione del collettivo ma il rivendicare di poter
tornare ad essere degli io, dei soggetti. Quando nel documento si parla di soggettività, quella a cui
penso io non è la vostra, che secondo me nasce da una dimensione ideologica e si applica come una
forma di coscienza piena sulla vita dell'individuo: questa forma di soggettività non mi interessa più,
la trovo falsificante ritornandoci a ritroso in passato e comunque non nasce dalla dimensione del
vissuto. Mi interessa invece che oggi in qualche modo si liberino le dimensioni del vissuto e che la
possibilità della vita sia restituita alla sua pienezza, anche proprio a quella della sua
individualizzazione, cioè che ciascuno abbia l’opportunità di dare un senso forte e non vuoto,

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meccanico, feticistico (inteso proprio nel senso del regno delle merci e delle cose), come oggi
invece accade. Mi sembra infatti che l’individuo sia estremamente svuotato, ridotto a puro
involucro di interessi di miserabile orticello, carriere, competizioni, acquisizioni: trovo
insopportabile la visione dell’individuo meramente acquisitiva. In Africa tutto questo non c’è, o
quanto meno magari è dichiarato: quello che mi vuole rubare la penna ce l’ha scritto sulla fronte che
è venuto lì per quello, come la ragazza di sedici anni che mi avvicina capisco che vuole tre dollari
per fare l’amore con me. Quindi tutto questo è quanto meno trasparente, mentre qui noi abbiamo
delle schermature che là non ci sono. Il piacere per esempio di sostare a prendere il sole piuttosto
che ballare (attività che trovo molto “antagonistica”), tutto quello cioè che ci aiuta a perdere tempo,
a recuperare tempo per noi, recuperare espressività e linguaggio verso gli altri, mi sembra
estremamente arricchente oggi, laddove normalmente il linguaggio e l’espressività sono soffocati da
una pura relazione strumentale.

ANALISI DEI PROPRI PERCORSI POLITICI


- analisi delle ricchezze e dei limiti del proprio percorso e/o della propria proposta politica
- analisi e giudizi su quanto c’era d’altro (altri ambiti, altre riviste, altre proposte politiche e/o
teoriche…)
- quanto tali ricchezze e tali limiti possano essere attualizzabili nel contesto odierno e in
prospettiva futura.

Mi pare che ci siano alcune ricchezze, quelle a cui io sono stato più prossimo, che purtroppo sono
perdute, dissipate. Alludo all’esperienza dei consigli di fabbrica, che io ho conosciuto. Ad esempio
quelli della Montedison di Castellanza, Lagusta, la Ire, sono tutte esperienze estremamente ricche,
anche di contropotere: si pensi a tutto il lavoro fatto al consiglio di fabbrica di Castellanza
sull’inquinamento dell’ambiente, sul rapporto tra fabbrica e società, tra fabbrica e territorio, quindi
non solo l’impatto sul lavoro, sulla condizione operaia, ma sulla condizione sociale complessiva. Ci
sono stati lavori grandissimi in cui sono state spese vite di persone di altissima qualità. Mi pare che
questo purtroppo muoia senza eredi, sarebbe fondamentale recuperare questa esperienza, anche
come memoria.

- Secondo te questa esperienza è morta per involuzione o per condizioni oggettive?

E’ morta perché sono morte le fabbriche, i contenitori. Nel momento in cui un’azienda come la
Montedison si riduce di due terzi ci sono delle condizioni oggettive. Poi queste persone non hanno
più avuto eredi, non c’è stato un passaggio generazionale, che non può essere fatto se non c’è quella
struttura che offre la continuità della formazione: in tal caso allora sì uno che ha cinquant’anni
potrebbe trasmettere ad uno che ne ha venticinque un patrimonio che viene recuperato e continua.
Siccome c’è stata un’interruzione, queste esperienze hanno raggiunto un tetto, sono sopravvissute
per un certo tempo e poi si sono in parte autodissolte, oppure resistono ma non hanno più
l’efficacia, la forza, l’impatto che potevano aver avuto negli anni ’70. Però questo secondo me è un
patrimonio ricchissimo, che è anche legato al problema dell’organizzazione del lavoro, la
connessione fabbrica-lavoro, fabbrica-potere, fabbrica-società-territorio. Naturalmente lì c’era un
punto di partenza che oggi non può più sostenere questa prospettiva, è anche per questo che tali
esperienze sono andate in crisi: l’idea di una centralità della fabbrica come nucleo forte di
riconoscimento del lavoro e, attraverso la valorizzazione del suo carattere universale, di
ricomposizione. Oggi questo non c’è più, quindi pensare di riproporlo in un contesto in cui le sue
matrici oggettive sono venute a mancare non ci porterebbe da nessuna parte. Però lì dentro c’è
secondo me una ricchezza di soggettività che andrebbe riesplorata e recuperata pienamente, ed è un
po’ anche la memoria della sinistra sindacale, che magari poco ha avuto a che fare con l’esperienza
dell’Autonomia: è stata insomma meno vicina a dimensioni anti-istituzionali o decisamente extra-
istituzionali, ma più alla ricerca invece di un elemento di mediazione. Penso che queste siano state

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complessivamente esperienze più ricche, comunque quelle che hanno saputo sedimentare, almeno
per un certo tempo, una capacità anche di produrre risultati e poteri, se non altro sicuramente nelle
fabbriche: oltre tutto perché avevano una grande capacità rappresentativa, avevano un forte seguito
e prestigio dentro e fuori. Avevano poi una capacità di connettere e creare una convergenza ed una
rete di saperi a partire dal territorio: si pensi a Medicina Democratica, Magistratura Democratica,
comitati di scienziati, l’Euratom di Ispra. Avevano insomma saputo creare una rete di apporti che
oggi dovrebbe essere ricostruita. Se il capitale (usando un’espressione che non mi piace molto, ma
adottiamo questa convenzione linguistica) si organizza come struttura a rete, perché noi non
dobbiamo essere capaci di costruire queste reti, nelle quali possono esserci identità più forti e più
deboli, ricerche anche diverse, non necessariamente convergenti verso lo stesso scopo o a partire
dalle medesime motivazioni ideologiche? Quindi reti più meticce in un certo senso, che però
possano essere altamente efficaci, quanto meno fin da subito, nella capacità di socializzare
conoscenza e in un certo modo anche pratica corrispondente ad essa: ma ovviamente l’aspetto
conoscitivo ha un primato sul fare. Mi sembra importante recuperare questo tema, se non altro quel
patrimonio che oggi non ha più il suo spazio naturale.
Un altro tema che trovo interessante recuperare, in questo caso dell’Autonomia Operaia, venuto
fuori soprattutto all’inizio degli anni ’80, è il problema del lavoro autonomo come lavoro servile
(aveva fatto in modo particolare una ricerca Sergio Bologna). Adesso non so se era esattamente
questa la dizione canonizzata, comunque mi sembra un tema essenziale, come terreno di una
radicale scomposizione e decomposizione nel sociale legata al decentramento e a tutta un’altra serie
di processi. E’ importante trovare un’attenzione su tale settore però riuscendo a parlare a questi
soggetti. Oggi il terreno del decentramento produttivo e del lavoro autonomo servile è diventato
quello su cui, ad esempio nel varesotto, la Lega ha trovato consenso. Quindi o troviamo una
capacità di rispondere o queste forze vengono abbandonate ad una deriva perché, non avendo più
quella capacità di coesione che nasceva in qualche misura dalla fabbrica, viene esaltato tutto ciò che
è avvertito come potenziale nemico (uno Stato troppo fiscalista, una scarsa attenzione alle esigenze
di un lavoro autonomo che fa un’enorme fatica ad emanciparsi da una committenza più in alto
nell’ordinamento economico e nello stesso tempo dalla pressione dello Stato). O troviamo una
capacità di interloquire con questo mondo e anche di offrirgli dei percorsi di soggettivazione e di
riconoscimento, o altrimenti finisce abbandonato alla destra, però dopo non chiediamoci perché
perdiamo. Possiamo ancora restare un po’ radicati alla Fiat, dove però siamo già stati sconfitti.
Come è possibile recuperare? Questo mi sembra un tema di attualità nel quale c’era una riflessione
feconda da riprendere. E’ un terreno su cui possono convergere anche storie e interessi di ricerca e
competenze diverse: l’importante è non farsi fretta.
Vorrei contestare l’inizio del vostro documento, dove si parla della frammentazione e
dell’atomizzazione dei soggetti. A me sembra che sia vero che l’atomizzazione è negativa, perché
comporta una babele linguistica nella quale non c’è più nessuna possibilità di comunicazione. Ma
secondo me la frammentazione non è altrettanto negativa: i due sostantivi non mi sembrano
congruenti l’uno all’altro. La frammentazione può indicare una pluralità di punti di vista, di
esperienze legittime, non ci può essere una pretesa unica di legittimazione che possa prevalere su
altre. Quindi dobbiamo accettare di partire da un orizzonte caleidoscopico estremamente
frammentato, in cui esistono forti diversità, accentuazioni e punti di vista anche molto distanti.
L’importante è il ripristino di una dimensione di comunicazione, che invece l’atomizzazione
cancella, in quanto questa è una dimensione di silenzio, di sordità. Come possiamo trovare un modo
di fare interloquire linguaggi, logiche e motivazioni diverse, che però possono trovare, su alcuni
ambiti (come appunto quello delle derive e degli sviluppi del lavoro autonomo-dipendente), dei
punti in comune? Possiamo riuscire a portare competenze a lavorare su questo? Ciò è interessante.
Questo vale per questo discorso come per altri centomila, ad esempio il Terzo Mondo o la
globalizzazione.
Nel lavoro autonomo c’è un maggiore sfruttamento, anche se però la dimensione dello sfruttatore
non c’è più, perché figurativamente si legge come un autosfruttamento. Se il marxismo non è in

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grado di fornirci degli strumenti in proposito, bisogna ricorrere a degli atri strumenti. E’ inutile che
cerchiamo di tirare una coperta dove non può arrivare, è meglio servirsi di altre coperte e gettare
quella parte lì. Dentro ad una prospettiva laica, il marxismo è un pensiero come gli altri, io non gli
attribuisco uno statuto speciale e in questo modo mi è più facile non rigettarlo laddove continua a
servire. Se invece continuo a pensare che ci sia un’identità marxista, che comunque il marxismo sia
la filosofia che interpreta il capitalismo ed ha una chiave per la storia, che mi dice dove e come mi
posso emancipare, allora qui non trovo che abbia più utilità di altre teorie. Se si tratta di un corpo
vivo si dissolve come si sono dissolti il pensiero di Platone, di Aristotele, di Sant’Agostino o di altri
che lo recuperano e lo rileggono alla luce di nuove istanze. Se invece lo dogmatizzo come un corpo
definito non serve più a nessuno, diventa anzi un elemento dannoso perché non si vede più la realtà
ma si vede quello che si vuol vedere attraverso quegli strumenti. Quindi insisto nel dire che un
approccio laico è più utile: può essere anche meno soddisfacente ma, dovendo accettare la logica
del deserto, è proprio perché voglio salvare una serie di obiettivi forti che accetto oggi una loro
riduzione, in cambio di una voglia di accettare una certa positività. Secondo me abbiamo dunque
bisogno di tanta sperimentazione: forzare una convergenza rispetto ad un’esigenza di
sperimentazione a 360° mi sembrerebbe pericoloso.
Come invece è possibile consentire a sperimentazioni anche diverse di confrontarsi? Il discorso del
sentirsi a casa può essere una buona metafora. Vado spesso al Leoncavallo e sto molto bene. Vale lo
stesso discorso che ho fatto precedentemente per l’Africa: non ho nulla in comune con l’ideologia
ufficiale dei leoncavallini, non andrei mai a fare scontri con la polizia, trovo miserabile pensare che
l’antagonismo debba essere visto attraverso simboli, feticci e riti, è una cosa da gente che non ha
nulla da dire, che ha finito di dire, perché solo chi è senza parola si riduce al feticcio dei simboli,
prendendoli a prestito da forme di antagonismo di vent’anni fa morte, defunte, rinsecchire,
autosuicide e autolesioniste. Non di meno mi sento a casa, perché comunque lì c’è gente che
qualcosa cerca, che sfugge ad una certa dinamica sul piano esistenziale, etico, civile; c’è comunque
una capacità, rispetto ad un ordinamento che né io né loro accettiamo, di essere alternativi (anche
questa è una parola che non mi piace, la trovo estremamente insufficiente, usiamola per la solita
convenzione linguistica). E’ possibile ricomunicare su questo e magari anche portare esperienze che
comunque sono vive e mobilitano a fare una maturazione, anziché continuare a scimmiottare
modelli del passato? Io penso che il patrimonio degli anni ’70 sia da rigettare in toto: la violenza
come strumento di lotta politica, il feticismo dell’antagonismo, l’ideologismo, i miti. I baschi ad
esempio non hanno niente da insegnarmi, sono perdenti, fanno errori megagalattici da trent’anni ed
oggi adottano una logica puramente criminale: non hanno più senso in un contesto come questo e
sono tra l'altro impotenti e suicidi rispetto anche al loro obiettivo di maggiore democratizzazione
del mondo basco. Quindi con tutto questo facciamola finita, buttiamo a mare tutti questi ciarpami e
rottami del passato, che sono invece quelli che magari seducono di più perché sono poi quelli che
permettono, da un punto di vista identitario, di collocarsi. Quindi bisogna rompere la logica
identitario-collocativa in una dimensione spaziale, perché non ci serve, ci impoverisce e non
consente neanche comunicazione tra generazioni, tra sessi o tra culture diverse. Sai cosa se ne fanno
gli immigrati se io imito certe pratiche del passato? Butto davanti all’altro una pietra di inciampo,
opaca ed incomprensibile. Tutto questo non deve essere rimosso, perché altrimenti ritorna, ma deve
essere portato alla luce come un inciampo forte, come una nevrosi collettiva che ha preso piede
negli anni ’70, della quale bisogna fare a meno. Il corredo estremistico è secco e vuoto; invece mi
sembra che molte volte si finisca dentro a questa attualità, perché è più facile. Se non si hanno tanta
voglia e strumenti per cercare e molti spazi di dialogo, si finisce per prendere la via più comoda,
perché è già stata scavata da altri e lì c’è un’eredità che passa di bocca in bocca: l’imitazione è più
facile dell’invenzione. Abbiamo invece bisogno di grande invenzione e di poca imitazione.

Gli anni ’70 hanno inventato molte cose. La cosa più importante che è stata inventata secondo me è
stata il femminismo. E’ stato un tema vitale su cui abbiamo vinto in un certo senso; abbiamo poi
anche perso perché questo tema oggi non torna fuori più. Il rapporto uomo-donna è comunque un

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tema centrale e lì c’era da sviluppare tantissimo: è un discorso che mette in gioco le soggettività
come le intendo io, non come una proiezione identitaria, ma come ricerca che si materializza e
incarna nel vissuto e sulla quale mi gioco, magari soffrendo. E in fondo noi abbiamo sofferto: io ho
divorziato due volte, ho avuto dei grossi problemi come molti altri. Uscendo un po’ fuori dalla
dimensione alto-politica e andando a sfangare nel vissuto, io vedo una connessione forte tra politico
e vissuto: niente c’è che non passi in prima istanza da un ribaltamento del mio agire ma anche dalla
sua capacità di costruire, anche in cerchie ristrette, una vita vivibile conformemente alle mie
aspettative. Soffro molto il fatto che non c’è la possibilità di convivere esperienze e ricerche che
riguardano il vissuto: è saltato questo rapporto tra vissuto e politico ed è saltato il linguaggio.
Invece il femminismo ha avuto questa capacità forte di giocare anche sui maschi, capovolgendo la
logica maschile. Magari creando delle grandi crisi, perché in fondo noi eravamo stati programmati
come maschi. I miei genitori, pur essendo politicizzati e persone degnissime, mi hanno
programmato per essere un maschio, quindi lavoro e carriera ma non cucirmi il calzino o farmi un
uovo. Comunque anche il modello con cui mi sarei potuto rapportare all’universo femminile
rispondeva a certi cliché che non erano stati sottoposti a critica. Quindi tutto questo lo abbiamo
dovuto imparare da soli. Oggi invece vedo che quei modelli ritornano fuori peggio di prima, perché
magari mia madre mi aveva anche dato un’educazione di ordine etico, morale e civile: avevo
dunque un’idea maschile, ma almeno proiettata verso l’alto e non verso la miserabilità del
commercio privato con il mondo. E vedo che il mondo femminile si è molto assimilato su questo,
l’unica differenza è nel corpo, ma nella testa siamo uguali. Però alcune battaglie di emancipazione,
lo scardinamento dell’ordinamento famigliare, la sessualità, queste cose le abbiamo anche vinte in
qualche misura. Secondo me è poi mancato un elemento di riproposizione positiva, di ricerca in
positivo di esiti. C’erano dei cliché molto faciloni: ad esempio al posto della famiglia c’era la
comune, che non dava niente, solo nuovo dolore per chi l’ha sperimentata con un minimo più di
serietà. Bisogna quindi andare a cercare di più su questo nesso, tornare al rapporto pubblico-privato
in senso forte, con tutto quello che ha messo in gioco anche nella dimensione esistenziale: nessuna
ricerca della politica deve essere staccata da una ricerca su di sé, senza pretendere che i due
elementi si risolvano uno nell’altro. Come sostenuto dal pensiero liberale nei suoi significati forti,
che possono valere anche per noi, la politica può essere un elemento pesantemente invasivo rispetto
all’elemento individuale-identitario: quindi può essere un elemento di negazione altrettanto
pericoloso quanto quello che abbiamo chiamato capitale. Bisogna saper mantenere il presupposto
che non tutto è politico, però nello stesso tempo cercando di ritrovare la politicità in senso lato, che
comunque appartiene alla dimensione di un vivere comune. Qui mi sembra che la nostra esperienza
sia rimasta un po’ a metà strada. Mentre l’esperienza consigliare è da recuperare in toto, se non altro
a futura memoria, invece la nostra in questo campo è rimasta a metà in questo incardinarsi di un
progetto di rivoluzione sociale e anche di una dimensione di rivoluzione esistenziale. E’ importante
questo nesso e questo insistere e ricercare di più nell’ambito della soggettività, intesa come campo
delle intenzioni e dei bisogni del soggetto, e prima di tutto come campo di intenzione di
soggettivazione, cioè di un percorso di individualizzazione nel senso ricco del termine.
Questo è un terreno che è rimasto là, un filo interrotto, in parte errato e in parte no, e però lasciato
cadere a favore magari invece di stereotipi più poveri, che sono lo spinello, il tam-tam, la musica
più dura, simboli che stentano a tradursi in una ricerca vera e in una comunicazione anche
intergenerazionale, che invece è molto importante. Questa è invece un’esperienza che io ho vissuto;
se potessi ripartire dall’inizio nell’intervista, una pista che si potrebbe seguire è come la nostra
generazione avesse comunque un rapporto con la generazione precedente: nella scuola avevamo dei
buoni professori che in qualche modo ci educavano a questo, fuori abbiamo avuto tanti maestri
politici che ci hanno insegnato delle cose, e avere un rapporto con un quarantenne, un cinquantenne,
un sessantenne, un settantenne era naturale. Questo era molto bello e c’erano luoghi dove questo
avveniva: oggi tutto ciò non c’è più. Magari degli studenti mi chiamano nelle scuole a parlare del
’68 e per certi aspetti mi venerano, cosa che a me non piace nel modo più totale, perché non c’è
niente che sia degno di essere venerato: anzi, a maggior ragione, dovrebbero emanciparsi da questi

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miti. Invece c’è una logica puramente imitativa, fanno le autogestioni e poi non sanno che contenuti
metterci. Vanno a finire in un vicolo cieco, in un vuoto, però a loro interessa potersi in qualche
modo mettere l’etichetta, aver provato ad essere come i loro genitori. Però comunicazione vera non
ce n’è nessuna, per cui io resto in realtà uno sconosciuto, perché vengo visto come un’etichetta,
quello che è stato il leader a Varese nel ’68, e a mia volta anch’io li etichetto come quelli che
soffrono di nostalgia, mentre suppongo che abbiano una ben altra ricchezza dietro. Dunque né loro
sono capaci di fare emergere quella che è la mia ricchezza né io riesco a fare emergere la loro:
quindi non impariamo reciprocamente, mentre invece sarebbe importante.
Quando si parla di comunicazione mi pare che quella intergenerazionale, intersessuale ed
interetnica sia fondamentale. La comunicazione interetnica è un tema nuovo, che allora non
abbiamo sperimentato per niente. Quando parlo di comunicazione interetnica intendo anche dire lo
scontro: non è detto che si debba partire per forza di cose da una piena accettazione dell’altro. Se io
parlo con un somalo che poi infibula sua moglie e sua figlia mi dispiace ma io non tollero. A volte
c’è una venerazione del personaggio del Terzo Mondo che è altrettanto idiota ed è la faccia
rovesciata del razzismo di Bossi, è ugualmente puerile. In entrambi i casi non c’è linguaggio: da una
parte c’è il rifiuto precostituito, dall’altra c’è l’accettazione precostituita. Ma la parola è scontro, è
un movimento dialettico: l’accettazione vuol dire restare estranei. Invece quello che mi interessa è
un processo di intimizzazione del conflitto, cioè arrivare alla prossimità anche del conflitto, come
poter accettare nella diversità e nello stesso tempo trovare dei riconoscimenti sostanziali. Oggi una
strategia di ricomposizione non può non pensare alle stratificazioni di culture. Una volta noi
avevamo una stratificazione che era principalmente di classe e lavoro: questo senz’altro resta, però
ad esempio tra i giovani questo aspetto è meno forte che in passato. Una volta c’erano molte
distanze: io ad esempio venivo da una famiglia medio-borghese e sentivo delle distanze molto forti
che mi schiacciavano verso chi era in alto, però c’erano anche elementi di difficoltà a comunicare
verso il basso. Poi magari alcuni di noi, ed io nella fattispecie penso di sì, siamo in un certo senso
riusciti a mantenere comunicazioni anche con il mondo alto ma, soprattutto con giovani operai, ci
siamo molto spesi in questa cosa, magari un pochino didatticamente. C’è un’altra persona, Claudio
Migliarina, purtroppo morto alcuni anni fa, che molto ha speso se stesso sia nel lavoro nel mondo
sindacale sia soprattutto in questo rapporto con altri di altre classi. Questa cosa ad esempio a Milano
non c’era: pur essendo tutti su una stessa barca si davano ben pochi livelli di comunicazione. Oggi
avremmo bisogno di ricostruire delle comunicazioni che non includano solo l’elemento della
soggettività sociale (che pure sarebbe importante), perché c’è tanta disomogeneità. Una volta in un
certo senso lavoratore o ceto medio rispondevano a degli standard molto più vicini di quanto non
siano oggi, adesso sono molto più distanti. Però se non includiamo nella comunicazione anche la
sessuazione, l’etnicizzazione, la territorialità (centro-periferia, Varese-Como o Somalia-Taiwan) e
l’elemento generazionale (che non è più un dato scontato), rischiamo di restare comunque muti o di
mettere in gioco poco linguaggio. Magari rinunciando poi anche a cercare un terreno di conflitto
dentro noi stessi, che è secondo me un altro dato di fondo che non trovo nel documento: il conflitto
è molto posto verso l’esterno, come conflitto radicale, e questo mi sembra un eccesso; trovo invece
un difetto nel riconoscimento che ci può essere di una condizione positiva, anche se dura, dolorosa,
faticosa, di conflitto di riconoscimento. Si tratta invece di un fatto positivo, uno spazio
comunicativo importante, di cui abbiamo grande bisogno; purché si sappia che tale conflitto non
deve essere radicalizzato, perché non è mors tua vita mea, non è in gioco l’affermatività, la
supremazia e il potere, cosa che invece negli anni ’70 era terribile. Una delle ragioni per cui io sono
venuto via da Milano è che ero in uno spazio fortemente competitivo anche nell’estrema sinistra,
con personalismi eccessivi; e questo lo vedo anche ad esempio nelle organizzazioni umanitarie, che
sono tutte delle repubbliche autocratiche, ciascuna ha il suo Luigi XIV. Sono regimi assolutistici
monarchici, la democrazia conta meno di zero nella pratica; sono feudi con degli ordinamenti
gerarchici. Questo è terribile. Possiamo riuscire a costruire delle soggettività diverse dentro
l’organizzazione che possano fare a meno del competere, delle gerarchie? Siamo capaci di costruire
tra di noi un’immagine del mondo conforme a quella che vogliamo? E’ inutile che diciamo che

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vogliamo un mondo in cui il tasso di competizione e di gerarchie sia quanto meno diminuito, e poi
noi lo riproduciamo per primi, per coazione a ripetere, per incapacità a portare luce dentro al nostro
mondo interiore, per pigrizia nel dialogo con gli altri o per semplice ragione strumentale: non credo
che sia per ambizione, non penso che sia questo che porta la gente ad assumere nelle organizzazioni
dei comportamenti di questo tipo. Oppure è perché si scelgono modelli organizzativi che non
valorizzano questa ricerca e che invece riproducono ordinamenti gerarchici: la tradizione comunista
è stata rifatta in pantomima al sistema, perché magari negli anni ’30 c’era una certa dignità, negli
anni ’60 e ’70 non ne aveva nessuna, è stata una cosa estremamente soffocante. Negli anni ’60 il
marxismo aveva già perso la sua carica vitale da tempo, bisognava molto guardare all’esterno,
mentre noi invece abbiamo guardato soprattutto alle componenti eterodosse all’interno del
marxismo, come Gramsci o la Luxemburg; non abbiamo invece guardato a componenti di pensiero
più vitali che erano del tutto estranee a questa tradizione. Questo è senz’altro un bagaglio negativo:
dal punto di vista teorico secondo me il ’68 non ha prodotto niente o quasi, come grandi riferimenti
di ordine culturale è stato sterile in partenza, perché ha adottato un’ideologia che era scarsamente
capace di promuovere un’autoinnovazione e di negarsi come ideologia, assumendo una dimensione
teorica con minori pretese, sapendo di essere un’approssimazione ad un discorso di scienza sulla
società. Questa pretesa di darsi una configurazione di scienza della storia o della società (che erano
già due cose molto diverse) è stata estremamente castrante. Poi ci fu l’assunzione come modelli di
pensiero dei grandi leader rivoluzionari che invece non avevano quasi niente da dire, cosa che è
stata un’autocastrazione molto grave che ha magari impegnato tanto tempo, energie e molte povere
persone, ed oggi quei materiali sono inservibili: le riviste teoriche di gran parte degli anni ’70 sono
assolutamente inutili. Su questo penso invece che o riusciamo ad avere un approccio in parte più
pragmatico e in parte liberamente eterodosso se non addirittura sincretico, oppure non andiamo
molto lontano.

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INTERVISTA A VALERIO CRUGNOLA – 26 APRILE 2000

- Qual è l’esperienza e il percorso del vostro gruppo? Leggendo le regole, mi sembra che ci sia
una relazione molto forte con il discorso fatto da Màdera, ne L’alchimia ribelle,
sull’autovalorizzazione solidale.

Premetto che su questo discorso si potrebbe sentire anche Carlo Formenti, il quale può darsi che
all’80% ridirà le stesse cose che dico io, mentre magari ha un 20% di altra ottica e altro vissuto
relativamente a questa esperienza. Questa idea dell’autobiografia solidale risale in prima istanza alla
metà degli anni ’80, la promuovemmo io e Romano Màdera dopo avere tentato un’altra esperienza,
questa più promossa da me, di mettere in piedi un gruppetto che si voleva chiamare “Passaggio a
nord-ovest”, in cui l’idea era di costruire insieme un luogo di confronto orizzontale a livello politico
con uno spazio di confronto a livello biografico. Quindi, si voleva mescolare la riflessione sul
vissuto e lo stile di vita con quella sul proprio essere nella politica: dunque, non tanto sulla politicità
in senso oggettivato, come cosa fuori di sé, ma a partire dalla propria soggettivazione nella politica
sia come motivazione che come modo di esserci, di starci, di riconoscersi o non riconoscersi. In più
c’era un’idea (che sfumò, e sfumando questa idea è sfumato tutto il resto) di applicare questi due
livelli ad un terzo, che era quello in qualche misura del tempo libero: cercammo, tramite l’Arci o le
Coop o addirittura con Le Scimmie di Milano (con le quali per alcuni, ad esempio per Romano,
c’erano dei rapporti di amicizia), di prendere uno spazio nel varesotto da destinare a questo
“Passaggio a nord-ovest”. Che cosa voleva dire? Che si cercava una via di uscita che riguardasse un
certo tipo di contesto di civiltà, che era quella nord-occidentale, considerando che gli altri passaggi,
come quelli dell’est europeo o dei paesi del sud del mondo, erano falliti e comunque non avevano
da suggerirci molto nei termini della ricerca di una liberazione della soggettività, ma anche in quelli
della politica nel mondo capitalistico sviluppato. Quella esperienza non riuscì, però maturò
quest’altra, che cominciò intorno all’86 circa, con un gruppo composto tra i dieci e i dodici maschi,
tutti (salvo uno) della stessa generazione, cioè nati tra il ’46 e il ’50, tutti protagonisti, a livelli un
po’ diversi, del ’68 milanese, tutti preesistentemente amici, ossia legati da rapporti di amicizia, di
frequentazione o anche più semplicemente di conoscenza, ma comunque che risalivano grosso
modo a un’epoca precedente. Il gruppo, quindi, era costituito da persone che avevano un retroterra
culturale, biografico, generazionale comune. L’esperienza (durata fino al ’92, quindi piuttosto a
lungo) consisteva nel raccontare sé. L’esigenza era ovviamente legata ad una situazione di trapasso:
l’esperienza della militanza politica era per tutti conclusa, almeno in senso forte; poi magari in
quegli anni per qualcuno (ma non per molti) si poteva ancora mantenere qualche rapporto con delle
forme di politica organizzata, oppure degli spazi come Marx Centouno, nel quale si andava per
scrivere o discutere qualche cosa, o comunque per sentirsi legati a qualcosa di oggettivato, ma non
erano più gli elementi forti dell’identificazione politica. Anche la stessa identità politica si apriva a
riflessioni molto diverse e nuove: per esempio, Dio il mondo di Romano Màdera metteva anche in
gioco cose che con la sfera del marxismo e della filosofia della politica c’entravano meno di nulla.
Quindi, ci si apriva a istanze anche filosofiche diverse: per quanto riguardava me, erano anni in cui
ho cominciato a scoprire delle tradizioni del pensiero democratico liberale, per esempio il saggio sul
totalitarismo della Arendt l’ho letto nell’85, tanto per dire di ambiti concettuali che mutavano di
molto. In qualche modo erano anche anni in cui recuperavamo un certo tempo perduto inseguendo
dei filoni in verità un po’ rinsecchiti di pensiero teorico, allargando dunque il nostro orizzonte di
pensiero a 360°. Però, non era ciò il movente fondamentale di questi incontri, perché accanto a
questa transizione della sfera politica c’era anche una transizione biologica e biografica. Riunirci
nell’85 voleva dire, a seconda delle diverse età, avere tra i 32 e i 40 anni, e questo costituisce un
passaggio importante della vita, perché comunque non hai più il problema del lavoro che fai, spesso
hai già avuto famiglia e anche figli, o magari, come nel mio caso, hai avuto famiglia e non c’era
più; comunque, è un momento dell’età adulta in cui un bilancio su di te e sul cammino che hai fatto
diventa abbastanza inevitabile. Io penso che tra i momenti della vita nei quali si fa un bilancio di sé

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(poi i tempi possono cambiare) c’è quello verso i 18-20 anni, in cui uno fa il bilancio in rapporto
alla famiglia, alla formazione e a quello che uno si progetta di essere, si domanda quali sono le
proprie aspirazioni, cosa ci si sta a fare; poi c’è una fase intermedia, in cui invece la formazione è
interamente compiuta, si fa un bilancio sugli ideali della giovinezza, ci si comincia anche a
interrogare relativamente alle proprie capacità e risorse, che non sono più quelle esuberanti e
velleitarie dei vent’anni, ma sono quelle che concretamente si sono messe alla prova. Accanto a
questo c’era un dato generazionale che a ciò si associava molto strettamente: non è come se oggi si
incontrassero dei ventottenni e facessero un bilancio dei propri ventotto anni, che sarebbe anche
molto sfrangiato. Il campo delle esperienze oggi potrei immaginarlo come un grande prato, molto
ampio in orizzontale, ma che non contiene verticalità, radici, come l’erba; il nostro magari era un
campo più ristretto, nel quale c’erano abeti e pini, quindi poca varietà, però, nello stesso tempo, le
radici in profondità e lo sviluppo in altezza erano decisamente più elevati. C’era una maggiore
profondità, una maggiore intensità e una minore varietà; però, questa minore varietà era il campo
della nostra esperienza comune. Queste persone che si incontravano insieme avevano dei passaggi
cruciali comuni, come l’esperienza della militanza politica (campo comune con cui magari un
ventottenne di oggi non avrebbe più possibilità di cimentarsi), oppure la ribellione alla famiglia, il
rapporto con l’esperienza del femminismo, il rapporto con la cultura alta della tradizione di pensiero
filosofico, politico o anche religioso, la letteratura; anche la psicoanalisi era un passaggio che
accomunava molti di noi, nel caso di alcuni anche come esercizio e non solo come conoscenza
teorica o perché per un certo tempo si era stati sottoposti ad analisi. Per sintetizzare, c’era una certa
omogeneità e, all’interno, c’erano dei passaggi topici che accomunavano tutti e sui quali noi, sia per
quel passaggio epocale sia per quel passaggio generazionale che ciascuno viveva, avevamo bisogno
di condurre una riflessione. Nacque quindi questa idea di mettere in comune questa riflessione con
un intento che, fin da allora, non era assolutamente politico in senso forte, e che non lo era per
niente, non pretendeva nemmeno di essere un modello da esportare al di fuori di queste dodici o
quindici persone: ci interessava in quanto vi vedevamo una sorta di varco che potesse, se non
cambiare il mondo, in qualche modo arricchire, accrescere, trasformare anche noi stessi, quindi
quanto meno renderci meglio padroni del nostro mondo, cambiare il nostro mondo e, di riflesso, il
nostro sistema di relazioni, attraverso questa forma di coscienza o mutamento di orientamento della
consapevolezza. L’idea principale da cui partivamo risale a Jung, ma viene fuori anche da certi
aspetti del tema della modernità, la sua grande promessa, e si trova in parte nella tradizione del
pensiero democratico più che non nella componente del marxismo, che ha anzi sempre sottovalutato
ciò. Il concetto normativo che ci costituiva, il punto di riferimento, la bussola, era l’idea
dell’individuazione: c’era un passaggio che rischiava di andare perduto tra lo schiacciamento
dell’individuo sui modelli conformatori della società e il modello altrettanto conformatore (ma non
tanto in senso di schiacciamento, quanto in quello di privazione) dell’astratta collettività, la
riduzione dell’individuo all’ente collettivo della pratica del comunismo nell’esperienza del
movimento operaio, che ci sembrava ovviamente da respingere. Anche per quanto riguarda il ’68,
pur contenendo degli aspetti che andavano in questa direzione, il suo nucleo forte non era tanto
nella sua politicità, quanto nella rivendicazione (politicamente in qualche modo molto più anarchica
che non altro) di una maggiore individuazione, di un pieno sviluppo della libertà anzitutto del
soggetto, e anche quindi della singolarità. Naturalmente non si trattava di una singolarità asociale,
ma di una singolarità che poi è anche in grado di riconoscersi nell’altro, nella forma della politica,
in quella della classe o dei rapporti sociali, ma anche semplicemente nell’alterità di riconoscere la
differenza dell’altro soggetto, un tema che senza dubbio il femminismo aveva posto in maniera
forte; quindi, c’era un doppio livello dell’idea di altro come dell’idea stessa di sé, dell’identità, non
solo di quella sociale, come elemento collettivo. Dunque, c’era questa idea che fosse in qualche
misura possibile lavorare attorno a se stessi per cercare un varco che partisse fondamentalmente
dalla comunicazione, intesa come comunicazione a ritmo lento, che è quella della parola, nel
rapporto faccia a faccia, nell’interpersonalità, dove è in gioco anche una qualche comunanza di
ordine affettivo, emotivo e relazionale, e non semplicemente una comunanza perché tutti e due

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condividono la presenza di determinati oggetti in un certo spazio, oppure di idee in uno spazio
astratto.
In questo modo è successo che per circa sei-sette anni siamo andati avanti a raccontare ciascuno di
noi la propria vita, con un percorso che richiedeva molto tempo. Per esempio, io ricordo di avere
raccontato la mia vita fino ad allora più o meno da quando ero nato in poi. C’era naturalmente molta
libertà nella determinazione del racconto: per esempio, Romano, anziché partire da “io sono nato
il”, cioè raccontare secondo un flusso logico il percorso o una storia di vita, era partito da un sogno,
oppure Alberto Tognola era partito dalle lettere di Van Gogh al fratello Teo; erano dunque stati
costruiti dei percorsi dove il punto di partenza del narrare o dell’indagare sé e proporre questa
indagine anche agli altri, era lasciato alla libera determinazione di chi raccontava, l’unico obbligo
era la partecipazione di tutti a questa comunicazione, però non c’erano regole, questa è una cosa che
è venuta dopo. Questa esperienza si è conclusa nel ’92, quando tutti più o meno avevano raccontato,
in più c’era stata qualche piccola defezione, comunque quella fase era in qualche modo compiuta.
Poi, intorno al ‘93-’94, si è passato ad individuare un altro percorso, che costituiva un salto di
qualità. Intanto, significava un mutamento nella composizione del gruppo, perché inizialmente era
solo costituito da maschi che insistevano tutti su un territorio omogeneo, Milano, e tutti della stessa
età ed esperienza generazionale. Avevamo quadri della memoria comune abbastanza condivisi da
tutti, per cui se io parlavo di tizio, perché questo entrava nel mio racconto, molto probabilmente gli
altri o almeno una buona parte del gruppo conoscevano questo tizio piuttosto che quei fatti: c’era
dunque un quadro di memoria condivisa reciprocamente, anche se non comunicata come memoria
tra di noi. Invece, in questa rifondazione e rilancio di questa esperienza, che ha cambiato anche
molto le forme, interveniva innanzitutto un mutamento nella composizione strutturale del gruppo,
cambiavano i tre parametri. L’omogeneità d’età lasciava spazio alla massima differenza, perché nel
gruppo attuale c’è Carlo Enzo che ha 72 anni e una ragazza che si chiama Federica d’Urso che ne
ha 21 e mezzo o 22, quindi ci sono cinquant’anni di differenza, il che vuol dire che Carlo ha vissuto
da adulto la seconda guerra mondiale e il fascismo che io non ho vissuto, mentre Federica non ha
vissuto neanche il ’68 e gli anni ’70: di mezzo ci sono tre generazioni anziché una, per di più (come
nel gruppo precedente) chiusa in una fascia di cinque-sei anni di differenza di età come banda
massima. Questo è già un grande cambiamento, l’altro è la presenza di maschi e femmine: laddove
prima questo nasceva anche, ovviamente, prendendo in qualche misura a modello, se non di
riferimento in senso filosofico, sicuramente come campo di esperienza, il femminismo e i gruppi di
autocoscienza femministi. Il nostro non era un gruppo di autocoscienza, non aveva questa natura né
questa finalità, però certamente l’idea di uno spazio che abbia una specificità di genere, nella quale
il racconto e la parola hanno questa valenza normativa strutturante le relazioni all’interno del
gruppo, era presa dall’esperienza dei gruppi di autocoscienza femminista, volendo o non volendo
dal punto di vista del debito teorico.

- Questi cambiamenti sono stati dovuti a delle scelte precise?

E’ stata una scelta relativamente spontanea, il gruppo nasce a partire da una proposta rivolta ad un
certo numero di persone che si sono incontrate per fare questo; facendo ciò, si poteva poi notare, se
questo fosse stato l’aspetto che ci interessava, che c’erano queste consonanze, perché quei modelli
erano in qualche misura nell’aria e furono presi, ma non c’era un nucleo di riflessione fortemente
definito, al di là del fatto che tutti insieme vivessimo grosso modo questa esperienza, come ho detto
prima, di passaggi o ricerca di essi. La terza mutazione è che non c’era più l’omogeneità territoriale,
perché sono entrate in ballo persone che venivano da Brescia, Venezia, Pordenone, insomma da un
ambito di aree decisamente più vasto rispetto alla matrice originaria. Intanto, il gruppo si rifondava
diversamente dal primo, in qualche modo sul lascito consapevole dell’esperienza precedente: il
lascito consapevole è costituito dalle regole che sono state fatte e da questa idea dell’elemento
autobiografico e solidale. Quindi, il secondo gruppo nasce su una piattaforma consapevole, diciamo
come normativa di lavoro definita, laddove il primo gruppo nasceva soprattutto da un bisogno

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riconosciuto che ci metteva tutti insieme. Ovviamente, il fatto che c’è stata l’estensione territoriale e
biografica implicava che non c’erano in origine quelle relazioni di tipo amicale, di conoscenza o di
affettività che univano un po’ a rete le diverse persone del primo gruppo. Allargandosi il gruppo e
facendolo anche sulla base territoriale, il grado di frequentazione era chiaramente diverso, anche nel
senso dei ritmi del lavoro: precedentemente, per anni noi siamo andati avanti incontrandoci una
volta ogni due o tre settimane, o alla peggio una volta al mese, comunque con una certa frequenza.
Per esempio, la mia narrazione autobiografica, così come tutte le altre, era durata cinque-sei
incontri, il che voleva dire due, tre o quattro mesi di lavoro con incontri di due o tre ore, in cui
parlavi a lungo a partire da quello che ti veniva, all’interno anche di tracce in qualche modo non
preparate prima, con grande libertà. Alla fine di ciascuna di queste conversazioni c’erano interventi
degli altri, i quali o riportavano delle testimonianze di sé, o degli echi della narrazione, o
confrontavano l’esperienza di sé in rapporto a quella dell’altro: se si parlava, per fare un esempio,
della madre, anche un altro interveniva su quello, oppure semplicemente riportava le proprie
dissonanze o anche come questa narrazione o la persona del narrante erano state viste e ricevute.
Quindi, il primo grosso cambiamento è questo, dal punto di vista delle strutture; in più, il
cambiamento vero è che non c’è più l’idea di una narrazione complessiva. Quello che è stato tolto è
questo: il gruppo originario faceva una narrazione autobiografica, in qualche modo tendenzialmente
compatta e strutturale, a volte si poteva partire da un pretesto esteriore a questa strutturazione (come
nel caso delle lettere di Van Gogh o del sogno), però la falsariga principale era quella di muoversi
secondo l’indirizzo di una narrazione compatta, che aveva come centro focale il complesso
dell’esperienza autobiografica. Nel secondo gruppo, invece, non c’è più un centro focale o direttivo,
evidentemente viene più in luce una riflessione su un tema: ad esempio, Carlo ha riferito una volta il
tema della malattia, un’altra volta quello della scrittura, io ho riferito il tema della saggezza ma
anche quello del rapporto con il divenire adulto e il mantenere sentimenti nomadici, ho parlato del
nomadismo come categoria esistenziale, connotato della mia esistenza, oppure altri hanno parlato
del rapporto con il padre, Nicole sul raccontarsi al femminile. C’erano insomma tematiche varie,
più concentrate e, però, nello stesso tempo più approfondite.
C’è un’altra cosa importante da dire riferita a quello di cui parlavo prima. Nel primo gruppo c’era
non solo l’omogeneità d’età, politica, dell’esperienza generazionale e del genere sessuale, ma c’era
anche un’omogeneità di fondo per quello che riguardava le nostre culture. Come gente che si
rincontra a 17 anni dal ’68, eravamo tutti più o meno attraversati dalle esperienze dei marxismi
critici e, in genere, dalle filosofie critiche, qualunque esse fossero o ammesso che continuassero ad
esserlo, ad esempio anche la psicanalisi potrebbe essere pensata in qualche modo come una filosofia
critica, tanto quanto la scuola di Francoforte. Comunque, eravamo tutti laici, ciò ci connotava
filosoficamente; potevamo essere più illuministi, come potrei un pochino dirmi io, altri più
compattamente marxisti, almeno per allora, come poteva essere (ma neanche tanto) Romano e
magari qualcun altro. Oggi l’eterogeneità è molto più elevata, innanzitutto perché ci sono cattolici e
non cattolici, e la presenza di cattolici cambia molto rispetto ad un rapporto con i laici; poi,
l’eterogeneità passa attraverso ciascuno di noi in maniera molto più massiccia, perché ognuno ha
largamente arricchito la propria dimensione di ricerca o di identità, e comunque siamo molto meno
compatti nei centri focali. Nello stesso tempo questo ci ha anche differenziato molto, perché le
ricerche di ciascuno sono magari andate in direzioni molto diverse: se io quindici anni fa parlavo
con Romano potevo dire di avere in comune molto, oggi io ho letto delle cose che lui non segue e,
viceversa, lui ha fatto e letto delle cose che io non ho seguito. Quindi, c’è un fronte di varietà che
non è semplicemente riducibile, ma è una sfera di eterogeneità maggiore che compone ciascuno di
noi, dunque il mosaico è infinitamente più ricco. In questo modo il dialogo non è solo interessante
come relazione retrospettiva con sé, e questo è una grande differenza: mentre nel primo gruppo ci si
ritrovava in questa sfera retrospettiva, di indagine su di sé andando indietro, partendo dal principio,
qui invece si entra molto di più nel merito di noi stessi nel nostro stesso farci, e questo nel pieno
della vita adulta, sia avendo vent’anni come Federica sia avendone 72 come Carlo, comunque
essendo al di qua della soglia della definitività della vecchiezza, immaginata come quella

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condizione nella quale, purtroppo, niente più è in gioco (a questo livello si può naturalmente anche
essere vecchi a trent’anni o a diciassette). Quindi, sia nel proprio contesto esistenziale e privato, sia
stando dentro a questa dimensione del gruppo, comunque un’interrogazione sul proprio essere in
gioco nel tempo presente è un movente non scritto, non codificato, ma importante. Ciò è la ragione
della comunicazione: infatti, questa non è tanto offrire agli altri il mio percorso perché anche altri
mi offrano il loro e questo incrementa la mia capacità di riflessione autobiografica su dove vengo,
ma la possibilità di immaginare diversamente, attraverso i colloqui con gli altri, anche il mio stesso
destino. Quindi, qui è molto più prospettivo il tipo di indagine, comunque mette in gioco, anche più
consapevolmente che nell’esperienza precedente, quella che è chiamata la regola silenziosa,
dell’introspezione: quando torno a casa, oppure mentre ascolto o intervengo, in qualche modo mi
interrogo anche su dove vado, che cosa farò, come mi spenderò e via dicendo. Ciò è sicuramente un
elemento completamente nuovo che è stato introdotto dall’esperienza di questo gruppo. Inoltre è
cambiata la struttura spaziale, cosa ovviamente molto importante, anche perché essa muta dei
piccoli aspetti nell’incontro, i quali sono magari dei dettagli secondari, ma che assumono una veste
rilevante. Le prime volte ci incontravamo nella sede di Smemoranda, una specie di territorio neutro,
che non era la casa o l’abitazione di ciascuno di noi; poi, un po’ perché questa sede non era più
disponibile e non era comodissima, ci siamo spostati verso le case che, per la loro tipologia,
potevano accoglierci. Ciò già modificava la situazione, però erano quelle ore di una certa sera della
settimana, con quel ristretto intervallo di tempo; finite quelle ore, ciascuno tornava a casa sua, per
cui non si mangiava insieme, magari si poteva prendere il caffè, comunque era un incontro ben
confinato in un lasso di tempo rigido e in uno spazio che non era condiviso, al di là del fatto che ci
fosse per alcune ore l’incontro. Invece, con questa esperienza si sta via un giorno e mezzo, a volte
due e mezzo, una volta abbiamo fatto anche un’esperienza di otto giorni, si sta cioè insieme un lasso
di tempo in cui si condividono delle pratiche, come il cibo in comune: se si vuole si tratta di una
ritualità, ma è anche una ritualità comunitaria, che nello stesso tempo consolida orizzontalmente i
rapporti laddove, essendoci questa maggiore eterogeneità e non contiguità spaziale, altrimenti non
potrebbe essere aumentato questo grado di coesione interna. Quindi, ciò supplisce ad un tasso di
amicalità che non preesiste nel gruppo, introducendolo in qualche modo attraverso la condivisione
del tempo e dello spazio, e questo è senz’altro un aspetto secondario, nel senso che non è una regola
scritta del lavoro, ma agisce come elemento di coesione e di facilitazione dell’incontro. Poi,
vengono condivise anche delle pratiche corporee, come le attività motorie al mattino, oppure sono
condivise delle pratiche di dono: ad esempio, nella fase precedente l’incontro domenicale del
mattino, uno legge una poesia, un testo o un pezzo, relativo al campo tematico discusso, che offre
agli altri, quindi c’è quello che si chiama la libera offerta, cioè il fatto che ciascuno porta agli altri
qualcosa.

- Adesso che periodicità hanno gli incontri?

La periodicità è cambiata, nel senso che, ovviamente, i tempi in comune che possiamo avere su un
gruppo così vasto sono molto più difficili da costruire, poi ci sono chiaramente dei costi diversi, in
quanto si sta fuori: ci vediamo una volta ogni stagione, in più una volta ogni due anni diventa un
incontro prolungato. C’è stata questa prima esperienza, riuscita molto bene, a Firenze, nell’ultima
settimana di agosto del ’98, la prossima volta dovremmo parlare di un incontro, che si fa verso fine
estate, in cui ciascuno nel gruppo si assume uno o più ruoli: per esempio, nello scorso incontro uno
faceva un giorno il narratore, poi il conduttore, un’altra volta invece cambiava ancora, magari
assumendo il ruolo di maestro della pratica, che è quello che dovrebbe in qualche modo occuparsi
della conduzione della vita di questa piccola comunità in quell’arco di tempo. Io, ad esempio, avevo
fatto il responsabile della colonna sonora, ogni tema veniva associato ad una sorta di “meditazione
musicale, o “offerta musicale”; avrei dovuto tenere lì una conversazione sulla saggezza, che poi ho
tenuto dopo, e avevo previsto le Variazioni Goldberg di Bach, perché erano molto incentrate sul
tema dell’individuazione, in quanto era un tema musicale che viene variato 33 volte: questa idea sta

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al tema dell’individuazione nel senso che essa consiste nella capacità di costruire infinite variazioni
del proprio tema, quindi avevo predisposto questo accompagnamento musicale. Dunque, c’era
questa associazione, un altro parlava del misticismo e c’era della musica mistica e così via: è
decisamente più strutturata la comunicazione all’interno di questo contesto. Vigono anche alcune
cerimonie, come la lavanda dei piedi, per esempio. All’interno del gruppo c’è Carlo Enzo, che è un
biblista, è una persona bellissima ed è spontaneamente maestro di questa bellezza della persona che
dona immediatamente agli altri questa sua straordinaria capacità comunicativa molto semplice ed
autentica, senza nessun artificio. Carlo, siccome era stato sacerdote ed è un biblista, quindi conosce
questo tipo di temi molto a fondo, ci offriva una meditazione annessa a questa cerimonia: il tema
della lavanda dei piedi in un passo del Vangelo. C’erano dunque una serie di piccoli centri tematici,
per cui questa settimana non è altro che la riproposizione, in scala più ampia, di tanti percorsi, però
avendo anche tempo in comune in più per fare delle cose che altrimenti non facciamo, come la
passeggiata insieme. Ad esempio, avevo fatto la guida a vedere un dipinto di Masaccio, La cacciata
dal paradiso terrestre, con una riflessione a partire da quel dipinto. Ciascuno dei vari presenti
portava in più anche delle proposte per la vita comune.

- Come sono state contattate le persone che compongono il nuovo gruppo?

Sono state tutte raccolte da Màdera: il gruppo di veneziani è principalmente fatto da colleghi
universitari di Romano o suoi ex alunni laureatisi e rimasti particolarmente vicini e in amicizia con
lui, e in più poi magari hanno portato le loro compagne o altri amici dell’area veneziana, il nucleo
comunque è questo. Lo stesso per Brescia, dove Romano aveva tenuto un seminario in rapporto con
questo gruppo bresciano; però vi era stato chiamato da Rino, il quale era uno del gruppo milanese
originario, che però si è sposato con una donna che insegnava e viveva a Desenzano, quindi anche
lui si è trasferito lì. Rino si è dunque impegnato nella vita sociale e politica nel bresciano, è entrato
in amicizia con queste persone del consultorio, perciò, quando hanno fatto il seminario, attraverso
lui hanno chiamato Màdera. Da lì si è allargata l’amicizia di Romano, per cui, quando il gruppo si è
rimesso in piedi, queste persone del consultorio, oltre a loro amici che via via si sono aggiunti,
hanno costituito il nucleo bresciano. Nel gruppo milanese ci sono state poi delle defezioni, per
esempio tre persone non sono più venute, le consideriamo membri ma, di fatto, non hanno più
partecipato.

- Attualmente da quante persone è composto il gruppo?

Diciamo tra i trenta e i quaranta, il gruppo si è molto allargato, forse si potrebbe perfino dire troppo.
Di fatto, c’è stato un tentativo di produrre delle esperienze analoghe su scala territoriale, più o meno
con le stesse regole e le stesse metodologie, però, ovviamente, senza il periodo di tempo in comune
trascorso insieme, quindi senza tutto il corredo che va dal pasto in comune, al dono, alla pratica,
all’esercizio fisico e via dicendo. C’è stata un’esperienza a Venezia che continua proficuamente,
un’esperienza a Brescia che è iniziata ma è morta dopo un certo tempo, non ne conosco le ragioni,
però non coinvolgeva tutto il gruppo bresciano, ma solo una persona; poi ci sono io che ho iniziato
da novembre scorso e stiamo andando avanti. Sono partito con venti-venticinque inviti, hanno
risposto in diciassette, adesso ci siamo stabilizzati su una dozzina, non abbiamo introdotto nuove
persone, è già un buon numero, consistente (il primo gruppo si muoveva su quella cifra lì), per
adesso abbiamo fatto cinque-sei incontri. Si tratta di incontri circoscritti, di una sera, con un
calendario leggermente più intenso: a Varese ci vediamo una volta al mese, però non d’estate,
quindi, più o meno, otto volte all’anno. Però, non è più una narrazione complessiva, è sempre una
narrazione tematica, anche in più sere, ci si prende il tempo che è necessario. Ad esempio, la mia
narrazione era sulla dissipazione, cioè l’esperienza del dissiparsi e del dissipare, tema molto bello,
che richiede una certa rielaborazione. Adesso un altro amico, che fa parte di questo gruppo, il
prossimo tema che tratterà è l’esperienza della ribellione, non tanto intesa in senso politico generale,

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di rivolta sociale, me nel senso dell’entrare in rottura con certi ordini. Il nucleo di che cosa ci
racconterà lo so già: lui era un grosso dirigente di impresa della Bassani Ticino che si politicizza
improvvisamente a partire dal ’68. In quell’anno trascorre una vacanza diversa, in giro per il mondo
in campeggio, cambiando completamente i suoi schemi; torna dall’estate con una lunga barba e i
capelli lunghi e si presenta alla riunione del consiglio direttivo della Bassani Ticino, la più grossa
fabbrica di componentistica elettronica, di cui lui era uno dei responsabili capo dei progettisti,
quindi con un ruolo di alto livello. Si presenta alla riunione con il capo e tutti i dieci boss
dell’impresa, e questo padrone, Bassani, che dai deferenti doveva essere chiamato signor Gigino.
Tutti gli altri, terrorizzati, gli chiedono cosa faccia con la barba, gli dicono di tagliarsela e gli danno
tutti questi consigli sottovoce. Poi, alla fine della riunione, questo Gigino chiama Giorgio e gli dice
di tagliarsi la barba, e lui gli risponde di no: questo è l’atto della ribellione, cioè dell’uscita da degli
schemi imposti, o trovati, o non canonizzati. Da lì, naturalmente, è nata la sua esperienza
autobiografica, anche con tutte le sue disgrazie in quel lavoro, perché poi ovviamente è precipitato:
come dirigente lui aveva un ufficio, una segretaria, un telefono e una macchina a disposizione, ma
non aveva lavoro, anche se non lo potevano licenziare perché era diventato un esponente di punta
del movimento sindacale. Si è trovato per sette-otto anni in questa situazione assurda di essere
totalmente emarginato; poi, siccome cambiavano i sistemi stipendiali ed erano stati introdotti i
livelli salariali, lui prendeva molto di meno, in quanto non aveva più un contratto individuale da
dirigente e aveva solo il minimo del contratto sindacale, per cui prendeva magari meno della sua
segretaria, pur avendo il titolo di dirigente e il diritto alla macchina e a tutti i benefit relativi. Tutto
questo fino a che il padrone ha avuto la geniale idea di mandarlo in Cina: nella globalizzazione la
Bassani ha messo in piedi un’impresa lì, allora hanno pensato che lui, comunista, filocinese,
maoista, si sarebbe trovato bene, e lui è stato felicissimo, ha passato degli anni molto belli. Adesso
si è riciclato, fa il giornalista e tutta una serie di altre cose. Comunque, è l’esperienza di come una
vita cambia a partire da un gesto di ribellione contingente, su cui non transigi perché, in qualche
modo, quello è un simbolo di identità, del quale normalmente tu potresti benissimo fare a meno, ma
in quel contesto tutto ciò assume in qualche misura un significato; non transigi e ti giochi una vita a
partire da un gesto di per sé senza significato. Comunque, questo è un po’ l’ordine del raccontarsi.
Questa esperienza a Varese funziona abbastanza, le persone che compongono il gruppo ovviamente
le ho raccolte tutte io, in quanto l’ho promossa, essendo io solo di Varese, pur essendo naturalmente
molto legato a questa componente milanese.
Dunque, c’è in qualche misura l’idea di trapiantare l’esperienza al di fuori di questa matrice
originaria, mantenendo una sorta di nucleo centrale, ma magari, dov’è possibile, spingere perché
nascano delle altre esperienze. Non c’è un progetto di radicamento nel territorio o di estensione,
nulla di tutto questo, e naturalmente neanche l’ambizione di offrire un modello da rendere pubblico,
anche se c’è stata un’idea, che poi non è stata ripresa, in quanto magari siamo un po’ inconcludenti
a livello di decisioni, proprio perché nessuno si sente lì dentro in nessun modo abilitato a dirigere o
a decidere, e questo è molto bello: è un luogo dove non ci sono le forme deteriori dell’incontrarsi
nella politica, la competitività per un qualche potere, l’obbligo di decidere, la necessità di costruire
una volontà in comune con la conseguente emarginazione di chi discorda, con i giochi per costruire
alleanze o per distruggere alleanze alternative attorno ad un certo fine o proposito. Quindi, non c’è
un capo, non c’è un segretario, e ciascuno, a turno, si assume semplicemente il ruolo di conduttore,
che è come dire quello che fa il primo intervento, ma lì siamo tutti tra pari, tra uguali, salvo
l’alternarsi dei ruoli all’interno; non ci sono neanche maitre-à-pensare, dunque quello che è
l’elemento sincretico è valorizzato al massimo grado, non c’è un’unità o una coesione da
raggiungere, oppure una battaglia relativamente a un fare o alla conquista di pezzi di mondo o di
potere. Questo naturalmente è molto bello perché è un’oasi di mondo rispetto a qualcosa che anche
le politiche alternative non hanno saputo essere, anch’esse riflettono, seppure in un segno speculare
diverso, le medesime competizioni: magari non lo fanno perché imitano il mondo capitalistico, ma
perché magari ereditano le pratiche, come quelle dello stalinismo, del comunismo classico, che in
verità erano modellate su questo tipo di logiche di potere, di potenza e di dominio. In questo senso

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siamo sicuramente più vicini per certi aspetti all’esperienza del femminismo, che però aveva un
tasso di violenza interno molto alto: io naturalmente non l’ho vissuta, però, che io sappia, il livello
di conflittualità tra le donne nel mondo femminista era molto alto, forse non sono autorizzato a
parlarne, non c’ero per natura, per sesso, tuttavia da quel che so era così. Dentro di noi la sfera del
competere non c’è, quindi, quello che secondo me è interessante è che non solo lì dentro in gioco
non ci sono merci o rapporti che sono in qualche modo dominati dalle merci e dalle prassi che si
strutturano intorno ad esse, dal fare in rapporto alle merci o ai simboli e agli strumenti di esse, come
il potere, ma non ci sono neanche le logiche della competizione, quelle forme di violenza strisciante
che è comunque sottintesa a competizioni di ordine simbolico. Il simbolo è tutto risolto nella sfera
emotivo-affettiva e l’elemento simbolico ha a che fare con la comunicazione intersoggettiva, che in
più è del tutto estranea alle merci perché riguarda beni che non possono essere oggetto di
mercantilizzazione di alcun genere e tipo, anzi.

- Rispetto al discorso dell’orizzontalità, non pensi che alcune volte le gerarchie che si vengono a
creare non siano necessariamente politiche, finalizzate cioè a consolidare e a staticizzare
situazioni di potere, ma che possano essere determinate dalle scelte dei soggetti che si trovano
ai vari livelli, che siano gerarchie tecniche, atte a organizzare tecnicamente competenze e
interessi differenti? Ciò non necessariamente vuol dire non mettere in discussione la gerarchia,
mentre molte volte l’orizzontalità è intesa come un livellamento verso il basso.

Secondo me, nelle pratiche della sinistra c’è un buco nero, innanzitutto dato dal problema del che
tipo di organizzazione darsi. Siccome il modello che è valso per molto tempo è quello della
competizione con un nemico, nella quale è necessario attrezzarsi secondo parametri di efficienza
della capacità di risposta e di contrapposizione, automaticamente quei modelli che vigevano nella
società capitalista o negli ordinamenti che la strutturano nell’ordine quotidiano, sono stati trapiantati
dall’altra parte. C’è addirittura tutto uno spaventoso linguaggio a metà tra il militare e il
manageriale, ad esempio comitato centrale fa pensare ad una struttura verticistica e verticale del
decidere, oppure segretario, che allude al conservare segreti o colui che sa qualcosa che gli altri non
sanno, l’origine della parola è questa. Tali linguaggi sono stati adottati inconsciamente; quindi,
inconsciamente, adottando quell’ordine linguistico, si adotta poi anche quello che sottintende dietro.
Ovviamente questo aveva una sua funzionalità e la scusa di questa ha permesso di assumere poi
tutta una serie di comportamenti inconsci. Di recente ho letto il malloppone fatto dalla Macciocchi
per il Saggiatore, è un bel libro anche se il personaggio non mi esalta per niente: racconta la sua
esperienza di donna nel Pci. Lei vi era ammessa in quanto maschio, quando divorzia dal fratello di
Giorgio Amendola incomincia ad andare in disgrazia a Napoli; nel momento in cui inizia a scrivere
cose non gradite al Pci la sua carriera si stronca. Quando interviene portando le ragioni del
femminismo in un dibattito al comitato centrale, le si crea il gelo intorno, perché portava un
comportamento di donna che le donne-maschio che stavano all’interno del partito non avevano mai
adottato. Lei cita questa Adriana Seroni, che era la responsabile femminile ed era la fotocopia, con
un sesso femminile, di Togliatti piuttosto che di Ingrao, ossia di tutto il mondo maschile che stava
là. Quindi, il tema del rapporto maschile-femminile, dentro l’orizzonte della politica, non c’era. Poi,
lei faceva la rivista ufficiale del partito, Noi Donne, e allora, in quanto donna, in quella collocazione
andava bene, perché quello era il segmento su cui lavorava; ma, se lei fosse stato un maschio,
avrebbe fatto il sindacalista, ma avrebbe fatto Noi Donne nello stesso modo con cui quell’altro
faceva il bollettino della CGIL o l’Unità. Dunque, lì dentro non solo non erano messe in
discussione le gerarchie, ma nemmeno i ruoli dei soggetti. Quindi, c’era questa esigenza della
competitività e dell’efficienza della macchina autoritaria e burocratica del partito, con l’aggravante
della cultura un po’ totalitaria che vigeva nel Pci stalinista, tardo-stalinista o faticosamente post-
stalinista di allora; tutto questo era un ulteriore elemento di aggravante. Negli anni ’60 e ’70 alcuni
gruppi, come le componenti marxiste-leniniste, nacquero subito come una riscimmiottatura, rispetto
alla quale però noi non avevamo nessun vero apprendistato, per cui quello che all’epoca staliniana

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era stata una tragedia forte in questi gruppi diventava una beffa, una tragicommedia, una pantomima
della tragedia precedente. Alla nostra generazione l’aria respirata nel clima dello stalinismo era
comunque estranea, quindi, se non c’è l’aria, si fa solo un’imitazione e le imitazioni sono sempre
cattive: i gruppi di studenti, di cui abbiamo parlato la scorsa volta, che vogliono fare come i loro
padri fanno delle burle, dicevamo delle loro autogestioni, non c’è più il clima intorno che permette
di vivere simili cose, mentre in compenso, cercando di imitare, in verità ci si sottrae al proprio
tempo e ad un’interrogazione su quello che è vitale e innovativo fare ora. Però, noi eravamo
decisamente molto più anarchici, comunque c’era una componente di inquietudine, di ribellione e di
interrogazione anche sulla soggettività, per cui questi gruppi sono morti subito, anche se c’è voluto
parecchio tempo ed esperienze tragiche, mentre quelli che lo hanno imitato maggiormente a fondo
hanno poi condotto le cose più atroci, il terrorismo in modo particolare. Però, anche nei contesti più
fluidi, lì è venuto fuori un ordinamento gerarchico di altra natura, che è quello del carisma; quindi,
le nostre esperienze, più che essere strutturate su un ordine verticale, fondato sulla logica
gerarchico-efficientistica della produzione di insediamento politico, come continua conquista di
casematte, postazioni, sempre un po’ in quest’ottica militare, c’era l’elemento del leaderismo, il
rapporto tra piccolo capo e massa, la fascinazione della parola, siccome la parola, nei movimenti, è
più importante della struttura. Faccio un paragone molto azzardato, che non so nemmeno se sia da
registrare, anche perché è buttato lì: per certe cose eravamo più simili a certi movimenti dell’800 e
anche al fascismo che, essendo più fluidi almeno in certi momenti e condizioni, costruivano delle
situazioni che erano più spontanee, dove in qualche modo emergevano i leader naturali.
Ovviamente, il paragone con il fascismo è solo limitato a questo, ossia il rapporto che si instaurava,
all’interno del movimento e in una forma non strutturata, tra leader e massa; poi, il fascismo era una
struttura totalitaria, per cui questo rapporto in verità lo conformizzava e lo irrigidiva molto, mentre
nei gruppi del ’68 questo rapporto leader-massa era estremamente fluido e sottoposto, per fortuna, a
questo terremoto continuo, per cui, nel momento in cui si costruiva una gerarchia, la si ribaltava.
Però, il ribaltamento non avveniva mettendo in discussione quel tipo di strutturazione.

- Non pensi però che le gerarchie non possano essere messe in discussione semplicemente
attraverso il concetto dell’orizzontalità, senza tenere conto che esistono un insieme di
condizioni oggettive e soggettive per cui leader e masse sono tali?

Mentre allora c’era questo terremoto permanente, oggi non c’è più questo impulso di massa, una
ribellione prolungata e radicale di messa in gioco di rapporti. Quindi, oggi il rapporto vertice-
gregario è molto più comune, perché la società chiede di essere gregario; negli anni ’60 e ’70, o
comunque tra chi ha partecipato a quelle esperienze tra il ’65 e l’80-’85, questo impulso gregario
era molto difficile da chiedere, in ogni caso era partecipativo. Per esempio, se io penso a come sono
nate le componenti terroristiche della zona di Varese, erano tutte persone che non avevano trovato
un ruolo, ad esempio nel Gruppo Gramsci (poi io dopo sono andato al Manifesto, ma conosco la
storia). Erano tutte figure alle quali era richiesto di essere gregarie, magari di un alto livello,
addirittura avevamo messo in piedi delle cose, che oggi sono terribili, chiamate scuole di
comunismo, per formare queste persone e farle diventare in qualche modo dei quadri politici. Però,
erano tutte persone che, in verità, in questo ruolo gregario non volevano stare, giustamente, e
tuttavia non erano in grado di assumersi un altro spazio. Siccome avevano in qualche modo
imparato ad essere l’ala militante non nel senso del far politica, ma nello scontro, cioè l’ala militare,
l’unico spazio di autonomia, in senso stretto e letterale del termine, che era loro dato, era quello di
autostrutturarsi con un gruppo proprio, nel quale avevano delle capacità militari, di forza, coraggio,
esuberanza fisica, determinazione e anche freddezza. Io potevo fare freddamente un comizio, ma se
mi si diceva di andare a urlare qualcosa sotto il naso di un fascista, mi spaventavo e stavo a casa,
perché non avevo assolutamente la struttura psichica per reggere l’impatto con una cosa del genere;
invece, se mi si chiedeva di scrivere un documento in tre giorni, mi chiudevo in casa e avevo la
struttura psichica per restare alla macchina da scrivere 36 ore senza mangiare, bere e dormire:

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ognuno dava secondo le sue capacità e possibilità. Queste persone hanno fatto questa esperienza
secondo me proprio perché rifiutavano una posizione gregaria; oggi molto probabilmente non
accadrebbe nulla di simile, accetterebbero sicuramente una posizione gregaria.
Però, una sinistra, o comunque una sinistra rifondata, di là da venire, che volesse cambiare
veramente a fondo i parametri del mondo capitalistico, non può accettare il principio elitario con
una strutturazione di un potere. Io non sono del parere di contestare il principio delle élite, perché ci
sono sempre quelli che sono più o meno capaci, o che possono svolgere meglio una certa funzione,
sarebbe sbagliato rinunciare a questo, la sinistra deve poter valorizzare le capacità di ciascuno,
mettere in valore le differenze. Invece, il principio di potere è il suo concetto speculare, c’è chi è
senza potere, o chi semplicemente è sottoposto ad un vincolo di obbedienza gerarchica, di ordine
fattuale, ben esprimibile nella frase “ditemi quel che devo fare e lo farò”, che è una logica
estremamente comune nell’agire politico, soprattutto nella sinistra militante di vecchio tipo, oppure
ci sono coloro a cui viene chiesto soltanto di dare il volantino o fare una determinata cosa. C’è una
logica puramente esecutiva, che non partecipa né al livello della decisione né a quello della
riflessione, neanche semplicemente all’esternazione di disagio, bisogni e sentimenti, magari solo
frammenti. La sintesi politica necessariamente richiede dei livelli di competenza che possono essere
più alti, ma ciascuno per la sua competenza deve poter essere in grado di distinguere il meglio di sé,
su tutto l’ambito; così come, ovviamente, è anche giusto che chi ha fatto la sintesi politica poi
ciclostili, controlli il fax o scopi la sede. Oggi la politica è ridotta a notabilato, i DS sono niente
altro che una strutturazione di notabili, con ancora qualche consenziente che lavora per loro nelle
sezioni; ma, tra dieci anni, anche questa base sarà definitivamente erosa, a meno che non
conquistino il potere, cosa assai difficile. Magari nel ’94 si era in grado di realizzare quella reazione
contro Berlusconi, ma ho molti dubbi che questo accadrà nel 2006, quando avremo le prossime
elezioni, visto che possiamo prevedere che in queste del 2001 saremo duramente legnati. Un partito
di quattro notabili non sarà in grado di fare questo, però nemmeno Rifondazione o Cossutta (che è
ancora più morto) potranno produrre qualcosa di autenticamente alternativo, perché comunque il
modello e la forma-partito, nel complesso, sono esattamente quelli di 20-30 anni fa, un modello
migliore del Pci, magari con qualche elemento negativo in meno, però mi pare senza nessuna vera
innovazione.
Cambiare il mondo è un processo che implica delle strutture, l’adozione di metodi e strutture
cambia i soggetti che cambiano il mondo e il cambiamento del mondo cambia questi soggetti e
queste strutture: come stiamo dentro soggettivamente e consapevolmente a questo processo in cui
gli elementi mutano reciprocamente e vicendevolmente? Secondo me, su questo c’è quel grande
buco nero di cui parlavo prima, un vuoto assoluto di riflessione di come il soggetto si situa nella
politica. Io penso che l’idea vera sia quella di rinunciare ad un’idea militante della politica, fondata
su principi di appartenenza, su strutture forti, definite, con una base identitaria, programmatica e
ideologica molto marcata. Penso che dovremmo pensare due diversi livelli dell’agire politico. Uno,
molto più trasversale, legato al perseguimento di finalità specifiche. Per esempio, se mi interessa
ripulire il corso di questo torrente qua fuori, su questo possiamo far convergere forze diverse e tutti
coloro i quali sono interessati per questo fine. Ho un certo fine, mi propongo un certo mezzo, che
sarà quello di mobilitare certa gente o un certo numero di scope e vanghe per pulire, ossia una serie
di strumentazioni coerenti con quello scopo. L’organizzazione e la struttura cessano non appena
abbiamo raggiunto lo scopo. Se altri hanno in mente di fare la lega per la passeggiata a piedi nel tal
posto, tutti coloro i quali saranno interessati andranno lì; magari in quel gruppo ci saranno cinque
persone che si sono anche occupati della pulizia del fiume e ce ne saranno dieci che odiavano quelli
che volevano farla perché a loro piace buttare dentro la spazzatura. Quello che voglio dire con
questi esempi è che è necessario costruire strutture che hanno una finalità a breve termine e che, di
conseguenza, non consolidano poteri, dunque non creano burocrazia, apparati, comandi, vertici,
dove è più facile che tutte le persone, in quanto hanno un fine comune, si incontrino alla pari come
soggetti, e nelle quali la motivazione di sé come soggetto è molto forte, in quanto c’è quel fine
circoscritto e vicino che interessa, quindi il tasso di coinvolgimento è molto alto. Se uno viene

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chiamato ad una riunione oggi sulla globalizzazione, domani sulle elezioni in Iran, dopodomani
sulla questione del conflitto di interessi e come ci opponiamo a Berlusconi, poi sulla Lega, dopo
sull’immigrazione, magari a tutto questo non è interessato nello stesso modo e nella stessa misura;
può darsi che senta tutto giusto, vero e buono, ma lontano. Quindi, occorrerebbe lavorare verso un
principio federativo, ossia una federazione tra individui che si federano per quel fine e quello scopo
(gli esempi che ho fatto erano estremizzati per far capire paradossalmente il concetto di fine limitato
e circoscritto). Questo dovrebbe essere un livello, l’altro è quello di portare questo principio
federativo più in alto, più vicino alla sfera delle consonanze di valore, però oggi, secondo me, con
una maggiore trasversalità. I valori condivisibili sono sicuramente non più legati ad autodefinizioni
identitarie in senso forte; dunque, potremmo rinunciare all’idea di una forma-partito come spazio
dove federare questi apporti partecipativi di origine diversa, quindi avvicinarci di più all’idea di
movimenti, i quali hanno ovviamente un rapporto con esperienze di unità che si realizzano nella
società a quell’altro livello, ma nello stesso tempo hanno un confronto permanente con la sfera delle
istituzioni, della politica o comunque delle istituzioni e strutture che durano (sindacati, enti locali
eccetera), per le quali la continuità dell’agire politico esubera i fini immediatamente circoscritti
dell’agire. Intanto anche lì un principio federativo sicuramente è rilevante, oggi è inesistente questa
pratica; però, anche lì bisogna pensare a strutture che non costruiscano apparati. La sfida consiste in
questo, pensare che la politica possa non essere apparato burocratico e di potere. Purtroppo le cose
vanno in senso esattamente antitetico, si pensi alle elezioni, alle modalità con cui queste si svolgono
adesso, con il collegio uninominale e tutte queste assolute tragedie che sono intervenute nelle
mutazioni vergognose che anche un pezzo di sinistra ha consentito che accadessero. Ad esempio, il
collegio uninominale è l’esaltazione massima del notabilato del peggior tipo, che schiaccia
completamente poi anche un rapporto stesso di crescita naturale, anche magari di leader politici che
abbiano in qualche modo un rapporto positivo con la società. Il problema, appunto, non è di non
avere dei leader: se questi rispondono ad una qualità umana, politico-culturale o di rapporto reale
con una società, quindi di rappresentatività reale, per me tutto questo non è negativo, magari
contiene dei rischi ai quali bisogna pensare; invece, il notabile, in quanto figura che rappresenta un
segmento di casta sociale o una fetta di consenso, costituisce un processo barbarico, non vedo una
parola più morbida. Ciò, tra l’altro, annulla completamente la sfera della politicità come luogo
libero di incontro tra soggetti complessi; questo è altrettanto importante, ossia che la politica non sia
più la riduzione dei soggetti a dei soggetti astratti, a delle categorie generali (elettore, cittadino,
operaio, medico, sindacalista), ma che, intanto, la politica sia più nominata, nel senso individuale: le
ragioni di ciascuno devono essere più chiare, e non meno, o non ridotte a categorie universali. Tutto
questo, secondo me, il ’68, gli anni ’70 e ’80 l’hanno fatto emergere e non abbiamo dato risposta. A
volte la ricerca dei centri sociali rappresenta un tema interessante, se non altro come ricerca di uno
spazio, di un luogo che non è direttamente quello dell’impegno politico, ma nel quale ciascuno
comunque va lì con tutta la sua soggettività. Però, non è una soluzione per le forme della politica,
perché lì si fa un’esperienza nella sfera della socialità, non in quella della politica; quando la si
trasloca dalla sfera della socialità a quella della politica si fa un salto, ci si appiccica un’etichetta e
volontaristicamente si chiede a tutti quelli che condividono quello spaio di aderire anche a quel tipo
di progetto politico. Per esempio, se i centri sociali partecipano in quanto tali ad una manifestazione
contro i bombardamenti a Belgrado, secondo me fanno un salto di natura; non voglio dire che
facciano bene o che facciano male, rispetto a quel contenuto o ad un altro, ma vanno fuori dalla loro
ragione sociale, dal loro essere intrinseco. Snaturano dunque quel tipo di politicità che ha a che fare
con la socialità, e tornano a chiedere a chi partecipa alla manifestazione sulla guerra in Kosovo di
compiere un processo di astrazione, di riduzione anziché di espansione del soggetto. Quindi,
mutano non solo in qualche modo se stessi, ricostruendo all’interno un funzionariato politico o
comunque una gerarchia di caste di potere, ma agiscono su soggetti verso i quali non sono abilitati,
e sarebbe bene che non lo fossero: fanno cioè un salto fuori dalle loro competenze e non sono poi
capaci di svolgere più quella aggregazione. I centri sociali, in questo modo, vanno su un ambito in
cui non sono abilitati, non hanno la titolarità per un’operazione di questo tipo, pur facendo magari

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anche cose giuste e lodevoli, non ho inteso discutere il rapporto contenutistico, ma il nesso
strutturale e formale.

- Ritornando al discorso del gruppo, da cosa sono stati motivati il passaggio e i cambiamenti tra
il primo e il secondo, con il mutamento di quei quattro parametri di cui hai parlato prima? Il
primo gruppo era caratterizzato da un percorso a termine, consistente nei propri racconti
autobiografici: anche questo secondo gruppo ha un percorso delimitato, oppure è
maggiormente in divenire? Infine, che rapporto c’è tra gli elementi caratterizzanti la vostra
esperienza e il discorso sul sincretismo antagonista fatto da Màdera?

Il primo gruppo aveva una sua politicità intrinseca nel vissuto di ciascuno di noi, in quanto tutti,
nella nostra vita, eravamo stati fortemente investiti dalla politica, a volte aggregata dai rapporti di
amicizia o di condivisione anche di comuni esperienze politiche condotte fianco a fianco; quindi,
c’era un certo bisogno di reinterrogarsi su quel cammino compiuto, nel momento di trapasso in cui
in qualche modo ci si congedava da quell’esperienza, non perché fosse sbagliata o abiurata, ma in
quanto ci sembrava in qualche modo consumata. Nel secondo gruppo c’è un dato di fondo di cui
non ho ancora parlato; mentre ho detto quello che è il cambiamento prospettico, di contesto, che ha
giustificato la nascita della prima esperienza, la seconda nasceva da quella parola chiave prima
citata da quel passo de L’alchimia ribelle di Romano, autovalorizzazione solidale, legata a tre nuclei
tematici: l’antagonismo autobiografico solidale, al quale potremmo aggiungere un altro elemento
terminologico, che è il sincretismo. Questi erano in qualche modo impliciti già in alcune riflessioni
fatte nel primo ambito di esperienza, o comunque collateralmente, ma sicuramente individuano una
grande novità, che era la seguente: tra tutte le quattro parole, quella centrale è l’autobiografico, il
partire da sé, in quanto non è più pensabile una politicità che non parta da sé. In un certo era una
ritrasposizione di un tema che emergeva già nelle ricerche degli ultimi anni ’60, ma soprattutto dei
primi anni ’70, sul tema dei bisogni, che in qualche modo era un tentativo di avvicinare una sfera di
soggettivazione della politica rispetto, invece, a questa oggettivazione appiattita su una nozione di
entità aristoteliche (classe, partito, società, ossia enti astratti): con il tema dei bisogni si voleva
saldare l’astratto, il generale, il concreto, l’individuale. Nell’annotazione successiva c’è un’idea che
nessuna ricomposizione di esperienze collettive possa darsi a partire dal generale, o da un
qualunque generale, perché può darsi soltanto attraverso percorsi di riconoscimento che partono da
sé, quindi dall’individuo, dalla singolarità e dal campo del suo vissuto inteso in senso pieno, totale:
la totalità del vissuto, nel quale il mio essere maschio, lavoratore, di una certa età, in un certo
contesto, con un bagaglio di vita e via dicendo, è tutta un’unità che non posso scindere nel
segmento maschio, nel segmento lavoratore, nel semento territorio eccetera. Quindi, partire dalla
unità complessa e piena del vissuto del soggetto, questa è l’idea primaria di questo percorso, che
però non rinuncia ad una dialettica di riconoscimento, dove allora l’elemento solidale è, prima di
tutto, il passaggio al fatto che la solidarietà, pur essendo un concetto in parte anche ambivalente,
implica, in prima istanza, un riconoscimento di una comunanza; per cui, l’incontro con altri, che
hanno istanze, storie, totalità di individualità diverse, è pur sempre ricomponibile, ma lo è prima di
tutto da un atto stesso della soggettività, attraverso appunto il riconoscimento solidale dell’altro,
però anche da una sua fondamentale accettazione prima di tutto. Il riconoscimento non è solo un
autoriconoscimento, come nella tematica dei bisogni, in cui chiedo che la mia identità sia affermata:
in questo caso, invece, parto da una dinamica di ascolto, ossia non chiedo solo che la mia identità
sia affermata, ma anche la specificità e il valore dell’altro in quanto diverso deve essere ugualmente
affermato nel riconoscimento. Quindi, ciò deve avvenire non attraverso un processo sottrattivo, ma
esattamente attraverso un processo amplificativo, che però è molto diverso. Ciò perché là i bisogni
poi alla fine si dovevano mediare, oppure non erano in verità mediabili, lasciando spazio a spinte
fortemente anarchiche, ossia ho questo bisogno oggi e oggi lo devo affermare impulsivamente,
ponendomi però in estrema difficoltà nella costruzione di un movimento collettivo; questo pur
essendo, quella dei bisogni, una tematica giusta, estremamente dirompente e fortemente connotata

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in senso anticapitalistico. Essa, però, non riusciva secondo me a costruire, dentro quella logica, una
dinamica di generalizzazione reale, perché poi la generalizzazione di questi bisogni era lasciata
ancora a forme tradizionali, appunto di tipo sottrattivo, cioè il risultato di una sottrazione di tante
diversità per andare poi verso una cumulazione di fotocopie simili che si stratificano una sull’altra,
una somma di eguaglianze alla fin fine parimenti povere. Qui, invece, si parte anche da un atto di
libertà e di volontà nella costruzione del percorso di riconoscimento, e si parte anche dall’idea che,
ovviamente, comunque gli uomini vivono una dimensione di vita associata, in cui nessun io è una
singolarità separata da tutti gli altri: c’è una critica di questa nozione di atomismo legata invece alla
visione individualistica, la quale è l’esatto opposto dell’individuazione come cammino. Quindi,
l’elemento autobiografico e solidale si gioca in questa relazionalità tra la pienezza della singolarità,
ma anche la possibilità, se non altro nella sfera della comunicazione libera, di costruire dialettiche
di riconoscimento collettivo che non tolgano, ma che pongano la diversità come un elemento di
ricchezza, che si riverbera anche sulla mia singolarità. Il sincretismo sta dentro a questo campo
estremamente vasto, dove le ricomposizioni dei mosaici, delle identità nella sfera solidale, sono date
dalla grande varietà delle esperienze autobiografiche: il sincretismo non è altro che lo spazio dove
tutte le dimensioni eterogenee possono convivere e confrontarsi, e trovare in quell’elemento invece
solidaristico un loro punto di fusione. Quindi, l’elemento sincretico è un’aggettivazione esplicativa
ulteriore di questi due termini: naturalmente in esso è anche contenuto il fatto che le diversità di
origine (sociale, sessuale, culturale, ideologica, filosofica) possono coesistere dentro questo
contesto. E’ cioè possibile un incrocio tra identità complesse a 360°, che non esclude a priori campi
nei quali questa dialettica di riconoscimento sia possibile, a partire da un ordinamento normativo
che, in qualche modo, regola a priori la comunicazione e lo scambio delle soggettività. L’elemento
antagonistico consiste nella presunzione che di per se stesso innanzitutto una riflessione
sull’autobiografico e solidale o l’autobiografico solidale come sfera, sia antagonistica rispetto alle
logiche del mondo capitalistico e alle forme di potere che operano non solo in esso, ma, come
abbiamo detto, anche nelle forme organizzate e storicamente configurate della sinistra, anche
quando volontariamente e soggettivamente proiettate in senso fortemente anticapitalistico. C’è
l’idea che il trovare del semplice tempo per confrontarsi sulla sfera autobiografica, o addirittura
l’idea stessa di avere un’autobiografia e di pensare sé come un soggetto di autobiografia, implichi
un disporsi su un terreno di ricchezza, di bisogni, di domande e di interrogazioni che sfuggono alla
società capitalistica, perché essa non si interroga e costruisce invece un mondo di serialità, di stati
gregari e di subalternità. Questo sebbene la forma della subalternità e della condizione gregaria oggi
siano molto diverse dalle condizioni classiche dello sfruttamento e del dominio capitalistico, perché
oggi comunque il dominio è meno visibile, l’impatto è meno forte; il peso dell’apparato di
repressione o di quello di dominio in senso forte è molto più ridotto nella società. C’è un
totalitarismo in cui viviamo (ammesso che questa parola possa essere usata, lo faccio decisamente
in modo improprio, illetterale e anche scorretto da un punto di vista strettamente filosofico),
comunque c’è un grado di autoritarismo forte nella società che oggi riguarda più le forme e le
modalità della vita che non l’esercizio di un potere in positivo che contrasta in qualche modo le
volontà dei soggetti sociali, o che li riduce a una pura dimensione di cose. Anzi, oggi gli spazi di
relativa autonomia, ad esempio nella dimensione del lavoro e della produzione, sono aumentati e
non diminuiti, il peso del consenso è aumentato e non diminuito. Però, di fatto è aumentato il potere
di conformazione, di chiusura rispetto a qualunque altro tipo di ricerca non solo progettuale,
nell’ordinamento sociale, ma nella possibilità stessa di vivere alternativamente, di vivere altrimenti
(sempre un po’ per citare le parole chiave di questi ordini di riferimento in cui lavoriamo). Queste
possibilità sono minime, se non pressoché inesistenti, o frutto di élite consapevoli, quali in qualche
misura noi siamo, nel senso che, bene o male, queste cose sono rarissime, non le fa quasi nessuno;
quando mi capita di dire che vado a fare questi incontri, mi guardano come una persona un po’
allucinata, queste cose sono scambiate per pratiche da guru, da personaggi un po’ strani, come se
fossero l’omeopatia, il massaggio shiatsu o qualcosa di esotico. Invece, non facciamo assolutamente
niente di esotico, in fondo l’uso della parola su di sé, la comunicazione amicale, che sono una delle

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cose più importanti della vita, per fortuna che c’è qualcuno che cerca di farle ancora, al contrario di
chiudersi dentro questa esclusiva dimensione di lavoro e privato, inteso come barriera, chiusura e, al
massimo, amicalità come socialità: non ho voglia di stare solo e telefono ad un amico per andare a
bere una birra, il che è poi quello che, purtroppo, la gran parte della gente in fondo fa, cioè ti invito
a cena perché mi piace avere quattro amici e se sto tutte le sere a casa con la moglie mi rompo le
scatole, alla fine la vita è sempre la stessa, ma è solo un modo per introdurre una variazione, come
uno che ha mangiato pasta cinque giorni alla settimana e il sesto si fa il riso. Quindi, c’è l’idea che
questa sfera di riflessione autobiografica abbia a che fare con una politicità che è intrinseca al fatto
che tu comunque conduci una vita che, anche se è in silenzio, se ha questo carattere di
sperimentazione di élite silenziosa, invisibile ai più o invisibile tout-court, completamente, è pur
sempre antagonistica rispetto a modelli imperativi e, in questo senso, totalitari, per questa loro
meccanica imperatività nell’ordinamento sociale dominante. E’ un po’ questa la politicità, che non
implica da parte di nessuno una volontà di agire politico, ma è politico l’agire quel tipo di vita, di
esistenza. Essendo sincretica, può anche comprendere il fatto che poi uno voti il Partito Popolare
mentre un altro voti Rifondazione; dunque, non implica assolutamente nessuna condivisione a
livello di scelte nella sfera politico pratica, in quanto questa politicità lascia poi a ciascuno
addirittura di essere agita in forme politiche assolutamente diverse, altrimenti non saremmo più
sincretici. Quello che ci interessa è che ci siano dei momenti condivisi di ricerca; quella che voi
chiamate conricerca è una prova che si adatta benissimo a quello che stiamo facendo. Poi, una
ricerca non necessariamente comporta per tutti lo stesso sbocco ed esito nell’agire di ciascuno. In
fondo, questa idea presume un’idea di società liberata: quando Marx, forse un po’ sognando,
descrive una società nella quale ciascuno alla fine sarà libero di fare il pescatore o il critico d’arte o
l’operaio o il farmer, è in verità una meta che merita di essere ripresa. Forse non può essere ripresa
nell’ordinamento della società in quanto coatto e oggettivato, ma sicuramente lo si può fare in una
società dove c’è un così tale spazio di libertà, nell’ordinamento politico ma anche nelle strutture del
produrre e del lavorare, che consenta poi a ciascuno di autodeterminarsi nella sfera forte della sua
identità; ciò non è il lavoro, l’oggettivazione, ma è la sfera qualitativa della vita activa nel senso
della Arendt, piuttosto che nel senso della sapienzialità classica, che il tempo per sé è il tempo per la
vita buona, per le domande attinenti alla propria felicità, al proprio senso, anche poi nel rapporto
con la natura, con il corpo, con la vita fisica, con la morte, con Dio, ossia tutte le grandi domande di
senso. L’idea è che questo possa essere una sfera del comunicare tra soggetti liberi che presuppone
magari non la società liberata dal bisogno in senso assoluto, come era quella vagheggiata da Marx,
ma di soggetti che, avendo comunque una minore pressione del bisogno, possono spostare l’ottica
del loro guardare sé da un’identità puramente economico-sociale ad un’identità più ricca,
interiorizzata e soggettivata, che poi si riverbera anche sulle domande relative al proprio lavoro, al
modo di consumare le merci, le cose, gli oggetti in modo diverso. Però, il rapporto è in qualche
modo capovolto: è la soggettivazione intenzionale, l’atto fenomenologico con cui ti rapporti agli
oggetti, che muta la significanza, non è l’ordine degli oggetti che colloca il tuo significato e
stabilisce il tuo significare. In questo senso, si recupera un’idea di libertà che è molto più classica e,
in qualche modo, si restituisce anche una dimensione alla soggettività che non è semplicemente il
riflesso coscienziale dell’ordine delle cose, come invece è stato per lungo tempo nella tradizione del
pensiero scolastico del marxismo cosiddetto tale, o comunque di quello che è stato il marxismo
reale indipendentemente dal pensiero di Marx. Questo, secondo me, è interessante, nel senso che
presuppone anche un’idea di società liberata che non sta tanto nella sfera del potere, della politica,
dello stato, cioè di conquista di un certo potere o di un certo ordinamento sociale, ma di conquista a
partire da un ordinamento politico e sociale morbido, dove c’è meno stato, meno autorità, anche
meno economia, meno pressione dei bisogni, ovviamente nel senso che potremmo vivere con meno
e meglio per tutti. C’è poi tutta la questione di qual è l’ordinamento sociale confacente non per me,
ma per sei miliardi di esseri umani, e ciò ovviamente pone delle interrogazioni che, a questo livello,
non hanno risposte, che richiedono di nuovo l’alta politica e un impegno conflittuale anche molto
maggiore di quello che abbiamo vissuto in questo ultimo secolo, perché le sfide sono molto più

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grandi oggi, nella società globalizzata, che non quelle del comunismo o della democrazia o dello
sviluppo. Oggi questa è una sfida che riguarda il destino dell’intero pianeta, e anche la sua
costruzione è molto più complessa. Magari le opportunità sono anche molto più grandi, quando si
parlava di internazionalismo cinquant’anni fa, lo spirito delle nazioni c’era ancora, i capitalismi
avevano volti principalmente nazionali, i poteri erano nazionali e l’internazionalismo era un
richiamo volontaristico, che poi era naturalmente legato alla solidarietà con chi è simile; oggi,
invece, quella globale è anche una società dove l’internazionalismo non è più una proiezione della
volontà, ma uno stato, un modo con cui noi siamo. Però, per porci all’altezza di una sfida così
globale, siamo in un ritardo paragonabile a quello dei luddisti quando c’era la rivoluzione
industriale, ci sono voluti 70-80-90 anni perché ci fosse un minimo di attrezzatura di un movimento
operaio organizzato che rispondesse al potere capitalistico nella fabbrica. Oggi la possibilità di
costruire un potere antagonistico a quello del blocco che governa i processi di globalizzazione è
estremamente difficile, anche perché le culture e le stesse lingue non sono identiche: se voglio
comunicare con un bambarà dovrò parlare una lingua franca, mentre i cartisti potevano parlare tutti
lo stesso inglese. Quindi, ci sono dei ritardi molto grandi che pesano nella sfera oggettiva e che
pongono in gioco anche un problema di sincretismo tra culture, perché un punto di partenza
inevitabile è che un islamico si pone come tale, e io ho voglia di dire che è un brutto integralista,
fanatico di Allah, mentre io sono l’erede di Voltaire: per lui Voltaire non significa niente, come si
fa? Dovremo pur lavorare su un progetto comune accettando che io sono l’erede di Voltaire e lui è
l’erede di Maometto, o il papa è l’erede di Gesù Cristo. Quindi, questa possibilità di riconoscersi è
resa difficile perché, in verità, non abbiamo capacità di comunicazione tra culture. Però, per tornare
al filo principale del discorso, l’idea di arrivare ad una società che è più debole dal punto di vista dei
poteri è, secondo me, un processo abbastanza in corso, almeno per quanto riguarda i poteri nel
senso delle istituzioni; mentre il marxismo lancia una parola d’ordine fantastica, cioè il deperimento
della separazione tra società civile e stato e la dissoluzione dello stato nella società civile, lo fa in
un’epoca in cui lo stato tende in verità a crescere nelle sue funzioni; l’utopismo radicale di Marx poi
si scontrerà con questo, il leninismo, lo stalinismo e il maoismo sono andati esattamente nella
direzione opposta e hanno costruito più e non meno stato, il comunismo realmente esistito è nato
perché salvava degli stati in sfacelo e costruiva delle entità statali estremamente compatte. Per cui il
marxismo è stato accantonato a favore di un’altra visione del mondo, che in realtà non era una
visione filosofica, ma un processo che operava in senso forte nella società, oggi andiamo incontro
ad un processo di riduzione. Trovo a volte triste che a sinistra, soprattutto in quella che dovrebbe
essere più viva, invece ci sia ancora una forte nostalgia verso il ruolo e il peso forte dello stato, e
che la visione del socialismo venga ancora affidata all’idea della proprietà pubblica, del potere
pubblico dello stato. Questo magari semplicemente perché c’è la preoccupazione (non sbagliata, che
anch’io condivido) di non farsi confondere per questa ragione con il liberismo: siccome non siamo
in grado di vedere un’altra idea di società che accetti la riduzione dello stato e non sia nello stesso
tempo liberista, per non essere liberisti finiamo ancora con l’essere nella trincea della difesa dello
stato. Quindi, se noi ammorbidiamo queste strutture, nello stesso tempo possiamo pensare ad un
processo anche secolare, che nessuno di noi vedrà, che vada incontro ad uno scambio di giustizia tra
Nord e Sud del mondo e che la globalizzazione faccia emergere dei soggetti in grado di mutare
l’assetto capitalistico della società globalizzata. Però, secondo me, la dimensione vera della libertà
ultima è nell’autodeterminazione delle nostre vite, e non nella sanità pubblica, anche se poi
certamente questa facilita l’autodeterminazione. Però, non è la conquista oggettivata di una cosa o
di un diritto che pone poi in condizione di realizzare un vero esercizio. Questo è un messaggio oggi
largamente utopico, e forse proprio perché tale è, secondo me, antagonistico nel senso che ho detto.

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INTERVISTA A GIAIRO DAGHINI – 1 AGOSTO 2000

- Qual è stato il suo percorso di formazione politica e culturale? Ci sono state persone o figure
importanti e di riferimento nell’ambito di questo percorso?

Da giovane ho fatto l’operaio, sono di famiglia operaia, mio padre era muratore, ed io ho lavorato
sui cantieri idroelettrici, nelle gallerie, costruivo tubature per l’aria, per l’acqua e poi tutto quello
che era flussi di aria e di acqua calda, fredda, fresca. Mentre facevo queste cose, mi è venuta voglia
di studiare, per un po’ di tempo ho studiato di notte fino quasi ad avere la patente di maestro, poi ho
fatto l’ultimo anno di Magistrale e sono diventato maestro di scuola elementare. Un anno o due
prima avevo ottenuto il diploma di operaio. E’ in quegli anni, quando facevo l’apprendista e
l’operaio, che si è aperto molto forte l’interesse verso gli altri, soprattutto quelli che lavorano, che
costruiscono la ricchezza del mondo senza averla, sia intellettuale sia materiale. Ed è lì che gli
eventi, la vita mi hanno dato degli stimoli in senso politico a fare le cose, a vedere il mondo
politicamente come classi contrapposte, come energie e forze che agiscono. Del resto le prime cose
ed attività in senso politico le ho fatte sui cantieri idroelettrici. In quel periodo, in Svizzera, non
c’erano scioperi, ma c’erano movimenti di protesta quando qualcuno rimaneva ferito: allora una
volta era caduta una frana, c’erano degli operai che erano rimasti feriti e in quella situazione ho
fatto un po’ di casino, ho portato i feriti all’ospedale, insomma lì c’erano già reazioni che andavano
nel senso di una difesa di chi lavora, contro lo sfruttamento della vita degli altri. Però, era
soprattutto la coscienza che noi stavamo costruendo la ricchezza del mondo e che lo facevamo
usando l’intelligenza e il corpo, e il tempo della nostra vita e che questa ricchezza del mondo
andava ad altri e soprattutto veniva sperperata da altri, senza costruire una nuova società. E’ lì che si
forma un po’ la mia consapevolezza politica. Dopo ho fatto il maestro di scuola, mi ha molto
interessato lavorare con i bambini, la formazione, la differenza tra quello che gli insegnavo e la loro
vita, tra come io vivevo e le loro famiglie, questo ha creato un po’ di confusione nei villaggi in cui
arrivavo a insegnare, però alla fine anche questi erano poi obbligati ad accettare questo intruso, e
poi soprattutto ai bambini piaceva molto perché quelli capiscono l’idea di verità, di giustizia, di
nuovo, di aria fresca. In quel tempo, fine anni ’50 inizio anni ’60, una persona che mi è stata molto
vicina, e anch’io ero molto vicino a lui, era Guido Pedroli, un socialista ticinese. Scriveva allora la
storia del Socialismo nella Svizzera Italiana ed era molto amico di Canevascini, una grande figura
di socialista che aveva guidato durante gli anni di guerra e dopo l’antifascismo in Ticino e aiutato la
Resistenza italiana. Pedroli era un filosofo che si era formato a Torino con Abbagnano,
l’esistenzialismo e così via, legato anche un po’ a tutto quel clima della sinistra torinese colta che
aveva sullo sfondo il socialismo, il liberalismo gobettiano, o gramsciano. Morì molto giovane. Un
altro con cui ho avuto un rapporto molto forte era un intellettuale ticinese che si chiamava, adesso è
morto, Virgilio Girardoni, uno storico dell’arte, comunista svizzero, di partito. Poi, sempre su
questa scia, mentre facevo il maestro, ho studiato un po’, sempre di sera e di notte, e ho ottenuto la
maturità del liceo federale svizzero che mi ha permesso poi di accedere all’università; e questo l’ho
fatto già con l’intenzione proprio di venire in Italia perché la Svizzera è un paese democratico
finché si vuole ma è un paese in cui mi sentivo soffocare.
La discesa in Italia per me significava l’andare verso la cultura e la politica. In quei tempi andavo in
Lambretta ad ascoltare i comizi del PCI a Milano, ho sentito ancora Togliatti, poi Longo, Alicata,
tutti i grandi del partito. Scendevo in Italia per poter incontrare quel mondo lì, la casa della cultura
di Milano, il PCI, le lotte di classe e la cultura di sinistra in Italia. Quando mi iscrivo all’università
incontro subito Enzo Paci, e poi dei giovani filosofi e immediatamente il giro della sinistra che non
era proprio d’accordo con il PCI: insomma, appena arrivato in Italia, anziché iscrivermi al PCI, mi
ritrovo dentro i gruppi, Quaderni Rossi, incontro Alquati, Gasparotto, Panzieri, leggo Tronti e
incontro anche lui, insomma tutto quel giro lì. La mia discesa in Italia per andare verso il partito,
verso la cultura in realtà sarà una discesa che incontra sempre sì la sinistra ma fin da subito un’altra
sinistra: quindi, non mi iscriverò mai in un Partito Comunista e fin da subito sarò in pieno dentro ai

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gruppi, Quaderni Rossi, Classe Operaia, i movimenti di Torino, insomma su tutto quello che
avviene alla fine degli anni ’50 e inizio anni ’60 in Italia ci vado proprio a testa bassa. Ecco, come si
dice, l’evento di un incontro. Le cose importanti della vita sono degli incontri. Tu ti incontri con
delle idee, con delle persone, con dei movimenti, con alcuni ci stai e con altri no. Mi sono
incontrato con gli eventi dei gruppi e con il PCI invece, che era il mio mito, non mi sono incontrato,
cioè questo incontro non è avvenuto e ho percorso un’altra strada. Si può dire che noi non possiamo
scegliere l’evento. Siamo investiti da eventi del reale che ci cadono addosso da ogni parte. Noi
abbiamo invece la scelta delle idee, la scelta dei concetti con cui pensare il mondo, con cui situarci
nei confronti degli eventi cosiddetti reali. L’incontro è l’avvenimento di una scelta, è la scelta di un
concetto, anche di persone, ma è soprattutto la scelta di un divenire. L’incontro non ce l’hai con una
forma che è già lì, qualcosa che ti hanno detto e che tu vai a cercare: non è quella forma immensa
del PCI che io sapevo che c’era, che l’andavo a cercare come un’immensa struttura che mi avrebbe
dovuto contenere; invece, camminando incontro qualcos’altro, incontro qualche cosa che è un
divenire, che non è una forma già data ma che è una ricerca, che è un’insurrezione, che è una
rivolta, che ha altre ragioni, ha le ragioni, mentre quell’altra, che ce le aveva anche lei, però non era
più in grado di essere un incontro, una scoperta. Questa è stata una delle cose più importanti che mi
sono capitate venendo in Italia e che ha dato un senso tra altre alla mia vita. Questo incontro con dei
concetti avveniva poi anche con delle persone precise, Panzieri, Alquati, Pierluigi, poi Tronti
soprattutto nella lettura, anche se l’ho visto alcune volte, poi c’era tutto il giro di Classe Operaia
che erano poi Greppi, anche Rieser, poi i padovani, Toni Negri, e subito Bologna: insomma, tutto
questo giro che in Italia, fine anni ’50 inizio anni ’60, lavorava su e con la soggettività operaia, con i
costruttori della ricchezza intellettuale e materiale nel paese.
Un incontro importante, fondamentale è stato Enzo Paci, una figura di maestro. Come filosofo della
fenomenologia egli cercava di far interagire il pensiero husserliano con il marxismo, ciò con molta
onestà e con molta passione. C’era soprattutto il discorso husserliano della crisi delle scienze
europee, che voleva dire la crisi della cultura europea nel suo insieme, una critica radicale al
“produttivismo” filosofico e quindi la caduta di legittimità delle forme di questa cultura, dentro cui
facevano irruzione il marxismo e tutti i divenire politici e di società che erano un’altra cosa dalle
forme della cultura europea esistente. Anche questa è stata una cosa molto importante, questa
cultura aperta, inquieta, nervosa dell’Italia degli anni ’60 che cercava di dare un senso e di
realizzare un incontro con i movimenti della società, della classe. Per alcuni anni Milano è diventata
veramente la mia città, era una grande città europea. Ho vissuto prima con i miei amici filosofi in
viale Maino e poi ho messo su con altri una casa in via Sirtori che è diventata subito una Comune in
cui, dal 1960 al ’75 abbiamo vissuto diverse ondate di eventi legati alle vicende filosofiche e
politiche del tempo. Lì abbiamo tenuto, allora, diverse riunioni di Classe Operaia. Con Alquati,
Gasparotto e altri avevamo iniziato le letture e i commenti al pensiero di Marx. Negli anni ’60
abbiamo tenuto anche delle letture pubbliche de Il capitale molto frequentate. Lì girava sovente, e
in parte vi abitava, il giro filosofico legato a Paci, quindi Guido Neri, Filippini, Piana, Gambazzi,
Renato Rozzi e altri. Non era un luogo di identità, ma di presenze transdisciplinari, che passavano
da un campo all’altro, sempre secondo questa idea di incontri possibili tra le cose. Era un periodo di
grande energia, di incontri memorabili con Paci, con quella sua capacità fantastica di captare e di
connettere tra di loro tutti i campi del pensiero, dell’arte, della musica da Schönberg a Proust, da
Parmenide ad Agostino a Husserl, in una specie di immenso piano di immanenza di concetti e di
figure. Lì, contemporaneamente, abbiamo cominciato il lavoro politico legato all’emergenza delle
lotte operaie degli anni ’60 nelle grandi fabbriche di Milano. Da lì anche abbiamo cominciato a
costruire rapporti con i movimenti francesi di resistenza alla guerra d’Algeria e quindi con i
movimenti di decolonizzazione. Successivamente Bologna ed io siamo andati a Parigi a fare tutto il
’68, su cui poi abbiamo scritto un pezzo sui Quaderni Piacentini. Da lì siamo partiti per Torino nel
’69, nel tempo dell’intervento a Mirafiori e delle assemblee alle Molinette, con il gruppo che poi si
è formato attorno a Dalmaviva, cioè Mario, me, Vesce, anche Toni Negri che veniva a Torino ogni
tanto (ma non spesso), e poi il gruppo dei Romani con Piperno. A Torino c’era anche il gruppo di

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Sofri, di Viale, Bobbio e altri. A quel tempo è nata Lotta Continua, la sigla è di Dalmaviva che
lancia questa figura della Lotta Continua come firma dei volantini. Dopo, nel settembre del ’69,
decidiamo invece di darci un nome diverso, una parola che ci caratterizzi e scegliamo “Potere
Operaio” (mentre “Lotta Continua” resterà il nome del movimento che si stava costituendo attorno
ad Adriano, a Viale…). Questa è una cosa che decidiamo a Torino, a Milano, a Padova, a Roma e
così via, alcune riunioni importanti di questa fondazione vengono tenute in via Sirtori. I primi
numeri di Potere Operaio vengono fatti a casa mia da Oreste Scalzone e da me, con altri, con tutto
il gruppo che campeggia nella Comune, ma siamo un po’ noi due che costruiamo i primi venti
numeri. Questo giornale è pensato, scritto, fatto lì poi, quando lo stampiamo a Roma, Scalzone ed io
partiamo con un aereo alle cinque del mattino e andiamo là a fabbricare il giornale una volta alla
settimana. Insomma, molto alla svelta, questi sono gli anni d’inizio a Milano. Da qui poi comincia
la storia di Potere Operaio, che è una storia complessa, che non posso raccontare così, a memoria.

- Prima hai parlato del gruppo dei fenomenologi, gli allievi di Paci, ossia Guido Neri e gli altri:
secondo te qual è stata la loro importanza nel successivo sviluppo delle varie esperienze
politiche non solo a Milano ma in generale?

L’importanza del gruppo di assistenti, di studenti, di studiosi che faceva riferimento a Paci era in
questa presa di distanza dalla cultura esistente, e consisteva in una radicale critica della ragione. La
fenomenologia nei suoi aspetti migliori, per me, è stata questo, la messa fra parentesi di tutte le
ideologie esistenti, cioè la capacità di lasciarle lì, in sospeso per cominciare a connettersi con il
presente. È stato il lavoro sulle Ricerche Logiche, con la critica allo psicologismo e allo storicismo
sovrapposti come gusci alle cose stesse (temi che poi ritroverò in Walter Benjamin...) È stato un
pensare per concetti liberi da incrostazioni. È stata un nucleo di grandi concetti quali
l’“intenzionalità”, il “mondo della vita”, la “soggettività costituente”… In quel momento ebbero
un’importanza cruciale perché permettevano di connettersi con il mondo della presenza senza dover
dipendere da categorie e forme ideologiche preesistenti. Si trattò, allora, di un lavoro filosofico di
vera e propria scoperta del presente, e in questo senso di un atteggiamento che ci ha permesso,
anche, di prender distanza da molta ideologia dei marxismi del tempo. Nella costellazione
fenomenologica europea, oltre ad Husserl i riferimenti più importanti saranno poi Sartre e Merleau-
Ponty, ma anche dei fenomenologi marxisti come Tran-Duc-Thao, o Karel Kosik, studiati questi
ultimi in particolare da Guido Neri. Un argomento a sé, drammatico, sarà invece Heidegger. Questi,
in poche parole, i circuiti che Paci con il suo insegnamento e i suoi scritti aveva agglutinato attorno
a sé e sollecitato.

- Quali erano secondo te le differenze tra la realtà milanese e quella torinese?

A Torino ho fatto tutta l’esperienza del ’69, sono venuto su all’inizio dell’anno, in marzo se non mi
sbaglio. Nella primavera del ’69 erano partite le lotte operaie alla Fiat, e lì ci sto praticamente dalla
primavera fino all’autunno, venendo poco a Milano. Sto a Torino tutto il grande periodo, quando
c’è l’assemblea operaia delle Molinette alla fine di ogni turno e soprattutto l’assemblea notturna,
quella che si teneva da mezzanotte in avanti. Milano e Torino erano due realtà di una intensità e di
una forza immense. Prima di andare a Torino (ma poi anche dopo, quando ci torno) avevamo
partecipato a Milano a tutte le grandi lotte della Pirelli, della Farmitalia, dell’Alfa. Erano lotte molto
politicizzate, soprattutto alla Pirelli e all’Alfa, con dei comitati e con dei gruppi di avanguardie
operaie, che lavoravano con noi dei gruppi esterni. Alcuni di questi poi partiranno con Mori e altri a
fare anche dei gruppi duri, che poi saranno alla base della nascita delle Brigate Rosse. Noi, a quel
tempo lavoravamo con loro in un contatto diretto, in realtà di fabbrica con momenti forti. Torino
invece era più grande, cioè la fabbrica in quanto tale era l’universo Fiat, forse meno dura ma più
potente, perché c’era questo afflato grande di decine e decine di migliaia di persone che lavoravano
assieme tutto il tempo della e nella città-fabbrica. Torino inoltre ha sempre avuto una certa potenza

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emblematica di dare parole d’ordine e di scatenare eventi il cui significato va ben oltre la città per
investire l’intero paese. Gli scontri di Piazza Statuto del luglio 1962 durati tre giorni, il 7, 8 e 9, ne
sono l’espressione più alta. Qui, fa la sua prima apparizione politica la figura dell’operaio
dequalificato ad alta produttività che si ribella a questo suo destino di pura forza-lavoro e alle
condizioni di vita urbane a cui era sottoposto in quanto abitante, lui e i suoi, in periferie squallide.
Sette anni prima dell’autunno caldo, a Piazza Statuto lo scontro di fabbrica viene portato fuori, sul
suolo urbano, e qui vengono lanciati modi e tempi di quel movimento di autonomia operaia che
culminerà a Corso Traiano nel luglio del 1969. Anche Milano avrà con certe lotte alla Pirelli e
all’Alfa dei cortei che investono la città, la occupano, la paralizzano, si fanno sentire; però Torino
aveva un senso di esemplarità, di emblematicità, di soffio profondo.

- Rispetto ai Quaderni Rossi e a Classe Operaia, qual è la tua analisi di quello che era il
dibattito interno e delle varie posizioni che si esprimevano? Qual è il tuo giudizio politico su
queste due esperienze?

Fin dall’inizio i gruppi sono stati delle avventure appassionanti ma sempre pieni di problemi, anzi di
scazzi terribili tra i loro componenti ed era inevitabile che fosse così perché si lavorava senza una
carta, senza percorsi tracciati. Nei gruppi si lavorava su territori in parte sconosciuti, non si era
dentro il quadro di un partito, non dentro il quadro di una ideologia precostituita, ma sia con le idee
sia con le forme di organizzazione si andava non dico a vista, ma insomma in momenti continui di
divenire e quindi di ricerca. La cosa grossa, almeno come l’ho vissuta io, è stata la sperimentazione
e la teoria. A parte il tormentone dell’entrismo o no nel partito (il famoso “dentro e contro”), la
questione veramente importante posta in quella esperienza era quella di uscire dalle forme
tradizionali della politica di partito e/o di sindacato attraverso l’inchiesta operaia, attraverso incontri
diretti di democrazia di classe, e di far emergere le forme specifiche di una pratica politica operaia. I
Quaderni Rossi e Classe Operaia sono stati in questo senso la nascita dell’opposizione di sinistra in
Italia e, assieme alle lotte operaie di quegli anni, assieme a Piazza Statuto (che aveva fatto paura a
tanti…), assieme a Gatto Selvaggio hanno dato inizio a quello che diventerà la nostra storia
dell’operaismo. Sono state un’esperienza grossa, inaugurale. Così come alcuni momenti teorici
importanti che nascono lì, penso al commento di Panzieri al Frammento sulle macchine, o ai testi di
Tronti in Operai e capitale, là dove scriveva dell’aspetto immediatamente politico delle lotte sul
salario, e della forza “pagana” dell’invenzione operaia. La cosa che posso dire ancora è che a
Quaderni Rossi e a Classe Operaia erano in pochi, ma che mettevano in giro una energia tale che
ne ha smossi molti. Io ci stavo soprattutto per imparare; il territorio per me allora era Milano, con il
suo fantastico movimento di cultura e di lotte dei metalmeccanici e della Pirelli che cominciavano
ad entrare in città…

- Arriviamo dunque al periodo de La Classe, con Torino che ha una certa centralità: è un
momento chiave, in cui poi si delinea la divisione tra Potere Operaio da una parte e Lotta
Continua dall’altra.

Il valore emblematico di Torino è quello di un grande movimento nella città e dentro-fuori la


fabbrica, quando questa ha ancora un valore enorme di centralità di classe e di elaborazione di
pensiero politico, e l’operaio, o anzi meglio gli operai sono il soggetto individuale e collettivo di
una storia che si sta facendo. Direi che gli eventi, gli scioperi, la lotta politica, anche il lavoro di
resistenza umana che si è dato a Torino attorno a Mirafiori, e contemporaneamente alla Volvo in
Svezia e in altre grandi realtà di fabbriche europee nel ’69-’70, sono probabilmente l’ultimo grande
ciclo di lotte in cui la classe operaia è soggetto storico trainante per una modificazione, per un
cambiamento di società. In questo senso eventi come La Classe, come Potere Operaio, come Lotta
Continua, come Avanguardia Operaia, con delle connotazioni molto diverse, in quegli anni, tra il
’69-’70, e poi con la lotta Fiat emblematica per tutti gli anni ’70, tentano di capire, di cavalcare, di

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essere guidati da questa cosa qui. La Classe giornale e struttura d’intervento si fa a partire dai
compagni romani attorno a Piperno e Scalzone, si fa attorno a ciò che resta di Classe Operaia nella
regione di Milano dopo il ’67 – e lì ci lavoro con Sergio Bologna soprattutto –, si fa con un rapporto
forte nel Veneto e infine attorno a Dalmaviva a Torino, proprio quando sta per cominciare i suoi
sommovimenti il vulcano Fiat nella primavera del ’69. Ma quel che è importante è che La Classe si
concentra fin da subito sulla Fiat, e alcuni di noi inizieranno nella primavera del ’69 un intervento
che durerà fino all’autunno e oltre. È’ su quel giornale che scrivo i primi testi suscitati da quei
grandi eventi. Il nostro intervento alle porte delle fabbriche e nelle riunioni notturne alle Molinette,
si fa con assemblee e comitati che sempre più si vengono caratterizzando come organi diretti, senza
mediazione, di potere operaio. Questi comitati operai che si liberano dalla tutela del sindacato, ci
fanno incontrare con i primi processi di autonomia che si esprimono in forme di organizzazione. Di
questa esperienza, degli infiniti incontri e scambi, dei tanti volantini scritti, degli interventi alle
porte, soprattutto alla porta due di Mirafiori, di tutto questo mi preme sottolineare quell’evento
appassionante di creatività che è stata l’Assemblea delle Molinette, che si teneva ogni notte, con gli
operai che uscivano dai turni e noi dei gruppi esterni. Ricordo quell’assemblea come il luogo di una
pratica politica, quella dei comitati operai, come la costituente delle soggettivazione dell’autonomia,
come un’esperienza assoluta di democrazia diretta creativa di teoria, come una realtà in fusione e un
processo continuo di uscita dalle forme istituzionali date. Che cosa c’è di più importante di un
sapere legato a un’esperienza che ti cambia perché ti mette in gioco, perché ne va di tutto ciò che ti
esiste intorno come valore consolidato? In quel periodo faccio l’esperienza in diretta di ciò che è
l’estraneità e il rifiuto. L’estraneità alla fabbrica, a quel lavoro lì di fabbrica in cui ti vengono
sottratti segmenti di vita come frammenti di valore, per il valore; estraneità alla città, a quella città lì
delle periferie-dormitorio e a quella società che le contiene; estraneità alla mediazione e a alla
rappresentanza politica e quindi allo Stato. Un’insurrezione di sovranità nel centro della produzione,
nel luogo stesso della sua produzione. Lì abbiamo vissuto e pensato che il divenir rivoluzionario era
fare, interpretare, capire, agire queste cose, perché i movimenti di classe dentro la fabbrica avevano
un’importanza che andava oltre ad essa, perché irrompevano sul di fuori, sulle forme della società,
sulle forme del pensare, del consumare, del produrre, del vivere il proprio tempo, le proprie
passioni. In questo senso parlo di un divenir rivoluzionario, non solo di una modificazione
persistendo nel proprio stato, ma di un divenir altro nel modo di vivere. Anche se tutto questo non è
sfociato in una rivoluzione delle forme politiche o delle forme statali. Sono convinto però che in
quegli anni noi abbiamo praticato e vissuto in diretta questo divenire rivoluzionario come
appropriazione e apertura del presente, ed è stata la cosa più bella, più forte, più pazzesca di quegli
anni. Dopo le cose non sono più state le stesse dentro il modo di lavorare, ma anche nei rapporti.
Però noi, allora, pensavamo che fosse un inizio e invece adesso, guardando con occhi sgombri da
illusione e poi considerando bene anche le forme nuove del produrre, del fare, delle forze in gioco,
si può dire oggi che quella è stata la chiusura di una storia, ma solo perché se ne aprisse un’altra, in
cui si dessero altri divenire. È stata la chiusura di un periodo, dopo si sono cambiate le
composizioni delle classi, si sono cambiati i modi del produrre con l’uscita dal fordismo e l’entrata
nell’universo delle macchine informatiche, i modi del pensare e si sono espressi anche in tutta la
loro negatività i blocchi storici del socialismo realizzato, che implodono dentro le loro forme
congelate. Coloro che si affermano come forme realizzate finiscono col pensare e con l’agire come
dei simulacri, come delle cose che oramai sono morte dentro la propria forma. Il grande ciclo lo
vedo partire fine anni ’50 inizio ’60. Lì c’è l’apparizione di Classe Operaia e Quaderni Rossi, poi
gli eventi dei due anni cruciali di classe e di società del ’68 e del ’69, poi tutti gli anni ’70 attorno
alla Fiat, attorno alle grandi fabbriche e nelle città. Lì i tentativi di organizzazione politica (l’idea di
partito) dell’opposizione di sinistra e la presenza di Potere Operaio e di Lotta Continua; ma anche
l’emergere di tutte le nuove soggettività: le donne, con le problematiche della differenza sessuale;
generazionali, con i giovani operai e con gli studenti, e poi gli indiani metropolitani, e poi i
disoccupati, e poi i centri sociali; produttive, con il lavoro autonomo… Bologna nel ’77 sarà uno dei
momenti di fioritura e di apertura di queste soggettivazioni, ma sarà anche il luogo in cui una parte

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dei gruppi e o dei movimenti tenteranno l’opzione armata, una scelta già perdente. Con l’inizio
degli anni ’80 la grande parabola dell’operaismo declina, diventerà un’altra storia, con altri
divenire.

- Sempre mantenendo questo carattere di traccia da approfondire in seguito, rispetto alla


soggettività politica quali sono stati secondo te le ricchezze e i limiti (o almeno alcuni di essi)
che si sono espressi in quel ciclo che hai individuato tra la metà degli anni ’60 e il finire degli
anni ’70?

La cosa bella è stata quella di lavorare fuori dalle forme, da tutte le forme date, e cercare di cogliere
tutto il lavoro di opposizione, di rivolta, di resistenza, in un certo senso tutto il lavoro minoritario
rispetto ai valori egemonici del proprio tempo. Questa è stata la cosa più bella ed è quello che si
vede fin dall’inizio nella proliferazione dei gruppi politici, dei centri operai e non subito dei partiti. I
gruppi di uomini e donne che nelle diverse fabbriche, nelle diverse città, nelle diverse regioni e
culture del paese esprimono o fanno esprimere fino in fondo, in modo radicale delle singolarità di
lavoro, di opposizione, di invenzione, di alterità da quello che esiste. Poi in un’altra fase c’è la
questione dei gruppi che vanno oltre il loro essere locali (i toscani, i pisani, i padovani, i milanesi e
così via) e cominciano a pensare in termini di movimento nazionale e poi in forma di partito, di
neo-partito… C’era l’ambizione giusta di voler mettere assieme la singolarità delle esperienze che
venivano fatte nelle fabbriche, nelle città, in luoghi e in regioni diverse, per connetterle, farle
diventare un grande flusso, dar loro quella potenza immensa delle connessioni di forze politiche che
possono sfociare in movimenti di programma e di organizzazione e che sono qualcosa di più dei
singoli gruppi. Anche questa fase costituente, che si appoggia e si ispira alle lotte operaie e sociali
in corso e che è instaurativa di tutti questi divenire nel mondo, è un altro aspetto molto importante,
che permette di collegare i gruppi di Padova con i torinesi e questi con i pisani, i calabresi con i
romani e questi con i milanesi a Torino, e con i campani e con i siciliani…. e che mette in giro per
l’Italia tanti nomadi politici, tante energie che si connettono e che si fluidificano. Il che poi è
l’espressione a livello nazionale dei grandi movimenti e dei grandi flussi dentro la fabbrica, da
reparto a reparto, da unità di produzione a unità di produzione, questa unificazione sovversiva di
tutte le esclusioni, di tutte le divisioni. E poi c’è la questione di quei movimenti che mirano a
diventare partito per la questione del potere, del prendere il potere. C’è una fase preparatoria,
all’inizio degli anni ’70, in cui prende forma l’idea di partito come necessità di dare una struttura
organizzativa ai processi delle autonomie di fabbrica e di società che si erano venute formando nel
’68-’69. Il passaggio dal La Classe a Potere Operaio si fa su questo. Nel primo numero, accanto
alla pianta della città-fabbrica-Mirafiori e al testo sullo scontro politico che racconta le fantastiche
invenzioni di circuiti-flussi-tempi-obiettivi delle lotte operaie, l’editoriale pone l’obiettivo di dar
forma d’organizzazione a tutto quel movimento deciso e diretto dai Comitati, affinché possa durare
nel tempo, affinché possa diventare una effettiva direzione operaia del ciclo e sappia connettere le
avanguardie di classe alle lotte di popolo. E già si parla di stabilire connessioni di lavoro politico al
Sud. Altri lavorano su direzioni diverse, ma il centro della questione resta quello di dare forme
organizzate a questa miriade di singolarità molecolari delle autonomie. Dentro Potere Operaio, dopo
aver teorizzato l’importante figura dell’operaio sociale, cioè la sussunzione di tutte le figure del
lavoro dentro la struttura del salario, Toni Negri lavora e fa lavorare alla costruzione della forma-
partito, a un partito neo-leninista con quest’idea della presa del potere. La teorizzazione di Toni
sulle necessità dell’organizzazione, di una neo-organizzazione, era certamente fondata, e con lui a
Potere Operaio l’abbiamo portata avanti per un certo tempo, fino al suo fallimento quando
l’organizzazione con un salto avventuroso si scioglie nel mare tempestoso di Autonomia
organizzata. Quando Negri propone la forma-partito ha ragione, ma poi a un certo punto non più,
perché il movimento reale era diventato più ampio e più ricco della sua idea di organizzazione.
Dunque, lì le cose diventano molto complesse: perché? Perché tutte queste innovazioni che come
gruppi, anche unificati a livello nazionale, avevamo portato, e tutto il divenire delle cose che questi

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eventi portavano in sé, in un certo senso rischiano di essere congelati, imprigionati dentro forme
partitiche che sono le stesse di quelle che avevamo criticato.
In un certo senso, e qui mi riconnetto a quello che dicevo prima, quando pensiamo di diventare
partito, di nuovo come gli altri partiti ma più forte, diverso, che persegue un’altra politica, che vuole
fare la rivoluzione, lavoriamo su un’ipostasi, sull’ipotesi che questi operai, che questa classe operaia
sia ancora il soggetto rivoluzionario del nostro tempo, e non ci accorgiamo che invece, in realtà, si
sta trasformando, si sta trasmutando in una miriade di soggettività, di divenire rivoluzionari (i
giovani, la differenza sessuale, le donne, le diverse forme di lavoro) che non sono più riducibili in
qualche modo dentro una forma-partito. E tuttavia quando pensiamo alla forma-partito pensiamo
ancora alla forma-partito in cui il soggetto operaio è rivoluzionante a nome di tutti. Quindi, la
ricchezza dei nostri gruppi, che quando nascono rivoluzionano i rapporti esistenti e nel loro
connettersi fanno sobbalzare tutta la realtà, quando vogliamo diventare partito in realtà ci fa cadere
secondo me dentro un’illusione, non ci accorgiamo che la ricchezza di soggettività rivoluzionarie
che abbiamo scatenato ci obbliga, ci spingerebbe a inventare altri processi di divenire, altre forme di
connessione, altre forme di organizzazione. E lì ci sono grandi tentativi di fare, di disfare, ma tutti
noi poi finiamo (chi nel ’73, chi nel ’75, chi nel ’77 e così via) nel dover abdicare dalla forma a cui
aspiriamo. Noi di Potere Operaio a Rosolina ci spacchiamo in chi pensa a un lavoro politico ancora
di gruppo che continui a proliferare istanze di autonomia nella società; e in altri invece che pensano
(soprattutto i gruppi che andranno poi a fare l’Autonomia organizzata) a un indurimento quasi
militare, e poi militare, dei gruppi. Altri, come Lotta Continua, un po’ dopo verranno messi in crisi
dalle nuove soggettività che nascono, dalle donne per esempio, che faranno saltare in aria l’idea di
partito che Sofri cercava di portare avanti. Altri ancora, come Avanguardia Operaia, si trascinano
all’infinito, diventando quasi delle sottoforme di sindacato, fino a quando proprio non ne possono
più né i dirigenti né gli operai, perché non hanno nessuna forza vera. Altri ancora, come Servire il
Popolo, finiscono in storie di tipo ridicolo, Brandirali che sposa la gente e poi alla fine, non avendo
più mezzi per fare la forma-partito si sciolgono e una parte finisce in Comunione e Liberazione… I
più importanti e i più grossi non riescono a diventare partito perché non sanno come coordinare
tutte le soggettività rivoluzionanti che abbiamo scatenato, e non riescono più a stringerle dentro le
forme-partito esistenti, che si basano sempre su questa priorità di un soggetto operaio che non è più
la centralità del mondo; mentre un’altra parte fa l’opzione dell’indurimento militare. Questa darà
poi, tra il ’75 e l’inizio degli anni ’80, la storia che si sa, di drammi, di tragedie, di uccisioni, di
morti dall’una e dall’altra parte, i nostri (cioè quelli che erano con noi fino a un po’ di tempo prima)
che perdono molta gente negli scontri con la polizia; questa che diventa una banda armata
iperorganizzata, un esercito interno... Lì proprio si vede che i giochi sono purtroppo finiti dentro
vicoli ciechi di banda armata opposta a banda armata, quasi dentro un destino di tragedia greca, di
fato, morto su morto, ma non è più un lavoro politico, e infatti a un certo punto, sia per i colpi
ricevuti sia anche per la comprensione delle cose, anche loro poi la smettono, Curcio e gli altri
capiscono che la storia è finita. Una figura mi viene di continuo in mente e cioè che come gruppi,
fino anche a livello nazionale, abbiamo scatenato, abbiamo fatto apparire talmente tanti divenire
rivoluzionari, tante soggettivazioni, che poi per fortuna è stato impossibile rinchiuderli dentro una
forma-partito, che invece si è sempre fatta, nella nostra tradizione rivoluzionaria, attorno a un
soggetto egemonico che è quello operaio, che però non conteneva più in sé tutte le istanze, tutte le
forze, tutte le energie che come gruppi avevamo scatenato. E da lì poi inizierà la nostra storia nuova
dove i divenire rivoluzionari passano attraverso altre cose: purtroppo in questo momento passano
attraverso poche cose, questo è il punto duro, però insomma è diventata un’altra realtà.

- Negli anni passati si è sviluppato un grosso dibattito attorno al cosiddetto postfordismo, da


alcuni visto come una svolta epocale: tu come analizzi il processo di sviluppo e innovazione del
sistema capitalistico? Dall’altra parte c’è il nodo della classe: c’è che ritiene che di classe non
si possa più parlare, c’è chi ne vede una costante frammentazione o polverizzazione, c’è chi usa
il termine moltitudine. Tu cosa ne pensi?

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Le classi esistono sempre, solo che secondo me hanno tante componenti, c’è molto di più di prima,
però ci sono sempre. Io penso che ci siano due o tre questioni: la questione del postfordismo, le
forme con cui il capitale supera se stesso, la frantumazione della classe. Il discorso sulle classi, che
si fa un po’ risalire a Marx, in realtà appare ed è anche prima di Marx: la rivoluzione francese è il
momento in cui il popolo appare come classe e si oppone dapprima ai nobili, al re, a tutta la nobiltà.
Poi, quando hanno messo a terra la nobiltà, c’è all’interno della rivoluzione francese l’opposizione
tra destra e sinistra, nel senso che ci sono quelli che incominciano a teorizzare la distruzione della
proprietà privata e che iniziano a parlare di beni e di cose comuni, che teorizzano di essere una
classe di nullatenenti per diventare poi una comunità; e gli altri che si pongono fin da subito come
una classe della borghesia, che saranno poi gli imprenditori, quelli che diventeranno i nuovi
protagonisti dal punto di vista della proprietà e della storia, mentre i primi diventeranno poi il
soggetto protagonista del divenire rivoluzionario della storia. Quindi, le classi nascono lì, ne parlano
già alcuni storici di queste cose, ed evidentemente Marx con la sua radiografia grandiosa del
capitalismo e della forma-denaro. Però, se lo si guarda bene il discorso delle classi che Marx lancia
è molto complesso: lui in fondo, a parte quello stupendo testo che è il Manifesto, non ha mai scritto
per davvero un libro sulle classi; vorrei anche ricordare che Il capitale finisce con un capitolo non
scritto, si interrompe con un grande libro che deve iniziare che è Le classi. E’ un discorso molto
complesso, Marx ha sicuramente individuato che la tensione cruciale della storia in quel momento,
che l’opposizione epocale caratterizzante la storia moderna è quella tra il proletariato, i produttori
della ricchezza del mondo, e la borghesia, i detentori della ricchezza del mondo; in questa
opposizione lui individua anche due grandi concrezioni culturali e politiche, e in effetti le cose
stanno così. A partire da questo avvengono alcuni grandi momenti rivoluzionari.
Se però noi guardiamo alla stessa storia contemporanea delle rivoluzioni vediamo che lì dentro i
soggetti storici, o meglio, io preferisco parlare di soggettivazioni, cioè di eventi in cui agiscono dei
gruppi o delle persone, le soggettivazioni storiche che si sono date da un punto di vista di classe
sono molto differenziate, molto diverse. Si pensi che la rivoluzione russa che esplode a San
Pietroburgo parte ed è lanciata dagli operai delle officine Putilov e dalle grandi officine attraverso i
Soviet ed è diretta da un partito leninista, che è un partito che organizza, interpreta, guida i Soviet; è
un partito molto stretto, duro, che si appoggia sui Soviet, che è portato da essi, che poi lì, anziché
sovietizzarsi lui, partitizza i Soviet – ma questo, in realtà, è un discorso molto complesso che non
può essere liquidato con una battuta. Dopo, nella rivoluzione russa, i Soviet operai sono le
soggettivazioni operaie guida e il Partito Bolscevico operaio diventerà poi il partito guida di tutti i
movimenti: Soviet e partito sono quelli che vanno poi a portare questo discorso presso i contadini,
dove anche lì c’erano le classi dei kulaki e dei contadini, e lì trasformeranno tutta la cultura, la
storia e la società dei contadini e dei kulaki, facendoli diventare dei salariati, degli operai, li
porteranno in una direzione di progresso moderno che però non è legato a dei divenire rivoluzionari
propri dei contadini, imporranno loro dei divenire e delle forme che sono quelli degli operai delle
fabbriche. Il risultato, come ben si sa, è di distruzione di una cultura, di una storia, della produzione
contadina, e sarà uno dei grandi drammi della rivoluzione russa questa distruzione di cultura senza
saperle immettere uno stimolo o un’invenzione che le permettesse di essere poi altrettanto forte e
vincente come lo sarà per un certo periodo la cultura operaia dentro la Russia. L’esperienza russa
già mostra come quello di classe sia un discorso stratificato, molto complesso, dentro cui c’è una
classe che è il soggetto centrale, cruciale di questa storia, e poi ci sono tutta una serie di strati di
quella società e di quella storia che non si sa bene come tirarli dentro, come farli diventare anch’essi
soggettivazioni e divenire indipendenti. E lì già subito si vede la complessità di questa storia di
classe, si vede come ce n’è una parte, che è poi quella che è la più piccola, che non sa fare altro a un
certo punto che imporre all’altra dei comportamenti e delle imitazioni; è un dramma che corre
attraverso tutta la storia russa.
Altro esempio; nella Cina maoista, che all’inizio è anche molto osteggiata dai russi, il soggetto
rivoluzionario è il contadino e non è l’operaio. Lì ci sono liti furibonde, in Russia pensano

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addirittura di mandare a quel paese Mao e fanno di tutto per sostenere Chiang Kai-shek, che è un
militare borghese a cui interessa solo prendere il potere in Cina e quindi dicono: “Se il borghese va
al potere e vince lui, vuol dire che poi fa la borghesia e avremo il proletariato che poi farà la
rivoluzione”. E’ Mao invece che li manda a quel paese e che riesce con la lunga marcia a sfuggire
all’accerchiamento, la storia poi la si conosce. Dopo anche lui trasformerà questa storia dei
contadini rivoluzionari, in quella del popolo cinese che deve diventare metallurgico, operaio
industriale, in quel corto circuito allucinante della campagna degli alti forni che disboscherà intere
foreste, che provocherà carestie nelle campagne e produrrà ferro inutilizzabile, la storia di
un’allucinazione maoista contro la realtà. Però, anche lì il discorso della classe non è una cosa
semplice, c’è questa strato profondo dei contadini che è la realtà di classe, la più dura della Cina, da
cui parte un divenire rivoluzionario che poi coinvolge tutti gli altri, anche qui in modo molto
drammatico. Si pensi poi al simulacro tragico di tutto questo, la Cambogia, dove Pol Pot e i suoi,
quando riescono a vincere, aboliscono per decreto la storia, aboliscono il denaro, aboliscono la città,
aboliscono le classi e dicono: “Adesso si riparte da zero”. E ripartire da zero secondo la loro
astrazione voleva dire che tutti venivano riportati fuori nelle campagne, inquadrati da quadri armati
del partito e dovevano produrre abbastanza riso da poterlo utilizzare come materia prima da
esportare per costruire uno Stato forte. Lì il discorso di classe addirittura è diventato una terrificante
esperienza di biopolitica, cioè la politica che in termini terroristici ha costruito una classe di persone
come lei voleva.
Ho citato tre esempi tra molti, due emblematici di una grande storia, uno emblematico solo di una
grande tragedia (anche gli altri due contengono tragedie ma sono soprattutto emblematici di una
grande storia). Quello sulle classi non è un discorso che si possa fare solo pensando alla classe come
a una forma universale (dello sfruttato e dello sfruttatore, di colui che costruisce la ricchezza e di
colui che la possiede); ma la classe, pur essendo uno schema che riappare un po’ dappertutto nel
mondo, riappare con delle singolarità che la caratterizzano, con degli aspetti singolari che ti
obbligano a pensarla sia nel suo specifico, sia nelle connessioni singolari e particolari che ha con
altre realtà di classe e con altre classi. Per cui questo fa sì che il discorso di classe, che è stato quello
vincente come Marx l’ha lanciato (“proletari di tutto il mondo unitevi” e così via), è stato un
discorso vincente nei grandi momenti rivoluzionari, ma è stato un discorso che si perdeva non
appena tutte le singolarità di classe dovevano definire il loro modo di connettersi, il loro modo di
agire, il loro modo di unirsi più che per battere l’altro, cioè la borghesia, per costruire un altro
mondo: perché magari battere la borghesia al potere in certi casi era facile, ma poi quello che veniva
dopo se non era peggio era perlomeno abbastanza allucinante. Nel discorso di classe questo
elemento della singolarità (del luogo, delle esperienze) e il suo problema di come si connette ad
altre singolarità, questo evento del “proletari di tutto il mondo unitevi”, è proprio il mistero, il luogo
difficile, il luogo secondo me complesso, il nucleo molto duro di tutto il discorso di classe. Quindi,
è chiaro che le classi continuano ad esistere, la cosa che ci è scappata da tutte le parti sono le
singolarità e le forme specifiche di soggettivazioni e di divenire che il comportamento di classe, le
figure di classe hanno assunto nell’infinita realtà singolare del mondo della modernità. Questo è il
vero punto che è quasi sempre scappato all’esperienza politica, per cui ogni volta che una
dimensione di divenire rivoluzionario si affermava, diventava molto più importante la forma di
quella rivoluzione lì che la forma del divenir rivoluzionario, di tutte le connessioni infinite delle
singolarità di classe che apparivano nel mondo. Quindi se noi oggi vogliamo lavorare di nuovo
tenendo presente questo concetto di classe, dobbiamo farlo ed elaborarlo pensando ai processi
produttivi e di vita del nostro tempo. Oggi il computer è la macchina su cui lavorano i soggetti
produttivi, è la macchina del nostro tempo; prima c’era produzione di macchine attraverso
macchine, ora produzione di macchine attraverso macchine attraverso macchine computerizzate,
attraverso il linguaggio come dice Marazzi. Questo significa pensare nei termini della singolarità
attuale quello che per noi è stata la grande figura del rapporto di classe. Probabilmente quando le
cose vanno così avanti e diventano così complesse è difficile usare le stesse parole, perché
contengono così tante cose oramai e così tanti elementi che devi riuscire a nominarle ma nella loro

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singolarità. Dentro il discorso di classe c’è questo, e ciò lo rende molto complesso. Quindi, più che
parlare di classi, perché contiene questa grande idea marxiana dell’universalità che è in tutto il
mondo il rapporto sfruttati e sfruttatori, proletari e borghesi, che esiste in tutte le infinite diversità e
singolarità, più che parlare di classi io parlerei di singolarità e di minoranze. Noi oggi viviamo in un
mondo che è pieno di minoranze, in esse vedo il confluire e l’emergere di tutte le soggettività che
possono divenire rivoluzionarie e che diventano di classe: chi resiste, chi protesta, chi vuol fare
un’altra vita, chi emerge come un’opposizione irriducibile. Allora, io vedo apparire il discorso di
classe a Seattle, quando migliaia di persone si riuniscono contro l’Organizzazione Mondiale del
Commercio perché non vogliono che quei rapporti di commercio vengano firmati e che colpiscano
via via una serie di realtà produttive e di classe nei paesi; vedo emergere situazioni di classe nei
comportamenti delle donne; vedo emergere situazioni di classe nelle lotte per la salute per esempio
chi ha le medicine e chi non le ha; e ancora in tutte le operazioni che fa Greenpeace oggi, nei
blocchi di resistenza, di minoranza, e all’infinito in tutte queste cose. Qui, nella figura, nella idea di
una minoranza che resiste, che si oppone, in tutte le sue singolarità diverse del mondo
contemporaneo, vedo emergere il tema della classe. Quindi, più che una universalità è una
proliferazione infinita di singolarità di comportamenti di minoranza che sono comportamenti di
rivolta, di resistenza, di opposizione: che sono comportamenti di classe.
In questo senso vedo la complessità della cosa. Una situazione di questo tipo ci obbliga a lavorare
molto alla Foucault sulle genealogie: come emergono tutte queste situazioni di resistenza, di rivolta
e di opposizione? Qual è la loro genealogia? Qual è la genealogia oggi di comportamenti di classe
nelle loro infinite singolarità? Oppure, se pensiamo ancora a riferimenti deleuziani, quali sono i
territori di una classe oggi? Come una classe oggi si territorializza, si forma in tutti questi eventi?
Gli infiniti territori o le infinite territorializzazioni del comportamento di classe sono le infinite
territorializzazioni dei comportamenti di resistenza, di opposizione e di rivolta. In questo senso
vedo apparire, vivere nei comportamenti di tutte le minoranze il tema della classe. Una minoranza
non è tanto una questione numerica, non è che per minoranza si intenda necessariamente pochi.
Minoranza è un comportamento, un divenire che fuoriesce dalle condizioni date della propria storia
che sono insopportabili. Per esempio il comportamento della gente che sta nei paesi cosiddetti in via
di sviluppo, ma che non hanno sviluppo, sono tantissimi e formano una minoranza rispetto ai valori
della cultura bianca, adulta, urbana realizzata nel nostro tempo. Quindi, minoranza vuol dire
resistenza; si dà il caso anche che in molte situazioni le minoranze siano poche rispetto ai tanti della
moltitudine di maggioranza, si danno tutti i casi.
Quanto all’altra questione, sulle forme nuove del capitalismo io sono assolutamente interessato a
tutto il lavoro molto critico e molto forte che fanno (come si dice per andare un po’ svelti) i
postfordisti e tutti quelli che oggi lavorano sull’innovazione nel tempo contemporaneo (al tempo di
Potere Operaio, sul tema dell’innovazione e del valore del lavoro avevo avuto degli incontri
bellissimi con Ferruccio Gambino). La costruzione di un mondo e di un universo della
globalizzazione è innanzitutto la costruzione di un universo immateriale della comunicazione che
permette di localizzare all’infinito sul territorio unità produttive, unità di scambio, logistiche di
trasferimento. C’è questa connessione nuova e importantissima tra un universo immateriale della
globalizzazione informatico-elettronica che permette di controllare, di fare agire, di impiantare in
un’infinità di località tutto quanto serve alla realizzazione di questo mondo molto ampliato. Oggi si
dice che l’immaterialità ha tolto sostanza alle cose, permette di essere dappertutto: no,
l’immaterialità permette di piazzarsi dappertutto, permette di controllare tutti i luoghi materiali del
mondo, permette di connetterli e di farli agire in un altro modo rispetto ai modi antichi.
L’immaterialità ha richiesto una logistica nuova, un movimento di connessione, di trasporti e di
distribuzione di cose che è diverso dal mondo di prima, e che è possibile appunto con questo mondo
della globalizzazione, della immaterializzazione della comunicazione. Tutto questo si accompagna
inoltre non solo a dei modi di produzione, ma ai modi con cui noi oggi viviamo. C’è il superamento
della forma-città come forma compatta, chiusa, che si differenziava rispetto alla campagna. Prima
c’era la città, la campagna, l’opposizione città-campagna. Oggi non possiamo dire che la città è

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scomparsa, possiamo invece dire il contrario, che noi viviamo dappertutto grumi urbani dissolti e
fusi nel territorio. E oggi la territorializzazione dell’urbano corrisponde ad una decentralizzazione e
territorializzazione del produttivo. Il trovarsi in tutti i luoghi del mondo luoghi di abitazione, di
produzione, di azione che sono connessi da una globalizzazione immateriale della comunicazione, è
un modo nuovo di esistere e di vivere, nel bene e nel male: nel bene perché è una possibilità di
un’utilizzazione e di un’espansione sul territorio con molta più libertà; nel male perché tutto questo
sovente (penso alle scelte di produzione e così via) è distruttiva rispetto a delle possibilità di società,
di vita, di culture, anche di sviluppo decente di luoghi, in quanto è legato unicamente a logiche di
mercato, di consumo, di redditività e sicuramente non a idee di società. Ma questa realtà contiene
anche un universo di maggiori possibilità, solo che questo significa che non bisogna (come dicono i
compagni d’assalto di Greenpeace) perdonargliene neanche una a chi prende d’assalto e distrugge la
singolarità degli infiniti territori del mondo della vita. E’ questo snodo qui oggi che è al centro del
discorso: devono essere ripensati i modi di vita attuali, un rapporto nuovo tra natura e artificio, e il
diritto a un modo di vita per tutti nel mondo e non solo per quei quattro stronzi che vivono nei paesi
industrializzati ai quali apparteniamo...

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INTERVISTA A MARIO DALMAVIVA – 19 FEBBRAIO 2001

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e l’inizio della tua attività militante?

Il mio percorso di formazione è stato molto anomalo, perché non avevo né tradizioni famigliari né
formazione politica nei partiti, direi che la mia è stata una scelta d’istinto. Io all’epoca facevo il
dirigente a Roma e per combinazione con un collega avevamo deciso di andare a vedere il maggio
francese, eravamo proprio partiti all’avventura. E quello che avevo visto mi aveva colpito molto,
per cui ero tornato in Italia, la mia politicizzazione all’epoca (sto parlando del 1968) consisteva nel
leggere L’Espresso, questo può dare un’idea, non avevo mai fatto politica attiva. Debbo dire che il
maggio di Parigi mi colpì parecchio. Cominciai a leggere, il primo libro lo ricordo ancora perché mi
aveva entusiasmato: era quello di Baran e Sweezy, Il capitale monopolistico. Ma feci tutto da solo,
senza neanche possibilità di verifica perché non ero nemmeno a Torino. E poi vidi delle
manifestazioni a Roma, in particolare una che finì dietro il “palazzaccio”, in piazza Cavour, dove la
polizia pestò manifestanti e passanti: quella in qualche modo credo che fece scattare una molla, per
cui lasciai il lavoro a Roma, mollai la casa, feci rientrare mia madre che viveva con me, comprai
una vecchia Vespa e venni a Torino. E a Torino andai per così dire a vedere i luoghi dove pensavo
che ci fosse il movimento, fondamentalmente il movimento studentesco, ma avendo la faccia da
bravo figliolo ed essendo vestito come un dirigente mi presero subito per un infiltrato della polizia,
sto parlando dei vari Bobbio, Viale, il movimento studentesco insomma. Frequentai un po’ il
movimento studentesco che allora era già in crisi notevole, ma debbo dire che non mi ci trovavo
molto con quei discorsi, per cui girovagando per Torino finii nella Lega studenti-operai che faceva
un discorso che riconoscevo molto di più, che era molto più pragmatico. All’epoca il movimento
studentesco, credo soprattutto per l’impasse che attraversava, era molto proiettato sul
terzomondismo, mentre invece nella Lega studenti-operai trovai un discorso serio fondato sul
salario. Mi ricordo che con loro partecipai proprio alle primissime lotte di Torino di quel periodo, il
famoso sciopero perdente alla Lancia che mi sembra durò trenta giorni: sviluppai lì una capacità un
po’ istrionesca da capopopolo senza però formazione politica alle spalle, che mi facevo via via che
andavo avanti con l’esperienza. Lì conobbi naturalmente anche Vittorio Rieser. Qui a Torino
c’erano state le manifestazioni davanti al manicomio di Collegno, l’occupazione delle Molinette: lì
tramite Vittorio conobbi un operaio delle meccaniche di Mirafiori se non ricordo male. In
quell’inverno ci furono poi gli episodi della Bussola. Vittorio ed io ci inventammo questi volantini
operai con la sigla che discutemmo un po’ se era Lotta Continua, poi io proposi La Lotta Continua,
poi togliemmo il La: rimase e nacque Lotta Continua, ma eravamo sostanzialmente io, Vittorio e
forse un’altra persona che andavamo davanti a Mirafiori, naturalmente portando il discorso del
salario. Dopo di che io mi misi a lavorare con un gruppo di studenti-lavoratori iscritti alla facoltà di
Trento, che allora era un po’ il punto di riferimento della contestazione in Italia. Conobbi Sergio
Bologna a Milano, che mi mise poi in contatto fondamentalmente con i padovani che a Torino non
avevano punti di riferimento, perché qui quello che poi diventerà Potere Operaio era assente, c’era
solo Emilio Soave che però era Potere Operaio pisano. Naturalmente mi trovai in una sintonia di
discorsi con questi compagni e praticamente iniziammo questo lavoro alla Fiat tenendo i contatti e
mandando informazioni a Milano e poi successivamente anche a Padova, facemmo un intervento
per tutto l’inverno fin quando nella primavera cominciarono a scoppiare gli scioperi. Noi eravamo
sempre quattro gatti perché il movimento studentesco era chiuso dentro la facoltà, non si sentiva un
discorso operaista, occorreva aspettare che arrivasse Adriano per convincerli a venire in fabbrica.
Questo operaio di cui parlavo prima mi sembra che si chiamasse Ottavio, nella Lega eravamo
veramente due gatti, non c’è da pensare a grandi gruppi, eravamo 10-20 persone. Io facevo
militanza completa, perché vivevo della liquidazione, quindi non avevo uno stretto bisogno di
lavorare in quel momento, e dunque facevo militanza 12 ore al giorno, per cui andavo davanti alle
fabbriche, facevo i volantini, discutevamo, ciclostilavo, andavo a distribuirli. Fu così che fondammo
Lotta Continua, con appunto una componente torinese dell’operaismo: io continuavo a capirne

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abbastanza poco ma riuscii poi a mettere in piedi le assemblee studenti-operai, e questo fa parte del
dopo. L’intervento poi si qualificò come Lotta Continua perché serviva una firma, prima credo che
firmassimo studenti-operai perché anche parlare di Lega studenti-operai non aveva senso.
Naturalmente c’era tutta la tradizione dei Quaderni Rossi, le inchieste e queste cose qui.
Quindi, questa è stata la mia formazione, molto atipica perché non ero in una famiglia né comunista
né socialista né sindacalista: è stata una scelta di campo con un po’ di avventura, un po’ di
superficialità. In buona sostanza, avevo visto che il mondo stava cambiando e non avevo nessuna
voglia di stare fermo. Allora io dirigevo la filiale Bolaffi di Roma in via Condotti, ci si figuri,
facevo il giovin signore che andava a cavallo a Villa Borghese il mattino: ma lasciai tutto quello
senza rimpianto, nel senso che mi ero reso conto, ma non politicamente, direi esistenzialmente, che
il mondo stava cambiando e io volevo vedere questo cambiamento. Ero veramente, come scrivono,
un capopopolo di poche letture. Oltretutto, non essendoci a Torino una tradizione di Potere Operaio,
non frequentando l’università né altro, non avevo neanche (lo troverò poi in Potere Operaio) un
milieau intellettuale che in qualche modo si occupasse della mia formazione politica: saranno poi le
lotte che mi porteranno pian piano alla comprensione, poco per volta incomincerò a capire qualche
cosa dalle poche letture. Perché poi effettivamente io ero un angelo del ciclostile, altro che queste
donzelle che si definivano così! Ero io l’angelo del ciclostile, veramente allora per me militanza
politica voleva dire 20 ore al giorno di lavoro, perché quando partono le lotte col primo volantino
andavamo al turno delle 6, alle 11 eravamo all’uscita del secondo turno, facevamo l’assemblea,
sentivamo le notizie, stendevamo il volantino, lo ciclostilavamo e alle 6 andavamo a darlo, la stessa
cosa al cambio turno delle 2. Come si può facilmente immaginare il tempo per leggere non c’era
proprio.

- Successivamente c’è dunque il periodo dell’assemblea operai-studenti, la cui fine segnerà la


nascita di Potere Operaio da una parte e di Lotta Continua (intesa a quel punto come gruppo,
non più come sigla dell’assemblea) dall’altra.

Nasce l’assemblea studenti-operai, noi eravamo in pochi, Potere Operaio manda giù qualche
padovano e qualche romano per riportare l’intervento alle porte che sono davvero tante, c’era
Mirafiori nord, Mirafiori sud e Rivalta. Ma poi diventa abbastanza determinante il fatto che
andando avanti con il suo progetto politico Adriano arriva a Torino, lega con il movimento
studentesco torinese come aveva legato a Trento con il movimento studentesco di là, e in buona
sostanza spedisce i dirigenti del movimento studentesco torinese davanti alla fabbrica. Io non so del
conflitto interno, ma il movimento studentesco (e credo che ci sia anche un documento di Luigi
Bobbio che lo dice) nella primavera del ’69 cominciava dicendo “le lotte operaie sono finite”: ma
non ne faccio un grosso torto a Luigi, il movimento in quel momento pensava al Vietnam e al Terzo
Mondo, agli operai in Italia no. Adriano fu molto bravo a operare questa riconversione, cosicché
arrivò un forte aiuto proprio di manodopera politica davanti alle porte, che era molto utile. In quel
periodo forse fu il momento vero in cui i gruppi ebbero una funzione politica, perché il sindacato
non si stava ancora ben rendendo conto di quello che stava avvenendo; naturalmente la CGIL aveva
ancora a che fare con i cadaveri ingombranti delle commissioni operaie, quindi con un quadro
operaio estraneo e molte volte ostile all’operaio-massa che si era formato in fabbrica. Quindi, noi
avemmo alcune funzioni determinanti che furono secondo me l’agitazione del tema salariale, una
forte battaglia per il discorso degli aumenti salariali uguali per tutti, e poi naturalmente il controllo
dei tempi, contro la nocività. Ma direi che la leva salariale fu quella più forte, perché in quello
stesso periodo, se non ricordo male, anche il sindacato proponeva aumenti salariali ma naturalmente
funzionali a quella che era la sua base, quindi aumenti salariali che riconoscessero le professionalità
all’interno della fabbrica. Mentre sicuramente quello che allora non era ancora Potere Operaio, e
forse anche Potere Operaio pisano, ma sicuramente Potere Operaio veneto era già arrivato al
discorso molto preciso dell’operaio-massa. Quindi, in qualche modo furono due concezioni del
salario che si confrontavano, ma corrette perché ogni discorso salariale era commisurato al

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referente, uno del sindacato e l’altro nostro dell’operaio-massa, quindi dell’operaio immigrato e via
dicendo. Prima che arrivasse il movimento studentesco noi avevamo già formato l’assemblea
studenti-operai, io ricordo che facevamo delle assemblee fuori dalla fabbrica, in un bar vicino alla
porta 2, con 50-60-70 operai che uscivano dal turno e con i quali discutevamo quello che era
successo per fare il volantino e potere avvisare poi quelli del turno successivo. Quindi, avemmo
secondo me questa funzione di rottura rispetto alle cautele e alla composizione del sindacato. Potere
Operaio aveva un discorso sul salario che naturalmente era politico e non sindacale, sul salario
sganciato dalla produttività e quindi era una leva politica formidabile. Un po’ per carattere, per il
ruolo, perché aro arrivato prima, presiedevo queste assemblee operaie, e lì mi trovavo, pur con la
mia ignoranza politica, su un terreno solido che conoscevo: si parlava di quattrini, si parlava di
categorie, si parlava voglio dire di argomenti che conoscevo. Però, eravamo ancora in pochi,
crescemmo quando vennero quelli del movimento studentesco, e poi c’erano compagni validi come
appunto Viale, Bobbio, Negarville, la Laura Rossi e tutta una serie di altri che non ricordo. Noi
riuscimmo a coprire tutte le porte, quindi questo meccanismo molto importante di circolazione
dell’informazione che prima con tutte le teorizzazioni di Romano, il Gatto Selvaggio, era affidato al
meccanismo di lotta, diventava invece un meccanismo esplicito: c’erano cioè dei referenti esterni
che comunicavano all’interno di tutta la fabbrica che cosa era successo, per cui magari le
meccaniche se si erano fermate le linee capivano il perché e con quale rivendicazione e viceversa.
C’era questo universo, si tenga presente che allora Mirafiori credo che facesse 40.000-50.000
operai. Quindi, tutto questo periodo dell’assemblea studenti-operai serviva a noi per imparare molte
cose, avevamo un rapporto molto bello con questi operai, e gli operai crescevano, diventavano da
persone, cittadini, li si chiami come si vuole, incazzati quanto bastava perché invece che trovare i
bei luoghi del lavoro e del reddito a Torino erano torchiati dentro la fabbrica, sfruttati con affitti da
fame, isolati socialmente, perché da buoni piemontesi come sempre non si peritavano di dire “non si
affitta a meridionali”, però chi affittava faceva loro pagare centinaia di mila lire di affitto, e poi
ghettizzatti e le solite storie. Quindi, specie i giovani, forti di un individualismo di chi viveva nei
paesi del Sud, senza essere organizzato dalla fabbrica, avevano una grande voglia di combattere,
perché vivevano una condizione e di fabbrica e sociale molto difficile, con appunto il sindacato che
fondamentalmente si occupava di altro. Dunque, nella discussione, che era sempre il rapporto tra
obiettivo, forme di lotta, momento della trattativa (perché anche noi nel nostro estremismo ci
rendevamo pure conto che a un certo punto occorreva poi trattare), loro crescevano come
avanguardie politiche, questa è l’unica scuola reale, e quindi imparavano le problematiche
dell’organizzazione, le problematiche delle forme di lotta e della capacità di resistere come forme di
lotta, di come trovare forme di lotta che costassero poco agli operai e molto al padrone, come
trovare forme di lotta che squassassero l’organizzazione aziendale, in questo favoriti dalla catena di
montaggio che blocca immediatamente. Imparavano quindi i meccanismi di comunicazione e poi le
forme di lotta concreta, non solo lo sciopero ma il corteo interno come meccanismo di
coinvolgimento e di diffusione dentro la fabbrica, e come modo anche per intimorire i capi, allora
quella dei capi era una struttura molto poliziesca. Questo grosso modo avviene nella primavera del
’69, che è un anticipo delle forme di lotta. Per un paradosso le prime lotte dure avvengono non dove
c’è l’operaio-massa ma dove c’è un operaio professionale e vecchio come alla Lancia, dove ci sono
questi 40 giorni di lotta finiti in una sconfitta; ma io avevo sentito già il secondo giorno un cinico
sindacalista che diceva “questa lotta ce l’abbiamo in culo adesso”, perché lì c’erano anche problemi
di una proprietà assenteista, la Lancia mi sembra che fosse stata comprata da Pesenti che se ne
disinteressava, non mi ricordo esattamente com’era la storia, ma la Lancia non era ancora la Fiat e
c’era un padrone che se ne fotteva. Comunque c’era una classe operaia che era dai 50 anni in su,
quindi vecchia classe operaia. Quelli fecero 40 giorni di lotta, nonostante i salari da fame,
nonostante appunto il sindacato avesse già decretato la sconfitta com’era partita la lotta. Mi ricordo
che un giorno andai alle 8 a megafonare (la lotta non era ancora iniziata) con il solito discorso degli
aumenti salariali, mi sembra che allora fossero 50 lire uguali per tutti di aumento della paga oraria.
Poi i compagni erano dovuti andare via, chi insegnava chi aveva un altro lavoro, ero rimasto lì io

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con il mio megafono e percorrevo il perimetro esterno della fabbrica dove c’erano le finestre
gridando “unitevi in corteo e uscite”: mi sono preso uno spavento bestia perché alle 9 questi qua
non sono usciti in corteo? Io non sapevo assolutamente cosa fare, naturalmente hanno trovato me
come punto di riferimento, sindacalisti non ce n’erano, e io non sapevo assolutamente cosa fare: ho
fatto la cosa più semplice, ho portato il corteo sotto il grattacielo della Lancia. Ma mi è venuto
proprio il panico, perché ho detto “ma io adesso cosa faccio?”, in quanto ero lontanissimo dal
pensare che facessero il corteo interno e poi uscissero. Questa era una parentesi per dire che per
strani meccanismi la lotta è scoppiata prima in una zona di vecchia classe operaia, tutti invece
speravano che scoppiasse a Mirafiori perché la Lancia era già una classe operaia obsoleta e un
marchio obsoleto.

- Dalla primavera del ’69 fino a settembre esce La Classe.

Era il giornale che facevamo con lunghissime telefonate in cui Scalzone a Milano redigeva e noi
qua dettavamo.

- In quel periodo a Torino vengono Daghini, Vesce, quelli che diedero poi vita a Potere Operaio.

Vengono un po’ tutti a Torino. Dalla primavera all’inizio dell’estate arrivano a Torino tutti quelli di
Potere Operaio, arrivano i romani, arrivano i padovani e via dicendo, arriva Adriano che
intelligentemente fa l’operazione con il movimento studentesco. E a quel punto naturalmente
l’intervento non solo si dilata, ma funziona il tam tam e la comunicazione con gli altri poli di classe,
a Milano la Pirelli, Marghera nel Veneto, la Fatme a Roma. Questi gruppi iniziali usano
naturalmente tutti gli strumenti di propaganda che hanno. Si tenga presente che poi nel frattempo
c’è la conferenza studenti-operai, c’è il 3 luglio, un altro momento molto importante, e poi appunto
la conferenza studenti-operai, allora mi ricordo che ci permettemmo di lasciare fuori Scalfari che
non voleva pagare la quota di ingresso. Fu un grosso momento anticipatorio, lì era proprio pieno di
quadri operai, c’era la questione del contratto. Infatti, visto a posteriori naturalmente, tutte queste
lotte diventano un maglio nei confronti del sindacato, della quinta lega, della CGIL, perché
ovviamente non possono più ignorarle, non solo per l’intensità della lotta all’interno che comunque
presuppone un momento di mediazione, perché se no il sindacato che ci sta a fare, ma anche per la
risonanza che in giro per l’Italia viene data e molte volte enfatizzata; ma noi volevamo fare la
rivoluzione…

- La Classe era fatta principalmente da quelli che poi daranno vita a Potere Operaio.

Sì, lì era ancora la fase di Lotta Continua in quanto assemblea operai-studenti. Dopo di che Giairo,
dentro una sfera di forte antagonismo, ma eravamo comunque tutti compagni, si ferma a Torino per
fare Lotta Continua, cioè dà una mano lui per mettere in piedi Lotta Continua: a quel punto
l’intervento si spacca, Lotta Continua forma il suo gruppo partendo appunto dagli operai e da questi
quadri del movimento torinese, mentre La Classe diventa Potere Operaio. Ciò avviene con una
spaccatura forse inevitabile: cosa si può dire a posteriori? A posteriori ci sarebbe da fare una seria
riflessione su quanto abbiamo realmente contato e quanto no, però inquadrando i gruppi in una
logica non da gruppo, ci sono troppe memorie di gruppi in cui ognuno si autogiustifica o si
autocondanna. Secondo me quella parte dell’intervento, la primavera del ’69, fu il momento in cui i
gruppi, pur non essendo ancora tali, ebbero nei confronti del conflitto, anche degli anni successivi,
delle posizioni del sindacato, la valenza più forte, il sindacato era totalmente impreparato, non dico
nemmeno del partito, che ce l’avemmo contro da subito. Ma il sindacato ha dovuto fare i conti con
una realtà senza mediazioni, il partito poteva mediare attraverso il sindacato, questo non poteva. E
difatti le piattaforme poi dei contratti subirono delle forme di influenza, perché il sindacato
naturalmente non era fatto di persone stupide, aveva se si vuole la lentezza di tutte le istituzioni

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burocratizzate e l’ostilità al nuovo loro propria: parlo soprattutto della CGIL e della FIOM, la FIM
era più pronta proprio perché aveva quadri meno ideologizzati, sicuramente più estremisti, non
doveva rispondere al partito. Infatti, poi i migliori quadri operai che scelgono di entrare nel
sindacato se non mi ricordo male in buona parte, anche i più attivi, sono piuttosto sulla FIM che non
sulla FIOM.
Tanto per saltare subito ad un’analisi, passando il tempo io mi sono abbastanza convinto (e ciò non
lo capivo allora) che era tale la forza messa in campo dalla classe operaia nel ’69, nel ’70, nel ’71,
che aveva bisogno di un referente adeguato come forza a quella che esprimeva lei; noi eravamo lì a
dire “noi siamo rivoluzionari, voi non lo siete”. Cioè, in definitiva mi rendo conto a posteriori che
abbiamo fatto tanta ideologia e poca politica, molta politica in pochi momenti, il resto è tanta
ideologia che, come ben si sa, se non fa i conti con la dura realtà delle cose diventa una fuga dalla
realtà, come in buona parte è diventata nei gruppi. Non è un problema di entrismo o di non
entrismo, il problema è secondo me, come i consigli operai dimostrano, che su quel livello di forza
di classe i gruppi, i gruppetti, quelli storici, quelli nuovi, ma neanche tutti assieme potevano
rappresentare un referente significativo per quel movimento di classe. Io ricordo alcune
manifestazioni a Roma, non mi colpiva il fatto che fossero 50.000 o 100.000, quello secondo me era
solo un dato quantitativo, la cosa che mi colpiva è che erano presenti le fabbriche con 10-15 operai
dei consigli, e quindi i 100.000 erano 10.000 fabbriche, ognuna con 10 persone: era questo che ti
dava un’idea dell’estensione e del movimento messosi in moto. Noi eravamo proprio pochissimi,
quasi nessuno, era un bel gruppo di intellettuali, faceva il discorso secondo me più avanzato, ma
eravamo poco politici, politici abituati alle dimensioni del gruppo e del movimento studentesco.
Adesso, pensandoci a posteriori, abbiamo avuto questa funzione di leva molto forte perché abbiamo
capito le cose addirittura tanti anni prima, Potere Operaio teorizzava proprio questa nuova
composizione di classe fin dal ’62, piazza Statuto, le magliette a strisce di Genova, i primi scioperi
nelle aziende elettriche. Quindi, era arrivato preparato a questo, preparato da un punto di vista
teorico, ma da un punto di vista pratico eravamo quattro gatti, e il discorso non cambia molto
neanche con Lotta Continua, che fu sicuramente il gruppo più numeroso in Italia. Cioè, mi sono
abbastanza reso conto che, se vuoi, più che un’intelligenza di classe, che pure c’è, c’è una necessità
politica di classe, che è la necessità per un movimento così vasto di trovare poi l’interlocutore
adeguato, non solo come forza ed estensione ma come capacità poi di mediazione istituzionale: e lì
era soprattutto il sindacato, che in quegli anni fu secondo me fu il vero partito di classe, il Partito
Comunista era lontano, mediava, era la mediazione istituzionale, ma la vera forza rivoluzionaria è
stato il sindacato in quegli anni. Anche se noi l’avessimo capito, e non lo capimmo o non lo
potevamo capire perché eravamo rivoluzionari, il processo avvenne secondo me in maniera così
rapida ed estesa, cioè questa nuova composizione di classe divenne una fucina di avanguardie
politiche così estesa e così di massa che noi non potevamo comprenderlo. Avremmo dovuto avere
una testa più lucida con noi, ma occorreva un grande politico, e non lo erano né quelli di Potere
Operaio né quelli di Lotta Continua, troppo abituati alla dimensione del gruppo. Voglio far capire,
perché non voglio far gongolare Romolo Gobbi, che questo non è un discorso entrista, non me ne
frega niente e non sono mai stato un entrista e chi l’ha fatto, ben altrimenti che Romolo, parlo di
Tronti e delle grandi teste, non hanno cavato un ragno dal buco. Fa parte se vuoi di questi ritardi
storici tra l’avanguardia politica e i movimenti di massa, per cui quando leggi Lenin poi dici “che
bravo!” e subito dopo “che culo!”, perché ci fu una coincidenza storica, i quadri, la formazione, le
batoste, il nucleo del partito, poi con l’ingegno di Lenin per l’organizzazione, ma poi la guerra, la
sconfitta e tutto quanto, fu un mix e un amalgama incredibile. Sì, Tronti aveva scritto Lenin in
Inghilterra, ma aveva scritto questa teoria assolutamente fasulla che proprio i fatti si sono incaricati
di smentire della rivoluzione nel punto dello sviluppo: molto intellettuale, molto affascinante ma
non ha funzionato.

- Dalla ricerca che stiamo portando avanti si viene a configurare un piccolo spaccato che poi
può diventare un’ipotesi più generale sul funzionamento dei movimenti e delle organizzazioni

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politiche. Su un livello superiore ci sono le avanguardie politiche, ossia un numero ristretto di
soggetti che hanno un’autonomia di elaborazione, di proposizione e di direzione; in basso c’è
una domanda politica che viene dai movimenti, e in mezzo, a fare da cerniera, uno strato
intermedio e stratificato composto dai militanti, che intercettano la domanda dei movimenti
ricongiungendola con la capacità di direzione politiche delle avanguardie, in una circolarità
continua. All’interno della generica categoria dei militanti (e qui riprendo il discorso che facevi
all’inizio rispetto alla tua formazione) si possono individuare diverse figure tipiche e vari modi
di formazione: c’è il militante di base che assume un determinato ruolo e modo d’essere
all’interno della lotta e il cui percorso politico è legato specificatamente ad una certa
situazione, al fatto di essere collocato in una particolare realtà, di avere determinate
conoscenze, di maturare alcuni presupposti che lo portano ad essere attivo in una certa fase,
anche se poi finita la lotta il suo percorso magari si ferma o continua in forme diverse;
all’interno della lotta si formano poi le avanguardie di lotta, che non sono le avanguardie
politiche ma sono persone che, formatisi in un contesto specifico e ad esso legate, trainano una
certa fase di conflitto; poi ci sono i militanti politici che, con un bagaglio di esperienza e
formazione loro proprio e al di là degli alti e bassi dei cicli di lotta, continuano a mantenere la
funzione di cerniera e di impegno costante.

Sicuramente mi sembra che la partizione che hai fatto rifletta bene le varie figure presenti. Il
discorso che faccio io spostandolo un po’ in avanti anche nel tempo è, se si vuole, un discorso in cui
non è che si neghi la saldatura tra avanguardia di lotta e avanguardia politica, ma per avanguardia
politica intendiamo il personale formatosi precedentemente che poi sollecita e va a intervenire nelle
lotte promuovendo (nel caso degli operaisti) un discorso salariale e lo fa diventare una leva politica;
è ovvio che ci sono questi e poi ci sono gli m-l e tutto il resto, gli operaisti sono una componente,
parliamo soprattutto di loro perché era anche la loro teoria che li portava a diventare forza agente
nel vivo delle lotte operaie. Ma la mia impressione è che, fatta pure questa distinzione in categorie
che aiutano poi a capire i processi reali come si svolgevano, si sia in qualche modo determinato un
deficit di potenza: è come se due fenomeni fisici non riuscissero poi a stare insieme perché l’uno ha
una massa talmente sterminata che la capacità di attrazione dell’altra che ha una densità molto
maggiore ma non sufficiente, per parlare in termini di forza gravitazionale; per cui la massa
maggiore deve trovare in qualche modo come soluzione politica, intesa poi come mediazione e
modificazione istituzionale, degli interlocutori adatti a sé. Parlo soprattutto di quello che secondo
me è il centro poi di tutte queste storie, ossia la formazione dei delegati operai dentro i consigli di
fabbrica, se parlo degli anni ’70 la stessa lotta armata è il risultato di una sconfitta, anche dove viene
proclamata come ideologia: secondo me il fatto maggiore che segna gli anni ’70 e che rende unica
l’esperienza italiana è la storia dei consigli operai, quello è stato un avvenimento. Quando io sento
parlare Ingrao di democrazia mi viene spontanea una domanda: “ma disgraziato, l’unica forma reale
di democrazia che si è data negli ultimi cinquant’anni in Italia sono stati i consigli operai e voi come
partito li avete distrutti, perché proprio il partito li ha distrutti: cosa vieni a cianciare di
democrazia?”. Queste sono riflessioni, quando hai un po’ di memoria storica in questo paese
smemorato e vedi degli interlocutori che parlano pesi le parole sulla base di quello che hanno fatto,
e questo è ancora un altro discorso. Ritorno su questo discorso perché ho un “sagrin” (come si dice
in piemontese): gli anni ’70 sono stati e sono ancora oggi degli anni sconosciuti, perché le forze
istituzionali, l’ex PCI in primo luogo, hanno tutto l’interesse a coprire il decennio con questa
coperta corta che è il terrorismo, e quindi di conseguenza la lotta al terrorismo, la propria fedeltà
allo Stato: e il decennio invece ha tutt’altra storia, che è quella di cui stiamo parlando adesso, quella
è la storia secondo me fino al ’77, che comincia a mostrare una diversa composizione del
movimento.

- Tu hai in precedenza detto che hai capito che il mondo stava cambiando o poteva farlo, e
questa è stata la molla che ti ha fatto iniziare un percorso politico. Tronti e altri sostengono che

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alla fine degli anni ’60 quel ciclo di lotte operaie che aveva segnato il decennio era in una fase
di riflusso. Tronti usa una metafora, dicendo che si fu vittime di un’illusione ottica perché si era
visto il rosso, questo effettivamente c’era ma era quello del tramonto e non dell’aurora.
Secondo te alla fine degli anni ’60 le lotte operaie erano una fase di apertura o di chiusura?
Ma ancora prima, che cos’era la classe operaia e cos’erano gli operai in quegli anni (cosa di
cui pochi realmente parlano)? E perché era quella forza capace di far pensare che lì si potesse
far leva per cambiare il mondo?

Intanto io devo mettere dei limiti al mio giudizio che sono quelli della mia storia personale, il resto
sono cose che ho letto: io comincio a fare politica nella seconda metà del ’68, quindi parlo più
sicuramente delle cose che ho visto che non delle altre. Per quello che ho visto io non sono
d’accordo con questo discorso, trovo che è una lettura molto intellettuale delle lotte. Anche alla luce
di quello che ho detto, se c’era un tramonto era quello delle avanguardie politiche e non delle lotte
operaie. Come si presentano a questo ciclo di lotte le avanguardie politiche degli anni ’60?
Frantumate, spezzettate, piene di sconfitte, divise, suddivise, di nuovo suddivise, loro sì, non le
lotte. E sì che avevano avuto un intuito, ma secondo me se c’è una carenza è nella teoria politica e
non nelle lotte operaie, questo per come la vedo io. Siamo arrivati in quattro gatti quando le lotte
esplodono e fanno deflagrare tutti gli equilibri precedenti: ma Tronti cosa fa? Entra nel partito, forse
è giusto dal suo punto di vista, ma forse doveva farlo dieci anni prima. Non voglio parlare di Tronti,
trovo che sia un grande personaggio della sinistra extraparlamentare anche se è entrato nel PCI. Se
devo però dare un giudizio a posteriori, io trovo che le avanguardie politiche sono arrivate lì
vecchie: la teoria c’era, l’operaio-massa lo si diceva e tutto quanto, ma nessuno ha forse avuto la
forza di capire che la rivoluzione era una cosa diversa negli nani ‘70 in Italia e con il mondo
com’era. Io mi sono accorto di quanto aveva assunto la classe operaia in termini di rapporti di
potere sociali, non politici, nel decennio successivo, nella seconda metà degli anni ’70: in quei 5-6
anni la classe operaia costruisce una forza e un’egemonia sociale che non sbocca poi nella
rivoluzione, ma di fronte alla quale tutti i vari personaggi politici che io ho conosciuto,
naturalmente me compreso, erano del tutto impreparati. Se si va a prendere i due giornali si vede
che Potere Operaio e anche Lotta Continua partono sulla teoria della lotta armata come una via di
fuga demenziale che non riconosce più la realtà delle cose che stanno avvenendo in Italia; ovvero,
secondo me riconoscono che chi raccoglie in misura adeguata questo movimento operaio di lotte è
il sindacato, che la costruzione dei consigli operai vede la presenza dei gruppi in posizione
assolutamente marginale e decentrata, e allora se si leggono i giornali di quell’epoca sono pieni
veramente di cose demenziali, la lotta armata, la presa del palazzo d’inverno. Noi ne avevamo forse
un esempio in piccolo, Oreste Scalzone, che meno contavamo e più gli articoli diventavano inni, ma
in Lotta Continua era la stessa cosa in maniere diverse. A parte le Brigate Rosse, le uniche che
dicono clandestinità e via dicendo, gli altri teorizzano il doppio livello. Non era possibile, non c’era
nessun’altra possibilità, come poi i fatti successivi hanno dimostrato: il sindacato non era un partito,
confinato in un ruolo istituzionale che l’aveva portato a raccogliere questa enorme forza, tutta
concentrata sulle conquiste di carattere materiale con questa organizzazione formidabile che nessun
partito comunista in Italia ha mai avuto, diffusa, capillare e penetrante, e poi succube del partito
senza poter dare lo sbocco politico a questa cosa, che il partito conta poi di dare con il movimento
operaio sconfitto nel ’75 con le elezioni. Queste cose qui, l’alba, il tramonto, non mi convincono; se
rileggo Tronti è un piacere, ma poi si deve separare la poesia dal resto, lui affascinava tutti con
questo modo di scrivere bellissimo, eccezionale, è un grande scrittore, sintetico, poi asseverativo,
ogni frase è un macigno, Lenin in Inghilterra ecc.: ma questa cosa qui è molta autocompiaciuta. Se
ci ripenso a posteriori ho veramente un unico rimpianto: sono contento di aver fatto il ’68, sono
contento anche di essere andato in galera, di essermi fatto tutta l’esperienza che ho fatto, ho un
unico rimpianto, quello di aver fatto poca politica. Allora non avevo l’intelligenza e la cultura per
capirlo, e forse non era possibile farne di più, perché chi è entrato nel PCI non è che abbia fatto più
politica, anzi forse ne ha fatta di meno; ma non abbiamo avuto il coraggio di riconoscerlo. Allora,

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per tornare alla tua domanda, non sono proprio d’accordo, poi non so da che punto di vista parlasse
Tronti: secondo me le lotte degli anni ’60 si innescano con le lotte della fine degli anni ’60
assumendo una dimensione di massa e trovando il referente nell’operaio-massa. E non solo, dentro
queste lotte così diffuse e di livello così elevato si forma un’avanguardia di lotta e in parte politica,
ma non solo quelli che fanno i gruppi, diventa in parte politica perché i più avvertiti
dell’avanguardia di lotta cominciano a guardare fuori dalla fabbrica e probabilmente a capire che se
la sono presa nel culo, cioè che uno sbocco politico di tutte queste lotte non esiste. Naturalmente
quello che c’è tenta di appropriarsene, il PCI tenta di andare al governo, poi non ci riuscirà, sarà
giocato, ma a quel punto il PCI si presenta legittimamente con il fatto di dire “l'unico che può
controllare le lotte sono io”, e ovviamente con la leva della CGIL. Poi ci sono tutte le storie molto
meno lineari, però io non sono d’accordo con questa cosa che dice Tronti: trovo e ritengo che di
questo secolo, a parte le storie del ’17, ma di questa seconda metà del secolo è forse questo il
fenomeno di movimento più significativo che sia avvenuto, per quello che io conosco, nel mondo
occidentale, molto più alto di livello di quello che è avvenuto in Francia ad esempio, dove tutto era
impastoiato con questo partito comunista retrogrado. Ritengo che il rapporto lotte-movimento-
sindacato trovi il suo limite nella funzione istituzionale del sindacato, che non ha la forza di
liberarsi e di dire “ma chi se ne frega del sindacato, io sono il partito”, cioè di rompere nell’arena
istituzionale, questo sì come fatto rivoluzionario. L’avevano tentato attraverso un percorso, i
consigli operai che entravano nelle scuole e via dicendo, ma era ancora un tentativo dal basso, di
uscire dalla camicia stretta della fabbrica. Probabilmente, sempre a posteriori, forse è una cosa
antistorica, lì veramente era il sindacato che doveva fare il partito, cioè “che mi frega che mi
chiamo sindacato e del ruolo istituzionale che mi hai dato, io adesso sono il partito”. Era l’unica
cosa adeguata, il resto erano se si vuole pallidi fantasmi, i gruppi erano proprio dei pallidi fantasmi,
molto chiusi; ma in alcuni momenti secondo me del ’69, specie la prima parte poi anche la seconda
come spinta ulteriore anche nel ’70, assolvono una grossa funzione di stimolo e di diffusione delle
lotte, ma poi ognuno a occuparsi dei suoi quadri operai nell’assemblea, con una miopia pazzesca,
ma che me ne frega se tu hai 20 operai e io ne ho 10. Secondo me mancava, ognuno preso nella sua
ideologia, uno sguardo lungo, e forse lo sguardo lungo avrebbe anche potuto dire che non potevano
andare altrimenti le lotte, cioè che i sogni rivoluzionari erano appunto sogni; però, ci sarebbe dovuta
almeno essere la capacità di dichiarare i fenomeni per quello che erano.

- Romano è stato uno dei pochi ad occuparsi di cosa fosse realmente la soggettività operaia, fino
ad arrivare agli operai e ai loro vissuti, e quindi di cosa fosse quell’insieme di comportamenti,
credenze, bisogni ecc. che sicuramente non erano del tutto antagonisti, però in una certa fase
avevano degli elementi di effettiva diversità dal padrone e dalla borghesia. Si trattava di capire
da dove venissero le differenze soggettive, i momenti di formazione (non solo esterni, ma
interni) di una particolare cultura e soggettività con elementi di antagonismo, di una forza da
cui si poteva partire per un processuale percorso politico di ri-soggettivazione e costruzione di
alterità.

Sì, forse è vero, ma cos’è una soggettività operaia? E’ un insieme di comportamenti, è un insieme di
scelte di lotta ma anche scelte esistenziali: non lo so cosa intenda Romano per questa soggettività
operaia. Forse è stata poco studiata, noi avevamo sostanzialmente i tempi che la lotta ci concedeva.
Devo dire che, tranne poche volte, eravamo molto a rimorchio delle lotte di questa famosa
soggettività operaia, anche se sì, facevamo circolare le informazioni, ci montavamo la testa, una
volta abbiamo anche proclamato lo sciopero generale, queste “stronzate” veramente da piccoli
dirigenti comunisti. Qualche volta le abbiamo azzeccate, il 3 luglio l’abbiamo azzeccata: non
eravamo neanche una piccola organizzazione, eravamo una piccola fettina di movimento di
avanguardia politiche, ma parlo dell’ordine di 20-30-40 compagni e non di più, che proclama uno
sciopero fuori dalla fabbrica, c’era lo sciopero generale per la casa, che porta in piazza 1.000-1.500
operai, una cifra enorme, ma poi incendia due interi quartieri di Torino. E’ una cosa secondo me

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casuale, io quello sciopero l’avevo voluto contro tutti, avevo solo dalla mia Romolo Gobbi, tutti gli
altri stavano chiusi nell’università e non si muovevano. Ma è un caso, non voglio venderlo come un
calcolo, ma no, è un caso. Perché poi era una scena surreale, su corso Traiano tutti questi scontri tra
operai, avanguardie politiche, polizia, è arrivato il battaglione Padova, la gente che partecipava
dalle case, tirava giù i vasi da fiori, ci eravamo impossessati di alcuni caterpillar che usavamo come
carri armati per bloccare le strade: cioè, una scena dell’altro mondo, e sui due corsi, corso Unione
Sovietica e al fondo di via Nizza, la gente che tornava dalla gita fuori porta che tranquillamente
scorreva in macchina. E’ una cosa che dici “ma che rivoluzione?”, rivoluzione per qualche migliaio
di noi qui in questo quartiere, la lotta con la polizia, la lotta di fabbrica, e poi centinaia di migliaia di
abitanti di Torino che tornavano tranquillamente in macchina in questo afflusso di lunghe code
ignorando assolutamente tutto quello che stava avvenendo. Perché dico questo? Cos’è lì la
soggettività operaia? Come l’hai raccolta? Allora probabilmente per capirci in questa cosa
occorrerebbero proprio delle definizioni di una cosa così difficile come la soggettività operaia. E’
un po’ come la composizione di classe, se ne parla ma è necessario definirla molto bene. Credo che
questa cosa sia vera, io rimango abbastanza legato a questo discorso del rapporto tra movimento,
potenza del movimento (torno a usare questa parola) e potenza dell’interlocutore politico in grado di
mediare. Cioè, che cosa succede? L’interlocutore Stato in tutte le sue articolazioni o reprime o trova
un soggetto che media questa cosa: però deve essere un soggetto adeguato, e in Italia storicamente
questi soggetti erano il sindacato e il partito, santi non ce n’erano. Per il resto, se debbo dire,
abbiamo a volte avuto una funzione di acceleratore, molte più volte siamo stati in coda, altrettante
volte abbiamo fatto ideologia. Le cose sono andate in un certo modo perché non abbiamo capito i
comportamenti soggettivi di classe? Ma se noi li avessimo capiti, rispetto al discorso che faccio
sulla potenza, qual era poi il soggetto politico? Certo, la composizione di classe da un lato, ma il
soggetto politico in grado di trasformare in percorso rivoluzionario questa soggettività dei
comportamenti qual era? Quindi, a una domanda rispondo con un’altra domanda. Ho le idee
abbastanza chiare sulla composizione di classe, soprattutto su questa cesura tra l’operaio
professionale e questo operaio-massa; anche lì, i comportamenti operai nel corso degli anni ’60
cambiano, perché probabilmente è vero che l’operaio del Sud che arriva a Nord intanto scopre la
fabbrica, che è un territorio sconosciuto, e non è che scopre la fabbrica e scopre la lotta il giorno
dopo, ne deve scoprire tutti i meccanismi, le forme di collegamento, cioè deve capire che cos’è un
salario. Secondo me quello ha impiegato (è del tutto un’idea mia) qualche anno per rendersi conto
di dov’era; perché non è che il contadino entra in fabbrica e il giorno dopo sa cos’è la fabbrica, sa
cos’è un salario, sa che cosa sono le categorie, sa che cos’è uno sciopero: è un mondo così diverso.
Io non vedo nessun tramonto, vedo semplicemente il fatto che questa enorme migrazione di un
popolo di proletari dentro la fabbrica ha dei tempi fisiologici. Anche perché non è che lì trova le
avanguardie politiche, lì le avanguardie politiche facevano le commissioni operaie, erano da
un’altra parte, si preoccupavano dell’operaio qualificato, cioè dei propri compagni di lavoro: quindi,
questo è abbandonato assolutamente a se stesso, non ha partito, non ha sindacato, è isolato
socialmente, cosa fa? Tenta di capire che cosa succede. Dunque, non mi meraviglia che negli anni
’60 avvenga questo accumulo di potenziale esplosivo dentro la fabbrica, ma questo discorso dei
comportamenti operai secondo me non è un discorso innato, i comportamenti operai derivano dalla
conoscenza che l’operaio ha dell’ambiente fabbrica, se per comportamenti operai intendiamo le
forme di lotta, le forme di mediazione, quindi è un in progress.

- Romano infatti approfondì da dove venivano i comportamenti soggettivi, collettivi e perfino


individuali, antagonisti e non, nella lotta e non, formati dall’esterno o dall’interno. Parlò ad
esempio di spontaneità organizzata, il che era una grossa e nuova questione.

Ma tutto questo richiede tempo, perché secondo me anche il formarsi della spontaneità (intesa come
comportamenti spontanei di lotta) richiede del tempo, perché questo operaio è come trasferito su

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Marte. E’ una città in cui capisce poco, è preso dalla sopravvivenza. Le mie sono considerazioni,
sono tanti anni che discuto poco di queste cose.

- Come si configurava Potere Operaio a Torino? Dopo il ’69 i poli più forti di PO furono
sicuramente altri.

Potere Operaio a Torino si forma quando si forma Potere Operaio nazionale, e rimane sempre una
sede debole, probabilmente in parte per incapacità mia che la dirigevo, ma in parte perché
sostanzialmente il personale politico di movimento si riconosceva in Lotta Continua. Nella quasi
totalità, tranne appunto alcuni “vecchi” che avevano un percorso nelle storie di Quaderni Rossi e
via dicendo, il personale politico che si era poi qualificato ed erano stati riconosciuti come dirigenti
politici entrano in Lotta Continua. Io non ero in grado di fare altrimenti, non so se ne avevo le
capacità, i dirigenti di Potere Operaio di allora erano sicuramente Toni e Franco; per scelta loro o
non lo so, non hanno fatto come Adriano che è stato molto bravo e ha effettuato questa cucitura
(muovendosi lui da Trento, passando per Milano e arrivando a Torino), di queste che erano
avanguardie, cioè serviva forza-lavoro politica, quadri politici e via dicendo. Perciò la storia di
Potere Operaio a Torino è proprio una storia minoritaria. Io faccio un’operazione, per quello che
riesco a fare, per trovare quadri nuovi sugli studenti-lavoratori di Trento, e lì effettivamente trovo
alcuni quadri che rimpolpano un po’ la sede di Torino. Dalla scissione di Lotta Continua nasce
Potere Operaio e la sede torinese di PO che continua l’intervento; con Lotta Continua comincia
un’escalation che poi vista anche questa a posteriori è demenziale, perché, salario noi e salario loro,
diventava difficile differenziarsi, loro con questa componente che poi pagava in termini numerici e
con una maggiore attenzione secondo me a quelli che erano i comportamenti e le esigenze
individuali, e questo pagò sul piano della militanza. Noi invece eravamo tutti asceti della politica,
per cui ci ritenevamo un’élite, era questo leninismo mal digerito per cui è meglio essere in pochi ma
i migliori, tutte balle, a Torino eravamo proprio molto pochi. Eravamo molto pochi di fronte a una
realtà di classe che invece richiedeva un intervento significativo, poi sono convinto che noi più
Lotta Continua contassimo ancora ben poco, ma LC metteva i cortei in strada, noi ci abbiamo
provato qualche volta e ci abbiamo rinunciato perché, se non riuscivamo a coinvolgere qualche
scuola, eravamo proprio in quattro gatti. Però sostanzialmente, rivedendola a posteriori, se penso ai
discorsi di concorrenza tra i gruppi, poi nei fatti noi facevamo il non pagamento degli autobus, non
paghiamo più i biglietti, non paghiamo più l’affitto, non paghiamo più la luce, abbiamo fatto anche
delle lotte significative, Lotta Continua poi tirò fuori “prendiamoci la città” che era semplicemente
questa cosa. Nel ’69 qui avvenne, e quello fu un dato interessante, una riunione tra i pochi quadri di
Potere Operaio torinesi e un gruppo di dirigenti giovanili del PCI, come Magnaghi, che allora
occupavano le case a Nichelino, avevano fatto anche loro un’azione eversiva con l’occupazione di
case nel comune rosso, e poi entrarono in PO anche loro con un grosso appoggio perché Alberto è
un formidabile quadro politico. Però, sempre in pochi eravamo.

- Qual è stato il tuo percorso successivo?

Il mio percorso è stato legato a Potere Operaio sostanzialmente; quando poi PO è finito ci fu
quest’ultimo patetico tentativo di rianimazione ma lo scontro politico e il confronto storico tra le
due anime di Potere Operaio, Piperno e Negri, ormai non aveva più senso, il gruppo non aveva più
incidenza politica. Io venni nominato segretario a Rosolina, che nella buona sostanza segnò la fine
di PO, nel senso che continuò a vivere, nessuno ebbe la forza di chiudere la luce, ma con una
diaspora, smembrato e via dicendo, con le sedi sempre più in difficoltà; la mia fu proprio una
segreteria fantasma, perché ormai eravamo tutti consapevoli che eravamo stati sconfitti. Nel
frattempo su tutta una serie di militanti di Lotta Continua e di Potere Operaio la sconfitta
cominciava ad essere trasferita nel discorso lotta armata, fu la genesi di Prima Linea e queste cose
qui. Lotta Continua fece ancora il tentativo nel ’75 di presentarsi alle elezioni e prese una batosta.

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Continuammo a fare l’intervento firmandoci, non mi ricordo se nel ’75, studenti-operai come molti
anni prima, ma la storia era ormai finita. Non era finita la mia attività politica perché io mi ritirai tra
il ’75 e il ’76 a vita privata come si diceva, ma il 7 aprile del ’79 fui obbligato a ricominciare a fare
politica. Quindi, in pratica per una specie di senso calvinista io continuavo ad andare davanti alle
fabbriche per sentire come stavano le cose, ma era una testimonianza, eravamo proprio quattro o
cinque persone, fra l’altro era un lavoro inutile perché le notizie filtravano sempre meno e poi fra
l’altro nel ’74-’75 molte avanguardie si licenziarono. Se si vuole, l’esperienza di formazione di
avanguardie di lotta e in parte di avanguardia politica, compresi i quadri dei gruppi, ti portò al fatto
che quando passò il processo di ristrutturazione da parte della Fiat, e nello stesso tempo la stretta del
sindacato che nei fatti castrò i consigli operai, molti di loro se ne andarono, cioè uscirono dalla
fabbrica; stavano nella fabbrica solo fino a quando questa dava loro un ambiente politico in cui
muoversi, nel momento in cui la fabbrica tornava ad essere linea di montaggio e fatica ne uscirono.
Per cui questa è la mia storia, io praticamente nel ’75-’76 cesso di fare politica attiva e poi mi
succede questa storia del 7 aprile.

- Analizzando retrospettivamente i tuoi percorsi hai individuato diversi limiti delle esperienze
politiche in questione. Secondo te quali sono i nodi che nell’oggi e in prospettiva futura
rimangono aperti da un punto di vista politico?

Francamente io rischio di dire delle “cazzate” perché sono disabituato alla politica e a un
ragionamento di natura politica. Qui sta cambiando tutto sotto i nostri occhi e anche molto
rapidamente, e non è la banalità di questa progressiva insignificanza della classe operaia rispetto
agli assetti sociali complessivi e delle trasformazioni del sindacato che è sempre più un sindacato di
pensionati. Il nodo francamente è che, tranne qualche lavoro in particolare di Sergio, per quello che
so io, sul lavoro autonomo, questa nuova composizione di classe sembra sfuggire a tutti i parametri.
Ora, non è che abbia le idee chiare in proposito, ma se dovessi dire da dove riparte un filo rosso
francamente non mi sembra più che parta dalle fabbriche. Il problema è che non saprei dire da dove
parte, e neanche che forma prende: tu parlavi dei comportamenti operai, ma chi sono gli operai
oggi? Non gli operai di fabbrica, ma gli operai sociali: e questi operai sociali che comportamenti
hanno? E questi nuovi comportamenti come si individuano e come si organizzano? Molte domande,
nessuna risposta se non abbiamo gli strumenti per capire una nuova composizione di classe; e non
parlo di organizzarla che è un problema di là da venire, ma solo per capirla. Qui ritorna di nuovo il
discorso dei comportamenti di classe. Le fabbriche non è che non ci siano più, ci sono ancora
naturalmente, però fra l’operaio sociale di oggi e l’operaio di fabbrica di oggi c’è qualche legame,
c’è qualche rapporto? Non lo so, non ne ho idea, sarei già contento se leggessi (e qualche volta mi
capita, ma di rado) delle cose intelligenti in proposito. Ma mi sembra che ci sia tutta l’attenzione
spostata sul capitale, sul mercato, e sono delle emerite “stronzate”, mentre sono pochi e discontinui
i tentativi nell’altro senso. Anche questo discorso della conoscenza sociale o come diceva il nostro
amico il general intellect, che cos’è oggi? Come si riappropria questo operaio sociale? Io sono a
volte esterrefatto, la conoscenza intesa appunto come general intellect è cresciuta enormemente, la
produttività è cresciuta enormemente, e invece siamo ancora ai catorci politici di una volta che
consentono una distribuzione di ricchezza paradossale, è incredibile. C’è qualche piccolo e
insignificante tentativo del sindacato di grattarne via un po’, di salvaguardare qualche cosa delle
conquiste, ma niente in confronto a quello che è successo negli anni ’80 e ’90. Qual è la forma di
nuovo che può affrontare il problema della distribuzione sociale della ricchezza? A questo discorso
del rifiuto del lavoro, geniale intuizione che vive nei comportamenti dei giovani, ma come
autoemarginazione e non come conquista politica, come dai di nuovo un senso? Sono pieno di
interrogativi, queste sono le cose di cui bisognerebbe discutere, chi se ne frega di Casini,
Buttiglione e Rutelli? Quelle sono storie altre dalle nostre. Questi interrogativi sono fili non dico
neanche da riannodare, ma che si tratterebbe di tirare per vedere la maglia dove e in che punto
risponde: se non trovi il filo non capisci la trama e l’ordito, il filo lo devi trovare e lo devi tirare,

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allora la maglia si increspa e cominci a capire che hai tirato il filo giusto. Uso questa metafora, visto
che prima abbiamo parlato di quella dell’alba e del tramonto. Ed è difficile trovare addirittura tavoli
di dibattito, per cui apprezzo molto la ricerca che state facendo: intanto perché mi dà un’opportunità
di chiacchierare a ruota libera, e poi perché sarò curioso dei risultati. Secondo me è molto
interessante discutere cosa è successo negli anni ’70, vedere le diverse posizioni: poi si prende
questo discorso, lo si lascia lì e se ne apre un altro, per poi tentare su un discorso attuale di vedere
quali sono i nodi che si ripropongono. E’ un contesto in cui tentare dei collegamenti diventa ardito,
forse si tratta di vedere se alcune vecchie categorie riprese e rilette possono aiutare a capire qualche
cosa in questo gran casino che noi ci troviamo di fronte. Il lavoro autonomo, le nuove tecnologie,
come il lavoro incontra le tecnologie, come le usa e come ne è usato, qui stiamo di nuovo parlando
di giornata lavorativa di 12 ore, ci si rende conto? E abbiamo un sindacato che meno male che non
parla più delle 36 ore, intanto riguarderebbero una frazione piccola e non significativa, qui il
problema è di parlare delle 12 ore di lavoro dei lavoratori autonomi. Quindi, un innalzamento di
produttività sociale pazzesca, in cui una parte viene rapinata dallo Stato per i suoi fini politici, e una
parte diventa profitto e non salario: cioè, com’è la ridistribuzione della ricchezza non normata, e che
origine di comportamenti dà? Perché viene accettata? Perché non c’è la disciplina di fabbrica da
rifiutare e quindi siamo di nuovo all’autosfruttamento? E ci sono vie intermedie tra questa cosa qui
e il rifiuto del lavoro e l’autoemarginazione oppure no? Per cui, siccome so il vecchio “vizio”
quanto mai profittevole di Romano dell’inchiesta operaia, penso che sia importante, si tratta di un
misto, io non lo so che strumenti ci siano per raccogliere queste cose, ma questa realtà non la
conosciamo bene: allora, può essere utile ripensare a quello che abbiamo fatto, ma poi secondo me
prenderlo e lasciarlo lì. C’è stata secondo me una grande rivoluzione sociale in Italia, non è
diventata come volevamo noi rivoluzione politica, però c’è stata e ha segnato, e ha determinato una
reazione feroce della controparte che si è sviluppata in tutti questi anni: questi adesso hanno vinto,
ma non sanno non solo dove vanno ma neanche dove sono, il problema è che non lo sappiamo
neanche noi. Se si pensa che oggi dire comunista è diventato una parolaccia, uno si chiede se è mai
possibile, è pazzesco. Eppure entrano nel discorso dei comportamenti i media, adesso non puoi
farne a meno di valutarli. Entrano nei comportamenti sociali, ma i comportamenti sociali non li
definisci finché non assumono una valenza politica, ma tu hai bisogno di capirli prima se vuoi dare
loro un’interpretazione e una possibilità di anticipazione: e come li vai a trovare? In un discorso dei
fili e della maglia, dove sono i fili e dove ti portano? Affascinante, ma ci sarebbe da mettersi lì e
fare di nuovo una grande indagine, però avendo prima definito che cosa chiedere, come valutare i
risultati, le categorie, e qui siamo ancora indietro secondo me. E i tempi premono, le cose si
muovono veloci, ti guardi e dici “che bello che sarebbe se…”.

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INTERVISTA A MASSIMO DE ANGELIS – 1 LUGLIO 2001

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e gli inizi della tua attività
militante?

Farò soltanto degli abbozzi, non un tracciato storico-politico. Il mio percorso politico e culturale in
un certo senso parte dallo stupore di un bambino quele ero nel ’68, a fronte del casino che sembrava
succedere attorno a me. Ci sono tre episodi che mi vengono in mente. Il primo è capitato quando
avevo otto o nove anni, era quindi il ’68 o il ’69, a Milano: avevo un album di figurine, ero in classe
con un maestro un po’ scarpone, un vecchio alpino, un cattolico partigiano, ma uno di quello dai
“valori”, al quale però non piacevano molto gli scioperi di allora. Anch'io venivo da una famiglia
che si lamentava sempre: “di questi tempi ci sono sempre gli scioperi”, “andate a lavorare”, si
diceva a casa. L'idea che mi facevo quindi, era che nei tempi passati, precedenti alla mia esistenza,
di scioperi non ce n'erano. E quel giorno, in classe, mentre stavo riordinando le figurine colorate
della storia d’Italia da incollare nell'album, ne vedo una che, secondo la didascalia, raffigurava degli
operai in sciopero all'inizio del novecento. Mi ricordo di aver puntato la figurina col dito ed aver
esclamato come cadendo dalle nuvole: “ma allora gli scioperi non ci sono solo oggi, c’erano anche
una volta!” Mi ricordo lo sguardo del maestro tra l'indignato e il divertito. Io credo che nel mio
caso, non ci sia voluto un partito di professionisti rivoluzionari come lo voleva Lenin o Lukàcs per
convertirmi alla causa della giustizia sociale e darmi “coscienza”. Il virus l'ha piantato una semplice
figurina in un contesto storico tutto particolare.
Il secondo episodio è riferito invece alla prima settimana di scuola al primo anno delle medie,
quando avevo 11 anni. Andavo in una scuola a Milano, era la succursale di una scuola media dove
c’erano solo i primi due anni, il terzo era nella sede centrale. Un giorno quelli del secondo anno, i
più “maturi”, vengono da noi con cartelli e bandiere gridando: “sciopero! sciopero!”. Sti ragazzini
di 12 anni scioperavano perché “gli avevano tolto” il loro amato professore di storia e letteratura,
che noi del primo anno sapevano a malapena chi fosse, ed era venuta invece un'altra professoressa
che a loro “non piaceva”. Che si fa allora? Beh, sciopero. E noi, in solidarietà', che facciamo?
Sciopero! Chiaramente poi arriva la preside e ci mette subito in ordine, mi sembra che il professore
fosse andato in pensione. Ma pero' vi rendete conto il clima di quegli anni? Scioperavano proprio
tutti per qualsiasi cosa. Anche noi bambini. Ripeto, io vengo da una famiglia proletaria, emigrata
dalla campagna nel dopo guerra, di origine contadina, ma tra tutti i miei parenti non c'erano né
comunisti, né sindacalisti. E quel contrasto, tra lo spirito di rivolta là fuori e di rassegnazione
“sociale” in famiglia, che penso abbia contribuito alla formazione di parecchia gente della mia
generazione.
Poi un altro episodio è stato il primo giorno delle superiori, come vedete la scuola è stata
determinante per la mia formazione politica. Ho iniziato le superiori alla Feltrinelli, un istituto
tecnico, questo per i primi due anni, poi sono passato ad un altro istituto tecnico che era il X ITIS
sempre a Milano, ho fatto chimica alla fine. Il primo giorno delle superiori viene uno di seconda, e
mi porta in palestra per insegnarmi a far parte del servizio d'ordine di Lotta Continua, che io, da
povero ragazzo d'oratorio, non sapevo neanche cosa fosse. Ed eccomi lì, invece che in laboratorio a
limare pezzi di ferro nelle ore di “aggiustaggio”, mi trovo a fare le prove di cordone in palestra
nell’eventualità caricasse la polizia. Io mi ricordo di una sensazione strana. Ero un ragazzino di 14
anni, ai primi giorni delle superiori, cattolico e credente, eppure trovavo il mio essere in palestra
dove mi avevano portato, una cosa divertente e abbastanza naturale! Poi non ci sono andato a fare il
servizio d'ordine con Lotta Continua. Ci ho bazzicato un po' in quell'area, ma quando tornavo a casa
continuavo ad andare all'oratorio, dove vivevo l’impegno sociale in un altra maniera, con gli
handicappati, nel quartiere per esempio. Mi ricordo che nell'ambito della parrocchia facevamo un
sacco di riunioni per discutere delle questioni del momento, cose per le quali magari a scuola si
faceva una manifestazione. In retrospettiva posso dire che c'è stato un periodo della mi vita di

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adolescente dove a scuola scoprivo la lotta, e in parrocchia lottavo nel mio piccolo per il diritto alla
scoperta della vita.
Allora, questi sono i tre episodi, dove in periodi e circostanze diverse mi sono trovato a fare i conti
con le ambiguità e le contraddizioni di una twilight zone sospesa tra un ambiente famigliare tutto
chiuso su se stesso, e l’esplosione sociale del desiderio, creatività e comunicazione che passava
attraverso la lotta.
Anche nel primo periodo delle superiori ho vissuto un percorso abbastanza contraddittorio: nei
primi due anni delle superiori ero da una parte parecchio attratto da questa vivacità, libertà ed
enorme potere che noi avevamo in quanto studenti. Su questo punto, mi viene da pensare quanto sia
diversa oggi la percezione del mondo degli studenti, almeno degli studenti inglesi. Chiedevamo il
sei politico, spazi autonomi da autogestire, e alcuni di noi dell’istituto tecnico che avevamo un
complesso di inferiorità rispetto ai liceali, pretendevamo dal professore di religione che ci
insegnasse filosofia, Hegel e Marx invece che il catechismo. Oggi mi sembra un po’ diverso!
Dall'altra parte però, lo spirito competitivo dei gruppi, trasformato poi in rissa, urtava enormemente
la mia sensibilità “comunitaria” maturata all'interno della mia formazione cristiana e cattolica. Forse
è per questo che non ho mai preso tessere, pur essendo passato attraverso varie esperienze di
militanza. Dal punto di vista della mia esperienza personale quindi, vedo quegli anni settanta come
volti ad una continua ricerca di libertà (dalle regole della famiglia, dalle regole della scuola, dalle
regole della Chiesa, ecc., ma anche libertà’ di espressione, creazione, comunicazione) e allo stesso
tempo una continua ricerca di comunità (che e’ possibile solo sulla base di un qualche tipo di norme
e regole di interazione). Solo che troppo spesso le norme e regole di interazione che si venivano a
creare all’interno dei gruppi e tra gruppi, riproducevamo vecchi autoritarismi dai quali si voleva
scappare.
Lasciatemi fare una riflessione a posteriori. Io credo che la gente si riunisce in bande, gruppi, fa
riunioni interminabili, spesso noiosissime, ma le continua a fare, perché segue l’anelito della
comunità. E si stanca, smette di fare riunioni oziose e noiose, perché la politica, così intesa
unicamente come lavoro, come mezzo per un fine invece che come rapporto umano, non si é
mostrata capace di fare o riprodurre una comunità.
In ogni caso, tornando a quei primi anni delle superiori, in retrospettiva questo percorso
contraddittorio tra libertà e comunità credo sia stato quello che prima mi ha fatto andare avanti e
indietro dall’ambiente cattolico, e poi migrare da un gruppo all’altro all’interno del movimento.
Non riesco a razionalizzare la mia rottura con la Chiesa in altra maniera. Non é che un bel giorno io
mi sia svegliato e abbia detto: “oggi divento ateo o cambio religione.” No, è semplicemente che
quel problema lì non c’è stato più. Il fatto è che a quattordici o a quindici anni volevo vivere la mia
religiosità con un forte impegno sul sociale. Però allo stesso tempo percepivo sia l’inadeguatezza
politica della Chiesa (il suo non mettere in discussione i rapporti di proprietà per esempio), sia
l’ipocrisia falsa di una ritualità in gran parte distaccata dall’impegno sociale. Lo so ora che la realtà
del mondo cristiano e cattolico non é così bianca e nera, ma a quell’età questa ipocrisia mi
soffocava.
L’abbandono degli ambienti cattolici, avvenuta in maniera abbastanza netta verso il terzo anno delle
superiori, mi ha poi permesso di abbandonarmi alle varie correnti che trovavo sulla mia strada. Ma
in questo spostamento di universo identitario, non ero il solo! E poi da allora, un susseguirsi di
collettivi, indiani metropolitani, frange di m-l, gruppi operai, gruppi di studio, gruppi anti-fascisti,
radio, intergruppi, e via dicendo. Altri elementi di formazione sono state chiaramente le
occupazioni, le assemblee, la gioia e la convivialitá del movimento, ma anche il parlare in pubblico
e dire cazzate incredibili, essere presi per il culo ed umiliati per questo, lo scoprire la propria forza e
i propri limiti. Si misurava spesso in questa maniera la tua “coscienza”. Spesso avevamo
un’insensibilità feroce gli uni verso gli altri, ed eravamo quelli che volevano costruire un mondo
nuovo! Ma c’era anche un forte spirito di gruppo, l’idea molto forte fino al ’78/’79 (poi le cose sono
state un po’ diverse) di un mondo che ce l’avevamo in mano, per cui avevi questa sensazione che se
tu volevi, potevi fare quello che ti pareva. Poi magari non sapevano cosa fare: va beh, vai a chiudere

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la sede dei fascisti, vai a fare l’autoriduzione in metropolitana o da un’altra parte, fai passare le
vecchiette gratis, vai alle manifestazioni, occupi la scuola, ogni giorno avevamo qualche cosa da
fare, ti metti insieme a volantinare con gli operai alle sei del mattino, fai le riunioni, ti dividi, ti
riunisci, ti ridividi, tutte queste cose qua che ti entrano nella quotidianità, le minacce dei fascisti che
ti chiamano a casa e ti dicono “ti spacco la testa”, vai in radio. Al di là di che cosa poi facevi, il fatto
vero è che credevi di avere un potere della madonna, che le tue azioni avevano un impatto, però
spesso non sapevi cosa fartene perché eri magari anche in quell’età che forse non interessava cosa
fare di quel potere lì, forse era quell’età nella quale avevamo veramente bisogno di esplorare tutta
una serie di possibilità, di rompere con tutto ciò che era ammissibile e che ci veniva dato
dall’esterno, e sperimentare soprattutto con diverse cose, diverse ammissibilità. “Voi ci dite che
questo è ammissibile? Adesso vi facciamo vedere che un’altra cosa è ammissibile!”. E questa
rottura era un primo passo del costituire qualcosa di nuovo, necessario ma non è assolutamente
sufficiente. Quello che ci mancava era un rapporto con l’altra parte della libertà. Hegel definisce la
libertà come autodeterminazione. Secondo me questa dimensione è cruciale. L’auto-determina-
azione è essenzialmente la libertà di darsi dei limiti. Noi spesso conoscevamo solo la libertà di
rompere con i limiti che ci venivano posti dall’esterno. Per noi la libertà era questa grande
possibilità di uscire, di fare, di rompere i codici, e chiaramente questo spirito è il benvenuto. Ma
avevamo un rapporto assai più difficile e ambiguo con l’altra dimensione. Certo, facevamo cose,
producevamo radio, giornali, comunicazione, e quindi ci davamo dei limiti, ogni atto di produzione
corrisponde al porre dei limiti alla materia e all’attività umana. Ma come ho detto, il meccanismo
che definiva questi limiti, questa produzione, non era un meccanismo completamente comunitario,
riproduceva schemi autoritari, restava insensibile a molte tematiche sollevate per esempio dalle
donne.
Negli anni ’80 ho studiato all’impazzata, ho fatto Scienze Politiche, ho studiato i testi classici del
marxismo, ho studiato economia, sociologia, letteratura, filosofia. La mia reazione al riflusso, al
clima oppressivo delle leggi speciali, e alla minaccia della yuppificazione, é stata quella di buttarmi
sui libri. Mi sono poi laureato, e un paio d'anni dopo ho vinto una borsa di studio per un corso di
dottorato in economia negli Stati Uniti, all’università dello Utah. Sono stati tre anni molto
importanti per me, dall’87 al ’90. Nell’88 ho incontrato Harry Cleaver che veniva dalla University
of Texas, l’avevamo invitato noi studenti ad una conferenza. La cosa che mi colpì molto di Harry fu
una delle cose che mi era mancata di più alla mia formazione negli anni settanta e primi anni
ottanta. La sua versione di marxismo riusciva a combinare l’approccio teorico e culturale del
marxismo classico e dell’operaismo italiano (lui è un esperto dell’Autonomia italiana, soprattutto
l’Autonomist Marxism come lo chiama) con una sensibilità tutta americana per i movimenti radicali
americani, che sono appunto molto aperti a quelle che venivano chiamati “single issues”: le donne,
l’ambiente, la lotta contro il razzismo, e anche i rapporti interpersonali. Questa combinazione gli
permetteva di leggere anche il privato come politico, ma non in maniera dogmatica, bacchettona e
ideologica, ma organica e molto umana. Harry ha avuto un grande impatto sulla mia crescita
politica e teorica, e anche personale e umana. Ma è in fondo tutta la cultura politica americana che
si presenta con molto meno sfronzoli rispetto a quella europea, è più diretta e spesso più concreta.
Voglio insistere su questo punto. L’esperienza americana mi ha fatto veramente riflettere sul senso
della politica e della ricerca critica. Il problema non è solo teorico e politico. Il problema che si
pone per un intellettuale “impegnato” è quello di riuscire a dare un significato concreto al suo
lavoro. Il contatto con i “single issues” negli Stati Uniti e lo sforzo di leggerli all’interno di uno
schema marxista aperto e non dogmatico, mi ha messo davanti al problema della responsabilità
dell’intellettuale, di quello che per professione scrive, fa ricerca, insegna. Ho imparato che quando
fai ricerca e scrivi, tu in pratica non stai parlando di cose altre, non stai parlando unicamente di
un’oggettività là fuori, anche se spesso i modelli e gli schemi interpretativi usati ti conducono a
questo. E' chiaro che poi c’è il capitale, che c’è la caduta di saggio di profitto e tutte quelle robe lì.
Ma la sfida sta proprio nel riuscire a mettere insieme tutte queste cose che si presentano nella loro
oggettività arida e feroce, insieme alle questioni che hanno un impatto immediato sulla tua vita e su

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quella dei tuoi interlocutori, qualsiasi essi siano. Dunque, la sfida è riuscire a collegare in qualche
modo le questioni del “capitale”, del lavoro, dell'accumulazione, delle lotte, dell'economia, con
quelle sollevate delle donne, quelle del vissuto, quelle culturali. Il tuo discorso teorico e politico non
può rimanere unicamente astratto, non è una semplice analisi di un’oggettività data. Deve in
qualche modo cercare di imbastire un rapporto tra la tua soggettività e quella di altri, e leggere in
questo quadro l’oggettività là fuori. In fondo, quando Marx parlava di lavoro astratto e di lavoro
non pagato, parlava proprio del rapporto che esiste tra l'oggettività del profitto e il vissuto dello
sfruttamento, il lavoro alienato.
Negli Stati Uniti il dottorato consiste in tre anni di lezioni e poi si deve fare la tesi, che ho poi finito
a Londra. Sono poi rimasto a cercare lavoro lì e pian piano sono entrato all’università, c’è un
mercato accademico un po’ più aperto rispetto all'Italia, qui non avevo assolutamente contatti
accademici, quindi mi era quasi impossibile avere un posto all’università. E in Inghilterra ho
incominciato la mia vita accademica di ricerca e di insegnamento, e allo stesso tempo ho partecipato
a varie attività, all’interno della Conference of Socialist Economists e Capital and Class, e con
gruppi di dibattito e intervento politico. Quegli anni per me sono stati di orientamento in una realtà
metropolitana che dal punto politico è molto frammentata, perfino ghettizzata. Inoltre, insieme a un
gruppo di compagni italiani, avevamo creato la rivista Vis-á-Vis. C’erano certo molte ragioni per
cercare di mettere insieme uno strumento per l’analisi teorica di classe, in quei primi anni ’90. Dal
mio punto di vista, vedevo la rivista come un veicolo che contribuisse a chiudere un ciclo e riaprirne
uno nuovo, permettendo di valorizzare la memoria senza allo stesso tempo essere imprigionata da
questa. Pensavo che così come l'impatto dell’operaismo e del marxismo italiano avevano
rappresentato una ventata d’aria fresca su quello americano, aprendolo alle tematiche della
soggettività, il riproporre in Italia una serie di lavori di quell’autonomist marxism americano
(sensibile ed aperto a tutta una serie di tematiche da noi lasciate ai margini) potesse di ritorno
contribuire a superare in positivo vecchie e stantie diatribe e rigidi atteggiamenti politici e teorici.
Quell'esperienza purtroppo non si è chiusa per me nei migliori dei modi.
Dunque, dal punto di vista del mio percorso politico, per me gli anni ’90 in Inghilterra hanno
rappresentato il tentativo di costruire qualcosa che cercasse di superare questa frammentazione
enorme della realtà’ politica, ma anche umana, di una megalopoli come Londra.
L’altro grande salto per me è stato nel 1996 quando sono andato in Chiapas, ho partecipato
attivamente al tavolo dell’economia del primo Encuentro zapatista, anche quella è stata una
grandissima esperienza. Da lì sono tornato in Inghilterra inebriato dalla capacità zapatista di mettere
insieme realtà completamente diverse con una formula semplicissima, quella dell’encuentro. Nota
che questa formula andava oltre quello del meeting, della conferenza, o del dibattito tra posizione e
realtà diverse. Gli zapatisti avevano chiesto a ogni tavolo tematico di concludere i lavori con un
documento. Sembra un’inezia, ma questa piccola richiesta, accompagnata dal rispetto che tutti noi
avevamo per i nostri ospiti, e l’idea della democrazia diretta praticata dalle comunità indigene,
significava che eravamo costretti a superare barriere linguistiche ma soprattutto culturali e politiche.
In una notte di lavoro, siamo riusciti a superare le resistenze parziali di anarchici, trotzkisti,
femministe, ambientalisti, sindacalisti, campesinos, “riformisti” e “rivoluzionari” e poi baschi,
irlandesi e i vari movimenti di liberazione nazionale. In una parola, l’encuentro ha significato per
me la prova concreta, sebbene in un contesto assai particolare, non solo della fattibilità del
riconoscimento reciproco della differenza, ma anche della sua dimensione umana. So che non è
sempre andata così, che in altri tavoli ci sono stati dei problemi. Ma da come l’ho vissuto io,
l’encuentro ha significato una prova concreta di come quelli che nel secondo encuentro verranno
chiamati “molti si!” possono riconoscersi gli uni con gli altri senza autoritarismi ma attraverso un
grande senso di responsabilità e volontà costitutiva.
Al mio ritorno dal Chiapas, con un gruppo di compagni a Londra abbiamo incominciato a
coordinare varie attivitá non solo e non tanto di solidarietà con gli zapatisti, ma proprio di
promozione di quei valori degli zapatisti quali dignità, encuentro, ecc., all’interno di quel clima
ghettizzato dei movimenti londinese. Ancora nel ’96 era impensabile che gruppi di base inglesi

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partecipassero all’incontro internazionale in Spagna (il secondo Encuentro). Una rete di compagni
ha quindi costituito un coordinamento per cercare di promuovere la partecipazione di quante più
persone provenienti da diverse realtà politiche inglesi ad andare in Spagna e, si può dire, mettersi in
contatto coi gruppi di base del mondo. Alla fine, il secondo encuentro ha avuto un impatto notevole.
Non solo in generale, ha contribuito alla creazione dell’importante coalizione del People Global
Action (che ha contribuito ad affiancare all’asse di coalizioni di base dell’America Latina anche
quello dell’Asia). Ma anche, nel caso specifico dell’Inghilterra, il fatto che alcuni compagni abbiano
visto e sentito con i loro occhi la vitalità di altre esperienze, ha contribuito a far nascere una politica
e pratica più aperta, e a promuovere nuovi networks. Ma anche qui c’è ancora dell’enorme lavoro
da fare.
Il lavoro politico in questi anni mi ha fatto capire che la vecchia dicotomia tra spontaneità ed
organizzazione è una falsa contrapposizione. In realtà, come mi sembra abbia detto Sergio Bologna
non mi ricordo dove, la nascita che sembra spontanea di movimenti è sempre il risultato di un
lavoro organizzativo molto lungo e capillare. La spontaneità si appoggia sempre su un sostrato
materiale, una produzione di significati, comunicazione e rapporti che sono il prodotto di un lungo e
capillare processo organizzativo.

- C.L.R. James è sicuramente un autore molto importante non solo per quanto riguarda la
questione dei neri, ma più in generale per la rielaborazione di alcune categorie (quella del
razzismo e dei migranti, ad esempio), e complessivamente per i suoi spunti in termini di
proposta politica. In Italia James non è molto conosciuto, di lui è stato tradotto poco (ad
esempio I giacobini neri. La prima rivolta contro l’uomo bianco). Ci puoi tracciare un breve
profilo della sua figura?

Di C.L.R James ho letto un po’ di anni fa i testi classici. Più che tracciare un profilo di James, dico
quello che mi ha colpito nei primi anni ’90: si tratta di questa idea del futuro nel presente, della
fattibilità (ma non semplicemente come modello da applicare) di un comunismo qui ed ora. Il
futuro, non è una cosa che dobbiamo raggiungere, ma è qui, è presente, il problema è riconoscerlo e
costruire su di esso. Non voglio fare un’analisi di C.L.R James, non è un autore che ho studiato
sistematicamente, l’ho soltanto incontrato nel mio percorso e mi ha dato degli inputs molto forti, ma
questo è il grande messaggio. Un messaggio che in un certo senso è anche in Raya Dunayevskaya,
anche lei fra l’altro era collega e collaboratrice di C.L.R James quando si sono divisi con il Socialist
Workers Party negli anni ’50.Ma anche in Raya Dunayevskaya non c’è solo l'idea del futuro nel
presente, che lei pone nei termini di “new beginnings”, ma anche l’idea organizzativa di federazione
tra comitati dispersi e in qualche misura autonomi, e soprattutto l’importanza che lei da all’ascolto
delle aspirazioni dei soggetti reali, di come questo ascolto debba in qualche modo contribuire sia
all’elaborazione teorica che a quella più immediatamente di intervento politico. In queste tradizioni,
si percepisce nettamente come il futuro della società che vogliamo non è un dato da piano, non è un
qualche cosa che lo scriviamo a tavolino, ma è qui, nelle aspirazioni di soggetti reali.
La lettura di questi personaggi ha per me contribuito a spostare l’asse temporale e immaginario del
comunismo: non è la terra promessa, il comunismo è una pratica. Tra l’altro ritorno a Marx, il quale
parlava del comunismo come il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente: ma che
cos’è il movimento? E’ la gente in piazza? No, la gente in piazza è ciò che chiamiamo noi
sociologicamente movimento, ma il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente non è la
dimostrazione di piazza, che chiaramente è importante, ma il processo costitutivo di nuovi rapporti.
La borghesia ha fatto fuori la nobiltà alla fine di un lungo processo di costituzione di rapporti reali
borghesi, e così per tutte le altre società. Micheal Mann ha scritto un’opera in tre volumi sulle fonti
del potere sociale. E’ un sociologo della storia molto interessante: al contrario di una certa
tradizione marxista parla della società non come dimensione unitaria, ma invece come insieme di
networks di potere. Per lui non ha senso di parlare di una “società”. Quella che chiamiamo “società”
non è altro che un insieme di networks sociali, con poteri differenziati, parecchi che si sovrappongo,

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alcuni hanno accesso a risorse sociali più di altri, e leggono il reale in maniere che magari si
sovrappongono. In questo senso il lavoro sociale è una forma di attività articolata in varie forme di
networks sociali. Studiare le forme del lavoro sociale significa studiare l'articolazione di questi
networks, la strutturazione di poteri, il rapporto tra networks dati e quelli emergenti. Il processo di
trasformazione sociale è poi letto attraverso l’emergere di nuovi networks sociali che si sviluppano
all’interno degli interstizi di networks più potenti. E’ così che le società nuove emergono, cioè
networks dominanti emergono quando quelli che lo erano non riescono più a contenere il potere
espresso dalla produzione sociale, ideologica e dell’immaginario di questi networks emergenti.
Ora, è possibile a mio avviso integrare questa lettura sociologia e strategica della storia di Mann,
con quella dell'autonomist marxism e di altre tradizioni del marxismo aperto, e dell’operaismo
italiano e di alcune tendenze post-strutturaliste. Per me questi non sono approcci incompatibili, anzi.
Occorre rileggere il testo marxiano non solo in senso filosofico, ma anche strategico, e questo ci dà
una prospettiva totalmente diversa del nostro lavoro sia politico che teorico.

- Quali sono secondo te gli autori anglosassoni più interessanti nella lettura politica dei
principali nodi aperti del presente?

Ho già citato Michael Mann. Il suo lavoro è importante per aiutare a inquadrare in una
metodologica strategica il processo di trasformazione sociale. Per lui i networks sono forme
organizzative dell’agire umano: sarebbe importante fare del lavoro di ricerca precisamente su fino a
che punto i networks mobilitati dal capitale si scontrino con i netwroks costituiti in opposizione a
questo, dal punto di vita materiale, culturale e ideologico.
Ma c’è tutta una tradizione marxista specialmente americana, che a me sembra sia poco nota in
Italia. Mi riferisco ancora ai lavori di Harry Cleaver e del gruppo di Midnight Notes, George
Caffentzis, Silvia Federici e lo storico Peter Linebough. Il loro percorso teorico parte da quel milieu
teorico e politico degli anni settanta definito molto in generale come autonomist marxism. Una delle
caratteristiche comuni di questi autori, che studiano aree abbastanza diverse tra di loro, è quella di
non avere mai abbracciato una definizione di “capitale” in quanto totalità, ma piuttosto come forza
sociale che tenta di diventare totalità’. Per questo, nel lavoro teorico di questi autori è sempre
presente la problematica strategica e quindi politica. Oggi più che mai, questo approccio è
necessario per leggere il presente della globalizzazione e dei movimenti per la costruzione di “un
altro mondo.” Un’altra caratteristica del lavoro di questi autori è che la “classe” non e’ mai data
unicamente come prodotto di sue caratteristiche tecnico-sociali omogenee. C’è in questa tradizione
una grande sensibilità alle problematiche delle gerarchie all’interno di ciò che chiamiamo con
astrazioni teoriche la classe o, oggi, moltitudine. Il riconoscimento di queste gerarchie, di poteri
strutturati verticalmente relative all’accesso a risorse sociali quali il salario, ecc., di aspirazioni e
bisogni che partono da condizioni specifiche — dalle donne e il loro ruolo e le loro battaglie sul
campo della riproduzione, alle masse contadine del sud, e agli operai-massa nei distretti industriali
asiatici, ecc. — rende il loro lavoro teorico, storico e politico assai più sensibile all’universo delle
aspirazioni e bisogni, e assai più attento al problema del come facilitare l’interazione costitutiva di
nuovi rapporti sociali di queste realtà frammentata in gerarchie. In questa tradizione, non ci sono
grandi idee che sintetizzano il presente. In questa tradizione non viene tutto sussunto all’interno
della categoria del “post-fordismo”, o quella dalla “moltitudine”, o quella del “lavoro immateriale”
o quella dell’“impero”. La realtà non solo è assai più complessa di quella che categorie analitiche o
teoriche come queste può comprendere. Ma, assai più importante, all'interno dell'odierna fabbrica
globale, il post-fordismo non esiste senza il fordismo. Il lavoro salariato non esiste senza la
schiavitù. Il lavoro immateriale non esiste senza quello materiale. La differenza all’interno della
moltitudine, non esiste senza il carattere unitario del rapporto di queste diverse soggettività nei
confronti dell'accumulazione e la sua inesauribile propensione di imporre lavoro astratto che la
rende in qualche modo “classe”.

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- Allarghiamo il campo. A livello internazionale, quali sono secondo te le figure e gli autori che
toccano i nodi più importanti nella lettura del presente?

Lasciando da parte gli autori anglosassoni, io pensavo a Foucault, che ultimamente mi sono riletto
in maniera un po’ più sistematica. Foucault secondo me è importantissimo per la comprensione del
presente, molto più magari di vent’anni fa, perché la globalizzazione neoliberista degli ultimi
vent’anni ha molto a che fare con quei meccanismi disciplinari che cercano di creare e fabbricare
norme, etiche, valori. Il mercato globale odierno a me sembra un grande Panopticon, sia dal punto
di vista strutturale, che dal punto di vista di direzione strategica. In un mio recente lavoro ho
mostrato come una lettura Foucaultiana di Jeremy Bentham e del suo Panopticon, sia assai
compatibile con la lettura che Hayek fa del mercato.
Hayek è il paladino neoliberista del mercato. Si dice che Margaret Thatcher tenesse una copia del
suo Road to Serfdom sul comodino. Hayek vedeva il mercato come meccanismo di coordinamento
dell’attività umana, un meccanismo che proprio in virtù del fatto di essere astratto permetteva di
garantire la massima libertà individuale. E’ chiaro che si tratta qui della libertà riferita a individui
privati, separati gli uni dagli altri. Non si parla qui di libertà di individui sociali, che riconoscono la
propria socialità comune. Il mercato secondo lui creava la possibilità di coordinare attraverso un
meccanismo oggettivo e impersonale l’attività umana, non solo garantendo il massimo della libertà
individuale, ma facendo di questa libertà individuale il mezzo stesso della riproduzione del tutto.
Questa idea di Hayek si scagliava contro tutti i tipi di “stati piano”, dai socialismi “reali” al
keynesianesimo occidentale. Tutti i tipi meno uno, quello di un intervento statale volto alla
promozione e gestione del mercato!
Se si combina questa analisi di Hayek con l’approccio di Foucault, la sua analisi del panopticon di
Bentham, si scopre come il mercato di Hayek sia un meccanismo disciplinare che crea una norma di
comportamento e dei valori conseguenti ai quali noi ci adattiamo. Attraverso l’interazione del
mercato e quindi attraverso il meccanismo di punizione e premi del mercato, che è appunto il
meccanismo disciplinare, noi assorbiamo e interiorizziamo la norma del mercato e, detta in parole
povere, la interiorizziamo come unico modello di interazione sociale possibile. Il discorso è un po’
più complesso, ma la sostanza è questa.
Io non riesco a capire perché negli ultimi anni, Foucault sia in un certo senso stato accantonato,
invece che criticamente assorbito proprio quando il meccanismo disciplinare del mercato diventa
così incredibilmente centrale. Dalla società’ disciplinare, nelle analisi di molti teorici, a partire da
Deleuze per finire a Negri e Hardt, si è passati alla società di controllo. E’ in un certo senso una
vecchia abitudine della teoria critica quella di buttare via il bambino con l’acqua sporca.
Se si va a studiare la cibernetica si scopre che in un meccanismo di controllo dei flussi, i
comportamenti degli interruttori che permettono la regolazione di questi flussi all’interno di un
sistema complesso, sono specificati sempre da dati parametri. Per esempio, il meccanismo di
controllo del sistema del traffico automobilistico cittadino si basa sul fatto che quando vediamo il
rosso ci fermiamo. E’ questo parametro, questa norma o regola di comportamento che abbiamo
interiorizzato, che permette di far funzionare il meccanismo di controllo generale. I meccanismi
disciplinari creano norme. La disciplina, diceva Foucault, e’ la fabbrica dell’etica. Ma allo stesso
tempo, l’insieme delle interazioni sociali strutturate da queste norme ci forniscono il sistema (o
come dovrebbe essere strutturato il sistema). Allora, gli ultimi venti o trent’anni non hanno visto il
passaggio dalla società disciplinare a quella di controllo. Semmai, e cosa assai più interessante, si è
visto il passaggio a meccanismi disciplinari e sistemi di controllo diversi. Il nostro lavoro di ricerca
deve proprio contribuire a capire il come di questa diversità, un come sempre legato alle dinamiche
della soggettività. Ma deve anche gettare luce su come questa diversità riproduce il "sempre uguale"
delle società capitalistiche: lo sfruttamento, l’alienazione, l’oppressione. Rispetto a questo problema
quindi, avevamo bisogno di Deleuze non tanto per sentirci dire che siamo ora nella società di
controllo, ma che l’analisi della società disciplinare di Foucault deve essere integrata a un’analisi di

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meccanismi di controllo. Sta a noi invece scoprire nei dettagli questi meccanismi, e mettere in
rilievo sia i meccanismi disciplinari che le finalità generali di controllo.

- Allora focalizziamo l’attenzione sugli autori più interessanti per quello che tu hai individuato
come il nodo centrale, ossia il che fare.

La domanda del “che fare?” ha sempre rappresentato il trampolino dal quale lanciare un dibattito
concreto sull’intervento politico. C’è una concretezza meravigliosa dietro questa domanda. Però io
penso che, la domanda stessa del che fare sia mal posta, perché presuppone sempre un’idea precisa
dell’obiettivo. Il “che fare?” pone una questione di metodo per raggiungere un certo fine. E’ per
questo che nei lavori teorici o di rassegne critiche socio-economiche esso appare quasi sempre come
appendice, come capitolo conclusivo, come “conseguenza” di un lavoro teorico autosufficiente che
astrae da questa domanda. Se ci si pensa veramente però, vengono i brividi. A Londra, molte
organizzazioni della sinistra socialista extraparlamentare hanno condannato l’attacco al World
Trade Center come “la tattica sbagliata”! In pratica, per loro, l’attacco al World Trade Center,
l’uccisione di un numero imprecisato di persone, imprecisato perché tra di essi ci sono parecchi
immigrati illegali assunti dalle imprese di pulizia, e’ una risposta sbagliata alla domanda “che
fare?”. A me questa sembra una cosa molto pericolosa. Se uno pensa che lo “sbaglio” dell’uccisione
indiscriminata di migliaia di persone a sangue freddo, di operai, impiegati, spazzini, e via dicendo
consiste nell’essere un errore “tattico”, allora crede negli stessi fini di chi la perpetrato. No, io non
credo di poter condividere gli stessi fini di chi usa il prossimo come carne da macello.
Prima di domandarci “che fare?” bisognerebbe chiederci: “per che cosa siamo?.” Si commette
spesso l’errore di credere che la risposta a questa domanda sia unicamente una risposta di valori,
una risposta etica, una risposta in fondo facile. Siamo per il “socialismo”, per la “libertà”, per una
“società giusta”, siamo per il “comunismo”. In un certo senso è così. Ma solo fino a un certo punto,
perché poi magari si danno centomila significati diversi a queste parole. Il fatto è che per
concretizzarsi nella pratica della nostra interazione sociale, i valori che ci muovono come individui
devono essere capaci di lasciarsi inquinare dai valori di altri. Alla domanda del “per che cosa
siamo?” non bisognerebbe mai rispondere “questa o quella società”, ma molto concretamente
questo o quel rapporto sociale, questo o quel rapporto con l’altro.
Per tornare alla vostra domanda, credo per questa impostazione del problema politico oggi bisogna
dar credito non solo agli zapatisti, ma a tutta una cultura indigena basata su forme comunitarie di
democrazia diretta, e di un rapporto diverso con la natura. Si pensi per esempio al lavoro di Gustavo
Esteva, un sociologo messicano che si è ritirato nell’Oaka a lavorare con le comunità indigene e a
porsi la questione dei commons. Ma in un certo senso, molte delle voci che vengono da terzo
mondo ci aiutano a impostare il discorso del “per cosa siamo?”: si prenda Vandana Shiva, la quale
ha avuto un’influenza enorme, e con lei tutte le varie tendenze ambientaliste, ecofemministe ecc.
Sicuramente, bisogna stare anche attenti all’eccessivo romanticismo di una lettura troppo letterale di
questi lavori, c’è il rischio di idealizzazione di una società tribale e le sue forme oppressive. Io vedo
questi lavori che vengono dal sud e soprattutto dal mondo indigeno come un grande contributo al
dibattito sulle alternative perché ci aiutano a recuperare una sensibilità rispetto all’“altro”, rispetto a
quello che chiamiamo “natura” e anche a una dimensione sacra e magica dell'uomo, una dimensione
quest'ultima che l'illuminismo ha represso per permetterne l'appropriazione alle categorie feticiste
del capitale. Sta a noi imparare, e trasformare questi contributi in forme compatibili con le nostre
aspirazioni costitutive per un mondo diverso.

- Negli ultimi mesi, benché il libro di Negri ed Hardt non sia stato tradotto in italiano, il termine
Impero è entrato nel lessico comune di un certo pensiero critico, che spesso diventa vulgata
comune piuttosto povera di sostanza. Tu che hai avuto modo di leggerlo in inglese, ci puoi fare
un’analisi critica di Empire?

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Abbozzo qui brevemente alcuni spunti critici. Un’analisi critica di Empire richiederebbe
chiaramente un lavoro assai più approfondito di un’intervista. Per impero Hardt e Negri intendono
un regime, un ordine che non ha confini, e che governa sul mondo intero. Una delle caratteristiche
principali di questo impero è che non esiste più la dimensione del “fuori”, dell’outside. Al contrario
del concetto di imperialismo che indica un processo in formazione, una guerra di colonizzazione, il
concetto di impero non lascia spazio ad una dimensione colonizzabile esterna ad esso.
Nell’imperialismo c’erano stati imperiali che andavano a colonizzare altri stati, altre realtà. La
dinamica storica dell’imperialismo era pensabile all’interno di una polarità interno-esterno. Anche i
movimenti di liberazione nazionale venivano inquadrati all’interno di questa polarità: l’analisi
politica dei vari terzomondismi si concentrava sulla necessità di difendere gli interessi delle nazioni
colonizzate visti come outside relativo alle forze imperialiste. In questo caso, invece, l’impero è già
formato, tutto è già stato colonizzato, non c’è più outside, nel senso che la dimensione capitalista e
di sua regolazione politica e gestione della sovranità si è ramificata in tutto il mondo. Ma questa
ramificazione assume anche un carattere qualitativo. Da una parte c’è il giusto riconoscimento che
primo, secondo e terzo mondo si compenetrano a vicenda. Dall’altro si enfatizza in maniera un po'
eccessiva la postmodernizzazione dell’economia globale, il lavoro immateriale, la produzione
biopolitica e quella della vita sociale. Ora poiché l’impero ha sussunto la vita nella sua totalità, in
questo scenario, la “moltitudine” può dirigere le sue forze creative — che ora sostengono l’impero
— in maniera alternativa verso l’organizzazione di un “contro-impero”. Queste lotte emergono dal
terreno stesso dell’impero, non da una dimensione ad essa esterna. E in virtù di questo dovranno
inventare nuove forme autonome di potere che passino attraverso l’impero e vadano oltre.
Ci sono una serie di osservazioni da fare. In primo luogo, io credo che Hardt e Negri abbiano
ragione a mettere in luce la questione della riproduzione, cioè' di quella che chiamano produzione
biopolitica e della vita, cosa che il marxismo tradizionale si è spesso dimenticato di fare. Ma loro lo
fanno però in una maniera un po' astratta, che non riesce ad articolare il lavoro di riproduzione con
il lavoro di produzione, forme non salariali di lavoro con forme salariali all'interno di una divisione
internazionale del lavoro. La ricerca di questa articolazione, come dirò più avanti, deve essere
centrale.
In secondo luogo, il rapporto tra assenza dell’outside e lavoro politico. Mi sembra che qui ci sia un
problema. Da una parte si dice che l’impero ha colonizzato tutto, non c’è più outside, non c’è più
esteriorità, per cui la liberazione dall’impero significa lotta a partire da un terreno immanente
all'impero stesso. Ora mi chiedo, come leggere all'interno di questo quadro la realtà di molti
movimenti (da contadini del terzo mondo a lavoratori immateriali del primo) che si stanno
organizzando per impedire o rallentare i meccanismi dell’impero. E’ difficile inquadrare le lotte di
questi ultimi anni, quelle contro il libero commercio, il debito, il FMI, e la banca mondiale e via
dicendo all’interno del quadro teorico dell’Impero. Proprio perché questo quadro vede l’impero
come realtà invece che come progetto — questo e’ secondo me un errore tipico delle varie
tradizioni marxiste — quando la realtà si scontra contro questa interpretazione nascono pericolosi
giudizi politici. Per esempio, c’è un’immagine nel libro che mi e’ rimasta impressa, e nella quale mi
sembra riecheggia un certo marxismo classico della fede nello sviluppo delle forze produttive: non
bisogna rallentare lo sviluppo, bisogna spingerlo più a fondo così arriviamo prima oltre il tunnel
dell’impero. Allora, in questa prospettiva, come definire le lotte dei milioni di contadini del sud
dell'India contro il libero commercio e gli OGM? Si rifiutano forse di farsi assorbire completamente
dall’impero? Resistono l’inevitabile? Agiscono da elementi di reazione contro lo sviluppo
imperiale? Stanno limitando l'avvento della società post-imperialista? E cosa dire delle centinaia di
migliaia che in Bolivia rifiutano la nozione neoliberale di sviluppo e costituiscono coordinamenti
contro la privatizzazione dell’acqua. Non contribuiscono forse questi movimenti a rallentare
l’investimento del capitale?
Sicuramente Hardt e Negri fanno bene a criticare la posizione terzomondista. Però si deve anche
rispettare il fatto che queste lotte fanno parte del processo costitutivo della soggettività di oggi, in
un quadro di comunicazione inter-movimentista planetaria. Molte lotte nel Sud del mondo

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rappresentano un primo passo — insufficiente in se stesso, ma comunque sempre il primo passo —
per la definizione di un limite all’accumulazione. E’ all’interno del processo che definisce la qualità
di questo limite che si crea lo spazio costitutivo.
In questo senso, e questo è il terzo punto, mi sembra si debba lavorare ancora molto sulla
definizione della categoria di “moltitudine”. Da una parte, giustamente il concetto di moltitudine da
l'idea di una complessa realtà' nella quale la soggettività è plurale. Dall'altra, non si studia a
sufficienza come questa pluralità sia articolata al suo interno, come essa si esprima nei movimenti, e
come sia proprio questa articolazione, e non la sovradeterminazione di questa o quella tipologia di
soggettività, a costituire un percorso di emancipazione politica e sociale.
Da questo punto di vista, quarto, in Empire c'è assai poco riferimento ai movimenti reali di oggi.
Qui mi sembra che il capitale sia ritratto come forza puramente oggettiva. L'unica soggettività che
percepisco in questo libro è quella che ha spinto il capitale ad abbandonare il keynesianesimo dopo
gli anni settanta. Giusto, ma dopo? Non si possono spiegare gli ultimi vent'anni senza un
riferimento alle molte e variegate lotte che a livello mondiale si sono date. Non si può spiegare il
progetto neoliberale senza i limiti che sono stati posti dai movimenti, prima in maniera frammentata
e difensiva, e poi in forma sempre più articolata e costitutiva. Questo libro è stato pubblicato nel
2000, e purtroppo la sua percezione dei movimenti mi sembra essere molto mediatica. Sono i media
che hanno improvvisamente scoperto il movimento no global capitalism nel 1999, a Seattle. Ma
come spesso succede, quel movimento era la punta dell'iceberg di una realtà assai più complessa
che si é andata a costituire con paziente lavoro di networking negli anni novanta.
Quinto. l'altro problema che ho con questo libro, è che c'è un rifiuto quasi totale dell'analisi
economica. Lo dico io che sono un economista molto critico all’interno della mia professione, non
credo nella divisione tra le discipline e sono il primo quindi a criticare l’analisi economica in quanto
tale, il suo imperialismo nei confronti di altre discipline. Ma qualsiasi siano gli strumenti critici che
ci diamo, e i punti di partenza del nostro orizzonte analitico, non si possono negare i processi reali
di accumulazione, e il loro rapporto con strategie e le lotte, in tutte le loro forme. Bisogna
comunque rapportarsi a una realtà sociale e umana che è anche tradotta in numeri, che è anche
ritratta da tendenze. Questi indicatori e tendenze, vanno in qualche modo portarti all’interno del
nostro schema teorico e capiti. Per esempio, che significato ha l’enorme crescere del capitale
finanziario negli ultimi vent’anni? Ha un significato politico? Ha una funzione disciplinare? Che
ruolo ha la liberalizzazione del commercio mondiale all'interno dello schema dell'Empire? Come si
analizza il commercio mondiale? Semplicemente, che so, come flusso del desiderio? Non si può
analizzarlo soltanto in questa maniera, bisogna analizzarlo in un modo che ci aiuti a capire come la
forma attuale di capitalismo si collega al problema antico del capitalismo, quella dell'estrazione di
lavoro, di una estrazione di lavoro che è inerentemente senza limiti.
Ed è qui che secondo me troviamo il problema principale dell’analisi di Empire: l’assenza quasi
completa del riferimento alla sostanza stessa del capitalismo, ossia l’imposizione del lavoro astratto.
Empire è un concetto che va letto come progetto, non come realtà data. Se si fa questo, si riesce a
capire che la sua base materiale è il progetto della fabbrica globale. Questa è articolazione
produttiva e riproduttiva a livello mondiale di un meccanismo di estrazione del lavoro e allo stesso
tempo disciplinare. Le forme del comando del lavoro in questo senso, vanno assai più in la che
quelle illustrate dall'analisi del lavoro immateriale. Nella fabbrica globale, ci sono gerarchie
produttive, poteri differenziati, aspirazioni frammentate. Nella fabbrica globale contemporanea, il
fordismo è articolato con il post-fordismo e la schiavitù. Non c'è un soggetto, non c'è un operaio
massa, né un lavoratore immateriale. Nella fabbrica globale la differenza tecno-socio-economica-
culturale è risorsa centrale del mantenimento del comando sul lavoro. È questa differenza, dai
contadini e programmatori di software indiani, agli immigrati illegali e lavoratori immateriali
americani, che è allo stesso tempo il terreno di un percorso politico d'emancipazione. Come partire
da questa differenza di bisogni e aspirazioni per costruire un mondo diverso?
Invece, nel libro di Hardt e Negri, si intravede l'idea che oggi il comando sul lavoro sia unicamente
di tipo parassitario, cioè che il capitale non partecipi alla costituzione del lavoro in forme che siano

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compatibili alla sua accumulazione. Se il capitale ha unicamente una posizione di rendita, la
specificità tecnico-sociale del lavoro immateriale starebbe nella sua forma essenzialmente
cooperativa e, in alcuni tratti, perfino comunista. In questo senso, il processo di trasformazione
politica sembra essere relativamente semplice. Dato il carattere parassitario del capitale, il lavoro
immateriale non ha bisogno del capitale. Un bel giorno, il lavoratore immateriale prenderà le forbici
e taglierà questo cordone ombelicale con i capitalisti, e il comunismo sarà fatto. Il problema del
comunismo, di una società umana, diversa, dove vige il rispetto, la comunità, la solidarietà, la
dignità e l'accesso diretto alle risorse sociali, è risolto da un meccanismo quasi automatico.
All'interno della fabbrica globale invece, la domanda fondamentale diventa: in quale forme questo
nodo produttivo italiano, o europeo, o americano o occidentale, è articolato rispetto al resto del
mondo? In quali forme l'agricoltura indiana, le donne di Bangalore, o altri nodi sono articolati
rispetto al resto del mondo. Il proletariato mondiale, non è più questo e quel soggetto predominante,
ma è l’articolazione di tutte queste differenze. Il problema strategico del capitale oggi è come tutta
questa varietà enorme di soggetti mondiali stanno insieme all'interno di una catena produttiva e
disciplinare che si estende sull'intero pianeta e coinvolge sia la produzione che la riproduzione. Se
si incomincia a pensare in questi termini, si vede allora come questa macchina infernale moderna
cerca di costituirsi per imporre quanto più lavoro possibile in una varietà di forme. Questo vecchio
obiettivo classico del capitalismo, il comando sul lavoro, avviene in forme nuove, e sono queste che
dobbiamo scoprire, così come dobbiamo mettere in risalto i punti deboli di queste strategie, come
esse siano ostacolate dalle lotte.
E a questo punto, voglio ritornare sul fatto che non c'è più outside. Ora, se si legge la società non
come unità ma insieme di networks, come fa Mann, la questione dell’outside è molto più
problematica. Allora non si può parlare più del capitalismo, perché ogni "ismo" conduce a una
visione unitaria della realtà (tra l’altro Marx non ne ha mai usato questo termine).Parliamo invece di
capitale come network di lavoro sociale, di nodi sociali che si gestisce il lavoro sociale in certe
maniere e in certe forme. Ognuno di questi nodi è composto da soggetti reali, che vivono una vita
contraddittoria, nel senso che sono partecipi nell’immaginario e nell’attività reale all’interno di
questo network di produzione, ma sono appunto contraddittori, sono anche fuori, hanno anche
momenti più o meno lunghi di rifiuto, non solo ideologici ma proprio sul vissuto, e formano altri
networks, anch’esso complessi e contraddittori che costituiscono altri networks e via dicendo. Se la
società è l'insieme di networks, cosa vuol dire che non c’è più outside? Significa che qualsiasi sia la
mia sfera di azione sociale, essa diventa potenziale oggetto strategico del capitale: tutta la vita é
colonizzabile. Significa che ogni network di cooperazione sociale deve fare i conti con le priorità'
dell'impero e del capitale. Questo prospettiva strategica va benissimo. Ma questo è diverso dal dire
che tutta la vita é colonizzata. Ci sono sempre momenti di rottura tra un network e l’altro, ci sono
momenti di costituzione di altri tipi di networks che cercano di liberarsi.
Il processo costitutivo è fluido, ed è un processo che intende creare spazi, intende creare outsides.
Faccio un esempio: conosco dei compagni che vivono in una cooperativa, abbiamo passato l’altro
giorno a organizzare un party in un nostro cortile, abbiamo messo parecchia imprenditorialità,
abbiamo fatto un palco, invitato degli artisti, fatto teatro ecc. La forma è cooperativa, la gestione del
lavoro è cooperativa, gli spazi sono nostri, siamo chiaramente entrati in contatto col network del
capitale perché la forma-denaro vi è legato; però, abbiamo ridotto al massimo l’uso della forma-
denaro, perché molto lavoro è stato erogato in forma cooperativa, e in quella forma cooperativa i
rapporti tra di noi erano costitutivi di nuovi rapporti sociali. La cooperazione sociale all’interno di
quel microcosmo è gestita secondo criteri che noi ci autodefiniamo, nel senso di rispetto uno
dell’altro e di rapporti costitutivi che non siano rapporti capitalistici, di sfruttamento e di
oppressione, anche se con delle contraddizioni ovviamente. Allora, cos'é questo se non un outside?
Una dimensione-altra dal rapporto competitivo del mercato? Perché' questo non può costituire nel
suo piccolo un vero virus costitutivo? Cos’è che lo fa diventare sussunto al capitale? Semplicemente
perché compriamo alcune materie prime da esso? E’ come dire che i contatti tra società diverse in
antiche società significassero la loro completa sussunzione: no, ti sei creato degli spazi di

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autonomia, te li sei gestiti e li stai riproducendo. L’outside esiste, solo che è un outside costitutivo,
ed è un outside che esiste continuamente sotto la minaccia di essere recuperato e sussunto dalle
strategie di recinzione del capitale.

- Bisogna però stare attenti a guardare i livelli di realtà gerarchici di cui è formato il sistema
sociale capitalistico. Dal medio raggio in giù ci sono certamente delle ambivalenze di cui è
possibile valorizzare la faccia radicalmente conflittuale con il sistema, il che tuttavia non
elimina di per sé l’altra faccia, quella della spinta e dello sviluppo capitalistico. Le lotte stesse,
finanche quelle più radicali, mantengono sempre questa ambivalenza: da una parte potenzialità
di rottura e formazione di soggettività altra, dall’altra parte muovono il sistema innovandolo. Il
discorso cambia nel momento in cui si sale, si incide e si rompe con i livelli alti del sistema, coi
suoi macrofini, ossia l’accumulazione di capitale e di dominio. L’ambivalenza è peculiare dei
rapporti sociali di questo sistema: a sua volta i processi di innovazione capitalistica non sono
unilaterali imposizioni, ma sono il temporaneo risultato di spinte conflittuali e risposte
capitalistiche, nuovi terreni di nuova ambivalenza. E’ l’ambivalenza del lavoro stesso,
considerato nei suoi differenti livelli di realtà: da una parte è accumulo di dominio, capitale e
talora impoverimento di capacità, dall’altro è formazione di una potenza collettiva che,
smettendo di produrre, può far crollare tutto, o può, risoggettivandosi, usare quella forza per
qualcosa d’altro dai fini capitalistici. Ma questi ambivalenti processi, reali o potenziali, sono
oggettivamente e soggettivamente dentro, non fuori dal sistema capitalistico.

State parlando di una questione di accesso alle risorse, di dimensione quantitativa di accesso alle
risorse. Nel nostro piccolo spazio avevamo un numero ristretto di risorse e di ricchezza sociale da
mettere insieme, mentre quando si parla di transnazionali o di grande capitale parliamo di risorse
enormi, quindi la cosa di fondo è che parliamo di accesso alla ricchezza.

- Non è un discorso esclusivamente quantitativo, dall’altra parte bisognerebbe capire di che


ricchezza si sta parlando, a quale livello, per quali fini e metafini... Si pensi all’attuale dibattito
sulla cosiddetta globalizzazione e più in generale sui processi capitalistici: c’è una divisione tra
apocalittici e integrati. Da una parte c’è l’apologia dell’esistente, dello status quo, quindi
l’idea progressista di una freccia della storia in cui quello che c’è adesso è comunque meglio di
quello che c’era prima ed è un ulteriore passaggio verso la liberazione; dall’altra parte c’è il
semplice rifiuto, come quello dell’integralismo verde e di tanti altri, della sola anti-
globalizzazione, che già nella sua definizione esemplifica la propria non ambivalenza. Si
rifiutano totalmente e unilateralmente le biotecnologie, lo sviluppo, anche l’industria: ma per
che cosa? Per tornare a quello che c’era 500 anni fa? E inevitabilmente ci si trova a dire le
stesse cose che dice il Papa e la Chiesa cattolica, con la differenza che questa le ha sempre
sostenute… E dopo che la sinistra è stata universalista e (ideologicamente) globalista per tutta
la sua storia, adesso improvvisamente diventa anti-globalista, sempre con la stessa mancanza
di ambivalenza. La grande scommessa starebbe invece in una posizione ambivalente, quindi né
l’apologia né il rifiuto precostituito. L’industria, ad esempio, non è un settore ma una
trasversalità dell’agire lavorizzato umano, una maniera di sua organizzazione vitale per il
sistema capitalista: di fronte ad essa si può scegliere solo tra rifiuto e apologia? E
l’industrialità è solo ed esclusivamente questa? Quali sono in essa le ambivalenze dal medio
raggio in giù? Come è possibile incidere sui metafini? Questi possono essere solo
l’accumulazione di dominio e di capitale? E trasformando radicalmente questi, dal medio
raggio in giù la situazione, i bisogni, i desideri, i comportamenti e i fini rimangono uguali?

Capisco benissimo quello che state dicendo, sono anche d’accordo con voi su questa cosa. La
domanda quindi è, come andare oltre la contrapposizione tra apocalittici e integrati? Proponendo un
piano? Proponendo un programma su come usare l’industria invece del modo in cui viene usata

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adesso? E quali voci includeremo in questo piano? O più concretamente, lo vogliamo il riso
geneticamente modificato con la vitamina A? Sembra essere molto utile, no? E perché lo vogliamo?
Perché la dieta di molti bambini è povera di vitamine. Perché? Perché ci sono dei bambini del Sud
del mondo che non mangiano verdure? Ma allora perché non gli diamo la possibilità di mangiare
verdure, che c'è anche la vitamina A? Vogliamo i pomodori geneticamente modificati perché così le
donne del Kenya possono trasportarli sulla schiena in ore di marcia senza che questi si rovinino. Ma
allora perché non diamo alle donne dei camion invece che pomodori che durano nel tempo? Ogni
problema tecnico, ogni innovazione scientifica ha un suo uso e finalità definito all'interno di
rapporti di potere esistenti. Per andare oltre la contrapposizione apocalittici e integrati, occorre,
molto semplicemente, rivedere il ruolo della democrazia, e dare voce a coloro che oggi sono senza
voce.
È proprio il pensare come questa alternativa possa essere praticabile senza perdere il senso della
realtà' e dei rapporti di potere che ci da la nostra tradizione comunista, che ci pone di fronte al
problema di una costruzione di un outside all’interno del capitale, di uno spazio politico,
democratico e materiale che cerchiamo di proteggere dalla colonizzazione dell'impero.
Come creare questo spazio? In un certo senso, questa è una domanda molto simile a quella posta
prima, per che cosa siamo noi? Voglio porre la questione della dignità non come questione
ideologica, ma come concetto organizzativo, non di lotta contro, anche se chiaramente c’è anche
questa dimensione, ma di lotta per: è la dignità che contribuisce a creare spazio, che crea un outside
all’interno del mostro. Perché la dignità non è un valore astratto, ma un rapporto sociale, e il
comunismo non è altro che un modo di coordinare i rapporti sociali basato sulla dignità di tutti i
soggetti. Porre il problema politico e organizzativo della dignità è porre la questione della propria
posizione rispetto al resto dell'articolazione sociale produttiva su scala planetaria. Il problema
organizzativo quindi non deve essere visto unicamente in maniera strumentale del tipo: “come
facciamo a ottenere più salario?” o “come facciamo a ridurre l'orario di lavoro?”. Questa è cosa
perfettamente legittima ma all'interno di un'articolazione globale della fabbrica globale, ogni nodo
produttivo che si mette in questa prospettiva classica di rivendicazione, ha di fronte a se un compito
enorme, perché le forme disciplinari del mercato mondiale permettono il ricatto della mobilita' di
capitale.
No, la frammentazione stessa della fabbrica globale, il fatto che la produzione e la riproduzione sia
fondata sull'articolazione mondiale di differenze, sia a livello planetario, che quelle articolate
all'interno di ogni metropoli, o nazione, significa che il compito dell’organizzazione sia in primo
luogo quello costitutivo di nuovi rapporti sociali. La domanda principale che ogni organizzazione si
dovrà porre in maniera crescente è: cosa vuol dire collegarsi con gli altri nodi che fanno parte di
altre sfere dell’attività dell’agire sociale? In che rapporto siamo noi, diciamo, operai dell'industria
con gli infermieri, gli studenti, i contadini del Terzo Mondo, e viceversa? Come ci articoliamo
costitutivamente all’interno di una divisione internazionale del lavoro, di una fabbrica globale?
Come ci colleghiamo con loro? Come noi ci poniamo rispetto al mondo? Chi siamo noi infermieri?
Come si esprime la nostra dignità, facendo turni da quindici ore perché non ci sono soldi per farci
lavorare di meno? Che tipo di sanità voi volete, voi contadini, voi studenti, voi insegnanti, voi
operai? Che tipo di automobili voi volete? Lavoriamo tutta la vita per costruire queste automobili
sempre nuove. Siamo orgogliosi di questo? Ma le vogliamo tutte queste automobili?”. E se non le
vogliamo più. Come ci procuriamo da mangiare? “Che tipo di prodotti agricoli volete?” ci chiedeva
Bovè, “che tipo di campagne, che tipo di rapporto tra città e campagne volete?”. Queste sono grandi
domande, è qui che passa la costituzione di rapporti nuovi, sia attraverso la soddisfazione di bisogni
immediati, cioè il salario, il lavoro ecc., ma sia anche attraverso il porre la questione di una società
diversa. Questa secondo me è la creazione di outside, di un esterno. Non è la costituzione di una
soggettività meccanica, perché è il porsi veramente delle domande e il crearsi un’organizzazione
sulla base di queste domande e la ricerca collettiva di risposte. L’obiettivo che abbiamo, molto
generico, non specificato, quello del comunismo, di una società umana, di un modo di coordinare
l’attività sociale in forma umana, non feticistica, in cui non siamo governati e dominati da cose ma

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da rapporti diretti, in cui ci prendiamo direttamente in mano i nostri affari in quanto esseri umani,
all’interno di un organismo sociale, prendiamo l’obiettivo e ne facciamo mezzo organizzativo.
L’organizzazione non è più un mezzo per il fine, questo machiavellismo radicato nella cultura
marxista è per molti versi superato, ne capisco l’utilità in certi momenti, ma quando parliamo di
costruzione di una società diversa che è basata su rapporti umani il fine diventa mezzo
organizzativo, questa è la forza.
Dire che il fine diventa mezzo organizzativo, significa partire dal comunismo non come fine futuro,
ma mezzo organizzativo del presente. Questo non vuol dire prendere una posizione morale ed etica
su questo o quello. Al contrario, è proprio andare oltre la moralità e l’etica. Tornando a Foucault, i
meccanismi disciplinari creano l’etica, sono questi che producono i valori come prodotti, regole, e
comandamenti dati. Il meccanismo del panottopticon del mercato, la concorrenza diffusa in ogni
sfera di vita, contribuisce a riprodurre questi valori, a farci interiorizzare i valori del mercato. Dire
che il fine diventa mezzo organizzativo significa proprio costituire nuovi metafini in diretta
opposizione a quelli del capitale; significa partire da un altro meccanismo di produzione di valori,
significa dire semplicemente che le norme e le regole, invece che il risultato di un meccanismo
competitivo astratto ed esterno, sono date dall'interazione diretta di esseri umani. Porre la questione
della dignità a partire da soggetti sociali concreti nelle loro differenze è in un certo senso proprio
porre la domanda del come interagire con l'altro, e rendere questa domanda un mezzo
organizzativo.
Noi pensiamo sempre a partire da valori, da regole, da preconcetti, ma siamo disponibili a sentire la
voce dell’altro? E a negoziare in forma di democrazia diretta e di rispetto le regole nuove
ascoltando l’altro? Il che vuol dire che le regole stesse, l’etica, le norme sono in continua
evoluzione, non è che abbiamo delle regole che vengono date, dei principi santi: no, se io mi
immagino una democrazia diretta fatta di molti soggetti sociali, le regole continuano a modificarsi
proprio in funzione della nostra cooperazione sociale. La democrazia diretta vuol dire questo, che ci
continuiamo a formare i parametri dell’azione, ma formare i parametri dell’azione, del nostro
coordinamento sociale significa essere aperti, non ghettizzarsi, non ridicolizzare marginalità ma
ascoltarle, questa è la formula organizzativa. Poi chiaramente la questione della dignità ti porta alla
questione dei mezzi di esistenza, ai commons: se gli operai o i lavoratori di un certo settore
pongono la questione della dignità, pongono la questione del come della produzione, che è
fondamentale, è esattamente quello di cui vogliamo parlare. E porre il problema della produzione
immediatamente pone due questioni: la questione del rapporto con gli altri, con la società, e porre la
questione dell’accesso ai mezzi di produzione per attuare quel come che è esattamente quello che
vogliamo, quindi pone la questione dei commons, dell’accesso ai mezzi di produzione. E questo
secondo me significa fare del fine, dell’obbiettivo, del comunismo un mezzo organizzativo, perché
hai posto la questione comunista partendo da oggi: il punto di partenza è il comunismo, questo non
è l’obbiettivo, e questo è il movimento di abolizione dello stato di cose presente.

- Il problema è che la soggettività non è un luogo neutro, né tantomeno un outside o qualcosa che
in sé è immediatamente antagonista all’esistente. Dopo la sconfitta degli anni ’60 e ’70, la
soggettività proletaria è stata ancor più profondamente colonizzata dal sistema capitalista, nei
suoi comportamenti, nella sua cultura, nelle sue concezioni, nei suoi modi di vedere, nei suoi
bisogni, finanche talvolta nei suoi desideri. E la soggettività nell’attuale sistema è anch’essa
merce, una merce specialissima e indispensabile per l’erogazione di lavoro e quindi di capitale
da parte del vivente-umano, che ha quelle facoltà (timiche, cognitive, intellettuali, emotive ecc.)
irriducibili alle macchine. Se oggi è cambiata la composizione delle facoltà prevalentemente
richieste, non c’è però mai stato, come molti pensano, un periodo in cui l’operaio abbia usato
solo le mani e i nervi senza le altre facoltà esclusive del vivente-umano. D’altro canto la
società, complessivamente intesa, non è certo un altrove rispetto alla produzione capitalistica;
e anche se parliamo di società riproduttiva (di cui il discorso delle comunità è parte)
sbaglieremmo di grosso a indicarlo come un outside, potenziale o reale: essa è al contrario il

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baricentro del capitalismo oggi. Questa soggettività-iperproletaria-merce-specialissima è
ambivalentemente formata per i fini sistemici: non può dunque esistere un fuori, ma può invece
essere costruito un dentro che, a sua volta ambivalentemente, si pone contro, valorizzando a
certi livelli fini un po’ più autonomi (quali essi siano è poi tutto da vedere). Per salire di livello
è però necessario altro, un progetto di demercificazione della soggettività umana e di
delavorizzazione dell’agire del vivente-umano.

Ma la mercificazione non è una dimensione assoluta.

- No, è una dimensione ambivalente invece, che pone il vivente-umano e la sua soggettività
dentro il sistema, però con due facce che non possono essere scisse ma vanno considerate
sempre nella loro interrelazione più o meno conflittuale: la faccia per e la faccia contro. Le
lotte possono essere da una parte momento di risoggettivazione e di rottura a certi livelli,
dall’altra sviluppano e innovano la società capitalistica; così la formazione sistemica, ad
esempio, è formazione per i fini capitalistici, ma dall’altra può essere potenziale di
controformazione per qualcosa d’altro. Si tratta di aver ben chiara la dimensione processuale e
mai irreversibile dei rapporti.

La dialettica è dialettica del capitale, il che vuol dire che nella misura in cui questa ambivalenza di
cui parli muove il capitale, questo si sviluppa; nella misura in cui i flussi di desideri sono canalizzati
in forme merceologiche il capitale si sviluppa perché si appropria delle soggettività e dei desideri,
diceva Deleuze, trae da essi il suo stesso sostentamento. Io sto parlando della rottura della dialettica,
in questo senso Negri aveva ragione nel Marx oltre Marx, il porre la soggettività in altro modo, in
forma costitutiva, parlava di “autovalorizzazione”: una dimensione oltre, uno spazio aperto, una
tangente che va in un’altra dimensione, poi magari è recuperata e recuperabile, chi lo sa, questo
dipende dalla forme organizzative, dalle contingenze ecc. Ma quando ti poni in modo costitutivo,
chiedendo, il come insieme al quanto, ponendo la questione della dignità insieme a quello
dell'esistenza, e costruendo su di essa, secondo me crei un outside, una dimensione altra. Insomma,
il salto, la rottura con i metaparametri, perché il capitale non ha questo rapporto con la dignità, ce
l’ha soltanto nella misura in cui la dignità è monetizzabile all’interno di una gerarchia sociale. Ma il
porre il problema del tuo ruolo in quanto spazzino, in quanto operaio, in quanto insegnante, in
quanto infermiera, il tuo ruolo nella società, vuol dire creare ponti con il resto della società, vuol
dire mettere in discussione il “come”, il “cosa” e il “quanto” di queste funzioni sociali, vuol dire
esattamente costituire o cominciare un processo costitutivo, vuol dire anche incominciare il
processo di negazione del tuo ruolo in quanto spazzino, operaio, insegnate e via dicendo.

- Il Negri che citi, però, parla di una soggettività che è quella data, quella dello status quo,
colonizzata dal capitalismo, che lui interpreta come immediatamente antagonista. Quella forma
costitutiva di cui parla è il risultato dell’immanenza e del progresso, non ha niente a che vedere
con un processo di controformazione e di controsoggettivazione. Questo processo non si pone
fuori, si pone dentro e contro. La soggettività politica che negli anni ’60 e ’70 si è formata
contro, oggi in buona misura è collocata in ruoli professionali per lo sviluppo sistemico: ma in
entrambi i casi c’è un’ambivalenza, non sono processi unilaterali o unidirezionali. Dall’altra
parte l’operaio che più si è identificato con la potenza collettiva all’interno della produzione
capitalistica ha spesso finito per essere il più rivoluzionario, quello che ha capito che quella
potenza, trasformata, poteva essere usata per altro. L’operaio-massa ha per la prima volta
costituito la possibilità di un progetto politico non solo anticapitalista, ma di autoestinzione
della stessa condizione operaia e proletaria, un processo non solo antagonista al capitale ma
anche contro se stesso. Se non pensiamo a un progetto che vada in questa direzione, finiamo
per fare l’apologia della soggettività moltitudinaria così com’è oggi, o per piangere
sull’ingiustizia e sulla cattiveria del capitalismo che sfrutta e opprime.

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Avete ragione, il progetto è, con il vecchio Tronti quello dell'autoestinzione dei soggetti sociali
sfruttati e oppressi, l'autoestinzione della “classe”. Questo è chiaro. Ma la domanda è: a partire da
cosa? E per me la risposta è: da forme organizzative sociali che riflettono i nostri fini. Il futuro nel
presente. Quindi, io vedo la questione della dignità in quanto metodologia di rapporto col resto della
società come il primo passo per l'autoestinzione della classe. Ma quando l’operaio in un certo
settore pone il problema del suo valore sociale e della sua dignità a livello sociale, cominciando un
processo di costruzione di ponti non solo “contro” ma anche “per”, ha incominciato il processo di
estinzione dell’operaio in quanto operaio, perché per il capitale gli operai non si possono e non
devono farsi domande, e non possono rivolgere queste domande alla società. Per il capitale loro non
si possono concepire come coloro che si pongono in maniera degna rispetto al resto della società.
Per il capitale essi sono solo forza-lavoro che lavora, e non come forza creativa che chiede “ma
siamo sicuri che vogliamo tutte queste automobili? Siamo sicuri che vogliamo tutte queste armi?
Siamo sicuri che vogliamo questi polli industriali che a noi costa anche parecchia fatica produrli?”
E se in effetti apriamo questo dibattito a livello sociale, e scopriamo che in effetti ci sono troppe
armi, troppe automobili, pochi pannelli solari, e troppi polli industriali, come ci organizziamo allora
la nostra vita? O si pensi all'infermiere che chiede: “siete sicuri che volete questo tipo di sanità?
Siete sicuri che volete essere curati da persone stressate e malpagate? come ci organizziamo la
sanità e la salute? Che significato ha per noi la salute?”. Queste sono domande politiche, non
puramente economiche. Sono domande che non solo rivendicano, ma aprono un dibattito politico su
questioni specifiche, e allo stesso tempo metti in discussione il tuo ruolo sociale in quanto operaio,
insegnante, studente, contadino, e via dicendo. Facendoti le domande partendo dalla questione della
dignità, ti stai prendendo delle responsabilità partendo da dove sei per la costruzione di una società
diversa. Tu prima parlavi dell’ambivalenza, e Hardt e Negri nel loro Empire mi sembrano si siano
anche allontanati dall’analisi della dialettica tra lotte e sviluppo, almeno per quanto riguarda
l'analisi degli ultimi vent'anni. Questa dialettica però è importante riconoscerla perché ci da il
terreno sul quale le lotte sono recuperate. Allora, se oggi, all'interno della fabbrica globale, non c'è
un soggetto sociale che è capace di farsi portatore del cambiamento sociale, se oggi in pratica non
c'è né l'operaio dei consigli, né l'operaio massa, né il lavoratore immateriale che può funzionare da
forza sociale messianica, significa che l'intervento politico deve partire dalla pluralità dei soggetti. È
qui che ritorniamo alla questione del fine come mezzo organizzativo, perché il coordinamento di
questi soggetti diversi, l'interscambio di valori e il loro riconoscimento reciproco, definisce la forma
stessa della società nella quale vogliamo vivere. È dunque su questo terreno che si pone la questione
del trascendere la dialettica del dentro e contro il capitale, e invece creare in qualche modo uno
spazio politico, sociale e culturale che una dimensione parallela, diversa, il salto nel vuoto in
un’altra dimensione. Il come fare questo, è la grande domanda politica e strategica.

- C’è un altro problema. La sinistra ha sempre guardato alla posizione di potere, quindi il potere
come qualcosa che si prende, formalmente concentrato in un punto o in un luogo. Dall’altra
parte c’è quella che Foucault chiama microfisica del potere, ossia un potere non concentrato
bensì diffuso; Romano, in modo non troppo dissimile, parla di politicità intrinseca,
verticalmente e orizzontalmente diffusa, come il potenziale d’influenza e di condizionamento
che i rapporti e le attività hanno nei confronti del potere e del dominio. Tra posizione di potere
e potere diffuso (verticalmente e orizzontalmente) esiste un rapporto: il socialismo reale è
entrato in un’irreversibile fase di ipostatizzazione nel momento in cui la posizione di potere si è
isolata dalla trasformazione dei rapporti di potere. Si tratta di pensare ad una dinamica di
interrelazione in un progetto di trasformazione complessivo. Se si guarda solo ai metafini si
finisce per pensare il comunismo come ad un capitalismo senza capitalisti; dall’altra parte, se
le trasformazioni dal medio raggio in giù non riescono a salire e mettere in discussione i livelli
alti non hanno molte possibilità di arrivare a rotture effettive e a processi di fuoriuscita dal
sistema, e ben presto si può tornare più indietro di dove si era partiti.

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Sono d’accordo sul fatto che i metafini vanno messi in discussione, ma il problema è da dove parti
organizzativamente. Non ci servono grandi sbrodoloate ideologiche, come per esempio quelle di
molta sinistra inglese. Io sono d'accordo con gli zapatisti su questo punto: “facendo domande si
cammina”. Il problema è, quali domande? In quali contesti politici e sociali? Quali risposte ci
permettono di muovere il nostro movimento, creare dei limiti all'accumulazione attraverso dei nuovi
commons e allo stesso tempo costruire comunità la dove possiamo? La politica è un processo di
ricerca organizzativa, e quest'ultima non è altro che la creazione di networks sociali. Ma ditemi,
perché dopo anni e anni che passa dai centri sociali la gente se ne va?

- Perché c’è una mancanza completa di un progetto politico a livello complessivo e una
debolezza nella capacità effettiva di proposta. La socialità altra di cui tanto si parla, ad
esempio, è uno slogan e nulla più: la socialità dei centri sociali non è molto diversa da quella
sistemica, una merce con un’ambivalenza di cui ben poco si pensa e si valorizza una
potenzialità altra. La soggettività che nei centri sociali si esprime, sui differenti livelli, riesce ad
essere ben poco antagonista a quella diffusamente colonizzata dal capitalismo. Non solo non è
(e non può essere) un fuori, ma è un dentro ben poco contro. Un progetto di trasformazione non
è un programma in dieci punti immutabile e statico: al contrario, esso parte da un’analisi
dell’esistente, ri-elabora i propri fini e scopi, cerca di trasformare l’esistente verso di essi e al
tempo stesso adatta questi al processo stesso, in un continuo su e giù tra i diversi livelli, in
un’ottica dinamicamente progettuale.

Voi la mettete come la mancanza di un progetto politico esterno al vissuto della gente. Sicuramente
ci sarà questo elemento. Io però parlo con molte persone ai margini dei centri sociali e sento un
sacco di lamentele. Ritorniamo alla questione della comunità, al fine come mezzo organizzativo e
quindi di coesione sociale. Ma perché non partire da lì, perché non partire dal “grado di
comunismo” all'interno dei centri sociali? Molta gente se ne va dai centri sociali perché non è
rispettata, perché non è ascoltata, perché non c’è comunità. Questa è per esempio l'esperienza di
molte donne. È il riproporsi continuo degli stessi schemi, dei leaderini, della priorità dogmatica di
certe impostazioni dell'interazione, della marginalizzazione di altre, del rifiuto dell'ascolto, della
svalorizzazione di esperienze diverse. In pratica, il centro sociale che dovrebbe essere una di queste
cellule di una nuova società, con tutti i limiti del caso, rischia sempre di riproporre schemi di una
società vecchia. Secondo me non c'è bisogno di ricorrere a mancati progetti politici, che poi ci
fanno sperare che un giorno arrivi qualcuno a darci il programma giusto. Nella mia esperienza, la
spiegazione dei nostri limiti là dove siamo e possiamo esercitare potere, è spesso assai più semplice.
L’insegnamento fondamentale del femminismo è stato che il personale è politico. Perché il
personale non è nient’altro, all’interno di questo metanetwork della produzione sociale, che una
sfera e un ambito molto limitato di un rapporto tra nodi della nostra interazione sociale. A livello
sostanziale c’è pochissima differenza tra rapporti interpersonali e i rapporti mercificati fra persone
che non si conoscono: dire che il personale è politico non vuol dire nient’altro che in ogni caso si
parla di rapporti tra esseri umani. In ultima analisi, sia che ci mettiamo a discutere dei grandi temi
astratti dell'“economia”, o del nostro rapporto con questo o quella compagna in assemblea, si pone
sempre il problema della forma del rapporto tra esseri umani, della qualità della comunicazione e
interazione tra di essi, dei rapporti di potere e del loro superamento, della stupidità dogmatica e
della sua trascendenza, del rapporto tra ciò che è visibile e ciò che è senza voce, dell'affermazione
del rispetto, della dignità e di tutte queste cose qua.

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INTERVISTA AD ALISA DEL RE – 26 LUGLIO 2000

– Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale? Ci sono state persone e figure
importanti e di riferimento nell’ambito di questo percorso?

Io facevo Scienze Politiche qui a Padova negli anni ’60, nel ’67 ho contestato duramente Toni
Negri, il quale era entusiasta di essere contestato e appena mi sono laureata, cioè nel ’68, mi ha
preso in studio con lui come prima borsista poi assistente. I miei riferimenti culturali erano un po’
più larghi dell’operaismo in senso stretto, però è vero che la mia formazione politica
sostanzialmente è stata fatta a Marghera e fuori dal movimento studentesco, nel senso che non
capendo niente dei rapporti capitale-lavoro sono stata trascinata fuori dalle fabbriche, come molti in
quel periodo, ed è stato attraverso il metodo che io ho sempre particolarmente apprezzato (per
questo mi piace anche il vostro lavoro) dell’inchiesta operaia che sono riuscita a capire quali erano i
rapporti di sfruttamento che francamente mi sfuggivano un po’. Solo successivamente credo di aver
letto determinati libri: penso di aver letto prima Tronti e poi Il capitale, tanto per spiegarvi un certo
percorso, e dopo ancora i Grundrisse. Quindi, credo che il riferimento più importante, se devo
essere sincera, era questo ambiente che ti spingeva a capire le cose, questa collettività che si
muoveva all’unisono in tutta Italia, perché immediatamente con i compagni di Potere Operaio ho
incominciato a girare, con Guido Bianchini, con Luciano, con Toni, tra un convegno e una riunione.
Ed era impensabile il non tentare di capire, cioè c’era una tale forma di élitismo intellettuale (la cui
espressione più evidente era data dalla frase “francamente compagno non ti capisco” che voleva
dire “sei un coglione”) che io passavo le notti a studiare per essere adeguata. E
contemporaneamente c’era questa forma di apprendimento sul campo, c’erano questi quadri operai,
(Italo Sbrogiò ed altri, i quadri operai di Maghera che credo siano piuttosto noti) che ci insegnavano
duramente la realtà dei rapporti sociali che non era poi così evidente. Quindi, devo dire che non è
che abbia avuto prima maestri e dopo una pratica politica, credo che tutto si sia messo in
movimento più o meno nello stesso periodo e l'origine è stata una forma di anti-autoritarismo
becero che io sentivo profondamente, una forma di ribellismo individuale che ha trovato i tempi
giusti e il posto giusto per esprimersi, nel senso che è stato indirizzato in maniera più proficua e
produttiva a un’attività politica seria piuttosto che a forme di espressione individuale anarchica o
cose di questo genere qua. Poi nella quotidianità non c’era solo il rapporto con Toni, io ho
cominciato a lavorare subito con lui in Istituto, anche se non mi sono laureata con lui ma in
Economia: non posso dire che sia stato il mio maestro nella formazione, anche se in effetti
dipendevo intellettualmente da lui per tante e tante cose, ma nella quotidianità oltre a Toni c’erano
anche Guido Bianchini e Sandro Serafini, con cui siamo entrati insieme in Istituto e con i quali ho
incominciato a lavorare non solo politicamente ma anche a fare le ricerche, a organizzare i seminari
ecc. Con queste persone c’era una frequentazione quotidiana e continua, era un modo di vivere
molto collettivo che adesso non trovo più, forse sarà la mia età, non lo so, però allora si viveva
molto di più insieme.

- Quindi arriviamo al periodo di Potere Operaio.

Il periodo di Potere Operaio non è stato poi così omogeneo come tutti dicono, ci sono stati momenti
di grande espansione e momenti di riduzione, qui nel Veneto soprattutto, a piccole zone, con le
ipotesi che altri intervistati avranno già raccontato di allargamento al movimento, cioè agli studenti,
a soggetti diversi da quelli della fabbrica più tradizionale, il che probabilmente era una visione più
larga di quella che noi avevamo teorizzato dell’operaio-massa, ormai c’era forse questa uscita dalla
forma operaio. Però, io restavo invece nella zona in cui la tradizione marxista era più pura, quindi
qualche volta abbiamo subito anche a livello nazionale un isolamento. Devo dire che io mi
occupavo soprattutto del giornale Potere Operaio, ero nella redazione, e poi quando c’è stata
l’ipotesi di matrimonio con il Manifesto attraverso i collettivi politici ho fatto un intervento proprio

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autonomo sul posto tra Pordenone e Conegliano, tra la Rex e la Zoppas, e ho fatto il primo
collettivo politico con i compagni del Manifesto: devo dire che ero poco settaria, non mi sono mai
piaciute né le etichette né le appartenenze troppo strette. Quindi, ho fatto questa esperienza che
avevo trovato interessante e d’altra parte era l’unica possibile in quella zona perché le forze erano
poche, però abbiamo messo in piedi un comitato politico (o un collettivo politico, non mi ricordo
più come si chiamasse) che ha funzionato per lungo tempo in queste due fabbriche e con personaggi
veramente bravissimi, dei tecnici, degli operai straordinari, la vera intellettualità operaia del
periodo. Ciò con questa ipotesi appunto di una forma territoriale di organizzazione che a me piaceva
molto e che forse faceva intravedere (ma allora era molto inconsapevole) una lettura del futuro
Nord-Est, con fabbriche diffuse, piccole fabbriche, una possibilità di trasformazione dalla grande
fabbrica alla microimprenditorialità relativamente indipendente (consentitemi la parola
indipendente per non parlare della piccola fabbrica dipendente dalla grande fabbrica). Quindi,
questo tipo di organizzazione territoriale a me sembrava estremamente sensato per il territorio e
credo che sia per questo poi che ha funzionato, e prendeva quadri (come si diceva allora) di molti
paesi intorno a Pordenone, a Conegliano, quadri che poi hanno avuto dei percorsi anche abbastanza
lunghi all’interno della sinistra di classe.

- Qual è stato il tuo percorso successivo a Potere Operaio?

Quando c’è stato il convegno di Rosolina, in cui Potere Operaio ha perso quella dimensione che a
me interessava e hanno vinto strettamente le ipotesi romane di Piperno di trasformazione di Potere
Operaio in partito, ha vinto l’ipotesi di organizzazione, a quel punto ero già molto in crisi, ero già
percorsa da spinte femministe e lì sono uscita da Potere Operaio, non sono entrata nell’Autonomia
Operaia, nel senso che non ci sono entrata formalmente anche se la vicinanza mi pareva evidente.
Ho incominciato a costituire i primi gruppi femministi attraverso i quali sono passata e che hanno
poi proseguito: l’ho fatto con un discorso legato al recupero di tempo e di dimensione di autonomia
all’interno della vita complessiva delle donne. Quindi, io avevo portato avanti un discorso sui
servizi sociali e sul recupero del tempo che contrastava in un certo senso con il discorso del salario
della Mariarosa Dalla Costa, anche se poi alla fine c’erano molte similitudini: il discorso sul salario
della Rosa era forse più “rivoluzionario” ma dalla pratica politica che lei aveva non si capiva a chi e
quando lo chiedesse il salario, non aveva nessun senso; dopo di che magari il mio era un discorso
molto più riformista però è vero che abbiamo spaccato le scatole a un po’ di gente occupando i
consigli comunali, facendo costruire degli asili nido, cioè progettando forme di “liberazione dal
lavoro domestico” concrete. Fatto sta che erano anche cose che mi servivano al momento visto che
mi ero messa a fare dei figli e quindi mi sentivo molto giustificata a chiedere delle cose di cui avevo
immediatamente bisogno. Se vogliamo era questa una traslazione delle teorie operaiste di Marghera
quando si chiedeva cinquemila lire subito, tutti dicevano “ma questo non è rivoluzionario” e gli
operai rispondevano “non sarà rivoluzionario ma le cinquemila lire ci andrebbero anche bene!”,
allora i soldi erano appunto diversi: quindi così era anche per il discorso degli asili nido, forse non
erano rivoluzionari ma io da qualche parte i bambini dovevo pur metterli! Io allora teorizzavo
queste cose, le ho teorizzate in Oltre il lavoro domestico perché per me sono sensate. Ho vissuto
molto a lato il movimento del ’77, anche perché ne riconoscevo come interessanti solo gli elementi
più marginali: ho partecipato alla creazione di Radio Sherwood qui a Padova perché la radio mi
pareva una cosa estremamente sensata, simpatica, intelligente, comunque bisognava trovare altre
forme di comunicazione e di circolazione delle informazioni. Mentre invece tutte le forme
organizzative messe in atto dai Collettivi Politici qui a Padova più militarizzanti, più impegnate in
un militantismo pesante mi piacevano proprio poco; quindi, sicuramente non facevano neanche più
parte della mia visione di trasformazione del mondo. Quando siamo stati arrestati una delle cose che
a un certo momento ho pensato (a parte il fatto che non riuscivo a capire perché ero stata arrestata
io), e non per cattiveria, è che meno male che non abbiamo vinto! Perché francamente alcune
ipotesi mi lasciavano perplessa. Poi (ma forse questo avviene più avanti) dopo l’arresto c’è stata una

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forma di identificazione perché uno, anche se è stato fuori, nel momento in cui è arrestato cosa
dice? io non c’entro? lo può dire al giudice per difendersi, ma niente più.
Questo è un periodo in cui ho fatto due figli (una è nata nel ’74, l’altro è nato nel ’76), mi sono
sposata, stavo qui a Padova, non mi sono neanche tanto mossa in giro per l’Italia, anzi l’ho fatto
veramente molto poco: quindi, del movimento e delle sue forme sia organizzative sia delle sue
espressioni politiche ho una visione molto ridotta, che è la visione di qui, dei Collettivi Politici
insomma. Quello che leggevo nella realtà, su questi giornali ecc., lo leggevo molto in trasparenza
rispetto a quello che mi diceva Toni, mi raccontava Guido: l’Istituto continuava a funzionare come
centro di produzione teorica in ogni caso, in quel periodo io ho pubblicato un libro sull’impresa
pubblica in Italia, insomma non è che non si facesse nulla o che fossi fuori dal mondo, però non
avevo più, o non ho avuto per qualche anno, quella partecipazione molto più diretta (e molto più
soddisfacente devo dire) che c’era stata alla fine degli anni ’60 e nei primi anni ’70. Devo dire che
questo è un periodo che rimpiango come fase estremamente ricca, produttiva per me, però mi
sembra che anche nella realtà sociale le cose fossero molto in movimento, che dessero l’idea di
come si poteva prendersi il potere per modificare le cose, cioè ciascuno di noi poteva in qualche
maniera influire sul proprio destino e sul destino degli altri: forse era una sensazione soggettiva,
molto limitata e utopica, però era talmente evidente e palpabile questa sensazione (che non provavo
solo io ma si provava collettivamente) che, devo dire, l’ho sempre rimpianta e so che dopo i
sentimenti sono stati molto più legati alla solitudine, all’isolamento, al cercare una collocazione in
qualche maniera o in qualche angolo. Non so cosa ha detto Oreste di questo, ma persino il tentativo
(dall’82 sono andata a Parigi) di ricostruire un’identità comune degli esiliati che in qualche maniera
oggettivamente ci metteva insieme si è sempre frantumato con tutte le diversità che avevamo
interiorizzato alla fine degli anni ’70. Dunque, nonostante si partisse da quello che poteva essere un
elemento di grande impatto comunitario, il fatto di essere esuli in un paese straniero, con gli stessi
problemi, con le stesse cose, eppure non ci siamo mai riusciti, ci sono state assemblee disastrose a
Parigi nei primi anni ’80. Quindi, se rimpiango è perché proprio non l’ho più rivisto questo modo di
sentire e di potere di tipo comunitario, anche se soggettivamente e individualmente adesso ho molto
più potere sulla mia vita, sulla decisione su di essa, di quanto ne avessi allora: però è una cosa molto
solitaria.

– Mantenendo un taglio di analisi attualizzante, secondo te quali sono state le ricchezze e


soprattutto i limiti che si sono espressi nei movimenti e nelle ipotesi più o meno organizzate tra
la fine degli anni ’60 e gli anni ’70?

Non so se fosse un limite, la mia ipotesi è che, almeno quelli che ho vissuto e come ve li ho
raccontati, sono stati movimenti con un forte impatto riformista, di rivoluzionario c’era solo la
nostra volontà: poi gli unici esiti possibili e secondo me, col senno di poi, prevedibili erano degli
esiti realmente riformisti. E in effetti le riforme poi ci sono anche state e secondo me erano
ascrivibili solo a questo forte impatto sociale dei movimenti in generale: parlo proprio di tantissime
cose, dallo statuto dei lavoratori, al piano nazionale degli asili nido, alle leggi di parità del ’77,
senza poi parlare delle solite leggi sull’aborto, il divorzio, il diritto di famiglia, queste cose qui.
Cos’è che non ha funzionato? Il fatto che noi non ce ne rendevamo conto: secondo me noi abbiamo
supposto che la rivoluzione, il cambiamento radicale, fosse un processo rapido e senza interruzioni,
senza pause, e invece probabilmente noi stessi siamo stati sconfitti dalle riforme, cioè da quello che
non poteva che essere l’esito immediato delle lotte. Parlo sempre dei movimenti di massa di tutti gli
anni ’70, vedendo le organizzazioni clandestine armate come le Brigate Rosse, Prima Linea ecc.
come momenti aberranti e nemmeno concomitanti con queste grosse forze che invece muovevano la
società intera. C’è forse una visione di trent’anni dopo quando dico queste cose, allora
probabilmente non le avrei dette: però, devo dire che adesso come adesso se ci fosse stata la
consapevolezza di un processo riformista buono sarebbe stato diverso. Dico riforme buone nel
senso che la base di partenza italiana era veramente ai minimi livelli paragonandola agli stati

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europei, però si pensi alla Francia che ha avuto un grosso movimento nel ’68, non solo studentesco
ma anche operaio: il tipo di riforme che ha messo in atto subito tutto sommato ne ha fatto non dico
un paese felice, ma un paese che ha retto molto di più, e che continua a reggere, anche le aspettative
di parti del proletariato. Niente è definitivo e straordinario, però si pensi allora al salario minimo
garantito che noi neanche ce lo sogniamo adesso, si pensi oggi a tutte le forme di reddito che in
qualche maniera si può costruire anche se non si chiama reddito di cittadinanza, comunque le forme
di allocacion che in qualche modo danno sostegno, si pensi al fatto che il 70-80% delle famiglie
francesi sostanzialmente non paga tasse: sono cose che da noi qui sono miracoli. Si pensi alle donne
immigrate che fanno un sacco di figli e hanno delle allocacion che permettono alla famiglia tutto
sommato di vivere finché i bambini hanno 6-7 anni; noi ci rifiutiamo di chiamarlo reddito di
cittadinanza, è una forma molto controllata quella attraverso la quale si dà, però intanto ce l’hanno e
ce l’avessimo noi poi potremmo partire per altre cose. Se avessimo avuto la consapevolezza di
muoverci per le riforme forse non avremmo fatto tutto quello che abbiamo fatto. E’ buffo, ci sono
dei momenti in cui penso che la nostra incoscienza rispetto ai risultati di tutto questo grande
movimento dentro il quale c’eravamo anche noi, tutto sommato ci ha portato a fare del buon
riformismo, cioè ha costretto le istituzioni a confrontarsi con delle trasformazioni migliori di quelle
che avrebbero prodotto senza questa spinta. Infatti, per esempio adesso che non c’è più questa
spinta così apparentemente irrazionale, senza grandi movimenti ondulatori nelle società, io ho come
l’impressione che qui in Italia non si riesca a fare riforme. Suppongo che gli eletti (parlamentari,
dirigenti politici o come si vuole chiamarli) siano mediamente gli stessi, non nel senso che sono gli
identici nomi ma che hanno mediamente la stessa intelligenza, la stessa capacità: eppure non si
produce una riforma che abbia un senso adesso in Italia, tranne che devo vedere più
approfonditamente questa della scuola, mi rendo conto che trasforma molto però voglio capire un
po’ meglio. E’ vero che non essendoci questa interlocuzione (il che mi sembra la cosa più
drammatica che noi stiamo vivendo adesso, mi pare particolarmente in Italia, perché per quel poco
che so negli altri paesi si fa già un pochino di più) con la società civile, essendoci veramente un non
ascolto, un distacco, una non comunicazione, o forse da parte della cosiddetta società civile un
disgusto, un rifiuto, non essendoci comunque nessun rapporto ciò impedisce a questo paese in
qualche maniera di avere connotazioni almeno “moderne”, non parlo certo di grandi trasformazioni
rivoluzionarie. E ogni atteggiamento che in qualche maniera riporta al dialogo (ma in realtà
potrebbe essere anche scontro, è irrilevante), comunque alla comunicazione, viene così facilmente
dimenticato. Penso a tutti gli interventi anche dei giovani qui dei centri sociali o in generale, adesso
da un anno a questa parte io sono iscritta ai Verdi, non so se ho fatto bene o male, sono consigliere
nazionale ma vorrei dimettermi, quindi forse è un errore: qui ci siamo iscritti tutti con i centri
sociali, non è che abbia deciso io in realtà, se non mi iscrivevo per me era meglio. Quello che i
centri sociali stanno facendo qui, con Bionova, con Tebio, questa partecipazione molto attiva e
capace di imporre, poi viene assorbita da un dialoghetto istituzionale, alla Pecoraro Scanio
insomma, che non ha proprio la capacità di essere produttivo di elementi nuovi di scontro, anche di
rifiuto, di qualsiasi cosa. E’ come se non ci fossero più idee circolanti e quelle tre che vengono fuori
venissero immediatamente utilizzate per fare qualcosa, tanto poi poco si può fare perché i parametri
sono altrove, sono già determinati chissà dove a livello europeo, a livello internazionale, a livello
globale, a livello universale o quello che si vuole: dunque, tanto nessuno si può muovere e quindi
poco si fa.
La ricchezza secondo me era questa grande capacità di essere nel futuro, cioè di vedere le
trasformazioni in atto e quindi ovviamente essere nel futuro. L’analisi che vedeva come centro della
società l’operaio-massa quando è stata iniziata era quasi avveniristica e gli avvenimenti, cioè le
trasformazioni del modo di produrre, ci hanno superato troppo rapidamente. Una cosa che devo
ascrivere invece alle donne è questa capacità di cogliere gli elementi globali della giornata
lavorativa e della forma relazionale che questa ha: forse anche lì senza grandi lucidità espositive,
però legando questo proprio all'esperienza quotidiana secondo me hanno dato grandi elementi di
comprensione per le trasformazioni poi del fare lavoro complessivo. A me viene un po’ da ridere

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quando adesso si parla di femminilizzazione del lavoro, oppure di affettività nel lavoro, oppure di
lavoro immateriale o queste cose qui: mi sembra sempre quasi che mi prendano in giro perché sono
cose che noi negli anni ’70 dicevamo ogni giorno, quando ci inventavamo che esiste una forma
lavoro che non è contabilizzata e che pure è quella che ci permette intanto di riprodurre la forza-
lavoro e che ci permette comunque la produzione materiale, se non c’è quella la produzione
materiale non è proprio possibile. In realtà adesso il fatto che questi elementi non siano stati fatti
propri dalla generalità del movimento quando sono venuti fuori ha permesso alla struttura
capitalistica della produzione un grosso anticipo che noi adesso stiamo rincorrendo, perché tutti i
discorsi che si fanno ora sul lavoro immateriale e, insisto, sull’affettività (Toni la chiama proprio
affettività, affection) nella produzione sono discorsi che il capitale ha già messo in atto. Ora dentro
questo c’è un altro discorso che le donne hanno fatto da una vita e che però secondo me potrebbe
correggere da un punto di vista teorico questa analisi sulla produzione immateriale e che è il
discorso del corpo. Questo non è il dire “noi abbiamo un corpo che sempre bisogna curarlo perché
dobbiamo stare bene, non stiamo bene nel nostro corpo e queste cose qui”, il capitale ha già fatto
questo discorso: è invece il discorso che la produzione è vero che è produzione immateriale, però
questa non può passare nella realtà a prescindere dai corpi. Noi (in questo caso parlo delle
femministe degli anni ’70) facevamo un discorso sull’impossibilità di contabilizzazione del lavoro
domestico (lo chiamavamo proprio domestico) perché non c’era possibilità di seguire il processo di
valorizzazione della merce, perché la merce, per quanto uno potesse dire sempre che era il corpo del
lavoratore, ma insomma non era vero che fosse il corpo del lavoratore, era la mente, il suo ambiente
relazionale, la sua stabilità psichica, affettiva e quello che vogliamo, non si poteva dunque
contabilizzarlo. Però, da un punto di vista operaio l’obiettivo del vivere bene (mi ricordo che Lotta
Continua faceva il discorso della qualità della vita, che voleva dire vivere bene e non qualità buona
o cattiva), questo discorso operaio era sensatissimo, l’unico dotato di senso in politica, perché mi
domando chi fa qualsiasi discorso politico dicendo che bisogna vivere male, neanche i protestanti lo
fanno. Se questo discorso qui fosse stato assunto quando noi donne o noi femministe lo ponevamo
come elemento del nostro sfruttamento, cioè eravamo noi che garantivamo alla gente, agli operai, o
ai compagni, o a chiunque, che in qualche maniera potevano sopravvivere se non vivere bene, se
fosse stato assunto come obiettivo intero allora avrebbe avuto una qualità di senso molto più alta e
comunque confacente alle trasformazioni che il capitale poi ha messo effettivamente in atto nel giro
di un decennio, perché le cose non sono mica andate tanto alla lenta, non è che ci abbiano messo
cento anni per questo tipo di trasformazioni, lo si chiama postfordismo se si vuole in maniera molto
sintetica e poco definita. Per cui io credo che si possa ascrivere al movimento femminista una serie
di pregi di analisi che però non sono stati colti, ma probabilmente neanche il femminismo li
coglieva nei suoi termini più universali: penso che uno dei difetti del femminismo in questo caso sia
stato di pensare di occuparsi di donne quando parlava di queste cose e di non pensare invece di
mettere in atto un punto di vista di genere sul mondo, il che era una cosa abbastanza diversa. Però, lì
c’è stato proprio un meccanismo secondo me di incomprensione in generale o di non corretta
trasmissione e comunicazione di pensiero. In effetti c’è stata quasi una divaricazione, come se in
quel periodo la gente fosse il visconte dimezzato, un po’ faceva militanza politica nel mondo e un
po’ faceva la femminista, e i due mondi non si incontravano mai, non c’era mai una possibilità di
avere un linguaggio comune anche se con punti di vista diversi: questo linguaggio comune non
doveva mica essere omogeneo, ma da punti di vista diversi forse si poteva fare un discorso che
secondo me è diventato il vero discorso a partire dalla fine degli anni ’80.

- Secondo te, come si può analizzare o spiegare il fatto che per un certo periodo tutta una serie di
donne che militavano anche in ambito misto (chiamiamolo così), oppure che non facevano nulla
inizialmente, hanno cominciato a interessarsi, a militare nel movimento femminista e quindi a
essere partecipi, e poi, se non improvvisamente comunque con abbastanza rapidità, sono
rimaste poche le femministe di quel periodo che tuttora pensano certe cose o hanno continuato
a fare determinati percorsi? Magari le altre nell’educazione dei figli, nel modo di conduzione

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della propria vita privata hanno fatto tesoro di quella militanza e dunque hanno provato a
imporre un’educazione e un modo di conduzione di vita diverso, però lo hanno fatto nel privato,
mentre nel politico sembrano essere assenti.

Ci sono due problemi che mi poni: uno è quello della doppia militanza, cioè il rapporto tra o partito
o gruppo politico ecc. e femminismo, e l’altro è invece questo andamento carsico del femminismo.
Ti rispondo dunque in due momenti diversi. Quello della doppia militanza è un discorso difficile
perché rompe le appartenenze: io ho conosciuto donne che erano per esempio militanti nei gruppi
politici extraparlamentari, che contemporaneamente si sentivano femministe e che si trovavano di
fronte a scelte drammatiche. Perché poi il femminismo ha costretto le donne a scelte drammatiche
dal punto di vista personale, il nemico era in casa spesse volte: se una doveva ritagliarsi una specie
di autonomia personale e avere delle relazioni con amanti, amici, mariti, figli, padri, insomma con
maschi che erano di sinistra, quindi che condividevano una buona parte delle idee di trasformazione
della società, francamente si trovava molto a disagio. Penso solo al maschilismo degli operai di
Marghera dell’epoca, quando si permettevano dei pesantissimi giudizi sul nostro aspetto fisico e
non dico di quelle poverette con dei seni grossi che si sentivano veramente morire quando andavano
a distribuire i volantini alle sei di mattina. Dunque, era una cosa estremamente complicata, legata
all’identità proprio personale e legata anche a una scelta di vita: una non poteva mica sempre
mollare il marito perché alcune prese di posizione erano giuste, anche se ci sono stati dei matrimoni
falliti. Erano scelte così drastiche e violente che posso capire che molte facessero le femministe di
nascosto e le compagne invece pubblicamente. Poi con il partito la cosa era ancora più complessa,
perché, nonostante che le donne abbiano sempre pensato che il Partito Comunista fosse per loro una
specie di buon papà che in qualche maniera avrebbe raccolto le richieste delle bambine piccole, non
c’è stato in Italia un partito che abbia assunto come proprie le tematiche, almeno negli anni ’70, dei
gruppi femministi. Si sa che molta parte della militanza del Partito Comunista era di tipo famigliare
addirittura, quindi per tradizione, io ho conosciuto famiglie (intendo madri, nonne, figlie) iscritte al
PCI e la cosa diventava ancora più dilacerante, perché era un tipo di affezione storica e di una
difficile trasformazione. Ricordo anche storicamente la presenza dell’UDI (Unione Donne Italiane),
che era ferocemente ostile al movimento femminista, che è stata ferocemente ostile per esempio al
movimento per il divorzio e che come associazione si staccò dal Partito Comunista nel ’76 quando
il PCI si rifiutò di far scendere in piazza i propri militanti per l’aborto dopo i fatti di Seveso (dunque
la diossina, donne incinta che dovevano abortire perché avevano paura di generare dei mostri): in
quel momento, per esempio, con la separazione dell’UDI dal PCI, ci furono molte militanti del
partito che ne uscirono ed entrarono nel movimento femminista. Ma dopo c’è stata la teoria della
differenza e la Luisa Muraro, la Cigarini e queste donne che secondo me sono state un dramma per
il movimento femminista, nonostante siano molto intelligenti e molto capaci: non è che abbiano
detto delle cose sbagliate, è che hanno incitato a una pratica secondo me assurda. Queste donne
hanno favorito la Carta Itinerante, il patto lanciato da Livia Turco nell’87, l’hanno favorita come
patto tra donne all’interno e all’esterno del partito. Questo patto si fondava su una delle teorie della
differenza che era quella dell’affidamento: si constatava che le donne facevano sempre riferimento
a uomini potenti, cioè quando si scrive una bibliografia, si fa un riferimento o c’è una nota si fa
sempre a un teorico, e invece secondo loro bisognava farlo a una teorica perché bisognava affidarsi
a donne potenti. Allora, trasferendo questa teoria al rapporto movimento-partito le donne del partito
ricevevano valore dalle donne del movimento e, viceversa, le donne del movimento avevano un
canale privilegiato con le istituzioni attraverso questo riferimento alle donne del partito. Quindi, c’è
stato un primo momento di doppia militanza affettiva diciamo, coatta e perché non si riusciva a
staccarsi; le donne si sono staccate e poi le donne della differenza le hanno rimesse dentro con
questa Carta Itinerante, un patto dell’87 tra donne, fatto dalla Livia Turco insieme alle donne della
differenza. Quello che volevo dire è che questo rapporto femminismo e strutturazione della
domanda politica attraverso i partiti o i gruppi è un rapporto altalenante anche in Italia, come del
resto all’estero, che ha degli andamenti legati a momenti contingenti, mode.

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Come poi invece il movimento abbia avuto questo andamento carsico, cioè prima apparente, poi
nascosto, poi qualche volta salta fuori, io questo non lo so bene. Io so che ha avuto sicuramente (a
livello anche europeo, non solo italiano) una espressione di massa su obiettivi specifici: noi
abbiamo avuto il movimento femminista sull’aborto, qualcosa sul divorzio, ma sostanzialmente su
aborto, contraccezione, consultori famigliari, su questo abbiamo avuto grandi movimenti
dappertutto; il resto, che è legato molto di più a comportamenti e a vissuti anche individuali, pagati
con il sangue e con scelte non sempre facili, ha avuto degli allargamenti a livello di massa, ma di
tipo comportamentale più che di richiesta o forme organizzative evidenti. Perché noi pensiamo
sempre al movimento femminista quando portava 100.000 persone in piazza, ma ci dimentichiamo
di vedere che negli anni ’80, per esempio, quando il movimento femminista pareva non ci fosse, in
Italia sono sorte credo circa 300 Case delle Donne, sono sorti centri anti-violenza fatti da donne con
una contrattazione con le istituzioni locali molto produttiva, a Torino ci sono poi tante di quelle
cose, si pensi al Buon Pastore a Roma, abbiamo persino una Casa delle Donne qui a Padova (il che
sembra quasi incredibile), abbiamo dunque avuto forme di espressione di donne; parlo solo di
donne, non la partecipazione delle donne a iniziative (cosa di cui si può anche parlare), si pensi alle
forme di espressione solo di donne per esempio nei confronti della guerra, le Donne in Nero. Noi ci
dimentichiamo che queste cose fanno parte di un percorso in cui anche soggettivamente molte
persone che erano nelle piazze negli anni ’70 poi si ritrovano vestite di nero nelle piazze negli anni
’90, o per esempio a gestire un centro di documentazione delle donne a Bologna negli anni ’80.
Quindi, secondo me, più che sempre quel movimento immodificabile (questo sarebbe una
sciocchezza madornale), c’è piuttosto un piantar radici di una consapevolezza di genere nella
società che è sempre più evidente, che è data da vari fattori, non solo dal femminismo come
l’abbiamo visto espresso negli anni ’70, ma dal fatto che, per esempio in Italia, le donne cominciano
sempre di più a essere presenti nei commerci sociali, quindi a lavorare, cioè a guadagnarsi da
vivere, che è una cosa che le pone in posizione più autonoma rispetto al resto della società e anche
alla sua struttura; al fatto che le donne, essendo arrivate più tardi sul mercato del lavoro, ne
assumono le strutture più atipiche. Infatti, si pensi a una cosa che forse bisognerebbe analizzare un
po’ di più e su cui riflettevo l’altro giorno: dove abbiamo aziende con orari atipici (aziende di
servizi e queste cose qui) noi abbiamo un sacco di donne, dove abbiamo forme atipiche o nuove di
produttività diffusa, microimprenditorialità ecc. abbiamo un sacco di donne, non dico che è la
maggioranza, però comunque c’è un trend in cui le donne sono sempre più presenti, per non parlare
poi del discorso dell’acculturazione in generale, le storie dei diplomi sono su tutti i giornali e
dunque non le ripeto.

- Quali sono stati i tuoi cosiddetti numi tutelari, ossia autori, figure o persone che hanno avuto
una particolare importanza in tutto il tuo percorso?

Sicuramente ne dimentico un sacco, però vediamo. Il primo è senz’altro stato Marx. Poi credo che
Operai e capitale di Tronti per me sia stato molto importante. Poi non proprio gli scritti di Toni
all’inizio, perché non capivo niente di quello che scriveva, lo giuro, adesso forse mi pare che scriva
un po’ meglio ma allora non capivo niente, scriveva anche cose che non mi interessavano molto;
però, invece la vicinanza di Toni, la sua capacità di convincere che dovevamo comportarci come se
la rivoluzione fosse in atto, per me è stata veramente molto importante. E’ un modo di vivere gli
avvenimenti come se stessero già realizzandosi che serve anche a determinarli in fondo: in politica
credo che si importante l’ottimismo della volontà per essere più chiari e forse un po’ più banali.
Quindi, certo anche le cose che scriveva, ma insomma la capacità e l’entusiasmo politico di Toni
sono quelli che mi hanno determinata molto, e anche questa folle lucidità che ha nell’inventarsi una
realtà che adesso chiameremmo virtuale ma che è una realtà dettata dalla volontà: le cose non sono
quelle che esistono perché il buon senso ci direbbe che esistono, ma sono quelle che noi
desideriamo; allora, secondo me è questa la cosa straordinaria che ti porta a fare politica, perché se
no forse non la faresti proprio. E questo mi manca. Certo, ci sono state un sacco di altre persone che

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hanno detto per me cose importantissime, che ne hanno scritto e che sono ancora molto importanti.
Ma la cosa che mi manca di più e che io considero più importante, insisto, è questa intelligenza
collettiva che avevamo messo in funzione negli anni ’70 e che adesso non ritrovo più, ho tentato di
ricostruirla, anche per le cose che sto facendo adesso, ma con molta fatica: io ho creato gruppi di
ricerca a livello internazionale con persone bravissime, intelligentissime, ma non c’è più lo stesso
clima. L’intelligenza che c’era negli anni ’70, questa forza proprio di pensiero costruita insieme
nella pratica, io non l’ho più ritrovata ed è una cosa di cui sento molto la mancanza. Questo senza
togliere, insisto, il debito che ho nei confronti di Luciano Ferrari Bravo, di Guido, di Magnaghi, di
tutti, perché effettivamente credo di aver conosciuto personaggi straordinari ed estremamente bravi,
Romano Alquati ad esempio, resto sempre nell’ambito dell’Istituto ma era un’intelligenza che era
sorta a livello nazionale più che locale e che funzionava così, quindi le persone in sé diventavano
non dico interscambiabili ma quasi, anche se a ogni persona ovviamente va riferita una forma e una
capacità particolare di insegnamento e di espressione.

- Invece nell’attualità quali sono le figure o gli autori che consideri più utili nella lettura e
nell’analisi della realtà e delle sue trasformazioni?

Adesso io più che persone trovo dei buoni libri. Diciamo, perché si parla sempre bene dei morti, ma
è vero che Luciano Ferrari Bravo per me e per molti qui a Padova era molto importante come
qualcuno capace di ascoltare, di apprezzare e nello stesso tempo indirizzare forme di pensiero in
fieri. Ma al di là di questo ho veramente l’impressione che siano importanti molti del filone di
pensiero a cui in qualche maniera appartengo, anche se ognuno si ritaglia la propria individualità,
come a Parigi Yann Moulier che ha scritto questo libro stupendo sulla schiavitù, lo stesso Maurizio
Lazzarato, che è stato uno dei miei studenti, adesso sta diventando un intellettuale completo e bravo
e questa sua riscoperta di Tarde per esempio mi sembra importante; per non parlare di Christian
Marazzi e delle cose che scrive, ma anche di Bifo, anche persone che mi sono un po’ lontane come
formazione. Però trovo che in questo filone ci siano veramente molte persone che stanno ancora
producendo delle cose interessanti. Però, devo dire che per i miei interessi più immediati e più
concreti in questo momento mi sento tra quelle persone che hanno bisogno di trovare nella realtà e
nella ricerca delle risposte che non riesco più a trovare nei libri, per cui la mia esigenza adesso è di
lavorare con le persone per esempio con cui lavoro a livello internazionale per cercare sul campo
delle risposte che non è che riesca ad avere da soggetti a cui potrei rivolgermi. E ciò non è per
superbia, è perché credo che molte risposte adesso non ci siano, bisogna proprio cercarsele ed è
necessario che sia un momento di riflessione attiva a cui tutti dobbiamo un po’ partecipare, ma
velocemente, perché grandi discorsi e grandi teorie mi pare proprio che non vengano fuori e non
vengano poi elaborate. Per carità, io mi sono ritagliata anche uno spazio più preciso e delimitato, è
vero che mi occupo di un punto di vista di genere e quindi è anche un percorso teorico che è un po’
da costruire e che sto tentando di costruire con persone molto competenti, capaci e brave a livello
internazionale, dunque forse non ho l’occhio su tutto, anche se cerco di tenermi al corrente. Per cui
non è per non dare nomi, ne dovrei dare troppi adesso come adesso, ma con questa esigenza che ho
che bisogna proprio mettersi le scarpe e camminare, andare a vedere un po’ le cose come stanno per
riuscire a capire non solo cosa sta succedendo ma come presentarsi di fronte al cambiamento, che è
un cambiamento così rapido oltretutto che secondo me supera persino molte analisi anche belle e
critiche. Ad esempio su questa storia dell’impero di Toni io non sono proprio convinta che sia una
cosa up-to-date, l’impero nel momento in cui Toni lo scriveva era già finito: Clinton non riesce a far
funzionare Camp David, questo mi pare abbastanza evidente, questa storia del gendarme americano
nel mondo forse sarà stato vero in un momento, ma adesso? Non era comunque la prospettiva, si
tratterà di vedere cosa fa la Cina, cosa sta facendo il Giappone con la Corea. Allora, ho come
l’impressione che per capire effettivamente i cambiamenti in questo momento bisogna andarli a
vedere più che scrivere le teorie che sono rapidamente non dico obsolete ma che non danno
significative tendenze, almeno per quelle poche che io conosco e per le cose che leggo.

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– Per quanto riguarda i processi capitalistici di sviluppo e trasformazione, al di là delle
macroteorie quali sono secondo te le peculiarità e i campi in cui indirizzeresti la ricerca e
l’analisi?

In questo momento io sono fortemente attenta a quello che succede a livello microterritoriale. Io
credo che riuscire a capire e a creare forme di inter-relazioni, presenze, critiche, domande ecc. sul
territorio sia un modo per capire anche quello che sta succedendo non solo a livello nazionale ma a
livello mondiale. Un po’ perché ho l’impressione che non succedano cose poi molto diverse se si
salta di livello, cioè dal micro al globale; e un po’ perché credo che altrimenti si rischia di non avere
interlocutori. Per me adesso è particolarmente importante (forse perché ho una certa età, non lo so)
riuscire a capire a chi devo rivolgere la critica, a chi devo oppormi o con chi condividere una serie
di processi. Non dico che sia più importante ma diciamo che è quasi altrettanto importante di capire
con chi sto il capire anche chi ho di fronte e quali sono poi le possibilità di materializzare una
canalizzazione di domande precise, e come in qualche maniera incidere sulle trasformazioni
concretamente. Mentre guardo con interesse stupito fenomeni come Seattle, come Tebio a Genova,
mi domando se dietro a questo riesco a veder forme reali di aggregazione, di movimenti: certo, il
processo a Bovè in Francia, che ha raccolto in questo paesino circa 100.000 persone, è legato a
processi come Seattle, come Tebio ecc., però è anche vero che Bovè è proprio un agricoltore lì, che
si faceva il processo lì, che ha disfatto il Mc Donald’s lì. Quindi, la concretezza territoriale di un
comportamento politico produce forse anche forme di aggregazione meno sporadiche che Seattle o
Tebio. Ad esempio, una cosa che mi interessa è che qui nel quartiere ci sono i comitati contro le
antenne: in questo quartiere, che è borghesuccio, di professori universitari e persone così, però c’è
gente talmente determinata che un giorno o l’altro darà l’assalto al comune se non tolgono l’antenna
che stanno costruendo! Lo stesso a Larcella, c’è un comitato in un quartiere qui vicino contro un
garage sotterraneo per settanta macchine che rovina la zona. Sono forme di aggregazione spurie e
straordinarie (contro questo garage sotterraneo c’è anche una contessa, moglie di un generale,
sicuramente di destra, probabilmente monarchica), però io le vedo e sono composte da persone con
cui riesco concretamente a parlare di cose che riguardano la mia vita, la loro vita e che creano forme
aggregative precise, sostanziali, con un obiettivo chiaro, con un interlocutore chiaro e che
modificano poi realmente la composizione politica del territorio o di questa città. Invece vedo poco
il resto, anche Bionova, quello che c’è stato qui, aveva comunque un senso che io non nego
assolutamente, ma dopo quei quattro articoli sui giornali non ha più prodotto niente; mentre io vado
in ospedale a portare mia mamma, il medico viene e mi dice “ah, signora, ho visto che lei era nel
comitato contro le antenne, anch’io nel mio quartiere ho il comitato perché ci hanno fatto
un’antenna anche lì”. Ma va bene voglio dire, poi questo a cosa porterà? Non lo so, adesso c’è la
moda delle antenne per cui viene facile dire che ci sono queste cose, però è altrettanto vero che ci
sono stati una serie di comitati: ad esempio qui c’è un problema al Policlinico per il reparto di
pediatria, dove ci sono i bambini malati (è una cosa su cui non avevo mai riflettuto) ci sono i
genitori che devono andare lì e non si sa bene dove metterli, come possono dormire lì, i soldi di cui
hanno bisogno, e lì si sono creati appunto dei comitati per fare in modo che questo reparto
importante di pediatria che abbiamo (che è legato poi all’Università) possa essere accogliente anche
per i genitori. Insomma, forse non è la rivoluzione, però ho come l’impressione che a partire da
queste cose si crei reale aggregazione, si crei un movimento civile che è capace anche di rompere
equilibri istituzionali, anche compattamenti partitici per esempio, e che possa trasformare anche
l’idea del come vivere su un territorio. Se io riesco a dialogare su un obiettivo che trovo corretto,
giusto, sensato con tutti quelli che abitano in questo quartiere tutto sommato mi va bene perché io
qui ci vivo, non è che viva da un’altra parte. Io non so però se questa sia la nuova forma della
politica, tuttavia io un’attenzione a questo ce l’ho perché è questo che muove (per carità, a livello
territoriale, locale) la società civile. Quando vedo passare una volta all’anno, il primo maggio, gli
operai delle fabbriche devo dire che mi fanno un po’ impressione: girano con i cartelli dicendo

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“voglio un amento di salario perché tengo famiglia”, come se adesso ancora la gente avesse
famiglia, non è vero, ci sono delle persone che vorrebbero un salario tutto sommato, un reddito, ma
la giustificazione del “tengo famiglia” dovrebbero mettersela via. E questi mi sembrano dei mostri
antidiluviani, mentre invece questi professori di università, avvocaticchi o non so cosa, insomma
gente che abita qui, mi sembrano quasi più sensati. Se da un lato c’è stato un processo di
proletarizzazione anche di tutte queste professioni, per cui tra loro e gli operai sicuramente c’è
ancora una differenza di reddito ma non per tutti, la differenza di status è proprio quasi zero, e il
fatto che questi ceti forse per loro interesse personale ma comunque si sentano obbligati a
partecipare alla costruzione di una vita migliore nel territorio in cui vivono a me sembra molto
importante; poi lo dico anche perché abito qui, ma Larcella per esempio è quartiere operaio e i
comitati ci sono anche lì. I comitati sono stati un elemento per esempio di spostamento dell’asse
elettorale nelle ultime elezioni: siccome la lista “Insieme per Padova” (quella che ha vinto) aveva
promesso loro che avrebbero tolto tutte le antenne, i comitati hanno votato la nuova sindaca Destro
(che è di destra, di Forza Italia), e Zanonato, che era il sindaco DS, ha perso per cinquecento voti,
tanto per capire che anche dal punto di vista dei rapporti istituzionali queste cose poi alla fine
contano, pochino ma contano.

– Negli ultimi anni si è sviluppato un grosso dibattito attorno al nodo della classe: se di classe si
possa ancora parlare, come si è venuta trasformando (prima ad esempio hai accennato ad un
processo di proletarizzazione di lungo corso), se all’interno di questa classe (o di un qualcosa
che non ha più questo nome) possano esistere dei soggetti tendenzialmente centrali (ad esempio
Bifo ha recentemente tirato fuori il neologismo cognitariato). Tu come analizzi
complessivamente questa macrodimensione?

Il discorso è quello della composizione di classe: questo, da un punto di vista strettamente marxista,
credo che debba essere in qualche maniera rivisto, come deve essere rivisto tutto il discorso sulla
produzione di merci e tutto il discorso sulla creazione di valore, è tutta una cosa probabilmente da
ricostruire. Però, se per classe intendiamo quella partecipazione, fisica suppongo, alla produzione di
merci, qualsiasi siano le merci prodotte, e quindi dentro questa produzione possiamo metterci tutte
le trasformazioni del fare lavoro di questi tempi, diciamo che il concetto di classe ne risulta
enormemente allargato. Se per Tronti la classe era il motore mobile perché comunque era legata a
strutturazioni produttive di un certo tipo, ovviamente ridotte rispetto al resto della società, quindi
diventava l’elemento che poteva poi costituire l’interesse generale della società, la cui soddisfazione
delle domande diventava la soddisfazione dell’interesse generale della società, oggi è quasi una
cosa contraria: se la produzione di merci (qualsiasi tipo di merci, persino la merce comunicazione,
quindi quella più immateriale se si vuole) investe tutta la struttura relazionale della società, la classe
allora si identifica quasi con i cittadini se si vuole, o anzi peggio i cittadini più gli extracomunitari
più i clandestini, cioè con tutti gli individui capaci di intendere e di volere e anche magari gli altri.
Ciò nel senso che se è vero che qualsiasi comportamento sociale e relazionale è ormai diventato un
comportamento produttivo, allora la definizione di classe dovrebbe essere estremamente larga, e
probabilmente lo è, non lo so; dunque, è indubbio che, di per sé, se è così larga non può che essere
centrale. E’ vero che allora di fronte si troverebbe solo il capitale finanziario, cioè l’immaterialità
assoluta. Su questa cosa apro una parentesi: a Marghera ci sono posti incredibili dove si balla, in
piena zona industriale metalmeccanica, cioè in ex fabbriche, come qui nella periferia di Padova,
dove prima c’erano le fabbriche e adesso si fabbrica un’altra merce, si fabbrica il divertimento, si
fabbrica il tempo libero, si fabbrica la soddisfazione ovviamente del tempo libero, del divertimento
e di queste cose qui. Però, c’è la fabbrica, la cosa allucinante è che il passaggio ancora è talmente
rapido che non si sono modificati i contenitori delle due cose, e si produce sempre una merce.
Allora io mi domandavo: i gestori di questi locali (mezze scuole da ballo, mezze balere), gli
insegnanti di ballo, cosa sono? gli operai di oggi? Non lo so, forse fanno parte della classe operaia
però con delle caratteristiche straordinarie, loro si acculturano continuamente per poter produrre

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questa merce, stanno attenti alle mode. E’ questa la nuova classe operaia? E’ questa la classe? Che
coscienza di classe abbia il gestore di una scuola di ballo in piena zona industriale a Marghera
questo francamente non lo so, però deve essere così. C’è addirittura un passaggio nello spazio fisico
così contiguo che qualcosa sta succedendo, lo vedi, e questa è una merce estremamente
immateriale, che però fa circolare equivalenti generali in maniera straordinaria perché niente è
gratis di queste cose qui, c’è gente che ci vive, è una merce che si compra e si vende. Quello che è
straordinario è poi questa contiguità fisica.
Questo allargamento della nozione di classe mi mette in difficoltà rispetto all’individuazione di
soggetti che possono essere trainanti per esempio, secondo una vecchia modellistica degli anni ’70:
allora era l’operaio della grande industria quello che trainava il processo di sviluppo o il processo
rivoluzionario, come si vuole, sicuramente il processo di sviluppo capitalistico, probabilmente e
contemporaneamente anche il processo rivoluzionario. Oggi individuare un soggetto che abbia
questa portata è difficile. Ho in mente Guido Bianchini, purtroppo è morto anche lui, avrebbe detto
che questo tipo di individuazione non poteva che portare a un modello rivoluzionario di tipo a
piramide rovesciata, nel senso palazzo d’inverno e queste storie qui, una cosa molto vecchia di
riproposizione di dittatura del proletariato e vecchi modelli leninisti. Forse aveva in qualche
maniera ragione, ma il non individuare nessun soggetto probabilmente ci porta a dei deficit
organizzativi molto evidenti, a una povertà di tipo organizzativo e una discontinuità nelle iniziative
poco produttiva. La mia tendenza sarebbe quella di individuare certo i soggetti trainanti nelle donne
e nei loro comportamenti; ma è vero che grazie a Dio le donne hanno comportamenti disomogenei,
cioè esistono donne riformiste, donne rivoluzionarie, donne conservatrici, per cui io non faccio mai
il discorso delle donne come soggetto in sé. Però, l’assunzione di tematiche di genere all’interno
della pratica politica questo sì non può che essere fonte di trasformazione di “tipo rivoluzionario”,
perché questo ci dà una visione per esempio dei rapporti sociali non produttivistica, di per sé non lo
permette proprio. Rispetto alle tematiche legate al progresso, alla produttività, alla produzione, a
queste cose qui in senso buono, proprio socialista se vogliamo, di allargamento della ricchezza che
permetterà libertà, mette avanti invece tematiche più legate all’uso della produttività, l’uso della
produzione, l’uso della ricchezza, quindi tematiche legate allo sviluppo relazionale, personale, del
ben-essere ecc. Da questo punto di vista indubbiamente sono fonti di grosso cambiamento.
C’è una cosa che mi ha sempre inquietato molto: io ho l’impressione che tutti gli elementi che noi
abbiamo enucleato, visto, sviluppato negli anni ’70 (l’analisi dell’operaio-massa, l’analisi della
rottura del piano capitalistico ecc.) fossero giusti però il fatto è che il capitale ci ha anticipato:
sarebbero cioè stati giusti se avessimo vinto noi, detto proprio in parole forse estremamente
modeste. Adesso ho l’impressione che si stia verificando la stessa cosa, nel senso che tentiamo di
capire questi tipi di cambiamenti, di raccogliere per esempio questo tipo di esigenza: penso solo a
tutta la tematica che le donne hanno portato avanti sull’uso del tempo, sulla flessibilità, sulla
necessità di vivere elementi di produzione e di riproduzione nello stesso tempo senza che questi
confliggano e che non creino doppio lavoro o cose di questo genere. Dopo di che ci troviamo di
fronte a forme di produzione che esattamente sono ritagliate su queste, l’unica differenza è che non
abbiamo vinto noi, che hanno vinto quelli che stanno organizzando queste forme di lavoro. Qui non
capisco bene come mai, perché le idee le abbiamo avute noi, questo è vero: allora, cosa è successo?
Come mai succede che arriviamo sempre secondi o che perdiamo sempre? Però non so rispondere,
non riesco a dare una risposta a questa evidenza. Io sono valutatrice dei progetti di ricerca europei,
per cui sono spesso a Bruxelles, vedo questi progetti di ricerca, conosco gente della Commissione
che mi racconta quello che fanno: loro mettono in pratica tutto sommato le cose che le mie amiche
ed io abbiamo pensato due-tre anni prima, solo che le mettono in pratica per loro. Noi diciamo:
“guarda te le donne poverette devono andare a lavorare alla mattina, devono portare i figli, c’è la
storia che gli orari delle scuole confliggono con quelli del lavoro, poi quand’è che vanno a fare la
spesa? ecc.”; cose banali, però facciamo comunque anche delle inchieste su queste cose qui, e due
anni dopo la Commissione Europea viene fuori con un grande progetto per rendere compatibile il
lavoro famigliare con il lavoro salariato. Il che sostanzialmente è una grande sconfitta, perché noi

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non chiedevamo che queste cose fossero compatibili, perché compatibili vuol dire che prima
comunque fai una cosa e dopo fai anche l’altra, e non è che la vita ti diventi più facile facendo così!
Dunque, c’è un qualcosa per cui noi abbiamo chiesto delle cose e sono state capite diversamente: è
una forma di incomprensione? è una forma di cattiveria nei nostri confronti? Non lo so: oppure è
che noi le pensavamo in una maniera, gliele abbiamo dette e loro le hanno tradotte a modo loro.
Sicuramente comunque abbiamo perso. Perché poi trovo tutte quelle donne delle istituzioni, quelle
che io chiamo del femminismo istituzionale, che poi puntualmente mettono in pratica
diligentemente queste cose con i risultati che invece le cose non funzionano mai bene per noi. E io
proprio non capisco perché.

- Il femminismo degli anni ’70 portava avanti un discorso che era quello della liberazione, non
quello dell’emancipazione, comunque lo portava avanti rivendicandolo con certi rapporti di
forza e dunque una certa violenza; andando avanti, negli anni quello che sembra essere rimasto
è invece esclusivamente il discorso del percorso di emancipazione, che effettivamente a livello
istituzionale è andato avanti perché (come dicevi tu prima e come ho potuto analizzare in una
ricerca che ho fatto) molte donne scelgono il lavoro autonomo, conquistano una posizione, ad
esempio alcune rivendicano certi ruoli di conduzione di cooperative in forme in cui usano
anche il loro passato femminista. Però, alla fine si tratta di ruoli che magari non vengono svolti
in forme uguali agli uomini, tuttavia sono funzionali al sistema stesso: quindi, dai discorsi di
queste donne sembrerebbe essersi completamente perduto il percorso di liberazione.

Su questo io ho dei dubbi, nel senso che una cosa è quello che soggettivamente una dice di sé e
un’altra è quella che poi oggettivamente avviene quando, in un sistema in cui sono immesse
competenze per esempio solo maschili o solo di un certo tipo, poi improvvisamente vengono
immesse delle competenze legate a un corpo diverso. Io non penso assolutamente che ci sia un
destino biologico tale per cui le donne comunque fanno delle cose diverse dagli uomini, però
riconosco un percorso storico-sociale diverso e quindi un’esperienza diversa: gli schiavi romani
avevano un’esperienza diversa dai liberti e dai liberi, e quindi un comportamento diverso, un
bagaglio sociale e culturale diverso, dunque un bagaglio relazionale diverso. Allora, quando tu
immetti un corpo diverso che ha questa esperienza diversa, non è vero che fai esattamente le stesse
cose e sei funzionale, o sempre e comunque funzionale, alle richieste che ti fa la struttura produttiva
o sociale. Su questo non ci sono studi, per esempio io adesso sto facendo una ricerca, che è
finanziata dalla Commissione Europea e durerà tre anni, su genere e gestione locale del
cambiamento, per vedere se le poche donne elette portano pratiche ed esperienze che modificano la
strutturazione delle politiche a livello locale, cioè la forma e la sostanza delle politiche. Siccome
questo progetto è in sette stati europei, in molti di questi la cosa è già abbastanza confermata da
inchieste anche precedenti e devo dire che anche qui in Italia, almeno dalle tre interviste che
abbiamo fatto (noi lavoriamo in tre regioni diverse, Veneto, Emilia Romagna e Calabria),
incominciamo a renderci conto che inconsapevolmente (le donne non si rendono conto neanche loro
stesse della diversità del loro comportamento) inseriscono pratiche che non saranno assolutamente
rivoluzionarie, però sono pratiche diverse: per esempio, nella politica locale c’è un’accentuata
consapevolezza del dovere civico nel fare le cose; un uso dei tempi molto più razionale, cioè la
riduzione dei tempi nelle riunioni ecc.; se sono assessori un accentuato interesse per il rapporto con
i cittadini, quindi facendo in modo che il rapporto citadino-istituzione sia il più fluido possibile,
quindi razionalizzazione degli uffici ecc.; un’attenzione alla vita riproduttiva della città, quindi
anziani, percorsi per handicappati, ciclisti, asili ecc. Queste sono caratteristiche di cambiamento che
abbiamo potuto notare, il che non ha niente a che vedere con il cambiamento per esempio del colore
politico della giunta o del sindaco, ma ha a che vedere con un cambiamento di genere, cioè quando
da un uomo si passa a una donna. Questo tante volte anche come consapevolezza soggettiva dei
sindaci donna che hanno scelto degli assessori donna per esempio all’istruzione o alle politiche

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sociali perché hanno più sensibilità; oppure senza nessuna consapevolezza soggettiva ma nelle
pratiche di cambiamento che sono state fatte.
Allora, per quanto riguarda la domanda, io vorrei vedere e vorrei che si facessero indagini su questo
processo di femminilizzazione, se è poi così indolore e così neutro, perché invece io credo (e non lo
credo solo io ma anche una signora che si chiama Drude Dalerup, che è una sociologa olandese, e
anche Ann Philips, una politologa inglese) che aumentando la presenza delle donne in settori sociali
predefiniti, quindi non semplicemente immettendo delle donne, Drude Dalerup parla di una soglia
del 40%, dunque se noi riusciamo ad avere una soglia di genere del 40% sicuramente otteniamo dei
comportamenti individuali e soggettivi che sono più spontanei e naturali che non i comportamenti
legati a una presenza di genere del 10%. Il che vuol dire che se fino ad adesso il 10% delle donne
industriali o delle donne sindaco ha avuto comportamenti non molto diversi, come dicevi tu, dagli
uomini (anche se io lì andrei comunque sempre a vedere e non solo a sentire quello che loro dicono
di se stesse), comunque se non c’è stato nessun percettibile cambiamento è perché le donne come
gruppo minoritario in questo caso hanno tendenza all’omologazione e quindi all’identificazione con
comportamenti già predefiniti, è la cosa più semplice: qualsiasi individuo entrando in un gruppo si
comporta come gli elementi di quel gruppo, perché il gruppo è sopravvissuto con quel
comportamento, questa è un’analisi etologica, lorenziana se vogliamo. Invece, se superiamo questa
soglia e arriviamo a questa fatidica soglia del 40%, gli individui cominciano a comportarsi con
maggiore libertà, non hanno più bisogno di omologarsi al gruppo dominante, quindi lì potremmo
vedere se le donne in realtà possano portare qualcosa di diverso. Siccome la tendenza è quella di
avere sempre più donne nei vari strati sociali, nei settori produttivi ecc., molto probabilmente
potremo da un lato verificare se effettivamente è così, ma secondo me con buona probabilità
avremo anche dei cambiamenti della struttura sociale e comportamentale e soprattutto del modo di
relazionarsi. Io ne sono assolutamente sicura, perché altrimenti è come dire che se noi mettiamo
dentro una fabbrica il 40% degli immigrati tutti producono nella stessa maniera perché tanto il
capitale obbliga a produrre: non è vero, lo è se metti il 10% degli immigrati, ma se tu metti il 40%
secondo me delle cose succedono, soprattutto se gli immigrati sono omogenei diciamo di cultura, se
possono rappresentarsi come gruppo. Quindi, io credo che ci siano elementi non dico rivoluzionari,
ma insomma innovativi che le donne possono immettere, e non sempre e non necessariamente
funzionali al modello produttivo. Poi non so le capacità di adattabilità del capitale, che mi sembrano
infinite devo dire, anzi sempre di più rapidissime e infinite; però, sicuramente le donne non sono
direttamente o non semplicemente funzionali, qualcuno dovrà anche cedere da qualche parte, e non
credo siano le donne da questo punto di vista. Fino adesso hanno proceduto con comportamenti di
assimilazione a comportamenti maschili, credo che quando ne avranno la possibilità non sarà così.
Per esempio, se andiamo a vedere le analisi delle scelte del tempo parziale, il tempo definito ecc.,
tutti vengono a dire “e sì, perché le donne hanno i bambini quindi prendono il tempo definito perché
stanno a casa con i figli”: le donne che hanno i bambini fanno il tempo pieno perché hanno bisogno
di soldi per mantenerli, col cavolo che scelgono di guadagnare meno! Chi sceglie il tempo definito
sono le ragazze giovani che vogliono fare shiatsu o che vanno a ballare. Quindi, c’è un
comportamento anche non proprio rispettoso delle regole sociali, a parte la costrizione, insisto, col
denaro (quando hai figli lavori per mantenerli, non si riesce a fare altrimenti); questo
comportamento non rispettoso delle regole sociali le donne ce l’hanno un po’ più degli uomini,
soprattutto le donne giovani, questo dalle poche inchieste che ho visto. D'altra parte anche questa è
una scommessa, come la scommessa che facevamo che la classe operaia arrivata al potere avrebbe
fatto delle cose straordinarie.

- Ma secondo te questa trasformazione nei comportamenti portata dalle donne arrivate a questa
soglia del 40% va di per sé in un senso altro rispetto alle compatibilità del sistema?

Secondo me sì, a meno che, insisto, il sistema non abbia dei processi di adattabilità così rapidi,
come, devo dire, spesso ha e recentemente ha avuto; ma in generale credo che non sia molto

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compatibile almeno con il tipo di produttività che è richiesta fino adesso, poi più avanti non lo so. Io
credo che siamo davanti a dei processi di trasformazione così rapidi che francamente ci sono dei
momenti in cui mi pare che mi sfuggano addirittura. Io ci sono dentro fino al collo, se penso che nel
giro di quindici anni sono passata da un sistema di scrittura a un altro sistema di scrittura con una
velocità incredibile: ci abbiamo messo culture e secoli per passare da un sistema di scrittura ad un
altro, e qui il mondo è passato da un sistema di scrittura ad un altro in quindici anni. Io dico quindici
anni ma magari è stato un periodo più lungo, io ho cominciato nell’84 o ’85 a usare il computer,
però non è che fossi una delle ultime: adesso non posso farne a meno, con tutte le appendici che mi
porto dietro e che attacco al computer, insomma io vivo ormai con questo sistema di comunicazione
(infatti quando dico sistema di scrittura in realtà è proprio un sistema di comunicazione). Io mi
ricordo (è vero che sono vecchia, ma non mi sento tanto vecchia) di aver visto la prima volta (e
credo che fosse l’86 o ’87) un fax partire e avevo le lacrime agli occhi vedendo questo foglio che
mandava un articolo a Parigi a Toni (io ero appena tornata qui), e dicevo “là loro lo vedono subito,
gli arriva su carta”: vi giuro che avevo le lacrime agli occhi, avevano appena installato il fax qui in
facoltà ed è stato uno dei primi che ho mandato. Insomma, c’è una rapidità di trasformazioni
mostruosa, per cui è difficile dire “sicuramente le donne arrivano e cambieranno tutto”: le donne
possono arrivare e fare esattamente quello che pensano di fare rispetto al lavoro ma già il capitale
ha cambiato tutte le sue esigenze. Non lo so, non so neanche se saranno i soggetti privilegiati del
cambiamento: certo che quello che posso immaginare è veramente un soggetto che riesce a passare
molto rapidamente dalla produzione alla riproduzione (anche di sé, difficilmente io parlo dei
bambini), e soprattutto che riesce (e anche in questo le donne sono soggetto privilegiato) ad essere
estraneo, a non identificarsi necessariamente con il mondo della produzione. Ho se si vuole l’idea
dell’esule, di quello che sta fuori dalla sua patria, di quello che deve in qualche maniera inventarsi
come vivere, cosa fare, che non ha radici: in questo senso io vedo anche il soggetto donna, ma
potrebbero essere gli immigrati. Insomma, sicuramente non può che essere un soggetto che non ha
ricordi, che non ha storia, che quindi non ha neanche niente da perdere. Se si pensa: saranno i
sindacati la nuova forma organizzativa della classe? Dici no, perché loro hanno già perso, non è che
abbiano da perdere. Certo che non potrà essere quel soggetto lì, il resto è un soggetto forse anche da
costruire. Io credo ad esempio che i giovani incarnino molto questa idea di soggetto nuovo che ho in
testa e che io dico sono le donne ma non necessariamente: è un soggetto che ha una consapevolezza
di genere, cioè che ha una consapevolezza che il mondo è fatto di due e che due hanno una storia
(che poi è storia sociale) diversa, che in qualche maniera dovremmo tentare di intersecare e farne
forse una, o forse lasciarne due, o che siano interscambiabili, non ha importanza. E nello stesso
tempo secondo me rappresentano anche il soggetto che si muove con molta facilità, che attraversa i
confini, che se ha un luogo è un luogo ben definito ma che poi non è il luogo ideale, non ha la
patria, non ha queste cose qui, e che più o meno è a casa sua un po’ dappertutto: ecco, questa è
l’idea dell’esule che non ha niente da perdere e che comunque può installarsi dappertutto, che ha
questa facilità di comunicazione e di adattabilità critica. Perché è questa la condizione dell’esule
normalmente, ed è quello che vedo io nelle donne quando assumono ruoli lavorativi, anche
tradizionali per esempio, sono meno partecipative degli uomini, questo forse non è legato a
inchieste che ho fatto, ma è proprio una conoscenza probabilmente epidermica e personale, però
vedo ciò. Come questi comportamenti possano poi produrre forme organizzative queste non lo so,
anche perché credo di avere delle grosse perplessità su tutte le forme organizzative usate finora in
politica, lasciando perdere i partiti, ma anche la forma-partito proprio, il partito da costruire e queste
cose qui, passando dai gruppi ai movimenti: tranne queste forme effimere che vedono forti
comportamenti ma su obiettivi molto precisi (come ho detto dei comitati, io parlo di questi ma
possono esserci tanti obiettivi diversi), mi pare che tutto il resto sia proprio destinato a morire, a non
creare interesse, a non creare quella partecipazione collettiva sempre più densa che io ho visto su
questo stesso territorio (insomma, le persone poi sono sempre uguali, quindi non è che possa dire
“ah, forse a Milano era meglio”, no, parlo sempre di Padova). Queste storie di Internet e di
organizzazioni virtuali le guardo con molta curiosità ma mi convincono poco; io subisco più che

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esserci dentro un sacco di mailing-list, di comunicazioni virtuali, sono nella redazione di Multitudes
e quindi sono dentro a Multitudes-info, ci sono certe lettere che neanche apro, non ho proprio tempo
e siccome so che alcune cose proprio non mi interessano non le leggo. Dunque, non so bene se
siano queste le nuove forme, Bifo ci crede, io un po’ meno, anche perché io non credo a forme
partecipative virtuali, cioè a un certo momento se non vengono fuori i corpi ci credo proprio poco,
vedo già io come mi relaziono a queste strutture.

- Rispetto a questo soggetto donna di cui hai parlato, secondo te quanto è rimasto delle pratiche
militanti del movimento femminista, quindi per esempio delle forme di autocoscienza o delle
critiche che venivano fatte ai modelli organizzativi?

Il fatto è che quando fai questi discorsi parli di un femminismo che in Italia per esempio è stato di
brevissimo periodo, due o tre anni non di più; per quanto riguarda le forme di autocoscienza nel
femminismo si tratta di un fatto sostanzialmente elitario, le sedute di autocoscienza sono state
poche. Cosa è rimasto di quella critica alle forme organizzative è il fatto che quelle forme
organizzative che c’erano allora si sono dissolte, è stata una critica particolarmente efficace se c’è
una relazione di causa e effetto, quindi era una critica giusta; che poi il movimento non abbia
prodotto forme organizzative alternative perenni mi sembra nell’ordine delle cose. C’è stata una
parte che si è istituzionalizzata e ha costruito relazioni con istituzioni locali, tutte queste case delle
donne che esistono, magari noi non ce ne accorgiamo perché non le pratichiamo o le pratichiamo
poco, però ci sono; che il movimento abbia avuto le forme organizzative più varie è altrettanto vero,
perché è falso che non le abbia avute, si pensi ai gruppi, alle riviste, ai centri di documentazione, a
forme di espressione politica anche di movimento, come i movimenti contro la guerra ecc. Una cosa
più interessante, che mi sembra più moderna e più recente, è la forte partecipazione di donne a
movimenti legati al volontariato e in questo senso devo dire che lì c’è un discorso di pratica politica
molto legato ai comportamenti femminili, cioè una pratica politica che abbia un risvolto più
concreto, che dia segno, diciamo, di sé: quando uno entra nel volontariato e si occupa degli
immigrati per esempio, alla sera sa che ha dato da mangiare cinquanta ministre a cinquanta
immigrati in una mensa popolare, oppure se si occupa delle prostitute sa che fa parte di un équipe
che di notte va in giro a dare i preservativi o a chiedere alle prostitute se hanno bisogno di aiuto, di
consigli o cose di questo genere. Quindi, è una pratica politica, ma forse non prettamente
femminista nel senso tradizionale del termine, ma sempre praticata da una stragrande maggioranza
di donne: io la iscrivo a queste nuove pratiche di donne senza dire femministe, anche perché quando
poi si intervistano queste persone si vede che non è che queste siano dame di carità, sono donne con
la consapevolezza di esserlo, di occuparsi di donne, c’è anche un oggetto che identifica il loro
lavoro e questo mi sembra molto interessante. Questa nuova forma di pratica politica è un misto, si
appoggia spesso alle istituzioni perché fanno progetti, chiedono finanziamenti, però si ritaglia uno
spazio assolutamente autonomo, spesso di servizio sostitutivo a quello che le istituzioni dovrebbero
dare o danno male. Però, ciò viene fatto con una pratica molto sensata rispetto alle politiche delle
istituzioni stesse, è legata alla pratica proprio femminile della relazione, che permette a qualsiasi
madre di famiglia di organizzare i tempi diversi di una famiglia, i caratteri diversi, gli odi
famigliari, di mettere insieme un gruppo sociale che in qualche maniera nella maggior parte dei casi
non si uccide nonostante vivano insieme. Questa pratica relazionale diventa secondo me forse un
nuovo modo di fare politica e identifica anche fortissimi elementi innovativi: io seguo ormai da
qualche anno un’associazione che si chiamava Mimosa (e adesso si chiama Welcome, ha avuto dei
problemi interni, comunque non è questa la cosa importante) che è fatta praticamente da donne, poi
ci sono un prete e due ragazzi. Le donne sono studentesse di medicina, infermiere, queste formano
le équipe notturne e fanno il giro delle prostitute, fanno dei progetti sulla salute per cui s’inventano
il fatto di dare i preservativi, poi fanno altre cose, per esempio riescono spesso a tirare fuori le
minorenni dal giro, si organizzano con la questura perché loro denuncino gli sfruttatori, per cui la
questura le lascia in pace per circa sei mesi, vengono nascoste in case ecc. Quindi, si tratta di

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problemi rispetto a cui spesse volte io non saprei come muovermi, mentre loro riescono a trovare
soluzioni estremamente originali proprie al vivere civile. Si sa che ci sono comitati cittadini (poi voi
a Torino dovreste avere delle cose terrificanti in mente) che manifestano contro i travestiti e le
prostitute nel loro quartiere: per esempio, nel quartiere qui vicino sono riusciti a convincere i famosi
cittadini per bene a forme di mediazione dividendo una strada, cioè facendo arretrare un po’ le
prostitute ma garantendo loro uno spazio, mettendo d’accordo una situazione che stava esplodendo
in guerra civile. In un altro quartiere, invece, le prostitute andavano sempre davanti ad un
supermercato e ad una scuola, perché come si sa gli edifici che di giorno sono pieni di gente di notte
sono vuoti, andavano lì con i clienti e tutto era sempre pieno di preservativi: allora questo gruppo ha
chiesto ai vigili di mettere dei cestini chiusi in modo che le mamme portando la mattina a scuola i
bambini trovassero la strada pulita, poi sono andate dalle prostitute per educarle a buttare tutto
dentro ai cestini e sono riusciti a creare un minimo di equilibrio e nessuno si è ammazzato in questo
quartiere, non ci sono stati linciaggi. Sono sciocchezze di fronte alle grandi cose, però questa è una
pratica che le istituzioni non riescono a fare (figurarsi poi qui dove c’è gente che prevede gli
sceriffi), che i cittadini non riescono a inventarsi, questi riescono solo ad immaginare delle forme di
ribellione; per cui queste strutture fatte da donne sono di fluidificazione dei rapporti dentro la
società nel territorio, magari si dirà che in questo senso sono funzionali, nessuno si ribella più, ma
l’altra forma di ribellione contro le prostitute mi fa paura, non è che il ribellismo per me sia di per
sé eccellente: quindi, credo che questo tipo di pratica politica costituisca un margine di buon senso.
Non sono le femministe, però soggettivamente loro sono femministe, anche se sono dentro ad
associazioni che non sono necessariamente femminili, si occupano di donne; un altro risvolto che è
geniale (per questo io vorrei studiare questo tipo di comportamenti) è il fatto che rispetto alle
istituzioni, anche locali, queste persone hanno una conoscenza diretta del terreno, cioè dei soggetti.
Per esempio è con loro che io discuto di come si comportano le nigeriane, le albanesi, le rumene,
non mi permetterei mai di dire le prostitute perché ogni cultura (non dico ogni etnia perché poi non
è che ci siano tante etnie) ha per esempio comportamenti diversi rispetto ai clienti, rispetto ai
preservativi, rispetto alla pulizia, rispetto all’aborto stesso, rispetto al fatto di avere un protettore o
non averlo, rispetto alla delinquenza, rispetto allo spaccio: quindi, loro hanno una conoscenza che
non è cosa da poco. Dunque, chi fa politica in questo caso, l’assessore alla sicurezza o questi gruppi
di donne? Chi fa la vera politica? Chi fa i cambiamenti? Chi gestisce comunque un qualcosa di
diverso sul territorio? Funzionale o no questo lasciamo perdere. Non lo so, però mi pongo questo
tipo di problemi perché ho questo tipo di interessi, più che capire quali sono i gruppi femministi. Io
faccio parte della Casa delle Donne, l’abbiamo data praticamente in mano a un gruppo di immigrate
che se la gestiscono loro, organizzano un sacco di feste, si divertono molto, poi c’è un gruppo di
anziane signore che hanno la biblioteca; noi non ci andiamo più, stiamo bene a casa nostra, perché
dobbiamo andare alla Casa delle Donne? E’ bene che se la gestiscano loro e mi piace di più vedere
cosa fanno queste persone, che però abbiamo invitato a raccontarci le loro esperienze, è così che le
ho conosciute, dopodiché non è che loro siano diventate un gruppo femminista, ma fanno un
discorso che secondo me è un discorso di genere, in questo caso rispetto alla prostituzione per
esempio.

- Rispetto all’università e in generale rispetto a quella che è la produzione del sapere e anche
della scienza (argomento di cui tu tra l’altro ti sei occupata) quali trasformazioni vedi in atto?

Il discorso è piuttosto complesso: innanzitutto adesso c’è una trasformazione all’università che è
enorme con questa storia dei tre più due, questo adattamento a standard europei di diplomi di cui
però noi non sappiamo ancora esattamente gli esiti né cosa comporterà a livello di formazione. Io,
che ho insegnato e insegno sia in Francia che qui, anche attualmente, devo dire che vedo una
rigidità nella struttura degli studi in Italia che mi spaventa, spero che questa riforma possa dare uno
scossone almeno. Per quanto riguarda i processi formativi in generale secondo me è la stessa cosa,
credo anche per il piacere nostro dobbiamo metterci nell’ordine di idee che la vita è un processo

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formativo continuo. Per esempio, negli anni ’90 c’è stato quel progetto di legge delle donne sulla
politica dei tempi, che divideva il tempo non in tre (lavoro, riposo e tempo libero) ma in quattro:
lavoro, riposo, tempo libero e tempo per sé, che era il tempo riproduttivo, dove uno si formava
anche, studiava un’altra lingua, si arricchiva, andava dal parrucchiere, però insomma si arricchiva
trasformandosi. Ecco, questa mi era sembrata una cosa moderna, intelligente e sensata, perché
dobbiamo imparare a metterci in quest’ordine di idee. E’ evidente che il capitale lo fa già e lo fa
molto meglio rispetto allo Stato, perché il capitale giustamente immagina i processi formativi come
processi di investimento: le scuole private sono questo, sono sicuramente meglio delle scuole statali
perché sono considerate, insisto, formazione per investimento. Invece, nello Stato la scuola è
considerata spesa, proprio capitolo di spesa ed essendo una cosa a perdere vicino alla voce spesa ci
devi mettere un’entrata, se la metti nel capitolo di investimento è un’entrata, una rendita. Se noi non
riusciamo a livello statale, regionale, comunale, comunque a livello pubblico a inventarci questo
atteggiamento nei confronti della formazione, secondo me tutto sarà in mano al capitale e alle
scuole private, non necessariamente cattoliche, anche se molte scuole cattoliche si stanno proprio
attrezzando in questo senso; comunque saranno scuole funzionali a esigenze capitalistiche e non
funzionali a quello che a me piace della formazione, cioè il fatto che uno non ha mai finito di
formarsi, ma siccome non è funzionale la formazione è necessariamente continua ed è legata al
piacere di imparare e di apprendere le cose, di arricchirsi con il sapere. E’ chiaro che storicamente il
sapere può essere, anzi è necessariamente produttivo socialmente, se lo vuol fare solo chi lo
funzionalizza ai propri interessi sarà produttivo per il capitale, ma queste sono scelte politiche che
gli stati devono fare. Adesso in Francia ormai hanno raggiunto l’80% dei liceali, raggiungeranno il
100% e secondo me lo Stato francese si sta muovendo in quest’ordine di idee: istruire, formare le
persone è creare ricchezza nel Paese, sarà funzionale al capitalismo non lo so, però creare ricchezza
significa anche dare agli individui la possibilità di arricchirsi individualmente. Certo, oggi come
oggi mi pare evidente che il capitale ha bisogno di individui formati, però anche gli individui hanno
bisogno di formazione, questo non mi spaventerebbe: credo che la cosa importante sia la possibilità
di scegliere come, dove e su cosa formarsi. Se poi si è obbligati a formarsi sul marketing o le nuove
scuole straordinarie che servono in questo momento a vendere merci (visto che a produrle non serve
poi tanto) vuol dire che decision-makers o chi per essi si assumeranno questa responsabilità di aver
lasciato la formazione a chi necessariamente ne farà una formazione parziale e non terreno di
conquista di libertà. Dall’altro lato sono assolutamente contraria a chi dice che le scuole sono luoghi
di indottrinamento, che non vale la pena andarci (questi discorsi nel Veneto li conosciamo bene) e
che si può benissimo produrre, guadagnare e vivere senza andare a scuola, cosa che si fa
regolarmente.

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INTERVISTA A FERRUCCIO DENDENA - 10 GENNAIO 2000

PRESENTAZIONE DEL SOGGETTO


- percorso di formazione politica e successivi passaggi
- percorso e collocazione negli anni ‘70 ed appartenenza ad ambiti politici organizzati
ANALISI DEI PROPRI PERCORSI POLITICI
- analisi delle ricchezze e dei limiti del proprio percorso e della propria proposta politica
- analisi e giudizi su quanto c’era d’altro (altri ambiti, altre proposte politiche...)

Data la mia età devo dire che il percorso, visto nell’arco temporale, è abbastanza ampio. Gli anni
‘60 io li ho vissuti nella fase finale (quindi dal ‘68 in avanti) ritrovandomi studente dentro alla
grande esplosione del ‘68. Quindi, io a quattordici anni mi sono ritrovato dall’essere uno
studente della scuola media disciplinato, diligente, pagelle sempre in ordine, sui tetti della scuola
occupata: questo è stato il passaggio. Il periodo era abbastanza particolare, e lo era anche per me
in quanto era l’inizio della mia esperienza politica che, per l’età che avevo, era determinata più
dal clima che mi circondava che da una scelta consapevole, da una qualche formazione politica
avvenuta precedentemente. Però, è stata una sorta di “illuminazione sulla via di Damasco”: in
quel periodo io ero quel soggetto adolescente che si affacciava alle scuole superiori per la prima
volta, arrivavo in città dal paese della provincia e via dicendo. Studiavo a Bergamo in un istituto
tecnico, ovvero in quelle scuole che nel ‘68 sono state un po’ i luoghi delle grandi masse di
piazza del movimento, mentre i licei erano l’intelligenza, quelli che nelle scuole medie superiori
guidavano dal punto di vista della teorizzazione. Ho un ricordo freschissimo di quegli anni,
perché davvero la scuola era un laboratorio in cui si discuteva di tutto, dal semaforo che
bisognava far mettere al Comune perché erano successi incidenti agli studenti che attraversavano
la strada, fino alla riforma della scuola. C’erano gruppi di studio nelle scuole occupate che erano
dei veri e propri laboratori di ricerca, si dicevano anche tante stupidaggini, però c’era una
tensione davvero ideale molto forte, con relazioni finali e assemblee di tutti i gruppi; poi gran
parte delle cose andavano in niente, ma era il risultato comunque della cultura dell’autogestione.
La chiusura del ciclo del ‘68 e i primi anni ‘70 sono stati il momento in cui c’è stata la
formazione e il massimo sviluppo anche dei gruppi. Ed io in quel periodo ero più legato, come
simpatizzante, alla FGCI, che era minoritaria nelle scuole ma, attraverso personaggi significativi,
riusciva comunque a farsi sentire; le lotte non erano comunque guidate dalla FGCI come
organizzazione, c’era una presenza forte ad esempio di Lotta Continua e di Avanguardia
Operaia, molto molto meno forte quella della FGCI, anche se più organizzata dal punto di vista
della struttura perché era un partito storico.

- Tu non avevi dunque retroterra di formazione politica che ti derivavano dall’esperienza


famigliare?

Assolutamente no. L’esperienza famigliare era un po’ finita con la guerra partigiana. Mio padre
era stato un giovanissimo partigiano, comandante di piazza nel suo paese della bergamasca. Ma
finita quell’esperienza lui, cattolico, era rientrato nei ranghi: dalla guerra partigiana nelle
formazioni cattoliche alla militanza nella Democrazia Cristiana, nelle ACLI, ovvero il fronte
sociale della DC. Quindi, la politica dal punto di vista militante era legata più che altro a questa
esperienza paterna che è poi diventata carriera nel paese, in quanto fu eletto segretario del partito
e consigliere comunale, ma con una nostra estraneità alla cosa. Però, queste radici famigliari
militanti, anche se non come perseguitato socialista durante il fascismo, hanno fatto sì che anche
le scelte politiche successive non abbiano trovato un ostacolo all’interno della famiglia, una
barriera ideologica che tentasse in tutti modi di impedire; anzi, pur certo non condividendo le
posizioni politiche, c’era comunque un’apertura forte all’esperienza, al misurarsi con la politica
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da soli.

Gli anni dalla fine dei ‘60 ai primi ‘70 sono stati quelli di maggior sviluppo e rafforzamento dei
gruppi della sinistra extraparlamentare: però, pur corteggiandomi, perché all’interno della scuola
ero già da ragazzino politicamente capace (intervenivo nelle assemblee, portavo gli studenti in
piazza eccetera), non mi avevano mai convinto ad entrare organicamente, nemmeno la FGCI. Io
ero un po’ un cane sciolto da questo punto di vista. Mi sono avvicinato negli ultimi anni delle
scuole superiori, quindi primi anni ‘70, ad uno dei gruppi più piccoli della sinistra extra-
parlamentare, il Gruppo Gramsci, che aveva un radicamento forte nel varesotto ed in parte anche
a Milano: ci fu addirittura una fase in cui il confronto di leadership nell’università fra il Gruppo
Gramsci e Capanna era ad un livello alto, quasi da egemonia nel movimento studentesco. Poi le
cose sono andate ridimensionandosi e il Gruppo Gramsci è rimasto un gruppo piccolo, forte dal
punto di vista intellettuale perché aveva al suo interno uomini che poi sono diventati grandi
ricercatori, docenti universitari ecc.: si pensi ancor oggi a Marazzi, Migliarina, Màdera (che è
uno dei fondatori), e altri ancora. Mi sono avvicinato proprio negli anni in cui c’era la crisi dei
gruppi ed il Gruppo Gramsci stava lavorando sulle tesi dello scioglimento, sulla critica della
logica del gruppo e sulla proposta di sperimentare una fase di movimento aperta e ampia per poi
ridiscutere i temi dell’organizzazione, del partito, della rivoluzione e chi più ne ha più ne metta.
Quindi, ho partecipato alla vita di questo gruppo proprio nella fase finale e sono entrato nella
discussione sulle tesi di scioglimento. Lo scioglimento del Gruppo Gramsci è coinciso con lo
scioglimento di Potere Operaio, e della parte di Potere Operaio più legata a Negri e non a
Scalzone. E furono proprio i dirigenti del Gruppo Gramsci e di Potere Operaio ad incontrarsi per
primi su questo terreno dell’autonomia diffusa, dell’autonomia come movimento, in pratica del
movimento dell’Autonomia Operaia. Quasi immediatamente dunque, scioltisi i gruppi, sciolti
Potere Operaio e il Gruppo Gramsci, ci fu questo tavolo comune di discussione e di costruzione
del movimento dell’Autonomia Operaia. Fu lì il momento più importante dal punto di vista
dell’elaborazione teorica, a cui cominciai a partecipare quando ero un ragazzo non ancora
ventenne, studente delle superiori; e da allora ho seguito tutte le a fasi di sperimentazione
dell’autonomia diffusa, quindi di Rosso dentro il movimento. Rosso era il giornale del Gruppo
Gramsci, era l’organo del partito, ed era diventato poi il giornale del movimento: Rosso dentro il
movimento era uno strumento alla cui redazione partecipavano dirigenti e militanti sia del
Gruppo Gramsci che di Potere Operaio, quindi c’erano Negri, Bonomi e tanti altri compagni. Noi
nel frattempo avevamo cominciato a lavorare nel territorio delle province di Varese e di Como
per costruire il movimento dell’Autonomia, ed io ho seguito nella mia storia di militante politico
soprattutto queste due province. Infatti mi ero nel frattempo spostato dalla provincia di Bergamo
a questa zona, seguendo le traiettorie della crisi dell’industria tessile dove mio padre era
impiegato, ed ero finito a risiedere a Seveso e a frequentare le scuole a Saronno, dove c’era un
istituto tecnico in cui io ho concluso gli studi. Ho dunque vissuto nei primi anni ’70 la
conoscenza del Gruppo Gramsci nel varesotto, dove c’erano molti collettivi forti. Ho cominciato
a lavorare su quel territorio prima di tutto sulle scuole, costruendo collettivi studenteschi:
abbiamo cominciato a lavorare sul sociale, sulle fabbriche, costruendo veri e propri organismi
autonomi in tutta la provincia di Varese e di Como.
Ma parliamo di un arco di tempo estremamente stretto: basti pensare che dalla fine degli anni ‘60
alla seconda degli anni ‘70, quindi 8-9 anni, c’è stato il ‘68-’69, c’è stata la crisi dei gruppi, c’è
stata la prima sperimentazione dell’Autonomia intesa come movimento, nuovo soggetto, c’è
stato il ‘77 e Bologna. C’è stato insomma una parabola che ha attraversato tutti questi
avvenimenti. Quindi, già questi tempi brevissimi e velocissimi lasciano trarre alcune
considerazioni politiche importanti: l’esperienza del movimento dell’Autonomia Operaia doveva
essere più lunga e più vissuta, lo sforzo di stringere e di costruire una teoria dell’organizzazione
nuova fu più incalzato dall’affermazione delle formazioni combattenti piuttosto che dalla

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maturità vera del movimento che era davvero enorme ma ancora in fasce, appena nato anche se
già di dimensioni gigantesche, perché nel ‘77 eravamo davvero in 150.000 in piazza a Bologna,
in quel convegno c’era una tensione altissima, una partecipazione di massa molto forte. Fatto sta
che in quegli anni anche la scelta di stringere dal punto di vista organizzativo, cioè di fare in
modo che la visibilità di un percorso di organizzazione fosse più forte e immediata, in grado
anche di sostenere il confronto con altre organizzazioni, diventava un problema all’ordine del
giorno. E in quegli anni, oltre al grave errore di una forzatura sul movimento secondo me ancora
un po’ fuori dal tempo, ci fu l’altro errore ancora più grave dell’incapacità delle frazioni in fase
di organizzazione dell’Autonomia di sostenere un confronto tra di loro e dare una risposta a
livello nazionale sui passaggi e sul processo di organizzazione: ogni orto costruiva il recinto e
sosteneva di essere il più bello. Detta così può sembrare più una valutazione etica, in realtà era
un forte irrigidimento teorico e politico, con una scarsa disponibilità, anche a livello di gruppi
dirigenti, al confronto reale sia sul piano teorico che su quello delle strutture organizzative, e
quindi anche sul piano del programma minimo. Per superare le differenze di posizioni teoriche
che c’erano non ci fu un’adeguata tensione unitaria, e quindi una polemica addirittura più alta
semmai. Questa cosa io l’ho verificata di persona nelle discussioni a livello nazionale in cui ci si
cercava di confrontare su questi temi e anche noi che facevamo riferimento a Rosso non siamo
stati capaci di dare una battaglia politico-teorica adeguata, anche noi siamo caduti nel
trabocchetto del “va bene se non riusciamo a metterci d’accordo, ognuno vada avanti con il suo
progetto e vedremo alla prova pratica chi ce la farà”. Non dimentichiamo anche qui il fattore
tempo, perché se il ‘77 è stato quell’anno un po’ più simbolicamente legato al tentativo di dare
una svolta organizzativa alle grosse realtà di movimento che c’erano, non dimentichiamo che il
‘78 è l’anno del rapimento di Moro, che il ‘79 è il 7 aprile: quindi, ancora scarti di tempo
vicinissimi. Nell’80 si è poi dispiegata la grande offensiva dello Stato, iniziata già nel ‘79: ma in
quell’anno ci furono arresti di massa, migliaia di compagni in galera.
Quindi, che cosa si può dire di un’esperienza vissuta a quel tempo? E’ un’esperienza che è
vissuta sì nella realtà concreta dello scontro di classe, ma è vissuta più sul piano
dell’elaborazione teorica e del dibattito politico, perché una vera esperienza di radicamento non
la si può costruire in quel lasso di tempo. Per questo dicevo che l’errore grave fu l’incapacità dei
gruppi dirigenti dell’Autonomia di costruire processi di unificazione anche partendo dai
programmi minimi. Facevamo i conti con uno Stato che era sicuramente disorientato ed io sono
convinto che abbia avuto paura di quel movimento, tanto è vero che la sua non è stata una grande
risposta dal punto di vista politico ma è stata una risposta di forza, con soggetti in campo ben
precisi, Partito Comunista e sindacato in veste di gendarme sul fronte sociale: delazioni in
fabbrica, repressione, anticomunismo viscerale, giudici, soprattutto quelli legati alla sinistra, con
una grande delega dello Stato a far politica quindi a gestire la costruzione della nemicità del
movimento. Ciò veniva davvero fatta dalla magistratura: questi teoremi di cui si parlava,
Calogero piuttosto che altri, erano teoremi politici, il tentativo di far rientrare in categorie
giudiziarie un’esperienza comunque che non poteva starci dentro, anche quella lotta-armatista
pura non ci stava dentro. Ma tutto veniva ridotto attraverso la magistratura a piramidi, a
macchine da guerra, alla descrizione di carri armati, per cui c’era il comandante del carro armato,
il cannone, i gregari eccetera eccetera: era tutto descritto in questo modo qua. Ricordo che Bocca
diceva in quegli anni: “O noi dalla nostra parte siamo in grado di sostenere una sfida politica con
questo movimento e quindi di dire che la democrazia, la dialettica democratica, anche il conflitto
ma compatibile con la dialettica democratica, è un campo su cui possiamo misurarci e uscirne
vittoriosi noi convincendo loro che è un terreno di cambiamento e di trasformazione che paga;
oppure li prendiamo a sberle, ma in questo caso non è una vittoria politica ma è la vittoria di una
forza preponderante”. Ma il disorientamento dello Stato in quel periodo secondo me è leggibile
proprio lì, nel fatto che c’è stato un tipo di risposta sbilanciata sul terreno del politico-militare
più che del politico, e tutti i soggetti in campo hanno lavorato più su un terreno di repressione e

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di criminalizzazione che di sfida politica. Ricordo che anche nelle fabbriche, dove avevamo
molto radicamento, la battaglia con gli operai nelle assemblee si faceva dentro ad una logica
terroristica. Quando cioè stavano perdendo le maggioranze assembleari, quindi le masse, i
sindacalisti e gli uomini del PCI ponevano le discriminanti: “O con noi o abbandonati nelle mani
delle aree contigue al terrorismo”, queste sono le conclusioni dei segretari provinciali e nazionali
dentro alle assemblee delle fabbriche dove noi eravamo forti. I funzionari arrivavano e dicevano:
“Non ci interessano le piattaforme aziendali su cui rischiamo di perdere, la mettiamo sul politico,
e il politico per noi è questo: o state con noi guidati dai dirigenti, o state con la contiguità del
terrorismo, quindi state con chi non vi da garanzie di organizzazione e addirittura con chi
potrebbe farvi scivolare sul terreno dell’illegalità, e quindi farete i conti con la giustizia, con la
repressione”. Questi erano gli anni legati a Moro, erano gli anni in cui noi eravamo più forti
come radicamento nelle scuole e nella fabbriche; più ci rafforzavamo dal punto di vista del
radicamento, più facevamo i conti con l’avanzare di questo tipo di atteggiamento del fronte
avversario in tutte le sue articolazioni, dal sindacato al potere più militare, quindi dalle
perquisizioni alle battaglie pubbliche di questo genere. Essere fuori dalla sinistra istituzionale
diventava sempre più un atteggiamento di extralegalità. Quindi, la legittimazione a livello di
massa avveniva perché la forza organizzativa era tale da rispondere anche a queste paure che
venivano agitate dalla gente, altro che il terrore delle azioni militari delle organizzazioni armate
che pure magari avevano scopi possiamo dire simili nei confronti dello Stato: faceva più paura la
minaccia pubblica sul luogo di lavoro, giocata ai microfoni delle assemblee, che non la paura che
il “terrorismo” arrivasse e colpisse anche i lavoratori. Faceva più paura il fatto di sapere di essere
non solo abbandonati dalla propria organizzazione rappresentativa, ma addirittura di poter essere
strumentalizzati. Noi abbiamo visto con i nostri occhi assemblee operaie che in questo clima
venivano abbandonate dai lavoratori, in una situazione di loro grande angoscia anche
esistenziale; addirittura abbiamo visto operai e operaie piangere con i nostri compagni perché
non restavano al loro fianco, dicendo: “Noi non vi tradiremo certo votando per il sindacato, ma
non riusciamo a sentire la forza per schierarci, per poi partire a dare battaglia”. Parlo di fabbriche
in cui sulle piattaforme sindacali si formavano cortei operai di una durezza da far paura tanto alta
era la determinazione; eppure in quegli anni l’intimidazione produceva questi risultati. Tutto ciò
ci faceva capire quanto fosse importante continuare sul paziente e quotidiano lavoro di massa
dentro e fuori dalle fabbriche, cercando di non lasciarle isolate dal territorio, di non far sentire gli
operai nei reparti da soli ma legati anche ad un movimento sociale all’esterno, ad un muoversi di
soggetti anche fuori dal luogo di lavoro: quindi il centro sociale, i giovani che andavano davanti
alle fabbriche. Creare insomma un tessuto non dico di grande progetto, ma comunque di elementi
di progettualità riconosciuti nel territorio, sentiti come propri dalla gente, quindi la casa, i servizi
sociali, i centri sociali e via dicendo, insieme ai problemi operai. Parlo di un problema che era
sentito in luoghi in cui le fabbriche avevano centinaia di operai con una tradizione di lotta alta
alle spalle, eppure vivevano questo isolamento, questo abbandono, creato da una cultura
intimidatoria e terroristica vera e propria.
Quanti anni ci sarebbero voluti? Tanti anni. Probabilmente anche noi vivevamo nell’ambiguità di
avere una teoria della trasformazione sociale, quella per semplificare legata all’operaio sociale,
in cui il ruolo dell’avanguardia, dell’organizzazione, del partito era nuovo rispetto al passato e
alla tradizione leninista, molto più impegnato a rendere protagoniste le strutture che nascevano
nel territorio con dentro i militanti politici; ma nello stesso tempo avevamo anche noi dentro
ancora i vecchi retaggi teorici terzinternazionalisti, i vecchi retaggi del partito separato che non
ha bisogno di una legittimità alta e massificata nel territorio. Questo per dirla forse in termini
ancora nobili, in realtà c’era anche l’aspetto della concorrenza con le organizzazioni armate,
l’ansia di fare i conti con un’egemonia sul movimento che si temeva che avesse potuto essere
guidato e avere come punto di riferimento le organizzazioni combattenti e soprattutto le Brigate
Rosse. Quindi, c’era anche da parte nostra, e sbagliavamo, la paura che una rappresentazione non

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adeguatamente alta della capacità della nostra organizzazione o dell’Autonomia in generale non
avrebbe saputo creare un’alternativa visibile e credibile all’interno del movimento, che avrebbero
considerato l’Autonomia Operaia semplicemente come qualcosa che si confondeva con il
movimento senza essere in grado di assumere la guida, di dare risposte organizzative. Ciò era in
parte vero, perché l’Autonomia Operaia organizzata in quegli anni era tutto fuorché organizzata;
davvero le costruzioni giudiziarie sono patetiche da questo punto di vista, rasentano l’umoristico.
Questo dipingere l’Autonomia Operaia come una macchina da guerra organizzata, Negri capo di
qui, quegli altri capi di là, generali, ufficiali, gregari: era assolutamente insostenibile, e devo
anche dire che mi dispiace! Ma era così purtroppo: si trattava di qualcosa in cui c’era una
ricchezza soggettiva molto alta, magari avanguardie bravissime, collettivi qualificati dal punto di
vista della capacità di far politica, ma era un tessuto organizzativo molto fragile e debole. Se si
pensa a che flussi di militanti ci sono stati dal movimento alle organizzazioni armate e dalle
organizzazioni armate al movimento, ma più nella prima direzione, questo lascia intendere
quanto fosse difficile e quanto i gruppi dirigenti fossero inadeguati al compito di tenere insieme
le formazioni politiche e sociali che si andavano a costituire. Ci furono interi collettivi di
quartiere che passarono ad un’organizzazione combattente, cioè la pazzia: collettivi di quartiere
o di territorio che fino al giorno prima si occupavano di intervento sociale, di occupazione di
case, di rivendicazione di spazi, che di punto in bianco sparivano perché entravano in Prima
Linea piuttosto che in un’altra formazione combattente; ed erano collettivi dell’Autonomia,
anche la nostra parte di Autonomia. Queste cose lasciano intendere una capacità molto scarsa dei
gruppi dirigenti di seguire la crescita dei militanti, di essere presenti nei luoghi della militanza,
una sorta di testa pensante collettiva troppo separata dal corpo e dagli organismi di massa che si
facevano, si disfacevano, facevano di testa loro. Quindi, una situazione davvero pesante da
questo punto di vista. Probabilmente c’era anche dentro all’Autonomia Operaia chi non aveva
una preoccupazione forte al radicamento e alla costruzione di un’organizzazione di massa,
ritenendo che in una città come Milano, e quindi nelle metropoli, fosse secondario il problema
del radicamento territoriale e prioritaria invece la capacità di guidare un movimento di massa
multiforme, quindi il fatto di essere egemoni su una realtà che si dava come movimento
metropolitano indipendentemente dalla sua identificazione territoriale. Cioè l’identificazione
territoriale dava un senso di appartenenza perché c’era la sede nel quartiere, ma che questo
distinguesse il microprogetto territoriale dalla battaglia metropolitana non era dato; era più un
discorso di lanciare grandi campagne e iniziative generali di carattere metropolitano unitarie su
cui giocare tutta la forza del movimento. Ricordo durissimi scontri e battaglie all’interno della
nostra organizzazione perché c’era chi riteneva il lavoro quotidiano sul territorio assolutamente
secondario rispetto alla grande valenza di coagulo che potevano avere le grandi battaglie di
carattere generale di piazza, per cui a contare di più erano le grandi scadenze in cui a Milano
c’erano migliaia di persone in piazza.
Tutto questo richiede un’analisi grossa perché non è così semplice dire chi aveva ragione, perché
alla fine poi abbiamo avuto torto tutti. Noi nei territori attorno alla metropoli lavoravamo come
formichine, fin troppo forse, a costruire collettivi nelle scuole, nelle fabbriche, settimane intere
alle 6 del mattino a fare i picchetti contro gli straordinari nelle fabbricchette, a parlare con gli
operai, a fare le vertenze anche nella fabbriche di quindici persone. Facevamo un lavoro da
sindacato politico che immediatamente rovescia all’esterno della fabbrica il problema interno,
che quindi lavora nella fabbrica sì sui bisogni interni degli operai ma immediatamente dicendo
loro che non c’è soluzione ai nostri problemi interni se non c’è coordinamento con il territorio.
Quindi una delle battaglie più grosse che facevamo era di dire agli operai delle piccole fabbriche:
“Non andiamo avanti a restare isolati, facciamo le piattaforme territoriali di fabbrica, parliamo
dello straordinario non come problema della mia fabbrichetta ma di questo territorio, parliamo
del problema della mancanza di servizi come problema territoriale e non interno alle fabbriche”.
Questo lavoro richiedeva sforzi enormi, noi avevamo compagni delegati nei consigli di fabbrica,

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che intervenivano come delegati dell’Autonomia, che presentavano contro-piattaforme e davano
filo da torcere al sindacato del territorio. Ma parlo di un’esperienza di due, tre, quattro anni al
massimo, un’esperienza intensissima. Mi ricordo che nel ‘78 noi eravamo in piazza il giorno del
rapimento Moro a distribuire il volantino in cui prendevamo posizione politica sul rapimento, ma
intuivamo che stava cambiando qualcosa, che gli spazi si stavano chiudendo e che lo Stato stava
cominciando a rispondere nella maniera più forte che gli era possibile: ripeto, su quel terreno là.
Lo Stato non si misurava con un movimento di cui aveva paura perché era armato, aveva paura
per le sue dimensioni e per la sua alterità e radicalità forti. La sfida sul piano politico avrebbe
dovuto essere molto alta e misurarsi proprio sulle proposte che nei territori venivano fuori e lì
vincere o perdere. Il problema è che questa situazione era colpa anche delle forzature delle
organizzazioni combattenti e consentì allo Stato di avere facile gioco nel porre e legittimare la
battaglia come una battaglia militare. Non ci fu, se non marginalmente, opposizione a questo tipo
di scelte nell’area del garantismo. E devo dire che dal nostro punto di vista tutte le lamentele
pseudo o anche non pseudo garantiste che venivano dal movimento erano inutili: noi dovevamo
riconoscere che lo Stato sul terreno che ha scelto ha saputo muoversi in maniera adeguata e ha
fatto il suo mestiere, ha detto: “Adesso io metto in campo una serie di strumentazioni per
liquidare la questione”. E lo ha fatto. Perché 5.000 detenuti politici che avessero detto in quella
fase alta di repressione e di debolezza del movimento: “In carcere adesso facciamo una sorta di
assemblea tutti i 5.000, ci mettiamo uno, due, tre mesi e mettiamo su una piattaforma”, buttavano
per aria tutto. Innanzitutto il sistema carcerario, perché i cicli di lotte nati insieme a noi
all’interno delle carceri erano per lo Stato un disastro, non solo sul terreno della rivolta ma anche
su quello dell’organizzazione di massa: noi abbiamo organizzato in carcere i più importanti
movimenti di lotta anche dei detenuti comuni. Ma anche lì la fase della repressione, che poteva
diventare un momento di contro-offensiva nostra, che addirittura partiva dal carcere per
rilanciare discorsi di movimento all’esterno, ha fatto i conti con la fragilità soggettiva del
movimento e quindi una soggettività politica in formazione presuntuosa, frettolosa, in parte
consistente lotta-armatista. Teniamo conto che dei 5.000 detenuti politici quelli che sono andati
in galera come autonomi erano pochissimi, anche per reati marginali; erano già quasi tutti entrati
o gravitanti intorno alle aree combattenti. Lì ci fu il crollo della soggettività: un crollo
facilissimamente prevedibile. Forse la vera geniale mossa dello Stato fu non tanto quella di
essere brutale nell’incarcerare, ma quella di sapere che le sbarre avrebbero fatto il lavoro politico
della desolidarizzazione, dello sfascio di un tessuto, della dimostrazione dell’inconsistenza di
una determinazione soggettiva di massa e quindi di un reale corpo di avanguardie.

- Secondo te lo Stato aveva questa consapevolezza?

Secondo me dietro allo Stato c’era questa sorta di consapevolezza, che poi si è perfezionata negli
strumenti adottati, nelle leggi sulla dissociazione, sul pentitismo eccetera; non dimentichiamo
che le grandi ondate repressive sono avvenute quando già il fenomeno del pentitismo aveva una
diffusione enorme, avevano capito che avrebbe funzionato così ed in effetti ha funzionato in
questo modo. La rapidità con cui si è passati dalle posizioni combattenti, quindi di intransigenza
durissima, alle posizioni di arrendevolezza totale, quindi di individualismo puro nel rapporto con
lo Stato, per noi che lo abbiamo visto con i nostri occhi e vissuto giorno per giorno nelle celle, è
stata una cosa che ha dell’incredibile. Noi ci siamo ritrovati nel giro di un paio di anni dall’essere
come al solito autonomi e quindi “estrema destra” del movimento rivoluzionario all’esserne
“l’estrema sinistra”, senza muoverci di un passo nelle nostre posizioni. Siamo stati additati dalla
maggioranza dei detenuti politici come quelli che avevano il privilegio di non avere sulle spalle
rischi di condanne alte, cosa che non fu così per tutti, ma in realtà è vero che i militanti
dell’Autonomia non avevano omicidi, non rischiavano ergastoli e infatti non abbiamo scontato
pene elevate. Eravamo dei privilegiati secondo l’area combattente, perché secondo loro se anche

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noi avessimo dovuto fare i conti con gli ergastoli sicuramente non avremmo tentato battaglie di
movimento utopistiche. Per cui ci siamo trovati ad essere estremisti di sinistra all’interno del
carcere, e a scontare naturalmente tutta la pena; mentre invece vedevamo giorno dopo giorno i
combattenti uscire a frotte, anche chi aveva omicidi, perché o si pentivano o si dissociavano,
comunque uscivano con una velocità direttamente proporzionale alla velocità con cui
cambiavano posizione nei confronti della magistratura. La magistratura era un po’ il fulcro di
tutta l’operazione politica, era essa stessa soggetto politico che gestiva le cose, naturalmente
legittimandosi con il parlamento, con il governo, soprattutto con il PCI come forza di governo
senza ministeri.
Questo è avvenuto, anche qui, in un arco di tempo brevissimo, perché se il ‘79 con il 7 aprile è
stata la prima grande operazione di arresti di massa, diciamo che nell’81-’82 già si chiudeva la
possibilità di un movimento dei detenuti politici, già era iniziata la parabola discendente della
dissociazione. In questo senso il famoso documento dei 51 di Rebibbia fu secondo me l’ultimo
tentativo di dare veste politica e quindi di massa a questa operazione. Noi eravamo molto critici:
con i 51 di Rebibbia ci scrivemmo numerose lettere, la nostra principale obiezione fu di dire:
“Noi non possiamo incalzare l’area combattente affermando o con noi oppure siete speculari allo
Stato, ne siete l’altra faccia, è una guerra privata tra ceti politici che non ci interessa”, perché
posta in questi termini qui la possibilità di costruire un movimento all’interno delle carceri
diventava quasi impossibile. Chi ci avrebbe ascoltato? Eravamo davvero in pochi a fare questa
battaglia. Loro invece dissero: “Non c’è altra possibilità che questo fronteggiamento pesante e
durissimo, perché altrimenti ricadiamo nel tranello dell’egemonia combattente anche all’interno
delle carceri, e quindi passa la logica della rivolta, passa la logica della sovradeterminazione sul
movimento dei detenuti, passa di nuovo la logica combattente anche all’interno delle galere”.
Sostenevano dunque la necessità di uscire fuori da questa logica in maniera dura e pesante,
dicendo alle formazioni combattenti: “Voi in questo modo non siete che l’altra faccia di
un’eguale violenza, quella di due ceti politici, da una parte quello che si dice rivoluzionario e
dall’altra quello dello Stato”. Contro questa operazione noi prendemmo subito posizione, e fu la
ragione per cui loro ad un certo punto smisero di sostenere la polemica politica con noi, perché
dissero che non avrebbero più aspettato: era infatti questa una fase preliminare all’uscita del
documento, la fase della polemica politica all’interno dell’area dell’Autonomia. A quel punto
loro fecero quel che fecero e noi continuammo imperterriti ancora più Don Chisciotte di prima.
Organizzammo numerose lotte all’interno del carcere, con i detenuti politici e con i detenuti
comuni; ma ormai i processi di desolidarizzazione erano avanzatissimi, vedevamo i ragazzi
all’interno del carcere che cedevano a vista d’occhio, non avevano più motivazioni, non c’era più
niente che stimolasse all’unità e alla lotta, sembrava proprio la ritirata di Russia.

- Facciamo un passo indietro. In questi tempi brevi e di sostanziale compressione del percorso
del movimento dell’Autonomia, il ‘77 in maniera molto riduttiva è diventato l’anno simbolo
nell’immaginario comune: quali sono state le differenze sostanziali tra i ‘77 di Roma,
Bologna e Milano? E quanto tali differenze hanno inciso all’interno del dibattito nell’area e
in quella che schematicamente si può definire una divisione interna tra chi spingeva per un
discorso di organizzazione dei rapporti di forza adeguato allo scontro di classe e chi vedeva
in questa posizione il rischio della militarizzazione del conflitto e quindi di un’eccessiva
contiguità con la lotta armata e le formazioni combattenti?

Il ‘77 non è che fosse l’anno in cui si andava ad una verifica di percorsi teorici e politici vissuti:
dietro alle spalle c’erano gli anni della crisi dei gruppi e quelli del nuovo movimento diffuso,
quindi non c’era nessuno che potesse avanzare, se non sul piano teorico, delle ipotesi vincenti di
teoria generale dell’organizzazione. C’erano diverse posizioni che facevano un po’ acqua da tutte
le parti, non erano ben definite, e quindi anche lo scontro tra queste posizioni non era uno

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scontro di egemonia articolato, ben sostenuto dal punto di vista dello sforzo teorico. Addirittura
secondo me le posizioni precostituite prevalevano rispetto alla volontà di capire e di confrontarsi;
erano vizi del ceto politico dirigente, che aveva comunque una storia lunga, non erano ragazzini,
ed era una storia anche di antagonismi, di contrapposizioni, di primati, di ruoli di primedonne.
Basti pensare al fatto che diverse formazioni dell’Autonomia avevano un atteggiamento di
preclusione nei confronti di Rosso semplicemente perché c’era Negri. L’accettazione di figure
carismatiche, di leadership, era una problema grosso. Secondo me avevamo il più grande teorico
che abbia avuto il movimento moderno antagonista, ovvero Toni Negri, che era nello stesso
tempo uno degli elementi fondamentali di blocco della disponibilità di altre formazioni al
confronto politico. Ciò è la dimostrazione più lampante di quanto quello fosse un movimento in
fasce, pur avendo dentro persone che non erano certo dei ragazzini. Quindi, il problema per
esempio era la paura di un’egemonia intellettuale e teorica nei confronti della quale ci si sarebbe
trovati in difficoltà a sostenere la polemica e la compattezza di altri percorsi teorici, per cui si
chiudevano le porte prima ancora di cominciare ad aprire le stanze del confronto. Dopo di che
c’erano anche modelli tutti nuovi, recenti, in fase di sperimentazione. Per esempio a Roma c’era
questa teoria dei soviet, per cui ogni nucleo che si andasse formando nel territorio, legato a
qualsiasi tipo di realtà (operaia, sociale, studentesca ecc.), doveva avere di per sé la capacità di
diventare organismo dirigente del proprio agire e del proprio essere nella città soggetto collettivo
trainante della lotta di classe. Noi non eravamo d’accordo perché eravamo molto preoccupati da
questa logica di delega alle singole situazioni, ed in realtà ci è parso che abbia favorito molto le
emorragie lotta-armatiste: non dimentichiamo che gli arresti romani legati alle Brigate Rosse
furono micidiali, di massa, ed era tutta gente che veniva dal movimento. Le BR pescavano
liberamente ed apertamente in un movimento che non aveva un gruppo dirigente in grado di
costruire progetto. Il discorso della soviettizazione del territorio in realtà tradiva comunque la
presenza di leadership cittadine e metropolitane anche a Roma, ma di leadership che erano più
basate sul carisma, sulla capacità di portare la gente in piazza, di guidare le masse popolari in
grandi cortei, manifestazioni, iniziative, piuttosto che di costruire un progetto complessivo di
organizzazione e di battaglia politica.
Milano è la città più complicata in assoluto e da ogni punto di vista, sia per la presenza di tutte le
possibili varianti di organizzazioni che per la sua complessità. Era davvero la città con il più alto
livello di contraddizione: la grande fabbrica, i servizi in sviluppo, il territorio e via dicendo. Era
cioè una bomba di contraddizioni, era davvero la città più europea dal punto di vista della
maturità delle contraddizioni. E qui noi stessi eravamo lacerati tra chi sosteneva la necessità di
rafforzare i percorsi di massa e la capacità di calibrare la forza dell’organizzazione tra ruolo
dell’avanguardia e ruolo della struttura di massa in maniera tale che crescesse un movimento
consapevole, cosciente, capace; e chi invece pensava di guidare semplicemente con grandi e
importanti parole d’ordine e con piattaforme metropolitane un movimento che non aveva
bisogno della presenza di gruppi dirigenti in loco, che aveva solamente bisogno di essere guidato
allo scontro sulla piazza della città. Tanto è vero che nell’aprile del ‘79, nei giorni prima degli
arresti, noi insieme all’Autonomia veneta (molto più simile a noi della provincia, anche loro
radicati nelle fabbriche, nei quartieri, con un lavoro meticoloso di massa) stavamo costruendo
una piattaforma metropolitana su alcuni temi importanti (reddito, servizi ecc.) per rilanciare il
movimento dell’Autonomia, ma facendo in modo che questa piattaforma trovasse articolazioni
nei territori, anche dentro la città e non solamente nell’hinterland, capace di gestire punto per
punto l’articolazione della piattaforma stessa. Ed erano proprio i giorni prima dell’operazione
repressiva. Bisogna tenere conto che il 7 aprile ha decapitato quasi tutto il gruppo dirigente,
quelli che sono rimasti fuori si contavano sulla punta delle dita. Questa mossa non ce
l’aspettavamo, anche perché l’operazione è partita dall’assunto che Autonomia e Brigate Rosse
fossero la stessa cosa, era un teorema incredibilmente grossolano, che poi si è andato
differenziando, ma il gioco è rimasto sempre quello: Negri capo delle BR. Il messaggio era:

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“Adesso vi liquidiamo con qualsiasi mezzo, fuori o dentro lo stato di diritto”. La prima uscita
dallo stato di diritto fu proprio questo appiattimento, fatto dalla magistratura, sul modello di
un’organizzazione criminale di tutto il movimento e quindi del suo gruppo dirigente. Era, ripeto,
il gruppo dirigente di una parte del movimento, scarsamente legittimato anche dentro la sua parte
di movimento. Io credo che tale gruppo, soprattutto quello milanese, sia stato più odiato dai
giovani dei nostri collettivi che non da Calogero. Questo per dire quanta incapacità ci fu di legare
il ruolo del dirigente politico alla crescita della soggettività nei territori, il non esserci proprio: il
rimprovero che saliva dal basso era: “Ma dove siete voi che siete i nostri dirigenti? Come mai
non siete nei nostri collettivi? Come mai non partecipate ai nostri momenti di crescita e di lotta
nel territorio?”. E questo fu un rimprovero non molto scontato e che favorì grandi disastri.
Pensate all’esperienza di Barbone e all’omicidio di Tobagi: quella gente veniva dalle fila del
movimento dell’Autonomia milanese. Uccisero Tobagi convinti che da una parte quell’obiettivo
rappresentasse la dimostrazione di un’intelligenza alta, in quanto obiettivo interno ad uno degli
elementi fondamentali dell’esercizio del potere, la comunicazione ed in particolare quella
progressista, e dall’altra che fosse una carta di presentazione importante per entrare nelle Brigate
Rosse. Questo era il disegno pazzesco di un gruppo di cinque persone. Noi le abbiamo
conosciute tutte, io personalmente dentro al carcere, e per fortuna, perché altrimenti sarebbero
stati pentiti che a loro volta avrebbero fatto anche il mio nome! Ma era tutta gente, ragazzi
giovani, che era passata nei collettivi della nostra Autonomia, e che era finita lì; e noi li abbiamo
visti cedere di schianto e rapidissimamente uno dopo l’altro, non solamente Barbone e Morandini
ma anche gli altri che avevano inizialmente minimamente tenuto. La Brigata 28 Marzo che
uccise Tobagi è secondo me un esempio emblematico dei processi degenerativi e della deriva
lotta-armatista che ha attraversato il movimento in quegli anni e che sembrava, soprattutto in
città come Milano, inarrestabile. Ma inarrestabile perché l’organizzazione dell’Autonomia
Operaia non c’era. Non si può dire che fosse debole, non adeguata dal punto di vista teorico e
nell’organizzazione di modelli organizzativi: aveva tutto da questo punto di vista. Era debole dal
punto di vista del soggetto dirigente, inesistente. I nostri collettivi nascevano nella spontaneità
del movimento, facevano riferimento a noi per casualità o per rapporti personali, ma non
diventavano organismi dell’organizzazione. Noi siamo diventati organizzazione sugli atti
giudiziari. Tanto è vero che il nostro coordinamento della provincia di Varese e di Como, che
invece aveva una fisionomia e un’immagine organizzata, se pure in embrione (usciva con il suo
organo di stampa, faceva delle campagne provinciali, le battaglie venivano fatte in
coordinamento, in più c’era un lavoro territoriale), tale che sugli atti giudiziari fu scritto dai
pubblici ministeri che, decapitata l’Autonomia con il 7 aprile, il gruppo dirigente della provincia
prese in mano le redini dell’organizzazione per il rilancio dell’offensiva. E fu uno dei temi anche
del mio interrogatorio che, riprendendo le parole dei pm, provocò le risate della giuria. Quando
leggevo gli atti dei pubblici ministeri e li confrontavo con gli atti pubblici sulla nostra
consistenza organizzativa (documenti, volantini, le stesse dichiarazioni dei pentiti), c’era la
giuria popolare che ad un certo punto rideva di questa operazione psicopatica si potrebbe dire, in
realtà politicissima, dei pm di costruire questa geometria perfetta di una macchina da guerra. E
arrivare al punto di ritenere i residui del gruppo dirigente dell’Autonomia che faceva riferimento
a Rosso, cioè noi, in grado di rilanciare il movimento dopo il 7 aprile, era una cosa ridicola,
nonostante fosse vero che noi ce la mettevamo tutta per seguire anche Milano, ma era
praticamente impossibile. Tanto è vero che di lì a breve, nei primi mesi del 1980, ci fu l’altra
grande ondata di arresti che coinvolse le nostre strutture milanesi e fece quasi tabula rasa; e la
sequenza di pentitismo e dissociazione che coinvolse anche i nostri militanti, fece sì che il
gruppo dirigente della provincia fosse individuato e arrestato nella maniera più assurda possibile,
con montature pianificate, che sono crollate addirittura nei tribunali dell’emergenza perché non
stavano in piedi neanche lì.
Noi della provincia ci trovammo da una parte ad essere ritenuti i soggetti in grado di rilanciare

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l’ipotesi sovversiva a livello lombardo, ma dall’altra parte, individuati ed arrestati anche noi, si
creava una situazione molto manichea (tutto era molto manicheo allora, o eri pentito o eri
irriducibile): per cui c’era la provincia con venti-trenta collettivi che, arrestati noi quattro-cinque
che eravamo il suo gruppo dirigente, non ne andava più in galera uno, tutto si è fermato! Noi
eravamo stati arrestati su delazioni milanesi: Milano era tutta dentro e il 90% era già dissociato o
pentito. Questa cosa qui divenne uno dei terreni di scontro più grossi nei processi politici
milanesi, perché non ci si spiegava come mai da una parte ci fu una tenuta e dall’altra parte ci fu
invece una valanga. Ma quella fu secondo me una tenuta dovuta al fatto che fu arrestato davvero
il gruppo dirigente e che questo, per l’età e la storia che aveva, fu in grado di tenere, nonostante
tutti i tentativi fatti per piegare anche noi. Ma sicuramente la rottura anche soltanto di uno degli
elementi del gruppo dirigente avrebbe innescato immediatamente un meccanismo a valanga,
perché non era vero che la maturità del soggetto politico-sociale aggregato da noi fosse tanto più
alta di quella metropolitana; non potevano certo andare a raccontare di avere sparato a qualcuno,
questo è poco ma sicuro, ma la tenuta di fronte alle manette sarebbe stato un grosso problema per
tutti. Era un movimento davvero giovane, il fatto che il gruppo dirigente non abbia avuto nessuna
défaillance ha isolato l’operazione: la rabbia più grossa di Spataro nei nostri confronti fu quella
di non riuscire ad andare oltre a noi.

- A questo proposito, qual è la differenza tra l’attività politica nella metropoli, quindi a
Milano, e quella nella provincia, non solo dal punto di vista del tessuto sociale, ma anche
rispetto al radicamento, alla formazione, alla militanza?

Probabilmente fare lavoro politico a Milano era ed è tutt’oggi molto difficile, nel senso che
anche l’essere forti in una fabbrica poteva voler dire molto sulla fabbrica stessa ma poco sulla
città. Era davvero importante a Milano essere in grado nello stesso tempo di essere forti nei
singoli punti di lavoro politico (nei quartieri, nelle scuole, nelle fabbriche) ma essere anche
capaci di giocare il proprio ruolo sulla piazza, quindi l’avere una visibilità di progetto
metropolitano. Milano avrebbe così avuto immediatamente una funzione di diffusione di
un’ipotesi di organizzazione e di programma di massa, non ancora di progetto rivoluzionario ma
di programma massificabile. Per noi era assolutamente importante, non poteva bastare a Milano
dire di essere forti alla Sit-Siemens o nelle scuole superiori, bisognava giocarsi sul terreno
cittadino. Di questo erano consapevoli tutti, salvo che è stato fatto l’errore appunto di
dimenticarsi di quanto era importante la sedimentazione e il radicamento nei singoli punti di
intervento e di giocare invece tutto sul terreno della piazza. Da parte nostra invece il fatto di
essere dentro a quello che chiamavamo il territorio della fabbrica diffusa, che è il classico
territorio della fabbrica moderna, quella postfordista, di adesso, ci metteva di fronte
immediatamente alle contraddizioni dell’impossibilità di essere forti nei singoli punti, perché i
nostri punti non erano la Sit-Siemens ma la piccola-media fabbrica, le scuole medie superiori di
una cittadina, quindi poco contava una forza isolata. Ecco perché noi giocavamo la forza del
coordinamento in questo senso qui: forti nelle singole situazioni per lanciare anche campagne e
iniziative di ampio territorio. E questa cosa ci faceva anche pensare di influenzare o comunque di
poterci dialettizzare con Milano, con la metropoli, facendo capire anche quanto era importante
l’altro versante del lavoro politico, quello della quotidianità dentro ai territori. E dicevamo che
Milano è un concentrato di territori, un ospedale, una fabbrica, l’altra fabbrica lì vicino,
l’ospedale attaccato alla fabbrica, il quartiere attaccato all’ospedale eccetera eccetera. Questa
cosa ha reso possibile il nostro lavoro anche perché non facevamo i conti con altre formazioni: è
vero ad esempio che un’organizzazione militare come le FCC (Formazioni Combattenti
Comuniste), quelle che facevano riferimento ad Alunni per intenderci, è nata anche nella
provincia di Varese e quindi molti militanti sono andati lì: ma tolti loro e rinserrate le file delle
strutture di massa non avevamo antagonisti, non c’era nessuno in grado di mettere in difficoltà il

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nostro lavoro quotidiano, non c’era nessuno che forzasse sul lotta-armatismo nei nostri territori,
anzi eravamo noi le strutture più militanti, anche dal punto di vista dell’esemplarità del ruolo
della soggettività politica eravamo noi a giocarlo. Ripeto, questa è stata la rabbia dei pubblici
ministeri, l’impunità totale sugli episodi di illegalità della provincia di Varese e di Como.
Ma la cosa che comunque ci mancava e mancava anche ai veneti, che erano molto più forti di noi
ma dentro ad una simile conformazione territoriale, era l’esternità ai luoghi delle grandi
contraddizioni, non c’è niente da fare. Un tessuto di soggettività politica come il nostro in
piccolo e come il Veneto in grosso trasferito a Milano dal punto di vista del metodo del lavoro
politico probabilmente avrebbe potuto consentire una battaglia di egemonia sul movimento in
generale metropolitano, perché c’era un soggetto militante numeroso, preparato, abituato al
lavoro di massa, radicato nel territorio, ma lontano dai luoghi importanti della contraddizione,
quindi lontano dalla metropoli. E non siamo mai riusciti a condizionarla, e la sconfitta di Milano
è stata anche la nostra sconfitta, e la sconfitta nelle grandi città è stata la sconfitta di tutti. La
nostra è stata la tenuta dentro ad una trincea dove non c’è stato il massacro, perché non ci sono
state le epidemie di arresti, ma non c’è stata neanche la capacità dei nostri militanti di sostituirci,
e questo la dice lunga sul problema della maturità del movimento. Noi avevamo collettivi in cui
cinque o dieci persone aprivano la bocca a tutti, cioè c’era una partecipazione davvero pretesa, e
anche ovviamente voluta, del gruppo dirigente. La decapitazione del nostro movimento della
provincia di Varese e di Como non è stata superata dai nostri quadri, che non sono stati in grado
di ricostruire un gruppo dirigente, e non era nemmeno cosa facile; quindi, gradualmente anche il
nostro movimento all’esterno si è disgregato. Non c’era nessuno che impedisse ai nostri
compagni con la repressione di fare politica; nonostante anche i nostri sforzi all’interno del
carcere di partecipare comunque all’elaborazione teorica, alla definizione del programma, del
lavoro politico e via dicendo, c’è stata la disgregazione. Il fatto di non esserci e di diventare
causa di processi disgregativi la dice lunga sulla fragilità enorme anche della nostra frazione di
movimento organizzato. Perché era un movimento organizzato: noi partecipavamo a campagne
contro gli straordinari per settimane intere, ogni sabato mattina tutti i collettivi della provincia
erano in quel territorio che si stabiliva a bloccare gli straordinari. Erano campagne organizzate,
quindi, c’era un tentativo di prefigurare un modo di lavorare organizzato, ma che ruotava intorno
alla tenuta di un gruppo dirigente di quattro o cinque compagni, che nel processo di formazione
di alta soggettività politica non hanno fatto in tempo ad essere sostituiti. E’ stata quindi una fine
per immaturità e non per repressione. Questo non vuol dire che il clima generale non abbia
influito anche qui, fare lavoro politico era davvero difficile in quegli anni, c’era l’appiattimento
sulla figura del terrorista multimediato; ma gli spazi comunque c’erano lo stesso se ci fosse stata
intelligenza collettiva capace di sostenere le difficoltà. Non c’è stata perché non c’era, non puoi
dire ad un bambino di guidare l’automobile, già facevamo fatica noi.

- C’era secondo te la consapevolezza che lo scontro si stava alzando? Secondo te il fenomeno


della dissociazione e del pentitismo può derivare anche da una mancanza di
consapevolezza?

Quelli che erano dentro avevano la consapevolezza che la guerra separata di un soggetto militare
con un altro soggetto che era lo Stato era stata vinta da questo, e la legittimità nelle masse, che si
sarebbe conquistata con la vittoria politica, non c’era più. Questo ha fatto sentire tutti i più
giovani sbandati, completamente isolati. Chi è rimasto fuori invece secondo me non ha avuto
tanto il terrore della repressione, perché le nostre figure nei collettivi erano riconosciute, i nostri
compagni erano non dico certi ma quasi certi che non sarebbero finiti nei guai con il nostro
arresto; ma ci fu la paura di dovere fare i conti da soli con lo scontro di cui c’era la
consapevolezza che era alto e che avrebbero dovuto gestirselo da soli. La consapevolezza non
tanto che avrebbero potuto finire in galera, anche se c’era anche questa paura, ma la cosa

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determinante era la capacità di garantire la continuità di un intervento politico ragionato,
pianificato, programmato: su questa cosa qui c’è stato il vero sbandamento, la vera paura è stata
una paura politica, di ritrovarsi davanti i sindacalisti e non saperci fare i conti, di trovarsi davanti
il sindaco comunista del paese e non sapere cosa dirgli. Secondo me è stata una paura eccessiva,
perché i nostri compagni giovani non erano privi di esperienza, non si poteva dire che il gruppo
dirigente fosse l’unica soggettività che si esponeva nella battaglia pubblica, c’erano anzi studenti
ed operai capaci di gestirsi le loro situazioni interne. E’ mancato proprio il momento di coesione
organizzativa, la capacità cioè di riuscire a ricompattare una struttura che desse garanzie della
direzione politica e quindi di dover dare risposte non solamente alla contingenza quotidiana ma
alle questioni forti che si venivano ad affrontare, compreso il problema della lotta armata,
compreso il problema del carcere. I nostri compagni hanno fatto veramente delle iniziative
pubbliche sulla repressione pesanti, coraggiose, davvero forti. Quindi, il problema non era tanto
quello della paura; la vera paura è stata quella di non essere in grado di sostenere un ruolo di
direzione politica che in quel momento era più che mai indispensabile.

- Ci furono quindi degli errori dei dirigenti che non avevano costruito un certo livello di
formazione politica?

Tutto è diventato nello stesso tempo errore e iniziativa incalzante dello Stato. E c’erano poi le
formazioni combattenti. Ci fu un incontro politico durissimo con le organizzazioni armate che
dicono: “Voi, sostenendo ancora la centralità del lavoro di massa, esponete le vostre strutture
militanti alla repressione”; si pensi dunque alla mitizzazione della separatezza, ritenendo che
solo quella poteva essere adeguata al livello dello scontro, a rendersi irraggiungibili e vincenti, la
necessità di uscire dalla pubblicità e dalla dimensione del lavoro di massa. Dicevano: “Alziamo
il tiro, tutta la strumentazione politico-organizzativa è un problema della soggettività politica e
non delle masse”. Questa è la cosa che in quegli anni ci preoccupava umanamente per quei
compagni, ma ci preoccupava soprattutto per i rischi a cui andava incontro interamente il
movimento: tanto è vero che è stato travolto in pieno da questi rischi e ne è rimasto vittima.
Ripeto, la maggior parte delle migliaia di compagni finiti in carcere erano tutti o dentro o
contigui alle aree combattenti. Questo vuol dire che intanto non era tanto facile arrestare tutti, ci
voleva anche un appiglio pur essendo così a vagonate il meccanismo degli arresti; l’appiglio era
di quel genere lì, ovvero la contiguità o l’internità alle formazioni combattenti.
Insomma, dopo il 1980 era davvero difficile tenere gli spazi. C’era un problema proprio di fatica
ad avere la stessa agibilità, non a vincere una battaglia politica; fatica di potere dire: “Io sono un
militante dell’Autonomia, e prendo pubblicamente la parola in una fabbrica o in una scuola come
militante dell’Autonomia”. Se non eri più che legittimato dalla gente diventava un problema di
criminalizzazione latente, questo era il clima.
Noi dell’Autonomia per parlare di quegli anni avremmo prima da esaurire tutti i ragionamenti sui
nostri errori enormi, prima di poter dire quanto poco politica sia stata la battaglia dello Stato e
del sistema dei partiti e quanto aberrante fosse stata la logica lotta-armatista: poi semmai va
ragionato anche questo. Ci sono alcuni dirigenti delle Brigate Rosse che continuano a sostenere
di essere stati semplicemente battuti militarmente, ma questa è una pazzia. Come si può dire che
sono stati sconfitti militarmente? Allora vuol dire che il discorso era tra eserciti, nel qual caso un
esercito viene sconfitto ma il suo disegno politico può mantenere una sua giustezza: ma qui sono
progetti politici e non militari che sono stati sconfitti pesantemente. Se fosse vera una cosa del
genere, io voglio allora capire come mai la tenuta della soggettività non c’è stata. Come si può
dire che la sconfitta è stata militare se i soldati e i generali non sono rimasti in prigione ma sono
passati al nemico? Questa è una sconfitta politica e non militare: i generali, così come i soldati
che sono meno colpevoli, erano comunque soggettività politiche assolutamente inadeguate allo
stesso scontro che ponevano, altrimenti sarebbero tutti là adesso a marcire in galera o a realizzare

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un tipo di soluzione diversa da quella che hanno adottato. C’era la processione davanti ai giudici
dei dirigenti delle organizzazioni combattenti che si inchinavano davanti all’autorità dello Stato,
riconoscevano i propri errori eccetera eccetera. E questa sarebbe una sconfitta militare? Ma non
scherziamo. In una sconfitta militare mi hai tolto il mitra o la pistola di mano, non mi hai tolto il
resto; qui gli hanno completamente tolto la testa, allora vuol dire che non c’era. Ma questo è
solamente uno degli elementi, poi ci sono gli schemi teorici generali. Ma degli schemi teorici
discutiamone: cioè, il fatto che lo schema teorico e la teoria dell’organizzazione sia pari pari
quella della Russia dell’inizio del secolo mi fa venire un po’ di dubbi: se una teoria
dell’organizzazione non è adeguata ad una composizione sociale, che teoria dell’organizzazione
è? La genialità di Lenin fu di inventare una teoria dell’organizzazione guardando alla sua società,
non leggendo Il capitale di Marx che diceva tutt’altro. Se una teoria dell’organizzazione
riproduce e ripropone quel modello nella composizione di classe di una società fordista o
addirittura già verso il superamento del fordismo come minimo è priva di fantasia teorica. E via
dicendo. Ma la cosa che a me colpisce di più è stato il problema dello spessore della soggettività
politica, della sua inconsistenza, e questo è un fatto indiscutibile, è un fatto giudiziario con una
valenza politica altissima. Su questa cosa qui ci si può girare intorno finché si vuole, ma è stato
davvero un disastro politico. Non dimentichiamo che fenomeni come il pentitismo in quanto
fatto generalizzato all’interno delle carceri è un’invenzione dei politici, che si è poi davvero
generalizzato, la premialità è diventata un’arma di ricatto tuttora usata, ma la sperimentazione è
stata fatta su di noi: quelli di noi che si sono pentiti l’hanno addirittura teorizzata come scelta
consapevole e determinata. E’ il soggettivismo del ceto politico separato; di un ceto politico che
dice: “Adesso finita la guerra con il mio antagonista, indipendentemente dalle masse, discuto
della mia pace e gli chiedo cosa vuole perché mi mandi a casa; che cosa ce ne frega del nostro
rapporto con le masse, esso si chiude qui, decidiamo cosa dobbiamo dirci e darci e lo facciamo”.
Ma è la separatezza assoluta, così come era la separatezza assoluta dire: “Adesso tiro giù quel
giudice, tiro giù quell’altro, faccio il rapimento Moro eccetera eccetera”.
Poi anche nel fenomeno della lotta armata ci sono state molte differenze, ad esempio gli scontri
tra la colonna “Walter Alasia” delle BR e le altre formazioni erano durissimi, perché essa aveva
dei militanti che erano delegati di fabbrica: Vittorio Alfieri era dell’esecutivo della CGIL nei
consigli di fabbrica dell’Alfa Romeo ed era il capo della brigata. C’era questa schizofrenia
teorizzata, questa separatezza di ruoli per cui dicevano che il lavoro di massa si faceva avendo
nell’esecutivo i delegati, che sarebbero stati cavalli di Troia all’interno delle organizzazioni
tradizionali della rappresentanza operaia; nello stesso tempo in quanto avanguardie avrebbero
fatto il loro mestiere rapendo il dirigente della fabbrica e interrogandolo con il tribunale del
popolo. Ma noi anche in carcere discutendo con questi compagni ci trovavamo di fronte a
soggetti che ci spiegavano il ruolo dell’avanguardia politica e quindi del lavoro di massa e di
avanguardia, ci spiegavano il lavoro per costruire organismi di massa e quello per costruire il
partito rivoluzionario; negavano la separatezza, semplicemente dicevano che il fatto di
legittimare come delegati sindacali certe parole d’ordine all’interno dei consigli di fabbrica era
lavoro di massa. Perché in questo modo qui dicevano: “Entravo in contatto con la gente, mi
legittimavo come soggetto e punto di riferimento nei reparti operai, addirittura costruivo
embrioni di organismi di massa, ma soprattutto mi collegavo con soggettività che poi trasferivo
nella brigata”. Perché quello era il passaggio dell’avanguardia, un reclutamento nel partito
separato. Loro dicevano che questo era il lavoro di massa all’altezza dei tempi. Quindi, la cosa è
abbastanza complessa, anche con scontri nella loro direzione nazionale tra tendenza
movimentiste, come quelle milanesi della “Walter Alasia”, e tendenze invece più separate, come
quella romana e quella veneta di Savasta. Citiamo ad esempio il rapimento di Dozier, quindi la
NATO, livelli alti. Sono come i falsari di dollari: uno che fa le banconote da centomila lire
magari può anche spacciarne un po’ prima di essere arrestato, ma se si fa un dollaro falso parte
l’FBI il giorno dopo e due giorni dopo lo mette dentro. Così chi ha toccato il generale americano

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nel giro di qualche giorno erano già sistemati. Ma prendiamo lo stesso discorso di Tallier, il
dirigente del Petrolchimico di Marghera. Loro dicevano che il lavoro di massa voleva dire
coinvolgere le masse sulla decisione di un dirigente del Petrolchimico, l’Autonomia fece lavoro
di massa per dire adesso vi mostriamo che le masse sono in grado di condizionare le decisioni di
queste avanguardie separate e dissero che Tallier doveva essere liberato, e quelli che lo avevano
in mano dissero: “Chi se ne frega? Noi lo facciamo fuori”, e lo fecero fuori. Questa è stata la
dialettica. Quindi, la cosa è molto complicata anche dentro al percorso della lotta armata, per non
parlare delle differenze con il nucleo storico delle BR. Però, c’è questo denominatore comune in
tutte le organizzazioni combattenti della sfiducia nella possibilità di costruire una vera
organizzazione, adeguata allo scontro di classe alto che si poneva in quegli anni, dentro ad un
percorso di massa. L’inadeguatezza, la pericolosità, quindi la negatività per l’interesse proletario,
di un’organizzazione radicata a livello di massa.

- Negli anni ‘80 da dentro al carcere, dopo il documento dei 51, di fronte alle incolmabili
differenze politiche rispetto ai militanti delle organizzazioni combattenti, e di fronte al vuoto
politico e sociale che si era venuto a creare fuori dal carcere, qual era la situazione e
l’analisi politica tua e dei compagni dell’Autonomia detenuti?

Secondo me il documento dei 51 di Rebibbia era sicuramente un documento politico, a cui noi
non abbiamo aderito per diverse ragioni. Puntavamo di più sostanzialmente a ricomporre le
lacerazioni che c’erano nel corpo dei detenuti politici, e forse eravamo degli illusi: diciamo che i
fatti ci hanno smentito. I fatti hanno rivelato anche l’eccessiva ambizione di quel documento in
quanto si poneva come elemento di dialettica politica tra i detenuti, la parte di detenuti che
poteva essere raccolta intorno a quel documento, e una parte dello Stato. Quel documento non si
rivolgeva allo Stato ma a quella parte dello Stato che era minoritaria in quel momento, ovvero
l’area garantista. E diceva: “Tu come soggetto collettivo dentro ai meccanismi dello Stato vieni
fuori, prendi posizione e cambia lo scenario della battaglia politica: non più quella basata
unicamente sulla tua capacità di giocare la forza (quindi soprattutto l’arena del più forte dal
punto di vista militare) ma giochi la carta della politica, quindi insieme a me soggetto detenuto
apri un confronto, che non è fondato sul fatto se mi pento, se faccio arrestare, se mi dissocio
dalla mia esperienza politica; ma se tu dentro lo Stato fai una battaglia perché ci sia una
dissociazione dalla logica emergenziale dell’altra parte del tuo corpo, dunque un abbandono
della legislazione d’emergenza, leggi speciali, pratica repressiva, criminalizzazione, e apri invece
un confronto politico sulla storia di questo movimento e sugli errori fatti da entrambe le parti.
Ciò su un terreno su cui noi offriamo la chiusura di un ciclo politico”. Questa è la cosa che
offriva quel documento: la chiusura di un ciclo politico che, al di là degli opportunismi, era
davvero una chiusura vera di un ciclo di lotte. Loro offrivano quella e quindi l’irreversibilità di
un processo di chiusura di un ciclo politico. Essi sostenevano: “In cambio però non ci fai dire che
le contraddizioni sono risolte con la sconfitta che ci hai imposto, ci lasci il diritto di dire che la
battaglia politica comunque continua a restare legittima pur in una fase di chiusura di un ciclo di
conflitto altissimo. In altro caso l’unico terreno che ci resta è quello di andare avanti a fare la
guerra, ma è una guerra in cui il mondo esterno non c’entra più, è fra me e te. In cui il rischio di
annientamento per noi è alto ma, attenzione, non ne uscirai fuori bene neanche tu”. Non
dimentichiamo che in quegli anni noi siamo finiti sul libro nero per esempio di Amnesty
International perché eravamo un paese occidentale che somigliava di più al Sud America dal
punto di vista del governo delle contraddizioni. E quindi un ciclo continuo di rivolte, di scontri
anche sanguinosi, avrebbero comunque provocato dei problemi grossi anche allo Stato. E allora
quel documento diceva: “Voi che siete una parte dello Stato che a questo gioco non ci sta, fatevi
sentire, pronunciatevi e noi saremo interlocutori che rispondono”.
Era un disegno ambizioso, e forse è stata questa la nostra opposizione più grossa: l’ambizione

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ancora da ceto politico, di riuscire in quel modo a giocare un ruolo riconosciuto dallo Stato, sia
pure da una parte dello Stato (quella garantista). C’era davvero una situazione in cui dentro alle
carceri qualsiasi possibilità di organizzare scontro che non fosse dentro la direzione politica delle
organizzazioni combattenti era impossibile, se non nelle carceri come Milano. A San Vittore ci
fu nei primi anni ‘80 un ciclo di lotte molto forte e intenso che culminò con una repressione
micidiale ma di tutti i detenuti: veramente fu un massacro. Bisognerebbe raccontarla davvero in
un libro perché fu un’esperienza di vera contrapposizione alla logica della rivolta: io ho raccolto
dei materiali, una cosa che voglio fare quando avrò un po’ di tempo è raccontare quella storia
davvero stupenda di lotta di massa dentro al carcere in cui realmente il problema della qualità
della vita, dei bisogni materiali della gente, era diventata una piattaforma di lotta, c’erano i
comuni che dall’ultimo raggio riuscivano a raggiungere il raggio dei politici e viceversa, c’era
veramente stata una conquista di spazi di agibilità in quel carcere. Tanto è vero che per
reprimerla arrivarono centinaia tra agenti e carabinieri. Ed è l’unico esempio di vera
contrapposizione alla logica delle rivolte. E’ vero invece che nei carceri speciali, dove c’erano tra
i detenuti politici anche i nostri, l’egemonia brigatista era totale ed assoluta, e quindi la logica
della rivolta diretta da loro era l’unica che c’era. Credo che le esperienze di Trani, dove c’erano
molti dirigenti dell’Autonomia (lo stesso Toni Negri era detenuto lì durante la rivolta e fu anche
lui massacrato), furono episodi che segnarono profondamente le decisioni di quei compagni:
vissero sulla loro pelle la sensazione di essere chiusi dentro ad una maglia strettissima tra le
organizzazioni combattenti da una parte e magistratura, forze di polizia, la parte dello Stato più
dura dall’altra. Il modo con cui loro pensarono di venirne fuori noi non lo condividemmo. Ma
noi per nostra fortuna non ci siamo mai trovati a dover fare i conti con questi scenari, siamo
sempre riusciti in un modo o nell’altro a farci sentire e a dire la nostra anche con i brigatisti, con
i piellini, addirittura ad essere egemoni noi all’interno dei raggi politici. Ma è stato un caso, non
un merito della nostra soggettività, perché anche loro erano molto bravi ma avevano a che fare
nei carceri speciali con i nuclei forti anche dal punto di vista soggettivo delle organizzazioni
combattenti, e con spazi di agibilità ridotti allo zero. Lì veramente appena alzavi un dito ti
arrivava una martellata, questo era il carcere speciale. E quindi gli spazi anche per una battaglia
diversa erano davvero esigui. A quel punto loro hanno detto: “O facciamo un’operazione forte di
rottura e diciamo allo Stato che qui c’è qualcuno disposto a parlare e a uscire fuori dal silenzio
irriducibile, oppure non ce la facciamo, non ne usciamo più”. Noi non eravamo d’accordo e
dicevamo: “E’ vero che la vostra situazione è pesante, ma la nostra meno, e quella parte di
movimento che c’è fuori può fare qualcosa”. Loro non ci credevano e in questo avevano ragione,
indipendentemente dal fatto che fosse o no corretto il loro percorso. Avevano ragione nello
scriverci: “Noi non crediamo alle vostre parole quando dite che il movimento residuo fuori e la
vostra maggiore agibilità nelle carceri non speciali e in quelle metropolitane può consentire di
rompere questo accerchiamento: o c’è la forza reale, visibile, che si gioca in campo aperto,
oppure se è solo rappresentazione, quindi è solamente urla, ci scambieranno e ci appiattiranno
comunque sistematicamente sul problema dell’irriducibilismo e basta. Che ci sia una
manifestazione fuori o una rivolta in un carcere, tutto verrà appiattito sullo stesso paradigma”.
Questa era la riflessione che facevano loro. Devo dire che noi non siamo stati capaci di creare
un’alternativa, ne abbiamo tentate di tutti i colori, dagli scioperi della fame a lotte che abbiamo
pagato anche noi con la repressione dentro alle galere, a tentativi all’esterno di fare delle
iniziative di massa sul carcere, a Milano ad esempio. E’ vero che tutto è scivolato molto
rapidamente, ma se cancellassimo l’episodio del documento dei 51, odiati dalle formazioni
combattenti, il processo degenerativo che ha vissuto l’organizzazione politica sarebbe accaduto
né più né meno. Quell’episodio ha fatto polemizzare molto intanto perché è avvenuto in una fase
in cui la valanga della dissociazione non era ancora partita, e dire che quello è stato il primo
granello della valanga è una falsità perché, ripeto, erano davvero isolati ma non politicamente,
erano isolati perché non c’entravano niente con la maggior parte dei detenuti politici che erano

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combattenti. E’ bastato che i dirigenti delle organizzazioni combattenti dicessero: “Adesso ci
dissociamo” (“Sarà che avete nella testa quel maledetto muro”, i vari documenti di Segio, dei
brigatisti eccetera) e lì hanno aperto le saracinesche, hanno aperto la diga: perché venivano da
una legittimazione interna alle formazioni combattenti sul terreno della dissociazione. Ma non
era un terreno politico. Quello era il terreno esistenziale: “Adesso ci piacciono i fiori, adesso
vogliamo tornare dalla mamma, adesso usciamo da un irriducibilismo mentale e vogliamoci
bene: non abbiamo più niente da difendere del nostro passato, perché mai dovremmo tacere di
fronte a uno Stato che ci dice se parlate uscite, quando il nostro parlare è inutile a salvare la
nostra dignità, un movimento, lo scontro di classe che viaggia ormai su altri percorsi? Noi siamo
stati soggettività separata, noi non siamo riconosciuti dalle masse come parte loro, perché mai
dovremmo preoccuparci di costituire cattivo esempio o addirittura fermarci su categorie morali
ed etiche e passare la nostra vita dentro a un carcere? Noi che eravamo cattivi perché volevamo
fare la rivoluzione, adesso sconfitti vogliamo fare figli, andare in campagna, rientrare in
famiglia, occuparci del sociale, tossicodipendenti, comunità. Quindi, la liberazione dalla nostra
memoria, anche tradotta in termini giudiziari, quindi i memoriali, è un abbandono non dannoso,
anzi ci fa andare a casa prima. Perché questo Stato è talmente stupido che ci ha identificato
semplicemente come incomunicanti, come terroristi soprattutto per la nostra indisponibilità ad
accettare la dialettica democratica: adesso noi gli diciamo che va bene, ci stiamo al gioco, ne
accettiamo le regole, a partire dal fatto che riconosciamo uno per uno tutti i nostri reati, tenendo
conto che il pentitismo aveva già fatto emergere tutto dal punto di vista criminale,
semplicemente confermiamo”.
Se ancora si poteva dire che i pentiti erano governati dai magistrati e che la verità e la non verità
si mischiavano in maniera subdola a costruire i teoremi, la dissociazione ha legittimato
perfettamente la ricostruzione criminale degli episodi (le complicità, le appartenenze eccetera),
l’ha formalizzata, ed in questo modo il disegno dello Stato si è davvero legittimato. Al di là delle
differenze, le formazioni combattenti e il documento dei 51 ebbero entrambe un agire da ceto
politico. L’elemento politico della dissociazione è il fatto di essere stato assunto a livello di
massa, è diventato un comportamento di massa delle organizzazioni politiche, c’è stata
un’adesione di massa delle organizzazioni combattenti. Quindi, il discorso di cui parlavamo
prima dell’abbandono di un proprio passato era voluto, consapevole, scelto, determinato. Niente
valeva la libertà: c’era un riproporre la materialità dell’esistenza e del suo valore che era sopra
tutto, sopra alle scelte politiche, sopra alla pratica passata, sopra alla coerenza rivoluzionaria,
tutte cose ritenute assolutamente secondarie rispetto al valore della vita, anche di chi era
incarcerato. “In cambio della mia vita do la memoria cronologica e politica di un passato che non
mi appartiene più, né a me né alla società, e forse a questa non è neanche mai appartenuto.
Perché mai dovrei custodirlo io marcendo in carcere?”.
E’ il discorso della maturità della soggettività politica. Garantisco che sentirsi dire di essere
condannati all’ergastolo non deve essere una delle sensazioni più piacevoli che si possono
provare nella vita; e lì o fai i conti con la speranza di salvare la dignità ma comunque anche la
vita, oppure la scelta esistenziale diventa ancora una volta di separatezza, dicendo: “Vivrò finche
vivrò e farò quel che potrò all’interno della galera, ma ho chiuso”. Ed è una scelta che io
personalmente non condivido, l’ho sempre detto ai compagni che si sono presi gli ergastoli e non
sono né pentiti né dissociati: non è possibile non fare una battaglia politica di libertà. Perché
comunque a fronte della sconfitta la Comune di Parigi, repressa nel sangue, ebbe diecimila
persone deportate nelle colonie e dopo dieci anni, senza nessuna richiesta, furono tutti amnistiati
e sono potuti rientrare. Quindi, una battaglia di libertà non può non essere fatta, non può esserci
solo il silenzio. Dopo di che invece decisero che non avrebbero mai parlato con lo Stato, perché
comunque tutto era Stato. Questo è però un altro discorso: la cosa principale è che il 99% invece
ne ha fatto un altro di discorso. La legge sulla dissociazione è estremamente stringata e ti dice:
“Riconosci le tue responsabilità, non ti chiedo di fare il delatore, e riconosci lo Stato

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democratico, valore simbolico alto a fronte di un tentativo di sovversione basato su presupposti
sbagliati. Davanti al magistrato tu riconosci le tue responsabilità, quindi riprendi i verbali e reato
per reato confermi quello che il pentitismo ha ricostruito, e riconosci lo Stato come fondato sulla
legittimità popolare, su regole democratiche e quindi come un insieme di regole dentro alle quali
ti riconosci anche tu”. Molti hanno detto: “Non faccio arrestare nessuno, ammetto le mie colpe
perché tanto ai pentiti ci credono lo stesso, dico allo Stato che lo riconosco tanto poi mica mi
possono dire che io ho lo stigma in testa che sono rispettoso delle regole: poi quando uscirò io
farò o non farò, ma comunque io lo dico e così sono contenti”. Ci fu una spregiudicatezza di
questo tipo qui: fatto questo andavano a casa in massa così come erano entrati in carcere. Molti
compagni prima di dissociarci nei cortili dell’area ci dicevano: “Noi non ce la facciamo più”. E
noi dicevamo: “Non abbiamo qui la pala per scavare il tunnel e mandarvi a casa, quindi facciamo
i conti con tempi non brevi.” Ma loro ci comunicavano che non ce la facevano più, era un
problema del corpo e della mente insieme che non tenevano più la cella. A quel punto lì
dicevamo loro: “Il problema importante è che nessuno viene a fare un’assemblea in un cortile di
detenzione politica per sostenere questa cosa qui e proporla per votazione, perché se no vi
mettiamo le mani addosso: non fatevi vedere, scomparite dalla circolazione, ma questa è l’unica
possibilità che avete, non quella di legittimare la vostra scelta perché non ce la fate più”.
E tutto ritorna all’insufficienza della soggettività politica. Il fatto che dire soggettività politica
vuol dire parlare di una categoria particolarmente pesante e grande, forse più ancora di quello
che possiamo comprendere noi. Io sono stato arrestato, hanno provato in molti modi a farmi
parlare, con le buone o con le cattive, sono riuscito a non parlare, ma una cosa è certa: non le
hanno provate tutte. Con alcuni le hanno provate tutte. Non mi hanno torturato così come hanno
fatto con altri, mi hanno mezzo assiderato, pensando di piegarmi non facendomi dormire per il
freddo perché se no morivo congelato; ma non hanno fatto quello che hanno fatto ad altri
compagni, portati nel bosco, a cui hanno sparato nelle orecchie, bruciati i capelli con la vampata
della pistola dicendo che li avrebbero fatti fuori tanto nessuno sarebbe andato a cercarli; oppure
torture sul corpo come hanno subito alcuni, pensiamo a Di Lenardo, cose documentate e
fotografate. Chi mi dice come avrei reagito? Io posso dire che mi sono misurato con una
materialità in cui il mio essere soggetto politico è riuscito a tenere, ma posso dire questo perché
l’ho vissuto. Ma un vissuto diverso come avrebbe fatto i conti con la mia soggettività? Magari
avrei resistito, magari no. Ma attenzione, questo vale come pratica comunque minoritaria: ci
sono state delle torture anche pesanti, ma non è stata questa la molla della dissociazione. Questo
deve essere assolutamente chiaro. Che nessuno dica mai che il pentitismo e la dissociazione si
sono basati sulla violenza fisica nei confronti dei detenuti: non è vero! E’ stata la cella e la lettura
delle sentenze: questo è bastato ed è avanzato. E questo mi permette di dire che la soggettività
politica lasciava molto a desiderare, comunque. Quindi, il problema non è che il soggetto politico
sia necessariamente un eroe individuale, una persona pronta a morire prima di cedere; ma un
soggetto politico non è neanche quello che dice di non riuscire a vivere in cella: allora non fai la
rivoluzione. Un soggetto politico che dentro ad una società matura gioca una sfida di carattere
rivoluzionario deve saper fare i conti con i livelli più alti e più sofisticati di risposta dello Stato,
anche quelli violenti, ma non solo quelli. E saperci fare i conti è un problema in cui le verifiche
si fanno davvero sul campo e non nelle parole, e sono verifiche molto pesanti, soprattutto nei
tempi della sconfitta. Devo dire che ci sono stati compagni davvero eroici a resistere, e poi si
sono dissociati; compagni che sotto le torture hanno risposto in maniera durissima allo Stato e ai
suoi aguzzini, e che poi con la testa hanno ceduto, e molto tempo dopo. A dimostrazione che il
problema della soggettività è una cosa molto complicata, è un problema davvero di intreccio tra
il tuo essere riconosciuto e il tuo saper fare i conti anche con te stesso: entrambe le dimensioni,
della solitudine e del radicamento della tua persona nei rapporti sociali, esistono allo stesso
modo, e sono entrambi pesanti. Perché nessuno più del soggetto politico, della soggettività,
rischia l’isolamento; anzi quella dell’isolamento è la pratica fondamentale dello Stato. E lì non ti

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misuri certo con le masse che vengono ad assaltare la Bastiglia. In quei momenti il problema
della tenuta è enorme, ed il cedimento in certi casi (non sto parlando solo dell’esperienza
italiana, ma anche di quella sudamericana, irlandese, spagnola...) non è mai accettabile ma è
comprensibile perché è l’isolamento della solitudine. E da questo punto di vista non
necessariamente un’avanguardia politica non cede mai: hanno tenuto sotto tortura compagni che
non erano neanche dirigenti politici semplicemente per una forza d’animo, di carattere, per una
personalità eccezionali, ma umana, da martire; hanno invece parlato fior fiori di intellettuali e
dirigenti politici invitati e non costretti al tavolo del pentimento. E’ stato anche un dramma
umano, basato sul cedimento di corpi e di menti dentro all’isolamento della cella: questo è stato
l’elemento dirompente. E poi ci sono stati corollari ahinoi violentissimi e pesantissimi; in genere
comunque i più conciati dal punto di vista delle torture sono quelli che hanno resistito di più.
Savasta per esempio no: è stato torturato in maniera pesantissima, possiamo dire che è un
infame, un pentito, ma gliene hanno fatte di tutti i colori. Questo non lo giustifica, anzi. Dal
punto di vista politico un dirigente non avrebbe dovuto arrivare ad organizzare la rivoluzione e la
pratica politica in quel modo: è questa la sua responsabilità più grave, non quella di aver poi
ceduto.

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INTERVISTA A FERRUCCIO DENDENA (CON ALCUNI INTERVENTI DI PAOLO
SCHIAVONE) – 24 GENNAIO 2000

- Qual è stato il tuo percorso successivo all’uscita dal carcere e qual è il tuo percorso attuale?

FERRUCCIO: Io sono uscito dal carcere nell’87. E’ stata un’uscita per fine pena perché, come
già dicevamo, la parte minoritaria di compagni che non aveva accettato qualsiasi forma di
collaborazione con i giudici non aveva altra alternativa. Tanto è vero che anche la mia
scarcerazione, avvenuta circa tre mesi e mezzo prima della fine della pena, era stata sottoposta
all’obbligo di soggiorno coatto a Saronno, dove io abitavo. Non potevo uscire dal paese, due
volte al giorno dovevo firmare nella caserma dei carabinieri, dovevo essere in casa in certe fasce
orarie per il controllo: peggio di un mafioso, e tutto questo per tre mesi, era proprio ridicolo! Non
contento, il procuratore generale fece ricorso a Roma contro la decisione di scarcerazione presa
dalla Corte d’Appello, gli diedero ragione e mi riarrestarono. In pieno agosto, in una Saronno
deserta, arrivarono quindici-venti carabinieri tutti in borghese che circondarono il palazzo. Io feci
notare che ero appena uscito e mi mancava poco per finire il soggiorno coatto: devo dire che
erano imbarazzati anche loro, perché, essendo i carabinieri che mi controllavano, pensarono che
dal momento che li mandavano a riarrestarmi fosse successo un altro pandemonio, magari che
avessi rifatto una banda armata o qualcosa del genere! Quando chiesi se si stavano sbagliando,
mi dissero che c’era un mandato, un accoglimento da parte della Cassazione di un ricorso della
Procura Generale a Roma. Mi rimisero dentro, a Busto Arsizio, di nuovo in un carcere speciale,
fino all’ultimo giorno: a quel punto sono uscito. Questo è un esempio, ma è uguale a tutti quelli
che non hanno accettato la logica della dissociazione o del pentitismo: alcuni sono ancora in
carcere con pene lunghe, per gli altri c’è stata una ferrea applicazione della condanna e poi, finita
la pena, il mantenimento dello stigma della pericolosità sociale. Quindi io e tutti i compagni
usciti per decorrenza della pena siamo stati convocati nelle caserme dei carabinieri, abbiamo
avuto la comunicazione ufficiale che saremmo stati tenuti comunque sistematicamente sotto
controllo, che eravamo considerati socialmente pericolosi e via dicendo. Tanto è vero che
quando poco dopo ho cambiato residenza, passando sotto la competenza di un’altra caserma
(quella di Garbagnate), sono stato convocato formalmente dal responsabile della caserma dei
carabinieri che mi ha informato che il mio fascicolo era stato trasferito, che adesso avrei dovuto
essere seguito da loro.
Questo stigma si è poi mantenuto. Alla Statale, in un seminario di movimento sul controllo
sociale, feci un intervento sulla storia passata e sulla repressione. Ci fu l’arresto di alcuni
compagni per vicende anomale (una rapina), che non c’entravano nulla con la politica, e anch’io
ricevetti collateralmente una comunicazione giudiziaria per banda armata firmata da Spataro:
andai addirittura dai carabinieri della caserma di via Moscova (da cui arrivava la comunicazione
giudiziaria) ed ero talmente incredulo di fronte a ciò che, cosa che non avrei mai fatto in
precedenza, feci una sceneggiata. Loro stessi mi dissero che dai verbali che avevano raccolto da
parte di chi controllava il movimento, risultava che io ero presente in un’assemblea in Statale
dove avrei fatto apologia della lotta armata. Tutto questo per dire che il clima nei confronti della
minoranza cosiddetta irriducibile rifletteva queste categorie giudiziarie, poco dialettiche, per cui
la stratificazione era quasi come nei contratti dei metalmeccanici, chi al primo livello, chi al
secondo, chi al terzo: c’erano dunque i cattivi e i buoni, una divisione molto manichea. Erano
categorie poco dialettiche anche perché era poco dialettica la loro capacità di distinguere: ancora
in quel momento, alla fine degli anni ‘80 che sono il decennio della grande repressione, la
divisione era di questo genere qua. L’irriducibilismo non era il brigatismo e il lotta-armatismo,
ma era un comportamento e una collocazione soggettiva. Per cui chi accettava le regole rientrava
in una logica che non aveva importanza che fosse di sinistra, di destra o di centro, era comunque
in una logica di recinzioni stabilite, di dialettica istituzionale; chi ne era fuori non aveva
importanza che fosse brigatista o che cos’altro. Del resto le nostre sentenze parlavano chiaro.

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Ricordo l’ultima pagina della nostra sentenza di condanna al processo, poche righe che dicevano
che la pericolosità dell’Autonomia e dei suoi militanti era di gran lunga superiore a quella delle
organizzazioni combattenti, perché l’Autonomia tentava di misurare la possibilità di
un’organizzazione sovversiva dentro al tessuto di massa, quindi di legittimarsi pubblicamente su
un terreno di sovversione. Dunque la pericolosità di un processo del genere era da ritenersi molto
maggiore che non quella lotta-armatista, che era immediatamente identificabile con una sorta di
guerra “privata” di un’organizzazione politica chiusa nei confronti dello Stato, ovvero un
apparato politico-militare altrettanto chiuso. La Corte scrisse proprio queste parole alla fine della
lunga sentenza di condanna, dicendo che quella autonoma era una sfida politico-militare ad
ampio spettro, che partiva da una chiara scelta di radicamento e di legittimazione di massa dentro
alla quale si andava a costruire un percorso di organizzazione forte, di organizzazione della
soggettività, quindi dell’avanguardia.

PAOLO: Forse si può aggiungere che, nel periodo di cui Ferruccio sta parlando, erano usciti
anche una serie di articoli sulla stampa che sostanzialmente dicevano: “Attenzione, qui si sta
costruendo un collegamento tra la vecchia e la nuova Autonomia: ci sono dei soggetti pericolosi
che sono usciti dal carcere, ci sono dei soggetti che fanno da tramite, e questo collegamento va
assolutamente evitato perché è molto pericoloso.”

FERRUCCIO: Questo rientra in questa cultura molto manichea. Ciò perché davvero continuava
la lunga inerzia della magistratura politica, quindi di una magistratura che era diventata soggetto
preminente sulla scena politica, protagonista dello scontro di classe: era quello che per delega del
parlamento e dei partiti era il reparto più esposto nell’operazione di liquidazione del movimento
antagonista.

PAOLO: C’è stata una sorta di delega sulla gestione dell’emergenzialità da parte dello Stato alla
Magistratura.

FERRUCCIO: E quindi c’era ancora quella lunga scia che del resto vediamo ancora oggi. Lungi
da me l’idea di difendere Diliberto, ma il fatto che Borrelli si permetta di prendere posizione
pubblica perché il Ministro della Giustizia ha osato mettere in discussione la decisione di non
mandare Pillitteri al funerale di Craxi, costituisce un’indicazione chiara di un’occupazione di
spazi di enormi dimensioni dal punto di vista decisionale e discrezionale da parte della
Magistratura, e di una certa Magistratura. Fatto sta che quando poi hanno toccato anche certi altri
settori di potere è successo quello che è successo, ma allora con noi c’era una delega totale:
davvero nessuno avrebbe mai messo in discussione qualsiasi cosa fatta dalla Magistratura.

PAOLO: Si potrebbe però quasi dire che questa delega da parte dello Stato alla Magistratura
nella gestione dell’emergenzialità, cominciata tra la fine degli anni ‘70 e gli inizi degli anni ‘80,
è stata anche la stessa delega che, non dal punto di vista del governo ma dei progetti di
trasformazione economica, ha permesso alla Magistratura di fare quell’operazione che è stata
“Mani Pulite”. Dunque la delega questa volta è stata fatta non più dallo Stato, il corpo politico,
ma direttamente dal meccanismo economico, che stava andando avanti nel processo di
trasformazione e che non poteva assolutamente convivere con quel modo di gestire la politica.
Questo è stato “Mani Pulite”, tutto il resto è giustizialismo di basso stampo.

FERRUCCIO: Un giustizialismo che ha avuto la sua anima popolare nel sindacato e nel PCI, in
quanto è lì che è stato più diffuso.

PAOLO: Ma è stata anche la delega con maggior consenso sociale. Il consenso che ha avuto la
Magistratura intorno a “Mani Pulite” è stato un qualcosa che mai nella sua storia aveva avuto in

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questo Paese.

FERRUCCIO: Comunque diciamo che il discorso del fare pulizia e del mantenere un’allerta
elevata nei confronti non delle organizzazioni politiche che ormai non c’erano più, ma del
soggetto politico che poteva ricostituire l’organizzazione, era una preoccupazione evidente. In
parte lo è ancora oggi, forse molto meno, ma alla fine degli anni ‘80 era ancora altissima
l’attenzione su queste cose: loro davano per scontato che compagni che potevano uscire dal
carcere in posizione non di resa sicuramente avrebbero ripreso a far politica, quindi la
preoccupazione esisteva. In confronto a quella che c’era all’inizio del decennio si trattava di una
preoccupazione che si era già molto abbassata; ma non si erano raffinati, né da parte dei giudici
né da parte dei partiti, neanche gli strumenti della politica, si mantenevano abbastanza rozzi, da
mandati di cattura, da categorie giudiziarie più che da categorie politiche. Quindi si scivolava
anche nel ridicolo, non diventava tragico con arresti come avveniva nel passato perché si
fermavano alle comunicazioni giudiziarie, agli avvisi di garanzia, all’indagare per banda armata
perché succedeva un certo episodio: intanto ti lasciavano sotto una spada di Damocle, che durava
quel che durava in quanto se entro un anno o due non si procedeva veniva a cadere anche
l’avviso di garanzia, però intanto rompevano le scatole, quindi controlli e via dicendo.

PAOLO: E’ lo stesso periodo in cui vennero indagati per l’articolo 270 bis (associazione
sovversiva) anche 12 compagni dei collettivi autonomi, cosa che poi è finita in nulla.
Chiaramente il meccanismo di controllo che stava intorno a chi era uscito dal carcere veniva
esteso automaticamente a tutti quelli con cui questi compagni erano in relazione dal punto di
vista politico.

FERRUCCIO: Diciamo che in questo periodo invece è meno significativa la mia storia di
militanza politica, perché è stato un momento, durato circa tre o quattro anni, in cui c’è stato
soprattutto il tentativo insieme ad altri compagni di rimettere insieme soggetti. Quindi non si
trattava di ricostruire strutture legittimate nel territorio dell’intervento, ma di rimettere insieme
soggetti che discutessero di politica e che cercassero di ripensare un punto di vista di carattere
generale. Ciò ovviamente senza dimenticare di riflettere su degli elementi di programma
immediato: ma allora (e giustamente secondo me, come lo è ancora oggi) il problema grosso era
ragionare sulla città, su Milano. Questo perché tutti eravamo consapevoli che Milano e la ripresa
di iniziative significative sul territorio metropolitano diventavano fondamentali in questo Paese,
quindi anche nei territori più periferici e sperduti. E’ la centralità delle città: noi dicevamo
Milano perché era quella più vicina a noi e anche perché costituiva un concentrato di
contraddizioni probabilmente unico in Italia. Ma proprio lì secondo me c’è stato un problema di
difficoltà soggettiva. Ci fu il fatto positivo che si era ripreso a discutere, a costruire dei punti di
vista, anche a scrivere dei documenti, a fare degli interventi: io ricordo per esempio l’esperienza
sulla guerra del Golfo che fu abbastanza significativa, in cui il gruppo di compagni con cui
lavoravo e che erano più a contatto con il movimento, erano riusciti a essere motore e a costruire
a Milano le scadenze più significative in quel periodo.

- Politicamente da chi era composto questo gruppo di compagni?

FERRUCCIO: C’erano delle “cariatidi” come me, ma poche, e c’erano i compagni delle
generazioni successive alla nostra, come Paolo, compagni che erano giovani quando partì la
repressione: c’era una composizione abbastanza eterogenea di esperienza politica. Quindi questo
nucleo di discussione era abbastanza interessante.

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- Una parte dei compagni dell’Autonomia che erano usciti dal carcere aveva dunque trovato
un momento di discussione e parziale ricomposizione oppure no?

Teniamo conto che dal punto di vista degli effetti della repressione Milano è stata letteralmente
devastata: ha avuto la quota ultramaggioritaria dei detenuti politici scivolati sul terreno del
pentitismo e della dissociazione o, nella migliore delle ipotesi, quelli che sono stati dentro poco,
per questioni marginali, scomparsi nel nulla dopo la paura del carcere. Comunque fu veramente
un effetto-napalm che forse in nessun’altra città è stato così devastante come a Milano. Il
pentitismo ha prodotto a Milano dal 7 aprile in avanti ondate di arresti di massa bestiali, si
andava dentro a grappoli in carcere. E devo dire che la tenuta è stata disastrosa: nel nostro
processo eravamo 184 imputati, e ricontandoci solo una decina siamo stati quelli che non si sono
né dissociati né pentiti. E questo in generale accadde in tutti processi, figuriamoci poi in quelli
delle organizzazioni combattenti con disastri a non finire. Quindi il soggetto politico
dell’Autonomia era scomparso, il quadro dirigente addirittura inesistente: della nostra vecchia
esperienza, quindi di Rosso a livello metropolitano milanese, erano rimaste due o tre persone,
dunque fu veramente una distruzione totale. Molti erano riusciti anche ad andarsene via e a non
essere arrestati, ad evitare il carcere, e sono ancora in esilio. Però per quelli che sono rimasti non
possiamo dire che quello della ricomposizione del soggetto politico dell’Autonomia fosse un
problema, perché non c’era il soggetto politico. Erano tutti compagni che avevano vissuto le lotte
degli anni ‘80, dentro a questa situazione blindata che c’era a livello nazionale; quel poco di
movimento e di lotte che ci furono, alcune anche significative, come le occupazioni, è stato il
terreno di esperienza di questa nuova soggettività politica. Ma ancora una volta anche in quegli
anni, come nel passato, le lacerazioni avevano una capacità di devastazione nella dialettica
politica tra le avanguardie tale che il vuoto teorico e di progettualità non bastava a far dire:
“Smettiamola”. E le lacerazioni, anche interpersonali, erano molto profonde, costruite nel
decennio degli anni ‘80 per molti versi, mentre il vecchio gruppo dirigente e i vecchi militanti
erano in carcere o in esilio. Io l’ho verificato di persona, perché insieme ai compagni con cui
discutevo in quel periodo abbiamo cercato di rimettere insieme la soggettività politica a Milano:
avremo anche sbagliato ad essere così ottimisti e possibilisti, ma abbiamo trovato nei rapporti tra
i compagni ferite sanguinanti che hanno radicalmente impedito la ricomposizione. Io da questo
punto di vista mi sbilancio sulla valutazione positiva, ma penso che se quel tentativo di
ricomposizione avesse funzionato, rimettendo insieme un luogo di discussione politica
interamente soggettivo, avrebbe probabilmente dato a Milano una possibilità di rilancio
dell’iniziativa politica. Ero molto ottimista in quel momento: purtroppo, ed io stesso sono stato
coinvolto nel fallimento di questa operazione, non ne siamo stati capaci. E devo dire che per me
solo in epoca successiva è stato possibile capire che non era tutta stupidità quella alla base di
questo insuccesso: c’erano davvero delle lacerazioni profonde che probabilmente era un po’
troppo ambizioso pensare di ricucire. Noi ci credevamo perché pensavamo che la politica fosse
tutto sommato ancora la cosa più importante in quel momento, ma non era così, non è mai stato
così neanche ai miei tempi e non era evidentemente così nemmeno negli anni ‘80.

PAOLO: Secondo me c’è una cosa in più. Ripensandoci credo che fondamentalmente ci fossero
anche questo tipo di problemi. Negli anni ‘80 ci sono stati momenti grossi e significativi dal
punto di vista della ripresa e della riorganizzazione del movimento. Il primo passaggio è
costituito da tutte le lotte su Comiso e le produzioni di morte nell’83. Un secondo passaggio è
arrivato con il movimento degli studenti nell’85, che ha sviluppato, anche da un punto di vista
generazionale, gli ambiti di movimento. Per Milano tra l’altro in questi primi cinque anni è
andato scomparendo tutto quello che c’era prima ed è rimasta come unica realtà, dal punto di
vista delle situazioni autonome, via dei Transiti, era lì che ci si vedeva. Non è stato poi così
successivamente, ma nella prima metà degli anni ‘80 tutti i collettivi autonomi si sono
definitivamente sciolti e quello che ne è rimasto era in quest’unica struttura. Gli altri momenti

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grossi e significativi erano legati alla battaglia sui centri sociali che come coordinamento dei
collettivi autonomi avevamo lanciato più o meno dall’86 all’88 con una serie di occupazioni tutte
finite con lo sgombero e con la successiva decisione di entrare all’interno del Leoncavallo.
Anche questa fu una decisione politica, non è che sia successo per caso; tra l’altro con una
battaglia politica con chi allora gestiva il Leoncavallo, quindi con altre componenti politiche.
L’ultima grossa questione è quella sul nucleare.
C’è però da dire che nel frattempo i movimenti che si sono espressi negli anni ‘80 non avevano
alle spalle un ragionamento politico e teorico proprio, ma coagulavano sostanzialmente tutto
l’esistente, per cui anche i rimasugli delle vecchie esperienze m-l, compagni che venivano più
propriamente dall’esperienza dell’Autonomia eccetera. Tutto questo componeva il movimento
autonomo degli anni ‘80. Sotto il profilo del ragionamento teorico magari alcuni soggettivamente
l’avevano, ma collettivamente mai era stato discusso: questo è l’altro grande handicap anche dal
punto di vista della crescita e della costruzione di nuova soggettività politica, che a Milano non
ha funzionato molto. C’è stato quasi il meccanismo del produci-consuma-crepa, nel senso che
arrivi, sei disponibile a fare un milione di cose, dopo di che ti esaurisci e te ne vai: questo è stato
il meccanismo classico della militanza a Milano negli anni ‘80 e ,se si vuole, anche negli anni
‘90 non è che sia cambiato molto. Per cui il problema era anche quello che non esisteva un
ragionamento di carattere teorico e politico comune; il tentativo che è stato fatto, oltre ad un
discorso di lacerazioni e di personalismi, si è innestato dentro alla mancanza di questo tipo di
substrato e di humus comune. Quindi era ancora più difficile mettere insieme soggettività a
Milano e provare a costruire un punto di vista comune. Tant’è che una parte del ragionamento di
un percorso di cui Ferruccio raccontava si è sviluppata anche dentro al centro sociale
Leoncavallo, con una battaglia politica feroce al suo interno su quali dovessero esserne le sorti
dopo lo sgombero dell’89, cioè su quale doveva essere il ruolo che poteva ricoprire un luogo
come quel centro sociale con tutta l’importanza e l’attenzione massmediatica che aveva, con
tutto il potere comunicativo che ha avuto il Leoncavallo dall’89 fino all’anno scorso e che in
parte ha ancora adesso, anche se secondo me è usato malissimo. Si pensi all’aspetto simbolico:
dopo l’89 nascono cento centri sociali in tutta Italia. Dunque è stata fatta una battaglia sulle sorti,
magari poi entreremo anche nel merito di quali erano le differenze; e lì si scontrarono anche delle
diversità di impostazione politica.

FERRUCCIO: Ricordo che ancora alla fine degli anni ‘80 c’era (e la cosa mi aveva davvero
sgomentato) l’identificazione dei vecchi militanti, da parte anche dei nuovi soggetti, con
l’appartenenza ad un disegno politico del passato. Quindi io che non ho mai fatto politica a
Milano perché avevo la responsabilità politica altrove (nelle province di Varese e di Como), ero
identificato come la ripresa del disegno politico di Rosso a Milano. Credo che fosse davvero una
cosa da casa di cura, da fenomeni di psicosi di massa. Per cui ero il dirigente di Rosso che,
insieme ai compagni più giovani comunque dell’area dell’Autonomia, rilanciava il progetto
politico di Rosso. Io dicevo: “Ma scusate, dov’è quel progetto? L’abbiamo chiuso con gli anni di
galera, con la fine di un’esperienza politica”. Gli odi che c’erano tra i gruppi politici li ho
ritrovati ancora, anche se non ai livelli del passato, a produrre ostacolo al dibattito politico. Lo
stigma dello Stato paradossalmente si accompagnava allo stigma dentro al movimento, per cui
c’era il marchio che veniva fuori ancora. Perché alla fine si trattava di un marchio negativo,
quello di un’organizzazione politica che si ripresentava con i suoi dirigenti a giocare la carta
della direzione del movimento. Mentre invece il metodo che si stava applicando in quegli anni
era veramente di confronto a tutto campo, tutto veniva rimesso in discussione. Anzi, mi sembra
addirittura che a noi sia stato rimproverato di essere solo tatticamente così aperti, ma in realtà di
avere un disegno politico ben preciso. Ricordo che anche nelle polemiche fuori dai momenti
ufficiali del dibattito politico io dicevo: “Quando un compagno fa un ragionamento che ha un
inizio e ha una fine, non potete sempre pensare che abbia un disegno politico strumentale alle
spalle: tenta di costruire delle riflessioni che abbiano una continuità”.

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Eppure non c’è stato niente da fare o, meglio, diciamo la verità: tutto è possibile quando la
determinazione soggettiva è adeguata alla situazione. Da questo punto di vista io credo ancora
molto nel ruolo della soggettività e nella sua determinazione. Allora era necessario che
compagni, me compreso, facessero una scelta precisa di collocazione e dicessero: “Non vengo a
Milano a svolgere un ruolo interamente soggettivo, quindi di crescita collettiva insieme ad altri
compagni e di battaglia dentro i percorsi della soggettività; vengo a Milano a fare politica”.
Questo voleva dire anche fare una scelta di vita, abbandonare i propri territori e giocare le carte
della ripresa interamente sulle metropoli, ma a quel punto esponendosi anche pubblicamente, nel
lavoro politico quotidiano e quindi nei momenti in cui si decideva che cosa fare sulla città. Se
questa cosa fosse stata fatta da parte mia e anche da parte di altri compagni, oggi potremmo dire
che abbiamo giocato o meno tutte le carte soggettive che si potevano giocare. Ma così non è
stato, questo va riconosciuto. Io che ho sempre detto nel mio passato politico che ha importanza
chi parla, ma ha molta importanza chi parla e chi fa, ho passato degli anni in cui il mio ruolo era
quello di chi soprattutto parlava, e quindi di chi contribuiva ad una ricucitura soggettiva: ma era
necessario contestualmente far politica sulle città, sperimentare dei percorsi. E tutto questo
richiedeva la presenza quotidiana (come io ho sempre concepito la politica) dentro alle
contraddizioni metropolitane che erano e sono tuttora eccezionali dal punto di vista della
potenzialità. Così non è stato. Il problema del reddito, della distanza, di un trasferimento reale
della quotidianità sulle città, non è stato affrontato nella maniera più radicale possibile. In questo
modo io non posso dire di avere incontrato ostacoli insuperabili. Ho incontrato ostacoli che si
sono rivelati insuperabili rispetto alla mia soggettiva presenza sulla città, e anche alla presenza
soggettiva di altri compagni. Questo fa sì che le carte siano state giocate solo parzialmente.
Questo non vuol dire che la situazione poteva essere affrontata con esiti sicuramente più
favorevoli. Dal momento che io sono sempre ottimista dico che essere lì, anche un compagno in
più, in una città come Milano sarebbe stato determinante. Io non ci sono stato, con me non ci
sono stati anche altri compagni, ma devo dire che personalmente avevo riscontrato una presenza
di soggettività politica di alto livello dal punto di vista delle potenzialità, compagni che
sarebbero stati tranquillamente capaci di sostenere una battaglia politica pubblica davanti a
chiunque, al sindacato, al PCI, all’amministrazione comunale, davanti a chiunque avrebbero
potuto sostenere un punto di vista politico in maniera chiara. C’erano dunque dei compagni
davvero bravi. Gran parte di questi compagni, come me, non hanno giocato come potevano le
loro carte soggettive: e questo fa sì che io continuo a dire che il ruolo della soggettività è
determinante, ed è determinante anche quando non viene svolto, quindi nel bene e nel male, e
che per quanto riguarda me in particolare avrebbe potuto essere giocato con una scommessa più
alta e non semplicemente da ambito separato dalle contraddizioni reali, da ambito di discussione
e basta. Io lo sapevo e lo dicevo anche ai compagni che il problema era di decidere dove stare.
Per me è stata una decisione indiretta perché io ho semplicemente deciso di non stare a Milano, e
ciò è stato abbastanza liquidatorio da questo punto di vista: devo dire che porto con me questa
contraddizione e mi è dispiaciuto e mi dispiace tuttora. Perché alla fine della fiera il problema
delle conseguenze della condanna, quindi dell’interdizione dai pubblici uffici e l’impossibilità di
rientrare nella scuola a fare l’insegnante, che era il mio mestiere, il dover ricominciare da zero, è
stato pesantissimo, una continuazione della pena sotto altra specie, come direbbe Clausewitz.
Questa continuazione fuori dal carcere della pena è stata molto pesante perché non ero più
ragazzino, ricominciare da zero fuori dalla scuola voleva dire pensare di avere vent’anni e invece
ne avevo ben più di trenta, e quindi dovevo fare i conti con la mia materialità che si è risolta,
come direbbe l’Aaster, nella “brillante scelta” del lavoro autonomo.

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- Negli anni ‘70 avevi politicamente seguito il territorio delle province di Varese e di Como.
Come mai uscito dal carcere hai deciso di provare a intervenire politicamente a Milano,
quindi sulla metropoli?

FERRUCCIO: Teniamo conto che negli anni ‘70 il movimento aveva una diffusione
extrametropolitana notevole: quando noi scendevamo a Milano per le manifestazioni eravamo in
centinaia. Ma nonostante il nostro lavoro di radicamento e legittimazione nel tessuto proletario
della provincia, noi eravamo comunque consapevoli (e lo erano allo stesso modo anche ad
esempio i compagni di Padova) che la forza delle periferie non poteva addirittura supplire alle
debolezze metropolitane. Nessuno l’ha mai pensato, tanto è vero che la nostra preoccupazione
costante era di riuscire a garantire che le città, e in particolare Milano per noi, fossero in grado di
essere alla testa del movimento perché, non c’è niente da fare, comunque il livello delle
contraddizioni dentro alla città era decisamente molto più avanzato che non fuori. Questo non
vuol dire che fossero tanto diverse. Facciamo un esempio per capirsi. A cavallo del 7 aprile,
proprio nei giorni dell’operazione di Calogero, ci fu un convegno nazionale sulle piccole
fabbriche e il decentramento che per la prima volta cercò in maniera sistematica di costruire un
punto di vista dell’Autonomia sui processi di polverizzazione della grande fabbrica: si cercava
dunque di spiegare questa nuova figura produttiva sociale che rompeva la divisione schematica
tra la produzione diretta delle merci e la riproduzione. Quel convegno fu fatto, nonostante
l’operazione di Calogero, nei giorni immediatamente successivi: lo organizzammo qualche
giorno prima del 7 aprile e lo facemmo lo stesso, anche se si può immaginare che clima ci fosse,
e ricordo che fu uno dei momenti più importanti. Questo vuol dire che anche il contributo,
teorico da una parte ma anche di esperienza politica dall’altra, dei territori extrametropolitani era
importante. Non dimentichiamo che nei territori intorno a Milano, le province di Varese e di
Como tanto per fare un esempio, si stava già sperimentando un livello di decentramento
tecnologicamente avanzato sul modello del postfordismo e della fabbrica diffusa, del lavoro
autonomo, della microunità produttiva, che è oggi più che legittimato. Quindi non eravamo
lontani dalle contraddizioni fondamentali. Ma diciamo che Milano aveva le grandi fabbriche che
stavano per essere attaccate duramente. L’Alfa Romeo, ad esempio, è qui ad Arese, alle porte di
Milano, ed eravamo più vicini noi perché eravamo con i nostri collettivi a Caronno, proprio alla
periferia dell’Alfa; però l’Alfa Romeo era Milano. E gli attacchi erano quelli alle grandi
fabbriche metropolitane, come la Fiat a Torino. Tanto è vero che ricordo che agli inizi degli anni
‘80, quando ci fu la prima grande ondata di attacco alla Fiat, la nostra attenzione di
coordinamenti di piccole fabbriche era tutta rivolta a quello che avveniva lì, eravamo
costantemente su con i compagni di Torino a cercare di capire cosa stava succedendo e a lavorare
insieme a loro sulla contraddizione che stava esplodendo alla Fiat. Successivamente ci fu quello
che ci fu: i 35 licenziati accusati di terrorismo, poi la prima ondata dei licenziamenti di massa, la
marcia dei 40.000 eccetera.
Non era una distanza, come si direbbe in America, tra la profonda provincia, quella agricola,
rispetto a Manhattan. Era un hinterland molto ampio intorno alla metropoli, quanto meno fino
alla bassa provincia di Varese, perché già l’alta provincia è diversa. Ma Milano allora, negli anni
‘70, era una città con un movimento forte: non era cioè necessario che una parte dei dirigenti o
dei militanti più attivi si spostasse su Milano, perché aveva una soggettività ricchissima, semmai
lavorava molto male, al punto che c’erano delle lacerazioni tra il gruppo dirigente e la base delle
organizzazioni, anche e forse in particolare della nostra. Dopo la repressione, negli anni ‘80, il
discorso di Milano ritornava ad essere molto più di prima centrale, bisognava ricostruire un
tessuto di movimento in azione nella metropoli: era fondamentale allora e lo è oggi. Se oggi
Milano e le grandi città riuscissero a rappresentare qualche percorso significativo avrebbero un
ruolo fondamentale anche nella riproduzione di percorsi all’esterno delle metropoli. Avrebbe
avuto poco senso in quel periodo rilanciare il coordinamento degli organismi autonomi delle
province di Varese e di Como, mi veniva da ridere solamente a pensarci.

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PAOLO: Tali organismi, anche per le caratteristiche che tu dipingevi, sono stati anche gli ultimi
a chiudere tra le vecchie strutture di movimento. Le realtà che sono rimaste hanno poi chiuso per
autoconsumazione. Rispetto a Milano, dove la repressione è stata devastante, nelle province di
Varese e di Como le strutture hanno resistito all’ondata repressiva. Sono morte dopo, quando la
soggettività politica non è più stata in grado di trovare motivazioni sufficientemente forti per
continuare ad intervenire collettivamente.
Erano rimaste tre “grosse” strutture nelle province di Varese e di Como. Uno era Il Selciato, un
centro di documentazione a Busto Arsizio dove stavo io, con tutta un’area di intervento
abbastanza vasta sulle cittadine intorno (Busto, Gallarate), ma c’erano anche piccoli paesi vicino
dove c’era una presenza forte, come ad esempio Olgiate Olona, zona in cui da anni, addirittura
da Potere Operaio, c’era una situazione politicamente consolidata. Poi c’era a Saronno il
Collettivo Comunista Territoriale che aveva anch’esso un grosso intervento e portava avanti tutto
questo ragionamento sulle piccole fabbriche. E infine c’era Olgiate Comasco con un altro
collettivo e, prima dell’arresto di alcuni compagni, c’era anche lì una presenza forte e consistente
in alcune fabbriche della zona. Queste tre strutture sono state le ultime a chiudere e lo hanno
fatto dentro a questo meccanismo di autoconsumazione.

FERRUCCIO: Come già avevo detto, l’operazione repressiva nei nostri territori (considerando la
Lombardia) sul fronte autonomo, se era stata devastante per il cedimento della soggettività a
Milano, in provincia ha prodotto una decapitazione del quadro dirigente. Questa decapitazione
non ha fatto schiantare l’organismo complessivo che è rimasto in piedi: non è stato in grado, pur
avendone le risorse, di rigenerarsi, di essere soggetto costituente di una ripresa, neanche in
provincia. Ma, ripeto, con il grave handicap di una metropoli milanese completamente azzerata,
o quasi, sul piano dell’antagonismo.

PAOLO: Forse faceva eccezione Varese città, dove anche lì c’è stata una devastazione dovuta
anche alla composizione della soggettività politica.

FERRUCCIO: A Varese c’era una parte dell’Autonomia che era entrata nelle organizzazioni
combattenti e anche lì si era poi fatto i conti con il disastro dei dissociati e dei pentiti.

- Secondo te dov’è finita tutta quella ricchezza politica soggettiva, intellettuale e militante?
C’è stata la repressione, c’è stata la paura della repressione ed anche quella che tu definivi
una paura politica da parte di chi non è andato in carcere nel dover fare i conti con il vuoto
degli anni ‘80: ma possono essere spiegazioni sufficienti?

Io credo che se un compagno, anche dal punto di vista teorico, si stacca da una continuità di
ricerca, di riflessione, di confronto paga un prezzo molto elevato. Non c’è niente da fare: ci deve
essere l’elemento della continuità non solamente nella militanza politica ma anche nella
riflessione teorica. L’elemento della continuità della ricerca e del confronto è un terreno
fondamentale. Quindi è una soggettività che ha avuto una diaspora forte. In parte ha fatto la
scelta dell’opportunismo (sarà una categoria vecchia ma io continuo a chiamarlo così) ed è
passata dall’altra parte, per dirla chiaramente: è entrata nelle strutture dirigenti del sindacato, del
PCI o, peggio ancora, ha fatto carriera nelle strutture delle nuove aziende postfordiste, del
terziario e dei servizi, si è messa in proprio in maniera consapevole e culturalmente voluta. Ha
quindi detto: “Quella è stata una parentesi della mia vita che si è chiusa”. Chi ha fatto questa
scelta non erano semplicemente i meno determinati e i meno preparati dal punto di vista teorico e
politico, ma l’hanno fatta con altrettanta consapevolezza anche molti compagni che avevano
svolto un ruolo importante. Io dico che hanno fatto una scelta di classe, una scelta di campo ben
precisa, sono passati dall’altra parte. Per quanto riguarda chi non lo ha fatto, sono convinto che

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c’è ancora. Ogni tanto ci capitano ancora dei momenti di incontro. Ma cos’è che manca
realmente perché questa soggettività vada alla verifica sulla sua esistenza come tensione politica?
Manca il fatto che qualcuno non dico che debba fare come con i compagni di classe che dopo
dieci anni c’è qualcuno che alza il telefono e invita a cena, ma nemmeno tanto distante. Io sono
convinto che se ci fosse un livello di determinazione da questo punto di vista raccoglieremmo
sicuramente attorno al tavolo diversi compagni, ne sono certo: ma bisognerebbe che questo
appello fosse legato ad una volontà, anche di pochi, di ripresa di un tavolo di discussione
continuativa. Dovrebbe essere una determinazione di questo genere, perché se è solamente un
provare a sentire tra vecchi compagni che si ritrovano cosa ne pensiamo del mondo, non so a che
cosa possa servire, mi viene da piangere quasi solo a pensarci: neanche nelle associazioni “ex
combattenti e reduci” succedono queste cose qui. Per cui ciò ha senso dentro ad una nuova
curiosità collettiva, ma una curiosità politica, di chi vuole capire ma andando dentro al territorio
a curiosare, quindi muovendosi in esso con strumenti come riviste, inchieste, anche intervento
politico, senza esagerare, anche solamente quello di fare una battaglia intelligente sul terreno
della comunicazione. Secondo me si raccoglierebbe tantissimo. Un organo di comunicazione
oggi capace di provocare sul territorio su quello che accade quotidianamente farebbe grandi cose.
Questo non si fa, e ognuno di noi dovrebbe parlare per sé. Io sono convinto che uno degli
elementi davvero devastanti di questo maledetto discorso del lavoro autonomo sia proprio
questo. Si vive l’illusione che dentro all’autoimprenditorialità ci stiano i percorsi alternativi, e
allora bisogna dirlo: “Io sto facendo politica perché, a partire dall’accettazione di regole
squisitamente capitalistiche, di mercato, io vado a conquistarmi la possibilità di intraprendere,
partendo dalla mia materialità, degli embrioni di percorsi alternativi dentro ai quali convoglierò
altre soggettività”. Ma questo da una parte è meccanicismo, dall’altra, forse peggio ancora, è il
volersi lavare la coscienza; questa può essere una categoria morale, ma ancora peggio è volere
legittimare l’illusione che i percorsi individuali in qualche modo oggi abbiano la potenzialità di
generalizzarsi, di diventare collettivi, pur andando avanti per adesso sul terreno individuale.
Secondo me sono tutte balle, che vanno affrontate in maniera forte in termini politici: io dico, per
me personalmente, che il lavoro autonomo, cioè il dover fare i conti con il reddito solo su sé
stessi e non su garanzie esterne, fa sì che le risorse soggettive di chi è inserito in questo
meccanismo siano risorse che renderebbero l’impegno qualcosa di difficilmente rispettabile e
generalizzabile. Questo perché chi ha fatto, volente o nolente (ed io ero solo nolente più che
volente), questo tipo di scelta (e sono tanti i compagni che sono in questa condizione) si ritrova
oggi ad avere l’organizzazione del suo tempo spaventosamente pianificata dall’esterno. Altro che
lo straordinario obbligatorio! E’ ridicolo, quello per me sarebbe il paradiso oggi, perché so che
oltre un certo limite non si sarebbe potuto andare. Noi siamo di fronte ad una giornata lavorativa
sociale nell’intero arco delle 24 ore subordinabile al lavoro. Questa è una cosa spaventosa se non
viene aggredita in termini politici, e in termini politici collettivi. Si tratta della solitudine dentro
ad un reparto senza confini: questa è una cosa con cui io mi misuro tutti i giorni. Anch’io mi
dicevo che la fatica di questa esperienza mi da oggi la possibilità di pensare ad alcuni spazi in cui
io sono in grado di autodeterminare le cose, ma è come se io dicessi: “Sono un operaio di catena
di montaggio e risparmiando i soldini del mio salario sono riuscito ad avere la casetta in
montagna dove riesco ad andare tre volte all’anno e là respiro l’aria pura e faccio quello che
voglio: poi per il resto dell’anno torno giù in reparto”!
E’ vero che sono iniziative che hanno una valenza diversa: io oggi nella mia struttura posso
decidere di fare un libro e di farlo uscire finito, ma è un lusso che passa attraverso una
quotidianità di lacrime e sangue, come direbbe Churchill. E’ vero che è un’esperienza, ma mi
sembrerebbe di fare un discorso di recupero di positività dentro ad uno scenario assolutamente
negativo. E’ vero che ci sono delle professionalità, delle competenze, anche delle strumentazioni
tecnologiche che se il movimento mi chiedesse di poterle usare sono qui a disposizione, lo
abbiamo già fatto diverse volte dando una mano ai compagni a fare uscire in maniera più decente
giornali, riviste, materiali politici: ma che prezzo paga il soggetto politico che sta qui dentro, il

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compagno che non ci crede nel suo ruolo di autoimprenditorialità? Paga un prezzo che è
spropositatamente più alto: meglio fare la colletta da salariati per pagare un libro piuttosto che
darlo gratis ai compagni pagando questo prezzo! Ma questo è il problema più generale del lavoro
autonomo, di quelle che sono oggi le contraddizioni del nuovo soggetto produttivo capitalistico
di cui facciamo parte.

PAOLO: Secondo me la categoria del tempo, che oggi è sicuramente trasversale rispetto alla
moltitudine, c’entra molto con la soggettività politica. Fare politica richiede del tempo: una delle
grandi differenze rispetto al passato è che allora c’era una soggettività che dal punto di vista
generazionale era composta da giovani e studenti, quindi avevano sicuramente una maggiore
disponibilità di tempo, per cui la costruzione di percorsi quotidiani era sostanzialmente più
semplice. Oggi anche il fare politica deve fare i conti con i ritmi di vita e quindi questa
sottrazione di tempo da una parte per spostarlo da un’altra diventa una cosa importante anche per
la soggettività politica. Probabilmente anche rispetto al ragionamento che Ferruccio faceva sui
vecchi compagni, c’è secondo me un’altra cosa: la paura della politica, che diventa una bestia
nera, e ce l’hanno anche coloro i quali hanno avuto un loro percorso alle spalle. Non è solo il
problema della repressione, si tratta di una questione più complessa. Certo, ci fu anche quella,
l’aspetto di deterrenza della repressione.

FERRUCCIO: La repressione ha lasciato un segno su quelli contigui al carcere, sui compagni


che ci sono stati vicini, che hanno fatto politica con noi, che ci hanno voluto bene e che per loro
fortuna non sono entrati in galera, grazie ad una combinazione di fattori soggettivi e oggettivi,
comunque grazie al fatto che noi abbiamo tenuto e che non li hanno arrestati. Tutti insieme
siamo i più consapevoli che oggi rimettersi a parlare di politica vuol dire per noi prima di tutto
essere i più esposti, perché quelli più dotati di strumenti, di capacità di capire e quindi quelli che
non possono dire di dover crescere: siamo i compagni che immediatamente avrebbero la capacità
di essere in gioco, di entrare in campo. E quindi da questo punto di vista ha ragione Paolo, i
condizionamenti psicologici della soggettività sono altri. Come ci siamo detti in questi anni, oggi
l’esposizione della soggettività politica è davvero pesante dal punto di vista di quello in cui può
incorrere, nel senso che oggi la logica preventiva è micidiale. E noi sappiamo benissimo che
qualsiasi scelta di militanza attiva ci farebbe mettere immediatamente nella lista dei primi che
dovrebbero fare i conti con la repressione. Ma, ripeto, questa qui è una componente: però,
diciamo la verità, non è quella determinante.
Secondo me la componente determinante è il fatto che oggi rimettere insieme il vecchio soggetto
politico, quello non ancora recuperato, pacificato, normalizzato, è un qualcosa che, guardandosi
tutti in faccia, immediatamente porrebbe la questione del dire: “Adesso ci mettiamo a discutere e
lo sappiamo che ci mettiamo a farlo per poi agire”. Nessuno di noi avrebbe più neanche un
minuto di disponibilità per costruire un luogo di dibattito teorico. E poi anche perché non
resisteremmo: sono convinto che non appena la discussione all’interno di un gruppo di soggetti
che si ricompongono, che hanno un’esperienza e che rimettono in gioco i loro strumenti di lettura
della realtà, comincia ad approssimare qualche ipotesi di percorso, si metterebbero a farlo, e
sarebbe un bene. E proprio perché così andrebbe i soggetti oggi sono fermi. Probabilmente
bisognerà che qualcuno prima o poi cominci ad alzare la cornetta del telefono e dire: “Ci
vediamo domani sera?”. Anche qui però bisogna fare attenzione. Non dimentichiamo che la
soggettività nella storia ed in generale ha sempre svolto un ruolo fondamentale, nella borghesia e
nel fronte antagonista proletario: ma dire che la soggettività politica ha svolto il ruolo di
architettura dei movimenti sarebbe un errore di presunzione clamoroso. Il soggetto politico è
stato capace di cogliere, leggere, guidare, ma pensare che la genesi dei movimenti e
l’affermazione di nuovi soggetti sia il prodotto di un laboratorio politico, quindi di
un’architettura soggettiva, questo è contro la storia, in qualsiasi epoca.

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PAOLO: Si può dire che le praterie per bruciare hanno sempre avuto bisogno di una scintilla.

FERRUCCIO: Dopo di che è vero che il ruolo della soggettività è ed è sempre stato
fondamentale; ma non vorrei adesso dire che la situazione di stasi e di crisi profonda che hanno i
nuovi soggetti produttivi, quindi la nuova composizione tecnica di classe, ad affermarsi come
soggetto politico è legata al fatto che sono in prepensionamento i vecchi dirigenti, perché ripeto
che sarebbe un atteggiamento di presunzione politica fuori da ogni legittimazione e da ogni
logica della storia. Ma questo nulla toglie al fatto che dall’altra parte non è vero che sia
secondario da parte di chi è capace di lanciare sassi l’impedire che le acque, di per sé fluide, si
mantengano stagnanti. Allora, per fare un esempio fisico, è vero che le acque solamente nella
glaciazione si immobilizzano, e per il resto sembrano ferme, ma all’improvviso possono
diventare turbinose. Il ruolo della soggettività, soprattutto in una fase come questa, è quello di
essere la provocazione intelligente dentro ad una situazione di grande difficoltà ricompositiva e
progettuale. Questa cosa qui noi dovremmo e potremmo farla. Probabilmente mi devo licenziare
da me stesso, devo scrivermi una lettera di licenziamento e dall’altra parte non organizzare
contro di esso neanche un’ora di sciopero ma accettarla di buon grado, fare il disoccupato e
pensare ad altro! Ma non è vero neanche questo: può essere una visione un po’ romantica, ma io
sono convinto che quando qualche compagno mi viene a trovare io conquisto del tempo, non lo
impegno, perché so che se mi vedo con loro parlo di politica, e questi per me sono momenti di
liberazione del mio tempo, non di aggiunta di ingombri al suo interno. Quindi non è vero che la
liberazione di quote di tempo sia così difficile ed impossibile, non è vero che la nuova schiavitù
sia così inaffrontabile, perché se no diventa un’altra volta un alibi. E’ senz’altro una cosa
complessa e difficile, anche perché non siamo più giovani studenti che hanno tanto tempo libero,
oppure gente con un lavoro fisso: ad esempio quando io facevo l’insegnante, tolto il mio orario
all’interno della scuola, avevo dodici ore al giorno di tempo per fare politica, oggi è esattamente
il contrario. Ma, ripeto, nonostante tutto la possibilità della determinazione soggettiva di
costruirsi e conquistarsi i propri spazi c’è ed è intatta: questo devo dirlo, perché in caso contrario
dovrei affermare che il potere ha vinto su di noi in maniera irreversibile, ed invece non è
assolutamente così, non ha vinto un bel niente e ci fa anzi soffrire ancora di più. Quindi questa
possibilità c’è: diciamo che è un desiderio soggettivo non solo mio, ma anche di altri compagni,
sperando che nel frattempo il lavoro autonomo e l’autoimprenditorialità non ci chiuda
completamente le coronarie! Gli sforzi, tutti soggettivi, che stanno facendo alcuni compagni di
discutere del passato, ma soprattutto dell’oggi, di costruire anche degli strumenti che possano
diffondere questo tipo di riflessione e confronto ricomposto, quindi di fare riviste, libri e via
dicendo, è comunque fondamentale: significa seminare fertilizzanti, provocazioni positive e
diffondere inviti a riprendere un ruolo. Mi dispiace di non essere tra quelli che fanno queste cose
e tante volte la mia contraddizione fondamentale non è quella di pensare a come posso rendere
compatibile il mio lavoro di oggi con la politica, ma proprio quella di riuscire ad imporre una
supremazia della politica su una materialità ed una quotidianità che è organizzata da altri. Si
tratta di una scelta molto pesante ed impegnativa: tanto è vero che una delle proposte che io ho
sempre sognato di poter attuare è quella di cedere la mia attività a chi la vuole in cambio di un
reddito mensile di rendita, la vecchia rendita parassitaria! Oppure, cosa ancora più sottile e
subdola, il proporre ad un elenco molto selezionato di amici e compagni più garantiti
un’autotassazione non per pagare l’affitto della sede ma il mio reddito minimo, ed in questo
modo io libererei tutto il mio tempo!
Detto tutto questo, la mia conclusione onesta è che niente può oggi impedire alla volontà
soggettiva dei vecchi compagni come me di rimettersi in gioco, se non, unica cosa legittima, la
condizione esistenziale, cioè il desiderio di dare retta alla stanchezza. E’ vero che noi, quelli
della mia generazione che hanno fatto politica come l’ho fatta io, vivevamo la giornata lavorativa
politica: oggi si ritrovano a 40-45-50 anni con una stanchezza storica pesante. Io lo so perché
l’ho provata anch’io ed in parte la provo ancora oggi, ed è l’unica vera legittimazione al distacco,

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alla separazione dal terreno della politica, è l’unica che umanamente posso accettare. Ma non ne
posso accettare nessun’altra, di fronte al fatto che ti alzi la mattina e ancora dici: “Fammi vedere
cosa dice il giornale, vediamo cosa sta succedendo”: di fronte alla soglia minima di attenzione
politica, se questa sopravvive e continua ad esserci, niente legittima una giustificazione
all’assenza. Quindi io mi metto in questa categoria. Non posso dire ancora oggi di sentire la
stanchezza che potrebbe legittimamente essere dichiarata da me, e dunque il desiderio di essere
considerato in prepensionamento dal movimento e dai compagni: non essendoci questa
condizione esistenziale nessun’altra giustificazione può motivare in maniera forte l’assenza dalla
politica, se non il fatto che non lo fai ma potresti e dovresti farlo, vivendo la contraddizione in
maniera pesante. Ma non c’è giustificazione.
Abbiamo parlato male del lavoro autonomo, dell’autoimprenditorialità, della repressione e via
dicendo, ma tutta questa sequenza di cose non basta a dire che un compagno ed un militante
politico che ancora dice di non aver scoperto lo stato democratico o di aver accettato che la
democrazia borghese sia la soluzione più avanzata che l’umanità oggi ha raggiunto, abbia un
buon motivo, se non la sua stanchezza umana, per togliersi fuori. Tanto è vero che io spero di
essere aiutato anche da quello che accade fuori dalla mia vita, quindi lontano da me e dal mio
contributo soggettivo, a rimettere in gioco la mia soggettività: io mi auguro di trovare aiuto e di
essere tirato per i capelli di nuovo dentro all’azione politica. Con questo non voglio affidare a
tensioni esterne il mio ricoinvolgimento, so che conta molto la mia determinazione, non sono il
giovane studente che arriva in una sede politica sull’onda dell’entusiasmo: so che rimettermi in
gioco vuol dire farlo con una grande consapevolezza. Comunque in questo momento devo dire
che la mia condizione è quella di chi si aspetta anche qualcosa dall’esterno, e non sto parlando di
grandi cicli di lotta, ma qualcosa in cui io possa poter dire che c’è un processo di ricomposizione
del soggetto politico: quindi non di processi di autorganizzazione e di lotta del nuovo
proletariato, ma di compagni che in qualche modo mi aiutino a fare delle scelte di riconquista di
tempo per la politica. Devo dire che la mia quotidianità è fatta di un desiderio sistematico di
rimettermi in gioco politicamente: ciò non avviene, ed è quello che poi alla fine conta. Ma dal
punto di vista del mio vissuto quotidiano continua a permanere questo desiderio, anche perché
forse nella mia vita la politica è stata la cosa che ho fatto con più passione, quella che mi ha
convinto di più e mi ha aiutato anche a stare sei anni in galera, situazione che ho affrontato con
grande consapevolezza e devo dire anche con grande piacere.
Generalizzando il ragionamento, la soggettività politica anche di mia conoscenza, che è stata in
carcere oppure non lo è stata, che è presente anche sui territori dell’hinterland milanese, è
numerosa, ed è abbastanza ricca di possibilità di contribuire alla ridiscussione di percorsi:
probabilmente una buona parte aspetta di essere risospinta sul terreno del lavoro politico e penso
che questo accadrà, io ne sono convinto, se non saremo biologicamente vittime di noi stessi.
Secondo me non potremo fare a meno di rimetterci in discussione dentro ai nuovi percorsi che si
daranno, e quindi mi prenoto!

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INTERVISTA A FERRUCCIO DENDENA - 8 FEBBRAIO 2000

- Le ricchezze e i limiti del percorso dell’Autonomia che abbiamo fin qui delineato quanto
possono essere attualizzabili ed utilizzabili in un percorso politico antagonista oggi?

Per certi versi potrebbero servire molto, per certi altri forse sono addirittura deleteri. Una
questione del genere è abbastanza complicata, perché si rischierebbe di dire che una
trasposizione di percorsi in una fase storica nuova può in qualche modo consentirci di
riattualizzarli: questo sarebbe innanzi tutto sbagliato come metodo. Per cui forse andrebbero
separate le cose, e mi riferisco alla teoria, alla teoria dell’organizzazione, al programma, al
ragionamento sulle forme di lotta: questi nodi andrebbero analizzati separatamente. E’ necessario
far questo da una parte per evitare di gettare via il bambino con l’acqua sporca, ma dall’altra per
essere anche abbastanza severi nella valutazione storica da parte di soggetti che non sono degli
storici ma che sono dei protagonisti di quel periodo, quindi hanno anche un vizio di fondo
dell’angolazione da cui guardano quell’esperienza. Questo non per dire che, come succede per il
vino, si arriva ad un certo punto nel quale la stagionatura è tale per cui il ragionamento storico
diventa obiettivo: anche la storia raccontata oggi del Medio Evo cambia a seconda delle
angolazioni con cui viene analizzata, del modo di fare ricerca degli storici, della loro cultura, di
interpretazioni diverse anche di epoche lontane. Se dovessimo guardare i manuali di storia di
oggi dei licei ci sarebbe da rabbrividire: c’è un denominatore comune di criminalizzazione del
periodo, quindi le stragi da Piazza Fontana in avanti sono insieme al terrorismo accomunati in
un’unica stagione di terrore, quasi come se fosse possibile una forzatura di appiattimento che in
qualche modo individua una matrice comune (la violenza, la rottura delle regole democratiche e
via dicendo) che vale sia per l’eversione di destra sia per la sovversione di sinistra. I manuali di
storia oggi hanno solamente l’attenuante di dover essere brevi nel capitolo sugli anni ‘70, ma è
una cosa molto relativa, perché le poche cose che dicono in quelle pagine sono abbastanza
aberranti, anche dal punto di vista di un democratico che legge il conflitto di quegli anni. Non era
mica un conflitto da ridere, non era relativo a minoranze ideologizzate e organizzate nei
confronti di uno Stato borghese: era un conflitto sociale di alte dimensioni che, a mio parere, non
si è nemmeno risolto. Se, infatti, la risoluzione di quel conflitto è da legare alle operazioni della
magistratura e della polizia si tratta di una risoluzione parziale della questione.
I nodi politici di allora mantengono un’attualità grossa: questa è forse la cosa più importante. C’è
uno scenario politico di evoluzione del modello capitalistico che è iniziato nei primi anni ‘70 e
che continua: possiamo dire che questa è la fase della vera maturità del capitalismo in occidente
(dunque non solamente in Italia) con tutte le sfaccettature di carattere continentale, nazionale e
regionale che ha avuto. La crisi che è iniziata nei primi anni ‘70 mantiene la stessa natura ancora
oggi, ha alcuni elementi fondamentali che si ripropongono con una grande forza di attualità. Se
volessimo sintetizzarli, possiamo dire che il soggetto internazionale e collettivo capitalistico con
l’inizio degli anni ‘70 ha cominciato un’opera di ridefinizione del soggetto produttivo
capitalistico: quell’esigenza che ha iniziato ad emergere in maniera forte in quegli anni mantiene
tutt’oggi, proprio per la sua complessità, un percorso ancora in divenire. In fondo sono passati
meno di trent’anni, un periodo estremamente breve per una ridefinizione su larga scala del
modello capitalistico. Quindi un tema fondamentale che in quegli anni era venuto alla luce è
quello dello smontaggio e del rimontaggio su basi completamente nuove del produttore sociale,
quindi del soggetto su cui si basa la valorizzazione del capitale, ed è un’operazione che si
mantiene ancora assolutamente dentro le stesse caratteristiche della crisi degli anni ‘70. Sono
stati fatti passi avanti notevoli, ci sono state delle tappe, queste sì storiche. Si pensi allo
smantellamento della classe operaia attraverso delle sconfitte abbastanza databili: in Italia per
esempio l’operazione sulla Fiat è stata determinante, una tappa di quel percorso. Si pensi ai
processi di decentramento produttivo, con la chiusura delle grandi concentrazioni, l’espulsione
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dall’Italia di alcuni cicli di produzione e l’instaurazione di altri, oppure la polverizzazione di
quelli esistenti. Queste operazioni hanno, in termini economici e politici, un costo estremamente
elevato, non possono essere fatte in maniera così radicale e temporalmente ravvicinata. Se, per
fare un balzo fino all’attualità, pensiamo al pretestuoso ragionamento del referendum radicale sul
costo del lavoro, capiamo come oggi il tema del lavoro come variabile dipendente dalle regole
economiche (quello che era stato detto e sancito anche in congressi importanti del sindacato,
come quello dell’Eur) è un concetto che è ancora di grandissima attualità. Si sostiene che sia la
fine delle rigidità che può servire a liberare il lavoro, che sia la fine dei vecchi meccanismi
farraginosi di ultra-tutela e di arroccamento dei lavoratori dentro alle normative contrattuali e
agli statuti vari quello che oggi crea le due società. Mi sembra di risentire ancora le teorie sulle
due società, dei garantiti e dei non garantiti: si tratta dello stesso discorso, solo che ha fatto dei
passi avanti notevoli. Oggi abbiamo istituzioni importanti come il sindacato e la sinistra
istituzionale che, sulle questioni della flessibilità e della mobilità, hanno ormai preso una
posizione netta: hanno ancora una preoccupazione, legata alla vecchia cultura, ma che mi sembra
parta più dalla propria rappresentanza che dalla tutela dei lavoratori. In ogni caso, i concetti di
flessibilità, di mobilità, di decentramento, di fine delle rigidità e via dicendo, costituiscono una
battaglia in corso tutt’oggi, che non vede in campo forze impegnate adeguatamente. Questo nodo
della ridefinizione del soggetto produttivo nuovo non si limita semplicemente ad una grande
battaglia contro la rigidità del lavoro da parte del capitale: è un problema di nuova fisionomia, di
una nuova antropologia del soggetto produttivo, in cui la valorizzazione del cervello,
dell’intelligenza, della capacità di autonomia operativa sta diventando una questione
fondamentale per il capitale. Si tratta di una ridefinizione davvero radicale del nuovo operaio
della nuova fabbrica capitalistica: è quindi un problema che richiederà ancora del tempo e che
sarà anche uno dei terreni fondamentali di scontro di classe in epoca moderna. Come dicevo, non
è solo un problema di rigidità ma di fisionomia generale di questo soggetto, di modellazione di
un nuovo operaio per il capitale. Questo è un tema che ha caratterizzato gli anni ‘70. Attorno alla
questione dell’operaio sociale noi avevamo alcuni elementi fondamentali di programma e anche
di organizzazione: la nostra teoria dell’organizzazione era legata ad una lettura che facevamo
della composizione di classe determinata che, già nella prima metà degli anni ‘70, vedeva un
declino della centralità dell’operaio-massa. Si trattava di uno scontro notevole con altre
formazioni politiche presenti sul fronte antagonista, non solo quelle più ortodosse, ma anche
all’interno della stessa Autonomia. In ogni caso per noi l’operaio-massa come soggetto politico
centrale era ormai un problema che il capitale aveva affrontato, già tra la fine degli anni ‘60 e
l’inizio e degli anni ‘70, in maniera molto chiara e in una logica di liquidazione. Dicevamo già
allora che attestarsi ancora su una posizione di centralità dell’operaio-massa era una logica
resistenziale. Questo non ha voluto dire da parte nostra una capacità di giocare l’alternativa di
una teoria dell’organizzazione veramente adeguata alla nuova composizione di classe, non ne
siamo stati capaci. Ripeto che l’unica attenuante che do sono i tempi brevissimi della nostra
esperienza. Fine delle attenuanti, poi ci sono gli errori: nostri, di altri, la capacità dello Stato di
fermare un processo di movimento ampio e via dicendo. Ma in dieci anni, tra la prima metà degli
anni ‘70 e i primi anni ‘80, non si poteva certo pensare di poter conseguire dei risultati
significativi dal punto di vista della sedimentazione e del radicamento di un nuovo progetto.
Quindi quel tema era ed è un tema di grande attualità. L’insegnamento di quegli anni è stato ed è
che se non si è capaci di compiere quotidianamente una rottura di queste modificazioni nella
composizione tecnica e nella composizione politica delle classi in campo (non solamente quella a
cui noi facciamo riferimento, ma anche quella capitalistica), perdiamo di vista la fluidità e la
dinamicità dei cambiamenti. Ciò fa diventare il cambiamento uno scenario ed un orizzonte
completamente nuovo per alcuni, dove addirittura termina il conflitto di classe e finisce la sua
necessità storica, mentre per altri invece continua a riproporsi nello stesso modo, addirittura con
una centralità operaia tradizionale che, pur senza voler avere certezze, mi sembra davvero senza
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respiro e prospettiva. Tutto questo dal punto di vista di un grande elemento di continuità tra il
passato ed il presente.
L’altra questione è la teoria dell’organizzazione. Pur essendo un pò liquidatorio, mi sembra che
quelle sperimentate nel passato non servano più tanto così come erano state elaborate allora:
serve invece molto il metodo. O la teoria dell’organizzazione è la capacità del soggetto politico
di leggere le trasformazioni nella composizione di classe e di adeguare le proposte organizzative
a queste modificazioni, oppure è vetero, riproposizione di vecchi schemi che altri, in altre epoche
e con un’altra composizione della classe, hanno magari sperimentato con successo. Questo della
teoria dell’organizzazione secondo me è un altro dei temi fondamentali: cosa vuol dire oggi, a
fronte di una lettura più attenta e più adeguata della composizione di classe, non dico pensare ad
una teoria compiuta dell’organizzazione, tanto meno ad una teoria della rivoluzione (il che è
ancora più complicato); ma che cosa voglia dire pensare ad alcuni passaggi di teoria
dell’organizzazione adeguata. Secondo me questo è un altro insegnamento fondamentale. Se
oggi noi ci poniamo il problema della ricomposizione, del contatto con i nuovi soggetti, della
capacità di aggregazione e di costruire e sperimentare passaggi di conflitto significativi, e non
siamo in grado di fare i conti con i bisogni e il modo con cui si ascolta oggi la proposta politica,
non possiamo uscire fuori dal nostro isolamento culturale. Se c’è un’esperienza di quegli anni
che può dare un grande insegnamento è stata la capacità, in parte anche del nostro ambito, di non
predeterminare un percorso teorico in maniera compiuta, di provare a costruirlo quasi come se il
lavoro politico fosse anche un laboratorio di sperimentazione; certamente questo era affiancato,
almeno con i limiti soggettivi che c’erano allora, anche da un relativo rigore nella nostra
discussione teorica. Molte cose nascevano anche dall’esperienza pratica e concreta, molte
intuizioni venivano fuori dal nostro fare politica. Secondo me gli anni in cui noi parlavamo,
anche un po’ forzatamente, dello sciogliersi nel movimento ci hanno insegnato a capire molto di
questa nuova composizione che già c’era. Si tratta della composizione con cui facciamo i conti
oggi: allora cominciava ad affacciarsi sul mercato del lavoro, le nuove generazioni iniziavano ad
entrarvi con un livello di scolarizzazione e ambizioni più alte. Dall’altra parte c’era una
riorganizzazione del mercato del lavoro che aspettava queste generazioni in maniera diversa: non
con gli uffici di collocamento, con le pure e semplici clientele per distribuire i posti di lavoro, ma
su un terreno di maggiore incertezza rispetto alle garanzie tradizionali e con maggiori promesse
dal punto di vista della possibilità di affermazione individuale. La grande illusione era nata
allora, anche come propaganda, come cultura di massa.
Se poi vogliamo invece vedere gli aspetti più negativi dell’esperienza degli anni ‘70, direi che le
condizioni di quel movimento, tra l’altro lette in maniera un po’ troppo ideologica, che facevano
pensare alla possibilità di tempi accelerati di uno scontro radicale con il potere, non solo non ci
sono più, ossia c’è stata una sconfitta anche politica grossa, ma erano di radicale diversità
rispetto a quelle che abbiamo oggi. Si trattava di un movimento di massa trasversale, molto
eterogeneo, con una composizione che andava dagli operai della grande fabbrica fino alla
marginalità di quartiere. Non solo non c’era una centralità di un soggetto, ma addirittura non si
comprendeva esattamente la valenza dei nuovi soggetti, che tante volte venivano considerati
come marginalità pura e semplice, e non si capiva ancora bene che, nonostante il sopravvivere
del suo fascino, la classe operaia della grande fabbrica non era più in grado di tirare lo scontro.
Da questo punto di vista c’era dunque un po’ di confusione, ma c’era questo elemento di
trasversalità della presenza di soggetti all’interno del movimento. Oggi, secondo me, sia la
composizione di classe sia quella del movimento, di ciò che si muove, è cambiata perché
davvero c’è stata una liquidazione molto evidente dei vecchi soggetti, del loro ruolo politico.
Dall’altra parte, a mio parere, si stanno delineando in maniera più chiara le fisionomie dei nuovi
soggetti: allora erano in nuce, in formazione, addirittura non avevano neanche dei cicli di lotta
propri che li caratterizzassero. Oggi invece ci sono state esperienze, in Europa abbastanza
limitate, con la novità di essere gestite da soggetti completamente nuovi rispetto a chi tirava le
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lotte negli anni passati. Questa cosa ci fa pensare che da una parte il capitale non si è fermato, ha
continuato a lavorare assiduamente nel formare i soggetti di produzione che gli servivano e gli
servono, e che dall’altra hanno cominciato ad emergere anche alcune risposte dei nuovi soggetti,
anche se deboli, parziali, frammentarie, sicuramente non organizzate adeguatamente. Rispetto al
passato c’è dunque stato uno sviluppo, dovuto al ruolo del capitale e ai processi di formazione (la
scuola, la cultura sociale eccetera), di nuovi soggetti che mi sembra comincino ad avere una
fisionomia un po’ più chiara rispetto a quella che avevano negli anni passati. Negli anni ‘70 noi,
che eravamo quelli che teorizzavano l’operaio sociale, facevamo fatica a spiegare ai nostri
compagni e militanti che tale soggetto non è l’operaio della marginalità, cioè della periferia del
ciclo produttivo, quello dei cicli deboli e poveri, ma è invece l’operaio più avanzato. Facevamo
fatica a spiegarlo perché la visibilità di questi soggetti non era ancora grossa, il tecnico era
sostanzialmente considerato un servo dei padroni; tale consapevolezza non c’era nemmeno in
questi stessi soggetti, che ancora pensavano di essere l’aristocrazia. Oggi molte illusioni sono
finite, molte speranze di affermazione di carriera si sono ridimensionate, ma questo non vuol dire
che il fenomeno si sia arrestato, che ci sia stata una consapevolezza di massa e una presa di
coscienza.

- Sarebbe necessario approfondire e riflettere, nel mutatissimo contesto odierno, sulle


difficoltà nel ricomporre e far interagire il livello della radicalità progettuale e
d’avanguardia con quello della massificazione del conflitto.

Ci sono state tante esperienze e molto diversificate tra di loro. C’è comunque stata una cosa che è
di tutta evidenza: l’autonomia del politico ad un certo punto è riemersa in maniera molto forte;
nella forma più alta con le formazioni combattenti, in forme più basse anche nel ceto politico
dirigente dell’Autonomia e del movimento in generale. Ancora una volta è riemerso questo
brutto vizio della possibilità di una separazione tra il ruolo del politico e il movimento: ad un
certo punto sembrava che la cosa più preoccupante fosse capire come parare i colpi delle
organizzazioni combattenti, mantenere un’identità e nello stesso tempo giocare la carta di una
guida alternativa del movimento, quasi come se questo ogni giorno esprimesse il bisogno di
essere guidato da qualcun altro (cosa non vera, se al suo interno non si è legittimati). C’era una
sorta di tenaglia tra questa competizione con le formazioni combattenti e la necessità invece di
stare dentro al movimento, di fare i conti realmente con i processi di radicamento e di
organizzazione di massa. Questa della fretta e dell’accelerazione è stata una cosa per cui non si
può parlare solamente di superficialità: è stata il risultato di una serie di circostanze.
L’innalzamento dello scontro da parte delle organizzazioni combattenti e di una parte dello Stato
sicuramente è stato uno degli elementi che ha determinato tale accelerazione; ma dall’altra parte
dobbiamo dire che anche noi siamo stati assolutamente incapaci di capire che aumentare di una
marcia la velocità dell’azione anche del soggetto d’avanguardia poteva comportare un rischio
enorme di girarsi e non trovare più nessuno dietro. Con questo non voglio fare un ragionamento
gradualistico; se però si ha una teoria dello scontro che prevede comunque sul suo scenario la
presenza di consistenti settori di classe, non si può non avere al loro interno un livello di
legittimazione assolutamente forte. Anche da parte nostra c’è stato un errore di
sopravvalutazione della speranza e della possibilità di vedere il movimento schierarsi e innalzare
il livello dello scontro semplicemente perché la nostra rappresentazione di esso poteva avere una
funzione propedeutica e didattica adeguata: questo non bastava, bisognava essere presenti e
dedicare al percorso di organizzazione molto più tempo e molti più anni di quelli che sono stati
dedicati. Oggi questo discorso vale ancora di più, c’è l’esperienza passata che ha raffinato anche
gli strumenti di prevenzione dello Stato, che sono veramente a tutto campo. La repressione non è
più sui cicli di lotta, la prevenzione è sulla capacità di anticipazione rispetto ad essi. Quindi si
tratta di una prevenzione molto sofisticata, che ha anche un volto parecchio violento, ma non si
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tratta di una violenza dispiegata, visibile, come era quella delle migliaia di arresti: è una
repressione molto più mirata, una capacità cioè di anticipare l’inizio di cicli di lotta, di bloccarli
sul nascere; per fare questo non basta l’apparato repressivo tradizionale (che pure c’è ed è molto
più attento e preparato di prima), ma è necessario un concorso molto più ampio di ruoli (del
sindacato, dei partiti e via dicendo).
Da questo punto di vista io sono abbastanza ottimista perché credo che la crisi di legittimità della
vecchia rappresentanza di classe si sia aggravata. Non è vero che noi abbiamo perso una battaglia
perché l’ha vinta il sindacato che è riuscito a diventare il punto di riferimento dei nuovi soggetti:
sta perdendo anche lui. Non credo che sia irrilevante il dato statistico sul fatto che è un sindacato
di pensionati e di settori di garantiti. E’ un dato rilevante: la rappresentanza politica dei nuovi
soggetti è un problema con cui mi sembra che abbia saputo fare i conti in maniera più positiva
Forza Italia che non la sinistra in generale. Questo la dice lunga sulla crisi dei meccanismi di
rappresentanza: non è infatti nemmeno vero che la destra abbia una legittimazione forte, che ci
sia un’identificazione da parte dei nuovi soggetti nei programmi della destra. E’ vero però che
loro stanno lavorando su questi soggetti, alla loro maniera, cercando di legittimare non solamente
questa forza politica con la rappresentanza, ma di legittimare un modello; il lavoro autonomo,
l’auto-imprenditorialità, il fai da te, la competizione individuale, il meno stato più mercato: tutti
questi messaggi culturali in qualche modo fanno presa sui nuovi soggetti. Non dobbiamo tuttavia
confondere questo con l’acquisizione di legittimità della rappresentanza da parte della destra. E’
però vero che questa battaglia non l’ha vinta proprio nessuno, c’è un vuoto di rappresentanza; e
non so se sia possibile affrontare tale questione in maniera tradizionale dicendo:
“Riproponiamoci noi alla vecchia maniera come rappresentanza adeguata alla nuova
composizione di classe”. Probabilmente questo è uno dei problemi grossi con cui i compagni
devono fare i conti, cioè se lo scarto tra il ruolo del soggetto politico e il ruolo del soggetto
sociale vada a ridursi sempre di più e ad innalzare il significato politico dell’azione sociale
(apparentemente solo sociale) senza abbassare la valenza politica del soggetto d’avanguardia.
Questa è forse la questione più grossa che c’è, perché non possiamo credere che l’incapacità di
legittimarsi come rappresentanza da parte del sindacato sia dovuta solo a stupidità (ha fatto e fa
la sua parte anche questa, così come l’organizzazione di un apparato che ha sempre funzionato in
un certo modo); ma secondo me la verità più forte sta nel fatto che è difficile anche per loro, cioè
che questo è un problema grosso per tutti. Ed il gestire questi bisogni è ancora affidato più alla
rappresentanza partitica (nelle elezioni, dal livello locale a quello nazionale) che
all’organizzazione politico-sociale nel territorio. Non è infatti vero che Forza Italia organizza i
lavoratori autonomi, l’auto-imprenditorialità, non è vero che fa sentire meno soli i giovani che si
lanciano sul mercato del lavoro con questo tipo di ambizione; tenta semmai di diffondere la
cultura che la competizione, anche individuale, se fatta entro regole riconosciute positive da tutti,
funziona, il migliore riesce a vincere e anche chi non lo è in qualche modo riesce a farcela, e chi
è proprio debole sarà assistito: questo è lo scenario. La questione della rappresentanza è
estremamente grossa: mi pare che la risposta che oggi viene data dal sistema nel suo complesso,
in Italia e in generale in occidente, sia quella di sostituire la crisi di rappresentanza con la
sofisticazione di strumenti di controllo. Oggi, dunque, la mancanza di legittimazione della
rappresentanza nei confronti dei nuovi soggetti è sostituita da un’intelligenza mille volte
superiore nella strumentazione del controllo sociale: questo non è solamente il far vedere che c’è
la polizia in ogni angolo di una città, ma che c’è tutto quello che può servire affinché la società
sia senza conflitto. E’ quindi anche un’operazione forte di mistificazione e di comunicazione
ideologica che serve a sopperire a questa grossa carenza di vera rappresentanza. Tutto ciò è
veramente dinamite sotto il prato perché, nel momento in cui i processi di consapevolezza della
propria condizione materiale da parte di questi soggetti faranno i conti con l’imbroglio culturale
e ideologico di questa nuova “Terra Promessa” che si può aprire, penso che l’intensità del
conflitto avrà livelli altissimi; quello di cui parlavamo prima, ossia l’avvicinamento della valenza
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politica della questione sociale e il rapporto di forza, diventa qualcosa che va a costituire una
miscela esplosiva. Non è più, cioè, un tipo di rivendicazione da politica dei redditi, dalla sua
ridistribuzione, da spartizione di una torta della ricchezza, per cui io ne voglio un po’ di più e tu
me ne dai un po’ di meno: è un problema che va a toccare fondamentalmente le ragioni e le
legittimità del meccanismo, quindi non di come spartirla ma del modo di fare la torta, quale essa
è, e che forse va buttata via. C’è dunque dentro alle contraddizioni sociali, in maniera molto
forte, anche la possibilità di far emergere quelle più politiche, più di fondo, quelle più tipiche di
una società finalmente storicamente determinata di capitalismo maturo, avanzato.
Tali questioni sono secondo me quelle che mantengono un filo di continuità fortissimo con il
passato e che non hanno trovato una risposta significativa nei cicli di lotta degli anni ‘70 e ‘80,
questo bisogna dirlo in maniera chiara: non è vero che la teoria del nuovo soggetto emergente
dentro la crisi dell’operaio-massa abbia avuto negli anni ‘70 e ‘80 una prefigurazione
significativa nel campo del conflitto. Quel movimento in certi momenti era molto grosso, ma non
era il movimento della nuova composizione di classe: era quello della vecchia composizione e di
una nuova inconsapevole, anche in larghe fasce delle sue avanguardie, della novità costituente
che la caratterizzava. Era quindi un movimento molto magmatico, ricco di potenzialità e di
opportunità, ma io non me la sentirei di dire che, anche se sicuramente non maturo, fosse
caratterizzato dalla nuova composizione di classe in maniera così evidente; quando dico
caratterizzato non mi riferisco solo alla composizione del movimento, intendo dire anche per il
suo programma, per il suo progetto, per le esperienze di lotta fatte. Possiamo allora dire che le
lotte dentro alle fabbriche, le lotte nei quartieri per i centri sociali, le lotte nel territorio sui
servizi, avevano insieme una vecchia valenza da società fordista e una nuova valenza di
ricomposizione e di affermazione di un nuovo terreno di scontro. Le lotte del decennio degli anni
‘70 non sono però, secondo me, riuscite a rappresentare effettivamente un percorso nuovo, ad
essere oggi considerabili come le lotte di una composizione di classe proletaria e di
un’avanguardia politica adeguate alla maturità della contraddizione. Questo non per distruggere
completamente il significato positivo che ha avuto il movimento, ma secondo me per metterlo
veramente nella dimensione reale in cui era: si trattava di un laboratorio del conflitto appena
aperto, in cui la sperimentazione sul campo era stata avviata da poco, quindi con dentro tutti gli
elementi capaci di aprire strade nuove che però sono tutte state stroncate alla nascita. Ciò che è
rimasto sono i problemi, le contraddizioni, i soggetti che anche allora in qualche modo avevano
cominciato a muoversi, una parte dei compagni che erano dentro a questo nuovo laboratorio del
conflitto e che oggi lo vogliono continuare insieme ad altri compagni. Ma se continuità c’è e
deve esserci, è questo tipo di continuità: tra un’avanguardia che stava facendo i conti con una
composizione del capitale e della classe nuovi e che oggi fa invece i conti con un periodo non
breve di buio assoluto nella sperimentazione reale del conflitto. Secondo me, sempre con un peso
proporzionalmente riadeguato, continuano a sopravvivere vecchie logiche della centralità
operaia, con sempre meno forza rispetto agli anni ‘70, continuano a sopravvivere ancora culture
della marginalità e della precarietà come ricerca del nuovo soggetto: continua quindi ad essere
capito ancora poco che il nuovo proletariato, ed una sua parte importante, è nelle grosse
multinazionali, nei grandi centri di ricerca, nei luoghi del comando della produzione. Quindi
permangono grossi limiti di ragionamento teorico, che c’erano anche nel passato, e continuano a
restare molto deboli e fragili i momenti di sperimentazione. Diciamola una volta per tutte: la fase
della grande repressione i veri danni che ha fatto, al di là di quelli alle “vittime” (vittime
colpevoli), che ci sono stati ma non così tragici, sono stati quelli che vediamo oggi; ha cioè
innanzi tutto creato l’interruzione di un filo che era cominciato all’inizio degli anni ‘60 con le
prime lotte del vecchio soggetto a Genova, Milano, Torino, operando quindi una cesura davvero
forte. Ma oltre a questa cesura che c’è stata tra i vecchi soggetti, tra le vecchie avanguardie e i
nuovi soggetti sociali, c’è stata anche la sconfitta di un percorso organizzativo. Non è stata
solamente la sconfitta del soggetto politico, ma del movimento. E’ stata una pacificazione, e tutte
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le pacificazioni sono molto lugubri, non avvengono mai con il consenso, sono sempre unilaterali:
è stata una pacificazione senza riconciliazione sul fronte sociale, sul fronte politico poi si sono
pentiti tutti. Non c’è stata riconciliazione tra la società ed il sistema di potere: la si cerca di
conquistare oggi duramente da parte del capitale e dello Stato con operazioni culturali sofisticate,
con operazioni molto raffinate di disciplinamento della società, ma è ancora di là da venire, e
secondo me è, ancora una volta, molto più difficile che nel passato. Non basta e non basterà più
dire: “Dividiamo diversamente la torta”; se non si riesce a far sentire tutti i cuochi, e quindi i
protagonisti della costruzione della torta, qualcosa salta. Viene detto alla società: “Misurati col
nuovo, noi abbatteremo tutti gli ostacoli che servono ad impedirgli di emergere”. Io sono
convinto che i radicali siano assolutamente determinati nel ritenere che stiano facendo l’interesse
dei poveri, dei disoccupati, nel considerare i garantiti un’aristocrazia: sono certo che loro la
pensino così, che il liberismo sfrenato sia una ricetta che può funzionare anche per il bene dei più
deboli. Mi sembra però che il ripasso dei testi storici sia stato abbandonato da tutti; come se il
welfare, che non è certamente nato in uno Stato socialista, fosse stato un’invenzione voluta da un
sistema che aveva capito che l’equità e la solidarietà erano valori assoluti: non è per niente vero,
è come se, andando più indietro, si dicesse che la schiavitù è stata abolita perché si voleva la
libertà degli schiavi. Sono tutte stupidaggini, ma mi sembra che questi elementi di riferimento
storico siano stati persi un po’ da tutti. Per cui c’è la convinzione che oggi abbiamo di fronte una
sequenza fastidiosissima di muri di rigidità da abbattere e che questi sono ciò che frenano
un’inondazione del Nilo, quindi fertile, che produce nuova ricchezza, nuove opportunità e via
dicendo. Questa grande mistificazione è oggi il tema principale dell’attività di tutti gli organi di
comunicazione, pubblici e privati, di sinistra e di destra. Io spero che non funzioni come
operazione, perché è vero che alla comunicazione e all’operazione culturale viene affidato un
grave compito, ma la materialità della contraddizione è qualcosa da cui nessuno può sfuggire, né
noi né loro: quindi se questo scenario diventerà nella materialità una mistificazione io non so
cosa succederà. Non voglio fare il profeta di eventi tragici; qualcuno potrebbe rispondere che
l’ottimismo capitalistico farà sì che di volta in volta si troveranno le soluzioni a questi problemi:
io non ci credo che ci siano tante possibilità di soluzioni, se non una raffinazione sempre più alta
dei processi di disciplinamento sociale. Questa è una cosa che fa rabbrividire detta così, ma io
vedo questo scenario come l’unico che davvero può in qualche modo far funzionare le cose:
quindi la mistificazione come essenza dei rapporti di potere, il perdurare e l’alimentare la
mistificazione come elemento ontologico, indispensabile, fondante il nuovo sistema di potere.
Senza di questo lo svelamento di una materialità radicalmente diversa da quella presentata
potrebbe determinare una consapevolezza a livello di massa di qual è la natura della
contraddizione: è questo secondo me il compito fondamentale che hanno i compagni oggi.
Occorre quindi una capacità altissima di demistificazione di massa di quest’operazione. Se non
sappiamo fare i conti con queste cose io credo che non solamente non sapremo riprendere quello
che è stato interrotto (innanzi tutto per colpa nostra, poi per quello che è successo), che di attuale
ci viene dal passato e che facciamo finta che non ci interessi, ma il riprendere sull’oggi cicli di
lotta di classe diventerebbe assolutamente illusorio, demagogia pura e semplice, oppure auto-
rappresentazione. Se larghi strati di massa non sono capaci di fare i conti insieme a noi (non dico
per merito nostro, ma assolutamente insieme ai compagni) con questa grande mistificazione,
ultra-articolata, che viaggia insieme alla raffinazione dei sistemi disciplinari, andremo incontro
ad un periodo di normalizzazione abbastanza lungo e ad uno scenario di sistematica e quotidiana
anticipazione dei cicli di conflitto, e della loro immediata repressione. Sarà una repressione che
non chiamerei nemmeno più così, perché non apparirà tale: non sembrerà la repressione del
legittimo diritto al conflitto, ma semplicemente la normalizzazione di un’anomalia, di qualcosa
che sfugge alle regole delle compatibilità perché non è in grado di capire quanto oggi lo scenario
sia effettivamente democratico, valorizzante eccetera eccetera; quindi andrà riportata alla
normalità quasi in silenzio, non credo che sempre più avranno bisogno di spettacolarizzare questi
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interventi, saranno il più possibile fatti in punta di piedi. Saranno sistematici micro-interventi (o
anche macro-interventi se qualche volta sarà indispensabile) di altissima violenza, ma quasi
inavvertibili; sarà dispiegata invece un’operazione di grande, capillare, penetrante legittimazione
della mistificazione di un modello nuovo come unica speranza, quindi tanto debole nella
sostanza quanto forte negli strumenti che devono tenerlo in piedi come garanzia fondamentale di
stabilità del sistema. Sotto a questa cosa che sembra così impalpabile, che viaggia sull’etere e sui
mezzi di comunicazione ma che è peggio di una lastra di granito sul conflitto, sotto a questa
mistificazione pesante c’è la materialità di un nuovo proletariato, di un nuovo soggetto
produttivo del capitale, che userà la sua intelligenza e le sue risorse di sapere non al proprio
servizio. Ma non sarà più tanto distante dalla vecchia corporazione della scienza e della tecnica
governata dal capitale: sarà parte integrante e articolazione, periferica o centrale, di un sistema
scientifico e tecnico senza sapere di essere un ganglio, un neurone, un elemento che fa vivere un
organismo nemico con ruoli vitali. Non è più un organismo di fibra muscolare da dedicare al
lavoro ma di fibra neuronale, di ramificazione di un sistema nervoso capitalistico, di cui anche il
proletariato sarà parte integrante e assolutamente fondamentale. Questa cosa è detta in maniera
grossolana, ma non mi sembra tanto distante dallo scenario che poi in maniera articolata dovrà
essere ricostruito o costruito dai compagni nel loro lavoro di ricerca. Mi pare davvero
rappresentare bene lo scenario a cui andremo incontro, anche nel bene, cioè nel dire che le
risorse e la ricchezza del soggetto sociale produttivo sono individuali e, insieme all’accessibilità
delle risorse tecnologiche, nettamente più avanzate che nel passato, quindi con potenzialità
enormemente maggiori. Deve essere però chiaro che questo non basta e faremmo un grave errore
politico a sostenerlo per dire che si sono superati i problemi del conflitto, del lavoro, della
soggettività: se così facessimo affideremmo ancora una volta ad un percorso oggettivo, e non
soggettivo, il compito dell’acquisizione della coscienza di classe e, di conseguenza, dell’azione
di rottura. Questa cosa qui è oggi al nostro interno il pericolo maggiore, il ritenere che proprio la
contiguità con le stanze del potere, o addirittura la sua internità, da parte di soggetti che con esso
nulla hanno a che fare o che non sono ancora suoi servi, di per sé basti perché avvenga la
contaminazione e sia realizzabile la possibilità di dire la nostra in maniera determinante. Questo
è il vero pericolo che noi abbiamo all’interno, cadere in tale errore che è di segno ideologico ma
anche politico; sarebbe il pensare che il potere farà i conti esclusivamente con la nostra
intelligenza e non anche con la nostra forza.

- Negli ultimi anni il dibattito sul cosiddetto postfordismo, interpretato come svolta epocale, se
da una parte ha visto chi si è arroccato nella difesa di figure e posizioni sconfitte, prima che
dal capitale, dalle stesse lotte e capacità di rifiuto operaie, dall’altra ha assistito a chi ha
fatto coincidere l’innovazione, che è propriamente capitalistica, con l’avanzare di forme di
liberazione. Nell’ambivalenza di questo nuovo scenario, non pensi che o si controusa e
sviluppa soggettivamente la faccia che va verso la liberazione, oppure a prevalere sarà il
dominio capitalistico?

Sì, sono d’accordo. Io non sono preoccupato dalla sfida che il nuovo soggetto sociale produttivo
può lanciare ai compagni, al soggetto politico, all’avanguardia: un ipotetico scenario in cui il
soggetto sociale riesce ad auto-rappresentare se stesso e strumenti e percorsi organizzativi nello
scontro con il potere, o nel suo incontro, costituisce una sfida che non mi coinvolge
personalmente nel timore della perdita di un ruolo, perché noi non siamo burocrati del sindacato
o di un partito che hanno paura di perdere la sedia. Noi siamo dei compagni che fino ad oggi
ritengono ancora determinante il ruolo dell’avanguardia: dentro a quale forma di organizzazione
o partito, se vogliamo esagerare, adeguata all’epoca moderna, ancora non lo sappiamo; ma
crediamo ancora a questa cosa. Non sono però preoccupato dal dovermi svegliare una mattina e
scoprire che la capacità di questi nuovi soggetti di far da sé nella gestione dei loro progetti, delle
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loro alleanze, riesca a liquidare la necessità del soggetto politico. Sarebbe come dire che noi
siamo dispiaciuti del fatto che si possa pensare ad una società in cui non ci si spara addosso: ma
dire questo e sostenere che per arrivare a quello forse non è così facile escludere che sia
necessario spararsi addosso ce ne passa; lo vorremmo, non saremmo comunisti se non fosse così,
ma la storia non ci ha insegnato questo. Ciò non vuol dire neanche che noi abbiamo paura di
ritrovarci il sociale che veste gli abiti del politico e fa a meno del soggetto politico: temo però per
i compagni, soprattutto per i più giovani, che dovranno faticare ancora molto in questo ruolo!
Questa è la mia sensazione, ma ripeto che se fosse possibile da oggi, anche solamente in campo
teorico, nella sinistra rivoluzionaria, poter pensare ad un superamento di questo ruolo separato
dell’avanguardia, al di là di che natura esso debba nel presente avere, non saremmo certo
angustiati. Io ero angustiato anche nei venti e passa anni di lavoro politico dal fatto che fosse
necessario ragionare con una teoria dell’organizzazione che non era certo di liberazione, anti-
gerarchica: una macchina da guerra funziona solamente se è organizzata gerarchicamente, non
altrimenti. Nonostante sia sempre stato profondamente convinto che fosse pesante dover
riconoscere l’inevitabilità del ruolo del soggetto politico, dell’avanguardia, continuo oggi a
ritenere che la speranza di poter dire che questa necessità è superata sia lontanissima. Questo per
tutti, salvo per chi mistificando, e ciò vuol dire agendo da soggetto politico e negandone la
necessità, oggi liquida il problema dell’antagonismo dicendo che è ormai giunto il tempo di
giocare all’interno delle contraddizioni del capitale e di vincere sul suo terreno, quindi dentro
alle sue debolezze: questa è la mistificazione di chi comunque agisce da soggetto politico. E’ una
cosa abbastanza complicata, se non sappiamo farci i conti andiamo verso o al diventare figure
grottesche e pittoresche, da circo della politica, oppure ad un rapporto autistico con le masse, di
incapacità di comunicare: e questo sarebbe davvero il massimo per chi continua a credere nel
ruolo del soggetto politico. Però, detto questo, insisto nel sostenere che la distanza tra il ruolo del
soggetto di massa del proletariato e il ruolo delle sue avanguardie è stata in potenza
notevolmente ridotta dalla maturità dello sviluppo capitalistico; nel dispiegamento reale questa
distanza è ancora abissale. Pur essendo spaventosamente ravvicinata rispetto solo a vent’anni fa,
questa distanza è ancora abissale anche per l’apparenza che ha il ruolo dell’avanguardia, che è
ancora insostituibile. Se questo nuovo ruolo non sarà in qualche modo definito e giocato
andremo incontro a delle bruttissime figure: ciò vale per noi e, se vogliamo, per tutti quelli che
anche sul terreno istituzionale o neo-istituzionale si pongono oggi l’ambizione di giocare il ruolo
della rappresentanza, su cui nessuno sta vincendo, neanche battaglie singole ma significative.

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INTERVISTA A FERRUCCIO DENDENA - 13 MARZO 2000

- Approfondiamo l’analisi, che già avevamo iniziato, delle trasformazioni e dei nuovi modelli di
produzione e di accumulazione capitalistica, quindi delle nuove forme di dominio e
asservimento del lavoro, le quali tra l’altro ti vedono direttamente coinvolto in quanto
lavoratore cosiddetto autonomo. Esse contengono un ulteriore grado di mistificazione, anche
sulla stessa categoria di autonomia. Un altro nodo riguarda la forma Stato, c’è chi parla di
una sua crisi, chi addirittura di una sua fine. Tu, complessivamente, come vedi e analizzi,
anche tendenzialmente, l’evolversi di tali forme e processi?

Si possono inizialmente dire delle cose a grandi linee, poi magari le si possono sviluppare anche
con una discussione e con un confronto più ampi insieme agli altri compagni. C’è un problema di
approfondimento. Non è mai stato vero, e non lo è soprattutto in questa fase matura del capitalismo,
che i processi di ridefinizione delle funzioni e della natura dei soggetti collettivi, come anche quello
capitalistico, siano sempre lineari, pianificati, dovuti a una sorta di intelligenza centrale: ci sono
sempre stati e ci sono pure oggi degli antagonismi anche forti all’interno dello schieramento
capitalistico e della sua rappresentanza politica. Non è neanche vero che quello del modello
capitalistico sia uno sviluppo che a un certo punto è sfuggito da una subordinazione forte alle scelte
soggettive. Sempre c’è di mezzo il conflitto, la variabile soggettiva; che lo si voglia o no
ammettere, comunque i protagonisti sono i soggetti, nella loro dimensione multiforme, dalla grande
multinazionale fino al singolo Stato fino a quella che adesso si chiama new economy, quindi ai
nuovi soggetti imprenditoriali emergenti, passando per la grande finanza internazionale e quindi per
chi controlla il capitale finanziario. Ma sempre, comunque, parliamo di soggetti, e anche di soggetti
antagonisti non necessariamente sul piano politico, ma degli interessi materiali. Da questo punto di
vista io sono molto d’accordo con Foucault: c’è un conflitto che, dal micro al macro, attraversa
interamente la società. Io non sono però d’accordo sul fatto che questo voglia poi dire, come
sostengono alcuni, che si è persa di vista la formazione di grandi schieramenti soggettivi
contrapposti, quindi di classi sociali ben definite. Sono invece d’accordo nel pensare che questa
confusione dipenda da una lettura ancora abbastanza inadeguata delle motivazioni. E’ vero anche,
però, che un soggetto è tale nel momento in cui riesce, dentro al conflitto con gli altri, a fare
emergere una sua identità. Che cos’è la classe operaia tradizionale dentro la fabbrica se non un
oggetto, forza-lavoro, una forza produttiva, uno strumento di produzione e di valorizzazione del
capitale? E’ il processo di oggettivazione che è avvenuto nella formazione del proletariato
industriale. Diventa soggetto nel momento in cui acquisisce consapevolezza della sua condizione
oggettiva, dice che non gli sta bene e afferma una sua identità, una sua rivendicazione, un suo
percorso di indipendenza. Quindi, essere soggetto è un problema di identità, di capacità di fare i
conti con se stessi e con gli altri soggetti che sono in campo. Non so se si possa parlare in generale
di intensità dell’essere soggetto, a seconda del livello di conflitto o comunque di affermazione della
propria identità e dei propri interessi che si riesce a esprimere in una fase storica. Certo è che quello
del ridimensionamento della categoria della soggettività è un rischio permanente: il tentativo
furibondo del capitale è sempre stato quello di avere a che fare con processi di oggettivazione del
proletariato e quindi di regolamentazione dall’alto, gerarchica e di comando dei ruoli delle forze
produttive, riducendole a braccia. La cosa di cui già abbiamo parlato altre volte, cioè il fatto che il
modello capitalistico abbia sempre più bisogno di avere tra le sue mani le intelligenze, la testa, è un
processo di oggettivazione: si tratta di apparente valorizzazione del soggetto e della sua autonomia,
ma in realtà è il livello più sofisticato di oggettivazione della modernità capitalistica. E’ il fatto che
tu partecipi dei processi di valorizzazione capitalistica pensando o persino essendo convinto di
essere libero, e quindi addirittura di valorizzare te stesso.
Ma questa è, secondo me, una discussione abbastanza difficile, perché non è vero in assoluto che
siamo di fronte a nuovi processi di subordinazione pura e semplice; io, cioè, non credo che non ci
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siano anche dei momenti di valorizzazione vera dei nuovi soggetti produttivi. Penso che, in parte,
questa possibilità e opportunità di valorizzazione venga data, ma bisogna stare molto attenti, perché
è proprio la difficoltà grossa in una situazione in cui non è più così facile dire, come nel fordismo,
che l’operaio della catena di montaggio è facilmente identificabile come protesi della macchina;
oggi siamo di fronte al fatto che questa protesi è intelligente, in grado di governare il ciclo
produttivo, capace addirittura di avviare nuovi cicli. Ma questo non basta a dire che c’è la libertà, o
che c’è un grado di libertà maggiore; ma, nello stesso tempo, sostengo che è molto difficile
nell’analisi critica spiegare queste cose, ossia bisogna entrarci dentro, nel merito. Non basta dunque
dire che è vero (ed è vero) che le leve del comando restano comunque non solo nelle mani di un
sistema che mantiene la natura capitalistica, ma che addirittura ci sono processi di concentrazione a
livello internazionale dei centri di comando, di concentrazione vera e propria del comando. Questo
è vero, ma non basta a dire che questo è un processo che immediatamente lascia intravedere le
forme moderne di schiavitù, perché o si è capaci di compiere un’analisi articolata e di capire come
si va a conformare la nuova società produttiva, oppure si rischia davvero di fare dei discorsi non
ascoltati, o addirittura di non riuscire a comunicare con i nuovi soggetti. Il problema, dunque, è di
non riuscire a comunicare perché si parte da un presupposto un po’ troppo facile e meccanico:
“Guarda che tu sei la forma moderna di proletariato”, rivolto a chi pensa esattamente il contrario, a
chi pensa che sia finita l’epoca della necessità del lavoro subordinato e, quindi, di un comando
completamente esterno. C’è chi è convinto, ed ha anche delle motivazioni per esserlo, di essere
comunque un soggetto che può dire la sua; e non è sbagliato, nel senso che questo discorso
sull’autonomia concessa al nuovo soggetto produttivo è forse uno dei temi più importanti da
approfondire.
Io non so se lo schema generale (per semplificare estremamente) possa essere quello di una
concentrazione del comando a livello internazionale, e di una concentrazione con un livello di
violenza altissimo, cioè con spazi di mediazione ridotti al minimo rispetto a conflitti radicali di
interessi, quindi una logica durissima di prevenzione e di repressione immediata sulle aree di
conflitto; e, a fronte di un comando di questo genere a livello internazionale, gradi di libertà
periferica ampi, o relativamente ampi, per favorire quello che oggi viene considerato uno dei valori
fondamentali, la mobilità dell’intelligenza, e non solamente sul territorio. La mobilità
dell’intelligenza non è solamente “vai a lavorare dove servi”, ma “vai a lavorare dove tu ritieni più
interessante farlo”, quindi addirittura come libera scelta. E’ anche questo un fatto che si sta
massificando parzialmente: puoi andare a lavorare in capo al mondo, sei libero di farlo,
l’importante è che rientri in questa nuova maglia di regole di comando a livello internazionale, in
cui la tua, alla fin fine, è comunque una libertà controllabile. Questo qualcuno potrebbe definirlo
una sorta di nuova antropologia del soggetto produttivo, del moderno sfruttato; un’antropologia in
cui, appunto, la parte lasciata all’intelligenza e alla libera scelta aumenta. Ma anche questa nuova
antropologia dell’operaio della fabbrica capitalistica non è che sia qualcosa di ben pianificato dal
sistema, cioè qualcosa che sia controllabile per lo meno come era la forza-lavoro dequalificata degli
anni ‘50, ‘60 e solo in parte ‘70. Io non so se davvero in questo nuovo scenario necessario del
capitale internazionale ci sia di mezzo anche un aumento della debolezza del suo tallone d’Achille.
Ho la sensazione di un rafforzamento delle regole di compatibilità, ossia delle regole per cui la
logica preventiva dell’intervento diretto nelle aree di conflitto è molto più serrata di prima: da
episodi grossi a livello internazionale (penso, ad esempio, alla stessa Corea, anche se lì c’è un tipo
di forza-lavoro che solo apparentemente assomiglia al nostro operaio-massa, ma che è in realtà un
qualcosa di diverso) fino ai conflitti più territoriali (sentivo in questi giorni di manifestazioni di
protesta fatte da bambini contro i tagli dei servizi nelle scuole elementari, con la questura milanese
che manda i mezzi blindati comunque a sorvegliare). Questa logica di un’attenzione preventiva
forte a me dà un po’ il sapore della debolezza; quando le regole del conflitto sono ridotte, ristrette,
per cui il conflitto compatibile è qualcosa di molto più regolamentato di prima, ho la sensazione
della debolezza. Ma questa è una cosa abbastanza vecchia come ragionamento, non credo che
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processi autoritari più forti costituiscano un segnale di un largo respiro del capitale; mi fanno anzi
pensare ad un’ansia forte a livello internazionale del capitale dal punto di vista del controllo. Ma
non vorrei che ciò fosse dipendente soprattutto da questa nuova antropologia del soggetto
produttivo, cioè di un soggetto che davvero è più intelligente e più dotato di risorse tecniche e di
conoscenza per rompere le regole; e che quindi quella preventiva sia una necessità ansiogena del
capitale, come dire: “Questi qui potrebbe accorgersi che io sono inutile”. Direi che questa è una
cosa interessante da ragionare perché la classe operaia anche italiana, occidentale, fino agli anni
‘70, comunque, in fondo in fondo, riconosceva nel padrone un soggetto che stava sullo scenario del
progresso: esso era odiato e nello stesso tempo, però, difficilmente si diceva “prendiamo il suo
posto”, era più il soggetto politico magari a fare questo discorso. Quello capitalistico rientrava tra i
soggetti protagonisti di un percorso conflittuale ma di progresso. Oggi, secondo me, la posta in
gioco è il rischio che il nuovo soggetto produttivo sociale possa acquisire consapevolezza di poter
fare a meno del comando capitalistico, e che addirittura capisca che esso rischia di essere puro e
semplice comando, una sorta di gendarme senza divisa che per la sua riproduzione è costretto a
imporre delle regole senza una funzione positiva. Il vecchio padrone era qualcuno che costruiva le
strade, dava servizi, creava posti di lavoro e via di questo passo; nella concentrazione degli
strumenti di controllo della scienza e della tecnica, non del controllo disciplinare della società, c’era
una funzione intelligente del capitale. Oggi le grandi multinazionali sono molte preoccupate, per
esempio, di monopolizzare i patrimoni genetici, di controllare i mezzi di comunicazione.
Parliamoci chiaro, quali sono i settori strategici che si stanno sviluppando dal punto di vista
capitalistico? Le biotecnologie, la comunicazione e l’organizzazione del tempo. Questi mi
sembrano i tre scenari fondamentali su cui si sta misurando il capitalismo delle multinazionali; chi
dice che è l’automobile il settore trainante afferma una cosa che, secondo me, è assolutamente
sbagliata. Probabilmente non sono solo questi tre che cito io, ma essi mi paiono settori abbastanza
evidenti di investimento a livello internazionale.
E’ come se avessi la sensazione che il problema capitalistico a livello internazionale sia quello di
avere consapevolezza che il modello si può generalizzare in tempi velocissimi. Quindi, la
formazione di mercati di tipo capitalistico a livello internazionale non ha più tempi ottocenteschi,
ma nemmeno quelli della prima metà del ‘900, fino al boom economico: quelle dinamiche di
gradualità sono scomparse. C’è la possibilità di una formazione e di una generalizzazione del
modello capitalistico rapidissima, e quindi il rischio di saturazioni veloci di nuovi mercati, anche in
una situazione di aree a relativa stabilità politica, quindi dove gli assetti di controllo del territorio
sono abbastanza consolidati e ben legati all’Occidente. Ho la sensazione che questa paura faccia
diventare il soggetto capitalistico addirittura un freno alla generalizzazione del suo stesso modello:
è un’inversione di tendenza storica, strategica rispetto al passato, dove l’ostacolo allo sviluppo era
dato solamente dalle resistenze della lotta di classe, che rallentava il bulldozer dell’iniziativa
capitalistica. Oggi, anche in assenza di conflitto alto, mi sembra che, da una parte, il capitale diventi
freno al suo stesso sviluppo, alla generalizzazione del modello; dall’altra parte, proprio perché c’è
un’apertura di spazi di libertà di azione sociale (l’auto-imprenditorialità, il lavoro autonomo, la
mobilità e via dicendo), lascia trasparire una preoccupazione di controllo totale del tempo sociale in
maniera altamente sofisticata. Ma questo altamente sofisticata non vuol dire semplicemente che i
meccanismi del consenso si stiano raffinando (ed è senz’altro vero, si stanno ultra-raffinando); ma
si tratta di un processo (non so se riesco a spiegarlo) in cui mi pare che la soglia tra l’integrazione
nel modello (con tutti i benefici che ne conseguono, anche dal punto di vista economico) e la rottura
sul terreno della nemicità, sia una soglia quasi a mediazione zero. E’ come dire che si va o a
un’internità, un processo di integrazione totalizzante, quindi della vita in generale di questi nuovi
soggetti, oppure al dover fare i conti con un livello di violenza di risposta altissimo. Come dire: “Se
non tappo la falla, rischio di non controllarla più”. E’ come se ci fosse proprio un’ansia di questo
organismo maturo, il capitale internazionale oggi, che da qualsiasi parte, quindi anche da paesi del
Terzo Mondo, da paesi deboli, possano aprirsi delle falle pericolosissime per la capacità di
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generalizzare una rottura, magari non immediatamente antagonistica, ma di equilibri rigidi.
Facciamo l’esempio dei paesi che hanno detto di non voler pagare il debito a livello internazionale:
al di là del fatto finanziario in sé, che è secondo me ridicolo rispetto al Fondo Monetario
Internazionale, esso ha dentro una carica dirompente e pericolosissima dal punto di vista politico.
Questo perché, da una parte, ci sarebbe una gravissima capacità di legittimare azioni di questo
genere, “sono un paese povero, adesso basta, non pago più”. L’effetto a valanga e a catena che può
causare una scelta determinante di questo tipo è pericolosissima, al punto che si preferisce risanare,
si preferisce ancora una volta dire: “Sono io che, unilateralmente, ti concedo dilazioni, sanatorie
eccetera, ma non è il risultato di un conflitto”. Così, anche a livello dei paesi occidentali, la mia
sensazione è che si stia lavorando in maniera molto intelligente per costruire una sensazione e un
clima di massa in cui la libertà e la democrazia si riescono a presentare come davvero avanzate,
realmente più maturate. C’è questa insistenza sulla fine del conflitto di classe, ma non perché ci sia
stata una sconfitta, bensì perché c’è stato il progresso che ha superato queste cose; addirittura si
riconoscono meriti e legittimità al movimento operaio storico, ma dicendo: “Adesso i tempi sono
cambiati”. Non si azzardano a dire alla classe operaia: “Vi abbiamo liquidato durissimamente”,
cosa peraltro verissima; si dice che i tempi sono cambiati. Sono i tempi in cui la democrazia ha una
maturità tale da riuscire a fare i conti con i conflitti di interesse dentro la società comunque in un
quadro ricompositivo, in un quadro che li riequilibra: questo da un punto di vista culturale. Ma
quanta violenza c’è dietro a questa cosa qui? Altro che il corporativismo fascista, in cui c’era uno
Stato forte che diceva: “Ognuno al suo posto, padroni al loro posto, operai al loro posto, sindacati al
loro posto, il regime come garante di questo equilibrio”. Allora era una cosa grossolana come
modello di pacificazione sociale, perché agli operai veniva detto: “Non andare oltre questi limiti,
rivendica il tuo salario e i tuoi spazi, anzi, ci pensiamo noi come Stato a rispondere ai tuoi bisogni;
se vai oltre vieni mandato al confino, in galera, davanti al plotone d’esecuzione”. Era un modello
rozzo di normalizzazione; oggi, secondo me, siamo di fronte ad un laboratorio di progettazione di
un modello sofisticatissimo, ma, ripeto, con all’interno uno spaventoso grado di violenza.
Tendenzialmente è come se si volesse dire: “Tutto ciò che diventa conflitto radicale è
ontologicamente sbagliato, poiché non esiste più il motivo e la ragione plausibile perché ci sia una
contrapposizione e un conflitto radicale di interessi”. Dunque il problema è che chi rompe le regole
sicuramente è violento, quindi fuori dalla democrazia, sicuramente è mancante di una progettualità,
per cui anche politicamente illegittimo ad esistere, sicuramente è minoritario, quindi destinato,
come tutte le minoranze nella storia dei conflitti, ad essere identificato come corpo estraneo. Ma,
attenzione, corpo estraneo vuol dire davvero un elemento di patologia e di malattia in un organismo
complessivo sano: questa è la violenza spaventosa che c’è, questo far sentire anche il singolo
individuo la cellula vitale, con pari dignità di tutte le altre, di un organismo sano, che ha superato la
sua epoca primitiva, dunque di sangue e di lacerazioni, raggiungendo quindi un suo equilibrio.
Tutto diventa patologia: e questa, proprio perché considerata non giustificata, quindi nemica
ontologicamente e nei suoi fondamenti, va isolata e combattuta radicalmente. Questo è uno scenario
in cui si vuole a tutti i costi dipingere una fase dello sviluppo della società nell’Occidente, e
gradualmente a livello planetario, in cui finalmente, grazie anche al merito dei rappresentanti degli
sfruttati, quindi delle socialdemocrazie, assistiamo alla fine definitiva di ogni possibilità di una
contrapposizione sostanziale di interessi tra modelli antagonisti impersonati nella società. Siamo
davvero di fronte al pensiero unico, ossia ad una concezione dello sviluppo in cui tutto è diventato
oggettivo, come se non fosse possibile altro scenario; inoltre, è come se l’esistenza di altri scenari,
sul pianeta o anche dentro al singolo occidente, sia la sopravvivenza di vecchi retaggi, i quali
faranno i conti con la capacità di questo organismo sano di metabolizzarli, quindi di neutralizzarli;
oppure faranno i conti con il bisturi. Ci sarà la capacità della comunicazione, della politica, delle
istituzioni, in tutti i loro aspetti ramificati, di creare nella cultura collettiva lo stigma della patologia.
Io non riesco a spiegarmi come mai, ad esempio, quando si parla delle recenti manifestazioni del
movimento, sul terreno della comunicazione in generale (non solamente delle Tv private, ma anche
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di quelle pubbliche) c’è un rifiuto sistematico e pianificato del porre la domanda “cosa c’è dietro?”;
è quasi peggio di quando si parlava delle azioni micidiali delle Brigate Rosse che facevano i morti.
Addirittura, mi pare di ricordare che la televisione di stato facesse dei ragionamenti per dire “ma
cosa c’è dietro?”; naturalmente le conclusioni erano quelle ovvie, ma c’erano dei ragionamenti
politici, adesso non ci sono più. Mi sembra quasi che tutto sia appiattito semplicemente su un
terreno in cui si dice: “Attenzione, abbiate tutti paura e temete tutti l’uscire dalle regole, perché ciò
vi identifica immediatamente in un certo modo: violenti, minoritari, non legittimati ad avanzare
diritti”. Addirittura, laddove diventa difficile la criminalizzazione, si dice: “I terreni su cui si
esprimono questi bisogni in maniera conflittuale e dura sono anche nostri; quindi, è parte del nostro
terreno di iniziativa di trasformazione che ci viene espropriato in una logica vecchia, quella del
conflitto di classe”.
In generale (so che è più una sensazione che non un’analisi approfondita) questa cosa mi dà l’idea
di una democrazia totalitaria, che si impone cioè come scenario oggettivo, davvero da pensiero
unico, e che, dall’altra parte, nasconde un livello di violenza quale mai una società avanzata abbia
potuto conoscere. La mia impressione, rispetto ai pochi momenti di lotta che emergono soprattutto
nell’Occidente, è che una massificazione forte del terreno di conflitto possa o dare adito a scenari di
inaudita violenza oppure, nella migliore delle ipotesi, a conflitti che metteranno il dito direttamente
su un’alternativa. Non lo so quanto questa seconda ipotesi, di carattere così generale, possa riuscire
a praticarsi e quanto il capitalismo sia in grado di tollerare percorsi alternativi al suo interno,
isolandoli e creando una sorta di enclave. Non credo che le logiche dei territori liberati o di percorsi
indipendenti di trasformazione sia accettabile, non credo che possa funzionare, perché in quelli ci
sarebbe una valenza di generalizzazione fortissima, dati i mezzi di comunicazione che ci sono
anche nelle mani della società, non solo dei grandi monopoli. La comunicazione sarebbe
rapidissima, il modello, laddove si afferma, può diventare esportabile: “Ecco, abbiamo capito che
c’è un’altra possibilità di camminare su un percorso addirittura antagonistico di trasformazione”.
Che questo possa avvenire pacificamente io, francamente, non riesco proprio a vederlo e a
immaginarlo. Questo non vuol dire che io veda solamente uno scenario sanguinario: lo metto in
conto, ma non escludo anche che ci possa essere una sorta di terzo scenario, che è quello di una
impossibilità di rispondere in tempo a nuovi processi che si generalizzano, cioè alla impossibilità da
parte capitalistica di trovare tempestivamente (poiché quello della tempestività è fondamentale
come meccanismo di intervento) la capacità di bloccare la generalizzazione. Certo è, e di questo io
personalmente sono convinto, che esperienze forti e significative, ma puntiformi, dovranno fare i
conti con un tentativo di prevenzione micidiale, se hanno una valenza politica alta, cioè se in sé
rappresentano davvero la possibilità di rompere questa sorta di granitica “cupola democratica” che
si sta costruendo. Se questa valenza ci sarà, il tentativo di stuccare la diga sarà immediato.

- Il discorso che tu prima facevi rispetto ai due scenari (da una parte l’integrazione totale,
dall’altro la violenza inaudita) dipende, secondo te, dalla consapevolezza del capitale di poter
perdere il controllo?

Penso di sì, perché se è vero che il nuovo soggetto produttivo, cioè il nuovo operaio, la nuova tuta
blu del capitale moderno e maturo, ha nelle mani gli strumenti della conoscenza, è una situazione
davvero eccezionale dal punto di vista delle potenzialità. Il sogno capitalistico, secondo me, è
quello di avere una società intelligente e disciplinata, non una società tonta: io sono convinto che il
miglior servo del capitale sia il più intelligente. Quindi, avere una società produttiva di questo
livello è davvero un sogno per il capitale, ma è un sogno che potrebbe farlo ridestare d’improvviso
di fronte a questa intelligenza collettiva che dice: “Adesso a che cosa servi tu?”. Tutti i grandi
passaggi della tradizione tecnologica e delle scoperte scientifiche sono stati, fino a qualche decina
di anni fa, legati a luoghi e a centri ben precisi e controllati, a uomini e a mezzi sottoposti ad un
rigoroso controllo del sistema capitalistico, statale ed economico; oggi non è così, o meglio, non è
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vero che non è così in ogni caso. Pensiamo all’esempio (che forse ci può anche sviare, però è
significativo) di questi gruppi di medici che sono in giro a fare prelievi del sangue per studiare il
DNA. Intanto, non è vero che per andare in giro a prelevare campioni di sangue servano chissà
quali strutture; ma non è neanche vero che i laboratori di ricerca costituiscano delle concentrazioni
tecnologiche così inaccessibili. E così sul discorso della comunicazione: se solamente pensiamo a
quello che c’era vent’anni fa rispetto ad oggi, vediamo che l’accesso a tecnologie di comunicazione
non è così difficile. Certo, se poi si decide di avere, ad esempio, una frequenza radiofonica
nazionale (lo vedevo proprio in questi giorni discutendo con una persona che lavora nelle radio e
nelle televisioni) servono 500-600 milioni: ma oggi questa cifra, dentro ad una dimensione
collettiva, non costituisce un dramma. Sto parlando di avere una frequenza nazionale: negli anni ‘70
e ‘80 se noi avevamo una radio locale era già un grande successo e un grande debito. Oggi una
frequenza nazionale, che si può utilizzare con 500-600 milioni, diventa una cosa che lascia pensare.
Facevo prima l’esempio di questi gruppi di medici che sono in giro a raccogliere i patrimoni;
pensate a che catena nasce da questo punto di partenza, perché il controllo del patrimonio genetico,
nel domani del controllo della manipolazione genetica, dall’industria farmaceutica a quella della
salute in generale, si può immaginare cosa voglia dire dal punto di vista del giro di miliardi. E’ uno
dei settori forti, dagli alimentari fino alla salute umana.
Questa cosa mi fa pensare che la conoscenza diffusa sia, ripeto, un momento inevitabile per il
capitale, ma nello stesso tempo un innalzamento del rischio della sua estinzione. Attenzione di
nuovo però, secondo me, a non fare discorsi meccanicistici: è quel grave errore che anche una parte
del marxismo ha fatto, per cui si è ritenuto che quello del capitale sia uno sviluppo ineluttabile e
lineare, e dunque il suo crollo avviene su se stesso, dimenticando che invece Marx, laddove ha fatto
il ragionamento della sorte vitale del capitalismo, ha sempre parlato di un soggetto che darà l’anima
prima di morire, e che quindi userà tutti i mezzi possibili per riassestare se stesso, per ridarsi una
funzione storica e soprattutto per far capire agli altri che è ancora in grado di dominare. Dunque,
l’elemento soggettivo è ancora determinante.

- Soprattutto, molti si sono dimenticati che dopo Marx è venuto un certo Lenin...

Certo, esattamente. Il discorso è che un soggetto che arriva a livelli di concentrazione di potere mai
raggiunti a livello planetario e che in questo stesso processo, quasi proporzionalmente, si vede
svuotato di funzione storica, diventa una sorta di belva micidiale: diventa un apparato in cui
l’esercizio del comando è la ragione di vita, la nuova legge del valore. Non più il plusvalore estratto
dallo sfruttamento nel ciclo di produzione tradizionale, sia pure moderno, ma quasi il comando
come misura dell’esistenza: “Vivo perché riesco a riprodurre comando fino a far funzionare la
società in modo tale che si perpetui la mia ragione d’esistenza”. In questo scenario, secondo me, c’è
un livello di violenza elevatissimo, perché è l’inutilità che tenta di legittimarsi come indispensabile.
Questa cosa è un bel disastro, perché più si sente inutile e più diventa cattivo, feroce. In uno
scenario di questo genere cosa succederà? Non lo so. Personalmente non credo che sarà una resa
per alzata di mani; penso che sia molto più probabile che ci sia la capacità di far diventare la società
un qualcosa che rappresenta e tutela interessi contrapposti. Già oggi se noi pensiamo che il giovane
che vota Forza Italia potrebbe essere una persona impegnata in un progetto alternativo, noi capiamo
che, se vogliamo usare termini di guerra, gli eserciti sono fatti da soggetti che potrebbero essere in
un campo o nell’altro indistintamente. Quindi, la forza del capitale sarà quella non di avere solo
apparati centrali forti, aerei da guerra e armi micidiali e sofisticate, ma di avere individui e
intelligenze combattenti, soggetti che sono pronti a scendere in campo anche duramente in difesa
del proprio diritto alla valorizzazione per far la guerra contro gli altri, dimenticando profondamente
che sono tutti soggetti produttivi del nuovo sistema capitalistico.
La mia paura è che sia dentro questa soggettività sociale nuova che si creeranno gli strumenti più
importanti di regolazione del conflitto di classe: è ancora più tremendo. Il giovane auto-
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imprenditore che si schiera con il comando capitalistico contro lo stesso lavoratore autonomo che si
organizza contro di esso: questo è il tentativo, perché se non riuscirà a conquistare la disponibilità e
la fedeltà dell’intelligenza sociale, il capitale non potrà, come non è mai riuscito nessuno,
controllare la società con gli eserciti professionali, è impossibile. Deve esserci uno schierarsi forte,
guardate lo slogan di Berlusconi: “Una scelta di campo”, ma di chi? Una scelta di campo
trasversale: il messaggio di Berlusconi va dal pensionato povero all’imprenditore affermato. C’è
una trasversalità nel messaggio sociale che fa schierare, ma fa schierare soggetti che nella
materialità sono molto spesso nelle stesse condizioni. Abbiamo già parlato della crisi di
rappresentanza del sindacato rispetto ai nuovi soggetti: ma crisi di rappresentanza vuol dire che
quelli stessi che tu stai perdendo, perché non sei in grado di legittimarti, vanno dall’altra parte. Ma
dove sta l’interesse di classe? L’interesse di classe è un fatto trasversale, in cui addirittura la
materialità è superata, perché il figlio di una famiglia proletaria può diventare militante
consapevole, attivo, determinato dello schieramento nemico. Non è più facile come una volta dire
che gli impiegati stanno con il padrone, i tecnici stanno con il padrone, le gerarchie stanno con il
padrone; c’è la gerarchizzazione totale e c’è un senso di appartenenza alle gerarchie, anche sociali,
che fa schierare, anche se sei un proletario. Anche allora dicevamo che il capo in fondo è anche lui
uno strumento del capitale, il tecnico anche lui è uno strumento del capitale, in cambio il capitale li
paga bene, monetizza il loro consenso. Lo scenario adesso è molto più sofisticato, perché questa
volta è il tecnico contro il tecnico, il ricercatore contro il ricercatore, il medico contro il medico,
sullo stesso terreno, magari addirittura nelle stesse condizioni materiali rispetto al reddito, per
esempio; però uno da una parte e uno dall’altra. Questo è lo scenario in cui, secondo me, la violenza
e l’esercizio del controllo sociale potrà avvenire per delega ai soggetti sociali. Quindi, o si ha
davvero, questa volta, la capacità di sì qui il problema della forza è secondario rispetto alla capacità
critica: o si ha la capacità di fare una battaglia sociale in grado di demistificare con l’intelligenza
queste prospettive e questi scenari, oppure ci ritroveremo il mio amico di scuola che è cresciuto con
me nelle stesse condizioni concrete e nello stesso quartiere, che domani è con Berlusconi mentre io
sono contro Berlusconi; me lo posso ritrovare anche in prima linea nello scontro con me, insieme ai
poliziotti, ai carabinieri, all’esercito, ma una forza sociale attiva nel tamponare processi nuovi,
radicali, di cambiamento, identificati come nemici del progresso. Questo scenario mi incute un po’
di inquietudine, ma è abbastanza verosimile, perché sennò che cosa resterebbe? Il comando puro
esercitato senza soldati sociali, cioè senza soggetti sociali pronti a combattere, è di carattere
tecnico-professionale, affidato alla bravura del giornalista che rincoglionisce le masse o alla bravura
del militare che sa fare operazioni chirurgiche e il meno dolorose possibile; che sia un questore o un
poliziotto di quartiere non ha importanza, quelli sono i professionisti del controllo e del comando.
Sono gerarchie abbastanza individuali, ma se tutto sarà affidato a quello sarà perdente, non potrà
funzionare, assomiglia troppo al virtuale e troppo poco al generalizzabile, al puntuale, all’essere
efficace, efficiente, immediato nell’intervento. Questo non può essere affidato alla professionalità
del comando, non può funzionare così; non ci credo che i programmi di intrattenimento da soli
riescano a mantenere il rincoglionimento, che la propaganda fatta dai telegiornali contro gli
antagonismi che nascono nella società possa funzionare da sola. Deve esserci dentro al tessuto
sociale carne viva che si schiera con il capitale, soggetti forti e intelligenti che stanno fianco a
fianco di chi può, invece, intuire e sperimentare percorsi di antagonismo. Bisogna dunque aver la
capacità di fare i conti con questa situazione: non è più il sindacalista o il delegato del PCI da
convincere, è quello come te, che fa il tuo mestiere, è quello che esprime il tuo stesso desiderio di
valorizzazione.

- In questo scenario, secondo te, il concetto di identità, singola e collettiva, quanto è importante
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e su che cosa si basa?

Questa è la domanda fondamentale, perché il problema dell’identità o è subordinato a processi di


oggettivazione, e quindi l’identità te la costruiscono dall’esterno e tu la riconosci, la fai tua e ti
schieri, oppure rompi questi processi di oggettivazione, di costruzione dell’identità dall’esterno, e la
costruisci tu; ma questo deve avvenire nella materialità dei percorsi, perché sennò fai il grillo
parlante, l’intellettuale apparentemente indipendente. O ciò lo si gioca su percorsi concreti,
sperimentali, di laboratorio sociale e nello stesso tempo politico, oppure l’identità ti viene costruita,
e questo viene fatto con una preoccupazione maniacale che va dal lavoro all’ultimo minuto di
tempo libero prima di andare a letto a dormire, e poi magari anche la notte. Adesso non voglio
essere così tragico, ma il tentativo comunque è di copertura complessiva dell’intera giornata di vita
sociale con lo stesso meccanismo e con le stesse regole, quindi con una capacità di trovare risposte,
sue varianti, invenzioni nuove, sistematicamente e continuativamente, per produrre identità; parlo
di identità desiderata, voluta, accettata, dunque con un grado di consapevolezza alto e con la
strumentazione critica azzerata. Addirittura, secondo me, una delle paure più grosse che verrà
diffusa è quella di diventare, con il proprio agire, veri e propri nemici del progresso umano, cioè
che quella che si va a costituire per chi rompe le regole sia un’identità di nemicità del benessere e
del progresso dell’umanità; molto di più di quello che avveniva nel passato “in difesa della
democrazia e di chi la vuole sovvertire, vuol tornare alla barbarie”: questi erano discorsi più
politici. Oggi ci troviamo invece di fronte al fatto che arrestare o contrapporsi a questi processi
ormai ritenuti oggettivi costituisce davvero nemicità nei confronti degli interessi dell’umanità,
quindi dei valori di fondo che stanno alla base della nostra specie. Non è così facile, però è una cosa
su cui si giocheranno le carte.

- Negli ultimi anni Sergio Bologna ha visto nel cosiddetto lavoratore autonomo di seconda
generazione il nuovo soggetto centrale di un potenziale processo ricompositivo, Negri ha parlato di
general intellect e lavoratore immateriale, recentemente Bifo Berardi, sull’onda di Seattle, ha,
nella stessa ottica, tirato fuori l’espressione cognitariato. Negli anni ‘60 l’operaio-massa fu
individuato come punta avanzata e soggetto centrale nei processi di lotta e ricomposizione di
classe: ma, allora, le analisi tendenziali e le intuizioni teoriche interagivano, in una processualità
aperta e virtuosa, con la collocazione di tale soggetto nella produzione capitalistica e con la
materialità del conflitto e della soggettività di classe. Non ti sembra che oggi sia stato invertito
l’ordine? Ovvero, non ti sembra che alcuni abbiano più supposto che individuato un soggetto,
definendolo centrale e cercando poi di giustificare tale analisi parlando di conflitti anche laddove
in realtà non ci sono? Inoltre, secondo te, nell’attualità, esiste o può tendenzialmente esistere
all’interno della classe un soggetto centrale e potenzialmente ricompositivo? Se sì, qual è o quale
potrebbe essere?

Questi compagni (che non sono stupidi, sono molto intelligenti) fanno un discorso che
bisognerebbe verificare. La patente di soggetto centrale è addirittura di natura politica: quindi,
centrale nei meccanismi economici e di sviluppo capitalistico, e centrale dal punto di vista politico
come soggetto più consapevole, o che può acquisire maggiore consapevolezza e dunque svolgere
anche un ruolo importante di traino. Questa patente attribuita da parte del pensiero intellettuale
lascia un po’ il tempo che trova: comunque va bene ed è legittimo sostenerlo, affermarlo e
teorizzarlo, però bisogna vedere nella pratica. Se questa cosa non si verifica nella pratica, domani
mattina io penso che mi alzerò sostenendo che i filippini delle imprese di pulizie saranno
determinanti perché sicuramente riusciranno a rubare tutti i segreti dalle case dei ricchi per
governare il mondo.

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- Qua arriviamo al nodo della soggettività di classe e ciò che essa esprime.

Andando indietro nel tempo noi sappiamo tutti che negli anni ‘50 nell’Occidente l’operaio
professionale aveva un ruolo anche politico fondamentale, tant’è che guidò le lotte in quel periodo,
perché era inserito in uno dei momenti nevralgici dello sviluppo capitalistico: il suo ruolo era
fondamentale perché era un braccio intelligente del ciclo produttivo, prima del grande ciclo di
automazione, e aveva un potere contrattuale altissimo. Sappiamo anche come è finita: lotte
durissime e alla fine sconfitte, perché il risultato di questo scontro fu il fordismo, l’organizzazione
di produzione di scala, una città-fabbrica eccetera. Oggi cicli di lotte che comprovino l’emergenza
di soggetti produttivi centrali non ci sono stati, perché si tratta di un’emergenza che si può
caratterizzare solamente attraverso alcuni fattori secondo me abbastanza chiari: uno è la continuità
dei cicli di lotta legati a questo tipo di soggettività, quindi la loro riproduzione e la loro diffusione.
Il fatto che questi cicli di lotta siano estremamente discontinui e che abbiano come protagonisti
soggetti che cambiano di volta in volta e molto frequentemente, è indicativo del fatto che parlare di
nuove centralità di soggetti e di figure produttive sociali in questo momento a me personalmente
risulta molto difficile. Dall’altra parte, se l’analisi del nuovo modello capitalistico, cioè sulla
modernità del capitalismo, è tale da farci capire alcune cose (come per esempio la mancanza di forti
concentrazioni produttive, la polverizzazione, la mobilità, la flessibilità non solamente della forza-
lavoro ma delle tecnologie), io non riesco a pensare a categorie e a settori sociali particolarmente
centrali. Ma ciò lo dico con molto beneficio di inventario, perché può darsi che da questo punto di
vista ci sbagliamo radicalmente. Diciamo che non si fanno vedere situazioni di nuove centralità e
probabilmente quelli che le individuano o sono dei profeti, nel senso che sanno leggere con
maggiore attenzione questi processi, oppure tirano anche loro ad indovinare.
Poi io non so se è un bisogno che ci viene dalla nostra cultura teorica passata quello di aver sempre
bisogno di un soggetto sociale produttivo centrale che poi diventi anche un soggetto politico
collettivo centrale. Io sono convinto che, invece, la centralità sia data non da specifiche categorie
sociali, ma dalla natura nuova del soggetto produttivo, da questa natura che accomuna questo
soggetto nuovo indipendentemente dalla collocazione produttiva. Ci vuole una dotazione e
strumenti di conoscenza sempre più elevati, quindi io ritengo che i soggetti sociali produttivi oggi
fondamentali siano quelli più in possesso di conoscenza, di sapere e anche di collocazione
qualificata nel ciclo della produzione e della riproduzione. Lenin, ad esempio, non credeva che i
contadini fossero un soggetto centrale, diceva che erano grande massa proletaria che sarebbe andata
con loro, come i soldati e anche una parte dei piccoli proprietari: ma il soggetto centrale in quella
fase storica era un altro, e lo sappiamo. Oggi, in questa fase storica, siamo di fronte ad un dato
quantitativo molto maggiore di dimensioni, ma ad una trasversalità: in questo momento, nel mio
modo di vedere il cambiamento, io colloco nel soggetto sociale produttivo più avanzato dal punto
di vista della sua strumentazione e del suo insieme di saperi (quindi prendendolo da solo,
indipendentemente da dove è collocato), da una parte il suo livello di bagaglio e tensione al sapere;
dall’altra parte la sua collocazione materiale dal punto di vista del ruolo che svolge nel ciclo in
generale. Che sia poi dentro la sanità, dentro i servizi, dentro la produzione diretta di merci, questo
non è fondamentale. Sono convinto che non ha nessuna centralità il soggetto sociale produttivo
dequalificato, marginale, poco scolarizzato, che, del resto, mi pare tendenzialmente minoritario. A
meno che si dica che a svolgere un ruolo centrale sarà il soggetto proveniente dal Terzo Mondo
nell’Occidente e che sempre di più si integra dentro il ciclo della produzione e riproduzione
occidentale: io non ci credo minimamente. O questo soggetto si alleerà con i soggetti che, dentro
l’Occidente, si muoveranno e si auto-organizzeranno, oppure sarà spacciato anche lui. Torno a dire
che, se di centralità bisogna parlare, è necessario parlare di centralità degli strumenti di conoscenza
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e di accesso al sapere e del rapporto che si ha con l’esercizio del proprio sapere, quindi
all’opportunità o alla possibilità (in proprio, alle dipendenze, insieme ad altri o da soli) di
esercitarlo nella materialità del processo collettivo. Dunque, secondo me, un ricercatore del Cnr
insieme ad un medico di un reparto specializzato insieme ad un tecnico di una fabbrica
automatizzata, hanno una valenza di potenzialità assolutamente identica. In questo modo il
problema politico acquista una rilevanza enorme; il riuscire a spostare soggetti di questo genere su
un terreno critico del modello è fondamentale e complesso. Rispetto al ragionamento che facevamo
prima, è un po’ come dire che, in assenza di una facile identificazione di appartenenza di classe,
oggi è proprio il passaggio della capacità di un ragionamento critico sul modello a far costruire
identità, cioè dell’entrare nel merito dicendo: “A noi non interessa dire se siamo contro o a favore,
proletari o borghesi, sfruttati o sfruttatori: ci interessa interrogarci sui meccanismi e sul ruolo che
noi svolgiamo dentro ad essi, non quindi in astratto, ma nella materialità dei soggetti con cui
abbiamo a che fare; interrogarci anche singolarmente, e provare a dare delle risposte il più possibile
collettive, cioè con la possibilità di sentire il punto di vista dell’altro, che magari è addirittura
collocato in un settore completamente diverso”. Ecco perché quello che può sembrare anche
grossolano nella propaganda della destra oggi presente in Italia, non è tale: può apparirlo nella
propaganda politica, “Per una scelta di campo” dice Berlusconi su tutti i muri. Ma, sotto sotto, c’è
qualcosa di molto più sofisticato, cioè il tentativo di far fare una scelta complessiva, di vita,
esistenziale, una scelta di internità o di esternità allo scenario unico possibile. E l’esternità oggi è
vista o come il collocarsi tra i soggetti deboli, rispetto ai quali la destra dice: “Ci penseremo noi con
la ricchezza e il benessere che produrremo a tutelarvi”; oppure esterni perché nemici, avversari, e
questo è il discorso che facevamo prima: “Regoliamo i conti nei modi che saranno possibili”.
Dunque, o la debolezza, come categoria sociale, cioè soggetti che non hanno le risorse individuali e
personali dentro meccanismi collettivi per stare in piedi da soli, per cui sono deboli
“oggettivamente”, quindi “li assistiamo, e lo facciamo al minimo”; oppure nemici perché contrari
ad una nuova oggettività che è sempre più indiscutibile, naturale, il risultato di un progresso
millenario che ha affermato la supremazia di questo meccanismo.
Questa è, secondo me, la difficoltà che si avrà nel rapporto con i nuovi soggetti; dopo di che i cicli
di lotte possono partire da qualsiasi luogo e punto. Secondo me, detto anche qui in maniera
schematica, il ruolo fondamentale del soggetto politico sarà quello di riuscire ad essere interno a
questi cicli, di essere capace di collegarli e di innalzare la qualità politica dello scontro nei contenuti
prima ancora che nelle forme; poi sarà un problema veramente di formazione di un nuovo scenario
dello scontro di classe, ma sempre di scontro di classe si tratterà. Io queste cose le dico come mia
sensazione ed impressione rispetto a quello che si muove; non escludo che possano avere ragione
quelli che parlano di possibili nuove centralità. Ma io francamente negli ultimi vent’anni non ne
vedo, anzi, noi stessi abbiamo teorizzato la fine delle centralità di macro-categorie sociali: a me
sembra ancora attualissima un’analisi di questo genere.

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INTERVISTA A FERRUCCIO DENDENA – 8 MAGGIO 2000

LA SOGGETTIVITA’ POLITICA ANTAGONISTA

La soglia che separava l’avanguardia leninista dell’inizio del ‘900 in Russia dalle masse proletarie
costituiva un gap enorme: da una parte altissimi livelli di coscienza, il soviet come luogo di
interpretazione alta della contraddizione, dall’altra il 90 e rotti per cento del proletariato, delle
campagne piuttosto che in divisa eccetera, lontano mille miglia, con un gap notevole tra chi guidava
e chi faceva massa. Rapportato all’oggi, diamo per vero che questo gap si riduce, che aumentano
notevolmente gli strumenti che sono nelle mani del soggetto sociale per capire criticamente la
contraddizione, quindi per capire criticamente le modificazioni che stanno intervenendo; dunque,
supponiamo teoricamente che sia limitato il gap tra questo nuovo soggetto produttivo oggettivizzato
dal capitale e il soggetto politico vero, l’avanguardia politica. Questo non significa che un gap
ridotto notevolmente dal punto di vista degli strumenti critici, di per sé, in termini teorici, elimini i
ruoli, ossia che ci sia una coincidenza immediata tra il soggetto sociale postmoderno, il soggetto
sociale del capitalismo più avanzato, il nuovo operaio al servizio del capitale, e l’avanguardia
politica, tale per cui i problemi da superare si riducono ad operazioni di collegamento, biologico,
organizzativo, progettuale, cioè a un mettere insieme. Quindi, tutto sommato, diciamo che non è più
dato qualcosa che è strumentale, non interessa cioè portare le masse sullo scontro rivoluzionario
indipendentemente dal loro grado di consapevolezza; ma ipotizziamo che sia talmente vicina la
possibilità che questa consapevolezza si traduca in determinazione allo scontro, al conflitto, che
quello che manca è solamente un’operazione quasi di architettura, organizzativa, di modello, di
teoria dell’organizzazione (per usare un termine leninista), a fronte però di un soggetto sociale ad
altissimo grado di consapevolezza della contraddizione. Quindi, che il ruolo dell’avanguardia
politica sia un ruolo quasi “burocratico”, che serve solamente a far raggiungere al soggetto sociale
diffuso la consapevolezza che è possibile vincere, che è possibile, dentro ad un modello e ad una
macchina organizzativa funzionante, passare sul terreno dello scontro aperto, perché i progetti di
società nuove e di trasformazione sono già lì, magari in nuce ancora, ma sono già dentro la
composizione nuova, sono già in una testa collettiva. E’ questo il vero problema su cui ho dei dubbi.
Il pensare che questo esserci in potenza, dentro il nuovo soggetto sociale, l’insieme delle risorse di
conoscenza, di sapere, tecniche, in grado di renderli professionalmente adeguati a progettare
percorsi nuovi, di per sé ci faccia concludere che dentro il soggetto collettivo sociale ci sia già la
prefigurazione di strade di cambiamento diverse da quelle governate dal capitale: questa è la cosa
che mi preoccupa di più, perché sarebbe un meccanicismo teorico. Magari dico delle stupidaggini,
ma in questo modo è come se fosse lo stesso sviluppo della contraddizione ad avere creato soggetti
coscienti e consapevoli: si pensa addirittura che possiamo dire che il livello raggiunto da tutti i
grandi cicli di scontro di classe, quelli dell’operaio-massa, e dalla loro sconfitta, abbia aperto
scenari insieme di nuovo sfruttamento ma anche di nuove potenzialità alternative. Uno certamente
può dire teoricamente che non è vero e che sia meccanico il fatto che solo dalla vittoria nello
scontro di classe nascano prospettive positive e significative per il proletariato: va bene, ci sto su
questo terreno, ma io voglio però capire perché da una sconfitta pesante del proletariato occidentale
possa essere nato uno scenario che ha dentro delle potenzialità immediate. Non credo che il
capitale, nella sua storia, nella sua guerra senza confini con il proletariato, abbia mai costruito delle
risposte arretrate, ha sempre comunque guardato avanti, a costo di dire al proletariato: “Io vorrei
sfamare tutti, vorrei dare da lavorare a tutti, ma non posso farlo: è un problema di sviluppo, e dovete
lavorare, faticare, sudare, e io sono la testa che indica questo progetto”. Quindi, non credo che il
capitale abbia mai pensato di dare delle risposte arretrate al conflitto, nemmeno adesso: anche
quando io dico che per me personalmente oggi c’è una sorta di frenata capitalistica allo sviluppo,
faccio un ragionamento più tecnologico che non politico, nel senso di dire che se oggi le tecnologie
produttive fossero generalizzate e diffuse a livello planetario, i tempi di una globalizzazione del
modello occidentale sarebbero molto più veloci di quanto non sono; io ho la sensazione che ci sia

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un rallentamento in questa generalizzazione tecnologica. Ma dal punto di vista della risposta
politica, ideologica, culturale non ci credo che il capitale abbia mai prodotto, e adesso produca,
delle risposte vecchie, arretrate, cioè che dica: “Adesso ho vinto, vi impongo delle regole da
vincitore.” “ Anzi,” dice il capitale “io sto liberando i territori, io vi sto liberando per l’affermazione
individuale, dentro le mie regole: ma, attenzione, sono regole che io voglio che diventino regole di
tutti”. E’ un discorso di democrazia dentro un modello di sofisticazione massima dell’autoritarismo.
Ma, per tornare al discorso di prima, è possibile pensare che questa valorizzazione, che il capitale
sta facendo, dell’intelligenza sociale sia qualcosa che in sé abbia già tutti gli strumenti per far fuori
il capitale stesso, e non invece che sia davvero un salto di qualità eccezionale dei meccanismi di
dominio? Qualcuno dice che è vero che può essere anche questo, ma è vero anche che comunque in
sé questo tentativo di valorizzazione dell’intelligenza sociale e collettiva che sta facendo il capitale
apre comunque dei versanti di altissima vulnerabilità del sistema. E’ quello che dicevamo già altre
volte, cioè che il capitale dice: “La mia testa diventa una testa collettiva, diffusa”. Ma mi piacerebbe
che fosse affrontato in maniera più scientifica questo ragionamento, perché se la diffusione della
discrezionalità, della capacità di intervenire, di governare il cambiamento, è qualcosa che è basato
effettivamente su una piena libertà di utilizzo della scienza, della tecnica eccetera, come mai,
almeno apparentemente, non c’è niente nel mondo occidentale che dia il segno della devianza, di
una devianza progettuale? Come mai non c’è, o almeno io non lo vedo? Probabilmente invece non è
così, magari qualcuno è in grado di spiegarcele queste cose, ma io non vedo dei segnali di devianza
forte, cioè: “Adesso usiamo contro di voi, in maniera progettuale (davvero tale e non resistenziale,
da barricata, da difesa del vecchio), usiamo in maniera moderna questa libertà di azione e di
progettazione che voi ci avete affidato, e costruiamo e sperimentiamo percorsi materiali alternativi”.
Io non riesco ancora a vedere laboratori reali, veri, storicamente visibili, in funzione, che stiano
producendo questi micro-modelli alternativi, a livello territoriale o addirittura internazionale, che
diano un segnale proprio di riappropriazione del sapere, di sua rielaborazione in progetti svincolati
dal controllo capitalistico. Ma non dico neanche che questo sia impossibile; ma siamo addirittura
estremisti, non dico neanche che questo potrà avvenire solo grazie al soggetto politico. Di certo a
me piacerebbe, sarei già contento se oggi riuscissi a misurare effettivamente dei passaggi (che
qualcuno mi spiega), dentro questa composizione, di riappropriazione della capacità di determinare
il cambiamento, del percorso, dei passaggi materiali di indirizzi nuovi. Se già questo mi fosse
spiegato, io potrei dire sì. Ma secondo me, questa è la sensazione (e continuo a dirmi che spero e mi
auguro che sia pessimistica), nello stesso tempo in cui si allargano i processi di valorizzazione
dell’intelligenza sociale, del nuovo soggetto, del nuovo operaio sociale, in quel momento i
meccanismi del controllo sociale, dentro e fuori la produzione, addirittura indipendentemente dal
dentro o dal fuori la produzione, stanno subendo un processo di raffinazione, davvero come avviene
con il petrolio, dando dei prodotti addirittura nuovi, completamente nuovi. Si tratta di prodotti che
sono in grado, nonostante tutto (e questo è il pericolo principale che io vedo) di governare una
moltitudine che mi sembra somigliare sempre di più a un grande cervello e laboratorio senza la
capacità di darsi suoi centri di comando, come se fossero ancora esterni. E’ una sorta di organismo
sociale, di organismo biologico, che ancora ha un operatore esterno che lo fa funzionare; dunque,
con le funzioni proprie del cervello, con la capacità di una discrezionalità, progettativa e via
dicendo, ma con un’incapacità di essere organico, quindi di essere quello che il capitalismo era
nelle sue origini, ossia la testa di un organismo complessivo, di cui il proletariato era le braccia.
Oggi questa diffusione del modello neuronale a livello sociale, quindi dell’intelligenza sociale, mi
sembra un’operazione che lascia comunque sempre fuori da questa intelligenza sociale la capacità
della decisione, del comando, cioè la capacità di sintesi progettuale. C’è, e questo forse è il pericolo
principale, un’intelligenza (o forse neanche tanto), comunque una capacità reale di impedire
l’agglomerato, la ricomposizione, di impedire cioè che ci sia una materia organica, biologica,
capace di riconoscersi come organica. La stessa cosa era accaduta alle braccia del capitale, ossia la
classe operaia, che avevano capito di essere braccia e rivendicavano il diritto (per le braccia però,
non dicevano di voler diventare testa) di riposare di più, di mangiare di più, di fare meglio nel loro

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mestiere, di stare meno ore in fabbrica e via dicendo: ma queste erano le rivendicazioni delle
braccia, era il cervello delle braccia. Adesso non c’è più questa separazione, ma questo non mi fa
ancora capire come questa intelligenza diffusa, questo general intellect (come Marx diceva), abbia
una consapevolezza di essere tale, come abbia una connessione di massa; la preoccupazione
fondamentale del capitale mi sembra quella di mantenere l’intelligenza sconnessa, scollegata,
parcellizzata. E’ lo stesso meccanismo che si è realizzato con la distruzione della grande
concentrazione produttiva e con la fabbrica diffusa, mi pare lo stesso meccanismo che si applica alla
soggettività sociale. E’ vero che la boita torinese può diventare un’unità produttiva internazionale,
dalle quale esce un prodotto che può essere usato a Detroit o a Torino, ma il comando è a Detroit e a
Torino, le regole di produzione e i costi di mercato là sono decisi. Mi sembra che questo discorso
qui stia funzionando anche su quello del soggetto sociale, dell’individuo, del nuovo operaio
capitalistico: c’è una capacità di sfruttarne al massimo le risorse e l’intelligenza creativa, quindi
produttiva, ma non di consentire lo sviluppo della sua capacità relazionale.
Questa è forse una visione un po’ schematica dello scenario, perché, tutto sommato, la possibilità di
affermare che le intelligenze non sono ancora piegate irreversibilmente c’è; però, perché quando noi
ci confrontiamo a caso con questo soggetto sociale (non ci importa se sia un infermiere, un medico,
un architetto, un ingegnere) e gli poniamo la domanda se è possibile pensare, nel suo specifico
campo di sapere, a una progettualità fuori dal conformismo, dalle regole, c’è lo sbigottimento, la
sorpresa, la meraviglia? Io incontro questo: è come dire, ancora più di prima, “ma tu stai
scherzando”. Qualcuno addirittura a me diceva “non siamo mica in diecimila come eravamo alla
Fiat”, ma sbagliano: noi siamo in cento milioni, quindi potenzialmente con una forza maggiore, ma
c’è un livello di non comunicazione, di non incontro, che è un problema culturale, ideologico, di
solitudine nell’agire. C’è dunque un’individualizzazione tale che il mettersi insieme per, ragionando
sul terreno di progettualità alternativa, al nuovo soggetto fa pensare a uno scenario fantastico, che
potrebbe apparire ancora più fuori dalla realtà che la lotta di classe negli anni ’60 e ’70, ancora più
impraticabile di quella. Ma perché questo? C’è un’arretratezza nel confronto, c’è la mancanza di
collegamenti, c’è tutto quello che si vuole, ma c’è qualcosa di molto grosso che manca: tornando
alla questione iniziale, al problema del gap che c’è tra soggetto politico e soggetto sociale, nuovo
soggetto produttivo del capitale, possiamo dire che esso è centomila volte più ristretto rispetto al
passato, ma è ancora un gap che, a mio parere, ha una valenza politica altissima. C’è in potenza
qualcosa di talmente elevato, forte, grosso, che difficilmente, senza il ruolo fondamentale e centrale
della soggettività politica, può diventare progetto concreto, azione, nuovo terreno di scontro di
classe. Questa è, in generale, la mia sensazione: non riesco ancora a capire che risposta dare a
questo innalzamento spaventoso del sapere di massa rispetto alla pochezza, all’esiguità dei progetti
che da esso nascono, e ad una preminenza ancora netta e totalizzante del progetto capitalistico. Non
si può dire che è solamente un problema di chi controlla la finanza, di chi controlla la repressione,
di chi controlla la comunicazione e via dicendo: è vero, è chiaro che ci sono anche questi problemi,
ma se rispondiamo in questo modo qui tutto il ragionamento sul general intellect lo mandiamo a
farsi friggere, allora diciamo che siamo di fronte a un postmoderno di rincoglioniti, non a un sapere
diffuso e paralizzato. Ma se il presupposto comune da cui partiamo tutti è che è stato fatto, anzi
prosegue, il salto nella conoscenza, nel sapere, quindi nella dotazione di strumenti tecnici,
scientifici e anche culturali, per inventare risposte alternative, diciamo pure anche antagoniste, al
modello esistente, allora mi si deve dire qual è il passaggio dalla dotazione all’esercizio, dove esso
sta. Dobbiamo aspettare che ci sia una società di scienziati perché a quel punto lì capiscono? “Che
cosa ce ne facciamo delle multinazionali, delle grandi banche, del Fondo Monetario Internazionale?
Abbiamo capito che non servono a niente, quindi diciamo loro di chiudere, perché se non chiudono
li facciamo chiudere noi in quattro e quattr’otto, smettiamo di lavorare.” Questo è uno scenario
meccanicista; qual è invece uno scenario soggettivo? E’ quello di dire: “Se è vero che la
composizione tecnica sta cambiando (nell’Occidente ma non solo lì) rispetto ad una massificazione
del sapere, delle conoscenze tecniche e scientifiche, costruiamo il passaggio da questa
massificazione del sapere ad una massificazione dell’agire utilizzando questo sapere, e non

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rivendicando semplicemente salario, reddito. Adesso ti facciamo vedere come progettiamo noi il
mondo nuovo, lo mettiamo sul progetto e dopodomani lo mettiamo sulle piazze, lo facciamo
diventare azione. E prima ti dimostriamo la supremazia per l’umanità dei nuovi progetti, poi, se non
la capisci, ci scontriamo”. Per quale ragione questi passaggi, in questo modo detti allegramente, non
avvengono in termini nemmeno esemplari? Vuol dire che il sapere incarnato in strati di massa ampi,
un sapere significativo e qualitativo, di per sé può essere perfettamente inutile se non c’è la capacità
del governo del sapere, quindi se non c’è l’elemento politico, ossia se non se c’è il decidere l’uso
del sapere quale deve essere: questa è la soggettività, la soggettività collettiva, la soggettività che si
scontra con un’altra soggettività, cioè con una soggettività, quella del capitale, che ha i suoi
progetti. Allora, mi pare che il rischio sia quello di dire: “Che lo vogliano o no, i potenti del mondo
dovranno fare i conti con un’evoluzione delle soluzioni ai problemi del pianeta che estinguerà il
loro ruolo”, ossia con un’evoluzione che (ripeto, ancora una volta oggettivamente) dimostrerà che
(come qualcuno tenta di teorizzare oggi da parte dei potenti) la separazione tra dominanti e
dominati, tra chi comanda e chi obbedisce, costituisce una differenza che tende ad estinguersi. Se
c’è una cosa di cui la destra internazionale parla è proprio questa, il “noi lottiamo perché ci sia la
fine dei muri, perché la società abbia, dai centri più potenti di governo del mondo all’individuo
singolare, una sorta di nuova armonia”: questa è la sfida culturale della destra. Allora, se diciamo
che questo processo è irreversibile, a che serve il conflitto se non a inventare nemicità, a inventare
scenari bellicosi che diventano il freno ad un’evoluzione ormai inarrestabile, frutto del conflitto di
classe e di tutto quello che vogliamo? In questo modo viva la lotta di classe passata, gli esiti sono
tali che ormai si è imboccata una strada difficilmente reversibile, cioè difficilmente riproducibile in
uno scenario di classi antagoniste. Questo ottimismo evoluzionista della specie umana, chissà,
potrebbe essere vincente: io la vedo con la pelle d’oca un’affermazione del genere. Attenzione, non
è che voglia ridicolizzare questo ragionamento dicendo che lì non c’è conflitto: in quel
ragionamento il conflitto c’è eccome, ma è il conflitto della ragione, non è quello della forza, è il
conflitto di una ragione che impone la sua superiorità, che vince perché non ha più la mistificazione
del “tu sei mio nemico” oppure “tu sei mio amico”. E’ il conflitto tra i progetti, questa è la vera
mistificazione: vince l’intelligenza, la capacità di progettazione più alta. Io a questo non ci credo,
secondo me vince un nuovo modo di concepire lo sfruttamento o una liberazione da esso. Si tratta
però di fare un lavoro di ricerca, di analisi, di verifica, di qual è la vera fisionomia di questo
scenario oggi; perché finché noi non lo demistifichiamo non avremo molte cose da aggiungere o da
contrapporre a chi dice: “Voi fagocitate di nuovo la separazione irriducibile di interessi, voi
comprimete di nuovo il conflitto del progresso dentro la logica che la tua fine è la possibilità della
mia affermazione e viceversa: ancora una volta siete manichei, dite che il sistema capitalistico è
comunque un soggetto che fino alla fine vuole vivere, a costo di farti morire. Invece non è così, il
problema è che la sua sconfitta è quella di un organismo che ha fatto il suo tempo e che oggi non ha
più bisogno di esercitare una funzione che è assolta dalla società, quella del cervello, quella del
governo delle cose e del progresso. Dunque, c’è un assorbimento di funzioni, la società diventa
bastante a se stessa, essa assorbe anche le funzioni capitalistiche che quindi non sono più utili
storicamente, si disperdono nella società, la quale si autogoverna: è questo lo scenario”.
Io continuo a vedere un cervello soggettivo capitalistico e un cervello produttivo, il nuovo operaio
internazionale, l’operaio post-fordista, che è un cervello ancora governato e comandato da un altro
cervello. Allora, se vogliamo andare avanti sulla fisiologia, è vero, non parlo più nemmeno io di
muscoli, striati o lisci, parlo di un organismo vero e proprio, ma di un organismo che non si muove
con la sua autonomia e con la sua indipendenza: questo non c’è, e nemmeno i segnali di
indipendenza e di autonomia sono ancora significativi, ancora c’è un soggetto esterno che governa
questo organismo, ancora c’è un cervello esterno, anche lui più raffinato di prima, che governa.
Quindi, questa separatezza io continuo a vederla ancora. E’ vero che, come diceva Marx, la
rivoluzione e il comunismo saranno un risultato di emancipazione anche per gli sfruttatori, e che la
liberazione dal ruolo di sfruttatori sarà un fatto positivo anche per loro, ma che questo voglia dire
che oggi, nel post-fordismo, nella modernità, questa cosa avvenga con una resa di fronte

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all’intelligenza sociale da parte del capitale, qualcuno me lo deve un attimino illustrare, o me lo
deve spiegare, anche in prospettiva, in uno scenario teoricamente sensato. Dall’altra parte io non
voglio dire con questo che gli scenari sono di “guerre stellari”, non nel senso di barricate di piazza
ma di guerre senza soluzione di continuità dal punto di vista degli strumenti che si mettono in
campo, cioè di un soggetto sociale che si organizza a tutti i livelli possibili: “Da una parte riesco a
far partire due missili dal mio laboratorio perché li ho costruiti insieme ai miei compagni e abbatto
il parlamento; dall’altra parte sono capace di fare un progetto di urbanizzazione nuovo e faccio una
lotta durissima per costruirlo”. Non lo so se sia così lo scenario, ma un qualcosa di diverso da uno
scenario spietato dal punto di vista della radicale alterità di interessi io ancora non riesco a capirlo,
perché l’unica altra alternativa che io vedo è quello di un piegarsi dell’intelligenza capitalistica di
fronte ad un’intelligenza sociale forte e capace di vincerla senza sconfiggerla, quindi di
neutralizzarla senza batterla sul piano politico, cioè di dimostrare che “non solamente non servi più,
ma addirittura che facciamo, pensiamo e progettiamo meglio, come è senz’altro vero in potenza: tu
non servi più, sei un soggetto inutile, e tu nella tua inutilità ti estingui”. Io credo che questa
consapevolezza dentro il soggetto capitalistico sia tale da innalzare la ferocia agli altissimi livelli di
un organismo che vuole sopravvivere, di una soggettività collettiva, quella capitalistica, che vuole
sopravvivere dentro meccanismi biologici vitali che sono quelli di sempre, salvo riadeguarsi
all’attualità; comunque sono quelli di un organismo che vive di regole e di modelli che esistono
sulla base di una legge fondamentale, che è quella dello sfruttamento, nella sua variante più
moderna. Se noi non siamo capaci di spiegare questa cosa qui, rischiamo di finire non solo per
essere identificati come comunisti nel senso tradizionale del termine, cioè quelli che vogliono fare
la rivoluzione, che vogliono attaccare lo stato del benessere, tutto il peggio che si può dire e che è
stato detto sul comunismo; ma addirittura quelli che, in nome di un modello comunista,
determinano soggettivamente l’arretramento. Questa sarebbe, dal punto di vista ideologico, la vera
sconfitta, ossia il fatto che si identifichi in maniera irreversibile lo scontro di classe, l’antagonismo
veramente come una malattia sociale, una piaga che è il primo nemico dei proletari. Questo è il vero
problema di fondo, e non basta dire che tanto quelli sono sfruttati e mica non hanno consapevolezza
di esserlo; bisogna capire cosa hanno in testa dal punto di vista delle vie d’uscita, dei progetti
risolutivi della loro condizione. E’ stato vero nel passato che nelle file reazionarie c’erano milioni di
proletari, non solo negli eserciti, ma anche nelle brigate, nelle organizzazioni non ufficiali, anche i
mille di Garibaldi erano proletari, non so quanto gliene importasse di andare giù a liberare l’Italia
però ci sono andati perché, in quel caso, gli davano il pane; ma oggi, il fatto che si identifichi
chiunque teorizzi e organizzi il conflitto come un soggetto di arretratezza, nemico del progresso, è
un problema grosso e reale. Nello stesso tempo, se noi non siamo capaci di ragionare insieme a
questo nuovo soggetto sul fatto che le regole della modernità, della valorizzazione personale,
individuale, che vengono offerte oggi, sono regole di nuova subordinazione, è un bel guaio lo
stesso. Questa grande intelligenza è quella di un automa. Noi allora possiamo dire che i meccanismi
automatici sono passati dalla catena di montaggio ai robot, non è vero che se si passa
dall’elettromeccanica o dall’elettronica alla biologia pura i meccanismi di subordinazione non
possono funzionare lo stesso; non è vero, cioè, che perché diciamo che il nuovo soggetto produttivo
è dotato di materia grigia, questo impedisca e ci dia la garanzia e la certezza che non sarà piegato.
Anzi, le sconfitte di questo nuovo organismo sociale collettivo sono tali che, se diventano forti,
hanno una pesantezza nettamente superiore.
Questa è una visione che molti definirebbero catastrofista, perché vuol dire che la speranza che dal
conflitto, sia pure da uno non antagonista, non nasca comunque la migliore soluzione per tutti, è una
speranza pessimistica, tragica, catastrofista. Mentre, invece, il discorso in positivo sarebbe di dire
che il conflitto, se basato su quelle regole, prima di tutto quella di non piegare e sconfiggere il tuo
nemico, ma di dimostrare la forza del tuo progetto, basta perché vada avanti; tutto quello che esce
da questo scenario qui è semplicemente una logica distruttiva, di guerra all’ultimo sangue contro un
nemico che non c’è più. A me piacerebbe poter dire e riconoscere di sbagliare profondamente,
vorrei proprio che qualcuno (in questo momento probabilmente non c’è nessuno) e che i fatti

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dimostrino questa cosa qua: non ci credo, però non dico neanche che la nostra analisi oggi è in
grado di dare a questo scenario un retroterra di spiegazione teorico-scientifica nutrito. Quindi, io mi
limito a dire che, personalmente, sono più sbilanciato a diffidare di chi dipinge scenari irreversibili
di trasformazione positiva della società in assenza di conflitto, anche radicale, rispetto a chi dice
invece che fuori da un innalzamento della radicalizzazione del conflitto non c’è possibilità di
inversione nei processi di trasformazione del mondo. Io oggi mi sbilancio di più su questo versante,
mi schiero sul terreno di chi dice: “Senza intelligenza collettiva nella progettualità e senza
organizzazione di questa intelligenza collettiva, con un terreno di conflitto articolato ma alto, non
c’è possibilità di inversione rispetto al progetto dominante”, rispetto invece a chi dice: “Andiamo
avanti dentro la contraddizione perché la riassorbiamo, la neutralizziamo, perché siamo capaci, e lo
dimostreremo man mano che il tempo va avanti, di erodere gli spazi di autonomia del capitale e li
ridurremo a niente, e lo estingueremo senza spargere sangue”. Rispetto a questo scenario, che uno
potrebbe dire che è bello, io personalmente, per onestà, mi schiero nettamente sull’altro versante,
cioè su chi invece dice che solo l’altissimo innalzamento della capacità di progetto collettivo e,
nello stesso tempo, di dotazione (e forse bisogna avere l’onestà anche di dirlo, dovrebbero fare
anche altri intellettuali che ragionano su queste cose qui) e anche con una determinazione di pari
livello, della stessa altezza della qualità dei progetti che si va a costruire, con la stessa adeguata
determinazione alla materiale esecutività, alla materiale capacità di rendere esecutiva questa
progettazione, oggi è possibile invertire la tendenza. E questo vuol dire non solamente conflitto, ma
scontro di classe: scontro di classe nel post-fordismo, nella modernità, adeguato ai cambiamenti
emersi da una grande sconfitta della vecchia composizione di classe. Io la penso esattamente in
questo modo qui, sono schierato su questo terreno che, secondo me, tutto sommato, non è che
preluda necessariamente a bagni di sangue. Non prelude però ad un silenzioso estinguersi e
scomparire di un soggetto che diventerà, insieme a me, finalmente consapevole dell’impossibilità di
marciare su terreni diversi (il mio interesse contro il tuo, in termini di soggetti collettivi) e capirà
che la sua stessa emancipazione passa attraverso un superamento definitivo dell’antagonismo di
interessi: non ci credo, almeno quella del modello occidentale di oggi è una natura ancora
profondamente di classe, è una natura che, per essere soddisfatta e nutrita, ha bisogno di una gran
parte dell’umanità piegata al suo servizio. Questo è il modello di oggi, non credo che questo sarà a
un certo punto oggetto di rinuncia volontaria per una serie di motivi: io penso che la rinuncia sarà
una resa di fronte ad un conflitto sociale dispiegato, a partire dall’Occidente, senza di questo non
vedo scenari di soluzione. Sicuramente sarò ben contento di fare autocritica, dopo di che è una
speranza che è come quella di dimostrare che l’auto-imprenditorialità, di per sé, è la condizione per
diventare ricchi: una pura illusione!

- In molte letture mitizzanti di Seattle si è parlato di questa società civile che spontaneamente si
costituisce in soggetto politico. Non pensi che spesso, facendo confusione con la lotta di classe,
si esaltino conflitti che non sono contro la dimensione capitalistica bensì ad essa funzionali,
oppure che esprimono non alterità ma forme di critica innovativa, comunque sempre all’interno
dello sviluppo sistemico?

Io ho sentito il ragionamento di Giuliano Amato su Seattle fatto ai giovani in un’assemblea


pubblica. Amato ha testualmente detto: “Seattle è stata una babele. Lì si sono incontrati gli uomini
di governo dei paesi avanzati e quelli dei paesi arretrati, in più gli ecologisti, i sindacalisti, i
disoccupati. Quindi il politico internazionale, cioè la rappresentanza, dell’Occidente e del resto del
mondo, e il sociale: questa è la Babele, una Babele di incomprensioni. Non ci siamo capiti”, dice
Amato. “Non si sono capiti i governanti dei paesi emergenti rispetto a quelli dei paesi ricchi, non si
sono capiti rispetto a quelli che erano fuori. Gli ecologisti fuori, tutti occidentali, dicevano di volere
un progresso che difenda l’ambiente: ma quelli del Terzo Mondo di questa cosa qui se ne fregano,
perché sostengono che quelli che hanno basato le loro fortune sullo sfruttamento del Terzo Mondo,
che per secoli sono andati avanti a inquinare, a sfruttare, a distruggere, ora vogliono che ogni

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istanza produttiva rispetti l’ambiente, non sia inquinante, quindi che abbia anche dei costi elevati di
realizzazione, e li si vuole imporre a tutto il mondo, anche a loro. Quindi, il Terzo Mondo contro gli
ecologisti. L’Occidente dice che non vuole che i bambini lavorino, quale aberrazione, da secoli si è
impedito lo sfruttamento dei bambini; ma il Terzo Mondo dice che se quei bambini non li fanno
lavorare sono sulle strade, venduti (perché c’è la compravendita dei bambini o dei loro organi),
esportati o venduti in loco per la prostituzione; quindi, se li mettiamo nelle fabbriche…”, ma anche
Amato è scandalizzato e dice “non chiamiamole neanche fabbriche, se li mettiamo in quei luoghi
(dove li sfruttiamo), noi costituiamo per loro un’alternativa migliore di tutte le altre che avrebbero.”
Quindi i governanti dei paesi del Terzo Mondo sostengono: “Voi venite a dirci di non fare lavorare i
bambini, che non venderete i prodotti se costruiti dai bambini? Ma mettetevi dentro le nostre
condizioni”. Dice Amato: “A Seattle in questa babele di incomprensione internazionale tra il sociale
e il politico, tra il politico e il politico, quindi tra le rappresentanze e il sociale, la mia valutazione,
da uomo politico dell’Occidente, è: non so che risposta dare.”
Da un certo punto di vista Amato è onesto, ma questo “non so che risposta dare” non è che
nasconda invece ancora una volta la contraddizione vera? Non è che il suo tentativo è stato quello di
mistificare la contraddizione dicendo: “Comunque sia noi dell’Occidente, di destra o di sinistra,
siamo un’altra cosa rispetto agli altri paesi, e l’incomprensione che c’è non è di destra o di sinistra,
è l’incomprensione della materialità, oggettiva”? “Quindi, lasciamo che le cose vadano avanti in
maniera contraddittoria, e non pretendiamo che il modello occidentale, soprattutto nelle sue regole
etiche, sia universalmente accettato e imposto al mondo, perché il resto del mondo ci risponde con
le sue contraddizioni. Il nostro è il lusso di chi si può oggi permettere pretese avanzate rispetto a chi
è ancora sulla soglie dei bisogni primari, elementari, delle risposte a problemi di sopravvivenza.”
Come dire: “La nostra coscienza siete voi fino a un certo punto”, dicendo “abbiamo capito che sono
diversi”; non è che aggiunge anche alla valutazione il “Noi abbiamo costruito questa condizione nel
mondo; noi siamo la causa non dei bambini che lavorano, ma dei bambini che se non lavorano sono
venduti, prostituiti, sezionati, tutto il peggio che si vuole; comunque noi dell’Occidente siamo i
colpevoli. E non possiamo dire che il nostro compito per lavarci la coscienza è di capire quella
contraddizione dicendo a loro che non li condanniamo perché fanno lavorare i bambini, ma
cerchiamo di capire perché noi abbiamo creato queste condizioni”. E non mistificare quelle
condizioni, dicendo che non è facile uscire dalla Babele, come sostiene Amato, perché questa cosa è
il prodotto di uno sviluppo governato comunque a livello internazionale dall’Occidente; quindi,
quelle condizioni sono il risultato di un modello che ha la sua variante secondomondista,
terzomondista, quartomondista, comunque governata dall’Occidente. Cioè, “non siamo responsabili
del fatto che i bambini lavorano nel Terzo Mondo, ma siamo responsabili del fatto che se non
lavorano sono abbandonati al loro destino, comunque siamo responsabili”: questa cosa qui Amato
non l’ha mica detta. Amato ha voluto fare capire ai giovani che oggi questi discorsi di destra-
sinistra, manichei, di chi è dalla parte dei più deboli e chi è dalla parte dei più forti, non sono così
facile da fare: “State attenti che è pieno di trabocchetti”, gli ecologisti che vogliono certe cose, e gli
altri che rispondono di andare al diavolo perché devono mangiare, e via dicendo. E’ vero che è la
polemica anche nostra con l’ecologismo occidentale che non affronta invece la contraddizione
reale, che fa della difesa dell’ambiente un problema occidentale e non mondiale, di superamento di
certe condizioni e contraddizioni a livello internazionale, cioè non ne fa un problema di classe. Ma
Amato dice: “Seattle è l’esempio più alto che abbiamo avuto recentemente della Babele
internazionale, in cui non c’è la possibilità di definire gli schieramenti, chi è progressista e chi è
conservatore, chi vuole il bene dell’umanità e chi vuole difendere gli egoismi. Quell’esperienza è la
dimostrazione vivente dell’impossibilità di discernere sui valori etici, sugli schieramenti politici,
sulle scelte strategiche e via dicendo. Quindi, non so cosa bisognerebbe fare.” E dice ai giovani:
“Voi che, a differenza di noi vecchi, siete le nuove generazioni, forse, grazie al fatto che non avete
paura di misurarvi sulle cose nuove, probabilmente troverete le risposte. Noi abbiamo le nostre
risposte, che sono anche quelle della nostra sicurezza politica, teorica, costituzionale, della nostra
storia.” Come dire: “Sono un po’ affari vostri. Noi siamo una generazione che sicuramente queste

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contraddizioni non le risolverà, però sappiate che non è così semplice, che oggi dire di essere dalla
parte dei più deboli può significare esattamente il contrario, e dire di essere dalla parte dei più forti
può significare esattamente il contrario.” Cioè, chi non si oppone eticamente allo sfruttamento dei
bambini nel Terzo Mondo è più progressista di chi dice che non compra dalla tal azienda se riesce a
provare che essa fa lavorare i bambini, non venderà niente a lui e al suo paese, la fa chiudere, e
rimanda i bambini nelle strade a morire, a essere venduti, a prostituirsi: questo è un reazionario.
Quindi, è una minaccia anche ideologica e culturale a stare attenti ad usare i criteri della
collocazione e per lo schierarsi personale: “State attenti perché non è così facile, guardate Seattle,
guardate questa Babele. “ Dunque, Amato dice che il vero problema è quello dell’incomprensione,
la mette sul culturale, forse anche sul politico: ma l’incomprensione di cui lui parla, da uomo molto
intelligente, è quella che, per me personalmente, è ancora una volta l’impossibilità di razionalizzare
la contraddizione e di riportarla su un piano di pacificazione. Poi mettiamola come vogliamo, ma
questo è il discorso, è l’impossibilità di dire: “Non ci capiamo ma dobbiamo capirci, perché quando
ci capiremo allora queste incomprensioni (che possono essere pericolose, perché possono produrre
antagonismi) diventeranno cooperazione, collaborazione, scambio eccetera”. Ma il problema è che
lui dice: “Adesso ci sono i governanti dei paesi emergenti che hanno abbandonato Seattle perché
noi dell’Occidente non ci siamo fatti capire, e loro non si sono fatti capire, comunque non ci siamo
capiti. Quelli a cui loro pensano sono scenari in cui ancora l’Occidente è visto come il prepotente
storico che adesso cerca di convincere il resto del mondo che ci sono strade democratiche per
risolvere i problemi, e che gli rimprovera di avere costruito queste strade sui cadaveri o sulla
distruzione di risorse umane e naturali del Terzo Mondo; e che quindi ha l’astio e l’acrimonia di chi
per secoli è stato piegato e schiacciato.” E vorrei vedere, ma gli inviti alla cooperazione e al
confronto non hanno funzionato: quindi, l’incomprensione è lo scenario. “Non ci stiamo capendo
per le colpe di tutti, e in particolare, se vogliamo, anche dell’Occidente, ma comunque non ci stiamo
capendo: il vero problema è quello di riuscire man mano ad affrontare i problemi per superare
questa incomprensione.”
Ma che altro è questo ragionamento se non quello che dicevamo prima? Il fatto cioè di misurarsi
con i passaggi di sperimentazione reale del cambiamento, questa volta a livello globale, come dice
anche Amato ai giovani: “Non più ragionate sul vostro territorio, sul vostro paese, ormai siete
obbligati a ragionare a livello internazionale. Saranno i passaggi e le sperimentazione di risoluzione
dei problemi a risolvere il problema dell’incomprensione. L’importante è che non vi chiudiate in
egoismi di tipo nazionalistico, regionalistico, localistico, arroccati sulla difesa dei privilegi storici:
misuratevi a tutto campo, a livello internazionale, dalla soluzione di questi problemi nascerà la
risposta all’incomprensione di oggi. Oggi però Seattle è l’immagine del mondo.” Va bene, siamo
d’accordo anche noi ad entrare nel merito di queste cose, ma non accettando e legittimando la
mistificazione che questa incomprensione pone nel mondo intero tutti sullo steso piano, incapaci di
capirsi: no, ce ne vuole (se mai è questo che vogliono) perché miliardi di persone e i loro
rappresentanti politici capiscano chi li ha dominati fino a ieri e li interpretino come soggetti che
hanno aperto le porte della cooperazione e della collaborazione internazionale in nome di uno
sviluppo unitario del pianeta. Però, Amato dice che è questo lo scenario, indicazione che anche la
nostra classe politica, quella più intelligente, ha ben presente, essa sa che la situazione è abbastanza
complicata a livello internazionale. Però, anche per noi, la cosa non deve essere semplificata
dicendo semplicemente che questo qui è il mistificatore; non è vero che a Seattle c'è stata la
contrapposizione tra il mondo potenzialmente rivoluzionario e anti-capitalistico: non è vero, sarebbe
un mistificare anche questo. Però è vero che quello è uno scenario realisticamente rappresentativo
della questione generale, e segnali che sono venuti anche lì probabilmente bisognerebbe studiarli un
po’ meglio, anche perché sono esemplificativi solamente, sono piccole esplosioni di messaggi, di
segnali, più che di progetti che hanno cominciato a marciare. Non so se qualcuno è riuscito già a
scrivere e a studiare quell’esperienza e capire cosa ha voluto dire, non dobbiamo dimenticare di
guardare anche quella, ma è comunque un bell’esempio del problema generale che abbiamo noi.

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- Come dicevi tu, questa non è comunque stata la rappresentazione del mondo anti-capitalistico:
del resto, anche in passato (ad esempio nella battaglia contro il nucleare) c’erano state
convergenze tattiche e temporanee con settori impegnati su tematiche specifiche, che portavano
avanti una critica ad alcuni aspetti dello sviluppo capitalistico e non certo per un’uscita da
esso. Non credi che siano una mistificazione le analisi che vedono un costituirsi di soggetti
sociali di per sé immediatamente antagonisti, quindi senza più bisogno di un soggetto politico?

Certo. A meno che noi siamo incapaci di vedere una genesi ancora embrionale, ancora nella sua
fase davvero buia, e un giorno vedremo il formarsi di questa nuova realtà e ci picchieremo contro il
naso: non escludiamo niente, i nostri strumenti di comprensione e di riflessione sul cambiamento
non ce lo fanno intravedere questo scenario o, perlomeno, non ci danno una dimostrazione di
vicenda storica in corso e in progress, sia pur caratterizzata dalla sperimentalità, significativa. E’
vero che le lotte in Francia, in Germania, in Italia di alcuni settori nuovi sono stati interessanti, ma
la loro caratteristica fondamentale è stata quella della profonda, radicale incapacità di passare dal
pretesto materialissimo che le ha scatenate all’esecuzione in progetto che da quelle contraddizioni
doveva nascere: questo è stato il passaggio che è mancato. Le lotte nella sanità in Francia sono state
davvero bellissime e durissime, sono state le lotte di un soggetto sociale che non c’entrava niente
con il proletariato industriale; però, a quanto io ho potuto vedere, dal punto di vista della messa in
discussione del meccanismo istituzionale dell’assistenza sanitaria non hanno determinato nulla, ma
perché si ponevano davvero su un livello molto alto di rottura, tenerlo era (ed è tuttora) un grosso
problema. Non lo so se settori limitati di soggettività sociale, anche organizzata, ce la potrebbero
fare ad andare oltre certe soglie di sperimentazione. Io sono convinto che la logica repressiva sia
davvero tendenzialmente esecrata anche dal potere, questo vuole dimostrare di essere capace di
prevenire, comunque e subito, nella miglior tradizione della scienza che dice che la vera modernità
del progresso scientifico non sta nella capacità di evacuare le popolazioni sotto un vulcano in
eruzione, ma di farle andare via con calma prima che ci sia l’eruzione, e così per le malattie e via
dicendo. Questo è il problema, eliminare la necessità di reprimere, altro che i massacri degli agenti
di custodia di Sassari, questo è residuo di una vecchia logica; per carità, non sto dicendo che sia
superata, anzi, appunto, come si vede funziona ancora eccome. Però, arrestare ottanta e rotti agenti,
direttori di carceri, metterli in cella, vuol dire che c’è comunque il tentativo di dare un segnale, che
non va bene così, che non si possono spegnere i mozziconi di sigaretta sui detenuti: “ma cosa
siamo, barbari?”. Deve essere su un altro terreno di risoluzione il problema del controllo sociale,
quindi Caselli, di cui si chiede la pelle da parte del sindacato degli agenti, va giù dicendo: “Primo, il
corpo degli agenti di custodia è un eroico corpo sicuramente non contaminato dalla cultura della
violenza eccetera, salvo queste degenerazioni”, quindi va giù a piegarsi, per poi dire però:
“Insomma, come facciamo a non arrestarli? Non si fa così”. Ma “non si fa così” di fronte a chi ha
sempre fatto così, perché è sempre successo questo nelle carceri; lì è venuto fuori come
comportamento massificato addirittura, ma siamo su uno scenario secondo me arretrato di esercizio
del controllo sociale, tra l’altro in uno dei luoghi più totalizzanti da questo punto di vista com’è il
carcere. Io credo che la strategia vincente sia quella della scientifica e democratica prevenzione di
tutte le malattie, soprattutto di quelle sociali, che sono le peggiori, ma quelle bisogna prevenirle,
dando risposte che non siano comunque di autoritarismo, di vessazione, di prepotenza, ma risposte
del tipo “parliamone, troviamo insieme la soluzione, cerchiamo di non identificare lo stato e le
istituzioni forti come delle controparti e voi come i deboli, cerchiamo di trovare una soluzione
insieme”. Questo salvo la stigmatizzazione criminale di tutto ciò che la cultura della prevenzione
non riesce ad evitare; lì sì non c’è più mediazione, la criminalità è criminalità. E nella criminalità
rientra tutto ciò che, fuori da questa sofisticata logica preventiva, sfugge, non riesce a rientrare. Non
può essere considerata un’anomalia con diritto di cittadinanza, perché tutto ciò che è compatibile ed
è legittimo ha diritto di cittadinanza: viene tolta la legittimità di esistenza dell’anomalia, e lo stigma
è quello della criminalità, non è uno stigma del comunismo, della sovversione, della devianza, è
criminalità, perché tutto il resto può essere ricomposto. Tutto può e deve trovare una soluzione

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positiva, e questo è il limite estremo della democrazia capitalistica che, quando è spinta al massimo,
come può dire che ciò che esce fuori dalle regole abbia fondamento? E’ immediatamente bubbone.
L’importante è che ciò che sfugge alla logica della prevenzione non abbia una dimensione
massificata; lì c’è l’elemento del terrore vero del sistema di potere, perché il problema è quello della
massificazione, che impedisce di classificare clinicamente una malattia come guaribile, anche con
l’estirpazione, la massificazione vuol dire metastasi. Il capitale deve quindi cercare di non creare
questa metastasi nel sistema, questa patologia diffusa: ciò è il vero terrore, come abbiamo noi il
terrore del cancro e della sua diffusione. Tutto deve essere ricondotto in una logica isolabile, quindi
identificabile, circoscrivibile, e renderla patologia guaribile, quindi dentro un organismo sano. Se
questa cosa qui scappa di mano è un bel problema: non è ancora accaduto, almeno nel mondo
occidentale, se dovesse accadere oggi nella modernità sarebbe un bel casino, un bell’esempio per
capire che cosa può succedere. Dimensioni massificate come il movimento operaio degli anni ’60 e
’70, quindi di milioni di soggetti organizzati in campo nel conflitto, oggi, sul terreno nuovo dello
scontro, io credo che veramente sarebbero uno scenario talmente pre-rivoluzionario, vicino ad una
rottura definitiva, che si farà di tutto perché non accada.
Dunque, ripeto, quella della prevenzione è la vera cultura del comando moderno, di una gestione
moderna del conflitto sociale, ma a livello internazionale e non solo nell’Occidente. Non ci credo
che, nonostante i massacri che ancora ci saranno, anche la regolazione degli assetti di governo e di
controllo dei paesi del Terzo e del Quarto Mondo avverrà solamente ed unicamente con queste
logiche di guerre locali sanguinarie e di risoluzioni a colpi di massacri delle contraddizioni; credo
che, invece, tendenzialmente si arriverà a cercare una regolazione del genere di cui parlavo prima,
con anche qualche bagno di sangue perché questi sono fondamentali per il profitto, visto che quella
bellica è ancora una delle industrie più importanti a livello internazionale. Comunque, non è
possibile pensare che il Ruanda sia un modello, cioè che tutto passi attraverso il massacro di questi
paesi del 30-40% della popolazione, e ciò a maggior ragione dentro i paesi occidentali. Ciò che sta
capitando a Sassari è davvero un esempio che, paradossalmente, sembrerebbe dar ragione a chi fa i
vecchi ragionamenti, o addirittura potrebbe essere usato da noi per dire che il volto dello stato è
sempre quello violento; però, anche questa sarebbe strumentalizzazione, non è la vera
interpretazione. Quello di Sassari è un errore, un’inadeguatezza degli apparati umani di comando di
quelle strutture, non è vero che non c’era un’alternativa silenziosa ed efficace, c’era eccome. Tanto
è vero che adesso una delle risposte che davano qui nel Nord, ad esempio a Milano, è l’aprire il
nuovo carcere a Bollate: “Vedrete che in questo modo noi calmiereremo le cose, perché le
condizioni di vita saranno migliori, ci saranno più spazi, il carcere sarà più vivibile eccetera.
Quindi, apriamo nuove carceri.” Ma l’apertura di nuove carceri non vuol dire accanimento
segregativo, bensì valorizzazione della funzione rieducativa del carcere e della pena, perché se non
si ha un laboratorio orientativo funzionante, ma si hanno carceri che assomigliano più a quelli turchi
che a quelli di un paese moderno, come si fa a rieducare? La prima risposta è che servono nuove
carceri, che devono far funzionare come meccanismi di recupero reale del soggetto. Secondo me,
quello del carcere è uno dei terreni su cui le cose funzioneranno peggio comunque, perché
dovrebbero riuscire davvero a fare in modo che anche il carcere sia uno strumento il più temporaneo
possibile di segregazione, e a far funzionare invece meccanismi interno-esterno più intelligenti, per
cui resta sempre la logica di segregazione ma come una logica quasi deterrente. Quando oggi
parlano di certezza della pena e del fatto che uno che riceve una condanna la deve scontare tutta,
subito giustamente i giuristi dicono: “Attenzione però, perché certezza della pena vuol dire anche
nostro ragionamento sull’adeguatezza della pena; perché se uno che fa un omicidio, rispetto al
codice penale oggi, rischia mediamente di avere la stessa condanna di uno che fa un reato
nettamente più basso, ma che è punito perché attacca il patrimonio o qualcosa di simile, e può
rischiare più o meno di trovarsi con la stessa entità di condanna, c’è qualcosa che non va. Perché la
certezza della pena, e quindi della sua esecuzione dal primo all’ultimo giorno, sia praticabile, deve
esserci un nostro intelligente riadeguamento della entità delle pene.” Addirittura si stanno
interrogando sul codice penale, perché fino ad oggi c’era sempre la possibilità di uscire, entrare,

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misure alternative e via dicendo, adesso c’è questo irrigidimento sulla certezza che uno se è
condannato si fa la pena, soprattutto per certi reati; dicono di stare attenti, di stabilirla bene, perché
altrimenti subito dopodomani riesplode la contraddizione, e si sente dire di uno che sta facendo
vent’anni per un reato su cui non ha più scampo di uscita prima della fine della pena rispetto a un
altro che ha preso vent’anni come lui e ha fatto disastri cento volte superiori. Quindi, questo
discorso della certezza della pena non sarà tanto facile da applicare perché è un problema proprio
del calibrare questo equilibrio delle pene; dunque, questo rigore è un po’ difficile da realizzare.
Tenderanno a realizzarlo, questo è certo, però il carcere funzionerà sempre di più quanto più verrà
utilizzato come strumento estremo, secondario, quando si supera davvero la soglia della
prevenzione, e comunque anche lì con la possibilità, in ogni caso, di rientrare nelle regole. Quindi,
anche dentro il carcere, si punta a un qualcosa che assomigli di più a una comunità separata, con
regole magari più rigide, per cui alla fine in qualche modo i processi di normalizzazione riescano a
viaggiare anche lì dentro, non invece di intensificazione della natura criminale di chi ci va dentro,
per cui entra perché ha fatto un furto ed esce omicida (questo è quello che avviene normalmente
oggi nelle carceri). Però, insomma, la partita si giocherà soprattutto fuori.

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INTERVISTA A RITA DI LEO – 11 DICEMBRE 2000

- Come hai cominciato ad interessarti di politica e qual è stato il tuo percorso di formazione
politica e culturale?

Vengo da una famiglia di intellettuali laici, mia madre era una pedagogista d’avanguardia, convinta
che i giovani andassero rispettati. Sono stata molto fortunata. La mia esperienza politica è
incominciata con l’inchiesta sui braccianti (I braccianti non servono. La lotta di classe nelle
campagne pugliesi, pubblicata nel 1961 da Einaudi) per la quale sono entrata in contatto con il
partito comunista di Cerignola e degli altri paesi della ricerca. Nel libro c’è una descrizione di quel
mondo scomparso – come lo colsi nell’intensità dei miei 19-20 anni.
Per la formazione politica il primo incontro importante è stato con un bracciante comunista di
Cerignola che si chiamava Angione, ed era stato un testimone diretto e attivo degli sconvolgimenti
sociali nel passaggio dal fascismo alla democrazia cristiana. Il secondo incontro è stato con Raniero
Panzieri: è stato lui ad introdurmi alla lettura “operaista” di Marx. Da quel momento ho letto le
opere di Marx come se si trattasse del grande “romanzo” della rivoluzione dietro l’angolo.
All’epoca per me ragazzina Marx è stata la spiegazione a tutti i perché che cercavo sul capitalismo e
sulla borghesia.

- Cosa hanno rappresentato Quaderni Rossi e Classe Operaia come momenti di formazione
collettiva di voi che avete vissuto queste esperienze?

Io non so perché usiate l’espressione formazione collettiva, la realtà è più prosaica: molto spesso i
Quaderni Rossi si riunivano a casa mia quando eravamo tutti a Roma: dieci/quindici persone,
mangiavamo, discutevamo, scherzavamo. Non c’era un collettivo, c’erano forti personalità: le due
più forti erano quelle di Raniero e di Mario. E Mario, anche perché era più giovane di Raniero,
aveva molto rispetto di Raniero. Mario aveva tuttavia sue posizioni, che poi diedero vita a Classe
Operaia. Anche per via dei tempi Raniero era una creatura del movimento operaio, molto
estremista, molto di sinistra, ma gli apparteneva: era un grandissimo intellettuale, una grandissima
intelligenza, ma in qualche modo ci stava utilizzando per fare paura ai suoi compagni del PSI che lo
avevano marginalizzato.
Siccome io ho studiato molto bene il collettivo nell’esperienza sovietica, mi dovete credere, di
“collettivo” non c’era assolutamente nulla: c’era Raniero che parlava e, come si diceva all’epoca,
esponeva la linea, e poi c’era Mario che, in modo flautato com’è sua natura, correggeva o spostava
la linea di Panzieri; questi era intelligentissimo, captava le possibili novità e le integrava nel suo
discorso finale, e poi se ne andavano tutti a casa soddisfatti, perché io a un certo punto della serata
dicevo “adesso basta, ve ne dovete andare, è tardi”.

- E’ vero, è un termine improprio il nostro, infatti da tutte le interviste questa cosa che stai
dicendo è venuta fuori in termini grossi. Però, questo involontariamente ha portato ad una
bella domanda: tu hai detto che c’era una differenza fondamentale tra la dimensione dei
Quaderni Rossi e di Classe Operaia e la dimensione del collettivo nell’esperienza sovietica.
Dicendo questo, ti riferisci alla prima parte di quella esperienza, cioè al processo di formazione
del gruppo bolscevico, oppure a quella successiva, per intenderci dopo il ’30? In termini di
collettivo, qual è la differenza sostanziale?

La leggenda vuole che tra il febbraio e il novembre del 1917 ci sia stata una partecipazione
spontanea e collettiva degli operai alla lotta dei bolscevichi; in seguito “collettivo” nella
terminologia sovietica ha significato la gestione dei differenti gruppi sociali - operai, contadini,
intellettuali - che apparentemente si fondava sulla democrazia diretta, ma era tenuta in realtà a
osservare regole ben precise. Ora, quello che volevo dire io, e quindi era una notazione di carattere

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positivo, è che non esisteva un simile collettivo da noi: all’epoca dei Quaderni Rossi - ma anche di
Classe Operaia - c’era uno più “anziano”, che ne sapeva di più, che ti diceva cose che non sapevi e
tu le stavi a sentire perché ti interessavano, senza conflitti generazionali e altre cose del genere.
All’epoca dei Quaderni Rossi questi “anziani” che ne sapevano di più erano due, uno ai nostri occhi
era proprio più anziano (in realtà aveva solo quarant’anni), un altro meno anziano, Mario, e noi li
ascoltavamo tutti e due con grande partecipazione, accade così, più o meno, quando si è un gruppo.
Che cosa è successo dopo? E’ successo che dalle esperienze di tipo intellettuale tipiche dei
Quaderni Rossi, siamo passati alle esperienze di tipo militante di Classe Operaia: allora, ciascuno
di noi poteva dare la sua versione della propria esperienza e discuterla con gli altri, ma discuterla
sempre nell’intesa che poi c’era uno che tirava le fila. Non c’è mai stata nessuna parità, mai, non
poteva esserci, sia per l’età e sia anche perché noi francamente non avvertivamo l’esigenza della
parità.
Noi volevamo che le nostre esperienze fossero conosciute dagli altri del gruppo, e diciamo che le
tensioni che si crearono all’epoca dei Quaderni Rossi furono non tanto tra anziani e giovani, ma
all’interno dei giovani su questioni proprio di tipo politico-culturale, nel senso che noi eravamo più
a sinistra di un tipo come il povero Vittorio Rieser, che adesso è tanto di sinistra, ma che a noi nel
1961 sembrava di destra, perché gli imputavamo questa cosa terribile di aver letto Max Weber
prima di Marx, per noi era una cosa imperdonabile, rendetevi conto della comicità della cosa. E
insomma uno come Vittorio Rieser aveva una cultura che a noi pareva sociologica, e noi davamo a
questo termine, sociologico, un giudizio così negativo, il peggio del peggio; noi eravamo convinti
che la nostra esperienza con l’operaio X era molto più importante di quello che lui poteva sapere
sull’organizzazione del lavoro all’Olivetti. Ma tutto poi era nel quadro dell’autorità indiscussa di
Raniero e di Mario.
L’autorità di Raniero va in crisi ai nostri occhi quando appunto si schiera con la “sociologia” invece
che con la militanza politica, e noi, come è risaputo, abbiamo scelto di staccarci dai Quaderni Rossi
e fare Classe Operaia. Stiamo parlando di un periodo in cui appunto ricominciavano le lotte
operaie, come gli scioperi alla Fiat del 1962. L’esperienza di Classe Operaia si è allargata perché
appunto altri studenti come noi nelle varie città facevano “militanza” simile alla nostra. L’esistenza
di Classe Operaia era circolata e serviva da collante. Per ‘contarci’ ci riunimmo a Piombino, il
primo maggio del ’63 - al circolo degli anarchici perché nessuno aveva voluto darci in fitto una sala
- e lì decidemmo di fare il giornale, i volantini, e quello che pomposamente chiamammo
“l’intervento politico nelle lotte operaie”. Diciamo che l’operaismo come fenomeno politico
condiviso nasce il primo maggio del ’63 a Piombino.
Le persone presenti erano circa un centinaio e molto disomogenee culturalmente e politicamente.
Intanto essendo in Italia, vi erano molti d’estrazione cattolica e quindi in loro c’era una sorta di
afflato sociale o di populismo originario che a noi di Roma era completamente estraneo: noi
eravamo laici e volevamo proprio quello che si chiama lo scontro di classe, non è che volevamo
andare ad aiutare gli operai, noi volevamo che gli operai combattessero i padroni. La gran parte di
questi nostri compagni, ad esempio Mauro Gobbini che era stato con Danilo Dolci in Sicilia ad altri,
avevano un orientamento ideologico populista: noi (sto parlando del gruppo di Roma) avevamo
disprezzo per Danilo Dolci, perché per noi, come aveva ben spiegato Lenin, era uno che si
preoccupava delle coscienze di chi andava invece sospinto a muoversi, a lottare. Intellettuali come
Danilo Dolci erano lontani; abbiamo scoperto dopo che la gran parte di quelli con cui avevamo a
che fare, non di Roma, avevano esperienze di tipo populista, cioè erano andati verso il popolo. A
noi importava che gli operai facessero la rivoluzione, se mai si può dire un’assurdità del genere.
Distinguevamo nettamente tra popolo e operai: noi eravamo per gli operai e non avevamo alcuna
propensione verso il popolo genericamente inteso.

- Secondo te, quali sono state le ricchezze e i limiti di Classe Operaia, sia dell’esperienza nel suo
complesso sia delle posizioni e delle figure che in essa si sono confrontate e anche
contrapposte?

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Classe Operaia è stata il momento della gioia e dell’illusione di poter fare qualcosa: essendo tutti
noi intellettuali, l’idea che invece di essere solo tali, potevamo “fare” qualcosa è stata assolutamente
coinvolgente. Ora, per quel che mi riguarda io ho un piccolissimo episodio da raccontare e che è
legato all’esperienza dei cantieri edili di cui mi occupavo: riuscire, come ebbi l’opportunità di fare,
ad organizzare uno sciopero non sulla piattaforma sindacale ma spostando il sindacato di base sulle
posizioni nostre - adesso sorrido - ma all’epoca quel piccolo sciopero mi pareva fosse l’anticamera
della rivoluzione.
Fare invece che semplicemente studiare i padroni e il capitalismo, come si diceva allora. Classe
Operaia ha significato questo, e non a caso si è consumata rapidamente, perché essendo tutti
mediamente più intelligenti della media ci siamo resi conto, ma Mario Tronti prima di tutti, quanto
fossimo folli nello sperare di poter cambiare la politica del Partito Comunista e la piattaforma della
CGIL. Si tenga presente che uno dei nostri maggiori limiti era il fatto che non vedevamo il resto del
mondo, noi avevamo due attori: uno erano gli operai con cui venivamo a contatto, e l’altro erano il
Partito Comunista e la CGIL, che secondo noi avevano deviato dalla via della rivoluzione. Che ci
fossero la CISL e tutte le altre forze padronali o culturali era secondario, cioè c’erano, esistevano, le
studiavamo, ci scrivevamo persino libri per descriverle, però non avevano per noi effettiva
rilevanza.
La nostra illusione è durata pochissimo ed è durata fino a quando ci siamo resi conto che non
stavamo spostando il PCI dalla nostra parte: a quel punto è cominciato il conflitto con altri dentro
Classe Operaia, i quali invece ci stavano dentro per esigenze esistenziali, per cui erano convinti che
comunque muoversi significava avere un ruolo. Noi che eravamo in totale buona fede, il nostro
ruolo lo volevamo positivo e lo volevamo avere con la classe operaia presso il Partito Comunista e
la CGIL, non contro la classe operaia o contro il Partito Comunista e la CGIL; quando ci rendemmo
conto che non era possibile ci fu la rottura con gli altri che volevano continuare comunque.
Tutta l’esperienza è stata rapidissima, è durato pochissimo tutto; la sua peculiarità è stata proprio il
fatto che per tre o quattro anni abbiamo creduto di poter incidere sulla situazione politica italiana.
Detto senza ironia perché eravamo giovani. Eravamo ‘quattro gatti’, c’era questo giornale, fatto
bene devo dire, bello, anche dal punto di vista grafico. Ci sentivamo i bolscevichi del momento?
Non lo so, io penso che con alcune eccezioni, tipo Mario e tipo Raniero, che era fortemente
antisovietico e anticomunista, dei bolscevichi conoscevamo pochissimo; io ho cominciato a studiarli
nel ’65 e nel ’66 è finita Classe Operaia. Eravamo intellettuali atipici, che non si accontentavano di
essere tali intellettuali ma volevano agire in senso anticapitalista come antiborghese. Ricordo
benissimo che con Mario Tronti feci un giorno una delle nostre solite passeggiate per Roma, era il
1967, Classe Operaia era finita da circa un anno; facemmo insieme un’analisi assolutamente
distruttiva di quello che avevamo dietro di noi e dinanzi a noi e ci chiedemmo: “Che cosa ci
rimane?” e tutti e due rispondemmo: “Beh, l’odio per chi ha vinto”. E questa credo che sia la cosa
che è rimasta, almeno in Mario e in me, dopo tanti anni.

- Tronti è comunque poi rientrato nel PCI e ha cercato in altro modo di costruire un punto di
vista che desse continuità ad una serie di ipotesi.

Questa è stata la sua illusione mai realizzata. Mario veniva da un’esperienza tutta comunista; lui è
stato segretario della FGCI all’università, la sua famiglia era comunista, viveva in un quartiere
operaio di Roma, per mantenersi all’università aveva fatto lo scaricatore ai mercati generali, suo
fratello faceva e fa lo stesso. Per lui era difficilissimo staccarsi dalla sua sezione, tanto è vero che
quando la federazione romana gli sospese la tessera, i suoi compagni piangevano e poi gliela
restituirono l’anno dopo. Bisogna capirlo, era il suo mondo, il suo ambiente, lui è un grandissimo
intellettuale ma suo padre carrettiere lo portava in sezione da ragazzino; io vengo da una famiglia di
intellettuali, a casa nostra si parlava delle differenze tra Gide e Brecht. Se uno nasce in una certa
famiglia è una cosa, ma se invece ti portano in quelle che erano le sezioni comuniste dei quartieri

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popolari della Roma degli anni quaranta e cinquanta, il coinvolgimento psicologico rimane
fortissimo; lui ne è uscito adesso con amarezza e disperazione per quello che è successo al partito
che lui aveva conosciuto.

- Che rapporto aveva Gaspare De Caro con Classe Operaia?

Gaspare era un grandissimo amico di Mario e di Umberto Coldagelli. Era stato attivissimo nel PCI
prima del ’56, poi ne era uscito ed era andato in Spagna, quando è tornato noi eravamo proprio nella
transizione tra i Quaderni Rossi e Classe Operaia. C’erano molti legami amicali tra Mario e lui che
era una persona e un intellettuale originale, amaro, disincantato; oggi vive in campagna. Aveva
chiuso con il Partito Comunista dopo il 1956, era divenuto fortemente anticomunista un po’ come
sono quelli che avevano avuto per il partito un attaccamento quasi religioso. Quindi, lui spingeva
perché Classe Operaia avesse il più possibile posizioni anticomuniste. Ricordo che aveva
entusiasticamente approvato un mio pezzo uscito su Classe Operaia, intitolato Operai e PCI, che ha
continuato ad essere utilizzato anonimo dai gruppi extraparlamentari per molti anni, fino al ’77-’78.

- Qual è stato il ruolo e il peso che ha avuto Toni Negri all’interno dei Quaderni Rossi e di
Classe Operaia e qual è complessivamente il tuo giudizio politico su di lui?

Ho conosciuto Toni attraverso Raniero, ho una lettera di Panzieri in cui parlava del suo primo
incontro a Padova con Negri, erano all’epoca ambedue socialisti. Panzieri mi raccontò che Toni era
stato il pupillo del vescovo di Padova, e che suo fratello era stato ammazzato dai partigiani, e che
era diventato ordinario a poco più di trent’anni perché bravissimo e che era fanaticamente
anticomunista; sull’anticomunismo si era incontrato con Raniero che però aveva tutta una sua ironia
semita per cui, per quanto potesse essere anticomunista e antisovietico, era però sempre leggero e
ironico, invece Toni è al minimo sarcastico. Si avvicinò a Classe Operaia perché, come molti altri
giovani di sinistra, la considerava strumento per colpire il Partito Comunista, perché questa era un
po’ la visione comune a tanti.
Chi l’aveva pensata e la faceva, cioè Mario, credeva di poter aiutare il Partito Comunista a ritrovare
la strada dell’azione operaia, altri invece la consideravano una possibilità per andare contro il PCI.
Tutto era un po’ paradossale. Noi ci siamo incontrati e ci siamo poi scontrati proprio su questo,
Toni non voleva che Classe Operaia fosse chiusa, e si è, poi, buttato a corpo morto su Potere
Operaio veneto. Cosa penso io di Toni? Noi eravamo amici, al di là di tutti i distinguo culturali e
politici, lo eravamo perché era veramente una persona intelligente; lui aveva un comportamento con
noi (e quando dico noi intendo Mario, Alberto, Umberto ed io) che gli veniva appunto dalla sua
formazione cattolica, per cui appena giravamo l’angolo, cercava di convincere gli altri che stavamo
sbagliando perché non eravamo sufficientemente anti-movimento operaio e anti-PCI. Con questo
naturalmente sto parlando del terzo anno di Classe Operaia, perché tra Quaderni Rossi e i primi due
anni di Classe Operaia eravamo d’accordo su tutto, ci muovevamo all’unisono, al momento era
importante avere rapporti con gli operai davanti alle fabbriche e loro le fabbriche le avevano a Porto
Marghera, noi a Roma no. Io poi l’ho conosciuto più di altri quando ero a Padova all’università ed
ero colpita dalla sua intelligenza e della sua cultura.

- Cosa ne pensi di Gasparotto?

Pierluigi Gasparotto era il classico figlio del “principe” che se ne va con i contadini. Lui veniva da
una grandissima famiglia, lasciò tutto e venne a fare l’esperienza operaista, per lui credo molto più
esistenzialmente rilevante che per noi, perché appunto tipi come me, come Mario, non avevamo alle
spalle esperienze sia ideologiche che famigliari e culturali contro le quali combattevamo, anzi noi
avevamo alle spalle o la mia laicità o, come ho detto per Mario, la continuazione di certi percorsi
familiari. Invece, per tipi come Gasparotto era “da oggi non voglio più il maggiordomo e voglio

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vivere con le pulci”, e lui ci riusciva. Era un bellissimo ragazzo pieno di entusiasmo, che aveva un
suo ruolo nella militanza politica, ma non più di questo.

- Mentre tutta una serie di figure e autori vengono citati spesso, dalle interviste emerge che (a
parte Romano, Mario e ben pochi altri) su Lenin sembra essere calato il silenzio.

Per tanti Lenin non esisteva, Lenin è stato riscoperto dopo, quando Khruschev - per i suoi interessi
specifici, legati alle lotte interne al partito del XX Congresso - dichiarò che Stalin non andava bene
e andava bene Lenin. Da no Lenin è stata una riscoperta successiva, ed ha interessato un’altra
generazione del movimento operaio. Stalin è stato molto importante per i padri o i fratelli grandi di
tutte queste persone di cui stiamo parlando, naturalmente per quelli che venivano da una famiglia
fascista era il nemico e per gli altri era un mito. Nella camera da pranzo della casa operaia di Mario
in via Ostiense c’era un grande ritratto di Stalin nella divisa da maresciallo come c’era all’epoca
nelle sezioni del PCI; Lenin aveva una sua peculiare valenza più per gli intellettuali, per gli operai
c’era solo Stalin, per esempio posso testimoniare che gli operai che ho conosciuto, non sapevano
chi fosse Lenin.

- Però, negli anni ’60 Mario Tronti e altri all’interno di Classe Operaia danno una lettura di
Lenin nuova e di rottura rispetto al marxismo ufficiale.

Certo, c’è il suo articolo Lenin a Detroit, cioè la rivoluzione in un paese capitalistico avanzato. Sì,
questo è vero, ma quando parlo di come era per i giovani o gli operi con cui avevo rapporti, escludo
sempre Mario Tronti, lui è quello che appunto in camera da pranzo aveva Stalin ma fece per noi una
rilettura delle Tesi di aprile all’inizio dell’esperienza di Classe Operaia. Le Tesi di aprile sono state
scritte da Lenin nel 1917 e vengono considerate, nella leggenda ufficiale dell’Unione Sovietica,
l’avvio della rivoluzione, perché in esse Lenin disse “muoviamoci in prima persona”. Allora, Mario
quando riscoprì le Tesi di aprile, ce le offrì come il punto di partenza della nostra stessa esperienza,
e in questo particolare episodio c’è tutta la nostra follia. Io ricordo persino il luogo e le tensione con
cui lesse le “sue” tesi sulle Tesi di aprile. Eravamo presenti De Caro, Coldagelli, Asor Rosa ed io,
tutti così ignari dei tempi che ci sarebbe toccato vivere.

- Romano dice che anche altre persone, come ad esempio Gasparotto, avevano letto e
approfondito Lenin.

Sia le Opere scelte che le Opere complete di Lenin furono tradotte quando la nostra comune
esperienza s’era esaurita. Sarà capitato di leggere qualche articolo, ma si tenga presente che in molti
nostri amici vi erano influenze trotzkiste, pro Lenin e contro Stalin.

- Comunque, oggi di Lenin nessuno ne parla, neanche in una dimensione critica, è calato il più
assoluto silenzio. Quanto può invece essere secondo te importante nell’oggi una lettura critica
di Lenin?

Il silenzio è calato su Lenin e sull’esperimento sovietico. Voi adesso state entrando nel mio
particolare: tre anni fa io ho scritto un libro La falce e la luna, che fa i conti sull’esperimento
sovietico ma non sono riuscita a pubblicarlo perché nessuno editore me lo ha voluto pubblicare.

- Tu hai prima detto che il tuo interesse per l’Unione Sovietica era nato dal tentativo di
analizzare quelli che erano stati i limiti di una certa esperienza, cosa che poi poteva avere
un’utilità politica nel comprendere meglio gli errori e ciò che non andava del PCI e del
Movimento Operaio. Quali sono i nodi che rimangono aperti e che nell’attualità possono essere

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fecondi rispetto ad una dimensione di analisi politica? Dall’altra parte, come mai adesso è
maturato questo tuo interesse per gli Stati Uniti?

Il mio interesse attuale è per chi ha vinto e al momento il modello americano appare vincente. Ho
scritto Il primato americano dopo La falce e la luna e i due libri sono legati. Per tornare al passato
quando, nel 1966/67, è finita Classe Operaia Mario ed io ci dividemmo i compiti (lo sto dicendo
con moltissima autoironia): Mario aveva il compito di capire perché aveva vinto il capitalismo, io
invece dovevo capire perché il socialismo non lo voleva più nessuno. Diciamo che era un interesse
tutto politico che mi muoveva a studiare l’Unione Sovietica, poi invece è diventato per un quarto di
secolo il mio specialismo professionale, ma l’interesse di partenza era solo politico. Rispetto ad altri
che appunto avevano avuto il mito dell’Unione Sovietica o il mito di Stalin, io che ero nata
politicamente dopo e che la prima cosa letta sull’Unione Sovietica era il rapporto al XX Congresso
di Khruschev, avevo un atteggiamento di partenza più disincantato. Sull’esperimento sovietico ho
scritto talmente tante cose che parlare di tutto è impossibile; però, penso che sia importante non
considerare la sconfitta degli operai sovietici al governo come definitiva, ma solo come una prima
esperienza non riuscita.

- Qual è stato il ruolo e il peso di Aris Accornero all’interno dei Quaderni Rossi e di Classe
Operaia?

Per lui è stato molto importante perché, come usava all’epoca per i comunisti, uno poteva stare
“dentro e contro” come diceva Mario. Come ho già raccontato altrove, Classe Operaia veniva
rimessa a posto redazionalmente da Aris: la sua presenza tra noi è stato un fattore di scontro perché
i più anticomunisti l’hanno utilizzato per accusare Mario di continuare a essere vicino al partito. Per
Aris è stata un’esperienza giovanile molto bella, e noi due continuiamo a vederci con i nostri amici,
come quarant’anni fa all’epoca del giornale e delle illusioni. Aris, rispetto a noi, è quello che risulta
più intrinseco al movimento operaio, ma non è vero, perché il movimento operaio non l’ha mai
utilizzato come esperto del mondo del lavoro: quando è andato via perché gli era stata offerta una
cattedra all’università, il partito - quando ancora c’era il partito - non si è mai più ricordato del suo
specialismo.

- Ci sono una o più domande in particolare che oggi tu faresti ad una o più persone che sono
state interne alle esperienze dell’operaismo?

Non ho domande o curiosità, sono stata troppo interna io stessa all’esperienza. Devo, però ribadire
che c’era molta differenza tra noi di Roma e gli altri: noi qui a Roma avevamo una visione in
qualche modo più distaccata dell’esperienza perché eravamo più politici, eravamo più vicini al
centro e quindi eravamo più disincantati. Io penso a un tipo come Romano Alquati, nel ricordo che
ho di lui all’epoca: a noi lui pareva sempre un po’ più esaltato di quanto fosse necessario, e quando
arrivavano i suoi volantini ci mettevo l’ira di dio per renderli leggibili. I compagni del nord
parevano tutti un po’ più ingenui di quanto fosse consentito. Persino a me che facevo lo stesso loro
lavoro dinanzi alle fabbriche ed ero giovane, anzi la più giovane, immaginate per uno come Mario;
per quel che riguarda Raniero, quando si staccò da noi, lo fece pensando che quelli che stavano
dando vita a Classe Operaia erano utopisti visionari. Ripeto quello che ho detto prima, la nostra
esperienza è durata pochissimo, per noi il suo significato esistenziale sta nel fatto che noi abbiamo
potuto pensare di cambiare le cose, avevamo l‘aspirazione a non voler essere solo intellettuali, a
voler cambiare lo stato di cose presenti per dirla con Marx. A questo dobbiamo la pienezza di vita
di quegli anni, che per quanto mi riguarda non ho mai più avuta.

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INTERVISTA A VALERIO EVANGELISTI – 18 MARZO 2000

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e l’inizio della tua attività
militante?

La mia storia è abbastanza lunga perché io cominciai ad accostarmi al movimento nel 1969, quando
ero uno studente medio. Sulle prime chi interveniva nella mia scuola erano i maoisti e quello fu il
primo contatto, anche un po’ traumatico, con la sinistra, come allora si diceva, extra-parlamentare;
ma quasi subito passai a Lotta Continua. A dire la verità a spingermi non era tanto un calcolo
ideologico: Lotta Continua era il gruppo ritenuto il più duro e cattivo di tutti, vidi una loro
manifestazione che mi impressionò, e quindi alla fine del 1969 vi entrai, tra i primi studenti
bolognesi a farne parte (allora era appena nata anche in Italia). Rimasi con loro diversi anni: va
detto che era un gruppo molto affiatato dal punto di vista umano, interno, però con quasi nessuna
forma di organizzazione, cosa che lasciava spazio ad un amplissimo leaderismo; poi c’era la
venerazione di Sofri come una sorta di divinità. C’era dunque scarsa organizzazione e ancora meno
dibattito politico: sotto l’apparenza di un gruppo giovanilistico e libertario, in realtà viveva un
gruppo estremamente centralizzato. Infatti gli slogan ci venivano dall’alto, ad esempio
“prendiamoci la città” o cose di questo tipo; dall’alto ci venivano anche le divisioni con gli altri
gruppi extraparlamentari, ma in realtà a livello di base eravamo poi tutti amici tra Potere Operaio,
Lotta Continua eccetera: le divisioni sostanzialmente provenivano dai vertici. Comunque fu una
bella esperienza, in quegli anni non si ha idea di cosa potesse essere la sinistra extra-parlamentare,
che era davvero forte anche in una città come Bologna. Lotta Continua era sicuramente una delle
componenti più forti, nello stesso tempo c’era una notevole impotenza politica. Intanto c’era il
mancato rapporto con gli operai in questa città. Va tenuto presente che gli stessi studenti
(universitari o medi) che facevano parte dell’organizzazione rarissimamente erano di Bologna: della
città eravamo davvero pochi, per lo più c’erano studenti universitari che venivano da fuori e anche
tra gli studenti medi quelli veramente impiantati in loco erano pochi. Oltre a questo c’era il fatto che
il rapporto con la classe operaia, di cui si parlava di continuo, non decollava mai. Tra la fine del ’69
e la fine del ’73 (quando lasciai Lotta Continua), credo che gli operai non fossero più di quattro o
cinque: per di più si trattava di operai immigrati ma con dei comportamenti che denotavano spesso
una scarsa coscienza politica reale; infatti, cessata l’esperienza, quasi tutti tornarono alle loro
peggiori abitudini (uno adesso è sindaco di un paese del meridione). Dunque, gli operai erano pochi
e idolatrati, perché l’organizzazione ci imponeva questa immagine dell’operaio come santino che
doveva essere buono per forza: erano davvero poco significativi nell’ambito del gruppo in quel
periodo. Fu con la seconda metà degli anni ’70 che ci fu un maggiore radicamento tra gli operai,
soprattutto quando Lotta Continua stava per finire e si stava aprendo qualcosa di diverso. Io avevo
già lasciato l’organizzazione, c’erano certe parole d’ordine che venivano formulate dal centro, dalla
direzione di Lotta Continua, che andavano applicate a livello locale pari pari, ad esempio “35 ore
pagate 40”: era una direttiva che veniva dal centro e so che qua provocò addirittura una scissione
nel gruppo degli operai che si era poi alla fine affermato, perché era difficile da applicare sul
territorio locale. Quindi, Lotta Continua mi ha sempre lasciato la sensazione di un gruppo
apparentemente morbido, in realtà strettamente centralizzato, ma senza forme di centralismo
democratico: molto affidato ad un gruppo dirigente quasi intoccabile ed infallibile. Su questo potrei
sbagliarmi, ma la fase che ho vissuto io era così. Va poi detto che la vita a livello di base era
straordinariamente bella, perché poi eravamo tutti giovanissimi e vivevamo assieme: infatti, le cose
più forti di Lotta Continua erano poi quelle, lo slogan “il personale è il politico” e cose del genere,
tantissime invenzioni esistenziali; quelle le ricordo bene, politicamente non ho un buon giudizio.
- Ti sei dunque allontanato da Lotta Continua sulla base di analisi politiche?

Era soprattutto questo. Io allora militavo in un collettivo universitario, il Collettivo di Scienze


Politiche, ed esso aveva all’interno varie componenti: Lotta Continua era una delle meno

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significative a livello di proposta e soprattutto non esisteva una linea d’azione all’università.
L’unico documento che ricordo faceva uno stretto paragone tra la fabbrica e l’università e,
sostanzialmente, diceva che gli studenti universitari non avevano nulla da rivendicare di per sé, ma
dovevano andare alle fabbriche: era un po’ la tematica maoista in cui mi ero imbattuto nei
primissimi tempi della mia militanza. Questo non mi persuadeva, anche perché dovendo
quotidianamente vivere in un collettivo universitario non avevo strumenti che mi arrivassero da
Lotta Continua. Ci fu poi un episodio che per me fu determinante: Lotta Continua cominciò, ad
esempio a livello elettorale, a dare indicazioni di votare PCI. Non solo, ma nei comportamenti
tentava in qualche modo di recuperare qualcosa del PCI del passato: così, molta retorica sui
partigiani che, al di là di quanto fosse giusto, era insistita, ci si firmava ormai i comunisti di Lotta
continua per avere un approccio più facile con il PCI. Il collettivo universitario dove ero io, a
quell’epoca (parlo del ’73 o giù di lì), aveva diverse componenti: ce n’era una di movimento
studentesco quasi allo stato puro, una pcista, e c’erano i gruppi, sostanzialmente Lotta Continua e
Avanguardia Operaia. Maturò, per molti di noi, l’esigenza di staccarci da quel collettivo, perché in
realtà l’egemonia del PCI, che era un po’ nascosta, si esercitava nei fatti: moltissime soluzioni noi le
adottavamo perché il PCI finiva per spingere in quella direzione. Io lì mi trovai i compagni di Lotta
Continua con cui ero più a contatto che non erano affatto d’accordo, l’organizzazione non era per
questa scissione. Noi eravamo qualcosa di molto periferico rispetto all’organizzazione, ma mi parve
di vedere lì un riflesso di una tendenza generale che non mi piaceva. Allora io ed un altro
disobbedimmo alla disciplina di partito e aderimmo all’organismo che nacque, il Comitato Unitario
di Base (CUB) di Scienze Politiche; già nel nome richiamava molto Avanguardia Operaia e la sua
linea. Devo dire che Avanguardia Operaia, almeno dove agivamo noi, si presentava come molto più
coerente, con una sua politica sull’università, magari il tutto molto dottrinario, però almeno una sua
linea ce l’aveva, cosa che noi non avevamo; poi, soprattutto, non sembrava incline a degli accordi
con il PCI. Allora, attraverso il Comitato Unitario di Base di Scienze Politiche, mi avvicinai poi ad
Avanguardia Operaia e ci militai fino al ’76. Fu un’esperienza che ebbe dei momenti anche belli,
però a Bologna non arrivò mai ad avere un forte peso, restava un gruppetto molto molto ideologico,
forse più democratico di Lotta Continua, però anche meno efficiente e duttile. In ogni caso, anche
se io avevo addirittura la tessera di militante, non mi sono mai considerato veramente un militante
di Avanguardia Operaia: il fatto è che erano proprio i gruppi che cominciavano a stancarmi. Ormai
li avevo conosciuti, o direttamente o perché ci avevo convissuto, non ritenevo che fossero un’ipotesi
praticabile. Quindi, verso il ’76, quando poi successe che Lotta Continua si sciolse addirittura, io
ero in piena rotta di collisione con questo tipo di esperienza. Questa collisione mi portò, dapprima, a
uscire da Avanguardia Operaia, poi ad accostarmi a dei gruppi locali, collettivi spontanei, che erano
nati dalla dissoluzione di LC: il nome era sempre Lotta Continua, ma in realtà essa si era già sciolta,
a volte usavano lo stesso simbolo, i luoghi di raduno erano gli stessi, ma si trattava di cose
differenti. Erano gruppi che non venivano promossi dai quadri di livello elevato
dell’organizzazione; Lotta Continua nel frattempo era diventata un partito e i suoi militanti dei
dirigenti: non erano quelli a dar vita a questi collettivi, bensì i quadri intermedi e di livello basso.
Questi furono una delle componenti che diedero vita al ’77, ed io affluì lì: quindi, non è che tornassi
a LC, presi parte a quella che veniva chiamata allora l’area di Lotta Continua, ma era un termine
molto generico. Diciamo che era la componente più vicina all’Autonomia, pur mantenendo ancora
una separazione ed usando, dalla simbologia alle parole d’ordine, tutto quanto era stato di Lotta
Continua. Ci fu quindi un periodo di navigazione, partecipai al marzo ’77 e alle scadenze
successive, non certo come leader, ma come militante di base. Poi, simultaneamente, allora e subito
dopo, partecipai a tentativi di riaggregazione: non so quanti collettivi io abbia passato in
quell’epoca lì. Il primo, che promossi con degli amici, si chiamava Collettivo Liebknecht, il quale
era poi una parte di quello che era rimasto dell’ex collettivo operaio di Lotta Continua:
sostanzialmente si trattava di infermieri e tranvieri. Da lì sono poi passato a varie forme di collettivi
che nascevano e morivano. Intanto, anche se mi ero già laureato, partecipavo anche alle lotte
all’università, questa volta però al di fuori di collettivi studenteschi: si trattava di realtà autonome

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che agivano, il nome non aveva più nessuna importanza; mi ricordo che sono passato attraverso il
Collettivo ruggito del topo, che poi cambiava nome. Erano cioè sigle per i volantini, in realtà non
eravamo legati a forme organizzative, le quali mutavano a seconda delle circostanze: del resto allora
era facile, perché poi il movimento era cresciuto tanto (sempre essenzialmente composto da studenti
fuorisede) che si stava assieme quasi per forza; nessuno voleva poi ripetere l’esperienza dei gruppi.
Fu in quel momento che i gruppi (gli ultimi sopravvissuti) divennero quasi il nemico: non tanto
Avanguardia Operaia (che prese una sua deriva che noi giudicavamo legalista e diventò Democrazia
Proletaria) quanto per esempio il Movimento Lavoratori per il Socialismo, che non dico stessero
contro il movimento ma sicuramente ne stavano fuori, e a noi questo non piaceva affatto. Quindi,
mi trovai a galleggiare su quello che era il movimento allora, composto sì da studenti,
essenzialmente fuorisede, però in molti casi da studenti-lavoratori; in altri casi ancora si trattava non
tanto di studenti, quanto di persone che facevano una loro vita giovanile, ad esempio nel quartiere, e
avevano poi l’università come punto di riferimento, perché là si coagulava il movimento. Ho
partecipato a cose all’università, a collettivi di ordine generale, a tutte le manifestazioni del periodo,
anche a collettivi di quartiere che stavano nascendo e che erano particolarmente forti. Ho
partecipato, ad esempio, all’ultima fase del Collettivo di San Ruffillo che, in tutta Bologna, era
sicuramente l’esperienza di quartiere più grossa, tanto forte come coagulo di giovani da rivaleggiare
con quello che era il centro cittadino.
Quindi, se io dovessi descrivere quel periodo dovrei fare tutta un’elencazione di sigle a non finire;
in realtà è poco utile. Si cercavano forme organizzative adeguate a un momento di ebollizione e di
transizione, in cui magari non avevamo tutte le idee chiare, ma molte però le avevamo: anche
quando non c’era un fine preciso, ideologico, però il sentire comune era molto forte, la discussione
era continua, erano sparite tutte le rigidità dell’epoca dei gruppi extraparlamentari. Questo periodo
di cui sto parlando, delle varie aggregazione di cui io feci parte, va dal ’78 all’81 circa. Credo che
quanto dico rispetto alla mia esperienza personale sia stato valido per molte persone. Io allora stavo
poi intraprendendo una specie di carriera universitaria, mi ero appena laureato: gli studi che facevo
all’università riguardavano il precariato, sia contemporaneo sia del passato, e i comportamenti del
proletariato precario, perché individuavo quella componente in mezzo a ciò che vivevo
quotidianamente. Se si vuole chiamiamolo operaio sociale, ma questo era forse un termine un po’
troppo raffinato per descrivere quelli che erano rivoli di precariato, soprattutto giovanile, che si
stava addensando, in particolare attorno ad una forte cultura. Volenti o nolenti, avevamo tutti subito
le influenze del movimento femminista, dei gruppi giovanilisti di Lotta Continua, che furono i primi
a staccarsi da essa e a imporre pratiche (come l’autoriduzione nei cinema o cose del genere) che in
passato erano sconosciute: agli inizi degli anni ’70 si autoriduceva la bolletta, mentre l’occupazione
dei cinema, degli spettacoli, dei concerti selvaggi erano una novità. C’era quindi una fortissima
cultura comune che poi trovò espressione in quegli anni e continuò anche dopo. Ci fu una specie di
decimazione, che derivò da eventi conosciuti, vale a dire dalla lotta armata e soprattutto dalla
crescente egemonia delle componenti più militariste.

- A Bologna era forte la componente lottarmatista?

Come Brigate Rosse vere e proprie no. Però attenzione: nessuno del movimento, e specialmente
dell’arcipelago dei collettivi dell’Autonomia, era contro la lotta armata, però la vedeva più che altro
come una forma ulteriore di lotta, insieme alle altre; non la vedeva come strategica, non si trattava
cioè di costruire il partito comunista combattente. Molti cortei erano armati, a Bologna ci sono state
anche piccole sparatorie: nessuno avrebbe detto qualcosa al compagno che aveva una pistola, lo
sapevano tutti, lui era lì con il consenso generale. Non fu neanche questo, a mio giudizio, a
determinare la crisi del movimento: scatenò certo la repressione, ma non così tanto. Il fatto è che a
un certo punto le Brigate Rosse ci chiamarono ad un combattimento di un tale livello che nessuno
era in grado di affrontare questa battaglia. Il caso Moro fu pesantissimo, perché portò alla
militarizzazione completa: erano le prime volte che vedevo l’università interamente chiusa, non si

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sapeva dove riunirsi, le perquisizioni erano continue. Inoltre le perquisizioni erano molto mirate, di
solito andavano a colpire i compagni più giovani, in modo che cadessero non solo su di loro ma
anche sui loro famigliari e che quindi fossero poi i genitori a reprimerli. Per di più c’era il fenomeno
deteriore non dico di dissociazione, ma del fatto che sicuramente tutta la componente più
tradizionale dei gruppi extraparlamentari stentava a capire quello che accadeva sotto i loro occhi: in
qualche caso diventarono veri e propri delatori, in altri casi comunque erano sempre più nemici e
disfattisti, cominciando a fuggire dal movimento, portandosi con sé una fettina di questo. Io credo
comunque che il problema fosse soprattutto il militarismo forsennato delle Brigate Rosse: nessuno
di noi riuscì più a capire che cosa stessero facendo questi qua. Un tempo nel movimento non si
osava dire, ma oggi me ne frego: nessuno capiva perché stessero ammazzando certa gente, un
commissario in pensione, un infermiere eccetera; stava diventando un vero e proprio macello, a me
faceva schifo e credo anche a molti altri. Non è che noi fossimo lì perché eravamo dei sadici, e poi
non somigliava ad una guerra di popolo, erano degli agguati individuali: ne erano avvenuti anche
qua, ma erano sempre legati al movimento, non erano cose di quel tipo. Figurarsi se noi eravamo
amici dei carabinieri, ma questo non vuol dire che andassimo a prenderne uno qualsiasi e ad
ammazzarlo, non tentavamo neanche di persuaderlo, semmai lo menavamo forte: anche perché
nessuno di noi era in grado di contrastarli se poi quelli arrivavano. Questo fu un periodo difficile e
ci decimò letteralmente. Io mi ricordo le grandi manifestazioni del ’77, in quella nazionale a
settembre arrivammo ad essere anche centomila persone; scendemmo a ventimila l’11 marzo
dell’anno successivo, poi continuammo a scendere fino a ridurci a qualche migliaio, che era già
molto: Bologna restava in qualche modo una differenza positiva nel contesto nazionale, ma sempre
di meno.
Ad un certo punto poi nacquero delle esperienze diverse, le quali ridiedero respiro ad una cosa che
stava oggettivamente morendo: esse furono i primissimi centri sociali. Altrove esistevano già ma
qui erano una novità. Io partecipai moltissimo all’esperienza di uno di questi, il Crack, che ebbe due
versioni: nacque, se non sbaglio, nel 1981. Nacque da un cosa curiosa. Da anni io andavo tutte le
estati in vacanza in Inghilterra, e là avevo sempre partecipato alle manifestazioni e a tutto quello
che faceva il movimento (che allora c’era) londinese o filo-irlandese: mi sorpresi a scoprire la
componente punk. Vedevo che le manifestazioni politiche inglesi erano sempre piene di punk,
mentre in Italia i compagni li giudicavano dei fascisti, perché portavano le svastiche o per altri
motivi. Io tornai dall’Inghilterra cominciando a perorare la causa di una fusione con i punk, i quali a
Bologna erano numerosi ma stavano per conto loro. Non fui solo io, altri compagni si accodarono a
questa cosa, si cominciò a parlare con i punk e nacque il Crack, che era tra i primi centri sociali in
Italia ad essere gestito quasi paritariamente da collettivi autonomi allora esistenti (ce n’erano
diversi, il più forte si chiamava Comitato Proletario Territoriale, CPT, sigla che non va confusa con
altre che sono seguite successivamente) e dai punk. I collettivi autonomi, almeno alcuni di loro, e i
punk trovarono un accordo, non sempre facile, e occuparono questo centro sociale Crack: in esso
essenzialmente si facevano dei concerti. Era una di quelle baracchette che fanno i muratori quando
c’è un cantiere e che, quando avevano finito i lavori, avevano lasciato lì: era nel pieno centro di
Bologna, nel quartiere Marcon. Lì si cominciarono a fare alcune cose, più che altro dei concerti, ma
anche delle riunioni politiche. Il comune di sinistra, che era scatenato fin dai tempi del ’77, arrivò e
distrusse completamente questa costruzione; passò un po’ di tempo e ne rifacemmo un altro, il
Crack 2, molto più grande, meglio organizzato, sempre in pieno centro, in una zona più isolata.
Anche lì punk e compagni, autonomi o anarchici, uniti. Lì in realtà poi furono lanciate delle vere e
proprie campagne politiche, nel frattempo ci fu una sorta di colonizzazione da Padova, ci
mandavano giù dei commissari. Era veramente bello perché, sebbene i punk ci rompessero le
scatole dal mattino alla sera, si era riusciti a trovare questo tipo di convivenza ed era diventato un
polo di attrazione giovanile fortissimo: facevamo dei concerti che erano pieni di gente, in cui
venivano gruppi dalla Germania o anche dagli Stati Uniti (io, in quelle occasioni, facevo il barista).
Poi facemmo delle bellissime manifestazioni cittadine, delle cose importanti.

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C’è però un fatto: io, già da tempo, mi ero stancato di questo tipo di cosa, nel senso che vedevo che
la rivoluzione in Italia non si faceva. Non fui toccato direttamente dalla repressione degli anni ’80,
però vidi tantissimi compagni sparire, o perché arrestati o anche perché umanamente tanto distrutti
che si ritiravano a vita privata, oppure proprio sparire fisicamente perché si davano alle droghe
pesanti, tutto quello che fino allora avevamo un po’ arginato. Ciò ha portato del riflusso, perché noi
per molto tempo avevamo costituito un argine fortissimo contro lo spaccio pesante, nei quartieri in
cui eravamo o nel centro di Bologna: oggi magari può suonare strano e brutto, comunque si
facevano anche le ronde contro gli spacciatori, quindi diciamo che tenevamo pulito. Poi, ad un certo
punto, furono gli stessi compagni a cedere a queste cose, e allora tutto cambiò. Comunque, nelle
mia esperienza personale, avevo un certo qual bisogno di rivoluzione e allora cominciai a dedicarmi
a questioni internazionali: dapprima mi occupavo di Medio Oriente, avevamo delle reti di amicizia
e solidarietà con i palestinesi, soprattutto del Fronte Popolare di Abbash; in un secondo tempo
passai decisamente ad altro, cioè al Nicaragua. Avevo letto un libro sul Nicaragua che mi era
piaciuto, cominciai ad informarmi e, con dei compagni che avevano lo stesso interesse, iniziammo a
coagularci dentro al Crack 2, riunendoci lì. Poi allora avevamo radio Under Dog, che era piccolina
però serviva da coagulo e ci chiedeva delle trasmissioni su questo argomento. Nacquero così tutta
una serie di riunioni a carattere internazionalista e cominciò a condensarsi un gruppo di compagni
che si occupava di questo: noi venivamo dal Crack, altri erano stati nel movimento a suo tempo ma
l’avevano un po’ tralasciato, e poi erano tornati, specialmente in occasione dell’invasione di
Granada. In quel momento a Bologna si formò un comitato pro-Granada che si fuse con noi, ci
interessavamo allo stesso tema, e nacque una cosa abbastanza grossa: prese il nome Circolo Carlos
Fonseca. Esso era un’associazione per il Nicaragua, ma non di tipo né cattolico né umanitario,
voleva essere molto militante ed era emanata dal movimento. Sulle prime eravamo nati dentro al
Crack e i rapporti iniziali furono abbastanza facili. Però, intanto, la situazione era un po’ peggiorata,
perché, ad esempio, ad un certo punto i punk erano stati allontanati. Io non seguivo più
quotidianamente le vicende del Crack, comunque prima c’era stato un problema tra autonomi ed
anarchici: un anarchico se ne era andato e i punk, che non si ritenevano marxisti, avevano
simpatizzato per lui e se ne erano andati anche loro, a parte alcuni molto politicizzati. Quindi la
situazione cominciava a diventare pesante. Poi si profilava uno scontro abbastanza forte tra il CPT,
che a quel punto era davvero quello che poi si è conosciuto, e l’autonomia tradizionale. Era nato un
organismo chiamato CoCoBo (Comitato Comunista Bolognese) che apparteneva all’autonomia,
diciamo così, romano-padovana (nel senso del giornale Autonomia); gli altri, invece, erano sempre
più eretici, facevano un giornale che si chiamava Passepartout. Come gruppo internazionalista noi
non volevamo schierarci su questo, tentammo anzi di far da mediatori: finimmo per avvicinarci di
più all’ala dell’autonomia vera e propria, mantenendo però un nostro profilo e tentando di costituire
una struttura di servizio per il movimento. Fin dall’inizio avevamo avuto dei rapporti molto stretti
con il Fronte Sandinista, con compagni che già si trovavano là ma soprattutto con autorità o
rappresentanti del Fronte stesso: ad esempio con il suo rappresentante ufficiale, che poi era un prete
guerrigliero. Questi, venuto in Italia, aveva rapporti prioritari con noi rispetto a tutte le altre
organizzazioni. Negli anni che vanno dall’83 all’86-’87 (quando ci sciogliemmo) noi tentammo
(oggi si può dire, una volta non l’avrei fatto) di fare un tipo di solidarietà quasi militare con il
governo sandinista, nel senso che i nostri referenti erano nell’esercito, e specialmente nei servizi
segreti: noi cercavamo di fornire materiale o altre cose che potessero essere loro utili, per esempio
strumenti di puntamento che non potevano essere importati direttamente, oppure binocoli che non
potevano trovare o che non avevano i soldi per comperare. Allora noi viaggiavamo portandoci
dietro di questi aggeggi qua: questo era il circolo Carlos Fonseca, visto molto male dalle
associazioni tradizionali di sostegno al Nicaragua, perché sapevano che stavamo facendo qualcosa.
Infatti, poi se la presero moltissimo con questo rappresentante del Fronte Sandinista, che si
chiamava Bernardino, accusandolo addirittura di intascarsi dei soldi: invece l’accusa era un’altra, si
sapeva che usava quei soldi per qualcosa che loro non volevano. Dunque, in quegli anni io mi
proiettai molto di più fuori dall’Italia; quella che poi sarebbe stata mia moglie si trasferì addirittura

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là, e io la raggiungevo ogni volta che potevo. Dalle cose italiane cominciai a tenermi un po’ alla
larga, anche se il circolo Carlos Fonseca aderiva al Coordinamento Antinucleare-Antimperialista,
quindi si collocava nell’area dell’autonomia. Avevamo una vita molto per nostro conto e i contatti
con i compagni delle altre città avvenivano con le loro componenti che seguivano questo tipo di
cose: ad esempio, i compagni dei Volsci che si occupavano dei palestinesi, quelli di Firenze che si
occupavano anche loro di Nicaragua e così via. Questo era il nostro ambito. Il circolo Carlos
Fonseca è esistito fino alla fine dell’86, inizi dell’87, e si era allargato molto, ma poi iniziò a
restringersi, anche perché nel Nicaragua la situazione cominciava a non essere più così “sexy” e
attraente come era prima; ci furono inoltre dei dissidi interni, anche abbastanza forti, riguardanti liti
tra di noi che erano avvenute là, contrasti personali che poi diventavano immediatamente politici, e
finimmo per scioglierci.
Allora quale fu il mio destino in tutto questo viaggio? Esisteva in quel periodo a Bologna un circolo
(di cui mai avevo fatto parte né mai mi ero avvicinato) che si chiamava Kamo, il quale raccoglieva
gente proveniente da quel CPT di cui parlavamo e anche altri compagni, tra cui diversi compagni
che erano stati arrestati agli inizi degli anni ’80 e cominciavano ad uscire di prigione: uno dei punti
di riferimento possibili era quello. Il Kamo era separato dall’autonomia tradizionale, che si riuniva
in via Avesella: alcune componenti dialogavano, altre avevano scarsi rapporti. Comunque il circolo
Kamo diventò un punto di riferimento per varie cose. Io cominciai a frequentarlo, ma per delle
attività in qualche modo collaterali: mi erano venuti a cercare loro, perché il circolo attraversava un
momento di crisi, erano stati scarcerati dei vecchi compagni ma ne erano stati arrestati degli altri.
Tutta una componente, quindi, non esisteva più, sembrava che il circolo dovesse chiudere: io
cominciai a frequentare questo posto con nuovi compagni e a tentare di mettere in piedi delle
attività. Queste dapprima consistettero in una specie di cineclub, si chiamava “Il circolo Laguna
Nera”: era un cineclub politicizzato per far sì di attirare gente in quel posto. In realtà ci andava
abbastanza male, perché la polizia fermava tutti quelli che si avvicinavano, quindi il pubblico
generico lo perdevamo di continuo: si mettevano sistematicamente all’imbocco della strada e
chiedevano i documenti a tutti quanti, ed è chiaro che c’è chi non regge. Tutto questo nell’87. Poi
un’altra cosa che facemmo fu di rimettere in piedi la vecchia radio Under Dog, la quale non aveva
mai chiuso ma trasmetteva solo musica: tentammo di farci dei programmi ed una serie di attività di
questo tipo. Non tutti le vedevano bene questo tipo di cose, perché avrebbero voluto una sorta di
centro sociale ultrapoliticizzato, mentre io ed altri compagni eravamo più per il circolo culturale,
diciamo così, con varie espressioni al suo interno. Quindi noi, in qualche modo, gestimmo questo
posto rimanendone più ospiti che altro, perché ci scontravamo spesso con i compagni più radicali.
Comunque andammo avanti per un po’, finché non decidemmo che l’espressione migliore che
potevamo manifestare era una rivista culturale più che il cinema o la radio. Ci mettemmo al lavoro e
partorimmo, dopo un anno, una rivista chiamata Progetto Memoria, che ha avuto vita incerta:
teoricamente dura tuttora, anche se ormai la sua periodicità è saltata. Comunque, stiamo parlando
dell’88 e siamo nel 2000, quindi è andata avanti a lungo, con alti e bassi. A quel punto, però,
lasciammo stare il Kamo e ce ne andammo, anche perché molti di noi restavano, in qualche modo,
fedeli all’autonomia classica, diciamo così, e con il CPT i rapporti erano difficili: finché lì era un
magma andava bene, ma ogni volta che si irrigidiva le posizioni non erano più le stesse. Allora
andammo a fare questa rivista, smettemmo di riunirci lì, ci trovammo un’altra sede, che era uno
scantinato (in via Avesella, tanto per cambiare). Ci mettemmo dunque a fare questa rivista che
voleva essere da un lato un po’ accademica e dall’altro di intervento militante. Alcuni compagni
continuavano a militare nei collettivi universitari, io personalmente non militavo più da nessuna
parte. Del resto va detto che, quando ero dentro il Kamo, molti compagni, che erano miei cari amici,
appoggiarono l’iniziativa del giornale Analfabeta, che veniva fatto qua, mentre io, insieme ad altri,
ero contrarissimo: durante una riunione degli studenti universitari di tutta Italia ci fu una rottura
totale, e noi eravamo tra i “persecutori” di Analfabeta; adesso magari me ne pento, non lo so, non ci
ho più pensato. Comunque, alcuni hanno continuato la loro militanza: si trattava di compagni che

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uscivano dal carcere, di altri dei movimenti e dei collettivi universitari o di gente come me, che
ormai non militava più in nessun modo. Siamo andati avanti degli anni con questa rivista.
Però, e qua arriviamo all’ultima fase della storia, alcuni casi un po’ imprevisti della mia vita mi
avevano portato a fare delle scelte stranissime, a cambiare completamente vita e a diventare uno
scrittore addirittura di fantascienza: cose che se uno me le avesse dette una volta, non ci avrei
creduto. Io cominciai a riflettere sulla vita che stava avendo il Progetto Memoria: durante la Pantera
fu vendutissimo, a Bologna era una delle pubblicazioni sicuramente più diffuse, ma subito dopo no,
passava dei momenti di crisi terribili (mi ricordo la tiratura più bassa, vendemmo 36 copie tramite
librerie); c’era poi la vendita militante, ma se all’inizio avevamo tantissimi compagni di riferimento
in tutta Italia, ormai erano diventati pochissimi (il Verbano di Roma, qualche centro sociale qua e
là, ma roba da poco). Allora io, assieme a degli altri, mi cominciai ad interrogare su questo: stiamo
adottando il linguaggio giusto, la gente ci capisce? Avevamo di fronte un tipo di giovani che ormai
non conoscevamo più, anche perché anagraficamente una volta eravamo noi i giovani, magari ci
illudevamo di esserlo ancora ma non era vero: nascevano degli altri tipi di giovani quasi
termidoriani, che uscivano cioè da un’epoca di restaurazione, con una spoliticizzazione totale, con
nessuna traccia di insegnamento antagonistico, la quale era stata espulsa da tutti i campi; quindi
erano per noi difficilissimi da trattare, a parte alcuni che proprio erano dei ribelli irriducibili. Del
resto l’età media del movimento stava crescendo paurosamente: prima si andava dai 15 anni ai 60,
adesso si stava spostando sempre più in su e, ad un certo punto, eravamo dei gruppi di quarantenni,
senza per altro che si potesse dire che fosse colpa di questi giovani: essi erano usciti da una
situazione così formata e va detto che anche noi non eravamo riusciti a comunicare, né ci
riuscivamo più. Allora pensammo di ricorrere a strumenti diversi. La gestazione durò diversi anni;
poi, dato che la mia carriera diventava quella di scrittore di fantascienza e che io vedevo che in
quella veste riuscivo a far passare delle idee che altrimenti sarebbero state difficili da far passare, ad
un certo momento nacque la seguente proposta. Qua ci manca una cultura; in Francia è successo che
il romanzo noir di estrema sinistra è diventato importantissimo in quel quadro culturale, proviamo a
fare la stessa cosa in Italia con la fantascienza o con la narrativa di genere, noir incluso: proviamo a
fare questa operazione e a vedere se riusciamo a conquistare un pubblico più vasto. E’ stata quindi
un’operazione squisitamente politica, che dura tuttora. Facemmo dunque uscire Carmilla, che
adesso è una rivista vera e propria, ma all’inizio era una fanzine che ebbe un successo enorme. Dato
che io cominciavo ad essere parecchio conosciuto e ad avere tutta una serie di rapporti proprio con
quei giovanissimi che mancavano di solito, la scelta di questo tipo di linguaggio fu facile e
obbligata. A quel punto Progetto Memoria, nella sua veste ultramilitante, diventava difficile da
portare avanti, perché ognuno aveva degli impegni, e poi non è che la ricerca continuasse più di
tanto. Decidemmo di fare eventualmente uscire un Progetto Memoria ogni tanto (adesso ha un altro
direttore, una volta ero io), però puntare su questa rivistina Carmilla, che in effetti è tuttora uno
strumento molto importante. In teoria dovrebbe essere semestrale, ma da quando abbiamo una veste
regolare ed elegante non ce la facciamo più, perché l’editore ci fa impazzire: prima sono usciti
quattro numeri come fanzine, di lusso, e lì riuscivamo a rispettare le scadenze. Quindi sono già circa
tre anni che Carmilla esce: questo è stato lo sbocco di Progetto Memoria.
Va detto che nel frattempo, è vero che io non militavo più attivamente, però, insieme ad altri
compagni, tentavamo delle strade alternative. Ad un certo punto io mi iscrissi a Rifondazione
Comunista: fu un’ingenuità da parte mia, credetti che veramente fossero aperti. Fu un’esperienza
breve e disastrosa, ma lo fu soprattutto per loro, perché, in realtà, io (che facevo parte del direttivo
di un circolo) e la componente giovanile ci impadronimmo praticamente del circolo: quando
uscimmo, lo facemmo con tutti i giovani di Rifondazione, e fu la prima di tutta una serie di
emorragie che hanno avuto. Uscimmo su posizioni operaiste, del resto io non avevo mai rotto i
legami con il movimento, per cui frequentavo via Avesella e il circolo di Rifondazione, come altri
frequentavano via Avesella ed erano iscritti alle RDB o cose di questo tipo. Era quindi come un
terreno di intervento. Fu comunque la mia ultima esperienza organizzata; poi ho continuato ad

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andare alle riunioni in via Avesella, anche per una forte amicizia personale che avevo con tutti
questi vecchi compagni, però adesso sostanzialmente l’unica cosa che faccio è Carmilla.

- Facciamo un passo indietro nell’analisi dei percorsi: i ’77 bolognese e romano assumono una
particolare importanza, anche se vengono spesso mitizzati, dando luogo ad analisi molto
riduttive rispetto alla complessità dei percorsi e dei movimenti degli anni ’70. Quali sono state,
secondo te, le differenze tra i ’77 più significativi, ossia quelli di Bologna, Roma e, in parte,
Milano?

Secondo me a Milano il ’77 è stato molto poco significativo, meno di altre città più piccole: mi
ricordo che eravamo parecchio scontenti del fatto che i compagni milanesi non riuscissero a fare
quello che facevamo noi qua. Credo che ci siano delle fortissime differenze tra come lo si è vissuto
a Bologna e a Roma. A Roma, intanto, c’erano delle componenti dell’autonomia organizzata molto
più antiche e più forti che a Bologna. C’era un radicamento di quartiere molto più forte: prima ho
esaltato quello di qua, ma in realtà lo facevo nel quadro di miseria complessiva di questa città. A
Roma i comitati che operavano nei quartieri erano reali, e lo erano anche nei luoghi di lavoro.
Quindi, a Roma era tutto più solido, sostanzialmente meno studentesco e più proletario. A Bologna
ci si trovava in una città molto particolare, perché era la città del PCI, che con il tempo era diventata
una forza sostanzialmente conservatrice. Qua c’erano ex operai, bottegai partiti da piccoli e
diventati grandi, che dovevano le loro fortune al PCI, quindi mantenevano fedeltà, ma in realtà si
trattava di un’impostazione molto conservatrice della città, del PCI, che voleva l’ordine a tutti i
costi perché era un modello per l’intero partito, e di tutta la sua miriade di cooperative, tutte più o
meno truffaldine, o comunque ampiamente foraggiate dal sistema.

- Infatti quello emiliano delle cooperative è diventato un importante modello di uno sviluppo
capitalistico molto legato al terzo settore.

Io penso che le cooperative abbiano perso la loro funzione verso il 1880, perché se all’inizio erano
in qualche modo la prefigurazione di una società alternativa, subito invece diventarono qualcosa di
diverso. Va detto che qua il PCI non ha mai rubato molto, in stile democristiano, perché in realtà
aveva il suo apparato che lo foraggiava, non aveva bisogno di rubare, erano già ricchi; poi gli
imbrogli che facevano era concedere gli appalti sempre alle stesse cooperative. Comunque era un
sistema blindato; per di più c’era una classe operaia piuttosto anziana, le industrie più moderne
erano piccole, isolate e con tipi di lavorazione che richiedevano pochissima manodopera. Va poi
anche detto che, nella situazione bolognese, difficilmente l’operaio si identificava molto con la
fabbrica: se suonava la chitarra la sua identità vera era quando usciva di lì e suonava la chitarra,
questo nel ’77 era molto forte. Roma aveva delle componenti non tanto operaie quanto proletarie, e
dunque tutta una maggiore compattezza, capacità di tenere la piazza e via dicendo. A Bologna però
fu lo stesso un fenomeno interessante, anche se forse è stato esagerato, perché se poi andiamo a
vedere a posteriori si trattava della morte di un compagno e della reazione durata tre giorni, più
qualche ricaduta successiva. Però c’era questo movimento contro la città. Allora non so, ma adesso
Bologna ha 400.000 abitanti e 100.000 studenti universitari, che la cittadinanza ha sempre rifiutato
e tentato anzi di sfruttare in tutte le maniere più abominevoli, costringendoli a fitti incredibili o cose
di questo tipo: la città da un lato li ignora e li detesta e dall’altro li sfrutta. A quell’epoca là, nel ’77,
va poi tenuto presente che non c’erano quasi sbocchi lavorativi per la maggior parte delle facoltà,
molti studenti venivano dal meridione e in realtà si iscrivevano all’università, stavano qui ma il
numero degli esami decresceva nel corso di molti anni, quasi tutti si trovavano un lavoretto. Anche
alcuni studenti medi, degli istituti tecnici ad esempio, andavano a lavorare in fabbrichette che
richiedevano manodopera in certi periodi dell’anno mentre in altri periodi li buttavano fuori, perché
poi lavoravano su commessa, per cui in certi periodi dell’anno erano forti ed in altri deboli: quando

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avevano bisogno di manodopera potevano reclutare studenti, e non importa chi. Quindi, si trattava
di una componente sociale, ma poco cittadina.

- La risposta della città era dunque negativa?

Assolutamente sì, direi feroce: non ho mai visto dei momenti di simpatia della cittadinanza (intesa
in senso lato, ad esempio anch’io facevo parte della cittadinanza), non tanto paura quanto piuttosto
proprio odio, che era pesante, si sentiva. Poi c’era il fatto del razzismo tradizionale, non quello che
c’è adesso, che è un’altra specie ed è ancora peggio: era un razzismo verso gli immigrati che
venivano dal meridione, qua chiamati marocchini, quindi la fobia dello straniero esisteva già prima
che arrivassero i marocchini veri. Dunque, è una città che si chiudeva molto rispetto a queste cose, e
di lì forse anche la necessità di dare una punizione a questa città, perché questa idea c’era: le vetrine
venivano rotte non per puro sadismo. Intanto bisogna dire che non venivano rotte tutte, ma si
trattava di banche, di istituti importanti, cioè di bersagli simbolici, poi sono successi anche fatti di
degenerazione, però erano molto marginali e riguardavano grosse manifestazioni di cui una
componente non era controllabile. Ma qua si trattava di dare uno schiaffo a questa città, che tra
l’altro ci provocava con delle cose che ci facevano veramente impazzire di rabbia: ad esempio, ogni
volta che c’era il passaggio di una nostra manifestazione, mettevano dei cordoni di fronte al sacrario
dei partigiani, come se noi lo volessimo assalire. Nella loro mente contorta questa era l’immagine
che volevano dare, infatti poi ci chiamavano fascisti e cose del genere. Da qui nasceva veramente
una rabbia che oggi potrà anche essere ritenuta trascurabile, non lo so, ma allora era grossa.

- Tu pensi che a Roma il radicamento nella città fosse differente?

In alcune zone sì; da quanto ne so io il quartiere San Lorenzo, ma anche Centocelle e tutta una serie
di situazioni, avevano sempre in qualche modo coperto il movimento. Del resto anche il comunista
romano di base del PCI era di altra tempra rispetto a quello bottegaio di qua, era gente che in una
città piuttosto tendente al fascismo aveva tenuto duro e aveva delle tradizioni di lotta. Così, i
compagni dell’autonomia romana senz’altro erano autonomia operaia: certo mancava l’operaio di
fabbrica che lì non c’era, ma ormai operaio non poteva più voler dire solo componente strettamente
di fabbrica, comunque erano radicati. Noi qua no, a parte dei collettivi: comunque, quando si
trattava di operai (di solito giovani) non avevano connotati operai tradizionali, erano dei giovani
come gli altri, a cui poi si aggiungevano ragazzi di quartiere, spesso un po’ ai margini non proprio
della malavita, ma di una vita trascinata nei bar, tra piccoli furti e cose del genere. Quindi, era
proprio un conglomerato di precariato, perché erano precari tutti: gli studenti universitari, persino i
medi, gli operai, i ragazzi di quartiere; insomma, era un fenomeno sociale. Lo era anche a Roma,
ma lì forse era un fenomeno ancora più politicizzato che qua.

- L’hai già accennato prima: come si inserisce, in questo percorso di militanza, la tua carriera di
scrittore? Come mai poi la scelta della fantascienza?

Intanto si inserisce poco, almeno all’inizio, ora non lo so. Io avevo lavorato all’università, poi avevo
vinto un concorso per la pubblica amministrazione, ma avevo le scatole piene di quasi tutto; mi
piaceva scrivere e, senza pretendere che qualcuno leggesse le mie cose, cominciai a scrivere questi
romanzi. In realtà li scrivevo per me e per gli amici, che poi erano i compagni. Per tutta una serie di
circostanze poi cominciarono ad essere pubblicati e ad avere successo. Partecipai quasi per caso ad
un concorso, finii col vincerlo, dopo ripetuti tentativi; i romanzi ebbero successo e oggi faccio, con
altrettanto successo, lo scrittore di professione, e non è che ce ne siano tantissimi in giro. Però
quello che mi preme notare è che non ho mai scritto romanzi realmente spoliticizzati o di puro
passatempo: certo delle cose molto ambigue, mi piace giocare con l’ambiguità, personaggi negativi
che diventano gli eroi e via dicendo, però nel quadro di una visione del mondo che per me non è

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cambiata di una virgola. Un conto è dire: siamo stati sconfitti? Sì. Sei pentito? No. Perché dovrei
esserlo? Cosa ho fatto io? Tutto quello che ho fatto l’ho fatto bene, non vedo cosa dovrei rinnegare.
Allora, dato che la mia visione è rimasta quella, senza fare dei pamphlet politici, però nella mia
narrativa qualcosa ci metto. Quando poi, in articoli o altro, devo teorizzare su questa narrativa,
allora divento proprio esplicito e faccio capire che il capitalismo a me continua a non piacere
troppo, pur essendo inserito nel mondo borghese. Per esempio, per me Carmilla è importante come
rivista, perché è il risvolto della mia professione che resta legato al movimento: infatti, di solito, le
presentazioni le andiamo a fare nei centri sociali e posti di questo tipo. Io, che fino all’anno scorso
facevo delle presentazioni in giro per l’Italia, piccole apparizioni televisive, adesso non faccio più
niente, eccetto che andare nelle situazioni di movimento: non è che poi assomiglino a quelle della
mia gioventù, ma bene o male è la mia famiglia, io vengo da lì.

- Tu prima parlavi delle trasformazioni culturali e politiche rispetto alla dimensione del
proletariato giovanile. Nei tuoi romanzi vengono fuori i nodi del linguaggio, della tecnologia,
della scienza, della religione e, più in generale, dell’immaginario collettivo: essi hanno molto a
che fare con quelle trasformazioni.

Su questo devo fare un discorso un po’ complesso. Io sono fortemente persuaso che i moderni
mezzi di comunicazione, di cui sono poi stato tra i primi a servirmi (Internet e i computer li uso da
tantissimo, li usavo anche nell’attività politica), portino delle trasformazioni indubbie e
visibilissime nel modello produttivo e nella circolazione della ricchezza in genere; però non sono
convinto di altre cose, cioè che questo abbia talmente ammodernato, ad esempio, il sistema
produttivo da far cadere un possibile discorso sull’identità di classe.

- Ciò che invece ritiene il tuo illustre concittadino Bifo…

Quel tipo di cose io non riesco ad approvarle, anche perché mi sembra piuttosto evidente che nel
mondo non ci siamo solo noi, non c’è solo l’Occidente sviluppato: determinati fenomeni di
accumulazione che avvenivano qua sono semplicemente spostati altrove, con effetti disastrosi. Di
questo parlo spesso nei miei romanzi. Ad esempio, riferito all’Africa e via dicendo, ci sono
politiche omicide che sono state applicate, ma sempre al servizio dell’accumulazione: non è che
siamo passati ad un altro sistema, non è che, come diceva Hilferding, le società per azioni un
domani avrebbero sostituito il capitalismo e saremmo stati più felici. Neanche per sogno: siamo
passati alle multinazionali, da lì alle transnazionali e via dicendo, ma il meccanismo economico di
sfruttamento resta lo stesso; accade semplicemente che certi processi produttivi, che prima erano
concentrati in Occidente, adesso si svolgono su scala globale. Dunque, non facciamoci troppe
illusioni su questi aspetti.
Quello che va invece sottolineato, perché importante, è quello che Marx chiamava l’astrattizzazione
del capitale. Qua siamo arrivati ad un livello in cui davvero il capitale si è fatto totalmente
immateriale: il processo ormai è diventato denaro-denaro-denaro (D-D-D) con una velocizzazione
incredibile e con uno spostamento di quasi tutta l’economia (per quanto riguarda scelte, potere
eccetera) sul piano dell’immaginario, ma poi con un’estrema materializzazione dell’economia dello
strangolamento quotidiano dei popoli. E’ chiaro che l’operaio italiano non sarà preso per il collo (in
realtà lo è, perché mai la classe operaia italiana è stata messa male come adesso); ma sicuramente
chi sta peggio è chi produce a Taiwan, nell’Europa dell’est e là dove sta arrivando il capitale.
Quindi, quello che è avvenuto è stato una sparizione non tanto del lavoro, quanto del capitale, che
non si riesce più a seguire: una giornata di scambi di borsa mobilita somme che equivalgono a
diverse bilance di stati nazionali. Questa, attenzione, è una forma di sfruttamento peggiore di quelle
del passato e di creazione di nuove classi, ma nell’ambito della subordinazione. Infatti, chi è poi che
controlla questi sistemi? Non è mica facile. La stessa Internet, che io apprezzo tantissimo e mi piace
molto, è però un prodotto americano che loro potrebbero anche chiudere: magari un domani no, ma

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ancora oggi sarebbe possibile isolare uno stato da questo tipo di rapporti. E cosa succede a quello
stato se quel tipo di comunicazione è diventata una parte importante della sua economia? Allora c’è
questo che mi spaventa; ma quello che si trova riflesso nei miei romanzi è il fatto che nessuno
sembra accorgersene. Questo perché in realtà hanno agito sull’immaginario, ma a dei livelli molto
più profondi di quanto non si pensi. Una volta l’operaio si faceva otto ore di lavoro, otto ore per
istruirsi e otto ore per riposarsi: adesso quando riposi entrano anche nei tuoi sogni, i sistemi di
svago sono tutti collegati al meccanismo di accumulazione, sono capaci di incidere in profondità su
di te, ma soprattutto hanno un senso impedendoti di riconoscerti come simile a qualcun altro. Sono
tutti procedimenti che vanno verso l’individualizzazione della persona. Si tratta di un calcolo molto
ben riuscito, che coincide con quella che poi Marx chiamava la sussunzione reale, vale a dire
l’assoggettamento totale della forza-lavoro al capitale; ma nemmeno Marx supponeva che questo
assoggettamento sarebbe arrivato alla cultura, ai comportamenti quotidiani, allo svago, al riposo, a
tutto quello che prima non era lavoro. Oggi tutto diventa lavoro. Il lavoro a domicilio, il telelavoro è
la peggiore delle trappole: sei lì con il tuo computer e non sei organizzato con qualcun altro, e non
si creda che siano meno ore di lavoro, sono di più. L’autosfruttamento è stata la grande carta giocata
dal capitale, ma non solo questa, bensì l’autoillusione, perché, in mezzo a tutto questo, nessuno sa
più esattamente cos’è, dove sta, cosa fa e via dicendo. Nessuno sa precisare una propria identità
collettiva; questo non solo in Occidente, anche in Oriente e ovunque. Non sbagliava mica tanto Fini
quando diceva che il socialismo reale è caduto per colpa di un supermercato, era vero: è stato un
incidere lentamente nell’immaginario, e oggi ciò è portato alle estreme conseguenze. Cosa vuol dire
questo? Non vuol dire solo smarrimento dell’identità di classe, vuol dire anche smarrimento dell'io,
e questo è il principio della schizofrenia, del delirio, della non percezione; da cui poi una serie di
comportamenti presentati come accettabili e in realtà mostruosi, il non avere riguardo per nessuno,
il disprezzare assolutamente chi è più debole: siamo tutti in corsa e non solo si deve vincere, ma
durante la cosa è legittimo calpestare l’altro. Allora i valori etici sono caduti completamente,
all’alienazione si è aggiunto quello che i marxisti hanno sempre indicato come il secondo
fenomeno, l’anomia, la mancanza di norme, il non sapere dove andare a sbattere la testa: questo con
una conseguenza patologica universale. Il capitalismo si è rivelato la più pericolosa e la più
diabolica delle macchine; lo era anche il socialismo reale, però forse era più rozzo nella repressione
e dunque in qualche modo più umano. Si è rivelato una pericolosissima macchina per la follia;
dunque, tra le conseguenze negative del capitalismo c’è tutto quello che elencava Marx (la guerra,
la prostituzione eccetera) e c’è anche la follia collettiva. Si vedono guerre che ormai non si capisce
neanche più perché scoppino: in realtà, mancando un’identità collettiva, ognuno si richiude sempre
di più nel proprio particolare (il campanile, la tribù, la razza e via di questo passo): allora gli hutu
massacrano i tutsi e nessuno a un certo punto capisce più perché lo stiano facendo, se non perché
qualcuno li ha aizzati. In questo quadro allora viene fuori la religione perché, mancando le norme, è
logico che la gente si rivolga anche alla mistica.

- Nel racconto che hai scritto sul libro La mano sinistra del potere, scienza e religione erano i
due aspetti preponderanti, all’interno di uno scenario futuribile ma molto legato alla realtà
odierna. Nello scenario che tu delineavi, connotato dalla crisi di identità collettive, la religione
assume un forte rilievo, principalmente legata alla questione dell’immaginario; e crea poi
anche i particolarismi, di cui hai appena parlato, funzionali a macrointeressi.

L’emergere degli integralismi (islamico e di tutti gli altri tipi) in varie parti del mondo non sono poi
altro che la ricerca di identità sostitutive di quella che è andata perduta. Mica che tutto il mondo
arabo fosse politicizzato, però sotto l’impulso dei palestinesi cominciava ad esserlo in larghi settori:
pensate a che cosa sono ridotti adesso i palestinesi. Anni fa erano un settore importante di
modernizzazione del mondo arabo, poi però ad un certo punto si rinuncia collettivamente, perché è
caduto il socialismo reale, anche a portare avanti un qualsiasi discorso di antagonismo; e questo,
dato che viene propagato in tutti i modi, cantato nelle accademie, professato in tutte le maniere,

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finisce per contagiare tutte le forze di sinistra al mondo o quasi, ne rimangono poche (gli zapatisti,
le Farc). Poiché le esigenze dei poveri sostanzialmente sono rimaste le stesse e i bisogni sono quelli,
si rivolgono a chi promette una visione del mondo, una compattezza e quella cosa che non li tenga
nella posizione in cui sono. Non sarà certo Internet a sedurre l’africano o l’abitante del Terzo
Mondo medio, perché i suoi bisogni sono altri; allora la religione torna fuori. Per me la religione
resta l’oppio dei popoli, detesto l’islam quanto l’ebraismo o il cattolicesimo.

- Non pensi che, a livello politico, i movimenti antagonisti abbiano molto perso la dimensione
dell’utopia?

Penso sicuramente che per talune componenti del movimento (anche se adesso non mi sento in una
posizione di gettare l’anatema su nessuno) questo tipo di discorso è venuto molto avanti: ad un certo
punto quello che era il processo per cui il PCI si sollevava dalla propria ideologia, si è introdotto
anche in tantissimi centri sociali. Moltissimi oggi in Italia sono dei centri sociali di facciata, non
conducono alcuna attività antagonistica che possa essere chiamata tale, salvo per episodi
occasionali: si dedicano a forme di autoproduzione che sembrano replicare l’illusione del vecchio
cooperativismo. Io non è che impazzisca per questo terzo settore, tutte queste cose sono anche
simpatiche, non posso dire che quelli siano i miei nemici, però, attenzione, qua si tratta di rivoltare
un sistema, non di vivacchiare in qualche angolo. Alla fine è un mezzo per sistemare alcuni dei
vecchi leader di movimento, perché si creano un’attività economica ed hanno da vivere per il resto
dei loro giorni senza staccarsi troppo dall’ambiente. Non voglio attribuire cattive intenzioni a gente
che non conosco bene, ma il pericolo può essere questo. Quando prima io dicevo che i problemi
sono rimasti gli stessi, sono rimasti gli stessi per tutti. Allora bisogna coltivare un’utopia (che ha poi
assunto un senso sbagliato), coltivare la trasformazione: il comunismo, o quello che è, lo si
costruisce non sulla base di un modello che si raggiungerà, ma sulla base della lotta che si conduce.
Tanti di noi hanno avuto dei rapporti umani nel passato perché stavano assieme ai compagni di lotta
in uno spazio che si riusciva a conquistare e diventava spazio di tutti, perciò era estremamente
attraente, anche generazionalmente, per me lo è stato: è importante su una formazione. Purtroppo
c’è chi non capisce questo e certamente è difficile sapere come portare questi discorsi oggi. Una
volta si andava all’università e si dava un volantino che iniziava con “compagni…”, dando per
scontato che fossero quasi tutti compagni; non lo erano neanche allora, però se oggi fai una cosa
simile i due terzi ti cacciano via, ti prendono a schiaffi o, se sono gentili, non se ne fanno niente.
Bisogna trovare nuove forme di comunicazione, non possono rimanere quelle del passato, bisogna
trovare nuovi linguaggi, sapere bene le armi che usa il nemico per usargliele contro. Seattle in
questo senso può essere un’indicazione importante, però non facciamone poi un mito anche di
questo: non so se sia ripetibile facilmente e sempre. E’ stato bello, significativo, ha fatto vedere che
esiste ancora nel mondo un’opposizione, però io sarò vecchio stile, ma mi interessa più quello che
fanno le Farc o Chavez in Venezuela: c’è gente che ancora sta dando dei colpi al capitale poco
spettacolari e non via Internet. Mi va benissimo Seattle, però vorrei anche qualcos’altro, perché poi
l’utopia vera è legata a quell’altro. L’utopia di Seattle è molta bella, ma è un’ambigua utopia
(com’era il titolo di un vecchio romanzo di fantascienza) perché c’è molta accettazione di sistemi
capitalistici: è chiaro che questi non è che si possano rifiutare, ma vanno sicuramente contestati e
stravolti.

- Tu cosa ne pensi rispetto al dibattito, legato anche a Seattle, su questa ipotetica o reale società
civile come nuovo soggetto della trasformazione?

La società civile: sono tutte espressioni che non sono mica nostre. Non vorrei che alla fine usassimo
dei criteri che non sono propri della nostra tradizione senza neanche accorgercene. Seattle
sicuramente ha visto una manifestazione di una parte della società civile e va senz’altro bene, va
meglio quello della staticità; se poi si crea anche il mito, accettiamolo pure. Ma tutto questo in una

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certa maniera, perché la cosa decisiva non è quella: molta di questa gente di Seattle non la
rivedremo da nessuna parte, non è che poi tornino nel loro paese e facciano le lotte. I Verdi di chi
sono amici? Miei no, fanno delle porcherie a tutti i livelli. Poi, chiunque parta da un’accettazione
delle coordinate di fondo dello stato di cose e vuole in qualche modo forzare, ma non rovesciare,
secondo me parte già male. Siamo in una società in cui, in questo momento, ci sono non so quanti
africani che in un paese qualsiasi muoiono di fame, vengono mutilati, uccisi, sfruttati, violentati,
costretti alla prostituzione; allora, se questo è, questo è il problema, e non è che quattro animalisti
me lo risolvano. Mi vanno bene anche gli animalisti, ma di tutte quelle componenti apprezzo di più
quelli che fanno un discorso da un punto di vista borghese ma evoluto: ad esempio, Le Monde
Diplomatique e il suo gruppo parlano di espansione della democrazia, di transazione sui movimenti
di capitali, e sono più concreti che altro. Mi va bene, però non è neanche quello.

- Parliamo della comunicazione e delle nuove tecnologie. Tu hai prima parlato delle forme di
mistificazione rispetto alla rete come forma di radicale democratizzazione o addirittura di
liberazione: come vedi il rapporto tra le nuove tecnologie e la composizione giovanile, la più
soggetta rispetto alle illusorietà da esse portate? Dall’altra parte, demistificandoli, è possibile
pensare ad un controuso dei mezzi capitalistici?

Partiamo dai mezzi. Ovviamente tutti questi mezzi hanno un doppio uso: Internet, per esempio, da
un lato crea delle comunità, c’è poco da fare, mette in comunicazione delle persone. Questo è bello
e utile, anche da un punto di vista di scambio di opinioni e di antagonismo: oggi tutti veramente
possiamo fare dei giornali che non costano niente, non è mica poco rispetto ad una volta, possiamo
anche farli leggere a gente che sta all’altro capo del mondo, abbiamo tutte queste possibilità da
sfruttare e ancora da scoprire, perché ce ne sono delle altre. Però il mezzo si presta anche a cose
opposte: queste comunità possono cioè essere fatte da una serie di personaggi isolati che la loro vita
attiva la vivono solo lì, non si tratta di casi infrequenti. Quanto più Internet diventa non un mezzo di
comunicazione come il telefono, ma una specie di televisore interattivo, che per di più ti coinvolge,
tanto più questo non è un fattore di aggregazione, bensì di disgregazione. Per esempio, io comunico
con i compagni di Milano, mi metto lì, sto davanti al mio computer, ci scambiamo i messaggi
eccetera: io però sono lì per mio conto. Ma non è tanto questo il pericolo, è un altro ancora: la
trasformazione di Internet in televisore interattivo è un progetto che è ormai ampiamente
caldeggiato dal capitale. Io ci sono stato fin dall’inizio, era una cosa che avevamo appena strappato
ai militari e agli accademici e funzionava molto tramite gli hackers, gli appassionati, con molto
poco controllo. Oggi non è più così, è diventato un sistema per banche, la Repubblica ne fa la
propaganda riempiendo le orecchie tutti i giorni con questo Internet, “comperate azioni via
Internet”. Cosa succede comperando azioni via Internet? Quando prima parlavamo del paese
africano dove poi la gente muore, le società che investono sono legate, per esempio, al mercato
azionario: queste spaventose oscillazioni delle borse non è che siano senza conseguenze, perché alle
sue estremità ci sono delle società che spariscono, ma sparisce anche la fonte di lavoro per chi ci
lavorava, sparisce una determinata fonte di approvvigionamento e di sviluppo di una determinata
zona ecc. Il fatto è che viene caldeggiato un uso da un lato apparentemente selvaggio della rete, ma
dall’altro inquadrato dentro a rigidi criteri capitalistici. Non vorrei fare dei discorsi semplicistici,
però è evidente che se oggi ci si collega ad Internet si trova, già dall’inizio, un sacco di messaggi
pubblicitari che ti bombardano, trovi una serie di inviti allettanti a fare delle cose che danno
quattrini a qualcuno: tutta l’anima pura della rete sta sparendo di giorno in giorno. Attenzione che le
campagne contro i pedofili e contro i nazi io le approvo totalmente, però possono preludere a
ulteriori sparizioni di forze fastidiose dalla rete: quanto più essa diventa fattore di governo, tanto più
diventa fattore della borghesia. A me è sospettosissimo il fatto che la Repubblica sia diventata una
specie di banditore di Internet. Alla fine c’è poi il rischio che, se già il televisore ci rimbambisce, il
televisore interattivo ci rimbambisca di più. Non è ancora detto, la rete è grandissima e ha tante
possibilità, ormai quasi tutti i compagni dialogano con essa, ECN è forse stata la prima a muoversi

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con competenza su questo piano, quindi non è ancora del tutto così; ma le tendenze ci sono. Lì
diventa poi difficilissimo capire chi siano i padroni di tutto questo o cosa ci stia dietro a ciò.
Quando il capitale si fa immateriale, e lo diventa persino nell’immagine, allora davvero puoi
illuderti che non ci sia, invece c’è: e visto che a me il capitale non piace, vorrei poterlo sempre
vedere in faccia; mi sembra che stia sprofondando sotto un velo di sabbia molto leggero, che però
serve a nasconderlo nelle sue espressioni più cruente. Per cui alla fine non vorrei che l’opposizione
diventasse tutta simile a Greenpeace; e il capitale simile a che cosa? Tiscali? Cosa sono queste
cose? Fabbriche che non fabbricano niente, aziende che hanno 200 operai visibili, ma quanti poi
invisibili? Intanto non è che nessuno più lavori al mondo perché tutti stanno lì a “pistolare” Internet:
in tutto il mondo si continua a morire di uno sfruttamento mille volte più bestiale, in quanto più
sistematico anche se magari più soft. Ci sono tutti questi padroncini che volano in Romania ad
aprire delle fabbriche che chiudono una settimana dopo, quelli che le aprono in Albania vivendo nel
Far West locale proprio per alimentarlo e approfittarne, non per dissolverlo: tutta questa gente qua
fa parte di un intero sistema di spostamenti globali e sempre più rapidi del capitale, e quanto più
sono veloci tanto più sono dannosi per le popolazioni. Da qui anche una perdita secca di
democrazia: alla fine sembra che con Internet tu abbia la democrazia in mano, in realtà non hai più
nulla, non te ne sei neanche accorto e sei contento.

- Tu hai analizzato la situazione di Bologna, città in cui la composizione dei movimenti è stata ed
è fortemente legata agli studenti. Negli anni ’70, anche a livello di analisi, iniziavano a
delinearsi i cambiamenti della figura dello studente che, nell’ambito dei processi di
lavorizzazione dell’agire umano, non era più solo futuro lavoratore, ma già di fatto forza-
lavoro in atto. Come vedi l’evolversi dei processi capitalistici legati alla formazione? Dall’altra
parte, come analizzi, da un punto di vista di classe, i processi di trasformazione della figura
dello studente, il tutto legato ad una tendenziale prospettiva politica?

Rispondo per quanto ne posso sapere. C’è una differenza fortissima rispetto a quello che era
l’organizzazione della cultura in Italia, specie nell’università, e che, prima di parlare della
composizione degli studenti, è dovuta ai contenuti che l’istituzione trasmette. L’università è fatta di
tanti elementi: la sua organizzazione (che oggi ovviamente tende alla privatizzazione), i contenuti
che trasmette e la figura degli utenti. Di solito i docenti non li considero neanche perché essi sono
una figura molto sensibile a certe lusinghe che gli arrivano: in pratica molti docenti furono
normalizzati, alla fine degli anni ’70 e agli inizi degli anni ’80, da quando il loro stipendio venne
aumentato a dei livelli giganteschi, chi prendeva un milione e mezzo passò a prendere sei milioni al
mese, si può immaginare che la carica antagonista si attenuò non poco. Io credo che ci sia stata
un’operazione sistematica, attuata dagli intellettuali agevolati dal potere, che consisteva
nell’imporre un corpus organico di discipline tutte orientate nel medesimo senso, vale a dire quello
della superficialità, della mancanza di profondità, ritenuta come la vera e sola scienza in un’epoca
di scetticismo e di caduta delle ideologie. Per dirne una, quando io facevo l’università l’economia
detta marginalista, diciamo aziendale, era assolutamente secondaria rispetto all’economia che
veniva studiata, che era non dico quella marxista (anche se figurava in qualche programma) ma per
esempio l’economia keynesiana, la quale prendeva assieme dei valori ampi: adesso mi risulta che
nell’insegnamento abbia la meglio l’economia aziendale, marginalistica, di tutte le scuole che
consideravano più che altro il breve periodo. Ma questo è solo un esempio. Nelle facoltà di
magistero l’unica psicologia che si insegna è quella cosiddetta comportamentista: essa è quella che
non si chiede se un determinato comportamento psicologico ha delle radici profonde, ma
semplicemente si basa su quelli che sono i comportamenti più evidenti. Nella storiografia ormai il
revisionismo comanda in tutti i campi, non riguarda solo il fascismo con De Felice e i suoi tanti
pupilli, riguarda tutto. La rivoluzione francese: avevano ragione i vandeani. L’inquisizione (il mio
campo): ottima istituzione, ha tenuto buona l’Europa e ci ha dato tante libertà. E così via,
praticamente non c’è un campo, dalla storia romana ad oggi, che non sia stato completamente

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sovvertito nell’impostazione, rinunciando a vedere la storia come un insieme di forze che
confliggono, come grandi fenomeni: tutto è stato ridotto all’epifenomeno. Per cui se il giacobino
uccide il vandeano, nessuno si chiede perché, quale fosse la logica vera di tutto questo e se di fronte
ad essa non avesse comunque ragione il giacobino: no, c’è il semplice fatto in sé e, dato che
nessuno crede più in valori eterodossi, c’è addirittura una costante simpatia per le figure più retrive
della storia. I partigiani erano assassini, invece i giovani di Salò erano ben motivati, non possiamo
liquidarli così. Questi sono esempi superficiali, ma vi assicuro che questa cosa sta andando avanti in
tutte le dottrine che vengono emanate dall’università, e queste sono diventate strumenti di
diffusione di un sapere che è la pallida ombra della complessità che aveva saputo raggiungere negli
anni ’70. Ciò sul piano della sociologia, di tutte le materie: io non me ne intendo, ma degli amici mi
dicono che addirittura la matematica che si studia oggi è meno complessa di quella che si studiava
un tempo, non so se sia vero, ma non mi meraviglierebbe; del resto l’immagine della scienza è stata
davvero ripugnante. Quindi, io direi di non dimenticare innanzitutto che l’università è una cosa,
vale a dire è un centro di ricerca e di diffusione. Quando il giornalista scrive una cosa, egli di solito
è limitato, poco informato, scemo, in malafede eccetera, ma si rifà a chi più in alto ha elaborato un
certo tipo di modello: e chi sta più in alto sono gli intellettuali, magari disastrati, c’è l’intellettuale
televisivo che ha il suo peso, ma anche dietro ad esso ci sta l’intellettuale accademico. Dunque, se i
giovani di oggi (soprattutto una parte) hanno una percezione sbagliata di ciò che li circonda, non
dimentichiamo che l’università è un terreno di esperimenti di questo tipo. Allora la privatizzazione
e simili non sarà che una logica conseguenza di questo stato di cose, perché corrisponde a quella
che chiamerei addirittura un’ideologia universitaria.
Lo studente che cos’è lì dentro? Diciamo subito che non è mai stato vero che lo studente sia una
figura totalmente sintetizzabile in un’unità, perché ce ne sono tanti tipi; però direi che quello che gli
si chiede di più, in un contesto del genere, è l’adesione e la rinuncia alla critica. Io vengo da studi
universitari in cui effettivamente era consentita la libera frequenza, cioè uno ci andava o non ci
andava, andava al collettivo invece che alla lezione: mi risulta che tutto questo si stia riducendo a
livelli pesanti, che siano stati reintrodotti i compiti in classe tipo studenti medi, che gli appelli siano
sicuramente in numero inferiore di quanto erano ai miei tempi. Allora lo studente che cos’è lì? Lo
studente è una figura di per sé subordinata, perché è oggetto di sperimentazione di questi tentativi,
di queste nuove tecniche. Vengono soppresse materie e ne vengono introdotte altre, da una parte ci
sono gli interessi accademici, ma dall’altra parte ci sono anche gli interessi che hanno coloro che
sempre più sono i finanziatori dell’università. I professori sono complici e artefici, dall’altra parte
chi li paga è sempre di più qualcuno che sta al di fuori dell’università di vecchio tipo, statale: la
privatizzazione non è che l’ultimo gradino di questo processo. Non è facile identificare cosa sia lo
studente in tutto questo: è un facchino (non un operaio), uno che deve accettare qualsiasi cosa;
questo lo vedrei un po’ come elemento unificante. E’ chiaro poi che lo studente proletario vivrà i
problemi dello studente e del proletario. Però tutto questo fa vedere che il discorso antagonista deve
passare attraverso la cultura, perché gli studenti, in tutte le rivoluzioni del mondo, sono stati una
punta di diamante, per un motivo ovvio, erano coloro che erano più giovani, più al corrente, più
dotati, più abituati allo studio e all’informazione e via dicendo. La battaglia andrebbe condotta nello
strapparli a quel tipo di cultura e nel tentare di darne un’altra, nei limiti del possibile. Quanto alla
loro figura sociale, essa viaggia con quelle che sono le vicende del proletariato italiano ormai così
miserabile: è già difficile individuare chi sia un operaio oggi, uno studente diventa ancora più
difficile. Certo, lavora anche quando dorme. Però attenzione: mi pare che Henry Braverman dicesse
che le classi cambiano identità anche perché chi le modella cambia la loro identità, non sono
elementi endogeni, ma sono cambiamenti esogeni. Dunque, poi alla fin fine il discorso è: chi
fabbrica le classi? Allora potremo anche andare ad individuare le classi stesse.

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- Secondo te, nel contesto che hai delineato, come si inseriscono la scienza e la ricerca
scientifica? Che ruolo hanno?

Io credo che l’organo del nazifascismo italiano sia il giornale chiamato Le Scienze: false esattezze,
dogmi presentati come non discutibili. Io, per ragioni quasi di mestiere, leggo questa rivista. Tre
anni fa uscì con un articolo scientifico sulle caratteristiche del modello capitalistico polacco,
presentato come la perfezione: un argomento qual è l’economia, che non è una scienza esatta, è
diventata su Le scienze un dogma. Non è il solo esempio, se uno legge Le Scienze scoprirà che la
psicologia non vale più niente perché la psichiatria, attraverso lo studio del Dna eccetera, ha già
risolto tutto: non è invece assolutamente vero che abbia risolto tutto, ma questo viene presentato
come dato oggettivo, cancellando per esempio tutta una tradizione di lotta contro l’istituzione
ospedaliera; oggi l’elettroshock è praticato tranquillamente in tutto il mondo, tutte queste lotte sono
venute a cadere, anche grazie all’opera degli scienziati. Viene tutto presentato come scientifico,
mentre di scientifico non c’è niente: cadono i blocchi di ghiaccio dal cielo, finiscono per affermare
che è uno scherzo per non dire che non sanno che cosa sia, in quanto non si è arrivati a capire tutti i
fenomeni meteorologici. Ed è così dappertutto. Allora diciamo che il linguaggio scientifico di
questo tipo, positivista, è il linguaggio del capitalismo. Internet viene presentato come
assolutamente indiscutibile, come un modello di vita. Certamente io non ho una posizione anti-
scienza, però calma, le verità vanno indagate e accettate. Nessuno vuole che si pensi, a questo come
a nient’altro. Allora la scienza è un altro dei televisori interattivi, solo che è poco interattivo: viene
presentato come televisore e basta, questa è la verità e lì stai, questo è il capitalismo e lì stai, questa
è la new economy che ci salverà tutti e ti accontenti di quello; poi magari salta fuori l’opposizione
di sua maestà, Giorgio Bocca dice che di questi sistemi moderni non si capisce niente e fanno venire
il mal di testa.

- Nella scienza e in questa presunta oggettività, non entra in ballo anche un discorso religioso?

Le scienze che vanno per la maggiore non sono tanto quelle sperimentali quanto quelle che,
attraverso una serie di calcoli matematici, ti presentano una cosa che non si sa poi se c’è o non c’è, è
descritta dai calcoli matematici. Per cui con lo stesso linguaggio si può dire che viviamo nel
migliore dei mondi possibili, il che è anche vero se guardiamo l’Occidente, e poi chi? Se entriamo
nelle generalizzazioni, qua stiamo tutti benissimo. Ciò viene dato come un dogma a carattere
religioso. Cos’è un carattere religioso? Secondo me è un dogma che supera le barriere razionali per
raggiungere l’inconscio, la parte irrazionale; per cui scavalca un passaggio che formava un filtro e si
va ad installare direttamente nella mente. Questo lo stanno facendo sistematicamente dalla fine
degli anni che loro dicono di piombo: è un’iniezione dopo l’altra di qualcosa che deve rimanere
piantato nel cervello. Stiamo tutti bene, poi a ogni passo successivo è stato sempre uno stiamo tutti
meglio, stiamo tutti benissimo, stiamo tutti benissimissimo: questo è il processo, solo che alla fine
lo hanno introiettato.

- Esiste però un margine di timore legato alla scienza, ad esempio rispetto a quella genetica.
Secondo te è sempre esistito questo atteggiamento da una parte di accettazione e idealizzazione
e dall’altro di timore e terrore, oppure adesso si sta accentuando?

Devo dire che, da un lato, non si può trascurare il ruolo positivo di questo tipo di denunce rispetto
ad un certo tipo di sviluppo. Però io ho in mente una cosa: quando avevo 16-17 anni c’era il ‘68
italiano, ma c’era stato soprattutto il ‘67-’68 tedesco, e lessi un libro di Rudi Deutschke (si
intitolava La ribellione degli studenti o qualcosa del genere) e c’era una specie di riscrittura dei
diritti dell’uomo che parlava di diritti degli animali, della natura eccetera, parlava di quelli come di
tutti gli altri. Quelli che oggi mi fanno questi discorsi, per quanto abbiano ragione e sicuramente io
simpatizzi per loro, mi parlano solo di quello, spesso non ci vedo dietro una globalità del discorso:

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magari c’è qualcuno, James O’Connor negli Stati Uniti, ma chi li legge? Invece, i discorsi che
vanno per la maggiore sono orientati ad una cosa, ad un solo elemento: gli alimenti transgenici,
nella versione puramente e strettamente Greenpeace, sembra che siano alimenti che poi provocano
mutazioni genetiche anche a te, il che può darsi, però non è accertato. Il discorso vero è
rappresentato dalle conseguenze su chi coltiva quel tipo di prodotti: non è il discorso vero perché è
l’unico, ma andrebbe associato all’altro. Allora poi si dovrebbe entrare nel merito di quali siano i
sistemi di sfruttamento dell’agricoltura del Terzo Mondo oggi. Io ricordo benissimo che in
Nicaragua non si trovavano prodotti Bayer, perché essa aveva decretato il boicottaggio della
rivoluzione, quindi non si trovava un’aspirina se non di contrabbando; al contrario si trovavano una
gran quantità di prodotti per l’agricoltura Bayer, tutti quanti tossici e non venduti qua. Se la Bayer
facesse anche il grano verde, il più puro del mondo, però è sempre la Bayer. Greenpeace non mi
basta.

- Non pensi che l’idea sia quella di un capitalismo buono e di uno cattivo?

Sì, questa è l’idea di fondo; anche di alcune componenti di Seattle, anche se devo dire che non era
così per tutti. Ma questa idea c’è ed è radicalmente sbagliata, perché significa non vedere la
complessità del pianeta e del tipo di economia che oggi lo domina, altro che new economy, è new
un bel niente: è l’economia di sempre arrivata ad un livello più raffinato del suo sviluppo. La
sussunzione reale, la sovrappopolazione relativa: non dico che Marx avesse previsto tutto, sarebbe
stato un mostro, ma questi termini marxiani si adoperano oggi più facilmente che ieri se si ha un
quadro globale della situazione. Il che non significa che Marx fosse un profeta o Nostradamus, ma
che il capitalismo oggi, sotto altre apparenze, mantiene molti aspetti che aveva ieri, e Marx parlava
del più brutale e crudele capitalismo finora esistito.

- Cos’è per te la soggettività politica? Qual è, secondo te, l’importanza oggi di parlare di questa
categoria? Rispetto agli anni ’70, quali sono le ricchezze e i limiti dei percorsi che tu prima
analizzavi? Quanto tali ricchezze e tali limiti possono essere attualizzati e utilizzabili rispetto al
contesto odierno?

Questo è sicuramente il tema su cui sarò più incerto, perché non solo è difficile ma lo è soprattutto
per chi non vive quotidianamente realtà di movimento. I limiti dei movimenti degli anni ’70 erano
tanti. Lasciamo stare la sinistra extra-parlamentare, che nasceva in fondo già un po’ come caricatura
di partito. Rivendico sicuramente la purezza dei militanti, io ero uno di loro, per me è stata una
scuola importante, un momento molto bello della mia adolescenza; però era sostanzialmente una
caricatura della forma partito. Il movimento dell’autonomia operaia è stato infinitamente più ricco,
sia come teorizzazione sia come espressione. Non è mai stato interamente colto, nessuno
dall’esterno ha capito del tutto bene cosa fosse: basta dire che un giudice imbecille ha finito con il
classificare l’Autonomia Operaia Organizzata come se fosse un partito, cosa che non era; c’era
un’aspirazione al coordinamento o un agire da partito, ma questo non voleva dire proporsi come un
anti-stato che partecipa ai giochi e si sostituisce ad esso. Le Brigate Rosse erano questo.

- Hai toccato il nodo dell’organizzazione: spesso quando se ne parla si pensa al modello


terzinternazionalista, che ad esempio le Brigate Rosse scimmiottavano. Ma parlare di
organizzazione è un’altra cosa. All’interno dell’Autonomia si cercò di affrontare il nodo
dell’organizzazione in maniera diversa.

Sì, perché si partiva da presupposti che erano in totale rotta di collisione con quella che era la
sinistra storica: il rifiuto del lavoro, l’identificazione di nuove figure operaie poco caratterizzate
dall’attività che svolgevano ma piuttosto dalla valorizzazione del capitale a livello territoriale.
Partendo da quelle figure non si poteva approdare a forme organizzative che si erano modellate

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sull’operaio professionale, quasi sulla struttura di fabbrica riproposta come partito antagonista:
Gramsci era stato chiarissimo, dicendo che il Partito Comunista si modella sulla fabbrica, perché a
loro andava bene la fabbrica, volevano cambiare solo chi era il padrone. L’Autonomia nasceva
secondo tutt’altri presupposti e il suo coordinamento era poi quello dei bisogni radicali emergenti
sul territorio, i quali si riconoscevano nell’interesse e in discorsi comuni e si andava a fare le lotte
comuni. Io sono abbastanza persuaso che non sarebbe morto tanto in fretta tutto questo se non ci
fossero state delle accelerazioni troppo forti del processo dovute a chi invece poi si comportava da
partito: è chiaro che non è l’unica spiegazione del perché sia andata male, ma a un certo punto la
repressione violenta poi la si sente. Quando non puoi riunirti, quando non puoi vedere i compagni,
quando li vedi andare in galera uno dopo l’altro, ad un certo punto o hai accumulato tanta forza da
poter reagire oppure diventa dura. Però, subito dopo questo, per me le carenze sono state di natura
culturale: l’Autonomia ad un certo punto ha cominciato a ripetere vecchie frasi. Secondo me era
successo questo (cosa che dico dal mio stretto punto di vista, so che molti compagni non sarebbero
d’accordo). Quasi tutti i migliori militanti erano in galera oppure latitanti, per cui ci si trovava quasi
senza teorici (è chiaro che Negri, Scalzone, Piperno, tutto il gruppo del 7 aprile non poteva più
scrivere molto), quelli che gettavano embrioni di agire politico vivevano staccati dalla società,
perché erano oggettivamente reclusi, e non li si poteva abbandonare al loro destino. Alcuni di
questo poi giocarono troppo su questa cosa e cominciarono a mandare delle dritte allucinanti da
seguire. C’è stato un lungo periodo di dibattito che ha inciso molto sulla compattezza
dell’Autonomia, arrivando quasi a spaccarla, su amnistia o non amnistia, se bisognasse concederla o
no. Il problema è che era un discorso nostro, mentre lo Stato non aveva alcuna intenzione di
concedere alcuna amnistia, infatti non l’ha ancora concessa. Quindi si partiva da parole d’ordine che
magari nascevano in carcere e però piovevano su una situazione italiana che, anche solo uno o due
anni dopo, non era più quella di prima: i compagni diventavano pochi, i giovani che avevamo prima
con noi in misura consistente (anche se non tutti) si allontanavano. In quel caso la risposta furono i
centri sociali, il che però era un po’ il loro lato negativo, una tendenza quasi naturale, il centro
sociale poi diventava un’oasi, un ghetto, anche se non era così per tutti.
Direi che, negli ultimi anni (ormai sono parecchi), il fenomeno più positivo, che dovrebbe fare
riflettere, sicuramente significativo e bello, è costituito dai Cobas, dalle espressioni autorganizzate
dei lavoratori. E’ stato un fenomeno molto bello, con alcune caratteristiche negative derivate da un
passato gruppettaro: sigle che continuamente si scompongono, c’è lo Slai, un altro Slai, l’Unicobas,
i Cobas, di Usi non so quante ce ne siano. Tutto questo però è superficie. Il lavoratore può essere
ormai chiunque: chi può dire che il ferroviere non è un operaio? Negli anni ’70 ci si sarebbe
discusso sopra. O chi può dire che l’insegnate è un privilegiato, come sostenevano i bordighisti,
Lotta Comunista e simili? Il lavoratore si organizza attorno a dei propri interessi. Ci sono stati dei
momenti molto belli, ad esempio quando i ferrovieri, che erano nati sostanzialmente da soli,
arrivano all’incontro con gli insegnati, che erano molto più politicizzati ed ideologizzati, e poi ci
sono esperienze anche con gli studenti. Non hanno marciato molto, però ancora non si può perdere
la speranza di cose di questo tipo. Allora bisognerebbe sviluppare la complessità attraverso
collettivi dei più svariati orientamenti: una complessità che veda coesistere tutte queste realtà,
ognuna con propri terreni specifici di intervento, ma con un dialogo costante; ma soprattutto che
tutto questo sia sorretto e punti alla costruzione di una cultura antagonista rinnovata. So che è
gigantesco come compito, perché ormai, a parte pochissimi, quasi tutti gli intellettuali sono passati
direttamente al nemico; alcuni poi hanno anche i loro anni, ad esempio Moroni è morto ed era una
mente brillante, altri sono già vecchiotti. Dovrebbe essere un lavoro collettivo, dal basso, che
tenesse presente quella che è la cultura che ci circonda, poco simpatica ma che c’è. Dunque bisogna
vivere lì in mezzo, evitando il più possibili le astrazioni alla Bifo che parla di una società robotica,
di marziani, che sicuramente può essere utile per individuare qualche linea di tendenza, ma qua si
continua a spargere forza-lavoro e insieme ad essa un bel po’ di sangue e sofferenza a livello
planetario. Quindi, vorrei che nascesse questa cultura, che mi guardo bene dal definire rosso-verde
perché io la vorrei rossa e basta, l’altra non mi interessa. Vorrei che nascesse questa cultura

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dall’attività rinnovata di tantissimi poli che poi sapessero confrontarsi: per esempio, l’ “autonomia
di classe” mi interessava moltissimo, poi non l’ho più seguita, credo che ci siano le difficoltà di
rimettere insieme un universo così frantumato. Però devo dire una cosa: essendo a contatto con
gente molto più giovane di me, sostanzialmente i miei lettori, ho la convinzione che tantissimi di
loro siano su posizioni antagoniste che si sono costruiti quasi da soli, manca loro un riferimento,
non sanno cosa fare. Allora non vanno neanche demonizzati, magari ci sarà il tizio che vota per i
Ds: in passato gli avrei detto: “Mi fai schifo”, adesso piuttosto penso: “Devo dirti qualcosa io che ti
faccia capire che stai sbagliando o che c’è qualcos’altro da fare”.

- Rispetto agli anni ’70, cosa è stato per te il fenomeno della dissociazione? Che peso ha avuto?

Ha avuto terribilmente peso. In passato io ho anche scritto delle parole di fuoco contro Negri, di
Sofri non ne parliamo; contro Negri ancora più arrabbiate e addolorate. All’inizio c’era una
distinzione che veniva fatta, e che già allora non aveva senso, tra dissociazione e pentitismo: poteva
avere un senso pratico, un conto è quello che dice “io non vado più avanti” e un conto è quello che
fa i nomi. Ma, in realtà, quando veniva teorizzata, la dissociazione diventava una proposta contro il
movimento, quindi qualcosa di estremamente negativo. Il pentitismo, intanto, è stata la morte di una
cosa, ossia della grandissima fraternità che si era creata nelle carceri italiane tra detenuti comuni e
compagni, perché i compagni erano visti come un esempio di coerenza, di decisione, di resistenza al
potere in una situazione difficilissima. Con il pentitismo si venne ad infrangere quello che era uno
dei valori preferiti dal corpo dei detenuti, ossia quello del non fare i nomi. Fu una tragedia per i
compagni che non stavano a questo gioco, perché si trovarono isolatissimi nelle carceri, oltre ad
altre forme di isolamento. E così c’erano i magistrati che veramente organizzavano i pentiti, i
brigatisti che nelle carceri menavano e si proponevano a quel punto come gli unici portatori di
verità, anche se poi finirono malissimo tutti quanti. Si andava poi a rapporti difficili con il
movimento fuori, perché dicevamo: “Noi siamo qua che corriamo dei rischi tutti i giorni per
sostenervi, tentiamo di darvi spazio, a volte quello che ci mandate ci mette a serio rischio; noi
facciamo tutto questo e voi a un certo punto ci dite che vi dissociate? Ma noi non ci siamo
dissociati; e noi cosa facciamo, cosa scriviamo? Che ci dissociamo tutti?”. C’era l’ambiguità di un
movimento che nacque allora, si chiamava Lotta Continua per il Comunismo (credo che adesso sia
confluito in Rifondazione): faceva della dissociazione la propria bandiera, senza capire che tra essa
e il pentitismo, nei risvolti pratici, non c’era differenza. Se uno la finisce con una certa attività, non
frequenta più i compagni, fa la sua vita e via dicendo, non ha bisogno di fare un proclama
all’esterno: se uno fa un proclama sta già facendo del pentitismo. Quando poi vedi che, dopo aver
detto malissimo di tutti i brigatisti che si pentivano, i tuoi teorici (i Negri, Scalzone lo considero
molto meglio, però fece anche lui delle stupidaggini), quelli che erano stati i tuoi maestri,
cominciano a prendere le distanze, a differenziarsi, a dire “lui è cattivo e io no”, allora, se già siamo
messi male, così ci tolgono dalle mani le ultime armi che potevamo usare per sostenerli. “Stai
prendendo in giro noi, stai facendo una cosa grave verso gli altri, che vedranno la loro situazione
immediatamente peggiorata, stai tentando di costruirti un futuro tuo: ma allora fai schifo”. A quel
punto io e una buona fetta dei compagni girammo le spalle a tutta una serie di persone che, dopo
averci fatto per anni la morale, stavano accettando il gioco dello Stato. Ritengo tutto sommato più
coerente un personaggio come Curcio, che ad un certo punto ha cambiato idea, si è fatto il suo
viaggio, ha detto: “Abbiamo sbagliato tutto”, ma non è che abbia fatto delle cose particolarmente
gravi: quella è una persona a cui posso tributare rispetto. Per quanto riguarda gli altri, magari adesso
capisco meglio che si trovavano in situazioni difficili, però allora no. “Tu uccidi gli ultimi brandelli,
siamo qua in quattro gatti che stiamo facendo campagna per te e tu ci distruggi così?”: questo per
me è stato. Dissociazione e pentitismo non li considero diversi.

- Al di là della repressione e del ruolo da essa svolto, quella grande ricchezza soggettiva che si è
espressa negli anni ‘60-’70, a livello teorico, militante, di movimenti, dove è finita?

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Da come la posso vedere io di errori ce n’erano molti. Per esempio, diciamo che parecchie volte si
trattava di un pensiero molto astratto: si era partiti dalle cose molto concrete dei Quaderni Rossi, la
conricerca che state facendo è l’ultimo sviluppo nel 2000 di quello che loro teorizzavano negli anni
’60. Si era quindi partiti da qualcosa di molto concreto; presto determinate teorie cominciarono ad
essere davvero molto al di là di quella che era la realtà che si viveva, utili come stimolo, ma poco
utili sotto il profilo pratico. Molte teorie del gruppo di Negri erano estremamente astratte, molto
raffinate, ma anche molto sollevate rispetto al suolo in cui si muovevano. Così, più che dare per
scontate tendenze reali e considerarle come tendenza ormai operante, come il rifiuto del lavoro
oppure l’autoprogrammazione del capitale, visto sempre come un blocco estremamente compatto e
unico, sarebbero stati concetti da studiare sul campo, e certamente nel fuoco della lotta non era
neanche poi neanche possibile farlo. L’esito è stato che, man mano che cambiava la società,
diventava difficile seguirla usando quel tipo di teorie tali e quali, e invece queste rimanevano molto
tali e quali. Così, credo che dai primi anni ’70 agli anni ’90 la concezione di operaio sciale si sia
cento volte di più riempita di nozioni diverse: non che fosse sbagliata, ma era troppo astratta
rispetto alla descrizione che aveva fatto del processo produttivo. Voi adesso state intervistando i
vecchi rottami, comunque il metodo delle interviste e della conoscenza è essenziale per arrivare a
stabilire dei nuovi parametri teorici, perché sennò si cade in teorizzazioni che non possono
soddisfarci. Poniamo un aspetto: io ho notato che con molto ritardo nelle teorizzazioni dei nostri
“maestri” veniva considerata la forza-lavoro immigrata. Le primi teorizzazioni in questo senso le ho
trovate su quel giornale pretesco che è Il Manifesto: è pretesco perché il fenomeno immigrazione è
inquadrato in una teorizzazione tutta cattolica. Il fenomeno era sotto i nostri occhi. Teorici brillanti
come Sergio Bologna scoprirono cose importanti, la realtà del lavoro autonomo, si dedicarono a
quello, e alla fine tutta la società nella loro descrizione diventava lavoro autonomo di tipo
indipendente. Allora queste figure di svariati colori che arrivavano tra noi cos’erano? Lavoratori
autonomi che venivano qua? Evidentemente c’erano dei meccanismi del capitale che non potevano
essere ridotti ad una categoria: il lavoro immaginario è un’altra di queste. Si va cioè sempre per un
cosa sola, questo è sempre stato un po’ il difetto. Renzo Del Carria (che adesso credo che sia
leghista) scrisse un libro che si chiamava Proletari senza rivoluzione e, sostenendo una posizione
maoista, diceva che i gruppi extraparlamentari fanno sempre una cosa alla volta: un giorno vanno ad
occupare le case, poi smettono e il giorno dopo vanno ad occupare le scuole, poi smettono e vanno a
fare qualcos’altro. Sbagliava, però non del tutto. Così, le teorizzazioni che mi sono capitate sotto gli
occhi ormai da profano, individuano sempre una cosa come unica: il lavoro autonomo, il lavoro
immaginario eccetera. In realtà c’è una complessità di figure che si inseguono in questa società,
perché il padrone, che prima le modellava, è diventato più forte che mai e le rimodella quando
vuole: perciò, se adesso gli fa comodo il lavoro immaginario, ne darà un tot, ma non si creda che
quella sia la tendenza, perché il lavoro immaginario non è nato dalla classe, ma da chi la classe l’ha
fatta a fette. Dunque, bisognerebbe veramente rimpadronirsi della nozione di complessità e andare a
fare uno studio difficile, lungo e collettivo su cosa è diventato il mondo oggi, perché esso non è
riducibile a formulette, non si limita al solo Occidente, non si limita di sicuro alla classe operaia
tradizionale e neanche ad un imprecisato operaio sociale. Esistono oggi dei flussi di forza-lavoro
che sono diversi da quelli del passato. Faccio una mia piccola aggiuntina: sento fare dei discorsi
antirazzisti che, fermo restando quanto sia bene farli, non hanno però nessuna sostanza per quanto
riguarda i motivi di questi spostamenti di popolazione. Il Manifesto dice che hanno fame, vengono
qua e dobbiamo ospitarli, oppure che andiamo verso la grande società multietnica: attenzione,
queste persone si muovono perché ci sono delle tragedie in atto e perché sono indirizzati dove
servono. E’ da qui che bisogna partire, allora si riconoscerà la loro dignità come figura operaia, il
che non significa poi mettersi in ginocchio, per esempio, di fronte a qualsiasi ruffiano albanese,
tutt’altro. Ma si riconoscerà la dignità di una figura, la si riconoscerà come tale, la si metterà in
relazione ad altre e di lì si partirà per il discorso antirazzista. Il Manifesto non lo leggo più; tutta la
sinistra ormai è invasa dai preti.

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- Rispetto ai nodi contenuti in questa conricerca e a quello di cui abbiamo parlato nell’intervista,
se tu dovessi citare dei libri da leggere e da non leggere, e degli autori che ritieni importanti e,
viceversa, no, chi indicheresti e perché?

Curiosamente, per quanto riguarda la situazione italiana, indicherei di leggere i libri, soprattutto
quelli vecchi, di un’economista borghese che si chiama Augusto Graziani. Secondo me ha dato, tra
l’altro con una profonda chiarezza espressiva, delle chiavi di lettura della società italiana che a me
sono servite molto a suo tempo. Credo che un’indicazione del genere magari scandalizzerà
parecchi, però lo consiglierei. Due teorici eclettici mi sono poi venuti in mente come decisivi per la
mia formazione, il primo soprattutto, Willelm Reich. Era uno psicanalista dissidente, allievo di
Freud, che scrisse un libro che fu quasi una bibbia della mia gioventù e si intitolava La rivoluzione
sessuale: era un duro attacco all’istituto famigliare, ipotizzava rapporti tra uomo e donna diversi, ma
nell’ambito di una trasformazione dell’intera società. Fu molto importante non solo per me ma per
tutti noi della stessa età che lo leggevamo; ancora oggi lo leggo in qualche modo, è anzi stato il
protagonista di uno dei miei romanzi. L’altro teorico è ancora più noto, si tratta di Herbert Marcuse,
che credo sia uno dei pochi autori che, se riletti oggi, sembrano attuali, cosa che non capita spesso.
Marcuse, soprattutto in libri come L’uomo a una dimensione, prefigurava delle linee di tendenza
che oggi sono pienamente operative, e forse era meno comprensibile allora, negli anni ’60, di
quanto non lo sia oggi. Io penso che sia una lettura raccomandabile a chiunque voglia sapere
qualcosa del presente. Altri sono un po’ caduti, un bel po’ di teorici del passato non li consiglierei, o
almeno non come primari: McLuhan, Erich Fromm. Non consiglierei neanche tutto quanto ha
scritto Baudrillard, anche se una parte va ancora letta. Ma Marcuse mi dispiace che sia morto! Quei
due che ho citato erano dei tipi di pensatori che non si limitavano all’economicismo, ossia non è che
prendessero in considerazione la società solo ed esclusivamente dal punto di vista economico
economico: ne osservavano anche i riflessi psicologici, sociologici, riuscivano a guardare la società
a 360°, che è proprio quello che ci manca oggi, cioè la capacità di vedere e di cogliere tutto e di
sforzarsi di trovare delle logiche unificanti a questo quadro così frammentato. Di altri teorici, c’è
quasi per tutti la pagina che resta brillantissima accanto a quella che non lo è più: il problema è che
dobbiamo scriverli noi dei libri, e non i miei!

- C’è invece qualcuno che non consiglieresti o che, secondo te, per uno o più aspetti è stato o è
deleterio?

Ormai c’è l’imbarazzo della scelta. Se ci limitiamo all’ambito di movimento, esito a fare dei nomi
non tanto perché non li sappia, ma perché alcune di queste persone che dovrei citare, bene o male,
hanno un loro decoro, non è cioè che siano dei venduti: diciamo che si sono adattati in varie misure
alla società che li circonda e scrivono delle stupidaggini. Nel passato ho molto stimato Sergio
Bologna: credo che oggi esprima poco, almeno negli ultimi suoi interventi. Mi dispiace, perché è
una persona estremamente decorosa, proprio un modello di rigore come uomo e intellettuale: però
quello che scrive mi sembra che l’abbia già scritto tanti anni fa e lo stia ritirando fuori. Così è un
po’ per tutti quanti; poi non considero i buffoni, Rossana Rossanda e simili non mi interessano, io
parlo dei veri teorici. Quello che ritenevo estremamente lucido, almeno in alcune sue parti di
pensiero, e che è morto, era Primo Moroni, il quale ha secondo me fatto molto per comprendere
certi fenomeni: le sue analisi della Lega, quando essa nacque, restano forti e molto belle. Molti poi
continuano a scrivere la stessa roba. Ripeto, non si tratta di andare a rievocare maestri buoni e
maestri cattivi, ma di crearsi da soli le identità di maestro collettivo e, visto che si vive in questa
società qua, cercare di capirci qualcosa e di farlo capire: non è facile, ma se non si fa questo allora
tanto vale andare in pensione…o mettersi a scrivere libri di fantascienza!

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INTERVISTA A SILVIA FEDERICI – 18 DICEMBRE 2000

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e quali sono state eventuali figure
di riferimento nell’ambito di questo percorso?

Il mio percorso è cominciato negli Stati Uniti, sono partita dall’Italia nel ’67, allora avevo una
generale coscienza politica di sinistra che consideravo rivoluzionaria, ma non avevo nessun
impegno ed esperienza organizzativa. Dunque, sono andata negli Stati Uniti nel ’67 e lì ho subito
lavorato nel movimento studentesco. Non potrei parlare proprio di persone specifiche di
riferimento, ma è stata piuttosto una grossa esperienza collettiva, anche perché il movimento
studentesco in America in quel momento riceveva la storia e la lezione politica del movimento dei
neri, del movimento della guerra contro il Vietnam, quindi aveva un grosso senso di lotta
antimperialista. Questo è stato uno dei passaggi grossi per me, poi tra il ’67 e il ’71 ho incontrato
negli Stati Uniti diversi compagni, quando ancora appunto militavo nel movimento studentesco.
Erano compagni che avevano un’esperienza di Potere Operaio, e lì ho preso contatto con il
movimento operaista in Italia e anche con i movimenti sociali in Italia, perché vivendo a Parma ero
in una delle città dove il movimento studentesco era uscito più tardi e dove forse anche le nuove
politiche dei gruppi hanno avuto più fatica ad attaccare a causa di questa grossa presenza del Partito
Comunista. Quindi, quando sono partita, nel ’67, non avevo nessun senso di quello che si stava
muovendo in Italia, a Torino, a Roma: ho scoperto tutto ciò negli Stati Uniti nel ’71, questo è stato
l’anno in cui ho fatto la scoperta del movimento italiano, ho studiato Tronti, Panzieri. Fra l’altro
abbiamo formato un piccolo gruppo in cui si volevano tradurre diverse cose, abbiamo raccolto
materiali italiani, di cui una parte sono stati pubblicati negli Stati Uniti e altri invece no. Lì per me
c’è stato poi un altro passaggio, quello di collegare il discorso antimperialista, il discorso degli
studenti, il discorso del cambiamento della vita, l’anticapitalismo che veniva semmai dal
movimento sia antimperialista che dal movimento hippy e dal movimento dei neri, ecco questo si
collegava con lo spezzone di classe. Collegandomi a questi compagni ho incominciato a ripensare a
tutti i contenuti del movimento studentesco americano anche da un punto di vista di classe, quindi il
discorso dell’operaio-massa, del rifiuto del lavoro: questi sono stati i punti di riferimento insomma,
anch’io mi sono letta religiosamente Tronti a quel tempo.
Però, proprio facendo questo in quel momento stavo già anche cominciando a lavorare con dei
gruppi femministi, ho partecipato dal ’69 al ’72 a molti gruppi di studio femministi, dimostrazioni,
anche se in quel periodo, fino al ’72, non avevo un’idea molto chiara: sentivo un’urgenza personale,
ma non avevo un’idea chiara di come si rapportasse il femminismo alla politica più generale, perché
le tendenze che esistevano all’inizio del femminismo non mi soddisfacevano. Realtà tipo Radical
Femminist avevano un discorso di patriarcato ma inteso in un modo molto astratto, senza
connessioni a qualsiasi sistema di lavoro e di sfruttamento. Prima del ’72 ho preso dei materiali che
mi sono arrivati dall’Italia e che abbiamo incominciato a tradurre, mi è arrivato anche Potere
femminile e sovversione sociale della Maria Rosa Dalla Costa, e questo per me è stata una svolta.
Mi ricordo che quando l’ho letto allora sono diventata femminista anche nel senso più precisamente
teorico, cioè ho trovato risposte a tutte le domande che avevo e a tutte le questioni irrisolte, è stata
una piccola conversione politica: le domande che avevo sul rapporto proprio tra femminismo e lotta
di classe sono andate a posto. Non solo, ma quel documento è stato molto importante anche a livello
personale, proprio perché mi ha fatto capire tante storie anche della mia vita, della storia di mia
madre, della storia delle donne di cui avevo avuto esperienza. Nel ’72 sono venuta in Italia e sono
andata a conoscere la Maria Rosa Dalla Costa, in quel momento si stava formando il Collettivo
Femminista Internazionale, nel luglio di quell’anno, allora ho partecipato ai lavori della formazione
di questo collettivo. Poi sono tornata negli Stati Uniti e ho cominciato a lavorare per mettere in
piedi un gruppo sul salario: in effetti, il primo gruppo consistente, la prima organizzazione che
aveva già un carattere di un certo tipo si è formata tra il ’72 e il ’74. Nel ’74 abbiamo avuto la prima
conferenza internazionale del comitato sul salario di New York. Poi, negli anni tra il ’72 e il ’77, ho

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lavorato nel comitato per il salario di New York per organizzare una campagna a livello nazionale
negli Stati Uniti, per cui ho lavorato con altre compagne a formare gruppi diversi, a fare riunioni
ecc. Forse per me questa è stata l’esperienza decisiva nella mia vita politica, credo che l’abbia
impostata per il resto dei suoi giorni, o comunque per una parte molto molto molto grossa. In parte è
stata una grande esperienza organizzativa, perché ho imparato non solo a organizzare delle cose ma
anche a pensare la politica in termini organizzativi, quindi questa per me è stata una cosa grossa: da
allora, quando penso a qualsiasi teoria politica, a qualsiasi discorso politico o progetto, anche
scrivere, il discorso dei risvolti organizzativi non l’ho mai dimenticato, mi è sempre stato presente.
E poi il movimento femminista è stato una rivoluzione a tanti livelli, noi l’abbiamo vissuto in quel
periodo come un momento rivoluzionario, nel senso del cambiare radicalmente la tua vita, quindi
tutta una trasformazione molto molto grossa a livello personale. Credo di dire cose ormai di uso
comune, è stata una trasformazione che anzi credo che tante compagne poi abbiano pagato e stiano
forse ancora pagando, migliaia di donne hanno fatto dei salti in avanti a livello personale per cui
non esistevano poi le strutture, per cui non siamo state capaci di costruire poi delle strutture che
permettessero intanto di sostenere questi salti personali in avanti e questa rottura a livello
istituzionale, a livello dei rapporti personali. Questa è stata una cosa davvero grossa, quindi lo
scoprire la collettività femminile, lo scoprire i rapporti con le donne, sono state esperienze molto
importanti, ma queste che dico sono cose che già sono di uso comune. Negli Stati Uniti una cosa
forse diversa rispetto al percorso del movimento femminista è che abbastanza presto quanto meno la
nostra rete politica ha preso come punto di riferimento la lotta delle donne in welfare: è una parte
delle lotte del movimento nero negli anni ’60 di cui si parla troppo poco, si parla sempre dei diritti
civili e si parla poi semmai più avanti del movimento nero a Detroit, si parla invece molto poco del
movimento delle donne nere in welfare. Ciò tenendo presente che il fatto che si trattasse di un
movimento di donne nere non è rapportabile alla presenza quantitativa delle donne nere e dalle
donne in welfare, che anzi in effetti sono sempre state più le donne bianche a ricevere il welfare,
nonostante gli stereotipi: ma credo che questo movimento avesse le radici nel movimento dei diritti
civili, per cui tante donne hanno fatto lì l’esperienza politica; come le donne hanno fatto
l’esperienza politica nel movimento contro la guerra e poi questa esperienza è loro servita per
riprendere coscienza della propria situazione specifica, questo è successo anche con le donne nere
in welfare. Fra l’altro c’è stato non solo il movimento dei diritti civili, ma anche la campagna che ha
fatto Johnson contro la povertà, la lotta delle donne contro la povertà, che ha praticamente iniziato
un momento di riformismo, e tante donne se ne sono appropriate. Quindi, per noi loro
rappresentavano un punto di riferimento. Rispetto ad altri gruppi femministi per noi la lotta sul
welfare, il rapporto quanto meno come modello di questo movimento, è sempre stato centrale. Ho
lavorato dentro la campagna per il salario fino al ’77 e, come dicevo, lì abbiamo fatto tante cose,
abbiamo organizzato conferenze e riunioni a livello internazionale, abbiamo fatto organizzazione
sul welfare, dai volantinaggi ad una conferenza sul welfare, abbiamo fatto molto lavoro nella
comunità. Avevamo aperto uno store-front, allora usava avere queste specie di negozi sulla strada,
dove avevi i tuoi cartelli, chiunque poteva entrare ed uscire, organizzavamo anche cose nel
quartiere, con i banchetti, con una presenza, con volantinaggi in diversi posti, le lavanderie e tutte
queste cose. C’era il lavoro più generale, quello che chiamavamo lavoro da campagna, il far nascere
altri gruppi in altri posti, l’avere una presenza in tutte quelle occasioni in cui c’era una
contrattazione tra lo Stato e le donne sulla questione del salario alla vita domestica. In quegli anni
c’è stato un grosso patto contro le prostitute e noi siamo stati presenti in questa cosa, ci sono state
lotte sugli asili nido e noi siamo stati presenti, anche se magari spesso con forze scarse, certo non
sufficienti guardando indietro; siamo state presenti nelle lotte nel welfare, nelle lotte per la casa,
facevamo il discorso che la casa è la fabbrica delle donne e non viene pagata. Nel ’77 il comitato a
New York si è spaccato, in generale c’erano delle concezioni diverse su come intendere il modo di
organizzarsi: è stato un trauma della mia vita perché, come purtroppo spesso succede, queste
spaccature non sono indolori, non sono tagli netti, chiari, precisi, teorici, ma sono cose invece che ti
lasciano dei segni grossi. Credo che ciò succeda specialmente quando sei in un’organizzazione di

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donne dove tante di noi pensavano di aver trovato la famiglia, hai gli scazzi con le organizzazioni
maschili ma tu pensi che, una volta che sei in quella dimensione, la cosa sia risolta. Invece, abbiamo
provato che anzi in questi casi si soffre ancora di più.
Io insieme ad un gruppo di donne sempre della nostra organizzazione abbiamo tirato avanti per altri
due anni, tra il ’77 e il ’79 abbiamo messo in piedi un giornale che voleva essere uno strumento per
riprendere le fila politiche non soltanto dopo la spaccatura che c’era stata nella nostra
organizzazione, ma anche dopo la crisi politica che si era cominciata a verificare già a partire dal
‘76-‘77-‘78 negli Stati Uniti e poi sempre più a livello mondiale. Quelli sono stati anni in cui da un
certo punto di vista il nostro movimento cresceva, ma verso il ’77 già sentivamo degli ostacoli
molto grossi, non solo dentro la nostra organizzazione, ma anche e soprattutto fuori. Diventava
sempre più difficile in effetti allargarsi, diventava sempre più difficile conquistare qualsiasi cosa
con delle lotte. Diciamo che dal ’75 in poi è cominciato il processo di globalizzazione, con
l’embargo del ’74, con lo spostamento dei capitali nel Terzo Mondo, insomma tutte queste cose che
sappiamo. New York è stata l’avanguardia della globalizzazione perché nel ’75 ha dichiarato la
bancarotta, per cui lì abbiamo vissuto nel ’75 quello che un paese africano, anche se in termini
molto più drammatici, sta vivendo quando deve prendere un prestito dal Fondo Monetario
Internazionale, nel senso che si disse che New York era in bancarotta per cui doveva venire una
commissione dal di fuori. Hanno dunque mandato un triumvirato che si è instaurato a New York
come il Fondo Monetario Internazionale praticamente, e per vari mesi hanno controllato tutti gli
uffici pubblici, hanno controllato tutta l’organizzazione del lavoro che dipendeva in qualsiasi modo
dal Municipio o dallo Stato, per cui addirittura avevano le spie appostate nelle cabine telefoniche a
guardare quando la gente usciva dal lavoro negli uffici pubblici, avevano i furgoncini che seguivano
i camion grossi di quelli che raccoglievano la spazzatura ecc. C’è stato un processo intimidatorio
pazzesco, con tagli, licenziamenti, intimidazioni: New York è sempre stato il banco di prova,
passando lì poi si è esteso. Dunque, già incontravamo una difficoltà molto grossa, che è aumentata
poi dopo con Reagan, il reaganismo, la politica del laissez faire e tutte queste cose. Il giornale che
abbiamo fatto si chiamava Tap Dance, abbiamo scelto questo titolo perché il tap dance era una delle
classiche forme di ballo popolare tra i neri di America specialmente negli anni ’20: dopo ci sono
stati Fred Astaire, Ginger Roger ecc., però mi ricordo che avevamo visto un programma alla
televisione che ci aveva aperto gli occhi su che cosa era stato il tap dance, cioè una specie di danza
di guerra di chi ha uno spazio limitato per muoversi, e questo è il modo in cui lo avevamo
presentato, una sorta di movimento che vuole rompere, che vuole muoversi e che però ha dei passi
forzati perché le circostanze non ti permettono di allargarti. Noi avevamo pensato il giornale in
questi termini, doveva essere un modo sia per rifare e per ripensare la nostra esperienza politica, per
quelle di noi che erano nel comitato per il salario, poi si sono unite persone che venivano da altri
gruppi e altre crisi; sia per ripensare il nuovo momento, noi sentivamo che era in atto un mutamento
politico, che la situazione era cambiata ed era necessario ripensare a come ripartire. Infatti, i pezzi
che abbiamo pubblicato attaccavano i primi elementi della politica che sarebbe stata poi reaganiana;
ricordo che abbiamo fatto un pezzo intitolato Hiroshima mon amour, dove dicevamo che stavamo
andando verso la guerra, abbiamo infatti scritto delle cose che si sono abbastanza avverate, che
secondo me colpivano nel segno. Nel ’79, alla vigilia dell’inizio del governo di Reagan, anche
questo gruppo non si è spaccato ma si è sciolto per insufficienza di energie, ormai diventava sempre
più difficile riuscire a organizzare riunioni: mentre per tutti gli anni ’70 tante di noi sono riuscite a
vivere lavorando metà tempo, potendo dedicare una grossa fetta della nostra vita al lavoro politico,
a cominciare dalla fine degli anni ’70 è diventato molto difficile, cioè facevamo riunioni in cui ci
trovavamo in tre o quattro, perché tutte avevano dovuto trovare un altro lavoro, avevano un lavoro a
tempo pieno, perché i costi della vita erano aumentati enormemente. Quindi, sulla storia politica dei
nostri gruppi della fine anni ’70 ha inciso molto non solo il cambiamento politico generale, ma poi
anche a livello personale il restringersi delle possibilità, dove trovare lo spazio per riunirsi, le case
che si stringevano, gli affitti che aumentavano per cui non si trovava più la compagna con la casa
grande o anche un posto nel quartiere. Quindi, ha inciso sia il mutamento politico generale che

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proprio questo appesantirsi della vita, per cui il più orario di lavoro, chi ha dovuto tornare a scuola, i
costi dell’asilo nido che aumentavano.
Questo è successo poi negli anni ’80, dal ’79-’80 alla fine ’83 inizio ’84 (quando sono andata in
Nigeria): in quel periodo mi sono rimessa a studiare, nel senso del fare lavoro storico, teorico, sono
stati gli anni in cui ho lavorato di più. Avevo già cominciato il discorso delle streghe ma mi sono
chiusa a lavorare. Ho partecipato al movimento antinucleare perché ci sono stati momenti grossi,
soprattutto dopo l’incidente nella centrale nucleare della Pennsylvania, c’è stata proprio
un’esplosione di movimenti antinucleari, anche a Brooklyn vi ho partecipato, però non con lo stesso
livello di impegno che avevo dedicato precedentemente, questa era una cosa che bisognava fare e
basta. Nell’84 sono andata in Nigeria, George Caffentzis era già là da un anno e mi aveva detto di
andare a vedere com’era la situazione: io avevo molta voglia di andare via per due ragioni, sia per
conoscere l’Africa, volevo avere una mia esperienza del vivere nel Terzo Mondo, sia perché nei
primi anni di Reagan ti sembrava di essere in un posto in cui non sbloccavi niente, cioè avevo la
sensazione di un periodo di disaccumulazione politica, almeno a mio livello personale, di trovarti
sempre in situazioni in cui c’è questo grosso senso di incapacità, di non riuscire ad adeguarti a fare
delle cose, a rispondere. Non riuscivo a vedere un modo che mi permettesse di agganciarmi a gruppi
politici, vedevo attorno a me proprio gli spazi che si restringevano. Allora, sono riuscita a trovare
un lavoro, sono andata in Nigeria e mi sono fermata lì fino alla fine dell’86, e questa è stata l’altra
grossa svolta della mia vita a livello politico. Lì c’è stato un incontro con talmente tante e tante cose
a livello politico che adesso, guardando indietro, non riesco a capire come facessi a fare lavoro
politico senza essere stata in Africa, come facessi a fare discorsi politici senza aver visto quella
realtà: lì ho visto innanzitutto il colonialismo e il suo retaggio che continua non solo come eredità
ma come realtà presente adesso, poi la resistenza allo sviluppo, cioè tutto il discorso sul fatto che lo
sviluppo e il “sottosviluppo” non sono un fatto evolutivo. Erano tutte cose che teoricamente magari
sapevo già, si diceva allora già nei libri di Samir Amin che lo sviluppo è lo sviluppo del
sottosviluppo, cioè questi slogan ce li avevamo nella testa, però lì li ho vissuti, li ho visti, ho visto
cosa vuol dire ciò concretamente nella giornata, come si organizzano rispetto allo spazio e al lavoro,
come la gente parla, si muove. Quindi, c’è questo grosso senso di forza che mi è venuto, quello che
oggi chiamano enpowerment: ho scoperto, ho pensato, mi sono resa conto che c’è tutta un’umanità
che non vuole lo sviluppo capitalistico, proprio come se la montagna si fosse spaccata e ho visto che
in effetti le forze che osteggiano l’avanzata del capitalismo sono molto più grosse di quelle che io
potessi immaginare. Io che per anni avevo letto Operai e capitale, invece prendevo coscienza che il
mondo è contro il capitalismo: ecco, questa per me è stata l’esperienza forse più grossa dell’Africa.
Anche se c’era un regime di dittatura militare (succedevano cose orrende, mai orrende come quelle
che sono successe dopo con Abacha e via dicendo), è stato però un punto di forza molto grosso,
perché davvero io so che o ci distruggono tutti o sono convinta che il capitalismo non ha speranza.
Non sono ottimista nel senso che do per scontato che c’è la muta distruzione delle classi e che un
giorno chissà cosa può succedere, dato che, visti gli orrori e i genocidi del passato, questa gente è
pronta a tutto: però, sento molto dentro, dal tempo dell’Africa, che c’è una popolazione enorme, che
una grande parte del mondo non vuole il capitalismo, e all’Africa l’hanno fatto pagare questo. Poi
l’Africa è stata anche tutto l’incontro con la Banca Mondiale e con il Fondo Monetario: noi siamo
arrivati proprio nel momento in cui c’era il dibattito sul Fondo Monetario Internazionale, se
dovevano prendere i prestiti o no, era proprio al massimo in quegli anni ed era un dibattito pubblico,
su tutti i giornali, è andato avanti per un anno con sì e con no. Tra l’altro la stampa nigeriana,
quando noi siamo arrivati, era molto viva e bella, io ho portato a casa scatoloni di tanti giornali che
ho ancora: adesso non è più così, ora i giornali sono stati chiusi, le gente è stata terrorizzata, ma
ancora allora, anche se c’era un dittatura militare, c’era una stampa molto viva, molto sarcastica.
Quindi, è stato un grosso senso di liberazione vedere e sentire che il capitale non ha il potere, negli
Stati Uniti questo capitale mi sembra invincibile, questa è una delle cose terribili in America, ti
sembrano invincibili perché continuamente ti dispiegano davanti un’enorme quantità di mezzi, di
risorse, di forme di controllo sociale, dall’esercito a tutti i modi in cui la tecnologia viene utilizzata.

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Mentre invece là sentivi sia la resistenza della gente a un certo tipo di vita, a un certo modo di
concepire la vita, sia anche che lo Stato è uno Stato debole, sarà crudele, ti uccide, ma è anche uno
Stato debole, l’infrastruttura statale è estremamente debole. Infatti, c’è una cosa che poi ho ritrovato
anche con tanti compagni nei Caraibi, a differenza degli Stati Uniti dove nessuno in effetti progetta
la presa del potere: in Africa incontravi continuamente gente che progettava di prendere lo Stato,
proprio il progettare di prendere lo Stato in modo molto concreto, magari con sogni romantici, con
sogni assurdi, perché pensavano a certi percorsi dell’America Latina, all’apparato dell’esercito,
c’era sempre l’idea che una parte dell’esercito al di sotto dei colonnelli potesse essere radicalizzata,
il sogno di tanti compagni africani quando ero là era praticamente quello che Chavez rappresenta
oggi in Venezuela, cioè l’esercito che fa un colpo a beneficio delle masse e guidato dalla sinistra,
insomma Nasser, Chavez, questo tipo di modello. Però, oltre a questo, era una cosa molto grossa
perché ti diceva: “guarda, c’è la possibilità, lo Stato non è invincibile, non è questo scoglio
insuperabile come spesso appare negli Stati Uniti”. Lì ho lavorato anche con un gruppo di donne, in
effetti era la prima organizzazione femminista, si chiamava WIN, Weman In Nigeria, e abbiamo
fatto delle belle cose: cominciavano allora ad organizzarsi a livello nazionale, nell’84 c’è stato un
anno di dibattiti perché nell’85 c’era la conferenza delle Nazioni Unite a Nairobi. Allora,
praticamente per tutta la Nigeria ci sono stati gruppi di lavoro ed hanno fatto il documento, io ho
partecipato e ho fatto anch’io un pezzo di questo documento che poi le donne hanno portato a
Nairobi alla conferenza delle Nazioni Unite, che fu la prima in Africa, prima c’erano state quella di
Mexico City e poi quella di Copenaghen. Io dovevo andare a Nairobi, invece la settimana prima la
mia università è scoppiata: già quando sono arrivata l’università era in sciopero, perché il governo
aveva deciso di prendere i prestiti e cominciavano i tagli al budget universitario, decidendo di fare
pagare agli studenti i pasti. Questa a noi forse può sembrare una cosa nemmeno troppo catastrofica,
però là effettivamente lo era perché tanti studenti non venivano da famiglie ricche, allora per tanti
voleva dire non mangiare. Anche quando c’erano i pasti li davano molto molto scarsi, infatti in
quegli anni nel campus dove io vivevo c’erano le scritte “zone di fame”: quindi, studenti che
scioperavano perché non veniva loro dato da mangiare, perché con la scusa che i fornelli erano rotti
non si davano i pasti. Nei giorni del luglio, quando c’è stata la conferenza a Nairobi, praticamente
c’era il campo coperto di tir-gas, come si diceva: è entrata la polizia in massa nei due o tre
dormitori, sfracellandoli, picchiando studenti. Questo è stato l’inizio, lì in quel periodo succedeva
anche in altri campi universitari, in quel caso specifico è stato perché l’organizzazione degli
studenti, ANS, aveva organizzato una grossa riunione in questo campo ed erano i momenti in cui il
governo voleva dichiararla illegale, la stava dichiarando illegale. Allora, hanno fortemente
circondato i campi, impedendo alle macchine di arrivare, ci sono stati scontri, insomma è stata una
cosa molto grossa.
L’Africa ha significato tutte queste cose e poi ha significato proprio il discorso della Banca
Mondiale, del Fondo Monetario, lì ho imparato chi erano queste organizzazioni, prima erano nomi,
ho imparato il discorso della globalizzazione in atto, perché poi ho cominciato a vederla, lì
continuamente ha nuove svolte, a vedere i risvolti. C’è ad esempio l’attacco contro i venditori
ambulanti. In Africa la maggior parte delle donne lavorano come contadine su terreni di sussistenza,
soprattutto nel mercato della sussistenza, oppure vendono il prodotto, tante donne vendono verdura
e via dicendo: i mercati sono tenuti dalle donne, ma ci sono anche tanti mercati spontanei, a parte i
mercati ufficiali dove magari chi vende ha la licenza (ci sono anche donne con parecchi soldi), ci
sono poi moltissimi mercati spontanei, dove chi vende ha cinque cipolle. Vederli da un giorno
all’altro spazzati via, vedere continuamente la polizia che distrugge i baracchini di queste donne che
è tutto quello che hanno, tutto ciò è stata un’esperienza grossa. Poi io ero nella zona degli Ogoni, e
tutto attorno c’erano le zone petrolifere, noi andavamo e vedevamo: si vedeva il disastro delle
compagnie petrolifere, la violenza del rapporto della produzione di petrolio, per cui c’erano zone
molto belle e coltivate e poi decidevano di costruire e da un giorno all’altro non aspettavano
neanche cinque minuti che la gente raccogliesse le cose che venivano a maturazione, e vedevi i
campi che erano completamente coltivati, pronti per il raccolto, che venivano spazzati dalle ruspe,

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tutte queste cose di una violenza enorme. Avevo scritto un pezzettino per Midnight Oil, c’è una
rivista che ha questo nome e di cui ci sono tanti numeri, uno sta uscendo anche adesso sugli
zapatisti, guarda a come l’esempio zapatista ha cambiato il panorama politico, le lotte che si sono
ispirate, i modelli di organizzazione ecc.; ma nel ‘92-’93 è uscito anche un libro che si chiama
appunto Midnight Oil, Olio di mezzanotte, che era soprattutto sulla guerra del Golfo e però
conteneva anche altri materiali, io ho scritto un pezzettino su questa storia del petrolio in Nigeria,
perché lì ho visto anche proprio il rapporto sviluppo-sottosviluppo, è stata una cosa che ho visto
molto chiaramente. Tu vai in queste zone dove ci sono tutte casupole di paglia, senza luce, e dietro
ci sono queste costruzioni da XXX secolo della Mobil Oil ecc. che fanno l’esportazione del petrolio
nell’Oceano, oppure nelle zone circostanti, e lì hanno un’organizzazione tecnologica da 2500 e
proprio accanto ci sono invece questi villaggi che sono ancora semmai con il tetto di paglia e
magari senza la luce. Allora, lì ho visto e ho capito la funzionalità proprio del sottosviluppo, il
perché ad esempio là dove ci sono zone petrolifere c’è sempre lo stadio più disastrato, non è una
coincidenza, non è una dimenticanza, ma è una progettazione: devono isolare queste zone,
sottosviluppare la zona, devono creare condizioni in cui non ci sia resistenza. E poi lo crei il
sottosviluppo perché ti appropri di tutte quelle risorse che invece potrebbe essere state usate dalla
comunità.
Alla fine dell’86 sono tornata negli Stati Uniti perché è arrivata la svalutazione, non hanno fatto
ufficialmente l’accordo, non hanno preso ufficialmente il prestito, però il nuovo governo, che era di
Babangida (perché c’era stato un colpo di Stato nell’agosto dell’85), ha praticamente incrementato
il piano voluto dalla Banca Mondiale, allora a un certo punto vivere lì è diventato proprio
impossibile. A parte il fatto che quando sono venuta via io a me sembrava già impossibile ed era
una centesima parte di quello che poi è successo come crollo del tenore di vita, ma già allora
diventava molto dura: ad esempio, la scuola ti dava un assegno, andavi alla banca e questa saltava, e
poi la scuola non ti pagava se tu non facevi molto lavoro. Io mi ricordo che gli ultimi mesi mi
alzavo alla mattina alle sette, prendevo la bicicletta e giravo di ufficio in ufficio, andavo nei vari
posti a vedere se il mio foglio era stato stampato o cose di questo genere. Io venivo in Italia a
trovare mia madre, dovevo tornare negli Stati Uniti almeno una volta all’anno perché non ho mai
voluto prendere la cittadinanza e quindi avevo bisogno di un timbro una volta all’anno, se no
perdevo la residenza, e anche con le compagnie aeree diventava difficile. Allora sono venuta via,
sono tornata negli Stati Uniti: adesso tralascio il resto, nel libro A Thousand Flowers c’è parte della
storia di quegli anni. Quando abbiamo lasciato la Nigeria tutto era un campo di battaglia, lo erano i
campus universitari, lo erano i sindacati perché li stavano attaccando pesantemente, anche
fisicamente, sostituendo sindacalisti scomodi con sindacalisti di comodo, c’era stato un attacco a
livello sociale, come ad esempio per quanto riguarda la pena di morte. Io ho cominciato a
interessarmi alla pena di morte lì, sono sempre stata ad essa contraria, però negli anni ’70 negli Stati
Uniti la pena di morte era stata sospesa, il che è molto interessante, ci sarebbe da fare tutto un
discorso solo su questo. Per cui negli anni grossi del mio lavoro politico negli Stati Uniti la pena di
morte non era stata un problema politico, perché dal ’72 praticamente era stata abolita, dal ’69 non
c’erano quasi esecuzioni, c’era stato il caso di Chessman prima, ma dal ’69 non ce n’erano stati
quasi più e nel ’72 è stata sospesa; è stata poi reintrodotta nel ’76, però non ci sono stati esecuzioni
fino all’80. Insomma, quando sono partita dagli USA non era ancora un problema, c’erano state una
o due esecuzioni, ma non si poteva neanche allora immaginare quello che sarebbe diventato. Per cui
per me la pena di morte è invece diventata un problema politico in Nigeria, perché lì soprattutto con
la crisi economica una delle risposte è stata che tra le gente c’è stato un grosso livello di
appropriazione, la gente era disperata, perdeva il lavoro, licenziamenti, e allora c’erano tutti questi
furtarelli magari con il coltello in mano che diventavano rapina a mano armata, quindi pena di
morte; in ogni città della Nigeria ogni dieci o venti giorni raccoglievano sette, otto, nove, dieci
persone, le portavano allo stadio e le fucilavano. Allora, in Nigeria ho cominciato a raccogliere
documentazione su queste esecuzioni, fino a che sono stata lì le mandavo ad Amnesty: è un lavoro
che mi è stato molto utile, nel senso che è molto chiaro che la pena di morte era un attacco di classe,

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perché erano tutti ex insegnanti, ex studenti, ex contadini che avevano perso la terra, quelli che
avevano perso il lavoro, impiegati, soldati che però non ce la facevano, ed erano tutti furtarelli,
oppure furti di macchine ma fatti a mano armata, certi sono stati condannati a morte perché hanno
rubato delle cassette di birra, certi, come i contadini, hanno rubato delle sementi. E incominci a
vedere centinaia di queste storie, tante fucilazioni, un dossier spaventoso: lì ho visto la
globalizzazione. Infatti, adesso cerchiamo di collegare i due discorsi, pena di morte e
globalizzazione, e lì ho visto come la pena di morte è direttamente collegata ai processi di
globalizzazione, appunto di attacco all’occupazione, alla salute e a tutte queste cose qua.
Dunque, prima dicevo che sono tornata negli Stati Uniti alla metà degli anni ’80, e la prima cosa
che abbiamo fatto è stata mettere in piedi un comitato per la libertà accademica in Africa, che è un
titolo orrendo ma, discutendo con altri compagni africani, anche loro venuti negli Stati Uniti, è stato
l’unico titolo che ci sembrava potesse aggregare un po’ di gente, perché la nostra ipotesi era di
mobilitare l’università, mobilitare gli insegnanti, mobilitare gli studenti su questo discorso.
Dicevamo: “si parla tanto del movimento degli studenti in Europa, c’è un movimento degli studenti
africani, c’è un movimento dei professori e degli insegnanti”. Tra l’altro studenti e insegnanti si
sono unificati in Africa molto più che in Europa direi, nonostante che il corpo insegnanti in Africa
fosse molto più aristocratico, molto più autoritario per certi aspetti. Allora, abbiamo fatto questo
comitato e abbiamo cominciato a fare un bollettino, a raccogliere materiali, a cercare di sviluppare
un po’ di contatti con movimenti studenteschi non solo in Nigeria ma anche in altre parti
dell’Africa, e una delle cose che ho fatto in questi anni, e che praticamente ho continuato fino ad
adesso, è stato di fare questi bollettini, ne vengono fuori alcuni all’anno, ora due volte all’anno;
l’anno scorso non abbiamo fatto quasi niente di bollettino perché abbiamo fatto il libro (A Thousand
Flowers), abbiamo raccolto un po’ di materiali dei bollettini precedenti, poi ne abbiamo aggiunti e
abbiamo fatto questo testo. Se devo dire adesso mi sembra un po’ un paradiso, perché quando
abbiamo cominciato (nell’87-’88, il primo bollettino poi è uscito a cavallo tra il ’90 e il ’91) è stato
difficilissimo, è stato un deserto, cioè le nostre ipotesi e il nostro progetto in un certo senso sono
stati un fallimento: noi immaginavamo che pubblicando questi materiali ci sarebbe stata una grossa
presa di posizione da parte di tutti gli insegnanti radicali, della sinistra americana ecc., e soprattutto
nei circoli africanisti; in effetti abbiamo scoperto che i circoli africanisti erano i più restii a
muoversi su questo, perché è tutta gente che deve andare avanti e indietro dall’Africa, vuol fare la
loro ricerca indisturbata, quindi non ci tiene a smuovere le acque, a mettersi in ostilità o a prendere
posizione contro i governi per paura che dopo gli taglino i fondi, gli revochino il permesso di fare la
ricerca e via dicendo. Adesso non comincerei da lì, mentre noi abbiamo iniziato dalla parte
sbagliata, pensando che chi più sapeva più si sarebbe mobilitato, e invece non è stato così.
Comunque, adesso si sono invece sbloccata alcune cose, perché per tutta una serie di ragioni c’è una
più grossa coscienza di cosa vuol dire globalizzazione, e si incomincia anche a rivedere il rapporto
tra quello che sta succedendo in posti come l'Africa o come l'America Latina e quello che sta
succedendo negli Stati Uniti, perché l’aggiustamento strutturale ce l’abbiamo anche noi, hanno
tagliato tutti i fondi all’educazione pubblica ecc. Quindi, ad esempio, negli Stati Uniti adesso ci
sono delle organizzazioni nuove di studenti, si chiamano Campus Organizing, c’è una nuova
organizzazione che è a livello nazionale e che ha avuto fin dall’inizio un’apertura internazionalista,
per cui loro vedono il collegamento tra le lotte che ci sono state a New York contro i tagli alla
scuola pubblica e quello che sta succedendo ed è successo in Messico, hanno rapporti con gruppi in
Africa: quindi, questo ci sta facilitando molto le cose, anche la circolazione di questi discorsi.
Dunque, questa è una delle cose che abbiamo fatto.
Dopo, nel ’95, c’è stata l’estate di Mumia Abu-Jamal, anche in questo caso abbiamo fatto molto
lavoro, e da lì abbiamo costruito questo progetto contro la pena di morte che si è sciolto
quest’estate. Con questo progetto abbiamo fatto lavoro di informazione, dibattito, soprattutto nelle
scuole, tampinando varie organizzazioni universitarie e intellettuali per spingerli a prendere
posizione contro la pena di morte, a pronunciarsi ufficialmente; poi abbiamo fatto soprattutto
attività di dibattito e di scrittura. Questo progetto l’abbiamo fatto come parte di un’organizzazione

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più grossa e più radicale, si chiamano filosofi radicali anche se non è che tutti siano filosofi. Il
progetto si è chiuso quest’estate, eravamo in tre che l’abbiamo messo in piedi, in tre siamo venuti
via e adesso non so se altri vorranno continuare, ma noi abbiamo deciso di chiudere, ci siamo rotti
sulla questione di Cuba: questa organizzazione ha sempre avuto un grosso rapporto di appoggio a
Cuba, alle rivoluzioni, tutti gli anni si sono fatte conferenze e seminari a Cuba, si sono promossi gli
incontri con intellettuali, compagne e compagni cubani, c’è questa grossa carica di supporto da anni
e ci sembrava dunque molto importante che noi esprimessimo un giudizio negativo rispetto alla
pena di morte. Anche perché in questi ultimi due anni hanno allargato il numero dei crimini, per cui
adesso a Cuba si può condannare a morte gente anche per i cosiddetti crimini sociali. Non solo,
abbiamo fatto questo anche perché in questo momento c’è una politica americana molto grossa,
pesante, nei confronti dei Caraibi, che vuole allargare la pena di morte anche lì, e sta funzionando:
per esempio, hanno convinto il governo di Trinidad a ripristinare la pena di morte e lì hanno già
impiccato dieci persone in tre giorni, tre al giorno. Questo ha aperto proprio il rubinetto, adesso la
Giamaica ha un livello di condanne a morte molto molto alto. Noi abbiamo compagni a Trinidad e
nei Caraibi e abbiamo saputo che c’è stata proprio un’opera di pressione da parte degli Stati Uniti
perché la pena di morte venga utilizzata, e questa pressione è stata portata avanti anche nei
confronti dell’America Latina, per cui c’è stato addirittura un dibattito in Messico se ripristinare o
no la pena di morte, che poi non è passata. Allora, detto tutto questo, a noi sembrava veramente
pazzesco che Cuba avesse la pena di morte, perché questo ti taglia le gambe, tu vai in giro a parlare
e la gente dice che la pena di morte è una barbarie, solo i paesi incivili hanno la pena di morte e
robe di questo genere, e poi ti trovi continuamente davanti al fatto che Cuba ha la pena di morte;
quindi, diventa abbastanza difficile, anche solo dal punto di vista strettamente utilitario, al di là del
fatto che noi siamo contrari perché abbiamo fatto tutta una serie di azioni politiche per cui secondo
noi pena di morte vuol dire un certo tipo di organizzazione, cioè la pena di morte collegata a
organizzazioni del lavoro schiavistiche, che tendono allo schiavismo, che tendono allo sfruttamento.
La pena di morte non ha ragione di essere, se non dentro regimi basati sullo sfruttamento, questo è il
nostro discorso. Quindi, abbiamo fatto quell’equazione lì; però, c’è anche tutto l’aspetto
direttamente utilitario rispetto al fatto che sempre meno puoi giustificare la tua lotta contro la pena
di morte dicendo “non è possibile, non è accettabile umanamente”. Abbiamo fatto una votazione,
abbiamo perso per pochi voti, poi dopo c’è stato un dibattito a Cuba, infatti George Caffentzis è
andato, ha fatto un lavoro bellissimo, c’è stato un grosso dibattito tra intellettuali e attivisti cubani:
lui ha fatto un rapporto molto grosso, avevamo costruito un documento, intitolato La pena di morte
e il socialismo, poi con riferimento più specifico a Cuba e alla situazione del momento. Fra l’altro
devo dire che su questo gente come Chomsky è stata molto brava, ci ha appoggiato, anche Howard
Zine e altri ci hanno appoggiato, hanno detto “qui non si passa, la pena di morte assolutamente no”.
Invece, a Cuba in trenta si sono alzati e praticamente uno dopo l’altro hanno detto: “No, a noi serve
per il destino della rivoluzione”. Direi che è una cosa triste, se il destino della rivoluzione dipende
dalla forca non è un buon sintomo.
Allora, con questo abbiamo chiuso lì, e adesso questo per me è un momento di ripensamento, sto
lavorando sul CAAF, scrivo sempre e sono collegata a varie situazioni di donne, soprattutto donne
immigrate, perché dove insegno c’è una grossa comunità di immigrazione, soprattutto dal Salvador.
In questi anni mi sono occupata soprattutto di questo, anche perché sono convinta che
l’immigrazione negli Stati Uniti sia proprio uno dei terreni centrali, infatti credo che le lotte più
grosse negli Stati Uniti le stiano facendo i migranti. C’è un progetto da parte mia e di altre donne e
uomini che lavorano all’università di stabilire dei contatti con questa comunità migrante, di portarla
nella scuola. Abbiamo già fatto l’anno scorso un grosso incontro che è stato molto buono e positivo,
sono venuti rappresentanti di tutte le organizzazioni di lavoratori, di gente che fa lavoro sugli
immigrati, sulla scuola, sui diritti civili, adesso poi c’è questa campagna per l’amnistia degli
indocumentati che sta andando avanti ed è una cosa molto grossa. Queste sono le cose che in questo
momento sto facendo, scrivo materiali cercando di portare avanti il discorso femminista, soprattutto
rispetto alla situazione attuale, sia la situazione della capitale sia la situazione del movimento

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femminista internazionale, poi anche sul discorso donne e globalizzazione, perché sono cose su cui
ho lavorato. In particolare la cosa su cui ho lavorato rispetto al discorso femminista è stata una
critica della subordinazione del movimento all’agenda e alla politica delle Nazioni Unite. Poi il
discorso donne, globalizzazione e guerra, che secondo me sono collegati, la globalizzazione è
innanzitutto una guerra contro le donne. Un’altra cosa è il discorso della lotta alla globalizzazione e
alla distruzione pubblica, non solo, ma anche la cultura, perché dietro poi il discorso dell’istruzione
c’è tutto un discorso molto più grosso; infatti, noi diciamo globalizzazione e produzione e
distribuzione della conoscenza. Perché poi attraverso la liberalizzazione delle scuole passano tante e
tante cose, anche il discorso della proprietà intellettuale. Adesso per esempio ci sono queste
compagnie che vanno in Africa, in Cina e dappertutto ad appropriarsi delle sostanze locali: lo
possono fare e lo fanno molto più speditamente perché c’è l’idea che sono loro i guardiani, che
siccome i sistemi educativi e di ricerca per esempio dei paesi africani sono andati alla malora. Con
l’aggiustamento strutturale sono stati distrutti, allora entrano in atto queste organizzazioni
internazionali che adesso si presentano e che fanno appunto vanno a vedere le foreste, vedono quali
sono le sostanze che si possono accaparrare e però lo fanno in veste non di rapinatori, non di quelli
che saccheggiano il patrimonio nazionale, ma lo fanno in veste di quelli che lo salvaguardano,
“perché d’altra parte in Africa chi c’è che potrebbero salvaguardarlo?”. Quindi, si ammantano di
questa legittimità, c’è tutto un processo di rapina del patrimonio locale che viene legittimato dalla
stessa distruzione delle istituzioni. Poi ci sono i modelli culturali, c’è una piramide nel mondo con
questo imperialismo culturale, per cui cos’è che si legge, quali sono i paradigmi culturali che vanno
e quelli che non vanno. Per cui cose bellissime che vengono prodotte in tanti paesi non possono
circolare o non hanno credibilità, quindi oggi la storia dell’Africa viene scritta a Chicago, è proprio
l’assurdo: siamo tornati al colonialismo dove sono i colonizzatori che fanno la storia, siamo tornati
a questo livello, sono i nuovi colonizzatori che ti fanno la storia del paese che saccheggiano e che
distruggono. Allora, su queste cose qua stiamo lavorando, cercando di sviluppare rapporto anche
con gli Stati Uniti: in questo momento siamo tutti per aria, è un momento di ripensamento, di
discussione e di dibattito sul prossimo passo, cercando di riaggiustare il tiro. Per esempio,
continuiamo con il CAAF, che include anche le Americhe, o riaggiustiamo il tiro? Continuiamo
solo a livello teorico oppure con i tipi di iniziative che abbiamo fatto adesso, iniziative di supporto?
Per esempio, abbiamo fatto raccolte di fondi quando in Africa c’erano gli scioperi degli insegnanti,
quindi abbiamo fatto tutto un lavoro di supporto, le petizioni ecc. Oppure possiamo immaginare
qualcosa di diverso, possiamo immaginare forme di collaborazione con gente di tipo diverso, e
questo è un discorso che sta andando avanti. Lo stesso avviene con un altro giro di gente sulla pena
di morte, questa è una cosa su cui voglio lavorare di più: io sto cercando di collegare a questo un
discorso femminista, di fare sì che il discorso sulla pena di morte prenda piede dentro il movimento
femminista, perché è uno scandalo che non ci sia. Tante donne oggi hanno paura di identificarsi e di
fare il discorso “questi che ammazzano sono nostri figli”, di fare un discorso che veda la donna
lottare come madre, un discorso che ho fatto io in questi anni: “questa è la patria potestas portata al
massimo, lo Stato che si prende i nostri figli”. Questo è un discorso che il movimento femminista
dovrebbe fare in prima fila contro la pena di morte, per tutta una serie di ragioni: la cosa non sta
passando molto facilmente, è più facile magari sulle prigioni. Allora, ciò è una cosa a cui sto
pensando, come invece creare un tipo di rete femminista sulla pena di morte. Anche perché gran
parte delle persone che fanno lavoro sulla pena di morte sono donne, sono tutte donne in nero anche
in questo caso, ci sono delle donne bravissime, in questi anni ci sono delle donne che sono degli
eroi, fanno dei lavori enormi con risorse molto scarse e con un’esperienza quotidiana di drammi,
proprio la tortura quotidiana, donne molto consapevoli del significato della pena di morte in
generale. Una mi ha detto: “Vieni nel Texas e vedi punto per punto che hanno riprodotto la
piantagione, ciascuno è ancora al suo posto: i bianchi invece che essere i guardiani della piantagione
adesso sono le guardie, i neri sono in prigione, e si è proprio riprodotta la struttura della
piantagione”. Adesso mi sto occupando anche del discorso dell’immigrazione, soprattutto attraverso
i contatti con donne immigrate: anche lì ci sono donne molto brave, specialmente nella zona dove

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insegno ma anche a New York. C’è un lavoro sulle immigrate che fanno lavori domestici, stanno
facendo cooperative in modo da avere potere contrattuale, ormai stanno incominciando ad
organizzarsi per dire “no, certi tipi di lavoro non li facciamo, dobbiamo avere questo tipo di salario,
non accettiamo certi livelli”. C’è un’organizzazione grossa che si chiama Gabriela, è
un’organizzazione delle filippine con cui lavoro ogni tanto, facciamo delle cose insieme: Gabriela è
un’organizzazione ombrella che nella Filippine raccoglie gruppi di vario genere, gruppi che
chiamano di povere urbane, di contadine, sono tutte donne, quelle che fanno lavoro sul traffico delle
donne, sui diritti civili. C’è un’enorme emigrazione filippina all’estero, anche in Italia ci sono
60.000 filippine, infatti vogliono impiantare Gabriela anche qui, loro ci tengo ad avere anche qui
una sezione. Ci sono tutte queste donne filippine che sono sparse per il mondo in condizioni spesso
atroci, nel Medio Oriente quando arrivano portano loro via il passaporto per cui non possono
neanche scappare se vogliono, vengono picchiate, ci sono stati casi famosi, ad esempio di quella
ragazzina che deve essere condannata a morte. Allora, hanno messo assieme delle sezioni, cercando
di mettere un collettivo dovunque ci siano donne filippine, e a New York fanno molto lavoro sia per
quanto riguarda le domestiche sia sulla prostituzione. Poi ci sono gruppi di donne immigrate che
fanno lavoro sulle scuole, perché in pratica impediscono ai bambini immigrati non documentati di
andare a scuola, di essere iscritti, chiedono ai genitori un certo tipo di documentazione che loro non
possono produrre e quindi il bambino viene escluso. Poi ci sono quelle che fanno lavoro sui diritti
delle donne, perché è anche vero che il problema dell’emigrazione è cento volte più pesante per le
donne, per tanti aspetti a cui magari non ci si pensa, come l’immigrata che vuole abbandonare il
marito ma dipende da lui per via della carta, perché magari lui la picchia. Insomma, rispetto alle
donne il discorso è molto diverso. Allora, nel mio futuro voglio lavorare molto di più con queste
organizzazioni.

- Da quello che hai detto sono venuti fuori tutta una serie di nuclei tematici e di piani del
discorso. Oggi possiamo affrontare la questione della soggettività, che è centrale nell’ambito
della nostra ricerca, avendo anche in mente la prospettiva di lungo periodo di costruire un
atlante politico delle forme organizzative e delle persone che in qualche modo hanno
rappresentato l’altro punto di vista, cioè non quello istituzionale ma quello di un’alterità
effettiva. Su un altro piano sarebbe poi interessante fare un raffronto tra le forme di
organizzazione degli immigrati in America e quelle in Italia e in Europa. Quindi, adesso
possiamo focalizzare l’attenzione su alcuni nodi. Uno è il discorso su alcune persone che,
anche se non statunitensi, sono state importanti soprattutto in America, e che sono state fatte
conoscere dagli italiani che, a partire dalla fine degli anni ’60, vi sono andati, come ad esempio
Cartosio e Carpignano: uno è Ramirez…

Bruno Ramirez è in Canada.

- Rawick, Selma James e suo marito, C.L.R. James, Glaberman, Cleavaer. Importante è stata poi
l’esperienza della Lega degli Operai Neri di Detroit. Vorremmo poi soffermarci su Il grande
calibano, il libro che tu hai scritto all’inizio degli anni ’80, soprattutto sull’introduzione, in cui
dai una lettura del processo di inizio del capitalismo affermando che prima di produrre le merci
ha dovuto distruggere i rapporti sociali, il che ha molto a che fare con il discorso che ora tu fai
sull’Africa.

Infatti, io ho letto l’Africa con in mente il nuovo calibano, perché stanno appunto distruggendo tutto
questo mondo precapitalistico, tutte le forme di organizzazione, di modi di vedere la vita.

- L’altro punto che ci interesserebbe sviluppare è il discorso a cui hai accennato prima rispetto
alla necessità di forme organizzative.

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Possiamo cominciare da questo punto. Le forme organizzative sembrano in effetti una cosa molto
semplice da dire: praticamente nell’analisi politica e nelle scelte politiche la cosa fondamentale,
l’aspetto evolutivo che poi è quello che una volta si chiamava il rapporto tra teoria e pratica, è
centrale perché non puoi prendere atto di quella che è la realtà veramente se non passi ad
organizzarla, cioè è il fatto che non puoi altrimenti misurare le possibilità. E’ un fatto molto
importante, ti metti dentro a un tessuto in cui ci sono dei rapporti di potere e in cui quindi impari
anche che non è possibile, se non in modo distruttivo, operare senza tenere conto di questi rapporti:
cioè, non esiste il discorso teorico generale, quel discorso teorico va poi affrontato dentro a
un’organizzazione perché solo dentro a quell’organizzazione hai proprio l’ambito delle possibilità
reali, ma hai anche la mappa dei rapporti sociali dentro cui questo progetto, questa possibilità,
questo discorso teorico si va ad innestare. Allora, questo è importante, dicevo del collegamento con
il movimento nero perché lì è stata una grossa lezione il fatto che in qualsiasi situazione in cui tu ti
trovi, in un’organizzazione o in un meeting o in una riunione, tu non puoi semplicemente partire da
quello che andrebbe detto in questo momento o da quello che sarebbe giusto, senza anche tenere
conto invece delle persone che poi devono sostenere e portare avanti una proposta o un progetto;
perché altrimenti molto spesso ottieni l’effetto opposto di quello che ti eri proposto, per esempio
l’effetto di consolidare dei rapporti di potere che sono poi distruttivi nei confronti di un progetto più
generale. Allora, in questo senso io ho dato sempre molta molta importanza al fatto di avere un
rapporto organizzativo. Questo non vuole dire che ogni cosa che tu fai devi organizzarla, ma che sei
dentro ad una rete che sperimenta queste cose, in cui queste cose non rimangano solo a livello
teorico, in cui ci sia un momento di organizzazione. Per me questo è fondamentale, tanto è vero che
io non ho mai fatto molta fatica a scrivere, mentre quando devo scrivere e non ho in mente qualcosa
di organizzativo ormai faccio una fatica, ho un rifiuto, non mi pare possibile. Semmai se c’è una
cosa che in questi anni un po’ tutti abbiamo sofferto è stata quella di non avere un momento
organizzativo; noi guardiamo con invidia, anche se con enormi critiche, a quelle storie del passato
in cui comunque il momento organizzativo ti veniva dato, perché c’erano i vecchi partiti, c’erano le
organizzazioni, mentre negli ultimi anni ci sono forme organizzative molto più fluide, che si
costruiscono, si dissolvono. Parte della loro forza è anche questa, che non ci sono le
burocratizzazioni, che ti permettono di fare tutta una serie di cose che in passato non erano possibili,
e però sono anche frutto di debolezza, nel senso che non hai quel rapporto organizzativo diretto che
ti permette continuamente di affrontare quello che fai.

- Rispetto ai percorsi e alle lotte del movimento operaio americano, quanto avete preso dalle
esperienze passate? Ad esempio, prima hai detto delle forme organizzative espresse dal
movimento dei neri.

Molto proprio su questo, io credo che questo valga anche per il movimento delle donne: negli anni
’60 il movimento dei neri ha aperto il problema dell’organizzazione, l’ha proprio messo sul tappeto,
aprendo il dibattito sul discorso separatismo o autonomia, facendo vedere che se i neri non
incominciavano ad organizzarsi in modo autonomo (il che poi è stato ripreso dal movimento
femminista) non solo si consolidavano i rapporti di potere tra bianchi e neri, ma tutte intere aree di
sfruttamento capitalistico non sarebbero state viste, tutta una realtà sociale di quello sfruttamento
non sarebbe venuta a galla, non si sarebbe conosciuta. Quindi, l’autonomia organizzativa, che poi
altri hanno detto separatismo, era la garanzia anche della possibilità di capire e di vedere in tutta la
sua ampiezza il rapporto di sfruttamento, il circuito dell’accumulazione. Quindi, mentre veniva
percepita all’inizio da gruppi e organizzazioni bianche, di militanti tradizionali, come un attacco, in
realtà era tutta una realtà di classe che veniva soffocata se non esisteva la possibilità da parte di
organizzazioni autonome di parlare direttamente invece di essere subordinate come era stato in
passato, come era stato dentro al sindacato, dentro a varie organizzazioni di militanti della sinistra
americana. Questo discorso è stato quello dei rapporti di potere, il fatto che fondamentalmente
l’ostacolo sempre più grosso che si incontra nelle lotte non è solo quello rappresentato dai carri

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armati o dalle bombe nucleari. E’ la presa d’atto che il proletariato è diviso a livello internazionale,
che queste divisioni, che poi sono divisioni che vengono periodicamente ristrutturate, rifondate,
riconsolidate, sono l’ostacolo maggiore: praticamente il problema è sempre di come superare le
divisioni. Infatti, l’attacco grosso che è venuto dalla globalizzazione (la globalizzazione come
attacco politico) c’è stato non solo rispetto alla crisi del profitto in sé, alla crisi economica dovuta
alla restrizione dei margini di profitto negli anni ’70, ma c’è stato anche perché in quegli anni sono
stati proprio attaccati la divisione internazionale del lavoro, la divisione sessuale del lavoro, cioè gli
assi portanti dell’accumulazione. Si pensi a tutto il movimento anticoloniale per esempio, che
veniva poi da lontano, dalla rivoluzione cinese, da tutti i percorsi rivoluzionari del XX secolo, tutto
è sboccato nel movimento anticoloniale, con le lotte nel Vietnam ecc., e tutto questo ha minato
molto la capacità di divisione; lo stesso è per il movimento femminista, per il movimento dei non
salariati, il fatto che praticamente nel corso di due anni nuovi settori del fuori fabbrica si sono
mobilitati. Allora, io credo che il movimento nero sia stato il primo a dire questo. E’ solo quando
sei dentro ad una realtà organizzativa che veramente prendi contatto, infatti noi più vecchi abbiamo
tutto un residuato di scetticismo su Internet, anche se esso è comunque importante c’è anche un
freno all’entusiasmo per il fatto che Internet ti illude di saltare al di là di tutta una serie di problemi
organizzativi che noi sappiamo che sono l’ostacolo maggiore. Come organizzi in un modo che vada
nella stessa direzione settori del proletariato che hanno rapporti di potere diversi? E come impedisci
le manovre che continuamente cercano di fare? Questo rimane sempre il problema fondamentale.

- In Italia si è verificato che nel momento in cui c’erano dei poli che concentravano situazioni
proletarie diventava più semplice una forma di organizzazione delle lotte e del conflitto;
laddove questi poli sono stati smontati dalla ristrutturazione capitalistica c’è stata la grande
crisi delle forme organizzative. All’interno della fabbrica, proprio perché c’era una presenza
fisica e materiale delle persone, c’erano delle possibilità organizzative forti, e una convergenza
di comportamenti e di interessi che dava luogo a forme di conflitto significative e che
rompevano proprio determinati processi di accumulazione. Successivamente, e in particolare a
partire dagli anni ’80, ci sono state sempre più difficoltà a costruire delle forme di
organizzazione che avessero una dimensione sociale; quindi, al di là del fatto che comunque il
processo capitalistico non passa solo nella fabbrica intesa come capannoni ma ha invece una
dimensione sociale ben più ampia, è diventato più problematico far sì che la gente si ritrovasse
delle dimensioni comuni, per cui potesse poi dare luogo ad una socialità e ad una politicità che
fosse in contrapposizione. Vorrei dunque che tu raffrontassi questa situazione con quella degli
Stati Uniti: ad esempio, la Lega degli Operai Neri di Detroit io l’ho sempre colta come una
cosa molto specifica e diversa da quelli che erano i momenti di organizzazione sociale.

E’ stata diversa perché aveva un carattere apertamente politico e rivoluzionario. Recentemente ho


visto un documentario molto bello che fa proprio la storia della Lega, del modo in cui si
organizzavano: loro avevano un livello di politicizzazione molto alto, per cui venivano dall’onda
del movimento dei diritti civili, dal movimento delle donne nere, quindi esprimevano una capacità
molto grossa. Comunque, il discorso che facevi tu prima è vero anche in America: praticamente tra
il ’77 e l’inizio degli anni ’80 hanno smantellato completamente, infatti per un po’ di anni si è
parlato di deindustrializzazione degli Stati Uniti. La fascia nord-est, che era la fascia industriale, è
stata proprio smantellata, cioè per mesi e mesi la gente è emigrata nel sud-est, per cui l’attività
industriale negli Stati Uniti è ripartita nelle campagne, in zone in cui non esistevano forme di
aggregazione. Questo è stato vero anche là, a tutti i livelli, tant’è che fino a qualche anno fa con lo
spostamento dell’esportazione dell’industria verso il Messico, verso altre zone, l’Asia, hanno
tagliato le gambe al movimento operaio: infatti, non c’è praticamente stato uno sciopero che
abbiano vinto, sono stati pochissimi gli scioperi vinti in questi anni. L’attività del movimento è
ricominciata con l’immigrazione, cioè proprio la nuova spinta, le nuove lotte, quelli che danno la
carica sono adesso gli immigrati, che tra l’altro sono unificati perché non solo hanno il problema del

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posto, per cui ci sono le lotte specifiche (di quelli che lavorano nei ristoranti, dei contadini della
California ecc.), ma in quanto poi sono collegati anche con tutta una serie di lotte sociali, per
l’amnistia, per i diritti civili, la salute, le iniziative per l’istruzione dei bambini, se si parla una o due
lingue e tutte queste cose. Quindi, direi che il discorso è lo stesso, dove ci sono vittorie
rappresentano poi un punto di sfondo e di aggregazione anche per altre forze sociali, questo è stato
vero anche là.

- Cosa dici del movimento che si è espresso a partire da Seattle?

A Seattle si sono espresse due cose, c’è stata una loro convergenza. Intanto c’è il discorso che fa
George Caffentzis, lui dice sempre che a Seattle si è visto quello che cresceva da parecchi anni in
varie parti del mondo: si è visto Seattle ma non si è visto che da dieci anni e più andavano avanti
dalla Nigeria all’Indonesia e via dicendo lotte molto grosse contro la Banca Mondiale, contro le
compagnie multinazionali ecc. Quindi, bisogna prendere atto del fatto che a Seattle sono arrivate le
punte di una realtà che andava avanti già da molto tempo in modi molto esplosivi, perché ormai la
mappa della lotta contro la Banca Mondiale comprende non solo stati praticamente endemici, ma
anche veri e propri colpi come quello dell’Ecuador recentemente. Quindi, questa è una realtà. Poi,
dentro questo movimento si è visto che i processi della globalizzazione in questi anni hanno creato
anche dei nuovi soggetti rivoluzionari. Si pensi ad esempio alla mobilitazione degli agricoltori, che
adesso è un fenomeno internazionale, si può parlare oggi di un movimento dei contadini
internazionale, il che secondo me è un fatto grossissimo: è la prima volta nella storia che c’è un
movimento di contadini internazionale che non è organizzato con una centrale di partito ma resiste,
perché ci sono i collegamenti tra i contadini che hanno bruciato i campi della Monsanto, i contadini
francesi, quelli che stanno portando le mucche avanti e indietro per l’Italia e per l’Europa, questa è
stata una delle forze che si è espressa. Che poi riunisce ed è collegata la movimento di quelli che
fanno le lotte per le terre nell’America Latina; ad esempio, in America ci sono quelli che hanno
preso atto dei processi di globalizzazione facendo lavoro contro l’intervenzionismo, perché c’è
anche tutta questa parte di movimento che confluisce dentro al movimento contro la globalizzazione
che è il movimento contro la guerra del Golfo, la guerra nell’America Latina ecc. Negli Stati Uniti
sono anni che siamo in guerra, che viviamo una situazione di intervento continuo, Granada, la
Somalia, Panama, la guerra del Golfo, adesso il Kosovo. Allora, in America adesso c’è una grande
mobilitazione permanente che oggi è qua domani è là: dunque, tutto questo grosso movimento
antintervenzionista (chiamiamolo così come denominatore) è poi confluito dentro al movimento
contro la globalizzazione, perché ormai il rapporto è chiaro, intervieni dove c’è il giacimento di
petrolio, intervieni dove c’è da difendere i poteri delle multinazionali. Se si guarda la fotografia di
Seattle, dentro questa gente ci sono i processi della globalizzazione che hanno creato questi
soggetti: non voglio dirlo in termini così deterministici, però per esempio sono anni che la
distruzione dell’ambiente è diventata una cosa ormai grande, tutti sanno dell’effetto serra, la
distruzione dei mari, l’inquinamento, tutte queste cose hanno fatto sì che non si è più a Greenpeace,
c’è dentro una realtà molto molto grossa. Il ragazzo medio della scuola in America ha sentito
dell’Amazzonia, sa che con essa si distrugge il polmone della terra. Diciamo che una delle cose più
nuove che c’è stata a Seattle è stata la presenza dei sindacati, anche se non magari manifestando in
strada, però c’è stata una presenza sindacale che è nuova nel senso che i sindacati in America hanno
praticamente sempre appoggiato la politica imperialista del governo, hanno appoggiato anche la
CIA, specialmente nei confronti dell’America Latina ma non solo, anche nei confronti dell’Africa
hanno fatto non solo complicità passiva ma complicità attiva di presenza nelle situazioni di lotta
forti nell’America Latina, nell’Africa, dovunque ci fossero certe realtà loro arrivavano, infiltravano
oppure creavano strutture e sindacati padronali. Ancora nel ’94 siamo andati in Kenya, in quel
momento c’era un grosso sciopero degli insegnanti universitari: in quella situazione sono arrivati i
rappresentanti dei sindacati a offrire aiuto, sono arrivati i soldi, le tecnologie, i computer, la
possibilità di organizzare i seminari ecc. C’era una parte di questo movimento che accettava i soldi,

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un’altra parte che li vedeva come un pericolo, perché in questo modo per esempio sono riusciti a
impossessarsi delle liste dei leader di questo movimento, sono riusciti a mediare, consigliare,
smussare gli angoli; hanno fatto poi un grosso seminario con questi leader del movimento degli
insegnanti in un albergo famoso di Nairobi, e dopo se ne sono accorti di avere fatto uno sbaglio
enorme perché mentre dicevano alla popolazione che morivano di fame queste immagini poi sono
state usate dal governo, gli insegnanti che si riuniscono in un posto lussuoso, la gente non va a
vedere da chi è stato pagato. Questi sono gli episodi più spiccioli. A Seattle invece c’è stata questa
cosa che sta andando avanti di un cambiamento di rotta: io rimango sempre sullo scettico, però
effettivamente oggi i sindacati americani fanno i conti con il fatto che se vanno avanti di questo
passo non hanno più iscritti, e che d’altra parte non contavano più niente. Da anni loro contrattano
“quanto ti diamo indietro”, non “quanto guadagniamo”, quindi c’è una base che si stringe sempre di
più, tanto è vero che adesso devono organizzare gli immigrati, cosa che mai avrebbero fatto: in
passato si erano messi con il fucile al confine, invece adesso addirittura fanno la battaglia per
l’amnistia agli indocumentati, il che è una cosa grossa e nuova, perché prima sono sempre stati
reazionari e hanno sempre appoggiato la politica imperialista.

- Secondo te i sindacati si muovono così perché hanno una grossa dimensione ideologica
nazionalista oppure perché dietro a questo c’è la difesa degli interessi di un particolare strato
di classe?

Io credo perché hanno una prospettiva proprio capitalistica più che nazionalista, diciamo
nazionalista nel senso dell’America come rappresentante del capitale. Io penso che questa sia la loro
storia, perché vengono fuori da tutti quei movimenti di epurazione del dopoguerra. C’è dunque
questo più che gli interessi di un determinato strato di classe, perché è chiaro che ci sono anche gli
strati di classe privilegiati, però questi sono anche molto variabili a livello proletario, oggi si pensa a
quelli che lavorano nella tecnologia ad un certo livello. Io credo che sia una visione più
fondamentale.

- A partire dalla fine degli anni ’50 molti guardarono agli Stati Uniti come possibilità di una
lettura di anticipazione sotto diversi punti di vista: per quanto riguarda i processi capitalistici,
per certi cambiamenti della composizione di classe, per le lotte e le forme organizzative, per un
certo tipo di uso alternativo di alcune discipline, come la sociologia, che allora in Italia era
quasi completamente nuova. Quanto secondo te è stato importante allora e quanto lo può essere
oggi guardare comparativamente agli Stati Uniti come possibilità di anticipazione?

E’ stato importante allora perché secondo me, dagli anni ’60 alla metà degli anni ’70, c’è stata una
specie di rivoluzione anche dentro l’America, per cui se è vero che l’America forse è sempre stata
un po’ un riferimento dell’operaismo italiano, anche l’America degli anni ‘30-’35, sono state cose
molto grosse. Quelli sono stati anni di rottura talmente grossa che secondo me giustamente
l’attenzione si è focalizzata lì, anche se forse si è focalizzata troppo sul movimento di fabbrica e
magari non abbastanza su quello che viene chiamato il movimento dei diritti civili, che secondo me
invece andrebbe chiamato movimento contro l’apartheid, contro la schiavitù. Cioè, noi adesso
diciamo, restringendo un po’ i termini, che la schiavitù in America non è mai finita, e infatti per
quello la pena di morte è sempre stata così importante, perché in effetti la pena di morte è la pena
per gli schiavi: se si fa i conti, dopo che era finita la guerra civile, c’è stato in America l’apartheid,
era uno Stato come il Sudafrica, una situazione quasi uguale fino alla fine degli anni ’50 e l’inizio
degli anni ’60. Quindi, praticamente in America si è consumata una rivoluzione con l’attacco e la
fine dell’apartheid, c’è stata effettivamente una rivoluzione da quel punto di vista: il movimento dei
neri ha scardinato, ha mosso, ha mobilitato, ha avuto influenza su tutti i movimenti, ha avuto
influenza su tutte le realtà politiche, direttamente o indirettamente non c’è stato un ambito o uno
spazio politico che non sia stato incentivato e ispirato dal movimento dei neri. Io credo che forse si

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sia ristretto un po’ troppo l’angolo visuale a volte, nel senso di vedere la fabbrica in un modo un po’
troppo stretto, di non vedere abbastanza tutto il sociale che era parte poi della fabbrica. Un esempio
come Drum aveva dietro tutta la storia che non era solo la storia di fabbrica, era la storia del
movimento nero, anche del movimento delle donne in welfare, era una storia che si ispirava al
movimento contro la guerra del Vietnam. Adesso siamo in un momento diverso, due o tre anni fa
avrei detto che siamo all’opposto, adesso non lo dico più perché secondo me c’è molta attività in
questo momento: essa non è ancora coordinata, non è collegata, non si capisce, però ora non c’è una
situazione politica morta negli Stati Uniti. Infatti, fino a due o tre anni fa in America la situazione
era abbastanza terrificante, abbiamo passato dei periodi con grandi livelli di pesantezza, in cui non
riesci a muovere niente, sembra sempre una sconfitta continua; spesso l’Italia ci sembrava molto
viva, invece adesso comincio ad avere l’effetto opposto, in America mi sembra che ci siano tante
cose che stanno succedendo, se avessi una giornata di 50 ore non farei tutte le cose che potrei fare.
Mi sembra che qui in Italia la situazione sia molto pesante. Allora, diciamo che anche lì gli effetti
della globalizzazione hanno fatto sì che adesso ci sia in America una realtà tutta nuova, perché
quella che chiamiamo la comunità immigrata è esplosa. Per dire, New York è una città diversa da
quella che io conoscevo negli anni ’70 e anche ’80; io sono tornata dalla Nigeria e ho trovato
un’altra New York, una città dove c’è il numero di messicani e messicane che una volta vivevano a
Los Angeles, nelle zone del confine; adesso New York è una città dove ci sono grosse comunità di
immigrati di tutta l’America centrale, dell’America Latina, dal Guatamela, ci sono i primi quartieri
domenicani, ci sono quartieri messicani, oltre ai vecchi portoricani che ci sono sempre stati ci sono
africani, gente di Trinidad, dei Caraibi. E lì c’è dentro un’enorme quantità di lotte. Poi c’è tutto un
grande movimento studentesco, ci sono anche movimenti di carattere ecologista, di quartiere, si è
molto creata una mobilitazione di quartiere. Allora, secondo me in questo senso di nuove realtà di
classe è ancora importante guardare agli Stati Uniti, anche perché sempre di più le due Americhe
sono unite, nonostante abbiano fatto queste maxidivisioni in realtà non riescono a controllare
l’emigrazione. Adesso loro vorrebbero organizzare una recessione, ma c’è un tale numero di
immigrati che è veramente difficile farlo: cosa fanno, disoccupazione di massa? Possono affrontare
una situazione politica in cui c’è una realtà che va al di là di certi termini? Cosa fanno, deportazioni
di massa? Deportano chi è venuto nel momento del boom? Che poi c’è molta più gente di quella che
avessero programmato, perché ormai il problema è solo che la gente entra dappertutto. Quindi, c’è
una situazione secondo me molto importante, non solidificata, anche se stanno tirando fuori tutti gli
artigli e tutte le forme repressive che possono, per esempio a Washington e a Filadelfia hanno
scatenato proprio di tutto, anche se poi questi processi sono stati annullati, le pene sono state buttate
via. Quindi, io direi che è importante perché c’è una realtà di classe diversa, nuova e molto
combattiva.

- Secondo te quali erano e quali sono le differenze più significative tra il movimento femminista
italiano e quello americano, anche rispetto al discorso dei percorsi di emancipazione e di
liberazione e al discorso dell’identità della donna, quindi da una parte la teoria della differenza
e dall’altra parte il discorso di Donna Haraway con il Manifesto Cyborg?

Mentre una volta del movimento femminista italiano sapevo molto, di quello di adesso so molto
poco, leggo qualcosa qua e là però non è che sappia molto, a parte rapporti con qualche vecchia o
giovane compagna. Questo discorso della differenza lo trovo assurdo e l’ho sempre combattuto,
secondo me è insostenibile, perché la differenza non esiste nel capitalismo, in esso esistono le
gerarchie: quindi, non esiste la differenza, tu non rivendichi il tuo sfruttamento, non rivendichi la
tua emarginazione. Ecco, c’è questo celebrare la differenza: magari c’è un livello in cui posso
culturalmente, a livello fantastico, usare questi termini in senso positivo, cioè c’è un angolo della
mia mente che accetta, usando le parole, i termini molto metaforici, altrimenti politicamente no,
perché ci sono delle gerarchie. Celebriamo la differenza tra bianchi e neri? Quelli là li ammazzano,
gli sparano a vista, gli fermano la macchina di notte: celebriamo queste differenze? O il fatto che se

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andiamo sul posto di lavoro c’è la discriminazione? Che senso ha politicamente parlare di
differenza? Parli di gerarchia, di rapporti di potere, è questo con cui ti confronti. Il movimento
femminista non è nato come un movimento di diversità: questo non vuol dire che le donne lottino
per essere uguali agli uomini, non è che io accetti l’idea dell’uguaglianza e queste cose qua; ma non
è che perché rifiuti il modello di eguaglianza inteso in un certo modo allora accetti la diversità,
perché il discorso viene fatto in modo che ignora un fatto di potere.
E poi invece c'è tutto questo discorso postmoderno, allora lì passo al Donna Haraway: io ho un
rifiuto enorme per Donna Haraway, e credo che lei mistifichi su moltissimo, su tante cose. Tanto
per cominciare, lei fa il discorso che oggi non c’è più niente che unifichi le donne, quindi la
coscienza femminista è una coscienza contro e non è mai una coscienza in positivo, questo è il
discorso che fanno tante postmoderne: perché cos’è che ti unifica? Non l’utero perché non ti puoi
unificare sull’utero che è una cosa biologica: sta di fatto che mi apre pazzesco spacciare solo per
biologica tutta l’attività riproduttiva, al di là delle condizioni in cui si pone, dentro il capitale, dentro
il socialismo, dentro una società rivoluzionaria, dire che l’attività umana è semplicemente biologica,
che quindi non c’è una dimensione storico-sociale. Ma loro fanno proprio il discorso che oggi non
c’è più unità, perché? Perché non ci si può unificare intorno al biologico, non ci si può unificare
intorno al lavoro perché oggi ormai le donne sono disgregate e quindi il lavoro non rappresenta più,
non è che sono tutte casalinghe ecc.; quindi, rivendichi questo soggetto frammentario e ti poni come
coscienza contro. Questo secondo me è un discorso completamente fallimentare e falso. E’ falso
perché prima di tutto il biologico è un’interpretazione errata, quello che loro chiamano lavoro
biologico non è biologico. A parte questo, il discorso fondamentale è che hanno dato per scontato
che siccome a livello internazionale un raggio molto piccolo di donne è riuscito a liberarsi dal
lavoro domestico, a fare la carriera, le attività interessanti ecc., quindi non esiste più uno
sfruttamento specificatamente femminile, del lavoro femminile, da parte del capitalismo
internazionale: questo non è vero. La mia critica parte dal fatto che oggi esiste ancora una divisione
internazionale e sessuale del lavoro che colpisce in modo specifico le donne, quindi questo
rappresenta una base di aggregazione. Infatti, se tu parli con i compagni in giro per il mondo e dici
che non esiste più il problema della riproduzione vedi che è una cosa assurda. Anche se è vero che
oggi il discorso della riproduzione va fatto in un modo più allargato di quello in cui lo facevamo
noi, per cui ci metti non solo il discorso del lavoro domestico ma ci metti il lavoro di sussistenza,
l’agricoltura di sussistenza e tutte queste cose, allora è un discorso diverso. Ma dire che non esiste
più un interesse specificamente femminile, dovuto a forme specifiche di sfruttamento del lavoro
femminile, è veramente un assurdo. Poi lì ci sarebbe tutto un altro discorso da fare sulla sua
epistemologia: lei risolve il problema dell’impossibilità di porsi dentro a una lotta, dentro a un
discorso politico, vista l’impossibilità di porsi dentro come soggetto universale neutro, asessuato,
senza corpo e senza sesso, lei parte da questo rifiuto che tutti abbiamo assodato, abbiamo
incorporato, ma lo risolve in questi modi dove appunto allora chi sei? Io sono una donna bianca, di
classe media ecc., come se questo bastasse a qualificare, come se questo volesse dire prendere atto
dei rapporti di potere in cui tu sei messa. E questo mi sembra un modo pazzamente riduttivo. E poi
c’è questo discorso postmoderno del corpo, cioè il fatto che in passato le forme di unificazione sono
state spesso forme di prevaricazione, quando c’era il progetto politico unitario era un progetto che
spesso rappresentava gli interessi di chi aveva più potere: ma da questo non consegue il dire che
non si può più costruire qualcosa di unitario, cioè che ormai non esiste più la possibilità non di un
destino comune ma comunque di un progetto di liberazione comune. Per loro ormai non esiste più
la storia, ci sono le storie, ma queste storie come si collegano?, non si sa. Però, ci colpiscono tutti,
siamo tutti colpiti in qualche modo, secondo me questo postmodernismo ci ha disarmati in effetti.
Senza contare che poi nel caso specifico della Donna Haraway in fondo c’è anche un vecchio
stalinismo, quando gratti gratti vedi che lei in fondo ha ancora questo mito produttivistico: se deve
fare una scelta allora sceglie le donne che lavorano con i microchip, le paiono più importanti queste
rispetto a quelle che lavorano come prostitute nelle basi militari americane o nei sex-shop. Allora, lì
vorrei capire perché, da che punto di vista, se non c’è ancora l’idea alla Negri dell’intelligenza che

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ti viene da un certo tipo di organizzazione industriale, è quello che fa scuola: infatti, mi dicono che
Negri piace molto alla Donna Haraway. Dunque, secondo me c’è anche questo aggancio, questo suo
privilegiare le donne che lavorano nei settori che lei chiama avanzati.

- Cosa ci dici di C.L.R. James?

C’è molto da dire, rappresenta la seconda generazione di questo movimento rivoluzionario dei
Caraibi, lui è originario di Trinidad: rappresenta la continuità con il movimento anticoloniale che
c’è stato appunto a Trinidad, nei Caraibi e rappresenta un momento di svolta grosso nella politica
dei Caraibi, perché è stato il momento alto dell’anticolonialismo, lui era giovane ai tempi del
movimento anticoloniale. Era il momento in cui l’anticolonialismo dei Caraibi si collegava al
panafricanismo: lui ha avuto un ruolo e tutta una serie di contatti anche con questi importanti leader
panafricani, è stato anche presente nelle grosse occasioni di incontro del movimento panafricano.
Poi lui è venuto negli Stati Uniti e si è unito al movimento operaio, alla sinistra, prima trotzkista,
insomma è stato parte di quella sinistra che ha cominciato a fare un discorso di critica all’Unione
Sovietica: infatti, lui ha scritto un pezzo molto importante di critica all’Unione Sovietica, dove
riprendeva alcuni temi di Trotzki ma anche poi con un’apertura diversa, perché lui portava anche
l’esperienza del movimento anticoloniale. Quindi, per questo è stato così importante, e mentre una
parte buona della sua generazione è morta alla fine della guerra, lui ha rappresentato il punto di
riferimento anche per le nuove lotte operaie in America, soprattutto di chi guardava e di chi vedeva
la fabbrica dall’ottica del black power, dall’ottica dei movimenti dei diritti civili, dall’ottica del
rifiuto della schiavitù. Quindi, lui ha rappresentato questo negli Stati Uniti e nella politica, proprio
l’incontro di tutti i movimenti anticoloniali, il black power con il movimento operaio, critica al
comunismo dall’interno, da un’esperienza fondamentalmente comunista. Dunque, ha rappresentato
un discorso molto molto ricco per le nuove generazioni, credo che sia stato questo anche l’influsso
che ha avuto in Italia, per gente come Gambino che l’hanno portato. Poi lui ha continuato per molti
anni perché al tempo della Polonia con Solidarnosc ha avuto una grossa capacità. C’è poi stato tutto
l’altro aspetto suo culturale, e credo che anche quello abbia avuto un peso enorme: lui ha fatto
vedere come la cultura può essere politica, ha avuto una grossa capacità di leggere la politica, di
leggere i comportamenti di classe, di leggere i mutamenti sociali dentro alle forme della cultura,
come potevano essere le organizzazioni di vita nei Caraibi ecc. Allora, anche questo è stato un
apporto molto grosso, mentre il discorso culturale rimane sempre su un altro livello, lui ha visto che
quella che noi chiamiamo cultura è un particolare modo di vivere l’esperienza di classe, cultura non
è una cosa generale e astratta. Spesso, a mio avviso, in alcuni materiali c’è ancora un senso di
ammirazione per queste grosse culture borghesi: per esempio c’è un documento che lui ha fatto, si
chiama Modern politics, dove lui guardava alla storia della democrazia occidentale, Platone,
Rousseau ecc., dove rivalutava in modo secondo me eccessivo tutta una cultura che noi
chiameremmo oggi borghese, anche se a quel tempo non lo era, ma comunque una certa visione
borghese. Questo secondo me è stato un po’ un limite, ma altrimenti è stato uno dei personaggi che
ha collegato i due mondi, ha collegato il mondo degli anni ’50, dell’attività anticoloniale, alle nuove
generazioni del black power e poi le ha fatte comunicare anche con la realtà di classe e con un
progetto rivoluzionario, con un progetto e una visione anticapitalistica del mondo, questa è una cosa
molto grossa.

- Uno dei libri più importanti di James che è stato tradotto in italiano è I giacobini neri. La prima
rivolta contro l’uomo bianco.

Questo è un libro bellissimo, io la prima volta che l’ho visto ricordo che ho avuto qualche critica,
perché era un libro che mi sembrava a quel tempo di grande antiautoritarismo che avesse fatto
eccessivo spazio alla leadership, questo Toussaint Louverture, che accentuasse troppo l’aspetto
della leadership dentro il processo rivoluzionario. Comunque, è stato un libro secondo me

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fondamentale, che tutti dovrebbero leggere: a parte che è un libro bellissimo, che ti fa prendere
mano con la rivoluzione di Haiti che pochi conoscono, e l’importanza di questa che è la prima
rivoluzione di schiavi; poi anche perché vedi molto bene tutti i limiti della democrazia borghese.
C’è quella parte bellissima all’inizio in cui vengono riportati tutti i dibattiti dentro la costituzione
francese sulla liberazione degli schiavi e del fatto che mentre si proclamava “uguaglianza,
fraternità, libertà” si è rifiutato fino in fondo di liberare i mulatti e gli schiavi. Quindi, questa è una
cosa che è molto utile nei confronti di chi si riempie la bocca di certi concetti.

- C’è poi un suo scritto su Da schiavo a proletario ed era uscita su Primo Maggio, proposta da
Gambino, una sorta di ricostruzione della sua vita; in italiano poi non c’è molto altro.

In inglese c’è davvero molto di suo, a New York c’è inoltre una vasta area di compagni dei Caraibi,
ci sono molti contatti, anche con Trinidad. L’anno scorso tra l’altro è morto quello che era un po’ il
figlio spirituale di C.L.R. James, era anche lui un compagno molto bravo di Trinidad; aveva fatto le
sue prime esperienze politiche con C.L.R. James nel movimento dei contadini alla fine degli anni
’50, dopo è venuto negli Stati Uniti e lì ha fatto il militante politico per tanto tempo, quattro o
cinque anni fa era tornato a Trinidad e l’anno scorso è morto.
Di C.L.R James c’è poi la biografia, è una storia che si muove proprio su un piano internazionale,
perché lui ha avuto contatti con i capi del panafricanismo, e poi Londra, America, Trinidad; dagli
Stati Uniti è stato espulso negli anni ’50, con il maccartismo, ed è andato in Inghilterra.

- Sarebbe significativo rileggere le sue posizioni su alcune categorie come il razzismo e


l’immigrazione, perché sono molto diverse da quelle proposte oggi da varie persone: ad
esempio, recentemente Etienne Balibar ha scritto su etnia, nazionalismo e razzismo in termini
totalmente diversi, in una dimensione ancora molto legata al PCF. Invece, James ha una
visione completamente diversa, anche della forma di organizzazione: uno dei suoi grandi punti
di forza è stata la critica all’organizzazione sindacale e politica americana che esclude i neri e
le donne, facendo l’organizzazione dei bianchi maschi. Potrebbe essere dunque significativo
riattualizzare alcune sue analisi teoriche.

Sì, infatti in passato io e Selma James avevamo scritto sul partito, si trattava proprio di una critica al
discorso del partito, di questa unificazione che viene fatta, per il tipo di proposta che c’era dietro,
del fatto che il partito rappresentava un certo tipo di progetto politico e di visione della società, una
visione basata sul privilegio di chi era più produttivo: quindi, il partito politico come forma
organizzativa rappresentava un elogio della produttività dal punto di vista capitalistico.

- Questo è interessante, perché spesso dalla non accettazione di quella forma di organizzazione
si trae la conclusione nessuna forma di organizzazione: invece, il problema è di trovare altre
forme di organizzazione.

Sì, il discorso è quali forme organizzative sui progetti politici che ci sono adesso.

- Sarebbe dunque significativo ragionare su alcune cose che già sono venute fuori, cercare di
capire quanto può essere riproposto, quanto deve essere cambiato e criticato; altrimenti contro
un certo tipo di organizzazione si ripropone l’anarcosindacalismo, che ha avuto anche delle
ricchezze però molti limiti.
Un’altra persona che ci interessa è Paolo Carpignano.

Lui insegna a New York, so che fa dei lavori con il circolo di Stenya Ranowiz, un compagno
sociologo americano, uno che è sulla breccia da tanti anni, viene da una storia operaia, è

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autodidatta, ha cominciato a insegnare, è da diverso tempo all’interno della sinistra americana, ha
scritto un libro che si chiama False promesse che è una critica al sindacato all’inizio degli anni ’60.

- Harry Cleaver.

Con Cleaver ho un rapporto più politico adesso. Negli ultimi anni lui ha lavorato moltissimo, ha
messo insieme una rete informativa zapatista, raccolgono una gran quantità di materiale; poi lui ha
fatto un archivio marxista, documenti italiani e molto materiale. Ha fatto lavoro anche su zone
specifiche, sulla Corea, sulla globalizzazione in Asia, ha fatto uno dei primi pezzi che mi ricordo
sulla riorganizzazione dell’agricoltura dentro la globalizzazione, la riorganizzazione anche della
produzione di cibo, il discorso sull’uso del cibo come strumento di guerra, come strumento di
conquista imperialistica.

- Anche sulle biotecnologie?

Sì, su quel terreno comunque ci sono diversi compagni, dovessi indicarne qualcuno non direi
Cleaver, c’è un altro compagno a New York che fa un lavoro enorme, è una delle persone più
aggiornata sia rispetto a quello che politicamente c’è in piedi sia rispetto ai discorsi materiali,
riviste, articoli, documenti.

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INTERVISTA A CARLO FORMENTI - 13 DICEMBRE 1999

PRESENTAZIONE DEL SOGGETTO:


- percorso di formazione politica e culturale
- percorso e collocazione negli anni ‘70 ed eventuale appartenenza ad ambiti politici organizzati
- il percorso successivo
- il percorso attuale.

Rispetto alla composizione dei soggetti del ‘68 io ho un profilo biografico abbastanza atipico per
quanto riguarda la tradizione e la storia famigliare. La stragrande maggioranza dei quadri
studenteschi da cui è nato il movimento alla fine degli anni ‘60 partivano anche da un elemento
di contraddizione famigliare, per cui erano spesso figli di medio-alta borghesia o anche piccola
borghesia ma con ideologie famigliari conservatrici, di destra o di centro, e quindi la ribellione
avveniva sul terreno non soltanto della scuola o della produzione ma anche nei confronti di una
cultura e di una tradizione famigliare. Io invece venivo da una tradizione famigliare e in
particolare da un padre che non soltanto era un militante comunista, ma per di più era in qualche
modo un militante comunista di opposizione di sinistra ante litteram perché apparteneva a quei
piccoli gruppi bordighisti che già alla fine degli anni ‘50 inizio degli anni ‘60 pigliavano le botte
davanti ai cancelli delle fabbriche dai militanti stalinisti del sindacato. Quindi, mi aveva già
trasmesso non soltanto una cultura di sinistra ma anche un approccio radicalmente critico nei
confronti della sinistra tradizionale. Questo ha comportato il fatto che io prima di tutto ho avuto
una formazione culturale molto precoce in senso marxista, a partire dai 14-15 anni, a livello di
letture e di “insegnamento paterno”; e poi anche un avvicinarmi alla militanza politica
precedente all’esplosione del ‘68, in particolare attraverso queste frazioni di sinistra, che poi
erano sostanzialmente di matrice trotzkista, interne alla FGCI e al PCI. Non ho fatto lo stesso
percorso paterno perché invece già alla fine degli anni ‘60 questi piccoli gruppi bordighisti erano
evidentemente molto dogmatici, chiusi, settari, inadeguati ad affrontare la nuova dimensione
dello scontro di classe che si profilava. Quindi, come mio primo approccio alla militanza diretta
ho trovato, anche se non ero iscritto alla FGCI, questa sinistra della FGCI che si chiamava Falce
e Martello, che aveva poi un suo corrispettivo in un’altra rivista a livello invece non di quadri
giovanili che era La Sinistra, che poi erano i quadri della Quarta Internazionale trotzkista entristi
all’interno del PCI da cui poi successivamente è nata Avanguardia Operaia, cioè una componente
che ruppe col trotzkismo dando vita ad una delle formazioni extraparlamentari più grosse. Un
percorso diverso ha invece avuto Falce e Martello dopo l’esplosione del movimento studentesco
del ‘68, e sostanzialmente è stato quasi completamente riassorbito dall’area filocinese ed m-l: il
grosso si è trasformato in Servire il Popolo, mentre una minoranza, di cui facevo parte anch’io,
aveva formato il Partito Comunista d’Italia m-l, che poi era quello ufficialmente riconosciuto dai
cinesi e che si era successivamente a sua volta frazionato in vari gruppi.
Diciamo che io ho seguito tutto questo percorso per una prima fase e che poi l’ho abbandonato
completamente quando ho cominciato a lavorare: infatti da studente-lavoratore all’università,
iscritto prima alla facoltà scientifica che ho mollato subito e poi a Scienze Politiche, ho
cominciato a lavorare come impiegato e nel ‘69 ho avuto questa grossa esperienza dei gruppi di
studio degli impiegati nel settore delle produzioni terziarizzate avanzate, quindi informatica,
macchinari per uffici, software. Lavoravo infatti alla 3M, multinazionale americana che aveva
acquisito la Ferragna in Italia: faceva macchine per fotocopie, apparecchiature per microfilm e
vendeva anche veri e propri sistemi di organizzazione aziendale. Quindi, era un’azienda
abbastanza avanzata e lavorando con quelli della Rank Xerox, con quelli della IBM, della Univac
e altri comitati di studio che si erano formati all’interno di queste situazioni impiegatizie,
abbiamo cominciato a fare una prima riflessione sui lavoratori della conoscenza. E dentro questa
1
situazione io ho sempre di più abbandonato per almeno un paio di anni i riferimenti di militanza
dentro ai gruppi extraparlamentari per fare un lavoro all’interno del sindacato: era un lavoro un
po’ particolare, dentro-fuori diciamo. Fuori perché i tipi di organizzazione che si praticavano
erano più simili alle assemblee autonome operaie piuttosto che alle rappresentanza sindacali che
allora erano ancora in forma classica; e nello stesso tempo interne perché poi comunque in realtà
era necessario, per dare uno sbocco alle vertenze che si avviavano all’interno delle aziende, avere
un referente istituzionale per chiudere poi banalmente dei contratti, in quanto le aziende si
rifiutavano di firmare qualsiasi accordo se non era siglato con dei rappresentanti sindacali.
Quindi, dovevamo assumere questa doppia veste di sindacalisti interni e al tempo stesso di
organizzatori dell’autonomia di classe. Attraverso questo percorso poi ho ripreso una serie di
contatti con compagni come Romano Màdera e altri che a loro volta avevano fatto percorsi
all’interno degli m-l, e insieme abbiamo dato vita a questa organizzazione che si chiamava
Gruppo Gramsci e che poi nel corso del tempo si è trasformata in Rosso, ovvero nella fase proto
Autonomia Operaia. Il Gruppo Gramsci, formatosi all’inizio degli anni ‘70, aveva questa
caratteristica rispetto a tutte le altre formazioni extraparlamentari, di lavorare al tempo stesso
dentro e fuori al sindacato, cioè di avere questi collettivi operai che formava in varie situazioni e
però di tenere anche un piede all’interno del sindacato, in particolare della FIM, che allora aveva,
soprattutto a livello milanese, la caratteristica di essere si il sindacato cattolico, ma dal punto di
vista della politica rivendicativa di risultare nettamente a sinistra e più radicale della FIOM-
CGIL. E quindi, sapendo benissimo chi eravamo, ci aveva dato spazio in una specie di accordo
informale tra questa componente della sinistra extraparlamentare e la sinistra sindacale, in modo
che andavamo ad operare più facilmente all’interno di una serie di situazioni di fabbrica.
Questo è tutto il percorso diciamo fino al ‘73-’74; nel frattempo io ero uscito dall’azienda, per tre
o quattro anni ho fatto il funzionario sindacale di mestiere, nel senso che ero nell’apparato della
FIM come responsabile provinciale dei tecnici e degli impiegati. Quindi, ho continuato ad
occuparmi in particolare di questo settore qua, soprattutto delle multinazionali informatiche,
l’IBM in prima fila, perché già allora mi sembrava fosse un’esperienza che cominciava a fare
intravedere quale poteva essere una possibile strategia capitalistica di superamento della
composizione di classe al centro di quel ciclo di lotte dell’operaio-massa. Era evidente che lì
c’era una capacità di utilizzare le tecnologie informatiche per sconvolgere e sovvertire
completamente le regole del gioco, le forme di conflitto e di gestione dell’organizzazione
aziendale e del processo di valorizzazione. Ed infatti su questo si è lavorato a fondo fino al ‘73-
’74; poi c’è stata la fase in cui sostanzialmente tutti i gruppi politici si sono sciolti, ed anche noi,
come aveva fatto sia Lotta Continua che Potere Operaio, con un grosso rimescolamento di carte e
con un passaggio alla fase iniziale dell’Autonomia Operaia, che dura sostanzialmente fino al ‘75-
’76.Sull’asse Milano-Torino a partire dal ‘74-’75, e poi in altre parti con tempi un po’ più lunghi,
era abbastanza chiaro che si era chiuso il ciclo di lotta dell’operaio-massa e che cominciava
questo riflusso a livello di fabbrica con uno spostamento della conflittualità sul territorio,
soprattutto a livello di collettivi di proletariato giovanile e di proletariato sociale (non erano
ancora centri sociali), che aveva già come interlocutore le forme di out-sourcing, di
decentramento produttivo o proprio di sfruttamento del lavoro nero eccetera eccetera. Quindi, era
il momento delle ronde operaie, era il momento del tentativo di portare lo scontro dalla fabbrica
al territorio. All’interno di questa fase io ho maturato il distacco da Rosso che non era ormai più
organo del Gruppo Gramsci ma giornale dell’Autonomia Operaia milanese e non solo: non ero
infatti d’accordo su questo modo di spostare lo scontro sul territorio alzandone
contemporaneamente il livello di conflittualità violenta, di scontro militare e via dicendo. E’ lì
che maturano i due livelli di organizzazione, gli ex servizi d’ordine che diventano base di
formazioni paramilitari o comunque vicine o fiancheggiatrici se non direttamente implicate nel
contesto di lotta armata. La cosa sostanziale, che a me e ad altri era sembrata evidente fin dal
primo momento, è che una volta che si fossero creati questi organismi separati rispetto al livello
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di movimento di massa ci sarebbe stata inevitabilmente un’attrazione trasversale tra i vari
organismi separati, cioè si sarebbe creata una specie di solidarietà trasversale tra i livelli
clandestini o semiclandestini proprio per esigenze tecnico-organizzative, non soltanto per
ideologia ed esaltazione del valore guerriero del confronto con l’avversario di classe, ma anche
proprio per un’attrazione fisica si determinava la necessità che ci fosse una specie di unificazione
sul piano militare, se non proprio unificazione di comando, ma unificazione che avveniva a
livello di scambio di militanti, di informazioni, di collaborazione logistica e via dicendo. Ciò
avrebbe portato rapidamente alla separazione di questo livello dal livello di autonomia di classe e
di direzione politica da parte del movimento; questo anche in presenza dell’indebolimento
dell’organizzazione politica dovuta allo scioglimento dei gruppi. Quindi, c’è questa fase, che va
diciamo dal ‘75 al ‘78, molto ambigua, in cui i due livelli convivono in qualche modo, sia pure
con un grado di conflittualità crescente tra la dimensione clandestina o semiclandestina e la
dimensione invece ancora di organizzazione di massa e politica del conflitto, che per altro è già
in riflusso evidente, con il progressivo impoverimento sia quantitativo che qualitativo; finché si
arriva invece alla trasposizione di tutto lo scontro sul terreno militare, fondamentalmente dal
sequestro Moro in avanti. Sappiamo quello che succede, c’è il colpo del 7 aprile e del 21
dicembre e proprio da lì comincia il massacro di tutto ciò che resta di organizzazione del
movimento. Ciò a partire dal fatto che da un lato il processo di ristrutturazione era stato condotto
ormai molto avanti e quindi questo aveva eroso la base sociale del movimento; e dall’altro
assistiamo all’isolamento di quello che restava dell’organizzazione politica e la sua messa sotto
accusa e sotto tiro a partire dal rilancio dello scontro militare operato dai livelli clandestini, e
quindi la rapida liquidazione che avviene diciamo all’inizio degli anni ‘80, sancita sul piano
militare con lo smantellamento delle organizzazioni e col fatto che più o meno tutti finiscono in
galera, e sul piano invece sociale e di massa con la famosa marcia dei quadri della Fiat che
liquida quello che resta di conflittualità a livello di fabbrica.

Da quando mi ero ritirato dalla militanza attiva, quindi parliamo del ‘75-’76, mi ero molto
concentrato sul lavoro intellettuale, per cui pur avendo rotto sul piano della politica avevo
tuttavia mantenuto rapporti di collaborazione sul piano della ricerca, in quanto fino al 7 aprile io
ho collaborato con l’Istituto di Scienze Politiche della facoltà di Padova. Quindi, in sostanza ero
un ricercatore precario della facoltà di Scienze Politiche, lavoravo su fondi del CNR, e lì ho
portato avanti l’approfondimento sul piano teorico delle esperienze che avevo compiuto negli
anni precedenti, concentrandomi in particolare sui temi della terziarizzazione del lavoro e
dell’impatto delle nuove tecnologie sulla composizione di classe, sulle dinamiche del conflitto,
sulle strategie della produzione e riproduzione capitalistica; da questo è nata una tesi di laurea
che è diventata libro, che è La fine del valore d’uso che esce da Feltrinelli nel 1980.
Successivamente ho abbandonato il terreno universitario e ho cominciato a lavorare come
redattore di questo mensile culturale che è Alfabeta, cui sono arrivato attraverso il rapporto con
Pier Aldo Rovatti e la rivista Aut Aut con cui collaboravo, e del cui comitato di direzione Rovatti
faceva parte. E lì dall’80 all’88, finché dura Alfabeta, ho fatto questo tipo di attività, questo
lavoro che dal punto di vista della militanza politica restava ancora esclusivamente fondato sulla
battaglia di controinformazione che il mensile ha sempre fatto rispetto alla questione del 7 aprile
(tra l’altro uno dei membri del comitato di direzione era Nanni Balestrini che aveva dovuto
restare in esilio a Parigi per tutta la durata della vita della rivista). Questo è stato uno dei temi di
fondo per quanto riguarda l’impegno della rivista sul piano della gestione della difesa dei
soggetti che erano stati incarcerati con accuse di collegamento con le Brigate Rosse.
C’è stato una piccola ripresa di attività, se vogliamo chiamarla di militanza, che riguarda le
elezioni politiche dell’88 in cui su pressione di Franco Berardi e altri compagni di quello che era
stato il percorso dell’autonomia creativa di Bologna si era tentato di fare una candidatura come
indipendente nelle liste dei Verdi nel capoluogo emiliano, cosa che per altro è andata molto male
3
nel senso che era evidente che l’operazione era un po’ strumentale e quindi sia da una parte che
dall’altra non c’era una grande chiarezza. Quindi, me ne sono rapidamente tirato fuori, è stata
una parentesi che è durata molto poco. Da allora in poi non ho più avuto nessuna esperienza di
militanza politica in termini classici, in fondo nemmeno alternativi; mi sono sempre collocato in
una dimensione di intellettuale ma non di militante politico.

- L’esperienza di Alfabeta.

Alfabeta è stata molto importante sia per il ruolo di cui parlavo prima, cioè di
controinformazione sui processi tipo 7 aprile, sia perché è stata un po’ l’ultima barriera o
l’ultimo strumento comunque che ha tenuto insieme un gruppo di intellettuali anche molto
differenziati come posizioni e come matrice ideologica, ma sostanzialmente unificati ancora da
un atteggiamento critico nei confronti del potere politico e non di pura adesione ai percorsi della
sinistra istituzionale. Percorsi che nel frattempo andavano verso il superamento del PCI, ma
questo ancora prima del crollo del Muro e ancora prima della trasformazione del partito, del
cambiamento di nome e della svolta guidata da Occhetto; questo era già nel codice genetico
dell’evoluzione della sinistra tradizionale negli anni ‘80. Diciamo che Alfabeta è l’unica voce
critica non di puro accompagnamento di questo processo negli anni ‘80, quindi è stata una
battaglia culturale abbastanza importante che tentava in qualche modo di spostare l’attenzione
dalla socialdemocratizzazione spinta e rapida della sinistra ad un tentativo invece di analisi
critica approfondita dei processi sociali, economici e culturali di trasformazione che stava
subendo già allora il mondo.
Quando ha chiuso la rivista mi sono trovato completamente isolato e quindi, per problemi di pura
e semplice sopravvivenza, sono passato al giornalismo professionistico, lavorando per una serie
di testate: prima l’Europeo, poi Sette, che era ed è l’inserto settimanale del Corriere della Sera, e
poi dopo direttamente alla redazione cultura del Corriere in cui sono rimasto fino a due anni fa.
Attualmente sono giornalista sempre del Corriere della Sera ma ho un articolo o due, cioè sono
un collaboratore fisso e non più un redattore interno.
Dal punto di vista della produzione bibliografica, negli anni ‘80 ho sempre mantenuto
l’attenzione sui temi della tecnoscienza però spostandomi sugli aspetti dell’evoluzione un po’
antropologica non soltanto dell’organizzazione del lavoro o dell’impatto sull’economia e la
società dei nuovi strumenti, ma proprio sulle trasformazioni dell’immaginario che i nuovi media
riuscivano a determinare, e quindi trasformazioni dei miti e del ruolo che l’immagine della
scienza aveva nella mutazione culturale. Su questo ho pubblicato due cose, Prometeo e Hermes e
Immagini del vuoto che sono usciti da Liguori; il percorso è stato completato da un libro uscito
nel ‘91 da Cortina, Piccole apocalissi, che ha chiuso un po’ quel ciclo di riflessione su
tecnologia, scienza e la loro capacità di fare mito, di costruire un frame culturale su cui poi
andavano ad accelerarsi una serie di altri processi a livello politico, economico e sociale.
Da qualche anno invece l’attenzione è tornata a spostarsi sui temi del valore d’uso. Direi a partire
dall’esplosione del fenomeno della rete e di Internet l’attenzione è tornata a focalizzarsi sulle
nuove modalità di valorizzazione capitalistica e sulle nuove modalità di conflitto sociale
all’interno del quadro antropologico determinato dai new media. Questo è un po’ l’asse centrale
della mia riflessione e quello su cui sto lavorando in questo momento.

ANALISI DEI PROPRI PERCORSI POLITICI:


- analisi delle ricchezze e dei limiti del proprio percorso e/o della propria proposta politica
- analisi di quello che c’era d’altro (altri ambiti, libri, riviste, proposte teoriche, culturali e/o
politiche...)
- quanto tali ricchezze e tali limiti possano essere attualizzabili nel contesto odierno e in
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prospettiva futura.

Senza entrare nel merito delle differenze possibili tra le diverse componenti, che sono state molte
dal ‘68 al ‘77, io credo che la ricchezza sia consistita soprattutto nell’allargamento dell’area dei
temi del conflitto. Quindi, il fatto che il conflitto è uscito dall’ambito specificatamente
economico e politico e ha investito i rapporti sociali nel suo complesso, soprattutto attraverso il
coinvolgimento del privato (vediamo la funzione che ha avuto il movimento delle donne,
l’importanza delle questioni della famiglia, dei conflitti generazionali ecc.).Io direi che la cosa
più grossa degli anni ‘60 e ‘70 è stata questa, cioè la capacità di investire complessivamente non
soltanto un settore, sia pure identificato come settore strategico di un modo di produzione, di una
civiltà preferirei addirittura definirla, ma invece di investire la totalità delle relazioni umane;
quindi, la messa in discussione non tanto e non solo di un modo di produzione ma anche di un
modo di vivere, dei suoi valori di riferimento antropologici e culturali di fondo. Questo
senz’altro mi sembra l’aspetto più importante. Mentre invece il limite è stato effettivamente il
fatto che a partire dalla fine degli anni ‘60 ma con grande evidenza a partire dagli anni ‘70, c’è
stato questo riflusso interno al movimento e il suo ricondursi, attraverso i gruppi che si
strutturavano come dei veri e propri partitini, alle categorie, ai valori, all’ideologia del marxismo
classico: quindi, il tentativo di rinchiudere e ricondurre di nuovo la ricchezza di differenze e la
pluralità presenti all’interno del conflitto ad un segno ideologico unificante o presunto unificante
che era la composizione di classe. Composizione di classe di cui tra l’altro non si è stati in grado
di leggere la contingenza storica, cioè il fatto che comunque era la composizione di classe
fordista che oltre tutto in Italia arrivava con grande ritardo: infatti si trattava in realtà di un ciclo
di lotte che negli Stati Uniti e in altri paesi d’Europa era avvenuto molto prima. L’anomalia della
situazione italiana tra l’altro è stata proprio questa, la durata. La stessa durata del movimento in
Italia, che è stata molto maggiore di quella in altri paesi, è determinata dal fatto che l’esplosione
dei conflitti culturali, sociali, antropologici che avevano come punta di diamante il movimento
studentesco, è coincisa e si è innescata con il punto alto della conflittualità di classe in fabbrica
dovuto a questa fase finale molto acuta dell’operaio-massa. Però, proprio lì dentro si era creata la
seguente posizione: il fatto che ci fosse questo elevato livello di conflittualità, maggiore che in
tutti gli altri paesi occidentali, ha determinato questa idea di ricondurre tutto all’egemonia
operaia, cioè di ricondurre tutto al minimo comun denominatore di classe. E questo è stato molto
forte, in tutti i gruppi: tutte le altre conflittualità dovevano essere tradotte in qualche modo nel
codice del conflitto di classe che aveva il suo luogo privilegiato all’interno della fabbrica. Questo
schema è poi saltato, è andato completamente in crisi alla metà degli anni ‘70 ed era già del tutto
spazzato via quando si arriva al ‘77; c’è di nuovo un’apertura su tutto il ventaglio delle
tematiche, perché entrano in campo nuovi soggetti, perché nel frattempo è andato avanti ed è
maturato il discorso del movimento femminista, perché ha cominciato a venir fuori in parte,
anche se in modo ancora embrionale, il discorso sull’ambiente, eccetera eccetera. Però, il
problema è che in questa seconda fase in cui c’era una potenziale riapertura del conflitto al di là
del suo orizzonte di fabbrica, lì ha funzionato invece questo retaggio dell’organizzazione che era
stato sedimentato dall’esperienza precedente dei gruppi, che si trasforma poi direttamente nel
discorso della lotta armata. In sostanza c’è stata la prevaricazione dell’organizzazione sul
movimento, cioè della necessità di strutturare e di ricondurre il movimento a forme organizzative
stabili, quindi necessariamente sempre più, di fronte all’iniziativa della controparte, rinchiuse su
se stesse, tentate dal salto al livello militare che era un modo disperato di supplire all’assenza di
analisi politica, alla difficoltà di un movimento che diventava molto più complicato da gestire,
molto più difficile, molto meno riconoscibile nelle sue forme emergenti, molto più sotterraneo.
Come prima erano stati i gruppi, così la lotta armata è in qualche modo lo stesso fenomeno, cioè
il tentativo di rinchiudere in categorie vecchie il nuovo, di dare una forma unica all’antagonismo:
con uno stesso linguaggio, con degli stessi codici interpretativi, con una stessa forma
5
organizzativa. Direi che è l’ultimo disperato tentativo del marxismo di sopravvivere a se stesso.
Quando parlo di marxismo non parlo di Marx, perché invece certe categorie dell’analisi di Marx
proprio nel processo di terziarizzazione, nel processo di transizione al postfordismo tornano di
grandissima attualità. Quello che invece a mio parere va definitivamente in crisi è l’idea classica
dell’antagonismo legato alla classe e al proletariato di fabbrica. E invece è proprio su quell’idea
che è stato tentato il serrate le fila prima dai gruppi extraparlamentari e dopo dalle formazioni
comuniste combattenti, che hanno cercato di ingabbiare di nuovo la ricchezza e la pluralità del
conflitto dentro le vecchie categorie dell’antagonismo marxista.

- L’esperienza di Aut Aut.

L’esperienza di Aut Aut è stata importante. Poi successivamente tutto è rientrato, in quanto dopo
il 7 aprile c’è stato un grosso passo indietro, perché ovviamente Pier Aldo Rovatti e la redazione
storica della rivista si sono “spaventati” di fronte al contraccolpo che sarebbe giunto da questa
vicenda. Quindi, l’effetto è stato anche qui di chiudere la possibilità del dibattito. Tutta una fase
precedente, che era stata la discussione sulla teoria dei bisogni su Aut Aut, era stata un momento
di ibridazione teorica e culturale molto molto ricca: c’era infatti da un lato la componente
dell’analisi teorica dell’Autonomia, però c’era anche la componente della tradizione
fenomenologica e quindi di un discorso sulla crisi del sapere e delle scienze europee da Husserl
in avanti, che era presente nel codice genetico della rivista. Quindi, anche lì c’era una possibilità,
e anche lì si è visto come funzionava male il “vizio leninista”: Negri, preso come figura
emblematica, ogni volta che metteva piede in spazi che si aprivano, in questo caso all’interno
della comunità filosofica o in generale all’interno della comunità del dibattito intellettuale,
immediatamente cercava di egemonizzarli e di ricondurli ad una strategia egemonica. Quindi,
sempre scattava il meccanismo fondamentalmente del partito. Il paradosso dell’Autonomia è
stato quello di nascere dallo scioglimento dei gruppi ma di mantenere poi al proprio interno la
logica del partito, cioè la logica dei quadri dirigenti che dovevano dirigere, egemonizzare,
indirizzare, coordinare, ricondurre ad una strategia e ad una tattica comuni tutto quello che si
muoveva, qualsiasi aspetto e contraddizione.

Nel contesto odierno i limiti possono essere utili cercando di non ripetere ostinatamente gli stessi
errori, cioè di non voler a tutti i costi rimettere di nuovo un cappello. Oggi la complessità dei
conflitti è ancora più evidente di quanto non fosse allora; una situazione come quella di Seattle
da questo punto di vista è estremamente sintomatica. A parte la novità del ruolo che ha avuto la
rete nella mobilitazione e nella circolazione delle idee, delle ideologie e dei punti di vista di
movimento per arrivare alla scadenza della manifestazione contro il WTO, è la prima volta che
c’è così chiaramente in campo uno “schieramento federativo”, con al proprio interno delle
differenze enormi: si va dal farmer che magari vota anche repubblicano e ha un’ideologia di
destra e però si mobilita perché sente che le multinazionali della biotecnologia lo stanno
schiacciando, ai sindacati americani che come ben sappiamo sono ultracorporativi e difendono
gli interessi di uno strato ultraprofessionale e privilegiato della classe operaia americana e non
certamente quelli dei marginali, all’underground anarchico, all’ambientalismo, al femminismo,
all’ecopacifismo. Quindi, c’è uno schieramento estremamente ampio di forze e si è formata una
coalition ad hoc con strani compagni di letto, come li chiama Hakim Bey in Millennium. Quello
che oggi è evidente è che ciò che funziona è il cosiddetto, come lo chiama Romano Màdera in un
libro, sincretismo antagonista, cioè la possibilità di trovare convergenze di punti di vista anche
radicalmente diversi ma tutti in conflitto con il pensiero unico. Dunque, mi sembra fondamentale
non ripetere l’errore dell’idea di una possibile unificazione di tutto questo nei termini di un
minimo comun denominatore antagonista, di una comune strategia.
Dal punto di vista della ricchezza dell’analisi teorica direi che le cose più interessanti che si
6
possono ereditare dagli anni ‘70, soprattutto dalla sua seconda metà, sono l’analisi sulla
terziarizzazione che già allora aveva identificato abbastanza chiaramente quale sarebbe stato il
processo di ristrutturazione capitalistica.

- Tale analisi creò una divisione teorica tra chi vedeva la terziarizzazione come
cetomedizzazione e chi invece la vedeva come processo di tendenziale proletarizzazione.

Questo lo vedremo meglio in seguito. Secondo me tra virgolette avevano torto tutti e due, nel
senso che è l’una e l’altra cosa assieme. E’ molto difficile dare una definizione univoca degli
effetti del processo di terziarizzazione. E’ proletarizzazione per certi strati ed è cetomedizzazione
per altri; e comunque in entrambi i casi crea conflitti, sia pure di intensità e di qualità differenti.
Quindi, anche in questo caso non si tratta di un passe-partout per poi definire un nuovo soggetto:
su questo è evidente che da parte di alcuni c’è una lettura della terziarizzazione come
presupposto per identificare un nuovo soggetto antagonista, mentre invece per altri c’è
un’attenzione alla complessità del processo, alla sua frammentarietà e quindi al fatto che non c’è
un nuovo soggetto ma ci sono nuovi soggetti, ce ne sono molti e non uno solo.

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INTERVISTA A CARLO FORMENTI - 31 GENNAIO 2000

- Come giudichi l’attuale situazione, a livello di dibattito politico e militante, nell’area


antagonista o comunque tra quei soggetti che si pongono in un senso di forte critica
all’esistente? A guardare il vuoto degli anni ‘80 e le difficoltà e la frammentazione degli
anni ‘90, la domanda che sorge è: dove è finita quella ricchezza soggettiva di dibattito
politico e di tessuto militante? C’è stata la repressione, c’è stata la paura della repressione,
c’è stata probabilmente una paura politica di dover fare i conti con la situazione di vuoto
che essa aveva creato, ma queste possono essere spiegazioni sufficienti?

Credo che la frammentazione sia un dato che ormai non possa più essere letto esclusivamente in
relazione all’onda lunga degli effetti delle sconfitte degli anni ‘70 e ‘80 o delle repressioni
successive. La frammentazione è un dato oggettivo che riflette le trasformazioni radicali che ci
sono state in questi vent’anni dal punto di vista del modo di produrre, culturale, addirittura
antropologico. C’è quindi stata un’accelerazione incredibile della trasformazione sociale negli
ultimi decenni del millennio che poi si riflette anche nelle forme del movimento politico e
dell’antagonismo che rispecchiano questa frammentazione sociale, anche se non in modo diretto,
immediato o deterministico: però è certo che riflettono il fatto che non è più possibile avere un
referente sociale saldo, fisso, unico com’era l’operaio-massa degli anni ‘60-’70. Quindi, direi che
il punto è questo: la frammentazione è un dato oggettivo, non è un dato ideologico né puramente
di repressione.

- Ne La fine del valore d’uso tu analizzavi i limiti della nozione e distinzione tra lavoro
produttivo e lavoro improduttivo nella società terziarizzata e la loro unificazione nella
categoria del lavoro riproduttivo. Come pensi che tale analisi possa essere sviluppata e
attualizzata?

Adesso siamo molto più avanti. In quel momento c’era questa prima evidenza della sostanziale
impossibilità di applicare le categorie classiche di lavoro improduttivo e produttivo, perché la
cosa che era già allora chiara era il fatto che si unificassero nel lavoro riproduttivo in senso lato:
non a caso il titolo del libro era La fine del valore d’uso, laddove la categoria del valore d’uso
nell’analisi classica era riferita ai beni in servizi all’interno del ciclo riproduttivo e quindi non
direttamente inseriti nel circuito mercantile capitalistico. Era già evidente allora che si trattasse di
una distinzione che andava rapidamente a cadere, che il lavoro riproduttivo veniva sussunto
all’interno del processo di valorizzazione capitalistico. Oggi siamo ad un livello molto più
avanzato e da questo punto di vista ha giocato un ruolo strategico lo sviluppo tecnologico:
quindi, le nuove reti di comunicazione consentono un processo di valorizzazione capitalistico
che ormai ha la capacità di sussumere direttamente ogni forma non solo di lavoro riproduttivo,
ma addirittura l’esistenza stessa dei soggetti concreti individuali e collettivi diventa un momento
di valorizzazione del capitale. Ciò mette in crisi altre distinzioni classiche all’interno delle
categorie della critica dell’economia politica, come la distinzione tra lavoro morto e lavoro vivo.
L’idea di lavoro morto e di lavoro vivo così come nasce in Marx nell’analisi della grande
industria capitalistica, rispetto ai processi di produzione immateriale è di fatto superata. Se noi
prendiamo il lavoro informatizzato, non è che si possa dire che c’è il computer che è il lavoro
morto, l’equivalente della vecchia macchina industriale, e c’è quello che lavora con il computer
che è il lavoro vivo: c’è una fusione totale tra hardware-software e soggetto umano. Quando il
momento di valorizzazione diventa in primo luogo il linguaggio, la standardizzazione dei
linguaggi, ed è esso a produrre immediatamente valore, è chiaro che anche questa distinzione va
in crisi.
Un terzo punto, che mi sembra molto interessante proprio per capire e per cogliere questo nuovo

1
salto di qualità del capitale, è che esistono dei processi di sussunzione capitalistica che possono
essere definiti al tempo stesso formali e reali. Marx faceva una distinzione tra sussunzione
formale e sussunzione reale del lavoro sotto il capitale in una prospettiva che era soprattutto
storica. Allora, nella prima fase, abbiamo un lavoro che, ad esempio, può ancora svolgersi a
domicilio, con le macchine o di proprietà dell’artigiano oppure date a lui o al contadino
lavoratore da parte del capitale, e non c’è l’organizzazione della grande fabbrica: c’è una rete di
personaggi, che a volte arrivano direttamente ancora da rapporti di dipendenza quasi feudali, e
che vengono inseriti all’interno del mercato attraverso questa figura dell’imprenditore, il quale
sussume i vecchi processi produttivi senza però cambiare né gli strumenti con cui questi si
svolgono né l’organizzazione del lavoro. Il lavoro di tipo tradizionale avveniva ancora all’interno
di un’economia tradizionale, magari nel nucleo familiare che a volte veniva interamente messo al
lavoro, ed era ancora affiancato dalle vecchie economie familiari di sussistenza soprattutto nelle
campagne. Il passo successivo è quello che Marx chiama sussunzione reale sotto il capitale, la
separazione tra tempo e luogo di vita e tempo e luogo di lavoro, la concentrazione della forza-
lavoro nella grande fabbrica: progressivamente l’organizzazione tecnologica e scientifica, cioè la
sussunzione della tecnoscienza sotto il capitale, cambia il modo di lavorare; si creano i
presupposti per quella prima organizzazione scientifica del lavoro che poi nel ‘900 con il
taylorismo ed il fordismo verrà portata ad un livello di razionalizzazione molto più alto.
Comunque già allora ci sono le condizioni per passare a quella che Marx chiama sussunzione
reale sotto il capitale, quindi il rivoluzionamento del modo di produrre. Oggi molti (Bonomi ma
non solo lui) notano come esistono dei processi che possono essere chiamati di nuovo
feudalesimo, quindi la possibilità, dopo i grossi processi di decentramento produttivo degli anni
‘80 e dei primi anni ‘90, di mettere al lavoro di nuovo unità sparse sul territorio com’era nella
prima fase. Quindi, abbiamo un processo che è apparentemente un ritorno a forma di sussunzione
formale del capitale: in realtà si tratta di un processo che è al tempo stesso di sussunzione
formale e reale, perché l’uso delle nuove tecnologie consente di sovrapporre il processo di
valorizzazione alla vita reale, al territorio, alla socialità, non più separata com’era nella città-
fabbrica tra il quartiere della riproduzione e la fabbrica della produzione. Di nuovo il capitale
torna nel quartiere, sul territorio, nelle regioni, nelle campagne, a sovrapporsi ai processi di vita,
di riproduzione, alle culture, alle tradizioni. E le sussume senza rivoluzionare direttamente
linguaggi, forme di vita, tradizioni, anzi cercando di impadronirsi dei loro elementi significanti
dal punto di vista dei linguaggi, del potenziale innovativo, delle idee da riciclare poi sul mercato
globale. Quindi, da questo punto di vista sembra sussunzione formale: è sussunzione reale nella
misura in cui in ogni caso il territorio non può essere sussunto nella sua forma di pura differenza
idiosincrasica, deve comunque diventare interfacciabile (per usare un termine informatico) con il
mercato globale, e quindi comunque esiste la necessità di standardizzare i linguaggi, di renderli
compatibili con i codici della comunicazione globale. E’ dunque una forma nuova, assolutamente
innovativa, di valorizzazione capitalistica, destinata a diventare sempre più capillare ed efficiente
mano a mano che nella rete non entrano più soltanto individui, soggetti, collettivi, tradizioni, ma
sono proprio gli stessi “oggetti intelligenti” che ne fanno parte. Via via che si inseriscono micro-
chip, intelligenza negli oggetti, potenziali terminali di rete, c’è la capacità di innervare il
territorio e quindi di recuperare informazioni e dati sui comportamenti, sui consumi, sulle
pratiche, sulle tendenze: si arriva proprio a cablare le pratiche minute di riproduzione e, da
questo punto di vista, tutti diventiamo prosumer, per usare questo brutto termine. Nel momento
stesso in cui consumiamo produciamo, nel senso che scambiamo informazione, diamo la
possibilità alla controparte di appropriarsi di informazione e quindi di valorizzare costantemente
il processo produttivo. E’ proprio un salto radicale, siamo al limite di una serie di categorie della
critica dell’economia politica classica, ci servono quasi solo per far vedere come non funzionano,
più che per interpretare quello che capita.

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- Tu avevi analizzato la trasformazione della scienza in forza produttiva diretta attraverso i
processi nel ciclo dell’informazione e nello sviluppo di un’informatizzazione di massa.

Il centro è stato proprio il processo di informatizzazione. Anche tutte le altre procedure


scientifiche, discipline, saperi sono stati normalizzati, codificati. L’esempio più clamoroso
sicuramente viene dalle biotecnologie: senza l’informatica il sapere scientifico sul codice
genetico e sulla biologia molecolare sarebbe stato letteralmente impossibile, in quanto l’ordine di
complessità dei fenomeni coinvolti era tale da far procedere le conoscenze molto lentamente.
Oggi abbiamo un’integrazione tra codice informatico e codice genetico talmente stretta che il
processo viaggia con grande rapidità, diventa quasi indistinguibile, sono saperi totalmente
interfacciati. Questo può essere reso valido a tantissimi altri livelli: praticamente non esiste più
una scienza pura, esiste soltanto tecnoscienza, nel senso che il contenuto stesso della conoscenza
e dei saperi è determinato dalla forma della loro produzione, che è appunto la forma del codice
informatico. C’è quindi un’unificazione ed un’integrazione molto forte e trasversale resa
possibile da questo tipo di tecnologia: non a caso il calcolatore viene definito una macchina
universale, è un qualcosa che funziona con una logica molto simile a quella del denaro, del
valore di scambio, cioè la possibilità di ridurre ad un’unica unità di misura i saperi e le
conoscenze concrete e di oggettivarli.

- Hai prima parlato della sussunzione capitalistica di linguaggi, culture e via dicendo: ne La
fine del valore d’uso avevi analizzato il tentativo capitalistico di sviluppare nuove forme di
appropriazione del sapere sociale che la classe operaia ha espresso nelle sue lotte, la
trasformazione della creatività autonoma operaia in forza produttiva diretta del capitale;
avevi evidenziato come i bisogni e le coscienze individuali diventino soggetti della
valorizzazione.

Questo nella fabbrica era più facile da analizzare, nel senso che oggi abbiamo visto come è
avvenuto il passaggio dalla fabbrica fordista alla fabbrica toyotista, è stato abbastanza chiaro ed è
stato anche ampiamente analizzato. Le modalità di sapere informale sviluppate all’interno della
vecchia fabbrica fordista (su questo c’è un’analisi molto approfondita fatta anche da Christian
Marazzi ne Il posto dei calzini e poi nei libri successivi) e la comunicazione, che all’interno della
fabbrica fordista erano un intoppo, momenti di non produzione, elementi di rottura dentro al
disciplinamento del lavoro e della sua organizzazione, attraverso l’uso delle nuove tecnologie
sono invece diventati momenti di sussunzione e di valorizzazione. Il sapere operaio, concreto,
pratico utilizzato a livello di squadra, di collettivo, di socializzazione, di linguaggio, di
comunicazione informale operaia, è divenuto il nuovo principio propulsivo e di valorizzazione
all’interno dei processi produttivi. E’ completamente ribaltata la logica: mentre prima non aveva
alcun interesse che il singolo o il gruppo operaio fosse a conoscenza delle dinamiche
complessive del processo produttivo e di come funzionava, dovevano semplicemente svolgere
una serie di mansioni esecutive, oggi viene dato invece come fondamentale la capacità di
autocollocarsi all’interno del processo produttivo da parte del gruppo, sia del singolo che del
collettivo: è necessario capire la dinamica generale del processo per poter mettersi in relazione
con essa, in una logica di grande flessibilità, di risposta creativa ai problemi che nascono di
momento in momento. Questo perché la produzione non è più di massa ma è di piccola serie,
mirata su certe nicchie di mercato: è una produzione just-in-time, che deve seguire passo per
passo i trend del consumo, anche quelli locali, idiosincrasici e contingenti dei comportamenti dei
consumatori, quindi deve continuamente adattarsi a questo.

- Tu sostenevi che l’obiettivo capitalistico è rendere impossibile la distinzione tra sistema


controllante e sistema controllato.

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Questa analisi vent’anni dopo è assolutamente verificata, direi che è il punto che si è verificato in
modo più clamoroso. Da questo punto di vista i guru della new economy, come Kevin Kelly e
compagnia, in America lo dimostrano nel modo più clamoroso, quando sostengono il punto di
vista secondo cui sono totalmente rovesciati i vecchi criteri di produttività ed efficienza della
fase produttiva precedente: la cosa importante diventa invece proprio la creatività soggettiva sia
dei collettivi sia delle comunità, e viene misurata in termini di flessibilità totale e anche di
imprevedibilità. Ciò che importa è che la comunicazione stabilisca reti sempre più fitte e vaste, e
che da queste reti sorgano e nascano continuamente innovazione, idee, servizi, potenziali
prodotti da gettare in un processo che li brucia con una rapidità spaventosa, anche perché i
prezzi, all’interno del nuovo tipo di mercato, tendono a zero con una velocità impressionante.
Anzi, nel mercato informatico, si arriva sempre di più e non a caso all’offerta gratuita: vengono
dati computer gratis per far sì che chi li ha poi si connetta, perché il vero valore è un valore di
connessione, di rete, non è un valore della vendita dell’oggetto, del software, del servizio. Il
valore sta nel fatto che aumentando continuamente i nodi della rete si crea la possibilità di
continua innovazione. Quindi, in sostanza il nuovo interlocutore è chi si connette, è lui che
spiega quali prodotti vuole, che crea i prodotti che lui stesso consumerà e comprerà più avanti
connettendosi. Paradossalmente si dice che i consumatori avranno molto più potere, potranno
controllare: in realtà questo potere è un paradosso, è un qualcosa che nasce dal fatto che è saltato
qualsiasi possibilità di distinguere tra il sistema controllante e il sistema controllato. E’ il sistema
controllato che si autocontrolla.
Dentro tutto questo un altro fattore secondo me strategico e determinante è il fatto che (questo in
qualche modo non riferito alle tecnologie e al processo capitalistico), come ha già detto Foucault
nella Microfisica del potere, non esiste un potere che si possa esercitare senza la partecipazione e
senza la “complicità” di chi ne è oggetto, non esiste cioè un oggetto passivo dei processi di
potere: esiste una relazione, uno scambio di corpi, di flussi, di sistemi desideranti, c’è sempre
un’implicazione stretta. Questo è stato in modo evidente e clamoroso uno dei fattori strategici e
decisivi nel processo di trasformazione, perché la molla importante che spinge poi a connettersi
ed entrare in rete, a neutralizzare questa differenza tra sistema controllante e sistema controllato,
è il piacere e il desiderio. Se non ci fosse un piacere di connessione, nell’uso di queste nuove
tecnologie del software, del fare comunità in rete, dell’interfacciarsi, tutto questo meccanismo
non potrebbe funzionare neanche un secondo. La dinamica straordinaria di questo processo è il
fatto che esiste una simbiosi, una sinergia, uno scambio di intensità tra chi fa rete e chi in essa si
connette.

- Nell’analizzare il sistema informativo notavi come esso venisse presentato come struttura al
servizio della comunità, quindi mettendo in rilievo il valore d’uso (esistente solo come
simulazione) mentre in realtà si trattava di un’estensione del valore di scambio; dunque, la
mistificazione nel far apparire la disponibilità di nuovi servizi come una conquista.

Si tratta di una dinamica andata molto avanti per cui, in realtà, la questione del valore d’uso e del
valore di scambio è quasi diventata una specie di oggetto non più di analisi economica, ma di
analisi antropologica. Il problema è chi fa comunità e per quali fini. Dal punto di vista della
valorizzazione capitalistica il fare comunità è una questione decisiva, perché soltanto attraverso
questo fare comunità e metterle in rete è possibile far muovere il nuovo processo produttivo e di
valorizzazione che si basa appunto sullo sfruttamento dei saperi che vengono prodotti a livello
locale o addirittura individuale. Nello stesso tempo questa cosa crea la possibilità di un fare
comunità e di un utilizzare la rete, che viene costruita in modo sempre più diffuso e ramificato,
per fare comunità per fini diciamo autonomi. Allora qui c’è un’ambiguità radicale, che è
difficilmente scioglibile, nel senso che le stesse pratiche, gli stessi comportamenti, le stesse

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soggettività, viste da un punto di vista differente, possono essere lette in termini di valore di
scambio e di valorizzazione capitalistica oppure di valore d’uso, di autovalorizzazione, di
autonomia del sociale. Secondo me non esiste una formula per “distinguere” tra i due momenti:
essi convivono costantemente in una specie di simbiosi conflittuale, se vogliamo usare questo
ossimoro. L’elemento del conflitto è immanente all’interno di questa ambiguità, ma al tempo
stesso è un elemento che non può illudersi di uscire, di chiamarsi completamente fuori dal
processo di valorizzazione. Anche l’elemento di conflitto radicale ha sempre un qualche cosa da
“regalare” alla controparte. Da questo non si viene fuori, non è qui l’elemento che consente di
pensare ad un “rovesciamento” dialettico in termini classici. E’ una specie di gara ininterrotta tra
appropriazione e autonomia: va avanti così, con dinamiche parallele che si intrecciano
continuamente, che, anche attraverso il conflitto, si scambiano dati, informazioni, punti di vista,
chance, possibilità.
Questo per quanto riguarda la dinamica della rete: poi ci sono degli elementi di conflittualità che
“escono”, che sono fuori, ma in generale ai margini di un territorio che è quello cablato,
direttamente interconnesso con i processi di produzione, informazione e valorizzazione. Neanche
questo è più leggibile in termini di residualità: non sono d’accordo con quelli che lo interpretano
in questo senso, perché esisterà sempre e comunque uno scarto, un fuori. Però è uno scarto e un
fuori relativo, nel senso che, da un certo punto di vista, anche chi è fuori è dentro, è comunque
oggetto di manipolazione e di appropriazione. La differenza è quando si parla di
inclusione/esclusione, ad esempio rispetto alle dinamiche di rete: l’esclusione si gioca non tanto
dal punto di vista dell’essere o meno connessi, ma dalla possibilità o meno di ricavare reddito dal
proprio essere connessi. C’è chi, bene o male, riesce a ricavare reddito e c’è invece chi è oggetto
totalmente passivo, nel senso che gli altri si appropriano dei suoi saperi, della sua socialità, dei
suoi linguaggi senza che lui riesca nemmeno ad avere, in cambio di questo, del reddito: mi
sembra che sia su questo confine che si gioca la dinamica esclusione/inclusione.

- Ritorniamo al paradosso dell’apparente potere dei consumatori: nella critica della


possibilità-necessità di riappropriarsi dello sviluppo capitalistico delle forze produttive,
mettevi in risalto come la partecipazione non significhi controllo sociale sul mezzo, dal
momento che i contenuti sono già banalizzati e formalizzati dalla tecnologia del mezzo
stesso.

C’è poco da riappropriarsi. Facciamo un esempio banale e concreto. Noi oggi abbiamo il 90% o
più di computer che sono PC e utilizzano il software della Microsoft; ma poi esistono (lasciando
perdere la Apple, che costituisce una dinamica concorrenziale anche se tendenzialmente
minoritaria e perdente sul medio periodo) le comunità che usano Linux, per esempio: quindi, un
software che è stato implementato e sviluppato collettivamente da parte di una comunità di
persone che resta comunque limitata, perché presuppone delle conoscenze e delle competenze di
tipo piuttosto elevato, e dunque esclude a priori la possibilità che a questa comunità partecipino i
“comuni mortali” dal punto di vista delle conoscenze informatiche. Però anche questa comunità
che cresce, si sviluppa e si rafforza autonomamente ed ha i suoi circuiti, non è che resti fuori,
perché la sua capacità di ricerca e di innovazione viene comunque sfruttata, e non può che essere
altrimenti. C’è un paradosso in tutta la storia dello sviluppo di queste tecnologie del software e
nasce fin dalle origini. Dopo la fase di monopolio dei grandi computer, quando ancora il mercato
era dominato dall’IBM, nel passaggio tra anni ‘60 e ‘70, l’innovazione parte con il movimento
hacker, che aveva questa idea della democratizzazione della tecnologia e quindi della messa in
comune dei saperi, del software, delle conoscenze: “computer to the people”, cioè ridare al
popolo la possibilità di appropriarsi e di utilizzare queste tecnologie. Poi da questa spinta è
venuta la seconda ondata della rivoluzione informatica, è venuta Silicon Valley, è venuta fuori
l’idea che proprio l’apertura e la circolazione comunitaria dei saperi e delle tecnologie

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consentisse un’espansione capitalistica cento, mille volte più rapida ed efficiente della vecchia
logica, che era quella del controllo verticalizzato che aveva l’IBM. Questo porta ad un’ambiguità
radicale ed insolubile da questo punto di vista. Porta alla standardizzazione, ed anche questa è
ambigua, perché la standardizzazione dei linguaggi e delle procedure deve essere sempre tale da
non bruciare completamente i margini dell’innovazione. Allora qui c’è un conflitto, c’è una
contraddizione che è interna alla stessa dinamica capitalistica: non è un caso se ad un certo punto
la Microsoft va sotto tiro e viene condannata o comunque stoppata dalle istituzioni
antimonopolistiche americane, perché, nella misura in cui questa assume una posizione di rendita
industriale, di controllo, di soffocamento dell’innovazione, diventa antagonistica rispetto alla
stessa dinamica dello sviluppo capitalistico; cercano cioè di rompere questa crosta che ferma la
dinamica di innovazione, di sviluppo della rete e via dicendo. Il punto è proprio questo, cioè di
una serie di conflitti e di contraddizioni che non sono più definibili in termini così rigidi e netti
com’era nella fase di conflitto sociale precedente. C’è una pluralità di poli sia all’interno di chi
tenta di governare dall’alto l’innovazione sia all’interno di chi innova dal basso,
conflittualmente. Né gli uni né gli altri sono riconducibili a due fronti compatti, unitari,
contrapposti muro a muro: c’è invece un continuo scambio e una continua interpenetrazione, ci
sono delle strategie, delle convergenze. Questo nel conflitto americano è evidentissimo, nel
senso che ci sono dei passaggi in cui si trovano fianco a fianco, come nella rivolta di Seattle, gli
hacker, i populisti, i democratici, gli anarchici, i radicali con le resistenze, invece, come quelle
dei contadini che votano repubblicano, i sindacati corporativi o le rappresentanze del Terzo
Mondo che lottano contro la globalizzazione da un punto di vista conservatore: quindi, c’è
questo tipo di alleanza. Da un altro lato si può avere questi stessi strati di proletariato, lavoratori
della conoscenza, che si alleano invece con settori capitalistici per combattere contro il
monopolio. Dunque, non è mai così semplice far passare delle linee amico/nemico all’interno di
questo tipo di conflitti: ogni volta è quasi sempre contingente la decisione con chi schierarsi e
contro chi.

- Negli ultimi anni si è sviluppato un grande dibattito intorno all’ipotizzata crisi della politica.
Rispetto a questa analisi sullo sviluppo delle nuove forme capitalistiche e le sue
trasformazioni, secondo te come si configura tendenzialmente lo scenario delle forme di
dominio e dell’ambito politico-istituzionale?

Non credo che si tratti di una fine della politica, ma di una crisi senz’altro. La stessa cosa vale
per lo Stato: esso in realtà più che a sparire tende e tenderà sempre più a ridefinire le sue funzioni
a livello di gestione locale. I territori comunque non vengono né verranno mai abbandonati a loro
stessi, per una serie di motivi molto precisi: se non altro perché deve essere garantita l’efficienza
di infrastrutture di rete locali. Ma al di là di questo, è certo che esiste una possibilità di
frammentazione crescente, in quanto esistono due livelli di territorio: uno fisico ed uno virtuale.
Il territorio virtuale non coincide più faccia a faccia con quello fisico. Controllare una rete
produttiva a livello globale implica l’avere una serie di relazioni con degli Stati, o comunque con
delle forme di dominio politico del territorio a livello locale. Questo implica una serie di conflitti
e di contraddizioni: perché è vero che esistono delle strutture che riescono a trascendere
completamente il controllo politico a livello locale, però non riescono mai a farne completamente
a meno e devono comunque fare i conti con tali forme di dominio. Esistono degli elementi di
imprevedibilità, per fortuna non c’è mai una possibilità di dominio astratto, così assoluto del
territorio. Ci sono delle resistenze. Vediamo ad esempio cosa è successo con il crollo dei paesi
socialisti: vi è certamente stata una penetrazione capitalistica in queste aree, ma c’è stato pure
uno sfascio ed un disastro mostruosi ed anche degli effetti negativi, dal punto di vista del capitale
occidentale, spaventosi per le aspettative di colonizzazione del territorio all’Est. La stessa
fascistizzazione dei territori dell’Est, dei Balcani, è un problema enorme dal punto di vista del

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controllo politico da parte dei centri occidentali della globalizzazione (Stati Uniti, Giappone
ecc.). Dunque, questo è un meccanismo estremamente complicato e delicato, con una serie di
controtendenze all’interno, di difficoltà enormi. Del resto Seattle è fallita non perché c’erano
qualche migliaio di persone che manifestavano, ma perché i conflitti sono spaventosi tra Stati
Uniti ed Europa, tra Stati Uniti e Giappone, tra Giappone ed Europa, tutti contro tutti all’interno
dei grandi centri della globalizzazione, e tra le punte alte e l’Est Europa ed il Sud del mondo.
Quindi, in realtà i processi dall’apparente punto di vista dell’unificazione si semplificano, e si
assiste ad una “omologazione” del mondo; questo è vero ad un certo livello, ma ad un altro
livello succede il contrario, cioè succede che il mondo diventa ancora più complicato,
frammentato e difficile da governare e da gestire. Per cui ci sono certamente alcuni elementi di
governo a livello mondiale, che sono soprattutto il Fondo Monetario Internazionale, il WTO e
via dicendo; però tutto questo funziona fino ad un certo punto per i conflitti interni e perché
esistono in ogni caso delle resistenze dei territori regionali e locali che sono assolutamente
imprevedibili e difficili da governare. Anche in questo caso sono resistenze contraddittorie: a
livello locale si va a pescare idee, culture, progettualità, sapere; nello stesso tempo questi
elementi, nel momento in cui vengono messi in rete e fatti circolare nella rete globale, possono
essere appropriati e valorizzati anche in funzione antagonistica in altre parti del mondo. La
globalizzazione produce anche la globalizzazione dei conflitti, degli antagonismi e la sua rete.

- Secondo te che trasformazioni ci sono state all’interno della classe? E’ ancora possibile
parlare di classe? A che livello?

Di classe si può sempre parlare. Quella che va veramente in crisi è la vecchia idea di
composizione di classe così come è, ad esempio, dentro alla tradizione teorica dell’operaismo
mondiale ma soprattutto italiano. Ovvero l’idea che sia sempre identificabile una composizione
di classe per cui esiste un “nucleo portante”, un nuovo soggetto o comunque un soggetto che
diventa il nucleo intorno a cui si aggrega la spinta antagonista ed il conflitto: un’avanguardia, se
vogliamo chiamarla così. Questo è poi quello che ripropone, ad un altro livello, il problema
dell’organizzazione politica di questa avanguardia. Se andiamo a vedere la logica
dell’Autonomia Operaia ci si accorge che dentro risaltava fuori sempre inopinatamente il
leninismo: dentro il concetto di composizione di classe e di avanguardia sociale era
geneticamente inscritto il concetto di avanguardia politica, di organizzazione in termini
tradizionali. Questo discorso secondo me oggi è impraticabile. Ormai si stanno delineando due
letture abbastanza chiaramente contrapposte all’interno della riflessione della sociologia politica,
chiamiamola così, dentro all’area critica e antagonista: da una parte il paradigma del nuovo
soggetto, dall’altra quella del sincretismo antagonista. Ho recentemente visto un documento fatto
a varie voci, tra cui anche Bifo Berardi, che è di interpretazione di Seattle: viene usato il
neologismo di cognitariato, ovvero i lavoratori della conoscenza nobilitati da questa eco
marxiana. Si sostiene che c’è un’avanguardia, i lavoratori della conoscenza appunto, il suo strato
globalizzato, ed è l’equivalente di quello che era l’operaio-massa nel ciclo di lotte precedente: si
tratterebbe di un’avanguardia sociale in grado di avere il più alto livello di consapevolezza, di
controllo e di comprensione del processo produttivo e delle tecnologie su cui esso si fonda.
Quindi, è il punto avanzato. Questo secondo me è il vecchio vizio della tradizione operaista, cioè
il tentativo di rincorrere costantemente quello che si pensa essere la “punta” più avanzata del
conflitto e della contraddizione, definirla come avanguardia e pensare che l’intera dinamica dei
conflitti possa essere in ultima istanza ricondotta al paradigma, al modello, agli obiettivi, alla
cultura, alle pratiche e ai comportamenti di questa punta più avanzata. Se questo si era in qualche
modo dimostrato fallimentare, per quanto efficace, nel ciclo di lotte degli anni ‘70, oggi lo è in
misura incomparabilmente superiore. In realtà letteralmente non esiste più una composizione di
classe in questo senso. Ci si può forse ancora illudere che esista qualche cosa del genere in

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Europa oggi, ma se noi guardiamo agli Stati Uniti ci accorgiamo di ciò: se prima già c’era questo
discorso della middle class, che aveva un peso enorme all’interno della società americana anche
quando i colletti blu non erano ridotti ad un’infima minoranza come sono adesso, oggi sono tutti
“middle class”. Esiste letteralmente questa enorme pancia della società, come la chiama Marco
Revelli, in cui dentro c’è ovviamente di tutto: c’è il miserabile che sopravvive ai margini della
rete, e c’è chi dentro ad essa riesce a scambiare livelli di reddito e di status molto elevati. Quindi,
esiste una frammentazione enorme. Ma, parlando dei paesi occidentali, è chiaro che su questa
enorme pancia sociale e moltitudine (come la chiama Bonomi) è quasi impossibile applicare il
criterio della composizione di classe, quindi delle avanguardie sociali su cui poi andare a
costruire le avanguardie politiche.
Esiste invece la possibilità di praticare forme di sincretismo antagonista, quindi di capire come è
possibile ricostruire delle reti di solidarietà e di alleanze, anche molto contingenti ed eterogenee,
di volta in volta su obiettivi specifici, per allargare gli ambiti di autonomia rispetto ai processi di
controllo e di valorizzazione. Il quadro è molto chiaro da questo punto di vista: o si crede alla
possibilità di una federazione e di un federalismo degli antagonismi, oppure si ragiona ancora nei
vecchi termini dell’avanguardia di classe. Ma secondo me non ci sono dubbi, i margini di questa
seconda posizione sono ristrettissimi e destinati a risolversi molto in fretta.

- Tu hai criticato il Negri di Marx oltre Marx in quanto recuperava il concetto di lavoro
produttivo attraverso l’identificazione dell’individuo sociale del comunismo, l’operaio
collettivo opposto al capitale sociale. Dall’altra parte, analizzando ricchezze e limiti di
Baudrillard, rilevavi l’incapacità di individuare un soggetto reale della sfida simbolica,
avendo egli come referente soggettivo il volto indifferenziato delle masse e la loro resistenza
e passività.

Negri continua sempre ad individuare il nuovo soggetto, lui e chi per lui, una posizione che
riviene fuori costantemente. Ci si sposta ed a mano a mano risalta fuori questa idea che criticavo
già allora e oggi mi sembra ancora più difficilmente sostenibile. Per quanto riguarda Baudrillard,
da un po’ di anni non è che abbia inventato niente di particolarmente nuovo. Ha rincorso per
decenni con i suoi paradossi la rapidità spaventosa del processo di trasformazione sociale,
economica, politica, antropologica: ma la velocità era tale per cui adesso ha talmente superato i
suoi paradossi da ridurlo al silenzio. Questo potrebbe essere detto tranquillamente anche di
Virilio e di altri critici radicali del capitale dal punto di vista più cosmico che sociologico e
politico.
Il punto è questo: che lo si veda come integrazione totale, come faceva Baudrillard, o lo si veda
come antagonismo totale, come faceva Negri e come tuttora fanno quelli che ragionano in
termini di nuovo soggetto, c’è un elemento paradossale, che poi risale al discorso che facevo
prima di un processo che è nello stesso di sussunzione formale e reale da parte del capitale:
vedendo le cose esclusivamente dal punto di vista delle categorie di lettura marxiste della critica
dell’economia politica, si ha un quadro per cui tutto diventa sussunto. E’ tutto potenzialmente
antagonista, tutto lavoratore della conoscenza, se lo si vede dal punto di vista del conflitto e
dell’antagonismo; dall’altra parte è tutto integrato, macinato, dentro, messo al lavoro. Quindi, dal
punto di vista passivo è messo al lavoro, dal punto di vista attivo è antagonista rispetto al
capitale. Ma questo tipo di immagine che vien fuori non fa altro che confermare l’impossibilità
di interpretare e di leggere la complessità di quello che sta avvenendo esclusivamente con le
vecchie categorie della critica dell’economia politica. Perché se tutto diventa conflittuale o tutto
diventa integrato è evidente che le cose non funzionano più, in quanto non è così: perché i
conflitti continuano ad esserci, perché c’è tutta quell’ambiguità, quella pluralità, quella
sfaccettatura di cui parlavo prima. Quindi, il problema diventa un altro, cioè che l’antagonismo
va sempre più misurato nei termini del suo nascere a diversi livelli: c’è un antagonismo sociale,

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un antagonismo religioso, un antagonismo culturale, un antagonismo antropologico. Ci sono
delle forme di resistenza e di conflitto che chiamano in ballo tutti i livelli dell’essere, non un
unico livello.
Direi che la cosa interessante, per cui vale ancora la pena di utilizzare le categorie della critica
dell’economia politica, con tutti gli aggiornamenti necessari e con tutti i limiti quando si vuole
tenere in piedi certe forme oppositive di cui parlavo precedentemente (lavoro produttivo/lavoro
improduttivo, sussunzione formale/sussunzione reale, lavoro vivo/lavoro morto, ecc.), al di là
dunque di questa dialettica delle vecchie forme, è il suo essere utile per capire la dinamica
interna e la logica di sviluppo capitalistico. Detto questo, secondo me, non servono quasi più a
nulla dal punto di vista della descrizione invece del conflitto politico e sociale perché questo,
stante questo immane contenitore di sussunzione tecnologica che è la rete, esplode in mille
forme, nelle più diverse. Proprio il fatto che esiste una grande cornice di unificazione formale
serve paradossalmente non ad unificare ma a far vedere quanti e quali forme di vita non siano
comunque riconducibili e riducibili dentro a questo quadro, quanto sporgano da tutte le parti e
saltino fuori. Quindi, siamo di fronte a questo paradosso: ci sono delle categorie che servono
moltissimo per capire questa dinamica di sviluppo capitalistico, però non servono praticamente
più a nulla per capire il tipo di conflitti che scatena questa logica, perché partono un po’ in tutte
le direzioni. E lì, nella sua rozzezza di categorie di analisi, diventa quasi più utile il punto di vista
di un Hakim Bey in Millennium che quello di diecimila marxisti molto più sofisticati dal punto di
vista delle categorie analitiche. In lui c’è l’idea di una federazione dei conflitti, con tutti i
problemi e anche le ambiguità radicalissime che questa comporta. Ciò fino a quello che nell’Est
Europa è di un’evidenza clamorosa, laddove ci sono forme di sostanziale alleanza, anche se non
ideologica, tra neo-nazionalismi e neo-integralismi da un lato e neo-comunismi dall’altro contro
il processo di globalizzazione condotto dall’Occidente con la complicità delle mafie locali.
Hakim Bey dice che si possono trovare degli strani compagni di letto: naturalmente questo non
vuol dire allearsi con i nazi balcanici o con i talebani. Però, dentro a questa dinamica di casino,
di tensione, di conflitto, di resistenza, obiettivamente si sfruttano degli elementi di inceppo, di
impossibilità di funzionamento di questo meccanismo, a volte in modo assolutamente
imprevedibile, che prescinde da qualsiasi continuità con un’idea di nuova società o di progresso
inteso secondo la tradizione del marxismo: da questo punto di vista sono assolutamente convinto
che non abbia quasi più nulla da dirci. Di fatto l’idea di società socialista o comunista che c’è
ancora in qualche modo è quella che è stata ereditata da una fase basata sul grande industrialismo
capitalistico: l’idea fondamentale era quella di appropriarsi di queste forze produttive e usarle
socialmente, punto e basta, nessuna idea di critica rispetto ai problemi dell’ambiente che sono
venuti dopo e via dicendo. L’idea fondamentale era che le forme di resistenza, di tradizioni, di
pratiche, di valori, di comportamenti precapitalistiche erano comunque reazionarie, di destra, non
progressiste e quindi da liquidare a priori, anche solo come possibilità di alleanza. Oggi questo
secondo me è completamente ribaltato. Questo non vuol certamente dire che tutto va bene purché
sia contro il capitale, però vuol dire che bisogna comunque fare i conti con degli interlocutori e
con delle forme di resistenza che non nascono dal tuo punto di vista, dalla tua cultura, la quale a
sua volta diventa sempre di più una cultura locale, che non ha una possibilità di interpretare il
mondo, ma è una parte minima.

- Secondo te può ancora avere un senso parlare di soggettività, intesa nel senso dell’insieme
di credenze, bisogni, comportamenti e via dicendo? E di soggettività di classe?

A livello culturale senz’altro. Esiste oggi una rete di culture antagonistiche, esiste tra l’altro un
sincretismo, a tutti i livelli: musicale, delle mode, dei linguaggi. La globalizzazione è anche
questo aspetto qui: per cui c’è l’Esercito Zapatista di cui tutti sanno tutto non soltanto attraverso i
media ma perché ha i siti su Internet che si possono andare a vedere; esiste l’hip-hop che diventa

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un qualche cosa che viene vissuto a livello internazionale, e quindi la cultura dei ghetti
afroamericani che circola dappertutto; esiste la cultura dei movimenti di resistenza nei paesi del
Terzo Mondo che arriva anche qui; esiste Goran Bregovich ed un’idea di Est dopo il crollo del
blocco socialista. Esiste dunque una cultura dell’antagonismo o, meglio, esistono le culture
dell’antagonismo, quindi dei processi di identificazione che hanno alcuni elementi forti comuni
(non molti, pochi: su questo tra l’altro andrebbe probabilmente anche fatto un lavoro per riuscire
a descriverli). Ma a questo punto mi sembra che esista più un’antropologia che una sociologia
dell’antagonismo. Il riferimento non è più dalla composizione di classe alle soggettività, ma dalle
soggettività alle soggettività: è questo interfacciarsi tra soggettività che non sono a loro agio nel
mondo, che non intendono essere puri oggetti di manipolazione da parte del processo di
sussunzione. Da questo punto di vista senz’altro c’è la soggettività, non da quello del passaggio
del far discendere l’antagonismo dalle categorie della composizione di classe.

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INTERVISTA A FERRUCCIO GAMBINO – 10 GIUGNO 2001

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e l’inizio della tua attività
militante?

Sono nato nel 1941 in una famiglia di viticoltori in un paese dell’Alto Monferrato, dove ho vissuto
fino a 11 anni. Alle elementari imparavamo l’italiano come s’impara una lingua straniera. Dal paese
i maschi partivano o per servire nel regio esercito o per emigrare oltreoceano. Erano rari i giovani
del paese che si avventuravano nel triangolo industriale, Genova, Milano e Torino, città che sono
pressoché equidistanti dall’Alto Monferrato. Le giovani se ne andavano soltanto se si sposavano
altrove. Dopo la Seconda guerra mondiale, alcuni dei giovani che avevano in qualche modo
disubbidito alle varie autorità hanno preso il coraggio a due mani e sono andati a Torino e a
Genova, pochissimi a Milano, sfidando le leggi di allora sulla residenza e ubriacandosi di lavoro.
Tra gli undici e i quattordici anni sono vissuto nella periferia torinese, dove ero stato mandato a
studiare. Erano gli anni più democristiani della storia italiana. Nella periferia torinese, ho
cominciato ad ammirare le scritte che c’erano sui muri, tra cui un “W Togliatti” in rosso fiammante.
Non so se sia una leggenda metropolitana, ma anni dopo girava la voce che si trattava di una
vernice tanto indelebile che il regime democristiano aveva dovuto abbattere il muro per eliminare la
scritta. Quando andavamo in passeggiata verso Torino infilando viale Regina Margherita, era più o
meno chiaro a tutti chi era costei; poi arrivavamo in viale Gramsci e di Gramsci nessuno sapeva
niente.
Sono tornato in famiglia a 14 anni, quando ho cominciato il ginnasio come pendolare tra il paese ed
Asti. In quegli anni ho concluso la mia pace separata con il cattolicesimo e mi sono avvicinato alla
sinistra. Al ginnasio era mia insegnante la professoressa Elda Jona, che era stata perseguitata sotto
le leggi razziali del fascismo e che per un soffio era sfuggita alla cattura degli ebrei astigiani nel
1943; i suoi genitori morirono in campo di concentramento. Elda Jona non accennò mai al dramma
vissuto nella sua giovinezza, ma noi studenti ne avevamo avuto sentore e ammiravamo la sua
discrezione e la sua apertura nei nostri confronti. Di sua sorella Enrica, che era stata internata in
campo di concentramento, lessi il diario di prigionia attorno al 1956. Fui così indotto a riflettere
sull’ordine di grandezza della barbarie del ventesimo secolo.
Fondamentale fu in quei cinque anni un gruppo di discussione informale ma intensa. Eravamo pochi
compagni di classe e la figura di spicco era Carlo Valpreda, più giovane di me di un anno, che
sarebbe morto a ventisei anni dopo una lunga malattia, alla vigilia del movimento del ’68. Fin dalla
quarta ginnasio Valpreda mi introdusse alla lettura del giovane Marx, oltre che di Freud, e alla
storia del socialismo. Proprio quando Carlo e io cominciavamo a pensare di aderire alla Federazione
giovanile comunista (FGCI), scoppiò l’Insurrezione ungherese. Anche per Valpreda e per me, come
per tanti altri giovanissimi che si affacciavano al mondo della sinistra, l’invasione dell’Ungheria fu
una cartina di tornasole. Poco dopo scoprimmo che nei campi sovietici le rivolte e le repressioni nei
primi anni Cinquanta non erano menzogne borghesi. Capivamo con sgomento che non avremmo
mai potuto iscriverci al PCI; né al PSI di Asti, nel quale – a nostro giudizio - si annidavano
posizioni forse più stantie di quelle del PCI, dove c’era pure qualche figura di grande talento, in
particolare tra gli attivisti che agivano tra i contadini poveri e i mezzadri. Ma si poteva essere dentro
il movimento operaio senza aderire a partiti di massa? Allora credevamo che soltanto a costo di
liberarci dell’entrismo, come si diceva allora, la sinistra italiana avrebbe potuto tentare di
rinnovarsi. Oggi penso che pagammo a caro prezzo il mancato apprendistato prima dei vent’anni in
un partito di massa. Credo però che in parecchi siamo comunque giunti all’apprendistato, anche se
più tardi. Per contro, se avessimo aderito al PCI o al PSI, penso che ci saremmo rimasti impaniati –
come i tanti che ci sono rimasti impaniati psicologicamente prima ancora che politicamente, anche
dopo che ne sono ufficialmente usciti. Il frutto più tangibile dell’Insurrezione ungherese fu che
dopo il 1956 anche i più arroccati nei partiti di sinistra diventavano disponibili a discutere. Come
pendolare sul treno fra il paese e Asti ne avevo conosciuto alcuni. Vedevo che anche a loro

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interessavano molto di più le trasformazioni impressionanti della società italiana di quegli anni che
gli esiti del XX congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica.
Dalla prima alla terza liceo mi capitò Eraldo Arnaud come professore di filosofia e storia. Arnaud
era stato partigiano di Giustizia e Libertà nel torinese e negli anni del mio liceo traduceva Lukàcs e
Cassirer, autori che noi gli chiedevamo insistentemente di spiegarci. Soprattutto Lukàcs. Era sempre
disponibile e ci amava. Un altro insegnante che esercitava un notevole ascendente su alcuni di noi
era il latinista Armando Fellin, socialista e già partigiano nel cuneese. In una città come Asti, ancora
dominata dai camaleonti postfascisti e da una curia reazionaria, Fellin non esitava a evocare
categorie allora eterodosse quali imperialismo, schiavitù greco-romana e moderna ed egemonia,
magari appoggiandosi come poteva sull’autorità degli antichisti contemporanei più innovativi.
Dopo la fine del liceo non sapevo da che parte voltarmi perché in famiglia non c’erano le risorse
per sostenermi all’università. Prima di partire per Milano ho dato una mano nella fondazione della
cooperativa del paese, tuttora attiva: una cantina sociale che ci difendesse dagli effetti peggiori della
pesante crisi vinicola di quegli anni, com’è poi riuscita a fare. Nell’agosto del 1960, subito dopo la
maturità e soprattutto subito dopo la caduta del governo Tambroni, mi sono trasferito a Milano,
dove ho trovato un impiego in un’azienda di oli minerali. Il commiato dal paese è stato difficile
perché ero legato agli amici che mi avevano incoraggiato a proseguire negli studi. A Milano mi
toccò alloggiare alla Casa dello studente di viale Romagna. La Casa dello studente è stata uno dei
luoghi cruciali della radicalizzazione a Milano all’inizio degli anni Sessanta, anche se pochi oggi lo
rammentano. La Casa dello studente raccoglieva studenti poveri da tutta Italia: rette basse,
coabitazione di due inquilini nell’Existenzminimum di una stanza progettata dall’architettura
razionalista del fascismo per lo studente singolo, regime spartano; per quattro quinti studenti del
Politecnico, per un quinto della Statale. Chi disponeva di un reddito discreto non finiva alla Casa
dello studente o comunque non ci rimaneva a lungo. Poi, tra i circa 600 inquilini ce n’erano una
ventina che dovevano studiare sostentandosi senza l’aiuto della famiglia. Io facevo parte del
novero. Licenziandomi dall’azienda di oli minerali ai primi del 1961, l’obiettivo era quello di
imparare in fretta l’inglese, di campare di traduzioni almeno per qualche tempo e di andare
all’estero appena possibile. Mi ero iscritto a Lingue straniere alla Statale, anche se avrei preferito
iscrivermi a filosofia. D’estate, appena possibile andavo in Inghilterra: di giorno cameriere a
Londra, dalle parti di Clerkenwell Road, dove prevaleva ancora una condizione operaia semi-
ottocentesca, di sera in qualche scuola a imparare l’inglese più in fretta possibile. Nell’autunno del
1963 visitai il Nord della Francia, dall’ottobre del 1964 al marzo del 1965 sono vissuto a
Edimburgo. Nel ritorno, ho girato per la Mitteleuropea.
Negli anni del ginnasio e del liceo avevo cominciato a leggere qualche testo di marxismo ed ero
giunto a Marx grazie all’aiuto di Carlo Valpreda. Finalmente alla Casa dello studente trovavo
compagni con cui discutere; e addirittura organizzarci, contro la miseria della vita che eravamo
costretti ad affrontare vendendoci a ore per una varietà di lavori precari. Il clima è cominciato a
cambiare dopo lo sciopero dei metalmeccanici milanesi del 1962. Alla Casa dello studente abbiamo
per esempio organizzato uno sciopero della mensa - credo che fosse nel 1963. Per sei mesi circa
siamo andati avanti a mangiare “all’asciutto”, come si diceva allora, ossia panini. Nei primi giorni i
picchetti furono piuttosto duri. C’era l’eterna Lombardia bianca degli studenti pendolari che
volevano entrare in mensa a tutti i costi, anche se alla sera ritrovavano a casa la mamma e il pasto
caldo. Il Politecnico e l’Università statale pretendevano di non avere soldi per migliorare la mensa:
in una Milano da primo boom economico, era insostenibile la posizione dei due rettorati, che alle
prime battute dello sciopero si rifiutavano di provvedere al miglioramento della mensa. Nella
trattativa con le autorità accademiche il tiramolla era defatigante; anche se la Casa dello studente
sfornava ingegneri e laureati della Statale a getto continuo e a costi irrisori. Fu in quell’occasione
che mi resi conto dal vivo che è meglio non prendere mai l’avversario sottogamba. Dopo circa sei
mesi i due rettorati passarono a più miti consigli, ma intanto qualcuno di noi si era rovinato lo
stomaco. Durante lo sciopero scrissi i primi volantini. In séguito scrissi anche un memorandum
ciclostilato sulla condizione studentesca.

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Nel 1963 il mio amico Carlo Valpreda mi aveva segnalato da Torino l’uscita del primo numero dei
Quaderni Rossi, poi nel 1964 la scissione di coloro che si erano staccati per pubblicare un mensile,
Classe Operaia, e per sviluppare un intervento politico nelle fabbriche. Dopo qualche tempo sono
andato a cercarli a Milano. Ho portato Sergio Bologna, che era un esponente di Classe Operaia, alla
Casa dello studente. Mi pare che fosse nel 1965 o ai primi del 1966. Poi Sergio mi ha introdotto
qualche altro compagno nel milanese, tra cui Mauro Gobbini. Mentre io poi stavo per laurearmi,
adesso mantenendomi con traduzioni dall’inglese, si era prospettata la possibilità di andare negli
Stati Uniti con una borsa di studio. Ho accettato e sono arrivato a New York nel settembre del 1966.
I primi due mesi sono stati assolutamente bui: ricordo che nell’autunno del 1966, in un corteo
contro la guerra del Vietnam, qualche giovane che aveva cercato di issare la bandiera del Fronte di
liberazione nazionale dei Vietcong era stato riempito di botte – non dai poliziotti, ma dai
contromanifestanti patriottici. Nel novembre o dicembre del 1966 venni a sapere casualmente che il
libertario newyorkese Murrray Bookchin teneva seminari di ecologia nel suo appartamento nella
Lower East Side di Manhattan. Li frequentai e il suo ecologismo mi aprì nuovi orizzonti. Bookchin
era passato attraverso l’esperienza del Sindacato dell’auto (UAW) alla fine degli anni Quaranta, ma
aveva capito per tempo che i margini concessi alla politica sindacale della segreteria di Walter
Reuther erano sempre più ristretti. Bookchin se n’era andato sbattendo la porta e aveva ricominciato
a studiare l’industrialismo e i suoi danni, organizzando con altri libertari, fin dagli anni Cinquanta,
le prime manifestazioni newyorkesi contro il nucleare. Con Bookchin pressoché impossibile
lavorare in quegli anni. La sua traversata della cultura occidentale dal punto di vista ecologista
voleva essere assolutamente solitaria. Va detto che in séguito Bookchin ha dato prova di maggiore
apertura.
Uno dei pochissimi gruppi marxisti di cui Bookchin avesse rispetto era quello dei cosiddetti
operaisti di Detroit. Chiamiamoli così, tanto è capitato a noi in Italia come a loro negli Stati Uniti
di non poter più scrollarsi di dosso questo appellativo. Compagne e compagni di Detroit , alcuni dei
quali avevano visitato l’Europa nel 1964, mi invitarono a Detroit. Verso la fine di dicembre ero con
Seymour Faber, Martin Glaberman, Jessie Glaberman, William Gorman, Dianne Luthmer, George
Rawick, e altri, tutti del gruppo di Facing Reality che aveva già una lunga storia alle spalle e che
faceva capo a C.L.R. James, lo storico e uomo politico antillano. Li ho conosciuti in un periodo di
intensa elaborazione: George Rawick lavorava al suo libro su Lo schiavo americano, mentre Marty
Glaberman aveva appena pubblicato un opuscolo sulla condizione operaia che avrebbe lasciato una
forte impronta su parecchi giovani operai dell’auto, anche e soprattutto africano-americani, grazie
soprattutto alla sua analisi spassionata e tagliente della struttura sindacale. Intanto Jessie Glaberman
mi istruiva sul femminismo marxista e mi metteva alla prova con grandi pile di piatti da lavare dopo
le riunioni del gruppo.
Nei mesi successivi George Rawick ha continuato a seguirmi, a procurarmi materiale, e nell’aprile
del 1967 è venuto a New York ed è stato ospite da me per una quindicina di giorni, una specie di
seminario continuo di rara intensità sulla storia e la politica statunitense. In sostanza, George mi
toglieva dalla testa molte di quelle idee ricevute a cui la Guerra fredda aveva abituato me come
molti giovani europei; egli veniva mostrandomi con infinita pazienza che gli Stati Uniti erano allora
un paese molto più aperto al cambiamento di quello che si pensasse in Europa in quegli anni. La
prova del nove di tale fluidità della società statunitense degli anni Sessanta venne poi nel giugno del
1967: la dimostrazione a New York contro la guerra del Vietnam di mezzo milione di persone,
quando Martin Luther King trovò il coraggio di condannare la guerra del Vietnam a nome del
Movimento per i diritti civili e quando comparvero a centinaia le bandiere dei Vietcong. Nell’arco
di sette mesi la metamorfosi era evidente, come aveva sostenuto George Rawick quando avvertiva:
“Ricordatevi che negli Stati Uniti John Brown viene giustiziato e con lui il movimento
antischiavista nel 1857; quattro anni dopo l’intero Nord marcia contro gli schiavisti cantando l’inno
dell’impiccato”. Nel 1967-68 il mutamento del clima politico è stato talmente repentino, talmente
radicale tra i giovani, talmente diffuso, almeno nelle grandi città, che a quel punto mi sono detto:

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chiudo con quel poco di letterario che ho fatto nella mia vita e, qualunque cosa mi succeda, passo ad
altro. In questo senso mi considero un figlio del movimento statunitense.
Poi sono venuti subito i contraccolpi. Poco prima di partire per il giro in autobus degli Stati Uniti
nell’agosto del 1967, ricevo una lettera da Sergio Bologna che mi annuncia la chiusura di Classe
Operaia. L’esperienza di Classe Operaia era finita e ognuno galleggiava come poteva. In tale
situazione l’unico gruppo che continuava a sviluppare un intervento politico di fabbrica era la
sezione veneto-emiliana di Classe Operaia. Compio il giro degli Stati Uniti, 40 giorni di autobus e
di incontri, rendendomi conto, oltre che della simpatia umana e della bellezza fisica del paese, delle
dimensioni continentali in cui è costretta ad operare la sinistra statunitense: superando le barriere
del razzismo, collegare il “livello di classe”, come si diceva allora, di Kiev con “il livello di classe”
di Lisbona. Provare per credere. Solo per qualche anno c’erano riusciti a metà Ottocento gli
schiavi che scappavano al Nord e all’inizio del Novecento gli Industrial Workers of the World.
Faccio tempo ad arrivare a Detroit, subito dopo che la Rivolta di massa del luglio del 1967 ha
lasciato semidistrutti interi quartieri. Come nei momenti cruciali della lotta di classe statunitense, a
cominciare dallo sciopero dei ferrovieri del 1891, Washington aveva gettato il peso dell’esercito
federale nella Rivolta, ordinando l’intervento dei paracadutisti della 182a divisione aerotrasportata.
La Rivolta, partita dall’ala più radicale del movimento nero, aveva spaventato a morte tutto
l’establishment perché aveva poi coinvolto anche migliaia di bianchi. C’era di che atterrire la
struttura del potere.
Quando sono poi tornato in Italia, a Milano, nel settembre del ’67, avendo rinunciato a qualsiasi
prospettiva di carriera nell’ambito in cui mi ero laureato, e anzi avendo proprio rifiutato le proposte
che mi venivano rivolte e che erano piuttosto vantaggiose, tant’è che gli amici della Casa dello
studente che avevo ritrovato mi dicevano che ero matto, mi sono trovato sostanzialmente a ripartire
da zero. Quindi, grosso modo, da settembre a dicembre ho vissuto nel vuoto. Mi aiutava con
generosità Giairo Daghini, il quale mi procurava qualche recensione per una sua trasmissione
culturale alla radio della Svizzera italiana: collaborazioni coordinate non continuative, si direbbe
adesso. Poi, credo a novembre, Sergio Bologna mi consigliò di concorrere per una borsa di studio a
Padova, dove l’anno precedente Toni Negri era diventato direttore dell’Istituto di Scienze politiche.
Non ricordo se avevo già visto una volta Toni e Massimo Cacciari a Milano, per un incontro con
compagni comaschi del tessile, o se ci siamo incontrati a Padova per la prima volta.
Con la borsa di studio, sono diventato pendolare settimanale tra Milano e Padova per un triennio.
Sono stati tre anni intensi, una addestramento alle scienze sociali che in parte avevo già cominciato
negli Stati Uniti. Da tenere presente poi che a cavallo del ‘68 abbiamo organizzato un seminario a
Padova a cui ha partecipato anche George Rawick; gli atti di quel seminario sono compresi nel
volume Operai e stato, pubblicato dalla Feltrinelli nella nota collana di Materiali Marxisti, poi
bruciata dopo gli arresti del 7 aprile del 1979. Questo seminario è stato importante per molti aspetti,
soprattutto perché per la prima volta c’era la disponibilità di uno studioso statunitense che
considerava i nodi cruciali degli anni ’20 e ’30 fuori dagli schemi della Guerra fredda.
L’affermazione più importante di Rawick a quel seminario, quella che colpì soprattutto noi giovani,
fu: “Non sono stati negli anni ’30 i sindacati ad organizzare i sit-in, le occupazioni e gli scioperi, ma
sono stati i sit-in, le occupazioni e gli scioperi ad organizzare il sindacato”. Luxemburghismo,
diceva qualcuno già allora per minimizzare. Per noi invece è stata veramente tanto ossigeno nel
momento di maggior bisogno. Nessuno fino a quel momento aveva riportato uno snodo cruciale
della storia sociale del Novecento come quella delle lotte operaie degli anni Trenta a un movimento
dal basso di dimensioni continentali. Negli anni ’60 a Milano si poteva fare il giro di tutto quello
che era politicamente a sinistra e non riuscivi a cavare un ragno dal buco: più o meno tutti quanti,
anche quelli che apparentemente erano più lontani dalle posizioni del PCI o comunque dal
patriottismo di partito, alla fine ci ricascavano e dicevano che senza il Partito si facevano solo buchi
nell’acqua.
Nei primi mesi del '67, ormai come Potere Operaio veneto-emiliano ci siamo rimboccati le maniche
e abbiamo provato intanto a consolidare il funzionamento dei quadri già operanti a Modena, a

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Bologna e soprattutto a Padova e a Porto Marghera: poche decine di persone, ma ormai assai
affiatate, per merito soprattutto dei compagni padovani. E poi, soprattutto, abbiamo cominciato a
cercare adesioni all’intervento di fabbrica anche a Milano. Si sentiva che nell’università e anche
fuori qualcosa di nuovo doveva accadere.
Posso forse dire che il mio apprendistato politico si compie alla vigilia degli anni Settanta. La mia
vita è la vita del movimento, una spola tra Milano e Padova, salvo qualche viaggio in Inghilterra.
A Milano comincia a formarsi un gruppo di gente che in qualche modo si richiama a Potere Operaio
veneto-emiliano: Sergio Bologna è senz’altro la figura più autorevole in questo ambito. Quello che
si apre allora è un periodo in cui tutto lo sforzo dei pochi a Milano sta nel riuscire a saldare il
movimento studentesco e quello che succede nelle fabbriche, un lavoro difficile agli inizi perché
l’intervento di fabbrica cozza contro l’opposizione di gran parte del movimento studentesco. C’è
poi una parte del movimento studentesco che è legata in qualche modo ad un intervento di fabbrica,
ma in funzione subalterna rispetto al sindacato. In sostanza, la presa del sindacato su questo
rapporto università-fabbriche è molto forte.
Quindi si tratta di rompere. La riunione dove si agita per la prima volta la parola d’ordine della
creazione dei comitati di base avviene in una trattoria di Sesto San Giovanni, a cui partecipo con un
paio di simpatizzanti di Potere Operaio veneto-emiliano. Lì s’intravede la fisionomia del
movimento di fabbrica degli anni seguenti: ci sono un po’ di operai e di operaie (ma dopo un paio
di ore le operaie tornano ai lavori a casa), siamo tre operaisti, arriva Romani, marxista leninista di
Terni , sono presenti pochi studenti senza appartenenze. Poiché allora nel cielo della politica si
parlava ancora di possibilità di unificare PCI e PSI, Romani, che è un notevole oratore e ha il radar
degli umori prevalenti nella riunione, a un certo punto taglia corto: “Ma allora facciamola questa
unità, ma facciamola su di una piattaforma politica di unità operaia. Le altre unità le lasciamo ai
partiti perché sono delle panzane” . Ecco, la reazione immediata è assai positiva e ottiene una certa
risonanza ben oltre Sesto San Giovanni. Quello è, a quanto ricordo, il primo tentativo di mettere in
piedi un comitato di base in Italia. Naturalmente siamo stati immediatamente cacciati dal
proprietario della trattoria, il quale aveva ovviamente paura di noie poliziesche. C’erano anche
queste scene comiche. Talvolta sembrava di vivere in una fotografia in sovrimpressione, su sfondi
assurdi per noi militanti, quanto erano assurdi i primi piani nostri per gli estranei, poiché, tra l’altro,
nel milanese come altrove la mancanza di spazi era la norma, almeno fino all’occupazione
dell’Albergo Commercio di Piazza Fontana nell’estate del 1968.
Nell’estate del ’68 si profila una tensione forte a Marghera. Dopo lo sciopero e la marcia del 1°
agosto a Marghera, cerchiamo di diffondere almeno in Italia il significato di quello che era
successo, e quindi da Crotone fino alla Pirelli e al Piemonte, Potere Operaio veneto-emiliano
distribuisce in migliaia di copie l’opuscolo Porto Marghera alle avanguardie per l’organizzazione.
In sostanza, l’incantesimo comincia a rompersi nella seconda metà del ’68, anche sull’onda degli
avvenimenti francesi, e c’è un rispuntare di iniziative talvolta confuse che prendono il nome di
Potere Operaio, e non più soltanto di Potere Operaio veneto-emiliano, anche in sedi apparentemente
lontane e tradizionalmente scollegate. Da notare che nello sciopero alla Magneti Marelli, nel
maggio del ’68, si era formato un comitato, poi quasi completamente assorbito dal sindacato.
Tuttavia qualcuno dei leader dello sciopero era poi venuto al Convegno operai-studenti di Marghera
che è dell’8-9 giugno dello stesso anno. Qui c’erano da un lato alcuni militanti che stavano uscendo
dal PCI: in particolare, Rossana Rossanda; poi Massimo Cacciari, che ormai era sempre più
orientato in qualche modo a rientrare, c’erano Mario Tronti e Alberto Asor Rosa; forse alla
Fondazione Feltrinelli sono rimaste le trascrizioni di quegli interventi, di cui si era occupato il
compianto Gian Piero Brega, allora direttore editoriale della casa editrice, il quale ci teneva
addirittura a ricavarne una pubblicazione. Poi non se ne fece nulla. A Venezia il disorientamento sul
da farsi rimaneva ancora molto forte nella mattinata del 9, soprattutto in mezzo ai giovani, e
davvero sembrava che non potesse uscire una qualche parola d’ordine per i mesi successivi. Nel
pomeriggio la situazione si capovolse, quando Guido Bianchini prese la parola. Era un intervento
che avevamo concordato come Potere Operaio veneto-emiliano, ed era un intervento che derivava

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da decine di contatti che Guido, Licia De Marco e i compagni ferraresi avevano intrecciato ormai
sia a Ferrara sia poi anche a Modena e da altre parti. Situazioni apparentemente slegate: la Berco di
Copparo, ad esempio, era una fabbrica dove gli operai non avevano il coraggio né la forza politica
di parlare; prendevano i volantini, tacevano e dopo, però, con bigliettini o con telefonate anonime
facevano sapere ai compagni del Potere Operaio veneto-emiliano: “Avete assolutamente ragione nei
vostri volantini, ma non possiamo venire fuori, perché se veniamo fuori ci stangano”. Si trattava
ormai di volantini orientati ad aumenti salariali uguali per tutti. E quando Guido Bianchini nel
pomeriggio di quella domenica del 9 giugno sostenne con tutto il fiato che aveva in gola “Aumenti
uguali per tutti fino a 120 mila lire al mese”, fu come se fosse scoppiato un vulcano. Risultavano
spiazzati i precedenti oratori. Quindi, sia l’ala che poi sarebbe diventata il Manifesto sia, ancor più,
coloro che sarebbero rientrati nel PCI guardavano alla proposta di Bianchini come alla parola
d’ordine di un marziano.
Qualche mese dopo “120.000 lire al mese” è sulla bocca degli operai di tutta Italia. Ma dietro
appunto questa parola d’ordine si era svolto un lavoro costante di almeno quattro o cinque anni:
agitazione , propaganda, impegno, costruzione di contatti anche nei posti più sperduti.

Quindi l’incantesimo della separazione dell’università dal mondo del lavoro comincia a rompersi
nella seconda metà del ’68. Lo sciopero di Marghera del luglio-agosto segna il momento
fondamentale in questa rottura. Da questa fase di agitazione e propaganda si passa ad una fase di
vera e propria enucleazione dei primi gruppi. I ritmi di lavoro sono abbastanza sincopati e quindi
c’è anche chi proprio fisicamente non ce la fa. Nell’interrogatorio che è pubblicato nel suo libro Dal
fordismo alla globalizzazione. Cristalli di tempo politico, edito da Manifestolibri, Luciano Ferrari
Bravo lo dice ai giudici: “Bisognava anche alzarsi alle 4 della mattina, e poi alle 5 del pomeriggio,
dopo aver lavorato tutta la giornata, c’era la riunione: il lavoro politico noi lo facevamo così”.
L’intensità del lavoro politico opera una selezione, dettata anche dalle circostanze, perché il quadro
politico è in forte mutamento. All’inizio del 1969 è diffusa ormai la sensazione che anche le
corazzate comincino a muoversi: Milano, e soprattutto Torino.
A Milano di piccoli gruppi e conventicole ne erano già sorti alcuni: c’era un po’ di Quarta
Internazionale, c’erano gli operaisti come me, di cui si diceva “sono quelli di Classe Operaia”,
c’erano quelli di Lotta Comunista, e c’erano soprattutto i marxisti-leninisti delle due linee, la linea
rossa e la linea nera. Allora, uno dei tentativi più maldestri che io abbia combinato nella mia vita è
stato quello di passare una notte con due o tre marxisti-leninisti per convincerli che le lotte avevano
un certo peso (è ovvio che con loro bisognava stare attenti e misurare le parole), e che comunque
non era forse il caso di seguire nel loro giornale, Nuova Unità, soltanto la lotta degli infermieri
dell’ospedale di Livorno, che, se ben ricordo, campeggiava nella prima pagina! Naturalmente io ero
un pivello, sicché non avevo ancora capito che con loro il saggio di ricavo era nullo. In séguito non
ho più cercato marxisti-leninisti di nessuna gradazione. Tuttavia va ricordato che ci sono stati anche
questi tentativi, nei quali non ero affatto solo: era un andare anche nelle situazioni più cementate e
cercare in qualche modo di smuoverle, di sbloccarle. Qualche volta avveniva il portento, ma
raramente. Altrettanto vale per la Casa dello studente, dove avevo ancora molti amici, parecchia
gente che conoscevo, e abbiamo fatto riunioni su riunioni. Non c’erano soltanto le università
milanesi e le scuole, ma era tutto quanto un reticolo di situazioni – in particolare giovanili – in uno
stato di grande fluidità.
Lo sforzo di Potere Operaio veneto-emiliano di giungere anche altrove comincia a dare risultati
anche grazie al fatto che Sergio Bologna continua ad andare a Trento dove è assistente di Umberto
Segre e dove conosce un gruppetto di studenti di Sociologia tra quelli che erano chiamati i
fuorisede. Conosciamo così Mario Dalmaviva, che viene a una riunione a Milano alla Statale e
illustra la situazione torinese. E poi naturalmente rivediamo Mario, finché (forse a febbraio del
1969) Toni ed io andiamo a Torino: Dalmaviva vive in una soffitta, dove il giaciglio è duro, ma va
bene lo stesso perché la previsione è facile e favorevole all’intervento: il pentolone torinese inizia a

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bollire, e occorre prendere le misure di un possibile aiuto da parte di militanti che arrivino a Torino
in quella fase.
Ho passato larga parte del mese di aprile e quasi tutto il mese di maggio a Torino, ed il primo
volantino intitolato La Lotta Continua l’abbiamo steso Mario Dalmaviva ed io a casa sua. Dopo un
panino “al cardiopalmo”, come diceva Dalmaviva, siamo andati immediatamente a ciclostilarlo e a
distribuirlo. Poi, con un ordine che equivaleva ad un ordine di partito (le vecchie abitudini sono
dure a morire), sono stato richiamato bruscamente a Milano dai massimi consessi dirigenti
dell’operaismo italiano (se già c’erano), perché si diceva: “A Torino adesso di gente che vuole
andarci ce n’è finché vogliamo, ed invece è a Milano che bisogna riuscire a mettere in piedi un
gruppo di militanti”. A Milano io sono quindi tornato nel giugno del ’69, un po’ a malincuore.
Disponiamo di una sede, in via Gustavo Modena. Da via Modena poi saremmo stati cacciati dopo
qualche mese, credo anche grazie al vivo interessamento delle polizie. In sostanza, comincia a
formarsi un gruppo di Potere Operaio e in via Gustavo Modena arriva sempre più gente. Le sedi dei
partiti si svuotano, mentre tutte le volte che si apre una sede di gruppi extraparlamentari (non solo di
Potere Operaio), purché questi godano di un po’ credibilità, le sale si riempiono. Le riunioni sono
sovraffollate. Sale una richiesta di coordinamento politico che risulta enorme per le forze dei singoli
gruppi e che in generale i partiti e i sindacati temono come il fumo negli occhi. Altrettanto osservo
anche nel Veneto e in Emilia. Questa richiesta politica radicale è molto diffusa e non era limitata
alle grandi città, ma cominciava a estendersi anche ai centri medi e piccoli. A Milano si mette in
piedi un coordinamento di Potere Operaio. Dall’inizio della primavera del ’69 circola un
settimanale romano che è La Classe: Operai e studenti uniti nella lotta, diretto da Oreste Scalzone.
Ci scrivo una parte del numero che nel maggio annuncia la prima lotta di quell’anno alla Fiat.
Arrivati per accordo dei due maggiori gruppi – Potere Operaio e Lotta Continua – al convegno
operaio di luglio a Torino, sùbito a ridosso degli scontri di corso Traiano, la distanza tra i due
gruppi risulta incolmabile.
Essendo io impegnato a Milano in quel periodo, non tocca a me ricostruire le fasi preparatorie a
corso Traiano. Auspico che qualcuno offra almeno una panoramica sia delle forze presenti sia di
coloro che si tengono a distanza di sicurezza durante gli scontri. Per carità non è la prima volta che
avviene il di stanziamento nella storia del movimento operaio in Italia. Basta leggere Stefano Merli
a proposito di certi pavidi socialisti nel 1898, quando Bava Beccarsi prendeva a cannonate gli
operai milanesi. A corso Traiano il fatto nuovo della politica italiana di quel momento è che
carabinieri e polizia credono di trovare 500 studenti e, mentre una parte di quel movimento è a
discutere in assemblea all’università, dietro ai 500 “studenti “ ci sono migliaia di operai che dei
ritmi massacranti di lavoro, del salario e delle prospettive di una città carica di odio non ne possono
più. E il giorno successivo al pomeriggio e alla notte di scontri, guarda caso, il Partito socialista si
spacca un’altra volta.

- Qual è stata, secondo te, la differenza tra corso Traiano e il 1° agosto del ’68 a Mestre?

Premetto che io non ero presente il 1° agosto del ’68 a Mestre, ma credo che la differenza sia
questa: il 1° agosto del ’68 a Mestre c’è ancora una certa ambivalenza sia all’interno del mondo
imprenditoriale italiano sia anche negli organi di polizia. Mi è sempre rimasto impresso nella
memoria l’episodio, raccontatomi dopo, di un operaio di Marghera che, durante il blocco della
stazione di Mestre, mostra una foto e dice ai poliziotti: “Questi sono i miei figli, e io dovrei tirarli su
con 70.000 lire al mese”. Credo che abbia giocato la diffusa ripugnanza della polizia di marciare
contro i manifestanti con i reparti speciali. L’essenziale è che nel luglio-agosto del ‘68 forse
l’imprenditorialità privata italiana avvertiva la sensazione di una possibile mediazione, pur di
fiaccare un’organizzazione operaia alternativa. Fino a quel momento l’Italia doveva essere un paese
come la Corea del Sud nello scacchiere internazionale della Guerra fredda: gente che cominciava a
stare un po’ meglio ma che doveva rimanere politicamente zitta. Per gli imprenditori e per i governi
il risveglio risultava brusco: non solo gli studenti, ma neppure gli operai stanno più zitti. A Mestre il

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1° agosto del 1968 il processo di trasformazione è ai suoi inizi. Quando si giunge a corso Traiano,
nel luglio del 1969, il processo è andato molto avanti. Si tratta allora di battere un nascente ceto
politico operaio. L’editoriale di Le Monde del giorno successivo prende atto del sorgere di una
variabile politica nuova – e non soltanto in Italia.
Il passaggio da La Classe al giornale Potere Operaio, che nasce ai primi di settembre del ’69,
registra la spaccatura già avvenuta tra i due gruppi: Lotta Continua e Potere Operaio. Forse la
spaccatura veniva da lontano, dalle sedimentazioni della società italiana nella lunga durata.
Certamente essa ha pesato negli anni seguenti, soprattutto direi nel ’71. Potere Operaio come
organo non tanto di un gruppo ma di un movimento ha svolto la parte più ingrata ma indispensabile
mettendo al centro dell’arena politica l’inferno della produzione soprattutto dalla metà del ’68 al
’71.
Occorre prendere come discrimine la strage organizzata dall’estrema destra e dai servizi segreti a
piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969). Fino a quel momento si poteva credere all’ingrosso
che in Italia vigesse il rispetto delle regole del gioco da parte dello stato; dopo il 12 dicembre
diventa tremendamente difficile non soltanto crederci, mantenere i nervi saldi. In sostanza, la
sensazione a sinistra è che – a essere benevoli – le leve decisive dello stato latitano invece di offrire
una qualche garanzia di dibattito duro sì ma aperto. Cominciano ad avere almeno qualche freccia al
loro arco quanti affermano che padroni di un tavolo di gioco sono gli stragisti e i loro complici,
mentre tutti gli altri - compresi operai e studenti - si sono attardati al tavolo del dibattito. Le
difficoltà del 1970 sono anche in parte queste: a lungo c’è ancora incredulità, anche all’interno di
Potere Operaio, sul coinvolgimento dei vertici dello stato in uno stragismo come quello di piazza
Fontana. Però, a mano a mano che passano i mesi il coinvolgimento diventa sempre più chiaro,
finché poi arriva il libro di Marco Ligini, La strage di Stato, che, salvo errore, esce all’inizio
dell’estate del ’70, libro che apre gli occhi anche agli increduli. Ed è allora che Potere Operaio
milanese produce uno sforzo aperto e vigile perché i militanti sbandati e indignati non perdano la
testa e non si abbandonino a qualche gesto di vendetta. A questo proposito la malafede di alcuni
organi di repressione si è rivelata appieno. Essi sapevano lo sforzo pubblico di Potere Operaio per
impedire dei colpi di testa. Forse a Potere Operaio non hanno mai perdonato la sua presa di
posizione non soltanto contro la strage di stato ma anche contro il muro di gomma che ne è seguìto.

- Cicli di lotta e loro specificità, risposta dello Stato, risposta del capitale: al di là dello
specifico di questo momento, proviamo a fare una riflessione teorica che serva al punto di vista
di classe su come si sviluppano i cicli di lotta, e sull’incidenza che hanno nella rottura di quelli
che sono gli equilibri e il modo di essere dello Stato, e dall’altra parte di quella che è la
dimensione capitalistica, intesa come processo di accumulazione, anche come capacità di
riutilizzare le lotte e quanto portano sul medio periodo, per ri-impostare proprio un discorso di
capacità di uscire dalla crisi che le lotte danno e di muoversi sul terreno invece del ri-inglobare
le spinte alla trasformazione e mutarle in spinte all’innovazione. Questo è un nodo che
nell’attualità non abbiamo davanti perché non ci sono le lotte, però è in realtà uno degli
elementi di riflessione su quella che è stata l’esperienza degli anni ’60 e ’70: tu come lo
analizzi?

Scusate il riferimento, ma c’è una lettera di Marx del 1858 che mi è tornata in mente negli ultimi
tempi. Marx scrive: “ Per noi la questione difficile è questa: la rivoluzione sul continente [europeo]
è imminente e sarà di carattere senz’altro socialista; non sarà necessariamente schiacciata in questo
angolino della terra poiché su di un terreno ben più vasto lo sviluppo della società borghese è
ancora in ascesa?”. Una delle rare esperienze che si sono piegate al rimando sine die del processo
rivoluzionario è l’esperienza degli schiavi vittoriosi ad Haiti tra la fine del Settecento e i primi anni
dell’Ottocento. Hanno pagato carissima la vittoria sugli schiavisti e sui capitalisti, da Napoleone a
Thomas Jefferson ai fabbricanti inglesi. La vendetta era nell’ordine dell’oggettività: gli haitiani
sono rimasti tagliati fuori dal mondo per circa duecento anni. Dopo di loro, nell’Ottocento ci hanno

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provato i comunardi, nel Novecento quei socialdemocratici di una specie particolare che erano i
socialisti russi, i quali si sono davvero illusi di essere riusciti a battere definitivamente il capitale là
dove gli altri erano stati sconfitti. Illusione dura a morire. E in effetti dietro la prova di forza del ’17
è sbagliato il ragionamento di chi afferma che non possiamo aspettare l’evoluzione del capitalismo
per diventare comunisti? Non la pongo come domanda retorica, anche se mi rendo conto che nel
frattempo le leggi dell’accumulazione mandano nei loro laminatoi intere generazioni di giovani. Chi
poi trascura o comunque minimizza i laminatoi porta responsabilità politiche pesanti, anche in
questo paese. In breve, è assai probabile che se i comunisti attenderanno la maturità del capitalismo
e la pienezza dei tempi, si ritroveranno in scenari di distruzione e di autodistruzione. Finora il
capitale è riuscito a mantenere la divaricazione malefica: da un lato, le istanze di emancipazione del
lavoro, e dall’altro delle istanze di emancipazione dal lavoro che per intenderci chiamiamo
ecologiche. Ma fino a quando? Se la forbice si riduce, se il lavoro vivo opera convergenze parziali
ma significative, non canteremo la vittoria del comunismo – nessuna illusione – ma potremo tirare
un respiro, puntare sulla sopravvivenza, ricominciare con premesse che liquidino i terribili danni dei
capitalismi delle nazioni e dei blocchi di nazioni. A quale prezzo? Forse un rallentamento
dell’accumulazione, forse altre alternative meno deprimenti. Le tre esperienze menzionate sono
limitate e inoltre ammetto una grave omissione perché non conosco abbastanza il socialismo e il
comunismo sudafricano e asiatico con il loro immenso bagaglio di riuscite - ma anche di sconfitte.
Quanto all’Asia, non mi riferisco soltanto alla Cina e al Vietnam, ma anche all’India e agli altri
paesi nei quali il movimento operaio, i movimenti femministi, i movimenti antimilitaristi hanno
superato prove severe.
Infine, tornando all’Italia della fine degli anni Sessanta, quando si giunge a un ciclo di lotte di
quell’intensità, senza un lungo periodo di preparazione (e in Italia tale ciclo non era stato preceduto
da un lungo periodo di vera preparazione), si sconta il fatto che il movimento può dare tutto quello
che è stato messo in campo nel quinquennio precedente, purtroppo senza disporre di un retroterra di
20-30 anni.

- Quali sono stati, secondo te, i limiti e le ricchezze dell’esperienza di Potere Operaio?

Intanto parliamo dei punti di forza, che credo siano importanti. Uno dei punti di forza è stata la
combinazione di individualità e anche microgruppi, se così possiamo chiamarli, apparentemente
disomogenei tra di loro, ma che poi in generale si sono combinati bene, salvo qualche stridore qua e
là. Si sono combinati bene perché c’era, da un lato, una componente che aveva compiuto percorsi
apparentemente ai margini della politica, in realtà molto intensi: ai margini della politica ufficiale.
Anch’io conto per uno tra i tanti in questa componente. D’altro canto c’era una parte, meno
numerosa ma significativa, che aveva comunque attinto anche all’esperienza dei partiti politici o
addirittura del sindacato, ma che vi era entrata con un bagaglio critico: il bagaglio critico che per
esempio Alberto Magnaghi si portava appresso nel momento di entrare nel PCI era tale da indurlo a
guardare a quel partito con disincanto. Poi c’era comunque una parte femminile che ha sicuramente
innovato il fare politica, in parte dentro Potere Operaio, in parte poi fuori da esso, in quello che io
chiamo il protofemminismo italiano, ma che io avevo trovato già un po’ in nuce, prima a Detroit,
poi quando ero venuto nel Veneto per le prime volte, all’inizio del ’68. Si trattava di una presenza e
di una voce femminile all’interno di quella che era una tradizione socialista veneta, una tradizione
rivoluzionaria, assai più forte di quelle che io riscontravo per esempio in Emilia Romagna o anche
in Piemonte o in Lombardia. Questo tipo di atteggiamenti che era in qualche modo legato proprio
all’esperienza socialista e forse anche comunista veneta (ma più socialista che comunista, perché i
compagni e le compagne di Potere Operaio provenivano in buon numero dalla tradizione socialista),
ha poi permesso di incubare questo protofemminismo all’interno di Potere Operaio. Ho detto
permesso. Ma altrove spazi non ce n’erano o erano minimi. E in qualche modo lo ha preservato
anche da una egemonia totalizzante che altri gruppi invece hanno espresso nei confronti proprio
della presenza femminile prima che femminista al loro interno. E’ una peculiarità che va ricordata.

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Poi naturalmente c’erano tutti i contrasti, ma dentro Potere Operaio è successo un po’ quello che era
avvenuto nel ’63-’64 nello Students Non-Violent Coordinating Committee (SNCC) nel sud degli
Stati Uniti, cioè il gruppo politico di studenti contro la segregazione razzista. Alcune posizioni e
alcuni primi documenti di protofemminismo sono stati ancora redatti all’interno dello SNCC. In
questi casi, va rilevata la differenza tra un’organizzazione che riesce a incubare altri movimenti e
un’organizzazione che invece fa terra bruciata, non permettendo a questi di esprimersi. I pochi
maschi che all’interno di Potere Operaio hanno tenuto il piede nella porta affinché il dibattito
femminista non si chiudesse si saranno anche rovinati un pezzo della loro vita, ma ne è valsa la
pena. Dunque, nonostante tutti i suoi limiti, Potere Operaio ha perlomeno permesso a queste
compagne di esprimersi. Esse si sono espresse grazie soprattutto alla loro forza: ossia andando fuori
da Potere Operaio, dopo aver percorso la fase ascendente della sua traiettoria.
Un altro punto di forza di Potere Operaio sta nel fatto che questa combinazione lasciava
abbastanza margine alle individualità singole e alla loro crescita. Non c’era semplicemente la
combinazione degli atomi, ma c’era rispetto anche per la sensibilità, le capacità degli uni/e e degli
altri/e. In terzo luogo, non dobbiamo dimenticarci che era un movimento scalzo, cioè di giovani che
sono vissuti in generale applicando la parsimonia a se stessi. Non che le comodità dispiacessero,
anzi. Ma nell’alternativa tra le comodità e la militanza politica, la seconda la faceva da padrona.
Ricordo che alla fine delle frequenti pastasciutte in comune quasi tutti prendevamo un pezzo di
pane e giravano in tondo nel piatto. Insomma, una sobrietà vissuta con una certa fierezza.
Secondo me Potere Operaio ha mostrato la corda in alcuni snodi cruciali, a causa del suo lascito di
stile bolscevico. Non c’è dubbio che dentro Potere Operaio, soprattutto nel primo periodo e poi
dopo il ’71, c’è stato qualcuno che si dava arie di commissario del popolo, quello che lo storico
Orlando Figes descrive come “i bolscevichi con il giaccone nero di pelle”. Sicuramente questo è
uno degli aspetti epidermici, comunque mai prevalenti. Più in profondità, a mano a mano che si è
andati avanti nell’esperienza di Potere Operaio, un certo leninismo di ritorno è risultato nocivo,
anche nel rapporto tra leadership e militanti ordinari. Inoltre, dalla metà del ’71 si è pensato davvero
che per incentivare la produttività era tutto sommato meglio anche potenziare l’emulazione
socialista, per chiamarla con un eufemismo. Questo elemento, sul piano organizzativo, è stato
deleterio nei confronti dei militanti, ed è stato un sintomo e in parte però anche una causa della crisi
che ha attraversato Potere Operaio, grosso modo a partire dalla metà del ’71.
In generale, tuttavia, bisogna dire che anche guardando ai percorsi successivi, l’addestramento al
dibattito e l’alta scuola politica che le riunioni e i convegni di Potere Operaio imponevano a tutti, in
particolare nei primi tre anni, spiegano in larga misura come, contrariamente ad altri gruppi, una
buona parte della leadership primaria e secondaria e tanti militanti di base di Potere Operaio non si
siano rassegnati allo stato delle cose esistenti, neanche nei decenni seguenti. A lungo, secondo me,
rimase una scuola che non ammetteva l’ignoranza, forse persino esagerando. Talvolta gli sforzi
erano malriposti, ma sostanzialmente generosi. Spiegare i Grundrisse sulla scorta di Rosdolski in
certe periferie abbandonate a se stesse dal regime di allora può apparire un’ambizione sbagliata, e
talvolta già allora tra di noi si ironizzava. Ma il principio e la dedizione erano sacrosanti e quando
essi sono venuti meno per causa di forza maggiore alla fine degli anni Settanta, gli sbandamenti
sono stati paurosi. Giovanissimi compagni che da un giorno all’altro volevano arruolarsi volontari
nelle teste di cuoio, mentre tanta parte della sinistra si baloccava con la produzione immateriale e i
nuovi simboli elettorali! In Potere Operaio un militante che non avesse dedicato del tempo allo
studio non riusciva a reggere a lungo all’esperienza, anche se a livello locale poteva produrre
qualche sporadico fuoco d’artificio. C’era una parte della propria vita in cui non si poteva
semplicemente andare in giro a volantinare o comunque a mostrarsi iperattivi, ma occorreva anche
riflettere e studiare.

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APPUNTI DELLA CHIACCHIERATA CON PIERLUIGI GASPAROTTO -
31 MAGGIO 2000*

A Milano c’è stato un continuo processo di fratturizzazione, dovuto ad una grossa ideologizzazione
di tutte le varie componenti. Negli anni c’è stata una ripetizione di questa esperienza frantumata,
fino ad arrivare ad una vera e propria lottizzazione politica. Non c’è stata nessuna esperienza che
abbia guardato al di là dell’immediato. Qui l’arrivo di Negri e Scalzone è stato inconcludente. Gli
anni di piombo preparati dall’Autonomia sono stati una cesura totale.
Per quanto riguarda l’esperienza di Classe Operaia, c’era un collegamento soprattutto con i gruppi
socialisti; anche per noi che venivamo dalla FGCI il riferimento era soprattutto il Partito Socialista.
Dunque, a Milano gli ambienti più vivi hanno avuto modo di conoscersi attraverso i socialisti, si
pensi al club Turati o alla biblioteca di Lelio Basso. Goffredo Fofi, ad esempio, lo conoscemmo per
caso mentre rientrava a Torino dalla Sicilia, dove aveva lavorato con Danilo Dolci. A Milano c’era
la casa di Daghini, che era un importante punto di incontro e di riferimento. La FGCI era
estremamente chiusa, il loro era un punto di vista terzomondista; invece i socialisti davano
l’opportunità di ritrovarsi, si pensi anche a Panzieri. Ciò è avvenuto per un lungo periodo, diciamo
dal boom economico fino alla recessione. Anche i giovani che si muovevano nella FGCI, come
Piero Bolchini, poterono fare qualcosa quando entrarono in contatto con Panzieri. Del resto, ancora
oggi a Milano non c’è nessuno spazio per la ricerca, c’è una situazione molto pesante dal punto di
vista culturale: personaggi come Salvati o Ichino sono visti come dei mostri. A Milano c’è quindi
questa tradizione, che è stata messa in discussione tra l’inizio degli anni ’60 e i primi anni ’80, ma
con la chiusura in tante piccole chiese e orticelli; anche la tensione giovanile ad opporsi si è chiusa
in un microcosmo. Né Scalzone né Negri hanno saputo mettere in discussione tutto ciò, ma forse
non era nemmeno nei loro intenti. In questa situazione, sia Quaderni Rossi che Classe Operaia
aprirono delle cose, ma morirono in fretta. Alquati, ad esempio, ha mantenuto dei rapporti con
determinati ambiti che nessun milanese è riuscito a mantenere; qui c’era invece una grossa
spocchia, una situazione di tutti contro tutti. Franco Fortini faceva i Quaderni Piacentini, ma erano
sempre appunto piacentini, tutto era sotto la sua paternità.

- Qual è la sua analisi critica delle esperienze dei Quaderni Rossi e di Classe Operaia?

Quelle esperienze andrebbero contestualizzate. Soprattutto per quanto riguarda Quaderni Rossi,
l’importanza è stata quella di fare un mix tra posizioni teoriche e di ricerca e di verificarle sul
campo. Fino a che ci fu questo la cosa resse; quando invece queste cose si irrigidirono (ed avvenne
quasi subito) la morte fu immediata. Le cose divennero molto compartimentate, Classe Operaia
nacque come reazione ma si esaurì in fretta: nessuno dei presupposti che la formularono ebbe una
realizzazione almeno parziale. C’erano degli spunti importanti (ad esempio Husserl, Sartre,
l’esistenzialismo…), insieme ad una rilettura di Marx, la sociologia americana e francese, la ricerca
sul campo. Questa situazione portò a dei risultati: l’analisi dei comportamenti, il collegarsi con tutti
(ad esempio Montaldi o gente che era ai margini del Movimento Operaio). Quando intervenne una
chiusura, per marcare la ricerca su Marx o sul partito, questa posizione di apertura venne a cadere.
Ci fu un difetto di schematismo, una posizione troppo ideologica: ad esempio, quando apparve
Quaderni Rossi, Paci venne a discutere con Panzieri, ma lasciammo cadere la cosa perché noi
eravamo i marxisti. Dunque, ci furono dei momenti di chiusura, che erano il contrario di quello che
aveva portato alla nostra nascita. Alla ricerca che c’era (si pensi anche a Bosio, Della Mea, i Dischi
del Sole…) noi avevamo portato la novità di farla sui comportamenti operai, andandosi anche a
leggere le ricerche ad esempio dei sociologi francesi, come Touraine. Il chiudersi portò alle
divisioni e a rendere le nostre posizioni sterili. A Milano questo approccio di apertura era rifiutato

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Il testo che segue è composto di appunti presi in una chiacchierata con Pierluigi Gasparotto: precisiamo, dunque, che
non si tratta di una sbobinatura letterale. Il nostro interlocutore non ha rivisto questi appunti, è quindi possibile che vi
siano inesattezze o imprecisioni non ad egli addebitabili.

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dal 99% delle persone, che volevano una professione di fede ideologica. Quelli che portammo
questo metodo di confronto ampio (con Mottet, Touraine, Pizzorno, Montaldi…) fummo Romano
ed io, grazie all’esperienza con il gruppo dei filosofi. A Torino la ricerca la portammo Romano ed
io, Panzieri queste cose le prese. Classe Operaia nacque al punto più basso di iniziativa, ma non
seppe riaprirla. In Classe Operaia l’inchiesta è assente; in Quaderni Rossi ce la portammo Romano
ed io. Importante fu il contatto con gli allievi di Paci, mi ricordo la lettura collettiva del primo libro
de Il capitale nell’estate del ’60. Si leggeva tutto, c’era un’analisi del movimento operaio, del resto
nessuno di noi era un comunista ortodosso. Panzieri diede un grosso contributo, senza di lui non si
sarebbe fatto nulla. Quaderni Rossi ha dato una scossa, che però non va sopravvalutata: rileggendoli
oggi si vede una lettura di Marx molto canonica, ma che allora era insolita. Bisogna dunque essere
molto critici, contestualizzare quelle esperienze. Ciò vale anche per Classe Operaia: c’erano
posizioni molto rigide, corporative, l’assolutizzazione di alcuni dati. Quelle cose potevano andare
bene come spunti di partenza.
Noi ci conoscemmo nel ’59 a Milano nelle comuni, in cui c’erano soprattutto studenti cremonesi,
tra i quali Alquati. C’erano gli allievi di Paci, Davide Guido Neri, il figlio di Lelio Basso…; poi
gravitavano lì molte persone, come ad esempio il fratello di Occhetto, ma anche Rieser, Mottura,
Fofi. Io, Romano e Rovelli cominciammo a fare l’inchiesta alla Snia Viscosa di Varedo. C’erano
dei rapporti con la Camera del Lavoro di Milano, soprattutto con l’esperienza socialista. L’inchiesta
finì quando Piero Rovelli si spostò nella FGCI. Io e Romano ci spostammo dunque a Torino, dove
cominciammo a fare l’inchiesta alla Fiat, con Soave, Della Rocca. Pugno e Garavini si resero
disponibili a farci vedere i documenti che avevano, il che tuttavia in chiave di un’inchiesta non
storica non aveva molta importanza. Tra sociologi e politici c’erano delle differenze, ma fino a lì
andava tutto bene; le cose si esasperarono nel ’62, dopo la prima uscita di Quaderni Rossi, e ci fu
una chiusura di tipo politico.

- Quali furono la composizione, il dibattito e le varie posizioni all’interno di Classe Operaia?

E’ una cosa su cui ci devo pensare. Classe Operaia, ma anche Quaderni Rossi, avevano una visuale
politicamente molto ristretta. Sul terreno politico non ci fu nessuna apertura paragonabile a quella
che c’era stata nell’analisi economica e dei comportamenti operai. L’iniziativa politica non c’era.
Bisogna essere molto critici, se no si fa come Merli, Salvati o Rieser, che bisticciano su “Quaderni
Rossi è mio” “no, è mio”, esclusivamente rivendicando l’esperienza, rivalutandola acriticamente e
in modo trionfale, disputandosi solo l’eredità. Questo andrebbe fatto anche sul piano politico: il
discorso lì fu molto mancante. La novità era il centro-sinistra. Il discorso politico non ci fu né in
Quaderni Rossi né in Classe Operaia: fu fatto solo in termini canonici, tipici, il rapporto tra classe e
partito. Anche il concetto di autonomia (che è morandiano) nacque in quei termini lì. Da questo
punto di vista i movimenti giovanili (sia pure ideologizzati) furono un arricchimento di un discorso
che né i Quaderni Rossi né Classe Operaia avevano condotto.
Anche l’esperienza di Classe Operaia si esaurì in fretta, con la sconfitta di Ingrao al congresso del
’67 si può dire che fu liquidata. A Milano un ruolo fondamentale lo ebbero i romani (Tronti, Di
Leo, ma soprattutto Asor Rosa). Asor Rosa era quello che spingeva per uscire, mentre Tronti
rappresentava il discorso teorico, ortodosso, marxista; ma il più libero era Asor Rosa, e poi c’era
Aris Accornero. Classe Operaia nacque su impulso dei romani, e anche il gruppo di Milano si
formò quando venne qui Mauro Gobbini, che ebbe una presenza continua, dal tenere aperta la sede
fino anche all’intervento di fabbrica. L’intervento di fabbrica ci fu, anche se in modo limitato: il
problema non era nel dare via un volantino, solo che gli esiti furono limitati nel legare insieme
giovani, operai, militanti di base del PCI eccetera. Mancò completamente la ricerca e il rapporto
(che fu invece molto fertile per i Quaderni Rossi) con il gruppo dei filosofi. Anche la rilettura di
Marx divenne molto ripetitiva: l’aveva fatta Tronti una volta per tutte e basta. Si perse lo sforzo
euristico che invece prima c’era. Mentre Panzieri riusciva a tenere insieme collegamenti con

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ambienti intellettuali (Laura Balbo, Ceccarelli…) in Classe Operaia questa capacità venne molto a
decadere.

- Qual è la sua analisi dell’esperienza della conricerca?

I Quaderni Rossi fecero l’analisi delle condizioni di fabbrica. Ci fu l’inchiesta alla Lancia, alla Fiat,
a Mirafiori, alle Ferriere, all’Olivetti, nelle piccole e medie imprese… In un primo tempo ci furono
dei tentativi anche a Milano (all’Alfa Romeo, alla Pirelli, alla Innocenti, alla Farmitalia…). Anche
quando non c’erano collegamenti diretti, si analizzava la fabbrica. Ci fu poi l’inchiesta sui
braccianti della Di Leo. A Genova c’era il gruppo di Faina, che poi è finito tra i situazionisti. I
sociologi tradizionali criticavano queste inchieste perché mancavano dei dati. Il primo contatto con
Panzieri e i Quaderni Rossi avvenne su questa base. Tutto ciò era criticabile da un punto di vista
scientifico e anche politico, ma era un fattore di attivizzazione notevole, per vecchi quadri e giovani
operai, era un incredibile fattore di legame. C’era anche una simpatia degli operai socialisti.
Importante era il fattore creativo alla base della conricerca più che la conricerca stessa. Era una
fonte di movimento continuo; anche da parte di giovani, architetti, sociologi eccetera c’era un
interesse costante. Fino a quel momento c’erano infatti o inchieste tradizionali (come quelle di
Pizzorno), o ristrette (quelle di Ledda, o sulla busta paga); noi le si faceva in modo discontinuo,
caotico, con zone d’ombra, ma erano un importante base di novità. Al di là di quello che portavamo
Romano, Soave ed io, Panzieri andò a riscoprire il questionario operaio di Marx, che era
scientificamente altrettanto discutibile. Queste ricerche non le esaurì tanto l’incongruenza con
l’ortodossia, non la ripetitività, ma il fatto che non c’era una continuità tra i motivi dell’inchiesta
stessa: si andava dall’analisi della soggettività a quella sulle condizioni di lavoro. C’era comunque
una ricchezza di dati che non aveva nemmeno il partito o il sindacato. Mancò l’inserzione
innovativa di nuovi elementi, per andare ad analizzare cose diverse. Anche i discorsi sulla
soggettività o sul ribellismo operaio andavano sostanziati meglio. Ciò che esaurì la cosa fu
l’esaurimento di Panzieri. Si potevano buttare dentro elementi nuovi. I momenti più importanti
furono quelli scarsamente definibili. Dalla FGCI, per esempio, me ne andai perché non c’era
nessuna apertura, preferivo frequentare la biblioteca di Basso. Dunque, mancò un intreccio di
motivi di ricerca che venissero da altri spunti e riformulassero l’inchiesta; in Classe Operaia poi ci
furono dieci volte di meno, e a quel punto si litigava tra politici e sociologi. Noi arrivammo lì con
Lenin in Inghilterra, Il partito in fabbrica, che sono cose povere, misere, che non erano ipotesi né di
ricerca né organizzative. Non si riuscirono a formulare ipotesi di ricerca politica. Quando Ingrao fu
sconfitto, Classe Operaia fu finita. Quaderni Rossi continuò a pubblicare qualcosa, ma le ultime
cose sono misere.
I movimenti giovanili vennero fuori nei primi anni ’60; poi, dopo l’uccisione di Ardizzone nel ’62,
ci fu un silenzio fino al ’65. Rispetto a questo l’atteggiamento di Panzieri e dei Quaderni Rossi fu di
chiusura. In Classe Operaia ci fu un ulteriore arretramento; d’altra parte ci fu una ripetizione di un
elemento dei Quaderni Rossi, il privilegiare i rapporti con i sindacalisti, che in questo caso erano
portati sul versante PCI anziché su quello PSI. Bisogna dunque guardare alle esperienze
criticamente e non semplicemente rivendicarle acriticamente. Il buco nero del discorso politico fu
una delle cose fondamentali: tale buco nero andava dalla teoria alla pratica. Dopo aver sciolto
Classe Operaia si decise di mettere fine all’esperienza: fu più che altro la constatazione di un muro
che si era venuto a creare, la dichiarazione di esaurimento dell’iniziativa, con il ritorno di ognuno
alle proprie attività. Ci sciogliemmo in un momento in cui a livello giovanile e sindacale si andava
ad una grossa ripresa; ai Quaderni Rossi non mi risulta che andò meglio. Tutto questo ha delle
origini teoriche: abbiamo infatti abbandonato ogni tipo di ricerca, di lettura, lasciandoci andare alla
“classe operaia che anticipa il capitale”. Tutto ciò nel buco nero di Marx sullo stato. C’era una
discrasia tra esaltazione della spontaneità, autonomia operaia e il disprezzo per ogni esperienza
minoritaria: Classe Operaia si riteneva interprete della maturità operaia, tutto il resto era negato.

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- Quali sono state le ricchezze e i limiti del discorso sulla soggettività portato avanti da queste
esperienze?

Il relativismo di Panzieri, vedere insieme i movimenti di classe e di capitale, è stato più corretto che
il contrario. Il recupero di certe categorie (ad esempio la contestazione e l’autonomia) venne fatta da
Panzieri partendo dalla lettura di Marx; il Frammento sulle macchine dal punto di vista teorico è da
socialista della Seconda Internazionale. La contestazione è la risposta immediata dell’operaio;
Morandi, il leader politico di Panzieri, parlò di autonomia per poter dire che nel suo rapporto con la
classe aveva gli stessi diritti del PCI. Per quanto riguarda la soggettività di classe, secondo me
bisogna considerare che una formazione di classe, sia essa la borghesia o il proletariato, non si
spiega in se stessa e non riesce ad avere un respiro internazionale al di fuori del proprio contesto
culturale; Gramsci esprime questo con il discorso sul momento economico corporativo. Non è che
l’appartenenza ad una formazione sociale sia al di fuori di tale contesto. Dunque, il concetto di
soggettività va mediato. La similarità di condizione sociale è un elemento di base fondamentale, ma
non è l’unico: fondare solo su questo una continuità di percorso e autonomia non è corretto. Tale
discorso può essere molto diverso nei tempi brevi, ma nella continuità va mediato con tutta una
serie di altri dati che non appartengono alla formazione sociale. La fortuna del leninismo sta dentro
questo cuneo.

- Quali erano allora le letture di Lenin? Che analisi fa di tali letture?

Noi Lenin l’abbiamo letto poco. Abbiamo letto quella fase molto precoce (Lo sviluppo del
capitalismo in Russia): in tale testo Lenin faceva un’analisi strumentale, individuava i canali
attraverso cui la propaganda socialdemocratica poteva infilarsi. Noi allora privilegiavamo altre
figure (ad esempio Trotzkj o la Luxemburg) per una critica a Stalin, e in questo il nostro maestro
era Emilio Soave, storico e trotzkista insigne. Noi eravamo alla caccia di quello che era meno
conosciuto e distinto.

- Qual è stato il suo percorso successivamente allo scioglimento di Classe Operaia?

Ho lavorato con il sindacato. Io, Piana, Gobbini siamo rimasti isolati; Gobbini però era legato a
Negri. Negri questi intellettuali di Milano se li è comprati assicurando loro una borsa di studio; però
in realtà non ci fu un dibattito politico. L’unico con cui mi rividi fu Giovanni Piana: eravamo molto
contrari all’ipotesi di Autonomia. Non si riuscì più a costruire un rapporto positivo con gli
husserliani. Inoltre lavoravamo tutti, le disponibilità non erano più quelle di quando eravamo
studenti. Già negli ultimi anni di Classe Operaia ho avuto questa tendenza a non buttare via il
rapporto con le organizzazioni tradizionali; ho lavorato con la Camera del Lavoro di Milano. Qui a
Milano il gruppo di Classe Operaia si era fatto molto il vuoto intorno, anche rispetto ad amici con i
quali si era lavorato fino ai tempi di Quaderni Rossi e che però vedevano le posizioni di Classe
Operaia troppo secche e fastidiose.

- Qual è, dall’interno, il suo punto di vista e la sua analisi sulla comunicazione e sul
funzionamento delle aziende della comunicazione?

Io lavoro alla Rai dal ’68. E’ difficile parlare dell’azienda, perché cambia ogni due anni. L’ultima è
la peggiore, la più servile e scadente. Ci sono tre telegiornali, due ore di comunicazione, tutti su
discorsi di palazzo. Di comunicazione non me ne intendo, non la conosco teoricamente. Ho cercato
di fare dei programmi, facendo lavorare delle persone che mi sembravano valide. Ho sempre avuto
un rapporto conflittuale con la comunicazione e con l’azienda in cui lavoro. La comunicazione in
Italia è sempre un aspetto del potere politico: non è mai vista come comunicazione, è sempre
un’appendice di quel complesso di lobby che caratterizza la vita politica. La Rai poi sta trasferendo

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tutto sul satellite, per cui i programmi in chiaro sono sempre meno importanti: ormai è solo più un
marchio che permette di far pagare il canone.

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INTERVISTA A ROMOLO GOBBI – 14 DICEMBRE 2000

Da buon storico materialista inizio dicendo che l’individuo è collocato nella società in cui vive.
Mentre l’esperienza operaista è precedente, praticamente finisce con Gramsci, quindi negli anni ’20,
la raboceia opposizia (opposizione operaia) venne sciolta da Lenin, la Kollontai divenne
ambasciatrice in Finlandia credo, quindi l’esperienza operaista con questi personaggi si chiuse.
Perché negli anni ’60 a Torino c’è un revival operaistico? La domanda è questa. Intanto c’è una
continuità teorica, nel senso che soggetti determinati (poi dirò dei nomi) portano e conservano la
memoria, la teoria e i valori dell’operaismo, e non sono dentro il Partito Comunista, anche se si sa
che lì vinse l’ala degli ordinovisti, cioè quelli che Lenin accusava di essere operaisti, di essere
anarcosindacalisti. Ad esempio quando si rivolse a Terracini dicendo che a Torino c’è stato
qualcosa di anarcosindacalista ma niente di marxista. Chi conserva parte di questi valori? E’ una
parte del Partito d’Azione, la sua sinistra che si chiama Vittorio Foa, che durante il fascismo,
pubblica un quaderno di Giustizia e Libertà sull’Ordine Nuovo e sui consigli, e poi divenne
socialista e vicesegretario della CGIL. Vi è anche un altro soggetto di origine azionista, Trentin,
figlio del Trentin azionista, e divenne vicesegretario della CGIL. Quindi, furono i due vicesegretari
della CGIL che nel 1960 o ’61 si rivolsero a Raniero Panzieri, che rappresenta l’altro filone
socialista; Panzieri e Libertini i quali avevano teorizzato le tesi sul controllo operaio. C’è poi questo
polo internazionale che è stato rappresentato dalla Yugoslavia e basta. Quindi, è un filo flebile, non
ci sono altri, sono quelli; e sono soprattutto quei due vicesegretari che puntano a realizzare in Italia
una qualche forma di controllo operaio. L’operaismo ha vinto perché è riuscito a far fare al
sindacato i consigli di fabbrica, anche se poi sono stati svuotati. Allora, come potevano due
vicesegretari della CGIL ottenere questo risultato se non facendo marciare l’esperienza con gambe
più giovani e comunque rendendo la cosa più evidente, dal momento che non potevano loro (in
nome di chi?) far passare questa cosa. C’è stato dunque questo liaison Panzieri-Foa-Garavini e
l’idea di fare i Quaderni Rossi, questa è la base soggettiva portante di questi valori.
Dall’altra parte la società italiana di quegli anni stava vivendo il boom economico, cioè una fase di
reindustrializzazione. Gli anni del boom economico produssero una crescita vertiginosa, il miracolo
italiano di industrializzazione. La Fiat fece Rivalta, si estese a Carmagnola, costruì stabilimenti da
tutte le parti, nacque il polo elettromeccanico. Ci fu questa situazione di banale consumismo che il
capitalismo mondiale aveva già superato: in Italia i frigoriferi, le automobili, il consumo di massa di
questi beni durevoli arriva in quegli anni lì. Allora, cosa succede secondo me? Che ricreandosi le
condizioni dell’industrializzazione dei primi anni del secolo, è stato possibile che individui che
avevano nella loro memoria questi valori cogliessero questa occasione per proclamare una qualche
preminenza della classe operaia, perché la classe operaia in quegli anni era in espansione ed era
protagonista. Congiunti questi fattori con la società veniamo fuori anche noi, prodotti di questa
stessa società, cioè coinvolti in questo fenomeno vistoso di crescita operaia. Quindi, scatta tutta
quella sequela di entusiasmi, la crescita entusiasmante della classe operaia ci porta ad essere solidali
con essa, ad auspicare una trasformazione della società in maniera radicale, in cui la classe operaia
sia protagonista.
Adesso arriviamo a noi, poveri tapini che veniamo soggiogati dal fenomeno sociale e veniamo
indottrinati e strumentalizzati da chi invece aveva delle idee più chiare, anche se penso che
nemmeno loro sapessero bene dove sarebbero andati a finire, ma avevano questi valori in tasca. Noi
come veniamo fuori? Siamo il prodotto di una società chiusa, che è Torino, tipico esempio: se uno
volesse in tutto il mondo indicare una società chiusa, Torino è la più rappresentativa. Quindi,
apparteniamo ad una classe media, piccolo borghese, caratterizzata da questa chiusura mentale. Ci
sono invece degli individui che per ragioni genetiche o culturali si vogliono ribellare, si dice che
Torino è la culla ed il covo di sperimentazione, in realtà secondo me è la reazione alla sua chiusura:
è talmente chiusa che uno a un certo punto deve esplodere. Allora, vengono fuori le punte critiche e
le punte polemiche nei confronti della società, che magari in una società più permissiva non
verrebbero fuori. Di fatto veniamo tutti da esperienze religiose, frustranti, alla ricerca di una

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realizzazione pratica. Io credo di essere stato l’unico cattolico in crisi, degli altri Rieser era ebreo
valdese, infatti c’è questa componente valdese, lo sono Mottura, la Edda Saccomani, le prime
riunioni si fanno ad Agape. Quindi, in crisi non dico mistica ma senz’altro religiosa e dunque
giustamente c’è il collegamento con minoranze religiose: da questo impasto viene fuori la
psicologia di queste persone. E’ una cosa così banale che qualsiasi psicologo avrebbe potuto fare,
non è un risultato eccezionale, non eravamo degli individui eccezionali. A riprova di questo si sa
che nell’area dei Quaderni Rossi gravitano personaggi quali Gianni Vattimo, Guglielminetti, lo
stesso Coppellotti, quelli del gruppo Mounier, cattolici operaisti per conto loro. Anche Greppi viene
fuori dall’esperienza valdese, ma poi c’è anche Miegge che diventa pastore a Roma, un altro
valdese. Io con questo ho spiegato tutto: una religiosità vissuta in maniera di crisi, quindi un voler
superare la propria religiosità con qualcosa di più soddisfacente e tangibile ed eccoci approdare alla
religione operaista: chiaramente per noi aveva questo valore di sostituzione, e si guardava alla
classe. In Come eri bella classe operaia racconto di questa matrice religiosa, adesso sono stato più
esplicito, forse allora avevo meno chiaro questo quadro complessivo ma direi che l’operaismo a
Torino rinasce da questa convergenza di spinte sociali, esperienze religiose individuali in crisi e
personalità comunque illustri che invece ci utilizzano.
Nel ’61 io faccio il discorso alla conferenza dei comunisti delle grandi fabbriche davanti a Togliatti
e a tutti gli altri, Amendola, Ingrao: “parla lo studente Gobbi di Torino”, era impensabile. Lo
studente Gobbi di Torino, iscritto da due mesi al Partito Comunista, alla conferenza dei comunisti
delle grandi fabbriche non può parlare, non è nemmeno concepibile: però, se dietro ha due
vicesegretari della CGIL che gli scrivono il discorso allora questo può anche parlare. Si fa un
piccolo conciliabolo, “vai tu, no io no”: Soave si è subito ritirato, lui è una chiocciola, si ritira
dentro la sua libreria o a casa sua, Romano naturalmente no, Pierluigi no, quindi faccio io il
discorso e mi piglio le ire di Togliatti, mi processano nel partito e mi sbattono fuori dopo pochi
mesi. E naturalmente io faccio il discorso, che non è più rintracciabile ma io ce l’ho a casa in copia,
quella praticamente è un’anticipazione dei consigli operai, si dice: “Il partito in fabbrica non conta
più, il sindacato nelle sue strutture attuali non ha una presa e un contatto diretto con la classe, la
classe è disponibile, bisogna creare degli organismi”. E si parla proprio di assemblee e di delegati di
reparto, cioè questi ce lo avevano in testa, lo fanno dire a me. Togliatti naturalmente se la prende
con me perché suocera intenda.

- In questo contesto che hai delineato come è avvenuto nello specifico il tuo processo di
formazione politica e culturale e quali sono state eventuali figure di riferimento nell’ambito
di questo percorso?

Intanto c’è il liceo Gioberti, io sono compagno di classe di Mottura, poi questi ripete e quindi
diventa compagno di classe di Rieser e il gioco è fatto: eravamo compagni di liceo. C’era poi anche
la giovane Negarville, che poi diventerà moglie di Minucci. Era così. Ad esempio, perché Rieser
viene al Gioberti? Perché lì insegna il professor Molpurgo, ebreo, e allora le classi di Molpurgo si
riempiono di ebrei. Siamo di nuovo lì, sono delle spiegazioni banali ma ovvie anche. Nessuno dei
professori naturalmente ha un valore, ma ci sono questi legami. Si passa anche attraverso la politica
universitaria, ma poi ci si ritrova tutti nel Partito Socialista con Basso: allora ecco di nuovo un altro
personaggio, Lelio Basso, e siamo tutti bassiani. Anche la Edda Saccomani viene dal Gioberti,
quindi i valdesi e gli ebrei al Gioberti si ritrovano e fanno combriccola, poi si ritrovano
all’università a Palazzo Campana. Io faccio politica universitaria ma gli altri credo di no: tra l’altro
io non la faccio nell’UGI che era la forza deputata, ma poiché un altro del liceo era nei Goliardi
Indipendenti, che erano liberali, mi fa andare lì. Ma io nel giro di due anni maturo la mia iscrizione
al Partito Socialista, corrente bassiana, e allora ci ritroviamo tutti lì dentro, insomma tutti quei
cinque o sei che eravamo, cioè io, Rieser, Mottura, Soave, Edda Saccomani, poi c’erano altri che si
sono persi per la strada, la donna di Mottura, che è un’altra valdese. Poi Lelio Basso non è che
suscitasse particolare entusiasmo, però anche lui era un portatore di un’ideologia se non operaista

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certamente non carrista, quindi comunista in senso stretto, e neanche riformista: luxemburghiano
insomma. Essendo appunto in crisi, tutta l’eredità critica del comunismo noi la ereditiamo, quindi
anche Trotzkij, Soave era trotzkista. Alquati è un personaggio misterioso, perché lui non è stato
niente di tutto ciò, nel momento in cui bisognava iscriversi diceva “bisogna iscriversi al Patito
Comunista”, noi ci iscrivevamo e lui no, al Partito Socialista noi ci iscrivevamo e lui no. Lui è
sempre fuori, gioca sempre da fuori: non so se sia una sorta di opportunismo o di reticenza, non lo
so, ci manda avanti ma lui non c’è. Comunque, rispetto alla strumentalizzazione era fatta da altri, e
cioè dai Foa e dai Trentin, poi questi naturalmente fanno valere la loro posizione sulla Camera dl
Lavoro di Torino, quindi vengono fuori i Garavini, i Pugno, gli Alasia, tutti questi personaggi che
collaborano ai Quaderni Rossi: ma lì è già più ovvio, lì c’è addirittura un’autorità gerarchica che li
fa marciare. Poi c’è questo caso Fiat che improvvisamente esplode e questo dà forza al discorso,
perché la cosa non viene prevista dal partito, questo anzi è sempre lì che si lecca le ferite perché è
stato fatto fuori dalla Fiat, dai vecchi compagni che noi contattiamo: diventiamo sindacalisti, questo
non l’ho detto ma lo sapete. Partecipiamo ai direttivi sindacali, alle commissioni interne Fiat, con
diritto di parola, ci affidano la campagna elettorale mi pare del ’61 alla Mirafiori e in qualche altra
sezione, alle ferriere credo. Ci dividiamo il lavoro, io e Gasparotto ci occupiamo delle ferriere,
siamo in organico del sindacato, io sono responsabile sindacale CGIL delle ferriere e credo lo fosse
anche Pierluigi.

- Tronti sostiene una dimensione parallela a quella di cui tu parlavi a proposito di Foa e
Trentin: cioè, lui dice di avere sempre avuto l’ipotesi di costruire una componente che
potesse fare pressione sul Partito Comunista, cosa che poi si conclude con la chiusura di
Classe Operaia. Dopo i fatti di piazza Statuto, tra il primo e il secondo numero dei
Quaderni Rossi, matura la contrapposizione tra Panzieri e Tronti, anche se poi alcuni la
fanno passare più come contrapposizione tra Panzieri e alcuni di voi.

I bruti, eravamo definiti così dagli altri: c’era l’ala bene e l’ala che aveva fatto di questo operaismo
anche l’assunzione di atteggiamenti esteriori, bestemmie, rutti, scoreggie, per cui venivamo definiti
i bruti, eravamo io, Soave, Alquati e Gasparotto.

- Siete anche i quattro che avete portato avanti la ricerca militante e l’intervento alla Fiat e
in altre fabbriche.

Noi siamo contro la ricerca sociologica, siamo anche per la militanza nel sindacato e per l’impegno
nelle fabbriche. E siamo i quattro (in realtà tre, perché Romano no) che si iscrivono al PCI: il segno
della rottura è questa iscrizione al Partito Comunista che facciamo in tre, forse in quattro, non so se
la Edda Saccomani ci segue in questa esperienza, senz’altro ci segue quella che era la donna di
Romano, la Anna Chicco, poi forse c’era anche la Gisella di Iuvalta.

- Le due coppie che portavano avanti questo percorso di ricerca militante e di intervento
politico eravate da una parte tu e Gasparotto e dall’altra Alquati e Soave?

Per quanto riguarda Alquati e Soave è più problematico, Romano è sempre dietro, io non me lo
ricordo piazzato in un punto particolare. Io e Pierluigi ho già detto che siamo responsabili sindacali
della CGIL e lavoriamo alle ferriere; nell’estate ’61, quando scoppiano degli scioperi spontanei alle
manutenzioni, facciamo questi volantini (che sono anche depositati al centro Gobetti). Questi
volantini vennero firmati “un gruppo di operai delle Ferriere”, ciclostilati Camera del Lavoro di
Torino, noi approfittiamo di questa presenza ufficiale: anzi, addirittura usiamo una firma che
automaticamente ti delegittima, perché o ti firmi commissione interna o non puoi firmarti “un
gruppo di operai”, che cos’è?, la mentalità burocratica non accetta una cosa del genere. Addirittura
in questi volantini si mette in luce il fatto che “siamo riusciti a scioperare perché le commissioni

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interne erano in ferie, cioè abbiamo superato le divisioni e le pastoie burocratiche”.
L’autorganizzazione e l’autonomia operaia sono le cose che li fanno incazzare, e avevano fatto
incazzare pochi mesi prima Togliatti quando ero andato a dirglielo in faccia: “la classe sa
organizzarsi, senza bisogno del partito e senza bisogno del sindacato”, con un’organizzazione
appunto di base, con i comitati e via dicendo. Questi volantini sono due: il primo fatto per la
manutenzione che aveva scioperato, che poi era stato uno sciopero bianco, poi un secondo volantino
e lì incomincia la discussione all’interno. Questo volantino viene fatto in agosto, quando le
manutenzioni lavorano perché gli impianti sono fermi e io e Pierluigi ci trovavamo a Torino, mentre
gli altri erano via. Al ritorno che cosa facciamo di questo volantino e di questo sciopero?
Comunichiamo agli altri operai della Fiat che c’è stato uno sciopero, di poche ore e di pochi operai,
ma che comunque è possibile fare uno sciopero autorganizzato dagli operai. Pum, volantone in cui
si dice questa cosa qua: il Lanzardo è d’accordo e ce lo ciclostila presso lo SFI, il sindacato
ferrovieri a cui lui apparteneva, ma nei Quaderni Rossi c’è discussione, su quella roba lì c’è rottura,
infatti ci sbattono fuori dal sindacato, tutti, anche quelli che non erano d’accordo sul secondo
volantino, ma poi in fondo sì, c’è discussione ma poi si decide di fare questa cosa, però si arriva alla
rottura. Allora, la costruzione comincia a incrinarsi e la parte ufficiale prende le distanze. Quindi,
mentre al primo numero partecipa la Camera del Lavoro di Torino, al secondo numero non ci sono
già più, Trentin e Foa si sono ritirati, invece Panzieri va avanti per la sua strada con questo gruppo
di giovani.

- Come sono capitati a Torino Alquati e Gasparotto?

Sono attirati da questa presenza, è una presenza clamorosa, nel senso che gli intellettuali davanti
alle fabbriche non ci sono più dal 1920 insomma, perché le divisioni di classe si erano formate,
c’era stato il fascismo, nel dopoguerra certamente non c’era stato nulla di diverso. Addirittura
qualcuno (dovrebbe essere Giorgio Galli, ma non ne sono sicuro) scrivendo su Il ponte dice:
“Questo gruppo di giovani bassiani a Torino si occupa di sindacato”; quindi, Panzieri, Einaudi.
Così, arrivano questi due pellegrini da esperienze diverse, Romano da Unità Proletaria di Montaldi,
e Pierluigi Gasparotto viene dalla comune di via Sirtoli: anche lì esperienze di iniziazione, di crisi.

- Qual è il tuo giudizio sulla figura di Gaspare De Caro rispetto sia ai Quaderni sia a Classe
Operaia?

Gaspare De Caro viene da Roma, del gruppo romano io non so nulla, so quello che loro hanno
detto, è tra l’altro ancora più eterogeneo di noi, perché Asor Rosa è socialista, Tronti è comunista.
Gaspare De Caro è una meteora, è una presenza “massiccia” perché era un uomo anche
intellettualmente molto strutturato, però è uno storico, non c’entrava niente. Era amico di Tronti,
questi l’ha coinvolto nella cosa ma quasi subitaneamente lui si ritira, lo fa praticamente subito
quando vede che questa cosa assume la connotazione di gruppuscolo. Perché finché era entrismo
sindacale e nel partito allora, per la validità che ha mostrato l’entrismo, poteva comunque
giustificarsi; ma per una persona seria, che ha una sua cultura, una sua professione, dei suoi
obiettivi, non era possibile.

- Però, anche da quanto ha scritto in un ciclostilato da lui fatto insieme ad Enzo Grillo nei
primi anni ’70, De Caro ha operato una rottura profondamente critica in particolare nei
confronti delle ipotesi di Tronti rispetto al PCI.

L’entrismo di Tronti è addirittura patetico, perché lui continua a considerarsi iscritto al Partito
Comunista mentre invece è stato espulso, lui è convinto di essere sempre stato dentro il partito. Io
non so che cosa dire, noi consumiamo praticamente immediatamente il rapporto con il partito, ossia
io, Pierluigi e Romano, perché a quel punto invece Soave resta nel partito, quindi se vogliamo il

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trontiano è lui; e noi invece cavalchiamo questa deriva gruppuscolare, estremista, e quindi con
Faina a Genova e con Toni Negri facciamo questo 1° numero di Classe Operaia.
C’è poi il discorso sulla sociologia. Panzieri a Torino, all’Einaudi, è la sociologia, e i De Palma, i
Lolli, questi che frequentavano l’università, che si occupavano di sociologia, anche loro vengono
irretiti da questa novità. L’Italia scopre la sociologia, la cultura italiana, perennemente in ritardo,
scopre la sociologia. E naturalmente compito ancora più arduo è far accettare al partito e alle
organizzazioni sindacali la sociologia come strumento di conoscenza della classe, cosa pazzesca: la
scienza borghese che pensa di essere superiore alle capacità euristiche del partito, dei propri
militanti, dell’intellettuale collettivo! “Ma quali questionari, andiamo a chiedere ai compagni”; e
poiché questi si erano ficcati in un buco, i compagni dicevano: “Noi siamo isolati, siamo
perseguitati, questi non si muoveranno mai, perché sono tutti ‘barotti’, sono tutti contadini, hanno il
frigorifero e la macchina e quindi non sciopereranno mai, questo è il dato”. Invece, noi continuiamo
in questa cosa; poi, visto che uno dei quattro è finito nelle BR e via dicendo, quella cosa lì ha poi
una logica di vita estremistica. Potere Operaio di Torino di Emilio Soave, il Gatto Selvaggio di
Romolo Gobbi e queste cose qua, come potevano andare a finire? L’esperienza di Classe Operaia ci
obbliga a un percorso assurdo, perché si spacciava per un’esperienza militante ed era uno strumento
improponibile, impraticabile nella comunicazione con gli operai, testi illeggibili, discorso
intellettualistico, i Quaderni Rossi già erano una bella perla in questo senso. Non capisco perché voi
vi interessiate tanto di questa cosa, è un’assurdità, un parto ritardato di trenta o quarant’anni rispetto
agli altri, un aborto, che però ha prodotto la deformazione di questo sindacato italiano che è quello
che è, una delle forze dominanti di questa società: parliamoci chiaro, il sindacato conta in Italia,
eccome, ed ha contato di più perché questa esperienza è andata in porto, il salario come variabile
indipendente, i delegati, questa cosa qui ha avuto un impatto pazzesco sulla società italiana. Ciò
incontrando anche una classe imprenditoriale incompetente, il cui principale rappresentante è il
demente torinese Agnelli, che è uno dei massimi esponenti. Cioè, una classe imprenditoriale che
dice: “Facciamo l’accordo e appoggiamo le sinistre perché queste possono fare quello che le destre
non possono fare”. E’ una frase testuale, Agnelli l’ha detta a proposito del governo di centro-
sinistra, ma lui già lo pensava quando nel ’75 firmava l’accordo con i sindacati. Se le cose vanno
così cosa succede? Durano per un po’ di tempo, passato il quale i tuoi si ribellano e hai i 40.000, e
gli altri alle prime elezioni dopo che si sono comportati come le destre perdono il governo. Questo è
il risultato che ha ottenuto questo imbecille, questa tartaruga rugosa.
Per rendervi conto anche della mia evoluzione successiva, non solo io vedo con occhio distaccato
l’esperienza particolare, io non voglio mobilitare aggettivi altisonanti, in realtà ho ereditato da mia
madre un forte senso autocritico e un gusto per l’ironia e per l’autoironia. In generale siamo in una
fase quasi di deindustrializzazione, perché con l’introduzione dell’automazione automaticamente la
classe operaia viene ridimensionata, e siamo al punto in cui ci troviamo oggi. In realtà, l’Italia vive
una controtendenza dovuta alla sua arretratezza, per cui si espande la classe operaia e negli altri
punti si sta già riducendo. Quindi, il sogno operaista era tanto più sogno perché era un sogno
provinciale, italico, abbastanza nordico, tutto sommato i grattacieli nel deserto del Sud non l’hanno
certo trasformato in un paese industriale. Questo era il dato ed è la contraddizione stessa del
marxismo che in fondo predica un futuro di egemonia politica, un termine a lui estraneo, diciamo di
dominio e di conquista politica del potere da parte della classe operaia quando la sua analisi porta
comunque nella direzione opposta, è lui stesso che lo afferma quando dice che il capitale è portato
per sua natura a risparmiare forza-lavoro: quindi, la classe operaia è anche destinata ad aumentare,
solo che poi a un certo punto dovrà diminuire. La condanna del marxismo è tutta lì, tutte le altre
contraddizioni sono minime rispetto a questa contraddizione di fondo: bisognerà che lo sviluppo
capitalistico raggiunga il massimo, ma quando l’ha raggiunto la classe operaia è una minoranza e
non può più reggere lo Stato comunista, quell’idea lì. Dunque, non solo io mi rendo conto di questo,
ma mi rendo conto che a livello mondiale ormai si muovono forze che addirittura sovrastano questa
microdimensione, che è una dimensione che riguarda un quarto dell’umanità, adesso un quinto, in
un breve periodo di tempo sarà un sesto per diventare poi un decimo dell’umanità nell’arco di 30-40

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anni. Quello che mi differenzia da tutti gli altri, proprio in maniera chiara, è la percezione del boom
demografico che stiamo vivendo: se vogliamo torniamo a Malthus insomma, aveva ragione
Malthus, altro che Marx! La popolazione sta crescendo in maniera pazzesca, a livelli esponenziali e
via di questo passo: è devastante non rendersi conto che è inutile che stiamo a discutere dei 4.000 o
40.000 operai quando ci sono 600 milioni di islamici che invaderanno l’Europa nei prossimi
vent’anni, perché sono questi i termini. La Fondazione Agnelli ha fatto i suoi studi ormai da due o
tre anni prevedendo che nell’anno 2020 la popolazione dell’area sud del Mediterraneo raddoppierà,
adesso sono 580 milioni, se ne aggiungeranno altri 580 milioni. Allora, se uno dice che raddoppia la
popolazione pensa che raddoppierà l’immigrazione: no, perché se questa popolazione produce
questa immigrazione, tutta la popolazione che si aggiungerà è potenziale di immigrazione verso
l’Europa. Questo è il dato, qui crolla tutto insomma, da quando è tale la dimensione globale del
problema. Esci da questa Torino operaia e operaista e ti trovi già in un’Italia che non è più questa
cosa qui, guardi il resto del mondo e vedi che è un’altra cosa ancora. Il modello non è estensibile a
tutta l’umanità, non si può estendere il livello di vita dell’Occidente al mondo intero: intanto devi
moltiplicare tutto per quattro o per cinque, quindi i 40 milioni di automobili devi moltiplicarli per
quella cifra, diventa un casino. La consapevolezza dei limiti, possiamo dire, il capitale e la
borghesia li acquisisce con i suoi rapporti sui limiti dello sviluppo, il Movimento Operaio non ha
mai fatto i conti con questa cosa qua. Poi c’è questa dato dell’immigrazione e anche su questo loro
non si rendono assolutamente conto di quello che sta succedendo, hanno fornito loro i dati, hanno
detto 600 milioni, non i 60.000 o i 6.000: praticamente la popolazione europea non arriva a 600
milioni, quindi si avrà un’islamizzazione dell’Europa, oppure si avrà un conflitto, ma i conflitti non
hanno mai impedito l’immigrazione di massa, non c’è niente da fare. Questi arrivano, nonostante
Schengen o tutto quello che si vuole. Qui, anche da un punto di vista puramente non vorrei dire
etico, ma comunque se uno deve difendere il più debole, ci si deve rendere conto che un operaio è
uno straricco rispetto a un povero marocchino che raccatta quattro soldi (e nemmeno tanto solo
quattro soldi) per arrivare in Italia: non ha niente, è un vero proletario, mentre questi hanno già da
difendere i loro interessi. Infatti, per tornare ad un discorso anche autocritico nei confronti della
classe operaia, questa era razzista, sono loro i primi razzisti, non contiamoci delle balle: anche
giustamente, perché questi mettono in discussione i loro livelli di vita, la loro sicurezza di posto di
lavoro, il loro livello di consumi ecc. Ma io questa scelta non la voglio fare, non voglio dire che
condanno gli operai per questo loro egoismo: la cosa travalica le valutazioni morali, la cosa ci
sovrasta, è apocalittica. Inesorabilmente e ineludibilmente arriveranno, si vede che cosa fanno, si
fanno stivare dentro i container e poi muoiono disidratati, passano sotto i muri, gli Stati Uniti hanno
costruito un muro lungo migliaia di chilometri per impedire ai latinos di entrare ma loro entrano,
passano sotto, saltano. La condizione dell’altra parte dell’umanità è talmente disperante che non c’è
niente da fare. Che cosa dice il Movimento Operaio? Niente, non dice niente. Da un lato c’è il
buonismo che dice “lasciamoli venire”, e nella misura in cui lo dicono gli operai diventano sempre
più anti-Movimento Operaio e sempre più razzisti. Poi, una volta che sono qua, anche lì c’è il
dilemma del Movimento Operaio, che non riesce a prendere una posizione coerente: “integriamoli”
o “difendiamo la loro identità”? Già lì non riescono a decidere, se vengono sbattuti fuori dal
governo è perché non riescono a decidere, sono impossibilitati dal loro retroterra culturale a
decidere, posto che questa cosa sia decidibile. In realtà, davanti a 600 milioni tu non decidi niente,
non puoi fare che preparare sei letti in casa tua e aspettare che vengano: non è razionalizzabile la
cosa, a meno di mobilitare armi di sterminio di massa, ma 600 milioni non li ammazzi, la Seconda
Guerra Mondiale ha ammazzato 60 milioni di persone, la decima parte, 600 milioni è una cosa
incredibile.

- Si potrebbe dire che l’operaismo ha cercato di fare i conti con tre categorie: la politica, gli
operai e la cultura e gli intellettuali. Con queste tre dimensioni si è trovato a fare i conti e
in qualche modo i risultati di come poi è finito dipendono anche dal come ha fatto i conti
con questa situazione. Se uno dovesse prendere le traiettorie individuali delle persone, si

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vede che in quella che era la dimensione politica in cui tendevano c’è stato poco, mentre
invece si sono collocati all’interno della società in certi ruoli.

Quando io affrontavo quelli di Lotta Continua dicevo loro: “voi siete i figli della borghesia e finirete
per sostituirla, inevitabilmente, ineludibilmente”; a questi fessi della questura di Torino che fanno
un mandato per le occupazioni a 500 studenti universitari torinesi c’era da chiedere: “ma voi avete
beccato la classe intellettuale, la classe politica, la classe dirigente tra vent’anni, chi cavolo credete
di andare a prendere? Sono i figli dell’ex questore, dell’ex giudice, dell’ex non so cosa e
diventeranno questori e giudici e direttori di Fiat, questa è la realtà”. E’ praticamente un
automatismo sociale, non so come cavolo dirlo, che cosa avremmo dovuto fare? E’ inevitabile che
finisse così, non c’è né scandalo né niente, è un’inerzia, le regole della società si fanno rispettare da
sole.

- Che non sia uno scandalo ne siamo pienamente convinti. Il problema è che questi soggetti
hanno trovato delle risorse intellettuali e personali di formazione che si sono costruite in
una situazione che andava contro la dimensione sistemica e poi però sono affluite ad una
dimensione sistemica.

Ma l’umanità è proceduta così da sempre: le nuove generazioni si contrappongono alle vecchie per
poi a loro volta succederle. Questo è il modo in cui procede l’umanità, si può dire che è esteso
anche al regno animale in generale, ma senz’altro nell’umanità è così, al punto che le società più
conservatrici istituzionalizzano questa cosa con i riti di iniziazione. I Masai hanno questo
meraviglioso rito di iniziazione, per cui i giovani capelloni si possono far crescere i capelli fino a
una certa età: quando si fa il rito c’è sempre l’aspetto tragico o quasi, devono dormire nella foresta
da soli per una notte, dopo di che il giorno dopo tornano al villaggio e possono “ciulare” tutte le
donne, possono prendere tutto quello che vogliono, possono fare il sessantotto, ma il giorno dopo
gli vengono tagliati i capelli, diventano adulti ed entrano nel ruolo della conservazione della società.
Le società primitive erano così consapevoli che le cose funzionavano così che hanno
istituzionalizzato la cosa: “va bene, noi ve lo lasciamo fare, anzi voi dovete fare il sessantotto, però
il giorno dopo per favore smettetela e fate i pastori come noi, assumetevi le vostre responsabilità, la
vostra moglie, riproducetevi ecc.”.

- Il problema è capire quanto questo processo abbia comportato un livello di distruzione di


ricchezza che era comunque altra: ciò che avviene in un giorno sulla formazione delle
persone ha un certo carattere, mentre per un percorso più lungo il discorso cambia.

Facciamo un giudizio di relazione con altre società e con altre epoche. In fondo tra queste persone,
tra i protagonisti di questa cosa, non c’era nessun individuo eccezionale, parliamoci chiaro; noi
possiamo anche convincerci che Romano Alquati è uno simpatico e intelligente, ma io e lui
facciamo ogni tanto qualche libretto e basta. Nessuno di noi è assurto ad un livello culturale alto,
siamo rimasti degli scalzacani insomma. Io non sono un professore universitario ma un ricercatore,
Romano è associato, gli altri magari sono ordinari, non Tronti credo, lo è Asor Rosa: però, chi è
Asor Rosa? La figura meschina di Asor Rosa, questo personaggio squallido che mette in cattedra la
propria amante, che litiga con l’altro professore di storia della letteratura romana e spacca la facoltà
di italiano a Roma, questa volgarità e banalità della vita normale. Noi siamo stati fagocitati dentro
questa normalità, ma forse non eravamo eccezionali nemmeno allora, torno a ripeterlo: si sono
dovute verificare delle convergenze soggettive, sociali e di persone più adulte perché noi venissimo
fuori, ma forse non eravamo nessuno. Recentemente, tra i miei compagni di liceo del Gioberti,
qualcuno ha avuto l’idea infelice di fare una cena quarant’anni dopo, questa cosa allucinante, la
condizione umana è questa, siamo dei poveretti: indubbiamente, confrontandomi con i miei
superstiti compagni, io sono un po’ meno poveretto di loro, loro non sono nessuno insomma, io nel

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mio piccolo mi sono ricavato un minimo di visibilità, nonostante una damnatio nominis che la
sinistra mi ha appioppato. Il che mi crea anche delle difficoltà, le case editrici per stampare un libro
mi fanno difficoltà, devo girare. La scelta di una casa editrice piccolissima è una scelta di basso
profilo, io posso stamparmeli da solo i libri. Che Romano avesse scritto tutti questi libri io non lo
sapevo, nessuno glieli ha recensiti, qualcuno dei miei qualche volta è stato recensito naturalmente
per cazziarmi, ma come si dice “purché se ne parli…”, così ragionano gli editori, a me non me ne
frega assolutamente niente. La ricaduta di un libro come quello di Romano o di un libro mio, in una
società illetterata e incolta come quella italiana, è nulla. E’ stato fatto il calcolo che l’editoriale del
Corriere della Sera viene letto da 10.000 persone, cioè l’editoriale del principale quotidiano italiano
viene letto da 10.000 persone, praticamente gli addetti ai lavori. Quindi, la ricaduta è nulla, un libro
o un saggio quando arriva a una tiratura di 1.000 copie si è già ripagato, 3.000 copie è il massimo,
questa è la società italiana. Allora, di che cosa stiamo ragionando? Nessuno di noi è diventato
qualcosa di eccezionale. Rieser è una figura patetica, lui sta ancora facendo l’inchiesta operaia: la
coerenza è anche una virtù, ma perseverare è diabolico, se sei coerente nell’errore, caro mio, vuol
dire che non sei proprio quel genio. E Romano si è fatto chiudere lì a Scienze Politiche, siamo
ghettizzati, io sono ghettizzato qua dentro, non conosco nessuno, non parlo con nessuno. Siamo
integrati come era ovvio che fosse date le potenzialità intellettuali che avevamo comunque affinato,
la cultura media era più bassa, era anche giusto, siamo stati imbarcati qui. De Luna farlo professore
universitario ce ne vuole, Lotta Continua sarebbe da criminalizzare soltanto per avere espresso i De
Luna, i Revelli, i Sofri. Si pensi a quella vicenda lì, che riguardava 10.000 persone, tra l’altro io
rivendico il passaggio della staffetta a costoro, perché a Palazzo Nuovo nell’aula 39, oggi 3, quando
io e Soave abbiamo affrontato l’assemblea del movimento, aprile o forse maggio 1969, gli abbiamo
detto: “adesso voi pigliate su e andate davanti alle fabbriche, perché se no siete delle merde”, con
questi che si agitavano, ma li abbiamo obbligati. Il mio libro più importante è stato La Fiat è la
nostra università, c’era scritto: “volete che gli studenti vengano davanti alle fabbriche ad aiutare?”
tutti sì, sì, figurati, pensando naturalmente alle studentesse più che agli studenti, qualcuno è riuscito
a realizzare il sogno di scoparsi una studentessa. Ma quella roba lì la rivendico e nel contempo
potrei anche dire che mi pento, ma visto che i dieci anni precedenti li avevo passati io davanti alla
Mirafiori, loro hanno passato i dieci anni successivi: io dal ’61 al ’69, loro sono stati lì dal ‘69
all’80. Si può anche vedere la cosa in questi termini: l’esperienza dell’operaismo torinese negli anni
’60 ha anticipato le esperienze di Lotta Continua e di Potere Operaio, con tutto quello che si può
dire, cioè sui mea culpa da parte mia o non. Quindi, siamo di fronte a un fenomeno ripetibile, quindi
verificabile, quindi scientifico fin nella sua prima manifestazione. Adesso non posso aggiungere
altro, come noi siamo finiti per essere integrati anche gli altri hanno fatto la stessa fine, magari
integrati in carcere. Da Liguori a tutti quanti sono lì, è inevitabile che succeda una cosa di questo
genere.

- Quali sono i tuoi cosiddetti numi tutelari, ossia figure e autori che collocheresti in un ideale
pantheon di riferimento per il tuo percorso politico e culturale?

Fin quando sono stato in questo ambito di esperienza le figure sono le stesse degli altri. Potrei
aggiungere il personaggio Bordiga, che in fondo degli altri nessuno ha valutato nella sua importanza
o nella sua pochezza, la si chiami come si vuole: la mia esperienza e la mia adesione all’operaismo
e al gramscianesimo era abbastanza critica, cioè non ci credevo molto. E poi si tenga conto che
eravamo dei ragazzini, quindi facevamo le cose che ci sembrava giusto fare: voi adesso riflettete e
pensate che fosse una cosa razionale e studiata, ma era anche emotiva, nelle sue ispirazioni
originarie era tipicamente emotiva, iniziatica, andare al popolo è stata l’esperienza di tutta una
generazione russa, i populisti. Non è che ci pensi molto, io mi ricordo che quando Panzieri è
arrivato a Torino ci ha dato l’elenco dei libri da leggere, e allora potrei ricordarmi l’elenco o dire
che mi sono letto i 45 volumi di Lenin e le Opere Complete di Marx, vero e non vero, con una certa
approssimazione, ma senz’altro una delle prime cose che Panzieri ci fece leggere furono la terza e la

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quarta sezione del Primo Libro de Il capitale. Addirittura, nel ’67, centenario della pubblicazione
del Primo Libro de Il capitale, io, ormai assoldato dall’Istituto Storico della Resistenza, tenni una
lettura commentata del Primo Libro de Il capitale alla quale partecipavano certi Viale, certi
ragazzotti che poi divennero quello che sappiamo, abbiamo anticipato in tutti i sensi. Il Gatto
Selvaggio ha anticipato teoricamente le modalità che poi saranno famose nel ’69, lo sciopero di
reparto, lo sciopero a rotazione, tutte queste cose qui, anticipato in base alle esperienze comuni che
si facevano in questo post-Quaderni Rossi e anche post-Classe Operaia; questa cosa qui è stata poi
ereditata dagli altri e l’hanno fatta loro. Capovolgo la cosa: potrei anche vantarmi di avere educato
Toni Negri, perché quando uscii il Gatto Selvaggio ci fu questa fuga da Torino di Romano in
bicicletta per andare a Milano sulla statale con tre valige piene di libri e di vestiti (era una forza
della natura!), io invece più modestamente mi rifugiai a Venezia da Toni Negri che mi portava in
giro, “questo è Gobbi, il Gatto Selvaggio”. Perché poi il Gatto Selvaggio lo abbiamo fatto assieme
io e Romano Alquati, ma naturalmente lui stava dietro e io mi sono beccato la condanna a dieci
mesi di reclusione, cosa che mi segue ancora adesso, ho fatto la domanda per associato e ho dovuto
mettere che ho subito condanna: naturalmente per me è un onore dire che sono stato condannato per
apologia di reato, sono stato il primo italiano ad esserlo dalla fine del fascismo, poi vennero gli altri.
Dunque, abbiamo anticipato, grazie a voi mi sono ricordato anche di questo merito o demerito: la
nostra esperienza ha anticipato di pochi anni un’esperienza che si può dire allora veramente
generazionale, perché lì è stata una generazione di intellettuali che si sono sentiti coinvolti.
L’operaismo non è mica morto con noi, Lotta Continua e Potere Operaio furono i nostri successori.

- Ci piacerebbe che in un altro incontro ci dicessi che cosa pensi della cultura di sinistra.

Pensate la cosa peggiore e io penso quella. Vorrei concludere con quella domanda che mi avete
fatto a proposito dell’operaismo che ha dovuto fare i conti con la politica, gli operai e la cultura.
Non lo so, ci sono di nuovo degli automatismi, perché Panzieri lavora all’Einaudi e il libro di Tronti
viene pubblicato dall’Einaudi perché Bobbio lo appoggia, è così: lì ci sono questi legami, Panzieri
viene fatto fuori però continua a contare dentro l’Einaudi. C’era invece un rovescio, cioè alcuni di
loro erano affascinati o incuriositi da questo fenomeno, che in fondo li riguardava: insomma, il
padre di Rieser era comunque stato un personaggio, i Foa, adesso mi viene in mente il nome di
Solmi per dirne un altro della casa Einaudi, Baranelli, Ciafaloni, tutta questa gente qui seguirono
con interesse questa cosa. Ma, ripeto, il fenomeno è l’altro, il fenomeno è quello di massa che ha
prodotto; l’ha prodotto per automatismo anche lì, perché non poteva che essere così. Lì c’è un
passaggio che non so se Soave ha già detto: forse proprio rendendoci conto che la nostra eredità
poteva essere inflazionata e poteva anche arrivare a dei fenomeni degenerativi, al convengo del
Palazzetto dello Sport del luglio del ’69, dopo l’assemblea operai-studenti con la formazione di
Potere Operaio e Lotta Continua, io ed Emilio Soave distribuimmo due documenti in cui
praticamente facevamo loro le carte, e cioè la previsione di quello che sarebbe successo. Intanto
abbiamo preannunciato che loro sarebbero diventati due partitini antagonisti, e poi avevamo loro
preannunciato che avrebbero fatto una brutta fine insomma. Perché fintanto che la cosa aveva le
dimensioni nostre e le lotte operaie anticipavano una scadenza istituzionale le cose sono potute
accadere, ma quando ci sarà la scadenza istituzionale, lo sciopero nazionale dei metalmeccanici,
questa cosa verrà riassorbita dalle istituzioni e voi vi troverete a combattere contro le istituzioni, e
finirete male. L’abbiamo scritto, mi pare che avesse un titolo come “Una o due cose”. In fondo, la
nostra è stata anche una ritirata strategica, nel senso di definitiva, perché intanto ci sentivamo
surclassarti da queste forze preponderanti, più numerose, li abbiamo egemonizzati per tutta la durata
dell’assemblea operai-studenti: corso Traiano io lo rivendico ancora adesso come mia personale
iniziativa alla quale tutti loro si opposero duramente. Sofri, Negri, Bologna, tutti quanti si opposero
alla manifestazione in occasione dello sciopero della casa, perché mi dicevano che avrebbe bruciato
le avanguardie: il giorno dopo poi gridavano all’insurrezione, ragazzini! Ma in fondo noi abbiamo
appunto consegnato l’eredità giacente a costoro e costoro ne hanno fatto l’uso che sono stati in

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grado di fare, forse non si poteva fare altrimenti, insomma, parliamoci chiaro: l’unità delle sinistre e
poi si mettono in due a fare le stesse cose in concorrenza l’uno con l’altro, è ridicolo. Se ci fosse
stato uno spazio poteva solo venire fuori da una sinergia, certamente non da una divisione di quel
genere lì. Ma poi, ripeto, era una situazione anomala: perché non si è verificato niente di tutto ciò
altrove? Perché altrove era già passata questa stagione, qui è durata ancora fino al 1980, quando la
Fiat ha fatto i conti e zac, ha cominciato a tagliare, tagliare, tagliare e adesso la classe operaia è
quella che è, ma siamo ai livelli internazionali, forse ancora sovrabbondanti.

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INTERVISTA A MAURO GOBBINI – 11 DICEMBRE 2000

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e quali sono state eventuali figure
di riferimento nell’ambito di questo percorso?

Alla domanda risponderò con riferimenti a scelte molto personali e alle esperienze che ho condiviso
con altri, per episodi e per fatti più rilevanti, come può essere appunto la ripresa delle lotte operaie
a Torino, l’organizzazione del lavoro politico sia a Torino che a Milano e a Roma al di fuori delle
organizzazioni tradizionali, partiti e sindacato. Personalmente, io mi sono aperto ai problemi sociali
attraverso l’esperienza che ho fatto in Sicilia con Danilo Dolci, questo per me è stato l’inizio. Io ho
fatto il liceo ad Arezzo, l’università a Roma e nel periodo finale degli anni del liceo e dei primi anni
dell’università sono entrato in contatto, per vari motivi e attraverso Capitini, Calogero e altri, con
questa esperienza che era appena cominciata di Dolci che era andato in Sicilia. Sono andato lì già
nel ’54-’55 e da allora praticamente fino al ’62-’63 tutti gli anni passavo i miei due o tre mesi in
Sicilia. Prima di allora non avevo avuto nessuna esperienza di lavoro né politico né sociale, non
avevo fatto nessuna esperienza di tipo organizzativo. Quindi, i miei primi rapporti con la società
civile sono stati rapporti quasi istituzionali, nel senso che essendo in Sicilia e facendo un lavoro sul
territorio con queste popolazioni che vivevano nelle condizioni che ben sappiamo in quegli anni lì,
ovviamente l'impatto è stato con le istituzioni pubbliche, le organizzazioni sindacali, di partito e via
dicendo. In particolare quegli anni mi sono serviti per entrare in contatto con una dimensione per
me fino allora sconosciuta non solo istituzionale, ma anche economica e sociale del territorio e del
paese. Lavorando in Sicilia ho fatto per esempio le prime esperienze di analisi del territorio e delle
condizioni di vita di singole popolazioni: mi ricordo che ho partecipato ad un’inchiesta che credo
sia stata una delle prime, di poco successiva a quella su Orgosolo, sui pastori della Sardegna e che
fu pubblicata da Nuovi Argomenti mi pare, e prima ancora di quella sugli edili a Roma. Dunque,
facemmo un’inchiesta proprio sulle condizioni di vita della popolazione di un piccolo paese della
Sicilia dove si faceva intervento diretto, che consisteva soprattutto nell’assistenza alle famiglie e ai
bambini, si faceva doposcuola, assistenza paramedica ecc., proprio per mettere in moto questi
meccanismi di socializzazione delle persone che nella realtà siciliana erano tra i problemi più
grossi. Anche nelle comunità più piccole dove la conoscenza diretta tra le persone era sicura, c’era
però sempre una specie di rigidità incredibile nei rapporti soggettivi, per cui c’erano livelli di
“tolleranza” sia della violenza sia della povertà che erano assolutamente impensabili: per me, ad
esempio, che venivo dalla Toscana e anche da Roma l’idea che delle persone e delle famiglie con
bambini potessero vivere in quelle condizioni veramente da Terzo Mondo senza una forma di
ribellione e di insubordinazione era una cosa straordinaria. In più, guardando questa realtà, era
evidente il potere delle strutture pubbliche, a cominciare dalla Chiesa e via via poi fino ai partiti, il
sottobosco degli enti locali, ecc. Fu la scoperta di un’Italia che era completamente diversa da quella
che io conoscevo. La cosa importante, almeno per quello che riguarda la mia esperienza, è che la
riflessione su questa condizione sociale, di vita delle piccole comunità agricole, di pescatori ecc., si
sposò immediatamente con un discorso che andava in prospettiva verso il ragionare sulle
condizioni della popolazione del Terzo Mondo: erano gli anni della conferenza di Bandung, gli
anni in cui Myrdal pubblicava le sue ricerche sull'India. Quindi, diciamo che ci si trovò
intellettualmente e culturalmente con Dolci e i suoi amici (che poi dirò chi erano) a mettere insieme
per una riflessione più approfondita il discorso su quello che vedevamo e constatavamo in Sicilia e
quello che poteva essere il corrispettivo a livello mondiale. Infatti, un altro dei momenti per me
fondamentali è che in quegli anni con Dolci si cominciò a parlare di necessità di fare un’inchiesta
sulle condizioni della popolazione siciliana (inchiesta a Partinico e poi a Palermo): per fare queste
inchieste ci si rivolse, per avere anche un’indicazione di metodo, a quelli che allora erano i
personaggi più illuminati, da Calogero per quello che riguardava il discorso generale fino agli
economisti, Steve, Lombardini, Sylos Labini. Erano tutte persone con cui Danilo Dolci aveva un
rapporto quasi costante di consiglio e di suggerimento, e furono anche le persone che lo sostennero

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a livello nazionale rispetto alla guerra che gli facevano le istituzioni. In Sicilia per quanto riguarda
le istituzioni ho già detto della Chiesa, ma anche le amministrazioni vedevano questa attività di
Danilo Dolci come una cosa assolutamente deprecabile e da bloccare: io mi ricordo che noi
avevamo costantemente visite della polizia, perché allora c’era il problema dei permessi di
soggiorno, le carte di identità, i vari documenti, insomma tutta una serie di vincoli e di freni
incredibili. La cosa era tanto più pesante perché ovviamente venivano in Sicilia da tutta l’Europa,
infatti questa è stata l’altra dimensione dell’esperienza, cioè che l’avere pensato di applicare allo
studio e alla ricerca sulle condizioni di vita di questi paesi della Sicilia i metodi che venivano
applicati dalla sociologia anglosassone ai paesi del Terzo Mondo comportò l’arrivo giù in Sicilia
(nelle zone tra Peto, Partinico e via dicendo) di giovani ricercatori svedesi, inglesi, francesi e
ovviamente vennero anche i torinesi, infatti io Mottura, Rieser, Soave li ho conosciuti lì. Questo
avvenne esattamente nell’anno e mezzo che precedette il famoso convegno sulla pianificazione che
si fece in Sicilia e che fu un evento culturalmente molto rilevante, perché allora praticamente la
pianificazione era identificata con la pianificazione socialista e quindi l’idea che si potesse fare un
discorso di intervento pubblico e di pianificazione al di fuori degli schemi del socialismo realizzato
era assolutamente un dato inaccettabile. Questo convegno fu praticamente svolto sulla falsariga
dello schema che aveva fornito Alfred Sauvy, demografo ed economista francese di cui proprio
allora erano apparse le sue ricerche sulla crescita della popolazione mondiale e sui problemi dello
sviluppo. Insomma, i due referenti a cui si guardava in quel momento per capire quali potessero
essere gli strumenti per capire in maniera più generale quello che succedeva in Sicilia erano Myrdal
e Sauvy. Ovviamente c’erano economisti italiani come Sylos Labini di cui mi ricordo che a quel
tempo era uscito il suo libro sullo sviluppo e la tecnologia. Quindi, questa esperienza aveva sì
risvolti di tipo assistenziale, alla maniera dei “medici scalzi”, ma aveva anche questa prospettiva
meno riduttiva e aperta a conoscere quello che avveniva socialmente ed economicamente nel
mondo.
Dunque, io mi sono formato così, cioè il mio primo impatto con il sociale – come si dice oggi – è
stato un impatto in cui ci poteva essere il rischio del sociologismo e del pauperismo che, invece, il
confronto con questi personaggi ha evitato. Vivendo a Roma e cercando di fare con Dolci,
Calogero, Capitini ed altri un lavoro di promozione e sostegno dell’iniziativa di Dolci, sono entrato
in contatto all’università con i compagni che poi hanno formato il gruppo romano dei Quaderni
Rossi, soprattutto con Asor Rosa. Infatti, siccome io facevo Lettere, il primo incontro con Alberto
avvenne proprio in occasione di una di queste presentazioni in facoltà dell’attività di Dolci per
promuovere la conoscenza di questo lavoro e per trovare sostenitori, finanziatori e giovani
volontari. Così sono entrato in contatto con questi compagni. Io non ero iscritto a nessun partito e
lavorando con loro poi ho cominciato a frequentare tutti quelli del gruppo, Tronti, De Caro,
Coldagelli, la Salvetti, la Di Leo e tutti gli altri. Loro in parte, almeno per quello che ne so io, si
erano conosciuti all’università, il gruppo era cresciuto proprio nella relazione giovanile dello studio
e dell’università, e poi molti di loro erano anche quadri di partito, o comunque erano intellettuali di
partito, come Tronti, Coldagelli, poi più tardi Aris Accornero. In questa situazione ho conosciuto
personalmente Panzieri: io di lui avevo già una conoscenza indiretta perché Danilo lo aveva
incontrato più volte quando era stato in Sicilia come responsabile del Partito Socialista di allora.
Poi, ovviamente avevo letto le cose che scriveva sulle riviste del PSI e della sinistra. L’esperienza
dei Quaderni Rossi io l’ho vissuta in parte più come osservatore che come attore, perché intanto le
discussioni che seguivo a casa della Rita Di Leo quando Panzieri veniva a Roma mi interessavano
moltissimo dal punto di vista culturale, ma, data la mia esperienza siciliana ancora così viva, pratica
e concreta, non riuscivo a vederne molto il lato politico pratico. Poi per me, ma credo per la gran
parte di noi che vivevamo a Roma, la presenza e il peso in questa città della classe operaia era
difficile valutarlo. Tanto è vero che poi i Quaderni Rossi sono nati pensando a Torino, non
pensando alla Fatme o agli edili di Roma: che poi queste fossero realtà operaie, sociali, di classe è
un altro discorso, però di fatto, volendo quella esperienza dei Quaderni Rossi indicare una via di
uscita dalla rigidità del Movimento Operaio organizzato tradizionale e la ripresa delle lotte, il punto

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di riferimento per tutti quanti noi era il punto più alto dell’organizzazione capitalistica. Questo
discorso allora era pacifico, era lì che bisognava agire, Lenin in Inghilterra diciamo.
Questa esperienza dei Quaderni Rossi, dal punto di vista proprio del laboratorio scientifico, l'ho
vissuta più come testimone delle discussioni, tanto è vero che io non vi ho mai scritto niente, avevo
fatto solo quando ero a Milano delle note per le Cronache dei Quaderni Rossi. Infatti, io allora da
Roma ero andato a Milano perché nella mia vicenda privata a Roma per un po’ di anni avevo
insegnato storia e filosofia, poi dopo, per ragioni anche di sopravvivenza, ho fatto un concorso e
sono andato a lavorare alla Rai di Roma da dove ho chiesto il trasferimento a Torino, proprio per la
prospettiva del lavoro con i compagni torinesi. Invece mi mandarono a Milano e infatti la mia
esperienza di tipo politico, operaista e autonomo, è stata divisa tra Milano e Napoli. Dal ‘63-’64
fino al ’70 a Milano e dalla fine del '70 a tutto il '74 a Napoli. Quindi la mia esperienza politica più
personale e profonda è cominciata a Milano attraverso la conoscenza e l'amicizia con i vari
compagni che operavano sia a Torino che a Milano; qui c’erano Pierluigi Gasparotto, Giairo
Daghini, Neri, poi c’era il gruppo di Como. A Milano io ho fatto proprio l’esperienza di lavoro
politico di base, di fabbrica, nel senso che con Pierluigi, con gli altri, con lo stesso Romano che per
un periodo ha fatto la spola tra Torino e Milano, abbiamo messo in piedi l’intervento in alcune
situazioni che allora erano essenzialmente l’Alfa Romeo di Portello (Arese ancora non c'era),
l’Innocenti che era già in crisi, la Pirelli di viale Sarca, la Siemens, la Bianchi di Desio, la Snia
Viscosa, eccetera: lì appunto il lavoro è stato proprio quello di base. A Milano noi facevamo un
lavoro di presenza continuativa e giornaliera davanti a queste fabbriche, successivamente poi anche
alla Farmitalia, dove c’erano dei quadri tecnici che poi sono entrati dentro Classe Operaia, come
Alberto Forni. Noi intervenivamo lì, la nostra linea politica nasceva da una riflessione critica sulle
proposte sindacali e sulla linea politica del partito, e soprattutto dalle discussioni dirette con operai
e impiegati che contattavamo ogni giorno. Quindi ci siamo trovati a discutere le ipotesi politiche e
le analisi di Tronti, di Romano e degli altri contemporaneamente al fatto che volevamo mettere in
piedi o mantenere un intervento in queste situazioni operaie. Mi ricordo che c’era un problema che
cercavamo tutti quanti di risolvere, anche se poi è una cosa che non ha mai una soluzione
definitiva: noi dovevamo riuscire a mediare il discorso della presa del potere, di Lenin in
Inghilterra, con un discorso di intervento quotidiano con una classe operaia che si capiva che si
muoveva, che non era sempre la stessa, che un giorno condivideva o perlomeno ci sembrava che
capisse il discorso che noi proponevamo attraverso i volantini, e invece questa presenza del partito
e del sindacato che comunque in quelle situazioni di fabbrica rappresentava una resistenza molto
forte. Noi avevamo proprio il problema di trovare una mediazione e una via per legare questa idea
dello sviluppo della forza della classe operaia e l’intervento quotidiano. Si tenga sempre presente
che noi, almeno per quello che mi ricordo, non abbiamo mai pensato che il salto potesse essere la
fondazione di un nuovo partito. Per noi l’organizzazione della lotta di classe, dell’insubordinazione
doveva avere caratteri pratici nel momento in cui effettivamente avveniva la lotta, ma nessuno mai
ha pensato che avremmo dovuto creare una struttura con segretario, responsabile ecc. Poi nella
pratica c’era il compagno che coordinava l’intervento alla Pirelli, un altro che coordinava quello
all’Alfa Romeo, nella pratica queste cose qui si danno, ma questo non è stato mai un riferimento
per un’idea di organizzazione di partito. Quindi, avendo questa esperienza a Milano, stando dentro
a questo tipo di lavoro, ovviamente la cosa a cui ho più direttamente partecipato è stata proprio la
costruzione del nucleo di Classe Operaia. Effettivamente c’è stata anche una crescita
dell'esperienza politica e di intervento, perché a Torino si sono aggiunte realtà lavorative di altre
città e situazioni di sfruttamento. Durante il periodo dei Quaderni Rossi, perlomeno dei primi, pare
quasi che il discorso sia tutto rivolto esclusivamente su Torino, la Fiat e l’Olivetti; solo
successivamente, appunto con Classe Operaia, il discorso si allarga e allora c’è Milano, c’è Roma,
Genova e poi c’è soprattutto il polo veneto. Infatti, l’arrivo del gruppo veneto all’interno di Classe
Operaia, anche se già aveva avuto le prime avvisaglie con i Quaderni Rossi, ha significato per essa
un ulteriore sviluppo in maniera completamente diversa dal precedente, tanto è vero che quando
Classe Operaia è morta, sono nate le esperienze specifiche dell’area veneta, è nato Potere Operaio.

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Fino a Classe Operaia l’egemonia della Fiat, come punto di analisi e di riferimento era indiscussa,
quella era la realtà a cui dovevamo guardare, su quella dovevamo misurare l’efficacia
dell’intervento. Con l’arrivo dei veneti e del polo di Porto Marghera questo “monopolio” si
infrange, il discorso si allarga, tanto è vero che poi comincia a venire fuori il discorso sul territorio,
sul piano del capitale che si inventa altre forme di sfruttamento a livello planetario, altri modi di
controllare la dinamica salariale, eccetera. Queste cose qui secondo me nascono proprio dalla
rottura di questo schema rigido iniziale che era centrato sulla Fiat. E non è un caso che Romano,
per esempio, dal punto di vista dell’analisi della situazione di classe generale, rimane un punto di
riferimento, ma è un po’ appartato rispetto ai vari Magnaghi, Cacciari, Toni Negri.
Questo avviene proprio verso la fine degli anni ’60 e inizio anni ’70, quando a Milano nelle realtà
di fabbrica in cui noi stessi si interveniva erano cominciate ad affiorare le situazioni di
organizzazione alternativa ai sindacati e al partito, i famosi collettivi. In quel periodo io sono stato
trasferito a Napoli, per ragioni politiche, perché avevamo fondato il primo comitato di base dentro
la Rai, l’industria della formazione come già allora la chiamavamo. A Napoli sono stato quattro
anni, dal ’70 al ’74, e lì ho vissuto la parabola di Potere Operaio, il mensile, il settimanale, il
quindicinale, e Napoli era la città più industrializzata di tutto il Meridione. Mi ricordo per esempio
che lavoravo alla Rai che è a Fuorigrotta, quindi praticamente a due passi da Bagnoli, e noi per
circa un anno e mezzo, un giorno sì e uno no (io poi ero nel consiglio di azienda) ricevevamo le
delegazioni degli operai. E lì, in quella fascia del golfo di Pozzuoli c’erano fior di fabbriche
siderurgiche, chimiche e metalmeccaniche come l'Italsider, la Sofer, l'Olivetti, e sull’altro lato,
verso San Giovanni al Teduccio, c’erano le altre fabbriche petrolchimiche e soprattutto, dai primi
anni ’70, c’era l’Alfa Sud. Quei quattro anni li ho vissuti come uno sfrangiamento del lavoro e della
riflessione politica che avevamo fatto con molto rigore sia con i Quaderni Rossi che con Classe
Operaia. Si andò infatti verso un tipo di riflessione politica che guardava più all’egemonia del
gruppo che non alla volontà di capire esattamente come stavano le cose. Infatti, mi ricordo che
c’erano penose discussioni con Lotta Continua, con frazioni e con singoli militanti, e poi le
divisioni all’interno dello stesso Potere Operaio, per cui c’era Potere Operaio di Marghera, quello
di Roma, di Bologna, di Napoli e poi dentro ad esso c’erano quelli che erano d’accordo con Roma e
quelli che erano contrari: insomma, se uno dovesse non dico dare dei giudizi ma comunque
esprimere delle valutazioni su quello che stava succedendo, bisognerebbe dire che si stava
distruggendo tutto quello che avevamo costruito come gruppo politico di intervento in fabbrica e
sul territorio. Quello che è avvenuto dopo aveva le premesse in quegli anni lì. E’ vero, io sono
convinto che dentro Potere Operaio, anche nelle aree più estreme, non c’è stata mai l’idea della
lotta armata come pratica di avanguardia, come poi è stato accusato: mentre è vero che c’era un
impoverimento dell'analisi di quello che avveniva, il che era distante anni luce dal rigore con cui
alcuni compagni avevano riflettuto su quello che succedeva nella classe operaia negli anni torinesi
dei QR e in quelli milanesi di Classe Operaia. Ovviamente questa deriva organizzativa dei gruppi
ha pesato sulla serietà della riflessione e sulla pratica dell'intervento in fabbrica e sul territorio.
Siamo approdati ad un concetto di classe operaia approssimativa generica che non ci ha aiutato a
capire la rivoluzione del lavoro e del capitale che avveniva proprio in quegli anni. Poi, certo, le
istituzioni (partito e sindacato) erano finite come sono finite, però diciamo che forse questa caduta
verticale è dovuta più a un processo che si è svolto oggettivamente al di fuori delle nostre iniziative,
che non per via di queste; io penso che noi non siamo riusciti a rendere efficace il movimento
antagonista rispetto a queste cose, perlomeno non gli abbiamo dato continuità. Ci sono stati
sicuramente dei momenti in cui abbiamo capito lo sviluppo dell’antagonismo dentro il sindacato,
fuori dal partito e anche dentro di esso, ma questo antagonismo a un certo punto è andato avanti da
solo, noi lo abbiamo solo cavalcato.

- Quando hai cominciato l’intervista hai detto che ti sei riferito soprattutto alle esperienze fatte
collettivamente: all’interno di Classe Operaia quali erano i processi per cui la capacità di
elaborare questa sintesi di comprensione ma soprattutto politica si dava in termini collettivi?

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Avveniva per una ragione secondo me pratica. Io parlo di Milano perché era la realtà dove vivevo:
lì c’erano dei compagni che intervenivano nelle realtà di fabbrica della città, poi c’erano quelli che
intervenivano a Como e nel comasco, dove c’erano la Ignis e altre fabbriche. Questi compagni si
riunivano settimanalmente, a volte ci si riuniva anche due o tre volte a settimana, si discuteva, ci si
riferivano le impressioni, le osservazioni, i colloqui che avevamo avuto con quadri sindacali che
magari erano più aperti, con operai, si diceva qual era la situazione, si discuteva la traccia di
accordo sindacale che veniva presentata: si faceva un lavoro molto pratico, cioè se c’era la lotta alla
Pirelli perché volevano modificare l’accordo sul lavoro notturno o i turni, allora noi discutevamo
quelle cose lì. Prima di tutto si assumevano le informazioni dirette, quindi attraverso colloqui con
gli operai, si discutevano queste cose, si cercava di capire qual era la logica che stava dietro a
queste iniziative del padrone, cioè perché i turni, perché il lavoro in quelle macchine veniva
organizzato in quel modo piuttosto che in un altro. Voglio dire che non c’era il compagno che
diceva “allora, l’ordine del giorno è questo…”: no, ci si trovava, si discuteva e poi si decideva e si
coordinavano anche gli interventi. Purtroppo non ho più i volantini, ma mi ricordo che una volta
che li avevo messi da parte e che mi era capitato di riguardarli un po’, ho visto che c’erano gli
interventi in contemporanea in alcune fabbriche milanesi che riportavano non le parole d’ordine
generali, tipo “no al sindacato” o “no al contratto”, ma riportavano delle analisi e delle osservazioni
precise rispetto proprio alla dimensione del lavoro e rispetto all’iniziativa operaia che si doveva
prendere in quella situazione specifica. Quindi, diciamo che la dimensione collettiva del lavoro
nasceva dal fatto che si partiva da una considerazione se si vuole banale e povera che era di
escludere ogni inutile polemica con sindacati e partiti e di sviluppare, invece, una linea politica
autonoma, ritenendo che all'interno delle situazioni operaie e proletarie ci fossero sufficienti
elementi, energie e prospettive per darsi obiettivi concreti senza dover partire dal solito “contro il
partito”, “contro il sindacato”, che era la posizione di Lotta Continua, di Avanguardia Operaia,
eccetera.

- Analizziamo criticamente questi percorsi. Da una parte c’è Classe Operaia: quali sono stati i
limiti e le ricchezze dell’esperienza nel suo complesso e delle posizioni che in essa si sono
confrontate e anche contrapposte? Dall’altra parte ci sono i percorsi successivi: Tronti dice
che c’è una cesura netta tra quello che lui definisce l’operaismo politico, ossia quello dei
Quaderni Rossi e di Classe Operaia, e quello che c’è stato dopo, in particolare Potere Operaio
che è quello che ha maggiormente rivendicato una linea di continuità con l’impostazione
operaista. Tu hai già individuato alcuni elementi di continuità e altri invece di discontinuità:
secondo te tra le due fasi c’è una cesura netta oppure no?

Tra Classe Operaia e Potere Operaio la cesura non è stata subito netta, lo è diventata. Se non mi
ricordo male, Potere Operaio nazionale è nato come iniziativa dei veneti, che sono venuti a Milano,
hanno portato addirittura dei quadri, come Emilio Vesce, con l’idea che bisognava rimettere in
piedi un intervento operaio, nelle fabbriche, e quindi è nato Potere Operaio con questa prospettiva
di discorso nazionale e non solo veneto. Prima che nascesse questa esperienza, c’è stata una specie
di sfilacciamento, cioè la fine dell’esperienza di Classe Operaia è stata netta nel senso che a un
certo punto non è uscito più nessun altro numero e quindi quell’esperienza è finita; però, i rapporti
tra i vari Tronti, Negri, Cacciari ed altri sono continuati, tanto è vero che hanno dato vita a riviste
di vario tipo. Voglio dire che ci sono state nel mezzo tante cose che hanno in qualche modo
seppellito o perlomeno hanno reso distante l’esperienza più rigorosa dei primi Quaderni Rossi e di
Classe Operaia. Quando abbiamo cominciato ad avere a Milano gli interventi dei vari collettivi, dei
gruppi extraparlamentari che avevano fatto dell’opposizione al partito e al sindacato il vero e unico
obiettivo, a quel punto lì c’è stato secondo me un cambiamento proprio genetico della linea
politica. Forse mi sbaglio, non lo so, io non ho mai fatto vita di partito, ho fatto attività sindacale
quando già ero dentro Classe Operaia e Potere Operaio, quindi come iscritto, solo a Napoli poi

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sono stato attivista sindacale, ma allora essere quadro sindacale a Napoli era come essere
extraparlamentare a Milano, la realtà era questa. Dunque, non avendo io vissuto l’appartenenza
all’organizzazione, non ho mai capito perché nel lavoro politico che si voleva fare ci fosse sempre
qualcuno che metteva avanti il discorso contro. Negli anni ’50 sia la CGIL e il Partito Comunista
erano degli ostacoli veri rispetto al cambiamento; però, siccome noi ci muovevamo fuori dall’ottica
di costruire un’altra organizzazione e invece nell’ottica di capire meglio la realtà, quello che
avveniva, e di riuscire a costruire e comunicare questa comprensione a livello di base, quindi con
un rapporto e uno scambio continui, questa guerra contro le organizzazioni non aveva molto senso.
Invece, a un certo punto le cose cambiano con la nascita di Potere Operaio e poi con l’arrivo dei
romani e soprattutto dei bolognesi: ma su questo uno dovrebbe fare un certo discorso a parte,
perché a Bologna è vero che c’era il PCI che era una specie di cappa, però è anche vero che a
Bologna c’erano i socialisti, a cominciare da Piro, che prima era anticomunista e poi, ma molto
molto dopo, era antidemocristiano. Allora, con queste anime spurie rispetto all’obiettivo che si
diceva di voler perseguire, che era quello appunto di rompere il fronte padronale capitalistico, di
liberare la classe operaia da queste sovrastrutture organizzative e via dicendo, a quel punto lì è
successo un quarantotto: le cose sono finite come si sa, ognuno poi se ne è andato per conto suo,
sono nati gruppi, gruppetti, più o meno segreti, ci sono stati episodi vergognosi anche all’interno
dei nostri gruppi, dico vergognosi a ragion veduta, nel senso che ci sono state delle forme di
cattiveria, di violenza nei confronti di compagni che fino a ieri facevano parte dello stesso gruppo,
rivalità meschine, io le ho viste. Questo ha indebolito tutto, per cui è finita proprio quella che era la
ricchezza delle analisi, del tentativo di capire, del discutere insieme, ed è diventata la povertà del
decidere quello che si doveva fare e chi doveva decidere. Certo, l’esperienza del Veneto è diversa,
come è diversa quella di Torino: in tutte le situazioni dove c’era una realtà sociale, di fabbrica e
operaia forte, l’impoverimento del lavoro politico è stato in qualche modo frenato, nel senso che la
realtà della Fiat è talmente grossa che, malgrado tute le miserie dei vari interpreti, questi non hanno
scalfito minimamente l’importanza e il peso di quella realtà politica.

- Nel suo complesso quali sono stati i limiti e le ricchezze di Classe Operaia e delle varie
posizioni che in essa erano presenti?

Siccome in quel tempo stavo da poco a Milano, facevo un po’ da postino, venivo spesso a Roma,
mi vedevo con Tronti, e dunque ho avuto modo di vedere come i romani valutavano il nostro
intervento nelle fabbriche e l’esperienza di Classe Operaia. Il limite di Classe Operaia è stato che a
un certo punto l’analisi della situazione di classe, così come era stata fatta da Tronti, non ha trovato
più sbocchi: in fondo l’analisi di Tronti, il discorso che lui ha fatto sul primato della classe operaia
e via dicendo, era nata attraverso la riflessione indotta credo soprattutto dalle analisi di Romano
Alquati, indotta propria dal referente Fiat. Cioè, con Classe Operaia si è esaurita la forza attrattiva
di questo punto di partenza della dimensione teorico-pratica. Infatti, si potrebbe anche vedere quali
erano i luoghi di intervento durante i primi due anni, quando è vissuto questo legame tra i compagni
di Roma, Torino, Milano ecc. nei Quaderni Rossi, e poi, invece, quando nasce Classe Operaia,
dove sono i luoghi di intervento: c’è una crescita proprio esponenziale, là erano l’Olivetti e
soprattutto la Fiat, qua sono altre realtà. Porto Marghera significa non soltanto la grande fabbrica, i
grandi porti, significa il territorio. Le riflessioni sulla fabbrica e il territorio Romano le aveva fatte
al tempo della ricerca sull’Olivetti, però quella in un certo senso era vissuta come un’analisi che
aveva messo un punto fermo e basta. Con Classe Operaia le soggettività esplodono, nel senso che
si moltiplicano e si diversificano i quadri che intervengono e che comunicano tra di loro, perché
non dico che la nascita di Classe Operaia abbia fatto aumentare il numero dei compagni che
intervenivano nelle fabbriche, ma è vero che la nascita di Classe Operaia ha portato un certo
numero di compagni a conoscersi, a scambiarsi le informazioni e a costruire insieme lotte per
cambiare lo stato delle cose. Le soggettività poi emergono in questo modo qui, c’è qualcuno non
che dà il là, ma che riesce a esprimere qualche cosa e in quel momento altri si riconoscono in quello

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che lui ha espresso. Allora, ci furono i primi interventi che facevamo in queste fabbriche che erano
rimaste non dico abbandonate, ma avevano una presenza saltuaria del sindacato che si presentava
all’ultimo momento con il solito volantino per il rinnovo del contratto. Fu importante il fatto che
davanti a queste fabbriche tutti i giorni ci andavano decine di compagni, perché poi erano questi i
numeri, non è che fossimo solo due o tre, sarebbe stato diverso. Bisognerebbe andare a vedere,
quanti volantini si davano all’Alfa Romeo di Portello. Noi ne davamo dai due ai tremila: c’è anche
un aspetto materiale che dà il senso delle cose, stavi lì, ci si andava a tutti i turni, compreso quello
di notte. Quindi, questa esplosione dell’intervento e dunque l’emergere di soggettività da territori
che fino allora erano stati ignorati, ha secondo me costituito la ricchezza di Classe Operaia ma ne
ha anche determinato il limite. Perché a quel punto lì la riflessione teorica che si era svolta non era
più in grado di mettere insieme queste cose: finché parlavi dell’operaio Fiat si trattava di un
rapporto tra l’analisi e la realtà che sembrava quasi banale, era proprio automatico, c’era una specie
di automatismo fra un’analisi teorica e una rappresentazione pratica di quello che tu dicevi. Quando
insorgono tutte queste situazioni perché l’intervento si moltiplica e si intrecciano soggettività ed
esperienze diverse e in maniera positiva, a quel punto lì quell’analisi che era stata fatta prima non
regge più, cioè non riesce a costituire una lettura condivisibile per tutti quanti, e infatti poi si
moltiplicano le esperienze, si moltiplicano le letture, e allora poi si comincia a parlare del territorio,
della fabbrica diffusa e tutte queste cose qui che dal punto di vista teorico sono cose positive, nel
senso che hanno dato ragione di riflessioni e di ipotesi, però di fatto soggettivamente hanno anche
determinato il superamento dell'esperienza. A questo punto, però, per non dare l'impressione di un
fallimento dell'esperienza di cui parliamo, bisognerebbe ricostruire il lavoro di tessitura dei
rapporti con i compagni tedeschi, francesi, inglesi e americani. E' un capitolo molto importante
dell'esperienza di Classe Operaia e del primo Potere Operaio, forse quello che ha continuato a dare
frutti di analisi e letture del presente fino ai nostri giorni. E’ dentro questa esperienza che si sono
sviluppate le tesi sul lavoro, sul salario, l’operaio massa e il nuovo internazionalismo.

- De Caro e Grillo avevano una posizione critica all’interno di Classe Operaia, che poi
espressero anche in un ciclostilato che fecero nei primi anni ’70. Questa cosa emerge anche
dalle interviste che stiamo facendo: risulta anche a te?

E' un particolare che non ricordo. Di Enzo ho perso le tracce da quando sono andato a Milano. So
che lui e Gaspare erano molto amici, lavoravano tutti e due all’Enciclopedia Treccani. Di Gaspare
posso dire che c’è stato un momento di grande partecipazione in concomitanza con le lotte alla Fiat;
mi ricordo che abbiamo fatto un viaggio tutti quanti assieme a Torino per questa grande riunione
per decidere dell'intervento massiccio alla Fiat e in essa era venuta fuori anche l’ipotesi che Mario
andasse a lavorare all’Einaudi e probabilmente anche Gaspare e comunque c’era questa idea forte
che l’esplosione della Fiat potesse essere il segnale di qualche cosa di grosso. Si può dire che
l'esplosione della Fiat avviene dopo le grandi crisi a livello internazionale del movimento operaio,
come il ’56. C’era quell’universo di riferimento che era il comunismo mondiale, il socialismo
realizzato, al quale nessuno di noi aveva mai dato importanza: mi ricordo che ero in Sicilia quando
è avvenuto il ’56, ero con Giovannino Mottura a Bisacquino, un paesino sperduto dentro la Sicilia,
e l’arrivo dei carri armati sovietici non ci aveva sorpreso, nel senso che davamo per scontato che,
come del resto gli Stati Uniti, per mantenere integro il proprio impero avrebbero represso e
ammazzato chiunque e dovunque. Quindi, l’esplosione della Fiat era in concomitanza con questa
che sembrava una crisi aperta a livello internazionale, la crescita dei movimenti che si opponevano
sia agli Usa che all’Unione Sovietica, i paesi non allineati: in questa cornice internazionale, anche
all’interno di un paese sicuramente subordinato come l’Italia, un’esplosione come quella sembrava
che potesse segnare veramente l’inizio di un rivolgimento generale. Ma non fu così, si cominciò a
guardare con meno fiducia all’analisi condotta da Tronti sulla classe operaia e fu l’inizio di una
critica che poi diventò radicale. Perché a un certo punto i compagni come Gaspare, ma anche altri,
io stesso, vedevamo male questo doppio binario, cioè stare con Classe Operaia e stare dentro il

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partito: obiettivamente questa militanza nel partito e questa militanza nel movimento ci sembravano
una cosa troppo difficile da digerire, e credo che Gaspare abbia a un certo punto pensato anche
questo. L'ho visto più di un anno fa. Dell’esperienza dei Quaderni Rossi e di Classe Operaia dà un
giudizio molto negativo, dice che lì si sono accese delle speranze, si sono avviati dei discorsi, ma
poi si è ripiegato tutto nella mediazione, fino all’opportunismo personale. Poi però, al di là di
questo aspetto che può essere un fatto di emotività, di disillusione, credo che non abbia più
condiviso l’analisi di Tronti sul rapporto tra organizzazione e classe operaia. Lenin in Inghilterra
non era vero, tant’è che non c’è stato. Sono state delle forzature che potevano essere capite e
condivise nel momento in cui c’era questa speranza e questo rapporto comune; quando si è
continuata l’analisi mantenendo questo rapporto con il vecchio che si voleva distruggere, a quel
punto c'è stato il distacco, la rottura. Ma a proposito di Gaspare vorrei aggiungere alcune cose che
ritengo molto importanti per chi volesse ricostruire il quadro culturale di quegli anni. Gaspare alla
Treccani coordinava l'iniziativa, che lui stesso aveva promosso, di due collane di testi di storia
economica e politica. I testi che sono usciti sono di grande importanza per lo studio della società
borghese e capitalista. Vi cito solo alcuni nomi di autori: Kelsen, Keynes, Ricardo, Calhoun,
Walras, Myrdal, Deleuze e Guattari. Di Walras Gaspare curerà in particolare, oltre che
l'Introduzione alla questione sociale, gli scritti in due volumi di Economia monetaria con un saggio
introduttivo fondamentale. Ma di questo lavoro non trovi quasi traccia nelle riviste e negli scritti di
vecchi compagni di QR, Classe Operaia e Potere Operaio.

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INTERVISTA A CLAUDIO GREPPI – 23 SETTEMBRE 2000

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e di inizio dell’attività politica
militante?

Io vengo da una famiglia di alta borghesia, ad un certo punto mi sono iscritto alla facoltà di
Architettura, che era abbastanza un covo di sinistra. Forse l’inizio fu il gennaio ’59, quando Firenze
fu travolta da quelli che si chiamarono “i fatti della Galileo”, cioè tre giorni di scontri in tutto il
centro della città per la difesa dell’occupazione; poi su questa cosa ci abbiamo riflettuto parecchio,
mi pare anche di averci successivamente scritto su Classe Operaia. Era una di quelle che erano le
ultime lotte degli anni ’50 ma anche le prime degli anni ’60, come si suol dire, dove era
straordinaria la cultura dello scontro di piazza che portavano i vecchi operai comunisti, o meglio
mica tanto vecchi, erano quarantenni, evidentemente invece noi eravamo giovani, ventenni, studenti
che capitavano lì un po’ per sport. Questi operai arrivavano con i treni da Empoli per esempio,
dandoci proprio delle direttive precise: “Prima cosa, spaccate tutte le macchine fotografiche che
vedete”, insomma queste regole del comportamento operaio degli anni ’50; e poi le barricate, il
lancio dei sassi (in cui ero particolarmente negato). Comunque fu un’esperienza molto bella, durò
tre giorni, si andava a casa poi si ritornava lì: in qualche modo è stato il battesimo politico, io non
ero iscritto a niente in quel momento.
Poi ci fu una specie di reclutamento nel Partito Socialista di allora, nella Federazione Giovanile che
era di sinistra: c’erano i carristi come si diceva a quel tempo, ma c’erano anche quelli che si
raccoglievano sotto questa strana etichetta della corrente bassiana (da Lelio Basso), c’erano un po’
di amici che poi erano gli stessi che io conoscevo a Torino, tipo Rieser, Mottura, Soave, persone
che io avevo già conosciuto ad Agape, in ambienti valdesi. Da lì poi io mi sono proprio iscritto nel
Partito Socialista nel ’59, un po’ per l’influenza appunto di queste vicende fiorentine e un po’ per la
conoscenza con questi compagni torinesi, da cui poi venne la conoscenza con Panzieri, che è stata
una cosa abbastanza importante, mi pare che avvenne nel ’60 o ’61. Anche lui lo incontrai ad
Agape, dove tra l’altro c’erano questi percorsi incrociati: io vi andavo perché ero di origine valdese
e dunque faceva parte delle tradizioni famigliari, lì incontravo queste novità, questi socialisti, queste
cose un po’ fuori dal mio mondo di nascita, e quindi uscivo dall’ambiente valdese; viceversa Rieser
e Mottura, che venivano da altre cose, ad Agape entravano dentro l’ambiente valdese, dunque il
nostro percorso era perfettamente simmetrico. Tra l’altro in una di queste occasioni ci fu Panzieri,
l’ho conosciuto, poi è venuto varie volte qui a Firenze.
A quel punto era il secondo anno dei Quaderni Rossi e ho cominciato ad andare a Torino quasi
regolarmente ogni due o tre settimane. C’erano queste redazioni dei Quaderni Rossi che erano
allucinanti, nessuno parlava, c’era un clima molto teso. Però, io lo guardavo venendo da fuori,
vedevo queste strane persone come Romano Alquati che ho conosciuto lì, Toni Negri poi arrivò
anche lui più o meno nello stesso periodo in cui c’ero io. Si capiva che c’era un’attesa di cose molto
interessanti, salvo che invece poi nella realtà quello che succedeva lì era squallidissimo, noioso
proprio, riunioni di silenzi. Ho fatto in tempo a scrivere sul terzo numero dei Quaderni Rossi uno
dei primi articoli che mi è capitato di fare, una cosa che doveva essere un po’ un contributo che
veniva dal fatto che ero studente di Architettura e che quindi dovevo rappresentare in qualche modo
quel tipo di cultura, da discussioni fatte in quel periodo lì con Romano, con Mario Tronti, con Asor
Rosa. Era venuta fuori questa idea divertente di lanciare la Karl Marx Hof di Vienna come il
modello di una progettazione, di una cultura architettonica a uso operaio, il punto di vista operaio a
quel tempo era il paradigma di tutti i punti di vista, Asor Rosa in quel momento lì fece Scrittori e
popolo. Quindi, c’era questo articolo che fece in tempo ad entrare nel terzo numero dei Quaderni
Rossi, si chiamava Produzione e programmazione territoriale e finiva appunto con la Karl Marx
Hof come la fortezza operaia, il progetto degli architetti che si riconoscevano in queste nuove idee,
totalmente sganciate da quello che invece nel frattempo faceva il Movimento Operaio.

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In quegli anni lì io tra l’altro ho consumato la mia militanza ufficiale, nel senso che mi sarò iscritto
al Partito Socialista forse per un altro paio di anni, mi dettero anche degli incarichi, ero nel
Comitato Centrale della Federazione Giovanile ma non ci sono mai andato; dopo di allora non mi
sono mai più iscritto a nessun partito, nel PSIUP non ci sono entrato, era proprio già chiuso quel
tipo di esperienza. Viceversa a Firenze avevamo creato un gruppo dove tra gli altri c’era anche
Paola, che adesso è mia moglie, l’avevamo chiamato Lega Studenti Architetti. Era un gruppo che
faceva esami, perché eravamo ancora studenti, uno era laureato e avevamo anche avuto delle
occasioni di lavoro; c’era un grande appartamento dove avevamo uno studio che servì poi da base
logistica, per esempio, nel momento in cui ci fu la rottura con Panzieri, la redazione di Classe
Operaia si riuniva molto spesso qui a Firenze in questo buffo studio di studenti di architettura, con
dei tavoloni giganteschi che tutti si ricordano, infatti con Tronti quando se parla si rammentano quei
tavoli. Fu un momento estremamente ricco il salto che ci fu dalla fase Quaderni Rossi, con queste
tristissime riunioni all’Istituto Gobetti di Torino nel silenzio assoluto, a queste riunioni fiorentine
subito dopo, nel ‘63-’64, sicuramente molto più divertenti, con questa gran produzione, perché
insomma Classe Operaia il primo anno uscì tutti i mesi, scrivevamo certamente sempre anche io
insieme ad altri fiorentini. Avevamo questo gruppo simpatico in cui c’erano Giovanni Francovich
(che poi morì due anni dopo), l’Arrighetti, che era un operaio della Galileo; tutti si ricordano di lui
perché era l’unico che sembrava un intellettuale, tutti gli altri sembravamo dei sottoproletari mentre
invece questo operaio aveva una figura sempre elegante, in fabbrica lo chiamavano il conte
Torsolini per dire com’era trattato. L’Arrighetti era il classico operaio intellettuale informatissimo,
con una discendenza anarchica, poi entrato nel Partito Socialista però successivamente uscitone
anche lui. Insomma, c’era questo gruppo molto vivace, era divertente, simpatico in questo periodo.
Sto raccontando queste cose in modo parecchio confuso perché non ne faccio una cronaca ufficiale,
posso registrare delle impressioni, dei ricordi. Quello di Classe Operaia è stato certamente un
periodo per me molto formativo. Io avevo 23-24 anni, avevo letto alcune cose; per esempio di
Panzieri mi ricordo una cosa molto bella, io venivo da un liceo classico e da una facoltà di
Architettura, che ne sapevo di economia politica, di Marx o altro? Lui mi disse di leggermi Lavoro
salariato e capitale, la Quarta Sezione del Primo Libro (va bé, quello era ovvio, era una specie di
bibbia su cui si ragionava), e poco più; mi disse di non leggere il Secondo Libro de Il capitale,
quello che aveva tradotto lui, perché lo trovava assolutamente illeggibile. Per cui mi indirizzò su
una lettura di alcune cose selezionate, quindi diciamo che ho avuto un approccio ai sacri testi non di
tipo filosofico e filologico, ma al contrario, cioè si prendeva solo quello che ci serviva. Poi più o
meno in quegli anni lì, nel ’64, Enzo Grillo stava traducendo i Grundrisse, quindi arrivava questa
nuova massa di cose da discutere, tutto questo processo di formazione de Il capitale più che Il
capitale stesso. Quindi, già allora direi che mi interessavano molto di più questi passaggi
precedenti, questa costruzione del pensiero di Marx che non poi il risultato; mi sembrava faticosa,
difficile questa lettura, so per esempio dei racconti che facevano a Torino di Romolo Gobbi che
sfogliando Il capitale leggeva. Dovevano essere allucinanti ma pare che si svolgessero davvero
queste sedute in cui Romolo girava le pagine de Il capitale; questo da noi non si faceva per niente,
c’era piuttosto l’idea di ricostruire alcuni passaggi, magari trovando qualche cosa. Anche se oggi
non se ne parla mai, se non esiste più ovviamente il fatto di cominciare un articolo o un saggio dalla
citazione di Marx, però io non rinnego affatto questa specie di esercizio che si faceva allora e che
non era così dogmatico, anzi per niente: era lo sforzo di rintracciare qualche cosa di non ancora
inquadrato, cioè trovare in Marx delle cose un po’ fuori dalle regole. Poi queste cose le ha fatte
Tronti, le ha fatte Negri, ovviamente molto meglio, però era stimolante, non era un rapporto di sacri
testi ma venivano fuori delle considerazioni interessanti. C’era sempre l’idea che si potesse
collegare lo studio di Marx ai temi di cui poi mi sarei dovuto occupare professionalmente, come il
territorio, la pianificazione: questo è stato sempre estremamente faticoso, poi l’unica forma di
collegamento era il fatto che c’era una presenza operaia sul territorio. Alla fin fine il solo punto di
contatto tra tutta l’analisi teorica e la pratica politica era che le fabbriche andavano localizzate,
bisognava capire quale era la provenienza degli operai, la consistenza. Allora, un conto era Torino

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dove gli operai erano lì, bastava andare alla porta due, mentre qui non era facile. Uno dei problemi
più complicati che c’è sempre stato negli interventi politici di matrice operaia in Toscana era Prato,
questa città con 50.000 operai tessili dove, per distribuire mille volantini, ci volevano due giorni
perché non li trovavi mai, andavi alla sei di mattina davanti ad un cancello di fabbrica e ne
passavano tre, andavi in un altro e ne passavano due; non vedevi mai una circolazione capillare e
distribuita nello spazio e nel tempo, non esisteva l’idea della porta due. Questo era uno di quei
problemi che non si sono risolti mai; mentre magari in certe fabbriche eravamo in qualche modo
alla pari con il sindacato come possibilità di dialogo, di incontro con gli operai, invece a Prato non
era per niente così, non c’erano, eppure era la più grossa concentrazione operaia della Toscana.
Per me quello fu il periodo più ricco di elementi di formazione mia, ma credo che (anche se non
rileggo mai quello che ho prodotto allora) fosse così pure per le cose che si scrivevano su Classe
Operaia o collettivamente, cioè lavorando in due o tre, o anche da solo qualche volta. Forse su
Contropiano a un certo punto mi ero sforzato, ho scritto un articolo, una specie di saggio che mi
costò una fatica improba per tutta un’estate (mi sembra che fosse il ’67), insomma era il momento
un po’ di tentare di costruire un ragionamento, almeno nelle intenzioni, abbastanza coerente tra
analisi teoriche, esperienze pratiche e anche competenze in qualche modo se non professionali
comunque specifiche. In quegli anni cercavo anche di collegare ciò al fatto di uscire dalla facoltà di
Architettura, di avere bene o male a che fare e anche conoscenze, amici dentro il giro degli studenti
di Architettura. Per inciso posso raccontare che con questo gruppo che ci chiamammo Lega
Studenti Architetti, che serviva da sede alla redazione di Classe Operaia, una volta si prese e si
andò alla Camera del Lavoro chiedendo l’iscrizione alla FILLEA (il sindacato lavoratori del legno,
edile e affini): come studenti di Architettura ci volevamo iscrivere al sindacato degli edili, ci dissero
di no, che non ne volevano sapere. C’era questa tensione, con il Movimento Operaio ufficiale non
tanto perché ci guardavano con sospetto però, almeno qui a Firenze, non c’era uno scontro,
soprattutto con i sindacalisti, i politici li conoscevamo poco. Bartolini, che poi è stato presidente
della Regione Toscana negli anni ’80, era segretario della Commissione Interna della Galileo
quando ci furono quegli scontri di cui parlavo prima; fu poi segretario della Camera del Lavoro di
Firenze, quindi ci si vedeva spesso quando noi andavamo a rompere i coglioni alle fabbriche con i
volantini, abbiamo avuto discussioni varie. Successivamente non l’ho più visto per tanto tempo, poi
dodici anni fa mi è capitato di svolgere un incarico che mi ha dato la Regione Toscana come
architetto per una questione urbanistica della provincia di Massa Carrara; a un certo punto ho
incontrato il presidente della Regione Piero Bartolini, grandi baci e abbracci, dopo vent’anni o più
che non ci si vedeva, di fronte allo stupore degli attuali dirigenti che non sapevano assolutamente
che legame possibile ci fosse tra uno come ma e Bartolini, è una delle cose buffe che succedono.
Almeno in altre due o tre occasioni c’è stata l’opportunità di rivedere queste vicende, di cui io credo
giustamente nessuno si sia provato a scrivere la storia; per fortuna nessuno che viene da questo
filone Quaderni Rossi-Classe Operaia-Potere Operaio ha fatto lo storiografo del proprio
movimento, come invece amano fare quelli di Lotta Continua a cui non pare vero di riscrivere la
propria storia e di ricamarci sopra. Però, ogni tanto capita di parlarne, un’altra volta mi è stata
chiesta un’intervista sul ’68, e io del ’68 non so mai bene cosa dire. Un’altra volta ancora, a
capodanno del ’98, eravamo a Cosenza e la radio dove lavora anche Piperno ci invitò insieme a
Franco a fare un dibattito, il 31 dicembre o il primo gennaio, sul futuro anniversario celebrativo
dell’evento. Allora, eravamo lì a chiacchierare su questo ’68 del quale io al solito non mi ricordo
mai niente; alla fine Franco mi ha un po’ bloccato con un’argomentazione, devo dire
giustificatissima, dicendo: “E’ meglio avere torto in tanti che ragione in pochi”. Può darsi, ho forse
una visione elitaria di questo periodo, il ‘67-‘68; certo c’era questo gran fermento di gente che
veniva a chiedere e a informarsi. A questo punto va premessa una cosa. Quello con cui lavoravo di
più negli anni ‘63-‘64 era Giovanni Francovich, che morì nel gennaio del ’66 in un incidente d’auto
a ripensarci adesso assurdo, con una Cinquecento in salita sbandarono sul ghiaccio e andarono fuori
strada, Giovanni morì perché dormiva, cose che oggi forse non succederebbero, adesso almeno si
schiantano a 180 all’ora e non a 60. Giovanni era un ragazzo vivacissimo, molto più portato di me a

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chiacchierare, a fare amicizia, a discutere, poi forse anche più motivato, probabilmente in molte di
queste cose che sono successe mi ha trascinato spesso lui più di quella che magari era la mia
intenzione. Lui poi studiava Storia, quindi magari era anche più motivato direttamente in queste
cose. E’ morto a venticinque anni e ha lasciato una traccia di quella che sarebbe stata la sua tesi
sulla classe operaia a Piombino; Giovanni era quello che andava di qua e di là, aveva moltissimi
contatti. Quando questo ragazzo è morto ci siamo trovati con un grande vuoto e c’è stata l’idea di
fare una specie di piccola fondazione che si chiamava Centro Giovanni Francovich, per il quale
abbiamo facilmente ottenuto anche un po’ di finanziamenti attraverso il giro delle famiglie del
Partito d’Azione fiorentino, da cui veniva Carlo Francovich, suo padre, poi c’erano tutti questi
personaggi ormai storici, Codignola, Agnoletti ecc., che contribuirono volentieri. Insomma, ci fu
questa fondazione che fu una sede, quindi dal ’66 e fino al ‘67-’68 la sede non fu più lo studio degli
studenti di Architettura ma il Centro Francovich. L’abbiamo sprecata come occasione, un po’ forse
la colpa è di Lapo Berti, che doveva essere quello più motivato a renderla una cosa che producesse
cultura, lì bisognava fare questo; invece, ci siamo limitati a comprare un po’ di libri, fare delle
riunioni, dei convegni che non sono mai stati pubblicati e di cui ho le bobine. A ripensarci quella fu
una grande occasione mancata. Un po’ diciamo che fu travolto questo Centro che doveva essere
contemporaneamente un centro studi con alcune caratteristiche più informali, e anche però un luogo
di incontro; e luogo di incontro lo era, ci si vedeva tutti tutte le sere, era in una piazza abbastanza
accessibile di Firenze (piazza della Libertà), in una sede che era del circolo Rosselli, nasceva
appunto un po’ dentro il filone del Partito d’Azione però con nostra totale autonomia. Praticamente
c’era un gruppo di noi che più o meno tutte le sere prima di andare a casa passava di lì, era un punto
dove circolavano informazioni, idee, si facevano questi convegni, c’era chi veniva da fuori, poi
Firenze è a metà tra Roma e Milano, quindi più o meno era comodo per tutti fermarsi lì, fare un
punto di aggregazione che ha funzionato abbastanza bene. Non ha funzionato l’altro aspetto, quello
di produzione effettivamente di teorie, di cultura, di formazione: da questo punto di vista è stata
un’occasione sprecata. Lapo a un certo punto aveva proprio il compito di fare da funzionario
(prendeva anche dei soldi, pochissimi figuriamoci), e forse se ci fossimo dati un po’ più da fare
sarebbe stato molto più interessante.
Nel frattempo invece si esauriva Classe Operaia, chiudeva ufficialmente: Classe Operaia è l’unica
rivista che io conosca che sul numero ultimo c’è scritto “numero ultimo”, non c’è scritto
“riprenderemo le pubblicazioni appena possibile”, c’è scritto invece “questo è l’ultimo numero e
punto”. Questo mi piace molto ricordarlo, perché le riviste eterne penso che siano un disastro;
questa era una rivista che nasceva nel ’64 ed è morta nel ’67, per autodecisione. Questo Centro
Francovich poteva onestamente essere qualcosa di molto più ricco di stimoli; fu in gran parte
travolto da questa ventata sessantottina in cui non c’era tempo per fare le ricostruzioni intelligenti e
creative, il ’68 aveva bisogno di parole d’ordine, anche quelle che Piperno chiamava le stupidate
condivise da centomila piuttosto che le verità (poi non sarebbero state verità, in questo si sbagliava,
erano piuttosto dei dubbi) condivisi da poche persone. Rileggendo anche stamattina il documento
che mi avete mandato ho visto che giustamente parlate di autocritica, ce ne sarebbe da fare tanta;
almeno per quanto mi riguarda credo che il grosso errore sia di aver capito pochissimo il ruolo della
formazione, di averlo snobbato. Per esempio, nel ’68 gli studenti erano carne da macello; quelli di
Torino, Guido Viale e gli altri, parlavano del “potere studentesco”, che ovviamente per noi era una
mostruosità lessicale, ma viceversa nella versione che ho conosciuto io l’idea era che gli studenti
servissero esclusivamente per fare il volantinaggio. Erano proprio brutalmente manovalanza
politica, a cui era sufficiente sfornare ciclostilati in cui era contenuta qualche citazione, qualche
slogan, qualche cosa che gli serviva anche per dare gli esami. Io tra l’altro non insegnavo ad
Architettura, ormai ero laureato ed ero assistente a Magistero, che era ancora una facoltà
praticamente di educande, poi cambiò in quegli anni, ma insomma quando sono arrivato c’erano le
mamme che snocciolavano il rosario mentre si facevano gli esami, si era a questo livello qua, e
Architettura ovviamente era un’altra cosa. Allora, quando cominciarono i fatti politici ovviamente
io andavo a vedere cosa succedeva ad Architettura, e qui si arrivò al punto che la gente dava gli

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esami sui ciclostilati che gli fornivamo noi, magari con testi di Alquati o di Tronti, e davano
l’esame di composizione architettonica! Questo in un certo momento è stato anche utile per
demolire questa struttura ridicola che era la facoltà di Architettura di Firenze; rivisto in generale è
stata però una sottovalutazione di tutto il tema della formazione, non ce ne importava niente,
mancava l’idea di una ricostruzione critica anche a partire da Marx o da altro. Forse non eravamo
così scemi come i marxisti-leninisti, Servire il Popolo, queste frange estreme del verbalismo fine a
se stesso, almeno quelli che poi sono diventati Potere Operaio qualche atteggiamento un po’ meno
ideologico forse ce l’avevano; però, non è certamente stato fatto nulla per introdurre una mentalità
critica. Quello che prevaleva era l’accettazione acritica della linea e dell’ultimo slogan che serviva
per mobilitare più persone possibili; gli slogan erano sui servizi, sui diritti (le cose trasferite poi in
ambito studentesco diventavano abbastanza ridicole), e non c’era nessuna particolare attenzione per
una formazione critica, anzi forse c’era proprio il contrario, cioè la partecipazione acritica a un
movimento che certo era divertente in quanto tale. La prima riunione di fondazione di Potere
Operaio me la ricordo bene, fu naturalmente a Firenze al Centro Francovich, fu ai primi di agosto
del ’69, faceva un caldo micidiale e allora si finì per andare nella villa di un architetto che
incontrammo quel giorno, siamo stati intorno ad una piscina con i piedi nell’acqua.

- Rispetto ai Quaderni Rossi e a Classe Operaia, analizzandone limiti e ricchezze, quali sono
state le componenti che si sono aggregate e anche contrapposte?

Io ero uno dei più giovani, non è che capissi tutto. Però, forse avevo una posizione abbastanza
privilegiata perché non ero né a Torino, né a Milano, né a Roma, avevo dei buoni rapporti con le tre
sedi un po’ più impegnative. Per esempio, c’era sempre un po’ una tensione tra Roma e Torino,
c’era l’idea che da Roma volessero in qualche modo utilizzare questa esperienza per poi
reincanalarla dentro il Movimento Operaio, dentro il PCI poi essenzialmente. In fondo a Roma
c’erano alcuni del PCI e altri invece no, tutt’altro, la maggior parte semmai eravamo usciti dal PSI
ma quasi nessuno aveva avuto esperienze nel Partito Comunista. Lì la figura chiave di questo
eventuale complotto era Aris Accornero: credo che ormai sia il segreto di Pulcinella il fatto che Aris
scriveva su tutti i numeri di Classe Operaia, lui in quel momento credo che fosse il consigliere
personale di Novella, il segretario della CGIL e contemporaneamente scriveva su Classe Operaia
perché amicissimo di Rita Di Leo e di Mari Tronti. Ogni volta firmava con uno pseudonimo, poi
non compariva ovviamente alle riunioni. C’era dunque questa figura misteriosa del romano, io
sapevo che era lui, l’avevo incontrato anche qualche volta. Aris è persona squisita, io lo ammiravo
molto, tra l’altro i suoi articoli erano sicuramente più di ambito sindacale, in quel momento c’era la
grande storia dei contratti e lui magari ci dava degli articoli che avevano anche sicuramente un
retrogusto sindacale. Ad esempio, mi ricordo un articolo su Tessili e chimici una sola battaglia
comparso in uno dei primi numeri di Classe Operaia, in cui c’era un ragionamento forse un po’
interno al sindacato sul fatto che le due categorie, siccome ormai il tessile era una sezione del
settore chimico, potevano costruire una strategia comune. A noi interessava il risvolto pratico, di
mobilitazione, di discussione che nasceva da questo; probabilmente c’era anche altro, nel dibattito
ai vertici sindacali questo magari voleva dire chissà quale rapporto tra sindacato dei chimici e
quello dei tessili, cosa che a noi non ce ne fregava proprio niente. Comunque, nelle discussioni di
Classe Operaia c’era quest’ombra romana che presupponeva anche un possibile recupero dentro il
PCI; però, io non ci ho mai creduto, le ho sempre prese un po’ come delle paranoie, soprattutto
Romolo Gobbi aveva questa idea fissa, Romano un po’ meno mi sembra, non è che gliene fregasse
molto fino a un certo punto. L’esperienza è durata abbastanza poco, in fondo si è autoconclusa
senza bisogno di scissioni o altro, chi ha voluto ha continuato; poi dopo Classe Operaia ci sono
stati alcuni incontri a Roma in cui ci andavo anch’io qualche volta, anche Lapo Berti. C’è stata
questa rivista Contropiano che per un certo momento ha in parte riunito alcune persone, c’erano
Toni, Cacciari, Asor Rosa, un po’ il gruppo tradizionale.

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- Qual era la posizione di De Caro all’interno di Classe Operaia?

Lui era l’elemento di polemica, era in qualche modo la coscienza, diceva sempre che era tutto
sbagliato. Io non è che abbia mai capito di preciso cosa intendesse, anche perché non l’ha mai
espresso molto chiaramente. Si capiva che c’erano Gaspare ed Enzo Grillo, più o meno sempre
messi insieme, che non condividevano assolutamente la linea di Tronti o di Rita Di Leo. Hanno
cominciato a non venire più, non è che la cosa si sia manifestata, almeno io a quel punto non ero in
grado di capire.
All’inizio dell’anno successivo ci fu un articolo in un numero dedicato al partito, lo slogan era
“l’uso operaio del partito” e questo non piacque. Era un po’ un discorso sottile, a me invece
personalmente rimane di quelle cose lì, come grossa conquista culturale in tanti sensi, l’idea
dell’autonomia della classe operaia rispetto alle istituzioni. Anche questo discorso un po’ ambiguo
dell’uso operaio del partito però presupponeva una separazione tra le due cose, cioè la classe
operaia non è il partito e il partito non è la classe operaia. Questa era una di quelle cose che
fondavano questo discorso, e che in fondo poi si è persa, non è rimasto come una grande conquista
l’idea di questa separazione, si è un po’ offuscata, insabbiata. Non so se qualcuno ricorda che
Classe Operaia fu una rivista in cui si teorizzava questa autonomia, non nel senso che ha avuto poi
dopo, ma questa sua identità al di là dell’appartenenza politica, della militanza e delle istituzioni del
Movimento Operaio: la classe operaia non sono le sue istituzioni, questa era una grossa conquista.
Quindi, per esempio in quel tempo potevo benissimo accettare un discorso di uso operaio del
partito; c’era la rivendicazione di una furbizia operaia, era un altro di quei termini che mi piacevano
molto. Furbizia operaia vuol dire che c’è un comportamento, magari individuale anche, che si
esprime in piccole cose che servono in fondo a non identificarsi con le strategie, con il posto di
lavoro, con la patria, con tutte le cose che invece il Movimento Operaio chiedeva a gran voce,
voleva che la classe operaia si facesse carico di tutto, e invece no. Mi ricordo che un altro dei grandi
contributi a Classe Operaia fu quello di un nostro amico (morto tre anni fa), Mario Mariotti, che
faceva le vignette: lui era un militante comunista, proprio di tradizione famigliare comunista,
fiorentino, artista, pittore, di idee e produzione molto varie. Lui veniva a queste riunioni,
chiacchieravamo un pochino e poi inventava delle vignette che direttamente traducevano quello che
sentiva dire; mi ricordo che Mario Tronti era affascinato da questa cosa. Una volta tirò fuori una
vignetta in cui c’era uno schieramento di padroni con tutti i cartelli, “W la libertà, W la costituzione,
W la democrazia”, e davanti un operaino da solo con un cartello su cui c’era scritto “Abbasso”. Fu
pubblicata su uno dei numeri di Classe Operaia, questo traduceva veramente in maniera
elegantissima, ironica e simpaticissima un’idea che era sostanziale, non era un dettaglio, era proprio
questa la novità. Appunto perciò a me l’idea di questa svolta nel senso dell’uso operaio del partito
non mi sembrò così scandalosa.

- Su tale questione, una delle critiche che noi abbiamo raccolto nel corso delle interviste è che,
mentre c’era un’attenzione alla forma organizzativa, al partito e a queste cose di cui stai
parlando, dall’altra parte una delle cose deboli in Classe Operaia era il discorso degli obiettivi
e della prefigurazione di un processo più ampio che fondasse una progettualità e che non fosse
solo il mezzo e il partito.

Io credo che questa sia una critica ingiusta nel senso che invece era implicito, in questo discorso
della separazione tra classe operaia, Movimento Operaio, ovviamente ancora di più con il capitale,
le istituzioni e tutto il resto, l’idea che gli obiettivi fossero problemi loro: la lotta non ha come
finalità quella di raggiungere quel determinato obiettivo, no, la lotta spinge poi la risposta
capitalistica cercherà in qualche modo di adattare tale spinta. Ciò sta proprio nella separazione
originaria della classe operaia, gli obiettivi facevano parte della risposta capitalistica. Nei
primissimi mesi di Classe Operaia si fece tutta una rispulciatura di documenti, giornali
essenzialmente, del primo dopoguerra; si facevano quegli articoli che erano un po’ un lavoro

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collettivo su partito e sindacato dopo la Resistenza, mi ricordo che si passò delle giornate alla
Biblioteca Nazionale a rispulciare rassegne sindacali o altro. Quello che ci scandalizzava era questa
idea che si facessero carico del piano del lavoro, del piano di qui, del piano di là: ma perché? Noi
partivamo appunto dalla separazione della classe operaia come fatto antagonista che non si fa carico
di quelle che invece sono le risposte.

- Non intendevo gli obiettivi dal punto di vista di uno sviluppo capitalistico, quanto invece gli
obiettivi o i fini di prefigurazione di società o di punti di vista altri, di alcuni passaggi che si
danno alla lotta affinché si configuri come un qualcosa d’altro dalla dimensione capitalistica.

Può darsi che non se ne sia parlato, però io continuerei a non parlarne. Non vedo perché debba
essere una critica, secondo me è un merito. Anche poi su episodi più recenti mi sono trovato a
polemizzare con alcuni; in questi anni a Siena ho rivisto, un po’ anche attraverso Mario, un giro di
personaggi politici che non vedevo da tempo, tipo quelli de Il Manifesto, la Rossanda, poi c’era
Ingrao, furono invitati nel ’99 a fare un seminario “dagli anni ’60 agli anni ‘90”, poi abbiamo
chiacchierato fino a sera. Per esempio, io quello che non condivido è questa ideologia della
sconfitta, per loro dall’89 cascata l’Unione Sovietica è crollato il mondo: ma noi veramente
avevamo sempre auspicato che crollasse l’Unione Sovietica. Questo per dire che gli obiettivi non si
possono misurare in maniera diretta, quello che poi succederà in gran parte è successo davvero, ci
sono stati dei cambiamenti che io credo che siano prodotti dal conflitto di classe che c’è stato negli
anni ’60 e ’70. Ciò al di là delle sconfitte e delle vittorie, non sono cose che si misurano in termini
di governo o di voti o di leggi (qualche volta ci sono anche delle leggi che in fondo nascono dal
conflitto). Ma l’obiettivo è un cambiamento di modo di vivere, di opportunità, di possibilità di poter
sfruttare certe opportunità: queste cose sono cambiate, è inutile dire che la classe operaia sta peggio
oggi che negli anni ‘60, sta molto meglio. Quindi, non per nulla sono crollate tante cose, ideologie:
tanto meglio, questi sono risultati, gli obiettivi sono quelli che si vedono. La possibilità di attivare
un processo di formazione, ben al di là e ben al di sopra di quello che succedeva negli anni ’60, oggi
è più aperto; sono opportunità che si possono offrire, almeno in teoria, poi non è vero che si fa,
allora lì ci sarebbe tanto da ragionare, ma questi sono obiettivi che sono stati in gran parte raggiunti.
Io non solo non vedo la sconfitta perché è cascata l’Unione Sovietica, ma vedo sostanzialmente
realizzate tante delle cose che si dicevano in quegli anni. Sarò spontaneista, ottimista, per cui queste
cose sono realizzate a dispetto magari delle organizzazioni, però non vedo perché si debba piangere
per forza: il pianto è uno degli atteggiamenti che non sopporto, il piagnisteo sulla sconfitta ecc.

- Tronti nella sua analisi di Classe Operaia diceva che sostanzialmente per lui era stato il
tentativo di creare un quadro politico che fosse in grado di dare una battaglia interna al PCI
per spostarlo su posizioni diverse, in questo marcando una cesura tra quello che lui definisce
l’operaismo politico (ossia Quaderni Rossi e Classe Operaia) e quello che c’è stato in seguito,
Potere Operaio, l’Autonomia Operaia e quelle esperienze che in qualche modo si rifacevano
all’operaismo.

Sicuramente Mario la vede così, io no perché non essendo militante del PCI non mi sentivo
coinvolto, ma neanche strumentalizzato. Si poteva capire che dietro ci fosse anche l’idea di formare
un nuovo gruppo dirigente nel partito, certamente io non ne avrei fatto parte, quindi la cosa non mi
riguardava, ma non mi sentivo per questo ingannato, e certo mi era più facile aderire a Potere
Operaio dove invece c’era decisamente lo scontro con il PCI tradizionale, anche perché era il PCI
che poi ha assunto quella posizione. Finché io ho avuto qualche ruolo dentro Potere Operaio non ho
mai avuto questo atteggiamento proprio di scontro violento con il Partito Comunista, ho sempre
pensato che il PCI sarebbe cambiato anche se noi non ne diventavamo classe dirigente, che avrebbe
dovuto in qualche modo adeguarsi. Poi invece la strada è stata quella dello scontro frontale che

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certamente ha semmai favorito lo spostamento su posizioni forcaiole del PCI, ma ciò è stato più che
altro un aspetto poi di questo isterismo ideologico.

- Quali sono state secondo te le differenze e le continuità tra Classe Operaia e Potere Operaio?

La continuità poteva essere una certa ricerca, un allargamento delle stesse tematiche su una scala
decisamente cento volte più grande come partecipazione, come presenza, proprio come luoghi fisici
di intervento. Quindi, quello che Classe Operaia teorizzava come il laboratorio politico in Potere
Operaio si realizzava; in Classe Operaia chiamarlo laboratorio politico era un po’ ambizioso. Per
un certo periodo, forse i primi due anni, Potere Operaio ha rappresentato questa realizzazione di
molte delle innovazioni, delle idee creative che erano nate in Classe Operaia. C’è stata ad un certo
punto una tendenza a fare dell’ideologia; la stessa dimensione più ampia come militanti voleva dire
reclutare una quantità di gente di cui poi ovviamente mica si poteva controllare l’effettiva capacità,
conoscenza. C’era da un lato l’aspetto simpatico della partecipazione numerosa, ma dall’altro
c’erano anche tutti i limiti che ciò comportava. La grossa differenza era proprio di scala. Un’altra
cosa che mi è piaciuta anche di Potere Operaio, così come di Classe Operaia, è che ha deciso di
sciogliersi: dunque, sono esperienze che avevano un obiettivo limitato nel tempo, cioè si fa questo
tipo di cosa e poi si smette, non siamo Il Manifesto che comincia nel ’69 e dura ancora nel 2000. In
Potere Operaio a un certo punto questo ha voluto dire una stretta in termini organizzativi
noiosissima, mi sono allontanato dalla linea di Franco Piperno, a cui volevo molto bene e che mi è
ancora molto simpatico, e che forse aveva ragione a dire: “Se vogliamo costituire un partito, lo
facciamo con l’obiettivo di prendere il potere e se non lo prendiamo ci sciogliamo”, e quindi ci
siamo sciolti non avendo ovviamente preso il potere. Questo ragionamento qua mi può tornare,
anche se aveva dei risvolti antipaticissimi, quello di una caricatura di partito, queste riunioni
organizzative, il lavoro illegale, le commissioni, una cosa che non avevo sopportato a suo tempo nel
Movimento Operaio ufficiale, figuriamoci in quello non ufficiale. Però, era ovvio che un gruppo
che comincia a diventare di alcune migliaia di persone non si gestisce come si faceva con Classe
Operaia, che era invece un gruppo di amici che si poteva riunire una volta al mese a casa di
qualcuno, non è la stessa cosa.
Dal punto di vista teorico secondo me in gran parte c’era la continuità; non è un caso che comunque
tutti quelli che almeno si avvicinavano a Potere Operaio leggevano Operai e capitale, che anzi fu
ristampato da Ceccotti a Roma in edizione pirata per farlo avere a tutti. Operai e capitale era la
bibbia di Potere Operaio, cioè il primo Tronti: lì chiaramente c’era la distinzione, dell’uso operaio
del partito non se ne parlò certamente più, non era più praticabile. Ormai diciamo che c’era un
terreno più libero, anche sgombro dal Movimento Operaio in cui si pensava al partito, quindi si
credeva di potersi buttare a pesce; però, fu un’idea che è stata sconfitta, non so se fosse sbagliata o
meno. Io a quel punto partecipavo abbastanza poco, sono stato alcuni anni a Venezia, ero molto più
impegnato a cominciare a lavorare nell’università, anche se questa in quel momento era una specie
di strana palestra politica; mi è capitato di insegnare al corso di laurea in urbanistica che fu fondato
nel ‘71-‘72 a Venezia, in cui su un centinaio di studenti 50 erano di Potere Operaio, 30 di Lotta
Continua, 10 de Il Manifesto e il resto del PCI. C’era una composizione di questo genere, una cosa
chiaramente assurda a cui, come dicevo prima, non siamo stati capaci di dare assolutamente nulla;
al di là del fatto che questi militavano, poi però non imparavano nulla, non è servito a niente, questa
è stata veramente l’orgia dell’ideologia.

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- Vorrei approfondire due aspetti. A fianco di Potere Operaio c’era l’esperienza dei Materiali
Marxisti, questi libri che sono usciti da Feltrinelli, tu avevi scritto un articolo su quello curato
da Sandro Serafini, intitolato L’operaio multinazionale in Europa. Dall’altra parte mi
interessava sapere chi ha animato Potere Operaio, da Bologna a Bianchini.

Loro sono tutte figure che furono abbastanza ciascuno per conto suo. Certo che, per esempio,
Materiali Marxisti erano dei libri che uscivano dal lavoro dell’Istituto di Scienze Politiche di
Padova, io lì ci passavo molto spesso, viaggiando sempre tra Firenze e Venezia praticamente ogni
settimana mi fermavo a Padova; insegnavo a Ferrara, a Venezia, quindi la linea era quella lì e via
del Santo era una sosta obbligatoria. Quello era un posto in cui a qualsiasi ora del giorno passassi
incontravo Guido, Sandro, Sergio, Lisi, si apriva un libro, si discuteva; dunque, quello faceva parte
di un lavoro che semmai ricorda più la prima fase di Classe Operaia. Era molto bello, non aveva
niente a che fare con quello che poi era la militanza di Potere Operaio, erano due cose abbastanza
disgiunte. Guido Bianchini in Potere Operaio ha avuto qualche ruolo, nel senso che lui era capace di
raccogliere intorno a sé centinaia di ragazzi di Ferrara, per cui una certa generazione di ferraresi
sono inevitabilmente passati sotto le ali di Guido, quelli che ora hanno cinquant’anni insomma:
adesso li ritrovo che uno fa il sindaco, che è poi quello che è stato anche sindacalista dei chimici,
Sateriale, oppure altri sono consiglieri dei Verdi. Dunque, sono la classe dirigente di Ferrara, tolti
pochi che erano talmente scemi e che per ragioni di quoziente di intelligenza sono rimasti fuori, e
sono diventati in un primo tempo dirigenti del PCI ferrarese e poi magari hanno finito la loro
carriera. Questo succedeva ovunque, in quella generazione lì, cioè quelli che adesso hanno
cinquant’anni, al PCI rimanevano gli scarti; nell’università c’era una scrematura generale per cui lo
scemo del villaggio faceva il dirigente del PCI, quindi poi l’assessore ecc. A Firenze c’è un famoso
caso di un certo Camarlinghi che era un imbecille assoluto e che, per totale mancanza di ricambio, è
diventato dirigente del PCI, assessore alla cultura del Comune di Firenze, roba da mettersi le mani
nei capelli. Guido a Ferrara ha fatto questa specie di raccolta totale, per cui tutti quelli che avevano
un briciolo di intelligenza erano di Potere Operaio; però, questo in una fase precedente, poi quando
Potere Operaio ha cominciato a crescere e a diventare questa cosa un po’ più macchinosa questo
gruppo ferrarese è rimasto ai margini. Sergio poi è rimasto sempre per conto suo. Guido era proprio
anche un organizzatore, a Ferrara aveva una sede grande, però molto per conto suo.

- Rispetto al discorso della formazione, quali erano le differenze tra Classe Operaia e Potere
Operaio?

In Classe Operaia io avevo 22-23 anni e mi dovevo formare io, ma già in Potere Operaio invece
molti di noi erano docenti universitari. A un certo punto mi ricordo che nell’esecutivo nazionale di
Potere Operaio (perché poi c’erano questi nomi assurdi che facevano la caricatura alle istituzioni
ufficiali) eravamo tutti docenti universitari tranne Luciano Arrighetti che era l’operaio della Galileo
di cui dicevo prima e che era l’unico che invece aveva l’aspetto di un professore universitario. Per
cui avremmo potuto anche pensare non tanto a una politica dentro l’università, però diciamo a come
la formazione e in particolare l’università (che non è l’unica struttura formativa) alla lunga
avrebbero potuto ottenere questi cambiamenti di struttura, che non sono appunto l’obiettivo, il fine
esplicitamente richiamato, ma sono quei cambiamenti profondi di modo di pensare. Io credo che
invece a un certo punto nessuno si sia posto seriamente questo problema, non ne abbiamo
sicuramente mai discusso; tutt’al più nelle facoltà dove questo era possibile, come Scienze Politiche
di Padova, mi ricordo di Luciano Ferrari Bravo che doveva fare le lezioni spiegando i libri di Toni
Negri. Ma questa non è formazione, tra l’altro mi ricordo che una volta incontrai Luciano il quale
appunto aveva finito una lezione e diceva: “Ma perché devo perdere tempo a spiegare i libri di
Toni?”, era distrutto da due ore di interpretazione del pensiero del grande maestro. Questa in fondo
era ideologia, non era la critica delle ideologie. Allora, se fossimo andati un po’ più avanti su questo
terreno forse sarebbe stato molto più produttivo. In fondo la critica dell’ideologia era uno dei grandi

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temi al tempo di Classe Operaia, però è quello che ha fatto meno strada: Asor Rosa ha fatto
Scrittori e popolo, tutti lo abbiamo letto, però la cosa è rimasta ferma lì.

- Tu dici giustamente che c’era una profonda differenza tra Materiali Marxisti e Potere Operaio;
però, quelli che facevano Materiali Marxisti non erano in buona parte le stesse persone che
erano nell’Esecutivo di Potere Operaio?

No, perché l’Esecutivo era molto più dominato da Scalzone, Piperno, i romani. Io nell’Esecutivo di
Potere Operaio ci sono stato il primo anno, poi con fortuna non meritata a un convegno di Bologna
mi ricordo che con Magnaghi ci siamo praticamente giocati a pari o dispari la presenza, “io ci sono
stato un anno, ora tocca a te”, e Calogero poi stabilì che Alberto si dovesse fare tre anni di galera
per quella ragione lì, se c’ero io probabilmente me li sarei fatti io. Dunque, non è che ci fosse questa
corsa al potere! Comunque, negli anni successivi credo che i vertici di Potere Operaio fossero una
cosa sostanzialmente diversa; questa cosa di Padova faceva tra l’altro riferimento a Toni e basta, gli
altri dirigenti di Potere Operaio tipo Scalzone non avevano voce in capitolo. Loro facevano altre
cose, tra l’altro Piperno aveva avuto all’inizio, quando si trasferì a Roma, tutta un’attività anche
sulle facoltà scientifiche, sull’attività dei tecnici. Una delle pubblicazioni che ha avuto maggiore
successo era quella che uscì prima di Potere Operaio, si chiamava Linea di massa, con una testatina
che ancora fu un’opera di Mario Mariotti, era fatta con delle letterine in rilievo: di quella cosa lì se
ne tiravano centomila copie. Mi ricordo che questo ci lasciò senza fiato perché un conto era tirare di
Classe Operaia forse addirittura diecimila copie (probabilmente esagero, erano di meno),
comunque erano tantissime ma perché si andava alle fabbriche a darle, mentre Linea di massa
improvvisamente tirò centomila copie. Ci furono il quaderno di Sergio sul CUB Pirelli e quello di
Piperno su tecnici e classe operaia. Io in quel periodo lì facevo da esecutore, cioè mi occupavo più
dell’aspetto della tipografia, insomma di queste cose qua. Comunque, quelle erano cose grosse. Poi
i bisogni organizzativi a un certo punto devono essere diventati veramente pesanti, superiori alle
nostre capacità.

- Prima di Potere Operaio c’era stata La classe, giornale in cui tra l’altro veniva affrontato
proprio questo discorso sui tecnici e sulla scienza.

La classe uscì per tre mesi, nell’estate del ’69, la faceva Scalzone a Torino.

- Sulla formazione e sul territorio.

L’impostazione di Tronti era molto produttiva negli anni ’60, indubbiamente c’era questo corto
circuito tra una rilettura di Marx molto selettiva e la situazione che andavamo a vedere che
corrispondeva, non c’era dubbio che fosse uno strumento di conoscenza molto ricco. Io poi
lavorando sul campo più o meno del territorio, cioè quello che poi è il tema di Magnaghi in qualche
modo (per forza, abbiamo fatto un po’ lo stesso mestiere), mi sono messo a insegnare geografia alla
facoltà di Lettere perché mi sembrava più interessante che non urbanistica ad Architettura, perché si
potevano dire delle cose non legate alla pianificazione e alle strategie imprenditoriali, analizzare
senza implicazioni di progetto. Poi questa intenzione è stata appunto un po’ sommersa dalle vicende
di Potere Operaio o di altro. Adesso quello su cui sto cercando di lavorare è proprio rintracciare dei
fili, ovviamente non si può più ripartire da una lettura di Marx o di testi classici, ma rifondare in
qualche modo questa scienza del territorio ora mi sembra un’esigenza interessante, se fossimo
partiti prima saremmo per esempio stati in condizioni di bloccare sul nascere questa ideologia
ambientalista che secondo me è uno dei danni più grossi che ci siano nella cultura italiana, almeno
in questi settori, negli ultimi vent’anni, e di cui Alberto in qualche modo è responsabile ed è su
questo che ho da ridire con lui, e ce lo diciamo ovviamente. L’ideologia ambientalista è nata su un
vuoto assoluto, nessuno in quel momento era in grado di collegarsi a un certo dibattito nelle scienze

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naturali, che poi si scopre che esisteva invece, però esisteva a livelli della biologia evolutiva, dei
darwinisti contro gli ultradarwinisti, dei paleonotologi contro i genetisti; si scopre a ritroso che
c’erano le basi per una discussione e un’impostazione molto più approfondita che non fu fatta
perché non ce ne siamo accorti, perché questo ambientalismo è cresciuto rapidamente e
immediatamente come ideologia tra l’altro. Per cui ora io, in maniera un po’ isolata, insieme a dei
francesi che ho conosciuto o dentro l’insegnamento che faccio all’università, sto cercando di
metterci dentro qualche ideuzza che serva perlomeno a vaccinare gli studenti contro quelli che
considero i peggiori miti che si possano avere, cioè quelli della Natura con la N maiuscola, degli
equilibri, delle finalità della natura che ha un fine. Queste sono delle stronzate ideologiche contro le
quali ci sono gli elementi per una critica: se uno va a leggersi Darwin se non altro ne esce con la
convinzione che non è possibile pensare all’esistenza di Dio, al progetto della natura buona contro
l’uomo cattivo. Queste cose qua hanno poi un’incidenza diretta su un’analisi che si può fare anche
della genealogia del territorio, non solo delle specie o degli individui biologici; sono dibattiti di
grandissimo interesse, che però vengono un po’ limitati a degli specialismi o vengono considerati
un po’ fuori portata. Invece, sarebbe bello poter riprendere anche un’elaborazione teorica in cui si
possa far rientrare questo tipo di critica dell’ideologia, che poi mi pare che fosse uno dei temi.
Stavo prima parlando di cosa si è prodotto, in fondo della critica dell’ideologia se ne parlava già in
Classe Operaia, Asor Rosa ha fatto Scrittori e popolo (poi l’ha anche rinnegato tra l’altro, non è che
abbia tanto proseguito su quel filone), e dopo in definitiva questo è un tema che è stato quasi del
tutto abbandonato, perché faceva molto più comodo adottare delle ideologie, magari
apparentemente alternative. Invece, non c’è un’ideologia alternativa, l’ideologia è tale e basta,
l’unica alternativa è il rovesciamento della critica dell’ideologia. Questo potrebbe accomunare gente
che si occupa di campi anche molto diversi. In genere io penso che quelli che hanno un po’ lo stesso
punto di vista stiano abbastanza zitti in questo momento, quelli che parlano hanno un punto di vista
ideologico. E’ difficile fare coincidere il desiderio di esporsi e quindi di esporre le proprie idee con
un’esigenza critica; quando uno comincia a scrivere un libro inevitabilmente enuncia un manifesto,
scopre che c’è un discorso vincente, uno non scrive un libro per esprimere dei dubbi, purtroppo è
così. Forse il mondo si divide tra quelli che sono sicuri e quelli che sono dubbiosi. In queste vicende
degli anni ’60 e ’70 siamo passati da un periodo di dubbi usati criticamente, in modo creativo, a un
periodo di certezze a ripensarci anche molto ridicole, che però servivano a mobilitare, perché non si
mobilita nessuno sul dubbio. Poi magari c’è stato un personaggio come Gaspare De Caro che ha
finito per tacere perché era pieno di dubbi, era critico. Certo noi non potevamo accettare la
demolizione anche di quel poco in cui si è cominciato forse a credere, purtroppo erano anche forme
di credenza e quindi di ideologia. Non so se si possa sciogliere questo nodo, se un discorso è
automaticamente ideologico allora è meglio stare zitti, se si riuscissero a esprimere concretamente
anche ad alta voce i dubbi forse sarebbe meglio. So che Toni ha ricominciato a scrivere e a parlare,
ho una gran paura che siano di nuovo delle sparate: lui poi ha una capacità di autoconvincersi
straordinaria e di convincere anche gli altri.

- Dall’altra parte Toni ha anche una grande capacità di distruzione…

Toni distrugge a carro armato, a schiacciasassi, Sergio invece fa una distruzione che leva quella
zeppina che teneva tutto in piedi e crolla il castello, mentre Toni ci passa sopra a bulldozer.

- Il cosiddetto postfordismo è uno dei temi su cui la maggior parte ha espresso molte certezze e
pochi dubbi: nell’analisi di quello che è ritenuto un passaggio epocale si vede una
polverizzazione o addirittura una scomparsa della classe, adesso alcuni (tra cui Toni) parlano
ad esempio di moltitudine. Nel saggio che hai scritto ne L’operaio multinazionale in Europa tra
l’altro parlavi di un funzionamento politico della legge del valore e analizzavi il nodo della

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composizione e della ricomposizione soggettiva della classe: come analizzi adesso questi
passaggi e queste trasformazioni?

Sull’analisi della situazione attuale io leggo poco, magari mi posso basare solo su quello che ho
letto di Sergio, o quel libro di Aris Accornero che dice esattamente le stesse cose. La fabbrica
diffusa esisteva anche prima, avevo citato l’esempio di Prato, in fondo quella che allora sembrava
un’eccezione, una cosa un po’ anomala rispetto alla grande fabbrica, oggi è invece una situazione
molto più consueta. Quindi, questa forza-lavoro esiste sommersa e diluita, non ha più le forme
fisiche dell’assembramento, però è soprattutto una forza-lavoro di qualità diversa. Quando Romano
negli anni ’70 affrontava il discorso della classe operaia che la trovi anche nelle università e nelle
scuole, questo anticipava il fatto che probabilmente c’è l’intelligenza messa insieme, la capacità di
attivare certi processi forma poi un circuito produttivo che funziona nel suo complesso. Una cosa su
cui penso che bisognerebbe riflettere (mi pare che ne accenniate anche voi nel documento) è l’uso
della tecnologia, se tutto questo poi è, come si diceva una volta, il piano e il gioco del capitale,
oppure se ci sono margini di autonomia, di comportamenti non riducibili a ciò. Io penso che se in
questa ricomposizione di classe, che comunque c’è in qualche modo e forse si può riconoscere,
rientra un certo percorso formativo funzionale a quello che potrebbe essere oggi un sistema
capitalistico avanzato, è un percorso formativo in cui le capacità critiche dovrebbero essere
fortemente limitate. Quei ragazzi che stanno al computer dalla mattina alla sera (di questi con cui
lavoro ne vedo tanti), che sono fissati sull’ultima versione del programma tal dei tali e tutto il loro
tempo lo passano davanti allo schermo, fanno il gioco del capitale o non lo fanno? Com’è che si
rapportano a questo tipo di lavoro? Com’è che si rapportano anche con altri che fanno lo stesso tipo
di lavoro? Mah, ci sono le due facce: alla fine in fondo è come l’operaio della catena di montaggio,
sì, fa il lavoro del capitale, però nello stesso tempo si tira fuori. Io non conosco per esempio quelli
che sono i grossi apparati produttivi anche nel settore dell’informatica, come funzionano
effettivamente questi circuiti del nuovo lavoro, del telelavoro, del lavoro di relazioni, di produzione,
insomma di cose immateriali; vedo un po’ marginalmente come operano questi che usano software.
Insomma, c’è una grossa parte creativa anche nel lavoro che fanno e che non è necessariamente solo
l’adesione passiva alle regole di un’eventuale “fabbrica”. Sono cose su cui non è che abbia mai
riflettuto molto, aspetto sempre che qualcuno me le spieghi.

- In quel saggio di cui si parlava prima tu facevi una distinzione tra una composizione di classe
data e una ricomposizione soggettiva, intesa come articolazione delle lotte e delle avanguardie
che si danno in esse. Nell’ambivalenza di cui tu parlavi a proposito delle nuove forme di
produzione e dei processi formativi, come secondo te è possibile pensare a percorsi di ricerca
critica che vadano nella direzione di sviluppo e valorizzazione della faccia potenzialmente
antagonista?

Se ben ricordo in quel saggio si trattava soprattutto il tema dell’emigrazione in Europa: era
ovviamente un’esigenza del capitale il far circolare manodopera per assumere nelle grandi
fabbriche, per localizzarla dove serviva, però era anche un veicolo di antagonismo. Adesso c’è
ovviamente anche tutta la circolazione di manodopera internazionale, ma nei percorsi formativi, di
lavoro, individuali, semicollettivi, in rete o come siano, c’è la stessa cosa: c’è l’esigenza del
capitale, ci sono tante opportunità di antagonismo. Antagonismo vuole dire anche utilizzare a
proprio vantaggio le opportunità che sono offerte dalla situazione caso per caso, probabilmente con
differenze locali molto forti. Credo che l’antagonismo sia sempre da vedere un po’ in questo senso
qua; la società è costretta ad offrire delle opportunità, poi queste possono essere usate in maniera
diversa.

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- Quali sono i tuoi cosiddetti numi tutelari, ossia persone, autori o figure di riferimento nel corso
del tuo percorso politico e culturale?

Alcuni li ho già nominati, a vent’anni incontrare Panzieri è stato importante. Forse l’autore a cui
sono più affezionato è Brecht, del quale continuo a pensare che dia proprio questo giusto rapporto,
cioè il distacco è un tema brechtiano. L’estraniamento rimane una delle cose a cui sono più
affezionato in tutti i sensi, del rapporto con quello che si fa, anche con il lavoro, intanto mantenere
un distacco è una cosa che ho imparato da Brecht. Ogni tanto mi capita di ripescare anche il vecchio
Marx: di solito quando devo andare a cercare qualcosa di suo passo attraverso Rosdolsky. Sulla mia
libreria ci sono i Materiali Marxisti, poi c’è una scatoletta che contiene una serie di schede che
facevo leggendo i Grundrisse ecc., poi ci sono i Grundrisse, poi c’è Rosdolsky e poi c’è Il capitale
stesso. Allora, Rosdolsky in genere è quello che tiro fuori per sapere dov’è che potrei trovare una tal
cosa. Ad esempio, mi ero messo nell’idea di ragionare su tutta la riflessione che fa Marx sulla
natura, perché mi sembrava che dentro l’idea di ricostruire un po’ le basi di una critica
dell’ideologia ambientalista forse servisse anche andare a vedere Marx: per ora ho trovato poco,
però Rosdolsky è veramente la guida alla lettura de Il capitale e dei Grundrisse soprattutto. Per cui
a quello sono affezionatissimo. Poi ci sono degli autori che ogni tanto mi piacciono e poi mi
piacciono di meno. Uno che ho totalmente abbandonato, di cui ho provato a rileggere delle cose ma
mi sono solamente incazzato, è Foucault, non lo sopporto più. Posso parlare più delle scoperte
recenti, ultimamente mi sono appassionato ai biologi evolutivi, biologi tout court: questi fanno dei
discorsi molto seri. In Italia in genere quando si parla di scienze si pensa subito alla fisica, la storia
della scienza è storia della fisica, tutti parlano di Thomas Kuhn o di Karl Popper; la storia della
biologia è estremamente più interessante, è una storia delle scienze naturali. Trovo una cosa molto
interessante il fatto stesso che per un biologo Darwin sia ancora un autore assolutamente attuale:
certo che ha lavorato in quel tempo, a quel modo ecc., però se uno vuole ragionare oggi sui criteri
dell’evoluzione, della speciazione e queste cose riparte sempre da Darwin o ancora prima. Mentre
invece per i fisici tutto quello che è successo dieci anni fa è già da buttare via.
C’è un autore che ho scoperto una quindicina di anni fa: io sono stato tre anni in Africa, in Etiopia,
e siccome dovevo stare via tanto tempo mi sono comprato alcuni libri tra cui, giusto così perché era
appena uscito, La sussistenza dell’uomo, quello che era l’ultimo libro scritto da Polanyi. Questo
testo l’ho dunque letto in Africa, che è un bel posto per leggere un libro di Polanyi; da quello sono
risalito a Traffici e mercati, da quello a La grande trasformazione. Allora, mi sono ricostruito a
posteriori il percorso di questo che è un altro di quegli autori che mi ha affascinato molto. E’
importante il modo di vedere le differenze, poi viene fuori soprattutto in Traffici e mercati, nel
passato ma poi la cosa si applica chiaramente anche alla situazione mondiale di oggi, per andare
soprattutto a chiarire le particolarità di ciascuna situazione e non interpretare tutto in termini
omologati. Per esempio, alla luce di Polanyi mi sono reso conto che certi storici a cui ero per altro
affezionato, come Braudel, tendono a vedere il capitalismo nei mercanti pratesi del ‘300: no, quello
non è il capitalismo, se no diventa tutto troppo simile. Invece, Polanyi canalizza il particolarissimo
sistema di scambi dei mercati, dei marcanti, dei circuiti dei maya o dei berberi, e fa proprio questa
differenza. Ci sono molte più varietà nell’organizzazione sociale di quello che uno è portato a
interpretare alla luce dello sviluppo capitalistico. E’ un discorso che vale anche rispetto all’attuale
globalizzazione di cui tutti si riempiono la bocca, perché non esiste, o perché è sempre esistita: forse
la globalizzazione esiste dal 1492, non ci sono per quello particolari innovazioni, ci sono invece
regioni e luoghi con caratteri particolari e diversi e non vuole dire affatto che tutto è uguale, non ci
ho mai creduto. Queste cose forse le dicevamo alla fine degli anni ’60, anche in quei convegni al
Centro Francovich c’era questo discorso di un quadro internazionale diversificato, c’era poi la
questione del ruolo internazionale dell’Italia come punto intermedio. E questo era anche un modo di
affrontare (poi non fu mai fatto) i problemi del Terzo Mondo e dei paesi sottosviluppati. Su questo
avevo scritto un articolo su Contropiano, non l’ho mai riletto ma forse volevo dire proprio questo.

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- Tu hai ragionato sul discorso delle biotecnologie?

Non sono in grado di capirle poi tecnicamente, però ho leggiucchiato, ho ascoltato, una volta c’è
stato anche un convegno qua sulle biotecnologie: mi sembra che stiano facendo un gran polverone
per niente, è uno di quei casi in cui di nuovo scatta un modello ideologico. Il fatto che la Chiesa
cattolica sia alleata con i Verdi sulle questioni degli embrioni e delle biotecnologie vuol dire che c’è
qualcosa che non funziona: penso che personalmente non mi dovrebbe capitare di essere mai
d’accordo con la Chiesa cattolica, dovrei o almeno spero di avere rispetto ad essa un dissenso
radicale e originario, nel Dna, almeno questa è l’unica cosa in cui mi riconosco valdese. Si tratta
sempre di quelle situazioni ambigue, perché da una parte non sono d’accordo che la scienza possa
tutto e che in suo nome si debba fare tutto; dall’altra parte non mi torna che si faccia una resistenza
contro queste cose in nome di che? Del Creatore? Penso che siano processi su cui stare molto
attenti, perché è chiaro che ci sono delle incognite, ci sono stati ovviamente tanti errori fatti, i quali
in genere dipendono dall’uso che poi ne viene fatto in termini economici, dipende dai
condizionamenti economici.

Di recente io ho scritto tante cose sul paesaggio, che è uno dei temi di cui, vivendo qui, per forza ci
si deve occupare, e anche perché ci sono dentro dal punto di vista professionale, ho collaborato con
il piano della Provincia di Siena, qui a San Casciano faccio l’assessore per bloccare le porcherie che
fanno sul paesaggio. Credo che il paesaggio (qualche volta l’ho scritto un po’ tra le righe di qualche
saggetto) faccia parte del salario differito; non ho voluto infierire troppo su questa cosa, però mi
autogiustifico questo interesse per un bel paesaggio nel senso che se si offre una condizione più
piacevole per l’esistenza questo fa parte comunque di un insieme di valori a cui attinge anche il
salario in qualche modo, non monetario ma relativo alla qualità dei luoghi in cui si abita. Questo me
lo sono più o meno sempre tenuto per me.

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INTERVISTA A ENRICO LIVRAGHI – 7 SETTEMBRE 2000

...Quando nel ‘68 o nel ’69 ci fu il convegno di Bologna e Tronti disse che bisognava riprendere la
mediazione politica, era un invito a ri-dialogare con il PCI e addirittura ad entrarvi, a fare una sorta
di entrismo che sembrava tradurre, secondo noi, la tesi trontiana dell’essere dentro e contro.
Tenendo ben presente che eravamo ancora giovani e con le idee un po’ appannate, alcuni sono
entrati nel Partito Comunista ed io sono stato uno di quelli: la peggiore esperienza della mia vita
politica, però anche un’esperienza che mi ha permesso di capire un mucchio di cose rispetto al
movimento comunista storico, classicamente inteso come terzinternazionalista, cose che non avrei
capito se fossi rimasto fuori. Ciò mentre altri facevano Potere Operaio. Naturalmente questo non ha
chiuso allora né i rapporti né il dialogo né la comunicazione, sia ben chiaro: secondo me non li ha
chiusi né fra Tronti e altri compagni eminenti, né fra i semplici militanti. La matrice era
l’operaismo. Dopo un po’ che noi eravamo entrati nel partito abbiamo realizzato che non si capiva
bene che cosa stessimo a fare, per cui ce ne siamo andati. Però, questa esperienza interna al PCI a
me è servita per capire cos’era l’operaismo pre-operaista (io definisco così l’operaismo comunista
tradizionale, legato alla figura dell’operaio di mestiere) e per marcare la sua lontananza
irrimediabile dall’esperienza neo-operaista di Quaderni Rossi e soprattutto di Classe Operaia, che
nasceva nella fase calante del fordismo. Perché il discorso è quello: lì si trattava della fase calante
del fordismo, eravamo negli anni ’60 e nessuno sembrava accorgersi allora che il fordismo stava
andando verso la sua Aufebung come direbbe oggi Toni Negri (è la cosa più curiosa, e forse più
incontrollata, che ha detto di recente).

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e i tuoi inizi dell’esperienza
politica?

La situazione è un po’ complessa per quanto riguarda i dati biografici personali. Per farla breve, il
primo incontro con i gruppi che venivano o erano ancora legati ai Quaderni Rossi per me è stato di
tipo politico da una parte, ma anche di tipo esistenziale dall’altra: per essere molto precisi, era il
gruppo che mi divertiva e mi piaceva di più, ed era quello che mi incuriosiva di più
intellettualmente, credo soprattutto (si tenga conto che avevo poco più di vent’anni) perché non
capivo assolutamente quello che si diceva. Ci sono anche dei connotati di tipo occasionale, per
quanto mi riguarda; ad esempio Sergio Bologna, Pierluigi Gasparotto ed altri battevano la trattoria
dell’Angolo di Brera e io uscivo da una fase in cui avevo avuto una terrificante sbandata per il
cinema e per l’arte moderna, quindi il quartiere di Brera lo frequentavo (non ho mai usato un
pennello, non sono un artista, avevo semplicemente avuto una sbandata estetico-esistenziale). I
primi approcci sono questi, tra Milano e Como; c’era ad esempio Cesare Pipitone che era più grande
di me e che indicava quella come l’esperienza con la E maiuscola. Il percorso parallelo che mi ha
portato dopo a coinvolgermi direttamente e quindi a progettare un piano di ricerca (anche personale,
non solo legato all’esperienza politica) è stata una cosa semplicissima, banalissima: la faticosa
lettura de La critica del gusto di Galvano Della Volpe, (la prima di tante riletture, perché si tratta di
un testo piuttosto complesso). Ho scoperto di conseguenza che questo filosofo italiano andava ben
oltre la critica dell’estetica romantica e aveva prodotto un marxismo teorico innovativo e quasi
inaudito che valeva la pena di affrontare. Quindi, il secondo dato biografico è costituito dal fatto che
io non ho mai abbandonato la lettura di Della Volpe, ovviamente passando attraverso diversi gradi
di approccio critico. Il terzo è stata la scoperta che Tronti aveva delle radici in qualche modo
dellavolpiane, e per certi versi anche Panzieri. Tronti ha fatto la tesi di laurea con Ugo Spirito, però
l’Istituto Gramsci allora era illuminato dalla presenza di Della Volpe.
Insomma, questi sono i prolegomeni, per così dire; d’altra parte è chiaro che i passaggi sono tutti
legati alla scansione politica e ai momenti dello scontro di classe: nel ’66 lo sciopero dei
metalmeccanici, nel ’67 (che è già un anno di passaggio) Palazzo Campana, poi il ’68 e poi

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l’autunno caldo. Ma noi abbiamo l’orgoglio di avere cominciato prima del ’68, cioè noi non siamo
dei sessantottini, sia ben chiaro, siamo dei pre-sessantottini semmai. Questo è il percorso, almeno a
grandi linee. Devo dire due cose. Una è che, naturalmente, accanto a questo si può parlare anche di
qualche testo fondamentale: il testo di Panzieri sull’uso capitalistico delle macchine, il Frammento
dei Grundrisse e ovviamente Operai e capitale. Io personalmente aggiungo un altro testo, che è più
tardo ma che può essere indicato a pieno titolo come uno dei nuclei della mia formazione: dunque,
aggiungo che nel ’68 la lettura de La società dello spettacolo di Debord mi ha lasciato sconcertato,
ma non per il suo contenuto, bensì per il tipo di interpretazione che ne veniva data all’esterno, da
più parti. Adesso parlare di società dello spettacolo è diventata una cosa che sul piano mediatico è
quasi antidiluviana; però, ciò che mi aveva colpito di questo libro era che Debord “riscopriva” e
riattualizzava il Marx del feticismo, e lo faceva per strade completamente diverse, magari meno
logiche e filologiche, rispetto per esempio a Lucio Colletti. Una cosa che quasi nessuno sembrava
rilevare. Debord muoveva dal Lukàcs di Storia e coscienza di classe, se si vuole da un uso
disinvolto di Feuerbach, ma aveva percepito l’essenza di un feticismo attualizzato in modo
straordinario. Quindi, quello è stato un altro libro formativo, anche se tardo rispetto alla lettura del
giovane Marx che io ho potuto mettere in cantiere quasi subito perché Della Volpe ti portava
immediatamente verso quella direzione. Queste sono le pietre miliari, dietro di me, poi ci sono
ovviamente altri percorsi personali.

- Qual è la tua analisi e il tuo giudizio politico su Classe Operaia e su quello che era il dibattito e
la composizione interna?

Prima di tutto un giudizio su quella che è stata l’esperienza di Classe Operaia dal mio punto di
vista. Io penso che senza quella esperienza, e quindi in un certo modo senza questo sorpassamento
dell’esperienza dei Quaderni Rossi, sarebbe stato difficile mettere a fuoco a tutto campo il concetto
di operaio-massa. Teoricamente tale concetto era già ampiamente formato, ovviamente, ma il
passaggio pratico è stato reso possibile (per i militanti, sia ben chiaro, per tutti quelli che l’hanno
fatta questa esperienza, e non solo, però, anche per quelli che sono venuti dopo) solo con questo
tentativo di vederla in faccia, la classe operaia. Quindi, il lavoro che fece Romano Alquati secondo
me rimane un punto fermo enorme. Questa è la prima cosa che posso dire. Il passaggio pratico per la
percezione dell’operaio-massa, concreta e non solo concettuale, è stato per me Classe Operaia. Sarà
anche perché io ho visto gli operai Fiat in quel periodo, oltre a quelli dell’Alfa Romeo e della
Pirelli; resta il dato di fatto che quel passaggio, per quanto breve, contorto, contraddittorio, con idee
interne secondo me già diversificate alla radice, con un dibattito che a volte girava a vuoto, rimane
un approccio pratico essenziale. Quali siano stati i momenti di dibattito interno e di contraddizione
o anche di frizione interna a questo punto francamente non ricordo neanche più; i meccanismi erano
così incontrollati per personaggi come potevo essere io, o altri, che facevamo della semplice
militanza lì dentro, che non saprei dire adesso. Potrei raccontare degli episodi, però io credo che
l’unico giudizio che posso dare dell’esperienza di Classe Operaia sia quello che ho accennato
prima. Che dentro quell’assemblea ci fosse già la diversificazione fra il trontismo e il negrismo, per
esempio, questo va da sé ed è quasi scontato a posteriori; che ci fosse un dibattito interno è
altrettanto scontato. Però, a me francamente non interessa molto: adesso, visto con occhi attuali,
potrei anche rivederla questa cosa, ho una memoria abbastanza viva di alcuni fatti, ho tutti i
documenti, ho anche documenti e materiali che probabilmente non hanno né Tronti né Negri né
Asor Rosa né Gasparotto né Alquati, cose private insomma. Ma francamente in questo momento
non mi interessa, perché per me sarebbe un interesse di tipo storiografico, niente più; se qualcuno
volesse occuparsi di fare la storia di Classe Operaia allora potrebbe ripercorrerla attraverso i
documenti e le interpretazioni dei protagonisti.

- Tu sei stato a Como, a Milano e anche a Torino?


2
Non ho mai avuto rapporti diretti con i compagni di Classe Operaia a Torino; lì ho fatto l’università
ma praticamente ho frequentato solo il primo anno, poi ci andavo a fare gli esami e basta. I rapporti
erano con il gruppo comasco (che era poi formato da quattro o cinque persone) e con i milanesi,
Pierluigi Gasparotto, Sergio Bologna, Mauro Gobbini, un tale Forni e altri che adesso non ricordo
più. Non ho mai avuto rapporti con Romolo Gobbi per esempio, che era un torinese: lo conosco ma
non ho mai avuto rapporti, e adesso preferirei non averne, data la posizione che lui ha preso, non
recentissima fra l’altro. Gobbi ha scritto un libro in cui faceva apparire tutta l’esperienza, sua e di
Gasparotto in particolare, come una pura goliardata. Io quindi avevo rapporti solo con i milanesi e
con i comaschi, solo più tardi con amici e compagni romani.
A Como c’erano delle fabbriche in cui si interveniva, e c’erano alcuni operai che avevano colto
perfettamente il senso della spinta alla politicizzazione immediata delle lotte apportata da Classe
Operaia, la discontinuità che produceva rispetto alla vecchia cultura etico-lavorista del PCI.
Francamente non so più che fine abbiano fatto, uno si chiamava Sergio Annoni. Qui possiamo
scendere su un terreno aneddotico che è curioso: lui era uno che leggeva Marx in fabbrica, di
professione faceva il tintore in un’azienda comasca molto avanzata sul piano della struttura
macchinale, le macchine funzionavano da sole e lui doveva solo sorvegliarle. Mi ricordo che aveva
avuto una sbandata per Storia e coscienza di classe perché aveva scoperto una cosa che l’aveva
esaltato, ossia il passaggio in cui Lukàcs mette in luce la dimensione contemplativa del processo di
produzione. Lui diceva: “Ma guarda un po’, io sono lì che contemplo le macchine che lavorano e
intanto mi leggo dei libri e ingrasso lo stesso il padrone”. Questo era Sergio Annoni, un personaggio
di cui ho perso le tracce da anni, non so più che fine abbia fatto; era una figura incredibile, in
assemblee pubbliche citava Il capitale in dialetto lombardo sconvolgendo i personaggi di spicco del
PCI. Lui e altri di cui adesso non ricordo più neanche il nome secondo me erano figure che ti
permettevano di verificare sul campo come un certo discorso veniva percepito, anche sul piano
concettuale, da un certo tipo di operai. Il fatto è che non solo incontravi una certa condizione reale
della classe operaia, ma che, anche sul piano intellettuale-individuale, certi operai stessi, coglievano
la “potenza del negativo” (se mi concedete la vecchia formula) cioè la negazione del loro lato
mercificato che veniva soggettivamente espressa nelle lotte; e la trovo una cosa straordinaria ancora
adesso, dopo più di trent’anni, ripensando a queste figure di operai, così poco scolarizzate, anzi del
tutto non attrezzate sul piano culturale, e al tempo stesso così lucide. Chissà, forse Sergio Annoni
era una bestia rara, però resta il fatto che è esistito, che esiste spero, che ha avuto questa
straordinaria capacità di percepire i processi del modo di produzione, e spesso anche di anticipare
nitidamente certi sviluppi.

- Classe Operaia è stata un importante momento di formazione. Dalle interviste fino a qui fatte
ciò emerge in maniera forte, anche quelli che poi hanno fatto dei percorsi che sono andati in
tutt’altra direzione non solo non buttano via niente di quell’esperienza, ma addirittura la
considerano una base fondamentale per quelle che sono state le loro collocazioni successive.
Secondo te, qual è stata l’importanza della formazione di un determinato tipo di soggettività e
quanto la sua analisi può oggi essere utile?

Non so bene descrivere adesso quali meccanismi e quali processi intellettuali scattassero allora,
perché per quanto mi riguarda c’era anche una partecipazione molto emotiva in quanto io sono
figlio di operai. Io sono di estrazione proletaria autentica, figlio di un’operaia tessile e di un
camionista, per cui c’era anche una storia personale che aveva radici nella condizione operaia e che
incontrava, come direbbe il vecchio Benjamin, una possibilità di vendetta di classe che non si
intravedeva nel PCI: dunque, per me c’era anche questa componente, ma devo ammettere che non
era prevalente, era secondaria. Quindi, non saprei dire esattamente come ciò abbia funzionato allora.
Quello che so di preciso è che l’esperienza di Classe Operaia mi ha permesso di capire che cos’è il

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capitalismo, che cos’è la formazione economico-sociale capitalistica, quali sono i suoi meccanismi,
e soprattutto come i suoi meccanismi si manifestino continuamente nascondendosi, occultandosi, e
come in questa fase storica attuale non siano per nulla cambiati. Non è per nulla cambiato lo schema
che fa delle forme di manifestazione del modo di produzione capitalistico qualcosa che continua a
celarsi sotto molteplici maschere, prima di tutto sotto quella del salario. Per me Classe Operaia è
stata essenzialmente questo, cioè lo scoprire, il percepire concettualmente e anche praticamente che
cos’è la formazione economico-sociale capitalistica, e qual è il soggetto che la regge. Soggettività
per me è anche questo, è anche un far coincidere le forme soggettive dell’individuo con le forme del
percorso e del soggetto di classe: la soggettività si forma anche qua.
Prendiamo lo spunto da questo: non so se sono molto d’accordo sul concetto di produzione di
soggettività che oggi avanza in certi settori ex operaisti. Più che altro non so bene che potenziale
abbia sul piano politico, sul piano di una ripresa dell’antagonismo, non lo capisco, perché trovo che
il concetto vada messo a punto. C’è l’idea di una produzione di soggettività che viene esaltata e
allargata dalle forme del postfordismo, soprattutto innestate, quest’ultime, di meccanismi
informatici, potenziate dall’avvento del microprocessore; quindi una soggettività intrecciata di
processi di attualità e di virtualità in cui non si distingue più l’uno dall’altro, e non deve distinguersi
dal punto di vista del virtuale (però c’è anche un punto di vista dell’attuale). Non riesco a capire
bene perché si passi da questo concetto, da questa idea, da questo tentativo di messa a fuoco, al
concetto di lavoro immateriale: perché ci dovrebbe essere un progresso in questo concetto e non un
capitombolo tautologico? Qui bisognerebbe rimettere in campo una ripresa del concetto di forza-
lavoro che è rimasto abbozzato anche in Marx, magari cambiandogli il nome. Non è un problema
semantico, ma logico-concettuale e insieme politico. Il problema, ripeto, è che bisogna mettere a
punto ulteriormente e immettere nell’attualità il concetto di forza-lavoro, e qualcuno sta già andando
in questa direzione. Ora io la butto lì (l’ho già scritta e quindi posso anche buttarla lì), naturalmente
non posso argomentarla in questa sede però l’accenno: la forza-lavoro è l’unica autentica merce
immateriale. In quanto valore d’uso, la forza-lavoro, o se si vuole l’essere umano in quanto operaio,
è immateriale ab origine, e come tale si presenta alla sostantificazione capitalistica. Quindi, il
concetto di lavoro immateriale non è un progresso, è un avvitamento tautologico, secondo me, non
fa fare un passo avanti sul piano conoscitivo ma anche su quello pratico-politico. Io qui marco il
mio dissenso da molti compagni che oggi girano a vuoto intorno questa tematica. Naturalmente non
mi pare la sede in cui si possa mettere a punto per esteso le ragioni di questo dissenso, casomai si
scrive un libro, poi dovremmo stare qui fino a domani! Però, si tenga conto che è questo.
Ora, il concetto di soggettività, di produzione di soggettività, di formazione della soggettività, se è
inteso nei termini di cui sopra, torno a ribadire, non fa fare progressi. Ma soggettività operaia era
un’altra cosa, era la scoperta del sé e della negazione del sé in quanto precipitazione nel feticismo
(se mi si passa questa immagine filosofica un po’ antidiluviana), era la scoperta della propria
centralità nell’esperienza delle lotte. Una centralità che per me (qui dissento da Tronti) non si è
affatto persa, si è solo dispersa e disseminata; o se si vuole, detto in un’altra forma, è
semplicemente trasmutata, sommersa, occultata. E’ una centralità policentrica e polisemica, se mi si
concede il termine. Un’idea, questa, piuttosto distante da quella di moltitudine messianica: io penso
che sia una centralità policentrica che non ha bisogno di smaterializzarsi perché è già immateriale
nel suo essere pura potenza produttiva. Ciò sotto varie forme naturalmente, adesso qui non voglio
ripetere né Il capitale né i Grundrisse, né tentare di aggiornarli né aggiungere qualcosa; però, si
tenga conto di questo, per me è un problema aperto ed è un blocco di ricerche che va assolutamente
messo in campo. Non si capisce bene perché questa produzione di soggettività (che di fatto, qui ed
ora, in questo universo del capitale, è anche produzione di una merce, anzi, è immediatamente
riduzione a merce) debba sfuggire al circolo del consumo, non si capisce bene perché questa merce
non venga esaurita e distrutta se non tenendo fermo che c’è proprio una merce che all’origine non
viene distrutta nel consumo, ed è la forza-lavoro. Ora, se forza-lavoro è una parola non più
pregnante mettiamone a punto un’altra, ma è un concetto da rimettere in campo. Qui forse

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bisognerebbe anche lavorare sull’idea di valore d’uso della forza-lavoro, dove Marx si è appena
affacciato (e non poteva essere altrimenti) , perché dal punto di vista dell’esperienza più avvertita
teoricamente di Classe Operaia, degli operaisti, Tronti per esempio, il valore d’uso della forza-
lavoro è il suo consumo nell’atto produttivo. Io credo che qui ci sia stato un errore, o meglio, è certo
che il consumo della forza-lavoro è capitalisticamente dato, però c’è un dualismo in questa idea di
valore d’uso della forza-lavoro: non è solo il suo consumo nell’atto produttivo, nella sussunzione
capitalistica, c’è ben altro, c’è la soggettività, cioè c’è l’astratta potenzialità del vivente-uomo-
proletario di produrre. Allora, il suo valore d’uso è anche e soprattutto questa nuda vita, non è solo
il suo consumo, c’è anche questo passaggio, che non è mai stato messo in luce, nel senso che su di
esso non si è mai lavorato, neanche in quell’esperienza di Classe Operaia: è anche l’unico valore
d’uso autenticamente immateriale. Dunque, il nodo è sul concetto di soggettività e quindi
sull’astratta potenza del soggetto di produrre; qui siamo già andati più in profondità nel concetto di
forza-lavoro e siamo arrivati, appunto, al vivente, preferisco usare questa nominazione pur generica
rispetto a quella di biopolitica. Si può arrivare trenta-quarant’anni dopo a scoprire questo; devo dire
che per me è una cosa già vagamente intuita vent’anni fa: se è ammessa una parentesi personale, io
ho “riscoperto” un mio testo pubblicato vent’anni fa in cui queste cose le avevo già rozzamente
anticipate, in forma che adesso non ripeterei mai più e con un linguaggio che adesso cambierei, che
però venivano dalla mia esperienza operaista. E quindi l’idea trontiana di rovesciamento dei rapporti
tra classe operaia e capitale, e della prevalenza dei movimenti di classe rispetto a quelli di capitale,
secondo me è un concetto che forse va di nuovo misurato nelle sue sfaccettaure. E’ un concetto
vecchio-trontiano su cui io sto tornando a ripensare (semmai è proprio Tronti a non essere più
d’accordo), dopo essere passato attraverso un periodo di grande rigetto (privato, sia chiaro).
Comincio a intravedere adesso come forse, e sottolineo forse, si possa riagganciare, magari
torcendola fortemente, questa idea vertiginosa con una nuova riflessione sul concetto di forza-
lavoro, sul concetto di soggettività del lavoro e sul concetto di soggettività tout-court.

- In certi discorsi sul general intellect c’è talvolta un vedere come soggettività immediatamente
antagonista una soggettività che è profondamente plasmata dal capitale. Manca invece molto
una ricerca che parta semmai dall’ambivalenza di tale soggettività e che sia tendenzialmente
tesa verso la formazione di una controsoggettività. Cosa ne pensi?

Io penso che tutti questi compagni, anche se in forme sensibilmente differenziate, stiano girando
intorno a un nodo cruciale; non so se riusciranno a fare inchiesta sul campo. Il modello della
conricerca non so se sia ancora praticabile sul piano di questo nuovo proletariato cosiddetto
“immateriale” Però ruotano, magari senza bussola, intorno a una problematica che sembrava
relegata in qualche irriducibile luogo lontano, semi-soffocato dal bagliore mediatico, bisogna
riconoscerlo. Tuttavia il lato che da parte loro viene completamente sottovalutato, direi fallito, è
l’analisi della merce. Non vedono più la merce; le ragioni sono anche facilmente spiegabili, perché
tutto sommato se si parte dall’idea di operaio-sociale, praticato vent’anni fa come un salto mortale
nel vuoto, oggi si è già alla pretesa di poter praticare un oltrepassamento del segno capitalistico del
rapporto sociale, dissolto sotto i colpi di un entità totemica, inattingibile dietro la maschera della
megamacchina, e inafferrabile nelle pratiche del suo domino assoluto; e il segno del capitale, come
si irradia qui ed ora, si è un po’ perso nella migrazione un po’ ebbra verso gli orizzonti di un
soggetto piuttosto disincarnato. Loro vedono un certo peculiare lavoro immateriale (e lo vedono
anche nitidamente) ma non vogliono vedere che la fenomenologia di questo lavoro immateriale è
innanzitutto capitalistica. Vedono il lavoro immateriale come lavoro intellettuale, ricco di saperi,
produttore di soggettività, di linguaggi e di potenza comunicativa, ma non vogliono vedere la
immaterialità della merce, e quindi il segno capitalistico della “nuova” merce immateriale. Se lo
vedessero secondo me scoprirebbero (adesso lo dico in modo conciso e sintetico) che la merce
sempre esibisce un qualcosa di immateriale, non diversamente dalla forza-lavoro. Ma, dovrebbe

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essere noto, la merce è una trappola teologica, è qualcosa di immateriale proprio in quanto cosa-
merce, non in quanto valore d’uso; è cioè una immaterialità materialistica, e non si tratta di un gioco
di parole, come è noto. Qui c’è una inversione dei rapporti reali, un rovesciamento in cui il soggetto
che fonda tutto il processo appare come una pura manifestazione del processo stesso. La merce ha in
sé il gene della immaterialità perché reca in sé la forma del valore; è, insieme, corpo e anima: per
usare il linguaggio di Posse, questi sono cristalli di marxianesimo, sono cose marxiane ma sembra
che siano sfuggite a molti. Non vedono, questi compagni, che la soggettività oggi ha perlomeno una
doppiezza interna, ha il principio della duplicità interna: quindi, ha un lato potenzialmente
antagonista ma ha anche un lato attualmente merceologico e capitalistico. Magari se riescono a
correggermi sono disposto ad accettare tutte le critiche possibili, ma penso che loro non vedano più
la merce. Per loro la merce non è più un problema perché ormai gli appare sprofondata nella
sussunzione capitalistica compiuta, e non vogliono più vederla. Hanno svalutato (e qui forse si tratta
dell’eredità negriana) il suo carattere di feticcio. Quindi, non si accorgono che la spettralità della
dimensione virtuale del capitale che oggi sta sempre più prendendo corpo (e anche questo non è un
bisticcio) è la stessa identica spettralità della forma-valore e della forma merce, solo che oggi il
capitale ha il potere di esibirla, squadernarla, rendendola sempre più invisibile. Basta vedere come
oggi il capitale globale abbia ridotto a merce una delle funzioni essenziali del vivente-uomo: lo
sguardo. Lo sguardo è una delle merci cruciali del presente, nell’epoca elettronico-digitale, del
video e soprattutto della rete, almeno tanto quanto era puramente aggiuntiva nell’epoca della
riproduzione tecnico-meccanica, quella del cinema. Non è che non ci arrivino: ci arrivano a intuire
queste cose, ma non ne fanno uno dei due momenti, sottolineo due, su cui si può fondare una ripresa
dell’antagonismo. Secondo me è questo il motivo: la sottovalutazione del feticismo ti impedisce
anche di valutare come la forma della percezione del mondo nel moderno, anzi nel postmoderno, si
confonda ormai completamente con l’esperienza della mercificazione.
Faccio qui una parentesi in merito alla tua definizione di soggettività capitalistica. Per soggettività
capitalistica io intendo una soggettività oggettivata all’interno dei meccanismi capitalistici. Io sono
d’accordo sul fatto che la soggettività in quanto materia vivente si genera in antitesi al capitale; ma
la soggettività non può sfuggire all’oggettivazione in quanto sussunta nelle forme del capitale, cioè
intanto non può essere una soggettività non oggettivata in quanto si incorpora nel capitale nella
forma della subordinazione del lavoro vivo e della riduzione del lavoro vivo ai processi della
valorizzazione del capitale. In questo senso è soggettività capitalistica.

- In quest’ambivalenza come, secondo te, è invece possibile agire, progettualmente, sull’altro


aspetto, su una potenzialità tendenzialmente antagonista?

Questo è un terreno su cui, secondo me, è bene non avanzare ipotesi personalistiche, perché semmai
si imporrebbe un passaggio pratico, e secondo me questo non può che essere collettivo. Credo sia
sicuro comunque che se non si capisce come queste nuove forme della soggettività assumono un
duplice segno non sarà possibile nessun passaggio politico. Per fare questo bisogna evidentemente
riprendere in mano gli altri passaggi. Prima bisogna cominciare, per esempio, a riflettere su qual è
il segno reale del cosiddetto postfordismo. Qui avanzo un’ipotesi personale: il postfordismo è un
postfordismo o è l’estrema propaggine del fordismo, un iperfordismo? Lo pongo come problema, è
una cosa da scoprire, perché a seconda delle risposte, diverse sono le conseguenze. Non solo, ma il
riprendere in mano il concetto di forza-lavoro alla luce di queste due risposte che possono
diversificarsi implica una direzione o un’altra. Le forme del capitale del nuovo millennio sono
quelle del capitale cognitivo, tesi avanzata da più parti, e ormai mediaticamente volgarizzata,
oppure è questa forma del capitale cosiddetto cognitivo che incorpora, più o meno
consapevolmente, maschera anzi, qui ed ora, quel famoso lavoro intellettuale, quel famoso
“intelletto generale” che finisce per essere produttore di innovazione capitalistica e solo di
innovazione capitalistica e sempre di innovazione capitalistica? Sono due cose diverse: va a farsi

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benedire la produzione di soggettività antagonista in questo caso. Qui non si può più parlare di
produzione di soggettività antagonista: se in realtà i saperi, la potenza dell’intelletto generale, in
rete, peraltro, quindi arte-fattuale (questo è poi un terreno sul quale bisognerebbe fare una parentesi,
perché si lega alla sottovalutazione della forma-merce), se questa potenza dell’intelletto generale
produce continua innovazione nella tecnologia-merce, non solo, ma innovazione di merce, cioè
innovazione capitalistica, ebbene qui siamo su un terreno minato. Perché a me sembra che queste
schegge di potenza del sedicente General Intellect si attualizzano precipitando sempre di più la loro
soggettività nel processo (nuovo?) di valorizzazione, in quanto “governate” dal movimento “fuori di
sé” e dal “ritorno in sé” del processo del capitale informatizzato, digitalizzato, retizzato e ancora e
sempre accumulato . Se invece il capitale cognitivo è qualcos’altro bisognerebbe una volta per tutte
chiarirlo, bisognerebbe fondarla questa cosa.
Io non vedo un passaggio pratico in questo momento perché non vedo come si possa mettere in
circolo una consapevolezza, se non una coscienza, delle nuove forme della subordinazione al
capitale, o se si vuole delle forme compiute della sussunzione. Forse bisognerebbe prima porsi
questo semplice quesito: qual è la differenza specifica che marca la forma-lavoro del capitalismo
dell’era telematica? Se non si vede che siamo di fronte a una moderna/arcaica forma di metafisica
macchinale, si evoca una potenza messianica della soggettività e del nuovo proletariato e si può
sfociare in una “vecchia” forma di teologia. Io vedo questo rischio, l’ho già scritto e lo ripeto qui.
Non so dire cosa si potrebbe fare. Secondo me il terreno su cui oggi non si è riflettuto a sufficienza è
quello che viene generato dalle cosiddette nuove tecnologie, è questo che manca. E’ qui dove la
sinistra antagonista, diciamo, i suoi eredi o quelli che dovrebbero essere ancora rappresentanti
dell’antagonismo al capitale, hanno mancato di riflettere; questa riflessione è mancata
completamente. E’ qui che sono subalterni da punti di vista che sono opposti all’antagonismo. Il
maestro qui è Pierre Lévy, sono i teorici del virtuale, lo sono di fatto, perché non si è riflettuto sul
virtuale se non per accenni, se non per passaggi rapidi. E soprattutto non si è riflettuto sul virtuale
come merce. Quindi, è proprio questo il lato che secondo me manca a questi compagni, non vedono
nel virtuale il lato mercificato, il suo condividere lo statuto ontologico (e teologico) della merce:
vedono nel virtuale-immateriale-digitale solo il potenziale di esaltazione e di moltiplicazione della
soggettività, la quale è in sé immateriale, così ricadono nella tautologia. Dicendolo in un altro
modo, non vedono nella crescita, nell’allargarsi, nell’accumularsi delle figure della virtualità tecno-
macchinale una nuova forma di trascendenza: eppure questa sta esattamente dentro i presupposti
ontologici della virtualità elettronica, cioè della virtualità numerico-digitale, ci sta in modo netto e
dichiarato. La dimensione angelica della navigazione in rete di cui parla Lévy è tale perché così si
appare, e appare come si presenta. Il modello, quello vincente, non sono gli hackers: sono le Borse
mondiali, e i navigatori dell’autovalorizzazione del denaro. Questo è l’altro aspetto della cosa. Io
insisto: basta prendere il modello di virtualizzazione di un’azienda per capire che cosa si perde e che
cosa si guadagna e chi governa la virtualizzazione: qualcosa che sta al di là e che si pone come un
prius rispetto all’attualità. Il motore mobile di questa virtualità è qualcosa che trascende l’attualità,
che si pone come il principio della sua nullificazione, che la riduce a non-essere, è una virtualità del
capitale, è il capitale qui ed ora che produce i processi di virtualizzazione: in un’azienda questa è
una cosa evidentissima, che tutti possono capire, mentre diventa un po’ più complicata quando si
virtualizzano le funzioni del soggetto, intellettuali, linguistiche e fisico-corporali. Ma a questo
proposito mi viene sempre in mente una frase di J.G. Ballard, che pressappoco diceva, a proposito
della microelettronica, che è come se l’intelletto umano avesse dato in appalto alcune sue funzioni,
avesse creato delle aziende di subappalto che poi possono consorziarsi e confliggono con l’azienda
madre. Qui diventa un po’ più complicato scoprire il segno capitalistico di questa virtualizzazione;
però, uno che ci arriva molto vicino è Paul Virilio, forse proprio perché ha una base religiosa.
Insomma, diciamo che c’è un bel terreno su cui arare. A mio parere è molto sintomatico il fatto che
comunque questi problemi in Italia li abbiano intuiti - magari equivocati - gli eredi della tradizione
operaista, neo-operaista: tutto sommato questa cosa mi riconcilia un po’ con il presente perché trovo

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che bene o male la tensione verso l’antagonismo non sia completamente spenta.

- Come sottolineavi tu, in quasi tutti i discorsi che negli ultimi anni sono stati fatti rispetto alle
tecnologie c’è (con varie sfumature) una sostanziale esaltazione dell’innovazione, che è per sua
natura capitalistica, e di completa sottovalutazione di quello che è il segno e la dimensione di
campo. Considerando invece l’ambivalenza delle tecnologie, come è possibile sviluppare un
punto di vista di parte? E’ secondo te possibile pensare ad un loro controuso?

Non ne ho la minima idea, anche perché (e qui faccio un’ulteriore aggiunta) non sono convinto che
si possa praticare un uso alternativo delle tecnologie. Intanto io penso che nulla sia irreversibile, e lo
penso non in astratto ma in concreto. Per esempio, il nucleare in via di reversibilità ne rappresenta
una testimonianza. In secondo luogo, io penso che questa innovazione sia capitalistica, e che
storicamente sia prodotta in questa forma determinata con un segno capitalistico. Non escludo che si
possa trovare il punto di rottura, o addirittura che il punto di rottura sia già implicito; ho invece
qualche dubbio sul fatto che si possa praticare un uso alternativo di questa tecnologia. Io veramente
oggi avanzo le mie riserve. Perché questa tecnologia e non un’altra? Se si risponde che questa
tecnologia è un dato, allora è come dire che il reale è razionale e il razionale è reale, vecchia storia,
non vorrei ritornarci. Però, sembra che nella sinistra in generale, e in particolare nella sinistra
istituzionale, ma in forme contorte e comunque abbastanza insinuanti anche nella sinistra cosiddetta
antagonista, sia passata questa idea della tecnica come figura oggettiva di uno sviluppo evolutivo
naturale (già dato in mente Dei?): questa è la tecnologia, non ce ne sono altre. Quindi, non so se si
può praticare un uso alternativo di questa tecnologia. Penso che si possa trovare il punto di rottura di
questa tecnologia, anche perché, forse, le sue forme già se lo portano in corpo. E qui mi sono
perfettamente chiare le ragioni di quelli che vogliono afferrare solo l’impronta, si diceva una volta,
direttamente operaia di queste forme, perché questa tecnologia è qualcosa che si accumula e procede
anche sulla banalissima base di capitale investito, e quindi di lavoro passato, e magari trapassato.
Dunque, c’è un fantasma, c’è lo spettro del lavoro morto lì dentro. Però, c’è anche un altro aspetto
per cui tentare di mettere in gioco il lato antagonista di questa duplicità: io credo che l’innovazione
capitalistica si produca nel momento stesso in cui il ciclo di lotte operaie non è più governabile, non
è più controllabile con la vecchia forma di organizzazione del lavoro. L’innovazione capitalistica ha
questo segno nel profondo, quindi ha un segno operaio, ha il segno del negativo. Quello che non
bisogna lasciarsi sfuggire è l’altro passaggio simultaneo: è la riduzione al corpo incorporeo della
valorizzazione che si ricongiunge con momenti di alta coscienza capitalistica di questo segno
operaio. E’ quello che è avvenuto negli ultimi trent’anni e che non si può ignorare né sottovalutare
né dimenticare, cioè il segno capitalistico della soggettività, ancora una volta ridotta a merce. Ed è
sconvolgente che la soggettività, il vivente-uomo, venga messa totalmente al lavoro come processo
di valorizzazione del capitale stesso. Non si possono dimenticare questi due aspetti, non si possono
scindere, separare, e vedere l’uno ignorando l’altro. Questa è una cosa che non ha fatto l’operaismo
negli anni ’60, non ha mai dimenticato che il lavoro vivo e il lavoro astratto coincidevano nelle
forme del fordismo, e che la soggettività operaia aveva strappato questa maschera; non ha mai
dimenticato cioè che la classe operaia era anche riduzione a merce, e che la soggettività operaia si
esprimeva anche come negazione di sé in quanto forma del capitale. Non si può minimamente
dimenticare che cos’è la formazione capitalistica. Ripeto, non si può dimenticare l’analisi della
merce, e in particolare della merce forza-lavoro, e non si creda che sia stata fatta una volta per tutte.
Poi ci sarebbe un’altra cosa, e qui andiamo su un terreno apparentemente diverso, ma che in realtà è
il fondamento di tutto il processo. Penso che un altro dei nodi da sciogliere sia la messa a punto del
concetto di astrazione del capitale. Qui, dal momento che sono molto d’accordo con lui, invito a
leggere Raffaele Sbardella (anche perché io stesso ho intravisto questa analisi già vent’anni fa). Il
concetto di astrazione del capitale va messo a punto, non si tratta solo delle astrazioni determinate o
indeterminate: si tratta proprio dell’idea che il capitale è un’astrazione storica e logica, una vera e

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propria ipostasi del reale, che le ipostatizzazioni del pensiero non sono altro che la riproduzione, il
ricalco di tale astrazione. In una sede come questa io trovo giusto che tutte queste cose si dicano, e
trovo anche giusto che un lavoro di ricerca e alcuni itinerari personali che sono stati silenziosi fino
ad ora comincino ad essere messi in gioco. Quindi, trovo giusto anticipare queste cose anche se in
modo appena sbozzato, perché sono discorsi che oggi devono uscire allo scoperto, non possono più
rimanere chiusi in qualche nicchia, perché secondo me siamo forse di fronte a qualcosa che si
muove. Credo che questa specifica globalizzazione non sia così pacificamente il futuro immediato
di tutti e il futuro radioso del capitale, pur essendo inscritta nei suoi geni fin dall’origine; avrà
qualche problema secondo me, spero che lo abbia, e vedo che comunque qualcosa si muove, si è
messo a respirare qualcosa che era latente e sopito da un po’ di anni. Quindi, bisogna anticiparle e
tirarle fuori alcune cose. Buttandola lì, ripeto, l’idea è che adesso bisogna mettere a punto anche il
concetto di astrazione del capitale. Se bisogna rileggere la storia della filosofia insieme alla storia
operaia, facciamolo, la ricerca richiede anche questo; se dobbiamo rivedere una storia che è stata
messa in gioco quarant’anni fa, rivediamola.

- Non in forma di ricostruzione storica ma con un’analisi critica nell’oggi, secondo te quali sono
stati i limiti e le ricchezze dell’esperienza operaista? Quanto tali limiti e ricchezze possono
essere utili nell’attualità e per un’analisi e una ricerca proiettata verso il futuro?

Se devo essere sincero non vedo limiti in questa esperienza, né in quella dei Quaderni Rossi né in
quella di Classe Operaia, perché i limiti erano già impliciti nel progetto. Soprattutto in Classe
Operaia i limiti erano già consapevolmente anticipati. Tronti era consapevole della caducità di
questa esperienza, del fatto che essa non poteva che essere limitata nel tempo. E lo era perché questa
esperienza dal punto di vista di Tronti aveva di mira il partito della classe operaia, che era il PCI, la
formazione di un quadro che entrasse nel partito egemonizzandone la cultura e il progetto politico.
E qui il limite è implicito, e forse c’è anche un limite non vorrei dire di presunzione, perché mi
sembra ingeneroso, però un limite che sconta una certa volontà di potenza se vogliamo dirla così;
ma forse, più che altro, è una certa volontà di potenza che si scontra con un limite. Ma, al di là di
questo, che Classe Operaia fosse un’esperienza a temine lo dimostra innanzitutto il fatto che un
certo gruppo esce dai Quaderni Rossi, e non vi esce solo perché i Quaderni Rossi prendono una
certa piega sociologica, non intendono praticare un’esperienza sul campo, di intervento nelle lotte,
con tutti i suoi limiti; ma vi esce secondo me proprio perché anche l’esperienza dei Quaderni Rossi
per alcuni dei suoi esponenti (Tronti, Negri, forse lo stesso Panzieri) doveva finire. Così, doveva
finire anche Classe Operaia. Però, la ricchezza rimane perché rimane quella che è stata una
scoperta, che è il rovesciamento trontiano del rapporto fra i movimenti di classe e i movimenti del
capitale (che probabilmente Tronti stesso oggi non condivide più, l’ho già detto). Era un’ipotesi
stravolgente quella scoperta, quella lettura di Marx, malgrado il suo sapore vagamente hegeliano,
come aveva detto Panzieri. Una scoperta che oggi si può anche considerare, da un certo punto di
vista, piuttosto devastante per Tronti stesso, visti gli esiti politologici. Attraverso quali passaggi
Tronti arrivi a questa lettura adesso non è in discussione: io penso che senza una immersione nel e
una riemersione dal dellavolpismo, io penso che senza la Kritik del ’43, per esempio, Tronti non
avrebbe maturato questo passaggio (e lasciamo stare Nietzsche, Husserl, ecc. che pure hanno a che
vedere). E’ un pensiero mio personale che senza Della Volpe da una parte, e senza la presa di
distanza e la consapevolezza dei confini del dellavolpismo dall’altra, Tronti non sarebbe arrivato
alla lettura e anche alla forzatura di questo Marx.
Il guaio è che Tronti poi ha creduto di oltrepassare questo ancoraggio mollando gli ormeggi senza
trovare la rotta. Ed è incappato in qualche tempesta, ma soprattutto nelle bonacce del pensiero
autarchico Ma comunque questa cosa non è in discussione, e quella rimane una ricchezza. E’ una
ricchezza che produce ancora qualche residuo, contorto se si vuole, ma produce. Dietro a certe
esperienze intellettuali d’oggi c’è quell’idea, c’è quel concetto trontiano, per quanto lo si possa

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negare. Anche il lavoro di Romano Alquati produce ancora ricchezza, altroché se produce: secondo
me ancora adesso non si è misurata la portata di quel lavoro, perché ha fornito la base reale,
concreta, materiale su cui i Quaderni Rossi e soprattutto Classe Operaia hanno elaborato i loro
concetti. Un lavoro enorme. Ma scusate, si veda il progetto di inchiesta che propone oggi Posse: sì
lo so che c’è l’inchiesta operaia di Marx, il modello è marxiano, ma passa attraverso il tentativo di
attualizzazione che ne ha dato Romano con la conricerca. Questa è ricchezza. A me non interessa
altro di quello che ci può essere stato all’interno dell’esperienza di Classe Operaia, quello che mi
interessa è questa cosa, che oggi la condivida o meno. Mi interessano anche le contraddizioni che ha
prodotto all’interno dell’area ex operaista, e anche gli slittamenti tautologici che produce tuttora;
però è questa.

- Tra le figure e gli autori con cui confrontarsi, uno che ormai viene fuori molto raramente è
Lenin: una sua lettura critica dopo un certo periodo è stata abbandonata. Che importanza ha
avuto allora la lettura di Lenin? Che importanza può secondo te avere oggi?

La funzione che aveva Lenin nella testa di Tronti e che si esprimeva in Lenin in Inghilterra è
evidente: era la ripresa di un’autonomia del politico dentro il partito, di un’autonomia della politica
e quindi dell’iniziativa politica del partito, e l’iniziativa politica aveva quel segno operaio. Lì è
chiaro. Io non ho più riflettuto su questa vicenda di Lenin, se non sul fatto che trovo abbastanza
ingeneroso che Lenin oggi venga considerato un cane morto. Facendo una considerazione generale,
è chiaro come le figure che hanno rappresentato un certo processo storico vengano travolte dal
crollo di quel processo. Però, Lenin è anche quel teorico di cui ha messo in chiaro i pregi e i limiti il
vecchio Colletti (che adesso questi sia un patetico conservatore non cancella i libri che ha scritto).
Francamente io non ho mai più riflettuto su Lenin e non so come potrebbe avvenire una rilettura
critica di Lenin oggi. Forse nei termini che ha proposto Tronti negli ultimi vent’anni. Lì siamo però
veramente (qui lo dico in modo molto chiaro) nel lato oscuro del trontismo secondo me, perché
l’autonomia del politico nel momento in cui si è separata dal suo fondamento di classe, che era ben
chiaro negli anni ’60, si è confusa con l’autonomia del partito, prima dalla classe, e poi dal sociale
in genere, con gli esiti “radiosi” che ha avuto. Tronti non ha fatto altro che predicare al PCI, in
seguito al PDS e adesso non so più, modelli di iniziativa politica e di autonomia della politica; ma
ha predicato nel deserto perché il risultato è Veltroni o se si vuole D’Alema. Per cui se questo
modello di autonomia del politico è quello che esce dall’eredità del leninismo io mi ritraggo, mi
ritiro, esprimo qualche perplessità; se c’è altro non lo so, non ho più riflettuto su Lenin.

- Qual è stato il tuo percorso successivo alla fine di Classe Operaia?

Dopo la chiusura di Classe Operaia, se non ricordo male alla fine del ‘65 o nel ‘66, la breve fase
pre-’68 ovviamente è stata di partecipazione febbrile a non so più che cosa, però segnata sempre da
quella esperienza, dal fatto che comunque quella esperienza si era chiusa e che però aveva in ogni
caso aperto qualche luce. Poi io nel ’70 sono entrato nel PCI, ci sono stato qualche anno a fare
dell’entrismo trontista per nulla, cioè posso dire a posteriori per nulla. Personalmente ero in una
posizione molto precaria perché i miei amici e i miei compagni erano altri; non ero solo perché c’era
stato un entrismo di persone anche molto più giovani che però, arrivate dal ’68, avevano percepito
immediatamente la densità dell’esperienza operaista. Non è stata così effimera l’esperienza di
Classe Operaia: sembrava cancellata dentro la fase del ‘68, e anche in quella che si è prodotta dopo,
con gli operaismi di Potere Operaio, di Avanguardia Operaia, di Lotta Continua che marcavano, chi
più chi meno, una netta dissonanza rispetto a quella esperienza, e non c’entravano niente - e poi
sono morti. Il fatto che resta è che siamo ancora qui a riparlare di quella esperienza. Questa
comunque non è stata così isolata perché non rare figure di persone che si sono formate nelle
occupazioni, nelle forme della cosiddetta controcultura, nella cosiddetta contestazione, insomma nel

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’68, si sono imbattuti poi subito nei germi di questa esperienza con il cosiddetto ”autunno caldo”;
non so cosa sia loro rimasto di essa, tuttavia il dato è che noi siamo entrati nel PCI in gruppo, e
siamo vissuti come gruppo dentro questo partito. Quindi, siamo stati dentro in un modo molto
conflittuale, difficilissimo in un certo periodo, perché i nostri amici che continuavamo a vedere
erano fuori, i nostri compagni comaschi, o milanesi, o romani. E’ durata pochi anni, poi io
personalmente ho fatto un’altra esperienza, facendo coincidere una passione personale con una
professione: ho cominciato ad occuparmi di cinema, ho fondato a Milano, con altri compagni, uno
degli ormai storici cineclub degli anni Settanta/Ottanta. Ho fatto quindici anni di questa esperienza,
però a latere abbiamo anche pubblicato una rivista con ambizioni filosofico-politiche che si
chiamava Metropolis e che io dirigevo; ne sono usciti quattro numeri, poi naturalmente abbiamo
dovuto chiuderla, perché è noto che fine fanno le riviste indipendenti della sinistra. Quindi, questa
mia nuova esperienza faceva coincidere una professione con una passione personale, quella per il
cinema che io ho avuto da sempre; mi sono messo a fare critica del cinema, in forma giornalistica,
ma soprattutto organizzando visioni cinematografiche per lo più eccentriche e inedite. Detto di
passaggio, il cineclub si chiamava Obraz. Però, all’interno di questa esperienza le riflessioni hanno
finito per contrarsi in una dimensione personale; questa fase parte dal ’75, quando ormai si
cominciano a intravedere i segni di un riflusso. Ma direi che non è questo il motivo per cui noi (dico
noi perché eravamo più o meno lo stesso gruppo che era stato dentro il PCI) siamo passati a questo
progetto: semplicemente abbiamo trovato l’occasione e le disponibilità anche finanziarie per
metterlo in campo. Questa esperienza si chiude nel ’90, però nel frattempo incominciano i percorsi
individuali e sono percorsi tutti privati. Perché poi si inceppa il circuito; si sa cosa succede a partire
dal ’78, progressivamente si chiudono tutti a riccio; si interrompono i canali di comunicazione, se
non all’interno di qualche enclave privata. Però, l’esperienza di aver avuto una certa consuetudine
anche critico-professionale con l’immagine (col cinema e con la visione in generale) mi permette
oggi di non cadere facilmente nelle trappole ideologiche linguistico-mediatiche; io dico (può darsi
che sbagli) che avere praticato la virtualità tecnico-meccanica mi permette di non cadere nell’estasi
della virtualità numerico-digitale. E’ in questa fase che personalmente incrocio e metto in campo
una lettura un po’ più in profondità di Walter Benjamin, che è una ripresa vera e concreta di certe
velleità di lettura giovanili. All’interno di questa esperienza durata 15 anni (e di quella giornalistica
che bene o male continuo a praticare su quel che rimane della stampa di sinistra), ho scontato, come
hanno scontato in tanti, il silenzio politico, l’isolamento e però anche una fase di riflessione.
Silenzio e isolamento non sono certo cose che rappresentano un’esperienza originale, credo che
negli anni ’80, e pure nei ’90, abbiano rappresentato un vissuto generalizzato, nel mentre i processi
e gli eventi correvano senza che ci fosse più la condizione storica per misurarcisi. Per conto mio non
ho mai abbandonato un certo progetto di ricerca, se si vuole l’ho rallentato, l’ho anche sospeso in
alcuni momenti ma per ragioni pratiche e contingenti, però non l’ho mai mollato. Quindi, non mi
trovo né sorpreso né spiazzato di fronte ai tentativi, agli impulsi, o forse alla magnifica illusione di
ripresa dell’antagonismo. Per me l’antagonismo è solo latente, e lancia segnali che può ancora
deflagrare.

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INTERVISTA A ROMANO MÀDERA – 2 DICEMBRE 2000

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e quali sono state eventuali figure
di riferimento nell’ambito di questo percorso?

Prima cosa è al liceo, la formazione nasce lì, con il mio professore di filosofia, un tale che era un
cattolico marxista, questa è abbastanza una cosa strampalata ma che a riguardarla adesso direi
decisiva, perché tutto sommato credo che queste due modalità, da un lato l’aspetto simbolico e
dall’altra quello di cercare di fare un’analisi della realtà effettuale, siano state poi l’ispirazione per
sempre. Questa persona si chiama Cesare Revelli, adesso credo che sia in Rifondazione, allora era
nel PSIUP. Direi che lì è cominciata la mia formazione, siamo nel 1965 e io ero di formazione
cattolica, con pezzi un po’ più autonomi da ragazzino, però ero in Gioventù Studentesca, cioè
l’attuale CL, don Giussani. In sostanza questo è proprio l’impianto. Tra l’altro Revelli, dal punto di
vista dei cattolici, era stato allievo di Bontadini e per certe altre cose ha ripreso il personalismo
cattolico di Maritaine e Mounier; dall’altra parte era uno che aveva studiato soprattutto per un verso
la questione meridionale in Italia da un punto di vista storico, e per altri versi era un marxista de Il
capitale, cioè non uno che si limitava a fare i Manoscritti economico-filosofici, ma che sapeva
trasmettere, poi aveva una grande capacità didattica. Questo è il primo punto.
Il secondo punto poi è invece, quando arrivo all’università, il passaggio attraverso la mediazione di
Lavoro Politico, non vi sono mai entrato ma lo leggevo. Un altro incontro importante è stato quello
con Valerio Crugnola, adesso non so lui come se la ricorda ma io mi ricordo che lui era maoista, era
critico del PSIUP, mentre invece io non ero iscritto però seguivo: allora c’era questa idea che ci
fosse una versione pura o veramente rivoluzionaria, l’idea era il maoismo. Quindi, entrai in contatto
con gli m-l, i marxisti-leninisti, attraverso però la mediazione fondamentalmente intellettuale di
Lavoro Politico. In esso c’era Peruzzi, c’era Curcio, c’era Verio, un altro che adesso non mi
ricordo, erano insomma quattro o cinque, poi un gruppo che faceva riferimento a loro e che è poi
entrato nel PCd’I; io vi ero già entrato però, per vie che mi sembrava di orecchiare, infatti fu poi
così che la posizione poteva confluire in quella, ma ancora oggi penso che Lavoro Politico fosse
l’unica un po’ decorosa versione del marxismo-leninismo italiano, il resto era abbastanza penosa
ripetizione. Dal punto di vista pratico devo dire che la cosa interessante lì è stata l’esperienza alla
Ignis, ancora mentre eravamo m-l, quello è stato il primo impatto grosso perché prima c’erano
piccole fabbriche o cose del genere, poi perché a Varese (da dove vengo) era la cosa più grossa. C’è
poi tutta l’esperienza milanese del movimento studentesco, un po’ prima, alla fine del ’67. Quindi,
stiamo parlando grosso modo del periodo tra fine del ’67, ’68 e ’69. La cosa più interessante dal
punto di vista operaio è decisamente la Ignis, che era un posto dove il sindacato aveva fatto molta
fatica a impiantarsi perché venivano operai un po’ dal meridione, un po’ dal Veneto, un po’ dalla
zona stessa e quindi era gente di prima industrializzazione però fuori dalle grosse città, dunque non
incontravano una tradizione sindacale, anzi c’era la tradizione del sindacato padronale. Questa
recente sindacalizzazione secondo me ha anche per certi versi favorito la penetrazione di queste
posizioni più estreme. Lì c’era un gruppetto di Potere Operaio che cercava di lavorarci, però erano
in pochi; c’eravamo noi e poi alcuni di loro passano con noi, quindi lì si sviluppa un comitato di
lotta che poi passerà nelle varie fasi dell’esperienza varesina. Alla Statale invece c’era un comitato
di lotta inizialmente abbastanza interessante devo dire, perché c’erano gli m-l ma c’erano anche, per
dire, i situazionisti e Gatto Selvaggio, queste cose che a riguardarle dopo sembrano buffe, perché
erano posizioni apparentemente molto diverse: ma questa era la fase iniziale, probabilmente anche
la più vivace del movimento. Direi che di questa fase qua quello che mi ricordo di significativo è
questo.

- Arriviamo quindi alla formazione del Gruppo Gramsci.

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Lì ci si arriva abbastanza svelti perché nel ’69 il PCd’I si disgrega ulteriormente, prima ho lasciato
perdere la lotta tra la linea nera e la linea rossa e tutte queste robe qua; nella linea rossa c’era però
Peruzzi, che era passato da Lavoro Politico. Devo dire che lì c’era un’idea molto buffa a vederla
oggi, addirittura farsesca, però l’idea non era per niente farsesca in sé: si trattava di una ripresa della
rivoluzione culturale in termini di costruzione di un’organizzazione che non fosse la ripetizione in
piccolo del Partito Comunista, di quella forma di centralismo democratico autoritario. Quindi, la
linea rossa era questa idea e non a caso attecchì, perché evidentemente era in connessione con
quello che veniva fuori tanto nel movimento studentesco quanto nei comitati e nelle assemblee
operaie. Dunque, c’era questa idea di una specie di movimento antiburocratico dentro queste
strutture, in modo da farne altre; la possibilità che in realtà ci fossero poi modelli in positivo, cioè
capacità in positivo di costruire altrimenti queste forme organizzative, sinceramente mi sembra che
non ci sia stata, lì no di sicuro e pochetto anche fuori, anche nei gruppi. Ci fu l’iniziale spinta del
movimento studentesco, io non sono d’accordo con quelli che sostengono che prima c’era la
spontaneità e dopo vengono fuori i gruppi, secondo me questo da un punto di vista storico è una
balla: se si va ad analizzare in modo dettagliato quella spontaneità, in realtà si vede che inizialmente
almeno c’è una specie di inseminazione da parte dei gruppi, a Milano sicuramente, per esempio
Falce e Martello tanto per dirne una, che era presente, noi stessi, PCd’I m-l, pochissima gente ma
c’era, alcuni di Potere Operaio, un gruppetto di situazionisti, pochissimi ma c’erano e lavoravano e
facevano. Quando le due cose si uniscono c’è una certa condizione più “generale”, e dall’altra parte
però la presenza di queste realtà: quindi, l’idea che queste organizzazioni nascano così con una bella
spontaneità secondo me in parte è una balla. La cosa certo più interessante è però che inizialmente
si trovano della forme organizzative che effettivamente non sono più quelle centralizzato-
burocratiche precedenti, con tutti i problemi che questo comporta: anche lì io la vedo in qualche
modo come una brutta ma quasi inevitabile linea di sviluppo quella che porta, diciamo così,
dall’assemblearismo a organizzazioni di cui il peggio del peggio è il Movimento della Statale di
Milano, ma appunto c’è un qualche nesso. Adesso scherzando potrei dire che è il solito nesso tra
movimento iniziale e bonapartismo che arriva dopo, perché poi il casino è tale che a un certo punto
una qualche organizzazione della forza si impone.
Comunque, detto questo, al Gruppo Gramsci ci si arriva attraverso la disgregazione del PCd’I da
una parte, dall’altra parte il dissenso interno al Movimento Studentesco (nel frattempo io stavo tra
Milano e Varese). Quindi, sono due gambe: inizialmente c’è un Gruppo Gramsci a Varese ma nel
frattempo io stavo anche nell’MS a Milano e poi c’era la costruzione del Movimento Studentesco a
Varese. Quindi, facendo il Gramsci a Varese poi entro in contatto con un gruppo che a un certo
punto si chiama la Terza Tendenza, si tratta del Circolo Lenin di Puglia, Unità Operaia di Roma e di
Pisa, poi un gruppetto a Firenze, un gruppo a Torino che si chiamava Cipec, un altro gruppo a
Pinerolo, a Trento, insomma una roba del genere; noi inizialmente ci chiamavamo Unità Operaia,
dopo viene fuori la Lega dei Comunisti. Questo da una parte, mentre dall’altra parte c’è il dissenso
nel Movimento Studentesco, la famosa scissione (famosa per quei tempi ovviamente). La scissione
era su una questione in realtà strategica, poi anche materialmente il documento della scissione l’ho
scritto io con alcune integrazioni fatte dagli altri, Antonello Nociti, Saracino, Annibale Pepe,
Scherillo e qualche altro: in fondo la questione, apparentemente assurda, era sulla rendita. Da una
parte c’eravamo noi che dicevamo che le posizioni della rendita tradizionale (la rendita agraria e via
dicendo) non contavano più nulla e che quindi si poteva vedere in prospettiva un aggancio tra le
categorie del profitto, quelle che allora si dicevano più avanzate, e il PCI e il sindacato, mentre gli
altri dicevano di no: questo per schematizzare molto, rendendo ingiustizia alla discussione. Per
schematizzare si potrebbe dire che da un lato c’erano tutti quelli che vedevano una specie di
tendenza alla fascistizzazione e dall’altro quelli che vedevano una tendenza al riformismo: noi
eravamo da quest’altra parte. Allora, questo dissenso da una parte e la Terza Tendenza dall’altra,
piano piano portano, nel giro di poco, all’idea di fare un gruppo: inizialmente avrei voluto confluire
con altri, poi però l’accordo non si trovava, con questi dell’MS ho spiegato il perché, con gi altri
c’era la questione dello stalinismo. Noi uscendo dal PCd’I uscivamo anche da una “certa

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formulazione” del marxismo-leninismo, anzi ci uscivamo; dall’altra parte invece c’era la Terza
Tendenza, la questione di Stalin fu dirimente. Io sinceramente non me la sentivo proprio più
minimamente di continuare, anche se soltanto come icona, a portare dietro tutta questa storia; questi
altri invece ne facevano una questione in qualche modo dirimente e quindi lì c’è la rottura. In più
c’è nel Gramsci già dall’inizio un seme antileninista: intanto è una cosa che si chiama Gramsci, non
perché Gramsci fosse un antileninista perché ovviamente è una balla ridicola, però il rimando era
solo all’idea della necessità (che in Gramsci ci pareva e anche oggi mi pare sentita) che la
rivoluzione in Occidente non può essere fotocopia di niente, bisogna inventarsela, questo era il
concetto. Poi, al di là della stessa elaborazione concreta di Gramsci, ci sembrava che fosse un buon
nome per ispirare una ricerca di una strada che comunque non sembrava potesse ripeterne altre,
quindi questo dissenso era troppo forte perché anche in questo caso era una questione strategica,
dietro alla questione di Stalin c’era il problema di come assumere il leninismo e quindi di nuovo di
come concepire l’organizzazione.
Il Gramsci sono due idee forza: una è l’analisi economica del capitalismo mondiale, oggi fa ridere,
però fortunatamente può forse in questo caso fare poco ridere perché l’estensore di queste analisi è
fondamentalmente Arrighi. Credo di poter dire tranquillamente che i due ispiratori del gruppo siamo
io e Arrighi, che politicamente lavoriamo insieme e anche l’estensione delle prime tesi è fatta
insieme (praticamente abitavamo anche insieme), con uno scambio continuo, quotidiano. Quindi,
questa idea in gran parte certamente derivava da lui, dico che fa poco ridere perché quello di Arrighi
anche oggi (Il lungo XX secolo e altre cose) è in qualche modo un pensiero che ha resistito, anche se
ovviamente non è esattamente quello di prima, però diciamo che ha una certa continuità. La
seconda idea invece (questa era più o soltanto mia) era di concepire i gruppi come un momento, il
che secondo me era banalmente anche un fatto sociologico, mi sembravano (anche oggi devo dire
non la penserei diversamente) l’espressione del movimento degli studenti. Non ero d’accordo con
l’appiattimento né del genere potoppista né del genere Centro Karl Marx di Pisa (Cazzaniga) che
per diversi strade (uno forza-lavoro in formazione, quegli altri una nuova figura del proletariato) in
qualche modo secondo me appiattivano troppo il movimento studentesco sul movimento operaio
non vedendone o non apprezzandone le differenze. Si poteva certamente condividere l’idea che
ovviamente erano in qualche modo e forza-lavoro in formazione e parcheggio e proletariato diffuso
per un verso, o comunque dentro una tendenza a; però, per un altro verso, l’appiattimento mi
sembrava e mi sembra ancora tutt’oggi riduttivo. Qui probabilmente c’era anche una divergenza che
c’è sempre stata e che non era mai stata tematizzata, in questo senso sì garmsciana di nuovo, che
verteva su due punti: uno, l’analisi creativa della rivoluzione in Occidente; due, il fatto (diciamolo
alla buona) che in Gramsci c’è almeno in nuce l’idea che non si possa fare un’analisi di classe che
insieme non sia un’analisi storico-culturale della formazione della coscienza collettiva. Questo
aspetto mi sembra decisivo, ossia il fatto che i modi con cui si pensa la propria appartenenza
facciano in qualche modo parte dell’appartenenza, anche se non li si può immediatamente far
coincidere tuttavia devono essere articolati. In più, deve essere articolato anche circa l’aspetto
dell’in sé, perché si potrebbe dire una cosa classica: una questione è l’appartenenza di classe e una
questione è la posizione di classe, questo fa parte dell’armamentario storico. Il problema è intanto
che i due si mediano, la posizione reagisce sull’appartenenza, e poi c’è quello che dicevo, che anche
l’appartenenza non è unificabile troppo alla svelta. Sono diversi livelli di astrazione: uno è il livello
di astrazione mettiamo de Il capitale Primo libro, un altro del Secondo, un altro del Terzo, ma altro
è già (sempre per rifarsi ai sacri testi) Il 18 brumaio, cioè l’analisi storica comunque già in Marx in
realtà è un bel po’ diversa. Secondo me in Gramsci c’è un’ulteriore immensa accentuazione di
questo aspetto che è la cosa che mi piaceva e che mi piace, con qualche difficoltà ma proprio per
rimanere dentro “l’ortodossia”: certamente se lo si legge mi pare che l’impressione netta sia che la
posizione abbia a che fare con l’appartenenza, e che questa idea della posizione sia appunto mediata
circa il tema dell’egemonia culturale, che cosa e quali forme e articolazioni abbia l'egemonia
culturale e quindi la soggettività. Questo mi sembrava centrale. Allora, per ritornare a noi, i gruppi
come espressione del movimento studentesco non potevano in qualche modo portare nessuna seria

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organizzazione veramente proletaria (adesso schematizzo orrendamente), il che però non poteva
neanche voler dire la posizione di Lotta Continua e Potere Operaio (adesso schematizzo la
posizione degli altri quindi è ancora peggio), ossia “in fin dei conti le avanguardie ci sono già”,
sempre per il ragionamento di prima: secondo noi questo era un travisare, cioè un vedere certe
tendenze di lotta come immediatamente coscienza, mentre a noi appariva, anche dal lavoro di
fabbrica, che tutto ciò non fosse minimamente. In uno slogan, che era il nostro, la nostra idea era da
una parte non mettersi alla testa di, che era l’idea “leninista” a partire dai gruppi studenteschi, che è
poi quella dell’intellettuale rivoluzionario ritradotta lì: cioè, non conta niente l’appartenenza di
classe, conta aver capito il Lenin del Che fare? un po’ schematizzato, conta aver capito i rapporti tra
la classe e lo Stato, quando uno ha capito è l’avanguardia e si tratta semplicemente di mettersi alla
testa, quindi c’è il processo di formazione teorica e questo processo di formazione teorica arriva a.
Dall’altra parte però ci sembrava che ci fossero quelli che teorizzavano che questa avanguardia
c’era già e si trattava di metterci insieme e di organizzarla: anche questo ci sembrava falso. Quindi,
il problema era costruirla e non farla, per questo bisognava farla attraverso due modalità che erano
insieme diverse e complementari: da una parte la ricerca teorica, dall’altra però una ricerca teorica
che passasse attraverso non soltanto la verifica ma che fosse essa stessa una forma della costruzione
della teoria. In concreto, che cosa voleva dire? In concreto voleva dire, nella costruzione di questi
organismi operai, puntare sulla formazione e autoformazione, ma non soltanto di riflessione
immediata sulla lotta, ma a partire dalle lotte e dalle condizioni costruire la teoria. Questo in gran
parte era quello che si provavano a fare i collettivi politici operai che si formano tra Torino, Milano,
Varese, Trento, questi poi sono i posti del Gramsci, poi c’è Firenze, Arezzo, Roma e dopo un po’
Cassino: cioè, lotte da una parte e riflessione a partire da queste ed elaborazioni teoriche, ci sono
alcune cosette fatte direttamente da questi organismi che erano elaborazioni varie dalle qualifiche
alla fiscalità.
Dunque, il primo punto è sull’organizzazione pensata in questo modo, però non era finito, perché il
secondo sottopunto è che c’era una qualità diversa se si pensava così l’organizzazione nel pensare
su che cosa unirsi. Allora, secondo noi il punto era che in qualche modo le teorie dovevano
funzionare come stimoli alla ricerca, ma di che cosa? Non di una nuova teoria sulla quale unificarsi,
certamente si cercavano nuove teorie ma questo non aveva grande importanza se non di nuovo
come stimolo; il punto necessario era la costruzione di un programma politico e attraverso questo
allora sì si potevano unificare le teorie diverse. Allora, l’idea era configurare l’immagine di un
partito che attraverso quel processo che dicevamo prima però poi fosse unito sul programma, per
dirlo con lo slogan, e quindi che poi superasse le precedenti divisioni che non a caso secondo noi
erano fondamentalmente ideologiche, perché nascevano dagli studenti, nascevano da quella pratica
di vita, nascevano dalla loro condizione reale che aveva a che fare i libri, perché la loro vita è più o
meno libri e scrittura. Secondo noi il legame con il mondo operaio poteva portare invece a una
formazione diversa e insieme ad un’autocritica della storia precedente del movimento operaio, dove
i trotzkisti facevano la loro organizzazione, gli stalinisti ne facevano un’altra, quegli altri ne
facevano un’altra ancora eccetera. L’idea era che il problema di fondo fosse non utilizzare la teoria
per nascondere poi la realtà, le lotte di frazione interne e via dicendo, ma accettare che le teorie
fossero modi diversi di vedere e che fosse possibile però, su punti di programma generale, trovare
unità. Questa era la seconda idea, la terza era quella del processo a lunga scadenza e un’altra
posizione era che bisognava battersi nei confronti del PCI non soltanto sul terreno
dell’estremizzazione delle rivendicazioni in fabbrica o nelle scuole, ma bisognava occuparsi della
costruzione di un vero programma politico: che cosa voleva dire? Voleva dire gli obiettivi
intermedi, cioè le riforme: credo che qui noi fossimo l’unico gruppo della sinistra extraparlamentare
che abbia teorizzato un uso rivoluzionario delle riforme. Ciò impegnandosi però in concreto, allora
il PCI diceva sulla riforma fiscale certe cose, ebbene noi ne dicevamo altre: questo qui fu un lavoro
fatto, a partire da quello che si chiamava ancora collettivo Sempione, “Documento sulla riforma
tributaria”. Ciò aveva un certo ruolo anche nei confronti del lavoro nel sindacato: noi non
attaccavamo i consigli, anzi vi eravamo favorevolissimi, questo anche Il Manifesto, la differenza era

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a proposito di quest’ultima questione, le riforme o non le riforme, quindi eravamo più a “destra” de
Il Manifesto. Sulla questione dei consigli e del sindacato invece noi lavoravamo all’interno. Un
momento però, all’interno non voleva dire dentro il consiglio, dentro il sindacato e basta, ma voleva
dire che noi facevamo degli organismi che però non a caso si chiamavano politici: questi collettivi
politici che facevamo noi costituivano una differenza per noi politica, non era un altro sindacato, in
nessun modo. Anzi, era l’idea che, siccome questi dovevano essere uniti su un programma di
fabbrica, di categoria e tendenzialmente generale, secondo noi erano la formula da dove doveva
nascere un’unificazione interna agli operai d’avanguardia, che poi doveva trovare delle mediazioni
di programma con gli altri organismi autonomi, per poi formare un’organizzazione unitaria; ma ciò
da un punto di vista politico, è chiaro che interveniva anche su questioni sindacali, ma non aveva
bisogno di costruire nessun’altra forma di organizzazione di base parasindacale. Lì ci sono state
esperienze interessanti e importanti da ogni punto di vista, quello è stato forse l’aspetto direi ancora
oggi più bello, più intelligente, anche più serio per diversi aspetti, sia per quello del lavoro di
crescita ma anche per il lavoro di rapporto di crescita delle persone: a questa prima fase del Gramsci
a ciò sono affezionato, perché c’era dentro anche un’attenzione per la crescita personale dei singoli,
forte, anche perché essendo degli organismi “politici” non avevano bisogno di raggruppare poi tanta
gente, quindi era anche della gente capace, intelligente, degli operai notevolissimi, alcuni veramente
persone geniali. Qualcuno dell’Alfa Romeo si ritrova anche nel libro di Gad, Operai, quando poi
escono dalla fabbrica. Parlo dell’Alfa perché io intervenivo lì, alla Face, alla Siemens, ma questo
era abbastanza vero in generale. Dunque, la terza cosa è la questione delle riforme.
Nell’esperienza del Gramsci c’era un altro aspetto di vita interna del gruppo che era più formale,
però c’era una certa ritualità e formalità interessante: per esempio, ogni mese noi rinnovavamo con
votazione ufficiale le cariche. Il Gramsci era un piccolo gruppo, anche nazionalmente mettiamo che
tra gruppo e collettivi saremo stati mille persone, gruppo soltanto saremo stati 400-500-600,
insomma grosso modo quelli effettivi. Però, all’interno c’era una vita, almeno apparentemente,
fortemente democratica, c’era questo fatto di rinnovare ogni mese tutti gli organismi che poi erano
gli esecutivi e l’esecutivo nazionale, poi magari c’erano sempre le stesse persone, però il fatto di
doverle votare ogni mese era un po’ questa idea qua. Come anche il fatto che questo era un gruppo
antigruppo, cioè un gruppo che aveva come sua finalità lo sciogliersi in quell’organizzazione unita
sul programma. In realtà tutto ciò avvenne, però avvenne in una forma assolutamente affrettata e
spinta dai tempi. Una delle cose importanti era che questo tipo di attività anche sul piano politico
immediato certi risultati li aveva: per esempio, nelle grandi fabbriche spesso vincevamo contro il
sindacato le consultazioni sulle piattaforme, quindi voleva dire che poi questi qua andavano in
assemblea e vincevano, non era una cosa da ridere. Questo era un aspetto di successo, però alla fine
del ’73 c’era stata nel frattempo l’occupazione della Fiat e la fine di quella lotta, e l’idea che
serpeggia, che evidentemente si sente e che dopo è anche in qualche modo teorizzata, è: “attenzione
siamo a un culmine, da adesso ci sarà una discesa nelle lotte operaie”, analisi che non è a quel
tempo mi pare condivisa da molti, forse da nessuno, non lo so, non mi ricordo bene, fatto sta che la
nostra era così, lo sentivamo, l’analisi è un riflesso di quello che si sente. Si sentiva insomma,
l’atmosfera stava cambiando, l’idea di ripartire, le contrattazioni integrative, le lotte fabbrica per
fabbrica c’era sicuramente, ma c’era qualcosa che con quell’episodio della Fiat era in qualche modo
finito. C’erano anche analisi, per esempio sull’Alfa e la Fiat avevamo fatto ed era stato anche
pubblicato sulla rivista del gruppo (Rassegna Comunista si chiamava), un’analisi degli sviluppi
dell’automazione nell’automobile, che diceva grosso modo come secondo noi quell’esperienza
stava per essere colpita e trasformata in modo forte, quindi questo confermava quello. Dunque, un
po’ riflessione un po’ a naso, questa era l’idea. Allora, anche per dinamiche interne al gruppo (una
qualche stanchezza, questioni con i torinesi malriuscite e malmesse), a un certo punto viene fuori
l’idea di bruciare i tempi, quindi di passare allo scioglimento del gruppo e di aprire il giornale che
era del Gramsci, Rosso, agli altri organismi. Quindi, bruciare i tempi, una specie di autosacrificio
esemplare. Il gruppo ha azzerato puntando solamente sul coordinamento degli operai e degli
studenti pensando di poter, trattando e facendone quindi uno nuovo, coinvolgere altra gente. Questo

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discorso in realtà funziona parzialmente per gruppi di base, ha degli effetti invece di
disorganizzazione grossi sul gruppo vero e proprio che era quello che poi fondamentalmente veniva
dall’esperienza studentesca, e anche sul gruppo dirigente che erano poi quattro o cinque persone,
quelli della segreteria nazionale, io, Arrighi, Gambazzi, Comandini, Luisa Passerini, Aldo Butri, poi
Carlo Formenti e altra gente, però questi erano quelli che l’avevano pensato. Questo ha un effetto in
realtà abbastanza di dissoluzione del gruppo di prima, e in questi piccoli gruppi queste cose
contano, c’è sì un qualche allargamento per esempio a Milano, ma tutto molto sfrangiato. Allora, a
quel punto, e siamo verso la fine del ’74, siamo in una situazione di grande difficoltà, non si sapeva
in realtà dove andare a parare, perché questa operazione era semifallita, perché nel frattempo Lotta
Continua pensava a tutt’altro. Tra l’altro ci fu un incontro con Lotta Continua nel ’73, per cercare di
vedere se era possibile, sulle basi di queste cose qui ma anche essendo molto disposti a mediare,
una sorta di unificazione, ma la risposta di LC fu molto molto deludente: mi ricordo ancora che
Sofri mi disse che loro stavano studiando Lenin, noi che eravamo partiti dal no e chiaramente non
volevamo tornare indietro. Quindi, con loro niente, dal punto di vista delle assemblee autonome sì,
c’era qualche cosa con quelli ancora di Lotta Continua, ma niente da fare. Con Avanguardia
Operaia questo discorso qui neanche a parlarne perché i CUB erano i CUB, cioè fondamentalmente
erano un organismo di massa di AO e basta, con Il Manifesto manco per idea. In realtà gli unici che
ci sentono su questo discorso qui sono i fuoriusciti da Potere Operaio, e da lì nasce infatti l’apertura
agli autonomi che dal mio punto di vista tanta catastrofe apportò. Ma questo sicuramente per un
errore catastrofico di valutazione innanzitutto da parte mia e di qualche altro, Paolo Pozzi e quelli
che erano rimasti dell’ex gruppo dirigente: catastrofica perché in realtà quell’esperienza che si era
fatta a quel punto veniva forzatamente, anche se con l’idea dell’unificazione, piegata a un altro
indirizzo; secondo, perché comunque questa fu un’esperienza in gran parte caotica, con spinte
divergenti che andavano in senso totalmente diverso una dall’altra, i Volsci, Marghera e noi, però
ciascuno poi con spinte di qui e spinte di là. E dall’altra parte perché noi che eravamo di tradizione
“superdestra” eravamo in connessione invece con posizioni estremistiche. Salvo alcune figure e
gruppi, faccio un esempio per tutti, l’assemblea autonoma di Marghera, che era notevolissima (Finzi
era un grande dirigente di fabbrica), però devo dire che anche questi altri erano organismi che
secondo me non mostravano una grande autonomia: era in realtà un leninismo in piccolo, da questo
e per questo anche che l’esperienza non dice granché. Nello stesso tempo è vero che c’erano tutti gli
estremismi del caso, secondo me assurdi, ma allora non erano assurdi, allora cercavo di dirmela
così: noi eravamo partiti dall’idea che in realtà ci fosse un momento di stanca, di ripiegamento,
mentre invece il gruppo Negri e tanti altri sostenevano più o meno l’opposto, in realtà mediazione
seria non c’era. Personalmente me la raccontavo come un ultimo tentativo, “proviamo a vedere se
questo, mettendo anche insieme gente diversa, produce qualcosa”. Diciamo che un aspetto positivo
in tutto questo c’è: i primi numeri di Rosso sono molto interessanti, questi sono fatti però senza che
entri ancora (diciamo per semplificare) il gruppo Negri, dall’altra parte è aperto ma ancora non c’è
un grande rapporto con questi altri gruppi autonomi in giro per l’Italia. I primi numeri sono
veramente anche oggi notevoli, insomma di nuovo c’è sempre l’estremismo del tempo immediato,
della forzatura e di tutto quello che si vuole, però un aspetto interessante è probabilmente questo
mischiarsi. Perché l’altra esperienza del Gramsci importante, forse la più importante, prima di
sciogliersi, era questo rapporto con i gruppi femministi: molte delle femministe milanesi, alcune
importanti, erano nel nostro gruppo, tanto per dirne soltanto alcune, Renata Esiber, Franca Pizzini,
la stessa Passerini a Torino e altre, quindi eravamo fortemente influenzati da tutto questo; c’era
anche un rapporto con i gruppi omosessuali, il Fuori. L’altra cosa era il rapporto con Re Nudo, cioè
l’aspetto giovanile, diciamo così la linea beat, figli dei fiori ecc. Ecco, questo è un aspetto
abbastanza interessante: l’idea è di una confluenza dei diversi antagonismi, è un’idea che
evidentemente in me si è trasformata in vario modo ma sicuramente lì ha una prima formulazione, e
i primi numeri di Rosso sono stati interessanti. Però, credo che sia anche l’unico aspetto che in
qualche modo rimane anche dopo, questa apertura del giornale. Tuttavia è chiaro che la piega che la
cosa prende fondamentalmente non è questa, ma è invece quella delle forme estreme di lotta, dal

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sabotaggio in là, e questo avviene già nella seconda parte del ’74. Io praticamente già alla fine del
’74 non vado più alla segreteria dei collettivi, dove prima continuavo ad andare, e da lì nel giro di
tre o quattro mesi mi ritiro dalla politica, ma lì è un fatto che riguarda essenzialmente l’esperienza
dell’Autonomia, cioè non riesco ad essere più d’accordo con il processo che si è messo in moto, non
ci credo minimamente da diversi punti di vista, non solo da quello teorico che dicevo prima, ossia il
fatto che secondo me c’era un’involuzione e nient’affatto un processo inverso; in secondo luogo, mi
sembrava che anche quel tentativo estremo che avevamo fatto fosse fallito, perché salvo noi, questo
gruppo, l’Autonomia, però gli altri anzi stavano andando da una parte totalmente diversa mi pare.
Senza parlare di quello che nel frattempo succedeva nella politica nazionale naturalmente, quella
internazionale lasciamola perdere perché da quel punto di vista noi già addirittura nel ’72 avevamo
perso ogni possibile illusione su qualsiasi possibilità, dai cinesi ai terzomondisti.

- In più parti hai già sviluppato delle analisi critiche rispetto a determinati passaggi: nel
complesso quali sono stati, secondo te, i limiti e le ricchezze di questi percorsi, sia di quelli a
cui hai preso parte sia più in generale degli ambiti politici e dei movimenti degli anni ’60 e
’70?

Certo, a giudicare da oggi mi sembra chiaro che, diciamola francamente, il bilancio politico sia
fallimentare, catastrofico, io sostengo in fondo che c’è una sconfitta epocale. Da questo punto di
vista però non mi sentirei di dire che questo vale per noi o soprattutto per noi, direi anzi che noi
siamo stati sconfitti come l’ultima propaggine di una grande sconfitta che ha a che fare con tutto
l’impianto della storia del movimento operaio. Questo però naturalmente non significa che dal
momento che c’è stata una grande sconfitta allora è tutto uno schifo, questo è esattamente il
contrario di quello che penso: io penso che ci sia questa grande sconfitta perché le prospettive
generali, la strategia e via dicendo, come è sotto gli occhi di tutti, evidentemente non hanno dato
luogo a quello che si pensava. Io sono sempre per la storiella ebraica, di quello che chiede al Rabbi
se è venuto il Messia, il Rabbi non risponde andando a consultare qualche libro o qualche pensata,
apre la finestra, guarda fuori e dice: “No, non è venuto nessun Messia”. Ecco, secondo me questo
vale per il movimento operaio, la sconfitta si vede così, questo è il punto. Questo da un lato,
dall’altra parte quel po’ di civiltà diciamo istituzionale che c’è non è tutto merito del movimento
operaio, perché ci sono certamente anche meriti della borghesia liberale, democratica, dei
movimenti religiosi, non v’è dubbio; ma non c’è altrettanto dubbio che gran parte delle poche e
uniche cose decenti che ci sono nel mondo, anche cose terra terra, dall’istruzione per tutti alla
libertà di organizzazione ai diritti, sono merito del movimento operaio, sarebbe un mondo
inesistente senza questo. Quindi, questa è probabilmente una grande vittoria nei confronti della
dignità dell’umanità. Certo, dal punto di vista dei fini che ha posto a se stesso no, e all’interno di ciò
noi siamo il massimo di tutto questo, perché tutto sommato da un certo punto di vista eravamo il
tentativo “riformatore” ma nel senso protestante, all’interno, cioè ritorniamo anche agli obiettivi di
fondo e vediamo di rinnovarli; e da questo punto di vista è chiaro che siamo soltanto una e peraltro
anche abbastanza minuscola propaggine di questa sconfitta. Dall’altra parte sicuramente mi sembra
altrettanto vero che, per quel poco che siamo stati, lì la cosa interessante siano le domande e la
dimensione delle domande che è stata messa in gioco, questo mi sembra interessante anche per il
futuro, nel senso proprio di quell’accenno agli intrecci che facevo prima. Per noi appunto è stato un
po’ diverso perché era pensato tutto sommato prima, però penso che non a caso proprio nella fase
dissolutiva (anche Lotta Continua si scioglie nel ’76), c’è il rapporto tra femminismo, gruppo
politico e via dicendo: c’è quell’intreccio, che in parte si era già visto alla fine degli anni ’60, ma
leggermente, perché per esempio il femminismo in Italia e anche in Europa non aveva nessuna forza
nel ’68, però all’inizio devo dire che c’era qualche traccia di confluenze, di culture diverse. Faccio
sempre un esempio che è assurdo perché uno può dire che era un matto, ma non era soltanto un
matto, si tratta di uno che interveniva alla Statale nel ‘68 e faceva yoga, si metteva lì seduto, diceva
quattro cose e faceva yoga come intervento, cioè le cose più assurde, poi c’era il fatto che

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esistevano i situazionisti. Quindi, credo che ciò sia di nuovo l’idea che ci sia un rapporto fra
l’oppressione, l’ingiustizia di classe (una volta non l’avrei mai detto ma oggi lo dico) e via dicendo,
e naturalmente le contraddizioni di genere e le contraddizioni che riguardano le generazioni, poi
immediatamente dopo e con l’ambito dell’ecologia: insomma, grosso modo diciamo semplicemente
l’insieme della galassia Seattle, tanto per dire una stupidaggine ma per abbreviare il discorso.
Dunque, la cosa importante mi sembra questa dimensione e questa articolazione possibile del
sogno. Poi, invece, dal punto di vista politico ho già detto, una pura e semplice debacle generale, e
per quell’aspetto credo che ci sia anche abbastanza poco da poter riproporre. La dimensione del
sogno, la dimensione delle esigenze, la dimensione delle domande, questa mi sembra la cosa
importante. Un approfondimento si può vedere orizzontalmente, le varie tematiche accostate; finché
le tematiche rimangono accostate vedo che c’è poi l’obiezione di chi dice ”sì, ma così sono soltanto
una più una più una più una”: questa è un’obiezione fatta sia dal punto di vista di quelli che
rimangono più legati all’impostazione tradizionale di classe, sia dal punto di vista di quelli che
invece apprezzano la qualità diversa della questione ecologica oppure della liberazione femminile.
Certo, se rimane a questo livello qua è così, ma l’altra dimensione che, anche se solo in qualche
modo, è accennata in quei periodi è che ci sia da pensare ma che si sia cominciato a porre anche lì il
tema della profondità invece, che è il tema in cui queste diverse dimensioni possono trovare
un’unificazione che non è soltanto quella dell’una più una più una più una. Solo che la profondità in
sostanza significa la profondità appunto della soggettività, grosso modo detto in quell’antica
formula, che rimane peraltro secondo me geniale, che il personale è politico. Quindi, che lì sia
possibile uno scavo per vedere quanto queste dimensioni siano in realtà interconnesse e siano
aspetti di una stessa cosa.

- Quali sono stati i tuoi percorsi successivi? Nel ’77 esce da Moizzi Identità e feticismo, un libro
importante sia per la critica ad alcuni aspetti di un Marx da te conosciuto in maniera profonda,
sia per l’iniziale apertura a Jung da una parte e a Nietzsche dall’altra.

Lì non c’è stato nessun percorso, perché praticamente dal ’75, quando io smetto, al libro che poi è
scritto nel ’76 non ho fatto altro (va beh, poi tenevo famiglia, lavoravo, quello è un altro discorso)
che cercare di pensare: mi sembrava che fosse un compito necessario per me sicuramente e anche
per gli altri, per dare una qualche motivazione a se stessi e del percorso precedente e di qual era
l’impiccio. L’impiccio in Identità e feticismo è quello che comunque continuo a dire adesso, cioè in
sostanza lì l’idea è addirittura che in Marx ci sia dal punto di vista razionale una teoria della non
rivoluzione, cioè perché la rivoluzione non si può fare e quindi perché invece il capitalismo deve
vincere, e non si capisce da dove diavolo si possa uscirne. E’ un’idea un po’ paradossale, ma che
vede in Marx invece la spiegazione vera del perché il capitalismo c’è e vince e non c’è niente da
fare. Proprio perché secondo me lì c’è anche una teoria della soggettività adeguata al capitale dentro
la categoria di feticismo (adesso è inutile che mi dilunghi su questo), e l’idea quindi che, se si vuole
fuoriuscire, bisogna criticare questa teoria, ma su questi punti soprattutto, e aprire una nuova teoria
della soggettività. Lì Nietzsche fa soltanto da strumento per aprire una dimensione che non sia
parziale ma che sia una dimensione integrale di che cosa bisogna sovvertire. Poi, per altri versi ci
sono aspetti che per quello che ci interessa qui adesso sono comunque collegati a tutto ciò, perché
una disfatta è una disfatta collettiva, ma naturalmente è anche una disfatta dei singoli, almeno
personalmente lo era. Con tutti gli errori possibili e immaginabili fatti, una sola cosa non posso
rimproverarmi, e cioè di non averla fatta con tutto il cuore, di non averla fatta, come dice la
Scrittura, con tutta l’anima. Ci sono rimasto triturato in mezzo, ciò complicato da altre vicende
personali che non si possono addebitare alla questione collettiva né ho nessuna voglia di farlo, però
certamente c’è una coincidenza in quegli anni tra una parte di vita che finisce e, collegata con
questa ma assolutamente non dipendente meccanicamente in nessun modo, il fatto di trovarsi senza
strada, avere un po’ distrutto ponti alle spalle pensando di andare da qualche parte e non sapere più
dove andare. Identità e feticismo sta lì e sta nel tentativo di cominciare a costruire un nuovo

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orizzonte diverso sia collettivo che individuale; da lì poi ho cominciato a fare l’analisi personale per
rimettere insieme cocci della mia psiche frantumata, nel frattempo ho avuto questa fortuna di avere
un incarico in Calabria, prima insegnavo nella bassa lodigiana, a Seregno. Da lì è partita tutta
un’altra avventura, da un lato quella analitica, quella religiosa anche, la ripresa di cose precedenti:
senza rinnegare l’aspetto utopistico (anzi, al contrario), non mi sembra più che il marxismo sia una
scienza della rivoluzione, magari è una buona scienza del capitalismo ma non della rivoluzione, e
forse la rivoluzione non ha una scienza, è una cosa diversa, ha dei desideri, delle utopie, dei progetti
e va concepita secondo tempi diversi, tempi che non sono soltanto al futuro della specie ma anche
davanti e dietro, dietro nel senso di momenti che prefigurano o magari non prefigurano niente, ma
sono in se stessi qualcosa di diverso, dove si può vedere un’immagine di una convivenza dignitosa e
tendente alla libertà. Quindi, solidale e tendente alla libertà, la libertà che in qualche modo sta
insieme alla solidarietà o la solidarietà che in qualche modo sta insieme alla libertà. Ecco, è
diventato questo, quindi i tempi sono diventati geologici, il punto dell’unificazione come
unificazione nel profondo, che è abbastanza legato anche a una fase della fine politica e a una
discussione fatta con altri allora; per me era un segno inequivocabile il fatto che alcune persone
avessero una certa storia, che se ne andassero, che non capissero più alcunché, entrassero in varie
forme di crisi, anche tragica. Qui poi c’è tutto un aspetto che rimane sempre in ombra: la nostra
generazione non ha fatto la guerra, però ha avuto diverse guerricciole di forma diversa, non solo la
questione della lotta armata, ma certamente anche quella della droga per esempio, altre questioni
che sono più sotterranee, che non si sono viste ma che ci sono, molti di noi hanno pagato in forma
diversa un peso grosso della sperimentazione anche fatta sul piano dei rapporti personali, dei
rapporti amorosi, un peso che grava e ha gravato. Insomma, ci sono molte biografie segnate.
Questo da un alto, dall’altra parte c’è l’ottusità sia di noi stessi sia degli altri, però a me ha sempre
interessato di più la nostra ottusità, perché quella degli altri mi sembra ovvia, ma la nostra non mi
sembra così ovvia: cioè, se uno si mette in una via di non ottusità, come mai rimane ottuso? Per dire
la cosa più semplice, come mai i rivoluzionari sono così esattamente identici a tutti gli altri quando
si tratta, per esempio, di avere a che fare con le dinamiche del potere? Ciò si vede già nelle
dinamiche interne alla loro organizzazione, senza aspettare che diventino ministri o funzionari del
KGB. Devo dire che questa è stata un’esperienza che mentre la facevo ha sempre rappresentato un
dubbio fortissimo, e poi una questione capillare per me. Però, può anche darsi benissimo che ci sia
l’imprinting iniziale, allora ritorniamo a Revelli, al professore del liceo, all’imprinting
dell’adolescenza: lui era un cattolico e un marxista, che cosa sono queste due cose al di là della
formulazione? Mi sembra che siano la trasformazione interne e la trasformazione esterna, questo è
il problema: l’una senza l’altra mi sembrano impraticabili, impossibili oppure danno luogo a delle
mostruosità, comunque a qualcosa per cui non si può chiedere il sacrificio della vita (perché in
qualche forma lo è), cioè, in modo più semplice anche, di dedicare la vita a qualcosa che già da
subito si può vedere che cos’è in realtà. Il che non vuol dire naturalmente che tutto deve essere
perfetto, però vuol dire che deve esserci almeno un’intenzione, una modalità per affrontarlo. E su
questo mi pare sinceramente che ci siano molti dubbi, ma non è un problema soltanto nostro, anzi
da questo punto di vista siamo generosi, diciamo “sì, questo lo facciamo per l’umanità, è un
esperimento”: questo esperimento che per ora non abbia dato risultati generalizzabili mi sembra
vero, non soltanto sul piano politico, intendo dire anche sul piano delle esperienze di trasformazione
del profondo, posso dire sulle associazioni analitiche per esempio: quando si tratta di questioni di
potere le dinamiche sono sempre le stesse, qualsiasi trasformazione però poi sono quelle. Allora
vuol dire che questa trasformazione non c’è fino in fondo, o vuol dire che deve essere in qualche
modo correlata con una trasformazione esterna e via dicendo. Ecco, da questo punto di vista mi
interessano, magari non impegnandomi direttamente e concretamente, le sperimentazioni di varia
forma e appartenenti a uno spettro veramente da arcobaleno. Quelle piccole o più o meno piccole,
ma comunque le sperimentazioni dove queste due cose tendono ad andare insieme. Una prima
antologia mal fatta, incasinata, raffazzonata, buttata giù di queste robe qua, però per dare un’idea, è
il libro Vivere altrimenti; mi piacerebbe che ce ne fosse uno ben fatto, anche a proposito della

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ricerca su tutte queste cose. Ecco, per dirla in una formula, quello è il mio modo di immaginare
come va avanti il processo precedente, secondo me va avanti in quel modo lì, cioè attraverso queste
varie forme, che naturalmente spesso non hanno grande consapevolezza di sé o della loro affinità,
questa potrebbe essere una cosa interessante.

- Tu hai parlato dei limiti della teoria di Marx, che individua con grossa capacità di
anticipazione le tendenze del sistema ma finisce in un circolo chiuso in cui non si danno
possibilità di uscita dal capitalismo. Da questo punto di vista Lenin è un critico di Marx, ne
coglie i limiti e, al di là delle strade che nello specifico propone, indubbiamente pone il
problema e cerca delle vie di uscita per rompere questo suo meccanicismo. In precedenza hai
criticato il modello di organizzazione leninista nei gruppi degli anni ’70 , mentre ne L’alchimia
ribelle a Lenin accenni una critica: ti chiedo ora di portare a fondo la tua critica a Lenin
soprattutto laddove questi critica Marx.

Credo proprio che però la tendenza nella quale va Lenin sia esattamente l’esasperazione dei limiti di
Marx. Intendo dire che per me il problema è che nella teoria del feticismo c’è un’ottima teoria della
società capitalistica ma non c’è una teoria della soggettività rivoluzionaria. Il punto è che secondo
me non è spiegato, anzi, però non è solo la questione di quelli che dicono “manca le teoria”,
secondo me c’è una teoria della soggettività, ma c’è una teoria della soggettività che spiega
perfettamente perché venga fuori, come dice lui, un proletariato che è “per natura” adattato a
pensare, a sentire nelle categorie che sono la religione della vita quotidiana (sempre espressione di
Marx), che sono le categorie del mondo presente, quindi questo è il punto; e si affida per fuoriuscire
da qua certo a un insieme, a una griglia teorica, che secondo me però è una griglia teorica che non
appartiene al nucleo della trattazione analitica del capitale, ma appartiene invece a una forma di
“affidamento” a forme di teoria della storia in generale, quindi per esempio quella per cui le cose
avvengono inevitabilmente attraverso i rivolgimenti dialettici. E’ una sorta di inevitabile dinamica
storica che mi sembra un retaggio di filosofie della storia che lui prende dalla sua formazione, ma
che nell’analisi dettagliata e determinata del capitale non si produce. Oppure, produce un insieme di
altri criteri che sono falsificabili (non è vero che non lo sono), ma che appunto dimostrano il
contrario: cioè, in lui c’è o questa fiducia in una sorta di necessità dinamica della storia, che mi
sembra un po’ esterna, o invece (e si può questo tirarlo fuori invece) ci sono poi dei criteri come la
statalizzazione, la centralizzazione della classe operaia corrispondente rispetto al capitale,
l’istruzione obbligatoria di tutti, la partecipazione e le libertà politiche, e la leva di massa. Io ho
individuato questi cinque, e questa è una polemica implicita con quelli che dicono alla Popper che
in Marx non c’è la falsificabilità: no, c’è anche la falsificabilità della teoria della rivoluzione. Il
problema è che queste cinque cose si sono verificate e non hanno prodotto quella che la Heller
quando era marxista diceva, però aveva trovato un punto sensato, che era la coscienza enorme,
quella che poi viene fuori già nei Grundrisse e anche ne Il capitale. Queste condizioni che Marx
individua non sono le condizioni che producono questa enorme coscienza enorme e che quindi
secondo me rimane il desiderio utopico di Marx, la sua “etica” non elaborata né soggettivamente né
oggettivamente, e che lui naturalmente avrebbe avuto orrore a definire come un orientamento a
valori etici, o era scientifica o era una puttanata. Invece, secondo me c’è una contraddizione umana
in Marx, quando lui dice: “Soltanto se avessi la sensibilità di un bue potrei non occuparmi di questa
merda economica” esprime il suo animo, cioè dice: “In fin dei conti io mi occupo di questa roba qua
perché solo avendo la sensibilità di un bue, cioè solo non riconoscendo una comunanza di destino
umano con gli altri, potrei non occuparmene”. Mi pare che questo sia l’aspetto forte, userei la parola
seria di sentimento etico.
Mentre Lenin mi pare che invece, sì, esce da quella sorta di pre-visione, pre-programmazione della
rivoluzione (a parte che anche in Marx c’erano già possibilità di altro genere), ma rimane totalmente
dentro questa idea, cioè dentro quelle che sono “condizioni oggettive” che però possono essere
utilizzate da una soggettività, ma è su questa soggettività che secondo me non dice alcunché

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comunque che vada nella mia direzione. Anzi, va nella direzione opposta, cioè va nella direzione
della macchina-partito, che per intelligenza illuminata dei rapporti tra le classi e lo Stato indica la
via: qui c’è il mio antileninismo da quando ero ragazzo, l’esperienza marx-leninista e anche la
lettura mi hanno convinto a sufficienza da allora che lì proprio si va nella direzione “opposta”, cioè
si va nella direzione della soggettività, ma si va in quella direzione della soggettività che la
concepisce in un modo illuministico-macchinistico. Da cui tra l’altro profondamente derivano le
storture, non sto dicendo che Lenin è uguale a Stalin, ma sto dicendo che in quella concezione del
partito bolscevico sono presenti tutte le possibili aberrazioni che ne vengono dopo, perché c’è l’idea
di fondo che la questione è collocarsi scientificamente in un punto che, siccome è capace di
prevedere, quindi dà luogo a comportamenti conseguenti: ma chi sono questi che prevedono? Qui
c’è un difetto antropologico secondo me micidiale, che è proprio di tutto il razionalismo di cui in
parte tanto Marx quanto Lenin sono figli. Quindi, secondo me si deve andare nella direzione
opposta, di questa soggettività non è il problema di sapere (il che è già difficile, e lì sono d’accordo
con Lenin) quando e dove e perché capirci qualcosa, ma dall’altra parte è appunto come
costruiamo?, c’è solo forse lì il punto di giunzione possibile: è l’idea che certamente vada anche
“costruita”, anzi sicuramente costruita questa soggettività. Ma sul come la divergenza è totale. Tra
l’altro secondo me è significativo un fatto, adesso mi rifugio in Marx che diceva: “Come si fa a
giudicare il livello di civiltà di un’epoca? Guardate i rapporti tra gli uomini e le donne”, questo è il
Marx dei Manoscritti, che in realtà riprendeva questa citazione mi sembra da Fourier; ecco,
leggiamo le elaborazioni di Lenin su “il femminile”, questo non soltanto per la questione del suo
rapporto con le donne, ma il problema è come concepisce il rapporto con l’altra parte, quindi anche
con l’altra parte di sé. Oppure con la musica, Lenin diceva che la musica gli faceva male e doveva
proibirsi a un certo punto di sentirla perché l’avrebbe convinto che gli altri uomini hanno sentimenti
tali che poi come si fa a picchiarli in testa quando è necessario e quanto è necessario: beh, sentiamo
più musica e picchiamo meno in testa!

- Tu hai detto che un punto focale, al di là del come, è il nodo della costruzione di una
soggettività altra. Ne L’alchimia ribelle fai il discorso del sincretismo antagonista, però è
necessario distinguere tra le lotte che esprimono una reale alterità e conflitti che invece vanno
nella direzione opposta, perfettamente funzionali alle dinamiche capitalistiche: c’è chi
confligge con un altro per prendere il suo posto, per ottenere dei benefici sistemici da cui è
escluso oppure per modelli di società che sono peggio ancora di quella capitalistica. Dunque, si
ripropone in modo forte il problema della costruzione di un’alterità effettiva e non della
semplice osservazione di conflitti che in sé non sono necessariamente antagonisti.

Sì, appunto, ma si ripropone proprio per non scindere questi elementi: cioè, il punto è che la qualità
di quello che si fa non sta tanto in quello che si fa. Anche questo è un vecchio problema, cioè si può
benissimo lottare per un adeguamento salariale, questo è Marx vetustissimo, quando diceva che il
problema non era di ottenere l’aumento salariale, ma era la coscienza e l’organizzazione. Allora,
l’innovazione starebbe soltanto qua: uno, che non ci sono solo le lotte salariali, c’è un’infinità dei
conflitti che percorrono la vita quotidiana, la vita famigliare, la vita sociale, la vita intrapsichica:
tutti questi conflitti sono “buoni”, nel senso che sono possibilità di aumentare il livello di
consapevolezza, tutti ottimi, da questo punto di vista non ha nessuna importanza se siano
riassorbibili o non riassorbibili. Anzi, penso che la questione di fondo per me è la qualità soggettiva
di quello che si mette in campo: va bene se qualsiasi cosa serve a o può essere utilizzata da in un
approfondimento di una soggettività che cresce molto semplicemente aumentando la sua distanza
dal fatto che un mondo del genere sia accettabile per la dignità sua e degli altri. Questo è
antagonismo, quindi quale che sia l’obiettivo. Certamente questa cosa, proprio perché è aggiunta e
intensificazione della consapevolezza, non può essere e non sarà un processo puramente spontaneo.

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- La tradizione marxista si è sempre dichiarata contro la proprietà, mentre nel marxismo critico
si era fatta una distinzione tra proprietà e possesso; tu invece vai oltre, prendi dal Marx del
Primo libro de Il capitale la definizione del comunismo come il possesso collettivo come base
della proprietà individuale: quindi, non un Marx contro la proprietà ma per la proprietà
individuale. Puoi approfondire cosa intendi per possesso e cosa intendi per proprietà, e come il
possesso collettivo è base della proprietà individuale?

Lì veramente sono semplicemente sul piano di Marx: il possesso è il possesso fattuale e


istituzionale di qualcosa, per cui noi due possiamo possedere una parte dell’IBM, mettiamo perché
abbiamo un’azione per ciascuno, ciò non toglie che noi non sappiamo assolutamente niente
dell’IBM, ed essa ci rimane totalmente estranea. La proprietà è di uno che magari non ha il possesso
del pianoforte, ma lo sa suonare: quella è la proprietà individuale, cioè è la consapevolezza del
legame che c’è con il mezzo, con l’oggetto e nel ritorno sulla qualità soggettiva, questo è per Marx,
non è che me lo sono inventato io. Da questo punto di vista è interessante (per quello che ho
studiato io ma sarebbe interessante vedere altri) come invece la tradizione comunista, e neanche
quella socialista naturalmente, non abbia capito un bel nulla di questa cosa che peraltro è la
definizione del comunismo in Marx, questo mi ha sempre stravolto. Io sono convinto, con le
critiche che facevo prima, che è proprio nell’andare in fondo a questa idea di proprietà e alla sua
dialettica con il possesso che, in modo naturalmente molto eretico e tutto quello che si vuole, però si
può aprire e anche tracciare almeno una linea di continuità tra quello che dicevo prima e Marx, o
comunque l’intenzione: perché proprio se si va a fondo nell’idea della proprietà individuale si vede
come non è possibile nessuna forma di altri rapporti di produzione senza una soggettività adeguata.
Ora, lui era convinto che questa soggettività adeguata si sarebbe prodotta: la cosa che dico io è che
se non si produce, e non si produce in queste altre dimensioni, non si produrrà mai neppure questo
risultato. Ma il punto è proprio comunque lo scavare dentro questa idea della proprietà individuale,
e ho usato di proposito questa metafora semplicissima del “pianoforte io lo so suonare”, questa è la
proprietà individuale, e questo era per Marx.

- Quali sono i tuoi cosiddetti numi tutelari, ossia figure e autori di riferimento nell’ambito di
tutto il tuo percorso politico e culturale?

Salvo la parentesi politica, non mai disprezzato ma naturalmente tenuto a lato, diciamo che il primo
decisivo è comunque Gesù Cristo e la Bibbia: questo è il primo dal punto di vista cronologico e dal
punto di vista dell’importanza. A proposito di questo direi che c’è un altro aspetto nel passaggio
dalla politica alle altri fasi, prendiamo questa idea qui: il comunismo e la politica sono un
programma d’apprendimento troppo breve per il “salto” che la specie può fare, le religioni mondiali
sono un programma d’apprendimento più lungo, naturalmente devono subire e stanno forse subendo
una catarsi necessaria nella modernità, cioè il togliere via gli aspetti di classismo, sessismo,
etnicismo e autoritarismo che le ha contraddistinte quasi sempre. Comunque, questo è il primo,
insieme a questo (e dopo naturalmente) vanno alcune ispirazioni che vengono sempre dal mondo
cristiano o, meglio, ebraico-cristiano: allora, lì ci metterei almeno Buber, Vannucci (un tipo che
credo sia piuttosto sconosciuto fuori da questa dimensione mistico-cattolica) e Tilly, che è un
teologo protestante. Sul versante diciamo economico-sociologico decisamente c’è la triade con
Marx sopra tutti e incomparabilmente rispetto agli altri, e poi un po’ di Weber e un po’ di Durkeim
sicuramente. Nella psicoanalisi Jung e Freud; nel settore antropologico Eibl-Eibesfeldt, cioè il
settore etologia umana.
Poi però le cose che contano ancora di più sono le persone attraverso cui tutto ciò passa, le persone
che non sono i grandi nomi ma sono gli incontri: una decisamente è stata il mio professore di
filosofia, Revelli, e l’ho già citato tre volte non a caso, direi che dopo sono stato abbastanza un
autodidatta. Un’amicizia importante è sicuramente quella con Arrighi che è un aspetto di
formazione intellettuale; una terza persona decisiva è il mio analista, cioè Aite, e una quarta è una

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persona con la quale lavoro a tutt’oggi, è un esegeta molto eretico e sconosciuto perché fuori da
qualsiasi giro ecclesiastico, si chiama Carlo Enzo.

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INTERVISTA AD ALBERTO MAGNAGHI – 28 AGOSTO 2001

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e le eventuali figure di riferimento
nell’ambito di tale percorso?

La mia formazione è duplice e in parte contraddittoria: da una parte, occupandomi fin


dall’università di territorio, di problemi di geografia, di urbanistica, ho seguito in urbanistica un
filone (per dirla con Françoise Choay) “culturalista” (Ruskhin, Morris, Mumford, Geddes), la
geografia umana (da Vidal De La Blache a Le Lannou a Gambi), l’ecologia sociale (Bookchin) il
filone anarco-comunitario (Kropotkin, Goodman, Dolci, Doglio, De Carlo). Dall’altra parte mi sono
formato all’interno dell’operaismo: la mia esperienza risale ai primi movimenti studenteschi del ’63
a Torino, ad Architettura, ai Quaderni Rossi a Classe Operaia e poi alla formazione di un
movimento che ho promosso io e che non a caso si chiamava la “Città Fabbrica”. Era un termine
nato nella cultura operaista torinese per denotare l’organizzazione sociale, la metropoli organizzata
intorno al sistema della grande fabbrica, che non si richiamava alla company town ottocentesca: si
trattava di una organizzazione urbana e territoriale più complessa che denotava il compimento
funzionale della riproduzione sul territorio del ciclo produttivo fordista. Quindi, i miei studi sono
partiti dalle problematiche di carattere territoriale e geografico, mescolandosi poi col filone
operaista. La mia esperienza parte di lì, da una frequentazione del gruppo torinese, Tronti, Rieser
poi Romolo Gobbi, Romano Alquati, che era allora il mio maestro di studi e di iniziativa politica,
insieme a Massimo Cacciari. Questa mia formazione si è travasata dal ’66 in un’esperienza politica
all’interno del Partito Comunista. Prima di allora avevo avuto contatto e simpatie per i situazionisti,
(ad Alba, c’era Pinot Gallizio, nell’astigiano c’era un gruppo di discussione con Anna Bravo, Luisa
Passerini, Baldo Butrico). Non c’era però una attività politica, se non un lavoro di discussione e
molte libagioni, è stata un prima esperienza giovanile, mi ero appena iscritto all’università. I
situazionisti oltre alla argentea rivista l’internationale situationiste praticavano il discorso delle
derive urbane, organizzavano le rotture di senso nella realtà urbana, piantavano alberi nel cemento,
cose piuttosto divertenti e provocatorie di azione diretta sulla città e sul territorio.
Ma l’esperienza più impegnativa dal punto di vista della mia formazione culturale è stata quella con
l’operaismo applicato a una mia frequentazione della Camera del Lavoro di Torino, allora diretta da
Sergio Garavini, da Emilio Pugno e da Oddone, medico del lavoro. Cominciò per me nel ’66
l’esperienza dei primi gruppi omogenei di reparto alla Fiat; si impostava il discorso sulle condizioni
di lavoro, si iniziava ad affrontare il problema della salute in fabbrica (a ben guardare
l’ambientalismo italiano nasce dall’operaismo torinese!). La Camera del Lavoro di Torino era molto
attiva e anche molto vicina all’operaismo. Io dirigevo allora la sezione universitaria del PCI, però
mi occupavo abbastanza marginalmente di studenti: in quella fase, nel ’66, il movimento
studentesco era in gestazione, e mi occupavo di più di tenere i contatti con le sezioni fabbriche e
con le sezioni territoriali del Partito Comunista; da una parte per rivedere il rapporto tra sindacato e
commissioni interne, e dall’altra per aprire la tematica (che poi è stata la mia tematica centrale) del
territorio: le lotte sulla casa e sui servizi, la saldatura tra lotte di fabbrica e le lotte sul territorio (sul
salario diretto e sul salario indiretto), l’organizzazione territoriale del ciclo produttivo e
riproduttivo.
Il mio punto di osservazione privilegiato è stato dunque questo rapporto fabbrica-territorio, su cui
ho lavorato e continuo a lavorare tutt’ora, pur con visioni ovviamente mutate. Ciò mi ha portato già
in quegli anni, ’66-’67-’68, a sviluppare questo aspetto particolare del movimento operaista, cioè il
lavoro sui quartieri, sul territorio. Allora organizzai un gruppo ad Architettura a Torino (sto
parlando del ’66-’67, agli albori del movimento del ’68) che si chiamava la “Città Fabbrica”, si
occupava di questioni legate alle lotte sugli affitti, sui servizi, c’erano le parola d’ordine “la casa si
prende e non si paga” “affitto furto sul salario”. Si interpretava il problema dei crescenti costi
sociali di riproduzione per gli operai immigrati nella metropoli come una questione che avrebbe poi
determinato l’esplosione della domanda salariale in fabbrica. Il tema era questo: il modello fordista

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aveva portato, con questi grossi processi migratori in tutta Europa, in Italia solo nazionali, ma
comunque di forte impatto, ad una condizione operaia nella metropoli in cui lo sradicamento,
l’atomizzazione e la mercificazione dei mezzi di sussistenza era tale che nulla più sorreggeva il
processo riproduttivo della forza-lavoro della comunità originaria. Quindi, ci si trovava di fronte ad
una situazione in cui da una parte c’era il salario, che magari nella comunità d’origine non c’era,
però mancavano la casa, il prezzemolo, le patate, la solidarietà di mutuo scambio del quartiere o del
villaggio. Dunque, c’è un salto da una riproduzione non monetaria, che non passava attraverso il
mercato, prevalentemente nella comunità contadina e nei centri delle vallate alpine e del
Mezzogiorno, ad una vita in cui tutto deve essere monetizzato e tutto sottoposto al mercato. E di qui
la crescita dei costi di riproduzione della forza-lavoro a partire dall’affitto della casa, dei generi
alimentari, dei vestiti, dalla mancanza di reti solidali; crescita che lascia l’individuo e la famiglia
operaia in balia di tutte le strutture di mercato della riproduzione, dall’assistenza all’acquisto dei
beni di prima necessità alla socialità al divertimento e via dicendo. Questo fenomeno di levitazione
dei costi di riproduzione, che poi si riversava come pressione sul salario, faceva saltare tutti i
meccanismi di funzionamento della metropoli, cioè metteva in crisi il modello cosiddetto
metropolitano: da questa crisi si sviluppò più tardi il modello della “ terza Italia”, dei territori
comunitari della piccola e media impresa e dei distretti industriali, a cui accennerò più avanti.
Per tornare al problema, io ho studiato e praticato proprio questo tema del rapporto fabbrica-
territorio occupandomi sostanzialmente dei problemi di organizzazione territoriale, dei costi dei
servizi, degli affitti e delle forme di comunicazione territoriale delle lotte operaie. Lavoravo in
barriera di Nizza a Torino, nei vari quartieri popolari, e poi soprattutto a Nichelino (era un quartiere
di immigrazione operaia) facemmo una grossa esperienza di cosiddetto “sciopero dell’affitto”
occupando anche il Comune, che diventò centro di organizzazione delle lotte.
Quando si svilupparono le lotte del ’68-’69 alla Fiat questa organizzazione territoriale si saldò nella
famosa “insurrezione” del 3 luglio ’69, con tutti gli operai in corteo che andarono nella notte,
facendo barricate lungo via Nizza, verso Nichelino dove appunto c’era il Comune occupato. Si
saldarono queste tematiche delle lotte salariali e sulle condizioni di lavoro con le lotte territoriali.
Questo mio lavoro dette luogo a molte ricerche. Anni dopo (nel 71-72), quando mi trasferii a
Milano, fondai una rivista che si chiamava Quaderni del Territorio, di cui uscirono quattro numeri,
che affrontava già allora la tematica del rapporto tra globalizzazione, “metropoli del comando” (così
chiamavo allora le “global cities” degli anni ’90), e riorganizzazione del sistema della grande
fabbrica e soprattutto del sistema territoriale, dell’attività produttiva; vale a dire il passaggio da un
sistema di macrofunzioni territoriali legate alla produzione e riproduzione di massa, ad un sistema
invece più legato alla diffusione produttiva, alla piccole e medie imprese, ad un diverso rapporto
sociale tra fabbrica, territorio, comunità, tipico poi del distretto industriale. Questo rapporto era
stato anticipato in Italia dall’esperienza olivettiana come tentativo, fallito ma interessante, del
problema di vedere il rapporto fabbrica-territorio in modo completamente diverso dal modello
fordiano della Fiat. Ecco, questa è la mia formazione, coi temi che poi sono proseguiti anche dopo
l’esperienza nel PCI, quella di Potere Operaio e dei Quaderni del Territorio.

- Complessivamente quali sono stati, secondo te, i limiti e le ricchezze delle esperienze e delle
proposte politiche degli anni ’60 e ’70, in particolare di quelle legate al filone operaista?

Attraverso un rilancio dell’analisi della composizione di classe, sia politica che tecnica, con gli studi
dei Quaderni Rossi di Classe Operaia e di Alquati in particolare a Torino, secondo me la ricchezza
è stata quella di aver individuato, in modo anche volutamente semplificato, quale era la forma
“contemporanea” del conflitto di classe, intendo la forma dominante del conflitto e la forma
dominante dei rapporti sociali di produzione. Ciò non in termini quantitativi, si badi bene, ma
qualitativi, di centralità culturale, sociale, politica: la figura dell’operaio-massa era al centro
dell’indagine. Per operaio-massa si intende una figura in cui il lavoro diviene totalmente astratto,
parcellizzato e alienato, lontano dai fini della produzione stessa, senza più la mediazione dei saperi

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tecnici dell’operaio professionale (incorporati nel macchinario), senza più la mediazione della
conoscenza produttiva, del processo produttivo nel suo insieme. Una figura che è completamente
estranea al processo produttivo, non ha più nessuna affinità o interesse per ciò che produce, ha solo
interesse a difendersi dalla fatica della propria condizione astratta e atomizzata di forza-lavoro. Da
qui lo slogan “più soldi, meno lavoro”, che sembrava a molti allora un po’ semplificativo ed
economicista, ma che culturalmente denunciava l’essenza socioculturale di questa figura. L’idea
forza, conseguente a questa messa a nudo dell’essenza del rapporto sociale di produzione
dell’operaio massa, è stata il discorso del rifiuto del lavoro, che era interpretato in termini positivi
come molla dello sviluppo tecnologico e del progresso: e questo è stato un fatto molto importante
perché ha chiarito il valore dialettico e il ruolo costruttivo della negazione della fatica operaia e del
lavoro salariato.
Teniamo conto che noi stiamo parlando di un’epoca in cui il lavoro salariato era la forma dominante
dei rapporti sociali di produzione; oggi siamo in un’altra epoca; lo studio di Sergio Bologna sul
“lavoro autonomo di seconda generazione” mette in evidenza il cambiamento radicale avvenuto fra
gli anni ’70 e ’90 sulla composizione di classe di cui parleremo più avanti. Per quanto riguarda
allora parliamo di un rapporto di produzione in cui il rapporto di lavoro salariato era quello
dominante, quindi attenzione: quando parliamo di rifiuto del lavoro non intendiamo rifiuto
dell’attività umana o dell’attività produttiva o dell’attività creativa di ricchezza in generale, bensì
rifiuto di quel tipo di lavoro che allora si configurava come totalmente astratto, totalmente
impossibile da affrontare con un rapporto affettivo o di interesse. Quindi, parliamo della fase matura
del processo storico di astrattizzazione del lavoro che è iniziato con la manifattura del ‘700 in
Inghilterra, ma che con il fordismo e con l’industria di massa ha avuto il suo compimento. Allora,
quando parliamo di rifiuto del lavoro e di ruolo positivo di questo rifiuto parliamo di
un’autonegazione da parte della classe operaia di questa condizione di astrazione del lavoro, quindi
di alienazione; parliamo dunque di un comportamento, il rifiuto, che costringe il capitale a forme di
trasformazione tecnologica che in fondo portano al superamento di questa figura del lavoro
salariato.
E’ ciò che in gran parte è avvenuto, naturalmente non in tutto il mondo: per ogni operaio autonomo,
di microimpresa di terziario avanzato in Italia o in Europa crescono cinque disgraziati sottoproletari
o lavoratori, non so come meglio si possano definire quelli del cosiddetto Terzo Mondo.
Comunque, il processo di rifiuto di questa condizione è stata una forte molla di trasformazione
capitalistica. Non c’è niente di scandaloso in ciò, perché, come in tutte le situazioni conflittuali, la
finalità del processo è molto ambigua: da una parte l’operaio rifiuta questa condizione e quindi
mette in crisi il capitale con la richiesta salariale indipendente e impazzita rispetto al profitto, con la
richiesta di servizi, con il rifiuto dell’orario, l’autoriduzione, tutti quei processi che nel ’69-’70
avvengono; naturalmente, ciò dal punto di vista operaio è una conquista di riduzione della fatica e
di aumento della quota di ricchezza, mentre per il capitale è costrizione ad un salto tecnologico che
neghi la possibilità per l’operaio di appropriarsi della ricchezza. Si verifica perciò il noto processo
del decentramento produttivo, dell’astrattizzazione del comando, cioè l’informatizzazione del ciclo
produttivo, l’isola di montaggio, l’esplosione del processo produttivo su scala mondiale,
l’articolazione geografica degli insediamenti produttivi in modo da rendere meno offensivo lo
sciopero. Quindi, le motivazioni sono ovviamente diverse, però tutto ciò mette in moto dei processi
che hanno come sempre la loro ambivalenza: da una parte conducono a nuove forme di
sfruttamento, ma dall’altra portano anche a nuove opportunità di riappropriazione dei saperi e a
possibilità di riavvicinamento tra produzione e fini della produzione. Sono le potenzialità (descritte
appunto da Sergio Bologna e che io riprendo nel mio recente testo, Il progetto locale) del lavoro
autonomo, cioè di quel lavoro che in qualche modo può riappropriarsi dei mezzi di produzione, dei
saperi, delle tecniche, si mette sul mercato come proprietario dei mezzi di produzione. Naturalmente
resta sempre da fare, molto chiaramente, la distinzione tra composizione politica e composizione
tecnica della forza lavoro che non coincidono mai, nemmeno allora coincidevano. Questi sono stati

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gli aspetti interessanti, sia culturalmente sia come motore delle lotte, della fine degli anni ’60 della
cultura operaista, con grosse aperture sulle tematiche territoriali.
Gli aspetti negativi di tutto questo movimento secondo me sono stati di due ordini. Da una parte, il
non aver saputo prospettare un ceto politico che in qualche modo interpretasse questo passaggio
dalla figura dell’operaio salariato a una figura di produttore-abitante che si andava riavvicinando nel
modello dei distretti, della fabbrica diffusa, ecc.
Dall’altra, di non aver saputo con chiarezza governare i processi di militarizzazione del movimento
dovuti ad una crescente insoddisfazione: questo movimento operai-studenti non trova infatti
risposte fra il ‘68 e il ‘77, fino al compromesso storico (che è una risposta di chiusura
all’innovazione sociale), non trova elementi di cambiamento nella società politica e quindi tende poi
ad un processo di incancrenimento e di violenza diffusa, che fa sì che i gruppi armati “spontanei”
crescano e alimentino la formazione di gruppi armati organizzati.
I movimenti di Potere Operaio, di Lotta Continua, dell’Autonomia non sono stati molto chiari in
mezzo a questo casino. Io ricordo nel marzo ’77 la situazione molto confusa a Bologna in quelle
grandi manifestazioni: 100.000 persone in piazza che esprimevano una nuova progettualità, gli
infermieri di Napoli che discutevano di come trattare i malati, le donne, le cooperative, i centri
sociali, ecc. A Milano in quel periodo abbiamo censito circa 200 centri sociali che non facevano
solo attività di militanza, facevano musica, artigianato, cultura, cioè erano centri propulsivi di una
nuova società che si andava costruendo. A Bologna allora c’erano 100.000 persone, come le
300.000 di Genova del 2001: erano una società civile che portava progettualità, che praticava
progettualità in microimprese, nel no profit, nel terzo settore, nella nuova cooperazione; rifiorivano
cooperative nelle campagne, agricoltori biologici, artigiani, cultura alternativa, centri sociali.
Esisteva una società in nuce, come quella che si sta esprimendo oggi con il movimento antiglobal,
che ha tante facce (produttive sociali, culturali, sindacali, ecc.).
A fonte di questa società civile che esprimeva una domanda di gestione politica c’erano,
asserragliati nel palazzetto dello sport di Bologna, 5.000 militanti che aspiravano ad essere il ceto
politico di questa nuova società: c’erano i discendenti di Lotta Continua, i gruppi dell’Autonomia,
vari altri gruppetti, che discutevano dell’egemonia del processo di militarizzazione, della lotta
armata da contendere alle BR. Quindi, uno stacco a mio parere totale tra questa generazione politica
di militanti e questa formazione sociale, che delusa e abbandonata dalla sinistra istituzionale,
chiedeva costruzione politica in forme nuove, sperimentazioni di nuove forme di organizzazione del
lavoro sociale, il governo del processo di radicamento istituzionale dell’innovazione sociale. (Io
avevo scritto un lungo diario su questa divaricazione fra società civile e ceto politico, l’avevo scritto
a Bologna seguendo quelle giornate e annotando questi commenti: mi è stato sottratto quando mi
hanno arrestato per il processo 7 aprile, me l’hanno fatto sparire e non me l’hanno mai restituito,
perché era una prova a mio discarico di cosa pensassi allora del processo di militarizzazione).
Dunque, c’è stato questo aspetto negativo del non aver saputo inventare, partendo da questa grossa
mobilitazione, nuove forme di organizzazione non dico partitica ma di aggregazione, di guida del
processo insomma. Io ricordo che Potere Operaio è uscito con il primo numero nel ‘71
“Cominciamo a dire Lenin”, una cosa da far venire i brividi sulla schiena vista adesso: cosa diavolo
significava interpretare il primo movimento postindustriale con i canoni dell’ultimo movimento
industriale? C’è stata questa miopia, anche dal punto di vista organizzativo. Non ha ovviamente
riguardato solo noi, se si prendeva Lavoro Politico, la rivista di Renato Curcio fatta a Verona nel
’68, era un incubo, era tutto un –ismo, marxismo-leninismo, operaismo, c’erano 40.000 riedizioni, il
trotzkismo, la Quarta, la Terza, la linea rossa, la linea nera. Era un fiorire di tentativi di dare
organizzazione al ’68 attraverso canoni politici dei primi del ‘900. Come avanguardie, nel loro
insieme, tra trotzkisti, operaisti, leninisti, maoisti di tutti i tipi, alla fine ci siamo trovati a tentare di
organizzare un movimento che stava dischiudendosi verso la società postindustriale, che metteva le
basi (non parlo solo degli operai, ma del movimento operai-studenti, le esperienze più interessanti
di organizzazione), con modelli organizzativi vetusti, che prevedevano ancora appunto la fase
insurrezionale, la presa del potere, lo Stato ecc. Invece, questi movimenti andavano da tutt’altra

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parte, e oggi lo si vede: la talpa che ha in trent’anni lavorato dopo il ’68 sta andando verso forme di
organizzazione del movimento che assolutamente non prevedono prese del potere o palazzi
d’inverno, ma processi autorganizzativi, processi complessi di organizzazione reticolare, non
gerarchica, com’è il movimento oggi detto noglobal. Quindi, questo fu un limite altrettanto grosso,
ma non solo dell’operaismo, bensì generale di quell’esperienza degli anni ’70. Fummo bravissimi
ad analizzare, a stimolare le lotte, pessimi ad organizzare.
Sempre parlando di limiti di quella esperienza, c’è un’altra questione più teorica: la maggior parte
della sinistra è ancora ora una cultura inscritta nelle teorie tradizionali dello sviluppo. Intendo con
ciò quelle teorie che accomunano il capitalismo, il capitalismo di Stato, il comunismo, che hanno
come caratteristiche dominanti il rapporto lineare tra scienza, applicazione scientifica e progresso
sociale, l’idea di sviluppo economico fra stato e mercato, l’idea di continuità, di sviluppo lineare e
di modernizzazione, l’idea salvifica dell’Occidente (la teoria degli “stadi” di sviluppo): non
dimentichiamo che Lenin propugnava le colonie come mezzo per modernizzare il Terzo Mondo
costruendo fabbriche e classe operaia. Quindi, anche l’operaismo italiano di cui ho fatto parte non
ha mai messo in discussione le teorie tradizionali dello sviluppo. I temi centrali erano la
redistribuzione del reddito prodotto e la classe operaia come motore dello sviluppo: ma quale
sviluppo? Quello dato: anzi, un po’ irridevamo alla Cina di Mao, ai contadini. Lo sviluppo era lo
sviluppo dato, il problema era l’appropriazione sociale, economica e poi anche statale del potere da
parte della classe operaia. Ciò non riguardava solo noi ovviamente: non lo metteva in discussione il
Movimento Operaio istituzionale, non lo metteva in discussione l’Unione Sovietica, tanto è vero
che le risposte di Lenin o di Stalin al problema dello sviluppo sono state l’imitazione accelerata, la
famosa pianificazione dell’industria pesante, la messa in pari dell’Unione Sovietica con l’Occidente
dal punto di vista dello sviluppo economico e industriale. Ma il modello era identico, lo stesso,
semplicemente era gestito dai soviet anziché dai capitalisti privati. Questo modello si prolunga ad
esempio in Africa, dopo i movimenti di liberazione anticoloniali degli anni ’60. A Maputo e ad
Algeri il modello di sviluppo, “curato” dall’Unione Sovietica i dall’Europa è lo stesso di prima.
Questo secondo me è un altro elemento molto importante da tenere in conto: nessuno di noi allora
intravedeva una crisi delle teorie tradizionali dello sviluppo. Dico questo, però negli anni ’70
esistevano già le teorie della dipendenza di Baran e Sweezy in America Latina, cioè la crisi della
teoria degli stadi di Rostow che prevedeva che i paesi sottosviluppati, seguendo l’esempio dei paesi
ricchi, avrebbero aumentato il loro benessere. Già le teorie della dipendenza in America Latina
attorno alla rivista Monthly Rewiew evidenziavano che lo sviluppo dell’industrializzazione e dei
mercati dipendenti dal primo mondo aumentava la dipendenza e il divario anziché diminuirlo. Poi
vengono gli “approcci normativi” allo sviluppo, le teorie dell’ecosviluppo, I. Sachs, Galtung ecc.,
fino alle critiche radicali allo sviluppo, Illich, Amin, Shiva, Latusche, ecc. Nel Terzo Mondo negli
anni ’70, attraverso la verifica delle inattendibilità del modello di sviluppo occidentale a
determinare una diminuzione del divario della ricchezza, della morte, della povertà, cominciava a
crescere in modo abbastanza lineare una coscienza teorica ma anche poi pratica, nelle esperienze di
governo e via dicendo. Si pensi alle teorie dello sganciamento dal mercato mondiale, di Samir Amin
negli anni ’70, fino a Vandana Shiva che scrive Sopravvivere allo sviluppo, titolo del suo primo
libro; ci sono poi gli studi di Wolfgang Sachs, Archeologia dello sviluppo, un bellissimo libretto,
ma il testo più importante è Dizionario dello sviluppo, tradotto recentemente dalle Edizioni
Missionarie Italiane. Un libro molto importante che riassume tutto questo dibattito tra teorie
tradizionali, approcci alla dipendenza, e poi approcci alternativi, l’escosviluppo ecc., è un testo di
Bjorn Hettne, Le teorie dello sviluppo e il Terzo Mondo.
In conclusione un limite di quell’epoca, di questo nostro ragionamento intorno al conflitto di classe
come motore dello sviluppo, il rifiuto del lavoro e via dicendo, è che non veniva messo in
discussione poi il tipo, la qualità, il modello dello sviluppo: quindi, c’era un discorso puramente
riappropriativo e redistributivo della ricchezza tra le classi. Questo forse anche perché allora
effettivamente pensare che quell’operaio astratto, così lontano dai fini della produzione, potesse
occuparsi di ecologia, di ambiente, di qualità della produzione e legare la propria lotta ad uno

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sviluppo diverso, era forse anche impossibile data la natura del lavoro. Voglio dire che c’è anche
una difficoltà oggettiva a pensare all’operaio Fiat (per fare un esempio di una figura espropriata di
sapere tecnico, espropriata dell’orto, espropriata del sapersi farsi una casa, espropriata di tutto,
ridotta a pura forza-lavoro astratta in una metropoli) come soggetto di un altro sviluppo.
Probabilmente l’orizzonte era quello di smantellare questo tipo di organizzazione sociale con la
quale era impossibile pensare a uno sviluppo diverso, più attento all’ambiente, più equilibrato ai
valori dell’alimentazione, di cosa pensiamo oggi della vita, della qualità della vita, della lentezza
nel tempo. Tutto ciò è più pensabile in una società dove i produttori hanno la possibilità di produrre
territorio, qualità territoriale, qualità ambientale, di produrre merci sane, cosa che allora era
probabilmente irrealizzabile dentro una società che andava da tutt’altra parte, cioè industria di
massa, consumo di massa, trasporti di massa, quartieri di massa, cibi di massa, vacanze di massa,
ospedali di massa, era tutto di massa e quindi non c’era il campo per pensare ad un modello di vita
diverso. Con questo non voglio però giustificare l’assenza totale di barlumi di consapevolezza
rispetto a ciò. E’ per questo che io chiamo il movimento del ’68 l’ultimo della società industriale e
il primo della società postindustriale, perché presenta aspetti intrecciati al culmine
dell’operaizzazione della società, ma gli studenti portano anche le prime problematiche di
fuoriuscita dalla società di massa industriale. Tanto è vero che poi il movimento che matura nel ’77
esprime proprio questa sperimentazione: dai germi del ’68 non nasce solo il discorso del rifiuto del
lavoro, ma nascono tutta una serie di esperienze propositive, i discorsi sulla salute ambientale, sui
problemi dell’alimentazione, cominciano le tematiche sull’ecologia, nascono le ipotesi di
produzione biologica, nascono i discorsi di un diverso rapporto di cura del territorio e
dell’ambiente, nasce il movimento femminista e quindi c’è tutto un discorso di trasformazione dei
rapporti di convivenza, di relazione, di nuove problematiche comunitarie. Quindi, nascono le
istanze identitarie, rinasce un discorso di comunità che riguarda le esperienze di autorganizzazione
nei quartieri, nel territorio e via discorrendo.
Se si rilegge Quaderni Rossi, Classe Operaia, Potere Operaio, si nota che non c’è questa tematica
della trasformazione del modello di sviluppo come guida poi di un discorso di militanza politica.
Mentre nel movimento queste istanze cominciano a nascere fin da allora e poi si svilupperanno
pesantemente negli anni ’90 e oggi, fase in cui sono alla base di tutti i movimenti
antiglobalizzazione, di tutti i movimenti propositivi di iniziativa di base, ma anche del dibattito
istituzionale.

- Romano ha formulato una peculiare ipotesi sull’operaismo politico, che tocca diversi degli
aspetti che tu hai analizzato. Sostiene che esso si è mosso all’interno di un particolare poligono,
cercando di fare i conti con i suoi vertici, in parte riuscendovi ma soprattutto non riuscendovi,
lasciandoci quindi tanti nodi irrisolti o addirittura poco affrontati. I vertici sono rappresentati
dagli operai e dalla loro soggettività, dalla politica e dal politico, dalla questione
generazionale, dalla cultura, mai criticata fino in fondo, tant’è che i modelli dominanti sono
alla fin fine restati quelli della cultura esplicita umanistica e dell’intellettuale organico.
Romano ipotizza che la grande ricchezza dell’operaismo politico, dirompente rispetto ai
tradizionali modelli marxisti e socialcomunisti, consista in una lettura socioeconomica nuova
della realtà italiana degli anni ’50, nella fase di entrata ritardata nel taylorismo-fordismo, nel
momento in cui il PCI e il Movimento Operaio erano impantanati nelle teorie dei monopoli e
ristagniste. Ma la vera rottura consiste soprattutto nell’aver individuato nell’operaio-massa
non solo una nuova figura utilizzabile in una prospettiva anticapitalista, ma un’avanguardia di
massa che poteva andare contro se stessa, verso la propria autoestinzione. In ciò rompendo con
il tecnicismo, lo sviluppismo, lo scientismo, il lavorismo tipico dell’operaio di mestiere, figura
su cui si è formata tutta la tradizione della sinistra. Dall’altra parte, il grosso limite e
fallimento dell’operaismo politico è consistito nell’incapacità di portare fino in fondo la
rottura, elaborando nuovi fini ed obiettivi, un nuovo progetto politico adeguato a quella lettura

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completamente nuova. Quindi, se c’è un operaismo politico che rompe e va avanti, dall’altra
c’è un operaismo politico che ritorna indietro, nei vecchi modelli socialcomunisti.

Io concordo abbastanza con questa lettura di Romano. Ho aggiunto che a mio parere c’è stata anche
questa scarsa attenzione alle teorie dello sviluppo, che avrebbero potuto (poi nella storia è sempre
difficile dire cosa sarebbe potuto essere) non permettere che si creasse quella rottura e
frammentazione tra il nascente ecologismo e la vecchia cultura politica dell’operaismo. Io sono
stato investito da questa trasformazione anche nel mio pensiero politico, che si è spostato
dall’operaismo verso l’anarcocomunitarismo e l’ecologismo, cercando di ricollegare l’ecologismo a
tematiche socioterritoriali.
Questa riflessione è avvenuta in un contesto fortemente contraddittorio: da una parte l’ecologismo
si è sviluppato in Italia come “ambientalismo scientifico”, e quindi in modo del tutto avulso
anch’esso da una discussione radicale del modello di sviluppo; e dall’altra parte l’operaismo si è un
po’ rinchiuso e si è disseccato come filone culturale all’interno della figura dell’operaio massa,
magari proiettata sul “proletariato metropolitano” : è stata una grossa innovazione aver messa in
evidenza e interpretata questa figura come motore del conflitto moderno di classe, ma di cui
dovevamo (ha ragione Romano) anche saper prevedere la propria autodistruzione, cioè l’aver
indotto con le proprie lotte il capitale in tutta Europa e negli Stati Uniti a cambiare completamente
modello e rapporti sociali di produzione.
Probabilmente non c’è stata una continuità di capacità teorica di interpretare la nuova composizione
di classe: cioè il salto tra l’operaio-massa dei Quaderni Rossi e l’operaio sociale del lavoro
autonomo di seconda generazione. Non c’è stata una capacità di interpretare questa trasformazione.
E ciò nello stesso Movimento Operaio ufficiale, che oggi si dibatte in una crisi tremenda perché,
venendogli a mancare questa figura dell’operaio-massa come base elettorale, come ragione
organizzativa della propria struttura associativa e politica, annaspa inseguendo Berlusconi,
inseguendo la globalizzazione, inseguendo il mercato, inseguendo le privatizzazioni. Ovviamente
poi la gente sceglie i capitalisti veri, non quelli improvvisati, opta per quelli che sanno accumulare
di più, che sono più ricchi, in grado di sfruttare meglio, che sono più ammirati.
Recentemente vedo molte riflessioni riportarsi sulla tematica del rapporto tra organizzazione del
lavoro e modelli di sviluppo innovativi: in alcuni almeno dei protagonisti di quegli anni (Piperno a
Cosenza, io nei miei lavori, nelle mie ricerche, ma anche nelle mie pratiche, e altri come Bologna,
Revelli, Perna, Paba, Bonomi) c’è un circuitare di esperienze che tentano per così dire di
riconnettere un discorso sull’organizzazione del lavoro con un discorso sui modelli progettuali
alternativi di sviluppo. Non a caso nel mio ultimo libro, Il progetto locale, metto in evidenza una
possibile relazione tra una nuova composizione sociale del lavoro e modelli di sviluppo locale, di
autogoverno, di rottura dell’eterodirezione, di costruzione di modelli sostenibili economicamente,
politicamente, culturalmente. Propongo il tema della sostenibilità e dei modelli di sviluppo
autocentrato. C’è una lunga disamina degli attori potenziali di questo progetto, che è un coacervo
molto complesso: come dice Marco Revelli, non si tratta più di mettere insieme le omogeneità, le
identità omogenee di classe come allora, ma di trovare delle forme di governo della complessità fra
attori molto diversi, che sono giovani, anziani, donne, bambini, piccole e medie imprese, attori sul
territorio che fanno società locale complessa. Quindi, in questa società reticolare, complessa, retta
da reti che vanno dal locale al globale, non possiamo più parlare con un criterio né di intellettuale
organico né di organizzazione di classe così come eravamo abituati allora ad immaginare. Dunque,
anche la ricerca sul tema dell’organizzazione assume forme e connotati completamente diversi,
trovandoci di fronte ad una composizione sociale del lavoro in cui il lavoro salariato non è più la
regolazione e lo statuto dei rapporti sociali di produzione, ma gli statuti sono tanti e legati a questo
multiverso di lavoro di microimpresa, autonomo, di rete, di no-profit, di commercio solidale. Sono
tante relazioni sociali e produttive che non possono più essere inscritte in un’unica forma
organizzativa se non quella delle reti complesse, ma possono essere inscritte in patti per lo sviluppo.
La novità secondo me è che si va verso una società organizzata per aggregati regionali, per sistemi

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territoriali locali. La ricerca politica è la ricerca di nuove forme di democrazia in cui un multiverso
di attori abbia voce per concordare un patto per lo sviluppo locale.
Faccio un esempio: io ho partecipato al movimento contro l’Acna di Cengio. Intanto fin dal primo
giorno l’abbiamo chiamato “movimento di rinascita della Val Bormida” e non per la chiusura
dell’Acna. Adesso sto preparando un libro per la Jaca Book sulla storia di questi ultimi dieci anni,
ora l’Acna è chiusa. Tuttavia, io sottolineo che fin dall’inizio abbiamo chiamato il movimento “per
la rinascita”: si intuiva che il discorso non era quindi solo quello della chiusura di una fabbrica di
morte, che aveva distrutto l’economia di una valle, un’identità collettiva, provocato emigrazione
(non da sola ma insieme alla Fiat e tutto ciò che ha distrutto l’identità culturale, la proprietà della
terra ecc.); la chiusura della fabbrica era solo il primo sintomo, la coscienza cioè che portava tutti
questi paesi della valle a non scambiare più salario con morte. E’ risaputo che in questa fabbrica si
moriva di cancro, l’aria era inquinata, dunque avveniva uno scambio di salario con morte: alle
vedove si dava un premio quando moriva l’operaio, per cent’anni c’è stato questo scambio. A un
certo punto, nell’88, questo scambio non ha più funzionato. Una trasmissione televisiva fa vedere il
livello di morte, le percentuali epidemiologiche di cancri nella valle, non parliamo della distruzione
dell’agricoltura, del turismo, con un fiume viola maleodorante che ha distrutto praticamente tutto.
Per farla breve, a un certo punto tutti i giovani dei paesi si organizzano in comitati e c’è questa
svolta: “basta con la fabbrica di morte, fuori l’Acna dalla Val Bormida”. Però, la cosa interessante è
che questa presa di coscienza della fabbrica di morte, del possibile superamento del lavoro salariato
come unica fonte di reddito, si accompagna ad una rivoluzione culturale, cioè a un cambiamento di
atteggiamento verso il proprio territorio e alla scoperta che la chiusura di quella fabbrica può voler
anche dire riscoprire le potenzialità di ricchezza che il territorio dimenticato potrebbe dare. Quindi,
il fiume come erogatore di ricchezza, di agricoltura, di paesaggio, di turismo; i terrazzamenti, i
boschi, le cascine i piccoli centri di crinale e di fondovalle, le produzioni tipiche di qualità; adesso
stiamo discutendo come rivitalizzare l’agricoltura di montagna, il turismo culturale, escursionistico.
Io ho finito ora il piano della Comunità Montana del Valle Bormida e Uzzone in cui tutti questi
concetti di trasformazione culturale danno luogo ad un piano che è un piano partecipato, con tutte le
associazioni locali, i vari attori economici, culturali ecc., e che è tutto proteso a individuare un
nuovo modello di sviluppo fondato sull’autovalorizzazione del patrimonio territoriale; intendendo
per patrimonio territoriale la qualità ambientale, la qualità del territorio storico, ma anche delle
culture locali e delle energie del luogo. E in questo non valgono più modelli esogeni da grande
fabbrica, valgono modelli di autoimprenditività diffusa. Il patto territoriale della Val Bormida e alta
Langa che io ho gestito come tecnico ha avuto l’obiettivo di mettere in evidenza tutte le potenzialità
di microimpresa sul formaggio, sull’artigianato, sulla lavorazione della pietra di langa, sul recupero
del bosco, della vite, del castagno, dell’ospitalità agrituristica,ecc. Questo “patto” ha stimolato
l’emergenza di una rete di microimprenditoria locale con forti finalità, culturali, ambientali e di
valorizzazione del patrimonio territoriale.
Quindi, quello che era operaio diventa oggi piccolo produttore che recupera i saperi della
microimpresa che era la cascina e che in qualche modo si ripropone come riunificazione tra
lavoratore e abitante. Cerco di esprimere meglio il concetto. Nella società del salario l’abitante e il
lavoratore sono due figure distinte: uno va a casa e dorme e lì si occupa dell’asilo, della strada, della
luce, del telefono. E’ meglio chiamarlo residente più che abitante, si pensi al disgraziato che vive in
un quartiere dormitorio. Come lavoratore d’altra parte produce cose astratte, le due figure non si
toccano mai. In un ragionamento come ad esempio quello che ho fatto adesso sulla Val Bormida,
ma che sto facendo in molte altre esperienze, in tutti i miei progetti in cui lavoro sia come militante,
che come universitario, che come pianificatore (sono mescolate queste figure), sperimentando
costruzioni di società locale, esperienze di trasformazione, quello che è interessante è che queste
due figure tendono di nuovo a riavvicinarsi. Quando noi mettiamo qui in Val Bormida attorno a un
tavolo pattizio, costituzionale diciamo, i commercianti, i rappresentanti degli agricoltori, i piccoli
produttori, la costruzione di nuove filiere che vanno dalla produzione della nocciola fino al prodotto
finito, ragioniamo con gli amministratori pubblici, economici, con gli attori culturali. C’è ad

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esempio qui un movimento che si chiama degli “Antichi Mestieri” (nato da un gruppo di donne) che
le domeniche gira in tutte le piazze mostrando e riproducendo antichi mestieri: esso sta
riproducendo interesse per l’artigianato locale, quindi produrrà anche nuova economia. Stiamo
parlando di un tavolo nel quale l’abitante-produttore può discutere del proprio futuro: può perché è
in grado di costruirselo, cooperando con altri; mentre l’operaio astratto e il residente astratto non
erano in grado. La ricomposizione delle due figure, che oggi è possibile, l’abitante o e il produttore,
può permettere a una regione, a una bioregione, a una valle, di configurare intorno a un tavolo
contrattuale il proprio futuro: tra enti locali, amministratori locali, sindacati, rappresentanze delle
associazioni culturali, piccoli produttori, reti di produzione, può decidere un modello, dire “noi
prospettiamo per questa valle questo progetto di futuro”. In questo piano, ad esempio, parliamo di
modello d’eccellenza agroalimentare, di turismo itinerante escursionistico e culturale: non è più
ovviamente quindi chimica o Fiat, c’è un modello che è completamente diverso, che si fonda sulla
valorizzazione del patrimonio, sulla sua rimessa in valore, un modello culturale che prevede che
siano gli attori stessi del territorio a produrre, a governare, a gestire questo processo di produzione
di “valore aggiunto territoriale”.
Allora, se io formo un tavolo di questo tipo, che difficoltà ci sono? Anni fa, prima ancora di fare il
piano, abbiamo promosso una così detta autorità di valle, cioè una forma associativa che prevedeva
di mettere insieme operatori pubblici, privati, associazioni per discutere del futuro. Con una forma
del genere, fondando il progetto sulla valorizzazione del patrimonio, tutti questi attori hanno
interesse a mettere in valore il patrimonio, a non distruggerlo: quindi, abbiamo una specie di
autosostenibilità del progetto di sviluppo perché ognuno ha interesse in questo. Se il progetto è
fondato sulla rivitalizzazione del fiume, in agricoltura, nel turismo, nel paesaggio, se c’è questo
patto tra gli attori è chiaro che non si inquina più, se no si distrugge il bene comune su cui si fonda
consapevolmente la ricchezza di tutti. La strada su cui io e molti altri stiamo lavorando è quella di
costruire questi patti locali per lo sviluppo, esperienze che si stanno costruendo anche in Francia, in
Germania, in molte situazioni. La caratteristica nuova di queste esperienze è data da queste nuove
sedi di democrazia, tra la diretta e la delegata, una via intermedia, che però sono interessanti e in cui
ognuno di noi agisce in diverse vesti, come tecnico, come operatore culturale, non più come
intellettuale organico di un partito ma come attore tra gli attori in un gioco complesso. Richiamavo
Revelli perché lui fa proprio questo ragionamento, sostenendo che oggi la difficoltà di un governo
della complessità non è più appunto nel mettere insieme i simili, ma nel riuscire a trovare delle
relazioni virtuose tra interessi che all’inizio del patto magari sono completamente divergenti e
diversificati. Quindi, questo è un po’ il problema verso cui a mio parere si è evoluta la questione
della rappresentanza politica oggi: ora la discussione dovrebbe essere molto di più su come
costruire questi istituti di nuova democrazia che devono vedere presente nella contrattazione, nel
patto da costruire, questa nuova figura di cittadino-produttore che è interessato al suo territorio in
quanto abitante ma anche in quanto produttore di ricchezza attraverso la valorizzazione del
patrimonio.

- Nel come tu costruisci il discorso c’è un intendere il locale come la risorsa principale. Dopo di
che il globale non è la sommatoria dei locali, ma è una gerarchia differente di processi
produttivi che riescono anche a trovare forme di estrazione di profitto dal locale, ma comunque
comandate da un processo estremamente più ampio. Tu prima hai parlato della Val Bormida;
in Val Susa, ad esempio, c’è il processo contrario. La costruzione del Tav, che rientra in un
processo globale di costruzione dei trasporti e della circolazione, va invece verso la distruzione
del patrimonio locale. Ciò che tu ipotizzi per qui sarebbe difficilmente proponibile in Val Susa
se non come un discorso di remunerazione di un danno. Oppure si pensi a ciò che la Fiat sta
costruendo come progetto di accumulazione in Piemonte: non è più quello del ciclo lungo
dell’auto, ma è un ciclo molto più ristretto, basato sul mordi e fuggi, come ad esempio sono
stati alcuni processi di ristrutturazione a Torino, oppure la questione delle Olimpiadi del 2006.
Allora, quanto questa dimensione del locale non si trova poi in contrapposizione con la

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dimensione del globale che invece è profondamente diversa come processo di accumulazione
capitalistica, in cui c’è invece la distruzione, la distruzione ecologica, la distruzione delle
risorse umane, la distruzione della ricchezza se non finalizzata all’accumulazione di profitto?

Sono d’accordo con queste analisi. Io mi sforzo nei miei studi, nei miei lavori e nella mia militanza,
chiamiamola così, di aiutare a crescere le società locali, in opposizione a un processo di
globalizzazione che invece anche quando utilizza il locale lo fa per spremerlo fino in fondo. Si
pensi al modello del Nord-Est, in cui si utilizzano tutte le reti dei piccoli laboratori di contoterzisti e
del territorio, poi quando conviene trasferire in Romania li si butta via. Qui in Langa è successa la
stessa cosa con il tessile e le confezioni di Miroglio che ha piantato delle fabbriche a Cortemilia,
dopo di che le ha spostate nel Terzo Mondo. Vedo una forte contrapposizione tra i modelli di cui
parlo io, che vanno verso quella che chiamo globalizzazione dal basso, cioè una rete di relazioni che
si vanno costruendo tra regioni, tra città, tra scambi solidali e non gerarchici, e il modello di uso dei
territori, del locale, anche delle risorse locali, fatto dai processi di globalizzazione. E quindi parlo di
conflitto che si sposta dal rapporto tra operai e capitale, verso il rapporto tra forme di autogoverno
dei sistemi territoriali locali e forme di eterodirezione. Però, perché esista questo conflitto deve
esistere una società locale consapevole di un proprio patto per lo sviluppo, che sia in grado anche di
valutare se può piegare un’autostrada o un intervento esogeno, trattarlo rispetto ai propri obiettivi, o
è un “ventre molle” che si fa attraversare da queste reti lunghe. Su questo abbiamo, in Italia, un
lungo dibattito con i geografi, con De Matteis, poi con Bonomi, coi sociologi, con l’Aaster, con gli
economisti distrettualisti (Becattini, Sforzi, ecc) Infatti, rispetto a questo rapporto tra locale e
globale c’è ormai una lunga discussione e un’ampia letteratura, e non solo in Italia: è il tema
centrale di dibattito. Poi ci sono queste teorie del glocalismo di Bonomi che teorizzano il rapporto
tra reti lunghe e reti corte, io lo critico dicendo che se non ci sono le reti corte è inutile, anzi
dannoso farsi penetrare da quelle lunghe. Discutiamo da anni su questo tema.
La mia tesi è un po’ questa: in ogni epoca ci sono degli squilibri e delle sproporzioni, oggi è stato
distrutto un tessuto locale di autogoverno, di culture, di capacità di autoriproduzione, e quindi il
problema principale è quello di costruire i nodi della rete. Senza nodi, nelle reti lunghe i punti sono
semplici crocevia attraversati da Tav, da multinazionali, da reti di produzione ingovernabili dal
locale. Quindi, io insisto molto sul fatto che questa è una fase storica in cui bisogna fortemente
lavorare al rafforzamento della percezione di sé delle società locali: parlo di patti, di costituzione, di
statuti dei luoghi, non solo nel versante urbanistico ma anche sociale, economico ecc. Quindi,
l’invenzione di economie. Per me oggi tutto il dibattito si svolge sulle nuove funzioni dei municipi,
delle amministrazioni locali, attraverso i comuni, le province, le regioni. Parlo di neomunicipalismo
nel senso che fino a qualche anno fa l’amministrazione locale governava i servizi, l’anagrafe, le
strade, tutto ciò che non riguardava la scelta di un modello di sviluppo che veniva deciso altrove;
oggi, di fronte a modelli di sviluppo che siano fondati proprio sulla valorizzazione delle risorse
patrimoniali e sull’autogoverno delle popolazioni, l’amministrazione locale diventa qualcosa che
guida il processo economico, che inventa lo sviluppo, che decide insieme a queste nuove forme di
democrazia quale sviluppo, cioè se in queste valli mettere delle fabbriche, mettere delle produzioni
tipiche o cosa fare. Allora, questo apre un campo completamente nuovo di rapporti sociali tra
pubblico-privato, diventa una situazione nuova anche per il concetto stesso di politica, di ruolo delle
avanguardie, del rapporto cultura politica e produzione tecnica. Io credo di far politica in questi
luoghi occupandomi di come restaurare i terrazzamenti, delle tecniche per rimetterli in produzione,
perché con questo penso alla valorizzazione di un patrimonio millenario; mettendo insieme la
salvaguardia idrogeologica, la valorizzazione del paesaggio, la ricostruzione di un mondo rurale e
quindi la rivitalizzazione del ruolo dell’agricoltura, riunendo dunque insieme tanti obiettivi e
valorizzando la figura di abitante-produttore. Apparentemente uno può chiedersi che cosa c’entri
fare politica con i terrazzamenti, e invece ho l’idea che ricostruire capitale fisso sociale
autogovernato da parte delle popolazioni sia un progetto politico importante. Infatti, nella
conclusione politica di quel libretto, Il progetto locale, parlo di “coscienza di luogo”, il che è una

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metafora, è il superamento della coscienza di classe verso la coscienza di luogo: ciò per dire che da
questo neoradicamento può venire un tipo di relazioni globali diverse da quelle attuali che invece
portano appunto processi di distruzione di risorse sia ambientali che umane.

- C’è un problema proprio di gerarchia delle merci, delle priorità che vengono date
nell’integrazione di forme di accumulazione.

Sì, ma per fortuna ci sono alcuni processi che aiutano a vedere come questa gerarchia delle merci
possa essere modificata. La saturazione delle città, il fatto che la gente tenda sempre di più a vedere
come un danno e non solo come un’opportunità l’automobile da tutte le parti, può ad esempio
portare a sviluppare altre forme di mezzi di trasporto. Il nuovo ruolo che avrà l’agricoltura in una
società postindustriale è rafforzato da tutti gli episodi di mucca pazza, cioè le catastrofi servono
anche a far capire che altre forme di sviluppo dell’alimentazione, della chiusura dei cicli
(dell’agricoltura, dei rifiuti, delle acque, dell’alimentazione), quindi del rapporto tra quantità e
qualità, possono cominciare a produrre una situazione anche diversa della gerarchia delle merci.
Oggi parlare di produzioni tipiche, di produzioni di qualità, non è più una cosa per iniziati, non
riguarda più un mercato di nicchia: oggi esiste un turismo di massa che ha raggiunto la sua
saturazione e un nuovo tipo di viaggio escursionistico, ambientale, enogastronomico che sta
richiedendo per esempio una diversa qualità del cibo. E la gente stessa, sotto questi colpi
dell’industria agroalimentare, sta interrogandosi sul fatto che non è più solo interessata a mangiare
per mangiare, ma mangiare per salvaguardarsi la salute e per godere di un paesaggio. Inoltre si
scopre che costa di più governare i disastri idrogeologici e la distruzione del paesaggio che non
attribuire agli agricoltori i compiti di cura del territorio, e quindi sta nascendo una cultura della
remunerazione pubblica, delle funzioni di produzione di beni e servizi pubblici da parte degli
agricoltori. Io sto facendo in Toscana delle esperienze interessanti con un’associazione in cui non ci
sono solo più soltanto agricoltori, sono come dei monasteri laici che impostano sul territorio
funzioni complesse di recupero di edifici industriali. Per esempio, c’è un’associazione che si chiama
“Radici” che lavora in Val di Cornia e sta costruendo un progetto sull’alimentazione proponendosi
cinque o sei filiere agroalimentari di qualità, e nel contempo il recupero di questi edifici storici, poi
ospitalità, cultura, convegni. Cioè, sta nascendo una figura di agricoltore colto che possiamo
assimilare ai cistercensi o ai benedettini del Medio Evo: è un operatore culturale sul territorio che
nel contempo opera qualità dell’alimentazione, richiusura dei cicli ambientali, quindi tipicità dei
prodotti, salvaguardia idrogeologica, costruzione di paesaggio tipico. Il nuovo agricoltore acquisterà
un diverso ruolo rispetto a quello che ha avuto nella società industriale, in cui aveva un ruolo
marginale, oppure era operaio dell’industria agroalimentare di massa. Oggi sta nascendo qua e là
una nuova figura, ancora in modi non molto sostenuti, perché la stessa sinistra non capisce queste
cose, continua a considerare le campagne come realtà marginali. La sinistra ritarda molto in questi
ragionamenti, pensa ancora che costruire quattro fabbrichette in Val Bormida sia la salvezza del
futuro. Ci sono dunque molti ritardi culturali.
Nonostante questi ritardi credo che le trasformazioni culturali e le esperienze in atto porteranno un
forte spostamento sulla gerarchia dello spettro merceologico,. Naturalmente non è un discorso
vincente, è chiaro che ci sono dei contraltari nell’industria agoalimentare, nella manipolazione
genetica, nei semi geneticamente modificati. Per esempio, la Monsanto continua a mettere in galera
i contadini che si riproducono le sementi, fa processi, siamo ancora nella dominanza di una
privatizzazione dei semi, siamo ancora in un’epoca in cui inquiniamo i fiumi. Però, ci sono molti
germi societari su cui è possibile che si saldi un movimento dal basso di tante molecole produttive e
associative, e un movimento dall’alto di istituzioni locali consapevoli, attente al proprio territorio e
allo sviluppo autosostenibile, e quindi a dar voce a questo tessuto diffuso di società consapevole e
di volontariato; società che però non ha ancora voce nelle contrattazioni dominanti, anche nei patti e
negli accordi sindacali.

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Quindi, io credo molto al ruolo del nuovo municipio, che sappia interpretare queste forze latenti e
dar loro voce in questi tavoli di contrattazione; non per avere tavoli rivendicativi, ma più che altro
tavoli di progetto, produttivi di territorio, di qualità della vita, di sviluppo, di nuove economie. Li
vedo cioè come tavoli progettuali: questa saldatura tra contratto e progetto diventa la nuova forma
della politica.
In tutto ciò molti mi chiedono dove finisce il conflitto. Certo che c’è conflitto, anche a seconda
degli attori che siedono attorno a questo tavolo. Adesso, per esempio, sto facendo il piano
provinciale di Prato, ed ho dei grandi conflitti a mettere insieme gli interessi degli industriali di
Prato con quelli degli operatori della Val di Bisenzio, gli operatori agricoli del Montalbano, la
rinascita delle valli. Non è che, detto fatto, sia così semplice. Però, secondo me la strada di
costruzione di questi nuovi istituti di democrazia e di questi patti è quella strategica: poi non è facile
costruirli, perché evidentemente in ogni territorio ci sono gli attori forti, gli attori deboli, quelli che
hanno interesse a sfruttare gli altri e quindi a sfruttare anche le risorse del territorio finché ci sono e
poi andarsene da un’altra parte. Ma, per esempio, dopo queste esperienze in val Bormida, della
Miroglio che è venuta, ha dato occupazione a 200 persone e poi se ne è andata, della chimica che ha
distrutto il territorio, della Fiat che ha provocato emigrazione, distruzione della economia della
cascina, c’è da parte degli amministratori locali la consapevolezza del “mai più un’altra fabbrica
che arriva da fuori e che non governiamo, cioè che non crea tessuto resistente, tessuto stabile per
gente di qui, che lavora qui, che ha i figli, che ha interesse a starci e che è legata al territorio e alla
sua valorizzazione”. Ho sentito i sindaci che ragionano già così: dopo un’esperienza di
industrializzazione senza sviluppo, adesso c’è la consapevolezza di non voler ripetere più questi
modelli, ma di cercare di concepire la nuova industrializzazione come industria di servizio alla
valorizzazione del territorio, quindi l’industria dell’artigianato locale, l’industria elettronica per fare
le macchine per sgusciare la nocciola, cioè tutte cose che siano finalizzate a mettere in valore il
patrimonio territoriale, ambientale, umano. Questa consapevolezza comincia a esserci. Ho fatto il
caso della Val Bormida che ho seguito da vicino, ma la stessa esperienza la sto facendo a Milano
nel risanamento dell’area ad alto rischio Lambro, Seveso, Olona, la sto facendo in Toscana in
diverse esperienze di parchi territoriali, di piani. E devo dire che questo metodo di partecipazione è
molto interessante. Sto iniziando il piano regolatore di Follonica che è partito come un forum di 200
adesioni, di tutte le associazioni locali, ambientaliste, economiche, i costruttori, gli abitanti, i
residenti temporanei, e il tutto si sta svolgendo con un’ipotesi di futuro di Follonica che viene
discussa in questi forum. Poi naturalmente c’è quello che vuole costruire questo o quell’altro, ma il
problema interessante è capire come la presenza di questi attori sposti poi anche i poteri di
decisione. A noi hanno chiesto questa esperienza proprio amministratori interessati a spostare i
poteri forti dei costruttori edili, degli industriali, frenare i loro appetiti e mettere in evidenza gli
interessi di altre componenti sociali, gli abitanti in primo luogo che hanno interesse a valorizzare il
territorio, Quindi, questi metodi di partecipazione hanno anche questa valenza, cioè di dar voce ad
attori che solitamente non ne hanno nei processi di decisione dello sviluppo economico. Sono
esperimenti naturalmente, e poi non dipende dalla forza dei tecnici ma da come i politici capiscono
l’importanza di passare dall’amministrazione locale al municipio, che assomigli più a un municipio
medioevale dove insieme alle corporazioni, alle gilde e via dicendo venivano decisi i modelli di
sviluppo della città, la sua economia ecc. Abbiamo molto a cuore anche la formazione dei nuovi
amministratori, quindi come università lavoriamo molto pure su questo terreno, perché è importante
che cresca una generazione di amministratori consapevole di quale potenzialità ha in mano
l’amministrazione locale nel promuovere processi di sviluppo attenti a queste nuove forme di
democrazia e alla valorizzazione del patrimonio.

- Negri sembra avere un punto di vista antitetico a quello che tu hai esposto. Anche nel suo
Empire pare esserci l’idea che ogni passaggio di sviluppo capitalistico sia immediatamente e
necessariamente un passaggio in avanti verso la liberazione.

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Mi sembra che Negri abbia un po’ ipostatizzato il passato. Ho letto anche questa sua ultima rivista,
Posse, il numero sull’inchiesta, con il rilancio dell’inchiesta operaia: mi pare che ci sia un
atteggiamento in cui prevale ancora una visione del proletariato, dell’operaio sociale, il cui compito
è l’antagonismo, la rivendicazione dell’estraneità. Mi sembra che questo ragionamento sia molto
continuista rispetto all’operaismo di allora, nel senso che è rimasto inossidabile nella sua visione del
mondo e delle forme della politica. Ed è un po’ la critica che voi dite che implicitamente è venuta
dal mio discorso al ragionamento di Negri: mi sembra riprodurre una forma dell’antagonismo legata
alla composizione di classe degli anni 60 dello scorso secolo, e che oggi io vedo un po’ come una
riproduzione all’infinito di mosse subalterne. Se si legge Posse si vede che c’è una ricerca
sistematica di elementi di distanziamento da tutto e da tutti. Io mi occupo di città dei bambini, di
come si può costruire una città in cui i bambini stiano bene, mi occupo di nuovi produttori, di
qualità, di benessere. Cioè mi occupo di avvicinamenti all’autogoverno della vita e del futuro: penso
più a un ragionamento costruttivo di nuova società locale, perché penso che sia quella possibile per
i nuovo abitanti-produttori e che poi questo insieme di società locali dia luogo a un globale diverso,
antagonistico all’attuale globalizzazione dell’impero. E quindi sono più proiettato verso la ricerca
dei soggetti per un progetto di costruzione di società locale e di modelli di sviluppo alternativi
piuttosto che dei soggetti di estraneità e antagonismo “di classe”. Il ragionamento di Negri è
proiettato a scoprire dentro tutti i passaggi del capitale nuove forme di antagonismo, cosa che mi
sembra un po’ una fatica di Sisifo all’infinito, di cui non si vede mai la fine. Poi anche quelle
indagini hanno la loro dignità e importanza perché c’è una continua ricerca delle nuove forme dello
sfruttamento, della composizione di classe: man mano che il capitale risponde ai movimenti crea
nuove forme di sfruttamento, desitua le forme del comando sociale. Però, devo dire che leggere
queste cose mi dà la sensazione che Toni lavori in pantofole rispetto ad un apparato teorico: sento
riutilizzare concetti e forme di ragionamento sull’antagonismo che allora avevano una validità per il
tipo di composizione di classe che non poteva che produrre estraneità. Ho insistito molto all’inizio
su questo concetto: allora non era possibile produrre altro che estraneità, chiunque proponesse alla
classe operaia di allora di governare un processo economico avrebbe fatto ridere, non avrebbe avuto
senso, perché cosa si vuole che governi uno che non è in grado di possedere e coltivarsi nemmeno
una piantina di prezzemolo? Dunque, io nel corso degli anni ho tentato di evidenziare i
cambiamenti, nel senso di capire quali sono le potenzialità oggi di autocostruzione sociale e di
autogoverno. Ho messo in evidenza cioè tale aspetto, che naturalmente non è l’unico, però se c’è
una differenza di atteggiamento è un po’ questa. Adesso poi è ridicolo porsi il problema di chi abbia
ragione, probabilmente si tratta di capire dove portano le varie ipotesi, di verificare le esperienze, in
che orizzonti si collocano, e di lì poi aprire un dibattito sulle diverse prospettive di azione.

- In diverse parti della tua analisi è venuto fuori il problema della politica e del progetto, e del
resto l’attenzione rispetto a questo tema viene fuori anche dal titolo del tuo ultimo libro, Il
progetto locale appunto. In questa ricerca verifichiamo che la maggior parte degli intervistati
sono concordi nell’individuare la questione politica come un grande buco nero delle esperienze
operaiste. Dall’altra parte, però, la maggior parte individua la politica come questione
principalmente (se non addirittura quasi esclusivamente) di organizzazione, di forma-partito.
Proviamo a ribaltare il problema, e a pensare la politica e il politico come questione
innanzitutto di progetto e di macrofini, rispetto a cui individuare e praticare i mezzi di volta in
volta necessari alla loro realizzazione. Tu hai affrontato la questione della politica
declinandola soprattutto sul livello del locale: volendo ragionare anche rispetto a questi nuovi
movimenti, come si può secondo te porre il nodo del rapporto tra nuove emersioni e progetto e
grandi obiettivi?

Io la declino sul piano locale perché penso alla costruzione di “nodi” potenti delle reti, perché se
non ci sono questi nodi la rete è una truffa. Però, ammetto che ciò che Bracher e Costello hanno
scritto qualche anno fa sulla costruzione della rete globale dei movimenti abbia una sua importanza:

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quello che io critico è che poi da una manifestazione all’altra non succeda niente nel locale. Mi
sembra che la qualità di questi movimenti (parliamo dei movimenti da Seattle a Genova, ma anche
prima, degli ultimi dieci anni) sia intanto quella di mettere assieme molte diversità, cioè interessi di
difesa di tipicità di prodotti, come Bovè, sindacati americani con ecologisti, il commercio equo e
solidale, forme di nuova cooperazione. Io sono stato alla manifestazione del sabato a Genova,
quella dei 300.000, si è vista una composizione che secondo me allude a una nuova formazione
sociale: è estremamente complessa, riguarda l’agricoltura, il commercio, la piccola e media
impresa, l’informazione, la produzione culturale. Cioè, la sua composizione ha quella caratteristica
di complessità che Revelli dice appunto che dobbiamo riuscire a governare come complessità. Se io
leggo i documenti di presentazione del forum di Genova vedo che sono tutti propositivi di qualcosa,
non sono documenti unicamente contestativi dell’ordine mondiale e della globalizzazione. C’è stato
un dibattito anche a San Rossore con Illich Goldsmith e altri promosso dalla regione Toscana che si
è mossa molto bene in questa vicenda: era un dibattito sul “che fare” per dirla con Lenin, nel senso
di quali modelli di attività produttive, di attività agricole, di attività industriali, di attività culturali,
cioè intorno a cosa costruire società e futuro. Allora, questo è un salto straordinario rispetto al
nostro operaismo in cui decidevamo solo come abbattere il presente con il “più soldi meno lavoro”,
come redistribuire il reddito: qui ci sono in gioco spezzoni di modelli di futuro, cioè di modelli di
una nuova civilizzazione. Per dirla in modo un po’ pomposo, dico che questi movimenti hanno in sé
i germi di una nuova civilizzazione post-tutto, postfordista, postcapitalista, postcomunista.
Insomma, i germi di una civilizzazione fondata molto sulla qualità della vita, sulla solidarietà, sulla
valorizzazione dei patrimoni genetici, del territorio, delle culture, e da tanti pezzetti di questa
grande civilizzazione che stanno emergendo. La forma della politica per governare questo
processo? Be’, mi si chiede troppo. So solo quelle due o tre cose che già ho detto: che i governi
locali conteranno molto nel far crescere le sperimentazioni concrete di tali progetti, quindi costruire
territori liberati dalla globalizzazione; conteranno molto le nuove forme di democrazia in cui questi
patti tra attori diversi si daranno. E quindi io penso che verranno forme della politica
completamente nuove in cui la discussione tra fini e mezzi della produzione si salda in questi nuovi
aggregati sociali consapevoli, dentro cui sicuramente le reti dell’informazione potenziata,
dell’informatica, le comunità virtuali avranno un grosso peso e un grosso ruolo, perché noi vediamo
che anche questo movimento di Seattle è passato via Internet, quindi la comunicazione potenziata è
molto importante. Non ne farei un ragionamento futurista alla Bifo, che ne La nefasta utopia di
Potere Operaio mi sembra che dia una continuità improbabile tra Potere Operaio e il cyberpunk.

- Voi, inteso come strato di persone che siete state su un livello alto dell’operaismo, avete avuto
un livello di formazione costruito soprattutto su una forma di militanza politica e di capacità di
elaborare un modo di essere e di soggettività, una teoria di interpretazione della realtà e di
azione politica. Dalle interviste abbiamo colto che la dimensione politica della prima
formazione è diventata poi anche quella che ha sedimentato un filo rosso nella vita delle
persone, perché lascia un segno costitutivo nel Dna della vostra generazione. Ciò ha dato una
qualità e un bagaglio probabilmente irripetibile di ricchezza, di capacità dell’uso della
conoscenza e dell’elaborazione del sapere. Questo al di là poi di come i singoli abbiano speso
tale bagaglio, perché le traiettorie delle varie persone sono molto differenti, c’è chi da
quell’origine ha avuto un certo livello di impegno, di percorso, di modo di essere e chi ne ha
avuto tutt’altro.

Anche diversi modi di vivere la politica, nel senso che io ritengo di continuare il mio impegno di
allora in altre forme; altri hanno detto “chiudo dopo questa esperienza, faccio l’informatico o
qualcos’altro”.

- In generale c’è comunque questo bagaglio e questo segno che è importante e che rimane al di
là di dove poi uno si è collocato. C’è poi un’altra generazione che ha avuto una formazione più

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specialistica, anche nella gestione della politica, e non ha certe capacità di cogliere il quadro
generale e di scendere nello specifico. Questo per dire che quella soggettività che si è formata
con quelle esperienze e con quelle dimensioni oggi viene di nuovo spesa in ambiti sociali e
politici con una qualità molto differente. Si guardi ad esempio a come si è formato un altro ceto
politico, istituzionale, all’interno del sistema dei partiti: anche se è arrivato più in alto come
posizioni di potere, però non ha questa qualità del saper prefigurare e costruire la dimensione
progettuale. C’è dunque questo stacco generazionale, per cui generazioni successive non hanno
questa ricchezza di capacità nel loro modo di essere e di stare all’interno delle situazioni,
mentre hanno una dimensione molto più tecnica, capace di fare bene la loro parte di compito.
Questo quanto incide e influenza la possibilità della costruzione di una progettualità futura?

Se riesco a dare una risposta, sgrossando, dividerei in due la questione. Abbiamo un ceto politico
che voi definivate istituzionale. Io ho vissuto nel PCI negli anni in cui esisteva ancora, in cui
frequentavo le sezioni di fabbrica, di territorio, i Cral, le case del popolo, in cui il dibattito era
altissimo, era passione politica anche, ci si iscriveva per questa, operai e intellettuali. Io ho
l’impressione che dagli anni ’80 in poi l’iscrizione a un partito, anche di sinistra, da parte di un
giovane fosse strettamente legata a un esito istituzionale o di mestiere. Vale a dire, uno si iscriveva
al PSI di Craxi ovviamente se era un costruttore edile o qualcosa del genere, ma alla fine anche nel
PCI o nei DS. Io lavoro molto con gli amministratori, non c’è più un’iscrizione gratuita, qualcuno
che si iscriva per un ideale: ci si iscrive per un interesse, anche legittimo, del tipo “io devo fare
l’avvocato piuttosto che l’imprenditore edile piuttosto che un’altra cosa, quindi mi iscrivo a un
partito a seconda delle preferenze”. Quindi, c’è un abbassamento di tensione ideale nel ceto politico
dovuto a questo cambiamento dell’orizzonte delle aspettative. Intanto c’è da dire che di generazioni
come quella del ’68 ne nasce una ogni tanto, non tutte portano in sé la tensione al cambiamento,
sono eventi storici di cui forse oggi assistiamo ad un secondo momento con questo movimento che
vanta caratteristiche internazionali interessantissime. Tali caratteristiche allora non c’erano se non
per qualche avvenimento simultaneo, come il Maggio francese, il ’68 italiano, le lotte alla Renault,
alla Fiat: ma poi non è che ci fosse gente che circolava tutto il giorno per le fabbriche francesi,
tedesche, italiane. Oggi c’è questa consapevolezza di una circolazione dell’informazione. Tornando
al discorso dei partiti, io credo che questo abbassamento di orizzonte ha caratterizzato la sinistra
dopo il non aver interpretato il ’68 come possibilità di concepire una trasformazione del modello di
sviluppo e della società: è invece andata verso il compromesso storico, verso un’omologazione nel
modello di sviluppo tradizionale, con qualche spruzzata generica di ambientalismo scientifico e di
femminismo quantitativo. La sinistra non ha mai messo in discussione il modello di sviluppo.
Questo credo che abbia portato innanzitutto ad un abbassamento e ad una crisi nella militanza; ciò a
parte situazioni estreme da cura psichiatrica, come quando i sindacalisti furono costretti a inseguire
i brigatisti nelle fabbriche, a fare i poliziotti, ci furono alcuni problemi drammatici di identità. Ma a
parte questi, diciamo che c’è stata una specie di abbassamento della tensione alla trasformazione
che ha portato un abbassamento di valori della militanza, per cui la militanza è diventata una specie
di purga che uno doveva prendere per avere degli incarichi professionali. Adesso esagero, ma con la
crisi dell’organizzazione delle sezioni non c’è più vita di partito, ma c’è vita di affari nel partito.
Quindi, per forza il livello progettuale scende, perché cresce il livello progettuale di se stessi dei
funzionari e degli iscritti, il che è diverso. Noi agivamo con una tensione ideale che è l’elemento di
continuità che ci caratterizza anche da vecchi. Io non ho più una forma di continuismo con quella
forma della politica, vivo la politica in mille altre forme, un po’ coi miei laboratori universitari
sperimentali, un po’ con gli amministratori, un po’ con le lotte per la chiusura dell’Acna, a seconda
delle fasi le forme cambiano: mi è rimasta questa carica di passione per la trasformazione che mi fa
agire non per interesse privato ma dentro ad una concezione del cambiamento del mondo.
Finora ho parlato del ceto politico. Per quanto riguarda le generazioni, che è un’altra cosa, non i
politici quindi ma la società civile, io, insegnando all’università, sono a contatto con gli studenti da
sempre e vedo i cambiamenti. Nelle nuove generazioni credo che abbia giocato fortemente un senso

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quasi di difesa da quelli che sono stati in fondo visti come fallimenti, il ’68, poi tutte le nostre
galere. C’è stata una specie di attenzione a rinchiudersi in un certo mondo più tecnico, più personale
o di clan o di piccolo gruppo; non vedendo più grandi speranze di trasformazione si è cercato di
avere alcune certezze, che sono appunto un atteggiamento maggiormente tecnico, il saper far bene
qualcosa, possedere un mestiere.
Io poi non vedo in modo tanto negativo questi atteggiamenti, tra i miei studenti io non ammetto più
nessuno che non sappia usare certi programmi di computer, far disegni complicati, nessuno viene
più assunto se non ha le macchine informatiche, io non le so usare se non per scrivere a macchina.
Però, questo loro aggrapparsi alla tecnologia, per esempio, è anche comprensibile in un mondo in
cui gli orizzonti di trasformazione si sono abbassati, “per intanto so far bene una cosa”, c’è quasi
un’etica del sapere fare tecnico, della competenza. E in questo c’è anche un po’ di critica
probabilmente al nostro generalismo, a volerci occupare di tutto. Vedendo tutte le generazioni di
studenti posso dire che dagli anni ’70 non sono sempre uguali, ci sono stati degli alti, dei bassi, ci
sono delle annate come nei vini, alcune un po’ fiacchine, tutta questa medietà di gente a cui gli dici
qualcosa poi gli puoi dire il contrario e fa sempre di sì con la testa, magari un’opacità di interesse
intellettuale. Io ho sempre concepito l’università come luogo di pensiero critico e quindi faccio dei
corsi problematici, però ogni tanto vedo proprio studenti che desidererebbero che gli dessi 10 libri
da studiare, la bibliografia secca e i compiti precisi, quante pagine, che pennino usare per i disegni.
E’ chiaro che ci sono degli sbalzi generazionali legati anche ai cicli della percezione che un giovane
ha delle possibilità di trasformazione, sociale, economica, rivoluzionaria. Probabilmente sono cose
difficili da capire, il perché il ’68 è successo nel ’68 non lo sa nessuno; o perché qui in Val Bormida
improvvisamente nell’88 dopo cinquant’anni che chinavano la testa improvvisamente si ribellano
tutti i giovani e dicono chiudiamo l’Acna, perché quell’anno lì e non dieci anni prima? Non sono
facili da capire questi eventi generazionali. L’unica cosa che si capisce è che comunque a fianco di
un certo abbassamento, come dicevate voi, di livello degli orizzonti verso un atteggiamento
maggiormente tecnico, oggi a mio parere sta ricrescendo un tessuto di coscienze, di militanze in
forme diverse, non più partitica, ma magari nel volontariato, nella costruzione di una cooperativa,
nella costruzione di un’attività artigianale, nell’impegno sociale. Sta avvenendo una crescita di
fiducia e forse questo movimento antiglobalizzazione, che fa vedere che qualcosa si può contro i
giganti, sta probabilmente influenzando una estensione degli orizzonti della trasformazione
possibile. Vedo molto più complesso il comportamento sociale rispetto ad alcune emergenze
storiche come il ’68.
In questi lavori che ho fatto e che continuo a fare sui risanamenti dei fiumi Lambro, Seveso, Olona,
se io guardo con gli occhiali della Regione vedo solo politiche di riduzione del rischio idraulico
perché esondano e allagano le cantine, e riduzione dell’inquinamento perché puzzano e non ci si
può avvicinare; se vado lungo il fiume e incontro amministratori, associazioni di difesa del fiume,
cittadini, gruppi, vedo invece un pullulare di società civile, includendo in questa anche
amministratori locali, che hanno un’altra visione del territorio, del fiume, delle acque, che chiedono
di poterli nuovamente fruire. Le istituzioni chiedono di ridurne il rischio, cioè “ormai sono forme
maleodoranti ed esondano, bisogna ridurne il rischio”, non è più un elemento della vita; invece, li si
può guardare con altri occhiali, quelli che dicevo prima, della partecipazione, per fare emergere i
progetti sociali. Io ho fondato il mio progetto di risanamento di questi fiumi sulla lettura che ho
fatto portando al tavolo tutta questa gente. Adesso sul Seveso stiamo lavorando con le aziende, con i
sindaci, le associazioni, viene fuori una progettualità insospettabile a una lettura approssimativa da
visitatore esterno o istituzionale, che invece è abbastanza sotterranea, ma esiste. Questo è
interessante, e riguarda “gente normale”, cioè gli amici del Seveso o del Lambro che fanno
associazione, vanno a controllare le acque, si radunano, strappano un campo alla speculazione,
fanno tutte queste attività minute di crescita della “coscienza di luogo” in condizioni ambientali e
paesistiche anche disperate, come quelle dell’area metropolitana milanese. Sono ragionieri,
impiegati, magari gente anziana, non sono rivoluzionari di professione, però hanno una loro forma
di militanza territoriale che è altrettanto interessante.

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Poi ci sono altre fasi. Ad esempio, ero appena arrivato all’Università Firenze e mi sono beccato la
Pantera nei primi anni ’90: è stato un movimento partito dal Sud, poi è arrivato verso Nord.
Abbiamo fatto un laboratorio con 100 studenti sulla Piana di Firenze, li ho collegati con molti
comitati di varia natura, abbiamo fatto una “carta “della Piana di Firenze, è stata un’esperienza che
è durata due anni, molto interessante. Però tutti questi ragazzi non volevano essere il ’68, non
volevano essere il ’77, “non siamo qui, non siamo là”: alla fine si interrogavano su chi erano e
hanno passato il tempo così, hanno attraversato una crisi esistenziale, non gli andava bene niente.
Insomma, questa esplosione di soggettività, di voglia di fare poi non si è tradotta in una continuità;
infatti, io mi sento di avere sprecato due anni della mia vita con questi 100 a pieno tempo. Io ho
fatto poi corsi per agenti di sviluppo del territorio a cui loro hanno partecipato, ho dato loro
opportunità di lavorare nel territorio a organizzare sviluppi diversi: sono tutti afflitti, non sono
riusciti a trovare la loro dimensione. Questo è un problema abbastanza difficile da dirimere, si può
solo cercare di capire come fornire strumenti al movimento quando avviene per potenziarlo, ma il
suo tempo ritmico, storico non è governabile.

- Si può ipotizzare che le forme di partecipazione costruiscono nei singoli individui e poi anche
nelle generazioni dei momenti di rottura, per cui se si passa da uno stadio ad un altro si ha
certo un retroterra individuale di formazione del carattere e della personalità, si hanno delle
caratteristiche e non delle altre. Se invece la forma della partecipazione è più episodica o ha
una debolezza di coinvolgimento, diventa poi molto più facile rientrare e essere integrato in una
dimensione di funzionalità sistemica, magari anche critica ma con caratteristiche particolari.
Ed in parte il discorso sui movimenti degli anni ’70 è stato proprio questo, di una debolezza
intrinseca nelle esperienze fatte.

Debolezza intrinseca ma anche mancanza di aiuto. Per fare degli esempi concreti, prima ho parlato
del ’77, della divisione tra ceto politico e società civile, che non è certo stata aiutata da gente che
pensava ad armarsi. Mi ricordo nel ’75-’76 quando i governi di sinistra hanno cominciato ad
insediarsi nelle regioni e nelle amministrazioni locali, qui in Langa era pieno di gente che si
licenziava dalle fabbriche, miei giovani amici si sono impegnati a mettere su cooperative di cavalli,
di formaggette o altro. Avevano intuito che si poteva tentare di fare qualche cosa in proprio, ci sono
stati anche investimenti in macchine, perché la sinistra invitava a fare esperienze di questo tipo. Un
giorno mi vedo uno di loro pallido che arriva dalla Comunità Montana, aveva investito già allora
circa 50 milioni, erano in una decina, per mettere su le macchine, comprare i cavalli ecc., e arriva
con 40.000 lire. Avevano cioè sperato che un cambiamento politico dell’amministrazione portasse
un aiuto, c’erano molte radio locali che propagandavano tutte queste esperienze. E la delusione è
stata forte, ma delusione materiale proprio: questi si sono trovati pieni di debiti, hanno dovuto
ritornare in fabbrica, vendere tutto.
O si pensi ai centri sociali che c’erano a Milano, dicevo prima che avevamo fatto un’inchiesta
contandone 200, ora sono rimasti il Leoncavallo, il Conchetta e pochi altri. Allora c’era una
situazione come a Berlino, non era una nicchia, ma una socialità giovanile che si esprimeva in
forme complesse, socioproduttive innovative. Chi ha aiutato queste forme a diventare nuova
economia, nuova cultura, socialità? E’ vero che probabilmente c’erano molte debolezze interne, ma
c’è stato anche un ceto politico che ha aiutato a criminalizzarli, un ceto intellettuale che pensava
alla lotta armata, e quindi l’ambiente circostante ha contato negativamente nel potenziale sviluppo
di queste forme di nuova organizzazione sociale. Perché da 200 passano a 3 nel giro di pochi anni?
A Milano nei quartieri inizia l’armamento diffuso, tutti cominciano a sparacchiare, nel ’78 le
Brigate Rosse rapiscono Moro e poi tutto finisce nella criminalizzazione e repressione
generalizzata. Ma in quel momento non c’era un progetto che assumesse queste nuove energie
giovanili come energie sociali di una nuova società locale, di una città, di un territorio. Erano in
parte criminalizzate, in parte mandate in braccio alle Brigate Rosse, non c’è stato un progetto. Con
questo non voglio dire che era come la generazione del ’68, però sicuramente c’è stato un deserto

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intorno, anche se era una composizione sociale abbastanza diffusa, non era il Leoncavallo di adesso
che è arroccato in una città ostile fatta tutta di commercianti e di impiegati berlusconiani e
albertiniani. Allora la città era segnata dai circoli di donne che giravano liberamente di notte, ai
circoli sociali, si sentiva un’altra città. Però, la sinistra pensava al compromesso storico, non si sono
aiutate queste strutture a crescere. Io adesso sto buttando lì alcune concause che hanno determinato
poi questa sottrazione, non penso mai ad una oggettività delle situazioni né sociali né politiche,
dipende molto da come le varie forze possono aiutare, deprimere o reprimere.

- Ci sono sicuramente forti differenze tra gli anni ’70 e gli anni ’90: nella forma della
partecipazione, al di là di tutti gli errori che sono stati fatti, c’era una ricchezza della presenza
e un rapporto tra cosa uno aveva e cosa uno poteva fare che poi invece si è perso. C’era un
numero di Quaderni del Territorio dedicato ad una ricerca fatta con Aut Aut e ad un convegno
in cui si era discusso della figura del proletariato giovanile. Il rapporto tra cosa uno aveva
come mete e come potenzialità e la possibilità di realizzazione era tutto all’interno della
partecipazione sociale e politica. Le forme di consumo riproduttivo e le forme di consumo
distruttivo erano infinitamente più basse di quelle che ci sono state negli anni ’90. Adesso c’è
una continua immissione di merci, quelle informatiche ad esempio; all’interno del discorso
sulle merci di consumo rientrano sicuramente i centri sociali degli anni ’90, talvolta nuovi
dopolavoro ferroviari, in cui si va per consumare il concerto o un certo tipo di socialità.
Interessante è il lavoro fatto da Bonomi, Il distretto del piacere, in cui si vede come il consumo
sia sempre più quello di merci come il divertimento, l’intrattenimento, la socialità.

E’ esemplare che tutti i centri sociali di Firenze vengano sostituiti da ipermercati con la loro
piazzetta interna: il centro di socialità diventa l’ipermercato.

- I circoli del proletariato giovanile di Milano, i 200 di cui tu parli, facevano le autoriduzioni dei
concerti, l’entrata nel cinema gratis e via dicendo. Adesso gli stessi centri sociali diventano
impresa del consumo della cultura, della musica, della socialità. Questo per dire che adesso la
proposizione anche della vita quotidiana nella forma del consumo della merce come
socializzazione è molto più estesa di quanto lo era allora, quando avevi molte meno possibilità
e l’impegno sociale e politico era una forma di realizzazione individuale e collettiva. Adesso
invece ciò è all’interno di forme di impresa (micro o macro) in cui però ti è chiesto non di
partecipare ma di consumare, e la realizzazione è in questi termini qui.

Sono d’accordo sul fatto che tale passaggio ci sia stato. Tuttavia, una lettura solo di questo
passaggio porterebbe a dare un’analisi solo catastrofica degli anni ’90 e del nuovo secolo, che questi
movimenti invece tendono a rimettere in chiave critica, sia sul problema del consumo della merce
sia sul problema delle nuove forme di produzione. Quindi, esiste questo processo, ma esiste anche
altro, e il problema è riuscire a distinguere e scavare in queste contraddizioni. Sicuramente il
processo che analizzavate è andato avanti: d’altra parte centri come il Leoncavallo, buttato fuori due
volte, o si davano anche una funzione economica di un certo tipo o chiudevano, e non è detto che
fosse meglio che chiudessero, almeno c’è un barlume di certe cose. Anche i centri sociali veneti
hanno una loro funzione oggi in tutto questo movimento, oltre alle tute bianche, esprimono
progettualità, sono in contatto con le amministrazioni locali. Sono comunque d’accordo sul fatto
che la forma sia diversa.

- Infatti, il problema è ricercare le diversità, perché poi esse danno forme di potenzialità
differenti. Negli anni ’70, ad esempio, la militanza era la militanza, negli anni ’90 è fare queste
altre cose. Il problema non è se sia meglio una cosa o l’altra, ma capire e analizzare le
differenze.

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Se oggi dovessi pensare alla militanza che facevo alle 6 del mattino di fronte alle porte della Fiat,
alle notti all’assemblea operai-studenti alle Molinette e poi in via Passo Buole, a parte che sono
invecchiato e ho meno energie, non avrebbe oggi lo stesso significato: ora lavoro moltissimo, però
privilegio altre forme, il perché l’abbiamo discusso prima. Non è detto che la militanza assuma
sempre le stesse forme in diverse epoche storiche e in differenti modelli sociali e societari, e rispetto
anche ai diversi obiettivi. Probabilmente un atteggiamento di rigoroso privilegio dell’antagonismo
di classe oggi richiederebbe una forma di militanza diversa da quella che pratico io, dovrei
continuare a ricercare delle fabbriche da qualche parte, che ne so da Amadori nel Bresciano, o nelle
concerie di Santa Croce sull’Arno, per dire le più puzzolenti, alle cui porte distribuire volantini (che
sarebbe molto utile!). Quindi, c’è questa diversità, quanto al giudizio rispetto alle diverse forme di
militanza, mi va bene il discorso che facevate sulla densità di alcune epoche che producono una
cultura del soggetto che non è solo una cultura, ma è anche una forma di vita, un atteggiamento
etico, una capacità di interpretazione, di rinnovamento anche. Quasi tutte le persone che avete
intervistato continuano a dare senso ai loro progetti in termini forti, in modi molto diversi fra loro.
Con Mario Dalmaviva, che non fa più “politica” da trent’anni, però, guarda caso, ci incrociamo sui
suoi progetti sulla montagna, di rivitalizzazione delle Alpi, nelle sue attività editoriali intelligenti.
C’è sempre qualche filo conduttore che magari poi è trasversale. Con Augusto Finzi, ex leader
dell’assemblea autonoma di Porto Marghera, redattore della prima rivista di ecologia italiana,
Lavoro Zero del ’72, abbiamo un serrato dibattito sulle sue esperienze di educazione militante al
benessere.

- Hai avuto dei numi tutelari, ossia persone o testi che sono stati particolarmente significativi per
la tua formazione, nella militanza politica, in ambito accademico, all’interno della tua
dimensione di vita?

Nell’ambito della militanza politica ovviamente io ho studiato molto Marx, i Grundrisse


soprattutto, ho seguito l’interessante seminario su Il capitale che facevamo con Romolo Gobbi a
Torino, mi sono formato in quella scuola. Come già dicevo, sul piano invece accademico mi sono
riferito a pensieri come quello di Lewis Mumford, Patrick Geddes, i geografi francesi, la geografia
umana, il pensiero anarco-comunitario. Ho letto pochissimo Gramsci. Ho invece letto molti scritti di
Mao Tze-tung e di Gandhi. E poi ci sono le letture che tutti abbiamo fatto da piccoli, Lenin, Trotzki,
la vulgata comunista. Sono stato anche alle scuole di partito, alle Frattocchie, all’Istituto Marabini
di Bologna: allora anche nel PCI c’era un certo lavoro di formazione dei quadri. Quando con Foa e
Garavini si è deciso a Torino di fondare la CGIL scuola, il partito mi ha subito spedito al Marabini
per una settimana intensiva di scuola quadri sul sindacalismo autonomo della scuola dal
dopoguerra.

- Questa è una domanda che facciamo perché ci sono dei fili conduttori nella formazione di tutti
quanti che sono abbastanza comuni, invece altri che si differenziano da soggetto a soggetto, e
che si può vedere come spesso siano caratterizzanti rispetto ai successivi percorsi, modi
d’essere e di pensare.

Io penso di sì. Probabilmente ognuno incrociando la cultura politica, le letture teoriche e il proprio
campo di studi crea un’originale combinazione di interessi. Ho cercato di spiegare come alcune mie
intuizioni politiche mi derivano anche dall’essere a mezzo tra una cultura geografica, urbanistica,
territoriale, e la storia politica, cose che mi hanno dato, nel gruppo di Potere Operaio e anche dopo,
una prospettiva particolare anche di impegno militante.

Facendo una parentesi che non c’entra con la domanda vorrei dire in conclusione che la mia
militanza nel Partito Comunista a Torino è quella che mi è piaciuta di più, mi divertivo un mondo,
mi sentivo a mio agio, ma allora era la realtà dei Garavini, dei Pugno, delle Rossanda, una

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situazione molto interessante. Poi c’era anche Pecchioli, che governava reprimendo. E poi la
Rossanda, il Manifesto era ancora dentro questo processo di partito. Rossanda e Cacciari venivano a
Torino a fare seminari per aiutare l’operaismo della camera del lavoro nei conflitti con la
federazione. E’ stato un periodo veramente interessante, con i consigli di fabbrica che nascevano. Io
sono stato nel PCI fino al ’68, quando al congresso provinciale la mia mozione è stata battuta per
pochi voti da Pajetta, che convinse la platea che quello non era più il partito dei soviet. (Non mi
hanno né radiato né espulso, ma mi impedirono successivamente di entrare nelle sezioni territoriali;
non contenti organizzarono un pestaggio davanti alla porta 2 di Mirafiori, nel ‘69, esecutori la
sezione di Nichelino, città di cui avevo organizzato la occupazione del Comune l’anno prima. Non
contenti 10 anni dopo, con il “teorema Calogero” ispirato dallo storico Ventura, negli ambienti del
PCI, vengo incarcerato nell’ambito del processo “7 aprile” contro l’Autonomia Operaia).
C’erano ancora molto attive le sezioni territoriali a Torino alla fine degli anni ‘60: la 39, una
sezione tutta trotzkista, molto critica, che faceva dei dibattiti storici sull’Unione Sovietica con tanti
operai con una cultura enciclopedica. Poi c’erano le sezioni che erano dei centri di aggregazione
sociale, i Cral: la Casa del Popolo di Settimo Torinese, era un vero e proprio tempio laico. Adesso
cose simili ci sono solo più in Toscana, ma quelle che c’erano nelle varie barriere di Torino che io
frequentavo erano dei punti non solo di politica, ma soprattutto di aggregazione sociale, con le
bocciofile, le balere, i balli, c’era sempre gente. Io ero segretario della sezione universitaria che era
ospitata in una sezione del centro storico, c’era un ampio salone centrale e la domenica c’erano
delle gran feste da ballo, tutti si portavano la merenda. Quindi, era un periodo ancora straordinario,
ho vissuto la coda di una fase affascinante, in cui il partito era società, non solo in fabbrica, ma nel
territorio. Ed in Toscana (e la cosa è strana) le ritrovo ancora adesso queste cose, in forma non più
di partito, le case del popolo si sono trasformate in cooperative, però sono rimaste attive,
espressione della resistenza di una altissima socialità. Io sto nel Chianti fiorentino, ed in ogni
frazioncina di 200 abitanti sulle colline ci sono don Camillo e Peppone, le Società di Mutuo
Soccorso e i circoli Acli; ogni circolo ha la sala giochi, la sala giovani, la sala ballo, la sala bocce, il
bar, il teatrino. E’ una cosa straordinaria, che si è conservata come forma sociale indipendentemente
dai partiti, e che mi crea emotivamente una strano senso continuità, nonostante lo spostamento di
luogo, di attività, di passioni, fra gli anni della giovinezza e quelli della maturità.

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INTERVISTA A BRUNELLO MANTELLI – 6 FEBBRAIO 2001

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e quali sono state eventuali figure
di riferimento nell’ambito di tale percorso?

Io sono nato nel ’48, per cui ho incominciato a ragionare e a uscire nell’infanzia all’inizio del ’60.
Ho un vaghissimo ricordo degli scioperi del luglio ’60, tra l’altro io allora abitavo ad Alessandria,
sono nato lì, mi sono trasferito a Torino fisso all’inizio degli anni ’70, dopo un po’ di pendolarismo
universitario. Per cui la prima memoria che ho sono gli scioperi del ’60, quelli per Tambroni.
Abitavo in un quartiere di periferia, che era medio ma che aveva una serie di fabbriche, per cui dal
mio balcone vedevo lo sciopero di una di queste fabbriche: avevo 12 anni e osservavo questa massa
di operai radunati che si fronteggiavano con la polizia, non è successo nulla di particolare ad
Alessandria, però io ho questa memoria. Come estrazione famigliare vengo da una piccolissima
borghesia impiegatizia povera, con un padre impiegato di livello medio-basso in un’azienda privata,
madre che un po’ cuciva e un po’ faceva lavori in giro, e dopo un po’ ha cominciato a fare
l’impiegata in una struttura assistenziale. La mia famiglia era sostanzialmente di orientamento
moderato, era cioè una piccola borghesia di origine operaia ma che stava un po’ salendo. Invece, i
nonni erano da parte di mia madre socialisti, di estrazione socialista, nonna cappellaia e nonno
calzaturiere, quindi cappellaia ad Alessandria voleva anche dire borsalino e un certo tipo di
insediamento: dunque, erano socialisti-comunisti. Io non conobbi il nonno paterno perché morì di
spagnola, era un macchinista ferroviere quindi rigorosamente socialista, che sposò però una giovane
e bella cattolica. Dopo di che mio padre e mia madre votavano sostanzialmente Democrazia
Cristiana, con litigio con i nonni materni che appunto erano rimasti socialisti in questo loro tipo di
formazione. Ciò avveniva grosso modo dentro un clima di guerra fredda, con il problema da un lato
di passaggio sociale e dall’altro, da parte di mia madre, come segno di rivalsa in quanto donna non
venne fatta studiare, e quindi il suo essere moderata era anche una rivalsa verso i genitori socialisti
ma ovviamente legati ad una serie di stereotipi per cui le donne non serviva che studiassero.
Insomma, c’era questo backgound complicato.
Io ho cominciato a occuparmi di cose politiche dentro il movimento cattolico, quindi dentro la
temperie conciliare sostanzialmente, dunque ’63-’64-’65, quando ero giovanissimo. Mi ricordo che
essendo cattolico mi iscrissi per sei mesi alla Federazione Giovanile DC, poi fui talmente schifato
da uscirne e da non rinnovare più la tessera. Successivamente finii in un giro cattolico locale che
cercava di fare un’attività politica che fosse fuori dagli schemi: banalmente, era l’unico gruppo
cattolico in cui ci fossero ragazzi e ragazze, cosa oggi ovvia ma allora molto meno, e che cercava
contatti con la sinistra, modi per discutere con essa. Tra l’altro chi lo mise in piedi è un giovane
prete che poi riprese gli studi per finire nel ’70 a Milano all’università, poi entrò in Avanguardia
Operaia spretandosi, ebbe anche lui un percorso interessante, molto comune se si vuole per l’epoca.
Da questo giro di cattolici in cui cercavamo di sviluppare un pensiero critico in qualche modo,
rompendo una serie di barriere, avevamo una serie di riferimenti che erano i teorici del concilio,
Teilhard De Chardin, non tanto Maritaine, il Garaudy prima della cura, quando rappresentava un
pezzo di marxismo che sembrava aperto, prima che diventasse quello che poi è diventato. Da questo
poi ci fu un passaggio abbastanza contiguo al PSIUP. Quindi, ci furono i primi tentativi di mettere
in piedi come gruppo di giovani un movimento studentesco, però nella forma della dimensione
rappresentativa, c’era stato il caso-Zanzara, il Parini di Milano ecc.; si cercò di mettere in piedi
qualcosa in provincia, che non riuscì mai a fare granché più che altro perché c’era un po’ la paura di
organizzare azioni di lotta, sembrava di essere sempre troppo in pochi per muoversi. Però, in
qualche modo si misero insieme un 30-40 studenti, liceali ma non solo, che poi giocarono anche un
ruolo nel movimento studentesco dopo il ’68, perché in genere era gente dei primi anni, quindi c’era
un primo biennio organizzativo. Con poi un passaggio nel PSIUP direttamente, anche perché ai
nostri occhi di gruppo di cattolici critici il PCI sembrava avere un po’ i difetti della Chiesa, cioè
monolitico, compatto, moderato. Mi ricordo che facemmo un incontro con la Federazione Giovanile

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Comunista e a questo punto, sentendo che noi eravamo cattolici, cioè credenti, non c’erano
protestanti, i nostri interlocutori ci dissero: “ma allora perché non entrate nella DC per rinnovarla
dall’interno”, e la risposta fu: “in quello schifo non ci mettiamo piede, non ci interessa”. Ci
apparivano facenti parte di un establishment consolidato; il PSIUP, che allora, a metà degli anni
’60, era in una fase in cui, a un centro dominato dai carristi, rispondeva però abbastanza in periferia
uno spazio aperto. Tra l’altro la federazione locale era abbastanza egemonizzata da alcuni che si
rifacevano alla corrente di Basso, quindi c’erano tutta una serie di cose che ovviamente
consonavano. Fu allora che incominciai a leggere Rosa Luxemburg, a leggere appunto Basso, a
leggere le prime cose. Quindi, ci fu un po’ di attività nelle federazione giovanile del PSIUP, e poi
direi tutta una serie di letture che scontavano una sorta di rottura di memoria. Oggi è di moda
parlare del fatto che i giovani non hanno memoria storica, ma i giovani degli anni ’60 ne avevano
ancora meno, nel senso che o si veniva fuori da una subcultura specifica più comunista che altro,
comunque anche socialista, o si era figli di militanti o di quadri, e allora c’era un passaggio; ma se
si veniva fuori da un ambiente non particolarmente politicizzato, o di taglio moderato, di memoria
storica ce n’era ben poca. Mi ricordo ad esempio che in casa di mio padre, che pure non era uno
particolarmente reazionario, entrava una pubblicazione che era una cosa diffusissima, che andrebbe
studiata da quante copie vendeva, e allora era direttamente la voce del Dipartimento di Stato, cioè il
mondo era diviso in due, c’erano i buoni e i cattivi, c’erano gli articoli (io me li ricordo perché li
leggevo da ragazzino, a 10 anni) che esaltavano la potenza dell’aviazione strategica americana,
quella dei B-52, e questo era proprio un materiale diffusissimo. Quindi, in realtà per me, quando
avevo 15 anni, la Resistenza e il movimento operaio erano dei buchi neri, e non credo di essere stato
un’eccezione tutto sommato, ma di aver rappresentato un pezzo di Italia abbastanza importante,
quella che poi entrò appunto in fibrillazione prima per quanto riguarda le aree cattoliche o le aree
che comunque frequentavano le parrocchie con il concilio, che fu proprio una mazzata da questo
punto di vista, fu un coperchio che liberò una serie di forze: nel senso che in una parrocchia era
legittimo parlare delle comuni popolari cinesi se queste avevano a che fare con la carta fraterna, una
roba che oggi è assolutamente impensabile, neanche i preti più radicali sarebbero disposti a farlo.
Allora invece ciò era abbastanza normale, con persone che poi sono tornate ad essere piuttosto
moderate. C’era insomma questo clima: quando poi, qualche anno dopo, lessi Sartre, sembrava
proprio quello che lui descriveva chiamandolo gruppo in fusione, cioè un qualcosa che cresce
giorno per giorno. Ci furono poi una serie di letture caotiche, mi ricordo che proprio nel ’66 ho
mandato delle lettere in giro alle redazioni delle principali riviste che si facevano, i Quaderni
Piacentini, il Nuovo Impegno, Giovane Critica di Giampiero Mughini e a una serie di altri
personaggi, chiedendo “mi mandate una copia di saggio? voglio capire cosa siete”. Mandai anche
una lettera al centro di documentazione veneto, che stava a Treviso, quello di Peruzzi, che poi diede
vita al Partito Comunista marxista-leninista, uno dei pezzi degli m-l, che di nuovo era un pezzo che
aveva una matrice cattolica, erano un gruppo di cattolici che poi si radicalizzarono e diventarono
maoisti. Il problema era capire ed è lì che ho cominciato a leggere cose del filone che può definirsi
operaista-libertario, con il passaggio da Basso, Luxemburg, i consiliaristi, Marx, i Quaderni Rossi;
molto meno (anche per interesse mio) per esempio il leninismo e le forme-partito, che mi
interessavano molto meno, cosa che mi ha lasciato una certa impronta anche ora, nel senso che
continuo a trovare centrale il pensiero sull’autorganizzazione più che quello sul partito e
l’organizzazione.
Ci fu poi il movimento studentesco, a questo punto sono arrivato a Torino per motivi anagrafici nel
settembre del ’67, quindi sono entrato in un clima che faceva prevedere ciò che sarebbe successo:
ho cercato di infilarmi nei giri che già esistevano, gli studenti avevano qualche anno in più
evidentemente, dopo di che mi sono trovato a votare le assemblee di occupazione dopo quindici
giorni che ero all’università, insieme a parecchi altri che erano al primo anno, e quindi a fare tutte le
esperienze del movimento studentesco torinese. Il che voleva poi dire 500-600 persone, erano molte
anche tenuto contro di un’epoca in cui, come si sa benissimo, a Filosofia eravamo iscritti in 200, e
che era molto caratterizzata da nette divisioni di classe e anche da nette estrazioni sociali. Facendo

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un rapido conto, tra quelli che conoscevo io ero l’unico figlio di un piccolo impiegato, di figli di
operai neanche uno, qualcuno c’era al Politecnico, però a Lettere proprio no; anche perché a Lettere
allora si entrava unicamente dal liceo classico, per cui questa era una barriera ulteriore. Io tra l’altro
avevo fatto il liceo scientifico, anche questo per evidenti motivi di estrazione sociale, nel senso che
il liceo classico appariva, in particolare in provincia, una cosa che facevano i figli di quelli
benestanti; il liceo scientifico invece diventava un collettore di giovani maschi (la mia classe era
l’unica con due donne, la prima, poi l’anno dopo ne sono arrivate di più) di ceti medio-bassi che
puntavano a salire, comunque sembrava più concreto, più spendibile. Quindi, mi iscrissi al liceo
scientifico, dopo di che mi accorsi arrivato al terzo anno che a me interessavano sostanzialmente
storia e filosofia, anche grazie al mio insegnante che poi era un personaggio significativo, era una
giovane donna, allora appena laureata, che poi fu consigliere regionale in Piemonte e adesso è
tornata a insegnare. A questo punto mi sono trovato in questo dilemma di non potermi iscrivere a
Lettere, allora ho fatto greco in un anno e ho poi dato la maturità classica a settembre e quindi sono
riuscito a prendere la seconda maturità che poi è identica, basta togliere un po’ di matematica e
metterci il greco, almeno allora era così, e quindi mi sono iscritto a Lettere. Io e un altro compagno
di Pinerolo eravamo gli unici due che avevamo estrazioni sociali medio-basse, non operaie ma
quasi, e questo era impressionante.
Dunque, c’è poi tutta l’esperienza del movimento studentesco con due logiche: una, il problema
dell’autorganizzazione e del potere dal basso e la costruzione di modelli di sapere alternativi, cioè
era una situazione in cui di fatto si imparava molto di più per trasmissione orale che leggendo su un
libro, le conoscenze circolavano, questo per tutto il ’68; e poi la dimensione fondamentale del
quadro internazionale, cosa che mi è rimasta, quando io leggo un giornale leggo prima le pagine
internazionali che il resto, c’era una grossa attenzione costante per ciò che avveniva in Vietnam ed
in giro. Allora, a Torino è chiaro che in questo quadro una serie di persone hanno giocato un ruolo
importante per chi, come me, aveva vent’anni: sicuramente Guido Viale, che è rimasto il leader ed
il personaggio più significativo, insomma ci sono un po’ i personaggi storici, Luigi Bobbio, con un
carattere meno teorico e più operativo, Vittorio Rieser. E poi una figura importante a Torino fu
quella di Sandro Sarti, che era un valdese come molti altri, c’è questa presenza importante che
Torino ha avuto di un pensiero cristiano radicale che era altra cosa rispetto ad altre esperienze, io
ormai non ero già più cattolico, però questo era un tipo di intransigenza che mi affascinava. Sandro
Sarti era più anziano di me, credo che allora fosse già un trentacinquenne, e ad un certo punto si
assunse come compito quello di dar vita ad un centro di documentazione sulle lotte internazionali
dentro l’università occupata quando lo era, se no fuori, che ogni giorno per alcuni mesi pubblicò un
bollettino su cosa capitava, sul movimento studentesco in giro. Cominciammo ad usare i mezzi di
comunicazione prendendoci i telefoni della presidenza e telefonando a Berkley piuttosto che a
Belgrado piuttosto che a Parigi. E poi c’era ovviamente il Vietnam. Dunque, primo c’era
l’autorganizzazione e secondo la convinzione che fosse possibile in qualche modo cambiare le cose
con una forte dimensione volontaristica, cioè un movimento di massa dal basso che si organizza può
cambiare il mondo. Questo era anche il tipo di lettura che noi davamo del Vietnam, non importava
che fosse errata o parziale, era quella, e così anche della rivoluzione culturale cinese; anche se poi
una parte di noi erano magari più interessati, quando si guardava il Vietnam o la Cina, alla
dimensione del movimento che alla dimensione poi delle proposte ideologiche che venivano, anche
se finché ci fu il movimento studentesco universitario le differenze erano abbastanza poco
significative, nel senso che queste emersero un po’ dopo. Un’opzione filocinese a me e a molti altri
francamente non interessava, proprio perché appunto ci sembrava più interessante una dimensione
movimentistica di quel genere più che una dimensione nuovamente di partito, altri la pensavano
diversamente. Grosso modo una volta sviluppatosi il movimento il problema che ci siamo trovati di
fronte era come muoversi, se rimanere dentro l’ambito universitario o no: io ero tra quelli che
pensava che fosse opportuno, per orientamento politico e per letture, puntare su una relazione
diretta con gli operai, e non tanto nella forma di costituire organizzazioni particolari quanto
piuttosto puntando direttamente. Allora a Torino c’erano tre opzioni sostanzialmente: una era quella

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del PSIUP di Pino Ferraris, che già aveva sviluppato a partire dalle esperienze biellesi una linea di
intervento e di inchiesta operaia nelle fabbriche, e che rispetto al movimento studentesco ebbe però
un atteggiamento abbastanza chiuso. Io tra l’altro allora ero ancora iscritto, presi poi le distanze dal
PSIUP proprio nell’estate del ’68 dopo l’invasione della Cecoslovacchia, quando appunto il PSIUP
si schierò con l’Unione Sovietica: come responsabile della federazione giovanile di Alessandria feci
un volantino antisovietico e ci fu uno scontro abbastanza pesante in federazione, a quel punto dissi
“questa è un’altra casa, non mi interessa”, poi rimasi ancora iscritto un anno ma senza rilevanza.
Dunque, c’era l’ipotesi del PSIUP che però fu singolarmente miope, nel senso che Pino Ferraris
disse che la funzione del movimento studentesco era tirare fuori i quadri per il movimento operaio,
per poi aumentare la loro inchiesta: il che non mi quagliava, nel senso che nel fare una realtà
organizzata non è che l’unico obiettivo può essere tirare fuori dieci persone. Poi c’era l’ipotesi che
fecero alcuni ex Quaderni Rossi (i due Lanzardo) della Lega operai-studenti, che di nuovo mi
sembrava una sede separata. Infine, c’era l’ipotesi appunto di intervento come movimento, che era
quella che portava avanti la maggioranza del gruppo dirigente del movimento studentesco: mi
sembrava quella più ragionevole, era quella dell’intervento di massa. Infatti, andammo nel ’68
davanti a Mirafiori quando ci furono i primi scioperi, in quel momento c’era l’ultima ondata
immigratoria che portò a un riempimento della Fiat di Rivalta e della zona lì intorno, e poi anche di
Mirafiori. C’era l’idea di intervento diretto non senza una serie di ingenuità, per esempio c’era
allora una prevalenza (tra di noi di Torino in particolare) di una logica molto antiautoritaria che
spesso prescindeva dalle dimensioni materiali: non a caso un testo fondamentale che ebbe una
funzione importantissima per molti di noi e per me in particolare, fu il testo di Deutschke La
ribellione degli studenti, cioè l’idea del movimento antiautoriatrio che si allarga e modifica la
società. Io mi ricordo alcuni volantini abbastanza buffi in cui si diceva “non chiedete denaro ma
chiedete potere”. Dopo di che quello che contava era veramente l’intervento di massa mediato
(come del resto è la storia comune nel nord Italia) non dalla FIOM che era estremamente restia ad
aprirsi, cioè di un operaismo che spesso era molto di chiusura, quanto da giovani quadri della FIM,
che era un altro pezzo di movimento cattolico liberale, allora diretto tra l’altro da Macario a Milano,
con Carniti che era il suo vice, qui a Torino c’era Serafino. C’erano anche vecchi personaggi come
Cesare Del Piano, un scissionista moderatissimo che poi si radicalizza. Del Piano fu uno che visse
la scissione della CISL e il passaggio poi alle ACLI, avevo letto alcuni suoi interventi del ’51
ferocemente anticomunisti, poi però conobbe un’evoluzione che lo portò a coprire questa FIM che
puntava ad aprirsi. Allora conobbi personaggi come Gianni Vizio, Adriano Serafino che a quel
tempo era abbondantemente giubilato; ci fu proprio l’anello di discussione, “voi venite
autonomamente, parliamone però, troviamo delle forme di collaborazione”. In realtà, al di là delle
sciocchezze che stavamo scrivendo sui volantini, ciò che contava era che tra gli operai c’era questa
rottura della barriera sociale: si trovavano ai cancelli dei giovani, diversissimi da loro, vestiti in
modo completamente differente, molte donne (cosa che evidentemente ebbe un impatto di vario
genere), che alle 4 del mattino erano lì davanti e dicevano “siamo con voi”. Ciò rispetto a un settore
di classe operaia giovane, spesso a scolarizzazione relativamente alta: in quell’ondata lì dei ragazzi
del Sud che arrivavano al Nord molti avevano la terza media e non mancavano i diplomati, quindi
non era l’immigrazione dei semianalfabeti o quasi, erano già ragazzi che avevano fatto
un’esperienza scolastica significativa. Questo in qualche modo mise in moto dei processi
molecolari, in quella fase abbastanza limitati, che però sarebbero quasi spariti successivamente. Ci
fu poi un altro passaggio significativo che era il ritorno dall’immigrazione in Germania di quadri
operai trentenni o trentacinquenni che avevano già fatto alcuni anni là e che erano comunisti di
formazione al paese, che avevano portato l’esperienza del movimento socialdemocratico e che
quindi avevano portato una carica radicale dicendo “vogliamo che anche qui sia come in Germania,
e quindi vogliamo il comunismo”, che era una cosa significativa. C’era dunque questa esperienza
fatta fuori, dicevano: “là il sindacato è forte, quando scioperiamo ci paga una parte del salario,
contratta con il padrone, deve essere così anche qua”, e lo rileggevano attraverso una tradizione
comunista che si portavano dietro; molti erano pugliesi, era una filiera che allora funzionava.

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Questo fu quello che conoscemmo come elemento significativo del ’68, dopo di che
immediatamente si presentò il problema di che fare l’anno dopo. Era chiaro che a quel punto la
dimensione di movimento o si coagulava in qualcosa o una volta trovate alcune quadre rispetto ai
problemi interni all’università rischiava poi di disperdersi. Ci fu allora il tentativo messo in piedi da
Guido Viale di fare a Torino una sezione del Potere Operaio pisano, con appunto Giovanni Vettori
che poi finì a dirigere la biblioteca “Gioele Solari”, Aldo Grassellini detto Bellarmino, che
attualmente fa l’insegnante di matematica e gira ancora per gruppi o gruppetti radicali di sinistra. Ci
fu dunque questo tentativo di Viale che non ebbe grossi successi, però fu in qualche modo
significativo perché cominciò a stabilire un legame Torino-Pisa da cui poi sarebbe nata Lotta
Continua sostanzialmente: l’idea era “bisogna creare qualcosa di organizzato che non sia però il
partito”. E poi c’è tutto il terreno della provincia, quello degli studenti medi su cui intervenire, e poi
c’è in prospettiva il problema del contratto. Ci fu una strana estate di pausa in cui in Italia sembrava
fermarsi tutto, in Francia il maggio è iniziato dopo ed è durato poco: non a caso io sono andato a
Parigi in autostop cercando di capire cosa stava capitando, ho capito ben poco perché ormai la
situazione era un po’ smontata. Già dal ’68 quelli di noi che avevano origini provinciali hanno
cercato di mettere in piedi gli studenti medi con l’obiettivo di portare i contenuti del movimento
studentesco in periferia. C’è poi un episodio abbastanza autobiografico, capitò durante la terza
occupazione di Palazzo Campana, quella votata e che si sarebbe conclusa con un intervento
poliziesco e con i mandati di cattura. A un certo punto in quella sede ci siamo trovati una
cinquantina di notte a discutere il da farsi, arriva una telefonata da La Gazzetta del Popolo, in
quanto la stampa torinese è ben noto che era divisa in due: La Stampa giornale era ferocemente
antimovimento, sembravano veramente le strofe di Petrangeli in Contessa, fanno il libero amore, si
drogano, sono sovversivi ecc.; La Gazzetta del Popolo era in mano allora a un polo democristiano
di sinistra legato all’area di Donat Cattin, con alcuni cattolici critici, sostanzialmente appoggiavano
il movimento, alcuni proprio ci passavano le informazioni. Eravamo a febbario-marzo del ’68 e a un
certo punto arriva una telefonata da La gazzetta e ci dicono: “guardate che questa volta arrivano,
intervengono in piena notte e hanno l’ordine di arrestare”. Al che discutiamo il da farsi e prevale tra
i presenti l’idea di andarsene di notte, chiudendo tutto da un passaggio; rimaniamo per ultimi io e
Marco Buttino che con un trucco di leve, rulli e carrucole facciamo chiudere la porta, dopo di che
alcuni se ne vanno a casa alle due di notte (a quanto sapevamo la polizia sarebbe arrivata alle
quattro), e così tra l’altro scampano, altri (che erano fuorisede) decidono di andare ai Quaderni
Rossi, alla sede di via Bligny, e cominciano a discutere. A quel punto lì comincia un’autocritica
complicata di Guido Viale che dice “però abbiamo fatto male, non dovevamo andarcene via” (lui
voleva rimanere, era stato messo in minoranza), “perché noi avevamo una fiducia di chi ha votato
l'occupazione”: insomma, ci ha convinti e siamo tornati in 15, perché gli altri se ne erano andati.
Rientriamo, ci facciamo identificare tutti, dopo di che dopo 15 giorni sarebbero scattati i mandati di
cattura. Io tra l’altro quel giorno ero proprio ad Alessandria ad organizzare una riunione con gli
studenti, eravamo in una sala comunale concessa, arrivano due poliziotti, noi chiediamo loro cosa
vogliano, quella era una sala concessa e loro se ne vanno. Io poi vado a casa, pranzo con i miei, li
saluto e me ne vado alle 9, e alle 9 e mezza arriva la polizia a casa che mi cerca. Io non so niente,
arrivo a Torino e vado ai Quaderni Rossi (tra l’altro Viale abitava lì vicino) e un compagno mi dice
di non entrare perché cercavano Guido e altri; mi allontano, la polizia comincia a chiedere i
documenti e io a quel punto mi sposto, e a me non li hanno chiesti. Dopo di che telefono a casa e
mia madre mi dice “guarda che ti hanno cercato, non telefonare”, in quanto aveva capito la
situazione. Io finisco ospite di compagni, attraverso una serie di giri abbastanza divertenti prima
finisco a casa di un operaio PSIUP iperfidato. Intanto non avevano preso nessuno, a parte Federico
Vanzina che aveva voluto farsi prendere, per spirito di martirio fondamentalmente. Io sto lì
ovviamente con l’indicazione di non far nessun casino, dopo esser passato per la casa della moglie
di un accademico: un giorno sentiamo suonare, arriva una signorina molto elegante che era
l’attendente del magistrato della Repubblica che allora lavorava nello studio di Ugo Spagnoli e che
mi dice: “allora, tu pigli un autobus e te ne vai a Modena”, e sono finito a casa dei genitori del

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vicesindaco di Modena. Questo perché, al di là delle polemiche e dei conflitti, funzionavano una
serie di reti. Quindi, sono rimasto per 15 giorni lì, più o meno camuffato, cercando poi qualche
contatto con studenti medi che stavano facendo casino e cercando di buttare loro qualche idea. Poi
ci richiamarono e finii una settimana alle Nuove.
Tra l’altro in quel momento il movimento studentesco si è schierato politicamente per scegliere la
linea della propaganda a scheda bianca: c’erano le elezioni del ’68 e dopo varie spaccature in quella
fase era emersa la linea che io allora condividevo. C’erano sostanzialmente i due pezzi FGCI e il
pezzo di FGCI che poi sarebbe diventato Potere Operaio che allora premevano per un rapporto
organico con la CGIL, puntavano anche a un referendum; poi c’era tutta una parte che invece era
più movimentista e che comprendeva personaggi con varie affiliazioni ideologiche di sinistra,
cattolici critici, valdesi ecc., c’era un’aggregazione movimentista che diceva no al voto, una
posizione classicamente anarchica, “non è il voto che decide” ecc. Questa cosa poi non venne
realizzata proprio per l’impatto degli arresti, che misero fuori gioco per un paio di mesi il gruppo
dirigente, che non fece quel che volle. Sostanzialmente abbiamo votato, io lo feci dove c’erano
candidati della sinistra del PSIUP, che infatti ebbe non a caso in quelle elezioni un grosso balzo, poi
immediatamente mangiato nel ’72. Questa decisione era dovuta non tanto per quel che era ma per lo
spazio che offriva, questo è importante: lo PSIUP allora era diretto da Rostagno a Trento, da
personaggi come Bobbio a Torino che era nel movimento ma era iscritto, quindi aveva questo
spazio. L’anno successivo in realtà per tutta la prima parte facemmo un grosso lavoro in provincia,
che provocò l’espandersi del movimento studentesco a macchia d’olio, attraverso la mediazione di
strutture come ad Ivrea, ad esempio, era il circolo “Camillo Torres”, messo in piedi da Giovanni
Maggia, che attualmente fa l’economista ed è stato anche sindaco di Ivrea; ad Alessandria c’era il
circolo “Democrazia Diretta” messo in piedi da me e da altri compagni. Tra l’altro ad Alessandria
tra gli universitari c’era un pezzo di torinesi, cioè io e altri 4 o 5 che hanno fatto esperienze di
movimento qui a Torino, e un pezzo di genovesi (per motivi banalmente geografici), che erano
legati all’esperienza del frammento genovese di Classe Operaia, quindi Faina e Della Casa
sostanzialmente: loro avevano una linea più fortemente operaista e meno interessata al movimento
studentesco, dicendo “questi fanno dei botti, però poi l’importante è la classe operaia”. O qualche
milanese che, per motivi geografici, aveva legami o con il Movimento Studentesco di Capanna o
con pezzi di ex gruppi che stavano rapidamente riciclandosi. Tanto è vero che l’anno successivo, a
movimento studentesco medio avviato, quando poi ci furono le precipitazioni organizzative verso i
gruppi, ci fu un tentativo di dar vita a Potere Operaio fallito, uno di dar vita a Servire il Popolo
riuscito in modo limitato, e poi uno di dar vita a Lotta Continua che appunto fu quello maggioritario
proprio perché c’era l’influsso torinese in qualche modo. Quindi, c’era il movimento studentesco,
grosso modo con una serie di obiettivi che erano quelli di Torino più o meno, autorganizzazione,
diritto all’assemblea, riorganizzazione della didattica ecc., e che di nuovo ricostruì per un po' di
tempo la struttura del gruppo in fusione. Fu dichiarato uno sciopero il 7 novembre, data fatidica in
realtà scelta perché il nostro quadro più bravo aveva un compito in classe che voleva evitare, quindi
la coincidenza era assolutamente casuale: però ha funzionato anche quello, e ci siamo trovati con
5.000 studenti, tutti gli studenti medi della città (comprese le ragazzine delle magistrali che non
avevano mai fatto nulla) in piazza disposti a gridare qualunque cosa, era proprio una dimensione di
rottura, cioè una cosa che nessuno avrebbe fatto. Infatti, primo giorno sciopero e manifestazione, il
secondo giorno il problema era che poi la cosa continuava e noi non sapevamo più bene cosa fare di
questa massa che voleva andare in piazza a liberarsi in qualche modo. Tant'è vero che il terzo
giorno, dopo aver fatto per due giorni cortei, abbiamo detto “dobbiamo trovare degli spazi in cui far
reagire la gente insieme, farla discutere, la maniera per cui tra questi qui che sono 5.000 e noi che
siamo 50 ci sia una circolazione di idee”. Allora, praticamente invademmo gli spazi pubblici di
strutture con cui avevamo rapporto: la CISL, che di nuovo attraverso la FIM era quella più
disponibile, diretta da ex operai licenziati di matrice cattolica liberatisi, la CGIL, un paio di
parrocchie dove c’erano parroci amici nostri, insomma dovunque c’erano posti dove stare in 200
abbiamo portato degli strumenti e abbiamo fatto assemblee. C’era un impatto maggiore, come

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sempre, in una città piccola che in una città grande, perché era elemento di rottura. A un certo punto
tutti i partiti dicevano “gli studenti hanno ragione”, compresa la Democrazia Cristiana. In quel
periodo, come in molti altri, avevo più che altro funzionato in realtà con un quadro politico in
missione: stavo a Torino a seguire il dibattito lì, dopo di che metà del tempo lo passavo ad
Alessandria ad organizzare il movimento, a costruire una dinamica che in realtà riproduceva dei
modelli di militanti a tempo pieno: questo però avveniva nella pratica ma non nella teoria, noi la
negavamo la figura dei militanti in quella fase come dimensione esistenziale, di fatto lo facevamo,
leggendoci però come supporto in quanto il problema era di estendere il movimento, il che era un
altro tipo di contraddizione interna da questo punto di vista. Ci fu una prima fase di sciopero e una
seconda fase poi di occupazione, partita per caso, scuole occupate e il tentativo di trasformare le
scuole in luoghi di discussione collettiva. Con una grossa diffidenza, che io condividevo molto,
verso i partiti storici della sinistra: mi ricordo che lì venne una delegazione del PCI nella scuola che
era un po’ il centro del movimento, con alcuni esponenti scelti ovviamente tra i più aperti e i più
critici, e poi la sezione ferrovieri, che era un posto di lavoratori di sinistra; noi ci rifiutammo di
parlare con loro, “vi cercheremo noi, le cose devono restare separate, voi siete un’organizzazione
politica e noi siamo un movimento”, allora c’era questa diffidenza molto forte. Il passaggio
successivo fu quello appunto dell’avvio delle lotte operaie a Torino e poi della costituzione di Lotta
Continua a Torino, che io vissi praticamente fin dall’inizio, con l’arrivo a Torino di Sofri. Di fatto
Sofri non fu sempre amatissimo a Torino, adesso è in galera ed ovviamente è un altro discorso, però
rispetto ad una serie di quadri che si sono formati a Torino lui era un personaggio che non
riscuoteva ampie simpatie, i riferimenti comunque erano altri. Ci fu la prima fase di Lotta Continua
come movimento unitario che interveniva alle porte, poi la rottura con il Potere Operaio veneto-
emiliano, tra Sofri e Viale da una parte e Vesce e Daghini dall'altra. Io avevo 21 anni, comunque il
motivo per cui sono stato con Lotta Continua era da un lato che c’erano legami molto più forti,
dall’altro c’era di nuovo questa dimensione della sovrapposizione a un certo punto di un livello
bolscevico (o presunto tale) al movimento, cosa che continuava a piacermi fino a un certo punto.
Quindi, questo movimentismo di Lotta Continua (che poi ovviamente si è tradotto in leaderismo
senza controlli in altre fasi) mi affascinava di più rispetto al discorso che il partito piega gli
obiettivi, anche il partito come tattica mi lasciava perplesso.

- Tra il movimento studentesco e la costruzione di Lotta Continua c’è il periodo intermedio


dell’assemblea operai-studenti.

Che però usava Lotta Continua come sigla.

- E c’era il giornale La Classe.

Il giornale La Classe era arrivato da fuori, da Vesce e gli altri, qui a Torino avevano una serie di
riferimenti precisi.

- Occasionalmente vi collaborò anche Viale?

Viale aveva fatto nella fase intermedia un passaggio in Servire il Popolo che gli tirò lazzi e frizzi da
parte di alcuni di noi; però, il giornale Lotta Continua uscì molto dopo.

- Ci sono stati due convegni in mezzo, quello da cui è nata la spaccatura effettiva è quello del
luglio del ’69 al palazzetto dello sport.

La rottura effettiva è avvenuta una notte in via Passobuole.

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- Ed è poi appunto stata ratificata nel luglio del ’69, e con quell’estate lì c’è poi stato l’avvio dei
gruppi.
Tu prima hai parlato di Sandro Sarti, che poi intorno al ’70 ha fatto un bollettino che si
chiamava CR, Cronache Rivoluzionarie: lui è stato uno di quelli che ha riportato in Italia tutte
le esperienze del Black Power, che fu una cosa particolarmente importante, anche per Lotta
Continua era stato uno dei riferimenti internazionali. Che fine ha fatto?

Qualche anno fa aveva aperto una piola in periferia. Lui è un personaggio fondamentale per tutta la
dimensione internazionalista di collegamento e di comunicazione fra le culture. Lui era un
intellettuale autonomo, era uno che si muoveva per i fatti suoi, con uno spirito molto militante e
radicale, di un radicalismo molto interiore e vissuto.

- Tu hai fatto l’esperienza all’interno del movimento studentesco e poi nella prima parte di Lotta
Continua: da quanto dici ti sei formato come avanguardia di lotta di questo movimento. Ci
interesserebbe analizzare il rapporto tra avanguardie e movimento, e in particolare come sei
cresciuto come avanguardia di lotta. Nella ipotesi che noi facciamo all’interno dei movimenti
sociali agiscono più figure tipo: il militante di base è quello che partecipa alle lotte, con
interessi sociali, di bisogni materiali o perché si trova all’interno di una certa situazione, per
cui se uno è all’interno dell’università nel momento in cui si sviluppa un movimento è portato a
scegliere se avvicinarsene e starne dentro o disinteressarsene; nel mentre in cui si sviluppano i
movimenti una parte delle persone che vi sono coinvolte fanno un passaggio, cioè la forma di
partecipazione diventa da semplice persona che sta all’interno del movimento, quindi massa, ad
avanguardia, nel senso che singolarmente o in ambiti collettivi, che poi sono solitamente gruppi
ristretti, fanno un passaggio e diventano avanguardie di lotta, sono quelli che trascinano,
costruiscono e portano avanti la lotta con maggior partecipazione. C’è una terza figura che è
quella del militante politico, che solitamente si è formato già in cicli di lotte precedenti e che
arriva quindi o si trova all’interno di questi cicli di lotta e di movimento successivi da una parte
con un bagaglio di esperienza sociale e politica già pregresso, dall’altra parte si avvicina
perché ha una tensione politica oppure perché si trova all’interno di queste situazioni in termini
particolari. C’è però una differenza sostanziale tra il militante politico o l’avanguardia politica
e l’avanguardia di lotta: tante volte l’avanguardia politica è semplicemente un’avanguardia di
lotta che è stata in più movimenti e che quindi si è formata in una dimensione complessiva.
Vorremo dunque capire meglio dalla tua esperienza come si formano le avanguardie di lotta e
poi come si formano le avanguardie politiche, perché tu probabilmente hai poi fatto il percorso
successivo, per cui l’esperienza dell’organizzazione politica, siano essi gruppi o altro, è un
passaggio diverso: per esempio, Primo Maggio era un’esperienza che riproponeva una lettura
politica sotto l’aspetto storico ma non solo in quello. La lotta quando si sviluppa polarizza un
grosso numero di persone che si trovano all’interno di un ambito, ad esempio la lotta
studentesca ha polarizzato delle singole persone che prima erano atomizzate ma che poi si
riconoscono all’interno di un ambito di movimento che ha delle caratteristiche tanto per
cominciare collettive; dall’altra parte, tanto quanto la lotta diventa una cosa aperta, si ha un
cambiamento di stato, nel senso che la lotta fa fare alle singole persone dei passaggi e dei
cambiamenti che sono rapidissimi e che invece magari non farebbero in un periodo più lungo in
uno stato di non lotta. Quindi, la partecipazione ad un movimento ti trasforma, ovviamente in
termini sempre relativi, nel senso che poi si può anche tornare indietro; comunque, il tuo modo
di essere, di pensare, di agire è profondamente diverso da quando si è in uno stato di non lotta.
Questa cosa qui provoca ovviamente un’attrazione sociale e politica. All’interno della lotta
comunque c’è una stratificazione tra chi vi partecipa come semplice persona che sta all’interno
di una dimensione di massa e chi invece ne assume anche una dimensione di direzione o di
avanguardia, poi si può discutere in che modo essa possa essere, però la lotta di per sé la
produce, producendo al contempo un’avanguardia di movimento che è differente

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dall’avanguardia politica, nel senso che l’avanguardia politica è un qualcosa di più
consapevole, che ha più continuità nel tempo e che porta al suo interno, sia come dimensione
collettiva di gruppo sia come dimensione individuale, esperienze passate già in altri movimenti
e in altri percorsi politici.

Credo che il mio percorso sia stato un pochino tortuoso, nel senso che in realtà sono già arrivato a
un movimento con una forte richiesta di politicità, a me quello che interessava di quel movimento
era sostanzialmente la sua capacità di trasformazione. Tanto è vero che mi ero letto religiosamente e
anche in un modo ingenuo e un po’ schematico le riviste che mi ero fatto mandare proprio l’ultimo
anno prima dell’università, cercando un po’ di capire, e avevo iniziato, capendoci probabilmente
molto poco, a leggere Operai e capitale, a leggere i Quaderni Rossi e queste cose qua. Arrivato a
Torino mi ricordo che “pinzo” la prima ragazza che distribuiva i volantini e che aveva un paio di
anni più di me, e le dico “a proposito, quand’è che si discute di queste cose?”, e lei mi risponde
“non ne ho la benché minima idea”. Dunque, c’era una sfasatura, nel senso che per quanto mi
riguardava avevo già questo problema di capire se esistesse una possibilità di mutazione delle cose,
il movimento mi interessava molto per quello, poi anche per le cose specifiche. Tanto è vero che c’è
una cosa che non ho mai capito e non so neanche quanto sia rilevante, forse però era tipico di quel
movimento: per me la differenza tra politico e sindacale è sempre stata una cosa che si poteva
concettualizzare storicamente ma che dentro non mi entrava, nel senso che definire la distanza tra
lotta economica e lotta politica è dubbio. Di sicuro ti muovi, lotti per motivi di trasformazione che
non sono limitati ma che ineriscono poi ai meccanismi, avendo in mente una dimensione fortemente
globalizzante, anche troppo magari, allora c’era proprio questa dimensione. Al massimo le
concepivo come raffigurazioni tattiche, però che ci fosse poi una differenza qualitativa mi
convinceva poco. Quindi, il passaggio forse l’ho avuto un po’ prima come percorso di formazione,
nel senso che io non mi sono mai vissuto come militante di base interessato all’obiettivo; per questo
ad esempio sono sempre rimasto (per citare un'esperienza diversa e successiva) freddissimo rispetto
alle proposte verdi sui movimenti a obiettivo singolo, io voglio vedere le cose complessive, cioè
rispetto ai movimenti contro le centrali nucleari, se l’obiettivo è non farla mettere là e farla mettere
un po’ più distante non capisco cosa voglia dire, dovete spiegarmi un minimo di quadro. Ciò è
probabilmente anche dovuto a un certo tipo di formazione di fase, che è un po’ avvenuta così. Su
questo effettivamente la dimensione di costruzione di relazioni orizzontali, di gruppo in fusione
come quello del liceo, pesavano molto, perché io pensavo con una certa angoscia al momento in cui
il movimento sarebbe rifluito, e allora ripiombi nell’atomizzazione o nel gruppetto, cosa che ancora
oggi patisco per il fatto di avere ora il 90% di amici che hanno la laurea, mentre negli anni ’70 io
avevo un 40% di amici con la laurea, gli altri erano diplomati o operai con la terza media, c’era
proprio questa situazione di rimescolamento delle carte che invece oggi non c’è più, si ritorna ad
avere fortissime stratificazioni. Come se, per usare una parola eccessiva, il comunismo fosse quella
cosa che tu fai quando lotti, non tanto quello che farai quando hai vinto, che è una prospettiva anche
questa ovviamente presente: è una modificazione di rapporti umani che per me funzionò
sostanzialmente dal ’68 fino al ‘73-’74, poi cominciai a sentire esistenzialmente puzza di setta, non
intellettualmente, ma proprio cominciai a sentirmi stretto. Diventava una dimensione di
condivisione di valori che a volte erano un pochino forti, cioè voleva dire andiamo tutti a vedere il
medesimo film, ma se quello non mi interessa io vado a vederlo per i fatti miei. Infatti, furono anni
in cui cominciai a prendere un po’ le distanze da Lotta Continua, seppur continuando ad avere
rapporti con essa.

- Tra gli intervistati c’è chi, come Tronti, dimostra uno scarso interesse per il ’68 e il movimento
studentesco; altri, come Soave e Gobbi, che pure si sono formati in esperienze politiche
precedenti, si sono però mossi all’interno del movimento studentesco, tanto che rivendicano un
certo tipo di agire politico dentro le lotte degli studenti, spingendole a determinati passaggi.

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Ad esempio, io mi ricordo che uno dei motivi della frizione era proprio il fatto che il Potere Operaio
veneto-emiliano con la sua articolazione anche torinese fa uscire La Classe puntando a farlo
diventare anche il giornale dell’assemblea operai-studenti, e allora lì c’è la forzatura, la reazione a
un intervento esterno. Poi invece l’assemblea operai-studenti era tutta insieme, io l’ho chiamata
Lotta Continua ma non era l’organizzazione, era lo slogan, era la testata dei volantini. Di quella sera
di via Passobuole mi ricordo questo tallonamento tra Vesce, un quadro studentesco romano che si
era trasferito qua e poi è rimasto in Lotta Continua, e poi il medesimo Sofri, era tutto un gioco di
virgole per tentare di non spezzare e però di evitare quella che appariva una prevaricazione per gli
uni e appariva un’estensione del movimento per gli altri.

- Rispetto al ’68 tra gli intervistati c’è chi, come già detto, lo analizza quasi esclusivamente come
un processo di modernizzazione capitalistica. Invece, tra i quadri politici che vi intervenirono
da una parte ci fu chi, come già dicevi tu, cercò di spostare gli studenti di fronte ai cancelli
delle fabbriche, e dall’altra chi diceva che ciò rischiava di rispondere in parte ad una mitologia
ideologica e avrebbe portato il movimento su binari completamente diversi da quelli in cui era
nato, impedendone lo sviluppo sui terreni dell’università e della formazione che allora
cominciavano ad entrare in una fase di ridefinizione. Come analizzi oggi ricchezze e limiti di
queste posizioni?

Io credo che sostanzialmente il problema di fondo fosse che in quel momento lì non è che tu potessi
pensare “sviluppiamoci e poi ci rapportiamo dopo al movimento operaio”, il problema era proprio
cosa facevi in quel momento lì. Di fatto mi sembrava che l’alternativa fosse “puntiamo al rapporto
con il movimento operaio con un movimento” oppure no, perché poi appunto c’era chi voleva
rapportarsi con il movimento e chi voleva farlo come gruppetto che aveva rapporto con il
movimento e che però resta autonomo. Il problema era o stabiliamo un rapporto con gli operai più
che con il movimento operaio, tanto per essere chiari, o di fatto non lo stabiliamo. Questa credo che
fosse l’alternativa, anche perché poi tra l’altro la linea che ha prevalso, che era quella “stabiliamo
un rapporto con gli operai” (parlo del 68, e però stabilì un terreno anche nel ’69), non era
assolutamente antagonista all’idea “andiamo per allargare il movimento ad altri settori studenteschi
o ad altri settori sociali se è possibile arrivarci”: non erano posizioni antagoniste. Di fatto il
problema era “interveniamo o no”, cioè di fondo credo che effettivamente la cosa sia stata espressa
con molta chiarezza dai milanesi quando hanno detto “noi siamo il movimento dei ceti medi e
quindi a questo punto ci alleiamo con la classe operaia, dopo di che puntiamo ad egemonizzare
quelli”: credo che l’alternativa reale fosse di fatto quella, non fosse un gradualismo. Tenuto conto
che poi era un movimento fortemente antigradualista, nel senso che diceva che i salti di coscienza
sono possibili, anzi proprio la logica era quella della lotta che li trasforma. Proprio l’esperienza
della provincia fece sì che, diversamente da Torino, molto spesso ci fu una pressione non solo e non
tanto degli studenti che andavano davanti alle fabbriche, ma anche di quei pezzi di sindacalismo
radicale, in genere cislino, FIM, ma non solo, talvolta anche FIOM, in situazioni in cui il sindacato
non aveva la forza di organizzare i picchetti e gli interventi per conto proprio. Tanto è vero che
l’intervento poi degli studenti e per certi versi anche della prima Lotta Continua, quella che, dove
era sola, quasi si confondeva con il movimento (sto parlando della provincia del Piemonte
evidentemente), di fatto si sovrappose al sindacato. Per fare un esempio, mi ricordo che c’era una
fabbrica in cui il sindacato non era mai entrato e dove c’era uno sciopero per il contratto dei
metalmeccanici, a un certo punto decidiamo di intervenire come movimento studentesco: andiamo a
fare un picchetto in 150, c’erano 200 operai (tra l’altro metà donne). Questa roba fa esplodere tutto,
con un filo tacito con la FIM, dopo di che un gruppo di operai viene da noi e ci dice “a questo punto
che abbiamo scioperato, cosa facciamo?”, e noi abbiamo detto “organizzatevi”, poi ci siamo
guardati e abbiamo detto “adesso andiamo insieme alla FIM perché non possiamo mica essere noi il
vostro riferimento, il movimento sì, però ci sono dei problemi a livello organizzativo”. Queste cose
poi non le dicevi a Torino perché se no passavi per uno di destra, c’era questo problema del

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rapporto tra zone arretrate e zone avanzate che era un problema enorme. Per esempio, quando
venivi a Torino a presentare i tuoi operai della provincia come avanguardie autonome, poi in realtà
erano tutti delegati del sindacato, perché se tu stai a Cuneo o stai ad Ivrea non è che puoi dire “no al
consiglio di fabbrica”, ci stai dentro. Quindi, c’era questa sfasatura che poi venne fuori
clamorosamente quando abbiamo proprio deciso di fare i delegati, cosa che noi già facevamo da
anni; io allora tra l’altro mi occupavo per Lotta Continua del coordinamento regionale, e dopo
alcuni tentativi di andare come un coglione a bolscevizzare Alba piuttosto che Cuneo, ho pensato
che forse avevano ragione loro. Allora, la questione degli studenti attirò anche gli interessi dei
giovani operai, cioè di figure sociali che erano più simili agli studenti e in situazioni come la
provincia in cui i rapporti erano più stretti, in città piccole e medie ti conoscevi insomma. Allora, in
realtà ci fu anche una richiesta del tipo “venite”. Ad Alessandria, ad esempio, il primo intervento
che facemmo fu su un tema classico dei movimenti antiautoritari di quegli anni, davanti alla Standa
in occasione di uno sciopero delle commesse, in cui a cercarci fu direttamente l’allora moglie di
Serafino, che è sindacalista FIM e che si occupava del commercio ad Alessandria: chiese a suo
marito, abbiamo fatto una riunione in birreria alle 3 di notte e abbiamo portato 200 studenti lì
davanti. Era una situazione in cui da un lato chi era davanti era lì per contestare la società dei
consumi ipermoderni, in realtà aiutava delle disgraziate che normalmente non avrebbero mai fatto
uno sciopero perché i capi andavano a prenderle a casa in macchina e le portavano sui luoghi di
lavoro: noi sfasciammo una serie di macchine, bucammo le ruote ecc. In realtà stavamo realizzando
una rottura dentro una zona arretratissima per i rapporti di lavoro, questo però è lo spazio che c’era.
Quindi, mi sembra che non fosse una grande alternativa da questo punto di vista, il problema era
che o ci andavi o non ci andavi. Il problema era come ci andavi e se ci andavi tirando fuori dei pezzi
oppure se ci andavi con il movimento, questo dal mio punto di vista mi sembra più rilevante. Poi
questo problema del rapporto tra città e provincia introdusse delle forme di linguaggio un po’
gesuitico, per il modo di dire le cose, era come il problema del rapporto tra i vari gruppi: in una
piccola città quando ci sono 50 militanti divisi in tre gruppi per forza di cose stabilisci dei rapporti
di collaborazione, perché se no diventava settarismo babbeo.

- Dopo la nascita di Lotta Continua, ci fu l’esperienza della costruzione di Primo Maggio.

Primo Maggio era già sorto, ci furono due numeri dopo di che ci fu la rottura tra Cartosio e
Bologna. La sollecitazione fu da parte di Sergio Bologna, che ha tutto un suo percorso politico
interessante: si rivolse ad alcuni torinesi, cioè a Ortoleva e Revelli sostanzialmente, chiedendo “mi
sembra che ci siano a Torino una serie di interessi, a qualcuno di voi interessa far nascere una
redazione?”. In quel periodo noi sentivamo il problema di riuscire a capire che cosa stava capitando,
e pativamo in Lotta Continua un livello deficitario del dibattito politico, nel senso che esisteva la
linea pensata dal gruppo dirigente se non dal solo Sofri per i fatti suoi e poi comunicata, ma i
tentativi di costruire scuole-quadri, di fare le riviste teoriche (di Comunismo uscì un numero), di
fatto, pur avendo una disponibilità di intellettuali relativamente alta, sembrava non riuscire, e
sembrava imporsi invece una sorta di etica di gruppo che ad alcuni di noi andava stretta. Per fare un
esempio, mi ricordo una volta che mi arrabbiai molto quando ci fu un caso di un giovane che aveva
tentato il suicidio, si era dichiarato militante di Lotta Continua (tra l’altro era un po’ ambiguo, c’era
qualche dubbio che fosse una spia): comunque, ci fu un corsivo di Enrico Deaglio intitolato Un
comunista non si suicida per amore, una cosa da dirgli va’ all’inferno!, la storia del movimento
operaio è piena di casi del genere. Poi Deaglio naturalmente diventa quello che è diventato.

- Tra l’altro nei primi interventi nel movimento degli studenti Deaglio era considerato un
“destro”, poi ha fatto in quindici giorni un salto spaventoso.

Questo però era abbastanza normale, mi ricordo che esistevano anche dei livelli di coinvolgimento
fortemente emotivo. C’era ad esempio un giovane (che adesso non so più che fine abbia fatto),

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aveva qualche anno più di me, laureando in Legge, si chiamava Chirillo, di origine meridionale, che
era un cattolico assolutamente devoto a 40.000 santi ecc., il quale era uno che si è fatto tutte le
occupazioni, dichiarandosi d’accordo. Oppure c’è un altro episodio, per cui a un certo punto a
Palazzo Campana abbiamo dovuto metterci un gruppo di atei a difendere il crocifisso dalla furia
iconoclasta dei valdesi che volevano romperlo in quanto simbolo di potere politico e religioso:
rompere un crocifisso era vilipendio, abbiamo dovuto proteggerlo noi perché se no ci denunciavano.
Quindi, c’era questa dimensione di circolarità, per cui uno di destra diventava di sinistra
rapidamente. Andrea Mottura veniva a fare gli interventi come sinistra PSI dopo di che diventa di
Servire il Popolo in pochi mesi, c’era un passaggio molto rapido.
Quello che io vivo dopo è una sorta di irrigidimento, diventava proprio una specie di etica, per cui
se tu sei del movimento, ma a questo punto in realtà dell’organizzazione, comunque se sei della
sinistra extraparlamentare allora devi essere così, perché c’erano una serie di modelli molto rigidi,
che cominciavano a diventare un po’ settari. Per cui la comunità autocostituita diventa proprio una
comunità che per resistere si ingabbia dentro le proprie regole, un processo magari inevitabile in
certi anni che però sentivamo in modo forte. Ci sembrava necessario trovare un punto di riferimento
esterno anche perché una serie di irrigidimenti dei gruppi sembravano non lasciare spazio a un
pensiero minimamente che uscisse dai reciproci schemi, in questo senso Primo Maggio ci sembrava
un’esperienza interessante.

- I primi articoli a Torino di Primo Maggio sono sull’inchiesta alla Fiat; in Lotta Continua c’era
stata l’esperienza di un bollettino che era una forma di inchiesta in parte sulle condizioni
operaie delle lotte e in parte anche sull’organizzazione del lavoro e sul sindacato, ne sono
usciti una quindicina di fascicoletti. Questo bollettino era un po’ il tentativo di fare una forma
di inchiesta sulla fabbrica più che un’inchiesta operaia, come anche i primi articoli usciti su
Primo Maggio erano sull’organizzazione del lavoro alla Fiat (uno era di Revelli e poi ce n’era
qualche altro) che poi erano culminati nel libro di Deaglio. Invece, come discorso di approccio
ad una storia diversa e militante, secondo te Primo Maggio cosa ha rappresentato?

Intanto ha rappresentato due cose: da un lato un tentativo significativo di rompere un pensiero


stratificato che sostanzialmente espungeva tutte le minoranze, cioè tutta l’area di minoranza che è
riuscita in qualche modo ad avere un po’ di spazio era il luxemburghismo con Basso, ma c’era già
prima, tutte le altre no. Ciò non per fare il culto degli sconfitti, ma per dire che il movimento
operaio è più ampio. L’altra cosa è l’attenzione alla dimensione della classe come elemento
materiale, e poi anche alla dimensione estera, Stati Uniti, Germania ecc., in un contesto in cui come
eredità della vecchia chiusura diciamo nazionalpopolare anni ’50-’60 tipica del PCI, per cui
l’importante è l’Italia, si era passati ad una sorta di esaltazione dell’anomalia italiana in modo
francamente poco convincente, cioè “noi siamo un paese avanguardia rivoluzionaria”, cosa in cui
credevano anche molti stranieri. Forse siamo un paese che ha contraddizioni da paese arretrato e
paese avanzato insieme e questo lo rende così complesso, però da qui a dire che siamo
l’avanguardia ce ne corre. L’idea era quella di aprire, questa doppia rottura era la dimostrazione che
si poteva fare una rivista che poteva essere letta dagli armaioli, cioè dai gruppi armati, fino ai
riformisti, in realtà per un certo periodo ebbe quel tipo di circolazione lì. Quindi, in qualche modo
dimostrava che era possibile fare dei discorsi comuni e rompere una serie di schemi. Poi aveva
questa dimensione della storia militante di cui si teorizzava la rigorosità tra l’altro, perché non era
l’idea di andare a fare la storia a tesi, anzi dietro c’era un lavoro di scavo: l’idea era “andiamo a
prendere aspetti non considerati, complessifichiamo il quadro”, che mi sembrava essere una delle
ambizioni maggiori. E’ chiaro che bisogna fare un’analisi di quadro ma l’importante è ricordarsi
che il quadro è fortemente complesso. Questo forse era un po’ anche uno dei motivi per cui poi la
rivista è rimasta tale, anche se ci fu successivamente il tentativo di costituire una sorta di
articolazione politico-sindacale nel settore trasporti che però poi non funzionò, non portò ad
alcunché. Non si riuscì a far incastrare due o tre pezzi, il collettivo autonomo aveva l’acqua alla

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gola, perché poi tutto il dibattito né con lo Stato né con le BR devastò tutto da questo punto di vista,
i livelli organizzativi esistenti erano fragili. Comunque, ci fu un tentativo di mettere insieme dei
pezzi, secondo quella che era l’intuizione di Sergio che continua a scrivere di questa centralità del
trasporto.

- Questo però avvenne successivamente, nel senso che nei primi numeri una cosa importante fu la
riproposizione degli IWW come esperienza storica e di aggregazione operaia americana; allo
stesso tempo Bologna portava avanti il discorso su Marx e la moneta. In un periodo successivo
vengono fuori i temi di cui parlavi tu, quindi il discorso sui trasporti.

Nel numero 1 e 2 noi non c’entriamo, sono quelli con Cartosio, mentre noi ci entriamo con il 3 e 4 e
poi con il 5. Poi ci fu una fase di forte collaborazione dal 3 e 4 al 9 e 10; con questi numeri ci fu una
contrapposizione molto secca nel momento di elaborazione tra chi sosteneva la sconfitta radicale
della vecchia composizione, e quindi l’esigenza di passare oltre, che è il ragionamento sulla moneta
che facevano Berti e Gori trattando appunto di economia, e invece l’insistenza sull’importanza della
memoria di classe che invece portavamo avanti noi, con una certa intesa con Bologna e con i
milanesi.

- Quali sono stati i tuoi percorsi successivamente a Primo Maggio?

Successivamente a Primo Maggio io ho poi mantenuto un rapporto di collaborazione con Il


Manifesto, con pezzi di riviste, non riesco a trovare una collocazione politica adatta e ho anche
qualche dubbio che abbia qualche senso oggi. C’è attualmente uno stato di frantumazione, la
chiusura di una serie di spazi politici, ciò che è nato dalla frattura del PCI è un qualcosa con cui si
può collaborare ma non c’entro niente, né con i DS né con Rifondazione c’entro alcunché, per il
loro tipo di cultura e di pratica politica. Per cui occupando un ruolo intellettuale (sarebbe
evidentemente diverso se fossi un metalmeccanico), forse il modo migliore di fare politica in questa
fase è mantenere rapporti con vari pezzi della sinistra, fossero i comitati autorganizzati all’epoca del
governo Berlusconi, fosse qualche rivista come Nuvole, tanto per fare un esempio, o Il Manifesto
oppure altre, questi mi sembrano spazi in cui puoi dire delle cose. Dopo di che forse per una
persona che di mestiere fa lo studioso la cosa migliore è poter parlare con tutti senza farsi
identificare con nessuno, puntare ad essere un elemento di raccordo è molto velleitario, però
laddove sia possibile questa cosa si può fare. E’ ovvio che questo comporta una condizione sociale
di privilegio, cioè passare il tempo a studiare, se avessi fatto il metalmeccanico, il droghiere o anche
l’insegnante forse sarebbe più produttivo infilarsi in un’organizzazione, che magari si condivide al
30-40-50% ma si rimane dentro. Per esempio, la scelta che ha fatto il mio amico Cosimo Scarinzi
con la CUB mi sembra una scelta di grande dignità e di grande senso, perché sta costruendo bene le
cose, infatti più volte mi ha chiesto di dargli una mano in conferenze e va benissimo. Questa è
un’ipotesi.

- Nella tua professione quali sono gli storici che hanno contribuito alla tua formazione e che hai
come punti di riferimento?

Per fare un riferimento banale, il Marx de Il 18 brumaio è una lettura fondamentale, tra l’altro per
chi, come me, si occupa di fascismo: mi affascinano molto le spiegazioni bonapartistiche del
fascismo perché lì c’è proprio uno sviluppo, continuo a pensare che ci sia una chiave significativa.
Poi direi molto Tim Mason tra le persone che direttamente hanno avuto un ruolo, e alcuni studiosi
tedeschi: tra i viventi cito dei personaggi come Mommsen, per il tipo di interesse professionale che
ho ma anche per il fatto che in qualche modo si muovono all’incontro tra Marx e Weber che mi
sembra un punto fondamentale per riuscire a fare lo storico oggi. In Italia cito Enzo Collotti: io sono
allievo di Nicola Tranfaglia, gli voglio molto bene, però onestamente lui non è uno studioso che fa

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una scuola, malgrado ti dia molte idee. Collotti è uno studioso che, come altri, non ha creato una
vera e propria scuola, però è uno dei pochi studiosi contemporaneisti italiani che ha una visione che
non riguarda solo l’Italia, e che viene a coincidere con alcuni miei interessi di fondo: io sono partito
con la storia almeno d’Europa, o si ha un’ottica almeno europea o se no le cose non si capiscono.
Da questo punto di vista da Collotti ho imparato parecchio, anche dal punto di vista metodologico.
E poi dagli altri che dicevo prima: sostanzialmente Mason perché credo che sia uno splendido caso
di marxismo critico, non a caso poi con una fortuna accademica discutibile, con una serie di scelte
che lo portarono prima in Germania e poi in Italia. Non a caso è uno degli studiosi ancora
relativamente poco noti. Cito poi un personaggio che non è uno storico ma che per il tipo di cose di
cui si occupa è molto importante, Hirschman: non è uno storico come tale, è quello che poteva
essere definito un philosphen nel ‘700 inglese, un economista e anche tante altre cose, però per il
tipo di cose che faccio io è molto importante, perché di nuovo ha un’attenzione che secondo me
invece una serie di correnti della storiografia contemporanea stanno perdendo. Già negli anni ’80
avevo l’impressione che ci fosse un rischio di barocchizzazione della storia, nel senso che tutto
l’abbondare di studi (per carità, importanti) sulla memoria, sulla percezione, è vero che coprono
degli spazi bianchi, però c’è il rischio che risolvano il tessuto storico-sociale in immagini,
sensazioni, memoria, quando invece esistono fenomeni materiali che devono essere strettamente
connessi con la dimensione appunto di percezione, di memoria e via dicendo. Cioè, io sono sempre
più convinto che la memoria, come già diceva Nietzsche, è la facoltà di dimenticare e non di
ricordare, quindi il problema è che cosa si dimentica e non quello che si ricorda, perché è comunque
molto spesso assai più fallace di qualunque anche approssimazione di costruzione storica, che
evidentemente può avere moltissimi limiti. Faccio un esempio: uno dei grossi temi della storiografia
degli ultimi anni riguarda una serie di ricerche importanti sulla memoria delle stragi in Italia tra il
’43 e il ’45, la memoria divisa. Allora, uno dei casi più studiati è quello di Civitella Val di Chiana,
anche perché è il luogo natale di Leonardo Paci che è un accademico importante e ha fatto un
importante convegno. La memoria divisa, questa memoria non ufficiale custodita da una parte del
paese in qualche modo attribuiva la strage all’imperizia di alcuni partigiani, cosa magari anche
avvenuta, non è che non sia vero; ma questa memoria qui attentissima si era dimenticata che a
Civitella Val di Chiana c’era un campo di concentramento fascista che rimase aperto fino all’estate
del ’44: questa cosa il testimone non la raccontava, stava nelle carte d’archivio. Allora, attenzione
che andando a ricostruire il passato dando rilevanza a questo tipo di dimensione poi sembra quasi
che da un lato la dimensione delle relazioni economico-strutturali e dall’altro la dimensione dei
processi decisionali siano sganciate o abbandonate agli storici delle istituzioni o addirittura agli
storici economici. Mi sembra una linea di condotta rischiosissima; da questo punto di vista una serie
di studi come quelli appunto di Tim Mason, di un altro grande storico tedesco morto come Mason
molto giovane, o della scuola tedesca della nuova storia sociale, a me sembrano fondamentali,
perché richiamano il complesso legame Max Weber – Karl Marx, il che mi sembra importante.

- In diverse parti della tua analisi hai toccato il rapporto tra una fase di apertura, del nascere di
una soggettivazione di lotta, di movimento, di classe o sociale, e la necessità di costruire delle
forme che sappiano sedimentare determinati livelli, quindi anche la questione
dell’organizzazione, ma prima ancora della politica. Questi sono senz’altro nodi aperti e
insoluti nei percorsi degli anni ’60 e ’70, che possono aprire delle riflessioni complessive sui
limiti e sulle ricchezze di quelle esperienze.

Complessivamente ho l’impressione che intanto se c’è qualcosa che occorre definitivamente fare
nella storia del ‘900 non è la definizione di secolo del sangue, dei massacri, del terrore, del
totalitarismo, delle dittature e via dicendo, quanto, dal nostro punto di vista, storicizzare le rotture.
Effettivamente io credo che il movimento operaio novecentesco possa essere riletto in modo
unitario non per dare dei giudizi su di esso, a differenza di quanto mi si dice (io non l’ho visto)
dell’ultimo libro di Revelli, che invece sembra rigettare tutto il ‘900, questo non mi convince perché

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è un’opzione di valore, quindi è un altro punto di vista. Credo che qui si tratti di riprenderlo in
blocco, e la dimensione di fondo non è tanto, credo, il fatto che il movimento operaio abbia
mantenuto fermo il valore del lavoro oppure il rapporto con lo Stato, perché mi chiedo quali altre
alternative storicamente fossero possibili; quanto il fatto che il movimento operaio, nel passaggio
alla Seconda Internazionale, sia stato sostanzialmente nazionalizzato, nel senso che in realtà noi non
capiamo nulla dei movimenti operai del ‘900 se non teniamo conto delle storie nazionali. Tanto è
vero che quando abbiamo costruito questa Enciclopedia della sinistra europea, appena uscita, ci
siamo trovati di fronte all’esigenza di mettere insieme delle biografie, una parte problematica, delle
parole-chiave, degli eventi, però una parte estremamente rilevante del libro è dedicata alle
monografie nazionali. Il problema è che il movimento operaio è stato travolto nel processo di nation
building, nel processo di costruzione degli stati nazionali, e quindi si è così strutturato dopo la
Seconda Internazionale e poi con la Seconda sopravvissuta ma di fatto anche con la Terza: anzi, di
fatto il paradosso tragico è stato che la Terza Internazionale è diventata l’Internazionale di uno
Stato, cioè quella che era nata per superare la Seconda si è trasformata nell’organo (schematizzando
e rozzamente parlando) di uno Stato, con la fusione che c’è stata tra politica estera dell’URSS e
politica dell’Internazionale a partire dalla metà degli anni ’30. Quindi, il problema credo che sia
quello. Allora, se c’è un possibile percorso di ricostruzione che mi viene in mente, è qualcosa che
assomiglia alla Prima Internazionale, non tanto la sua dimensione gildista o di autorganizzazione
perché, come scriveva qualche tempo fa un collega tedesco, l’idea dell’organizzazione mutualistico-
cooperativa dei lavoratori si regge unicamente a partire da forti differenziali salariali, nella classe la
fanno quelli più forti, e sul fatto che poi ci siano le donne che sostanzialmente fanno il lavoro di
riproduzione e stanno zitte: per fortuna le donne oggi non stanno zitte e rifiutano di assumere quel
ruolo lì, per cui mi sembra improponibile. Invece, quella che mi sembra proponibile è l’idea della
Prima Internazionale come rete di diverse e complesse organizzazioni, come organizzazione
reticolare che salta i livelli nazionali. Forse l’aspetto positivo della globalizzazione è questo, il far
deperire le gabbie nazionali e statuali, quindi rende ipotizzabile un’organizzazione del movimento
operaio che abbia una rete che copre territori diversi. Già sul piano continentale credo che ci sia un
ritardo enorme e non si capisce perché una struttura organizzativa, anche a livello di partiti esistenti,
che si chiama Partito Socialista Europeo debba esistere a Strasburgo e non nelle realtà, o un
sindacato debba esistere sulla carta però poi di fatto non esistono coordinamenti generali, anche se
in parte si cercano di fare questi discorsi. Il problema va ben oltre i confini dell’Europa. Quindi, in
realtà quel modello lì forse potrebbe offrire degli stimoli, possibilmente bruciando tutta una serie di
cascami e di derive ideologiche per cui che uno sia un comunista o socialista di sinistra o un
socialdemocratico a questo punto mi sembra indifferente, perché tutte e tre queste opzioni (io amo
molto la seconda, l’austro-marxismo ecc.) mi sembrano comunque opzioni da superarsi.

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INTERVISTA A CHRISTIAN MARAZZI – 5 LUGLIO 2000

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e l’inizio della tua attività
militante?

Senza fare dell’individualismo storico, qui c’è un taglio un po’ autobiografico, perché in effetti
attraverso il mio percorso posso anche mettere un po’ a fuoco quelli che sono stati alcuni passaggi
non solo italiani ma almeno in parte europei. Ciò dato che io ho incominciato a fare politica al liceo
nel ’68, allora c’era un gruppo che si chiamava Movimento Giovanile Progressista, era un gruppo
operaista, che però quando ero entrato io non aveva ancora precisato i suoi rapporti per esempio con
l’Italia. Più tardi quel movimento che poi si è espanso ha avuto sue diramazioni in tutta la Svizzera,
e sceglierà un rapporto privilegiato con Potere Operaio: ci sono poi stati allora dei movimenti
analoghi, nati dalle lotte studentesche, che però avevano sviluppato rapporti soprattutto con Lotta
Continua. Erano rapporti certo di affinità teorica e politica, ma allo stesso tempo erano anche
rapporti in un certo senso operativi: la Svizzera già allora incominciava ad essere un entroterra per
le prime forme di illegalità, di fughe varie ecc., per cui c’era questo tipo di aspetto che poi diventerà
molto importante negli anni ’70. Poi naturalmente la Svizzera in un certo senso è sempre stato un
paese di immigrazione, per cui i rapporti politici con l’Italia erano anche basati su delle ipotesi di
lavoro politico nell’immigrazione, quindi nelle fabbriche allora soprattutto con la componente
dell’immigrazione italiana, spagnola, portoghese in particolare.
Quindi, dopo questa prima esperienza limitata negli ultimi due anni di liceo sono andato in
Inghilterra, ed è stranamente lì che, attraverso dei compagni inglesi che già avevano familiarità con
l’operaismo italiano, con Operai e capitale di Tronti, con gli scritti di Negri, di Alquati, di
Ferruccio Gambino in particolare, mi sono anch’io familiarizzato. Ero dunque entrato in contatto
con questi movimenti e queste esperienze italiane dall’Inghilterra, perché in Svizzera ero molto
giovane, non avevo ancora fatto letture, ero molto attivo ma comunque sul posto. In Inghilterra
invece già si stava in un qualche modo formando un giro, una rete di compagni: John Merrington,
Emery e altri, Selma James che era la moglie di un famoso militante e leader di colore di Trinidad,
C. L. R. James, ed era lei la portavoce, la teorica del salario al lavoro domestico del gruppo
femminista di Padova. Quindi, quando nel ’69 mi sono trovato in Inghilterra sono da una parte
entrato nella rete anche teorica di Potere Operaio però attraverso questo tipo di percorso; allora
stava nascendo in Inghilterra il Black Power che era una versione inglese del movimento nero
americano, dove Selma James era una persona molto attiva, molto presente. Dunque, c’è stato un
po’ questo crocevia. Io volevo studiare in Inghilterra, però entrato in contatto con queste cose e
avendo fatto in quel periodo delle letture che mi avevano proprio colpito, dopo un anno ho deciso di
tornare e di iscrivermi a Padova, cosa che feci nel ’70, con la mia prima puntata sulla città veneta,
l’incontro con Ferruccio Gambino, di cui avevo letto e sentito, con Toni Negri e con Luciano
Ferrari Bravo, che da allora è stato sempre un mio grande amico. Mi ero iscritto alla facoltà di
Scienze Politiche, però allo stesso tempo avevo scelto di fare lavoro politico a Zurigo, perché nel
frattempo quel Movimento Giovanile Progressista, che si era trasformato in gruppo Lotta di Classe,
aveva istituzionalizzato (se così si può dire) dei gruppi di lavoro politico a Zurigo, a Ginevra, poi a
Lugano, insomma in un po’ tutte le città e realtà svizzere. Dunque, a me interessava fare lavoro
politico, quindi di fatto ero a Zurigo, poi andavo a fare gli esami a Padova, e questo per i primi due
o tre anni, fino al ’73.
Poi dopo, credo nel ’75, tornato in Ticino e sempre andando a Padova per fare gli esami, sono
ritornato in Inghilterra per due anni, fino al ’77, a fare un dottorato in Economia, quindi di nuovo a
riprendere i rapporti attivamente con i compagni. Avevamo lavorato dentro il Congress of Socialist
Economist, un’associazione di economisti di sinistra che ogni anno organizzavano un congresso su
tematiche: lì noi ci eravamo impegnati attivamente appunto per fare passare alcune idee di questa
Autonomia nascente italiana e non solo. Nel ’77, proprio in conseguenza di un anno all’estero un
po’ forzato di Toni Negri, l’avevo sostituito nel suo corso a Padova e, dopo quell’anno, sono andato

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a New York, dove ho insegnato un paio di anni anche lì e vi sono rimasto fino alla fine dell’81,
quindi proprio nel periodo di cambiamento. La meta New York o gli Stati Uniti per me (ma perché
adesso sto parlando di me) era ovviamente una meta importante, nel senso che c’è sempre stata una
forte attenzione e presenza delle tematiche americane grazie a Ferruccio Gambino, grazie al
compagno Paolo Carpignano, che era già a New York nel ‘68-‘69, e poi grazie proprio
all’impostazione complessiva del lavoro teorico e storico dell’operaismo, di questo troncone di
operaismo. Io avevo avuto una grande fortuna perché ero stato contattato da un professore di
università dello stato di New York che aveva letto un mio articolo apparso sul secondo numero
della rivista Zerowork e che era sulla crisi monetaria internazionale. Questo professore mi aveva
dunque chiesto se volevo andare a New York: figuriamoci, era la cosa più inaspettata ma anche la
più sognata e desiderata perché era un’occasione. In effetti questo periodo è stato molto
metropolitano per tutto ciò che significa essere a New York, però allo stesso tempo anche lì c’era
una coincidenza: ero arrivato nell’agosto del ’78 e dopo qualche mese, nel ’79, scoppia il 7 aprile.
Per cui, con delle persone che avevo incontrato e in particolare Silver Lautrange (che è professore
di Lettere e Filosofia francesi alla Colombia University e ha tuttora una rivista che si chiama
Semiotexte), per l’interesse suscitato da questa repressione, vista dall’esterno soprattutto come una
repressione degli intellettuali, avevamo fatto un numero unico appunto sull’Autonomia italiana.
L’esperienza era interessante perché era una rivista che era un po’ il referente teorico di quella new
wawe nascente, di tutte queste esperienze di musica, di poesia, di teatro, di letteratura, di cinema: ad
esempio, c’era tutto quel giro che poi per alcuni è stato anche il punto di partenza di carriere di
successo, per dire di una persona Madonna bazzicava da quelle parti lì. Questo lo dico perché
l’interesse per l’Italia allora da parte di questo movimento culturale, musicale che si chiamava new
wawe era un interesse sicuramente molto estetico per certi versi, questi non ci capivano niente, era
il periodo delle Brigate Rosse, era difficile comprendere le varie esperienze, però c’era questa
attrazione per una trasgressione che era politica: mi ricordo che il sottotitolo di questo numero
dedicato tutto all’Autonomia (c’erano dentro scritti di Piperno, di Toni, di Bifo, un po’ di tutto) era
“politica e postpolitica”, giocato tutto su questo passaggio che se vogliamo allora non era come si
dice oggi al postfordismo, ma era già dentro al postmoderno. Questi erano giri che erano passati
tutti dalla Factory di Andy Warhol per dire, quindi c’è questo tipo di nuovo incrocio. Adesso io lo
dico ma queste cose mi sono capitate, non è che le ho provocate io: mi è capitato di essere testimone
di ramificazioni, di questa sorta di diffusione molecolare di un’idea di politica altra rispetto a quelle
sperimentate. E’ importante dire che Silver Lautrange è colui che ha incominciato a importare e a
tradurre il pensiero di Foucault, di Derrida, di Deleuze e Guattari: quindi, si vedono le varie
intersecazioni di schegge diverse che in un certo senso, pensando retrospettivamente (ma non solo,
anche pensando adesso), mi permette di dire o di capire quanto in realtà fosse poco italiano quello
stesso movimento e filone di pensiero e teorico che pure era stato il mio battesimo, e quanto fosse
poco se vogliamo operaista nel senso della stanzialità, della fabbrica; era un operaismo nel senso
semmai internazionalista, basato su un’idea di rottura con un modo stesso di concepire la politica e
che partiva ovviamente dalla critica del lavoro, dal rifiuto del lavoro, che era stata una delle parole
chiavi e degli obiettivi forti dell’operaismo, ma quindi di una messa in discussione di tutto un
modello culturale che dal lavoro salariato fordista si era storicamente dato. Quindi, diciamo che è
questa critica operaista della società fordista che fa dell’operaismo italiano una cosa che
immediatamente ha una sua dimensione multinazionale, multiculturale, pluriculturale,
pluridisciplinare. Io l’ho vissuta così, ma l’ho vissuta in carne ed ossa nel senso che c’ero, non è una
mia invenzione: ho visto David Burn dei Talking Heads interessarsi all’operaismo, in forme poi
(come sono sempre) magari anche estetico-culturali, però fino a un certo punto, perché poi in realtà
le cose si sono venute a sapere, si è capito che non erano solo cartelloni pubblicitari o manifesti e
che c’erano delle lotte, c’erano i movimenti, c’era organizzazione, c’era uno scontro, c’era la
prigione, c’era l’incarcerazione, c’era la repressione. Tutto ciò è una cosa che è importante ricordare
quando si fa la ricostruzione di tutto questo periodo perché effettivamente permette di capire che
certe ipotesi di lavoro non erano volontaristiche, non erano semplicemente basate su bisogni a

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trovare degli alleati, di coloro che portano il nostro pensiero, non era quello: è che in effetti il
pensiero si è diffuso più attraverso le cose reali, i movimenti ripeto non solo di tipo classico
operaista e militante tradizionale, tutt’altro, ma attraverso quelli che sono stati movimenti di rottura
nell’ambito artistico, musicale ecc.
Nell’82 sono ritornato in Inghilterra, dove di nuovo per un anno mi sono ritrovato con quelli che
erano sempre stati i compagni e gli amici, i quali non avevano mai smesso di essere in qualche
modo in contatto: ancora adesso Emery, che è una specie di autoeditore, uno che ha tradotto
quintalate di scritti dall’italiano, mi ha chiesto se poteva tradurre una mia cosa, io non ci pensavo
neanche più. E’ vero che l’Inghilterra colpisce sempre per le sue sedimentazioni, se uno va dopo
vent’anni a Londra o in qualche città vede ancora gli skinheads dei primi anni ’70 o i punk, non è
che siano mode, lì sono realtà sociali, per cui quando succede qualcosa resta, è come una grande
mostra di esposizione universale dove si vede tutto quello che negli ultimi quarant’anni è successo
nella moda, nei movimenti sociali, nei gruppi musicali ecc., ci sono ancora i rockettari degli anni
’50 vestiti allo stesso modo. Così è anche un po’, se vogliamo, nei nostri giri: c’è però una
continuità che avevo già potuto verificare e constatare nell’82. Nell’83 ero passato a Parigi, dove
c’era ormai già il gruppo dei fuggiaschi (Oreste, Pace e tutti gli altri) e dove ovviamente il problema
dell’amnistia o della non amnistia era stato centrale, però c’era anche la volontà di ramificarsi, di
costruire qualcosa: credo di poter dire che è soprattutto dall’arrivo di Toni che sia stato possibile un
certo tipo di lavoro politico sistematico, che poi ha avuto il suo risvolto e una sua concretizzazione
con riviste (Futur Anterieur ecc.), anche se poi in realtà c’è sempre stato una forte mobilitazione dei
compagni italiani scappati dalla repressione. Poi mi è capitato di stare quasi un anno a Monreal,
dove c’era Piperno (che a sua volta vi era arrivato dopo essere stato a Parigi): lui aveva già un sacco
di rapporti in virtù anche della sua enorme capacità di sedurre e socializzare, oltre che per la sua
intelligenza. Lì, nell’84, mi ricordo che era stato organizzato un convegno, al quale aveva
partecipato anche Guattari (quindi pochi anni prima di morire), oltre a Piperno e a una serie di
compagni, anche americani. Ciò sempre per ricordare di nuovo questa dimensione di fatto diciamo
globale o globalizzante, nel senso che c’è sempre stato un punto di vista sulla globalizzazione o, se
vogliamo, possiamo parlare in termini di globalizzazione dal basso naturalmente del pensiero, degli
scambi di sapere, di pratiche ecc.: comunque questa è una dimensione che sprovincializza molto
quello che è l’operaismo che io ho vissuto. Questo in un certo senso permette di capire a maggior
ragione le differenze abissali per esempio nei confronti delle Brigate Rosse: se vogliamo entrare nel
merito anche di quello che è stato il periodo della militarizzazione o delle pratiche illegali, diciamo
che la lotta armata delle BR, anche se magari voleva colpire gli obiettivi, le sedi delle
multinazionali o la Nato, io l’ho sempre vista come una lotta comunque molto radicata nella storia
italiana, che parte cioè dalla Resistenza dei partigiani, ha preso un po’ di testimoni in un certo
senso, basti vedere i racconti autobiografici dei vari Franceschini e via dicendo; è molto in
competizione con il PCI, quindi c’è una continuità ma che direi proprio italiana in questa forma di
lotta, che pure aveva ovviamente con la Rote Army Fraktion o altri delle affinità, ma lo erano nel
senso più che altro tecnico. Diverso è il discorso sulla declinazione militare o comunque illegale
dell’operaismo, alla quale fra l’altro io non ho aderito, sono anzi stato parecchio critico. Per
esempio io negli anni ‘74-’77, ma poi ancora oggi, ho avuto un rapporto stretto mi ricordo allora
con la rivista Primo Maggio di Sergio Bologna, un rapporto, oltre che di amicizia, anche di
riflessione, di analisi con lui e altri compagni. Io ero in Svizzera e avevo visto e vissuto dall’interno
uno spostamento sul terreno militare, chiamiamolo così, di quello che era Lotta di Classe, basato
certo su un’ipotesi di rivoluzione armata ma dall’altra parte in un qualche modo fortemente, volenti
o nolenti, condizionato da quanto stava succedendo in Italia, quindi con gli effetti, costruzioni di
infrastrutture per i compagni fuggiaschi ecc.: da noi c’era una confusione a volte tra BR e non BR,
Autonomia organizzata, nel senso che quando ti arrivava un compagno mica stavi a guardargli la
tessera. Quella svolta lì io non l’ho vissuta bene, anzi, anche perché non l’ho mai vista come
qualcosa che effettivamente avesse sufficienti ramificazioni nel corpo sociale: mi è sembrata
proprio un’accelerazione disperata per certi versi, e in effetti disperate e tragiche sono state le

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conseguenze di tutta quella fase. Mi ricordo che avevo anche rotto con una serie di compagni dopo
tanti anni, ovviamente è stata una rottura politica, però erano anche rotture di rapporti, di amicizie: è
stato un periodo lacerante per tanti versi, però allo stesso tempo eravamo tutti compagni, venivamo
tutti dallo stesso percorso.
Quelli sono stati anni che hanno preparato (in malo modo se vogliamo) il passaggio al
postfordismo, per certi versi è stata magari non distrutta ma comunque incarcerata un’intera
generazione: non a caso gli ’80 sono stati anni in cui il neoliberismo, partendo dalla Thachter e da
Reagan, trionfa, ma anche perché erano state create le premesse per farlo trionfare. Al di là di quello
che era il 7 aprile, certamente una cosa minuscola in confronto a quella che è stata la rivoluzione
neoliberista, però su tutta la linea si parte dalla repressione: Reagan, il primo mese dopo il suo
insediamento, fa fallire a muso duro, opponendosi, gli scioperi degli aeroporti, per non parlare della
Thachter. Quindi, si parte comunque con questa rigidità politica di distruzione di quelle che erano le
forme più eversive della critica attiva del modello di società fordista. Questa repressione poi la
vediamo non necessariamente in termini polizieschi ma anche in termini monetaristi per esempio:
nel ’79 c’è una svolta violentissima per porre fine alla faccia monetaria delle lotte operaie, c’è allora
un’inflazione, quindi negli Stati Uniti si aumentano i tassi fino al 20-21%.Questo per dire che la
svolta lì è forte, tutto succede non a caso nel ’79, sarà una coincidenza, ma quando io ricostruisco il
passaggio che ci ha portati alla new economy, se vogliamo usare quest’ultima espressione, o
comunque al modello postfordista (se modello è), in termini di ricostruzione storica, economica e
finanziaria io la svolta la vedo nell’ottobre ’79 con la decisione di aumentare, ispirandosi a Milton
Friedman, i tassi interesse per dare un taglio netto con l’inflazione e con la svalutazione del dollaro
sul piano internazionale. Però, ripeto, tutto questo ha significato entrare nel postfordismo, o
comunque iniziare il postfordismo: adesso un sociologo tipo Voltan Skill (in L’esprit de nouveau
capitalisme, questo malloppone che ha pubblicato recentemente in Francia) si interroga su cos’è lo
spirito di questa nuova economia postfordista, e dice cose che sono condivisibili, cioè che (lo dice
da sociologo) la nuova economia è una metabolizzazione di tutta una serie di cose che noi, in Italia
e sul piano mondiale, avevamo detto come critica del fordismo, cioè critica del lavoro salariato,
critica del lavoro a vita, da ergastolani, critica della gerarchia di fabbrica di tipo piramidale, critica
del localismo come stanzialità, critica della catena di montaggio anche come standardizzazione e
serializzazione dei prodotti, quindi critica anche estetica, o all’estetica, dunque rivendicazioni di
flessibilità, di destandardizzazioni, che erano cose del movimento e che il capitale ha fatto sue, le ha
interiorizzate. Si pensi a quello che è stato il movimento del ’77 a Bologna, è stato sicuramente una
rivendicazioni di radio libere, di comunicazione, di lavoro immateriale ecc.: molti, proprio in carne
e ossa, li vedi nelle tivù di Berlusconi e li hai visti negli anni ’80, sono stati certamente recuperati,
ponendo non pochi problemi a coloro che l’avevano vissuto, penso ad esempio a Bifo (che è un mio
grande amico). Io mi ricordo che negli anni ’80 ci si chiedeva “cos’è questa roba? siamo tutti
traditori?”: voglio dire che il problema del pentitismo, al di là dei tradimenti in sede di magistrature
varie, lo si è visto anche proprio come l’espressione di un processo più ampio, di questa
metabolizzazione capitalistica della critica al fordismo che era stata sviluppata negli anni ’70. Però,
ripeto, questo passaggio non sarebbe stato possibile senza la repressione, certo in senso ampio e
lato: comunque non si passa dall’operaio-massa, all’operaio-sociale, al soggetto nomadico ecc., in
virtù di modelli manageriali, aziendali e via dicendo, si passa dopo aver distrutto quelle che sono
delle resistenze avanzate.
Quando io sono tornato in Svizzera, nell’85, sono andato nel Dipartimento delle Opere Sociali,
dove ho lavorato per dodici anni, e ho fatto delle ricerche che in Svizzera hanno avuto un seguito
(nel senso che sono state fatte un po’ ovunque) sulle nuove forme di povertà. Mi ricordo che quando
lo dissi a Toni, che era a Parigi, lui era completamente spiazzato: “le povertà? ma che cos’è questa
roba?”. Non c’era nella tradizione operaista nessun tipo non dico di sensibilità, non è questo, ma di
attenzione per tutta la tematica della povertà, nel senso che comunque l’operaismo non è mai stato
un modello di una teoria che partiva dai poveri: partiva, se vogliamo, dai punti forti del capitale,
tanto è vero che la critica al terzomondismo è stata politica, è stata la critica all’idea di poter

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attaccare il capitale dalle periferie, dal sottosviluppo, mentre noi abbiamo sempre sostenuto il
contrario; lotta sul salario era per più salario, per un certo consumismo se vogliamo, ma politico
anche, era una lotta per il contropotere ecc. E’ chiaro che quando si comincia a studiare, a dire “ma
qui ci sono delle cose strane, ci sono delle nuove forme di povertà”, a chi era stato uno dei massimi
esponenti e teorici dell’operaismo e quindi dell’Autonomia questa idea di incominciare a
preoccuparsi e a studiare ciò sembrava strana. In realtà è vero che le nuove forme di povertà erano
dei segnali della trasformazione, della transizione al postfordismo, ad una società postsalariale se la
vogliamo chiamare così, dove è stato messo in crisi proprio la forma salario del rapporto tra capitale
e lavoro, quindi una forma contrattuale che andava messa in crisi proprio per poter liberare il
capitale dalla sua stanzialità, dalla sua fissità, dalla sua spazialità, proprio per deterritorializzarlo:
dunque, per far questo bisognava rompere, non solo politicamente con la repressione, ma anche
strutturalmente la classe operaia, la sua interna composizione, che aveva anche una sua dimensione
spaziale, la comunità operaia in fabbrica. Le nuove forme di povertà sono questo, cioè gli effetti di
un attacco alle colonne portanti della classe operaia e il passaggio, si diceva allora, al modello Mc
Donald’s, la mcdonalizzazione, ossia il fatto che da Detroit o da Torino, dove sei stato militante,
dove hai lottato sul salario, sull’orario ecc., passi al fast-food e ti accorgi che il lavoro è peggiore,
che i salari sono quello che sono, che non c’è nessun tipo di rappresentanza sindacale e via dicendo.
Erano cose che abbiamo visto, però le nuove forme di povertà erano il segnale concreto, in carne ed
ossa, di questa transizione, che tuttavia da questo punto di vista ci aveva visto un po’ impreparati,
perché non c’era la povertà nella tradizione operaista, non c’era una cultura della povertà, neanche
una sensibilità, anche se poi si è sempre fatto lavoro certamente dentro il proletariato, però un
proletariato che voleva essere vincente nell’assalto alla ricchezza.
Io credo che lì forse si può anche individuare il perché della nascita negli anni ’80 di quello che poi
sarà importante negli anni ’90, cioè il terzo settore, il volontariato ecc.: le nuove forme di povertà
chi le ha capite politicamente sono i cattolici, non c’è niente da fare, è inevitabile, da sempre hanno
la povertà nella loro religione e nelle loro pratiche. La nascita delle nuove forme di povertà coincide
anche con le prime vere e proprie messe in discussione (e io questo l’ho vissuto dall’interno) dello
stato sociale, del welfare-state: già negli anni ’80, sull’onda del reaganismo ecc., lo stato sociale è il
bersaglio. D’altra parte è anche vero che lo stato sociale si era molto amministrativizzato,
burocratizzato, per cui aveva perso anche quel consenso sociale e di base che è necessario per
mantenerlo in vita. Lo stato sociale, che pure è sicuramente una conquista delle lotte operaie in
epoca fordista, incomincia senza dubbio ad essere attaccato dalla destra, ma allo stesso tempo perde
consenso proprio laddove ti saresti aspettato perlomeno una difesa. Il discorso è complesso e
complicato, ma non c’è dubbio che da qualche parte rimanda all’inizio della perdita di terreno e di
forza politica della sinistra istituzionale: i partiti di sinistra naturalmente usano lo stato sociale per
tenersi in vita politicamente, d’altra parte la loro crisi politica non permette di resistere all’attacco
della destra economica allo stato sociale. Quindi, questa duplice crisi è indotta dalle scelte e dalla
strategia della destra economica, ossia tenere lo Stato in una condizione di povertà, per non mai
aumentare o addirittura proporre nuovi mezzi, nuovi interventi, nuove misure in difesa dei più
deboli; ma allo stesso tempo si tratta di una crisi del sistema partitico, in particolare della sinistra
dentro il sistema partitico del compromesso storico, del compromesso sociale fordista, che aggrava
quella che è una crisi di consenso nei confronti dello stato sociale. Questo sicuramente si comincia a
vedere negli anni ’80, nel senso che ad un aumento della povertà non fa riscontro un aumento della
difesa dello stato sociale: l’aumento della povertà coincide con lo smantellamento dello stato
sociale, almeno io vedo questo dal mio osservatorio svizzero ma ovviamente non solo. E coincide
con la messa in crisi e in discussione in tutti i casi e su tutta la linea dello stesso ruolo dello stato
sociale nel nuovo modello che stava prendendo forma, che poi noi abbiamo chiamato postfordista e
che oggi si chiama new economy, ma comunque siamo sempre lì: questo è un modello che
presuppone forme nuove di ridistribuzione del reddito, molto perverse se vogliamo, ma che oggi
sono più centrate sui mercati borsistici che non (almeno per quanto riguarda il sistema
pensionistico) come garanzia di un reddito relativamente sganciato dal lavoro. Questo passaggio si

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rifletteva nell’emersione e nell’apparizione di tutte queste nuove forme veramente inedite di
povertà, che a mio modo di vedere sono il momento in cui le tematiche del terzo settore vedono i
cattolici apparire sulla scena attivamente; essi hanno ovviamente visto lì l’occasione storica, ma non
solo loro, anche per esempio i leghisti. Le forme del leghismo si differenziano a seconda delle zone:
nel nord Italia nascono dalle povertà dei forti, nel senso della piccola e media impresa nei confronti
del grosso capitale e dello stato sociale, dello Stato di Roma; da noi (anche qui abbiamo una Lega)
il mio studio sulla povertà era per esempio stato paradossalmente preso come una specie di bibbia
per lanciare, ovviamente in termini populistici, tutto l’attacco al sistema vecchio, al centro-sinistra e
ad un federalismo che, seppure siamo visti come modello di paese federalista, è già in crisi a partire
dagli anni ’80. Per questo nasce una Lega in Ticino, perché i centri di potere economico e politico
sono effettivamente contro o comunque già allora si intravede in che direzione vanno le città di
Zurigo, i cantoni forti, la nostra Berna che è un po’ come Bruxelles per l’Europa, tutto ciò per
quanto riguarda la costruzione federalista della società postfordista. Quindi, a partire dalle nuove
forme di povertà si vede il cambiamento di alleanze, ci sono i cattolici che ritornano alla grande sul
sociale, là dove la sinistra è impreparata: mi riferisco al sociale dei perdenti, dei poveri, però allo
stesso tempo sono terreni forti nel senso che sono terreni di sperimentazione delle nuove forme del
lavoro, della produzione della ricchezza, l’operaio-sociale diventa la sottoclasse e però resta sempre
il materiale vivo a partire dal quale si produce la ricchezza, come la si produce nel postfordismo e
nella nuova economia in termini comunicativo-relazionali, attraverso i linguaggi, attraverso la
mobilità, attraverso la deterritorializzazione ecc. Lì si ha però questa congiuntura strana e anche
complessa, dove tutti questi fili si annodano attorno a soggetti politici nuovi e che danno un grosso
contributo all’emergenza del centro-destra: leghismo, crisi dei partiti cattolici, rinascita di una
politica cattolica attraverso CL, forze politiche che poi saranno decisive negli anni ’90 per formare
un nuovo blocco politico con la destra economica un po’ ovunque. Tale blocco non sarà
necessariamente vincente, perché in effetti resta nella maggioranza dei paesi (salvo in Ticino)
comunque ancora all’opposizione, però è molto importante per condizionare totalmente le politiche
cosiddette del centro-sinistra, le quali sono non a caso del tutto condizionate da questa forza che è
popolare, non è solo elitaria. E’ una forza popolare che preme sui partiti della regolazione dello
stato sociale in quest’ultima fase e li costringe sempre di più comunque, volenti o nolenti, su scelte
politiche che sono liberiste, si pensi a Blair, Schroeder, D’Alema, per non parlare di Amato, lo
stesso Jospin: questa è la società nella quale il sistema partitico, se vuole stare in piedi, se vuole
essere al governo, o fa così o crolla. Il problema è se si vuole agire ancora in quel modo, questo è un
altro paio di maniche, ma se uno sceglie di stare dentro la logica partitica, anche di alleanze, ma
comunque sempre dentro una sistemica partitica, non c’è mica tanto da girarci attorno: o segue la
politica degli sgravi fiscali, delle pensioni che vanno verso una sempre crescente importanza di
quelle integrative (che noi abbiamo già dall’85, è il sistema dei due pilastri, pensione pubblica e
pensione a regime di capitalizzazione), della flessibilizzazione del mercato del lavoro ecc., oppure
chiudono le loro sedi, è tutta gente che deve riciclarsi. Quindi, la politica partitica, tutta l’eredità
dell’epoca fordista, di un certo tipo di stato sociale basato su un certo tipo di regolazione partitica
del ciclo e della distribuzione dei redditi, dopo questo passaggio degli anni ’80 è completamente
condizionato da questo nuovo blocco economico, culturale, non partitico ma postpartitico. La Lega
è anti-partito se vogliamo, non parlo necessariamente di quella di Bossi, ma del leghismo, che non a
caso nasce appunto con una critica durissima dei partiti, della logica di partito e fa presa proprio su
quei soggetti che i partiti e il sistema dei partiti li avevano subiti. Questi non sono solo il piccolo e
medio imprenditore, ma anche il salariato che viene buttato fuori e deve dipendere dall’assistenza
pubblica, o che è in disoccupazione, che è alle prese con la pesantezza dello stato sociale: andare
all’assistenza pubblica è veramente una cosa umiliante, io ci ho lavorato con quella gente lì, lo stato
sociale è in crisi anche perché è uno stato di coglioni. Però è vero che in qualche modo ha
funzionato per distribuire una ricchezza che altrimenti sarebbe rimasta nelle tasche dei ricchi, ma
allo stesso tempo c’è stato un prezzo, noi abbiamo sempre detto che lo stato sociale è comunque

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uno stato della disciplina, del controllo, non è solo pane e rose, tutt’altro: anche questo è stato
recuperato dal capitale e dalla nuova economia.
Io ho come l’impressione che l’operaismo, quella generazione ma non solo, anche tutti i giovani che
sono cresciuti negli ultimi vent’anni dentro questo corpo teorico, in un qualche modo ha dato
dimostrazione di avere una certa lucidità nell’analizzare cos’è il postfordismo, la new economy
ecc.: insomma, mi sembra che da parte di quel cervello collettivo si siano prodotte delle cose che da
una parte hanno anticipato (come è sempre stato nell’operaismo, una grande capacità di
anticipazione) quelle che sono oggi per esempio le realtà della finanza, della finanziarizzazione
nella società e non solo delle aziende, dell’agire comunicativo che nello stesso tempo è un agire
produttivo nei luoghi di produzione, di questi soggetti postsalariali che negli anni ’80 sicuramente
erano i soggetti delle nuove povertà ma che oggi sono “normalizzati” dentro il modello di crescita
economica postfordista. Però, mi sembra che si stia piano piano uscendo da quello che è stato il
contraccolpo del passaggio dalla repressione, si incomincia a pensare non più soltanto in termini
difensivi o resistenziali ma si inizia a vedere proprio dentro la produzione teorica anche la stessa
possibilità di produrre lotte. Soprattutto in un’economia e in una società dove il linguaggio e la
comunicazione sono fortemente pervasivi è importante quella che è stata una delle caratteristiche
della politica operaista, quella di trovare le parole giuste per parlare di cose che non hanno parole,
in verità ricostruire delle categorie che sono nello stesso tempo categorie che producono
soggettività: mi sembra che adesso piano piano si stiano trovando delle parole e delle categorie che
non sono soltanto la registrazione della forza del capitale, ma anche la registrazione di movimenti
che possono essere attivi. Certo, Seattle, per dire, con tutti i suoi limiti interni, da una parte ha fatto
vedere a miliardi di persone l’esistenza di un pensiero critico in carne ed ossa, però questo pensiero
critico ha solo carne ed ossa, nel senso che lo vedi, alla televisione, ai telegiornali: il problema è di
avere un pensiero critico che paradossalmente non abbia corpo, nel senso che sia pensiero critico
che sappia penetrare nella società senza sedimentarsi nei corpi, nel corpo di Bovè, nel corpo del
sindacalista che vede gli effetti collaterali della globalizzazione, nel corpo del giovane che rifiuta
questa riduzione economicistica di tutta l’esistenza e di tutto l’universo ecc. E’ una cosa che non
saprei sviluppare oltre, ma questa idea di un movimento molteplice, di una moltitudine che però non
ha corpo mi sembra una sfida interessante. La moltitudine di cui si parla oggi cosa ha dentro? E’ il
movimento della differenza, ma della differenza molteplice, è un movimento che nasce dalle donne
in realtà, nel senso che per prime le donne hanno praticato la differenza, a partire dal sesso, dalla
discriminazione ecc. hanno sviluppato tutto un linguaggio, tutta una comunicazione, delle parole
insomma che sono state altre dal diverso. Oggi il problema è rendersi conto che la differenza è
molteplice, quando si parla di moltitudine si parla di un mondo, di un pluriverso che è contro la
globalizzazione pur essendoci dentro, ma allo stesso tempo la sua diversità si articola e si declina in
tante diversità, addirittura in tante singolarità. Questo vuol dire moltitudine, vuol dire non mai
ridurre la diversità al popolo unito, il popolo unito è quello che ci frega, è quello che ha fatto
emergere ed esplodere le leghe, i nazionalismi berlusconiani e tutte queste robe qua; il popolo unito
è un’eredità negativa dell’epoca industriale, della classe operaia, di questa visione nazional-
popolare (anche a sinistra) dei soggetti. La moltitudine sulla quale oggi si sta più che altro
ragionando è da una parte qualcosa che secondo me vede tutta la riflessione, la lotta e la produzione
teorica delle donne, proprio in quanto pensiero della differenza, come un’esperienza teorica
fondamentale, però d’altra parte vede proprio nel fatto del corpo e della differenza il suo stesso
limite, perché il corpo e la differenza non ti portano a un concetto di moltitudine che sia
antagonistico in quanto tale, ti portano semmai a un concetto di moltitudine che è una sommatoria
di corpi, come è stato Seattle. Il problema è di andare al di là di questa cosa, il che non vuol mica
dire trascurare il corpo, tutt’altro, ma trovare un modo di non prendersi cura del corpo come sta
facendo il capitale, che si prende cura del nostro corpo perché si prende cura di noi come forza-
lavoro, di corpi vivi da mettere in valore, da far lavorare.
D’altra parte mi sembra che, proprio per le cose che dicevo all’inizio, nella ricostruzione perlomeno
di quello che è stata la mia vita dentro l’operaismo, sempre un po’ in giro, non c’è solo il concetto

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teorico di moltitudine che di nuovo è una di quelle parole giuste che bisogna inventare per produrre
delle lotte. Quando 30-40 anni fa si è detto operaio-massa si era detto qualcosa che era una parola,
era un’espressione, poi dopo sono stati fatti mille studi di sociologia del lavoro per vedere quanto
l’operaio fosse massa, molte volte confondendo i piani: l’operaio-massa era certo una categoria
sociologica, sociale, nel senso che era rappresentabile nell’operaio della catena di montaggio, o
nelle masse degli immigrati, o in tutto quello che si vuole, però nello stesso tempo l’operaio-massa
era qualcosa che non era riducibile per esempio in termini di omogeneità. Quante volte si è detto
“ma non è vero, perché poi gli operai in realtà non sono mai stati veramente così, c’erano un sacco
di stratificazioni ecc.”, ma questo è sempre stato vero, la parola d’ordine operaio-massa era
qualcosa che rimandava per esempio alla dimensione di massa del salario, della forma salariale, del
rapporto tra capitale e lavoro, era il tirare dentro questa universalità di massa della società
capitalistica dei nuovi soggetti, gli studenti per esempio. Il problema non era portare gli operai dagli
studenti, il problema era portare gli studenti a mettere in rapporto organico le loro lotte con quelle
degli operai, e a sua volta fare in modo che le lotte degli operai permettessero ai poveri studenti, o a
dei giovani, a dei nuovi soggetti di uscire da una prospettiva di tipo progressista, riformista, perché
sicuramente erano più radicali le lotte degli operai nel momento in cui proprio non parlavano né di
Trotzki né di Lenin ma parlavano di salario, che non quelle degli studenti che invece magari erano
molto carichi di ideologia e di estremismo ma che però tante volte restavano in un certo ambito.
Anche se poi secondo me è importante nella critica attiva degli anni ’70 ricordare appunto che
quello che oggi è, per parlare di questa metabolizzazione, il discorso sull’economia della
conoscenza, che si produce a mezzo di conoscenza, o sulla base di conoscenza del sapere, è proprio
uno degli esiti della crisi del modello fordista: il rifiuto del lavoro salariato del padre che ha passato
quarant’anni in fabbrica e la domanda di saperi, di università, di scuola ha spinto anche il capitale a
muoversi su questo terreno dell’immateriale. Seattle è una moltitudine che è una caricatura della
moltitudine, nel senso che ha dei vestiti e ha dei corpi che però rischiano di svuotare di potenza
politica la moltitudine nel momento in cui di nuovo questi corpi per fare politica, in quanto corpi,
fanno un po’ quello che fanno i partiti: nei numeri di Le Monde Diplomatique dopo Seattle ai teorici
della critica del pensiero unico non pareva vero, il che è giusto, è gente brava e simpatica, ma c’era
la proposta di voler mettere in piedi un parlamento internazionale o sovranazionale, per fare dei
gruppi di lavoro con i corpi, con i rappresentanti del movimento internazionale ecologista. Qui si
vede immediatamente come possa cadere in poco tempo una categoria, quella della moltitudine, che
ha delle potenzialità proprio perché è una categoria politica e non è una composizione sociologica,
quindi con i suoi corpi, ma è una categoria di pensiero che non è riducibile a dei corpi, dunque non
è sociologica, non è neanche politologica nel senso dei sistemi organizzativi, le organizzazioni non
governative ecc.: questo accade proprio perché non si è ancora lavorato abbastanza su questa idea di
un soggetto molteplice che è dentro ma è contro la globalizzazione.
Ripensandoci e cercando di ricostruire tutto questo percorso, l’ultima cosa che mi sembra
veramente interessante è questa idea dell’impero che Michael Hardt e Toni Negri hanno sviluppato
in un libro pubblicato negli Stati Uniti, Empire. E’ un’idea piuttosto geniale, nel senso che da una
parte effettivamente dire impero è molto più di quanto si possa immaginare, non significa dire
pensiero unico, significa dire qualcosa che non è più riducibile all’imperialismo, il quale è sempre
stato costruito sulla dialettica perversa tra centro e periferia, sviluppo e sottosviluppo, un dentro e
un fuori. All’idea dell’impero io ci sto arrivando, se si vuole dal punto di vista dell’economista,
seguendo e studiando quello che sta succedendo internazionalmente sul piano finanziario, però nel
libro Toni e Hardt ci sono arrivati certo facendo i conti con la tradizione dell’imperialismo, però
soprattutto attraverso la categoria della biopolitica, del biopotere; io vedo le cose e mi sento sempre
più vicino a questa idea di impero però non partendo da lì, dal biopotere e quindi dalla tematica
foucaultiana che è un po’ al centro dell’impero. Dire impero significa dire che il nemico o meglio il
centro è nella periferia anche, non solo al centro, e la periferia è nel centro; vuol dire quindi dare
una definizione nella quale, io dico, l’altro è qui e qui è l’altro. Faccio un esempio: quest’anno gli
Stati Uniti hanno dimostrato di avere da una parte ovviamente sempre la forza del dollaro che è la

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moneta internazionale, però allo stesso tempo di avere paradossalmente avuto un’evoluzione di tipo
economico, finanziario e anche sul piano degli scambi commerciali di tipo asiatico, sono fortemente
esposti dal punto di vista dell’indebitamento verso l’estero, sono anche esposti al loro interno agli
effetti che una politica monetaria restrittiva potrebbe provocare proprio sul dollaro; supponiamo che
a un certo punto tutti gli investitori che hanno investito nelle Borse di New York, visto il rischio di
una svalorizzazione, dovessero prendere su, esportare i capitali e metterli in Europa o in Giappone,
ci sarebbe veramente una crisi di tipo “asiatico” ma della capitale dell’impero. Quindi, l’Asia è
negli Stati Uniti e gli Stati Uniti sono sempre in Asia, dunque dire impero significa rompere con
quella dialettica del dentro e fuori, del centro e della periferia, sviluppo e sottosviluppo, che pure ha
contribuito a dare una connotazione politica all’internazionalismo proletario o delle lotte, pur
sempre basata su una solidarietà un po’ volontaristica. E’ sempre stato il limite della traduzione
politica dell’analisi delle teorie dell’imperialismo quello di pensare che bastasse fare delle
manifestazioni di solidarietà con i Vietcong: la sconfitta è avvenuta certo perché c’è stato un grosso
movimento della pace e contro la guerra, però anche a causa della crisi interna all’esercito
americano, è una crisi reale indotta anche da fenomeni reali, la rivoluzione culturale degli anni ’60,
della Beat Generation, dei Rolling Stones ecc., era una roba che entrava nelle vene della gente che
era giù a lottare in Vietnam, non erano solo parole e manifestazioni. Quindi, essere entrati in questa
nuova visione delle cose che con una parola, impero, vogliamo riconfigurare, mi sembra
interessante perché pone per esempio la lotta di una banlieu di Parigi o dell’hinterland milanese
immediatamente sullo stesso piano di una lotta a Seattle, ma Seattle di Bill Gates, oppure nella
Silicon Valley. Questo secondo me è importante, si pensi ai lavori della Saskia Sassen, Città
globali, lei è veramente brava, è interessante, perché dice: “Le città globali sono i piedi
dell’economia globale, sono le realtà urbane dove hai i broker però di notte hai le donne della
pulizia che sono di colore o filippine che vengono a pulire gli uffici dei broker”. Lei giustamente
sostiene che questa è la realtà della globalizzazione, analizzando come poi realmente questa
funziona: non è solo perché esistono le tecnologie informatiche o Internet, ma ci sono proprio dei
luoghi, e tali luoghi sono queste stazioni dell’impero, ma sono le stazioni che possono essere a New
York, a Zurigo, a Milano, a Seul, a Singapore, a Tokyo e via di questo passo. Sono quindi delle
stazioni di una grande rete ferroviaria virtuale dove si trasportano modalità di sfruttamento del
sapere.

- Tu prima parlavi della moltitudine, i conflitti che essa esprime e che esprimono i vari soggetti
anche nella loro singolarità e nella loro differenza: non pensi che però in questo discorso vada
considerata una pesante colonizzazione della soggettività da parte del capitale e
un’imposizione dei propri modelli a partire proprio dai comportamenti, dai bisogni, dalle
credenze, dalla cultura, dalle ideologie ecc.? Non pensi che molti conflitti vadano in una
direzione funzionale al sistema piuttosto che in una dimensione di alterità? I bisogni di per sé
non sono antagonisti, sono quelli che il capitale ha imposto, quindi i conflitti che da essi
nascono si esprimono molto più in senso orizzontale e individuale che in forme di
contrapposizione collettiva al sistema, perché si è esclusi da determinati benefici del
capitalismo e non perché si è contro ad esso. Anche a Seattle sembra essersi visto questo: le
forme di contrapposizione alla globalizzazione per molti partivano ad esempio da
rivendicazioni protezionistiche o di determinati privilegi individuali.

Certamente lì si è visto, perché quando si prendevano i programmi di lotta e le agende dei vari
movimenti e delle varie organizzazioni ciò era evidente: come si fa da una parte ad avere il
sindacato dei lavoratori americano, l’AFL-CIO, che lotta contro i dumping salariali, e dall’altra poi
avere i rappresentanti dei paesi poveri? Oppure avere coloro che lottano contro lo sfruttamento nei
paesi sviluppati, nelle periferie o nei paesi emergenti, e poi avere quelli che sono contro lo
sfruttamento minorile nelle fabbriche della Nike in Indonesia? Voglio dire che per certi versi era un
macello, ma io credo sia proprio quello che si diceva prima, ossia il limite di un’opposizione alla

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globalizzazione che ha bisogno per esistere di una sua corporeità. Faccio un esempio da
economista: nel dibattito, o nella lotta, tra la old e la new economy (si prenda l’ultimo libro di
Rifkin) una cosa che salta sempre fuori è che le imprese dot.com sono imprese che non hanno
capitale fisico immobilizzato, che hanno la proprietà non dei mezzi di produzione come li
intendiamo classicamente ma hanno la proprietà intellettuale. Sono imprese appunto immateriali e
producono dei beni che non costano sotto il profilo della produzione materiale, costano dal punto di
vista della dimensione immateriale, cioè del servizio; invece una General Motors ha le sue belle
fabbriche, la proprietà non è solo intellettuale ma è proprio fisica. La forza però anche
l’indeterminatezza è quella che poi causa i crolli borsistici perché qui non si vedono ancora i profitti
di queste imprese dot.com, però ci sono anche la difficoltà di valutare la forza economica con i
vecchi criteri usati dagli analisti per le imprese che hanno un capitale tangibile, immobilizzato. A
me serve questa analisi non tanto per vedere chi vince e chi non vince, perché credo che non sia
questo il vero punto; il fatto è che l’assenza di capitale immobilizzato è in un certo senso l’assenza
di un corpo fisico dentro il quale poi l’impresa dot.com, l’impresa nuova della new economy si
sedimenta, si fa studiare, si fa vivisezionare, si fa valutare: la nuova economia il corpo non ce l’ha
lei, lo produce entrando nei nostri corpi. Si prenda il caso di questo problema della natura
monopolistica della new economy: questa significa che tu sei in una posizione di costringere la
gente ad assuefarsi, a far suo il sistema operativo di Microsoft, perché lui ha avuto il tempo
sufficiente per tirare fuori i concorrenti e quindi passare e diventare il sistema che usano tutti.
Questa è la teoria dei rendimenti crescenti, io l’ho scritto in un articolo su Il Manifesto in cui facevo
l’esempio della Ramington, la produttrice di macchine da scrivere che, per ragioni che avevano
poco a che fare con il miglioramento tecnologico, aveva disposto le lettere della tastiera in modo
tale da rallentare la velocità, perché allora, se si scriveva troppo velocemente, si accavallavano le
lettere. Però, proprio la Ramington, a partire da quella tastiera e da una posizione dalla quale ha
imposto agli altri produttori le macchine da scrivere con quella tastiera, ha fatto sì che oggi miliardi
di persone usino quella tastiera: essa è una cagata, oggi potresti cambiare, ma chi è che lo fa? Per
perdersi tutto il mercato? Non è ergonomica, tu potresti scrivere molto più svelto, ma ormai la
tastiera è quella, come Windows è il sistema operativo. Questo vuol dire che la colonizzazione non
parte da un corpo che si dilegua, ma da un comando, da una proprietà, da un monopolio che entra
nei nostri corpi: perché oggi noi la tastiera della Ramington la usiamo ed è naturale, noi abbiamo
naturalizzato l’uso. Noi oggi il corpo lo viviamo appunto nella sua versione negativa, nel momento
in cui agiamo partendo da quelli che sono i nostri bisogni: se ho un bisogno di scrivere oggi io lo
soddisfo usando una certa modalità di scrittura a macchina che è quella lì, punto e basta; il problema
è di trovare una modalità che permetta di sottrarre il corpo a questi body-snatchers, a questi
invasori, a quello che è il nuovo comando dell’economia postfordista, immateriale, del general
intellect messo al lavoro. Il general intellect deve dunque sottrarre il corpo, è per questo che dicevo
che il problema è sviluppare il pensiero della differenza in modo tale che non si corporeizzi.
Ho letto un bellissimo articolo di Lia Cigarini sul rapporto tra le donne e il lavoro, in cui alla fine
dice che ci sarà una lotta sul posto di lavoro tra uomini e donne, perché le donne vedono il lavoro in
un certo modo e gli uomini lo vedono in un altro: è una lotta che è orizzontale ma non si verticalizza
proprio perché è di nuovo un passare dalla differenza al corpo che è portatore della differenza, però
il corpo portatore della differenza può solo lottare con altri corpi e quindi restare su questo piano
orizzontale. Dunque, trovare il modo di decorporeizzare significa rendersi conto che la moltitudine
è ciò che sa sottrarsi a questa invasione e colonizzazione da parte del capitalismo del general
intellect. E’ chiaro che questo è un passaggio difficile, però ci deve vedere impegnati a lavorare: c’è
comunque già in Marx questa interessantissima questione. Nel ‘900 nel marxismo si è parlato e
dibattuto molto del problema della trasformazione dei valori in prezzi, la destra ha sempre usato la
contraddizione di Marx come contraddizione logica per dire che è una stupidaggine, che non regge
questa nuova teoria, dimenticando che era una critica dell’economia politica, non era una nuova
teoria alla stessa stregua dell’economia marginalista, della teoria classica. In Marx c’è già chiaro e
tondo il problema dell’impossibilità di ammortizzare il capitale fisico, il capitale fisso, costante, nel

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senso che il lavoro vivo crea valore di scambio ma non crea quel valore che tu devi mettere sotto
forma di prezzo per poter accumulare quella somma di denaro tale da poter ammortizzare quello
che hai investito in macchinari, che è il lavoro morto, il lavoro passato, il lavoro contenuto. Di
questa contraddizione Marx è perfettamente consapevole, in Teorie sul plusvalore ci sono diverse
pagine dove fa vedere che uno non riesce ad ammortizzare neanche un coltellino sulla base della
teoria del valore-lavoro, perché il lavoro vivo crea solo nuovo valore, non crea nuovo valore tale da
poter sostituire il vecchio valore, quello già immobilizzato nei macchinari. Oggi noi abbiamo a che
fare con un’economia che sempre più si libera di lavoro morto, al limite lo prende in affitto come
dice giustamente Rifkin, oggi il capitale fisso, delle macchine, è visto anche dagli analisti della new
economy più come un ingombro, come una non ricchezza, come una ricchezza negativa piuttosto
che come una ricchezza: oggi avere una fabbrica non è un vantaggio, perché una fabbrica non sta
mai dietro alle innovazioni, oggi è meglio affittare, prendere a leasing gli strumenti, usarli e poi
dopo basta, quindi non è neanche più quello il punto. Però, allora vuol dire che tu hai tolto al
capitale costante il corpo fisico, fisso se vuoi, non hai più questo, hai un lavoro vivo immateriale
che non è depositato in capitale costante. Ora, come si fa ad ammortizzare comunque? Perché tu fai
delle spese di investimento iniziale, Microsoft per Windows ci ha cacciato dentro 500 milioni di
dollari o una cifra del genere. Poi dopo, oltretutto, quando butti fuori sul mercato dei prodotti che
non costano niente, che anzi puoi riprodurre piratescamente, come fai a recuperare e quindi
ammortizzare quanto hai investito inizialmente? L’unico modo per farlo è di produrre tu stesso un
corpo da ammortizzare che è il consumatore. Il problema è sempre stato quello, anche ai tempi di
Marx quello che il capitale non riusciva a fare in termini di prezzi riusciva a farlo in termini di
monopolio sui consumatori e contro i concorrenti. Nella new economy l’ammortamento l’hai con
una forma di assuefazione, la chiamano fidelizzazione, chiamala come vuoi ma insomma è un
restringimento della libertà di pensiero e di azione quindi. Questo è il modo con il quale oggi si
ammortizza, nell’economia fordista era creando l’operaio che comprava l’automobile (la Ford, o la
Fiat ecc.), quindi c’era una forma di salarizzazione del cervello sul lato del consumo: non eri libero
tu come consumatore, eri libero di comprare questa o quell’altra automobile, la tua lotta per il più
salario era valida nella misura in cui produceva potere, contropotere, ma non è mica stata la lotta sul
salario che ha destabilizzato il capitale, è stata la soggettività che dentro questa lotta sul salario è
stata messa al lavoro politico e che è stata all’origine della crisi del modello fordista. Magari adesso
ragiono in termini un po’ meccanici, però c’è la storia del lavoro vivo che non può essere usato per
ammortizzare il capitale costante, cosa che è tra l’altro messa in evidenza da marxisti ricardiani tipo
Benetti, Cartellier ecc., in Francia, proprio negli anni ’70, quando Toni era là e questi, pur essendo
di sinistra, però di fronte a questa contraddizione avevano anche loro buttato Marx dalla finestra,
dicendo “non ci interessa”. Invece Marx è interessante proprio laddove non è logicizzabile, dove si
dimostra irriducibile alla formalizzazione logica, perché è lì che viene fuori la soggettività e il
problema di una lotta che non è più neanche in termini dialettici, una lotta che esce dal rapporto
dialettico con il capitale ed entra in un territorio che è sconosciuto al capitale, dove esso è sempre in
ritardo.
Allora, per quanto riguarda quello che dici tu, a proposito delle lotte di Seattle, per quanto
entusiasmanti, perché è chiaro che sono godibili da vedere e magari anche da partecipare,
interessanti sono alcune cose, come il fatto che si è fatto uso di Internet per organizzare e preparare,
però è anche vero che quando si va ad analizzarle è proprio laddove si vuole trovare un terreno
comune che ci si rende conto che siamo ancora distanti e lontani per quella che si intende per
categoria politica che fa della moltitudine il suo soggetto antagonista. Ripeto, secondo me la
moltitudine diventa categoria politica nel momento in cui è capace di mettere in campo, attivare
comportamenti soggettivi di attivo sottrarsi dal corpo e dalla corporeizzazione. Adesso io non saprei
andare oltre, per vederci più chiaro: probabilmente l’attivo sottrarsi da questa traduzione in termini
di corpi di questo soggetto che chiamiamo moltitudine ha dei percorsi differenziati, per esempio
incominciando a criticare la traduzione in termini di parlamento sovranazionale di questo potenziale
di lotta, per esempio andando a vedere dentro il movimento della moltitudine quelle che sono più

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che altro le modalità con le quali questo movimento non si sottrae. Io adesso non le so anticipare,
ma per esempio mi avevano colpito questi interventi post-Seattle in cui mi sembrava così poco e
così impotente proprio laddove avevi visto una potenza in azione, ho detto “ma no, non è possibile
che si arrivi qua a proporre questo”. Per esempio, mi sono trovato a Bologna all’inizio di giugno,
ero lì per caso, con degli studenti, siamo andati a mangiare con Bifo e alla sera siamo andati ad
un’assemblea in vista del No-Ocse: è stato impressionante, era in un teatro occupato e c’era un
casino di gente, di realtà, di gruppi. E’ lì che si giocano le cose, di fronte a determinate soluzioni o
obiettivi che di volta in volta si costruiscono o si portano avanti in vista di queste che sono delle
scadenze, le quali sono determinate a volte dai movimenti a volte dal capitale stesso, dall’Ocse o
dagli Ogm. Io credo che la risposta stia lì, io potrei stare anche dieci anni a pensare a cosa vuole
dire l’attivo sottrarsi da parte della moltitudine da questa traduzione in corpore della sua resistenza
o comunque della sua differenza, e non troverei un fico secco, non riuscirei a inventare niente. Però,
credo che quella sia un po’ la strada che dovremo percorrere. Ci sono poi degli esercizi di analisi e
di riflessione teorica, per esempio a me adesso piacerebbe andare a rivedere questa cosa, sembrava
ormai chiuso il capitolo sul capitale fisso, ammortamento, lavoro vivo, i bravi economisti, i più
bravi di allora hanno detto “vedete, qui non è possibile”: e guarda caso ritorna fuori proprio perché
oggi il conflitto e la tensione tra old e new economy è un conflitto di valutazione, i prezzi dei titoli
delle imprese si dice che sono stratosferici, non hanno niente a che fare, per realizzare i profitti che
si riflettono dentro quegli indici del Nasdaq dovrebbero passare quarant’anni, ma proprio perché c’è
un portare sul terreno della old economy qualcosa che ha a che fare anche con forme di ricchezza e
anche quindi con le categorie del profitto che sono incommensurabili rispetto a quelle della old
economy o comunque di un’economia che in qualche modo rimanda a un’economia fordista per
certe sue caratteristiche, in questo caso per il capitale costante, fisico. Per esempio, una cosa che
colpisce è che comunque tutti gli analisti dicono (e anche a ragione usando i criteri di valutazione
che ci sono e non semplicemente facendo l’elogio o analisi entusiastiche della new economy) che
questi indici della nuova economia sono sballati, e in effetti poi in parte sono crollati; però
sarebbero dovuti crollare molto di più per ritornare a dei livelli normali, oggi sono ancora molto
elevati, ci sono degli alti e bassi però restano ad un livello che è ancora perlomeno del 30% al di
sopra di quello che erano un anno, un anno e mezzo fa. Gli investitori non sono solo i grandi ma
sono soprattutto e sempre di più anche i piccoli, comunque sono sempre di più investitori che hanno
dirottato i loro risparmi sulle Borse per ragioni di pensionamento: da parte di tutta questa
moltitudine di gente, che si gioca poi la pensione come suol dirsi, proprio come te la giochi al
casinò, c’è comunque una percezione della ricchezza che è irriducibile ai criteri di valutazione degli
economisti. Per quanto riguarda queste imprese della new economy i loro titoli saranno sballati,
però il fatto è che la gente ci crede un po’, e ci crede di più degli economisti: ora, perché ci crede di
più? Intanto perché è costretta a crederci, perché comunque conviene loro crederci perché se no
magari ci perde molto; ma al di là di questo ci crede perché c’è probabilmente una percezione della
ricchezza che queste possono effettivamente produrre come ricchezza sociale e non solo come
ricchezza dell’impresa x o dell’impresa y, quindi dei suoi profitti: c’è una percezione di questa
ricchezza che secondo me è più adeguata e più giusta rispetto alla percezione (nel senso del calcolo,
della misurazione della ricchezza) degli economisti. Questo vuole anche dire che la new economy
probabilmente è una anti-economy, perché comunque è molto più basata su una valutazione
soggettiva, percettiva che non su una valutazione dall’esterno, con strumenti esterni.
Ritorniamo sempre a questo fatto, ciò che è il punto di vista esterno che entra dentro il corpo,
l’impossibilità di distinguere tra centro e periferia, tra dentro e fuori, questa idea anche dell’impero
applicata agli stessi criteri di misurazione, di azione e di misure di politica economica e finanziaria.
Oggi uno dei problemi della crisi monetaria, per esempio, è proprio il fatto che non riesce più a
stare fuori, a comandare dall’esterno; è l’interno che comanda la Banca Centrale, basti pensare
all’evoluzione di Greenspan stesso, era un monetarista duro e puro e adesso è uno che, prima di
prendere una decisione fa millecinquecento telefonate in giro per tutti gli Stati Uniti, cioè parla con
la gente dall’interno, non è il presidente di una Banca Centrale che dice “adesso si fa all’x% il tasso

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di interesse”. Qui non si capisce più niente se si sta relativamente fuori, se si è relativamente esterni,
perché non abbiamo più nessuno strumento per stare fuori e guardare il mondo, l’unico modo è di
guardarlo dall’interno e poi ancora. Quante volte si è detto “il petrolio, è partita l’inflazione”, poi
dopo un mese ti rendi conto che non è poi così vero, perché, per quanto importante, in un’economia
che ha sempre più in altre forme le sue materie prime, che sono le materie immateriali appunto,
immaterie prime, non dipende più come dipendeva in passato dai prezzi del barile di petrolio, vi
dipende molto di meno. Però continuiamo ogni volta a stramazzare, “qui parte l’inflazione” e via
tutti a scrivere su questo, ti aumentano i tassi d’interesse e poi l’unica cosa che ti risulta è che ti
sono aumentati gli affitti o la benzina per il pendolare, ma poi tutti gli altri prezzi non aumentano.
Dunque, è una specie di autolesionismo perché, usando le categorie fordiste, si contribuisce a fare
aumentare i prezzi quando non c’è nessunissimo motivo e in tal modo l’unica roba che aumenta
sono i tassi ipotecari, perché sono quelli che aumentano sempre e quindi la si prende in quel posto
come inquilini o come proprietari indebitati. Ma è sempre questo problema del rifiutarsi di
pretendere di dettare, anche dal punto di vista dell’azione politica, del conflitto ecc., delle modalità,
delle scadenze ma dall’esterno. E’ un po’ l’equivalente di quello che si diceva, cioè il ridurre la
differenza a una cosa che è contenuta o espressa o sigillata su un corpo, per il sesso, per l’agenda
dell’organizzazione tal dei tali, perché il corpo ti mette dentro le cose, ti fa agire sempre di più in
modo che alla fine è nocivo per la moltitudine, perché in questo senso è equivalente ad una banca
nazionale o centrale che vuole lottare contro l’inflazione e lottando contro di essa in realtà
distribuisce in modo perverso la ricchezza, in quanto la ricchezza si crea in termini non
inflazionistici: la new economy è un’economia semmai deflazionistica o disinflazionista, ma non è
inflazionistica. Però se tu continui ad agitare lo spettro dell’inflazione per ogni scoraggia dei prezzi
del petrolio, alla fine crei un consenso per aumentare i tassi di interesse che alla fine vanno a
nuocere a dei soggetti che pur sempre sono importanti, gli inquilini per esempio. Adesso faccio
degli esempi strampalati, ma sempre per tornare a quel problema del come essere di nuovo dentro, e
qui ritorna il primo Tronti fra l’altro, quello del dentro e contro: “dentro il keynesismo,” diceva
“dentro lo Stato-piano, dentro l’economia fordista, però pur sempre contro”. Dentro voleva dire
essere funzionali anche alla crescita con il più salario, perché il più salario era funzionale ad una
crescita del capitale quando esso aveva bisogno del consumo; però nello stesso tempo contro,
perché questo nostro essere dentro era allo stesso tempo un modo di creare e di produrre una
soggettività che (Tronti parlava degli operai) è una soggettività pagana, cioè che rifiuta l’interesse
generale, è partigiana, parziale, settaria, è la soggettività della differenza. Il capitale pretende
sempre dai suoi stessi oppositori un senso di responsabilità, un senso dello Stato, un senso
dell’interesse generale ecc.: l’operaismo è nato sulla parzialità, se vogliamo oggi si dice singolarità,
ma allora il punto di vista era il punto di vista della differenza, la differenza che per essere forte
deve essere dentro però, dentro semmai il corpo del capitale ma non dentro il suo corpo.

- Rispetto all’analisi che facevi in precedenza, anche in termini di soggettività politica e al di là


della repressione, secondo te quali sono stati i limiti che, nell’ambivalenza delle lotte, hanno
portato ad una metabolizzazione, normalizzazione e innovazione da parte del capitale anziché a
momenti più avanzati di scontro e di rottura?

Un po’ ho cercato prima di parlare dei limiti ma analizzando la complessità del passaggio. Quando
per esempio parlavo delle nuove povertà negli anni ’80, i limiti non mi sembra il caso di
individuarli come limiti di una teoria. Certo, di limiti se ne trovano dappertutto, per esempio uno
grosso è stato che, se parliamo della nascita del femminismo, c’è stata una visione completamente
reazionaria della donna dentro alle organizzazioni, questo era un limite culturale assolutamente
atroce, che per altro probabilmente esiste ancora, anche magari nelle migliori organizzazioni
politiche, non lo so, mi immagino. Questi sono dei limiti contro i quali i movimenti si sono scontrati
e questi sì mi interessa individuarli, perché sono quelli che sono stati in qualche modo superati o
messi in crisi dall’interno dei movimenti stessi. Per quanto riguarda la domanda, lì faccio più fatica

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a parlare di limiti perché è veramente difficile individuarne di specifici riferibili a corpi teorici o a
linee politiche, nel senso che secondo me è più complessa la cosa. Per esempio, come si fa a parlare
di limite nei confronti delle tematiche della povertà di un movimento, quello operaio, che è nato
dalle lotte contro la povertà nell’800, però ha prodotto la classe operaia, ha prodotto la storia del
movimento operaio, e che proprio dentro questa sua forza ha dovuto fare i conti con un limite che
però non era suo, era il limite posto da un capitale che attraverso la produzione di povertà ha trovato
impreparato un movimento che nel corso di centocinquanta anni aveva lottato contro la povertà? Se
vuoi è un paradosso, un rompicapo. Per esempio, io mi ricordo la reazione di un Toni che dice “ma
cos’è sta roba? povertà?”, poi dieci anni mi ha detto “ah sì, ho capito”; ma nota bene che non è che
l’avessi scoperta io la povertà, io sono stato pagato per fare una ricerca sulla povertà, non sapevo
neanche che ci fossero le nuove forme di povertà, per essere onesti. Dopo è capitato che in effetti
queste erano le realtà che sopravanzavano di molto le mie stesse idee, aspettative e via dicendo, ma
per ragioni diverse dalla mia consapevolezza. Ma come posso dire che il limite è stato che noi
dell’operaismo non pensavamo neanche alla povertà quando poi invece nelle periferie, nei quartieri
o nei centri cittadini e metropolitani stava scoppiando questa nuova realtà? Semmai è un limite che
è dovuto al fatto che noi avevamo percorso una strada di assalto al cielo e non di gestione della
miseria, questa l’abbiamo sempre rifiutata, semmai si andava a rubare piuttosto che accettare i limiti
e le soglie di povertà definite dal Ministero. Però ce l’hanno scaraventata addosso la povertà: chi di
noi non ha conosciuto in quegli anni momenti di reale povertà perché non sapevi più a che santo
attaccarti o appellarti? Per non parlare dei milioni di persone che l’hanno subita. Questo è un
attacco, quindi semmai il limite è quello che ci fa continuare a pensare in termini di organizzazione:
il limite è quando non vinci, il limite è quando non la fai la rivoluzione, quando dieci anni, un anno
o cinque minuti prima ti mettono in carcere o ti sconfiggono, ma questo è il limite di una storia che
è fatta sulla lotta, sullo scontro, su chi vince e chi perde. Probabilmente il grosso limite è sempre il
fatto di pensare in termini insufficientemente organizzativi, sottovalutando il nemico, perché questo
è terribilmente forte e noi siamo magari molto forti su certe cose ma molto deboli su quella che
addirittura è la consapevolezza della forza del capitale, e della sua forza organizzativa. Direi che se
vogliamo parlare di limite forse parlerei in questi termini.

- Secondo te, in questo quadro che delinei, insieme al dentro come è possibile pensare a delle
forme di essere contro, quindi a una classe (o a una moltitudine) anche contro se stessa, dunque
per la tendenziale formazione e costruzione di una controsoggettività o comunque di una
soggettività che sia diversa da questa qua, colonizzata dal capitale? Come ciò può entrare in
relazione ad un discorso sulla soggettività politica?

E’ un po’ il discorso che si faceva prima, il capire che il linguaggio e le parole oggi si dice che
producono cose, e come producono cose: il postfordismo è una svolta linguistica che dimostra come
il linguaggio non sia solo qualcosa che ci permette di riferirci e di relazionarci al mondo concreto
ma che lo produce. Il linguaggio è come una chiave inglese in un’economia basata sul general
intellect, sull’immateriale, sul sapere: è una tecnologia produttiva il linguaggio. Dunque, questo
vuol dire riuscire a praticare io la chiamo una guerriglia linguistica, cioè dentro il linguaggio, in
questo vastissimo e infinito territorio che è il linguaggio trovare le parole che ci sottraggano da una
riduzione del nostro parlare a un parlare salariato, a un lavoro salariato, quindi un parlare di noi non
come forza-lavoro ma come potenza di valorizzazione, parlare di noi non come corpo che deve
essere così condizionato dal salario ma come corpo che si materializza. Ci sono dei passaggi, io
credo per esempio che queste crisi borsistiche, proprio nelle sue forme più suicidiarie, siano crisi
che rinforzano l’idea del reddito di cittadinanza, di un reddito sganciato dall’imperativo del lavoro.
Perché la gente investe in Borsa, al di là della maggioranza della gente che sempre più investe per
ragioni di pensione? Perché spera tanto di fare l’affare, di fare un guadagno che permetta di vivere
con più agiatezza, di non dover lavorare troppo e via dicendo. Sono quelli che poi purtroppo, non a
caso, si prendono delle mazzate della miseria, perché è proprio la logica borsistica stessa a un certo

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punto a eliminare questa miriade di piccoli investitori che sottraggono il controllo sui valori
borsistici. Però sono i soggetti più interessanti, perché loro sicuramente rischiano tutto quello che
possono ma proprio perché hanno questo miraggio, perché perseguono il sogno di una vita non
condizionata dal lavoro per quanto riguarda il movimento, il piacere, la riproduzione, la vita.
Quindi, mi sembra che questo ammassamento e afflusso di risparmio sui mercati borsistici in
qualche modo sia una palestra nella quale milioni di persone si esercitano all’idea di un salario e di
un reddito di cittadinanza. In un rapporto individuale con la Borsa tu sei sempre perdente, come
sulla massa perde sempre uno che ha un rapporto individuale con le slot machine o con il gioco
d’azzardo: questo non vuol dire buttare via il bimbo con l’acqua sporca, ma vuol dire tenere vivo,
saldo, saldare questo desiderio di un reddito sganciato dal lavoro e però trasporlo su un piano di
rivendicazione collettiva, di reddito di cittadinanza appunto. Per cui queste forme io le vedo un po’
dentro questa nuova dinamica e funzionamento che però è un funzionamento dell’economia, che è
finanziario, e che però, come diceva Holderling, laddove è il rischio lì è la salvezza, cioè dove
massimo è il rischio dobbiamo vedere come tradurre la salvezza politicamente: la salvezza in questo
caso, nel massimo rischio del gioco in Borsa, è in una forma collettiva di un reddito sganciato dal
lavoro.

- Non credi però che anche questo discorso sul reddito rischi di essere un passo insufficiente se
poi bisogni, desideri, comportamenti ecc. restano questi, imposti dal capitalismo e accettati
dalla classe, ossia se non si costruisce una soggettività altra da quella esistente?

Questo sì, ma è un passo che non è poi così minore. Intanto lo vedo come quasi inevitabile, per
quanto difficilissimo, perché per esempio è sempre più difficile vedere la traduzione pratica di una
cosa del genere, non sarà certo un salario erogato dallo Stato, non credo proprio, saranno delle
nuove forme di mutualizzazione del rischio e di ridistribuzione proprio dentro questo universo
frastagliato fatto di disoccupati, di pendolari, di lavoratori atipici ecc. Però, al di là di questo è un
passo credo necessario, oltre che quasi inevitabile, perché io penso che la soggettività oggi se non
recupera un minimo non dico di agio, ma un minimo di sicurezza, è fottuta: è molto duro lottare
quando si è poveri sul serio, non hai il tempo. Io la povertà un po’ perlomeno l’ho indagata, mi
ricordo bene quando parlavo con delle donne, famiglie monoparentali, giovani, tra l’altro persone
splendide, e cercavo di capire come la pensavano politicamente, e loro mi dicevano: “Quando arrivo
a casa la sera l’unica cosa che riesco a fare è guardare la televisione, Canale 5, mica mi metto a
leggere Rosso o Posse”. Nel senso che la povertà, o comunque la non sicurezza, è una cosa che ti
tira scemo, ti stanca, ti toglie le energie. Quindi, la precondizione per un discorso sulla soggettività
altra è che ci sia in qualche modo un minimo non dico di contratto o di compromesso sociale,
perché mi sembra che oggi sarebbe veramente come parlare del sesso degli angeli, ma di
articolazione tra flessibilità e precarietà e sicurezza sociale. Io proprio non riesco a vedere come si
possa entrare nel merito della questione di una soggettività antagonistica se non
contemporaneamente (uso questa espressione consapevolmente) parlare di un minimo di garanzie di
reddito, o se non questo di garanzie di mutualizzazione. Lì devo dire che sono abbastanza d’accordo
con le ultime pagine di Zygmunt Bauman su La solitudine nella globalizzazione, dove appunto dice
che è chiaro che ciò non è la soluzione, il problema che poni resta, ma secondo me non resta tale e
quale, acquista una maggiore possibilità di essere sviluppato.

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INTERVISTA A MARIA GRAZIA MERIGGI - 21 APRILE 2000

PRESENTAZIONE DEL SOGGETTO


- percorso di formazione politica e culturale e successivi passaggi
- collocazione negli anni ‘60 e ‘70 ed eventuale appartenenza ad ambiti politici organizzati
- l’esperienza di Aut Aut
- lavori teorici fatti
- il percorso e i passaggi successivi
- il percorso attuale.

Io sono di una famiglia piccolo-borghese, abbastanza colta, certamente democratica, antifascista, al


cui interno c’erano anche parenti che erano stati comunisti, altri cattolici, ma anche uno zio
monarchico... Un cugino cresciuto come un fratello di mia madre è stato deputato del PCI alla
Costituente, era un docente di pedagogia a Torino. Diciamo una famiglia normale italiana, che però
non prevedeva come naturale, visto che io mi sono formata negli anni ‘60, il tipo di militanza che
poi è esplosa nel ‘68, cioè una militanza diretta dentro i movimenti. Volendo, una scelta di sinistra
poteva essere anche accettata, in fondo era stata già inquadrata negli schemi famigliari, ma gli anni
‘60 hanno mostrato qualcosa di molto diverso, che è poi quello che più ha impressionato anche i
quadri del movimento operaio organizzato, ossia un incontro diretto tra operai e studenti, la pratica
dell’ascolto della soggettività operaia e anche un incontro tra generazioni. Io ho fatto l’università
nel ‘67, quindi il ‘68 è subito arrivato. Non sono rimasta particolarmente coinvolta dall’entusiasmo
per il movimento studentesco, tutto sommato io non sentivo molto il peso dell’autorità intellettuale
perché in fondo, diciamo la verità, a me piaceva molto studiare. Il mio grande incontro è stato
proprio quello tra quadri studenteschi e operai. La prima manifestazione extraparlamentare
organizzata a cui ho partecipato era uno sciopero di spazzini precari del comune di Pavia, quindi
non direttamente la grande fabbrica. Che ho subito conosciuto perché a Pavia allora c¹erano grandi
fabbriche meccaniche e chimiche, adesso tutte scomparse e sostituite da enormi spazi ancora in
attesa di riconversione. Da lì ho cominciato a seguire questo percorso anche leggendo devotamente
vecchie copie di vecchi numeri di Classe Operaia, perché il leader del movimento studentesco di
Pavia era Franco Bolis che, più o meno della nostra età, era stato per anni un giovane militante del
PCI vicino a quella frangia del partito che poi di fatto aveva dato origine a Classe Operaia. Ho
fatto parte di un gruppo che si chiamava Potere Proletario. Tutto questo ha rappresentato anche un
cambio di interesse culturale nettissimo, perché io mi ero iscritta a Lettere e sono passata a
Filosofia di fatto per studiare Marx: la filosofia era quello, l’economia era quello, c’era proprio
un’occupazione totale dell’orizzonte teorico da parte del marxismo, che per me conviveva con altri
interessi culturali (la psicanalisi, la letteratura), ma in fondo li ha proprio coperti. Io ricordo con
molta emozione questa esperienza, che io potrei definire così: prima c’era “l’operaio” che in realtà
in provincia in quegli anni era magari l’idraulico che arriva a casa, ti fa sempre aspettare e
finalmente ti risolve il problema domestico, poi ho conosciuto la classe operaia. Questo non vuol
dire che i rapporti siano sempre stati facili, anzi. Subito due filoni di questo incontro si sono messi
in evidenza. Da un lato c’erano i quadri comunisti, che secondo me ci apprezzavano molto, senza
dirlo: ci guardavano con interesse, però anche con un po’ di insofferenza, volevano come metterci
alla prova, erano ironici, "questi arrivano e cosa credono di scoprire?".
Dall’altro lato, c’erano gli operai più giovani, che spesso erano quelli che litigavano, che si
mettevano nei guai più che altro perché esplodevano in una lite con il compagno, o il capo oppure
che non avevano mai scioperato in quanto non sapevano che cosa voleva dire avere dei diritti e
all’improvviso tumultuosamente scoprivano che cosa significasse ribellarsi, in un modo davvero
generazionale ancora più che operaio. In mezzo a tutto questo c’erano quei militanti, soprattutto
quelli che erano stati delle Commissioni Interne, militanti sindacali, i quali essi stessi
appartenevano alla sinistra comunista e sindacale e che erano interessati a questo incontro. Ho letto

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in tante memorie di militanti della nuova sinistra l’impressione di avere dato al movimento operaio;
io sinceramente non ho mai avuto questa impressione, ho avuto quella di avere ricevuto, ascoltato.
Certamente abbiamo avuto delle meditazioni, la classe operaia economica, scientifica spesso ha
coperto la realtà sociale e, se vogliamo, anche umana degli operai al plurale. Però, tutto sommato,
penso di avere imparato, per esempio, a disciplinarmi a delle vicende collettive, all’ascolto. Poi,
quando si hanno vent’anni, queste mattine fredde davanti alle fabbriche, le riunioni dove per la
prima volta si confrontano linguaggi diversi sono state momenti di formazione importantissima, di
passaggio rapidissimo all’età adulta. Ho imparato moltissimo.
Successivamente sono venuta a Milano, perché veramente volevo vedere e confrontarmi con la
grande realtà industriale e, inoltre, fare anche un’esperienza mia personale della grande città. Sono
arrivata a Milano nel ‘71, qui mi sono laureata, non ho aderito a Lotta Continua, ma ho invece
incontrato, necessariamente (a Milano non potevi farne a meno), i CUB, i movimenti di base.
Questi avevano un aspetto molto interessante, erano anche delle realtà in cui venivano coinvolti
impiegati, tecnici, cioè tutto quel mondo giovanile che veniva dalle scuole serali e che non era
l’operaio-massa torinese, ossia non era la figura che passava bruscamente come si vede nel libro di
Balestrini dalla passività all¹antagonismo radicale. E secondo me Balestrini vi ha messo anche del
suo, e naturalmente non del meglio; però, insomma, degli Alfonso li ho conosciuti anch’io; di certo,
per esempio, il rapporto con le donne, quello con l’etica comunista proletaria di questi ragazzi
rendeva difficile fare con loro una struttura organizzata. Invece, il mondo dei CUB (che poi
avrebbe formato Avanguardia Operaia e Democrazia Proletaria) era fatto di militanti che avevano
già iniziato un percorso di autoformazione, quindi la loro contestazione del sindacato aveva
un’autorevolezza che a me è sembrata più convincente. Quindi, ho conosciuto Mosca, Emilio
Molinari, i compagni della Borletti come Lina Barbieri: si era formato un coordinamento di operai
e studenti che si incontrava dalle parti di via Tolstoj a Milano e che poi è rimasto per anni e anni il
mio punto di riferimento; successivamente è diventato Collettivo di Democrazia Proletaria. Con
loro ho fatto un percorso per me importante. Dunque, io ho “usato” l’operaismo come lettura dei
fatti e come mia strada, senza però seguirne le scelte organizzative “ortodosse”. Del resto molti
oggi riconoscono che ci sono stati tanti modi di interpretare poi nella pratica l’operaismo. Ho
partecipato al convegno Manifesto - Potere Operaio sotto il tendone nel ‘71, allora si andava un po’
a vedere le proposte organizzative che emergevano dai movimenti; però, non mi ha convinto
quell’incontro, un po’ politicistico, di quadri iperleninisti e di intellettuali separati dal movimento,
erano in fondo un corpo che cercava un’anima e viceversa. Dunque, era poco convincente, però
anche lì ho conosciuto dei compagni che poi hanno continuato a lottare sul territorio milanese
anche bene, validamente. Comunque, la mia esperienza è stata soprattutto in quell’ambito di cui
parlavo prima. Nel frattempo, ero precaria alla Statale, addetta alle esercitazioni (poi ho avuto una
borsa rettorale), e indubbiamente quelli che la pensavano come me non erano in buonissimi
rapporti con il Movimento Studentesco della Statale. Senza rievocare chissà quali scontri, una volta
ci fu un’assemblea sulle lotte operaie in Polonia con lo slogan (magari un po’ ingenuo) "Detroit
come Torino come Stettino" e fummo strattonati via malamente da un militante, il quale poi ha a
sua volta aderito a Democrazia Proletaria e, sul ricordo di quello, siamo diventati anche molto
amici. Insomma, eravamo un po’ all’opposizione culturale, anche perché davamo una lettura di
Marx molto diversa, a partire dal marxismo occidentale, dalla lettura immediata della politicità dei
conflitti sociali e tutte quelle cose che sono risapute: quindi, la riproposizione di Stalin come padre
dei popoli proprio non ci convinceva.
Dunque, noi, giovani (uno si chiamava Renato Nichelatti, che poi si è perso un po’ per la strada,
non umanamente, è una persona deliziosa, ma ha smesso di studiare, o meglio: di pubblicare), ci
siamo trovati naturalmente ad incontrare il gruppo di Aut Aut, cioè Pier Aldo Rovatti, Roberta
Tomassini. E’ quindi nato questo incontro tra teoria e politica. Faccio una parentesi: in questi giorni
ho letto un libro di ricordi che Giorgio Galli ha scritto sugli incontri della sua vita politica. Giorgio
Galli è stato molte cose, è un mio grande amico, una persona molto amabile e soprattutto corretta e
piena anche di generosità. Lui ha dato una ricostruzione, per esempio, del vuoto di potere che si è

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ad un certo formato alla Statale, il che però era semplicemente il ritiro degli ordinari che contano
dietro ad una trincea dove si preparavano vendette terribili, ma non contro gli studenti, di cui ai
professori (vi rivelo una cosa che non si dice mai esplicitamente) non è mai importato
assolutamente niente: i docenti universitari sono una casta con un forte senso della corporazione,
quindi i conflitti sono interni. Dunque, l’oggetto della vendetta sono stati i docenti che avevano
osato rompere le gerarchie, mettere paura ai colleghi, alzare la voce in consiglio di facoltà “se non
interrogati”, come si direbbe in caserma, questo soprattutto se erano gerarchicamente più in basso.
Quindi, i conflitti studenteschi sono stati giocati dentro le alleanze, i legami. C’erano dei docenti
moderati, i quali però desideravano stare in pace e che quindi arrivavano a dei compromessi con gli
studenti; c’erano i famosi docenti del PCI (che a Milano non erano molti) che si scontravano con
essi. Uno di questi, molto tipico, storico all¹università di Firenze, era Ragionieri, che io allora
naturalmente aborrivo, però adesso tanto di cappello, non trattava gli studenti da scemi, riteneva
che sbagliassero, lui (che, per carità, era veramente un bonzo) è andato allo scontro dicendo: "Voi
avete torto ad occupare certe case popolari che sono state assegnate a Sesto Fiorentino"; l’hanno
praticamente esposto alla gogna. Allora, un illustre storico della filosofia gli ha chiesto chi glielo
avesse fatto fare; lui ha detto che era un militante politico e quindi si comportava coerentemente. A
Milano non ci sono state persone che avessero questo tipo di coerenza. Quindi, gli studenti non
hanno trovato ostacoli, fino a che hanno trovato il muro, andando avanti nel burro poi dietro c’era il
vero acciaio; infatti, adesso la Statale è assolutamente normalizzata; non si potrebbe mai più
pensare che lì ci sia stato un dibattito tra stalinismo e trotzkismo come centro e perno dei corsi. Io
ricevetti un tazebao ostile da parte del Movimento Studentesco (staliniano) per la mia lettura di
Gramsci; era simpatico, per carità, comunque contraddizioni in seno al popolo. Grazie a tutto
questo ci siamo dunque incontrati con Pier Aldo Rovatti, il quale era uno dei principali protagonisti
di questa occupazione di un vuoto. Il suo maestro Enzo Paci era una persona straordinaria per certi
versi, di cui però io, ad esempio, ho incontrato solo l’ombra. La differenza di età tra me e Pier Aldo
oggi è nulla, si tratta di pochi anni, adesso nessuno se ne accorge; invece, allora, voleva dire che lui
aveva incontrato la grande esperienza culturale di Paci, innovatore della filosofia, con questo
incontro tra le arti, l’estetica, la dimensione del teatro, la politica, insomma tutte le cose di cui
Rovatti ha parlato nell’intervista. Però, il contatto diretto con questa continua pressione fisica del
movimento sicuramente ha sconcertato Paci, il quale tuttavia ne era realmente amico, desiderava
una relazione con esso; ciò gli veniva sicuramente imputato da colleghi molto più conservatori e
quindi lui si è sostanzialmente ritirato, lasciando questo grande spazio culturale. Dunque, dei
ragazzi si sono fondamentalmente trovati in mano una rivista molto importante. Io devo dire che
per me Aut Aut era il veicolo di un discorso sul marxismo, punto e a capo, nient’altro. Se adesso
ripercorro il discorso della teoria dei bisogni, io non l’avevo capito fino in fondo: dei bisogni davo
una lettura molto più materialistica, mi sembrava la traduzione filosofica della centralità del salario
nelle lotte operaie.
Detto in questo modo sembra troppo semplicistico, ma tutto sommato è così; tuttavia, questo mix è
stato sicuramente importante. Nel ‘77, ad esempio, andai a Napoli ad una riunione di riviste
militanti, dove, per esempio, c’erano riviste che si chiamavano Pasquale (“è contro il Capitale”) o
dedicate a Pulcinella o a Totò. Racconto un episodio straordinario. Da un paio d’anni era stato
eletto sindaco di Napoli Maurizio Valenzi, che godeva di un grande prestigio nei quartieri popolari:
non è che egli fosse della sinistra del PCI, però era una figura eroica, anche molto spregiudicata.
Allora, una compagna poi ingiustamente coinvolta in vicende giudiziarie pesantissime disse: “Se
noi facciamo un manifesto che dice che il sindaco Valenzi autorizza i proletari, ad esempio di
Secondigliano, a fare la spesa senza pagare, questi ci credono perché si fidano di lui, allora succede
la rivoluzione”. Io devo dire che, sinceramente, ero un po’ perplessa! Comunque, Aut Aut era
ritenuta una rivista che faceva parte con ogni diritto di questo ambito. C’era, ad esempio Modugno
con Marxiana; c’era Ombre rosse; era insomma un incontro di situazioni che, solo qualche anno
prima, sarebbe stato impensabile per una rivista di filosofia.

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Nel frattempo, c’è il famoso rapporto con Toni Negri. Per come l’ho vissuto io, non percepivo
questa singolarità che, invece, evidentemente altri vivevano: era così probabilmente per Paci,
questo lui non l’ha mai detto, ma lo sentivano anche altri intellettuali legati alla rivista, che avevano
un senso più prudente dei rapporti politici. Toni Negri era un teorico brillantissimo, allora come
oggi. Io avevo letto i suoi scritti su Hegel politico (allora lui non aveva ancora cominciato a
scrivere su Marx), una bellissima introduzione ad un importante saggio sulla formazione del
pensiero politico inglese: lui è un grande esperto del ‘600, infatti a Spinoza è ritornato. Veramente
avevo trovato questi testi di un’autentica esplosività intellettuale, impressione che Toni Negri ha
continuato a farmi fino, devo dire, alle ultime cose, di cui ho visto la recensione su Il Manifesto,
con questa scoperta del povero: francamente ci devo pensare, però non mi fa una buona
impressione, l’ho trovata un cedimento in Toni a questa passione per una coerenza intellettuale e
per una non dico provocazione in senso bassa, dadaista, ma il gesto intellettuale lui lo porta fino in
fondo, anche a rischio di smarrire quella complessità di rapporti con le mediazioni sociali che poi
aiutano a capire e ad applicare questo pensiero; però il mio non vuole essere un giudizio negativo.
Allora noi lo ritenevamo tutti una persona sfolgorante, poi le cose che scriveva per Classe Operaia,
successivamente per Rosso, le riviste dell’Autonomia, il saggio famoso (pubblicato su Opuscoli
Marxisti) Crisi dello stato-piano, le ho trovate francamente entusiasmanti. Per come l’ho letta io,
lui ha teorizzato il massimo della immanenza e presenza dell’organizzazione all’interno della
composizione di classe; è stato a partire da quello che poi io ho cambiato mestiere, poi dirò come,
in fondo è stato Toni che, involontariamente, mi ha spinto a fare la storica, e dunque ad inserirmi
progressivamente nell’Università fino ad insegnarvi con una regolare titolarizzazione.
Comunque, a me non sembrava assolutamente singolare l’incontro con Toni Negri, in quanto era un
teorico di primissimissimo ordine e perché allora le persone della nostra età non è che fossero
rivoluzionarie oppure moderate: c’era semplicemente l’idea che in ogni momento tutto poteva
rovesciarsi: era un’impressione vera, ovviamente difficile da raccontare adesso. Quindi, rispetto a
qualsiasi discorso radicale, si diceva che in quel momento non era possibile, però magari domani sì.
Ad esempio, molti di noi hanno continuato a non pensare alla propria non dico carriera, ma
inquadramento professionale, non perché fossero fautori del precariato creativo, ma perché
dicevano: “Poi ci sarà il comunismo e avremo un salario sociale”. Dirlo adesso sembra una fiaba,
invece è stato così, almeno io direi fino al dopo ‘77, fine anni ‘70. Dunque, Negri andava bene
come tanti altri. Noi facevamo queste riunioni in casa di Toni dove si faceva un po’ il punto della
situazione teorica ma anche politica, a cui venivano sempre meno redattori di Aut Aut, fino a che
rimanemmo veramente in pochi. Lui diciamo che ci illuminava, erano delle stupende lezioni, poi
sondava sicuramente le possibilità di inserire o coinvolgere i livelli organizzativi. Toni tendeva
sicuramente a proteggere Pier Aldo. Ad esempio, io ero abbonata a Controinformazione (tra l’altro
adesso sono amicissima di Gigi Bellavita, che ne è stato direttore insieme al fratello, ogni tanto
viene ad aiutarmi a sistemare il computer e facciamo dei bellissimi “punti della situazione”, lui è
adesso è un democratico steineriano, non è diventato reazionario o mistico, non è stato preso da
quel rancore che ha coinvolto molti compagni che hanno avuto le sue stesse esperienze). Toni
disse che Pier Aldo non si doveva abbonare, il suo nome non doveva finire in quegli elenchi,
perché aveva l’idea che una persona che possiede uno strumento pressoché istituzionale non deve
bruciarselo. Poi, Negri aveva con ognuno dei rapporti indiretti: per esempio, lui sapeva che, a
differenza di altri partecipanti a quelle riunioni, io avevo un’attività politica normale.
Quello che sto dicendo è una mia personale rielaborazione, quindi non sto assolutamente facendo
delle rivelazioni. Io avevo l’impressione che, mentre lui poteva dire ad altri veramente che gli asini
volavano, cioè prendere da alcuni fatti che accadevano sicuramente nelle fabbriche milanesi delle
linee di tendenza e dire che erano già in atto, a me magari lo diceva meno, perché sapeva che avevo
un pochino più di pratica. Però, per esempio, una volta mi disse una frase rimasta famosa nella mia
biografia: “Una donna come te come può stare con quei proudhoniani della nuova sinistra?”. Offesa
delle più tremende, elogio dei più lusinghieri, io ci ho pensato anche parecchio, ma poi,
evidentemente, non ne ho fatto nulla.

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Poi, ad un certo punto, Toni Negri dovette andare via una prima volta: ebbe notizia di essere
inquisito, o comunque che intorno a lui si stavano stringendo alcune maglie. Faccio una parentesi.
Io credo che le cose che Toni Negri sapeva degli aspetti illegali del movimento, a Milano le
sapessero veramente anche i sassi, quella contro di lui è stata una delle montature più straordinarie,
davvero un teorema. Lui sapeva, ad esempio, dell’esistenza di finanziamenti con rapine, ma era una
cosa che sapevano anche i sassi, non c’era assolutamente bisogno di essere organizzatori per essere
a nozione di cose di questo tipo; che esistesse una pervietà delle organizzazioni militanti con un
interesse per la difesa armata era altrettanto noto. Racconto un episodio per indicare l’atmosfera.
Molto prima del ‘77 ci furono alcuni primissimi arresti a Milano per le Brigate Rosse, in particolare
quello di Pietro Morlacchi. Si tratta di un episodio che rievoca anche Moretti nella sua bellissima
autobiografia: descrive quella Milano dei CUB, dei comitati operai-studenti, delle lotte dei tecnici
all’IBM, a San Donato, alla Sit-Siemens, francamente un quadro che poi ha descritto in termini
molto simili Emilio Molinari. Quindi Moretti è stato corretto, non ha forzato la mano nei suoi
ricordi, attribuendo se stesso di dopo a se stesso di prima. Moretti rievoca dunque questi arresti, tra
cui quello di Morlacchi, ricordando lo sconquasso che avevano suscitato anche in ambienti
popolari. Io ricordo che, sul tardi, tornavo, con amici e compagni, da una riunione verso casa.
Attraversavamo Piazza Tirana, che è una grandissima piazza vicino alla stazione di San Cristoforo,
dietro il Naviglio, tutta interamente circondata da case popolari dell’allora Iacp: c’era, disegnata da
una finestra all’altra, una grande scritta, "Pietrino Morlacchi libero". La sua preparazione non
poteva essere stata organizzata senza un certo grado di collaborazione con gli abitanti: non dico che
tutti gli abitanti di quel palazzo fossero simpatizzanti delle Brigate Rosse, quello era l’errore dei
loro militanti; però certo non si sognavano neanche lontanamente di telefonare alla polizia
segnalando che c’era qualcuno che metteva fuori uno striscione o tracciava una scritta di quel tipo.
Morlacchi era stato iscritto alla locale sezione del PCI fino ad allora ed era un compagno: in questo
mondo, quello che appunto era il “sottovoce” di cui parlava Montaldi garantiva sostanzialmente
una certa permeabilità. Quindi, quello che voglio dire è che per sapere queste cose non c’era
bisogno di organizzarle e dunque Toni Negri è stato veramente perseguitato; ha commesso altre
scorrettezze, ma questo è un altro discorso. Comunque, lui è andato via dall’Italia, a Parigi, dove ha
lavorato con Althusser: ha scritto, ci siamo sentiti, lui giocava sempre molto su questa Autonomia
con la a maiuscola e autonomia con la a minuscola. La rivista è stata sicuramente scossa da questo
passaggio, perché ha lasciato proprio uno spostamento di baricentro.
Nel frattempo, è arrivato il ‘77. Devo dire che io ho avuto un rapporto molto difficile con il ‘77,
non l’ho vissuto assolutamente come un momento di liberazione, ma l’ho visto, in una maniera che
allora non era così chiara, tutto sommato come l’ha letto Bifo ne La nefasta utopia di Potere
Operaio, ossia l’inizio del postmoderno. Infatti, ho scritto allora un intervento su Aut Aut che si
intitolava "Due società, una classe operaia": era ovviamente una polemica con Asor Rosa, però
anche contro l’orgogliosa rivendicazione, da parte del movimento del ‘77, di essere interprete di
una delle due società. Era un’applicazione diciamo ortodosso-marxiana (non ortodosso-marxista)
della ricomposizione per linee interne di un’unità del movimento operaio, che doveva superare le
incomprensioni culturali e politiche della ossificazione e modernizzazione. Sarà anche perché sono
moderata a mio modo, si fa per dire, può essere. In quei mesi è tornato, come nel ‘68-’69, a
succedere di tutto, si girava a destra e a sinistra; tra l’altro allora, avere trent’anni come me era
un’altra cosa dall’averne venti, come li avevo nel ‘68. Hai rapporti affettivi formalizzati,
responsabilità. Io avevo un compagno che aveva due bambini: lui era nella nuova sinistra, però un
po’ trascinato da me, era del PDUP. Era molto più grande, da ragazzo era comunista, di formazione
piuttosto ortodossa, non alla Tronti. Quindi, aveva una radicata diffidenza verso certi aspetti del
movimento; mi sono trovata più volte con il suo figlio maggiore in manifestazioni in cui poi mi
sono preoccupata di averlo portato. Per esempio una volta capitò che lui era andato con il bambino
piccolo alle giostrine, io ero andata con il ragazzo grande alla manifestazione, sono tornata a casa
per fare da mangiare (perché io ho sempre amato svolgere il mio ruolo femminile fino in fondo) e
gli ho detto: "Vedi, non è successo niente"; poi accendiamo la televisione e sentiamo che era stato

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ucciso l’agente Custrà. Questo perché la manifestazione era lunga e anche questo non si ricorda: la
situazione era talmente fluida che se tu stavi a chilometri di distanza non ti rendevi conto di quello
che succedeva fino in fondo. Allora, in quella situazione in cui si girava, si andava e si veniva da
tutte le parti, io assistetti ad una scena di questo tipo: era stata appena uccisa Giorgiana Masi, in un
collettivo di un quartiere di Milano arrivò un giovane operaio, forse della Face Standard o
comunque di una fabbrica di medie dimensioni, che disse: “Io volevo andare assolutamente alla
manifestazione per i funerali di Giorgiana e, siccome nessuno mi veniva dietro, io mi sono messo in
malattia e sono andato”. Va benissimo, però lui lo diceva come una cosa che valeva come aver fatto
scioperare i suoi compagni; io pensavo allora: “Ma come, cosa vuol dire? Se tu ti metti in malattia,
che poi vada ai funerali di Giorgiana o che vada a fare un incontro d’amore con la tua fidanzata, ha
la stessa uguale rilevanza politica: la tua sconfitta, eventualmente, è non essere riuscito a farli
scioperare. Dopo di che, quando ti metti in malattia, va benissimo, ti riprendi il tuo tempo, ma non
vedo il rilievo”. Di questo tipo di figura operaia giovanile certamente ce n’erano molte nel ‘77; può
darsi che io sia afflitta da un moralismo ortodosso e vetero, anzi, mettiamocelo sicuramente perché
è così, però ognuno ha la sua storia politica e anche umana. Quindi, in quel contesto io ci ho
pensato un anno, nel ‘78 a lungo ho meditato, sono andata a delle riunioni sempre con Aut Aut a
Venezia con Cacciari, con Tronti. Per me Operai e capitale è un libro che dire importante è poco,
inizialmente per me era come se si fosse scritto da solo, lo leggevo come un punto di vista
collettivo; c’è voluto molto tempo perché potessi discutere con Mario Tronti (che è una persona
modestissima e dolce) da pari a pari (o quasi).
Nel corso del ‘78 io ho meditato una riconversione totale dei miei studi, perché mi erano apparse
due cose. Una è la densità e il peso della sociologia sulla dinamica di classe, cioè il peso della
storia, degli eventi singoli, delle determinazioni secondarie, che però poi si rivelano quelle che
fanno fare alla storia una svolta o un’altra. Se dobbiamo distinguere la determinante in ultima
istanza dalle contraddizioni secondarie, mi era sembrato che le storie personali, politiche e
organizzative finivano poi per spiegare i comportamenti, anche se certamente le grandi svolte non
erano leggibili al di fuori della composizione di classe, io di questo ne resto tuttora convinta; ma
poi, per spiegare come le cose vanno, si deve tenere conto di quelle altre opacità, del peso della
storia, dentro a cui ci sono le scelte economiche, quelle politiche, gli stati, i partiti, le affiliazioni
religiose, quello che fa diversi e non quello che fa uguali gli uni dagli altri gli operai, i borghesi, i
piccoli-borghesi. Questo voleva dire passare dallo studiare il marxismo allo studiare la storia. Io
avevo sempre fatto moltissime letture di storia del movimento operaio e del comunismo, a quel
punto si trattava di cominciare invece a conoscere la storia totale. Ho quindi vinto una borsa del
Cnr per un dottorato a Parigi e ho fatto degli studi di un primo dottorato, poi ho conseguito quello
di Stato: qui ho imparato molte cose, ma in fondo ho soprattutto organizzato il mio pensiero, ho
abitato a Parigi un anno, con dei grandi week-end con il mio ex marito che non l’ha mai vista come
allora, ci siamo quindi anche divertiti. Quando sono tornata, nel frattempo era successo il 7 aprile,
che, devo dire, io non ho vissuto come una cosa che mi toccasse così profondamente, forse perché
ero stata in parte distante. Quello che mi ha sconvolto sono stati i licenziamenti degli operai della
Fiat alla fine del ‘79, sono andata a Torino alle manifestazioni e tutto quanto. Lì ho visto che
cominciava qualcosa di terribile, di quello ero certa, me ne sono accorta subito. Detta
sinteticamente, il ‘77 aveva rivelato la difficoltà, per non dire l’impossibilità, in quella fase, di
organizzazioni di nuova sinistra di incidere nel corpo degli operai comunisti e di spostarli sulle
nostre
posizioni. Non credevo allo scontro tra nuova e vecchia classe operaia, cioè, credevo che esistesse,
ma che fosse letale per entrambe, che questo avrebbe letteralmente criminalizzato il movimento dei
cosiddetti non garantiti e che avrebbe poi di fatto isolato, come poi è avvenuto, il corpo organizzato
della classe operaia, isolandolo dal suo consenso. Era dunque una sconfitta gravissima di fase, e
allora non si poteva pensare quello che sarebbe successo dopo, ed è stato meglio che non l’abbiamo
previsto! Ho cominciato a lavorare in un consultorio con un gruppo di donne, molte delle quali

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erano comuniste del PCI: per me lavorare con le donne, sinceramente, ha rappresentato un
ripiegamento. Ero nel frattempo borsista Cnr, quindi cominciavo
l’avvicinamento all’università, ero iscritta alla CGIL. Ho vissuto due battaglie, a questo punto
molto più appartata politicamente. Ho vissuto come molto importante il movimento di Solidarnosc,
sbagliando, ma mi sembrava un movimento operaio spontaneo, con gli stessi aspetti aurorali che
aveva il movimento operaio italiano negli anni ‘80 dell’800. In quegli anni ho scritto il libro sul
Partito Operaio Italiano, cioè sulla fondazione del movimento operaio lombardo negli anni ‘80: mi
sembrava che Solidarnosc incarnasse questo nesso diretto tra composizione di classe e orgoglio
etico della propria dignità. Poi ci siamo resi conto che non era così, o per meglio dire: c’era anche
questo, ma dentro c’era anche la madonna pellegrina, la subalternità alla subcultura del
cattolicesimo polacco ,così peculiare. Ma allora a molti compagni gli operai polacchi sembravano
incarnare la contestazione dell¹ideologia organicistica del socialismo reale. Il Manifesto fece un
titolo che ho a lungo avuto dietro la mia scrivania, ed era un titolo elaborato da Pintor: “Dunque un
Dio c’è che non è fallito, è l’operaio che da l’assalto al cielo”.
Nell’85 poi ho partecipato con entusiasmo alla campagna per la difesa del punto unico di
contingenza una cosa molto importante, anche se certamente lanciata dal PCI per una scelta
politicista, contro la pressione fortissima dell’ “espansionismo” e annessionismo socialista. Ciò
però non mi sembrava importante, imi sembrava molto più importante il contenuto di quella
mobilitazione che rappresentava l’ultima trincea di una priorità dei bisogni della vita quotidiana
operaia, di un’autorevolezza della rivendicazione operaia sulla società, cioè una capacità, che la
classe operaia aveva sino ad allora avuto, di unificare un blocco sociale. Quella sconfitta è stata
proprio il segno che questa operazione non riusciva più, perché erano cominciate le grandi
ristrutturazioni, erano state sconfitte le lotte sull’organizzazione del lavoro e, quindi, effettivamente
cominciava un ritiro degli operai sulla difensiva. Adesso, parlando con dei compagni della Camera
del Lavoro di Brescia, essi dicono che trattano ancora per milioni e milioni di redistribuzione
salariale, ma ormai non hanno il minimo potere sull’organizzazione del lavoro,
sull’amministrazione del tempo. Questo è poi stato il primo passo verso la scomposizione dei
rapporti contrattuali, per cui oggi non solo nelle imprese di servizi del terziario avanzato ma, ad
esempio, in una fabbrica di divani o di scarpe sportive c’è lo stesso lavoro fatto con quattro regimi
contrattuali diversi: pochissimo è fatto da regimi contrattuali stabili, gli altri sono contratto di
formazione, partita Iva, rapporto professionale di collaborazione con trattenuta, insomma molti
lavoratori hanno contratti che potrebbero far pensare a un lavoro qualificato e invece è solo lo
stesso di prima, ma precario. Questo spiega l’assoluta mancanza di tenuta di una capacità del
discorso anche conflittuale di uscire dalla propria particolarità e di diventare sguardo sul mondo.
Devo dire che, mentre altre cose della vita politica e privata mia viste a posteriori le ho
relativizzate, l’importanza dell’85 continua a sembrarmi cruciale. In seguito certo abbiamo perso
molto di più, però quella era una battaglia importante. Infatti, allora, tutto sommato la si è persa, ma
con il 53% contro il 47%, naturalmente adesso non avremmo più neanche i numeri per contare;
allora era comunque una bella battaglia.
Un’altra cosa. Per quanto riguarda gli incontri culturali per me importanti, il mio maestro come
storica è stato Stefano Merli, con cui ho collaborato anche nella sua bella rivista, Classe. Questi
era un socialista, che però inizialmente era partito da un discorso sulla spontaneità operaia, ha
aderito quanto meno all’esperienza teorica che stava dietro ai Quaderni Rossi, anche se lui non vi
faceva parte. Da giovane studente Stefano aveva fatto parte del gruppo ormai leggendario di
Movimento operaio, la rivista che ha fondato la nostra disciplina. Era molto interessato al lavoro
sulla spontaneità e, in fondo, mi ha insegnato a ricercare, con strumenti metodologici molto
raffinati, questa spontaneità anche nella storia del ‘700-’800. Quando l’esperienza di nuova sinistra,
a cui Stefano aveva aderito con molto entusiasmo, ha avuto la crisi che abbiamo prima definito, lui
è tornato nell’alveo socialista, facendo emergere una visione unilaterale del PCI come polizia del
movimento operaio, cosa che gli impediva di vedere la ricchezza organizzativa e la soggettività
umana e politica che stava cristallizzata dentro questo orizzonte. Anzi, è arrivato a elaborare

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un’idea, anche se lui non l’ha mai scritto a dire il vero, quindi forse è scorretto che io lo dica, però
stiamo proprio parlando delle nostre vite. Una volta lui mi disse che era giunto a un’idea che ha per
altro dei prestigiosi interpreti nel movimento anarchico e, per altri versi, è presente in alcuni aspetti
della critica di sinistra del pensiero politico inglese al movimento operaio, quindi era
un’affermazione con dei padri e delle madri: si era convinto che la classe operaia, modellandosi
sulla disciplina di fabbrica, era tendenzialmente portata ad aderire a organizzazioni autoritarie. Ce
l’aveva con gli operai che, in fondo, erano maggioritariamente rimasti comunisti. Soprattutto nel
corso degli anni in cui, a differenza del partito, bisogna dire, certamente non c’è dubbio che le
categorie sindacali, ma soprattutto la FIOM, si sono arricchite dei quadri che avevano fatto
l’esperienza della nuova sinistra: c’è stato il rinnovamento del sindacato dei consigli, dopo tutte le
polemiche che ci sono state su di essi, di fatto nel giro di cinque o sei anni, i compagni dei CUB
che rifiutavano di farsi eleggere sono diventati i quadri del nuovo sindacato, e meno male. Sono
diventati anche quelle figure grazie alle quali, mentre i DS oggi perdono le elezioni e non lo
prevedono nemmeno, cioè gli arriva il treno in piena faccia, invece mediamente il sindacato quando
gli arriva un tram in faccia sa che gli arriva, i sensori sono rimasti attivi.
Siccome quei compagni adesso hanno cinquant’anni e non ne hanno novanta, è ancora in fondo la
nostra generazione che alimenta questa capacità di capire, il che non vuole dire poter contrastare le
tendenze disgregative presenti fra i lavoratori. Per esempio, il radicamento popolare e operaio della
Lega, inascoltati, l’hanno segnalato questi compagni e queste figure. Comunque Stefano è
diventato socialista sempre di più, fino ad aderire addirittura al craxismo, però voglio chiarire che
Craxi non se n’è mai accorto: lui non ha aderito al craxismo trionfante, si è limitato a fare dei lavori
dove ricostruiva la genealogia dell’autonomismo socialista, ma non ha mai visto una lira del denaro
che scorreva a destra e a manca nella “Milano da bere”; ha continuato a lavorare finanziando la
ricerca con il lavoro universitario e talvolta addirittura di tasca propria! Credo che Stefano mi
abbia insegnato tutto quello che so del mio mestiere, come fosse un lavoro artigianale illuminato da
alcune idee forti. Certamente, però, c’è stato in lui un riflusso, tra l’altro, verso una lettura
esclusivamente delle storie dei gruppi politici: lui ha smesso di occuparsi, sia pure da un nuovo
punto di vista, di storia materiale della classe operaia e ha cominciato a studiare minuziosamente
neanche il rapporto tra movimento operaio e politica, ma proprio la formazione e la selezione di
alcuni gruppi intellettuali. Quindi, a mio parere, un lavoro fatto sempre molto bene, ma molto meno
interessante.
Una figura per me importantissima è stata Danilo Montaldi, che era un uomo straordinario, anche
umanamente: l¹importanza che ha avuto per tanti che hanno lavorato con lui, per un mese o per una
vita, era legata alla sua generosità, alla sua creatività, alla seduzione che esercitava su tutti, ma era
una seduzione democratica, che ti lasciava libero o libera di fare quello che volevi poi alla fine, a
differenza di altri che ti volevano sempre tirare con la cavezza. Aveva una radicalità bordighiana,
perché lui davvero si era formato nei gruppi comunisti bordighiani, quindi con un giudizio, per
esempio, sul movimento operaio organizzato nei suoi quadri dirigenti di una durezza che neanche
Potere Operaio aveva: basti vedere il giudizio del pensiero bordighiano sull’Urss come una paese
capitalistico, senza entrare in questa discussione perché ci sono gli specialisti e io non sono una
sovietologa. Univa questa analisi durissima e una vera insofferenza per l’intelligentcia democratica
del PCI (la casa della cultura alla fine degli anni Cinquanta, per intenderci) con una straordinaria
capacità di cogliere, invece, gli elementi di soggettività operaia e proletaria che si erano stratificati
dentro al PCI. Lui era rimasto affascinato dai nuovi movimenti, “Lotta Continua, Potere Operaio,
entre les deux mon coeur se balance” diceva. Però, in realtà collaborava molto con CUB e
Avanguardia Operaia, infatti mi propose di partecipare alla sua ultima impresa. Tra l’altro, la
traccia di queste proposte è presente in alcune lettere pubblicate dai Quaderni Piacentini: Danilo è
morto nel ‘75, nel ‘75-’76 sono state pubblicate tali lettere dove si ricostruivano le tracce di questa
sua ultima esperienza, che era la seguente. Lui univa la passione operaistica per il cuore dei
processi, quindi per lo sviluppo del movimento operaio nelle grandi fabbriche, con un’attenzione
veramente marxiana, e che aveva tratto certamente da Bordiga come nucleo iniziale, per il fatto che

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la formazione sociale capitalistica trasforma contestualmente tutto il panorama economico e sociale
di un paese; quindi, anche la bambolaia di Cremona era parte dell’operaio-massa come figura
collettiva. Ma Danilo era particolarmente sensibile a quelle differenze, sfumature, a quegli elementi
di una storia anche soggettiva, che restituivano le persone oltre che i membri di una classe.
Purtroppo questa ricerca con la sua morte è rimasta in sospeso. A Cremona c’è il suo gruppo di
compagni e amici di una vita, tra cui c’è anche Gianfranco Fiameni. Bruno Cartosio e Cesare
Bermani, insieme con Della Mea e altri, pochi ma molto decisi e militanti hanno tenuto insieme
per vento e per tempeste, senza una lira, l’Istituto De Martino; dunque, hanno contatti con Fiameni,
con la Ughetta Usberti, con questo piccolo gruppo cremonese. Però, di fatto, senza Danilo sono
rimasti il ricordo, le carte, ma non più l’iniziativa. Lui era uno che teneva insieme veramente
l’uomo della Leggera, il “matto del villaggio” che viveva in una capanna lungo il Po, il militante di
base comunista o socialista, giovani studiosi come noi e uno storico famoso sul piano
internazionale come Carlo Ginzburg; tutto ciò in una maniera assolutamente e realmente
egualitaria, creando, mentre si preparava questo lavoro, una vera comunità e una vera circolazione
di idee. Quindi, devo dire mi ha indotto a studiare tenendo sempre aperta la forbice tra classe
operaia e operai concreti, che poi può anche voler dire studiare altri ceti, altri gruppi, sempre
tenendo presente questa tensione. In questo progetto c’era anche Ciafaloni e il gruppo torinese.
Danilo voleva tenere insieme Milano, Torino, quindi le grandi città, e Cremona, Piacenza, il mondo
della piccola e media fabbrica, che però era stato profondamente lavorato e percorso
dall’esperienza delle leghe contadine. Danilo era una persona davvero straordinaria.
Dall’85 in poi arriviamo all’oggi. Quando c’è stata la fine del PCI non ho capito subito che cosa
stava succedendo: per pochi mesi ho pensato che fosse possibile mantenere una radicalità, il
contenuto laburista del PCI, dentro ad una forma più libera. Ovviamente, ciò è durato pochi mesi.
Io non ho aderito a nessuna formazione e ho cercato di capire che cosa succedeva; a riportarmi ad
una militanza, sia pure non organizzata, comunque abbastanza attiva, è stato l’emergere della Lega,
che mi ha scosso profondamente. Nel frattempo erano accadute delle vicende nella mia vita privata,
mi ero separata, ho avuto un amore importante con una persona che poi è morta abbastanza di
recente, ma in mezzo ci sono state varie storie, non d’amore (sono una fedele a poche vicende),
bensì varie storie della mia vita, come cambi di sede universitaria: una separazione, per esempio, è
una cosa che assorbe negativamente tantissime energie, è un fatto entropico, quindi mi ero un po’
distratta dal mondo. La Lega, non nel ‘93, quando ha avuto successo, ma già nel ‘91, quando ha
cominciato a farsi vedere come una forza sociale, mi ha fatto capire che bisognava cercare di
comprendere davvero quello che era accaduto. E lì è cominciata la vicenda dell’analisi del
postfordismo, quindi siamo all’oggi. Tralascio tutte le analisi, perché è inutile ripetere cose che si
sanno. Ho l’impressione che, ancora una volta, la situazione presente ci mostri una tensione, una
divaricazione, una difficoltà di tradurre direttamente in politica la composizione di classe: io,
ripeto, sono convinta che ancora oggi sia una chiave fondamentale, se non si capisce come le
persone lavorano e in quale rapporto con il capitale, che tipo di comando ha su di essi il cervello
capitalistico complessivo, non si capisce assolutamente niente, si è destinati a poter vincere delle
battaglie tattiche ma perdere quelle strategiche. Una volta però detto questo, il tentativo di tradurre
direttamente in politica la nuova composizione di classe non è riuscito: chi ha provato a cambiare
cavallo e a passare dall’operaio-massa al lavoratore autonomo di seconda generazione, oppure
dall’operaio-massa imprigionato nel fabbricone alla libera creatività del ceto sociale, che in realtà
non è altro che ciò che si cala dentro al buco aperto dalla ristrutturazione, dunque ancora parte di
quel fabbricone (e meno male, se no sarebbe una roba nell’iperspazio), non è riuscito. Noi come
generazione abbiamo avuto una fortuna, che è stata quella di vivere uno di quei rari momenti in cui
la composizione di classe oggettiva e soggettiva si sono interscambiate: una soggettività politica
straordinaria emanava dalla fase oggettiva della lotta di classe. Però, adesso non è così, perché
sono convinta che se applichiamo un’analisi marxiana, validissima, alle figure del lavoro
precarizzato e in varie misure produttore di valore dentro le aziende dei servizi, abbiamo il profilo
di una nuova classe operaia, non c’è dubbio; però, i comportamenti soggettivi sono assolutamente

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predominanti, e questi ci danno sempre Formigoni al 63%, questo non si può rimuovere. Dunque,
io ho questa impressione. Facciamo un esempio: se a Milano noi andassimo a vedere cosa succede
alle Camere di Commercio, la vita e la morte delle imprese, troveremmo che c’è un livello di
mortalità incredibile; analogamente, nell’ultimo piccolo calo di Borsa, pensionati di ceto medio,
impiegati, operai lombardi con decine di ore di straordinario al mese, artigiani hanno perso un
sacco di soldi con cui progettavano di “far stare meglio” i propri figli. Tutte queste cose, per altro,
da un punto di vista capitalistico sono un segno di vitalità. C’è un bellissimo libro di Gianni Arrighi
che consiglio di leggere, Il lungo XX secolo: spiega che la vitalità capitalistica non è affatto
smentita dalle disgrazie individuali. Quando sono cominciati i grossi investimenti di capitale nei
grandi commerci londinesi, erano molte le false imprese, cioè quella che andavano a scoprire l’oro
ai Caraibi, l’albero del pane in Groenlandia (faccio degli esempi scherzosi, ma il processo è reale)
e cose simili. La Borsa di Londra ha esordito con una serie di crolli, ma la forza e il potere
straordinario che dava al commercio inglese avere dietro le spalle lo Stato inglese (perché il
capitalismo non è mai nato dagli spiriti animali e basta) indicava che proprio quell’effervescenza
era il segno di un’estrema vitalità. Però, se ci resti dentro, incastrato in questa vitalità, sei
“mazzolato”. La situazione attuale, con questa continua generalizzazione dei contratti di lavoro e
delle forme contrattuali precarie, a vario titolo, anche in settori che non lo erano mai stati, persino
nel pubblico impiego, con l’estrema fragilità delle nuove imprese di servizi , rispetto alla solidità
delle grandi imprese, crea uno stato di allarme continuo, che per altro il liberalismo teorizza come
l’unica condizione che sviluppa la ricchezza sociale: non è che lo stiamo scoprendo adesso, è dal
‘600 che viene detto. Questa ansia socialmente determinata è diventata una condizione di massa,
tendenzialmente, però in presenza di una situazione non di indigenza totale, perché, per fortuna, la
fame è sempre più rara, anche se c’è (il pensionato al minimo ha fame anche oggi e anche a
Milano). Ad un certo punto era venuta fuori la società dei due terzi; quella dei due terzi, però, non è
una società in cui questi sono sicuri di stare sempre in tale posizione: alcune sventure professionali,
un’assicurazione che non paga, due anni di lavoro meno florido possono far passare non voglio dire
proprio da dirigente a barbone come avviene negli Stati Uniti, in quanto prima di arrivare lì ne deve
trascorrere del tempo, e devono probabilmente intervenire delle rotture politiche più definitive, però
c’è sicuramente c’è un andirivieni rispetto al benessere che rende le persone estremamente insicure.
Questa insicurezza probabilmente ha due facce. Una è la rivendicazione dell’insicurezza come
forma dell’autoimprenditorialità, la quale, in verità, è più un’immagine di sé che una realtà, perché
in moltissimi casi l’autoimprenditore è un lavoratore parasubordinato; però, l’introiezione del
modello liberistico è come una reazione nevrotica a questa continua pressione della flessibilità. Poi
esiste l’altra faccia, costituita da quelle figure operaie che ancora godono di certe garanzie, in alcuni
casi ma non in tutti, perché c’è molta precarietà o comunque contratti a termine e a varie forme
anche nelle imprese manifatturiere tradizionali. Però, certamente lì c’è piuttosto uno scarto tra una
capacità conflittuale sul salario, ancora forte, e una totale perdita di controllo sulle condizioni del
lavoro. Questo (è banale dirlo, ma ciò non vuole dire che sia meno vero) dà una proiezione di tale
frustrazione sulle figure di minor resistenza, quindi il razzismo e il culto del lavoro come fatica, che
tra l’altro dalle nostre parti è stato sempre presente, ma che può venire incorporato in una cultura
operaia del lavoro come miglioramento di sé, crescita, esperienza o può invece degradare a cultura
comunitaria che esclude gli estranei. Qui potremmo entrare in un discorso che riguarda più
strettamente il mio lavoro. Io ho fatto uno studio e un saggio sulle forme di sociabilità nelle società
tradizionali e nella modernità, in cui la figura del partito, cioè dell’associazione volontaria, ha dato
un paese, una patria alle figure spiazzate dalle emigrazioni della prima e della seconda
industrializzazione, contrapponendo quindi due forma di comunità. Una è quella mobile, inclusiva,
che era quella del lavoro, e questo non detto ideologicamente: adesso sto cercando di verificare
come si formano questi processi negli anni dal ‘40 al ‘50 dell’800, con dentro il ‘48, negli operai di
Parigi e del nord, mi sembra molto importante vedere questa dimensione aurorale. L’altra è quella
territoriale, etnica, di paese, di condivisione dei pregiudizi, che oggi diventa mito regressivo (il
culto del locale si alimenta nei paesi attraversati dalle grandi strade di scorrimento delle merci in

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Lombardia e Veneto, in cui la “piazza” è rappresentata dal centro commerciale! dunque si tratta di
un culto del tutto ideologico).
Oggi potremmo avere la stessa situazione di inclusione, però, elementi ideologici ed elementi di
sconfitta profonda che ha subito il movimento operaio nella fase precedente fanno in modo che
questa grande occasione inclusiva sia persa. Queste due facce potremmo etichettarle con
grossonalità, però secondo me abbastanza realistica, come l’adesione a Forza Italia e alla Lega;
questa è l’elaborazione simbolica della propria condizione, l’immagine di sé difensiva costruita da
tali figure di lavoratori comunque sconfitti, che hanno incontrato queste offerte politiche. Non
voglio entrare nella costruzione di un mondo immaginario attraverso la televisione in quanto,
secondo me, non si considerano gli altri elementi. Anch’io vedo la tv di Berlusconi, però a me non
fa nessun effetto, mica perché ho studiato, ma in quanto ragiono politicamente; a tanti altri non fa
lo stesso effetto, perché hanno degli anticorpi. Quindi, la costruzione di un mondo immaginario
attraverso la proposta, in fondo, del mondo come uno spettacolo con le ballerine può affermarsi
solo perché si è smantellata la forza dove tu radichi i tuoi valori in una pratica di potere: quando hai
perso questo orizzonte, allora chiunque ti può raccontare la sua favola, ma deve esserci prima
quella perdita di controllo e di potere sulla propria esperienza. Ad esempio, qui a Milano trovi il
venditore di collanine, la mendicante, quello con i cani, quello con il bambino (che in genere, per
fortuna, sono molto belli e ben tenuti) e c’è sicuramente, da parte di molte persone, un doppio
processo. Nella migliore delle ipotesi (che io vorrei sperare qualche volta esistesse) c’è un residuo
di partecipazione umana, il senso che tanto non puoi fare niente dandogli mille lire: io dico che non
servirà però gliele do, perché le ho e mi sembra anche un dovere darle, però so benissimo che non
cambia niente. Invece, ci può essere una reazione del tipo: “Non te le do perché la tua vista mi
ricorda la mia impotenza a cambiare la tua vita”; questo nella migliore delle ipotesi, mentre nella
peggiore c’è un’incapacità di figurarsi la sofferenza degli altri. Un caro amico che è anche un
bravissimo storico, David Bidussa, ha scritto che a Varsavia, durante l’occupazione, vicino al
ghetto dove i bambini morivano di fame abbandonati nelle strade, non c’era cibo, la gente moriva
di epidemia a decine al giorno, sorgeva una giostra per bambini. I cittadini di Varsavia non
sentivano la sofferenza dei loro concittadini Ebrei come loro: non se la immaginavano. E questa
incapacità (che è poi anche una delle peggiori forme di stupidità) è una componente essenziale del
razzismo. Ma se, invece, ci spostiamo nelle zone produttive industriali, gli extracomunitari è gente
che lavora e fatica come i bergamaschi, i comaschi e i varesotti, che ha riempito i buchi della
siderurgia locale, che spesso, siccome è più scolarizzata, il padroncino li cerca, in quanto ha una
capacità di imparare mestieri nuovi che a volte il ragazzo delle valli non scolarizzato non ha, poiché
trova facilmente lavoro. Eppure, c’è un residuo quasi pavloviano di insofferenza che poi si
sedimenta nel voto, e tutto questo ci pone un problema secondo me enorme. Credo che comunque
una maggiore immersione della sinistra nelle miserie sociali della propria base e una maggiore
radicalità nel contrastarle (e la xenofobia è una miseria sociale) potrebbe far molto a lungo termine.
Ma per superare questo handicap, il rimprovero alla sinistra liberale di essere sinistra liberale non
serve a niente: certo, lei vuole esserlo. Però, non è che quando abbiamo detto quanto D’Alema è
ottuso e quanto Veltroni è scemo abbiamo fatto un passo in più. D’altra parte, ancora oggi dentro al
voto ai DS, e persino a non pochi organizzati tra i DS, sta un’idea quanto meno di resistenza civile
alla barbarie che non ci si può permettere di non utilizzare, perché non sono chiari di luna in cui si
ha del lusso, si va per la strada e si trovano soggettività straordinarie. Poi c’è il mondo dei centri
sociali. Secondo me, è un mondo davvero non unitario, in cui, quando mi capita di incontrarli (e mi
capita), io trovo in fondo un po’, con altre categorie linguistiche, le stesse divisioni che c’erano nei
movimenti degli anni ‘60 e ‘70: da un lato l’esaltazione della fuga, in fondo il postmoderno, e
dall’altra una tenacia nel radicamento. Quindi, quello è certamente un patrimonio, però non li vedo
come un pezzo, io detesto poi l’espressione “pezzi di”, cioè un po’ di centri sociali, un po’ di
volontariato, un po’ di donne (che poi non si capisce perché non dovrebbero essere distribuite in
tutto ciò), emulsioniamo e abbiamo qualcosa. Non è così, nei centri sociali secondo me c’è una

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battaglia politica molto importante, ma che è politica a pieno titolo, non è un mondo da aggregare
insieme ad altri.

- Bonomi la pensa diversamente, ritenendo che i centri sociali abbiano esclusivamente la


funzione di produttori di socialità artificiale.

Questa è la sua tesi, ma non mi pare proprio che sia così, anche perché se fosse solo socialità
sarebbe una socialità che può produrre una certa ansia. E’ una socialità dove anche le forme della
comunicazione continuamente rimandano ad un mondo spaccato, non è che sono solo dei luoghi
irenistici. Ma lui dice anche altre cose. Quando Bonomi ha scritto il primo testo, Il trionfo della
moltitudine, io sono rimasta veramente molto colpita, perché mi sembrava che fosse il primo, in
quei tempi in cui pareva che si fosse smarrito il senso della materialità dei processi, che diceva no,
che Berlusconi non vince per la televisione, cioè la destra non è un effetto di una battaglia culturale,
è proprio passata dentro al corpo sociale. Poi, però, ha un po’ reso stereotipata la sua analisi,
continuamente ripropone questa fine del lavoro tradizionale e stenta a vedere che, invece, il lavoro
è onnipresente, nella manifattura, nelle produzioni materiali la concretezza della fatica è presente
ma non solo in Kampucea o in Corea, ma anche qui. Quindi, lui ha avuto una notevole idea, ma
l’ha un po’ sociologizzata, però lo ritengo uno di quelli che hanno dato un contributo importante,
almeno in una certa fase, a dare uno sguardo in profondo nella società.

- Non credi che in tutta una serie di analisi (come quelle sul general intellect, di Negri ad
esempio) si faccia una fotografia di una composizione di classe e si esalti una soggettività e dei
comportamenti che, però, vanno in una direzione di sviluppo capitalistico? Anche per quanto
riguarda il discorso sul sincretismo antagonista di Màdera, si parla sì di conflitti, ma che il più
delle volte non sono forme di alterità rispetto al capitalismo, anzi vanno in un senso funzionale
ad esso e non certo alla lotta di classe.

Sì, ne sono perfettamente convinta, la penso esattamente così e resto inquieta del fatto che questi,
che sono stati a modo loro certamente dei comunisti, non percepiscano l’imbarazzo di questo
spostamento, di questo loro derapage. Questo mi sembra per Virno (io faccio un po’ fatica a
leggerlo, scrive in modo talmente difficile), è così sicuramente per Màdera e per lo stesso Toni
Negri: è come se di Marx loro avessero preso solo il fascino per il pensiero radicale.
Io, per esempio, da Toni Negri continuo ad imparare che non si fa la morale al capitale; quando mi
disse: “Come fa una donna come te a stare con i proudhoniani della nuova sinistra?”, non era vero
che la nuova sinistra fosse proudhoniana, comunque io proudhoniana non lo sarò mai. Ma era
un’indicazione che ancor oggi faccio mia, a cercare di misurarmi col presente. E’ vero che le forme
del conflitto di classe possono assumere, per tutta una fase, anche le forme della resistenza
comunitaria rispetto a precedenti forme di socializzazione; ma questo non è mai un modello
evolutivo. Facciamo un esempio storico. La Prima Internazionale è stata spesso una resistenza alla
trasformazione capitalistica, non importa che si dichiarasse marxista; il Partito Operaio era fatto
proprio da lavoratori manuali assolutamente privi di una conoscenza di Marx (a parte che lo
conosceva pressoché solo Labriola in Italia, quindi non era lì la discriminante), ma avevano la
fortuna di non conoscere neanche tanti altri autori che avrebbero loro impedito di avere una
percezione chiarissima che la trasformazione capitalistica e la dimensione del lavoro salariato erano
un orizzonte ormai ineludibile, attraverso il quale bisognava passare per andare verso un’altra
forma. Se loro (Màdera, Virno e gli altri) volessero dire, per caso, non si ferma la macchina, ci devi
passare attraverso, sarei d’accordo, però non sono d’accordo con l’esaltazione di soggetti che
vivono dentro a questi processi e vi aderiscono: la trasformazione del militante in imprenditore di
se stesso a volte è stata una soluzione indispensabile, sociologicamente, se io non lavorassi
all’università, probabilmente mi dovrei dare da fare anch’io per valorizzare me stessa, in quanto
dovrei mangiare, però questo non mi sembra rivoluzionario. Sono d’accordo, anche questa è la cosa

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che mi inquieta, che loro non percepiscano in molti casi proprio questo. Adesso poi le ultime
evoluzioni di Toni Negri in direzione mistica non le ho seguite.

- Hai già citato alcuni soggetti particolarmente importanti nel tuo percorso politico e culturale:
quali sono i tuoi autori e le tue figure di riferimento, i cosiddetti numi tutelari?

Marx sicuramente, su di lui proprio non ho dubbi. Il Marx de Il capitale pubblicato, quello dei
Grundrisse e moltissimo anche proprio il Marx storico. Cito l’Engels de La formazione della classe
operaia in Inghilterra, quello sociologico. Poi Hobsbawm e anche un grande incontro culturale con
Thompson. Poi ho scoperto la storia della rivoluzione francese, quindi il farsi non puro, complicato
di un proletariato. E’ stato importante un incontro, non lungo, ma per alcune cose che mi ha detto
Albert Soboul, il grande storico della rivoluzione francese. Sicuramente Tronti, è stato molto
importante per me, così come la lettura di alcuni testi di Alquati, Sulla Fiat, per esempio, e lo
studio sugli studenti lavoratori (Università di ceto medio). Romano è stato molto importante,
perché lui ha scritto (adesso forse si è un po’ stufato) il percorrere una storia sociale, il farsi di
nuovi ceti, anche cogliendo la soggettività politica per quella che era. Come già ho detto, è stato
molto importante Stefano Merli. Poi mi sono ammaestrata da me.

- Cosa diresti dovendo parlare, anche in senso critico, di Lenin? Oggi pochi ne parlano.

Io non mi sarei mai detta leninista. Il Lenin che ha scritto in connessione con il movimento operaio
occidentale, per esempio il Lenin teorico dell’imperialismo, de Lo sviluppo del capitalismo in
Russia, è un grande teorico della Seconda Internazionale, è un grande studioso e ha scritto cose che
tuttora io sottoscriverei. Ha colto meglio de L’accumulazione del capitale di Rosa Luxemburg la
dinamica anche soggettiva immessa dall’imperialismo nella classe operaia. Tutto sommato, ha
anticipato delle scoperte sulla nazionalizzazione delle masse non come processo compiuto, ma
come tentativo di integrare attivamente la classe operaia che si andava scoprendo, cosa che poi, per
esempio, ha studiato Mosse: io ovviamente non scriverei che Mosse e Lenin sono equiparabili, però
in una conversazione a ruota libera direi che il Lenin militante del Partito Socialdemocratico russo
è un grandissimo teorico e organizzatore. Tra l’altro, non bisognerebbe dimenticare che Lenin ha
praticato l’inchiesta operaia. Poi, certamente, tutti sappiamo che era consapevole che costruire il
socialismo in Russia voleva dire, prima di esso, costruire il capitalismo: il problema non è stato
Lenin, ma è stato l’assumere il percorso della rivoluzione russa come un modello esportabile. Sto
leggendo, anche attraverso un amico che li studia, Andrea Panaccione, le dolorose e complesse
vicende dei menscevichi in Unione Sovietica. Non si trattava affatto dei moderati contro i radicali o
soltanto dei legalitari contro i ribelli; ma erano in fondo dei militanti legati al mondo urbano e
operaio che cercavano di tenere ferme le dinamiche anche democratiche, legate alle conquiste del
movimento operaio in Occidente, una trasparenza del dibattito per esempio, una modernità anche
nelle relazioni e nel costume, che però tentavano di stare dentro comunque al processo
rivoluzionario. Quindi, io credo che il leninismo non possa essere espunto dalla nostra storia; poi, la
colpa dell’ossificazione ed esproprio di soggettività, del culto del partito, non in quello di massa ma
nel partito di avanguardie, non mi induce fino a espungere Lenin da una storia che appartiene al
movimento operaio e alla storia del comunismo. Io lo storicizzerei, il problema del leninismo è
stato di diventare un modello; citare Lenin senza dire a che data ha scritto i testi o, peggio ancora,
in che data ha fatto delle scelte militanti, è una cosa che è stata fatta e ciò vuol dire impedirsi
qualsiasi analisi. Lo stesso vale anche per la Luxemburg, tutti questi erano dei militanti e delle
persone immerse continuamente nei fatti, che non guardavano solo alla contraddizione in ultima
istanza, ma anche a quelle secondarie, quindi è lì che vanno assunti o espunti. Io espungerei dalla
storia del movimento operaio solo quelle figure che poi sono diventate autoritarie, ad esempio il
socialfascismo, Doriot, quelle figure un po’ come Bossi, che si dice fosse iscritto al PCI, quelle
derive dal classismo al nazionalismo. Quello sì, francamente mi sembra un’ombra inquietante di

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molte figure, episodi o periodi del movimento operaio. Invece per il leninismo il discorso è
tutt’altro, la nostra vita stessa sarebbe diversa senza il leninismo, avremmo altre categorie anche
critiche.

- Lenin, inoltre, si rende conto di alcuni limiti di Marx, di un’analisi tendenziale che, soprattutto
oggi, si dimostra estremamente valida, ma che, probabilmente a causa di un eccessivo
determinismo, non arrivava al discorso della soggettività.

Anche perché, per fortuna, ad un certo punto Marx è morto, come si è detto in una battuta. Quello
di cui ci siamo liberati è un atteggiamento davvero da interpretazione dei testi sacri. Noi oggi
ricordiamo sempre che se Marx scrive nel ‘48 o invece nel ‘64, quello che succede nel mondo in
questo periodo ha un’importanza anche per quanto riguarda l’analisi dei suoi testi. E’ importante
datare sempre i discorsi, e anche, più modestamente, i nostri.

- Prima hai parlato di un periodo in cui hai lavorato in un consultorio con alcune donne. Nel tuo
percorso politico hai incontrato il movimento femminista? Secondo te, quali sono state le
ricchezze, ma soprattutto i limiti dell’esperienza dei movimenti femministi? Cosa ne pensi di chi
teorizza una femminilizzazione del lavoro come possibile forma di emancipazione della donna?

Sono due cose diversissime. Io personalmente non ho incontrato il movimento femminista fino a
quella fase di cui ho parlato prima, che per me è stata di ripiegamento, ma questo è un limite mio e
non del movimento femminista. Da un lato per me ha prevalso l’incontro con il movimento
operaio, questa emozione di una soggettività che in qualche modo dava all’orizzonte dei miei
problemi personali, che tutti abbiamo, una specie di ancoramento. Poi, questo riguarda come
ognuna ha declinato la propria femminilità: io sono molto legata alla coppia, ho un mito della
coppia perfetta (e infatti oggi sono sola). Può anche essere che vicende anche del tutto banali di vita
o di formazione non mi abbiano mai fatto avvertire l’essere donna come un limite da superare, ma
neanche come un orizzonte quasi ontologico in cui sprofondare. Io so che penserei e scriverei
diversamente se fossi un uomo, anzi non potrei mai immaginarmi neanche lontanamente il
contrario; però, questo è sempre stato come una gioia e un arricchimento della mia vita. Sono legata
anche a degli aspetti più tradizionali del femminile, a una dimensione di alleanza nella coppia che
non mi ha mai permesso di riprodurre dentro al rapporto uomo-donna quella scissione che c’è nel
conflitto capitalistico, io non sono mai riuscita a vivere questa dimensione, è un mio limite però,
perché per altri è stato molto creativo. Per esempio, io non sono riuscita a capire come mai Tronti
all’improvviso, dopo la classe operaia rude razza pagana, ha scoperto lo spirito di scissione
femminile. Lo posso vedere solo come una fedeltà esclusiva a un pensiero e a una pratica radicali.
Certamente le donne hanno espresso una pratica di una radicalità straordinaria; sicuramente è vero
che c’è un modo di fare politica delle donne particolare e peculiare. Ho l’impressione (ma questo
ancora una volta è sulla bocca di tutti, non è che sto scoprendo grandi cose) che, per esempio, nelle
organizzazioni armate le donne abbiano avuto un ruolo di grandissimo peso e prestigio, come ce
l’hanno avuto nei momenti sempre di emergenza, come nella lotta armata partigiana, e come in
fondo sono state molto presenti, in modo diverso perché non soggettivo, in momenti di rottura e di
riclassificazione dei rapporti politici collettivi (nel ‘48, nella rivoluzione francese).
C’è una cosa che mi viene in mente. Le donne hanno avuto un ruolo centrale, sono state la classe
operaia in moltissimi settori e per moltissimi decenni, anzi proprio venivano cacciati gli uomini con
saperi artigianali per l’assunzione delle donne: molti degli atteggiamenti misogini di alcuni
sindacati di mestiere sono dovuti a questo. I tipografi nel 1870 non vogliono che Vallardi assuma le
donne, perché così abbatteva la tariffa; le donne (anche quelle che avessero raggiunto una maggiore
qualificazione) non superavano mai una lira, una lira e mezza al giorno, quando un buon operaio
tipografo poteva prenderne cinque o sei. Ovviamente veniva introdotto personale femminile proprio
quando l’innovazione tecnica permetteva di usare personale meno qualificato. Quindi, le donne

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sono state corpo della classe operaia. Quando, a metà degli anni ‘10 del ‘900, Alessandro Schiavi
comincia a fare un bilancio delle conquiste del movimento operaio, in generale italiano ma in
particolare milanese, fa un’osservazione che critica due cose. Una è la passione straordinaria degli
operai di fare cooperative, gruppi di mutuo soccorso, cioè di cercare di rendersi indipendenti dal
mercato, secondo lui anche usando troppo in quel modo il denaro che faticosamente raccoglievano
a detrimento delle casse di resistenza, che invece erano un investimento migliore. La seconda cosa
riguarda le donne che, secondo lui, non si sa mai cosa faranno: sembrano magari disposte a fare le
crumire, non si riesce a organizzarle e poi, quando cominciano uno sciopero, senza una lira alle
spalle non vogliono più finirlo, vanno avanti ad oltranza, e poi non si riesce mai a chiuderle dentro
l’organizzazione. Questo è in parte perché in una coppia operaia, molto spesso, pagare due quote a
due diverse società era troppo costoso: infatti, per esempio, c’erano degli abbandoni un anno e dei
ritorni l’anno dopo che avevano proprio tutta l’aria, nelle storie dell’organizzazione, di dipendere
dal fatto che quell’anno la coppia non ce l’aveva fatta. Questo non va mai dimenticato, i bilanci dei
lavoratori erano veramente di sussistenza, anche in casi di lavoratori relativamente qualificati. Però,
c’è sicuramente un minore feticismo dell’organizzazione nelle donne, un uso abbastanza più
strumentale e più laico, che non impedisce la rivendicazione. Io, però, ho un po’ di resistenza a fare
di queste osservazioni (che sono assolutamente vere e incontestabili, che qualunque storica o
storico seri non possono che incontrare) un’ontologia dell’essere donna in politica o nel conflitto di
classe.
La questione della femminilizzazione del lavoro è una cosa molto diversa, che secondo me fa il
paio con quelle di prima (di Virno o Màdera). Quell’elogio mi sembra significare che le donne
abbiano una tendenza al crumiraggio e io a questo mi ribello tantissimo, per essere chiari: non
credo assolutamente che le donne siano così “boccalone” da avere una naturale tendenza alla
collaborazione. Non vorrei essere banale, però quelle elaborazioni vengono fuori da donne che
fanno dei lavori estremamente qualificati: sinceramente non so quanto la commessa o la
confezionatrice di supposte (che sono un medicamento che fa particolarmente male alle dita e
produce allergie) abbiano questa tendenza alla collaborazione o non vi siano piuttosto costrette
perché altrimenti vengono licenziate, proprio per essere piatti, però è una piattezza che continua a
spiegarmi più cose. Poi, certamente esistono dei rapporti ambigui, ma allora è così per uomini e per
donne, perché uno non ha scritto in fronte capitale oppure articolazione del capitale: ognuno ha
delle relazioni e, nella media o piccola impresa, e più in generale nel lavoro quotidiano, esistono
degli elementi di cooperazione alla costruzione di un prodotto che possono avere dei momenti in
cui prevale questo aspetto sul conflitto di interessi, questo è verissimo, e lo è per uomini e per
donne. Mi sembra un’infiocchettatura e un abbellimento di osservazioni che sono veramente
vincolate a certe esperienze: sono avvocate, medici, nel mondo universitario. Anch’io potrei dire
cose simili, ma non è così, so benissimo come reagirei se dovessi fare la bidella, me lo figuro in
modo chiarissimo.
Probabilmente è vero che esiste una peculiarità del lavoro nei servizi, però loro vogliono
generalizzare. Io ricordo una, secondo me indimenticabile, intervista di Manuela Cartosio che
costrinse le donne della Libreria delle Donne ad attribuire questo straordinario entusiasmo per le
relazioni alle commesse, cosa che se lo avessero detto alle commesse queste passavano alle vie di
fatto: basta andare al supermercato per accorgersi che è peggio che stare in una catena di
montaggio. D’altra parte, un aspetto cooperativo del processo produttivo è evidente che ci sia, ma
questo c’è anche tra uomini, tra uomini e donne, tra donne e donne; se non fosse così non ci
sarebbe mai stato il capitalismo, non avrebbe mai creato una società, ci sarebbe una guerra
continua. Perché è questo, quando tu hai creduto alla guerra continua e poi vedi che ci sono
mediazioni, allora fai la teoria sulla mediazione; magari, invece, è un continuo andirivieni. Io in
queste teorie vedo un’incapacità di reggere un elemento di complessità, dove c’è la compresenza
anche di vari elementi; questo poi non vuol dire che queste donne siano stupide, ma sono troppo
unilaterali.

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INTERVISTA A MARIA GRAZIA MERIGGI – 14 OTTOBRE 2000

- Qual è la tua analisi della recente riforma dell’università e, più in generale, come
affronteresti il discorso della formazione?

Ho tentato in questi anni di seguire questo discorso. Sono state fatte moltissime riunioni
(veramente decine di ore) come commissione didattica per approntare la laurea triennale. Ma una
posizione critica ho cercato di farla passare attraverso l’unico luogo contenitore che avrebbe
dovuto consentirlo, cioè le riunioni del sindacato SNUR-CGIL, che è un sindacato assolutamente
non rappresentativo della docenza, perché questa è organizzata tutta in sindacati microcorporativi
e in generale si tratta di un tipo di persone che hanno un rifiuto veramente arcaico di vedersi
come lavoratori. Perché la progressione di carriera passa talmente tanto da un sistema cooptativo,
in una maniera così totale, da non lasciare spazio all’idea neanche remota di contrattare
collettivamente nemmeno una parte della propria attività lavorativa. Quindi, per esempio, il fatto
che la retribuzione sia ferma da anni e recuperi in ritardo e parzialmente l’inflazione e ormai il
fatto di non essere contrattualizzati ci nuoccia, non viene mai detto; tanti lo sanno, ma molti non
se ne rendono nemmeno conto. Faccio questa premessa e sfogo: noi siamo agganciati alla media
degli aumenti retributivi ottenuti l’anno precedente dal pubblico impiego. Quindi, abbiamo un
aggiornamento, deciso dall’Istat sulla base della media degli aumenti ottenuti l’anno precedente.
Quindi se in un anno non c’è un buon rinnovo contrattuale, l’anno seguente noi non abbiamo
nessun incremento. Questo lo sanno tutti (o almeno molti) però l’idea di delegare ad un ente, ad
un’organizzazione che ha una rappresentanza di interessi non legati alla docenza anche solo una
parte del proprio lavoro, è una cosa che viene guardata con fastidio dalla grandissima
maggioranza dei docenti. Quindi, la maggior parte degli universitari sono iscritti a sindacati
microcorporativi: degli associati, degli ordinari, dei dottorandi ecc. Dunque, la CGIL non è
rappresentativa della docenza, però ha utilizzato questa occasione per fornire alcuni luoghi, due o
tre giornate di incontro e di discussione sulla riforma.
La riforma comporta due aspetti molto diversi fra loro: uno ha un rapporto con il mondo
studentesco diretto e uno indiretto. Parto da quello più breve, diretto. La riorganizzazione del
modo in cui verrà fatta la didattica comporterà molte più ore di lezione, 120 ore di lezione
anziché le 70 di adesso, però naturalmente non le puoi erogare tutti insieme: quindi, si prevedono
sostanzialmente due semestri con una presenza prolungata nell’università, nell’impegno che fai
con l’università, questo nell’ambito dell’autonomia. C’è la quantificazione precisa delle ore
spese in attività gestionali, dai consigli di laurea, ai dipartimenti, ai consigli di facoltà, tutorato
ecc. Devo dire per esempio che ho notato con dispiacere che i deputati di Rifondazione l’ultima
cosa che fanno è chiedere magari lumi a chi in università ci lavora, quindi escono delle proposte
davvero sconcertanti, del tipo: 1500 ore di presenza nella sede di servizio. Queste cose non
passano perché sono i cosiddetti “baroni” (parola che ormai fa ridere) a non volerlo, però se io
dovessi prestare 1500 ore nella mia sede di servizio non farei niente, mi dedicherei all’uncinetto,
a sferruzzare, perché nella sede di servizio quando ho visto i miei studenti uno per uno non ho un
luogo dove io possa lavorare, in quanto come storica lavoro su fonti o al massimo biblioteche
ultraspecializzate. Per quanto riguarda la ricerca che non sia ricerca scientifica, c’è stato per
molti anni all’università uno spazio di crescita di una ricerca autonoma che poteva (naturalmente
se voleva) indirizzarsi a un contatto, diretto o indiretto, a progetti conflittuali o comunque di
libera crescita di saperi finalizzati non solo all’accademia e soprattutto alla formazione della
forza-lavoro: questo ormai invece è assolutamente residuale, cioè uno lo deve fare nei suoi ritagli
di tempo. Per esempio, io sono andata a finire una ricerca d’archivio a Parigi questa estate, non
avevo altro modo, non potevo fare altro. Non voglio impietosire nessuno, per carità, se penso ai
problemi del lavoro parasubordinato a domicilio, ai call centers, ai posti dove ci si ammala, o si
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inalano veleni, per carità, sono uiltraprivilegiata. Però sicuramente l’università non sta più
pensando e non vuole più permettere spazi liberi per la ricerca, che non sia una ricerca finalizzata
ad una spendibilità immediata, in casi ottimi come la medicina o magari invece per l’industri
farmaceutica piuttosto che per la chirurgia o l’informatica.
Questa è la cosa che potrebbe essere inserita nel nuovo stato giuridico. Questa riforma, che
quindi comporta non solo un forte aggravio di lavoro ma un mutamento del tipo di lavoro, è
certamente europea, solo che in Europa esistono altri percorsi di carriera paralleli dove uno può
invece esercitare questo lavoro, cioè può studiare ma naturalmente verificando e facendosi
verificare continuamente. Per esempio, c’è un modo molto semplice di verificare se una persona
va a Parigi a perdere tempo per fatti suoi oppure a studiare: basta che gli si chieda di portare un
documento delle istituzioni di ricerca in cui ha operato, cosa che nessuno si sognerebbe di
falsificare, cioè se io andassi all’Archivio di Stato di Parigi a chiedere un documento falso mi
guarderebbero come una pazza. Questo però non viene in mente a nessuno, o meglio viene in
mente per farsi pagare le missioni, cioè se tu vai in missione a Parigi, riporti queste carte e le dai
all’ufficio stipendi te le liquidano prima semplicemente perché è tutto più ordinato. Però, uno
non è obbligato, moltissimi colleghi le rifiutano, uno dicendo, addirittura in una riunione di
dipartimento: “noi non siamo mica operai!” Dunque, per quanto riguarda la ricerca in Italia non
esistono per ora grandi écoles, non si è pensato ancora a spazi per consentire questa libera
ricerca. Anche tutte le forme di inizio dell’ingresso nell’università, come gli assegni di ricerca,
che sono contratti di due più due anni su fondi ministeriali, vengono assegnati assolutamente non
pensando a “questi qua avranno pur diritto una volta nella vita di fare una ricerca ‘come Dio
comanda’, dal principio alla fine”: no, vengono assegnati per esempio sulla base della necessità
di fare tot esami, di fare tot ore di tutorato ecc. Questa riforma comporta anche ovviamente e
finalmente (vorrei anche vedere) degli effettivi, anche se non enormi, incrementi retributivi di un
certo peso, ed è anche per questo che non procede. Inoltre, senza venire allo scoperto e non allo
scopo di studiare con passione, ma perché la verifica di questo aumento di lavoro dovrà per forza
portare l’introduzione di elementi di controllo della burocrazia sui docenti, non è improbabile
che molti di essi ritengano tutto questo offensivo e lesivo della gerarchia. Dunque, c’è
sicuramente una resistenza sotterranea, ma poi c’è il fatto che bisogna vedere se c¹è la copertura
finanziaria. Quindi, ora si è in attesa e il prossimo anno, 2001, non è ancora sotto questo nuovo
regime delle 120 ore, quindi tot ore quantificate con molto rigore di attività amministrativo-
burocratiche; le 1500 ore sono state un’idea di questa compagna che è deputata di Rifondazione,
però non sono state accettate, erano solo uno spauracchio.
Invece, c’è la riforma che riguarda tutti, ed è questa della laurea triennale, che è sicuramente
anch’essa molto europea, lo si sa dai giornali, dovrebbe essere la sostituzione della vecchia
laurea in una facoltà molto ampia; le facoltà erano molto ampie (Lettere, Storia, Lingue, Legge
ecc.), cioè davano adito a dei percorsi professionali estremamente variegati e offrivano dunque
dei percorsi abbastanza liberi. E’ noto che c’è una “mortalità scolastica” elevatissima (in questo
momento non la so precisamente quantificare ma è veramente molto alta) di persone che si
iscrivono e non si laureano. Dunque, non solo è stata introdotta la laurea breve di tre anni (adesso
la laurea non si otterrà più in quattro anni ma in tre), ma soprattutto, visto che in questo caso solo
tre anni invece di quattro non avrebbe avuto molto senso, in realtà il mutamento più radicale è
rispetto alle classi di laurea. Premesso che non dico che ci sia un grande caos, ma insomma non è
tutto molto chiaro, c’è una grande continua trasformazione, se ci si connette al sito
dell’università su Internet si vede che veramente c’è una produzione di proposte, di ipotesi, di
emendamenti continua, quindi tutto questo che sto dicendo è così fino a ieri. Per esempio, la
facoltà come luogo anche amministrativo doveva sparire completamente, poi si è visto che di
fatto alcune funzioni burocratiche e alcuni ruoli non consentivano che essa fosse sostituita o
smantellata, quindi la facoltà resta. Tuttavia, per quanto riguarda le classi di laurea, uno non si
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laurea più in Lettere, ma in discipline molto più specifiche, come Scienze filologiche, Scienze
dell’Educazione primaria ecc. Però, il senso del progetto è indurre le persone a fare una scelta
molto precoce e professionalizzata. Anche se lo stesso Abete lo ho detto, quando era presidente
di Confindustria, il mutamento del mercato del lavoro e delle sue richieste è molto più veloce,
quindi è necessario avere una preparazione che non guardi al mercato del lavoro di quel
momento. Tuttavia l’idea è dare una formazione estremamente strumentale agli sbocchi
lavorativi e scoraggiare per ciò stesso, quindi ridurre molto quelle materie non direttamente
spendibile; queste restano come le fornitrici di una generica formazione, metodo di approccio
ecc., cioè si parla molto con questo linguaggio un po’ pedagogico vago. Gli studenti sono
scoraggiatissimi rispetto al percorrere un’avventura intellettuale di ricerca libera, professionale.
Tutto questo sempre che sia chiara questa poi immediata spendibilità di queste lauree. Tuttavia
molte cose sono ancora in corso, per esempio il ruolo delle lauree di specializzazione non è
chiarissimo, non è ben evidente per che cosa saranno chieste, probabilmente saranno chieste per
quelle professioni di cui ancora sopravvivono gli ordini, dei quali si parlava della loro
soppressione e che sono ancora lì: per esempio, per fare il consulente giuridico di un’azienda tre
anni, per fare l’avvocato o il magistrato cinque. Per l’insegnamento secondario, un lavoro come
tutti sanno mal pagato, probabilmente ce ne vorranno addirittura sette oppure cinque, perché
l’insegnamento non sarà più permesso attraverso l’abilitazione data dalla laurea, ma dopo due
anni di scuola di specializzazione apposita. A causa dell’autonomia universitaria c’è in generale
il fatto che l’università oggi in certi casi non voglio dire che non paghi gli stipendi, sia ben
chiaro, ma ha problemi a gestire il denaro: molti dei fondi per attivare nuovi corsi e per la ricerca
vanno trovati sul famigerato territorio. Quindi, le grandi università possono rivolgersi per gli
aiuti di ricerca alle grandi imprese, ai privati per operazioni di immagine; le piccole università
devono vincolarsi alle forze locali, per esempio gli industriali o le camere di commercio, per
trovare formule che possano essere appetibili da queste, e tutto ciò che non vi rientra deve essere
fatto scivolare come una variabile. Un esempio: io lavoro in una piccola università e adesso
insegnerò in un nuovo corso di laurea che è Scienze dell’Educazione, che è rivolta alla
formazione di formatori sicuramente, per l’attività di cura (ospedali ecc.), di mediazione
culturale, in presenza di una fortissima immigrazione extracomunitaria, necessaria per
moltissime attività produttive, di gestione di imprese del 3° settore. Dunque, c’è il bisogno di
trovare forme di integrazione anche linguistica; le scuole, gli ospedali, in consultori devono
affrontare problemi educativi e sanitari (pensiamo a temi delicati come la contraccezione e la
maternità) di persone delle provenienze culturali più diverse . Quindi, è un’esigenza del territorio
che può essere naturalmente saturata in maniere molto diverse: è una scommessa aperta ma
bisogna sempre stare con l’orecchio teso a servirsi di istituzioni e privati senza esserne
colonizzati.
Per quel che riguarda il progresso della tua “carriera”, essa dipende dalla concertazione (non in
senso nobile), dall’accordo stipulato in una stanzulella isolata, dai docenti ordinari della tua
corporazione. Alcune persone devono dire: “adesso è venuto il momento, saniamo il problema
del tale o della talaltra che magari ha scritto cose bellissime ma ha perso alcune occasioni
concorsuali precedenti, adesso il tale o la talaltra è maturo per l’idoneazione nel tal posto e nella
tal tornata”. Quindi, è quanto di più arcaico possa esistere. Naturalmente è verissimo che
un’astratta meritocrazia non ha senso in queste discipline, cioè è vero che non esiste quello che
inventa la cellula, una qualche misura di cooptazione è inevitabile in discipline in cui c’è uno
standard medio elevato (direi per fortuna, meno male) e una volta che la maggior parte di coloro
che scrivono di storia rispettano quei canoni di un lavoro scientifico, dove quello che dici è
motivato, dove si indicano le fonti che hai utilizzato (questo avviene quasi sempre), un certo
grado di cooptazione, quindi di favorire coloro che fanno parte di una tua area c’è, è inevitabile,
però è la misura che è esagerata. Poi la cooptazione non riguarda aree culturali, ma riguarda
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gruppi di persone che hanno un vago riferimento alle aree culturali, però molto vago
sinceramente. Non è che ci siano i docenti comunisti, i docenti ulivisti, i docenti di Rifondazione,
assolutamente no.

- C’è stato un periodo in cui questo meccanismo si è rotto?

No, francamente mai, lo assicuro.

- Però, c’è una generazione di persone che sono entrate all’interno dell’università e in
qualche modo, proprio perché avevano degli spazi diversi, hanno potuto fare delle cose
diverse.

Non c’è dubbio, ma se tu vuoi salire di grado il discorso cambia. Penso a un ottimo storico del
movimento operaio, che ha fatto bellissimi lavori, è della Fondazione Micheletti ed è ricercatore
a Verona e che una volta mi ha detto: “Guarda, io ho rinunciato a diventare associato”. Perché
appunto noi siamo arrivati nell’università con quella maniera che dicevi tu e che è verissima,
cioè persone che hanno risposto a un’esigenza dell’università di massa, quindi di intercettare gli
interessi e le passioni anche di studenti molto diversi dagli attuali; anche se vincere un concorso
all’università ha sempre voluto dire che qualcuno diceva ok, perché su questo non ci sono santi,
però le maglie si erano notevolmente allargate. Adesso, proprio perché si erano allargate,
vengono ristrette in maniera tale che la gerarchia deve essere ricostituita. Ci sono persone della
mia generazione le quali hanno detto: “Basta, siamo entrati per il rotto della cuffia, siamo
scientificamente più che quotati ma non apparteniamo a nessuno, e va bene siamo contenti così”.
Intanto il peso didattico, con gli affidamenti di corsi che comportano un impegno pieno, è
enormemente aumentato; è imbarazzante stare in un’istituzione non facendo quelle progressioni
naturali che tutti si aspettano da te visto quello che scrivi, le tue qualità bene o male scientifiche:
questo crea delle disparità e delle sgradevolezze in una situazione in cui la gerarchia è tornata
alla grande, allora alcuni di noi hanno pensato “vediamo cosa possiamo fare”. Questo comporta,
per esempio, fare trenta telefonate sgradevolissime, perché telefonare a un docente e dire “guarda
quanta sono brava” è una situazione davvero spiacevole, artificiale. Bisogna fare delle telefonate
sulla base di un’ipotesi di utilità incrociata, poi prendere l’ordinario del tuo dipartimento, dirgli
“guarda, ho fatto questa combinazione” (ciò naturalmente se non hai l’ordinario che lo fa per te,
ma allora le cose progrediscono più facilmente). L’avanzamento delle carriere è sempre passato
da questo, non c’è stato un momento in cui uno sia diventato ordinario al di fuori di questo
meccanismo di cooptazione. Toni Negri lo ha portato Opocher, il rettore di Padova, uno dei più
potenti e famosi giuristi e filosofi del diritto in Italia; se non lo voleva lui poteva anche essere il
leader del movimento operaio che faceva diventare l’America comunista, non lo portava nessuno
in cattedra. Anzi, se vogliamo portare il suo nome visto che è uno degli esempi più clamorosi, lui
si è inserito in questa contraddizione straordinaria dell’università, per cui se tu sei allievo di
Opocher puoi anche essere Jack lo Squartatore e non conta nulla, non è una cosa che ti mette in
cattiva luce. Per cui la gerarchia premia sul tuo essere anche esposto politicamente, a meno che
tu non rompa le scatole al preside di facoltà; cioè, è più “pericoloso”, in una facoltà insistere
molto per il pagamento di certe supplenze in tempo, che militare in formazioni estremistiche,
fino naturalmente a non varcare una certa soglia. In questo ambito così ristretto l’università è
talmente priva di relazioni con il mondo esterno che non gliene importa nemmeno niente di
quello che tu fai nel mondo esterno. Ma quello che è più importante è che, oltre a queste
utilissime comunicazioni un po’ avvilenti su come è avanzato lo stadio del tuo concorso, il resto
del tempo è molto simile a una discussione in un consiglio di amministrazione, cioè quanto dà il
Ministero, quanto si riesce a ottenere in anticipo da esso per i futuri introiti, quando dà la tale
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convenzione, le tasse degli studenti e i finanziamenti dal cosiddetto territorio, di queste cose si
discute continuamente.
Quindi, lo studente è diventato davvero cliente. Non credo di esagerare: mi sto chiedendo,
mentre parlo, se sto esagerando ma direi di no. C’è un timore da parte dei docenti di affaticare
troppo lo studente, di imporgli per esempio letture, un linguaggio che non gli appartenga: non è
più possibile neanche lontanamente mettere in collegamento la ricerca specialistica con la
didattica. Mentre con le unghie e con i denti è ancora possibile ricavarsi degli spazi per studiare,
per fare le ricerche che uno vuole, invece comunicare anche passione agli studenti è molto
difficile. Io ho l’impressione che oggi nell’università non ci sia assolutamente più (ad eccezione
di alcune grandi università come Milano e come Roma dove c’è tutto e quindi c’è anche questo)
quella contaminazione tra esterno ed interno che invece è stata un’esperienza non solo di quando
noi facevamo l’università, ma anche delle persone che adesso hanno 30-35 anni. Bergamo, dove
insegno io, è una situazione particolare, però la vedo riproporsi in tantissimi casi, l’università
costa anche di più, nessuno vuole più che sia un’area di parcheggio, costa, quindi va messa in
funzione produttivamente, il sistema dei crediti impone di quantificare molto i carichi di studio.
Io credo che l’eliminazione della vecchia tesi non sia una cosa cattiva perché le tesi fatte dalla
maggior parte degli studenti non erano fatte con un interesse; però, a parte questo, il sistema dei
crediti impone una specie di autorepressione sull’offerta. Se allo studente medio dai
un’indicazione bibliografica si spaventa perché pensa che gliela vuoi poi chiedere, allora io dico:
“No, per carità, poi se a voi questo tema interessa e tra due anni volete approfondirlo vi ho dato
questa indicazione bibliografica”. Inoltre, poi (e questo non c’entra con la riforma), mentre anni
fa c’era una specie di fascia comune di linguaggio politico e culturale che circolava, adesso non è
più così; quindi, non puoi dare assolutamente niente per scontato, per questo c’è una gran fatica
ad insegnare, se tu dici giacobinismo sembrerebbe ovvio il fatto che più o meno sappiano, invece
tu non lo devi dare per scontato che lo sappiano e non devi neanche dirgli di fare uno sforzo per
sapere. Non puoi dire: “Guardate che non essere pedagogico-infantili è un servizio che io faccio
alla vostra libertà, quindi approfittate di questo momento libero che è l’università prima di
entrare nel mercato del lavoro, per fare delle esperienze e delle avventure intellettuali che
comportano anche il fare da soli certe ricerche”: no, perché questo li tarperebbe. Sarebbe quasi
gradita la dispensa, non arriviamo a tal punto, però insomma un arco di letture estremamente
preciso, limitato. E’ molto faticoso, è un continuo autocontrollo; poi naturalmente, siccome sono
abbastanza rispettosi della gerarchia, tu puoi anche dir loro le cose più esplosive, anche
abbastanza libere, purché tu sia molto molto analitica, cioè bisogna spiegare tutto in sostanza,
perché tutto deve essere metabolizzato e rapidamente trasformato in credito. Quindi, non è
un’operazione facile, ma non lo è ovviamente nemmeno (per chi ci credesse) quantificare i tempi
di apprendimento, di lezione cosiddetta frontale, cioè dalla cattedra, e di lettura di testi; sono un
po’ gli stessi problemi che hanno affrontato quelli che andavano a ristrutturare le aziende
editoriali, non è facile valutare la produttività di un redattore, alcuni ci hanno tentato ma non è
esattamente come valutare la produzione di un pezzo di metallo. Tutta questa operazione viene
fatta mentre la macchina va, quindi il rischio di un po’ di confusione e di caos è inevitabile, non
è questo il problema; ma gli spazi vengono sempre più ristretti sia per gli studenti che per i
docenti. Però, ripeto, non mi sto lamentando. Anche perché ad esempio, nel corso del 2001,nella
nuova Facoltà dove lavoro si sta creando un gruppo di studenti che ricomincia da zero: riscopre
l¹antifascismo, vuole commemorare la giornata della memoria, si interessa, magari se mi vede a
un¹iniziativa della Camera del Lavoro, che ricerche faccio per loro ecc. La presenza di un centro
sociale in una città spesso è stimolo, veicolo di contenuti nuovi.

- C’è stato un periodo all’interno dell’università in cui, pur non consentendo il


raggiungimento dei livelli alti di carriera, si sono aperti degli spazi: diciamo che una
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generazione si è infilata e sotto un certo aspetto è riuscita ad utilizzare l’università da una
parte come momento di formazione di una soggettività intellettuale, dall’altra parte è
riuscita comunque a produrre delle forme di sapere che, pur nell’ambiguità, nel senso che
venivano costruite all’interno di un’istituzione e con gli spazi che c’erano, potevano essere
utilizzate anche all’esterno. Questo bene o male ha permesso la formazione di un certo tipo
di soggettività, perché da una parte c’è la soggettività politica, quella di chi la realizza nella
forma dell’esperienza all’interno della lotta, della militanza ecc., che però ti forma un sapere
anche altro che è particolare, molto più legato all’intervento specifico, sia esso politico o
sociale; dall’altra parte la possibilità di riflettere su questa cosa qui bene o male è sempre
stata di persone che fanno questo come mestiere. Quindi, al posto di lavorare ad esempio per
l’ordinario o per l’impresa se sei in determinate facoltà, avevi uno spazio per cui se eri
politicamente orientato lo potevi utilizzare in questo senso. In questo dicevo che c’è stato un
periodo diverso all’interno dell’università e che adesso si è di nuovo chiuso. Dobbiamo porci
il problema oltre che di come si può formare una soggettività (e lì già abbiamo un esempio
di come nel bene o nel male si è formata negli anni passati), anche di come si forma un
sapere che comunque informa questa soggettività. Allora, le stesse cose che poi sono state
utilizzate dal movimento come discorso di sapere e di teoria poi riutilizzabile anche
nell’immediato, nel concreto o nella prospettiva progettuale, se si guarda bene poi sono state
in grosso modo elaborate all’interno di alcuni ambiti, il più grande è l’università, altri
possono essere stati le forme organizzative, alcuni aspetti del sindacato ecc. Se si fa un
discorso riferito all’Italia o, più in generale, su un livello internazionale, bisogna andare a
vedere chi ha costruito questi punti di vista che poi sono stati fatti propri dal movimento, o
meglio le lotte hanno fatto da committenti per cui spingevano anche per andare in una certa
direzione; questo secondo me potrebbe essere un elemento su cui riflettere, perché è vero che
questi spazi si sono chiusi in termini abbastanza grossi o comunque, anche se non si sono
chiusi, sono diventati delle nicchie che non hanno più quella rete di comunicazione che
avevano prima.

Però, è stupefacente che i meccanismi degli accordi di potere universitari non siano stati
minimamente intaccati. La carriera (la chiamo così perché non ha un altro nome), che vuol dire
anche potere promuovere altre persone, dare loro spazi, prendere delle effettive decisioni, anche
nei momenti migliori non è stata decisa da altro che da quelle stesse logiche. Il caso di Toni
Negri non è secondario, se questi avesse fatto non dico l’operaio ma persino il burocrate,
l’impiegato in un’impresa, avrebbe fatto una bruttissima fine, ma non perché fosse a capo delle
Brigate Rosse ovviamente, ma perché i suoi comportamenti politici lo avrebbero messo in
cattivissima luce. L’università gli ha dato spazio ma non perché fosse un posto libero, ma perché
se tu sei allievo di certe persone la situazione è quella. Lui era un uomo geniale,
intelligentissimo, faceva delle cose straordinarie, ha scritto dei saggi sul pensiero politico
hegeliano o spinoziano o sul giusnaturalismo straordinari; i vecchi “baroni” (Toni Negri era di
una generazione precedente la nostra, forse ancora più selettiva) badavano anche di più alle
qualità intellettuali, al rigore, alla ricchezza delle letture ecc. Però, era l’avallo, era il suo maestro
che lo proteggeva, non era il movimento, e questo è sconcertante. Questo vuol dire che, come in
altri campi, una generazione è arrivata a ostacolare dei meccanismi ma il potere di decidere
veramente non l’ha mai avuto, esattamente come i 61 neanche noi; ripeto, per carità, ciò senza
nessun dramma, perché poi alla fine sono cose in cui non ci sono morti e feriti, non ci sono
licenziati, non ci sono forme di mobbing. Per esempio, è vero che l¹età media molto elevata dei
ricercatori della mia generazione è dovuta a questo, perché si è chiuso il collo si bottiglia; tanti
dicono che è gente che non fa niente: non è vero, sono persone che non hanno voglia di entrare,
di fare quelle 30 telefonate.
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Io lavoro in un’università dove lavorano anche Bruno Cartosio e Riccardo Bellofiore, da questo
punto di vista posso essere contenta, Bruno è andato al centro La Porta, io ho fatto svariate cose
con la biblioteca Di Vittorio della CGIL e con l’Istituto Storico della Resistenza, Bellofiore per
esempio organizza cose di peso con la FIOM sulla globalizzazione: io contribuirò a organizzare,
a fine anno, il convegno per il centenario della Camera del lavoro di Bergamo. Però tutto questo
stenta ad incidere sul nostro rapporto con gli studenti, sono cose preesistenti, in qualche modo un
po’ indipendenti dal nostro essere lì. Infatti, sono cose che facciamo tutti per conto nostro e quasi
non ce le diciamo, oppure ce le diciamo se ci invitiamo reciprocamente, ma non diventa l’inizio
di una politica universitaria complessiva. E’ ovvio che avere dei colleghi di destra antipatici
sarebbe peggio che averli di sinistra e simpatici; però ciò non mette in moto un circuito. D’altra
parte molti docenti che hanno anche praticato forme e oggetti di ricerca e pensiero molto radicali,
non hanno quasi mai nemmeno lontanamente messo in discussione i meccanismi di cui sopra.
Cioè, in poche parole io non conosco un caso di un ordinario di estrema sinistra (naturalmente
non la farei o non lo farò probabilmente neanch’io, non sto dicendo che “io invece”, è proprio
un’osservazione avalutativa) che arrivato in un concorso abbia detto: “No, quello che tu stai
proponendo è uno che ti ‘porta la borsa’ e invece prendiamo almeno in considerazione queste
persone che io ritengo migliori”. Non è mai avvenuto, ma perché? Perché la volta prossima
questo non sarebbe più votato e quindi non potrebbe più portare il suo allievo. Non è che nessuno
ti punisce o ti licenzia, però se tu una volta fai così esci completamente dal gioco e non puoi più
nemmeno aiutare le persone che tu reputi valide. I casi sono talmente numerosi che è persino
inutile citarli, comunque tutta la storiografia di sinistra è fatta di “baroni” (termine che non usavo
nemmeno nel ’68, figurarsi se lo uso adesso, diciamo di ordinari potenti).
Comunque, è ovviamente molto più importante la mancanza di una domanda esplicita degli
studenti. Ciò è preoccupante, alla fine poi è anche stancante perché devi continuamente dire “ma
in queste teste cosa c’è? cosa vuol dire quel sorriso, cosa vuol dire quel silenzio?”: non che uno
abbia paura, ma la cosa più brutta del mondo è parlare a vuoto, senza un’interlocuzione.

- Nell’ambito degli storici a chi hai fatto riferimento?

Io ho fatto riferimento a Stefano Merli, si fa presto a dirlo. Ho fatto riferimento a Stefano Merli
nel momento in cui (potremmo dire con il linguaggio di Althusser) le sovradeterminazioni mi
sono sembrate di un peso talmente forte nel decidere i comportamenti, che ho voluto conoscere
la complessità e la stratificazione dei fatti. E poi si tratta di una forte passione molto personale
per il brulichio, il farsi dei movimenti. Merli è stato quello che mi ha fornito la possibilità di
imparare a interrogare le fonti, a partire certamente da domande che sono mie, ma con rigore,
con rispetto, cioè lasciando molto parlare la documentazione. Stefano Merli stesso era una
persona che si era formata relativamente al di fuori dei quadri dell’università, nel senso che
certamente aveva studiato a Milano, però si è laureato a quarant’anni per ragioni proprio
economiche, i suoi non potevano e soprattutto non avevano la cultura e la mentalità per
sostenerlo agli studi: un operaio degli anni ’50 a Milano avrebbe fatto più sforzi per far studiare
il figlio di quanto non facesse una famiglia di mezzadri piacentini magari molto più benestanti,
perché l’operaio, soprattutto se era comunista, aveva l’idea che la cultura era un patrimonio, non
così invece il mondo contadino, almeno quello da cui lui veniva. Quindi, dopo avere perso in
giovane età il padre artigiano, ha dovuto lavorare subito tantissimo, però lavorava per L’Istituto
(ora) Feltrinelli, faceva schede e cose simili. Per cui è entrato in quel nucleo di persone che in
ruoli molto diversi – nel suo caso anche molto esecutivi – hanno costruito questo grossissimo
deposito di materiali per la ricerca. Stefano lavorava per l’Istituto Feltrinelli, anche se allora
c’era tra Istituto e casa editrice un passaggio che adesso non c’è più, per esempio anche Della
Peruta e Cortesi lavoravano lì, Montaldi lavorava invece per la casa editrice. Stefano Merli e
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Della Peruta hanno fatto per esempio le schede di quei grossi volumi rossi che si trovano se si va
in Fondazione e che sono lo spoglio e la descrizione sommaria di tutti i periodici posseduti;
quindi, lavori davvero ingrati, dove guadagnavi pochissimo; però era un modo di entrare in
prima persona in contatto con materiali rarissimi.
Poi ho imparato molto anche da Franco Della Peruta, però non sono una sua allieva diretta.
Invece sono stati molto importanti per me le persone che ho incontrato in Francia, cioè all’Ecole
des hautes etudes en Sciences Sociale, Madeleine Reberioux e Robert Paris soprattutto, con il
quale ho fatto il dottorato. Anche loro in modi diversi sono molto attenti al primato delle fonti.
Paris non tanto alla fonte archivistica, perché lui ha una formazione letteraria, quanto il testo
minore, quindi non Il capitale ma L’organization du travail per dire, cioè quei testi che non
restano assolutamente e giustamente nella storia delle idee ma sono quello che i militanti
leggono, e non solo i militanti; testi che formano un cortocircuito, creano mentalità e ti danno
l’idea di qual è la mentalità di un gruppo sociale in una determinata epoca. Adesso io ho
necessariamente più rapporti istituzionali, però non tanti; ora per esempio sono iscritta alla
Sissco, la Società degli storici contemporanei italiani, ci sarà un convegno a Siena sul problema
della democrazia come campo di pensiero, ci andrò, dirò alcune cose. Però, tutto sommato il
luogo dove io più mi confronto è non la Fondazione Feltrinelli, ma la sua Biblioteca, perché
adesso fra le attività della Fondazione e il fondo della Biblioteca c’è una certa differenza: la
Fondazione tende a formare (buttiamola lì) il quadro culturale della sinistra di governo, in modo
dignitoso, persone come Sapelli e Veca tutto sommato avercele! Sapelli è uno storico
dell¹impresa molto simpatico, da moltissimo tempo appartenente alla destra della sinistra, ma
quando ci sono gli scioperi in Corea brinda (è uno che ama brindare, diciamo che brinda più
volentieri!). Però la Fondazione si occupa di politica generale, di formazione degli
amministratori... Invece la Biblioteca possiede una massa enorme di testi, di brochures, di
manifesti, di giornali, di materiale documentario dal ’700 al ’900 inglese, francese, spagnolo e
tedesco, cioè qualcosa che sta a pari con l’Istituto di Storia Sociale di Amsterdam. Solo che tale
Istituto si è formato per il deposito di archivi dei più grandi partiti socialisti europei durante il
fascismo e poi è sostenuto dal governo, l’Olanda è un paese ricco dove i beni culturali da
proteggere sono relativamente pochi, quindi dispongono di mezzi veramente straordinari; infatti
vai lì e scopri che finanziano generosamente ricerche sui loro fondi, ad esempio c’è uno studioso
che si dedica solo alla nuova edizione critica dell’opera di Marx (e lo pagano perfino, l’invidia
mi contorce proprio!), e questo non fa altro, non deve spiegare agli studenti che anarchico e
oligarchico sono due cose diverse, cosa che mi è capitata, non per fare la corrispondente di “io
speriamo che me la cavo”, però è accaduto. Comunque, lasciando stare queste lamentele, la
Biblioteca della Fondazione così ricca è un luogo dove sinceramente io ho gli scambi più utili
per il mio lavoro, soprattutto con il direttore che è David Bidussa, uno storico con tratti di
genialità; non solo è molto bravo ma ha anche un’inventiva intellettuale; lui ha circa 45 anni e
quindi è proprio di quella generazione dove invece si erano chiusi gli spazi; la differenza di età
che c’è fra noi è piccola, ma ha fatto in modo che quelli della sua età spesso non hanno avuto
borse, assegni che poi hanno consentito di trovare lavoro nell’istituzione universitaria. Invece,
David ha avuto la bellissima occasione di lavorare in Biblioteca; certo, è chiaro che adesso
preferisce stare lì che all’università. Dunque, quello è il mio ambito dialogico.

- Hai avuto rapporti con Gaspare De Caro?

No, io l’ho sempre letto con moltissimo interesse, sia lui che Coldagelli. Ho difeso in più
occasioni, anche “pericolose”, le sue posizioni su Salvemini. Quindi, apprezzo le cose che ha
scritto De Caro. Certamente oggi quelle stesse posizioni ,che io ritengo ancora valide, però
probabilmente potrebbero essere scritte in un altro modo, motivandole molto di più: l’unica cosa
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che premia sempre è fare un testo a tesi ma dotarlo di una tale massa di informazioni che quando
uno ha chiuso il libro ne sa molto di più, è una cosa che comunque ti evita i problemi dello
scontro ideologico. Ciò mi sembra anche più giusto, visto che purtroppo oggi non c’è uno spazio
di espressione molto diverso, quindi è sempre meglio dare moltissimi incrementi di sapere.
Invece, meno male che non mi chiedete di Romolo Gobbi, non capisco cosa gli sia successo…

- De Caro ha curato il dizionario bibliografico dei personaggi italiani, una cosa


mastodontica.

Sì, non è andato ancora molto avanti ed è un lavoro straordinario, molto ben fatto, anche da
specialisti. Quelle sono delle cosiddette sine cure che adesso ce le scordiamo, però quelle sì ti
permettono grandi approfondimenti, naturalmente uno che lavora all’Enciclopedia Italiana deve
fare anche un certo lavoro burocratico, redazionale, ma ha una grande libertà di studio. Però, di
persona De Caro non lo conosco, conosco quello che ha scritto. Comunque, ha irritato
profondamente molti storici, anche perché ha colpito sempre persone e figure, com’è appunto il
caso di Salvemini, che costituivano dei miti, magari anche largamente poco conosciute perché
poi tanti salveminiani non conoscono dettagliatamente come lui Salvemini stesso. Lo stesso
Sapelli, che come ho detto prima è uno molto libero, aperto, non lo può soffrire, si irrigidisce.

- Un’altra cosa che lui aveva fatto è stata l’introduzione a La rivoluzione liberale di Gobetti.

Ha toccato quest’altro mito. Gobetti ha vissuto troppo poco perché si possa parlare di
gobettismo, mentre Gramsci si è trovato a dirigere movimenti collettivi importantissimi e poi è
stato dentro a una discussione internazionale: parlando di Gramsci non parli solo di lui, così per
Bordiga, o meglio Bordiga fino a quando è stato un dirigente comunista, infatti studiare Bordiga
può essere molto interessante ma dagli anni Trenta in poi studiarlo rappresenta una scelta
completamente diversa dallo studiare Gramsci, Togliatti ecc. In ogni caso in questi casi parliamo
di dirigenti che hanno influenzato per anni o decenni il movimento comunista internazionale.
Gobetti è stato un caso, più un sintomo di un problema del pensiero liberale o se vogliamo anche
una delle personalità che ti fanno capire cos’è stata la Torino degli anni ’20. Si è quindi costruito
un gobettismo a partire da un¹esperienza molto più limitata, quindi con materiali ideologici. De
Caro ha toccato questo feticcio e di certo si è attirato molte antipatie.
C’è poi un’altra figura più legata al gruppo romano di Classe Operaia, Umberto Coldagelli: è
un’altra persona che ha lavorato sempre chiuso in un ambito che non è universitario, perché lui
lavora all’Archivio della Camera. Vi lavora da moltissimo tempo, ha superato un concorso
selettivissimo, quello sì è un concorso non dove ti portano ma che è invece massacrante, bisogna
proprio sapere lo scibile umano, è tremendo, dopo di che hai una certa posizione, però anche lì
devi lavorare, comunque sei al riparo dal dovere telefonare agli ordinari per proporre la tua
bravura... Io credo che la sua prefazione agli Scritti politici e la traduzione di una parte de Le
opere complete di Tocqueville sia una delle cose se non la cosa più intelligente scritta su
Tocqueville e comunque quella che io più condivido. Però, sia De Caro che Coldagelli più che
storici dei movimenti sono stati degli storici delle idee, perché c’è un problema nella costruzione
di un sapere storico fuori dalle istituzioni, che è una cosa a cui non molti pensano: non è che tu
fai la storia lavorando su un corpus di testi, devi avere accesso a delle fonti, e per avere accesso a
delle fonti devi avere il tempo. Insomma, non puoi fare lo storico della domenica se non sei uno
che lavora prevalentemente sulle idee, sul pensiero politico. Quindi, l’università è stata un
contenitore fecondo proprio perché ha dato per un certo periodo il tempo di accedere a queste
fonti. Le stesse raccolte di storia orale anche quelle ci vuol tempo a raccoglierle, sì puoi dare
degli appuntamenti serali mentre in archivio di notte non ci puoi penetrare, però è sempre e
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comunque un lavoro che porta via tempo. Un vero lavoro, in questo più simile a un lavoro
artigianale che all’intuizione intellettuale. Quindi, è indispensabile lavorare in una situazione che
ritiene che la costruzione di un sapere storico è un patrimonio, per questo dicevo che guardo con
un po’ di preoccupazione il futuro, anche perché chi è dentro, ha una certa età e magari ha
acquisito in quegli anni un certo ruolo può contrattare e difendersi, ma le persone che adesso
hanno trent’anni sono subito buttate a tirare la carretta didattica senza avere quel tempo di fare
esperienze che di certo richiedono più ampio respiro.

- Per passare a un quadro internazionale, su Roth tu avevi ad esempio curato un quaderno di


Aut Aut. C’è una generazione di storici che non sono solo italiani ma che poi sono stati
pubblicati sui Materiali Marxisti o da altre parti e che in realtà non hanno lavorato sulla
storia delle idee, ma hanno invece lavorato sulla lettura di alcune forme di lotta o di
composizione di classe. Negli anni ’70 c’è stata tutta questa attenzione al sindacalismo
rivoluzionario americano, più in generale al cosiddetto altro movimento operaio, che poi è
stato un po’ cercato dappertutto, lo stesso Bologna in parte in Germania in parte in Italia,
Gisela Bock, Bruno Cartosio. Rispetto a questo importanti sono poi stati americani come
Rawick e Ramirez. Un altro punto di riferimento era Thompson, i suoi studi sul farsi della
classe operaia.

Io oggi su Thompson darei non un giudizio di minore importanza, per carità, ma forse c’è stato
un po’ un equivoco, io questo lo avevo anche scritto in maniera non così esplicita nel saggio che
ho dedicato a Stefano Merli. Ho scritto un saggio su Stefano quando lui è morto, Antonio Gibelli
(che è uno storico di Genova, che aveva collaborato attivamente alla rivista Classe) mi ha chiesto
di fare un intervento su di lui e io ne ho un po’ approfittato per fare una specie di bilancio di
generazione, su XX secolo, che prosegue la bella rivista Movimento operaio e socialista; si tratta
di un numero del ’94, Merli è morto alla fine di agosto di quell’anno. Dunque, secondo me
Thompson è un grandissimo e straordinario storico, ma è singolare che sia stato da noi così
apprezzato, proprio da quelli che invece eravamo così attenti alle lotte dentro il processo di
produzione. Perché in fondo Thompson studia e vede (e lo fa benissimo, è un tema che io ho
trovato dopo più utile) nella resistenza all’industrializzazione e nel permanere dell’autonomia
consentita dal mestiere e dal lavoro a domicilio l’elemento centrale per organizzare la resistenza
anche dentro il processo produttivo. Effettivamente è sempre andata così, nel senso che c’è
sicuramente un elemento di passaggio di culture e di pratiche sociali soprattutto esterne alla
fabbrica, come per esempio il mutuo soccorso, il radicalismo operaio che però è un radicalismo
in cui l’idea tipicamente laburista di rispettabilità non diventa una forma di integrazione ai valori
della borghesia, ma sedimenta una resistenza alla condizione miserabile imposta dalla
proletarizzazione della prima rivoluzione industriale. Lui ha cioè messo in luce le ambiguità, ma
in senso positivo, le doppie facce delle tradizioni politiche all’interno delle trasformazioni
economiche. Ma Thompson in realtà ha studiato, molto più del formarsi della classe operaia, il
formarsi di un pensiero operaio. Cosa che Stefano Merli in parte ha ripreso. Il titolo stesso del
suo libro principale, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale – 1880-1900 contiene una
datazione che io ovviamente condivido, ma non è condivisa da moltissimi storici economici, nel
senso che (su questo c’è una lunga discussione negli anni ’60, soprattutto fra Romeo e
Gershenkron) in Italia gli indicatori che segnalano il decollo capitalistico sono piuttosto in età
giolittiana. Allora, la datazione agli anni ’80 dell’800 significa che Stefano collocava la nascita
della classe operaia nella resistenza (che naturalmente è sempre un andirivieni) al
disciplinamento del lavoro, che è stata la condizione per il decollo capitalistico. E¹ una cosa
molto diversa dai peraltro pregevolissimi lavori di Sandro Manacorda e Della Peruta sul pensiero
socialista, perché quando tu studi il pensiero socialista ti fa questo strano effetto di cui faccio un
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esempio. Sono esistiti nell’Italia dell’800 tutta una serie di strani signori, perché non si possono
definire in altro modo, come Pisacane, Ferrari e altri ancora meno noti, i quali hanno ipotizzato
un superamento della proprietà, un regime socialista agrario ecc.; invece, Mazzini no, non ha mai
avuto una teoria e un pensiero sociale di questo tipo, non ha mai avuto la minima conoscenza dei
problemi dell’agricoltura e via dicendo. Però, in realtà, almeno a partire dall’esperienza inglese,
lui ha incontrato in Inghilterra i cartisti (non il cartismo), ha incontrato questa esperienza di
organizzazione capillare dei lavoratori manuali intorno a un programma politico; ha dunque
pensato che anche l’idea di unità nazionale poteva meglio trovare braccia più solide, schiette,
nobili e leali in questo. Il risultato è che Mazzini ha avuto una pratica di promozione capillare di
organizzazione dei lavoratori manuali molto superiore a quella dei socialisti. Quindi, in fondo è
più interessante studiare per esempio la rivolta dei barabba (che hanno fatto un’insurrezione nel
1853 a Milano e che hanno chiamato dei barabba proprio perché non c’era né un nobile né un
borghese) che altri momenti apparentemente più anticipatori del socialismo. O meglio, sono
interessanti entrambe però sono due cose diverse, cioè il pensiero sociale di Pisacane non ha
mosso nessuno, certamente poi è utilizzato, viene ripreso, viene riciclato; ma invece è
interessante chi ha messo le mani davvero dentro alle realtà. Ora, Stefano Merli non ha voluto
fare la storia del pensiero socialista ma la storia di pratiche operaie di resistenza al
disciplinamento del lavoro in fabbrica. Anche Thompson ha fatto una storia delle subculture
politiche operaie. Ma anche Hobsbawm lo ha fatto, e lo ha fatto in una fase molto più avanzata,
cioè ha preso proprio gli operai della rivoluzione industriale. Merli si distingue per il rigore nella
ricostruzione delle pratiche quotidiane, degli aspetti economici del farsi della classe operaia.

- Hobsbawm non è molto considerato da un certo tipo di pensiero dell’operaismo italiano


degli anni ’60 e ’70; Alquati invece sottolinea che è importante, mentre mi sembra che Negri
tante volte gli si sia contrapposto.

Diciamo la verità, Negri di storia non ne capisce molto, come spesso sconcertanti sono i suoi
giudizi politici immediati! Lui è geniale quando mette a confronto delle idee con delle emersioni
di soggettività, poi quando la soggettività non è più esplosiva non gliene importa più molto.
Invece, il bello e il brutto, ma comunque quello che cambia le cose incomincia a quel punto.
Quindi, sinceramente le sue scelte di storia mi sembrano poco rilevanti, mentre Alquati è uno che
nell’andirivieni dell’alto e del basso è sempre stato a casa sua. Per esempio, ci sono degli studi di
Hobsbawm sul sindacalismo degli anni ’80 dell’Ottocento, sul nuovo unionismo, il sindacalismo
dei non qualificati, che sono fondamentali, gli Studi di storia del movimento operaio, che ha un
bellissimo titolo in inglese, Labouring men, sugli elettrici, sui manovali dei porti. Sono dei lavori
molto interessanti, dove lui studia per esempio una cosa: la classe operaia inglese era una classe
operaia profondamente divisa dalle emigrazioni, ma non era un’emigrazione transcontinentale
come quella americana, il capitalismo inglese prima di contaminarsi con i popoli coloniali ha
rastrellato i paesi poveri del Regno Unito, quindi la Scozia e l’Irlanda. Questo ha costituito
certamente un problema messo in luce benissimo anche dal bellissimo lavoro di Engels su La
condizione della classe operaia in Inghilterra, ossia le divisioni subculturali che hanno costituito
per anni degli elementi di reciproco pregiudizio: gli irlandesi erano ubriaconi, imprevidenti,
ignoranti, potevano fare anche i crumiri perché non sapevano neanche cosa voleva dire
rivendicare i loro diritti e facevano quello che diceva il prete, questa era l’immagine
dell’irlandese. Immagine qualche volta magari anche vera, però le reti di solidarietà di quartiere e
di famiglia erano delle reti a cui generalmente l¹operaio irlandese non si sottraeva, e se entrava in
un sindacato, soprattutto se il prete era d¹accordo, non dico proprio gli dicesse di farlo ma
comunque lo approvava, diventava uno che si faceva ammazzare. E questo è avvenuto quando
irlandesi, che erano la maggior parte degli operai non qualificati, sono entrati nei sindacati del
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nuovo unionismo: gli operai inglesi hanno verificato che queste reti comunitarie che erano
ritenute dalla subcultura protestante delle cose da mafiosi, arretrate, potevano essere spese nel
conflitto come risorsa anziché come blocchi. I lavori di Hobsbawm sono percorsi da questi
problemi, da queste scoperte. C’è una cosa che certamente gli ha giovato tanto nella fama, sia
Thompson che Hobsbawm si sono occupati del problema del metodismo e del ruolo di questa
confessione non conformista, che ha avuto sviluppi diversi. La Thatcher si è sempre vantata di
essere metodista; eppure la seconda generazione del metodismo (che ha esordito negli anni ’40
del ’700) ha seguito gli operai in città. Per le parrocchie anglicane valeva esattamente quello che
capitava per i vescovati cattolici; le sedi vescovili erano località importanti, magari 300 anni fa,
che adesso sono diventate cittadine piccolissime. Così le parrocchie anglicane erano distribuite
sul territorio secondo la geografia dell’Inghilterra rurale. Gli operai in grandi città non trovavano
nessuna forma di controllo e/o conforto religioso. I metodisti tenevano queste riunioni dove si
dovevano confessare ad alta voce i propri peccati, quindi si cominciava a parlare in pubblico, in
maniera anche molto emotiva, e poi una delle prime forme di autorganizzazione per impedire la
famosa imprevidenza operaia era l’autofinanziamento con raccolta di fondi di questi piccoli
nuclei di preghiera: ciò per molti è stato un addestramento all’autogestione di fondi che è stato
poi speso in lotte sindacali. Allora, Hobsbawm ha studiato questa seconda fase del metodismo,
vedendo che per esempio l’esperienza metodista in certe zone del Galles è stata poi trasferita
nella resistenza dello sciopero minerario che per sua stessa natura – sono scioperi lunghi e
coinvolgono intere comunità – richiede una capacità di autofinanziamento e di amministrazione
di questi fondi molto elevata, perché se no la gente letteralmente muore di fame. Questo non
vuole dire che il metodismo non sia stato uno degli elementi che hanno stroncato il giacobinismo
inglese, però ha avuto poi un uso certo non previsto da nessun pastore. E poi anche lì, c’è pastore
e pastore: un pastore di un paese dove ci sono solo minatori in sciopero se non vuole avere la
chiesa vuota deve adeguarsi. Dunque, Hobsbawm è andato molto a fondo, poi in una situazione
come quella inglese che non avendo nuclei ideologici così aggregati è anche molto diversa da
zona a zona. Io lo trovo un grandissimo storico, mi ha insegnato molte cose leggendolo.

- Cosa ci dici di Gisela Bock?

E’ una brava studiosa che ha fatto luce su problemi importantissimi. La conoscenza vera e
capillare, come quella che noi più o meno abbiamo del movimento operaio italiano, di quello che
è accaduto in Germania dalla rivoluzione del ’18 allo smantellamento con il terrore degli nuclei
anche numerosi operai nelle fabbriche, nel territorio e nelle città, non dico che non è stata fatta
ma non è nemmeno cominciata. Questo anche perché un andirivieni continuo, cicli economici
così ravvicinati e così rovinosi, insieme alla situazione gravissima data dalla dimensione militare
dai tempi di guerra, avrebbe richiesto appunto lo studio approfondito di una generazione di
storici universitari .Per le ragioni che ho detto prima: sono ricerche lunghissime che si possono
affrontare solo in équipe e a tempo pieno. Diciamo che se Tim Mason ha provato a fare questo,
ci sarebbero voluti dieci Tim Mason. Le ipotesi tutte e solo affidate al protagonismo conflittuale
dei giovani, della generazione giovanissima praticamente mai entrata in fabbrica degli ultimi
anni ’20 e degli anni ’30, a cui Sergio Bologna affida la sola bandiera di avere resistito ai nazisti,
io non le condivido, poi io aspetto solo che lui o qualcun altro me le dimostri. Però, bisogna
anche dire che agli storici universitari che avevano il tempo non gliene poteva importare di meno
e una generazione alternativa non ha trovato i finanziamenti, il tempo. La storiografia
accademica tedesca è stata segnata anche più della nostra dalla Guerra fredda, dal confronto-
scontro con la DDR. Comunque la storia delle resistenze operaie al nazismo resta in larga misura
ancora da scrivere. Tra l’altro, si pensi al ’34, dopo la notte dei lunghi coltelli, quando ci fu il
plebiscito che Hitler voleva, quindi in una situazione di terrore con gli accoltellamenti per la
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strada. Io non sono certo defeliciana, per carità, ma il livello di violenza che il nazismo ha
scatenato sul piano di tutta la Germania è stato esercitato forse solo nella Valle Padana e in
alcune zone industriali, a Torino ad esempio c’è il famoso episodio dell’operaio anarchico ucciso
e trascinato sulla strada, qui a Milano, anche qui vicino, in via Rosmini e in via Canonica, ci
sono delle targhe che ricordano gli accoltellamenti di militanti della sinistra. Però, indubbiamente
il terrore di massa, il massacro di tutto un quadro dirigente medio e di base è avvenuto
capillarmente solo nella Valle Padana; ma il nazismo lo ha speso tutto insieme e su tutto il
territorio. Ebbene, nonostante questo, quindi una paura che non era assolutamente astratta, se
avessero votato solo le città industriali e operaie Hitler non avrebbe vinto, egli ha vinto grazie
alle campagne, questo nel ’34. Quindi, anche sul consenso operaio, sulla non resistenza,
insomma, bisogna andarci cauti. Questa è una cosa che tu vedi anche se leggi il biografo di Hitler
Joachim Fest, naturalmente lui non lo mette in luce, però basta leggerlo. Ecco, siamo alle solite:
quando in un’opera tu dai molta documentazione poi dipende dal lettore che cosa trarne.
Comunque, io non mi sono più occupata di movimento operaio tedesco e avendo l’esigenza di
motivare sempre quello che scrivo e non avendo dei rapporti così stretti con fonti tedesche non
posso andare più a fondo nell’analisi, anche se sono sempre una lettrice interessata. Oggi
probabilmente, se dovessi scrivere su questi argomenti, non condividerei un aspetto della
storiografia di tradizione operaistica: il confinare l’antisemitismo a elemento relativamente
marginale e ideologico dell’affermazione nazista: invece, l’antisemitismo è una delle componenti
fondamentali del disarmo delle masse, come un po’ il razzismo e la xenofobia offerti oggi a
piene mani (il che non significa accettati) a tanti operai del nord come risposta protettiva e
difensiva alla crisi delle certezze occupazionali e previdenziali. Malgrado il fatto che noi
possiamo capire perché una persona che ha perso tutte le certezze si attacchi al razzismo, non
dobbiamo per ciò stesso minimamente deflettere di un passo nel denunciare a lui per primo
quanto il razzismo sia pericoloso per lui stesso, e soprattutto moralmente e culturalmente
esiziale, non possiamo trascurare questa cosa che è palpabile. Qui a Milano c’è un alto livello di
insofferenza, dove vivo io ci sono molti cinesi, poi però spesso arrivano i ragazzi senegalesi
perché i cinesi hanno aperto molti negozi all’ingrosso di abbigliamento da vendere nei mercatini;
quindi molti ragazzi senegalesi si forniscono qui per il loro commercio ambulante. Ora, questo [il
quartiere Canonica-Bramante-Arena di Milano] è un quartiere tranquillissimo, anche perché i
laboratori nocivi di lavoro nero non sono qui, sono in periferia estrema; qui in genere
commerciano e abitano i membri più benestanti della comunità cinese; in fatti le case sono
costose. Eppure tu avverti e senti dire da alcune persone il fastidio per il sentire parlare una
lingua diversa: dà fastidio tantissimo non capire quello che viene detto. Questo lo senti dire sul
tram, quindi è una cosa pesante, lo avverti come una prigione. Quel pensiero, quella mentalità è
un ostacolo alla presa d’atto di qualsiasi altro elemento concreto della propria situazione, io lo
trovo proprio terribile. Per carità, Milano non si identifica tutta con il vice-sindaco De Corato, ex
missino, come la bergamasca non si identifica con Bossi; anzi, i bergamaschi non leghisti
(naturalmente ce ne sono molti, per fortuna) dicono che lui non è di Bergamo ma è di Varese!
Scherzosamente quindi si può dire che uno è localista e quindi è punito dal suo stesso localismo.
Milano però ha assunto toni subculturali che un tempo si attribuivano alla Brianza, per molti
aspetti è un paesone, altro che metropoli; è metropoli da un punto di vista di organizzazione del
territorio, ma dal punto di vista culturale ormai no. Anzi, devo dire che io da qui vedo Torino
come una situazione migliore, forse anche per il fascina della città, che è molto bella anche nelle
sue durezze. Milano ha dei bellissimi posti, qui vicino c’è questa zona costruita da Napoleone;
ma Milano non è mai stata la capitale di niente e siccome lo studio urbanistico e la costruzione
della magnificenza civile è sempre voluta da un potere politico, qui la città è sempre cresciuta un
pò’ come capitava, al massimo si organizzavano dei quartieri ma non l’intera città. Questa zona
qui dell’Arena e del Foro Bonaparte è l’unica che sia stata pensata come il centro di una capitale,
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e questo lo vedi, mentre Torino figurarsi, è tutta la capitale dei Savoia, quindi questo le
conferisce una bellezza elegante e rigorosa; poi, per carità, può anche non significare niente, però
se sei in una situazione socialmente deprimente, razzista e in più brutta è ancora peggio, mentre
invece almeno se è bella un piccolissimo vantaggio c’è. Se Bergamo fosse architettonicamente
come la periferia di Foggia (che è squallidissima), ci sarebbe proprio da spararsi, invece almeno
è bellissima.

- Victor Serge ha fatto delle descrizioni sul processo rivoluzionario in Russia e, forse perché
era lì proprio nel momento, ha saputo cogliere una serie di passaggi che altri storici con
molti più documenti e fonti non hanno colto. E anche lui non è mai stato patrimonio
dell’area operaista.

E’ probabile. Io da quando ho cominciato a fare il mestiere di storica mi pronuncio sempre di più


su quello che posso avere realmente verificato; allora, non conosco il russo, non ho grandissime
conoscenze di quello che è avvenuto in Unione Sovietica, certamente ne ho come lettrice, ma c’è
tutta una serie di figure sicuramente interessanti. Ci sono questi francesi che vanno in Russia
venendo dall’estrema sinistra sindacale e politica, e prima sono entusiasmati dal processo
rivoluzionario; anche molti menscevichi non erano quei destracci che la vulgata vuole ma in
alcune zone operaie erano estremamente radicati. I grandi dirigenti sono stati espulsi, alla fine
della Guerra civile, ma è noto che Lenin ha consentito loro di partire perché alcuni di essi erano
stati compagni amati, venerati o stimati comunque fino a poco prima del ’17, e magari erano
stimati e voluti bene anche dopo; Martov certamente Lenin non lo avrebbe volentieri fatto
arrestare. Ma moltissimi quadri intermedi e di base sono rimasti perché hanno detto, come
avrebbe detto qualunque di noi: “dissentiamo per molti aspetti ideologici, però ora siamo in un
processo rivoluzionario, non perdiamo questa occasione e stiamoci dentro”. Così hanno fatto
tanti socialrivoluzionari, persone di origine, come in Europa, di una sinistra sociale e sindacale.
Ma il problema è che la Terza Internazionale negli anni ’30 era così forte che (per essere proprio
molto banali) riusciva a spingere a destra anche quelli che erano usciti da sinistra; invece, Victor
Serge sicuramente è riuscito a non entrare in questa dinamica, credo che sia un osservatore
straordinario appunto perché in fondo è un narratore. A me ha sempre affascinato una faccenda
che io conosco, lui era vicino agli ambienti della Banda Bonnot, nella quale agiva un militante
che dava una parte dei proventi delle rapine al sindacato dei tipografi; sembrerebbe esserci stata
fino a un certo punto una contiguità fra un socialismo di educazione, molto attento alla
formazione culturale, e forme di estremo antagonismo, che Victor Serge ha sfiorato. Secondo me
Victor Serge non ha fatto parte di questa panoplia culturale perché l’operaismo teorico ha
sempre, se non nel caso della Di Leo, eluso il problema dell’Unione Sovietica; lì ti trovavi
davanti a un intreccio tra ideologia e condizioni materiali di difficilissimo snodamento. Ci si
voleva distinguere dal feticcio e dal culto delle reliquie leniniste e quindi in questo modo non si
affrontavano nemmeno quel problema; era una scelta così parziale che la sua stessa creatività
comportava delle ombre. Invece, Victor Serge è un testimone straordinario. Si potrebbe chiedere
alla Di Leo, perché lei è stata proprio l’unica che ha cominciato a studiare in fondo gli operai
russi e sovietici; siccome lì non te li facevano proprio studiare, non era possibile, le fonti
potevano essere solo indirette. Noi conosciamo il Partito Comunista, conosciamo abbastanza
bene la reazione del mondo rurale all’industrializzazione forzata; ma non sappiamo quasi niente
della reazione operaia. Certamente c’è stata un’identificazione in parte, perché quando tu dici
continuamente che gli operai sono al centro devi dare loro dei privilegi, anche se non certo in
termini di organizzazione del lavoro; però un patto tra settori della classe operaia e lo stalinismo
credo che la Di Leo abbia ragione a dire che c’è stato. Sicuramente avrà avuto contraddizioni,
buchi, noi questo non lo sappiamo, sarebbe appassionante approfondirlo. Le cose di Victor Serge
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piuttosto hanno sempre verificato il quotidiano, cioè quello che succedeva nelle città; però,
comunque lo ritengo prezioso, ci sono delle sue cose appassionanti, non so però chi ci aiuti
veramente a capire. Io credo che anche un’analisi materialistica della composizione di classe
dell’Unione Sovietica degli anni ’30, ’40 e ’50 sia ancora da scrivere. Ovviamente, siccome
adesso si parla solo dei delitti del comunismo, nessuno lo sta facendo o riesce addirittura a
concepire che lo si possa fare; se anche i terremoti sono colpa di Stalin che era cattivo non è che
si facciano passi avanti.

- Nell’ambito della ricerca che stiamo portando avanti si delineano in maniera abbastanza
chiara due elementi importanti. Il primo è che il quadro di persone che, su vari livelli, sono
stati interni a varie esperienze politiche e in particolare a quelle operaiste è molto più
diffuso di quanto si possa immaginare; adesso questi soggetti sono collocati all’interno delle
scuole, delle università o in altre situazioni professionali, però sono ancora disponibili a
ragionare su determinati nodi. Il secondo dato è che anche chi si è collocato in posizioni di
un certo tipo, magari anche in ruoli dirigenziali, non solo non butta via niente, ma anzi parla
di quell’esperienza come momento di formazione anche per quello che sta facendo ora.

Questo è molto importante. Ad esempio, gli ex marxisti-leninisti non lo fanno, forse giustamente
un po’ se ne vergognano, perché le loro posizioni erano spesso rigide, esterne alle situazioni
reali. Invece, l’operaismo è stato anche un punto di vista che ha fatto vedere delle cose, dove si
sono imparate delle cose, dove ci si è confrontati con la modernità anche se non ci si riempiva
sempre la bocca con l’elogio del nuovo e del moderno.

- C’è una domanda o ci sono delle questioni in particolare che tu vorresti porre o sviluppare
con una o più persone che sono state interne a questi percorsi?

Forse un tema è la connessione fra l’analisi politica e la propria immediata situazione sociale.
Quando io prima deprecavo tanto l’assoluta mancanza di percezione del proprio essere lavoratori
anche da parte dei miei stessi colleghi (essere lavoratori non vuol solo dire lavorare in
un’industria chimica nociva), era proprio una rivendicazione di questa centralità. Se tu non ti
guardi come lavoratore che si definisce anche in base a quello che fa, che cosa vuoi capire del
mondo? Tuttavia le subculture politiche, comunitarie, religiose quantomeno hanno dimostrato
una forte tenuta; le idologie forti, che strutturavano le organizzazioni, magari si sono spappolate,
ma il modo in cui le persone vedono se stesse, organizzano il mondo è certamente in strettissimo
collegamento con un nucleo subculturale sottostante che dispone non voglio dire di
un’autonomia ma di una impressionante permanenza. I famosi operai dell’alta Lombardia
(bresciani, bergamaschi ecc.) ad esempio hanno comportamenti anche conflittuali, ma comunque
un forte limite allo sviluppo di questi comportamenti l’hanno trovato nell’appartenenza al mondo
cattolico paternalistico; il leghismo è nato molto prima della Lega, quindi il mito comunitario, la
difficoltà a confrontarsi con le differenze culturali costituiscono un grandissimo problema. Era
grande anche prima, ma adesso naturalmente ancora di più, nel momento in cui è difficilissimo
vedere non la composizione di classe nuova ma una composizione vincente; l’attuale
organizzazione del lavoro ha reso estremamente difficile trovare i punti dove mettere una leva, e
in più siamo dominati indubbiamente da una colonizzazione culturale e subculturale inquietante.
Non penso che si vinca o si perda perché si hanno le televisioni, però certamente l’esistenza del
Grande Fratello qualcosa vorrà dire, una volta non c’era; io l’ho visto per lavoro, mi sono messa
lì dieci minuti, io guardo anche Tele Padania (naturalmente a piccole dosi, per documentazione).
Quindi, anche dove la cultura e la subcultura comunista ha avuto un peso, oggi siamo in questa
situazione. Questo mi pare un grandissimo problema. Non è che adesso non ci siano lotte, ogni
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tanto ce ne sono, magari anche molte, però non diventano più tessuto, luoghi di identificazione.
Quindi, il linguaggio e la comunicazione politica hanno dimostrato una centralità notevole.
Dunque, porrei questa domanda: il rapporto fra la composizione di classe e le tradizioni culturali.

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INTERVISTA A SANDRO MEZZADRA – 3 APRILE 2001

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e l’inizio dell’attività militante?

Io ho cominciato ad occuparmi di politica sul finire degli anni ’70, quindi negli anni caratterizzati
da una parte da un inasprimento dello scontro tra il movimento in tutte le sue articolazioni e lo
Stato, e dall’altra dalla repressione, che ha per così dire rappresentato, nei primi tempi della mia
attività politica, un necessario sfondo. Anche l’attività militante vera e propria che ho svolto nei
primi anni è stata in buona parte dominata dalla questione della repressione. Ho cominciato a far
politica a scuola nel ‘78-’79, a Savona, la città dove abitavo, un luogo in cui non c’erano grandi
momenti di scontro sociale sul finire degli anni ’70. C’era un nucleo di classe operaia che ancora
funzionava come elemento di mediazione politica molto forte, e questo valeva anche per il paese in
cui io sono cresciuto, cioè Vado Ligure. C’erano tensioni, riconducibili all’immigrazione dal Sud,
questo sì, c’erano alcuni problemi legati alla questione abitativa su cui c’è stato un intervento da
parte del movimento nella seconda metà degli anni ’70, con qualche tentativo di occupazione. Ma
diciamo che nel complesso era una realtà davvero marginale dal punto di vista dello scontro sociale
e politico di quegli anni. C’era tuttavia una situazione abbastanza interessante dal punto di vista
della composizione soggettiva del movimento, perché c’era un gruppo di compagni che faceva
riferimento all’area dell’Autonomia e a cui io mi sono immediatamente legato: in origine si
chiamava, in modo non molto originale per quegli anni, Circolo del proletariato giovanile; poi
questo gruppo ha avuto diverse metamorfosi e cambi di denominazione, come tanti in quegli anni.
Era una realtà molto ricca al proprio interno, con una composizione variegata, con giovani operai
accanto a studenti e artisti. Si tenga conto che la scena artistica a Savona e in particolare ad
Albisola, un paese lì vicino, ha sempre svolto un ruolo di animazione culturale: lì venivano in
vacanza e poi si sono stabiliti alcuni esponenti dell’Internazionale Situazionista, e quindi c’era un
effetto di eco che a Savona si percepiva ancora alla fine di quegli anni. Un altro personaggio che
frequentava molto Savona era Camatte, il quale era abbastanza letto in quegli anni nelle aree di
movimento legate all’Autonomia in senso largo, soprattutto per le sue analisi sul concetto di
sussunzione nel capitolo VI inedito del Primo Libro de Il capitale. Lui aveva frequentato Savona
già alla fine degli anni ’50 se non ricordo male, quando era legato al bordighismo internazionale che
a Savona aveva una delle sue radici più importanti. Insomma, da una parte c’era Camatte che poi si
era in qualche modo anche legato ai giri situazionisti, e dall’altra il situazionismo: queste erano le
due presenze politico-culturali che dominavano la scena a Savona. Poi c’erano personaggi oggi
diventati anche piuttosto noti, come per esempio Carlo Freccero, l’attuale direttore di Rai Due, che
all’epoca era profondamente legato al situazionismo e svolgeva un po’ una funzione maieutica nei
confronti dei giovani del movimento; e più ancora di lui, che era già un personaggio in qualche
modo lontano, anche se continuava a fare il maestro elementare ad Albisola in quegli anni (prima
quindi dei suoi rapporti con Berlusconi ecc.), era molto importante per me il rapporto con suo
fratello, Giuliano, che morì molto giovane all’inizio degli anni ’80. Questi aveva una lavanderia nel
centro storico di Savona che era diventata un punto di incontro dei compagni, ci si trovava tra l’altro
per parlare di una fanzine (c’era infatti un giornale che si chiamava Autonomia Indigena). Questo è
il contesto in cui ho cominciato a fare politica alla fine degli anni ’70.
In termini più generali, come dicevo prima, la radicalizzazione e la verticalizzazione dello scontro
con il protagonismo delle organizzazioni combattenti e poi la repressione sono stati i due elementi
che hanno segnato i miei primi anni di attività politica: detta brevemente, il sequestro Moro e il 7
aprile sono i due eventi che segnano la memoria dei miei primi anni di attività politica. Tuttavia, la
repressione per esempio è arrivata in modo molto sfumato a Savona, noi siamo stati coinvolti in
forme solo marginali. Fino all’80 è rimasta una situazione di ricchezza quanto meno rispetto a una
composizione soggettiva del movimento: ciò nonostante c’era tutta una serie di problemi che anche
a Savona si ponevano come ripercussioni delle dinamiche di disgregazione che stavano interessando
il movimento a livello nazionale e poi in particolare a livello ligure. Parlando dell’Autonomia,

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c’erano i due poli che erano Genova e Imperia, c’era un giornale, un tentativo di ricostruire uno
strumento di comunicazione politica del movimento autonomo in Liguria che si chiamava Nulla da
Perdere: protagonista di questa esperienza è stato un compagno che fareste bene a intervistare,
perché ha molte cose da dire rispetto alla storia del movimento a Genova, si chiama Giorgio
Moroni. Nulla da Perdere si reggeva un po’ sull’asse Genova-Imperia. A Genova c’era una
consistente presenza di compagni che non hanno mai avuto il radicamento sociale che l’Autonomia
ha avuto in altre città d’Italia, ma che comunque avevano una storia in qualche modo lunga, che
veniva da Potere Operaio, avevano rapporti molto solidi con le diverse situazioni nazionali. Mentre
invece a Imperia c’era una realtà completamente diversa, venuta fuori all’inizio degli anni ’70 se
non ricordo male, senza rapporti diretti con l’esperienza di Potere Operaio, e la composizione
soggettiva del movimento ad Imperia era caratterizzata dall’egemonia di un soggetto che potremmo
definire il giovane operaio “fricchettone”, in particolare portuale. Mentre a Genova c’era un quadro
politico più qualificato, a Imperia, soprattutto negli anni ’76-’77-’78, c’è stato un radicamento
incredibile delle lotte e delle iniziative messe in atto da questi compagni che si richiamavano
all’Autonomia: un’occupazione di fabbrica gestita direttamente dall’Autonomia, una presenza forte
di questi compagni all’interno del porto, un movimento studentesco anch’esso molto forte,
un’esperienza di radio, cosa che a Genova non è mai stato mai possibile realizzare. Insomma,
principalmente questi erano i due poli: poi in mezzo c’era Savona che aveva questa
caratterizzazione in parte anomala di cui parlavo prima. All’opposto territoriale, a La Spezia, c’era
una situazione di maggiore disgregazione, ci sono stati sempre un po’ di problemi determinati anche
da una presenza abbastanza significativa di gruppi legati alle organizzazioni combattenti. A Genova
e a Imperia nel ’79-’80 in qualche modo finisce tutto: mi riferivo a questo quando parlavo della
ripercussione a Savona, per quanto in forma molto attutita e indiretta, di problemi che il movimento
stava vivendo a livello nazionale e a livello ligure. A Genova c’è la grande operazione del 17
maggio del 1979, la risposta dei carabinieri al 7 aprile gestito dalla polizia: viene arrestato Giorgio
Moroni insieme ad altri compagni che avevano l’estrazione politica più diversa, c’erano in mezzo
anche Fenzi e sua moglie. Quindi, diciamo che a Genova dal maggio del ’79 la politica diventa fare
i conti con la repressione. Contemporaneamente a Imperia una parte consistente dei compagni di cui
parlavo, i più noti praticamente tutti, danno vita a una singolare esperienza di colonna brigatista
frontaliera. Indipendentemente da ogni giudizio sull’esperienza delle Brigate Rosse, anche per chi si
poneva nella prospettiva di quell’organizzazione l’idea di costruire una colonna in una realtà così
provinciale era decisamente bizzarra: portare l’attacco al cuore dello Stato partendo da Imperia non
era facilissimo! Questo dice ancora una volta dell’anomalia di questa realtà imperiese. Comunque,
bisogna sottolineare che nel giro di pochi mesi questa esperienza si è conclusa, tra l’altro con
pentimenti, dissociazioni, arresti ecc.: il patrimonio che era stato accumulato negli anni precedenti
si è disperso abbastanza rapidamente. Anche se poi tale patrimonio, per vie sotterranee, è rimasto in
qualche modo vivo nella città di Imperia, tanto è vero che quando io sono successivamente venuto a
Genova, mi sono trovato quasi subito a lavorare con dei compagni che venivano a studiare lì da
Imperia e che erano stati in qualche modo influenzati dal ciclo delle lotte della seconda metà degli
anni ’70 a Imperia. Ancora oggi a Imperia c’è una presenza di centri sociali più significativa di
quanto non vi sia nella maggioranza delle città provinciali italiane. A Savona, in particolare,
micidiale è stato l’80-’81, come era successo anche da altre parti: ma lì in modo davvero tremendo
più che la repressione, più che le organizzazioni combattenti, poté l’eroina, che falcidiò il
movimento e quell’aggregazione che attorno a un’area di movimento si riconosceva. L’80-’81 è
stato davvero un anno tragico, con compagni che sono morti, compagni che avevano 33-34 anni,
non sto parlando di ragazzini: erano persone che avevano attraversato, vivendo tra l’altro grosse
difficoltà materiali, i quindici anni mitici del movimento italiano, e cominciavano a farsi le pere a
33-34 anni. Ciò ha abbastanza rapidamente portato alla frantumazione di un’area che fino a quel
momento era rimasta abbastanza unita.
Io poi nell’81 sono venuto a Genova, mi sono iscritto all’università, per tante ragioni, tra cui non
ultima l’atmosfera che si respirava a Savona in quei mesi. Mi sono quindi trasferito a Genova, ho

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cominciato a vivere con dei compagni e ho iniziato a fare politica qui nell’81. Diciamo che a partire
da quel momento ho iniziato anche ad avere rapporti nazionali più significativi di quanti non ne
avessi avuto fino ad allora stando a Savona. A Genova però la situazione era quella che era, una
situazione di sostanziale azzeramento della presenza in città del movimento. L’Autonomia in
particolare (a Genova mi riferisco a quella, perché è stata la mia storia), come dicevo prima, non ha
mai avuto una forza e un radicamento sociale significativo: un po’ perché a Genova sono sempre
stati marginali i soggetti sociali su cui si sono costruite in altre città la forza e l’originalità
dell’Autonomia; un po’ perché i tentativi che pure sono stati fatti di conquistare un’internità alla
classe operaia di fabbrica sono tutti falliti, ed è vero che semmai con la classe operaia di fabbrica
sono riuscite a dialogare più efficacemente organizzazioni come le BR. Però, nonostante questo
c’era stata negli anni ’70 una presenza abbastanza articolata sul territorio: c’erano
fondamentalmente quattro strutture che erano anche piuttosto diverse l’una dall’altra, ma che
sostanzialmente componevano il quadro del movimento autonomo genovese. Una era quella più
forte, più radicata, più significativa a livello di quartiere, cioè il Comitato Autonomo di
Sanpierdarena; l’altro era il Comitato Autonomo del Carmine, che operava in una zona molto
particolare del centro storico della città, dove la nuova sinistra in generale ha avuto in tutti gli anni
’70 un radicamento molto forte, con successi elettorali anche strepitosi; il terzo raggruppamento era
il Comitato della Valpulcevera, quindi un’altra zona industriale nella periferia cittadina; e il quarto
era il Collettivo Autonomo di Balbi, dell’università. Quest’ultima realtà era quella più irregolare
nella composizione, meno allineata, mentre invece per esempio i sanpierdarenesi avevano, anche a
livello nazionale, a partire dal ’77 una posizione molto precisa di vicinanza ai Volsci, ai Comitati
autonomi operai di Roma. A Genova non hanno mai messo radici esperienze combattenti
significative oltre alle Brigate Rosse, non c’è mai stata Prima Linea ad esempio: c’è stata Azione
Rivoluzionaria che ha avuto uno dei suoi principali leader, cioè Gianfranco Faina, qui a Genova, ma
in fondo in quanto AR ha attraversato in modo abbastanza marginale l’esperienza del movimento
ligure, mentre invece il magistero di Faina a livello sotterraneo ha attraversato in modo più
consistente il movimento. Le Brigate Rosse erano una cosa molto strana a Genova, molto diversa in
realtà di quello che si tende a credere sulla base di una conoscenza superficiale: questa immagine un
po’ mitologica della colonna genovese delle BR come colonna organizzata in un modo ferreo,
molto forte, impenetrabile, non corrisponde sostanzialmente alla realtà che è emersa anche
banalmente dai riscontri processuali. Mentre è vero che nell’immediato dopo-’77, negli anni che
vanno dal ’77 all’80-’81, c’è stata una proliferazione di esperienze di “movimentismo combattente”
che si richiamavano però alla sigla delle Brigate Rosse, con aspetti anche un po’ patetici di gente
che veniva messa in guardia dal fare riferimento ala sigla Brigate Rosse e ciò nondimeno faceva
azioni a volte anche un po’ raffazzonate firmandole BR. Però, questo è importante per dare il senso
di una presenza che a Genova, indipendentemente dalla consistenza organizzativa effettiva delle
Brigate Rosse, cioè dal volume di fuoco che ha sviluppato in questa città, è stata un elemento
fortemente condizionante le altre esperienze di movimento. Il Collettivo Autonomo di Balbi, che
come dicevo era quello meno allineato, meno riconducibile a una posizione unitaria, è stato quello
più attraversato da queste esperienze e da questa fascinazione da “movimentismo combattente”,
come lo definivo prima. Però, si tenga conto che a Balbi, alla facoltà di Lettere insegnava Enrico
Fenzi che soprattutto nell’ultima fase della storia delle Brigate Rosse (in realtà più dopo il suo
primo arresto nel ’79 che prima, ma anche prima), ha giocato un ruolo importante anche a livello
nazionale nelle BR. Ci sono stati anche degli episodi molto pesanti nella storia dei rapporti tra
movimento e Brigate Rosse: ad esempio, un pacco di volantini rinvenuto in modo assolutamente
sospetto all’interno delle sede del Comitato Autonomo del Carmine (nel ’78, se non ricordo male)
ha portato all’arresto di molti compagni per la maggior parte giovani, alle prime esperienze
politiche e nei fatti ha posto la parola fine all’esperienza del Comitato. Il Comitato della
Valpulcevera si è abbastanza rapidamente disgregato e una parte dei suoi militanti è confluita nelle
BR, e anche quella è stata un’esperienza abbastanza eccentrica rispetto a quella più ortodossa
dell’Autonomia genovese rappresentata invece da quelli di Sanpierdarena. Questo Comitato è

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quello che è rimasto attivo più a lungo, che ha gestito tutta la fase della campagna di
controinformazione dopo il blitz di Dalla Chiesa, seguito poi dalla morte o dal suicidio
dell'avvocato Arnaudi, il che è stato un momento di grosso shock per tutta la sinistra cittadina, non
solo per l’Autonomia o per il movimento extraparlamentare. Il Comitato Autonomo di
Sanpierdarena è rimasto attivo a lungo, non ha avuto particolari conseguenze dal punto di vista
repressivo, la sua attività è stata molto importante e continua nella città. A parte i compagni che
sono stati arrestati in situazioni di scontro di piazza, c’è stato appunto l’arresto di Giorgio Moroni,
di cui parlavo prima, nel ’79, ne era preceduto un altro nel ’78 sempre suo, e poi l’arresto di un altro
compagno sempre del Comitato Autonomo di Sanpierdarena nell’81 che era stato ricondotto in
modo assolutamente arbitrario (come succedeva abbastanza spesso in quegli anni) a una storia
legata alle BR a cui era assolutamente estraneo. Il gruppo del Comitato Autonomo di Sanpierdarena
è rimasto insomma abbastanza omogeneo, però dopo la gestione della campagna di
controinformazione sul blitz del ’79 è un po’ sparito dal punto di vista politico: ha amministrato la
fine della propria esperienza. Contemporaneamente si è conclusa anche un’altra esperienza
abbastanza importante messa in piedi alla fine degli anni ’70, quella della costruzione di una libreria
di movimento che funzionava come punto di riferimento per i compagni in centro. Quando sono
arrivato io a Genova non esisteva più praticamente nulla per quanto riguarda il tipo di esperienza di
movimento a cui io mi riferivo e a cui io ero stato, sia pur in una posizione marginale, a Savona,
interno fino a quel momento. C’era un gruppo di compagni a Balbi, all’università, io mi ero iscritto
a Filosofia, che avevano rifondato il Collettivo Autonomo dopo gli arresti relativi ai fenomeni di cui
parlavo prima. Ho cominciato a lavorare con loro e a un certo punto, insieme a un paio di altri, ho
avuto un’idea un po’ bizzarra ma che comunque allora mi sembrava la cosa giusta da fare, ossia di
provare a ricostruire un tessuto di movimento autonomo a Genova. Ho lavorato a lungo in questa
prospettiva sia in città sia ricollegandomi a quello che stava succedendo a livello nazionale, prima
con un’internità a quel bizzarro organismo che era il coordinamento nazionale dei comitati contro la
repressione, e poi - dopo la rottura con esso - con un’internità invece piena al tentativo di ricostruire
il coordinamento dell’Autonomia a livello nazionale, a partire dalla campagna contro la tortura
nell’82 e poi soprattutto dalle manifestazioni contro il supercarcere di Voghera nell’83 e contro i
missili Cruiser a Comiso nell’estate dello stesso anno. Sono stato interno a questo percorso, che non
mi pento in alcun modo di aver fatto, ma che considerato a distanza di un po’ di anni rivela molti
aspetti di debolezza, perché il quadro soggettivo dei compagni che portavano avanti questo progetto
a Genova era piuttosto disomogeneo e soprattutto molto poco radicato in città, molti eravamo
studenti fuorisede. Vecchi compagni (di cui poi fortunatamente sono diventato amico e con cui anni
dopo, finito il “grande freddo”, ho condiviso molte esperienze politiche) mi hanno raccontato che ci
guardavano un po’ come dei marziani, come dei soggetti estranei alla storia che era stata la loro e
che noi in qualche modo pretendevamo di continuare. E poi il nostro riferimento era di tipo
essenzialmente universitario e guardavamo la città attraverso le lenti dell’università, avevamo una
presa praticamente nulla sulla realtà sociale di Genova. E’ un’esperienza che, ripeto, non mi pento
in alcun modo di aver fatto ma che, considerata a distanza di qualche anno, denota a mio giudizio
limiti consistenti non soltanto locali, ma anche nazionali. Gli aspetti più negativi di quell’esperienza
sono sicuramente quelli legati ai dibattiti interminabili (tanto è vero che di tanto in tanto vengono
fuori ancora adesso) sulla questione della dissociazione.
Il riferimento al dibattito sulla dissociazione è in qualche modo importante perché è stata un’altra
questione su cui ci sono state molte incomprensioni e su cui abbiamo incontrato delle difficoltà nei
primi anni ’80 a uscire dal ghetto in cui ci eravamo rinserrati. Poi nell’86-’87 le cose sono un po’
cambiate, abbiamo messo in piedi da una parte un movimento significativo all’interno delle scuole e
dall’altra un comitato che lavorava sulla questione degli spazi sociali: quello è stato veramente il
momento (diciamo ’85-’86) in cui io stesso ho avuto l’impressione di essere finalmente genovese
nel mio fare politica, di muovermi in sintonia con qualche processo che, per quanto marginale,
aveva degli elementi di realtà. Lì si è costruito un percorso che era in continuità con l’altro, ma
anche con alcuni elementi di discontinuità che poi passano attraverso una prima esperienza di centro

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sociale nell’87-’88 che era l’Officina, poi c’è il movimento della Pantera e successivamente, negli
anni ’90, il lavoro, su basi molto diverse rispetto a quelle del passato, con gli immigrati.

- Come si è sviluppato questo percorso politico con gli immigrati?

Io proseguo in chiave autobiografica. Dopo l’85 avevo molto rarefatto le mie presenze a livello
nazionale perché onestamente non credevo più nel tipo di progetti che avevo contribuito a portare
avanti negli anni precedenti. Dopo l’88-’89 per un periodo mi sono un pochino tirato fuori dalle
vicende genovesi, sia pure mantenendo rapporti e un interesse di fondo per le cose che avevo fatto:
nel frattempo mi ero infatti iscritto all’università a Bologna, avevo cominciato a studiare in modo
più serio di quanto non avessi fatto fino a quel momento, e sentivo comunque anche l’esigenza di
un periodo di pausa, di “sospensione” di un’attività militante che durava senza sosta da dieci anni.
Anche se poi dentro la Pantera ci sono stato, ho fatto delle cose ecc.; ma sono davvero ritornato a
fare politica attivamente nel ’93, quando c’è stato questo susseguirsi di scontri nel centro storico di
Genova fra abitanti autoctoni (o presunti tali) e abitanti immigrati. Lì c’era stata una precipitazione
di una serie di contraddizioni che si erano accumulate nei mesi e negli anni precedenti, e la
precipitazione aveva assunto la forma inquietante di veri e propri pogrom. Io in quel momento non
ero a Genova, però seguivo da fuori (ero infatti in Germania) l’evolversi della situazione e
soprattutto il racconto di quello che i compagni rimasti in città stavano cercando di fare (era fine
luglio) per contrastare quella che si presentava come una sfida del tutto imprevista. Era la prima
prova dei cosiddetti comitati del centro storico, un’esperienza in qualche modo pilota in Italia
rispetto ai cosiddetti comitati sicuritari come li chiama qualcuno, comitati di cittadini di destra per
sintetizzare. Lì i compagni avevano provato a fare un discorso tutto centrato sull’antirazzismo: le
poche iniziative che erano state fatte si erano qualificate proprio su questo tema, in modo ideologico
e nei fatti non avevano fatto presa. Mentre alle spedizioni punitive contro gli immigrati purtroppo
partecipavano decine se non centinaia di giovani del centro storico, alle iniziative del “movimento”
partecipavano poche decine di persone. Immediatamente ho cominciato a ragionare con altri
compagni, che nel frattempo si errano trovati a vivere nel centro storico, su come si poteva
caratterizzare in modo diverso un intervento sulle questioni legate alle migrazioni, di cui
cominciavamo a percepire la novità e l’urgenza. In una strada del centro storico c’era un circolo
legato in qualche modo a Rifondazione, che tutti noi frequentavamo, e si parlava spesso di queste
cose: una volta nel mese di settembre, quindi un mese e mezzo dopo gli scontri, sono venuti dei
ragazzi marocchini a parlarci e a dirci: “qui stanno sgomberando tutti”. Cioè, alla fase degli scontri
aperti era succeduta una fase in cui la polizia si stava facendo materialmente carico di “risolvere” il
problema della presenza dei migranti nel centro storico con gli sgomberi delle case in cui vivevano i
migranti. Ci hanno detto: “voi siete di sinistra, bisogna fare qualcosa”; siamo così rimasti d’accordo
di vederci la sera successiva nello stesso posto. Francamente noi pensavamo di trovarci una decina
di noi e quattro o cinque ragazzi marocchini: siamo rimasti piuttosto sorpresi quando invece ci
siamo trovati di fronte a 150-200 immigrati che erano profondamente incazzati e
contemporaneamente molto disponibili a fare delle cose. Lì abbiamo cominciato in modo un
pochino casuale (come emerge dal racconto) un percorso che ci ha portato nel giro di poche
settimane a costituire un’associazione in centro storico di cui facevano parte italiani e stranieri (e di
cui continuano a farvi parte, poiché esiste ancora e sta oggi ad esempio organizzando la
manifestazione dei migranti del 19 luglio, che aprirà le iniziative contro il G8). Questa associazione,
contrariamente alle iniziative che erano state fatte nei mesi precedenti, ha ottenuto dei risultati
molto significativi sia attraverso le pressioni esercitate sugli enti locali e sulla questura, sia
attraverso una battaglia molto dura (portata avanti giorno per giorno in centro storico, sui mezzi di
comunicazione, sulle televisioni locali ecc.) con questi comitati che si erano arrogati nei mesi
precedenti il monopolio e la rappresentanza della questione del centro storico in città. Spezzare quel
monopolio, facendo anche irrompere all’interno della scena pubblica a Genova gli uomini e le
donne immigrati della nostra città, credo che sia stato uno dei risultati più significativi di cui sono

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stato coprotagonista nella storia della mia militanza politica. E’ forse l’esperienza che ricordo come
la più autentica di lotta sociale, più vera: certo anche le altre esperienze sono state importanti e tutto
quello che si vuole, però lì veramente avevi l’impressione (soprattutto nei primi due anni, dal ’93 al
’95) che stesse succedendo qualcosa. Mi ricordo la prima volta che questi ragazzi immigrati hanno
cominciato a porre la questione di costruire una nuova associazione: le precedenti organizzazioni e
reti di mediazione e di rappresentanza degli immigrati erano crollate di fronte ai fatti di cui parlavo
prima, del luglio del ’93, e soprattutto di fronte alla presenza di soggetti immigrati diversi da quelli
che queste associazioni erano nati per rappresentare. Mi ricordo che la prima volta che abbiamo
fatto le tessere di questa associazione c’erano decine e decine di ragazzi (marocchini e senegalesi in
particolare, ma non soltanto) che prendevano la tessera: ciò dava una vera impressione di trovarsi in
presenza di qualcosa di importante. Abbiamo fatto un sacco di manifestazioni che hanno
rappresentato, soprattutto all’inizio, uno shock a Genova: nel giro di due anni questo monopolio di
cui parlavo prima dei comitati è stato efficacemente contestato e rotto. Credo che la situazione sia
un pochino cambiata a Genova, non soltanto ma certo anche per il continuum di iniziative che c’è
stato soprattutto tra il ’93 e il ’95, ma anche poi più avanti.

- Di questa cosa ne parlava anche la Torti: c’erano dei compagni impegnati in piccole forme di
ricerca sulla questione dell’immigrazione?

Da una parte ci sono state una serie di ricerche sulle migrazioni che si sono sviluppate
successivamente al ’95 attorno alla facoltà di Scienze della Formazione, da quando a Genova è
venuto Alessandro Dal Lago e alcuni di noi hanno cominciato a lavorare con lui, a fare delle cose, a
costruire un gruppo diciamo. E poi ci sono invece stati alcuni tentativi di mettere insieme delle
piccole ricerche direttamente all’interno del Città Aperta: sono state raccolte delle storie di vita
abbastanza interessanti, sono stati fatti un paio di pieghevoli, uno si chiamava Tu non sai chi sono
io, con appunto proprio queste storie di vita. E poi ancora negli ultimi anni uno di questi compagni
senegalesi ha collaborato alla ricerca di Bonomi, Progetto Moriana.

- Rispetto a questi percorsi con gli immigrati, che posizione hanno avuto i centri sociali?

I centri sociali a Genova fino a qualche anno fa erano fondamentalmente il centro sociale Zapata.
Questo nell’ambito dell’intervista non credo che abbia molta importanza, ma per rispondere alla
domanda devo dire che lì c’era un problema molto banale, di carattere in ultima istanza personale,
rappresentato dal fatto che i compagni più vecchi che lavoravano in Città Aperta, che venivano tutti
dal percorso che ho descritto prima, erano visti molto male dai compagni più vecchi (un paio, in
verità) che stavano dentro lo Zapata provenendo dallo stesso percorso. Solite storie, potete
immaginarvele. Resta il fatto che questo in una prima fase ha creato degli enormi problemi di
comunicazione con i compagni più giovani dello Zapata e perfino con alcuni compagni più vecchi.
Poi, con la crescita e la maturazione di questi compagni più giovani, le cose sono cambiate e con lo
Zapata noi abbiamo lavorato sempre benissimo e adesso per il G8 lavoriamo praticamente insieme.

- Recentemente a Genova c’è stata una manifestazione sui permessi di soggiorno che ha visto
una grossa partecipazione di immigrati: ha continuità con il percorso precedente?

Sì, certo, anche se bisogna dire che la continuità non esclude forti elementi di discontinuità.
Fondamentale è stato il rapporto con il sindacato, perché all’inizio tale rapporto è stato quello
classico, di quelli che io avevo appreso all’inizio della mia biografia politica tra movimento e
sindacato, perché questi qua ci rompevano le scatole e ci osteggiavano in tutti i modi. A un certo
punto si sono resi che non andavano molto distante continuando ad osteggiarci in tutti i modi,
perché eravamo oggettivamente più forti di loro tra gli immigrati. Una volta c’è stata una giornata
europea contro il razzismo, noi avevamo organizzato una manifestazione, loro avevano invece

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organizzato un’iniziativa in una sala pubblica (tra l’altro introdotta dalla danza zulu di un immigrato
vestito da primitivo con le foglie in testa, una cosa veramente pietosa): comunque lì c’erano 40
immigrati e alla nostra manifestazione ce n’erano 2000. Quindi, a un certo punto il rapporto con il
sindacato è cambiato, soprattutto dopo una grande manifestazione che c’è stata nell’ottobre del ’95,
in cui bene o male siamo riusciti a portare in piazza il PDS su parole d’ordine diverse da quelle che
loro stavano portando avanti a livello nazionale (era la fase del decreto Dini). Quello è stato il
momento più alto raggiunto da Città Aperta, con migliaia di persone in piazza, italiani e stranieri.
Da quel momento sono cambiati i rapporti soprattutto con il sindacato, questo ci ha proposto di
stare dentro una realtà che avrebbe dovuto un po’ raccogliere tutte le associazioni che lavoravano
sulle questioni migratorie. E’ stata messa quindi in piedi questa realtà che esiste ancora adesso e si
chiama Forum Antirazzista, e contemporaneamente la specificità di Città Aperta è venuta un
pochino meno negli anni successivi, anche se è rimasta, rispetto alle componenti più “istituzionali”,
una maggiore radicalità nei linguaggi, nei toni, nei comportamenti, o un’intransigenza di fondo sulla
questione dei cosiddetti “clandestini” ecc. Però, ad esempio la manifestazione di cui parlavate voi è
stata organizzata da questo Forum Antirazzista, con dentro tutte le associazioni, e diciamo che
ancora adesso le due realtà più significative dentro questo Forum sono CGIL e Città Aperta.

- Facciamo un passo indietro. Come si è formato il tuo percorso teorico, intellettuale e di


ricerca? Quali sono stati in tuoi punti di riferimento? Hai prima ad esempio citato Alessandro
Dal Lago.

Dal Lago non è stato propriamente un punto di riferimento, semplicemente perché l’ho conosciuto
quando ormai ultratrentenne avevo già una formazione abbastanza compiuta, e anche a livello
accademico avevo già un curriculum piuttosto lungo alle spalle. Dal Lago lo conoscevo dalla fine
degli anni ’80, non mi piacevano particolarmente le cose che aveva fatto in quel decennio quando
era uno degli esponenti del “pensiero debole”: però mi era simpatico e mi piacevano altre cose che
lui aveva fatto prima. Quando lui è venuto a Genova ci siamo trovati un po’ naturalmente, lui stava
cominciando a lavorare sulle questione dell’immigrazione, noi stavamo facendo politica sulla stessa
questione senza aver fatto fino a quel momento nessun lavoro teorico sul tema: è dunque stato
abbastanza naturale il trovarsi e il fare delle cose insieme. Sulla questione dell’immigrazione Dal
Lago aveva recuperato, del tutto per conto suo, sia chiaro, una sana radicalità di punto di vista
politico e quindi ci siamo trovati molto bene a fare delle cose insieme. Lui, tra l’altro, ha messo a
nostra disposizione determinati spazi, soprattutto nei primi anni ha lavorato anche politicamente
all’interno del Città Aperta. Dopo aver detto che non è stato un punto di riferimento nella mia
formazione, dico anche che il rapporto con lui è stata un’esperienza molto importante, perché la mia
formazione precedente si era sviluppata tutta dentro il cosiddetto operaismo italiano. In particolare
per me decisivi sono stati senz’altro, non ho nessuna difficoltà a riconoscerlo, gli scritti di Toni
Negri, che hanno appunto rappresentato il mio libro di formazione dal ’79 in avanti. Ciò unitamente
a tutta la pubblicistica di movimento che ci si può immaginare, con le riviste, da Primo Maggio a
Quaderni del Territorio, da Rosso a Magazzino ecc., e tutto ciò che girava attorno a quell’ambito.
Negli anni ’80 era piuttosto difficile avere dei rapporti con persone che venissero dai punti alti delle
esperienze di elaborazione teorico-politica degli anni ’70, un po’ perché molti erano in galera o
all’estero, un po’ perché gli altri (almeno quello con cui è capitato a me di avere dei rapporti) non
erano particolarmente disponibili. Quella degli anni ’80 era una fase in cui sembrava tutto sparito.
Dalla mia esperienza degli anni ’80 l’impressione che ne avevo era vagamente sconsolata, era il
dire: “ma come è possibile che ci fosse quella ricchezza di esperienza di elaborazione teorica che è
documentata dai libri, dalle riviste ecc., e che d un giorno all’altro sia finito tutto?”. Perché questa
era l’impressione che si aveva nell’82, nell’83, nell’84, nell’85: era una cosa pazzesca, io non
riuscivo a farmene una ragione. Mi ricordo che a un certo punto (poteva essere l’84 o l’85) un
compagno di Genova è andato a Parigi ad una delle prima cose organizzate da Negri quando stava
in Francia, era tornato e mi aveva raccontato dell’interesse per i movimenti ecologisti, per i verdi

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ecc.: chiesi se c’era qualche riferimento all’elaborazione degli anni ’70, invece sembrava proprio
che si ricominciasse da zero, e il modo in cui si ricominciava tra l’altro a me non piaceva e non
convinceva, quindi non ho avuto rapporti in quel periodo della mia militanza politica, tra l’85 e
l’86, con questi compagni. Importante è stata invece, a partire dall’83-’84, l’amicizia con Giorgio
Moroni, il compagno di cui parlavo prima, che ha rappresentato per me un modo di tornare a
respirare l’aria che avevo soltanto intuito nei primissimi anni di formazione politica.

- Adesso lui cosa sta facendo?

Lui fa l’assicuratore, fa fondamentalmente, e con grandi capacità e risultati, l’imprenditore. Da


Giorgio, per quanto rimanga l’amicizia, dal punto di vista teorico e politico mi sono poi anche
allontanato: però, in quegli anni lì per me è stata una persona molto importante, al di là
dell’amicizia, perché, ripeto, avendo l’impressione che fosse tutto svanito da un giorno all’altro,
bene o male il rapporto con lui mi forniva un principio di realtà, mi dava l’impressione che quel
mondo lì quanto meno fosse esistito. Poi alla fine degli anni ’80 le cose sono un pochino cambiate,
nei primi anni ’90 c’è stata l’esperienza delle varie riviste, da Luogo Comune a Riff Raff a Futur
Anterieur in Francia: lì ho cominciato un pochino a dialogare, sia pure all’inizio con qualche
elemento di scetticismo e di sospetto, con chi faceva queste riviste. Nel frattempo la mia formazione
aveva continuato a svolgersi appunto sotto gli auspici dell’operaismo italiano. Diciamo che forse un
elemento di anomalia nel mio percorso intellettuale, per quello che può contare, rispetto a quello di
tanti giovani compagni di quegli anni lì (o meglio pochi, perché eravamo pochi), è il fatto che
leggevo molto Tronti, anche il Tronti contro cui giustamente Negri aveva polemizzato negli anni
’70 e nei primi anni ’80. Dalla lettura di Tronti, nonché dalla lettura di molti libri di Toni Negri, mi
ero formato l’idea che fosse opportuno, in una fase caratterizzata da un’apparente assenza di
movimento e di lotte, ragionare sul profilo concettuale della politica. Ho quindi cominciato a fare
questo, ho fatto una tesi di laurea su Hobbes, sulle origini della politica moderna. Poi mi sono
iscritto a Scienze Politiche a Bologna, ho iniziato a studiare giuristi, sociologi, teorici dello Stato
tedeschi tra ‘800 e ‘900. Mi sono formato un po’ i ferri del mestiere del ricercatore, oltre a quel
minimo di curriculum che poi mi ha permesso di entrare in università. La fine degli anni ’80 e
l’inizio dei ’90, ripeto, è il periodo in cui, dapprima sospettosamente, poi invece con maggiore
convinzione, ho cominciato a dialogare con queste esperienze di riviste, pur senza mai identificarmi
appieno con nessuna. Ho tuttavia collaborato con gli uni e con gli altri, ho anche intrapreso rapporti
di profonda amicizia con alcuni, Paolo Virno per esempio (da cui ho imparato moltissimo), ho
avuto più volte occasione di incontrare Toni Negri e di discutere con lui. Poi va forse anche
ricordato che all’inizio degli anni ’90 (nel ’91-’92), sull’onda lunga della Pantera, abbiamo fatto un
ciclo di seminari sulla trasformazione del lavoro qui a Genova, gestito del tutto su basi volontarie,
con un minuscolo contributo per gli studenti dell’università: sono venuti Sergio Bologna, Paolo
Virno, Romano Alquati, Ferruccio Gambino, Yann Moulier, sono insomma venute le persone che in
qualche modo ci sembravano quelle più interessanti e più vive nel dibattito di quegli anni lì. E’ stato
un momento sicuramente importante, anche per svecchiare un po’ la discussione a Genova. L’idea
era quella di andare avanti, di non fermarci a fare il ciclo di seminari: facciamo questo e poi
partiamo con un lavoro di inchiesta. Come spesso accade il primo tempo ha funzionato bene, dal
secondo tempo abbiamo tirato fuori molto poco, abbiamo fatto un po’ di interviste su Genova.
Fin qui si può vedere che il percorso è abbastanza lineare. Io in quella fase continuavo a lavorare
all’università di Bologna, seppure in modo precario; quando invece è venuto a Genova Alessandro
Dal Lago abbiamo cercato di recuperare una parte delle esperienze che erano state fatte a ridosso di
quel seminario e di trasformarle in un lavoro più strutturato, con qualche elemento di tenuta
istituzionale, di garanzia di durata in più, all’interno di Scienze della Formazione. Abbiamo fatto
una serie di seminari su questioni variamente legate ai temi delle migrazioni. Quello per me è
senz’altro stato un momento importante, se si vuole anche di parziale discontinuità rispetto al
passato, perlomeno un momento per me decisivo per cominciare a misurarmi anche criticamente

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con alcuni limiti della tradizione dell’operaismo italiano, al cui interno ritengo comunque di
continuare a ragionare.

- Quali sono, secondo te, i limiti e le ricchezze dell’operaismo?

La ricchezza io continuo a vederla nel tentativo di leggere la realtà sociale e lo sviluppo attraverso
categorie che abbiano una forte tensione soggettiva. Tenere aperta una riflessione sul modo di
produzione capitalistico che abbia al proprio centro l’elemento della scissione, l’elemento della
soggettività come motore (tra gli altri motori, aggiungerei) del processo dello sviluppo, mi pare che
sia, in poche battute, il principale aspetto che vale la pena valorizzare della lezione operaista. E tra
l’altro è valorizzato a livello internazionale, anche da teorici che sono lontani dall’operaismo: se si
pensa, per esempio, al modo in cui un gruppo di storici indiani ha rinnovato in profondità il modo di
guardare alla storia dell’India coloniale (mi riferisco all’esperienza del collettivo che ha dato vita
all’esperienza dei «Subaltern Studies») si vede che lì c’è un’intenzione teorica che è profondamente
affine a quella dell’operaismo: restituire dignità e statuto di soggetto ai contadini, ai milioni di senza
nome che hanno condizionato e determinato in profondità lo sviluppo dello stesso dominio
coloniale in India. Questo, ripeto, l’ho qui detto in poche battute, vi si può tornare con più
sistematicità: secondo me è il principale aspetto che credo debba essere valorizzato dell’operaismo.
A questo aggiungerei anche una considerazione della politica che tiene insieme il lato delle
istituzioni, il lato dei processi sociali, il lato della costruzione di soggettività da parte delle
istituzioni, ma anche, contemporaneamente, la spinta che viene dalla contestazione dei limiti e dei
confini di questa soggettività costruita dalle istituzioni, dai processi autonomi di “soggettivazione”
per così dire.
Se devo parlare dei limiti dell’operaismo, qui è da una parte più facile e dall’altra più difficile. E’
più difficile perché bisogna anche dire che la stessa definizione di operaismo è discutibile: è una
definizione molto larga, che tiene insieme momenti storici ed elaborazioni soggettive diverse. Io
personalmente, rispetto a quel tanto di esperienza e patrimonio teorico operaista che continua a
circolare nel nostro paese, nei circuiti di movimento in particolare, ritengo che il limite maggiore sia
quello di indulgere di tanto in tanto a una sorta di organicismo di fondo, per cui questo soggetto di
cui parlavo prima non è più la spinta soggettiva ma è un soggetto già formato, già interamente
disposto al comunismo ecc. Il secondo limite, e questo forse vale più del primo per l’operaismo
complessivamente considerato, è una sorta di progressismo implicito nel paradigma operaista.
Come dicevo, vale probabilmente per l’operaismo complessivamente considerato, anche se poi
bisogna fare molte distinzioni: per progressismo implicito intendo ovviamente il riferimento
costante al punto più alto dello sviluppo come punto in cui più alte sono anche le potenzialità di
rottura, secondo la famosa lezione di Lenin in Inghilterra di Tronti. I due limiti si sono ovviamente
legati molto spesso e continuano a legarsi, per cui la ricerca del punto più alto dello sviluppo
diventa immediatamente la ricerca del soggetto già formato attorno a cui può determinarsi quella
che magari viene nominata in altro modo ma continua ad essere pensata come la ricomposizione di
classe; e tutto questo, soprattutto nelle condizioni attuali, tende secondo me non di rado ad assumere
dei caratteri un po’ misticheggianti…

- Hai parlato di due punti di riferimento per te particolarmente importanti: Tronti da una parte e
Negri dall’altra. Secondo te, sul livello delle loro proposte teoriche, quali sono gli elementi che
li uniscono e quali quelli che li differenziano?

Le cose che li uniscono sono sicuramente, dal punto di vista banalmente evenemenziale, l’internità
ad una fase specifica di sviluppo dell’operaismo nel nostro paese, che è quella caratterizzata poi
dall’esperienza di Classe Operaia; e quindi la condivisione di una serie di tesi sulla centralità della
fabbrica in quella fase, sulla centralità di quel soggetto che veniva chiamato da Negri, sulla scorta di
indicazioni fondamentali di Romano Alquati, operaio-massa, da Tronti la rude razza pagana.

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Sempre rispetto a quegli anni c’è senz’altro il tentativo di rileggere Marx sottraendolo al
gramscismo dominante, quindi di rileggere Marx accentuando gli elementi di comprensione del
processo di produzione capitalistico e sottraendolo quindi all’ipoteca gramsciana del concetto di
egemonia e dellavolpiana della filosofia della storia. In queste cose sicuramente condividono molto
Negri e Tronti. Paradossalmente in Negri c’è, più precoce che in Tronti, l’interesse per la
dimensione politico-istituzionale: Tronti comincia ad occuparsi di queste cose negli anni ’70
fondamentalmente, mentre Negri scrive i primi saggi importanti sulla costituzionalizzazione del
lavoro, sulla storia del partito, nei primissimi anni ’60. Questo è un tratto sicuramente un po’
paradossale, perché è poi Tronti semmai quello che pone l’accento sull’autonomia del politico e
Negri notoriamente ne è il critico radicale. Se invece devo indicare la principale distinzione ed
elemento di differenza tra Tronti e Negri, credo che consista in un diverso modo di leggere il
soggetto, e tra l’altro entrambi i modi non li trovo soddisfacenti, per quanto siano (è giusto
ripeterlo) modi di pensare che mi hanno profondamente influenzato. Da una parte in Tronti c’è una
considerazione del soggetto che è fin dall’inizio un po’ fantasmatica: penso che anche la vecchia
critica marxista un po’ ortodossa che è stata fatta a Tronti fin dagli anni ’60, cioè quella consistente
nel rimprovero di distinguere ciò che in Marx non può essere distinto, ossia il processo di
produzione, il processo lavorativo, e il processo di valorizzazione, colga in qualche modo nel segno.
Penso che ci sia da parte di Tronti, fin dai primissimi anni ’60, questa ansia di trovare sul terreno
del lavoro, quindi sul terreno della fabbrica, degli elementi di concretezza soggettiva che sul terreno
della valorizzazione, quindi della società, gli sfuggivano continuamente di mano. Per cui molto
spesso, rileggendolo oggi ovviamente, si ha l’impressione che anche l’assoluta densità e
concretezza storico-sociale del soggetto operaio che all’interno della fabbrica viene analizzato da
Tronti, rechi traccia di quella natura appunto fantasmatica che gli deriva da una vera e propria ansia
e angoscia di ogni elemento di soggettività invece sul terreno più largamente sociale, dove
predominano i consumi, dove predominano elementi di integrazione e di anomia. Da questo punto
di vista credo che, rileggendo il Tronti degli anni ’60, si potrebbero trovare (e c’è qualcuno che sta
cominciando a farlo) dei collegamenti interessanti con la sociologia americana di quegli anni:
l’impressione è che il suo soggetto sia un po’ pensato sul rovescio della sociologia americana degli
anni ’50 e ’60, insomma da Galbraith a David Riesman, La folla solitaria. Sarà che sono un po’
influenzato da un testo che ha scritto un compagno milanese che si chiama Damiano Palano, che ho
letto giusto ieri e che argomenta proprio questo tipo di influenza, tutta da dimostrare naturalmente.
In Negri invece il soggetto è sempre pensato con caratteri di pienezza assoluta. E questi caratteri di
assoluta pienezza del soggetto sono quelli che diventano poi in Negri predominanti a partire dagli
anni ’70, quando trovano filosoficamente una sorta di sanzione attraverso la riscoperta di Spinoza (e
non mi sogno minimamente, a questo proposito, di mettere in discussione la straordinaria carica
innovativa che ha avuto la rilettura dell’olandese proposta da Toni: il punto è semmai che non mi
convincono certe trasposizioni meccaniche di categorie spinoziane sul terreno della lettura critica
del presente). Però, nel complesso, per quanto secondo me Negri negli ultimi anni sia stato anche
più attento di Tronti a recepire quanto di nuovo viene dal dibattito internazionale e via dicendo,
credo che ci siano degli elementi di sostanziale parallelismo nello sviluppo teorico di questi due
autori. Io, ripeto, personalmente non sono molto convinto né dall’una né dall’altra immagine del
soggetto che ci viene proposta, perché ho l’impressione (e questo appunto riguarda una buona parte
dell’operaismo italiano, Tronti e Negri non sono tutto l’operaismo italiano ma sono sicuramente una
buona parte) che ci sia un tratto molto formale, per dirla in due parole, dell’immagine del soggetto
che emerge dall’esperienza dell’operaismo italiano complessivamente considerata, se la si legge in
termini teorico-concettuali. Poi se si vanno a vedere le mediazioni pratiche, i rapporti con le lotte,
soprattutto negli anni ’60, è ovvio che il giudizio è diverso. Però, ho davvero l’impressione che non
ci sia nell’operaismo italiano lo spazio per una riflessione sui processi di costituzione della
soggettività, che sono anche processi che costringono, tanto più nel nostro presente, a ragionare con
gli elementi di scissione della soggettività, gli elementi di sostanziale deprivazione che
caratterizzano le figure contemporanee della soggettività. Faccio un esempio: noi oggi stavamo

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parlando delle questioni delle migrazioni, e io su questo ho scritto alcune cose, sto continuando a
scriverne, e una delle tesi che ho avanzato l’ho tra l’altro ripresa da un lavoro affascinante e di
grande interesse fatto da un operaista non italiano ma francese, cioè Yann Moulier, che è comunque
assolutamente influenzato dallo sviluppo dell’operaismo italiano. Una delle tesi che ho dunque
avanzato, sulla scorta appunto di questo lavoro di Yann, è che delle migrazioni debba sempre essere
posto in rilievo l’aspetto soggettivo. Questa è una tesi che nella mia esperienza politica ha avuto un
versante immediatamente polemico: il migrante nell’immaginario della sinistra italiana ha fatto
capolino tra gli anni '80 e gli anni ’90 come soggetto sostanzialmente debole, come soggetto
meritevole di assistenza se non di carità nelle componenti di cultura politica più influenzate dal
volontariato cattolico all’interno della sinistra. Porre invece in evidenza gli aspetti soggettivi delle
migrazioni significava dire che qui siamo di fronte a delle figure soggettive che hanno comunque
una capacità di incidere sul loro destino. E la categoria che io ho proposto di impiegare è quella di
diritto di fuga: il diritto di fuga praticato dai migranti come elemento di dinamicizzazione sociale, a
cui si contrappongo i limiti posti alla mobilità del lavoro dal capitalismo lungo l’arco intero della
sua storia. Leggere le migrazioni in questo modo secondo non è poi particolarmente originale
perché, ripeto, da questo punto di vista riprendo molte cose da Yann Moulier, ma sicuramente
produttivo. Leggere cioè le migrazioni nel campo di tensione determinato da una parte dalla critica
pratica della divisione internazionale del lavoro che con la decisione di abbandonare il loro paese i
migranti esercitano; dall’altra parte la proliferazione dei confini contro profughi e migranti come
ultima figura in cui si esprime una tendenza che caratterizza nel suo ciclo lungo il capitalismo
storico. Quindi, è evidente che da questo punto di vista io riprendo la lezione operaista, nel punto
che in precedenza ho indicato come maggiormente meritevole di sviluppo; però,
contemporaneamente, se noi prendiamo la figura soggettiva dei migranti e, anziché limitarci a
vedere la taccia di una spinta soggettiva nei movimenti migratori, ci vediamo una soggettività già
formata, allora francamente ho l’impressione che produciamo dei risultati caricaturali. Così
facendo, non ragioneremmo su quegli elementi altrettanto reali ed effettivi di quelli che ho in
precedenza sottolineato, della frantumazione dell’esperienza, della segmentazione sociale degli
immigrati al loro interno, dei rapporti con le forze del lavoro considerate nella loro interezza ecc.,
che sono indispensabili da tenere presenti per dare una lettura complessivamente soddisfacente dei
fenomeni legati alle migrazioni. E penso che tutto questo non ci parli soltanto della condizione e
della soggettività dei migranti, ma di un problema più generale che vive al cuore del lavoro vivo
contemporaneo. Per cui da una parte c’è una moltiplicazione delle istanze soggettive che
funzionano come elemento che sia sul piano globale sia sul piano locale (per usare l’endiadi che va
di moda oggi) assicurano la vitalità e la dinamicità dello stesso modo di produzione capitalistico;
però, contemporaneamente, queste istanze soggettive non possono essere ricondotte né alla forma
vuota di una soggettività costruita sul rovescio dell’astrazione del lavoro che costituisce il
capitalismo (questa diciamo che è la soluzione Tronti, così come la sto stilizzando), né invece nella
forma piena in cui viene pensata da Toni Negri.

- Secondo me in Negri, quando c’entra il soggetto, si tratta di soggetto capitalistico. I due saggi
che sono usciti su Operai e stato sono gli unici che ricercano una posizione di cerniera fra un
livello molto alto, su cui solitamente lui si muove, e un livello più basso. Hanno dunque questa
capacità, però sono sulla dimensione del soggetto capitalistico. Sulla dimensione di parte
operaia grandi cose che abbiano lasciato il segno non ce ne sono molte. Tronti si è mosso
soprattutto su un tentativo di ridefinire la politica e il politico in termini diversi, cosa che
peraltro sta tutto sommato cercando di fare anche adesso. In Negri non c’è assolutamente il
discorso del processo, e con questo ci si spiega anche il perché, nonostante l’aver sempre
cercato di decantare alcuni momenti particolari di nuove figure sociali, non è però mai arrivato
alla compiutezza del costruire la teoria complessiva.

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Lo intendo in qualche modo come sinonimo di quello che prima chiamavo lo spazio di costruzione
del soggetto, che è sempre una costruzione processuale. Su questo sono abbastanza d’accordo. Mi
sembra eccessivamente netta la tesi secondo cui in Negri c’è esclusivamente soggetto capitalistico:
o, se invece la assumiamo come tale, può forse però essere generalizzata per l’insieme delle
esperienze operaiste.

- Infatti, se si prendono i Quaderni Rossi, si vede che c’è soprattutto il soggetto capitalistico. Si
pensi al tipo di fraintendimenti che c’è stato ad esempio rispetto al Frammento sulle macchine,
ma anche in parte sulle nuove forme di lettura del capitale. L’unico che cerca di cimentarsi sul
discorso del processo è Alquati. Ma per il resto ci si spiega anche come mai non si sono fatti i
conti con il discorso della soggettività, che in realtà non è mai diventato terreno di analisi e di
ricerca teorica.

Credo che, in particolare negli anni ’70, ci sia stata continuamente una sovrapposizione tra due
diverse valenze della categoria di soggetto che, in termini molto generali e per nulla rigorosi,
potremmo definire una valenza astratta e una valenza concreta. Per cui da una parte c’era un
concetto di soggettività (e questo forse può essere un altro modo in cui leggere la vostra
affermazione di prima) che era tutto costruito sul rovescio speculare del concetto marxiano di
lavoro astratto; e dall’altra parte c’era l’esplosione delle soggettività, c’erano le soggettività che
venivano inseguite in modo anche molto efficace sul terreno dell’inchiesta e via dicendo. Quello
che è sempre mancato è stato un elemento di mediazione tra questi due aspetti di riflessione sulla
soggettività.

- Negli anni ’70 quello che si è riusciti a costruire in termini di anticipazione, e che è stato
sviluppato soprattutto all’interno del ciclo delle riviste, si è dato in una dimensione particolare.
Noi ipotizziamo che ci siano state alcune persone che a livello teorico hanno dato una direzione
precisa, ma si contano sulla punta delle dita: anche all’interno dell’operaismo era una ristretta
cerchia quella di chi era dotato di un’effettiva autonomia di elaborazione e capacità di
direzione. Poi c’è stata una committenza di movimento, che faceva delle richieste politiche
precise, e in mezzo c’è stata la formazione di una soggettività intellettuale e militante che ha
lavorato tra questa direzione data da poche persone e il discorso sottostante di richiesta di
movimento. In questo si spiega la grossa differenza di cui tu prima parlavi tra anni ’70 e anni
’80: tutto questo strato di intellettualità oggi lo ritrovi in buona parte all'interno dell'università
o in altri ambiti con una funzione molto specialistica.

Dell’università meno, lo ritrovi più all’interno delle imprese.

- La produzione, elaborazione e ricerca di qualcosa di parzialmente altro è finita nel momento in


cui è cessata la spinta dei movimenti e delle lotte. Ciò perché comunque questo strato diffuso
non aveva un’autonomia sua propria di elaborazione. Anche per quanto riguarda le riviste si
vede come esse fossero molto legate ad un discorso di contingenza, di lettura di determinati
bisogni che venivano dai movimenti e dalle lotte, però nel complesso non c’è stata la ricchezza
di avere una dimensione autonoma di elaborazione teorica effettiva.

Questo però è un po’ un problema generale dei movimenti.

- Però, in quel momento c’è stata una situazione particolare per cui una direzione politica di
indicazione precisa, data principalmente dall’operaismo, e una richiesta di committenza
politica da parte dei movimenti hanno fatto sì che si formasse questo strato di elaborazione
diffuso.

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Se si guarda allo sviluppo del movimento in Germania, in Francia o a quello degli afroamericani
negli Stati Uniti, non è mica che le cose stiano in modo molto diverso...

- Però, sono stati molto più limitati come elaborazione scientifica e teorica. Questo perché la
potenza del movimento in Italia non era da poco, quindi si deve tenere conto che una serie di
sconfitte non sono date solo da ciò che pensano coloro che su questo hanno una posizione
molto autogiustificativa rispetto ai propri errori: secondo alcuni, infatti, il movimento si
sarebbe trovato in una tenaglia che era costituita da una parte dalla repressione e dall’altra
dai combattenti. Bisognerebbe invece guardare e analizzare quelli che sono stati i limiti e gli
errori dei propri percorsi. Quindi, non era quello il problema, bensì che anche all’interno
dell’Autonomia non c’era comunque una maturità in termini di progettualità tale da essere in
grado di muoversi in una prassi di alterità effettiva.

Il problema è proprio questo, su questo sono d’accordo. La questione è che, se si va a vedere il ciclo
dell’Autonomia nel suo momento conclusivo, cioè nel momento che è al tempo stesso quello più
alto e quello conclusivo, cioè fondamentalmente il ’77-’78, si vede chiaramente che lì è mancata la
capacità di dare risposta a un problema politico che emergeva in modo assolutamente chiaro dal
movimento. Era un movimento che aveva raggiunto un livello di espansione orizzontale rispetto a
cui era difficile pensare di andare oltre: il problema era quello della politica. E il fatto che il
problema della politica non sia stato affrontato e risolto in modo efficace da nessuna delle
molteplici componenti dell’Autonomia, spiega secondo me anche (oltre a tanti altri fattori) per
quale ragione determinate ipotesi combattenti abbiano avuto la credibilità e la forza che hanno
avuto anche dentro il movimento tra il ’78 e l’80. Ed è per questo quindi che è sbagliato, anche a
mio giudizio, ricondurre la sconfitta del movimento alla tenaglia tra le forze combattenti e la
repressione dello Stato, perché lì c’era un problema politico specifico che nessuno è stato in grado
di affrontare in modo efficace. E il fatto che sia venuta meno questa capacità di proposta politica ha
contribuito, come dicevo, ad aprire gli spazi in cui una proposta politica come quella combattente
ha avuto una sua credibilità, ha riscosso i suoi successi.

- C’è da dire che il nodo di svolta non è stata la fine ma l’inizio degli anni ’70. In realtà, la
dimensione cosiddetta combattente è un cortocircuito dato dall’incapacità di dare allo sviluppo
delle lotte una dimensione politica. Un discorso di ricomposizione di classe era molto più
difficile da articolare, anche perché i movimenti è vero che poi si sono diffusi durante tutti gli
anni ’70, però non sono stati una marea che è venuta avanti, ma sono stati degli arretramenti e
degli avanzamenti abbastanza repentini o articolati. Tra il ciclo di lotte precedenti (che era
quello degli studenti e delle grosse fabbriche della fine degli anni ’60, che nel ’70-’71 era già
finito come sviluppo effettivo delle lotte), e poi il ’77 c’è un periodo di stasi abbastanza lungo.
Molti militanti si sono poi riciclati all’interno del movimento del ’77, però c’è stata questa
stasi. E tutto sommato c’è stata una trasformazione del soggetto e della soggettività che ha
costruito le lotte. Le lotte nel ’77 sono differenti da quelle precedenti non solo per la
composizione tecnica, ma anche per la composizione politica e soggettiva di chi vi è stato
all’interno. Però, dopo questo primo ciclo di lotte della fine degli anni ’60 e dell’inizio dei ’70
c’è un cortocircuito nella dimensione del far politica, nel senso che il radicamento di una
progettualità altra è incapace di darsi una consistenza materiale, per cui diventa molto più
facile il discorso dell’azione esemplare perché dà la risposta politica immediata, come risultato
che porti a casa. L’azzoppare il caporeparto della Fiat sicuramente ha un significato politico
ma soprattutto di forza centrata sulla soggettività individuale e di piccoli gruppi, e ripropone
dei rapporti di potere e di forza all’interno della situazione specifica. E’ allora avvenuto questo
cortocircuito che è stato seguito da tutti: col senno di poi si vede che anche Lotta Continua si è
mossa su questo terreno, così come Potere Operaio e quella che è stata l’Autonomia. Agli inizi
degli anni ’70 come capacità di forza combattente era più forte quella di questi gruppi che

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quella delle Brigate Rosse. L’unica scelta che aveva caratterizzato le BR era quella della
clandestinità e poi dell’innalzamento del tiro, dietro a cui c’era anche tutto un gioco
massmediatico. In realtà, però, chi ha cominciato la lotta armata in Italia non sono state le
Brigate Rosse, ma è stata l’Autonomia. Tutto ciò è avvenuto su un cortocircuito: al posto di far
funzionare l’uso della violenza come dimensione per potenziare e per portare avanti le lotte su
un terreno diverso, c’è stata la sostituzione: cioè, non la costruzione dei rapporti di forza alle
lotte ma invece la costruzione dei rapporti di forza a un certo tipo di azione.

Bisogna anche dire che le lotte stavano cambiando, i protagonisti erano diversi.

- Per esempio, qual è stata l’esperienza di Rosso? Questo è probabilmente il giornale più
significativo, come rivista che si lega al movimento ma con una capacità di elaborazione
teorica. La sua forza è stata nel cogliere alcune anticipazioni nel cambiamento della
composizione tecnica ma anche politica di alcune sezioni e aggregati di classe all’interno del
movimento; però, non gli ha dato assolutamente progettualità. Una delle insufficienze più
grosse di Negri è stata che, se da una parte ha avuto un intuito e un fiuto nel cogliere il
cambiamento del tempo e delle situazioni, dall’altra parte però ha per esempio giocato in
termini completamente sbagliati un discorso di radicalizzazione delle cose. Lui ha puntato
sull’irreversibilità dei rapporti di forza costruiti, facendone una questione distruttiva, senza
sapere muoversi in una dialettica in cui i movimenti crescono e scendono a seconda di diversi
fattori, ma in cui tu devi sedimentare una forma di soggettività e di presenza.

Ciò pone un problema banalmente di partito.

- Di organizzazione, di proposta, ma soprattutto di progetto.

E ci deve essere il soggetto che lo fa.

- E una soggettività che lo materializza e lo sostiene. Su quel terreno lì bisogna capire il perché
determinate cose non hanno funzionato, senza andare a dare la colpa a questo o a quell’altro,
ma ponendosi in termini autocritici rispetto a come in prima persona ci si è mossi. In Negri c’è
una certa riproposizione dello stesso modello anche nel costruire le riviste.

Che il modello sia sempre lo stesso è vero, però lo è stato più sulle operazioni Futuro Anteriore e
Riff Raff di quanto non lo sia adesso su Posse, che è una rivista sostanzialmente minoritaria, cioè di
minoranza.

- Romano ha formulato un’importante ipotesi rispetto all’operaismo. Lui sostiene che


l’operaismo si è mosso all’interno di un particolare poligono, con i cui vertici ha cercato di
fare i conti, riuscendovi solo in parte o non riuscendovi proprio. Un vertice è costituito dalla
cultura: tutto sommato una critica effettiva non è mai stata sviluppata, e i modelli sono rimasti
quelli della cultura esplicita gramsciana, la cultura umanistica, e dell’intellettuale organico
tradizionale. L’altro vertice è rappresentato dagli operai e dalla loro soggettività, che è il nodo
mai realmente affrontato. Questo limite, quando non vera e propria rimozione del discorso
della soggettività, fa ad esempio sì che oggi una rivista come Posse parli della cooperazione
sociale della cosiddetta moltitudine come se questa nascesse spontaneamente e portasse
oggettivamente in sé, immanente, l’istanza di liberazione e di comunismo: ci si appella ai
bisogni della classe, ma non ci si chiede cosa questi siano in una fase di colonizzazione
capitalistica della soggettività, e se eventualmente esistono delle differenze tra i bisogni e i
desideri e soprattutto tra questi e i desideri radicali. Ma allora subentrerebbe il problema di
capire come questi si possono formare. Qui come altrove si guarda non certo alla composizione

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politica (e soprattutto ricomposizione, il che implica il processo), bensì alla composizione
tecnica: l’unico problema diventa quindi quello di liberarla da un comando capitalistico visto
come inessenziale e parassitario, che arriva rapacemente a sovradeterminare un fenomeno
spontaneo rispetto a cui non c’entrerebbe nulla. Un altro nodo importante è rappresentato dai
giovani e dalla condizione generazionale, che ha avuto un peso non solo se riferito ai
movimenti studenteschi ma anche se si guarda alla composizione soggettiva di chi ha dato vita
a certe esperienze. Infine, fondamentale è il vertice della politica, su cui tu hai particolarmente
focalizzato l’attenzione. Qui c’è la distinzione tra la politica e il politico, nodo che Tronti in
modo particolare ha affrontato rielaborando criticamente Machiavelli, Hobbes, Schmitt e altre
grandi figure del pensiero politico moderno. Alcuni anni fa, ad esempio, tu avevi fatto un
articolo su DeriveApprodi in cui notavi che in Negri, soprattutto nel suo discorso su Spinoza
c’era stato un appiattimento della categoria del comunismo su quella della democrazia, cosa
che ad esempio in Tronti non avviene. Dovendo analizzare questa ipotesi, quali di questi nodi
secondo te rimangono aperti e cosa può essere ripreso in chiave di rielaborazione critica
ripartendo dai limiti e dalle ricchezze delle esperienze operaiste?

Mi viene la tentazione di rispondere almeno in prima battuta in modo molto breve e reciso. Nel
poligono di cui avete parlato mi sembra che manchi un elemento fondamentale, che collega tutti i
poli che Romano nomina, e che contemporaneamente propone anche un punto di vista parzialmente
diverso sulla questione della discontinuità tra le lotte della fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni
’70 e quelle della seconda metà degli anni ’70 che prima voi richiamavate: questo elemento è
costituito dal movimento operaio. Nel senso che il percorso dell’operaismo attraversa la storia del
movimento operaio, tra l’altro un movimento operaio particolare come quello italiano; ma credo che
Romano sia più di me consapevole del fatto che la stessa storia del movimento operaio
internazionale (pensiamo a quello che ha significato il ’56) abbia pesato molto nell’avvio del
percorso degli operaisti italiani. Il percorso dell’operaismo attraversa quindi la storia del movimento
operaio, ma poi a un certo punto coincide con la parabola lunga della sua crisi. La differenza di
fondo che c’è tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 e gli anni ’80 e oggi è che non c’è più il
movimento operaio, non c’è più il movimento operaio come categoria fondamentale per leggere la
costituzione materiale della società, per leggere la posizione degli operai e dei lavoratori dentro la
società, per leggere le forme di socializzazione dei giovani, per leggere la politica evidentemente,
ma anche per leggere la cultura. Questo mi pare un nodo su cui negli ultimi anni, all’interno del
variegato dibattito operaista e postoperaista, si è riflettuto troppo poco. Cioè, che cosa significa la
crisi del movimento operaio ma, ripeto, come categoria storica, non come categoria costituzionale?
E da questo punto di vista sicuramente noi viviamo in Occidente e in Italia la crisi del movimento
operaio, che non vuol dire fine della classe operaia, non vuol dire tutte queste balle qua. Vuol dire
che quello che è stato per un lungo tratto storico un elemento fondamentale della costituzione
materiale al cui interno tutti noi ci muovevamo, è venuto a mancare. Questo è un elemento di
discontinuità fortissimo, qua ritorno anche al problema che ponevate voi prima. Nonostante tutto io
credo che sia più interessante dal punto di vista del presente ragionare su quella che è stata
l’esperienza dei secondi anni ’70 che su quella che è stata l’esperienza della fine degli anni ’60 e dei
primi anni ’70. Perché quell’esperienza là bene o male si svolgeva in condizioni di cui a me
personalmente riesce difficile immaginare la riproduzione in futuro, mentre invece l’esperienza del
movimento italiano degli anni ‘70 avanzati è la prima esperienza che cerca di porre il problema
della politica in una situazione che è già caratterizzata dal declinare del movimento operaio inteso
così come dicevo prima. Su questo credo che si dovrebbe ragionare un pochino di più, perché certe
ipotesi politiche dell’operaismo degli anni ’60 davano per scontato anche il discorso che voi prima
giustamente richiamavate a proposito dell’irreversibilità dei rapporti di forza costruiti durante la
lotta. Bene o male era un discorso che dava per scontato che ci fosse una forma costituzionale
specifica nelle società capitalistiche occidentali, in cui esistevano delle strutture materiali su cui i
rapporti di forza si sedimentavano: a un certo punto questa cosa è venuta meno e oggi viviamo in

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una situazione che è caratterizzata dalla palese assenza di strutture di questo genere. Perché poi
anche il discorso secondo cui le lotte sono state cicliche nella fase della produzione di massa e oggi
possono essere soltanto momenti di insorgenza puntuale, ha probabilmente qualche tipo di
corrispondenza nelle trasformazioni della composizione tecnica di classe ecc., però credo che non
possa essere letto come fatto significativo dal punto di vista politico senza fare i conti con questo
problema che appunto, molto sinteticamente ma dando all’espressione un’accezione diversa da
quella corrente, chiamo crisi o fine del movimento operaio. Fine di una forma politica al cui interno
si determinava sedimentazione, si determinava accumulazione di forza, si determinavano processi
di soggettivazione, cosa molto importante: oggi processi di soggettivazione dove si determinano?
Questo è il problema, questa è la ragione per cui probabilmente per pensare la politica oggi, per
quanto dall’operaismo, dalle stesse esperienze del movimento influenzato dall’operaismo italiano,
possano essere tratte indicazioni importanti, bisogna andare oltre.

- C’era uno schema fatto da Yann Moulier in occasione di un convegno tenutosi a Montreal alla
metà degli anni ’80 e che è legato soprattutto alla composizione tecnica, anche se è presentata
più come composizione politica. Viene comunque affrontato un discorso su composizione,
ricomposizione, scomposizione di quelli che sono i cicli di lotta e la composizione di classe. Lui
aveva fatto uno schema di crescita della forma organizzativa, di partito, che forse era un po’
meccanico, per cui a un certo punto della composizione si dà la rottura, poi il ritorno e via di
questo passo. In parte c’è però il dato di fatto che la composizione politica, e quindi la
peculiare dimensione di un certo tipo di figura operaia, sociale o come si vuole, viene fuori
dopo che questa figura già si è sviluppata in termini ampi all’interno di un contesto di
accumulazione capitalistico, e viene fuori soprattutto quando c’è una strettoia nella realtà
capitalistica. Tra quella che è la composizione tecnica e politica dell’operaio-massa e quella
che è la composizione tecnica e politica del cosiddetto operaio sociale c’è una grossa
differenza: sia in Italia negli anni ’60 sia a livello anche americano e mondiale, la forma del
conflitto dell’operaio-massa viene fuori dopo 30-40-50 anni che c’era questa figura sociale.

Composizione tecnica e composizione politica secondo me sono strumenti molto efficaci, a cui io
sono parecchio legato, che però vanno maneggiati con cura, nel senso che non è sempre facilissimo
distinguere la composizione tecnica dalla composizione politica.

- E’ un processo in cui ci sono intersecazioni.

Sono fatte per intersecarsi.

- Anche Negri in alcuni momenti ha detto che l’operaio sociale era un’anticipazione di una
figura che doveva comunque ancora formarsi, e certi livelli di conflitto peraltro li ha messi in
campo quasi solo in Italia.

Qui entriamo in un’altra categoria su cui riflettere. L’operaio sociale secondo voi è una figura che
oggi vale la pena riproporre? Non è da questo punto di vista più utile, anche se forse meno
promettente, usare banalmente la categoria di lavoro sociale in senso marxiano? La categoria di
operaio sociale ha in sé il rischio di dare per risolto il problema del processo di soggettivazione.

- Il problema infatti va posto in termini diversi. Ad esempio, Romano parla di operaietà. Nella
tradizione socialcomunista, ma anche alla fin fine in buona parte della tradizione operaista e di
una certa sinistra critica e radicale, l’operaio è stato sostanzialmente identificato come il
produttore artefattivo, ed in particolare come colui che usa esclusivamente le mani e i muscoli.
Questo ha poi permesso, in una determinata lettura di quello che viene chiamato il
postfordismo, di vedere l’erogazione di alcune facoltà nel processo produttivo (intellettuali,

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cognitive, timiche, relazionali ecc.) come un qualcosa di radicalmente nuovo, come se l’operaio
classicamente inteso, il lavoratore artefattivo non usasse tali capacità. Sicuramente c’è oggi
una diversità quantitativa nella composizione delle facoltà richieste dal processo produttivo,
dall’altra parte non è vero che vengono erogate capacità una volta non richieste. L’operaietà
non è dunque una questione di mani e muscoli, ma ha a che fare con le determinanti soggettive,
fino ad arrivare alla mai indagata soggettività. C’è stata una fase transitoria in cui la
soggettività operaia ha dimostrato alcune (ma non altre) determinanti soggettive di alterità
rispetto a quelle di una soggettività colonizzata dal padrone collettivo. Di ciò non si rende
conto chi pensa che l’unico problema consista nell’eliminare il comando capitalistico per
liberare la composizione tecnica della classe o della moltitudine, senza analizzare che cos’è
soggettivamente quella cooperazione sociale di cui si parla e quei bisogni evocati come custodi
di immanenti istanze teleologicamente dirette verso il comunismo. Già verso la fine degli anni
’60 le lotte operaie avevano imboccato la strada del declino, ben prima che i movimenti
finissero e si frantumassero. Dunque, per una certa fase si è espressa una soggettività operaia
che sicuramente non era del tutto antagonista, ma che aveva delle determinanti soggettive che,
incontrandosi in una cicolarità virtuosa con una certa soggettività politica, offriva delle
possibilità di esplorare un potenziale contropercorso. Una volta che le lotte operaie hanno
imboccato la strada del declino, unitamente ai limiti e agli errori della soggettività politica
antagonista, si è progressivamente giunti ad una fase di chiusura in cui la soggettività operaia
è tornata ad essere quella dell’altra metà del padrone. Quindi, se non è questione di mani e di
muscoli ma centrali sono le determinanti e le prerogative soggettive, Romano pone l’ipotesi
della possibile ricerca di una nuova operaietà. Dunque, si tratta di un qualcosa di molto
diverso dall’ipotesi dell’operaio sociale o a quelle dell’individuazione di possibili figure
centrali e ricompositive (il lavoratore autonomo, ora si parla di cognitariato ecc.), che però
hanno spesso guardato solo a quale era una figura ipotizzata come centrale nel sistema
produttivo capitalistico (che poi lo fosse oppure no è tutto da discutere), interpretando le
competenze tecniche e lavorative come capacità immediatamente politiche e rivoluzionarie, in
ogni caso trascurando quelle che erano le determinanti soggettive e la soggettività.

Trovo molto interessante il ragionamento di Romano, però quella di soggettività è una categoria
che, usata in questo senso, è difficile da afferrare, perché si presta troppo a una riduzione in chiave
psicologistica che non è certo quello a cui pensa lui.

- Sicuramente vanno tenuti insieme più livelli. Lasciando da parte la tradizione socialcomunista,
va detto che anche buona parte di coloro che hanno portato avanti punti di vista altri hanno
troppo poco ragionato sui livelli differenti della questione, nei loro momenti di intersecazione,
di distinzione e di rottura. Ci sono differenti tipi di soggettività: collettiva e individuale,
proletaria e operaia, di classe e politica. Bisogna capire su che livelli si pongono le une rispetto
alle altre, quali ne sono certe determinanti, come si intersecano e come si divaricano, come si
formano e come si controformano. Senz’altro non è una questione esclusivamente psicologica o
antropologica, anche se poi i discorsi psicologici e antropologici non vanno esclusi ma stanno
dentro un discorso complessivo fatto di livelli che vanno guardati nella loro totalità (e anche
questo è stato spesso ignorato). Confondendo o separando i livelli in modo rigido si rischia o la
riduzione ad un punto di vista esclusivamente psicologico o psicanalitico, magari
specializzandosi (cosa che in alcuni casi si può anche vedere dal percorso dei singoli soggetti
interni a determinati ambiti e percorsi), oppure, all’opposto, si può riproporre delle categorie
che, pur non arrivando al meccanicismo della struttura e della sovrastruttura del più becero
materialismo storico, finiscono tuttavia per trascurare o addirittura rimuovere le determinanti
soggettive. Il discorso è dunque quello di muoversi su più livelli all’interno di un quadro
complesso, con uno sguardo ambivalente. Ci sono quindi diversi livelli di soggettività che si
integrano, si misurano e talvolta si contrappongo. Una cosa è dunque la soggettività politica e

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un’altra è la soggettività operaia o proletaria, e non solo in dimensioni individuali o collettive,
ma anche nella considerazione del dove si mira. Però, magari in alcuni momenti questi livelli si
intersecano e danno una certa dimensione. Il processo rivoluzionario è il convergere in un
determinato momento di soggettività collettive profondamente differenti e su più livelli. Una
cosa sono i momenti di conflitto e un’altra è la dimensione di partito, di organizzazione, di
progetto.
Nell’ambito di queste interviste noi spesso chiediamo quali sono i cosiddetti numi tutelari, ossia
persone, figure, autori di riferimento nell’ambito del percorso politico e culturale: quali sono i
tuoi numi tutelari, da una parte a livello generale e dall’altra nello specifico del tuo percorso di
ricerca sulla politica?

Beh, sicuramente Toni Negri, l’ho già detto, per me è stato importante. E’ una domanda un po’
difficile, perché un conto sono gli autori che hanno avuto un ruolo importante nella formazione, un
conto sono quelli che reputo importanti oggi. Citerei i classici: Machiavelli, Hobbes, Marx. Ma
anche il marxismo nero formatosi nel grande spazio atlantico, C.L.R. James primo tra tutti. E una
lettura specifica della storia americana, anch’essa non a caso fatta circolare in Italia da storici di
formazione operaista, da Bruno Cartosio a Nando Fasce (senza dimenticare il ruolo svolto da
Ferruccio Gambino). E poi, per quanto riguarda il mio percorso formativo, i lunghi anni che ho
dedicato allo studio delle scienze del diritto, della società, dello Stato in Germania tra Otto e
Novecento: diciamo, per fare due nomi noti, Weber e Schmitt.

- Parliamo allora di autori che secondo te possono oggi offrire delle chiavi importanti di
rielaborazione critica, soprattutto con riferimento alla politica.

Io oggi sono molto attento a tutti quei punti di crisi del discorso politico moderno come si è andato
costruendo, tutti i punti di rottura dell’apparente compattezza del soggetto moderno così come è
stato individuato, pensato, costruito in qualità di cittadino. Per cui ho un interesse molto forte per
certe correnti del femminismo radicale statunitense: Carole Pateman, Judith Batler, bell hooks. Dato
che penso poi che ci sia qualcosa di serio, qualcosa che deve essere tenuto fermo in questi discorsi
(per il resto davvero poco interessanti) sulla globalizzazione, credo che questo qualcosa di serio sia
il fatto che effettivamente oggi viviamo in un mondo sempre più unificato e che quindi tutti i
concetti che noi utilizziamo devono essere giocati ponendosi anche la domanda su che tipo di
impatto può avere un determinato concetto in situazioni diverse da quelle in cui ci troviamo a
formularlo. Ultimamente, per esempio, mi è capitato (come è capitato anche a tanti altri) di
rileggere Fanon e di trovare delle cose molto interessanti. Questo non certo pensando che Fanon sia
il nuovo guru da proporre ad esempio agli immigrati, questa è una solenne stupidaggine, però in
termini di individuazione di punti di crisi, di ferite proprio, di scissioni storiche che rimangono oggi
squadernate sul terreno: penso che sia un autore e un versante teorico che vale la pena di tenere
presente. E non a caso la riscoperta di Fanon è centrale all’interno dei cosiddetti studi postcoloniali,
di cui mi sto occupando molto negli ultimi tempi. Faccio due nomi: Dipesh Chakrabarty, un
bengalese che viene dall’esperienza dei «Subaltern Studies» di cui ho parlato prima, e Paul Gilroy,
un inglese black autore tra l’altro di uno splendido libro sull’«Atlantico nero».

- Tra Machiavelli, Hobbes, Lenin e Schmitt, quattro figure centrali nella riflessione sulla politica
moderna, secondo te quale oggi può fornire le chiavi di lettura più importanti?

Davvero, detto sinceramente, penso che tutte e quattro siano figure da tenere ben presenti.
Comunque, se ne devo indicare una provocatoriamente indico quella che sicuramente riscuote meno
simpatia e cioè quella di Hobbes. Questo perché il “mostro di Malmesbury” ci costringe a ragionare
in modo radicale sul livello di scissione che esiste tra l’individualità, che viene pensata come figura
di crisi di ogni assetto naturale di dominio, e la figura della collettività, intesa o come sovranità o

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come rappresentanza. Hobbes ci squaderna di fronte agli occhi il baratro che c’è tra la dimensione
individuale e la dimensione collettiva dell’esperienza politica.

- Mentre Marx viene oggi ripreso in forme sempre più consistenti, una figura che sembra essere
stata abbandonata o rimossa è invece quella di Lenin.

Si sta preparando un convegno internazionale su Lenin che si terrà in Germania, ma è organizzato


da una serie di intellettuali di diversi paesi europei che non sono propriamente tra quelli più
marginali nella situazione contemporanea: uno è Zizek, un filosofo sloveno, un altro è Badieau,
francese. Stanno organizzando un grosso convegno su Lenin e il problema della verità. Questo è del
tutto interno a uno sviluppo di pensiero che si vuole critico. Mentre Marx a momenti viene
recuperato anche dal Finacial Times, qui direi che siamo in un altro ambito. Io credo che Lenin sia
un autore ancora oggi di straordinaria importanza e penso che sia molto importante ragionare sul
tipo di contributo che Lenin ha dato nel pensare la politica (e la verità, appunto) come parzialità, la
dimensione parziale della politica, la dimensione della scissione. Credo che ci sia un ragionamento
tutto sommato ancora oggi di grandissimo interesse se non di attualità sul rapporto tra movimento e
partito in Lenin, tra la dimensione dei Soviet e la dimensione del partito. Penso che tutto sommato il
concetto di tendenza che l’operaismo (almeno l’operaismo rivoluzionario) in buona parte ha
derivato dal saggio giovanile di Lenin Lo sviluppo del capitalismo in Russia, abbia ancora qualche
cosa da dire, nonostante i limiti del progressismo di cui parlavo prima: quindi, è da usare con
cautela ma ancora da utilizzare. Penso che Lenin sia un autore di cui prima o poi dovremo riscoprire
l’attualità.

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INTERVISTA A VINCENZO MILIUCCI – 11 LUGLIO 2000

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e quali sono state le tue prime
esperienze militanti?

Io provengo da una famiglia operaia e quindi ho avuto sempre in casa questi riferimenti: lo scontro
di classe che si viveva in prima persona nel dopoguerra, l’Unità, il giornalino de l’Unità per i
giovani, Il Pioniere, che ci si immagini che all’epoca era completamente filonucleare. Quindi,
tenuto conto che ho sempre convissuto come idee nell’area di sinistra, nelle scuole degli anni ’60
non c’erano movimenti adeguati a quelli che si è poi potuto conoscere successivamente e anche in
epoca attuale, dunque non ci sono state che pochissime manifestazioni più che altro di pensiero
piuttosto che di mobilitazione. L’esperienza del militare che mi ha portato al Nord mi ha fatto
concepire tra l’altro il conoscere tanta disperazione della gente del Sud che veniva mandata lì: io ho
fatto il militare in una zona Nato, una delle più grandi tra le basi d’Italia, e sono arrivato con il
grado di caporalmaggiore, tranquillamente e senza nessuna richiesta, mandavano diplomati e
laureati a fare questo controllo di truppa. Io mi ero portato su un po’ di dischi e tra questi c’era
anche l’Internazionale, e per il primo scaglione che si è congedato ho fatto il presentatarm con
l’Internazionale, ciò in una situazione completamente dominata dalla Nato, negli anni ’65-’66. Così
è stato per gli altri quattro scaglioni che se ne sono andati; per gli artiglieri, che erano poi sotto il
mio “comando”, c’è stato il saluto come si faceva nel circuito militare (nell’emiciclo con
l’alzabandiera ecc.) ma con l’Internazionale che scorreva. Ciò giusto per dire che non era una
boutade, era un fatto che veniva acquisito, non dico che ce ne fosse completamente piena coscienza
ma sicuramente era determinato dalla stima, dal rispetto, dalla solidarietà tra le persone, tra coloro i
quali si sentivano molto simili pur non avendo la percezione politica.
Poi ci fu il ritorno a casa dal militare, la discussione con i primi giovani che partecipavano
nell’università ai fatti post-’66, a Roma c’era stato l’omicidio di Paolo Rossi ancora una volta da
parte dei fascisti; quindi, alcuni di questi che poi diventarono compagni erano universitari e
discutevamo ai muretti dell’epoca che erano i bar. Ci agganciò un compagno più vecchio di noi che
ci disse che era del Partito Comunista, diventammo amici dato che si viveva e si discuteva come si
dice, e un bel giorno alla vigilia del ’68 ci propose di riaprire la sezione del Partito Comunista di un
quartiere periferico di Roma, di una zona edile. Le sezioni delle periferie del PCI all’epoca, fino alla
metà degli anni ’60, erano state tutte chiuse, perché la mescita del vino gli aveva completamente
distrutto i quadri per cui non era più accedibile poter fare attività politica, un po’ come quello che
avviene oggi in qualche centro sociale dove lo spaccio della birra, per non dire qualche altra cosa,
ottenebra le menti e quindi diventa un motu proprio di mercificazione piuttosto che attività politica:
in quell’epoca ci sono varie letterature e libri scritti su questa vicenda, almeno una decina, su questa
distruzione delle sedi del Partito Comunista a causa della permessività, a quell’epoca la sezione
diventava un po’ un’atipica osteria, si veniva in sede per bere un litro di vino. Allora la sezione era
stata chiusa, ci presentarono due capi nobili del Partito Comunista dell’epoca, uno era uscito dai
campi di Dachau ed era l’ex colonnello comandante partigiano della piazza di Roma, arrestato
nell’autunno del ’43, si era fatto questo campo di concentramento ed era tornato; l’altro era un
senatore che ebbe un episodio notevole durante il fascismo perché, essendo incazzato a morte per la
collusione tra fascismo e Chiesa cattolica, prese un martello, andò dentro San Pietro e diede una
martellata sul piede della Pietà, quindi è noto per questo, all’epoca era definito anarchico, poi
diventò senatore del PCI. Uno si chiamava Forti e l’altro si chiamava Cianca, oggi non c’è più
nessuno dei due, erano già anzianotti all’epoca. Loro però erano i numi tutelari, dove passavano si
aprivano le porte di Botteghe Oscure: prima facemmo una grossa discussione politica con costoro,
noi ventenni-venticinquenni e loro già cinquantenni-sessantenni, affidarono le sorti della rinascita di
questa sezione a questi giovani in maniera molto veloce alla vigilia del ’68 e a metà del ’67
aprimmo questa sezione. Era un buco dentro un quartierino popolare tutto abitato da edili,
iscrivemmo più o meno 130 edili e poi questo senatore, questi compagni: era la vigilia dello Statuto

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dei lavoratori, c’era la storia delle occupazioni delle case, c’era già il comitato d’agitazione borgate.
Roma era piene di borgate, si viveva nelle lamiere, quelle che si vedono adesso alle periferie del
mondo, c’era la mancanza di scuole, di servizi, di strade, di luce, di fogne, insomma quello che era
l’agit-prop dei bisogni. Quindi, ci riuscì facile, anche per la rete che offriva il Partito Comunista
dell’epoca, di organizzare la soddisfazione di questi bisogni: eravamo presi da tantissimo
entusiasmo, vivevamo chiaramente insieme attività politica e personale. La sezione fu inaugurata da
Enrico Berlinguer, presumo (adesso non ricordo benissimo) per i trascorsi di questi due grossi
personaggi: all’epoca Berlinguer era vicesegretario del PCI sotto Longo. Uno dei primi passi che
facemmo fu l’ospitalità a un’importante delegazione vietnamita (a quell’epoca eravamo la
generazione Vietnam), per cui il fatto che in una piccolissima sezione di periferia arriva il numero
quattro o cinque del Partito Comunista vietnamita ha un certo significato; questi fu accompagnato
sempre da Enrico Berlinguer presumo sempre per questi due numi tutelari che avevano tutte le porte
aperte e Botteghe Oscure. Io feci la prima e ultima campagna elettorale nel maggio del ’68, quindi
capì come funzionava anche qui la campagna elettorale, molto pulita, senza andare, come faceva la
Democrazia Cristiana, a prendersi anche i militanti in carrozzella, ma sicuramente però ricordando a
tutti che bisognava andare a votare presto la mattina e tutte queste robe qui, preceduta da un grosso
battage: ognuno di noi diventò un piccolo agit-prop, l’avevi fatto già nel sociale poi dovevi farlo nel
politico per le elezioni, quindi hai battuto tutto il quartiere e hai cominciato a conoscere, oltre al
quartiere tuo in cui ti sentivi come un pesce nell’acqua, anche il quartiere limitrofo, perché le
elezioni abbracciano chiaramente le zone più estese. Noi stavamo in un quartiere molto nero, io ci
abitavo lì dentro, quindi questa presenza diurna e notturna ti fece apprezzare moltissimo e quanto
meno conoscere, e questa è una delle caratteristiche che insegnava il PCI all’epoca a tutti. In più,
questi tre giovani compagni che furono contattati dai vecchi per riaprire la sezione, a scalare ognuno
divenne poi segretario di quella sezione. Io ero stato appena assunto all’Enel, ero fuori e dunque mi
trovavo solo il fine settimana con questi compagni, quindi toccò a me, alla vigilia del ’68, diventare
il segretario. In questa situazione ci fu un’accelerazione perché le elezioni furono vinte, nel senso
che il movimento studentesco votò rosso, diede l’indicazione di votare PSIUP e PCI, con
l’adunanza a piazza San Giovanni di Longo dove parlò anche Oreste Scalzone con questa
indicazione. Ci fu tutto questo e la discussione di notte con i giovanissimi compagni dell’università
che già davano luogo al movimento studentesco attraverso i gruppi, a Roma erano i Nuclei
Comunisti Rivoluzionari, c’era il primo Potere Operaio ecc.; quindi la sera passava tra una facezia,
uno scazzo, “vieni tu dentro il PCI” “no, esci tu dal PCI”, “guarda come stanno le cose” “guarda
come non stanno” ecc., ma soprattutto poi la discussione politica seria cominciò a partire dalla
primavera di Praga. Quel ’68 con i carri armati a Praga portò a una discussione pazzesca, anche
perché la storia di questa generazione politica era fatta di un dibattito collettivo: chi oggi si
metterebbe a discutere politicamente Il capitale a partire dal primo libro, oppure Salario, prezzo e
profitto, oppure i Grundrisse ecc.? Eppure all’epoca o eri in dieci o eri spesso anche in venti o
trenta si discuteva collettivamente, magari con qualcuno che relazionava in sintesi e gli altri che
facevano domande, anche quelli che non sapevano nulla dell’ABC del marxismo. Quindi, sul
documento di Dubceck e del Partito Comunista cecoslovacco, che ci appariva molto moderato
all’epoca, facemmo moltissime discussioni, capendo la situazione, rigettando chiaramente
l’invasione sovietica e non solamente per spirito di solidarietà con coloro i quali venivano aggrediti,
ma anche perché non c’era mai appartenuta, essendo arrivati nel ‘67-’68, quel grande rispetto nei
confronti dell’Unione Sovietica, anche se a casa mia avevo un padre stalinista e c’era il rispetto che
ne veniva da l’Unità. Dunque, ci fu la discussione sul documento dubceckiano e poi su quello
ancora peggiore delle trecento parole di Ota Sik, che era l’economista del partito: sembravano
nettamente e spudoratamente identici alla socialdemocrazia italiana che aborrivamo mentre
tenevamo in giusto rispetto la socialdemocrazia svedese per quello che leggevamo della
ridistribuzione della ricchezza sociale che era stata in grado di poter fare in quella situazione, quindi
per noi era un valore da mettere in una giusta collocazione pur se noi chiaramente pensavamo a
tutt’altro, al ribaltamento appunto del capitalismo.

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Quindi, questi sono stati i prodromi: dentro questa vicenda si assume anche una partecipazione a
maggiore responsabilità, poiché quel partito che si è ingigantito durante il voto del 1968, che è
arrivato a sfiorare al Senato la Democrazia Cristiana, ha avuto la necessità di allargare la sua
presenza sul territorio. In questo allargamento della presenza sul territorio mi dettero altre
responsabilità sul piano della zona, si trattava della Tiburtina che all’epoca subito dopo Pomezia era
la seconda zona operaia di Roma, dove c’erano le fabbriche dell’elettronica, metalmeccaniche, le
vetrerie e quant’altro: in quella zona come responsabile venne a lavorare Petroselli, il quale poi
diventò sindaco di Roma. Quindi, lavorammo a stretto contatto per circa un anno e mezzo, io
consideravo lui un moderato, veniva dall’esperienza dell’occupazione di terra del viterbese, era un
uomo che meritava rispetto perché aveva fatto queste tre grandi esperienze di mobilitazioni delle
masse contadine con altrettante cariche della polizia, arresti e cose di questo genere. Dunque,
l’esperienza di zona fu estremamente importante perché ci permise di avere un contatto costante con
altre sei sezioni completamente a carattere operaio e giovanile. In quell’epoca chiaramente si svolse
un po’ tutto, perché in quel ‘68-’69 avviene che la FGCI, che aveva 200.000 iscritti, si scioglie, era
una FGCI con dentro certi quadri e certe teste, poi fornì con i rientri anche i segretari dei Partiti
Comunisti successivi; e ci fu questa grossa forma relazionale, soprattutto le manifestazioni contro
gli Stati Uniti, per la tutela del Vietnam e anche per Cuba furono il grosso cemento che non fece
separare la nascente sinistra extraparlamentare da quella che era la sinistra del PCI, allora insieme
alla FGCI. Allora si riusciva ad andare sotto l’ambasciata americana, a differenza delle epoche
successive quando quasi mai riuscimmo ad arrivarvi; non c’era ancora l’uso della molotov che
venne scoperta negli anni successivi (fine ’69, inizi ’70), ma sicuramente c’erano dei corpo a corpo
con la polizia, con degli arresti estremamente paurosi. Questa è l’incubazione di questa storia.
Alla fine del ’68 comincia l’epopea del Manifesto, prima attraverso la rivista, quindi con tutti coloro
i quali erano eretici rispetto alla vicenda cecoslovacca, alla vicenda dell’URSS ed erano
propedeutici rispetto alla storia della rivoluzione culturale cinese, che vedevano se non come faro
quanto meno come fonte di utilizzo anche qui dalle nostre parti quello che era il maoismo; ci
sembrava, almeno all’epoca, un pensiero sicuramente alternativo a quella che era stata la staticità
dell’Unione Sovietica. La morte di Guevara, che era già avvenuta ma che aveva fatto produrre
velocemente i suoi scritti e testi, fu l’altro viatico che ci permise di dar vita a questo dibattito
all’interno della rivista del Manifesto, che durò un anno e quattro mesi, quindi all’interno di quello
riconoscerci, cominciando ad agire quasi da frazione all’interno del Partito Comunista. Questa cosa
divenne ancora più rilevante perché, nonostante il PCI si fosse molto aperto sul territorio, cosa
dovuta anche al voto, per cercare di riassumere questa capacità egemonica che stava assumendo, si
accorse chiaramente che il suo limite era quello di essere comunque filosovietico nonostante il
nascente berlinguerismo, e che rispetto al movimento operaio non si poteva andare oltre lo Statuto
dei lavoratori. Questo comunque all’epoca lo consideravamo un effetto rivoluzionario e ci
consideriamo dei portatori ufficiali di grossi contributi perché abbiamo fatto tanti di quei comizi nei
cantieri edili e tante di quelle iniziative che è stato tutto più facile arrivare poi nel 1970, l’anno dei
contratti, ad avere questa partecipazione corale, questa assunzione di afflato operaio, di autonomia
operaia, di centralità operaia che in una città come Roma non nasceva da sé. Per cui il percorso di
discussione politica si spostava in avanti, diventava maggiormente internazionalista dentro la rivista
del Manifesto, venivi a contatto maggiore con le aree trotzkiste e internazionaliste, e tutto questo
arricchiva il tuo bagaglio e il tuo patrimonio e lo commisuravi tutti i giorni con quello che facevi
come attività. In questo contesto nasce una discussione organizzata e propedeutica nel gruppo del
Manifesto, tutto il ’69 ha questa funzione. Nel 1970, mentre c’è il grande sbocco della lotta del
contratto metalmeccanico, mentre, essendo lavoratore, avevo già fatto i primi scioperi qui dentro
l’Enel e avevo già avuto i collegamenti attraverso il partito con altri segmenti (alla Fiat, alla Fatme
soprattutto, che per noi è stata un caposaldo di battaglie per quello che ha espresso, in mezzo agli
edili e via dicendo), avevi già un linguaggio appropriato del mondo del lavoro a differenza di molti
altri giovani compagni, soprattutto gli studenti che ne masticavano poco e al massimo ne avevano
un afflato ideologico, quindi di portare a darsi una mano. Questo contesto ci porta ad elaborare la

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possibilità della rottura senza conseguenze sentimentali nei confronti del PCI, a cui comunque
riconoscevamo un contributo chiaramente determinante nella storia politica italiana, che però era
insufficiente a poter rappresentare quello che si stava muovendo. Del resto anche l’esperienza nel
comitato d’agitazione borgate, che ci ha fatto vedere quanto era esplosiva la miseria di Roma e
quanto erano evidenti le forme dello sfruttamento, i palizzinari chi erano, e tra loro c’erano anche
enormi sovvenzionatori delle Botteghe Oscure, ci fece incontrare anche lì dentro una serie di altre
realtà, anche cattoliche di base oltre che realtà del PSIUP: quindi, il comitato d’agitazione borgate
era composto da queste tre componenti, noi, il PSIUP e le realtà cattoliche, dunque si tratta di un
altro pezzo della vicenda romana che poi ci ha portato sempre a mantenere alto il radicamento sui
bisogni sostanziali, il lavoro/reddito, la casa, i servizi ecc., insomma la teoria dei bisogni di
helleriana memoria. In questo contesto chiaramente arriva presto la necessità di far fare un salto di
qualità a questo partito, cosa che verifichiamo sia molto difficile, al dodicesimo o tredicesimo
numero della rivista si arriva a formulare una specie di tesina riguardo al bombardare il quartier
generale, dunque di maoista memoria in questo caso. Ci fu questo grosso articolo della Rossanda
Da Mao a Mao, che interpretava questo bisogno di rompere le cristalizzazioni, i compartimenti, la
burocrazia, quello che era il controllo della segreteria sul comitato centrale. Ma tutto questo non
sortì nulla dentro la casa madre, anzi sortì l’effetto di costruire le purghe, a questo vi erano
ovviamente abituati mentalmente oltre che organizzativamente: fu dato mandato a Natta di
preparare l’espulsione del cosiddetto gruppo dirigente e diedero mandato al comitato centrale di
organizzare in tutta Italia le purghe. Tenuto conto che questa ormai era la deriva si mise mano a
scrivere le tesi effettive: io partecipai fin dall’inizio alla stesura delle tesi del gruppo del Manifesto,
che da lì a un mese vennero rese edite al gruppo militante, il quale era informale anche se al solito
era formato da maggiorenti come la Rossanda, Natoli, Pintor, Caprara, poi si aggiunse Magri ecc.
Questo per dire che durante tutto l’arco degli anni ‘69-’70 si produce questa rottura, la quale ha
anche delle forme di visibilità, è la prima volta che cinquecento militanti a vari livelli (segretari di
partito, di federazione ecc.) fanno una manifestazione davanti alle Botteghe Oscure, quindi
provocano chiaramente una oggettiva espulsione di fronte a questa lesa maestà. Io me ne vado dalla
sezione perché, nonostante questa partecipazione attiva, non mi volevano espellere per via del
legame fondamentale umano oltre che politico che si costruisce all’interno dei segmenti popolari;
come ho già detto la sezione era per il 90% piena di edili con cui ho mantenuto comunque dei
rapporti fecondi, oltre che umani, compresi anche quelli nei confronti dei più vecchi che per
ideologia potevano avercela ancora di più con questa nostra uscita estremista come la definivano
loro. Quindi, la nascita a Roma soprattutto del Manifesto viene sanzionata dal tentativo di Armando
Cossutta di farla finita con questa compagine, doveva liquidarla in termini di tre ore in un dibattito
in una delle sezioni centrali del Partito Comunista, a Montesacro: la discussione dura notte e giorno
per tre giorni di seguito, con grande fervore da parte dei più giovani. E alla fine siamo diventati
anche furbi: il Partito Comunista aveva sempre nella zona di Montesacro anche un circolo culturale,
noi, avendo capito che fine voleva far fare Cossutta a tutto quanto, essendo stato abituato a far
purghe per tutta la vita, organizzammo notte tempo un numero di iscrizioni enorme in questo
circolo e ce lo prendemmo, diventò poi circolo Montesacro e per circa un anno e mezzo fu
praticamente polmone del gruppo del Manifesto a Roma.
Le cose hanno volto molto velocemente per questa formazione, anche per un giovane che nell’arco
di tre anni si vede proiettato al di fuori di una grande casa madre all’avvio della costruzione di
un’avventura e di un’impresa di cui è parte di frazione. Tant’è che la discussione precedente con i
gruppi, innanzitutto Potere Operaio e quegli altri che c’erano a Roma (ma non la parte moderata di
questi gruppi, non Avanguardia Operaia, ma neanche Lotta Continua all’epoca), ci permette di
costruire un patto di azione con Potere Operaio per dar vita ad una effettiva stagione di lotte, a
credere in tale possibilità. Ciò dal momento che avevamo già potuto osservare e leggere quello che
veniva prodotto dai Quaderni Rossi, dalle esperienze torinesi, dal primo concetto di autonomia
operaia all’interno delle carrozzerie di Mirafiori, vedevamo questa possibilità, facendo fulcro sulla
centralità dell’autonomia operaia, di creare attorno a questo fulcro un impianto rivoluzionario che

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potesse, attraverso una dichiarata anti-istituzionalità, contribuire a rompere i vincoli che si erano
costruiti fino a quel momento, il partito come intellettuale complessivo, il sindacato come cinghia di
trasmissione, la lunga marcia attraverso le istituzioni nella costante mediazione del riformismo, la
possibilità di vittoria delle sinistre nel nostro paese, questi erano i tre corni della situazione. Voglio
ricordare che l’anno ‘69-’70 è stato quello delle grandi manifestazioni sia contrattuali che per la
casa, per le pensioni, per la salute ecc.; quindi, Roma in particolare ha vissuto questa grande
partecipazione popolare di 100.000, 50.000, 70.000 lavoratori, pensionati, occupanti le case ecc. che
ha fatto sì che sia chi lavorava sia chi non lavorava si trovava sempre in presenza a manifestare,
finanche all’interno o sotto il Ministero del Lavoro dove si celebrava questo grande braccio di forza
tra la Confindustria e i metalmeccanici in cui fu mediatore Donat Cattin. Mi sembrava di vivere in
una situazione irreale perché ci eravamo creati un accesso libero di entrata dentro il Ministero del
Lavoro fino alla partecipazione in quegli stanzoni, non era da tutti, c’era una specie di decisione,
una volontà, una concezione dell’autonomia operaia, quindi rendersi conto anche di fatto come
avvenivano certi sforzi per arrivare a determinati compimenti. Dunque, io mi sono trovato spesso a
sentire le ultime battute di questa forma contrattuale, oggi sarebbe impossibile stante il livello della
selettività che avviene nei gruppi dirigenti, dell’esclusività, dei palazzi blindati come sono in questo
tempo. Quindi, era ciò in quei tempi che perpetuava anche la vecchia classe dirigente democristiana
in quanto tale, o quanto meno si accorgeva che non poteva fare a meno di essere pervasa da questa
situazione.
Per concludere questo preludio, sicuramente la costruzione di quella che è stata la mia formazione
iniziale politica avviene dentro casa per motu proprio dovuto alla presenza di un comunista tra le
mura domestiche, e quindi alle letture iniziali di carattere politico semplice, dai giornali alle letture
legate al primo Gramsci delle Lettere dal carcere o cose di questo genere; con la possibilità, avendo
dei cugini che già lavoravano, di leggere invece gli autori moderni, americani soprattutto, quindi
capire un altro tipo di realtà, un altro linguaggio e via di seguito. L’approccio con un’iniziale
militanza che ti mette allo sprone, alla necessità di approfondimento, di diventare marxista da un
punto di vista culturale, di accedere a quelle categorie, di comprenderle nella loro sintesi e nella loro
profondità, in questa visione collettiva di uno studio non solo individuale ma in via collettiva
com’era la formazione dell’epoca di un giovane militante comunista. In più immediatamente questo
bilanciamento tra teoria-prassi-teoria, o prassi-teoria-prassi, quindi tutto quello che potevi desumere
con quella iniziale e parziale intelligenza poteva essere immediatamente confrontato con tutto
questo. L’arricchimento successivo dovuto al confronto con l’esperienza dei nascenti gruppi o i
compagni a cui questi partecipavano. La rivista del Manifesto che ti fa abbracciare uno scibile
largamente internazionale, l’approccio con il maoismo, misconosciuto anche perché bollato
all’interno del Partito Comunista come deviazione Tutto questo ha costruito, insieme al guevarismo,
ai lasciti delle iniziali letture guevariste, il bagaglio iniziale, perché poi diventa parte integrante di
quel capitolo che immediatamente, sempre nell’arco di tempo velocissimo, dà luogo alla
formazione dell’autonomia operaia.

- Arriviamo dunque alla tua uscita dal Manifesto e all’inizio dell’esperienza dei Comitati
autonomi operai.

Sì, tutto avviene molto velocemente, questo è un anno eccezionale in cui si consuma la scelta
moderata del gruppo dirigente (o autodeterminatosi tra l’altro gruppo dirigente, potrei dire di averne
fatto parte anch’io ma in una certa misura). Ci fu in quell’anno, nel ’71, questo enorme florilegio di
esperienze: si pensi che nasce a Roma il comitato operaio Fiat, il comitato operaio Pirelli che c’era
qui alla periferia di Roma, il comitato operaio della Fatme, alla fine del ’70 nasce il comitato
politico dell’Enel, il collettivo del Policlinico, tante di quelle esperienze che si subordinano a questa
militanza all’esterno dei cancelli, in particolare Luciana Castellina con cui abbiamo lavorato in
simbiosi per tutto quell’anno, con un’abnegazione particolare per una forma intellettuale com’era la
sua. Ciò fa sì che il pensiero dominante sia appunto quello della costruzione, intorno al nucleo

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centrale dell’autonomia operaia o della centralità operaia, di un contesto che rompesse appunto con
le vecchie concezioni, quelle del partito separato, con l’autonomia del politico e con la concezione
del quadro sindacale che al massimo si limita a sobbarcarsi la vertenzialità. Questo frutto che viene
da noi imparato all’epoca ce l’ha insegnato la strada, ce l’ha insegnato la realtà, ce l’ha insegnato
anche Panzieri se vuoi e il dibattito che avveniva all’interno de La Classe, i Quaderni Rossi, il
primo Potere Operaio, la rivista stessa del Manifesto: tutto questo ci comporta chiaramente una
grossa base solida, una grossa identificazione. Quando avvertiamo i primi scricchiolii si mette in
moto un dibattito che dura un anno all’interno del Manifesto e che è fatto di tesi contrapposte: dopo
aver fatto tante iniziative politiche in comune con Potere Operaio, sotto grandi tende, meeting ecc.,
capiamo poi dai fatti essenziali che la cosa non è più tale e che c’è stato quanto meno questo
scivolamento costante che avviene all’interno di tutte le sinistre del non poter fare a meno del loro
limite istituzionale. Quindi, il loro limite istituzionale si produce nel ’72 con la scelta di fondare il
PDUP e di partecipare alle elezioni, che furono misere, se non erro portarono a casa poco più
dell’1% o qualcosa di questo genere. Ma tant’è, la frattura si era già determinata e nella mentalità
anche di bravi compagni si era reinserito il virus dell’elettoralismo, della ricerca del consenso di
opinione pubblica e non del radicamento in mezzo alla popolazione, in mezzo al proletariato, quindi
il creare segmenti di democrazia diretta piuttosto che di democrazia delegata. Dunque, è stato un
giocoforza la presentazione poi all’interno del quadro militante del Manifesto qui a Roma (parliamo
di 200-300 militanti) della rottura, quindi di tutta la parte che ha fatto riferimento alla centralità
operaia. Ci interessava quasi esclusivamente quella, forse con qualche errore perché poi avremmo
dovuto sistemare nel dibattito tutti quei compagni che erano giovani, che provenivano dagli studenti
medi e questi in quell’anno (1972-’73) a Roma erano una generazione formidabile, che a 13-14 anni
già stava rivoltando le strade di Roma, e altrettanto gli universitari, per non dire che la struttura del
comitato d’agitazione borgate aveva già trovato delle evoluzioni e che quindi eravamo già
posizionati all’interno del dibattito con il movimento operaio.
Comunque sia, le quattro situazioni (comitato politico dell’Enel, collettivo del Policlinico, comitato
operaio, la CUB dei ferrovieri) danno vita alla sede di via dei Volsci. Ciò con il documento politico
fatto dalla tesi di uscita dal Manifesto, che produce chiaramente la nemicità nei confronti di questo
sistema, il rifiuto del lavoro, l’aggressione al nazionalismo per l’ipotesi sostanziale di un vissuto e
di un collegamento costante internazionalista, e lo sparare a zero nei confronti di qualsiasi
passaggio istituzionale: questi sono i quattro prodromi a partire chiaramente da quello che in quel
momento si viveva, che era l’autonomia operaia. Intorno all’apertura di questa sede si situa subito
una grossa responsabilità che è quella di cui non abbiamo fino a questo momento parlato, ossia la
reazione borghese, la strage di Stato del ’69 e la verifica che non è possibile esercitare l’attività
politica di riscossa delle masse proletarie senza l’uso della violenza, senza la capacità cioè di
difenderti, di saper contrattaccare, di essere preparato non solo a usare le armi della critica ma anche
la critica delle armi. Quella fu un’altra lezione estremamente importante che era stata in qualche
misura già appresa all’interno del Partito Comunista che arrivava, già durante gli anni ‘67-‘68-’69, a
chi aveva responsabilità, a partire dal segretario di sezione, con le indicazioni velocissime di
asportare dalle sezioni le tessere dei militanti, perché c’erano dei motivi giusti che poi avremmo
compreso successivamente nella nostra storia. Il golpismo è sempre stata un’attività presente, del
resto i colonnelli greci andavano al potere nel ’67, l’attività sei fascisti c’era sempre stata e quello
che è avvenuto all’università lo testimonia. Dunque, la strage di Stato fece da campanello d’allarme,
fece anche determinare una crescita improvvisa da parte di quelli che avevano un’età compresa tra i
venti e i trent’anni, che dovettero assumersi anche la responsabilità di contrastare le attività golpiste
di fronte a una situazione che li vedeva quasi soccombenti, tenuto conto che la strage era stata
dichiaratamente segnata a sinistra con l’assassinio di Pinelli, l’arresto di Valpreda ecc. Quindi,
nasce il comitato contro la strage di Stato, di cui ne facciamo parte come comitato politico dell’Enel
e come collettivo del Policlinico, che già all’epoca dell’anno ’70 veniva riconosciuto, nel contesto
dei grandi gruppi (Potere Operaio, Lotta Continua, Avanguardia Operaia ecc.), come uno degli
elementi non di natura lavoristica ma di natura complessiva. Dunque, partecipiamo a tutti questi

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eventi a partire dai grandi conflitti che avvengono soprattutto sulla piazza di Milano, con il 12
dicembre 1970, ’71, ’72 e via di seguito, con la grande partecipazione di un movimento che sposta
pullman a non finire, con gli scontri di piazza estremamente duri. Già tra la fine del ’69 e la
primavera del ’70 c’è la scoperta e l’utilizzo della bottiglia molotov, qui a Roma a partire in
particolare dalla venuta di Nixon in Italia, che dette luogo a degli scontri decisivi, non riuscimmo
mai a vedere neanche l’ombra dell’ambasciata americana ma ci si scontrò ripetutamente all’interno
dell’emiciclo della stazione e nelle zone limitrofe. Ciò dette il là ad una capacità di dire: “Non
possiamo limitarci ad avere dei gesti platonici di fronte all’aggressione dell’imperialismo a questi
livelli, quindi noi dobbiamo avere la libertà di sostenere la caduta dell’imperialismo americano in
Vietnam e la soluzione per i palestinesi”; questo era l’impegno profuso e scritto oltre che praticato
da queste prime dieci squadrette di compagni che, tra l’altro a livello ridicolo, facevano le prime
molotov con le bottiglie della Coca Cola e verificavano che non si rompevano, questo era l’avvio
attraverso quanto trasmesso dai partigiani che all’epoca avevano qualche anno più di noi. Quindi,
strage di Stato, comitato contro la strage di Stato, comitato per la libertà di Valpreda,
manifestazioni, bombe da tutte le parti, assassinii dei compagni soprattutto sulla piazza di Milano
ma anche Roma non è da meno, blindatura di ogni situazione, arresti.
E tutto questo chiaramente formula le difficoltà nel passaggio di ulteriori avventure in questo caso,
l’apertura della sede di via dei Volsci è sicuramente un’impresa titanica perché è vero che è l’epoca
di gruppi, gruppetti e gruppettini, che danno la rappresentazione che qui in Italia c’è un’altra forma
della politica, non ci sono solo i partiti tradizionali che si contendono il potere. Dunque, i gruppi,
100 o 1000 militanti, rappresentando un’altra faccia sicuramente estremamente anti-istituzionale
anche tra i più moderati, dimostrano la possibilità di indicare che la politica si riappropria dal basso.
Questa è una storia fondamentale, difficilmente si ritrova in altri contesti mondiali o limitrofi qui in
Europa, si ritrova magari con l’esperienza del movimento studentesco tedesco, Rudy Dutschke
soprattutto ecc., che poi si riverbererà anche all’interno del movimento antinucleare tedesco, ma
non in quello francese ad esempio, che è dominato invece soprattutto dalla componente tradizionale
filosovietica e da quella trotzkista. La variabile, la stranezza italiana è appunto che c’è spazio per
tutti, forse per troppi; tutto questo surroga la possibilità della democrazia qui in Italia, poi in
definitiva deve essere questo, la capacità di poter respingere il diktat o le trame che si svolgono tra
la CIA, i servizi segreti e il partito dominante è stato sopportato grandemente dalle spalle dei gruppi
della sinistra rivoluzionaria, in cui eravamo in parte un riferimento anche noi. L’impresa di via dei
Volsci a ritroso in effetti si sbaglierebbe a non definirla titanica perché come si può pensare che un
centinaio di lavoratori innanzitutto, con una ventina di piccoli quadri complessivi, si mettano in
testa di poter affrontare uno scibile così grande, la rottura anche dei capitoli di una base teorica da
una parte e storica dall’altra, che ha delle esperienza enormi sul campo nazionale e internazionale?
Quindi, è proprio la desunzione di una possibilità da ripetere in ogni occasione, se tu vuoi creare le
condizioni per rivoluzionare il sistema questa è una delle esperienze da poter fare, poco importa se
si è in 100, in 10 o in 50, il problema è di avere e mantenere un sano radicamento in mezzo alla
classe, di fare al massimo un passo o due in avanti e non farne di più per non fare ruzzoloni, di non
creare separatezze d avanguardismo tra quanto uno si promette di fare e l’impossibilità di farlo, il
che crea chiaramente anche le forme terroristiche, quindi c’era il rifiuto del terrorismo in quanto
tale. Dunque, questo ci permise di costruire un magma, un tessuto, un riconoscimento attorno a noi,
e immediatamente, senza cristallizzarsi mai (perché questo è stato il principio), di andare a cercare i
nostri simili. E ciò lo si è trovato immediatamente nel confronto, avendo ben perpetuato il concetto,
il sostegno (questo all’inizio probabilmente molto gramsciano) che l’epicentro di una forza politica
è relativa soprattutto, in termini marxiani, alla centralità operaia: e quindi, dove se non a Milano, a
Torino ecc.? Dunque, partiamo, andando a trovare quelli che non conoscevamo, l’assemblea
autonoma di Mirafiori, che poi troveremo e diventiamo fratelli e amici con Alfonso Natella, che
sfiora l’assemblea autonoma ma ci permette di contattare e di fare esperienze per tutti quei primi
anni, dal ’69, ’70, ’71, con gli operai di Rivalta e di Mirafiori, dormendo nelle loro case, facendo
intervento ai cancelli insieme a loro. Distaccandoci chiaramente dalle nostre vicende anche romane,

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ciò ci permette questo accumulo, questa riconoscibilità, alla stessa stregua l’assemblea dell’Alfa
Romeo, il comitato politico della Sit-Siemens, quello della Pirelli, poi l’assemblea autonoma di
Porto Marghera che era l’altro corno della situazione. Ma non c’erano anche qui dei capisaldi
generali più importanti o meno importanti, c’era l’esperienza che insieme ad altri avevo fatto nella
rivolta dei tecnici, sempre altra espressione di quell’epoca, che in più posti di lavoro dove erano
presenti figure, appunto i tecnici, i quadri intermedi insomma, ci permise chiaramente di collocare
questa esperienze di natura politica e sindacale insieme e a sostegno del movimento operaio
piuttosto che a essere subordinati al ciclo produttivo e quindi al capitale. Questa fu un’altra
possibilità che ci permise di mantenere rapporti a Bologna con la Ducati e con la Sasib, che erano
due medie fabbriche ma importanti e decisive, a Firenze con la Galileo: questo per dire che il
tessuto era molto più vasto, e a Sud con l’Italsider di Taranto e soprattutto a Napoli con l’Ignis e
addirittura con una formazione politica che era il PCI-ML Lotta di Lunga Durata, quindi una
formazione maoista, la linea rossa uscita dal disastro del PCd’I, e tale formazione ebbe un
comportamento correttissimo e felicissimo nei nostri confronti.
Ci fu tutto questo magma preso insieme, questo passaggio, questo lavorio dell’anno ’72, questa
apertura del giornale Potere Operaio del lunedì, questo dibattito fecondo, questa richiesta di
scioglimento dei gruppi più afferenti alla centralità operaia, cosa che una buona parte di Potere
Operaio fece, un’altra parte scelse di dedicarsi a processi interini alla nascente cosiddetta lotta
armata. Tutto ciò ci permise di arrivare a quella convocazione del marzo del 1973 che era una
specie di stato generale dell’autonomia operaia senza a e senza o maiuscole, tant’è che storicamente
verrà definita così: l’assemblea di Bologna del marzo del ’73 è lo stato generale dell’autonomia
operaia, si è lì a descrivere questa forma di movimento, questa possibilità di sfondamento nei
confronti delle istituzioni rappresentative, questa alternativa al riformismo, questo rifiuto dell’unico
partito esistente ecc., attraverso quelle piccole tesi che sono documentate nel libro Antologia
dell’autonomia operaia. Questa è l’altra fase, la partenza qui da Roma, almeno dal punto di vista di
chi sta parlando, la ripartenza ci mancherebbe, a Milano ci sono le espressioni compiutissime
dell’Alfa, della Sit-Siemens, capaci di aver fatto imprese estremamente eccezionali, di aver creato
loro poi quello che è stato il vero e autentico autunno caldo dal punto di vista epicentrico, il
sabotaggio delle merci, il salto della scocca, il rifiuto del lavoro, lo sciopero lavoratore per
lavoratore, a scacchiera ecc., sono tutte invenzioni di quell’autonomia operaia lì, che hanno
determinato loro. Ciò è stato poi riassunto dai sindacati nella tematica dei consigli; tutta la sinistra
operaia e rivoluzionaria storica, quella che nasce alla vigilia del ‘900 e che poi si riverbera sotto il
leninismo e viene falcidiata da questo, si trova in quell’aspetto consigliare, e quindi nella nascita dei
consigli dei delegati spontanei, nella decisione fatta prima a Mirafiori, poi a Rivalta, poi all’Alfa e
poi via via pure qui giù da noi all’Enel, al Policlinico ecc., e poi la scimmiottatura della sinistra
sindacale dà vita invece a una forma istituzionale che trova spazio poi nello Statuto dei lavoratori
come forma evolutiva di un sindacato verso la riunificazione. Ecco, credo che questa sia la base
costitutiva di quello che diede appunto vita all’esperienza dell’autonomia operaia senza a e senza o
maiuscole, un tentativo che poi lì non riesce, come non sono riusciti altri tentativi, di dar vita ad una
compagine plurale, duttile, capace di saper essere rappresentativa del tutto. Anche perché,
nonostante l’appartenenza all’unica barricata, c’erano compagni plurimi di questa vicenda, Potere
Operaio del lunedì ha dato molto contributo alla nascita di questo, probabilmente non ne poteva
fare a meno perché Potere Operaio era già in scioglimento, poi una parte di esso già guardava di
malocchio l’esperienza dell’autonomia operaia ritenendo chiaramente un’altra l’avventura da
percorrere, ossia quella della lotta armata. Quindi, c’era da parte loro il pensare immediatamente
che già intorno al ‘71-’72 si erano aperti i giochi rivoluzionari qui in Italia, quando invece il bastone
del comando ancora una volta lo manteneva la borghesia alleata all’imperialismo mondiale, per cui
aveva potuto permettersi una strage di Stato, aveva potuto permettersi di avere questa internazionale
nera come cordone ombelicale intorno all’Italia, in Portogallo, Spagna, Francia, Italia, Grecia,
Turchia ecc. Quindi, questi sono gli errori di valutazione che sembrano di una forma soreliana,
avventurista in assoluto. E’ vero che hanno contribuito a tutto questo anche gli esperimenti della

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soggettività di Feltrinelli, che nell’aggancio con qualche forma di partigianesimo aveva visto nel
golpismo del generale De Lorenzo e di tutta la casta legata alla CIA e alla NATO la necessità di
essere preparati, tutt’al più una forma di natura gappistica. Quindi, c’era questa forma estrema di
soggettività (poi espressa da una figura che va moltissimo rispettata però più di questo no, da un
punto di vista politico era di un’impoliticità tremenda) prepara e predispone almeno alcune forme
dell’intellettualità a questa tipica scelta avventuristica che si ripropone nella storia. E altrettanto in
alcuni pezzi di Potere Operaio (penso a Piperno più che a Negri) c’è un invaghimento per questo
passaggio, si scrive su quelle colonne che già nel ’71 si è esaurito il ciclo dell’autonomia operaia e
quindi si comincia lì quanto meno a smarronare. Non c’è proprio paragone, non c’è proprio
possibilità di confronto nel sostenere che si era concluso un ciclo quando invece il ciclo comincia ad
aprirsi nel ’69 e non voglio dire che si debba per forza concludere nella caduta dei 51 giorni della
Fiat nel 1980, ma più o meno possiamo raffigurarlo in questo periodo piuttosto che in altre
scimmiottature. E alla stessa stregua, soprattutto a partire da piazze del Nord, dove probabilmente il
tessuto militante era molto più accentuato o era altrettanto accentuato, ci sono episodi di legittima
difesa, di violenza nei confronti delle cose, nei confronti anche delle persone, dovute a questo
massiccio sfruttamento del movimento operaio in quelle latitudini, che non trovando il
posizionamento di una vicenda marxista all’interno di quel territorio hanno preferito dedicarsi o far
spendere tutta la soggettività possibile in un’azione quasi irrefrenabile di conflittualità armata, che
più che altro poi ha rappresentato episodi di propaganda armata più che episodi di capacità
contraente, di rapporto di forza effettivo. Perché se la lotta armata non può essere che una variante
temporanea di un’attività politica deve poter costruire uno sbilanciamento dei rapporti di forza, deve
saper far guadagnare qualche passaggio piuttosto che farlo arretrare. E lì invece, senza nessun
controllo, di solito poi cosa succedeva? Se dovesse essere stato fatto minimamente il paragone con
il movimento partigiano, è abbastanza noto che di fronte nelle formazioni partigiane armate, di
fronte ai combattenti c’era sempre il commissario politico: ciò non era solo una forma di controllo
contro gli eccessi, ma era la capacità di saper completare l’indirizzo di quella attività. Perché se
quella attività era senza indirizzo, se io costruisco delle bande per creare difficoltà al nemico e
invece sposto tutta l’attenzione sui soldi, sulle rapine a titolo si dice politico, poi magari diventano a
titolo personale, o su effetti nefasti nei confronti della popolazione, che non sono solo quelli delle
ruberie ecc., ma che potrebbero essere gli stupri o cose ancora peggiori, errori di valutazione del
campo di battaglia: bé per questo c’erano i commissari politici che comandavano più dei capi
militari sotto questo profilo. E questo contesto non c’è mai stato, con un’attenta riflessione non si
sarebbero mai connessi gli eccessi né sul campo né nella valutazione. Quindi, c’è stato fin già
dall’inizio di quello che è il processo veloce di un tentativo di produrre autorganizzazione e
autogestione all’interno dell’autonomia operaia, un tentativo di denegazione, di sottrazione, un
lucrare anche su quelle forze che facevano lavoro di costruzione importante all’interno
dell’epicentro della fabbrica e del territorio per arrivare a creare i presupposti di questo
avventurismo successivamente. Perché si sfruttava poi la possibilità di ritenere questi compagni
come compagni comunque e quindi non compagni neanche che sbagliavano, poi magari usata anche
quella definizione, si conoscevano anche parecchi di loro, e non si poteva arrivare a concepire che
potessero essere offerti impunemente alla repressione, allo Stato borghese. E’ negli anni successivi,
all’indomani proprio dell’aver compreso fischi per fiaschi, di avventura in avventura fino al
sequestro Moro, dell’aver capito che quello era l’epicentro dello Stato e quindi di aver fatto
completamente a cazzotti con qualsiasi teoria e prassi marxista sotto questo profilo. Ma io mi limito
qui in questa risposta, tenuto conto che il percorso comunque dell’iniziale formazione fino alle
responsabilità completamente in prima persona nella costruzione di un percorso rivoluzionario
significativo qui in Italia ha comportato chiaramente quest’avvio.

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- Come analizzi i motivi politici che portarono alla formazione di Rivolta di classe, quindi alla
divisione dell’autonomia romana rispetto a Rosso e successivamente a fare I Volsci?

I passaggi avvennero successivamente a quello che fu questo punto di avvio e di raccordo


dell’assemblea di Bologna del marzo, probabilmente con molta velleità anche, noi giovani, ancora
inesperti dal punto di vista della costruzione di una forza politica o una forza di carattere politico, a
partire da se stessi, parliamoci chiaro. Il bollettino che ebbe vita per tre numeri non poteva
compendiare di per sé la ricchezza complessiva che c’era all’interno di tutti questi segmenti, quindi
si decise anche di proseguire per posizionamenti territoriali riaggrumando tutto quello che sul
territorio c’era. Questo passaggio ci permise di arrivare a costruire anche i relativi bollettini o
giornali locali, uno di questi fu appunto a Roma Rivolta di classe, che è praticamente il resoconto
delle battaglie che si fanno in quest’area, è il resoconto dell’informazione di quelle che sono le
componenti dell’autonomia operaia senza a e senza o maiuscole, ed è anche il confronto con gli altri
gruppi a cui si indica per via critica una strada di confronto. In questo contesto non si poteva,
dovendo affrontare appunto il contesto milanese, non incontrarci con Negri e Rosso, che all’epoca
era parte integrante di quella redazione. Il Rosso della rivista, che usciva una volta ogni uno o due
mesi, che trova già lì nei numeri del 1973-’74 alcuni nostri articoli e che produce uno sforzo dal ’74
al ’75 relativo alla possibilità di fare un foglio, molto facsimile a quello che era stato il foglio di
Potere Operaio, dunque assume questa veste e se ne fanno alcuni numeri. Si assume chiaramente
fin dal ’75 anche il nostro contributo a carattere nazionale sulla crisi del riformismo, facemmo nella
palazzina Liberty questo discorso anche a proposito della formula 35 per 40 (le 35 ore pagate 40), e
immediatamente legato a questo facemmo anche, sempre all’interno, una riflessione nazionale sulla
repressione che poi venne pubblicata dai Quaderni di Rosso, sulla repressione qui in Italia, in
Europa, come avveniva attraverso l’avvio delle carceri speciali ecc. Il confronto con Rosso è stato
sempre molto tribolato, ovvero con la redazione di via Disciplini, che in particolare era in mano a
Negri, Tomei, e qui incontrammo anche il primo Bifo con il suo carattere dandista che poco ci
azzeccava con i nostri radicamenti, non dico con la nostra serietà ma insomma con un modo e una
dizione sicuramente più legata alle lotte dei lavoratori e dei proletari piuttosto che a un pur
necessario affrontamento dei temi culturali, dei temi dell’innovazione modernista.
Un contesto di cui spesso ci si picca è questo vizio (che non è dismesso ancora in quegli anni ‘74-
’75) del gruppettarismo, che è l’evoluzione finale dei gruppi che hanno avuto una loro significanza
all’interno del nostro paese; di questi ho già detto che hanno supportato (per delega chiaramente)
una battaglia storica nei confronti dello stragismo e quindi in definitiva “per la democrazia”, anche
se pensavamo di combattere per molto altro. Ciò presagendo appunto di poter utilizzare pochi
strumenti e poche persone per poter disegnare alcuni propri fini. Il proprio fine lì dentro non era
neanche estremamente ben chiaro se non era collimante con una sperequazione da parte anche di
quello che poteva pensare Negri all’epoca e che non compiutamente riusciva a scrivere almeno
nelle riviste, magari poi si alimentava i libri che lui ha scritto: quello cioè di una possibilità, tutta da
dimostrare, che qui in Italia ci fossero i presupposti di un confronto finale con la borghesia. E in
questo contesto il forzare i tempi, per quanto attiene Milano riguardo ai tempi di maturazione
dell’autonomia operaia interna all’Alfa Romeo, è stato uno dei contrasti più forti che ci ha dato la
possibilità poi di arrivare a rompere questa collaborazione alla vigilia del 1976. In questa
vicissitudine si situa appunto un ulteriore pezzo della differenza di quelli che tentarono di costruire
un percorso lineare, semplice di una formazione politica proveniente chiaramente dalla visione della
centralità operaia e dalle caratteristiche della sua autonomia rispetto alla produzione, rispetto al
capitale ma rispetto anche a qualsiasi forma di sovradeterminazione. Forse era una velleità, ma del
resto bisognava procedere per velleità, perché le costituzioni di qualsiasi altro partito, compresi i
partiti che furono definiti rivoluzionari (da quello leninista a quello maoista per non dire anche
quello cubano, anche se l’esperienza di quello cubano viene dopo la vittoriosa rivoluzione)
avvengono per una forma elitaria, per una forma di autorappresentazione di gruppi estremamente
limitati e spesso di gruppi che non avevano se non pochi radicamenti all’interno dei movimenti

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operai e proletari: avevano delle grosse convinzioni ideologiche, tutto qui. Ecco, in questo caso si
rompe anche questa vicissitudine, perché di fronte alle convinzioni ideologiche, in questo caso a
Milano di Negri o anche quelle di Oreste che pure lui sventagliava a suon di idee piuttosto che di
fatti, si produce questa rottura della codeterminazione (sovradeterminazione da questo punto di
vista). Ci si libera, almeno per quanto riguarda la situazione milanese, di questa cappa che non
permette la possibilità dello svilupparsi dei terreni di conflitto relativi a quelle che sono le
esperienze, le capacità, le possibilità di quella centralità operaia a cui poi peraltro ci si riferisce.
Perché se no si fa un’ulteriore estrapolazione se si parla e si scrive di autonomia operaia, di
centralità operaia e non se ne colgono quelle che sono le sue effettualità, le sue naturalità, le realtà;
piuttosto si vagheggia, ci si immedesima estrapolando e castellando sotto ogni profilo.
Il percorso di rottura di qualsiasi tendenza tesa a costruire un partito separato dalla classe, ripetendo
vizi e vezzi che sono stati anche il portato della fine degli anni ’60 e degli anni ’70 di tutta
l’intelligenza estranea al Partito Comunista, compresa appunto quella dei Quaderni Rossi ecc., è
questo attacco da parte nostra all’autonomia del politico complessivamente intesa. Questo percorso
su cui sono stati spesi enormi chili di parole, che ad una lettura positiva dovrebbe essere quella di
non essere condizionato dalle oscillazioni dei movimenti e quindi anche delle centralità operaie
ecc., si è risolto invece costantemente nel negativo di poter indicare sempre e costantemente quelle
che sono le vie da seguire e quali sono le riformulazioni della teoria spesso dimenticando quella che
è la prassi; per cui c’è stata una teoria (se c’è stata) senza prassi, il che significa che si è usciti fuori
dal seminato marxista. Allora, non voglio dire che gli unici marxisti sono stati quelli che hanno dato
vita all’autonomia operaia senza a e senza o maiuscole, senza sigle, però sicuramente c’è stato un
percorso relativo ad una conoscenza estremamente precisa dei propri limiti e delle proprie categorie
e della distinzione estremamente precisata di quelli che sono i fini e di quelli che sono gli strumenti,
i mezzi; spesso e volentieri si è confuso fine con mezzo. A noi ci è sempre pochissimo importato, ed
è caratteristica anche dei giorni presenti, la possibilità del feticcio dello strumento o del mezzo. Ciò
non è caratteristica invece di un percorso storico che ha caratterizzato la nascita dei movimenti
operai dalla metà dell’800 fino ad ora: il partito o il sindacato o il labour sono stati chiaramente un
feticcio, che tuttora viene difeso e sostenuto, e diventa il potere, diventa la sovrastruttura, anzi da
sovrastruttura diventa struttura. La vicissitudine invece più propria a questa compagine legata alla
nascita dell’autonomia operaia e alle sue evoluzioni ha fatto sempre una netta distinzione, quindi
non offrendo possibilità di fuga da questa distinzione: lo strumento è tale che può e deve essere
estremamente leggero e deve rappresentare la possibilità del suo esaurimento all’esaurirsi del ciclo
rappresentativo di lotte di una certa fase e di un certo passaggio, costruendo altri strumenti adeguati
al successivo ciclo, alla successiva composizione di classe, ai successivi epicentri (se devono
esistere) trascinatori di una determinata vicenda politica rivoluzionaria. Altra cosa è il fine, e su
questo discorso del fine chiaramente ci si limita a delle dichiarazioni, a delle affermazioni che
spesso sono lontane nel tempo: “il comunismo è l’abbattimento dello stato di cose presente”, spesso
è molto limitante questa affermazione, bisognerà invece saper prefigurare, indicare e praticare già
nello stato di cose presente quelli che sono gli elementi prefiguranti di una società che uno vuole
costruire. Questi non possono chiaramente appartenere al programma dei sogni finitesimali oppure
alle astrazioni di cui ci si rimanda poi l’effettività solamente nel momento in cui si è compiuta la
rottura, poi spesso e volentieri ci si limita a verificare esclusivamente la forma primaria di questa
rottura, quando almeno nel maoismo o quanto meno l’insegnamento che Mao ha potuto produrmi è
che le contraddizioni, esemplificate nel leninismo con la dittatura del proletariato, continuano a
persistere anche dopo la spallata e quindi le classi non scompaiono ovviamente e immediatamente,
anche perché le produzioni dall’oggi al domani non possono permettersi l’abolizione del lavoro
salariato, non possono chiaramente progredire sotto questo profilo e limitare i danni, ma bisognerà
pur capire alla fin fine che tipo di società si vuole costruire. Gli esempi costruiti, pur in una
transizione che a questo punto non potremmo definire estremamente limitata se l’Unione Sovietica
è perdurata per settant’anni, se la Cina ha vissuto fino a questo momento per sessant’anni, ebbene
tutto questo ci rimanda al fine da non scambiare con il mezzo; il mezzo può servire alla rottura, per

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creare appunto un fine in cui le forme che sono state costruite vanno allo scioglimento, cioè il
mezzo va sciolto nel fine. E’ impossibile chiaramente determinare un percorso della permanenza
eterna del mezzo per sostenere un fine, diventerebbe una contraddizione non solo semantica ma in
sé, in quanto tale. Quindi, il raggiungimento del comunismo bisogna che sia esso stesso precisato se
si vuole arrivare a concepire (a maggior ragione all’oggi piuttosto che quando ne discutevamo in
quella vigilia del ’77) quelle che sono poi le percezioni, le capacità di trascinamento, le
aggregazioni non solamente delle decine di migliaia ma anche dei milioni di persone, attraverso la
concezione di questa possibile società desiderante, alternativa ecc. Se no, altro che utopia, è solo un
annuncio e basta, banale in quanto tale e soprattutto è quasi un vessillo, un ricordo piuttosto che una
materialità. Poiché si è o dovremmo essere materialisti dovremmo dire che la cosiddetta messa in
comune dei mezzi di produzione (perché è uno dei presupposti fondamentali da questo punto di
vista) deve permettere la possibilità a ciascuno di cooperare per poter mantenersi e di poter creare le
condizioni affinché ci sia, nel più breve tempo possibile, l’abbattimento del lavoro salariato, che è
uno dei fondamenti della riproduzione del capitale. Questo ciclo si pratica nell’esistente attraverso
una pedagogia costante del rifiuto del lavoro (quello salariato ovviamente) che può e deve essere
attraverso la riduzione dell’orario di lavoro ecc., ma non nelle forme in cui esiste solo la
rivendicazione salariale: 35 ore sono una rivendicazione salariale, le 4 ore di lavoro nella
permanenza del ciclo capitalistico del lavoro salariato sono un processo evolutivo acceleratorio
verso questo percorso, pur nella non distruzione del ciclo capitalistico, perché questo continua ad
essere corroborato nel plusvalore anche attraverso 4 ore di sfruttamento. E poi le vicissitudini legate
ai bisogni, alla tutela ambientale e poi chiaramente il discorso della politica, in qualità della
riappropriazione da parte dei soggetti e non da parte del partito in quanto tale: la politica non può
appartenere al partito, deve essere redistribuita e riappropriata dalle stesse masse che producono un
fine da questo punto di vista. Se noi non riusciamo a esplicitare questo passaggio in maniera
cogente, quasi fosse una bibbia, credo che avremmo come al solito, come hanno fatto fino a questo
momento anche gli amici e i compagni a cui ci siamo riferiti, dei grossi esercizi di intellettualità e
basta: mi riferisco ai Negri e ai Piperno perché un contributo sicuramente lo hanno dato rispetto a
compagni appartenenti agli altri gruppi, ma si sono posti al di fuori della vicenda più nostra,
interina, della costruzione di una alternativa rivoluzionaria qui in Italia a partire da quella base
iniziale che fu la centralità operaia. Perché poi guai a pensare che nello sviluppo delle stesse
contraddizioni alimentate dal conflitto che poi è messo in atto questa centralità potesse essere
permanente, perché anche qui ammetteremmo una contraddizione fondamentale: al superamento dei
cicli produttivi nel massimo sfruttamento e quindi all’adeguamento capitalistico di essi non può
permanere la stessa forma organizzata sia nella produzione che nella società. Tant’è che
l’impreparazione a capire questo percorso ci ha portato anche a questo ritardo attuale di risposta nei
confronti di questa società che ammette sicuramente il ciclo dello sfruttamento attraverso una
variazione di macchine, che non sono solamente quelle della catena di montaggio ma sono anche le
macchine intelligenti.
Quindi, la critica nei confronti di questi compagni, oggi al massimo nei confronti di Negri, è quella
di continuare a propalare castelli in aria. Si pensi a questa presunta strategia degli anni ’90 del
municipalismo, cioè dell’internità attraverso la presenza sul microterritorio, scimmiottando in parte
Marcos, il quale si può permettere di fare questo ed altro per poter difendere una minoranza in un
accerchiamento formidabile com’è il ventre dell’imperialismo, quindi se lo può permettere nel
senso che spetterà comunque a noi poterlo contraddire. Ma creare delle condizioni o pensare che
dalla Selva Lacandona possa nascere o rinascere la fiammella della rivoluzione mondiale è un
assioma che in quella dimensione e in quella vicenda lo si può accettare, salvo chiaramente
criticarlo se deve valere per tutto il mondo. Alla stessa stregua pensare che il conflitto tra capitale e
lavoro si sia quasi esaurito all’interno delle nostre latitudini e che sia stato riassorbito nella
macchina intelligente del computer oppure oggi si potrebbe dire nella nuova economia, è un’altra di
quelle follie, di quell’essere andati fuori tema. Di conseguenza sarebbe sufficiente reinserirsi
all’interno di questa problematica italiana con delle microstrutture per poter codeterminare una

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rivoluzione di fatto e quindi un esaurimento in sé del dominio, dunque basterebbe questa spallatina,
questa riappropriazione dal basso: ciò mi sembra fuori luogo, siamo in tutt’altre dimensioni in
questa vicenda, presumo che il capitale la faccia da padrone, che stia stabilendo addirittura lui, dopo
averlo costruito già cento e passa anni fa, un nuovo far west in cui la competizione che passa dal
livello globale a quello locale diventa una sfida di tutti contro tutti, che tende a fare esaurire, almeno
per un lunghissimo periodo, il ciclo del conflitto. Quindi, se si esaurisce il ciclo del conflitto le parti
in causa non si sentono più parti, non si sentono più classi, e del resto stiamo verificando la caduta
di classe che c’è stata nel comportamento della forza-lavoro operaia, messa in competizione
individualmente, non in termini di segmenti collettivi, assume la competizione piuttosto che la
risposta di controtendenza. E’ un po’ una follia; tra l’altro non è neanche farina del proprio sacco,
perché intorno agli anni ’60 l’abbattimento definitivo delle velleità pciiste sulla dicotomia tra
socialismo e democrazia risolta poi nella lunga marcia attraverso le istituzioni, ha fatto sì che si
potesse rappresentare nel municipalismo dell’epoca, nella buona amministrazione in quanto tale
l’asse di risultanza della possibilità di andare poi a gestire e a vincere un’elezione, queste sono state
le prospettive di quegli anni. Quindi, mi sembra ciarpame che non serve a creare nell’oggi le
possibilità di una condizione di ripresa di teoria e di ripresa di prassi che ci possa far intendere
quello che necessita all’interno di questa situazione, in cui ben difficilmente potremmo trovare dei
risultati immediati. Però, non credo, come è alla verifica dei fatti, che possano esistere terze vie,
cioè la possibilità di un liberismo attenuato come hanno creato o cercato di dirci; non c’è più
possibilità dell’uso dei vecchi welfare scaturiti dalla crisi del ’29 e quindi dalla possibilità che i
volani della produzione si producessero attraverso la redistribuzione della ricchezza e quindi di
nuovi consumi. La scelta mondiale oggi è quella liberista, e dentro la scelta liberista convinta anche
della vecchia socialdemocrazia o di chi si rifà ad essa, il liberismo attenuato doveva essere questa
compagine, cioè la possibilità di togliere a chi aveva conquistato attraverso la lotta di classe delle
posizioni di natura materiale per darle e redistribuirle a coloro i quali il ciclo liberista non può più
garantire niente, che sono i disoccupati ecc. In questo orologio della storia e in questa sinergia si
situerebbe il liberismo attenuato. Ma tanto vale fare una proposta migliore ai figli e ai padri di
allearsi contro coloro i quali ci vogliono dare questa sonora fregatura. Esemplificando tutto questo
(cosa che non si può fare) ci troviamo in una situazione oggi tra le peggiori da affrontare, nel senso
più vicino a quelli che sono stati gli epicentri del conflitto che sicuramente sono stati all’interno; per
cui alla perdita di conflittualità dovuta alla competitività e al globalismo corrisponderà sicuramente
l’allargamento dei mezzi di produzione. Qui sta il globalismo, qui sta la risposta invece più positiva,
che se non ci addormentiamo subirà delle accelerazioni e quindi la delocalizzazione delle
produzioni fordiste, sia nell’est europeo, sia nel sud-est asiatico, sia nell’America Latina, verranno
ancora più accentuate per creare le condizioni di ricarico di profitto nella maniera più veloce
possibile. Ma altrettanto ciò susciterà, in questa ulteriore delocalizzazione più ancora verso il sud
del mondo, altrettante reazioni e resistenze che metteranno oggettivamente in collegamento gli strati
di classe che sicuramente si sono venuti a creare in questa velocizzazione infernale del ciclo
globale. In tutto questo il vecchio Manifesto di Marx e di Engels può essere ancora il suggello di
una riconduzione ancora attuale a quel modello in quanto tale, chiaramente con relativi
aggiornamenti alla luce delle stratificazioni che sono avvenute e dell’entrata in ballo effettivamente
di tutti gli strati popolari di tutto quanto il mondo, con il valore che hanno assunto e che lì è appena
accennato (è invece accennato nei Grundrisse) l’ambiente e la natura in quanto tali, quindi del
rifiuto di essere sfruttata in maniera così devastante o finale dall’impresa capitalistica.

- Tu prima hai parlato del vizio del gruppettarismo: per quanto riguarda invece l’esperienza
romana, secondo te quali sono state le ricchezze e i limiti delle forme organizzative che si sono
espresse?

Dal punto di vista positivo qui c’è stata questa capacità prefigurante che nel 1975 ha preso la forma
di un’assemblea cittadina dei comitati operai e di quartiere, e che quindi ha riassunto all’interno di

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questo soviet, di questo consiglio le strutture, le realtà, le forze antagoniste dell’epoca, creando
molto di più di un parlamentino: è stato la forma della democrazia diretta che riconosceva i propri
partecipi, li rispettava e dava luogo a questa istituzione dove potevano essere prese le decisioni a
partire anche da una richiesta estremamente locale. Tutto questo ha avuto vita per due anni, fino alla
vigilia del 1977, ed è stato un elemento estremamente creativo, stante anche l’eventuale scelta da
parte di qualcuno di formazioni armate. Io quando parlo di formazioni armate parlo di formazioni
decisamente dedicate solo alla lotta armata, perché il percorso dell’autodifesa era proprio non solo
dei gruppi ma anche delle formazioni dell’autonomia operaia, anche delle loro articolazioni, dei
comitati, dei collettivi ecc. Ciascuno era chiaramente in grado di poter difendere non solamente le
conquiste realizzate, ma di poter risolvere spesso alcune contraddizioni con piccole e medie
spallate, senza mai ovviamente debordare dallo strumento dell’offesa rispetto alla capacità di massa
che uno era in grado di avere. Si pensi, giusto per dare un esempio, all’esautoramento della
virulenza fascista, che a Roma era già fortissima ed è stata sempre forte fin dalla repubblica, dal
’48, dalla scelta cioè di riaprire le carceri da parte di Togliatti e di mettere in libertà questi sgherri
fascisti; si pensi agli attacchi che a Roma all’università si sono subiti con i Caradonna, gli
Almirante, Paolo Rossi morto, Oreste Scalzone quasi messo a morte ecc., gli assalti, gli
accoltellamenti, i mazzieri, le cose ben raccontate da Giulio Salierno come ex mazziere poi
diventato compagno. Tutto questo non poteva non produrre un’autodifesa, una capacità di dire
“meglio la morte tua che la morte mia”, giusto per esemplificare, non è che uno ha questo come
principio ma sicuramente visto che tu aspiri a questa tendenza, a questa tua forma individualistica, a
questa concezione del super-io, se non sei direttamente pagato quattro soldi dal tuo partito o qualche
soldo di più da qualche servizio. Basti pensare che a me personalmente, che ero la figura che piano
piano poi sono diventato, già nel ’72 si recapitano a casa i proiettili di vario calibro firmati
Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo ecc., si tenta di rapire mia figlia di appena sei mesi dalle
braccia della madre; io giravo armato pensando chiaramente che era meglio sfuggire alla morte da
parte di un fascista che essere arrestato dalla polizia, dal momento che tutte le sere potevi essere
arrestato dalla polizia mentre tornavi a casa, perché questo era il clima. Dunque, se tu non solo non
volevi soccombere ma volevi creare le condizioni per liberarti da questa cappa dei fascisti dovevi
per forza attrezzarti e quindi mantenere questa attrezzatura, saperla evolvere e avere la capacità di
saperla comunicare successivamente con tutte le precauzioni del caso, con tutto il discirnimento
dovuto a non fare capire fischi per fiaschi ai nuovi militanti ecc., spiegando che l’uso della forza era
un uso appropriato alla dimensione degli obiettivi e del programma che tu stavi perseguendo, non
poteva essere separato; e che quindi questa parola violenza che veniva insita dentro era altrettanto
una formula della politica senza la quale non erano risolvibili determinati passaggi, questa era
un’ovvietà insomma.
Dicevo dunque che l’assemblea cittadina dei comitati ha funzionato come forma della democrazia
diretta, l’altra società, come forma di una società altra in questa città: esprimeva la natura del
conflitto relativamente a determinati bisogni da perseguire, gli ambulatori gratis, le case occupate
(l’esperienza di Roma sulle case occupate ha fatto sì che fossero distribuiti fino ad oggi 20.000
appartamenti, non sono pochi), la tutela del mondo del lavoro, i picchetti, gli sfratti, la solidarietà
tra di noi ecc. Tutto questo ha funzionato chiaramente senza ministri e senza sottosegretari, ci
mancherebbe altro, ma con dei compiti distribuiti dentro questo, con queste assisi che si facevano
nell’auletta del Policlinico che era capiente di duecento persone che erano espressione di tutta
questa realtà romana. Il proprio limite dove è stato? E’ che ancora, pur subordinandosi a questa
necessità, ciascuno, forse per troppo poco tempo a disposizione e per le insorgenze più forti di noi
che avvenivano all’interno del quadro politico generale, poi riferiva ancora al proprio gruppo di
appartenenza, quindi c’era una specie di rappresentazione anche qui, non di tipo parlamentare ma
sicuramente surrogata. Quando arriva il ’77 è ovvio che questa struttura subisce un repentino
sbandamento e un autoscioglimento. Del resto, gli stessi Comitati autonomi operai sono vissuti
come strumento, come mezzo e mai come fine, ci mancherebbe; quando sono avvenuti i due grandi
epicentri per esempio, questa valutazione insieme al pensiero scientifico sul mezzo ha avuto delle

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sue applicazioni. Per esempio, ci sono state le grandi occupazioni di case che hanno
sommovimentato tutto l’anno ’74, quando poi a San Basilio nella rivolta è morto Fabrizio Ceruso,
in quell’anno tutti occupavano case, però due gruppi in assoluto hanno occupato: i Comitati
autonomi operai e i comitati popolari. In quell’epoca ci fu uno scontro all’interno dei Comitati
autonomi operai sul fatto se questo fosse un asse principale o secondario; qualcuno oppose
resistenza tenuto conto che la grande epopea dell’occupazione delle case doveva per forza costruire
un passaggio onnicomprensivo, non era possibile mantenere l’attività dentro il Policlinico, dentro la
Fiat, dentro la CUB dei ferrovieri e fare l’occupazione delle case, abbisognava chiaramente di un
quadro così estensivo per arrivare a fare occupazioni in tutta Roma. Questo scontro ha portato ad
una decisione ponderata, chi non l’aveva capito e non l’aveva voluto capire proseguisse nelle sue
attività, ma non poteva essere impedito a chi aveva capito che quella era l’epopea di poter
convergere, fare punto di forza su questo, sciogliersi nella realtà del comitato occupazione case,
salvo poi riprendere le fila successive. Questa stessa decisione, più o meno simile, fu presa
all’avvento del ’77; fu un dibattito molto leggero da una parte, veloce dall’altra, molto intenso e
critico alla stessa stregua, ma alcuni compagni compresero questo, altri invece si lamentarono di
questo scioglimento nel movimento del ’77. Se andavi propalando, andavi scrivendo, andavi
sollecitando questo discorso del fine e del mezzo, quindi del mezzo che era contemperato con la
stagione politica, con gli obiettivi ecc., dunque se il ’77 si configurava come un movimento
antagonista effettivo tu dovevi essere partecipe di questo movimento in tutte le sue viscere. Allora
tutto questo da una parte di noi fu compreso, altri posero delle resistenze che magari si sciolsero
man mano durante l’anno ’77 per poi magari riproporsi all’indomani della conclusione dell’anno,
anche se poi il ’77 dura e va oltre. In questo caso i limiti di queste esperienze in gran parte romane
sono quelli della cristallizzazione, della permanenza all’interno dei propri reticoli, se si vuole della
non formazione continua che è mancata nei confronti di questo patrimonio di compagni
complessivamente della sinistra romana, comprensiva chiaramente anche di quella autonoma.
Dunque, l’aver continuato a mantenere all’interno di queste strutture, pur pensate e fatte vivere
significativamente, delle riserve: la riserva era anche di carattere piccolo organizzativo, se non
quella precedente, che mantenesse inalterata la possibilità della preminenza dell’uno rispetto
all’altro. Può aver caratterizzato anche questo i Volsci, probabilmente è stato così, non voglio
sostenere che essi siano stati immuni da egemonia organizzativa: normalmente ci siamo riservati il
patrimonio di aver creato sì un’egemonia ma dal punto di vista sensoriale, della capacità di
comprendere qual era il livello del percorso da seguire piuttosto di creare un indirizzo univoco. E
tra l’altro ci si fa critica (mi riferisco sia a quelle bonarie sia a quelle malefiche) di non aver
perseguito ciò e di essere degli anti-partito, di essere dei movimentisti, quindi in quanto tali di aver
peccato non avendo saputo o voluto contribuire a costruire un percorso più finemente organizzativo
che desse luogo alla possibilità di riparare poi alla sconfitta con la S maiuscola che è quella che
chiude il ciclo degli anni ’70.
In definitiva, nella vicenda romana ci sono delle grosse intuizioni che hanno portato a far vivere in
prevalenza il portato dell’esperienza e delle valutazioni di natura luxemburghiana, la preminenza
cioè del fine rispetto al mezzo, quindi intendendo per questo i prodromi del fine che sono delle
articolazioni soviettiste, consiliari, i fondamenti iniziali della nuova società, i pezzi della
democrazia diretta ecc. Quindi, ci sono state queste grosse intuizioni legate all’attenzione che c’è
stata nella sinistra romana, di tutta la sinistra operaia, in particolare verso il pensiero e le azioni di
Rosa Luxemburg, in critica chiaramente con il leninismo. Dall’altra parte, c’è stato questo peccato,
che probabilmente c’è, che spesso la misura non è in grado di saper essere calibrata finemente,
come dunque si contempera la vicenda del fine con la vicenda del mezzo. Dunque, spesso sfuma la
vicenda del mezzo, lo strumento, sia esso di natura gruppettara o di natura partitica, che in alcuni
tempi può essere necessario per accelerare i passaggi e per poter resistere meglio alle successive
fasi reazionarie.

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- Secondo te, quanto le analisi dei limiti e delle ricchezze che si sono espressi nei movimenti, nei
percorsi e nelle proposte politiche degli anni ’60 e ’70 possono essere attualizzabili nella realtà
odierna e quindi la loro lettura può essere utile?

La loro lettura è senz’altro necessaria al pari di tante altre letture: io spero che ancora ci sia nei
giovani la voglia di studiare oltre che leggere i classici, l’opera di Marx come buona parte
dell’opera di Lenin come anche gli autori moderni. Il coacervo di indagini che ognuno può
approfondire sia in sede universitaria, sia in sede collettiva, sia come autodidatta, intanto
permettono di sostenere il punto di vista di quell’annuncio, di quello svisceramento della società,
ma io parlo soprattutto dell’annuncio. In quegli anni è stata visionata e sviscerata anche attraverso
l’inchiesta, soprattutto attraverso strumenti classici di indagine oltre che dall’esperienza. Questi
sicuramente offrono la possibilità di comprendere ancora meglio quello che è stato lo sviluppo di
questa società, compresi chiaramente tutte le cose che poi sono andate sotto il segno dello scandalo,
si pensi a Tangentopoli, cioè quello che è poi il circuito stesso della società: l’affarismo non è un
segmento straordinario, è connotato direttamente nella stessa società. Il ridurre e mantenere in
miseria pezzi notevoli di società, quello che oggi trovano con scandalo i giornali sostenendo che ci
sono sei milioni di poveri (ogni tanto l’Istat ci dà questo annuncio), non è una maledizione, un
postulato impossibile da eliminare, è un atto voluto, deliberato; allo stesso modo è deliberato lo
sfruttamento ambientale, lo sfruttamento dell’immigrazione. Quindi, è sicuramente illuminante da
questo punto di vista e al limite anche sotto una specie di regia cinematografica quello che si è
potuto individuare nei passaggi che sarebbero potuti avvenire e che sono del resto avvenuti.
Sicuramente si può scorgere nella lettura dei documenti del 1977 la capacità di indicare che non si
erano aperti i giochi rivoluzionari, per cui non c’era la possibilità anche accedibile alla spallata e
quindi ad ulteriore confronto di lotta armata che procedesse poi alla vittoria o alla sconfitta:
piuttosto c’era la comprensione che tutti quei passaggi che la produzione capitalistica e la
strumentazione ad essa adeguata si erano dati sono stati poi pienamente realizzati e oltrepassati
attraverso quest’epoca, ma lì già erano dati. Quel movimento ebbe quasi un sussulto, la capacità
veniva da un’onda lunga, probabilmente ebbe solo la capacità di ritardare questa possibilità, di
saperla dimostrare, illuminare, far comprendere, aver ritardato solamente questo ciclo non essendo
stato in grado di saper quanto meno contrastarlo in maniera efficace né dal punto di vista di chi ha
voluto anticipare i tempi (se mai si può definire tale la lotta armata), sia di coloro i quali non
avevano ancora ben compiuto il percorso di posizionamento anche della capacità di una
strumentazione politica che fosse in grado di contrarre al dominio capitalistico e alle sue evoluzioni
il passaggio che si sarebbe determinato.
Nel periodo posteriore al boom economico, quando si capiva chiaramente che tipo di facilità il
capitalismo italiano rappresentava in Europa e nel mondo occidentale, c’erano questi strumenti di
indagine, per cui la società italiana era ancora possibilitata ad essere bucata da percorsi
antidemocratici, quindi era una società incompiuta: del resto, quale compiutezza può avere una
repubblica così giovane, all’epoca nemmeno di trent’anni, che veniva dalla Seconda Guerra
mondiale, dallo sfacelo del fascismo ecc., quindi non una repubblica qualsiasi? Si pensi al confronto
agli atti costituivi della Francia, dell’Inghilterra, della loro statualità. Era l’indicazione
dell’attenzione che oggi sicuramente è irriproducibile dal punto di vista del possibile tentativo di
golpe della Nato, della Cia ecc.: perché oggi è impossibile? Perché oggi più di ieri il dominio
dell’economia globale è deciso da alcuni fondamenti e strumenti internazionali, che sono la Banca
Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Ocse, più o meno tutti anche se col Wto ci sono
ancora alcuni punti da regolare. Per cui dal momento che finanche Bertinotti (tanto per dire
l’estremista della compagine parlamentare) ha fatto a gara per far rapinare gli italiani di oltre
120.000 miliardi per entrare nell’Europa di Maastricht, è ovvio che si è entrati dai parametri decisi
da un golpe internazionale, quindi un golpe locale non avrebbe più occasione. Del resto, per quanto
riguarda la nascita di Maastricht si ha voglia a dire, chiunque voglia fare il retrò, che potrebbe
portare ad una ripresa di conflitto statuale tra alcuni stati dell’Europa, sarebbe impossibile, perché

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uno dei presupposti dell’Europa economica e militare è quello di spostare il contrasto alla periferia
della propria dimensione piuttosto che all’interno. Questo è uno dei parametri che sicuramente sono
mutati e la lettura della fine degli anni ’60 ha potuto indicare quello che sicuramente sarebbe
avvenuto, compreso chi le ha fatte le cose: si pensi alla stagione golpista, al partito di riferimento,
alla Gladio, a tutto quello che è l’insieme dell’incompiutezza della democrazia italiana. L’altro
parametro era l’incompiutezza dell’assetto della produzione in Italia, con la valutazione che il
sindacato italiano non poteva non essere concertativo, nel senso che l’esperienza tutta italiana dello
Stato corporativo ha potuto e può indurre a questa visione. Quindi, le ricerche che sono state
effettuate già nell’epoca, non da tutte le parti contraenti del movimento ma sicuramente da una parte
più attenta, hanno potuto sostenere questo nella ragione, perché i sindacati per esempio come la
CISL e la UIL erano già in questa misura dalle origini; nel sindacato CGIL c’è una sua struttura
adeguata alla scelta soccombente in questa vicissitudine. Del resto le discussioni e le analisi sulla
critica che si faceva e si fa nei confronti delle socialdemocrazie nordiche può essere utile, all’epoca
se ne è fatta tantissima perché il confronto era tra riformismo e rivoluzione; oggi di rivoluzione non
se ne può parlare e il discorso è sul riformismo, su chi pensa che si sia aperto un capitolo riformista
qui in Italia a partire appunto dal liberismo attenuato e chi pensa che il riformismo non sia
accedibile. Se dovessimo parlare di riformismo e dovessimo indicare una soluzione a tutti ci viene
in mente, fin dall’epoca degli anni ’60 e ’70, il discorso delle democrazie scandinave, perché già a
quell’epoca il livello di partecipazione agli utili, la cosiddetta cogestione, è uno dei capisaldi di
quella democrazia, che sicuramente è diversa non solo dalla democrazia italiana ma anche da quella
inglese ecc. E’ una situazione in cui la redistribuzione della ricchezza è molto più estensiva, ma
soprattutto a noi interessa questo discorso, che era molto sentito all’epoca e che ha fatto parte di
dibattiti negli anni ’70, su quella che era la possibilità della concertazione vissuta come
accentrazione della trattativa e invece la contrattazione articolata che era un forma di battaglia quasi
anarchica all’interno delle posizioni di lavoro. Oggi ciò ritorna molto illuminante, ad esempio nella
proposta di D’Antoni della CISL odierna e soprattutto in chi vuole da parte di tutti essere indicato
come futuro presidente del consiglio, l’attuale presidente della Banca d’Italia Fazio, che
recentemente sostiene il discorso della partecipazione agli utili che si traduce nella formula attuale
nella redistribuzione delle azioni e quindi nell’azionariato diffuso da parte del mondo del lavoro:
dunque, la forza-lavoro si sentirebbe più attratta allo sfruttamento in virtù i questa partecipazione
allo sfruttamento. Questo è uno dei dibattiti che è stato antesignano da questo punto di vista. Per
quanto riguarda i documenti e i dibattiti sul ’77, si pensi per esempio a tutta la vicenda del lavoro
nero o se vogliamo l’abolizione delle festività aggiuntive, che sono state intraviste non solo come
razionalizzazione della produzione, che non poteva essere più fermata neanche dalla religione; c’era
comunque nello Stato ancora un altro Stato, lo Stato del Vaticano che abbiamo visto quanta
interferenza metta nelle cose italiane a proposito del Gay Pride ma anche di altre situazioni.
L’accordo sull’abolizione delle festività infrasettimanali è un accordo storico, è paragonabile al
Concordato, perché in una società confessionale come la nostra abolire San Giuseppe, l’epifania
ecc. per i fini della produzione e della mercificazione è uno dei dati che poteva far capire il livello
di trend e di tendenza. Lo stesso sviluppo del lavoro nero è paragonabile alle agenzie del lavoro
interinale: nel ’77 abbiamo infranto quaranta buchi del lavoro nero, tutti sapevamo e nessuno se ne
voleva accorgere di questo passaggio. Quindi, il taglio del posto di lavoro, il taglio dei diritti, la
riduzione a mercede di tutto quello che è il circuito delle conquiste, dell’emancipazione del
lavoratore, in realtà va a farsi fottere.
Dunque, quel moto di ribellione, in virtù ancora della visione internazionale, il PCI che era ancora
PCI, ha potuto produrre ancora quello scoppio così quasi improvviso anche se nelle cose ha potuto
solo ritardare quelli che sono poi i processi in corso. Quindi, chiunque volesse fare il preveggente,
potendo sommare o addirittura mettere nel computer questo, ne trova un motivo per cui potrebbe
vedere quello che accade tra quindici anni: ci sarà un punto di non ritorno oggi si può dire, perché
non è difficile scorgere, almeno nella situazione occidentale e in particolare in quella italiana, quale
sarà il punto di caduta finale, perché la Confindustria attraverso le sue modificazione e attraverso

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anche i suoi contrasti è arrivata a concepire che l’unica forza-lavoro che vuole è quella disponibile a
un fischio, pagata quando gli va e quando gli pare, magari zero. Quanto è sopportabile tutto questo?
Tutto questo ha un limite di natura oggettiva oltre che soggettiva, ha il limite della necessaria
riproducibilità del capitale anche sul territorio nazionale, perché guai a pensare che essendo
strumenti fondamentali che governano l’economia mondiale lo Stato nazionale non abbia più una
sua funzione: esso ha ancora la funzione di poter drenare le risorse all’interno di un proprio
territorio, di partecipare in competizione a una redistribuzione di ricchezza l’una diversa dall’altra,
di mantenere sfumature diverse. Ma appunto il limite del capitale nell’abbattimento di qualsiasi
struttura organizzata del lavoro e della risposta politica è quello di non ridurre i consumi a zero
all’interno del proprio spazio, perché riducendo i consumi a zero riduce proprio la sua possibilità di
accumulazione. Per cui in questo contrasto non è difficile scorgere quale sarà il tipo di società
provvisoria che significherà la sanzione vittoriosa del capitale su qualsiasi altra forma della politica.
Però, a tutto questo corrisponderà chiaramente poi la nuova soggettività che può dire: “ma si può
vivere più o meno a livello di schiavitù grosso modo come quella del tempo delle piramidi in una
situazione in cui si vola con gli aerei subsonici eccetera?”. Su questo ci possono essere non solo le
rivolte del pane o dell’acqua o di qualche altro genere alimentare, ma sicuramente una sommatoria
di tutto questo può far pensare a quello che è avvenuto nell’arco di tempo di meno di dieci anni nei
paesi ex socialisti. All’indomani del crollo del Muro, del crollo dell’identificazione coatta con lo
Stato sovietico, essi hanno potuto e dovuto per forza liberarsi mandando al potere partitelli del
cavolo di natura anticomunista, mettendo anche dei limiti alle cariche di ex comunisti come è
avvenuta nella Repubblica Ceca; però, alla fine dopo cinque o sei anni, verificando che la struttura è
tipicamente liberista, che le merci ci sono dentro i magazzini però non le puoi compare perché non
hai una lira, hanno ricominciato a rivotare gli emuli dei vecchi partiti perché la promessa quanto
meno era la redistribuzione di pezzi di ricchezza paragonabili almeno a come si viveva durante il
percorso dei paesi socialisti.

- Però, questa soggettività di classe ha molte volte espresso delle forme di conflitto o di rabbia in
senso orizzontale, individuale o reazionario, quindi tutt’altro che antagoniste. Dunque,
partendo dalla pesante colonizzazione della soggettività di classe imposta dal dominio
capitalistico, come pensi che si possa andare tendenzialmente verso delle forme di
ricomposizione di classe che superino semplici conflitti o esplosioni di rabbia che di per sé non
sono certo antagonisti rispetto al sistema capitalistico?

Intanto qui la differenza con gli altri paesi sicuramente ancora c’è, noi non diamo luogo a delle
forme di insorgenza tutto fumo e niente arrosto, abbiamo piuttosto il percorso probabilmente più
lento ma più legato alle nostre tradizioni, quindi a una concezione organizzata quanto meno; ciò
anche se parlare di organizzazione potrebbe essere un eufemismo tenuto conto che poi non si è stati
in grado di maturare effettivamente un’organizzazione complessiva e duratura, e probabilmente i
difetti stanno proprio in questa nostra concezione molto radicale tra fine e mezzo. Io mi immagino
la differenza tra il maggio francese e le situazioni nostre: il primo fu una contraddizione importante,
imponente ma con un’estrema capacità di vissuto alle spalle di questa esperienza, sulle sue spalle
c’è la rivoluzione del 1789, la Comune di Parigi, c’è un’eguaglianza tra destra e sinistra
parlamentare rispetto alla difesa dei valori sostanziali del repubblicanesimo francese, la Marsigliese
tutti, destra e sinistra, fascisti stessi, la cantano, eppure non dovrebbe appartenere a tutti. Ma cosa
può appartenere dell’Elmo d’Italia alle varie classi sociali? Non appartiene nemmeno alla
borghesia, non credo che ci possa essere un’identificazione tra la borghesia e quell’inno patrio. In
questo contesto però, stante la sottrazione attraverso uno strumento costituzionale come quello dei
referendum al tempo del maggio francese, con De Gaulle che attraverso anche la capacità di quello
Stato di saper combattere per le proprie presunzioni, quindi prende atto della sconfitta: quel
movimento si riposizionò, quindi il maggio riuscì a portare a casa quello che aveva. Allo stesso
modo a Parigi e in Francia due anni fa il grande movimento che si sviluppò nei servizi, ferrovieri,

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elettricità, telefonici, contro il salario di ingresso, fece sì che si dimisero i ministri. Qui in Italia
questi passaggi ancora non avvengono: succede che un primo ministro come D’Alema si può
dimettere perché ha fatto il gigolò della politica, lo sbruffone, dicendo che lui vinceva tutto e poi si
trova perdente, perché gliene poteva fregare, essendo un’elezione regionale, di fare lo sbruffone,
quindi poteva rimanere in sella. Però, non appartiene a questa mentalità, a questa esperienza storica
la possibilità di dire “qui ho toppato e, siccome ho perso, mi dimetto, mi astengo, me ne vado”. La
La situazione italiana è molto diversa, non ammette vicende separate. Se si pensa al tentativo della
Democrazia Cristiana di mantenere il potere con ogni mezzo, non c’è differenza tra quanto ha fatto
Tambroni con l’uso dei fascisti nel ’60, con le bome della strage di Stato, con quelle relative ad una
situazione che ammette il confronto con la malavita sulle bombe di Firenze ecc. C’è un segnale
ancora lì di estrema stabilità, ovvero un segnale che anche la mafia è stata estraniata da quel sistema
di stabilità e quindi ammette un colpo di reazione: si pensi alla vicenda Andreotti che viene messo
al bando per avere creato screzi nei confronti del superalleato americano. In questo contesto i
movimenti che ci sono stati sono un derivato anche della tradizione, ma comunque sia c’è la
discontinuità rappresentata dal ’68 nei confronti degli altri movimenti operai, qualcuno vuole fare
risalire piazza Statuto alla forma dell’avviso nei confronti di quello che avverrà poi nel ’68,
probabilmente esso sta all’autunno caldo più che al ’68 in quanto tale. Però, tutto questo lo
ritroviamo in una tradizione che è nostra propria e che non ammette invece folate: ammette sì ogni
tanto dei picchi, ma non folate che si disperdono. Se uno dovesse andare a ritrovare adesso che cosa
c’è stato dopo il maggio francese, cosa c’è stato in Francia? Ci sono stati trent’anni di silenzio, c’è
stato un pezzetto di movimento antinucleare che rispetto a quello italiano e a quello tedesco fa
ridere, c’è stato sì ed è morto pure Morelon, quindi non è che non ci siano stati scontri, ma
trent’anni sono troppi per potere determinare poi queste iniziative dell’ultimo tempo fatte dalle
insorgenze degli studenti e dei lavoratori perché ce ne avevano piene le palle nei confronti del
governo di centro-destra, e poi dall’immigrazione in assoluto per quello che sta avvenendo.
Quindi, io credo che la lettura che si deve dare della situazione italiana è di un accumulo di forze e
di esperienze; che tutto questo non abbia maturato ancora la possibilità di creare con continuità
almeno una rappresentazione di tutto quello che non si riduce a compatibilità, è uno di quei rovelli,
dei grandi interrogativi in cui ci possiamo mettere dentro tutto compreso il tentativo, che dobbiamo
dirlo e affermarlo alla luce degli anni passati, in cui anche il partito dominante, la Democrazia
Cristiana, ha saputo mantenere una capacità riformista al proprio interno, quindi ha saputo quanto
meno garantire dei pezzi di redisitribuzione a settori e a segmenti (si pensi a quello delle campagne
con la Coldiretti, ai settori del nord bianco con le Acli, alla struttura delle parrocchie ecc.), dunque
una capacità di riassorbimento un po’ di tutti i conflitti. Ma per quanto riguarda poi la parte più
autoctona, senza dare risposte sempre agli altri e dandocele a noi stessi, le prospettive in questa
stagione non è che sono offerte da grandiosità; però, se dovessi scorgere quello che è successo in
questi ultimi due anni all’interno del mondo del lavoro tradizionale, quello dipendente, oggi c’è una
capacità Cobas di poter determinare scioperi in continuità. Anzi, posso ben affermare che negli anni
‘99 e 2000 la gran parte degli scioperi effettuati sono stati convocati dai Cobas, e alcuni sono stati
fondamentali, si pensi allo sciopero della scuola del febbraio di quest’anno, agli scioperi degli Lsu,
anche ai nostri scioperi dell’energia, delle telecomunicazioni e della sanità che ormai sono tutti
scioperi superiori a due cifre, sono magari l’11% ma arrivano anche al 55%. Quindi, ciò significa
che oggi si è rotto definitivamente un vincolo, chiaramente non abbiamo azzerato nel mondo del
lavoro il trascinamento goduto da CGIL, CISL e UIL e da tutti i loro sistemi di ricatti e dalle loro
forme istituzionali, però si è rotto un vincolo per cui ritorna in altra forma quello che negli anni ’70
chiamavamo la convenienza operaia: oggi c’è convenienza a fare le battaglie, a garantire quanto
meno tutele da parte dei Cobas, perché sono gli unici, anche se sono stati estremizzati, che possono
garantire tutele. Si è stati in grado di poter affrontare la vicenda degli immigrati in maniera tale che
questo non diventasse un paese razzista, e così è, se tutti gli immigrati del mondo sanno che devono
arrivare in Italia perché prima o poi ci sarà una sanatoria; e questo non perché gliela passa il
governo dominante in quel momento, ma perché c’è una rete sociale, che avrà anche le sue forme

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sbilenche, anche le sue forme piccolo malavitose, ma che soprattutto ha capito, magari per averne
partecipato in qualità di immigrazione precedente, che l’immigrato è fratello a noi, l’immigrato ha
bisogno di essere garantito come noi. Quindi, questo è un altro dei frutti che troviamo in Italia e ci
si spieghi perché non lo si trova in Germania, in Francia, dentro le frontiere di Shengen. La lotta per
la casa. Noi siamo un paese in cui il 74% ha in proprietà la casa, a differenza del 30% del sistema
inglese, del 36% tedesco e francese, quindi dovrebbe essere soddisfatto il bisogno della casa,
chiaramente rispetto al fatto che ancora venti milioni di persone ancora non ce l’hanno in proprietà,
la case popolari non se ne costruiscono più, c’è un accentramento nelle metropoli con quello che
significa il pagamento di affitti ecc. Invece, c’è questa tradizione di battaglie su tutto il territorio
nazionale, in particolare su questo territorio laziale, io sono nato qui con il comitato di agitazione
borgate, ma ho vissuto subito Quarto Oggiaro a Milano, Nichelino a Torino, Porto Marghera, sono
andato in quelle lotte sviluppate. Dunque, ciò testimonia che questo ciclo dei bisogni, questo ciclo
dei diritti è un ciclo che è rimasto, ha un suo radicamento, ha una sua storia, ha una sua cultura, ha
una sua propedeutica, appartiene non solamente a chi le fa le cose ma appartiene al ciclo delle
università, al ciclo della cultura cinematografica, delle antologie. Tutto questo insieme alla vicenda
ambientale, ho citato più volte la Germania che è l’altro paese dove la battaglia antinucleare è stata
vissuta con una profondità estrema, in virtù della frontiera che rappresentava, frontiera significava
Nato, Nato significava ogive nucleari, il che significava la rappresentazione finale di quello che
avevano vissuto durante la Seconda Guerra mondiale, la distruzione delle più grandi città tedesche
ecc. Per questo c’è stato il riversamento nel movimento studentesco tedesco piuttosto che nelle Rote
Arme Fraktion o nelle cellule del movimento nucleare per questa occupazione militare americana,
perché poi c’era questo doppio senso, era intrinseco sul nucleare ed era anti-imperialistico. Ma noi
siamo partiti qui e abbiamo portato avanti quel movimento in maniera fondamentale, nell’arco di
tempo di otto anni questo movimento è passato da un’iniziale battaglia persa a una vittoria totale e
ha costruito una generazione che ha inteso liberarsi di queste pestilenze oltre che di parte di questa
sovraesposzione del capitale; ed è passato con altrettanta velocità, anche con certe pause, a capire il
valore del rifiuto delle biotecnologie, del perché l’elettrosmog è dominato dalle grandi
multinazionali, il significato degli inceneritori ecc.
Tutto questo è il prodotto di una società matura, in via di maturazione, in via di crescita; è ancora
una forma separata, spesso non è connettibile, ma laddove l’operato della forma antagonista, della
forma anticapitalista riesce ad avere sul territorio espressioni plurime, ricompositive, di per sé già
ricompone una parte di questo spaccato. E se questo spaccato iniziale riesce ad essere includente
piuttosto che escludente, quindi fa venia di tutta una serie di cristallizzazioni, separatezze,
contraddizioni che si è portato appresso, scontri spesso inutili dal punto di vista dei principi, credo
che riesca ad incontrare un formidabile spaccato di società che è disponibile ad affrontare un
passaggio di superamento di questa società capitalistica che ci si presenta davanti in forma
disperante. Anche coloro i quali hanno soddisfatto al meglio le misure sostanziali del benessere
sono sicuramente insoddisfatti rispetto a questa continua capacità repressiva e militare, a questa
limitazione delle libertà, dove tutto è libero di circolare dal punto di vista delle merci tranne che le
idee, gli uomini, le persone. Quindi, sotto questo profilo non ho formule di ricomposizione, ma una
minima forma di avvio di quello che potrà essere il tentativo di riproporsi all’interno di un
connettivo che merita una sua ricomposizione e riaggregazione non è sicuramente sul circuito
parlamentare, elettorale, bensì in una forma ampia di consulta, convergenza, convenzione,
coordinamento, non so che nome dargli, sarebbe inutile dare il nome perché magari viene subito
bruciato, e che abbia sia una dimensione territoriale che una sua dimensione nazionale. Su questo ci
voglio mettere di mezzo anche l’ultima vicenda del Gay Pride: è stata una manifestazione
politicamente tremendamente importante, l’aspirazione a uno Stato laico, uno Stato comunardo, lo
definisco così, in cui siano messi in comune i mezzi di proprietà, in cui ci sia la laicità, la possibilità
di respirare libertà. Se 200.000 persone, di cui molte più di 100.000 erano persone non omosessuali,
hanno voluto partecipare a questo, rifiutando i diktat della Chiesa cattolica, del governo, di questa
stupidità, di questa disgrazia che abbiamo della sinistra, io sono convinto che ci sia questa maturità,

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a cui manca i motivi di espressione. Noi ne abbiamo fatti tanti di errori anche per l’immagine che
ogni tanto diamo di noi stessi, ma si può rappresentare un punto di svolta, un punto nodale dopo che
loro (cioè la situazione generale del popolo italiano) hanno verificato l'impossibilità di altre forme;
questo segno lo voglio ricavare anche dalle ultime quattro elezioni dove il livello di astensione è
andato dal 30 al 50%, dalle elezioni amministrative a quelle europee, per non dire poi di aver fatto
fallire gli ultimi due referendum.

- Di fronte a chi ritiene la classe polverizzata o addirittura scomparsa, a chi individua via via
nuovi soggetti di punta o tendenzialmente ricompositivi (il lavoratore immateriale, il lavoratore
autonomo, il cognitariato ecc.), tu pensi che esista o possa tendenzialmente esistere un soggetto
centrale o degli ambiti che possano essere politicamente trainanti?

Io non lo so se questo sarà possibile. Il giorno della manifestazione della scuola, il 17 febbraio di
quest’anno, quando improvvisamente sono arrivati circa 100.000 professori, li ho definiti i nuovi
metalmeccanici. Quindi, se dovessi aver sentito gli insegnamenti del passato che dicevano che c’era
un lavoro produttivo e un lavoro improduttivo e che quindi al di fuori della manifattura tutto era
improduttivo, questo faceva a cazzotti con il discorso di classe; eppure è stato sempre molto legato
alla classe il discorso sul lavoro produttivo. Dunque, si vive di stereotipi che fanno paura. Quei
lavoratori della scuola si sono comportati come dei metalmeccanici, anzi hanno fatto di più, hanno
fatto dimettere un ministro, cosa che in Italia non avveniva dall’800. Quindi, guai a individuarlo dal
punto di vista intellettuale, se questo avverrà sarà fattualmente. Nessuno poteva sostenere che negli
anni ’70 non dominava la centralità operaia: questa aveva dei comportamenti di oggettivo
trascinamento, tant’è che bottegai, commercianti, piccoli borghesi in genere si sentivano
accomunati allo sforzo della classe operaia di fare acquisire anche a loro quelle previdenze che la
classe operaia conquistava non solamente per sé ma anche per tutto il mondo del lavoro se non degli
italiani. E questo è stato: quando all’inizio ho parlato di quello che è stato il ‘69-’70 attraverso le
grandi riforme strutturali, come diceva il partito all’epoca, cioè la casa, la sanità, la pensione, ecc.,
chi le ha agitate? Allora, laddove troveremo una classe che sia in grado di interpretare i bisogni
generali e collettivi sicuramente in quel tempo rappresenterà il livello di trascinamento, quindi
l’epicentro su cui si organizzerà in quella fase strumentalmente e oggettivamente la vicenda
rivoluzionaria, transitoriamente rivoluzionaria, la capacità di trasformazione della società. Allora
perché non il lavoratore universale, di cui ho sentito parlare? C’è chi dice: “Il globalismo che cosa
ha costruito? Ha costruito un’altra categoria, è il lavoratore universale. Chi è il lavoratore
universale? E’ l’emigrante, dovunque lo mandi fa una tipologia del lavoro.” Ma allora perché non
chiamarlo lavoratore e basta? Nella ripetizione pedissequa di mansioni talmente ripetitive, tutti
siamo intercambiabili, quindi è un lavoratore intercambiabile. Quello che appartiene è altrettanto
intercambiabile, sempre in certe relative proporzioni, anche il lavoratore di questa piccola
strumentazione tecnologica che sono i computer. Se penso a quanti giovani in forma autodidattica
hanno dovuto imparare non solo a usarlo, ma a navigarci, come avrebbero fatto con qualsiasi
motorino, con qualsiasi altra strumentazione. Dunque, spesso sono soluzioni che servono a destare
l’attenzione, indicare questo o quello serve a far vendere libri, sicuramente non rappresentano i
processi materiali che sono all’ordine del giorno.
Certo, l’unica cosa che mi preoccupa in assoluto, e credo che preoccupi molti di noi, è questo
smarrirsi della classe. C’è uno smarrimento in giro che fa paura, c’è una paura anche che dovrebbe
rappresentare soprattutto il disoccupato; ma Marx ci ha insegnato che il disoccupato magari non ha
da perdere che le proprie catene e quindi è meno preoccupato. Ma la paura ha preso anche il
lavoratore dipendente (operai, impiegati, tecnici ecc.) che è quello che ha costruito il benessere di
questa Italia, le certezze di alcuni pezzi, il rispetto minimo del lavoro, le garanzie al minimo della
tutela del lavoro. Invece, smarrendosi tutto questo, avendo un esercito di riserva infinito e globale
questo mette in crisi ciascuno. Inoltre, il livello di competizione immesso caratterizza proprio

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l’esatto contrario del processo e del concetto di classe. Dunque, in questo contesto a maggior
ragione oggi necessitano più mezzi, più strumenti per poter rendere più evidente i processi di classe.

- Nel quadro che hai delineato, come pensi che si possa affrontare il discorso sulla soggettività
politica? Come è possibile ripensare il discorso dell’attualità del comunismo?

L’esperienza fin qui delineata e vissuta ci porta a creare le condizioni di una riflessione attenta su
quello che è stato il passato, e a creare le condizioni affinché le vicissitudini che competeranno alla
nuova dimensione tengano conto della frammentazione attuale, pur non diventando questa un alibi.
L’abbiamo potuto verificare con la ripresa successiva all’83, quando i centri sociali costituentisi a
quell’epoca rappresentavano comunque uno spazio di ripresa dopo la débâcle successiva ai grandi
movimenti, dopo la batosta presa dalla reazione borghese, la sconfitta di tutti i processi costituiti.
L’esperienza dei centri sociali rappresentava comunque una soggettività vissuta attraverso la
ripresentazione di una tematica politica vissuta in termini più leggeri, senza grandi presunzioni di
ricostruire percorsi di natura rivoluzionaria in assoluto: essi tentavano cioè di trovare la
ricomposizione di un tessuto in questo caso più giovanile attraverso la riconnessione di terreni di
solidarietà, di riappropriazione, di dare di sé una rappresentazione più sociale che politica, con
questo non diventando meno impolitico quello che si faceva. Ho citato questa storia dei centri
sociali almeno dell’avvio, poi strada facendo sono man mano diventati altra cosa, si sono riconnessi
alle tematiche prevalenti che hanno saputo ricostituirsi; però, la delusione o l’illusione di quello che
c’è stato precedentemente ha comportato, rispetto alla soggettività, un andare un po’ più cauti, più
con i piedi di piombo rispetto alle ripropoisizioni di grandi tematiche desideranti o riproponenti la
vicenda del comunismo. Voglio dire che sicuramente la generazione vissuta durante l’arco di tempo
che va dalla fine degli anni ’60 alla fine degli anni ’80 ha avuto modo ancora di rappresentarsi come
aspetto di una scelta di vita riguardo alla sfida nei confronti del capitalismo, vissuta attraverso il
postulato di quelli che furono i dettami dell’epoca, la casistica, la cultura ecc. Poi nel frattempo è
arrivata anche la caduta del Muro, quanto meno la crisi immediata di quello che è stato il socialismo
reale, quindi nell’immaginario collettivo è anche venuta meno la nozione del comunismo, in quanto
non era possibile separare le vicende della dimensione dell’affrontamento di una nuova società
liberata dal lavoro salariato con quello che era stata la materialità dei processi statuali o costituitisi
in chiave alternativa al capitalismo. Quindi, la critica sostanziale ha messo in crisi anche la stessa
natura della riproponibilità di una società comunista. Allora, all’oggi da una parte il percorso o
quanto meno l’assetto vittorioso del capitalismo in tutte le sue dimensioni, tenuto conto della
sconfitta anche dei movimenti operai, dei movimenti antagonisti, ha precipitato in una situazione in
cui c’è quasi carta libera per la dimensione capitalistica anche senza la ricerca di un consenso.
Quindi, questa negazione del consenso stesso ad una società consumistica e mercificatoria produce
sicuramente un assetto di barbarie che dovrebbe oggettivamente essere incompatibile con la
possibilità di vivere all’interno di questa natura stessa, quindi riproporre un altro tipo di società.
Quale tipo di società? Credo che le dimensioni di natura costituente, di natura relazionale di quello
che abbiamo pensato attraverso i postulati teorici e strategici del comunismo siano oggettivamente
riproponibili, tenuto conto che da una situazione del genere non può trovarsi nel medio periodo la
possibilità che si riproponga una riformabilità del capitalismo stesso. Credo che anche le attuali
gestioni di natura socialdemocratica, o tentativi di natura socialdemocratica della gestione
capitalistica, diano la misura della irriformabilità di questo sistema. Partendo da questo postulato, la
soggettività oggi non so se debba dichiararsi immediatamente comunista, ma sicuramente la
possibilità di poter realizzare una attività politica indipendente e fuori dal coro capitalistico non può
che muovere attraverso la ripartenza da quelli che sono i valori fondamentali, i valori universali che
vengono vieppiù negati; quindi, trovare la ripartenza dagli ultimi, dai sistemi di povertà che il
capitalismo ha costruito, e su questo annunciare di nuovo la possibilità, quasi in parallelo con quello
che è stato poi lo sprofondamento delle società del socialismo reale. Ciò non dico attraverso la
riproposizione di scenari post-comunisti, ma soprattutto con l’annuncio che possa darsi che la

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barbarie presente non possa che far nascere una ripresentazione dello scenario possibile e
augurabile, che viva sotto l’egida di una redistribuzione della ricchezza, di una critica alla stessa
produzione di merci, quindi la discriminante è ancora su questo; e che le caratteristiche di questo
annuncio societario non possano essere che nella accezione e oggettivazione che il comunismo non
può che essere libertario, non possa che annunciare libertà, non tanto rifacendoci ai sacri testi per
cui il comunismo è il regno delle libertà, ma sicuramente non possiamo stare sotto quella soglia.
Qualsiasi riproposizione della nostra soggettività deve essere all’interno della soddisfazione dei
bisogni materiali, e da questo si deve ripartire, attraverso il maggior radicamento possibile negli
strati più deboli della popolazione, all’interno di coloro i quali sono sotto la soglia di povertà, dentro
ad essa, dentro il lavoro/reddito dipendente, dentro le nuove forme di ricerca di reddito e di libertà
che sono le immigrazioni ecc. Dunque, a partire da queste condizioni, per cui lì si deve esprimere
questa ricerca di libertà e quindi di comunismo, possa darsi questa natura in sé, questa
redistribuzione, questa critica della produzione capitalistica.
Rimane il discorso sullo Stato. E qui c’è la critica matura, che ormai dovrebbe esserci, alla
transizione che sicuramente si deve nel passaggio ad una società all’altra attraverso qualsiasi remota
soluzione, per affrontamento armato, per scontro finale, per superamento di fatto, per abbandono
dei contendenti; per qualsiasi forma essa assuma, il processo nella transizione ad una riproposizione
di uno Stato e di un’impalcatura deve essere la nostra critica presente. Riuscire a determinare nuove
soluzioni di contropotere nella vigenza ancora del potere costituito borghese costruendo una critica
serrata allo statalismo è un altro dei passaggi ineludibili di questa nostra vicenda. Ciò tenuto conto
che se non c’è il passaggio, se non c’è l’assioma che al comunismo si arriva attraverso non solo la
distruzione dei modi di produzione e riproduzione capitalistici, ma anche attraverso l’abolizione di
quelle che sono state le impalcature che hanno dato vita sia ai sistemi borghesi sia ai sistemi del
socialismo reale, credo che avremmo commesso l’ennesimo errore. Per cui il passaggio anche qui di
critica a ciò che lo Stato dovrebbe essere nell’accezione storica di transizione, cioè la dittatura del
proletariato, è una critica serrata: dobbiamo costruire una soluzione in cui la politica è rappresa
direttamente dai soggetti reali che si autocostituiscono e costruiscono chiaramente anche la
riappropriazione della politica, e quindi la loro forma di autogestione, la loro forma autogestionaria.
E la soluzione di successiva transizione non può essere che la democrazia diretta, cioè la possibilità
di una rappresentazione, la più collettiva possibile, affinché le forme decisionali siano relative alla
quantità di partecipazione via via più spedita, più convinta, più matura, che riesca a creare la
soggettività del proprio futuro, del proprio destino. Il discorso che viaggia tra costruire la nuova
società ed essere i destinatari del futuro di questa società deve essere un’accezione e un’equazione
lineare; senza questa equazione lineare credo che gli errori del passato tenderebbero a riproporsi e,
riproponendosi, darebbero vita chiaramente a nuove impalcature, quelle che ogni tanto abbiamo
chiamato burocrazia che però, più che burocrazie, sono forme ottundenti dei processi di libertà.
Quindi, l’annuncio che noi dovremmo fare nella nostra soggettività e che si esprime attraverso i
bisogni deve essere espresso attraverso la riappropriazione della politica e quindi l’abolizione delle
forme statuali e delle istituzioni totali che noi abbiamo visto rappresentarsi fino adesso, non dunque
la loro perpetuazione.

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INTERVISTA A ENZO MODUGNO – 18 GENNAIO 2001

La cosa che mi sta preoccupando in questo periodo è che in tutta la sinistra, dall’estrema destra
all’estrema sinistra della sinistra, nessuno fa più il discorso “da dove viene la ricchezza”, o meglio
lo fanno ma lo fanno in modo secondo me del tutto inadeguato, e mi pare che ci siano degli accenni
sul vostro documento. C’è una sinistra in genere ex potoppina che dice: “il lavoro non è più la fonte
della ricchezza”, con tutto quello che ne segue, come si sa; c’è un’altra parte, i vetero-marxisti, che
dicono: “La ricchezza viene soltanto dal lavoro manuale, quindi sono soltanto i beni materiali che
costituiscono la ricchezza capitalistica”. Allora, il problema è che nelle società più avanzate, dove il
capitalismo è più sviluppato, ormai siamo quasi a ¾ della ricchezza che viene da un settore che va
sotto il nome di servizi, in Italia siamo a più del 60% credo: ora, sono puro spirito questi ¾ del PIL
che vengono da quel settore che va sotto il nome di servizi? Questo è il problema. La tendenza è che
questo settore si vada dilatando e si vanno sempre più restringendo gli altri due, l’agricoltura e
l’industria. E’ certo che in questo settore c’è di tutto, però io penso che sia necessario andare a
vedere che cosa c’è, e soprattutto che cosa è oggi la ricchezza capitalistica, cioè i profitti: chi
produce la ricchezza? Su questo la sinistra non ha dato finora risposte, questo con le conseguenze
più pericolose, più strane, più bizzarre, per cui appunto la ricchezza verrebbe dalla Tunisia o
dall’Indonesia perché lì ci sono ancora lavoratori manuali, e allora tutta la ricchezza che sta nei
paesi capitalistici più avanzati non sarebbe nient’altro che rapina. Insomma, questa è una cosa che
va superata, immediatamente, non si può andare avanti con questo schema di ragionamento. Ma si
badi che pensano così dai marxisti più ortodossi fino a Rossana Rossanda, da Bertinotti a tutti gli
altri: tutta questa sinistra pensa che la ricchezza si produca in India, in Tunisia, cioè in paesi
tecnologicamente arretrati. Questa a me pare una grande stupidata, quindi bisogna vedere da dove
viene questa ricchezza. Sicuramente hanno ragione gli ex potoppini quando dicono che non è più
valido il vecchio schema, però secondo me hanno torto quando poi non identificano qual è il lavoro
che produce ricchezza. Quindi, questa mi sembra la questione grossa che sta alla base di tutto:
diciamo che la nobile gara per definire che cosa è la società informatica finora non ha visto grandi
campioni. Per esempio c’è un ultimo articolo su Le Monde Diplomatique di una giornalista francese
dove si definisce l’informazione “valore d’uso del nuovo capitalismo”: a me sembra che sia un
buon approccio questo, tanto per cominciare, e anche l’articolo era interessante. Cioè, il problema è
capire quanto l’informazione sia diventata una merce del capitalismo informatico, del nuovo
capitalismo, del capitalismo postindustriale, lo si chiami come si vuole, esattamente come il grano
era il prodotto più importante della società agricola, e poi di volta in volta i prodotti industriali della
società industriale. Ora, il problema è quanta informazione c’è in giro: cioè, è vero che è la merce
che prevale? Cosa vuol dire informazione? Come si può misurare l’informazione? Questo non è
così semplice, perché appunto servizi è una parola che comprende troppe cose, e d’altra parte
l’informazione non sta solo nei servizi, sta anche nell’agricoltura e nell’industria, cioè è una merce
pervasiva, che si trova dovunque; d’altra parte non è soltanto mezzo di produzione ma è anche
mezzo di godimento, quindi io credo che sia una merce a tutti gli effetti, che sia possibile calcolarne
il valore, quindi capire quanto lavoro umano c’è in ogni merce. Anche perché le informazioni si
comprano e si vendono, cioè stanno sul mercato, sono una merce a tutti gli effetti. Certo, le
informazioni sono saperi, conoscenze, informazioni di ogni tipo: a questo punto la cosa si complica
e bisogna specificare.
Io comincerei col dire che le informazioni non sono sempre state una merce, i saperi, le conoscenze,
le informazioni non sono sempre stati una merce, anzi non lo erano affatto, o, se lo erano, erano una
merce comprando la quale il capitalista si impoveriva, non faceva soldi, questo era fino a pochi
decenni fa. Certo che la scienza stava nelle macchine, ma il capitalista industriale doveva comprare
la scienza, nel senso che non poteva produrre direttamente i saperi da mettere nelle macchine,
doveva comprarli dall’ingegnere, dallo scienziato, il quale solo formalmente era al suo servizio, nel
senso che il capitalista pagando l’ingegnere che gli dava il sapere da mettere nella macchina in
realtà si impoveriva, non ci guadagnava; ci guadagnava quando poi con la macchina faceva lavorare

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gli operai e produceva merci. Ciò è esattamente quello che accadeva con il signore feudale, il
proprietario terriero, il quale aveva ovviamente bisogno dell’aratro e degli altri strumenti che per
esempio l’artigianato cittadino produceva, e quindi doveva comprare l’aratro perché non poteva
lavorare la terra senza di esso, ma comprando l’aratro doveva pagare l’artigiano che lo faceva e si
impoveriva in questo scambio; poi portava l’aratro sulla terra, faceva lavorare il servo della gleba e
si arricchiva vendendo il prodotto della terra. Questo è lo schema, che vale anche per lo scienziato e
per l’ingegnere nella fase del capitalismo industriale: cioè, il capitale industriale deve mettere la
scienza nelle macchine e per farlo ha un costo, non si arricchisce quando va a comprare
dall’ingegnere il sapere, si arricchisce quando, avendolo incorporato nelle macchine, fa lavorare gli
operai. Questa era la situazione con il capitale industriale. Naturalmente è un processo storico che
ha portato dalla società agricola alla società industriale ed è un altro processo storico assai
complesso quello che porta dalla società industriale al prevalere del nuovo capitale, del capitale
postindustriale, non so come lo chiamate voi.

- Alquati, ad esempio, lo chiama ipercapitalismo. Può essere una questione di termini, anche se
poi i termini spesso sono a loro volta una specificazione della dimensione di pensiero: per
esempio, chiamare post il capitalismo vuol dire considerarlo superato, mentre invece definirlo
iper significa analizzarlo in una fase di sviluppo ulteriore. Molti ritengono che, non si sa bene
come, questo capitalismo non ci sia più. Tu adesso stavi descrivendo la dimensione
capitalistica, poi c’è il discorso sulla forza-lavoro all’interno di questo processo: alcuni
cambiamenti grossi sono avvenuti, oggi per esempio si parla di lavori atipici, però in realtà si
tratta dei lavori tipici perché ormai il rapporto di lavoro è costruito in un determinato modo,
molto diverso da quello di vent’anni fa, quello non può più essere considerato come il lavoro
tipico, dando così una lettura della società che è superata. Il lavoro è comunque sempre una
dimensione capitalistica, per la forza-lavoro la questione è differente: è un altro discorso che
poi il rapporto tra forza-lavoro e soggettività all’interno del processo produttivo possa avere
una valenza positiva o di negazione nei confronti del capitale. In generale, ma soprattutto in
Italia, tutti descrivono i massimi sistemi, però senza una conoscenza reale di quelle che sono le
cose, questo è ciò che manca. Ci si sforza molto poco per capire quali sono i processi effettivi
che avvengono; poi una sintesi la si può fare se si ha una conoscenza di com’è la realtà, quindi
con un’immaginazione e una presupposizione di alcuni passaggi. Questo per esempio dovrebbe
stare in un lavoro di ricerca per costruire qualcosa di diverso e non prendere per buone, come
dicevi tu, le cose passate che sono ancora il credo e le icone di un certo tipo di sinistra. Allora
bisognerebbe anche cercare di costruire delle forme di modello, perché una cosa è il processo
capitalistico e il punto di vista capitalistico, un’altra cosa è il discorso della classe. Oggi danno
tutti per assodato che non esiste lotta di classe: non è vero, la lotta di classe semplicemente la
fa il padrone, e quello che lui riesce a conquistare influisce sui rapporti di forza, sul fatto che i
livelli di contrapposizione, di resistenza, di antagonismo ci sono oppure no a seconda dei livelli
di iniziativa e di potere che il punto di vista capitalistico ha.

Per esempio, con il toyotismo si comincia a dire che in Giappone non c’è più lotta di classe, oppure
quando iniziavano a licenziare dicevano che il lavoro era finito, che era finita la società del lavoro.

- Oppure molti che erano per il rifiuto del lavoro sono diventati lavoristi, per esempio lo è
diventato Negri: quasi che il lavoro che andava rifiutato fosse soltanto quello dell’operaio-
massa…

Questo è perché loro pensano che le nuove tecnologie siano liberatorie, si meravigliano di come
ancora non ci sia stata la liberazione e pensano che sia colpa di questo dominio che sia soltanto
dominio senza nessuna base sul modo di produzione, quindi basterebbe dare una spallata per
impadronirsene, perché il lavoro è già liberatorio.

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- In questo discorso si colloca poi l’identificazione del general intellect come soggettività
rivoluzionaria, confondendo così la composizione tecnica con la composizione politica di
classe, modo di vedere che appartiene a tutta la tradizione pcista e socialcomunista.

L’equivoco nasce da questo: c’è una pagina dei Grundrisse dove Marx in sostanza fonda il
comunismo sulla capacità del general intellect. Allora, il discorso qual è? Il discorso di Marx è
questo: se il mezzo di produzione diventa il cervello umano, perché è un general intellect per quello
che effettivamente produce, se noi ce l’abbiamo nella testa, la separazione tra lavoratore e mezzo di
produzione cade. Quindi, questo era un modo di Marx per pensare ad un eventuale passaggio. Per
gli ex potoppini questa cosa si è realizzata, cioè è vero, è il cervello umano ormai il mezzo di
produzione: questo è un punto di vista che gira, il capitale intellettuale, invece a me pare tutto il
contrario. Faccio un salto. Il nuovo capitale (chiamiamolo così), processo storico naturalmente, non
è che si inventi da un giorno all’altro, insomma è un lungo processo storico che porta finalmente ad
una macchina che sostituisce il cervello umano: certo, non è l’intelligenza artificiale come l’hanno
pensata, però sostituisce già il cervello umano in funzioni decisive, cioè la memoria e il calcolo
logico, questo già basta al capitale per fare una serie di operazioni affinché si possano produrre cose
che prima non era possibile fare, che prima soltanto il cervello umano poteva fare. Quindi, il
cervello umano in realtà viene sostituito, c’è una separazione tra il sapere e le conoscenze e il
cervello umano. Altro che mezzo di produzione, il cervello umano ormai è un vecchio arnese che
può servire soltanto accanto ad una macchina che fa il calcolo logico, che possiede una memoria,
cioè può servire la macchina. Ma ormai il cervello umano di per sé è totalmente inaffidabile, è come
far fare gli spilli a mano invece che a macchina: se ne fanno pochi, fatti male e costano molto.
Ormai le operazioni che le macchine per pensare senza cervello possono fare bastano e avanzano
per scatenare le forze produttive, come si era detto prima; tanto che ormai qualunque addetto alla
macchina informatica opera con un grado di facilità e di precisione che nessun sapere accumulato
avrebbe potuto dare allo scienziato più alto. Quindi, questo significa che possono svolgere il lavoro
che prima svolgevano solo alcuni scienziati addestrati con un lungo tirocinio, possono svolgere
praticamente tutto con un’enorme diffusione dei saperi e delle conoscenze, il che non vuol dire
inventare saperi e conoscenze, vuol dire anche riprodurli da dove ci sono già. Dunque, non ha
fondamento credere che sia il cervello umano il mezzo di produzione e che quindi le nuove
tecnologie siano liberatorie, perché in fondo sono solo degli strumenti, avrebbero il posto non della
vecchia macchina ma degli strumenti in mano agli artigiani, una sorta di nuovo artigianato che usa
le tecnologie informatiche come se fossero strumenti. E quindi lo strumento aderisce al cervello
umano, e quindi sarebbe possibile il lavoro liberato. A me pare che questa sia una visione fantastica
che non ha nessun riscontro con la realtà, anche perché nuove tecnologie significa un’enorme
concentrazione di capitale fisso, ciò è quello che questi compagni non riescono a capire, ossia
pensano che un personal computer basti per produrre ricchezza: non è affatto così, per produrre
ricchezza è necessaria un’enorme concentrazione di capitale fisso come mai ce n’è stato bisogno
nella storia del capitalismo. Cioè, è necessario mettere insieme un sistema di macchine,
informatiche e non, e di uomini perché tutto questo sistema possa diventare produttivo e quindi
possa fare profitti. Fare profitti oggi è la cosa più difficile che esista, il vecchio capitale non è più
capace, infatti è già stato messo da parte. Si pensi alla Fiat che con l’illusione pantecnologica
credeva di poter sostituire gli operai con i robot, aveva più robot di ogni altra fabbrica di automobili
al mondo e poi andava malissimo: perché? Perché mettere insieme e gestire queste nuove macchine
è molto difficile, è appunto un processo storico che porta a questa cosa qui: non cambia solo il robot
in fabbrica, cambia il managment, cambia la società, cambia l’istruzione, cambia la formazione,
cambia il consumo, cambia tutto. Quindi, o si cambia tutto oppure è inutile mettere i robot in
fabbrica.
Insomma, voglio dire che questi compagni a me pare che non colgano queste cose essenziali,
veramente mi si stringe il cuore quando leggo certe cose, che sono anche belle, come Neuromagma

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di Bifo, e però poi vanno a incagliarsi sempre in questo problema: lui ad ogni pagina si meraviglia
di come non ci sia ancora stata la liberazione. Altro che liberazione…

- In realtà nel processo capitalistico da sempre il capitale compra forza-lavoro e poi la utilizza:
per molto tempo si è creduto che comprasse solo le braccia e che solo queste servissero per
lavorare in un determinato stadio di sviluppo. Ma non era così, perché in realtà quello che il
capitale comprava era la capacità umana in quanto tale: poi magari era richiesto un
particolare incremento dell’attività fisica, però in realtà comprava anche la mente delle
persone. Anche il lavoro più taylorizzato e più scomposto non richiedeva semplici gesti ma
richiedeva comunque anche una presenza della persona in quanto sua capacità attiva. Ad
essere cambiate sono semplicemente le proporzioni di quello che il capitale chiede alle persone
che lavorano: chiede probabilmente uno sforzo in più nella dimensione cognitiva, mentale e
timica (come nei servizi, per esempio) e magari chiede di meno in attività fisiche tradizionali,
come usare la pala o avvitare un bullone. Il processo però è lo stesso, nel senso che il capitale
compra complessivamente la capacità attiva umana; è cambiata la capacità specifica richiesta
all’interno del processo produttivo, però quello che ti viene chiesto all’interno delle catene
produttive nell’attuale dimensione sistemica è sempre comandato dal capitale. E’ lì che non c’è
liberazione, o che non c’è possibilità di liberazione nel semplice sviluppo di questo
meccanismo. E’ cambiato il che cosa viene comprato, quindi il tuo tipo di capacità attiva, di
come deve essere formata, quali caratteristiche deve avere, però non è cambiato il meccanismo
di sfruttamento e di appropriazione.

Si pensi se uno schiavo in catene si fosse trovato davanti alla Fiat dell’epoca fordista: vede entrare
spontaneamente degli operai in fabbrica, li vede uscire e poi rientrare, nessuno li incita, nessuno li
sferza. Allora, può pensare alla collaborazione e pensare che non ci sia più lotta di classe, oppure
alternativamente può pensare che ormai per loro diventa facilissimo ribellarsi perché possono fare
tutto. La stessa cosa accade oggi. In realtà, perché quelli vanno in fabbrica? Perché la coercizione
non era più rappresentata dalle catene e dalla sferza ma dal fatto che se non lavori non mangi,
quindi cambia il tipo di coercizione. Anche adesso cambia il tipo di coercizione: la prestazione che
fai non è più quella, cambia, cioè devi fare comunque un’operazione mentale, seppure banale, devi
comparare delle statistiche e via dicendo. Allora, dice Revelli, “gli si chiede l’anima e non c’è più
dualismo in fabbrica”: no, è come lo schiavo che vede entrare l’operaio-massa, certo che c’è
dualismo, eccome, soltanto che la coercizione è cambiata. E’ cambiata ed è peggiorata, si pensi
soltanto alle morti per Karochi in Giappone, perché ti viene richiesto un superlavoro e se non lo fai
sei tagliato fuori. C’era la divisione nei garantiti, nei precari e nell’inferno della disoccupazione, per
cui se tu non facevi il massimo e tutto quel lavoro venivi declassato immediatamente, perdevi i
privilegi che avevi, dal primo settore andavi nel secondo, e poi da questo al terzo e così via. La
coercizione funzione ancora, eccome se funziona, in modo più profondo, più forte.
Io volevo dire ancora due cose su che cosa è questa società dell’informazione, del nuovo capitale o
ipercapitale. Intanto bisogna dire che ci sono delle nuove macchine: Marx dice a proposito del
capitalismo industriale che a dare l’avvio è la macchina per filare senza dita, all’interno di un
processo storico naturalmente, ma se il capitalista non ha la macchina per gli spilli non può
sostituire l’artigiano e questo continuerà a fare gi spilli. Quindi, il capitale deve separare ciò che
prima aderiva: nell’artigiano aderisce lo strumento alla sua mente, quindi l’abilità dell’artigiano nel
maneggiare lo strumento è un’unità fondamentale perché l’artigiano possa produrre. Ma appunto
questo può valere solo a un certo livello dello sviluppo della produzione, quando questa richiede
livelli più alti ciò non basta più. Però, a quel punto all’interno del processo storico subentra la
macchina: è la macchina che incorpora la virtuosità dell’artigiano e lo riduce ad operaio salariato.
Via via l’artigiano diventato operaio salariato perde virtuosità nella misura in cui essa viene
trasferita nella macchina. Ora, per la produzione dei saperi e dell’informazione avviene la stessa
cosa: prima la produzione di conoscenze era legata strettamente al cervello umano, non era

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possibile produrre alcunché, ma neanche il calcolo di un ragioniere era possibile fare senza il
cervello del ragioniere; adesso il capitale separa il lavoratore dal suo strumento, che è il cervello
umano in effetti. Il cervello umano non è più uno strumento affidabile, ciò che il cervello umano era
in grado di fare prima adesso le macchine lo fanno in modo più veloce e più sicuro: chi affiderebbe
più i calcoli per fare un ponte a un ingegnere calcolatore? Nessuno. Quanto tempo ci vorrebbe per
calcolare la traiettoria per andare sulla luna? Duemila anni e duemila matematici al lavoro con carta
e penna, mentre con una macchina informatica ci si mette pochissimo tempo. Quindi, il cervello
diventa inaffidabile, esattamente come diventò inaffidabile l’abilità dell’artigiano nella produzione
industriale.

- Tu fai l’esempio del calcolo, però le funzioni della mente umana all’interno del processo
capitalistico non sono solo di calcolo: c’è tutta la parte che riguarda l’invenzione, quella che
riguarda la dimensione timica, oppure di fantasia o affettiva e via dicendo. All’interno di alcuni
lavori dei servizi questa parte è importante; all’interno di tutta una serie di merci (come ad
esempio lo spettacolo) l’attività umana che interviene è ben più articolata e ricca di quella che
c’è in una dimensione di calcolo e di operazioni logiche.

Prima di tutto l’invenzione: nessuno può inventare alcunché se non possiede la generazione
precedente, se tu devi creare un qualcosa di nuovo se sei della quinta generazione hai bisogno della
quarta, già non sei più tu l’inventare, tu aggiungi qualcosa ma il tuo strumento è la macchina.
Secondo, le conoscenze che vanno in giro sono tutte invenzioni, non è che si inventa, si riproduce
una conoscenza o un sapere: cioè, io ho bisogno di una macchina che sappia farmi qualcosa che è
già stato fatto da altri, è stato già inventato, l’hanno già messo nella macchina. Quindi, io non solo
non c’entro, ma non debbo entrare nelle competenze della macchina perché le rovinerei, non posso
riprogrammare un programma che è stato già acquistato: guai se il cervello umano entrasse in
queste operazioni. Il cervello umano, cioè il nuovo lavoratore, deve soltanto assistere questa
macchina, deve vedere se gli input sono quelli giusti, gli output infilarli in un’altra macchina perché
anche questa deve soltanto fare dei calcoli statistici, dei paragoni. Dunque, deve fare qualcosa per
cui è necessaria una formazione che arrivi a 18-20 anni, cioè un diploma o al massimo una laurea
breve. Ciò con caratteristiche nuove, la formazione non può più essere quella di Gentile, cioè tu non
devi possedere le conoscenze: tu devi saperti muovere nelle conoscenze che non conosci. Già da
parecchi anni i programmi delle scuole medie e anche dell’università non sono più la ritenzione del
sapere, sono la capacità di muoversi all’interno di conoscenze che ti rimangono estranee per la
maggior parte. Tutto questo è fondamentale, è come la memoria breve e la memoria lunga del
cervello: guai se noi memorizzassimo tutto ciò che succede, non avremmo più spazio per
immagazzinare altre memorie brevi di cui pure abbiamo bisogno, quindi il nostro cervello
sistematicamente abbandona una serie enorme di dati. Altrettanto deve fare il cervello di questi
lavoratori, che non conosce come si fa, perché questo tra due anni si farà in un altro modo: quindi,
dovrebbe soltanto sapere che per fare questa cosa debbo ricorrere a questo programma, ma guai se
mettessi mani nel programma, non debbo inventare nulla, debbo soltanto applicare, debbo soltanto
servire la macchina, non debbo entrare nelle logiche della macchina né sapere come funziona.
Questo fa piangere tutti i nostri professori perché li stanno tagliando fuori, li stanno distruggendo;
non solo, fa piangere tutta la sinistra, perché questa aveva in mente la riforma Gentile estesa a tutti,
e aveva in mente proprio quel tipo di società nella quale ciascuno si sarebbe impossessato del
sapere, che come abbiamo detto prima era uno dei modi in cui Marx vedeva il comunismo. Tutto il
Movimento Operaio ha sempre sognato la formazione sul modello della riforma Gentile, sul
modello borghese, pensando che fosse possibile estenderla a tutti; quando questo è stato possibile è
successo come quando ti becchi il pollo di batteria: tutti diventano intellettuali, perché di questo si
tratta, ma sono intellettuali ormai privati della capacità di usare il proprio cervello. Certo, quello che
tu dici è giusto, nel senso che non è possibile ridurre il pensiero a servitore, non è possibile reificare

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il pensiero sempre e comunque, questo ci lascia aperta la strada per le lotte; però, il processo
capitalistico è questo che fa, reifica il pensiero.
Come è stato possibile ridurre il pensiero, i saperi e le conoscenze a merce? Questo è il punto, ma
noi ancora non ci rendiamo conto del fatto che i saperi e le conoscenze possono diventare una
merce che può essere venduta e comprata, e che quindi il cervello umano è escluso da questo
processo, o che appunto partecipa soltanto in maniera subordinata. Perché in realtà i marxisti, non
so perché, non hanno letto il Terzo Libro de Il capitale e pensano che il capitale cominci con il
capitalismo industriale: non è così, nel Terzo Libro si parla del capitale commerciale e della
produzione di merci. Quindi, quel D-M-D' è il movimento del capitale commerciale. Certo, nel
modo di produzione capitalistico il capitale commerciale diventa subordinato al capitale industriale,
ma prima non era così, prima il capitale commerciale ha dominato almeno a partire dal VI secolo
a.C. e forse anche prima, comunque dall’Età del Ferro, cioè è questa che rende a buon mercato gli
strumenti di lavoro e quindi le terre prima non coltivabili diventano coltivabili, decade l’Egitto,
decade la Mesopotamia, perché ormai gran parte delle terre che prima non erano coltivabili lo
diventano con gli strumenti; questo significa produzione artigianale, significa i Fenici prima e i
Greci poi, significa il denaro, significa il commercio, significa il capitale commerciale. Dunque, si
afferma il capitale commerciale: certo, non è il capitale industriale perché al capitale commerciale
non interessa il modo in cui vengono prodotti questi beni, possono essere prodotti in qualunque
modo, li può produrre l’artigiano, il piccolo contadino, lo schiavo. Il capitale commerciale non si
interessa dei due estremi, cioè di chi li produce e di chi li compra: si interessa della mediazione e
sfrutta i diversi potenziali produttivi nei diversi paesi. Ma il capitale commerciale mercifica, quindi
per la prima volta si conia la moneta, il denaro circola e dunque è possibile la merce. Ora, il fatto
che la merce arriva sulla scena mondiale è un fenomeno epocale, è l’inizio della civiltà. Sono stati
scritti fiumi di inchiostro su questo problema, ma noi a questo punto dobbiamo occuparcene almeno
per quello che è: siamo in una fase che ha superato il capitalismo industriale, e quindi forse sarebbe
bene considerarlo da un punto di vista storico, cioè che cosa è stato il capitalismo industriale,
proprio per capire che fase stiamo attraversando, e che cosa c’era prima del capitalismo industriale.
Insomma, questo è il punto. La verità è che la mercificazione comincia allora, merce e denaro. Non
era diventato merce il lavoro umano, o meglio, lo era diventato nella forma degli schiavi, perché
essi erano una delle merci che si commerciavano. Ma il lavoro nella forma dello schiavo
(tralasciamo questo capitolo) non porta al capitalismo industriale; ciò che dà l’avvio al capitalismo
industriale è che il lavoro viene liberato, quindi si trova moltissimo lavoro, cioè esso circola, prima
lo schiavo non circolava se non nella forma limitata appunto della schiavitù, non era possibile
rendere schiavi uomini atti alle armi, quindi bisognava uccidere tutti gli uomini, rendere schiavi le
donne e i bambini, era molto difficile tenere a bada gli schiavi, quindi anche questa fu una ragione
per cui non decollò nulla allora. Il lavoro liberato, cioè la mercificazione del lavoro, dà inizio al
capitalismo, questa è la caratteristica che fa nascere il capitalismo, la liberazione duplice di cui parla
Marx, cioè lo si libera dalla servitù dalla gleba e dalle corporazioni, però viene liberato di ogni
oggettività, gli si levano i pascoli, gli si leva la terra, viene separato dai mezzi di sostentamento.
Quindi, ci sono masse enormi di braccia che cercano lavoro e il capitale decolla. Ora, che cosa fa
nella terza fase? Quindi, prima c’era la mercificazione delle cose, dunque dei prodotti, poi c’è la
mercificazione del lavoro che si aggiunge, e poi c’è la mercificazione del pensiero, del lavoro
intellettuale: questa mi pare la caratteristica di questa fase.
Ma come è stato possibile mercificare il pensiero? Il pensiero nasce insieme alle merci e al denaro,
nasce lì, nasce in Grecia, in parte anche in Cina perché anche lì ci furono il denaro e le merci;
comunque, la fase significativa è proprio quella. Il pensiero nasce lì e mima l’astrazione che è la
merce e il denaro: le idee di Platone che altro sono se non la riproduzione a livello dei concetti di
ciò che quelli avevano in tasca, il denaro? Ma poi tutta la filosofia greca è così. Cos’è l’essere di
questo del tal oggetto? E’ lui stesso? No, è un’altra cosa, è il suo valore, cioè quanto costa, il denaro
con il quale posso scambiarlo: questo è il vero essere del tal oggetto, e così via. Cioè il pensiero
astratto nasce quando i Greci hanno in tasca l’astrazione reale delle merci. Su questa storia c’è forse

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il libro più bello della filosofia del ‘900 che è Horkhaimer-Adorno La dialettica dell’Illuminismo,
dove questo problema della reificazione del pensiero è affrontata secondo me in un modo
insuperato. Dunque, il pensiero astratto che all’inizio nasce ad immagine dell’astrazione reale che
era il denaro, Sohn-Retel su questo ha scritto pagine memorabili, ma senza arrivare a lui che
comunque è contemporaneo, questa è un’enorme e grandissima invenzione che ha ripercussioni
anche sul sistema di dominio: il dominio prima erano le catene, l’asservimento personale; con il
sistema delle merci è possibile l’ellenismo, cioè è possibile battere i persiani e stabilire un impero
nel giro di qualche anno. E’ la formula dell’impero che vige tuttora, l’impero nasce allora, con
Alessandro, l’Impero Romano sarà quello: lo sviluppo del capitale commerciale a Roma negli
ultimi tempi della Repubblica è inimmaginabile, si vada a vedere che cosa non ha fatto il capitale
commerciale a Roma, è incredibile. Ciò anche se lo sviluppo dell’industria non ha seguito di pari
passo, perché il capitale commerciale se ne fregava dello sviluppo dell’industria. I Romani non
facevano come si era fatto prima di Alessandro, che tu andavi e conquistavi: cosa fanno dunque?
Incrementano tutte le industrie che avevano, ne impiantano di nuove e sollecitano la produzione
dell’artigianato locale, cioè sollecitano la produzione di sovrappiù che possa diventare merce,
controllano tutto il commerciano mondiale: questo è l’Impero Romano. Quando un generale
romano prende una regina, le frega tutto il tesoro e scatena l’ira dei britannici, Roma si incazza,
sostituisce questo soldato: a Roma si incazzano perché questo aveva rubato il tesoro della regina,
non è così che governa l’Impero Romano, Roma governa comprando le merci dai britannici e
controllando l’impero mondiale. In qualche modo è come per Hitler e gli americani: perché Hitler
perde? Perché pensa di dover andare in tutti i paesi, assoggettare il popolo, ammazzare tutti: doveva
perdere per forza. Come si controlla il mondo? Liberalizzando i traffici, aiutando le nazioni che non
possono a ricominciare a produrre e scambiando, cioè estendendo il mercato. Il modello della merce
e del mercato mondiale comincia allora, e parallelamente a questo comincia il sistema di dominio
che gli corrisponde, questa è la civiltà occidentale. Ora, il pensiero, i concetti della filosofia greca
nascono al servizio del dominio, di questo tipo di dominio. Questi concetti hanno espulso
qualunque altra cosa che non fosse funzionale al dominio. Questo pensiero si è andato reificando:
Vico dice che i concetti della filosofia greca vengono dalla piazza del mercato di Atene. C’è un
filosofo del V secolo che si chiama Proclo che per la prima volta mette in geometria Aristotele.
Insomma, questo pensiero reificato si può tradurre nella logica, e la logica si può tradurre in
matematica: la matematica già lo era all’inizio ma piano piano si estende e diventa il pensiero
fondamentale. Le astrazioni di Pitagora hanno un fondamento nell’astrazione reale che è la merce:
prima della merce, prima del denaro, non esisteva pensiero, gli Egiziani non ce l’avevano,
misuravano i campi dove avveniva la piena del Nilo, non avevano il concetto astratto del triangolo,
loro pensavano a dei triangoli reali. Dunque, questa astrazione riflette la struttura della merce.
Comunque, questa reificazione del pensiero gli consente piano piano di essere trasferito in
tecnologia informatica. Quindi, il sogno dell’intelligenza artificiale ha preceduto gran parte delle
realizzazioni successive, è proprio questo, è il fatto che il pensiero si può reificare, il pensiero
diventa una cosa, cioè tutte le attività dell’intelligenza possono essere ridotte a tecnologia
elettronica. In parte è già vero, certo non per tutti, il capitale se ne frega del teorema di Godel,
questi dice che ciò che una macchina può fare è la completezza ma a scapito della verità, oppure se
dice la verità non è completa, questi sono teoremi limitativi di Godel. Ma il capitale se ne frega,
perché può fare un’enorme quantità di operazioni e, in ogni caso, dice la Scuola di Francoforte:
“Quando l’ignoto assume l’aspetto di un’equazione è già arcinoto”. Quindi, se questa limitazione ha
assunto l’aspetto di un teorema è già superato.
Insomma, questo è il problema: il pensiero si reifica e alla fine diventa merce, adesso lo è a tutti gli
effetti. Il pensiero astratto, i concetti della filosofia greca, usciti dalla piazza del mercato di Atene vi
fanno ritorno, cioè sono tornati nella piazza da cui erano usciti: ma questa volta ci ritornano nella
loro purezza di merci, essendosi disfatte di tutto il ciarpame che le conteneva. Allora, che fine ha
fatto il pensiero negativo, il pensiero che critica, il pensiero che coglie la realtà delle cose? E’ stato
espulso, è stato confinato in certe regioni, è stato confinato nell’arte, diventa chiacchiera.

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- Oppure viene recuperato dal sistema capitalistico.

Sì, anche.

- Rispetto a quanto tu dicevi va però fatta una distinzione tra il commercio ed il capitale
commerciale. Il denaro non crea automaticamente la merce e non crea nemmeno il lavoro (in
quanto attività che produce non la ricchezza generica, ma il capitale): questi nascono con il
capitalismo. Il sistema capitalistico inizia a muovere i suoi primi passi nel XIV secolo, con
Genova e Venezia, dove si forma una classe che fa del profitto e dell’accumulazione di capitale
il suo scopo principale. A partire da lì ci fu quel processo che portò allo sviluppo della società
capitalista vera e propria, la cui base fondamentale è da una parte la formazione di due classi
di cui una è costretta a vendere la propria capacità umana (per intero, non solo quella fisica) in
cambio di un salario, e dall’altra la trasformazione della scienza in forza produttiva.
Prerogativa e metafine del sistema è il profitto e l’accumulazione di capitale, sono queste le
cose che distinguono il capitalismo dalle fasi precedenti.

Già del capitale commerciale il suo intento è accumulare, in tutta la fase che possiamo mettere dal
VII secolo a.C. fino al 1500 è tutto capitale commerciale, il quale accumula, si pensi cosa è stata
Roma, dove hanno accumulato ricchezze. Il capitale commerciale non è il capitale industriale, è
un’altra cosa: la produzione non riguardava il capitale commerciale, questo si limitava a spostare
dei prodotti in qualunque modo. Il capitale industriale nasce quando il capitale commerciale non
solo assicura lo scambio di prodotti che sono stati fatti nei modi più vari, ma comincia ad occuparsi
degli estremi, cioè di come produrre e comincia a produrre direttamente. Allora, a quel punto il
capitale industriale abbraccia anche un modo di produrre, diventa caratteristica di quel modo di
produrre. Il modo di produrre poi riduce il capitale commerciale, che naturalmente continua ad
esistere, a sua parte, a suo momento; il capitale commerciale non solo continua ma si espande, però
a questo punto diventa solo un momento del capitale industriale.

- Tu parli di capitalismo postindustriale. Però, l’industria non è identificabile con un luogo fisico
di produzione né con un lavoro che, come si diceva prima, è stato erroneamente definito
manuale, mentre invece il padrone, pur pagando solo le mani, ha sempre mercificato, messo in
produzione e tratto profitto dalla capacità umana nella sua interezza. Se invece per industria
intendiamo un modo e un luogo (non necessariamente tangibile) di produzione, fino ad oggi
specifico della società capitalistica, parlare di un post indica il superamento di tale modo di
produzione e la creazione di uno nuovo. Invece, pur nei cambiamenti delle merci prodotte e nei
mutamenti della combinazione quantitativa tra i vari elementi della capacità umana richiesta
(fisica, timica, cognitiva ecc.), l’industrialità sembra essere ancora il modo di produzione
caratterizzante l’attuale società. Per molti aspetti si va verso una banalizzazione delle capacità
umane richieste nel processo produttivo, e questo è riscontrabile a partire da una formazione
sistemica volta più alla ripetitività nozionistica che alla creazione di capacità critica. Quindi,
un certo discorso del general intellect, oltre a rovesciare in composizione politica quella che in
realtà è la composizione tecnica, si basa sul discutibilissimo presupposto che l’odierno
processo produttivo richieda e produca capacità sempre più grosse, ricche e complessive che,
finalmente sottrattesi da un comando capitalistico ormai inutile al proprio funzionamento e al
proprio pieno sviluppo, daranno oggettivamente vita al regno delle libertà. Dunque,
bisognerebbe riflettere se sia possibile parlare di una società postindustriale oppure se,
analizzando i grossi mutamenti che ci sono stati ai livelli perlopiù medio-bassi del sistema e il
cambiamento delle merci prodotte, è necessario guardare all’industria (trasformata, magari
neoindustria o iperindustria) come modo di produzione specifico dell’odierna società.

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Io direi che è come per l’agricoltura: con l’avvento del capitalismo industriale non è che
l’agricoltura finisca, anzi si industrializza e si producono derrate agricole come mai se ne erano
prodotte prima. Altrettanto vale per i prodotti industriali: non è che col passaggio all’ipercapitale o
al nuovo capitale di prodotti industriali se ne producano di meno, anzi proprio l’applicazione
dell’informatica all’industria e all’agricoltura fa sì che si producano molti più prodotti.

- Anche all’informatica però viene applicato un modo di produzione industriale: il processo è


quello dell’industrializzazione dell’informatica.

No, io direi il contrario, direi l’informatizzazione dell’industria. Per capirlo vediamo il primo
passaggio: cosa fa il capitale industriale? Industrializza l’agricoltura, anzi le prime macchine sono
macchine per l’agricoltura, per produrre di più in agricoltura, perché appunto la ricchezza prima era
lì. Quindi, la prima cosa che si tenta di fare è aumentare le derrate agricole. Così qui l’informatica
immediatamente è stata usata per aumentare la funzione dell’industria, questa è stata la primissima
fase, nei magazzini, per fare i calcoli, per tenere l’amministrazione, poi pian piano arrivano i robot,
cambia a poco a poco tutto il modo di produrre. La stessa industria con l’informatica cambia
completamente: il toyotismo è impensabile senza l’informatica, anche se non è solo l’informatica, è
la produzione di automobili alla quale tu hai aggiunto quella. Pian piano però l’informatica
comincia a produrre una ricchezza che prima non c’era, e il prodotto dell’informatica sarà
l’informazione. Quindi, si ha una quantità di informazioni che prima era inimmaginabile, ciò con
conseguenze epocali. Ora, come si produce informazione? Prima di tutto c’è bisogno di macchine
che prima non c’erano, quindi macchine che sappiano sostituire in alcune funzioni il cervello
umano, perché prima solo il cervello era in grado di produrre saperi, conoscenze e informazioni.
Con questa macchina dà l’avvio, e perché è possibile riprodurre con una macchina il cervello
umano? Perché si riproduce quella parte di pensiero che in realtà era già stata reificata, era già stata
ridotta a logica, a una tematica: cioè, il pensiero aveva già subito ciò sicuramente a partire da
Platone e da Cartesio, secondo me è nato proprio così, già i concetti della filosofia greca sono
quantificabili, appunto questo Proclo dovrebbe essere ripubblicato, è interessante. E’ possibile
reificare il pensiero: naturalmente si reifica il pensiero che serve alla produzione, dell’altro pensiero
chi se ne frega? Il pensiero che nega, il pensiero che critica, il pensiero che cerca di capire la realtà
delle cose diventa chiacchiera, non viene più riconosciuto.

- Quello che resta nebuloso è il processo di produzione di informazione nell’informatica, nel


senso che questa la vedo come la trattazione dell’informazione, il poterla realizzare, spostare,
avere in tempo velocissimo e via di questo passo. Potresti spiegare come avviene questo
processo di produzione di informazione all’interno del sistema informatico?

Si pensi ad un’automobile: se io produco un’automobile faccio il prototipo, e quindi lo penso, lo


progetto. Quando ho fatto il primo prototipo ne produco 4 milioni, mi escono 3.000 macchine al
giorno: non è che tutte le volte io debba inventare la macchina. Altrettanto è un’informazione, è una
conoscenza, è un sapere: io ho bisogno di questo sapere in questo particolare momento e c’è una
macchina che me lo riproduce, non che lo inventa tutte le volte. Quindi, io addetto a questa
macchina produco sapere, produco nel senso che lo ri-produco.

- Però è sempre necessario qualcuno che faccia il prototipo.

Sì, io però non debbo inventare nulla, io sono un addetto alla macchina che eroga sapere, ma per
fare questo appunto c’è bisogno di lavoro umano. Ma anche nel lavoro di progettazione in fondo è
la stessa cosa, perché io ingegnere, come dicevo prima, per produrre la sesta generazione di
computer debbo possedere la quinta.

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- Il discorso dell’invenzione che ti avevo posto era inteso in termini diversi, nel senso di come il
capitale riesce sempre a catturare le piccole invenzioni e a reinserirle nel proprio processo
produttivo. Ad esempio, i produttori di un software ne buttano sul mercato uno nuovo,
aspettano che i clienti indichino loro tutti i limiti e le inesattezze e poi, sei mesi dopo, sulla
base del fatto che tu hai sperimentato un nuovo prodotto, ne fanno uno più avanzato. Quindi,
usano l’intelligenza o comunque le capacità di chi utilizza questi programmi per migliorali. Lo
stesso avveniva nel processo di produzione “classico”: l’operaio inventava quei piccolissimi
passaggi che gli permettevano di risparmiare rispetto alla mansione che aveva avuto e la volta
dopo questa cosa entrava all’interno della macchina. Il comando capitalistico espropria anche
questa invenzione che viene fatta per risparmiare lavoro. In questo senso l’invenzione non è
solo la grande cosa, ma all’interno del processo produttivo riguarda anche tutti i passaggi che
vengono tirati fuori da chi lavora e poi vengono sussunti dal capitale.

Non c’è dubbio che questo lavorio c’è, ma è come la piccola produzione di una volta, che aveva
degli spazi che poi a ondate venivano ripresi dal capitale. Delle nicchie ci sono sempre, ma appunto
il capitale vive proprio anche così, appropriandosi via via di queste nicchie. C’è un esempio di Marx
bellissimo, che si può usare contro i potoppini che credono che con il computer e il modem si possa
produrre tutto. L’esempio è la macchina da cucire: Marx descrive la possibilità per questi operai che
vanno a casa (ma è successo anche poi in Italia quando si forma il decentramento produttivo), e
possono produrre individualmente con la macchina da cucire, e ciò suscita grandi speranze. Dopo
un po’ arriva il capitale e mette macchine da cucire più grandi e più veloci nello stabilimento e
quindi fa fuori tutti i piccoli produttori che non sanno più che farsene delle macchine. Sicuramente
il capitale fa questo, tuttavia il tempo di autonomia della piccola produzione dipende da varie
circostanze, e quindi è un tempo limitato, perché sistematicamente il capitale arriva. Ma anche gli
esempi più recenti sono di persone che cominciano da zero in un garage e poi arriva il capitale,
senza capitale non fanno niente, rimangono nel garage, arriva il capitale di ventura, le banche.

- Proviamo a ribaltare la questione. Da una parte si è detto che determinate ipotesi sono
inadeguate perché c’è un fondo di incomprensione dei processi reali; se uno invece volesse
ripensare e ipotizzare a come ci potrebbe essere una contrapposizione alla dimensione
capitalistica che sta avanzando, da cosa si può partire? Dal punto di vista di classe, secondo te,
cosa è cambiato?

Intanto loro hanno dovuto distruggere la vecchia classe e hanno dovuto produrne un’altra perché,
dice Marx, la produzione di lavoratori è il momento fondamentale del processo di valorizzazione
del capitale. E non è stata un’opera facile. Con il fordismo dovettero distruggere l’operaio di
mestiere, che era forte, aveva le sue organizzazioni, per produrre l’operaio-massa: questo fu
possibile in America perché la forza dell’economia era tale che questo processo avvenne con la
forza del mercato, con la concorrenza dei lavoratori. Mussolini, Hitler e Stalin che altro sono stati se
non un fordismo autoritario? Era un fordismo che non riusciva a sbarazzarsi della vecchia classe
operaia e non riusciva a produrre una nuova classe di operai-massa: lo dovettero fare
autoritariamente. La prima cosa che fece Mussolini fu distruggere le organizzazioni dell’operaio di
mestiere. Da questo punto di vista è un fordismo autoritario, cioè era l’introduzione di metodi di
produzione che altrove erano già affermati e che qui stentavano, e che con quel casino che c’era non
era possibile mettere su, perché bisognava ridurre tutti gli operai di mestiere ad operai-massa, o
meglio, quelli andavano distrutti e ne andavano prodotti altri; bisognava ridurre tutti gli strati
parassitari che in quel modo di produzione contavano. Agnelli tentò l’alleanza con L’Ordine Nuovo,
Gramsci lo dice, cioè tentò l’alleanza dei produttori, ossia del capitale avanzato e degli operai
avanzati. Hitler che altro ha fatto? Si pensi a come stavano le cose con Weimar, che casino che
aveva combinato Rosa Luxemburg: dovevano disfarsi di quel tipo di organizzazione, che era quella
dell’operaio di mestiere. Si pensi a tutto il Partito Socialdemocratico tedesco, non c’è mai stato un

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partito operaio più organizzato e potente di quello: bisognava distruggerlo, era il partito dell’operaio
di mestiere, e bisognava creare l’operaio-massa.
Ora, che cosa hanno fatto questi? Hanno dovuto distruggere l’operaio-massa, non era facile, si pensi
all’Italia, hanno tentato con la vecchia maniera, volevano riprodurla ma non era più aria: hanno
fatto il compromesso storico. Lama che altro ha fatto se non l’inizio della distruzione dell’operaio-
massa? E’ la produzione e il disciplinamento di un nuovo tipo di lavoratore. Ma perché gli studenti
si sono ribellati a partire dal ’68? I movimenti degli studenti nel ’68 cominciano perché in
quell’anno si percepisce per la prima volta (e si pensi al ’68-’69, alle lotte operaie del ’69) che gli
operai sono sotto tiro e stanno perdendo; quindi la rivolta operaia del ’69 è perché sono già sotto
tiro, ci sono i consigli operai e tutto il movimento dal Sud di emigrazione. Gli studenti nello stesso
tempo capiscono che stanno perdendo i loro privilegi, nel ’68 è già nettissimo che il pezzo di carta
non serve più a nulla, cioè nel ’68 si comincia a percepire con chiarezza che il pezzo di carta che
prima ti garantiva l’ingresso nella classe dirigente ora non serve più a niente. Quindi, siamo arrivati
al punto di come il capitale ha distrutto l’operaio-massa e come ha prodotto e disciplinato il nuovo
lavoratore. Questo nuovo lavoratore non è più il lavoratore manuale di prima, né il lavoratore
intellettuale di prima, è un’altra cosa: è un lavoratore chiamiamolo mentale, perché comunque il
mezzo di lavoro è cambiato, non è più la macchina termomeccanica ma è una macchina
informatica, cioè una macchina che opera con dei segni e in qualche modo è lavoro mentale.
Quindi, era necessario produrre e disciplinare una nuova classe. Avevano bisogno di un lavoratore
che non avesse più la quinta elementare o la terza media o la scuola di avviamento o qualche scuola
industriale: avevano bisogno di diplomati, tutti diplomati, a nessuno più era permesso fermarsi alla
terza media. Questo è il risultato. Laureati? Neanche, lauree brevi, insomma la fascia è quella che
va tra 18 e 20 anni: hanno bisogno di un lavoratore che sia acculturato fino a 18 massimo 20 anni.
Questa è la nuova classe: nessuno più può fermarsi alla terza media, tutti devono avere almeno il
diploma. Ciò con cambiamenti epocali, si pensi a quello che accade alla riforma Gentile, cavallo di
battaglia di tutto il Movimento Operaio: la riforma Gentile estesa a tutti era l’ideale del Movimento
Operaio, a parte qualche esperienza alla sua sinistra il Movimento Operaio è sempre stato così,
anche Lenin, questo era l’ideale del Movimento Operaio. Per la verità noi nel ’68 già avevamo
preso le distanze da questo ideale, sulla scorta della parte migliore della filosofia del ‘900: io, per
esempio, ero assistente all’Istituto di Filosofia di Roma nel ’68 e noi cominciammo a dare il 30 e
lode politico per marcare la nostra assoluta estraneità a questo sapere, all’elaborazione e alla
trasmissione di questo sapere. Le scienze europee che avevano tradito il mondo della vita, il gruppo
in fusione che non sa che farsene di un sapere che è criticabile; la Scuola di Francoforte aveva detto
che quell’astrazione era stata ed era strumento di dominio. Quindi, noi con il 30 e lode avevamo già
detto (e con questo mi salvo l’anima) che quel tipo di sapere era il sapere pietrificato di cui
parlavamo prima, cioè era un sapere al servizio del dominio. Già il ’68 queste cose le percepiva: il
’68 percepiva, e Krahl lo testimonia, che in qualche modo gli studenti stavano diventando forza-
lavoro. Una grande lezione quella di Krahl, chissà se avesse vissuto che avrebbe combinato, non
quel cretino di Habermas che ci siamo ritrovati; chissà se fu ucciso Krahl, certo poi spararono a
Deutschke, e poi si suicidarono (per così dire) quelli in carcere.
Quindi, produzione di un nuovo lavoratore che non è più l’operaio-massa ma è questo lavoratore
mentale che deve essere acculturato fino a 18-20 anni: questo è il nuovo tipo di lavoro perché deve
corrispondere al nuovo tipo di macchina, che non è più la macchina termodinamica del fordismo ma
è una macchina informatica. Dunque, questo significa che la produzione si fa ormai con lavoro e
mezzo di lavoro che sono qualcosa di molto diverso dal lavoro e dal mezzo di lavoro del fordismo,
ormai c’è lavoro e mezzo di lavoro che sono un’altra cosa dal fordismo: è una macchina
informatica, quindi un lavoratore che deve servirgli, che ha caratteristiche completamente diverse
rispetto a prima. Questa è la nuova classe che produce la ricchezza. La cosa che non riesco a capire
è perché gli ex potoppini vogliano dare dignità di general intellect a questo nuovo lavoratore, lo
considerano come appunto il general intellect finalmente realizzato che dunque ha la dignità che
avevano prima gli intellettuali, che si presume abbia anche quel tipo di formazione, cioè che abbia

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la capacità con un computer di produrre tutte quelle cose, quindi che contenga nella sua testa tutto il
sapere. A me questo non sembra: al contrario, questo è un intellettuale diminuito, è il vecchio
intellettuale separato dal sapere e dalla conoscenza, esattamente come l’operaio salariato del primo
capitalismo era un artigiano privato della sua virtuosità, perché la virtuosità che era dell’artigiano
ormai sta nella macchina. Altrettanto è adesso, l’intellettuale è privato della sua virtuosità perché le
capacità del vecchio intellettuale ormai stanno nella macchina, quindi è stato separato dalla
conoscenze e dal sapere, dalla capacità di produrre conoscenza, perché questa capacità ormai è nelle
macchine, e quindi questo lavoratore è un intellettuale immiserito, flessibilizzato, subordinato ad
una macchina informatica. E’ questa la nuova figura produttrice di ricchezza, ma proprio perché è
separato, proprio perché è immiserito questo nuovo lavoratore è al centro, al cuore della
produzione; è per questo che egli conosce la produzione, cioè conosce il rapporto sociale di questa
produzione, anche se gli sfuggono elementi tecnici di questa produzione. Ma ciò che effettivamente
conosce è il rapporto sociale che questo nuovo tipo di produzione stabilisce, e lo conosce
intimamente perché conosce le separazioni e gli immiserimenti che ha subito, perché in qualche
modo vive da intellettuale e quindi è in grado di apprezzare l’immiserimento che gli è stato
imposto.
D’altra parte, quando gli operai diventarono capaci di movimenti autonomi? Ci fu un periodo (e
forse questo è il periodo che riguarda gli ex potoppini) in cui gli artigiani delle corporazioni
pensavano di poter diventare capitalisti, ed alcuni di essi ci riuscirono; quando essi capirono che
non era più possibile per loro diventare capitalisti ma che erano sospinti sulla stretta via che porta al
mercato del lavoro, allora diventarono capaci di movimenti autonomi. Altrettanto è stato per gli
studenti: questi diventano capaci di movimenti autonomi quando capiscono che sono costretti a
imboccare la stretta via che porta al mercato del lavoro, e quindi non diventeranno più classe
dirigente. Potere Operaio è rimasto a metà del viale. Gli artigiani ebbero coscienza di essere
diventati una classe quando capirono che non potevano più diventare imprenditori; così gli studenti
hanno avuto coscienza, sono diventati una classe, quando hanno capito che non era più possibile per
loro entrare a far parte del privilegio della classe dirigente, che il pezzo di carta non valeva più,
questo è stato. Quindi, si è avuta una convergenza da una parte degli operai-massa distrutti e
dall’altra dei vecchi intellettuali distrutti: entrambi sono stati distrutti, perché la distruzione non ha
colpito soltanto l’operaio-massa, ha colpito anche il vecchio intellettuale, e ce ne è voluto per
disciplinare il vecchio intellettuale e per portarlo al mercato del lavoro. Se vogliamo gli anni ’70
sono stati una questione di vita o di morte per il nuovo capitale, cioè dovevano disciplinare questi
intellettuali. Il luddismo all’inizio colpì la prima macchina per segare, che era una macchina
automatica, allora la plebaglia la assaltò; questa volta la macchina è stata assaltata dai filosofi.
Proprio Heidegger nel ’65 disse che se l’uomo vuole rimanere libero essere storico non deve
affidare la determinazione di sé al modo di pensare cibernetico; infatti, nel ’68 una plebaglia di
liberi esseri storici attacca questo modo di pensare nelle scuole e nelle università. C’è stato questo
movimento, probabilmente era questo, cioè era la sensazione che qui ci stanno riducendo, ci stanno
costringendo al mercato del lavoro. Ma già allora gli stipendi dei professori erano bassi, già allora
tutti sapevano che era molto difficile trovare lavoro e le condizioni erano quasi simili se non in certi
casi inferiori a quelle degli operai. Diventano una classe, cioè prendono coscienza, e quindi sono
capaci di questi movimenti autonomi: all’inizio era incredibile, il PCI diceva che questa era una
piccola borghesia, ma ce ne è voluto perché le cose cambiassero. Ma anche noi stessi ce ne abbiamo
messo di tempo per capirlo, ci siamo dati altre forme, io no per fortuna perché non ho mai aderito a
nessun gruppetto o partitino. Perché i gruppetti furono in realtà il contrario del ’68? Perché
volevano fare i dirigenti della classe, tutto il potere alla classe operaia e loro erano i dirigenti della
classe: essendo stati cacciati dal capitale che non li voleva più come classe dirigente hanno tentato
di farsi dirigenti della classe operaia. E i gruppetti non capivano, ma gli studenti lo hanno capito,
che essi stessi erano diventati una classe, ma ce ne è voluto, ancora adesso questo mica passa tanto.

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INTERVISTA A GIORGIO MORONI – 7 LUGLIO 2001

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e l’inizio della tua attività
militante?

Io comincio ad interessarmi di politica a sedici anni attorno al ’67 a Certosa, il quartiere di Genova
dove sono nato, un quartiere molto popolare, uno dei pochi dove si è concentrata l’immigrazione
degli anni cinquanta. Conosco in particolare Paolo Arvati, un compagno di poco più anziano di me
che all’epoca stava nella FGCI, il quale successivamente sarebbe entrato in Potere Operaio e
avrebbe precocemente ricoperto ruoli di dirigenza in PO per poi uscirne molto presto e diventare
dirigente nella FIOM genovese. Anche se negli anni successivi si è un po’ imbolsito Arvati è
sicuramente un personaggio centrale a Genova dal punto di vista della cultura politica in quegli
anni, nonostante la giovane età. Nello stesso periodo conosco anche Armando Carbone, che vive da
sempre tra l’essere operaio, l’essere disoccupato e l’essere militante di professione, anche lui
proveniente dalla FGCI. Partecipo a Certosa con loro ed altri compagni che provengono dall’area
del dissenso cattolico all’esperienza del doposcuola, facciamo questa attività con i figli degli
immigrati, bambini delle elementari che non vanno a scuola e quindi non rispettano l’obbligo
scolastico. Successivamente partecipo alle prime iniziative di lotta al liceo Mazzini all’interno del
movimento studentesco di Sampierdarena, questo vasto quartiere misto, proprio ai confini della
zona delle grandi fabbriche, a Cornigliano, a Sestri Ponente, a Voltri, un quartiere che raccoglie tutti
i figli della classe operaia della Valpolcevera e del Ponente che sono spinti dai padri operai a
emanciparsi, a fuggire il lavoro operaio: lo stesso mio padre era un operaio che ha lavorato
all’Italsider per 35 anni. Partecipo quindi alle iniziative dei GOS, Gruppi di Organizzazione
Studentesca, con sede in via Carlo Rolando, e lì ogni giorno ci incontriamo in quella sede in cui
centinaia di studenti quotidianamente si ammassano: in quel momento c’è prossimità anche fisica
con la FGCI, non c’è ancora conflitto; spesso ci viene concessa per le assemblee la vicina Camera
del Lavoro di via Dattilo. Le lotte sono quelle tipiche degli studenti, fondamentalmente contro
l’autoritarismo oppure per iniziative e scadenze politiche generali; ma il nostro approccio è da
subito, grazie a compagni come Paolo Arvati ed Italo Poma appunto, diverso dagli altri (come la
FGCI con il suo diritto allo studio o Lotta Comunista che interviene nella scuola per reclutare
quadri che intervengano in fabbrica); noi guardiamo alla scuola come fabbrica, come momento di
regolazione del mercato del lavoro, come luogo di produzione di forza lavoro. Nella seconda metà
del ’69 nascono a Torino e a Milano i gruppi, ed alla sede dei GOS iniziano a giungere i primi
giornali che si affiancano al locale organo di quella fastidiosa, ingombrante ed inutile realtà che è
Lotta Comunista: soprattutto Potere Operaio e Lotta Continua. A questo punto il GOS si spacca, si
divide tra chi sceglie il PCI e chi i gruppi: io aderisco a Potere Operaio assieme ad una componente
tutto sommato minoritaria dei GOS (Armando Carbone, Italo Poma, Paolo Arvati e diversi altri).
PO a Genova apre da subito una sede a Sampierdarena in via Rayper, ma avrà una vita abbastanza
difficile. Diamo vita al tentativo di riprodurre ed interpretare anche a Genova le condizioni e le
modalità della lotta operaia come veniva concepita dall’operaismo italiano, cioè come
insubordinazione radicale al comando capitalistico ed uso sovversivo della rigidità operaia. Ma va
subito detto che ben poche di quelle condizioni e di quelle modalità ebbero a realizzarsi perlomeno
in modo significativo. A Genova è ancora e sempre centrale l’operaio professionale, non ci sono
(tranne qualche modesto avvenimento) episodi di autonomia operaia: la classe operaia genovese
non cambia nelle sue figure tecniche e strutturali, rimanendo l’operaio professionale tipicamente
egemone nel ciclo produttivo, e non manifesta neppure le tensioni tipiche del nuovo processo
economico politico in Italia. Essa è totalmente irreggimentata nel Partito Comunista, scende in
piazza ed è mobilitabile solamente per occasioni di carattere generale, vedi il momento
insurrezionale del 30 giugno. E’ una classe operaia obiettivamente conservatrice, che difende le sue
conquiste, che ha legato i suoi destini a quelli del Partito Comunista. Da questo punto di vista, la

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classe operaia genovese è arretrata, o matura piuttosto, a seconda di come il processo voglia o debba
essere letto.
In questa situazione PO raccoglie molte adesioni tra gli studenti medi figli di quella classe operaia
che per prima non crede più in se stessa; facciamo più volte intervento di fronte alle fabbriche del
Ponente, ma raccogliamo pochissimi operai e non abbiamo nessuna oggettiva influenza nei conflitti
operai di quel periodo, peraltro piuttosto difensivi e rituali.
A Lotta Continua va sicuramente meglio, anche perché garantisce agli operai che aderiscono a LC
migliori condizioni di vita di quanto noi, con i nostri attivi ed esecutivi e segreterie simibolsceviche
riusciamo ad offrire, ma la sostanza non cambia. I gruppi enfatizzeranno oltre misura i pochi
episodi in cui si manifestano conflitti, ma in realtà questi eventi riguarderanno solo alcuni reparti
dell’Ansaldo caratterizzati da alta nocività o le ditte dell’appalto all’Italsider in lotta per
l’inquadramento negli organici d’impresa.
Ricordo di aver maturato da allora un certo disincanto di fronte ad una classe che si mostrava così
distante dal ciclo di lotte cui avevamo assistito nel Nord del paese e di cui avevo letto;
dell’operaismo io però apprezzavo soprattutto il metodo, l’inchiesta, la critica rigorosa del piano,
l’abitudine a studiare le ristrutturazioni per rivoltarle politicamente. Poteva andarmi bene quindi che
il nostro lessico e i nostri codici fossero così tradizionali e conservatori ma anche così familiari a
generazioni di comunisti. Pensavo che un guscio leninista dovesse pur proteggere un pensiero
moderno ma ancora fragile.
Nel ’73 decidiamo come sezione di Potere Operaio di Genova di aderire alla posizione negriana di
scioglimento del gruppo e aderiamo quindi all’ipotesi dell’Autonomia Operaia: partecipo a Padova
al seminario alla facoltà di Scienze Politiche nell’agosto del ’73. Il gruppo di persone di Genova che
partecipano a quel convegno è molto eterogeneo, a riprova della grande fluidità ed anche
confusione del periodo: c’è Giorgio Raiteri, già segretario della sezione di PO, medico già
all’epoca, che veniva dall’esperienza del COP, un gruppo che si era occupato di nocività, forse il
collettivo che aveva fatto l’intervento più tipicamente operaista a Genova negli anni precedenti. C’è
Giuliano Naria, allora ancora operaio dell’Ansaldo Meccanico, compagno estremamente sensibile
ed intelligente, un vero spirito ribelle, completamente indipendente ma anche molto generoso, uno
che aderiva completamente ai progetti ma rimaneva invariabilmente se stesso: quindi, lui era stato
prima marxista-leninista, poi in Lotta Continua ma molto vicino al modo di pensare di Potere
Operaio, poi è stato per un breve periodo anche nelle Brigate Rosse ma sempre molto vicino al
modo di pensare dell’Autonomia Operaia, senza mai lasciarsi coinvolgere in truci esperienze. Era
uno a cui piaceva giocare, cioè faceva molto seriamente tutto ciò a cui era spinto dalla sua passione
politica ma senza prendersi troppo sul serio. Nella sua lunga esperienza carceraria avrebbe scritto
favole e romanzi; una volta uscito di galera, già minato nel fisico, sarebbe diventato anche
giornalista finanziario, l’ultima volta, prima che si ammalasse l’ho incontrato ad un Convegno in
Assolombarda a Milano. E poi c’è Livio Baistrocchi, questa figura misteriosissima di latitante
perenne delle Brigate Rosse: è un artista, un pittore, che aderisce a PO subito dopo la sua nascita,
con un atteggiamento sicuramente molto estetico nei confronti del conflitto, della militanza. Di lì a
poco lui sarebbe entrato nelle BR per essere il protagonista di tutti gli episodi più feroci delle
Brigate Rosse a Genova.
Nasce quindi a Genova l’Autonomia. Nel frattempo io ero arrivato a Balbi alla fine del ’72 per
iscrivermi all’Università e sicuramente questo è un altro momento formativo importante della mia
biografia politica: entro in contatto con Gianfranco Faina, con Gianni Armaroli, con Pierpaolo
Poggio, con Luigi Grasso, con Giovanni Calamari ecc. Entro dunque in relazione con quel gruppo
di intellettuali genovesi che avevano partecipato all’esperienza di Classe Operaia e che avevano
successivamente rotto con il gruppo degli operaisti, in particolare dopo l’esperienza del Maggio
francese, proprio a partire dal lavoro di inchiesta fatto sulla classe operaia genovese. Mentre il resto
dell’Italia si balocca ancora con l’archeologia leninista, con l’operaio-massa, in realtà queste
persone vanno oltre, cominciano a parlare di produzione immateriale, di produzione capitalistica
della soggettività, e immettono in maniera consistente in Italia l’esperienza dell’Internazionale

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Situazionista. Ne danno una lettura assolutamente militante, questo è importante: danno una lettura
molto militante dell’esperienza situazionista. Ciò vuol dire che a loro volta non si baloccano con
l’ipercriticismo tipico dell’IS, con quel modo così solenne e spocchioso con cui poi l’IS va verso la
dissoluzione e l’ineffettualità totale. Io non divento un situazionista, non sono stato un allievo di
Faina: però il suo magistero a Genova è forte ed ha ispirato ed anche dato luogo a qualche
esperienza molto significativa del movimento a Genova: ad esempio, l’occupazione della facoltà di
Filosofia di Balbi nel ’74, che a quel tempo è l’unica facoltà occupata in Italia, occupiamo
l’università con la finalità quella di sperimentare un’alternativa alla didattica, non una didattica
alternativa. Nascono dei centri di interesse in cui noi tutti assieme ad un consistente numero di
docenti della facoltà diamo vita a dei corsi interdisciplinari aperti a studenti, operai e proletari,
quindi Balbi diventa un’università aperta; e l’obiettivo che ci poniamo come comitato di agitazione
è quello di ottenere la fiscalizzazione dei corsi. Otteniamo l’appoggio di un consistente numero di
docenti tra cui vanno ricordati Costantini, Surdich, Calligaris, spiacevolmente (questo ovviamente
lo dico oggi) anche Fenzi. Ovviamente poi l’esperienza si conclude, però lascia una traccia
indelebile nel panorama genovese. Voglio sottolineare il fatto che a questi corsi alternativi alla
didattica partecipano anche numerosi operai, quindi vengono in università, oltre a Giuliano Naria,
anche gli altri strani pochi e operai genovesi che le fitte maglie del sistema picista ogni tanto lascia
filtrare: Angelo Moreschi, Angelo Rivanera, qualche operaio di Lotta Comunista. Per circa 4 o 5
mesi Balbi diventa il centro dell’iniziativa politica cittadina, e questo si realizza secondo me proprio
in virtù di questo contatto molto produttivo tra noi, che venivamo dall’esperienza di Potere Operaio
e che rimanevamo assolutamente operaisti circa la concezione, la preminenza del soggetto e
certamente poi per il discorso sul piano, la tecnica molto trontiana della lotta di classe concepita
come partita di scacchi, in cui c’è tutto un insieme di mosse, di contromosse, di occupazione di un
terreno culturale dell’avversario, e l’esperienza situazionista mediata e interpretata in modo assai
militante da Gianfranco Faina e dagli altri, con i suoi percorsi transdisciplinari, antropologici,
teorico mitologici, che mostravano un nuovo potenziale critico dell’azione politica. Io ricordo che,
sulla scia di questa esperienza, avevo fatto anche un tentativo veramente assurdo (era un gioco in
realtà) di riportare ad una comunione ciò che era stato inesorabilmente spezzato: avevo organizzato
un incontro a Genova tra Toni Negri e Gianfranco Faina. Dall’incontro emergevano gli stessi vecchi
approcci molto comuni, c’era una eccezionale amicizia tra Toni e Gianfranco. Faina (più o meno
coetaneo di Toni) era stato l’intellettuale comunista di punta del panorama cittadino: precocissimo
segretario della FGCI, uscito dal partito dopo i fatti di Ungheria del ’56, ma continuamente
considerato come un intellettuale che prima o poi avrebbe dovuto fare e contare qualcosa nel
partito, quindi dotato anche di un grandissimo seguito a Genova anche dopo la sua uscita. Era una
persona veramente atipica, un oratore molto particolare, con la voce un po’ fessa, capace di
esprimersi in dialetto genovese nei momenti più opportuni: non era un tipico leader, quindi non una
persona che sta costantemente sul palco o dietro le quinte, ma sta in platea, un punto di riferimento
mai centrale ma sempre visibile. Alla fine delle lotte di Balbi con Faina decidiamo di aprire una
sede al Carmine, ma a quel punto si va verso non precisamente una spaccatura, bensì verso la sua
fuoriuscita dalla scena politica: di fronte alle tracce evidenti di una sconfitta che per lui era già data
nei fatti, imbocca un percorso fatale. Se ne va da Genova e si mette con un gruppo anarco-
lottarmatista: negli ultimi tempi aveva eliminato anche i libri dal suo istituto, era una persona che
aveva imboccato un percorso fatale, conclusosi con il carcere e poi con la morte per cancro.
Nel 1976 io faccio il servizio militare a Padova. Val la pena di ricordarlo perché lì nasce l’unica
esperienza significativa dell’Autonomia Operaia o comunque di derivazione operaista sull’esercito:
a Padova fondo insieme ad altri compagni i MAO, Militari Autonomi Organizzati, che poi
diventano una rete assai precaria di contatti a livello nazionale, in conflitto piuttosto aperto con i
Proletari in Divisa di Lotta Continua e in ogni caso con ogni altra iniziativa sul medesimo terreno
dei gruppi. I MAO si differenziano perché conducono una lotta contro la leva, facendo un discorso
di totale opposizione ad essa, di svuotamento delle caserme, di opposizione comunque all’esercito,
di sabotaggio. Da questo punto di vista mettono in discussione la tradizione comunista che ha visto

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sempre l’esercito di leva come una garanzia, come una sicurezza popolare e proletaria nei confronti
dell’esercito mercenario, dell’esercito professionale. Noi sosteniamo invece che l’ipotesi
dell’abolizione della leva, pur essendo semplicemente riformistica, è una cosa a cui prima o poi il
sistema capitalistico arriverà: si tratta leninisticamente di modernizzare al più presto un’istituzione
per poi ovviamente combatterla nella sua sostanziale appartenenza ad un sistema disciplinare, di
potere, per il suo essere un’istituzione totale. Alla fine di questa esperienza esce un libro, che si
intitola L’esercito è un cadavere armato, che è una delle prime pubblicazioni del Collettivo Libri
Rossi, e credo venga presto sequestrato, i cui contenuti sono senz’altro anticipatori, alla luce di
quanto è avvenuto in questi anni.
Dopo il congedo continuo a fare attività politica nell’Autonomia, facciamo a Genova qualcosa di
significativo con l’autoriduzione delle bollette ENEL e SIP. Con l’Autonomia a livello nazionale,
Rosso, manteniamo un rapporto continuo ma non intenso, nel senso che non ci facciamo troppo
coinvolgere dalla frenesia milanese e veneta rispetto all’illegalità di massa, ai percorsi di
militarizzazione ecc. Manteniamo una posizione molto equidistante rispetto all’Autonomia del nord
e l’autonomia romana; in realtà, entriamo in un rapporto abbastanza intenso con i collettivi dei
Volsci, con Vincenzo Miliucci, con Giorgio Ferrari, con Daniele Pifano. Cominciamo a organizzare
delle cose insieme, in particolare l’iniziativa contro il Piano Nucleare, che poi confluisce nel
febbraio del ’79 in un convegno che viene non a caso organizzato a Genova, sede dell’Ansaldo e
quindi sede del Piano Energetico Nucleare. C’è una cosa che devo aggiungere. Dopo l’esperienza
del GOS, i rapporti col Partito Comunista erano diventati conflittuali: noi siamo dei fascisti non
quando partono le prime molotov, ma molto prima. Io sono considerato un fascista dai compagni
del Partito Comunista, con i quali avevo fatto le elementari a Certosa o le medie a Rivarolo ecc., già
nel 1970, cioè nel momento in cui aderisco a Potere Operaio sono un fascista. A Genova, molto
prima che sul territorio nazionale, si verifica questo fatto: il Partito Comunista assume una
posizione di totale rigidità nei confronti del movimento, si erige uno steccato invalicabile, crea le
condizioni perché questa parte consistente del movimento non abbia altro sbocco che non quello di
vincere o perdersi, combattere comunque, in ogni caso, senza altre soluzioni. Da questo punto di
vista continuo a dire che Genova è una realtà da un lato più arretrata e dall’altro più matura: forse
noi abbiamo avuto l’opportunità di vedere prima quello che sarebbe accaduto proprio per la grande
maturità, forse sarebbe meglio dire marcescenza, dei processi di scomparsa della centralità operaia,
quindi la fine di un equilibrio e di un rapporto di classe nel quale eravamo culturalmente nati.
So che questa situazione è accaduta anche in altre realtà, forse a Genova accade un po’ prima, già
nel ’70.

- Probabilmente avviene già prima, all’inizio degli anni ’60 Faina, Della Casa e il gruppo
genovese che poi transiterà in Classe Operaia ha grandi difficoltà e vive un pesante isolamento.

Sì, è vero; tra l’altro precedentemente avevo dimenticato di citare Gianfranco Della Casa. Ma
ancora alla fine degli anni sessanta il gruppo di Faina è attivo con la Lega Operai e Studenti, e la
fabbrica rimane comunque il loro principale riferimento. Che altro potevi fare a Genova in quegli
anni d’altra parte? Vivevi in mezzo alle fabbriche, respiravi fabbrica. Il 12 dicembre ’70, dopo la
morte di Serantini, i luddisti genovesi vanno davanti all’Ansaldo per indire uno sciopero generale,
strage di Stato un anno prima, morte di un anarchico l’anno dopo: vengono respinti ed anche
picchiati come fascisti dalla classe operaia genovese. Quando nel ’77 dopo il decreto che soppresse
alcune festività e dopo le prime giornate di cassa integrazione all’Italsider (va detto che l’Italsider,
come tutte le fabbriche parastatali e statali si riteneva protetta dal pericolo di chiusura o di cassa
integrazione, si ritenevano assolutamente intoccabili, al di fuori di processi di ristrutturazione che
potessero compromettere o pregiudicare le condizioni della classe operaia) andiamo in una decina a
volantinare in uno degli stabilimenti del gruppo Ansaldo, dicendo semplicemente: “ormai la strada
imboccata è senza ritorno, quindi ci sarà la cassa integrazione, ci saranno i licenziamenti, ci sarà lo
smantellamento dell’industria, il ciclo siderurgico è alla frutta a livello europeo, muoviamoci,

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anticipiamo i tempi”; i primi operai prendono i volantini, un sindacalista entra in fabbrica, ne esce
con un megafono e continua per almeno un’ora a dire: “alcuni fascisti, non potendo dire di essere
tali per non essere massacrati, che usano il P38 contro la classe operaia e lo stato democratico, sono
venuti qui questa mattina a provocare la classe operaia genovese, che è la classe operaia che ha
salvato la democrazia, che ha liberato Genova dal fascismo e dal nazismo”. Veniamo respinti,
questo è quello che solitamente accade in una fabbrica genovese: è veramente una realtà che ci
obbliga rapidamente a considerare come finita un’esperienza, un ciclo, e che quindi ci induce prima
che altrove a maturare altre convinzioni.
Nel ’78 l’esperienza politica a Genova volge rapidamente al termine. Vivevamo ormai in una
situazione di chiusura politica ed anche di diffidenza, io, per esempio, avevo aperto una libreria a
Genova nel ’77 con Stefania e con altri compagni dell’Autonomia: questa libreria viene
paradossalmente boicottata da tutti, non ha spazio, viene asfissiata dalle perquisizioni e dalle
delazioni, dalle calunnie ecc. Nel ’78 io vengo arrestato durante il sequestro Moro, perché in quei
gironi stavo lavorando al secondo numero di Nulla da Perdere, che era il giornale dell’Autonomia
Operaia ligure ed avevo a casa il menabò del giornale: i carabinieri trovano nel menabò una busta,
una corrispondenza, una lettera arrivata regolarmente per posta da un gruppo genovese che ha
compiuto un attentato dinamitardo, mi pare nella sede di una finanziaria, e con la scusa che io sono
in possesso di un originale del volantino di rivendicazione (anche se immagino che non fosse
l’unico originale) vengo arrestato. Viene dato a ciò un ampio risalto, sono uno di quelli che viene
arrestato durante il sequestro Moro, perquisiscono l’abitazione dei miei nonni in Umbria perché
potrebbe essere uno dei covi in cui è custodito l’onorevole; ma poi, 40 giorni dopo la morte di
Moro, vengo scarcerato per scadenza dei termini. A distanza di quasi un anno, dopo il 7 aprile a
Genova i carabinieri di Dalla Chiesa, come risposta competitiva a quella operazione, organizzano
un blitz basato su testimonianze di due ragazze, una ex militante di Lotta Continua e un’altra che
non aveva nessuna esperienza di militanza e che all’epoca era tossicomane, persone che vengono
obbligate, indotte o costrette dai carabinieri a fornire delle false testimonianze. Quindi, finiamo in
galera in 17 o 18, direi tutti tranne Fenzi, che è l’unico che ha qualcosa a che fare con le Brigate
Rosse come poi si scoprirà: tutti noi non abbiamo nulla a che fare con le BR. In realtà, il blitz del
generale Dalla Chiesa il 17 maggio del ’79 è un bluff. non hanno nulla in mano se non delle
dichiarazioni false. Io in particolare vengo accusato di aver tentato di reclutare una certa ragazza in
un mese dell’anno precedente in cui tra l’altro non avrei mai potuto farlo perché ero in galera, ma di
questo non serve parlarne durante gli interrogatori perché i giudici arrivano al punto di farsi
testimoni e di correggere loro stessi la testimonianza inefficace, quindi mi tengono dentro. In realtà
io rivesto un ruolo che in quel momento è importante nella strategie nazionale contro i movimenti,
perché da un lato sono arrestato come brigatista rosso, quindi secondo i carabinieri sono uno dei
dirigenti della colonna genovese delle BR; dall’altro, però, sono notori i miei contatti con
l’Autonomia, in particolare con Toni Negri, c’è corrispondenza, trovano delle lettere alla
Fondazione Feltrinelli, a cui Toni aveva affidato tutto il suo epistolario. Quindi, sono un anello di
congiunzione: il fatto che io, in quanto brigatista, fossi in rapporto con Toni Negri dimostra quanto
il teorema Calogero fosse fondato! Diciamo che è una doppia calunnia che si sostiene
reciprocamente. Rimango in galera per circa un anno, prima a Novara, poi a Brescia, poi
nuovamente a Genova in attesa del processo; poco prima di questo arrestano Peci, e qualche giorno
prima dell’inizio del nostro processo a Genova, che sarà comunque ed è stato il primo processo
degli “anni di piombo”, c’è l’irruzione dei carabinieri nel covo di via Fracchia, dove ormai è
storicamente accertato che decidono di ammazzare quattro persone, avrebbero potuto certamente
arrestarle ma decidono di compiere un’azione di rappresaglia e di farle fuori. Questo ha delle
ricadute sul nostro processo perché Peci, tra le altre cose, ha fatto anche il nome dell’avvocato
Edoardo Arnaldi, difensore legale delle Brigate Rosse, ma in realtà, secondo Peci, ad esse affiliato o
comunque molto vicino. Arnaldi, che è uno straordinario personaggio, giovanissimo partigiano, poi
avvocato civilista, una persona di una grande nobiltà di tratti e di carattere, difensore mio e di molti
degli imputati, si suicida nel bagno quando i carabinieri vanno ad arrestarlo. Anche altri nostri

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difensori vengono incriminati, e c’è chi fugge, come Zezza e come Fuga. Rimaniamo cioè senza
collegio di difesa.
C’è tra l’altro una considerazione che voglio fare, dal momento che prima ho parlato del processo
agli imputati del 17 maggio come del primo processo degli “anni di piombo”. In realtà sappiamo
che questa espressione, anni di piombo, viene tratta dal titolo del film della Von Trotta che nei
primi anni ’80 arriva in Italia e colpisce tutti con la sua narrazione esistenziale dell’esperienza
terroristica. In realtà il titolo originale del film non è Anni di piombo ma è Anni plumbei: ora, è
evidente che c’è un’enorme differenza sostanziale tra anni plumbei e anni di piombo, anche perché
la Von Trotta per anni plumbei intende gli anni del nazismo. Il film tratta a fondo il tema del senso
di colpa della generazione nata dopo la guerra rispetto a ciò che il popolo tedesco ha visto fare e a
cui in gran parte ha partecipato. Invece, in Italia questa diventa un’espressione chiave per dire
banalmente tutt’altro, per cui da una parte e dall’altra, da tutte le parti gli anni ’70 diventano gli anni
di piombo, gli anni delle pallottole: questa è una contraffazione totale della verità storica, una
falsificazione della realtà, perché quegli anni furono tutto tranne che anni di piombo. Non lo furono
dal punto di vista della temperie generale, perché furono anni di grande ricchezza creativa e
culturale: il ’77 italiano fu un anno ricchissimo sia dal punto di vista della critica sia da quello della
modernizzazione del paese; ci sono stati il ’74 e il ’75 a Milano, ma anche l’esperienza di Balbi e
quindi genovese, l’esperienza delle radio e delle mille riviste alternative, quindi furono anni gioiosi.
Non lo furono neppure dal punto di vista militare, perché in realtà ciò che accadde in quegli anni,
esaminato freddamente, è nulla rispetto a ciò che accadde negli stessi anni in Irlanda o in quelli
successivi nei Paesi Baschi. Anche quando recentemente Oreste Scalzone in Il nemico
inconfessabile, questo libretto che ha pubblicato per Odradek con Paolo Persichetti, tende ad
accreditare questa immagine di 100.000 persone in armi o comunque disposte a prendere le armi in
Italia, e lo fa attraverso modi che sfiorano l’autodenuncia, in realtà è egli stesso preda di questo
generale misunderstanding. Perché in realtà, se ci si pensa bene, le Brigate Rosse (e questa è verità
storica) avevano qualche mitraglietta Skorpion che si passavano da un covo all’altro per fare gli
attentati; io credo che l’arsenale di cui potevano usufruire i gruppi armati italiani forse, dico io,
poteva consistere in cinque mitragliette e una cinquantina di pistole. Vale a dire che la Repubblica
italiana non ha mai corso nessun pericolo, questo è quello che andrebbe raccontato e io avrei
piacere che il discorso sugli anni ’70 cominciasse proprio da questa eliminazione di un grosso falso:
non sono mai stati gli anni di piombo, lo sono diventati a partire da questo misunderstanding sul
titolo di un film. Bisognerebbe quindi cominciare a non usare più questa nefasta espressione.
Tornando al processo, posso dire che esso è importante in quel momento, poi non se ne parlerà più e
diventerà una serie di storie individuali. Il fronte degli imputati si spacca tra coloro che lo
affrontano come processo di guerriglia, come i brigatisti rossi fino a quel momento arrestati
avevano fatto, e cioè gli imputati non intendo riconoscere i giudici come tribunale legittimato a
giudicarli, e quindi secedono dal processo, lo abbandonano; e coloro che invece, siccome si rendono
conto di trovarsi di fronte a una provocazione poliziesca senza fondamento, decidono di rimanere
per smontare la montatura ritenendo che questa sia comunque un’opera doverosa, forse
semplicemente una questione di buon senso. Tutto questo viene letto assai difficoltosamente
all’esterno dal movimento, anche perché questo in quella fase è interessato agli aspetti simbolici, è
già un movimento sulla via della rotta, e quindi non apprezza il fatto che i compagni imputati non
assumano tutti un atteggiamento clamoroso da erinni, da vestali della rivoluzione. C’è infatti una
spaccatura che si riproduce anche all’esterno e che ci amareggia abbastanza. Io sono tra coloro che
decidono di combattere questa battaglia, partecipando al processo e smontando la montatura. Lo
faccio insieme ovviamente ad altri compagni, che mi piace ricordare: Mauro Guatelli e Claudio
Bonamici per esempio, un bordighista ed un anarchico, questo per dire che in realtà Dalla Chiesa
aveva organizzato un blitz in cui aveva raccolto una minestra toscana di compagni, autonomi, Lotta
Continua, bordighisti ecc. Claudio Bonamici io l’ho conosciuto in carcere, era un mio coimputato,
la colonna genovese delle Brigate Rosse secondo i Carabinieri era anche formata da me e da lui, ma
l’ho conosciuto solo in galera! Però, quando noi avevamo fatto presente questo negli interrogatori, è

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stato usato come prova: cioè, “voi non vi conoscete perché nella vostra colonna funziona la
compartimentazione”. Quindi, se tu conosci uno è la prova che sei un brigatista come lui; se non lo
conosci, anche questa è una prova, proprio perché non lo conosci e ciò testimonia il fatto che la
compartimentazione funziona efficacemente. Noi smontiamo il processo, ce la facciamo, grazie
anche al contributo di compagni all’esterno, tra cui l’unico avvocato sopravvissuto al pogrom
contro il collegio legale, Cesare Manzitti, con un lavoro di controinchiesta. Riusciamo a dimostrare
al Presidente della corte, che è un giudice liberale, che in realtà quel processo è basato
integralmente su una montatura, quindi veniamo tutti assolti: è una sentenza inaspettata, e quando
usciamo dal carcere (probabilmente è l’ultima cosa entusiasmante che io ricordi della mia
esperienza politica) c’è una festa straordinaria nelle piazze e nelle strade. E’ una festa che oggi
potremmo definire di tipo calcistico, che segue di qualche settimana l’enorme corteo che ha
accompagnato Edoardo Arnaldi al cimitero: direi che sono gli ultimi cortei di massa a Genova.
Qualche giorno dopo la sentenza, il generale Dalla Chiesa, evidentemente turbato dall’offesa che gli
ha portato questo giudice, dichiara alla festa dell’Arma che è ora di finirla con l’ingiustizia che
assolve. Noi capiamo subito che dentro quella affermazione c’è la certezza della condanna in
appello: in effetti, a distanza di un anno, c’è il processo di appello. Incredibilmente, nonostante Peci
non avesse fatto i nostri nomi (e del resto non poteva farli), nonostante nel frattempo la Digos
avesse sgominato la “colonna infame”, la colonna di latta e non di piombo delle Brigate Rosse a
Genova che si sgretola nel giro di qualche mese, e nonostante quindi non ci sia nessun riferimento
con me, con Luigi Grasso, con Guatelli, con Claudio Bonamici e con l’altra quindicina di imputati
che non ho potuto citare, veniamo condannati come brigatisti rossi. Nell’85 od ’86 la Cassazione
per un vizio formale annulla il processo di condanna, ma ci rinvia al tribunale di Torino che avrà il
solo compito notarile di condannarci, cioè: “per questo vizio formale la sentenza è annullata, però è
certa la colpevolezza degli imputati, pertanto il tribunale di Torino avrà lo scopo di decidere a
quanto queste persone dovranno essere condannate”. Ci rechiamo a Torino, dove scopriamo di
essere tra i pochi irriducibili delle BR in Italia, perché il pubblico ministero ci rivolge questa
domanda: “voi ammettete di far parte delle Brigate Rosse?”; io non potrei chiaramente ammettere
questo se non ricorrendo all’autocalunnia, ma il fatto di non ammetterlo mi rende di fatto un
irriducibile e veniamo condannati come brigatisti rossi. La successiva sentenza della Cassazione
non può che essere di conferma: io per fortuna non rientro in carcere nel 1990, quando la condanna
diventa esecutiva, perché nel frattempo l’approvazione della legge Gozzini mi permette di andare in
affidamento sociale. Quindi, faccio quasi due anni di residuo pena con gli assistenti sociali che
vengono a verificare i progressi del mio reinserimento nella vita sociale, questo fino al ’91.
Nel frattempo io ho continuato a fare un po’ di attività politica, nel frattempo ho deciso di non fare
l’insegnante, nel frattempo, nei primi anni ’80, ho scelto di non andare a Parigi, nonostante ci
fossero molte tentazioni che riguardavano sia l’imminente condanna, sia la prospettiva della
carcerazione, sia un folto numero di pentiti, soprattutto mafiosi, che su dettatura dei carabinieri si
ostinavano a fare il mio nome come responsabile militare delle Brigate Rosse o come partecipante a
varie rapine. In quel periodo so di compagni in situazioni molto meno preoccupanti della mia che
andarono a Parigi per venirne fuori, io invece decido di rimanere: evidentemente facendo questo
non potevo lavorare nella scuola né da nessuna parte, quindi decisi di fondare una piccola impresa.
Inizia allora questa mia carriera imprenditoriale, io non sono certamente nato per fare
l’imprenditore, ma ho deciso di farlo fondamentalmente per rimanere qui a Genova, animato da un
desiderio di vendetta civile nei confronti dei carabinieri, nei confronti dei giudici, nei confronti
degli uomini del Sisde. Non potevo andarmene senza aver visto la fine di questa vicenda
processuale, dal momento che tra l’altro l’esperienza collettiva stava per finire, rimanevano molte
parabole individuali. Io sono obbligato a latitare per uno o due mesi ogni tanto, poi la situazione si
rasserena. In quel periodo con alcuni compagni di Firenze, tra cui Francesco Panichi, e di Milano,
tra cui Giovannelli, e di Genova, tra cui Antonio Longo e Massimo Capitti, organizzo l’8 e 9
febbraio dell’86 un convengo a Firenze che ha un titolo ambizioso e solenne, un po’ bislacco, che è
“Crisi del moderno e pensabilità del futuro”. Tra i relatori ci sono Lapo Berti, Franco Berardi, Paolo

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Virno, c’è Sergio Bologna. Tra i relatori c’è anche il professor Albertini, il presidente o comunque
uno dei più autorevoli esponenti del federalismo italiano. Questo convegno lo ricordo con piacere
perché è stato il tentativo, secondo me generosissimo, di organizzare un momento di discussione
deliberatamente non influenzato dalle esperienze del carcere e dalla problematica della repressione.
E’ generosissimo perché in quel momento tutte le persone che ho citato (a parte Albertini, si
intende), quelle che poterono venire e quelle che non poterono venire e che vennero comunque
invitate a spedirci un loro contributo, erano persone schedate, incarcerate, che lo erano state o che lo
sarebbero state, erano persone alle prese con quintali di anni ipotetici e potenziali di carcere.
Quindi, tutto il dibattito di quegli anni ormai era fortemente influenzato e prevalentemente
condizionato e focalizzato sul tema della repressione, sulla risposta alla repressione, era un dibattito
ormai totalmente appiattito sul carcerario, sul giudiziario, sul repressivo. Nell’introduzione che feci
io dissi: “oggi non parleremo né di carcere, né di giudici, né di poliziotti, né di carabinieri, né di
repressione”. Era ovviamente una cosa assolutamente velleitaria, però riuscimmo a non parlare di
carcere.
In quegli anni decisi di iniziare una partita a scacchi con il potere giudiziario, e scelsi in assoluta
solitudine di cominciare una controinchiesta che avrebbe avuto come finalità quella di chiedere la
revisione e quindi di smontare la montatura ormai definitivamente consegnata ai faldoni giudiziari.
Per cui cominciai con il rintracciare una superteste, che nel frattempo era andata ad abitare in
Australia: fui costretto ad indebitarmi in maniera considerevole prima per rintracciarla,
successivamente per mettermi in contatto prima epistolare e poi telefonico con lei. Lascio
immaginare che cosa poteva contenere la lettera che io faticosamente scrissi a questa superteste che
aveva testimoniato il falso contro di me, robe tipo “sei il mistero della mia vita”. Mandai dunque
una persona in Australia per ottenere una modifica di quelle dichiarazioni, che ovviamente fu
controfirmata dall’ambasciatore italiano a Sidney. Riuscii ad entrare in contatto con alcune altre
persone che potevano testimoniare nel dettaglio la falsità della costruzione accusatoria non solo nei
miei confronti ma anche nei confronti di altri miei coimputati. Quindi, raccolsi tutto questo
materiale, ci misi quattro o cinque anni, ciò mentre lavoravo. Solamente quando raggiunsi un certo
grado di sicurezza sul fatto che le prove che avevo raccolto potevano essere considerate fondate e
inattaccabili, soltanto in quel momento chiesi la revisione del processo. Lo feci senza dare
pubblicità, nel senso che feci in modo che i carabinieri coinvolti in questa montatura capissero che
da parte mia non c’era nessun desiderio di pubblicità, cosa che è ovvio che avrebbe compromesso la
mia iniziativa: forse loro ebbero la sensazione che da parte mia ci fosse solo un desiderio di
riabilitazione personale, mentre io in realtà desideravo come minimo stroncare le loro carriere, e
questo è un altro discorso. Quando fui certo di questo, chiesi la revisione, ci fu il processo e tutte le
condanne per partecipazione a banda armata, nei confronti miei e di alcuni dei miei coimputati,
vennero definitivamente cancellate. Ci furono anche dei colpi di scena su cui in questa sede non
posso dilungarmi, ma accaddero delle cose molto curiose, tra cui l’arrivo per posta dall’Australia, il
giorno dell’ultima udienza, di una busta contenete la mia foto segnaletica in originale che era stata
consegnata a questa superteste in Australia affinché le fosse possibile riconoscermi nel caso in cui,
nel corso dei vari processi, si fosse reso necessario un confronto all’americana: lei non mi
conosceva neppure! Questa cosa, in effetti, contribuì a stroncare (cosa di cui vado orgoglioso) la
carriera di qualche carabiniere e di qualche giudice, e questo è un avvenimento che conta, che vale:
la vendetta non è necessariamente uccidere un uomo, evirarlo o altro, la vendetta è anche stroncargli
la carriera se quest’uomo è una persona che tiene particolarmente ed esclusivamente alla carriera.
Terminato il processo di revisione, iniziammo una causa per la riparazione dell’errore giudiziario,
questo nel ’93, ’94, ’95, perché poi è grosso modo in questi anni che si è conclusa questa vicenda
giudiziaria iniziata nel ’79. Questo è un aspetto ludico della vicenda, perché fu abbastanza facile
dimostrare, non tanto per quanto riguarda il mio caso ma per quanto riguardava i miei coimputati, la
rovina psicofisica che era stata la conseguenza più o meno generale di anni di galera prima, poi di
processi ripetuti, di latitanze, di preoccupazioni, di pericoli ecc. E quindi riuscimmo
complessivamente ad ottenere un miliardo, una somma per qualche tempo fu la più alta mai ottenuta

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da cittadini italiani per un errore giudiziario. Devo dire molto onestamente che io, con quello che
sono riuscito ad ottenere, ho pagato i miei debiti, perché questa impresa che ho sommariamente
descritto è stata piuttosto costosa, ha comportato delle spese notevoli, quindi non mi sono
certamente arricchito.
Nel frattempo ho continuato a svolgere attività imprenditoriale. Avendo degli obblighi, non potendo
uscire di casa la sera, ho organizzato una sorta di salotto con molti compagni che venivano a
trovarmi (tra questi anche Sandrino Mezzadra ovviamente); insieme a loro ho redatto un documento
che ha avuto un certo peso qua a Genova, chiamato Programma Ugolino. In conseguenza del suo
nome, esso ha comportato una catena di perquisizioni. In realtà il nome dipendeva dal fatto che io
all’epoca maneggiavo molto poco l’informatica, quindi per me la traduzione di file era programma,
e quindi ho italianizzato stupidamente file in programma; Ugolino era una cosa che si scriveva in
attesa delle celebrazioni colombiane, e ovviamente era antipatico ed insopportabile questo
Cristoforo Colombo che era tornato con il suo carico americano e stava molto più simpatico uno dei
fratelli Vivaldi che invece dal loro viaggio oltre le colonne d’Ercole non sono più tornati, per loro
sfortuna e per nostra fortuna. Ci fu un’ondata di perquisizioni pazzesca, mi ricordo quando mi
portarono in questura e mi chiesero “ci dica che cosa c’è nel Programma Ugolino”, una roba
veramente incredibile. Negli ultimi anni ho lavorato in maniera matta e disperatissima, per
disperazione più che altro, ma adesso qualcosa sta cambiando, adesso forse c’è qualcosa di nuovo
nell’aria.

- Tu hai precedentemente analizzato la contraddittorietà della situazione genovese, da una parte


in anticipo e dall’altra in ritardo. Alcuni sostengono che sul finire degli anni ’60 quella forza
operaia che era stata centrale nella fase del passaggio italiano al taylorismo-fordismo avesse
già imboccato la strada del declino. Tronti sintetizza questa ipotesi con una metafora:
“avevamo visto il rosso, ma era quello del tramonto e non dell’aurora”. Paradossalmente, nel
momento in cui i movimenti e le mobilitazioni diventano quantitativamente più grosse, a quel
punto sta già declinando quella forza che alcuni avevano ipotizzato di poter utilizzare per un
progetto non solo anticapitalista, ma anche per uscire e rompere il tecnicismo, il lavorismo, lo
sviluppismo, il produttivismo della sinistra, formatasi sulla figura dell’operaio di mestiere, nel
sogno di una classe contro se stessa. Tu cosa ne pensi?

Non sono completamente d’accordo. Io sono tra quelli che si sono formati su Tronti, quello di
Operai e capitale, la mia formazione decisiva sicuramente avviene sui libri di Tronti e anche su
quelli di Toni. Detto questo, secondo me Tronti è preoccupato di dare una giustificazione ex post
delle sue scelte successive, alquanto complicate. Se il rosso poteva essere intravisto non vedo come
in quel momento potesse essere considerato come il rosso del tramonto: io direi che in realtà quello
che avviene negli anni successivi è un’esplosione sicuramente ritardata di violenza operaia, ma è
movimento autentico, è una marea crescente, montante. Che poi questa marea montante possa
essere considerata una manifestazione postuma, beh l’Italia non è il centro del mondo, i processi
vanno anche visti ed inquadrati ogni tanto in uno scenario mondiale. E’ una manifestazione anche
un po’ provinciale di lotta operaia, così come arriva in ritardo, è vero che dura molto a lungo e si
brucia poi molto velocemente: è anche un processo di modernizzazione che conclude molto
velocemente il suo svolgersi, per cui solo a distanza di qualche anno si può intravedere a questo
punto sì il rosso del tramonto. Già nei primi anni ’70, almeno intellettualmente, poteva essere
dichiarata la parola fine per quanto riguarda la centralità operaia. Qui parliamo di centralità politica
della classe operaia, non parliamo delle lotte della classe operaia.
Quello che avviene a Genova è un qualcosa di diverso e, se si vuole, di abbastanza casuale: dipende
dalla classe operaia di questa città. Genova è la capitale della Resistenza, è la città che per prima e
da sola si libera grazie alla potenza e alla forza del movimento di Resistenza; ma grazie anche (e
questo è un aspetto non secondario) alle capacità diplomatiche della Curia, anche alle capacità
diplomatiche di un certo ceto politico che poi diventerà di lì a poco democristiano, è infatti vero che

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Taviani è un personaggio chiave della politica genovese da prima della fine della Seconda Guerra
Mondiale. Quindi, c’è questo insieme di elementi: però, Genova è comunque una città rossa. In
quanto città rossa, in quanto città comunista, in quanto città in cui tutte le strade, anche dopo il ’48,
sono intitolate a militanti, non solo a eroi, della Resistenza, a tutti i partigiani che sono morti nel
corso della guerra di liberazione, è una città che viene tenuta fuori dallo sviluppo, da quelli che sono
i comparti centrali nello sviluppo capitalistico del dopoguerra italiano. Quindi, è una città in cui la
classe operaia viene fatta morire per estenuazione ed asfissia, viene fatta annegare nel suo brodo,
non c’è ricambio. L’unico caso di azienda importante, ovviamente parastatale, che viene rilanciata e
sviluppata è certamente l’Italsider, perché si trattava di uno stabilimento la cui costruzione era
iniziata prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale: l’area era già pronta, il porto
accogliente per l’arrivo di minerali necessari alle lavorazioni siderurgiche era lì, quindi sarebbe
stato assurdo non utilizzare area, porto ecc. Però, l’Italsider è uno stabilimento che viene formato
con manodopera scelta accuratamente tra gli immigrati oppure tra i comuni del circondario di
Genova, attraverso un filtro che è quello delle parrocchie: in sostanza, si viene assunti all’Italsider
solo se non si è comunisti, o meglio se si è anticomunisti. Mio padre stesso, che era socialista
lombardiano, e che è un contadino umbro immigrato a Genova subito dopo la guerra, dopo alcuni
anni di disoccupazione accettò di fare domanda all’Italsider e accettò di giurare di non essere
comunista per essere assunto, non se ne vergogna ancora a raccontarlo. Quindi, c’è l’Italsider che è
uno stabilimento importante perché raggiungerà le 6000-7000 unità, che sono tante per essere una
fabbrica dentro la città. Curiosamente sarà solo l’Italsider (in cui ovviamente la FIOM è in
minoranza, mentre è la FIM ad essere in maggioranza), a dar luogo agli unici episodi di autonomia
operaia genovese: proprio perché c’è classe operaia che non è comunista, che addirittura in parte è
anticomunista, però è strutturalmente classe operaia, non è meno classe operaia per questo, e quindi
esplode e non ha strumenti di controllo, cioè non ha il Partito Comunista con guinzaglio in grado di
controllarla. Autonomia a Genova, potrebbe essere lo sciopero dell’altoforno, avviene all’Italsider,
proprio perché lì il controllo del partito e dalla FIOM è più scarso, non c’è o comunque è carente: è
curioso questo. Gli altri episodi di autonomia operaia (con cui intendo rottura del ciclo,
insubordinazione ecc.) avvengono dove a Genova? Avvengono nelle ditte del subappalto, si tratta di
questi strumenti di flessibilità padronale che lavorano in genere sempre per l’Italsider, che a
conclusione dei cicli lavorativi scendono in lotta per essere inquadrati negli organici dell’impresa:
quindi, sono sacche di lavoro operaio marginale che lottano per entrare nel ciclo. Ma le fabbriche
non lottano, le fabbriche scendono in piazza se c’è minaccia di golpe, se c’è minaccia di svolte
autoritarie, scendono in piazza per appoggiare il partito, poi basta, per il resto non si muovono.
Quindi, noi abbiamo a che fare con una città in cui il ceto imprenditoriale capitalistico italiano ha
deciso di non intervenire perché è una città inaffidabile e pericolosa. Noi entriamo in contatto con
questa vecchia classe operaia alla fine di un ciclo. Questo lo dico non perché abbia mai inteso
attribuire al gruppo di Classe Operaia che se ne andò verso correnti di pensiero situazioniste, e
neppure attribuire a me o ad altri che facevano politica con me, il merito di avere anticipatamente
visto lo svolgimento del processo: è che noi siamo entrati in contatto con la classe operaia più
conservatrice del paese e con il ceto sindacale e di partito più bigotto che si sia mai visto al mondo,
però anche questa era classe operaia. Ne è nato un conflitto e poi la sensazione di totale
incomunicabilità: questo spiega le scelte sicuramente estreme di Faina e del suo gruppo, e, si parva
licet, le scelte disincantate mie e dei compagni che hanno lavorato con me.
A Milano c’è l’Assemblea Autonoma dell’Alfa, poi c’è la brigata Walter Alasia, lì invece c’è il
suicidio giapponese dell’operaio-massa, è un suicidio collettivo.
Le Brigate Rosse a Genova, questo va detto, apparentemente interpretano questa composizione di
classe: calano con l’intenzione di fare della colonna genovese quella principale perché Genova è il
terzo polo industriale. In realtà, le Brigate Rosse a Genova non ci sono mai state: gli episodi più
eclatanti e clamorosi che hanno dato all’esterno un’immagine di imprendibilità, di straordinaria
efficacia e di grande radicamento delle BR a Genova sono posti in atto da militanti brigatisti che
vengono da Torino o da Milano o da Reggio Emilia, e che di fatto sono imprendibili proprio perché

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a Genova non ci stanno. Ma fino al ’77 e anzi direi fino al ’78 le Brigate Rosse a Genova non ci
sono, sono poche persone assolutamente non significative. Però, grazie al gioco mediatico riescono
ad assumere un ruolo che non gli è assolutamente proprio, riescono a crearsi un credito
completamente millantato. In ciò (ed è questa la tragedia degli anni ’70, altro che anni di piombo,
questa è la vera sostanza plumbea degli anni ’70) le Brigate Rosse utilizzano l’estrema disponibilità
del sindacato e del Partito Comunista, in particolare nel momento in cui la cassa integrazione arriva
a lambire anche le fabbriche statali e parastatali. Quindi, in realtà il sindacato utilizza il terrorismo
delle Brigate Rosse come dirottamento della rabbia operaia. Cioè, se viene imposta la cassa
integrazione all’Italsider o all’Ansaldo, non si incendia il municipio come accade a Lilla in Francia
nel medesimo periodo, perché l’acciaio è in crisi anche in Francia, mica solo nella Ruhr, mica solo a
Genova: però, gli operai francesi bruciano i municipi, e quindi in questo modo hanno un potere
contrattuale straordinario, e di fatto consentono una modernizzazione accelerata dell’area, tra
l’altro. No, a Genova invece per fortuna del sindacato che non deve occuparsi di situazioni
ingovernabili, c’è un commando delle Brigate Rosse che brucia una macchina di un caporeparto,
episodio modestissimo: benissimo, allora a questo punto si proclama uno sciopero per l’intera
giornata. La passione operaia è dirottata contro il terrorismo che attenta alla democrazia e quindi è
lui il vero nemico, non è chi di fatto sta minando le basi della comunità operaia, il nemico è il
terrorismo che attenta alla tradizione democratica del paese. Tragicamente è come se il sindacato a
Genova evocasse questa situazione, non ha alcuna responsabilità diretta, è evidente, ma finisce con
l’attribuire alla stupida iniziativa brigatista un’importanza e soprattutto una risonanza che davvero
non possiede. Gli atti processuali hanno poi dimostrato come tutti questi attentati siano stati fatti dai
soliti 4 o 5 che si chiamano Livio Baistrocchi, Lorenzo Carpi, è verità processuale accertata, sono
gli stessi che si spostano, sparacchiano ecc. Ad ogni macchina bruciata e ad ogni gambizzazione di
caporeparto scatta quindi uno sciopero, cioè la classe operaia genovese sciopera esclusivamente in
conseguenza degli attentati delle BR. Questo è veramente un effetto perverso, è spaventoso perché
crea un misunderstanding generale. D’altra parte, dal punto di vista delle Brigate Rosse, gli
straordinari effetti di clamore che le azioni producono evidentemente sono per loro uno stimolo a
moltiplicare una simile produzione di attentati. Gli operai di fabbrica che hanno partecipato
all’organizzazione Brigate Rosse sono, com’è noto, Francesco Berardi, operaio dell’Italsider poi
suicida nel carcere di Cuneo, un vecchio militante di Lotta Continua, e Francesco Lobianco, operaio
all’Ansaldo che tuttora è un irriducibile: parliamo quindi di due operai, non sono neanche dirigenti
dell’organizzazione. Queste sono le BR a Genova, quindi un episodio di tragica millanteria.
Il PCI arriva, proprio prima del ’78, a produrre un libro bianco sul terrorismo in cui io e altri
veniamo citati come terroristi: è un libro che non a caso viene pubblicato poco prima del blitz,
quindi di fatto è un’iniziativa di delazione, un invito a nozze, una porta spalancata rispetto a quella
che poi è stata l’operazione di Dalla Chiesa. Si tenga presente che, citavo prima gli operai di Lilla
che bruciano il municipio e fanno un casino pazzesco quando gli chiudono le fabbriche, e sono gli
operai siderurgici; a Genova il massimo della lotta operaia è quando gli operai vanno a Sanremo, mi
pare che fosse l’80-’81, quando la fabbrica sta per essere dimezzata, a interrompere il festival per
cinque minuti e leggono un comunicato a fianco di un preoccupato Pippo Baudo, questo è il
massimo. A Lilla bruciano i municipi, qui leggono un comunicato e interrompono per pochi minuti
il festival di Sanremo. Questo è l’effetto della capacità di controllo, della museruola sindacale, anni
e anni di ammaestramento al servizio per il partito, per l’ipotesi politica, per il compromesso
storico, la classe operaia si fa Stato ecc.

- Quali sono stati, secondo te, i principali limiti e le più importanti ricchezze delle esperienze
operaiste degli anni ’60 e ’70? In riferimento a ciò, quali sono a tuo parere i nodi aperti nel
presente e in prospettiva futura?

Torno all’inizio. Sicuramente quello che fu l’abbagliamento iniziale, mi riferisco cioè al discorso
sui soggetti, la centralità dei soggetti nei processi di trasformazione, che rimane secondo me una

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lezione straordinaria, una lettura imprescindibile degli avvenimenti. Io oggi sarei incapace di
leggere ciò che accade nel mondo prescindendo da queste categorie. Questa è una ricchezza che
ritengo estremamente attuale, poter leggere i processi non come avvenimenti inerziali in cui il ruolo
dei ribelli o dei comunisti è esclusivamente quello di interpretare od impersonare donando la
propria disponibilità. Purtroppo mi rendo conto che talvolta l’eccessiva insistenza su questo tema
abbia prodotto degli effetti nefasti, cioè abbia prodotto la ricerca e l’individuazione di soggetti
inesistenti, la cosiddetta mitologia del soggetto. Mi sento tuttora di dire che questa è una ricchezza
enorme del patrimonio operaista, è tuttora un importante giacimento di scoperte.
Più in particolare e d anche su un piano personale devo però ammettere che i nostri straordinari
maestri, al di fuori del loro e nostro piccolo e straordinario gruppo (non sto ovviamente pensando
solo a Potere Operaio) sono stati sempre più interessati alla analisi della realtà che alla
trasformazione. Spesso è come se la conoscenza ed il possesso del metodo li appagasse e ci
appagasse tutti. Alle prese con la prassi, con la quotidianità dell’azione politica, con l’estenuante
rincorrersi di crisi e strategie, sono state elaborate le più improbabili mediazioni e le più inquietanti
scorciatoie, dal plauso per gli operai che per astuzia, così si diceva, votavano il PCI di Berlinguer
alle strategie della militarizzazione includenti l’incauta volontà di egemonizzare i gruppi militaristi.
Siamo stati settari ed efficaci nell’analisi, nella ricerca, nell’anticipazione; invece ortodossi oltre che
poco efficaci nelle scelte.

- Romano ha formulato una particolare ipotesi, sostenendo che l’operaismo si è mosso


all’interno di un poligono, cercando di fare i conti (in parte riuscendovi e in parte no) con i
vertici, costituiti dagli operai e dalla loro soggettività, dalla politica e dal politico, dalla
cultura, dalla questione generazionale e giovanile. Per quanto riguarda in particolare la
questione della politica, dalle interviste emerge che sono in molti a ritenere che essa sia un
buco nero delle varie ipotesi ed esperienze operaiste. Dall’altra parte, si può notare che la
politica e il politico sono generalmente intesi come mera questione organizzativa, l’attenzione è
quasi esclusivamente per la forma-partito e ben poco per il partito. Si considera ben poco,
invece, il politico come rielaborazione di fini ed obiettivi, come progetto di trasformazione. In
questo senso la riproposizione del leninismo è un ulteriore arretramento, perché Lenin viene
considerato e letto quasi esclusivamente come la figura di riferimento per la questione
organizzativa: per diversi operaisti il partito deve essere organizzato come la banca del 1910!
In questo senso si torna indietro rispetto alle importanti ipotesi di rottura con la vecchia cultura
politica di sinistra e all’operaio-massa come figura centrale di un’operaietà contro se stessa.
Molto poco si considera invece il Lenin che rovescia i termini, e rielabora i grandi fini e
obiettivi del comunismo, dopo di che cerca di adattarvi dinamicamente e processualmente i
mezzi, ivi compresi quelli organizzativi e tattici. Per molti operaisti la classe diventa strategia
rispetto a cui il partito e la politica sono principalmente questione di mezzi organizzativi e di
strumenti tattici; ma più in generale un grosso limite sta nel non essersi posti il macronodo di
nuovi obiettivi, di un nuovo progetto, di una nuova cultura politica adeguata a quella rottura
che l’operaismo ha ipotizzato nei confronti della sinistra e di un certo marxismo, sia nella
lettura del sistema socio-economico sia nel discorso della classe contro se stessa. Questo
silenzio sui fini porta l’operaismo indietro, alla cultura politica ottocentesca.

E’ vero, la nostra politica è stata fragile, si è arrivati a un cortocircuito leninista, al Lenin peggiore.
E’ quello che cercavo di dire prima. L’operaismo italiano alle prese con la prassi ha spesso scelto di
farsi rimorchiare passivamente dalla realtà e galleggiarvi sopra in modo opportunistico, come se il
metodo e l’analisi fossero tutto o comunque fossero di per sé sufficienti.
Ad integrazione di quanto ho detto prima devo dire che c’è un’altra categoria, c’è un’altra
problematica operaistica che secondo me è ancora di estrema attualità e che è la critica del lavoro.
Tra l’altro il tentativo così bizzarro e curioso di rimettere assieme il trontismo anarchico di Negri
con il situazionismo militante di Faina era proprio basato su questo, sul fatto che c’è un terreno

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comune di operatività che è la critica del lavoro. L’esperienza francese di Socialisme ou Barbarie,
l’IS stessa erano da questo punto di vista un terreno comune di elaborazione che a me sarebbe
piaciuto veder continuato e soprattutto essere ancora oggetto di sviluppo e di elaborazione. Invece,
mi rattrista molto il vedere come questa importante problematica oggi sia oscurata, cioè mi rattrista
sentire parlare ancora di diritto al lavoro, mi rattrista il fatto che sia proprio venuto meno questo che
secondo me è un elemento fondamentale. Io mi ricordo Zerowork, Lavoro Zero, parlo ovviamente
del giornale di Porto Marghera, quelli lì sono gli apici dell’operaismo italiano, con delle ricadute
anche in America: nessuno ha criticato il lavoro, non dico il lavoro salariato, proprio il lavoro, come
l’ha fatto l’operaismo italiano, neanche in modo così filosofico e accademico e direi snobistico
come talvolta invece l’ha fatto il situazionismo francese. Oggi, prima che anche questa divenga una
storia riformistica, c’è bisogno di tornare alla critica al lavoro. Ancora adesso per lavoro la gente
continua a intendere il lavoro salariato e il lavoro di fabbrica. A me viene da star male quando
accendo la televisione (le poche volte che lo faccio) e sento parlare di infortuni sul lavoro: perché
mi dà fastidio? In quel momento la televisione ci mostra le immagini di un infortunio mortale sul
lavoro e parla della Fincantieri, dell’Italcantieri o dell’Italsider ecc., ovviamente tutto ciò e doloroso
ma poi a questi episodi fanno seguito le 3 ore di sciopero che certamente non vengono proclamate
quando non avvengono in fabbrica le morti sul lavoro, perché il lavoro ormai è un ciclo
complessivo. Quando un operaio vettore (perché il vettore è un operaio) muore in un incidente
stradale, perché oggi i magazzini sono nelle autostrade, oggi la circolazione è il momento essenziale
del ciclo, non se ne parla nei termini di morte sul lavoro, sono degli autisti imprudenti che hanno
avuto il loro incidente. Non è che gli operai non ci siano più nel mondo, ci sono, sono nelle
Filippine ecc. ma oggi nel nostro occidente gli operai sono soprattutto i vettori, quelli che
trasportano, e i magazzinieri. C’è ancora un grosso equivoco a livello di concezione del lavoro.
Bisogna tornare a criticare il lavoro, nel senso proprio della sua importanza, della sua necessità: il
lavoro non è necessario, non è necessario che una persona lavori, non è necessario che il reddito
debba essere giustificato dal lavoro. L’estensione drogata, perversa, iper-relazionale delle giornata
lavorativa nel nostro occidente deve farci riflettere.

- Lo stesso Negri è tornato molto indietro su questo. Sembra quasi che il lavoro da rifiutare fosse
quello dell’operaio-massa, mentre il lavoro di oggi, “il lavoro di Dioniso”, è ormai creativa
espressione della libera cooperazione della moltitudine: il suo essere attività che produce
capitale non sembra essere per Toni l’essenza peculiare del lavoro (senza, come dicevi tu,
dover aggiungere l’aggettivo salariato), bensì un semplice incidente, temporaneo frutto di un
comando capitalistico ormai inessenziale e parassitario ad un processo immanentemente
avviato alla liberazione. Si perde così l’ipotesi centrale di una delavorizzazione dell’agire
umano.

Sono d’accordo. Per tornare al punto che hai sollevato prima, la nostra era esclusivamente una pars
destruens, noi eravamo dei distruttori e non ci siamo mai posti costitutivamente, nella nostra
essenza, il compito di immaginare una fase di transizione, di immaginare un processo che non fosse
esclusivamente distruttivo. Da questo punto di vista il nostro atteggiamento era molto più da
rivoltosi che non da rivoluzionari. Noi in realtà eravamo molto attenti, che fosse una cosa più o
meno inconfessata, ad una fase di conflitto che sospendesse il tempo, questo è tipico della rivolta, la
rivolta non si pone una strategia. Questo movimento che viene da Seattle, ora che noi in Europa
siamo anche politicamente una provincia, sembra essere così diverso dai precedenti, sembra che in
esso la strategia sia già tutta data al suo interno, non ha bisogno di nessuna ridicola avanguardia
esterna, e l’organizzazione? L’organizzazione è quella del sistema della globalizzazione, che è già lì
e va solo rovesciata, ma non dall’esterno. Dall’interno, come fosse un guanto.

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INTERVISTA A YANN MOULIER BOUTANG – 7 LUGLIO 2001

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale?

Il mio percorso di formazione è complicato, perché di fatto ho cominciato a stare più o meno a
sinistra, ma generica, molto mendesiana, prima del ’68: forse certi punti erano prossimi ai gaullisti
di gauche, questo è il primo orientamento. Il mio percorso personale è molto complicato, mio padre
non l’ho visto prima della classe di filosofia, in quanto mia madre aveva voluto così, dal momento
che lui era piuttosto dell’estrema destra e quindi lei temeva che potesse avere su di me delle forti
incidenze intellettuali. Dunque, sono stato allevato dal suo secondo marito, un corso professore di
inglese: questi era molto legato al partito comunista fino al ’56, poi ha iniziato ad avere forti riserve
e ha chiuso col partito comunista quando siamo partiti per il Brasile nel ’62. Dopo di che, prima di
partire per il Brasile, io ho saputo che mio padre non era il primo marito di mia madre, cioè
Moulier, ma era un altro: l’ho poi visto e incontrato solamente a partire dal ’66-’67. A quel punto lì
io stavo per fare degli studi di architettura, di fatto c’è stata una deviazione perché sono andato a
fare la Scuola Normale: pur non condividendo del tutto le scelte politiche di mio padre, pur
trovando che lui aveva un tipo straordinario, ho fatto questa Scuola Normale che mi ha orientato
verso la filosofia, che ho fatto con Louis Clavel. Da una parte ho visto molto Gabriel Marcel,
facendo della filosofia tradizionale e dall’altra parte ero piuttosto legato per amicizia a persone del
movimento prima del ’68, che si caratterizzavano come gente piuttosto di sinistra, mi ricordo ad
esempio discussioni sulla seconda guerra tra Israele e i palestinesi nel ’67. Arriviamo poi al ’68,
fase in cui sono stato coinvolto molto rapidamente in un milieau di sinistra: è stata una
politicizzazione di massa, di uno che stava piuttosto dietro le cose e che viene coinvolto in primo
piano, ma portato, non c’era una pianificazione, non avevo pensato di fare così. Dopo di che ho
partecipato a tutte le manifestazioni: io avevo compagni che erano coinvolti nel Vingtdeux Mars, ho
fatto naturalmente il 13 maggio, le barricate ecc. E’ molto esemplare che, non essendo nulla in
questo movimento, ho portato lo striscione in testa alla manifestazione, dopo di che mio padre ha
visto le foto sui giornali, si è arrabbiato moltissimo, siccome mia nonna, che avevo visto molto
poco, è morta in quel periodo, mi ha detto che io l’avevo ammazzata; poi, dal momento che sono
entrato nella Scuola Normale, si è un po’ calmato, a quel punto poteva essere una sorta di
riconoscenza tra potenze.
Dall’autunno del ’68 fino al ’71-’72 ho cercato un po’ quello che mi interessava. Avevo già letto
Machiavelli, il Manifesto, le cose classiche, poi ho incominciato a leggere più seriamente e ho
incontrato della gente molto interessante, marxisti parasituazionisti che facevano una rivista che si
chiamava Poesie et Revolution, Jean Ouver e altri; Ouver, ad esempio, è stato scelto da Maximilian
Rubel per aiutarlo nelle edizioni di Marx nella “Pleiade”. Rapidamente sono entrato in contatto con
l’ultra-gauche, la più pura, si trattava di gente come Daniel Saintgerme, l’ultima parte di Socialisme
ou Barbarie, quella che ha fatta Information et Corrispondance Ouvriere. Tra l’altro ho partecipato
all’ultima riunione di Noir et Rouge, che erano Vingtdeux Mars, ho incontrato tutta la sua vecchia
guardia. Erano piuttosto anarchici, perché politicamente io ero assolutamente convinto dell’utilità
della critica sociale e dell’intervento operaio, però non vedevo perché passare attraverso il PCF e
neanche vedevo la pertinenza dei marxisti-leninisti, non ero molto interessato dai trotzkisti ed ero
molto critico sul tipo di appoggio ai vietcong nella guerra del Vietnam, perché mi sembrava già una
ripetizione della lotta di liberazione algerina. Mi interessavano allora le Cahiers du Mai, di
Information et Corrispondance Ouvriere, ho partecipato per quasi un anno a tutta questa vicenda;
poi andavo alle assemblee e lì ho incontrato compagni italiani che una volta mi è capitato per caso
di ospitare nella mia casa, perché in quei tempi c’era gente che veniva da lontano e dopo le
assemblee li si ospitava. Sei mesi dopo, nel ’69, sono stato contattato da uno che si chiamava Beppe
Bezza che faceva l’operaio alla Renault: mi ha chiamato sulla questione della mensualizzazione, il
problema di questa iniziativa capitalistica che è stata la vera risposta al ’68, Pompidou e il progetto
di nuova società, contratto di progresso negli enti pubblici ecc. Lui mi ha chiamato dicendo che

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aveva fatto un documento, un volantone sulla mensualizzazione: ho letto queste tre o quattro
pagine, naturalmente era in un francese orrendo, però sono rimasto stupito perché era probabilmente
la prima volta che leggevo qualcosa che aveva un simile interesse. Da quel momento lì mi sono
stancato della “sceneggiatura” francese, non ho più partecipato veramente a Information et
Corrispondance Ouvriere e a tutte le altre cose perché il discorso mi sembrava vecchio, anche se
avevo interesse a leggere le critiche di Lenin e a seguire tutta l’agitazione perché come studente
partecipavo ai collettivi antiautoritari. Però, per il discorso politico ho incontrato questo Beppe
Bezza, che era molto interessante, un personaggio un po’ strano, e lui mi ha portato la cosa decisiva
che è stata Tronti. Io non parlavo per niente l’italiano, non sapevo neanche leggerlo, però, dato che
avevo vissuto in Brasile dai 13 ai 17 anni, mi è diventato facile impararlo e poi leggerlo. Bezza
aveva firmato un tipo di accordo con Edition et Documentation Ouvriere, che era un posto famoso
in cui si facevano delle traduzioni, e Robert Paris, il famoso curatore di Gramsci, cercava di far
tradurre il libro di Tronti; poi sono stato coinvolto in questa storia dal ’70 fino alla pubblicazione,
che è avvenuta nel ’77, però il testo era finito nel ’74. Questa è stata la mia formazione: facendo la
traduzione di Operai e capitale ho cominciato a leggere un po’ sistematicamente sia Marx sia
Lenin, perché per il resto avevo piuttosto una formazione di critica, mi interessavano molto
Scholieau, Cardan, i rapporti di produzione in Russia, il che era una discussione importante, avevo
letto tutta la tradizione di Pannekoek e gli altri. Sono tornato a vedere Tronti, è stata una cosa
interessantissima, dopo di che ho incontrato anche i compagni portoghesi che erano in gran parte ex
del PC clandestino, e durante quel tempo avevano pubblicato due o tre pamphlet sull’Angola e lo
sciopero operaio nel Limburgo; ho lavorato con loro, poi con alcuni studenti della Scuola Normale
abbiamo fatto un gruppetto. Abbiamo fatto anche il go between tra questi gruppi, gli italiani (che
progressivamente si sono rivelati più o meno tutti di Potere Operaio) e i gruppi francesi, quelli più
prossimi, cioè Vive la Revolution e gli altri. Nel ’71 sono andato ad un convegno organizzato da
Potere Operaio a Firenze, con Lapo Berti e tutti gli altri: all’inizio io ero piuttosto legato a gente
come Sergio Bologna, decisamente Alquati mi interessava molto, c’era tutta quella parte di Potere
Operaio che era più operaista, la più trontiana, la meno soggetivista. Nel ’73 ho incontrato Negri, e
fino al ’79 non ho smesso di essere coinvolto nella storia italiana piuttosto che in quella francese.
Dunque, la formazione è tata tipicamente operaista, ho letto tutto quello che veniva prodotto, come
si diceva erano i più grandi marxisti del mondo, però probabilmente troppo intelligenti, come
sosteneva Lapo Berti: “siamo talmente intelligenti che lo prenderemo nel culo!”. Pensandoci un po’
da capo, erano specialmente un paio le cose che mi interessavano: come capire questa società dal
punto di vista della fabbrica, ho avuto sempre una curiosità che ho imparato dagli operaisti, che
oggi mi serve anche professionalmente, per i funzionamenti materiali del processo di lavoro, ma
leggendoli come processi politici o come concentrato della politica, per riprendere il nostro caro
Lenin, cioè il vedere questo tecnico come concentrato della politica, come controllo ecc. Questa mi
sembrava una rivoluzione epistemologica. Dunque, interesse per gli operai, per i movimenti sociali,
per il basismo, per la democrazia di massa, e d’altra parte interesse intellettuale come paradigma. Io
mi sono un po’ autoformato, prima dei vent’anni non sono stato coinvolto nel marxismo
tradizionale come formazione didattica. Dopo di che io sono stato un autodidatta, con maestri come
Alquati, Negri, Bologna e gli altri, si trattava veramente di una generazione straordinaria. In Francia
sono stato molto isolato: è infatti molto curioso il fatto che sia rimasto completamente estraneo al
paesaggio politico-teorico francese. Non condividevo né l’idea politica dei maoisti, né quella dei
cristiani di sinistra, da Clavel a tutti quelli che si definivano sartriani, poi non condividevo neanche
gli althusseriani che erano tutti tornati attorno al partito, né Althusser. Avevo tutti i riferimenti in un
altro paese, è stata un’esperienza di emigrazione teorica. Per di più ho fatto delle iniziative militanti,
nel ’73 abbiamo organizzato alla Scuola Normale un seminario che probabilmente era molto
emblematico di quello che io cercavo inconsciamente: da una parte abbiamo fatto venire Negri,
Daghini, in un dibattito sul concetto di capitale, sulla crisi della legge del valore, al tempo in cui
Althusser mandava le persone a vedere e queste non capivano niente di quella cosa lì; poi, dall’altra
parte, abbiamo fatto un incontro con gli operai dell’auto con Romano Alquati e alcuni altri. Il peso

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politico di queste cose era però quasi nullo, tranne che per un piccolo circo non aveva riferimenti
massicci. Naturalmente durante questi anni ci sono state discussioni con gli italiani, coordinamenti
internazionali a Zurigo, e lì io mi sono confrontato con questa storia del partito, con la fase leninista
di Potere Operaio, e probabilmente c’era chi aveva la percezione immediata del limite della
questione, già Alquati e Bologna erano molto dubbiosi su questa cosa dal ’72, di fatto nel ’73 è
diventato chiaro. Dunque, non condividevo tutta quella parte un po’ “piperniana” di Potere Operaio,
anche se erano compagni molto simpatici: noi dalla Francia vedevamo il limite di questa
impostazione, queste fasi iperleniniste io non le condividevo perché venivo da un’esperienza anche
teorica dell’ultra-gauche, dunque estremamente contraria a quel tipo di forzatura. Ma d’altra parte
io direi che era la più bella esemplificazione teorica del progetto di partito, il che è triste, avrebbe
dovuto esserci questa teorizzazione negli anni ’20, quando non esisteva e lì avrebbe potuto essere
molto interessante, però a quel punto era la nottola di Minerva. Dunque, c’è tutta questa storia, i
quadri di Potere Operaio si chiedevano se la vicenda del ’17 era un accidente, un miracolo, cosa che
si trova anche in Tronti, ossia il fatto che la rivoluzione come concetto scientifico non esiste. Di
fatto a livello francese non era tanto politica, era una formazione, era l’incontro con alcuni
compagni, anche francesi, formazione di gente molto isolata e molto dubbiosa sulla situazione
francese, sul tipo di avvenire dei gruppetti.
Dal ’73 in poi, fino al ’76-’77, si è scatenata la crisi del gruppismo dell’estrema sinistra, un po’
dappertutto; in Italia, con la scissione di PO a Rosolina, ma anche in Francia dove le cose sono
avvenute prima: il ’68 prima del ’69, la crisi dei gruppi, di qualsiasi gruppo, prima dell’Italia. Forse
gli italiani hanno pensato di essere più intelligenti (il che era vero), più formati, più sofisticati dei
francesi, che erano un po’ pratici; però, di fatto si è rivelata essere la stessa crisi, come ha
dimostrato il ’77. Questo avrebbe potuto essere un dramma o una depressione, cosa che è
effettivamente avvenuta in parecchi casi, per tutta una generazione che ha smesso di fare politica e
che si è messa da parte rispetto ad ogni idea generale, tale è stata la situazione di gran parte della
sinistra extraparlamentare francese: dopo il fallimento alcuni sono tornati verso il giornale
Liberation, altri mano a mano sono tornati verso gli studi del pensiero ebraico (si prenda l’esempio
di Victor), o veramente hanno smesso di fare non solo politica ma anche qualsiasi teoria. Durante
questo periodo, cioè dopo lo scioglimento di PO, in Francia direi che si è aperto un certo spazio per
l’autonomia: a me andava molto meglio l’autonomia e l’autonomia dell’operaio sociale che la
forzatura, il partito, le avanguardia per il partito, anche se era ben scritto non era nulla, mi sembrava
più che altro un discorso, non una reale capacità di organizzare le cose. Dunque, durante questa
parte che va dal ’74-’75 fino al ’79-’80-’81, c’è stato un vero e proprio inizio di uno sviluppo degli
autonomi francesi, che erano diversi dall’autonomia operaia italiana ma che costituivano
un’interessante realtà. Abbiamo quindi fatto un’esperienza che era più francese che italiana, sono
tornato a fare il leader dell’“autonomia francese”, che in quel periodo ha fatto veramente una grande
attività sia nelle radio, sia nell’intervento del collettivo disoccupati e dei sans papiers.
Non ho ancora parlato di un incontro che è stato per me decisivo, ed è quello con compagni
dell’immigrazione. Di fatto la questione dell’immigrazione interessava ai nostri compagni italiani,
specialmente quelli di PO, però l’immigrazione italiana era interessante come modo di
propagazione, ma non era il problema teorico dell’immigrazione come una spaccatura nella
composizione di classe, come un problema reale di essa. Mi ricordo che era difficile spiegare ai
nostri compagni della Fiat o a Romano Alquati che avere 22 nazionalità non è la stessa cosa che
avere una classe operaia italiana, anche se c’erano gli italiani del Sud era comunque un’altra cosa; e
quando 300 tunisini sono stati assunti dalla Fiat nel ’73, mi ricordo perfettamente che ho detto ad
Alquati, a Toni e ad altri che bisognava sorvegliare questo fenomeno perché era molto importante.
Cosa che loro non hanno fatto, penso che sia stato un errore tremendo: a mio avviso, anche se
naturalmente è facile rifare la storia, però tutto quello che ha seguito, questa radicalizzazione della
classe operaia bianca, in questo includendo i CUB, poi le Brigate Rosse e gli altri gruppi armati, è
accaduto quando nella composizione di classe il partito invisibile non era più tale perché era già
sciolto in varie situazioni, e il padronato aveva un piano per scomporre tutto completamente, per

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sconfiggere. Non mi ricordo quanti operai immigrati c’erano all’epoca ma certamente nella
sconfitta dell’80 alla Fiat questa era già una variabile importante nel territorio. Ciò è un peccato
perché avremmo potuto veramente organizzare delle cose e cambiare un po’ questa dinamica. Nel
’70 mi ricordo che Luciano Ferrari Bravo mi aveva chiesto per L’operaio multinazionale uno scritto
che ho fatto sull’immigrazione in Francia, e lì ho studiato e ho scoperto una cosa che per me era
importante, cioè che mai la classe operaia è stata francese: il che era una scoperta, perché si diceva
che esisteva prima una classe operaia francese, poi è stata scomposta dall’immigrazione, ma di
fatto, riprendendo da capo, ci si accorge che non è mai esistita una cosa del genere. E c’era una
traccia di ciò, la famosa discussione sulla classe operaia di Francia o la classe operaia francese: è
stata una discussione nel Partito Socialista dell’Internazionale in Francia sopra la denominazione,
Parti Ouvrier de France o Parti Ouvrier Francais. La cosa corretta era piuttosto Parti Ouvrier de
France, perché già la classe operaia era completamente mezzo italiana, poi polacca ecc. Mi ricordo
perfettamente che l’anno in cui è scoppiata la famosa questione attorno alla catastrofe di Formi (se
non sbaglio attorno al ’93 dell’800) è esattamente il punto in cui arriva l’operaio italiano e gli operai
francesi smettono di ricavare metà del loro reddito dall’agricoltura: essendo stato tagliato questo
“giardino” dell’operaio francese, questo operaio si trovava con il salario solamente come mezzo di
reddito e con il salario della fabbrica, si rifiuta di stare nella fabbrica, e comincia la crisi, si
chiamano quindi gli italiani e gli altri, e si degradano anche le condizioni di lavoro, perché questo
Formi è l’inizio della fuga dei francesi dalla miniera, l’inizio della sostituzione molto rapida con i
minatori polacchi, italiani ecc. Questa cosa è stata importante per il resto della ricerca che ho fatto
sulla schiavitù; ma nello stesso momento in cui io facevo questa ricerca sulla composizione della
classe operaia francese o di Francia, mi ricordo perfettamente che incontrai i piccoli gruppi di
militanti che intervenivano sull’immigrazione, attorno agli immigrati arabi. Con questi amici
portoghesi avevamo fatto già allora un collettivo sui sans papiers, sui senza documenti, poi abbiamo
incontrato dei compagni del MTA, che erano usciti dal comitato Palestina, scioltosi quando la
Gauche Proletarienne è scoppiata completamente. Questo movimento di lavoratori arabi ha fatto
una cosa pazzesca, un grande sciopero, è riuscito a fare il blocco della fabbrica Citroen di 25.000
operai in cui c’erano 22 nazionalità. Era molto affascinante vedere come un piccolo gruppetto fosse
in sciopero contro il razzismo: c’erano infatti stati dei moti di lavoratori algerini che erano stati
ammazzati a Marsiglia e avevano quindi fatto questo sciopero contro il razzismo, non sapendo quasi
nulla dell’interno della fabbrica, mentre invece tutti i gruppetti di Vive la Revolution e gli altri
stavano lavorando lì da anni per tentare di entrare dentro e di fare qualche cosa. C’è stato il corteo
interno e poi hanno bloccato la fabbrica: questa cosa era molto interessante, perché ti dava anche
una lezione di politica. Sono poi rimasto in contatto con questi soggetti che erano veramente
interessanti come tipo di militanti e per il rapporto tra il territorio e l’interno della fabbrica, una cosa
molto interessante anche per quanto riguarda la soggettività operaia. Vivevano in condizioni
pazzesche, direi di miserie, di vita incredibile, ma erano legati ad un’esperienza collettiva, ad una
comunità esterna alla fabbrica, e hanno resistito perfettamente alla sconfitta interna, non faceva loro
nulla. Mi sono probabilmente reso conto a quel punto che l’organizzazione interna della fabbrica
non interessava più questo nuovo tipo di militanti, cioè che dal territorio si prendeva la fabbrica,
non il contrario. Queste persone erano anche legate ad esperienze violentissime, perché i comitati
Palestina nel ’72 erano veramente considerati dei terroristi da qualsiasi ente statale; però, questi
avevano anche una capacità di sentire quello che si può fare e quello che non si può fare che non
esisteva più all’interno della fabbrica. Penso che anche questa forza interna è diventata una
debolezza. Dunque, per me l’esperienza politica italiana era più la fine di un processo
terzinternazionalista che l’inizio di uno nuovo. Allora, tornando alla questione dell’immigrazione,
abbiamo fatto lo sciopero dei sans papiers, sciopero della fame, organizzazione delle nuove
nazionalità, e poi abbiamo fatto anche intervento sulla scuola da piccolo gruppo, perché ogni due
anni nella scuola c’era una nuova onda di contestazione. Il che era accomunato a questa storia
dell’autonomia, abbiamo fatto una rivista, in piccolo abbiamo vissuto un po’ tutti i percorsi italiani,
però in una situazione da una parte molto più debole, dall’altra molto più prefigurativa del futuro,

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perché attorno alla vicenda del ’77, dell’appello contro la repressione in Italia, c’è il legame con
tutta una parte di gente attorno a Guattari. Si è così determinata un’area dell’autonomia che andava
dai desideranti ai più organizzati ed era significativa, che immediatamente si è confrontata con delle
questioni non facili, come la ristrutturazione della siderurgia e il nucleare. Sulla ristrutturazione
della siderurgia abbiamo avuto un intervento veramente importante, che ha preoccupato seriamente
anche il PCF, ed è la manifestazione dei metalmeccanici a Parigi nel ’79: è stato molto significativo,
se ne è discusso, ci sono stati arresti per dimostrare che questi autonomi facevano casino, hanno
arrestato 300 prima della manifestazione, ma questa si è fatta comunque ed è stata importante. E’
stata una componente vitale della svolta politica dell’81, dall’altra parte c’erano anche i movimenti
dei disoccupati, perché abbiamo lanciato i primi comitati non per l’impiego ma all’interno delle
strutture della disoccupazione, che sono stati più o meno la base su cui si è organizzato il
movimento ma 15 anni dopo. E’ stato un po’ un laboratorio di questa gente perché c’è anche una
continuità con dei compagni che hanno fatto questa esperienza e che sono dentro un movimento,
naturalmente con una dialettica con i trotzkisti e altre componenti, c’è stata questa presenza interna
al movimento dei disoccupati. Naturalmente la questione del razzismo è diventata importante, mi
ricordo perfettamente tutto il movimento e poi la discussione con i compagni inglesi: tutto questo ha
fatto sì che diventasse una cosa un po’ più pesante e un po’ più difficile ma interessante. Sul
nucleare abbiamo vinto in Bretagna, abbiamo perso altrove, specialmente a Parigi, perché non
avevamo la capacità di organizzare e diffondere, il movimento non era abbastanza ricco per
affrontare tutto ciò, c’era una sollecitazione tremenda dello Stato ad andare a scontri più duri, ogni
passo verso questi scontri di fatto aveva come risultato un progresso della parte più militarizzata del
movimento e una spaccatura dell’altra parte che rifiutava quel tipo di militarizzazione: a mio avviso
ciò è molto illustrativo di quello che possiamo avere nella radicalizzazione della
“controglobalizzazione”, aggiungiamo venti Goteborg e avremo questa spaccatura nel movimento,
uno scontro durissimo di una parte più militarizzata e più militante e tutta una nebulosa di gente che
non può più far niente perché non ha lo spazio nella strada, non può neanche manifestare
pacificamente. Ciò era molto interessante come processo, ma durante quel periodo abbiamo avuto
anche il problema rinascente di tutti quelli che pensavano che la Gauche Proletarienne si fosse
sciolta per una sorta di arretramento, sciogliendo l’apparato militare: i giovani ritenevano che fosse
un disegno volontario di smantellamento della capacità offensiva. Questi hanno ripreso una
dimensione pazzesca, hanno pensato che liquidando il Tramoni che aveva ammazzato Loverné si
poteva riaprire un ciclo nuovo: naturalmente non hanno fatto niente. Però, questa è stata per noi una
grossa discussione, perché anche dai nostri collettivi è uscita una parte della gente che dopo ha
gravitato intorno ad Action Direct, e abbiamo dovuto discutere molto fermamente, è stato assai
difficile. Ho fatto una registrazione alla televisione su queste cose, non so quando uscirà, era
importante perché quel tipo di radicalizzazione che li ha portati due anni dopo ad ammazzare il capo
della Renault era una cosa che è uscita dal fallimento del movimento e dalla ricerca di forme
politiche in cui questa volontà di trasformazione avrebbe potuto essere usata altrimenti: ciò si è
perso e questi compagni la pagano duramente, uno è diventato completamente matto e l’altra è
malata, e sono già in carcere da 25 anni. Poi c’è stata l’ondata repressiva italiana che naturalmente
ci ha fatto pensare, perché eravamo talmente legati a Negri e agli altri che mi ricordo che uno di
Liberation si aspettava l’arresto di me o di qualcun altro, cosa che non è accaduta.
Tuttavia, già una parte del movimento autonomo si era ricomposto sulle questioni di inquinamento,
del nucleare ecc.; qui abbiamo incontrato i Verdi, che non erano ancora quelli che poi sono
diventati. Anche Guattari è entrato nei Verdi, ha giocato un ruolo importante durante gli anni ’80 a
mettere insieme rosso e verde, per fare questo partito che poi è diventato quello dei Verdi francesi,
spostandoli da una posizione di centro o comunque non di sinistra verso la sinistra. Questa era
l’ultima cosa a cui abbiamo partecipato, io nel giornale La Gueule Ouverte, che poi è diventata La
Gueule. Nell’81 io ho poi fatto l’ipotesi della svolta e della vittoria di Mitterand, che fra l’altro non
era molto condivisa anche dai miei amici, perché io ho pensato che lì c’era qualcosa importante, la
pena di morte, la svolta verso situazioni nuove. C’è tutta una generazione che si è rimessa a fare

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politica, e non completamente schiacciata fra lo scontro contro lo Stato e una società civile o partiti
istituzionali completamente vecchissimi. A quel punto lì ho smesso di fare della politica in modo
attivo, cioè ho seguito le cose però non sono stato molto coinvolto, osservavo il Partito Socialista,
seguivo la scomposizione del PCF ecc. Ho seguito un po’ Futur Anterieur, ero un po’ dubbioso
sulla sua impostazione politica più che sulla impostazione teorica, perché io avevo dei problemi con
una parte del ceto paratrotzkista, Jean-Marie Vincent e altri, che erano legati alla rivista con gli
italiani. Di fatto non avevamo uno spazio specifico, perché i francesi consideravano gli italiani,
Negri e i rifugiati, come una parte, mentre per loro tutti gli altri erano francesi, quindi i francesi che
non erano trotzkisti come Vincent erano anch’essi degli italiani. Dunque, quando Toni è uscito,
tornando in Italia, pensavamo a cambiare la rivista, io non ero dentro anche se avevo fatto vari
contributi, perché specificamente non ero d’accordo con l’impostazione sull’Europa, pensavo che
bisognasse andare molto più avanti sulla questione europea: io non ero contro Maastricht, non ero
contro la guerra dell’Iraq, mi dava fastidio, e infine io non condividevo del tutto l’orrore contro la
Nato, la guerra del Kosovo e tutto il resto, perché pensavo piuttosto che era la prima guerra europea,
cioè la prima guerra della nuova potenza politica. Per me era molto importante capire che, per
esempio, l’Inghilterra e la Francia avevano fatto l’unione dell’industria e della difesa europea, e
questa svolta era decisiva, marcava anche la reintegrazione della Germania dopo la riunificazione.
Si trattava di una sorta di “tripode” dell’Europa che si dispiegava sulla costruzione di un ente
politico assai nuovo, che era di fatto un nuovo tipo di impero, essendo l’Unione Europea una
potenza vera, cercando di crearsi come tale. Mi ricordo che su questa cosa Toni non era del tutto
d’accordo, era molto scettico, pensava che sarebbe fallita; io, invece, pensavo che si sarebbe fatta
perché non esistevano altre soluzioni, e in questo senso era una questione molto forte in quanto
costruita nella delusione assoluta: non era il prodotto di una grande manifestazione dopo di che c’è
un riflusso, ma era una cosa fredda fatta dalla realpolitik, tipo l’unificazione tedesca fatta da
Bismarck. Per me capire queste cose era molto più importante del resto, perché fare della politica
senza mettersi in questo quadro significava veramente sbagliarsi completamente, fare della
ripetizione. Toni ha un po’ cambiato sull’euro, c’era genete che diceva che non si sarebbe fatto,
mentre io ero sicuro del contrario. Dunque, quanto Toni è partito per l’Italia con una correzione di
linea sulla questione europea, io sono entrato in Futur Anterieur, ma è durato un anno, perché poi è
scoppiato lo scontro con Jean-Marie Vincent e gli altri, non siamo riusciti a fare la rivista che
volevamo con una nuova formula; ci sono stati anche problemi sul resoconto del libro di Agamben,
poi su questioni ideologiche sul presunto (tra l’altro falso) negazionismo di alcuni compagni
dell’estrema sinistra. E infine, siccome io avevo pensato di aprire la rivista a molta gente, i nostri
amici trotzkisti si sono rifiutati perché erano minoranze e non potevano accettare, e non c’era Toni
per fare la mediazione. Dunque, nel ’99, un po’ prima del Kosovo, ci hanno detto che non volevano
più lavorare con noi e quindi abbiamo fatto un’altra rivista che è Multitudes, e attorno a quella
abbiamo preso tre quarti della gente, muovendoci su dei terreni più interessanti, il biopolitico,
l’Europa, la nuova economia ecc., riprendendo da capo un’esperienza teorica legata strettamente
alle questioni della rete, di Internet e via dicendo, e poi facendo dei collegamenti con delle forze
come gli hackers o i sindacati di difesa. Abbiamo fatto un lavoro che comincia ad essere
interessante. Dunque, mi sono inserito in questa nuova esperienza politica nello stesso momento in
cui sono entrato nei Verdi, nel ’99, per la campagna europea di Daniel Cohn-Bendit, di cui sono
stato un po’ un consigliere, il più a sinistra, mentre invece il vecchio Laidi era il più a destra. Nei
Verdi sono stato anche un po’ il consigliere di Mamere rispetto a Lipietz, uno che ritengo molto
classico, della classica estrema sinistra. Adesso faccio in parte politica all’interno del comitato dei
Verdi, senza avere un mandato elettorale, faccio un po’ il consigliere, sono ad esempio stato
chiamato a discutere nel comitato esecutivo sulla questione del calo della crescita economica, sul
come reagire, sui salariati e via dicendo.
Questa è la parte politica, mentre per quanto riguarda la parte teorica la questione delle migrazioni e
della composizione di classe mi ha dato un certo percorso. Nell’84 c’è stato un convegno a

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Montreal organizzato da Piperno, di cui è uscito un libro, ho tentato di fare una presentazione
globale dell’operaismo, del perché era stato sconfitto.

- Avevi fatto in particolare una relazione sulla composizione di classe.

Composizione, ricomposizione, le questioni della soggettività, il perché questo movimento si era


spaccato dentro la soggettività oggettiva di Tronti, che è un po’ un bernsteinismo dell’operaismo, e
la soggettività esasperata di Negri che è l’opposto. Però, ambedue non ci portano nella politica:
quella di Negri è più produttiva, mentre ho letto quello che Tronti ha scritto per la recente
prefazione di Operai e capitale che è apparsa a Madrid quest’anno e mi sembra che il discorso sia
meno preciso, molto più allargato e molto più vago. Dall’altra parte in Empire di Negri e Hardt, che
è un libro importante, sulla parte propriamente programmatica mi sembra che manchino delle
mediazioni, manca ricchezza di proposizione ecc., oltre al reddito garantito, la cittadinanza
universale, non c’è gran cosa come proposta strategica, specialmente sull’Europa e altre questioni.
Dunque, il problema di come trattare non tanto la fine del lavoro ma la fine di un certo tipo di
movimento operaio, era legato alla questione delle migrazioni, del culturalismo, del
multiculturalismo, di tutti questi nodi; in questo senso ho cominciato a trattare il problema dei
diritti, dei diritti civili, degli statuti, come base fondamentale per capire molte cose, specialmente
per capire il movimento di liberazione. Cioè, il movimento di liberazione è interno alla questione
dello sfruttamento: non esiste lo sfruttamento che non sia movimento contrario, di liberazione della
gente, perché questa è sempre liberazione rispetto a un certo status giuridico. E su questa cosa,
prendendo le questioni delle migrazioni, ho tirato un filo rosso che mi ha portato alla schiavitù. E’
per questo che ho fatto il libro De l’esclavage au salariat e adesso stiamo lavorando sulla questione:
esiste una soggettività nella fuga, esiste quel tipo di organizzazione della fuga, esiste una
soggettività dell’exit, e non una soggettività del voice. Ciò è importante, perché mi ricordo che
quello che mi piaceva del partito invisibile di Mirafiori non era naturalmente il partito ma piuttosto
l’invisibilità. Allora, esiste questa cosa, come si può configurare, e a quel punto c’è l’esperienza
della prima classe operaia di fatto, perché gli schiavi neri della piantagione sono stati la prima
classe operaia. C’è naturalmente forzatura in questo, ma lo penso veramente: l’ingovernabilità della
piantagione e delle prime forme del lavoro dipendente, salariato non libero direi, è stato talmente
forte che ha prodotto il ciclo tecnologico che ha permesso l’inserimento di tutti quei poveri che
durante il XVI, XVII e XVIII secolo non è stato possibile mettere in fabbrica, cioè
l’addomesticamento e la disciplinarizzazione è stata possibile nell’Europa, nel centro del
capitalismo industriale, solo perché c’era stata questa esperienza delle lotte prima, nel primo
capitalismo. Dunque, in quella transizione tutti i limiti pesanti del movimento operaio sono dovuti
probabilmente a questa spaccatura, il fatto cioè che la classe operaia non ha avuto la memoria dei
poveri e di essere stata nera prima di essere stata bianca. Questo è importante quando torniamo
all’oggi, al passaggio al terzo capitalismo, perché per me è chiaro che striamo vivendo un’epoca di
questo tipo: il liberalismo, come già nella nascita del capitalismo industriale, non è il nemico
fondamentale, in quanto è un’ideologia della transizione, non è un regime. E’ un’ideologia della
transizione che segna, con questa ipermercatizzazione del mondo, la ricerca da parte capitalistica di
nuovi centri di controllo, di nuove strutture e anche probabilmente del capire quello che sta
accadendo. E’ ciò che io chiamo la carta delle esternalità, positiva o negativa, all’interno del sistema
dell’economia-mondo, in cui il capitale sta cercando di vedere come controllare le fughe del
sistema. Dunque, in questo periodo si apre uno sfasamento della vecchia cultura della classe
operaia, del lavoro salariato classico, e si apre una stranissima battaglia delle new enclosures, e
riconfigurazione totale del potere. Per me l’impero americano ha avuto un apogeo, quello del crollo
dell’Unione Sovietica, la riunificazione tedesca, la guerra del Golfo fino alla guerra del Kosovo; ma
quest’ultima non è il segno della potenza massima della Nato, è l’inizio del declino, perché questa
guerra è stata fatta dagli americani ma loro non volevano farla all’inizio, è stata un’invenzione dei
Fischer e il reinserimento della Germania all’interno del gioco, il terzo polo del tripode di cui

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parlavo prima. E’ stranissimo perché nessuno l’ha visto e notato: c’è stato un incontro molto
simbolico in Africa tra i rappresentanti francesi e inglesi per mettere fine all’antica e bisecolare lotta
d’influenza in quel continente, per riprendere la cosa dagli americani, perché questi andavano
facendo nell’Africa centrale un casino quasi genocidiario. Quindi, c’è stata questa iniziativa, anche
se poi naturalmente vedere questa costituzione dell’Europa come una cosa puramente positiva
sarebbe stupido: con una potenza del genere che si configura si assiste alla prima guerra delle
frontiere dell’impero europeo, c’è tutta questa zona dell’Est che è molto fragile e che tra l’altro è in
decolonizzazione, perché la Russia si sta decolonizzando quarant’anni dopo le altre potenze
europee, sta perdendo la Georgia, la Cecenia, sta perdendo tutto, è una cosa legata al suo intervento
nell’Afganistan, che è l’ultima conquista che ha messo in crisi tutto. Ciò assomiglia molto alla
situazione americana, quando gli americani vedevano la decomposizione dell’impero spagnolo.
Dunque, io penso che lì ci sia una questione importante e in questa guerra del Kosovo gli americani
sono apparentemente i prepotenti, quelli che fanno ciò che vogliono, ma questo non è vero, perché
già comincia la contestazione: per parlare come Tucidide, la talassocrazia americana ha avuto un
periodo di egemonia assoluta estremamente corto, cioè di dieci anni, e io interpreto questa pressione
sui diritti adesso, l’OMC, la questione della negoziazione sulla proprietà intellettuale ecc., come il
tentativo attraverso il diritto di sfruttare il vantaggio competitivo che gli americani hanno preso
durante gli anni ’90, avendo sia la prepotenza militare che la prepotenza tecnologica con il modello
della nuova economia, che adesso si sviluppa dappertutto, però comincia a contestare l’egemonia
americana. Perché la rete adesso si mondializza e l’Europa recupera della forza, e a mio avviso una
cosa come il progetto del Giappone (che adesso è ufficiale) di creare un mondo con lo yen rispetto
al dollaro è importante, in quanto ciò significa anche la messa in discussione del tipo di equilibrio
nato a Bretton Woods nel ’71, quando il dollaro ha smesso di essere legato all’oro con il regime di
tasso flessibile. Per esempio, l’Europa è stata la prima a rifiutare questi yo-yo dei tassi di interesse e
dei tassi della moneta locale, e il Giappone ha fatto un’analisi del suo stop and go che è molto
vicina a quella inglese degli anni ’60, malgrado un uso keynesiano che non è mai stato visto nella
storia, cioè il tipo di spese che hanno fatto a livello statale è enorme. Probabilmente loro ritengono
di non poter più sopportare questo scaricamento delle tensioni interne americane sul resto del
mondo in termini di scambio flessibile. Ma non sono i soli, si prenda per esempio il Mercosur
brasiliano, argentino (i cileni hanno smesso di far parte di questa cosa): è vero che c’è stata l’ultima
svalutazione del real come risposta americana all’attacco brasiliano al progetto di grande mercato
nordamericano e alla produzione di medici generici nell’Africa del sud, cosa emblematica, cioè il
Brasile, adesso che è diventata un’importante potenza industriale, non può sopportare di vedere in
quattro giorni la sua moneta abbassata del 25%. Dunque, probabilmente dopo un’area tobiniana si
apre un’area di ritorno ai tassi di scambio fissi, perché non è che non sia funzionale il ciclo del
dollaro ecc., ma con il cambiamento dei poteri locali e questa emergenza del tripode americano-
europeo-giapponese, con la minaccia della Cina, nessuno sa dove va a parare la situazione. Allora,
in questo senso penso che ci saranno delle pressioni fortissime verso tassi di scambio fissi
all’interno di grandi aree, e naturalmente ci sono i rapporti di questa moneta con il dollaro che
diventano più o meno antagonisti; cioè, fine di questa regolazione liberale del mercato, dunque in
un certo modo è un livello più efficace per lottare contro la speculazione, ossia la famosa Tobin
Tax. Allora, queste cose sono importanti per determinare anche che spazio c’è nell’Europa oggi,
perché due anni fa nessuno credeva che ci sarebbe stata un’accelerazione tanto rapida a livello dello
sbocco istituzionale europeo; tanta gente diceva che con questo allargamento ci sarebbe stata una
dilazione di tutto e che questi passi sarebbero andati allo smantellamento dell’edificio nato nel
dopoguerra, nato dalla Comunità Europea e dal trattato di Roma. Invece, quello che si produce è il
contrario. Allora, il problema è perché, che tipi di composizione si producono. Probabilmente non
esiste altro modo di controllare il grado di scontro interno all’Europa senza un livello federale.
Essendo di matrice operaista, io mi fermerei a questa ipotesi di ricerca, il cercare perché questa
Europa viene fatta malgrado i governanti: che spinta ha dietro, perché funziona così? Perché
probabilmente il mondo liberale non funziona, come modello politico è chiaro che l’Europa è il

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cuore del rifiuto di un modello politico di tipo imperiale o anglosassone. Ma probabilmente ci sono
delle cose più interessanti ancora: già un’unificazione di fatto delle lotte e dei bisogni che non può
essere ricondotta al progetto di crescita nazionale. Dunque, questa è un’ipotesi sulla
modernizzazione del potere che non è solamente sviluppo capitalistico, è una cosa più interessante
perché ci apre anche delle finestre politiche, in quanto siamo usciti da questi venticinque anni di
inverno, come diceva Guattari.
Questa è una parte, l’altra è la questione teorica che mi interessa: in questa transizione da un
capitalismo all’altro, come dice l’attesa della modernizzazione, oggi è un po’ la stessa cosa: bisogna
andare a vedere i rapporti con la nuova economia non tanto e non solo come una modernizzazione
del capitalismo con gli strumenti finanziari e liberali, ma veramente come una crisi dell’ipotesi del
capitalismo industriale, cioè ristabilire questa dimensione della crisi. Perché quando c’è potere
finanziario c’è dietro una crisi, cioè quando il potere si configura solamente con il comando della
moneta probabilmente c’è un’ipotesi di crisi fortissima del centro del potere. Quindi, dovremmo
cercare di vedere queste cose e probabilmente anche la posizione che si assume se caratterizziamo
questo passaggio al terzo capitalismo come un capitalismo cognitivo, che cosa cambia nel quadro
del marxismo classico, direi anche dell’operaismo. Per esempio, stavo pensando alla riduzione del
lavoro vivo al lavoro morto, leggendo naturalmente i Grundrisse e gli altri classici, e adesso penso
che abbiamo veramente un nuovo tipo di sfruttamento, che è produzione del lavoro vivo a mezzo
del lavoro vivo tramite lavoro vivo. Cioè, l’impossibilità di eliminare o di ridurre il lavoro vivente a
mero macchinario, capitale ecc. Il che cambia tutto sulla questione del comando, perché questo non
può essere dato dall’apparato del capitale fisso: dunque il comando ridiventa il comando degli
affetti, questi nuovi operai cognitivi hanno più potere di quello che avevano i tecnici sul capitale
materiale, perché non sono più riducibili e ricontrollabili tramite il peso del capitale. Dunque, tutta
questa storia sul digiuno del capitalismo, cioè di farlo diventare più svelto e più magro, non è una
storia solo di profittabilità, è piuttosto il contrario. Si prenda ad esempio l’allargamento nelle start-
up: è chiaro che il capitale vero di quelle start-up sono i salari, sono il lavoro vivo, ma ciò nella
contabilità classica ed economica non può essere valutato in questa maniera, perché il salario è visto
come un costo ma non come un investimento. Non sto parlando del fordismo, ma non è visto a
livello della produzione come il vero capitale, mentre invece nella produzione dell’hardware e del
software, il wetware (che è la mente) e il netware (che è la rete) sono più importanti, sono legati
completamente tra di loro: più o meno a livello dell’economia politica siamo tornati a Quesnay,
abbiamo bisogno di un nuovo Tableau General perché adesso la produzione di valore e di ricchezza
ha completamente cambiato di senso. Questo probabilmente significa che senza un mutamento
radicale del salariato, un indebolimento del salariato come tipo di controllo, non si darà un regime
stabile di controllo di questo lavoro dipendente che produce conoscenza; nel terzo capitalismo, detto
cognitivo (mi sto riferendo anche al lavoro di Rullani, anche se noi stiamo lavorando a una
problematica vicina ma un po’ diversa), la produzione del valore si fa producendo novità; però, la
novità non è più innovazione rispetto alla diffusione e via dicendo, ma è direttamente la produzione
di innovazione usando la rete, usando l’attenzione. Dunque, il controllo dell’attenzione e della rete
non si può dare con il salariato classico, è probabilmente necessario il suo indebolimento, siccome
la conquista della libertà formale, giuridica, il diritto alla fuga è stata la conquista fondamentale del
salariato puro, anche se ha funzionato nell’economia e anche altrove nel centro, come l’ho chiamato
io, con un salariato imbrigliato, con il 35-40% della forza-lavoro mondiale che è stata imbrigliata,
non libera; però, adesso penso che il lavoro dipendente, producendo la parte maggiore del valore,
dovrà probabilmente riconfigurarsi con il tipo di cose che sono la garanzia del reddito universale,
cioè una base fondamentale molto più larga che lascia la capacità di attività agli individui, cioè
crearsi il senso perché il capitalismo abbia il problema di pagare i costi di transazione di questa
cosa, che stanno diventando altissimi, ma che spontaneamente si organizzano molto bene. Dunque,
penso che probabilmente questo aggiornamento radicale del salariato è la cosa che manca oggi, e il
welfare-state vi è legato naturalmente, perché finché non avremo questo regime avremo l’instabilità
finanziaria, c’è la gestione del rischio sistemico che abbiamo ora in quanto non c’è questa

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liberazione del salariato. E questa è un po’ la chiave di comprensione per il futuro, per il tipo di
battaglia sia attorno alla riforma dello Stato sia alla forma del diritto del lavoro ecc., per
l’organizzazione del lavoro indipendente, ma in modo operaio, che funzioni come la nuova classe.
Quali sono oggi i nostri famosi fisiocratici, probabilmente tutto questo settore che fa a meno del
10% della forza-lavoro sono un po’ i nostri operai di Manchester. Bisogna pensare come
organizzare la politica, l’intervento, anche l’idea di liberazione di soggettività, di creazione, di
trasformazione attorno a questa ipotesi fondamentale. Naturalmente in questa ipotesi fondamentale
la fabbrica diventa quella che Peter Brooker ha definito come una scatola vuota, cioè un tipo di
rapporto giuridico: non a caso l’Alcatel ha annunciato che nel futuro sarà una ditta senza impresa,
senza stabilimenti che sono trasferibili dappertutto. C’è un rapporto dell’OCD, ancora più o meno
confidenziale, che dice che l’80% di tutti i lavori materiali che vengono sviluppati nelle metropoli
europee possono essere fatti da qualche altra parte del mondo molto facilmente. Dunque, questo
probabilmente significa che torniamo ad una situazione in cui le fabbriche sono ditte sul territorio,
che lo governano, con delle combinazioni di una parte dell’hardware, essendo il prodotto o qui o là,
ma ciò non importa perché può essere cambiato domani. Questa riorganizzazione cambia
enormemente, perché probabilmente il tipo di rapporto ottocentesco fra società e fabbrica,
isolandosi, non esiste più, e questo è interessante anche come problema di intervento. La crisi del
sindacalismo, la crisi di ripresentazione di questo lavoro mi interessa se legata a tale questione: il
problema non è che i sindacalisti non sono abbastanza bravi, che la gente non si mobilita ecc.,
questo non mi interessa, mi interessano invece le trasformazioni sistemiche che possono dare un
quadro complessivo di spiegazione.

- Rispetto all’operaismo politico e a questa ricerca, Romano ha formulato un’ipotesi che


sicuramente si riferisce ad un’esperienza trascorsa, ma che può offrire dei fondamentali nodi
analitici aperti nel presente. Romano sostiene infatti che l’operaismo si è mosso all’interno di
un particolare poligono, cercando di fare i conti con i suoi vertici, in parte riuscendovi ed in
parte no. I vertici sono rappresentati dalla politica e dal politico, dagli operai e dalla loro
soggettività (questione ben poco affrontata dagli operaisti), dalla cultura (che tutto sommato è
rimasta quella umanistica di derivazione desacntisiana-crociana-gramsciana), dalla questione
generazionale e giovanile; si può poi aggiungere un quinto vertice costituito dalle donne.
L’importanza dell’operaismo politico (in particolare di quello sviluppatosi tra la fine degli anni
’50 e i ’60) è stata di collocarsi, oggettivamente e soprattutto soggettivamente, in una cruciale
fase di transizione capitalistica, quella del passaggio (che per l’Italia è avvenuto in ritardo
rispetto ad altri paesi dell’occidente sviluppato) al taylorismo-fordismo; anche tu hai prima
sottolineato la diversità della situazione francese rispetto all’anomalia italiana, che è
sostanzialmente segnata da un periodo di reindustrializzazione. In questa particolare fase,
l’importanza dell’operaismo è consistita da una parte nell’avere avuto una lettura nuova del
sistema socio-economico, in questo rompendo con un PCI e una sinistra fermi al discorso sul
capitale monopolistico; dall’altra, nell’individuare l’operaio-massa come forza baricentrale
non solo per una prospettiva anticapitalista, ma anche per l’ipotesi di un’operaietà contro se
stessa. In questo c’è stata la capacità di cambiare effettivamente segno rispetto alla cultura di
sinistra che si è formata sull’operaio di mestiere, da cui il lavorismo, lo scientismo, il
tecnicismo, lo sviluppismo di cui continua a essere impregnata la sinistra oggi. In questo senso
si è riusciti ad andare avanti, verso una rottura con una certa sinistra e un certo marxismo;
dall’altra parte, però, l’operaismo non riesce a ri-elaborare nuovi obiettivi, un nuovo progetto
e una nuova cultura politica adeguata all’operaio-massa come referente collettivo, all’ipotesi
di una classe operaia contro se stessa. A quel punto l’operaismo torna indietro, ad una cultura
politica ottocentesca, quella formatasi sull’operaio di mestiere. Dalle interviste si può
significativamente vedere come quasi tutti gli operaisti, con tutte le differenze di percorsi e di
opzioni che si sono dati (Tronti nel PCI, Negri in un partitino ad esso alternativo), tutto

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sommato intendono la politica e soprattutto il politico come mera questione di organizzazione,
e non come ri-elaborazione di nuovi fini, di un nuovo progetto e di una nuova cultura politica.

Si tratta della famosa affermazione che il compito non è niente, non abbiamo che fare, rifiuto
immediato, il che produce la cultura del rifiuto.

- L’individuazione della classe come strategia, riduce il partito e la politica ad una questione
tattica. Questo modo di intendere la politica è diventato piuttosto caratterizzante di tutte le
varie ipotesi operaiste. C’è quindi un operaismo che va avanti e rompe con la sinistra e con un
certo marxismo, e c’è un operaismo che torna indietro alla cultura politica ottocentesca
formatasi sull’operaio di mestiere.

Probabilmente è per questo che, per esempio, è stata mancata la critica dell’ecologia politica, che è
potente. Perché potevamo dire durante gli anni trontiani che l’unica anarchia del capitale era la
classe operaia, ma oggi, se torniamo a grandissimi fatti, non possiamo dire solamente questo, perché
c’è un livello di sviluppo che è in crisi, che non è più sostenibile, e lì dunque si riapre una
discussione etica. Non a caso secondo me l’unica novità in termini di partiti politici in Europa è
l’emergenza dei verdi, è veramente la novità di fatto. La gestione della città e delle metropoli adesso
diventa una cosa rosa e verde, ha smesso di essere rossa, diventa rosa e verde dappertutto, anche a
Parigi. E’ una situazione generale, perché l’intreccio tra questioni di sicurezza, di salute, di sanità,
di destino individuale della gente, di tutte queste cose sono legatissime ad un progetto globale di
società. E io direi che non possiamo più fare della politica dicendo quello che si poteva dire negli
anni ’60, “ce ne freghiamo del progetto globale di società”; a chi gli aveva chiesto che tipo di
società volevano nel futuro, Cohn-Bendit (che non era del tutto un operaista) aveva risposto:
“innanzitutto non lo so esattamente, ma se lo sapessi non ve lo direi!”. Ma questo non funziona
perché non possiamo dire che non ne parliamo del tipo di società che vogliamo, in quanto adesso la
gente ne parla per la strada, il summit del G8 è tutto legato ad un’alternativa globale. Dunque, lì c’è
un pesante limite. Ma altri limiti che dovrebbero essere esaminati sono limiti italiani. Non sono
assolutamente sicuro che il ritardo e il recupero sia la migliore interpretazione, perché questa
metafora è stata molto discussa da Gershenkron, e se di fatto torniamo alla Russia vediamo che
essere in ritardo su un piano, è stato essere in avanti su un altro. Si potrebbe anche parlare
dell’anomalia teorica dell’operaismo, perché è un’anomalia teorica rispetto al marxismo classico
occidentale. Non la possiamo spiegare unicamente per il ritardo italiano, questo non funziona, ma è
vero che funzionano anche dei limiti che sono per esempio assenza di multicomposizone: di fatto
l’esperienza italiana è stata quella di una situazione unificata all’interno di una medesima lingua, un
territorio molto unificato culturalmente rispetto alla Francia, che paradossalmente aveva un’unità
molto più forte, ma era probabilmente un tentativo dialettico di imporre un’unità che non era del
tutto visibile, che era cioè molto più separata, molto più eterogenea di quello che si pensa. Allora,
forse sull’Italia questo ha pesato come un limite. Il secondo limite è costituito da questa egemonia
culturale del PCI. Mi ricordo che uno degli operaisti mi diceva un po’ sdegnosamente: “come fate
ad avere ancora un segretario generale del Partito Comunista che è un operaio?”, comparando
Marchais a Berlinguer o ad altri; e da quel punto di vista poteva essere visto come una
sofisticazione altissima del discorso, mentre invece in Francia quel distacco intellettuale col Partito
Comunista si è rivelato molto più tosto, dopo il ’56 io credo che della gente sofisticata poteva al
massimo essere d’accordo col PCF ma sicuramente non esserne coinvolta. E non a caso il divario è
sulla questione algerina, la posizione molto ambigua del PCF sulla questione coloniale gli è costata
la maggior parte della gente, io direi la più rivoluzionaria. In Italia c’era questo Partito Comunista
che era un’idra senza testa, che ha protetto il dibattito politico e culturale italiano dell’apertura
internazionale ai livelli più duri e più brutti. Dunque, alcuni cambiamenti si sono dati solamente nel
’77: io ho avuto l’impressione di una certa regressione, quando uno come Bifo si è messo a leggere
Foucault, Deleuze (e lui aveva cominciato con i nuovi filosofi, ci si figuri), questo ci ha fatto un po’

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sorridere in Francia, perché si diceva: “ma guarda, questi italiani che hanno un discorso talmente
elaborato, sofisticato, che di fatto era sulla politica e non sulla teoria, e d’altro canto sono talmente
nativi dal punto di vista teorico che prendono le cose francesi per i lumi, cioè prendono delle cose
che di fatto hanno prodotto una certa distruzione del paradigma PC, della cultura politica”. In
questo senso mi sembra che tutti siano rimasti fortemente legati a certi schemi. Prendiamo per
esempio la questione della guerra del Kosovo: l’Italia è rimasta terribilmente legata a un certo
antiamericanismo degli anni ’50, c’è una cultura antiimperialistica classica che è una cosa
stranissima, perché d’altra parte se si prendono gli scritti trontiani sugli Stati Uniti sembrano il
contrario, ma nella cultura politica immediata e nella cultura dell’organizzazione c’era questo. Non
è un nazionalismo, in Francia è diverso, c’è un nazionalismo puro: in Italia non è così, è piuttosto
una questione di vero riformismo, ma come i veri riformismi non appaiono mai, sono molto difficile
da vedere e da sconfiggere. E questo probabilmente ha fatto durare dieci anni di più certe ipotesi
all’interno dell’operaismo, che altrimenti sarebbero state cancellate. Penso che probabilmente
sarebbe stata utile un’apertura più forte al dibattito con i radicali anglosassoni, a cui veniva tolta
ogni possibilità di fare della bella politica: questo spazio civico della politica generale è stato
distrutto nei paesi anglosassoni, non esiste, perché esistono lotte radicali, punti di vista radicali, ma
questa idea del ceto politico di sinistra che si nutre di una certa tradizione illuministica, poi statale,
poi storica, non esiste nel paese, ed è di fatto la condizione generale. Credo che ciò l’operaismo
l’abbia pagato, e rileggendolo (perché io ho letto delle cose vecchie dell’operaismo) c’è tutta una
parte di retorica che è legata a questa cosa. Per esempio, Operai e capitale è stato tradotto in Spagna
e io mi chiedo veramente come persone giovani di 25 anni possano leggere queste cose: è stata una
riedizione, come leggere Lenin in Inghilterra quando tu non hai più quella cultura marxista
classica? E’ per questo che io penso che dobbiamo ritrovare dei riferimenti, delle ipotesi operaiste:
io non ho fatto molto di più che riprendere anche l’ipotesi operaista all’interno del mio discorso sul
lavoro salariato, però cambiando di terreno, non più sulla vecchia Europa ottocentesca o
novecentesca, ma su un terreno mondiale di confronto di forme di sfruttamento nuove.

- Quali sono secondo te gli autori e le figure che possono offrire degli spunti e delle chiavi di
lettura politica importanti nell’analisi della presente transizione e in prospettiva futura?

Io sto lavorando con Maurizio Lazzarato, tentiamo di trovare uno spazio che non sia lontano da
Marx in un certo modo; lui litiga anche con Toni su delle cose del genere, ma io penso di trovare un
luogo di discussione. Poi naturalmente ci sono stati Deleuze, Guattari, Foucault. E’ difficile
rispondere a questa domanda, perché di fatto a un certo punto a me piace leggere piuttosto la storia
di parti sconosciute, storia delle piantagioni, o oggi storia del cognitariato: queste figure ibride che
sono esploratori e che sono sempre la frontiera. In queste fase di transizione è gente che sta un po’
in un mondo, un po’ nell’altro e poi nell’altro ancora, e questo crea una differenza di potenziale
interessante. Direi che sono tutte queste figure nella frontiera ad esempio americana, che erano i
cacciatori, i contrabbandieri, i pirati, tutto questo tipo di figure ibride dal punto di vista culturale.
Mentre invece oggi trovare il corrispondente nella nostra società moderna, calda e naturalmente
nascosta, perché non si vede immediatamente. Questi contrabbandieri erano dei marginali nel loro
tempo, e oggi qual è questa gente? Allora, per esempio ho trovato queste persone che vivono in
Internet, è probabilmente gente che sta elaborando dei valori, un certo tipo di convivialità, che vi
assomiglia più o meno, ma questa volta non come delle basi rosse, con tutta questa figura un po’
retorica delle basi rosse: vive in un certo mondo, un mondo virtuale che però è anche un mondo
effettivo della cooperazione cognitiva, che diventa pure immediatamente cooperazione intellettuale
e politica. Prendo sempre l’esempio di questi ricercatori interni alla Monsanto che successivamente
alla pubblicazione sull’Intranet della firma del progetto, l’hanno diffuso nel web e hanno raccolto
8000 firme contro questo progetto, e di fatto tre giorni dopo la firma ha dovuto cambiare. Questo è
il tipo di organizzazione, è affascinante capire come funziona. Penso ad alcune cose di Romano
legate a questa idea, sono di fatto realizzate, sono diventati fatti reali, e oggi funzionano come la

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ricreazione di uno spazio pubblico e comune che precisamente è tolto nella società classica, che non
esiste più, perché la piazza non è più il luogo delle manifestazioni, i comizi e le elezioni non sono
più il luogo della politica, e la politica si è spostata su questo tipo di cose. Cioè, l’intelligenza critica
del mondo si fa oggi con tutta questa gente che va sul net, prende delle informazioni, e questa è
anche diventata forza produttiva, ma anche forza produttiva di denaro, non solo di critica. Leggere
tutta questa cultura (perché ci sono vari autori che cercano di sapere come funziona) mi sembra una
cosa molto interessante oggi per le ricerche che sto facendo. Ma dire autori precisi non è facile. La
cosa più interessante che ho visto recentemente è stata trattata per il nostro prossimo numero sulla
critica dell’universale, ragione mestizia, si tratta del concetto della colonialidad del potere,
elaborato da gente che cerca di sapere come funzionava e funziona ancora dopo la decolonizzazione
un colonialismo del potere interno a tutto, alla politica, alla scienza ecc. E’ interno a una geopolitica
del sapere, e non più solo a una geopolitica della geografia, della forza. Dunque, c’è il problema di
che tipo di sapere, che pensiero c’è ai margini, dentro e contro: ma questo dentro e contro non è più
quello dell’operaio dentro la fabbrica, ma è il dentro perché tutti siamo coinvolti nel movimento del
capitale mondiale, però è ai margini per avere una visione, ad esempio, di quelli che sono stati
emarginati. Cioè, ricostruire il punto di vista della totalità, però non per fare una fusione, ma per
guardare questa divisione, questa spaccatura, questa scissione, e quindi la duplicità del pensiero
intellettuale che è allo stesso tempo interno alla globalizzazione ma pensa anche a tutto quello che
la globalizzazione continua a colonizzare, come continui ad essere un potere coloniale, non solo un
potere classico. Un potere che si nutre di cose che sono ben al di là della fabbrica o dello
sfruttamento.

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INTERVISTA A TONI NEGRI – 13 LUGLIO 2000

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale? Ci sono state persone e figure
che hanno avuto una particolare importanza in tale percorso?

Io vengo da un’esperienza assai specifica che è quella di una famiglia laica nel Veneto, una famiglia
di origini emiliano-lombarde, mia madre è mantovana e mio padre è bolognese, piccoli proprietari
terrieri fascisti la famiglia di mia madre e comunisti quella di mio padre, famiglia di operai. Mio
padre è morto quando avevo due anni, era un comunista che era stato perseguitato a lungo per
questa tradizione, mia madre era praticamente neutrale dal punto di vista politico; la tradizione
comunista me l’ha insegnata mio nonno con il quale ho vissuto parecchio a Bologna. Dopo di che
ero un bravissimo studente, e nel Veneto degli anni ’40 e ’50 praticamente trovai (ma piuttosto
tardi, intorno alla maturità, in seconda liceo credo) in un gruppo di amici che erano più o meno
cattolici un’apertura di sinistra, perché in realtà né il Partito Comunista, un po’ più il Partito
Socialista esistevano a Padova, avevano una bassissima rilevanza dal punto di vista culturale
all’interno dell’università, e io cominciai allora, alla fine del liceo, vissuto in questo liceo padovano,
a parlare di politica con questi compagni, che erano cattolici di sinistra assai radicali. Forse perché
ero un ragazzo intelligente, scolasticamente molto produttivo, forse perché ero diverso nel senso
che non avevo alcuna prevenzione, mi ritrovai promosso immediatamente alla direzione nazionale
della Gioventù Italiana dell’Azione Cattolica, nella quale trovai uno stranissimo gruppo di persone
che facevano capo alla presidenza di Mario Rossi e in cui c’erano Umberto Eco, Emanuele
Colombo (di Milano, credo che sia ancora il presidente della televisione Montecarlo) e via di questo
passo. C’era in particolare un prete molto bravo, si chiama don Arturo Paoli, era un po’ quello che
gestiva tutta la faccenda, su posizioni estremamente di sinistra, di rottura con quel mondo cattolico
che era quello di Pio XII, di Gedda, cioè un mondo evidentemente reazionario da far paura. Noi
sostenevamo la dissoluzione della Gioventù Italiana dell’Azione Cattolica e la formazione, alla
francese, di tre grosse sezioni, una di operai, una di studenti e un’altra di contadini, sostenendo che
la grazia di stato era diversa nei vari casi: se uno era operaio avrebbe dovuto avere una
predisposizione divina ad agire bene diversa dal fatto che era un contadino, nell’unità e nella grande
comunità dei fini evidentemente. Di fatto ci espulsero dopo due anni, avevamo dato un notevole
rilancio a questa Gioventù Italiana dell’Azione Cattolica.
Io nel frattempo avevo cominciato a viaggiare molto, in maniera abbastanza raminga, in autostop,
fondamentalmente in Europa; andai in Israele un anno, nel ‘54-’55, quello fu per me un momento di
grande educazione politica, perché vissi in un kibbutz comunista. In realtà di marxismo non sapevo
praticamente nulla, mentre vissi invece sia queste pratiche cattoliche sia poi queste pratiche
comuniste radicali del kibbutz, ero in un kibbutz dove non esisteva famiglia, non esisteva nulla,
veramente esistevano sola la comunità e il lavoro. Io ho vissuto per un lungo periodo lì, poi sono
tornato in Italia e fondamentalmente sono andato su e giù tra l’Italia, la Francia, la Germania e
l’Inghilterra per due o tre anni, fino a che non mi sono laureato. Devo dire che se parlo dei miei
maestri allora parlo ad esempio di questo formidabile matematico con cui ho vissuto in kibbutz,
Suzy, che era un comunista egiziano il quale era stato in galera a lungo sotto Nagib, era stato
liberato all’arrivo di Nasser ed era venuto lì, era un laureato di Cambridge; c’era poi un compagno
bravissimo che era un assistente di Bloch a Tubinga. In Italia posso citare questo don Arturo Paoli
ad esempio, che poi è stato espulso, faceva l’assistente degli immigrati quando andavano su e giù
con le navi, poi lui è diventato piccolo fratello di padre Foucault ed è stato a lungo a lavorare nel
porto di Algeri come docker; adesso è saltato fuori nei giornali e mi ha fatto un colpo strano perché
è stato riconosciuto come uno degli amici di Israele perché aveva salvato degli ebrei durante la
guerra, quando era giovanissimo e stava a Lucca, dunque sono venuti fuori questi grandi articoli.
All’università ho conosciuto un po’ tutti ma senza legarmi a nulla, quando ne sono uscito ero
praticamente un lukàcsiano. Ho fatto una tesi sullo storicismo tedesco che è stata poi pubblicata in
parte da Feltrinelli subito dopo, nel ’58 (non c’era ancora la casa editrice, era l’Istituto Feltrinelli),

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era un pezzo, la prima metà della tesi su Dilthey, Meinecke, gli storici; ne avevo un’altra parte che
non ho mai pubblicato (e chissà, un giorno o l’altro forse riprenderò su) su Weber e Troeltsch.
Contemporaneamente, appena laureato (e qui in effetti cominciano i maestri) ho vinto il concorso
all’Istituto Italiano per gli Studi Storici a Napoli, il quale era diretto da Chabod, e lì ho avuto il
primo grosso contatto con una grande personalità scientifica; in più c’era un giro di colleghi e di
gente che erano assai bravi e con i quali poi ho mantenuto amicizia. Insomma, con Chabod è stato
un primo grosso contatto, soprattutto per capire che cosa era effettivamente il politico.
Nel frattempo, nell’ultimo anno di università, quando ero stato a Padova (perché prima avevo
continuamente viaggiato) per fare la tesi e perché dovevo finire gli esami (e fare in fretta, con tutti i
viaggi che avevo fatto durante il periodo universitario), avevo fatto il direttore di questa strana cosa
che era mezza cattolica e mezza socialista, era l’Intesa Democratica, ma non quella che c’era a
livello nazionale, che si chiamava semplicemente Intesa ed era un prolungamento della FUCI
(Federazione Universitaria Cattolici Italiani); lì invece era una cosa strana che avevamo messo in
piedi con questo gruppo di amici cattolici che stavano seguendo più o meno le mie stesse
evoluzioni, infatti sono diventati tutti laici, tranne quelli che si sono fatti preti e sono partiti in
missione via dal Veneto, è stranissima questa cosa. Ce n’è uno ad esempio che è diventato gesuita e
ha lavorato per anni e anni nel nord-est brasiliano facendo dei corsi eccezionali, costruendo grandi
cooperative di poveri, di contadini ecc., si chiama Umberto Pietrogrande, un altro era francescano,
anche lui missionario in Africa: insomma, quelli che sono rimasti cattolici se ne sono andati. Tra
quelli che sono rimasti qui c’era Paolo Ceccarelli, che è diventato architetto e che è stato rettore di
Venezia, c’era Laura Balbo, quella che è stata anche ministro, e via di questo passo. Era un
ambiente di estrema ed enorme vivacità intellettuale proprio in questa solitudine: adesso c’è la
solitudine e non c’è più la vivacità intellettuale di allora. Poi noi nel Veneto stavamo vivendo una
cosa assolutamente incredibile, cioè questa trasformazione, tra gli anni ’50 e gli anni ’60 lì esplode
il capitalismo, si capisce che cos’è il capitalismo pezzo per pezzo: questo è assolutamente
incredibile. Quando io ero bambino, durante la guerra, quando ero stato sfollato in campagna, c’era
veramente un paese di contadini poveri che emigravano, che stavano via, tornavano con quel po’ di
soldi quando tornavano; ciò anche rispetto al mantovano, dove andavo spesso dai miei nonni in
campagna, i quali avevano una piccolissima impresa, si mangiava il pane bianco, c’era il formaggio,
invece nel Veneto non c’era veramente niente, proprio miseria. Lì invece cominciano a nascere le
fabbrichette, gli emigrati iniziano a non partire più: lì comincia la scoperta della grande fabbrica.
Dal punto di vista accademico io sono stato molto fortunato, subito dopo Napoli ho fatto un anno in
Francia, poi ho fatto il mio secondo libro che era la mia seconda tesi, sul giovane Hegel, che è
anche quella una tesi completamente e fondamentalmente lukàcsiana, con Hyppolite alla scuola
normale superiore a Parigi; poi torno e nel ‘58-‘59 faccio immediatamente la libera docenza, che era
questo esame che c’era allora. Mi iscrivo al Partito Socialista a Padova, che era una sezione di
sinistra, e lo faccio con questi altri compagni (Ceccarelli, la Balbo e via di questo passo): ci
iscriviamo al Partito Socialista perché ci sembra libero da incrostazioni staliniste che ci davano
molto fastidio fin da allora. Lì comincia l’amicizia con Guido Bianchini, Tolin, formiamo questo
primo gruppo di compagni all’interno del Partito Socialista, e ci incrociamo con Panzieri attraverso
Mimmo Cerallo, che era il segretario della federazione ed era uno che era stato mandato lì da
Morandi e dal suo gruppo. Io mi incontro con Panzieri e comincio andare su e giù da Torino a
queste riunioni più o meno mensili dei Quaderni Rossi, inizio a frequentarli dalla formazione del
primo numero ed entro nella redazione con il secondo numero. Intanto la mia carriera universitaria
era completamente bloccata per le mie posizioni politiche, in più sono a Giurisprudenza che è una
facoltà particolarmente reazionaria, infatti resto come assistente straordinario, guadagnavo niente,
vivevo facendo traduzioni di libri gialli e bollettini editoriali, tutto questo lavoro assolutamente
precario, era quello mi dava da vivere. Lì c’è questo professor Opocher che mi dà effettivamente
una mano, mi stima, mi vuole bene: faccio dunque un libro sul formalismo post-kantiano, è un testo
molto accademico, molto filologicamente piantato, ha avuto fortuna persino in Germania tra gli
studiosi appunto del periodo post-kantiano. E’ un libro che faccio fondamentalmente sui fondi di

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Ravà a Padova e sul fondo Martinetti a Torino, una biblioteca, andavo su e giù, facevo Quaderni
Rossi e il libro, che esce nel ’62. Nel frattempo traduco Hegel per Laterza, Gli scritti minori di
filosofia e diritto.
Allora, i maestri e la formazione. Se oggi ci penso è la cultura di sinistra, recepita da un angolo di
provincia nella quale questa cultura di sinistra si presenta immediatamente come bisogno di azione,
c’è questa componente di azione che è veramente fondamentale, prima cattolica poi socialista. Noi
praticamente cominciamo ad andare davanti alle fabbriche immediatamente attorno alla faccenda
Tambroni: io penso che le prime volte che sono andato a vedermi queste fabbriche da fuori e capire
cosa erano, a cercare e ad aspettare gli operai che uscivano per sapere quali erano i problemi che
c’erano stati, per cercare di capire con molta umiltà, sia stato nel ‘58-’59. Poi scoppia il gran casino
nel luglio ’60 e lì il divertente della storia è che io a quel punto sono già segretario della
federazione: quella di Padova è praticamente la federazione socialista più grossa del Veneto, siamo
maggioritari anche nei confronti dei comunisti, il segretario della Camera del Lavoro è socialista,
c’è una sinistra socialista. In pratica mi trovo a gestire le lotte, senza capire niente devo dire, con
questo deputato comunista che si chiama Busetto, con cui ci vedevamo continuamente, lui andava
su e giù da Roma e consigliava la prudenza: sta di fatto che lì faccio un gran casino e mi prendo le
prime denunce per comizi infiammati. Poi, nello stesso luglio del ‘60, parto per l’Unione Sovietica,
siamo tutta una serie di giovani che si sono messi in vista durante i fatti di quel luglio: c’è Cossutta,
che allora è il segretario di Milano, c’è Alinovi, il segretario di Napoli, c’è il segretario di Ravenna.
Siamo insomma in una decina e veniamo ricevuti da Suslof, è veramente una storia assurda: mi
sono ammalato se Dio vuole, proprio un rifiuto psicosomatico, mi sono preso una di quelle
polmoniti feroci, così dopo un paio di mesi sono tornato giù e credo che quella sia stata veramente
la mia unica e sola esperienza, dopo queste visite ai kolchoz, ai sovchoz, alle fabbriche, un casino
insomma. Nel frattempo invece ero stato parecchio in Jugoslavia, dove ci vado fin dal ‘56-’57,
ancora quando ero nell’Intesa Democratica, ci vado come rappresentante dell’Unione Nazionale
degli Studenti Italiani ad un convegno che capita nel ’56 e quindi proprio in un momento grosso
della prima grande crisi del mondo socialista: lì appunto si anticipano un po’ dei discorsi, già quello
che succederà poi in Polonia. In quell’occasione prendo contatto soprattutto con dei francesi, degli
amici con cui poi sono rimasto in rapporto, ad esempio Jean-Marie Vincent, con cui adesso
abbiamo diretto insieme Futur Anterieur a Parigi, ha la mia stessa età e lui era rappresentante
dell’UNEF, l’Unione Nazionale degli Studenti Francesi: ci siamo dunque conosciuti là e lui, non io,
era un perfetto conoscitore della letteratura marxista. Quindi, la mia formazione avviene in questa
maniera, è completamente all’interno del mondo della cultura di sinistra. C’è questo fenomeno
enorme, che è l’egemonia sulla cultura italiana che è imposta, stabilita, diretta, tenuta dal Partito
Comunista dalla fine della guerra in su: io cresco completamente come un buon allievo di questo,
salvo appunto questo bisogno di azione, che credo poi fosse la cosa che avevano tutte le persone
sensate, che passa attraverso il cattolicesimo, l’esperienza in Palestina, in Israele, poi l’entrata nel
Partito Socialista. Per tutto questo, lo dico sempre, io sono diventato comunista molto prima di
essere diventato marxista: prima conoscevo Marx, ma era una cosa scolastica, dietro le categorie
non vedevo dei soggetti, restava questa brava filosofia oggettiva, dialettica, non vedevo soggetti,
non vedevo storia, non vedevo lo sfruttamento per quello che è e non come formule matematiche.
E’ appunto nel periodo dei Quaderni Rossi che comincio a leggere e a lavorare, praticamente subito
dopo aver finito (nel ‘60-’61) la produzione accademica, quella che mi serve per andare in cattedra,
che è fondamentalmente orientata a sinistra ma dentro il clima della sinistra italiana: il marxismo
comincio a toccarlo solamente allora, cioè più tardi. Nel frattempo facciamo un giornale che si
chiama Il Progresso Veneto, che è settimanale, funziona per due anni come federazione, e comincia
a rovesciare sulle fabbriche il discorso politico socialista, dei Quaderni Rossi. Questo giornale dura
due o tre anni, credo fino al ‘62-’63, è lì che dopo passano i giovani, i Cacciari, gli Isnenghi, tutti
questi qui sono lì dentro. Questo era un giornale in cui si parlava di politica veneta e nazionale, poi,
a partire dalla metà della sua storia (il ’61 circa), all’interno c’è un inserto che si chiama Potere
Operaio: questo inserto poi si sviluppa, perché intanto Bianchini va ad abitare a Ferrara e prende

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contatto con tutta una serie di persone che sono lì attorno, e praticamente nasce quello che è poi il
Potere Operaio veneto-emiliano, a partire all’incirca dal ’63. Potere Operaio veneto-emiliano è poi
assolutamente fondamentale nella rottura dei Quaderni Rossi, assieme ad Alquati, a Faina e ai
romani: però in realtà siamo i soli che abbiamo un intervento, quello che succede anche adesso
nell’autonomia in cui i veneti sono gli unici piantati lì, è una cosa cominciata a quel tempo.
Praticamente allora abbiamo portato fuori l’intervento tra Padova e Venezia, io mi ero sposato nel
’61, ho abitato a Padova poi sono andato ad abitare a Venezia, mia moglie era veneziana, lavoravo a
Padova, quindi andavo su e giù e mi fermavo a Marghera: invece di partire alle 8 partivo alle 6, mi
fermavo a Marghera, poi andavo a Padova a lavorare, e alla sera facevo le stesse cose. Lì comincia
praticamente quello che era il grande trasferimento verso l’autonomia di classe (che prima si
chiamava Potere Operaio e poi si chiamerà con tutti gli altri nomi) di queste avanguardie operaie e
di queste avanguardie studentesche.

- Qual è il tuo giudizio politico dell’esperienza dei Quaderni Rossi e delle varie posizioni che
c’erano al suo interno? Qual è il tuo giudizio politico su Panzieri?

Panzieri era uno che veniva da un’esperienza nazionale di direzione di un partito frontista: era un
uomo estremamente intelligente, completamente succube della cultura della sinistra, con pochissime
esperienze concrete di movimento operaio. Era però un uomo molto legato alle esperienze
internazionali della sinistra operaia, in particolare ai francesi e anche con una buona cultura della
sinistra comunista tedesca. Insomma, per parlarci chiaro, se non ci fosse stato si sarebbe dovuto
inventarlo, è stato un passaggio fondamentale. Sono cose che poi si sanno benissimo appena si ha
un po’ di esperienza, è quello che fa uscire l’opposizione dal provincialismo, dalla chiusura locale; i
trotzkisti non c’erano riusciti, in Italia non c’è una storia dell’opposizione di sinistra comunista fino
ai Quaderni Rossi, tutte le piccole esperienze che si erano sviluppate erano fallite, se non appunto
l’esperienza trotzkista che non si è mai radicata anche quando ci sono questi grandi episodi, che mi
hanno raccontato sempre, dei quartieri torinesi ecc. Questo fortunato incrocio tra questi giovani
intellettuali romani della sezione studentesca universitaria e Panzieri, questo socialista presso
Einaudi, però con una storia dietro di contatti a livello della cultura, permette quella che è la
polarizzazione di un discorso di sinistra, che è legato a esperienze che sono già in corso ma che
vengono per la prima volta portate alla luce: quando il gatto selvaggio esplode alla Fiat nel ‘62-’63
chi ne avrebbe mai parlato se non fosse stato per questi resau dei Quaderni Rossi che già si
formavano? Quando nel ’63 c’è il primo grande sciopero “spontaneo” al Petrolchimico di Porto
Marghera, con la fermata degli impianti, una cosa mai vista, chi ne parlava se non esisteva questa
rete già a tendenza nazionale e con contatti internazionali, già con una capacità, con un linguaggio
che si esprimeva?
Quanto poi alle lotte interne ai Quaderni Rossi, alla fondamentale idiosincrasia che esiste tra alcuni
personaggi lì dentro o alcuni gruppi, sono lotte attorno al linguaggio, che poi si esprimono, come
spesso succede, con accuse reciproche di opportunismo feroce: ma, insomma, adesso guardandole
con un distacco sono cose normali. Mi è capitato di litigare lì dentro con gli uni e con gli altri, anche
se devo dire, assolutamente senza nessuna arroganza, che effettivamente essere, come eravamo io
ed alcuni miei compagni, più legati a quelle che erano delle esperienze così ci permetteva di essere
anche molto più cinici nel considerare e probabilmente scegliere bene, perché poi abbiamo sempre
scelto bene in tutto quel periodo, cioè abbiamo scelto la continuità dell’esperienza sul radicamento
operaio: l’abbiamo credo perfezionata, portata avanti, estesa nei tessuti, per esempio nel Veneto
abbiamo condotto una lotta contadina, di contadini nel capitalismo agrario, penso che pochi siano
riusciti a farle delle cose del genere, in Francia poi le ho viste fare però lì è stata veramente una cosa
eccezionale. Ciò con un radicamento profondo e (questa è stata una grande cosa) sapendo fare una
politica operaia, cioè senza avere paure o schifii di tipo anarcoide: ad esempio io credo che una cosa
molto importante e anche un elemento di lotta nei confronti di parecchie persone, proprio a partire
dall’interno dei Quaderni Rossi, è quello di avere un concetto di organizzazione. Quanto alle liti lì

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dentro erano evidenti. Da un lato c’era una componente, come chiamarla?, bordighista, di sinistra
comunista, con elementi anarchici forti, chiamiamola componente cremonese, che si nutriva del
rapporto con questi operai meridionali, che era fondamentalmente gente che stava educandosi alla
lotta di classe industriale: attorno alla componente cremonese sono Alquati, Pierluigi Gasparotto, la
Monica Brunatto, poi c’è Faina, il quale poi porta alle conseguenze estreme (è una persona a cui ho
voluto un bene dell’anima, ho continuato a vederlo anche all’interno dell’Autonomia, poi ci siamo
visti in galera poco prima che morisse in maniera tragica). C’è tutto questo gruppo che,
effettivamente, è stato fondamentale nella rottura con Panzieri al momento del passaggio a Classe
Operaia, che però evidentemente poteva nutrirsi del rapporto con i romani, i quali tuttavia hanno
sempre agito in una maniera estremamente ambigua, e poi con noi, cioè con l’ala diciamo del nord-
est, che però comprendeva anche l’Emilia, soprattutto a Bologna c’era un radicamento profondo, da
cui è poi uscito il movimento studentesco bolognese, dai Bifo a tutti gli altri.

- Qual è la tua analisi e il tuo giudizio politico su Classe Operaia, sulle varie posizioni e sul suo
dibattito interno?

In Classe Operaia il problema era molto semplice: il discorso non ha mai decollato perché Classe
Operaia aveva una struttura di partito ed è stato in realtà un gruppetto di intellettuali. Dal punto di
vista dell’influenza teorica e politica è fuori dubbio che Quaderni Rossi sono stati molto più
importanti (qui parlo di Quaderni Rossi fino alla rottura perché poi anch’essi diventano un
gruppetto). Classe Operaia è una cosa importante dal punto di vista della formazione: per esempio
nel Veneto forma veramente una cinquantina di quadri di prim’ordine, che si trovano tra il ’63 e il
’67, ma questo vale anche per Milano, Como, vale a Roma per i Piperno, i Ceccotti, questi gruppi
asorrosiani, che poi costituiscono l’asse portante di tutta una serie di cose, la matrice è quella lì. Dal
punto di vista di formazione e di estensione di discorso è molto importante, e poi nella
generalizzazione di pratiche di intervento, ma senza grandi innovazioni e invenzioni teoriche:
quello di Classe Operaia è soprattutto un momento di grande processo formativo. Dal punto di vista
del dibattito politico interno, io penso che la teoria valga sempre quando si confronta con le cose, ho
sempre molti dubbi quando vedo la gente litigare attorno a cose insussistenti, linee: in Classe
Operaia c’erano veramente molti litigi, in particolare ce n’era uno ed era quello sull’entrismo, sul
quale, devo dire, le ambiguità sono state enormi da parte di tutti, tranne i veneti-emiliani. Perché poi
c’era una cosa stranissima che stava succedendo: noi, proprio perché uscivamo da quella esperienza
di cui parlavo prima, della modernizzazione, della costruzione del sistema industriale, ci trovammo
anche a fondare i sindacati. Entrati cioè in quella fase eroica, che era quella della formazione
proprio della scoperta dell’interesse economico collettivo da parte di questa classe operaia che
arrivava per la prima volta, noi moltiplicavamo le lotte sapendo perfettamente che alla fine di queste
lotte c’era la costituzione di un sindacato interno; evidentemente noi imponevamo anche i comitati
nello stesso momento, però i comitati si prendevano la direzione del sindacato nella vecchia
commissione interna, era la prima cosa che facevano molto concretamente, e non c’erano molte
illusioni su questo. Noi all’entrismo da un lato non ci credevamo per nulla, avevamo un senso molto
preciso di quello che era un rapporto di forza da stabilire comunque con questo grande pachiderma
che era l’organizzazione sindacale e politica, attaccavamo i suoi contenuti politici riformistico-
opportunisti fino in fondo, ma ci interessava essere presenti sui livelli istituzionali in termini
maledettamente concreti e senza avere la merda sotto il naso. Ci trovavamo spesso in situazioni di
compagni che in realtà non avevano invece alcun tipo di rapporto sia perché il controllo del
sindacato era più forte, sia perché il controllo del padrone era più forte, bisogna ricordarsi che la
Fiat in quegli anni lì è una situazione tremenda, anche se comincia a costruirsi qualcosa qua e là, la
situazione alla Fiat si rovescia nel ’68 e matura nel ’69: mi ricordo in tutti quegli anni con Classe
Operaia andavamo in giro a distribuire i volantoni, queste dichiarazioni contro il piano, andavamo
in giro dappertutto ma in realtà lì la sentivi la situazione, a parte alcune fabbriche (che proprio si
contavano sulle dita) non c’era rapporto alcuno. Per non parlare poi di quello che era l’altro tema,

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che era la socializzazione del salario operaio e quindi la necessità di seguire i rivoli di questa
socializzazione e di riuscire a capire un momento dove si ponevano scontri di potere nel sociale:
anche questo si tentava di fare, noi in particolare avevamo la fortuna di agire in determinate
situazioni. Ad esempio ci fu una cosa estremamente importante nel Veneto, che poi proseguì,
furono le prime lotte sui trasporti, che cominciarono già negli anni ’60. Questi primi momenti di
lotta sociale c’erano stati nel Veneto perché noi avevamo questo enorme vantaggio: dato che c’era
questa concentrazione di fabbriche su Marghera e un’identificazione sul territorio (non
un’identificazione immediatamente metropolitana ma diffusa) di centri da cui venivano gli operai, il
problema dei trasporti si è quindi posto dall’inizio come uno dei problemi assolutamente centrali,
fondamentali, ma da tutti i punti di vista; per esempio, era più facile fare intervento sui trasporti,
sedersi con gli operai per prendersi il treno, che so, da Treviso a Porto Marghera o distribuire i
volantini sugli autobus. Avevamo poi, per esempio, cominciato un’altra cosa molto bella, che
avevamo fatto sempre in quegli anni, ed era l’intervento lungo il Brenta, nelle fabbriche, andavi lì e
scoprivi queste cose incredibili già allora, trentamila operai che lavoravano nei calzaturifici già a
struttura completamente diffusa, con fenomeni di sfruttamento mostruosi, le morti, gente con la
mano tagliata, salari da ridere, violenza sessuale tremenda, erano veramente delle cose spaventose e
allucinanti quelle che succedevano; eppure lì riuscivi a mettere in piedi degli scioperi, col blocco
delle strade. E tutto lo scoprivamo, perché il Movimento Operaio non ci aveva insegnato nulla da
questo punto di vista, era tutto estremamente ufficiale, e noi scoprivamo queste nuove forme di
lotta, era veramente una cosa di una forza fresca estrema.
Quindi, Classe Operaia secondo me può essere definita proprio come un grande periodo di
apprendistato. Alla fin fine anche il dibattito su entrismo o no, quello posto dai romani, da Tronti in
particolare, è stato un dibattito, se si vuole, da questo punto di vista pedagogicamente utile, nel
senso che per quanto riguarda me e le persone che mi erano più vicine (come Luciano Ferrari
Bravo, questi grandi compagni di allora) lì è stato veramente fondamentale, anche per Cacciari devo
dire, perché lui è uno che per esempio è riuscito poi a costruirsi una vita politica, dopo la rottura con
noi del ‘69-’70, con un cinismo totale nei confronti delle organizzazioni, passandoci, uscendoci.
Quindi, Classe Operaia poi termina, perché fondamentalmente a Torino e a Milano non riescono a
tenerla in piedi, poi i soggetti vanno in crisi; a Milano si tiene in piedi una continuità effettiva
attraverso i compagni che sono lì e fondamentalmente Sergio Bologna, il quale rappresenta una
grossa continuità da questo punto di vista, anche Giairo. Però Torino praticamente è completamente
persa.
Poi c’è questa esperienza di Contropiano: è un mio tentativo completamente indipendente dal
lavoro che in realtà si faceva, che continuava nelle fabbriche, che ormai era diventato Potere
Operaio, che non è quello nazionale, è quel Potere Operaio veneto-emiliano, avevamo continui
contatti con i pisani, con Della Mea fondamentalmente. Contropiano è un tentativo di tenere
insieme questa sorta di discorso intellettuale, considerando che in fondo c’era una certa autonomia
del discorso intellettuale come tale, che c’erano comunque dei relais universitari che era
estremamente importante tenere congiunti proprio come produzione di discorso culturale in quanto
tale. Quindi, questo è stato per me un tentativo al quale Asor Rosa è stato, salvo il fatto che poi ci
troviamo in mezzo al ’68, a quel punto lì come fai?, non è che si poteva più mantenere la relativa
autonomia del discorso culturale e universitario. A quel punto comincia un’altra storia, lì cambia
proprio il paradigma.

- Rispetto a Classe Operaia, qual è il tuo giudizio su Tronti, Alquati, Asor Rosa, Cacciari,
Gasparotto, Berti, De Caro?

Cacciari per esempio c’è pochissimo, credo che non abbia mai scritto un articolo su Classe
Operaia. I personaggi grossi di Classe Operaia sono Alquati senz’altro, Tronti, Asor; De Caro è già
molto sullo sfondo, lui è un uomo eccezionale ma sarà infinitamente più importante nel periodo
dell’Autonomia, dove ricompare, sostiene. De Caro, Grillo e questi qui sono persone che si vedono

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abbastanza nelle riunioni che si fanno, ma non mi sembra che siano importanti dal punto di vista del
dibattito. Un personaggio che scompare sempre ma che invece è estremamente importante in queste
cose è Sergio Bologna, c’è poi Mauro Gobbini, sono personaggi estremamente importanti in tutta
questa storia. Anche Mauro è a Milano in quel periodo, lui è un funzionario della Rai, conduce le
prime lotte lì e poi viene cacciato e lo mandano a Pesaro o lì vicino, poi finisce a Napoli e qui si
mette a fare Potere Operaio. Poi c’era quel matto di Gobbi, vicino a lui c’era D’Este, c’era Faina.
Ognuno aveva il suo pezzo di pazzia, mica si creda che fosse facile, quelle erano riunioni da
diventare matti, ogni tanto veniva fuori qualcosa di intelligente, però per il resto veramente se non
avevi voglia di perdere tempo erano un po’ disperanti.

- Qual è il tuo giudizio e la tua valutazione politica delle varie posizioni che si sono confrontate
all’interno di Classe Operaia?

A me sembra che tutti quanti siano un po’ diventati scemi con la vecchiaia, forse anch’io. Mi pare
che ci sia una ricerca di purezza e di innocenza in quel periodo, per cui ci sono quelli che
sostengono che loro alla lotta armata non ci hanno mai pensato, altri che dicono che invece non
bisognava entrarci dal principio nel Partito Comunista e smetterla di fare i furbi: queste sono tutte
cose che non c’entrano nulla con quella che era la discussione di allora, che cercava una linea
politica operaia, senza trovarla, e da questo punto di vista Tronti era molto lucido, però era
veramente il pessimismo della ragione. Era molto lucido perché diceva: “Qui non esiste possibilità
di lotta operaia”, e man mano questa lotta operaia, questa lotta di classe che doveva approfondirsi
lui non la vede altro che come un momento di impatto, di scontro sul partito. E su questo dico che
ha ragione dal suo punto di vista, con il piccolo torto che ha che non prevede, non sente, non ha
fiducia sul fatto che l’intero sistema era a un punto di crisi e che la pressione operaia esercitata non
solo sul regime del salario ma in generale sull’insieme delle strutture che governano la riproduzione
sociale va in crisi, e che qui non si aspettavano minimamente una generalizzazione delle lotte come
il ’67 e il ’68 rivelano. Questi non avevano comprensione della fabbrica per capire che quel tipo di
produzione non si poteva più tenere: il taylorismo è in crisi, noi registriamo già una situazione di
questo tipo a partire dai primi anni ’60. In Italia, lo sappiamo benissimo, il taylorismo nasce negli
anni ’20 come forma generale egemonica di produzione, però in Italia viene imposto a un certo
momento, alla metà, alla fine della ricostruzione, ed è già in crisi sul livello mondiale e soprattutto
non può reggere queste ondate di lotta operaia che gli si rovesciano addosso, dal ’48, al ’53, al ’63,
al ’67, bum, scoppia. In più non può sostenere la mobilità, nord-sud, sud-nord, diventa anche quello
un fatto di rottura. Ci sono questi fenomeni enormi, Tronti e quegli altri non capiscono
assolutamente niente su questo, ma secondo me neanche Alquati, il quale poi non lo capisce
neanche dopo. Lì c’è questo fenomeno enorme che è il cambiamento di paradigma industriale che
noi ci giochiamo interamente in quegli anni. Qui è inutile fare i furbi e dire “il lavoro immateriale, il
lavoro materiale, ce n’è più di uno, ce n’è più di un altro”: lì cambia il modello, in cui le
proporzioni di quanto ci metti di mano e di muscoli e quanto ci metti di testa nel lavoro cambiano
radicalmente. E chi non l’ha capito allora non l’ha più capito. Sia nel Veneto che in Emilia noi
abbiamo fondamentalmente avuto la fortuna di aver avuto due fabbriche grosse, noi lavoravamo al
Petrolchimico di Marghera e di Ferrara. Devo dire che lì c’è per me questo personaggio (uno di
quelli di formazione) che è Guido Bianchini, un personaggio incredibile, che ha sempre avuto un
culto enorme per Romano Alquati, perché è lui che poi ha curato gli scritti e si sa benissimo che
mettere le mani sugli scritti di Alquati è dura: io è una cosa che ho fatto per anni, rovinandomi il
fegato e poi essendo insultato da lui ogni volta dopo aver sistemato e reso leggibili le cose, io lo
mandavo a quel paese e tutto finiva bene. Ma Bianchini, poverino, veramente lo adorava, ed era un
uomo di una grande intelligenza nell’analisi di fabbrica: era uno che aveva fatto il sindacalista da
piccolo, poi si era messo a studiare e a lavorare, era un uomo estremamente intelligente, con contatti
molto diffusi, larghi.

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Per quanto riguarda lo scontro che avviene in Classe Operaia le cose vanno in questi termini. Si era
in una situazione di lotte che si diffondono, dopo il gatto selvaggio, quello che è successo a Torino,
dopo quello che è successo al Petrolchimico, ci sono lotte molto grosse a Genova, a Trieste, tutte
praticamente fuori dal controllo sindacale, si ha questa impressione netta dell’aprirsi di una fase di
lotta; all’interno di questa fase c’è chi spinge per un’organizzazione propria e chi spinge per
un’organizzazione propria che stabilisca un rapporto con il partito. Quindi, sull’organizzazione
propria si è d’accordo, sull’organizzazione propria che abbia un rapporto con il partito si è in
rottura. Si tentano momenti di generalizzazione delle lotte a livello nazionale, cioè su alcune grosse
situazioni: non si riesce a farlo, a quel punto lì quelli che ritenevano di dover stabilire un rapporto
più forte con il partito traggono le conclusioni. C’è di mezzo una situazione nella quale non si riesce
a generalizzare la lotta, anche se si spinge, perché, per esempio, a Marghera, anche se in quel
periodo non si riescono a fare grosse lotte, si mantiene comunque un livello di conflittualità
maledettamente alto; a Torino, però, la cosa va abbastanza sotto, tentiamo in maniera molto pesante
a Genova, tentiamo a Piombino, a Firenze, ma praticamente la cosa non funziona proprio, il
diventare piccoli strumenti di generalizzazione di lotte non funziona. Poi la situazione politica
ormai vede il PCI spostarsi decisamente a destra, e non c’è modo di trattenerlo in questa fuga che
comincia allora e che non è più finita, adesso è più a destra della destra, siamo alla follia. Insisto
ancora sul fatto che sia in quelli che vogliono l’immediata generalizzazione delle lotte (da questo
punto di vista c’era un po’ di spontaneismo), sia in quelli che vogliono l’immediato riferimento al
partito in ogni caso c’è un’insufficiente considerazione di quello che è il rapporto tra la fabbrica e il
sociale, quello che ci sta attorno. Perché in realtà quello che stava maturando, più che in fabbrica
maturava fuori, era questa insofferenza generale del regime industriale, nel Veneto indubbiamente e
profondamente legato a quella che era la recente industrializzazione, ma anche altrove: c’era ormai
l’insopportabilità dei fenomeni di emigrazione così come si erano vissuti, Torino è una città da
impazzire in quel periodo. Quindi, il dibattito all’interno di Classe Operaia trova forme estranee e
poi di assenza: ad esempio ad un certo momento c’è l’infatuazione di alcuni per Socialisme ou
Barbarie, che c’era alle origini ma poi viene ripreso, o l’entrata in gioco indubbiamente di elementi
presituazionisti; non parlo tanto di cose culturalmente definite, quanto di stati proprio di sensibilità.
Nel frattempo noi viviamo questa incredibile esperienza che è quella degli m-l, nel Veneto in
particolare: noi ci troviamo al centro della nascita di questi gruppuscoli m-l che fanno capo a Calò e
agli altri. Questo gruppo si chiamava Viva il Leninismo, parte al principio egli anni ’60 e nel
Veneto mantiene una sua continuità lungo tutto quel decennio, con presenze anche operaie
soprattutto nella valle del Brenta, tra i calzaturieri e in certe fabbriche di Marghera. Lì lo scontro tra
noi e loro diventa molto forte, forse questo è dire troppo, ma nel senso che prefigura un po’ quello
che succederà dopo con questi m-l. Per esempio, loro rifiutano tutte le istanze unitarie, ti sabotano
nei momenti della lotta, proprio con un comportamento molto settario. Questa, ad esempio, è una
cosa che su noi pesa moltissimo, non riusciamo minimamente a comunicare. Noi eravamo molto
avanti nella discussione anche delle forme nelle quali si gestivano le lotte, a Torino per esempio è
impossibile porlo questo problema, per non dire Roma, dove non sapevano neanche di cosa si
parlava.
Secondo me in Classe Operaia il problema era che cosa significava il fare politica operaia. Fare
politica operaia non è semplicemente la teorizzazione del rapporto classe-partito, su questo
potevano parlare anche i filosofi: il problema invece era proprio il dire come si fa, come ci si sta
dentro, e una volta che ci sei dentro chi dirige chi. Che cos’è il partito? Il discorso classe-partito era
fissato, immobilizzato dalla definizione del partito come Partito Comunista Italiano; mentre invece
lì c’è un altro problema. Tutti noi alla fin fine eravamo convinti, anche quelli del Partito Comunista,
che le lotte erano autogestite in realtà, le facevano le avanguardie operaie, e se non volevano farle
sicuramente non le faceva né il sindacato né nessuno: ma il problema era anche quello di capire
come questa autogestione delle lotte si determinava, quali erano i meccanismi. Noi avevamo
cominciato ad avere esperienze che erano state incredibili lì a Marghera, proprio di gestione.
Praticamente noi viviamo dentro Classe Operaia, senza averne coscienza, da un lato un processo di

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formazione, nel senso proprio di quadri politici, e dall’altra parte una specie di vuota polemica su
classe e partito. E poi c’erano naturalmente gli arricchimenti della tematica dell’analisi di fabbrica,
che però secondo me restavano bloccati, certe volte diventavano addirittura approfondimenti
estremamente ottimi da infiniti punti di vista però restavano bloccati a quella che era un’incapacità
di ricollegare direttamente proprio la classe operaia al suo territorio, alla sua società: sono state cose
che poi gli anni ’70 hanno chiarito fino in fondo, ma negli anni ’60 mancava proprio questo. Quindi,
quando Classe Operaia si autodistrugge, io credo che non ci sia stata alla fin fine un grande dolore,
un grande lutto: tanto le cose che erano vive sono andate avanti, e quelle che non erano capaci di
andare avanti sono morte, a un certo punto le cose vanno così, c’è anche una legge dell’effetualità
che viene fuori. Quelli che non sapevano come andare avanti si sono bloccati, o alcuni sono
diventati matti, e soprattutto più che matti si sono trovati completamente sbalestrati di fronte a
quella cosa che doveva accadere qualche anno dopo e che era il ’68: allora c’è stato questo ingresso
nel PCI e questa emersione di un’autonomia del politico addirittura feticistica, per non parlare
d’altro, questi uomini che si sono messi a fare i consiglieri del principe. D’altra parte, invece, ci
sono state situazioni di isolamento o l’incapacità di vivere fino in fondo le nuove esperienze che si
facevano. Torino è come al solito estremamente significativa da questo punto di vista, io credo che
effettivamente se Torino avesse continuato quella presenza di discorso politico che Classe Operaia
aveva rappresentato in parte, anche in piccolissima parte, ci saremmo risparmiati Lotta Continua,
per parlarci chiaro.

- Quali sono state le ricchezze e soprattutto i limiti delle esperienze di Potere Operaio prima e
successivamente dell’Autonomia Operaia?

Io riesco molto difficilmente a mettere insieme Potere Operaio, il quale resta comunque due o tre
cose diverse: esiste un Potere Operaio romano, per esempio, che finisce praticamente nelle Brigate
Rosse, anche se i suoi dirigenti no, però quando si va a vedere cosa sono le BR che fanno Moro è il
servizio d’ordine di Potere Operaio. Sono dei ragazzi estremamente intelligenti, bravissimi, le
capacità di organizzazione e di radicamento nel territorio sono assolutamente mostruose, ma non
hanno nulla a che fare con quello che trovi nel Veneto o in Emilia: c’è una mancanza di direzione
che è fondamentale in Potere Operaio dal principio, una divisione di settori che ne costituiscono per
certi versi la ricchezza, ma anche lì immediatamente si va alla rottura, pareva che andassero a
nozze, scivolati dentro. C’è un grandissimo ed elevatissimo salto teorico: sia le cose dei Quaderni
Rossi che quelle di Classe Operaia sono illeggibili oggi, mentre invece quelle di Potere Operaio e
dell’Autonomia sono leggibili e attuali. Sia Quaderni Rossi che Classe Operaia sono dentro la
dogmatica marxista (non sto dicendo male del marxismo ma della dogmatica), invece con Potere
Operaio e soprattutto con l’Autonomia si apre un vero marxismo creativo adeguato ai tempi:
l’analisi di fabbrica si collega all’analisi sociale e viceversa, si riesce a riconquistare il discorso
economico generale. Questi per esempio sono limiti enormi di Quaderni Rossi e di Classe Operaia,
il fatto di non volere intervenire su certi terreni: paradossalmente l’unico terreno disciplinare sul
quale si interviene è la letteratura, con Asor e il suo Scrittori e popolo, ma né sul terreno del diritto
né sul terreno dell’economia politica si interviene granché, tranne nella fase di Classe Operaia
quando si apre il discorso sulla finanza, sulla moneta ecc., che sarà un discorso comunque che
maturerà dopo, il discorso alla Lapo, per dire, che poi arriva fino a Marazzi, però sono cose che si
aprono dopo, acquistano un’originalità solo successivamente. In realtà c’è un operaismo molto
stretto, che è fondamentale dal punto di vista della formazione, dal ’58 al ’68 sono veramente anni
di apprendistato. Io ero un po’ più vecchio, gli altri erano più giovani, ma insomma non si è andato
molto fuori da questo, e come tutti gli apprendistati e le formazioni è un apprendimento settario alla
fin fine, anche se ricchissimo. Però non è che quando sei riuscito a scoprire la legge fisica più
importante l’universo ti si dipana davanti: la legge fisica resta la legge fisica, noi avevamo in mano
alcune leggi fisiche, alcune leggi operaie della lotta che funzionavano benissimo ma l’universo non

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ce lo facevano vedere. Comunque è lì che a un certo punto bisognava rompere e questo è avvenuto
dopo il ’68.
Potere Operaio e l’Autonomia: io lo rifarei ancora, questo è fuori dubbio. E’ vero che lì siamo stati
travolti non solo dalla repressione, anche se è fuori dubbio che essa ha pesato: ma quando parlo
della repressione non parlo del ’79, dell’ultimo momento, ma parlo effettivamente della capacità
dello Stato di intervenire, dalla politica delle stragi, al terrorismo di destra, alla repressione
sistematica, continua e violenta di ogni lotta e via di questo passo. La cosa assolutamente
eccezionale, soprattutto vista nei confronti degli altri movimenti europei, è la continuità, e questa
cosa si spiega solo appunto se si va a quel periodo di formazione: la continuità, questo movimento
che produce un ’68 che dura dieci anni, può nascere solo già da una ricchezza di quadri, una
consistenza sociale del movimento che ne permette la riproduzione. Lì c’è un soggetto politico che
riproduce e che ha la capacità di farlo, e la capacità significa un casino di cose, non è che un
movimento nasce si regge sulla base di quattro persone intelligenti, si tratta di un movimento che ha
una capacità appunto di riprodursi in termini di denaro, di produzione di materiali di propaganda, di
formazione e di informazione, dal volantino alle radio insomma; un movimento che in qualche
modo risolve la questione economica, la quale non è secondaria, con tutto il problema delle sedi, dei
luoghi di riunione politica e dei luoghi di riunione collettiva; inventa il sistema che ancora adesso si
chiama centri sociali, inventa questi grandi strumenti; allarga enormemente i meccanismi di
valutazione e di lotta sul salario, dal salario di fabbrica al salario sociale; man mano identifica un
soggetto critico, che è fondamentalmente quello delle nuove generazioni che entrano nel mercato
del lavoro che è sconvolto dalla modificazione del modo di produrre, il passaggio dal taylorismo al
post-taylorismo, dal fordismo al postfordismo; dà a questa generazione una prima possibilità di
lotta, innova teoricamente assumendo queste tematiche all’interno, per esempio tutto il problema
della scuola (da questo punto di vista lì ci sono i contributi di Alquati che sono davvero
fondamentali); e via di questo passo. Ci sono un casino di cose in positivo da dire. E poi c’è tutta
anche un’altra cosa maledettamente importante che secondo me è non è da sottovalutare, che è la
costruzione di una struttura di resistenza, cioè il fatto di rendere coscienti le forme della resistenza
che prima erano semplicemente clandestine e sotterranee all’interno della classe operaia, il fatto di
averle generalizzate, portate fuori, mese in luce. Poi ci sono invece quelli che sono i limiti,
l’incapacità del coordinamento: non tanto l’incapacità di costruire una direzione, quanto l’incapacità
di mettere in moto un meccanismo che determinasse direzione, e quindi a quel punto di nuovo
l’apparire, ma questa volta in forma distruttiva (perché prima era apparso in maniera inutile) del
rapporto partito-classe. Praticamente il movimento muore sul problema da cui era partito: era
cominciato con la speranza che la classe potesse investire il partito e finisce nella convinzione che
questo non era possibile, che quindi in realtà bisognava usare le due corsie, quella dell’avanguardia
e quella del movimento di massa, e questo diventa distruttivo, noi siamo sconfitti su questo. E poi
siamo sconfitti anche da quella che è stata la forza del nostro radicamento, e anche questo è il
paradosso se si vuole: la forza del nostro radicamento era appunto determinata dalla presenza, si
pensi alle 50.000, 100.000 persone che riuscivi a mettere in piedi, dei semplici militanti, a Milano e
a Roma, era una cosa enorme, in più i soli militanti. In più avevi però questo radicamento sociale
nei quartieri, ci sono stati momenti nei quali nelle città era effettivamente una cosa assolutamente
impressionante, io parlo di Milano perché in quel periodo ci stavo, ma la stessa cosa potrei dire del
Veneto e a Roma ogni tanto lo vedevo. D’altra parte c’era continuità, sia la continuità che il
radicamento alla fine sono stati fenomeni che hanno rappresentato l’isolamento, in Europa eravamo
ormai soli, in Francia il movimento era finito da lungo tempo; e tutto questo ha determinato una
situazione pazzesca di pura repressione laddove negli altri paesi europei proprio la brevità del
movimento aveva in fondo permesso il suo riassorbimento in una modernizzazione più ampia del
sociale che comunque apriva possibilità reali di sviluppo, mentre invece in Italia ci hanno buttato
dentro, e poi oltretutto l’hanno pagata anche loro perché alla fin fine guarda dove sono finiti, hanno
dovuto affidare il paese a Craxi prima e poi c’è stata questa totale mancanza di ricambio politico, di
capacità di seguire o di inseguire la modernizzazione che è stata per loro una cosa spaventosa.

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- Come analizzi oggi le categorie di spontaneità e organizzazione? Al di là del confronto
dinamico con il contesto reale, è cambiato nel tempo il tuo rapporto con queste due categorie?
Come è cambiato? Oggi scriveresti ancora 33 lezioni su Lenin? Se sì, come le riscriveresti?

Non credo che le scriverei ancora, 33 lezioni su Lenin erano legate veramente a quel periodo: il
modello di organizzazione che di lì veniva fuori era quello in realtà del partito del fordismo
vincente, di una classe operaia. Oggi il problema è diventato assolutamente diverso. Oggi come le
riscriverei? E’ questo il problema semmai. E’ proprio il problema rispetto al quale, per esempio, c’è
un vuoto assoluto nell’ultimo libro sull’impero. Nell’Impero c’è in fondo l’identificazione di quelli
che sono i processi tendenziali, la modificazione dell’accumulazione capitalistica non è
semplicemente che il capitalismo è diventato mondiale, questa è una cagata: c’è un ordine
biopolitico che si è stabilito sul livello globale e delle forme di organizzazione capitalistiche che
vanno istituendosi, all’interno di questo è saltato tutto. Questa storia dell’organizzazione è
evidentemente il grande buco nero: in una situazione nella quale con tutta probabilità ci saranno
ancora cicli di lotta ma non si vedono, quello che è sicuro è che il ciclo di lotte operaie che noi
conoscevamo nel fordismo è saltato. Oggi abbiamo dimensioni della produzione che sono diventate
infinitamente più ampie sia ovviamente dal punto di vista globale che dal punto di vista della
socializzazione di questo modo di produzione; abbiamo d’altra parte appunto questa flessibilità e
mobilità che diventano flessibilità e mobilità anche del ciclo economico, nella misura in cui questo
è proiettato sui beni finanziari. Quindi, siamo in una situazione in cui l’analisi deve essere riaperta
su questi punti. Resta il fatto che la cosa paradossale malgrado tutto è che questa straordinaria
vittoria operaia c’è stata: la mondializzazione, la globalizzazione è la vittoria reale. Nella
globalizzazione un’altra vittoria reale è il fatto che sono finite le forme dittatoriali del socialismo, le
transizioni che bloccavano proprio la capacità di sviluppo della forza operaia, la mistificavano, la
tradivano. Poi è aumentato in maniera enorme il livello dei bisogni, la capacità produttiva legata ai
bisogni, ai desideri: questa è una grande vittoria, il capitalismo deve regolarsi oggi su questo nuovo
livello e non è detto che ce la faccia. In questa situazione ci sono appunto questi movimenti esodanti
di popolazioni che sono forse la cosa più interessante che può darsi, alla quale collegare con tutta
probabilità movimenti di lotta, e ci sono le nuove dimensioni dell’immaterialità che diventano
sempre più importanti. Tutto questo non significa assolutamente che lo sfruttamento non avvenga
più sui settori più poveri della forza-lavoro, però è anche vero che ormai dovremmo cominciare a
configurare dei blocchi di soggettività che vanno molto al di là di quella che è la vecchia
considerazione della classe operaia. Quindi, non so assolutamente, ci sto lavorando, perché il
secondo volume di Impero dovrebbe essere su questo, cioè cosa vuol dire moltitudine, cosa vuol
dire corpi della moltitudine, cosa vuol dire la moltitudine o no come corpo: qui si tratta veramente
di ritematizzare la scienza politica, e la scienza politica eversiva o sovversiva, in maniera
assolutamente radicale.
L’unica cosa sicura è che dopo il ’68 non si ragiona più nella stessa maniera in cui si ragionava
prima: questo lo vediamo nella nostra piccola storia e possiamo vederlo anche nella storia grande.
Qui siamo veramente in un mondo completamente nuovo e chi non lo capisce peggio per lui: il
mutamento è stato assolutamente radicale, se Dio vuole è finito il socialismo, ci si rende conto?, è
finito un secolo e mezzo di storia organizzata o anche di più che si apre dalla rivoluzione francese in
poi, e tutto questo finisce tra il ’68 e l’89, finisce e non tornerà se Dio vuole. Solo che a questo
punto si tratta di capire in questa nuova situazione che cosa si fa, come si ri-inventa il mondo della
sovversione, e cioè il mondo della potenza: e qui siamo tutti noi che continuiamo a produrre. Però,
esiste uno sfruttamento che sta nella divisione, più che nell’accumulazione di quantità specifiche di
pluslavoro credo che stia fondamentalmente nel comando, nell’esercizio del comando che diventa
sempre più parassitario dal punto di vista produttivo, economico, quanto invece diventa più pieno
dal punto di vista del disciplinamento del controllo. Queste sono tutte cose che nascono dopo,
almeno per quanto mi riguarda sono cose che io ho imparato in Francia. Quello che è molto

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importante, per esempio, è quanto l’operaismo italiano sia stato importante su autori come Foucault,
Deleuze e questi qui: ha proprio costituito parte della loro esperienza, che poi hanno rovesciato nel
loro discorso e che oggi può essere in parte recuperato. Questo è molto, molto importante, io
scherzo spesso dicendo che bisognerebbe veramente sciacquare i nostri panni nella Senna, ma
proprio con questo giro che c’è stato. Quello dell’organizzazione credo che sia un problema di ri-
invenzione di un’antropologia politica reale: si tratta di capire che cosa sono i corpi oggi, che cosa
significa lottare, su che bisogni, quindi quali sono le forme di coordinamento, di cooperazione, le
forme specifiche, si tratta veramente di mettere in piedi proprio una nuova antropologia. Il
marxismo da questo punto di vista veramente l’abbiamo scavato fino in fondo, a questo punto
bisogna inventarsene un altro di marxismo; il marxismo resta comunque utile, fino in fondo,
sempre, però ce n’è proprio un altro da scavare.

- In un tuo articolo nel primo numero di Posse c’è un pezzo in cui dici: “[…] Quello che vive, nel
contesto biopolitico globale, vive contro il biopotere dei padroni […]”. In che senso? Chi vive è
spontaneamente contro? La soggettività espressa è di per sé antagonista? La composizione di
classe è di per sé antagonista?

No, assolutamente, ci mancherebbe altro, il per sé antagonista è solamente un’illusione, un sogno di


uno spontaneismo che non esiste. Io credo che effettivamente le condizioni della riproduzione
generale oggi siano le condizioni nelle quali la riproduzione del genere umano (non del genere
femminile o maschile) sono tali per cui non c’è più bisogno di quell’organizzazione capitalistica, o
del comando capitalistico, nell’organizzazione della produzione che prima era dato. Quando dico
questa cosa, esattamente come prima quando dicevo che non c’è più un rapporto di misura e che
quindi è un rapporto parassitario quello che si pone, lo dico in questi termini: non c’è più un
rapporto tra comando, valore e lavoro, tutte le relazioni in proposito sono saltate ed è bene che siano
saltate, non è che sono nascoste, sono proprio saltate. Il valore del lavoro non si dà più in qualche
maniera fuori da quello che è il sistema della sua estrazione: si dà dentro, non c’è più fuori. Da
questo punto di vista io mi diverto a dire che siamo in un’età postmoderna, il moderno è finito,
anche se poi parlo di età, parlo di ontologia postmoderna e non il mondo di pure finzioni. Quello
che mi interessa, in questo caso, è il fatto che le condizioni nelle quali il lavoro umano si riproduce,
produce ricchezza, non esigono più delle funzioni di comando: quindi, il comunismo è pensabile, il
comunismo è attuale da questo punto di vista, non c’è più bisogno di programma di transizione. C’è
bisogno di rivoluzione comunque, anche se nessuno più sa definirla perché parlare di rivoluzione e
parlare di organizzazione è la stessa cosa evidentemente, non è che chi parla di organizzazione parla
di organizzare l’egemonia, che cavolo significa? Organizzi l’egemonia per la rivoluzione, di
Gramsci puoi parlare solo in questi termini. C’è tutto questo tentativo di sociologizzare
sistematicamente Lenin, Gramsci e tutta la tradizione del discorso organizzativo: o hai questa
espressione di potenza che ci sta dentro a questo discorso o se no dici le barzellette. A me sembra
che effettivamente bisogna andare avanti nell’analisi di questa nuova antropologia della
moltitudine. Ci sono già cose bellissime, le nuove forme di lotta, come si organizzano, come
vengono fuori; adesso, per esempio, sto facendo un grosso sforzo per raccogliere tutti i materiali
rispetto soprattutto al grande ciclo di lotte nel sud-est asiatico, nell’estremo oriente, dalla Corea fino
all’Indonesia, che adesso sono state poi stravolte in guerriglie identitarie e via di questo passo, ma
tutto ciò ti dà ancora di più la misura di quale deve essere stato proprio il contenuto di classe e di
sovversione che c’era dentro a tutto questo processo. Attraverso questi compagni americani con cui
lavoro sto appunto cercando di rimettere in piedi questo tipo di analisi, perché lì hanno l’enorme
facilità di vedere questa gente, possono fargli fare le tesi su questi argomenti, cosa che qui
purtroppo non si ha; poi c’è letteratura, ci sono traduttori anche delle lingue più bastarde. Quindi, io
cerco di far fare queste cose qui e poi d’altra parte invece di andare a fondo proprio nello studio
dell’antropologia, per esempio mi interessano enormemente tutte le cose sull’antropologia
soprattutto del femminismo più avanzato, ci sono delle cose molto belle ormai, che non hanno più

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quel senso polemico e quelle forme che ti impedivano veramente anche la lettura certe volte, perché
si spostavano su obiettivi che erano poi di emancipazione: oggi invece sono proprio tematiche di
antropologia di liberazione reale, quindi cominciano a essere estremamente interessanti. Vediamo
se riusciamo a combinare tutta una serie di temi filosofici nel secondo numero e lì cominciamo a
mettere giù con questi compagni americani una serie di tematiche su queste cose, mettendo insieme
analisi delle lotte, analisi del lavoro ovviamente, analisi della riproduzione sociale, e poi dico
veramente antropologia del corpo, perché lì diventa fondamentale, nuova origine dei bisogni, queste
cose qui. Per esempio, che cosa significa salario oggi? Se di queste cose ne parli con Christian
Marazzi gli scappa persino da ridere, ti dice che il salario per gran parte dei vecchi svizzeri significa
le azioni che hanno lì, è questo il loro salario, è guardarsi alla mattina come sono andate ecc.; ma
anche in questi quartieri periferici qui intorno che fan paura, il Prenestino e via dicendo, non è
molto diverso. Io lavoro con un paio di comitati di fabbrica, ci divertiamo da morire a fare delle
cose bellissime (nel prossimo numero di Posse ci saranno queste analisi di fabbrica che sono molto
belle): allora vado lì e veramente ci sono questi qua davanti alle banche, ci sono gli schermi in cui
corrono i prezzi delle azioni e loro sono lì a guardarseli, a giocare, passano il tempo, guadagnano la
vita, cosa vuoi di più? Sono proprio felici.

- Tu prima dicevi che è aumentato in maniera enorme il livello dei bisogni, che il capitalismo
deve regolarsi su questo nuovo livello e non è detto che ce la faccia…

Non si tratta di bisogni, si tratta delle forme di cooperazione, che è una cosa diversa. Ci sono delle
forme di cooperazione che devono commisurarsi ai bisogni: per esempio, se io ho dei bisogni che
cominciano a diventarmi puramente intellettuali, è chiaro che ho bisogno e devo cooperare per
produrre in questi termini, cioè a livello di quelle che sono le mie capacità mentali. E se mi viene
negato questo, mi viene negata quella che è una cosa assolutamente centrale, fondamentale, una
cooperazione in divenire linguistico, ma poi vicino anche a questo è il divenire finanziario,
economico, materiale, tutto quello che c’è insomma. Quando si parla di nuove forme di
cooperazione si parla evidentemente del modo di stare nel sociale, di costituire il sociale. E quando
tu approcci questa necessità una delle caratteristiche assolutamente fondamentali di tutto questo è di
essere smisurato, nei due sensi: da un lato non è possibile farne misura, dall’altra parte è talmente
ricco da non poter essere adeguato alle misure attuali. C’è veramente una crisi di misura nello
sviluppo capitalistico oggi, ed una crisi di misura è una crisi fondamentale, centrale. Per battere la
classe operaia, per battere il socialismo il capitale ha fatto un salto in avanti mostruoso,
recuperandolo dai bisogni dei movimenti, dal rifiuto del lavoro in su: e a questo punto non è detto
che ci riesca, o comunque deve innovare la sua organizzazione in maniera enorme, l’ha già fatto
attraverso la globalizzazione, adesso bisogna vedere per il resto.

- Ma non pensi, però, che occorra considerare che questi bisogni derivano anche da una
sostanziale colonizzazione della soggettività di classe da parte del capitale?

Ma questo c’è sempre stato, non è mica male che ci sia: il capitale è mica una roba brutta, il capitale
è brutto quando comanda ma quando produce beni non me ne frega niente! Non sono assolutamente
ecologista io, proprio in nessun senso, o meglio lo sono in quanto certamente i bisogni ecologici
sono un’altra cosa, se tu rovini la natura non respiri più, io ho un’asma da morire, non ne posso più,
vado su e giù dalla galera e mi fa un male da morire, a questo punto veramente sono cose da
distruggere queste produzioni di miasmi: ma questo non è il capitale, è il comando, la Chiesa
produce altrettanti miasmi che il capitale.

- Nel contesto che delinei, ha secondo te senso parlare della soggettività politica? Cosa intendi
con questa categoria?

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A me sembra completamente inutile porsi queste domande, perché fin da quando l’uomo è uomo
sempre di più la soggettività c’è stata, cioè c’è quello che tira e quelli che vanno dietro. Questa
storia della soggettività politica mi sembra così banale e ovvia: che problema fa? Si è mai vista una
cosa diversa al mondo? No. E’ chiaro che ci vuole il soggetto, che ci vuole qualcuno che fa così: il
problema grosso è quello di definire i soggetti collettivi, e poi attorno ad essi ci saranno quelli che
tirano di più e quelli che tirano di meno. Così è sempre stata la vita: in una fabbrica ci sono quelli
che tirano e quelli che non tirano, a scuola è la stessa cosa. Il grosso problema è la forma nella quale
si esercita il comando, nella quale si decide. Qual è per esempio la forma in cui decide la
moltitudine? Qui ci sono grossi problemi teorici: e decide ancora nella forma dell’uno, come
pretende la filosofia classica e reazionaria da sempre, o decide in forma diversa, nella forma della
molteplicità? Adesso c’è la ciliegina, decide nella forma della rete: ma che rete, lasciatela stare
poverina, essa è una forma di comunicazione orizzontale, c’è sempre qualcuno che decide dentro o
fuori dalla rete. Allora come si decide, qual è la forma della decisione? L’analisi delle lotte, che
cos’era? Era capire chi l’aveva fatta partire la lotta, come, quale soggetto era intervenuto. Non esiste
il processo senza il soggetto: è vero che lo si può analizzare come se, ma se tu lo analizzi come se è
proprio per costruirlo coscientemente. Tutte queste storie della soggettività, dov’è il soggetto e via
dicendo, sono tutte robe da filosofi, astratte, che valgono se ne parliamo così tra noi, però quando
poi vai a vedere come vanno le cose in concreto il soggetto c’è sempre, il problema è che bisogna
identificarlo. Qual è in questa moltitudine il soggetto?

- Solo identificarlo o anche trasformarlo?

Certo, trasformarlo, come si trasforma. Mettendola in termini paradossali, qual è i leninismo di


quest’epoca? Io non so, il leninismo di quest’epoca può essere, non so, il luxemburghismo, ma
insomma diciamo solo delle cazzate se si ragiona così. Il problema è volta per volta di vedere come
vanno le cose. Ad esempio, io lavoro in queste fabbrichette, erano delle fabbricone che adesso sono
diventate delle fabbrichette, che sono passate da 15.000 a 2.000 persone e però producono tre volte
tanto: così allora vai a vedere questi operai dentro che ti dicono “il nostro gran problema è quello di
metterci assieme agli altri, fuori”. Poi hanno capito perfettamente che non è il problema di
ricostruire l’out-sorcing e di rimettere insieme i canali come se si trattasse di reparti distribuiti sul
territorio; no, dicono “con quelli più vicino, gli studenti della scuola tale, che sono quelli che poi
verranno più o meno a lavorare qui ma saranno comunque implicati nell’elettronica che noi
produciamo”. E lì immediatamente vedi che cosa vuol dire soggettività: soggettività vuol dire anche
la piccola cosa che poi ognuno di questi va a fare una conferenza nella scuola vicina, ma questa è la
piccola cosa che però aiuta a costruire tutte le altre. L’idea che il partito abbia in mano l’intera
complessità della serie degli elementi che conducono a un processo di trasformazione radicale è
un’idea da paranoici, è come dire “io sono Dio”; e la storia della rivoluzione e del partito bolscevico
spesso ce l’hanno presentata in questa maniera ma era una balla, perché in realtà ci sono tutti i
fenomeni che stavano attorno. Basta aver vissuto una fase rivoluzionaria, una sola, per capire la
complessità degli elementi che entrano in gioco: ma non la complessità fatta per confondere, quella
di cui parlano i postmoderni, ma quella invece degli elementi che convergono, che si attraversano e
che certe volte bisogna recidere, dove la dose di caso e la dose di volontà restano sempre. Questo mi
sembra che sia proprio l'ABC del Machiavelli, del “bignami” Machiavelli.

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INTERVISTA A TONI NEGRI – 15 OTTOBRE 2001

[- Un’ipotesi di questa ricerca è che negli anni ’60 e ’70 ci sia stato un numero molto limitato di
persone dotate di un’elevata autonomia di elaborazione e proposizione politica in grado di dare
una certa direzione; sotto ed in interrelazione con esse c’è stata una “committenza” forte
rappresentata dai movimenti, dalle lotte e dalla partecipazione diffusa. In mezzo si è formato un
ampio strato di intellettualità militante, che ha fatto da dinamica cerniera tra questi due livelli. Nel
momento in cui i movimenti sono declinati, perso il contatto con essi e con una certa direzione
politica, questo strato intermedio ha spesso ricollocato le controcapacità acquisite, finendo talvolta
per specializzarsi in ruoli in cui, se certo residua una qualche ambivalenza, sono però
prevalentemente collocati in una dimensione sistemica.]

[…] Ho l’impressione che però bisogna anche tener presente la modificazione intera non
semplicemente della composizione sociale di classe, ma anche in rapporto al politico: il quadro si
modifica completamente. Per esempio, il fatto che ci siano alcune persone di questo gruppo
intermedio generale così grosso (questi “commissari” rispetto ai committenti) che si perdono in
attività disparate, laddove il movimento ha resistito è stato proprio dovuto al fatto che tali
professionalità hanno per così dire costituito una nuova mediazione: insomma, funzionavano
proprio per esprimere queste cose, anche in termini di nuovi bisogni delle modificazioni avvenute.
Uno degli elementi assolutamente più interessanti di quanto avvenuto è il fatto che la partecipazione
alle istituzioni non è più stata una cattura del movimento da parte di esse, ma il contrario:
un’occupazione delle istituzioni d parte del movimento. Questa è una cosa veramente molto
importante, ma ciò dipende dal fatto che i partiti non hanno più la forza che avevano una volta;
dipende però anche dal fatto che il far politica come la facevamo noi (in termini in cui più o meno
c’erano dei margini di autonomia forte del politico, che poi erano istituzioni, soldi ecc.) è
abbastanza caduto, o meglio è certamente staccato dal movimento, che ormai non sai più dove
collocarlo. Subito dopo il ’79-’80 c’è stato un convengo a Venezia sull’Europa, io ero
completamente marginale, fuori, per di più eroi in galera, e dissi ai compagni: “d’ora in poi
occupatevi di istituzioni e imparate le lingue, l’unico terreno sul quale possiamo di nuovo costruire
è questo”. Dopo di che nella seconda metà degli anni ’80 sono cominciati degli incontri a Parigi in
cui ho insistito su questo aspetto, e oggi però ne sono contento, perché ho l’impressione che
effettivamente, se si può ricostruire qualcosa, noi dobbiamo veramente muoverci in questa fascia. Si
tenga presente poi quello che sta avvenendo: la tradizione del Partito Comunista Italiano, di cui
siamo stati orfani, è veramente finita, con il socialismo che si portava dietro e con tutto il resto; ma
è proprio scavata e strappata via, purtroppo. Per quanto ci riguarda ci abbiamo lasciato chi dieci chi
vent’anni di galera in questa storia. Sono stati loro che l’hanno scavata via oltretutto, quindi non
possiamo nemmeno avere delle reminiscenze positive.

- Il nodo, infatti, non è quello della rappresentanza o della mediazione, ma è quello della
progettualità contro, che allora si dava in un rapporto tra composizione tecnica e composizione
politica di classe, in un dentro e contro che aveva un senso politico. Oggi questo senso politico
del contro si stenta a vederlo, poi c’è anche un discorso di fase e di momenti, per cui magari
alcuni processi, se sono nuovi, devono anche avere il tempo di maturare e di assumere la forza
per potersi rappresentare, ma è difficile individuarli in una dimensione effettiva. Dalle
interviste che stiamo facendo si può formulare un’altra ipotesi peculiare: l’importanza
dell’operaismo (partendo dal primo, quello che si forma sul finire degli anni ’50 con i piccoli
gruppi locali) sta nell’essersi collocato in una fase particolare, quella dell’entrata ritardata
dell’Italia nel taylorismo-fordismo, portando in essa da una parte una lettura socio-economica
completamente nuova (in un momento in cui il Movimento Operaio era impantanato nel
ristagnismo e nella teoria dei monopoli), dall’altra parte e soprattutto individuando
nell’operaio-massa una figura non solo potenzialmente anticapitalista, ma anche in grado di

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muoversi contro se stessa. Da qui il fondamentale discorso della classe contro se stessa,
dirompente rispetto al lavorismo, al tecnicismo, allo scientismo, allo sviluppismo che hanno da
sempre caratterizzato la tradizione socialcomunista e del Movimento Operaio, formatasi sulla
figura dell’operaio di mestiere. Il grande limite dell’operaismo italiano sta nella mancata
rielaborazione di un progetto e di una proposta politica nuova, adeguata a quelle dirompenti
intuizioni e ipotesi contenute nella lettura socio-economica e nell’individuazione della
centralità dell’operaio-massa. Ci interessa, quindi, approfondire il nodo della politica e del
politico, intesi (usando le categoria del moderno) come gestione e come progetto di
trasformazione. Quanto tale ipotesi può secondo te essere feconda? Sulla base delle analisi di
queste esperienze trascorse, come si può oggi ripensare il nodo della politica e del rapporto
movimenti-progettualità?

Che questo sia stato e sia il problema mi sembra ovvio. Io sarei molto prudente comunque, perché,
quando si affronta questo problema, bisogna stare attenti a tenere presenti le condizioni nelle quali
poi di volta in volta è riemerso il problema. Quando si dice che la caratteristica primaria
dell’operaismo è di inserirsi in un movimento estremamente accelerato di ingresso dell’Italia nel
regime fordista e quindi di fatto di riuscire a criticare e ad anticipare le categoria del nuovo periodo
rispetto al Movimento Operaio, bisogna tener presente che questa velocità è continuata. Ed è fuori
dubbio che uno dei più grossi guai che abbiamo avuto negli anni ’70 è stato il fatto che le
formazioni armate, i BR per esempio, non si sono minimamente rese conto che il movimento era
altrettanto veloce, e che quindi la difesa e la resistenza dell’operaio-massa doveva praticamente
organizzarsi a fronte di una nuova composizione e dunque di un nuovo progetto politico. Quella che
è la trasformazione che è incominciata negli anni ’70 oggi è in atto interamente, e quindi anche su
questo bisogna stare molto attenti: quando si dice far politica, cosa vuol dire? Come al solito,
malgrado tutto io non sono mai stato un estremista, sono sempre stato un uomo di “centro”, e non
solo per scherzo. Per esempio, quando sono uscito di galera dopo essere tornato dalla Francia, mi
sono trovato con questi vecchi compagni romani di Luogo Comune che insistevano sulla
dimensione del politico. Ma la netta impressione è che non considerassero due cose: da un lato certo
bisogna cercare di esprimere un programma, che sia perlomeno minimale; ma dall’altra parte
bisogna tenere presenti quali sono i movimenti, le rotture e soprattutto i tempi, la temporalità
generale di questa situazione. Credo di non essere riuscito a lavorare con loro fondamentalmente su
questo, non erano piccole storie relative al fatto che ci si riferisce agli uni piuttosto che agli altri,
quanto invece il problema che loro secondo me non sanno fare politica, non perché non producono
programma, ma perché non mettono i programmi in relazione ai tempi di maturazione del
movimento. E questi tempi di maturazione del movimento non sono semplicemente tempi di
maturazione organizzativa, ma sono assetti e rapporti interni; gli eventi sono poi quei momenti nei
quali hai come la cartina di tornasole, la metti dentro e ti accorgi che le cose sono cambiate. Si
pensi, per esempio, al rapporto tra il movimento sociale e gli operai di fabbrica: c’è stata una fase in
cui i due termini si sono incontrati. Oggi è divertente che anche un riformista classico alla
Bergamaschi, al quale ho parlato uno o due mesi fa, dice: “non c’è niente da fare, i nuovi assunti in
Fiat sono molto più simili al movimento che ai vecchi operai”. Quindi, la situazione si è rovesciata:
la cosa divertente è che il movimento di Seattle ha rivelato quello che già si poteva senz’altro
capire. Allora, il problema di battersi per il salario garantito, per il reddito di cittadinanza, per
riempire il programma con questi punti, è una cosa che puoi fare nel momento in cui hai
interamente questa dimensione. Secondo me, la questione è molto semplice e su questo resto
operaista: non è il programma che configura il movimento, ma è il movimento che configura il
programma. Su questo non ci sono santi, tanto più oggi, dove veramente un luogo di avanguardia è
sempre più difficile da trovare, esso è una dinamica interna. Non c’è più luogo di avanguardia: nella
misura in cui si intellettualizza, la forza-lavoro si riappropria delle capacità di direzione.

- Qual è la differenza tra progetto e programma?

2
Sono parole, se ci si vuole mettere d’accordo chiamiamo programma un certo numero di
affermazioni, “la terra ai contadini” e via di questo passo, nella tradizione era questo. Il progetto è il
disegno, la tensione, il movimento. Poi bisogna capire da che punto di vista lo si guarda, perché si
potrebbe vederlo in termini puramente evoluzionisti o invece altrimenti in termini bergsoniani,
vitalistici, di tensione, o ancora futuristi. Quello che comunque è assolutamente centrale è vedere la
forza che agisce il programma dall’interno del movimento. E’ lì che nascono secondo me i veri
problemi, che sono praticamente le cose che dite voi: soprattutto oggi, una volta che la critica del
concetto di partito terzinternazionalista è stata fatta, probabilmente la grossa questione è vedere
come si istituzionalizza il rapporto di forza. Istituzionalizzare un rapporto di forza non è certo
l’ideale né l’obiettivo, però deve essere momento per momento una determinazione, qualcosa di
preciso. Da un tale punto di vista, per esempio, è fuori dubbio che la sconfitta degli anni ’70
dipenda da questo: da una sottovalutazione della capacità istituzionalizzatrice (a un certo momento
noi dovevamo mettere i piedi per terra), e da una sopravvalutazione della forza del movimento. Ciò
oltre ovviamente alla deriva estremistica che c’è stata. Secondo me, il problema grosso era quello di
fissare il doppio potere. Lì c’eravamo arrivati, soprattutto a Milano, si cominciava forse nel Veneto,
ma il capoluogo lombardo era allora senz’altro il momento più avanzato: eravamo riusciti a stabilire
un rapporto di egemonia anche sul movimento studentesco, su questa vecchio massa bruta e dura,
però poi le cose sono andate come sono andate, evidentemente non ce l’abbiamo fatta. C’è da dire
che noi stessi eravamo attraversati da pulsioni diverse e contraddittorie. Lì probabilmente era
completamente finita una capacità di direzione, perché i compagni si erano sparsi e via di questo
passo. Ultimamente mi è capitato di guardare i giornali di allora (io non li posseggo più, ma a
Balestrini è arrivata questa roba da Milano e ho dato uno sguardo): certo, c’era una linea dentro che
correva, c’era un progetto di quel tipo, ma vedevi proprio delle oscillazioni tremende di direzione
politica.

- Tu hai prima parlato, detta in altri termini, della composizione tecnica di una forza-lavoro che
nel processo produttivo eroga maggiori capacità intellettuali. Però, di per sé composizione
tecnica e composizione politica coincidono oppure no?

Oggi mi sembra che siano molto distanti. Composizione era anche un linguaggio che si era
depositato, erano delle istituzioni. Io penso a mio nonno, per esempio: è nato nel 1870, è venuto via
dalla campagna ed è arrivato a Bologna nel 1896. Lì è diventato operaio nei trasporti pubblici
interni che erano ancora a cavalli; è entrato immediatamente nelle cooperative, nel sindacato, è
vissuto a partire dagli anni ’10 in una casa delle cooperativa rosse. Poi c’è il fascismo, il figlio a cui
ne succedono di tutti i colori, c’è la fondazione del Partito Comunista. Questa è la composizione
politica, è una cosa maledettamente densa. Oggi che composizione politica si ha? Prendiamo un
ragazzo di trent’anni oggi, che composizione politica ha? Può essere un precario, magari è andato
su e giù dalla fabbrica, o è passato al terziario ed esprime questo tipo di forza-lavoro, certamente ha
un livello di bisogni, se è intelligente, sveglio e reattivo al rapporto di sfruttamento oppone una
gamma di desideri, ha un bisogno assoluto di cooperazione: probabilmente è questo il terreno, il
rapporto tra solitudine e complessità determina una reazione. Però, una volta detto questo, qual è la
composizione politica? E’ fuori dubbio che l’importanza del movimento di Seattle è stata il fatto
che ricomponeva: con il movimento di Seattle è la prima volta che si ricompone il ciclo. Quella
degli anni ’70 non è una sconfitta secondaria: questi rompono la composizione politica, rompono
quella tecnica, rompono il ciclo delle lotte. Quello degli anni ’60 è l’ultimo grande ciclo di lotte
moderno, come lo chiamo io, adesso siamo in questa fase post. Scrivevamo in Empire con Michael
Hardt che ci sono state delle lotte (da Tiananmen al Chiapas, dall’Indonesia ai movimenti francesi
dell’inverno ’95) tutte estremamente importanti, tutte ormai dirette contro il livello mondiale del
comando, e però erano lotte che una con l’altra non avevano niente da dirsi. Oppure si pensi alle
lotte dei neri di Los Angeles, che rivelavano queste sacche di terzo mondo che ci sono nel primo.

3
Ma non avevano nulla da dirsi l’una con l’altra: l’enorme e straordinaria importanza di Seattle è che
ricostruisce il ciclo. Infatti, questo è uno dei grossi problemi di oggi, perché il ciclo è uno degli
elementi fondamentali nella costruzione del linguaggio, e quindi della composizione politica, che
non è il rispecchiamento meccanico della composizione tecnica. Per esempio, la composizione
tecnica era mutata dall’operaio professionale all’operaio-massa, ma la composizione politica aveva
avuto una continuità: ed è probabilmente quello che noi avremmo dovuto fare negli anni ’70,
determinare la continuità tra il vecchio e il nuovo movimento, tra il vecchio movimento operaio e il
nuovo movimento che io allora chiamavo dell’operaio sociale, definizione per cui tutti mi dicevano
che ero un farabutto, una delle poche cose di cui ho orgoglio, l’orgoglio della teoria riemerge,
perché era vero, anche se la parola era assolutamente un bisticcio. Per quanto riguarda la
composizione politica oggi, il fatto che ci siano sempre queste centinaia di migliaia di persone che
in una maniera o nell’altra si mettono fuori può essere significativo. Su questo c’è il problema del
progetto, che a un certo punto può diventare una scommessa.

- A proposito del progetto che può essere visto anche come scommessa, un altro limite dei
percorsi operaisti sembra essere stato un certo appiattimento della politica sul discorso della
forma organizzativa. Dunque, non si sono esplicitati gli obiettivi, non intesi come
prefigurazione posta in astratto e dall’esterno, ma come grandi fini posti nell’interrelazione e
nella verifica continua con la processualità del movimento; si è invece ridotto il problema alla
ricerca di una forma che potesse essere adattata o contenere l’emergere della soggettivazione.

Mi sembra una critica corretta. Io ho un punto di vista pragmatico, forse perché sono sempre stato
schizofrenico: da un lato potevo fare teoria, dall’altra, però, sono continuamente stato un militante,
sono sempre stato dentro a queste storie, nel senso che mi sporcavo le mani. Certe volte anche da un
punto di vista teorico cercavo di mettere insieme le cose, certe altre, invece, scrivevo d’estate Marx
oltre Marx o su Spinoza, che non avevano nulla a che fare. Il nodo grosso è questo: la pesantezza
del lavoro morto su quello vivo, il rapporto tra il progetto organizzativo realizzato dal comunismo
internazionale e quella che era la nostra capacità invece di inventare una cosa nuova, e certamente
ci sono stati dei grossi errori su questo. Però, non si può pensare ad una situazione in cui potessero
vivere delle forme pure, e d’altra parte meglio i nostri errori che la mostruosità del trotzkismo
tradizionale: questi qui hanno forse una posizione di sinistra corretta e tante altre cose, ma
continuano a proporre lo stesso modello e di organizzazione e di progetto internazionale. Quindi, lì
ci sono stati senz’altro degli errori. Penso ad una serie di compagni che hanno sempre sostenuto
che, al di là della tematica dell’autonomia del politico, bisognasse riuscire a seguire meglio questo
aspetto: io sono d’accordo fino in fondo sia sul progetto sia sulla critica, però in concreto mi sembra
che non sia stata tanto la ripetizione della forma partito quella che ci ha bloccato, bensì il fatto di
non essere riusciti a rendere politicamente efficace il passaggio dalla vecchia alla nuova
composizione, nella quale eravamo fino al collo, nella prima e nella seconda, sentivamo la
discrepanza. A questo punto addirittura mi chiedo se l’ipotesi di Tronti e degli altri non fosse
cripticamente un tentativo di risolvere questo problema passando dall’altro lato; è evidente che il
giudizio che io potevo dare allora come oggi è completamente negativo, è evidente che l’esperienza
ha dato ragione ad una posizione esterna piuttosto che a una posizione interna, però c’è da dire che
laddove si è riusciti ad attenuare il contrasto, perlomeno quel poco di continuità che c’è stata si è
rivelata importante. Nel Veneto, per esempio, ciò è fuori dubbio: lo scontro tra linea picista e linea
di movimento, anche se è stato fortissimo a livello alto (il processo 7 aprile è stato fatto lì e non
altrove), a livello basso e sulla continuità in realtà è stato molto più attenuato. Ciò anche perché
probabilmente le istituzioni del Movimento Operaio erano molto più deboli, addirittura i sindacati li
avevamo creati noi: l’assurdo di questa storia, infatti, è che in realtà il sindacato nel Veneto
l’avevamo creato noi a partire dagli anni ’60, prima non c’era. Dunque, mi sembra che la questione
che ponete sia corretta, però non vedo l’alternativa. Si prenda un compagno come Faina, che
inseguiva questo problema di fare esprimere direttamente dal movimento la propria linea interna, e

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se ne fregava dei tempi: tuttavia, la realtà non marciava a questa maniera, dietro c’era un po’
un’illusione di continuità, quasi ci fosse una sorta di forma formante all’interno del movimento;
probabilmente questa c’era, però si scontrava con altre realtà. Faina ha finito per muoversi tra un
quadro teorico situazionista e una pratica armata, una pratica dell’evento, in una situazione che era
disperata. Sono stato 6 mesi con lui a Palmi, nel periodo in cui ha cominciato ad ammalarsi, erano
momenti terribili. In più c’erano i brigatisti che continuavano a dire che faceva la spia, i carabinieri
che lo chiamavano per fingere di farlo parlare, e si può facilmente pensare a cosa voglia dire in
carcere chiamare fuori un detenuto 3-4 volte: tra gli uni e gli altri l’hanno massacrato. Mi ricordo
che effettivamente era in questa situazione, adesso non voglio assolutamente attribuirgli nulla, ma la
mia impressione è che lui sentisse fortemente questa terribile frizione. E poi le malattie arrivano
sempre in certi momenti, questa sarà un’affermazione molto poca scientifica ma è così.

- In Empire tu sembri fornire una grossa rilettura di quella che è la dimensione capitalistica.

Non mi pare così, lì io invece utilizzo proprio uno schema classico dell’operaismo: il capitalismo
risponde alle lotte operaie. Il capitale è un rapporto, il capitale risponde alle lotte operaie e l’impero
è la risultante di due grandissimi processi: uno è quello delle lotte operaie, che dimostrano che lo
spazio dello Stato-nazione non è più capace di regolazione, la spinta sul salario è tale da
determinare inflazione generalizzata; a partire da questa esiste o la repressione, che non è possibile
in un regime taylorista, o il controllo monetario ad un livello più alto, e quindi il superamento intero
della situazione dello Stato-nazione. L’altra grande pressione è quella delle lotte anticoloniali, che
veramente premono in maniera pesantissima impedendo al capitale la possibilità di scaricare le
contraddizioni a quel livello. Quindi, c’è la necessità di costruire degli strumenti di controllo
mondializzati: l’impero non è il mercato globale, è la costruzione di strumenti di controllo a quel
livello. Dal punto di vista capitalistico ovviamente c’è la valutazione del cambiamento
dell’organizzazione del lavoro, ma è soprattutto la conseguenza di queste cose, quindi c’è l’asse e la
forma biopolitica, in cui il rapporto fra comando capitalistico e in generale forza-lavoro nelle sue
diverse articolazioni è effettivamente molto legato a quella che è la gestione dei ritmi vitali delle
forme di vita. E’ nelle forme di vita che oggi comincia a riassumersi sia il lavoro attivo, sia la
riproduzione (quindi i consumi), sia la forme di immaginario, e via di questo passo. Quindi, c’è
un’insistenza molto forte sulla struttura biopolitica. Evidentemente, a questo punto, c’è l’altro
passaggio da fare che è quello nel biopotere, cioè cosa fanno questi nella situazione attuale: io
comincio ad essere preoccupato, sono capaci di avvelenare il mondo. Questo capitalismo è
veramente un po’ nella merda, non è che abbiano moltissime strade. Anche perché effettivamente il
rinnovamento informatico della produzione ha costruito un mercato enorme nella prima fase, ancora
grandi spazi di apertura, ma poi diventa reale solo quando anche questo si concretizza, cioè si lega
alla struttura della produzione e della riproduzione: gli ordinatori non sono mica semplicemente
Internet e idee che girano, si avrà il frigo con gli ordinatori dentro. Dunque, questi sono spazi
enormi, ma questo capitale prima o dopo ridiventa fisico: l’ordinatore si ricollega al frigo o
all’automobile o agli aeroplani (speriamo il più tardi possibile, perché a quel punto non ci vorrà più
neanche il kamikaze suicida!). In un articolo del Corriere della Sera di oggi dicono che un missile
che è caduto su un quartiere di borghesia afghana (quel poco che ancora esiste) è stato un errore
umano, dovuto ad uno che gira una rotellina, come quella dei timbri di data: è così che secondo loro
è andata la cosa, spiegazione che è insieme atroce e stupida.

- Come analizzi il nuovo quadro internazionale che si va configurando dopo l’11 settembre e
l’attacco all’Afghanistan?

Evidentemente c’è il tentativo americano di mettere le mani sulla regione, che è sempre stata il
ventre molle del capitalismo internazionale, in questo mescolamento di interessi. Lì c’è una classe
dirigente ignobile, costruita dal colonialismo, Bin Laden ha datato la cosa dicendo “sono

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ottant’anni, esattamente dalla fine dell’Impero Ottomano nel 1920”. Se non ci fosse Israele la
situazione avrebbero potuto metterla a posto, modificandola man mano con i soliti giochi delle
rivoluzioni più o meno progressiste, mandandoci i loro laureati di Harvard a dirigere quei paesi,
costruendo degli strati di borghesia produttiva, ricostruendo gerarchie. In realtà, si trovano in una
situazione che è assolutamente pazzesca, perché l’unico ricambio che hanno, malgrado tutto, è
proprio quello di questa classe operaia alta, professionalmente molto capace, costituita dai
palestinesi: su tutto il Golfo Persico quando non sono i palestinesi sono gli iraniani. Quindi, si
trovano in una realtà completamente folle a questo punto, e l’hanno costruita loro. Si pensi poi alla
situazione in Pakistan, non so veramente cosa andrà a succedere lì. Quello che è sicuro è che
veramente la guerra diventa in maniera diretta l’elemento fondamentale di razionalità del governo;
ed è una guerra civile endogena all’impero, perché non è più una guerra tra nazioni. E’ proprio il
concetto stesso di guerra che finisce. Tutta la storia dello scudo spaziale, ad esempio, è molto
divertente, perché parte da un interesse nazionale americano che è posto contro l’interesse
repubblicano di partecipare all’impero, se si vuole i liberali e i conservatori negli Stati Uniti si
battono su questo: il progetto di dominio capitalistico è intero, solo che gli uni vogliono farlo
contrattualmente, e gli altri vogliono farlo come nazione. Quindi, c’è evidentemente un grosso
gruppo politico-industriale che vuole creare lo scudo perché cerca di mantenere l’idea dell’insularità
americana. Poi gli arrivano quegli aerei, oggi maledetti ma dentro un’astuzia della storia strana,
dato che gli fanno capire che questa insularità non esiste più. Si trovano a dover cambiare strategia,
perché su ciò loro si erano costruiti: il conservatorismo americano è stato sconfitto in una maniera
folle da quei due aerei. A questo punto devono dare una figura nazionale a un progetto che era
repubblicano. Io poi penso che ci sia dietro anche un’altra faccenda che verrà usata, non è
sicuramente dentro all’11 settembre ma sarà una delle sue conseguenze, e riguarda la costruzione
dell’Euro. Questa era qualcosa che agli americani non andava proprio giù, e d’altra parte a partire
dagli anni ’60 ogni volta che c’è un avanzamento nella costruzione europea c’è una crisi petrolifera:
di ciò se ne può stare sicuri, senza fare il nostradamus c’è veramente una coincidenza assoluta. E
adesso, infatti, daranno una botta, per le fabbriche di beni di consumo europee sarà un’altra grande
crisi.

- In questo scontro tra capitalismo americano e capitalismo islamico, mancando altro, la Chiesa
rischia di essere il terzo incomodo.

Solo che la Chiesa in questo momento è completamente paralizzata, dipende tutto dal risultato di
che cosa accadrà. C’è il portavoce del papa, dell’Opus Dei, che dice certe cose, poi immediatamente
il papa dice che non è vero, Ruini dice altro: dalle serie di posizioni contraddittorie si capisce che lì
la lotta è completamente aperta, non si sa mai. Qui sta veramente cambiando tutto.

- Quanto avvenuto l’11 settembre e in seguito è indubbiamente stato un pesante macigno per i
grossi spazi di movimento e di dibattito che si erano aperti soprattutto dopo Genova.

Ciò è fuori dubbio, però ho l’impressione che su questo ci siano possibilità di rilancio. Qui, ad
esempio, c’è il gruppo di ragazzi con cui faccio Posse, lavorano all’università e sono quelli che
hanno diretto le lotte l’anno scorso: sono tutti ottimisti, la cosa assolutamente fondamentale è quella
di riprendere questa soggettività politica. Infatti, adesso probabilmente si riesce anche a recuperare
una serie di “vecchi”, diciamo così, perché la cosa sta ripartendo: tra l’università, quelle due o tre
situazioni operaie importanti inserite sul territorio, che io ho seguito direttamente l’anno scorso, c’è
forse la possibilità di mettere in piedi niente di più che una produzione nuova di soggettività, perché
questo è assolutamente fondamentale. Poi il problema però non resta lì, perché la questione non è
quella di produrre soggettività come nostre piccole macchinette, ma è quella di far partire delle
grandi matrici, e questo Genova poteva esserlo. Sono per certi versi d’accordo con le critiche alla
gestione politica, però è anche vero che senza alcuni di quei difetti e di quei limiti sarebbe stato

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molto difficile arrivare alla situazione genovese, ti avrebbero attaccato prima. Io non credo che lì
fosse possibile inscenare direttamente quello che è un motore di riproduzione politica.

- Oggi c’è lo spazio che si apre nell’ormai probabile tracollo dei DS, perché lì la lotta è tra
quelli che cercano di resistere 5 anni sperando nell’alternanza di governo e chi vuol provare a
cambiare qualcosa ma in termini parecchio confusi. Quindi, c’è chi può pensare di ricoprire, in
termini di presenza sociale e istituzionale, gli spazi che resteranno vuoti conseguentemente a
questo probabile tracollo, muovendosi tra un certo riformismo, affrontando i nodi del rapporto
tra istituzioni, politica e movimenti.

Certamente il problema grosso, secondo me, è come gestire la crisi sociale dei DS in termini che a
me piace chiamare di esodo: per creare una nuova sinistra, che non abbia più nulla a che fare con
quel socialismo.

- Tutto il dibattito che c’è stato storicamente tra spontaneità e partito ha sempre rischiato ed
ancor di più oggi rischia di essere ridicolo. Infatti, non può essere posto in una dimensione
ideologica: uno non può non tener conto e non sviluppare la spontaneità e non far interagire
con essa una dimensione di proposta politica, poi di organizzazione e via dicendo. Allora, la
capacità sta nel mutare ogni volta questo rapporto e di portarlo avanti rispetto a quella che è la
dimensione circostante. E’ come quando si gioca a calcio: quando tu guardi solo la palla, non
hai la visione di come giocarla; se tieni solo lo sguardo avanti, perdi subito la palla.

Bisogna anche capire che ci sono campi differenti, ci sono quelli più larghi e quelli più stretti.

- Il problema è di avere uno sguardo che permetta di cogliere in prospettiva i terreni su cui tu
puoi aprire ed il capitale invece non riesce ad avere iniziativa. Poi nell’immediato uno può far
finta di essere per la spontaneità contro l’organizzazione, però se non si riesce a coniugare i
due elementi un discorso politico non lo si può reggere.

Questo è evidente, però il problema grosso è l’altro, cioè fino a che punto l’organizzazione riesce a
tenersi dentro questo rapporto, in quanto è ovvio che la spontaneità vada sempre spinta. Pensando a
Genova, secondo me i grossi casini erano nati altrove, a Praga, con l’accettazione implicitamente
fatta della divisione dei cortei: quella era una forma di collaborazione effettiva con la polizia,
perché a quel punto li invitavi ad andare a picchiare quelli neri, per la polizia era un divide et
impera. Per esempio, è stato importante il fatto di aver tenuto molto duramente sull’unità dei cortei,
anche per quanto riguarda i servizi d’ordine è stato molto significativo dire “no, non lo facciamo,
perché se no significa creare specializzazioni”. Lì la battaglia l’ha persa la polizia, perché sono
veramente stati qualificati come assassini.

- Sia da parte del movimento sia da parte della polizia è stata sottovalutata la forza sociale, i
comportamenti e la quantità di persone che sarebbe scesa in piazza a Genova.

A Parigi ho fatto tante manifestazioni, ed in una situazione metropolitana puoi stare sicuro che c’è
un 2% che si scatena. Nei 50-60.000 che a Parigi costituivano la media delle manifestazioni di
movimento, tu avevi fino alle 2-3.000 persone che spaccavano tutto: sono cose che qualsiasi
poliziotto al mondo te le racconta. Se poi c’è una volontà minima anche di fare provocazione, cosa
che il governo aveva, ci si può immaginare cosa succede.

- Quali sono stati i numi tutelari nel tuo percorso di formazione? Quali sono gli autori più
significativi e di riferimento con cui confrontarsi, anche criticamente, per i nodi politici aperti
nell’attualità, soprattutto per quanto riguarda la questione della politica?

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Per quanto riguarda la mia formazione, la cosa strana è che ci sono Bruno e Spinoza quasi da subito,
dalla prima o seconda liceo. Poi ci sono le cose fondamentali per quella generazione: Hegel e Marx,
saltando Gramsci. Su Gramsci e sui sacri testi del comunismo italiano io arrivo molto tardi. Poi c’è
la scuola di Francoforte, dopo Lukàcs. Ce ne sono talmente tanti, che è facile confondersi. Poi c’è la
seconda mia rieducazione che passa attraverso i francesi, Deleuze e Foucault fondamentalmente:
ciò attorno al ’68, quando avevo già 35 anni. Diciamo che passo dalla Germania alla Francia.
Oggi sulla questione della politica io ho l’impressione che marciamo maledettamente da soli, è
proprio difficile trovare dei riferimenti. Negli Stati Uniti non c’è quasi più nulla, e oltre tutto non
c’è quasi niente neppure dal punto di vista della destra. L’altro giorno ho fatto per Alias una
recensione su Rawls: quando mi hanno mandato i libri, sono rimasto stupito dal fatto che non fossi
minimamente curioso. I saggi li conoscevo già, a parte Il diritto dei popoli: questo è un libro
reazionario, neanche più pieno di quella freschezza teorica che c’era prima. In Germania è finita,
Habermas è proprio finito: quando ne parlo con i miei amici e compagni mi dicono che non c’è più
niente, è un deserto. Si tenga presente che c’è anche una censura e un blocco dal punto di vista
editoriale che diventano sempre più massicci, e non è una cosa secondaria; poi il risultato della
diffusione culturale che avviene attraverso la televisione è tremendo. Infatti, c’è stato questo
stranissimo successo di Empire negli Stati Uniti, che è una cosa che nessuno si spiega: è un libro
che è diventato un best-seller fuori da qualsiasi ragione. Probabilmente ci sono un paio di malignità
che io posso dire: il fatto di non essere un libro antiamericano, poi di avere introdotto queste due o
tre parole (impero, moltitudine…) che le trovi dappertutto. E’ un libro che dice delle banalità, che
però nessuno diceva, e le dice in maniera garbata: in realtà nessuno capiva molto bene che cosa
dicesse. Per esempio, di questa storia dell’operaismo che ci vive dentro adesso se ne stanno
accorgendo: ora iniziano ad arrivare le recensioni dei giornali di destra, quelli fascisti proprio, che
dicono “questo qui è stato nel gruppo che ha ammazzato Moro”, riagganciano il terrorismo, con
queste bugie incredibili. Oggi ci sono un sacco di cose che sono buone dal punto di vista
specialistico, anche sul terreno degli studi globali ci sono ad esempio degli indiani interessanti: sto
leggendo due bei libri di Chakrabarty e Mittelman. Però, niente di più che questo: di libri belli ad
alto livello e di alta qualità universitaria ne trovi un po’ dappertutto, e non conformisti, anzi. Però,
non ci sono grossi personaggi cui fare riferimento. In Francia, dopo la morte di Foucault, Deleuze e
Guattari, i quali si suicidano (ed è la tragedia di questa storia) tra il principio e la metà degli anni
’90, non c’è più molto. In Italia chi c’è come riferimenti? Assolutamente nulla.

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INTERVISTA A GIANCARLO PABA – 7 SETTEMBRE 2001

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e le eventuali figure di riferimento
nell’ambito di tale percorso?

Considero la mia storia personale come una storia abbastanza minore rispetto a quella di altre
figure, più tranquilla da un certo punto di vista, meno drammatica, forse persino più felice.
L’impegno politico e culturale nasce quando ero uno studente fuorisede che veniva dalla Sardegna,
iscritto alla facoltà di Architettura, arrivato qui a Firenze nel ’65-’66, poi bloccato per motivi di
salute per un anno. Quindi, i primi incontri con la politica vengono grosso modo prima del ’68, già
nel ’67 con la partecipazione ad una serie di attività che ora non saprei ricostruire in tutti i dettagli,
non avrei la memoria per farlo: in quel periodo erano sui temi delle lotte studentesche, ma anche su
altre questioni, quella del Vietnam in particolare. Come ambito di riflessione più collettiva c’era il
circolo “Che Guevara”, del quale facevano parte prevalentemente studenti universitari e intellettuali
che vivevano a Firenze: non aveva una connotazione operaista, diciamo che era un luogo di
riflessione su quello che accadeva nel mondo. C’erano suggestioni internazionaliste, attenzione per i
problemi della rivoluzione nel Terzo Mondo, come allora era consentito chiamare. E c’erano anche
le prime forme di organizzazione studentesca nella facoltà di Architettura, che è stata dalla fine
degli anni ’60, negli anni ’70 e ’80 la facoltà trainante del movimento politico studentesco a
Firenze, assieme a quella di Lettere ma con connotazioni diverse. Infatti, una parte del movimento
degli studenti di Architettura sarà fino ai primi anni ’70 legato a Potere Operaio in modo organico,
nel senso che i leader del movimento studentesco di Architettura erano tutti aderenti a PO. Dovessi
citare dei riferimenti, naturalmente ci saranno state in quel periodo le letture che si facevano più in
generale nell’ambito della sinistra giovanile; però, se dovessi ricordare un flash, forse è quello delle
grandi manifestazioni che c’erano state nel ’67 e poi nei primi mesi del ’68 sul tema del Vietnam.
Questo tema è stato importante in quel periodo, come catalizzatore organizzativo e politico. Un
flash nella memoria, un episodio che è stato per molti importante, è riferito ad una famosa
manifestazione che si svolse a Firenze, che si concluse in piazza Strozzi e alla quale partecipò
Franco Fortini, il quale finì l’intervento dicendo “guerra no, guerriglia sì”, che poi diventò uno
slogan diffuso nel movimento. Fu una specie di scossa politico-poetica, perché prima di arrivare a
quello slogan non ricordo cosa Fortini disse, però rammento che fu un intervento appunto insieme
poetico, galvanizzante e motivante.
Non ricordo bene i passaggi organizzativi, che tendo a dimenticare; però, al circolo “Che Guevara”,
che si riuniva in qualche cantina o in qualche pianoterra verso la fascia ottocentesca dei viali,
partecipavano molte persone che poi avrebbero assunto un ruolo nel movimento studentesco e nelle
organizzazioni operaiste. All’interno di quel movimento c’erano anche alcuni personaggi che erano
più grandi di me (bastavano 3 o 4 anni allora per sentire una differenza), e quindi provenivano da
esperienze differenti, cioè avevano svolto lavoro politico negli anni ’63-’64-’65. Si tratta di soggetti
organicamente più legati al movimento operaista, conoscevano Alquati, il gruppo torinese e veneto,
ed erano Lapo Berti, Claudio Greppi, ma non solo loro, c’erano Franco Gori, Guido De Masi (che
diventerà direttore della Fondazione Michelucci e poi morirà ancora giovane) e altre persone. Il
gruppo di Potere Operaio si formerà successivamente, non ricordo bene quando, credo subito nel
’68, e manterrà sempre questa doppia articolazione al suo interno, data appunto dall’unione di due
percorsi: un percorso di derivazione operaista, impersonato da Lapo, da Claudio e poi da altri più
giovani che facevano riferimento a loro, e da un gruppo di persone più giovani di età che
provenivano dal movimento studentesco. Il leader di questo secondo filone era Michelangelo
Caponetto, e vi appartenevamo io, Giovanni Contini, Francesco Pardi, tra quelli che avete
intervistato, e molti altri. Potere Operaio fiorentino nasce un po’ dalla combinazione di queste
esperienze, la cui convivenza non è stata sempre pacifica. Nella terminologia semplificata di quel
periodo il gruppo chiamiamolo operaista (anche se poi eravamo operaisti tutti, ma diciamo il gruppo

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più anziano, legato anche ad esperienze nazionali) era la destra del Potere Operaio fiorentino,
mentre il gruppo proveniente dal movimento studentesco era la sinistra. Quindi, anche i riferimenti
nazionali seguivano questa logica: il gruppo che aveva già una tradizione intellettuale, letture più
sistematiche, ragionamenti che avevano trovato espressione in Quaderni Rossi, Classe Operaia,
faceva più lavoro di riflessione e anche di organizzazione del pensiero politico; invece, il gruppo
che proveniva dal movimento studentesco è stato sempre legato alle attività di lavoro politico
diretto nelle occasioni che allora si presentavano, nelle università ma anche nelle fabbriche che
erano allora dei punti di intervento, la Pignone, la Galileo, alcune altre fabbriche dell’hinterland di
Firenze e di Scandicci. In realtà, da un punto di vista organizzativo, il gruppo che proveniva dal
movimento studentesco ha sempre controllato Potere Operaio, con una dialettica un po’ dura: per
quello che valevano allora gli esecutivi, i segretari, il gruppo movimentista ha sempre controllato
l’organizzazione. Tra l’altro quello di PO fiorentino era un gruppo relativamente grosso, mentre i
gruppi di Potere Operaio nazionale non erano molto consistenti, tranne quello romano. Noi eravamo
abbastanza simili ai romani perché, così come Piperno, anche noi provenivamo dal movimento
studentesco. In parte ciò valeva anche per Bologna, ma in misura minore, perché lì il movimento era
molto più frastagliato e in ogni caso non era controllato da Potere Operaio. Erano comunque queste
tre le sedi nelle quali la presenza di PO si poteva definire di massa, senza esagerare, perché a
Firenze c’era pure una forte presenza di Lotta Continua.
Nel corso del ’67-’68-’69, ma direi fino al ’72, il ruolo della facoltà di Architettura è stato centrale
nelle lotte fiorentine, a livello studentesco ma anche come polmone e luogo di organizzazione e di
formazione. Durante una lunghissima occupazione del ’68, una delle più lunghe in Italia,
Architettura è senza dubbio stata un luogo di formazione politica. Questo processo di formazione
funzionava così: i più giovani avevano un ruolo di riferimento organizzativo, politico nei confronti
del movimento, e le persone più anziane (alcune delle quali lavoravano anche nel campo
dell’architettura e dell’urbanistica, come Claudio Greppi, Raimondo Innocenti, e altre persone meno
conosciute ma che erano legate per amicizia e per affinità culturali al gruppo degli operaisti)
avevano una funzione di orientamento del pensiero. Quindi, i primi momenti di consolidamento di
forme di riflessione politica più matura e organizzata avvenivano in seminari ai quali partecipavano
appunto Greppi e altre persone che venivano da fuori, con temi certamente derivanti dal pensiero
operaista, ma che venivano declinati in modo tale da incontrare pure gli interessi degli architetti, e
quindi in quelle parti che riguardano l’organizzazione del territorio, della città, il tema della
pianificazione. Per esempio, gli scritti di Alquati sul piano, che riguardavano il tema della
pianificazione in fabbrica, venivano declinati ed estesi al tema della pianificazione della città, della
società, venivano letti come una sorta di cornice di pensiero e intellettuale che poteva poi produrre
ricerche sulle questioni della casa, in generale dell’organizzazione del territorio ecc. In parte ciò
avveniva con alcuni scritti di Greppi, uno scritto di Pedrolli, che era un docente della nostra facoltà
che ha fiancheggiato per qualche anno il movimento senza condividerlo del tutto, e che aveva scritto
un articolo sui Quaderni Rossi. Ho ancora vecchi materiali di quel periodo che risentono di quel
modo di parlare e di riflettere, anche se quel tipo di produzione politica e intellettuale era
un’affiliazione indiretta del pensiero dei Quaderni Rossi e probabilmente avveniva all’oscuro dei
Quaderni Rossi medesimi: era una specie di produzione locale di pensiero critico sul tema della
città e del territorio che assumeva alcuni paradigmi di quella letteratura come paradigmi di
orientamento.
Un effetto possibile di questo cortocircuito tra il pensiero operaista e questa caratterizzazione del
gruppo di militanti fiorentini nell’ambito della facoltà di Architettura ha portato a delle esperienze
interessanti nell’organizzazione della città, a varie iniziative sul tema del rapporto fabbrica-
quartiere, fabbrica-città, a partire da un’azione di fiancheggiamento politico-organizzativo di
contraddizioni sul tema della casa, le lotte del cosiddetto centro sfrattati, cose particolarmente acute
a Firenze in quel periodo anche se non come oggi. E’ anche vero che si trattava di temi su cui
lavoravano tutti in quel periodo, da Potere Operaio a Lotta Continua ad Avanguardia Operaia.

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Diciamo che c’era un orientamento verso i temi che si possono chiamare “urbanistici”, abitativi e di
organizzazione della città, che sono sempre stati una componente del gruppo di persone che
ruotavano attorno all’organizzazione di Potere Operaio a Firenze. Naturalmente questo ha portato
anche nei rapporti nazionali a privilegiare e consolidare relazioni con alcune figure particolari: per
esempio, iniziava già allora un primo rapporto con Alberto Magnaghi, e saranno quelle relazioni che
poi porteranno all’esperienza di Quaderni del Territorio. La rivista nasce essenzialmente
dall’azione di Alberto Magnaghi a Milano e a Torino, dal libro Città fabbrica, che mi pare sia del
’68. Quindi, il gruppo di Firenze partecipa a questo percorso, anche se non in un ruolo così
importante come quello di Milano: comunque scriviamo alcune cose, facciamo una ricerca anche
noi sugli argomenti legati al tema della città-fabbrica, contribuiamo alla rivista e a quel filone di
studi fin dai suoi inizi.

- Quali sono stati, secondo te, i limiti e le ricchezze dei percorsi che hai qui tratteggiato?
Quanto tale analisi può essere utile nell’individuare dei nodi aperti nel presente?

Fino a tutto il ’71 io do un giudizio molto positivo del nostro lavoro all’interno di Potere Operaio,
anche dentro il filone operaista nazionale. Col senno di poi in molte riflessioni sul passato si vedono
solo gli errori: però, l’esperienza che avevamo messo in piedi aveva alcune connotazioni di
saggezza di comportamento, di capacità di interpretazione meno ideologica dei bisogni dei referenti
del nostro lavoro, in particolare gli studenti, una capacità anche di coinvolgere studenti disagiati,
quelli poveri, di motivarli. Ora non so bene come spiegarlo, però diciamo che nel lavoro fatto in
quel periodo riuscivamo a mantenere aperta l’idea (che allora ci sembrava ragionevole) di una
prospettiva di cambiamento rivoluzionario della società, agendo in modo positivo in questa
direzione; ma ciò era temperato da una saggezza pratica nel lavoro politico quotidiano,
positivamente condizionato direi dalle esigenze concrete del movimento. Il nostro movimento ha
sempre avuto la capacità di parlare alle persone, di essere riconosciuto come interlocutore affidabile
anche al di là del gruppo, anche al di là della formalità politica e organizzativa. Avevamo duttilità di
pensiero, una certa capacità di lavorare i concetti e le teorie direttamente nel lavoro politico. E io
direi ciò sia per quanto riguarda gli studenti, in modo prevalente (quella studentesca era in realtà
l’attività più significativa), sia in qualche esperienza di contatto con le fabbriche, anche se il loro
coinvolgimento si è svolto a Firenze sempre e solo a livello di avanguardie e di piccoli gruppi che
avevano a loro volta un rapporto positivo con un quadro più ampio di operai, però non era
confrontabile il lavoro che si faceva nelle fabbriche fiorentine con quello di altre situazioni
nazionali. La capacità di lavoro saggio e la saggezza nel gestire il rapporto con i soggetti dell’azione
politica ha fatto di Firenze per un certo periodo un piccolo punto di emigrazione e di prestito di
alcuni militanti in situazioni di carenza di attivisti politici. Per esempio, un gruppo di fiorentini ha
lavorato per alcuni mesi e forse anni a Torino: era una sorta di prestazione fornita a PO nazionale
che in genere aveva scarsezza di militanti nelle sedi che non avevano un rapporto positivo con
situazioni di massa. Lavoravano a Torino un mio amico molto caro come Giovanni Cossu, e poi
Paolo Albani, Pietro Laureano e anche altre persone. Giovanni Cossu, che come me veniva dalla
Sardegna (abbiamo fatto una vita assieme), era un grandissimo militante davanti alle porte delle
fabbriche, all’altezza di quelli di Lotta Continua, cioè capace di fare capannelli, comizi volanti, di
parlare e convincere, anche di declinare il linguaggio di Potere Operaio (che è sempre stato molto
difficile) in modo che fosse comprensibile, con la capacità di entrare in contatto con i sardi di
Mirafiori o con i meridionali o con gli altri. Un simile prestito di un nostro gruppo di militanti (uno
dei quali era sempre Giovanni Cossu, che era il più bravo di tutti in questo tipo di operazioni, ma
anche Flavia, la più bella donna di Potere Operaio fiorentino e altri) lo facemmo a Napoli, e anche lì
i nostri compagni funzionavano a tempo pieno. Questa cosa può sembrare banale, ma vista col
senno di poi è significativa; ciò è probabilmente all’origine di un’idea del gruppo di Potere Operaio
e in generale dell’ambiente fiorentino come meno rilevante da un punto di vista dell’impulso dato al

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pensiero politico alto rispetto a Padova, dove c’erano Ferrari Bravo, Toni, Gambino e tutti gli altri,
rispetto a Torino, a Milano o a Roma con Piperno. Il gruppo di Firenze veniva considerato più
pragmatico, se si vuole anche meno colto, meno teoricamente attrezzato: però, aveva questa
connotazione intanto più di massa, perché eravamo tanti in un certo periodo, forse ad un certo punto
qualche centinaia proprio come militanti, ma ciascuno con situazioni che ci consentivano di avere
come riferimento nella città un insieme di realtà significative a livello di “massa”. Questo era un
aspetto di saggezza che secondo me c’è sempre stato, fino direi al ’71-’72, e cioè fino a che
funzionò dentro Potere Operaio il gruppo di persone più giovani di Greppi, di Lapo e degli altri, ma
meno giovani di quelli che sarebbero venuti dopo. Il gruppo era collocato su posizioni radicali,
quindi faceva parte della sinistra di PO: gli piaceva Toni quando Toni era di sinistra, gli piaceva
Piperno quando era più cattivo di Toni, ma a un certo punto facevamo più riferimento al primo che
al secondo. C’era una tensione verso una visione chiamiamola rivoluzionaria in quegli anni, che
però questo gruppo intermedio ha sempre tenuto con saggezza. Invece, quelli più giovani ancora
hanno poi imparato la lezione in modo più radicale, e allora tra il ’71 e il ’72 nelle stesse situazioni
nelle quali, anche positivamente, si incarnava l’attività che facevamo allora (in alcuni quartieri
degradati, in alcune situazioni più spinte) è probabile che si sia anche formata una tensione
sotterranea verso pratiche più aggressive e successivamente forse più armate. Queste sono poi
sfuggite, però appena prima di scomparire Potere Operaio è stato forse in contatto con queste
situazioni: ma non so dire molto di questo, perché il gruppo di persone di cui ho raccontato ora la
storia ha sospeso il proprio ruolo dirigente proprio in quel momento, si è fermato, lasciando ad altri
la responsabilità organizzativa del movimento. Non era possibile neanche fare altrimenti, perché
non venivamo più riconosciuti come riferimento: forse eravamo troppo saggi, abbiamo mantenuto
quella saggezza anche in quel periodo, e forse per questo siamo stati accantonati, almeno io sono
stato accantonato. E quindi in modo naturale siamo poi stati fuori dal terrorismo, dalla diaspora di
alcuni nostri militanti nelle formazioni che hanno praticato la lotta armata, qui con qualche
iniziativa non così drammatica (ma qualcuna sì, qualcuno dei più giovani è entrato nella cronaca
nazionale). Abbiamo subito anche noi il 7 aprile qualche mese dopo, il 21 dicembre è stato infatti la
sua coda fiorentina, siamo stati inquisiti tutti: non siamo stati arrestati perché a Firenze non c’era
Calogero, e perché tutto sommato i magistrati inquirenti avevano una rappresentazione abbastanza
esatta di cosa accadeva, sapevano bene chi faceva che cosa, e quindi avevano un quadro piuttosto
preciso delle responsabilità. Questo è il motivo per cui nessuno di noi è stato in carcere, tranne il
periodo in cui Michelangelo Caponetto è stato arrestato per una sciocchezza di movimento, in
quanto denunciato da un professore. Ma nessuno di noi, di quelli che non passeranno alla lotta
armata, finirà dentro; andrà in galera qualcuno degli altri, ma si tratta di altre storie che poi hanno
raccolto flussi diversi. Io quindi so poco di questo periodo, di che cosa in altre sedi in rapporto a
questo passaggio significativo abbiano fatto Oreste o Toni o altri.
Gli sviluppi successivi, la lotta armata appunto, poi il movimento del ’77, avverranno all’interno
dell’ambito costruito negli anni precedenti, quindi con un ruolo ancora rilevante della facoltà di
Architettura, però fuori da un rapporto con il personale politico operaista di PO che aveva lavorato
fino al ’71-’72. E nel ’74-’75-’76-’77 il nostro è diventato più che altro un gruppo di riflessione
politica e di azione intellettuale nell’università. Come sempre quando si parla di alcune cose poi
magari si vedono dei fili che non si notavano prima: forse questa caratteristica, questo interesse
verso le piccole cose significative che avvengono nelle città è una costante di tutta l’attività politica
e intellettuale di un gruppo di persone da Potere Operaio a Quaderni del Territorio ad oggi. Non so
cosa abbia detto Magnaghi nella sua intervista, ma questa vicenda poi riparte addirittura nel 1989 e
’90. Si riprendono i contatti con Alberto, si scrivono delle cose, si organizzano dei convegni, e gli
anni ’90 sono caratterizzati da un insieme di iniziative, di riflessioni, di azioni, di libri scritti, di
esperienze fatte che sono riassunte nel libro di Magnaghi Il progetto locale, che nasce appunto da
tutto questo. Negli anni ’90 si riprende in fondo quella saggezza, si riprende la città come campo
d’azione, il territorio come soggetto attivo, l’idea della trasformazione nella quale la rottura non c’è,

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questo aspetto della rottura non ce lo poniamo più. Noi oggi (credo infatti di poter parlare anche per
conto di Alberto e di altri che lavorano su questo terreno) non ci poniamo il problema della
rivoluzione: ci poniamo il problema del rafforzamento delle forme di costruzione sociale della città,
di soddisfazione nell’azione diretta dei bisogni dei nuovi cittadini, dagli immigrati alle esperienze di
partecipazione nei quartieri, ai laboratori con i bambini. Insomma, in fondo quella saggezza di una
volta è oggi all’origine di una serie di attività, di laboratori, di progettazione partecipata, di
costruzione sociale del piano (queste sono le parole che utilizziamo): i cantieri sociali e l’idea della
loro costruzione hanno caratterizzato il nostro lavoro negli anni ’90. E poi ci siamo trovati alla fine
del decennio ad essere avvicinati dagli altri che hanno riletto queste cose che ci sembravano molto
di destra, molto tranquille per noi; per esempio, anche Carta guarda a queste questioni,
l’espressione cantieri sociali l’avevamo usata noi e l’hanno poi ripresa loro. Noi ci facciamo
osservare senza molto impegno diretto, perché a questo punto siamo abbastanza scettici sulle grandi
costruzioni, sulle grandi narrazioni: siamo interessati alle piccole narrazioni, alle piccole cose,
almeno io Forse non tanto perché pensiamo che siano quelle giuste da fare, ma perché pensiamo che
siano le uniche che riusciamo a fare. Io parlo di me e di altri, alcune cose poi le penso solo io e
alcune solo gli altri. Comunque, è un campo nel quale raccogliamo frutti che ci sembrano
abbastanza puri, utili, poco utilizzabili dagli altri e non ci poniamo molte domande su quante
conseguenze e quali gradi di efficacia abbiano.
Questa è una sintesi rapidissima, in quanto bisognerebbe riempire tutto il periodo dal ’72-’73 fino al
’90. Quello è un periodo per molti di noi di lavoro, anche di lavoro privato attivo, mai di riflusso,
staccati però dai drammi. Tranne Alberto che è stato in carcere accusato ingiustamente, siamo stati
staccati dal dramma del terrorismo, quindi anche abbastanza indifferenti ad esso, io non l’ho vissuto
in prima persona e dunque non ho neanche sofferto. Una cosa interessante è costituita da un
discorso sulle generazioni. C’è una prima generazione di persone che hanno la stessa età e che,
come dicevo prima, hanno avuto dimestichezza intellettuale con Tronti, Alquati, Asor Rosa,
Cacciari, nel periodo proprio operaista. C’è poi questa seconda generazione di cui ho parlato, la
quale è arrivata a Potere Operaio e anche poi all’esperienza operaista, però a partire dal movimento
studentesco. E poi accennavo a una terza generazione: bastano 3 o 4 anni, 2 o 3 a volte per spiegare
biografie di vita molto differenti, e anche biografie di vita drammatica o non drammatica. Ciò tranne
le persone che sanno essere sempre in continuità, Toni Negri ad esempio è sempre presente; invece,
altri hanno traiettorie più spezzettate. La cosa interessante è che successivamente abbiamo ritrovato
alcune traiettorie che prima avevano sofferto il dramma della lotta armata. Ci sono alcuni di quelli
più giovani di Potere Operaio che poi hanno fatto delle esperienze di partecipazione a Prima Linea o
all’UCC, che sono stati in carcere, anche molto a lungo, anche 14 anni in qualche caso, e che poi
sono usciti dalla galera. Ci sono dei destini diversi, delle persone che sono state in carcere e la cui
vita successivamente può prendere una direzione oppure può prenderne un’altra. C’è chi è così
segnato da questa esperienza da non uscirne mai, chiuso in una sorta di storia così importante per
cui poi uno dopo il carcere non riesce che a lavorare in rapporto a quella che è stata la sua
esperienza dentro; e invece ci sono alcune persone che non hanno sofferto di questo problema del
reducismo. Alberto è una di queste: lui ha sofferto il carcere in un modo drammatico, anche
fisicamente, però poi la sua vita è nuova, libera, non deve confrontarsi con quell’esperienza. E non
solo Alberto, ma anche altre persone hanno avuto questa esperienza qui a Firenze: alcuni compagni
più giovani in galera hanno conosciuto il mondo concreto dei bisogni dei carcerati e non solo, poi
una volta che sono usciti, senza perdere la loro carica alternativa, hanno recuperato la saggezza. Per
cui ora lavorano per esempio alla Fondazione Michelucci, a contatto con i problemi dei nomadi,
degli stranieri, lavorano sulle questioni dell’immigrazione, della casa, dell’autocostruzione, e
lavorano in questi campi in modo attivo, concreto, professionale, convinto, senza dovere dimostrare
niente a se stessi, con una vita che è proseguita e che è migliorata. Una vita che è stata capace di
andare avanti insomma, e quindi cercando altri stimoli, altre letture, altre influenze: questo è
importante.

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Un altro aspetto significativo è che non siamo mai stati comunisti nel senso tradizionale del termine.
Naturalmente abbiamo detto delle cose tremende, perché ho l’impressione che molto spesso
usavamo dei gerghi sapendo che erano convenzionali. Se dovessi pensare alle cose che scrivevamo
e dicevamo in quel periodo, io sono convinto che riguardandole ora sarei capace di distinguere ciò
che dicevo perché era un codice linguistico di autoriconoscimento dalle cose che pensavo davvero.
E le cose che pensavo davvero non erano la dittatura del proletariato (che peraltro è un’espressione
che non ho mai usato). Non ho mai letto Lenin per esempio, allora mi vergognavo, poi ho scoperto
che avevo guadagnato tempo nel non leggerlo; ho invece letto i Grundrisse, naturalmente. Quindi,
scopri dopo che sei stato selettivo, che hai letto i Grundrisse e non Lenin e che senza saperlo hai
valorizzato del marxismo il filone più libertario, meno ideologico, più aperto alla comprensione,
meno fossilizzato, che sei stato meno comunista e meno marxista di quello che pensavi e che eri
molto più anarchico e socialista, e marxiano e libertario. Ma te ne accorgi dopo, dal modo in cui poi
la tua vita ha filtrato nelle svolte che gli hai dato e anche nelle letture che hai fatto: si tratta dunque
di una riflessione a posteriori.

- Una breve parentesi: dopo la rottura di Potere Operaio, in occasione della seconda
occupazione della Fiat, nella tipografia di PO a Firenze era stato fatto Fuori dalle Linee,
una sorta di quotidiano gratuito di cui ne uscirono pochi numeri e che era un tentativo di
continuazione di un certo discorso politico da parte della componente piperniana.

Ad occuparsi della tipografia era soprattutto Michelangelo Caponetto. Un’altra caratteristica del
gruppo fiorentino era questa specie di concretezza, per cui molte cose si facevano a Firenze perché
qui si riusciva a farle. A Firenze è stato fatto anche il giornale Potere Operaio per un certo periodo,
che veniva per quattro quinti scritto da Oreste, però anche noi scrivevamo molto, traducevamo i
materiali che venivano dalle altre sedi. Eravamo bravi come giornalisti, io e Pardi per esempio. Tra
le altre cose funzionava anche questa tipografia. Però, sul periodo di Fuori dalle Linee non so dire
molto, io non ho partecipato a quell’esperienza.

- L’esperienza dei Quaderni del Territorio.

Quaderni del Territorio era una rivista che è nata nelle facoltà di Architettura, anche se non era solo
di architetti, ma qui il problema naturalmente non è professionale. Intanto, col senno di poi, è
abbastanza interessante il fatto che si chiamasse già allora Quaderni del Territorio: si pensi agli
sviluppi successivi del tema del territorio. Molte discussioni oggi sul tema dell’arcipelago, sul tema
del ruolo attivo del territorio, sulla dimensione del locale nei processi di globalizzazione, in fondo
erano molto anticipati in quei numeri, anche se naturalmente a rileggerli oggi quegli articoli ci
sembreranno ingenui. Secondo me ciò che c’era in nuce nei Quaderni del Territorio era l’attenzione
per il ruolo che svolgono i contesti locali. Abbiamo sviluppato già allora l’idea dei luoghi come
contesti in cui è possibile precipitare energie positive, organizzare nuove comunità, si direbbe oggi
nuove forme di legame sociale. Questi temi sono tornati oggi, forse in modo diverso, nel mio
lavoro. Credo nella capacità di trasformazione del territorio e della società locale, ho fiducia nel
“margine di energia” della comunità, come lo definiva Mumford, nel ruolo non adattivo, ma
“insurgent” delle pratiche di vita. Insurgent non significa insurrezionale, e nemmeno antagonista; è
un termine che deriva da Patrick Geddes, grande planner e intellettuale del primo Novecento. Ecco,
ora mi occupo delle forme di energia insorgente nelle città, nei territori, nelle comunità locali. Come
vedi ho subito in questi ultimi anni influenze diverse da quel passato, per esempio alcuni filoni del
libertarismo e del pensiero radicale di matrice anglosassone e americano, della sinistra radicale
americana, nel campo del planning, che è il mio ambito di lavoro.

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- Durante un convegno organizzato da Carta l’anno passato tu hai parlato di “progetto
cantierabile”. Cosa intendi con questo termine?

Volevo solo esprimere un concetto se si vuole banale, che mi sembrano oggi necessari progetti di
trasformazione effettiva della realtà, che possano produrre risultati pratici, che si vedano nelle
situazioni di conflitto e di contrasto sociale energie in azione, e che queste energie producano effetti
materiali sull’organizzazione del territorio e della città. Progettare e costruire, la metafora del
cantiere significa in fondo questa, un luogo di soggettività liberate, un contesto di innovazione.
A Firenze c’è un significativo movimento di lotta per la casa, molto attivo ed efficace nella sua
azione, quindi seguo con simpatia quello che fanno. Poi loro sono completamente autonomi, come
molti di quelli che lavorano su questi terreni sono un gruppo ferocemente geloso della propria
autonomia. Dico quello che mi piacerebbe, perché probabilmente neanche loro controllano tutto
quello che fanno: se le cose hanno un significato non le controlli, non le devi controllare, se le
controlli del tutto vuol dire che non hanno un grande significato. Per esempio, un episodio di
occupazione di case può avere diversi significati dal punto di vista politico: uno è quello di
contrastare alcune logiche edilizie e immobiliari della città, di aprire conflitti, di determinare
attraverso la meccanica dell’appropriazione di un immobile e della sua trasformazione un contrasto
con le autorità, aprire una dialettica e via dicendo, il che è naturalmente una cosa assolutamente
importante. Non è che questa cosa non mi interessi, sono felicissimo che ciò ci sia, che ci sia anche
una struttura organizzata capace di lavorare su uno dei bisogni più drammatici soprattutto in una
città come Firenze, che forse rispetto ad altre realtà vive sul tema della casa una drammaticità
particolare per la combinazione di turismo e l’espulsione della popolazione dal centro storico.
Quindi, questo tipo di iniziativa è assolutamente fantastica da questo punto di vista. Però, il mio
interesse scatta quando la cosa diventa concreta e quando le occupazioni stanno in un punto della
città e questo è un punto in cui, se lo osservi e lo analizzi, hai un pezzo di società che deve vivere. E
allora, se quel pezzo di microsocietà deve vivere, bisogna intanto capire che pezzo di società è:
allora scopri che sono immigrati oppure no, che sono diversi, che devono costruire qualche cosa per
continuare a vivere, scopri che tra le case c’è uno spazio comune, che quello spazio comune può
diventare qualcosa. Questi aspetti mi interessano della mobilitazione pura e semplice (che però
naturalmente è il presupposto perché si sviluppi tutto il resto) che porta i movimenti ad occupare le
case. Il che, lo ripeto ancora, è importantissimo perché senza le occupazioni di spazio pubblico, di
giardini, di case, di immobili, di fabbriche e la loro trasformazione in case individuali o collettive,
in spazi urbani autogestiti o in centri sociali, non ci sarebbe il resto. Però, poi alla fine quello che mi
interessa è realmente quello che avviene dentro in termini fisici, luoghi che cambiano aspetto per il
fatto di essere abitati, possono essere luoghi chiusi come fabbriche, o possono essere luoghi aperti
come piazze all’interno delle quali si svolgono dinamiche sociali. Mi interessa il modo in cui
cambiano e in cui trattano relazioni, soprattutto relazioni umane, come creano legami con le
persone, che sono sempre difficili, che non sono idilliaci. E’ questo l’aspetto che mi interessa. Su
questo stiamo anche facendo una ricerca dei cui esiti non sono soddisfattissimo, ci dobbiamo
lavorare molto con un gruppo di ricerca dell’università all’interno del quale ci sono persone (e
quindi è una ricerca partecipata) che sono dentro le situazioni che studiano, e dunque non sono
ricercatori che osservano e analizzano dall’esterno, ma sono interesterni, fanno anche parte di questa
realtà. Questa ricerca è un tentativo di costruire una sorta di mappa (di controgeografia l’abbiamo
chiamata) di un’altra Firenze, una specie di atlante delle situazioni insorgent, non nel senso di
insurrezionale (non c’è niente di veramente rivoluzionario a Firenze e nelle città italiane), ma nel
senso di luoghi della città in cui si dispiegano energie vitali che poi impongono alla città stessa e al
potere di avere attenzione nei loro confronti. Mi piacciono cioè tutte quelle situazioni in cui si
radicano gruppi sociali e a partire dai bisogni elementari della vita sono posti alla città problemi che
essa deve risolvere; mi piacerebbe poi che questi gruppi se li risolvessero da sé, ma anche
costringendo la città a intervenire sul piano dei bisogni elementari o su quello dei bisogni più

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qualificati, dalla casa al giornale alla cultura al linguaggio e così via. Quindi, l’idea dei cantieri
sociali in fondo nasce da questa deformazione professionale se si vuole, dalle ricerche all’interno
della facoltà di Architettura che non si sono mai interrotte.
Quindi, se dovessi riunificare quel filo di prima, posso parlare di attenzione alla città e al territorio,
quella che io ho chiamato saggezza, un’attenzione cioè alle dinamiche effettive delle città e delle
sue popolazioni. Nel corso del tempo abbiamo naturalmente imparato anche ad analizzare contesti
differenti, oggi facciamo ricerche sulla nuova composizione sociale della città in relazione alla
frantumazione, frammentazione, immigrazione, quindi con uno sguardo attento a ciò che si muove
di nuovo, con una capacità di interpretare i movimenti che nascono da queste dinamiche. Questa è
un’ambizione ovviamente. Altro aspetto che forse si recupera dal passato è il carattere non
discriminatorio dei riferimenti. Per esempio, lavoriamo con i preti anche noi: io sono un
anticlericale fortissimo da un certo punto di vista, però ci lavoriamo, abbiamo il nostro don
Vitaliano della Sala o don Gallo locale anche qui, è Alessandro Santoro, leader della comunità delle
Piagge. Ci piace lavorare con le persone, e forse in questo recuperiamo anche una tradizione
fiorentina, che nel ’68 avevamo un po’ snobbato e che era quella della comunità dell’Isolotto di don
Mazzi. Snobbato forse no, ma era parallela: c’è da dire che alcuni di noi avevano con loro qualche
rapporto, e in Potere Operaio c’era qualcuno che in realtà si era formato anche all’interno della
comunità dell’Isolotto di don Mazzi, la chiesa alternativa, la chiesa nella piazza. Questo è un filone
di cultura fiorentina interessante, poi c’è don Milani che però è già una cosa diversa, con un
carattere più ideologico se si vuole; invece, il filone da don Mazzi a don Santoro è fatto di
attenzione alle dinamiche di comunità, verso le dinamiche di creazione di legame sociale. E ciò con
una buona accezione del termine comunità, non si tratta della comunità regressiva, di sangue e di
suolo. La comunità dell’Isolotto, quando ci lavorava don Mazzi, era un quartiere per il quale la
comunità era un obiettivo, non un dato di partenza: questo è importante. Dunque, l’identità e la
comunità come obiettivo, come bersaglio, non come appartenenza e paranoia identitaria. Ciò è
fondamentale, perché sul discorso della comunità e dell’identità ci sono derive che possono portare
in direzioni opposte: una tremenda e una che invece è più interessante. E questa a cui faccio
riferimento è quella più interessante, secondo me, ossia la comunità come risultato, come esito di
una dinamica sociale di coinvolgimento, e non la comunità come riferimento per espellere gli altri,
per conservare, per bloccare, per respingere. Quindi, il lavoro che facciamo attualmente è questo
qui, non so quanta parentela abbia con la matrice operaista.

- Da questa ricerca si può vedere come, al di là di quelli che sono stati i percorsi successivi,
un po’ tutti coloro che sono stati interni alle esperienze operaiste, da quelli più critici e
finanche apparentemente liquidatori a quelli più continuisti, mantengono comunque un
segno e un modo di guardare alle cose che, in forme rielaborate, deriva loro proprio da
quell’iniziale formazione. Approfondendo quanto tu hai detto, si può notare come nelle
esperienze sul territorio che hai descritto si pone una certa attenzione sulla questione del
progetto: non a caso l’ultimo libro di Magnaghi si intitola Il progetto locale, mentre tu parli
di progetto cantierabile. Una grossa parte degli operaisti ha sempre teso a identificare la
politica come questione principalmente di organizzazione. Nelle nostra ipotesi uno dei
grossi limiti delle diverse esperienze operaiste consiste nel non essere andati a fondo nella
rottura rispetto ad una certa tradizione socialcomunista, rielaborando un progetto nuovo,
obiettivi e fini nuovi. Quindi, nel non aver posto la politica e soprattutto il politico come
questione di fini e progetto e non semplicemente di mezzi e organizzazione. Come tu oggi
declineresti e affronteresti il nodo del politico e della politica (intesa sia come
trasformazione sia come capacità di gestione), anche in relazione ai nuovi movimenti che
stanno venendo fuori?

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La dico con una battuta un po’ provocatoria e radicale, la cosa infatti io la vedo in questo modo, non
so se sia un bene o un male: non lo scriverei mai, per cui forse non dovrei nemmeno dirlo,
comunque la penso così. Per fortuna la rivoluzione non è all’ordine del giorno! Se qualcuno mi dice
che la rivoluzione è all’ordine del giorno, semplicemente gli chiederei “sei matto”? Non ho
nemmeno voglia di parlarne”, perché per me è self-evident questa affermazione che la rivoluzione
non è all’ordine del giorno: e io ci aggiungo per fortuna. E quando dico questo significa che non è
all’ordine del giorno né oggi né domani né dopodomani, cioè non in tempi prevedibili, tempi che
possano comportare una modificazione o un attrezzarsi per, non è all’ordine del giorno e non è
neppure il caso di mettersi al lavoro perché lo diventi domani o dopodomani. Dico per fortuna
perché ciò ci consente di lavorare più liberamente, apre uno spazio di lavoro. Non dobbiamo
prendere il potere, e non rispondo alla domanda se domani sarà possibile, se esiste un potere, queste
sono domande difficili, se ne può discutere naturalmente, ma in fondo sono domande che mi
annoiano, che non mi interessano. Penso insomma che non ci sia un potere da prendere, ma in ogni
caso che non dobbiamo prenderlo anche se ci fosse, non siamo nelle condizioni di prenderlo anche
se lo volessimo, la si metta come si vuole (sto parlando dell’Italia, perché poi le situazioni sono
diverse).Tutto questo in fondo ci mette in una condizione di libertà di sperimentazione. E allora noi
dovremmo utilizzare totalmente questa libertà di sperimentazione, perché siccome la rivoluzione
non è all’ordine del giorno noi non dobbiamo misurare il livello di efficacia di quello che facciamo
in rapporto a questa prospettiva, ma possiamo lasciarci sedurre da altri parametri di valutazione che
non sono quelli dell’efficacia rivoluzionaria e organizzativa. E allora per questo oggi ritengo
interessanti gli altri microparametri di valutazione cui facevo riferimento prima. Sono quindi giuste
le cose che danno potere alle situazioni sociali decentrate, che danno cittadinanza a chi non ce l’ha,
che consentono il rafforzamento o la creazione di legami in chi è atomo isolato e spostato da tutta
un’altra parte del mondo, e così via. E’ dunque un momento di libertà questo nel quale viviamo, io
vedo questo periodo nel quale appunto la rivoluzione non è all’ordine del giorno come una fase che
ha per me una durata in cui acquistano significato le pratiche sociali. Naturalmente questo apre un
dibattito su quali pratiche sociali siano interessanti e quali no, quali modi di condurre o di
partecipare alle pratiche sociali siano interessanti, quali siano i soggetti ecc. Apre dunque un campo
sul quale poi ci si può anche dividere. Siccome nessuno può pensare a forma organizzative di tipo
classico, uno può ipotizzare forme reticolari, questo è vero. Siamo forse costretti a questo, ma visto
che lo siamo delle carte o dei cantieri in questo momento io sottolineerei la positività del fatto che
queste reti connettono situazioni che hanno la libertà di sperimentare e improvvisare, questo è
l’aspetto più interessante. Senza che quello che avviene in un quartiere di Londra debba
necessariamente assomigliare in modo totale a quello che avviene nei Quartieri Spagnoli di Napoli.
Quindi, semmai sviluppando l’osservazione e la curiosità reciproca, l’imitazione, il trasferimento di
idee e di pratiche, la trasformazione piuttosto che l’omogeneizzazione, la precipitazione di modelli
organizzativi, anche reticolari, l’assimilazione. Quindi, è importante anche qui la libertà di
sperimentazione, e semmai anche qui la curiosità verso la misurazione di ciò che accade in positivo,
di come in un punto si sposta un rapporto di forza, si crea una situazione interessante. Poi anche qui
ci sono i fenomeni di mitizzazione: io non sono stato a Porto Alegre, immagino che ormai sia una
costruzione mentale più che una città. Però, ci sono aspetti interessanti. C’è una parola che è
compromessa e non si può usare: l’interesse per le buone pratiche. Ora, mi rendo conto che questa
espressione è pericolosa perché porta a non discriminare: mi piacerebbe infatti entrare nei dettagli di
che cos’è una pratica interessante per me, cosa deve spostare, cosa è in positivo che deve accadere, è
un problema abbastanza complesso. Quindi, è ovvio che non è che non mi piaccia tutto ciò che è
azione, il suo contenuto deve naturalmente avere dentro di sé un carattere di opposizione. Però,
questa libertà di sperimentazione mi sembra un connotato positivo della situazione attuale. Mi
ricordo un incontro che abbiamo fatto per Carta a Napoli, in cui discutevano Agnoletto (che allora
non era noto) e Bertinotti. Bertinotti in realtà diffidava di questo mondo di reti Lilliput e di altri, un
mondo con cui lui vuole dialogare perché politicamente è conveniente, ma è ovvio che non gli piace

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e che non lo capisce tanto. A un certo punto Bertinotti ha detto: “sì, siete interessanti, ma non vi
ponete il problema della rottura, dell’esito politico di quello che fate, in fondo della rivoluzione”.
Mi volevo alzare e dire: “ma per fortuna siamo nelle condizioni di non dovercelo porre questo
problema!”, perché se ce lo ponessimo in Italia nel 2001 io credo che saremmo di una coglionaggine
totale. Se ci ponessimo il problema delle rivoluzione in questo momento probabilmente ci
iscriveremmo al gruppo che ha ucciso D’Antona oppure faremmo delle discussioni da salotto. A
meno di non rideclinare la parola rivoluzione, ma allora ritorniamo daccapo.

- Nella sua intervista Alberto Magnaghi ha messo in grossa evidenza come la tradizione della
sinistra non ha mai criticato lo sviluppo, questo è per essa sempre stato considerato quello dato
ed esistente, tutt’al più da gestire al posto dei capitalisti. Secondo te, quanto questo discorso
che fai rispetto all’innovazione nello sviluppo locale può essere radicalmente altro rispetto allo
sviluppo complessivo, e quanto invece entra in un rapporto di corelazione per cui il basso
innova l’alto e l’alto comanda il basso, in una certa gerarchia sistemica?

Proprio in questi giorni, per esempio, stiamo discutendo all’interno del nostro gruppo di ricerca: per
una parte dei ricercatori una parola magica per far capire quanto si è cattivi è “antagonista”. La
parola antagonista non mi piace, proprio etimologicamente, per anta e per agonismo messi insieme.
Perché uno dice antagonismo? Perché capisce che con agonismo sono duro, e con anta sono contro:
sono contro e sono duro, il che vuol dire sono contro, non accetto nessuno compromesso e picchio
nel caso che capiti. Che questo avvenga non mi provoca nessun problema di coscienza, figuriamoci,
il mondo è così complicato e così duro che ci si immagini se mi può provocare dei problemi di
questo tipo. Ma la parola non mi piace perché è il rovesciamento algebrico della realtà:
l’antagonismo è il più che diventa meno e il meno che diventa più. E’ proprio la connotazione dello
sviluppo che rimane non cambiata: cioè, sono duramente contro quello che c’è, anche se non so per
che cosa sono. Per cui io mi rifiuto che i miei ricercatori traducano insurgent con antagonista,
perché in esso c’è un significato diverso: insurgent significa provare a vedere in contesti locali di
innovazione se c’è possibilità di altro sviluppo. E’ questo il punto. Finché sei antagonista sei
vincolato ai parametri dello sviluppo. Faccio un esempio: ora pare che Fini voglia togliere le
pensioni di anzianità e tu dici che non le devi togliere. Le pensioni di anzianità sono una
stupidaggine pazzesca se qualcuno le analizzasse da un punto di vista di un’alternativa allo
sviluppo: però, se analizzi il problema in una logica bloccata non puoi che dire di no, ed è giusto
dire di no, perché non hai fiducia nella possibilità di inventare nuove relazioni tra biografia
individuale e lavoro, la pensione dai 30 ai 35 ad esempio invece che ai 54 per sempre, oppure
intervallare lavoro e autoformazione. Cioè, la sinistra tradizionale alla Bertinotti è insieme
antagonista e prigioniera dello sviluppo esistente. In un modo che so dire solo in forma disordinata e
incoerente, posso affermare che l’atteggiamento mentale che abbiamo io e Alberto (con molte
differenze tra noi due peraltro) vorrebbe liberarsi di questo, vorrebbe non essere vincolato al no, al
contro. E’ questo vincolo che ci sta portando alla sconfitta. Insomma, il bertinottismo-cofferatismo è
tremendo, perché non incontra i soggetti: ci vuole molto più senso del rischio. Il discorso ora
andrebbe articolato, fatto con delle esemplificazioni, quella delle pensioni è la più provocatoria, ma
si può dire per molte altre cose. Dobbiamo incontrare questi soggetti, dobbiamo incontrare i ragazzi
di 19, 20 o 25 anni, quelli che vivono di lavori precari, dobbiamo incontrare queste persone, o gli
stranieri, gli immigrati, i bambini, le donne. Dobbiamo incontrare questi soggetti, e quattro quinti
della discussione politica non interessa, comprese pensioni, garanzie di tipo tradizionale, comprese
molte cose su cui si fa barriera pensando che se la diga cede allora la situazione peggiora e faranno
delle cose orribili. Ma le fanno ugualmente delle cose orribili, però così nel frattempo non abbiamo
creato niente e tutte queste persone ci sfuggono, prendono altre traiettorie di autorealizzazione
individualistica, isolata dalle questioni della realtà, di altre strade dello sviluppo; se le creano,
alternative, da sé, senza che noi abbiamo incidenza su quei percorsi. Allora, se dobbiamo avere

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incidenza su quei percorsi dobbiamo incontrarli in luoghi, in contesti innovativi e solidali ma in cui
non voti la solidarietà ma la pratichino, in cui non devono votare in astratto perché lo Stato continui
a pagare tutti, ma in cui in concreto vedano che è possibile spendere per gli altri, spendere tempo,
energia, creatività. Questo è un punto fondamentale che la sinistra tradizionale non è riuscita a
risolvere, in cui altri spezzoni di pensiero (ecologista, ambientalista, comunitario, comunitarista,
libertario) è più facile che lavorino, magari disordinatamente. E quindi si riscoprono nature, stili di
vita, tradizioni interessanti da rimettere in piedi, risparmi, relazioni con paesaggi, con situazioni,
nuove economie, tutte queste cose che Alberto è più bravo di me a spiegare, lui ha tutta la lista e
non si ferma più. L’altro sviluppo è questo, non è il no allo sviluppo che c’è: è veramente la
sperimentazione (alla quale siamo obbligati) di altri percorsi di esistenza individuale e collettiva. E
lì si possono incontrare realmente i nuovi soggetti.

- Quali sono stati i tuoi numi tutelari, ossia figure e autori di riferimento nell’ambito sia del tuo
percorso di formazione politica e culturale, sia del tuo percorso accademico?

Si può parlare di filone operaista, anche se tra Greppi e Negri, tra Alquati e Cacciari ci sono
differenze enormi. Ormai quei testi non li leggo più, ma in che misura avendoli letti mi piacevano?
Anche se poi scrivevano le cose che dovevano scrivere, l’irrequietezza intellettuale (che poi si è
trasferita anche nell’esperienza di Potere Operaio) è costituiva di quella tradizione, e faceva di essa
una tradizione totalmente anomala nel contesto della sinistra italiana. Ciò poi in Negri è diventata
una sorta di estremizzazione, ma la volontà di impegnare il pensiero collocandolo all’altezza
dell’avversario, al suo livello di innovazione, è un dato di Potere Operaio straordinario, persino
eccessivo, perché poi alla fine si anticipavano o si enfatizzavano certe cose. Ma questo aspetto per
cui la potenza del pensiero e la pratica di opposizione doveva essere adeguata alla potenza e alla
sfida del capitale (come dicevamo e forse diremmo ancora oggi), è un dato intellettuale che è
rimasto un po’ in tutti. Forse le persone che avete intervistato sono oggi molto diverse, però nessuno
di loro è rifluito o è diventato un quadretto del PCI: ciascuno si è costruito una visione del mondo
magari assurda o che si può non condividere, però questo aspetto è interessante. Vuol dire che per
esempio anche di tutta la formazione teorica e di tutte le letture fatte (lo dicevo prima e lo ripeto
ora) i Grundrisse ci sono rimasti dentro. Non un pezzo o un altro, ma i Grundrisse come l’opera
informe di Marx, gli appunti sulle cose che stavano avvenendo, il marxismo oltre il marxismo, forse
la rivoluzione c’è già stata, questo ci può essere nella lettura dei Grundrisse. Quelle cose lì ci sono
entrate dentro e secondo me continuano ad agire, quella lezione non abbiamo bisogno di rileggerla
per averla assimilata.
Successivamente gli altri riferimenti sono interni al lavoro più specificamente compiuto nel campo
della città e del territorio. Quindi, come persone Alberto Magnaghi è stato per me un riferimento.
Ora la cassetta degli attrezzi non ha più per me solo due o tre figure: trovo interessante in questo
momento tutto quello che viene detto di inquieto e coraggioso su ciò che sta accadendo. Cioè
disordinatamente: dal libro di Revelli alle analisi sulle città globali della Sassen a tutto il pensiero
critico americano, leggo anche Empire di Toni Negri con qualche perplessità. Insomma, tutto quello
che è possibile leggere purché sia inquieto, purché contenga dentro di sé la tensione verso la
comprensione di ciò che sta accadendo, tutto quello che avviene di riflessione anche attorno al tema
dell’intelligenza collettiva o delle forme di comunicazione o del ruolo della rete, tutto ciò che è
possibile dire attorno a questo, senza estremizzazioni e senza creare però santini, l’importante è
questo, mantenere un atteggiamento critico e un po’ di saggezza. Mi interessa tutto quello che è
possibile leggere sul ruolo dell’innovazione delle società locali e su questi aspetti, senza avere però
dei riferimenti fississimi.

- Prima hai citato il filone anglosassone del comunitarismo e del libertarismo: puoi approfondire
questo aspetto?

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Ho incontrato questo filone in un ambito molto specialistico, e cioè nella declinazione che va da
Patrick Geddes a Lewis Mumford e ad alcuni epigoni successivi, che peraltro erano legati
all’anarchismo otto-novecentesco (Geddes era legato a Kropotkin e così via). C’è questo filone di
pensiero legato alla fiducia nella possibilità di prendere nelle mani il proprio destino: questo è un
aspetto che nella tradizione comunista e della sinistra non c’era, in essa prevale l’aspetto della
rivendicazione, della lamentosità o dell’attesa messianica. Invece, lì c’è questo aspetto di una forma
di pragmatismo alto di derivazione americana. Poi leggo volentieri perfino Emerson, ci sono delle
sue cose rivoluzionarie, nel trascendentalismo americano, però non ci scriverei mai sopra, capisco
che sono oggetti pericolosi da un certo punto di vista, perché è dura parlare con questo linguaggio a
un gruppo che occupa le case. Tuttavia, questo è un filone interessante, da considerare. E mi
riferisco più a quelli vecchi che a quelli nuovi: paradossalmente leggo malvolentieri i libri moderni
su questo aspetto, per esempio gli odierni testi sul neocomunitarismo li leggo con più fastidio, li
trovo più rigidi e ideologici (Etzioni, Bellah ecc.). Invece, la grande tradizione come sempre è più
ricca e stimolante e ti consente più libertà anche nel costruire il tuo personale sistema di pensiero e
di azione, io farei leggere obbligatoriamente Walt Whitman nelle scuole italiane invece di Carducci.
Quindi, è una tradizione di pensiero interessante, e in parte non mi dispiace neanche rileggere con
un filtro critico un’altra tradizione non marxista e non comunista come la sua versione italiana negli
anni ’50 e ’60, ossia il movimento di Comunità. Con molto filtro critico ovviamente, però è
interessante la tradizione olivettiana, la tradizione del movimento di Comunità in generale, la
riscoperta di alcune figure, da uno più noto come Danilo Dolci a uno meno noto come Carlo Doglio
nell’urbanistica, sempre legati a questa tradizione prevalentemente anarchica. E’ importante quello
che ha fatto Dolci a Partinico, con la capacità di tenere insieme formazione, senso della comunità,
trasformazione del territorio e del paesaggio, scuola e dighe per l’acqua. Sono aspetti trascurati dalla
tradizione comunista, valutati sempre come cose poco interessanti, un po’ riformiste, poco
rivoluzionarie, di apostoli laici come Danilo Dolci o di preti. Invece, questa è una tradizione
interessante, da ristudiare. E infatti qualche cosa abbiamo anche fatto su questo, ad esempio un
convegno su Danilo Dolci, altri convegni su Mumford. Alcune sono delle letture molto
specializzate, altre sono forse più note. Però, è interessante questa tradizione degli anni ’50 e ’60, in
cui c’era anche molta ideologia, naturalmente sono tradizioni che vanno rilette e depurate: tuttavia
sono importanti perché connotate da una dimensione del fare e dell’agire che la sinistra tradizionale
ha considerato come non centrale, al limite come questione tattica, mai strategica, non ha mai dato
ad essa un valore in sé, reale. Quindi, anche questo è un filone interessante.

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INTERVISTA A MARIO PICCININI – 10 GIUGNO 2001

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e gli inizi della tua attività
militante?

Sono nato nel ’51 a Vicenza e mi sono iscritto alla fine del primo anno delle superiori alla FGCI
diventando uno dei cinque studenti medi di una FGCI ancora segnata dalle magliette a strisce del
’60 e venendo catapultato, come avveniva spesso con gli studenti, in segreteria nel giro di un anno.
Quindi, la mia formazione è stata nei canali della gioventù comunista nella posizione atipica di uno
che proveniva da una famiglia non operaia, di ceto medio impiegatizio, all’interno di
un’organizzazione non solo operaia ma anche operaista, per cultura o subcultura, e che vi era
arrivato attraverso l’esperienza dei giornali studenteschi e la cultura dell’‘impegno’. Un’esperienza
molto giovanile, tra i 14 e i 17 anni, però fatta paradossalmente dalla testa dell’organizzazione: a 16
anni mi sono trovato ad essere commissario della FGCI a Schio, cioè nell’area industriale più grossa
della provincia di Vicenza, che ne faceva una delle prime dieci aree in Europa per numero di addetti
all’industria in rapporto alla popolazione attiva. Ricordo che lì c’era un gruppo di compagni, tutti
più vecchi di me, segnati da esperienze di emigrazione, gente che se n’era andata giovanissima e che
tornando avevano avuto un ruolo di promozione nelle lotte in alcune medie fabbriche del tessile. Era
un gruppo che aveva tenuto con l’organizzazione un rapporto ondivago, che stentava ad andare oltre
la tessera, ma che si era reso disponibile quando tentammo di dare vita a un intervento politico di
fabbrica. Con questi ci furono le prime discussioni in cui si mettevano in dubbio gli orientamenti
prevalenti di allora: la pace, il dialogo con i cattolici, le consulte giovanili, l’unità dei movimenti
giovanili della sinistra. Ci fu ad esempio – ricordo ancora con emozione episodi di questo tipo - una
riunione al circolo di Schio, preparata n gran parte su materiali che venivano da fuori del partito,
sulla rivolta di Newark per spiegare che si trattava di roba in cui c’entravano gli operai, c’entrava la
lotta di classe con questi lavoratori tessili che non erano più ragazzi e che si rapportavano a me che
venivo da un liceo classico di città, raccontandomi “ah, sì, noi italiani in Belgio…”. Questo è stato
un pezzo di percorso per me importante, dove gli aspetti di ideologizzazione e di esperienza si sono,
anche se in maniera a volte assolutamente immaginaria, comunque mischiati, producendo – come è
avvenuto credo per tutta una generazione - una radicalizzazione politica che nel giro di due anni, nel
’67-’68 mi ha portato fuori del partito, ma con un idea di organizzazione larga, con un’immagine di
movimento di classe tutto sommato non intellettualistica e non di gruppo. L’uscita dalla gioventù
comunista fu ovviamente un affare complicato: i soliti mesi di grande difficoltà, “si esce o non si
esce”, mentre nel comitato federale cominciavano le espulsioni, chi espelleva veniva espulso sei
mesi dopo, con un senso generale di deflusso, di abbandono della nave in ordine sparso. La mia
uscita avvenne su posizioni maoiste, il che mi pare l’inevitabile compromesso tra la cultura
dominante in FGCI e la percezione del carattere travolgente e ineluttabile dei mutamenti in corso. In
partito, me ne sono reso conto ovviamente solo più tardi, le cose erano decisamente più complesse e
la componente di sinistra che attorno a Romano Carotti gestiva la segreteria aveva una cultura
politica più innovativa e sensibile alle nuove qualità delle lotte operaie, con cui riuscirò ad
interloquire positivamente solo anni più tardi. Ho un ricordo vaghissimo dei numeri di Classe
Operaia che giravano in federazione e venivano fatti sparire dai tavoli, e che a me allora risultavano
del tutto incomprensibili. Nel frattempo nel ’67 avevamo costruito nel mio liceo un gruppo di studio
che leggeva Lire le Capital e i Cahiers Marxistes-Leninistes: la schizofrenia più assoluta insomma,
dove le cose marciavano mediate dall’esperienza organizzativa che avevo io e con qualcun altro che
avevo tirato dentro dell’esperienza dei giornali studenteschi, che è stata abbastanza grossa,
specialmente con il crescere del movimento contro la guerra del Vietnam. Percorro quindi
l’esperienza m-l nel circuito veronese-trentino, facendo riferimento soprattutto all’Università
Negativa di Trento, con un’entrata fugace nel PCd’I (m-l) attraverso Lavoro Politico che si consuma
– né può essere altrimenti - in modo estremamente rapido. Sia per il gruppo che avevo costruito a

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Vicenza uscendo dalla FGCI, sia per i compagni di Trento con cui eravamo in rapporti abbastanza
stretti, quel tipo di esperienza si brucia in fretta perché in fretta si mostra del tutto inconsistente
come strumentazione verso la realtà. E’ dal ’69 in avanti che comincio a capire qualcosa,
guadagnando un po’ in indipendenza intellettuale. Nel ’69 appunto rompendo gli steccati e le
paratie, che in qualche modo avevano la forma di deriva dell’uscita dalla FCGI, riusciamo a mettere
in piedi un’assemblea comunista provinciale, che è composta essenzialmente da un nucleo
studentesco e intellettuale di Vicenza, una fascia di universitari della provincia che studiano a
Trento e una fascia di giovani operai, principalmente nelle zone industriali, soprattutto Schio e un
po’ Arzignano, che era un polo di elettromeccanica. Questa assemblea nel corso del ’69 segue in
qualche modo un tracciato noto: si va a Torino, si va a Marghera, e quando c’è la rottura
dell’assemblea operai-studenti di Torino e della prima Lotta Continua, i ‘vicentini’ mettono in piedi
Potere Operaio, e quindi fanno riferimento a Padova – un rude incontro di chiarificazione con quel
compagno straordinario che è stato Guido Bianchini ha avuto un ruolo decisivo -, mentre i ‘trentini’,
a parte qualcuno che faceva riferimento come noi ai compagni andati da Trento a lavorare con il
CUB della Pirelli a Milano, mettono in piedi Lotta Continua. Con questi compagni ci sarà stima e
discussione in una sorta di parallelismo di fatto fino al ’76, con una Lotta Continua per molti aspetti
estranea al profilo regionale boatiano, convergente con noi su molte cose, specialmente negli anni
’70, però legata molto di più ad un’ipotesi di movimento che di organizzazione politica.
Allora, tornando a Potere Operaio: quando entriamo, nell’inverno tra ’69 e ’70, PO nel Veneto è
nella fase più critica, con il Comitato Operaio di Porto Marghera che era uscito dall’organizzazione,
e con la priorità assoluta di garantire una tenuta regionale e il rilancio del percorso organizzativo.
Sono anni – intanto mi sono iscritto a filosofia a Padova - in cui la situazione locale passa in
secondo piano, di mobilità assoluta dei quadri: io, come tutti, lavoro essenzialmente su scala
regionale, intervenendo in vari posti dalla meccanica ad ovest di Vicenza agli studenti a Padova, da
Marghera all’università a Venezia. Anni esaltanti di crescita politica, del progetto e personale, ma
anche di ricerca collettiva e di dibattito vero, come raramente mi è stato possibile sperimentare. Il
quadro si irrigidisce impoverendosi quando si fa avanti la linea ‘insurrezionalista’. C’è difficoltà a
ritrovarsi sulle tesi avanzate da Negri in Crisi dello Stato-piano e sulle proposte politiche avanzate
al Convegno dell’EUR; in termini di analisi della risposta capitalistica e dei processi di
ristrutturazione i compagni di Vicenza – fermo restando il discorso sull’organizzazione autonoma -
saranno su posizioni più sintoniche con quanto sostengono i compagni veneziani di Contropiano
che con le tesi di Negri, con cui resta tuttavia una dialettica positiva fino a che resta nel Veneto.
Quando Toni va a Milano e con l’esperienza dei Comitati Politici emerge una diversa composizione
di quadro, di estrazione universitaria e studentesca e di connotazione più movimentista, i rapporti
diventano difficoltosi, determinando una situazione di allentamento che diventa pesante quando
Lauso Zagato, un compagno con cui c’era stata una lunga consuetudine di lavoro e una buona
intesa, abbandona la segreteria regionale. Vicenza resta dentro l’organizzazione nazionale, ma non
riconosce più il regionale: ci fanno sghignazzare i discorsi sulle centurie rosse a Cavarzere, mentre
si sta abbandonando l’intervento sulla grande fabbrica e la comprensione dei processi di
ristrutturazione industriale è obliterata da pochi slogan sulla forza. Di fatto, già prima, di Rosolina
siamo fuori, dentro un’ipotesi di riorganizzazione del ceto politico e del quadro operaio che
individua nella contrapposizione di rottura politica e riarticolazione di classe un’alternativa falsa e
alla lunga disastrosa. Nel contempo fa gioco la specificità del Partito Comunista in provincia di
Vicenza: per tutti gli anni ’70 avevamo avuto un rapporto con la cellula universitaria del PCI che è,
come dire, di corda e impiccato. Con questi compagni discutiamo per tutti i primi anni ’70, sugli
studenti interveniamo essenzialmente sulle stesse parole d’ordine. Nel ’73-’74, quando questi
escono in massa, ci portiamo via di fatto un pezzo di segreteria del partito, compreso il responsabile
della commissione operaia, oltre che qualche ex-consigliere comunale. Il Partito Comunista di
Vicenza ha una storia un po’ particolare, con tratti simili alla federazione di Bergamo: c’è un
famoso incontro notturno sull’autostrada quando viene di corsa Garavini e riesce a bloccare il fatto

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che tutta la federazione passi con il Manifesto. Questo è un posto dove l’esperienza dell’inchiesta
operaia, la rivolta del ’68 alla Marzotto di Valdagno, la cui costruzione è legata strettamente
all’iniziativa di una componente di origine sindacale del PCI, hanno lasciato un segno importante:
questo fa crescere e poi sedimentare un quadro che al momento del Cile in qualche modo è già tutto
uscito e si mette a disposizione. L’aggregazione di questi compagni attorno al nucleo di P.O. ci
permette di dare vita a un’esperienza che si chiama Classe e Partito e che credo essere, ovviamente
nei limiti di un’esperienza periferica, abbastanza grossa. Riprendiamo consapevolmente una
denominazione che era stata del dopo-Classe Operaia da parte di alcuni, in senso esattamente
rovesciato, dicendo: “guardate che qua c’è un problema di organizzazione generale, cioè c’è un
problema della funzione politica rispetto alla classe. La soluzione di gruppo non basta, c’è un
problema di organizzazione del quadro politico se si vuole procedere col quadro operaio”. E
sosteniamo un discorso sulla ristrutturazione e sui settori, privilegiando il chimico-tessile, che si è
rivelato poi tutto sommato abbastanza fantasioso, perché franato all’interno della tenuta operaia, ma
anche dello stesso interesse capitalistico a sopportare i costi di ristrutturazione. Lanciamo un
intervento massiccio, per presenza e numero di compagni coinvolti, sulla grande fabbrica del polo
tessile, dalla Marzotto alla Lanerossi, che era appunto industria di Stato e ci interessava anche
questa idea dell’industria di Stato come nucleo di riferimento rilevante, escludendo ogni ottica di
semplice reclutamento, ma con un discorso di direzione e di sponda politica per i quadri operai.
Riusciamo ad esempio ad andare a parlare regolarmente nel consiglio di fabbrica della Lanerossi,
compresi gli esterni, accettati dai delegati che impediscono al sindacato di buttarci fuori. Con un
rapporto sostanzialmente buono, nonostante i mille scazzi di ordine tattico, con Lotta Continua, che,
seppure un po’ riluttante, alla fine segue le nostre parole d’ordine, producendo fogli e un giornale di
intervento a gittata lunga, ripercorrendo le filiere del settore fino a contattare e tenere rapporti con i
compagni che lavorano nei laboratori di progettazione e nelle consulenze d’impresa: capita così di
arrivare di fronte alla fabbrica con del materiale che la direzione corre a procurarsi perché contiene
notizie che non ha ancora e che invece gli operai ora hanno.
E’ un’esperienza tutta arroccata a ridosso del polo industriale con uno schema di militanza
dispotico. Lavoro politico a tempo pieno. Niente simpatizzanti, meglio finanziatori. E’ caricaturale,
lo si sa, ma funziona. Nel contempo, centralità del discorso operaio, battaglia nel movimento su
questo; qualche presenza, minoritaria, in università, scazzo ovviamente con i compagni di Padova
con cui, tutto sommato, venendo dal cuore duro di Potere Operaio veneto, i rapporti non sono però
mai disastrosi; compagni legati all’esperienza dell’Assemblea Autonoma di Marghera hanno avuto
in fondo rapporti più difficili. Con la nuova generazione che darà vita ai Collettivi Politici padovani
c’è un rapporto di sostanziale rispetto, freddezza, convergenza nelle politiche di movimento:
accusati di essere ‘di destra’ perché facciamo un discorso industrialista molto rigido, quando tutti lo
stanno mollando, non lo siamo certo in termini di movimento. Ciò che non ci convince nelle analisi
sulla diffusione produttiva, non è tanto l’attenzione ai processi di dislocazione, ma l’idea
semplicistica di produzione, l’assunzione ingenuo dello spazio territoriale come referente analitico e
organizzativo. Non possiamo ritrovarci su ciò che chiamiamo con sarcasmo la “fabbrica confusa”,
perché in realtà il decentramento ce lo abbiamo sotto casa e vediamo tessuti produttivi, reticoli,
modalità, articolazioni del comando d’impresa in modo radicalmente diverso dal territorialismo
imperante. Questa esperienza dura circa quattro anni, incidendo in profondità, fino al tentativo di
occupazione della Lanerossi e alla sconfitta della piattaforma del ’76, quando lanciamo in fabbrica
la parola d’ordine del sabotaggio, cercando di tenere il livelli di combattività nei reparti con forme
articolate al di sopra delle nostre forze: ma in realtà l’esperienza complessiva trova un blocco
politico. Il ’77 decompone questo percorso: una parte del quadro che era cresciuto intorno ad esso
sceglie, con un’ottica che a me sembra paradossalmente neoentrista, la linea centrale che sta
passando nel Veneto, che è quella dell’Autonomia espressa dai compagni dei Collettivi Politici.
Chi resta guarda con interesse l’esperienza che a Milano Scalzone ha organizzato con alterne
vicende con i compagni usciti da LC nella fabbriche di Sesto: l’impressione che ne ricaviamo

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tuttavia è che questi compagni, bravissimi nel lavoro di fabbrica, siano poi sul piano delle
prospettive politiche piuttosto sconcertanti. Ricordo una riunione con quadri politici di quest’area,
credo soprattutto della Marelli, dove questi se ne vengono fuori con un discorso sulla produzione di
pasta in fase di guerra civile dispiegata e pretendono che questo sia un termine di confronto politico!
In realtà la coniugazione diretta di radicalismo operaio e iniziativa politica resta inscritta in un
primitivismo che avrà le sue facce tragiche.
Così sono, con la maggior parte dei compagni che hanno avuto con me un percorso comune, tra
coloro che non aderiscono a nulla di quello che c’è, continuando a fare politica nel radicamento e
nel movimento a partire da autorità personali, ricevendo legittimazione più da una capacità di
ragionamento e di parola che da istanze organizzative. Si chiude di fatto l’esperienza di
strutturazione politica in questa parte del Veneto. Restano appunto compagni nelle situazioni,
abbiamo un ruolo ancora in qualche modo organizzato nella lotta contrattuale degli ospedalieri alla
fine degli anni ’70, quella che io chiamo la mossa del cavallo perché mi pare che sia stato l’ultimo
momento, trasversale, di generalizzazione del vecchio ciclo. Il 7 aprile e ciò che ne segue ci
coinvolge indirettamente, ma per alcuni di noi c’è comunque un’esperienza di emigrazione o di
dispersione, tutto sommato analoga ad altre situazioni, con perdite del tessuto relazionale. Negli
anni ’80, nei rientri, nelle esperienze internazionali ecc., quei compagni che con me avevano
condiviso l’esperienza di Classe e Partito e avevano continuato sull’ipotesi della centralità politica
delle figure operaie pervengono alla constatazione di un limite analitico, che è sì un limite
nell’indagine dei processi sociali, ma c’è soprattutto un limite proprio al pensare la politica.
Nonostante negli anni ’80 fosse ragionevole parlare di una tenuta parziale dei livelli di classe,
andava considerato che l’ipotesi complessiva del ceto politico che si identificava con la ripresa del
marxismo rivoluzionario in Italia negli anni ’60 era stato sconfitta. Io ho qualche difficoltà a parlare
di operaismo per gli stessi motivi che ha Romano Alquati, si tratta di un’espressione che cerco di
non usare, anche se mi rendo conto che molte volte nella storia tu prendi le accuse degli altri e te ne
fai una bandiera, è stato così anche per i puritani; ma credo che valga la definizione di operaismo
rivoluzionario in Italia valga per l’esperienza consigliare degli anni ’20, punto. E’ opportuno
insistere sulla sconfitta, che rimanda alla dualità dello scontro, per non arretrare nel millenarismo
impolitico della ‘morte dell’ideologia’ – una forma un po’ scomposta dell’abiura in cui gli
intellettuali decidono di occuparsi d’altro, espressa peraltro in un linguaggio estraneo – o nella
‘analisi degli errori’, sempre ben disposta alla funzione reintegratrice dell’autocritica. C’è una
sconfitta dunque, ma dentro di essa va colta un’incapacità di scatto politico, di immaginazione
politica. La questione che noi percepivamo in maniera molto forte era la difficoltà di pensare
assieme riarticolazione di classe e rottura politica, e quindi di immaginare poi rottura politica e
riarticolazione come termini effettivamente dialettizzabili. Quindi, non le figurine dell’Ottobre o
della Lunga Marcia, magari con uno sfondo ipermoderno, ma neppure un’immagine lineare di
riarticolazione e conflitto. Io credo che sull’organizzazione del lavoro non si tenga mai, cioè che
storicamente l’organizzazione del lavoro non è un terreno su cui può darsi più di tanto resistenza
operaia. Il problema della riarticolazione andava pensato appunto tra politica e fabbrica o
produzione, e non in forme lavoristiche e/o insurrezionalistiche. Questo ha portato molti di noi a
ragionare sulla politica in termini anche disciplinari. Io faccio il filosofo della politica di mestiere -
cosa che non so esattamente cosa voglia dire, anche se qualcosa so su filosofia e politica -, se girare
per vent’anni tra borse, assegni e committenze è un mestiere. Molti di noi hanno comunque
continuato a lavorare in maniera collegata, coordinata su piattaforme che sono in gran parte
inevitabilmente universitarie, decentrate nelle discipline e con alterne vicende, però con un
problema comune. Tenendo, dove soggettivamente si stava, un rapporto con i livelli di classe per
quello che erano, e agendo politicamente in situazioni date. La cosa migliore è stata una sortita sulla
guerra balcanica, con una presa di parola su cui siamo anche riusciti a riaggregare una parte del
vecchio quadro, ma anche dicendo un po’ di cose nuove sulla centralità contemporanea del lavoro
migrante e riuscendo a produrre una qualche forma di schieramento, perfino in fabbrica. Oggi come

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oggi credo di non essere un militante a tempo pieno nel senso in cui lo ero negli anni ’60 e ’70;
credo di essere un militante però nel senso che continuo a essere all’interno di una rete di iniziativa
politica, nella consapevolezza che le figure della militanza non sono uguali in ogni fase storica e
forse neanche in ogni fase di vita. Dopodiché gioca anche, non so se sia un limite o una risorsa, una
grande distanza rispetto a molte dei nomi del presente: la grande occasione che può essere
rappresentata dal farsi movimento di nuovi mondi di soggettività sarà tale, se si saprà intercettare il
nodo del rapporto tra lavoro e politica e su questo produrre innovazione di agire, anche e forse
soprattutto oggi in quella specifica modalità dell’agire che è il pensare. Questo è grosso modo il mio
percorso.

- Quali sono stati, secondo te, i limiti e le ricchezze delle esperienze politiche degli anni ’60 e
’70, in particolare per quanto riguarda quel filone che, pur con tutte le diversità e sfaccettature,
possiamo chiamare operaista?

Alcune cose siano talmente acquisite che non vale neanche la pena di insistervi. Una cosa forse
meno scontata e che a me interessa è quella della determinazione delle figure di quadro politico. Se
noi consideriamo l’insieme di queste esperienze, troviamo sicuramente la fotografia di una
generazione che ha avuto espressione politica, e nel contempo forti limiti (sto parlando in senso
molto stretto di ciò che stiamo considerando) nella capacità di riprodursi e creare spazi di
soggettivazione. Credo che da questa prospettiva il discorso sulla forma piramidale che voi
accennavate all’inizio sia tutto sommato usabile anche nell’identificare la crisi di ceto politico che
c’è stata dopo gli anni ’80. Un’inchiesta radicale sulla storia del ceto politico credo sia tutta da fare,
ma ci sono comportamenti sociali che continuano a colpirmi e andrebbero indagati specificamente:
ad esempio, esperienze organizzative che si costruiscono per grappoli, traiettorie di associazione e
di dissociazione che operano in maniera centripeta, per cui con la stessa logica il collettivo della
fabbrica X entra nell’organizzazione Y e nel contempo allo stesso modo quando qualcuno della
fabbrica X si pente tutto il collettivo lo segue in sequenza (questa è una storia che nel milanese è
estremamente significativa). Nelle forme di deriva, c’è stata una dimensione che non è riducibile ad
una lettura in chiave psicologica, cui l’applicazione della psicologia di gruppo è del tutto specifica e
dove si evidenzia un sostanziale (ho qualche difficoltà persino a dirlo) limite etico della
costruzione/costituzione dei quadri: è una questione questa, se si riesce a non fraintenderla in senso
moralista, che segnala qualcosa d’importante sulle relazioni tra quadri, militanti e immaginari
(insisto su questo punto) dell’appartenenza, dove appunto si palesa la priorità della relazione sociale
su quella politica. Più che fare un bilancio dell’“operaismo”, abbiamo bisogno di capire che cos’era
la relazione politica che ha fatto legame tra quadri, militanti e operai all’interno di un’area ampia e
diversificata, che forse andrebbe compresa in termini complessivi di partito, se a questo termine
diamo l’accezione ampia della modalità organizzativa e politica di una data generazione che si
costituisce politicamente in fuoriuscita dall’eredità storica del comunismo italiano. Credo sarebbe
molto interessante riprendere una discussione che alcuni, in realtà pochi, avevano cercato di fare
sullo statuto di questo partito. Nel senso che buona parte delle contrapposizioni di posizioni
all’interno di quest’area sono state anche un contendere sullo statuto di partito, sia nel senso della
forma della statuizione politica, ma anche quello della ‘legalità’ della relazione politica nel
diagramma tra classe e società, esattamente cioè tra i due termini che antagonisticamente definivano
e probabilmente definiscono ancora il progetto rivoluzionario. Mi rendo conto che appaia
abbastanza peregrino, a distanza di anni e da quest’angolatura, insistere sulla questione dello statuto
di partito, sottintendendone una felice inattualità: credo che si sia riflettuto poco sui militanti, sui
problemi che hanno incontrato, sulla responsabilità dei militanti verso i militanti, e molte volte
(dicendola con una battuta) si sia confusa la schiuma dell’onda con l’onda. Penso che in questi anni
ci sia stata un’afasia in cui si sono raggrumate molte delle questioni irrisolte e non più risolubili che
rende difficile anche ripensare la propria storia, un silenzio reso più assordante dall’imperare

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garrulo e vagamente secondo cui l’autocritica è prescritta e resa possibile solo quando tu recedi
dalla forma difficile del problema che hai incontrato alla sua caricatura. E questo non riguarda tanto
le ‘ideologie’, quanto proprio le prese politiche. Le forme di autocritica, e non sto parlando di quelle
ignobili, ma anche quelle fatte da compagni che pure hanno tentato di pensare in questi anni, si sono
date sempre dentro una sorta di regressione rispetto alla non sostenibile incandescenza di problemi
decisivi. Ciò ha determinato vie di fuga anche di carattere conoscitivo: una di queste è l’incapacità
di fare un discorso sul lavoro oggi da parte di molti che operano nelle scienze sociali con un passato
di movimento: non dico un discorso sulla classe, che è un discorso appunto sulla soggettività, sui
quadri e tendenzialmente sulla forma-partito. La regressione politica ha avuto un impatto anche su
questo terreno. Dopo di che si può anche dire che l’operaio di fabbrica è il nostro contadino
ottocentesco, affermazione che di per sé non dice quasi nulla, perché devi assolutamente riempirla
di altre cose. C’è in questo un abbandono di responsabilità di questo tipo a me pare richiamare una
questione di etica e di statuto, prima ancora che di analisi sociale., su cui ovviamente ognuno
argomenta come crede di dover argomentare. Credo tuttavia che sia qualcosa che continua ad avere
un tratto occlusivo anche rispetto alla lettura del presente.

- Noi abbiamo provato a differenziare i diversi livelli su cui bisogna muoversi. C’è un livello di
militanti di lotta, che si danno ogni volta che la lotta diventa movimento concreto e agire
sociale. Poi ci sono i militanti operai, in cui c’è un qualcosa di più della partecipazione alla
singola lotta, c’è anche un discorso di continuità all’interno di una situazione specifica data.
C’è poi un livello di militanza politica che è una cosa diversa: alcune volte si sommano, le
persone passano da sotto a sopra, però sono livelli differenti. E poi c’è un livello di direzione
politica, ossia militanti che non hanno solo la dimensione politica ma anche quella di direzione
del movimento. L’altra cosa che bisogna specificare è la differenza tra quadri e militanti.
Un’ipotesi potrebbe essere quella di considerare il quadro come una figura che in qualche
modo attua e rende effettiva una “linea”, un punto di vista già espresso in un altro ambito.
Sono le figure intermedie dal processo dirigente al processo esecutivo, quindi chi permette
l’attuazione di un processo. Mentre invece il militante è una figura diversa, ha una capacità di
fare e di rendere possibile un continuo su e giù fra un discorso di elaborazione e un discorso di
verifica, quindi ha anche una dimensione più autonoma di costruzione del progetto, al di là di
dove esso venga collocato all’interno di questa scala. Il militante della lotta, per esempio, è
quello che comunque ha una capacità di rendere la lotta effettiva, di darle una certa dimensione
e determinati obiettivi.

E’ uno schema industrialista, non so se poi si applichi davvero questa differenziazione.

- Pensa però ad alcuni istituti come per esempio il sindacato, o i partiti politici tradizionali ed
istituzionali, dove il semplice livello di collocazione dà anche un livello di elaborazione e di
autonomia effettiva: più sei in basso e meno hai autonomia, più sei in alto e più hai relativa
autonomia.

Il rischio è quello di avere una fotografia con un eccesso di messa a fuoco, con contorni troppo
marcati. Se consideriamo i tracciati della soggettività, ho l’impressione che non sempre il modello
industrialista sia perspicuo, non solo rispetto alla storia di chi si inscriveva nel progetto comunista,
ma anche per le istituzioni del movimento operaio. Il rischio è di omologare esperienze differenti
per perseguire un’istanza giusta di de-ideologizzazione. Se ripenso a quanto è successo nel Veneto,
singole realtà organizzative, lo schema che avevate individuato prima probabilmente vale per i
singoli segmenti organizzativi, ma più trasversalmente va riconosciuta una maggiore complessità.
C’è un quadro che è stato di innovazione politica che si seleziona nel corso degli anni ’60,
determinando un’espansività che sedimenta una stratificazione in fondo anche generazionale di cui

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certo è possibile riconoscere tracciati biografici e lavorativi omogenei rispetto a quanto dici. Però,
se ragiono guardando alle organizzazioni in maniera non autoreferenziale, penso che il discorso
cambi e l’immagine piramidale mostri dei limiti.

- Completo la domanda. Il discorso della militanza è completamente diverso. Ha un livello di


autonomia e di progetto, dall’altra parte ti permette comunque un discorso veramente di
costruzione altra.

Voi pensate che in qualche modo il militante sia politicamente più soggettivato del quadro?

- Si tratta proprio di un processo diverso. Il militante è in realtà la capacità di costruire una


relativa autonomia, di progetto, di azione e di presenza. Dopo di che in realtà la figura
necessaria a un processo di trasformazione è quella del militante. Tante volte coincidono nella
stessa persona le due figure, nel senso che sono due figure spurie, all’interno di un lavoro
politico è difficile essere solo militanti o individuare solo il quadro politico. Però, anche lì c’è
una profonda ambivalenza tra queste due figure, c’è una differenza sostanziale. Allora, è vero
che per quanto riguarda il discorso del quadro il modello è in parte industrialista, ma non è
assolutamente vero per il discorso del militante.

Sì, qua sono d’accordo. Quella che mostra maggiore sofferenza in questo discorso è la figura del
quadro. Penso alla problematicità delle esperienze di soggettività organizzata o strutturata rispetto al
tradizionale quadro di partito: costui è tendenzialmente il funzionario, anche se non è solo questo
ovviamente. Va riconosciuto che all’interno delle organizzazioni che si rivendicavano come
rivoluzionarie processi di funzionarizzazione o professionalizzazione subordinata ci sono stati, però
con modalità di istituzionalizzazione diversa, con un rapporto con i militanti di tipo differente. Ma
soprattutto, se noi usciamo dall’ottica stretta che indaga la singola realtà organizzativa, troviamo
un’immagine più mossa, un po’ da arcipelago, che mette in discussione proprio questo passaggio
militante-quadro. Tornando un po’ alle cose cui accennavo prima, se noi stiamo a vedere dove
processi di capacità di autonomia e di responsabilizzazione rispetto alle situazioni e agli altri
militanti si producono, si producono molte volte su una situazione che non ha il proprio perno nei
processi organizzativi istituzionalizzati, come poteva avvenire nella tradizione dei partiti comunisti
ad esempio, ma è qualcosa di differente. Credo che sarebbe opportuno tornare a quanto accennavo
prima sui fenomeni di scomposizione e di devoluzione. Ho l’impressione che ci sia stato in realtà
qualcosa nell’esperienza soggettiva che noi non abbiamo pensato a fondo. Ad esempio, la
diffrazione di fasce intermedie rispetto a quadri di riferimento che voi chiamereste della fascia alta
si è determinata in maniera a volte politicamente significativa. Credo che ognuno di voi possa
riempire senza difficoltà di nomi questi processi di scollamento che hanno probabilmente a che fare
col generazionale-situazionale. La storia ad esempio degli esiti di Potere Operaio nel Veneto è
anche una storia tutto sommato che può essere scandita secondo i decenni (anni ’60, anni ’70 e anni
’80), oppure può essere indagata a partire dai livelli di scolarizzazione ecc. Non riesco a collegarlo
chiaramente, ma continua colpirmi che, ad esempio, intere verticalità organizzative, perso il perno
di riferimento, siano state politicamente azzerate, mentre altre hanno continuato nel mare burrascoso
di questi ultimi 15-20 anni a produrre soglie, forse non più che soglie, ma comunque soglie di
soggettivazione e di presa di parola politica e nel contempo macchine di pensiero, fermo restante
che il pensiero è probabilmente mai come oggi una cosa che ha che fare con la politica. Lo schema
che proponete è interessante, perché in qualche modo è uno schema a verifica; e nel contempo però
ho l’impressione che sulla figura del quadro, che è quella più omologa ad esperienze classiche, sia
di impresa sia di partito, ci sia qualcosa che io ho difficoltà in qualche modo a rendere operativo dal
punto di vista analitico. Ma ciò più che un’intervista richiederebbe un seminario, anche se penso che
sia una cosa di estremo interesse.

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- Quali sono i stati i tuoi numi tutelari? Quali figure ti hanno indirizzato verso certe dimensioni e
quali autori consideri tuoi punti di riferimento?

Questa è una domanda difficile, perché ha risposte ovvie, ma per alcuni aspetti poco personali. Per
la mia generazione sicuramente l’incontro con chi aveva portato avanti la linea da Quaderni Rossi a
Classe Operaia è stato ovviamente decisivo. Per chi come me veniva, anche se in condizioni assai
particolari, dalla militanza comunista esso ha assunto un valore emancipativo enorme Questa
provenienza probabilmente ne ha determinato alcune caratteristiche specifiche e forse qualche
diversità Negri è uno verso cui tutti siamo debitori di una sollecitazione politica e di pensiero che va
riconosciuta, al di là delle scelte e di opzione teoriche, ma quando dicevo un po’ come battuta che
noi eravamo più trontiani che negriani, forse anche perché Toni era a distanza di 30 km., esplicitavo
anche un dato che probabilmente nella mia formazione, ma anche in quella dei compagni con cui ho
lavorato e nell’immaginario anche di quelli più giovani tra questi, un discorso sulla storia
comunista, senza nessun continuismo, in qualche modo ha avuto un qualche peso diverso rispetto a
quei compagni che venivano direttamente da esperienze di movimento. Mi rendo conto che detta
oggi suoni un po’ curiosa, però c’è stata una diversità d’accento per coloro che hanno comunque
avuto un rapporto reale con le forme storiche e di massa del Movimento Operaio. Il che non
comportava alcuna riduzione della critica, però comporta a volte una percezione diversa dei
problemi, questo sì. Quando leggevo le cose di Romano sui quadri su Classe Operaia poi raccolte
da Guido Bianchini in volume, e nel contempo facevo intervento in Lanerossi, dove mi trovavo
davanti una storia politica operaia lunga e paradossalmente compresente (dai bordighisti in avanti),
percepivo che ragionare su alcuni elementi di soggettività, di stratificazione della composizione
politica mi serviva anche a capire i lessici, i linguaggi, le modalità. E lavorare anche sulla durata,
sulla tenuta. Ricordo un ragazzo dell’Alfa di Arese, tra i pochi di Potere Operaio, di quelli che
incarnavano alla perfezione la figurina del rifiuto del lavoro e di quella cosa che sul piano del
quadro politico secondo me non è mai esistita, cioè l’operaio-massa. Lo dico senza polemica, nello
stesso modo con cui Italo Sbrogiò affermava che l’operaio-massa è stata una delle invenzione più
felici dell’intervento a Marghera, ma che, almeno lì, non c’è mai stato. Ebbene questo giovane
operaio con l’orecchino insisteva a spiegarmi che il padrone sbagliava a fare la produzione,
mescolando in un unico parlare almeno trent’anni di stratificazioni discorsive operaie. Non è male
ricordarlo in un clima di imperanti postfordismi, basta che non venga fuori qualche babbeo a dire
che sono fermo al paradigma fordista.
Allora, da questo punto di vista, chi ha influenzato il mio modo di ragionare sull’intervento politico
è stato chi ha ragionato sulla forma complessiva del movimento operaio ha influenzato di più la mia
sensibilità, senza paradossalmente darmi maggior buon senso in fatto di radicalismo. Devo fare un
esempio: rispetto al quadro dirigente di PO di seconda generazione, uno come Oreste Scalzone mi è
sempre sembrato politicamente più intelligente di altri, al di là delle sue traversie e dei suoi disastri
personali, proprio perché aveva una comprensione non estremista dei processi in questo senso
specifico, cioè nel senso della complessità delle figure, delle relazioni, della stratificazione e nel
capacità di introdurre elementi di rottura su punti determinati.
Le modalità di influenza sono sempre problematiche: se volessi fare un discorso personale devo dire
che in questi trent’anni ci sono esperienze intellettuali e personali molto diverse, da una pratica
analitica freudiana al recupero, o forse meglio al riconoscimento, di una passione filosofica di
vecchissima data che non sono più disponibile a risolvere nei termini compositivi della coppia
teoria-prassi. Certo, c’è stato un lungo lavoro filosofico sugli assetti logico-concettuali del politico e
della politico, fatto in anni di ricerca con altri in università, in particolare con il gruppo di lavoro
sulla storia dei concetti politici a Filosofia a Padova e dove per me si sono determinate anche lì delle
figure di magistero e delle referenze forti. Credo molto in questa fase (non so se c’entri con la
domanda) sull’azione parallela: penso che ci siano piani di pensiero, piani di iniziativa, linee di

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condotta che non sempre o non linearmente, specialmente in anni come questi, portano a sintesi, e
anticipare sintesi ha senso e potenza solo sul piano della politica pratica. In fondo, non credo di
avere un pedigree diverso dalla mia generazione. Senza dimenticare poi l’operaio metalmeccanico
che nel ’66 mi ha insegnato come si deve scrivere un volantino!

- Romano sostiene che l’operaismo si potrebbe inscrivere in un poligono i cui vertici sono la
politica, la cultura, gli operai e l’operaità, la dimensione giovanile e generazionale. Tra questi
vertici l’operaismo si è mosso, ha cercato di farci i conti o non vi è riuscito.

L’“operaismo” è stato in Italia anche la percezione di una transizione sociale e la modalità critica di
modernizzazione culturale. Il confronto con ‘forme alte’ del pensiero borghese o lo stesso modo di
formulare la critica dell’ideologia hanno sicuramente indotto un processo di acquisizione
conoscitiva e a volte cognitiva che le componenti moderniste della cultura italiano degli anni ’50 e
’60 solo in parte avevano alluso. Probabilmente è vero che interi capitoli della sociologia classica,
penso a Max Weber, siano stati recepiti nelle lettura critica che ne ha fatto la generazione che ha
promossa la ripresa del marxismo negli anni ‘60. La peculiarità del marxismo italiano è stata quindi
anche una forma di modernizzazione ipotecata politicamente, questa credo sia molto evidente. In
fondo tutto ciò è avvenuto secondo una modalità omogenea a quella dell’analisi politica che
assumeva la modernità politica della classe come indicatore della modernità capitalistica del paese.
Paradossalmente in Francia non è stato il marxismo, ma è stata la rilettura lacaniana della psicanalisi
(anche qui innovazione come ortodossia) ciò che ha complicato e messo in discussione alcuni
profili di provincialismo culturale, operando in un contesto culturale un processo, forse secondario,
ma effettivo di ‘modernizzazione’ culturale. Questo discorso sulla modernizzazione ipotecata
politicamente vale anche per la questioni generazionale, nel senso che penso che almeno in alcune
aree del paese (ma forse non solo) generazioni di giovani di formazione medio-alta abbiano potuto
probabilmente interpretare (e comunicare con) giovani non intellettualizzati o meno scolarizzati
attraverso griglie di quel tipo. Credo che ci sia stato una sorta di ‘collante riflessivo’ di un processo
di modernizzazione formativa che forse tornerebbe utile a ragionare sul rapporto operai/ceto medio
dal ’60 in avanti.

- Tu ti sei occupato molto della politica, facendo ad esempio degli interessanti studi su Hobbes.
Possiamo parlare della politica come gestione e amministrazione dell’esistente, e invece del
politico come agire organizzato volto alla trasformazione, al rovesciamento, alla rottura dei
processi. Romano parla inoltre, come peculiarità sistemica, della politicità intrinseca e
socialmente diffusa come potenziale d’influenza o condizionamento che ciascun rapporto,
scambio ed attività sociale e suo luogo ha nei confronti del potere e del dominio. Poi si danno
ovviamente le particolari forme di incrocio e di articolazione di categorie che comunque sono
differenti. In questa ricerca verifichiamo che buona parte degli intervistati sono concordi
nell’individuare nella politica un grande buco nero dell’operaismo, in tutte le esperienze e
opzioni che al suo interno si sono date. Però, il modo di intendere la politica della maggior
parte degli operaisti è ancora oggi in termini principalmente organizzativistici, ossia c’è una
certa identificazione tra politica e organizzazione e forma-partito. Lenin, per esempio, ribaltava
i termini: partendo da una particolare composizione e potenziale soggettivazione di classe e
analisi complessiva della dimensione socio-economica, la politica e il partito diventano il luogo
di elaborazione dei grandi obbiettivi, della riformulazione del programma comunista, ed i
mezzi, tra cui il discorso organizzativo, vengono funzionalizzati ai metafini, relativamente
mobili eventualmente. Romano sostiene che l’operaismo è stato connotato da un certo silenzio
sui fini e sugli obiettivi politici, e quindi su una necessaria rielaborazione del comunismo,
anche in relazione ad una nuova fase capitalistica in Italia, quella del taylorismo-fordismo, e
soprattutto alla nuova operaità dell’operaio-massa. Se si pensa ad esempio al discorso della

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classe come strategia, il partito diventa esclusivamente la tattica, il luogo deputato
all’organizzazione e finanche alla politica come tecnica verso fini su cui, da parte di quasi tutti
gli operaisti, calava il silenzio.

Questo è assolutamente giusto, ma non credo che sia una cosa imputabile in particolare alla
generazione di Classe Operaia. Ha forse giocato lì una divisione, ‘sociologicamente’ interessante
ma a volte infelice politicamente, del lavoro e delle competenze. Leggendo Classe Operaia a volte
si ha l’impressione di intuire questa ripartizione a partire dal tipo di attenzioni che uno si è preso. Io
credo tutto sommato che, all’interno della marea enorme di sciocchezze dette dalla nuova sinistra, la
linea che va da Classe Operaia in avanti sia quella che ha tenuto nella propria filigrana più aperto il
problema politico, cioè la specificità del problema politico. Molto è restato implicito, non
tematizzato e quindi ciò ha reso difficile fare i conti con esso. O meglio, ha giocato un limite critico-
dialettico, per cui producendo una conoscenza dell’oggetto veniva dato per assodato che ciò che
pertineva al tuo operare non fosse affetto dalla necessità di riflessione sulla politica in quanto tale.
In questo senso l’osservazione che il problema era ridotto a organizzazione o a comunicazione
organizzativa è giusta. Quando parlavo prima di statuto intendevo appunto qualcosa di simile.
Restava così un’idea assolutamente tradizionale della rottura politica, che si voleva riempire di
contenuti o di assunti fenomenologici differenti. Penso che un’analisi moderna delle figure di
classe, dagli anni ’60 agli anni ’70, si sia accompagnata a un’idea della rottura politica di tipo
assolutamente tardo-bolscevico - per non parlare delle deviazioni attivistico-militariste. In realtà
anche dopo l’idea di rottura politica è restata molto opaca. Devo dire che chi ha pensato su questo è
stato Negri, il quale bene o male credo abbia sempre cercato di ragionare su questo punto. In un
saggio che considero uno dei più belli di Negri, che è Il rompicapo della transizione, penso che in
realtà ci sia un tentativo serio di presa su un problema, partendo dalla sovradeterminazione politica
del mercato. Credo tuttavia che il limite grosso sia quello di darne un esito che è essenzialmente
istituzionalistico, cioè che, al di là della piegatura rivoluzionaria, lì si prefigurasse una soluzione di
tipo istituzionalista in senso classico, giuridico-politico, e che questa sia tutto sommato, e
probabilmente lo è stata anche agli occhi di Negri, una via non percorribile in termini anche di
pensiero. Se devo pensare al Tronti de L’autonomia del politico lì non c’è un recupero della politica
che dia un elemento di apertura, politico e politica sono del tutto implicati reciprocamente. Devo
dire però che, per quanto ne avessimo parlato tutti malissimo all’epoca (l’autonomia del politico è
stata un pessimo canovaccio per l’attività politica del gruppo trontiano stesso) bene o male ha
sollevato il problema ed è stata matriciale per una serie di studi tutto sommato utili, almeno in senso
storiografico, ma non solo. Credo che tuttavia resti da questo punto di vista un blocco. Andare oltre
una dimensione rappresentativa della politica, senza ripeterci la favola bella della democrazia diretta
resta un problema grosso, perché ci porta a fare i conti con tutta la storia dello Stato – ovviamente
moderno, ma è solo un pleonasmo – e a questo riguardo il ribadire la nostra estraneità alla contiguità
partito-stato serve a poco, dato che l’eccedenza della politica all’orizzonte dello Stato non può
saltare la propria relazione decisiva allo Stato stesso. Ciò richiede più che un salto mortale critico-
dialettico e resta un problema grosso su cui esercitare pensiero, non saturabile da quello che a me
pare essere in discorsi recenti, anche importanti, il riapparire di un ambiguo organicismo. Ho
l’impressione che in molti discorsi di recente su comando e cooperazione, sulla loro coestensività,
emerga una nozione di cooperazione sociale che difficilmente lascia spazio a un pensiero di
innovazione politica. La stessa nozione di costitutività, al di là del ciclo storico dello Stato, perde il
proprio carattere dirompente e asimmetrico di fronte a un’idea della cooperazione sociale che è in
qualche modo di tipo organico e perfino organicista. Francamente credo che in questo contesto
l’abbandono del concetto di classe a favore di termini in apparenza più sciolti e di più lunga
evocatività storica, come moltitudine, in realtà non risolva alcuna delle questioni che sollevava, se
capisco bene, Romano. Moltitudine è un termine austero e può essere importante in un duplice
significato. Perché da un lato solleva sul versante del pensare la politica la questione della pluralità

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fuori della forma (la sequenza Stato-Popolo), dall’altro ci dice qualcosa sul modo di essere attuale
della classe, sulla sua irrapresentabilità e sulla sua impensabilità come soggetto con la S maiuscola.
Nel senso che il rapporto fra lavoro e classe è un rapporto di soggettivazione, ma la classe appunto
non è il soggetto della storia, ma uno spazio, una dimensione topologica forte di soggettivazione
politica. E’ il prodursi di soggettività che si tiene a. Ritengo che ci sia molta azione parallela da fare
in questa prospettiva. Però, starei sempre molto attento a evitare cortocircuiti, perché ho
l’impressione che indichino vie troppo semplici: quello che è un problema diventa una soluzione e
poi diventa una parola d’ordine, dopo di che non si capisce più a chi si rivolge.

- Quali autori, secondo te, possono nell’oggi fornire delle importanti chiavi di lettura critica in
un discorso sulla politica?

Diamo una versione minimalista alla domanda, parlo di cosa è probabilmente utile su questo
terreno. Intanto vadano prese sul serio tutte le operazioni che ricostruiscano criticamente la
strutturazione logica dei dispositivi politici moderni: penso che questo lavoro decostruttivo sia
ancora molto importante, non come fine a se stesso, e che vada protratto con radicalità ancora a
lungo. Credo che ci sia una riflessione anche di ordine filosofico da spingere avanti su identità,
soggetto, soggettivazione. Leggevo proprio poco fa l’intervento di Tronti a un convegno
essenzialmente di storici fatto a Piombino su classe operaia e identità. Questo insistere su identità
lascia spazio solo alla memoria, manca completamente la questione della soggettività o la riduce a
soggetti immaginari dei processi collettivi. E’ importante insistere su questo punto sul tema del
nesso collettivo-individuale, anche nelle discipline sociologiche, quelle sociologiche ad esempio. E’
un passaggio che risulterà decisivo politicamente. Faccio un esempio: credo che dobbiamo rendere
conto più di quanto sia stato fatto dell’esperienza storica del socialismo reale. Le file davanti alla
Porta di Magdeburgo alla caduta del Muro rappresentano un problema di antropologia politica (cioè
non di antropologia) che ci chiede di ragionare non sulla del socialismo come ideologia o avvenire
virtuale, quanto sull’antropologia politica degli stati postrivoluzionari, e se vogliamo un po’
provocatoriamente sull’antropologia del welfare-state, tirando dentro a questa esperienza, con una
riserva politica, anche l’esperienza degli stati di cosiddetto socialismo reale. Credo che ci sia poca
riflessione sull’antropologia politica dei dispositivi di sicurezza sociale allargata. In questa direzione
costruire un discorso su individualità, singolarità, spazi di soggettivazione, costituisce un lavoro
importante da fare. Oltretutto in questo momento mi pare che ci sia una sensibilità comune su
questo punto, in termini appena diversi uno come Paolo Virno sta facendo un tentativo in questo
senso. Con Mezzadra, Ricciardi e altri abbiamo costruito un network di ricerca su società, che ha
questi temi come soglia e strumento critico l’ambivalenza politica dei processi di
individualizzazione, di singolarizzazione. Le cose che mi sembrano più interessanti nell’orizzonte
di un postmarxismo conclamato come quello francese, penso a Badiou e in prospettiva diversa a
Balibar, vanno in questa direzione. Ma sul postmarximo comunque la cosa è sempre un po’
tragicomica, un’amica che si chiama Heidi Gerstenberger, una storica molto brava, il cui tasso di
ortodossia è credo maggiore a quello di tutti noi, mi diceva una volta di non potere definirsi
marxista perché non credeva nelle leggi del materialismo storico! In tema di definizioni resterei
almeno provvisoriamente su quella, tutta politica, che dava Lenin, il problema è capire cosa possa
significare, consumandosi, oggi.

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INTERVISTA A FRANCO PIPERNO – 31 AGOSTO 2000

Vorrei fare una premessa limitativa a quello che dico che è alla fine strettamente legato a quello che
faccio, come a mio parere è inevitabile che sia: io faccio il fisico di mestiere, poi mi occupo di
cablare una città. Dico questo per dire nello stesso tempo che sono fortemente e inevitabilmente
condizionato, al di là di quello che coscientemente riesco a definire, da un tipo di scelta d’azione e
di vita sociale che ho. Allora, detto questo in premessa, se dovessi caratterizzare la situazione di
oggi rispetto a quella dell’inizio degli anni ’60 e a quello che è partito verso la fine degli anni ’60,
farei riferimento prima di tutto al ruolo diverso che gioca il lavoro nell’innovazione, cosa che a me
sembra assolutamente decisiva per caratterizzare la fase. Una volta l’innovazione in fabbrica aveva
certo quella che, in una conferenza di tantissimi anni fa, Romano Alquati chiamava, riprendendola
da Marx, la via per così dire delle scienze, del pensiero tecnico-scientifico che si materializza in
strumenti (ad esempio la cellula fotoelettrica che permette il controllo della catena); aveva poi
l’altra via dell’innovazione che era dovuta al risparmio di fatica operaia. Almeno per me gran parte
dell’interesse intellettuale della condizione operaia era esattamente questa cosa (non dico che questo
sia così in generale, sto parlando della mia esperienza). L’operaio lì ha una funzione innovativa, se
si vuole anche suo malgrado: lui lo fa per risparmiare fatica, ma la conseguenza è una conseguenza
generalmente umana, per esprimermi nel gergo della tradizione marxista. Allora, quello che è
venuto a mancare è esattamente questo, e quelli sono, per così dire, gli anni del processo di
estinzione (ora esagero per ragioni dialogiche, per fissare le cose fra di noi).
Però, a me sembra che tutto il processo di automazione, e sostanzialmente poi l’introduzione in
senso forte della telematica nel processo produttivo, abbia come conseguenza significativa questo,
al di là di una definizione economica della condizione di classe tramite la categoria dello
sfruttamento. Fra l’altro su tale definizione io ho avuto fortissime perplessità fin da piccolo, perché
per sfruttare bisogna che ci sia qualcuno che davvero produce, cioè qualcuno che accresce davvero
il valore di quella merce, che questo qualcuno non sia genericamente tutti perché se no la cosa non
funziona. Allora, al di là di come la teoria economica, anche di parte marxista, si è rappresentata il
processo, era dubbio che si potesse parlare di sfruttamento, perché questo comporta un’idea di
produzione e accrescimento della ricchezza che invece non è così ovvia come sembra, cioè può
anche darsi che la ricchezza non si accresca mai, che semplicemente si distribuisca in maniera
diversa nel tempo di una giornata, dei consumi, delle forme. Dunque, dicevo che, a parte la
definizione in termini di sfruttamento, la definizione invece o il riferimento alla classe operaia in
quegli anni per noi del movimento, e anche per noi della FGCI (perché io in quegli anni ero nella
FGCI, stavo a Pisa e c’era tutto un piccolo gruppo di studenti ma anche di operai, non molti ma
c’erano), riguardava le forme di insorgenza, le condotte di massa operaie interessanti proprio dal
punto di vista dell’effetto innovativo che avevano sul processo produttivo. Detto ancora in altri
termini, da questo punto di vista la classe operaia appare, in una specie di romanzo su come è
andata la storia dell’umanità, come quella che realizza questo sogno antropologico umano di
scaricarsi la fatica: scaricare la fatica fisica, scaricare possibilmente anche la fatica cerebrale nei
termini in cui è fatica, e quindi in cui in realtà è ripetizione. Ciò perché è solo parzialmente un
problema di capacità di fare lavoro fisico con i muscoli, in gran parte si tratta di fatica nel senso che
la ripetizione, per come è fatta la nostra condizione umana, comporta una mera fatica; è anche una
cosa che viene disprezzata nella tradizione dei movimenti di liberazione, per come corrono nei
secoli, la fatica brutale e ripetitiva viene disprezzata. Allora, da questo punto di vista le lotte di
classe operaia sono state in qualche maniera come la conclusione di questo lungo percorso:
conclusione che ha portato a una sorta di matematizzazione del mondo come cosa vista dall’altra
parte. Cioè, tutto questo è stato reso possibile perché in realtà c’è la macchina automatica, e questa
non ha una base esperienziale, ha soprattutto una base simbolica-speculativa: dunque, non è arrivata
attraverso l’esperienza, è arrivata attraverso lo studio, quindi attraverso le capacità simboliche
dell’essere umano. Quindi, da questo punto di vista naturalmente appare anche come una cosa
esterna, perché non è nata dal fatto che hanno automatizzato per esperienza, è nata dai teoremi di

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Turing. Questa stessa cosa si può vedere anche dal punto di vista della vigenza della legge del
valore, per dirla in termini a noi famigliari, da questo punto di vista naturalmente il richiamo alle
cose di Marx è assolutamente pertinente: è come se fosse saltato quel rapporto fra valore e tempo di
lavoro, ma ciò non solo nel senso della critica all’economia politica, ma è come se fosse saltato
nell’esperienza. Da qui i comportamenti che non si comprendono, cioè il fatto che uno possa
ritrovarsi disoccupato a cinquant’anni, tutte quelle cose che se le vedi dal punto di vista della vita
quotidiana sono paradossali rispetto a un certo regime a cui la società di fabbrica ci aveva abituato,
per cui avevi delle età precise in cui si facevano delle cose. Invece, qui c’è in realtà un
rimescolamento del tempo, del modo di concepire il tempo nella vita quotidiana, del modo come
attraverso la categoria del tempo noi ci organizziamo la vita quotidiana.
Allora, tutti questi aspetti qua per me sono intellettualmente enormemente interessanti. Non credo
in conseguenza che ci sia una specie di soggettività unica possibile; per me ovviamente non c’era
neanche prima, neppure nel Medioevo c’è stata, però il ruolo centrale che giocava la soggettività
operaia nell’Italia degli anni ’60 (per dare un riferimento concreto) era legato a questo fatto che la
poneva in qualche maniera al centro del processo di innovazione, il quale aveva delle forti
conseguenze anche sull’immaginario. Cioè, se si vuole, quell’idea (che del resto c’è anche in Marx)
del fattore modernizzante della condizione di classe era poi diventato come il punto di approdo di
questo sottrarsi alla fatica. E’ come se consegnando la catena di montaggio al computer ci si fosse
nello stesso tempo definitivamente scrollati di dosso la necessità della fatica. Quindi, questo è come
se aprisse delle nuove libertà, delle nuove possibilità che naturalmente a mio parere non c’è un
modo di conoscere se non sperimentandole. Dunque, è come se ci fosse da attendersi una
moltiplicazione di soggettività. Perché poi le soggettività sono come dei protagonisti collettivi, in
cui anche il singolo si identifica e attraverso questa identificazione si spiega il mondo e si sottrae
anche alle paturnie del non-senso della sua vita, tutte le cose di solitudine e di sofferenza che
dipendono dal fatto che la tua vita manca di senso: tu in genere questa cosa la colmi identificandoti
in un qualche protagonista collettivo, per solidarietà, appartenenza o altro non importa, perché
spesso la scelta può essere puramente ideale, tu puoi essere un questurino e parteggiare per i ribelli.
Per me la soggettività è importante perché sono queste forme collettive che entrano nel simbolico e
permettono al singolo di inserirsi in una cosa che lo renda organico a qualche altra cosa; perché il
dolore più forte non è quello della fatica e della disoccupazione ma è quello del non-senso, cioè è
quello di essere indotto in una condizione in cui il tempo ti scorre sotto il culo senza senso. Allora,
queste sono ovviamente anche tutte le angosce dell’individuo moderno ed è come se le cose di
Freud che prima erano state destinate agli alti borghesi di Vienna (ora lo dico in modo
supersemplificato) sono per me illustrative di un tipo di interiorità a cui si aprono milioni di persone
che prima erano in qualche maniera interdette, non perché ci fosse la repressione, se si vuole c’era
una repressione interna data dalle condizioni di produzione. Quindi, da questo punto di vista io
credo che la situazione sia anche più interessante di quella che c’era quando io ero giovane, quando
tutti questi movimenti sono cominciati: allora c’era inevitabilmente anche un sacco di paccottiglia
attorno a queste cose, per esempio c’era anche il marxismo-leninismo, che aveva assolutamente e
purtroppo uguale cittadinanza lì dentro; naturalmente io non mi nascondo che il marxismo-
leninismo, come in tutte le cose, è anche servito ad aggregare persone da questo punto di vista.
Per cercare di rendere il dialogo fra di noi più rapido possibile ho fatto un quadro ovviamente
schematico e qualche volto anche rozzo, però questo per dire il tipo di cosa dentro cui io mi sento
inserito, che ha anche delle analogie con le cose che fanno i miei amici, come Toni oppure Alberto
Magnaghi, sono molto interessato alle sue cose sulle piccole città della Toscana. Io, per esempio,
dentro a ciò reputo assai importante il potenziamento o la costruzione di forme di democrazia,
quindi sono interessato e vedo con simpatia qualsiasi cosa federale anche che venga da Previti;
naturalmente so che non verranno con le leggi queste cose, prima di tutto devono passare attraverso
le esperienze, le esperienze molecolari per così dire. Sono molto interessato per esempio alle forme
di democrazia municipale, di città proprio, e anche a tutto ciò che questo ha riguardo al tentativo di
vivere una vita degna di essere vissuta. Il fatto di fare esperienza di democrazia per me non è tanto

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una cosa importante perché la città funziona meglio: è importante per il fatto che la gente si abitua a
parlare in pubblico, ad avere una relazione in cui gli elementi e le proprietà comuni che hanno,
quando sono messe all’opera, rendono anche il singolo enormemente più sicuro di sé, in qualche
maniera più potente. Allora, a questo tipo di esperienze io sono fortemente interessato.
Credo invece che dal lato economico per così dire, compresa la critica all’economia politica, non
possa venire più niente (ora ovviamente esagero). Quindi, per esempio ho un po’ di diffidenza verso
il concepire un qualche ritorno ciclico della soggettività operaia, il che è naturalmente diverso dal
discorso più generale sulle soggettività collettive. Una soggettività operaia in quanto tale a mio
parere era profondamente legata a quel ruolo che il lavoro ha avuto dentro la forma della fabbrica,
cioè a quella sua collocazione di cui parlavo prima sull’innovazione, e ciò a mio parere è fortemente
saltato. Per esemplificare, si pensi al tipo di tecnologie che vengono usate in conseguenza a quali
sono gli ambiti produttivi che presentano tassi di sviluppo più alti: si vede che sono tutte del tipo
nanotecnologie, biotecnologie, sono tutte cose in cui l’elemento del sapere umano accumulato è di
gran lunga predominante, e i tempi di queste innovazioni sono tutti quanti legati a questo processo
di ricerca e di rapporto (che naturalmente per alcuni versi è anche deplorevole) rispetto alla natura.
Voglio dire che nelle biotecnologie e in queste cose il vero valore non è mica dato dal tempo di
lavoro che ci hanno messo i ricercatori a trovare il batterio tal dei tali oppure a trovare com’era la
catena del Dna: il vero valore è la sua capacità di riprodurre i comportamenti naturali e quindi di
affidare l’automatico direttamente alla natura. Si tenga presente che nello sviluppo delle tecnologie
c’è sempre stata questa idea per la quale il significato vero della tecnica è che ha un suo certo
automatismo, così come succede nelle cose naturali: una cosa è veramente tecnica quando tu al
limite gli puoi dire “parti” e quella parte, frena, si ferma. E’ anche questo un elemento interessante,
si noti, perché la tecnica propriamente detta non ha bisogno per il suo fruitore della conoscenza,
anzi è proprio per questo che la tecnica si diffonde: tu per guidare la macchina puoi in realtà non
sapere un accidenti sul motore a scoppio, oppure sul modo come funziona l’alternatore per
l’elettricità. O meglio, prendiamo il computer: la grande maggioranza dei miei amici non ha la
minima idea di come esso funzioni, né sarebbe in grado di fare il più piccolo programma. La grande
maggioranza dei miei amici usa in realtà il computer come una macchina da scrivere con una
memoria molto ricca, per cui tu la puoi interrogare; ma di tutto quell’altro aspetto che fa la potenza
del computer loro in realtà non ne sanno assolutamente niente, ma non è importante che ne
sappiano, così come uno può mangiarsi una mela che l’albero ha prodotto senza sapere niente di
come funziona biologicamente quello che è un frutto che è legato in un certo modo al terreno e alle
radici. Allora, dico tutto questo per dire che l’effetto nella vita quotidiana di queste nuove
tecnologie, le quali derivano direttamente dalla ricerca scientifica, è di introduzione anche di
bisogni completamente nuovi, che prima senza questi oggetti non avresti potuto avere. Da questo
punto di vista secondo me è come se l’iniziativa politica sovversiva si spostasse direttamente sul
terreno della produzione: si tratterà cioè di vedere, dentro una cosa di questo genere, che tipo di
bisogni tu ti puoi collettivamente inventare. Ma mi rendo conto che è complicato e naturalmente il
problema per molti aspetti è irresolubile, è un modo per introdurre il discorso.

- Vorrei che puntualizzassi alcune cose. Ad esempio, innovazione: l’innovazione di per sé è


sempre da un punto di vista che è sistemico o capitalistico. Quello che viene in
contrapposizione alla dimensione sistemica e capitalistica solitamente non è l’innovazione, ma
sono i processi differenti, a volte quelli di rottura, a volte quelli di resistenza o anche di
anticipazione. Questa è una cosa che in alcuni momenti si dà come dimensione chiara, in altri è
confusa. Per esempio, in una parte dei discorsi di Negri, come anche in altri, c’è da alcuni anni
questo discorso forte dell’innovazione, in cui non viene però colta la dimensione di campo.
Questo fa interpretare determinati processi e cose che accadono in un modo in cui non si
capisce più qual è la parte che li muove. Questa è una cosa significativa su cui bisogna
riflettere. Poi è vero che certo non è la dimensione della soggettività operaia, su cui hai
sicuramente ragione tu, però la soggettività di parte (che si può definirla collettiva, proletaria

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ecc.) è qualcosa di differente da una soggettività capitalistica: oggi nella società agisce in
termini forti una soggettività che è sistemica e che è capitalistica.

Però, secondo me quello è come un ritardo, non so come dire, è una cosa che non riguarda solo i
capitalisti, riguarda tutti noi perché è una sorta di interiorizzazione dell’economia, per cui per noi
moderni l’economia è diventata come un sentimento, niente ci sembra più reale dei soldi. A mio
parere lo sviluppo del processo dell’innovazione ha una caratteristica secolare che è, oltre la classe
operaia, anche altre forme e modi di produzione. Bisogna anche che io dica, per cercare di spiegare
perché raffiguro così le cose, che la mia idea è che in una stessa società ci sono tante forme di
produzione. Non è che, ad esempio, a New York c’è la forma di produzione capitalistica punto e
basta, perché così non si riuscirebbe a capire niente degli Stati Uniti; questi hanno nello stesso
tempo, e nei momenti di emergenza vengono fuori fra l’altro, forme di scambio che non sono per
niente legate all’equivalente, cioè sono cose di solidarietà, di chiese, africane, cose anche orribili
onestamente, però certamente non della logica capitalistica. Quando tu dici che non viene fuori la
natura di campo è perché tu presupponi in realtà l’esistenza di una polarizzazione prima ancora che
essa si manifesti. Secondo me, il punto vero dell’innovazione è che, poiché non è una cosa arbitraria
ma è legata alla natura, e noi siamo degli animali, non siamo un’altra cosa, allora in noi questo
aspetto della socialità, della comunicazione e della cooperazione è un aspetto animale: facciamo le
città in qualsiasi modo di produzione perché è così che noi come animali ci comportiamo. E’ così
come fanno le api, non si troverebbero cinque api da sole, o se le trovi è come effetto di devianza.
Da questo punto di vista, questo processo di scaricare il corpo dalla fatica è secondo me una cosa
che ha delle conseguenze nel nostro modo di vivere oltre che nella stratificazione sociale. Per dirla
in positivo, secondo me le soggettività non sono tanto contro, ci sono anche le soggettività contro,
ben inteso, è evidente, ci sono anche tutte le forme di resistenza e pure di sofferenza; però questo a
mio parere non è l’aspetto più interessante, io temo che il povero, l’emarginato sia una condizione
umana. L’aspetto secondo me più significativo è quell’altro di avere delle soggettività per. Io penso
anche che le cose più significative del ’68, di quel ciclo, siano state giusto in questo, di essere delle
cose che proponevano e in parte realizzavano, in una misura spesso mutilata riconosco, però
realizzavano altri modi di vivere. Quindi, a me sembra che ci siano oggi delle possibilità per via
dell’innovazione tecnologica, che a mio parere vuol dire concretamente che il tempo di lavoro
necessario è fortemente ridotto dal punto di vista del bisogno sociale; dal punto di vista del
disciplinamento allora il discorso è diverso. E’ come sulla legge del valore, secondo me quella non
vale più da un sacco di tempo, diverso è il fatto che poi dal punto di vista dell’organizzazione
sociale vi si ricorra ancora come elemento di disciplinamento. Per esempio, si pensi al rapporto con
il denaro: questo è stato per moltissimo tempo nella storia umana una cosa essenziale perché prima
di ogni altra cosa è un elemento di informazione, e quindi qualsiasi cosa fai il denaro naturalmente
rispunta, perché è un elemento che permette rapidamente di informarti giustamente sul valore delle
cose. A parte poi le altre nature del denaro, c’è questa natura per cui esso è un elemento di
informazione. Ma con la telematica (è lo si vede poi banalmente come conseguenza nell’uso della
tessera, della card) tutta la capacità informativa del denaro la puoi trasportare in una forma di
comunicazione tra gli uomini che non ha più assolutamente bisogno del denaro e ha una sua
razionalità (anche dal punto di vista quantitativo, perché puoi misurare la quantità di informazione)
assolutamente adeguata ai bisogni che ha. Quindi, alcune forme del denaro restano come mera
continuazione ed abitudine relativa a modi di organizzazione diversi, ma queste forme restano non
solo nei banchieri ma anche dentro di noi, come (facendo un brutto esempio marchiano) un organo
che non ti serve più e che continui però a trascinartelo malgrado non abbia più una funzione.
Allora, il mio interesse, anche proprio umano, sentimentale, è su tutte le forme di cooperazione che
noi possiamo fare senza prima aver fatto la rivoluzione e avere scacciato i nostri nemici. Se noi
pensiamo per esempio che il comunismo sia un’alternativa prima di tutto di vita quotidiana, non di
ideale proclamato, ma di modo di vivere, anche di umanità a mio parere, anche oserei dire di
dolcezza, di un vivere più caldo, allora se è così la cosa interessante è sperimentare quello che a noi

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sembra adeguato a questo, e subordinare tutto a questo tipo di esperienza. Non pretendere che tutta
l’Italia sperimenti, che tutti i centri sociali sperimentino, nessuna cosa di queste in partenza è
universale, casomai l’universale sarà un punto di approdo. Ma per riacquistare il nostro potere di
agire e quindi anche per potere appropriarci di questo terreno di possibilità che lo sviluppo delle
scienze del lavoro umano, del sapere in generale permettono, non c’è una via diversa dallo
sperimentare. Io non ci credo che ci sia una qualche teoria che sia in grado di dirci cos’è che
dobbiamo fare, proprio perché siamo come se (in senso metaforico) fossimo passati attraverso uno
stretto ed usciti in mare aperto, e che avessimo prima di tutto il bisogno di sperimentare nella
navigazione, ovviamente aperti al naufragio, quello è assolutamente evidente. Quindi, da questo
punto di vista sono interessato a tutte quelle esperienze in cui l’elemento di valore aggiunto (per
ripetere il linguaggio dei nostri governanti) sia dato dallo sviluppo di forme di autogoverno. A me
sembra enormemente più importante che un quartiere (entro certi limiti che sono dati dalle leggi
ecc.) riesca ad appropriarsi di tutti quegli spazi di libertà che ci sono e non sono occupati da
nessuno; non è che deve andare lì per cacciare un altro, perché alcuni non sono neanche capaci di
vedere certe attività che il capitalismo non vede davvero poiché non hanno una possibilità di
utilizzazione in termini di aumento progressivo del rendimento, semplicemente non le vedono
perché da quel punto di vista è come se avessero l’orizzonte delimitato dagli strumenti che usano.
Per me l’esperienza dei centri sociali non è mica interessante perché si proclamano di sinistra, lo
dico onestamente, anche perché lì avrei moltissime cose da ridire: quello che per me è interessante è
che questi si siano messi insieme e che abbiano in una certa misura costruito un loro spazio, o
almeno lo hanno fatto per un certo periodo, perché poi come tutte le cose vere non è che debbano
vivere eternamente. Però, per un certo periodo hanno esercitato questa libertà, hanno riempito di
contenuti una possibilità che prima era una vuota possibilità semplicemente attraverso l’azione
sociale. Quella è la forza, quello per me è un elemento di costruzione della soggettività. Spero
anch’io naturalmente che si possa costruire poi una soggettività che in qualche maniera sia
abbastanza universale da poter essere all’altezza del genere, dell’umanità; ma penso che questo,
come in altre epoche, sarà un frutto di lavoro, di ricerca collettiva e anche di scelte drammatiche che
ci saranno. Per esempio, sono in disaccordo con i miei amici qua a Roma che hanno fatto una
Camera del nuovo lavoro, perché penso che sia sbagliato tentare di organizzare i precari attraverso
un sindacato, secondo me è un errore. Ovviamente penso anch’io che ci siano queste forme di
lavoro nuovo, e peraltro non vedo negativamente queste cose part-time ecc., ma anch’io
chiaramente credo che ci sia bisogno di garantire loro dei diritti; ma questi diritti sono proporzionali
alla loro forza, non è che vengono da qualche teoria generale su quello che è giusto per gli umani, è
legato alla loro capacità di organizzarsi. Una cosa che a me interessa di questo tipo di lavoro che
diciamo precario per intenderci in maniera grossolana, è che il tipo di garanzie che richiede sono
quelle stesse che dovrebbero essere date in generale a tutti i cittadini. Piuttosto che regolamentare la
forma di prestazione del lavoro precario attraverso degli accordi tra sindacati e padroni o cose del
genere, secondo me sarebbe più giusto garantire per esempio al cittadino in generale delle cose che
vanno dalla sicurezza alla pensione; in quanto tale questo sarebbe dal punto di vista economico
assai più produttivo perché ovviamente scarica in parte i costi rispetto all’impresario, dall’altra parte
dà la garanzia al precario che se lui quel lavoro che fa non gli va deve avere la possibilità di
cambiare (possibilità che secondo me in realtà dal punto di vista pratico e fattuale c’è già, come
vedi nei comportamenti delle persone). Però, noto anch’io che c’è una differenza di garanzie fra
quel pacchetto di misure accordate al lavoro tradizionale e invece quell’altro, e penso anch’io che su
questo bisogna fare, ma secondo me nel senso di garantire dei diritti in generale, per cui quelli
diventano anche diritti del lavoro precario, ma non di rifare una cosa specifica e sindacale del
lavoro precario. Comunque, al di là del fatto se siamo o no d’accordo su questo, io lo facevo come
esempio per dire che ci sono alcune iniziative che non seguirei più; naturalmente fermo restando
che se invece le fanno, la cosa funziona e va bene io sono contento, non è che abbia un
atteggiamento negativo: non ci credo e non ci metterei delle energie in quella direzione, mentre
invece sarei più interessato ad altre forme.

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Per me è anche importante la concretezza del discorso e quindi il suo carattere pure locale: un conto
è affrontare queste tematiche nel Nord-Est e un altro è nel Sud. Io per esempio nel Sud sono proprio
anche interessato a una sorta di sua indolenza: non è che tutti i valori che dai giornali sono
considerati negativi sul Sud corrispondano al mio modo di vedere. Io ci vivo, sono nato là, ci sono
alcune cose del Sud, tra cui il rapporto con il tempo per esempio, che a me affascinano e che sono
cose del Mediterraneo, e penso che siano anche cose assolutamente importanti da salvaguardare.
Non tendo a caratterizzare il livello di vita dal reddito medio perché so che là c’è un trucco: sono
stato abbastanza in Somalia da sapere che non è vero che loro vivono con 100 dollari in un anno, è
semplicemente che c’è tutto un aspetto non contabilizzato del loro scambio che tuttavia è uno
scambio a pieno titolo, che non avviene secondo quelle regole là e che quindi non figura nella cosa.
Così è nel Sud: il tipo di vita che fai dipende da una capacità d’uso di quelle cose che stanno nel
Sud, se ce l’hai questa capacità d’uso, che è una sorta proprio di valore d’uso però riferito a quelle
cose là, quella figura concretamente come elemento di vera ricchezza che però non è contabilizzato.
Quando loro dicono che c’è il 50% di disoccupati giovani ad Enna dicono una bugia, il che è
interessante peraltro perché in Italia per metà ci si basa sulle menzogne pubbliche che nessuno
smentisce: ad Enna calcolano come disoccupati i ragazzi perché c’è una tradizione di quelle
famiglie. Io ricordo che mia sorella, che faceva l’istituto tecnico per ragioniere, quando aveva sedici
anni a un certo punto lei e anche i suoi compagni di scuola si sono iscritti alla lista di collocamento,
ora si chiamerà in un altro modo ma sostanzialmente è una lista di disoccupazione. Se lo facessero
in Inghilterra o in Finlandia o in Francia tu avresti subito naturalmente che la loro disoccupazione è
altissima: da noi nel Sud non solo c’è il lavoro nero, per cui quelli figurano come disoccupati ma
lavorano, ma soprattutto c’è un’abitudine che dipende da un rapporto (ovviamente malato però
spiegabile) che hanno con lo Stato centrale, per cui loro pensano che sia importantissimo infilarsi in
quelle liste, sono veramente convinti che poi dipenda dall’anzianità l’avere qualcosa, cioè se ti sei
iscritto a quattordici anni e ci sei stato fino a ventiquattro hai maturato qualche diritto. Questo per
dire che a mio parere anche l’atteggiamento verso la realtà italiana ed europea dovrebbe essere
diverso. Piuttosto che insistere sugli aspetti di capitalismo straccione dell’Italia (sto parlando dal
punto di vista dei compagni) secondo me bisognerebbe insistere invece sugli aspetti di possibilità
positive che ci sono, ma non per cantare le lodi di Agnelli, caso mai per cantare le lodi della nostra
storia politica come popolo o meglio, per non insistere su questa categoria, come soggettività.

Uno dei miei interessi è la riforma universitaria, cosa che può essere vista come un po’ troppo
specialistica. La riforma dell’università è una cosa che riguarda la formazione e il bisogno che c’è
dentro di essa di realizzare un tipo di formazione generalistica. Secondo me è assolutamente
evidente, malgrado quello che pensi il ministro Zecchino, che il vero problema è di poter prolungare
il ciclo della formazione in modo da dare prima di tutto quelli che sono degli strumenti
interpretatitivi del mondo che non sono immediatamente le facoltà che poi tu metti a profitto nel
lavoro, ma sono la condizione per poter fare questo. Detto in un altro modo che è più vicino alla
tradizione sindacale, il fatto di garantire una certa polivalenza della forza-lavoro è un bisogno,
proprio perché lo sviluppo tecnologico è alto. A mio parere quello che noi abbiamo vissuto fino ad
ora è una cosa sull’elettricità che purtroppo Marx non ha capito per il fatto che l’elettricità
cominciava giusto mentre lui veniva a morire, però tutte queste cose sono legate all’elettricità. Le
cose invece legate a quello che può essere il sapere del livello microscopico, cioè le cose che
vengono convenzionalmente dall’atomo e dal nucleo, sono ora appena accennate e sono per
esempio il laser, sono superconduttività, ma siamo appena all’inizio di quelle che si chiamano le
nanotecnologie perché sono tecnologie basate su un miliardesimo di metro: quindi, ciò vuole dire
che da questo punto di vista un accendino è un universo. Il computer (non nel senso logico ma nel
senso dello strumento fisico, con quelle sue schede ecc.) ne è appena un esempio. Allora, da qui
verrà un’immensa quantità di nuove innovazioni, e queste a mio parere certamente avranno sempre
il filtro anche capitalistico, però non è vero che avranno solo il filtro capitalistico. E per me la cosa
interessante è prima di tutto cercare di vedere dove è possibile un uso altro a un determinato livello

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di organizzazione collettiva; è chiaro che queste sono cose in cui il soggetto non è l’individuo,
perché questi non ci può fare praticamente niente, cioè esiste l’iniziativa a partire sempre da un
livello di cooperazione sotto la quale non c'è, ma anche nella politica è così.
Allora, bisogna vedere la soglia della cooperazione a partire dalla quale è possibile intervenire per
usare queste cose anche in un altro modo; anche se io confesso che su molte cose non saprei come
usarle in un altro modo, perché penso che ci sia bisogno concretamente dell’esperienza per capirlo.
Però, a me questa sembra una via positiva (nel senso ottocentesco di positiva, nel senso di concreta)
per affrontare anche le nuove forme che deve avere l’organizzazione politica. Dicevo poco prima
che a mio parere siamo, come in altre epoche, in un momento in cui produzione e lotta politica
coincidono: solo se sei capace di produrre quei bisogni o desideri o passioni che riescono a
utilizzare queste nuove tecnologie tu hai un tipo di protagonismo. Altrimenti ovviamente puoi anche
avere sempre (cosa assolutamente legittima e umana e tanto di cappello) le forme di resistenza,
comprese le forme operaie di resistenza, che sono dignitosissime intendiamoci, però nello stesso
tempo a me viene come un magone. A Crotone, ad esempio, hanno lottato per tenere aperto uno
stabilimento chimico, cosa che non ha più alcuna giustificazione da nessun punto di vista, compreso
un fatto culturale per via che una volta non si teneva conto di quanti danni quella cosa provocava
all’ambiente, oggi invece è una sensazione assai più diffusa con cui tu devi fare i conti. Malgrado
questa situazione, per tre anni c’è stata questa lotta da parte degli operai di Crotone, che hanno
peraltro un passato illustre perché è l’unico insediamento operaio che ci sia stato in Calabria, è
relativamente antico (ha almeno 70-80 anni), è stato importante anche nei periodi della lotta del
dopoguerra per le terre e tutto il resto, era un presidio operaio nel Sud. Però, di fronte a questa cosa,
anche quando la vedi nelle forme radicali di lotta (perché hanno incendiato mezzo paese), ti viene
una sorta di magone, perché è come quelli che lottano contro le macchine, anche se da una parte ti
senti sentimentalmente con loro. Per me è la stessa sensazione che ho avuto con quelli delle Brigate
Rosse, giudicavo pazzesco quello che facevano, ma ovviamente nello stesso tempo mi sono sentito
per alcuni aspetti dalla loro parte: come una parte che era destinata a perdere ma che toccava
perdere insieme. Allora, con gli operai ho questa sensazione alle volte, che magri tocca perdere con
loro perché non c’è un’altra possibilità, però quel tipo di cosa è perduta, non ha storia. Casomai c’è
da capitalizzare su quella sofferenza, è una brutta espressione, voglio dire che c’è da tenere conto
degli elementi di sentimentalità che ci sono proprio in quel modo di difendersi: questi elementi sono
invece tutti positivi.

- Nel tuo discorso hai per molti versi toccato il nodo della soggettività. In generale, vediamo però
come esistono delle forme di soggettività che magari esprimono conflitti che tuttavia non
necessariamente vanno in una direzione altra rispetto all’esistente, inteso non solo come ciò
che sono le macrodimensioni ma anche per quello che riguarda la quotidianità di una vita e di
bisogni colonizzati dal dominio capitalistico. Pur nell’interessante ambivalenza delle
rivendicazioni che partono dal locale e dal territorio, abbiamo visto anche forme di conflitto
tese semplicemente a prendere il posto e i benefici di qualcun altro, reazionarie o che
comunque vanno in tutt’altra direzione rispetto ad un’espressione di alterità. Bisogna dunque
tenere conto di una grossa differenza tra quello che è il conflitto e quella che è l’alterità
rispetto all’esistente. In questa ambiguità e in questa ambivalenza, come è possibile pensare,
anche progettualmente, ad una soggettività che vada in una direzione di alterità rispetto a
modelli di comportamenti e di bisogni imposti dal dominio capitalistico?

Io penso che in ogni esperienza di cooperazione umana tu abbia nello stesso tempo sempre in
agguato l’elemento del comando. Intanto voglio dire che a me interessa meno il capitalismo in
quanto sfrutta gli operai di quanto mi interessa il capitalismo come sistema di controllo. Mentre
negli aspetti di sfruttamento economico degli operai io ci vedo un carattere assolutamente datato
della formazione capitalistica, e quindi a mio parere in deperimento fin dall’inizio ma in maniera
significativa sotto i nostri occhi, invece, per quanto riguarda il capitalismo come capacità di

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elaborare forme di controllo e di disposizione sul tempo altrui, si tratta di tutt’altro, il discorso mi
sembra più serio e penso che questa attitudine al controllo e al disciplinamento sia una facoltà
umana. Prima dicevo degli operai contro la fatica: non sono stati gli unici nella storia dell’umanità a
lottare contro la fatica, però a un certo punto sono secondo me stati loro i grandi protagonisti di
questa cosa; e così è stato il capitalismo. A partire certo da una nascita economica e storica, è
indubbio, il capitalismo ha poi elaborato delle forme di controllo miste a cose di irrazionalità (come
è sempre peraltro il controllo), che possono sopravvivere al capitalismo stesso. Del resto molte cose
dell’Unione Sovietica erano mutuate, in un senso o in un altro, proprio per questo aspetto del
controllo. Quindi, da questo punto di vista non mi faccio illusioni, cioè io non credo che ci sia un
momento in cui cessi il conflitto, ma è il conflitto tra gli uomini anche, non dico il conflitto contro
le limitazioni della natura, perché l’elemento del controllo, o sarebbe meglio dire l’elemento del
comando è una componente dell’organizzazione sociale e della cooperazione degli uomini come per
altro di altri animali. Io sono arrivato alla convinzione che i nostri veri cugini siano gli animali che
cooperano, non il cervo che è un mammifero ma coopera poco, casomai l’ape, cioè tutti quegli
animali che hanno l’elemento della cooperazione come elemento predominante; cooperazione c’è
ovviamente in tutti perché se no non potrebbero neanche rigenerarsi, però i cervi lo fanno in quel
periodo dell’accoppiamento e basta. Per me il materialismo è prima di tutto il fatto di radicarci alla
natura, non è pensare alla maniera ottocentesca che la materia sia tutto, perché questo è un concetto
anche culturalmente superato. Il materialismo per me è il fatto di sentirsi animali, cioè di sentirsi
con una stessa cosa di datità, di essere nel mondo che ha anche l’albero, che hanno anche gli altri
animali e sentirsi parte di questa cosa; non partoriti dall’ideologia ma partoriti da questa animalità,
che poi è il nostro corpo, è per molti aspetti tutto ciò che il nostro corpo contiene di saggezza non
cosciente. E’ la stessa cosa che avviene se guardi il cielo, c’è una specie di automatismo nella
natura, e anche di perfezione a mio parere, che è un sentimento io credo forte, è un sentimento che
vorrei dire cosmico nel senso che per un essere umano non è necessario andare in biblioteca a
studiare cinquanta libri per sentire questa cosa: penso che davvero guardando le stelle (avendo
naturalmente la capacità di guardarle, non osservando distrattamente il cielo), oppure osservando un
albero o un animale che partorisce, tu hai questo senso di appartenenza a qualcosa che è una cosa
che avviene prima di ogni cultura, o se si vuole è la prima cultura, cioè la natura. Quindi, questo
rapporto con la natura per me è l’elemento che permette di stare con i piedi per terra, detto in una
maniera brutale.
Ritornando alla tua domanda, penso che la cosa non sia garantita, penso anche che si tratti di
realizzare concretamente questa esperienza. Credo anche che ciò sia importante via via che si
affermano forme più potenti di cooperazione. Per me la rete è una cosa interessante perché come in
uno specchio ci fa vedere qual è la potenza della nostra cooperazione; non perché è così potente la
rete, ma perché essa è come se in uno specchio rotto rimandasse come riflesso quanto è potente la
cooperazione umana. E’ come il computer: la cosa significativa di esso è che un cervello umano
(non quello di Einstein ma di un uomo medio, del portiere dello stabile dove abitava Einstein) ha
una tale complessità che, messo da un punto di vista di realizzazione dell’hardware, vorrebbe dire
grosso modo il fatto di realizzare un computer che ha le dimensioni della terra. Quello che è
interessante nel computer è che ci rimanda quanto è potente il nostro cervello, non quello del
matematico, non è quello il punto, ma il cervello di qualsiasi essere umano che sa attraversare la
strada. Della cooperazione in rete io vedo anche i pericoli, che vanno nel senso di diminuire
l’importanza della presenza, ciò anche dal punto di vista politico: il fatto che le decisioni si
prendano in assemblea e sempre in forma collettiva è importante perché è un elemento grosso della
comunicazione. Per esempio, io mi batterei contro i processi fatti per televisione, perché è
importante nel modo di giudicare una persona che tu possa vederne non solo gli elementi discorsivi,
se mando una lettera non è la stessa cosa dal punto di vista della comunicazione. Ciò lo si sa
appunto nell’esperienza di formazione nel rapporto con gli studenti: non realizzi la stessa cosa senza
quel tipo di rapporto che convenzionalmente si chiama socratico e si intende che è orale ed è fatto di
gesti di comunicazione. Vi sono ad esempio le mie mani che si incrociano, o gli occhi, che sono

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elementi importanti della comunicazione e che hanno una capacità di fissarsi perché hanno un
elemento emotivo, e quindi sono capaci di fissarsi in una maniera più stabile che il puro
ragionamento, il quale proprio perché ti convince te lo dimentichi subito per via dell’ovvietà della
cosa.
La rete, ad esempio, per me vorrebbe dire il fatto che riusciamo a fare una rivista in rete: per me è
significativo che fino ad ora non siamo riusciti a realizzarla (non sto parlando solo del vecchio
gruppo di Potere Operaio), mentre ci sono delle cose buone in rete, delle riviste anche di tipo
scientifico notevoli. Ho visto le cose che fanno i centri sociali in rete, alcune sono anche belle, ma
rispetto alla potenzialità che ci sarebbe ad adoperare la rete almeno da una ventina di punti in Italia
questa cosa ancora non si traduce. Allora, a una cosa così sono interessato, mi interrogo anche nel
senso che magari non è possibile, non è questa la cosa giusta, cioè non è che dico che sia
semplicemente una mancanza; però, questo è un tipo di problema che mi affascina, mi interessa
cercare di capire perché alcune cose non riusciamo a farle, perché per esempio in un centro sociale
non si riescano a fare delle forme di vita diverse. In parte devo dire che fattualmente lo si fa, ma a
me del centro sociale interessano tutte quelle forme di scambio che si realizzano, che sono basate
magari sul rapporto di amicizia singolo o collettivo, e che quindi non pretendono nello scambio di
avere delle cose di equivalenza. Per esempio, a me sembra che sia un modo più serio di lottare
contro la mentalità capitalistica (che secondo me è in ognuno di noi e che non è semplicemente nei
capitalisti) il realizzare esperienze che mettano in risalto forme diverse di vita; forme naturalmente
possibili, non sto parlando di cose talmente angeliche da non essere praticabili. Allora, i centri
sociali mi interessano non tanto per l’ideologia, così come mi interessano le esperienze di
volontariato, non allo stesso modo perché questo in Italia definisce di più la tradizione cattolica da
cui io sono lontano per cose culturali, quindi ho più difficoltà a immedesimarmi. Però, capisco che
là dentro si muovono (spesso, non sempre) sentimenti assolutamente analoghi di cooperazione, di
altro modo di vedere la vita, di generosità intelligente, in cui la generosità non è fatta perché Dio ti
punirà ma perché sei contento di regalare, di dare, in cui la donazione è una cosa che gratifica chi la
fa e non la si fa in nome della morale. Sono queste forme in cui una vita degna di essere vissuta non
è in disaccordo con una vita piacevole, anzi ha nel carattere proprio concreto e materiale del piacere
un elemento morale.

- All’interno della cooperazione, quando si realizza, c’è anche la capacità di costruire


l’organizzazione, cioè l’organizzazione della cooperazione: questa cosa si è sempre data in
termini informali o formali. Questo è un nodo importante, perché molte volte ciò non si dà in
termini spontanei, ma è necessario che un certo tipo di soggettività (che può essere individuale,
di piccolo gruppo ecc.) promuova questo in termini di potenziamento. Un altro dei punti molto
interessante del tuo discorso è quando parlavi di bisogni, di desideri, di capacità; facevi
l’esempio della lotta operaia di resistenza che non è la capacità di aprire in prospettiva nuova
un qualcosa di diverso. Il discorso dei desideri, per esempio, è profondamente diverso da quello
dei bisogni, perché è un’apertura in termini di costruzione in avanti. Tu prima parlavi del
liberarsi dalla fatica, e ciò è stata una delle cose fondamentali dell’esperienza di Potere
Operaio, come il discorso dei desideri, perché allora, in quel determinato periodo storico, una
delle ricchezze di quelle esperienza secondo me è stata proprio nell’immettere nella lotta, nel
processo sociale di quel periodo, un qualcosa che fosse diverso da come si intendeva il
processo di lotta.

Certo, e che avesse anche la concretezza.

- E’ una delle differenze grosse rispetto a quelle che erano le lotte che venivano costruite da altri
ambiti, ma non solo il sindacato, il Partito Comunista ecc., ma anche da altri gruppi. In Lotta
Continua c’era una differenza abissale tra come veniva intesa la lotta, le forme di liberazione
all’interno del conflitto e quindi di quel tipo di soggettività che aveva dato vita a LC, rispetto a

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quella che era rappresentata da Potere Operaio e poi, sotto un cero aspetto e in maniera
diversa, dall’Autonomia. Ciò era poi una cosa differente da quella che è stata l’esperienza delle
Brigate Rosse, ma non sul discorso dell’uso della violenza. In un editoriale di Linea di
Condotta tu avevi fatto una differenziazione estremamente chiara tra il processo di
organizzazione della forza-lavoro (che tu riconducevi al Partito Comunista e al sindacato) e il
processo di liberazione della forza-lavoro.

Per me era quella la cosa da guerra civile che c’era.

- Dicevi che c’è uno scontro all’interno della lotta di classe tra questa dimensione qui, che è
profondamente diversa in termini di ricchezza e di proposta, da quella che invece comunque poi
riconduce all’altra dimensione. Dunque, uno degli interrogativi che io volevo sottoporti è la
forma dell’organizzazione della cooperazione, in particolare rispetto all’esperienza politica.
Per esempio, secondo me Potere Operaio andrebbe in qualche modo rivisto non tanto in termini
di storia, perché ormai questa è stata fatta, si sa; ma quanto di quali sono stati i limiti e le
ricchezze di quell’esperienza, di come per esempio era stratificata questo tipo di cooperazione
politica. Perché Potere Operaio da una parte si poneva nei termini di una proposta
organizzativa, per esempio Negri in Intervista sull’operaismo aveva dato una definizione di
cosa era stato PO; allo stesso tempo Potere Operaio era fortemente stratificato, nel senso che
c’era una dimensione che era di proposizione e in qualche modo di direzione di questa
cooperazione politica, poi sotto uno strato intermedio di quadro politico (per esempio avevate il
problema della sua formazione), e sotto ancora quanto questo tipo di organizzazione influiva
sulle dimensioni sociali del conflitto di allora. Dunque, erano almeno tre livelli: un livello di
direzione, un livello di estensione dell’elaborazione di questa direzione, un livello di azione su
un corpo sociale che era ovviamente disponibile, magari in termini diversi rispetto ad adesso.
Oggi probabilmente bisognerebbe reinventarsi delle forme di cooperazione e di agire sociale
che sappiano muoversi all’interno di questa nuova realtà, di una costruzione dei desideri e di
una loro riproposizione politica e sociale all’interno della società. Tu sei stato forse la persona
che più ha influito in un determinato periodo di Potere Operaio, che è il primo, non tanto in
termini di forma leaderistica ma proprio di capacità.

Per me è più difficile dirlo per il fatto che sono stato talmente interno alla cosa che non ho mai
avuto e non ho come limite mio la capacità di capire questo. Nel ricostruire le cose sento sempre
come se non fossi stato neanche messo davanti a delle vere scelte; era talmente collettiva la tensione
(poi, ben inteso, ognuno lavorava anche per i fatti suoi, studiava) che l’ho vissuta troppo
nell’interno per riuscire a fare differenze. Il problema che poni mi sembra ovviamente di grande
interesse; l’aspetto che a me sembra importante in quello che dici è come avere e rendere la
cooperazione politica (o se si vuole la forma-partito, per metterla nei termini tradizionali, dove non
si parla più del partito ma solo della forma-partito come problema dell’organizzazione) adeguata a
questo grado raggiunto dalla cooperazione sociale. Questo è il vero problema, io su questo un poco
ci lavoro, anche proprio nello scegliermi certe cose di studio anziché certe altre. Ho una fiducia
forse immotivata nel fatto che l’autorganizzazione sia la via maestra, però dicendo
autorganizzazione ancora non si è detto niente, perché poi questa autorganizzazione è
completamente fatta dalle proposte, non è una cosa metafisica. E soprattutto c’è un elemento di
errore, io ero sperimentalista prima che mi succedessero i guai, sono profondamente legato all’idea
che non si possa conseguire niente se non si sbaglia: quindi, quando mi dicono “avete sbagliato
questo, avete sbagliato quello”, sono completamente d’accordo e dico che abbiamo sbagliato ancora
molto di più, ma che non c’è una via per arrivare alle cose se non facendo errori. Secondo me il
vero punto è esattamente questo qua, come la cooperazione politica, quindi l’elemento cosciente,
possa essere adeguata. Prima ho parlato della rete, ma la rete in una città può arrivare per decisione
amministrativa, come è arrivata in grandissime parti delle città, come arriva con l’economia;

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oppure, come decisione viceversa cosciente, il che non vuole dire che preveda tutto, perché non è
possibile, però si mette nelle condizioni di interagire con il processo, di fare scelte. Allora, questo è
un aspetto interessante ed è il modo come si pone il problema del partito nella nostra epoca, anche
se la parola partito naturalmente richiama una forma talmente angusta della cooperazione che uno
inorridisce; però uso la parola partito per aprire quel tipo di problema.
Io penso che la via molecolare a questo sia la cosa giusta. Per fare un paragone con un momento
importante della storia politica d’Italia, quando c’è stato il dibattito nei comunisti italiani negli anni
intorno al ’19, io là devo dire che idealmente parteggiavo più per la componente torinese che per
Bordiga. Quella di fare una federazione del partito comunista in ogni provincia d’Italia era un’idea
burocratica sbagliata, invece l’idea dei torinesi era di lasciare che dalle diverse province o città o
esperienze d’Italia arrivasse questo tipo di rapporto con quello che doveva essere il partito
comunista; dunque, non la scelta di venti tesi e quindi andare ai congressi socialisti, chi di qua, chi
di là, ma piuttosto un’esperienza di autorganizzazione fortemente legata agli operai e da questo far
nascere il partito. Dico ciò perché quello è per me l’esempio più vicino e in cui io peraltro mi trovo
identificato chiaramente con una parte, quindi non è che pretenda di indicare quella come soluzione,
perché non è quello il punto e non è quella la situazione. Però, credo profondamente alla capacità,
alla completezza che si può dare solo nella concretezza di esperienze locali, di tentativi locali che si
fanno, e poi il mettere in relazione questi tentativi attraverso la forma, per me quella sì tradizionale,
della riunione, della parola, cioè della discussione. Perché la discussione ha come esperienza umana
di grande importanza il fatto che in essa (salvo quando non sia profferta di comandi, perché uno può
anche parlare per comandare) necessariamente tutti gli interlocutori sono messi su uno stesso
livello, proprio per come è fatta la discussione. E’ paradossale che perfino quando si incontrano
sindacati e padroni alla fine bisogna che ci sia una capacità nel chiudere le trattative; anche se
sembra irreale, oltre ai casini, alle lotte, alle forze ecc., conta anche e riviene l’elemento di
cooperazione umana, come elemento generale del modo che hanno gli esseri umani di stare insieme,
e in cui la cooperazione, anche proprio nel senso della capacità di giudicare e di pensare, diventa
l’elemento decisivo. Quindi, credo a delle forme, tradizionali se si vuole, di democrazia legate al
collettivo, piuttosto che a una struttura di rappresentanza per delegato, io lì non mi sono mosso
molto; continuo a pensare che la forma è sempre quella originaria in cui un collettivo decide e poi
questo diventa non invece la rappresentanza. Ovviamente puoi limitare questo potere del collettivo
in funzione della necessità di assumere decisioni più generali, però è come per il federalismo: il
vero federalismo è basato sul fatto che le città (non le regioni che non ci sono) aderiscano a un
progetto di stare insieme, ma è basato anche sul fatto che la città se ne possa andare. Per far nascere
il potere non dal corpo del sovrano che delega, ma viceversa dalle città che si mettono insieme e
costruiscono queste forme, bisogna necessariamente che sia una rinuncia di sovranità dell’elemento
più piccolo, è lui che rinuncia a una parte della sua sovranità per costruire la cosa più grande.
Quindi, non è il corpo del sovrano che dà una mano qua, una mano là e la cosa avviene per delega
sua, come è in realtà per molti aspetti nella tradizione europea in cui è l’impero che fa; invece nella
tradizione delle città-Stato, ma anche delle città comunali, è esattamente la via inversa. Allora, è
necessario questo elemento del muoversi non dico dal basso perché sembra una volgarizzazione,
invece io penso che si tratti piuttosto di un livello molare avrebbe detto Guattari, cioè del fatto di
muoversi da quello che è il corpo concreto che è sempre molare, non è di un atomo, di uno solo.
Dunque, ripercorrere la strada all’inverso a me sembra la via maestra, ma confesso nello stesso
tempo che ho presente il problema, ci lavoro e a modo mio cerco di sperimentare delle cose
possibili, però non ho compiuto nessun passo avanti significativo su questa cosa; salvo un’estrema
attenzione che ho al problema tuttavia non saprei dire di più.
Come metro per giudicare se una cosa va o no c’è in qualche maniera il grado di autorealizzazione
degli individui che compongono il collettivo. Voglio dire che non sono per niente per una cosa
ascetica, sono per una cosa sensuale e piacevole, solo che metto l’accento sul fatto che uno dei guai
introdotti nella mentalità dall’epoca capitalistica è quello di cercare la ricchezza dove essa non c’è,
oppure di avere una rappresentazione necessariamente impoverita della ricchezza perché questa è

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rappresentata per esempio in termini di reddito pro-capite. Pensiamo ad esempio a come si vestono
qui le ragazze rispetto al conformismo, c’è sempre tanto conformismo nella moda in Italia, ciò è
legato anche alla potenza della nostra industria tessile, ciò ha anche dei risvolti occupazionali
positivi, però ora prendiamolo dall’altro punto di vista: c’è il fatto di vedere un popolo tutto vestito,
che so, di marrone perché questo è il colore che va nel gennaio del ’98, allora tutte le donne sono
vestite di marrone. Oppure si pensi invece a come le ragazze americane vanno nei negozi dove ci
sono abiti usati, qualche volta degli anni ’30, e si costruiscono per loro un’idea di come loro stesse
si vedono, ad esempio mescolando insieme cose degli anni ’30 con cose moderne. E così potrei dire
nella musica. Cioè, il fatto di avere un ruolo attivo, quand’anche esso magari non è tanto focalizzato
sul fatto di realizzare un’opera d’arte ma di realizzare la tua vita come un’opera d’arte. Questa è
diventata una dimensione possibile di massa, naturalmente c’è sempre stata gente che ha fatto così e
a mio parere la vera grandezza di Lenin è giusto nella sua vita più che nelle cose che ha scritto,
quindi è chiaro che questa cosa è già capitata. Quello che è interessante nella nostra epoca è
paragonabile a quello che in negativo è l’esempio della droga, che si è sempre adoperata, soprattutto
nella tradizione degli artisti; quando veniva usata dagli artisti aveva delle forme di iniziazione che
dipendevano anche dal fatto che la circolazione di questa cosa non era di massa, erano solo dei
canali a cui doveva arrivare e questo faceva sì che ci fosse un’iniziazione. Invece, poi è arrivato un
momento in cui anche la droga più forte è relativamente a disposizione se non di tutti comunque di
masse enormemente più grandi. L’esempio della droga può essere considerato negativo, però questo
è successo anche per molte altre cose.
In questo c’è sicuramente una promozione dell’individuo come di quello che io chiamo l’individuo
sociale, che poi per me è la categoria interpretativa più interessante: io sono convinto che il punto di
approdo dell’operaio-massa, per dirla in termini a noi famigliari, sia stato poi l’individuo sociale,
cioè l’individuo che è all’altezza del genere, l’individuo in cui l’elemento di cooperazione con
l’altro è diventato un bisogno suo stesso. Allora, questo individuo sociale a mio parere per molti
aspetti c’è già e noi dovremmo cercare di agire (in questo mi interessa il tuo discorso sulla
cooperazione politica) come se lui già ci fosse, non come se dovessimo costruirlo. Detto in altri
termini, secondo me bisogna agire come se fossimo nella pienezza dei tempi, non che bisogna
aspettare ancora un’altra epoca o un’altra cosa. In questo per esempio gli elementi diciamo salvifici
del messaggio cristiano, oppure delle cose di san Francesco d’Assisi, sono per me delle cose
intellettualmente enormemente interessanti. Concepire la fine della storia, nel senso che non c’è la
necessità di rincorrere di progresso in progresso, quanto c’è la necessità di vivere all’altezza delle
nostre possibilità; quindi, bisogna avere per esempio un atteggiamento negativo verso le cose che
comportano troppo futuro, cioè avere anche al limite un atteggiamento un po’ negativo verso il
futuro come imbroglio. Ovviamente anch’io penso agli elementi inediti, mai visti, però quelli per
me sono più elementi nascosti del presente che elementi che devono ancora venire, che bisognerà
aspettare altre generazioni e industrializzare il mondo. Mi interessa dunque il fatto che sia possibile
subito qui, il che non vuol dire che dobbiamo scontrarci con lo Stato, non nel senso che non bisogna
scontrarsi, intendiamoci, questo va da sé, io continuo a pensare che sia un diritto la violenza
esercitata in forma di autodifesa e anche di affermazione delle proprie cose; però è diverso questo,
che è un modo a mio parere saggio e inevitabile di concepire la lotta politica, dal pensare che tu
viceversa per prima cosa devi scontrarti con lo Stato. Io tenderei più a trovare tutti quegli aspetti del
territorio immaginario dove lo Stato non c’è, non è capace di esserci, e che sono però elementi che a
noi interessano e piacciono, piuttosto che avere una logica antagonista. La cosa che rimprovero per
esempio a Rifondazione (a livelli di discorsi, perché poi a livello di pratica non sono mica tanto
antagonisti quanto dicono) è far derivare la linea politica dall’antagonismo. Intanto interpretano la
storia come una specie di iniziativa continua dei capitalisti in cui l’elemento invece di innovazione e
di ribellione delle lotte non c’è; non dico che siano tutti così, però nella vulgata sono sempre i
capitalisti che fanno l’innovazione e quindi non si vede mai l’altro elemento. Nello stesso part-time
c’è evidentemente un elemento di riduzione drastica delle garanzie, è sicuro che ci sia; ma io sono
abbastanza vecchio da ricordarmi l’Italia del pieno impiego, la vita operaia degli anni ’60, la nostra

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esperienza è nata da quella situazione. Quindi, io trovo un po’ orripilante dover sostenere parole
d’ordine come “aumentiamo l’occupazione”; naturalmente mi rendo conto degli aspetti invece di
reddito che sono importanti e non solo non li nego, ma preferisco affrontarli direttamente anziché
con questo discorso in cui tu faresti il contrario di quello che pensi. Tu, sindacato o Bertinotti, pensi
che sia sfruttamento il capitalismo? E tu nello stesso tempo ti batti per aumentare questa cosa? Il
patto segreto tra sindacati e padroni è sempre stato questo, che lo sviluppo avrebbe portato altri
posti di lavoro, quindi c’era una complicità di fondo, tra l’altro comprensibilissima per l’aspetto che
ricordavi poc’anzi di vendita della merce che ha istituzionalmente il sindacato; quello punta a
vendere la merce al prezzo migliore, fa anche bene dal suo punto di vista, però se tu dai un giudizio
sul carattere alienante della forma di produzione capitalistica non puoi sentirti contento dal proporre
che questa forma si espanda ulteriormente. Quindi, bisogna affrontare il nodo del reddito
dividendolo dal lavoro, come per altro è nei fatti; solo che non abbiamo nessuna forma
organizzativa. Ci sono anche delle altre cose che vanno in questa direzione, ci sono delle cose di
radicalità, penso che l’esperienza industriale ci ha fatto anche interiorizzare un modo di rapportarci
al tempo che è profondamente caratterizzato e limitativo. Il tempo è una delle cose di libertà
collettiva degli uomini (degli esseri umani voglio dire, non di libertà del singolo); però, poiché è un
elemento convenzionale, è una sorta di definizione, la definizione del tempo è una cosa che ti puoi
prendere come uno dei gradi di libertà che hai. Naturalmente non lo può definire il singolo, non sto
dicendo questo, però a livello di esigenze collettive il tempo è una variabile dipendente da queste
esigenze; non è viceversa che ci sia un tempo che scorra comunque qualsiasi cosa fai e quindi sia la
misura di tutte le cose eccetera. Ma questo per me ha delle conseguenze (ripetendo delle cose che
sono state già dette e scritte) anche nel modo per esempio di concepire il calendario. Per me è
interessante il tentativo di riconcepire il calendario, perché se si va a vedere esso, malgrado che sia
rimasto dal punto di vista astronomico grosso modo lo stesso, fra il periodo medioevale e il periodo
industriale ha avuto un profondo sconvolgimento: nel Medioevo ogni giorno era una cosa
particolare, come nella tradizione pagana, legata a un santo e in cui bisognava fare certe cose, anche
i maya fanno così, per tutte le esperienze contadine del calendario un giorno non è per niente uguale
all’altro; nella civiltà industriale, invece, a partire dai puritani si è riscoperta la settimana in cui c’è
un solo giorno differente, che è la domenica, e tutti gli altri sono uguali per il ritmo lavorativo.
Faccio questi esempi per dire che il tempo e il calendario sono stati sempre concezioni relative alle
forme di produzione prevalenti quando il calendario medesimo è stato messo in atto. Noi dovremmo
ad esempio sperimentare anche su questo terreno, su forme di distribuzione del tempo e dell’attività
che tengano conto di questa cosa complessa. Si potrebbe andare dal fatto che tu richiedi a uno delle
prestazioni lavorative, che so, sui cinque anni, in modo che lui si possa distribuire il lavoro. Un
elemento interessante è appunto il fatto che tu possa distribuirti il tuo tempo e che possa decidere in
certi periodi di lavorare, in certi altri periodi di lavorare in altro modo, di formarti, di studiare;
introducendo questo grado di libertà renderesti più complessa e più ricca la società, non è che ne
verrebbero meno le garanzie di funzionamento, tutt’altro.
L’esempio analogo è nell’università: questa senza unità del sapere è totalmente squalificata perché
diventa una cosa in cui c’è una specie di idioti specializzati che sanno tutto su niente. Io ho dei
colleghi che sanno tutto sul bronzo ossidato dallo zinco, che hanno lavorato trent’anni: ma quelli
non sono mica professori universitari, sono brave persone ma non hanno assolutamente una capacità
di formare delle persone. Tradizionalmente questo problema dell’unità del sapere nel Medioevo è
stato affrontato in un modo, nell’Illuminismo in un altro, mentre nella nostra epoca tende come a
essere rimosso. Invece, poiché io non credo che ci sia un sapere nel senso forte, cioè una specie di
scienza da cui derivano a partire da certe azioni tutte delle conseguenze (la cosa non sta per niente
così compreso nella fisica, figuriamoci nel diritto), allora a mio parere sarebbe interessante
obbligare lo studente a percorrere iter formativi differenti, cioè non accettare che quello che fa
Fisica non faccia per esempio anche un esame di storia, di italiano e viceversa; ma poi lasciare che
il peso delle materie e il modo e l'ambito del sapere che lui intende investigare sia lui stesso a
sceglierselo. Puoi fare delle cose di archeologia e delle cose di chimica, ciò che l’università ti deve

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chiedere è un livello di approfondimento di queste cose che abbia senso e non il fatto che quelli
(essendo professore so i trucchi degli studenti) si vanno a scegliere tutte le materie che sono facili
nelle diverse facoltà, quindi lì esercitare un controllo da parte delle istituzioni; ma, poiché i saperi
sono in forte rimescolamento, lasciare che ci sia il contributo dello studente perché è quello più
interessato di tutti, è lui che ha curiosità e noi abbiamo bisogno della sua curiosità proprio per legare
campi disciplinari diversi. E di questo legame ne abbiamo anche bisogno, la stessa industria ne ha
bisogno, perché invece il formare persone specializzate è una cosa che si riverbera in un costo
eccessivo sostanzialmente.
Mi rendo conto che sono tutti esempi minimali, ma voglio dire che c’è un modo di guardare a
queste nuove libertà che può essere anche positivo e costruttivo, ciò nel senso di essere propositivo
non necessariamente di essere giusto. La cosa dovrebbe arrivare a quello che in edilizia si chiama
un progetto cantierabile, cioè arrivare al livello di potere sperimentare a partire da certi presupposti
e pensare poi di mettere all’opera per vedere se vanno o non vanno e correggerli. E questa fase di
laboratorio secondo me l’Italia è uno dei paesi che ha più possibilità di farla, anche per la sua storia.
Sono d’accordo con voi che però guardando al presente tutto questo non appare. Qualche volta
perché è difficile sapere quello che succede; è anche possibile, come è accaduto in altri periodi, che
ci siano semplicemente tante esperienze che sono in corso (anzi, sono sicuro che è anche così) e che
noi stessi non conosciamo. Da qui la funzione importante non tanto di generalizzare le esperienze,
ma di conoscere le diverse esperienze, cioè di fare da ponte: DeriveApprodi o la rivista di Toni sono
cose interessanti ma specializzate, è in realtà come quando io mi leggo un articolo di fisica, sono
cose in cui ci saranno mille o tremila persone interessate, invece il problema qui è forse tre milioni
di persone per partire, una cosa assolutamente fuori scala. E’ evidente che torna quello che dicevi
tu, cioè come facciamo a tradurre o almeno quali sono i primi passi per una cooperazione adeguata
a questa situazione.

- Questo nodo della costruzione della scienza e del sapere da una parte è stato messo in
discussione in termini forti anche dalla dimensione filosofica, per esempio da Husserl ne La
crisi delle scienze europee: non è che egli formuli una risposta e una soluzione a un problema,
però pone un problema, cioè come un certo tipo di costruzione di scienza e di sapere nella
modernità entra in crisi. Dall’altra parte probabilmente andrebbe portata avanti non una
sociologia ma comunque una comprensione, un’esplicitazione o almeno un’ipotesi di come si
forma la costruzione del sapere. Tu hai prima detto che l’esperienza è una delle parti
fondamentali; però ci sono dei processi che in realtà portano alla costruzione di questo. Le
scienze adesso lo fanno in un determinato modo, ci sono gli algoritmi, una dimensione di
percorso che è già data, c’è un discorso di fine: per esempio tante volte oggi la costruzione e
l’approfondimento di determinati saperi è dato da un fine preciso, per cui si abbandonano
determinati filoni al posto di altri. Anche lì è un discorso di cooperazione. Tu hai vissuto e vivi
da una parte la dimensione scientifica, la fisica che ne è un aspetto preciso, dall’altra parte la
dimensione sociale e politica, quindi hai navigato in tutte e le due dimensioni. Uno dei nodi
grossi è oggi se il livello di costruzione della scienza sia solo quello che si è dato fino ad ora
oppure se ce ne può essere un altro.

Sicuramente è un nodo centrale, e tra l’altro è secondo me anche interno alla stessa scienza. Intanto
intendo con scienza il rapporto conoscitivo con la natura, quindi per me non sono scienze le altre
cose, senza con questo voler maltrattare gli altri saperi. Quello che caratterizza la scienza moderna è
la presenza della matematica, non nel senso che questa fosse assente nei greci, però l’uso della
matematica (e non per esempio del ragionamento logico-teologico come nel Medioevo) come
argomentazione forte è caratteristico della modernità. In realtà nella scienza un fenomeno è spiegato
se è tradotto in una formula matematica, in un’equazione, o se si vuole in un algoritmo. Ovviamente
questa è una cosa potente con i computer, perché se lo fai lo affidi al computer e quello fa un lavoro
enormemente più preciso e veloce di quello che riesci a fare tu e hai le conseguenze di potenza che

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sono sotto gli occhi di tutti. Nello stesso tempo, nel momento in cui tu sei riuscito a rendere
materiali dei processi cerebrali come le inferenze logiche o semplicemente il calcolo di una derivata
affidandoli al computer, è come se tutto questo campo fosse ormai esaurito. Allo stesso modo si può
dire della geografia: questa nell’800 non è quella cosa di ora, è stata una grande scienza perché
c’era di mezzo l’esplorazione, c’erano parti della superficie terrestre semplicemente che non si
conoscevano, quindi ha avuto il sorgere delle società geografiche, ha avuto dei protagonisti come
Stanley o Livingstone, ora ha i turisti al posto degli esploratori. Questo sta a significare che la
geografia da questo punto di vista è finita. Secondo me è successo qualcosa di analogo per quanto
riguarda prima di tutto la fisica che è stata la disciplina regina dell’epoca moderna, con tutte le
conseguenze anche militari che la cosa ha avuto. Nel senso che la matematizzazione di queste
discipline è stata portata a compimento e quindi si è come in un campo dove tutto quello che potevi
tirare fuori è stato tirato. Proprio quando la matematica si materializza come mai nel passato, perché
qualsiasi pittore o musicista usa il computer e in realtà quel computer è fondato esattamente su
quelle cose là, proprio nell’epoca in cui avviene questo essa è esaurita: ciò non significa che non
avrà conseguenze sugli altri sviluppi, ma si può ormai considerare finita.
Io ho anche lavorato e continuo a lavorare con dei miei amici canadesi, abbiamo già un po’ di
materiale che si trascina da una decina d’anni, per esempio su uno degli aspetti in cui si presenta
questo problema della scienza, di nuovo il tempo. Il tempo in fisica è stato via via scarnificato fino
ad arrivare a qualcosa che ha un’aporia interna profonda in realtà, giusto con la relatività viene
fuori. Già da un’idea di uno che polemizzava con Einstein e che si chiama Ritz è immaginabile un
processo diverso; il tempo dalla fisica era stato preso dal senso comune, poi scarnificato e reso una
definizione logica non ambigua, e si è scoperta che questa definizione portava in realtà a un disastro
logico. Questo però non ha impedito che il tempo newtoniano, quello della fisica, si affermasse nel
senso comune: ma non concepito come quello di una volta per cui tornava lo stesso tempo (arrivata
la primavera era sempre lo stesso tempo di prima), ma il tempo proprio nel senso che il progresso
continua per esempio, cioè nel senso che anche se dormi c’è una specie di processo inarrestabile che
dipende dal fatto che tutti hanno fatto l’esperienza moderna dell’orologio da polso che è servito
come a rendere famigliare l’esperienza dello scorrimento del tempo. Ma questo scorrimento del
tempo in realtà è solo una definizione, cioè non è niente che possa essere appreso se non perché è
una definizione, come è una definizione il reato di contrabbando. Quando i miei amici albanesi si
meravigliano del fatto che in Italia li chiamano criminali, loro dicono: “Ma scusate, io porto delle
sigarette e porto anche delle persone, posso capire che faccio un reato perché la legge è quella, ma
dal punto di vista umano non è che penso di commettere una cosa terribile”. E secondo me hanno
profondamente ragione, perché la maggior parte dei reati hanno un carattere puramente di
definizione, in un paese ci sono e in un altro no, e qualsiasi persona umana che abbia un minimo di
grado di cooperazione sa scindere fra delle cose di cui può capire l’origine e magari anche il
vantaggio ma che non hanno un carattere antiumano così evidente come può essere la violenza
fisica, l’omicidio o qualcosa del genere. Il tempo è una di quelle categorie logiche che esiste in
quanto definizione. Il tempo non è una cosa contrapposta allo spazio, perché sarebbe allora il metro
e non lo spazio, il tempo è già un’unità di misura: il tempo non è il movimento, ma un movimento
scelto come standard, in questo è paragonabile al metro, che non è lo spazio ma una dimensione
scelta come standard di misura. Allora, tu questa dimensione definitoria la puoi assolutamente
cambiare, e una delle cose su cui abbiamo lavorato un po’ in questi anni è per esempio vedere nelle
scienze fisiche di fare l’inverso, cioè di partire dal tempo del senso comune con la sua ricchezza;
perché nel senso comune (anche se è di difficile definizione come dice Agostino) tuttavia c’è una
ricchezza della parola tempo, un carattere multisemico, di parecchi significati dal punto di vista
semantico, che invece nella scienza si perde. Io peraltro ritengo che questo sia possibile proprio
perché credo che l’affermazione di Husserl sulla crisi della scienze europee vada interpretata nel
senso di quando una cosa si è compiuta: c’è crisi della scienza ma perché questo processo è stato
portato fino in fondo. C’è crisi proprio perché la scienza occidentale in realtà ha in parte unificato il
mondo, cosa che non era avvenuta mai: per i cinesi il  ha esattamente lo stesso valore oggi di

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quello fissato da Archimede, mentre invece per secoli loro hanno avuto un altro . La scienza
occidentale in senso moderno si capisce solo con la tecnica, con il suo essere una specie di parto di
realizzazione tecnica; ciò anche quando non è così per tutta la scienza, la relatività generale non si è
trasformata in una tecnica, però nell’insieme del sapere la relatività gioca quella funzione
importante perché in maniera mediata ha delle conseguenze sulla tecnica. Dal punto di vista, per
esempio, del progettare le cose spaziali la relatività generale ha un’incidenza profondamente tecnica
che si traduce poi nel modo di concepire i motori. Quindi, questo legame forte è anche l’aspetto
esplosivo del capitalismo nello stesso aspetto che in realtà Marx più volte sottolinea, cioè questo
fatto che porta tutto su una scala smisurata grazie alla realizzazione tecnica: processi che prima
avrebbero compiuto dei secoli attraverso il tentativo e l’errore ora vengono per simulazione fatti in
maniera molto più rapida, per cui l’accrescimento dell’innovazione in realtà è praticamente senza
fine ed è continuo.
Come dici tu, non è che si seguano tutte le innovazioni, ci sono filoni che vengono completamente
abbandonati e non perché abbiano un interesse intellettuale inferiore ma semplicemente perché
questa possibilità di introdurli in un algoritmo e quindi di fare la testa di ponte per poi una cosa
tecnica non appare evidente o costerebbe troppo sforzo. Però, nello stesso tempo la scienza ha
questa grande importanza proprio perché gioca alla verità con la natura; c’è come una rivalsa di
questa capacità sulle forme di organizzazione capitalistica. Fra le scoperte più astratte, logiche,
fondamentali fatte nel secolo finito per esempio ci sono alcune cose realizzate in un laboratorio
americano, Label, che è il laboratorio di ricerca e sviluppo di un’industria che è una delle più
importanti nella telecomunicazione negli Stati Uniti. Dunque, l’industria stessa ha visto come aveva
vantaggio ad avere dei team di scienziati a cui si lasciava fare, entro ben inteso dei campi, ma i
campi erano talmente larghi che la capacità inventiva dello scienziato poteva veramente misurarsi.
Se tu allo scienziato dici “mi devi fare una cosetta perché il mio uovo frigga prima”, lui avrà una
grande difficoltà. Tutti gli esempi di gente messa all’opera su un obiettivo molto ben definito non
hanno mai funzionato, perché l’elemento creativo è un elemento spontaneo: magari la cosa ti viene
in mente non quando stai seduto in laboratorio, ma quando stai facendo l’amore oppure stai salendo
le scale. C’è una rivalsa di questo elemento del pensiero che poi è anche la lingua, il fatto che noi
siamo animali linguistici. E d’altro canto penso che con il tempo è proprio la lingua stessa che
diventa la forza produttiva principale. C’è da una parte questa forza-invenzione come l’avrebbe
chiamata Gambino, che aveva affrontato alcune di queste cose tanti anni fa; a me non piace la
parola forza perché è di nuovo una parola ottocentesca newtoniana che non rende bene, sarebbe
meglio dire capacità oppure energia, però nell’idea di Ferruccio (e anche Alquati aveva delle cose
così) uno degli aspetti essenziali della classe operaia era proprio la forza-invenzione. A parte la
parola forza, però l’elemento invenzione traduce bene questo aspetto cerebrale o meglio ancora
mentale.

- Analisi dei propri percorsi politici.

Una delle cose più caratteristiche dell’esperienza di Potere Operaio è di avere proposto questa
dimensione dell’odio degli operai per la propria condizione. Una delle cose che ha caratterizzato
proprio intellettualmente Potere Operaio era che gli operai che aderivano al gruppo, compresi quelli
vecchi tipo Sbrogiò, avevano in odio la propria condizione operaia. L’operaismo ha anche l’aspetto
soreliano della valutazione dell’operaio come produttore, in cui la condizione operaia viene
affermata con orgoglio; ora, benché noi abbiamo in realtà pure preso delle cose dalla tradizione
anarco-sindacalista, però c’era un punto su cui la differenza era netta ed era il fatto che per noi
(detta in maniera molto schematica) il fine della lotta era la distruzione della condizione di classe
operaia, non invece la sua generalizzazione come elemento morale positivo. Detto in una maniera
famigliare, noi eravamo amici degli operai che odiavano il loro essere operaio, anche se ovviamente
abbiamo incontrato operai assolutamente rispettabili che difendevano con orgoglio la loro
condizione. Però, la scelta volutamente era parziale nel corpo stesso della classe operaia, quindi

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pensavamo fino alle estreme conseguenze poi. Per noi non è stato intellettualmente un problema
contrapporci, eventualmente sul terreno stesso della violenza, con le organizzazioni operaie, perché
non avevamo questa cosa per cui l’operaio in quanto tale fosse la dimensione della verità; quindi, a
noi sembrava anche inevitabile che si finisse alle mani ed eventualmente a maniere più pesanti con
la tradizione socialdemocratica. Non che ricercassimo questo come elemento di verità, però non ci
sorprendeva che le cose si mettessero in maniera tale per cui alla fine ci trovavamo il PCI come
controparte dal punto di vista della repressione; ci sembrava, forse con un elemento di masochismo,
perfettamente coerente con quello che noi pensavamo del PCI e della socialdemocrazia. Le cose che
i socialdemocratici tedeschi avevano fatto dopo la Prima Guerra mondiale non ci sembravano dei
tradimenti, ma a loro modo una forma di coerenza con quella interpretazione della condizione di
classe per cui appunto la socialdemocrazia parte dalla riaffermazione in qualche maniera della
centralità del processo produttivo e della posizione che la classe operaia occupa là dentro, con tutte
le conseguenze che ne derivavano. Quindi, tutto questo che per noi era una atteggiamento
comunista nelle condizioni e con l’esito che si usava in Italia, finiva col presentarsi come un
atteggiamento anticomunista, ma anticomunista lì vuol dire contro il PCI. Anche Lotta Continua
ovviamente in parte faceva delle cose analoghe, ma per noi era come un canale di azione
fondamentale quello di interpretare la socialdemocrazia come il vero nemico sul terreno
dell’organizzazione di classe. Da qui anche esigenze che altrimenti sembrano inconcepibili. Per
esempio, per noi è stata fondamentale la critica a Gramsci, erano anni in cui tutti civettavano con
Gramsci; oppure la critica dell’esperienza socialdemocratica tedesca e delle sue analogie con quella
sovietica. Qui ci sono le cose belle di Sérge in cui in fondo la stessa organizzazione russa viene
tutto sommato interpretata come una variante di quella kautskiana, ovviamente su posizioni diverse
dato che per i russi è fondamentale tutto l’elemento di espropriazione e riappropriazione da parte
dello Stato socialista, però lo schema era analogo a quello kautskiano socialdemocratico; poi loro
non volevano impossessarsi dello Stato, mentre i russi facevano un discorso sull’appropriazione.
Quando dico i russi non dico necessariamente Lenin e non dico in ogni caso tutto Lenin; ci sono
delle sue cose, tipo Stato e rivoluzione, che vanno esattamente in un altro senso. Però, tutta la
teorizzazione del Partito Comunista russo è fatta in realtà in maniera assai analoga alla
socialdemocrazia tedesca, su posizioni più radicali e tenendo conto che i russi erano costretti alla
clandestinità, costrizione che i tedeschi non avevano; ma per il resto tutto l’apparato, il funzionario
di professione ecc. coincideva. C’era anche una sorta (e su questo Walter Benjamin ha ragione) di
accecamento da parte dei bolscevichi russi attorno al progresso, al fatto comunque che l’Unione
Sovietica dovesse competere sul piano della produzione di ricchezza con i paesi capitalisti.
Io fra l’altro sono stato cacciato dal partito per antisovietismo. Sono andato per la prima volta in
Unione Sovietica, sono stato ad Odessa. Alcune cose onestamente mi sono piaciute e le difendo
ancora. C’è una polemica con i miei amici polacchi, che invece erano veramente anticomunisti,
erano i tempi di Solidarnosc. Fra l’altro il primo numero di Metropoli esce anche con una lunga
cosa sui polacchi che noi siamo andati a fare a Varsavia mentre loro avevano delle difficoltà. Per
esempio rispetto ad Adam Michnik, che ora ha preso una deriva, ma che veniva dalla Gioventù
Comunista, anche a Kuron, anche a Macieziewcz che erano tutti stati quadri, seppure molto giovani,
nel Partito Comunista, quello che in loro mi meravigliava era una certa ingenuità rispetto
all’Occidente: alla fine quello che loro si ripromettevano era di instaurare delle condizioni come
quelle occidentali. Noi venivamo dall’Occidente e non è che ci sembrasse sbagliata l’esigenza di
libertà, e neanche la critica evidente a un sistema burocratico; però, il fatto che l’alternativa fosse
fare come in Occidente ci sembrava un’ingenuità che avrebbe portato, nel caso in cui loro avessero
vinto, a un appiattimento poi di fatto sugli Stati Uniti, anche se non c’era da parte loro un’adesione
al modello americano, però è quello che poi è successo concretamente. Bisognerà pure dire che loro
oggi vivono in condizioni peggiori di prima perché se no non si capisce niente, non si capisce
neanche com’è che in tutti questi paesi i partiti più forti sono gli ex partiti comunisti; anche in
Polonia il presidente viene dall’ex partito comunista che ora si chiama in un altro modo, e così nei
Lander dell’est della Germania e nella Russia stessa prevalgono gli ex partiti comunisti. Dico

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questo per dire che a mio pare settant’anni di quella esperienza ha degli elementi forti, soprattutto in
Unione Sovietica dove, pur con tutti i suoi limiti, è stata però un’esperienza vera; perché in
Cecoslovacchia, anche in Polonia o nella DDR si può dire che in parte è stata portata dai carri
armati sovietici, ma in Russia non è così. Io peraltro sono convinto che questa esperienza continui
ad avere un suo mito nella sentimentalità dei russi. Io ritengo impossibile che la Russia venga
semplicemente integrata nel mercato capitalistico, credo che ci siano degli elementi forti di
quell’esperienza, con tutti gli orribili limiti e con la consapevolezza da parte nostra che se fossimo
vissuti in Unione Sovietica ci avrebbero arrestati e se non uccisi certamente non ci avrebbero fatto i
ponti d’oro. Quindi, sapendo bene i limiti di quella cosa tuttavia c’era un certo atteggiamento
conseguente alla rivoluzione verso il lavoro, si pensi a tutto il ritmo delle fabbriche sovietiche;
senza quel basso ritmo non si sarebbe mai capita l’adesione di fatto, perché a scappare non erano
mica gli operai, neanche nella DDR, semmai erano i professionisti, i tecnici, cosa che potevi anche
capire ovviamente, però ci sono certi elementi che non si possono trascurare di quella che era
l’esperienza operaia e anche contadina, tant’è vero che ancora oggi il loro serbatoio è su quello.
L’esperienza di Potere Operaio nasce anche attraverso compagni che vengono dalle federazioni
giovanili dei partiti, in parte anche dal PCI, almeno una parte significativa; i romani per esempio
vengono quasi tutti dalla FGCI o quelli più anziani magari dal partito, anche in Toscana, lo stesso
Greppi viene dal partito. In Veneto è diverso, Toni è stato segretario della federazione socialista di
Padova, infatti conosceva Panzieri quando questi era vicesegretario del PSI sotto Morandi;
successivamente invece c’è la generazione di Despali che non aveva fatto niente nei partiti. Poi, ad
esempio, anche Alberto Magnaghi viene dal PCI, Sergio Bologna no, ha un giro suo, i napoletani
vengono in parte anche dal PCI. Comunque, in Potere Operaio la critica al socialismo reale è già fin
dall’inizio, non è che noi abbiamo aspettato la caduta del blocco; fin dall’inizio non ha funzionato
come elemento di riferimento, ma neanche i cinesi lo sono stati. Era diverso ovviamente
l’atteggiamento di solidarietà che si aveva verso il Vietnam perché era in lotta con gli americani, ma
non c’era nessuna illusione sullo Stato socialista del Vietnam o su quello cinese. Salvo le cose di
Tronti (che a noi erano rimaste) che, con una certa genialità, aveva capito che la funzione vera della
Cina era stata quella di impedire la chiusura del mercato mondiale; questo costituiva di per sé un
elemento di sovversione, ma non nel senso che i cinesi confermavano il potere operaio, ma nel
senso che l’essere a parte di quella cosa enorme che era la Cina introduceva di per sé una zeppa nel
mercato. Quindi, noi abbiamo sempre avuto un atteggiamento assai critico nei riguardi delle lotte di
liberazione nazionale, ancorché secondo me giustamente e ovviamente eravamo con loro per una
ragione primaria, come in prima approssimazione sei con quelli che lottano. Contrariamente a
quello che facevano i compagni di Lotta Continua noi abbiamo fin dall’inizio molto insistito sulle
condizioni di classe, per esempio sulla parola d’ordine del salario, che in qualche maniera
americanizzava la proposta di Potere Operaio. Per esempio, sul salario uguale per tutti per noi la
cosa decisiva era il tipo di ricomposizione, non tanto perché pensavamo che gli aumenti salariali
uguali per tutti trasformassero gli operai in quadri comunisti, ma quanto per il tipo di
ricomposizione che permetteva. C’erano due cose. Secondo me prima di tutto c’era una maniera di
svelare il meccanismo salariale e di ricondurlo ai rapporti di forza, sganciandolo dalle cose
economiche, perché in tutta la tradizione sindacale e anche comunista era come se nello scontro
capitale-lavoro tu dovessi tenere conto dei dati economici obiettivi, invece noi insistevamo
sull’altro aspetto, per cui sul salario oserei dire in questo caso un po’ come lo definisce Sraffa.
Sraffa è una figura interessante, viene da questo giro ma poi è finito nell’algida Inghilterra a
occuparsi delle opere di Ricardo, me nello stesso tempo è un uomo di grande intelligenza e grande
lettore di Marx. In quel libretto aureo che è Produzione di merci a mezzo di merci sostiene
apertamente che il salario è una specie di bottino di guerra, cioè quanto prenderai dipende dalla tua
capacità, non dipende dal fatto del valore della forza-lavoro. A parte se ciò sia giusto o non sia
giusto, da un punto di vista politico è un elemento di grande forza. Uno non si mette a lottare per far
nascere il sole, perché normalmente è un processo che va da sé, quindi se il salario era determinato
da leggi economiche c’era poco da giocare; se invece il salario è frutto del braccio di ferro per cui

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alla fine prende di più chi è più capace di imporre la cosa, la stessa lotta politica assume un tipo di
legittimazione diversa, quasi ontologica, strutturale. Il libretto di Sraffa credo che sia uscito in
traduzione italiana nel ’59 o nel ’60, io mi ricordo che ero ancora al liceo; nel ’60 c’è stata una cosa
per Tambroni che per la mia generazione è stata la prima esperienza, perché siamo usciti per strada
anche a Catanzaro che era un posto sperduto, ci siamo scontrati con la polizia, è stata la nostra
nascita. Questi elementi di scontro politico rendevano la lettura dei libri più significativa, come
sempre succede perché vedi più cose se sei dentro le lotte. Mi ricordo in maniera viva la lettura di
quello che in parte è anche un libro non facile perché è un libro algebrico; fra l’altro, come nei
trattati di algebra, sembra avere la quantità di parole necessaria e solo quella, non una parola in più.
E’ come quando uno scrive delle equazioni, che hanno come un telegramma questo vantaggio di
essere l’essenziale, o come quel libretto di 120 pagine che secondo me è un capolavoro. Non
necessariamente io dico che il filone Quaderni Rossi e Classe Operaia venga da là perché non è
vero, però certamente quello è un libro che è coerente con questo tipo di impostazione, malgrado
che venga da tutt’altra direzione, perché alla fine è un libro colto e dotto. Però, ha funzionato come
un modo diverso di affrontare tutto il problema economico e anche un modo di concepire le cose
che Tronti scriveva in Operai e capitale quando parlava del carattere immediatamente politico della
lotta economica, non poi il secondo Tronti dell’autonomia del politico.
Quindi, avevamo questi elementi di novità, qualcuna era anche elaborata da noi, ma la maggior
parte erano cose prese, come succede con esperienze politiche, da gente che era venuta prima di noi.
Solo che in quegli anni in Italia sembrava che l’insieme di questo altro movimento operaio, che in
qualche maniera era sempre esistito, fosse finalmente fuso in un‘esperienza concreta. Mi ricordo
che avevo incontrato Gasparotto qualche anno dopo che era morto Potere Operaio e, dal momento
che era curioso, gli avevo chiesto cosa gli sembrava di tale esperienza, perché io avevo più
idealizzato Classe Operaia, io ero ragazzino quando questa è uscita, però ho letto tanto Quaderni
Rossi quanto Classe Operaia, e avevo un’idea di questi gruppi che probabilmente era mitica: difatti
Gasparotto mi aveva detto che non c’era paragone, cioè che in realtà l’esperienza di Potere Operaio
è stata estremamente più larga. Però, in Potere Operaio rivivevano anche molte cose di Classe
Operaia, dell’inizio dei Quaderni Rossi, anche questo atteggiamento verso l’inchiesta, che è stato
un altro elemento fondamentale per la nascita di questi gruppi in Italia, nati appunto attorno ai
lavori di inchiesta. Così, anche nelle stesse cose di Rieser, da cui io mi sentivo allora e mi sento ora
assai lontano, però riconosco che c’erano elementi importanti. Non necessariamente che le inchieste
di Rieser concludessero nelle cose giuste, perché mi ricorderò sempre che lui ha pubblicato su
Quaderni Piacentini, un po’ prima che scoppiasse il casino alla Fiat, il risultato di un’inchiesta a cui
ha lavorato anche Marione Dalmaviva. Era un’inchiesta come sempre accurata e nel maggio è
uscito questo articolo di Rieser su Quaderni Piacentini in cui si sosteneva che per almeno altri dieci
anni non c’era più niente da fare alla Fiat, invece un mese dopo scoppiò un casino enorme. Però,
paradossalmente l’inchiesta che loro fecero servì ad alcuni quadri operai che saranno attivi un mese
dopo. Malgrado che quell’inchiesta concludesse verso una prospettiva di impotenza e di catastrofe,
tuttavia l’averla fatta aveva messo in movimento elementi di coscienza che si erano rivelati
importanti. Ben inteso, non sto dicendo che è stata l’inchiesta a scatenare le lotte; dico che nella
formazione di alcuni quadri di quella lotta l’inchiesta e quel metodo erano stati importanti.
Questo per la fase in cui Potere Operaio è stato fortemente caratterizzato dall’intervento in fabbrica.
Secondo me la vera sconfitta si era determinata con la crisi del petrolio, che a mio parere è il vero
protagonista, il convitato di pietra di quegli anni. Gli assenteismi in Fiat prima avevano raggiunto
punte del 19-20%, il che di fatto voleva dire che Agnelli non poteva materialmente entrare in
fabbrica, c’erano condizioni di fatto nell’erogazione del lavoro di fabbrica che erano state
conquistate dagli operai e che erano in parte condizioni non codificate da nessun accordo: tutto
questo è stato veramente annullato dalla crisi del petrolio. Prima di tutto con la crisi del petrolio si
constata quanto integra sia in realtà la capacità di reazione dei padroni, come questa sappia giocare
sulla congiuntura internazionale, davanti a cui tu ti senti viceversa sguarnito. Questo ha anche
comportato un’attenzione assai più pronunciata di Potere Operaio per gli aspetti immediatamente

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politico-statuali dello scontro, anche un certa deriva che c’è stata in Potere Operaio verso la
violenza è a mio parere frutto di tale situazione. Di nuovo, non parlo della violenza nel senso dello
scontro che per me è fisiologica, ma viceversa l’organizzazione paramilitare, magari spesso
farsesca, della violenza, e parlo anche in termini autocritici. Ora lo riassumo come discussione con
Toni per comodità, ma la cosa non riguardava semplicemente lui. A questa crisi di quegli anni in
parte Toni, Tomei stesso e una parte dei veneti, non tutti (non per esempio Despali e quelli più
giovani), reagiscono intensificando o tentando il rapporto organico con le BR: è una cosa che
formalmente non si può dire, ne parlo in sede di ricostruzione. In Potere Operaio si determina (e io
collaboro a questa cosa) una specie di critica al modello BR e un’accentuazione invece (se si vuole
è una cosa paradossale, ma è fatta in funzione di critica al modello brigatista) degli elementi
leninisti del partito. Dunque, non tanto perché credessimo al modello del partito leninista, ma
quanto per impedire una sottospecie dell’organizzazione di tipo castrista-maoista, anche un po’
confusa, che era sicuramente peggio del modello leninista. Era un’organizzazione del tipo che la
lotta si fa clandestinamente e addirittura la direzione della lotta. Questo per dire che nella seconda
parte della vita di Potere Operaio il dibattito è azzoppato da questa cosa: da una parte si è perso
l’intervento in fabbrica, questo continua ma non è più il motore vero, la discussione si è invece
spostata sugli aspetti proprio antistatuali. Quindi, là a mio parere sono venute le cose quando erano
giuste più ovvie, e spesso invece sbagliate dell’esperienza di Potere Operaio. E’ secondo me meno
interessante la seconda parte (che per me è dopo la crisi del petrolio), anche se è più drammatica per
noi che l’abbiamo vissuta. Posso aver trovato una buona idea quella di scioglierci, salvo le furbizie
che ci sono state.

Tra di noi c’erano alcuni, come Bianchini e Arrighetti (un operaio fiorentino), che erano di un’altra
generazione, ricordavano le cose partigiane; mentre invece anche Toni stesso, che sarà del ’32 o del
’33, non aveva avuto il tempo di vederle. Poi noi abbiamo avuto un rapporto drammatico con
Feltrinelli, che era un coacervo di contraddizioni ma nello stesso tempo proprio per quello, almeno
per me, rappresentava un sintomo interessante della stessa crisi della borghesia. La sua adesione a
queste cose era vera, tant’è che ci è crepato sopra. Parlo di Feltrinelli perché lui era stato un nostro
contatto; contrariamente a Lotta Continua, che aveva fra i suoi simpatizzanti alcuni ex partigiani,
noi questi non ce li avevamo, anche perché avevamo nei confronti pure della Resistenza un
atteggiamento meno idolatrico e più critico. Per esempio, ci andava molto bene lo sciopero del ’43
alla Fiat.

- La Classe, non solo come giornale ma proprio come esperienza, è uno dei momenti che, seppur
durato pochissimo, è stato di particolare importanza.

Secondo me concretamente in quei mesi il vero merito de La Classe è stato di essere il megafono di
quello che avveniva alla Fiat, e quindi di circolare proprio come circolavano le automobili in Italia,
distribuendo questi giornali, qualche volta distribuiti davvero da due o tre persone. Poi dal punto di
vista dei contenuti io non ho mai più visto quel giornale; certamente ne La Classe ci sono in nuce
molte cose che poi si sviluppano in Potere Operaio, ma credo che da un punto di vista politico il suo
significato stia in una motivazione perfettamente trontiana. C’erano le teorizzazioni del primo
Tronti per cui la strategia è dentro la classe e invece l’organizzazione è la tattica: La Classe ha
giocato proprio un ruolo da questo punto di vista, di rappresentare grumi di organizzazioni su un
discorso invece strategico che era facile a far passare immediatamente come recepibile dagli operai,
che però mancavano di questa possibilità di far ponte fra una cosa e l’altra. E La Classe a mio
parere ha molto aiutato alla Fiat, soprattutto nel rapporto fra quello che succedeva a Torino e la
situazione in altri posti. In particolare ricordo la funzione che ha avuto a Roma sulle fabbriche della
cintura. Roma, che non è una città operaia, tuttavia a partire dal fascismo ha avuto nuclei di classe
operaia, qualche volta anche in settori tecnologicamente avanzati, come per esempio la televisione
(che allora era una cosa avanzata), o nella telefonia, la Fatme, l’Alenia e le cose della ricerca

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spaziale. Noi peraltro qui a Roma abbiamo usato le facoltà scientifiche per penetrare là dentro,
poiché erano fabbriche da un punto di vista tecnico molto caratterizzate, funzionava proprio la
provenienza dalle facoltà di Ingegneria, di Matematica, di Fisica; abbiamo anche intrecciato dei
buoni rapporti, durati qualche anno. La Classe è stata il modo con cui noi siamo arrivati in gran
parte di queste fabbriche, anche a Pomezia. Poiché nella divisione amministrativa Pomezia
(malgrado disti 35 km da Roma) ricadeva dentro l’area dove interveniva la Cassa del Mezzogiorno,
allora molti industriali romani e anche americani avevano preferito investire lì perché godevano dei
vantaggi derivanti dalla Cassa del Mezzogiorno.
Erano poi usciti quattro numeri di Linea di Massa, uno sulla scuola, uno sui tecnici, un altro dei
comitati di base di Milano, uno su Porto Marghera. Quello sulla scuola e la formazione è stato fatto
a Roma, quello sui tecnici della Snam Progetti di fatto è curato da Sergio. L’anno dopo c’era stata
Compagni, una rivista fatta in due numeri, quella è un’operazione fatta con Feltrinelli.

- Nella costituzione del primo Potere Operaio quali erano le dimensioni dei gruppi regionali o
comunque di area? C’era il gruppo veneto, quello romano, la zona di Bologna e Ferrara e poi
Napoli; Milano non c’era quasi, Torino era ridotta.

Torino è stata importante per via del fatto che un poco le cose sono nate lì. Io stavo a Roma ma
facevo la scuola di perfezionamento e lavoravo a Frascati dove c’è un centro di ricerca: le prime
cose fatte sono in realtà in questo centro di ricerca, dove abbiamo fatto uno sciopero contro il nuovo
acceleratore, cosa su cui fra l’altro oggi avrei delle perplessità, però allora è stato importante perché
per la prima volta i tecnici scioperavano. Queste cose sono proprio attorno ai primi mesi del ’68.
Poi c’è un convegno a Venezia, a Ca’ Foscari, nell’autunno del ’68, ed è lì che abbiamo un
incontro; Toni era già venuto una volta a Roma, avevamo fatto una riunione, però la saldatura
iniziale nella nascita di Potere Operaio tra i romani e i veneti avviene a quel convegno, quindi
avviene intorno agli studenti. Significativamente a Ca’ Foscari c’era una sezione di quel convegno
dedicata al rapporto tra studenti e operai, e naturalmente lì la presenza vera è di questi gruppi che
poi daranno luogo a Potere Operaio. C’era anche Adriano Sofri, c’erano anche quelli che un anno
dopo daranno poi vita a Lotta Continua, però per noi quella dell’incontro studenti-operai era una
tematica addirittura ossessiva. Bisogna anche tenere conto che una parte di noi, fra cui Oreste ma
non i veneti, avevano fatto l’esperienza di Parigi: a maggio eravamo andati alla Sorbona e per due
mesi avevamo lavorato con gli operai italiani là a far volantini, avevamo conosciuto tutto il giro di
Cohn-Bendit, avevamo affinato le armi in questa cosa internazionale, il che naturalmente era una
sprovincializzazione e anche un vantaggio. Quindi, avevamo alle spalle questo tipo di cosa, e
quando c’è il convegno di Ca’ Foscari c’è un rapporto iniziale praticamente spontaneo tra noi e i
veneti. Se ben mi ricordo Alberto e poi Mario sono venuti un po’ dopo, non ne sono sicurissimo ma
credo che non ci fossero a Ca’ Foscari. La tappa decisiva per la formazione di Potere Operaio è
l’esperienza di Torino, anche se gran parte di questa esperienza ha poi una continuità in Lotta
Continua. Comunque, in quei mesi fra maggio e giugno, dove scoppia la lotta, si verifica una cosa
interessante nella storia italiana perché ci sono questi agitatori giovani (perché di questo si trattava,
non eravamo neanche quadri, eravamo piuttosto agitatori del tipo di quelli anarco-sindacalisti) che
arrivano a Torino da diverse parti d’Italia. A parte noi che grazie al movimento studentesco
costituivamo già un gruppo egemone a Roma, arriva anche gente di Palermo, ho conosciuto pure
singoli che prendono lo zaino e si mettono sul treno per andare a Torino. Allora, è come una
gigantesca fucina che prepara le condizioni poi per la formazione del gruppo, che si forma solo
dopo la rottura di Torino, malgrado che già prima in realtà avessimo dei rapporti privilegiati fra di
noi, per cui il giro Giairo, Toni, io e altri avevamo un nostro rapporto, tuttavia lì eravamo sempre
insieme, i volantini si facevano insieme. Dopo quella rottura invece a Bologna facciamo Potere
Operaio a settembre, mi sa che eravamo una decina e non di più.
L’altra cosa importante è appunto La Classe, perché questa in gran parte la facciamo noi, anche se
l’abbiamo spesso aperta a quelli che poi si chiameranno di Lotta Continua. Tuttavia mi sembra che

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solo Adriano abbia scritto una volta una cosa, la maggior parte di loro ha rifiutato un poco per
ragioni anche organizzative (La Classe si faceva a Roma), un poco perché già c’era questa distanza.
Comunque, La Classe in effetti è importante, perché essa vuol dire non semplicemente il fatto di
partecipare alle lotte a Torino ma, come dicevo prima, il fatto di farsi tramite; in questo farsi tramite
avevamo avuto un ruolo e una funzione oggettiva che ci aveva aiutato a crescere. A mio parere
l’iniziale stato di grazia del gruppo funziona molto bene fino allo sciopero dei metalmeccanici del
novembre del ’69, fino alla grande manifestazione di Roma. Per dire com’erano le cose, nella
preparazione di questa manifestazione Trentin, che era già segretario della FIOM, ha chiesto
attraverso la Camera del Lavoro di Roma di fare un incontro con noi per preparare la
manifestazione dei metalmeccanici, malgrado le nostre parole fossero già in contrapposizione con il
sindacato. Tuttavia noi avevamo un rapporto buono con i quadri sindacali, soprattutto con quelli
giovani, perché molti di essi, per paradossale che possa sembrare, prima di andare al sindacato
erano passati attraverso i gruppi, poi avevano dato un giudizio (probabilmente giusto ma che noi
allora non condividevamo) di opportunità organizzativa. La cosa che questi quadri dicevano è che
prendevano da noi molte delle idee ma che pensavano (per una cosa a mio parere assolutamente
comprensibile, ma a cui noi allora facevamo una forte resistenza) che quelle cose dovevano essere
riportate dentro il sindacato. Lì a mio parere abbiamo fatto il grande errore di settarismo e
radicalismo studentesco. Quando Trentin e la FIOM hanno giocato la carta di superare la
Commissione Interna e di andare ai Consigli, secondo me noi avremmo dovuto stare là dentro,
invece abbiamo tentato la carta della separazione perché eravamo un po’ inebriati da un successo
che effettivamente c’era. A Roma do la mia parola d’onore che il sindacato (la CGIL, degli altri non
dico nemmeno) per vedere gli operai veniva alle nostre riunioni. Mi ricordo che una domenica
avevamo riunito un centinaio di operai e a noi sembrava poco perché saranno stati 6000-7000 gli
operai di quella zona; ma in realtà, da quello che ci dicevano i sindacalisti, era dal dopoguerra che
non si vedeva più una riunione di operai, che poi fra l’altro non era una riunione determinata su una
piattaforma rivendicativa, era proprio una riunione degli operai di Roma con un senso come di
egemonia di classe. In queste riunioni si facevano discorsi in cui si poneva il problema di come gli
operai potevano esercitare un’influenza sul quartiere, quindi erano tematiche assai diverse, che poi
in parte il PCI ha ripreso negli anni successivi, ma allora erano completamente nuove e dirompenti.
Quindi, la partecipazione operaia a Potere Operaio non è mai stata enorme però non è mai stata
irrilevante, nel senso che il tipo di operaio che stava in PO era in generale un quadro notevole,
qualche volta era molto giovane, tipo Alfonso, qualche altra volta era come Italo Sbrogiò, quindi
più anziano, disilluso dalle cose, che vedeva un’opportunità di ricominciare.
Dunque, secondo me la stagione di grazia arriva fino all’arresto di Tolin, perché il primo arrestato
per cose davvero puramente di parola è il direttore responsabile di Potere Operaio; incarcerato nel
novembre, in realtà poi si fa poco di galera, però è stato un segno di come questi menavano. A mio
parere l’organizzazione di Potere Operaio nasce, come Minerva, già armata allora e va avanti così
fino alla crisi del petrolio, naturalmente con alti e bassi, con qualche cosa fatta bene e qualche altra
un poco smandrappata. Io naturalmente indico nella crisi del petrolio una serie di nodi che con
quella crisi vengono al pettine. Da quella crisi a mio parere Potere Operaio non si riprende più e la
scelta di sciogliersi è buona, salvo le furbizie, perché parzialmente per esempio Toni e una parte dei
veneti premono per lo scioglimento in quanto già puntano a un rapporto più stretto con le BR, ad
avere Controinformazione come nuovo organo e così via. Per altro devo dire per onestà che Toni
aveva resistito moltissimo in un primo tempo alla radicalizzazione che veniva piuttosto da
esperienze non significative dal punto di vista operaio come erano queste di Roma; loro, che per via
di Marghera avevano un rapporto migliore con gli operai, giustamente a mio parere erano più cauti.
Successivamente però Toni quando radicalizza, come spesso lui fa, scavalca addirittura questa
posizione a cui lui si contrapponeva e riemerge come portatore di questa alleanza strategica con le
Brigate Rosse che, da un punto di vista di teoria, non avevano assolutamente niente da dire, un po’
come Che Guevara o Garibaldi. Io ho stima per Curcio, anche una specie di affetto malgrado non
l’abbia mai troppo frequentato, però nello stesso tempo non ho mai trovato una cosa interessante;

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umanamente e anche qualche volta letterariamente è sicuro, però dal punto di vista della teoria
proprio non c’è niente neanche se capovolgi, mescoli. Quindi, la cosa di Toni aveva chiaramente un
elemento di furbizia tattica.

- Secondo me la cosa che è stata molto significativa e ha portato quella componente a leggere
male una serie di cose è stata la lotta contrattuale dell’aprile del ’73 con l’occupazione della
Fiat e i fazzoletti rossi. Questa era una forma di organizzazione e di violenza interna operaia
ma non era assolutamente una forma di lotta armata, anche se da allora o poco prima le
Brigate Rosse hanno incominciato a intervenire con un tipo di presenza. Quella è stata una
lettura che in realtà era sbagliata, nel senso che nell’aprile del ’73 ci fu alla Fiat la grossa lotta
interna per il contratto, diede una spallata al sindacato e lo portò a firmare in breve tempo,
prima di quanto volesse, però come tutte le lotte alla Fiat era profondamente interna. La lettura
politica che probabilmente andava fatta era che è stata l’ultima lotta prima della crisi del
petrolio, quindi subiva già le conseguenze di questa cosa ma non aveva ancora quel peso lì.
Dopo di che la Fiat fece tre grandi cose: bloccò le assunzioni per tre anni, quindi bloccò
l’entrata di operai all’interno, incominciò il processo di ristrutturazione e fece anche una
grande espulsione di avanguardie di lotta.

Il processo di espulsione poi culmina nell’ottobre del ’79 con l’espulsione dei 61.

- Secondo me sono due i poli grossi sul discorso della violenza. Uno è che Lotta Continua e
Potere Operaio avevano un quadro militante che si era formato sul discorso degli scontri di
piazza, sia a Roma sia a Milano, dove ci furono gli scontri del 12 dicembre e poi soprattutto
quelli del marzo del ’72, che sono stati probabilmente gli scontri più grossi che ci sono stati a
Milano se si eccettuano quelli del novembre del ’69. Allora le Brigate Rosse quello che fecero è
semplicemente il discorso non della violenza ma della clandestinità. Però il discorso della
violenza, non intesa come supporto alle lotte, quindi come violenza che in qualche modo porta
le lotte a vincere ma sempre a livello di massa, in realtà secondo me comincia a prendere piede
sulla difficoltà di costruire le lotte e di renderle paganti a livello di scontro sociale. Dunque,
diventa una scorciatoia per cui hai dei risultati politici sull’immediato che non riesci ad avere
con una tessitura di una rete di conflitto e di scontro sociale in fabbrica e nei territori.

Sotto un certo aspetto paga perché c’è anche il rapporto seduttivo con i media purtroppo, anche per
noi. Le cose della violenza hanno un riflesso immediato che ti abbaglia come se fosse un elemento
di successo, senza capire la stessa amplificazione che i media fanno di episodi di violenza certo
significativi ma non così importanti. E’ un po’ come succede con il terrorismo, per cui gli stessi
giornali alimentano una paura spropositata delle capacità militari di queste organizzazioni armate
che invece dal punto di vista militare sono totalmente ridicole. Non si è mai posto un serio problema
con lo Stato dal punto di vista dello scontro militare, anche quando le BR sono state al massimo
delle loro possibilità era sempre un confronto completamente fuori scala. Mentre invece se lo vedi
dal punto di vista dei giornali questi aumentano questo allarme che ci sia un pericolo per lo Stato.
Ciò in parte è una cattiva coscienza come sempre succede nei padroni; in parte secondo me nei
comunisti è una scelta abile, cioè una scelta di incrementare l’effetto di paura proprio per andare a
uno scontro senza la mediazione legale, perché questo hanno fatto. Di fatto è stato un piccolo colpo
di Stato, naturalmente non bisogna esagerare, la grande maggioranza degli italiani non ha avuto
conseguenze dirette; però, per quanto riguarda 100.000 persone c’è stato un vero e proprio piccolo
colpo di Stato, per cui sono state sospese le garanzie, hanno cominciato a rendere retroattive le
leggi. Per noi le leggi erano come la giungla per i vietnamiti in realtà, nelle società complesse la
legge ti funziona così.

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- Da una parte c’era questo discorso dei mass-media, dall’altra parte però c’era il fatto che dava
dei risultati immediati anche sul basso comando sociale, di fabbrica ad esempio. Il famoso
slogan “colpirne uno per educarne cento” era in realtà una cosa che a quel livello funzionava.

Fra l’altro noi su questo avevamo avuto anche esperienze concrete e precise in diversi posti nel
Veneto ma anche a Roma. Avevamo fatto una campagna sistematica che aveva comportato anche
qualche cosa effettivamente di violenza fisica, per esempio alla Fatme nei riguardi di due o tre capi
che erano quelli dei reparti dove si avvolgevano le bobine elettromagnetiche. Lì c’erano molte
donne, quindi era una situazione particolare anche perché il tessuto di organizzazione delle donne
era più debole, e c’erano dei fenomeni davvero di caporalato stile primo capitalismo, in cui le
spingevano a delle prestazioni pazzesche. Funzionava ancora il cottimo e lì c’era la norma, e questa
veniva sempre spostata in avanti. Lì è stata per tre anni completamente interrotta la cosa colpendo
due o tre di loro e ciò si era riverberato su centinaia di quadri della fabbrica. Tutto ciò senza
toccarli, o meglio alcuni sono stati toccati, uno è stato anche ferito alla gamba, ma si noti che il
clima era tale che non c’è stata neanche una vera indagine, i poliziotti hanno fatto qualcosa ma
niente più. Perché c’era anche un clima di solidarietà tra gli operai; anche gli stessi comunisti che
sapevano com’era andata la cosa non avevano la forza politica di denunciarti, in parte perché alcuni
di loro avevano pure simpatia, e quelli che non ce l’avevano tuttavia avevano in fabbrica un clima
tale che non era per loro possibile collaborare con i poliziotti. E credo che la stessa sia successa alla
Fiat.

- Potere Operaio, insieme a Lotta Continua, è il primo giornale settimanale distribuito nelle
edicole. Come lo facevate? Allora forse Potere Operaio ebbe una diffusione molto più grande di
Lotta Continua, se si eccettua la campagna che Lotta Continua poi fece su Calabresi e che ebbe
un grosso risalto, mentre Potere Operaio non ne parlò proprio.

Non eravamo neanche entusiasti della campagna anche se riconoscevamo un effetto buono di
mobilitazione. Però, diciamo che le nostre cose della violenza almeno allora non si sarebbero
esercitate su un funzionario di Stato per come li concepivamo noi; semmai avrebbero approfondito
il solco dentro la fabbrica, ma non avremmo scelto la via di un commissario di polizia. Magari era
per pochezza nostra, però la nostra focalizzazione era fortemente legata alla classe operaia. Le
stesse occupazioni delle case che abbiamo fatto in certi posti, compresa Roma, erano sempre molto
legate a dove abitavano gli operai, e secondo me quella come scelta strategica non era male.
Ovviamente a un certo punto si sarebbe dovuta sviluppare, però questa idea di crescere comunque
attorno al corpo della classe operaia era una scelta buona, perché limitava anche le iniziative, però
le focalizzava di più.
Per quanto riguarda il giornale, cominciamo intanto dal basso che come sempre contiene più verità
delle cose che stanno in alto. Noi là abbiamo realizzato un’operazione editoriale che aveva la
garanzia di fatto dalle librerie Feltrinelli, per cui potevamo andare in edicola. Questo grazie a
Giangiacomo, e il nostro accordo con lui era stato questo, cosa che a me fra l’altro non sembra
neanche oggi disonorevole: le librerie Feltrinelli ci compravano mi pare 1000 (però potevano essere
1500, ora non ricordo esattamente), comunque un certo numero di copie loro ce le compravano
prima. Dunque, ogni volta che noi uscivamo c’erano 1000 copie (per tenermi al basso, ma magari
erano un po’ di più) che ci compravano le librerie Feltrinelli, le quali avevano una rete maggiore di
quella che hanno ora, anche se adesso si sono parzialmente riprese precedentemente erano un po’
cadute giù. Negli anni ’70 le librerie Feltrinelli erano praticamente i punti di vendita in tutta Italia,
ci compravano questi giornali indipendentemente dal fatto che riuscissero a venderli oppure no. Noi
avevamo fatto questo accordo che corrispondeva al fatto che con quello che ci compravano le
librerie Feltrinelli, dato che non pagavamo ovviamente i giornalisti, affrontavamo il problema della
stampa e dei costi di distribuzione. Noi realizzavamo con le librerie Feltrinelli di pagare tutto il
costo editoriale, poi con la distribuzione militante riuscivamo a raggranellare anche i soldi per i

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singoli luoghi. Finché è durata, era stata un’operazione secondo me non male, che aveva sfruttato i
legami sociali, il rapporto con Feltrinelli, per però conchiudere in una cosa che era assolutamente
interna alle possibilità di movimento; perché l’andare in edicola corrispondeva ad una capacità di
penetrazione che non avresti avuto in altro modo. Avevamo già pensato in quegli anni alla radio,
noi abbiamo fatto qualche trasmissione pirata. Feltrinelli ci aveva dato alcune apparecchiature di
Radio Gap; temo di aver capito in questi mesi che, per via delle cose con i sovietici, in realtà (anche
se non ne sono sicuro) queste cose siano venute da quel giro là, anche se magari non direttamente
dalla Russia, perché ho appreso dai giornali che i sovietici erano interessati a dare delle ipotesi di
colpi di Stato. Queste radio non le avevamo costruite noi, poi abbiamo imparato a costruirle, ma
allora Giangiacomo ci ha dato una volta due apparecchiature che venivano da Genova, un’altra
volta cinque apparecchiature: quindi, noi avevamo sette punti di trasmissione, poi tre si sono
scassati subito. Per esempio, nel quartiere di San Lorenzo qui a Roma facevamo le trasmissioni
quando c’era il giornale radio più seguito; la nostra trasmittente non aveva potenza tale da coprire
Roma perché si doveva fare clandestina, quindi bisognava contare sul periodo prima che la parabola
della polizia postale ci individuasse. Allora andavamo su dei tetti tranquilli, sempre tramite giri di
compagni, là montavamo l’antenna, aspettavamo le otto, quando tutta la gente era davanti alla
televisione e la cosa là si interrompeva, restava l’immagine ma invece il sonoro era nostro. Ciò
aveva avuto un effetto straordinario sui quartieri romani. Una volta c’era anche Bifo in una di
queste trasmissioni; poi facevamo anche cose divertenti, nel senso che alternavamo voce maschile,
femminile, gente più giovane. Quindi, la cosa aveva un aspetto di organizzazione che era assai
maggiore della realtà, perché poi facevamo le cose con le nostre macchine. Dico questo perché è da
lì che è cominciata l’idea della radio libera, che poi in realtà esploderà nel periodo ‘76-’77
soprattutto con Bologna e Radio Alice.

- Qual era la redazione di Potere Operaio?

Ci sono state tre versioni di Potere Operaio: una è il settimanale con Feltrinelli, quindi il mensile,
poi c’è stato un Potere Operaio del lunedì. La prima versione di Potere Operaio, quella di cui
parlavamo prima, e Potere Operaio del lunedì avevano una redazione a Roma; il mensile aveva
invece la redazione a Milano ed era anche in parte fatto da compagni diversi. Il mensile era
diventato (se mi si passa il termine pomposo) la rivista teorica, dove si facevano maggiormente cose
di riflessione; invece il settimanale tentava di avere un foglio di quotidiano, aveva quel tipo di
impostazione rapida. C’era un certo uso della fotografia, onestamente penso che ci fosse una grafica
notevole, il che testimonia il tipo di energia che avevamo raccolto. Prova ne sia che (nessuno lo sa,
neanche la polizia) abbiamo avuto il premio Bompiani per la grafica del numero sul primo maggio
del ’72. Questo lo dico non per una medaglia, ma solo per esemplificare il tipo di energie che
avevamo raccolto; anche il rapporto che avevamo con i pittori a Roma non era certo dottrinario,
perché fra l’altro queste persone in genere sono bravissime quando dipingono ma appena si mettono
a parlare sulle loro cose è meglio chiudere le orecchie. Però, era interessante che questi qua
venissero alle riunioni; a parte Schifano, c’era anche Baruchello, c’era stato Matta, che era uno
notevole. Nell’ultimo periodo di Matta, per esempio, ci sono i quadri con gli operai piccoli. Anche
da un punto di vista letterario non c’era solo Nanni, che era già uno formato, veniva dal Gruppo 63;
ma il rapporto non aveva influenzato solo lui del Gruppo 63, c’è stato un periodo in cui il rapporto
era perfino buono con Eco, e, dal momento che questi è un opportunista, il fatto che si fosse
avvicinato stava a significare che sentiva un elemento tutto positivo.
Per quanto riguarda i rapporti internazionali, prima ho parlato della diffidenza verso queste cose
terzomondiste; invece, quando queste cose magari con un sapore terzomondista si svolgevano in
Europa, avevamo secondo me l’accortezza e la saggezza politica di essere più aperti. Così abbiamo
avuto un buon rapporto con l’IRA, che è rimasto perfino ora con Adams e gli altri; a Firenze
abbiamo fatto un convegno dai gesuiti (che ci hanno ospitato in un istituto nel centro della città,
cosa anche molto interessante), in cui sono venuti quelli dell’IRA e quelli dell’ETA e noi

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naturalmente appoggiavamo l’ala non militarista dell’IRA, che è poi quella che in realtà è riuscita a
concludere queste trattativa di pace. Poi siamo anche stati più volte a Dublino, io ci sono stato due
volte, un’altra volte c’è stato Toni, sempre per questi rapporti con loro; noi contavamo poco, però
per quello che contavamo appoggiavamo l’ala politica dell’IRA piuttosto che l’ala militare.
Naturalmente molto spesso eravamo in realtà distanti da loro, così come anche dai polacchi, con cui
c’erano rapporti personali e tuttavia eravamo onestamente abbastanza distanti da loro e dalla loro
tematica. Però, Solidarnosc ci aveva interessato perché era un fenomeno operaio; partivamo sempre
dall’idea (che ci ha caratterizzato anche quando qualcuno di noi come Paolo Carpignano è andato
negli Stati Uniti o io in Canada) che non dove c’è la bandiera rossa, ma dove ci sono gli operai lì è
la cosa importante. Quindi, Solidarnosc, almeno all’inizio, era sicuramente una vera organizzazione
operaia, cioè aveva sfondato realmente in senso orizzontale tra gli operai. Quando scoppiano gli
scioperi a Stettino non si chiamava ancora Solidarnosc. All’inizio inoltre non risente di questo peso
che poi avranno su di essa la Chiesa e gli americani, quando parte non è per niente così, c’è anche
una forma, ancorché minoritaria, di dissidenza comunista in Solidarnosc, e sono spesso quadri
notevoli, anche anarchici. Inoltre avevamo un rapporto con gli anarchici spagnoli che poi Toni ha
personalmente conservato; bisogna tenere conto che quando parliamo di queste cose lì c’era ancora
Franco, il quale è morto nel ’76.

- Quale fu il rapporto con Il Manifesto? Ci fu il famoso convegno, che poi portò a spostare
grossa parte de Il Manifesto veneto in Potere Operaio.

A mio parere quello fu originato dal fatto che noi avevamo stranamente delle cose gergali in
comune con Il Manifesto e meno in comune con Lotta Continua, non con tutta LC, per esempio non
con Adriano. Però, c’era una parte di Lotta Continua, che forse veniva dall’esperienza cattolica o da
nessuna esperienza, con cui noi avevamo una vera difficoltà anche terminologica; invece, con questi
de Il Manifesto era diverso, soprattutto per alcuni operai un po’ conservatori ma bravi che loro
avevano, onestamente anche il giro della Rossanda era una cosa dignitosa. Anzi, mi ricordo che
nelle discussioni preliminari del convegno di Milano c’era stato come un accordo in cui loro
rappresentavano per noi il meglio della tradizione comunista e noi, che ci sentivamo in parte legati a
questa tradizione ma in parte un’altra cosa, avevamo in questo rapporto con loro una sorta di
complementarità. Contavamo anche su una crisi dei quadri comunisti maggiore di quanto sia
avvenuta. Quindi, per noi il rapporto con Il Manifesto era anche un modo di far fronte a una
difficoltà che avevamo esperita per il fatto che alcuni dei giovani operai, che eravamo stati noi a
portare all’azione politica, dopo qualche tempo che erano stati con noi erano passati con il
sindacato. Sto parlano dal nostro punto di vista, non sto dicendo il perché Il Manifesto abbia fatto
quella cosa con noi. Quelli erano parecchi, saranno stati centinaia di quadri, qualche volta notevoli,
con una forte motivazione, giovani, disponibili, senza famiglia quindi più disposti a rischiare,
perché nella lotta politica è una di quelle cose che contano il fatto che tu sia disposto a rischiare,
appena hai quattro figli è invece difficilissimo, salvo che non si tratti di una cosa vitale tipo una
catastrofe, altrimenti sei meno disponibile. Invece, questi giovani operai avevano le caratteristiche
degli studenti fuoricorso; il vantaggio di questi è infatti l’enorme disponibilità di tempo che hanno
per quel periodo che stanno in università. Quindi, il rapporto con Il Manifesto era anche volto a
tentare di recuperare, magari su posizioni più moderate, il rapporto con questa generazione di quadri
che avevamo contribuito a far crescere. Poi alla fine la cosa non ebbe fiato, ma, come dici tu, per
noi comportò il fatto che in gran parte il Veneto si rinnovò come quadri, nel senso che accanto a
quelli vecchi storici, i quali venivano dai tempi di Classe Operaia e del lavoro di Toni, ne entrarono
di nuovi. Negli incontri di Venezia di cui parlavamo prima, la situazione era che Toni e i suoi amici
(all'inizio c'era anche Cacciari) avevano un intervento in fabbrica significativo e rapporti con i
quadri; però, dal punto di vista invece degli studenti non avevano assolutamente niente. Noi invece
a Roma avevamo moltissimi studenti. Quella situazione veneta in parte poi l’hanno ereditata i
compagni dei centri sociali; ad esempio, a Chioggia continua ad esserci un collettivo di compagni

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che viene da quel periodo ed è gente uscita da Il Manifesto che poi è rimasta con noi. Il Manifesto
aveva per noi un vantaggio iniziale, nel senso che il riferimento alla letteratura marxista era forte
per entrambi e questo naturalmente costituiva un vantaggio iniziale nella discussione. Poi Il
Manifesto aveva fatto una sua svolta, là c’era ancora Magri, con quel libro sui fatti di maggio
pubblicato da De Donato, poi erano stati espulsi, il che per noi era una testimonianza di valore.
Invece, con Lotta Continua qualche volta ci furono localmente degli accordi, però non si tentò mai
più di fare delle cose coordinate insieme. Facevamo delle cose in Soccorso Rosso quando c’erano
tragedie o qualcosa del genere.

- Una cosa che secondo me Lotta Continua ha avuto di positivo è il discorso dell’uscita sulla
città, il “riprendiamoci la città”.

Sicuramente, è infatti oggi una cosa che sento di riferimento continuo in quello che faccio nel Sud
con altri compagni. Noi abbiamo una rivista che si chiama Ora Locale che riprende in grandissima
parte questi discorsi sul rapporto con la città, anche se ovviamente non sono le stesse cose.

- Un altro tentativo che Lotta Continua fece, con alterni successi, fu quello su Reggio Calabria.

Lì fu bravo proprio Adriano Sofri. Il primo quotidiano era Mò che il tempo s’avvicina; lì c’era
anche Moreno che, a parte quella gaffe che ha fatto di fare il consigliere del Ministro dell’Istruzione
Onofri durante il governo Berlusconi, cosa che è veramente stata una caduta, però merita tanto di
cappello. Lui fa il maestro di strada insieme con la sua compagna che è la Melazzini; è una di quelle
forme di esperienza che hanno a Napoli e che sono notevoli, sono soprattutto cattolici, anche lui lo
è. Si occupano dei ragazzi che evadono l’obbligo scolastico non nel senso di costringerli ad andare
a scuola, ma nel senso di inseguirli come fanno ad esempio in America con gli indiani, il che è
un’ottima cosa: tu non cerchi di disciplinarli, accetti e semmai ti metti al servizio. E riescono a far
acquisire a questi ragazzi degli strumenti culturali attraverso un metodo diverso dalla scuola. Là a
Napoli è in gran parte l’ex gruppo di Lotta Continua che lo fa. Noi questa cosa più missionaria in
realtà non l’abbiamo mai avuta, anche se io personalmente stimo molto questa capacità anche nei
cattolici che non c’entrano con Lotta Continua. Io onestamente ho una difficoltà ad occuparmi della
sofferenza in quanto tale, forse per miei problemi, già mi sento che soffro abbastanza per
aggiungere altra sofferenza. Ho una difficoltà a mobilitarmi per i lebbrosi non perché non capisca la
cosa, è come quando un mio amico muore di cancro, io non ci vado, non ho la forza. Però, apprezzo
questa cosa anche se la sua radice mi sembra problematica. Fra l’altro ho discusso a Roma con
Curcio, lui ha fatto Sensibili alla Foglie, molti di questi materiali, a parte quelli di rievocazione e
documentazione degli anni ’70, hanno questa attenzione alle forme di sofferenza, che so
l’handicappato, quello con tre gambe o con otto teste. Rispetto a ciò io ho un atteggiamento di
emozione più che di ragione: ho sempre pensato che la vera sofferenza sia nella normalità. In questo
sono influenzato moltissimo da Kafka, in particolare da quel racconto che si chiama La
metamorfosi, in cui quell’impiegato si trasforma in uno scarafaggio: mi è sembrato un manifesto
della sofferenza che viene dalla regolarità della vita. Poi c’è la sofferenza che naturalmente è atroce,
però dal mio punto di vista uno che nasce con quattro piedi ha già abbastanza argomenti da capire
perché soffre, è come uno che manca di una cosa; ovviamente è una condizione assai penosa, però
nello stesso tempo a mio parere c’è come una ragione che non dipende dal sociale, dipende da una
cosa più complicata. Invece, la sofferenza dell’impiegato è di origine sociale, è come un surplus di
sofferenza che non è necessario. Io sono dell’idea che ci sia una necessità di accettazione nella vita
dei propri limiti, penso male di ogni prospettiva paranoica di finirla con i problemi, non credo che ci
sarà mai una società senza problemi. Quello che mi sembra più importante è eliminare i problemi
inutili, cioè eliminare le ragioni di sofferenza superflue, la sofferenza che viene in una società di
regime capitalistico, quella che ha origine nelle convenzioni umane; essa non è un tipo di cosa
necessaria come il fatto che non sai volare o che invecchi, qui a mio parere c’è più la tradizione dei

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classici e dei pagani per cui devi accettare il carattere limitato del tuo essere, il fatto che sei fragile,
che crepi, che c’è il dolore. Nella sofferenza di origine sociale, nell’incapacità di identificarti, nel
sentirti solo, nell’essere anche solo, c’è invece un surplus di sofferenza che tu puoi eliminare. A mio
parere l’azione politica è soprattutto volta a questo tipo di cose. Con questo non sto dicendo che non
ho stima per chi si occupa di lebbrosi, per Madre Teresa di Calcutta o per esempio per suor
Teresina, che si è occupata in carcere di me, di Toni e degli altri; noi nelle carceri ci siamo passati e
ci siamo usciti, loro continuano ad andare lì non per ragioni politiche. Quindi, ciò lo apprezzo
molto, però per me è come una divisione del lavoro, io non sarei capace di fare quelle cose e non
riuscirei a concepire l’azione politica in quel senso, probabilmente per limite culturale mio. Da
questo punto di vista Potere Operaio mi sembrava più laico, una cosa in cui da una parte non si
raccontavano frottole sulle sofferenze e dall’altra parte invece avevi in odio la sofferenza che veniva
dalla condizione di classe, perché quella è una sofferenza anonima e generale. Questa non è la
sofferenza che deriva dal fatto che la natura ha specializzato il tuo corpo e invece in genere l’uomo
non è specializzato, per cui uno che ha un solo braccio molto forte si sente sempre come una cosa
estranea ed è soggetto ad un’orribile sofferenza, ma quella non è una sofferenza su cui l’azione
politica possa intervenire facilmente. Quindi, una cosa che caratterizzava quel tipo di impegno era
questa ricerca della sofferenza nella normalità, è la condizione normale che è l’origine della
sofferenza e non invece l’evento raro, eccezionale. Poi naturalmente e indirettamente c’era anche la
rivalutazione che veniva dall’atteggiamento nei confronti del lavoro: dal cosiddetto rifiuto del
lavoro veniva un atteggiamento culturale di apertura verso altri modi di vivere fra cui l’ozio,
concepito non come pigrizia ma come crescita interiore, che non ha bisogno di avere un fine, è cioè
un fine in sé, è semplicemente la crescita della persona. Quindi, un occhio per le cose del Sud che
per esempio nella tradizione industriale non c’era invece mai stato, per cui c’era un’attenzione per
quelle forme di civiltà che esemplifico nel Sud ma potrei citare anche i paesi del Terzo Mondo.

- Nelle interviste fino a qui fatte è emerso in maniera rilevante che le persone che hanno
partecipato a determinate esperienze di esse ora non buttano via niente, anzi hanno utilizzato
ed utilizzano nei percorsi e nelle collocazioni successive quel bagaglio anche formativo che lì si
sono costruiti.

Un caso secondo me eclatante è Piro, che a un certo punto è stato presidente della Commissione
Finanza della Camera; essendo calabrese ogni tanto lo rivedo, e quello che mi raccontava è che le
cose che aveva appreso e aveva contribuito a fare in Potere Operaio erano più che sufficienti per
reggere la conversazione con chiunque. Il presidente della Commissione Finanza si incontra con
industriali, finanzieri, banchieri, e lui diceva che era straordinario come riuscisse a reggere come
impianto e possibilità di interlocuzione (poi naturalmente doveva studiarsi le cose specifiche) con
quegli strumenti là. Molti dei compagni, anche quelli che poi hanno tralignato, magari hanno fatto
altre cose o addirittura sono dall’altra parte, per percorrere quel loro cammino più o meno
disdicevole che sia tuttavia hanno continuato ad usare questi strumenti proprio come strumenti
intellettuali, e in questo secondo me c’è un grande riconoscimento di fatto alla potenza di questi
strumenti. E’ come la battuta di Gramsci che dice che spesso i capitalisti hanno appreso più della
tradizione operaia dai libri di Marx.
Nel mio caso naturalmente sono anche vittima degli occhiali che adopero, io non riesco neanche a
trovare tante rotture, che ci saranno ovviamente, fra l’altro mi trovo a fare l’assessore e una rottura
in qualche maniera c’è. Però, dal mio punto di vista assicuro che non ne vedo moltissime di rotture,
nel rapporto che ho con la fisica, con i ragazzi che si laureano con me, con il mio gruppo di ricerca,
nel tipo di cose su cui lavoro, dunque sia nel rapporto scienza-politica sia nelle cose di cui mi
occupo in politica. Naturalmente mi rendo conto che le cose sono cambiate, non fingo di essere uno
studente, non faccio le manifestazioni, non do il volantino, questa è sicuramente un cambiamento
che in parte dipende anche da un fatto di età. Già non ero capace a vent’anni di alzarmi presto la
mattina perché sono un tipo depressivo e quindi io mi alzo il pomeriggio: ho fatto fisica nucleare

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che non mi piaceva anziché un’altra perché era l’unica in cui le lezioni erano al pomeriggio! Ci
sono cose che con l’età, per egoismo dei vecchi, non faccio più, quindi ciò è mutato. Però,
nell’impostazione delle cose io l’unico magazzino che ho è quell’esperienza là, e se si vuole ci
metto dentro anche il periodo prima di Potere Operaio, ma poi Potere Operaio è come se mi avesse
sistemato queste categorie che mi hanno dato abbastanza fiato da continuare. Con questo non dico
che faccio cose giuste, dico semplicemente che ho abbastanza combustibile che mi viene da quel
periodo. E naturalmente mi viene da quel periodo non tanto perché ho particolarmente studiato
(onestamente ho studiato più prima e dopo che in quel periodo), quanto perché in quel periodo
questi strumenti sono stati messi all’uso. Quindi, anche se non saprei ricostruire bene verbalmente
le cose, quegli strumenti li ho visti e li ho adoperati in una maniera che hanno funzionato e questo
costituisce un’esperienza assai più preziosa della mera argomentazione. E’ cioè frutto del fatto che
di mezzo ci sono stati delle cose che hanno ridimensionato in una maniera che è difficile da
descrivere, ma che costituisce per me ormai frutto di esperienza che capitalizzo e che adopero.
Anche per quanto riguarda Lanfranco Pace che scrive su Il Foglio, se tu leggi le sue cose,
nell’analisi ad esempio del cinema, vedi che c’è sempre un occhio che gli viene da quel modo di
guardare le cose. Anche quando queste persone hanno introdotto nel loro lavoro delle innovazioni,
delle rotture epistemologiche (ad esempio Christian rispetto alle cose che scriveva all’inizio questa
cosa sicuramente l’ha fatta, a mio parere in positivo), tuttavia queste stesse rotture e questi stessi
salti si iscrivono sempre in una continuità e in un permanere del soggetto e dell'esperienza che
rende possibile l’accrescimento, cosa che non è possibile se tu invece ogni volta ricominci da zero.

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INTERVISTA A DOMENICO POZZA – 21 NOVEMBRE 2000

- Qual è stato il tuo percorso di formazione e il tuo inizio dell’attività politica militante?

Io venivo dal Veneto ed è tutto detto, perché questo è stato l’ambiente e quello che si era assorbito
in giro, poi andando all’università naturalmente con i miei compagni di studi abbiamo cercato di
affrancarci da tutti i tabù possibili e immaginabili di cui eravamo stati vittime. Si tenga presente che
noi eravamo in un collegio universitario in cui eravamo sottoposti ad una pressione bestiale.
Passando gli anni questo nostro ribellismo, nutrito di letture varie che non c’entravano quasi niente
con la politica, dopo ha trovato un punto d’approdo nella sinistra, abbiamo preso la tessera del
Partito Comunista, pensando con quella iscrizione di compiere una rottura totale, vedevamo in ciò
un punto fermo, “adesso ci iscriviamo al PCI!”. Sto parlando del 1960, si tenga presente che quello
era il periodo di Cuba, quindi c’era tutto il discorso della liberazione dei popoli coloniali, nel ’59
c’è stata la presa dell’Avana, nel ’60 c’è stata la storia del Congo, dal ’56 al ’62 c’è stata la vicenda
dell’Algeria e via dicendo. Noi il subbuglio l’abbiamo subito in quel periodo in cui c’erano dei
motivi prevalentemente terzomondisti. Dopo di che c’è stato il risveglio sindacale, che è partito più
o meno in quell’epoca, ne 1961 se non sbaglio c’è stato il famoso sciopero degli elettromeccanici
milanesi che hanno invaso una galleria di Milano e hanno sbaraccato tutto, cosa che non succedeva
da anni. Subito dopo c’è stata la montata delle lotte sindacali che sono culminate verso il ’63
quando l’Italia era nella crisi del miracolo economico, perché fino allora c’era stato il boom
economico e poi c’è stata la crisi, tanto che i democristiani per prendere voti alle elezioni del ’63
avevano coniato lo slogan “gli anni felici ritorneranno”, questo per dire che in quel periodo c’era la
crisi però nello stesso tempo c’era la montata delle lotte sindacali. Noi eravamo iscritti al PCI ma
naturalmente per gente così, anarcoidi e ribellisti, il Partito Comunista non era soddisfacente. In
quell’anno è poi scoppiato il dissidio tra Cina e URSS, noi eravamo filocinesi. Dopo di che è giunto
il collegamento prima con i Quaderni Rossi e poi con Classe Operaia. Questo è il mio percorso
personale, quindi siamo diventati operaisti.

- Dunque, arriviamo alla fase di Classe Operaia.

Ci fu la rottura nei Quaderni Rossi, con un’ala composta da Beccalli, Salvati, Rieser e altri che sono
rimasti di là. Per cui come attività politica di militanza in quegli anni fu un’attività in termini di
contatto, di propaganda, di volantinaggio, cercando di cavalcare quelle che erano le lotte di quel
periodo.

- Qual è la tua analisi di quelle che sono state le ricchezze e i limiti in generale dell’esperienza di
Classe Operaia e in particolare del gruppo di Pavia, di cui tu facevi parte?

Sul piano personale è stato un periodo di contatto reale proprio con gli operai. Noi eravamo quattro
gatti però si può dire che tutte le sere noi andavamo a fare il giro di tutte le varie fabbriche, non solo
a Pavia ma anche in provincia, cercavamo di scovare gli elementi più decisi. Ad esempio, alla
Necchi la tipologia degli operai era ben distinta da un reparto all’altro, c’erano i reparti dove erano
tutti operai giovani, dove si facevano filtrare determinate considerazioni sul sindacato, e c’erano
operai professionali, sindacalizzati, molti del PCI, dove invece il sindacato aveva un’influenza
prevalente. Infatti, quando noi andavamo a dare i volantini ci chiedevano: “Ma voi chi siete?”. Però,
chi siete rispetto al sindacato e non chi siete rispetto al PCI, era soprattutto un discorso di tipo
sindacale estremista, di agitare affinché le cose si concludessero con gli scioperi, e qualche volta ci
siamo anche riusciti stranamente. Un sabato mattina alle 11 abbiamo fatto uscire tutta la Necchi, e il
sindacato è arrivato mezz’ora dopo, arrabbiatissimo.

- L’intervento principale era quello alla Necchi?

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C’era la Necchi, poi c’erano le fonderie di Pavia.

- C’era anche l’intervento alla Snia?

Alla Snia avevamo cominciato prima. Era la fabbrica di Marinotti, che era un fascista, e lì c’era un
forte sindacato della Cisnal. Avevano fatto una politica sindacale per cui avevano isolato tutti quelli
di sinistra e li avevano messi un po’ come alla Fiat nei reparti confino, in pratica avevano fatto più o
meno la stessa politica. Quindi, il sindacato dominante alla Snia era la Cisnal, il sindacato fascista,
salvo nelle imprese di manutenzione, dove c’erano quelli che lavoravano anche all’esterno della
fabbrica e in cui noi facevamo intervento. Ci si immagini cosa voleva dire in un ambiente così
trovarsi distribuiti dei volantini sovversivi, stampati in rosso, c’era una caccia all’uomo. Una volta
avevamo fatto il volantino più pesante e per poterli distribuire quello che aveva in mano i volantini
ha finto un incidente sul lavoro per poter uscire poi dalla fabbrica così che nessuno capisse, ha finto
di cadere dalla scala, dopo di che io lo aspettavo fuori dalla fabbrica e sapevo che sarebbe caduto,
ho visto passare l’ambulanza e ho detto “è caduto”, dopo l’hanno tenuto in ospedale un mese.
Questo intervento c’era stato prima, nel '63. La cosa che mi è rimasta di più è stata il fatto di avere
avuto rapporti con molte persone, con molti operai, con i più giovani.

- In generale, secondo te, quali sono stati i limiti e le ricchezze dell’esperienza politica di Classe
Operaia?

Erano cinquanta persone in tutta Italia, però non è che avessero creato un movimento.

- Successivamente alla fine di Classe Operaia, qual è stato il tuo percorso politico?

Io sono stato latitante per alcuni anni, fino al ’72. Sono rimasto iscritto al Partito Comunista, hanno
tentato di espellermi, comunque ricevevo regolarmente la tessera. Poi sono stato in Lotta Continua.

- Qual è invece la tua analisi critica dei movimenti e degli ambiti politici che si sono espressi
negli anni ’70? Nel complesso quali sono state le ricchezze e i limiti?

E’ molto difficile dare un giudizio su queste cose. Per quanto riguarda Lotta Continua, posso dire
che secondo me non doveva sciogliersi. Quando è partita la decisione di autoscioglimento secondo
me si è trattato di un soliloquio, c’erano altre cose che bollivano in pentola.

- Negli anni ’70 tu sei sempre rimasto nella zona di Lecco?

Sì, sono sempre rimasto lì. Poi, dopo la fine dell’esperienza di Lotta Continua, ho smesso di fare
attività politica.

- Per quanto riguarda l’operaismo, c’è chi parla di continuità tra la fase dei Quaderni Rossi e di
Classe Operaia e quelle che sono state le successive esperienze di alcuni gruppi, mentre altri, in
particolare Tronti, individuano una cesura netta tra le due fasi. Tu cosa ne pensi?

Secondo me c’è una cesura netta, non c’è rapporto tra le due cose.

- Solo dal punto di vista quantitativo o anche qualitativo?

Sul piano proprio dei contenuti. In Lotta Continua non c’era nessuna prosecuzione del discorso
marxiano di Tronti, è una cosa completamente diversa.

2
- Per quanto riguarda l’attualità, negli ultimi anni si è sviluppato un grosso dibattito rispetto ai
processi capitalistici, al cosiddetto postfordismo, all’esistenza o meno di un qualcosa che possa
ancora definirsi classe: tu cosa ne pensi?

Tutto quello che noi pensavamo non c’è più, da questo punto di vista il sole è veramente sceso
dietro l’orizzonte. Se possa esistere qualcosa di diverso è una questione su cui bisogna pensarci
bene, non è una cosa che si possa risolvere teoricamente, deve nascere qualche cosa che entri in
contraddizione con lo sviluppo capitalistico.

- Ritornando al vostro gruppo di Pavia, voi eravate in stretto rapporto con il gruppo di Milano?

Il trade d’union era sempre Cesare Pipitone, è lui che intesseva i rapporti con tutti.
Per quanto riguarda il periodo di Lotta Continua, il gruppo di Lecco l’avevamo messo su noi. Ad un
certo punto, nella fase di scioglimento di Lotta Continua, avevamo anche messo su una radio, una
delle prime radio libere che sia nata in Italia, si chiamava Radio N 103. E’ poi morta per
soffocamento perché, siccome allora c’erano ancora i gruppi, quando è venuta fuori la radio, poiché
essa era basata sul lavoro volontario, tutti hanno cercato di infiltrare della gente. Ma il senso della
radio non era certo quello, doveva invece essere un posto in cui trovasse spazio tutto quello strato
diffuso e di base presente sul territorio. Visto che non era così, abbiamo abbassato la saracinesca e
abbiamo messo fine all’esperienza.

- Come interpretavate l’esperienza di Classe Operaia in un territorio provinciale?

Noi la vivevamo in modo abbastanza spontaneista.


Alla fine il punto di riferimento era sempre il sindacato. Quando nelle fabbriche c’era qualche
casino o qualche vertenza ci si inseriva cercando di spingerle su un terreno di scontro, mentre il
sindacato cercava di smorzare i toni. Infatti, gli operai stessi chiedevano “ma voi chi siete? siete un
partito o siete un sindacato?”: non c’era l’abitudine, dopo con l’extraparlamentarismo è diventato
assodato che ci poteva essere un intervento sulle fabbriche, ma allora, nel ‘64-‘65, era una cosa
inconcepibile, o eri un partito o eri un sindacato.
Per quanto riguarda il gruppo di Lecco di Lotta Continua, i nostri non è che fossero studenti; in
Avanguardia Operaia invece erano tutti studenti, operai ce n’erano pochi, quelli del Manifesto erano
dei benpensanti, un po’ come se fossero una sinistra democristiana. Noi invece eravamo i pazzoidi,
quelli pericolosi. Avanguardia Operaia a Lecco avevano una discreta base, avevano dei leader, di
studenti ne avevano, però di operai zero.

- In generale dalle interviste emerge che tutti, indipendentemente da quelli che sono stati i
percorsi successivi, ricordano quelle esperienze come fondamentale momento di formazione
non solo politica ma anche come acquisizione di capacità indispensabili per quelle che sono
state le successive collocazioni professionali. Anche in provincia è avvenuta la stessa cosa?

Noi non avevamo questi grandi intellettuali. A livello personale a me è servita molto, l’aspetto
fondamentale è stato quello di contatto con la realtà operaia, con le persone. Poi non è che ciò abbia
condizionato le scelte professionali, anche perché ho fatto Medicina, però sul piano strettamente
personale l’operaismo come momento di contatto quotidiano con gli operai mi è servito molto,
questo senz’altro. Tra le altre cose mi ricordo ad esempio un operaio alle fonderie Cattaneo che
quando dichiarava sciopero lo faceva roteando una sbarra di ferro all’altezza delle teste dei
compagni di lavoro e se non uscivano si prendevano una sbarrata. Questo operaio raccontava che
era venuto indietro dalla Russia e, dal momento che odiava i tedeschi, i primi tedeschi che ha
incontrati li ha ammazzati, e si trattava di una tedesca con un bambino: non so se fosse vero o no,

3
comunque quando dichiarava lo sciopero prendeva la sbarra e faceva il giro dei reparti, chi non
usciva peggio per lui. Questi erano quelli vecchio stile, poi c’erano quelli più giovani che
lavoravano nelle fabbriche in cui intervenivamo.

- Contatti o scontri con il PCI ne avevate?

Non è che ci fosse un grosso scontro con il PCI, addirittura più di una volta siamo andati a fare le
riunioni nelle sezioni del Partito Comunista. Magari qualcuno era anche contento perché nella
sezione non si vedeva nessuno da due anni. Si parlava del partito in fabbrica. Una volta mi ricordo
che un onorevole del posto mi disse: “So che tu vai a fare le riunioni però dovresti almeno
avvertirmi”.
A Pavia c’era Romano Solbiati, dopo la fine di Classe Operaia non so poi che percorso politico
abbia fatto, non penso che abbia partecipato all’esperienza dei gruppi. Lui era molto intellettuale, il
classico uomo da biblioteca, comunque ci trovavamo bene insieme.

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INTERVISTA A RAF “VALVOLA” SCELSI – 20 GIUGNO 2000

PRESENTAZIONE DEL SOGGETTO


- percorso di formazione politica e culturale e successivi passaggi
- percorso e collocazione negli anni ’70 ed eventuale appartenenza ad ambiti politici organizzati
- il suo percorso successivo
- il suo percorso attuale.

Il mio percorso ideologico-politico devo chiaramente differenziarlo dalla Shake, anche se poi questa
è stata una delle cose importanti che ho fatto nella mia vita, forse la più importante; però il mio
percorso nasce sicuramente quindici anni prima, perlomeno. Io mi sono formato innanzitutto in una
casa socialista, e accanto a questo tipo di formazione fin da subito, da quando avevo quattordici-
quindici anni, mi sono avvicinato da una parte a Potere Operaio, che mi sembrava rappresentare
(all’inizio, poi dopo uno o due anni si sciolse) quel tipo di motivazioni che mi avevano avvicinato
all’ideale generico del socialismo, dall’altra alla controcultura. Fin da subito fui fortemente attratto
dalla galassia delle controculture italiane che nel ‘70-’71 erano in fase ascendente, e lo furono
almeno fino al ’75. Un po’ questa doppiezza di impostazione ha sempre caratterizzato la mia
oscillazione, almeno come formazione politica, nel senso che sono sempre stato non tanto di storia
comunista, ma da una parte socialista-luxemburghiana, quindi con una visione molto libertaria del
concetto di organizzazione, che non ho mai sopportato in quanto tale perché mi sembra proprio la
riduzione della mia capacità critica, non tollero che qualcun altro mi dica cosa devo fare in base a
un criterio di verità oggettiva, non sopporto il funzionariato classico dei partiti, non l’ho mai
sopportato: ogni rapporto che ho avuto con organizzazioni che erano strutturate in questa maniera
mi ha sempre allontanato immediatamente, è una cosa che mi è veramente intollerabile. Al
contempo sono sempre stato molto attratto dalle controculture americane, della Beat Generation in
particolare, ma questo prima ancora di diventare un soggetto politico a tutto campo: si tenga
presente che il primo libro mio che ho comprato fu a dodici anni ed era Juke-box all’idrogeno. Ciò
era evidentemente un po’ mediato da Ciao 2001 che era una rivista musicale che usciva allora, però
il primo libro che mi ricordo di avere comprato è stato quello, quindi da lì ho acquistato tutti i libri
della Beat Generation (Ferlinghetti, Kerouac ecc.), per cui il mio romanzo di formazione è stato
assolutamente la Beat Generation. Contemporaneamente ho iniziato a quattordici-quindici anni a
studiare Marx e continuo a farlo: in realtà le due cose non le ho mai viste più di tanto in contrasto,
però ho sempre questa doppiezza qua. Infatti, a casa mia, per quanto riguarda i testi dagli anni ’60
in poi, ho una libreria molto grande (al di là di tutti i libri generici, sui movimenti ho una cifra come
1500 libri), ed è esattamente divisa a metà: oltre ai testi storici del comunismo, che sono nella parte
storica, dagli anni ’60 in poi c’è da una parte la linea che nasce dai Quaderni Rossi e va su,
dall’altra quella della controcultura, da quella americana a quella inglese, italiana. Dunque, la
libreria è proprio divisa a metà: alla fine, dopo trent’anni di questo interesse qui, ho visto che alle
due cose sono egualmente interessato.
Nel ‘74-’75 io sono scappato di casa, poi non ci sono più rientrato. Quindi, dopo un periodo
abbastanza militante fino al ‘75-’76, nel momento in cui è scoppiato il delirio del ’77 io ero
affaccendato in problemi di sopravvivenza fisica, umana, nel senso che dovevo pensare a cosa
mangiare: mi alzavo alla mattina alle quattro per andare all’ortomercato a lavorare, arrivavo a
scuola (perché allora frequentavo ancora la quinta liceo) alle nove, in ritardo di un’ora per cui
dovevo recuperare, poi al pomeriggio andavo ancora a lavorare da un’altra parte. Quindi, ero molto
coinvolto in una dinamica di sopravvivenza individuale, e in effetti nel ’77 comunque ho fatto delle
cose, però non ero coinvolto in maniera da protagonista, di quello che decideva le cose. Poi dopo,
intorno al ’76 o ’77, mi sono iscritto all’università; nel frattempo mi ero trasferito a Rimini, dove
facevo il pizzaiolo, il cuoco, sempre per sopravvivere. Chiaramente, iscrivendomi all’università, ho
poi cominciato a vincere le prime borse di studio, dunque ad avere la possibilità di poterla
frequentare; quindi sono tornato a Milano e sono stato uno di quelli che ha fondato il Comitato

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fuorisede di Sesto San Giovanni, che, in quegli anni tesi di repressione, tra il ’79 e l’81, è stata una
delle poche realtà di base che funzionava a Milano, che faceva delle cose. Da allora, intorno all’80-
’81, ci fu il mio avvicinamento alla scena punk, che fin da subito mi sembrò proprio un
risolvimento di quella che a mio avviso era una strettoia politica nella quale il movimento si era
gettato negli anni precedenti, rappresentando invece qualcosa di molto vitale. Per cui mi avvicinai
prima al giro del Virus, e poi soprattutto al giro delle “creature simili” (la definizione era “punx
creature simili”): erano quelli che non erano organizzati nella struttura politica del Virus, in quanto
non riuscivo a sopportare neanche questo come organizzazione per le ragioni anzidette, ossia che
non sopporto il concetto di organizzazione così come viene inteso, mi interessa solo una visione
molto flebile, un riferimento ideale e non tanto organizzativo. Mi sono dunque avvicinato a loro e
intorno all’81-‘82 ho cominciato a fare delle cose con questo giro; poi, tra l’altro, allora suonavo
anche, per cui avevo anche dei gruppi, ad esempio tempo dopo ho suonato per due o tre anni con i
La Cruz, che adesso sono abbastanza famosi, e avrei avuto anche modo di suonare a lungo. In
quegli anni cominciai quindi a fare delle cose con il gruppo che poi avrebbe fatto l’occupazione del
teatro di Porta Romana nell’84, poi avrebbe fondato l’Helter Skelter nell’85, successivamente con
loro avrei fondato Decoder, avrei contribuito a gestire la Calusca sempre a metà degli anni ’80,
dopo avrei fatto fondato la Shake: ma a quel punto il percorso è abbastanza lineare.

- Secondo te, quali sono stati i limiti e le ricchezze dei movimenti degli anni ’70?

Io ci ho pensato abbastanza su questa cosa, non credo di avere una soluzione, ma il vero limite degli
anni ’70 fu nel fatto che, per un’incapacità collettiva, non ci fu la possibilità e la capacità di saper
dare una forma organizzativa alle ricchezze dei movimenti. La gente non ha sopportato e ha fatto
esplodere ogni struttura organizzativa, che non a caso in quegli anni ha per certi versi ondeggiato tra
esempi che nascevano dalla storia, dal consigliarismo, dai consigli di fabbrica, per arrivare alla
forma di Lotta Continua, che è una forma luxemburghiana, di sciogliersi nel movimento (poi
sappiamo che le ragioni furono altre, però la cosa fu di quel genere), piuttosto che l’MS e poi MLS,
che decise di darsi una struttura organizzativa di tipo staliniano, oppure ci furono forme varie di
consigliarismo a vario titolo che vengono fuori, e così via. Però furono tutte forme recuperate dai
movimenti nell’archivio storico della nostra tradizione socialista e comunista, ma che
evidentemente non riuscivano ad esprimere pienamente quella che invece era la ricchezza di quella
fase storica. In questo iato non risolto secondo me c’è la vera ragione della sconfitta storica. Era
impossibile forse, probabilmente quella di cui ci si sarebbe dovuti dotare era una forma
organizzativa di tipo orizzontale, ma non era nell’ordine della storia in quel momento.

- Quali furono invece le ricchezze?

La ricchezza è imparagonabile. Io sono entrato negli anni ’70 che ero adolescente, avevo quattordici
anni, e fino al ‘77-’78 ho sempre avuto una visione per me normale di comportamenti che oggi,
ripensandoci a quarantacinque anni e guardando indietro, sono assolutamente folli. Allora tutto era
possibile, forse anche da qui deriva il mio mood per certi versi un po’ di scontentezza continua.
Allora tutto era davvero possibile, c’era l’idea che l’universo delle possibilità dipendesse proprio da
noi, dalla gente: il concetto di rivoluzione era vero che era possibile farlo, almeno soggettivamente,
poi è chiaro che le condizioni oggettive fanno parte di altri ragionamenti. La gente ci credeva, lo
sentiva, dal non pagare il biglietto sul tram a tutto il resto: c’era in realtà una disarticolazione del
potere a livello periferico e a livello concreto che dava assolutamente un altro tipo di mood, la gente
viveva un altro tipo di mood. Poi, a partire dal ‘78-’79, hanno incominciato a restringere gli spazi di
possibilità che le persone vivevano, per cui a mano a mano hanno iniziato a restringere l’arco
visuale. In realtà è vero che la normalità è questa qui che viviamo adesso, però quando io sono
entrato negli anni ’70, da ragazzo, ho trovato un mondo che era totalmente diverso, perché era
l’esito di una congiuntura storica, ma a quattordici anni non ti rendi conto che il mondo come lo stai

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vivendo è assolutamente sottosopra rispetto al normale. Poi a poco a poco ci hanno impiegato dieci
anni e te l’hanno riportato al punto iniziale, per cui, quando ti sei accorto che il mondo era
quell’altro, dici “merda!”, ti viene proprio spontaneo dal cuore: “mi avete illuso, guarda che merda
di lavoro…”! Invece, lì era tutto era possibile, la gente che si organizzava per non pagare il biglietto
sulle metropolitane, sulle corriere, per non pagare l’elettricità, ed erano tutte storie organizzative,
quando passava il controllore tutti gli rompevano i coglioni: prendevi l’autobus per andare a Sesto
San Giovanni e dicevi “io non pago il biglietto”, questo qui si arrabbiava, voleva fermare il pullman
e c’era la gente che non diceva a te di pagare il biglietto, ma diceva a loro di riprendere la strada. La
dinamica era completamente rovesciata rispetto ad adesso, ma nelle cose concrete, in quelle piccole,
per cui ti dava l’impressione veramente di avere una forza. Poi chiaramente, avendo 15-20 anni, non
ti rendi conto della straordinaria assurdità della cosa, e invece poi il mondo era diverso.

- Secondo te, quali sono state le maggiori cause della frammentazione e dispersione di quella
grossa ricchezza che si è espressa a livello dei movimenti e del dibattito teorico negli anni ’60 e
’70?

Secondo me la causa fu sostanzialmente una, quella di non aver capito la partenza di un nuovo ciclo
produttivo. Anche qui c’è bisogno probabilmente di tornare indietro. Che il processo di
ristrutturazione in Fiat sia esploso con la cosiddetta marcia dei 40.000 è secondo me una
stupidaggine: io non sono un industrialista o un fiattologo, per cui le mie sono considerazioni
estemporanee, però la mia impressione è che in realtà il processo di ristrutturazione alla Fiat abbia
origine all’inizio degli anni ’70. E credo che il processo di germanizzazione dell’Italia (fu definito
così), quindi un certo tipo di configurazione dei procedimenti penali, un certo modo di impostare il
controllo sulla società, in realtà sia un’operazione che ha perlomeno come suo antesignano il
governo Andreotti-Malagodi del ’71-‘72, se non ricordo male; poi, successivamente, ci fu
l’esplosione della lotta armata ecc., ma il processo di germanizzazione dell’Italia non fu dovuto ad
essa, bensì ad una risposta padronale e della Confindustria rispetto al processo ampio di rivolta e di
messa in discussione degli equilibri sociali che aveva origine nel ‘68-’69, addirittura possiamo
ritornare a Piazza Statuto. Certo, poi tale dinamica fu catalizzata dal fatto che c’era anche la lotta
armata, ma il processo di ristrutturazione produttivo partì allora: il problema per loro era quello di
scomporre le linee di fabbrica che rompevano le scatole. Per cui il processo di introduzione della
robotizzazione in Fiat (che mi sembra abbia origine nel ’75) non fu per salvare la salute degli
operai, ma semplicemente per spezzare la linea: non importava che i robot lavorassero bene oppure
male, ciò era assolutamente irrilevante, il problema era di spezzare la capacità operaia di controllare
l’intero ciclo produttivo. Quindi, se questo era il ciclo, da una parte non fu compreso esattamente
quale poteva essere la trasformazione di questo ciclo, perché poi, come è noto, si innescò
l’informatica. Dei 23.000 che escono dalla Fiat, piuttosto che i migliaia che escono dall’Alfa
Romeo o dalle altre fabbriche del milanese, fatto salvo una parte ampia di disagio sociale che poi si
esprimerà in suicidi, la gran parte di questi operai che prendono la liquidazione o la buonuscita da
parte delle aziende, le riversano in un più ampio settore del sociale, di cui chiaramente il
postfordismo e la sua forma produttiva è un aspetto, ma che inizialmente prendeva la forma dei
barettini che vendevano socialità. Se si va a fare la storia luogo per luogo dei locali del ticinese, alle
origini i proprietari venivano tutti dalla sinistra di fabbrica: prendevano 30-40 milioni dell’epoca
per accettare il licenziamento e li investivano tranquillamente nelle cosiddette osterie. Ci furono
degli effetti poi da parte di questa componente ex nuova sinistra, che arrivò ad esempio sul ticinese
modificando pesantemente gli equilibri di un quartiere che invece aveva delle grandi doti di
tolleranza. Basti pensare alla zona che stava dietro alla Calusca iniziale, la zone della conca del
Naviglio, dove c’era l’ex ospedale Ronzoni: lì sono arrivati tutta una serie di ex militanti di Lotta
Continua, hanno comprato diversi appartamenti, hanno sbattuto fuori le prostitute che stavano nelle
case vicine, sono riusciti a fare in modo di “bonificare” il quartiere. Il processo che ci fu, per certi
versi, dapprima coinvolse l’elemento sociale, della vendita di socialità, perché questi erano soggetti

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che erano abituati a fare delle relazioni sociali il loro mestiere, perché erano delle avanguardie di
fabbrica che comunicavano, erano in grado di interpretare i bisogni della gente, e subito ciò lo
reimpiegavano in questa dimensione qui. Dall’altra parte, la spinta al non lavoro, che fu la spinta
grossa che percorse gli anni ’70, fece in modo di portare una serie di soggettività ad accettare
ipotesi di lavoro senza la catena del lavoro in fabbrica, quindi di accettare di lavorare fuori da essa,
magari per la fabbrica ma fuori da essa, credendo in questo di trovare una forma di liberazione o di
libertà perlomeno fisica, spazio-temporale. Ciò senza poi rendersi conto che sono soggetti che
diventano indirettamente desolidarizzati, perché la fabbrica da questo punto di vista è un luogo di
formazione straordinario per dirla con Bravermann, nel senso che è il luogo nel quale si forma una
dinamica e una coscienza collettiva delle cose: per cui, se sei desolidarizzato, puoi essere anche
l’avanguardia migliore di questo mondo ma tendi a leggere le cose a partire dal tuo ombelico, dal
tuo punto di vista, che è evidentemente quello di piccolo produttore all’interno di una catena dove
non hai persone con cui appoggiarti e agganciarti. Di lì parte la cosiddetta fase dei torni al
numeratore economico, la partenza del bresciano che impiega tutta la famiglia a lavorare nelle
cantine e poi cominciano ad assumere uno, la ripartenza del ciclo del tessile nel Veneto, oppure
l’out-sorcing spietato che viene fatto alla Fiat di Torino, per cui su 5000 pezzi solamente 1500
vengono prodotti in fabbrica e il resto viene completamente prodotto fuori, molto di più di quanto
fosse già il processo di comando capitalistico dispiegato come era negli anni ’60. Sono tutta una
serie di processi che chiaramente attraversano poi in maniera estesa la soggettività, i soggetti. Ma
poi, più in generale, stava partendo un nuovo ciclo.
Il ciclo degli anni ’70 è caratterizzato, dal punto di vista economico, da un elemento di fondo, cioè
quello di essere governato dalla Confindustria in termini inflazionistici, ossia usando l’inflazione
come forma di erosione del salario: come è noto era un’inflazione a due cifre, si viaggiava sul 20-
25% annuo. Era la forma che permetteva alle fabbriche italiane di poter esportare all’estero: con un
processo inflativo alto si aveva chiaramente una lira che valeva poco o nulla, quindi riuscivano a
esportare tutto a costi vantaggiosi, riuscendo dunque a sopravvivere rispetto ai processi di
concorrenza internazionale. Nel momento in cui parte il nuovo ciclo, chiaramente inizia una
modifica del ciclo produttivo sia nei termini di ristrutturazione del processo di fabbrica, sia per
quanto riguarda l’oggetto del prodotto stesso. Si tenga poi conto che nel ’78 (se non ricordo male)
l’Italia aderì allo SME, quindi questo processo inflazionistico dovette essere ridotto gioco forza,
perché veniva data una banda oscillatoria (che, se non sbaglio, era intorno al 6%) tale per cui la
valutazione monetaria della lira doveva stare all’interno di quel range lì, quindi con modifiche di
carattere strutturale di un certo tipo. Ma bisogna tenere conto anche che i padroni nostrani avevano
talmente il culo per terra che la Fiat nel ‘76-’77 dovette vendere quasi un quarto delle proprie azioni
alla Libia, che già allora veniva considerata il nemico pubblico numero uno: ciò vuol dire che
c’erano problemi di cash.
Quindi, la fase da un punto di vista strutturale era di un certo tipo, probabilmente sarebbe potuta
finire in un’altra maniera, o perlomeno c’erano forse i margini, per la prima volta probabilmente dal
’21, per fare qualcosa di diverso, o almeno avere un esito differente. Comunque il dato di realtà è la
ristrutturazione del processo produttivo che si realizzò pienamente nell’80-’81, poi sta lì la radice
della cosiddetta questione settentrionale, cioè alla fine nei conti non risolti rispetto al ’77, da ogni
punto di vista. E sta lì la crisi della sinistra istituzionale, PDS o DS che dir si voglia, perché sul ’77
loro non vogliono mettere assolutamente le mani nel piatto, perché chiaramente significa fare i conti
con l’immagine più oscura della propria storia. Però è lì indubitabilmente la radice del problema.
Con la partenza e la formazione del nuovo ciclo, intorno all’80-’81, è chiaro che tutta una serie di
equilibri precedenti cambiano. E poi c’è la grande novità dell’informatica. In America parte
sicuramente prima, nel senso che lì c’era già l’applicazione abbastanza dispiegata dei main frame
negli anni ’60, mentre in Italia si parla degli anni ’70 per quanto riguarda i main frame. I PC negli
Stati Uniti incominciano ad essere introdotti, o perlomeno c’è una vasta area hobbistica che già
intorno al ‘75-’76 comincia ad avere un certo peso, e trova applicazioni produttive intorno al ‘78-
’79; in Italia il primo PC che ebbe un grande successo a livello di massa (mi ricordo che io ero punk

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allora) era lo Spectrum, e prima ancora il Commodore 64, che viaggiava a bobine, e incominciarono
a essere impiegati nell’ambito produttivo, intorno all’84-’85 si ebbe il primo grosso boom di
applicazione di PC all’interno degli ambiti produttivi, almeno dei personal. Questo chiaramente
genererà uno spostamento del modo del comando capitalistico e del modo stesso di lavorare.

- Per te quanto è stato importante guardare agli Stati Uniti, realtà, nella sua ambivalenza, a cui
tu ti rivolgi molto presto anche rispetto a tutto il discorso sul cosiddetto postfordismo?

Credo che gli Stati Uniti in Italia siano un punto di riferimento ambivalente con il quale fare i conti
continuamente, ma questo per tutti, per chi lo dice e per chi non lo dice. Perché gli Stati Uniti sono
il luogo dell’immaginario, sono il luogo della produzione di merci, sono il dominio. Poi noi,
essendo sotto l’ombrello americano, è gioco forza che con gli Stati Uniti ci devi fare i conti: hanno
determinato la politica interna italiana perlomeno dalla svolta di Salerno del ’43 fino ai giorni
nostri, questo è indubbio. Poi, per quanto riguarda la mia esperienza e il mio percorso soggettivo,
gli Stati Uniti sono la patria della controcultura, quindi per me sono stati questo. Chiaramente gli
Stati Uniti sono anche Reagan, sono il Ku Klux Klan ecc., ma io ho guardato proprio questo aspetto
qua: sono la Beat Generation, sono Miller, sono Melville, Moby Dick è straordinario, sono
Whitman, sono questi autori. Certo, questi autori li ho scoperti nel corso degli anni, però c’è il mito
della frontiera, dietro gli Stati Uniti c’è chiaramente il mito del viaggio, che è poi un viaggio fisico,
di mobilità, di non adesione a delle cose pattuite, sacrali, configurate, stabili; diversamente, c’è
questa illusione di mobilità che invece gli Stati Uniti ti riescono a dare. Insomma, gli Stati Uniti
sono un sogno, il grande sogno americano effettivamente ce l’ha dentro questa illusione. Per me
non tanto il discorso della democrazia, perché non ci ho mai creduto alla democrazia americana,
devo dire la verità; però mi ha sempre interessato l’elemento organizzativo dal basso, o perlomeno
la capacità dal basso di saper creare comunità. Quindi, sono talmente grandi gli Stati Uniti che
qualsiasi cosa che abbia le gambe per marciare riesce a darsi una modalità di esistenza, e questa
secondo me è una cosa straordinaria.
L’Italia è un paese papalino, dove ogni cosa che fai è l’esito di centomila mediazioni, è un paese
bizantino, molto sofisticato dal punto di vista politico, ma dove tutto è l’esito di uno scambio
“politico”: per poter lavorare nell’università tu devi scambiare la tua vita (ed è questa la ragione per
cui io non lavoro all’università), devi leccare il culo a qualche docente in cambio di un
riconoscimento che ti darà per cinque, dieci, quindici anni. Questo tipo di dinamica per certi versi in
America non esiste, da questo punto di vista essa è un paese più aperto, più libero; poi certamente,
essendo un paese neoliberista o liberista, è un luogo in cui il povero viene lasciato a se stesso. Non
c’è in quel caso la mediazione come c’è qui dappertutto, a ogni livello della società, per cui esiste,
interviene una mediazione sociale rappresentata dalla Chiesa, anche dallo Stato, dal welfare-state
configuratosi negli anni ’50, quello progettato da Vanoni ecc., che aiuta comunque i poveri a
sopravvivere: negli Stati Uniti evidentemente no, ma questo perché il nostro è un paese dove tutto
viene mediato, tutto viene scambiato, tutto è esito di un processo continuo di contrattazione, o
perlomeno è stato così. Oggi probabilmente l’elemento caratterizzante la nuova fase è che stanno
saltando tutti gli agenti di mediazione sociale, questo sia a livello parlamentare e di commissioni
parlamentari, sia a livello di organismi che dovrebbero permettere alle istituzioni parlamentari di
rapportarsi con la società, sia poi all’interno della società stessa. In questo momento nel paese c’è
dunque un processo oggettivo di snellimento delle figure di mediazione sociale, ma se ragioniamo
in termini storici lunghi il nostro è un paese comunque caratterizzato da elementi di mediazione.
Invece l’America non è questo paese qua, è un paese innanzitutto dove le controculture hanno avuto
il diritto di esistenza: qui entra ad esempio una mia polemica nei confronti della nuova sinistra, io
sono convinto che essa in Italia abbia spezzato le reni alla controcultura, più o meno
volontariamente, intorno al ’75. Nel momento in cui si è alzato il livello dello scontro la prima
componente del movimento a saltare è stata quella controculturale, perché non poteva
evidentemente reggere quel tipo di dimensione, quindi prosciugando da sé l’aria nella quale poi

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avrebbe attinto linfa ed energie. Non è stata in grado di mantenere questo mondo: che sia stato per
scelta consapevole dei soggetti o esito naturale di un processo storico, questo non sta a me dirlo,
comunque il primo risultato fu che, intorno al ‘74-’75, quando partirono i cicli proletari giovanili,
che per certi versi furono l’ultima esperienza controculturale (anche se poi innescata dalle
organizzazioni), per quanto riguarda le controculture era però già finito tutto, o perlomeno stava
finendo tutto. Poi dopo c’è stata un’altra storia.

- A livello di sviluppo capitalistico e di movimenti di classe, quanto il guardare agli Stati Uniti
come realtà più avanzata può essere utile come possibilità di anticipazione, ovviamente non in
termini oggettivistici e deterministici, ma di macrodimensioni e di tendenze?

Non lo so, perché questo ragionamento sui cicli e i movimenti vale la pena probabilmente farlo
pensando a una fase tradizionale di sviluppo del capitale, quella che sostanzialmente arriva fino al
‘64-’65: i movimenti erano sempre l’esito e una risposta alla fase più bassa di sviluppo del capitale.
Se noi andassimo a vedere a partire dal 1789 tutti gli scoppi rivoluzionari che ci sono stati,
soprattutto nell’800, noteremmo immediatamente una sorta di corrispondenza abbastanza rigida tra
situazione generale dal punto di vista economico e nascita ed esplosione dei movimenti. Se
immaginiamo una sorta di cicli dell’economia, con tanto di cicli lunghi (perché allora erano un
pochino più lunghi di adesso, dove siamo in crisi continua, per cui i cicli si sono raccorciati, allora
erano molto più lenti), e se noi andiamo a disegnare questa storia dei cicli, ci accorgiamo che, ad
esempio, nel 1788 ci fu un inverno precarissimo dal punto di vista dell’alimentazione per quanto
riguarda le plebi agricole in Europa (addirittura la laguna di Venezia era completamente gelata), e,
non deterministicamente però è successo, la Francia è esplosa, successivamente ci saranno altre
esplosioni. Così come lo stesso ciclo ci sarà poi intorno agli anni ’20 dell’800, anche se sarà
evidentemente una cosa molto più “piccolo borghese” rispetto ad altre, ci sarà un ciclo analogo nel
’48, ce ne sarà uno nel ‘70-’71 e così via. Dunque, a me sembra che, toccato il punto basso della
fase depressiva congiunturale del ciclo capitalistico, i movimenti generalmente partano a metà di
questo ciclo di ripresa. Se vale questo tipo di applicazione ciclo-temporale, applicato sulla storia dei
movimenti, e lo riporti al nostro secolo, in realtà trovi abbastanza corrispondenza fino almeno agli
anni ’60; però, con il ‘63-’64, gli anni del boom, per la prima volta abbiamo uno sviluppo di un
movimento forte in presenza di una congiuntura altamente favorevole. Mentre negli altri cicli
avevamo sempre l’esplosione dei movimenti in base a un ciclo sfavorevole, a una congiuntura
negativa dell’economia, invece negli anni ’60 per la prima volta abbiamo una risposta di movimenti
in presenza di un ciclo favorevole.
Tra l’altro questo accade con elementi di novità che dureranno quindici anni ma che poi spariscono,
perché l’altro elemento di novità è che creava un nuovo soggetto sociale, o socialmente mobilitato,
che erano i giovani, i quali storicamente si sono sempre mobilitati non mai per cose legate a storie
politiche di questo genere qua, ma sempre inerenti la guerra. I giovani come dinamica volontaristica
si sono mossi ad esempio come volontari nella Prima Guerra mondiale, come volontari nelle guerre
di indipendenza, non si sono mossi durante la Seconda Guerra mondiale, perché fu l’unica guerra
italiana dove non ci fu un flusso di volontari a vario titolo per andare a combattere, nella storia
italiana questo è l’unico episodio; addirittura nella guerra di Abissinia del ’36 formalmente erano
volontari, poi chiaramente erano motivati dal regime per andare. L’altro momento in cui i giovani si
mossero, oltre ai periodi di guerra, fu sicuramente il processo di mobilitazione straordinario delle
masse, quindi anche dei giovani, che ci fu dopo la Prima Guerra mondiale, per cui ci si spiega
perché il fascismo fu essenzialmente un movimento giovanile come componente. Però, detto
questo, il fatto che i giovani fossero soggetto attivo, con un valore propositivo valido per l’intera
società, quindi portatori di istanze di carattere generale, di carattere universalistico (per riprendere
un classico modo di approcciare il problema da parte del marxismo e delle componenti marxiane),
questa cosa qua si ha solamente negli anni ’60. Però, nell’esperienza italiana dura quindici anni,
nell’esperienza americana dura sei-sette anni, nell’esperienza francese dura due anni,

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nell’esperienza tedesca dura un pochino di più ma non arriva ai quindici anni nostri. Per cui
sicuramente è contingentato per quella fase storica. Infatti, non a caso, negli anni ’80, ci sono tutta
una serie di cose che sono esito dei processi: da una parte ci sono i punk, che sono l’ultimo esito
politico, l’ultima grande controcultura internazionale che è venuta fuori, però al contempo ci sono i
paninari, una rinascita dei mods, l’autonomizzazione degli skinheads (che sono poi, per certi versi,
un fenomeno subculturale e non controculturale); poi, più in generale, c’è la nascita sempre negli
anni ’80 dei cosiddetti prepping, questi ragazzotti vestiti beni, quelli delle magliette polo o di quelle
con il coccodrillo e i pantaloni tipo plaid, tutti vestiti un po’ fighetti, e poi dopo il fenomeno delle
Timberland. Dunque, successivamente sono tutti fenomeni legati al consumo, il consumo definisce
l’essere: tutta questa specificità giovanile è stata completamente e abbondantemente riemarginata,
riassorbita. Per cui, secondo me, in questa fase non è più possibile pensare ad un fenomeno
giovanile in quanto antagonista, non è così: ci sono dei fenomeni di consumo che possono assumere
un loro versante controculturale, o meglio subculturale, per cui hanno delle loro leggi, delle loro
simbologie, delle loro modifiche, che possono entrare parzialmente in conflitto con le istituzioni e
con il potere ma solo perché la forma del consumo entra in contrasto. Ma questo non significa che
non sia positivo, sia ben inteso, però non è lì l’elemento che può permettere a queste componenti di
entrare in conflitto più in generale, perché non è quella la dinamica che c’è sotto.

- Riprendendo con la ricostruzione del tuo percorso, eravamo arrivati alla fondazione di
Decoder e poi della Shake.

Noi collaboravamo alla Calusca: io la frequentavo già negli anni ’70, poi per un certo periodo non
ci sono più andato, negli anni ’80 ho ripreso ad andarci e come me un po’ tutto il movimento punk,
o almeno la sua componente più intelligente, che qui erano Gomma, Giacomo Spazio, Philopat, un
po’ di soggetti vari che girano ancora adesso. Intorno all’82-’83 Primo Moroni ci diede la
possibilità di portare le fanzine: si tenga conto che allora le fanzine punk italiane arrivarono anche a
un massimale di 300-400, quindi c’era una produzione molto molto ampia. Il movimento punk,
nella visione più estesa del termine, fu un fenomeno veramente di massa in Italia, perlomeno, a
livello giovanile, fu una cosa che influenzò pesantemente una serie di componenti: non è
evidentemente paragonabile agli anni ’70, ma comunque fu una cosa significativa dal punto di vista
anche numerico, soprattutto nelle grandi città (Milano, dove fu molto significativa, un po’ Torino,
Bologna, parzialmente Roma). Dunque, Moroni ci fece vendere le fanzine, poi chiaramente da cosa
nacque cosa, partecipammo a un convegno che era organizzato da Sapere 2000 (che è una casa
editrice che pubblica testi anche molto intelligenti e molto impegnati); in quella occasione uno di
noi, che fu Gomma, fece un intervento sul problema della simbologia e dei punk. Quindi ci fu un
processo lento di cercare di capirsi noi e i vecchi che venivano dai movimenti degli anni ’60 e ’70,
in cui il punto di mediazione era Moroni. Poi, intorno all’83-’84, Primo ci diede per due volte le
chiavi della libreria d’estate e la gestimmo interamente noi, tra l’altro facemmo anche un incasso
che era il più alto di tutto l’anno, perché poi ci sbattemo, facemmo annunci alla radio; quando
ritornò Moroni e si presentò in libreria a fine agosto, noi gli demmo credo allora più di cinque
milioni, che con i libri che aveva la Calusca, d’agosto, 5 milioni dell’epoca (che corrispondono
adesso a un 15-20 milioni), era una cifra molto alta. Superata questa prova, Primo ci diede in affido
l’ultima stanza in fondo alla libreria (che allora era in corso di Porta Ticinese 47, vicino alle
colonne) e noi la gestimmo come luogo punk, dove c’erano tutte le fanzine, facemmo i primi
esperimenti di editoria, fotocopiavamo i libri che erano introvabili, in particolare quelli delle
Pantere Nere (che è sempre stato un nostro trip), così come i testi beat (ad esempio Ginsberg allora
non si trovava, Kerouac nemmeno, c’era solo On the road perché l’aveva pubblicato gli Oscar
Mondadori, ma se no le altre cose non si trovavano). Dunque, ci impegnavamo in questo, facevamo
poi le cassettine con la voce di Ginsberg e vendevamo queste cose insieme a quelle punk, magliette
ecc. Questo generò immediatamente un casino dentro la libreria, perché i vecchi avevano una
visione dei punk come se fossero poco meno di nazisti: l’etichetta che i punk avevano era

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essenzialmente quella di essere un gruppo di nazisti, ma già negli anni ‘78-‘79-’80 Avanguardia
Operaia e l’MS ci avevano picchiati, ci inseguivano perché allora si ostentava questo simbolo della
svastica, ma c’era tutto un discorso simbolico, con cui si può essere d’accordo o meno, quindi la
cosa non era immediatamente chiara, ma comunque la nomea era quella lì e non ci volevano tra le
scatole. Infatti, Primo dovette rompere o perlomeno avere un periodo di frizione con tutta una serie
di componenti storiche della libreria, tra cui anche i gruppi di sostegno dei compagni in galera, che
ci vedevano veramente di cattivo occhio.
Contemporaneamente però, poiché noi volevamo progettare anche iniziative, avevamo contestato
(ed è stata la cosa che ci ha legittimato all’interno della città, del movimento) la rassegna di
sociologi che avevano pagato una ricerca fatta da Bianca Beccalli, la quale coordinò un gruppo di
lavoro di sociologia su quelle che loro chiamavano “bande spettacolari”. Chiaramente nell’uso del
termine “banda spettacolare” c’è tutta un’ideologia dietro, perché non si riconosceva assolutamente
il fatto che i soggetti punk fossero portatori di bisogni; quindi per loro tutto si limitava alla
manifestazione dell’apparenza, e non si pensava invece che questa manifestazione dell’apparenza
fosse in realtà un uso simbolico che permetteva ai soggetti di esprimere i propri bisogni. Quindi,
semmai i punk, dal nostro punto di vista, erano una controcultura vera e propria, e continuo a
ritenere che tale fosse, e neanche una subculltura. Ma da loro non eravamo neanche considerati
subcultura, eravamo considerati “banda spettacolare”. Chiaramente questa cosa qua era
assolutamente provocatoria, ma loro non se ne resero conto, ritenevano di avere fatto una ricerca
seria, durata due anni, pagata dall’università, pagata dalla Provincia di Milano, da una serie di
organismi ufficiali. Avevano dunque organizzato questo convegno, di cui c’era la presentazione
ufficiale a Palazzo Isinbardi, alla Provincia, e in più avevano affittato il Teatro di Porta Romana, in
cui avevano intenzione di proiettare una serie di film, peraltro di merda, che dovevano dare il
contorno spettacolare a tutta questa faccenda. Fu chiaramente fatta la contestazione al Palazzo
Isinbardi e una serie di soggetti, tra cui Gomma e Atomo (attuale consigliere comunale), si
tagliarono il petto con una lametta in maniera molto vigorosa, poi si spalmarono il volantino su cui
c’era scritto “questo è il nostro sangue: analizzatelo” con sangue vero e lo sbatterono in faccia (tra
l’altro abbastanza gentilmente, io ero lì, non fu assolutamente una cosa violenta) ai relatori. In quel
momento stava parlando Bianca Beccalli, il coordinatore del progetto, la quale non smise
assolutamente di parlare, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo che tre persone a torso
nudo si tagliassero e scendesse loro sangue abbastanza copiosamente, ed era una cosa naturale che
la gente urlasse o svenisse, perché poi c’erano delle ragazze che svenivano perché non si
aspettavano la cosa, fu un delirio incredibile: questa qui normalmente continuava ad esporre, ciò per
dimostrare l’autoreferenzialità di questi cosiddetti sociologi. Il giorno dopo iniziarono i casini al
Teatro di Porta Romana che fu occupato per 36 ore da tutta la comunità punk e anche skinheads (fu
l’ultima cosa in cui gli skin storici furono unitari, anche se allora non erano di destra, però c’erano
già stati degli screzi nella fase un po’ precedente). Quindi, il Teatro fu occupato da qualche
centinaio di ragazzi vestiti di nero con tanto di creste: insomma, gli saltò l’intero convegno. Tutto
ciò fu in realtà giocato molto bene dal punto di vista simbolico, perché l’elemento di rovesciamento
simbolico che fu operato era chiarissimo e fu per certi versi vincente.
Questa esperienza segnò un po’ la fine del Virus, il centro sociale occupato nell’81, quello punk
storico, quello streight diciamo così. In realtà, come dicevo prima, la scena punk era molto più
ampia: la componente del Virus era forte ma non era assolutamente egemone, c’era un’area molto
più ampia che, ad esempio, si trovava alle Colonne di San Lorenzo alla sera, o che si trovava alla
Fiera di Sinigallia. Ma alle Colonne di San Lorenzo allora ci si trovava in qualche centinaio di
persone ogni sera, erano totalmente piene di gente: poi furono sgomberate da una serie di
operazioni, tipo cancellata, in piena regola da parte della polizia, che rastrellava nel quartiere e ci
blindava tutti. Ci fu una famosa perquisizione di massa che coinvolse quasi un migliaio di persone e
fu fatta in una serie di sere per fare arretrare i soggetti verso Sant’Eustorgio, quindi per liberare
poco a poco il centro, perché era troppo simbolico che punk e “creature simili” di quella zona lì
fossero i re incontrastati. La cosa era dovuta anche al fatto che davamo fastidio perché

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contemporaneamente quasi ogni sabato facevamo manifestazioni, non molto partecipate, ma erano
pur sempre 300-400-500 persone in quartiere che rappresentavano un certo peso: ci si immagini
cosa significa per un piccolo quartiere avere 500 persone mobilitabili sempre e abbastanza
regolarmente, poi chiaramente non c’erano soltanto i punk. Comunque le dimensioni dei cortei di
allora erano di 300-400-500 persone, questo per dare un’idea dell’ampiezza, se non altro di tipo
quantitativo, che c’è stata in questi quindici anni.
Dopo di che aprimmo questo posto dentro il Leoncavallo, che allora non aveva la gestione fariniana
o dei Transiti, ma era quella dei vecchi, quelli legati più a forme di solidarietà con coloro che
stavano in carcere ecc., e con cui abbiamo chiaramente avuto numerosissimi scazzi in quegli anni in
cui fummo lì; però complessivamente ci diedero la possibilità di avere dentro il Leoncavallo un
posto che appunto si chiamò Helter Skelter, che significa casino, e che rappresentò un po’ tutta la
scena controculturale di allora in Italia, ed era non solamente musicale ma anche di teatro, di
sperimentazione, di cinema. Intorno all’85, ad esempio, contestammo la Comune Baires perché
stava facendo una rassegna di cinema underground americano, con una serie di registi punk; per cui
andammo lì, contestammo tutto, questi qui si sentirono in dovere di venire a rifare, a prezzi molto
più bassi, la rassegna da noi. C’era dunque un certo potere di imporre una serie di svolte culturali
nella città. Questa esperienza durò due anni, poi si sciolse per ragioni sia interne che esterne e dopo
di allora, o contemporaneamente alla sua fine, partimmo con l’esperienza della radio: tenemmo una
trasmissione a Radio Popolare che si chiamava Tensioni Radiozine, durò più di un anno, c’era
esperienza di cut-up, di montaggio e rismontaggio delle cose in maniera abbastanza provocatoria,
letture, musica industrial o punk, ed era una trasmissione abbastanza seguita, considerando che era
alle 9 di sera, se non ricordo male di mercoledì. Contemporaneamente eravamo partiti anche con un
altro progetto, che era un gruppo musicale, si chiamava Idra mentale, dal nome di una fanzine. Il
nostro gruppo era fatto da cinque elementi di cui tre avevano ognuno una fanzine diversa: una si
chiamava Idra mentale, l’altra Comando inopuré e una terza si chiamava Fame. Quindi, cinque
soggetti e tre fanzine, questo per dare un’idea delle percentuali che c’erano allora. Partimmo quindi
con questo gruppo che faceva musica industrial, ma poi alla fine crollò la sala prove, proprio nel
senso fisico.
A quel punto il progetto di Decoder era già stato avviato come rivista. Primo Moroni ci diede
l’incarico di formare una rivista che servisse da ponte di collegamento tra la vecchia componente
della libreria e la nuova, quella cosiddetta punk. Quindi, riepilogando, erano partiti un po’ di
progetti insieme: l’Helter Skelter, la radio, il gruppo musicale, la rivista, la collaborazione con la
Calusca in maniera più organica, dunque tutta questa serie di esperienze. Poi, per una serie di
problemi economici, Primo non ci diede più i soldi, perché inizialmente doveva darceli lui per fare
la rivista: noi abbiamo continuato e abbiamo fondato Decoder lo stesso. A quel punto eravamo
liberi dal doverci rapportare con i soggetti degli anni ’70, per cui abbiamo scelto esplicitamente che
degli anni ’70 noi non avremmo assolutamente parlato: alcuni di noi avevano quel tipo di
background, comunque venivamo da quelle storie lì, però era partita una nuova fase. Noi fin da
subito fummo chiarissimi e lucidissimi, mi stupisco del modo in cui fummo lucidi, perché nell’85
già parlavamo di digitale, di informazione, di comunicazione, cioè parlavamo degli stessi temi che
ci sono adesso, certamente con un grado di comprensione diverso, ma fummo molto lucidi. Se
infatti si legge l’editoriale del numero zero di Decoder si rimane allibiti, perché c’è questo soggetto
che comincia a fare l’amore con un soggetto tecnobionico e dei due ne viene un mostro, e questo
qui è Decoder: quindi, per certi versi avevamo intuito quasi empaticamente il tipo di trasformazione
che stava avvenendo. Da quel momento, quando iniziamo a parlare di reti, di digitale, di
informatica, veramente le accuse che ci venivano fatte erano pesantissime, da parte dell’Autonomia
in particolare: venivamo definiti i tartufi del capitalismo, androidi di sinistra (furono i romani che ci
chiamarono così), ce ne hanno davvero dette di tutti i colori. Poi non è che fossimo degli stinchi di
santo, se li beccavamo dimostravamo a parole che chiaramente sbagliavano. Però era veramente un
salto di cultura.

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Oggi l’esperienza di ECN per certi versi ha permesso a numerosi soggetti di rapportarsi in maniera
diversa con la telematica, allora eravamo visti proprio come pezzi di merda, tranne le componenti
che già percepivano quello che stava accadendo. Abbiamo fatto tre-quattro numeri di Decoder, poi
abbiamo fondato la casa editrice Shake. Contemporaneamente ci siamo impegnati nel progetto di
costruire una rete alternativa, digitale, orizzontale e rizomatica: queste furono da subito le parole
d’ordine che abbiamo dato. Intorno all’89-’90, ad esempio, ci buttarono fuori da Fidonet, perché
secondo loro eravamo troppo hackers; abbiamo avuto vari problemi, perquisizioni abbastanza tese
da parte della polizia, ci hanno monitorato per anni, sono andati a rompere le scatole alle portinaie
dove abitavamo, ci hanno seguiti, i telefoni chiaramente sotto controllo, la posta digitale credo che
sia stata monitorata da loro per almeno quattro o cinque anni, ma c’è anche della gente che è venuta
a dircelo: “io sono d’accordo, ma faccio questo di lavoro e vi devo monitorare”. Ci hanno davvero
rotto le scatole, poi abbiamo avuto anche dei processi, ci hanno inventato la storia dell’evasione
fiscale, ce ne hanno fatte veramente di tutti i colori. Quando ci avevano accusato di fare evasione
fiscale (con un reddito di dieci milioni all’anno di tutta la Shake, immaginati che evasione fiscale
potesse esserci!), mi ricordo che noi rimanemmo in caserma della guardia di finanza 23 giorni: un
giorno sì e un giorno no ci convocavano per l’interrogatorio, credo che ce ne siamo fatti una
quindicina, ognuno di 3-4 ore. Voglio dire che non è che siano state delle scelte a costo zero, nel
senso che qualche capello l’abbiamo perso. Contemporaneamente si era sviluppato anche il dibattito
con ECN: essa, alla fine degli anni ’80 e per un po’ di tempo, aveva una visione per cui la rete
doveva essere concepita come una forma di megafono del movimento, quindi c’erano dei soggetti
in ogni struttura, in ogni situazione deputati a scrivere, e la linea che emergeva era quella dei
comunicati ufficiali, delle realtà distribuite sui territori ecc. Invece noi proponemmo subito una
visione puntiforme della rete, di tipo orizzontale, che poi in realtà era il processo: quindi, non è che
abbiamo vinto noi, ha vinto il processo che noi interpretavamo come tale. Per cui alla fine ECN, che
oggi come oggi è diventata l’unica situazione che rappresenta il mondo di base della telematica,
comunque è arrivata sulle posizioni che dicevamo noi; poi noi chiaramente abbiamo fatto dell’altro,
per cui non ci siamo più impegnati attivamente su quel livello lì, anche se stiamo progettando delle
altre cose.
La chiave di passaggio cruciale dal punto di vista teorico fu però l’elaborazione del concetto di
cyberpunk, che fu scritto in un testo apparso nel ’90 che clamorosamente ebbe una vendita di
25.000 copie, un vero e proprio successo, dove si ipotizzava l’uso dell’informatica in termini
democratici e orizzontali. Questa configurazione nostra di cyberpunk è una specificità tipicamente
italiana, nel senso che Gibson, Sterling e tutti gli altri sono stupiti che noi abbiamo dato questo tipo
di curvatura politica al concetto di cyberpunk, e non a caso per molti anni ci hanno continuato a
citare come un esempio alto di interpretazione di tale concetto. Siamo stati solo noi alla fine: tra
l’altro, con la lettura data da noi a poco a poco abbiamo influenzato una serie di altre realtà, anche
fuori dall’Italia, un po’ di inglesi, un po’ di tedeschi, anche un po’ di americani. Da quel punto di
vista la nostra capacità di penetrazione è stata sufficientemente adeguata, certo si poteva fare anche
di più, ma è stato già molto. Questa cosa ci diede visibilità, con i soldi guadagnati dal primo libro
abbiamo fondato la Shake di fatto: essa era stata fondata nell’88, ma i primi soldi li abbiamo visti
nel ‘91-’92, quindi in quel momento abbiamo cominciato a comprare qualche libro, alcuni diritti,
abbiamo fatto Malcom X, Con ogni mezzo necessario, abbiamo fatto altri libri, sempre avendo di
mira di essere presenti nelle situazioni, perché il nostro obiettivo era quello di fare attività politico-
culturale nei movimenti, ed è un tratto caratterizzante che rimane ancora adesso. Poi oggi
certamente la Shake è cambiata, perché sei persone bene o male ci vivono a tempo pieno, c’è
un’area più ampia di una ventina di persone che comunque prendono dei soldi a vario titolo, per
forme di lavoro ecc.; oggi noi facciamo molto service per conto terzi, cioè facciamo libri per altri,
facciamo anche molti service di carattere digitale, facciamo i nostri libri, che non sono mai in
pareggio, perché la situazione dell’editoria italiana è quella che è. Comunque, alla fine il progetto
rimane, ed è un’esperienza libertaria e di base. C’è una maggioranza femminile nelle componenti
interne, c’è una distribuzione del reddito sostanzialmente di tipo comunista, per cui un’ora di lavoro

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tot salario, non è che ci siano differenziazioni di grado o di funzione o di responsabilità, anche se
chiaramente l’obiettivo è che tutti prendano responsabilità delle cose: però la gestione interna è
molto rigorosa, ha questo tipo di stile insomma.

- Per quanto ti riguarda poi c’è l’esperienza alla Feltrinelli, con InterZone.

Come dicevo, io sono duplice di natura, nel senso che prima di essere assunto qua ho fatto dodici
anni a scuola, insegnando storia e filosofia, poi ho lavorato per sette anni come commesso all’Inps,
ho fatto il pizzaiolo, ho fatto il cuoco, sono andato a distribuire le figurine davanti alle scuole
elementari, ho fatto il gelataio, ho lavorato in fabbrica, ho lavorato in mensa in altre fabbriche, ho
montato bullonati, ho fatto il cameriere: insomma, di esperienze di lavoro ne ho fatte tante, potrei
continuare all’infinito. Essendo scappato di casa a diciotto anni, non essendo più rientrato e non
avendo chiesto mai una lira ai miei, io sono sempre stato costretto a pensare di salvarmi il culo dal
punto di vista economico. Per cui, in realtà, io non ho mai guadagnato tanto dalla Shake, ho sempre
preso qualche cosa, non è mai stata la mia fonte di reddito principale; le ore che ho dato alla Shake
sono sempre state tante perché ho lavorato di sera, ma mai organicamente di giorno. E’ indubbio
però che l’offerta che mi è stata fatta di venire a lavorare qui è stata poi oggettivamente una cosa
che mi ha permesso se non altro di non alzarmi alle sei e mezza del mattino, come facevo per
andare a scuola, così mi alzo un’ora e mezza dopo, che non è poco. Detto questo, è un lavoro con
molte soddisfazioni; poi alla fine non è che mi rompano le scatole più di tanto, ho abbastanza libertà
di scegliere i titoli. Mentre prima sceglievo solo le cose di InterZone, adesso ho anche quest’altra
collana che si chiama Serie Bianca, che ha dei connotati più pop, quindi sono costretto
evidentemente a fare delle mediazioni più ampie: certo, un libro super-reazionario evidentemente
non lo pubblico, però il criterio non è solamente quello politico, c’è anche lì dentro un discorso di
vendita, di commercialità, per cui ci sono dei libri molto buoni e altri su cui non ci metterei la firma.
Però, nel complesso sostanzialmente sono sempre io a dover scegliere le cose, per cui da questo
punto di vista la Feltrinelli è una buona occasione di lavoro, questo lo devo dire sinceramente;
perlomeno, tra tutti i lavori che ho fatto nella mia vita, poiché lavoro da 27 anni, questo è il migliore
che ho trovato, ci metto la firma su, poi non è detto che non cambi.

- Dall’interno, come analizzi il grosso nodo della comunicazione e il funzionamento di


un’azienda della comunicazione?

Le aziende della comunicazione (adesso non so se sia questo il caso della Feltrinelli) hanno delle
rigidità di tipo fordista, con delle spinte in avanti di tipo orizzontale postfordista. In alcuni casi
trionfa la spinta inerziale tipica di ogni organizzazione, tanto più se è fordista come impianto, come
pensamento strutturale (questa è un’azienda culturale di tipo e di impianto fordista, ciò è indubbio),
rispetto alle spinte che ci possono essere di accelerazione, ma questo è anche dovuto a ragioni
strutturali. Se è per questo l’esperienza che ho si allarga anche alla Shake, perché anch’essa è una
“azienda” che fa comunicazione. Il modello è diverso evidentemente, perché qui, come in ogni
azienda, c’è la gerarchia, in Shake non c’è, lì la gerarchia è costruita sulle competenze reali, c’è una
dinamica molto assembleare. Qui è un’esperienza culturale di tipo molto più monadico di quanto sia
in Shake, ma questo evidentemente è anche perché la Shake è un po’ bizzarra rispetto alla media
delle altre piccole case editrici. Ci sono piccole case editrici assolutamente monarchiche, quindi la
questione è dei soggetti che ci sono dentro: se tu in Shake provi a fare quello che fa un passo in più
di quello che ti viene riconosciuto, ti castagnano immediatamente, perché è una struttura egualitaria
e di base, dove per tutti vale il discorso una testa un voto, nel senso democratico radicale del
termine. E’ chiaro che una condizione di questo genere qui non c’è da altre parti: a me va bene che
faccio un bel lavoro, ma probabilmente quello della stanza accanto non la pensa come me.
Insomma, riprodurre un meccanismo come quello della Shake in una struttura comunque salariata è

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impossibile, perché è la Shake che è particolare. Loro non lo sanno, ma la Shake è fatta da
comunisti alla fine (beh, alcuni lo sanno ormai).

- La comunicazione, nella sua ambivalenza, che potenziali usi alternativi e contro può secondo te
avere?

Le piattaforme sono in grande mobilità, ci sono e stanno nascendo nuovi media, lo stesso Internet,
quello che noi siamo abituati a vedere come tale, tra tre anni sarà tutt’altra cosa, tra cinque anni sarà
ancora un’altra cosa. Le piattaforme sono in grande modifica, è chiaro che sorgerà il problema che
le industrie culturali si trasformeranno in industrie produttrici di content a seconda dei supporti su
cui si impiegheranno: ma questo processo è in atto già da tempo, non è che ci sia nulla di nuovo.
Oggi un produttore di content, di contenuti, è cercato dalle grandi start-up del Web in Italia quasi
fosse merce d’oro, infatti non a caso stanno prendendo cani e porci su questa cosa qua, gente che
veramente non ha categorie, non ha strumenti ecc, insieme a gente invece molto brava. Questo
perché è la fase dell’allineamento su questa nuova piattaforma di tutta una serie di nuove aziende
che sono emanazione di altre aziende: tra tre anni metà di queste qui saranno morte. Comunque
l’accelerazione offerta dai nuovi media è effettivamente epocale, bisogna farci i conti, io lo dico da
quindici anni, quindi per me è abbastanza scontato, mentalemnte ci ho fatto i conti già quindici anni
fa. La prima volta che sono entrato in una rete di BBS per me era già quello potenzialmente: poi
chiaramente è nato prima il Mosaic, poi il Web ecc., quindi ciò ha evidentemente modificato il
modo in cui la pagina è. Però indubbiamente anche qui ci sono tutta una serie di elementi e di
esperienze che vengono dalla fase della BBS che devono essere recuperate, come ad esempio
l’interattività, la dinamica orizzontale di creazione di comunità che era l’elemento caratterizzante le
BBS, e riverrà fuori questa cosa qua: adesso ci sono delle forme spurie di creazione di comunità,
anche all’interno del Web. Ma comunque è il supporto digitale in sé che sta cambiando: domani,
quando si avrà una banda molto più larga e si potranno avere immagini radio, testi, tutto insieme,
questa qui diventerà una macchina, un supporto di una potenza incredibile.

- Prima parlavi della soggettività giovanile, dicendo che questa va verso una dinamica di bisogni
di consumo più che in un potenziale senso antagonista. Come vedi mutare le dinamiche di
classe? In questo contesto, come possono essere pensate nuove forme di un agire politico
antagonista?

C’è il problema della classe, quello delle dinamiche giovanili e quello della politica: sono tre cose
che non necessariamente vanno insieme. Dal punto di vista della politica la forma più originale che
è venuta fuori è sicuramente la strategia lillipuziana. Tra l’altro su questo io rivendico il mio merito,
perché in Italia il libro di riferimento (questo me l’hanno detto quelli che hanno fondato la
cosiddetta Rete Lilliput) è stato proprio il testo di Bracher e Costello, Contro il capitale globale, che
ho scelto e fatto tradurre io: me lo comprai casualmente in una libreria di Londra, lo lessi una notte,
ho pensato che fosse bellissimo, sono arrivato in Italia e dopo tre mesi l’avevo già fatto tradurre.
Quindi, da questo punto di vista rivendico un mio merito di quattro o cinque anni fa, anche se
nessuno me lo riconoscerà mai, ma è giusto così. Comunque, indubbiamente la cosa nuova è quella
roba lì, seppure ambiguamente per quanto riguarda i contenuti. Ad esempio, sul discorso degli Ogm
io ho molto da dire, nel senso che non sono d’accordo con molte delle parole d’ordine che vengono
utilizzate, perché mi sembra talvolta anche un discorso razzialista: pensare alla purezza della specie,
seppur animale piuttosto che vegetale, mi ricorda troppo facilmente delle altre cose, per cui su
quello mi va bene seguire tutto il discorso scientifico, però non il resto, anche perché per
definizione io sono per i mostri, per i cyborg, non sono sicuramente per una soggettività normata.
Tuttavia, al di là di questa cosa qua e nonostante l’ambiguità contenutistica che è presente in questo
movimento complesso, c’è comunque molto interesse nel fatto che soggettività provenienti dal
mondo cattolico, dal volontariato di base, dal terzo settore, dai movimenti, dall’autonomia di classe,

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dagli anarchici, anche fondamentalisti, si ritrovino ognuno con la propria specificità nel contrastare
un unico nemico, le cosiddette organizzazioni internazionali o sovranazionali fuori controllo (come
dice Saskia Sassen). Quindi, questa è una prospettiva su cui, secondo me, se non facciamo
particolari stupidaggini, per cinque, sette, otto, dieci anni si è aperto un ciclo, questo è indubitabile.
Si è aperto un ciclo perché c’è un nemico pubblico in tutto il mondo: tutto il mondo ha capito che
c’è un nemico, e questa è una cosa straordinaria rispetto a dieci anni fa.
Quindi, questo per quanto riguarda la forma della politica. Per ciò che riguarda la classe, invece il
discorso è molto più complesso. Qual è il tipo di classe che noi andiamo a identificare? La classe
operaia tout court? Oppure accettiamo questa ipotesi di lavorare sulla definizione di questo
cosiddetto cognitariato, su questa intelligenza diffusa, oppure dei soggetti che lavorano sulla
comunicazione a vario titolo? E’ l’uno, è l’altro, sono tutte e due, oppure nessuno dei due? Il
problema è la definizione di inchiesta della composizioni sociale, perché questa si è completamente
frastagliata, peraltro con posizioni salariali profondamente diversificate: ormai nelle aziende
nessuno racconta più all’altro quello che guadagna, è una sorta di domanda tabù che nessuno fa. E’
chiaro che se si ha una condizione di partenza di questo genere, è difficile riuscire a identificare una
linea comune, se non su politiche alternative e di sviluppo dell’azienda stessa. Per cui tu dici “va
bene, questa azienda si sta buttando su questa piattaforma, noi, a partire dalla nostra esperienza,
diciamo che quella piattaforma non è così e dovrebbe essere cosà”; ma il tuo intervento fa sì che
comunque questa azienda possa contare su un’intelligenza interna che gli modifica il punto di vista
in maniera tale che lo ricomprende. Però, l’unico punto che può accomunare la riflessione critica
dei diversi soggetti che lavorano in un’azienda può essere questa cosa qui.
Oggi i ragazzi, la gente che ha 25-28-30 anni, lavora dodici ore al giorno in azienda, poi si spara
due giorni di week-end dove si spende tutto. Gli stipendi sono mediamente alti, minimo tre milioni
o tre milioni e mezzo, nessuno ti regala niente, perché se fai 60 o 70 ore alla settimana è chiaro che
comunque, anche lavorando da operaio, prenderesti non dico quella cifra ma poco meno. Ma c’è un
coinvolgimento interno, perché da una parte i ragazzi sono completamente decategorializzati, cioè
non hanno categorie su nulla: questo purtroppo lo dico per esperienza diretta, in quanto sono stato
insegnante fino a due anni fa, quindi ho avuto tra le mani questi soggetti, li ho rivisti dieci anni
dopo, dunque posso garantire che purtroppo non cambiano di molto rispetto ai tempi del liceo. Può
darsi che sia una visione classica, della generazione precedente che critica quella che segue per
questione di spocchia, perché rappresenta in maniera aurea come era lui: tutto giusto, però
sicuramente c’è stato qualcosa, un cambiamento di stile, di fase, è tutta gente che non gliene frega
niente della politica, è probabilmente più interessata ai bisogni culturali in senso lato. Un libro
complesso come quelli che fa la Shake, ad esempio, una persona di questo genere dice “cavolo, è
complesso”, non è facile, ci sono tutta una serie di categorie con cui uno deve fare un corpo a corpo
intellettuale; allora è più facile che si compri un libro di Castelvecchi, perché è più semplice, è più
vicino alla forma semplificata della scrittura che oggi si impone. Oggi si scrive e si legge molto di
più rispetto a dieci anni fa, ma il libro non è più il tramite principale: oggi la mail classica sono 800
battute, una schermata classica in Internet sono 800-1000 battute, quello che è semplicemente
l’esordio di un normalissimo testo politico come noi siamo abituati a leggerlo. Per descrivere
qualche definizione congiunturale classica di una fase politica, per introdurre al dibattito, si usano
minimo 1000 battute: quello è il massimale della comunicazione media che oggi è diffusa in rete. E’
chiaro che poi ciò è speculare al fenomeno del video-clip, dei video musicali, che sono tre minuti,
concepiti in una certa maniera, o con un’impaginazione di un certo tipo. Da questo punto di vista si
ha ragione Laas Von Thiers a dire “il re è nudo” e a voler fare una narrazione di tipo diverso: ma è
una provocazione che avviene su un media che oggi è arte, è cinema. E ritornando alle leggi di Mc
Luhan sullo sviluppo della comunicazione, la cosiddetta tetrade, cioè il ciclo a quattro fasi
dell’introduzione dei nuovi media, nel momento in cui si impone un nuovo media, quello vecchio
non è che sparisca, ma si riaggiusta e si riconfigura in un’altra posizione, ancillare rispetto al nuovo
media, e assume delle dinamiche artistiche che il nuovo media non ha. E’ successo così per la radio,
per certi versi è successo così per i giornali, e questa cosa qui sta succedendo oggi: il cinema sta

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riacquisendo un’artisticità, nonostante la presenza di un modo bagettistico e hollywoodiano di
gestire le cose alla fine c’è un sacco di cinema d’autore, adesso con i sistemi in digitale sarà molto
facile che vengano fuori altri film d’autore sviluppati con quella tecnologia. Però
contemporaneamente Internet assume il suo profilo, che è quello lì, va per la sua strada, e la
televisione segue.
Quindi, non so rispondere esattamente a cosa sia oggi il conflitto di classe e come si manifesti:
certamente ci sono espressioni di conflitto di classe tradizionali, quelli legati alla lotta sulle
questioni del welfare, come è stata l’esperienza dello sciopero in Francia del dicembre di alcuni
anni fa, i trentacinque giorni di sciopero a Parigi della RTP ecc. Al contrario di quello che leggono
altri, cioè che sia stato l’inizio del ciclo che avrebbe poi portato a Seattle, può darsi anche, ma io lo
leggo però come la fine, o perlomeno come una delle ultime manifestazioni del vecchio ciclo.
Certo, che poi in Francia si sviluppi una grande solidarietà interclassista, per cui tutti sono contenti
di camminare a piedi, “oh, che bello, finalmente conosciamo un po’ di gente”, questo è tipico della
bizzarria francese, ma non della dinamica riproducibile ovunque: ci si immagini una storia di questo
tipo a Roma, “li mortacci tua” si sprecherebbero a palla, quindi non è pensabile una roba di quel
genere lì. Dunque, le dinamiche di classe sicuramente hanno un processo evolutivo di un certo tipo,
hanno perso la centralità che avevano negli anni ’70. Non l’hanno persa in termini numerici, perché
se allora era il 37% della composizione complessiva della forza-lavoro, oggi è il 32-33%, non credo
che sia molto più bassa di così, per di più c’è la nuova componente immigrata che sta entrando in
fabbrica, quindi possono venire fuori delle cose molto interessanti, io non sottovaluto questa cosa.
Però indubbiamente ha perso la centralità politica: occupare la fabbrica Innocenti nel ’79 ha un
peso, occupare l’Alfa Romeo perché hanno ridotto il personale di altre mille unità conta molto
meno; conta molto di più il giro Berlusconi, che impiega come indotto 25.000 persone.

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INTERVISTA A MARCO REVELLI – 24 LUGLIO 2001

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e quali sono state le figure di
riferimento?

Il mio percorso prende origine alla periferia di una città di provincia come Cuneo, una città bianca,
tranquilla, in cui l’unico fattore di rottura del conformismo era stata l’esperienza della guerra
partigiana e della Resistenza, che poi si era prolungata in una serie di iniziative, l’antifascismo
sostanzialmente. Dunque, era una città terribilmente bianca e conformista, ricordo che quando
avevo 6-7 anni, nel ’54-’55, in piena epoca centrista, mio padre era socialista e la domenica mi
mandava a comprare i giornali, tra cui l’Avanti, che io nascondevo dentro La Stampa perché se i
genitori dei miei compagni me l’avessero visto non li avrebbero più lasciati giocare con me, questo
per dare l’idea del clima che si respirava. La prima esperienza di impegno politico è stata Nuova
Resistenza, che era nata sull’onda del luglio ’60: era un rilancio dal basso e antagonistico del
discorso antifascista, costituita alla vigilia della nascita del centro-sinistra, con l’obiettivo di tenere
dentro un movimento giovanile trasversale i comunisti, che invece venivano tagliati fuori
dall’operazione del centro-sinistra. E’ stata la prima esperienza politico-culturale, con delle cose che
oggi fanno ridere ma che allora avevano un carattere di rottura, come il ciclo di conferenze su
Cruscev, Kennedy e papa Giovanni, che tuttavia facevano scandalo, venivano censurate dalla curia
ecc. E poi il ’68, anzi il ’67, perché a Torino il ’68 incomincia l’anno prima: io arrivo all’università
nel novembre del ’66, nel febbraio del ’67 c’è la prima occupazione gestita dall’UGI, il primo
intervento della polizia, la prima volta che l’università viene sgomberata, il primo momento di
rottura e di trasgressione reale, ancora tutto dentro la logica presessantottesca, ancora tutto dentro
un discorso di riforma dell’università, ancora tutto dentro un discorso di alleanza all’interno del
corpo accademico con la componente progressista contro i conservatori. Poi c’è l’estate del ’67,
l’irruzione del Vietnam, la costituzione dei comitati per il Vietnam, le prime azioni dirette su
questo, il picchettaggio contro il film Berretti Verdi, i volantinaggi, i picchetti alla Standa, ai grandi
magazzini, i tentativi di bloccare la vita normale. Nel novembre c’è l’occupazione di Palazzo
Campana che è la grande svolta: la nascita della comunità studentesca, il movimento antiautoritario
dell’università, la contrapposizione frontale tra il corpo studentesco e il potere accademico, i nuovi
linguaggi con cui si esprime l’azione collettiva, linguaggi non più formalizzati, non più il
linguaggio di ceto della politica, non più il riferimento alla politica nazionale, ma una sorta di
microfisica del potere, la contestazione diretta del potere accademico là dove era, questa gigantesca
mobilitazione che poi si prolunga nei primi mesi del ’68. Quindi gli arresti, le manifestazioni, la
radicalizzazione, che io vivo tra Torino e Cuneo, perché partecipavo al movimento di Torino e poi
avevamo cominciato a mettere in piedi il movimento studentesco di Cuneo con gli studenti medi: ci
sono i primi scioperi, la rottura del clima conformistico della città. Ci sono primi interventi di fronte
alle fabbriche, alla Fiat, che anticipano in qualche modo l’autunno caldo: a partire dall’ottobre del
’68 si incomincia ad andare alle fabbriche, si iniziano a mettere in piedi i comitati operai-studenti. E
poi c’è la primavera della Fiat ’69, non tanto l’autunno caldo ma la primavera ha avuto un ruolo
fondamentale nell’evoluzione di buona parte del movimento studentesco di Torino dall’università
alla fabbrica: gli scioperi spontanei e selvaggi alla Fiat nel maggio-giugno e dei primi di luglio del
’69, l’epicentro alle carrozzerie, gli operai dequalificati e della catena di montaggio, la non
mediabilità di quel conflitto. C’è soprattutto l’emergere della crisi nebulosa del movimento
studentesco che dopo il Maggio francese era entrato in una situazione di crisi e l’emergere di un
nuovo polo e di un nuovo cerchio magico che non era più Palazzo Campana e l’università ma era la
fabbrica, era la scoperta della centralità del rapporto capitale-lavoro, del rapporto di produzione, la
scoperta di un soggetto molto radicale che nello stesso tempo era nel cuore del meccanismo
dell’accumulazione, che dava un senso di onnipotenza straordinario. E poi il 3 luglio del ’69, corso
Traiano, la fuoriuscita della rivolta dalla fabbrica alla città, questa forza straordinaria e
incontenibile. Intanto nello stesso periodo ci sono le iniziative contro le istituzioni totali, contro i

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manicomi, la loro apertura. Mi ricordo l’occupazione del manicomio di Racconigi, la scoperta delle
istituzioni totali, degli orrori che vi stavano dentro, abbiamo aperto le celle, abbiamo tirato fuori
della gente che era sepolta viva da vent’anni. Era la scoperta del volto ignoto e coperto della società
autoritaria.
Quindi, la prima tappa del romanzo di formazione è questa, da una politica ancora molto giocata
sulle culture tradizionali della sinistra italiana a questa dimensione invece di presa diretta con una
serie di processi sociali, in particolare con la fabbrica. Credo di essere diventato operaista allora, se
si può dire in questi termini. Poi partecipo alla fondazione di Lotta Continua, quando nasce tra
l’estate e l’autunno del ’69. E’ un primo strappo, perché Lotta Continua nasce nell’epicentro del
conflitto, sull’asse Mirafiori-Pirelli, Torino-Milano e i luoghi dello scontro frontale. Io mi
radicalizzo a Torino e nello stesso tempo c’è la periferia, c’è Cuneo, dove continuavamo a tenere in
piedi un collettivo in cui non tutti si sentivano di fare il salto verso l’organizzazione nazionale.
Quindi, a Cuneo rimane in piedi un comitato con caratteristiche locali che si chiamava Lotta di
Classe, a Torino si partecipa a Lotta Continua, fino alle bombe di piazza Fontana e alla campagna
sull’assassinio di Pinelli, quando in realtà parliamo di processo di nazionalizzazione di LC e anche i
comitati locali, anche il locale in qualche modo si omologa alla dimensione nazionale. Seguo Lotta
Continua fino al suo scioglimento, verso la fine di LC c’è il mio incontro con Primo Maggio, con il
filone operaista che non aderisce e non segue la parabola di PO, che sceglie di stare a cavallo tra
analisi sociale e ricostruzione storica, che lavora sulla storia dell’altro movimento operaio. C’è
quindi l’incontro con i vettori tedeschi, con Karl Heinz Roth, con l’analisi che veniva fatta in
Germania, la composizione multinazionale, e poi la memoria, il ruolo della memoria, le cose che
studiava in quel periodo Cesare Bermani. E arriviamo così allo scioglimento di Lotta Continua e al
’77, anno in cui partecipiamo al dibattito con Sergio Bologna su La tribù delle talpe, la riflessione
sulla nuova composizione sociale che si andava creando: ciò sempre dentro le categorie
dell’operaismo, ma stemperato nell’analisi anche dei circuiti del denaro e nell’analisi dei processi
nuovi di formazione della forza-lavoro, in un meccanismo che era ormai di fordismo esploso, che
segnava già in qualche modo il tramonto della centralità operaia nel senso della centralità della
grande fabbrica. Noi torinesi facciamo su Primo Maggio un articolo conservatore rispetto a La tribù
delle talpe di Sergio Bologna, intitolato Centralità operaia, in cui continuavamo a rivendicare la
crucialità del rapporto di fabbrica rispetto invece all’idea di una socializzazione già ampia che ne
dava Bologna: il dibattito era quello. Seguo Primo Maggio fino all’80, passiamo con questo
dibattito dentro il ’77, in qualche modo metabolizzando la critica della politica che ne fa il ’77 come
critica dei linguaggi separati, come critica della formazione dei ceti, come critica
dell’organizzazione politica come dispositivo di disciplinamento, anche scoperta di una nuova
composizione sociale che non era riducibile al lavoro di fabbrica, che era articolata sul territorio, a
processi di resistenza alla trasformazione in forza-lavoro. Facciamo un po’ di indagine sui nuovi
assunti della Fiat, sulla loro soggettività, sui loro comportamenti, su come fossero
antropologicamente incompatibili con il modello di fabbrica fordista e così via. Poi arriva la bufera
dell’autunno ’80, la trasformazione di Mirafiori in un buco nero dal punto di vista sociale, i 35
giorni che seguiamo fino in fondo, la sconfitta radicale, la scomparsa del soggetto operaio come
soggetto antagonistico. E lì procediamo in ordine sparso, ognuno si fa il suo percorso: io continuo a
ragionare sui modelli di organizzazione della produzione, altri compagni di Primo Maggio seguono
ciascuno la propria specializzazione, chi diventa storico dai piedi scalzi e basta, chi analizza i
circuiti monetari come Lapo Berti che continua a studiare questo, chi, come Sergio Bologna, si
chiude in un volontario esilio, e così via. Attraversiamo in parte così gli anni ’80, portandoci dietro
quell’identità ma non facendone più un fattore di militanza politica e di impegno politico diretto. E
così siamo arrivati qui, questo è il retroterra biografico.
Devo dire che tutto il mio percorso è interamente extraleninista e antileninista, radicalmente
opposto all’idea dell’autonomia del politico e delle avanguardie esterne. Se c’è una parola che mi
sta sulle scatole è proprio quella delle avanguardie esterne, comprese le cose a cui ho partecipato

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quando lo sono diventate: Lotta Continua lo è diventata e così molte altre realtà. Questo è un dato
biografico che mi sento di rivendicare.

- Quali sono stati, secondo te, i limiti e le ricchezze delle esperienze politiche a cui sei stato
interno e più in generale dei movimenti e delle ipotesi espressesi negli anni ’60 e ’70?

Voi prima parlavate dei referenti e dei riferimenti politici. Se devo fare una rapidissima carrellata
dei riferimenti, c’è sicuramente la rielaborazione del marxismo italiano che si è espressa intorno ai
Quaderni Rossi, l’asse Panzieri-Tronti, con un pendolo, a volte un po’ più l’uno e a volte un po’ più
l’altro: io sono partito da Tronti e ho rivalutato Panzieri più tardi, altri hanno fatto diversamente. Ci
sono le categorie di Operai e capitale, l’idea che l’insieme dei rapporti sociali vengono determinati
dentro il processo di valorizzazione, nel confronto materiale capitale-lavoro, che quello è l’asse
centrale attorno a cui puoi leggere il processo, e quindi l’aspetto forse più metafisico trontiano; e
dall’altra parte invece c’è l’attenzione sociologica forte di Panzieri, la riflessione sull’uso
capitalistico delle macchine, il recupero dei francofortesi in una chiave di marxismo critico radicale,
il tentativo da lui fatto di tenere ancora un piede dentro la CGIL e l’altro dentro i movimenti di
massa. Quindi, Quaderni Rossi più che non la loro evoluzione in Classe Operaia e nelle letture più
marcatamente politico-militanti. Quindi, c’è questa dimensione, con ovviamente il Marx dei
Grundrisse dietro, il Marx del capitolo VI inedito de Il capitale, questo Marx qui insomma,
fortemente coniugato con Francoforte, con la filosofia critica. Poco Foucault, che arriva molto più
tardi. Per altri versi c’è molta eresia dei movimenti comunisti novecenteschi, Rosa Luxemburg, lo
spartachismo. Niente trotzkismo e niente leninismo, anzi una originaria e permanente antipatia per
Lenin. Un’interlocuzione molto critica con ciò che scriveva Negri, e soprattutto con la tendenza
forte al cortocircuito tra teoria e pratica immediata che ci sembrava di vedere nelle sue cose. C’è
questo sostanzialmente nel Dna.
Se mi si chiede cosa c’era di sbagliato in questo, secondo me c’era l’assolutizzazione di una delle
tante possibili forme della valorizzazione del capitale, come se il fordismo fosse in qualche modo lo
stadio supremo del capitalismo. C’era l’idea che quel livello di organizzazione del capitale fosse in
qualche misura lo stadio estremo e finale, fosse insuperabile per via capitalistica, e che di lì dentro
si giocasse un’uscita verso l’altro, addirittura l’idea che dentro quel livello il comunismo potesse
essere il programma minimo, che fosse già tutto scritto il nuovo modello di società. E l’incapacità di
vedere come in fondo quel conflitto stava segando il ramo su cui eravamo seduti, come in realtà
ogni punto segnato da quella composizione di classe in termini di potere fosse un colpo di piccone
al modello che aveva generato quella composizione di classe: tanto è vero che quando poi il capitale
fa il salto organizzativo quella composizione di classe si dissolve. Dunque, c’è stata questa
incapacità di vedere i limiti di quel tipo di composizione di classe ancora tutta chiusa dentro
l’involucro del capitale, la scarsissima attenzione invece ai processi di accumulazione culturale nel
senso di stile di vita, stile di comportamento, trasformazione della soggettività e così via. L’unica
soggettività che veniva trasformata era quella dei militanti, mentre il resto si immaginava che fosse
trainato e determinato dal movimento del capitale, che il nemico lavorasse per noi per certi versi,
che in ogni salto in avanti nel processo di sussunzione della forza-lavoro dentro il capitale si
avvicinasse il momento del rovesciamento, dentro questa visione teleologica e storicistica che
appunto ci faceva immaginare che il nemico lavorasse per noi. E di colpo invece ti trovi di fronte al
nemico che fa la propria rivoluzione e azzera il tuo soggetto sociale: questa credo che sia stata la
grande tragedia dell’operaismo italiano, di avere vinto e nel momento in cui vinceva di essere stati
sbaragliati, perché è cambiata radicalmente la forma dell’organizzazione capitalistica senza che
venissero meno i rapporti sociali di produzione.

- Nel tuo ultimo libro hai parlato molto delle donne e del movimento femminista: qual è stato,
secondo te, il loro ruolo?

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Io credo che il movimento delle donne sia una delle tre radici di quello che possiamo chiamare il
postfordismo, della forma sociale e capitalistica attuale, del modo in cui il processo capitalistico di
valorizzazione si è ricomposto dopo la crisi del suo livello precedente. Sono stranamente tre radici
che provengono tutte dall’area dell’“antagonismo”, non sono interne all’establishment fordista,
sono tre filoni che hanno contestato frontalmente il fordismo e che in parte originano dai movimenti
di rivolta degli anni ’60 e ’70. La prima radice è il salto tecnologico, la terza rivoluzione industriale
con l’innovazione microelettronica, informatica, telematica e così via, il passaggio alla rete; la
seconda è la componente ecologica e la scoperta dei limiti dello sviluppo, la terza è costituita dai
risultati dei movimenti delle donne. Quest’ultimo è stato davvero il prodotto più radicale della
contestazione al fordismo-taylorismo, forse persino più radicale della rivolta operaia che ha
inceppato quel meccanismo, l’ha reso improponibile e impraticabile. Ma il movimento delle donne
ne ha colpito lo statuto logico, ha colpito un elemento cruciale del modello fordista-taylorista che
era la concezione unidimensionale del lavoro, l’idea che lavoro fosse solo l’erogazione astratta di
capacità lavorativa misurabile e segmentabile, che fosse solo il lavoro misurabile con la logica
fordista, riducibile a unità di tempo confrontabili tra loro e omogenee; era quella concezione che
portava a escludere dall’universo del lavoro l’attività delle donne, e che queste invece con un
attacco dal basso formidabile hanno imposto incrociando e intrecciando in modo fecondo
eguaglianza e differenza, perché hanno richiesto pari dignità sulla base del discorso
dell’eguaglianza, e hanno preteso pari dignità per le differenze, e quindi con un forte elemento
differenzialista che metteva in crisi la dimensione unidimensionale del lavoro. Anche l’attività non
misurabile e non riducibile a lavoro astratto tipica dell’attività femminile veniva affermata come
lavoro: si rovesciava la concezione a mio avviso monoteistica del lavoro tipica del fordismo-
taylorismo e si affermava una concezione politeistica del lavoro nella quale anche ciò che non è
misurabile con i codici tayloristici pretende di essere rivendicato come lavoro. Oggi noi questo ce lo
ritroviamo contro, ce lo troviamo nella forma di una capacità inedita del captale di mettere a profitto
anche l’attività non misurabile, non astrattizzabile, anche la sfera delle emozioni, anche la sfera
della corporeità, anche la rete dei sentimenti, anche la rete delle relazioni e così via. L’aspetto
inedito dell’attuale sviluppo capitalistico è la sua capacità di sussumere ciò che il fordismo-
taylorismo, proprio perché non riusciva a sussumere, escludeva dal suo universo visuale, ma
lasciava sopravvivere, mentre adesso lo incorpora e lo usa come forma di valorizzazione. Da questo
punto di vista la rivoluzione femminista è stata, da una parte, la più radicale e la più duratura
rivoluzione del ‘900: laddove sono fallite le rivoluzioni epiche, questa rivoluzione, che non ha
messo in campo nemmeno un centimetro di organizzazione di potere nel senso tradizionale del
termine, ha cambiato profondamente le esistenze, quindi è il segno di una capacità straordinaria di
come, trasformando le reti relazionali, si trasforma il mondo. E dall’altra parte, però, ha aperto la
strada ad un livello incomparabilmente più alto di sussumibilità della nuda vita dentro il processo di
accumulazione capitalistico, quindi dentro il processo di lavoro. E’ stato un salto in avanti nella
totalizzazione del lavoro, che mi sembra sia l’elemento all’ordine del giorno oggi, questa
dimensione del lavoro che si decentralizza, si frammenta, si atomizza, si segmenta, ma non per
questo diventa meno totale, diventa anzi più totale, più inglobante.

- Le critiche al tuo libro, Oltre il Novecento, sono venute tutte da questa sinistra che usa la
minaccia del revisionismo come arma di scomunica. Tu parti infatti da quegli autori di destra o
comunque ostracizzati dalla sinistra (Jünger, Celine, Bataille ecc.) che sono proprio quelli da
cui era partito l’operaismo fin dagli anni ’50, che li usò in un’ambivalente chiave di critica
radicale del capitalismo e del taylorismo-fordismo, cercando quindi di rovesciare in senso
antagonista la loro unilateralità negativa. Le prime due parti del tuo libro sono dedicate al
fordismo e a quello che tu, come molti altri, definite postfordismo. In questo senso il fordismo
viene identificato con l’organizzazione di fabbrica e della produzione, ciò che in realtà
propriamente sarebbe il taylorismo; il fordismo è stata la grande politica capitalistica del porre
l’accento sui consumi, del capire che allargando la torta (e quindi facendo accedere operai e

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proletari a più estese forme di consumo), si ingrandiva proporzionalmente la fetta riservata ai
profitti. Da questo punto di vista la nuova fase, caratterizzata da un ancor maggiore rilievo
dell’aspetto dei consumi (da cui anche un apparente potere dei consumatori), sembrerebbe
un’ulteriore espansione della fase precedente, dunque un iperfordismo. D’altra parte, al
fordismo-taylorismo si fa spesso corrispondere un operaio che usa le mani senza le altre facoltà
esclusive del vivente-umano (cognitive, intellettuali, timiche, emozionali ecc.). E’ alquanto
dubbio che sia mai esistito un periodo del genere, in cui la scimmia fosse in grado di fare le
automobili e attivare il processo produttivo: quindi, se oggi è indubbiamente cambiata la
composizione delle facoltà del vivente-umano prevalentemente richieste dal processo
produttivo, ciò non vuol dire che prima queste capacità non venissero erogate. Infine, il
fordismo viene spesso (come fai tu) identificato come la rigida razionalità da cui nulla può
sfuggire, mentre la grossa potenza del capitalismo fordista è stata al contrario la capacità di
fare dell’autorganizzazione operaia, dell’informalità, dei conflitti, delle lotte, finanche di quelle
più radicali, un ambivalente motore del proprio sviluppo.

Tutti questi termini sono convenzioni, soprattutto quando parliamo di cesure o di fratture storiche è
sempre possibile portare un’altra buona dose di ragioni per sottolineare invece ciò che continua, che
permane. A ben vedere non c’è stata nemmeno una rottura netta tra prefordismo e fordismo, per
decenni le società occidentali sono vissute con delle microisole di fordismo-taylorismo in contesti
addirittura agrari: l’Italia è diventata un paese industriale-agrario anziché agrario-industriale a
partire dalla fine degli anni ’50, nonostante che alla Fiat ci fosse già un protofordismo con il sistema
Bedaux e così via. Questo per dire quanto noi ci muoviamo in un contesto di grande
semplificazione dei termini, tagliamo con l’accetta e andiamo ognuno a cercare i punti di radicale
rottura o di continuità a seconda delle tesi che vogliamo sostenere. Io credo però che un punto di
radicale rottura sia possibile trovarlo e questo punto poi in parte sovradetermina gli altri che
citavate: il fatto cioè che il fordismo era un sistema insieme di organizzazione produttiva e di
articolazione sociale (il fordismo è questo, non è solo fabbrica e non è solo società, è taylorismo più
keynesismo se vogliamo) che si basava sull’ipotesi di una illimitata espansione dei mercati. O se
vogliamo, un’illimitata estensione dei mercati intesi in tutte le loro articolazioni, mercato delle
merci, mercato delle materie prime, mercato del lavoro. Nel fordismo l’idea è quella di un mercato
delle merci disponibile ad assorbire tutto ciò che il produttore è in grado di produrre e di un mercato
del lavoro disponibile a fornire una manodopera infinitamente sfruttabile o infinitamente
incorporabile dentro i dispositivi di disciplinamento razionali della fabbrica, e una razionalità non
turbata da nessun fattore di disordine, che sia il disordine del mercato o che sia il disordine della
rivolta degli uomini rispetto al dominio delle macchine. Dopo di che occorrevano dei mezzi per
ottenere questo: le politiche keynesiane erano un modo per far affluire potere d’acquisto a un
mercato che era portatore di bisogni ma non di massa monetaria per soddisfarli, e allora
redistribuzione da parte dello Stato; l’apparato dei capi in fabbrica, il disciplinamento, la
repressione ecc. erano il modo per incorporare gli uomini alle macchine. Ma l’idea era che in fondo
non ci fossero limiti al dispiegarsi di questo modello che era anche quello che incorporava la
razionalità strumentale pura. Questo faceva sì che si poteva immaginare una produzione che si
pianificava a lungo nel tempo, che si poteva immaginare un sistema di mediazioni sociali che sulla
redistribuzione fondava la legittimazione complessiva del sistema, il modello socialdemocratico in
senso forte, e che l’apparto produttivo potesse continuare ad essere un apparato di tipo meccanico,
rigido e formalizzato, con la formalizzazione e la dissoluzione di ogni elemento di formalità,
compresa la dissoluzione di ogni elemento di informalità, compresa la soggettività degli uomini,
che ciò potesse svilupparsi all’infinito. Questo secondo me è il fordismo. Ora, noi oggi ci troviamo
in una situazione che è esattamente opposta, possiamo chiamarla in qualsiasi modo, postfordismo,
postimmateriale, impero, chiamiamola come cavolo ci pare, ma questo meccanismo è saltato: oggi
la valorizzazione del capitale avviene in un contesto nel quale i mercati sono sempre di più mercati
saturi, e quindi esprimono una resistenza forte ad assorbire ciò che viene prodotto; le materie prime

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sono a costi crescenti, e la forza-lavoro non è disciplinabile per via gerarchico-autoritaria come
presupponeva il modello fordista. I mercati sono saturi, sono mercati ricchi e non estensibili. Credo
che sia in ciò l’enigma di questo capitale che deve ridefinire tutte le proprie variabili, i propri
modelli organizzativi, il contenuto dei prodotti che genera, il rapporto con la società. Sono mercati
saturi, non espandibili perché non esiste un meccanismo globale in grado di praticare forme di
keynesismo planetario, non esiste l’istituzione in grado di distribuire a livello planetario il potere
d’acquisto; sono mercati limitati perché il tipo di prodotti che connota lo stile di vita occidentale ha
un alto impatto ambientale, non è compatibile con la sua diffusione a due, tre, quattro miliardi di
persone, a malapena è sostenibile per un miliardo di persone. C’è questa scoperta da parte
dell’Occidente della propria non universalizzabilità. Il fatto di dover fare i conti con mercati stabili
e non in crescita rende drammatico il problema della riduzione dei costi fissi, che prima venivano
invece assorbiti attraverso l’aumento del volume del prodotto: i costi fissi non li riduci più
aumentando il volume, li devi ridurre riducendo le voci dei costi, a cominciare dalla manodopera,
passando alla logistica, agli investimenti e così via. Dunque, è inevitabile la logica del crescere
dimagrendo, è inevitabile la logica della dispersione del manifacturing e, per contro, di
concentrazione del controllo finanziario, ma con dispersione dei processi di lavoro, non più
centralizzazione, una dimensione centrifuga e non più centripeta della produzione. Indispensabile è
la messa al lavoro della soggettività: cancellare la soggettività e incorporarla dentro le regole
formali, dentro i codici formalizzati della fabbrica ha dei costi, vuol dire mettere in piedi una
burocrazia di fabbrica, e soprattutto presuppone la regolarità dei flussi; se tu devi fare i conti con
flussi molto variabili e hai pochi soldi per investire in organizzazione, devi mettere la lavoro la
soggettività della gente, il linguaggio naturale, la capacità di comunicare. Ed è quello che si è
inventato Tajichi Ohno nel modello Toyota, è quello che regola il just-in-time: quel tipo di
flessibilità sistematica, strutturale non lo reggeresti se non contando sul fatto che gli uomini
comunicano tra di loro e aggiustano i flussi a seconda delle circostanze, non puoi formalizzarlo in
routine rigide. Quindi, devi rimettere in gioco l’informalità, devi rimettere in gioco la soggettività,
trasformare in bisogni le emozioni, devi trasformare in risorse e in materie prime i sentimenti, le reti
di relazioni, la nuda vita, i corpi, le immagini e così via. Un salto di qualità molto alto per
recuperare profitti laddove prima li realizzavi attraverso una tecnica completamente diversa: l’età
del ferro del capitalismo faceva profitti con gli uomini-bue che producevano un 10% di automobili
in più dell’anno precedente, questo era il meccanismo. Se non puoi produrre ogni anno un 10% in
più di prodotti devi inventare nuovi bisogni, mettere al lavoro nuove risorse: questo è il
postfordismo, un forte restringimento dell’area dei clienti potenziali e una brusca esclusione delle
risorse da incorporare nel processo di valorizzazione. C’è questa dimensione qua che corrisponde al
fatto che trasformi il mondo in una macchina in cui due miliardi e mezzo di persone sono forza-
lavoro potenziale e 800 milioni sono i clienti potenziali. E’ un’umanità messa al lavoro come
potenziale produttore che non sarà mai consumatore dei propri prodotti, continuerà a produrre per
una fascia limitata la quale deve moltiplicare i propri bisogni e le proprie domande. Mi pare che
questo sia il salto di qualità. Mentre invece il fordismo si immaginava come un modello capace di
conquistare il mondo intero, sia nella dimensione capitalistica di Henry Ford, sia nella versione
socialista, perché io credo che il comunismo novecentesco sia stato una forma di iperfordismo di
Stato, il coronamento e l’autodistruzione del fordismo che si totalizza.

- Prima hai parlato del limite insito in una certa visione teleologica e storicistica, critica che per
molti aspetti coglie nel segno. E’ una visione che appartiene molto a Negri, il quale ha in
qualche modo l’idea di una qualche freccia della storia in cui ciò che c’è oggi è comunque
meglio di ciò che c’era ieri ed è meno di ciò che ci sarà domani: quindi ogni fase è frutto di una
vittoria operaia, un ulteriore passo verso la liberazione e il comunismo. Empire (da quello che
si è potuto sentire e capire) sembrerebbe riproporre lo stesso modello.

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Per lui comunque la liberazione nasce come Minerva dalla testa di Giove: quando arrivi al culmine
di questo processo di approfondimento del rapporto di capitale, anche di radicalizzazione delle sue
contraddizioni, si produce il rovesciamento. Perché Negri parla (aggiornandolo dentro la
reticolarità, dentro l’organizzazione di rete ecc.) dell’anti-impero: questo cresce solo dentro e contro
l’impero, la solita logica trontiana del dentro e contro, che è in qualche modo una dialettica della
negatività, cioè tanto più il negativo si approfondisce tanto più prepara il suo autorovesciamento. Il
che è un grande tentativo di rimanere dentro la razionalità occidentale, molto rispettabile, ma io
temo smentito dall’esistenza: cioè, ogni salto di qualità del rapporto di capitale è poi ulteriore
distruzione di autonomia, di capacità. Marx diceva che veniva distrutta l’autonomia individuale e si
creavano le condizioni di un’autonomia collettiva, ma è lì che fallisce il progetto marxiano, perché
c’è un investimento metafisico sul carattere inevitabilmente progressivo dello sviluppo del capitale.
C’è distruzione dentro, c’è pura e semplice distruzione. Il ‘900 a mio avviso non è un
avvicinamento alla liberazione, può essere letto come una costante distruzione dei livelli possibili di
autonomia dentro logiche di apparato: poi questi apparati esplodono, ma non per questo ti
restituiscono autonomia. E quindi l’autonomia è un processo da costruire uscendo con i propri piedi
dal mondo delle cose. Che cosa voglia dire uscire con i propri piedi dal mondo delle cose è un
grande casino, però non si esce attraverso l’autobus dello sviluppo capitalistico, di questo sono
sicuro, lì dentro ti consumi ma non ti avvicini al rovesciamento. Diciamola in un altro modo:
attraverso il male non ottieni il bene, non è attraverso un lungo viaggio attraverso il negativo che
approdi al positivo. Mentre a me pare che in tutta questa cultura ci sia questa idea che attraverso il
male si produce il bene.

- Torniamo indietro. Quando tu hai parlato dei tuoi processi di formazione hai sottolineato
soprattutto la tua formazione politica, in cui grosso modo le necessità della militanza
costruivano anche i punti di riferimento (hai ad esempio citato Tronti, Panzieri ecc.). C’è
un’altra tua formazione che è stata quella di diventare persona che anche come attività
lavorativa è all’interno di un processo di produzione di scienza? Quali sono stati i processi di
studio e di approfondimento per esercitare questa parte della tua vita che non è quella
strettamente militante, anche se è poi è ovvio che in parte le due cose si fondano?

Da questo punto di vista devo dire che io ho fatto una scelta non militante.

- Quali sono stati gli ambiti fondativi di questa tua formazione e i tuoi numi tutelari, ossia i punti
di riferimento che ti hanno portato verso un certo tipo di formazione piuttosto che un’altra?
Ritornando a Negri, ad esempio, si vede che la sua forma di storicismo è legata alle sue origini,
al suo formarsi sullo studio dello storicismo tedesco.

Da questo punto di vista io ho un percorso strano, perché la scelta degli argomenti risponde a
stimoli militanti se vogliamo. Io ho sempre lavorato su due filoni che solo apparentemente sono
molto lontani: da una parte il fascismo, non dal punto di vista della ricostruzione storica in senso
proprio, ma dal punto di vista della ricostruzione modellistica, delle sue possibili interpretazioni. Mi
sono laureato con una tesi intitolata “Le interpretazioni del fascismo”, che rispondeva al bisogno di
capire uno dei punti di caduta del ‘900, cosa diavolo era successo dentro quel tornante della
modernità per produrre questo. L’altro filone è invece quello dell’universo della produzione, i
modelli produttivi, la fabbrica, l’analisi della fabbrica. Il fascismo l’ho studiato non dal punto di
vista strettamente storico, ma di storia della cultura, e invece la fabbrica l’ho studiata con gli
strumenti della sociologia, la sociologia del lavoro, o dell’inchiesta, o della storia orale, sono questi
i tre aspetti. E’ strano, perché come dicevo la scelta degli argomenti nasce da un bisogno politico
(non diciamo militante) di risposta; la scelta dei maestri o comunque di quelli che mi hanno dato il
metodo è molto ellittica invece, perché nella mia formazione Norberto Bobbio ha avuto un ruolo
importantissimo, nel formare l’impianto del metodo, la sua analitica dei processi sostanzialmente,

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l’interpretazione della modernità tra Hobbes, Locke, Rousseau, Kant, Hegel, questo percorso con
una lettura che valorizza la scomposizione analitica dei modelli per leggerli come risposta alle sfide
della modernità. Un altro che ha avuto un ruolo importante è Paolo Farnetti, che è morto giovane
ma è stato estremamente stimolante, con la sua sistemazione delle teorie sociologiche
politocentriche e sociocentriche, il tentativo di ricostruire il pensiero moderno attorno a questi
processi. Quindi, io mi sono mosso tra una filosofia analitica di stampo umanistico, bobbiana, e la
moderna scienza politica per certi versi, con incursioni in autori che mi affascinavano e che erano
ellittici, come Ernesto De Martino e la sua lettura postcrociana del mondo magico, la presenza, le
apocalissi culturali e così via, oppure i francesi. Però, sostanzialmente i maestri che mi hanno
segnato sono di questo tipo qua, quindi è un impianto più da scienze sociali che non da filosofia
idealistica da una parte e storicistica dall’altra.

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INTERVISTA A VITTORIO RIESER – 3 OTTOBRE 2001

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e quali le eventuali figure di
riferimento nell’ambito di tale percorso?

Il fatto di essere arrivato presto alla politica è legato anche alle mie origini famigliari: i miei genitori
erano antifascisti, tutti e due hanno avuto periodi più o meno lunghi di militanza comunista. Mia
madre è stata in carcere un anno, condannata dal Tribunale Speciale perché era responsabile del
Partito Comunista clandestino a Grosseto; mio padre era un ebreo polacco comunista che ha fatto
per alcuni anni il rivoluzionario di professione, poi si è rifugiato in Italia perché in Polonia era
colpito da mandato di cattura. Qui non era noto in quanto comunista e il fatto di essere ebreo prima
delle leggi razziali non era un problema, per cui è venuto in Italia e poi ci è rimasto. Tutti e due
antistalinisti, mia madre è uscita nel ’30 dal Partito Comunista ed è entrata in Giustizia e Libertà,
mio padre ci è rimasto ed entrambi, un anno o due dopo la Liberazione, hanno smesso di fare
politica. Quindi, questo è il clima di partenza, per cui era abbastanza inevitabile il mio precoce
interessamento politico. L’altro elemento è costituito dalla situazione torinese, dalla repressione
antioperaia alla Fiat: al di là delle cose politiche solite che uno fa, nella propria scuola, nei circoli di
istituto ecc., per me impegnarmi in politica fin dall’inizio è stato occuparmi della questione operaia.
A Torino, per esempio, c’è stata la prima manifestazione studentesca su questi temi nel ’57, poi nel
’59 ci fu una grossa partecipazione degli studenti ai picchetti per lo sciopero contrattuale.
Inizialmente la mia formazione ha riguardato il tentativo di organizzare gruppi abbastanza
consistenti di studenti sulla questione operaia, da lì il rapporto con il sindacato e quindi l’impegno
anche nel lavoro di lega, la FIOM. Si tenga conto che il sindacato torinese già allora e poi per molto
tempo (adesso non più) era molto avanzato: è quello che dopo la sconfitta alla Fiat e la svolta della
CGIL ha tentato in modo più innovativo di ricostruire un rapporto con la classe operaia. Quindi, nel
periodo dal ’57 al ’61 l’impegno era questo, al di là poi delle forme di militanza politica, perché
inizialmente sono stato nel gruppo di Valdo Magnani, i comunisti titoisti; con esso sono entrato nel
PSI, lì ho conosciuto Panzieri, prima semplicemente perché eravamo diffusori di Mondo Operaio
nel periodo in cui è stato diretto da Raniero, poi questi è arrivato a Torino. In quel periodo si è
formato un gruppo di studenti che svolgeva un lavoro di autoformazione politica che aveva come
interlocutori principali da un lato i sindacalisti, da Garavini a Pugno, che venivano a spiegarci la
fabbrica, la struttura contrattuale e via dicendo, e dall’altra invece politici studiosi prevalentemente
anarchici, di ispirazione libertaria o comunista eretica. A Torino, infatti, c’erano alcuni anarchici
(che ora sono quasi tutti morti) e poi venivano a tenerci delle relazioni Pier Carlo Masini, Luciano
Raimondi, Giorgio Galli, che allora facevano una rivista che mi sembra si chiamasse Sinistra
Comunista, una fronda da sinistra del PCI, il che era una cosa abbastanza rara all’epoca; c’era anche
Cervetto in questo gruppo, il quale poi ha preso un altro filone. Quindi, avevo una formazione
abbastanza eterodossa rispetto alle linee dominanti del Movimento Operaio, ma anche eterodossa
rispetto ad una formazione marxiana. Io Marx l’ho conosciuto attraverso Panzieri, allora noi
andavamo direttamente a queste varie fonti antistaliniste del movimento operaio ma senza avere una
base teorica marxiana.
Panzieri è arrivato a Torino nel ’59 e, avendo già avuto prima contatti con lui, abbiamo subito
cominciato a lavorare insieme. Nel frattempo qui c’era questo lavoro studenti-operai, a Milano
invece abbiamo conosciuto Alquati, Gasparotto e gli altri; Panzieri aveva una serie di legami con
intellettuali come Tronti e Asor Rosa già dall’epoca di Mondo Operaio. Tutto questo poi quaglia nel
’60 attorno a due cose: una è il progetto di una rivista, cioè Quaderni Rossi, che poi si realizzerà
l’anno dopo; dall’altra parte c’è l’inchiesta alla Fiat, che inizia nell’estate ’60. Lì l’influenza di
Panzieri è stata determinante, nel senso che noi lavoravamo in quel momento con il sindacato non
sulla Fiat ma in altre fabbriche torinesi, sostanzialmente quelle dove c’erano già delle lotte, e
dicevamo “continuiamo a fare il lavoro su queste cose, alla Fiat come si fa?”. Panzieri, invece,
diceva: “no, dobbiamo affrontare la questione e il nodo della Fiat, e l’unico modo per farlo è lo

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strumento dell’inchiesta”. Quindi, a quel punto sull’inchiesta alla Fiat si coagularono tutti. Alquati e
Gasparotto vengono qui, quindi il nucleo torinese dei Quaderni Rossi è nato sostanzialmente
attraverso questo lavoro. All’inizio si è trattato di un lavoro fatto in collaborazione con il sindacato,
anche con il PSI torinese che aveva una federazione di sinistra: fummo attivi alla Fiat ma anche alla
Olivetti. Tanto è vero che il primo numero dei Quaderni Rossi ha una larga collaborazione di
sindacalisti, a partire da Vittorio Foa che è una figura che prima avevo dimenticato di citare: si
trattava di uno degli interlocutori principali, che era comune sia al gruppo torinese (perché lui aveva
radici torinesi, in particolare io lo conoscevo personalmente fin da quando era uscito dal carcere),
sia romane (perché Panzieri aveva ovviamente molti rapporti con lui). Quindi, sul primo numero
metà degli articoli sono fatti da sindacalisti. Nel frattempo, però, quando è uscito il primo numero
c’era appena stata la rottura con il sindacato a Torino, che probabilmente dal lato sindacale
obbediva anche alla classica logica staliniana, per cui siccome il sindacato di Torino era sotto
processo in quanto troppo di sinistra, doveva compiere un atto riparatore di rottura; dall’altra parte,
era secondo me un nostro errore di infantilismo. L’episodio su cui nacque la rottura si riferiva ad
uno sciopero d’estate alla manutenzione delle Ferriere Fiat, che venivano seguite da Gasparotto e
Gobbi: ci fu un primo volantino che si decise di fare non come FIOM, anche se si era lì con loro,
ma come gruppo di operai, invitando gli operai a organizzarsi. Fin qui la cosa non ebbe
conseguenze, visto che poi il volantino fu avallato dall’unico funzionario FIOM presente. Un
secondo volantino venne fatto dicendo: “bisogna organizzarsi autonomamente fuori dai sindacati”,
fu ciclostilato clandestinamente in FIOM e distribuito da noi. Su questo, ovviamente, ci fu la
rottura, aggravata dal fatto che noi introducemmo come base per l’incontro chiarificatore con il
sindacato un documento in cui dicevamo che, siccome i partiti di sinistra erano opportunisti, il
sindacato doveva farsi carico dei compiti politici e doveva essere l’embrione dell’organizzazione
rivoluzionaria della classe operaia. Questo, secondo me, era una forma di anarcosindacalismo
infantile. A quel punto ci fu la rottura, nell’autunno del ’61. Per combinazione il numero di
Quaderni Rossi, che era pronto da mesi, per ragioni di lentezza tipografica uscì proprio subito dopo
questa rottura, per cui si creò una situazione per i sindacalisti molto imbarazzante. Ci fu un’intera
pagina de l’Unità con un articolo di Garavini che polemizzava con i Quaderni Rossi: il povero
Garavini era preso in una tenaglia nella logica staliniana, in cui se avesse parlato dei Quaderni
Rossi la gente sarebbe andata a comprarli e avrebbe detto “ma tu hai collaborato”. Quindi, c’era
questo misterioso articolo molto duro, che però non nominava il nemico. La storia dei Quaderni
Rossi la si conosce, è inutile raccontare cose che si sono già sentite da altri.

- Quali sono stati, secondo te, i limiti e le ricchezze dell’esperienza dei Quaderni Rossi?

Ovviamente quella che faccio è una selezione molto soggettiva. Le ricchezze sono state tre.
Innanzitutto un elemento teorico, cioè un ritorno a Marx non attraverso i vari marxismi più o meno
dogmatici, ma un attingere direttamente a Marx come strumento molto più attuale per l’analisi del
capitalismo di allora che non la vulgata del marxismo che si era tramandata nei partiti comunisti. In
questo Panzieri è stato decisivo, i suoi articoli esprimevano questa cosa. Legato a ciò, c’era
un’analisi del capitalismo come formazione dinamica: teniamo conto che allora nel Movimento
Operaio era ancora presente, anche se non più in modo esclusivo, la visione del capitalismo italiano
straccione, arretrato. Già a quel tempo, però, ciò si scontrava con altre posizioni, soprattutto nel
sindacato ma non solo. Nello schema vecchio del PCI c’era il fatto che la lotta di classe è prodotta
dalle arretratezze del capitalismo, mentre noi dicevamo che la lotta di classe può e deve essere
prodotta proprio ai livelli più avanzati. Quindi, terzo elemento, c’era il rifiuto dello schema
dell’integrazione della classe operaia, cioè che “è là dove il capitalismo è più avanzato che la classe
operaia si integra”: su questo non ci siamo mai cascati. La lettura di Marx era una peculiarità dei
Quaderni Rossi, questi altri aspetti erano condivisi da pezzi consistenti di Movimento Operaio.
L’idea che la classe operaia alla Fiat non fosse integrata era un’ipotesi di lavoro di tutto il sindacato
torinese: tuttavia, il fatto di aver tradotto questo in lavoro di inchiesta era importante. Fu uno dei

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casi in cui l’inchiesta non si è limitata a confermare ipotesi già date; da essa, in anticipo
sull’esplodere delle lotte alla Fiat, venne fuori che la tensione e il livello di conflittualità latente era
enorme. Tra l’altro confrontammo ciò anche con situazioni come l’Olivetti, dove c’era lo stesso una
conflittualità ma che fin da allora aveva un’espressione sindacale e quindi era più “normale”.
I limiti. Intanto, in questa stessa impostazione c’era un primo limite: proprio in polemica contro le
visioni tutte arretrate del capitalismo, noi tendevamo a prendere per buone le formulazioni più
avanzate dal lato capitalistico borghese, ritenendole reali e non contando sul loro aspetto e sulla loro
dimensione ideologica. Che fossero ideologiche nel senso dell’essere fatte per ingabbiare la classe
operaia era chiaro, ma le abbiamo spesso prese per espressioni di un programma concreto quando
invece non lo erano. Io ero un chiosatore di Carli, Mario Tronti era un chiosatore di Moro, e l’uno
come l’altro prendevamo questi come ideologia che però rivelava una tendenza, ma tra l’ideologia e
la tendenza reale c’era un vasto spazio in cui poi giocavano mille contraddizioni interne. Quindi,
per noi il capitalismo italiano era quello che Aldo Moro, Pasquale Saraceno, Guido Carli
indicavano, mentre la cosa era un po’ più complicata. Poi c’era una contraddizione che
probabilmente non poteva essere risolta: la forza culturale e teorica dei Quaderni Rossi nasceva
proprio dal fatto di non essere un semplice gruppo di intellettuali ma di essere fortemente legato a
una pratica politica; nel momento in cui c’è stata la rottura con il sindacato si doveva autorganizzare
come gruppo politico, ma c’era una sproporzione enorme tra la tematica che noi affrontavamo e
l’esiguità della nostra pratica politica. Quindi, da allora in poi ci si è mossi affrontando grandi temi
e attingendo a una pratica politica nostra che era limitata: serviva quel tanto ad evitare che
facessimo gli intellettuali di sinistra nel senso deteriore, ma provocava anche dei grossi abbagli. I
nostri riferimenti operai poi divennero più importanti nel caso di Porto Marghera, però lì il rapporto
con i Quaderni Rossi fu molto breve, perché poi ci fu la rottura del ’63. A Torino, dopo la rottura
con il sindacato, avevamo sì contatti operai: c’era, per esempio, un operaio molto bravo che veniva
scherzosamente definito il nostro “operaio collettivo”. Poi cercavamo di avere altri elementi, ma
non era facile.

- Inchiesta e conricerca: quali sono, secondo te, le differenze e le analogie, le ricchezze e i limiti
dell’una e dell’altra?

Ci furono delle dispute tremende fin dall’inizio su questo. In un seminario a Meina (a cui tra l’altro
Panzieri non venne perché era fuori dall’Italia) ci fu uno scontro tra quelle che venivano chiamate
l’inchiesta dall’alto e l’inchiesta dal basso, che era sostenuta da Romano e da altri. In realtà,
secondo me anche quella era una disputa abbastanza astratta, tra due metodi sociologici. La
conricerca è il metodo fondamentale, ma vuol dire disporre di una forza organizzata, va bene se la
fai con degli operai che stai organizzando o che sono organizzati e quindi si lega strettamente a una
pratica di lotta; noi non eravamo in condizioni di fare questo, tanto meno quando poi eravamo da
soli, ma anche il sindacato era in una fase in cui alla Fiat non era in grado di organizzare la lotta.
Fra l’altro, noi giustamente (e questa è stata una scelta comune) abbiamo fatto l’inchiesta non solo
con i pochi operai legati alla FIOM, ma attraverso canali vari si trattava di raggiungere operai
ordinari: con quelli non potevi fare conricerca perché non avevi un progetto comune. Eravamo in
una situazione in cui poi di fatto venne adottato un metodo di ricerca tradizionale, il che non
significa che quello sia il metodo migliore. E’ per questo che dico che la disputa era astratta, perché
quando hai la possibilità di fare conricerca è chiaro che è questo il metodo migliore, però se sei
all’esterno di una situazione e l’inchiesta è il primo strumento di presa di conoscenza di quella
realtà ovviamente devi ricorrere a metodi tradizionali, non nel senso di fare questionari quantitativi
(quando puoi farli vanno bene anche quelli), ma devi usare con il dovuto senso critico dei metodi
tradizionali di ricerca. Allora, anche grazie a Panzieri, eravamo frequentati e potevamo attingere a
sociologi e studiosi importanti, da Pizzorno a Momigliano a Gallino, che venivano ai nostri
seminari. Devo dire che un elemento risolutore fu Gallino, il quale di fronte alle nostre dispute
elaborò un’esemplare analisi marxista della situazione di classe e di tutto il resto, e in qualche modo

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ci fece fare un salto in avanti. Adesso Gallino è un po’ ritornato a questo, il suo percorso è stato
vario, le ultime cose sono di nuovo di quel tipo.

- Da come tu affronti il problema dell’inchiesta e della conricerca emerge il nodo di che


soggettività ci si trova. Come avete affrontato in quel periodo la questione della soggettività
all’interno del gruppo dei Quaderni Rossi e in una dimensione più ampia di settori di classe?
C’è infatti un grosso interrogativo: è stato posto il problema della soggettività all’interno di
questo progetto politico oppure no?

E’ stato posto, però qui vanno proprio distinte due fasi. Inizialmente è stato affrontato in modo
sostanzialmente unitario, tenendo conto che in tutto questo periodo, almeno fino al ’62, noi ci
misuravamo con la Fiat, non ancora con la situazione di classe complessiva. Nella fase prima
dell’esplodere delle lotte alla Fiat c’era una soggettività perlomeno conflittuale della classe operaia,
verificavamo su cosa si sviluppava e quali erano gli ostacoli alla sua traduzione in lotta. Quindi,
questo era il livello di allora, e sin qui la cosa ha funzionato. Il problema è diventato molto più
avanzato quando, già prima del ’62, ma soprattutto in quell’anno sono esplose le lotte, anche alla
Fiat, e comunque la lotta di classe ha raggiunto livelli alti pure nel resto d’Italia, dove non era una
novità. Dunque, a quel punto c’era il problema se affrontare il tema della soggettività sul piano di
classe complessivo, che rapporto c’era con la strategia politica ecc.: lì noi non siamo stati
all’altezza. Da un lato, quelli che poi hanno dato vita a Classe Operaia secondo me hanno dedotto
idealisticamente una soggettività della classe operaia anticapitalistica, che andasse al di là del piano
del capitale, che non aveva fondamenti reali, portava direttamente sul piano ideologico. Quelli come
me che in questo non credevano, a quel punto si riducevano però a fare le pulci al sindacato, cioè a
partire da quello che era il dato di fatto delle lotte sindacali e a fare una continua critica da sinistra a
queste lotte sostenendo che la soggettività della classe operaia avrebbe richiesto una strategia più
avanzata e più adeguata. Panzieri scomparve troppo presto perché, secondo me, lui avrebbe avuto
una capacità di sintesi. La rottura con i compagni che poi hanno dato vita a Classe Operaia l’ha
decisa lui, pur essendo stato quello che li conosceva meglio ed era loro più vicino: quindi,
respingeva radicalmente quelle posizioni, considerava la visione di Tronti idealistica, più alla Bruno
Bauer che alla Karl Marx. Però, Panzieri forse avrebbe avuto una capacità di sintesi. Di fatto, poi a
quel punto queste due anime si sono mosse su terreni molto diversi: noi abbiamo continuato a fare
le pulci al sindacato, a organizzare gruppi di sinistra di lavoratori, per esempio all’Olivetti, che
facevano una battaglia nel sindacato, mentre Classe Operaia sapete meglio di quanto possa dire io
che percorso ha seguito.

- C’è un interrogativo che si pone sul nodo tra soggettività e progetto. O la soggettività viene
intesa come qualcosa di dato, che c’è e quindi come tale mette in campo una sua
caratterizzazione, una sua forza, una sua capacità di essere contro, e può essere un’ipotesi;
oppure l’altra potrebbe essere che comunque la soggettività ha una sua dimensione di
formazione e di sviluppo all’interno di un percorso. In quest’ultimo caso, come la categoria del
progetto entra in rapporto con la questione della soggettività?

Su questo io do una risposta adesso, ma non so dire allora. Torno ai miei itinerari formativi: rispetto
ai grandi pensatori e leader politici del marxismo, io ho cominciato con Marx attraverso Panzieri,
poi sono arrivato a Mao dopo, quando Raniero era già morto, diciamo all’epoca delle rivoluzione
culturale, e da lì sono giunto anche a Lenin. Quindi, la risposta che do è di tipo maoista: la
soggettività deve essere molto reale, non è qualcosa di costruito dall’avanguardia, dal partito. La
soggettività nasce dalle contraddizioni di classe e però molto spesso è disorganica, contraddittoria,
che esprime una spinta o rivoluzionaria o comunque di trasformazione: il compito del partito è di
tradurla in progetto, cioè di sistematizzare gli elementi e di riproporla a livello di massa. Secondo
me, dal punto di vista teorico l’impostazione maoista resta l’unica valida, perché in Lenin c’è

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un’accentuazione kautskiana molto forte sul ruolo dell’avanguardia, mentre la risposta di Mao è la
più realistica.

- Nello specifico della situazione italiana, ma anche più in generale nella tradizione comunista
(forse con qualche diversità proprio per la dimensione maoista), il procedere dei percorsi dà
sempre luogo a dei gruppi (siano essi piccoli o grandi), in cui poi il rapporto dialettico e di
crescita nella critica e nel confronto tra posizioni non convergenti dà luogo a fratture. Ad
esempio, in Italia ciò è stato un grande handicap per le possibilità di sviluppo di un progetto
politico: se si guarda alla storia dagli anni ’50 in poi le dimensioni di certi tipi di proposta di
trasformazione o rivoluzionaria sono sempre attraversati da storie di frantumazione in gruppi
che però, mentre si frammentano, sicuramente motivati da differenze teoriche e di percorsi, in
realtà abbandonano quello che è uno dei problemi grossi, ossia il come si accumula una forza
per avere un progetto che sia in grado di contare. Forse Mao ha, almeno in parte, avuto la
capacità di rompere e poi riutilizzare in una sintesi diversa. Mentre il progetto dei capitalisti
riesce comunque a utilizzare le proprie differenze per poi arrivare ad una sintesi che lo porta in
avanti in termini di progetto, come mai, secondo te, da parte di chi cerca di costruire delle
alternative a questo sistema non c’è mai stata la capacità di utilizzare le differenze nella visione
di una sintesi progettuale?

C’è comunque il fatto che la situazione è disuguale perché il capitalismo ha il potere, che deve
conservare e gestire, e questo è un poderoso fattore di sintesi: ovviamente quando tu sei fuori e lotti
contro non hai questo elemento. Dopo di che ci sono dei fattori poltico-culturali: nel Partito
Comunista ha pesato una logica staliniana ma prima ancora leninista, cioè una logica di rottura e di
settarismo, non nel senso solo spicciolo ma proprio teorico. Mentre nei paesi a dominanza
socialdemocratica i gruppi di estrema sinistra spesso avevano caratteristiche leniniste o addirittura
staliniste, in Italia, essendoci un grosso partito comunista, pochi gruppetti hanno avuto
caratteristiche staliniste o anche solo leniniste ortodosse. Lì, però, secondo me c’era il fatto che i
gruppetti erano comunque dominati da intellettuali di sinistra, nei quali la logica della rottura era
basata non tanto su uno schema teorico rigido e settario, quanto sull’amore per le proprie idee,
quindi sul litigio. Il radicamento di classe che comunque era limitato più la tendenza degli
intellettuali a litigare, a essere pronti a sacrificare l’organizzazione per difendere una propria idea,
faceva sì che non ci fosse un senso di responsabilità verso la classe, perché non si aveva un rapporto
così forte da essere richiamati a questo. In più c’era il fatto che si era in una dimensione di ricerca.
Il tema che ha percorso la storia dei Quaderni Rossi ma anche dopo era: quali possono essere le vie
di una rivoluzione nei paesi di capitalismo avanzato. Quindi, si era in una dimensione di ricerca,
non si aveva qualche cosa di consolidato da difendere e su cui dire “a partire da questo ci
confrontiamo”: invece, ogni ipotesi diversa di ricerca portava a costruire la piccola organizzazione
che la seguiva. Per quanto riguarda la storia del Partito Comunista Cinese ciò può essere vero per la
prima fase, ma quando poi Mao riesce a vincere la dialettica interna non è più di tipo staliniano.
Prima gli avversari vengono in certi casi consegnati alla polizia di Chiang Kai-shek o cose di questo
tipo. Dopo di che il problema si ripresenta dopo la presa del potere e Mao ha questa intuizione
geniale che poi si manifesta nella rivoluzione culturale, ossia il fatto che le contraddizioni interne al
partito vanno affrontate a livello di massa, traducendole fino al livello della guerra civile, perché poi
la rivoluzione culturale fu per certi versi una guerra civile. Da un lato era un’intuizione geniale,
però alla fine è stata sconfitta. Quindi, sul come affrontare questo tema in condizioni di dittatura del
proletariato probabilmente non c’è risposta possibile. Mao ci provò, e questo significava quindi una
lotta insieme molto più dura però con una logica non burocratica: non era un processo, magari di
eliminazione fisica sì ma non ad opera dello Stato, quindi emergevano momenti di lotta armata
all’interno proprio nella società. Ciò è certamente diverso da qualsiasi altra cosa, purtroppo poi non
ha però funzionato neanche questo.

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- Hai già citato alcune figure particolarmente importanti nei tuoi percorsi formativi:
complessivamente, quali sono i tuoi numi tutelari?

Di fatto ho citato Panzieri, Marx, Mao e Lenin. Probabilmente ce ne sono tante altre, ma è una cosa
a cui non ho mai pensato. Le altre sono figure che hanno inciso sotto aspetti diversi: visto che bene
o male io come mestiere ho fatto il sociologo, ci sono una serie di autori di riferimento che, anche
se indirettamente, poi incidono pure sull’azione politica, nel senso che provi a fare pezzi di analisi
della società o pezzi di inchiesta, però non c’entrano, sono su un altro livello. Per esempio, Max
Weber è un riferimento importante, con implicazioni anche politiche: le cose che lui diceva sulla
nascente Unione Sovietica erano profetiche e offrono strumenti per una lettura critica della società
sovietica non di tipo anticomunista. Io poi, anche per ragioni pratiche, sono un intellettuale molto
ignorante, per cui non ho letto mica tanto: però, qualche volta uno ha degli autori particolari, tipo
appunto Weber o Herbert Simon (che è morto l’anno scorso), quindi due o tre riferimenti all’interno
di quella che si può chiamare la scienza sociale borghese. Marx distingueva l’economia borghese,
cioè Ricardo, dall’economia volgare: anche Panzieri, nell’ultima cosa che fece, un seminario nel
’64, distinse tra la scienza sociale borghese, con elementi di verità importanti, e poi buona parte
della letteratura sociologica che è di tipo volgare.

- Quali sono stati i tuoi percorsi successivi alla fine dell’esperienza dei Quaderni Rossi?

Intanto c’è stata una tappa intermedia importante, nel senso che dopo la scissione di Classe
Operaia, la morte di Panzieri, ci fu una fase complicata e confusa che coincideva anche con un
momento di riflusso delle lotte, nel ’64-’65 c’era la recessione. Se vogliamo, però, fu una fase di
allargamento di Quaderni Rossi, per cui c’era il rapporto con Sofri, con Cazzaniga, con Mimmo
Bianchi (leader delle organizzazioni autonome dei ferrovieri romani) ecc. C’era, quindi, un
processo di crescita organizzativa, ma secondo me non c’era un’elaborazione strategica oppure
ciascuno aveva la sua, tanto è vero che Sofri, Cazzaniga e Bianchi nel ’66 hanno fatto un
documento che diceva: “dobbiamo costruire il partito rivoluzionario”. Noi torinesi (i Lanzardo, io
ecc.) non ci credevamo, e quindi si ebbe una nuova rottura. Tra l’altro, il ’66 è anche l’anno
dell’ultimo numero di Quaderni Rossi. Nel ’67 c’è stata a Torino un’esperienza importante, cioè il
giornale La Voce Operaia. Alla Fiat la grande esplosione di lotta non si era tradotta in
organizzazione all’interno della fabbrica, quindi c’era stato un passo indietro, non un ritorno alla
situazione precedente: gli scioperi contrattuali del ’66 alla Fiat hanno avuto esiti alterni, con anche
momenti di riuscita. In questa situazione Quaderni Rossi (che esistevano ancora come gruppo,
anche se la rivista non usciva e non sarebbe più uscita) costruirono questo giornale operaio: lì c’era
una spinta se vogliamo di operaismo, ma secondo me saggio. Era scritto interamente da operai, nel
senso che alcuni scrivevano gli articoli, in molti altri casi si parlava con uno e si tirava fuori
testualmente quello che aveva detto: era un giornale di informazione e denuncia sulle varie forme di
sfruttamento in fabbrica. Riuscimmo anche ad organizzare una lotta in forme che poi sarebbero
diventate normali: avevano accelerato la velocità della linea, si doveva fare 3 o 4 vetture in più, gli
operai si fermarono al numero di vetture precedenti, mentre il compagno che la organizzò fu
spostato per rappresaglia. Lì fu quindi un momento di ripresa effettiva di contatto con la situazione
operaia; i sindacalisti meno settari e più avanzati vi guardarono con interesse.
Poi è arrivato il movimento del ’68 e a quel punto i Quaderni Rossi furono l’unico gruppo che si
sciolse. Ciò non perché pensasse che il movimento avrebbe risolto tutto, ma perché riteneva che si
fosse aperta una nuova fase in cui per i Quaderni Rossi come gruppo non avrebbe avuto senso
mantenere una continuità organizzativa. E’ una cosa che altri gruppi non fecero, come ad esempio
quello di Sofri: infatti, ci fu un elemento di continuità che andava dal Potere Operaio pisano
attraverso il movimento e arrivava a Lotta Continua. A quel punto io lavoravo con il movimento
studentesco, anche se sempre con un occhio alle lotte operaie. Lì ci sono esperienze come quella
della Lega Studenti-Operai, su cui Liliana Lanzardo credo che abbia pubblicato uno studio. Nel

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movimento studentesco c’era uno scontro tra chi voleva proiettarsi sulle lotte operaie e chi no, per
cui all’inizio del ’69 davanti ai cancelli non c’era la corrente dominante del movimento studentesco,
la quale in qualche modo era collegata a Sofri, ma c’erano dei frammenti residui di Quaderni Rossi
e dei gruppi che facevano riferimento a Classe Operaia che nel frattempo era diventata La Classe,
c’era ad esempio Mario Dalmaviva, più un po’ di gente che arrivava dal movimento studentesco di
Medicina. Poi via via che le lotte di reparto si estesero arrivarono un po’ tutti. Quindi, c’era la fase
dell’assemblea studenti-operai, la nascita della sigla Lotta Continua, che inizialmente è nata non
come sigla di un gruppo: mi ricordava Mario Dalmaviva che, a quanto pare, l’abbiamo inventata io
e lui perché ogni giorno si faceva un volantino e, siccome le lotte si estendevano, una volta
l’abbiamo titolato La Lotta Continua, dunque era un titolo descrittivo che poi è rimasto. Sofri poi si
è impadronito di questo, ha rotto l’unità molto confusa dell’assemblea studenti-operai, ha costruito
il suo gruppo e a quel punto io non l’ho seguito nel suo progetto. Successivamente siamo andati a
Parigi da Thiennot, che aveva dato vita al gruppo da cui sarebbe nato Servire il Popolo in Italia, che
però ne era la versione caricaturale, mentre quello era un gruppo maoista serio, con cui io avevo
avuto già rapporti. Un elemento che prima ho dimenticato è che, a partire dalla questione della
rivoluzione culturale, erano iniziati dei rapporti con le Edizioni Oriente, che non costituivano un
gruppo politico, ma erano di fatto l’unico nucleo realmente maoista: mentre qui si avevano i vari
partiti leninisti (Linea Rossa, Linea Nera ecc.) di tipo dogmatico, questi facevano una bellissima
rivista, Vento dell’Est, in cui sceglievano testi, traducendoli direttamente dal cinese, ed era uno
strumento di informazione ma anche di educazione politica. Quindi, c’era questo rapporto che
continuò fino alla fine dell’esperienza delle Edizioni Oriente. Attraverso loro io ho avuto contatti
con Thiennot e altri del suo gruppo. Quindi, quando ci trovammo in quattro gatti, io e la mia
compagna di allora andammo a chiedere consiglio a Thiennot su cosa dovevamo fare, e lui ci disse
che anche tre o quattro persone possono essere una cellula comunista senza avere un partito.
Dunque, noi iniziammo a reintervenire alla Fiat, mi ricordo inizialmente con un opuscoletto su cosa
insegnava la rivoluzione culturale agli operai nella situazione di qui. Eravamo chiamati il gruppo
“leggete e fate passare” perché non avevamo una firma. Dopo di che ci mettemmo insieme al
Collettivo Lenin e quindi nacque un gruppo abbastanza consistente che ebbe un salto di qualità nel
’71 perché vi aderirono una serie di delegati di punta della Fiat, in particolare delle carrozzerie, che
erano critici verso la linea sindacale ma non condividevano la linea avventurista di Lotta Continua,
che diceva “siamo tutti delegati”; questi invece erano delegati e ci credevano, ma erano spesso in
scontro con il sindacato. Da qui nacque un’organizzazione che aveva in Fiat un ruolo che poi
divenne crescente con il declino di Lotta Continua. Nel ’73 confluimmo in Avanguardia Operaia,
rispetto a cui avevo inizialmente delle diffidenze per la loro matrice trotzkista, ma non di tipo
stalinista ovviamente: i trotzkisti li ho sempre frequentati, c’è una storiella che dice che un trotzkista
fa il partito, due trotzkisti fanno l’internazionale, tre trotzkisti fanno la scissione! E’ una logica di
questo tipo, dovuta anche al loro tragico destino originario. Quindi, sono stato in Avanguardia
Operaia fino allo scioglimento nel ’77, quando poi nacque Democrazia Proletaria io vi ho aderito
formalmente ma mi sembrava un qualcosa di sopravvissuto. Per dovere di cronaca, sono poi entrato
nel PCI. Con il ’77 il mio impegno politico vero è finito, dopo di che non è che abbia smesso di
occuparmi di queste cose, ho sempre collaborato con il sindacato, ho fatto ricerche; quando
Bassolino era responsabile del lavoro di massa nel Partito Comunista, nel tentativo di rilanciare il
rapporto PCI-classe operaia, ha promosso una grossa inchiesta e mi ha chiesto di coordinarla. A
quel punto io mi sono iscritto al partito, anche se devo dire che lui non me l’ha chiesto, dicendomi
che anzi non era una condizione. Ci ho provato un po’, sono rimasto ancora un anno dopo la
scissione, poi più tardi sono entrato in Rifondazione, rispetto a cui non ho un ruolo politico
rilevante: lavoro molto, ma sempre con inchieste e cose di questo genere. Dunque, una militanza
politica organica come quella dei periodi precedenti non c’è più stata.

- Che rapporto c’è tra la tua formazione politica e quello che è poi stato il tuo percorso
professionale?

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Il problema è che le mie scelte professionali sono sempre state subordinate a quelle politiche. Per
fare un esempio, io volevo laurearmi in Storia perché mi piaceva, poi mi sono laureato in Sociologia
in quanto ciò serviva per l’inchiesta alla Fiat e queste cose qui. Successivamente, per un po’ sono
stato assistente volontario di Gallino, con il movimento del ’68 sono andato via dall’università,
insegnavo alla scuola serale perché questo andava benissimo con i turni alla Fiat, in quanto noi
facevamo la riunione alle 14.30 all'uscita del turno, poi io alle 19 andavo a scuola, finivo alle 22.30
e arrivavo in tempo per il secondo turno. Successivamente sono andato ad insegnare a Modena per
ragioni di nuovo organizzativo-politiche, in quanto, avendo responsabilità nazionali in Avanguardia
Operaia, dovevo potermi spostare: la scuola serale aveva un gran vantaggio dal punto di vista degli
orari, ma non potevo muovermi da Torino. In più AO era interessata alla facoltà di Modena proprio
come luogo di elaborazione. Per cui io sono andato lì sostanzialmente per “meriti politici”: siccome
quelli che insegnavano lì erano compagni, erano stati vicini ai Quaderni Rossi o addirittura dentro,
come Salvati, e avevano un po’ la coda di paglia perché non avevano fatto il movimento del ’68 e
invece avevano fatto carriera in università, mi hanno preso. Quindi, mi sono inserito all’università
perché era più compatibile con la mia militanza, dopo di che il mio impegno politico è scomparso e
sono rimasto lì. Però, quando poi sono stato stabilizzato e quindi la cosa è diventata possibile,
nell’89 mi sono fatto mettere in distacco sindacale lavorando all’IRES CGIL qui a Torino, e adesso
sono in pensione. Dunque, la mia carriera professionale non ha una sua logica, anche se a un certo
punto mi sono trovato a fare il professore universitario in sociologia. Come diceva un compagno
mio collega: gran brutto mestiere il professore di università, ma sempre meglio che lavorare! A quel
punto la logica era quella.

- Secondo te, c’è o c’è stata una specificità torinese nelle lotte e nella militanza?

Nella militanza non so, nelle lotte sì. Cito due aspetti. Una era una specificità che si riflette proprio
nella storia del sindacato torinese, per esempio negli anni ’70. Torino ha avuto una rottura di
continuità nell’organizzazione operaia più drastica che qualsiasi altra città: anche a Milano negli
anni ’50 la CGIL andò indietro, gli scioperi magari non riuscivano, ma c’era un elemento proprio di
continuità organizzativa e non c’era una cesura così grossa. Quindi, il sindacato torinese doveva
ricostruire da zero il suo rapporto con la classe. Anche nei periodi di lotta alla Fiat, il primo
sciopero non riusciva mai, quindi era sempre una scommessa. In Emilia si aveva una situazione in
cui il 90% degli operai era iscritto al sindacato, sapevi che lo sciopero riusciva, spesso non lo
facevi, nelle vertenze aziendali a volte non c’era bisogno di farlo perché il padrone sapeva già che
lo sciopero sarebbe riuscito. Quindi, ciò non era dovuto a particolari posizioni “di destra” del
sindacato, ma al fatto che tu andavi lì con la piattaforma, lui sapeva che lo sciopero sarebbe riuscito
e non c’era bisogno di farlo. A Torino è sempre stato molto diverso: non a caso i delegati sono nati
qui, in quanto il sindacato di Torino ha dovuto riproporsi il problema dell’organizzazione e del
rapporto con le masse, non ha potuto semplicemente coltivare quello che già c’era, rafforzandolo
solo. Quindi, le lotte hanno queste caratteristiche meno routinarie: a volte, anche nei periodi di
forza, hai degli scioperi che non riescono, e a volte hai invece la classe operaia che scavalca il
sindacato. L’altro elemento che riguarda la Fiat, e non Torino in generale, anche se poi influenza il
resto, è la composizione di classe, quello che è stato chiamato l’operaio-massa. Già allora ma
soprattutto adesso io tendo probabilmente ad avere una visione eccessivamente critico-riduttiva
della soggettività dell’operaio-massa. Allargo un po’ il discorso. Avendo avuto la fortuna di
occuparmi di Fiat con il sindacato fin dagli anni ’50 ho potuto misurare il salto di soggettività:
andando ai cancelli e parlando quando distribuivo i volantini si capiva ciò che dal ’68 in poi si è
manifestato a Torino, ti accorgevi proprio dell’emergere di una coscienza di classe, di una spinta
anche antagonistica, dunque c’era una conoscenza molto quotidiana. Però, spesso in questo c’era un
fondo qualunquista, del tipo che gli accordi, qualsiasi fossero, erano tutti uguali: la Fiat ha fatto
degli ottimi accordi, ma venivano tendenzialmente considerati un bidone, l’idea che i sindacati

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fossero un po’ venduti non è mai scomparsa del tutto. Tra l’altro anche la qualità dei dirigenti operai
emersi dalle lotte alla Fiat è rimasta bassa, salvo per i casi in cui hanno incontrato degli strumenti di
formazione: spesso però queste situazioni, guarda caso, riguardavano operai relativamente più
qualificati. Noi abbiamo fatto un po’ di formazione con i nostri operai, il sindacato la faceva ma
anche in modo abbastanza superficiale, però all’interno di questo c’era per esempio tutto il gruppo
che si era raccolto attorno a Ivan Oddone, uno psicologo del lavoro che è stato il primo che fin dagli
anni ’60 con la CGIL ha impostato la lotta contro la nocività, l’analisi dei nuovi fattori di nocività
legati all’organizzazione taylorista del lavoro e ha contribuito all’idea dei delegati in una forma
moderna. Gli operai che hanno lavorato con lui avevano livelli molto elevati di coscienza politica.
Però, c’era un elemento pesante dell’operaio-massa che era un limite. Alleggerisco quanto ho detto
con un aneddoto, perché appunto del termine operaio-massa io ho sempre un po’ diffidato, anche se
è efficace. Un compagno sindacalista, Gianni Marchetto, sostiene di avere l’itinerario opposto a
quello che per la classe operaia teorizza Toni Negri: in quanto giovane immigrato ha cominciato
come operaio sociale, scioperava solo per spaccare i vetri; poi è diventato operaio-massa, cioè
operaio dequalificato in una grande fabbrica; infine, è diventato operaio di mestiere. Quando gli si
chiede che esperienza ha avuto dell’operaio-massa, lui risponde: “quando ero segretario della lega
di Mirafiori ne ho conosciuti due: Massa Giacomo, che era della manutenzione e iscritto al
sindacato, e Massa Giuseppe, che era uno combattivo delle carrozzerie non iscritto”. E poi da lì
chiede: “come vi spiegate che a Mirafiori il turno A ha sempre scioperato meglio del turno B
malgrado avessero ovviamente la stessa composizione di classe? Perché la soggettività del singolo
operaio c’entra, perché in uno c’erano certi operai e nell’altro certi altri”. Questo è un contributo
teoricamente importante per il rapporto tra composizione di classe e soggettività.

- Che cosa ci dici di Cesare Del Piano, che è stata una figura sicuramente significativa a Torino?

Del Piano io non l’ho conosciuto molto direttamente, quindi lo conosco più per sentito dire. Torino
fu uno dei rari casi in cui non solo ci fu l’unità dei metalmeccanici, che c’era dappertutto, ma ci fu
l’unità delle confederazioni e su una linea estremamente avanzata: basti pensare all’autoriduzione
delle bollette, considerata uno scandalo anche nella CGIL nazionale, che a Torino fu fatta.
Sostanzialmente l’unità tra i tre sindacati voleva dire Del Piano e Pugno, quindi CISL e CGIL.
Dunque, Del Piano è una figura straordinaria, credo che ci sia una monumentale biografia su di lui.
Era proprio un cattolico sindacalista, di quelli che per onestà da un lato e lucidità di idee dall’altro
arrivava poi alle posizioni più avanzate. Quindi, è stato un fattore decisivo, prima nel dare una
sponda ai sindacati di categoria, ma poi proprio per il fatto che Torino è uno dei pochi casi in cui
c’è stato anche il tentativo (più convinto che altrove) di fare i consigli di zona. Dunque, lì è proprio
una situazione in cui ha pesato l’influenza e il ruolo di Del Piano, anche perché era un’autorità
indiscussa nel sindacato, ha avuto un ruolo molto importante.

- Da questa ricerca si può ricavare un’interessante ipotesi. Da una parte l’operaismo è andato
avanti proponendo una lettura socio-economica completamente nuova dell’entrata ritardata
dell’Italia nel taylorismo-fordismo rispetto ad un PCI e ad un Movimento Operaio
completamente impantanati nelle teorie del ristagno e dei monopoli. L’operaismo, dunque, ha
rotto con una certa tradizione individuando nell’operaio-massa una figura nuova non solo per
un percorso anticapitalista, ma anche nell’ipotesi dirompente di una classe contro se stessa,
contro il lavorismo, lo scientismo, il tecnicismo, lo sviluppismo su cui si è formata la tradizione
del Movimento Operaio. Dall’altra parte, però, non è riuscito a rielaborare nuovi obiettivi e un
progetto politico che fosse adeguato a quella lettura dirompente. Romano sostiene che
l’operaismo si è mosso all’interno di un particolare poligono, in parte riuscendo ma in parte
fallendo nel tentativo di fare i conti con i suoi vertici, rappresentati dalla politica e dal politico
(intesa come gestione e come progetto di trasformazione), dalla cultura (quanto l’operaismo ha
criticato la tradizionale figura dell’intellettuale organico e la concezione esclusiva della cultura

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umanistica?), dagli operai e dall’operaietà (intesa nell’interrelazione tra soggettività collettiva
e soggettività individuale, cose molto o del tutto trascurate), dalla questione generazionale (per
la composizione sia delle esperienze politiche sia dei giovani operai).

Sono d’accordo. Vorrei sottolineare, ma credo che questo sia scontato, che l’operaismo dei
Quaderni Rossi non è mai stato operaismo riferito agli operai in senso stretto. Penso a Romano, il
quale fin dall’inizio (parlo ancora dei Quaderni Rossi) propose di usare al posto di “operai” il
termine “produttori”: la cosa scandalizzò molto Panzieri. Al di là del termine, c’era il fatto che
l’attenzione di uno come Romano, ma anche la mia, è sempre stata all’insieme del lavoro
dipendente. Lui poi aveva un amore particolare per i quadri intermedi, ha fatto le interviste con loro
nella prima inchiesta Fiat, da cui veniva fuori una figura che è un intreccio di contraddizioni.
Quindi, era un operaismo non gretto, non del tipo che se uno non aveva la tuta blu non ci
interessava.

- Come affronteresti tu il nodo della politica e del politico, categoria che oggi resta di centrale
attualità?

E’ un discorso che necessita di un grande approfondimento che parta dall’analisi della situazione
attuale. Però, è da tanto che io non penso in termini organicamente politici, le mie riflessioni sono
individuali: diverso è quando uno milita in un’organizzazione e allora in ogni momento cerca di
interpretare quello che succede e collegarlo ad una strategia.

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INTERVSITA A PIER ALDO ROVATTI – 11 MARZO 2000

PRESENTAZIONE DEL SOGGETTO


- percorso di formazione politica e successivi passaggi
- percorso e collocazione negli anni ’70 ed eventuale appartenenza ad ambiti politici organizzati
- l’importanza della figura di Enzo Paci
- l’esperienza di Aut Aut

L’inizio è curioso, perché il mio incontro con i temi, chiamandoli con una parola sola, politico-
culturali è avvenuto con il teatro, ed in particolare attraverso l’incontro con un autore che allora (mi
riferisco ai primi degli anni ’60) si leggeva molto e adesso si legge un pochino meno: si tratta di
Bertold Brecht. In pratica i miei rudimenti li ho avuti lì, nel senso che vi ho incontrato tematiche
politiche, la messa in scena di questioni che avevano a che fare con il rapporto tra chi comanda e chi
è comandato. Per me erano gli ultimi due anni del liceo; successivamente all’università è avvenuto,
parlando di questioni culturali, un incontro tra il mio interesse universitario per la fenomenologia,
che poi mi sono portato dietro sempre, con questa immersione iniziale nel teatro. Per spiegare
meglio, non è che andassi a teatro e basta: io ho lavorato per un po’ di anni con il Piccolo Teatro, in
un modo anche molto particolare, cosa su cui ritornerò perché è curiosa. A parte uno scenario
politico (cioè io ho conosciuto Marx attraverso Brecht, poi più tardi mi metterò anche a leggere
Marx) l’incontro è stato sulla questione che in Brecht era più evidente, ossia quella del rifiuto
dell’ovvietà. C’è una frase che mi ricordo ancora e che allora era proprio una specie di slogan, la
quale credo appartenga ad una pièce che si chiama L’eccezione e la regola: “Quello che è ovvio
trovatelo strano”; cioè, in sostanza, sospettate di quello che è la normalità, di quelli che hanno la
capacità di stabilire la normalità. Poi, naturalmente, c’era tutta una questione che deriva da un’altra
pièce che ebbe un grosso peso sulla cultura e anche sulla formazione politica a Milano e che era
Vita di Galileo (mi sto riferendo all’inizio degli anni ’60). Lì si aggiungeva anche la questione della
responsabilità politica dell’intellettuale o dello scienziato, in sostanza di Galileo, con la figura
dell’antieroe. Il finale della Vita di Galileo è debole, come direi con un linguaggio che userò dopo,
nel senso che lui abiura rispetto alle sue teorie e, in sostanza, dice: “Guai al paese che ha bisogno di
eroi”. La critica dell’ovvietà la troverò poi come centro della fenomenologia. Questo tipo di entrata
nella fenomenologia è già orientata, è un’entrata dentro ad un discorso filosofico con delle mire
pratiche, grazie ad un maestro che incontro all'università e, come sapete, si chiama Enzo Paci;
grazie a questo, per mia fortuna personale, io non ho mai della filosofia un’idea separata, ho fin
dall’inizio un rapporto tra filosofia e vita, dove la vita non è neanche una nozione astratta e avulsa,
ma è orientata all’interno di una vita organizzata in cui ci sono rapporti di produzione e di
sfruttamento. Il primo input è stato dunque il cosiddetto teatro dialettico di Brecht, ma a me di
questo mi interessava di più l’effetto di estraniamento, che era l’elemento caratterizzante proprio
della drammaturgia di Brecht: io mi sono occupato di teatro per cinque, sei, sette anni, ho fatto
anche il critico teatrale su l’Avanti!, da cui poi me ne andrò perché mi cacceranno via e ci sarà tutta
una polemica.
Il secondo input è Sartre, che peraltro è anche l’autore e l’esperienza di vita e di pensiero con cui io,
in qualche modo, mi incontrerò e mi identificherò, e sul quale poi scriverò le mie prime cose. Anche
la mia entrata nella storia della filosofia è fatta da una serie un po’ casuale di passaggi, non è che
fosse un progetto partito da chissà quale lontananza. Attraverso Sartre ritroverò la questione
dell’impegno: ci sarà un libro, che oggi non si legge più e che non sarebbe male rileggere, che si
chiama Critica della ragione dialettica. Facendo una parentesi, era un libro che piaceva moltissimo
anche a Toni Negri; per quel poco o tanto che l’ho conosciuto, Negri aveva sempre in mente un
progetto di libro che si chiamava Fenomenologia della prassi collettiva e che non ha mai scritto (e
che potrebbe ancora scrivere, visto che esiste ancora). Naturalmente lui la vedeva dal suo punto di
prospettiva, ma aveva molto a che fare: soltanto l’idea di prassi collettiva io credo che lui la
mutuasse, in qualche misura, da Sartre o comunque dalla Critica della ragione dialettica.

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Poi, naturalmente, mi incontro con il movimento studentesco, però attraverso una sua lettura che, se
vogliamo, potrebbe essere intellettualistica, ma lo faccio anche attraverso una pratica: non so e non
ho mai capito cosa ciò significhi, è una parola che si usa, da tabella, io penso di farla tutti i giorni
questa cosa e di averla sempre fatta nella mia vita, ma è difficile poi dire eccola lì. Comunque quel
poco che io ho fatto nel senso di organizzazione, lì l’ho fatto dentro il mondo in cui io mi sono
trovato a studiare e poi a lavorare, cioè l’università. Forse perché penso che, tutto sommato, si tratta
di stare molto attenti nel fare salti, anche se capisco che erano un po’ isolati dentro ad un
contenitore e dopo non sapere che cosa c’è intorno, e arrivando subito alla fine, cosa che oggi è
estremamente difficile da capire: si tratta di una questione molto complessa, è forse questa la
difficoltà della politica di oggi, devi sapere che cosa ti sta accadendo. Recentemente, nel ’98, ho
pubblicato un testo sul ’68 e sul quale sono tornato un po’ a riflettere a distanza di trent’anni: si
tratta si un testo che mi avevano chiesto per motivi del tutto contingenti e che poi ho pubblicato
anche su Aut Aut. Nel ‘68 uscì anche un fascicolo di Aut Aut che, in un certo senso, non proprio in
assoluto, fu il primo atto di Aut Aut diretto da Paci: io nel ’68 avevo 26 anni, per cui ero nei dintorni
della rivista, ci collaboravo ma certamente non avevo delle responsabilità, o meglio ne avevo ma
non tali da poter decidere la linea della rivista. Ci fu, dunque, un numero della rivista (che già
esisteva), mi sembra che fosse La vita dei movimenti studenteschi o qualcosa del genere.
Vediamo anche la storia della rivista, poiché ci sono tante cose che si intrecciano: essa, per conto
suo, nasce nel ’51 (mentre io per conto mio nasco nel ’42); quando io entro in Aut Aut come
collaboratore lo faccio, mentre sono all’università, insieme ad un tale che si chiamava e si chiama
Salvatore Veca, che oggi è un personaggio della cultura cosiddetta ufficiale in questo paese. Mi
incontro con lui già negli anni di liceo, facciamo praticamente un gemellaggio all’università, del
tipo che andiamo a fare gli esami assieme (allora c’erano esercitazioni scritte che si facevano su
tutti gli esami, e noi le facciamo insieme); insieme per un po’ ci occupiamo anche di teatro e
scriviamo una cosa a quattro mani: per la verità ne scriviamo diverse, ma questa è forse quella più
significativa. Facciamo una serie di discussioni all’università con Paci, il quale ci dà spazio per fare
queste discussioni che avvenivano il sabato mattina; andiamo avanti per due o tre sabati occupando
queste ore di dibattito e di esercitazione che erano a ciò dedicate da Paci, che poi ci dice: “Perché
non raccogliete questa cosa e fate uno scritto?”. Noi raccogliamo, facciamo uno scritto e viene fuori
un saggio su fenomenologia e teatro. Mentre era una cosa di due ragazzotti, il saggio poi verrà
preso stranamente sul serio, nel senso che verrà poi citato per esempio da Dorfles, ma anche da altri.
Con Veca mi ritrovo anche a essere collaboratore di Aut Aut e poi ad essere sempre più vicino alla
rivista, fino a quando tutti e due siamo i condirettori insieme a Paci; poi Veca prende un’altra strada
e si separa dalla rivista, mentre io vi rimango. Alla morte di Paci Aut Aut rimane presso di me, con
tutta una serie di problemi che, in quanto infiniti, non racconto. Dunque, il mio incontro con Aut Aut
è in quegli anni lì: la rivista ha in mente una sorta di progetto di unificazione culturale. Tenete conto
che sono gli anni in cui si discuteva parecchio delle due scienze, la scienza scienza e i saperi
umanistici: non è che oggi si sia smesso di discutere di questo, ma allora era il pieno del dibattito.
La rivista, dunque, per quanto schierata evidentemente sul lato umanistico (avendo dentro molto più
di letteratura, di riferimento all’arte e via dicendo), aveva dentro anche riferimenti alla scienza; poi,
negli anni ’60, diventa una rivista più di orientamento fenomenologico. Dando anche un’idea della
stratificazione della rivista, questa unificazione del sapere negli anni ’50 diventa un’enciclopedia
del sapere nella testa di Paci, che è quello che si identifica con la rivista, la fa lui, è la sua, molto più
di quanto oggi non sia (se questo non è troppo immodesto) la mia rivista. Non c’era allora una
redazione che discuteva; da un certo punto in poi invece la rivista avrà un gruppo di persone, il
quale sarà addirittura abbastanza assembleare nel corso degli anni ’70, poi magari dirò qualcosa di
più preciso in proposito. Ancora oggi ci sono una decina di persone (dodici, tredici, quattordici a
seconda delle volte) che, nel bene o nel male, decidono che farne di questa rivista. Allora non era
così, era una rivista più fatta in casa, e la casa era quella di Paci. Negli anni ’60 Aut Aut diventa un
tentativo di avviare questo discorso, il quale però aveva una sorta di chiave filosofica che era la
fenomenologia. L’idea di Paci è che la fenomenologia sia quel tipo di pensiero che ci può servire

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per introdurci in vari campi e collegare questi campi tra di loro. Se si andasse a sfogliare quello che
accade nella rivista negli anni ’60, si troverebbero molti numeri che sono la fenomenologia e…,
cioè la fenomenologia e Freud (gli aspetti della psicanalisi), fenomenologia e antropologia,
fenomenologia e teatro, fenomenologia e musica, fenomenologia e architettura; poi ci sono anche
dei fascicoli più propriamente filosofici, ma l’operazione e l’idea di Paci era questa qua. Quindi, ad
un certo punto, anche fenomenologia e movimento studentesco, dove, se devo dire adesso, gli
elementi di sintesi di questa faccenda, per stringere, certamente erano dati dal fatto che non si è mai
finito con questo, che è un elemento di processo in corso, che la fenomenologia autorizzava a
pensare. Per cui, allora, posizione molto netta in critica nei confronti di tutti pensieri chiusi, ivi
compreso un certo pensiero dialettico, ivi compresa una certa lettura di Marx, che non è ancora
arrivata in Aut Aut, ma sta per arrivare, cioè siamo lì; o meglio, nel 1962 Paci scrive un saggio su
Husserl e Marx, un po’ anche sorprendendo i lettori, e dà l’avvio a quella sorta di tentativo culturale
che fa reagire uno sull’altro la fenomenologia e il marxismo. E’ un tentativo al quale io mi
accoderò, uso proprio questo verbo perché non so quale altro usare, nel senso che queste cose le
assorbo attraverso Paci e una certa parte del suo gruppo, che si ritrova ed ha una forte
caratterizzazione di gruppo aperto: non sono gli assistenti che seguono portando la borsa, cosa che
si usava allora e anche oggi, anche se sembra che non si usi (non faccio nomi…).Era un gruppo
proprio di discussione: mitici (io a questi non avevo partecipato perché ero troppo piccolo) erano gli
incontri in certe osterie di Milano in cui si leggeva insieme Il capitale di Marx. In questo gruppo
c’erano anche persone fortemente orientate politicamente, faccio due nomi: uno è Giovanni Piana,
che tra l’altro ha insegnato alla Statale fino a due anni fa, poi è andato in pensione anticipatamente
ritirandosi in un paesino della Calabria a suonare il violino e ad occuparsi dei fatti suoi, istituendo
un suo sito Internet in cui pubblica le cose che scrive; l’altro personaggio che si può citare di quel
periodo è Giairo Daghini, il quale avrà poi una storia politica sua, ma sarà sempre visto da Paci
come la punta politica, e anche il personaggio che un po’ temeva, all’interno di questo gruppo.
Anche nel caso di Daghini c’era il mito di lui ex operaio; intanto si occupava di Sartre in quel
periodo, me lo ricordo in quanto io, per quanto più piccolo, entrai abbastanza in contatto con lui
visto che si interessava delle cose che piacevano anche a me. Poi ce n’erano anche altri, ma questi
due in particolare: Piana e Daghini erano di posizione operaistica, erano dentro ad una rivista che
usciva negli anni ’60 e si chiamava Classe Operaia. Poi non so chi altri di questo gruppo,
comunque tutti erano abbastanza orientati. Un altro personaggio di questo gruppo iniziale è Paolo
Gambazzi, che adesso insegna a Verona, e che poi anche lui ha avuto una sua storia politica
attraverso il Gruppo Gramsci, dentro al quale c’erano anche Carlo Formenti e Romano Màdera.
Questa è l’idea che voglio dare: a parte il teatro che era una sorta di mia provenienza personale
insieme a Veca (il quale per un po’ starà con noi) c’era la fenomenologia, su cui l’elemento, come
dicevo, era quello del continuo lavorio di ricerca critica, non fermarsi all’oggetto costituito ma
un’operazione continuamente costituente, nei dibattiti di allora e di qualche anno dopo su come
intendere la dialettica. D’altronde questo lo trovavo anche in Sartre: nel libro che dicevo prima c’era
(e c’è ancora se uno lo legge, ma dico c’era perché non lo legge più nessuno) l’idea di
totalizzazione in corso che si opponeva all’idea di totalità. C’era Lukàcs in quegli anni di mezzo:
Giovanni Piana sbandierava un suo libro che diceva essere il più importante del mondo e che in
effetti poi avrà una grande importanza negli anni successivi, si chiamava Storia e coscienza di
classe. Questo per dire qual era l’ambito. Naturalmente ero molto più attento io agli studenti di
quanto non fossero loro, che invece erano molto più interessati a un quadro politico in cui c’era un
soggetto, la classe operaia, che loro conoscevano e io non avevo mai visto, e che forse continuo a
non avere mai visto. Quindi, il rapporto con il movimento studentesco ce l’ho avuto molto più io,
mentre questo gruppo storico, in cui c’erano anche altri personaggi, aveva invece in mente un'idea
di politica in qualche modo già strutturata: io leggerò molto più tardi i Quaderni Rossi, loro li
leggevano mentre uscivano, mentre io mi sveglierò, o avrò attenzione a queste cose, un po’ in
ritardo. Nel contempo, però, avevo una grande attenzione alla questione degli studenti, anche a
livello del sapere, e ci sarà un tema a cui io mi collegherò quasi subito, che è quello dei bisogni, e

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che mi porterò dietro come etichetta per tutta una parte del mio percorso, fino alla fine degli anni
’70, cioè fino al momento in cui, come sapete, accade qualcosa, ci sono dei mutamenti, ma succede
qualcosa anche nelle traiettorie personali, alcune delle quali sono anche strambe. Nella mia
traiettoria accade che, tutto sommato, proprio forse anche in collegamento al saggio su Marx e
lavoro vivo, mi avvicino a questa idea di pensiero debole che poi non verrà capita, soprattutto dai
cosiddetti intellettuali o militanti; mi guarderanno con un occhio storto tutti quanti, anche se poi
sarà un’idea che filtrerà parecchio dentro Alfabeta. Questa idea di bisogno certamente io l’avevo
trovata dentro ai dibattiti strutturali, torno di nuovo a Paci, la fenomenologia dei bisogni come ne
parlava lui; l’avevo trovata nella mia lettura di Marx che seguirà in quegli anni lì. E poi dopo la
trovo in una curiosa autrice ungherese, allieva di Lukàcs, che è Agnes Heller, con cui entrerò in
rapporto e di cui farò in modo che esca da Feltrinelli La teoria dei bisogni in Marx, che sarà poi
anche il nucleo di riflessioni che daranno luogo ad un libro fatto a sei mani con Amedeo Vigorelli
(che poi si staccò) e con Roberta Tomassini, di cui poi ho perso le tracce. Entrambi lavoravano con
me, poiché si crea una cosa curiosa: io ho delle persone che lavorano con me all’università,
nonostante io stesso non abbia nessun ruolo preciso all’interno e lavori con Paci; succede però che
questi è malato e quindi negli ultimi anni, dal ’69 al ’74 (anno della sua morte) egli in realtà molla
un po’ a me, anche se non ufficialmente, la responsabilità del lavoro all’università. Avevo poi avuto
una certa presenza nel movimento studentesco, standomene però in una posizione di autonomia
rispetto al Movimento Studentesco milanese, che non mi piaceva per niente: anche perché è ovvio
che gli elementi marxisti-leninisti che cominciavano ad affiorare lì dentro trovassero abbastanza una
posizione critica da parte mia; poi noi venivamo bollati come il gruppo degli intellettualini. Questo
è il quadro iniziale.

In precedenza avevo promesso una chiarificazione sulla questione del teatro. Certamente uno può
dire che mi sono occupato di teatro, che ho fatto Brecht, il quale è stato il mio conduttore dentro ad
una certa esperienza; però non era solamente questo. Il fatto è che io con il Piccolo Teatro ho fatto
un sacco di cose, avevo dei ruoli che oggi si chiamerebbero molto flessibili, un giorno facevo
questo e un giorno quell’altro, loro mi davano anche dei denari, insomma ci ho anche vissuto con
questa collaborazione: erano anche tempi diversi, qualcosa si trovava tranquillamente perché
eravamo in pochi, uno che studiava filosofia era una specie di mosca bianca. Seguivo tutto il ciclo,
il collegamento fu fatto nel liceo perché quelli del Piccolo Teatro venivano nelle scuole per tirare la
gente a teatro ma, in fondo, attraverso un meccanismo che non era poi così stupido, creando
un’animazione culturale intorno a questi eventi teatrali: come dire “prima di venire a teatro
parlatene nelle scuole”. Noi ci rendemmo disponibili per funzionare da volano dentro al quadro del
liceo Parini, che a Milano era prestigioso. In realtà io la cosa vera che facevo era giocare a basket,
ma questa è un’altra storia, anche se non del tutto: per anni pensavo che il mio avvenire sarebbe
stato quello. Dopo, finito il liceo e iniziata l’università, mi trovai ad essere quello che andava lì e
che collaborava. Questa collaborazione non era del tipo “leggiti il copione, tre balle che ti vengono
in mente, studia un po’ visto che sei uno studente”; mi ricordo che noi organizzammo diversi
seminari alla scuola filodrammatica in corso Magenta, anche delle cose che ci inventavamo (poi
eravamo in quattro), ma seguivamo tutto, cioè andavamo alle prove, guardavamo come lavorava
Strehler, che allora era molto bravo, e via dicendo. Ci inventammo (ci fu anche un suggerimento da
parte dello staff del Piccolo Teatro) questa questione che si chiamava del decentramento culturale, o
teatrale. In sostanza c’era questa idea che oggi può far sorridere, ma allora assicuro che era nuova:
“Mettiamo insieme dei collage tra poesie e pezzi di teatro; prendiamo alcuni bravi allievi della
scuola drammatica, poi si crea un pullmino che alla sera va in luoghi non abituati al teatro,
cooperative di consumo in particolare; lì con poche cose si costruisce una piccola scena teatrale, si
fa questo recital e poi si discute.” Quindi, il popolo di sinistra l’ho conosciuto così. Ognuno ha un
suo inizio, però per me è stata una cosa che poi non è che mi sia capitata tantissime volte dopo nella
vita di avere come davvero è accaduta lì: è stata una sorta di scambio con il mondo operaio. Noi
andavamo in questi luoghi che, in sostanza, erano dei bar, dove alla sera i lavoratori si ritrovavano a

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bere e a parlare: arrivavamo e venivamo a parlare della responsabilità dello scienziato. Eravamo in
quattro, uno dei quali si chiamava e si chiama Negrini, che poi ha fatto una carriera di regista
televisivo. Avevamo scritto noi una cosa che si chiamava Atomo storia di una scelta, di cui ancora
conservo una locandina, in cui c’era la questione della bomba atomica, che oggi sembrerebbe non
esserci più, però Hiroshima è una questione grossa anche adesso; allora era una cosa ancora più
grossa perché c’era poi anche il rischio di questa sorta di distruttività della scienza. Questo era il
tema di tale collage, recital in cui c’era una parte in prosa, citazioni, testimonianze di scappati da
Hiroshima e via dicendo. Questa esperienza mi ha segnato parecchio: io non ho il numero esatto,
ma direi che siamo stati in cento posti, con cento situazioni diverse, ivi compresi quelli che ti
mandavano al diavolo, quelli che non ti ascoltavano; c’erano quelli, invece, che erano interessati. Il
meccanismo, dunque, era basato su questa cosa che durava un quaranta minuti, dopo di che Veca e
io dicevamo: “Adesso ne parliamo”. E io lì imparai anche un pochino a parlare in pubblico, a
colloquiare con la gente, a capire che occorreva abbassare il tiro; in sostanza tu ti immagini una
cosa e poi ne vedi un’altra, quindi da lì ho tratto molti elementi per come insegnare poi filosofia
all’università. Faccio una parentesi su quello che sto facendo in questo momento. Per esempio, alla
scuola di specializzazione (hanno istituito questi luoghi dove si impara a diventare docenti) sto
insegnando qualcosa che potrebbe chiamarsi didattica della filosofia; a me piacerebbe far capire a
quelli che ho di fronte (che non sono mica ragazzini, è gente di trent’anni) che didattica della
filosofia per me è questo, che io l’ho imparata così e che senza questa storia, che adesso ho fatto per
flash, non saprei cosa dire sulla didattica della filosofia. Cioè, non me ne frega niente nel momento
in cui si parla di didattica della filosofia: mi interesserebbe invece sapere che l’insegnamento è fatto
di queste cose, naturalmente però oggi fa anche sorridere. Allora si parlava molto di rivoluzione
culturale, oggi ciò fa rabbrividire perché si dice che abbiamo preso un grande scivolone in questa
sorta di immaginazione riguardo alla Cina; però, Cina o non Cina, vicina o lontana che fosse (come
dicevano allora nei titoli di certi film), lì per rivoluzione culturale si intendeva che a un certo punto
non puoi limitarti a startene nell’aula, devi avere un doppio sguardo. All’interno del mondo della
scuola oggi si parla, ad esempio, della riforma dell’università, di fare gli stage, mi si dice che la
figura dello stagista è decisiva anche nel mondo del lavoro: però questi stage non sono mica questa
roba che vi ho prima raccontato, sono delle tecniche dei padroni per fare lavorare gratis e, d’altra
parte, il tentativo di chi sente il fiato della disoccupazione che alita sulla sua testa, di riuscire a
trovare dei collegamenti per il lavoro nel futuro. Questo scambio tra mondo del lavoro e mondo
della scuola, messo in questi termini, non ha nulla a che fare con quello che vi sto raccontando, che
non era uno scambio tra mondo del lavoro e mondo della scuola. Anche per chi magari pensava che
nei mesi estivi occorresse andare a zappare la terra secondo i precetti del presidente Mao (cosa che
allora, vi do questa testimonianza, si sentivano come veri, e il problema non è che le cose siano vere
o false, ma quando le senti come vere) la questione non era quella di fare lo stage del contadino, ma
era di capire che cosa pensava la gente. Se da questo si toglie via l’input politico non si capisce più
niente, cambia tutto: e oggi probabilmente l’input politico è venuto meno. Io viaggio per le case
editrici soprattutto, come luoghi di lavoro: alla Bompiani, per cui ho una consulenza, incontro
questi stagisti, ma devo dire che è proprio tutto diverso rispetto al tempo di cui sto parlando io, in
cui il rapporto con le cose non era tanto il problema del lavoro e del denaro; certo, era anche questo,
ma non ci si pensava, forse perché non c’era questa sorta di reale o illusoria morsa della
disoccupazione. Quello che si pensava era invece costruirsi un’esperienza dialettica del vivere,
mentre oggi non lo so.

- Lei prima ha parlato del difficile rapporto con il movimento studentesco: nel ’68 e poi negli
anni ’70 come ha vissuto, direttamente o indirettamente, i rapporti tra l’intellettualità e i
movimenti?

Con i movimenti bene, ma sempre che i movimenti fossero movimenti e non stasi, per prendere la
parola alla lettera. Io ho costeggiato, da voyeur, molti dei cosiddetti movimenti della sinistra non

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ufficiale negli anni ’70, dalle amicizie con il mondo dell’autonomia non organizzata, come si
chiamava allora, all’università, dove via via mi trovavo a contatto direttamente con situazioni legate
agli studenti, a Il Manifesto, intesa come sigla politica al suo nascere: vi ho scritto, a un certo punto
sono stato anche direttore responsabile de Il Manifesto di Trieste (queste cose le fai se te le
chiedono, ma anche perché sei nei dintorni); ho scritto su Lotta Continua, non tanto, di più su Il
Manifesto. Insomma, se devo tirare i conti, io ogni volta mi avvicinavo laddove (ingenuamente da
parte mia, me ne rendo conto) vedevo quello che, con una parola più spregiante che spregevole, si
chiama movimentismo. Mi avvicinavo, vedevo che non era così e che c’era una strutturazione
politica più o meno visibile, più o meno semplice, doppia, e a quel punto mi riallontanavo, un po’
forse per limiti anche miei. Quindi, quello tra intellettuali e movimento io lo vedevo proprio come
un rapporto per cui il lavoro intellettuale doveva soprattutto pensare la questione del movimento e
fare in modo di renderla più visibile e più aperta; non la pensavo assolutamente nell’altro modo,
cioè dell’intellettuale che, tutto sommato, funzionava come coscienza organizzata del movimento. Il
mio è un atteggiamento che, tutto sommato, laddove le persone si trovano e cominciano a costruire
delle cose insieme, in quel momento fondativo io ci sono; quando le cose cominciano a strutturarsi
e a cristallizzarsi, in quel momento io magari continuo ad esserci, ma un pochino meno. Facendo un
esempio, nelle pratiche che ho avuto a contatto con il sindacato CGIL-scuola dentro all’università a
Milano mi sono trovato quasi sempre ad avere voglia di venire a fare a pugni con il sindacalista, o il
suo facente luogo, di turno. Non era neanche una posizione anarcoide, perché l’anarchia ha poi delle
basi, delle radici, una storia: era certamente una posizione di movimento. E’ difficile dire, perché
allora si pensava che l’intellettuale poi dovesse sparire e sottrarsi, ma in un certo senso lo penso
ancora: è chiaro che poi la funzione della leadership si costituisce, ma, data la mia preparazione
filosofica, date le cose che mi interessavano e che avevo studiato, dato il modo in cui attraverso
queste cose vedevo la realtà, oppure attraverso la realtà vedevo queste cose (che è vero, mi capita
questo), semmai l’intellettuale avrebbe dovuto sottrarsi; qui di nuovo introduco la questione del
pensiero debole dal lato mio, che secondo me non è il lato da cui se ne è parlato nel polverone che si
è fatto. La mia scuola di formazione e di pensiero mi ha sempre insegnato innanzitutto a vedere, e
poi a vedere con sospetto, e a lavorare, come si direbbe oggi, decostruttivamente. Per chiarimento:
il mio autore filosofico oggi di riferimento è sicuramente Derrida, è la persona che stimo di più,
quella che trovo più intelligente, e penso che Spettri di Marx sia un libro sorprendente. Quello che
io credo di aver imparato, su cui mi sono esercitato e a cui anche poi in qualche modo ho creduto, è
questa questione del pensiero debole con tutto il carico di equivoci che ovviamente aveva fin
dall’inizio; poteva essere lanciata, se era possibile lanciarla, in un certo scenario, è appunto una
sorta di svuotamento e depotenziamento della teoria quando la teoria si assume il potere e la
potenza del diventare comando, quando la verità diventa funzione di potere. Questo è il nucleo su
cui, in modo anche un po’ noioso e ossessivo, io mi sono mosso sempre e continuamente: non so
bene a che cosa serva, ma certamente tutte queste funzioni di potere io le vedo continuamente anche
dentro il mondo universitario.

Se l’amico filosofico che io ho oggi è Derrida, vediamo un po’ chi sono i miei numi tutelari. Ho già
fatto dei nomi, facciamo un elenco di chi sono i miei ispiratori. Ho già detto Brecht. Sarei molto
perplesso nel dire Husserl: se si registra e si scrive Husserl e poi me lo sento dire, non sono mica
d’accordo. Diciamo la fenomenologia, e dentro ad essa c’era una serie di cose, anche concrete, reali
e pratiche, che un po’ ho già detto e che non mi hanno mai riportato ad Husserl davvero: io,
evidentemente, l’ho letto, ma non è lui ad essere un mio ispiratore, semmai un modo d’essere della
fenomenologia, quindi più Paci, ma neanche solo lui. Poi, certamente, cito Sartre, che ha avuto una
funzione e non mi sembra neanche oggi un cane morto: inoltre vedo che ogni volta che ne parlo ai
cosiddetti studenti c’è un’animazione, mentre invece i produttori di libri mi dicono che se si
pubblica qualcosa di Sartre non va. A Raul Kierkmaier, persona che lavora con me e che si occupa
di Sartre da sempre, ho dato un’opportunità editoriale, ripubblicando un bellissimo saggio di Sartre:
recentemente si è trovata anche la prima versione di questo saggio, in Italia era uscito però non era

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più in commercio, lui l’ha ripubblicato. Ogni volta che incontro l’editore Raffaello Cortina mi
rimprovera perché nessuno l’ha letto, e lui non è un editore invisibile, si vendono i suoi libri (Spettri
di Marx, ad esempio, l’ha pubblicato lui). Il primo libro che io ho scritto si chiama Che cosa ha
veramente detto Sartre, edizioni Ubaldini, Roma, parlando della mia biografia intellettuale. Poi c’è
veramente Marx, non c’è dubbio. Io ho scritto un libro su Marx: bello, brutto, interessante, utile che
sia stato, era un libro di lotta, nel senso che con esso io volevo lottare contro un modo d’essere del
marxismo che allora si identificava con un personaggio che si chiamava Althusser. In sostanza, era
un libro contro Althusser, che tra l’altro io conoscevo bene e di cui si parlava parecchio, perché
allora (siamo già all’inizio degli anni ’70) Per Marx e Leggere Il capitale erano due libri che
andavano molto. Poi, certamente, potrei dire che sia Nietzsche sia Heidegger hanno
successivamente inciso parecchio nella mia formazione. Erano autori che, in qualche modo, non mi
erano stati fatti leggere prima: Nietzsche sembrava che non valesse la pena di leggerlo; quanto ad
Heidegger, c’era una sorta anche di interdetto da parte di Paci, il quale mi comunicava che si
trattava di un nichilista e lì finiva tutto. Invece non è così, anche perché Heidegger può essere un
rompiscatole infinito ed è meglio non leggerlo dalla mattina alla sera, però io ho cambiato idea sulla
questione. In questo senso mi è servito anche incontrare Vattimo, avere quel poco di colloquio che
ho avuto con lui, dal quale però è nata un’amicizia che è rimasta tutt’oggi, anche se non ci vediamo
quasi mai; proprio nei dintorni del Pensiero debole, quindi siamo all’inizio degli anni ’80, mi porta
ad insistere sulla lettura di questi autori. Sicuramente un autore che ha determinato la mia apertura
di vista e di orecchie è Foucault, non c’è il minimo dubbio su questo. Qui allora torniamo alla
questione del potere, della sorveglianza, del micropotere: Foucault mi è servito moltissimo per stare
al mondo da un certo punto in poi. C’è stato un periodo in cui tutti se ne sono serviti. Per me è stato
molto più importante Foucault che non Deleuze o altri autori che pure ho letto e mi piacciono
moltissimo. In questo elenco non potrei non mettere Lacan: questo però è il punto complicato da far
giocare e da collegare direttamente con i vostri interessi, perché ci si può chiedere cosa c’entri
Lacan. Tutta questa cosa ne ha alle spalle un’altra, che è “cosa ne facciamo della questione del
soggetto?”. Sulla questione del soggetto Foucault non ti dice nulla, oppure ti dice qualcosa al
rovescio, anche se interessante, mentre Lacan, secondo me, è quello che ha smontato e smosso di
più i macigni che bloccano l’entrata di tale questione, facendone poi diventare una specie di parola
vuota: il soggetto di che? Allora c’è un centro forte, potente, allora ciascuno è centrale: a questo
punto a maggior ragione poi si può riprodurre la questione legata a chi è soggetto al quadrato, cioè
l’intellettuale. Insomma, si incontrano certi luoghi comuni del leninismo. Vado alla svelta, adesso
non vorrei fare corto circuiti assurdi.
Tutto sommato la domanda che mi avete rivolto, il rapporto tra intellettuali e movimento, ha di
mezzo una certa idea di soggettività: se ne hai una vai verso una risposta a questa domanda, se ne
hai un’altra o metti in discussione la prima o vai verso un’altra risposta. Naturalmente qui bisogna
fare molti giri quando, ad un certo punto, c’è un editoriale di Aut Aut molto significativo e dice che
qua bisogna fare un giro un po’ più lungo. C’è, intorno agli anni ’70, un editoriale in cui ci si chiede
che cosa farne di questa rivista che si è esposta, o, meglio, è stata ritenuta esposta, e che quindi in
qualche modo non può più andare avanti per quella strada, per quanto non fosse poi davvero quella
di Aut Aut. Ci sono cioè stati tutta una serie di fraintendimenti che si sono creati, ma sempre si
creano sulle cose, a partire dalla nostra eredità: la gente pensa che tu sei uno e tu hai un bel da fare
per dire in giro che poi sei un altro. Di tutto questo discorso ho un esempio filosofico in mente,
riferito a Sartre e ad un altro libro che non si legge, Santo Jenè commediante e martire, in cui si
racconta la storia di Jené, autore teatrale, il quale a sei anni ruba e da lì ha la stigmate di essere un
ladro. Allora, a un certo punto, di Aut Aut si dice che, in realtà, sia una rivista che fiancheggia
l’Autonomia: sinceramente non era vero. Si era solo creato un episodio legato a quel marpione di
Toni Negri, il quale sapeva come fare per tirare dentro gli intellettuali. Accade infatti che, nel
momento in cui si parla di teoria dei bisogni, Negri allunghi le orecchie, perché si ritrova in questa
faccenda, non gli pare vero un’idea di lettura di Marx in cui c’è questo elemento del bisogno, il
quale schioda la possibilità di rinchiudere il pensiero di Marx dentro un’idea economicistica. A

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fianco di questo c’era una sorta di terreno comune che riguardava l’investimento di molti commenti
relativi a Marx in rapporto ad un libro che si conobbe soltanto in quegli anni e che si chiamava
Grundrisse, che poi fu tradotto in due volumi da La Nuova Italia, arrivando fino ad un investimento
che andrebbe un po’ corretto. I famosi Grundrisse contenevano anche il Frammento sulle macchine
di cui si era servito Panzieri e che, comunque, era al centro della questione della lettura del
neocapitalismo, come si chiamava allora. Questo testo rimetteva poi in discussione una serie di
cose, anche il rapporto di Marx con la filosofia; ma, soprattutto, conteneva questa questione della
scienza, dell’uso dell’intelligenza collettiva. Quindi, la questione dei bisogni poteva essere un trade
d’union tra una critica alla chiusura di Marx all’interno di una lettura economicistica e l’apertura
verso queste posizioni, che poi riportavano ancora fuori Storia e coscienza di classe. C’era, dunque,
tutto una sorta di movimento di riflessione filosofica su Marx a ripartire dai Grundrisse, cosa che a
me interessava parecchio, al punto che quando poi io ho l’occasione e la possibilità di fare
l’intellettuale producendo cultura di libri, inauguro quella collanina di Feltrinelli che si chiama
Opuscoli Marxisti con un testo che Negri aveva pubblicato non so su quale rivista, che si chiamava
Crisi dello stato-piano: esso, se si va a vedere, è una lettura dei Grundrisse, quindi c’era una sorta
di collegamento. Comunque, noi facciamo questo libro sui bisogni che esce da un editore milanese
che si chiama Mazzotta, che poi si è messo a fare cose di arte successivamente, e Negri scrive un
testo, che è una lunga ed elogiativa recensione, in cui dice che finalmente questi di Aut Aut sono con
lui: era sostanzialmente un testo di cattura, di annessione. Noi ragionammo parecchio all’interno
della rivista, che allora aveva una sua conduzione assembleare: non c’era un gruppo redazionale
chiuso, con nomi e cognomi fissati sulla carta, ma avevamo riunioni di venti-trenta persone, in cui
venivano vari personaggi, tra cui, ad esempio, Franco Fortini, Edoarda Masi, Lapo Berti. Erano,
dunque, delle riunioni aperte, che poi furono riorganizzate successivamente. Si discusse parecchio
di questa questione, con la Tomassini che tirava da una parte, Vigorelli che tirava dall’altra: noi
eravamo i tre autori del libro. C’era una biforcazione: lo si pubblica o non lo si pubblica? L’idea
era: se non lo pubblichiamo, lui lo pubblica da un’altra ed è ancora peggio, oltre che antipatico,
visto che avevamo dei buoni rapporti; se lo pubblichiamo punto e basta, accade che, tutto sommato,
noi mettiamo un timbro sulla rivista. Ma non c’era nulla da fare, in definitiva era una sorta di double
bag, per cui o eri legato da una parte o eri legato dall’altra e quindi eri legato da tutte e due. Allora,
non demmo ragione al detto vicentino “peso el tacon che el buso” e facemmo el tacon: il buso
sarebbe stato non mettere niente, quindi fare vedere attraverso di esso che gabola c’era; il tacon era
attaccare insieme a quella altre cose, che erano poi delle risposte, le quali però non contavano nulla,
poiché la cosa che lanciava i suoi messaggi all’esterno fu quel testo di Negri. Questa cosa produsse
una crisi della mia cosiddetta carriera accademica, che già era barcollante perché mi era morto Paci,
il quale era un personaggio assolutamente poco in linea con l’accademismo. Ci fu dunque questa
bollatura: “Negri ha preso Aut Aut”, era questo il messaggio che poi, ingigantendo un po’, veniva
fuori. Questa cosa produsse una serie di effetti dai quali abbiamo fatto molta fatica a liberarci, sia
all’interno sia all’esterno. Innanzitutto vediamo gli elementi positivi: la rivista ha cominciato ad
essere molto più letta dentro al cosiddetto movimento. Già le cose erano andate bene con il numero
su Panzieri, ma l’intervento di un personaggio molto efficace e affascinante intellettualmente (forse
un pochino meno politicamente) come era Negri, produsse che la rivista comparve dappertutto, in
bancarelle, in tutti i luoghi movimentisti. Di colpo, Aut Aut fu ritenuta una delle riviste di sinistra:
forse lo era, ma a quel punto abbiamo avuto il battesimo. Quindi, in un certo senso, grazie a Negri,
ma non grazie in altri sensi. Avvenne un casino bestiale all’interno della rivista, molti dissero che
non ci stavano, specialmente alcuni del nucleo storico di Aut Aut: per esempio Guido Neri, che
adesso insegna a Verona, era allievo di Banfi e se ne stava un po' a coté della rivista insieme ad un
altro che si chiamava Rozzi, il quale si occupava di psicologia del lavoro. Erano tutte persone di
sinistra, non erano di destra: la rivista era fatta da intellettuali più o meno giovani, ma di sinistra;
però questo fatto di essere sponsorizzati provocò delle reazioni. Tutto ciò dando a Negri la capacità
di una magia, che forse ha avuto: io poi ne so qualcosa. Sulla base del mio sartrsimo, io pubblicai

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perfino da Feltrinelli Dominio e sabotaggio di Negri, e lì ho rischiato anche di più: gli unici casini
politici veri dopo il 7 aprile li ho avuti per questa cosa qua.

- Non ci si aspettava questo impatto nel momento in cui è uscito questo testo di Negri su Aut Aut?

No, non ci si aspettava un impatto così grande e che duri fino ad oggi: c’è gente che se lo ricorda
ancora adesso. Io ho avuto molte difficoltà ad entrare in università per questo motivo qua. Dal
momento che a Milano ero precario, io dovevo cercare di andare da qualche parte: finito il
precariato, o cambiavo mestiere oppure, facendo dei casi precisi, sono dovuto stare in anticamera a
Torino, a Venezia, a Scienze Politiche di Milano, perfino a Trieste (dove poi mi presero, ma per
anni fui un sorvegliato speciale). Tutte queste situazioni erano legate a questa sorta di gemellaggio
con Negri che passava attraverso la visibilità che la rivista aveva dato. Che io fossi suo amico era
vero, perché poi ci incontrammo in certi progetti mai fatti legati alla Fondazione Feltrinelli, ma
queste cose non erano risapute. Forse un altro aspetto della visibilità erano anche gli Opuscoli
Marxisti. Ma, comunque, l’elemento più eclatante fu legato a questo episodio, al fatto che noi
avevamo scritto sui bisogni e che Negri ci aveva decodificati politicamente; al che noi avevamo
riposto che queste robe se le stava sognando, o, almeno, che in parte se le stava sognando,
comunque in parte andavano in tutt’altra direzione: però le risposte non se le ricorda nessuno,
mentre il pezzettino di Negri se lo ricordavano in tanti. Quindi, doppio effetto negativo sul doppio
esterno. Ad esempio, per il fatto che in seguito io personalmente ho avuto molta fatica a stare
nell’università e ovunque poi sono stato uno sospettato; magari si diceva: “Ma questo è moderato,
ragionevole, si può parlare con lui, ma forse fa finta e prima o dopo spaccherà qualcosa”. Perché a
Padova Negri e i suoi si erano creati un clima insostenibile, proprio dentro all’università intendo:
erano considerati un nucleo di ferro che aveva preso in mano l’Istituto di Scienze Politiche, e lì
erano loro che comandavano.
Forse Negri ci credeva a quello che aveva scritto rispetto ad Aut Aut, grazie anche alla Tomassini.
Quando prese atto della questione del pensiero debole mi mandò da Rebibbia una cartolina in cui,
un po’ ironicamente, diceva che avevamo tradito la causa. Noi? Non c’erano dubbi che si andava da
una parte all’altra, non c’era un manipolo di militanti di Aut Aut. Mentre, in realtà, con il pensiero
debole io continuavo tutta un’altra storia, che era proprio quella, in sostanza, del lasciamo stare il
calarsi il passamontagna (frase di Dominio e sabotaggio): insomma, non calarsi il passamontagna
nella filosofia. Il rischio era, come succede nelle teorie dei buchi neri, di entrare da una parte e
trovarsi di colpo dall’altra, nell’opposto di dove si pensava di essere. La mia idea è che sia
necessario premunirsi, difendersi, fare esercizi di indebolimento del potere che continuamente ha la
teoria, che continuamente prende questo effetto di verità, che accelera le questioni, le semplifica, le
riduce quando invece sono complesse: se non si sta attenti a questo ci si ritrova dall’altra parte; ci si
poteva ritrovare amico di Craxi, del decisionismo, oppure ci si potrebbe ritrovare oggi chissà dove.
Attualmente lo scenario politico ufficiale è un po’ strano. Oggi a destra non si pensa, non è mica
vero che la destra sa fare cultura: allora tutti hanno pensato che sarebbe stato bello, tutti i vari
Cacciari che spingevano sul fatto che in fondo una cultura di destra venisse fuori. Mi sembra che sia
una cultura d’accatto sul mercato: l’idea di mercato spappolata, con degli agganci alla realtà, ma
non è che ci sia molto altro.
Forse tutto questo poi aveva a che fare anche con il mai abiurato cattolicesimo di una certa parte
della sinistra, ivi compreso Toni Negri, sul quale questo discorso dell’indebolimento andava a
colpire una zona molto delicata. Si veda anche a certi accenni di guerra che ci sono stati
recentemente, per esempio rispetto a Vattimo o alla mia micro-uscita sull’enciclica: queste cose
hanno prodotto l’immediato intervento nel caso di Vattimo delle gerarchie, che evidentemente non
vogliono saperne, nel caso mio di Viano, che sul Corriere ha scritto “questo qui è matto, che cosa
vuole?, è farneticante, un amico del Papa, dogmatico”. Tutto questo solo perché mi ero permesso un
po’ di ironia: forse non si capiva che quel pezzo era ironico, ma resta il fatto che bisogna saper
leggere. Avevo fatto un po’ di ironia dicendo al Papa: “Parli di filosofia? Guarda che ti metti in un

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bel casino; fatelo pure, però poi non è che trovate San Tommaso, non trovate solo questo, potete
anche trovare dell’altro, non potete far fagotto in cinque minuti del pensiero contemporaneo: allora
a questo punto ne parliamo.” Era questo il senso, un finto dialogo, però forse non sono temi di
ironia. Quindi, secondo me, c’è anche questa componente di una certa intransigenza cattolica che io
non ho mai avuto, non sono di cultura cattolica, questo è uno dei punti che vanno messi in chiaro.
Dunque, non essendo di cultura cattolica, sono anche più libero eventualmente di dialogare con la
cultura cattolica (sembra un paradosso ma è così), e d’altra parte non ho mai avuto questi
annodamenti riguardo alla nozione di verità, come aveva per esempio Roberta Tomassini, che era in
lotta con la sua formazione e la sua cultura. In una parte della sinistra è venuto fuori questo
elemento del piacere della verità, come raddoppiamento e riproduzione di una formazione culturale
che aveva dentro di sé già solidificata questa idea di verità, che naturalmente non veniva più
presentata in termini diretti, ma era un problema da risolvere. Un personaggio come Sofri che non
era simpatico a nessuno allora, e che continua a non essere simpatico a nessuno, è un esempio di
questo. Oggi è certamente intelligentissimo quello che esprime, dice, poi c’è la sua storia personale
che avvalora quello che scrive e dice; ma, in realtà, perché si dice che è presuntuoso (per dirla nel
linguaggio comune)? Sofri è antipatico a tutti perché si dice che sia presuntuoso: cosa vuol dire? Poi
tutti gli riconoscono che è molto intelligente, che, per sua sfortuna, ha tempo di leggere parecchio,
che è una persona che ha la capacità loica di articolare le questioni, addirittura di romperle in
quattro. La questione dell’apparenza e della supposizione di presunzione è il fatto della tonalità
della detenzione della verità; il tono dell’intervento, che è quello che già fin dall’inizio si annuncia
come quello che possiede un pezzo di verità di cui tu dovrai essere messo al corrente. Questo è un
altro esempio, se si vuole banale, del perché, secondo me, è stato ed è importante il pensiero debole,
e del perché è stato ed è finora un’occasione perduta. Perché poi questo debole ha messo in crisi,
come si voleva che fosse, tutti quelli che sentendosi in cuor loro forti, hanno detto: “Ma cosa
vogliono questi qua?” oppure “Sono contraddittori, perché mentre dicono pensiero debole pensano
ad un pensiero fortissimo, è tutto un trucco per insinuarsi”. Se fosse così, se fosse un’arte della
battaglia orientale, sarebbe anche interessante, ma non è questo. E’ semplicemente il fatto che, in
definitiva, l’indebolimento di questa nozione di verità permetterebbe alcune cose, e le ha permesse.
Perché secondo me si potrebbe leggere anche la storia della sinistra degli anni ’60, ’70 e ’80 proprio
come una specie di grafico, di salita e discesa, in cui ci sono anche queste aperture; poi, invece, ci
sono le prese di posizione di chiusura: il movimento delle donne la dice lunga su questa faccenda. A
Milano c’è ancora un nucleo forte, storico del movimento delle donne (Libreria delle donne, Via
Dogana eccetera) legate alla differenza di genere: questo certamente non ha nulla a che fare con il
pensiero debole, comunque sia. Anche Luisa Muraro ha scritto su Aut Aut, perché lei è una persona
intelligente: se tu applichi davvero il mio discorso, puoi anche fare parlare quelli che tu ritieni non
dico i tuoi avversari, ma gli intelligenti con cui puoi dialogare. Rimando ad un fascicolo della rivista
sull’irrazionalità uscito alla fine degli anni ‘70, in cui ci sono tantissimi interventi di tanti, tra cui
Cacciari: Lea Melandri scrisse un articolo attaccando il maschilismo di Negri. Ora non so se queste
categorie di maschilismo o non maschilismo funzionano, però indubbiamente anche lì c’era questa
faccenda di cui parlavo prima. Il cosiddetto spirito del ’68, che io cerco di evocare in quel recente
numero di cui parlavo prima, sono molto più in linea con quell’elemento destrutturante che non le
posizioni alla Cacciari, con cui pure ho tenuto degli ottimi rapporti, ma siamo sempre stati
consapevoli di essere su sponde opposte.

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INTERVISTA A PIER ALDO ROVATTI – 6 GIUGNO 2000

- La scorsa volta aveva parlato della presenza in Aut Aut di persone provenienti dall’esperienza
operaista (aveva ad esempio citato i nomi di Piana e Daghini): qual era, tra la fine degli anni
’60 e gli anni ’70, la composizione e il dibattito interno alla rivista? A sua volta, qual era il
rapporto tra Aut Aut, e più in generale l’intellettualità, e i movimenti?

Non è facile la sintesi, perché la differenza tra le cose che si raccontano dopo tanti anni e quelle che
avvengono è che le cose che avvengono, tornando a quelle cose lì, sono in gran parte casuali: poi
dopo tanti anni uno le mette insieme ma rischia anche di fare delle polpette ideologiche. Avevamo
già parlato del fatto che Aut Aut fin quando c’era Paci era una rivista che non voleva essere
accademica, quindi stava a cavallo, quando arriva il ’68 la rivista è molto sensibile e pubblica un
numero su quello; nel frattempo Paci aveva anche aperto il discorso “che farne di Marx?”. Però,
fino a quando c’è Paci, cioè fino ai primi anni ’70, non c’è una pratica redazionale della rivista: in
sostanza è lui che la fa, servendosi delle persone che ha più vicino, innanzitutto delle due persone
che ha più vicino e per un certo periodo poi di una, che sono io (l’altra era Veca), e comunque
facendo da lui. Quando poi Paci lascia la rivista, ancora prima di morire (perché in sostanza la
delega, però non solo per questo, ma per il fatto che c’è la pressione degli avvenimenti), allora la
redazione diventa aperta, io la chiamerei proprio così. In un secondo momento poi si struttura,
infatti da un certo punto in avanti, direi proprio dalla fine degli anni ’70 inizio ’80, si definisce un
gruppo di persone che vengono poi nominate sulla rivista stessa e che più o meno, con variazioni,
sono le persone che ci sono anche oggi. Negli anni ’70 avviene un fenomeno interessante, che va
abbastanza al passo con altre realtà di questo genere: in sostanza la rivista, che inizialmente è
collocata a sinistra già per riconoscimento precedente, che ha una posizione fortemente
antidogmatica, ha una sensibilità e una credibilità critica. Dunque, ci sono due elementi: uno è la
sensibilità e l’altro è il fatto che si suppone, da parte esterna, che la rivista abbia degli strumenti di
elaborazione teorica, e da questo punto di vista c’è una garanzia maggiore. La differenza tra
Quaderni Piacentini (che allora era la rivista di riferimento) e Aut Aut, è che su Quaderni Piacentini
si andavano a leggere gli interventi, i documenti, le prese di posizione e via dicendo, però non si
attribuiva ad una rivista del genere un cervello: la cosa curiosa di Aut Aut è questa, ossia che in
definitiva la rivista è considerata un luogo di elaborazione teorica. Quale sia poi il risultato di questa
elaborazione è difficile dire, ma certamente tutto quello che accade intorno alla questione dei
bisogni e alla teoria dei bisogni è forse il nucleo di riferimento: ci sono molti numeri della rivista
che poi tengono conto di tale questione, io isolerei questo come il punto forte della faccenda. La
teoria dei bisogni, Marx e la teoria dei bisogni, la teoria dei bisogni rispetto al dibattito che c’era in
Italia e che poggiava piuttosto sulla parola desiderio (Bologna ecc.) nel ‘76. E poi rispetto a tutta la
storia della rivista, perché era stato Paci che aveva avviato un discorso sulla fenomenologia del
bisogno, quindi anche sulla radicalità del bisogno, sul carattere non economicistico della parola
bisogno e via dicendo. Quindi, è su questo background che possiamo chiamare, per intenderci,
teoria dei bisogni, o teoria dei bisogni radicali, che avviene l’aggregazione: in sostanza accade il
fatto che Aut Aut diventa un polo di aggregazione. Di chi? Intanto Piana e Daghini non c’entrano
niente, sono figure assolutamente esterne alla rivista, anche se vi hanno scritto, ma negli anni ’70
loro non ci sono. Invece compaiono altri personaggi: compare un gruppo di persone che vanno dai
più giovani (che potevano venire attraverso il canale università), a intellettuali già operanti (che
venivano dall’esterno, da Milano stessa, o anche da luoghi non milanesi), e certamente la parola che
aggrega è operaismo. Per cui avviene, per un po’ di anni, questa identificazione tra Aut Aut e una
rivista che tutto sommato si è collocata nei dintorni dell’operaismo. Ciò comporta tante cose,
certamente l’episodio Toni Negri ha a che fare con questo. Faccio un nome che è comparso poco
sulla rivista ma che ha accompagnato alcuni anni di queste nostre riunioni (le quali erano aperte, per
cui una volta ci potevano essere venti persone e un’altra trenta, erano un po’ delle piccole
assemblee, in cui poteva venire anche una persona che non era stata invitata): Lapo Berti. Questi è

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stato uno che è venuto spesso alle riunioni, ha anche scritto qualcosa sulla rivista (non molto), ma
era presente. In un certo senso, non lontano dalla rivista faccio un altro nome di una persona che
non è quasi mai comparsa, ma con la quale ci si riuniva e confrontava: Giacomo Marramao, che ha
avuto una fase precedente in cui era molto vicino ai temi di movimento. I rapporti erano con
Bologna, e lì il riferimento era con un personaggio che adesso è diventato ordinario di filosofia
della politica o qualcosa del genere: si chiama Gustavo Gozzi, il quale si occupava di teorie
politiche. C’era Firenze, in cui faccio il nome di Lapo Berti. Poi c’era Torino, in cui i nomi
certamente erano i Lanzardo, più lui che lei, per quanto lei poi fosse una mia collega di università. I
due momenti in cui la rivista tocca argomenti di tipo politico (al di là del saggio su Marx, la scuola
di Francoforte ecc.) sono uno la questione dell’Est e due il fatto che a un certo punto ci mettiamo in
mente di fare un numero su Panzieri, numero che è stato un po’ mitico per la rivista perché poi è
stato un punto di riferimento. Per quello che riguarda l’Est, evidentemente la questione era una
critica da sinistra del socialismo realizzato, molto anticipata, come forse si noterà, sui tempi in cui
poi tutte queste questioni si sono diffuse fino agli eventi più recenti, il muro di Berlino che cade ecc.
E qui il collegamento era appunto con questi che si erano autodefiniti scuola di Budapest, e
fondamentalmente con una coppia, nel senso che erano marito e moglie: una era Agnes Heller, che
con questo piccolo libro sui bisogni in Marx aveva fornito un dato importante per noi, e l’altro era
Ferenc Fehér, il quale era il marito, ha scritto qualcosa su Aut Aut, si occupava di estetica e di
letteratura. Insomma, i riferimenti erano questi qua: quando dico riferimenti, dico persone che a loro
volta entravano in contatto con altre. C’è stata una fase in cui la rivista aveva molti poli, era
presente in molte città e in ogni città c’era un punto di riferimento: oggi non è più così, ora la rivista
è Milano-Trieste, ma poi potrebbe essere qualsiasi altro luogo. Invece in quel momento la
situazione era di ascolto delle realtà, che poi sono anche diverse, non sono solo queste due, ma
queste due sono quelle che in qualche modo hanno fatto il dibattito della rivista. Quando
organizziamo il numero su Panzieri, quasi fisiologicamente si avvicinano ad Aut Aut Franco Fortini
ed Edoarda Masi, un po’ transfughi da Quaderni Piacentini: si erano un po’ rotti le scatole, non so
per quali motivi, tutto sommato forse per una sorta di sfilacciamento della situazione, e invece
vedono in Aut Aut un luogo in cui ci si può concentrare. Quindi, anche il discorso sulla Cina che
Edoarda Masi fa, o ci aiuta a fare, nel poco che la rivista ha parlato di questo, è un discorso che si
allinea parecchio con quello di critica del socialismo realizzato dell’Est europeo. Fortini porta se
stesso e il suo ingombro, perché era un personaggio ingombrante: veniva alle riunioni, faceva
numeri, si arrabbiava con i giovani, con il fatto che alcuni di noi erano abbastanza inclini al mondo
francese, invece lui considerava questo l’ideologia francese. Insomma, con Fortini c’è stato un da
discutere che è andato avanti per molte riunioni; lui ha tenuto per qualche fascicolo della rivista
(sono testi molto interessanti) una serie di scritti (due o tre) sui “cainiti”: oggi si parla del male, lui
ne parlava con questa figura dei “cainiti”, che sarebbero i discendenti di Caino, quindi del fratello
cattivo. Dopo di che c’è un fenomeno osmotico, in tutte le situazioni di movimento, sui banchetti
compare Aut Aut: d’improvviso, senza volerlo troppo, senza esserci messi in una posizione politica,
la nostra presenza esiste nella visibilità del movimento. Per cui tante volte, quando si sono fatte le
storie delle riviste di sinistra, si è passati anche da Aut Aut. Ma l’unica posizione che io mi sento di
dire che è stata sempre tenuta da Aut Aut è una posizione di forte antidogmatismo: quindi, il
marxismo-leninismo, inteso come posizione dogmatica, sulla rivista non è mai passato, ma neanche
vagamente, è sempre stato preso a cannonate.
Quale poteva essere la congiunzione tra Aut Aut e l’operaismo? A parte il fatto che c’erano dei
personaggi che potevano avere interessi anche politici a venire, poi magari lavoravano anche su Aut
Aut, qualcuno c’era; ma, andando più al fondo delle cose, il rapporto era sulla questione del
soggetto. Traduzione più o meno affrettata, più o meno per scorciatoie: comunque, era nella
posizione cosiddetta operaistica, e quindi nella posizione anti-istituzionale. Ecco, la posizione di
Aut Aut si identifica con una posizione anti-istituzionale (l’istituzione può essere anche il partito).
Quindi, per una certa fase, noi siamo vicini anche al Manifesto, o meglio, non è vero che noi siamo
vicini al Manifesto, è il Manifesto che si avvicina. In sostanza, Aut Aut è lì, in questa strana realtà di

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una rivista di filosofia che si impegna e che è presente, più o meno volendolo, nelle pratiche di
movimento, e le parti organizzate del movimento come si chiamava allora extraparlamentare, si
avvicinano anche a tratti alla rivista. Dico il Manifesto, perché quando la Rossanda, nella fase
appena precedente la fondazione del quotidiano, quando c’era Il Manifesto mensile (nel formato che
adesso credo sia stato ripreso), propone un dibattito che passa anche attraverso Sartre, in cui si
contrappone l’idea di collettività vivente a quella di strutturazione istituzionale (dove c’è anche di
mezzo, se si vuole, Rosa Luxemburg, si può andare da tutte le parti), quando si ridiscute la tematica
classe-partito in questi termini di movimento, è chiaro che chi aveva parlato di Sartre nelle riviste
importanti italiane? Noi. Si creano questi collegamenti che non sono forti, ma le posizioni politiche
passano anche attraverso un luogo di elaborazione filosofica più o meno in fusione, come direbbe
Sartre (infatti neanche in Aut Aut c’era una strutturazione, come dicevo prima c’era questa sorta di
micro-assemblearismo), e hanno delle congiunzioni, per cui ce le abbiamo con il Manifesto, con
Lotta Continua, oltre che quelle con l’operaismo in senso più o meno stretto. Ma ogni volta che
queste congiunzioni diventano strette c’è anche una lacerazione. L’episodio di Negri che raccontavo
la scorsa volta è stato quello di lacerazione: come ne siamo usciti? Prendendo le distanze. Dopo di
che avvenivano anche degli episodi interni.
Oggi questa cosa non sarebbe più possibile, è tutto cambiato: guardando le realtà culturali, perfino i
quotidiani hanno una funzione di sismografo rispetto a quello che accade, al dibattito importante
ecc., tutti sono alla ricerca, in forme più o meno serie, dello scoop teorico. Allora la questione era di
uscire da una compattezza di tradizione di pensiero, che poi come sempre si traduceva in formule,
immettendo in questo corpo compatto delle estraneità. Certamente il fatto di dire che Marx era un
teorico dei bisogni era un’estraneità, perché la Heller era trattata, per esempio da Quaderni
Piacentini, come idealista. Perché idealista? Perché questa diceva nel suo libro che non è tanto
importante la questione economica, quanto è importante una questione ancora più radicale, che è
quella dei bisogni radicali del soggetto, e fino a quando le due questioni si mettono nell’ordine
opposto non ne usciamo fuori: faceva vedere queste cose, secondo lei, in Marx, perfino nei famosi
Grundrisse, che erano il testo magico (testo importante, ma anche magico, perché poi andandolo a
leggere è difficile cavarne tutte queste bandiere, o bandierine, che ci si attaccavano sopra). Mi viene
in mente un dibattito interno che fu abbastanza doloroso e lacerante per la rivista, perché portò
all’uscita di alcuni e all’arrabbiatura secca di altri, compreso Fortini: l’episodio girò intorno ad un
testo di Furio Di Paola. Questi era un personaggio che si era aggregato alla rivista venendo da
Napoli, e venendo da un’esperienza in parte situazionistica e in parte attraverso una tangenza con
Lotta Continua: ciò per dire che veramente l’aggregazione era polimorfa. Questo Di Paola arrivò e
aveva scoperto Baudrillard, come poi fece di lì a poco Formenti, che non c’era ancora: anche lui si
avvicinò ad Aut Aut per via di questa sorta di alone operaistico, ma non ci fece nella rivista dei
lavori di tipo operaistico, ma di tipo eccedente. Della vecchia guardia c’era anche Gambazzi, che
per altro era anche lui su una posizione diversa, nel senso che quando Rosso fu preso in mano dagli
operaisti lui si sentì tradito perché, insieme a Màdera ed altri, aveva fatto un altro tipo di giornale.
Insomma, c’è un intreccio che è la storia difficilissima da descrivere di quel periodo, di cui
bisognerebbe fare delle biografie, andare a prendere tutti questi personaggi, fare l’elenco e fare una
specie di dizionario, ma sono molti di più di quelli che crediamo che siano: viene fuori un tessuto
(che poi è forse esattamente quello che volete fare voi) molto articolato, molto difficile da snodare.
Aut Aut è in realtà una specie di luogo in cui questa tessitura (diciamo così, per andare avanti con la
metafora) avviene forse più facilmente che altrove perché non c’è nessun tipo di contenitore, noi
eravamo attenti a qualsiasi movimento di sinistra. Dunque, non c’era nessuna preclusione, voglio
dire che era per la sinistra movimentista una posizione di servizio, di luogo in cui potevano
accadere dei dibattiti, in cui quello che si diceva poteva essere utile per smontare alcuni pregiudizi,
per rompere certe durezze, per aprire gli occhi di fronte magari ad uno sguardo troppo stretto.
Quello che accadrà dopo rimarrà ancora quello, solo che non ci sarà più il movimento. La storia
successiva di Aut Aut, dagli anni ’80 in poi, è quella di una rivista che si pone come uno strumento
di servizio per una cosiddetta coscienza più o meno microfisica, alla Foucault, che non è aggregata

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in nessuna idea di movimento; questo comporta anche il declino di Aut Aut, perché negli anni ’70
aveva molto più successo, funzionava molto di più. Adesso è una rivista che non va male, ma ora la
rivista che ha successo è MicroMega, ma per tutti altri motivi, perché oggi per avere successo devi
passare attraverso a una gran cassa dei media; allora non ce n’era bisogna, allora c’era veramente il
messaggio nella bottiglia, perché le bottiglie poi venivano raccolte dal cosiddetto movimento,
mentre, secondo me, oggi pochi le lanciano e nessuno le raccoglie più, col che è diventato molto più
difficile fare la rivista. Torniamo all’episodio di Di Paola: arrivato lì, ad un certo punto, forte delle
sue letture di Baudrillard, ci presenta un saggio intitolato Contro la dialettica. Questo crea un
casino infernale, perché in definitiva c’era una sorta di miscuglio in Aut Aut: la voglia di
cambiamento e di arricchimento delle nozioni e della categorie, ma anche la resistenza su certi
fronti. Questa cosa della dialettica fa scoppiare una serie di opposizioni e di conflitti: io decido che,
anche se ci sono questi casini, l’articolo deve uscire lo stesso, e alcuni se ne vanno. Avviene una
scissione all’interno, in cui i più arroccati su posizioni tradizionali dicono, per tradurlo in uno
slogan, “la dialettica no, toglietemi tutto ma non la mia dialettica”. Devo dire che poi, alla luce dei
fatti, questi qui che difendevano la dialettica avevano torto, perché invece occorreva sperimentare.
Furio Di Paola oggi è diventato uno che si occupa di neuroscienza, è recentemente uscito un libro
per il Manifesto, è tornato vicino ad Aut Aut, ha pubblicato due o tre cose (perché poi ci sono questi
ritorni).
Adesso noi ci siamo un pochino più attrezzati ad intervenire sul discorso della psichiatria, ma allora
non mi pare che ci fosse stato mai un fascicolo su questi temi; però, se noi fissiamo chi è Basaglia e
il carattere anti-istituzionale del suo movimento, abbiamo abbastanza l’idea di cosa potesse essere
Aut Aut in quel momento. Non è un caso che Basaglia si fosse formato attraverso apporti di tipo
fenomenologico, da Husserl a Sartre; se non ha scritto su Aut Aut è stato semplicemente perché non
scriveva o faceva dell’altro, ma le storie, con il senno di poi, sono molto parallele. Poi non è un caso
che quando io inizio ad andare a Trieste, negli anni ’70, venga avvicinato da questo gruppo di
Basaglia. Tutti leggevano Aut Aut, questo era il punto: per questa capacità di non ripetere delle
formule, se ci riusciva, di aprirsi moderatamente, o non moderatamente, anche in modo smodato, a
varie ipotesi. L’atteggiamento nostro non era mai quello di dire no, ma dire: “AntiEdipo? benissimo,
vediamo di cosa si tratta”; poi dopo Lacan, Fortini che odiava i lacaniani, invece poi è stato
importante. Ecco, c’è stata questa curiosità verso quella che oggi ci risulta la ricchezza incredibile
del lavoro teorico negli anni ’70, anche filosofico, di cui ancora oggi ci nutriamo, perché io che poi
faccio anche un lavoro di consulente editoriale vedo che oggi non è che giri tanto, e alla fine quello
che si fa è di andare a riscoprire il testo importante di Lévinas piuttosto che qualcos’altro del
genere: insomma, non abbiamo ancora finito di scoprire. Questa è la cosa che io vorrei dire proprio
a chiare lettere: l’opinione dominante è abituata a considerare quello un decennio da scansare
perché ha prodotto gli anni di piombo, perché ha prodotto un’accelerazione e un’estremizzazione
della politica verso la lotta armata: dunque, dimenticare gli anni ’70. Bene, però se noi
dimentichiamo gli anni ’70 dimentichiamo cosa è stato quel periodo. Io credo che ci fosse una
specie di gioco di sintonia tra l’enorme curiosità a livello di un numero molto grande di giovani più
o meno intellettualizzati, più o meno politicizzati, verso un qualche cosa che fosse un dato di
pensiero, un da pensare, e l’elaborazione di questo pensiero che avveniva davvero, magari non
sempre in congiunzione stretta, presso i grandi maître francesi, per esempio, ma non solo loro. Gli
anni ’70 sono stati un momento di una felicità teorica incredibile, è stato un laboratorio di idee.
Prendiamo il caso di Deleuze: non abbiamo ancora finito di scoprirlo, è un autore che adesso si
ricomincia a leggere, poi ora l’abbiamo tradotto ancora un po’ di più, io all’università vedo che c’è
una grande voglia di fare delle tesi su Deleuze, è un autore difficile, che sfugge un po’ di mano.
Domanda: sarebbe mai esistito Deleuze senza tutto quello che stiamo dicendo, e viceversa? No, io
non credo: se c’è Deleuze è perché c’è una spinta al lavoro critico del pensiero sulla realtà, per
produrre luoghi in cui pensando in un modo diverso riusciamo ad essere anche più liberi. Insomma,
mettiamoci dentro la parola libertà, spazi per pensare come io poi li ho chiamati recentemente, ossia
la creazione di spazi per pensare: questa è l’operazione enorme che viene fatta in quegli anni lì, in

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cui c’è una produzione di spazi per pensare che sembra inversamente proporzionale alla chiusura
degli spazi politici. Ci sono delle gabbiette che i veterinari usano per metterci i gatti cattivi e fargli
l’iniezione: se io guardo politicamente gli anni ’70, vedo questa situazione qui, come dire sei un
gatto in gabbia, non erano topi ma gatti, quindi con anche un essere felini. Per cui ad un certo punto
non ne esci, perché una volta che sei entrato in questa idea stretta di rivoluzione non puoi uscirne,
sei obbligato a fare la rivoluzione. Non so se si è percepito questo elemento psicologico anche nei
racconti dei protagonisti della lotta armata, delle BR ecc.: si ha sempre l’impressione che qualcuno
riesca ad uscire da quella gabbia lì, ma che la gran parte sia stritolata da un meccanismo di
automantenimento nella gabbia, per cui l’unico passo che puoi fare è verso una clandestinità ancora
più clandestina, verso una lotta che sia ancora più dura e ancora più armata. Non puoi fare altri
passi, e se fai altri passi tradisci. Questo lo dico anche per la mia esperienza personale: io non sono
mai stato un militante in senso stretto, ma ho vissuto questo problema dei passi a lato. Quando
venne fuori la questione del pensiero debole, mi sono sentito io, ma mi sono sentito anche dire: “Ma
tu non potevi fare questo passo, tu hai in qualche modo “tradito” il luogo della rivoluzione”. Allora,
certamente non sta tutto in questa immagine, ma ci può stare qualcosa: da una parte abbiamo questo
stringimento, e dall’altra parte abbiamo una ricchezza formidabile. L’esperienza che io ho vissuto
attraverso Aut Aut è in parte (perché non voglio dire che Aut Aut fosse il centro del mondo) quella
della ricchezza formidabile. Noi avevamo l’impressione che c’era da mettersi lì a pensare a una
quantità di cose, lavorare, costruire laboratori: sono esperienze che erano anche di altri, se si parla
con Sergio Bologna probabilmente dice, magari su temi precisi, molto più circostanziati, che era
anche l’esperienza della sua rivista. Era sessantottesca, questo era il ’68 in qualche modo nella
nostra testa: questa apertura di schemi nella testa era avvenuta lì, questo diritto a pensare, e quindi
moltiplicazione degli oggetti da pensare, era avvenuta lì. E dentro la rivista per un po’ di anni si è
avuta questa bella sensazione, ma forse anche ripetendo formule dello stare assieme, perché poi ad
esempio mi ricordo di una volta che abbiamo fatto una riunione in Trentino su un prato, cose che
oggi farebbero ridere, perché uno può pensare che in qualsiasi posto sei se hai delle cose da dire le
dici: c’era insomma questa idea del collettivo, del gruppo che si fondeva senza costituirsi, senza
darsi le regole.
Con il rapporto con il gruppo dell’Est, o anche con altri personaggi e intellettuali, ci si sentiva non
isolati, quando ospitavi la voce di questi anche tu eri là, quindi c’era un allargamento degli spazi.
Verso la fine degli anni ’70, un altro riferimento poi è stato Foucault. Lo stesso Lapo Berti, la
Procacci (che adesso penso che sia a Parigi), Dal Lago spingono, quindi poi il primo dei due numeri
su Foucault è in qualche modo anche un risultato di questo lavoro: su Foucault c’eravamo trovati
molto in sintonia tutti quanti. C’è da dire che se c’è stato un autore che ci ha uniti è stato Foucault,
che ha raccolto questa voglia di uscire dalle strettoie del Marx e delle sue formule, ma di non essere
anti-marxista. Dopo di che, quando poi arriva Dominio e sabotaggio, è un sasso che viene tirato in
testa anche ai foucaultiani: c’era sempre questa mina vagante del filosofo Toni Negri che lanciava
le sue cannonate che erano molto distruttive, da un certo punto in poi impedivano di continuare a
pensare, mettevano dei bastoni tra le ruote, producevano accelerazioni mentre era cominciata la fase
opposta, quella della devolution (come direbbe Bossi), della decelerazione. Noi avevamo decelerato
e avevamo rallentato, cioè avevamo cominciato a pensare che la questione era quella di lavorare in
una situazione di rallentamento dei ritmi: pensavamo che non ci fosse un fenomeno che producesse
automaticamente un suo abito politico, quindi bisognava fare degli altri giri. In poche parole, e
questo è anche il problema di oggi, bisognava capire dove eravamo. Allora Baudrillard, Foucault,
Lacan, andavano bene tutti, ossia queste cose (fatte seriamente) andavano bene per cercare di capire
qualcosa in più sia del luogo, in senso sociale, in cui si era (in questo senso Foucault permetteva
qualche dritta), sia della questione del soggetto, che non poteva essere inchiodata a se stessa, quindi
ecco Lacan e questi altri contributi di pensiero che vengono filtrati all’interno della rivista: la
questione dello spostamento del soggetto, come si diceva allora, la questione dell’alterità, la
questione dello spaesamento. Sono temi che dopo sono molto maturati dentro la rivista, fino ad

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arrivare ad adesso che il prossimo numero sarà intitolato Una politica senza luogo, fatto da un
gruppo di lavoro italo-finlandese collegato a Genova al giro di Dal Lago.
Come risposta io darei questa, in cui mi rendo conto che non ho fatto l’elenco di cose specifiche, ma
ho dato un clima. D’altra parte io non penso che si possa dare altro che un clima, perché non
abbiamo tenuto verbali di quelle riunioni, perché non c’era la voglia dell’archivio come c’è oggi, la
voglia dell’autorappresentazione: probabilmente si è perso anche tantissimo, ma poi di queste cose
se ne parlava un po’ dovunque, perfino ai festival dell’Unità. Mi ricordo che questa questione dei
bisogni fu al centro di un dibattito qui a Milano molto acceso in cui c’era il direttore di Città Futura,
che adesso è diventato un liberal spaventoso, fu un personaggio importante della FGCI ed era molto
aperto: c’era un’ala della FGCI, di giovani comunisti istituzionali, che era molto attenta. Aut Aut era
preso in considerazione seriamente anche dal Partito Comunista e dalle sue emanazioni culturali:
Spinella, per intenderci, personaggio che poi ritroveremo in Alfabeta, certamente era un lettore
molto attento di Aut Aut. Dunque, c’erano molti legami, per cui questa rivista era decisamente
trasversale. Se vogliamo dire era trasversale perché non era niente di preciso, e questo potrebbe
essere il limite, cioè uno potrebbe dire “per forza, bravi furbi, non avete mai dichiarato dove
stavate”: ma noi non volevamo, non potevamo neanche, perché eravamo molto diversi tra di noi, il
gruppo era veramente diversificato. Questa diversificazione poi certamente ha avuto qualche tipo di
marcatura, come appunto questa coloritura operaistica, ma se poi andiamo a vedere bene, non è che
corrisponda: se andiamo a leggere cosa ha fatto una rivista di questo genere, non è che si trovi poi la
traduzione di questa faccenda. C’è stata questa coloritura operaistica, c’è stata anche
un’identificazione: però l’identificazione non era l’identità della rivista (proprio allora
pubblicammo un saggio su identità e identificazione, dicendo che sono due cose completamente
diverse). Noi siamo stati targati in quel modo lì, il target della rivista è poi diventato quello, ma la
sua identità era molto più mobile, molto più variegata, molto più stratificata e molto più legata alle
imprese che di volta in volta si riuscivano a fare, certamente non sempre, a volte poi i fascicoli
erano non dico di routine ma abbastanza inerziali, perché non è che si possano fare sei fascicoli
all’anno di un determinato tipo, io sono trent’anni che faccio questa rivista ed è una roba micidiale.
Certo, a vedere con gli occhi di oggi quella situazione lì, penso a dove oggi siamo finiti, il nostro
editore è la RCS, la rivista viene pubblicizzata sul Corriere della Sera: finirà questa cosa perché
non può continuare così, ma ci siamo finiti casualmente, in quanto La Nuova Italia l’hanno
comprata. Il carattere di sinistra socialista, pseudo-anarchizzante de La Nuova Italia, fin dalla sua
storia iniziale, ci andava benissimo; il carattere manageriale e da deficiente che hanno questi qua
della RCS non ci va più bene, quindi adesso vedremo cosa fare. Non è facile, perché volevamo
orientarci verso la Feltrinelli, ma vengo a sapere che questa addirittura lancia messaggi di chiusura,
cosa che mi ha sorpreso terribilmente, pare che non vogliano più fare la saggistica. In realtà, tutto
sommato, siamo nell’epoca di Internet, e va bene, in cui non puoi non passare attraverso i media, e
va bene, quindi noi dovremmo essere contenti di essere in questa megastruttura che ci permette di
fare quello che vogliamo, perché non ci danno input sui contenuti: eppure io sono completamente
insoddisfatto e quasi quasi mi verrebbe da pensare che sta tornando l’epoca in cui è meglio far da
soli, ma so che questa è una follia, lanciata così, come messaggio, ma le mie attuali considerazioni
portano lì. Noi probabilmente il prossimo anno faremo una festa di qualche tipo per i cinquant’anni
di Aut Aut, che sono tanti: produrremo una sorta di numero speciale, in cui ci saranno una serie di
riflessioni, anche un indice completo della rivista, poi forse daremo luogo a un incontro pubblico,
chiameremo delle persone per bene che dicano quanto è bella la rivista. Questo perché l’Europa
della cultura e delle conoscenze potrebbe essere il luogo a cui Aut Aut dovrebbe adeguarsi, questa è
la linea: una rivista di servizio di questo genere non può chiamarsene fuori in un terreno da
samisdat, come si diceva un tempo: può diventare uno strumento di diffusione culturale. Stiamo
cercando di fare un fascicolo sulle retoriche dell’Europa: quanto di più divertente ci potrebbe essere
del fatto che l’Europa finanziasse questo fascicolo in cui noi parliamo male dell’Europa? E’
divertentissimo, e sarebbe nella logica delle cose. L’Europa delle intelligenze, una specie di grande
intelletto, magari filosofico. Quindi, cerchiamo di fare bene il sito di Aut Aut, in questo momento

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non c’è, l’avevamo fatto, poi lo abbiamo smontato, adesso lo rifaremo: quello è il futuro. Invece io
penso che il futuro sarà da un’altra parte: penso che la vera rifondazione della rivista potrebbe
essere quella di farla in casa. Le persone che fanno la rivista sono tutte fuori dalle istituzioni, il che
in qualche modo ne mantiene il carattere vecchio. Dopo di che queste qui sono delle ubbie, nel
senso che in questo momento la rivista non ha un pubblico: non si sa chi è il pubblico di Aut Aut, e
bisognerebbe riuscire a capire quale potrà essere. Questo è un discorso per il futuro che ha anche a
che fare con il passato.
Le riviste iniziano, finiscono, specialmente queste qui. Aut Aut non è una rivista di movimento, non
lo è mai stata: è stata una curiosa rivista che ha poi avuto degli intrecci con il luogo del movimento.
Ma ha avuto degli intrecci per via del fatto che la natura di Aut Aut è sempre stata quella di non
chiudersi dentro il dibattito accademico: questo è il punto veramente qualificante della rivista. Le
stesse persone che oggi fanno Aut Aut, magari con il fiato un po’ più corto, con la fatica di farla (è
molto affaticante, c’è un affaticamento che viene dagli anni trascorsi), comunque non derogano su
un punto, che è quello di fare la rivista tanto per farla, in modo che ci sia una buona immagine
esterna, venga un po’ venduta e noi riceviamo magari qualche recensione o, metaforicamente,
applauso: la cosa a cui non si viene meno è che se la rivista deve stare in piedi è che si deve riuscire
a dire qualcosa. Quindi, non è mai venuta meno questa utopia di costruire pezzi di coscienza critica.
Abbiamo fatto un numero sull’università e la riforma, e lo abbiamo fatto con questo tipo di
atteggiamento, e via di questo passo; quel poco che siamo riusciti a dire sulla questione della guerra,
in quel numero che è appena trascorso, lo abbiamo fatto con quell’intento lì. Certo, non è mica
facile oggi. Ieri potevi lavorare con questa sorta di carattere rizomatico (come direbbe Deleuze)
perché avevi davvero un territorio di radici che uscivano e che entravano; oggi non hai alle spalle
nulla, quindi hai continuamente la sensazione del vuoto. Allora, la sirena (nel senso di personaggio
mitico, ma forse anche quella non mitica, che si chiama così per quello nelle fabbriche, non ci
avevo mai pensato ma è divertente) che attira è quella che ti dà una definizione: come ti chiami, chi
sei e stop. Fai un lavoro di storia della filosofia? Benissimo. Quante spinte abbiamo avuto noi
perché diventassimo una rivista più filosofica, e quante controspinte poi ci sono state dicendo no.
Ferraris, personaggio autorevole della rivista in questo momento, credo che la legga con un
atteggiamento di schifo, perché lui vorrebbe invece una rivista che fa ricerca scientifica, filosofica
su temi importanti, come ha fatto diventare la Rivista di estetica, in cui ci sono studi sulla
percezione, sul realismo della percezione: Ferraris pensa che questo bisogna fare oggi, cioè bisogna
fare lavoro scientifico serio sui temi che piacciono a lui. Al confronto Aut Aut fa arte varia. Come
dire: è finito il tempo in cui c’è la rivista che parla di cinema, e magari nel contempo una volta poi
parla anche di psicoanalisi, e poi parla di quell’altro e di quell’altro ancora. No, è quella l’altra
strada, che è legittima ma che secondo me sarebbe un errore assumere.

- La coloritura operaistica di cui lei parlava come era vista allora? Come una delimitazione?

Era vista come una delimitazione, però alcuni ci credevano. Personaggi come la Roberta Tomassini,
la Meriggi, altri di cui mi sfugge il nome che erano milanesi, erano tra quelli che ci credevano,
come dire “facciamola questa cosa”; c’erano quelli come me che facevano gli ecumenici, che
dicevano sì fino a un certo punto, e quelli che invece dicevano no. Ma neppure Fortini diceva sì, nel
tempo in cui c’era. Poi c’erano quelli, come Dal Lago che era appena arrivato in quegli anni, che
dicevano “sì, però bisogna uscire, mettere le mani su cose nuove, vedere il tema dell’inclusione e
dell’esclusione”, cominciava allora questa questione che oggi è diventata la questione teorica
principale, dentro e fuori. Tra l’altro, ho saputo che è uscito un libro di Agamben su questi temi qua.

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- Da un punto di vista interno, all’università e non solo, come analizza i processi di
trasformazione dei modelli formativi e della produzione della formazione? In questo quadro,
come sta secondo lei cambiando la figura dello studente?

Non è che la rivista (ma neanche io) abbia rivolto una riflessione particolare a questo proposito: il
tema c’è ed è importante. Dicendolo rapidamente, è certo che lo studente di Filosofia negli anni ’70
era il referente di questi discorsi, e si supponeva anche che questi discorsi potessero essere formativi
per chi passava per di lì. Una declinazione del tema dei bisogni, di cui parlavo prima come nucleo
della rivista in quegli anni, era certamente quella del bisogno di sapere. Questo comportava la
possibilità di analizzare la figura dello studente, ma anche comportava il fatto che la figura dello
studente si identificasse con questa analisi, quindi dicesse “sì, sono io”, sul piano non tanto e non
solo del diritto allo studio, problema che, come forse si noterà, oggi è scomparso: nell’attuale
riforma, almeno nei documenti che io conosco (ma ne conosco abbastanza, perché in questo periodo
sono molto attento a queste cose), il diritto allo studio è sparito. E’ sparito anche il diritto del non
frequentante: la riforma è una riforma fatta per frequentanti, tra l’altro con contraddizioni, perché
come fai poi a stabilire chi sono i frequentanti? Forse puoi farlo nelle facoltà scientifiche, ma in
quelle umanistiche no. Comunque, a questo punto, l’interesse oggi è rivolto all’acquisizione di
competenze. Non è che negli anni ’70 questo problema non ci fosse, perché adesso io dico qual è lo
sguardo che si poteva attivare attraverso le umanistiche, probabilmente se noi guardassimo le cose
attraverso le facoltà scientifiche la questione c’era già allora. Ma attraverso le facoltà umanistiche,
che erano anche il bacino di produzione di idee rivolte ad un’eventuale riforma dell’università, una
delle cose di cui ci si lamenta oggi è che tutto quello che si è detto di bene e di male di costruzione
di una riforma dell’università è stato liquidato, si è girato pagina e si è detto l’Europa: l’Europa
delle conoscenze, quindi l’adeguazione a questo standard. Invece allora era una battaglia culturale
per mantenere in qualche modo un’eredità del ’68: e cosa aveva detto il ’68? Aveva detto che gli
studenti ad un certo punto si erano sentiti in grado di dire “vogliamo studiare questo piuttosto che
quello”; in modo troppo schematico, troppo rapido, con dei problemi, però era questo. La questione
dei bisogno applicata alla figura dello studente era proprio questa, cioè cosa ci fa lo studente? Lo
studente a questo ha il diritto, oltre che di studiare evidentemente, ma di studiare qualche cosa che
sia la risposta al suo bisogno di studiare; cioè, perché si deve studiare? Questa questione oggi è
sparita completamente, anche perché c’è la risposta: bisogna studiare per acquisire competenze e
poter poi lavorare. Perché bisogna lavorare? Questo è un altro discorso, lasciamo perdere: bisogna
lavorare perché altrimenti non entri nella società. Perché devi entrare nella società? Insomma,
piantala con questi perché, non fare il bambino! E lì si ferma il tutto.
Quindi, è certo che c’era anche un’osmosi tra produzione di discorsi intellettuali e ricettore di questi
discorsi, perché i discorsi si rivolgevano proprio a questi intellettuali in formazione. In sostanza, lo
studente dell’università, visto attraverso il filtro delle umanistiche (che era ed è un filtro a cui non
puoi rinunciare), è colui il quale studia per produrre quel sapere che gli permette che cosa? Di
arricchirsi in quanto individuo sociale. La differenza tra allora e oggi è che questa cosa oggi è
scomparsa completamente, anche grazie o per colpa di errori, perché poi c’è stato un lento ma
inesorabile processo di ricostituzione del rapporto di potere docente-studente e dell’idea di servizio:
“noi siamo gli utenti, tu raccontaci quello che ci devi raccontare”. Per cui l’idea del laboratorio di
idee, dello scambio di esperienze, è sempre più rara; intendiamoci, ci sono ancora queste cose, non
è che il mondo sia tutto così, ma è sempre più rara. L’atteggiamento dello studente delle
umanistiche, da diversi anni a questa parte, è di tipo apatico: “io non partecipo, non ho pathos a
quello che tu mi dici, dimmi cosa hai da dirmi, dimmi cos’è la filosofia, dimmelo magari
rapidamente e in modo chiaro, in modo che io lo apprenda, faccia tesoro e mi accredito attraverso
quello che tu mi dici, e poi andrò ad ascoltare quello che mi dice qualcos’altro”. Il che è la vera
negazione di quello che allora era la figura dell’individuo in formazione, che era la figura di colui il
quale dice: “io studio ciò che ha a che fare …”. Ma qui chiaramente ci vuole un quadro teorico di
riferimento, non ci sono dubbi: perché se tu non parti dall’idea di cosa sia anche solo vagamente un

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uomo ricco, ricco anche solo di bisogni, se tu pensi che non sai che cavolo è un uomo, non sai
niente proprio: e allora certamente perché devi arricchirti, impoverirti? Dovrai farti furbo, trovare il
modo per diventare flessibile, mobile, saltare da un’università europea ad un’altra, convertire le tue
competenze, tradurle dall’Italia all’Olanda, poi vai in Spagna, poi in Germania ecc. Certamente in
tutto questo c’è ancora l’idea di ricchezza che scivola, ma non è più il tema della faccenda. C’è
ancora la questione dell’università come luogo in cui si produce il cittadino, si potrebbe dire oggi
con la terminologia attuale; cioè cosa fa l’università, produce il tecnico? Certo che potrebbe anche
ipotizzare di produrre il tecnico, ma se ipotizzasse e programmasse di produrre solo il tecnico non
sarebbe più università, sarebbe un’altra cosa. La differenza che von Humboldt all’inizio dell’800
stabiliva tra le scuole tecniche e l’università era proprio questa: nelle scuole tecniche si apprende
l’arte, nell’università si apprende l’arte di diventare cittadini. Questa è l’idea di università che sta
alla base e che oggi fa ridere; però in realtà non dobbiamo poi ridere tanto di questa idea, nel senso
che tutto sommato è poi questo che uno cerca dentro l’università. Certo che gli sembra di cercare il
salvacondotto per andare poi a lavorare, e che cerca anche questo, ma non solo questo. Il non solo
questo, se ci si pensa, è ciò che ha permesso la politicizzazione degli studenti: non ci sarebbe stata
nessuna politicizzazione degli studenti senza questo elemento dell’eccesso, del surplus. Sto dicendo
una cosa che forse non è condivisibile del tutto, mi rendo conto. Ma prendi gli studenti di medicina,
trovi i loro motivi di lotta proprio nelle insufficienze, nelle strettoie autoritarie, nella cattiva
organizzazione degli studi, nelle discriminazioni tra frequentanti e non frequentanti ecc., può essere,
oppure può darsi che le vere questioni siano proprio sul fatto del permetterti di avere la laurea in
tempi decenti, quindi che abbia ragione anche il riformatore, che fa la riforma, poi con tutti i
problemi che ci sono, per rendere più spedita l’operazione: tutto questo può essere vero. Ma tutto
questo, mi chiedo io, è sufficiente? No, non è sufficiente. Adesso gli studenti sono fermi, quando
ripartono tutti guardano con gli occhi aperti, però in realtà non sono mai ripartiti in questi anni. Se
ci fosse una posizione di lotta degli studenti… ma perché è difficile che questo si avveri? Perché se
diventasse reale questa posizione, ci dovrebbe essere una consapevolezza di quell’eccesso, di quel
“bisogno di”, di cui ci si è dimenticati. Io ritengo che queste analisi sui bisogni degli anni ’70,
magari un pochino filtrate, non siano andate perdute. C’è un’estrema difficoltà di arrivare a
riappropriarti di una domanda che riguarda te come individuo sociale; questa difficoltà che si è
frapposta, perché si è spezzato e frammentato il quadro di riferimento, io credo che sia
l’impedimento, quindi anche la vittoria di una situazione su un’altra, e anche il produttore di apatia:
“io mi disinteresso di quelle che sono le mie sorti all’interno dell’università perché non riesco ad
interessarmene, perché non le vedo più, è come se le mie sorti fossero un tema inattuale”. Questa mi
sembra che sia la situazione che si è trasformata da allora. Allora anche una rivista come Aut Aut
poteva parlare in questo senso, per cui magari facevi un fascicolo su Alquati (abbiamo fatto anche
quello), oppure a volte prendevamo un libro e facevamo un fascicolo su di esso: queste cose
circolavano, e circolavano perché toccavano, perché la gente si identificava con quelle cose che
riguardavano proprio l’apporto politico. Ora, cos’è oggi l’apporto politico? Rappresentanza, buona
gestione, neanche cittadinanza perché la gente sorride sulla politica intesa come rapporto tra
cittadino e grande politica: tutti sanno che Berlusconi andrà al potere, lo vedono come un destino,
ma non se ne fregano più di tanto, questo è il punto. La cosa allucinante è che noi stiamo andando
verso una catastrofe, quella che noi pensiamo essere una catastrofe, ma in realtà fischiettando come
se in realtà non ci credessimo fino in fondo, nel senso che abbiamo smesso di credere anche
all’alternativa, questo è il punto. Come dire: “già perché la sinistra… se è questa, allora non ci
perderemo poi granché se poi quel deficiente con le sue televisioni si mette a governare, chissà
magari… e comunque i nostri spazi riusciremo a mantenerli, basta che non ci prenda per il collo e ci
strozzi… fino a quel punto tutto bene, poi se ci strozza… ma anche se ci strozza…”: la gente ha
imparato anche a farsi soffocare. E’ tremendo quello che sta accadendo. E la formazione non è più
quella dell’individuo, del cittadino, dell’individuo sociale: è la formazione tecnica, l’ideale è quello
lì. Certo che a quell’ideale tu ci metti il fatto che il tuo territorio non è più l’Italia ma è l’Europa, è
importante questo perché in qualche modo è una traduzione-deformazione dell’individuo ricco, il

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quale è un individuo che ha un luogo, che ha uno spazio, che vuole averlo più grande, che si muove
nello spazio, che ha un movimento che lo sposta di qua e di là, mentre noi siamo incastrati nelle
nostre microrealtà, ogni giorno di più.
Io mi annoio terribilmente nella mia vita, mi divertivo molto di più allora, ed era molto più incerto il
quadro: oggi ho un ruolo universitario, un discreto successo come tizio che scrive, però mi annoio
mortalmente. Le uniche volte in cui mi diverto sono quelle tangenze minime che ho con pratiche,
ma faccio sempre più fatica ad averle. Adesso io ho scritto questo libretto sulla follia, tra dieci
giorni quelli del “Paolo Pini” mi hanno invitato a parlare di follia (tema che non è mio): questo so
che mi piacerà, perché c’è una tangenza con delle pratiche, anche se non sono così interessanti,
perché ormai ho capito quali sono tutte le sindromi di questi operatori psichiatrici. Ma è sempre più
difficile. Allora la tangenza con le pratiche era immediata, perché le pratiche erano già presenti
nell’università: oggi nell’università non ci sono più pratiche sociali, ci sono pratiche di tipo pseudo-
aziendale, apprendimento di tecniche. Facciamo un esempio: nell’università futura è obbligatorio in
tutte le facoltà un corso di computer; va benissimo, figuriamoci, salvo che questo potrebbe anche
essere un simbolo che ciò è quello che si fa nell’università, tu frequenti l’università come se essa
fosse tutta in quel corso di computer, come se la logica fosse quella. Allora devi apprendere un
linguaggio: come si legge un bando per una borsa di studio europea? Non è mica facile, allora devi
imparare a leggerla questa roba, devi imparare quel linguaggio, a muoverti con queste parole, a
usarle in un certo modo, a vedere le retoriche, a rispondere con le parole giuste. Una sorta di lingua
più o meno artificiale, più o meno fantasmatica, che ti permette di inserirti in questa sorta di più o
meno vero contesto. Hai rinunciato completamente alle tue voglie: le chiamo voglie, neanche più
desideri o bisogni. Ad esempio, io a Trieste ho un seminario sull’identità che stiamo facendo da tre
anni, e lo facciamo senza il binario, “leggiamo quell’autore, cosa viene detto dall’esterno”: il
ritornello è di nuovo “non siete scientifici”. Essere scientifici vuole dire “facciamo due anni in cui
studiamo Parsons”: ma chi se ne frega? Facendo una battuta, ho proposto a Dal Lago di cambiare il
titolo del suo libro in Non Parsons, invece che Non persone.
Non so se in questo modo rispondo alla domanda, ma avrei voglia di dire queste cose qua. Mi
costringete a pensare a delle cose a cui non sto più pensando, e questa è la prova di quello che sto
dicendo. Mentre uno come Mattiello è lì dentro tutto il giorno, ha questi problemi aziendali e lui va
a mille su queste faccende, io sto facendo fatica perché di queste cose non se ne parla più. Io ormai
vedo che Filosofia è un luogo vuoto, per cui bisognerebbe andare a sapere, che ne so, a Scienze
della Comunicazione: ma se io parlassi di questi problemi con i miei studenti mi guarderebbero
come se mi fossi alzato con la luna storta. Come dire: “va bé, ma di queste cose non si parla più,
sono passate, adesso il problema è sapere le cose, sapere cosa fare della nostra esistenza, che tesi
faccio”. Allora queste cose non c’erano, l’ultima cosa del mondo era sapere come facevi la tesi:
volevi sapere cosa ci stavi a fare al mondo. Il problema di cosa ci stai a fare al mondo, in quanto
studente intendo, non esiste più, infatti gli studenti se ne strafregano della riforma universitaria: non
ne sanno niente (e fin qua bravi loro perché è noiosa come la peste), ma poi se ne strafregano, come
se non li riguardasse. In effetti, non li riguarda; però, in effetti ancora, cioè in effetti al quadrato,
proprio perché non li riguarda, li riguarda negativamente. Cioè, ma come, una riforma universitaria
in cui la parola studente non c’è? La parola e la realtà, non esistono. Si vede benissimo che non c’è
una soggettività: il riformatore, o i riformatori, o i saggi che hanno fatto la riforma, hanno operato
con degli interlocutori che sono soltanto istituzionali, svecchiare una situazione rispetto a un nuovo,
a un moderno che è la supposta strutturazione europea del discorso. Non c’è nessuna soggettività
studentesca di cui si tenga conto magari solo per farla star zitta: non c’è, non hai neanche bisogno di
rispondere perché non parla, non ha parola, perché la parola non viene presa in considerazione, è
come se non ci fosse, ed è come se non ci fosse possibilità che ci sia. Questo è il punto a cui si è
arrivati all’interno della logica della riforma, quindi si è creata una distanza formidabile tra il luogo
dell’istituzione e il luogo della sua fruizione. Quello che vedo io è questo, mentre quello che
accadeva negli anni ’70 e che ha permesso tante belle cose era che questa distanza non c’era, o
meglio (distanza per me è una parola anche positiva) non c’era questo intervallo, questa

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separazione. Non c’era e prima o dopo lo studente chiedeva a se stesso e al suo docente di dirgli
qualche cosa che riguardasse il suo rapporto con il resto degli studenti e con il resto della società:
chiedeva che ci fosse questo. Oggi si fanno i corsi più strambi, più strampalati, magari anche più
interessanti, per curiosità io perfino leggo le cose come la Rivista di estetica, però non sono mica
fesserie, ma non c’entrano più niente: per mediare il discorso del realismo che fa Ferraris con il
discorso del bisogno sociale degli studenti ne devi fare di strada, non ci arrivi mai e forse è
un’operazione completamente inutile. Per cui quando Ferraris, nel numero sull’università che
stiamo preparando, scrive un saggio che si chiama Un’Ikea di università, si può dire “che bello, ha
avuto il coraggio di farci capire che è questo grande luogo dove si vanno a comprare dei mobili di
fattura media”, ma lui fa questo discorso per dire “dovrebbe invece essere un luogo in cui si fanno
dei mobili belli”: anche lì lo studente e la sua soggettività scompaiono, il problema è rivolto ai
docenti, dicendo “bisogna fare questo, non l’Ikea”. E’ una situazione abbastanza allarmante: per
esempio, io come rispondo a questa situazione? Rispondo andando avanti a credere che le cose non
stiano così, e ad affannarmi, nel piccolo in cui lavoro (perché non so dove altro farlo, posso
raccontarlo per strada ma non serve), a fare il contrario di quello che mi sembra essere il punto di
arrivo della situazione. Ma devo dire che i risultati, in termini di produzione di consapevolezza,
sono molto molto scarsi: “sì, dopo tutti questi discorsi dicci qual è il buon libro da leggere, in modo
che se io ho seguito un corso di filosofia contemporanea sappia almeno perché l’ho seguito”.
Adesso non voglio che sia troppo bestiale il quadro, però io racconto quello che vedo. Io lì a Trieste
ho visto proprio una sorta di spostamento dell’asse dell’interesse degli studenti da insegnamenti
come il mio (che sono ancora frequentati, ma meno emotivamente e diffusamente di prima) verso
insegnamenti completamente squalificati, che però danno o sembrano dare queste garanzie. “Sono
laureato in epistemologia delle scienze sociali e questo mi dà una legittimazione scientifica, posso
spendere questa laurea, posso trasformarla in un credito, non in senso tecnico ma in un credito che
io acquisisco altrove. Se mi laureo sulla questione del rapporto tra spazi e potere nell’opera di
Foucault” (faccio il titolo della tesi che sto per discutere adesso) “mah, insomma, non so cosa
farmene: Foucault, chi è?”. C’è anche un discorso di ciò che è buona cultura e ciò che non è buona
cultura: la situazione di oggi dentro il mondo culturale si sta molto appesantendo, c’è una linea di
displuvio molto dura che separa il bene dal male, e il bene è identificato con la spendibilità in
termini di credibilità scientifica. Senza neanche passare per i modelli di tipo epistemologico, logico,
dibattiti secondo me anche un po’ oziosi come continentali e analitici ecc.: è proprio la spendibilità
in termini tecnico-scientifici, che poi non è vera, perché poi non so mica se questi qui sono gli
elementi che vengono valutati quando tu eventualmente vieni assunto o entri in un rapporto di
lavoro, ma sono creduti come veri, fanno parte di quello che noi in Aut Aut abbiamo chiamato il
supplemento d’anima. Il supplemento d’anima è quello lì: tu devi costruire un supplemento d’anima
che si chiama scientificità, spendibilità scientifica. Lasciamo stare dove ti porta, ma è
semplicemente un supporto ideologico. Certo, si poteva dire che anche prima la spendibilità politica
era un supporto ideologico: certamente anche quella in parte lo era, però lì si tratta di misurare se
spendibilità politica e spendibilità tecnico-scientifica sono la stessa cosa. Io credo di no, penso che
siano cose completamente opposte, e la seconda cosa ti crea un’asfissia della mente, del pensiero e
un’atrofia della tua individualità, se tu non fai altre esperienze; e la prima cosa, pur con tutti gli
elementi ideologizzanti, ti permetteva di essere uno che aveva uno sguardo laterale oltreché
frontale, uno sguardo più panoramico.
Prima quando tu facevi una tesi che toccava temi di movimento ti aggregavi ad un corpo collettivo
di idee in cui facevi un’esperienza sociale e socializzante, oggi no, ora devi già essere in quel
mondo lì. Questo studente che adesso fa la tesi con me su spazio e potere in Foucault è un operatore
psichiatrico, lui è già socializzato, fa la tesi per trovare attraverso essa un incremento rispetto alle
cose che ha già. Questo ancora sopravvive come fenomeno, ma lo studente in quanto tale non ha
niente, perché non ha la misura, se non il lavoro che farà dopo, tra l’altro ipotetico e neanche
prevedibile, perché poi io vorrei sapere che lavori andrà a fare. Non so come si esce da questa cosa:
al di là della lamentela che le cose stavano così e adesso non stanno più così, cosa facciamo? Io

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sono convinto che le cose stiano ancora così ma non riusciamo a riconoscerle, e allora è un
problema di percorsi. Per esempio, io ho visto che il tema dell’alterità e tutto quello che ci sta
attorno è un modo per arrivarci, perché poi ti mette subito a contatto con le tue questioni
dell’alterità. Bisogna trovare degli altri linguaggi: in parte ci sono già, però bisogna aggregarli, e
certamente io penso che gli studenti li vanno a cercare da qualche parte, li mettono insieme i
pezzettini, quelli che hanno voglia di cercarli. Quelli che invece si fanno trascinare… davvero
qualcuno si fa solo trascinare? Anche questo io non lo so. Oggi abbiamo bisogno di un’inchiesta
sulla faccenda, è questo che io penso: ma di un’inchiesta fatta bene, non semplicemente far passare
questionari nelle lezioni che dicono “hai apprezzato la lezione? cosa ne pensi ecc.”, cose che stanno
facendo. Abbiamo bisogno di un’inchiesta a fondo su questa faccenda dei bisogni, come vengono
considerati e valutati, quindi anche ideologizzati (se vogliamo dire così) i bisogni che non siano
soltanto quelli di formazione della forza-lavoro specifica per, perché questo tra l’altro è un trucco.
La riforma dice che dopo i tre anni chi ha fatto questo primo livello universitario di Filosofia, deve
sapere stare in gruppo (sono molto divertenti queste cose!) e deve essere in grado di essere assunto
in una casa editrice: viene detto così, è follia, come se le case editrici fossero un riferimento nel
mondo del lavoro. Allora si capisce che questo non c’entra assolutamente niente con quello che
viene detto prima, sul carattere propedeutico, un pezzo qua e un pezzo là, un po’ di storia della
filosofia, un po’ di letteratura italiana, un po’ di storia, con tutto l’apparato degli elementi formativi
di base, degli elementi invece essenziali per la specifica classe di studi che stai facendo e degli
elementi opzionali. Insomma, c’è tutta una ridistribuzione di nomi, poi alla fine si parla di stare con
gli altri e avere qualche possibilità. Allora diciamolo chiaramente, perché non parliamo di questo?
Cosa fa un redattore o un traduttore di una casa editrice? Cosa si fa nelle case editrici? Ma a questo
punto teniamone conto: certo, è difficile chiamare filosofia tutto ciò, è la stramberia totale. Lo
studente non crede neppure a questa roba qua, a parte che non conosce questo dettato della legge,
non gliene frega niente, non gliene fregherà neanche niente neppure quando sarà operante; poi,
anche quando lo leggerà, dirà che sono cavolate, e quello che andrà a cercare sarà qualcosa che ha a
che fare con il suo mondo di esperienza complessiva, è lì che troverà qualcosa. Se troverà qualcosa
da fare nell’ordine del lavoro, lo troverà attraverso dei canali che non sono quelli dell’università.
Stiamo sempre parlando di laureati in Filosofia e dintorni, ma questo vale per gli studenti di
Psicologia, di Scienze della Comunicazione… Si apre la televisione ed è piena di quiz, domande,
come si diventa miliardari ecc.: “lei chi è?” “sono uno studente” “studente di che cosa?” “di Scienze
della Comunicazione”. E’ impressionante: o la televisione li pesca solo lì (può darsi, perché Scienze
della Comunicazione…), o comunque, se c’è un po’ di casualità (come io penso), l’Italia si sta
riempendo di studenti di Scienze della Comunicazione, che chissà cosa stanno pensando. Allora,
l’inchiesta andrebbe fatta lì: queste migliaia di persone che nelle varie sedi in cui ci sono questi
corsi di laurea si affannano a fare Scienze della Comunicazione, cos’è che stanno facendo? Chi
sono? Cosa stanno producendo?

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INTERVISTA A PIER ALDO ROVATTI – 16 OTTOBRE 2000

- Qual è la sua analisi dell’esperienza di Alfabeta?

Se si cercasse la parola Alfabeta su Internet, cliccando verrebbe fuori un libro che è quello uscito da
Bompiani, curato dalla Maria Corti. Questo libro in realtà è un’antologia, ben fatta, è stata curata da
Formenti e da Ferraris nelle parti politica e filosofia, poi ce ne sono anche altre, e Maria Corti è la
curatrice complessiva. Dunque, uno vede questa antologizzazione e certo si fa un’idea di cose che
erano contenute nella rivista, però sinceramente questo tipo di messaggio che arriva attraverso il
libro è proprio lontanissimo da quello che poi è la realtà della rivista. Allora, io questa realtà della
rivista la vedrei attraverso i significanti, come direbbe qualcuno. Il primo significante è l’oggetto
materiale, cioè chi non ha visto Alfabeta non può ricordarsi quanto era grande il formato di questa
rivista. Noi siamo abituati a tutto un altro tipo di strumento, fino all’impalpabilità dell’online, ma
Alfabeta è di grande visibilità, ha un formato che è tra il tabloid di Repubblica e il tradizionale
Corriere della Sera. Con anche una grafica di grande interesse, perché prima che entrassero delle
immagini, dei disegni, delle fotografie in copertina se ne discuteva attentamente. Un po’ come
credo sia lo stile oggi mantenuto da certi quotidiani della sinistra, veniva messo in sequenza tutto
l’indice, quindi con argomenti, nomi, senza occuparsi troppo del fatto che questo portasse a non
avere ingombro. Quindi, veniva data l’impressione che dentro lì c’erano tante cose. Il primo
significante è dunque quello, diciamo così, materiale; per cui è una rivista che non è soltanto un
mensile per dire ma un mensile di fatto, nel senso che te la mettevi da parte, te la leggevi. Gli
articoli erano spesso molto lunghi, ma non perché gli autori di questi articoli fossero personaggi che
per loro vizio scrivevano molto (come capita anche spesso), ma perché si voleva che fossero lunghi,
si voleva che fossero degli articoli impegnativi. C’erano dei modelli alle spalle, ma comunque il
fatto è che oggi si lamenta spesso che manca l’opinione sulla stampa, invece lì il commento critico
era proprio il dato di fatto.
Questa era la prima cosa; la seconda cosa è che il commento critico su cosa era? Certamente era
anche su degli eventi, su dei fatti, ma l’idea della rivista era di incrociare l’evento, il fatto e quindi
anche il supporto politico con i libri; e di incrociarli secondo un percorso. Questo lo dico perché è
abbastanza curioso, in un certo senso questa cosa poi non si è mai più verificata così. All’autore, al
collaboratore della rivista si chiedeva non “recensisci questo libro”, oppure “metti questo libro
accanto a questo contesto”: ciò è automatico, cioè “di cosa vuoi parlare?” “voglio parlare di quel
libro di economia, di politica, di filosofia” “se ne vuoi parlare evidentemente hai alle spalle una
serie di motivazioni perché quel libro ha una attualità”. Al di là di questo si chiedeva di costruire
proprio un percorso attraverso fatti e libri. Questa era l’idea, però se si va a vedere le prime annate
di Alfabeta è rispettata, poi dopo la si perde in parte. Ciò mettendo quindi insieme testi che a prima
vista non sembravano essere omogenei, perché se ci sono tre opere di quell’autore è chiaro che è
omogeneo in quanto si tratta sempre di quell’autore, a meno che uno sia impazzito; ma si cercava di
mettere insieme, ad esempio, un’opera di filosofia, un’opera di politica e magari un fatto, una legge,
oppure anche un evento vero e proprio (credo che ci siano anche degli esempi proprio di riferimenti
ad eventi veri e propri). E quindi poi costruire un percorso che passasse attraverso queste cose.
Quindi, c’è una sorta di invenzione, di produzione teorica che comportava l’operazione critica più
complicata di quella che normalmente è, quindi con minore possibilità di fare appello a un bagaglio
precostituito, cioè “io so scrivere un articolo su quell’argomento, lo faccio”: no, la professionalità
per scrivere un articolo su Alfabeta non c’era, bisogna farla, inventarla. Allora, che cosa è successo?
E’ successo, per arrivare subito al punto che è l’altro sedimento significante, che già a quel punto
come battuta, ma è una battuta che corrisponde, circola nel cosiddetto micromondo di Alfabeta (poi
possiamo anche entraci dentro) questo tipo di luogo comune: in Alfabeta ci sono più collaboratori
che lettori. I dati si sanno, magari si trovano anche in quel libro di cui parlavamo prima. La rivista
ha una sponda, corrisponde a una domanda e quindi i lettori ci sono e si mantengono per diversi
anni su livelli che non solo sono più che accettabili ma, con qualche eccezione, oggi si trovano

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pochi esempi di questo genere; oggi bisognerebbe studiare qual è il fenomeno MicroMega per
esempio, non so se MicroMega è l’Alfabeta di oggi, è un po’ difficile dirlo, però certamente
qualcosa di simile Flores d’Arcais dovrebbe aver pensato. Perché poi, quando Alfabeta muore, per
diversi anni si capisce perfettamente che si potrebbe farla rivivere perché c’è una tenuta di questa
formula, ma per varie pigrizie e inerzie non ci si riesce; forse anche perché si è disgregato
l’elemento iniziale. Comunque rispetto a questa battuta, che è come dire “tutti ci vogliono scrivere e
poi però allora bisognerebbe anche leggerla”, lasciamo stare il “bisognerebbe anche leggerla”
perché poi veniva letta e quindi era veramente uno snobismo, ma “tutti ci vorrebbero scrivere”
questa è una cosa interessante: era proprio una sorta di bacino in cui venivano richiamati molti che
lì avevano la possibilità di raccontare e costruire le loro ipotesi culturali in uno spazio adeguato. In
uno spazio adeguato che aveva raggiunto una sorta di equilibrio abbastanza strano, nel senso che è
difficile da avere di solito, un equilibrio abbastanza singolare e sottile tra le varie componenti che
agiscono o condizionano la prestazione d’opera di un intellettuale. Non so come dire, tu puoi
scrivere con un’intonazione politica e quindi hai riviste politiche, oppure puoi scrivere con
un’intonazione filosofica e hai riviste filosofiche, con un’intonazione economica, economico-
politica ecc.; o magari, anche quando queste intonazioni si radunano insieme, la coloritura politica,
specialmente in quegli anni, era predominante. Non è che in Alfabeta non ci sia questa coloritura
politica, ma c’è un equilibrio: è come dire, tu sapevi che su Alfabeta se scrivevi di economia o se
scrivevi di filosofia non potevi scrivere solo di economia o solo di filosofia. D’altra parte se ti fosse
venuto in mente su Alfabeta di fare la sparata ideologico-politica non era la rivista adatta. Allora,
non so quale spazio intermedio veniva in questo modo intravisto, magari anche creato, ma
certamente a suo modo si è messo in piedi quello spazio intermedio attraverso tante cose.
Certamente attraverso questa formula di scrittura, per cui se tu scrivi dieci cartelle (perché una volta
erano queste le lunghezze dei pezzi) tu sapevi però che scrivevi dieci cartelle per Alfabeta; non
invece scrivere quello che si vuole e poi dire “dove lo scrivo? vediamo qual è il contenitore che mi
dà più rimbombo” e allora dici “va be’, Alfabeta perché funziona”. No, se scrivi per Alfabeta scrivi
secondo lo stile della rivista. Alfabeta aveva creato un suo stile: era uno stile che è difficilissimo in
tre parole da descrivere precisamente, ma che si può poi ritrovare. E questo stile, se si vuole grazie a
delle interazioni personali, grazie al fatto che queste interazioni personali poi si raddoppiavano in
una sorta di spinta politica, permette a delle persone diversissime di ritrovarsi lì all’inizio e
costituire un pool di direzione della rivista che è composto da tanti soggetti. Ora, a vantaggio o a
svantaggio della faccenda c’è il fatto che queste persone sono tutte note o quasi: il più carneade del
gruppo iniziale sicuramente sono io, mi occupavo un po’ di filosofia, ma gli altri si chiamano con
nomi di poeti importanti, di Semiologi con la s maiuscola tipo Umberto Eco, con nomi di studiosi di
storia letteraria insigni come la Maria Corti, narratori di successo come Volponi, strani mix tra
poesia e politica come Balestrini. Personaggi che provenivano da esperienze politiche: certamente
Eco no, Volponi no, la Maria Corti tanto meno, a volte era completamente stralunata di fronte a
certi discorsi che avvenivano in redazione, ma certamente Leonetti sì, proveniva da un’esperienza
politica. Allora uno dice “ma chi è Leonetti? è un marxista-leninista”: sì, certo, però è anche un
pazzo (chi mi conosce sa che la uso in senso buono questa parola) nel senso che lui aveva fatto
un’esperienza letteraria, non solo aveva addirittura recitato nei film di Pasolini, aveva partecipato a
esperienze di tipo letterario in riviste, in luoghi di grande interesse. Quindi, ciascuno di questi
personaggi era tutto sommato leggermente eretico rispetto alla disciplina, al rapporto con
l’immagine intellettuale, c’era uno sforare da questa immagine in sostanza. Io non ero, ancorché
fossi il carneade ripeto, il filosofo filosofo, ma ero il filosofo, con chi si occupava di filosofia, che
attraverso Aut Aut non aveva l’immagine di quello che stava dentro l’università; così pure Eco non
aveva l’immagine del professore ma neanche quella del politico. Leonetti, per quanto nella sua vita
abbia sempre pensato di organizzare dei gruppi politici, non era l’immagine del leader politico, era
più che altro l’immagine dell’artista. E via di questo passo. In sostanza, quello che avveniva era una
sorta di possibilità di ciascuno di questi personaggi, questa roba è venuta fuori in maniera un po’
casuale o per l’abilità di che l’ha messa insieme che è stato Balestrini; o forse, ha potuto esistere un

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Balestrini perché i tempi erano tali che poteva esistere un Balestrini. Non voglio essere marxista
ferreo, ma insomma non è soltanto il cervello aguzzo di Nanni Balestrini che si inventa Alfabeta,
ma Alfabeta nasceva perché c’era un contesto che permetteva che nascesse. Cioè noi abbiamo un
contesto di movimento, ma questo contesto di movimento era volutamente indebolito su Alfabeta (e
se uso la parola indebolito anche qui lo faccio in senso positivo); forse qualcuno pensava ogni tanto
di farla questa operazione diretta, ma nell’insieme l’operazione è non troppo diretta, è insieme
diretta e indiretta. E in definitiva si costruisce un’immagine di intellettuale politico, che si potrebbe
dire che corrisponde al collaboratore di Alfabeta, che è stata abbastanza singolare e unica nel
panorama di quei momenti lì. Adesso parlo di un collaboratore x qualsiasi, di tutti quelli che poi
verranno e che faranno corona ma in numero abbastanza notevole rispetto a questi dieci che erano
quelli che all’inizio costituiscono la direzione. Allora, a un certo punto si costituisce l’idea del tipo
di collaboratore di Alfabeta. Alla base di tutto c’è il fatto che ci sono queste dieci figure intellettuali
ciascuna delle quali non ingrana con l’altra, e quindi c’è un continuo slittare l’una sull’altra di
queste figure, e all’interno di ciascuna di queste figure c’è questo slittamento. Quindi, lo slittamento
è doppio, ciascuno non è uguale alla sua immagine e questa disuguaglianza poi si verifica nello
stare insieme di queste persone.
Per uscire da questa immagine un po’ troppo teoretica che stiamo costruendo, lascio poi
immaginare che cosa erano le riunioni di redazione. Altro elemento significante è questo: è una
rivista a cui se togli via le riunioni redazionali del mercoledì sera non c’è più. Quindi, tutto il lavoro
veniva poi a convogliarsi in queste riunioni. Penso che Formenti abbia già parlato (anche perché è
stato a lungo il suo compito) dell’importanza che hanno avuto in Alfabeta una cosa che
sembrerebbe di secondario ordine che sono i verbali. Io li ho tenuti, poi purtroppo quando ho
traslocato chissà dove sono finiti, anzi devo averli proprio buttati via e forse ho fatto molto male
(ma credo che Formenti li abbia). Questi non erano dei qualunque verbali per fare una specie di
richiamo mnemonico, ma erano delle lotte e anche dei generi letterari. Formenti ha costruito la sua
identità dentro Alfabeta. Lui arriva in un secondo momento e in qualche modo si avvicina ad
Alfabeta perché ha bisogno di lavorare, non lo fa soltanto per interesse politico o culturale: arriva a
Milano, ha degli amici e Alfabeta gli offre anche un impiego. A un certo punto la rivista comincia
infatti ad avere qualche figura che riceveva qualche retribuzione, gli articoli non erano pagati
(queste cose sono anche importanti da dire) ed era previsto per i direttori un gettone di presenza a
queste riunioni, lasciamo stare se poi questo gettone fu pagato sempre o no (dove l’ “o no” mi
sembra più probabile dell’ “o sì”), però l’idea era questa in sostanza. Anche questa era un’altra idea
che non ci fosse un assetto giornalistico tecnicamente professionalizzato, cosa che poteva anche
essere perché tu fai una rivista, ti piazza 50.000 copie sul primo numero, quindi hai la possibilità di
pensare a ciò, oggi sarebbe impensabile che non fosse così. Anzi, oggi uno che fa una rivista, a
meno di tutte le esperienze tipo riviste online e queste cose qua, anche il piccolo progetto prima si
procura i capitali di partenza, cioè è tutto un altro meccanismo: il nostro è il meccanismo di
movimento, lì manco ci si pensa, sì, c’è un editore di riferimento il quale però è fatto anche di
amici, di compagni. Questo editore che si chiama Di Maggio si inventa una piccola casa editrice che
si chiama Multipla, un po’ tra l’arte e la filosofia perché lui ha i suoi interessi in campo artistico,
questa aggregazione di piccole case editrici in un reticolo che si chiama Area, in cui compare anche
Aut Aut che per qualche anno pubblica dei libri sotto la sigla Edizioni Aut Aut. Ma, per esempio,
c’è anche L’erba voglio, in cui appunto Facchinelli pubblica le sue cose, così la Lea Melandri ecc.,
poi ci sono i libri di cui si occupa Leonetti. In realtà, Alfabeta fa tesoro di questa circolazione di
piccole attività editoriali che erano state riunite da Gino Sassi, quello che poi diventerà l’art
director, quello che fa la parte grafica, costruisce graficamente la rivista. Adesso è morto, ne sono
morti diversi di Alfabeta, ad esempio il poeta Porta. Un altro che era nella rivista e di cui mi ero
dimenticato, e anche lui arrivava da esperienze un po’ eretiche, è Paolo Volponi. Perché poi,
Alfabeta è una rivista gauchista (per usare un termine di questo genere)? Certamente sì, perché una
certa spinta verso gli elementi estremi di movimento c’è nella rivista, sicuramente Balestrini è
legato all’autonomia operaia, non ne fa mistero, e poi anche chi non l’avesse voluto capire lo capirà

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il giorno che scompare, trovando poi scritto il suo nome sul giornale con tanto di mandato di
cattura. Ma come si fa a dire che Volponi apparteneva a una posizione anti-istituzionale di questo
genere? Volponi poi diventerà senatore del PCI successivamente. E come si fa a dire che era di
questo genere un personaggio che ha avuto un sacco di ruoli di prestigio, se non proprio di altissimo
prestigio culturale dentro il PCI come Mario Spinella? Questi è un personaggio eretico all’interno
del Partito Comunista, bizzarro, cultore di psicoanalisi, conoscitore di cose filosofiche, autore di
romanzi. L’impronta letteraria è insomma molto presente, uno potrebbe dire che in definitiva questa
sorta di enciclopedia di posizioni, per cui c’è la letteratura, c’è la filosofia, tutte insieme, oggi
sarebbe assolutamente impraticabile. Però, se noi andiamo a vedere di che cosa è fatto questo ragù
che è la direzione di Alfabeta, quali sono gli ingredienti che sono dentro, vediamo che certamente
l’ingrediente letterario è molto presente; ma è anche presente l’ingrediente sinistra PCI, non sinistra
del PCI, quindi sinistra istituzionale, perché c’è almeno il 30-40% (Eco compreso) che lì dentro
fanno riferimento al Partito Comunista. Allora si arriva da una certa situazione, pensate a cosa è
stato dopo il ’68, in cui tra PCI e resto del movimento c’è una spaccatura, non una differenza ma c’è
proprio la contrapposizione. Quindi, c’era anche questo elemento in Alfabeta, in qualche modo di
una sorta di ricomposizione, certamente attraverso alcuni elementi intellettuali che a loro volta
erano elementi di radicalità critica, degli scontenti delle loro istituzioni di riferimento, ma che non
per questo cessavano di avere dei riferimenti a queste istituzioni. E’ come dire che mentre fuori da
Alfabeta (posto che ci sia un dentro) avvenivano delle lotte feroci tra estremismo, come veniva
chiamato, e il Partito Comunista, dentro Alfabeta c’è una sorta di possibilità di antalt cordial tra
queste componenti. Il che non è mica poco dal punto di vista delle garanzie intellettuali e anche del
fatto che Alfabeta viene vissuto da tantissimi come un luogo in cui puoi scrivere, puoi esprimerti e
puoi anche difendere i tuoi interessi.
Non so se ho spiegato quello che secondo me è proprio il cuore della faccenda. Certamente poi la
cosa se l’è inventata Balestrini, mette insieme queste persone, ci troviamo un certo giorno tutte
intorno a un tavolo, ci guardiamo un po’, perché poi ci sono delle microstorie. Un certo numero di
costoro, anzi in qualche modo forse l’elemento più significativo della genealogia è il Gruppo 63, e
quindi buona parte di questi sono già stati insieme, lo stesso Leonetti, o hanno già in qualche modo
avuto dei rapporti di questo genere. Però, la cosa poi si è allargata, si è espansa, certamente come si
sa a un certo punto nella rivista entrano persone come Formenti, come Ferraris o come Dal Lago:
sono tutte e tre persone che ho fatto entrare io che non c’entravo nulla con il Gruppo 63 e neanche
con questa vague letteraria, non potrei mai pensare che queste persone ci entrano attraverso quella
genealogia. Quindi, alla genealogia di inizio se ne sovrappone poi un’altra o delle altre, per cui
mentre dall’interno questa appartenenza viene in qualche modo riconosciuta e anche riconfermata,
magari esibita certe volte, non mi pare che dall’esterno, cioè i lettori della rivista, possano tanto
accorgersi che quelli sono i reduci del Gruppo 63 che, dopo avere fatto l’esperienza di Quindici
(c’era anche una fase intermedia), adesso ci provano con Alfabeta e ripropongono le loro (quali
sono poi non si sa) idee, perché palesemente la rivista funge in un altro modo, svolge un altro
servizio, svolge un servizio di collettore, insomma di rivista su cui puoi scrivere. Di rivista su cui
puoi scrivere sempre che tu ti adegui allo stile della rivista, cioè al fatto che lì dentro si scrive in un
certo modo, facendo funzionare la testa. Certo, poi cominciano le eccezioni evidentemente, se Eco
scrive l’articolo come vuole lui non è che gli si va a dire “ehi, ma senti…”; ma siccome lui era uno
dei propositori di questo sistema diciamo della recensione a pacchetto, all’inizio, nei primi tempi lui
non può mica venire meno alle sue stesse idee. Quindi, tutto sommato ci si convince che quello stile
lì è importante e lo si pratica. Oggi sulle riviste riconosci poco questo elemento della scrittura. Lì
c’erano due tipi di intervento: dei materiali, documenti, per cui si trovano numeri di Alfabeta con
degli inserti di documentazione, di attività dei magistrati o letterarie ecc., questi articoli che erano
quelli che costituivano l’ossatura di base della rivista; poi di finestre come si chiamavano, che sono
dei box che si trovano in quella pagina che è molto grande, e questi box hanno un carattere più di
intervento sull’attualità, di messa in evidenza di un fatto, di una situazione (poi farò un esempio
personale riguardo a questo). Praticamente non c’è altro, poi si inventano delle rubriche, si

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incomincia a costruire un apparato che funziona come bollettino da fuori, dall’estero, dall’Europa
ecc., si costruisce una situazione di recensioni in un certo modo, insomma poi la cosa si arricchisce.
Adesso io non posso parlare di tutto perché se no rifaremmo la storia pezzettino per pezzettino, ma
il blocco iniziale è questo qua. E quando poi più avanti su certi argomenti (che so, il pensiero
debole) si fanno delle discussioni, queste saranno sempre a più voci, tanto è vero che questa
dizione, “a più voci”, funzionerà come dizione proprio di una rubrica della rivista. Quindi, cosa
voglio dire, magari sarà una cosa banale, ma la polifonia, o se si vuole semplicemente la
molteplicità delle voci era un tratto distintivo; già c’è fin dall’inizio perché questo gruppo di dieci
persone è polifonico se canta bene, sarà cacofonico se canta male, ma comunque è sempre collettivo
nella diversità delle persone, non c’è uno in particolare, come per esempio capita ad Aut Aut che è la
rivista di Paci per un sacco di anni, è un altro tipo di pubblicazione. Questo per dire che non c’è il
leader, non c’è chi scrive l’editoriale; questo lo può scrivere chiunque a turno, e ciò è interessante.
Insomma, io direi che per far capire a un giovane di oggi, ma anche a un vecchio di oggi, cioè a uno
che oggi è vecchio ma che non sa nulla di queste cose, perché soltanto un giovane?, insomma a chi
non ne sa niente, diciamo a uno di oggi che vuol saperne qualcosa perché è diventato giovane, per
esempio, bisogna fargli fare un esperimento mentale: leggere un po’ di numeri di Alfabeta (che tra
l’altro sarebbe interessante che ricircolasse), ripeto che su questo il libro di Bompiani non serve
proprio, e provare a scrivere un articolo come se fosse un articolo di Alfabeta, forse così si capisce
che cos’è la rivista. Il nocciolo in sintesi di tutto il mio discorso dovrebbe arrivare lì. Faccio
l’esempio vissuto di cui parlavo prima, che poi a parte che sono quelli che si ricordano meglio, ma
comunque sono quelli meno astratti. A un certo punto a me viene (cosa che non mi verrebbe mai in
mente) di scrivere per Alfabeta una certa cosa. La libertà, io voglio dire questo, la libertà che aveva
il tizio che scriveva per Alfabeta rispetto a ciò che aveva da scrivere; cioè non c’è nessun tipo di
codificazione più o meno esplicita, uno poi diceva “io non ricevo codici espliciti, però se ce li hai
impliciti…”. Allora, c’era stata quella centrale atomica russa, Chernobyl, che era esplosa, e allora a
un certo punto ci dividiamo i compiti, perché poi nelle riunioni di redazione proprio si diceva “e
allora cosa facciamo? che si fa?”. Si leggevano con molta cura gli articoli che arrivavano, si era
molto spietati nei giudizi, c’erano minimo due giudizi su ciascuno, e i giudizi erano giudizi, si
lavorava; c’erano questi dieci pifferi di direttori, poi magari ci sono le mortalità (Eco arrivava dai
suoi viaggi all’estero ogni tanto), ma insomma sei o sette lavoravano. Questi sei o sette però si
facevano un culo così, perché si leggevano tutte le cose con estrema attenzione, Leonetti segnava in
rosso, lui era il più tremendo da questo punto di vista, non passava nulla da lui. Quindi, c’era un bel
filtro in sostanza, non avevamo problemi di riempire la rivista, eravamo ricchi da questo punto di
vista perché arrivava un casino di roba da fuori, quasi subito. Appena si apre Alfabeta c’è quel
bacino di utenza che è estremamente ma estremamente ed estremamente più diffuso di quei nomi
che voi state cercando, perché è fatto di una miriade di persone che tutto sommato partecipa e ha
qualcosa da dire sulla realtà che li circonda. Si pensi ad oggi, che poco abbiamo da dire e che canali
stretti abbiamo per dirlo, anche se Internet sembra promettere un allargamento, poi forse lo è.
Allora, a me era venuto in mente di parlare di che cosa? Di che cosa fosse nel quotidiano (ciò
voleva dire andando in giro per strada o anche sentendo la televisione) l’effetto Chernobyl. Scrivo
dunque questa cartella e mezzo o due cartelle ed è la prima volta che in qualche modo mi metto a
scrivere in quel modo lì. E dico “qual è la chiave di scrittura di questa roba?”. Allora, sento che non
è sufficiente fare la cronachetta, cioè ho le mie ideuzze del piffero: dunque, tiro fuori un riferimento
letterario che non dichiaro ma che comunque è del tutto palese e che è questo narratore, Thomas
Bern, che mi sembra quello che con il suo linguaggio ossessivo può dare meglio l’idea delle
ossessioni in cui la gente sta entrando in quei giorni rispetto all’effetto Chernobyl. E scrivo questa
robina che poi diventa un box. Si capisce che sia per me che la scrivo (poi forse rimane un unicum)
sia per il tipo di lettura che si ha da parte di un lettore del giornale è una cosa nuova, in cui entrano
dentro tantissime componenti. Io mi sono permesso una sorta di apertura letteraria perché ero
garantito dalla rivista, non so come dire, io su Aut Aut non la farei mica una cosa così, tanto per

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intenderci, oppure mi piacerebbe farla ma non ci riuscirei, lì mi sentivo invece con lo spazio di
poterci provare.
Quindi, il pregio di Alfabeta (naturalmente poi non lo troviamo in tutti gli articoli, in tutti i numeri,
è ovvio) è quello anche di una comunicazione abbastanza nuova, di tipo politico, filosofico,
letterario insieme. Dopo di che come oggi possiamo valutare queste cose è un altro discorso,
certamente quello che si può dire dal punto di vista della sociologia della comunicazione e che
riguarda anche Alfabeta è che questa formulazione non solo interessa il lettore, ma al lettore (e
torno al punto iniziale) quasi automaticamente viene voglia di scrivere anche lui. Per questo dicevo
prima che sono maggiori i collaboratori che i lettori, perché ogni lettore di Alfabeta si sente in
qualche modo autorizzato a entrare nel gioco, perché poi è difficile. Per cui alla fine noi abbiamo un
elenco di collaboratori che è una lista sterminata, e oggi quelli che trovi in giro che per un motivo o
per un altro, magari casualmente hanno avuto delle interferenze, sono passati da Alfabeta (si provi a
fare questa verifica) se lo ricordano con grande piacere, e ciò è mica una cosa da niente. Per una
certa parte della mia esistenza, quando avevo non troppi anni, io ho scritto su Il Corriere della Sera:
sì, me lo ricordo perché avevo vent’anni, mio padre era contentissimo, mi sembrava una cosa
enorme, ma non è mica stata un’esperienza. Cioè, quelli se lo ricordano perché sanno di avere più o
meno tangenzialmente partecipato a un’esperienza importante. Si capisce che dando la risposta che
ho dato ho detto l’importanza, è difficile che noi la traduciamo in termini obiettivi, tipo di
collocazione politica, tipo tipo tipo tipo, no: l’importanza è proprio questa, questa sorta di
laboratorio che la rivista diventa e effetto produzione di scrittura che la rivista produce. Dopo
passeranno anche testi noiosi e scritti male, ma nella fase nascente di Alfabeta c’è una grande cura
che i testi siano scritti bene per esempio, cosa che non risulta essere un elemento caratterizzante del
movimento di quegli anni; magari uno scrive bene oppure scrive e risulta che scrive bene, sulla
rivista di Lotta Continua, Ombre Rosse, fanno le loro prove quelli che poi diventeranno gli autori di
Porci con le ali, certo che scrivono con molta verve, ma quelli sono degli eventi perché magari c’è
Goffredo Fofi che sta lì con il naso ritto. Ma qua è necessario che tutti in qualche modo imparino a
scrivere, per cui si fa un lavoro di riscrittura degli articoli; ecco perché dico che la redazione della
rivista è una cosa importante, perché non solo si rompe le palle per dare un giudizio all’articolo che
arriva, non solo si cerca di fare arrivare gli articoli che interessano, perché poi le riunioni sono
settimanali, e sono tante quattro riunioni al mese, poi se le fai per dieci anni ti distruggono. Nella
prima riunione si dice quadro di problemi, quadro di eventi, quadro di situazioni da toccare, libri
che sono usciti, eventi, cose, poi si cerca di procurarseli e naturalmente si fa una sorta di mediazione
tra quello che riesci in senso promozionale commissionando gli articoli e quello che ti arriva.
Comunque, quando si decide che questi sono gli articoli che entrano poi si fa un lavoro che oggi si
chiamerebbe di editing (forse già allora si usava questa parola) molto molto attento: qui di nuovo ho
in mente il Leonetti che cancella e che ha un’attenzione proprio alla scrittura, alla forma, alla
comunicazione. E’ la stessa cosa che poi si vede in tutta la grafica della rivista, su questo io non
sono certo un esperto però certamente anche lì il significante Alfabeta non si lascia assolutamente
cogliere se non si ha sott’occhio la grafica della rivista. Se poi si va a vedere la grafica di Alfabeta
questa non è soltanto un impianto grafico, un’invenzione che caratterizza la rivista, ma ogni
fascicolo ha una sua scelta, ha una sua omogeneità di tema grafico. Inizialmente più compatta, nel
senso che si pensa alla omogeneità di una sorta di racconto fotografico: allora, dai primi numeri
della rivista le immagini fotografiche sono sequenziali, cioè costituiscono (nella ipotesi astratta, ma
forse in parte anche concreta) un articolo in più, ci sono dieci articoli importanti poi c’è un
undicesimo articolo che sono le foto, lette come articolo. Poi dopo intervengono anche degli
elementi che allargano, che arricchiscono, che articolano questa faccenda e che sono le invenzioni
grafiche e il motivo grafico che corre per tutta la rivista; allora questo Sassi porta in ogni numero
delle sue proposte, anche quello viene discusso da tutti insieme. Uno può dire: “Ma com’è questa
storia, non dovete fare politica? Cosa state lì a vedere il ricciolo?”: certo, dopo queste cose si sono
viste da molte parti, ma poi si sono divaricate le strade, c’è chi ha fatto questo, chi ha fatto una
rivista raffinata, e c’è chi invece se ne è fregato e ha fatto una rivista diciamo di contenuti. Lì in

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qualche modo c’erano entrambe le faccende, il successo di Alfabeta è secondo me questo qua, il
fatto che dava un alimento intellettuale, che faceva mangiare bene, se tu avevi appetito intellettuale
la rivista ti faceva mangiare, ti dava in tutti i sensi qualche cosa e quindi non era un’operazione né
asettica né ideologicamente curvata in un modo stretto.
Forse può bastare ciò per fare questo discorso che ho chiamato dei significanti. Certo, poi pensando
a un utilizzo Internet di questa cosa sarebbe interessante riuscire a fare vedere una copia della rivista
perché se no questo discorso rimane un pochino avulso. Perché poi c’entrano anche i colori su
Alfabeta, forse il primo numero è in bianco e nero poi diventa con un colore di riferimento in
copertina: anche lì, se ci si pensa, è una bella anticipazione rispetto a quello che si è fatto
successivamente, anche Il Corriere della Sera ci è arrivato adesso. Poi ci si divertiva ovviamente in
queste riunioni, erano lunghe, erano infinite, si ghignava perché c’erano tutti personaggi; noi, il
gruppo dei più giovani, che eravamo anche piuttosto amici, noi tre (Formenti, Ferraris che era
ragazzino e io) avevamo poi tutta un’eco di sghignazzamenti tipo scuola, e tutti noi avevamo
imparato ad imitare Leonetti o anche qualcun altro. Leonetti aveva un suo linguaggio incredibile,
era veramente un personaggio inimmaginabile perché è un personaggio a cui dai poche lire per
quello che scrive e che pensa, e invece è una specie di uomo verve incredibile per quello che
riguarda l’invenzione. C’erano liti furibonde, mostruose, incazzature, perché erano diversissime le
sensibilità. Comunque i temi non erano mica solamente i libri, questo va detto con chiarezza: poteva
ad esempio essere una legge, se oggi esistesse Alfabeta mi aspetterei di trovare una serie di articoli
sulla riforma universitaria, trattati esattamente come si sarebbe potuto trattare l’ultimo romanzo di
Calvino, non dicendo “questa è roba da tecnici o da insegnanti”, ma discutendo come stiamo
cercando di fare un po’ su Aut Aut. Tra l’altro abbiamo fatto la presentazione del numero
sull’università qua a Milano, come relatori eravamo io, Dal Lago e Umberto Curi, il quale è stato
anche molto bravo, ha fatto una bella relazione; l’abbiamo fatta alla libreria Rizzoli (perché noi di
Aut Aut in questo momento siamo della RCS). C’erano cinque persone, di cui due amici nostri: è
impressionante come vadano le cose se tu sbagli sede e non costruisci intorno un evento. Dal Lago
veniva da Genova, Curi da Padova, si erano preparati anche dei discorsi molto interessanti, in
sostanza è un’occasione completamente sprecata. Oggi fare cultura a Milano, per me che poi sono
assente dalla città, è molto difficile sapere cosa vuol dire. Noi avevamo questa sede in una piazza
vicino a corso XXIII Marzo, che era le sede della Multipla, la casa editrice, e ci si andava ogni
tanto, andavi lì e trovavi il poeta Porta, la gente andava lì a leggere gli articoli: questo laboratorio
era un mondo. Poi molti collaboratori cominciavano a venire lì, a questo punto poi trovavano anche
dei personaggi fissi perché poi Formenti stava in sede, aveva quasi un orario di lavoro in sostanza.
Formenti ha imparato a scrivere lì: era arrivato ad Alfabeta che maneggiava la lingua italiana in
modo brutale, movimentista, quelle cose tremende, le conosco perché noi avevamo avuto delle
esperienze in Aut Aut di articoli del genere e ci fu molta fatica per renderli potabili (ci si figuri,
potabili per Aut Aut…). E lì ci fu questa esperienza incredibile che poi ha creato la sua dimensione
di uomo di cultura, di giornalista, di persona che ha scritto racconti di fantascienza, romanzi.
Peccato che fossimo pochi (io ero un po’ a metà) quelli che non erano ancora arrivati, ma quei
pochi hanno avuto un vantaggio dal vivere lì. Io ho avuto un vantaggio enorme, non ero più un
ragazzino, quando incomincia la rivista avevo 37 anni, ma devo dire che lì ho avuto un’esperienza
culturale come non ho mai più avuto, né all’università né in Aut Aut. Alcune cose facevano cagare,
altre cose ti interessavano, però ricavavi sempre qualcosa, uscivi da queste riunioni e dicevi “bé,
però…”: ho avuto da un buco uno sguardo intellettuale su quello che mi stava intorno. Poi era anche
un luogo di formazione, tu arrivavi lì e avevi tutta una serie di informazioni su quello che accadeva
in Italia, quello che accedeva in Francia, come se fosse una specie di telescrivente. Sono quelle cose
che se tu dici “adesso la faccio” non ci riuscirai mai, forse perché farla adesso sarebbe del tutto
impraticabile. Forse per quelli che non capiscono perché non lo hanno vissuto che cosa fosse il
cosiddetto movimento (che è tutto e niente, si capisce solo che dovrebbe non essere la stasi) la
descrizione di questa faccenda è un modo per capirlo: c’era questa circolazione, questa
insoddisfazione, questa inquietudine culturale, questo fatto che si aveva sempre qualcuno a cui

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potersi collegare. Queste cose grafiche vengono da un gruppo giovanile di Bologna e le mandano ad
Alfabeta, ma chi sono questi qui di Bologna? Insomma, non potevi mica andare lì e dire “adesso
parlo di Nietzsche”, se parli di Nietzsche non ci fai nulla ad Alfabeta, idem se parli di Marx: andavi
lì e dovevi essere sensibile a tutta una serie di variazioni che accadevano e che ti venivano anche
imposte poi dalla gente che leggeva Alfabeta e incominciava ad usarsela. Sarebbe interessante
immaginarsi, ma non ci riesco più di tanto, quello che sarebbe accaduto ad una rivista come
Alfabeta se avesse incontrato storicamente l’epoca di Internet; però, ci si può pensare perché,
siccome in Internet c’è anche molta inventività, certamente noi avremmo avuto un occhio di
riguardo per il fenomeno se lo avessimo incontrato nella storia della rivista. Può anche darsi invece
che Alfabeta sia morta proprio perché nascevano queste cose, questo è un altro modo di guardare la
realtà.

- Da molte delle interviste fino a qui fatte emerge la grande importanza che ha avuto la figura di
Enzo Paci, non solo in ambito filosofico ma più in generale in un contesto culturale e politico
da cui sono uscite grosse esperienze e soggetti di alto livello. Avendolo conosciuto
particolarmente bene, sia in ambito universitario sia in Aut Aut, qual è il profilo che lei farebbe
della figura di Paci?

Paci è coinvolto nella cultura di sinistra, al contempo ritiene che determinate letture canoniche di
Marx siano da deficienti, per lui questi erano personaggi da non tenere in conto. Quindi, lui ha
l’occhio al fatto che la politica in senso stretto, intesa come politica nel PCI, è più opprimente che
liberatoria. E devo dire, ante litteram, si capisce che avrà una simpatia per i cosiddetti movimenti
extraistituzionali e in particolare, come si sa, lui ha un’adesione quasi empatica (che poi è vista
molto male anche da certi suoi allievi) con il movimento studentesco. A Paci non par vero che a un
certo punto alcuni suoi colleghi crollino attraverso crisi psicologiche e anche fisiche, scompaiano
dall’università quando quei selvaggi degli studenti immaginano di poterla prendere e averne il
potere, e come si sa è l’unico del mondo della filosofia che regge la botta. Dopo di che lui non ha la
capacità di muoversi granché bene all’interno di tutto il reticolo di differenziazioni gruppuscolari
che lì cominciano a mettersi in movimento; ha alcuni, per esempio Daghini e Piana, che gli danno
dei suggerimenti in una certa direzione, però non si è mai schierato comunque nei confronti
dell’operaismo, per quanto poi Piana sia il suo assistente ufficiale all’università e Daghini sia un suo
allievo amico. Se c’è uno “spirito” a cui Paci aderisce è lo spirito del ’68. Dopo di che
evidentemente cosa è successo? Forse almeno da un certo punto in poi Paci non ha mai ritenuto le
cose filosofiche come cose filosofiche e basta, per spiegarmi lui pensava che la fenomenologia
fosse uno strumento per fare la rivoluzione. Potrà sembrare strambo dire questo, ma Paci nei
confronti dei cosiddetti studi fenomenologici di scuola, di cui è pieno il mondo e in particolare la
Germania, certo a questi lui partecipa, va ai convegni (tra l’altro porta anche dietro me in certi casi),
ma non si identifica assolutamente. In sostanza, l’accademizzazione del discorso filosofico è un suo
nemico, e anche l’accademia è un suo nemico: lui ha continuato a parlare in termini molto molto
critici e negativi dell’accademia e ovviamente se tu continui a sputare su qualcosa quella cosa lì se
ne risente un po’, dice “perché continui a sputare? in più ti do i soldi per vivere”. E lui ha proprio
una posizione antiaccademica, ce l’ha quando io lo conosco, quando entro all’università, magari ce
l’aveva anche prima, io parlo dal momento in cui lo vedo.
Ne avevo già parlato nella prima intervista, io faccio un’esperienza in cui il mio riferimento è
Bertold Brecht, è il mio autore, e in cui il mio riferimento in termini culturali è il Piccolo Teatro di
Milano, e le due cose facevano abbastanza coppia. Quando arrivo all’università mi iscrivo a Lettere,
poi sento le lezioni di Paci e trovo una specie di filo di congiunzione tra il modo con cui avevo
capito che poteva servire la cultura e il modo con cui questo signore con l’aria strana, con questo
enorme naso, teneva le lezioni. Queste incredibili lezioni a cui davvero partecipava un pezzo della
città, il che se si vuole è folclore, ma tutto sommato è davvero folclore? Sì, forse è folclore che la
prima fila è fatta di persone impellicciate come si diceva che accadeva ai tempi di Berson, ma già è

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un po’ meno folclore sapere che l’ultima è fatta di bidelli: perché i bidelli vanno alle lezioni di Paci?
Non devono lavorare, per esempio, si direbbe oggi? Allora, Paci è l’insegnamento, io lo riconosco
poco Paci nei suoi libri, per quanto siano interessanti, però lì è irriconoscibile. Paci fa una pratica di
insegnante tale che la città, ma non solo la città intesa come Milano, ha una miriade di suoi allievi
in circolazione. Nelle mie follie deliranti a me sarebbe piaciuto diventare come lui, ho dei modelli
ogni tanto; nella piccola città dove io vivo, che si chiama Trieste, capita che ci siano persona che mi
fermano per strada e mi dicono “mi sono, oppure mia figlia, io stesso, mia madre si è laureata con
lei”. Ora, Trieste è piccola e si capisce, ma Paci davvero ha creato un giro enorme di persone. Io lo
vedo anche dai ritagli degli echi della stampa, mi arrivano quelli con la parola Aut Aut, quindi
chissà quelli con su la parola Paci (però quelli non lo vedo). Viene fuori quando meno te lo aspetti,
quindi lui ha fatto da insegnante, da guida culturale a una quantità sterminata di persone a Milano,
persone che poi sono finite nei campi più diversi. Si tenga conto che a Milano c’erano personaggi di
prestigio, non c’era mica solamente Paci, c’era un tal signore che si chiamava Musatti nell’aula
accanto, oggi la psicoanalisi si mastica ma allora un pochino meno (parlo sempre dell’inizio degli
anni ’60). E poi questo signore che dialogava con grandi personaggi colpiva anche: sono venute
fuori recentemente piccole polemiche sul rifiuto da parte di Sartre del premio Nobel e la persona
che poi ha studiato questo problema (che credo che fosse nel segretariato in Svezia del premio
Nobel) tira fuori una lettera che Sartre manda a Paci in cui gli chiede consiglio su cosa fare. Quindi,
un personaggio veramente di un livello altissimo. A noi sembrava da una parte appunto molto
avvicinabile, finiva le lezioni e si continuava a parlare per delle ore con lui in giro per strada, e
dall’altra parte era questa specie di mostro. Quindi, c’è un folclore del personaggio a cui non siamo
più abituati in sostanza, chi potrebbero essere personaggi di oggi? Che so, Severino, Sgarbi (che
non è mica scemo, è semplicemente deficiente, e sono due cose diverse).
Insomma, Paci era un grande istrione e al contempo aveva una capacità formidabile di usare il
pensiero come arma. E’ chiaro che poi lui incontra per strada Marx, perché l’XI Tesi su Feuerbach
lui poteva scriverla sulla sua porta di ingresso ancora prima di frequentare Marx. Cioè lui pensava
realmente che attraverso lo stile fenomenologico si potesse vivere; ma non solo si potesse vivere,
ma si potesse cambiare il mondo. Tutto ciò può fare sorridere, dopo di che questo stile era fatto di
tanti ingredienti, certamente uno di questi ingredienti era l’idea della comunicazione e comunanza
dei vari settori della cultura, e qui torniamo al discorso di prima, ossia di Alfabeta. Per cui questa
unificazione e unità possibile dei campi del sapere lui la chiamava con una parola che certamente
oggi si usa ancora in filosofia ma non vuol dire più quello: lui diceva fondazione. Ragion per cui gli
architetti si sono precipitati da lui a dire “allora ci viene a tenere delle lezioni, dei corsi, dei seminari
sulla fondazione”, non tanto sui fondamenti ma sulle fondamenta! Lui ci credeva fino in fondo e te
la faceva credere questa faccenda qua: in sostanza quindi tutti i dibattiti sulle due culture che allora
già c’erano attraverso il libro di questo Snow, se vogliamo anche quello che poi è successo dopo,
temi che Paci non ha frequentato per motivi di anni, erano proprio inscritti nel suo modo di
ragionare. Quindi, è un discorso fortemente contrario alla specializzazione, alla tecnicizzazione del
sapere astratto. Contemporaneamente però con un riconoscimento della specificità regionale dei
saperi. Per cui gli anni ’60 sono gli anni veri con cui si può andare a spiare che cosa succede in Aut
Aut trovandoci Paci, cioè gli anni ’50 sono gli anni in cui la rivista comincia a costruirsi, gli anni
’60 è Paci che ha la sua rivista, si sente maturo per farla lui e per usare la rivista come lo strumento
delle sue idee, fare circolare le sue idee attraverso la rivista. Allora, lì si vede proprio che ci sono un
sacco di numeri della rivista monografici su discipline diversissime, un po’ è rimasta in Aut Aut
questa cosa. Il coraggio che ha Paci di fare queste incursioni è legato in parte alla sua autorevolezza
e alla sua sterminata conoscenza delle cose, perché lui poteva sembrare uno che sfarfallava, ma poi
se vai a vedere a casa sua cosa e quanto leggeva e quanto studiava ti rendevi conto che aveva una
sterminata conoscenza, anche dei saperi scientifici; quando faceva delle incursioni sull’economia lui
si prendeva Smith e Ricardo e si faceva un culo così, se li studiava, non è che inventasse. Quindi, in
parte era legato alla sua autorevolezza, in parte al suo osare: ecco, oggi noi non oseremmo più,
anche perché i campi sono diventati talmente stretti che prima di fare un’incursione in un campo

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devi pensarci tante volte. Invece, lui faceva l’incursione su, si vada a verificare se non ci si crede:
sociologia, psicoanalisi, gestalt psicology (c’è un numero di Aut Aut su questo), musica, teatro,
letteratura, antropologia intesa come tale e non come antropologia filosofica. Quindi, in realtà la
rivista a immagine di Paci è molto meno dibattito filosofico in senso stretto quanto sia possibilità di
fare delle incursioni attraverso lo strumento critico della fenomenologia e della filosofia dentro dei
campi che secondo lui avevano bisogno di essere attraversati dalla critica filosofica, rifondati come
diceva lui (oggi ci fanno impressione queste parole). Che cosa fa Marx? Prende l’economia politica
e la rifonda criticamente. Allora, qual è il retropensiero di Paci tradotto in termini molto molto
semplici, dunque che cosa fa Paci? Prende la fenomenologia e può rimettere sui piedi tutto quello
che di scientistico, di oggettivistico, di dogmatico c’è dentro Marx, valorizzando ed enfatizzando
l’elemento critico, l’apertura verso la trasformazione nei confronti di un uomo nuovo. Insomma, c’è
un umanismo in Paci, non c’è il minimo dubbio. Certo, poi se si va a chiedere a Paci quali sono le
modalità tecnico-politiche con cui questo deve avvenire, lui non ti risponde. Rispetto al realismo di
oggi che ci induce a dire “sì, d’accordo, tu vuoi cambiare il mondo ma intanto insegnami come si fa
a spostare questo oggetto sul tavolo, quali sono le leggi che regolano questo spostamento”,
certamente Paci ha delle pennellate più larghe, che forse sono quelle che oggi sono andate perse.
Paci sarebbe andato a nozze nell’epoca in cui si parla di clonazione o di problemi di questo genere
qua perché lui sarebbe intervenuto molto molto direttamente, a testa bassa, convinto, persuaso,
gridando le sue ragioni su cose di questo tipo, facendone vedere i rischi ma anche le apertura. Lui
aveva sempre un sistema doppio di entrata critica, non troverete mai in Paci la distruzione
dell’oggetto: quella che lui chiamava lettura fenomenologica si poteva fare di qualsiasi cosa. Che
so, lettura fenomenologica del portacenere, ci fu anche tutta una specie di ironia su queste cose,
quando Umberto Eco scrive La fenomenologia di Mike Bongiorno, che è uno dei primi saggi di
Apocalittici o integrati, lui guardava con molto interesse a Paci, anche se poi veniva dalla scuola
torinese. Ancora oggi si dice la fenomenologia di qualche cosa, dunque questo è rimasto. In effetti
Paci considerava la fenomenologia come una struttura di leggibilità: se noi volessimo entrare in
questa struttura di leggibilità certamente sarebbe meglio conoscere perlomeno due parole
dell’ascendenza genealogica, cioè Husserl, perché altrimenti si usa la parola un po’ a vanvera, ma se
poi andiamo a vedere come funzionava il discorso di Paci esso funzionava nel fatto di fare venire
fuori l’elemento soggettivo nascosto dell’oggetto criticato in questione. Lui prelevava da Whithead,
uno dei suoi autori più importanti, una nozione che tradotta in italiano io la sento molto famigliare
perché ci ho fatto su la tesi quando mi sono laureato con Paci, ed è concretezza malposta. Ecco,
l’idea di Paci era che c’erano tante concretezze malposte e quindi che tu dovevi andare verso questo
che tutti ritenevano essere concreto, smontare questa concretezza, fare vedere la falsificazione che
conteneva questa concretezza, quindi fare vedere il carattere ideologico diremmo oggi delle
situazioni, ma nel tempo stesso ricavarne le operazioni soggettive che la sorreggevano questa
concretezza malposta. Quindi, insomma, non buttare via niente. Per cui se vogliamo tradurre in
modo farsesco questo discorso (la dico veramente come se fosse una boutade, però fino a un certo
punto), ogni posizione di pensiero allogena per Paci era una posizione di pensiero che alla fine
risultava fenomenologica senza saperlo. Come dire, tu dici una cosa, io ne dico un’altra, adesso io
(un po’ è socratica questa posizione) mi impegno a farti capire che la cosa che tu dici in realtà non è
poi così diversa da quella che ti dico io, semplicemente tu non lo sai. Ora, questa è la boutade,
dietro a ciò si può vedere una presunzione orrenda, dire “allora tu conosci la verità”, ma se poi
chiedevi a Paci se conosce la verità lui diceva che non ne sa niente, proprio socratico, non so niente,
so di non sapere. In lui interveniva un Socrate più l’XI Tesi su Feuerbach, cioè un Socrate che però
poi si serve di questo strumento critico per pensare quell’idea molto semplice che lui aveva in
mente: il mondo deve diventare un mondo di soggetti. Lapalissiano? Certo, ma per esempio questo
dettato lapalissiano mi ha sempre però orientato, devo dire ancora oggi se mi chiedono cosa voglio,
rispondo che il mondo diventi un pochino più un mondo di soggetti. Scusate, non è questo che
vogliamo? Poi magari uno arriva e dice “sì, ma un momento, i soggetti chi sono?”. Paci ha una serie
di risposte, allora queste risposte le possiamo contrapporre a delle altre, per Paci il soggetto è un

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soggetto universale, noi siamo d’accordo che sono universali i soggetti, ciascuno è soggetto? Per
Paci sì, c’è un diritto al soggetto, come se nella carta europea dei diritti ci fosse anche un diritto al
soggetto. E’ un po’ kantiano, certo. A questo punto però si capiva immediatamente che la filosofia
aveva un’articolazione pratica, perché o passi per di lì e ci si chiarisce sulle parole che usiamo, sul
modo di usarle, su quello che vogliamo, o non passi per di lì e tu allora usi delle concretezze
malposte, tipo la parola soggetto. Non so se mi sono spiegato, adesso ho fatto una specie di
contrazione di questo.
Allora, insomma, che cosa ti insegnava Paci? Ti insegnava cose molto semplici: che tra filosofia e
vita non c’era e non ci doveva essere nessun buco, che la filosofia non è una disciplina, un insieme
di normative filosofiche strutturate dentro un pacchetto che si chiama storia della filosofia, sul che
Paci ci cagava, letteralmente, perché lui era molto violento. Se io uso questo linguaggio è per fare
anche capire che il personaggio non era di quelli sofisticati, lui era proprio duro, duro con il collega
della porta affianco che magari si chiamava Dal Pra, non era l’ultimo pirla che passava per di lì, su
cui lui buttava regolarmente il discredito. Figurarsi come lo amavano lì dentro; una volta morto il
maestro, degli allievi alcuni si erano già riciclati alla grande, ad alcuni altri (tipo me) fu detto: “più
presto fate la vostra valigietta e meglio è, perché qua non vi si vuole”, e l’aria che tira in Statale è
ancora un po’ di questo genere, lo spirito di Paci ha smesso di aleggiare. E lì forse è anche un limite
del personaggio, perché uno deve essere anche in grado di costruire degli strumenti di difesa, invece
aveva questa funzione del filosofo libero che alla fine è ovvio che gli fanno bere la cicuta, la città
poi lo ammazza. O meglio, la città poi non lo ha ammazzato per niente, perché lui si spendeva con
gli architetti, con gli psicologi, non si tirava indietro in nessuna delle varianti del sapere milanese,
era molto presente, ma non solo nella vita pubblica, perché poi allora si usava fino a un certo punto
che la vita fosse solo pubblica, lo faceva nelle case, nelle discussioni, nei gruppi, in quello che non
si usa più credo, che le persone e gruppi di intellettuali si trovino in una casa (in fondo Alfabeta
aveva un po’ riprodotto questa cosa qua nella sua redazione) e discutano a lungo una sera nella
forma del salotto intellettuale. Proprio perché Paci aveva effettivamente anche un occhio di riguardo
verso la vita di sinistra, non c’è dubbio. Io non ho partecipato alla fase mitico-mitologica delle
letture de Il capitale all’osteria “lo scoffone” del centro di Milano, comunque credo che da parte di
Paci ci fosse un tasso di esibizionismo, perché il personaggio era esibizionista, ma credo che poi ci
credesse anche. Era molto simile a Sartre in certe cose, c’era un’adesione alla causa dei “dannati
della terra” (prendendo il titolo di un libro di Franz Fanon), alla causa degli sfruttati. E c’erano
anche molti tratti in comune tra Paci e Basaglia, ad esempio: io li ho conosciuti tutti e due, loro si
conoscevano. Loro si conoscevano tutti, ecco, lo vedi se tu vai a scavare nelle biografie intellettuali
di quelli che sono stati abbastanza importanti anche come riformatori tipo Basaglia (nel suo caso è
interessante), se tu non lo sai non penseresti mai di trovare nella biografia di Basaglia Paci, invece
lo trovi: vai a leggere gli scritti di Basaglia, vedi la sequenza di questi scritti usciti da Einaudi e
trovi che questo Paci effettivamente aveva fatto una scuola sotterranea, c’era una filosofia
sommersa. Poi era paranoico quant’altri mai, quindi riteneva che la fenomenologia fosse combattuta
agli angoli delle strade e questo poi era vero fino a un certo punto in sostanza. La sua entrata nel
marxismo produsse da parte dei marxisti anche della reazioni pesanti, perché lui ci entrò
naturalmente con il suo stile, attaccando a destra e a sinistra proprio i marxismi. Con il tempo le
mediazioni sono venute un pochino meno, le cautela anche, allora certi personaggi piemontesi come
Piana cominciarono a vederlo con un occhio diverso; e Paci scriveva nei diari “quel bandito di
Piana, quel traditore, quel capitalista”, povero Piana che non ha proprio l’aria! Perché c’era in Piana
(non solo in lui, però) una sorta di sobrietà, di stile sobrio e austero che non corrispondeva a quello
di Paci. Paci si spendeva: ecco, quello che io ho apprezzato in lui è questa capacità di esporsi e di
spendersi. Lui considerava la filosofia una specie di bomba che si poteva lanciare, il che non era
sempre vero, cioè tu lanci la fenomenologia e non succede niente; dall’altra parte però non è che
avesse questa idea esplosiva della filosofia e poi dopo lui facesse il bravo professore, no, lui
perdeva la faccia ogni cinque secondi, si esponeva ogni cinque secondi. Per cui chi invece cercava
una professionalità, un’etica del comportamento, un pudore o robe del genere scarsamente li

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trovava; poi lui comunque era ospitale, eri certo che trovavi ascolto con lui se tu andavi a dirgli una
cosa nuova, qualunque fosse. Dunque, c’era questa apertura, questa roba qua gli dava una specie di
elisir che gli permetteva di rimanere sempre aperto alla situazione. Poi, certo, ha cominciato a
sentirsi debole a un certo punto, a sentirsi solo e allora si appoggiava ai suoi amici, ha stravisto per
Capanna che era quello che era. Comunque non gli è parso vero che gli studenti diventassero
soggetti o volessero farlo; quando lui ha visto e sentito questo ha detto: “allora io ho ragione”, e lì è
un po’ cascato l’asino perché detto quello non bastava, bisognava fare qualcos’altro. E’ difficile fare
scuola con Paci, la prima cosa che ti diceva era: “guarda, se tu stai con me sei fottuto”; la cosa grave
era che non si trattava solo di una frase ad effetto, era vero, perché se tu stavi con lui non avevi più
nessun tipo di apertura all’università. Però, avevi una capacità di imparare a ragionare spaventosa
(in senso positivo), grandissima. Questo è il punto, per cui lui ha avuto questo effetto poi anche un
po’ di catalizzatore: la fenomenologia come strumento critico, come critica della realtà
dell’esistente, l’esistente non devi mai accettarlo ma bisogna criticarlo, smontarlo, oggi si direbbe
decostruirlo, farlo a pezzi. Era sospettosissimo, “se tu pensi questo vorrà dire che pensi
qualcos’altro”, anche insopportabile poi, paranoico nella sospettosità; però, insomma, c’era
qualcosa che apparteneva alla tradizione marxista in questa faccenda, e c’era qualcosa che
apparteneva anche al pensiero non marxista, la linea Socrate, Cartesio, Husserl, l’arte del dubbio.
Quindi, l’arte del dubbio, l’interesse verso l’irrazionale anche, senza cadere poi in certe forme: lui
era un Razionalista con la r maiuscola, però sapeva che quella parte di irrazionale che c’è in noi va
assolutamente custodita. La barbarie non si estirpava secondo lui, quindi da Ingels Silva, il libro su
Vico negli anni ’50, in avanti questa oscurità del bosco che ti attorciglia con la sua barbarie per lui
era un problema, che poi diventava alla fine il problema del negativo, il problema della negatività
del nulla e, per quanto lui non fosse un pensatore né nichilista né di questo genere, tutti lo
riconoscono giustamente come un pensatore umanista, storicista e razionalista, però c’era questo.
Ma non si riesce a fare stare insieme tutte queste cose, forse perché non abbiamo la scatoletta giusta
per farci stare dentro Paci, è questo quello che osserverei io: era un personaggio che non stava nella
scatoletta, cioè neanche lui stava nella concretezza malposta Paci, qualunque etichetta noi gli
vogliamo dare, compresa quella che io cerco di dargli in questo momento. Faccio tutti gli sforzi
possibili per non farlo stare in una scatoletta, ma ho leggermente allargato la scatoletta, e lui sarebbe
in disaccordo su questo; ciò per quanto poi lui stava nella sua scatoletta, anche questo è vero, perché
poi in fondo fenomenologo era, umanista era ecc., con tutto che si spiazzasse, si spostasse verso la
scienza rimaneva legato alle humanities (come dicono gli anglosassoni), cioè alle cose che gli
interessavano, quindi anche a una cultura non scientifica. Però, sapendo benissimo che bisognava
continuamente fare il passo oltre, cercare di farlo, rompere insomma. Tutta questa roba qua lui la
chiamava con un termine che, tutto sommato, detto così (mettiamola a chiusura del pezzetino) fa
impressione, perché la chiamava enciclopedia; uno può dire che l’enciclopedia non è questa, è
tutt’altro. E lui scrive poi un libro che verrà considerato non il suo libro migliore, ma che lui
considererà invece il suo libro migliore, si intitola Idee per un’enciclopedia, uscì da Bompiani, è
una delle ultime cose che ha pubblicato. E lui su queste idee per un’enciclopedia, che poi era l’unità
del sapere, quella che dicevo prima, il fare stare insieme le cose, lui pensava di averci speso la vita e
pensava anche di avere capito che in realtà quando Hegel parlava di enciclopedia parlava di questo.

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INTERVISTA A RENATO ROZZI – 12 MARZO 2001

Faccio una premessa: io sono in una situazione un po’ particolare rispetto all’ambiente della sinistra
libera fra il ’50 e il ‘60, perché io ero un guaio per loro. Io mi stavo formando come psicanalista
(infatti non ce n’è neanche uno nell’elenco degli intervistati) e come persona che aveva una
formazione filosofica di tipo husserliano, Merlau-Ponty e via di seguito: sono stato io il primo tra
gli psicologi a interessarmi di Merlau-Ponty in Italia, parlo di quasi cinquant’anni fa. Allora la
psicoanalisi, anche in un ambiente così aperto com’è questo, era però sempre qualcosa che non
serviva politicamente all’immediato, era solo una forza culturale; e naturalmente poteva essere
molto critica nei riguardi del marxismo. Posso dire che però questo ambiente, pur in questa sua
chiusura, era veramente aperto, al contrario del Partito Comunista, che inizialmente nei riguardi
della psicoanalisi aveva una diffidenza. Infatti, io sono andato a cercare dei contatti per esempio a
Praga (Freud è nato in Moravia anche se poi è andato a Vienna giovane), dove c’era stata una
grande scuola psicanalitica prima del ’48, e direi prima del ’39 con l’arrivo dei nazisti; questa
povera Cecoslovacchia dal punto di vista degli intellettuali era davvero martoriata. Per merito di
Guido Neri avevamo contatti con l’opposizione comunista al comunismo, con Kosik; io sono stato
uno dei primi a conoscerlo, avevamo dei rapporti riservati, anche con Patocka, grande filosofo.
Queste persone erano a lato, perseguitate, gente che aveva lottato contro il nazismo e adesso era
perseguitata anche dal comunismo, e Kosik era nettamente un comunista, Patocka no. Si può
dunque vedere che eravamo in un ambiente molto aperto, in cui c’erano delle aggravanti nell’essere
critici del comunismo: l’aggravante maggiore era essere di sinistra, perché come si sa in tutta la
storia del comunismo e particolarmente in quei paesi lì i primi che ne hanno fatto le spese sono stati
quelli dell’opposizione interna. In secondo luogo c’era l’aspetto, nel mio caso in particolare, di
partire da una cultura diversa, cioè una cultura di tipo psicanalitico, che parte dall’individuo e non
dalle collettività: ha delle idee sulla formazione di ciò che è collettivo, c’è anche il tentativo di
Freud di capire i comportamenti sociali, ma in sostanza è una maniera di vedere l’uomo dal di
dentro, individualmente, e questo significa semplicemente che per la cultura comunista era
un'estraneità. Infatti, ancora oggi si può dire veramente che da un punto di vista della comprensione
dell’uomo, dell’uomo singolo e dell’uomo psicologico, il marxismo non ha dato quasi niente, per
dirla proprio come stanno le cose. Allora, questo mi poneva in una situazione difficile.
Continuando nelle premesse, all’inizio io ero in una posizione ancora più difficile perché lavoravo
“per il padrone” (ho fatto lo psicologo all’Olivetti): ma la situazione era curiosa perché, all’inizio
degli anni ’60, avevo questi amici con cui in parte mi ero formato negli anni ’50 e che non erano
mai entrati in una fabbrica. Posso raccontare un episodio curioso: la prima volta che quelli dei
Quaderni Rossi sono andati in una fabbrica è perché io gli ho fatto visitare l’Olivetti, erano dei
giovani intellettuali che non avevano mai avuto modo di andare in una fabbrica, parlavano della
classe operaia ma non l’avevano mai incontrata di persona nella fabbrica. Oltretutto io ero anche
l’unico che era entrato alla Fiat, nel senso che attraverso l’Olivetti io avevo fatto due visite alla Fiat
dentro nei reparti, in mezzo agli operai: capivo benissimo, avendo studiato il processo di produzione
all’Olivetti, il processo di produzione alla Fiat, per esempio sono andato a vedere il reparto presse.
Io avevo fatto uno studio sul reparto presse all’Olivetti che è poi stato pubblicato in un libro insieme
a Musatti e a Novara, da Einaudi (un mattone, sono le nostre ricerche all’Olivetti). Era una
situazione in cui io avevo molto più rapporto da vicino, ma un rapporto non direttamente politico
come quelli che stavano all’esterno: però, alla fine per me risultava più politico il mio rapporto, e
questa è già una bella differenza da questi miei compagni, io avevo un rapporto molto più diretto su
fenomeni profondi psicologici e sociali della classe operaia, tipo i giovani, tipo le nuove
lavorazioni. Ho fatto degli studi su quelle situazioni lì: per esempio, un’insorgenza contro il
massimo sviluppo della taylorizzazione che è partita dall’Olivetti ed è partita da un nostro famoso
studio sulle giostre di montaggio, che ha capovolto la situazione organizzativa dell’Olivetti nel
corso dei dieci anni successivi perché hanno capito che era una strada assurda. Ci hanno mandato
all’estero a vedere altre fabbriche, alla Philips a Eindhoven o in Francia nelle fabbriche

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automobilistiche abbiamo incontrato i primi esperimenti che noi già avevamo proposto di tipo
riorganizzativo, con responsabilizzazione a gruppi e le isole di montaggio, che poi si sono allargate
e sono diventate comuni, e in Italia sono sorte proprio all’Olivetti. Gli psicologi avevano
individuato un punto di esplosione del sistema tayloristico, i tecnici l’hanno capito, hanno cambiato
e hanno inventato la soluzione del lavoro a isole: questo è storicamente accertato e io sono stato uno
degli immaturi protagonisti di questa vicenda, immaturo perché non ho saputo trarne delle
conseguenze politiche complessive. Certe intuizioni di allora sono diventate vere al di là di me, io
non ho saputo svilupparle.
La terza precisazione è che una delle prime persone in Italia a parlare di soggettività in senso
filosofico è stato il mio professore, Enzo Paci, che è stato il professore di alcuni di quelli che state
intervistando. L’ambito era quello da cui vengono Giairo Daghini e altri, anche Romano Alquati,
che pure non l’ha avuto come professore, è venuto da questo ambito fenomenologico di sinistra,
antistalinista, che rendeva viva la vita politica alla fine degli anni ’50 e al principio degli anni ’60 a
Milano, ed è confluito nei Quaderni Rossi. Paci no, lui è rimasto un filosofo che parlava in senso
filosofico del problema della soggettività. C’è stato un famoso convegno che è avvenuto all’inizio
degli anni ’60 a Roma e che io ricordo in qualche mia pubblicazione, in cui il Partito Comunista ha
cominciato ad accettare di parlare del problema della soggettività, di solito rimosso dall’oggettività,
dal senso della storia, dei fenomeni materiali, sociali, com’erano intesi dal marxismo stalinista del
Partito Comunista. A Roma c’è stato un incontro con Sartre, che come si sa era di sinistra, ed era
stato vicino al comunismo: è venuto in Italia e la persona che gli era non più vicina filosoficamente
ma più aperta era il professor Paci. Alle Frattocchie a Roma hanno fatto un famoso, ristrettissimo e
poco pubblicizzato convegno in cui per la prima volta in ambito comunista si è sentito porre il
problema della soggettività. Per chi conosce un pochino Sartre e la fenomenologia si capisce che
cosa è avvenuto in quell’occasione lì. Il primo che ha parlato di soggettività operaia in Italia credo
di essere stato io, perché venivo da quella scuola filosofica lì e avevo a che fare con gli operai: era
totalmente l’idea che gli operai fossero oppressi dall’ideologia comunista e non venisse fuori ciò
che erano profondamente. In parte ho avuto ragione, perché si è visto che la classe operaia si è
aperta di più al piacere di vivere, non era così tanto una classe etica che prendeva in mano i destini
del mondo, è stata trasformata dal benessere e dal riconoscere l’assurdità della durezza del
comunismo inteso come (detto in senso psicologico) far conto sempre sulla capacità di sacrificio
dell’operaio e mai sul suo piacere di vivere. In sostanza c’era una maniera così utopica di vedere gli
operai che fu importante l’essere di sinistra e parlare di soggettività operaia in senso politico, come
qualcosa che poteva essere se non rivoluzionario ed eversivo certo alternativo; via via insieme a
questo elemento, che poi è entrato tipicamente nel ’68, c’era anche l’aspetto non politico di vedere i
destini singoli delle persone, degli operai, il fatto che cresceva una classe di giovani che cercava di
non realizzare il comunismo come lo voleva il Partito Comunista, e questo nel ’68 si è visto
benissimo. Il ’68 è stata anche un’esplosione di soggettività, c’erano tutte le parti di tipo ludico e di
tipo “godiamoci la vita”, un esempio era Lotta Continua, non con “godiamoci la vita” ma con una
situazione di libertà, in cui gli individui contavano di più. Al contrario, i raggruppamenti filocinesi
erano invece di una durezza pazzesca. Tra l’altro io ho poi fatto l’esperienza di andare in Cina, che
avevamo un pochino idealizzata, anche se io non sono mai stato filocinese qui in Italia: con
Romano Alquati e alcuni altri siamo andati in Cina nel ’71, eravamo invitati, era una delegazione
prevalentemente di psicologi e psichiatri, c’era Jervis, c’erano alcune persone che erano state
attorno ai Quaderni Rossi. Abbiamo visto fin da allora il disastro della rivoluzione culturale, ci
siamo resi conto che i giovani là erano stati manipolati da Mao Tse-tung, con una distruttività e una
durezza pazzesca, pare che ci fossero stati milioni di morti, c’era una repressione folle, una tale
adorazione di Mao che era veramente il caso di dire “speriamo che muoia perché così
rinsaviscono”. E di fatto quando sono rinsaviti l’hanno fatto su dei modelli purtroppo occidentali,
ma la libertà produce questo: in alcuni paesi socialisti europei la verità è venuta fuori, cioè che
l’uomo non è inquadrabile facilmente in uno schema come quello marxista e che bisogna tenere
presente quello che ha detto Freud, l’uomo risponde prima di tutto a delle situazioni istintive,

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egoistiche e difficilmente contenibili, e che non è facile costruire una persona adulta, che possa
avere il senso dell’umanità e generare qualcosa di politicamente valido per gli altri. Io questo l’ho
sperimentato perché tra quelli che conosco di coloro che state intervistando, naturalmente compreso
me stesso, c’era chi si diceva comuniste ed era un avaro, c’era quello che era di sinistra mascherato
ma aveva delle tendenza autoritarie di destra, c’era quello che era un sognatore e basta e poi
avrebbe potuto sognare dentro un convento: tra di loro c’erano delle personalità bellissime e io ci
sono sempre stato bene, a 72 anni sono ancora una persona che può avere rapporto con loro, come
con il veramente carissimo amico e fratello minore Romano Alquati. Però, questo sempre vivendo
la soggettività (e vedete come diventa complessa la risposta sulla soggettività) come qualcosa che
non è nelle mani del partito, per dirla alla maniera antica, o non è nelle mani della classe, per dirla
alla maniera dei Quaderni Rossi e di certe parti del ’68, Classe Operaia, Potere Operaio: non è nelle
mani di nessuno, perché dal punto di vista profondo l’uomo non è diretto verso delle soluzioni
prevedibili, la sua prevedibilità è molto limitata, non sappiamo cosa succede domani, e da questo
punto di vista si trova molto più a suo agio una persona che naviga nello psichico. Io vengo da una
riunione con dei giovani operatori di un gruppo di matti (di ex persone del manicomio che ora
stanno in piccole istituzioni): questo lavoro dice che io sto ancora seguendo quella vecchia linea che
non era mai valutata. Per esempio, non era per niente valutato il fatto che Basaglia dicesse che la
questione più importante era la liberazione di quelle minoranze perseguitate che erano i matti, i
devianti e via di seguito. Quelli dei Quaderni Rossi non valutavano queste questioni, lo facevamo
solo Jervis, io, ma entrambi non siamo stati nei Quaderni Rossi, eravamo solo vicini. Io sono andato
a delle riunioni perché ero a Ivrea e quindi andavo a Torino, conoscevo tutti, Rieser è stato con me
quando ha fatto uno stage, come Guido Viale, perché hanno avuto delle borse dall’Olivetti: Rieser
poi ha condotto degli scioperi e l’hanno mandato via, quando è esploso il ’68, Viale se ne è andato
da solo. C’era insomma un’apertura da parte di persone che lavoravano in un’azienda estremamente
libera e piena di gente di sinistra, e che però era anche un’azienda che produceva in un mercato.
Tuttavia all’Olivetti c’era gente come me, anche se io avevo delle difficoltà particolari perché ero
uno psicologo. Ho lavorato nell’unica industria che era veramente libera, che dava delle soluzioni
intelligenti, non certo alla Fiat: poi ho cessato di fare lo psicologo del lavoro. Però, questo dice
quante difficoltà ci fossero e come da discipline scientifiche o universitarie diverse (c’era chi era
troppo sociologo, addirittura chi era troppo psicologo, ma peggio ancora chi era troppo psicanalista
come me) la soggettività operaia veniva vista in maniere profondamente diverse.

- Banfi, che è stato un punto di riferimento per Paci, era però nel Partito Comunista.

Rispondo in maniera abbastanza precisa perché si può trovare la documentazione. Io ho conosciuto


Banfi come professore prima che morisse; un grande amico mio e di Romano, Guido Neri, che
purtroppo sta molto male, è stato il migliore allievo di Paci e ha conosciuto anche Banfi, ha scritto
delle cose sul rapporto tra Paci e Banfi, soprattutto sul momento preciso in cui quest’uomo (che era
l’unico anti-Croce formato a livello europeo perché era stato alla scuola di Husserl, era l’unico in
Italia di quel livello lì) è diventato un membro del Partito Comunista. Da quel momento è diventato
uno stalinista e le cose sono cambiate anche dal punto di vista filosofico. Questo momento è
cruciale per la generazione che ha formato me (Banfi, pur avendolo conosciuto, per me è il nonno).
La generazione dei Giulio Preti, dei Geymonat (che però era un po’ uno stalinista anche lui),
soprattutto dei Paci, Cantoni, Dal Pra (erano all’università di Milano, Giairo Daghini e gli altri
hanno fatto gli esami e si sono laureati con questi professori di sinistra), si è opposta al fatto di
entrare in una situazione come quella del Partito Comunista stalinista. Tra i Preti, Cantoni, Paci ecc.
c’è chi è andato in una posizione dissidente tipo Geymonat. Lì si vede bene come la situazione è
drammatica e come produce noi attraverso le persone che non sono entrate nel Partito comunista,
così come produce noi attraverso Paci in quanto dissenzienti non tanto dal Banfi filosofo,
fenomenologo ecc., grande uomo europeo di grande cultura, quanto dal suo diventare il filosofo del
Partito Comunista. Ciò è ben descritto in pubblicazioni di cui una è appunto di Guido Neri. Allora,

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questa domanda è giusta per dire che derivazione abbiamo, ma anche in che maniera noi abbiamo
liberamente sviluppato il concetto di soggettività proprio contro il modo in cui era intesa e rimossa
dal Partito Comunista.

- Romano dice che un grosso lavoro teorico fatto in quegli anni è stato costruire un triangolo i
cui vertici erano Freud, Marx e la fenomenologia, e sostiene che a partire dalla rielaborazione
e da una rilettura delle questioni di questi tre vertici è venuto fuori quello che di nuovo era
possibile fare.

Ha perfettamente ragione. Romano era una delle persone che, apparentemente non interessandosi di
psicoanalisi, era però molto aperto: lui ha ragione a dire questo, è sempre stato molto interessato ai
problemi come venivano impostati dai fenomenologi, di cui Guido Neri era considerato il filosofo,
la testa filosofica, perché era un vero fenomenologo e, come ho detto, è quello che è andato a
sperimentare la posizione nuova, non trotzkista, non internazionalista. Noi avevamo avuto gli
esempi nel ’46-’47: appena tornati dalla Francia in generale i pochi trotzkisti e internazionalisti
erano minacciati dal Partito Comunista. Questa tuttavia era la vecchia storia dei resti dello
stalinismo. Erano persone valorose, erano dei comunisti dogmatici, uguali agli altri che però, come
Trotzki, avevano detto che Stalin era la fine del comunismo. La generazione che noi siamo andati a
cercare era quella che all’inizio degli anni ’60, con un po’ di liberalizzazione, in Polonia e in
Cecoslovacchia cominciava a venire fuori. Si trattava di nazioni che avevano avuto prima della
guerra, cioè quindici anni prima, una cultura di tipo europeo, le formazione non era quella della
Russia stalinista negli anni ’30, era più libera. Allora in Polonia c’era Kolakowski e altri, Kosik e
Patocka in Cecoslovacchia, e chi li ha scoperti e fatti tradurre è stato proprio Guido Neri. Dunque,
Romano ha ragione a parlare anche da questo punto di vista di un’apertura. Patocka era un allievo di
Husserl di altissimo livello, le sue opere in Francia sono pubblicate tutte, in Italia c’è qualche
difficoltà; Kosik era il comunista di tipo nuovo che tendeva a produrre senza tante debolezze quella
che poi è stata la primavera di Praga, un profondo rinnovamento del comunismo: naturalmente era
guardato a vista dalla polizia, ha perso la cattedra ed è stato confinato in un'accademia dove
prendeva lo stipendio di un operaio, però non poteva insegnare, poteva studiare e mettere in ordine
dei libri, non l’avevano proprio reso disoccupato anche perché era stato un valoroso combattente
contro il nazismo. Noi in quegli anni eravamo persone guardate male dal Partito Comunista perché
prendevamo rapporto anche con queste situazioni nuove che però non erano più quelle in cui ci si
accusava di essere trotzkisti: essere accusato di essere trotzkista in Cecoslovacchia prima voleva
dire, come dimostra il libro di Conquest Il grande terrore, le torture e spesso la morte, si sa come i
trotzkisti venivano fatti fuori. Questi no, erano una generazione più giovane ed erano pari a noi, in
un certo senso sentivano che si poteva essere più liberi nei riguardi del comunismo e perciò non
essere come gli internazionalisti e i trotzkisti, è proprio un salto di generazione. Da questo vengono
fuori Guido Neri, io, Romano Alquati, tutti noi, perché noi abbiamo visto come erano patetici i
trotzkisti e gli internazionalisti, erano figure anche belle dal punto di vista etico e del comunismo, si
erano opposti allo stalinismo con grande difficoltà, ripeto che là rischiavano la vita prima di tutti.
Non ci servivano più, sostenevano ancora che la storia deve andare in una certa maniera per forza,
che l’economia ci fa capire tutto dell’uomo, lo studio di Marx era pedissequo (senza conoscere per
esempio i Grundrisse). Ci sono stati invece dei rinnovamenti nello studio di Marx da parte di questa
generazione di cui parlo. E non solo da parte del bel tipo di Toni Negri, bel tipo da un punto di vista
morale perché è un uomo intelligente, ma le sue fughe gli hanno tolto ogni validità etica e ogni
capacità di essere un capo. Io l’ho conosciuto come un intellettuale dal carattere difficile (ecco che
qui viene fuori la mia ipersensibilità psicologica, che non è soltanto moralistica). Comunque, se si
osserva la derivazione da Banfi agli allievi a noi, si vede anche il rapporto con frange della sinistra
che sono completamente diverse: prima di noi, la generazione dei nostri padri, dei nostri nonni,
avevano a che fare con i trotzkisti, noi avevamo a che fare con della gente che ha tentato di
“modernizzare” il comunismo nei paesi socialisti, che è stata sconfitta, che è insorta, che anche a

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Praga ha fatto molte cose belle, ma poi il sistema era tutto bacato ed è finito come è finito. Però,
questo era molto interessante, perché voleva dire essere aperti a tutti gli influssi culturali (tra cui la
psicoanalisi) e rappresentare già il nuovo che poi sbocca nel ’68. Il ’68 in tutto il mondo era pieno
di differenze, i primi a ribellarsi sono gli studenti di Berkeley che è uno dei posti di più alto livello
formativo del capitalismo, poi seguono Francia, Germania, Italia e via di seguito; se vediamo cosa
succede in Cina (è importante leggere qualcosa sulla rivoluzione culturale) è terribile anche. In tutto
il mondo la parte giovane, che supera anche noi, viene fuori nelle maniere più diverse, dagli
anarchici ai situazionisti a quelli che se la vogliono godere ai dadaisti ai libertari ai riformisti ai
cattolici di sinistra ai marxisti tradizionali ai filocinesi. Lotta Continua era uno dei gruppi più aperti,
a Torino è stata importantissima. Però, qui l’elemento della soggettività viene già portato avanti in
prima persona con quelle rivendicazioni anche psicologiche, nel rapporto con i docenti,
nell’antiautoritarismo, le donne, la sessualità che deve essere vissuta prima di tutto perché altrimenti
vince la repressione (Marcuse ecc.). Questo sicuramente sbocca in maniera tale che noi veniamo
completamente superati, la fabbrica diventa meno importante, i Quaderni Rossi scompaiono ecc.

- Romano ipotizza che l’operaismo si sia mosso all’interno di un poligono i cui vertici sono la
politica, la condizione giovanile e generazionale, gli operai e la loro soggettività di cui, a parte
ben pochi, quasi nessuno si è occupato, e la cultura. Con il vertice della cultura ben poco si è
riusciti a fare i conti e alla fin fine ha prevalso il modello della cultura esplicita umanistica
derivante da De Sanctis, Croce e Gramsci, l’esibizione della cultura intesa come letteratura,
storia, arte, architettura ecc. Non si è quindi riusciti a fare i conti rispetto ad un uso critico
delle scienze, della sociologia, della psicanalisi ecc.

E con le scienze della natura, tutti i problemi della fisica e via di seguito.

- L’ipotesi di una scienza altra in realtà è stata quindi ben poco affrontata da questo ambito.

In generale in quel periodo lì non è stata affrontata. Come dicevo, dal Partito Comunista è stata
affrontata pochissimo, per il resto in parte: in mezzo a gente di tipo diverso c’erano per esempio dei
fisici come Cini, il quale era molto aperto, e si poneva dei problemi di filosofia della scienza nuovi,
la scuola di Geymonat. C’erano poi dei sociologi tutti di sinistra. Io ho insegnato negli anni della
contestazione a Trento quindi ci si può immaginare, li conosco tutti: facevano analisi anche rispetto
ad alcune ipotesi come quelle della scuola di Francoforte, Horkhaimer e Adorno, oppure c’erano
delle posizioni americane, parsonsiane. C’erano insomma delle tendenze molto interessanti, però
secondo me il ’68 ha rotto tutto, ha rivelato una società nuova, una società che accettava la verità
del capitalismo, cioè l’elemento istintivo dell’affermazione di sé, e al massimo considerava (almeno
questa è la mia posizione, ma non è solamente mia) il socialismo come una mitigazione delle
pulsioni istintive, ossia come una forma etica, e non come la forma strutturale e storica di
interpretazione del mondo che evolve hegelianamente verso una certa soluzione dei problemi, ma
come una continua lotta, intesa freudianamente, tra l’imprevedibilità e la telluricità dell’uomo e la
capacità della ragione di rendere conto, dare senso, limitare la distruttività potenziale. Ecco, una
parola molto nuova che viene fuori da soggettività è quella di distruttività che l’uomo liberandosi
deve affrontare, più diventa libero e più diventa consapevole delle proprie istanze distruttive, non
solo costruttive. Io tra l’altro ho scritto un libro proprio su questo problema intitolato Costruire e
distruggere. Allora, questo rendeva completamente diversa la visione della soggettività in generale
e in particolare della soggettività operaia. Gli operai hanno sempre costruito le bombe, hanno
sempre costruito le automobili del capitalismo, hanno sempre costruito tutto ciò che inquina, il
problema dell’ecologia è venuto fuori nel ’68 e non prima, quindi tutti gli elementi distruttivi del
costruire sono stati sempre trascurati. C’era l’idea del lavoro come redentore, che era propria di tutti
i comunisti, anche di quelli più avanzati, anche di quelli riformisti della terza generazione (la prima
è quella dello stalinismo, la seconda è quella degli oppositori allo stalinismo, la terza è quella di chi

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rimane di sinistra ma non è più né trotzkista né stalinista, va al di là). C’era questo problema del
fatto che l’elemento portante era l’uomo che lavora, quello che io ho cercato di conoscere vedendo i
comportamenti della classe operaia in fabbrica, questa visione non contemplava mai l’aspetto che è
poi venuto fuori, temibile e distruttivo, che è proprio del lavoro umano, che non è più la sicura
liberazione dell’uomo. Capendo queste cose e andando in fondo si è visto che il lavoro umano ha
sempre “costruito” anche molta distruzione, e in particolare il lavoro capitalista, nel senso del
capitalismo inteso come espressione senza limite della volontà di potenza, della spinta al guadagno
intesa in senso solo economico, senza limite. Senza socialismo il capitalismo diventa distruttivo e il
lavoro diventa terribilmente distruttivo. C’è una prova in più: anche il lavoro nei paesi socialisti è
stato molto distruttivo: io sono stato in Russia due anni fa, liberamente, ci sono andato solo quando
si poteva andare senza gruppi e senza ideologie, e mi è toccato vedere come hanno trascurato
l’ambiente, cosa hanno distrutto. Da questo punto di vista il lavoro nello stalinismo è forse il più
distruttivo, e anche se la soggettività lavorativa non era quella dell’egoismo individuale capitalista,
lo si chiami capitalismo di Stato o come si vuole, ma certamente era ignorante la vera natura del
lavoro, che è un solo tentativo di costruire distruggendo il meno possibile. Allora tutte queste
tematiche assolutamente non esistevano; e quest’ultima, che viene fuori negli ultimi vent’anni del
secolo, viene fuori dall’ecologia, dalle tremende situazioni generate dalle armi, oggi potenzialmente
distruttive di tutta l’umanità, dal fatto che il consumismo e la iperproduzione ormai soffocano
veramente ogni vera vita. E’ col benessere che anche in Italia ci si rende conto che non sono solo gli
americani che rovinano il clima mondiale deforestando il Brasile, bensì sono tutti coloro che
lavorano ad avere una responsabilità nel porsi nel mondo e riguardo agli uomini, non solo nella
natura come la intendono gli ecologisti ma anche nei riguardi degli uomini, come espressivi delle
tendenze distruttive che sono in fondo all’animo umano e di cui il marxismo non ha mai parlato.

- Tornando alle origini, Husserl con la Critica delle scienze europee rappresenta il tentativo di
fare i conti con una scienza altra, almeno fondandola filosoficamente, il che però poi in realtà
non arriva a sviluppi ulteriori.

Sì, la Krisis è un libro fondamentale, ma non riesce ad aprire tutto quello che ci si aspettava, però
era l’unica posizione che si poneva criticamente, non in maniera banale di tipo moralistico nei
confronti della scienza come possono fare una certa parte dei cattolici. Era la presa in esame proprio
della matematizzazione del mondo come ignoranza del vero rapporto col mondo, questa era la
posizione di Husserl. Perciò poneva in crisi non solo l’efficacia delle scienze, ma il loro contenuto
di conoscenza, il modo di conoscere il mondo. E non era certamente come i cattolici che dicono che
il mondo deve essere conosciuto come creato da Dio e pieno di anime: no, era proprio una critica,
questo è sicuro. Io mi sto dedicando alla mia età allo studio dei limiti terribili di quello che noi
abbiamo capito, anche se in quel momento lì noi avevamo capito già molto ed eravamo più aperti di
altri. C’è stato anche un affermarsi personale e sociale, molti di quegli amici di allora si sono
affermati in quegli anni. Io sono diventato professore universitario semplicemente perché ero aperto
alle nuove situazioni più che per quello che sapevo. Poi il ’68 travolge un po’ tutto.

- Un particolare: una delle cose fondamentali che viene fuori in Freud è la capacità, non voluta
però agita, di mettere in crisi il discorso della razionalità soprattutto dal punto di vista
illuministico.

Hai fatto la metà del discorso. Le sue scoperte lo portano a, con punti interrogativi enormi sull’uso
che noi facciamo della ragione, se siamo così affettivi (detto molto banalmente). Però, lui era un
illuminista, cioè l’impianto è duplice. Questo non solo perché lui ha iniziato come scienziato della
natura ed è stato costretto dalle ipotesi che venivano fuori, dall’inspiegabilità materiale dei fatti
psichici, a passare all’indagine dei fatti psichici; ma nel costruire la psicoanalisi viene accusato
ancora oggi di essere stato un po’ un positivista, perché cercava sempre la prova dei fatti, aveva una

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fiducia nella ragione che poteva, pur con voce debole, affrontare l’istintualità. E’ un tipo di ragione,
quella di Freud, non trionfante, che però c’è, altrimenti lui non costruisce niente, e invece quello che
erige lo fa su un materiale esplosivo per l’idea di ragione, ma lo erige con la ragione. Lui dovette
anche difendersi, perché ci sono tutti i problemi della sua scuola per gli attacchi, le accuse di essere
un ciarlatano, di parlare di cose inverificabili, e allora lui poneva dei paletti. Leggendolo oggi si
possono trovare tanto delle posizioni molto avanzate riguardo all’epistemologia, quanto molti
momenti in cui lui, in parte credendoci, ma a volte costretto da politiche di difesa, dice “questo è
scientifico, questo è vero in ogni caso ecc.”. Dunque, anche lì si trova una fondazione ambivalente.

- Jervis ha scritto un libro, Presenza e identità, in cui entrava nei termini della soggettività: tu
cosa ne pensi di come è trattata la questione?

Io sono stato amico di Jervis. Quando sono andato da Basaglia, nel periodo in cui non era ancora
noto, c’erano già lui e Pirella insieme, erano giovani ed erano a Gorizia. Allora lui era contro la
psicoanalisi, era uno psichiatra, giovane, aperto alle interpretazioni di tipo marxista libero, aperto a
Sartre, ma pensava che la psicoanalisi non fosse scientifica. Attraverso varie situazioni, tra cui una
crisi personale e un’esperienza dell’insufficienza della posizione soltanto basagliana, lui via via è
diventato uno psicanalista. Anche lì avviene un percorso di diversificazione notevole di posizioni
che storicamente erano avanzate: quando Jervis era uno psichiatra ha incontrato la capacità eversiva
di Basaglia. Via via questa posizione si è rivelata insufficiente: non è che negasse la malattia
mentale, ma la interpretava solo da un punto di vista sociologico come la reclusione dei poveri,
devianti e via di seguito. Andando a fondo nell’animo umano, visto che con i matti aveva a che fare,
ha capito che per capirli doveva fare ipotesi cliniche, e via via ha ritenuto che le più serie siano
quelle di Freud. L’ultimo suo libro, Il secolo della psicanalisi, è molto interessante perché in un
saggio di 80 pagine (poi ce ne sono degli altri) fa un bilancio della psicanalisi anche da questo punto
di vista, mostrando appunto sia l’aspetto scientistico-illumista, sia l’aspetto estremamente avanzato
che è ancora aperto oggi. Questo è in parte ciò che lui ha vissuto come progressione, tanto che è
entrato in rottura con Basaglia perché questi rappresentava l’elemento eversivo non psicanalitico. Io
ho visto Basaglia trattare male un mio amico psicanalista. Come psicanalista io ero accettato perché
avevo lavorato in fabbrica, con gli operai, se no Basaglia proprio non li voleva. Posso quindi dire
che c’era una confusione creativa, c’era la generosità e la validità di Basaglia, che era un uomo
trainante in un periodo bellissimo: è il periodo più bello della mia vita, la liberazione dei matti è
stata l’unica cosa a cui ho partecipato politicamente riuscita. Io li ho ancora adesso (sono qui nelle
scuole di questo paese e in una villa di Cremona): sono stati liberati dal peggio, ma sono ancora
chiusi, sono ancora matti, sono ancora dei poveri diavoli. Qui siamo riusciti a far sì che le
condizioni umanamente degradanti di queste decine e migliaia di persone chiuse nei manicomi
avessero fine. Io sono stato nel Sud, ho insegnato là, ho visto delle cose terribili nei manicomi.
Questa è una delle cose che la gente dimentica e che non era così estranea a tutto l’ambito dei temi
che affrontate voi, la soggettività, la classe operaia ecc. Anche il Partito Comunista all’inizio non è
stato dalla parte di Basaglia. Come la Chiesa cattolica, il Partito Comunista non ha mosso quelle
idee forza (riprese da Pannella) come l’aborto, il divorzio, che riguardavano soprattutto il mondo
femminile. Poi le riprende ma allora è già tutto diverso. La soggettività non è più quella eticamente
impegnata nella lotta che l’avrebbe resa eroica, quella contro il fascismo, quella che ha dato a
qualsiasi comunista una rendita etica fin troppo grossa per tanti anni, un’ammirazione molto forte.
Molti degli amici fra questi che avete intervistato avevano dei padri fascisti e sono diventati delle
persone che hanno capovolto la situazione. Perciò i capovolgimenti sono tanti soprattutto se
torniamo al problema della soggettività, che mi sembra il tema centrale. C’era l’idea di una
soggettività come quella che era impegnata alla morte nella lotta per la Resistenza e che, ripeto, ha
destato ammirazione e ha dato una grande rendita etica e un grande afflato culturale al Partito
Comunista. Non che stia seguendo la linea di quelli che dicono che la cultura era tutta in mano al
PCI, non è vero, però esso aveva questo aspetto di essere riuscito a centrare gli elementi soggettivi

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degli unici veri combattenti per la libertà, o meglio, non gli unici, ma quelli sicuramente più
rigorosi, che ponevano anche il problema della Resistenza come capovolgimento strutturale della
società. Però, è tutto cambiato da allora, ci sono tanti passaggi successivi e soprattutto l’incontro
con la cultura europea e mondiale negli ultimi trent’anni. Noi abbiamo assorbito la cultura europea
nei vent’anni dopo il fascismo fino a verso il ’68, dopo di che, negli ultimi trent’anni, la situazione è
diventata quella mondiale, c’è stata la globalizzazione anche della cultura. Però, c’è una linea di
sviluppo dei concetti di soggettività da quella tradizionale che pone nella classe operaia l’avvenire
anche etico del mondo, al fatto che adesso nessuno potrebbe dire che gli operai sono alternativi ai
capitalisti.

- Ci sono diversi aspetti e soprattutto diversi livelli di soggettività. Per esempio, la soggettività
operaia, sia individuale sia collettiva, è una cosa, la soggettività politica è un’altra cosa, non
sono sullo stesso livello. In tutte le persone che poi si sono aggregate in gruppi, in dimensioni
collettive o altro, che hanno comunque fatto un passaggio a soggettività politica, nelle cose che
le hanno mosse, nei percorsi che hanno fatto, nello stesso modo di essere, si vede che c’è una
differenza grossa tra soggettività operaia e soggettività politica. Questo è un po’ il nodo della
nostra ricerca, stiamo cercando di capire perché e quali sono state le traiettorie che hanno
portato determinate persone in momenti specifici a fare dei percorsi che se no non sarebbero
stati possibili. Chi ha fatto determinate esperienze di formazione politica e culturale si è poi
trovato dietro un bagaglio che ha successivamente speso altrove, magari primeggiando in certi
ambiti sistemici. Questa generazione che si è formata negli anni ’50 e ’60, anche negli
specialismi, si è poi collocata all’interno della società in termini sistemici. Dunque, la
soggettività politica, che è quella che ha spinto una grossa parte di queste persone a formarsi in
un determinato modo, costituisce uno dei nodi su cui bisognerebbe ragionare.

Visto che la domanda parte da questo problema, soggettività operaia e soggettività politica, io dico
con sicurezza, per quello che ho capito, e cioè per la mia impostazione, che inizialmente non
esisteva nel Partito Comunista la soggettività operaia ma solo la soggettività politica. La
soggettività operaia era infatti annessa alla soggettività politica, e gli elementi più personali e non
politici della soggettività non erano valutati: l’amore, l’amicizia, i sentimenti e via di seguito erano
tutti subordinati all’esigenza politica. Quando si è cominciato a parlare di soggettività operaia, e in
questo caso io sono uno di quelli che l’ha fatto, si è incominciato a interpretarla non solo come
soggettività politica, come era vista dal Partito Comunista e dal marxismo, ma anche come qualcosa
di molto diverso. Per esempio, immettere la visione freudiana della tendenza al piacere voleva dire
parlare di qualcosa che non è immediatamente politicizzabile. Marcuse è uno di quelli che ha teso a
dire che la tendenza al piacere era eversiva e rivoluzionaria, ripreso da alcuni gruppi del ’68. Ma
questa è già una visione ben diversa da quella in cui la classe operaia soggettivamente, in certe
condizioni oggettive, portava avanti il destino del mondo, cioè aveva in mano l’essenza della
politica, era lei a produrre le soluzioni politiche del mondo. In seguito però, quando si vede
veramente cos’è diventato l’operaio, si capisce che non è soltanto un politico: chi è soltanto un
politico è un San Francesco, com’erano state anche valorosamente nella Resistenza persone che
abolivano la propria vita personale perché tanto la vera questione si definiva in problemi di vita o di
morte, era quella per cui combattevano e tutto il resto (moglie, figli, il sesso ecc.) era in
second’ordine. La situazione col tempo si capovolge, nell’elemento soggettivo si prende dentro
l’uomo come lo conosciamo adesso, cioè un uomo non solo ambivalente e contraddittorio, ma
pericoloso, profondamente sempre rinnovantesi: per cui la soggettività è qualcosa che tu cogli in un
certo momento ma il momento dopo non la cogli più, perché è già diversa, qualcosa che non può
essere conchiuso e preso in mano definitivamente da un partito politico. Adesso ci sono delle
situazioni di libertà e di formazione diverse, mentre una delle cose che aveva in mano il Partito
Comunista (che quindi lo rendeva gelosissimo di uno che era di sinistra e psicanalista come me) era
proprio “non toccarmi il cuore delle persone, non svegliare delle cose che in questo momento – e

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questa era già una posizione più saggia – devono essere lasciate stare perché prima di tutto c’è la
politica”. C’era una fortissima gelosia nell’andare a influenzare certe cose, nei confronti di chi come
me si interessava della vita sessuale di tutte le persone, non nel senso banale, visto che anche nel
mangiare uno è sensuale, anche nel vestirsi. E’ quello che hanno rivendicato i giovani, che hanno
spaccato questo dominio comunista della soggettività politica e del proletariato, il ’68 ha messo
proprio a soqquadro tutto. Allora si è avuta un’idea molto più larga e la soggettività politica si
esprime in un’infinità di cose, si esprime anche nel far l’amore, e questo è il ’68, basta ricordare gli
slogan.

- Il marxismo ortodosso ha sempre avuto una visione oggettivante e ipostatizzante della classe:
che rapporto dinamico si può invece pensare tra soggettività individuale, soggettività collettiva
e meccanismi di formazione di una soggettività altra? Rispetto a questo Marx e il marxismo
sono senz’altro insufficienti.

E’ diventato tutto diverso anche questo. Infatti, il marxismo non aveva capito proprio l’importanza
dei mezzi di comunicazione di massa, l’aveva capita prima il nazismo. Una delle ragioni di certe
sconfitte a partire dal ’33 in Germania era proprio il fatto che Hitler andava più direttamente a una
soggettività che per lui poi diventava anche politica, per esempio i risentimenti per la sconfitta, il
senso del “sono io, questo è estraneo”. Senza dubbio è ancora per noi il ’68 che dice che si intende
per soggettività un’infinità di cose che, pur essendo a base biologica, è tremendamente determinata
dai meccanismi di comunicazione di massa, che è il problema che oggi è evidente. La televisione è
la grande educatrice della sessualità e della violenza, perciò della vera politica umana. Non c’è
niente da fare, parlando a 300 insegnanti ho detto: “Ma come fate voi a non fare uno sciopero
generale contro la televisione? In mezz’ora la sera distrugge quello che voi fate in sei mesi. Basta
fare lo zapping e si vedono o coiti o violenze, con una forza insuperabile dal punto di vista del
convincimento: diventano veramente la lezione dell’ovvio di ciò che passa facilmente, che nei
ragazzi è naturale, e su cui voi dovete agire come arginatori e contenitori”. Sto usando in senso
anche psicanalitico il concetto di contenimento delle pulsioni istintive (il far sì che l’umanità non
vada di nuovo a scannarsi per qualche ragione che risulta folle). Ora la situazione è diventata
completamente diversa: una volta il Partito Comunista aveva in mano l’educazione e dove aveva il
potere la manipolazione delle masse la faceva in maniera brutale e poco intelligente, suscitando
resistenze, dovendo ammazzare dicono milioni di persone di seguito perché andavano contro
interessi, tradizioni, culture e via dicendo. Ed è crollato anche perché era costruito sulla menzogna,
uno che viveva in un paese socialista viveva la menzogna giornaliera, minuto per minuto, cioè
proprio la facciata del regime, come per certi aspetti sotto l’ultima parte del regime fascista, che era
molto più tenero e meno manipolatore. Ora, il problema che si è posto oggi, che mi sembra che sia
stato posto dalla domanda, è la scoperta di quanto l’uomo è eterodiretto: dopo la scoperta di quanto
l’uomo è diretto da dentro, dall’istintualità, dal senso della libertà, dal cercare i propri piaceri ecc.,
c’è la questione di quanto è reso massa, cioè è reso collettivo, dal nuovo assetto del mondo, in cui
alla TV l’ultimo sottoproletario di Torino vede le stesse cose che vede Gianni Agnelli. Si pensi che
io da bambino andavo dai miei zii che erano degli agricoltori, qui nella Lombardia civilizzata, che
vivevano in una cascina vicino a un fiume, dove non c’era ancora la corrente elettrica perché era
fuori dalle vie di comunicazione, dove non c’era la radio, dove non c’erano i giornali; i miei
genitori e i miei nonni si sono formati in una situazione in cui tutto quello che veniva da fuori non
sostituiva la formazione attraverso piccoli gruppi, attraverso gli elementi mitici della chiesa o
dell’essere socialisti. Adesso uno viene bombardato in tutti i momenti, c’è della gente qui vicino a
me che tiene accesa la televisione dalla mattina alla sera, la sento quando vado nell’orto, non la
guarda nemmeno oppure la guarda ogni tanto, sente le notizie, poi me le dicono, “si sono scontrati i
treni, che disgrazia”. La tengono accesa tutto il giorno, questo da un punto di vista psicologico
incide in una maniera incredibile, è la vera formazione. Allora, tutto il modo di intendere la

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soggettività è oggi anche preoccupato di quali difese ha la soggettività rispetto a queste
manipolazioni, che hanno una potenza contro cui non abbiamo ancora trovato rimedio.

- Cosa ci dici di Danilo Montaldi?

Sono stato amico di Montaldi, mi sono anche scontrato perché sono diventato una persona che
aveva queste domande da fare ai marxisti e lui era molto duro. Quando eravamo giovani siamo stati
molto amici, ed è stato un po’ il padre di Alquati. E’ un’altra storia, non so neanch’io cosa dire.
Indubbiamente è uno di quelli che quando la società italiana, al di là della propria utopia liberatoria
marxista, esplode nel ’68, è stato messo in un angolo, infatti non appare più. Montaldi era una
persona alla fine degli anni ’50 e all’inizio dei ’60 avanzatissima, come erano avanzati quelli dei
Quaderni Rossi, poi esplode tutto, la nuova società rivela situazioni completamente diverse e la
presa anche utopica e politica sulla soggettività intesa in un modo vecchio non ha più efficacia.

- Una buona parte delle ricerche di Montaldi sono proprio sulla dimensione della soggettività.

Certo, però era una soggettività poetica e deviante, quella dei sottoproletari, degli uomini della
leggera: era bellissimo e avanzato proprio il fatto che nei riguardi del Partito Comunista c’era tutta
una fascia di proletariato che produceva i propri miti in una maniera anche avversa
all’irrigimentazione comunista, in maniera più spontanea, e questo già era un preludio
inconsapevole a quello che scoppierà nel ’68. Nel ’68 c’è l’esplosione in una società più libera di
tante soggettività provvisoriamente accomunate dall’essere quelle dei giovani e di una parte della
classe operaia, ma che vanno in direzioni che non sono più quelle in cui il comunismo indirizza il
mondo. Il ’68 in Italia è la fine del comunismo. E Montaldi l’aveva preventivato attraverso l’analisi
di strati che erano liberi dalla costrizione comunista, era prima di tutto questo. Io l’avevo aiutato
all’inizio delle Autobiografie della leggera: andavamo a cercare la gente che ragionava con la
propria testa, era ai margini della società ma era una marginalità che aveva un significato politico e
naturalmente profondamente poetico in senso alto. Sono come grandi romanzi quelle biografie.
Anche nel secondo libro, Militanti politici di base, è andato a cercare nei militanti gente che tendeva
ad essere libera, ma se intendeva essere libera pur essendo combattente per il comunismo tendeva a
essere indisciplinata o a essere imprevedibile, a non essere più quella che portava avanti un’idea
collettiva sicura e dominata da un partito che la rendeva vincente. Anche lui inevitabilmente ha
mosso qualcosa come tutti coloro che si sono interessati della soggettività, e questo è anche un
senso critico che ho nei riguardi miei, ha mosso qualcosa che ha rivelato che la soggettività umana è
imprendibile. Il proletariato di Montaldi va incontro a gravi problemi e porta in sé non soltanto
l’elemento mitico, liberatorio che gli avevamo attribuito, ma anche delle tendenze alla distruttività e
alla morte (che è poi in fondo l’ultimo Freud, quello che diceva che la coppia polare istintiva è
libido e istinto di morte).

- Rispetto a Nietzsche e ad Heidegger come vi siete confrontati?

Non so, perché qui andiamo su due figure talmente tragiche e grandi che è difficile rispondere. Io
ero troppo giovane quando ho letto La volontà di potenza (nell’edizione sbagliata, a quanto pare),
però sono rimasto folgorato, nel senso della distruzione dei valori, e questo ha agito anche come
riflessione su di me come persona negli aspetti distruttivi della mia vita, e poi vedendolo
enormemente nelle persona che io ho curato. Ciò ha agito molto nel farmi capire poi che la
soggettività aveva in sé anche questo aspetto tragico del nichilismo, della mancanza di fondamenti,
del non sapere dove stiamo andando e insieme del non poter rinunciare a questa libertà soggettiva
che abbiamo conquistato. Questo è brevemente il discorso che riguarda Nietzsche.
Per quanto riguarda Heidegger la situazione è molto più sottile, molto più complessa
filosoficamente: io ho sempre avuto un qualcosa che, nonostante lo senta come un grande filosofo,

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mi fa ritenere che ci sia stato un colpo di scure a metà, rappresentato da quella adesione al nazismo,
nel senso non soltanto etico ma in quanto lui non ha mai analizzato fino in fondo cosa vuol dire
questa adesione da un punto di vista filosofico. Perciò non c’è soltanto un po’ di schifo per questa
cosa che permane di solito in persone come me formate al dogma dell’orrore per il nazismo, su
questo la nostra generazione è stata giustamente dogmatica. Al di là di questo, c’è però il problema
della grande resa filosofica che lui poteva avere dal capire questa situazione in cui era incorso, che
hanno capito altri, come la Arendt o come molti suoi allievi o grandi filosofi attorno a lui che sono
dovuti scappare. Lui non si è comportato benissimo per qualche anno anche nei riguardi dei colleghi
ebrei, per esempio verso Husserl che era ebreo: non è stato un persecutore, lontana da me l’idea,
però la solidarietà non c’è stata, non è stato dalla loro parte, certo non li ha denunciati, non ha fatto
niente contro di loro ma non si è certo prodigato per loro. Però, al di là di questo, il problema di un
uomo così intelligente è che questa esperienza enorme non è stata prodotta in una riflessione su
quello che l’ha condotto a quel punto lì, a quell’errore lì. Credo che tu abbia nominato due figure
terribili della filosofia e del nichilismo europeo fondamentali, Nietzsche e Heidegger. Posso dire
che in una persona come me, per far capire come sono lontani i miei fondamenti, la lettura di
Dostoevskij da giovane è stata fondamentale. Per noi sono stati importanti, per il fatto che non
c’erano prima e che non ce ne avevano mai parlato a scuola, Dostoevskij, Thomas Mann, Proust,
Faulkner, noi siamo stati i primi a leggere questi libri, è stato molto importante, anche questo
andava nella direzione di “l’uomo è più complesso”. Dal punto di vista della soggettività non hai un
romanzo che ti dica cos’è un comunista. Il marxismo non riesce a capirlo, tutti questi grandi
romanzieri sono dei rivoluzionari a loro modo, Proust è uno dei più rivoluzionari per l’uso della
memoria, della lingua, del senso del tempo, è proprio un uomo che va a fondo alle cose, molto
vicino a Freud senza saperlo. Dostoevskij poi è di un’altezza unica dal punto di vista della
profondità e del dramma che avviene già allora in Russia. Abbiamo avuto la fortuna di aver
assorbito questa cultura fin dal ’46-’47, già allora avevamo cominciato queste letture. Noi per
esempio eravamo persone che leggevano Celine: antisemita, collaborazionista, filonazista ecc., lo
ritenevamo uno grandissimo che andava a fondo nell’animo umano in maniera tale per cui ti
metteva involontariamente in guardia su quelle cose lì. Questo per citare un aspetto che allora era
completamente riprovato da un punto di vista etico e della critica letteraria, questo voleva dire avere
coraggio. E direi che la letteratura ci ha dato molto coraggio: per me che sono molto musicista, e
anche Romano è molto sensibile alla musica anche se è più sulle arti visive, la musica è stata
un’altra cosa importantissima dal punto di vista della rottura degli schemi. Io sono stato educato
all’armonia tradizionale, quando sono andato a vedere Fantasia di Walt Disney e ho sentito per la
prima volta la Sagra della primavera sono entrato in angoscia, poi per me Stravinski è diventato
talmente comprensibile come è comprensibile Webern, ma è stata una rottura terribile del mondo
precedente. Direi che forse è la più profonda delle rotture che io ho subito perché è quella che
concerne di più le mie budella. Io capisco nella musica tante cose che non possono essere espresse
che con la musica. E’ come passare dal quadretto del paesaggio a fare uno dei quadri che fa
Romano. Nel ’48 corsi a vedere a Venezia la Biennale, senza neanche i soldi per mangiare e
dormire, per andare a vedere gli impressionisti e qualcuno degli informali. Questo voleva dire
scoprire tutto ma già porre delle basi per una situazione che ci portava completamente fuori da un
certo tipo di cultura. Negli anni ’60 poi eravamo pronti anche ad avere delle grandi aperture e poi a
essere scavalcati dalle cose che non sono più in mano nostra.

- Ancora un nome: Arnold Gehlen.

Io non lo conosco molto, ho un paio di libri. Non ho mai letto un suo libro per intero, c’era anche
lui, addirittura è stato tradotto da un amico nostro, del nostro ambito, quasi tutti i miei amici hanno
avuto rapporti con le case editrici, dalla Feltrinelli dove ho pubblicato il mio primo libro all’Einaudi
e via di seguito. L’interpretazione della tecnica e del costituirsi della visione della tecnica era molto
interessante, è un po’ lontano ma è un altro che è servito, però non l’ho approfondito.

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- A un certo punto c’è anche un gruppo, al cui interno c’è Bertolino, che cerca di introdurre la
fenomenologia nella psicologia.

Troppo tardi, gli unici che avevano una vera impostazione fenomenologica erano uno psichiatra che
si chiamava Carniello, che era molto avanti, era molto solo, e in parte Basaglia nella sua parte non
di capopopolo. Poi è entrata più attraverso la psichiatria e in alcune visioni psicanalitiche della
fenomenologia, per esempio Bisvanger. La descrizione di grandi sindromi che fa Bisvanger è
proprio quella che necessita dello sguardo fenomenologico, cioè di mettersi da un punto di vista
diverso.

- Bertolino aveva scritto uno o due articoli nel ’58 o ’59, poi praticamente si era completamente
staccato da Aut Aut, probabilmente si è trattato di un passaggio molto veloce.

Io allora ero con Paci ma non me lo ricordo, l’ho sentito nominare negli ultimi quindici anni. Aut
Aut era aperto con Paci ad una visione fenomenologica della psicologia. Io mi sono laureato con
Paci e Musatti, li ho visti attaccare lite sul fatto che Musatti ha detto a Paci: “tu mi stai rovinando
Rozzi perché lo stai facendo diventare un filosofo, invece deve fare lo psicanalista”; e naturalmente
Paci mi diceva: “ti raccomando di non diventare un positivista, non fare lo psicanalista e basta”.
Questa era la situazione. Però, lì alla Statale tutto sommato c’era il positivismo psicanalitico di
Musatti, che doveva introdurre la psicologia in Italia, i primi concetti, doveva avere pazienza, essere
molto rigoroso, essere “scientifico” perché anche lì c’erano tutte le accuse di essere dei maneggioni;
ma quando si trovava con Paci veniva fuori la parte filosofica di Musatti. Io ho lavorato molto con
lui e l’ho conosciuto bene. E’ venuta fuori la parte filosofica di Musatti e allora c’erano delle cose
molto interessanti da un punto di vista filosofico rispetto al rapporto tra fenomenologia e
psicoanalisi. Chi ha avuto l’influsso maggiore su questo rapporto è stato Merlau-Ponty: la prima
volta che io ho trovato una cosa di questo genere è un capitolo de La fenomenologia della
percezione, molto bello, in cui faceva i conti da grande fenomenologo con la psicanalisi. Quelli
erano gli inizi veri a cui forse può essersi ispirato anche Bertolino, perché se l’articolo è del ’58 io
mi ero già laureato e avevo già citato Merlau-Ponty nella mia tesi.

- Cosa ci dici infine di Castoriadis?

L’ho conosciuto attraverso Montaldi. E’ venuto a Cremona Morin, ne ho parlato con lui perché era
nel loro gruppo di Argument (e noi Ragionamenti), ed era la persona più aperta alla psicanalisi che
abbia mai sentito tra i marxisti e quelli della sinistra antistalinista, tanto che ha finito per fare lo
psicanalista. Là senza riprovazione perché erano più avanzati, erano un gruppo vasto di gente,
mentre uno come me era invece venduto al padrone ed era un prete perché curava le persone, questa
era la cultura italiana di allora.

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INTERVISTA A ORESTE SCALZONE – 24 MAGGIO 2000

C’è una cosa, tra un milione, che mi colpisce, per usare un eufemismo. E’ della serie delle cose che
mi sembrano l’assurdo obbligatorio (c’è l’assurdo, il teatro dell’assurdo, le rivolte logiche, come si
chiamava anche una rivista in Francia); non è che sto difendendo la razionalità occidentale, con tutti
i suoi presupposti e corollari, la perfetta logica sequenziale, il terzo escluso, l’ordine del discorso.
Viviamo alla fine di questo secolo che poi, dal principio di indeterminazione in giù, e dalla
grandissima macelleria che è stata la Grande Guerra in giù, o da tutte le rotture epistemologiche e
dei linguaggi che sono state sperimentate, ha messo in discussione molte cose. Sempre della serie
cerchiamo di procedere con precauzione (come Spinoza aveva fatto scrivere nel suo blasone),
precauzione che non vuol dire il pensiero moderato e timorato, anzi vuol dire il contrario; parlo di
quando si pensa qualcosa, e soprattutto ci si arroga il ruolo di pensare ad alta voce, pubblicamente
(come diceva Tronti) e soprattutto se ci si giova di una delle conseguenze della divisione sociale del
lavoro, che è avere (malgrado le trasformazioni del lavoro oggi e l’intellettualità di massa o operaio
sociale eccetera) il ruolo, che ha una lunga persistenza al di là della sua caducità ed estinzione nei
fondamenti delle produzione sociale, di intellettuali, ovverosia di clero, di supposti saperi, di maitre
a penser, opinion-makers, cioè di fabbricatori dell’opinione (al maschile e al femminile, non è che
qui parlo solo dei maschi, ma sessuiamo o usiamo il maschile come viene usato come se fosse il
generale astratto). Questo ruolo sarà obsoleto nei suoi fondamenti, ma non per questo è sparito: non
è che perché parliamo di general-intellect dobbiamo pensare che non esista oggi il privilegio e il
pregio, esiste anche quello dei mullah, dei preti, dei rabbini e così via, figurarsi quello dei filosofi,
dei matematici, dei politicanti, esiste anche quello dei maestri di scuola. Dunque, teoricamente
dovrebbe esistere una responsabilità sulla fabbricazione dei concetti, non è nemmeno la
responsabilità tra il dire e il fare, ma la responsabilità specifica dell’organizzazione del discorso che
in qualche modo viene calato dall’alto e ampiamente ancora oggi, tuttora. Prima dicevo i filosofi,
poi vorrei dire i pubblicitari, i giornalisti, quelli che manipolano l’immagine; oggi si dice che
viviamo nel mondo delle immagini, il che è vero, ma è come se invece prima la gente non si
formasse leggendo: è chiaro che la più grande rivoluzione è tuttora stata Gutenberg rispetto a tutte
le internet che possono fare, perché si pensi all’immagine a colori che si formava nella testa delle
gente anche se leggeva la Bibbia con una candela. Tutti questi stronzi pensano che l’immagine
l’hanno inventata loro perché fanno televisione; poi non sto facendo il conservatore, però
bisognerebbe anche parlare senza scorreggiare necessariamente in forma di parole.

Detto tutto questo, io trovo una cosa, una cosetta, un piccolo gioco, un paradosso. Quando sono
diventato operaista per me è stata una rifondazione straordinaria; in realtà non si inventa mai niente
dal niente. Mi sta venendo in mente adesso (e a questo passaggio è la prima volta che ci penso)… è
un metodo (poi farò un passaggio su questo) che è un po’ veramente come nell’analisi, non sono
mai riuscito a fare una vera analisi, però è forte, perché è proprio un meccanismo di scavo, con
passi di analogia, e secondo me in campo storico potrebbe dare dei risultati interessanti. Senza
riassumerla qui, io racconto spesso che molte volte comincio dalla filogenesi perché dico che in
questa situazione bisogna parlare continuamente di sé; i fessi pensano che questo è per
egocentrismo, per narcisismo, poi quand’anche lo fosse, i fessi fanno parte della genesi dei
castratori del piacere, eventualmente. Invece dico così per una cosa che potrei riassumere
banalmente. Nel cinema viene chiamata sequenza insoggettiva quella in cui ciò che si vede è come
fosse visto dallo sguardo del protagonista. Dunque, si presenta come oggettiva la sequenza
insoggettiva: la cartolina è insoggettiva e vi è scritto Capri, in realtà è Capri vista dall’obiettivo del
fotografo posto sulla collina di Posillipo, invece c’è scritto Capri, come se quella fosse la Capri
oggettiva. E la sequenza insoggettiva oggettivizza quello che vede più di tutte; quell’altra invece, in
cui il protagonista si vede, come nel film, non si chiama sequenza insoggettiva, si può chiamare
piano americano eccetera. Questa in realtà è molto meno oggettivizzante, perché si vede che c’è uno
che sta riprendendo il protagonista; quindi, se ci si pensa, c’è un gioco dal punto di vista del

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cameraman, quello del protagonista, quello che il protagonista vede, lui che lo sta vedendo. E’
molto più veridica. I puri saggi di filosofia sono come una sequenza insoggettiva; mettiamo che uno
parli dell’esistenza di Dio e, senza scadere nel materialismo volgare condillacano, come diceva un
altro (mi pare che sia Nietzsche) bisognerebbe anche sapere come digeriva Hegel mentre scriveva
La fenomenologia dello spirito. Dunque, di quelli che parlano dei massimi sistemi mettendosi
sempre fuori dal campo, forse è relativamente importante, non è tutto, sapere se mangiavano o non
mangiavano mentre scrivevano, come direbbe anche Spinoza, se avevano da mangiare o no, o se la
moglie li aveva piantati. Quindi, in qualche modo, dare continuamente, come in un dolby, una sorta
di giornale autoriflessivo, in questo mondo in cui è così corrente, e a me deriva da osservazione, poi
i termini magari me li sono andati a cercare nel vocabolario, che è un modo diverso da mettersi a
sedici anni a dire “adesso studio il vocabolario”. Hai delle manifestazioni, che spesso sono dei
conati nella compagneria, o quando riescono sono dei dispotismi, che si potrebbero definire
autolatrici, o egoarchistici (da egoarchismo, come c’è la monarchia, l’oligarchia eccetera).
Naturalmente è un’evidenza, che è come quando, pure nel senso comune, si dice l’arrogante che poi
sotto è un complessato e via dicendo, ossia nascondono un profondissimo scontento di sé. La faccio
breve, perché potrei parlarne per dei libri immaginari uno dietro l’altro portando le casistiche e gli
episodi, con la minuzia di una monografia psichiatrica o di una ricostruzione etnografica, con tutte
le localizzazioni, le certificazioni, anche attenendomi solo a materiali scritti e pubblicati, dunque più
accertabili nelle emeroteche; si assiste continuamente a un gioco di relazioni (io ho questa
sensazione, non credo di essere l’unico a pensarla perché mi turberebbe dover pensare che sono una
specie di genio o di sapiente, il che non è vero, quindi penso che sono uno di quelli, ce ne saranno
altri, che per motivi strani non si vieta e interdice di pensarlo, non gli fa schermo nemmeno lo status
di sapiente che, siccome è molto colto e sa molte cose, non si lascia a volte andare a dire le cose non
dico come stanno, ma come le vede, le ascolta e gli vengono addosso). C’è un termine (ma magari
contemporaneamente ci saranno dei libri scritti e quindi sono felicissimo se arriva uno sapiente e
colto che mi dice “ma non lo sapevi? lo scopri così? quello ci ha scritto un libro!”) che allo stato
attuale delle mie conoscenze, come diceva Foucault, per me è un neologismo che ho fabbricato e si
chiama autoerotomania. A uno di Terni erotomania fa pensare alle giarrettiere e cose simili; se
invece andiamo a guardare, non dico nei testi o in un dizionario di psicologia, ma nello Zingarelli
troviamo il termine erotomania. Definizione: illusione di essere amati/o/a da qualcuno. E il
riferimento classico, o per così dire neo-classico (perché molte delle cose dell’andamento e dello
scavo psicanalitico sono soprattutto novecentesche, poi puoi ritrovarle dalla tragedia greca a
Shakespeare, dal poeta latino a tanta letteratura, non è che si inventa dal nulla), è la famosa tesi di
Lacan che si chiama Il caso di Enè, che è il nome che lui mette così come Freud scrive Il caso di
Dora, è una monografia. Questa Enè è una donna di cui Lacan si è occupato, che ha avuto in
terapia, e che aveva tentato di uccidere un’altra donna di cui lei era innamorata: la cosa che era il
rompicapo più terribile e difficile da smontare non era che lei diceva che amava quella e voleva che
stesse con lei, ma “lei mi ama, e se non lo riconosce è perché c’è questo e quell’altro che le fa
schermo”, quindi è l’atteggiamento del maieuta. C’è stato un caso, che abbiamo conosciuto, di uno,
che poi è stato a lungo psichiatrizzato, che era innamorato di una compagna che abitava con noi; la
cosa è durata un anno, con finestre sfasciate, irruzioni eccetera. Questo era un compagno e anche
intelligente, poi c’erano delle specificità (il padre algerino, la madre francese), ma queste sono
specificità, io sto parlando del modello. Lui mi diceva: “E’ lei che mi usa violenza perché rifiuta il
mio amore, lei è la donna bianca e io sono…”; io gli rispondevo che questa allora diventa una teoria
del ratto della sabina. Perché lui era veramente pericoloso? Perché nella sua testa non era un bruto,
tutta la sua cultura gli interdiceva di dire “voglio quella e me la prendo”; diceva che voleva portare
alla luce il suo vero desiderio.
Si potrebbe estendere il concetto di erotomania, perché sembra un gioco di specchi. Agamben una
volta aveva fatto un seminario molto bello sul Trattato sull’amicizia di Aristotele, in cui ci sono i
concetti di autofilia, eterofilia, e di come siano l’uno costitutivo dell’altro: se odi l’altro in realtà
sotto c’è l’odio di te, per te stesso, lo scontento, il malcontento; e anche viceversa, sono

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reciprocamente costitutivi, e anche il contrario è reciprocamente costituito. La caccia viene prima
della strega, è un dispositivo, quasi fosse una categoria dello spirito; viene prima il dispositivo del
braccare e poi il capro espiatorio che ti trovi (la strega, l’eretico, l’ebreo, l’albanese) e spesso è
reciproco. Questo orrore non è vero del diverso, l’orrore di quello che, essendo identico, mette in
discussione la tua identità: troppo identico, come gli ebrei sefarad e gli arabo-palestinesi, come i
greci e i turchi che in realtà mangiano la stessa cucina. Si dice che l’altro è il diverso: con il diverso
è un rapporto di forza, è proprio l’identico che devi distruggere e annichilire. Il diverso è un
qualcosa per cui in italiano e in francese non c’è la doppia parola, ma in latino e in tedesco sì, e Carl
Schmitt questo lo sapeva bene: hostis, il nemico pubblico, e inimicus, il nemico privato. Sono due
passioni diverse, il discorso cambia quando le metti assieme, quando pretendi che Berlusconi, che
designi come il nemico pubblico, sia anche vissuto come il nemico privato, il traditore, quello che
ha portato via la moglie di ciascuno. Noi abbiamo designato dei nemici pubblici, eravamo contrari
all’omicidio politico non perché fossimo più buoni, forse sarebbe stato necessario anche escluderlo
per etica, ma all’epoca lo escludevamo semplicemente perché pensavamo che gli esiti contino,
anche eticamente, e che c’era più il tiranno personale, e che anche il tiranno diffuso non poteva
configurarsi come una molecolarità di microtiranni, ed eravamo già in un mondo in cui il capitalista
è funzionario del capitale, come sosteneva Marx. Il quale a un certo momento diceva che il
comunismo libererà anche il capitalista; non era un volo lirico o umanitario, intendeva dire quello
che poi il trontismo ha molto messo in chiaro e che all’inizio stupiva: prima la classe operaia, poi il
capitale. Uno si chiedeva cosa volesse dire, e invece sì. Sociologicamente (si prenda nel taylorismo)
il denominatore comune che fa della classe operaia un denominatore compatto è visibile, si taglia
con il coltello, nei paesi anglosassoni veste alla stessa maniera, con una sua divisa diversa, con il
berretto invece che con la bombetta; e la massa umana, prima schiava, contadina, vagabonda, che
poi può essere messa in una situazione in cui si trasforma nell’operaio, esiste per così dire in natura,
la virtualità della forza-lavoro sociale esiste “in natura”. Quindi, per riprendere la distinzione l’in sé
e il per sé, una classe operaia in sé esiste; la borghesia è un concetto volatilissimo, si provi a
definire la borghesia (per usare questo termine sul quale poi Gaspare De Caro aveva scritto un
pezzo per decostruirlo completamente) in sé, nel senso dell’in sé e del per sé hegeliano. Per
definizione è un ammasso di concorrenti l’uno contro l’altro; la borghesia (se vogliamo parlare di
borghesia) deve essere prima per sé per poter essere in sé, o (detta in termini che non sono nostri)
per poter avere una coscienza di classe, capire che le conviene coalizzarsi contro quei figli di una
mignotta dei proletari, e che questo fa agio sul fatto di essere sempre in guerra con il tabaccaio
vicino per la concorrenza. Deve passare per un livello di coscienza, non è “immediato”. Uno mi può
dire che anche tra i proletari sul mercato del lavoro c’è concorrenza, c’è quella tra l’offerta, quella
tra la domanda, prima che si capisca che poi è più importante la concorrenza al dunque tra tutta
l’offerta e tutta la domanda, questo non è immediato; poi sul mercato del lavoro la concorrenza può
essere meno civilizzata e più feroce, uno è razzista, anche a Villa Literno ammazzano i neri perché
non accettano di raccogliere le cassette di pomodori per mille lire. Sì, però voglio dire che per gli
altri è proprio costitutivo, mentre questi quando poi li metti insieme è relativamente facile che scatti
l’idea che hanno un denominatore comune. Dunque, prima la classe operaia (forse lì potremmo dire
il proletariato o le classi dangerose) e poi il capitale; e così prima il rapporto di capitale e poi il
borghese: prima logicamente, e non come ricostruzione necessariamente genealogica. Comunque è
chiaro che, nel rapporto di capitale, storicamente si è secreta, prodotta società. La cosiddetta
“borghesia” si concepisce come tale a partire o dalla cultura borghese, come diceva Asor Rosa in
Scrittori e popolo, cioè da un’autorappresentazione colta, che poi diventa morale, letteratura
eccetera; oppure dal concepirsi come classe generale, come società. Un proletario in certe fasi ha
abbastanza facilmente la coscienza “noi e loro, noi proletari, io sono un proletario”; è difficile che
un borghese dica “io sono un borghese”, dice “io sono la società”, c’è un’autouniversalizzazione, si
concepisce come società non come classe, quindi forzosamente come classe universale. E in realtà
non ha un partito, e non ce l’ha storicamente, perché (a parte in America che va diversamente) il
partito che crea la foma-partito è la socialdemocrazia tedesca, weberianamente proprio. Il partito del

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borghese è lo Stato. Senza Stato, senza cultura della borghesia, senza surrettizia
autouniversalizzazione (per cui si concepisce come società, valori, la repubblica e tutto il resto) mi
si vada a identificare la nozione di che cosa è questa borghesia, quella che i marxisti-leninisti
parlano di borghesia e proletariato. E Tronti lo dice con una parola, a un certo momento
rovesciando l’analisi: prima la classe operaia, poi il capitale. Sfido chiunque a sostenere se all’inizio
non ci si chiedeva che cosa stesse dicendo.

Io spesso parto da questo discorso di me, allora spesso (risalendo alla filogenesi) mi piace dire che
se guardo al mio tracciato famigliare (che non va lontano perché era di tipo proletario, non ci sono
le genealogie) è paradigmatico di un qualcosa che sta nel senso comune a cavallo del secolo e nella
Prima Guerra Mondiale. Terni è una città che è come se avesse un destino industrialista, una città di
immigrazione, creata in epoca preromana tra due fiumi (si chiamava Interamna), trovasi che c’è la
più alta cascata d’Europa, quella della Marmore, che però è artificiale, fatta all’epoca di una delle
rivoluzioni agrarie da un console romano, Curio Dentato, per motivi irrigativi: in alto c’è un bacino,
il lago di Piediluco, e un fiume, il Velino, che creano questa cascata di 167 metri. Sembra come un
destino, perché quando comincia l’industrializzazione, è un luogo naturale di localizzazione di una
centrale idroelettrica, quindi è, con Piombino, uno dei focolai della metallurgia pesante in Italia.
Questa cosa crea una città del lavoro, che diventa diversa dal resto dell’Umbria; ci sono templi
preromani, ma è stata distrutta al 75% perché, facendo la produzione di guerra, veniva cercata, la
stazione bombardata eccetera, ed è stata ricostruita come un sobborgo di Teheran. Tra le città-
giardino fatte dal fascismo e i palazzoni della deportazione operaia fatti dai sindaci comunisti del
dopoguerra, ha questo carattere brutto. Però è sempre stata una città, come io racconto della mia
infanzia, dove relativamente non avevi l’idea del povero come qui ti perseguita semplicemente
andando a comprare il giornale a Les Halles la mattina; avevi l’idea della tristezza del lavoro, della
città operaia e dunque anche impiegatizia. Città di immigrazione interna, quindi molto
“cosmopolita” tra gente della penisola italiana. Le zone povere non sono solo il Sud, ma è anche il
Veneto (come sanno i torinesi) e anche le zone bracciantili della Romagna, e il padre di mio nonno
era emigrato dalle Romagne alle miniere di Morgnano, è morto nel 1888 in miniera, e all’epoca il
figlio di cinque anni venne assunto a staccare i carrelli. Mio nonno, dopo sessant’anni, alla fine era
maestro del lavoro, quindi autodidatta, comunista di un comunismo produttivista, scientista,
giansenistico, che faceva le maquette del moto perpetuo; era quindi un grande raccontatore
dettagliato, poco spettacolare, di tutto questo. Anche mio padre era immigrato a Terni, aveva dieci
anni in meno del mio nonno materno, ed era partito dalla terra dei mazzoni, che era come il far-west
italiano, ossia il retroterra napoletano; alla Grande Guerra è sottoufficiale, avendo fatto tre anni di
scuola, ed è lo schema che poi si vede romanzato in Uomini contro. Delle volte dico ai francesi che,
quanto meno, i fantaccini che sono andati a morire in un impasto di sangue a Verdun, parlavano la
lingua degli ufficiali grosso modo, invece quelli come mio padre o i calabresi o i siciliani (non loro
ma magari la truppa) somigliavano più alle truppe di colore che si sono fatte massacrare perché in
Francia le mandavano sempre allo sbaraglio già nella Prima Guerra Mondiale: che cosa avevano a
che fare con un ufficiale che dava ordini in piemontese? Quindi è chiaro che tentavano di scappare e
li fucilavano: Isonzo ’17 è un libro che documenta questa cosa, L’inverno sull’altopiano di Lussu è
più romanzato, il film di Rosi con Gian Maria Volontè Gorizia sparate sul quartier generale è
bello, ma insomma… Mio padre era bersagliere ciclista, quindi era proprio una cosa da proletari, le
biciclette con le gomme piene nelle trincee sono peggio dei muli. E’ ferito, fatto prigioniero e lì
viene raggiunto dalla propaganda socialista, un po’ come le storie di Pertini, stessa età. Aveva
un’attitudine che comunque per me è stata molto simpatica, forse per le mie sorelle meno perché è
molto patriarcale, però era un tipo con un atteggiamento empatico verso il mondo, era assai
trasversale; gli era completamente estranea la nozione di risentimento, quindi ti poteva parlare di
Francesco Giuseppe come in qualche modo di un conoscente, il nemico è un nemico ma è un
conoscente, vivi nella stessa epoca. Finita la guerra torna, non si ritrova, diventato socialista fa il bel
gesto di lasciare la sua parte di eredità, neanche fazzoletto di terra ma di acquitrino, e parte alla

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società umanitaria con una borsa ed è lì poi che studia cooperazione sociale, contabilità eccetera;
viene successivamente mandato a Papigno, che è un altro paese nero di claciocianammite (adesso
l’hanno usato per ambientarci La vita è bella di Benigni). Nel ’22 ti racconta la scena del drappello
di carabinieri sul ponte che teoricamente doveva fermare la colonna dei fascisti, questi che
sfasciano la cooperativa, quindi lui torna a Napoli, fa una vita di contabile un po’ precario, con
quattro figli. Dopo, negli anni ’30, trova poi un posto come contabile alla Società Terni, che sono
proprio le acciaierie; alla Liberazione diventa capo del personale, negli anni in cui serviva una
mediazione di un socialista, perché è chiaro che c’è questa forza-lavoro sociale che nel ’36
compattamente compare nelle foto della visita di Mussolini e che poi è compattamente comunista
(si pensi ai libri di Romolo Gobbi eccetera). Allora mi viene in mente che sembra uno spaccato del
nodo del diciannovismo e del ’22, quando perfino Gramsci dice: “L’impresa di Fiume, il
dannunizianesimo, l’arditismo erano ambigui, i socialisti erano incapaci di avere l’audacia di
egemonizzarli, noi, la frazione comunista, eravamo troppo piccoli, se no potevamo fare in modo che
buttassero a sinistra”; ci sono note di Lenin che rimprovera al Partito Socialista di aver lasciato
andare via Mussolini, e questo ormai la storiografia lo mette in luce. E lì cosa passò? La scissione
verticale tra gli operai, quelli delle occupazioni delle fabbriche, che ad un certo momento nel
dopoguerra vanno all’attacco; naturalmente c’è del vero quando i terzomondisti li chiamano
aristocrazia operaia che rivendica la sua parte di torta di profitti di guerra, ma noi abbiamo il punto
di vista sulla rude razza pagana, non è che sia una questione morale, però è chiaro che i 600.000
morti sono dei contadini del Sud, perché gli operai, come mio nonno, non hanno fatto la guerra in
quanto facevano la produzione di guerra, hanno fatto gli scioperi. La guerra la facevano i braccianti
e i contadini perché gli operai dovevano fare la produzione di guerra; in Francia c’è stato l’inizio
della femminilizzazione anche della metallurgia, in Italia no. Però è chiaro che dopo gli altri li
sentono come degli imboscati, e se c’è più forte l’egemonia che fa percepire i contadini come
reduci, passa come una lama nel burro. Lenin in questo è un genio della tattica perché riesce a
organizzare. Erano le discussioni tra i sovietologi se l’Ottobre è stata una rivoluzione o un colpo di
Stato: gli anticomunisti da un lato e gli anarchici e i consiliaristi dall’altro, compreso io, rispondono
che è stato un colpo di Stato all’interno di una rivoluzione. Il colpo di Stato e di genio, nel senso
malapartiano del termine, perché riesce a ricucire tra le anime morte che andavano a crepare nelle
trincee e i servi della gleba e l'avanguardia di massa dei marinai, cioè dei metalmeccanici della
Putilov, sulla base di un immenso ammutinamento dei soldati; infatti i Soviet si chiamano degli
operai, dei contadini e dei soldati, e senza il concetto dei soldati la maionese non avrebbe preso.

Mi arresto qui per dire (apparentemente è rapsodico) che c’è una cosa che mi colpisce. Io ho sempre
avuto in testa, soprattutto da quando mi ricordo, l’orizzonte di quello che era la politica, il sociale
era sempre un gusto della micro-agorà di famiglia, delle discussioni di notte di cui mio padre era
uno specialista (poi era pensionato, in quanto io sono nato che aveva già 54 anni), in cui c’era una
specie di zuffa permanente ma piacevole tra comunisti e socialisti. C’erano mio padre e mio cugino
Petruccioli, che era diventato comunista (anche se suo padre era un ferroviere cattolico) perché,
come spesso succede, aveva incontrato il professore di filosofia comunista, nel senso di un perfetto
crociano, poi era sindaco di Foligno (così come il mio professore di italiano che ci ha sposato era
sindaco di Terni). Idealisti puri, cioè una formazione crociana e poi da qualche parte avranno letto
che Marx dice che si fa il sottosopra e si mette Hegel con i piedi per terra e che questo era, ma c’è
l’idea del senso della storia, lo verniciamo di rosso e lo chiamiamo proletariato, ma insomma è
sempre lo spirito del mondo a cavallo: la dialettica, lo storicismo e il senso della storia, quindi una
generazione di professori di filosofia, da Togliatti in giù, Gramsci con qualche curiosità in più.
Perché non lo dobbiamo dire? C’è una mia amica che doveva fare una relazione su Gramsci e
Pasolini e continuava a dire il marxismo, intendendo per marxismo il fatto di stare dalla parte dei
poveri (e ancora, Pasolini…), ma in modo rigorosamente a-marxiano. Gramsci scrive che il terzo
libro glielo raccontava Sraffa, e il primo de Il capitale in tedesco (io predico bene e razzolo male,
perché evidentemente il tedesco non lo leggo) dei maggiori personaggi erano Antonio Labriola e

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Bordiga che l’avevano letto, che avevano questo punto di vista; non parlo dei Grundrisse che non
esistevano, né per Lenin, né per Trotzki, né per Bucharin, né per Bordiga, né per Karl Korsch, il che
come cosa è interessante, sono stati tirati fuori nel ’40 e meno male che non li hanno bruciati nel
paese del trattino e del testo Principi del leninismo. Sono cose che sono banalità, ma quando uno le
dice, se le ricorda, non è evidente che le tiene sempre presenti, anche il sapiente: quelli hanno fatto
tutta la cosa della rivoluzione d’ottobre essendo all’oscuro del capitolo sesto inedito, dei
Grundrisse. Barbara Spinelli in un’editoriale parla di Marx dipingendolo come uno che predica una
morale dell’anti-dovere, sono delle stupidaggini: siccome era una mia seguace nel Comitato di Base
di Lettere se la incrocio cerco di bacchettarla, perché che hai letto a fare questo mondo e quell’altro,
scrivi bene e sei molto colta se dici della stupidaggini in senso puntuale, che tengono come pietre
angolari un intero ragionamento? Tanto vale Montanelli, ma d’altra parte questi e Cossutta hanno
l’identica idea di Marx, quello di Montanelli per dire che è un diavolo, quello di Cossutta per
mettersi il santino in camera: è lo stesso, fantasmatico, e certamente non quello letterale. Ma questo
è a monte di tutti i discorsi se ci sono le coupur, le rotture epistemologiche, quelle di Althusser…
Certo, Rossanda si è presa un genio folle e in fondo anche lui che pendolava tra Guitton, lo
strutturalismo e un approccio a Marx un po’ febbrile e certo di coupur, bisogna vedere dove le si
mettono, come Althusser. Sembrano giudizi tranciati così ma se poi mi chiamano a fare una
controversia in buoni e dovuti termini la facciamo, io mi porto i miei esperti e loro si portano i loro.

Come sono diventato comunista? So bene che Massimo Cacciari, da quando aveva tredici anni, ha
avuto come precettori Toni e Asor Rosa, quindi se c’è uno che ha studiato rigorosamente,
comparativamente e in modo sistematico dalla preadolescenza è certamente lui, ma ce ne saranno
anche altri; però, siccome malgrado le sue cattive frequentazioni (da Di Pietro a Radio Sherwood)
non mi risultava che fosse idiota, non credo che, alla domanda su come è diventato comunista,
risponderebbe: “Ebbi a fare uno studio comparativo tra il buddhismo nelle sue varie correnti,
l’empiriocriticismo e tutto il resto, e da lì dedussi che…”. Non è possibile, è chiaro che è un altro il
modo con cui uno si forma, uno non può essere un internet in una testa sola, o la biblioteca di
Babele o di Borgues in una testa sola, anche perché sarebbe niente, come un internet, o la carta della
Cina dell’imperatore cinese, o la memoria infinita dell’uomo che ricordandosi tutte le foglioline che
aveva visto in ogni attimo della sua vita equivale a zero, l’infinito equivale a zero: un po’ quello che
in piccolo mi succede a me con il discorso della trasformazione in una cosa fatta e finita, con il
colpo di grazia, che sia una forma-libro o una forma-articolo. Quindi, se si fa un gioco di società,
come è cominciata? La rivolta contro il padre, i ricchi e i poveri, il senso della giustizia: io dico che
non me la racconto, perché melo ricordo, avrò anche le copie che scribacchiavo da ragazzino. Non
era l’ingiustizia, non era la rivolta contro l’autorità perché veramente non mi sono mai sentito
oppresso, forse per questa condizione del figlio maschio di un patriarca e con un giniceo amoroso
intorno; magari qualche volta, ma in modo così, e poi avrei dovuto fare una rivolta contro la madre,
in quanto era lei che per questo amore soffocante pensava che nel cortile si innescasse un
meccanismo per cui si arriva a morire dopo una sudata. Per me la miseria era praticamente
invisibile a Terni negli anni ’50. Sono inoffensivo, non mi piace comandare, in fondo se da
ragazzino ti dicono che sei una specie di miracolato o hai l’ambizione di diventare una sorta di Gesù
Cristo, a buon mercato però, o direttore, capataz, governatore eccetera, oppure come me proprio
non c’è attitudine al comando: ma non per umiltà, non è una virtù, è per megalomania, perché mi
sembra che non valga proprio la pena. Poi c’è lo spirito di avventura: ci vogliamo raccontare che
non ci sia? Questa cosa c’è in una frase trovata dopo (Shakespeare l’avevo letto da ragazzino, però
le frasi non te le ricordi più, l’ho trovata perché Virno l’aveva messa in un articolo, e glielo dissi):
“Gentlemen, se viviamo, viviamo per marciare sulla testa dei re”. Quindi non la rivolta perché
siamo oppressi, ma perché siamo avventurieri: questi qua vogliono comandare e gli facciamo
vedere noi. Perché non bisogna raccontarsela così? C’è questa ambizione di essere un po’
demiurghi. Quando mi chiedono se mi sento fallito, io rispondo: “Io volevo fare casino, avrei voluto

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farne di più, ma sono soddisfatto”. Mi ricordo quando ero ragazzino e ho letto il libro Dynamite di
Milo Vangillas: avrei voluto scrivere un libro Dynamite.
Ma c’è un’altra cosa che mi è venuta prestissimo e nel libro Biennio rosso la esemplifico su mio
zio, poveraccio (che poi mia sorella ha tolto la pagina per darlo alle mie cugine): lui era un piccolo
impiegato di terza categoria, però con delle pretese, mosca bianca perché era l’unico non di sinistra
nella famiglia, figlio di un colonnello di carabinieri di Portici che si prendeva per una specie di
nobile, quindi un po’ monarchico, che andava a lavorare tutte le mattine prendendo il treno alle sei,
quando aveva la febbre a 40 andava a lavorare ugualmente, tant’è che una volta per un mal di gola
si prese una nefrite e gli tolsero tutti i denti; aveva due figlie di cui era gelosissimo e che, poverine,
io le cito quando leggo un libro di Braghetti per dire “ma questa che c’entra ad essersi messa in una
vicenda così, che mi pare che parli come mia cugina Mirella”. Lui aveva un cane e ascoltava il
melodramma, questa è la sua grandezza, poi la domenica pomeriggio ascoltava alla radio la partita e
se il Napoli perdeva andava a letto senza cena. Per me è stato da sempre l’immagine del ciclo vivere
per lavorare - lavorare per vivere, dell’insensatezza di questa condizione, Ivan Della Mea direbbe
“la tristezza dei quartieri operai”. Un po’ un effetto sabato del villaggio, ma Leopardi si dice che è
un genio, è la tristezza della domenica pomeriggio che poi il giorno dopo si torna a scuola e non si
sono fatti i compiti; è quello che i francesi dicono “è assurdo perdere la vita a guadagnarsela”, il
ciclo metrò-lavoro-sonno. E’ come sono fatti i quartieri che prima erano per gli operai e adesso per
gli immigrati, e poi ogni tanto li devono far saltare perché sono un nido di case e non c’è nemmeno
un bar, d’altra parte se ce lo mettessero durerebbe un giorno: questa idea, un po’ esistenziale, dei
casermoni operai che la sera vedi le finestre che si accendono le luci.
Da qui a trovarmi che mi arrangiava il primo testo di Marx che ho letto (che è un opuscolo
divulgativo, Lavoro salariato e capitale, quindi il concetto di plusvalore), poi da qui ad essere
andato come attivista (quindi come facevo a leggere?), per inerzia di essere stato un bambino
prodigio sono arrivato fino alla maturità, ma per una tecnica così, più un ascolto ipertrofico. Ma
tutto questo non è che lo dico per motivi autobiografici e aneddotici. Io facevo il liceo classico, ma
conducevo vita universitaria perché eravamo in tre della FGCI e io facevo talmente tanto casino che
il preside (che era un democristiano accomodante, paradigmatico) mi lasciava andare alle lezioni
che mi interessavano; quando c’era una stronza di professoressa di matematica uscivo e andavo alla
sede della FGCI e poi tornavo, e rimpiango perché la matematica non va confusa con la
professoressa di matematica, ma purtroppo è così. Nella FGCI sono entrato a tredici anni, dopo il
luglio ’60, quindi si immagini anche la cosa del romanticismo, Per i morti di Reggio Emilia, il disco
su cui si sentiva il rumore delle raffiche: io e mio cugino Sandro Petruccioli, poi con il modello del
fratello per lui e cugino per me diventato comunista, ma diventato comunista come mia sorella è
diventata cattolica della FUCI perché il corrispettivo del professor Lazzaroni era il salesiano don
Paolone (che forse poi certo non era più distante dal Marx letterale che il professor Lazzaroni), non
so bene a quale corrente appartenesse ma era un grande seduttore, ce l’ho avuto anch’io e
discutevamo. Dunque, queste cose da piccolo mondo, il passo è quello della poesia di Penna, Lento
e lieto della provincia: la vasca, la FGCI, quegli altri, i missini, che poi quello è a scuola con te, con
quell’altro ti guardi in cagnesco. Poi il micro-parlamentarismo, perché ero già un parolatore, ma in
quanto avevo cominciato a leggere e a parlare perfettamente presto, ma perché, come se sei in un
quartiere ti fai i muscoli se no ti menano, allo stesso modo te la devi cavare se sei in un mondo di
adulti e quelli subito fanno di te un enfant prodige: è chiaro che quando ero a scuola, avevano
messo il sistema dei microfoni e si facevano i radiodrammi, ero quello che faceva l’interprete,
oppure quando avevo quattro o cinque anni facevo le recite con il grembiule lungo perché ero più
piccolo e me lo prestavano. Nella FGCI all’epoca c’erano queste cose terribili, la consulta
provinciale della gioventù, che era una specie di parlamentino e io ero stato uno dei costitutori, ma
poi per statuto non ci potevo entrare perché era dai diciott’anni in su; oppure Nuova Resistenza, che
era una specie di cosa dei movimenti giovanili dei partiti politici dell’arco costituzionale: non
serviva a niente, gli altri che conoscevo sono diventati politici un po’ più abili perché avevano
cominciato lì a fare il mestiere. Mi mandavano a queste cose, c’è una mia foto del ‘64 su un libro

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(Diventammo protagonisti, è uscito lo scorso anno) fatto da un burocrate della Federazione di Terni;
come lui parla di me la dice lunga, in fondo è una cosa affettuosa, per cui è pudico e dice:
“Scalzone, che era uno dei nostri giovani, poi fu anche condannato per istigazione all’insurrezione”,
che è un reato di opinione che dettero a Negri, me, Piperno dopo il convegno del ’70 e che richiede
l’autorizzazione a procedere che non viene mai data perché è un reato di idee; quindi quello
autocensura la cosa.
C’erano due libri che mi aveva dato mio cugino, uno era Le marxisme di Henri Lefèbvre (poi glielo
raccontai quando l’ho conosciuto), che è nei Garzantini, e comunque era diverso dalla vulgata. A
parte che nella FGCI ti consigliavano come testo (Gramsci sarebbe già stato oro) il Cusinen-Arbatof
Principi elementari del marxismo, Diamat, prefazione di Suslof, quindi il testo di Lefèbvre era
un’altra cosa. L’altro libro è Lavoro salariato e capitale: quindi dici “ah, è questo”, è una cosa sul
tempo di vita, in qualche modo lo intuivo anche allora, il pluslavoro, il plusvalore, l’appropriazione
di tempo, mi combaciava. E’ chiaro che lo dico ex-post in modo formulato e cosciente, ma io ho
fatto proprio l’attivista nella campagna elettorale del ’63 e quello che il movimento ha vissuto (delle
volte mi sento un po’ un matusalemme) l’ho visto. Ci sono stati i due tentativi, tutti e due un po’
tragici: quello nostro di fare un’insurrezione dichiarata, allo scoperto, ma nemmeno
un’insurrezione, piuttosto un come se, un agire da partito, fase un po’ lukàcsiana, soprattutto di
Piperno, dichiarandola al palazzo dei congressi; e quello che cominciava nello stesso periodo, le
BR, che dicevano che così saremmo andati in buca, e però sceglievano allora la clandestinità
strategica e dovevano ideologizzare quella, ma là dentro c'era il germe della cospirazione,
inevitabile. Ciò non perché fossero stalinisti, quindi il discorso sulla cospirazione lo potremmo
rifare a partire da una lettura della rivoluzione francese (che probabilmente rimarrà sempre inedita)
fatta da un mio amico ex-bordighista che è altrettanto matto che geniale, che vive tra l’Italia e Parigi
e che si chiama Claudio Ielmini: fa proprio una rilettura storica del periodo della rivoluzione
francese mostrando come giacobinismo e girondinismo, terrore e termidoro, sono due ganasce di un
dispositivo che è già la controrivoluzionarizzazione della rivoluzione. Così come nel babeufismo,
nella congiura degli eguali, nel buonarrotismo, e in tutta la storiografia (Gian Mario Bravo eccetera)
del movimento operaio, con alcune concessioni di Marx, c’è un’idea di darwinismo politico,
ideologico: sembra davvero che ci siano i socialisti utopistici che sono nati per fare da concime, e
c’è un residuo hegeliano, poi quello che sarà invece il movimento comunista maturo, c’è questa
ricostruzione. Ma loro fanno una storia delle élite, Buonarroti era proprio di radice carbonara,
cospirativa, e anche Babeuf. Lui invece dice: “Andiamo a guardare gli embrioni di autonomia
operaia che ci potevano essere”. La storiografia socialdemocratica e/o bolscevica, comunista, nega
l’esistenza di un qualcosa definibile come classe operaia o proletariato industriale addirittura nella
Comune, figurarsi nell’89-’93. E Marx avrà anche dato adito a questo tipo di lettura in quei crimini
contro se stesso che sono il cedere alla pressione del fare un opuscolo facile e comprensibile; però
era anche uno che andava a cercare (o voleva vedere, direbbe Tronti) embrioni di autonomia di
classe nel tumulto dei Ciompi. E autonomia operaia ha avuto anche delle sue forme di espressione;
perché tutti parlano della solita canzone sui girondini, sui giacobini e, tutt’al più, Leperduchene e
Bert come l’estrema sinistra della rivoluzione francese, e poi c’è il discorso della rivoluzione
borghese in cui però la massa era… era chi? Una serie di personaggi non noti, in generale abati atei,
mandati a fare i preti come a Napoli ti possono mandare a fare il femminiello, o o’prevete, o il
piccolo militare di carriera: don Dechan, che stranamente invece era conosciutissimo in Unione
Sovietica perché qualcuno aveva scritto che era il vero fondatore del materialismo dialettico;
Jacques Roux, il leader delle sezioni dei circoli degli arrabbiati, di cui Marx dice: “Se devo
identificare un antesignano, un prototipo del comunista nel senso nostro, critico e moderno, questo è
Jacques Roux”, che morì impazzito e suicida in galera, in quanto era non meritevole di ghigliottina,
in fondo l’hanno fatto crepare così. Tutti pensano a quell’epoca alla dialettica tra la Convenzione e
la sinistra, che sarebbe stata l’Hotel de Ville; ma la sinistra era già una rappresentazione, in fondo
c’erano i circoli degli arrabbiati e le donne, degli arrabbiati e delle arrabbiate. Io facevo la battuta il
proletariato e la proletariata. C’è un libro di una sociologa femminista inglese che mostra come nel

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‘700, se si può parlare di embrioni di classe operaia, questi sono soprattutto al femminile, perché la
trasmissione proprietaria è in linea maschile e quindi è più facile che il maschio sia proprietario o
artigiano, quelli che poi hanno fatto ancora nella Comune le insurrezioni, quelli a cui si riferiva
Proudhon; invece le donne erano l’embrione del (lo dico per fare il bisticcio) libero lavoratore
salariato. Interessante. Nel ’70, alla fine di quel convegno, il compagno che stava avanzando verso
l’esperienza BR mi dice che è una bella scommessa ma che siamo matti; e io gli dico che la loro
non è una soluzione, per questa intuizione che la cospirazione è contraddittoria con “la classe
operaia non può che liberarsi da sé”, che non è spontaneismo, è il nodo dell’autonomia.
Quando a Terni ho fatto questa esperienza di volantinaggi eccetera, mi ricordo che abbiamo vissuto
nel nostro piccolo (io e quelli un po’ più irrequieti, più grandi di me, nella FGCI, nel PCI) un po’
quello che ha vissuto la parte del movimento che non era andata in queste due scommesse, quella di
Potere Operaio e quella delle BR, e che quindi nel ’73 aveva ripiegato un po’, cominciando una
lunga marcia che qui non era attraverso le istituzioni, ma a ripararsi sotto le gonne del sindacalismo
di sinistra o della sinistra della sinistra, e che poi si era polarizzata attorno al discorso della lista,
Lotta Continua, Democrazia Proletaria, “con il 51% si può governare”, ultimo tentativo, riflessioni
sui fatti del Cile: Berlinguer, con questa specie di pessimismo, ne deduce che essendo il mondo
diviso in due zone a sovranità limitata e trovandoci noi in quella a sovranità americana, non è
nemmeno pensabile che un partito che si chiama comunista possa puntare ad accedere al governo,
all’esecutivo, nella forma dell’alternanza. Quindi c’è questa specie di introiezione della dottrina
Sonnenfeld della conventio ad excludendum, con i correttivi e i risarcimenti del compromesso
storico permanente, della lottizzazione delle cariche così come dei canali televisivi, una grossa
coalizione organica, il fatto che non stai al governo però l’80% delle leggi vengono decise per
accordo in commissione. Berlinguer diceva così, noi dicevamo mai più senza fucile. Come nascono
le cose: quella è colpa mia se è stata un’illusione, perché era un periodo in cui facevamo il giornale
a Firenze, L’Espresso cambiò formato e c’era tutte le settimane una pubblicità con i dagherrotipi
della rivoluzione russa, pubblicità della vodka Stolinkinaia, si vedevano i bolscevichi e lo slogan era
“Senza pane, senza scarpe, mai senza fucile e senza vodka”. Adesso ti fanno Marx, la rivoluzione,
start-up, ma potevi fare anche al contrario: cominciammo a fare un’ultima pagina di Potere Operaio
del lunedì che aveva le immagini del Cile (che mi pare ci mandasse Tano D’Amico) con la scritta
“Mai più senza fucile” (poi qualcuno fece pure un gruppetto, ma quello non eravamo noi). Tra
questi due estremi c’era poi questo loro tentativo, l’alternativa, anche Craxi sembrò flirtarci e
Berlinguer diceva che era impossibile, e andarono alla sconfitta del ’76. E’ lì che mezza Lotta
Continua si spacca, non erano le femministe: quando c’è l’ultimo congresso, Sofri allude dicendo
“non sparate sul pianista”, facendo finta di chiudere sulla contestazione femminista. In realtà il
discorso era su un’altra contestazione, non erano più quelli della corrente che poi erano usciti nel
’75 con quelli della frazione dei Comitati Comunisti di fabbrica, con cui poi ci ritrovammo assieme
nei Comitati Comunisti per l’autogestione, Comitati Comunisti per il Potere Operaio, un anno
assieme e poi loro presero la tangente mucchio selvaggio e Prima Linea; ma nel ’76 era l’80% del
quadro operaio di Lotta Continua che premeva per uno sbocco armato, e Sofri lo sa che ha chiuso su
questo, poi ormai è acclarato. Ha avuto un colpo da maestro e da artista di buttarla
sull’autocoscienza femminista come elemento che metteva in discussione la forma-gruppo, che era
un’altra componente ma mi si permetta di dire che era meno drammatica, perché non ci si giocava
la galera. Per noi a Terni nel ’63 mi ricordo che ci fu la stessa sindrome: un milione di voti in più al
PCI, i titoli de l’Unità “Un italiano su quattro vota comunista”. La sera della festa ho conosciuto
(come nello stereotipo che racconta anche Franceschini) Gildo Bartolucci, medaglia d’oro della
Resistenza, ex partigiano, stalinista immaginario, che era già stato un eroe all’epoca degli Arditi del
Popolo: ma dopo due giorni in Unione Sovietica l’avrebbero mandato ai lavori forzati per trotzko-
hitlerismo (e lui di certo Trotzki non sapeva nemmeno chi fosse), per irregolarità, e se non avesse
avuto gli Arditi del Popolo avrebbero fatto il guappo, il rapinatore eccetera. Mi ricordo le
discussioni tra noi di dire “va bene, adesso un milione di voti in più, e poi? un altro milione, e poi?”.
Quando lessi tardivamente, di ritorno da Parigi, dal maggio francese, Lenin in Inghilterra (andiamo

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ancora più a campo stretto che Operai e capitale, perché Franco Piperno mi dette la raccolta di
Classe Operaia) ne rimasi folgorato. Quel fesso di Magri era arrivato con Berlinguer in visita alla
Sorbona, noi eravamo là e disse ad una compagna del giro trontiano di Piperno che Tronti è un
grande scrittore, un grande romanziere, è come Nietzsche: lui diceva cazzate, certamente su
Nietzsche e a mio parere anche su Tronti. Magri diceva: “A voi affascina, ma è il fascino della
canzone”. Bè, per me ha funzionato, ma d’altra parte Toni mi disse che, quando Tronti arrivò alla
riunione di Classe Operaia con questo articolo, rimasero tutti folgorati, e figurati io. Però, in fondo
tu trovi sempre quello che hai già inespresso, è quello che riconosci, o almeno spesso, non sempre.
Dunque, quando andavo a dare i volantini alle acciaierie e usciva la fiumana degli operai, allora in
bicicletta o in motorino, davanti al volantino del PCI (che poi votavano) o della CGIL (di cui
magari avevano la tessera), con i coglioni sfracassati dopo le otto ore di lavoro, passavano, lo
prendevano e la frase tipica, amara, ironica, sarcastica, affettuosa, autoironica, era: “Sono soldi?”.
La rude razza pagana, e Tronti arriva a dire: “Scrolliamoci di dosso quest’aria di sconfitta operaia,
la rivoluzione non sta su un livello politico”, perché poi, direbbe implicitamente, non c’è né
fascismo, né il colonialismo, né la guerra, né dobbiamo aspettare la guerra per poter avere
l’occasione, allora rovesciamo l’ipotesi, è sempre tendenziosa: non è che c’è la lotta economica che
è difensiva e la lotta politica che è quella dove si fa la rivoluzione, e che la rivoluzione è questione
di angeli, perché la forma dello Stato è cambiata, la forma del lavoro è cambiata, la composizione
tecnica e politica di classe è cambiata, il plusvalore è sempre là, a quel tempo era rispetto alle teorie
del neocapitalismo. Anche allora come adesso dicevano che non c’era più, l’estrazione di plusvalore
non è più visibile e allora i fessi (che erano i maoisti, che poi tanto del plusvalore in verità non se ne
occupavano nemmeno, e che poi fanno i nuovi filosofi, i neo-liberali) dicono: “Ma non vedete che
non c’è più?”; e quegli altri fessi complementari, come il professor Luciano Canfora, dicono: “Ma
no, le tute blu ci sono, e se non sono qui sono a Singapore”: perché per gli uni come per gli altri, per
Glucsmann come per Luciano Canfora, l’estrazione di plusvalore coincide necessariamente con la
tuta blu. Invece Tronti incorporava gli articoli di Toni sul Marx sul ciclo e la crisi, Keynes, il ’29,
quindi la forma era tutta cambiata, allora gli altri dicevano a quelli di Classe Operaia: “Vedete che
non siete marxisti? Siete sociologi, siete fantasmatici, giovani hegeliani del capitale collettivo”;
però questi dicevano: “Andiamo a vedere come la rivoluzione si fa nel cuore dell’arcano della
produzione”. Come comunisti ingraiani di sinistra noi dicevamo che si fa la lotta economica, poi si
fa la lotta elettorale: e la rivoluzione come si fa? L’operaio che ti diceva: “Questi stanno bene, non
si farà più; chiamatemi quando si spara”, e intanto non faceva sciopero. Tronti dice: “No, no, invece
è là che è sovversivo”. In fondo c’è la stessa forza del paganesimo brutale della ricchezza delle
nazioni, puntiamo sul narcisismo primario, guadagniamo, e magari per far soldi inventiamo la
penicillina, solo che bisogna sapere che si può inventare la penicillina o il virus che distrugge la vita
sulla terra; amoralità, sia quando si inventa la penicillina sia quando si inventa il cancro totale. Però,
c’è una forza nel paradigma liberale puro (che poi è ideologicissimo) della mano invisibile degli
spiriti animali: in fondo in Tronti è voler tirare fuori da Marx una cosa della stessa forza. Non la
razionalità, la solidarietà, le buone intenzioni, i bei sentimenti o le radici quadrate; questa è una
lettura. Quindi, la rude razza pagana io la riconoscevo in quelli che, quando davo i volantini, mi
chiedevano se erano soldi.

Autonomia. In Potere Operaio io ero ritenuto un ottimo divulgatore, pensa che destino, Toni diceva
che ero il miglior giornalista rivoluzionario. Non facevo parte dei cattivi maestri, ero un allievo
rispetto alla teoria operaista; però avevo questa passione (e una passione diventa sempre un po’ una
virtù, con anche un certo talento se una cosa appassiona) per spiegare l’operaismo ai fessi, per
esempio a Cecco Bellosi (che non è fesso, ma che era un marxista-leninista irrequieto), perfino ai
maoisti, insomma intendo dire ai compagni. Magari a mia sorella o, molto peggio, a un maoista,
perché le mie sorelle non avevano pregiudizi, mentre per i maoisti bisognava togliere quelli prima
di poterli fare accedere ad altro: come dice José Bergamin, l’analfabeta è un grande terreno, anzi
bisogna stare attenti a non manipolare, invece quello che è acculturato, come Michele Serra, è forse

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irrecuperabile. Folena, Veltroni sono poi un misto tra i due, questi sono i decerebrati; a Rutelli forse
qualche cosa gliela racconta la moglie che già è fessa, come possiamo accertare ogni giorno nella
sua rubrica lettere, ma secondo me è una luce di intelligenza rispetto al marito. Lenin diceva: “Rosa
delle volte vola come un’aquila e delle volte come una papera”, ma Rutelli proprio vola neanche
come una ranocchia, ma come una tartaruga antipatica; però è un belloccio, e forse poveraccio è
così perché gli hanno sempre talmente dato del bello che gli uomini che sono invidiosi devono
pensare che non può che essere fesso, lo si pensa delle donne, figurarsi gli uomini degli uomini,
basta che uno abbia la sfortuna di essere bello e lo collocano a fesso per definizione, e alla fine
spesso ci diventa. In questo mio lavoro di traduttore facevo dei paginoni su che cosa è Potere
Operaio, proprio divulgativi ma non volgarizzatori: io sono convinto che Marx era soddisfattissimo
di Cafiero, che ha fatto l’edizione Il compendio del Capitale, e come divulgatore è stato più felice di
Marx ed Engels stessi nel Manifesto del partito comunista, che è un infortunio. Che fosse un
infortunio quei due lo hanno scritto due anni dopo, dicendo: “Ci sono molti punti che abbiamo
scritto così perché ce lo hanno commissionato”; e soprattutto nella prefazione alla ristampa del ’70
Marx ed Engels (io tendo a dire Marx, perché abbiamo questo conto anti-engelsista, ma delle volte è
per facilità) dicono che l’avrebbero dovuto riscrivere da capo. C’è la botta arrogante, dicendo che
per esempio tutti i passaggi sui socialisti utopistici e i comunisti critico-utopistici sono da togliere
perché quelli ormai sono spariti, quindi sparerebbero sulle ambulanze; ma soprattutto c’è il capitolo
che citano sempre gli anti-comunisti (Montanelli, Barbara Spinelli…), e i comunisti (con la c del
copyright, movimento comunistocratico) quello insegnavano. Lo stesso Marx di Montanelli è nelle
scuole di partito, anche il povero amico mio fraterno Feltrinelli in fondo aveva questa idea di Marx:
quelle stupidaggini del passaggio sul programma, che sono ambigue, poi la formula dittatura del
proletariato. Quello voleva dire che la dittatura del proletariato è la dittatura di nessuno, non che
veramente facciamo la dittatura di quelli con la tuta blu; meno male che erano i preti che li
rappresentavano, perché se poi fossero stati al potere proprio quelli con la tuta blu, la forza-lavoro
sociale come capitale variabile, te lo raccomando Sergio Bologna, le immagini, la società dei soli
operai, il capitalismo nella produzione e il socialismo nella distribuzione, l’egualitarismo verso il
basso… mamma mia!, secondo me sarebbero stati ancora peggio che Stalin e Beria, almeno quello
aveva fatto il seminarista. Se tu tiri fuori “chi non lavora non mangia” (che non lo tirano fuori, e che
oggi è una frase manifestamente genocidiaria, che era stata pensata dal populismo degno di De
Amicis), poi sei responsabile. “Agnelli e Pirelli ladri gemelli” noi non lo dicevamo perché non
eravamo proudhoniani. Marx diceva a Proudhon: “Ma scusi, per definire il furto bisogna che prima
sia definita la proprietà”, come fa essere ladro uno? Si costituisce come ladro di che? Dopo, se per
una facilità di fare i volantini, scrivi “la proprietà è un furto”, poi non ti devi arrabbiare, l’avrà
inventata Proudhon, ma tu l’hai usata. Nelle rotte dei transatlantici un decimo di grado di
svisamento provoca dei disastri, e anche nella parole. Poi naturalmente gli ossessi, di parte a volte
anarchica, o solzenicsiana eccetera, vedono il delitto di apologia del capitale della modernità, che è
una lettura che ci può essere, il fascino del capitale che spacca, rompe eccetera. Il terzomondista che
oggi è etnoculturalista e finisce di rischiare di trovarsi con Zyrinowski o con il GIA, dice che lui lo
dice per denunciare, come Foscolo dice di Machiavelli, “che alle genti svela di che lacrime grondi e
di che sangue”; ma cosa te ne frega? Non credo che Marx fosse un nostalgico delle tradizioni
popolari e dell’età dell’oro, però non è nemmeno un apologeta: descrive la potenza, e quindi sembra
affascinato. E poi comunque, anche se fosse un apologeta, che cosa te ne frega? Non è un problema
di morale delle intenzioni; Carl Schmitt è più apologeta di quello che è, eppure a mio parere è un
formidabile strumento rivoluzionario. Ma cosa ce ne frega? A me interessa poco, Marx descrive
cosa quando dice che tutto verrà industrializzato e i contadini finiranno? Quello che è oggi
l’America, dove qualche anno fa c’era l’1,8% della popolazione attiva che produce una produzione
agroalimentare strepitosa; non è che sia un programma, ma c’è la paranoia di certe correnti
anarchiche, di certi neo-tolstojani e della propaganda liberale che dicono che quello teorizzava il
genocidio dei contadini. A me non interessa, quand’anche l’avesse teorizzato sono cavoli suoi, del
suo confessore e del suo Dio; però, francamente Marx prevedeva, descriveva in anticipo. Comunque

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resta che, se una cosa crea tutti questi equivoci, un po’ di responsabilità la porta. Avrà avuto della
gente che insisteva, ci sono le lettere di Marx in cui il sarto Weitling dice che bisogna fare un
manifesto (non so se addirittura è legato con il Manifesto) e Marx gli risponde: “Signor Weitling,
ma qui non ho finito di capire,” (era probabilmente l’epoca in cui scriveva a Engels che lavorava
giorno e notte, voleva finire) “qui bisogna capire delle cose, è inutile che diamo delle parole
d’ordine al popolo”. Weitling diceva: “Ma la gente chiede, vuole scendere in piazza”, e Marx:
“Signor Weitling, cercare di capire le cose non ha mai fatto male a nessuno, non è mai morto
nessuno”. Alle sue insistenze, Marx dice: “La differenza tra me e lei è che lei è un politico, mentre
io sono un comunista”. Poi io sono sempre stato su tutte le prime barricate, quindi mi si potrebbe
dire che predico bene e razzolo male; no, dico che il problema è che a furia di dirti, come i
giornalisti, che devi parlare breve, semplice, chiaro e nel linguaggio detto comune o corrente, io
dico che questo è un groppo di double bynde. E poi cosa vuol dire? Mi si dice che uno parla per
telegrammi o per aforismi geniali; E=mc2 (a supporre che sia non dichiarato caduco tra un paio di
anni dalla scienza ufficiale) comunque ce ne sarà voluto per arrivarci, e poi non è nel linguaggio
corrente, perché io ad esempio non capisco che cosa vuole dire. Oppure “mi illumino di immenso”,
bello, ma chissà quanto lavorio c’è sotto; o “conosci te stesso”, magari ci vuole un secolo per
selezionare una frase così, e poi li chiamano geni quelli che le dicono. Se no hai gli spot, ma infatti
è il pensiero di Berlusconi; e poi anche lì c’è del lavoro per coniare queste stronzate degli slogan
(“chi vespa mangia la mela”…), poi dallo spot arrivi al subliminale. E poi la parola performativa è
complicata, perché fuoco se lo dici a uno della strada per chiedergli un accendino non è niente, ma
se lo dici ad un sergente di un plotone di esecuzione è pesante, e se un bambino che, invece che “il
re è nudo”, dice “al fuoco” in un locale gremito ci possono essere quindici morti calpestati. I
Bignami sono pericolosi, e io trovo che il Manifesto del partito comunista è un po’ un Bignami.
Ma tutto questo è una divagazione, perché stavo dicendo che pare che invece Marx ritenesse molto
felice il compendio di Cafiero, guarda un po’, perché poi i bakunisti all’epoca si chiamavano
anarco-comunisti: d’altra parte una sintesi francese tra Delio Cantimori e Enzo Grillo è Maximilian
Rubel, che è morto qualche anno fa ed era anarchico, ma è il più pertinente traduttore di Marx, poi
ha scritto l’opuscolo, che è una scommessa, Marx teorico dell’anarchismo. In fondo lì c’è tutto un
altro filone che è mancato, ma non possiamo addossare ad Aristotele di non avere inventato la
relatività o la legge della gravitazione universale, possiamo prendercela con gli aristotelici. Certo,
non c’è stato un Der Stat della stessa forza e potenza analitica rispetto al proprio oggetto quale Das
Kapital l’aveva rispetto al suo, e questo è un buco; è certo che gli anarchici portavano la giusta
questione secondo me, ma proprio anche Bakunin, Proudhon, Kropotkin fino a Clastre o Zerzan. Ci
sono delle preveggenze di Bakunin su quella che sarebbe stata la società della dittatura del
proletariato, ma ce ne sono anche di Plechanov (che Vittorio Spada ha tirato fuori adesso), che
hanno la forza di quelle di Marx sul mondo della globalizzazione e di internet. Però, è restata
poesia, si è impigliata nel fatto che Bakunin sulla materia aveva ragione quando diceva che Marx
era come (anche se non lo chiamava così) un proto-socialdemocratico quando scioglie con un colpo
di mano l’Associazione Internazionale dei Lavoratori (altrimenti detta, dai secondi, Prima
Internazionale). Marx è un gran manipolatore, l’avrà fatto in buona fede, non mi interessa, però la
sezione inglese e tedesca erano rigorosamente minoritarie, i delegati spagnoli vennero arrestati e
rappresentavano 600.000 aderenti, gli italiani non ci andarono e ne rappresentavano 400.000:
quindi, la storia come ce l’hanno raccontata è una vulgata falsificata, perché l’Associazione
Internazionale dei Lavoratori nella sua maggioranza continua, resta la componente anarchica e si
dissolve poi nel 1906, e secondo me però non è un caso, perché manca anche la potenza teorica di
un Marx. Comunque si rifonda a Berlino nel ’22, e sono cose di massa; intanto aderiscono gli IWW,
dopo essere andati nel ’20 a vedere il Comintern, capiscono che non gli piace, e poi la vedova di
Parsons (uno degli impiccati di Chicago che era figlia di schiavi e che è una dei fondatori degli
IWW) è una delle fondatrici dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, che però è un po’
ghettizzata e anarchica, e c’è talmente poi del settarismo reciproco che non fa una giunzione con
tutti i consigliaristi, il Links Kommunismus, l’opposizione comunista internazionalista (certo più

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marxiana) eccetera, ma questa è un’altra storia. Però nella Catalogna del ’22 c’è un’immensa
Comune di Parigi al cui confronto la presa del Palazzo d’Inverno è uno sputo, e c’era evidentemente
un movimento con i suoi errori, ma secondo me tra questi c’è il non aver fucilato subito i Togliatti e
i cominternisti; poi dopo è chiaro che ti tocca andare al governo, entrare in una contraddizione in
termini, gli anarchici nel governo largo Caballero eccetera, e sono molto più sconfitti da tutto
questo che da un idiota di generale con le truppe marocchine. Era un movimento insurrezionale, che
ha l’epicentro in Catalogna, e non si tratta di cose anche belle ma romantiche, come il POUM,
Omaggio alla Catalogna fino poi alla versione romanzata del film di Ken Loach Tierra e Libertad,
che può commuovere fino alle lacrime ma si può sempre dire che comunque era una cosa non più
grande di Potere Operaio, anzi: ma lì la CNT aveva sei milioni di aderenti. La colonna Durruti è la
punta emergente dell’iceberg, comunque Eremburg (di area Brigate Internazionali, quindi dalla
parte degli Ercoli, Togliatti e delle pasionarie) in visita dice a Durruti (il che nel suo codice era un
omaggio): “Peccato, che magnifico bolscevico che lei sarebbe stato”. Come testimoni possiamo
prendere gli ingenui selvaggi come la Braghetti? Come si fa a pensare che manipola le cose come la
racconta nel libro? Il Campesino poi è finito socialdemocratico, ma era questo eroe popolare e
militare delle Brigate Internazionali. Il Campesino era comunista, ma figlio di anarchici, rivale di
Ister; ha una storia incredibile, perché ad un certo momento, dopo la sconfitta, parte e arriva in
Russia. Jorge Amat (che è il figlio di Melchior, il quale era il precettore di Carrillo, il bureau
politique del Partito Comunista spagnolo, che poi è stato il direttore de El Mundo Obrero, il
giornale del partito quando poi era tornata la democrazia politica formale, e che poi è stato
accantonato da un giorno all’altro da Carrillo) ha fatto quattro ore di video sul Campesino. Questi,
dunque, arriva in Russia e Stalin per gratificarlo lo nomina maresciallo, con tutte le medaglie;
quando si sta stringendo il patto Molotov-Ribbentrop, il Campesino comincia ad arrabbiarsi. Tutti
gli dicono di non dire niente, invece lui va a colloquio da Stalin e lo prende a male parole, come
direbbe Totò; viene quindi deportato in Siberia. Da qui (non si capisce come, era una specie di forza
della natura) scappa una prima volta, arriva nei territori occupati in Cina dal Kuomintang, che in
quel periodo è in grande flirt con Stalin e lo rispedisce a Mosca; lo mandano in Siberia, ancora più
lontano, fino a che non riesce a scappare di nuovo e arriverà poi a Parigi dove stava negli anni ‘50-
’60. Ha organizzato qualche tentativo andato a male di assalto ad una caserma della Guardia Civil
(io conosco anche uno che vi ha partecipato). A quel punto ne aveva viste talmente tante che, tipo
Jorge Semprun, ha aderito al PSOE eccetera. C’è anche un’autobiografia, scritta da altri. E’ uno di
quei personaggi particolari; d’altra parte Makhno alla fine è venuto a Parigi ed era operaio alla
Renault, e i comunisti della fabbrica l’hanno pestato più di una volta. Bisogna considerare che
Makhno è stato quello che ha avuto l’unica vera vittoria contro le armate bianche: questo era uno
come il bandito Crocco, che aveva seimila uomini a cavallo sull’Aspromonte. Era un personaggio
così, però straordinario, poi morto di tubercolosi a Parigi, io conosco anche gente che l’ha
conosciuto. Ferruccio Gambino è sognante quando si raccontano queste cose, queste forse le
conosce meno, ma lui me ne ha raccontate altre di straordinarie.
E’ rapsodico detto così, ma secondo me è utile perché uno legge questo e poi magari si va a leggere
Nicolen, storia in fondo di parte più anarchica di tutto il ciclo della rivoluzione russa tra il 1905 e
Kronstadt. Il guaio è che poi ognuno tende a creare la sua canzone mitologica; io sono di
formazione comunista, poi ho scoperto l’operaismo e successivamente sono stato quello più attento
a certe cose. Per esempio, nell’operaismo c’è un difetto grave: va bene differenziarsi dagli altri che
non fanno teoria ma fanno storiografia, anzi figurine di Epinal, per cui io uno dice “quello è Saint
Just e dunque sono io”, oppure “quell’altro è Trotzki e dunque sono io”, e questa non è teoria, è un
gioco di bambini. Però, secondo me nella nostra corrente c’è un difetto di cui una volta vorrei
discuterne con Tronti, anzi magari gliela faremo leggere e sentiamo cosa dice. Uno come me, che
non ero cattiva maestro ma allievo, all’inizio, se fossi stato meno curioso o meno peripatetico
all’ascolto, poteva pensare che quella frase di Tronti su Contropiano che mi era subito piaciuta,
“per i proletari di tutto il mondo oggi la Piazza Rossa è un faro spento”, avesse come fonte (perché
Tronti è onesto) diciamo Rita Di Leo, I bolscevichi e il capitale; rigorosamente nessuno, né Toni, né

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Sergio Bologna, né Ferruccio, né questi che per me erano veramente dei maestri, mi hanno parlato,
anche presentandomelo, di Mattick, o indirettamente Sohn-Retel, ma non credo di aver mai sentito
nominare Karl Korsch, Ruhle, Pannekoek, e avrebbero nominato Bordiga con fastidio. Invece ho
sentito parlare dei Wobblies da Sergio Bologna e da Ferruccio prima che da Cartosio e da Primo
Maggio, dell’altro movimento operaio americano: ma in Germania? Me lo devo andare a sentire da
quelli di Lotta Comunista o eventualmente da qualcuno di Programma? Perché questa è tutta una
pista che io mi sono fatta da solo, stando nel cuore di Potere Operaio, anche nel suo aspetto di
Classe Operaia bis; e temo che ci sia un vizio degli intellettuali. E’ una cosa maliziosa, ma ad
esempio a Felix Guattari (di cui ne parlo in maniera straordinaria) non ho mai sentito nominare una
volta Reich, e questi sarà finito pazzo e scandaloso, ma per alcune cose della schizoanalisi è
difficile non ritrovarci una genealogia: può essere che uno ci arrivi per altre vie, ma mi parrebbe
strano che Felix non avesse mai sentito Willelm Reich. C’è un po’ come una obliterazione, magari
in buona fede; d’altra parte molti dicono che Nietzsche da un lato e Marx dall’altro hanno
comunque pescato in Stirner, ma questi guai a Dio a nominarlo. E’ come gli intellettuali che non
amano le traduzioni, un po’ hanno ragioni, però se non ci sono le traduzioni loro hanno il
monopolio della fonte. Un po’ mi permetto di dire che vorrei chiederne ragione a quelli che ho
identificato come miei maestri: in questo trovo che Grillo e De Caro fossero più liberi da questo
problema di corrente, di dovere in fondo trasmettere l’idea che tutto è ricominciato tutt’al più da
Raniero Panzieri, cosa che è vera nel senso specifico, ma non è che c’era lo stalinismo, poi Panzieri
e i suoi attorno e niente altro. L’anarchismo, nel senso ampio, sembra che non sia esistito, e neanche
il Links Kommunismus in tutte le sue versioni. Dopo di che, c’erano dei contenziosi, Sergio
Bologna ha scritto contro in consiliarismo: ma una cosa è scrivere conto, un’altra una specie di
lobotomizzazione. Ne posso capire le buone intenzioni, dell’essere anti-elogio dell’assenza di
memoria: quando Toni lo scrisse intendeva poi la memoria amministrabile a piacimento, e che
possiamo dire e fare tutto e il contrario perché poi incarniamo la rivoluzione. Però, questa cosa qui è
un po’ vera.

Adesso faccio una divagazione metodologica. Io una cosa di questo tipo la lascerei così, ma non
perché mi prendo per chissà chi, ma perché vorrei sapere che cosa ne pensano di una sorta di
metodo così. Io non mi prendo per nessuno, un grandissimo ermeneuta lo stimo, però io funziono
così e c’è un precedente, che uno potrebbe dire che è quello del delirio, invece (e me lo sono trovato
dopo) è il meccanismo come nell’analisi: il forte di questa è che c’è un meccanismo con
l’interlocutore, ma qui altri o il pubblico possono funzionare ugualmente, poi ci sono tutti i
problemi di transfert e contro-transfert. Ma la cosa interessante è il discorso del sogno-schermo e
della scena-schermo. Con l’analisi si può pensare di essere arrivati al punto in quel paradigma e
invece è semplicemente una ricostruzione che occulta. Allora, un meccanismo così, analogico, che
può sembrare vizio o virtuosismo, secondo me qualche cosa la dà. Comunque, queste cose è un
peccato che io le renda infinite. Tra clinica e critica, come direbbe l’ultimo libro di Deleuze, è un
dispositivo che a me è capitato così, e ha cominciato a capitare così dal momento in cui mi sono
confrontato con il fatto che la cosa più semplice, banale, terra terra, che può sembrare naturale o
epica, elementare, di dire, a una folla che ti dice che bisogna liberare i compagni prigionieri, dunque
rivendichiamo un’amnistia per tutti e ciascuno: questo mi pare perfettamente in continuità con
l’operaismo degli aumenti uguali per tutti e di Sbrogiò che organizzava il boicottaggio della lotta
per il premio di produzione indicizzato e invece la faceva per il premio di produzione uguale per
tutti. Questo non perché avessimo il valore etico (i valori sono sempre tirannici, come dice Schmitt)
dell’egualitarismo o dell’eguaglianza, e Marx non era egualitario, era diversitario casomai,
l’eguaglianza è un correttivo della penuria, è la divisione della miseria che poi diventa valore
(questo secondo me e pure secondo Marx, a dispetto di Barbara Spinelli o dei professor Canfora).
Quindi, questo in qualche modo potrebbe configurare una sorta di metodo: si può dire che è una
protesi da orecchiante di alto livello non per virtù, ma per una sorta di dispositivo addirittura
nevrotico di essere una specie di orecchio di Dioniso che ascolta sempre tutto e lo metabolizza in

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tempo reale. Magari è solo una nevrosi, oppure è come una protesi perché a un certo momento ho
smesso di studiare e quindi ognuno fa con quello che ha; non lo sto predicando dicendo che studiare
nelle biblioteche è una stupidaggine e bisogna invece andare per il mondo a parlare. Però mi è
successo che a domanda, “liberare i compagni”, ho dato una risposta operaista, mentre quella della
dissociazione e di Toni era come minimo sindacalistica, corporativa: quindi, io mi ritengo quello
che ha applicato alla materia ciò che ho appreso, non ho inventato niente. Ma nella risposta a
Calogero, che ritengo un colpo di genio, c’era dentro il sapere di Classe Operaia, Potere Operaio,
ciò che avevo imparato da loro, da Toni Negri come secondo o terzo rispetto a Tronti. E quando
vedo che Tronti, pensa un po’, ci dà ragione in materia nell’intervento sul libro, dico “per forza che
mi dà ragione, io ho fatto il trontiano sull’amnistia”. E Toni pure me la darebbe se non fosse
schermato dal problema dell’autoaccecamento di quando sei parte in causa. E quando altri mi
dicono "che orrore, c’è l’emergenza”, e Toni fa dire a Spazzali che ci accusano senza prove, la
conseguenza logica che ne tiro fuori è questa. Dunque, Calogero mi fa delle contestazioni e poi mi
fa delle domande, e io gli rispondo “certo che accedo all’interrogatorio”, e non è che rispondo “mi
chiamo Oreste Scalzone e non ho nulla da aggiungere”, come Renato Salvadori nel film Il sospetto
o come Prospero Gallinari (con tutto il rispetto per l’uno e per l’altro: il personaggio, l’attore, il
pokerista e Gallinari); ma “Io non gli rispondo”, era quella la cosa che ha fatto scattare il panico di
Toni, mica che è meno umorale di me. Lui ha pensato un’idea paranoica da panico: “Se non accedo
all’interrogatorio mettendomi a rispondere…” (mica che ha fatto i nomi di nessuno), come se fosse
un convegno di storia, per cui scrivendo due o trecento pagine. “Non è moralistica la cosa che dico
io, di fronte non hai un collega in un seminario di storia: hai Guasco, che intanto è un cretino,
quindi tu ti sbagli se pensi di poterlo convincere o battere sul piano dell’agorà, perché è un agorà a
trucco. E poi cosa fai una discussione come se fosse un convegno storico quando in realtà quello ti
tiene una pistola puntate alle tempie, dovresti essere proprio un eroe per non essere condizionato da
ciò.” (io queste cose gliele ho sempre dette a voce in modo appassionato e anche affettuoso) “E la
pistola, Toni, lo sappiamo nella nostra vita quotidiana che te la teneva sulla testa, perché io ero un
ragazzino rispetto a te in materia, però non ho avuto quella botta di panico.” Lui ha avuto quella
botta di panico perché ha detto: “Se mi rifiuto di rispondere” (addirittura Piscopo gli dava i calci
sotto il tavolo perché poteva prendere tempo) “cosa faccio? Gli confermo l’ipotesi accusatoria, che
sono il capo di tutto, quindi i giornali domani diranno che Negri è il grande vecchio delle BR, tanto
che rifiuta l’interrogatorio e si dichiara prigioniero di guerra.” Ma io non mi sono dichiarato
prigioniero di guerra, e ho detto “certo che voglio rispondere”, e quelli schiumavano; a Negri
Calogero lo odiava personalmente, era hostis e inimicus da prima, per motivi padovani che (come
Toni scriveste) ci vorrebbe la penna di Anatol Franz per descrivere questa miseria, la miseria di un
idiota come Ventura che, in fondo a buon mercato e con un buco in un alluce, si è ripreso da tutti
complessi che aveva avuto per tutta la sua vita nei confronti di Toni Negri. Ma Spataro mi odia
perché sono stato causidico, perché ha capito che ero io quando era arrivato a Palmi ad essere stato
il primo e che ho convinto anche Toni a fare così: sono forse andato e gli ho detto che rifiuto
l’interrogatorio? Oppure mi sono messo a parlare? Sono andato, quella volta Toni mi ha dato retta:
ci è successo niente di grave? Anzi, mi hanno dato retta, lui, Vesce, Virno, non mi ricordo chi altri,
eravamo in isolamento giudiziario. Sono andato lì, poi faccio la prima eccezione. “Io sono stato
incarcerato per un mandato del procuratore Calogero, poi per “afrazione” sono stato portato a Roma
perché ad alcuni di noi, le ballerine di prima fila, ci hanno dato insurrezione armata contro i poteri
dello Stato, quindi il giudice naturale non può che essere nella capitale. C’è stata una cosa di
Gallucci che ci accusa di massimi reati del capitolo Dei delitti contro la personalità interna dello
Stato del codice Rocco, tutti gli altri sono reati mezzo, adesso arriva lei e mi vuole ri-interrogare su
alcuni dettagli che evidentemente sono, nella sua ipotesi, delle articolazioni funzionali a questo
progetto. Io trovo che questo leda il principio del ne bis in idem.” (sbagliai perché dissi ne bis in
unum, non credo che sia grave, ma non è che avessi studiato alla Biblioteca Croce, ma avevo letto
in una lettera dell’avvocato Filastoa al suo difeso, mio vicino di cella e antico compagno, Giuseppe
Ippoliti il latinetto, poi l’avevo sbagliato, ma magari non lo sapeva nemmeno lui) “Quindi lei a che

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titolo mi viene ad interrogare? Si metta d’accordo con quegli altri, questo è un principio, io non
rispondo due volte della stessa cosa.” Infatti, sulla base del fatto che hanno fatto tutti così gli hanno
spossessato il suo processo e lo hanno riunificato a Roma: queste sono delle soddisfazioni nella
vita. E questa per me è come fare un duello alla pistola, lo fai con i mezzi che hai, uno sciopero
della fame o un tumulto, non è un problema morale; i fessi ideologici combattentisti lo avranno
visto come una cosa riformista (ma poi cosa c’entra con il riformismo?), però era più efficace e
meglio che una pugnalata. Che poi me la abbia fatta pagare quando gli sono ricapitato sotto perché
c’erano i pentiti, Spataro che quando parla di me sembra che sia Visinskij quando parla di Bucharin,
a me cosa me ne frega? Quando sono andato da Calogero, gli ho detto che ho avuto otto giorni per
pensarci, dunque gli faccio un’eccezione: “Io però rispondo solo se viene trascritto sotto dettatura:
so che voi altri magistrati riassumete, già le domande non ci sono nei verbali, se vuole riassumere
lei mi dispiace ma le dico quello che a volte dico a dei giornalisti, cioè io mi alzo e me ne vado.”
Ma non lo avrebbero potuto gestire modello Renato Salvadori, quindi si è piegato a questa cosa con
gli occhi di fuori: questo l’ho sempre fatto anche quando pesavo 39 chili con i vari Sica,
Imposimato eccetera. Li pubblicherò prima o poi, solo che sono andati perduti e nel libro Il
processo 7 aprile c’è scritto che i verbali di Scalzone non sono pervenuti: mi toccherà pubblicarli
perché tra un secolo uno potrebbe pensare che sono quello che si è pentito! Invece forse erano
talmente da manuale (e chi vuole mi prenda pure per arrogante) che, forse salvo l’interrogatorio di
Lucio Castellano (che invece nel libro di Lerici c’è) e che è un colpo di genio, gli altri erano meno
adeguati. Ma questo succede nella vita, è se uno si blocca lì e se ne fa un problema per i successivi
trentacinque anni che si vuole male e si inceppa. Virno si è disinceppato, ma bisogna avere la
maturità per farlo. E’ chiaro che volendo io trovo che sia un colpo di genio mettere a verbale:
“Scusi, ma le domande le fa lei o le faccio io?”, e quello al momento rimane disorientato, e mi
chiede cosa vuol dire; “Vuol dire che lei mi ha comunicato una serie di contestazioni che spaziano
per mezzo codice penale: dunque, se non sbaglio, in codesto sistema penale l’interrogatorio è un
mezzo di difesa, quindi a questo punto la palla è a me che richiedo per cortesia di dirmi su quale
base mi accusate” (che poi erano le memorie del proto-cripto-pentito Romito, che tra le fantasie, le
mitomanie, le stupidaggini che gli avevano raccontato per fare i belli, come le aveva rielaborate
lui…). Calogero solo una cosa ha detto purtroppo vera: “Il professor Negri è il peggior nemico di se
stesso, perché gli contesto un’agenda e lui mi dice che sono una razza di miserabile e che i suoi
archivi sono all’Istituto Feltrinelli”. Oppure Guasco che interrompe l’interrogatorio e dice: “Chiedo
a questo punto un’indagine per accertare se il professor Toni Negri abbia stornato dei fondi del
CNR per finanziare l’organizzazione”; e Toni lì, dopo tutta la buona condotta che aveva avuto, si
alza su e gli da del miserabile, e quello freddo (che sembrava un alpino, un idiota, ma se tu discuti
con un alpino che ti tiene la pistola puntata alla tempia lo devi sapere a cosa vai incontro): “A
verbale, sequestro cautelativo degli eventuali beni del professor Toni Negri”. E Toni rientra in cella
furioso perché non è ricco come molti pensano, ed essendo che la madre, Albina Negri, era appena
morta e gli aveva lasciato un appartamento, questo scherzo gli è costato venti milioni secchi, cioè il
valore dell’appartamento. Faccio forse questioni morali su Toni? Non le ho mai fatte, né mai ho
pensato che fosse stupido e men che mai incolto; però qualche volta dorme anche Omero e per
dormire intendo la trance di farsi guidare dal panico, può succedere, non è grave: il grave è
incepparsi su questo e poi dover costruire delle storie-schermo per gli anni successivi, perché questo
ti diminuisce su tutti i piani, perché è un pensiero che disturba. Se scrivo questo e pensano che è un
atteggiamento risentito di inimicizia, mi dispiace per loro; capisco che Toni non se lo voglia sentir
dire, ma in fondo glielo ho detto in pubblico e in privato e penso che sia il minimo e che sia
doveroso dirlo a un amico, se poi non funziona non è colpa mia. Io, come nel manuale di Victor
Serge, dico: “Vi propongo all’occorrenza di comportarvi come ho fatto io”, oppure lo dovrei
nascondere? Altro esempio. C’erano stati due piccoli 7 aprile, meno noti, uno nel ’77 e uno nel ’78.
Il 7 aprile non è un inedito assoluto, però c’è un elemento di novità, perché prima se prendevano dei
brigatisti o me o qualcuno con delle armi in mano, alla guerra come alla guerra, alla giustizia come
alla giustizia: ma il passaggio è quando c’è un teorema. I pentiti c’erano dall’inizio, perché Romito

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era la filigrana sotterranea dello schema 7 aprile. Mi ricordo in cella i padovani (Emilio Vesce, che
era irpino-padovano, Toni e Zagato) che dicevano che lì c’era qualcuno che aveva parlato; Zagato
per primo diceva che secondo lui è Romito. La metà delle cose che dice Romito sono secondo me le
sgomitate matamoriche per sedurre l’operaio raccontandogli che hai i carri armati; poi, rielaborate
nella sua testa, diventa che Rosolina non era uno psicodramma in cui ci rompevamo noi, ma chissà
che cosa, perché qualcuno gli avrà detto “le BR le teniamo in pugno, quegli altri pure, noi siamo gli
imperatori, è tutto sotto controllo, Aut Aut e tutto il resto…”. E’ un metodo, poi quello è un uomo
semplice e prima si galvanizza, poi le rielabora, scritte a macchina diventano così e via di questo
passo. Calogero non è stato nemmeno capace di esercitare l’abduzione o la deduzione: c’è del vero,
che non è di questi livelli, poi c’è un’accumulazione, fotografata così, di millanterie, millantati
crediti, megalomanie, mitomanie, automitomanie, paranoie, sospetti, riletture fatte dagli inquisitori
paranoico-egnostico-infami della federazione del PCI, e tutto questo diventa quello: Calogero è un
dattilografo. E poi ancora Galan, le invidie, le mitologie, non può essere un perito industriale che
rapisce Moro, ci deve essere dietro una potenza o quanto meno un professore universitario: è chiaro,
proiettano lo schema borghese, mica che un perito può aver messo in scacco il re, cioè la
repubblica, anche se per cinquanta giorni. Dunque, c’erano stati due, anzi tre piccoli 7 aprile:
l’arresto degli autonomi padovani fatto da Calogero nel ’77, che era già teorematico, abduttivo
eccetera; poi l’arresto di Radio Alice, Catalanotti, a Bologna; e poi, un mese dopo la conclusione
del caso Moro (e lì te lo aspettavi) l’arresto dei cosiddetti Brigata Tiburtina (Triaca, Spadaccini)
presi come brigatisti ma senza prove. Triaca era sparito, e i brigatisti dicevano che lo avevano
chiuso in un iper-Stemmheim e che era torturato, mentre quegli altri sembravano far capire che
avesse un po’ parlato: ma non mi interessa il dettaglio, non so neanche come sia andata a finire e
che cosa faccia, comunque era completamente isolato e chiuso.
I miei interrogatori erano come dei volantini, poi li passavo a Lucia, alcuni sono stati pubblicati:
una volta facevo lo sciopero dell’interrogatorio, un’altra qualcos’altro, c’era ormai il gusto della
schermaglia. Una volta che già stavo male arrivano Sica, Francesco Amato, non mi ricordo se c’era
Imposimato, Giuliano Spazzali e Mancini. Domanda: “Lei conosce Morucci e Faranda?”, perché
comunque avevamo fatto venire Valerio in cella con noi. Che li conoscessi era banale, erano nel
Comitato di Base di Lettere, non era significativo, avrei potuto dire “certo che li conosco”, ma lì ti
volevi anche divertire. Non volevo dare loro una risposta, era un fatto di metodo, se mi avesse
chiesto se conoscevo mio padre, non volevo dire “sì, mio padre lo conosco”, per un fatto di stile.
Però non è che dicevo “non rispondo”, e questo che dico c’è nei verbali. Ormai si erano arresi, Sica
batteva lui quel giorno: Sica faceva finta di essere intelligente e magari capiva, Spazzali certo
capiva. Io dico: “Vorrei raccontare l’episodio di Mandelstam e Stalin”. E Sica: “Avvocato Spazzali,
lei che è un uomo di cultura, come si scrive Mandelstam?”. Quindi ripresi: “Sarò impreciso perché
qualcuno me lo ha raccontato oralmente:” (che era stato Piperno poi) “racconta Pasternak che,
qualche giorno dopo che Mandelstam morì, Stalin lo fece chiamare. E Stalin aveva proprio questo
metodo e un fisico da bestia. De Gaulle, nelle sue memorie, racconta che loro erano andati a Mosca
per farsi riconoscere come France Libre; avevano passato sei giorni tra pranzi luculliani, brindisi di
vodka, e non riuscivano mai a dire che volevano parlare di politica. Fino a che l’ultima sera Stalin li
porta a vedere dei documentari di guerra, e poi, verso le 4 di mattina, mentre avevano l’aereo
pronto, si alza e dice: “Parliamo di politica”. Prendeva la gente per stanchezza, perché pare che
avesse un fisico bestiale per alcool eccetera. Poi discutono e alla fine si mettono d’accordo. E con
Pasternak è uguale: lo invita e viene fuori una di queste cene da incubo. Poi, verso le 4 o le 5 di
mattina, dice: “Che ne pensa della morte del suo amico Mandelstam?” E Pasternak: “Mandelstam
non era mio amico”. Lungo silenzio che a Pasternak sembrò eterno, e Stalin: “Non mi sarei mai
aspettato che un uomo come lei rinnegasse un amico”. Commenta Pasternak: “Il rimorso di questa
cosa mi ha lavorato dentro per anni”.” Avrei potuto aggiungerci (ma non era ancora accaduto)
l’episodio di Mitterand e Chirac nell’88: dibattito finale, drammatizzato, con le équipe come in
America. Già Mitterand lo aveva vinto dopo un minuto, Chirac arriva e sembrava un ragazzino
nervoso. “Signor presidente, le chiedo di permettermi, dato che qui siamo candidati, di non

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chiamarla signor presidente, ma signor Mitterand”. E Mitterand: “Va bene, signor primo ministro”.
Mezz’ora dopo c’era stato quel razzista del ministro delle colonie di Chirac che aveva fatto fare
l’assalto alla grotta Duvè, perché i canachi avevano sequestrato un magistrato e dei gendarmi:
nell’assalto sono morti gendarmi, magistrato, il tutto prima delle elezioni. Mitterand dice una
battuta sull’orrore di questa cosa (e ci ha vinto le elezioni per quel disastroso assalto), e Chirac (e io
mi taglierei una mano se non era sincero): “Ma signor presidente, io l’ho tenuta al corrente passo a
passo di questa scelta”. Mitterand: “Assolutamente no”. E Chirac: “Ma lei mi direbbe questo
guardandomi negli occhi”. “Gli occhi negli occhi, signor primo ministro”. “Ma…”. E Mitterand:
“Non è degno di lei fare simili insinuazioni”. Questa non gliel’ho potuta raccontare perché avveniva
quasi dieci anni dopo: però questa è proprio una tecnica, dire “pezzo di merda” non è niente, ma
“non è degno di lei”, “non mi sarei mai aspettato questo da lei”, questa è proprio la cosa dei preti.
Dunque, finisco con il commento di Pasternak, e Francesco Amato: “E allora?”. E io: “Bè, allora?
Sono io che firmo il verbale, era la risposta alla domanda se conosco Morucci e Faranda”. Gli
interrogatori che ho fatto erano così, ne vado un po’ orgoglioso. Ma devo dire che mi serviva anche
perché una cosa così ti tiene su, è molto meglio che la televisione in cella. E’ come il tuareg che,
intervistato in un film, dice che loro fanno dei duelli e, alla domanda del perché, risponde “per il
piacere”: poi i fessi direbbero che questa è una cosa fascista, ma secondo me sono fessi quelli che lo
osservano, perché i tuareg con il fascismo non c’entrano niente.
Nell’interrogatorio con Calogero, io gli dico: “In codesto sistema giuridico mi risulta che, almeno
fino a dieci giorni fa (io poi non sono di formazione giuridica), l’interrogatorio fosse un mezzo di
difesa, dunque lei mi contesta e io le chiedo le fonti di prova; se invece lei mi pone delle domande,
devo evincerne che lei ha bisogno delle mie risposte per eventualmente consolidare l’accusa.
Dunque, posso concluderne che lei non ha elementi sufficienti.” In realtà era un sofisma il mio, ho
giocato su questo, perché lui può avere elementi ritenuti sufficienti per farti un mandato di cattura
ma poi c’è l’istruzione, il rinvio a giudizio eccetera. Però, lui se l’è tenuta. “Dunque, posso
presumere che non ha elementi sufficienti già lei, dalle sue fonti (vere o supposte, che io non
conosco) per tenermi dentro: quindi, ho ragione di ritenermi sequestrato illegalmente. Non dico
illegittimamente, poiché non c’è un medium tra noi sulla legittimità, ma sulla legalità. E questo è
grave da parte di un giudice, più che da parte di un sequestratore, perché lo Stato si distingue dalla
banda più forte perché autolimita la sua potenza. Quindi, un sequestro legalizzato è questione di
habeas corpus.” Lui stranito fa: “Va bene, firmi”, e poi tanto aveva già deciso di spogliarsene per
mandarlo a Roma, Spataro evidentemente riteneva di aver fatto abbastanza, e poi si rendeva conto
che a quel punto se c’è insurrezione veniva spossessato; inoltre preferiva mandarlo a Roma perché
temeva Palombarini, che io non sapevo chi era ma Guido Bianchini e Toni dicevano che era un
democratico. Però la schermaglia configurava un modo di comportamento che, secondo me,
potrebbe fare oggetto di manuale, e non è lesivo per nessuno dire: “Leggo l’interrogatorio di Lucio,
quello di Oreste, quello di Lauso Zagato, è migliore della scelta mia e mi metto su quella falsariga”;
e non è grave non averlo fatto, ma è grave trent’anni dopo ancora star lì a voler dimostrare che era
giusto il tuo. Ma forse anche Toni si è disinceppato, però molti dei suoi ancora no, per esempio gli
autonomi padovani: chi glielo chiede conto di queste cose? Sono loro che tornano sempre sul luogo
del delitto. Qualche volta bisogna elaborare il lutto, si possono fare tante stupidaggini nella vita, il
grave è volerle rimuovere e costruire un tessuto di razionalizzazioni sofistiche cambiando storie,
terminologie…ma su che cosa?
Quando ci siamo ritrovati, con questa gioia del ritrovarsi, nel cortile di Rebibbia (poi noialtri
coimputati stavamo tutti insieme nelle celle), Toni, che era un po’ il capofila, propose di riunirci.
Eravamo Toni, io, Vesce, Marione Dalmaviva, Luciano Ferrari Bravo e Lauso Zagato, più Piperno,
che per fortuna era latitante, e Pino Nicotri, che ci stava per sbaglio (e si è comportato bene, anche
se giocava sul velluto perché non poteva durare la cosa). Cominciammo a scrivere un documento,
che poi io e Lauso firmammo: ma su che cosa cominciò il primo vero screzio? Ad un certo
momento si dice nel documento (e io sento un po’ come una cattiva azione di aver ceduto al ricatto
affettivo, poi alla fine ancora quella di firmarlo come collettivo dei coimputati): “Dobbiamo fare un

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passo indietro rispetto alla nostra posizione di allora, che riteniamo erronea, “né con lo Stato né con
le BR”.” Obiezione mia e di Lauso: “Ma scusate, facciamo un’autocritica rispetto alle posizioni che
sono le nostre: quella fu una formula usata da Sciascia (e per uno Sciascia nella sua posizione era
già coraggiosa, perché immediatamente Amendola gli disse che non poteva fare il terzoforzista, si
doveva schierare) e usata da Lotta Continua: e facevamo a schiaffi (e, se è per questo, voi più di
noi) contro questa formula. Le nostre rispettive formule sono nelle emeroteche: la nostra, mia, su un
volantone dei CoCoRi, era “contro lo stato punto, e poi le divergenze con le BR sono una cosa
all’interno del movimento”; la vostra, Toni, è scritta su Rosso e forse era migliore, “contro lo stato
diversamente che le BR”. Ma o non parliamo dell’argomento, o evochiamo questa nostra posizione
citando i nostri giornali (che non sono mica segreti), ma non possiamo fare un’autocritica applicata
a un falso, attribuendoci una posizione che non era la nostra e contro la quale abbiamo combattuto.”
Questo fu il primo screzio: cedemmo, io e Lauso, per carità di patria, di famiglia, di ricatto morale,
e secondo me non facemmo bene. Loro vollero capire e dirsi, allora fraternamente, che noi eravamo
moralisti (Emilio ci diceva che volevamo la citazione eroica nei libri di storia), e che noi
rifiutavamo il principio di autocritica, e lo pensano ancora, o fanno finta di pensarlo, dicevano che
noi eravamo irriducibilisti o vogliosi di voler rivendicare. No, e questo è dentro una frase, lo potrei
dire con grandi cose ma i riscontri sono meno chiari: lì lo troverete che c’è scritto così e se poi si
vanno a prendere le copie di Lotta Continua, quelle di Rosso, quelle dei nostri giornali ecc., si vede
che quella cosa è un falso. Allora, sono moralista della verità, o della frase hegeliana sul rigore? No,
ma perché su una svisatura così si crea una situazione come per la rotta del transatlantico, poi è tutto
un castello di storie ufficiali e di autofalsificazioni. Non è un problema morale o di coraggio, non ho
mai pensato di essere più coraggioso di Toni o altri, chi può dirlo. Ciò per prendere un indizio, poi
venne il fatto che è difficile psicologicamente. Decisero come collettivo di fare uno sciopero della
fame con l’obiettivo “processo subito”, e naturalmente io e Lauso alla fine non aderimmo: vollero
raccontarsi e pensare che noi eravamo influenzati dai brigatisti della cella accanto, che erano contro
la forma sciopero della fame per loro stupidaggini ideologiche, quando io poi ne ho fatti 24 giorni a
Parigi. Non ce l’avevo proprio questa idea, e nemmeno Lauso, non era il nostro questo tipo di
atteggiamento, era una stupidaggine dell’ideologia brigatista: tanto è vero che Franceschini quando,
a un certo momento, un po’ che gli crollava il mondo addosso, un po’ che non li lasciavano
respirare, fece lo sciopero della fame, secondo me ha sentito che lì aveva già consumato il
tradimento per cui tanto vale pentirsi. E’ così, ma noi non avevamo niente né detto né pensato né
men che mai scritto o rintracciabile, contro lo sciopero della fame come forma legalitaria o radicale
o non-violenta. A quegli altri dicevamo: “Ma scusate, i vostri miti irlandesi non lo fanno?” “Eh, ma
per quelli è la disperazione, non possono fare altro” “E invece voi?”. Ma il problema è che a noi
non andava di fare uno sciopero della fame rivendicando il processo, il che era come dire che
avallavamo la legittimità di tutto l’apparato, non solo lo stato, la sua giustizia ecc., ma anche
l’emergenza, il rovesciamento dell’onere della prova. A Toni io dicevo: “Io non sto predicando, e
mai l’ho fatto, di dire come Renato Salvadori; a me va bene quello che dice Victor Serge, come si è
comportato, poi teorizzandolo, al processo alla Banda Bonnot, negare anche l’evidenza, se puoi.”
Quando Luigi Rosati si è difeso in modo mirabolante e gli contestavano i volantini, forse che io l’ho
criticato? “Questo volantino, Nuclei Territoriali…” “Questo me l’hanno dato a un’assemblea
all’università”: ma facevamo sempre così noi, i brigatisti non erano d’accordo. Quando poi
discutevamo a Palmi, Renato mi diceva (ma parlava di sé, non di loro): “Ma non è che hai torto, non
è vero che è una morale: è che per fare questo tipo di modello che segui tu bisogna essere molto
sofisti, al limite colti, ma il compagno semplice si imbobina, allora è meglio aver dato veste
ideologica a quello che non dice niente così non sbaglia, non fa errori contro se stesso.” Poi è
diventata un’ideologia, ma è disastrosa, il caso di Franceschini l’ho già fatto. Ma qui ci sono
persone che, quando è finito tutto, al processo Moro-cinque, hanno deciso nemmeno di difendersi,
come dicono loro non è che hanno smesso di rivendicarsi come BR, quello restava: hanno poi
deciso di ammettere (ma non nel senso degli ammittenti che poi ne hanno chiesto i benefici, è un
caso particolare, di alcune e alcuni condannati poi nella Moro-cinque) semplicemente uno (e ci

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credo, o comunque non ho motivi per contestarlo) perché così hanno potuto scagionare alcuni che
erano proprio incastrati a torto, poi un po’ (ma non mi pare gravissimo) perché gli avvocati avevano
loro detto che a quel punto l’innocentismo totale veniva preso come una tale provocazione (come
accade un po’ per Sofri poi) e refrattarietà, tale che se c’era una speranza di avere trent’anni invece
che l’ergastolo si giocava su questo. Ho mai fatto questioni morali? Quello che mi turba è che
invece ho sentito dire alle persone che hanno fatto così e che venivano attaccate da altri, che erano
turbati: “Va bé, ma tanto si era deciso in collettivo che non revocavano gli avvocati…” e per loro
era come se quello fosse stato come aver lì consumato un tradimento. Quando mai io e Lauso
Zagato avevamo questo tipo di idee? Però dicevo: “Toni, se ti accusano di un fatto specifico e
circostanziato, io consiglio (come ti dice l’ultimo ladro astuto) di parlare il più tardi possibile per
dire la tua; ma quando il tempo è venuto puoi opporre un alibi, vero o falso che sia. Ma se ti
accusano di aver costruito un progetto insurrezionale lungo dieci anni non ci sono alibi: l’unica cosa
è dirgli: “no, l’onere della prova è il tuo, non sei il mio confessore né il signor Dio, e non sono io
che ti devo dire se sono terrorista o no, perché questo è antigiuridico: sei tu che mi devi portare le
tue prove, e ci vedremo a Filippi, cioè al processo”. E questo non te la giocano che ti sei comportato
come Renato Salvadori o Gallinari.” Non me l’hanno giocata, e io poi sono stato l’unico che non è
mai stato accusato di appartenenza alle BR, e non per caso, perché avevo un atteggiamento talmente
trasparente che come avrebbero fatto? Non c’era niente di cospirativo o di interpretabile come una
doppiezza, né nel presente né nel passato, per cui potevano darmi l’ergastolo per altre cose, ma
certo come brigatista era assolutamente impossibile presentarmici. Secondo me è anche per
l’atteggiamento che avevo, non prendevo assolutamente distanza dalle BR. Questi erano discorsi
che non è grave se uno non se li è pensati, ma se uno te li fa sarebbe meglio non fare schermo per
orgoglio. Io non faccio obiezioni morali, semmai ne faccio sul peccato di orgoglio, ma ne potrei
portare infinite di cose di questo genere, su ciò che hanno provocato piccoli spostamenti, ma questo
sarebbe un’altra cosa e un altro libro.

Chiudendo per ora la parentesi, volevo dire che secondo me la linea sull’amnistia per tutti sta poi
addirittura nei termini di una micropolitica si direbbe foucaultianamente (guarda un po’, una
biopolitica). Per anni mi dicevano che io ero prigioniero del passato o nostalgico, ma è illogico: se
un’amica o un amico che ti vogliono bene ti dicono che sei nostalgico perché vai ad una
manifestazione con i poliziotti, è illogico, è una contraddizione in termini. Se io fossi nostalgico di
Terni, e stessi a Terni, per definizione, per la contraddizione che non consente, come potrei avere
nostalgia del posto dove sono? Quindi, se io sto facendo una manifestazione del tipo di quelle che
mi trovavo a fare nel ’68, sarò l’ultimo ad essere nostalgico del ’68, non ci penso nemmeno, o
sbaglio, in buona logica? Prigioniero del passato: voi state a stabilire, per altro con delle storie
ufficiali degne di Orwell, le differenze sul passato tra i terroristi e i buoni; io parlo dell’amnistia, e
questa riguarda i corpi di oggi ed eventualmente di domani, è proprio una cosa a cui non gliene
frega niente del passato. Mi potrai dire stronzo, ma perché prigioniero del passato? Mi pare che
semmai lo sei tu. “Presenti il movimento come un monolite”: io? no, io dico che era moltilite, che
non era un bilite come dite voi, perché io non mi arrenderò mai a questo. Se mi chiedono (non un
giudice, perché non lo dico per stile) io, a differenza (tanto questo non ha rilevanza penale) che
alcuni intellettuali (per esempio, in epoche diverse, Sofri, Toni o il mio amico Piperno), non ho mai
avuto un flash di essere affascinato dalle BR. Io ho fatto un articolo intitolato Non abbiamo
complessi, quindi ho sempre ritenuto, a differenza di altri, che non è che c’è la categoria della lotta
armata, se no uno dice “facciamo politica e facciamo il partito unico di quelli che fanno politica”
(sì, lo fanno in effetti); e se facciamo lotta armata, ognuno la farà sul programma suo e sulla cultura
sua, o c’è una categoria del combattentismo? Io non ci ho mai creduto, sono sempre stato
radicalmente a-brigatista, i brigatisti intelligenti lo sanno, mi hanno sempre rispettato e hanno
sempre avuto fraternità per questo. C’è uno che poi si è salvato perché gli ho dato io un alibi
(dovuto anche se fosse stato un cittadino): l’accusavano di aver ucciso Ruffilli, la portiera l’aveva
già riconosciuto (perché riconoscerebbero chiunque), e qui sarebbe stato estradato diretto perché

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l’uccisione di Ruffilli è successiva all’entrata in vigore della convenzione di Strasburgo, mentre poi
è stato prosciolto; in fondo si potrebbe sostenere che, come dice La Rochefocauld, ha il problema
del debito, o come nel film di Renoir, è imperdonabile aver salvato qualcuno. Ma poi se lo
incontrassi mi direbbe che sono sempre stato un anti-brigatista primario: non è vero nemmeno
quello, ma sono sempre stato radicalmente a-brigatista, motivandolo in tempo reale, e dopo sono
stato ultragarantista. Allora, è chiaro che Rossanda (questo c’è nel libro mio e di Paolo) per
sostenere che era giusta la dissociazione (anzi allora si diceva l’innocentismo e io mi contrapponevo
dando ragione ai Ferraioli ecc. nell’articolo Una schermaglia garantista portata fino in fondo), mi
faceva il saltafosso dell’obiezione da sinistra (c’è nel libro e c’è su Il Manifesto): “Sei diventato un
formalista giuridico? Lo dico sempre ai miei amici (Canosa ecc.) che non si fa la rivoluzione con le
bandette” (giudici del lavoro che davano sempre ragiona agli operai e facevano riassumere pure il
garzone licenziato dal macellaio perché trovato a letto con la propria moglie, non c’era giusta
causa). Per dirmi che era giusto l’innocentismo (che era l’anticamera della dissociazione, cioè di
una sponda costituiva del dispositivo emergenziale, quindi critica dell’economia politica
dell’emergenza o della dissociazione, non risentimento o giudizio morale) lei mi trattava da
formalista giuridico. Le potrei dire adesso: ah, spiegavi a Canosa e stavi spiegando a Ferraioli (che
poi sono invece loro ad essersi convertiti alle tue posizioni) che la rivoluzione non si fa con le
bandette, ma perché invece ci sono stati momenti in cui hai flirtato con l’idea che la rivoluzione la
facessero Borrelli e Di Pietro fateci sognare? Il Manifesto era anche solo neutrale, aventiniano o
parlava d’altro quando si trattava di schierarsi tra Craxi e Di Pietro oppure di criticare il dispositivo?
Non stavate tutti intruppati con i missini ecc., chi più chi meno, dietro questo infame sogno di Mani
Pulite? Non scrivevate le battute sarcastiche Oreste al Quirinale quando io dicevo determinate cose
a proposito di Cossiga? Io sostenevo: voi dite Curcio libero, ma c’è uno che è presidente della
repubblica (quindi non è migliore, è solo che se ne può fregare perché tanto non deve fare carriera)
che dice che Curcio bisogna liberarlo, questi non accetta di essere liberato per motivi di salute e il
presidente della repubblica dice: “Ma il dottor Curcio sta benissimo, voglio fare un messaggio al
parlamento per dire che questa deve essere una grazia politica, e d’altra parte voglio fare un
messaggio al parlamento per dire che bisognerà fare una legge di amnistia o di indulto. Perché?
Perché abbiamo detto tutti una menzogna all’epoca quando dicevamo che erano demoni e criminali,
io per primo, ma io ero Ministro degli Interni, loro ci avevano dichiarato guerra e non si è mai visto
un capo militare spiegare ai suoi uomini le ragioni del nemico il giorno prima della battaglia. Ma
era una verità politica, cioè una menzogna in punto storico: ma adesso, vogliamo raccontarcela? Per
me il comunismo, quando io e mio cugino Berlinguer abbiamo fatto scelte diverse, era una cosa
terribile e grande, mi parlava di Rosa Luxemburg, di Lenin, e adesso lo zombi con i baffetti ci
vorrebbe convincere che Lenin era un delinquente alla testa di un gruppo di ladri di polli? Quelli
erano combattenti comunisti rivoluzionari, Moro l’aveva capito in quelle condizioni drammatiche,
ma in fondo io dico delle cose che i miei amici del Partito Comunista e della sinistra dovrebbero
sapere molto meglio di me e me ne vogliono perché le dico e loro non hanno nemmeno il coraggio
di pensarle.” Insomma, se il re viene al balcone con la corte e dice “Ci vedete? Siamo tutti nudi”,
Dario Fo possibile che non trovi spettacolare questa cosa? E Il Manifesto, quando uno dice che
vuole aprire un dibattito sull’amnistia e che la grazia a Curcio è politica sbloccando la cosa e
Martelli dice no, loro con sicuro istinto si schierano con Martelli. E poi quando alla fine Martelli
tiene su la corda e Cossiga (che faceva il pazzo o magari lo era, ma viva i pazzi) dice: “Questa
mattina ho fatto elaborare dai servizi giuridici della Presidenza della Repubblica quattro formule di
grazia per il dottor Curcio: una come grazia tout court, una come grazia per motivi umanitari ecc. Io
penso che sia politica, ma siccome la questione è bloccata li ho mandati alla controfirma del
Guardasigilli, lui me li può rimandare su carta gialla, grigia, verdolina, firmata in alto, in basso,
dove vuole” (queste sono cose che si trovano nelle emeroteche); voi dite: “No, Cossiga è un
provocatore che vuol fare saltare tutto” e vi schierate con Martelli? Che poi Martelli dopo dovete
metterlo tra quelli che stanno sospesi, come Giuliano Amato, come Del Turco, come Intini
(cambusiere di Craxi, se è per questo, rispetto al vostro metodo). La demenza della demenza della

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demenza è un crimine totale se uno parla pubblicamente e la presenta come ragione. Chiusa questa
parentesi sul metodo.

Dopo aver seguito la canzone di Tronti e quelle altre su cose più grandi, più complesse, più nobili e
più azzardate che dire amnistia per tutti e ciascuno, raccolta di 50.000 firme, asilo ecc., mi sono
trovato a dire queste cose, che secondo me erano nel dritto filo puro di quello che io avevo imparato
da loro (il potereoperaiese, o il potereoperaismo). Anzi, c’è una lettera del ’77 a Repubblica firmata
da me, Lauso e Piero Del Giudice (che non so perché c’è la pubblicarono) in cui, dopo la storia di
quelli della Tiburtina, noi diciamo che bisognava fare una battaglia contro i carceri speciali e
iniziare un cammino per l’amnistia; naturalmente tutti gli autonomi, Rosso ecc., dicevano “ma
come? le carceri tutte salteranno in aria, siete riformisti”, e per quegli altri ovviamente sembrava la
luna nel pozzo. Sono un genio che ma la sono inventata io questa idea? La prima volta la lettera la
firmammo noi tre perché Franco era partito, ma il primo che ebbe lo scatto di dire “qui bisogna fare
un discorso sull’amnistia” è stato il mio amico Piperno (vedete che è stato un mio maestro?). Da
fuori, furono lui e Pace che dopo il 7 aprile rilanciarono l’amnistia, io e Lauso scrivemmo sì su
Metropoli: sembrava un peccato mortale, per cui ti attaccavano da destra a sinistra: i brigatisti non
ne parliamo, i combattentisti non ne parliamo, all’epoca, gli autonomi matamori di Padova o anche
Volsci ti attaccavano da “sinistra” (ma in questo caso questa non si presenta la sinistra della destra,
la sinistra dell’emiciclo, la sinistra dello stato, la sinistra del capitale, la sinistra nella società, come
diceva Gaspare De Caro, ma è la sinistra dell’ideologia, la sinistra della serenata a se stessi).
Quindi, attaccavano da “sinistra” e si trovavano molto bene con chi faceva un discorso da “sinistra”
e in realtà però non voleva l’amnistia uguale per tutti perché coltivava il pensiero
protocriptopredissociativo; dunque, sembravano quasi andare d’accordo esplicitamente con chi
diceva “no, perché non dobbiamo riconoscere la sconfitta”, come se è il riconoscerla che la crea,
come quello che si arrabbia con il medico che gli diagnostica un cancro, il pensiero superstizioso.
Uno può essere mosso dal fatto di sentirsi il complesso di essere disertore dal suo sogno, di aver
perso il treno, ma la può risolvere altrimenti che costruendo un tessuto di aberrazioni, molto più
gravi che le abiezioni nel comportamento, ma che sono dei crimini di parola e di concetti. Tutto
qua. Ora, se uno rispetto a questo si è sentito dire per vent’anni, sottoposto a un double binde, “che
si fa?”, “bè, potremmo fare così”, “ah no”, “allora che potremmo fare invece?”, “ah, non si può
fare”, “ma non c’è nessuna possibilità?”, “no”, chi perché “finché c’è lo stato chiedere
un’amnistia…”, chi perché non lo so. Va bene, ma allora perché non mi lasci in pace, perché mi
viene a chiedere cosa si fa, mi si fa una domanda trappola? Tu ritieni che una soluzione di amnistia
sia uno pseudoproblema perché pensi che solo l’insurrezione e l’evasione libererà i compagni?
Oppure, come mi disse quel giorno Toni, “siamo nelle cantine del palazzo, non ci possiamo tirare su
per i capelli, dunque dobbiamo comporre con il mercato politico”? Pensate questo? Allora cosa mi
domandate a fare? E’ una domanda trappola? Io non penso che sia uno pseudoproblema questo qua,
però di chi mi fa la domanda pensando che sia uno pseudoproblema, non discuto le intenzioni,
magari lo fa per ansia perché non può stare zitto e perché la cosa lo rode, ma mi sta facendo
un’ingiunzione paradossale: “Quale camicia ti metti delle due che ti ho regalato, quella verde o
quella rossa?” “Quella rossa” “Lo vedi che la verde non ti piace?”, e viceversa. E’ così.
Psicologizzo? Non credo. Allora, dico che, dal momento che mi sono confrontato con tutti i
precedenti a questa cosa qua, è chiaro che poi a un certo momento mi è toccato diventare una specie
di uomo-orchestra, cioè quello che dice io faccio le cose da me; mi è sempre piaciuto il gruppo, il
collettivo ecc., però siccome non mi piace né censurare né essere censurato né essere gregario, ma
mica per orgoglio, non ho problemi ad essere un divulgatore del trontismo o il braccio destro del
mio amico Piperno, ma non mi piace essere gregario nel senso che non pensi e vai dietro pure a dei
manifesti errori del guru, e meno ancora mi piace essere guru e comandante, a torto o a ragione (o a
torto e ragione), allora faccio le cose al limite da solo, come l’uomo-orchestra, quello che si vede
nel metrò, è zampognaro, suona la tromba ecc.; e poi chi ci sta, per quanto tempo ci sta va bene.
Come diceva Felix Guattari rispetto alla teoria dell’organizzazione: “Unitevi spesso e in modo

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effimero e senza problemi”. Poi magari sono diventato anche una specie di juke-box. Deleuze
diceva “non ho riserve”, ma io non ce ne ho proprio. Quindi, mi pongono delle questioni tali per cui
mi si è sviluppato e ipertrofizzato un dispositivo per cui faccio come quello che gioca a scacchi con
il calcolatore: già mi faccio tutte le refutazioni, pesudorefutazioni, trappole, sofismi che mi sono
sentito fare, cerco di immaginarne tutte le variazioni possibili, mi preparo le controrisposte sul
piano del discorso, sul metapiano delle interpretazioni. E’ chiaro che questa è una follia sul piano
del poi scrivere, tagliare il flusso e ritagliare un cubetto d’acqua, qualche volta mi riesce di capire
che bisogna farla ghiacciare, quindi è sterilizzata, non è più acqua, però se vuoi metterla in scatola
devi accettare questo cambiamento di stato. Rischio sempre di voler vaccinare il discorso dal
malinteso sempre in agguato, che non è grave che ti scambia per un altro e fa torto a te, ma che si
occulta e si fa schermo a capire la congettura che stai avanzando, quindi non la può nemmeno
refutare. Vorrei vaccinarmi da questo e dire tutto davvero in una sola parola (mi illumino di
immenso, veni vidi vici) ma è come perseguire l’halef e per perseguirlo passare per il suo contrario,
la biblioteca di Babele, il continuamente ricominciato, la verbalizzazione infinita, cronologica sul
piano della cronopatia, del consumo della vita, del fatto che alla fine tutto questo può terminare in
niente, in metri cubi di metri cubi di fogli, cassette di registratore e di video, margini di giornale
(“Cosa fa tuo padre?” “Scrive sui giornali” “Ah, è giornalista?” “No, no, scrive sui pezzi bianchi dei
giornali” “Dove?” “Su Le Monde, Repubblica…”), e poi ho dei quaderni, quadernetti ecc. E’ un
meccanismo mentale, e per definizione non potrò mai rileggerli, perché poi è un inevaso che
aumenta sempre, ma in fondo quando proprio devo tirare fuori una cosa, tanto non li rivedrò mai,
però mi serve per metabolizzare le cose, non è proprio perduto, e poi se è perduto cosa ci posso
fare?, anche Linus si tirava dietro una coperta inutile. Però, c’è un senso in questa cosiddetta follia,
e poi a volte c’è un senso proprio banale. Sono arrivati due giovani, amici di amici, vagamente
compagni, e vogliono fare un video: me li ha proprio imposti Luigi Rosati, così che lui poi pensava
di sfilarsi. Sono arrivati in pieno compleanno di Lucia e io ho detto di fare una cosa tipo Truman
show, loro mi vengono dietro e riprendono, tanto era un mese che dovevo andare sempre a cose
interessanti. Allora abbiamo fatto dei pezzi di Truman show ed erano affascinati; poi in macchina
mi ponevano domande pregnanti come le vostre, e se io gli chiedevo perché non la filmassero
invece di pormele in macchina, loro mi dicevano "e dopo?", “ma cosa ve ne frega, non è mica la
pellicola che costa, la accantonate, può servire a me”. Sembravano quasi stizziti: “oppure potete
montarla voi e tirarne fuori tre minuti da sette ore, mica vi sto a dire niente, lo so benissimo che non
potete prendere tutto, però a me può servire come riscaldamento: pretendi che mi siedo qui e vuoi
che ti dica tutte frasi sublimi e concise, una dietro l’altra?”. Perché sembra la luna nel pozzo? I
giornalisti americani, quelli mitizzati, fanno così: prima stanno appresso ad uno per due mesi con il
taccuino, così la domanda che mi facevano era pertinente. Con voi c’è il fatto che conosciamo la
materia, ma se no un altro ti chiede delle cose che implicano che gli spieghi la rava e la fava, perché
non c’è un medium: come fai a dirglielo in una frase? Loro resistevano a questa cosa: come fai a
non applicare una cosa psicanalitica? Capivano che io ero strabico, e invece è come il bambino che
ti dice “leggimi una favola”, mica gli puoi dare la fotocopia. Ma è un problema personale di
totemizzazione; perché a loro che fastidio gli dava? Ho fatto una cosa al Louvre di tre ore, sono
rimasti affascinati, hanno detto: “Abbiamo provato a montarla per sedici minuti, ma ci dispiace
tagliarla: potresti rifarla?”; si sbobinano tutto e mi indicano le cose che interessano loro, così
facevano i giornalisti americani, a loro cosa gliene frega se io mi tengo queste cassette
semplicemente per calmare l’ansia dell’amnesia come metafora della morte, o se magari ho l’idea
che tra cinque anni si può mettere tutto su internet? Ci metti materiale clinico, e se invece è solo
stolto non fa male a nessuno. Quindi, questa è una follia dal punto di vista dell’economia personale
magari mia o di Lucia, è una cronopatia, ma è banale, a me sembra di essere un tipo di buon senso,
perché poi ha anche delle analogie che esistono sulla faccia della terra. Insomma, ho imparato
questa cosa che è un dispositivo juke-box, giuro che non l’ho fatto apposta, sembro quel
personaggio di Cervantes che qualsiasi cosa gli dicessero rispondeva “non dico di no, ma perché”.
Penso (ma se uno mi dimostra che non è vero non è che vada in crisi o in depressione per questo)

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che ci sia anche il fatto che, se vale la pena di comunicare qualcosa come pulce nell’orecchio da
mettere in giro, ha una sua singolarità, non mi interessa l’inedito, quand’anche tutte le cose che dico
(come penso) mi sembrerebbe strano che non fossero state già dette, magari sono state dette
passando per dei percorsi e non sono comunicate o recepibili a quella studentessa di ieri che diceva
“ma allora la filosofia è una cosa che parla della vita”. Non sto facendo l’apologia dell’esperienza
pratica o dei Truman show contrapposti al sapere rigoroso o letterale, io dico solo che mi sa che c’è
un qualcosa complementare con tante altre cose più importanti in ciò che io penso di mettere in
pratica. Se uno questa cosa la pubblicasse così, magari corredandola con note e sottotitoli, poi se
uno la vuole prendere per un delirio puro che male fa? Ma secondo me c’è un qualcosa che funziona
presentandola così, e magari facendoci una cosa cartografica di legenda, perché propone in qualche
modo non voglio osare dire un metodo, ma un modo di fare sul falso, il vero, l’approssimazione, la
veridizione. Io, forse traumatizzato da alcune cose tipo il caso Feltrinelli, l’avevo visto una
settimana prima, conoscevo quelli che c’erano assieme, ho sempre tentato di dirla, al funerale (che
si vede nel film di Bellocchio) ecc., la verità di questa cosa, e Potere Operaio la approssimò
titolando Un rivoluzionario è caduto: era così, voleva chiamarsi Osvaldo, eravamo lì quando ha
scelto questo nome. Gli unici che probabilmente capivano che era come dicevamo noi erano i
poliziotti, pensa un po’: quelli vedono uno che aveva scritto una lettera dicendo “parto in
clandestinità perché qui c’è il golpe e il fascismo”, tre anni dopo lo trovano vestito da guerrigliero,
con una gamba tranciata, cosa devono pensare? Che è andato a prenderlo la CIA, come diceva il
professor Maccacaro, Rossana Rossanda, l’Istituto Feltrinelli, la Fondazione Feltrinelli, Berlinguer
e tutta l’intellighenzia di sinistra, salvo noi e basta? E noi, io e Piperno (mettendo un bemolle,
perché non ci pronunciavamo su come era andata, se no ci avrebbero impalato) dicevamo che era
quello che aveva fatto i GAP, che mi pare anche l’unico rispetto per la sua memoria. Pasolini
l’aveva scritto (lì però non ho le prove, ma è chiaro che è uguale): “Un giorno morirò mentre mi
vado a cercare i ragazzini”; muore così, e chiaramente il poliziotto cosa pensa? Pensa che quel
ragazzino marchettaro si è ribellato alla cosa (a Pasolini poi piaceva essere scandaloso, non ne
sarebbe stato ferito), ha preso e lo ha ammazzato. No! A parte il cugino, tutte le Laura Betti del
mondo hanno dovuto dire che “siccome scriveva le Lettere luterane e aveva scritto Processo al
palazzo o gli Scritti corsari” (sul Corriere della Sera di Piero Ottone) “dunque era stata la CIA”; e
se tu sostenevi di no, ti dicevano “sei amico della CIA?”. Tra l’altro c’è un motivo pratico in questa
mia ossessione, perché questi volevano per forza che il giovane Pelosi raccontasse l’irraccontabile,
e se avessero avuto il potere gli avrebbero strappato le unghie per fargli dire che aveva dei complici
della CIA. E qui ci passa una differenza tra un bene e un male, futuro e materiale, non c’entra né la
morale, né una vertigine di rigore, c’entra invece il corpo di un ragazzino. E sul caso Moro, è la
stessa cosa, ne faremo un altro capitolo, ma su Feltrinelli il fatto è che proprio lo so. Dunque, ho
dovuto assistere al fatto che questa verità è stata denegata: almeno ci avessero messo in galera a
interrogarci, ma non l’hanno fatto. C’era la verità ufficiale, e poi persino quando lo scrittore
Balestrini ha pubblicato quel bel romanzo, L’editore, si tratta dell’unico romanzo dello scrittore
Balestrini che è subito stato messo da parte. Quando io facevo l’esempio di Feltrinelli in un film di
una mia amica, i produttori hanno detto “no,” (poi non lo abbiamo messo per altri motivi) “perché
questo è un manipolatore e noi sappiamo bene che sta dicendo il falso”. Ed è successo che il figlio,
all’epoca traumatizzato da questa cosa che avevo detto, in realtà in difesa di Sofri (qui si
aprirebbero altre cose), mi scrivesse una lettera esulcerata dicendo “non capisco perché Scalzone
infanga il nome di mio padre”; io gli risposi su Frigidaire e su L’Espresso dicendo: “Non sono io
che infango, perché io ero lì quando lui scelse di chiamarsi Osvaldo; sarà stata una roba romantica,
adolescenziale e noi non eravamo per niente d’accordo, però è come quando a sedici anni se ne è
andato con i ribelli, questo voleva fare. E chi ne violenta l’intenzione della memoria sono i proci
che hanno occupato la casa editrice ecc. e che certificano un falso sulla sua verità”. Poi non gliel’ho
neanche mandata personalmente, è lui che deve essersi fatto tutto questo viaggio e qualche anno
dopo mi è venuto a cercare, poi c’è stato il libro, i ringraziamenti ecc.; e sono dovuti passare
ventotto anni perché uscisse il libro in cui il figlio (che, per tramite mio, ha incontrato anche

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l’ultimo di quelli che c’erano e che non è morto) raccontasse com’era. E tutti a dire “bellissimo il
libro”, uno che avesse detto “adesso ci spiega il mistero Feltrinelli, noi c’eravamo sbagliati”: questo
problema non c’è, mica che dovevano dare ragione al sottoscritto. Poi anche il figlio alla fine lascia
un minimo di scarto, perché deve salvare la mamma e la Fondazione, e spiega tutto, però in fondo
dice “sarà andata così o…”: è certo che uno può sempre reintrodurre il dubbio, perché uno gli ha
detto “ma se questi orologi li ha fatti il tale, chi ti dice che quest’altro non fosse, malgrado ex
partigiano, manipolato da qualcuno?”. Invece lui lo sa che è andata proprio così e punto. Però,
malgrado tutto, dice: “Certo, Berlinguer e quegli altri cosa potevano pensare?”. Quindi, trent’anni
per una cosa così. Non è un discorso sulla verità, perché se ti dicono di dare una definizione di
verità, figurati, è come se ti dicessero di dare una definizione di infelicità; però per contro non è
vero il rovescio, perché di un week-end con una pulpite gassosa (come poi io ho avuto l’anno dopo
negli stessi giorni in cui avevo detto questa frase) sotto tutti i cieli, salvo un caso che viene
classificato come rara perversione, secondo me puoi dire “ecco, questa è l’infelicità”, una sua
definizione basilare e sensista. Così, la verità è un discorso indefinibile, ma non una falsità. Chissà
se la vita è sogno, ma quello che hai visto, se io poi racconto che lì c’era un castagno, grosso modo
lo so che sto dicendo un’impostura, o forse non lo so ma è un’impostura, ulteriore. Forse viviamo
tutti nel simulacron del film di Fassbinder, ma anche in questo caso il simulacron mi dice che quella
è la cosiddetta edera, e se io scrivo una memoria dicendo che è castagno, questa è relativamente
un’impostura. Allora ti dicono “ma chi te lo fa fare? sei diventato un puntiglioso, vuoi mettere i
puntini sugli i? che senso ha?”; forse niente ha senso, e neanche questo, ma se non ha senso voler
ristabilire che era edera, figurati tu che senso ha voler stabilire a futura memoria che invece era
castagno.

Detto questo, chiudo tutta questa parentesi e vengo a quello che avevo cominciato a dire tre ore fa.
Della generazione dei primi allievi dell’operaismo (non dei maestri, sarei immodesto), versione
Potere Operaio, avevo recepito il concetto di autonomia. Certo lo sapevo perché avevo fatto bene o
male greco, però dovevo tradurlo agli m-l simpatici come Cecco, perché a Milano dovevi riuscire a
passare persino tra loro; essendo attivisti, con quelli della religione, o della superstizione, o della
perversione maoista-marxista-leninista se stavi a Milano un po’ dovevi trovare dei codici per
parlarci, per metterli in crisi, per spiegare. Allora dicevo “perché vi sembra strana l’autonomia?
Lenin la chiama indipendenza del proletariato” (in realtà autonomia era un concetto già allora più
allargato, e di questo ne faremo un altro capitolo); ma, insomma, grosso modo anche un analfabeta,
se gli si spiega, può percepire il concetto di autonomia, nel suo etimo, nella sua definizione, poi con
tutti i paradossi, come il paradosso della libertà, le sfere dell’autonomia come si intersecano, la mia
autonomia, l’autonomia degli altri, le coautonomie. Ma un po’ lo può capire, può capire nel senso
che vuol dire, in senso ristretto ma forte e specifico, lottare sui propri interessi materiali (i propri,
non di quelli dello zombie con i baffetti), sul piano dei bisogni, poi tutto si complica, i desideri ecc.;
però questo concetto di indipendenza persino nelle frasi false degli slogan della triplice sindacale
c’è, “siamo autonomi dal governo, dai padroni e dai partiti”, quindi grosso modo sappiamo cos’è, in
modo anche molto rozzo. Siccome presumo o mi prendo per un materialista critico, è per questo che
non ho i pregiudizi e le razionalizzazioni contro tutto quello che comincia per il radicale psi-. A un
compagno, che si turba pensando subito che sono delle cose new-age, dicevo: “Io sono un
materialista, quindi se mi fa male un ginocchio cerco di farmi curare, se vado da un ortopedico so
che è la medicina del capitale, allora magari vado da un guaritore, ma cercherò una cura; se vado
male di sentimenti, di umore e di testa è un po’ la stessa cosa, sei tu che pensi che sia la sfera
dell’anima e quindi la cosa ti turba, e se ti rompi una gamba vai dall’ortopedico mentre se sei con la
lingua per terra e depresso guai a dirti di andare da uno psi-. Io sono materialista, rischio magari di
stare nelle categorie del materialismo dell’esistente e del capitale”. Allora dico che, per quanto
riguarda il mentale, proprio perché siamo materialisti, è chiaro che né i corpi camminano se uno è
decerebrato, né le pistole all’occorrenza sparano da sole. […]

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INTERVISTA A EMILIO SOAVE – 27 OTTOBRE 2000

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale? A noi interessa infatti capire
come si sono formate determinate soggettività: quindi, l’esperienza che uno ha fatto, quali sono
stati i riferimenti di persone che hanno dato certe indicazioni, che hanno incamminato su
determinati ragionamenti e percorsi, e come poi questa traiettoria è andata avanti nel tempo.
Da una parte è vero che questa soggettività è una cosa unica, per cui oggi non è così semplice
costruire un certo tipo di formazione politica; però, noi abbiamo visto nelle interviste che tutte
le persone considerano l’esperienza che hanno fatto in quei tempi come quella fondante, dalla
quale poi, nonostante abbiano successivamente fatto delle scelte magari anche profondamente
differenti, sono stati caratterizzati in un certo modo. Quindi, l’ipotesi da valutare è che se uno
ha incominciato a fare politica e si è costruito in un certo modo ha comunque un’impronta che,
al di là di quello che può succedere, gli rimane come caratterizzante; inoltre ha degli strumenti
anche per le scelte e per le attività che fa poi successivamente che sono differenti da coloro i
quali invece questa formazione non l’hanno avuta.

Per quello che mi riguarda io ho cominciato giovanissimo, a 15-16 anni mi ero iscritto alla
Federazione Giovanile Comunista, quindi la mia prima esperienza politica risale a quell’età lì.
Curiosamente, pensando a dei paralleli magari con i giovani di oggi, forse sono stati molti precoci i
miei inizi: probabilmente nella mia generazione c’era una percentuale abbastanza bassa di giovani
che facevano politica, però quelli che la facevano hanno spesso cominciato giovanissimi, mentre
adesso, al di là del distacco dalla politica, chi arriva all’attività politica ci arriva forse più tardi. Nel
caso mio è una questione abbastanza casuale, nel senso che io ero cresciuto praticamente come
vicino di casa e compagno di giochi della famiglia Montagnana, con Massimo, fratello di Mario e di
Rita Montagnana. Dunque, ero cresciuto addirittura con un’influenza di stampo quasi sovietico,
vivevamo porta a porta. Massimo Montagnana riceveva periodicamente le visite della sorella Rita,
che si era appena separata da Togliatti che arrivava con un macchinone come quelli dei burocrati
sovietici di quel periodo con autista e guardia del corpo. Quindi, la mia cultura veramente giovanile
è stata appunto quella: c’era L’ABC del comunismo, La piccola enciclopedia del marxismo, Il
calendario del popolo, c’erano tutte queste cose qua, i testi di Lenin e di Stalin nelle Edizioni in
lingue estere dei classici del marxismo. Questo poi mi aveva appunto portato all’interno della
Federazione Giovanile Comunista ad occuparmi degli studenti medi (allora ero soltanto un liceale),
quindi ad essere un responsabile del gruppo studenti medi della FGCI.
Tutto questo fino ai fatti di Ungheria, perché poi quelli segnarono una grossa dislocazione dello
schieramento politico, quindi esodi, fratture, rotture; poi ovviamente c’era tutto quello che era
collegato con il XX congresso del PCUS. Dunque, gradualmente il mio marxismo si desovietizzò
per quanto giovane io fossi e quindi per quanto le influenze culturali di quel periodo fossero
abbastanza ridotte, non c’era certo la ricchezza che poi mi è venuta dopo a livello culturale. Più o
meno in quel periodo già frequentavo Vittorio Rieser e altri che a loro volta erano politicamente
attivi: Rieser (anche lui giovanissimo, perché siamo più o meno coetanei) era a quell’epoca in una
formazione che mi pare si chiamasse USI, Unione Socialisti Indipendenti, che era venuta fuori dal
gruppo di Magnani e Cucchi, i titoisti che erano stati espulsi dal Partito Comunista Italiano negli
anni ’50. Si trattava di una sorta di minipartitino filotitoista, dopo di che si sciolse perché Cucchi
finì nella socialdemocrazia e Magnani dopo parecchi anni ritornò nel vecchio PCI. In quel periodo,
dopo le vicende dell’Ungheria e della Polonia, ci fu un momento di rimescolamento di tutto il
quadro politico; alcuni erano confluiti nella Federazione della Gioventù Socialista, la Federazione
Socialista di Torino era a quell’epoca scissa tra un settore prosovietico che allora si chiamavano i
carristi e invece il settore autonomista che si richiamava a Nenni. Comunque, grosso modo tra il
settore critico della federazione Giovanile Socialista, il settore critico della Federazione Giovanile
Comunista, più altre persone che venivano da esperienze cattoliche (a quell’epoca c’era anche
Vattimo, più vecchio di me, che politicamente era attivo soprattutto a livello universitario), alla fine

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di questo rimescolio ci fu la formazione di un gruppo che cominciò a teorizzare la presenza davanti
alle fabbriche di quello che allora non era certo il movimento studentesco ma erano piccolissime
frazioni di studenti politicizzati. Questo avvenne attraverso il sostegno di un’attività di
picchettaggio nello sciopero del ’58 degli elettromeccanici, che fu forse il primo grosso movimento
a livello operaio che coinvolgeva i giovani operai e soprattutto operaie di recentissima formazione,
che quindi vedeva un po’ scendere in campo una generazione che non era quella della vecchia
classe operaia passata attraverso l’esperienza della guerra e del dopoguerra. Quindi, cominciammo a
cercare allora di portare gli studenti davanti alle fabbriche per coinvolgerli nell’attività esterna di
sostegno allo sciopero; tra l’altro durante lo sciopero degli elettromeccanici del ’58 ci fu comunque
una discesa sulla strada e in piazza, quindi attraverso manifestazioni a Milano soprattutto ma anche
a Torino, qui c’era in particolare una fabbrica a manodopera essenzialmente giovanile e femminile,
che aveva dato un po’ il segno di questo movimento. Ora non riesco più a ricordare i tempi esatti,
ma comunque poi ci furono gli scioperi dei cotonifici Valle Susa, allora di proprietà di Felice Riva,
poi fuggito in Libano a seguito di un grosso crac finanziario; anche lì ci fu una presenza di studenti
in appoggio allo sciopero dei cotonifici Valle Susa, soprattutto in provincia. Sempre in quel periodo
cominciammo a frequentare le leghe della FIOM, quindi a funzionare un po’ da truppa d’appoggio a
livello delle varie leghe di quartiere a sostegno degli scioperi, soprattutto nel volantinaggio e nel
picchettaggio. La cosa poi inizialmente si sviluppò in modo molto più ampio negli scioperi dei
metalmeccanici del ’59, in cui la Fiat fu in gran parte assente, salvo qualche gruppo storico e
qualche inizio di partecipazione di operai invece giovani, ma parliamo proprio di poche centinaia di
unità; invece in tutte le altre fabbriche metalmeccaniche fuori dalla Fiat ci fu una discesa in campo
di una nuova generazione di operai. Ripeto, noi però avevamo essenzialmente come punto di
riferimento le leghe sindacali. In quel periodo ci fu a livello europeo un po’ dappertutto un qualcosa
che si potrebbe paragonare in forma molto più ridotta a quello che poi divenne il movimento
studentesco dopo il ’68: quindi, ci furono parecchie esperienze, a livello non solo europeo ma anche
internazionale, di mobilitazione giovanile studentesca, tipo l’esperienza degli Zengakuren in
Giappone che per noi era qualcosa di mitico, per cui noi eravamo stati battezzati Zengakuren.
Dunque, un po’ dappertutto, dalla Corea al Giappone alla Turchia all’Europa naturalmente ci furono
questi fenomeni abbastanza nuovi. Al di là della mitizzazione delle nostre minuscole dimensioni,
noi ci ispiravamo a queste esperienze che stavano maturando a livello europeo.
Come formazione culturale direi che non c’era un’impronta unitaria, salvo un tentativo di approccio
a un marxismo critico, soprattutto al gruppo che faceva la rivista Ragionamenti. Ragionamenti era
più di stampo olivettiano, nel senso che parecchie persone che avevano dato vita alla rivista
venivano dall’esperienza di Comunità, ma non perché ci fosse un’affiliazione diretta, però c’era sia
nella rivista Ragionamenti che poi in seguito nella rivista Passato e presente, che era anch’essa
molto vicina e che faceva riferimento, oltre che a Guiducci, a Giolitti, uscito dal vecchio PCI, un
riferimento generico a questo marxismo critico e un’attenzione ai nuovi fenomeni, attenzione anche
alla sociologia, a quelle che allora qui in Italia sembravano scienze nuove. Forse attraverso
Ragionamenti io arrivai ad esempio a conoscere Socialisme ou Barbarie, quindi cominciai a
prendere i primi contatti con questo gruppo attraverso degli amici francesi; in un primo tempo lo
feci banalmente attraverso l’abbonamento alla rivista, in un secondo tempo anche attraverso la
frequentazione diretta di alcune persone, Daniel Mothé soprattutto. Peraltro la stessa cosa, per
itinerari diversi, stava facendo Romano Alquati attraverso il gruppo cremonese che anch’esso aveva
preso contatto con Socialisme ou Barbarie, addirittura era indicato quasi come la loro sezione
italiana, Danilo Montaldi era quello che teneva i rapporti con Daniel Mothé. Quindi, ci arrivammo
per percorsi diversi, io da una parte e il gruppo di Montaldi dall’altra avevamo visto con molta
attenzione l’esperienza di Socialisme ou Barbarie. Nel caso mio poi ero passato attraverso una
breve esperienza trotzkista, quindi avevo trovato qualche aggancio, qui a Torino c’era un gruppo
della Quarta Internazionale ridottissimo però abbastanza vivace, che aveva cominciato a criticare
quella che allora era la definizione classica che la Quarta Internazionale aveva per l’Unione
Sovietica come Stato operaio degenerato, invece c’era il prestare più attenzione a Socialisme ou

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Barbarie che aveva ripreso la teoria del collettivismo burocratico da Bruno Rizzi, sia pure con
qualche differenziazione. Quindi, forse ci fu un aggancio anche di quel tipo, una critica
dell’approccio o comunque delle definizioni trotzkiste che venivano date in quel periodo e invece
un avvicinamento a Socialisme ou Barbarie che poi nel caso dell’aggancio con Daniel Mothé
voleva dire aggancio con la nuova classe operaia, lui era portatore di questa visione un po’ diversa
della classe operaia, di attenzione soprattutto ai fenomeni di ricambio generazionale e di attenzione
alle nuove generazioni operaie che erano molto estranee alla politicizzazione sia partitica che
sindacale storica. Andando un po’ senz’ordine, sempre in quel periodo avevamo preso contatto con
un gruppo che si chiamava Democrazia Diretta, che anch’esso per vie diverse si stava un po’
avvicinando a posizioni similari; a Genova c’era invece una classe operaia molto vecchia e
sindacalizzata, ma ai fatti che portarono al 30 giugno del 1960 contro il governo Tambroni anche lì
ci fu, accanto alla discesa in campo della vecchia classe operaia genovese (i portuali, i siderurgici e
così via), la discesa in campo di giovani operai che non facevano riferimento a esperienze storiche.
Il gruppo di Democrazia Diretta a Genova anch’esso valutava questi primi momenti innovativi.

- Chi c’era in questo gruppo?

C’era Gianfranco Faina. La testata fu successivamente ripresa. Facemmo riferimento anche ad un


gruppo di portuali il cui leader non mi ricordo più come si chiamava, questi aveva più un aggancio
con il sindacalismo rivoluzionario. Poi c’era un certo Gino Bianco, che invece era legato soprattutto
all’esperienza azionista ma in senso però marcatamente antistalinista e quasi anche anticomunista;
era legato alla figura di Andrea Caffi e gli altri che venivano dalle fila dell’azionismo.
Tutto questo rimescolio trovò poi di fatto un punto di coagulo con la venuta a Torino di Panzieri e
la sua disponibilità ad ascoltare queste voci diverse; quando lui venne qui nella redazione della casa
editrice Einaudi, in un primo tempo per dirigere soprattutto la collana che si chiamava Passato e
Presente, apparvero testi di Fanon e altri testi che per l’Italia erano marcatamente nuovi. Panzieri
all’interno della casa editrice Einaudi era forse abbastanza isolato tranne due o tre persone con cui
legava ed erano Cases, Solmi e qualcun altro. Il Panzieri veniva dall’esperienza della rivista Mondo
Operaio che aveva cercato di rivalutare soprattutto la tradizione dei consigli di fabbrica, riscoprire il
movimento consigliare nelle sue varie articolazioni italiane ed europee, quindi il socialismo dei
consigli come modello ideologico. Quando Mondo Operaio aveva pubblicato le tesi sul controllo
operaio sostenute da Panzieri e Libertini ciò aveva aperto una grossa discussione in seno al
Movimento Operaio o perlomeno nelle sue espressioni letterarie. Panzieri era venuto a Torino con
questa mitologia in testa che era quella del vedere se a Torino si poteva ripraticare il socialismo dei
consigli, quindi abbastanza ingenuamente riproporre un’ideologia di tipo consigliarista. Allora
Panzieri sempre all’interno della casa editrice Einaudi era abbastanza influenzato da Sergio
Caprioglio, che anche lui come storico aveva riscoperto il Gramsci dei consigli di fabbrica. Poi
queste ideologie si ridimensionarono abbastanza presto nello scontro con la realtà, comunque sia
con la fisicità di una città operaia che non era quella di chi venendo da Roma e avendo vissuto
queste cose, come dicevo prima, a livello soprattutto letterario poi non sapeva cos’era fisicamente la
fabbrica o la classe operaia al di là del mito. Quindi, Panzieri cominciò a cercare contatti con noi
perché eravamo forse gli unici giovani che avessero in qualche modo cominciato a vedere e anche a
vivere le nuove esperienze di fabbrica e il contatto con le nuove generazioni operaie. Quindi, ci
utilizzò forse per trovare un aggancio con la realtà che gli mancava totalmente, al di fuori di quello
che era il movimento politico e sindacale organizzato. I suoi agganci erano soprattutto a livello della
sinistra sindacale di allora, Sergio Garavini insomma; la FIOM torinese godeva allora di questa
fama di sinistra sindacale anche perché era stata costituita in gran parte dai licenziati di rappresaglia
degli anni ’50, che però da soli forse non erano sufficienti a dare questa connotazione ideologica se
non ci fossero state persone come Garavini e Trentin, il quale era a Roma ma manteneva stretti
contatti con Torino. Poi insieme con Garavini c’era Cominotti che era stato uno dei protagonisti del
movimento dei consigli di gestione nel dopoguerra, che poi veniva magari a torto visto come una

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riproposizione dell’esperienza consigliare del primo dopoguerra. Quindi, quelli erano i contatti che
aveva Panzieri a Torino all’interno del movimento sindacale; la FIOM era di fatto un partito a
Torino, molto separata invece dalla federazione torinese del PCI che puntava soprattutto in quel
periodo sul dialogo con i cattolici, gli agganci con la piccola e media imprenditoria, con
l’artigianato e quindi portava avanti una nuova politica delle alleanze che era vista differentemente
dal movimento sindacale torinese e soprattutto dai metalmeccanici e dai chimici che erano un po’ il
nerbo sindacale di allora. Per questo erano quasi due partiti distinti, uno interclassista e uno invece
con una connotazione più spiccatamente classista.

- Quali erano le figure principali del PCI a Torino in quel periodo?

Il PCI qui non aveva figure di spicco. C’erano sia i garaviniani sia figure come Pecchioli che invece
era molto più funzionario di partito di stampo tradizionale, direi sovietico non nel senso che fosse
necessariamente prosovietico ma come figura ideale. Il Partito Comunista di Torino allora non
aveva grosse figure di spicco, forse gli unici che avevano in qualche modo alzato il tono erano stati
Minucci e Vertone con quel libro, Il grattacielo nel deserto, il primo che aveva cominciato a
sollevare una discussione intorno al ruolo della Fiat e al rapporto fra la Fiat e la città. Minucci
arrivava da Grosseto, anche Vertone era da pochi anni a Torino, erano in qualche modo due corpi
estranei rispetto all’apparato vero e proprio del PCI. Forse non aveva figure di spicco al di là di
Pecchioli, ma aveva questa sua articolazione in sezioni, il segretario di sezione, uno stuolo di
funzionari che poi ovviamente si disperdeva nei rivoli più diversi, dalla Lega delle Cooperative,
dove c’era l’Alleanza Contadina, il sindacato stesso, quindi era veramente un apparato fortemente
articolato sul territorio. All’interno del quale avvenivano poi anche scambi, nel senso che c’erano
magari funzionari che arrivavano dall’Emilia e portavano la connotazione più tipicamente emiliana,
altri che magari dal Piemonte andavano a Roma e poi ritornavano portando con sé esperienze
romane. Però, l’articolazione del PCI di allora sul territorio era veramente fittissima e ramificata,
dalle sezioni alle case del popolo ai circoli culturali, le bocciofile, i circoli sportivi, e poi appunto gli
apparati vari come gli uffici sindacali in senso stretto. L’apparato sindacale era comunque distinto,
soprattutto per quel che riguarda i metalmeccanici, aveva una storia diversa e si muoveva in modo
diverso; quindi, forse anche da ciò derivava questa frattura.
Dunque, arriviamo alla formazione dei Quaderni Rossi: questo era il tentativo fatto da Panzieri di
far pesare l’esperienza torinese e quindi questi agganci che lui aveva in qualche modo creato a
Torino sia con i sindacalisti sia con giovani, come eravamo noi allora, che dal movimento
studentesco eravamo andati alla fabbrica: di far dunque pesare questo a livello nazionale forse per
rilanciare in qualche modo l’esperienza che era stata di Mondo Operaio ma a un livello diverso e
che quindi fosse anche molto più aperto alla nuova sociologia. La figura di Luciano Gallino è
abbastanza importante, anche lui veniva dall’esperienza olivettiana, da esperienze come quelle di
Ragionamenti, di Passato e Presente, Guiducci ecc.; anche Gallino ebbe un peso notevole nella
nascita dei Quaderni Rossi. Non credo che prima Panzieri sapesse cos’era la sociologia e soprattutto
la sociologia industriale, la scoprì attraverso Gallino e in parte attraverso Pizzorno, però forse a
Torino soprattutto attraverso Luciano Gallino. I Quaderni Rossi avevano una redazione di carattere
nazionale in cui Panzieri faceva pesare le sue precedenti esperienze romane, le sue conoscenze
romane, le esperienze appunto di Mondo Operaio; però, forse lui voleva che avesse al suo centro in
qualche modo questa sua nuova esperienze torinese che gli aveva fatto fare sicuramente un salto. I
legami però con le altre personalità all’interno dei Quaderni Rossi e in primis Mario Tronti bisogna
dire che erano gestiti tutti da lui, perlomeno nei primi due numeri della rivista non c’era una
circolarità: lui si poneva come il mediatore, di quando in quando c’erano queste riunioni di
redazione molto informali che si facevano in occasione della venuta di qualche personaggio
appunto come Tronti a Torino, ma era sempre lui che deteneva la mediazione.
Il tutto poi ovviamente fece un salto con gli scioperi del ’62, nel senso che con essi Torino divenne
in qualche modo un polo di turismo politico da parte di tutti, perché c’era stata la riscoperta della

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classe operaia Fiat, la riscoperta appunto dei giovani operai, già preceduta peraltro da quello che era
avvenuto a Milano prima che la lotta si sviluppasse alla Fiat; però, avendo Torino e la Fiat un ruolo
emblematico è chiaro che quello che io ho chiamato turismo politico aveva come suo epicentro
soprattutto Torino. Adesso è inutile che io racconti cose che sono note: ci fu la prima grossa frattura
in coincidenza con i fatti di piazza Statuto, perché in quel momento la lotta si spostò fuori dalla
fabbrica. Allora ci fu chi accettò lo spostamento della lotta fuori dalla fabbrica, il passaggio alla
dimensione della piazza e della folla, e chi invece (e fondamentalmente Panzieri era in questa
seconda categoria) riteneva che fosse un errore spostare la lotta fuori dalla fabbrica, ritornando
appunto alla dimensione della folla soprattutto poi in un momento in cui la folla andava a dare
l’assalto a una sede sindacale com’era quella della UIL, che era notoriamente un sindacato
scissionista, un sindacato giallo ecc., però veniva comunque visto negativamente il fatto di andare
ad assalire una sede sindacale, veniva vista come una frattura violenta. Direi che di lì probabilmente
parte poi tutto il resto della vicenda successiva. Io con altri fui tra quelli che si fecero peraltro
incastrare dalla polizia in piazza Statuto, finendo nei cortili delle caserme di corso Palestro e poi
alle casermette a prendersi le botte, mentre Vittorio Rieser ed altri (Panzieri aveva preso una
posizione più soft) avevano dato un giudizio fortemente negativo su piazza Statuto, dicendo che
quel moto aveva lasciato ampio spazio alla provocazione, quindi si faceva sostanzialmente il gioco
della polizia nello spostare la lotta dalla fabbrica a un’altra dimensione dove diventava
incontrollabile e dove anche da parte degli operai non era più possibile mantenere la gestione dello
sciopero.

- Come capitano a Torino Alquati e Gasparotto?

Adesso non vorrei mitizzare, ma io ho tanto l’impressione (però di questo chiederei conferma a
Romano) di essere forse stato io inizialmente a fare da tramite. Io avevo passato un anno a Milano
in quel periodo perché avevo avuto una specie di borsa di ricerca presso l’Istituto Morandi proprio
per fare una ricerca sulla storia dei consigli di fabbrica; quindi mi trasferii a Milano andando a
vivere in una specie di comune di via Solferino, nella zona di via Brera, dove buona parte dei
milanesi che facevano riferimento ai Quaderni Rossi transitavano. Quindi, ripeto, non vorrei
mitizzare, ma forse l’aggancio avvenne attraverso di me. Mi pare tanto che sia avvenuto così,
quando ancora ovviamente non c’era un collegamento con i Quaderni Rossi da parte di Romano che
invece veniva dal gruppo di Unità Proletaria. Devo dire però che Panzieri era comunque amico di
Montaldi, era a lui legato se non altro attraverso il mondo redazionale einaudiano. Quindi, a livello
umano probabilmente fui io il tramite, forse a livello culturale invece fu Montaldi, mi sembra che
sia andata più o meno così. Per cui poi questo gruppo milanese entrò a far parte di Quaderni Rossi
che in quel periodo veniva quasi configurandosi come un movimento più che non come semplice
rivista, venne poi configurandosi come un gruppo politico che quindi cominciava a cooptare altri
pezzi sparsi sul territorio e altre esperienza al suo interno. Questo anche se fin da allora, dopo il
primo numero della rivista, era abbastanza netta la frattura tra un’ala più interessata alla sociologia e
un’area più interessata all’azione politica diretta, questo penso che sia una specie di dicotomia insita
nella vicenda dei Quaderni Rossi proprio fin dalla sua nascita. Per cui ci fu obiettivamente chi visse
l’esperienza dei Quaderni Rossi quasi come formazione di tipo universitario, come una
specializzazione verso la sociologia industriale, e chi lo vedeva semplicemente come un passaggio
politico.

- Facendo un’analisi critica dell’esperienza dei Quaderni Rossi, quali secondo te ne sono stati i
limiti e le ricchezze, e quali sono stati i limiti e le ricchezze di queste due componenti che tu hai
delineato?

Queste due componenti probabilmente riuscivano a stare insieme attraverso la figura di Panzieri,
che a parer mio non era forse una persona di grande spessore teorico ma era un grande

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organizzatore di cultura, non so come definirlo. Al di là poi delle differenziazioni politiche e dei
contenuti stessi, è chiaro che Panzieri sentiva comunque un forte divario rispetto a Tronti, perché
questi magari non aveva invece vissuto l’esperienza di Panzieri attraverso Mondo Operaio, il
dibattito politico che faceva riferimento al movimento dei consigli, ma aveva una conoscenza
diretta di Marx che lui non aveva. Il marxismo di Panzieri era abbastanza (non lo dico in senso
spregiativo) raccattato, non basato su una lettura alla fonte, quindi credo che lui sentisse abbastanza
questa sua inferiorità rispetto a Tronti che invece Marx lo conosceva sicuramente meglio di
chiunque in quel periodo facesse riferimento ai Quaderni Rossi.
Ricchezze e limiti. I limiti erano da una parte quelli nostri che eravamo un gruppo strettamente
torinese, forse privo di qualche afflato culturale più ampio, al di là poi dell’interesse, da parte mia o
di altri, per Socialisme ou Barbarie o per altre esperienze; però era comunque un gruppo con una
certa connotazione provinciale, interessante perché era fatto soprattutto di giovani che scoprivano la
fabbrica, le periferie, scoprivano in qualche modo la fisicità della classe operaia, quindi un gruppo
sicuramente con una sua peculiarità che però probabilmente non sarebbe mai uscito da quella
dimensione, forse avrebbe portato semplicemente, come avvenne dopo, alla professionalizzazione
in senso sindacale di alcuni di noi, che magari sarebbero poi diventati attivisti e funzionari del
sindacato, come avvenne con persone come Renato Lattes, il quale diventò appunto sindacalista.
Probabilmente la cosa cambiò attraverso la personalità di Panzieri e poi soprattutto attraverso la
conoscenza di altre persone che venivano appunto dal mondo romano che noi disprezzavamo, in
quanto malati di torinesità in un primo tempo vedevamo di malocchio le persone come Asor Rosa,
Tronti, che noi unificavamo tutte in una comune dimensione di dispregio per tutto ciò che arrivava
da Roma; se non ci fossero stati loro è chiaro che non ci sarebbe mai stato un passaggio a una
dimensione diversa. E Panzieri indubbiamente questa funzione la svolse, volente o nolente, e poi
alla fine ne fu esautorato nel momento in cui cominciò anche un conflitto politico tra le varie anime
all’interno dei Quaderni Rossi. Quando da una parte c’era chi voleva continuare su un terreno di
sociologia innovativa mentre altri volevano passare all’azione politica, il tutto non poté più tenere.

- Romano dice di avere elaborato un testo sulla classe operaia come ricostruzione di percorsi
storici che poi fu forse pubblicato dalle edizioni di Fortichiari.

Fortichiari allora era del gruppo che si chiamava Azione Comunista, da cui poi uscì il gruppo di
Cervetto che alla fine diede luogo a Lotta Comunista che tuttora vive. Mi sembrano due cose molto
diverse, io conoscevo Fortichiari a Milano che direi che era già prossimo alla tomba, anche se era
una persona abbastanza vivace: non erano proprio i personaggi da pubblicare qualcosa di diverso
dalla loro storia. Io ho il vago ricordo di un qualche ciclostilato che noi avevamo ricavato da un
testo di Romano e che facevamo girare tra di noi, una cosa tipo “tesi sulla classe operaia” o
qualcosa del genere, però confesso che ne ho un ricordo molto vago.
Romano venne a Torino insieme con Pierluigi, avevamo trovato loro casa presso un amico che
allora era un ex bordighista che li ospitò per un anno, fu peraltro una convivenza difficile. Pierluigi
era notoriamente benestante e Romano era scannato, quindi Romano viveva un po’ grazie a
Pierluigi; però, devo dire che tutti e due, anche se Pierluigi era benestante, vivevano un po’ come
dei paria, stavano a Torino in condizioni subumane, proprio da lumpen. E anche loro forse
avvertivano, come lo avvertiva qualcuno di noi, lo stacco a livello anche umano e a livello di
consumi che c’era quando si andava a casa di Panzieri dove c’era invece un grande soggiorno ben
riscaldato, con un sacco di cose da bere, musica classica sullo sfondo, le visite che riceveva Panzieri
dai personaggi più disparati; ricordo tra l’altro una visita disgustosa di Mario Alicata che si faceva il
pediluvio a casa di Panzieri perché era stanco dopo una manifestazione, mi ricordo questa pancia
sudata e accaldata con i piedi nella bacinella. Comunque, c’era questo clima molto colto a casa di
Panzieri, di cui era anche parte integrante Vittorio Rieser che veniva da buona famiglia, la madre
era Tina Pizzardo che era stata l’amica di Pavese, tradizione di Giustizia e Libertà, il padre che era
un ebreo comunista polacco, comunque sia era una famiglia molto colta. Invece, loro come anche

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altri che capitavano lì sembravano dei lumpen, e lì c’era forse quasi una sorta di divisione classista
fra chi diceva “è tre giorni che non mangio perché Pierluigi si è dimenticato di andare a Milano a
ritirare dei soldi e stiamo tirando la cinghia” e invece altri che erano satolli e beneducati. Queste
cose umanamente poi pesavano anche nelle differenziazioni politiche. Quindi, c’era forse anche
questa ulteriore differenziazione che io dico a livello umano per chi in fondo praticava un attivismo
sfrenato come eravamo noi, sempre davanti alla fabbrica, sempre a distribuire volantini, a girare le
cinquanta fabbrichette dove c’era quel certo aggancio o andare davanti a quell’officina dove si
conosceva l’operaio con cui si era fatto il volantino il giorno prima e poi li si distribuiva, si cercava
di capire che riscontro poteva avere quel volantino in cui non riesco a immaginare poi che diavolo
scrivessimo perché facevamo dei riscontri così precisi magari su quella singola officina o su quella
singola pressa che non so se quello che scrivevamo era poi effettivamente una dimensione o un
aggancio reale, cioè ce lo aveva ma naturalmente noi lo trasferivamo in modo che non so se era un
testo comprensibile; dunque, a noi che eravamo in qualche modo gli attivisti e i galoppini
permanenti sembrava forse di portare acqua al mulino di chi invece sopra ci faceva sociologia.
Quindi, prima ancora di qualsiasi differenziazione politica c’era questa sorta di distacco in cui ci
sentivamo strumentalizzati, perché noi eravamo quelli che facevamo e gli altri erano quelli che
invece costruivano letteratura. Peraltro Romano scriveva molto ma lo faceva in una maniera
incredibile, aveva una vecchia macchina da scrivere rotta, non sapeva che c’erano anche le leve per
passare da una riga all’altra, quindi muoveva il carrello a mano e poi scriveva tra una riga e l’altra; i
suoi testi dattiloscritti dei primi anni ’60 erano delle cose terrificanti, anche gli articoli che
dovevano poi essere pubblicati erano frutto di un lavoro di ricostruzione paleografica!

- Vediamo un po’ le altre persone presenti a Torino in quel periodo.

Romolo Gobbi è uno che ha archiviato tutto, lui ha tutti i suoi dossier in casa quindi, oltre ad una
memoria da elefante, sicuramente tutto quello che non sanno dire altri lui se vuole è in grado di
tirarlo fuori. Romolo lo avevo conosciuto io nel ‘56-’57 quando era ancora cattolico, avevamo
cominciato a frequentarci, era un cattolico in crisi, poi via via eravamo diventati quasi un binomio
lui ed io. E lui si era fin dall’inizio immedesimato anche con persone come Romano e Pierluigi
proprio a livello più umano che politico, perché anche lui aveva un forte spregio, come lo avevano
molti di noi, per questa sinistra colta, beneducata e garantita attraverso la sua presenza nella nuova
cultura ufficiale di allora, dalle case editrici alle redazioni. Romolo Gobbi poi è quello che diede
vita a quel numero unico di Gatto Selvaggio che fu appunto in qualche modo il primo frutto della
frattura sorta in seno ai Quaderni Rossi. Gatto Selvaggio come titolo chiaramente riecheggiava le
esperienze americane, quindi c’era un aggancio diretto con quello che alcuni di noi teorizzavano, lo
sciopero selvaggio come dimensione futura del movimento sindacale, dunque la frattura netta con
l’apparato sindacale, mentre come è noto Panzieri puntava soprattutto sul recupero della sinistra
sindacale di allora, in particolare tra i metalmeccanici ma anche della sinistra sindacale non solo
torinese ma pure romana, pensando di partire dalla sinistra sindacale e da qualche esperienza
politica sparsa a ricostruire in qualche modo un movimento politico di tipo più decisamente
partitico, pur estromesso dal vecchio PSI a cui inizialmente, ancora quando venne a Torino,
apparteneva se ben ricordo, era ancora iscritto al PSI. Direi che Panzieri, senza averlo mai
teorizzato, forse pensava a qualcosa di simile a quello che divenne poi il PSIUP, questo sarebbe
stato il suo figlio legittimo proprio perché metteva insieme effettivamente spezzoni della sinistra
sindacale con spezzoni della sinistra politica di allora, soprattutto di sinistra non di estrazione
comunista ma soltanto di estrazione di quella che era la sinistra socialista. Quindi, penso che
Panzieri tutto sommato, al di là di quella che era poi invece la spinta verso una cultura diversa,
avesse comunque in mente di arrivare ad un partito con una connotazione di quel tipo; però poi
giustamente qualcuno gli rinfacciava di essere forse un po’ troppo affiliazione della sinistra
sindacale, quindi di prestare fianco all’accusa di anarcosindacalismo, anche se questa era
un’esperienza storica precisa e conclusa.

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- Giovanni Mottura.

Mottura era amico di Rieser, era amico anche mio nel senso che tutti assieme venivamo dalle
esperienze studentesche di quegli anni, anche lui era di origine cattolica. Mottura era molto più
deciso nelle sue scelte che erano quelle di arrivare in tempi abbastanza rapidi a scelte professionali
nell’ambito dell’accademia universitaria. Eravamo cresciuti tutti assieme perché frequentavamo la
facoltà di Lettere, eravamo tutti allievi di Franco Venturi, di quello che allora era la parte migliore
dell’università di Torino come docenti. Noi eravamo cresciuti lì, Vittorio Rieser era visto un po’
anche come un futuro delfino di Franco Venturi, di cui la madre era amicissima, infatti fu una
delusione grandissima di Venturi quando decise di staccarsi definitivamente da qualsiasi ipotesi di
carriera universitaria, per cui il diventare ricercatore, assistente ecc.; fu una delusione per la
famiglia e per il mondo che faceva capo a Venturi, che era poi quello di Giustizia e Libertà, del
vecchio azionismo. Mottura andò a Napoli per qualche anno a studiare sociologia agraria, mi pare
con Mario Rossi Doria, e poi si fermò all’università di Portici, dove credo che sia tuttora, però non
ne so più niente.

- Anna Chicco.

Anna Chicco era molto amica di una mia amica che era Anna Malvano, perché tutte e due facevano
le assistenti sociali, allora questa era una figura nuova che sembrava avveniristica e che lavorava
soprattutto nella grande fabbrica. Loro due erano legatissime, Anna Malvano si è sposata con Piero
Caffaratti, il quale era un ragazzo che aveva passato un sacco di anni in riformatorio, aveva avuto
un’infanzia difficile, aveva dato fuoco a una cascina, era un giovane piromane; uscito dal
riformatorio era stato sotto la tutela di Rozzi. Ora ha una piccola impresa di decorazioni e di
ristrutturazioni edilizie, è un personaggio molto folcloristico. Anna Chicco e Anna Malvano io le
nomino assieme perché in effetti erano un binomio, direi però che non hanno avuto un peso
sostanziale, pur con la massima simpatia che avevamo per loro. Era una generazione in cui le donne
erano pochissime, in una situazione che praticava soprattutto l’astinenza sessuale le rare donne belle
o brutte che fossero erano molto corteggiate, ci fu solo il ’68 che cambiò i costumi in qualche
modo!

- Da chi era composto invece il gruppo biellese?

C’era Pino Ferraris, che si agganciò ai Quaderni Rossi nei primi mesi del ’62, però si agganciò
sempre attraverso la mediazione del sindacato. Pino Ferraris oscillò a lungo, come peraltro anch’io,
nel senso che eravamo in qualche modo desiderosi di mantenere l’unità dell’esperienza di Quaderni
Rossi; lui era influenzatissimo da Tronti da cui fu molto sedotto in una sorta di seminario che ci fu a
Santa Severa. Ci furono due specie di seminari in quel periodo, però abbastanza distanti l’uno
dall’altro, il primo sul lago Maggiore, mi pare nell’entroterra di Meina, in una sorta di struttura
ricettiva, ex albergo che ospitava spesso seminari di formazione, credo che fosse stata trovata da
Gallino come sede: fu il primo seminario formativo a cui appunto intervennero tra gli altri Gallino,
Pizzorno, Montaldi, con gruppi di lavoro, relazioni, seminari, discussioni che andavano avanti
giorni e giorni. Un secondo seminario, che se ben ricordo avvenne nell’aprile del ’62, fu a Santa
Severa: fu quello in cui più o meno tutti scoprirono Tronti, perché prima si sapeva solo che c’era
quel compagno romano così bravo ma non lo si conosceva, invece lì per la prima volta avemmo
modo di ascoltarlo e di sentire le sue corpose relazioni.

- A noi interessa soprattutto cercare di capire e concretizzare il ruolo di Torino rispetto alla
dimensione generale. Da una parte sicuramente i livelli di lotta che ci sono stati hanno dato un

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peso significativo, dall’altra parte alcuni hanno sostenuto che Torino non aveva un peso così
grosso.

Secondo me ce l’aveva, anche in quella dimensione mitica che aveva Torino, d’accordo va
ridimensionata però anche la dimensione mitica ha il suo peso: il fatto che il mito Torino fosse
trainante ha la sua importanza. Poi tutti i miti è giusto che siano ridimensionati, però se i miti hanno
un valore trainante bisogna valutarli correttamente per quello che sono stati; c’era dunque questo
mito trainante e coagulante che era Torino, che voleva dire la grande fabbrica molto più che non
Milano, che magari aveva un movimento operaio molto più vivace, molto più differenziato, molto
più articolato sul territorio, che non era la città-fabbrica come tutti la intendevano, però non aveva la
stessa dimensione mitica e la stessa capacità di richiamo che aveva Torino. Capisco benissimo che
Toni Negri magari tenda a ridimensionare Torino a favore di Porto Marghera o di altre realtà di
fabbrica di allora, ma è giusto valutarla anche nel suo peso trainante questa dimensione. Insomma,
Genova rappresentava la vecchia classe operaia, quella in declino della siderurgia e degli scaricatori
del porto; Milano era questa realtà di sicuro molto più ricca, però non era la città-fabbrica come la si
intendeva; Porto Marghera sembrava veramente un altro mondo, la chimica pure aveva un peso
anche a Torino e soprattutto a Milano, ma non aveva (almeno nella nostra visione di allora, ma
forse anche oggettivamente) quel peso che aveva la grande fabbrica metalmeccanica, come
macchina capace di macinare uomini e trasformarli in classe operaia.

- Romano sostiene che in fondo l’operaismo politico si è mosso su un triangolo, i cui vertici sono:
la cultura e gli intellettuali; gli operai, la classe operaia e l’operaità come dimensione grossa
che ha attraversato il ‘900 e adesso sembra in via di declino, però bisogna capire cos’era e
cosa potrebbe ancora essere; il terzo polo è costituito dalla politica intesa come il politico,
quindi da un parte la politica istituzionale, il rapporto con le istituzioni, e dall’altra però
proprio come il politico. Romano dice che l’operaismo sta all’interno di questo triangolo, ha
avuto in maniera diversa delle attenzioni o dei condizionamenti o una relazione con questi tre
nodi: in realtà bisogna recuperare una comprensione di cosa essi sono stati e cosa adesso sono
ancora o possono essere. Rispetto all’operaità, agli operai e alla classe operaia, lui dice che in
fondo c’era un riferimento sicuramente forte, dopo di che il cercare di andare a capire cosa
effettivamente è stata questa cosa non è che l’operaismo l’abbia sempre fatto.

Io ho l’impressione però che in questa triangolazione manchi un elemento: in questo ciclo di anni
che abbiamo visto c’è comunque un qualcosa che poi prelude il ’68, cioè l’affacciarsi del
movimento studentesco sulla scena nazionale, allora si trattava solo di embrioni però c’era un
qualcosa che potremmo chiamare nuovi movimenti giovanili, quelli che allora erano i bluson noir, i
teddy boys, in Olanda c’era un movimento giovanile che aveva un nome che ora mi sfugge. Questa
componente dei movimenti giovanili precorreva forse il ’68 nel senso che non erano soltanto i figli
di papà, ma erano già la prima generazione che entrava nelle università che cominciava a diventare
università di massa dopo le prime aperture, il primo accesso poi con i titoli di studio anche da parte
dei diplomati alla carriera universitaria, questo per quanto riguarda l’aspetto strettamente
universitario. Comunque l’affacciarsi di nuovi movimenti giovanili, che portavano non tanto nuovi
valori quanto la negazione dei valori, questo va secondo me tenuto presente, perché se no forse non
sarebbe avvenuto quello che è avvenuto. Anche all’interno della fabbrica cominciava ad affacciarsi
questa generazione operaia nuova che non aveva valori in assoluto e comunque non aveva i valori
della generazione precedente. Senza di che forse non sarebbe scattato tutto, a mio parere se manca
quello forse non si capisce. Allora, è vero che l’Italia era la provincia d’Europa, c’era però da parte
nostra ma anche da parte di chi si affacciava alla vita politica il riferimento a questi modelli che
erano poi quelli inglesi, francesi, americani, olandesi, tedeschi. Se non altro a livello giornalistico
questa comunicazione c’era, poi c’era naturalmente nella musica, nella letteratura; ma anche a
livello di informazione giornalistica si parlava molto delle nuove generazioni giovanili.

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- Successivamente ai Quaderni Rossi qual è stato il tuo percorso?

Quando ci fu la famosa frattura io ero tendenzialmente e umanamente più vicino all’ala che si era
staccata da Panzieri perché non avevo molta simpatia neppure umana per quello che chiamavo la
corrente sociologica. Nello stesso tempo sentivo delle volte degli elementi di astrazione e di
forzatura dall’altra parte, per cui pur solidarizzando magari con esperienze come quella del Gatto
Selvaggio di Romolo Gobbi (che si beccò anche una denuncia, era finito in prima pagina su un
settimanale di allora, Gatto Selvaggio sembrava diventata la nuova minaccia dopo gli scioperi del
’62) rimasi abbastanza in disparte. Poi ripresi la tessera del PCI e ricominciai a fare attività politica
all’interno di una sezione del partito, in una dimensione abbastanza entrista come era quella dei
trotzkisti di quegli anni a cui io non aderivo però con cui lavoravo. Feci la scelta di ritornare nel
Movimento Operaio organizzato cercando di lavorare soprattutto con quella che era la nuova
generazione all’interno della Federazione Giovanile Comunista di allora, i quali erano più giovani
di me ma erano quelli che avevano di fatto assunto il controllo della FGCI torinese del tempo,
c’erano Massimo Negarville, Cafarro, la figlia di Garavini. Sempre in quel periodo alcuni di noi
avevano cominciato a bazzicare i gruppi maoisti, non fui mai un adoratore del maoismo però mi
ricordo comunque i gruppi di studio sulla questione della rivoluzione culturale. Mi ricordo che
facevamo delle letture da certosini dei periodici cinesi, c’erano quelle due o tre organizzazioni che
diffondevano le riviste cinesi tradotte in francese, in inglese, noi si andava a cercare ad ogni costo
l’affacciarsi della classe operaia cinese sulla scena, per cui leggendo tra le righe, tra le frasi
stereotipate si cercava di capire che lì forse era in atto uno sciopero, con un lavoro di scavo
incredibile, pensando che forse non erano solo contadini e studenti ma che c’era anche la classe
operaia.
Continuando con la mia storia personale, lavorai in quegli anni all’interno del PCI, soprattutto
legato a questo gruppo della Federazione Giovanile Comunista, e poi mi agganciai con un gruppo
che all’interno dei Quaderni Rossi aveva vissuto praticamente la stessa esperienza che avevamo
vissuto noi allora, un gruppo che aveva ripreso a lavorare davanti alle fabbriche, con le fabbriche,
nelle fabbriche e che si era poi trovato analogamente in conflitto con l’ala sociologizzante. Tutti
insieme, quindi la frazione della FGCI di allora, io e questi altri che si stavano staccando dai
Quaderni Rossi arrivando a un grosso conflitto con Panzieri, demmo vita a Potere Operaio di
Torino all’inizio del ’68, più o meno in coincidenza con la nascita del movimento studentesco. Ciò
nello stesso periodo in cui invece Gobbi, insieme a Giampiero Cesone detto Peo (anche lui veniva
dal PCI) ed altri davano vita al Fronte della Gioventù, mentre Dario e Liliana Lanzardo avevano
fondato la Lega Operai e Studenti. Nel frattempo da parte di Tronti e di altri di Classe Operaia
c’era l’entrata e per alcuni il ritorno nel PCI e una ricomposizione anche lì di forme di entrismo che
non avevano nulla a che fare con quelle trotzkiste, però erano comunque un tentativo di ritornare a
lavorare all’interno del partito. Dunque, Romolo Gobbi insieme con alcuni giovani operai comunisti
diede vita a questo gruppo che si chiamava con una sigla che ricordava molto quella di
un’organizzazione di estrema destra. Comunque, poi ci ritrovammo tutti assieme, Lega Operai e
Studenti (alias Dario e Liliana Lanzardo), io come Potere Operaio (che non era Potere Operaio
veneto-emiliano di Negri ed altri, ma era Potere Operaio di Torino che usciva come supplemento a
Potere Operaio di Pisa) e Romolo Gobbi con il suo gruppo. Ci trovammo poi tutti e tre a cercare di
portare il movimento studentesco davanti alle fabbriche, quindi ci trovammo poi a riproporre in
modo diverso, molti anni dopo qualcosa di simile a quello che avevamo già cercato di fare nel
periodo dal ’59 al ’62, con una visione diversa ma cercando di utilizzare il movimento studentesco
come cassa di risonanza per gli scioperi del ’68.

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- Nel ’68 Rieser ebbe un ruolo abbastanza influente sul movimento studentesco torinese?

Direi più mediato che diretto, perché un ruolo diretto lo ebbe soprattutto Guido Viale, il quale
peraltro faceva parte del gruppo di Potere Operaio che avevamo fondato insieme, per poi
distaccarsene nel senso che fece invece la scelta definitiva del movimento studentesco come
movimento politico. Rieser era ritenuto un po’ uno dei padri del movimento studentesco torinese,
però in realtà più a livello di padre spirituale che non di presenza diretta. Anche Rieser si muoveva
abbastanza in sintonia con Dario e Liliana Lanzardo che avevano appunto fondato la Lega Operai e
Studenti.

- Le persone che hanno rappresentato una militanza medio-alta all’interno del movimento
studentesco torinese sono, se uno le guarda dal punto di vista dell’origine sociale, in grossa
parte figlie di questa borghesia di sinistra, si pensi a Negarville, Bobbio, lo stesso Viale, Laura
Derossi.

Sì, sono i figli tutto sommato dei dirigenti del PCI e dei padri nobili della Repubblica, quindi
soprattutto Giustizia e Libertà.

- E’ una presenza che condiziona nel bene o nel male questi percorsi di lotta, nel senso che
comunque hanno gli strumenti politici per porsi su un livello di dirigenza politica e allo stesso
tempo probabilmente ne condizionano anche i percorsi e i limiti.

Lì ci fu poi la grossa frattura tra chi, come soprattutto io e Gobbi, in parte anche Dario e Liliana
Lanzardo, vedevamo il movimento studentesco come cassa di risonanza per la classe operaia, e
quindi pensavamo che il movimento studentesco come tale avesse la sua grande importanza ma non
andasse visto come un movimento politico autonomo, bensì come subordinato alla crescita della
classe operaia, alla crescita della lotta ecc.; e tra chi invece, come poi si verificò in coincidenza con
i fatti di corso Traiano, riteneva che il movimento studentesco dovesse crescere autonomamente nel
suo respiro politico e culturale e non essere subalterno alla lotta operaia. Noi riproponevamo
l’operaismo di prima in una situazione completamente diversa.

- Questo è sempre stato uno dei grandi nodi non considerati. Da una parte sicuramente lo
spostare un quadro militante su un fronte di lotta operaia che si andava costruendo, che andava
maturando e che poi è venuto fuori nel ’69, è sicuramente stato un dare respiro a questa lotta,
proprio se non altro come materiale umano di presenza e via dicendo; dall’altra parte è stato
probabilmente una cosa che ha trasformato un’avanguardia che, per quanto possa essere
criticata in alcuni suoi limiti, è stata spostata da un settore che era quello studentesco.
Probabilmente c’è stata proprio questa cesura, nel senso che chi ha fatto il movimento
studentesco poi è diventato militante politico nei gruppi, passando attraverso l’intervento
operaio di fabbrica e così via; ciò con tutto quello di bene e di male che hanno comportato i
gruppi all’interno per esempio del panorama torinese, che comunque era sicuramente
significativo, ma fu anche uno svuotamento della dimensione studentesca non intesa solo come
figura sociale giovanile, ma anche proprio nel senso dell’università e della scuola come ambito
in cui si forma una nuova forza-lavoro. Per esempio, rispetto a tutta questa dimensione
giovanile di cui tu parli io credo che in realtà abbia poi chiuso la scuola e l’università come
ambito in cui si potessero riproporre dei livelli di conflitto sociale. Proprio con questa
esperienza qui l’avanguardia di lotta che si è formata all’interno della scuola, spostata nella
fabbrica e nel territorio (che qua a Torino era una cosa molto limitata) e spostata sul piano
politico nel livello di militanza, ha sicuramente rappresentato un beneficio per quanto riguarda
quelle lotte che sono nate in fabbrica; dall’altra parte però complessivamente c’è il fatto che un
altro terreno che poteva non isolare la fabbrica e che era la scuola e l’università in realtà si è

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poi trovato pacificato. Questo sul lungo periodo, poi è chiaro che lì ci possono essere riflessioni
diverse.

Noi che venivamo dall’esperienza della generazione precedente avevamo veramente questa visione
strumentale del movimento studentesco che era brutalmente carne da cannone per la classe operaia;
poi, in una visione un po’ più nobile, vedevamo nel movimento studentesco lo strumento che
permetteva la circolazione delle esperienze, la circolarità delle lotte e che poteva funzionare da
amplificatore anche degli scioperi sul territorio. Ad esempio, proprio a partire dai fatti di corso
Traiano ci fu poi una discesa in campo delle periferie urbane, come via Artom, corso Taranto,
giovane classe operaia anche quella ma soprattutto giovani proletari o sottoproletari delle borgate di
periferia appena nate che, approfittando sia del movimento studentesco che era presente sul
territorio con volantinaggio intenso, sia degli scioperi del ’69, cominciò a muoversi e ad acquistare
una sua esistenza politica. Il popolo non delle borgate romane ma delle borgate periferiche di
Torino era una cosa ben diversa; sono le cose da cui è partito Magnaghi anche, il quale ha
cominciato a scrivere allora le sue prime cose, poi le trasportò in visione naturalmente più nobile su
Contropiano negli anni successivi. Magnaghi si era formato allora nella facoltà di Architettura di
Torino.

- Sul ’68 gli intervistati che vengono dalle esperienze di Quaderni Rossi e di Classe Operaia o ne
danno proprio un giudizio negativo, dicendo che è stato molto mitizzato e che in realtà non è
stata la cosa più significativa che c’è stata, o addirittura proprio lo considerano un momento di
innovazione della dimensione capitalistica.

Comunque se il ’68 avesse avuto il suo sfogo normale, oltre ad essere stato una grossa rivoluzione
di costume, un grande fatto sociale, avrebbe semplicemente portato al rinnovamento della classe
politica in tempi brevi. Invece, trovatosi contro un partito come era il PCI di allora, non parliamo
poi del Partito Socialista, comunque trovatosi contro una sinistra ufficiale fortemente chiusa in se
stessa, in posizione difensiva, legata a una cultura ormai invecchiatissima e che si era richiusa a
riccio di fronte a qualsiasi innovazione, questo ricambio generazionale fu bloccato. Bloccatosi il
ricambio generazionale, come giustamente voi dicevate questi erano i figli di, e quindi avrebbero
dovuto essere quelli che prendevano il posto dei padri nella sinistra di allora: invece, con questa
chiusura a riccio ci fu poi non a caso la dimensione del terrorismo, come blocco di un processo di
rinnovo. E’ un giudizio negativo magari condizionato anche dal fatto che questo ricambio politico
non è avvenuto, per cui sono poi entrati a far parte della classe politica venti o trent’anni dopo;
questo è ridicolo, mentre invece il ricambio della classe politica negli altri paesi è avvenuto quasi
contestualmente, dalla Spagna alla Francia alla Germania.

- Poi tu sei arrivato all’esperienza dei Verdi.

Sono arrivato all’esperienza dei Verdi nell’83. E’ un’esperienza che condivido per parecchi anni,
adesso c’è molto distacco devo dire, per cui ora mi sento abbastanza lontano pur essendo un
ambientalista in senso ampio. L’esperienza dei Verdi c’è forse stata un po’ dappertutto, ad esempio
in Germania, su quel problema su cui si era spostata la nuova sinistra nel momento in cui aveva
cercato di darsi una dimensione che non fosse quella del terrorismo o quella del ritorno nelle
vecchie case della sinistra. Quindi, al di là proprio dei contenuti specifici (l’elemento dello sviluppo
e chi più ne ha più ne metta), forse era l’unico terreno politico autonomo su cui ciò che restava della
sinistra giovanile degli anni ’60 e ‘70 poteva darsi una nuova casa. Anche perché appunto
l’esperienza del terrorismo, non soltanto nelle persone che l’hanno vissuta ma anche in tutti quelli
che li hanno circondati in quel periodo, è stata un’esperienza annichilente. Io per primo che avevo
messo in piedi il gruppo di Potere Operaio a un certo punto capii che le cose stavano sfuggendo e
una serie di persone che erano cresciute intorno al gruppo di Potere Operaio sono poi finite

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direttamente nel terrorismo. Per cui nel mio piccolo mi affrettai a sciogliere il gruppo di Potere
Operaio, sentendomi magari un po’ colpevole perché alcuni di questi non dico di averli spinti, ma
forse assecondati io stesso.

- Su questo terreno c’è secondo me da fare una riflessione molto articolata su quello che è
successo dopo, perché probabilmente proprio l’incapacità di costruire una progettualità
politica che fosse adeguata a quella che era la necessità della situazione, ossia a permettere da
una parte una spinta anche proprio personale e soggettiva a un tipo di militanti che comunque
si erano formati in quei conflitti, e dall’altra a trovare una progettualità per le lotte che
riuscisse ad avere degli sbocchi politici, proprio questa incapacità è stata poi la fonte del
discorso della lotta armata. Su di questa va detto che da una parte livelli di violenza comunque
di massa all’interno delle lotte cerano stati e probabilmente ci sono in qualsiasi forma di lotta
che passi un determinato grado di conflittualità; dall’altra parte quello che è successo di
significativo è stato che da un certo punto in poi non si riusciva a dare sbocco, obiettivi e
risultati politici alla lotta. Allora, in realtà questo discorso dell’uso della violenza era un
cortocircuito perché apparentemente sull’immediato sembrava invece che questo desse risultati,
sia come ricostruzione di una soggettività che però andava sempre più avanti da sola e
autonomamente a scontrarsi, ma soprattutto sembrava che desse dei risultati politici. Perché
costruire lotte di massa non pagava più e oggettivamente, raggiunti determinati livelli, la lotta
di massa era già in declino e quindi non aveva una forza tale per perseguire obiettivi
significativi, non c’era un progetto.

Probabilmente pesarono anche i moti di Reggio Calabria, che Lotta Continua e Sofri sposarono in
toto come lotta di massa, quello è stato forse un punto massimo. Lì c’era questo discorso meccanico
per cui i giovani operai che si erano formati nelle lotte di fabbrica del Nord e che ritornavano al Sud
vi portavano la lotta maturata nelle esperienze di fabbrica a Torino e riproponevano un livello più
alto dello scontro, a quel punto coinvolgendo direttamente tutto il territorio che non aveva
un’articolazione operaia e compiva questo ipotetico salto di livello nella lotta popolare.

- Questo è secondo me un discorso che è proprio trasversale a tutti i gruppi politici; poi Lotta
Continua si è fermata molto prima e quindi ha poi avuto solo delle fette della sua militanza che
si è spostata sul terreno della lotta armata, però in realtà questo discorso è stato incominciato
da tutti i gruppi politici. E l’inizio di questa cosa non è dopo, ma è proprio nel ‘70-’71, cosa
che adesso storicamente non è riconosciuta, per cui sembra quasi che l’inizio della lotta armata
siano state le Brigate Rosse, ma non è vero assolutamente perché già la parte di Lotta Continua
che formò i NAP, per esempio, cominciò prima.

Condivido. Prima c’era comunque all’interno del movimento studentesco torinese di allora già la
pratica dell’azione diretta per fare esplodere lo scontro, e Potere Operaio all’interno del movimento
studentesco di allora aveva cose che spesso si concordavano, proprio con Viale e con tanti altri,
aveva il ruolo di detonatore, quindi si decideva che quella certa manifestazione doveva avere un
carattere pacifico oppure si decideva che quella certa manifestazione doveva avere un carattere
violento e serviva a creare lo scontro con la polizia, allora a tavolino si decideva che cosa si sarebbe
fatto, dunque se si sarebbero spaccate le vetrine di via Roma o se si sarebbe andati sotto la
Prefettura. Quindi, c’era comunque già questo uso, sia pure limitato, dell’azione diretta come
detonatore.

- Il 29 maggio del ’71 qua a Torino ad esempio è stata questa cosa qui.

Certo. Quindi, dava amplificazione di quello un’azione collaterale al movimento, l’autodifesa, che
poi però nelle fasi di arretramento doveva servire in qualche modo a mantenere le posizioni, a

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impedire la repressione; di lì poi c’è il passaggio al terrorismo e appunto già nei primissimi anni ’70
si formano i GAP.

- Non ci sono tantissime cose scritte da te.

Io ho scritto per anni sotto lo pseudonimo di Saverio Fontana su Bandiera Rossa, che era appunto
un giornale della Quarta Internazionale anche se io non ne ero membro, e scrivevo di solito le
cronache operaie. Tutto quello che ho scritto per Potere Operaio è sempre stato anonimo, opuscoli,
editoriali ecc.

- Hai poi fatto un saggio storico per gli annali di Feltrinelli.

Sì, poi ho anche fatto una cosa per la Monthly Review. Ho poi scritto qualcosa per Quazza sulla
Rivista di storia contemporanea sulla classe operaia americana negli anni ’70. Però, come ho già
detto io ho quasi sempre pubblicato in forma anonima o con uno pseudonimo.

- Gaspare De Caro era stato circa un anno a Torino perché aveva lavorato ad una ricerca
presso l’Istituto Gobetti. Cosa ne pensi di lui?

Confesso che non l’ho frequentato molto, me lo ricordo come una simpatica persona però non ho
mai avuto dei rapporti stretti con lui. Naturalmente ha avuto anche lui la sua funzione nel mantenere
legami tra Torino e altre città, forse Romolo Gobbi potrebbe aiutarvi più di me.

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INTERVISTA A EMILIO SOAVE – 27 DICEMBRE 2000

Nella precedente intervista c’è stato un intermezzo che avevo dimenticato, vale a dire il numero di
Nuovi Argomenti intitolato Inchiesta alla Fiat, che è del ’57 se ben ricordo. Nuovi Argomenti aveva
infatti deciso di fare un’inchiesta alla Fiat che poi fu affidata a Carocci, questi venne a Torino e
prese contatto con il nostro gruppo: siccome parliamo di un tempo anteriore alla venuta di Romano
a Torino, era poi il gruppo Rieser, Mottura, io ed altri. Secondo me, al di là poi del contenuto di
quel numero di Nuovi Argomenti, che era molto corposo, però l’inchiesta era basata soprattutto sui
quadri sindacali, quindi aveva quel grosso limite. Comunque, è stato forse il primo tentativo di
riproporre un’indagine sulla realtà della Fiat dopo tutti i fatti conosciuti, dopo lo schiacciamento
delle rappresentanze sindacali, quasi un’indagine ancora limitata soprattutto a quegli aspetti, anche
perché era sviluppata tra i quadri sindacali, però in qualche modo riproponeva il tema della
condizione operaia alla Fiat a livello nazionale. E lì comunque ricordo che avevamo un questionario
che era stato composto da Carocci, a cui noi però avevamo poi contribuito nell’impostazione, che
era notevolmente articolato e che quindi in qualche modo cominciava a rivelare anche qualche
realtà che non era solo quella della repressione politica e sindacale: credo che quello sia forse stato
uno degli agganci che poi hanno favorito anche l’interesse da parte di Panzieri ed altri alla realtà
torinese. Non era quindi ancora la nuova realtà torinese, era quella vecchia, ma quel numero fa un
po’ da trade d’union. Una delle motivazioni forse per cui Carocci aveva fatto riferimento a noi (e
questo forse è un altro passaggio che mancava un po’ nella ricostruzione che avevo fatto la scorsa
volta) è che noi eravamo andati in vari scaglioni (prima io con Manfredo Montagnana e poi via via
anche altri, Rieser, Mottura ecc.) in Sicilia da Danilo Dolci, quando avevamo collaborato anche al
volume Inchiesta a Palermo. Dunque, probabilmente l’aggancio nasceva dal fatto che c’era questo
gruppo che già aveva in qualche modo sviluppato una certa esperienza nel campo dell’indagine
diretta, e quindi avevamo poi fatto da manovalanza, ma avevamo anche funzionato da contatto
politico con i quadri sindacali. Quindi, il fascicolo di Nuovi Argomenti intitolato Inchiesta alla Fiat
ha avuto un duplice ruolo: intanto rilanciare il tema Fiat a livello nazionale, poi per noi era un modo
per conoscere un po’ a tappeto i quadri sindacali delle varie officine della Fiat, che era una realtà
vecchia ma aveva ancora una sua importanza, e anche cominciare ad impostare un metodo di
indagine. Perché poi quando venne Panzieri a Torino risorse l’idea dell’inchiesta alla Fiat, che era
l’inchiesta sui nuovi quadri, quindi non era più l’inchiesta sul vecchio quadro sindacale ma era
l’inchiesta sui giovani operai emergenti; per cui riprendemmo in qualche modo l’esperienza
precedentemente consumata, ma invece riferita soltanto alla giovane classe operaia. E allora
avevamo avuto una collaborazione soprattutto con la FIM-CISL, che era forse la più aperta ed era
quella che aveva avuto già nelle sue file un certo processo di ricambio; per cui, grazie alla
collaborazione del quadro sindacale della CISL, riuscimmo abbastanza ad avere una serie di contatti
sia con operai che con giovani impiegati, contatti che invece non si potevano avere banalmente
andando davanti ai cancelli, perché se non avevi quel minimo di presentazioni non riuscivi ad
avviare un colloquio, anche perché tutto sommato c’era il terrore della repressione. Ricordo ad
esempio che quando uscì il numero Inchiesta alla Fiat io non avevo messo il mio nome tra i
collaboratori, ossia quelli che avevano fatto la ricerca, perché mio fratello lavorava alla Fiat in quel
periodo ed erano ancora tempi molto critici.

- Qual era il metodo di questa inchiesta che faceste per Nuovi Argomenti? Quali erano i punti
principali?

Per quanto riguarda l’inchiesta del ’57 era molto incentrata sulla rappresaglia sindacale, sulla
condizione politica, sui reparti confino: quindi, non era particolarmente innovativa direi, era magari
nuova per noi ma non è che fosse innovativa per altro. Invece, l’inchiesta successiva, quella del ’59,
in qualche modo era innovativa perché il questionario non era più centrato sulla storia politica e
sindacale ma proprio sulla realtà della fabbrica, sul mutamento dei processi lavorativi, insomma era

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mediata già dalla lettura dei testi della sociologia industriale, da Friedman in poi, che invece prima
non avevamo ancora acquisito. E poi in qualche modo era già un inizio di quella che
successivamente prese il nome di conricerca, nel senso che l’intervistato non era visto come un
semplice oggetto, c’era uno schema di argomenti soprattutto, il colloquio lo si costruiva via via
insieme con l’operaio o l’impiegato con cui si parlava e conricerca nel senso che
contemporaneamente, nel contesto del colloquio, partiva anche un avvio di ipotesi di lavoro per le
fasi successive, quindi anche la ricerca di nuovi modelli di organizzazione a livello orizzontale
all’interno della fabbrica: perlomeno nelle intenzioni si voleva arrivare ad uno scambio permanente
intervistato-intervistatore, anche se poi parlare di intervista in qualche modo sminuisce. Lì
sicuramente era stato utile anche il lavoro che si era fatto a suo tempo in Sicilia, seppur in una
situazione completamente diversa perché era quella dei braccianti o dei quartieri più popolosi di
Palermo: comunque, era servita a noi come tipo di approccio un po’ diverso con la realtà.
Dunque, nella precedente intervista mancavano questi due passaggi, il numero di Nuovi Argomenti
e l’esperienza siciliana, che peraltro a noi era arrivata soprattutto attraverso la moglie di Franco
Venturi, Gigliola, la quale faceva parte dei comitati di sostegno a Danilo Dolci. Questi aveva avuto
dei sostegni finanziari soprattutto dalla Germania e dai paesi scandinavi, dal mondo cattolico e
protestante dell'Europa settentrionale; in Italia c’erano due o tre comitati che lo sostenevano, uno di
questi era a Torino e faceva capo a Gigliola Venturi e un po’ al giro dei vecchi azionisti. Attraverso
di loro cominciammo ad andare in riprese successive in Sicilia, una prima volta, poi una seconda,
una terza; inoltre in Sicilia Danilo Dolci aveva organizzato un convegno sulla piena occupazione a
cui parteciparono parecchi economisti, come Mario Rossi Doria, e sociologi. Le inchieste furono
due, inchiesta a Palermo e inchiesta in Sicilia, che poi in realtà era comunque un’inchiesta sulla
Sicilia occidentale. Danilo Dolci abitava a Partinico, aveva acquistato una vecchia casa, noi lì
facevamo solo base poi ci sguinzagliavamo in treno, in autostop o su una vecchia macchina e
andavamo in giro per i vari paesi. Mi ricordo Caccamo, Corleone, tutti quelli che allora erano i
paesi di mafia; mi ricordo che quando eravamo andati a Caccamo l’ultimo sindacalista l’avevano
fatto fuori facendogli poi attraversare tutto il paese legato ad un cavallo. A Caccamo l’unico
interlocutore che avevamo avuto era una sindacalista della CISNAL: forse legati ancora al periodo
in cui Mussolini si era posto come obiettivo quello di estirpare la mafia siciliana, il famoso “prefetto
di ferro” ecc., paradossalmente MSI e CISNAL avevano un certo contenuto antagonistico rispetto al
nucleo duro della mafia agraria, non la mafia attuale che è un’altra cosa, allora era ancora la mafia
del feudo e dei campieri. Effettivamente, l’inchiesta in Sicilia e a Palermo un tantino funzionò come
laboratorio, nel senso che Danilo Dolci era un po’ un porto di mare: io lì conobbi Goffredo Fofi, che
allora era ancora un cattolico capitiniano, non violento e vegetariano, e poi le persone più disparate,
era dunque un porto di mare incessante. Quindi, per noi come per altri fu un’esperienza di un certo
rilievo, al di là poi del contenuto specifico della vicenda.

- Per quanto riguarda invece l’esperienza della conricerca, le due coppie erano da una parte
Gobbi e Gasparotto e dall’altra tu e Romano.

E’ vero, mi state tirando fuori delle cose che ho dimenticato! La conricerca come termine era stato
importato da Gisella de Juvalta, che era una sindacalista, credo che lei fosse di origine romana però
aveva lavorato in Lombardia e poi era venuta a Torino nel sindacato lavoratori chimici, la FILCA.
Lei aveva cominciato a fare una sua ricerca personale alla Farmitalia, una ricerca abbastanza
approfondita sulla condizione operaia alla Farmitalia, e quindi fu lei che portò il termine conricerca,
che però poi si coniugava abbastanza bene con quello che allora dicevano persone come Pizzorno.
Secondo me c’erano più di due coppie, quello che ricordo era effettivamente che noi eravamo
soprattutto sulla Mirafiori e che il trade d’union era un mio amico della CISL che si chiamava
Beppe Della Rocca, che non so che fine abbia fatto, era poi diventato un quadro sindacale ed era
finito in qualche ufficio studi della CISL; lui era impiegato alla Fiat, era molto aperto e attraverso di
lui entrammo abbastanza anche nel mondo impiegatizio, che forse era il più difficile. Invece,

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attraverso alcuni sindacalisti della CISL, soprattutto della lega che c’era allora in via Genova, vicino
al Lingotto, riuscimmo abbastanza ad avere agganci con la base sindacale della CISL; essa era quasi
un misto, nel senso che c’era anche lì una parte di vecchia base sindacale, frutto delle scissioni
sindacali degli anni ’40, ma al contempo c’era invece anche un afflusso di giovani operai che
vivevano già esperienze completamente diverse rispetto alla vecchia scissione sindacale o alla
repressione politica in fabbrica.
L'idea dell'inchiesta alla Fiat in effetti venne poi da Panzieri, quella non era nata autoctona ma era
abbastanza importata, aveva anche il modello dell’inchiesta operaia promossa a suo tempo da
Engels, il riproporre una sorta di modello libresco che però poi si era completamente trasformato.

- C’era però una differenza notevole tra l’inchiesta operaia proposta da Panzieri (che, come tu
dicevi, era ripresa da Engels) e la conricerca: questa ipotizzava anche un uso altro della
sociologia e delle scienze sociali (ad esempio tu hai prima accennato all’importanza avuta da
Pizzorno), ma soprattutto progettava un intervento militante nelle lotte e nella costruzione di
forme di organizzazione operaia.

Panzieri invece su quello era abbastanza diffidente, lui e Gisella de Juvalta si scontravano molto su
queste cose; poi il termine conricerca aveva finito per accettarlo, però non gli piaceva tanto, era
legato a modelli più tradizionali. Anche perché con-ricerca presupponeva un gruppo di ricercatori
che cominciavano ad occuparsi di una certa realtà di fabbrica con l’obiettivo poi di intervenire su
questa realtà, quindi di intervenire insieme con gli operai sulla realtà di fabbrica: cosa che magari a
lui andava anche bene come concetto generale, però poi nel concreto invece riteneva che fosse più
opportuno mantenere certe distanze e quindi non mirare subito all’intervento, ma invece separare
abbastanza la fase conoscitiva dalla fase poi operativa, mentre noi partivamo da un altro
presupposto.

- Alla conricerca Panzieri fu piuttosto ostile.

Sì, poi forse non gli piaceva neanche il termine, aveva per esso una sorta di insofferenza.

- Gisella de Juvalta.

Morì, credo di tumore, già negli anni ’70. Era un personaggio molto espansivo, iperattivo, anche
confusionario alle volte, però era una persona che aveva un notevole influsso, tra l’altro lo ebbe
molto su Romano. Lei era molto passionale nelle sue cose, fin troppo, mentre noi eravamo per tanti
versi più distanti; forse portava una qualche esperienza credo anche di disegno cattolico nelle sue
tracce di origine.

- Supponiamo che oggi uno volesse fare un’inchiesta su alcuni nodi che ora sono completamente
diversi, quindi non più Mirafiori ma altri, per esempio la politica intesa soprattutto come
gestione. Tu sei nello staff dell’assessorato dell’ambiente: secondo te si potrebbe guardare a
come oggi è la gestione dell’ente locale e di questi ambiti non tanto descrivendo come
funzionano ma invece cercando di capire alcuni aspetti che possono essere importanti?

Secondo me sarebbe abbastanza deludente. All’interno della macchina del Comune di Torino
domina la figura del city-manager, che è Vaciallo, che tra l’altro viene da Lotta Continua: lui
teorizza espressamente la fine della politica, la politica è morta ed è stata sostituita dalla
concertazione.

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- Poi c’è la politica come gestione, che ha degli aspetti suoi propri anche oggi, cosa è possibile
fare e cosa no all’interno di un quadro dato. Comunque oggi la gestione di determinati ambiti
della società funziona anche attraverso la gestione politica.

Io ho l’impressione che se dovessi andare a fare un’indagine di quel tipo, anziché l’apparato
amministrativo della macchina del Comune andrei molto di più ad indagare su quei meccanismi
elementari, dove adesso si comincia forse a formare il ceto politico, ossia i consigli di
circoscrizione, che sono la prima palestra dove si affacciano quelli che poi sono i nuovi politici in
formazione. Sono a un livello minimale, però intanto nei consigli di circoscrizione hai una
fotografia abbastanza fedele sia delle trasformazioni sociali sia anche dei mutamenti del ceto
politico che è completamente diverso: mentre prima tu andavi nei consigli di circoscrizione e
ovviamente trovavi le formazioni politiche storiche, adesso hai un avvicendamento continuo,
continui cambiamenti, magari all’interno dello stesso polo ma ci sono continui cambiamenti di
sigle, è proprio un magma in perenne trasformazione, ed è forse il primo luogo dove i giovani che
vogliono far politica cominciano a mettere il naso. L’altra cosa che forse rende abbastanza
interessanti le circoscrizioni è il contatto di queste con la proliferazione di tutti i comitati spontanei
di ogni tipo, che si formano ormai sulle cose più disparate, tre persone che si trovano insieme per un
obiettivo qualsiasi costituiscono un comitato spontaneo. Comunque, ci sono comitati spontanei che
si sono formati su bisogni singoli del territorio e che hanno mosso centinaia e centinaia di persone:
quella è una realtà in perenne evoluzione e forse consente di capire quello che sta succedendo sul
territorio molto più che non lo studio degli apparati di partito o anche delle macchine
amministrative.

- All’interno di queste realtà, che sono complesse ma soprattutto molto confuse, si sono anche
riciclate in termini diversi persone che hanno avuto esperienze politiche precedenti.

Nel coordinamento comitati spontanei, soprattutto a Milano ma anche a Torino, c’è stato un
fenomeno di riciclaggio, ma forse direi più negli anni passati, adesso meno. Poi soprattutto si vede
anche uno spettro sociale estremamente variegato.

- Tu che sei nella dimensione ambientalista, come vedi queste forme di organizzazione all’interno
dell’agricoltura?

Adesso, prescindendo un attimo dalla Lega, che ha espresso una parte di quel mondo, soprattutto
nella Lombardia e nel Veneto, paradossalmente forse quel poco di nuovo che si manifesta c’è nella
Coldiretti, che sembrava la più vetusta, la più clientelare, storicamente da sempre legata al carro
della DC e dei consorzi agrari: invece, adesso è la più dinamica, perlomeno in Piemonte. In effetti
c’è un mondo di giovani agricoltori ormai discretamente colti, attivi, al di là poi del tema delle
colture biologiche o meno, sono estremamente pugnaci e non più legati alla difesa esclusivamente
corporativa. In qualche modo io penso che sia la Lega sia i Verdi lì hanno perso grosse occasioni,
soprattutto i Verdi, nel senso che se il mondo ambientalista fosse stato un po’ più lungimirante forse
già vent’anni fa poteva cominciare a capire che lì c’era un terreno di coltura notevole: ci è arrivato
tardi e ci è arrivato forse più nell’ottica del galleggiamento, sono venuti fuori i temi delle colture
biologiche, dei cibi transgenici, della mucca pazza, allora di fronte all’emergenza scopri che esiste
anche quel nodo, però tutto quel mondo esisteva prima e già notevolmente trasformato. In qualche
modo forse io ho percepito (soprattutto nella cintura di Torino, a Collegno, Settimo) come il mondo
dei coltivatori diretti adesso si senta in qualche modo investito non solo dei propri interessi ma
anche di una sorta di compito di difesa del territorio, quindi c’è effettivamente una coscienza di tipo
ambientalista però al di là dei parametri ideologici strettamente intesi.

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- Cosa ci dici invece a proposito dell’Alta Velocità?

L’Alta Velocità è andata avanti proprio come l’alta velocità, nel senso che, deciso il tracciato, dove
c’erano opposizioni queste si comperavano, dappertutto dove ci sono state opposizioni di comuni e
sindaci la molla sono stati i miliardi. Ma soprattutto nella zona nord di Torino effettivamente di
scempi ambientali ne sono stati fatti tanti, e l’Alta Velocità è stato uno di quei veicoli che hanno
consentito e stanno poi consentendo (nel senso che parliamo di un intervento che non è ancora stato
effettuato) di farci passare intorno un grosso carico di infrastrutture di ogni tipo, reti tecnologiche,
nuova viabilità, le nuove porte di ingresso della città, centri commerciali: sono queste le direttrici
attorno a cui poi si sviluppa una cosa che chiamano la new economy e poi magari è il disegno di
scatole vuote.
Dopo l’ultima alluvione io sono andato un po’ in giro a varie assemblee che ci sono state da
Nichelino a San Mauro a Settimo, secondo me non c'è nessun amministratore che riesca a resistere
quando si trova travolto da una massa magari di mille persone urlanti che chiedono banalmente
delle cose che tutti abbiamo visto sul giornale, cioè argini e dragaggio, queste sono le parole
d’ordine, con una serie di motivazioni che a volte sono anche giuste. Ad esempio, quando io sono
andato a Nichelino nel quartiere Sangone tutti giustamente dicevano: “Qui non si doveva costruire,
perché questa è una zona esondabile, invece avete consentito che si costruisse e allora adesso dovete
difenderci: l’errore stava nel manico, però adesso che avete consentito nuove urbanizzazioni dovete
pensare a difendere con arginature ecc.”. Non c’è nessun sindaco o piccolo amministratore, di
destra o di sinistra o di qual si voglia parte politica, che possa reggere a un’onda d’urto come quella,
per cui alla fine questa onda d’urto si propaga e certamente arriva fino ai massimi livelli, per cui hai
il piano di assetto idrogeologico che adesso è estremamente rigoroso nelle sue norme, ma poi lo
bypassi con mille altri strumenti. C’è chi teorizza la morte della politica e c’è anche chi teorizza la
morte dell’urbanistica, nel senso che ormai questa è sostituita dagli accordi di programma, dai patti
territoriali, per cui qualsiasi cosa bypassa tutti i piani regolatori, quello che interessa in fondo è
tutelare il nome di Torino e il cosiddetto “prust” di Settimo.

- Secondo te questi investimenti, per esempio in infrastrutture, sono processi che determinano
nuove forme di accumulazione?

Direi proprio di no, anzi direi che progressivamente distruggono quel tanto che restava delle
economie tradizionali, ma non è che le sostituiscano poi con nuove forme produttive. Anche perché
poi tutti vogliono fare le stesse cose, adesso dico delle banalità che leggiamo quotidianamente sui
giornali, tutti vogliono fare il parco tecnologico, tutti vogliono fare il parco acquatico, tutti vogliono
fare il parco del divertimento, tutti vogliono fare la città dell’auto: dappertutto trovi le stesse ricette,
nei vari ambiti territoriali, e poi alla fine le uniche cose che vengono fuori, oltre ai grossi centri
commerciali, sono le famose outlet, come quello di Santhià, poi c’è spazio per uno, due o tre, ma
non credo di più.

- Per avere le Olimpiadi invernali del 2006 a Torino indubbiamente si è mossa la Fiat.

E’ il regalo della Fiat nel momento in cui si apprestava ad andare via.

- Secondo te queste non sono nuove forme di accumulazione?

Io non ce le vedo tanto, sono cose che non vanno più in là di quel tanto che portano di nuovo carico
di opere sul territorio, ma qual è l’indotto? Io l’indotto non riesco a vederlo, allora se si parla di
nuove forme di accumulazione dovrebbe esserci poi un indotto a valle.

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- Se cambia governo della città e passa al centro-destra, questo continuerà oppure no tutto
questo sviluppo che ha dato Castellani alla dimensione urbanistica? L’attuale amministrazione
ha sostanzialmente ristrutturato per rivalutare, prendendo alcune aree, progettando e
attuandone la ristrutturazione, rivalutandole, per cui anche sul terreno dell’urbanistica si
produce ricchezza, magari legata ad un discorso di mera rendita però effettiva.

Secondo me sì, continueranno su questa strada, perché alla base di questa politica c’è stato quello
che dicevi tu, la speculazione (chiamiamola così per usare un vecchio termine) sulle aree, nel senso
che hai trasformato le aree industriali in aree residenziali, quindi le industrie si sono andate a
rilocalizzare in aree periferiche e al contempo sono partite le nuove urbanizzazioni sulle aree
industriali. Dunque, quello che almeno nella prima amministrazione Castellani e anche all’inizio
della nuova amministrazione è rimasto fermo, adesso è partito tutto di colpo, dalla Michelin alle
ferriere ecc., via via le nuove urbanizzazioni stanno avanzando. Non è chiaro per quale tipo di
popolazione, perché sono comunque complessi residenziali che vengono venduti a prezzi anche
elevati, però le vendono, evidentemente c’è questo movimento progressivo, per cui chi abitava
prima in corso Taranto va ad abitare in un altro quartiere, a sua volta chi abitava in questo quartiere
va da un’altra parte e magari finisce in “Spina Tre” a quattro milioni e mezzo al metro quadro: uno
si può chiedere chi è che va a compare una casa a questa cifra, però in effetti c’è chi lo compra, c’è
questo movimento progressivo, allora vai in corso Taranto e scopri che ad abitarvi sono
prevalentemente slavi o nordafricani. Però, ciò nondimeno, pur ammettendo che fra l’altro qui a
Torino ci sia una popolazione migrante più grossa di quella che è rilevata ufficialmente, non capisci
perfino per chi si stia costruendo, l’impressione è che alla fine poi questo segnerà il passo, perché
d’accordo che con la rendita fondiaria e la speculazione immobiliare puoi tenere le cose ferme per
un certo numero di anni, ma poi alla fine devi mettere sul mercato tutto quello che hai costruito:
quello che sta avvenendo è che poi verrà messo sul mercato tutto più o meno in contemporanea,
così mi sembra, il processo prima è stato graduale ma adesso va avanti a slavina.

- Da quando è entrata in vigore l’Ici il Comune di Torino ha dato una serie immensa di
autorizzazioni a costruire, probabilmente perché con l’Ici più ci sono metri quadri costruiti più
il Comune ha entrate. Quindi, si vede anche che nei quartieri subito dopo il centro e in tutta la
cintura intorno ad esso continuano ad esserci aperture di cantieri, tra l’altro con una velocità
impressionante, di edilizia residenziale, e vendono tutto, probabilmente soprattutto ai
commercianti, liberi professionisti ecc., coloro che hanno maggiore disponibilità immediata di
liquido. Dunque, vendono tutti questi alloggi nuovi a dei costi molto elevati, però vengono
comprati: questo vuol dire che legato a ciò esistono dei processi di accumulazione.

Poi c’è questa coincidenza per cui gli stessi che fanno incetta di aree nelle zone urbane in
trasformazione, quindi nelle zone industriali ecc., sono quelli che poi negoziano con il Comune la
rilocalizzazione delle aziende, in particolare l’Acli, fondata dall’avvocato Bossolono all’Acli Casa
che ha questo doppio ruolo, cioè fa incetta di aree da una parte e dall’altra poi discute con il
Comune le varianti produttive per andare a rilocalizzare le stesse aziende che escono dalle zone
urbane di trasformazione. E questi sono ormai gli interlocutori diretti del Comune, le trasformazioni
avvengono con la negoziazione diretta tra gli assessori, i dirigenti e gli interlocutori, pubblici o
provati non importa, che ampliano la trasformazione urbana: è quello il punto che poi li autorizza a
dire che la politica è morta.
Per parecchi anni questo era rimasto fermo, adesso va avanti con moto accelerato: forse sarò
ingenuo io, ma continuo a pensare che alla fine sarà un meccanismo che si riavvolge su se stesso. E’
chiaro che ci sono anche nuovi obiettivi, adesso ci sono le Olimpiadi del 2006, che poi sono di per
sé una cosa priva di significato: è difficile pensare che delle Olimpiadi invernali creino qualche
cosa, quando poi porteranno un po’ di migliaia di atleti, un po’ di giornalisti, alla fine del mese di
febbraio milioni di spettatori saranno solo in televisione. Però, serve sempre a spingere avanti, poi

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dopo il 2006 il nuovo obiettivo sarà nel 2011 il centocinquantenario dell’Unità d’Italia. Quello che è
incedibile è che poi le nuove aree mano a mano che ti sposti verso l’esterno sono quelle sempre più
marginali, quelle che hanno anche maggiori problemi di bonifica ambientale, soprattutto la bassa di
Stura o altre zone che sono invece di trasformazione ma con tali problemi di bonifica ambientale
che anche dove ti vengono cedute delle aree poi devi spendere miliardi nella bonifica. Ed è vero,
anche questo genera lavoro, si può dire che è un meccanismo di una certa importanza, ma oltre certi
limiti bisogna comunque pensare che la bonifica della bassa di Stura è costata 160 miliardi, attingi
pure ai finanziamenti statali, ma Torino non è certo l’unica a riceverli, c’è Genova, Bagnoli, la
Falck, l’Acna di Cengio, l’Oma ecc. Credo che stia avvenendo sotto i nostri occhi una nuova grande
trasformazione, in effetti non è chiaro dove vada a finire.

- Torniamo indietro. Per quanto riguarda l’inizio dell’esperienza dei Quaderni Rossi, Romolo
Gobbi ritiene importante l’aspetto religioso, parlando di una confluenza tra cattolici in crisi,
valdesi, ebrei.

Probabilmente c’è anche quello, un po’ di millenarismo biblico, non so se sia una componente che è
stata rilevante ma probabilmente un qualche peso lo ha avuto, se non altro per il fatto che molte di
queste persone si trovavano ad Agape, dove c’era Claudio Greppi. Quindi, ci sarà anche stato una
qualche influenza di stampo millenaristico ed escatologico, però secondo me non ha un’importanza
sul piano dei contenuti: gli incontri ad Agape erano semplicemente un’occasione per la circolazione
di diverse persone di varie aree geografiche che venivano a conoscersi lì, rappresentavano più delle
occasioni di conoscenza a livello giovanile che non un discorso teorico.

- Rispetto all’ampio raggio di soggetti che stiamo sentendo nell’ambito di questa conricerca, ci
sono una o più domande che tu faresti ad una o più persone a proposito di nodi che sono
rimasti aperti, non solo riferiti a quelle esperienze ma anche all’attualità?

Domande forse no, mentre magari sarei lieto di confrontare i miei ricordi con quelli di altre persone,
però non penso di avere questioni su grossi temi e problemi irrisolti che vorrei affrontare con una
domanda a uno dei protagonisti di allora. C’è una cosa forse, un problema più che altro tra me e
Romolo Gobbi devo dire: noi nel ’69, dopo la vicenda di corso Traiano e tutto quello che ne
conseguì, scrivemmo un documento che cercava in qualche modo di recepire l’esperienza del
movimento operai e studenti che si era allora costituito dopo corso Traiano e con caratteristiche
diverse da quelle del movimento studentesco precedente. Per corso Traiano era avvenuta un po’
questa saldatura che prima si faticava ad ottenere. Scrivemmo assieme un documento che secondo
me voleva un po’ destabilizzare il ceto politico studentesco di allora, che poi divenne il gruppo
dirigente di Lotta Continua: questo documento era intitolato Per un movimento politico di massa.
Riflettendo ora ho l’impressione che quel documento fosse semplicemente, senza che noi ce ne
rendessimo conto, una specie di antesignano poi di quella che divenne la base teorica e
organizzativa di Lotta Continua: per cui da un lato noi scrivevamo in polemica con quello che stava
per diventare il gruppo dirigente di LC e invece al contempo teorizzavamo il movimento che poi
Lotta Continua volle essere. Devo dire che forse retrospettivamente, se adesso vedessi Romolo (e
ogni tanto lo incontro), gli chiederei: “Ma non pensi che in realtà quello che abbiamo scritto allora,
non perché siamo stati noi che l’abbiamo determinato, ma per una coincidenza, sia stata poi la base
teorica e pratica di Lotta Continua?”; anche proprio nel salto che poi fece Lotta Continua verso la
lotta popolare, fino (come già dicevo l’altra volta) a Reggio Calabria. Ho un po’ questa impressione,
è una delle cose che ogni tanto mi interessano, non che sia una cosa così importante. Romolo ha
questo astio profondo nei confronti di Lotta Continua che io, devo dire, non condivido, nel senso
che per me Lotta Continua, poi con tutte le spirali involutive (Prima Linea, il terrorismo ecc.), però
è stata effettivamente un movimento politico di massa. Gobbi ha un odio viscerale nei confronti del
gruppo dirigente di Lotta Continua, anche perché questo era costituito in buona parte dai figli di,

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quello che sappiamo, quindi il figlio di Bobbio, il figlio di Negarville ecc., dunque i figli proprio di
quella classe politica che odiavamo in quanto era il gruppo dirigente del PCI di allora. Romolo ha
questo odio viscerale ma io non l’ho mai condiviso; non ho mai fatto parte di Lotta Continua pur
avendo ogni tanto anche condiviso qualche vicenda, ma non do un giudizio negativo su quella
esperienza, proprio perché è stata in qualche modo un’esperienza di massa, quindi formativa per
tutta una generazione. Dopo di che io non mi scandalizzo se questa esperienza formativa di una
generazione si è poi sparpagliata su tutto lo schieramento politico, da destra a sinistra, proprio
perché è stato in buona parte un fatto generazionale, nello stesso tempo è stato l’unico elemento di
rottura all’interno della classe politica che allora governava il paese. Nell’altra intervista ho detto
che questo ricambio è avvenuto in ritardo, per cui arrivano adesso al governo personaggi di allora,
con vent’anni di ritardo perlomeno, mentre in altri paesi questo è avvenuto con molto anticipo:
però, comunque è avvenuto. Anche se è stata poi soprattutto una rivoluzione di costume, però è
stata diffusa a livello nazionale, nel senso che la circolazione delle lotte di allora da Nord a Sud ha
toccato tutto, dall’estrema provincia fino alla grande città.

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INTERVISTA A MARIA TERESA TORTI – 17 GIUGNO 2001

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e quali sono state le tue eventuali
figure di riferimento?

Mi sembra di parlare della preistoria! Io ho avuto un percorso politico-culturale molto precoce e


molto breve, perché è la storia di una ragazzina che proviene da una famiglia piuttosto
conservatrice, conformista e apolitica, nel senso del blocco moderato che poi sostanzialmente
sosteneva la DC negli anni ’60, ma in modo indifferente, all’interno di una piccola città di provincia
che era Alessandria. Dato che la mia famiglia e soprattutto mia madre è sempre stata molto
cattolica, quasi maniacale, con posizioni molto rigide, il mio primo percorso di formazione politico-
culturale in chiave critica, oppositiva, ribelle è passato attraverso il gruppo dei cattolici del dissenso:
in particolare c’era un gruppo ad Alessandria che si chiamava Testimonianze Minime, c’era anche
un noto prete che adesso insegna a Torino. Comunque, attraverso questa esperienza dei gruppi
cattolici del dissenso e delle aree del dissenso cattolico (in cui c’erano anche figure di preti operai
importanti come Giovanni Carpenea ad Alessandria), c’è stata la mia sensibilizzazione a una serie
di problematiche sociali e politiche, poi subito dopo sono passata attraverso i Comitati
Antimperialisti “Che Guevara” e successivamente in un gruppo che fu fondato ad Alessandria e da
cui poi scaturì tutto il movimento studentesco (mi pare che l’anno di formazione fosse intorno al
’67-’68), e si chiamava Democrazia Diretta. In questo gruppo, per esempio, c’era una persona come
Brunello Mantelli, c’erano altre persone che poi presero vie diverse, tra Lotta Continua, PCd’I m-l,
qualcuno in Avanguardia Operaia, qualcuno poi nel PCI. Diciamo che all’inizio i luoghi di
discussioni e di aggregazione di queste istanze giovani e critiche e di queste soggettività ribelli
erano i circoli dello PSIUP di allora, qualche sede ARCI e questi gruppi del dissenso cattolico però
già molto politicizzati e già notevolmente orientati sull’impegno sociale. Dopo l’esperienza di
Democrazia Diretta, c’è stato il movimento studentesco. Tutta la leadership di fatto prendeva come
riferimento il movimento studentesco torinese, allora è venuta l’adesione a Lotta Continua, un
rapporto come militante molto critico con LC un anno qui a Genova e in particolare per il rapporto
con la figura di Paolo Brogi, di cui non conservo nessuna buona memoria. E poi una forzatura sulla
militanza, una militanza molto maschilista, molto negatrice dei bisogni soggettivi, molto dirigistica.
Allora, c’è stata una mia apertura verso un gruppo che mi sembrava desse più spazio a una
riflessione collettiva: fu un errore, cioè ebbi un breve rapporto con Avanguardia Operaia. Questa
struttura burocratica fu molto peggio, io per natura sono sempre stata una spontaneista, quindi in
questa struttura rigida di AO non mi ci ritrovavo. Quindi, ci fu un po’ l’uscita abbastanza presto dai
circuiti militanti e invece l’impegno su tutto il tema dell’inchiesta operaia, il lavoro operaio, la
ricerca sulle condizioni operaie soggettive: molto lavoro con gruppi di base nelle fabbriche,
soprattutto sul tema del lavoro, della salute, della nocività, quindi il rapporto fra qualità della vita,
organizzazione, organizzazione del lavoro, soggettività e bisogni. Questo è un po’ il mio percorso.
Poi ci sono state molte altre cose: io sono stata coinvolta e vittima di un attentato delle BR, e questo
ha segnato una mia chiusura con la politica che non si è più sostanzialmente riparata.

- Complessivamente, quali sono stati secondo te i limiti e le ricchezze dei movimenti degli anni
’60 e ’70 e quali sono i nodi che rimangono aperti dall’analisi di quelle esperienze?

E’ difficile dirlo, perché questo per me è un momento un po’ particolare. Io ho avuto problemi di
salute molto gravi ultimamente, e ciò fa sì che questa intervista sia per me curiosa, in parte
dolorosa, in parte estraniante, in parte riprende un filo, a un certo punto ti capita nella vita qualcosa
che ti dà un brutto scossone: allora, tu pensi al tempo che hai vissuto, incroci le dita per l’avanti, e
quello che hai vissuto lo vedi in una luce strana, perché è anche in una luce strana. Se io vi avessi
incontrato due o tre anni fa non so se vi avrei fatto questa intervista così, dove non conta solo e non

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parla solo una soggettività, ma parla una soggettività in questo momento molto particolare e molto
segnata da eventi e quindi con una certa prospettiva.
Ripartiamo ancora da me. Io, come dice Romano, penso di essere ancora un bambina che crede alla
befana nonostante gli anni. E sicuramente quando ho iniziato un rapporto con la politica questo
credere nella befana era molto forte per me. Nel senso che io venivo da una famiglia molto chiusa e
molto sorda, in cui parlare di politica significava parlare di una cosa sporca, in cui chi si occupava
di politica era solo qualcuno che lo faceva per i propri interessi, e se una donna si occupava di
politica era anche un po’ puttana. Per me, figlia unica di genitori anziani, l’incontro con compagni e
figure un po’ adulte era al contrario una possibilità. Quando sono entrata nei gruppi dei cattolici del
dissenso avevo 14 anni, ero davvero piccola: e allora cercavo una couche di affetti e di persone che
in un certo senso mi desse l’idea di un mondo, di una comunità di rapporti affettivi solidali e
personali che fossero diversi da quelli della famiglia di origine. Mi ricordo che c’era una canzone
che per me è stata a lungo, forse per tutta la mia vita, la descrizione del mio sogno d’amore e del
compagno che avrei voluto avere e con cui avrei voluto passare la vita: e questo non l’ho mai
incontrato, ma appunto io credo nella befana. Questa canzone è Una cosa già detta, che era il retro
del 45 giri in cui dall’altra parte c’era Contessa. C’erano alcuni versi come: “Vorrei dirtelo tutto
d’un fiato/ e parlartene di questo mio amore/ come parla un bambino che è nato/ come parla la gente
che muore/ come parla chi si è risvegliato/ come parla chi chiede vendetta/ ed invece sono qui senza
fiato/ e ti dico una cosa già detta”. Ecco, per me questa canzone, che mi pare fosse di Pietrangeli,
era una bellissima sintesi di questo rapporto della politica che è vita, e di una politica che non
scinde ma mette insieme l’io col mondo: e quindi non crea separazione, non crea mercificazione e
reificazione, ma mette insieme il tuo privato, la tua vita, la tua soggettività con quello che c’è. Ecco,
io ti parlo di questo amore come grida un bambino che è nato, come grida la gente che muore, e
queste due cose che stanno insieme. Era un’ingenuità, ma per me era importante. La scelta allora di
far politica è dovuta al fatto che io credevo a questi sogni: adesso può sembrare sciocco, ma io
credevo proprio in questo sogno di un mondo migliore, che partiva anche da una diversa qualità dei
rapporti che investivano il privato e il pubblico. Sul pubblico lo strumento era la lotta, sul privato
era quello della costruzione, del giocare un’autenticità che fosse reale. Per me poi allora era
importante trovare delle figure di riferimento. Quando io ho conosciuto Romano Alquati forse non
avevo neanche vent’anni, e lui è stata una delle poche persone che poi negli anni è rimasta. Se devo
dire forse tra le persone umanamente migliori, di una qualità umana notevole, posso ricordare Primo
Moroni. Mentre invece la maggior parte delle persone erano molto strumentali: io adesso parlo
soprattutto attraverso l’esperienza di Lotta Continua, e si sono poi visti i destini. Se c’è una cosa di
cui io ho sentito la mancanza nel mio processo di formazione politico-culturale, nel mio romanzo di
formazione, che stava tra me e il mondo, quindi stava tra me che dovevo crescere e il mondo che
volevamo cambiare, è proprio quella delle figure adulte di allora che fossero punti di riferimento per
noi: mentre, ex post, posso dire che per me e per altri c’era molta strumentalizzazione. Una delle
canzoni che oggi per esempio mi fa incazzare e allora mi piaceva è “Oggi ho visto nel corteo tante
facce sorridenti/ dei compagni quindici anni, gli operai e gli studenti”: beh, ad esempio, c’era LC
che nei cortei mandava avanti le compagne medie. Non era una buona attività di formazione, nel
senso che secondo me nelle organizzazioni della sinistra (qui lo voglio proprio dire)
extraparlamentare, perché i rivoluzionari dovrebbero essere altri, e questi non lo sono stati, non
c’era nessuna attenzione a percorsi di crescita delle persone: cioè, nessuno ha pensato poi al lavoro
che per esempio Primo ha fatto in Conchetta quando aveva le persone giovani attorno e sentiva la
fragilità, “io me ne sono andata da casa”, sentiva anche tutti questi problemi, che c’erano e che
erano importanti, perché la gente non finisse male. Mentre in questa generazione tanta gente è finita
male, non solo attraverso i buchi e tutte le storie tragiche che ci sono state della droga o delle derive
del terrorismo, ma male anche psicologicamente, persone che si sono salvate solo rifiutando,
dimenticando e chiudendo con quel periodo. Rispetto ai movimenti degli anni ’60 e ’70 e rispetto
alla mia esperienza, io non mi sento né una reduce né una pentita né una dissociata; mi sento una
persona impegnata, e oggi ancora come coscienza sono impegnata, io non ho abiurato niente di ieri:

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tutto sommato aspetto che quel mio sogno di bambina di 14 anni si realizzi ancora oggi. Sono
semplicemente delusa da una pratica politica che di fatto ha inverato in pieno la profezia
dell’autonomia del politico, e quindi con nessun rispetto verso la soggettività delle persone; e
soprattutto, io che mi occupo anche di giovani per lavoro, la soggettività di persone che potevano
crescere, che avevano un cammino, che stavano creando una lacerazione profonda in quelli che
allora erano tessuti sociali codificati. Ecco, questo lavoro di formazione, di sostegno a un percorso
di crescita, di modalità di una pratica critica, che però fosse anche sostengo a delle persone in
formazione, questa è stata una grave carenza; e poi forse ha agevolato esodi precoci, chiusure,
quando non situazioni di tipo traumatico.
Altro tema importante: io, praticamente fino a quando avevo trent’anni, non ho mai accettato la
lettura del ’68 e del primo ciclo di lotte, che grosso modo possiamo situare tra il ’69 e il ’73-’74,
nella chiave pasoliniana di giovani borghesi con pulsioni esistenzialistiche che giocavano a fare la
rivoluzione. Successivamente, attraverso percorsi di riflessione su di me e percorsi di riflessione su
persone intorno, posso dire che certamente (ormai c’è anche un’ampia letteratura su questo) si è
saldato un movimento di lotta politica e sociale a delle esigenze di cambiamento profondo, sociale e
culturale, sia nella sfera relazionale sia nella sfera della vita di tutti i giorni, della vita quotidiana e
dei modelli di valore e degli stili di vita. Quindi, io credo oggi che per molti di noi, soprattutto tra il
’68 e il ’70, cioè in quel periodo lì, l’istanza della rivolta contro i padri, della ribellione esistenziale,
e di una ribellione contro la famiglia non solo detta come istituzione, cioè come istituzione di un
sistema autoritario, ci fosse assolutamente. Sicuramente per me questa componente ha giocato, non
è un caso poi il gruppo a cui approdai: è vero che all’inizio fu una scelta di adesione rispetto a
quella che era l’adesione dei leader del gruppo a cui facevo riferimento, ma anche perché all’interno
di Lotta Continua alcune componenti di spirito libertario e movimentista davano più spazio. Anche
se poi il contraltare di questa situazione era invece un leaderismo sfrenato, con narcisismi straripanti
dei vari leader e leaderini, con questo rapporto con le donne veramente machista in un modo
esplicito e strumentale; in forma più evidente di quello che poi non era molto diverso in
Avanguardia Operaia, solo che in AO era più mediato da un’articolazione e da una struttura
organizzativa che lo rendeva meno visibile, almeno finché eri fuori, perché tale percorso ha avuto
questi meccanismi qua, in quanto sembrava più l’organizzazione del partito, quindi con la
segreteria, con la cellula e via dicendo. Allora, rispetto al rapporto con i movimenti degli anni ’60 e
’70 secondo me è difficile dire cos’è rimasto oggi, perché come prima battuta mi sentirei di
affermare che sembra si sia verificata una mutazione antropologica. Oggi leggevo un libro di Philip
Dick, che è un autore che io amo moltissimo, e posso dire che sembra proprio una mutazione
antropomorfa. Nel senso che i movimenti degli anni ’60 e ’70, proprio perché forse si innestavano
su delle esigenze e dei processi di cambiamento anche legati a condizioni materiali, avevano una
forza e una carica che si radicava su più focolai di protagonismo, di attività, di nuovi laboratori di
socialità nella società civile. Per esempio, parlo del mondo cattolico, con il Concilio Ecumenico
Vaticano II, il prima e il dopo, tutto quello che è successo; o si pensi a tutto il tema sulle istituzioni
totali, cioè tutto il discorso sulla riforma, sul tema degli ospedali psichiatrici ecc.; il tema sulle
condizione femminile, che stava cambiando; il tema del rivisitare i rapporti famigliari alla luce di
una maggiore libertà, non a caso vennero dopo poi i referendum sull’aborto e sul divorzio. Sicché
anche le “rivoluzioni” studentesche, che sembravano un po’ quelle di alieni che improvvisamente
irrompevano sulle strade ordinate della città, in realtà avevano un retroterra internazionale ampio,
perché c’era stata la mobilitazione sul Vietnam, c’era stata Berkeley, c’era stato Rudi Deutschke in
Germania, c’era stato il Maggio francese: e tutti questi movimenti avevano un carattere di massa
che oggi il movimento di Seattle non ha. Quando sentiamo che sono 20.000 a Göteborg, o che forse
arriveranno in 100.000 o 200.000 per Genova, se ci pensiamo bene ci accorgiamo che sono numeri
abbastanza ridotti pensando che sono manifestazioni addirittura internazionali. Allora c’erano le
fabbriche, questo punto che ho citato prima non è che lo dimentichi, poi il punto della crisi
dell’impiegato, mi ricordo la nascita dei CUB, il Comitato Unitario di Base alla Pirelli era fatto
soprattutto da tecnici e quadri. Oggi questa situazione non c’è. Insieme ad altri io sto facendo una

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ricerca sul rapporto tra gli adolescenti e la musica: è significativo che in questo periodo, per le
interviste che faccio, viene fuori che se non fosse stato per Jovanotti e per Pelù nessuno agli studenti
medi aveva parlato del debito del Terzo Mondo, ma la cosa più grave è che non gliene frega niente.
Questa è gente che va ai concerti dei 99 Posse, che li segue, ma vanno per la musica e non sono
d’accordo coi testi, loro lo dichiarano proprio. Voglio dire che c’è un’indifferenza molto grande.
Anche adesso intorno al G8 il dibattito è solo sugli scontri, non sul tema del G8 stesso. Infatti stavo
quasi pensando se proporre un pezzo su questo al quotidiano locale con cui ogni tanto collaboro: è
una cosa stranissima che ormai tutto il dibattito e tutta l’attenzione della pubblica opinione non è sui
contenuti del vertice, su quali saranno gli assetti di potere economici e cosa questo soprattutto
comporterà sulla vita quotidiana della gente, perché questo non l’ha ancora capito nessuno e
nessuno glielo dice. Tutta l’attenzione dell’opinione pubblica è “ci saranno scontri o non ci saranno,
romperanno le vetrine oppure no, quanti danni, quanti morti, quanti feriti”. C’è veramente un
rovesciamento totale, e secondo me non casuale, di quello che dovrebbe essere il centro
dell’attenzione. Allora, a questo punto i movimenti su Seattle sembrano un po’ evocare quel titolo
del romanzo di Benni, I comici spaventati guerrieri, che in un contesto assolutamente isolato e
indifferente conducono una battaglia che per la maggior parte della gente è “ma guarda questi
vandali quante cose rompono”.
La differenza sostanziale è che fino alla metà degli anni ’70, fino alla vittoria delle sinistre del ’76
(parlo delle giunte amministrative), con anche le delusioni che poi ci furono allora, vi era un tessuto
di mobilitazione, impegno, o anche semplicemente voglia di messa in crisi, di messa in discussione,
di piccoli riformismi di base, che avevano coinvolto tutte le istituzioni della società: perché si
partiva dal privato della famiglia, dall’educazione dei figli, dai rapporti tra le persone, dalle
battaglie femministe, fino ad arrivare ai luoghi di lavoro, ai luoghi istituzionali, ai luoghi di
rappresentanza come i sindacati. Era un movimento che si innestava, delle volte si scontrava anche,
ma con punti di dibattito e di presenza davvero molto diffusi all’interno della società; e molto
diffusi non solo all’interno della società italiana, ma perlomeno di quelle che erano le società
occidentali in quel periodo. L’America fu la prima a tirare giù la saracinesca, ma in Europa le
discussioni andarono avanti, tant’è che maturarono tutti gli eventi successivi. Poi ci fu il campo
della lotta armata, rispetto a cui, al di là di una vicenda personale che mi ha segnato parecchio, non
solo non sono mai stata d’accordo, ma ritengo che sia stata veramente la fine brutale e plumbea di
ogni possibilità di dibattito critico, cioè tutte le sedi che erano ancora aperte immediatamente si
chiusero. Qui la mia è una posizione molto dura, perché penso che se tu chiedi uno scontro armato
con lo Stato, questo ti risponde e che tu venga sconfitto mi sembra che stia nelle regole del gioco. Io
non ho mai avuto nessuna stima e nessuna indulgenza per i signori della guerra: probabilmente
perché vengo anche da un retroterra culturale diverso, non a caso le cose che facevamo nei Comitati
Antimperialisti “Che Guevara” erano molto basate sulle proteste pacifiche, quindi può darsi che
faccia parte della mia tradizione. Tuttavia, io ho il massimo disprezzo e un profondo rancore per
coloro che appunto, facendo i signori della guerra, hanno poi azzerato tutta un’esperienza di
dibattito, di lotta, di mobilitazione che a fatica si era mantenuta dopo tutte le varie ondate di
movimenti. Perché è chiaro che il movimento è come una grande ondata che fa salire, poi c’è la fase
del riflusso, e ogni volta costruire era difficile; però, c’erano parecchi punti di mobilitazione.
Mentre con la loro comparsa ci fu tutto il dibattito sull’emergenza, e quindi il discorso
dell’emergenza fu la fine di ogni possibilità di discorso critico. E’ vero che questo nacque anche su
elementi di sconfitta, ma non a caso questi si sono prodotti. Recentemente ho visto un film sugli
operai di Torino, intitolato Non mi basta mai. E’ vero che la marcia dei 40.000 è stata nell’80, però
è anche vero che non a caso l’80 veniva due anni dopo Moro e un anno dopo l’assassinio di Guido
Rossa. Adesso io non credo che questa sia la sede né io mi sento in grado di fare una ricostruzione
storica compiuta; vi erano certamente elementi di sconfitta rispetto a quelli che erano i contenuti più
avanzati delle richieste delle lotte. Però, il muro di piombo che si creò in quegli anni fece sì che
ogni possibilità di critica, di dibattito politico, di incontro, di discussione, venisse assolutamente
azzerata dal discorso dell’emergenza.

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E poi arrivano gli anni ’80, che non sono solo (come direbbero i sociologi) gli anni del
rampantismo, dell’illusione che tutto può essere fatto, del ritorno al carrierismo, al rampierismo
sociale: ma sono soprattutto anche gli anni in cui vengono liquidati tutti i contenuti e i valori dei
movimenti precedenti. Io credo che il portato più epocale della sconfitta dei movimenti degli anni
’70 sia paragonabile al portato epocale della sconfitta sul piano dei valori, dei punti di riferimento
delle soggettività, che è avvenuta nei paesi dell’Est. Detto molto schematicamente: se dopo
un’esperienza di 50 e più anni di conoscenza dei contenuti del marxismo e di pratica del socialismo,
tutti si mettono a gridare “viva gli americani, viva il modello capitalista”, questo significa che, come
noi abbiamo sempre detto, i paesi del socialismo reale tutto erano tranne che paesi che davano una
formazione realmente critica, realmente marxista, realmente socialista. Altrettanto si può dire qui:
nei primissimi anni ’80 (io allora ancora mi occupavo di lavoro e salute) ho incominciato a vedere
dei segni strani quando nelle fabbriche, dove c’erano persone pure mobilitate e attente, gli operai a
questo punto cercavano di farsi mettere in cassa integrazione per fare un secondo lavoro. Per carità,
migliorare le proprie condizioni materiali di vita può essere la casa in campagna, la casa che ci si
compra, però tutto ciò all’interno ormai di una logica individualista, di perseguimento di interessi
molto personali e privati, e di ormai assoluta indifferenza nei confronti di un collettivo che non ti
rappresenta più, in cui non ti riconosci ma neanche ti vuoi riconoscere. La via individuale alla
felicità personale. E questo ha investito la più ampia quota dei segmenti sociali che erano stati
protagonisti delle lotte. Noi oggi possiamo vedere esempi illustri di carrieristi sistemati nelle
aziende o nei media; ma tralasciamo questi, che sono la facciata, che poi si chiamino Pannella, che
si chiamino Brogi (il quale adesso scrive per Il Giornale), che si chiamino Liguori, non mi
interessano adesso le figure di spicco dell’imprenditoria e dei media. Ma sono proprio le persone, le
traiettorie, le storie che sono profondamente cambiate: e alcuni alfieri della rivoluzione hanno fatto
della rivoluzione una professione, o, per dirla con Benjamin, si sono creati l’aura del lavoro
intellettuale e del lavoro politico.
Io poi ho continuato a fare ricerca e ad occuparmi in particolare di condizione giovanile, di cultura
giovanile, linguaggi giovanili: uno dei temi che mi stanno più a cuore è che quando io sento parlare
di disincanto delle giovani generazioni, di distanza dalla politica, di caduta dei valori,
personalmente sono presa da un eccesso di furore e di orticaria perché il cosiddetto venir meno di
tensioni ideali e di impegno sociale e politico tra i giovani dagli anni ’80 a oggi, parlo sul piano dei
movimenti e non sul piano di istanze impegnate come possono essere alcuni gruppi o i centri
sociali, è esattamente speculare all’indifferenza e all’abbandono dell’impegno sociale e politico
delle generazioni adulte. Ossia, non sono i giovani che si sono disaffezionati: direi che sono i
giovani che, a partire dagli anni ’80, hanno assimilato questa cultura del distacco, del disincanto e
dell’abiura. Quando io parlo di abiura mi riferisco proprio all’abiura di modelli, di valori e di stili.
Cioè, se tu hai fatto certe esperienze negli anni ’70 non puoi essere indifferente oggi a temi come la
globalizzazione, il divario tra Nord e Sud del mondo, le nuove povertà che si creano. Non
necessariamente poi ciò si deve trasformare nel fatto che tu per forza devi andare a Seattle a
impegnarti in prima persona, o che devi fare militanza; però, sul piano dei valori, della tua visione
del mondo questo significa qualcosa. Invece di questo non ti è rimasto niente, e pensi solo ai fatti
tuoi, alla carriera, parli di politica come al bar, con questa indifferenza veltroniana, diessino-
ulivista, per cui certi personaggi potrebbero stare da un punto all’altra ma in modo uguale: se
arrivasse un marziano e glieli facciamo vedere, chiedendogli in che squadra stanno, è come parlare
di Roma e Lazio, i calciatori sono quelli, una volta possono giocare con la Lazio e una volta con la
Roma, nell’assoluta indifferenza. E così è la stessa cosa per la maggior parte della gente. Questo
relativo miglioramento delle condizioni materiali di vita, che ha investito segmenti del proletariato e
della piccola e media borghesia, e che poi è stato ottenuto grazie appunto ai processi di
decentramento produttivo nei paesi del Sud del mondo, non è stato metabolizzato. E alla fine, come
è avvenuto con il crollo del Muro di Berlino per i paesi dell’Est, è un po’ come se tutti quanti si
fossero convinti che questo è l’unico sistema possibile e quindi, a questo punto, ognuno deve
giocare all’interno di queste cornici, solo contro tutti e l’un contro l’altro attrezzati se non armati.

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Quindi, ci sono queste forme molto evidenti e molto forti di egoismo sociale e di egoismo
individuale, il ritorno a un particolarismo di interesse e di vita molto marcato, le nuove
fenomenologie che appaiono. Leggevo ieri su Il Manifesto di un libro sul mobbing in Italia, ossia
queste nuove fenomenologie del mobbing che a me colpiscono particolarmente. Pur non avendo
mille anni ho fatto molte cose nella mia vita, quindi non ricordo esattamente, ma di lavoro e salute
me ne sarò occupata per 7 o 10 anni, per un periodo molto lungo comunque, facendo proprio anche
la metodologia che allora si chiamava dell’inchiesta operaia, con la sequenza non operativa, basata
sul principio della non delega e della validazione consensuale. Pensando a tutti i fattori di nocività e
di stress che sono legati ai ritmi, ai capi, ai controlli, in certi casi negli uffici anche coi compagni di
lavoro, però erano uno o due. Mentre oggi c’è una nuova fenomenologia del disagio da lavoro, che
ti abbassa la qualità del lavoro, il mobbing, tutti coalizzati contro uno, all’interno veramente di un
universo tra Philip Dick e Ballard, in cui cerchi di vampirizzare il tuo prossimo, peggio che se fossi
in una giungla. Ciò è quanto mai esaustivo, perché questi casi li ritroviamo dai McDonald’s fino
alle fabbriche fino agli uffici, e in luoghi in cui i salari sono ancora di un milione e mezzo al mese,
quindi non è che si tratti della lotta del top management per arrivare in alto.
Torniamo ai movimenti degli anni ’60 e ’70. Rispetto ai miei studenti all’università (qui a Genova
insegno al primo anno, e poi insegno allo Jung di Milano al secondo anno), quando faccio qualche
riferimento agli anni ’60 e ’70 talvolta vedo spazi di curiosità, ma è una curiosità più epidermica.
Non mi sembra che vi sia nei confronti dei movimenti degli anni ’60 e ’70 un’analisi volta ad una
messa a valore per il presente in termini critici. C’è in un certo senso alle volte anche curiosità,
voglia di informazione, ma tutto questo non viene collegato al presente, quindi attualizzato e messo
a frutto.

- Quali sono dunque i principali nodi che nel presente e soprattutto in prospettiva futura sono
secondo te aperti?

Moltissimi. Intanto, un nodo grosso sta nella distruzione di tutti i rapporti legati alla quotidianità e
alla materialità delle condizioni di vita e di lavoro, rapporti di comunicazione, se non di impegno
esplicitamente politico almeno di impegno sociale. La mia sensazione netta è che noi stiamo
tornando indietro velocemente, e che si sta creando uno scenario tipo anni ’60; dico tipo perché la
storia non è mai la stessa, e come diceva Marx se un evento accade due volte, una volta è come
tragedia e l’altra come farsa. Cioè, stiamo entrando di nuovo in un clima di forte conservatorismo e
conformismo sul piano degli atteggiamenti sociali e dei comportamenti, che di fatto legittima e
avvalla, perlomeno col silenzio, gli attuali assetti di potere e di dominio. Allora, il tutto nasce dal
dare per scontato che ormai nell’epoca della globalizzazione anche il tempo si è sempre di più
presentificato, quindi le persone, gli individui tendono a vivere nel qui e adesso, nel qui e oggi.
Come dice Bauman, una società dell’incertezza fa sì che le persone nell’incertezza aumentano il
grado di individualismo che regola le loro azioni e il loro sguardo sul mondo. Del tipo: dato che
siamo in una situazione difficile devo pensare a me, alla mia famiglia, a salvarmi ecc. Non vi è più
nessuna tensione non dico verso l’utopia, ma neanche verso speranze di cambiamenti concreti,
collettivi, sociali e culturali. E quindi si dà per scontato che il frame dentro cui siamo tutti inseriti
non si cambia: e allora quello che io devo fare è scegliere, all’interno di questa scacchiera, quali
sono le mosse che mi convengo di più per mantenere o migliorare la mia condizione attuale o quella
dei miei famigliari. Siamo ritornati di nuovo a un primato delle regole, delle norme, della gerarchia,
alla legittimazione delle distanze sociali. Ossia, il mito americano del “se sei bravo ce la fai” è
passato pesantemente anche in Italia, e secondo me la vittoria di Berlusconi non è una causa ma è
un effetto. Detta un po’ come una battuta ma non tanto, in essa c’è la vittoria del nuovo “eroe
popolare”, di quello che se ci si mette di buzzo buono, giusto passando i compiti ai compagni di
scuola e chiedendo qualche quattrino, metti da parte un po’ di soldini e poi, se sei bravo, ti fai
Mediaset: ossia, è la favola felice di quello che è considerato il principe azzurro auspicabile in
questo terzo millennio. C’è ad esempio un cambiamento epocale per quanto riguarda le distanze

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sociali: negli anni ’70 anche i settori più conservatori della società, quanto meno attraverso la
cosiddetta beneficenza, consideravano la marginalità e la povertà come una condizione che andava
in qualche modo arginata, richiedeva interventi di aiuto, ma aveva una cittadinanza; c’erano le
donne di San Vincenzo che andavano nelle bidonville romane e queste cose qua. La marginalità, la
povertà, il disagio erano un po’ cenerentole messe nelle cucine della corte, ma comunque accettate
nella corte dalla società. Oggi, invece, marginalità, disagio e situazioni di privazione è come se non
avessero alcuna cittadinanza. Io vedo veramente fenomeni di violenza e di ferocia sociale
spaventosa. E’ un po’ come se oggi si dicesse: “se sei povero, se non ce la fai, se hai problemi sono
fatti tuoi, vuol dire che non sei stato bravo abbastanza, non ti sei impegnato a sufficienza”. E quindi
la legittimazione della distanza sociale è in chiave fortemente darwinista, a differenza di quella che
era l’ideologia liberale dello stato borghese negli anni ’60 e ’70. Qui sembra venir fuori proprio lo
scenario dei film americani, per cui o stai nei quartieri residenziali o stai nei ghetti, se stai nei ghetti
sei uno sfigato perché non ce l’hai voluta fare. La situazione di disagio economico sta diventando
quasi un elemento di vergogna e non un elemento di spinta per una lotta per cambiare la situazione:
questo da parte degli stessi soggetti interessati.
D’altra parte, le reti che oggi sono dentro l’impegno sociale e l’impegno politico sono reti (penso
anche ai centri sociali, che è una realtà che conosco abbastanza bene perché li ho seguiti) che
recuperano soprattutto sul piano della convivialità o della socialità, ma non recuperano sul piano
dell’impegno. Tu puoi avere gente che va ai Murazzi tutti i venerdì e i sabati come va al
Leoncavallo o può andare allo Zapata, ma questo non significa minimamente che poi queste
persone non dico che non si mobilitino attivamente, ma apprendano e interiorizzino un’altra visione
del mondo e del rapporto tra sé e il mondo. Faccio un altro esempio: in questi anni sto lavorando
sulle culture espressive della musica, tutti i fenomeni legati alla musica, il suonare, l’ascoltare, la
dance, e quindi adesso, se riuscirò a riprendermi e soprattutto se la mia testa non va dove non deve
andare, farò il libro che ho in mente da tre anni e che si chiama Il gioco il rischio il piacere –
giovani e correlazioni pericolose, e mi sto occupando di ecstasy e dintorni. Una cosa che ti colpisce
è che in qualunque luogo di aggregazione giovanile tu vada e soprattutto in certe aree ci sono grosse
concentrazioni di ecstasyati: è così nel nord-est, in Lombardia, proprio questo inverno ho fatto
molte verifiche nel bresciano; ma se no generalmente vedi molta diffusione di fumo. Diciamo che
ormai l’uso di sostanze, di additivi, è entrato nei riti e nei comportamenti e non soltanto legati alla
musica, ma in generale di convivialità delle nuove generazioni. Questo, però, non sposta
minimamente di tanto così un impegno dei giovani, per esempio, sul fronte dell’antiproibizionismo.
L’ultima indagine sostiene che la maggior parte dei giovani intervistati tra i 15 e i 34 anni dichiara
che è giusto penalizzare l’uso delle sostanze, e magari sono gli stessi che ne fanno uso. Ossia,
neanche per comportamenti che riguardano più da vicino grandi masse di persone, almeno
occasionalmente, c’è la voglia di una presa di posizione che in qualche modo si orienti verso
“questa regola non ci piace, cambiamo la regola del gioco”. No, “la regola rimane, noi cerchiamo di
trasgredirla o di aggirarla”. Insomma, ci troviamo di fronte a un mondo dato per scontato e a una
rappresentazione dell’io che si deve plasmare secondo quelle che sono le indicazioni del momento e
del mondo. Con gravi costi poi per le soggettività individuali, infatti non a caso aumenta l’area del
malessere, e c’è un uso di sostanze legali come gli psicofarmaci come mai si è verificato nella
storia. Però, non importa, a qualsiasi costo le persone vogliono in ogni caso rappresentarsi come
coloro che ce la possono fare o ce la fanno. Questo discorso che sto facendo a voi è un discorso che,
per esempio, io non riesco mai a fare con nessuna delle persone impegnate politicamente. Quasi
ancora oggi ci fosse una frattura tra chi è nell’area dell’impegno e della militanza, e allora fa le
grandi letture generali sui destini del capitale, della finanziarizzazione ecc., e altri che lavorano solo
su quelle che un tempo si chiamavano le mosche cocchiere del movimento, cioè solo su alcuni
comportamenti d’avanguardia, mentre negano o non accettano queste cose, con l’accusa di
sociologismi: certo, io faccio anche la sociologa, ma questa mia analisi non deriva tanto da una mia
presunta capacità professionale, ma deriva da una persona che, essendosi abituata dall’età dei 14
anni a pensare al rapporto tra io e il mondo, ancora oggi lo guarda e lo cerca negli occhi delle

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persone che sono davanti a me o che sono intorno a me. Ecco, c’è questa terra di nessuno nel senso
di oblio totale, di disinnesco del cervello e del cuore da ogni pensiero che sia critico, perché il
pensiero critico certo non è produttivo, allora preferisci piuttosto la latenza: credo che in proposito
si abbiano in mente un mare di centri sociali, o pensiamo a delle figure emblematiche di questa
tarda modernità, i traveller, gli squatter, i raver, scelgono i linguaggi della scissione, della
secessione. E non è la secessione gioiosa dell’io che il mio amico Bifo ogni tanto descrive con
allegria, mentre Franco Bolelli ci fa delle liturgie sopra: qualche caso ci sarà anche di secessione
gioiosa dell’io e io lo auguro a tutti quanti, ma per la maggior parte è una secessione dell’io che ci
indica come anche le nuove aree di controcultura, chiamiamola così, che si sono formate nel
periodo tra gli anni '80 e gli anni ’90, in questo moloc ormai di un sistema dato per scontato,
ritengono che l’unica utopia che possono inseguire è quella della secessione e di creare altri mondi,
o di attraversare altri mondi. Quest’atteggiamento mi fa allora un po’ venire in mente la prima
esperienza hippy dei primi anni ’60 in America: anche lì c’è stata prima una grande mobilitazione
per diritti civili, contro la guerra in Vietnam, poi di nuovo un blocco d’ordine, allora a questo punto
queste fughe tra l’individuale e il collettivo, molto di secessioni e di isole che tu crei ma al di fuori
da tutto.
Questo è un altro nodo aperto molto importante, perché se è vero che sempre nelle storie dei
movimenti l’area della militanza proponeva le sue tesi, i suoi programmi, i suoi obiettivi in modo
che ci stava ci stava e chi non ci stava potevano essere i crumiri, i borghesi, coloro che non
capivano niente e così via, però è pure vero che questo avveniva all’interno di una società in cui,
ripeto, c’erano anche altri territori di discussione, di dibattito, di presa di coscienza. Insomma, si
pensi a cosa sono i DS attualmente e si pensi a cos’era il PCI negli anni ’60 e ’70: il PCI era un
luogo di formazione critica, poi era ideologico e quello che si vuole, però sicuramente era un luogo
di elaborazione critica. Oggi i DS non sono luoghi che frequento, però credo che non solo non ci sia
nessuna elaborazione critica, ma sia un posto da spartirsi quattro poltrone e fare un po’ di
burocrazia così come se si va a lavorare alla Publitalia, anzi questa la ritengo più
professionalizzante dei DS perché certamente ha un grado maggiore di competenze per le cose di
cui si occupa. Allora, oggi anche le poche aree militanti non comunicano e non riescono a
comunicare, per esempio, col mondo giovanile. E’ chiaro che le istanze più grosse di cambiamento,
di critica, di ribellione, del porsi interrogativi ti vengono di più di quando sei giovane, questo è
sempre stato storicamente così: è pesante il fatto che oggi non ci siano dei canali significativi che ti
creano un dibattito e una discussione con gruppi giovanili più ampi. Negli ultimi anni io ho seguito
anche le occupazioni delle scuole, perché seguo abbastanza questi terreni, a mio modo un impegno
l’ho sempre portato avanti e con un discorso di coerenza: cioè, sono una che segue i concerti, posso
andare nei centri sociali, poi i miei studenti sono a lezione, e io sono sempre io, l’unica cosa è che
fino a che non si laureano do del lei, li chiamo per nome, perché dico subito che per me c’è un
primato della persona e quindi non mi interessa lo studente ma mi interessa la persona, però do del
lei per il fatto che mi darebbero del lei e quindi mi sembra giusto così; poi dopo con alcuni se si
creano dei rapporti più vicini e siamo amici, allora ci diamo del tu. Però, una cosa di cui certamente
tutti mi possono dare atto è che io parlo con voi qua, ma se mi vedete a lezione non faccio discorsi
diversi e ai concerti nemmeno. E’ un discorso anche di coerenza, di cui non gliene frega niente a
nessuna ma ne frega a me: io sul piano identitario ritengo di essere una, nessuna e centomila, ma sul
piano dei modelli di riferimento, delle cornici di lettura quelle sono, poi le posso arricchire, però
parto da alcune e non è che sbarco sul mondo quel mattino lì e a seconda di come mi sveglio mi
invento una storia. Quindi, secondo me una cosa che manca assolutamente è una comunicazione che
sia più generalista, mentre è diverso quello che io vedo, anche nelle occupazioni ad esempio. Sono
occupazioni molto trascinate, 4 o 5 che fanno i volantini, 3 perché sono vicini a Sinistra Giovanile e
4 perché sono vicini a un centro sociale, c’è un po’ di mobilitazione ma tutto il resto scorre molto
via, non lascia proprio niente. Ossia, si ripete un po’ quello che è avvenuto col movimento
studentesco del ’68, con l’aggravio che però oggi appunto non ci sono altre agenzie di formazione
politico-culturale.

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Sicché, se noi torniamo alla soggettività, questa oggi è la voce di una soggettività che è alla ricerca
di quello che Bauman dice, dell’adeguatezza continua. Bauman sostiene che il senso del disagio
nella società della globalizzazione nasce da un senso di inadeguatezza: non vi è più un modello
chiaro a cui riferirti, i modelli cambiano rapidamente, però il messaggio che ti viene dato,
l’imperativo proposto è quello “devo essere sempre adeguato a tutte le situazioni e a tutti i
cambiamenti”. Chiaramente questo aumenta le situazioni di svantaggio e di stress, perché io già
farei fatica a essere adeguata a un modello se mi dici qual è, ma non è mica una cosa banale se mi
dici che questo può cambiare, che domani io mi devo attrezzare a vivere felice dentro la flessibilità
del lavoro ed affrontare tutte le situazioni. Cioè, siamo anche in una società completamente
schizofrenica, perché tutta questa liturgia sul lavoro flessibile, sul posto che non c’è più, viene fatta
da persone che nella loro vita non sanno neanche che cos’è il precariato, perché questo viene
veicolato da cinquantenni o sessantenni che hanno tutti avuto delle belle esperienze consolidate di
posto di lavoro sicuro e garantito. Quando mai Cofferati ha vissuto il precariato? E che cosa vuol
dire per un lavoratore debole o per un laureato debole che tu puoi cambiare lavoro dieci volte nella
vita? Dopo trent’anni chi ti prende? O, per un modello classico, se a 40 anni hai una crisi, chi è che
ti prende poi dopo 40 anni? Però, anche su questo non c’è discussione. Anche le agenzie di lavoro
interinale la gente le ha prese sul fatto che il mondo va così, e tutto questo, se il mondo va così, crea
una competizione intraindividuale più marcata, forme di egoismo e razzismo sociale molto forti,
perché a questo punto se si pensa che la torta si rimpicciolisca meno siamo e meglio è. Quindi, c’è
un razzismo che vediamo nei confronti degli stranieri e dei migranti, ma anche un razzismo che
vediamo attraverso il mobbing, cioè attraverso i colleghi. E su tutto questo non solo non c’è
dibattito, ma non c’è neanche attenzione e non c’è apertura: ma questo perché le agenzie
tradizionali di formazione politica e culturale del movimento operaio, del movimento associativo
democratico, dei movimenti politici hanno rinunciato a ciò da più di vent’anni, e questi sono gli
effetti. Dunque, secondo me andiamo verso uno scenario in cui la politica è sempre più scissa dai
mondi della vita quotidiana e dagli obbiettivi e dalle strategie di vita degli individui, è sempre più
autonoma, è sempre più staccata e separata, mentre prevalgono fortemente qui in Occidente appunto
dei comportamenti legati maggiormente al conformismo e quindi limitati al massimo alla
trasgressione, alla piccola furberia, al cercare magari di ritagliarsi gli spazi anche con artifizi o
astuzie. Il tutto per mantenere una posizione di relativo privilegio all’interno di quello che sembra
essere il Nord del mondo. Si pensi, ad esempio, al fatto che non si è aperto neanche un dibattito,
non dico politico ma neppure sociale, su che cosa comporta l’euro: cosa vuol dire che noi da
gennaio non useremo più la lira? Che rapporto abbiamo noi con gli altri paesi? Io spesso guardo la
TV e faccio zapping quando sono a casa, ed è significativo che in due anni che c’è l’Europa non
abbiamo visto assolutamente niente e nessun programma, tranne adesso qualche spot sull’euro, su
come vivono gli studenti degli altri paesi, il rapporto con la scuola, quali sono le condizioni di
lavoro, come si vive in una fabbrica o in ufficio in un posto del Belgio piuttosto che in Italia. E
nessuno nemmeno lo chiede: cioè, non solo è grave che nessuno pensi di farlo, ma anche che
nessuno si ponga il problema di quali cambiamenti ci saranno, quali rapporti ci possono essere.
Penso che negli anni ’70 in campo sindacale come minimo questo avrebbe infittito dei rapporti
molto forti tra rappresentanti sindacali di fabbriche che hanno sede in più luoghi, mentre non mi
risulta che questo oggi sia successo.

- Prima hai accennato al movimento femminista: qual è stato il tuo rapporto con esso?
Ragionando sull’oggi, su discorsi come quello della femminilizzazione del lavoro e su
un’emancipazione della condizione della donna sbandierata anche a livello istituzionale, quali
sono stati a tuo avviso i limiti e le ricchezze del movimento femminista?

La mia esperienza con il movimento femminista è molto piccola, perché io all’epoca non vi ho fatto
parte: ero molto rigida e dogmatica, e quindi allora ritenevo anzi che questa “scissione” del
movimento femminista fosse in parte un errore. Questo perché io, che ero appunto molto giovane e

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dogmatica e, come sempre, più si è giovani più si è dogmatici, ritenevo che la contraddizione
principale, a proposito di quel libro della Reed, Sesso contro sesso e classe contro classe, fosse
quella della classe e non fosse quella del sesso. La mia inchiesta sulle condizioni operaie mi aveva
avvalorato questa ipotesi, perché le condizioni di vita delle donne nelle famiglie operaie e le
condizioni di vita delle donne nelle famiglie non dico borghesi ma anche piccolo e medie borghesi
erano profondamente diverse. Quindi, con le compagne femministe io ho avuto sempre dei rapporti
di distanza, mentre anni dopo ripresi i contatti, quando la radicalizzazione era minore, quando si
poté sviluppare una discussione più ampia sulla condizione della donna. Beh, direi che in questi
ultimi trent’anni, da quando il movimento femminista ha incominciato a muovere i primi passi,
sicuramente è stata perseguita la via dell’emancipazione ma non quella della liberazione. E la cosa
più triste è che oggi io vedo che sono innanzitutto le ragazze a non valorizzare nessun tipo di
differenza coi maschi, e a riprodurre comunque sempre ruoli se non ancillari tuttavia
complementari, così come avveniva prima del movimento femminista. Allora, è come se a questo
punto la condizione della donna si divaricasse tra la strategia dell’emancipazione rampante, decisa,
su modelli però prettamente maschili: sarebbe come dire, per esempio, che io ho considerato come
una vittoria delle donne il fatto che Margaret Thatcher sia stata per diversi anni capo
dell’Inghilterra; e invece, dall’altra parte, una grande massa di persone che acriticamente accetta
ancora un ruolo di divisione dei compiti tra i sessi. In questa aiutata dal fatto che certamente oggi la
coppia è più paritaria di prima, nelle giovani famiglie ci si aiuta di più reciprocamente, la divisione
dei compiti è meno rigida. Io negli ultimi dieci anni lavoro essenzialmente con ricerche
etnografiche, quindi sono abituata a girare per i posti, a osservare e a guardare: è significativo che
nei centri sociali, per esempio, mi sembra di essere nei gruppi della sinistra extraparlamentare degli
anni ’70, in cui a parlare eravamo pochissime, ed eravamo considerate, come Brogi diceva, delle
grandi rompicoglioni perché chiedevamo spiegazioni, tipo “perché si fa questo?”. Ci si faccia caso,
si vada nei centri sociali e si guardi come si comportano le ragazze, parlano molto meno dei ragazzi.
Io nei centri sociali ci vado spesso, a Torino sono molto amica del giro dei Murazzi, a Milano
Daniele Farina, il Leoncavallo e la Pergola, quelli di Bologna, su queste storie dell’ecstasy, negli
ultimi 5 anni sono quelli che vedo di più, sono proprio amici personali quelli del Livello 57, in parte
quelli del Link. A parte il Livello 57 devo dire, ma lì sono anche più grandi quelli che si occupano
di queste cose, ma se si va dove ci sono i giovani giovani, tra le medie superiori e il primo anno di
università, le ragazze sono quelle che parlano meno, anche se sono poi dei bei cervelli, se sono
brave: parlano meno, intervengono meno, c’è ancora tutta la sindrome del leader piccolo o grande
con lo stuolo delle ragazzine intorno. E quindi ci sono ancora poi nel mondo sociale le scelte di
coppia come scelte di interessi: probabilmente hanno ragione loro, paga di più l’interesse
dell’amore, e tra le passioni e gli interessi, per dirla con Hirschmann, vincono gli interessi. Per cui
nelle mie interviste fatte in Val Camonica o nel bresciano si trovano un sacco di giovani ragazze e
operaie che lavorano lì, che hanno un modello di famiglia non molto diverso da quello che poteva
avere mia madre, cioè ti sposi quello che ti dà più affidamento, gli uomini sposano quella che dà più
affidamento come moglie, pensi a farti la casa. Da questo punto di vista c’è un conservatorismo
visibile, ad esempio, nei film dei due cosiddetti registi di sinistra, Moretti con La stanza del figlio e
L’ultimo bacio. Questi sarebbero due registi ufficialmente di sinistra, consacrati dal veltroniano
critico cinematografico oltre che da Ciampi. Se uno ha in mente i film di Ken Loach o i film di
Gegerian quello di Marsiglia, questi due registi che si dichiarano di sinistra, e quindi dovrebbero
essere anche un po’ più a sinistra dei DS perché gli artisti, si sa, sono sempre un po’ più radicali,
fanno due film, ognuno per conto loro, in cui per dirne una (è un’annotazione sociologica ma mi è
scappata) la professione del capofamiglia in entrambi è lo psicanalista. Si sa quanto è diffusa
socialmente questa posizione nel nostro paese e quanto rispecchia le condizioni di difficoltà se non
del proletariato della classe media: io credo che gli psicanalisti in Italia siano poche migliaia.
Allora, già questo è significativo. Poi ne L’ultimo bacio questa crisi di trentenni viene vissuta da
due che si sposano, gioventù dorata, proprio il mondo delle terrazze romane, quelle che veramente
se, anziché essere figli di Veltroni, fossero figli di Previti non è che ci sarebbe differenza.

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L’entourage di Fini e l’entourage di Veltroni è di nuovo scambiabile. Bene, questo qua si deve
sposare a trent’anni, ha il momento di crisi, la sbandata per la ragazzina, proprio un usa e getta, e la
ragazzina è figlia di un architetto di fama mondiale (anche questo è, come dire, siamo tutti figli di
Renzo Piano a questo punto!); poi pensa alla moglie, questa dice che rimane incinta, allora lui dice
“la sposo” e vagheggia questo fatto che poi ci sarà la famiglia, che avranno i bambini (è testuale),
una casa un po’ fuori Roma, una casa borghese, “poi mi prendo una bella macchina, poi mi prendo
un cane, ma sì, poi ci prendiamo la barca e saremo felici”. Il film si chiude vedendo che la moglie,
dopo che ha la barca e tutte queste cose, a un certo punto fa jogging con un bell’istruttore e si pensa
che a questo punto sia la moglie che gli mette le corna. Cioè, proprio un’ideale borghese, se io
penso a cos’erano i film di Bunuel, Il fascino discreto della borghesia, era uno che dissacrava
queste cose: questa invece è l’elegia, perché oggi dentro questi valori ci credono tutti. La cosa più
sconfortante per me, a questo punto, è che mi sembra di avere sbagliato pianeta, e io talvolta
continuo a chiedermelo, è una domanda che facevo anche a Romano (che nel ’93-’94 mi ha fatto
quel quadro): alle volte ti chiedi se proprio sei sbagliato tu, se sei tu che non hai capito niente, e
quindi hai continuato a combattere contro i mulini a vento, come un Don Chisciotte. Io non sono
mai riuscita ad appartenere radicalmente a delle grandi concezioni politiche, cioè non sono mai
entrata in un partito, anche con la sinistra extraparlamentare ho sempre avuto dei rapporti
abbastanza dialettici. Però, io me ne sono andata da casa che avevo 18 anni, reggendomi poi per
conto mio per un bel pezzo. E avevo fatto fatica a uscire da quella famiglia lì, in quegli anni non era
così comune che una ragazza facesse questo; e avevo fatto fatica anche ad uscire dalla chiesa
cattolica, si può capire che allora tutti questi gruppetti rispetto alla chiesa cattolica fanno ridere,
perché quella ha duemila anni di storia come istituzione. Io non riesco a credere senza pensare: ho
bisogno di pensare, ho bisogno di dire, ho bisogno di capire. Allora, non sopporto queste
appartenenze dogmatiche, oppure “è così”, oppure queste appartenenze di convenienza, in cui devi
far sempre finta che, devi allinearti. Io notavo delle situazioni che mi mettevano molto a disagio,
dimensioni di conformismo dentro i gruppi per allinearti a quello che vuole il gruppo, così come ti
puoi poi allineare nel lavoro (e infatti si è visto…) ai nuovi dettami del sistema, in cui non sei mai
tu, che puoi mettere in discussione il mondo ma sei sempre tu che ti devi adattare alle situazioni,
alle norme, alle regole, a ciò che è prescritto. Beh, io a questo non ci credo, anche se ormai il
mondo va così, perché tatticamente tu puoi anche utilizzare delle strategie di adattamento, appunto
la critica marxista ci ha insegnato la differenza tra le tattiche e le strategie. Allora, nella strategia del
mio cammino esistenziale, anche perché è parte di me, cioè della mia soggettività e del mio modo
d'essere, io non posso distaccare il cervello, e non posso rinunciare a cercare di trovare un mio posto
nel mondo che però non sia il posto per sistemarmi, ma sia un punto dove riconoscermi, dove
stabilire delle relazioni, dove poter sviluppare valori e modi differenti. Però, questa è un po’
un’utopia. Come diceva Mafalda, mi sento nella condizione di “fermate il mondo voglio scendere”:
questo potrebbe essere il mio ultimo slogan!

- Romano, anche in riferimento a questa ricerca, ha formulato un’importante ipotesi, soprattutto


rispetto all’operaismo politico, ritenendo che esso si sia mosso all’interno di un particolare
poligono, cercando di fare i conti con i suoi vertici, in parte riuscendovi ma soprattutto non
riuscendovi, e da questo si può ripartire per pensare ai nodi aperti nel presente. I vertici in
questione sono costituiti dagli operai e dalla loro soggettività alquanto trascurata se non
rimossa quasi da tutti; dalla cultura, in fondo rimasta quella umanistica di tradizione
desanctisiana-crociana-gramsciana; dalla politica e dal politico; dalla questione generazionale
e giovanile; e infine dalle donne. Nella tua analisi emergono dei nodi, in parte riferibili alla
suddetta ipotesi, anche se in forme differenti: la soggettività, la questione generazionale e
giovanile di cui ti sei occupata parecchio e che continui a seguire nelle ricerche, il discorso
della formazione, quello della politica e quello delle donne.

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C’è una cosa importante. E’ come se la razionalità strumentale avesse vinto non già sul piano della
colonizzazione del quotidiano di cui parla Habermas, ma avesse vinto proprio sul piano della
formazione e della costituzione della soggettività. Quindi, non è una colonizzazione del quotidiano
inteso come ambiente, ma è un processo costituzionale dell’io, della soggettività e delle sue attese,
delle sue tensioni e dei suoi progetti. Tutto oggi è in funzione della razionalità strumentale. Secondo
me una grossa battaglia, per esempio, che le donne hanno perso è il fatto che si sono emancipate sul
mercato, ma hanno profondamente pagato questo sul piano della loro sudditanza e della loro
strumentalizzazione sui rapporti. Ancora oggi una donna è considerata come merce di un corpo
gradevole, che quando smette di essere gradevole, e quindi per esempio oltrepassa un certo numero
di anni, immediatamente viene messa da parte perché non più considerata produttiva, per amore, per
sentimenti o per sesso, mentre per l’uomo anzi più passano gli anni, più avendo accumulato soldi e
potere, questo crea un fascino e riesce a crearsi altri rapporti: questo è un esempio banalissimo ma
lo vediamo dall’impiegato agli amori di Cesare Romiti. E’ proprio il principio della razionalità
strumentale. Quando io facevo Filosofia mi ero molto innamorata di un principio di Kant, che mi
pare fosse il secondo imperativo kantiano, lo dico sempre ai miei studenti: l’uomo non deve mai
essere strumento dell’altro uomo. E nello strumento c’è lo sfruttamento economico, di lavoro, ma
anche l’uso strumentale dell’altro per fini tuoi. Ecco, mi pare che questo sia proprio contraddetto
oggi pesantemente, nel senso che domina una razionalità strumentale, anche ingenua. Un ultimo
esempio: ho visto un programma televisivo in cui c’erano elle interviste agli operai della Fiat di
Melfi prima delle elezioni, era Suscià, una di quelle inchieste dove c’era Santoro. Questi operai,
iscritti alla FIOM, dichiaravano o discutevano, alcuni lo dicevano apertamente, del fatto che
potevano votare Berlusconi. Allora, il problema non è morale, detto tra di noi io non credo che ci
fosse stata questa differenza epocale tra il votare un polo e il votarne un altro. Ma è interessante il
processo di costituzione della soggettività e la rappresentazione, vale a dire: sei in una condizione di
difficoltà, con rapporti di lavoro a termine e quindi usi un sindacato che pensi essere il sindacato più
forte; poi però in politica voti per “Silvio facci sognare”. Il tutto all’interno di un percorso di
piccolo raggio di razionalità strumentale, in cui ogni volta vedi quello che ti conviene di più, ma
non tarando mai la tua collocazione in quel momento e quanto in quel momento potrebbero essere
utili altre alleanze o altri impegni. Ciò anche da quando il sindacato ha smesso di essere un punto di
riferimento per i lavoratori nelle loro richieste di difesa materiale degli interessi. Ormai si sa che ci
sono moltissimi giovani, in questa esperienza del bresciano ad esempio, che non ne vogliono
neanche sentir parlare di sindacato, privilegiano nettamente un discorso di contrattazione
individuale. Parimenti a questa secessione dei giovani dal sindacato, corrisponde un sindacato che
sempre meno ha voglia di fare gli interessi materiali dei lavoratori. E quindi a questo punto si hanno
due comportamenti che sembrano divaricarsi, mentre in realtà sono esattamente paralleli e si
saldano nel fatto che oggi le tue condizioni di lavoro sono fatti tuoi, e se sei sfigato finisci male, se
vai a lavorare tre mesi e quello ti licenzia, va beh, il mondo è così, arrivederci e grazie. Al sindacato
ti iscrivi solo al massimo per farti la dichiarazione del modello delle tasse o se tuo nonno va in
pensione per andare a chiedere di seguire la pratica. Secondo me, è proprio il predominio di questa
razionalità strumentale nei processi di costituzione dell’io; e quindi anche con suoi utilizzi molto
meno nobili di quelle che sono le analisi francofortesi o postfrancofortesi. Sono all’interno di
piccole traiettorie, e non credo che la soluzione sia quella che il mio amico Marco Revelli vede nel
no profit o nel privato sociale. Possiamo parlare di affreschi e di utopia e di illusioni perché, per
carità, di illusioni anche si vive, e di affreschi utopici ne abbiamo proprio bisogno, perché aver
sotterrato la bandiera dell’utopia è stato un tragico errore secondo me. Però, non puoi dire che
rispetto a questo la soluzione sono delle piccole isole di economia informale, perché tra quelle
piccole isole di economia informale quelle che reggono sul mercato sono poche, e per quanto
riguarda quelle che si inseriscono nel privato sociale credo che tutti abbiano ben presente i saggi di
supersfruttamento che in esso ci sono con le cooperative, diciamo la verità.

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- Se questo è il quadro, con questa colonizzazione della soggettività e un profondo incidere sui
suoi processi di costituzione, come si potrebbe guardare a delle ipotesi di rovesciamento, ossia
di possibile fuoriuscita da questa accettata dimensione capitalistica che oggi è sicuramente
vincente?

Non lo so, perché secondo me si dovrebbe ripartire dai luoghi di vita associata del quotidiano, in
quanto certo non possiamo fare i testimoni di Geova numero 2 e andare alle case! Però, è molto
difficile, perché oggi, sul piano degli obiettivi, l’interlocutore che tu ti trovi di fronte è il famoso
equivalente universale del processo di mercificazione, cioè il denaro. Oggi tu devi contrastare come
interlocutore quello che da mezzo si è trasformato in obiettivo, che è il denaro, e che investe anche
fasce del proletariato e del sottoproletariato. Dicevo prima di quelli che ti dicono “pochi, maledetti e
subito”, “meglio in nero oggi ma ne ho un po’ di più che non avere garanzie”. Quando si dice che
siamo all’interno di una società del consumo si indica proprio il fatto che oggi sembra che la
soggettività e il protagonismo sociale si esprima solo attraverso atti di consumo; e questi atti di
consumo vengono visti in funzione del denaro che si possiede o si può possedere. E allora questo,
proprio perché il denaro è un equivalente universale astratto, rende anche più difficile all’interno
delle aree di vita sociale collettiva trovare degli obiettivi e dei punti che creino unione. Basterebbe
pensare alla questione ambientalista, alle mobilitazioni collettive che sono avvenute negli ultimi
anni: abbiamo alcune mobilitazioni che, con buona pace di Bonomi e della sua liturgia del leggere i
comitati civici e i comitati di quartiere, molti sono stati apertamente xenofobi, si pensi a tutta
l’esperienza dei comitati di quartiere in varie città, lui aveva studiato quelle di Milano, altro che le
comunità solidali! Quindi, abbiamo avuto una grande presenza di protagonismo dei cittadini o in
chiave xenofoba e razzista o comunque di chiusura verso gli altri, oppure su questioni ambientaliste
o ecologiche o di ecologia sociale, dove però il problema era “voglio migliorare la mia zona e non
voglio avere nessun elemento che mi disturbi”. Allora, tutti vogliono che i rifiuti siano smaltiti ma
nessuno vuole avere la discarica, nessuno accetta che ci sia vicino a casa sua una comunità per le
persone sieropositive o malate di Aids. E quindi noi abbiamo trovato in questi anni un
protagonismo sociale, per esempio legato alle zone urbane, che è stato un protagonismo più
all’insegna della chiusura, più sul modello leghista, che non all’insegna di apertura, o di una
progettualità che tenesse conto anche delle differenze e delle aree di disagio, mentre al massimo
l’unica progettualità in positivo era “vogliamo i giardini”. Per cui non la vedo facile.

- Quali sono stati i tuoi numi tutelari, ossia le principali figure, autori e persone che ti sono stati
di riferimento nell’ambito del tuo percorso e quelli che ritieni oggi più importanti nella lettura
del presente?

Marx, ma soprattutto Rosa Luxemburg. Diane Di Prima della Beat Generation, Gregory Corso più
ancora di Kerouac e di Allen Ginsberg. Nietzsche. Joan Baez e Bob Dylan che mi hanno fatto
scoprire la guerra in Vietnam quando non sapevo nemmeno dove fosse. Adesso vado per ordine,
perché ce ne sono tanti. Rimbaud. I Velvet Underground. Sto seguendo le fasi della vita. Bob
Marley. In questo momento mi viene molto meglio la musica perché sto lavorando su questo. Se
devo poi pensare a persone del movimento mi viene in mente Primo Moroni, Romano Alquati,
Sergio Bologna, Marco Revelli, poi ce ne sono altri, ad esempio i portuali di Genova della
compagnia, quello che allora era il Collettivo Operai Portuali. Sto senz’altro dimenticando molta
gente. Poi ci sono tutte le persone che ho conosciuto nelle fabbriche, dei quadri meravigliosi, dovrei
dire centinaia di nomi. Io poi ho vissuto tra Alessandria, Torino, Milano e Genova, quindi sono
veramente tanti. Queste persone qua mi sono venute in mente perché ne abbiamo parlato oggi, però
ne dimentico sicuramente moltissimi. La Comunità di San Benedetto, don Gallo. Per quanto
riguarda i riferimenti, ho detto prima di questo filone che è la Beat Generation, un certo tipo di rock
come quello dei Velvet Underground; tra i Beatles e i Rolling Stones io ovviamente amavo i
Rolling Stones. E Marx, Rosa Luxemburg e Nietzsche perché sono quelli che ho letto prima, che mi

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hanno dato molte chiavi. Sulla globalizzazione dovrei partire dalla Monthly Rewiew, da Il capitale
monopolistico di Sweezy. Dovrei partire da Samir Amin e dalle sue prime riflessioni. Sul rapporto
tra comportamenti economici e comportamenti sociali dovrei dire Hirschmann. Dovrei parlare
dell’inchiesta operaia di Marx; dovrei dire la bellezza del lavoro sulla soggettività di Danilo
Montaldi. E un altro lavoro molto bello, di far parlare la soggettività anche quando questa è sepolta,
è quello di Stefano Merli sulla formazione del proletariato industriale all’inizio del ‘900. Sohn-Retel
sul lavoro manuale e il lavoro intellettuale. Mi sono piaciute molto alcune cose di Gorz, altre meno,
alcune suggestioni. Uno che mi fa capire la gente è Tiziano Sclavi, non solo con Dylan Dog ma
soprattutto con i suoi romanzi. Però, sto saltando da una parte a un’altra, è veramente difficile citarli
se non sono legati ad un periodo, anche perché, a seconda delle cose di cui mi occupo, ci sono degli
autori e dei filoni più importanti. Per quanto riguarda l’alfabetizzazione politica, Gramsci l’ho
scoperto tardi, e secondo me non l’ho mai letto bene, dovrei rileggerlo; ho poi riscoperto Gramsci
attraverso la scuola di Birmingham, e lì ho compreso che non l’avevo capito bene.

- Sui nodi che hai individuato come aperti e centrali nel presente, secondo te quali autori
possono essere significativi, anche attraverso un loro uso critico?

Per esempio, su questi cambiamenti antropomorfi dell’individuo secondo me l’autore in questo


momento più fertile è Bauman: a mio avviso è l’intellettuale che descrive in modo più corretto
questo tipo di processi, tra privato e pubblico. Un altro autore interessante è Beck, con tutto il
discorso sul rischio. Sulle trasformazioni del lavoro Rifkin mi sembra talvolta un po’
impressionistico e giornalistico, ossia ci sono alcune analisi interessanti, però alle volte tirate via e
un po’ mascherate e poi suffragate da una serie di statistiche molto all’americana, che però non ti
danno conto delle contraddizioni e della complessità dei processi. Poi adesso su questi temi sono
proprio mie osservazioni sparse, non è che stia lavorando esplicitamente per leggere o studiare
questo: anzi, in un certo senso riprendere in mano dei testi per ripensare una teoria politica è una
cosa che mi metterebbe un certo disagio, non me la sentirei, mi sembrerebbe di prendere in mano la
Corazzata Potemkin.

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INTERVISTA A MARIO TRONTI – 8 AGOSTO 2000

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e quali sono state eventuali
persone e figure di riferimento nell’ambito di tale percorso?

E’ una storia che è stata in parte già raccontata, con studi che sono stati fatti sui Quaderni Rossi e su
quel gruppo che poi diede vita a quell’iniziativa intorno a Panzieri. Il mio percorso veniva da luoghi
che non erano molto usuali nel gruppo, perché la mia formazione politica è stata all’interno del
Partito Comunista, fin da giovanissimo c’è stato l’incontro con l’organizzazione comunista
nell’università, con un gruppo che poi è rimasto abbastanza unito, ancora oggi è un esempio di
amicizia stellare per esempio con personaggi come Asor Rosa, come Rita Di Leo, come Umberto
Coldagelli, con i quali facciamo ancora gruppo anche se non politico ma sicuramente amicale. Rita
era un po’ più giovane, ma tutti gli altri eravamo iscritti nella facoltà di Lettere dell’università di
Roma, nella cellula comunista, dove è avvenuta questa formazione politica e anche teorica, perché
poi lì abbiamo incontrato un tipo di marxismo che era diverso da quello ufficiale, da quello
ortodosso di allora, da quello che, almeno in quello comunista, ruotava intorno alla tradizione
soricistica, idealistica, gramsciano-crociana, desanctisiana: invece noi avemmo la fortuna di
imbatterci nel marxismo di Della Volpe (anche questo in alcuni saggi è stato molto richiamato), che
è un marxismo antistoricistico, materialistico, che teorizzava una rottura tra Marx e Hegel, non una
continuità. Questo era un marxismo molto aperto, che ci dava già un’indicazione di ricerca oltre le
cose acquisite in quella fase, in quel periodo. Io ho trovato abbastanza naturale questo incontro, del
resto l’essere comunisti veniva già da prima, io vengo da una famiglia romana, di popolo romano,
dove c’era già l’antifascismo, il comunismo prima della fine del fascismo stesso; c’era anche una
fondazione di tradizione popolare anche se romana, quindi un po’ generica, non specificamente di
classe. Infatti, è un percorso che per me è stato importante e lo è stato anche per altri cosiddetti
romani, quel gruppo che fece i Quaderni Rossi, perché il problema per noi fu un po’ quello di
liberarci da questa origine popolare per incontrare un terreno di classe specifico come quello
operaio, che noi dicevamo che era un po’ il salto da Roma a Torino. Questo è stato molto
importante perché fu una specie di emancipazione da un certo populismo ma non nell’accezione
odierna, gli studi che poi fece Asor Rosa sulla tradizione populista della letteratura italiana
parlavano un po’ anche di questo; ciò si incontrò appunto con questa forma di marxismo critico che
era quello di Della Volpe.
Un momento fondamentale di passaggio fu per me e anche per questi altri il ’56, perché ci fu il
grande shock all’interno di quella tradizione comunista, la scoperta di una realtà sovietica e del
socialismo diversa da quella che immaginavamo; fino al ’56 eravamo tutti stalinisti, però non nel
senso dello stalinismo come poi lo si è inteso, ma nel senso dell’adesione totale a quella forma di
esperimento e di esperienza. In quel momento cominciò appunto la critica di quella forma di
esperienza e anche ciò, insieme a quella forma di marxismo, permise una grande apertura mentale.
Anche lì ci fu disaccordo con l’ufficialità del PCI (anche questo è stato raccontato), all’università ci
fu questa presa di posizione a favore del nuovo corso, a favore della destalinizzazione, a favore poi
anche degli insorti ungheresi. Quindi, ci fu una prima grossa rottura con il PCI che ci portò a
cercare altre strade, altre vie. Dopo il ’56 ci furono degli anni molto di ricerca che approdarono
all’incontro con Panzieri, che era questo personaggio abbastanza centrale in quella fase, perché era
una personalità anche ambigua, veniva dal Partito Socialista, dalla sinistra socialista, lo
conoscemmo come direttore di Mondo Operaio, attraverso le tesi sul controllo operaio che scrisse
con Libertini. Insomma, ci fu un incontro anche umano, perché è un personaggio di grande umanità,
quando era a Roma e soprattutto poi quando da lì si spostò a Torino, in quanto con la sua rottura
con il Partito Socialista andò a lavorare da Einaudi. Ed è in fondo attraverso lui che cominciammo a
frequentare Torino, quel tipo di realtà di classe e quel tipo anche di sensibilità ai problemi operai.
Formammo un po’ quello che si dice il gruppo romano dei Quaderni Rossi, perché poi, ripeto,
intorno a Panzieri e a Torino c’era già questo gruppo di ricerca sociologica e noi arrivammo

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portando appunto questo altro tipo di esperienze, questo altro tipo di marxismo, questo altro tipo di
origine anche politica. All’inizio ci fu un buon amalgama, nel senso che c’era un completarsi a
vicenda di queste esperienze diverse, soprattutto intorno a Panzieri, soltanto in seguito vennero
fuori alcune difficoltà: la prima fase dei Quaderni Rossi è una fase nascente, molto entusiasta, di
scoperta. Lì trovammo anche questi personaggi che invece venivano da altre esperienze che non
erano né quelle nostre né quelle torinesi, i quali erano rappresentati soprattutto da Romano Alquati,
da Gasparotto, dal nucleo diciamo più milanese e lombardo che torinese e piemontese; loro avevano
maggiormente una vocazione a una ricerca sul campo meno sociologica e più politica.
Io insito molto sul fatto che per quanto mi riguarda (questo poi si sentirà anche in seguito nello
sviluppo del percorso successivo alla fase dell’operaismo) c’era una cosa che in fondo distingueva
me anche dagli altri, da quelli che verranno dopo, Toni Negri, il gruppo di Porto Marghera: io ho
fatto l’esperienza dell’operaismo dentro la tradizione comunista, questo è il punto vero della cosa,
l’ho concepita lì dentro a differenza di altri, forse di tutti gli altri. Perché poi anche altri dello stesso
gruppo romano, che pure erano iscritti alla FGCI e poi al PCI, come Asor Rosa, avevano un legame
più debole, tanto è vero che poi loro nel ’56 praticamente quasi tutti uscirono dal PCI mentre io vi
rimasi, Asor Rosa andò nel PSI poi nel PSIUP e ritornò solo in seguito nel PCI, altri non ci
tornarono più. Io ci rimasi e ci rimasi sempre, anche quando facevo Quaderni Rossi, interruppi il
rapporto anche di iscrizione con il PCI soltanto nella fase di Classe Operaia, quando ne diventai
direttore nel 1964. Non tanto la Direzione quanto i compagni della sezione, su indicazione del
centro, mi dissero che c’era un’incompatibilità tra presenza nel PCI e la direzione di una rivista
come Classe Operaia; quindi, non fui nemmeno né espulso né radiato, ma decidemmo che sarei
stato fuori per il periodo in cui durava questa esperienza, infatti sono stato fuori qualche anno, fino
a quando è durata l’esperienza di Classe Operaia, poi sono tornato nel PCI. Questo è il tratto che io
considero fondamentale, perché la mia è appunto una formazione non operaista, non di gruppo, non
di minoranze agenti, non di militanza antagonistica, ma è una formazione profondamente
comunista; quindi, se dovessi trovare un’identità di riconoscimento la troverei tutta là dentro.
L’operaismo per me è stata una cosa fondamentale, un’esperienza soprattutto politico-intellettuale
che ha voluto e tentato di piegare la tradizione comunista su un terreno e su un segno più fortemente
di classe, più fortemente operaio; ma il tentativo era proprio di piegare quella tradizione lì, e da
questo si capisce anche poi perché il percorso successivo è stato di un certo tipo. L’operaismo è
stata una fase, dopo c’è stato un percorso che ha segnato anche una fuoriuscita da quell’esperienza,
la ricerca di altri luoghi anche di pensiero, di teoria, come la famosa fase con il discorso sul politico
e via dicendo.

- Quali sono state, secondo te, le ricchezze e i limiti dei Quaderni Rossi e di Classe Operaia?
Qual è la tua analisi e il tuo giudizio politico su queste due esperienze?

Voi usate questi due bei termini, ricchezze e limiti, è giusto parlarne in questo senso. Ricchezza sì,
fu una grande esperienza, intensa, molto concentrata nel tempo, come io poi penso che sempre le
esperienza debbano essere, fu concentrata ma appunto molto densa. Fu un’esperienza, oggi sì,
fondamentalmente intellettuale, questo fu poi il senso, io almeno la intesi così, della conricerca che
ci fu allora, anche se poi c’erano diverse accezioni della cosa, della frase, del metodo: era un
metodo anche di analisi, credo che Romano stesso la concepisse come una forma metodologica
dell’analisi. Per me conricerca voleva dire una ricerca di intellettuali e di operai insieme, allo stesso
titolo, allo stesso livello, quasi come un incontro alla pari: l’esperienza dei Quaderni Rossi
soprattutto (perché Classe Operaia poi ebbe qualche sfumatura secondaria e diversa) fu
fondamentalmente questo incontro di un gruppo di intellettuali di sinistra con l’esperienza operaia.
Quindi, una ricerca intellettuale che si incontrava con una realtà operaia che tra l’altro era in grande
movimento, in grande sommovimento, poi anche lì tutto è stato detto, ma insomma era uno stato
nascente di una nuova classe operaia , quella che irrompe nella società italiana dalla fine degli anni
’50 ai primi anni ’60, dentro un grande processo di ristrutturazione capitalistica, quello che si disse

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il neocapitalismo; fu uno spostamento forte anche della società italiana che trovava un centro
nell’industria, il famoso passaggio in fondo a un capitalismo industriale che forse si realizza
soltanto in quegli anni, non si era realizzato prima. Fu una vera e propria rivoluzione industriale in
Italia con tutto quello che comportava, spostamento dal Sud al Nord, immissione di giovani forze
operaie, i giovani operai che studiavano appunto Romano e gli altri nei primi numeri dei Quaderni
Rossi, la giovane classe operaia che poi erano gli immigrati del Sud che arrivavano lì con una carica
dirompente di voglia, di conflitto, freschi, disponibili, irriducibili, quantitativamente molto
consistenti, era una fase in cui gli operai non solo erano forti ma erano anche tanti. Quindi, c’era
questa realtà operaia fresca con un’intellettualità anch’essa fresca perché appunto liberata dai pesi
tradizionali culturali di un vecchio marxismo. Dunque, è quello che fu l’incontro tra un nuovo
marxismo e questa nuova classe operaia, ciò fu fondamentalmente l’esperienza dell’operaismo
italiano. Anche se non tutti la declinavano così perché, ripeto, dentro il gruppo dei Quaderni Rossi
c’era questa parte di sociologi non marxisti, mi ricordo che la disputa era se partire da Marx o
partire da Weber, poi la risolvemmo dicendo “partiamo da Marx Weber invece che da Max Weber”
e partimmo da Marx Weber, trovammo una sintesi. La ricchezza fu questa, con una differenza per
quanto riguarda la fase dei Quaderni Rossi, che partì con una grande enfasi sul momento anche
dell’analisi, della conricerca e poi ben presto fu tirato dentro le lotte stesse: infatti, se il primo dei
Quaderni Rossi è del ’61, già nel ’62 ci fu la grande fase della lotta contrattuale dei metalmeccanici,
che fu uno dei momenti più alti della lotta operaia in Italia. Tra l’altro ciò avvenne con il ritorno in
campo degli operai Fiat nelle lotte contrattuali, cosa che non succedeva dal ‘53-’54, dalla famosa
sconfitta della FIOM nelle elezioni delle Commissioni Interne, quando gli operai Fiat non
partecipavano più alle lotte contrattuali, noi teorizzavamo poi che questa passività operaia non era
passività ma era anche quella una forma di lotta ecc. Però, la grande esperienza del ’62 la vedemmo
e fu una cosa a cui assistemmo anche visivamente, andando lì, partendo da Roma alla sera per
trovarsi alla sei di mattina davanti alle fabbriche della Fiat, dove questa grande irruzione operaia
costrinse poi i Quaderni Rossi ad un atteggiamento anche più di intervento. Infatti, c’è quel famoso
volantino dei Quaderni Rossi nel ’62, che non è un saggio o un articolo ma è un proprio un
volantino rivolto agli operai: si discusse parecchio, è molto interessante avere i verbali delle
riunioni perché ricordo che ci fu una discussione se passare a queste forme di intervento, se era
giusto che una rivista passasse a queste forme di intervento diretto nella lotta rivolgendosi
direttamente agli operai, con tutto quello che ciò comportava, la prima cosa che avvenne fu un forte
attrito con i sindacati. Decidemmo quindi di fare questo volantino, mi ricordo che votammo proprio,
Raniero chiese chi era d’accordo a fare il volantino, lo facemmo e naturalmente questo ci mise in
contrasto con la FIOM; credo che fosse una delle prime forme di intervento di un gruppo di
intellettuali a livello di lotte di classe forse dopo gli anni ’20, era allora inconcepibile che non fosse
un sindacato che si rivolgesse agli operai, che un gruppo di persone andasse lì a dire “operai, fate in
questo modo ecc.”. Ecco, quello fu un momento in cui poi infatti Quaderni Rossi fece anche
Cronache dei Quaderni Rossi, che era una forma più ravvicinata di racconto delle lotte, anche di
intervento nelle lotte. Poi naturalmente su questo tipo di intervento cominciò un’evoluzione anche
interna, questo ci implicò ovviamente dentro ai fatti di Piazza Statuto, l’accusa era di aver
fomentato quelle violenze, quindi ci fu un momento di attacco dall’esterno contro il gruppo che fece
un po’ esitare molti. Da lì cominciò una dialettica interna tra chi voleva accentuare l’elemento
dell’intervento nelle lotte e chi voleva invece rimanere più su un livello di analisi ed è quello che
poi portò alla famosa rottura interna dei Quaderni Rossi e quindi alla creazione di Classe Operaia;
questa era fatta dal gruppo romano con Alquati, con Gasparotto, con Toni Negri ecc. contro il
gruppo dei sociologi torinesi che rimase con Panzieri a fare quegli ultimi numeri di Quaderni Rossi
che sono stati molto più accademici dei primi. Insomma, la ricchezza è stata quella di un incontro
storico tra una certa forma di cultura e soprattutto una certa forma di marxismo e questa realtà
operaia.
Per quanto riguarda i limiti io ne ho ragionato a lungo, però non ancora in modo esaustivo e
definitivo, infatti adesso, se farò l’introduzione a questi volumi di raccolta dei materiali, voglio

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finalmente tracciare un profilo se non definitivo certo importante. Ne ho accennato in vari modi in
altre cose, in altri discorsi, la mia idea è che ci siano stati i limiti soggettivi costituiti dal fatto di
essere gruppo, che è un limite oggettivo e invalicabile, almeno per me lo è stato sempre: io non
credo che nelle grandi lotte o nelle grandi fasi della storia si possa agire come gruppo, io non ho mai
aderito a quelli che poi saranno i gruppi, i quali poi si sono moltiplicati. Qui c’è una gran
confusione, adesso io con questa idea che dice “Quaderni Rossi e Classe Operaia punto” intendo
dire che poi dopo comincia un’altra storia, che è la storia appunto dei gruppi e che non ha niente a
che vedere con queste prime esperienze di quello che io chiamo l’operaismo politico degli anni ’60,
che è l’operaismo di Quaderni Rossi e di Classe Operaia. La storia che sta a cavallo ma soprattutto
che segue il ’68 è quella dei gruppi minoritari, di Lotta Continua, di Potere Operaio
fondamentalmente, che è quello che più ha rivendicato l’eredità dell’operaismo, ciò a torto, perché
non c’è nulla o c’è pochissimo in comune; io non sono mai stato né in Lotta Continua né in Potere
Operaio, anche se certe volte si fa confusione, alcuni mi dicono “ah, tu eri in Potere Operaio”, ma
quella era l’esperienza dei gruppi, di Avanguardia Operaia, di queste cose che subito hanno assunto
una dimensione (anche determinata dai tempi) anti-politica, anti-partitica, questi gruppi più
andavano avanti e più trovavano come loro avversario principale le organizzazioni del Movimento
Operaio, per una dialettica interna tipica dei gruppi che più si sviluppano, più si chiudono e più si
incanagliscono in un contrasto che non è quello giusto. In Quaderni Rossi e Classe Operaia era
molto visibile il quadro dello scontro e del conflitto, che era operai e capitale, per dire una formula
quello era; questo poteva anche creare un conflitto appunto con i sindacati, con i partiti della
sinistra, però quella era una cosa che veniva in seconda istanza e non per scelta nostra ma semmai
per scelta delle organizzazioni. Invece molto spesso questa attività di gruppo, che è quella che ha
fatto sì che io non abbia mai avuto molto a che fare, era il contrario, cioè si perdeva il conflitto vero,
di sostanza, di classe per spostarlo su un conflitto contro le organizzazioni del Movimento Operaio.
Questo ebbe conseguenze devastanti che non a caso poi hanno portato alcuni (anche in buona fede,
io riconosco tutta l’onestà di queste persone) a prendere le decisioni estreme della lotta armata, del
terrorismo, che anch’esso aveva lo stesso tipo di logica, la quale vedeva il nemico principale nelle
organizzazioni, spostando ciò addirittura su un terreno di violenza che era del tutto estraneo, era
impensabile al tempo dei Quaderni Rossi e di Classe Operaia. Qualcuno ci ha indicato come cattivi
maestri, ma che non ci fosse una continuità era chiarissimo, per me lo è sempre stato, anche quando
in Operai e capitale si usano quelle frasi che poi sono state prese come etichetta, le quali sono
un’analisi: “poi tutto questo non sarà senza il massimo della violenza”; ma nessuno mai pensava a
una violenza di tipo terroristico, anarchico, individualista, la violenza era quella delle masse, la
violenza rivoluzionaria di forze organizzate, era la violenza rivoluzionaria che si esplica in grandi
atti, che muove masse intere, non quella che si va sparacchiando qua e là, questa era nella tradizione
anarchica e quindi non aveva niente a che vedere. Il limite di quella esperienza è che in parte poi è
stata anche un po’ responsabile di queste derive, in alcune teorizzazioni che poi se non al terrorismo
sono arrivate ad altre forme di violenza, come quelle dell’Autonomia che è anch’essa un’altra cosa.
Ecco perché io dico l’operaismo politico.
Però c’è una considerazione più di fondo, a cui ho accennato anche in altre cose per indicare il
limite dell’esperienza, anche nel mio ultimo libro, La politica al tramonto, nel primo saggio ci sono
degli accenni a ciò: l’idea mia è che noi, per entusiasmo giovanile, per esuberanza intellettuale,
molto giustificata e di cui non mi pento, anzi sono cose belle lo stesso anche se sbagliate, fummo
vittime di un’illusione ottica. Lo dico con un’immagine perché ormai penso che bisogna usare nel
momento della scrittura, a cui tengo molto, anche le armi della metafora: il rosso c’era nella
situazione di quel tempo (la metafora era questa), però non era il rosso dell’aurora ma era il rosso
del tramonto. Quella fase lì di lotte operaie degli anni ’60, che noi pensavamo aprisse una stagione
di grandi lotte che avrebbero portato a un cambiamento profondo e che quindi fossero un punto di
partenza, tanto è vero che tutto il tentativo era di convincere le organizzazioni del Movimento
Operaio a prendere la guida di questo movimento per portarlo avanti, in realtà era un colpo di coda,
era un finale scintillante di una storia operaia che tra l’altro era debitrice a questa figura

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straordinaria che allora era centrale, era vincente, quella dell’operaio-massa, che è legata a quella
grande stagione del fordismo e prima ancora del taylorismo e prima ancora del keynesismo. Noi
trovammo quella costellazione e fu una scoperta lancinante quella di vedere che c’era stata questa
grande sintesi: Taylor come rivoluzione del processo lavorativo, Ford come rivoluzione anche del
mercato non solo della produzione di massa, e Keynes, cioè le grandi politiche capitalistiche di
welfare. Era un blocco potentissimo che noi vedevamo potente anche allora, però passibile di essere
sconfitto da questa grande soggettività operaia che questo blocco aveva evocato, aveva fatto
emergere. Noi dicevamo: “ecco, queste sono le due grandi forze, questo blocco capitalistico è
potente però questa soggettività operaia è altrettanto potente, questa è la lotta vera che si svolgerà
nei prossimi anni, non è deciso chi vincerà e comunque noi siamo dentro questo tipo di lotta”. In
realtà quella soggettività operaia per un verso non ha avuto la forza di svilupparsi e secondo me il
mancato sviluppo è stato un mancato sviluppo politico. Io, anche allora, anche dentro l’esperienza
dell’operaismo (e questo è documentato da tanti testi), non sono mai stato uno spontaneista o, per
dirla con un altro termine, non sono mai stato luxemburghiano, come lo era in parte molto Panzieri,
che credeva parecchio alla forma dell’auto-organizzazione; io (e qui ritorna la mia formazione
comunista) sono stato leninista, ho sempre pensato e continuo a pensare che senza una direzione
politica nessun movimento sociale vince, di questo non ho avuto smentite. E il motivo per cui poi
alla fine questa soggettività operaia non ha vinto, non ha sfondato è che non ha trovato la direzione
politica, quindi semmai la responsabilità anche delle organizzazioni operaie è stata questa, di qui
poi tutta la mia attenzione negli anni seguenti a questo maledetto problema del politico. Io a un
certo punto ho capito che quello era il blocco, che lì non si sfondava e dovevamo risolvere quel
punto, quel punto della mediazione politica che non si poteva lasciare in mano agli altri,
all’avversario di classe, perché se solo l’avversario di classe usa la mediazione politica e la
soggettività operaia no non c’è partita. E infatti non c’è stata partita, c’è stata la sconfitta operaia,
perché lì bisognava ricreare quel blocco che dall’altra parte era stato creato, cioè processo
lavorativo rivoluzionato, attenzione per un’altra forma di produzione delle nuove forme di mercato
e nello stesso tempo grandi politiche, che è poi la politica roosveltiana, keynesiana, che manovrava
le leve dello Stato, le leve politiche; mentre di qua si è trovata una soggettività operaia praticamente
disarmata, non politicamente armata. Non a caso poi lì da un lato le organizzazioni del Movimento
Operaio sono andate per conto loro sempre più dentro ad un’idea gestionale, il mito che poi si è
anche realizzato fino ad arrivare a governare le cose; e dall’altra parte la divaricazione dei gruppi
che spingevano avanti ma in modo disordinato, non politico. Quindi, il limite di quella esperienza fu
che non riuscimmo ad attuare noi, a mettere in moto noi quel circuito virtuoso tra lotte,
organizzazione (e non auto-organizzazione) e possesso del terreno politico. Io me ne accorsi a un
certo punto di Classe Operaia: prima dicevo che le esperienze devono essere brevi, Classe Operaia
nasce nel ’64 e nel ’66 già chiude, e chiuse per mia iniziativa anche se tutti gli altri volevano
continuare, poi ci si abitua a queste esperienze, ci si affeziona, uno continuerebbe in eterno. Ma mi
accorsi a un certo punto che prendeva questa piega che io non sopportavo, cioè che questo giornale
faceva gruppo, diventava un gruppuscolo minoritario, sempre più sganciato e senza nessuna
capacità di intervento sulla politica in generale e sulle organizzazioni politiche, diventava
autoreferenziale. Dunque, mi accorsi proprio del pericolo che correvamo e anche questo ha avuto
una conferma perché poi infatti subito dopo è cominciata l’epoca dei gruppi, perché c’era questo
bisogno.
Una ricchezza di quell’esperienza (questo voglio sottolinearlo) fu costituita dalle straordinarie
personalità che erano coinvolte in quella cosa lì. I momenti migliori sia di Quaderni Rossi sia di
Classe Operaia erano gli incontri che si facevano nella scrittura e nella preparazione sia della rivista
che del giornale. Io dico sempre, anche ai più giovani, che non ho ritrovato più quel tipo umano di
persone, non le ho ritrovate più, successivamente sono stato di nuovo nel partito, non parliamo poi
di altri luoghi ancora peggiori, le università, gli intellettuali che sono venuti dopo; quel tipo di
persone lì è stata un’emergenza veramente miracolosa per la grande ricchezza umana, l’assenza di
ambizione, cose che oggi sembrano inconcepibili. Per quanto riguarda tutti quelli che ho incontrato

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dopo, ho sempre avuto a che fare con persone che avevano al centro della propria ambizione
personale collocarsi di qua, collocarsi di là, sia nel partito sia nella cultura: non c’era traccia di
queste robe qui in quella fase lì.

- Una parentesi su questo: tu dici che sono confluite delle personalità eccezionali, sia Quaderni
Rossi sia Classe Operaia sono stati però anche un grande momento di formazione. E’ vero che
non avevano ambizioni di collocarsi, però poi queste persone nei vari campi in cui si sono
cimentate dopo sono ancora adesso dei punti di riferimento, quindi in realtà è stato anche un
grande laboratorio di formazione.

Sì, è senz’altro vero, se uno pensa ai nomi delle persone che hanno fatto quelle esperienze e poi le
stanno ancora facendo fruttare in vari luoghi è impressionante. Per alcuni è così, ci sono poi anche
energie che si sono perse, che non si sono realizzate, ritrovate, e si è perso molto. La formazione fu
importante anche per noi, anche per me stesso, io non riesco a concepire il mio percorso senza quel
passaggio lì, non saprei capire che cosa sarei stato senza quel passaggio all’interno di quella
esperienza, proprio per la sua complessità, per il suo essere un’esperienza intellettuale però anche
un’esperienza pratico-politica, un’esperienza sociale. Poi in fondo erano tutti prodromi di quello che
dopo avvenne nel ’68; come è noto io non sono un grande ammiratore del ’68, quando esso arrivò
noi avevamo già detto tutto, avevamo già fatto tutta quell’esperienza lì. Il ’68 poi deviò su altri
luoghi, su altre tematiche, evocò altre cose, ma io quando parlo di esso affermo: “non diciamo il
’68, diciamo gli anni ’60”, perché almeno in Italia il ’68 senza gli anni ’60 non si capisce. Tanto è
vero che fu non solo ’68 ma fu ‘68-’69, per fortuna, cioè fu questo nuovo biennio rosso che poi
approdò all’autunno caldo, di nuovo una grande spallata e spinta operaia che sarebbe stata
inconcepibile senza appunto tutti i primi anni ’60 e tutta la fase di incubazione di questa esperienza
operaista.

- Io vorrei tornare sul nodo che tu hai posto dell’organizzazione e in particolare sul leninismo.
Sicuramente soprattutto in Classe Operaia ma anche nei Quaderni Rossi c’è stata una rilettura
di Lenin e una rilettura di Marx anche piegata a Lenin; dall’altra parte tu dici che il limite è
stato di non aver saputo proporre un’organizzazione, un processo organizzativo adeguato per
quel momento. Se si guarda il percorso degli anni ’60 ma anche degli anni ’70 nel bene o nel
male erano tutti leninisti sotto un certo aspetto, poi Lenin è stato buttato via come un cane
morto: in realtà non si è mai fatto i conti con il leninismo e sull’attualità ancora di un nuovo
leninismo, eventualmente su un livello politico. Mi sembra che poi sia il discorso che fai anche
nell’ultimo libro a proposito della democrazia e del movimento operaio.

Il leninismo aveva ed ha vari aspetti, perché noi allora soprattutto nei Quaderni Rossi riscoprimmo
quel Lenin che analizzava lo sviluppo del capitalismo in Russia contro i populisti, contro l’idea, che
Lenin combatté, dei populisti russi di un passaggio diretto dalla comunità contadina al comunismo
senza passare attraverso appunto lo sviluppo del capitalismo. Questo è il Lenin giovane degli ultimi
anni dell’800, che fece quei mirabili studi in cui diceva: “no, intanto in Russia c’è una forma di
capitalismo, bisogna fare in modo che si sviluppi perché soltanto sviluppando la forma capitalistica
di produzione ci sarà anche una produzione di classe operaia e quindi di un soggetto rivoluzionario
che poi sarà in grado di guidare; la classe operaia deve guidare anche il processo di
modernizzazione della Russia oltre che il processo del democratizzazione”. La grande tesi leniniana
era: “bisogna prendere la guida della rivoluzione borghese da parte operaia, anche della rivoluzione
politica borghese per portarla alle ultime conseguenze”. Quello fu il Lenin che scoprimmo: dunque,
più che il Lenin politico del partito fu quel Lenin lì, analista del capitalismo in Russia. Su questo
c’era un accordo molto forte da parte di tutti perché era il Lenin marxiano.
Anche se poi io ho avuto un ripensamento su questo tema di fondo, ciò si vede nell’ultimo libro ma
anche in alcuni testi precedenti, quelli che hanno riguardato soprattutto la teoria del politico: mi

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sembra che invece da parte nostra ci sia stata una sorta di eccessiva ortodossia marxiana. L’idea che
abbiamo coltivato anche noi (che c’era moltissimo in Quaderni Rossi e c’era molto anche in Classe
Operaia, anche se attenuata da uno spirito politico più forte, e che secondo me invece è un altro dei
limiti dell’esperienza operaista) a suo modo, io l’ho pensata così, malgrado la critica che avevamo
fatto del marxismo storicista, poi era ricaduta in una forma sia pure diversa però sempre di
stroricismo. Cioè quell’idea che noi avevamo allora molto forte, che io oggi non sosterrei più, era
che quanto più si sviluppa il capitalismo tanto più si sviluppano le contraddizioni interne al
capitalismo stesso fino alla contraddizione fondamentale, e quanto più il capitale va avanti più si
approfondisce la sua interna contraddizione fondamentale che è poi quella con gli operai: è una tesi
tra l’altro empiricamente smentita dall’evoluzione del capitalismo stesso, è un capitalismo che forse
più si sviluppa e più riesce a tenere sotto controllo le proprie contraddizioni. Ciò fino al punto di
questo capitalismo odierno che non solo tiene sotto controllo le contraddizioni secondarie, ma ha
quasi eliminato la contraddizione fondamentale. Del resto è un complesso processo che è
produttivo, sociale, politico, questo investe il tema degli sviluppi, io vedo oggi un capitalismo che
ha rimosso la centralità operaia. Ha fatto questa operazione vincente di rimuovere la centralità
politica operaia perché, visto che stiamo sempre dentro anche alle analisi di oggi, non è che non c’è
più la classe operaia, non è che non ci sono più gli operai, non è che non c’è più il lavoro industriale
salariato, non è un problema sociologico, è un problema politico: non c’è più la centralità politica
della classe operaia, questo è il dato di fondo. Ma questa non è che è caduta di per sé, c’è stata
un’operazione che l’ha rimossa attraverso una correzione anche dell’apparato produttivo, per cui il
superamento del fordismo è stato anche questo fatto politico, non è che sia derivato soltanto da
bisogni di organizzazione economica. La fine dell’età fordista ha portato con sé l’emarginazione
della figura dell’operaio-massa, questo è il dato che oggi è più impressionante, che poi fa vedere
questo capitalismo trionfante. Alla base di questo trionfalismo del capitalismo non c’è, come si
dice, la mondializzazione, queste cose che erano invece secondo me già molto implicite nella natura
del capitale stesso, lo diciamo sempre ma Marx già in quelle pagine stupende parla del capitale per
natura e per vocazione mondializzato e globalizzato, non è questa la novità, o comunque non è
questa la novità politica: la novità politica è quell’altra, che si è rimossa questa dialettica frontale.
Ma questo che cosa vuol dire? Vuol dire che appunto quella tesi lì del più avanti, l’apologia
marxiana del capitalismo che lui ha fatto fin dal Manifesto, è una cosa che noi assumemmo allora
con molta convinzione e con molto entusiasmo perché poi ci serviva, perché poi tutta la cultura del
Movimento Operaio era vecchia, pensiamo all’idea che avevano i comunisti del capitalismo italiano
come un capitalismo arretrato, e noi dicevamo loro: “ma guardate che qui sta nascendo un
capitalismo nuovo, altroché arretrato, qui c’è un capitalismo ormai avanzato, voi dovete fare i conti
con questa roba qui”. Quindi, ci serviva questa accentuazione dell’avanzare dello sviluppo
capitalistico, era una cosa molto determinata, però c’era, ripeto, una forma di storicismo, magari più
materialistica ma c’era lo stesso. Io oggi più in generale penso di aver bruciato ogni scoria
storicistica, credo almeno, per cui sono convinto che non è che ci troviamo di fronte a una storia che
va sempre avanti, dobbiamo aspettarci anche una storia che arretra, che si ferma, che rincula, e con
questo volta a volta devi fare i conti per sapere con che tipo di epoca storica sei in contrasto. L’idea
che quello che viene dopo sia comunque meglio di quello che c’era prima è una cosa che, ripeto,
credo che empiricamente sia stata falsificata dalla storia; l’idea marxiana poi che ne conseguiva
Marx la esprimeva ne “l’uomo spiega la scimmia”, cioè la società capitalistica spiega le società
precedenti, questa forma di stoicismo al rovescio anch’essa mi sembra non funzionante. In realtà
ogni epoca va colta nella sua specificità di formazione economico-sociale, ha le sue caratteristiche
che devi andare a vedere dal suo interno più che dall’esito che ha avuto.
E’ vero che il leninismo poi fu assunto anche a livello politico, per esempio alcuni gruppi almeno
furono molto leninisti anche nella concezione della politica: ma lì però era un leninismo diciamo
minore, quello del gruppo di avanguardia che guidava le masse, che secondo me non è né il Lenin
migliore né il Lenin vero. Il Lenin vero invece è quello della polemica con la Luxemburg, del
“badate bene che anche la classe operaia abbandonata a se stessa ha pericoli e vocazioni

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naturalmente socialdemocratiche e perché faccia il salto nella posizione rivoluzionaria occorre
appunto una coscienza”: allora lì c’è tutto il tema inevaso della coscienza politica portata
dall’esterno ecc. Io però in quello sono ancora abbastanza lì, credo molto nella funzione della
direzione politica anche se la concepisco come una direzione politica di masse e non di gruppi,
quindi di organizzazione di masse; anche se questi termini stessi oggi sembrano un po’ desueti,
superati.

- Entrando più nello specifico del dibattito interno ai Quaderni Rossi prima e a Classe Operaia
successivamente, qual è la tua analisi politica delle varie posizioni che in esso si esprimevano e
si rappresentavano?

Fu un dibattito acceso che andò avanti per alcuni mesi perché lì c’era un nodo da risolvere che era
proprio quello della dimensione politica dell’esperienza, se bisognasse accentuare la forma di
presenza politica di questi gruppi o se fosse invece opportuno approfondire i livelli dell’analisi. Il
che presupponeva anche un diverso giudizio sulla situazione. C’era la parte diciamo degli
impazienti, tra cui ero anch’io, che diceva: “adesso bisogna operare una svolta politica nel
movimento delle lotte, accentuare la politicità delle lotte, fare in modo che le lotte anche
contrattuali si politicizzino sempre di più; questo è il momento, c’è una spinta operaia forte,
favorevole, o cogliamo questo momento, questa opportunità oppure si perde tutto”. Dunque, questa
parte che premeva più per l’intervento diretto vedeva una situazione più matura, più esplosiva,
politicamente più avanzata. A vederla adesso da oggi probabilmente avevamo torto, nel senso che
forse la situazione era più complicata, quel tipo di lotte erano lotte contrattuali vere, forti, aspre,
però molto interne a tematiche produttive, economiche, meno politiche: quindi, la situazione era
meno matura di quanto forse la vedessimo noi nella nostra voglia di accelerare i tempi. Però, lì
questo diverso giudizio sulla situazione si rifletteva poi sul tipo di strumento che bisognava
utilizzare: questo Quaderni Rossi sembrava uno strumento ancora inadatto a una forma di contatto
più diretto a livello operaio, era la forma della rivista, usciva una volta all’anno, con dei saggi
ponderosi, anche difficili, analitici più che propositivi. Insomma, è emersa lì l’idea del giornale
operaio, infatti il sottotitolo di Classe Operaia era mensile politico degli operai in lotta: era uno
strumento più ravvicinato, questo era un po’ il problema, se ravvicinarsi al livello della classe,
stabilire un rapporto più diretto, o se tenere invece una distanza a livello analitico. Questo provocò
una differenza proprio di vedute che poi risultò impraticabile tenere all’interno dei Quaderni Rossi.
L’idea del giornale politico presupponeva anche una forte capacità di cronaca delle lotte stesse,
infatti poi Classe Operaia sarà molto un giornale che racconterà le lotte, con qualche ambizione
forse eccessiva perché non voleva limitarsi alla situazione italiana, voleva guardare un po’
all’Europa, quindi voleva estendere lo sguardo alle lotte operaie nel continente; e con un’idea anche
di intervento politico, cioè nella vita politica, nel dibattito politico anche formale, infatti c’erano
quei trafiletti polemici nei confronti o del Movimento Operaio o della politica governativa.
Dunque, il problema era se accentuare uno strumento, un organo di battaglia politica o invece uno
strumento di conoscenza della situazione. Si arrivò appunto a questa dissociazione con toni aspri del
dibattito ma senza grandi rotture: per esempio dal punto di vista umano (per continuare a coltivare
quel filone) non ci fu nessuna vera rottura, per me ciò vale ancora adesso con quelli che poi
continuarono a fare i Quaderni Rossi, con Vittorio Rieser ho un’amicizia che continua, non si è
interrotta, ma con lo stesso Raniero non ci fu nessuna rottura dal punto di vista umano. Certo, si
fecero poi negli anni seguenti delle esperienze diverse. Quella di Classe Operaia fu un’esperienza
diversa (un po’ ne abbiamo già accennato) rispetto ai Quaderni Rossi perché ci costringeva ad
avvicinare quella figura di operaio che andavamo cercando e che in parte teorizzavamo; alcune di
queste figure operaie infatti poi figurano anche come autori degli articoli di Classe Operaia, quindi
la conricerca con Classe Operaia si fa più ravvicinata e anche più politica. Ma erano due modi un
po’ diversi anche di concepire questa esperienza cosiddetta operaista. Naturalmente se non ci fosse
stata quella separazione le cose sarebbero andate più o meno nello stesso modo perché già Quaderni

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Rossi si era fornita di quello strumento delle Cronache dei Quaderni Rossi. Però, un’altra cosa che
Classe Operaia costringeva a fare è proprio un intervento diretto, la massa di volantini che produce
Classe Operaia è enorme, è anche una forma di volantino politico che è interessante, infatti io li ho
ripubblicati perché alcuni sono dei testi veramente interessanti, curiosi, pregevoli, naturalmente un
po’ sopra le righe com’era tipico dell’epoca e anche delle persone giovani e quindi più entusiaste
che altro, dentro quella piccola illusione di potere in qualche modo orientare le lotte, spostarle.
Poi dentro Classe Operaia ci fu anche lì uno sviluppo del discorso, perché io stesso a un certo punto
posi il problema di un’accentuazione politica non tanto nel senso del rapporto diretto con gli operai,
ma nel senso di un intervento duplice come dicevo io: da un lato dovevamo intervenire sul livello
operaio, dall’altro sul livello politico, detto con un linguaggio d’allora da un lato su un livello
politico sostanziale, che era quello delle lotte, dall’altro su un livello politico formale, che era
secondo me quello dei partiti, soprattutto del Partito Comunista. Ci fu una svolta che mi ricordo che
fu molto contrastata, che poi venne realizzata e che venne determinata da un numero dedicato al
tema del partito, cosa che per quella esperienza lì era un po’ strana, perché il partito veniva
considerata come una cosa che non aveva niente a che vedere con le lotte operaie, quindi una cosa
estranea anche ai nostri interessi. Io scrissi quell’articolo che si intitolava 1905 in Italia, dicendo
che dovevamo provocare uno scossone politico anche di tipo democratico come fu la rivoluzione
del 1905 in Russia perché questo permette di raccogliere le forze per una successiva fase
rivoluzionaria più avanzata, con le mitologie tradizionali. E lì il gruppo seguiva con difficoltà
perché su quel terreno la sensibilità non andava in quella direzione, però poi alla fine seguì. Ma io
adesso dico una verità che però poi ho anche detto in altri luoghi, non è una grande novità: in realtà
io con l’esperienza di Classe Operaia avevo in mente un’altra cosa, secondo me quella doveva
essere un’esperienza molto intensa, molto concentrata nel tempo, che doveva praticamente formare,
proprio a livello di contatto diretto con le lotte operaie e quindi su un livello giusto, una sorta di
gruppo dirigente da reimmettere poi, dopo l’esperienza, dentro la grande politica. Io avevo in mente
di creare un gruppo di personalità politiche forti da reimmettere, senza mezzi termini, dentro il
Partito Comunista come un nucleo che, per la sua forza, per la sua formazione, per la sua decisione
fosse in grado di spostare gli equilibri del PCI nel senso di un partito più rivoluzionario, questa era
un po’ la mia idea. Uno dei motivi poi della chiusura di Classe Operaia fu anche questo, mi accorsi
che la cosa non andava in quella direzione ma in una direzione opposta, nella direzione appunto di
un gruppo alternativo che a me non interessava. Anche quella fu un po’ un’illusione perché quel
tipo di personalità lì era la meno adatta ad un’operazione di questo genere, erano nati politicamente
su una forma di militanza alternativa alle organizzazioni, estranea, volutamente esterna, contraria;
quindi, in ogni caso non avrebbero potuto avere quel tipo di sviluppo lì. Infatti poi, dopo la chiusura
di Classe Operaia, non a caso molti continuarono a fare quel tipo di lavoro di gruppo, alcuni
confluirono in Potere Operaio, altri fecero altre esperienze, Toni Negri prese la strada che ha preso,
andando per conto suo; e tutti appunto in una direzione esattamente opposta. Qui torniamo sempre
al punto, questa era la differenza tra i due gruppi che poi si accentuò molto, con la morte di Panzieri
Quaderni Rossi, ripeto, si spense un po’ su quei livelli. Erano anche loro personaggi interessanti,
Rieser, Mottura e compagni, inoltre sono rimasti, Rieser ad esempio lo vedo ancora sulla breccia,
scrive, è impegnato a livello sindacale.

- Dopo la fine di Classe Operaia avete ancora fatto insieme Contropiano.

Contropiano è un’esperienza molto diversa, a livello di intervento culturale. Io ero un po’ più
defilato, il gruppo che cominciò la cosa era composto da Asor Rosa, Cacciari e Toni Negri, il quale
poi se ne andò subito per conto suo, fu dunque più una cosa di Asor Rosa e Cacciari. C’è da
aggiungere questa esperienza, hai fatto bene a metterla in campo, perché quella fu un’operazione
che in qualche misura completò anche il quadro culturale del gruppo operaista. C’era già prima,
dentro Classe Operaia, anche in Operai e capitale se si scorre un po’ l’introduzione ricordo che
c’era questa apertura che poi soprattutto Cacciari ha coltivato, ha approfondito, ha portato avanti,

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poi l’ha visitata per conto suo in modo molto originale: si tratta di tutto quell’ambito che poi si
chiamò di cultura della crisi, di pensiero negativo. Quella è una cosa su cui anche in questo saggio
voglio insistere parecchio perché è una caratterizzazione molto molto forte dell’operaismo, è forse
la sua più forte originalità rispetto ad altre esperienze operaie: si tratta di quell’asse che si costituì lì
tra quell’esperienza politica operaista e quel tipo di cultura che veniva da tutt’altri luoghi, anzi da
luoghi esattamente opposti, perché era una cultura della grande decadenza borghese, con forti spunti
irrazionalisti, ma con grande attenzione a tutto il fenomeno delle avanguardie artistiche, storiche,
nelle arti figurative, nella letteratura, in poesia, nella musica. Mi ricordo che quando
nell’introduzione a Operai e capitale vennero fuori le figure che io accostavo sempre e continuo ad
accostare come binomio, Mahler e Musil, ci fu un po’ uno sconcerto, mi si chiedeva cosa
c’entrasse: invece, da quel tipo di marxismo critico da cui venivamo l’approdo fu a questa scoperta
e a questo orizzonte perché vedevamo lì una cultura fortemente alternativa alla cultura tradizionale
nel senso comune, intellettuale, corrente, soprattutto quella della sinistra in primo luogo, del
Movimento Operaio. Questo non sapeva nemmeno che roba era quella, e comunque aveva una
diffidenza, tutti attaccati al Lukàcs de La distruzione della ragione, per cui tutto il filone
irrazionalista da Schopenauer a Nietzsche secondo loro era confluito nel nazismo ecc., cosa che noi
cominciammo a contestare: quella era una cultura critica proprio dell’orizzonte capitalistico, tutto il
pensiero negativo era una critica implicita al senso comune borghese. Quella fu una grande
operazione a cui io sono molto legato, poi è stato un momento della mia formazione a cui non
rinuncerei mai, perché veramente mi ha fatto capire un sacco di cose e mi ha portato
successivamente a coltivare ambiti che poi mi sono stati rimproverati da varie parti, anche nella fase
di studio delle teorie politiche, cioè tutto l’ambito della rivoluzione conservatrice, ossia il pensiero
cosiddetto di una destra culturale e non politica, di cui noi dicevamo (cosa che continuo a pensare)
che il nazismo se ne appropriò per conto suo, per bisogni suoi: ma che si debba regalare Nietzsche
alla destra e al nazismo è una follia, lui è una miniera di cose nostre, tutto il pensiero nichilista a
mio parere è un pensiero rivoluzionario. In Contropiano c’era molto questa operazione che poi si è
raccolta intorno alla figura di Cacciari, che l’ha svolta ai massimi livelli, un po’ anche Asor Rosa
ma meno per via dei suoi diversi specialismi, la letteratura italiana in particolare.
Questo poi per me è stato importantissimo, perché ancora oggi mi ha portato a conoscere e a
utilizzare, nella fase appunto dello studio del politico, la figura di Schmitt, che viveva in
quell’ambito lì; anche quelle sono cose che poi io non sono riuscito a far capire a nessuno, adesso ci
ho rinunciato, non perché questo personaggio sia così importante per una teoria politica
rivoluzionaria, ma perché era il filone del realismo politico, poi lì attraverso quello scoprì tutta
quella grande stagione del realismo politico classico, di Machiavelli ecc. Contropiano diede
praticamente l’avvio a questa rivisitazione di quel mondo culturale, ma, ripeto, questo era molto
implicito nell’esperienza operaista, infatti c’era già nello stesso Operai e capitale quell’idea
“meglio un grande reazionario che un piccolo rivoluzionario”. Questi cosiddetti reazionari erano
talmente grandi che non potevi stare a giudicare se stavano poi da una parte o dall’altra perché
erano personaggi di cui dovevi comunque tener conto e anzi dovevi farli propri. Poi io ho sempre
avuto molto forte questa idea della ricerca intellettuale come conquista di territori dell’avversario
stesso, sottrarre territori a un avversario, anche territori culturali, sottrarli e utilizzare anche il
pensiero dell’avversario a propri fini: io ho sempre l’idea della ricerca intellettuale come guerra, sei
lì su un campo in cui ti devi misurare e anche con l’abilità devi conquistare terreno, e se tu lasci
terreno agli altri poi rischi di indebolirti. Ho questa idea di una capacità di pensiero fortemente
egemonico che conquista anche quello che non è tuo. Questo in Contropiano c’era già tutto, io ero
un po’ fuori nel senso che, ripeto, ho guardato il ’68 alla finestra, proprio perché a noi che
venivamo dall’esperienza delle lotte operaie questo sembrava un movimento francamente minore
anche se aveva molta più risonanza dell’altro; in realtà già il fatto che lì si parlasse di potere
studentesco a noi che avevamo parlato di potere operaio faceva un po’ ridere. Poi non ho mai
pensato che dei fatti generazionali potessero provocare sconquassi veri. Infatti dopo, lo dico anche
in questo libro, il ’68 fu un grande processo di modernizzazione della società italiana; lì la

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contestazione poi nel lungo periodo è stata utilizzata più dagli altri, nel senso che il capitalismo
italiano e le classi dirigenti italiane si sono servite di quel processo di modernizzazione per scaricare
via la vecchia Italietta e fare questa Italia nuova, però questa Italia capitalistica nuova, non è che ha
fatto l’Italia diversa da una società capitalistica. Tanto è vero che poi tutta quel ceto che è emerso
nel ’68 è stato riciclato dentro le classi dirigenti attuali e lo ritroviamo nei luoghi di comando a tutti
i livelli: è servito insomma più agli altri, il che è tipico di movimenti che, non avendo una natura di
classe e un radicamento di classe, sono facilmente egemonizzabili dagli altri, dagli avversari. Io nel
’68 guardavo un po’ alla finestra, la cosa che si svolge nelle università o nelle scuole non è che mi
potesse entusiasmare più di tanto. Quindi, partecipai a Contropiano però con quei saggi che di
nuovo richiamavano il tema del partito e via dicendo. Poi quando andai all’università di Siena
cominciai insegnando filosofia morale, poi filosofia politica, iniziai a fare questi corsi sul pensiero
politico classico e andando avanti ricostruì un po’ questa matrice realistica del politico, studiando
Hobbes, la rivoluzione inglese, i temi della ragion di Stato.
Parlando dei percorsi successivi, quella fu un fase che aveva in sé un’ambiguità difficile da far
capire, ma è un fase non compresa. Io lì avevo in mente ancora di nuovo la stessa cosa, come
sempre, pensavo che si dovesse armare la pratica politica dei comunisti con un’idea nuova della
politica, con un’idea antica nella modernità, con quell’idea realistica e non ideologica della politica,
con quella cruda analisi delle forze in campo, con un privilegiamento del motivo dei rapporti di
forza in politica, perché il partito potesse poi vincere nella competizione politica. In questo c’è
quella famosa formula dell’autonomia del politico, che in questi gruppi di derivazione operaista ha
suscitato non solo diffidenza ma è stata vista come una sorta di resa, di fuoriuscita dalla tradizione
operaista: io invece tengo molto molto a questa continuità di percorso, secondo me il discorso
dell’autonomia del politico è implicito già nell’esperienza operaista, almeno per come l’ho vista io,
per come io l’ho inquadrata, certo non in tutti i protagonisti, ma sono delle cose molto affini e tutte
complementari. Che la soggettività operaia dovesse fornirsi in fondo di una teoria politica
altrettanto forte quanto era forte la sua soggettività sociale, quindi una teoria forte della politica che
era una teoria realistica della politica, questa è stata una cosa che c’era già implicita prima e che il
discorso sull’autonomia del politico rende soltanto esplicita, e non è affatto in contrasto con
l’esperienza operaista. Però, quella fu appunto una strada abbastanza isolata: mentre l’operaismo
creò, ricreò un collettivo, questo discorso sull’autonomia del politico è stata un’esperienza
abbastanza solitaria; assieme ci fu un gruppo di giovani collaboratori, ma insomma non era certo
paragonabile al collettivo che fece poi le riviste operaiste di cui parliamo.

- Per completare il discorso delle riviste che hai fatto, poi ci fu anche Laboratorio Politico.

Laboratorio Politico venne molto più tardi, credo nei primi anni ’80. Questa fu un’esperienza
completamente diversa, anche lontana dallo stesso Contropiano, perché fu una rivista veramente
tutta di intellettuali. Anche lì io coordinai la cosa, quindi fui abbastanza parte dirigente, però ne ho
un ricordo non eccessivamente simpatico. Fu un’esperienza in cui teorizzammo la necessità di unire
vari specialismi, che poi erano dati da nomi anche notevoli di personalità intellettuali, ebbe anche
un certo seguito, una certa funzione, con anche dei buoni contatti internazionali, anche delle buone
elaborazioni. Però, oggi la vedo anche lì con l’idea di fornire alla sinistra (già si parlava meno di
movimento operaio e più di sinistra) degli strumenti un po’ più raffinati di analisi e di conoscenza
delle cose e questa funzione senza dubbio la assolse. Oggi, a distanza di tempo, la vedo molto
dentro i processi di modernizzazione di quelli che poi saranno gli anni ’80, mi sembra
un’anticipazione di processi che anch’essi poi saranno in mani altrui e molto interna anche a
meccanismi di gestione, di governo, più di ammodernamento degli strumenti di gestione che di
rottura degli schemi, dei modelli, di comprensione della realtà o di intervento su di essa. Sarà un
tipo di rivista molto più interna ad un ambito intellettuale anche con qualche caduta accademica,
tanto è vero che poi quelle personalità che fecero la rivista sono un po’ tutti molto ben visti dentro
le strutture accademiche della ricerca, senza capacità e possibilità di fuoriuscirne. Però anche lì io la

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vidi come una forma di intervento, anche se il rapporto anche personale e umano con la cosa era
molto diverso da quello con le riviste operaiste, dove c’era un rapporto e una tensione umana molto
più forte, mentre qui c’era un distacco evidente. Era insomma uno strumento che veniva visto molto
più dall’esterno che dall’interno. Questa cultura politica italiana si è espressa molto per riviste, ha
avuto questa caratteristica di avanzare ogni volta con iniziative di riviste; adesso credo che sia finita
anche quella stagione lì, perché non c’è più l’acqua in cui nuotare, cioè il dialogo pubblico mi pare
che non esista più.
Vedo che voi accentuate molto nel discorso del progetto il momento dell’operatività di questo
vostro lavoro, un discorso mirato anche a costruire nuove forme o di militanza o di soggettività
politica antagonista come dite voi: questo francamente, per quanto mi sforzi di guardare, non riesco
a vederlo.

- Questa è una cosa velleitaria, nel senso che l’idea di fondo è di cercare di capire determinati
processi e di acquisire gli strumenti di formazione e di comprensione di tutta una serie di cose,
che non solo non abbiamo ma ci confrontiamo con la situazione odierna che è quella che è, nel
senso che ovviamente le soggettività sono sempre frutto da una parte delle capacità,
dell’intelligenza politica e di analisi, dall’altra parte sono però anche frutto delle situazioni che
oggettivamente ci si ritrova davanti. L’idea è appunto di capire da una parte che cosa è stata
questa soggettività che comunque è stata importante e ricca, nonostante gli esiti che ci sono
stati; dall’altra parte formulare alcune ipotesi su come si forma e su come si è formata, secondo
me solo in quella specificità lì degli anni ’60 e ’70, questa possibilità che c’è stata. C’è questa
idea da mettere a verifica: ci sono stati alcuni personaggi, estremamente pochi, che avevano
un’autonomia di proposizione teorica e anche di ricerca effettiva; sottostante c’è stato un
livello di conflitto e di movimenti che hanno fatto da committente a una ricerca e a una
costruzione di pensiero; e tra questo livello e quello delle poche persone che avevano questa
autonomia di formare teoria e di formare pratica, si è creato uno strato di un’intellettualità più
diffusa (sottostante però) che aveva come committenza i movimenti e come direzione di
traiettoria e di indirizzo questa effettiva autonomia che c'è stata, che poi secondo me è
rappresentata da un quadro di persone che sono abbastanza limitate, nel senso che stanno sulle
dita di una mano. Lavorando in alcuni specialismi tra la committenza e questa direzione c’è
stata questa grande costruzione di scienza che in qualche modo è stata ambigua e che però ha
costruito una diversità effettiva in quegli anni. Poi, finiti i movimenti e la spinta del conflitto,
mentre chi aveva un’autonomia effettiva ha continuato a mantenere salde alcune caratteristiche
e alcuni punti di vista, la parte di mezzo invece è finita (magari anche in buona fede) in una
dimensione che è stata poi utilizzata sistemicamente. Tu parlavi del '68 come rinnovamento
della dimensione capitalistica della società: ciò ha permesso anche un rinnovamento della
stessa scienza capitalistica. Nei suoi specialismi se si va a vedere tutta una serie di persone
(non in malafede, ma proprio perché è mancata una diversa direzione) si sono collocate in
ambiti lavorativi o in ambiti anche di realizzazione in cui, pur mantenendo magari
un’autonomia personale, sono utilizzate sistemicamente. In tutti quelli che noi intervistiamo
vediamo che il momento della formazione è ricordato non in termini negativi ma di una potenza
effettiva, e poi anche come l’ambito che ha dato gli strumenti specifici che, nel momento in cui i
singoli soggetti si sono collocati (volenti o nolenti, per problemi di sopravvivenza o di scelte e
via dicendo) negli ambiti istituzionali, sono loro serviti per poter primeggiare in essi. Questa è
una lettura ovviamente da verificare, però spiegherebbe il perché oggi per esempio il processo
capitalista può avvalersi di tutta una serie di soggetti in più che lui non si è prodotto ma che ha
inglobato e che oggi sono quelli che bene o male gli reggono la dimensione sistemica. Dunque,
il nodo è come si forma questa intelligenza e questa scienza e di come poi se non è all’interno di
un progetto organizzativo contrapposto (e oggi non ci sono possibilità di questo),
inevitabilmente funziona dal punto di vista capitalistico. Allora il problema è di capire e di
dotarsi di questa comprensione che è poi quella dei processi reali che funzionano in momenti

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che magari per alcuni sono di più ampia autonomia anche di ricerca, perché ovviamente chi è
ad esempio collocato all’interno dell’università, proprio per le caratteristiche di questa, ha
degli spazi di autonomia maggiori che in altri settori. Però se si guarda a tutta una serie di
persone che sono state all’interno di questi processi nei livelli medi e medio-alti, ma non
altissimi, della costruzione di questa intellettualità, si vede che oggi sono all’interno di tutti gli
ambiti televisivi, di tutte le istituzioni, dell’accademia; sono bene o male quello strato che,
poiché ha sviluppato molto le capacità tecniche di funzionamento, adesso è la parte innovativa
(ma dal punto di vista del capitale) di tutta una serie di processi di gestione ma anche proprio
di produzione, andando chiaramente a vedere poi come questa è cambiata. Si potrebbero fare
una quantità incredibile di nomi rispetto a come poi il sistema istituzionale e il sistema politico
hanno riutilizzato queste capacità che si sono prodotte nei singoli soggetti in termini diversi, al
di là poi delle scelte individuali delle persone. La cosa che abbiamo verificato nelle interviste
fino a qui fatte è che non solo nessuno nega i processi di formazione di determinati periodi, ma
c’è anche in fondo un ricordo che quelli sono stati delle parti significative e ricche della
propria esperienza e della propria vita. Quindi, non c’è alcuna rimozione, c’è anzi una
valorizzazione dei processi formativi di quei periodi e un non buttare via niente di quelle
esperienze al di là di quelli che sono stati i percorsi e le collocazioni successive. Noi questa
cosa la inserivamo anche in quel discorso che aveva fatto Alquati alla metà degli anni '70 sulla
formazione di uno strato intellettuale che veniva costruito all’interno di quelli che erano i
conflitti e i movimenti, poi lui ha fatto tutto un lavoro sull’università in quel famoso libro,
Università di ceto medio, e in quella ricerca che era apparsa su aut aut.

Se emergesse, questa è un’idea che fa capire tante cose anche agli altri, il fatto che ci siano stati
questi passaggi. Il problema è di capire se questo ceto diffuso, oggi con certe funzioni e pur tuttavia
con quel tipo di formazione, sia per esempio utilizzabile altrimenti, se ha ancora una vocazione
alternativa, se potesse coltivarla in altre condizioni e con una modifica anche del clima politico,
oppure se questo è impossibile: questo è un problema. Oppure se non ci sia poi, oltre questo, e se
non si tratta di fare emergere un altro ceto (diverso da questo e anche sottostante rispetto ad esso) di
persone che in fondo questa esperienza l’hanno fatta, l’hanno sfiorata, che non sono emerse a questi
livelli di funzionalismo anche burocratico e che sono acquattate invece nelle pieghe della società. Io
per esempio trovo nella scuola tutto uno strato di insegnanti che queste esperienze le hanno fatte,
non le hanno rinnegate, più o meno le ricordano nel loro tipo di professione, che sarebbero
disponibili anche per qualcosa d’altro se questo qualcosa d’altro emergesse e ci fosse, però non c’è
e quindi se ne stanno lì. Questo strato è molto diffuso perché dovunque ti trovi delle persone che ti
dicono: “io sono cresciuto su questi testi, Operai e capitale l’ho letto quando ero ragazzo”; c’è uno
strato molto più diffuso di quanto uno non immagini di penetrazione di quelle cose. Quello è uno
strato interessante che bisognerebbe fare emergere politicamente e pubblicamente, forse anche
attraverso semplici racconti di queste cose. Per cui un lavoro di questo genere, pensandolo anche
come un prodotto di una ricerca che può trovare canali di diffusione, può essere molto utile, perché
porta a livello di coscienza qualche cosa che invece è soltanto implicito, cioè che ognuno si tiene
per sé, ognuno separato dall’altro ed è come una coltivazione di una stagione; cosa che invece
socializzata probabilmente non provocherebbe grandi scossoni, però farebbe emergere qualcosa di
più interessante di quello che si vede in giro oggi, perché quello che si vede è soltanto poi quello
che ci fanno vedere, cioè quello che vogliono fare emergere sempre gli altri, c’è questo
appiattimento su un senso comune. Per cui bisogna pensare per questo lavoro anche a un tipo di
sbocco che probabilmente può avere un’attività più vasta di quanto uno immagini, trovarne le
forme, voi parlate di creare un sito, tutto questo strato credo che sia molto acculturato con questi
strumenti, anzi penso che sia quello che li usa di più.
Io ho in mente altre cose, ma ciò è più tradizionale da questo punto di vista, hanno un po’ un sapore
di antico, però mi considero anch’io un’antichità del moderno: a me interessa molto e devo trovare
il modo per fare un discorso che faccia riemergere la memoria operaia. Io credo che ci sia una

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memoria storica della classe operaia e oggi, più che il problema di farla emergere, forse c’è il
problema più drammatico di non farla disperdere, perché il pericolo è proprio che si disperda nel
nulla. Questo lavoro sulla ricostruzione di Classe Operaia e di Quaderni Rossi è una parte di ciò,
però ce n’è un’altra parte: un paio di anni fa noi abbiamo fatto un convegno a Piombino su “Identità
della classe operaia, realtà e prospettive” e adesso dovrebbero uscire gli atti che sono stati raccolti,
ho fatto anche una conclusione, era l’Archivio Storico di Piombino che si era fatto promotore di
questa cosa. Ma io rimasi meravigliato di come si raggrupparono lì una rete di storici, anche di
mezza età, proprio del mondo operaio, delle lotte operaie, della vita della classe operaia, i quali
coltivano anche loro questo tipo di studi a volte legato a situazioni specifiche, per esempio alla
fabbrica di Piombino o dintorni, a volte con un discorso più generale di storia della classe operaia.
Quando uscirà questo libro vorrei organizzare una sorta di convegno proprio su questi temi di
ricostruzione della memoria operaia, anche attraverso il sindacato milanese e lombardo che
vogliono fare una cosa di questo tipo, lì ci sono delle persona abbastanza sensibili a questi temi.
Vorrei fare una sorta di archivio, anche se questa parola è brutta, infatti preferisco chiamarlo un
atlante della memoria operaia. Io lo penso molto nel termine di Varburg, un personaggio
straordinario, era un vecchio banchiere tedesco che aveva un’industria con dei fratelli, a un certo
punto si è fatto liquidare la sua parte di patrimonio e ha costruito un atlante di una memoria storico-
artistica, ha fatto una sorta di museo a vari strati, a vari piani, leggendo iconologicamente alcune
cose dall’arte antica a quella moderna e contemporanea; ha fatto questa mnemosine come lui la
chiamava e ha costruito appunto questo atlante di una memoria artistica. Un’idea che mi sta in testa
da tanto tempo è proprio questo atlante della memoria operaia, che ricostruisca un po’ questo
mondo a vari livelli, intanto di documentazione delle lotte, delle forme organizzate, di
organizzazione anche della società.
Io parlo di questa storia lunga del movimento operaio perché un errore che abbiamo fatto anche noi
(ecco un altro limite di quella esperienza) è che ci siamo lasciati troppo chiudere dentro epoche
strette: questo errore devastante che ha fatto la sinistra (proprio per mentalità subalterna, perché
sono dentro questi meccanismi) è di far credere e di credere poi loro stessi che in fondo tutta la
storia del movimento operaio si è ridotta alla costruzione del socialismo in alcuni paesi, quindi quei
settant’anni di storia, per cui chiusa quella è chiuso tutto. Ciò senza pensare che quella del
movimento operaio è una storia lunga, è una lunga durata che parte da molto lontano, dalle prime
forme di accumulazione primitiva, dalle prime forme di rivoluzione industriale; ci sono varie figure
di operaio, l’operaio-massa arriva a un certo punto ma non saltando tutto quello che c’era prima, il
tipo di operaio professionale, ma il tipo ancora precedente era l’artigiano che diventa operaio. C’è
una storia che bisogna possedere per intero che non è storia del lavoro ma è storia delle figure non
tanto di lavoratore generico ma delle figure operaie. Noi anche lì abbiamo troppo isolato l’operaio-
massa come se fosse un’irruzione venuta dal nulla, mentre c’è la carica di storia che si era
accumulata su questa figura e proprio perché si era accumulata questa figura era interessante,
perché non era qualcosa di completamente nuovo. Allora, è importante ricostruire questa storia
lunga del movimento operaio, quindi ricostruirne anche la memoria perché poi tutta la storia operaia
dell’800 è una storia a sé, tra l’altro una storia diversa da quella che abbiamo visto nel ‘900, perché
è tutta una storia in cui c’era un’autonomia del mondo operaio che si costruiva per conto suo luoghi
di socializzazione, di civilizzazione. Anche nell’ultimo libro io dico che il movimento operaio è
stato un grande soggetto di civilizzazione, anche della lotta di classe e del conflitto di classe, se
fosse stato per i padroni ci si sarebbe sparati a vista tutti i giorni. Invece, il tipo di organizzazione
del movimento operaio, le società di mutuo soccorso, le cooperative, i quartieri operai che si sono
costruiti fino alla Karl Marx Hof nella Vienna rossa, tutte queste esperienze proprio di società
operaia anche autonoma sono storia moderna, di cui oggi è stato cancellato e maledetto il ricordo,
perché c’è stato il crollo del muro, ci sono state queste frescacce, perché lì dicono che è fallito il
comunismo. Ma che fallimento, quella è un’esperienza che è durata settant’anni, che è stata in quel
paese lì, ma bisogna circoscriverla e ripensarla in tutta la lunga storia, metterla là dentro
criticamente dentro tutta una storia lunga: ma come si fa a dire che è tutto finito e fallito? E’ proprio

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una mentalità di chi subisce un’offensiva che poi è un’offensiva culturale degli altri e non è capace
nemmeno di capire di cosa si tratta. Invece, ricostruire questa lunga storia significa poi ridare armi,
dire: “allora questa storia è arrivata fino a qui, come si continua?”. E’ il grande tema dell’eredità:
l’eredità del movimento operaio chi la prende? Non si tratta di dire che adesso continuiamo a fare le
lotte operaie, no, il fatto è che qui c’è un’eredità storica di questo tipo, lunga di secoli e non di anni
o di decenni. Una sinistra che fosse stata qualcosa di serio si metteva in questo solco e diceva:
“abbiamo dietro questa storia lunga, ricicliamola, rinnoviamola, rileggiamola, andiamo avanti”.
Come fai a presentarti senza più questa storia, anzi dicendo: “no, questa storia non ci interessa, noi
non c’entriamo niente, quella era un’altra cosa, noi siamo il nuovo che avanza”? Ma dove avanza se
non ha dietro niente? Io lo chiamo il suicidio politico di quello che è stato il movimento operaio.
Allora, ricostruire attraverso anche alcune di queste iniziative può essere una cosa da fare e un
lavoro che può far parte di ciò.

- Rispetto agli annali sull’operaismo politico che stai facendo, oltre alla ricostruzione storica che
intenti ci possono essere nell’attualizzazione politica?

Rispetto all’attualizzazione politica è difficile dirlo, lì bisogna proprio evidenziare il tipo di


esperienza con le sue caratteristiche che dicevamo. Io accentuo questo lato di un’esperienza
fortemente intellettuale innovativa, molto molto novecentesca. La metto molto dentro il ‘900,
dentro questo secolo stupendo che abbiamo concluso, in cui c’è stato di tutto: odio questi detrattori
del ‘900, questi stupidi che parlano del secolo delle tragedie, “per carità, non parliamo più del
‘900”. E’ un secolo in cui c’è stato di tutto e quanto di meglio, poi insomma che il quanto diventi
anche tragico non è poi questa grande novità della storia, tutto ciò che è grandioso ha in sé qualcosa
di tragico, soltanto la commedia è piacevole da raccontarsi. Dunque, questa dell’operaismo io la
considero un’esperienza intellettuale del miglior ‘900, di un secolo critico, è nel solco delle migliori
tradizioni di un secolo che si apre con la rottura delle avanguardie: questa storia dell’operaismo è in
quel solco, è una rottura delle forme politiche classiche alla ricerca di qualcosa d’altro. Quindi, in
questo senso va molto enfatizzata. L’attualizzazione credo che sia difficile, però quando hai fatto
emergere queste esperienze poi conta il fatto che ci siano state, perché noi ci siamo formati in quella
cosa, ma fare emergere questa esperienza può formare anche altri, può essere un elemento di
ulteriore formazione, per esempio quei ceti di cui dicevamo prima, rimettere in rapporto quegli
strati può creare un elemento di crisi per chi si è insediato in certi luoghi, e un elemento invece di
spinta per gli altri che, come dicevamo, stanno lì, che non sono emersi ma che possono ritrovare una
ragione anche di presenza pubblica. Quindi, queste sono operazioni che sai che come le tocchi non
sono mai neutre, per quanto ne vuoi fare un motivo di analisi distaccata poi in realtà toccano nervi
scoperti e arrivi sempre a mettere in moto poi meccanismi anche emozionali a volte, memorie
appunto. Ma io, ripeto, tengo molto a questo tema della memoria. Tra l’altro questa dannazione
della memoria in tutti i sensi mi pare una delle caratteristiche devastanti di questo periodo, poi è
molto funzionale a queste forme di innovazione capitalistica: è proprio una mentalità capitalistica
quella di muoversi solo per innovazione senza tradizione. Per esempio, il grande tema della
tradizione io l’ho riscoperto in questi anni anche attraverso la frequentazione del pensiero
cosiddetto reazionario, in cui è molto sottolineato questo elemento: ma la tradizione non è affatto un
terreno nemico, tutte le grandi forze storiche partono dalla tradizione. Io parlo di tradizione operaia,
c’è una tradizione operaia, c’è un passato operaio che ha tramandato delle cose, delle idee, forme,
pensieri, modi d’essere: come fai a perdere tutto questo? La tradizione non è affatto in contrasto con
la rivoluzione, sono due aspetti di uno stesso processo. Uno dei limiti, forse anche mortale, della
rivoluzione bolscevica, che pure è stata una rivoluzione operaia, è che non è stata capace di
ricostruirsi appunto una tradizione, comunque non si è reimmessa nella grande tradizione del
movimento operaio: ha cercato magari altri tipi di tradizione, quella nazionale russa, invece che
immettersi nel ciclo della tradizione del movimento operaio e sentirsi parte di quella roba lì. Quella
era l’unica cosa che poteva loro permettere un superamento del limite del socialismo in un paese

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solo, cioè il socialismo in un paese solo però dentro un solco che è quello di una tradizione di un
movimento operaio che viene da lontano.

- Ci sono secondo me due cose che sono importanti. Una è il discorso dei militanti, nel senso che
questa memoria in termini attivi continua a persistere nei militanti che si sono formati
all’interno dei conflitti e che comunque sono collocati socialmente. Nel momento in cui non ci
sono conflitti questi sono in una dimensione di atomizzazione e di separazione, nel senso che
quello che comanda è comunque il processo capitalistico; nel momento in cui riprendono dei
conflitti, è sempre avvenuto che l’esperienza operaia e proletaria rientra immediatamente in
gioco proprio come ricostruzione di forme di lotta da parte di questi militanti che sono ancora
collocati socialmente, che hanno questo bagaglio di esperienza e che la rinnovano
immettendola in circolo. Per esempio, mi venivano in mente delle letture su come si sono
costruite le lotte operaie del ’43 a Torino e perché si sono costruite a Torino e non da altre
parti: ciò non solo perché da altre parti non c’era la Fiat, ma perché a Torino era rimasto uno
strato operaio per decenni inattivo che poi ha ridato alle forme di lotta direttamente quelle
esperienze che aveva maturato precedentemente. Nella società di oggi questo tipo di esperienza
data dai conflitti degli anni ’60 e ’70 è ancora presente, ed è questo discorso che facevi tu per
esempio sul quadro medio che oggi nella società non è visibile perché non emerge e che però
non è cancellato, anche come capacità di resistenza per quanto questa sia possibile; esso
probabilmente non si attiva da solo, però in presenza di nuovi cicli di conflitto si
reimmetterebbe e sarebbe probabilmente una parte dell’avanguardia. Per esempio, anche nelle
lotte alla Fiat negli anni ’60 una parte delle avanguardie sono quelle che si sono formate dagli
operai immigrati, ma una parte importante anche della tradizione politica è stata l’avanguardia
precedente.

I nuovi entrati dal Sud sono andati a scuola da questo vecchio quadro, c’è stato un processo di
trasmissione proprio delle lotte e dell’organizzazione da una generazione all’altra.

- L’altra cosa che a livello generale è sicuramente vera è quella che dicevi tu, ossia che oggi non
esiste più la dimensione politica dell’operaio; dopo di che non è neanche vero che l’operaio sia
scomparso, è semplicemente stato ricollocato in altre aree geografiche, perché per esempio nel
sud-est asiatico c’è una dimensione materiale grossa del lavoro e della condizione operaia. Il
problema è di quanto i livelli di lotta e di conflitto lì si andranno a generare e di quanto
riusciranno a fare esperienza anche delle sconfitte che ci sono state qua. Per esempio, Romano
dice sempre che voi nel guardare i conflitti e le lotte operaie, come potevano formarsi negli
anni ’60, avevate il paragone con livelli di lotta e di conflitto che c’erano stati in Francia, negli
Stati Uniti; quindi, c’era una capacità di anticipazione e di lettura, c’era già uno specchio su
cui si poteva vedere come erano andate determinate dimensioni di conflitto da altre parti. Oggi
questa cosa qui nei paesi come il nostro e in Europa diventa difficile: come si trasforma il
capitalismo negli Stati Uniti, per esempio, da un punto di vista di lettura di come si muove il
capitale può essere una cosa a cui bisogna ritornare a guardare, perché il capitalismo lì è un
qualcosa di diverso dal capitalismo europeo; invece, da un punto di vista proletario e operaio,
della nuova figura operaia che potrebbe emergere, non è che ne venga fuori un granché in
termini di letture che se ne riescono a ricavare.

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INTERVISTA A MARIO TRONTI – 9 AGOSTO 2001

[…] Questi movimenti antiglobalizzazione devono avere la capacità di stare dentro una storia,
altrimenti subiscono anche loro il fascino di una sorta alternativa di nuovismo: “è un movimento
nuovo in tutti i sensi, non ce n’è mai stato uno di questo tipo qua, interessante è questa sua novità
per il modo in cui vive, per come si organizza, per come si esprime”. Però, sarebbe interessante se
loro riconoscessero una storia dietro le spalle, sapere da dove si viene è importante. E dietro ci sono
queste esperienze di lotta, non c’è nessun movimento che possa prescindere dal fatto che ci sono
state le lotte operaie, nessun movimento contestatore (come si dice) dell’ordine costituito può
pensare di prescindere da questa storia qui. E’ un movimento che si presenta subito con una sua
apparente forza e reale debolezza. La forza è di continuare una storia, di prendere una bandiera.
Nemmeno io penso che sia oggi riproponibile un ciclo di lotte operaie come quello degli anni ’60,
né qui in Italia né in altri paesi, è chiaro che ci sono altre forme di conflitto; però, appunto è la
continuità del conflitto, la storia del conflitto che è fondamentale. Tale consapevolezza non c’è,
questi tipi di studi, di raccolte, di ricerche come questa dovrebbero anche servire per immettere là
dentro questa consapevolezza. Non tanto perché da queste ricerche scaturisca un’esperienza di
riproposta, ma per immetterle dentro un collettivo attualmente esistente di protesta, che sicuramente
c’è, c’è più di quello che si vede. Del resto una delle cose interessanti di questi movimenti è che ti
fanno scoprire che c’è ancora una carica pure eversiva, giustamente eversiva, anche il carattere poi
della violenza è la spia di qualcosa, di una mentalità non-ordinante, dis-ordinante anzi. E’
interessante vedere che c’è ancora, perché guardando il mondo si può pensare che ormai ciò sia
chiuso. Invece, questo è tipico del grande capitalismo, che ripropone sempre al suo interno
contraddizioni nuove, e anche forme di spinte, di anticapitalismo: il capitalismo produce anche
l’anti. E’ interessante perché appena la cosiddetta globalizzazione scavalca questo orizzonte viene
fuori l’antiglobal. Però, anche lì è importante capire che ciò sta dentro una logica di sistema e non è
una cosa che capita adesso per la prima volta, c’è stata sempre da quando c’è storicamente
capitalismo: poi le forme sono state sempre diverse, questa può essere una forma di anti, però sta
dentro la storia dell’anti. Lì questo tipo di consapevolezza io non riesco a vederla, non so se c’è una
conoscenza anche limitata del movimento. Cioè, il fatto che si dica più globalizzazione che
capitalismo è significativo: io non dico mai globalizzazione, dico sempre globalizzazione
capitalistica, questa è la caratteristica che definisce la globalizzazione, la sua natura capitalistica.
Allora, anche l’anti diventa più chiaro, perché altrimenti quando parli di antiglobalizzazione devi
dire: “però non siamo contro la globalizzazione in quanto tale ma si tratta di usare in un altro modo
la globalizzazione”, c’è questo discorso leggero, all’acqua di rosa insomma, “non siamo contro
ma…”. Invece, se tu sei contro la forma capitalistica della globalizzazione, allora il discorso diventa
molto chiaro. Però, io non lo vedo declinato così, tranne magari in qualche frangia più consapevole.
Bisognerebbe aprire una discussione, ma è difficile poi capire chi sono, dove sono. C’è questa per
me fastidiosa natura pauperistica del movimento, che poi gli dà un’intonazione etica, “per i poveri
del mondo contro i ricchi del mondo”, messa così non è che ci si cavi un granché: tanto è vero che
poi ti ritrovi lì la parte cattolica, i papa-boys, ti ritrovi dentro tutti, la cancellazione del debito ecc.
Bisogna far capire che sono forme che erano già state superate a un certo punto dai cicli ricorrenti
delle lotte operaie, la loro caratteristica era stata proprio quella di abbandonare questo terreno: non
la rivendicazione ricchi contro poveri, ma due classi che non si disputavano poi tanto la quantità di
ricchezza da spartire, quanto invece il livello di potere da esercitare. Quello è stato il movimento
operaio, nella lunga storia delle classi subalterne è intervenuta questa consapevolezza non più di
debolezza ma di forza: “siamo alla pari, non è che vogliamo una migliore redistribuzione della
ricchezza, vogliamo che si metta in discussione il criterio di produzione della ricchezza stessa; e
siccome nel rapporto di produzione c’è implicito un rapporto di potere, lì, nel rapporto di potere,
dobbiamo fare il conflitto”. Questo è il punto altissimo da cui non si può tornare indietro: tanto è
vero che gli operai poi si organizzavano attraverso i sindacati, attraverso i partiti, per la conquista
del potere politico. Ora, non si tratta di fare una lezione ai nuovi movimenti dalla cattedra, però

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bisognerebbe trovare un’interlocuzione che si ponesse lì dentro e a un certo punto facesse fare
anche un salto. Questi salti all’interno dei movimenti sono possibili, ci sono stati anche dentro ai
movimenti degli anni ’60: questo paragone che si fa con il ’68 in parte non funziona, in parte però
sì. Quelli erano movimenti che erano partiti da determinate cose e poi nel corso del tempo avevano
cambiato registro. Partivano da un’impostazione antiautoritaria, antiaccademica, era il movimento
studentesco; dopo il ’68 e negli anni seguenti frange consistenti, che poi hanno preso anche la guida
del movimento stesso, anche nei gruppi, hanno visto che il problema non era quello che si pensava.
Il movimento negli slogan passò da “potere studentesco” a “potere operaio”, e credo appunto che
quello sia stato un salto del movimento stesso.

- A proposito di quanto stai dicendo ci interesserebbe approfondire il rapporto tra movimenti e


progettualità dei movimenti. La tua analisi viene fuori in termini evidenti rispetto a quanto è
successo negli ultimi mesi, in particolare in relazione a Genova: ciò che manca di più è
l’esprimere una progettualità che abbia una dimensione più consistente della spontaneità.
Questo movimento è stato molto spontaneo nelle forme della partecipazione, ed è stato anche
molto spinto da un rapporto che non si può più trascurare, quello con i media che, in assenza di
un conflitto grosso, co-creano l’evento. Ciò avviene anche per dinamiche loro interne,
nell’ambivalenza di essere imprese capitalistiche ma nello stesso tempo essere altro:
contribuiscono quindi anche a creare la costruzione dei movimenti, almeno nella dimensione
quantitativa. Se non si fosse parlato per mesi di Genova non ci sarebbe stata una
partecipazione così grossa e le cose sarebbero andate in modo sicuramente diverso. L’altro
aspetto, contingente al rapporto tra classe e capitale, è che oggi non si dà un conflitto più
maturo nei territori, non intesi come il locale bensì come territori produttivi. Questo perché c’è
una debolezza effettiva di quella che è la conflittualità di classe. Allora, per esempio, si danno
delle ricomposizioni con caratteristiche specifiche all’interno di questi momenti che diventano
un evento, sia come forma di radicalità sia come forma di raccolta fisica. Una volta la lotta si
costruiva in luoghi specifici, come la fabbrica, ora invece la situazione è molto diversa. La
globalizzazione da una parte sta dentro ad una dimensione capitalistica che però non è
sganciata da un certo passato, la globalizzazione non viene fuori in questi anni, ha un percorso
di lunga durata; invece, una delle cose che è stata significativa di questo passaggio di fase è
che sono riusciti ad azzerare o comunque a diminuire notevolmente le forme di conflittualità di
classe. Sarebbe dunque importante tornare a riflettere sul nodo del rapporto tra movimenti e
loro progettualità, comparandolo anche con esperienze passate: perché oggi non si può
sicuramente riproporre ciò che è trascorso, però nello stesso tempo bisogna tenerne conto.

Questo è un tema, infatti sono questi i due versanti, movimento-storia e movimento-finalità, un


collegamento indietro e uno in avanti. La nuova forma di movimento è stata brava nell’uso degli
strumenti di comunicazione, evidentemente è anche empiricamente una generazione che è nata
dentro questi modi della comunicazione e quindi la usa in maniera molto intelligente. Ciò
costituisce un limite, ma dovuto a ragioni anche oggettive, delle lotte operaie, che non erano molto
abili: avevano i loro canali di comunicazione ma autonomi, erano canali che non sempre poi
raggiungevano il grande pubblico, proprio perché avevano il loro percorso, la loro autonomia.
Invece, adesso il raggiungere subito nella comunicazione il grande pubblico è una cosa che poi
aumenta certo anche quantitativamente il movimento perché lo riproduce in maniera allargata.
Anche se c’è chi dice che forse c’è un eccesso di uso di queste cose, addirittura una forma di
subalternità, perché tutto si fa in funzione di comunicare più che di ottenere un risultato. Tanto è
vero che anche l’organizzazione della protesta di Genova è stata tutta in questa chiave, cioè
visibilizzare una cosa, allora annunciare che si aggredisce la zona rossa, e questo dà un input alla
comunicazione di un certo tipo. Questa è la differenza dalle lotte operaie, che invece contavano
molto sul risultato concreto della lotta, il raggiungere determinati obiettivi, nel contratto di lavoro
dove stava scritto che aumentava il salario, diminuiva l’orario, cambiano le condizioni di fabbrica,

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quindi il raggiungere nella lotta certi obiettivi. Qui non ci sono mai obiettivi in concreto, tranne
quello di fare casino, di visibilizzare al massimo lo scontro.

- Con un certo uso anche del simbolismo.

Ciò anche può essere utile, usare molto la forma simbolica, lo hanno fatto un po’ tutti i nuovi
movimenti: ha cominciato il femminismo a valutare molto la parte simbolica del discorso, del
linguaggio, anche del comportamento. E ciò credo che sia molo legato anche alla dittatura della
comunicazione, che vuole pure creazione di simboli e di obiettivi simbolici. L’altra cosa è che
anche questo risulta essere un movimento molto antiautoritario, con l’idea quindi degli 8 grandi
come un’autorità mondiale a cui si contrappone una sorta di rivendicazione, che però poi anche
quella risulta arretrata, una rivendicazione democratica, far partecipare tutti alle decisioni. Ci sono
aspetti che per un verso risultano già superati dalle precedenti forme di lotta. Dal momento in cui
sono cadute quelle forme di lotta del passato di impronta operaia c’è stata una sorta di regresso
storico, e non di progresso: allora, dentro questo regresso storico si configurano anche queste nuove
forme di conflitto, che possono essere arretrate rispetto alla forma di lotta operaia, che aveva una
fase molto avanzata di conflitto e di strutture sociali, anche di opinione, di massa ecc. Adesso, di
fronte al regresso che c‘è stato, queste sembrano delle forme avanzatissime, quindi c’è un effetto
ottico da tenere presente. Effettivamente dopo due decenni, dopo gli anni ’80 e ’90, dopo tutta
questa morte dei conflitti e dei movimenti, il risorgere di questi movimenti sembra una grande
novità e opportunità, e in questo senso va valutata. Ripeto, io credo molto che poi internamente la
cosa possa crescere, cresca di fatto. Però, negli altri movimenti, anche nel ’68, c’erano state prime
queste esperienze di pratica operaista, quindi c’era stato un facile riferimento ad esse perché c’erano
state, poi sono state riconosciute, prese, assunte; queste dietro hanno un po’ un vuoto, quindi adesso
è più difficile che il movimento internamente salti in avanti. Infatti, i riferimenti sono in parte a
queste nuove teorie più di sabotaggio che di organizzazione. Non a caso si trovano più a proprio
agio dentro questi movimenti certe forme un po’ alla Negri, molto più legate a un contrasto e a un
conflitto di tipo in parte anarchicheggiante, quello dei centri sociali, dell’Autonomia, con relativo
uso della violenza. Loro in questo senso già avevano rotto con una tradizione di movimento
operaio, e questa sorta di movimento si trova più vicino a queste cose.
Voi parlavate prima di assenza di progettualità, tranne questo slogan pure interessante considerando
questi ultimi decenni, “un altro mondo è possibile”, che però è un po’ generico. C’è comunque
un’opzione che salta oltre questa forma sociale e vuole qualcos’altro, però è tutta in funzione di
un’alternativa a livello molto distributivo. E’ dominante un po’ l’aspetto redistributivo, anche
perché forse questa è una caduta di centralità dell’altro aspetto, dell’aspetto produttivo. Bisogna
dunque continuare a lavorare su queste ricerche; poi, dal punto di vista pratico, più che tentare di
riproporre quel tipo di modello come fanno alcuni, proverei invece a immettere questa
consapevolezza. Bisogna trovare i canali di immissione della storia delle lotte e dei conflitti dentro
quel movimento, facendo in modo che riconoscano dietro di sé qualcosa, che si renda visibile un
percorso che va da quello a questo, e da questo poi può andare oltre, così la progettualità si
costruisce meglio. Allora anche quell’altra forma di mondo può cominciare a prendere forma:
secondo me a un certo punto bisognerà cominciare a dire quello che oggi non si sa più, cioè che
altra forma di rapporto sociale è possibile, che altra forma di potere politico è possibile. Cioè,
ricostruire un po’ i fini, non utopicamente ma cercando di capire. E poi, ecco, sottolineare che tipo
di contraddizione è questa dentro la globalizzazione così com’è, che strutture per esempio di durata
si può dare un movimento di questo genere, oltre questa rincorsa dei vertici che, se uno la guarda
bene, anch’essa è abbastanza subalterna alle scadenze capitalistiche. Va bene che non mancano mai,
come si vede in questi giorni, però si rimane legati a quel calendario lì invece di imporre un
calendario proprio.

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- Anche rispetto a quanto stavi dicendo probabilmente può essere importante l’analisi dei limiti e
delle ricchezze di determinate esperienze, sicuramente non come riproposizione di un qualcosa
che è trascorso ma in chiave di rielaborazione critica rispetto ai nodi aperti nel presente.
Partendo anche dalle interviste di questa ricerca, Romano ha formulato un’ipotesi
sull’operaismo politico. La ricchezza secondo lui sta in una lettura nuova e dirompente, rispetto
a una certa tradizione marxista, del sistema socio-economico, dentro la particolare fase che
stava attraversando l’Italia, quella dell’entrata nel taylorismo-fordismo; e soprattutto
nell’individuazione dell’operaio-massa come forza di una classe che può potenzialmente
muoversi non solo per se stessa ma anche contro se stessa. In ciò rompendo con il lavorismo, il
produttivismo, il tecnicismo, lo scientismo tipico della tradizione marxista, formatasi sulla
figura dell’operaio di mestiere. Il limite sta nel non essere stati in grado di ri-elaborare una
nuova cultura politica, nuovi fini e nuovi obiettivi, un nuovo progetto comunista adeguato a
quel tipo di rottura, a quel nuovo referente collettivo. Molti operaisti, salvo alcune eccezioni,
tendono a far coincidere e appiattire la politica e soprattutto il politico con una questione
soprattutto di organizzazione. Lenin, ad esempio, aveva ribaltato questa impostazione, ponendo
prima gli obiettivi e i fini, il progetto comunista, e poi corelazionando ad essi i mezzi adeguati
alla realizzazione del processo. Questo nodo, in tutt’altre forme, resta aperto nel presente: è la
questione della politica e del politico, inteso come progettuale agire indirizzato alla
processuale trasformazione dell’esistente e dello status quo.

E’ un’ipotesi interessante. Questo è un problema che si ripropone sempre, si riproporrà anche


adesso in questa forma di movimento. Sono le vicende del politico. E’ vero che gli operai non sono
poi riusciti a dare una nuova definizione e una nuova pratica di politica, questo forse è stato il limite
maggiore. La prima parte del discorso di Romano è molto giusta, cioè questa classe che non
combatte soltanto contro l’altra classe ma anche contro se stessa: questo è un filone fondamentale
anche dell’operaismo italiano e bisognerà anche metterlo in evidenza perché non è stato fatto
abbastanza. Dunque, la lotta contro il lavoro e via dicendo. Da lì doveva scaturire effettivamente
anche una nuova idea e una nuova pratica di politica.

- E anche nuovi fini e obiettivi.

Però, non so se lì la politica sia stata tutta ridotta ad organizzazione. La mia tesi è che gli operai
storicamente si sono poi incontrati con il percorso lungo e travagliato della politica moderna e in
qualche misura si sono con essa quasi identificati. E la politica moderna non era soltanto riduzione
della politica a organizzazione, ma era proprio declinazione della politica in quanto potere,
conquista, gestione del potere, trasformazione del potere stesso, quindi il luogo era quello. Ciò
secondo me non è stato un limite, è stato un tentativo realistico di prendere atto che quello era un
punto attraverso cui bisognava passare, anzi era una soglia che bisognava forzare. Questo insomma
era il passaggio del movimento operaio alla sua fase comunista rispetto alla fase socialista, dove la
dimensione era ancora molto di carattere etico, dove dominava Kant e il kantisimo. E invece questo
passaggio a una fase comunista è proprio la cesura con l’etica e con tutto quello che comportava,
con tutte le conseguenze a cui poteva portare l’assunzione in proprio della politica e quindi della
politica moderna. Lenin per me è fondamentalmente questo. L’idea era che su quel terreno
bisognasse poi operare il passaggio di ribaltamento del potere stesso, distinguendo le fasi: c’è una
fase in cui va ribaltato il potere, va cioè ribaltato il rapporto di forza, perché poi il potere viene
concepito realisticamente come rapporto di forza, quindi la tradizione che va da Machiavelli a
Weber, questa è entrata dentro la tradizione comunista. L’idea è che fosse necessario questo periodo
di ribaltamento del potere quasi nella stessa forma, puro e semplice ribaltamento, puro e semplice
ribaltamento dei rapporti di forza: è l’idea che a me convinceva molto e ha sempre convinto. Non si
trattava di costruire subito il mondo degli uomini liberi, eguali ecc., ma si trattava di ribaltare la
situazione: quelli che stavano sopra andavano sotto, quelli che stavano sotto andavano sopra. La

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Rivoluzione d’Ottobre è fondamentalmente questo. Ciò è essenziale, è come quello che si diceva
prima della storia delle lotte: io non riesco a recedere da questo, posso andare oltre e dire che poi
non c’è stato il seguito, però non vado indietro, come tutti ci chiedono di fare, di pensare che
l’errore sia fare questa operazione. Non c’è stato il dopo, ma quel prima lì, quel punto originario,
quello è essenziale, quello ha cambiato la storia delle classi subalterne, che da quel momento in poi
non possono più chiedere qualcosa perché è giusto, ma operano nella prospettiva che la classe
operaia dovesse diventare per un certo periodo classe non solo dirigente, ma classe dominante, che
il proprietario, il grande latifondista, il grande capitalista, dovesse essere deprivato della propria
proprietà. Naturalmente in questo Lenin era molto chiaro: la fase della dittatura del proletariato era
una fase transitoria, che doveva servire poi a rimettere in campo in una diversa società, una volta
abolite le grandi distinzioni di classe, nuove forme di potere, e quindi anche una nuova forma di
politica. Ci doveva essere un punto in cui non c’era più ragione che la politica fosse soltanto politica
moderna, tutta accentrata intorno al tema del potere in termini di gestione dei rapporti di forza; una
volta abolite le classi c’era poi quel passaggio presente anche in Marx del deperimento della
politica, del deperimento dello Stato, utopie della riassunzione delle funzioni politiche dentro la
società in un certo processo. Non c’è stato questo secondo passaggio. Ora, c’è chi sostiene (può
darsi anche che abbia ragione, bisogna lasciare aperte tutte le ragioni anche degli altri) che non era
possibile, una volta impostato il tema della politica in quel modo, poi liberarsi da quella politica, e
infatti poi non ci si è liberati, si è rimasti dentro, e tutta la fase staliniana è stata poi quella
fondamentalmente, la riproposizione dei caratteri della politica moderna dentro il campo del
movimento operaio stesso. Lì è accaduta una cosa strana, paradossale: così come la classe operaia
lottava contro se stessa a un certo punto anche il potere sovietico ha cominciato a lottare contro se
stesso. Io trovo delle ragioni, in parte l’ho detto nel libro, ma questo è un discorso che andrebbe
documentato empiricamente: il seguito e il passaggio al dopo della politica moderna dentro la
costruzione del socialismo non c‘è stato, non perché c’è stata una cattiveria e una malvagità degli
uomini, un demonismo di Stalin e così via, ma perché questa esperienza è stata accerchiata, ha
subito la sindrome dell’accerchiamento, la rivoluzione che aveva come suo naturale sbocco quello
di risorgere in altri paesi, anche in quelli dell’Europa sviluppata, non ha seguito questo percorso, c’è
stata nei primi anni un’aggressione dall’esterno micidiale, la guerra civile, il comunismo di guerra
non è stata un fase ma è diventata una permanenza, due guerre mondiali, il nazismo alle porte di
casa. Era difficile insomma pretendere che si passasse al deperimento dello Stato e al disarmo della
politica. Naturalmente questo poi ha prodotto altri aspetti effettivamente tragici che sono andati
sicuramente oltre la necessità, il terrore e via dicendo, tutti implicati dentro quella logica. Anche lì
c’è da ricostruire una storia e non da condannare le scelte e i fatti soltanto perché sono avvenuti. Ho
sempre chiesto a Rita (senza ottenere quello che volevo) un affresco, la grande storia di quella fase
lì: ci vorrà un pool di storici, ho chiesto di costruire qui le Annales italiani, che riprendessero a fare
quella storia con una grande interpretazione di quella fase. Lì non ci vogliono piccole
interpretazioni, ci vogliono grandi interpretazioni perché è stata a suo modo una grande storia, non
una parentesi che si è chiusa, facciamo finta che non c’è stata oppure che è opera del demonio.
Insomma, capire che diavolo è successo lì è fondamentale per capire poi le sorti della classe operaia
dopo, e anche le sorti dei conflitti anticapitalistici dopo. Qui siamo rimasti con un buco nella lettura
dei processi, un buco di storia enorme, insopportabile, non è possibile che non si dia una lettura di
quelle cose all’altezza delle cose lì avvenute. Poi gli ultimi decenni sono stati decenni di decadenza,
quindi anche quelle premesse venivano cancellate.
Le vicende della classe operaia non riesco a distinguerle da questa storia, non sono storie separate,
differenti: le lotte operaie dentro il capitalismo hanno come interfaccia quell’esperienza lì di
costruzione appunto di un altro mondo possibile, che è andata a finire come è finita. Quando si dice
“un altro mondo è possibile” di che si tratta? Anche un altro mondo possibile non è che potrà fare a
meno di giudicare quelle cose lì, nella stessa storia delle lotte non è che fai dei movimenti senza poi
rimettere in gioco la storia delle lotte di classe. Così, quando dici “un altro mondo è possibile” non è
che puoi fare a meno di capire che lì il tentativo di un altro mondo possibile c’è stato, ha avuto quel

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tipo di sviluppo, quel tipo di crollo. Devi attraversare tutta quella vicenda, ma attraversarla in
proprio, dicendo “anche quella è la mia storia, non è la storia di qualcun altro, è la nostra storia, la
storia della classe operaia e del movimento operaio che ha prodotto anche quelle cose lì”. E te ne
devi far carico, non è che ti puoi far carico solo delle cose belle, delle lotte, degli eroismi, il ’48 a
Parigi, la Comune, le cose in cui hai avuto solo i martiri: ti devi far carico anche di quella roba lì,
quando tu hai saltato quelle cose, non sei stato più il martire. Anche quel tragico della storia del
movimento operaio è storia nostra, tutta, i lager, Stalin, è storia nostra, non scherziamo. Che
difficoltà c’è? La storia è mica una passeggiata. Io prendo sempre il modello della Chiesa Cattolica,
questa istituzione millenaria che continua a vivere nel tempo perché ha una grandiosa sapienza
storica dietro di sé: e c’è dietro tutto, non è che ci siano dietro solo i santi, ma ci sono dietro le
crociate dove ammazzavano i bambini, le guerre di religione, c’è dietro l’istituzione autoritaria del
papato, l’inquisizione. Tutte le grandi istituzioni, tutti i grandi tentativi hanno dietro queste cose. Lo
dicevo anche nella scorsa intervista: quello che un po’ distingue me da altre opzioni è l’approccio
alla storia operaia, io la vedo sempre dentro una storia più grande, se si vuole anche dentro la storia
umana, la storia degli operai dentro la grande storia.

- La politica e il politico. C’è una faccia di questa medaglia che poi diventa anche
amministrazione, quando si ha a che fare con delle istituzioni che possono essere quelle del
movimento operaio, lo Stato ecc. Questo è un aspetto, sul quale ci si è confrontati con luci ed
ombre. C’è poi un’altra faccia della medaglia, il politico, che è la capacità di realizzare un
superamento dell’esistente, come rottura, come rivoluzione, sapendo trovare incroci, momenti
particolari, creando eventi. Sono due aspetti che sono sempre vissuti intrecciati ma con una
differenza grossa all’interno della storia dei processi di liberazione, del movimento operaio e
via dicendo. Quanto si può separare un discorso di gestione e un discorso invece di rottura di
questa forma politica? Quanto un discorso di rivoluzione può avere una dimensione anche di
superamento della forma comunista, non intesa in termini astratti ma così com’è stata
realizzata nelle esperienze che si sono date? E’ una questione con cui bisogna sicuramente
confrontarsi, pur partendo da quello che dicevi tu, ossia dalla capacità di fare i conti con
quello che c’è dietro di noi.

Credo che queste due cose siano destinate a convivere per una lunga fase strategica. Io ho cambiato
un po’ i termini, non parlo tanto di utopia che la vedo molto dentro a una concezione anche
borghese della politica, nell’utopia c’è sempre molta ideologia, molto apparto ideologico. L’utopia
è stata molto spesso funzionale al potere e ai rapporti di potere reali. Sta dentro la politica moderna
il paragone che io ho fatto tra Machiavelli e Tommaso Moro, che erano tutti e due agli inizi e alle
origini della politica. La politica moderna è poi la politica borghese, che è nata dentro la storia
capitalistica, ha avuto sempre bisogno di rapporti realistici di potere e poi di lanciare verso un
domani indefinito la prospettiva di un’altra isola felice. Io cambio i termini, uso per esempio quel
termine che mi rendo conto essere ostico di profezia, ostico anche perché ha delle risonanze un po’
teologiche. Profezia è una cosa altrettanto forte quanto il realismo, non è assimilabile come l’utopia
stessa perché è il parlare a nome di qualcuno contro un altro più che indicare che cosa poi si
raggiungerà. Il profeta insomma grida, spesso nel deserto, però scuote. Quelle due dimensioni è
facile tenerle insieme quando combatti ancora per la conquista del potere, perché le distingui, nel
senso che quella di gestione del potere diventa una parte più consegnata alla tattica, allora abilmente
ti devi muovere in modo conseguente, con alleanze per cercare di raggiungere il potere, lì sì puoi
essere profetico. Ciò si complica nella fase di gestione effettiva del potere, quando ti trovi a tenere
in mano e a governare certi meccanismi che in sé hanno una loro logica, che è una logica di ferro, la
gabbia d’acciaio weberiana, ti metti dentro le strutture: è come l’arte del governare una forma di
società che non è tua e che tu devi nello stesso tempo trasformare. Questo secondo me è
l’esperimento più alto della politica, quello di governare meccanismi che sono oggettivi, che ti
condizionano, e nello stesso tempo essere liberi da questi meccanismi in modo tale da avere sempre

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in mente come si trasformano e come alla fine poi si abbattono in una certa forma. Quella è la più
alta forma di politica che io riesco a concepire, la forma della politica alternativa, come io la
chiamo, dall’alto del governo. Ed è quella che il movimento operaio poteva fare dentro la società
capitalistica. A un certo punto è sembrato che la socialdemocrazia nel movimento operaio fosse la
più adatta a fare questa operazione; poi è accaduto invece che questa socialdemocrazia, appena al
governo, abbandona subito l’altra faccia, della libertà dai meccanismi. Rimaneva l’opzione
comunista, che in fondo questa cosa qui non l’ha mai provata seriamente e per conto proprio. Qui è
inutile che si dica avesse qua avesse là: l’esperienza comunista non ha mai avuto l’opportunità di
lavorare su questo piano, cioè il governare. L’aveva tentato Lenin all’inizio, dopo la rivoluzione,
con la Nep: l’opzione era un po’ quella, cioè governare il capitalismo in Russia per superarlo.
Secondo me quella era una grande strada. Poi, per quelle cose che dicevamo prima, per il fatto di
rinchiudersi e rafforzarsi lì, è prevalsa l’altra opzione, quella di “conquistiamo il potere e da oggi
per decreto dall’alto consideriamo il capitalismo abolito, finito”, senza creare prima le condizioni
del dopo, di un’altra forma sociale: quella è stata la forzatura staliniana, della collettivizzazione
forzata, dell’espropriazione ecc. Invece lì bisognava gestire un lungo periodo di transizione, o
almeno probabilmente, adesso con il senno del poi si può dire di tutto. E’ quello che poi credo
avessero in mente anche i comunisti in Occidente, la doppiezza togliattiana era fondamentalmente
questa: gestire una fase di conquista del governo e del potere, con tutti gli strumenti democratici del
consenso ecc., poi aprire la seconda fase una volta al potere, cioè quella machiavelliana della
gestione del potere in un certo senso, cambiando dal governo i meccanismi. Questi meccanismi non
si cambiano dal basso, questo è il punto nel capitalismo. I movimenti non è che servano per
abbattere il capitalismo, servono per conquistare posizioni di forza e di potere tali da cui tu puoi
cominciare un’operazione di trasformazione dei meccanismi stessi. Quindi, le due cose io le vedo
molto insieme. Naturalmente adesso poi le cose si sono complicate, non si pongono più in questi
termini, a parte la decadenza delle forme di governo, hanno una loro insussistenza anche pratica.
Anche quando si parla di sinistre al governo, bisogna dire che si tratta di governi di coalizione, di
sinistre che per conquistare la maggioranza devono andare molto oltre le sinistre, stanno al governo
sì ma non come sinistra bensì con intorno molto altro. Quelle sono esperienze decisamente minori
che secondo me non fanno testo, non le prenderei nemmeno in considerazione. Le opzioni erano
quelle altre. Però, questo mette in gioco l’enorme tema su cui si basa il sistema, che è quello della
democrazia, della critica della democrazia, che apre un altro capitolo finora non aperto: prima
valeva l’opzione che fosse ancora possibile conquistare la maggioranza democratica della
popolazione in un’operazione di cambiamento della società. E’ una questione che è andata avanti
per tutto il novecento, hanno cominciato i socialdemocratici, poi l’hanno assunta un po’ anche i
comunisti, anche qui in Italia; c’era l’idea che quello che succedeva in Emilia potesse succedere in
tutta Italia con la conquista del 51% dei voti. Ipotesi definitivamente caduta, e di questo
bisognerebbe che qualcuno ne prendesse atto: non c’è nessuna sinistra alternativa del mondo e con
un progetto di trasformazione sociale che possa conquistare la maggioranza democratica dei
consensi, questo non si dà. Per conquistare la maggioranza democratica dei consensi deve dire altre
cose, “miglioriamo, facciamo le cose meglio degli altri, l’innovazione la gestiamo
democraticamente invece che in modo autoritario”, deve cioè dare queste indicazioni generiche.

- Probabilmente l’eredità del movimento operaio e comunista sta dentro un’eredità più ampia,
che è l’eredità rivoluzionaria: e qui c’è un aggancio con il discorso che tu prima facevi sulla
tradizione dell’anti. E’ un’eredità che tu hai in parte affrontato nei volumi sul politico, che
passa attraverso il grande pensiero di trasformazione della modernità, attraverso quelle grandi
figure che hanno praticato una critica radicale del capitalismo e della democrazia. Si tratta
dell’eredità rivoluzionaria di Lenin e dei bolscevichi, ad esempio, ma anche (si pensi a Schmitt,
in forme diverse a Machiavelli o ad Hobbes) del grande pensiero conservatore o reazionario.
Tu hai sintetizzato questa attenzione per queste figure nell’importante formula “meglio un
grande reazionario che un piccolo rivoluzionario”. Il problema è probabilmente proprio di

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raccogliere criticamente il meglio e la parte più viva di questa grande eredità di un pensiero
che, al di là dei campi di appartenenza, è comunque rivoluzionario.

Questo è un altro versante di difficile assunzione. La mia formazione è fondamentalmente anti-


etica, anti-utopica, quindi lo spendere tutte le azioni dentro una considerazione volta a volta dei
rapporti di forza. […]

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INTERVISTA A BENEDETTO VECCHI – 20 APRILE 2001

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e quali sono stati gli inizi della
tua attività militante?

Io ho iniziato a interessarmi di politica nel settembre ’73. Ero molto giovane e rimasi molto colpito
dal golpe in Cile. Ciò coincide più o meno con la fine delle scuole medie inferiori. Tutto è iniziato
con la lettura dei giornali, li divoravo, leggendoli dalla prima all’ultima pagina. Ma il vero punto di
svolta inizia con la lettura delle riviste del movimento. Mi ricordo anche di fanzine allora prodotte
che trovavo nelle librerie legate al movimento. L’inizio della militanza vera avviene con la
frequentazione di un comitato di lotta per la casa. A quel tempo abitavo in un quartiere periferico, a
ridosso di Primavalle, dove c’era un forte movimento di occupazione delle case. Ed è proprio a
Primavalle che avviene il “battesimo del fuoco”. Ed è proprio in quel quartiere che ho cominciato a
fare politica. Anche se ero un lettore onnivoro, ero pur sempre un “pischello” che si avvicinava alla
militanza. Non avevo interessi teorici precisi. Come dicevo prima, ho iniziato con i giornali, poi con
le riviste, poi è arrivata la narrativa - tra il ’73 e il ’75, in maniera quasi maniacale divoro tutto
Sartre e Pirandello. Per quanto riguarda i sacri testi, mi rompo la testa sul Manifesto del partito
comunista e su un testo di Lenin, La dittatura del proletariato e il rinnegato Kautsky. Se ci
soffermo su quel periodo, mi rendo conto che non è che capissi bene tutto quanto che mi capitava
tra le mani, ma c’erano frasi, pagine che mi entusiasmavano, tenuto conto che la lettura era in
“solitaria”, cioè non c’era un gruppo con cui ne parlavo. Ma quello che mi entusiasmava davvero
era sentirmi parte di un movimento che cercava di rivoltare il mondo come un calzino. Per quanto
riguarda la militanza politica, la svolta, almeno nella mia formazione, avviene in seguito ad un
episodio abbastanza clamoroso qui a Roma. Mi riferisco all’uccisione da parte della polizia di un
giovane di Lotta Continua, Fabrizio Ceruso, durante lo sgombero di una casa occupata. Per alcuni
giorni, in una borgata romana è scontro aperto con la polizia. Alcuni anni dopo ho letto La violenza
illustrata di Nanni Balestrini la cronaca di quella che a me, allora, era sembrata un’insurrezione. E’
in quell’occasione che sento parlare dell’Autonomia operaia. Il mio interesse rispetto a quest’area è
però prevalentemente “culturale”. Comincio a leggere le riviste che venivano pubblicate allora,
leggo alcuni testi, c’è la scoperta di alcuni teorici che vengono inscritti all’operaismo italiano. Mi
riferisco a Toni Negri e Mario Tronti. Leggo per la prima volta Operai e capitale, anche se devo
dire che non è che riuscissi molto a decrittarlo. Per quanto riguarda l’attività politica il piano è un
po’ più spostato, separato, nel senso che questo comitato di lotta che frequentavo si era allargato,
perché erano presenti tutte le componenti della sinistra extraparlamentare. C’erano compagni di
Lotta Continua, del Manifesto, alcuni che avevano fatto militanza in Potere Operaio, anche persone
vicine al PCI. Era un comitato molto particolare, con una forte presenza di abitanti del luogo. Va
quindi detto che la separazione tra l’interesse “culturale” per l’Autonomia e l’attività politica e
netta, anche perché a Primavalle, dopo lo scioglimento di Potere Operaio, non c’è una presenza
significativa che può essere ricondotta all’Autonomia. Questo fino al ’77. Nel ’74-’75-’76,
partecipo all’esperienza dei mercatini rossi, dell’autoriduzione delle bollette, che però, almeno nel
quartiere dove io facevo politica, era gestito unitariamente, cioè non c’era una caratterizzazione di
una sigla piuttosto che un’altra, di un’organizzazione piuttosto che un’altra. L’unica “sezione” della
sinistra extraparlamentare era quella di Lotta Continua, che però rimaneva quasi sempre chiusa. I
ricordi sono sempre di un “pischello” che annusava l’aria e che mediava la sua militanza attraverso
le amicizie. Inoltre, va detto, che a Primavalle c’era stata un’azione antifascista che aveva fatto
discutere aspramente nella sinistra extraparlamentare. Mi riferisco alla morte di due fascisti, i
fratelli Mattei, la cui responsabilità viene addossata dagli inquirenti e non solo all’area intorno a
Potere Operaio: quell’episodio creò una sorta di frattura o comunque un atteggiamento di diffidenza
nei confronti dei compagni di PO prima e dei collettivi autonomi dopo. Questa diffidenza si toccava
con mano nel giro che frequentavo. Comunque, va detto che a fare l’autoriduzione delle bollette

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c’erano anche dei compagni dei Volsci, mentre alcune occupazione di case hanno visto protagonisti
dei compagni dell’Autonomia.
Io inizio le superiori in una fase un po’ di stanca del movimento studentesco, in cui i gruppi della
nuova sinistra (il PDUP, Avanguardia Operaia, Lotta Continua) hanno tutti la propria
organizzazione studentesca. Nella scuola che frequentavo funzionava una specie di assemblea dei
delegati di classe. Era l’organismo sovrano, lì si prendevano le decisioni a cui, nel bene e nel male,
tutti le organizzazioni studentesche sottostavano. Partecipo come delegato alla sua esperienza per
due anni. Volevamo la scuola aperta il pomeriggio, la mensa scolastica, balbettavamo discorsi sui
servizi sociali gratis per gli studenti, ma niente di importante. Passavamo molto tempo a scontrarci
con i fascisti della sezione del MSI che distava un centinaio di metri dalla scuola. Mi ricordo lo
shock per l’omicidio di Pietro Bruno nel ’75. Va detto che in quel periodo, che io considero di
stanca, poiché il mio era un istituto tecnico industriale, prendiamo contatto con dei consigli di
fabbrica, quelli dell’IBM, della Litton e della ITT. L’ITT perché veniva considerata una
multinazionale che aveva delle responsabilità per alcuni golpe in America Latina, specificatamente
in Cile; l’IBM perché c’era una sezione di informatica. Lo stesso vale per la Litton, che era
un’azienda di componentistica informatica. Lì cominciamo tutti, o almeno chi è interessato, a
leggere dei testi che sono al confine dell’operaismo, ma anche di storia operaia, in senso generico e
generale. C’è un tentativo di mettere in piedi un collettivo che viene chiamato Collettivo del sapere
operaio, che però dura l’arco di una stagione, ed è più che altro un momento seminariale e di
autoformazione: non dà vita quasi a niente, se non a degli incontri, a delle partecipazioni a delle
riunioni del consiglio di fabbrica, perché eravamo invitati a parlare della nostra condizione
studentesca. Poi ci sono tutte le vicende relative al disfacimento, anzi all’implosione della sinistra
extraparlamentare, che coinvolgono anche la vita interna alla scuola: ci sono le elezioni del ’75,
quelle del ’76, che danno vita a un dibattito parecchio acceso, perché era molto forte la componente
del Manifesto, altrettanto quella di Lotta Continua, mentre l’area dell’Autonomia sono 3 o 4
compagni che danno vita a un collettivo autonomo insieme a degli anarchici. Il ’76 è il punto di
svolta anche personale: ci sono le elezioni generali, Democrazia Proletaria va male, comincia tutto
il processo di dissoluzione dei gruppi. Nell’estate di quell’anno io leggo e seguo attentamente due
momenti che reputo importanti nella mia biografia personale: si tratta di due meeting, chiamiamoli
così, o comunque due appuntamenti del proletariato giovanile, come venivano chiamati i giovani,
uno di Lotta Continua alle porte di Napoli e uno a Ravenna. Quello che mi colpisce di più è quello
di Ravenna, perché ci sono degli scontri con la polizia, con un atteggiamento di forte ostilità da
parte dell’amministrazione comunale gestita dal PCI e dal PSI: in quell’occasione echeggiano tutti i
temi di stigmatizzazione da parte della sinistra storica nei confronti dell’autonomia. Con l’inizio del
nuovo anno scolastico, a settembre-ottobre, parte il movimento dell’autoriduzione dei biglietti del
cinema e della musica gratis, e io ci sto dentro: ci sono una serie di cortei che attraversano il centro
della città, si entra nei cinema, spesso si porta via l’incasso. Ci sono le prime esperienze degli
espropri proletari. Partecipo a tutto ciò, anche se come cane sciolto, cioè non faccio mai la scelta di
legarmi, per intenderci, al collettivo di Via dei Volsci: anzi, i Volsci li ho sempre considerati come
un’espressione importante ma lontana, estranea a quello che pensavo. E’ questo il periodo in cui il
confronto con le tematiche operaiste si fa ravvicinato, quindi leggo non solo Negri ma, per esempio,
Bologna, comincio a cercare disperatamente nelle librerie di movimento tutto ciò che veniva
prodotto al Nord, seguo con attenzione l’esperienza dei circoli del proletariato giovanile di Milano e
in parte di Torino, anche se queste ultime sono successive. Quindi si arriva al ’77.
Il ’77 è il ’77. C’è una scelta più marcata di collocazione all’interno di quello che viene chiamato il
movimento e una presa di distanza dall’esperienza del comitato di lotta per la casa di Primavalle.
C’è un episodio, sempre a Primavalle, alla fine del ’76 che mi fece molto riflettere: mi riferisco a
uno scontro tra polizia e piccoli malavitosi, che si trasforma in una rivolta di quartiere. Nella scuola
che frequentavo decidemmo con una buona dose di inconsapevolezza, alla garibaldina, di uscire in
corteo per raggiungere i “rivoltosi”. Ci trovammo di fronte una cosa molto riot americano, con
bande che fronteggiavano militarmente la polizia. Per noi la scelta di andare in corteo per

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manifestare solidarietà con il quartiere era sinonimo di rompere la gabbia un po’ dorata della scuola
ed entrare definitivamente in contatto con i proletari. Ingenuità da parte nostra, sicuramente. Questo
per sottolineare sempre la dimensione da “educazione sentimentale” alla politica rappresentato da
quel triennio che va dal ’74 al ’76. Insomma, faccio il giovane di movimento, cioè quello che
facevano tanti altri. Tutto quello che accadeva era una scoperta di un mondo sconosciuto, ed ogni
elemento che aiutava a costruirne il puzzle era un evento. Così accade con la lettura, e questa volta
con una discussione collettiva, di due testi di Franco Piperno, uno sulla condizione studentesca e
l’altro sul ruolo dei tecnici nell’autunno caldo. Testi che accentuavano il fatto che lo studente inteso
come forza-lavoro potenziale. Il gruppo con cui li lessi e li discussi forziamo l’interpretazione e
arriviamo a dire una banalità, cioè che la scuola non forma forza-lavoro, ma regola l’esercito
industriale di riserva: in altri termini, chi studia in istituto tecnico non studia per fare il quadro, ma
impara la dura legge della disoccupazione. Da qui, la scelta di cominciare a pensare alla
rivendicazioni come battaglia sui servizi sociali. Chiedevamo, con forza, la gratuità del trasporto
pubblico per gli studenti, della la mensa, dei libri di testo. Pensiamo a trasformare la scuola in
scuola quadri. Parole d’ordine del collettivo autonomo, ma che coinvolgono studenti che, come me,
venivano comunque da una vicinanza ai gruppi della nuova sinistra. Dopo l’esperienza
dell’autoriduzione dei biglietti al cinema e della musica gratis, è ovvia la rilettura dell’esperienza
dei circoli del proletariato giovanile. La scuola diventa allora uno spazio da liberare. Proponiamo
l’apertura del pomeriggio della scuola e la utilizziamo come una sede di movimento: organizziamo
iniziative in quartiere, dall’antifascismo militante fino agli “espropri proletari”. Poi esplode il
movimento del ’77 e occupiamo per un mese la scuola. In termini di letture io mi “ingarello” sui
Manoscritti del ’44 di Marx, nel senso che per tutto il ’77 è il libro che mi porto dietro. Nel
frattempo, scopro le Lotte operaie e sviluppo capitalistico di Panzieri e divento un assiduo
frequentatore delle librerie per andare a caccia degli Opuscoli Marxisti della Feltrinelli, quei
libricini di sessanta, settanta pagine che non vanno confusi con i libri della collana i Materiali
Marxisti.
Gli Opuscoli Marxisti li utilizzo come una sorta di breviario, del tipo “vediamo se questo che scrive
tizio può tradursi in qualche cosa”. Dell'operaismo mi affascina il linguaggio, l'ottimismo della
ragione, un certo messianesimo che trasudano. Degli autori operaisti mi incantano due stili di
scrittura: quello di Sergio Bologna, che secondo me è l’autore operaista che scrive meglio, cioè che
riesce a coinvolgerti nella scrittura, e Toni Negri, che invece è spesso l’oscurità massima.
Ovviamente, la lettura di Rosso diventa un appuntamento costante nella mia vita di allora. Ma è il
movimento del ’77 che cambia la mia vita. Ero un cane sciolto, visto male dai vecchi amici ancora
legati ai gruppi della nuova sinistra e visto con sospetto dai militanti dell'Autonomia per l’amicizia
con i primi. Sono nel mezzo, ma il tarlo avviato dalle letture continua a scavare dentro. In ogni caso,
la mia casa è il movimento del ’77, perché non riesco più a vedere nulla di positivo in quello che si
muove al di fuori di esso. Il punto e a capo avviene il 7 aprile ’79: lì si capisce, o almeno io ho la
sensazione che la partita è persa, che ciò che aveva attanagliato il movimento a Roma molto più che
nella altre città è il circolo vizioso che ti porta in una strada senza uscite, in un vicolo cieco, che è
quello appunto repressione-risposta alla repressione-nuova repressione e radicalizzazione
successiva. E il 7 aprile ho la sensazione netta che sia finita una storia.
La mia vita si era oramai strutturata attorno alla militanza politica, che non era solo il volantino ma
era una sorta di costruzione, che si rinnovava sempre, di una comunità di persone, di uomini e
donne. Ad esempio, il fatto di pensare alla scuola come a una sede di movimento, affermarlo adesso
è ingenuo dirlo così, voleva dire dormirci dentro, liberare uno spazio a tutti gli effetti. Avevamo
occupato anche un edificio dismesso della scuola, trasformandolo in una sorta di ostello dove tutti
potevano andare. Il 7 aprile ’79 è una doccia gelata e la sconfitta alla Fiat l’anno successivo è
vissuta come la rotta di un esercito. Non che avessi mai pensato all’operaio-massa la figura divina
della classe, ma pensavo, e continuo a pensare, che il laboratorio italiano è stato tale perché la
contestazione ai rapporti sociali di produzione era totale anche perché c’era Cipputi. Anche se io

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preferivo Gasparazzo. Forse eravamo già sconfitti, ma i 35 giorni alla Fiat sono il sigillo della
sconfitta.
Gli anni Ottanta sono per me la deriva. Quasi tutti quelli che io consideravo allora i miei compagni
fanno delle scelte che successivamente potrei definire, ma in termini scherzosi, di esodo: alcuni se
ne sono proprio andati dall’Italia, altri hanno incontrato l’eroina, altri hanno fatto la scelta di
sparacchiare. Io mi ricordo la prima metà degli anni ’80 come un periodo buio, di paralisi, di
solitudine anche. Certo, con un gruppo di persone che si autodefinivano operaisti - è proprio da loro
che sento per la prima volta una connotazione politica dell’operaismo - tentiamo in quartiere di
mettere in moto un meccanismo di intervento sul lavoro nero, cosa che facciamo, perché nella zona
c’erano una serie di laboratori del tessile. Lanciamo la parola d’ordine dell’inchiesta, nel senso che
stabiliamo contatti con chi ci lavorava dentro, in maggior parte giovani donne, cerchiamo di
costruire insieme a loro delle iniziative per la regolarizzazione, in quanto erano quasi tutte in nero, o
per l’aumento del salario perché erano pagate proprio una miseria. Anche lì c’è stata poi la
riproduzione dei meccanismi letti o sentiti raccontare di intervento sul lavoro nero: le ronde e via
dicendo. Però, la sensazione è che comunque fosse partita chiusa.

- A Milano e da altre parti la dissoluzione così rapida del movimento coincide con un’azione
repressiva forte, che porta sostanzialmente allo smantellamento di intere parti dell’area
dell’Autonomia: a Padova, ad esempio, dal 7 aprile al 21 dicembre all’81-’82 un intero quadro
viene spazzato via da Romito e via dicendo, la stessa cosa avviene a Milano. A Roma, invece,
non succede questa cosa perché non ha pentiti, o comunque li ha solo in termini marginali.
Tuttavia, a Roma è altrettanto forte la dissoluzione del quadro che ha retto l’intervento politico
negli anni ’70. Come analizzi questo fenomeno?

Io non sono d’accordo con l’analisi sui collettivi politici veneti, che secondo me vengono spazzati
via politicamente ma il legame organizzativo rimane, se no non si spiegherebbe perché abbiano
resistito per tutti gli anni ’80.

- Certo, non vengono spazzati via, resistono anche organizzativamente, tant'è che un certo
quadro politico è sostanzialmente presente ancora oggi; il fatto è che si interrompe quel
percorso.

A Roma secondo me ciò dipende, da una parte dalla struttura sociale della città: questo significa che
parecchi dei militanti, ad esempio dei collettivi autonomi operai romani, i Volsci per intenderci,
lavorano nei servizi. Accade che, mentre l’attività di movimento perde di visibilità e di impatto
politico sulla città, loro continuano a fare militanza politica sul luogo di lavoro. Il poter
continuamente attraversare la dimensione del lavoro e del sociale, cioè questa completa osmosi nel
loro essere militanti politici, garantisce la tenuta a Roma. E garantisce anche un altro aspetto, cioè il
fatto che i Volsci sono una comunità: una comunità solidale al proprio interno, che mette in moto
dei meccanismi di mutuo soccorso. A Roma, per quello che so io, quando si fanno gli espropri
proletari poi si divide il ricavato, non solo tra chi lo fa, ma anche con il gruppo sociale di
riferimento. Poi qui conta moltissimo la dimensione di quartiere, cosa che per esempio né a Padova
né a Milano è importante, anche se poi Primo Moroni ad un certo punto cerca di spiegare il ruolo di
alcuni quartieri milanesi nelle vicende del movimento. Ma a Roma il quartiere non è solo un’entità
geografica, è un’entità sociale molto precisa. E i Volsci riescono a fare un piccolo miracolo: molti
di loro sono lavoratori nei servizi e lì svolgono attività sindacale attraverso i comitati di base che
sono stati formati - basti pensare al Collettivo politico dell’Enel o a quello della Sip o a quella della
Casaccia, ossia il Centro di ricerche dell’Enel. Allo stesso tempo, la dimensione sociale dei Volsci
garantisce il loro radicamento in città. Questo ha permesso, negli anni della repressione dura, una
certa impermeabilità al pentitismo. Inoltre, i Volsci dell’illegalità diffusa hanno un concetto molto
preciso: non si va mai oltre un certo limite, che a Roma si supera una volta sola (si tratta

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dell’omicidio di un poliziotto durante una manifestazione). Nel movimento, quella morte provocò
una discussione ferocissima e violentissima. Anche i compagni dei Volsci l’hanno considerata un
disastro politico. Per loro, il rapporto con la violenza, o meglio l’uso della violenza è subordinato
alla tenuta di questa comunità che erano riusciti a costituire. Questo non significa che non ci siano
state azioni armate che possono essere ascritte all’area dell’Autonomia, ma sono sempre mirate alle
cose, mai alle persone. Questo ha garantito, nonostante che molti militanti dell’autonomia siano poi
finiti in galera, la tenuta del collettivo di Via dei Volsci. Inoltre, penso che, anche se i compagni dei
Volsci smentirebbero decisamente, che c’è stata una competizione con le Brigate Rosse.
A Roma le BR hanno radici non tanto operaie, ma sono composte da militanti del movimento, nel
senso che tutti i quadri politici più rilevanti delle Brigate Rosse romane è gente che ha fatto il
movimento nel ’68, ’69, ’70, ’71, ’72, ’73. E quando hanno fatto la scelta della lotta armata avevano
hanno come terreno di intervento politico lo stesso di chi non entra in un’organizzazione
combattente. Nella ricostruzione che alcuni militanti della lotta armata hanno fatto in occasione del
ventennale del ’77, e che è stata ospitata anche da Il Manifesto, mi suona indicativa della contiguità
tra aree del movimento e la lotta armata: “noi - cito a memoria - eravamo un’organizzazione armata,
l’avanguardia del proletariato, però se ci venivano a chiedere qualche cosa noi mettevamo a
disposizione il nostro know-how”. Quindi non c’è mai una scelta di separazione netta: c’è la scelta
della clandestinità, dell’organizzazione combattente, ma tutto ciò non significa tagliare decisamente
i ponti con quello che si muove nel movimento. E i Volsci, siccome sono l’organizzazione
dell’Autonomia più numerosa a Roma, più forte, più incisiva, più rappresentativa (se questo termine
ha ancora un senso usarlo), sono competitivi con le Brigate Rosse. La mia lettura non ha nessun
intento criminalizzante, né vuole sostenere la tesi che il movimento e le Br erano la stessa cosa.
Voglio semplicemente dire che a Roma l’autonomia e le Br sono realtà politiche che hanno linee
diverse tra loro, ma spesso hanno lo stesso terreno di iniziativa politica. Per questo, un po’
ironicamente, si potrebbe dire che erano competitive. Sottolineo l’ironia di questa affermazione,
perché so che per molti tutto ciò, non va dimenticato, ha significato pagare di persona. Ma è passato
del tempo, e vale forse la pena di pensare a quel periodo come a una stagione chiusa. Questo per
quanto riguarda la ricostruzione storica, perché non sarà mai chiusa finché non ci sarà una soluzione
politica alla carcerazione di chi è stato un militante della lotta armata. Per ritornare alla tua
domanda, va riconosciuto il fatto che i Volsci non sono mai compartimentati, come invece è
accaduto in alcune aree dell’Autonomia, ad esempio a Milano. Non c’è mai un doppio livello: la
dominante romana dell’autonomia è la costituzione, confusa, magmatica, spesso identitaria di una
comunità.

- Infatti, per molti versi i Volsci hanno avuto lo stesso modello organizzativo di Lotta Continua,
una struttura di massa con un servizio d’ordine; mentre invece il resto dell’Autonomia
costituiva un’esperienza diversa. Buona parte di quelli che daranno vita alle Brigate Rosse a
Roma vengono da Potere Operaio, l’unico che passa dai Volsci alle BR è Seghetti.

Sì, però Seghetti ha una frequentazione ad esempio con gente di PO.

- E i Volsci vengono perlopiù da Il Manifesto.

Nascono da una scissione del Manifesto. Ma torniamo agli anni Ottanta. Ripeto: sono anni di
deriva, di solitudine, di disperazione anche, perché vedi tutte le strade chiuse. Ma per me sono
anche anni di letture. A un certo punto uno prende e si mette a leggere, a fare i conti con Marx, che
era sempre stato leggiucchiato negli anni precedenti, mentre ora diventa uno studio più sistematico.
Per me, è stata importante la lettura delle lezioni di Toni Negri raccolte nel volume di Marx oltre
Marx: non tanto le ultime, dove lui stabilisce un circolo virtuoso tra consumo e produzione, quanto
quell’impostazione di fondo di considerare Marx come un’opera aperta, e quindi la necessità di
forzare alcuni aspetti della riflessione marxiana. Ma è proprio alla fine degli anni Ottanta che si può

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cominciare a parlare però di postoperaismo. Mi riferisco, in particolare, ad alcuni saggi
fondamentali scritti da Oreste Scalzone apparsi, se non ricordo male, sui Pre-print dell’autonomia
o su Metropoli. Sono pagine che affermano chiaramente che bisogna prendere le distanze da
un’esperienza teorica politica che va da Potere operaio fino all’Autonomia. Dunque, si potrebbe
dire che la scoperta dell’antipsichiatria, di Deleuze serve ad aggiornare il cassetto degli attrezzi
teorici. E’ interessante notare anche che l’incontro con Deleuze prima e Foucault dopo non è
all’insegna di una ripresa dell’iniziativa politica. La seconda metà degli anni Ottanta, un gruppo più
o meno numeroso di compagni ha scelto di “studiare”, cioè di produrre teoria. Questo accade
sicuramente per la sconfitta, ma anche perché la militanza politica spesso si riduce a una
dimensione rituale. Infine, mi sembra che questa scelta segnali una presa di distanza
dall’Autonomia degli anni ’80, che è cosa ben diversa da quella del decennio precedente. Prima o
poi qualcuno farà una storia dell’Autonomia degli anni Ottanta, che non è solo un residuo o una
“testimonianza identitaria”, visto che sarà proprio da quell’insieme di collettivi che prenderà il via
l’esperienza dei centri sociali. Eppure la dimensione residuale, e quindi identitaria, è stata per me la
bussola che ha orientato le scelte. Da parte mia c’è quindi una presa di distanza proprio netta.
Provavo fastidio per quello che accadeva al suo interno, perché mi sembrava che fosse necessario
assumere fino in fondo la radicalità della sconfitta. Questo non significa che quello che si sosteneva
negli anni Settanta era tutto sbagliato. Semplicemente, era stata sconfitta un’ipotesi politica di
trasformazione radicale, di presa del potere. L’assalto al cielo si era risolto con una caduta in terra.
E tutto ciò era dovuto sicuramente alla repressione, ma anche perché la società era cambiata.
Bisognava di nuovo, mi sembrava di intuire, ripartire dai rapporti sociali di produzione,
dall’erogazione di forza-lavoro, dal regime di accumulazione capitalistica.

- Giustamente tu dici che, per quanto riguarda gli anni ’80, si tratta di un’altra storia, e non si
può non notare questa grossa cesura di cui tu parli. Quali invece sono state, secondo te, le
ricchezze e i limiti delle esperienze degli anni ’70?

La ricchezza, paradossalmente, costituisce anche il limite negli anni ’70. La ricchezza è di essere un
movimento che riesce a politicizzare tutto, tutta la dimensione della vita: è una ricchezza, è una
grande operazione di disvelamento dei rapporti di potere all’interno della società, con grande
capacità di lettura, di interpretazione e di intervento politico. Ma questo è anche un limite, perché è
come se questa politicizzazione rendesse “inservibili” tutte le forme organizzative conosciute del
movimento rivoluzionario novecentesco (chiamiamolo così, perché movimento operaio può
assumere una connotazione parziale). E’ come se uno fosse arrivato all’apice dello scontro, con una
ricchezza di elaborazione e pratica politica, e fare i conti con forme politiche che prevedono tale
ricchezza, ma che anzi sono state pensate in una situazione di povertà. Mi spiego: il partito
centralizzato poteva andare bene in Russia agli inizi del Novecento, ma costituiva un limite politico
nell’Europa degli Settanta. Insomma, la politicizzazione integrale della vita è la ricchezza degli anni
Settanta, ma ha stabilito anche il limite delle organizzazioni politiche nate negli anni Settanta,
nessuna esclusa. Sarà perché la stretta repressiva ha ridotto gli spazi di manovra per cercare di
sperimentare; o forse perché, come dice un compagno che ho imparato a conoscere dopo, nella
seconda metà degli anni ’80, che è Paolo Virno, “eravamo in una situazione quasi di guerra civile e
abbiamo cominciato a parlare il linguaggio della guerra di posizione”. C’erano due cose che non
stavano assieme, cioè una escludeva l’altra, non c’era niente da fare.

- Negri sostiene, in maniera molto semplicistica e riduttiva, che il movimento è stato ucciso da
una tenaglia rappresentata da una parte dal lottarmatismo e dall’altra dalla repressione.
Perché, secondo te, queste forme di movimento che avevano prodotto una ricchezza in termini
di espressione di rapporti di forza all’interno della società e che hanno avuto una dimensione
politica si fanno trascinare sul terreno della lotta armata?

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Io non sono d’accordo con questa interpretazione di Toni: essa riflette anche alcuni suoi percorsi
politici, tra la metà degli anni ’70 e l’arresto. Io sono convinto che il discorso della lotta armata
vada calibrato molto attentamente. Dentro il movimento il discorso del ricorso all’uso della forza e
della violenza era senso comune, nel senso che l’uso della violenza era una possibilità contemplata
da tutti. Non siamo però alla lotta armata, una scelta politica che si fa strada nel movimento del ’77
nella sua fase declinante. C’era la repressione, inutile negarlo: la lotta armata è sembrata a molti la
scelta consona a tale livello di repressione. Ma non va negato anche il fatto che dentro il movimento
si apre uno scontro duro su opzioni politiche diverse e incompatibili tra loro. Mi ricordo molto bene
il convegno, o la tre giorni, di Bologna del settembre del ’77. E un’ipotesi vince numericamente,
quella del movimento diffuso, “desiderante”, ma perde politicamente, perché non ha la capacità di
consolidare quello che aveva ottenuto. C’era un limite oggettivo e soggettivo, si sarebbe detto
allora. Mi spiego meglio: il movimento avrebbe dovuto aver maggiore consapevolezza della sua
potenza politica e degli elementi di trasformazione in atto e consolidarli, magari svilupparli. Se c’è
politicizzazione della vita, significa contestare la gestione di tutto, dalla fabbrica agli asili nido agli
ospedali. Il problema politico, allora, era di consolidare quello che tu eri riuscito costruire in
termini di, per usare un’espressione di allora, contropotere. Il movimento non ha avuto questa
capacità.. Invece, c’è l’altra opzione che si fa strada, quella della lotta armata, e che acquista
consensi sempre più numerosi quando il movimento è all’angolo. Se per diletto qualcuno si
rileggesse gli atti di molti processi per terrorismo, scoprirebbe che gran parte dei militanti arrestati e
in galera non sono né delle Brigate Rosse, né di Prima Linea, ma è gente che, visto che l’uso delle
armi era già contemplato come possibilità, mette in piedi un gruppo che fa le sue azioni, sceglie i
suoi obiettivi e li persegue. La lotta armata ratifica il fatto che un movimento talmente radicale, nel
senso che ha cercato di andare alla radice delle cose e dei rapporti di potere all’interno della società,
non riesce a trovare le forme organizzative adatte a reggere la potenza politica che esprime. Questo
significa la repressione fa la sua parte, ma che il problema politico vero era un altro, cioè la capacità
di agire intelligentemente in una situazione di politicizzazione della vita.
Sono temi e linee interpretative della sconfitta che si fanno strada nel crepuscolo degli anni Ottanta,
così come viene messo all’ordine del giorno il fatto che il movimento del ’77 significa anche
rottura, presa di congedo dalla cultura e tradizione politica Movimento Operaio organizzato. Anche
in questo caso, anticipazioni ce ne erano state durante gli anni Settanta. Penso soprattutto alla
suggestione dell’esistenza dell’altro movimento operaio, che alla luce del presente, è però
un’approssimazione del tema problema. Insomma, l’insoddisfazione o comunque la diffidenza nei
confronti dell’Autonomia degli anni ’80 derivava anche dalla sua incapacità di andare alla radice
della sconfitta. Ma anche perché sostenevano tesi, parole d’ordine che mi sembravano al di sotto di
quello che il panorama sociale imponeva. Infine, forse per riflesso giovanile, continuavo a dirmi: la
composizione sociale della forza-lavoro è cambiata, ma questi continuavo a presentare centrale ciò
che centrale non mi pare più. Capisco che il mio era un atteggiamento ingeneroso verso chi
continuava a fare militanza politica, ma mi sembrava che quella da loro imboccata era un vicolo
cieco, incapace di fare i conti con quello che nella realtà capitalista era cambiato a causa anche del
movimento degli anni Settanta. Per cui quello che dice Toni non mi convince. Con lui ho discusso
su questo tema, ma non mi ha convinto mai. Per una volta si può dire che la sua lettura è
semplicistica.
In qualche maniera il movimento del ’77 anticipa molte cose di quello che diviene il senso comune
negli anni successivi: il discorso del rifiuto del lavoro nel ’77, che era rifiuto del lavoro salariato,
non c’è subbio che abbia dato luogo a dei comportamenti sociali diffusi, che hanno rotto con l’etica
del lavoro, e che però hanno avuto un approdo con un cambiamento di segno. Si provi a pensare alla
retorica contro la gerarchia e l’organizzazione che è alla base dell’ideologia del lavoro autonomo.
Ci trovi, e questo mi sembra lo abbia sufficiente sottolineato Sergio Bologna, un ordine del discorso
presente nel movimento. Soltanto che allora il rifiuto del lavoro salariato era comportamento
sovversivo: adesso, il rifiuto di lavorare sotto padrone significa spesso introiettare le compatibilità
definite dal comando d’impresa. Questo per dire che molte cose erano state intuite nel ’77.

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Giustamente è stato scritto che il ’77 è il futuro alle nostre spalle. Allora però non c’è stato tempo, o
forse c’è stata immaturità. Quando si è un militante si hanno spesso problemi contingenti a cui si
deve rispondere: se devi organizzare, ad esempio, un’iniziativa contro il lavoro nero, finalizzi la tua
riflessione a questo e altre cose le metti in secondo piano.
A metà degli anni ’80 io ho due fortune. La prima è che ero un programmatore, per cui, attraverso
giri di amicizie, entro in contatto con uno de Il Manifesto che mi chiede: “vuoi venire a gestire o a
lavorare all’informatizzazione del giornale?”. Io ero disoccupato, o meglio facevo lavoretti per
starmene il più possibile fuori di casa; assistevo allo sfacelo del quartiere dove ero cresciuto
politicamente, in cui trovavi solo siringhe per terra. Assistevi impotente all’impazzimento di chi si
chiudeva dentro casa per trovare rifugio alla follia esterna. Il Manifesto dava una risposta alla
necessità di un lavoro - ero stanco di stare con i genitori - e che non fosse un lavoro di merda. Ed è
qui che ho incontrato Marco Bascetta, con cui ho iniziato a parlare, scambiare idee, lui consigliava
dei libri da leggere e io gli segnalavo delle cose che mi sembravano interessanti. Attorno a lui ed
altri e altre della sezione cultura si costituisce un gruppo di persone che macina idee. Era
elettrizzante vederlo al lavoro.
Siamo quasi alla fine degli anni Ottanta. Nell’85 avevo letto il Rapporto a metà del decennio del
Censis, in cui viene messo all’ordine del giorno un cambiamento che ritrovo come rovello in quel
gruppo di lavoro, cioè il cambiamento della struttura produttiva. Ma se per il Censis era solo un
affare di percentuali, per me e gli altri era la decodifica delle soggettività messe al lavoro. E’ la
magnifica ossessione di quel gruppo di persone, che attraversa le pagine culturali del giornale, ma
anche alcuni seminari. Va avanti così per due, tre anni. Nei confronti di alcuni di loro avevo
soggezione, ma è stato un periodo importantissimo. Di nuovo letture onnivore. Spinoza, di nuovo
Marx, alcuni testi introduttivi a Il capitale di marxisti tedeschi. Molto importante fu la lettura di un
testo di Amery su Auschwitz indicato da alcuni componenti del gruppo come lettura esemplare
della crisi della figura tradizionale dell’intellettuale. Io mi comportavo e mi sentivo come il
giovane, “il pischello” del gruppo. Partecipavo senza prendere molto la parola, ma prendevo tanti
appunti, quaderni interi di appunti. I seminari erano un’occasione per un confronto serrato sul
presente, senza nessuna nostalgia per il passato, né indulgenza verso il presente. Alcuni di loro
erano operaisti, altri no, intellettuali radicali dal punto di vista filosofico e non politico, come
possono essere Giorgio Agamben, oppure un autore napoletano come Massimo De Carolis: c’è
dunque il tentativo di discussione molto ravvicinata su testi filosofici. Per Agamben si tratta della
sua ossessione per Walter Benjamin, secondo me sgrossato del marxismo che lo caratterizza; sono
poi altri gli aspetti che lo interessano, ossia la critica alla società di massa, e un certo messianesimo
di Benjamin. Invece, Massimo De Carolis diventa importante anche per un confronto con
Heidegger; è in quel periodo che ho letto Essere e tempo o Le categorie del politico di Carl Scmitt.
Nel gruppo ci sono Marco Bascetta, Paolo Virno, Andrea Colombo, Lucio Castellano, anche se lui
mantiene sempre un atteggiamento molto disincantato, si è sempre voluto considerare un battitore
libero, io, le persone che citavo prima. Entriamo in contatto con Sergio Bianchi, che invece veniva
da un’esperienza politica caratterizzata dalla militanza in Rosso a Milano e in un gruppo di
Autonomia diffusa nel varesotto. C’è poi Massimo Ilardi, che è un operaista trontiano, che ha fatto
tutta la strada di Tronti, quindi è entrato nel PCI e vi ha militato fino al ’77, in quell’anno è uscito
per disaccordo con il partito, ma si caratterizzava come un intellettuale sui generis romano che si
occupava di città, di metropoli. Questo ha significato anche entrare in contatto con delle tematiche
molto lontane, la metropoli, le forme del controllo sociale, comunque sempre in forma seminariale.
Tutto ciò fino alla proposta di dire: “perché non cerchiamo di mettere in ordine quello che ci
diciamo qua e tentiamo di fare una rivista?”. Parte un altro ciclo di seminari sulla possibile rivista,
che dura un anno. Tra di noi c’era ancora chi tentava di fare attività politica: Sergio Bianchi me lo
ricordo come una persona che richiamava sempre la necessità di una presa di contatto con il
sindacalismo autorganizzato (i Cobas scuola già c’erano, per intenderci), e dall’altra con alcuni
centri sociali che lui frequentava. Sono sempre dei richiami disattesi, cioè non vengono recepiti da
questo gruppo, la cui formula era: “dobbiamo avere un punto di vista forte su quello che è successo

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in Italia, non possiamo permetterci di non averlo”. Sto semplificando e molto. La linea di
demarcazione non era solo questa. C’erano anche differenze teoriche, di prospettiva teorica, di
interpretazione della realtà. Ma era un gruppo con una forte intenzionalità, quella che sosteneva la
necessità di un punto di vista forte sulla realtà. Un atteggiamento che può essere giudicato forse
presuntuoso, ma è indubbio che Luogo Comune ha seminato molto e bene. L’89 significa però
anche altre cose, in primo luogo l’implosione dell’Europa dell’Est, del socialismo reale. Da lì a
pochi mesi altri due eventi, ognuno decisivo a suo modo: la rivolta di Los Angeles e la Pantera.
La rivolta di Los Angeles è salutata come la fine della controrivoluzione. E tuttavia è una rivolta
che non poteva essere equiparata alle precedenti degli anni Sessanta. Aveva a che fare con la
metropoli diffusa, dove il ghetto è laboratorio di innovazione, non di marginalità. E poi c’è la
Pantera, che per noi è l’esemplificazione di alcune cose che dicevamo rispetto alle soggettività
messe al lavoro. Se nel ’77, lo studente era un futuro disoccupato, ora era già forza-lavoro in
produzione. Da qui alla provocatoria scelta di utilizzare una dicitura come intellettualità di massa il
passo è breve. Una provocazione per affermare una verità lampante ai nostri occhi: la composizione
della forza-lavoro era cambiata, il sapere e il linguaggio erano in produzione. Quella scelta ha dato
luogo a molti equivoci, e forse era meglio che ne inventassimo un’altra! Però va detto che
quell’espressione lì fu decisa in un rapporto molto sereno con un personaggio che secondo me è
straordinario per quanto riguarda il movimento a Roma, ossia Piero Bernocchi: l’ha inventata lui
quell’espressione là, in quanto veniva dalle prime mobilitazioni dei Cobas della scuola, dove
vedeva un processo che lui chiamava di proletarizzazione degli insegnanti. Però, essendo un
compagno di movimento da sempre, aveva la lungimiranza di dire: “guardate che quello che sta
succedendo nella scuola accade nel resto della forza-lavoro”.
Per alcuni del gruppo di Luogo Comune diventa obbligato la ripresa dell’attività politica in senso
stretto. Ma questa è un’altra storia. Quello che voglio dire è che alcuni di noi spingono per l’attività
politica, altri sono più cauti, meno convinti di questo passaggio. Capiamoci un attimo: quando in
Luogo Comune arriva a maturità questa discussione, si constata che non c’è unità al nostro intento.
Le diversità poteva anche essere gestita, ma la Guerra del Golfo ci costringe a fare i conti con una
cosa che non potevamo prevedere. L’ultimo numero della rivista, forse il più bello, vengono
presentati nodi politici con cui ci ritroviamo a fare i conti anche adesso, come la crisi della
democrazia extraparlamentare. La rivista cessa le pubblicazioni, ma il gruppo continua a vedersi.
Nel frattempo ognuno fa le sue scelte, e secondo me saggiamente. C’è chi ha fatto l’agit-prop per
parecchi anni andando in giro in Italia, cercando di parlare, di discutere con realtà di movimento,
c’è la scoperta dei centri sociali per alcuni, in particolare per me per esempio.
Comincio a frequentarli, ad avere dei rapporti che non sono solo personali ma sono anche rapporti
politici, o comunque tentano di diventarlo. C’è poi il lavoro seminariale che continua per altre vie,
cominciamo a parlare di reddito di cittadinanza dentro a questo gruppo ristretto: c’è il contributo di
un magistrato del lavoro, Papi Bronzini, il quale è l’alfiere di questa parola d’ordine su cui
discutiamo, litighiamo anche con lui perché non sempre eravamo molto d’accordo. Facciamo anche
dei quaderni sul “nuovo fascismo”, sull’entrata in campo di Berlusconi e del suo partito azienda. Il
mio percorso è intrecciato con questo gruppo, anche se non c’è vincolo organizzativo. Ognuno fa
quello che ritiene giusto fare. Eppure non abbiamo avuto vita facile. Abbiamo polemizzato con la
sinistra tradizionale, che ci considerava avventuristi e continua a ripetere che il lavoro non era finito
e che la classe operaia era ancora centrale. Ma anche nel movimento, molti ci hanno messo
all’indice perché quinta colonna del capitale all’interno del movimento. E tutto questo solo perché
sostenevamo che il capitalismo continua ad esistere, ma che andava indagato a fondo quel doppio
movimento del capitale che si chiama plusvalore relativo e plusvalore assoluto. Negli anni in cui ho
girato l’Italia ho avvertito molta diffidenza, ostilità, arrivando anche a insulti veri e propri.
Insomma, per quanto mi riguarda ho provato, maldestramente, a fare l’agit-prop, stabilendo rapporti
con un’area di centri sociali fino a che le strade si sono separate. Mi riferisco a quei centri sociali
raccolti nella cosiddetta “Carta di Milano”. Le strade si sono separate. Considero le loro scelte di
fondo incongrue rispetto a quello che ritengo importante: la ripresa dell’assalto al cielo dei rapporti

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sociali di produzione, senza che questo significhi però cadere malamente in terra. Rimango quindi
orfano nuovamente, nel senso che il gruppo di Luogo Comune continua a vedersi, mantiene un filo,
poi c’è il ritorno di Toni in Italia, l’avvio di una serie di seminari con lui, la scoperta di significativi
punti di divergenza per cui ci salutiamo da bravi amici, lui continua a fare le sue cose e noi
continuiamo a fare le nostre. Questo “noi” comincia a diventare una cosa molto strana, perché
siamo io, Paolo Virno, Marco Bascetta, Andrea Colombo, Papi Bronzini, Augusto Illuminati e
niente di più. Si può dire che c’è stata una diaspora di Luogo Comune. Vengono mantenuti dei forti
rapporti personali, questo sì, nel senso che Sergio Bianchi lo sento mediamente due volte a
settimana, lo vedo una volta ogni dieci giorni, spesso discutiamo di quali sono i libri che
bisognerebbe fare e tradurre, ma è un rapporto dove la dimensione personale primeggia rispetto a
quella politica. Insomma, non c’è più quel gruppo che a un certo punto ha fatto la scommessa della
politica, questo no, anche perché l’ultimo tentativo che abbiamo fatto è stato un vero smacco.

- Secondo Alquati l’operaismo si è mosso all’interno di un poligono, con i cui vertici ha cercato
di fare i conti, riuscendovi solo in parte o non riuscendovi proprio: questi oggi sono grossi nodi
aperti, rispetto a cui una rielaborazione critica dei limiti e delle ricchezze di quelle esperienze
può essere fondamentale. Un vertice è rappresentato dagli operai e dalla loro soggettività, in
generale mai affrontata in pieno quando non addirittura trascurata: da qui il suo insistere (fin
dalla fine degli anni ’50) sulla centralità della soggettività. L’altro vertice è rappresentato
dalla politica e dal politico. Poi c’è la cultura, rispetto ai cui modelli egemoni sono state
portate avanti delle critiche: però, tutto sommato, anche in molti ambiti operaisti, e nelle sue
cerchie di simpatizzanti, ha finito per prevalere la concezione tradizionale della cultura
esplicita e umanistica, e la classica figura dell’intellettuale organico non è stata messa granché
in discussione né tanto meno superata. Un altro vertice è costituito dalla questione giovanile e
generazionale. Quali nodi tu individui come aperti e centrali per una rielaborazione critica che
guardi al presente e al futuro?

Rispetto all’operaismo il nodo della soggettività operaia è importante, è un dato di fatto. C’è una
frase molto bella di Tronti in Lenin in Inghilterra, quindi Operai e capitale, dove lui cerca di
spiegare la passività operaia, e dice: “la passività operaia, anche se non dà luogo a conflitto, e
quindi non dà luogo a organizzazione, quindi non dà luogo alla politica, è espressione
dell’autonomia operaia, il costituirsi come classe”. Quell’aspetto lì secondo me è ancora rilevante
ed aiuta ad attraversare le ambivalenze che le soggettività messe al lavoro hanno: sono vere e
proprie ambivalenze, nel senso che un’interpretazione ha lo stesso peso specifico di un’altra magari
opposta. Però, quello è un aspetto che devi assumere fino in fondo, attraversare, bere il calice amaro
(perché spesso è tale): secondo me lo strumento ideale è l’inchiesta, o la conricerca, la possiamo
chiamare in molti modi. Anche se va detto che gli operaisti, tolti alcuni casi specifici, conricerca
l’hanno spesso citata ma mai fino in fondo praticata, mentre invece sarebbe il caso di praticarla
davvero. Questa, per chi svolge un lavoro come il mio, che ha a che fare con l’informazione, è una
scommessa su cui misurare le tue capacità di relazione, di ascolto e di riconoscerti però come forza
lavoro: per me la conricerca significa che tu ti riconosci come forza-lavoro quando la fai. Quindi,
questo è un aspetto importante che rimane dell’operaismo, è una delle eredità più proficue.
Sulla dimensione politica, secondo me è meglio stendere un velo pietoso, perché tutte le ipotesi
politiche che hanno attraversato l’operaismo (e sono più di una) sono state un piccolo disastro.
Quella di Tronti, semplificata in un bel libro (va riconosciuto che è bello) che è L’autonomia del
politico, è stata complicità con un’organizzazione del Movimento Operaio che a un certo punto io
ho sentito come nemica, e con una grande capacità di riduzione della ricchezza che io vedevo nei
movimenti a cui partecipavo. Dunque, l’autonomia del politico secondo me era un cortocircuito che
strozzava. Tronti rivendica ciò fino in fondo, anche in quest’ultimo libro che ha fatto, La politica al
tramonto, e anche quello è un bel libro perché il nostro sa scrivere bene; però, è una pazzia se lo si
assume come rilettura anche di quello che è stato il ‘900 operaio (non il ‘900 come espressione

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generica). Il ‘900 operaio è una cosa che lascia inorriditi: quello che penso essere un momento
chiave, che è l’autunno caldo, lui lo liquida come una cosa irrilevante, rilevante era il partito, che è
la sintesi. Questo è un filone dell’operaismo che non riguarda solo Tronti ma riguarda in misura
anche Asor Rosa, che ha avuto compiti di responsabilità dentro il PCI, cosa che Tronti non ha mai
avuto. In alcune fasi dell’ultimo Berlinguer, Asor Rosa ha contato molto. Riguarda in parte anche
Massimo Cacciari, che però secondo me con l’operaismo a un certo punto rompe anche da un punto
di vista teorico e intellettuale, a differenza invece di Tronti e Asor Rosa, che in qualche maniera
cercano sempre un elemento di continuità. Poi c’è un altro tipo di operaismo. Mi riferisco a Potere
Operaio: e lì non è che sia andata bene, c’è stato un elemento di divaricazione al proprio interno, di
scelte divergenti. Mi ricordo alcuni scritti di Toni Negri sul crinale tra il ’77 e il ’78 dove anche lui
fa una torsione sull’autonomia del politico ma in tutt’altra direzione. Di Toni continua ad
interessarmi la sua lettura della realtà. Per questo, mi astengo da giudizi sulla sua biografia
personale. Personalizzare scelte e percorsi politici è quasi sempre improduttivo. L’autonomia del
politico teorizzata da Toni in un certo momento era un punto di approdo e un cortocircuito. Mi
sembra che il suo discorso fosse indirizzato alle Brigate Rosse, non al movimento. Forse mi
sbaglio, ma ho la sensazione che Toni ha un certo punto a pensato che fosse possibile condizionare
le scelte delle Brigate Rosse e ricondurle su un terreno politico invece che militare. Ma sono cose
che conosco poco. C’è anche un altro operaismo che però non viene mai considerato ed è quello che
si raccoglie intorno alla rivista Primo Maggio, caratterizzato da permalosità, litigiosità al proprio
interno, che riguarda personaggi come Sergio Bologna, il quale non è un intellettuale secondario in
tutte le vicende operaiste di quegli anni. E riguarda però una parte anche di Lotta Continua, cioè
l’operaismo riguarda persone come Marco Revelli: e lì le opzioni politiche secondo me rimangono
generiche e fumose, tolto per Marco Revelli che ha militato in LC, che ha avuto compiti di
responsabilità a Torino.

- Questo discorso vale in parte anche per Sofri.

Per il primo Sofri, quello di Potere Operaio pisano. Ma dura una stagione, specialmente quando
decide di dare vita a Lotta Continua l’opzione operaista rimane nella testa e nelle intenzioni di
alcuni militanti, ma certo non in Adriano Sofri. Quindi, sulla dimensione politica dell’operaismo io
direi che è la meno rilevante per il presente, nel senso che ci dice poco su uno dei problemi che
dobbiamo dipanare. Mi riferisco a quello che Paolo Virno ha chiamato “blocco della politica”.
Per quanto riguarda la dimensione culturale io non sono d’accordo. L’operaismo si è costituito
come una tradizione marxista eterodossa in Italia di gran lunga superiore alla tradizione gramsciana.
Questa è la mia valutazione. E’ inoltre una tradizione europea, cioè fa riferimento all’Europa come
orizzonte culturale e intellettuale: riesce a intercettare ed entrare in rapporto ricco e proficuo con
tradizioni culturali e filosofiche distanti dal marxismo, e ne tira fuori il meglio. In Italia, l’utilizzo
che viene alcune volte fatto di Deleuze e di Guattari, e in misura minore di Foucault, lo si ha grazie
anche all’operaismo. Secondo me quello è l’atto fondativo di una nuova tradizione marxista in
Italia, che bisognerebbe riprendere, per cui è un’eredità ancora ricca. Noi di Luogo Comune
scopriamo la metropoli e ci appassioniamo al libro di Mike Davis Le città di quarzo, su Los
Angeles. Mike Davis è da sempre marxista, lettore dell’operaismo italiano (quello che è stato
tradotto negli Stati Uniti, ovviamente): la cosa che noi valorizziamo di quel libro non è tanto la sua
descrizione della metropoli, ma l’utilizzo disincantato e politico della cultura di massa. Questa è una
caratteristica che appartiene all’operaismo. Basti pensare al rapporto che c’è all’inizio di
un’esperienza come i Quaderni Rossi con personaggi come Fortini, o l’attenzione che viene ad
esempio data alla polemica de Il Politecnico di Vittorini: ciò, però, non va considerato solo dentro
un contesto come quello italiano, ma va considerato come un tentativo di fuoriuscire dalla
tradizione storicista e gramsciana. Ed è un elemento metodologico e un’indicazione di lavoro che
vale anche adesso. Quindi, credo che sia il secondo aspetto dell’eredità dell’operaismo che è da
raccogliere e da riprendere. C’è questa grande capacità di misurarsi con ciò che è diventata la

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produzione culturale che l’operaismo ha sempre avuto. Dopo di che è vero che, come biografie,
come formazione intellettuale, quasi tutti hanno una formazione umanistica.

- Ci sono sicuramente da fare delle distinzioni: ad esempio, per Tronti e Negri rispetto alla
cultura va fatto un discorso molto diverso. Da una parte, anche dalla presente ricerca si può
vedere come una buona parte degli intervistati, benché siano collocati all’interno
dell’università, non hanno mai messo realmente in discussione i suoi modelli e meccanismi, e
soprattutto ben poco sono riusciti a usare certi margini di parziale autonomia e peculiare
ambivalenza per porre la questione di una formazione altra, di una controformazione e di una
ricerca sulla soggettività. Questo non lo ha fatto nemmeno Toni, che pure ha usato l’università
come base per l’organizzazione politica esterna. Dall’altra parte, si può vedere come
determinati ambiti disciplinari (come la sociologia, oppure la fenomenologia, ma anche la
psicoanalisi o la psicologia, ad esempio) siano stati trascurati o comunque subordinati alla
cultura esplicita ed umanistica tipica di una certa tradizione marxista e specificatamente
gramsciana. Questo discorso non vale per tutti, ovviamente, però sicuramente in generale si
tratta di un’analisi in buona misura verificabile anche per la maggior parte di coloro che
simpatizzarono, frequentarono o lambirono gli ambiti operaisti. L’ambiziosa ipotesi di una
scienza altra, che con Tronti è poi diventata la scienza operaia, non è mai andata molto oltre la
semplice enunciazione.

Questo è vero. Romano fa un caso a sé nell’operaismo, perché lui non rientra in quasi nessuno dei
filoni che vengono riconosciuti come operaisti in Italia. A un certo punto sceglie una sorta di
solitudine nella ricerca intellettuale, che, secondo me, rompe verso la fine degli anni ’80. Quando io
dico, e ne sono convinto poi veramente, che nella seconda metà degli anni ’70 si pone il problema
del superamento dell’operaismo, in termini di movimento c’è un entrare in contatto invece con
ambiti e discipline molto lontane: si pensi al discorso della psicoanalisi che viene fatto a Trieste.
Oppure si pensi al rapporto di Elvio Facchinelli con l’operaismo a Milano: diventa importante,
diventa una sorta di breviario per parecchi militanti quella lettura che lui fa dei rapporti di potere
all’interno della società negli anni della psicoanalisi. Il discorso dell’antipsichiatria, dentro il
movimento, dentro la componente che ha origine (anche se poi se ne distacca) dall’operaismo, è
importantissimo, diventa vitale. Per esempio, chi dell’operaismo fa una scelta intellettuale
solamente? Prendiamo dei casi specifici: prendiamo Toni, lui sta a Padova, è la sua base di
partenza, utilizza l’università più che altro come una sorta di laboratorio politico, ed è vero che
nell’ambito disciplinare di Toni o comunque nel gruppo che si raccoglie intorno a lui, insieme agli
altri padovani, il rapporto con la psicoanalisi, anche con la sociologia è quasi di disprezzo. Però,
sono personaggi che poi considerano importante, dal punto di vista teorico e politico, la storia del
movimento operaio americano, e chi vuol capire qualcosa di esso deve fare i conti con la sociologia.
Se si va a rileggere alcuni Materiali Marxisti della Feltrinelli, sto pensando a La formazione
dell’operaio-massa negli Stati Uniti o Crisi e organizzazione operaia ecc., c’è un rapporto se si
vuole spregiudicato con la sociologia. La cultura e la produzione culturale sono viste come
espressione di rapporti di forza nella società, e quindi si cerca, pure in quella che viene chiamata la
cultura di massa, la forma in cui si cristallizza nell’immaginare i rapporti di forza nella società.

- Per quanto riguarda il discorso sui rapporti di forza, da una parte c’è stata una grande
genialità politica nell’averlo affrontato, capito e portato avanti; dall’altra parte, però, il grande
limite è stato quello di considerare i rapporti di forza irreversibili, il che ha portato a tutta una
serie di errori politici. Determinate forzature dell’operaismo, e dell’Autonomia in particolare,
sono avvenute nel tentativo di portare sempre più avanti un discorso di articolazione dei
rapporti di forza e di rottura, che ha funzionato finché le lotte erano in crescendo, ma nel
momento in cui ciò veniva a cessare diventava distruzione di quello che si era costruito. Anche
il discorso della scelta della lotta armata è in parte all’interno dell’Autonomia in forme

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sostanziali: senz’altro giocata in termini diversi dalla clandestinità, però comunque rientra
nella costruzione di egemonia politica.

Sì, è vero. Noi in tutta questa analisi ci siamo dimenticati di una persona che fino a un certo punto
svolge il ruolo di enfant prodige e secondo me produce delle cose interessanti. Si tratta di Bifo. E’
un personaggio atipico dentro l’operaismo: all’inizio della sua apparizione pubblica scrive un libro
molto bello, che è Contro il lavoro. Poi fa l’esperienza di militane, intellettuale, non so neanche
come definirlo bene. I discorsi che lui fa nel ’77 con A/traverso e Radio Alice sono importantissimi,
perché hanno intuito la rilevanza, la centralità della dimensione comunicativa del movimento.
Alcune volte, però, ho sensazione che lui vada avanti per innamoramenti. La scoperta di Deleuze e
Guattari, l’ha portato, in alcuni casi, a un approdo che può essere vitale in termini di capacità di
interpretare alcuni fenomeni nella società e nella produzione culturale, però in un’ottica, anzi in una
dimensione impolitica. La sua lettura di Millepiani è spesso feconda, ma poi sembra dimenticare il
Deleuze de La rivoluzione molecolare. La sua è una posizione eccentrica all’interno dell’operaismo,
perché è quello che pone sin da subito il problema del suo superamento: cioè, lui punta al
superamento dell’operaismo attraverso una metodologia operaista, se si può definire così. Quindi, è
un personaggio che funziona un po’ come una variabile indipendente, entra in contatto, rompe
personalmente, poi ricuce con altri, si dà un percorso di ricerca che l’ha portato dove sappiamo, a
lavorare sempre sulle ambivalenze - delle soggettività, dei rapporti di produzione - e a pensare che
sono centrali solo quelle. Bifo è una figura importante perché in qualche maniera intuisce i limiti
dell’operaismo. Mi dispiace citare quello che ho scritto su di lui e sull’ultimo libro che ha fatto, che
è bello, La fabbrica dell’infelicità: Bifo alla fine se la prende con tutti quelli che pensano che la
dimensione della politica abbia ancora una ragione d’essere. La sua è una riproposizione
dell’autonomia del sociale.

- Bifo fa ancora un discorso interessante rispetto al rifiuto del lavoro, cosa che in Negri sembra
non esserci più.

In quest’ultimo libro Bifo fa un’operazione sul rifiuto del lavoro e sulla difficoltà di parlare di esso
secondo me in termini molto interessanti. A un certo punto scrive dice che, poiché lavoro e vita si
sovrappongo, non c’è più distinzione e che una tematica di rifiuto del lavoro è una pratica
disperante, perché le persone dovrebbero rinunciare quasi alla propria vita. E questo secondo me
apre degli interrogativi. Visto che è un tema a lui caro: come costituire una comunità fondata su basi
elettive, autonome, separate, sganciate dai meccanismi di produzione del dominio capitalistico? Lì
secondo me c’è un’aporia, però lui continua ad essere un personaggio abbastanza interessante per la
parabola dell’operaismo. Forse non smetterà mai di essere la vitale figura che è, cioè l’enfant
prodige che rompe le scatole. E se uno ha in mente una rivisitazione di quell’esperienza, di quel
filone teorico, di quella tradizione marxista che è l’operaismo, Bifo un ruolo ce l’ha avuto
indubbiamente. Poi l’operaismo è una cosa che ha caratterizzato molto le biografie individuali, nel
senso che un operaista lo riconosci subito da come ragiona, dalle priorità che si dà, dalla
metodologia che propone. Per cui, dal punto di vista della storia intellettuale italiana, è stato un
fenomeno minoritario rispetto ai grandi schieramenti, ai grandi sensi comuni, alle grandi ideologie
che si sono presentate in questo paese: però, è riuscito a segnarne indelebilmente la storia,
indipendentemente dalla parabola politica che ha attraversato.

- E’ stata una forma di eresia potente, che si conserva e si rintraccia anche in chi l’ha vissuta o
l’ha costruita. Ancora oggi a livello internazionale si può assistere a grossi momenti di dibattito
sull’operaismo.

Se si va a vedere le discussioni che ci sono negli Stati Uniti intorno a questo maledetto giochetto
che è il popolo di Seattle, c’è una sorta di operaismo di ritorno che uno non si spiega. Si pensi a

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come è stata letta negli Stati Uniti l’esperienza zapatista: ci sono alcuni marxisti americani che la
leggono in termini operaisti. Per cui è vero, è stata un’eresia potente, che secondo me mantiene
intatta la sua vitalità: potrebbe giocare una partita importante anche per quello che uno spera che
possa accadere in Italia. Potrebbe però giocare un ruolo importante per la ripresa del conflitto di
classe, per la sua capacità di leggere quello che avviene nella realtà. Si pensi paradossalmente ad
una delle persone che dal punto di vista politico, cioè di scelte politiche, si è più differenziato da
tutti gli esiti che l’operaismo ha avuto, ossia Sergio Bologna: la sua lettura ne Il lavoro autonomo di
seconda generazione è il suo punto di approdo, cioè i dieci punti che aprono il libro. Non sono
d’accordo su molte cose che lui sostiene, però la sua lettura di un fenomeno come quello del lavoro
autonomo è importante, anzi è imprescindibile per chi voglia fare politica. Anche perché Bologna
riesce a stabilire un elemento di continuità tra lavoratore autonomo di seconda generazione e figure
operaie del ciclo fordista, ma registra anche gli elementi di discontinuità nell’espressione della
soggettività. Il suo libro è segno di vitalità di un pensiero, di una tradizione teorica e culturale.

- Infatti, anche lui, seppur fortemente critico rispetto a molti aspetti delle esperienze operaiste,
non butta via assolutamente niente: anzi, pur riscontrandone i molti limiti, ne valorizza
parecchie ricchezze.

Le mantiene tutte, direi. Questo non significa negare il fatto che gli operaista sono litigiosi. Ad
esempio, Sergio è uno che ha litigato più o meno con tutti. E’ la sua indole, ma anche segno di una
passione teorica e di uno spessore umano indubbi. E se ti deve parlare del lavoro che fa a Reggio
Calabria la descrizione che ti dà della realtà calabrese è mediata dall’operaismo. C’è quella griglia
analitica, quella metodologia da dove parti a guardare la realtà, il modo di farlo. Questo per dire di
Sergio Bologna. Ma anche questo testo di Romano, Cultura Formazione e Ricerca (che avevo letto
a casa di un compagno di Torino alcuni anni fa), dice delle cose rispetto a questi temi che se uno ci
pensa, al di là del linguaggio oscuro che spesso lo caratterizza, i cambiamenti dentro l’università li
ha anticipati.

- De Caro tu l’hai conosciuto?

Sì, però non so poi che fine abbia fatto.

- Lui è sicuramente una delle persone più critiche rispetto all’operaismo, però in termini politici,
ne ha evidenziato i limiti su elevati livelli di analisi. Anche nel suo lavoro all’Enciclopedia
Treccani ha svolto un importante ruolo dal punto di vista politico e culturale (Millepiani ad
esempio l’ha fatto tradurre lui).

Anche se l’operaismo lo si vuol vedere in termini storiografici, per chi lo vuol fare, si nota che fin
dall’inizio, una volta che si è costituita l’affinità elettiva, iniziano le frizioni. La prima grossa rottura
tra Panzieri e Tronti è sulla dimensione politica, non su altro. Dunque, la rottura è avvenuta sulla
dimensione politica, cioè sul “che fare?”. Una delle cose che invece dovrebbe essere ripresa di
quella tradizione è proprio questa continuo rinvio alla verifica della realtà. Non sempre è stato così,
e fughe in avanti ci sono state. Non so ancora bene se sono un operaista o meno, ma sono tuttora
affascinato da quel modo di porgere i problemi, di affrontarli, di metterli a tema. Se qualcuno
chiedesse cosa non serve della tradizione operaista, risponderei le scelte politiche fatte dagli
operaisti. Appartengono a una stagione politica. Adesso serve sperimentare altro.

- Il nodo è spesso stato proprio nella dialettica tra costruzione e distruzione, che tante volte è
saltata. Il processo è indubbiamente quello, il problema è portarlo avanti.

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Qui andiamo un po’ anche nello spessore intellettuale e umano delle persone. Per esempio, Tronti
ha pensato di governare quello che voi dite, la dialettica tra costruzione e distruzione, attraverso il
partito, ritenendo che quello fosse il luogo deputato. Se si va a vedere, altre esperienze hanno
pensato che il momento di sintesi dovesse essere quello delle persone che formavano la stessa
ipotesi politica, quindi con una sorta di tensione ad accentrare. Facendo una battuta banale, se si va
a parlare con Toni o con Marco Revelli, quando devono discutere di una cosa che riguarda ciò che
pensano loro, utilizzano il noi, mentre è una loro ipotesi. Dunque, questa “superbia” intellettuale è
un aspetto della tradizione operaista che proprio lascerei da parte. Anche le scorciatoie tipo
“individuo il soggetto centrale della trasformazione e tutto deve discendere da lì” mi sembrano
improponibili. Ragionando per paradossi, una parte della tradizione operaista è giunta ed è
approdata ad usare l’espressione moltitudine. Ma la moltitudine non è un soggetto. Come la
mettiamo allora con un topos della tradizione operaista, cioè l’organizzazione? Quello che vediamo
all’opera, alcune volte, è una moltitudine che preferisce il movimento, non l’organizzazione.

- L’altro nodo grosso che rimane irrisolto è quello tra spontaneità e organizzazione. Se si vanno
ad analizzare alcuni passaggi sostanziali, per esempio di Negri, si vede che quando guarda ai
comportamenti della classe è sempre esaltazione della spontaneità, non c’è mai la chiusura in
cui l’organizzazione costituisce un passaggio in avanti; quando invece guarda alla pratica, si
tratta sempre della micro-oganizzazione del gruppo che devi far prevalere attraverso la
battaglia politica, in cui la dimensione di classe è giocata in termini strumentali. Per esempio,
la forza dei padovani è sempre stata quella di distruggere l’avversario, ma dove questo non è la
controparte capitalistica, bensì invece i più diretti vicini. I padovani sono caduti quando è poi
cambiata la composizione di classe, quando il referente della composizione di classe veneta è
diventata la Lega. Negli anni ’70 questo discorso era fatto nei confronti del PCI, facendo un
gioco particolare con il PSI del Veneto e con la Democrazia Cristiana.

La polarità o comunque la dialettica spontaneità-organizzazione non può essere ripresentata in certi


termini. Se siamo d’accordo (e questa è una discussione che è tutta in piedi) che l’indagine o
l’inchiesta sulla forza-lavoro offre linee di ricerca per la sperimentazione politica e non risposte,
allora il rapporto tra spontaneità e organizzazione va declinato diversamente rispetto al passato.
Bisogna essere molto cauti ad enfatizzare la spontaneità, perché se no si arriva all’adesione allo
status quo, ed è una delle accuse che è stata fatta a Toni, per esempio, quattro o cinque anni fa:
quando a Parigi parlava di lavoratore immateriale, cioè una descrizione di comportamenti, quasi una
sorta di apologia della tendenza in atto. Mentre negli anni ’70 alcune sue cose potevano essere
giustificate da un movimento, adesso come fai a non essere cauto? Diciamo una cosa: i padovani a
un certo punto, dopo aver discusso com’era cambiato il Veneto e aver intuito alcune cose del
cosiddetto miracolo del Nord-Est, hanno tentato di tradurre politicamente quello che avevano
studiato o discusso, e sono arrivati a fare proposte provocatorie, ma non convincenti, come quella
sulla rivolta fiscale. Per fortuna, lo hanno fatto solo per pochi mesi. Per cui è vero che questa
dialettica c’è, però uno dovrebbe essere molto cauto, molto avvertito nel cercare di ordinarla nella
propria testa: perché se l’inchiesta o la conricerca ti dà delle linee di ricerca e non ti dà delle
risposte, allora non puoi cavartela facilmente, né in termini di spontaneità né in termini di
organizzazione. Ora, togliamo alcune ingenuità del tipo elevare a massima politica lo slogan
“camminare domandando”. Resta il fatto che mantiene aperta la dimensione analitica e di
interpretazione delle tendenza in atto, mentre fai le cose. Da questo punto di vista, si possono pure
riprendere delle cose del marxismo un po’ più tradizionale, pensiamo a Karl Korsch e a Marxismo e
filosofia: a un certo punto, in polemica con la posizione dominante all’interno del movimento
comunista internazionale, lui dice: “non è vero che con il marxismo è finita la filosofia,
sciocchezze, la filosofia continua”. Che cosa voleva dire? Attenti a non far diventare il marxismo un
dogma che regola tutto quanto. Trasportando ciò nella situazione attuale, vuol dire che l’inchiesta o
la conricerca vanno intese come un campo aperto di possibilità, che hanno bisogno di una verifica

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nella realtà. Bisogna cioè considerare l’inchiesta come un processo che si riapre continuamente. Se
poi ciò può dar vita a una forma organizzativa, io questo non lo so dire.

- Da una parte c’è la teorizzazione della fine della dialettica, dall’altra però la dialettica non può
essere un gioco dialettico: anche lì bisogna avere la capacità di ponderare determinati aspetti
di realtà fondamentali.
Alcuni, ad esempio Sandro Mezzadra, hanno individuato un limite dell’operaismo in una sorta
di progressismo implicito. Prendiamo due figure importanti delle esperienze operaiste, Tronti e
Negri, prescindendo da quelli che sono stati i percorsi e le scelte successive. Tronti fa una certa
autocritica rispetto a questo aspetto, rilevando che c’è stato un limite di ortodossia marxiana,
de “l’uomo che spiega la scimmia”: lui viene dalla scuola di Galvano Della Volpe, quindi da
una formazione antistoricista. Negri, anche oggi, tutto sommato ripropone di nuovo
un’implicita tendenza verso una freccia della storia che va sempre avanti e sempre verso il
meglio: da qui si può probabilmente spiegare quanto dicevi tu prima, ossia alcune cadute in
un’apologia del presente, dello status quo. Anche nel suo caso c’è il peso di un certo elemento
formativo che, pur non essendo ovviamente e tanto meno deterministicamente l’unico, ha
tuttavia un’importanza non irrilevante: Toni si è infatti formato sugli storicisti tedeschi.

Il discorso del progressismo che segna l’operaismo è vero, ma fino a un certo punto. Nella seconda
metà degli anni ’70 c’è la scoperta o comunque la lettura e il confronto con alcuni autori, ne cito
due, uno all’opposto dell’altro: da una parte Schmitt, dall’altra Benjamin. Alcune di queste figure
minano proprio il progressismo, lo fanno saltare, poi con delle ricadute e degli approdi che non sono
spesso condivisibili. Si provi a pensare all’incontro di Cacciari con Schmitt, che lo porta su delle
posizioni di negazione dell’idea di progresso, di una negazione quasi radicale. Dall’altra parte, si
pensi ad un operaista che ha fatto i conti con Walter Benjamin, ossia Paolo Virno che svolge una
critica radicale e marxista del progressismo. Basti leggere il suo libro sulla filosofia della storia.
Non so se la sua decostruzione dell’idea di progresso deriva dall’incontro con Walter Benjamin, ma
una cosa è certo: difficile trovare in quel volume una qualche indulgenza verso il progressismo.
All’inizio dell’avventura operaista l’occhio è stato strizzato verso una sorta di progressismo, ma poi
la critica è stata radicale verso l’impostazione storicista. E’ come quando prima dicevamo che
l’operaismo, vuoi per necessità di movimento, vuoi per percorsi culturali che ci sono stati
all’interno, entra in contatto con ambiti disciplinari e riflessioni lontane. Come si fa a pensare che
Bifo abbia una idea sullo sviluppo lineare della storia? Se si va a leggere i suoi libri ci puoi trovare
di tutto, eccetto un atteggiamento di simpatia verso il progressismo o l’idea di progresso come
sviluppo lineare della storia. Sarei invece interessato a leggere l’intervista di Sandro Mezzadra,
perché lui ha un percorso rapportabile al mio, almeno nel punto di partenza: è stato nel movimento
del ’77. Mi ha parlato spesso del rapporto vitale con Ferruccio Gambino. Anche quello di Ferruccio
è un operaismo molto atipico, non è quasi ascrivibile a nessuno dei personaggi che abbiamo citato.
Ma nel caso suo siamo all’interno della storia dei “padovani”, o meglio di quel gruppo veneto che
molto ha contato nella storia dell’operaismo.

- Il discorso sui “padovani” è soprattutto legato ad alcune persone, che sono grosso modo le
stesse da 25-30 anni, per il resto dal punto di vista organizzativo si configura una sorta di
cometa.

Si pensi però a uomini come Luciano Ferrari Bravo. I suoi scritti sono ancora illuminanti. Che la
storia dei collettivi politici veneti, dell’autonomia veneta sia ancora da scrivere è vero. E non è detto
che chi lo farà trovi continuità tra gli anni Sessanta e Settanta, e tra i Settanta e gli Ottanta. E tra gli
Ottanta e gli anni Novanta.

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INTERVISTA A PAOLO VIRNO – 21 APRILE 2001

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e quali i tuoi inizi dell’attività
militante?

Mi sono formato politicamente a Genova, dove la mia famiglia viveva e io facevo il liceo. Genova
era esposta all’influenza di Torino, dove vi furono le prime occupazioni nel ’67; quindi nell’estate
di quell’anno si mobilitarono gli studenti medi (più vivaci di quelli universitari, che invece erano in
contatto con le organizzazioni tradizionali dei partiti, UGI e via dicendo). Come studenti medi
fondammo dunque il Sindacato degli Studenti, che nell’autunno del ’67 fece i primi scioperi su
tematiche già sessantottesche, la lotta all’autoritarismo, solidarietà con gli studenti greci dopo il
golpe dei colonnelli e quant’altro. Quindi, questa fu l’iniziazione. Alcuni di quelli con cui feci
politica a quel tempo hanno avuto i destini più diversi: da Carlo Panella che adesso lavora per
Mediaset su Italia, a Franco Grisolia che sta nella segreteria di Rifondazione, trotzkista da allora a
oggi senza variazione alcuna (questo hanno di buono i trotzkisti, che si proseguono!). L’anno
scolastico ’67-’68 fu interamente genovese, con questo tipo di esperienza importante come per tutti
gli altri, però fatta nell’ambito di una città operaia del triangolo industriale, quindi con rapporti con
le fabbriche di Sanpierdarena: comunque, la realtà operaia pesava immediatamente sulle cose degli
studenti. Invece, nell’autunno del ’68, sempre per un trasferimento della famiglia, sono venuto ad
abitare a Roma, e di lì a non molto ho preso contatti e rapporti con il gruppo che sarebbe diventato
Potere Operaio, che allora sostanzialmente nella capitale era il gruppo delle facoltà scientifiche, del
discorso scienza e produzione, quello del Comitato di base alla Fatme. Soprattutto quest’ultimo tra
l’autunno del ’68 e l’inizio del ’69 fu un’esperienza di massa che aprì e chiuse alcune lotte vincenti,
quindi gli operai portarono a casa delle cose concrete su cottimo, orario, ritmi e via dicendo. Questo
Potere Operaio a Roma all’origine non si chiamava ancora così, poi l’esperienza decisiva è quella
de La Classe della primavera del ’69 a Torino. Sono anni della storia italiana in cui c’è veramente
un punto che è storiografico ma anche di paradigma teorico: mentre sul ’68 si trovano mille voci e
altre mille sul ’69, se ne trovano poche, o comunque poche attente, a quello che accadde fra l’estate
del ’68 e l’estate del ’69, che è invece il punto di massima maturazione delle tematiche della
rivoluzione italiana. E’ l’anno dei comitati di base, delle vertenze autonome nelle grandi e medie
fabbriche. Dunque, l’autunno caldo sono i consigli di fabbrica del ’69 ecc., il ’68 si sa: mentre
questa stagione di mezzo, che invece è il vero laboratorio, anche da un punto di vista teorico, il più
paradossale, il più complicato da capire, resta in generale perfettamente ignorata, se non per quei
pochi che rivendicano una tradizione critica. Quindi, io presi contatto con quelli del comitato di
base della mia scuola, si tratta di forme di avvicinamento collettivo anzitutto attraverso le tematiche,
quelle de La Classe, il salario, l’orario, questo materialismo contro tutte le storie sulla coscienza,
l’antiautoritarismo, cose pelose, cose francofortesi, ineffabili: invece, lì c’era una radicalità
intellettuale, in realtà anche teorica, che però faceva cortocircuito immediato con le condizioni
materiali. Entro in Potere Operaio dopo gli episodi cruciali della primavera ’69 a Torino, dopo il
convegno nazionale dei comitati di base di fine luglio, e dunque alla fine di agosto del ’69 quando,
dopo la rottura con Lotta Continua, si sta per formare realmente Potere Operaio come
organizzazione. Come tanti altri, mi colpì questa apertura teorica e culturale, il fatto che si
prendesse sul serio la grande cultura borghese, che si prendesse sul serio il pensiero negativo, che si
prendesse sul serio la filosofia classica e la grande economia, Keynes, Schumpeter, in una
situazione in cui viceversa la cultura e i riferimenti correnti nel movimento erano quelli che si
sanno. Ciò naturalmente provocava anche dei vizi (narcisismo, quelli che…), e ovviamente non tutti
i compagni di Potere Operaio leggevano quelle cose, non è questo il punto: ma una cosa è far finta
di aver letto Schumpeter o Keynes e una cosa è far finta di aver letto il Libretto di Mao. Ovviamente
i comportamenti parodistici e millantatori ci sono stati lì come dovunque, però francamente di ciò
che viene millantato c’è anche una qualità diversa e che conta. Quindi, c’era questa apertura su
Marx e le lotte, in mezzo la grande filosofia e la grande economia: Marx contro il marxismo

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insomma, Marx come strumento anche sociologico, anche empirico. E’ un discorso che poi torna
ancora nell’oggi, quando con Luogo Comune e le altre esperienze si è sostenuto, anche con una
certa amarezza, che le pagine più avveniristiche di Marx, come quelle del Frammento sulle
macchine, si sono realizzate ma senza rivoluzione, senza crisi: il general intellect, la centralità del
sapere e della comunicazione nella produzione sociale postfordista (o come si vuol dire) si è
realizzato, tanto che quelle pagine risultano al limite un breviario per il sociologo più che un
discorso di tendenza. Ma già allora c’era questo ritenere congrui molti capitoli de Il capitale, dei
Grundrisse e via dicendo con quello che materialmente avveniva giorno per giorno. Tra l’altro anni
dopo (saltando l’ordine cronologico) io vissi a Milano l’avventura, l’esperienza, la fortuna di
sostituire Oreste per un mese in un lavoro di quelli improbabili che aveva lui, ossia una supplenza
delle 150 ore all’Alfa di Arese. Per un mese feci dunque da supplente al supplente, cioè ad Oreste.
Allora facevo anche intervento all’Alfa, quindi conoscevo bene tutte le avanguardie, però furono
una cosa curiosa queste specie di lezioni sul Primo Libro de Il capitale (era quello il libro di testo):
ci si può quindi immaginare la lettura del capitolo sulle macchine, del capitolo sulla giornata
lavorativa, fatta in parte con dei compagni, in parte invece con degli operai qualsiasi, non
particolarmente politicizzati. Il che però era una specie di conferma, qualche anno più tardi (verso la
fine del ’73) di questo assunto generale dell’esperienza operaista, cioè sul carattere immediatamente
applicabile delle pagine più avanzate di Marx alla condizione materiale dell’estrema modernità.
Sono stato in Potere Operaio dall’inizio alla fine, dall’agosto-settembre ’69 fino al suo scioglimento
e anche oltre. Prima, a Roma, intervenendo durante l’autunno caldo nelle poche medie fabbriche
romane (come la Vox con 2000 operai sulla Tiburtina), poi dopo con l’intervento territoriale nei
quartieri, le occupazioni delle case. Ci fu una prima puntata a Torino nell’autunno ’71 con
un’operazione un po’ brutta di Potere Operaio, che aveva fatto il convengo, si era radicalizzato,
c’erano le tematiche di rottura della crisi come si diceva allora, di rottura dell’andamento della crisi
e di forzatura prima che ci fosse il riassestamento dell’organizzazione capitalista, tutte cose mal
riassunte poi nel termine dell’insurrezione: quindi, ci fu una specie di spedizione politica che è la
cosa meno opportuna rispetto ad una realtà come Torino, una di quelle cose rapide, di resa dei conti
nel gruppo. Fu insomma una cosa che non ricordo volentieri, comunque per me fu importante
questo primo rapporto sia con i compagni di Torino, sia con l’impatto anche visivo e percettivo con
la Fiat. Questo nell’autunno ’71. Fui di nuovo Roma nel ’72, sono stato più o meno nelle strutture
dirigenti, nel direttivo e nella segreteria della sezione di Roma. Dal marzo-aprile del ’72 sono
nell’esecutivo nazionale. I gruppi si ossificano e avvengono tutte queste cose che si sanno a
memoria. Per esempio, io non sono uno di quelli che dà un giudizio negativo sui gruppi. Fatemi
credito sul fatto che potrei parlare per due ore sulle parodie, le schifezze, le riprese di vecchi
modelli ecc.; detto questo, ritengo che dopo il ’69 si pone un problema specifico, non lineare
(mettendola in termini matematici) del potere politico. In termini banalissimi, si potrebbe dire che è
il problema dello sbocco politico di un movimento che per la prima volta (per dirla con Gramsci
contro Gramsci) non cerca la rivoluzione contro Das Kapital ma cerca la rivoluzione in accordo con
Das Kapital: dunque, non contro la miseria e l’arretratezza, ma contro il rapporto di produzione
capitalistico e contro lo stesso lavoro salariato. E’ una cosa che non ha avuto precedenti e che
cercava le sue forme politiche; ciò era avvertito fra i quadri di base del sindacato, della FIOM, era
un dibattito politico generale. A mio parere le posizioni come quelle di Capanna a Milano (per dirne
una fra le più famose allora, poi ovviamente il dibattito attorno a metà degli anni ’70 sarà diverso,
sarà il dibattito dell’autonomia), sostenevano: “no, per carità, movimento politico di massa”, poi
fiancheggiava il PCI e faceva da servizio d’ordine di là a poco alla UIL. Quindi, là c’era un
problema, che nelle sue versioni migliori è stato secondo me elaborato e raccolto da Lotta Continua
e da Potere Operaio, poi anche in certa misura e a loro modo (un modo diversissimo e lontanissimo
dal mio) da Avanguardia Operaia e da altri. Però, mi pare (certamente storiograficamente ma forse
anche da un punto di vista politico-teorico) una semplificazione indebita anche a distanza di tanti
anni dire che si è passato dall’eden delle assemblee del ’68 e dei comitati di base della primavera
del ’69 ai piccoli ritualismi aridi e inconcludenti dei gruppi: io su quello sarei più cauto e ricorderei

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qual era la posta in palio. Che poi sulla posta in palio si sia fallito, è un conto; che però ci fosse
questa posta in palio con la sua specificità, con la sua discontinuità rispetto all’andamento lineare
dei movimenti, secondo me va ammesso. Ciò mi viene in mente a proposito del fatto che dal ’72 ho
partecipato a una di queste strutture un po’ buffe, ridicole e spesso in Potere Operaio vissute anche
ironicamente, quella dell’esecutivo.
Poi c’è Rosolina, la rottura, sto con la parte di Piperno. Penso che la discussione non fosse pro o
contro le assemblee di fabbrica di Milano, su queste come riferimento centrale vi era accordo
generale in tutte le organizzazioni, tra tutti i compagni, in tutte le sedi di dibattito non vi era dubbio
alcuno; il punto, in realtà, riguardava alcune funzioni specifiche soggettive, in particolare rispetto
all’impiego della violenza, un problema teorico e non soltanto un problema pratico di come uno fa o
non fa. Allora, il problema era: c’è già chi in Italia risponde in maniera soddisfacente a questa
questione politica, organizzativa e anche teorica, che sono le funzioni di rottura o come le si voglia
chiamare? Se così è, ovviamente possono essere delegate a coloro che già le assolvono in una forma
essenzialmente soddisfacente, viceversa resta il problema di elaborare il come, le forme di queste
funzioni. Questo era il dibattito. Naturalmente, chi sosteneva che già c’erano diceva: “allora lavoro
direttamente con le assemblee autonome, a questo ci pensano altri”. Altri pensavano non che non ci
fossero in assoluto, ma che il modo in cui queste funzioni di rottura venivano elaborate fosse dentro
una linea sostanzialmente interna al vecchio movimento operaio, cioè una prosecuzione radicale
dell’antifascismo militante, della Resistenza rossa, se si vuole una lotta armata per le riforme (si può
fare anche questo, alla fine il problema della forma di lotta conta ma non è decisivo). Quindi, il
dibattito su Rosolina fu quello, poi naturalmente su tante altre cose: composizione di classe,
andamento della crisi, rapidità della riorganizzazione capitalistica, che naturalmente era la vera
posta in gioco nella rivoluzione italiana. Io penso (e questo invece è punto storiografico e teorico)
che nel ‘900 ci siano state due rivoluzioni fallite, e chi, come Tronti o altri, dice che ce n’è stata
una, cioè quella che tutti sanno negli anni ’20, sbaglia. Ci sono state due rivoluzioni fallite e non si
capisce niente del secolo (per usare questo linguaggio un po’ magniloquente alla Tronti) se non si
tiene conto di tutte e due: una è la rivoluzione in Occidente negli anni ’20 (in Germania e altrove),
l’altra la rivoluzione in senso proprio degli anni ’60 e ’70, la prima che è contro il modo di
produzione capitalistico e non arretratezza e pauperismo, e di cui il postfordismo è sostanzialmente
la replica in grande, la controrivoluzione. Mi spiego: per rivoluzione non intendo che molti
gridassero parole d’ordine rivoluzionarie, il carnevale delle soggettività non mi interessa. O si dice
che tutte le rivoluzioni che non sono riuscite non esistono, e si può dirlo, è una maniera se si vuole
di igiene mentale; oppure, se si introduce la dimensione di rivoluzione fallita, bisogna avere un
criterio sobrio (non ancorato alle grida e ai brusii dei soggetti di allora) di che cos’è una rivoluzione
fallita. Secondo me si può parlare di rivoluzione fallita, in maniera sobria e oggettiva, laddove per
un consistente e lungo lasso di tempo vi è un blocco nella decisione politica e sociale, nei luoghi di
produzione, nei quartieri popolari e in alcune delicate istituzioni statali. Questo lungo blocco fra due
poteri sociali contrapposti in Italia (e talora più in generale, in certi anni e in certi luoghi
dell’Occidente capitalistico) c’è stato. In questo senso io parlo di rivoluzione fallita, di situazione
rivoluzionaria: non mi importa assolutamente nulla delle convinzioni, delle ubriacature, delle
ebbrezze, ne parlo in quel senso. E per controrivoluzione non intendo ritorno all’Ancien Regime,
ricostituzione di quello che già c’era; penso la controrivoluzione come une rivoluzione al contrario,
come una cosa straordinariamente innovativa e che, per giunta, fa proprie e utilizza molte delle
spinte, delle istanze, dei modi di essere, delle inclinazioni che avevano nutrito di sé la rivoluzione.
Dalla fine del ’72, inizio ’73 in poi io vivevo e facevo politica a Milano: ho lavorato all’Alfa
Romeo e all’Innocenti, ho assistito e partecipato alla rottura dentro Potere Operaio e alla
discussione, che era una discussione anche non banale: alcuni frammenti (i più degni, i meno
angusti) erano in qualche modo un dibattito sui prodromi del postfordismo, o comunque i prodromi
dell’uscita capitalista dal fordismo (ricordo ad esempio i contributi di Magnaghi sulla fabbrica
diffusa che da lì a poco saranno stampati su Quaderni del Territorio, anche la discussione con
Toni). Il dibattito all’interno di Potere Operaio ebbe anche dei momenti alti, carichi di presagi su

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questo passaggio. Là c’è proprio la labilità e la fragilità dell’esperienza politica: la questione
naturalmente è quella del tempo debito, del tempo giusto, se questo passaggio di uscita dal fordismo
da parte dei capitalisti avviene con tempi da loro decisi e come passaggio repentino il quadro
sociale, il quadro della soggettività è completamente mutato e tu hai perso; il problema era di stare
dentro questo passaggio, non di avversarlo in nome della bellezza delle linee di montaggio.
Insomma, il problema era quale segno su questo passaggio: c’è una fase delicata di trapasso e lì si
gioca tutto. Quindi, rivendico anche che nella fase finale, che è quella più livida, quella più carica
poi di risentimenti, per tanti aspetti la più detestabile, però vi era un nucleo vero di discussione.
Successivamente resto ancora a Milano a fare intervento all’Innocenti, con quel poco che restava di
Potere Operaio a Milano che non era andato con l’Autonomia, ossia pochissime persone. Poi,
quando ci fu la seconda chiamiamola occupazione della Fiat, quella del febbraio-marzo ’74, vado a
Torino dove avevo dei buoni amici e buoni compagni, era una realtà rimasta più o meno in piedi
come sede di intervento; e poi le lotte e l’intervento sull’autoriduzione e via dicendo. Nell’estate o
all’inizio dell’autunno del ’75 torno a Roma, dapprima credevo provvisoriamente, poi per tanti
motivi invece diventa un restare. Comincia una stagione di mezzo in cui non c’è più
organizzazione, in cui ci sono nuovi cicli di studio e di riflessione, fino all’autunno ’76 e inizio ’77.
In quel periodo c’è in realtà una riflessione rispetto al ’68 e al ciclo ’68-’73, sul fatto che la forza-
lavoro sociale ha altri canali di formazione, altre espressioni soggettive. Questa discussione avviene
fra un gruppo di compagni romani che lavoravano insieme per motivi professionali, avevano messo
in piedi un centro di ricerche che si chiamava il Cerpe. Tutti questi compagni ritornano ad avere un
ruolo pubblico, far proposte, attività e lavoro nel ’77 romano, ma senza nessuna forma organizzata.
A quel punto naturalmente c’era stata anche una modificazione nella storia dell’autonomia, quella
che avviene attorno al ’75-’76 milanese che diventa appunto la forma politica nuova della nuova
composizione di classe; mentre all’inizio, negli anni fra il ’73 e il ’75, era una cosa più angusta, con
ragioni più specifiche, dal ’75 diventa davvero la forma generale della nuova composizione di
classe della forza-lavoro scolarizzata, del lavoro mentale, del lavoro precario, della nuova giornata
lavorativa sociale. Quindi, i vecchi motivi di divisione rispetto all’area dell’Autonomia vengono
meno e ovviamente si lavora con loro, anche se, ripeto, manca un gruppo organizzativo, una
soggettività organizzata. Nel ’77 c’è proprio un vedere la nascita di qualcosa di nuovo. In questi
discorsi che adesso noi abbiamo rifatto anche negli ’90 onestamente credo che non ci sia una di
quelle dimensioni anacronistiche per cui attribuisci al prima quello che hai pensato dopo: penso che
là ci fu proprio un’illuminazione dentro il decorso concreto del movimento, un dire: “ecco, questo è
il superamento del fordismo, ed è il superamento del fordismo che avviene in forma di conflitto”.
Prima le lotte, poi lo sviluppo: il ’77 come nascita ed esordio del postfordismo, del superamento del
fordismo. Cosa che peraltro è successa tante altre volte nella storia dello sviluppo capitalistico, gli
IWW fanno le lotte negli anni ’10, sono operai dequalificati e mobili, e in un certo senso sono
l’esordio di quello che Taylor e Ford faranno negli anni ’20 con la dequalificazione sistematica del
lavoro. Lì c’era proprio un’idea in cui il rifiuto del lavoro, la critica del lavoro salariato, smetteva di
essere il cuore della faccenda ma solo in negativo: cioè, venivano in rilievo, in altorilievo, dense, in
positivo, le forme di vita, le forme di esistenza, le mentalità, le forme di comunicazione del rifiuto
del lavoro. Quindi, il rifiuto del lavoro per me ha questo carattere puramente di contro, mostrava,
secerneva una sua ricchezza. I discorsi sul ’77 poi sono stati al centro dell’elaborazione subito dopo,
delle parti meno effimere di Metropoli e anche, per quello che riguarda Lucio Castellano e me, di
quei due saggi comparsi nei Pre-print della saggistica che accompagnava la rivista, scritti in realtà
da Lucio alla fine del ’76, da me nel ’78. Metropoli fu un’elaborazione a caldo, però anche di
qualche respiro, delle cose essenziali emerse da quella inaugurazione conflittuale del postfordismo
che è stato il movimento del ’77. Su Metropoli vi era un leit motiv, naturalmente schiacciato e
velato semmai dagli articoli sul terrorismo, che per ovvi motivi ebbero maggior clamore: si tratta di
un tema fondamentale e ricorrente quello della sempre maggiore centralità del linguaggio nel
lavoro, per esempio, oppure sulla rottura di tutte le mentalità legate al fordismo.

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- Tra Potere Operaio e ben prima di Metropoli ci fu Linea di Condotta, di cui ne uscì un numero
solo, che per molti aspetti era significativo.

Era significativo perché fu un estremo tentativo, condotto tra l’autunno del ’74 e l’inizio del ’75, di
riconnettere tra loro alcune delle schegge seguite alla rottura di Potere Operaio. Toni e gli autonomi,
diciamo così, avevano i loro alti e i loro bassi tra il ’73 e il ’75 e, a parte l’ovvio rapporto di
continuare a leggere le cose degli uni e degli altri, non c’era più una relazione diretta. Ma la parte di
Potere Operaio che non aveva fatto la scelta chiamiamola dell’Autonomia (anche se nei termini in
cui ho specificato prima) si ruppe a sua volta, in quel processo di frazionamento infinito che in
biologia si chiama decomposizione (a proposito dei cadaveri): quindi, vi era Oreste e altri compagni
a Roma che avevano differenziato la loro iniziativa, si erano legati sempre più ad un gruppo, una
frazione radicale di Lotta Continua a Milano, a Sesto San Giovanni, la Magneti Marelli e via
dicendo. Allora, con Oreste e questi altri, alcuni di Roma, ce n’era qualcuno anche a Torino, il
rapporto era molto più ravvicinato, eravamo stati dalla stessa parte a Rosolina, anche il rapporto
personale era più intimo e più stretto. Quindi, si fa un tentativo di produrre una riflessione insieme,
attraverso due o tre convegni, riunioni, seminari. Era un tentativo di dire: “va bene, quando è finito
il settimanale nel dicembre del ’73 Potere Operaio effettivamente non c’è più, però ci può essere fra
noi una forma politica nuova”. Dentro questo discorso c’è l’unico numero di Linea di Condotta, il
quale poi passa alla storia perché compaiono dei documenti importanti con cui quelli di Lotta
Continua rompono con la loro organizzazione e alcuni di questi saranno dopo in Prima Linea. Quei
documenti saranno (con buona ragione, ma certamente con sguardo retrospettivo) considerati la
piattaforma generale di un percorso che prima con Senza Tregua, ma poi con Prima Linea conosce
esiti estremi. Il numero di Linea di Condotta, se ci si pensa, è molto eterogeneo, è molto
volenteroso, si capisce la voglia di questi compagni di fare ancora una cosa significativa insieme: ci
scrive Magnaghi, ci scrive Dalmaviva, ci scrivo io, ci scrive Daghini, e naturalmente ci scrive, va da
sé, quest’altra scheggia che di lì a poco farà Senza Tregua (sta già per esserlo credo). Questo spiega
anche perché è un numero solo.

- C’era ancora Marongiu?

Mi pare di sì, però la cosa paradossale è che la stragrande maggioranza della sezione veneta non
segue Toni, quindi loro restano con il troncone di Potere Operaio. Come accadde alla sezione di
Torino, tanto più quella veneta si rinchiude in una realtà locale e regionale: vanno avanti,
continuano le cose di sempre, nell’università, nelle piccole fabbriche, non al Petrolchimico che è
stata l’unica parte del Veneto che era andata invece con Toni (diciamo così tanto per semplificare).

- Nel ’74, infatti, quando eravate andati a Torino c’erano i veneti e i fiorentini. Era appena
uscito Fuori dalle Linee.

Li portammo noi. Quello fu un episodio molto circoscritto, semplicemente c’era la seconda


occupazione Fiat e noi pensammo di potenziarla con questo organo, un volantone quotidiano. E in
più andammo a fare una riunione con i collettivi veneti dicendo: “per questi giorni qui non sarebbe
male, con tutti i difetti del turismo politico, se venite a dare anche voi un’occhiata”. Loro in maniera
volenterosa, come si fa un po’ per le gite scolastiche, come si fa ora anche con Praga (e non so
onestamente tra Praga e l’occupazione della Fiat dove penda la bilancia, turismo per turismo, anche
se adesso sembra l’unica forma di azione politica), vennero, ma per una settimana. La cosa secondo
me non stupida, anche se vale quello che vale, è che la tipografia di Potere Operaio a Firenze, che
fino al dicembre del ’73 aveva fatto il settimanale, era ancora nostra ed era ancora in piedi: si chiese
per quattro giorni di fare una specie di quotidiano gratuito che si chiamava appunto Fuori dalle
Linee, ne uscirono tre o quattro numeri. Per telefono venivano dettati i cosiddetti articoli (che
spesso erano delle urla inconsulte) ai fiorentini, questi li stampavano e poi in macchina li portavano

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a Torino per darli alle 6 al primo turno. Invece, i veneti proseguirono e in realtà restarono; forse
furono presenti tramite Marongiu ancora in quest’unico numero di Linea di Condotta, forse non
scrivendo ma lo sentivano come cosa loro, e ai seminari che precedettero il numero di Linea di
Condotta, in cui c’erano Piperno, Oreste, compagni legati più a lui, quelli del Veneto, ma anche
Giairo, Marione, insomma il vecchio gruppo. Dopo che si capisce che Linea di Condotta anziché
essere un incipit è una fine della fine, i veneti si chiudono nella loro realtà regionale. Restano quindi
in questa dimensione separata e regionale fino a quando, mi pare nel ’76 o addirittura nel ’77, si
avvicinano a Toni e a Rosso, mentre prima con Toni avevano rotto nel ’73 restando nel corpo
centrale di Potere Operaio. C’è quindi questa situazione intermedia, che corrisponde a quell’anno e
mezzo o poco più che sono stato a Torino.
Per quanto riguarda poi il periodo di mezzo prima del ’77, io dalla fine del ’75 o inizio del ’76 sono
a Roma e ho già detto: riflessioni, discussioni, non più una realtà organizzativa, presenza invece del
tutto attiva, con una dedizione totale a tutte le fasi del movimento del ’77 romano, questo senso di
una discontinuità totale nelle forme della soggettività, nelle forme della produzione, presagio del
postfordismo, unità lavoro-comunicazione e via dicendo. Quindi, cambio di paradigma, però devo
dire vissuto in tempo reale, non che poi adesso, riflettendoci negli anni ’90, uno dice: “allora è
cambiata la composizione di classe, è cambiato il paradigma, sono andati in realtà in crisi tre secoli
di politica moderna, cioè di forme politiche moderne, è iniziato l’equivalente di quello che allora fu
il ‘600 come fondazione delle forme politiche”. Non è stata solo una riflessione retrospettiva, in
grandissima parte avvenne in tempo reale, da cui ancora l’emozione del ’77, un’emozione forte,
perché le emozioni che durano si legano sempre (o almeno spesso) a un contenuto cognitivo, e lì
vedi proprio che è un cambio di paradigma. Metropoli dovrebbe nascere come rivista larghissima,
di tutta l’area del ’77, ci sono riunioni con Toni e via dicendo: poi naturalmente le cose vanno in
maniera diversa. E’ comprensibile, ho fatto anch’io per parecchi anni un lavoro di organizzazione e
penso (ho appena fatto la difesa dei gruppi) che nell’organizzazione, anche nelle sue forme più
sciatte, organizzazioni leggere o pesanti, c’è sempre un contenuto degnissimo; però, è chiaro che
chi ha delle organizzazioni ha un problema di continuità, di influenza, di lotta politica ecc., e, pur
avendo radicalità teorica, è meno disposto a giocarsela come tale ignorando passaggi tattici,
passaggi di egemonia. Insomma, la rivista poi materialmente la si fa tra il gruppo romano, i senza
partito e i senza organizzazione e Oreste, che invece un partitino e un’organizzazione ce l’ha, ma
che dice: “io nella rivista mi comporto come voi”, cosa che infatti sempre fece lui e quelli che più o
meno ci lavorarono direttamente, De Feo e altri. Una rivista mediatica, ed è il primo numero, perché
sequestrato, perché ne vengono sottolineati solo gli articoli sul 7 aprile che era avvenuto due mesi
prima. Alcuni di noi sono imputati, io ero presente all’arresto di Oreste e di Zagato nella sede
romana di Metropoli il 7 aprile stesso, Piperno sfugge all’arresto per pura fortuna due o tre volte
nella stessa giornata: sfugge ogni volta per quelle cose che si vedono nei film di Fernandel, arriva
subito dopo che è arrivata la polizia, da cui poi le leggende, l’infinita furbizia e la superiore astuzia;
penso che però, come nella storia grande e in quella maggiore di noi, spesso questa sorta di
avvedutezza deriva da una concatenazione stupefacente di colpi di culo. Quindi, il primo numero di
Metropoli si occupa ovviamente delle retate, c’è l’articolo, peraltro riformista e anglosassone, di
Piperno che dice: “prima pagano e meglio è”, ma non nel senso di sparargli alle gambe, bensì nel
senso “prima le istituzioni si autocorreggono e meglio è”; non che questo fosse il suo modo di
pensare ma aveva deciso di giocare il ruolo del liberal conseguente. Quindi, quelli sono gli articoli,
Metropoli mediatica. Il secondo numero di Metropoli, dopo un anno di galera, esce nell’80, però è
di nuovo un numero raccogliticcio, con articoli mandati dal carcere, un numero non pensato nel suo
insieme. Metropoli esiste come organo di riflessione sul postfordismo, sulla crisi della società del
lavoro, sulle nuove forme della soggettività, nell’anno in cui ne escono, in qualità di mensile,
cinque numeri, ed è l’81: escono i numeri 3, 4, 5, 6 e 7. Con tutti i difetti che ci sono in situazioni
spurie, in cui ci sono tanti residui di vecchi paradigmi che convivono invece con le intuizioni più
vitali, è però possibile trovare il nucleo, il fulcro di questa riflessione. Io, per esempio, credo (ma
naturalmente la cosa è puramente biografica) che le cose non dico significative, perché i giudizi

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possono essere diversi, ma quelle oggettivamente più rilevanti per esempio dell’elaborazione di
Luogo Comune siano state una prosecuzione, un affinamento, anche con maggior peso culturale e
teorico, di cose che erano già espresse inizialmente tutte dentro Metropoli. Io vado in galera, ma in
ritardo, a scoppio differito: siamo arrestati io, Castellano, Maesano e Pace (che però sfugge
all’arresto, di nuovo, giuro, non per sagacia). Noi siamo arrestati il 6 giugno ’79, poi ci fanno
confluire nel 7 aprile, ritroviamo gli altri nel cortile di Rebibbia, nel braccio speciale, stiamo un po’
di mesi lì, poi c’è la diaspora, cioè il Ministero ordina di mandare ognuno di questi detenuti in un
carcere speciale diverso, perché ovviamente, tramite avvocati, visite, benché ci fosse il regime di
braccio speciale, quello era diventato una specie di luogo in cui si elaboravano documenti, lettere a
giornali, si faceva campagna politica, c’erano state delle lotte interne. Quindi, c’è la diaspora, io
vado a Novara, Oreste va a Cuneo, quell’altro va a Favignana, quell’altro ancora da un’altra parte.
Comincia questo giro negli speciali, e ci ritroviamo non tutti ma in parte nel carcere di Palmi,
inaugurato nell’autunno del ’79, carcere per soli politici o per detenuti comuni completamente
politicizzati, una specie di “Kesh”. Là dentro c’era una situazione curiosa, anche molto spettacolare,
perché si incontrano assolutamente tutti. Infatti, per un primo periodo con i compagni delle BR o
con Alunni o quelli dei NAP, si pensò anche di approfittare di questa situazione per avviare una
discussione larga, di carattere “costituente”: però, il problema è che anche lì c’è il fatto che i più
spregiudicati di loro, come Curcio, erano d’accordo, avevano capito di aver perso l’essenziale, cioè
il cambio di paradigma del ’77, cioè il fatto che i giovani operai erano non più riconducibili a quelli
del ’69; altri invece no. Comunque, c’era una disponibilità generale all’inizio. Però, loro erano in un
periodo di pieno sviluppo di quella che chiamavano strategia dell’annientamento, insomma diciamo
di massificazione della lotta armata, e naturalmente è un vincolo materiale troppo forte il tipo di
tattica, di passaggio che stai attraversando per avere la snellezza mentale di affrontare una
discussione così grande. Quindi, c’era una buona intenzione all’inizio, quasi subito lasciata perdere,
e poi invece ci fu un illividimento dei rapporti sempre maggiore. Io, dopo poco meno di un anno di
galera (11 mesi e mezzo), vengo rilasciato perché declassano il mio reato da costituzione a
partecipazione, e a quel punto avevo fatto già abbondantemente il carcere preventivo. Poi starò fuori
due anni, nell’anno vero di Metropoli, quello in cui è una rivista, nel bene o nel male, ma è una
rivista che vale come tale e non per la sua mediatizzazione. Peraltro vende tanto, va solo in edicola
e non vende mai meno di 15.000 copie: cosa che si può capire per il primo numero, ma diventa
significativa per quelli successivi.
Riassumendo in breve, la mia detenzione fu un anno dal ’79 all’80, poi due anni liberi in cui curai la
serie continua di Metropoli nell’81, due anni ancora di carcere, condanna a 12 anni in primo grado,
un anno di arresti domiciliari che sono un buon modo di semplificare il passaggio per certi versi al
postfordismo in generale, sia pure in un aspetto microsociale, oppure il passaggio dalla società
disciplinare alla società di controllo; l’assoluzione (insieme a tanti altri imputati del 7 aprile) fu
nell’87, la conferma nell’88. La vita sospesa, come sempre accade quando uno è condannato, sia
pure ormai a piede libero, l’Italia cambiata, mentalità completamente modificate, vecchie forme di
comunanza e di contiguità completamente spezzate. Nell’87 si decide con altre persone di capire i
termini della nostra rivincita, cioè di capire come tutto ciò che aveva trasformato il paese negli anni
della controrivoluzione aveva creato un nuovo tipo umano, oltre che naturalmente diverse forme di
produzione, che potevano ormai cominciare a esprimersi conflittualmente. Si è pensato che fosse
sensato un approccio al postfordismo che muovesse dall’impasto (in termini arcaici) fra struttura e
sovrastruttura, il punto di indifferenza, il punto perfettamente comune a entrambi di ciò che nella
vulgata viene chiamata struttura e sovrastruttura. Era lo scrutare un modo di essere del lavoro
dipendente, dando un giudizio che il lavoro dipendente contemporaneo non può essere compreso
adeguatamente (proprio nel suo essere produttivo di plusvalore, beninteso) solamente o
principalmente con strumenti economici, e in certa misura nemmeno con strumenti solo sociologici.
Il lavoro contemporaneo, perché produttivo di plusvalore e non perché disincarnato, richiede una
strumentazione assolutamente larga, in cui vengono tirati in mezzo le forme della sua cultura, la sua
struttura emotiva, le sue convinzioni etiche ed estetiche. Paradossalmente, la soggettività

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postfordista, per essere colta nel suo nucleo più duro, cioè fra le altre cose anche più
economicamente rilevante, doveva essere accostata con questa larghezza di strumenti. C’è una bella
frase di un grande epistemologo francese, che è Gaston Bachelard, il quale diceva che la meccanica
quantistica che suscita tanti problemi e tanti paradossi deve essere trattata con strumenti molto
eterogenei l’uno dall’altro. La meccanica quantistica ora richiede, in termini filosofici, un concetto
di Kant, ora richiede un concetto di Bergson, ora richiede un concetto medioevale, e poco male se
sono così diversi fra loro, il punto è che si tratta di spiegare sempre quell’unico problema della
meccanica quantistica: così è anche per la forza-lavoro postfordista, per la soggettività postfordista
(non è che io sia molto contento di questa formula, ma è per capirsi in breve). Questa è l’esperienza
che porta al libro collettivo Sentimenti dell’aldiqua, che naturalmente vuole essere anche una critica
radicale del pensiero debole, del postmoderno italiano che è stata l’ideologia dei vincitori,
l’ideologia della sconfitta dei movimenti di massa. La quale però, come tutte le ideologie vere, ha in
sé un nucleo di verità, soltanto che esso non solo è deformato, ma soprattutto è apologetico, cioè
tende a pensare che è così e solo così potrà sempre essere. Invece, la questione era riportare il
cosiddetto pensiero postmoderno alla sua base materiale. La società della comunicazione
generalizzata di cui parla Vattimo è la trasfigurazione deformata e apologetica di un fatto reale, cioè
il plusvalore si produce attraverso il linguaggio. Quindi, questa era la dimensione del libro, poi
come al solito il testo era povera cosa, le discussioni che c’erano dietro qualche volta sono ricordate
con piacere. C’è dunque un tentativo di lavorare anche con gente diversa, molti dei soliti, che sono i
soliti buoni, però anche molte persone differenti. Seminari, discussioni, la rivista, alcuni di noi
lavorano a Il Manifesto e cercano di fare un Manifesto dentro il Manifesto, cioè fanno le pagine
culturali che non hanno nessun rapporto con le cose un po’ cialtrone che girano invece in tutte
quelle precedenti. Da ciò nasce l’esperienza di Luogo Comune, ne escono quattro numeri, però è
una rivista in cui compare molto l’aspetto redazionale, di discussione, i seminari ecc. C’era l’ovvio
rischio dell’errore e del dire più di quanto si pensa, mi si permetta il gioco di parole, perché a volte
uno decide coscientemente di dire più di quanto sarebbe cauto e prudente affermare, quindi di dire
più di quanto pensa, semmai per suscitare discussione e sottoporsi a critica: in realtà era un tentativo
di squadernare un insieme di categorie che potessero rendere conto, questa volta non in maniera
allusiva come alla fine degli anni ’70, dopo il ’77, ma a pieno titolo, proprio mordendo la carne viva
del nuovo, del cambio di paradigma. E che però potessero predisporre una ripresa politica
organizzativa. La prima cosa è che qualsiasi organizzazione, come sempre, è una cultura: chi non
coglie gli aspetti materialistici e materiali della cultura, cioè che è molto più materiale l’idea di un
portacenere o anche di un milione, rischia di non comprendere il problema del percorso
organizzativo. Il problema era produrre, anche in maniera un po’ artefatta, affannosa, producendo
parole-chiave (general intellect, linguaggio e produzione, esodo), un panorama mentale (cosa c’è di
più materiale di un panorama mentale?), però per mettere insieme dei gruppi, dei gruppi di militanti,
dei gruppi di militanti intellettuali. E che questi, con esperimenti cauti, sul reddito di cittadinanza,
sulle nuove forme di produzione, la fabbrica innovata, il lavoro non di fabbrica ecc., potessero
cominciare a disegnare dei percorsi pratici. Naturalmente lì ci sono tutte le difficoltà, lì ci sono i
tempi lunghi, lì c’è lo sbattere la testa e poi provare in un altro modo. Ma la condizione preliminare
era questa rete. Ci abbiamo provato prima con gruppi vari di intellettuali militanti, ma dal ’91-’92 in
poi ci abbiamo provato proprio con i veneti. Per come la leggo io (poi ognuno dice e polemizza
come gli pare), i veneti hanno avuto due passaggi, non uno: il primo quando ruppero con la
continuità con gli anni ’70 e ’80, e quello secondo me è sacrosanto, lì ebbero un momento di grande
effervescenza che è durato vari anni, di creatività, si sentivano passati da un ambito risentito,
livoroso, nostalgico e continuista, in pieno oceano; poi, invece, il secondo passaggio è molto più
recente, è degli ultimi tre anni, in cui hanno buttato a mare la tradizione operaista, il che è un altro
paio di maniche. Naturalmente, qual è il problema della tradizione operaista? Come tutte le
tradizioni merita solo di essere buttata a mare, ma il punto è: c’è in essa qualcosa che permette di
pensare, con il massimo di radicalità critica e di realismo, la critica del capitalismo dopo l’89 e
indipendentemente dall’uso del socialismo reale? Se sì, è l’unica tradizione di pensiero che in un

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certo senso aveva metabolizzato fin dagli anni ’60 il Muro, e che forse ha ora almeno altrettante o
più cose da dire di quante ne avesse nel ’69. Solo in questo senso parlo in termini positivi della
tradizione operaista, non per i suoi trascorsi, più o meno nobili ma nemmeno tanto: dunque, per
questa capacità di tenere insieme quello che gli altri considerano ormai scisso. Il Movimento
Operaio via perché c’è stato il socialismo, oppure viceversa una continuità becera. Il secondo
passaggio di due o tre anni fa è quello che capisco, perché è un questione troppo scomodo, e
soprattutto che rischia di non darti niente in termini concreti: è la posizione centrale, è la più forte,
l’unica vera, realistica, importante dal punto di vista del capire le cose, ma se non ti da niente in
termini politici non serve. C’è poi infatti questa mancata coincidenza fra strumenti che sono in
realtà gli unici, ma non dentro il mondo della sinistra e dell’estrema sinistra, bensì gli unici in
assoluto per comprendere a fondo in tutte le sue sottigliezze, sfumature, complicazioni e paradossi
quello che c’è, quello che accade: se però non ti danno nell’immediato qualcosa di politico, in
termini politico-organizzativi, tu sei in una posizione scomodissima, sei come un uomo saggio e
nudo che resta per un po’ al vento, dopo un altro po’ dice: “beh, non fa niente”, e fa il secondo
passaggio. Il secondo passaggio non è prendersela con il marxismo del Movimento Operaio, con
quello ce l’eravamo presa nel ’67 a Genova, se per marxismo si doveva intendere quella roba del
Movimento Operaio, il problema non è quello. Il loro passaggio simile a quello del PDS (simile
strutturalmente, non con gli stessi contenuti) è rispetto alla tradizione operaista, perché essa appunto
non gli permette di capitalizzare niente sul breve e medio tempo.
C’è tutta questa storia, anche di produzione teorica, a volte anche piuttosto rarefatta, non abbiamo
avuto problemi a tirare dentro Wittgenstein o Heidegger se ci servivano, con il solito
strumentalismo materialista di dire: “se quello che ci serve per questa cosa, benissimo, ci serve per
questa cosa”. Quindi, questa produzione anche rarefatta, questa produzione teorica fra la fine degli
anni '80 e l'inizio degli anni ’90 aveva però questa finalizzazione che io dico organizzativa, in senso
largo, poi semmai sono organizzazioni totalmente ignote rispetto a tutti i precedenti conosciuti, va
bene. Ciò in realtà secondo me finisce attorno al ’94. Intanto, si capisce che noi non siamo stati
sufficientemente tenaci, bravi e capaci; si capisce però anche che c’è una vera difficoltà in Italia
perché il ciclo di sviluppo postfordista, iniziato alla fine degli anni ’70, possa mostrare ora l’altra
faccia della medaglia, conflitto e forme dell’organizzazione, in quanto ci sono state una serie di
giustapposizioni che lo hanno come bloccato e deviato, la caduta del Muro, la crisi del sistema
politico italiano, che per tanti aspetti è una crisi che deriva da cose di fondo, è una crisi della
democrazia rappresentativa, quindi qualcosa che in un certo senso interesserebbe enormemente un
pensiero come il nostro. Però, prende viceversa altre forme, cioè di questa crisi si nutrono altre cose,
il partito-azienda, il leghismo ecc. Quando, a un certo punto, poteva-doveva mostrarsi l’altra faccia
della medaglia postfordista, quella conflittuale, questa ha preso invece una versione, una torsione di
destra, o comunque è rimasta come seppellita dentro il clamore della crisi del sistema politico
italiano; ciò, a parte la nostra evidente incapacità, talvolta anche poca serietà, ha bloccato per un
motivo più alto e consistente questa possibilità di mostrare le potenzialità nuove sul piano politico-
orgnizzativo della soggettività postfordista. Poi ci sono stati altri conati, tentativi organizzativi più
recenti. Parlando a livello individuale, attorno al ’94 c’è come il constatare, il toccare con mano
qualcosa che probabilmente si poteva capire anche qualche anno prima: un tentativo politico-
organizzativo totalmente nelle condizioni nuove, cioè che sia come il risultato della
controrivoluzione, che si ponga all’estremo, al bordo della controrivoluzione invece non ha
funzionato, è rimasto come stritolato per un insieme di motivi. I compagni che poi fanno
DeriveApprodi partecipano a Luogo Comune, quindi c’è una continuità. Da quando smette di
esserci Luogo Comune nel ’93, ora più ora meno, ora più da lontano ora più da vicino, una parte
consistente di quelli che fecero Luogo Comune collaborano o lavorano a DeriveApprodi. Ci sono
stati tanti piccoli conati di iniziativa politica, anche molto recenti, ma nel complesso secondo me
resta valido il giudizio sul fatto che vi è come un congelamento, un ritardo, un’inibizione come
accade nei sogni, un torpore, e quindi un tempo lungo, perché si possa dare positivamente,

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conflittualmente, con invenzione di nuove forme, di nuovi percorsi, di nuove strutture e teorie
dell’organizzazione, l’altra faccia del postfordismo.
Detto questo, però, non si capisce molto di quello che ho fatto io se non si considera che da sempre,
e dal ’78-’79 in maniera via via sempre più centrale e massiccia, mi ero occupato di filosofia. Io ho
sempre voluto lavorare su cose filosofiche ma da marxista critico, cioè ho sempre pensato che un
problema fondamentale fosse lavorare su un materialismo ampio, cioè un materialismo capace di
non lasciare fuori di sé problemi fondamentali come il linguaggio, la comunicazione o altro ancora.
Quindi, ho sempre lavorato su queste cose e naturalmente in misura crescente, fino a che sono poi
un po’ diventate l’aspetto principale della mia attività. Sarebbe dunque difficile parlare di me stesso
dal ’79 in poi senza tenere presente che, anche quantitativamente, certamente qualitativamente, la
parte maggiore del mio tempo l’ho data a lavorare su problemi e questioni filosofiche, scrivendo e
quindi anche pubblicando cose dove secondo me il problema nasceva dai buchi neri del marxismo,
ma non del marxismo in generale, bensì del marxismo critico, del marxismo nostro, constatati come
veri e propri punti di catastrofe negli anni ’70, nella ricchezza complessiva degli anni ’70. Le prime
cose riguardarono proprio il problema: c’è una teoria della conoscenza in Marx? E questa teoria
della conoscenza, se c’è, se c’è o se ci fosse, riguarda solo le cose come stanno o c’è anche un modo
di conoscere la tendenza, di conoscere la traformabilità dell’esistente? Quali sono le categorie per
conoscere non solo il valore di scambio, ma anche la fuoriuscita dal valore di scambio? Queste
furono proprio le primissime cose, che poi misi in gran parte in Convenzione e materialismo, che fu
scritto sostanzialmente fra l’80 e l’82, anche se poi per ovvi motivi carcerari uscì nell’87, e così via
dopo. Con però anche un’intensità e una centralità del mio tempo e del mio percorso su cui non mi
dilungo, ma che serve a raddrizzare subito tutto quello che ho detto. Poi naturalmente molte di
queste cose si intrecciano, come per esempio la riflessione su una categoria come quella della
moltitudine, che nel ‘600 fu opposta a quella di popolo, e da quella di popolo derivano poi le teorie
politiche della modernità: noi abbiamo detto in Luogo Comune: “badate che sta tornando perspicua,
pertinente alla situazione attuale la categoria della moltitudine”. La categoria della moltitudine è
difficile non concepirla e pensarla senza tirare fuori una serie di questioni propriamente filosofiche:
quali sono i giochi linguistici, le forme comunicative della moltitudine? Cosa è la categoria
dell’individuale, del singolare per i molti? L’idea di molti fa pensare a tante singolarità e non
sintetizzabili in quell’uno che è lo Stato e il sovrano. Insomma, questioni che possono essere
pensate (almeno così mi è sembrato e così potevo fare io) attraverso problemi e categorie di etica,
filosofia del linguaggio, filosofia politica. Quindi, il problema è che ci sono punti consistenti in cui
la riflessione più teorico-politica si lega alla riflessione filosofica, ma ce ne sono anche altri su cui
invece non è così. Il mio problema è in fondo quello di uno che non ci è mai stato simpatico,
Engels; questi a un ceto punto si pose la questione di dire: “va bene, noi abbiamo detto delle cose
materialistiche sulla produzione, abbiamo detto delle cose materialistiche sulla storia: però, il
materialismo non dovrebbe avere l’ambizione di coprire tutto il campo, quindi di coprire anche il
campo della scienza, il campo della natura, il campo dei sensi? Non dovrebbe essere anche un
sensualismo, un sensismo?”. Quindi, alcune volte si incrociano, vedi esempio della moltitudine,
altre volte ho dedicato sei anni a ragionare su quale fosse lo statuto materialistico del linguaggio,
quale fosse il rapporto fra il linguaggio e la vita sensibile, quale fosse il rapporto fra il linguaggio e
il mondo materiale. E qui siamo per certi aspetti vicini e per certi aspetti lontani dal tipo invece di
percorso politico di cui dicevo prima. Menziono queste cose per dire com’è stata realisticamente la
divisione del mio tempo, soprattutto da un certo punto in poi.

- Nella tua analisi c’è un aspetto che sicuramente è centrale, ossia l’andare a ricercare i nodi
critici aperti o non affrontati da parte di una tradizione politica che non va né esaltata né
buttata via, ma usata per prendere ciò che ci serve in chiave di rielaborazione critica nel
presente e verso il futuro. L’operaismo è una categoria che qui intendiamo in senso lato. Tronti,
ad esempio, sostiene invece che l’operaismo politico vada identificato con l’esperienza dei
Quaderni Rossi e di Classe Operaia: dopo di che, coi gruppi, inizia secondo lui un’altra storia

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che più nulla ha a che fare con quelle esperienze. In realtà, pur essendoci molte e talvolta
importanti discontinuità, esistono in alcuni percorsi degli anni ’70 e persino successivi anche
delle forti continuità teorico-politiche. Rispetto all’operaismo Alquati ha formulato una
peculiare ipotesi, che non è solo storiografica ma può essere un’importante chiave di lettura
proprio nell’individuare quei grossi nodi critici ancora oggi aperti. Dunque, Romano sostiene
che l’operaismo si è mosso all’interno di un particolare poligono, cercando, con alterni
risultati, di fare i conti con ognuno dei suoi vertici. Un vertice è rappresentato dagli operai e
dalla loro soggettività, poco o per nulla affrontata e di cui raramente oggi gli intervistati
parlano. Il secondo vertice è dato dalla cultura, che, per quanto con importanti aspetti critici,
per molti (non certo per tutti) ha finito per tornare ad essere la cultura esplicita e umanistica di
gramsciana memoria. Il terzo vertice è la politica ed il politico, il grande buco nero delle
esperienze operaiste, nei molteplici percorsi tentati. Il quarto, infine, è la questione
generazionale e giovanile. In parte lo hai già fatto nella tua analisi, ma affrontando la
questione nel suo complesso, quali sono secondo te i grossi nodi critici aperti e oggi centrali
nella rielaborazione politica delle ricchezze e dei limiti dei percorsi operaisti?

Mi viene in mente la frase di Fabrizio De Andrè: se non del tutto giusto, quasi niente sbagliato. A
me pare che l’operaismo abbia dato una consistenza, un’articolazione ricca all’idea di Marx
dell’intelletto generale, il general intellect. Questa articolazione ricca se si vuole si può anche
ripercorrerla in alcune sue caratteristiche e soluzioni: è lo spartito fondamentale di qualsiasi
suonata. Secondo me il passaggio fondamentale è stato quello di lavorare sulla crisi (e sulle
ambivalenze di questa crisi) della legge del valore, riuscendo a mettere a fuoco abbastanza bene,
almeno in alcuni momenti, il doppio carattere, vigente ma non più vero, della legge del valore
stesso. Quindi, il tempo di lavoro del singolo (astratto, vuoto, dequalificato ecc.) non è più la fonte
principale di produzione della ricchezza, ma è ancora l’unità di misura vigente. Questo è uno
schema che a volte è stato come una specie di barzelletta dei matti che la si ripeteva in maniera
sempre più schematica; molte volte, invece, è stato articolato, riempito di carne e sangue ed è uno
strumento fondamentale. E poi c’è il general intellect, che come si sa Marx nomina una o al
massimo due volte nei Grundrisse e chissà cosa aveva in mente, se la polemica con la volontà
generale di Rousseau o che altro ancora: ed è solo un’allusione, mentre invece quella che era
un’allusione adesso è una teoria positiva, completa, una teoria generale. Che questa teoria poi
semmai sia lontana dall’essere sufficiente è un conto, però questa è una produzione rilevantissima.
Penso soprattutto al momento in cui l’operaismo si è sforzato di non leggere più l’intelletto
generale, il general intellect, come capitale fisso, che è la versione di Marx, la scienza e il sapere
riversati, congelati, rappresi nel sistema di macchine automatizzate. Secondo me in realtà
l’operaismo, in un certo senso fin dal ’69, poi in maniera più consapevole dopo e in anni recenti, ha
cercato invece di pensare il general intellect come lavoro vivo, e naturalmente non come erudizione
del singolo, può anche non aver mai letto in vita sua un libro il singolo operaio, non è quello il
punto: la questione è che dall’interazione cooperativa vive, in maniera principalissima, addirittura
più che non nel sistema di macchine, l’intelletto generale. Questo poi è un inveramento nella
produzione postfordista anche di ciò che è molto empirico e visibile: quello che viene richiesto è la
mobilitazione non di particolari conoscenze, ma delle generiche facoltà dell’animale umano, questo
è il punto. Allora, si può parlare dell’intelletto generale che è stato declinato dall’operaismo come
intelletto in generale, quell’in generale è il punto. Intanto, è stato pensato come lavoro vivo e non
capitale fisso; non che non ci sia l’intelletto generale come capitale fisso, ben inteso, voglio dire che
l’aspetto qualificante è quello cooperativo, relazionale, l’intelletto generale come attributo della
cooperazione. Senza farla lunga, secondo me questo è un punto di forza rispetto a cui si può usare
anche il termine scientifico, comunque carico di realismo e carico di effetti di verità, di effetti di
comprensione dell’esistente.
Il punto su cui l’operaismo invece lascia solo buchi neri è nei termini della teoria politica, questo mi
pare indubbio. Nel corso del tempo, dagli anni ’60, con gli esperimenti pratici rivoluzionari degli

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anni ’70, poi anche dopo e ancora adesso, ha fatto anche un buon lavoro destruens, ma ogni volta
che si è azzardato ad andare oltre non vi è riuscito. Naturalmente ci sono stati tentativi importanti,
ma il limite dell’operaismo è quello di non essere mai, neanche lontanamente, riuscito nel suo
insieme a pensare la realtà del general intellect in termini di teoria politica, cioè pensare il general
intellect (con tutte le cose che sono connesse, non voglio usare anch’io adesso la parola
strategitistica, e solo per brevità stenografica) come base di una teoria politica. Ci sono le cose di
Tronti, ma poi lui difende se stesso, in questi libri, anche ne La politica al tramonto: in qualche
modo difende, a costo semmai di difendere anche Stalin, il fatto che è entrato nel PCI nel ’68.
Cacciari non ci prova nemmeno e quindi lavora con Di Pietro; Tronti, invece, ci tiene a difendere se
stesso e quindi fa questo discorso sulla politica del ‘900. Però, la mette troppo in generale e perciò
perde il punto specifico che invece è quello, eventualmente anche in termini di colpa e di
responsabilità dell’operaismo, cioè il non aver tratto dall’analisi della composizione di classe, dei
suoi mutamenti, dall’analisi del general intellect, una teoria politica che fosse finalmente una teoria
politica post-statale, senza essere una teoria parodisticamente anarchica. Ci sono stati tutti gli
esperimenti, anche negli anni ’70, dove c’è stata una vera messe di esperimenti pratici sul piano
organizzativo, e dove certamente l’autonomia ha costituito la forma generale di organizzazione del
nuovo proletariato. Però, ogni volta che la cosa veniva fissata in termini teorici, o ci sono state
aporie terribili che bloccavano immediatamente, oppure veri ritorni al passato, veri tic da generale
Stranamore sul terreno politico. Dunque, sul terreno politico o aporia o stranamorismo. Questo detto
con uno sguardo molto di insieme. La cosa che capisco meno nello schema di Alquati è quella sulla
cultura: se ciò vale per quelli entrati nel PCI nel ’68 allora sì, entravano in un partito che concepiva
in questo modo il rapporto fra intellettuali e politica, quindi era automatico che si conformassero
seppure recalcitravano. Per quanto riguarda invece la parte dell’operaismo che ha mantenuto un
carattere più bizzoso, più autonomo, più estraneo ai partiti tradizionali, ci sono state miserie
personali, intoppi, incoerenze, compromessi, tutto quello che si vuole, ma non direi che ha
riprodotto un modello di intellettuale organico.

- La questione è in termini diversi. Il problema che alcuni hanno posto nella seconda metà degli
anni ’50 è quello che hai prima evidenziato nella tua analisi, ossia come uscire da quel circolo
chiuso in cui Marx, con una terribile lungimiranza, va a fare una teoria del capitale e non di
una possibile uscita da esso. Di fronte a questo grosso nodo ipotetico alcuni si sono mossi
cercando non solo fuori dal marxismo, ma anche fuori dallo stesso Marx delle forme di rottura
di quel circolo chiuso: c’è stata quindi un’iniziale apertura verso la sociologia, la
fenomenologia, ma anche la psicoanalisi e via dicendo. In realtà, però, non si è mai posta la
questione di un controutilizzo critico di certi ambiti disciplinari fino ad allora trascurati
dall’oggettivismo del marxismo ortodosso, in una sintesi politica complessiva che andasse nella
direzione di una scienza altra, che nella sola enunciazione è poi diventata la scienza operaia.
Tutto sommato a prevalere, almeno in generale, anche tra coloro che hanno girato attorno o
simpatizzato per gli ambiti operaisti, è stato invece il modello della cultura esplicita ed
umanistica.
La questione del general intellect: secondo te, quanto esso ha una dimensione capitalistica e
quanto può essere ribaltato o addirittura è già in un discorso di trasformazione e di uscita dal
capitalismo?

Tutti e due. E’ totalmente una risorsa produttiva del capitalismo, sapere, conoscenza, il ricorso a
queste facoltà generiche dell’essere umano; e però ovviamente è anche l’unica base materiale,
concreta, definita del ribaltamento. E’ quello che, con una battuta che dentro la tradizione
dell’operaismo si capisce, si è chiamato su Luogo Comune “il comunismo del capitale”, riferito al
socialismo del capitale di cui si parlava a proposito degli anni ’30, keynesismo, fordismo ecc. che
sono la risposta alla crisi del ’29 e prima ancora al ’17. Il comunismo del capitale significa appunto
che il postfordismo articola a sé quel general intellect che dimostrerebbe quanto pacatamente

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realistico potrebbe essere il ribaltamento comunistico. Nella tradizione operaista si è sempre
opposto comunismo a socialismo, è stata fissa la critica del socialismo, non del socialismo reale ma
anche del socialismo ideale, applicazione universale equa della legge del valore e via dicendo. Però,
gli aspetti discriminanti del comunismo, critica del lavoro, critica dello Stato e altro, sembrano
come fatti proprio e articolati invece in termini di produzione del plusvalore. In questo senso c’è
questa doppia faccia. Fra l’altro, io credo che il capitalismo contemporaneo, proprio come
postfordista, abbia la caratteristica di tradurre in termini storici, sociali e anche economici
addirittura le caratteristiche più generali dell’animale umano, quelle che sono sempre state vere,
anche per Omero. Allora, quello che è sempre stato vero, cioè che l’animale umano è fatto così, si
invera: che è un animale linguistico, che ha un certo rapporto fra vita sensibile e vita cognitiva e
intellettuale, che ha certe caratteristiche, che non ha un ambiente ben determinato per esempio,
come ce l’ha la zecca o l’alligatore o lo scimpanzé, ma ha a che vedere con un mondo
indeterminato, nel quale non si orienta mai bene. Questi fatti, che sono addirittura biologici, sono
invece realtà storico-empirica: in questo senso si inverano, si rivelano, diventano fenomeno. E’
proprio quello che gli studiosi chiamano l’antropogenesi: è la genesi stessa dell’uomo, nei suoi
caratteri distintivi dalle altre specie, che è sempre stata vera ovviamente, soltanto che non si è mai
presentata in primo piano come un semplice fenomeno concreto, empirico, a volte addirittura
economico. Quindi, con una costituzione quasi biologica, diciamo, che diventa invece
determinazione storica. Questo aspetto è la grande forza del capitalismo postfordista, però è sempre
stata considerata la base del comunismo. Paradossalmente, è l’idea che l’uomo potesse vivere
direttamente e senza veli all’altezza delle caratteristiche della sua specie, senza i veli della religione,
delle società tradizionali, del paesino di campagna in cui si vive per tre secoli nello stesso modo, ma
potesse vivere per il fatto che è un animale indefinito (così usiamo anche una bella definizione).
L’uomo come animale indefinito, mentre gli altri animali hanno tutti i begli istinti specializzati: per
l’uccello non esiste l’albero, esiste un punto di appoggio che è il ramo perché appunto è ben
definito, sa sempre cosa deve fare. L’uomo è l’animale che non sa cosa deve fare, è l’unico animale
che vive nell’indecisione e nell’incertezza. Si capisce che cose generali che sono? Ma si pensi come
questo suo vivere nell’indecisione e nell’incertezza, questo suo essere un animale indefinito, è la
base del postfordismo. Quando si dice la relazionalità, la linguisticità, l’essere pronti
all’innovazione continuativa: che altro si dice se non che l’uomo come animale indefinito è messo
al centro. Risalire proprio alla costituzione dell’essere umano come tale è anche la base dell’idea
comunista, depurata da cose del Movimento Operaio, dalle cose socialistiche ecc. E’ un tiro alla
fune in cui la fune è una per tutti: la fune si può chiamare general intellect, e quando è tirata come
oggi pressoché totalmente dalla parte della grande impresa, della produzione di plusvalore,
ovviamente assume certe caratteristiche. Non è che essa rimanga proprio materialmente la stessa,
quando uno dei due contendenti la tira di più quella fune prende certe caratteristiche, quando è tirata
dall’altra parte ne prende delle altre. Questa fune si chiama in sintesi general intellect. Però, il
postfordismo è quello che mette al lavoro ciò che l’uomo è sempre stato come condizione di sfondo,
cioè un animale indefinito, l’unico animale indefinito, questo mi sembra realistico.

- Cosa ci dici di Enzo Grillo?

Con lui eravamo amici negli anni ’70, era più grande, però stavamo sempre insieme. Lui era un
grande amico di De Caro, che conoscevamo di meno perché era più riservato, invece Enzo è un
chiacchierone, un uomo da cena insieme. Enzo è coltissimo, afflitto dal fatto che sapeva tutto e gli
era impossibile scrivere. Poi l’ho perso di vista, credo di non averlo più incontrato. A un certo punto
si è proprio isolato, è andato in pensione a 40 anni, è andato a vivere fuori Roma, non ha mandato la
figlia a scuola e le faceva lui da insegnante. Ha cominciato a fare delle traduzioni meravigliose e
sapeva veramente tutto. Infatti, cercava di organizzare le tesi di laurea dei giovani compagni di
Potere Operaio che facevano l’università, affinché facessero le tesi su cose che a lui sembravano
non essere state ancora ben sviscerate e quindi potessero servire complessivamente alla scienza

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operaia. Il problema è che quando passa il tempo la gente diventa risentita, quello fa parte
dell’animale indefinito.

- Grillo e De Caro avevano fatto nel ’73 una relazione al centro Serantini di Bologna, titolata
L’esperienza storica della rivista Classe Operaia e che era circolata ciclostilata. Dai pochi
frammenti che abbiamo avuto occasione di leggere sembra che loro facessero una critica a
quella esperienza che è in qualche modo ripresa da altri, anche nelle interviste che stiamo
facendo, ossia di una sorta di progressismo implicito di certi percorsi operaisti. Ciò non
riguarda ovviamente tutti, ma se, ad esempio, si guardano alcuni aspetti del percorso di Negri
(si pensi a Posse così come a precedenti elaborazioni) si vede la teoria di una moltitudine (o
prima ancora chiamata in termini diversi) che va deterministicamente verso una cooperazione
liberata e rispetto a cui l’unico problema è un comando capitalistico che si presenta nella
forma di una semplice incrostazione parassitaria e del tutto inessenziale. Si ripropone una
qualche freccia della storia che va sempre avanti e sempre verso il meglio.

Non ci hanno avvertito, abbiamo già vinto senza accorgercene! Toni qualche volta, non che non le
conosca benissimo, ma dovrebbe leggersi con meno insofferenza le Tesi sulla filosofia della storia
di Walter Benjamin, che come si sa sono perfettamente antiprogressiste. Ogni tanto borbotta che è
un pensiero talmudico, una cosa che non va bene, invece lì c’è appunto un elemento in cui la
catastrofe è sempre possibile. Non la chiamerei progressismo, perché esso contiene veramente al
peggio del Movimento Operaio…

- C’è una sorta di oggettiva immanenza del bisogno di comunismo destinata a realizzarsi.

Immanente è, però la sua immanenza non toglie che può rovesciarsi in blocco, paralisi e catastrofe.
Ma anche nell’osservazione della cosa più sociologica, di una giornata alla Fiat di Melfi, bisogna
tenere presente la possibilità della paralisi e della catastrofe, cioè quelle stesse cose che
renderebbero matura una trasformazione radicale dell’esistente possono invece secernere il male;
quando si pensa alla moltitudine postfordista o a quello che si vuole, è necessario introdurre la
categoria del “male” (inteso chiaramente in un certo modo), del negativo. Allora, il problema è stato
che l’operaismo ha criticato la dialettica, perché la dialettica era una roba un po’ da imbroglioni;
non che Hegel fosse un imbroglione, però era uno strumento inaffidabile. La critica della dialettica,
però, secondo me non doveva sfociare nella critica del negativo, cioè della possibilità della
catastrofe, che le cose andassero “a puttane”. Io penso che l’operaismo e non Calvino sia una delle
poche cose esportabili dell’Italia del secondo dopoguerra: esso ha fatto dei passi in questa direzione,
ma forse non sufficienti. Cioè, c’è il pensare che la negatività, il male, il disastro, il guaio, la cosa
da cui non te ne cavi fuori, può avere una forma non dialettica: non è che perché critichi la dialettica
devi criticare anche il negativo. Su questo infatti uscirà sul numero di DeriveApprodi un discorso
sulla moltitudine e il negativo. La moltitudine può diventare fascista. Bisogna tenere presente che la
moltitudine ha dentro di sé l’immanenza del comunismo, questa così si può sempre dire, tant’è che
parlavo addirittura di comunismo del capitale, per dire quanto era diventato visibile ad occhio
nudo…

- Però quell’immanenza assume un aspetto teleologico, cioè un oggettivo destino di


realizzazione.

Quella stessa immanenza è talmente poco direzionata necessariamente che può dare luogo anche al
male radicale: uso ovviamente espressioni del genere che non userei in pubblico, che sono
espressioni un po’ teologiche e non si sa bene cosa vogliano dire, ma insomma diciamo il negativo
assoluto, il fascismo. Marx da qualche parte l’ha scritto (forse in una lettera ad Engels): tra i due
contendenti che si affrontano sul lungo termine, su quello di più generazioni e non di pochi anni,

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non è detto che vinca l’uno o che vinca l’altro, ci può essere anche la catastrofe. Alcuni pensatori
del ‘900, marxisti ma anche non marxisti, l’hanno curata bene ed è una nozione necessaria. Ripeto,
necessaria poi invece anche quando giudichi una roba che succede a Praga o al Leoncavallo. Il
punto è tenere presente che, oltre alle alternative A o B, ci può essere anche la paralisi, la catastrofe,
l’imputridimento, il male. Una cosa è il male, che so, nella categoria di popolo, una cosa diversa è il
male nella categoria della moltitudine, quindi devi rilevare le forme specifiche del male nell’uno e
nell’altro caso e rispetto all’una e all’altra categoria: però, male è, c’è questa possibilità. Quindi, un
negativo non dialettico, quello sarebbe un punto da tenere caro. Ci ha provato Cacciari con quelle
cose sul pensiero negativo che, a parte una certa loro cripticità, sembravano addirittura subire
l’ipnosi di questo grande pensiero borghese, come quello di Kierkegaard, Nietzsche ecc.: quindi,
qui invece sì, negativo non dialettico, ma poi addirittura sposava certe forme. Ci sono stati vari
tentativi, ma certo rimane un nodo aperto. Sì, Toni probabilmente ha questa specie di ottimismo
spinoziano, come dice lui, e naturalmente questo permette anche di vedere molte cose alcune volte,
coglie aspetti della tendenza, rompe con tutte le mestizie del Movimento Operaio tradizionale che è
sempre lì pieno di nostalgie, che vorrebbe tanto che ci fosse ancora il fordismo. Questo
atteggiamento di Toni o di altre parti dell’operaismo permette anche di andare più veloci al punto,
però poi ha dei costi notevoli.

- Una figura a cui sei stato molto vicino è quella di Lucio Castellano. Come lo inquadreresti?

Era un uomo intellettualmente molto vivace e spregiudicato. Dicevo prima che sull’ultimo Pre-print
di Metropoli, uscito nell’81 ma i cui testi erano in realtà già pronti dal ’78, c’era un suo saggio su
lavoro e non lavoro, che fu scritto nell’autunno del ’76 e obiettivamente è un ritratto molto
convincente e molto preveggente delle caratteristiche principali del lavoro postfordista e,
nell’immediato, del movimento del ’77. Poi, come altri, alla fine, prima di morire nel ’94, aveva
questa inquietudine sul buco nero della teoria politica, cioè il fatto che non vi fosse una teoria
politica. Nessuno cerca la cosa in cui si dice “lo Stato, le Regioni…”, no, dico proprio il nucleo più
importante della teoria politica, che non ci fosse: tutte le analisi sulla composizione di classe, il
postfordismo, il general intellect o altre ancora, anche prima, non mettevano capo a una teoria
politica. Ciò naturalmente lo ha portato anche a saggiare criticamente proprio il paradigma operaista
come tale. Questo tempo di mezzo che abbiamo vissuto negli ultimi 10-15 anni, in cui molte cose si
capirono e molte categorie nuove potevano essere proposte, ma non c’era nessuna conseguenza
politica rilevante, questa marcia nel deserto, fa sì che psicologicamente dopo un poco non si resiste:
e allora o, com’è successo a compagni pure bravi, come quelli più giovani ad esempio del Veneto,
fai pidiessizzazione della tua esperienza perché non resisti in questa condizione, oppure, sul piano
più solitario e intellettuale, sei attratto da un mutamento di paradigma che anch’esso però nella
sostanza consiste nel lasciare perdere l’impianto operaista e nel cercare soluzioni eclettiche e
talvolta spurie sul terreno della teoria politica, visto che questa non ti è offerta dall’operaismo
stesso. Questa è stata la dimensione dei primi anni ’90 di Lucio. Lui aveva finito un libro poco
prima dell’incidente, che era un testo non di grandi dimensioni però compiuto, doveva solo essere
rifinito, ed era appunto su questo problema: se la produzione è così, quale teoria politica dovrebbe
corrispondere? C’è un gap: a questa ricchezza della produzione non segue una teoria politica
minimamente all’altezza. Ricchezza in tutti i sensi, ricchezza capitalistica, ricchezza come
potenziale di soggettività antagonista. Al carattere complicato che tiene davvero in sé la produzione,
il problema è che c’è una teoria politica che fa schifo, anche nelle sue versioni critiche. Aveva fatto
questo libro, a cui sono stati aggiunti vecchi scritti di Metropoli o anche quello di Pre-print. E poi
c’è un libro di ricordi su di lui. Quindi, l’accordo con Lucio era meno buono negli ultimi anni,
anche dentro Luogo Comune si litigò. Metropoli lo facemmo per un lungo tempo io e lui soli,
perché Piperno e Pace ebbero il passaporto dalla questura nell’81 con l’obbligo di andare fuori dal
paese perché se restavano potevano essere processati per i reati per i quali la Francia non li aveva
estradati; quindi, presero il passaporto e andarono in Francia, dunque avevano tutte le difficoltà

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dell’esilio. Restammo qui io e Lucio, facemmo buona parte di quei cinque numeri della rivista. Poi
invece nel periodo di Luogo Comune non c’era più sintonia, anzi c’era una forte tendenza al litigio.
Lui mi accusava di continuismo, io lo accusavo invece di semplificarsi la vita, nel senso che si fa
del passaggio, il salto. La cosa più complicata è in realtà meno continuista (naturalmente ciò era
quello che dicevo io), bisognava capire quante cose erano entrate per esempio nel concetto di
produzione che prima non appartenevano al concetto di produzione: uno può anche dire che la
produzione non ha più una rilevanza centrale, però è una delle possibilità di vedere la stessa cosa.
Puoi dire: “tantissime cose che prima non avevano niente a che fare con il lavoro sono diventate
lavoro”, oppure puoi dire: “il lavoro è diventato una dimensione inessenziale”: puoi dire entrambe
le cose basandosi sugli stessi elementi. Quindi, su quello c’era un po’ di disputa. Dal punto di vista
dei grandi passaggi, lui è stato dentro i seminari che hanno prodotto il libro collettivo Sentimenti
dell’aldiqua, quindi dentro la nascita di Luogo Comune come uno dei fondatori, ha scritto e
collaborato ai primi numeri di DeriveApprodi. Luogo Comune teneva insieme gente veramente
molto diversa, cosa che ha contribuito alla sua paralisi. Però, i grossi passaggi come frequentazione
di certi circoli di discussione sono più o meno gli stessi; anche il periodo della vicenda carceraria è
assolutamente uguale perché avevamo le stesse imputazioni, lo stesso profilo processuale. Diciamo
che lui ha lavorato quasi solo su questo tema della teoria politica, con il libro Il potere degli altri
(edito da Hopefulmonster), poi anche con quel testo pubblicato postumo dal Manifestolibri. Quindi,
le stesse parole (general intellect come risorsa politica anziché come elemento fondamentale della
produzione, la stessa parola esodo) erano anche sue ma le declinava in una maniera più
antioperaista di quanto a me sembrasse giusto, e non certo per motivi di affezione alla tradizione.

- Una domanda che in qualche modo completa quella precedente. Composizione tecnica,
composizione politica e ricomposizione sono tre categorie diverse che spesso vengono confuse
o completamente non considerate in certe teorie. Anche rispetto al discorso sul general intellect
alcuni (Toni, per esempio) finiscono per guardare soprattutto alla dimensione alquanto statica
della composizione tecnica, interpretandola immediatamente come composizione politica
antagonista, vedendo quindi le capacità lavorative come capacità immediatamente
rivoluzionarie. Spesso si trascurano parecchio proprio le determinanti soggettive, quelle su cui
dovrebbe essere centrata un’analisi sulla composizione politica e un tendenziale percorso di
ricomposizione.

Forse questo era un difetto (se possiamo definirlo così) di Toni anche nel ’69, non è che sia una
cosa nuova. Deriva da questa sua attitudine a bruciare i tempi, a guardare alla tendenza come già
realizzata e quindi certamente a saltare i passaggi che rendono sempre un problema arduo,
controverso e reversibile quello di composizione di classe. Però, secondo me alla fine Toni, per
forza di cose stando in Francia, dopo la sconfitta, dopo il carcere, poi anche adesso, ha cercato più
che guardare al centro della scena di tratteggiarne i bordi dello scenario nel suo complesso, di
determinare il campo più che vedere come poi poteva essere attraversato. Quindi, mostrare proprio i
confini anche logici della situazione in cui stiamo, occupandosi forse di meno di come poteva
occuparsi negli anni ’70 dei passaggi effettivi della ricomposizione di classe, cercando di indicare le
stelle polari della situazione. E su questo si può naturalmente condividere o non condividere, però il
lavoro fatto dalla rivista Futur Anterieur è stato importante. L’analisi di quello che loro chiamavano
il lavoro immateriale, sulla cooperazione e via dicendo sono state un buon percorso; parallelamente
e indipendentemente da noi, avevano lavorato sulla dimensione linguistico-comunicativa del lavoro,
quindi con una critica ad Habermas che sfiora il problema e lo distorce con la sua dicotomia.
Insomma, là c’è stato un blocco, anche per le forze che hanno coinvolto, cioè per il tipo di
collaboratori francesi e non solo che c’erano. Secondo me la sua attenzione è sempre più rivolta al
capire, a torto o a ragione, alcune stelle polari piuttosto che a confrontarsi veramente con i processi
di ricomposizione di classe, con la loro ambiguità e il loro carattere non dato, anzi spesso bloccato.

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- Quali sono secondo te le figure e gli autori principali che possono essere utilizzati per rompere
politicamente quelle chiusure della teoria di Marx di cui abbiamo parlato prima?

Sono grandi autori semmai delle scienze sociali e della filosofia. Io penso che sia difficile parlare
della produzione contemporanea senza far ricorso anche ad una strumentazione tratta dalla filosofia
del linguaggio. O ci prendiamo sul serio oppure no: se non ci prendiamo sul serio è solo una
boutade dire che il linguaggio è stato messo al lavoro (o come un altro lo può dire, questo non
importa); se ci prendiamo sul serio ciò vuol dire che una parte delle categorie dovrebbero essere non
dico proprio prese tali e quali, ma rintracciate con un lavorio critico e naturalmente anche di
modificazione in chi l’esperienza linguistica l’ha pensata più a fondo, Saussure, Wittgenstein. Però
questo non è solo un problema dato dagli studi che ho fatto e dalle cose che ho scritto, non voglio
spacciarla così, ma è un tipo di allargamento indispensabile. C’è la grande biologia, l’attuale ma
anche quella dell’inizio del ‘900, importante per le caratteristiche dell’animale umano in quanto tale
(uso apposta il termine animale umano per un fatto materialistico): è come se questa sorta di nucleo
essenziale dell’animale umano fosse venuto alla luce soprattutto con il postfordismo. Nei fatti è
diventata per la prima volta vera la definizione marxiana di forza-lavoro, quando Marx dice: “la
somma di tutte le facoltà – si noti bene, facoltà significa l’aspetto potenziale – fisiche e intellettuali
racchiuse nel corpo e nella corporeità dell’operaio”: questa definizione in un certo senso non è mai
stata completamente vera fino a ora. Allora, se è così, è importante anche la biologia (in questo
senso forte, non di biologie). Poi c’è un uso critico di avversari, spesso gli avversari sono
interlocutori migliori. Luhmann si può dire che è un avversario, chi lo può negare; per me è
un’avversaria Hannah Arendt, ma quante cose, polemizzando, variando, correggendo,
interloquendo, si possono ricavare da una che comunque pensava con la sua testa come la Arendt.
Certamente in filosofia, ma anche in scienze sociali e nel pensiero critico in generale, in un certo
senso valgono più dei buoni avversari che non degli alleati o mediocri oppure con i quali sei già
ovviamente d’accordo. La cosa peggiore naturalmente è un avversario che è innocuo, ma un
avversario inquietante, un avversario insormontabile ti dà grandi possibilità. Lo stesso vale appunto
per Hannah Arendt: io la leggo, la rileggo, non c’è una sola frase che sottoscriverei, e però
nell’attrito con quello che dice lei ne vengono fuori di cose. Lo stesso naturalmente vale per questi
filosofi della comunicazione e del linguaggio, già dicevo di Wittgenstein e Saussure; vale per i
biologi che pensano l’essere umano come una animale indefinito, è un grande filone. E’ importante
scegliersi dei buoni avversari. Penso che importante sia non Heidegger in generale ma quello di
Essere e tempo, che prenda la vita quotidiana nella società di massa e la analizza come tale, e quindi
tira fuori delle categorie come categorie veramente filosofiche, che però con la filosofia hanno poco
a che fare, apparentemente come chiacchiera, curiosità: queste sono cose buone, da sviscerare
naturalmente contro Heidegger stesso, di nuovo siamo a un discorso sugli avversari. Io terrei
soprattutto una bella lista di avversari importanti.

- Cosa ne pensi di Arnold Gehlen?

Gehlen è importante, certo: servendosi di questi biologi come von Uexküll e questi altri qui elabora
il massimo grado di idea del carattere sprovveduto, indefinito, incerto e indeciso dell’uomo. Cosa
serve al postfordismo? Un animale indefinito (flessibilità, plasticità), indeciso (sempre pronto a
diverse alternative) e via dicendo.

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INTERVISTA A LAUSO ZAGATO – 1 NOVEMBRE 2001

- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e l’inizio della tua attività
militante?

Io ho fatto il liceo classico a Padova all’inizio degli anni ’60 e, seppure senza pretesa di averne
avuto diretta contezza allora, non posso dimenticare di essere entrato per la prima volta nella sede
del PSI della mia città il giorno dopo Piazza Statuto. All’epoca, certo, non sapevo bene cosa fosse
quell’evento, né ero in grado di valutarne il significato, anche se non ci volle molto tempo, perché
di lì a poco in giro non si parlò d’altro: non posso quindi vantarmi, come talvolta la mia
megalomania mi ha portato a fare, di essere stato il primo tra i giovanissimi ad aver letto,
interpretato e capito Piazza Statuto in tempo reale e di essere poi andato in una sede politica a
cominciare la vita di militante. E’ stato casuale, però è avvenuto: e non credo che siano molti coloro
che possono vantare una simile coincidenza!
Piuttosto la domanda che mi viene rivolta mi porta a riattraversare quel fermento culturale-politico
di primissimi anni ’60, poi presto inabissatosi nella routine delle città venete. Io provengo dalla
piccola borghesia di provincia, i miei erano insegnanti per i quali rappresentava un sacrificio
mandare i figli a scuola non nell’unico liceo della bassa ma nel miglior liceo di Padova. Le
generazioni del ’68 e successive hanno sempre faticato a credere che quei primi fermenti di
dibattito, il primo frutto ancora fuori stagione, abbia avuto come epicentro proprio il Tito Livio,
quel liceo classico che sarebbe poi stato ininterrottamente per tutti gli anni del movimento il cuore
della destra intellettuale e politica tra gli studenti medi. Eppure, devo confermarlo. Avevamo
cominciato a mettere in piedi un’associazione, piccolissime forme di giornale e via dicendo: si tratta
di quelle avvisaglie culturali e generali dell’inizio degli anni ’60 che poi vennero un po’ bruciate. Si
provino a ricordare i fatti del Congo che, sia pure a livello elitario, ebbero una notevole influenza
sui liceali dell’epoca. Il ’61-’62 è poi l’anno di massimo influsso delle morti bianche in fabbrica e
soprattutto nell’edilizia dell’Italia settentrionale, perché è un momento in cui un certo modo di
produrre raggiunge il massimo ed è totalmente privo di controllo. Insomma, ho la pretesa di credere
che quella generazione che finì le scuole e andò all’università nei primi anni ’60 annusò un po’ di
movimento che poi è andato perso.
In particolare, fu poi una minoranza numericamente insignificante quella con cui affrontammo la
grande esperienza di Classe Operaia nel ’64-’65. Ricordo che a un certo punto eravamo un
gruppetto che andava a Marghera, alle manifestazioni in città non c’era più nessuno, però il ’62-’63
c’erano stati.
Ritorniamo al mio ingresso in Arco Valaresso (la sede del PSI di Padova). Quando andai per la
prima volta nella sede del PSI dopo Piazza Statuto, invece che da un’altra parte (il PCI, ad
esempio), probabilmente influivano dinamiche famigliari: mio nonno, povero contadino del
Polesine, era stato uno dei portabara al funerale di Matteotti. Dunque, vengo da una famiglia di
antichi militanti socialisti, mio nonno nel ’20-’21 dormiva fuori di casa, per due anni è convissuto
con il rischio con lo ammazzassero. Non è il caso di sprecare tempo a parlare di come era quel
mondo dei partiti in cui entrai, non ne vale la pena. La cosa che però io non sapevo è che Padova
era una delle pochissime (credo tre: Padova, Torino e la terza non la ricordo) federazioni del PSI
che si fosse sposta nel periodo precedente a favore dei Quaderni Rossi. Credo che ciò fosse dovuto
all’opportunismo del deputato del posto (tale Ceravolo), che poi si era spaventato e stava al
momento operando una rapida virata e rientro all’ovile. Questa fu decisivo per me, allora un
diciassettenne di sinistra che voleva fare la rottura col mondo borghese: magari se fossi stato in
un’altra città la situazione sarebbe stata diversa e quindi la mia vicenda politica avrebbe preso
un’altra piega, ma alla federazione del PSI di Padova da una parte c’era il nulla, però vincente e che
stava lanciando la grande epurazione anti-operaista, dall’altra c’erano ancora le tracce fisiche e
politiche, sia pure in via di sparizione, dell’esperienza dei primi Quaderni Rossi, che tra l’altro stava
finendo per suo conto al di là dei piccoli scherani locali, dopo la rottura dei Quaderni Rossi. Toni

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era ancora formalmente il vicesegretario della federazione, ma lo sarebbe stato ancora per
pochissimo: quando entrai lo vidi dopo qualche settimana e mi dicevano di non parlare con lui, era
già il vicesegretario in punto di morte che girava con la sua bara. Conobbi anche Francesco Tolin,
con cui non ho mai avuto un particolare feeling personale, al contrario, ma conobbi soprattutto il
mio “cattivo maestro” personale, la persona a cui devo la mia preparazione, nonché tutti i disastri
successivi della mia vita, cioè Guido Bianchini. Era stato fino a qualche anno prima consigliere
comunale socialista a Monselice.
Fu lui che mi mise in guardia e mi protesse dal rischio di mettermi a lavorare con il “movimento
operaio” ufficiale della mia zona: nella bassa padovana ero il primo studente borghese che metteva
piede nelle sedi della sinistra e del sindacato da tempo immemorabile, il che mi avrebbe causato una
forte corte, nel successivo anno e mezzo, fino a quando cioè non avessi operato una esplicita scelta
definitiva. C’era inoltre il fatto che, nella ricerca un po’ mistica del rapporto con i lavoratori,
rischiai forte di inivischiarmi col sindacato. Per fortuna c’era Guido Bianchini a vigilare,
difendendomi da entrambi i pericoli, perché altrimenti, conoscendomi, non so mica se avrei resistito
a tanto “interessato interessamento” per la mia persona. Ma ci pensò appunto Guido a farmi una
terribile iniezione in vena di anticorpi.
A questo punto devo fare una pausa e dire come apparivano questi vecchi operaisti come Guido,
oppure Romano Alquati, o Romolo Gobbi, via via che li incontrai. Erano fuori da ogni schema non
solo come pensiero e prassi politica, ma anche come modi e stili di rapporto personale, dunque
eccezionali: a giovinetti come me, rispetto a ciò che c’era a sinistra, sembrava proprio che avessero
Dna diversi. Ricordo quando incontrai per la prima volta Romano a Padova ad una riunione e lui a
un certo punto si fermò al bar perché stavano trasmettendo il Giro d’Italia, faceva notare come
correvano le biciclette e cose di questo tipo: era quanto di più politicamente scorretto uno potesse
immaginare per quel mondo di radicalismo politico. Non voglio buttarla sull’aneddotica, e capisco
che fa un po’ ridere che uno ricordi del suo primo incontro con il mitico Romano Alquati il fatto
che in un bar di Padova si mettesse ad intervenire a voce alta sull’arrivo della tappa del Giro
d’Italia, nel panico degli accompagnatori. Potrei anche scusarmi, ma tant’è: e comunque, passato il
panico, ne fui colpito moltissimo.
Ritornando a quel periodo, capisco anche alcune astuzie: io ero un diciottenne, per cui Guido
Bianchini mi disse subito che, avendo gli esami di maturità a luglio, non potevo iniziare a far
politica quell’anno perché gli esami sarebbero stati durissimi, e che al massimo potevo andare il
lunedì sera alle riunioni che lui faceva con un gruppo di compagni di Monselice, per fare quattro
chiacchiere. Non era solo per il mio bene scolastico, sospetto: in questo modo rimasi fuori dal
merdaio per un congruo numero di mesi. Partecipavo a queste riunioni-incontri, discussioni
assolutamente prive di finalizzazione locale immediata: due o tre ore di lezione, di straordinaria
scuola quadri, di scuola del pensiero, con quella sua straordinaria capacità socratica di tirarti fuori le
stronzate da dentro che ti vorresti tenere sigillate e di farciti sbattere contro, capacità illustrata poi
inimitabilmente da Luciano Ferrari Bravo nel suo elogio funebre di Guido.
Ma la mia natura giovanile era di maneggione: e appena finita la maturità, mi sono subito messo a
brigare con le varie organizzazioni universitarie, a partecipare alle iniziative più improbabili, a
mettere il naso in qualsiasi stronzata purché mi facesse sentire in mezzo al fluire degli eventi.
Ciò non toglie che andassi anche a Marghera, e che mi lasciassi presentare a Toni (ripresentare, ma
lui non si ricordava di avermi già impattato a più riprese in Arco Valaresso) secondo il consiglio del
mio cattivo maestro personale. Credo di aver descritto molto bene in Altroquando cosa fosse
arrivare per la prima volta a Marghera di notte a volantinare (anche avere il primo colloquio con
Negri, quanto a questo..), questa realtà spettrale, fascinosa per chi non aveva contezza di
stabilimenti industriali che non fossero fabbriche metalmeccaniche.
Oltre a me c’era un gruppetto di personaggi più o meno della mia età, alcuni dei quali strani, erano
tutti soggetti forti peraltro, di spessore, anche nel male: uno ad esempio era Renato Troilo, ossia uno
dei figuri che hanno organizzato il trappolone del 7 aprile. C’era adorazione per i nostri maestri,
grandissima considerazione per queste avanguardie operaie che ci presentarono, e poi c’era il

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rapporto con questi miei coetanei che mi parevano un po’ bohemien per la mia estrazione e
mentalità assai provinciali.
Naturalmente la consapevolezza dell’importanza di ciò cui che stava nascendo a Marghera, in una
con l’attivismo giovanilistico, portò alla brillante idea dell’entrismo, con tutte le sue banalità ma
anche con tutte le sue furbizie tattiche. Ormai era nato lo PSIUP e non c’era più il PSI,
all’apparenza le briglie erano più sciolte, così con alcuni altri partecipavo alle riunioni del sindacato
a Mestre come psiuppino, e poi portavo i risultati e ne discutevo con gli operaisti. Non durò molto:
nel giro di poco, tra la fine del ’64 e l’inizio del ’65, venimmo individuati e duramente invitati a
diventare militanti politici seri a tutti gli effetti o a lasciare la comitiva. Io ovviamente lasciai la
comitiva, e a quel punto si apriva un altro periodo.
C’è un altro aspetto dell’epoca su cui soffermarsi, più serio, ossia cosa era il dibattito nelle
avanguardie. Le cose si stavano differenziando rispetto all’asse torinese per più aspetti: intanto
Panzieri non c’era più, e mi pare che a Torino non tanto sotto la spinta di Alquati, quanto per quella
dell’altro gruppo, prevalesse un discorso molto più centrato sulle avanguardie tradizionali e
storiche. Da noi era diverso: certo che c’erano le figure metalmeccaniche, nella Breda di Mestre
addirittura era una leggenda il fatto che dal ’45 al ’48 fossero state nascoste armi nei muri della
fabbrica, che continuava a raccontarsi più di quindici anni dopo, con il senso che poteva ormai
avere! Invece, noi si cominciava a fare un ragionamento sulla nuova “razza pagana” (termine
orrendo che non mi è mai piaciuto), comunque su questa classe operaia di origine contadina, veneta
purosangue, messa dai fascisti nelle fabbriche chimiche in quanto completamente priva di
tradizione storica (e più fisicamente resistente alla distruzione fisica da veleni), ma che stava
velocemente facendo dei passaggi importanti. Iniziava anche ad esserci un discorso sul rapporto tra
fabbrica e campagna e su questa specificità del Veneto rispetto alla tradizionale classe operaia del
triangolo: era una grande intuizione, la cui forza materiale avevamo ancora da misurare. Nei poli
tradizionali, dopo 15 giorni di lotte, non si mangiava più, mentre qui non c’erano questi problemi.
Ce ne saremmo accorti anni dopo. Erano discorsi brutali che iniziavamo solo a intuire, il rapporto
tra fabbrica e poderetto aveva anche aspetti forti. Io capisco come questi discorsi possano apparire
banalità al lettore giovane di oggi, ed in certa misura lo erano, ma si deve pensare a cosa era la
“sociologia” di sinistra di quel tempo, anche quella purista, che era la sua versione estremistica:
invece, noi provavamo a fare un discorso nuovo ed è lì che ci scambiavano, al momento, per destra,
una variante socialdemocratica, forse anarco-sindacalista.
Non mi soffermo sul contrasto che abbiamo avuto subito con Torino, non con Alquati, ma con il
gruppo allora dominante dell’ex Quaderni Rossi. L’altra cosa importante del Veneto era piuttosto lo
scontro con i “cinesi”, perché la loro maggiore esperienza era qua: il vicesegretario regionale della
federazione giovanile comunista se ne andò dal PCI e si trasferì a Roma, che infatti è l’unico altro
posto in cui questa cosa ebbe notevole influenza. Si portarono dietro una fetta non indifferente di
quadri padovani; di conseguenza l’incontro/scontro con i “cinesi” fu consistente, anche perché lo
spazio politico non era poi così ampio. A Marghera, by the way, mi capitò almeno due volte che
personaggi di stazza enorme mi abbiano cercato, individuato e minacciato, così come gli altri.
Erano del sindacato, ma uno lo avrei rivisto anche girare con gli m-l. D’altra parte era fisiologico: la
presenza di gruppi di “cinesi” ed m-l aveva come conseguenza il fatto che molti del vecchio
apparato avessero simpatia per quelli ed amicizie comuni. In fondo all’apparato non dispiaceva
troppo che fossero solo questi a coprire la zona estrema della politica: per la soggettività
dell’apparato del PCI erano una frazione che magari poteva tornare utile.
Certo, la situazione in Veneto sarebbe cambiata completamente dopo il ’68, ma per intanto
avevamo problemi fisici non indifferenti, mischiati alla preoccupazione della concorrenza politica;
ciò per un certo periodo, perché la fase di spinta di questa esperienza concorrente non durò a lungo.
Poi naturalmente ci sarebbe da fermarsi sull’aneddotica delle riunioni con gli m-l, ma si tratta di
un’altra storia; non è che questi capissero tanto, per così dire, c’era tutto questo terzomondismo che
li caratterizzava. Una volta uno dei loro maggiori esponenti e Guido Bianchini si sono messi a
ricordare gli scontri politici nel ’56, al tempo dell’Ungheria. Quindi, da una parte c’erano i discorsi

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sul salario, c’era Classe Operaia, però dall’altra, quando andavi a fare le riunioni in giro, ci si
scontrava con persone che erano ex quadri del PCI e che ricordavano le posizioni prese la tempo
dell’Ungheria.
Comunque, conoscemmo questi grandi quadri di Porto Marghera, e lì scoprivo che il discorso
marxiano sulla fabbrica come luogo di formazione acquistava finalmente tutto il suo senso. Poi
naturalmente non è più stato così: infatti, non si è più verificato che un luogo di produzione fisica di
merci fosse un punto così nodale rispetto al contesto sociale. Invece, negli anni ’60 ho conosciuto
quelli che lavoravano da decenni e la cui formazione e livello di maturità politica era davvero alta.
C’erano dei racconti che, volendo all’epoca diventare uno storico, avrei dovuto seguire meglio: si
narrava della prima generazione di operai a Marghera che alla fine degli anni ’30 si univano a
cantare Bandiera Rossa, ovviamente in un posto dove non li sentiva nessuno, perché con la
questione politica si mescolava la sana prudenza del contadino veneto! Poi come sempre le cose
cambiano, allora uno sarebbe diventato funzionario: dopo che la rude razza pagana era scesa in
piazza per le 5.000 lire nel ’68, qualcuno è passato dall’altra parte, come l’unica persona a cui io
abbia mai sentito dire “io ero un provocatore”, ed era nella fabbrica degli anni ’60 una delle
maggiori figure. Dunque, la situazione si modificò notevolmente.
Se poi parliamo della formazione teorica, in quegli anni tutti andavano ad Hegel: la grande
importanza degli operaisti fu di prendere le opere giovanili di Marx e dimostrare che non erano
quelle centrali. All’epoca, infatti, in certi ambiti c’era una diffusione di massa dei Manoscritti, de
Le opere filosofiche giovanili, La filosofia hegeliana del diritto pubblico, tutte cose su cui gli
Editori Riuniti facevano edizioni su edizioni, cose elegantissime, con quel tipo di approccio. Marx
giovane più Diamat, insomma. Nessuno leggeva Il capitale, non parliamo dei Grundrisse: dal punto
di vista teorico era un salto di qualità completo quello che veniva proposto dagli operaisti. Sotto
altri aspetti meritava di essere seguito un po’ meglio Paci e l’approccio fenomenologico, anche se si
cominciava ad averne contezza. C’era poi un’opera fondamentale di Benjamin, prima uscita da
Einaudi, che apparve in quegli anni. C’era insomma un grandissimo ritardo, e tanto da studiare,
mentre invece la generazione che intraprese gli studi umanistici prima del ’68 era completamente
preda di queste stupidaggini, di cui il Marx giovane era il meglio, poi c’era dietro il deserto.
Nessuno provò mai a leggere e a studiare Sraffa, per esempio: testi come Produzione di merci a
mezzo di merci meritavano più attenzione.
Devo dire che Toni dava una pinta particolare in quel periodo non tanto alla ricerca teorica e al
dibattito politico quanto all’azione politica, al volantinaggio ecc. Bisogna tener conto che nel ’63 a
Padova si facevano riunioni anche con 50-60 persone, ma qualche mese dopo quando si cominciava
ad andare alle 4 di mattina a Marghera si era ridotti a cinque-sei individui: a quel punto si creò un
giro particolare, speciale, di gente anche un po’ strana, c’erano musicisti, artisti e via dicendo.
Probabilmente c’era tra loro un inadeguato livello teorico, però si trattava di un piccolo giro
padovano che in realtà era più ampio di quello che credessi in quegli anni: c’era chi proteggeva,
artisti, persone di cultura che avevano seguito la vicenda all’inizio e che non avevano nessuna
voglia di cominciare a fare i militanti, ma seguivano. Si tratta di una cosa che si è un po’ persa
dopo. Intanto, pur essendo studenti universitari di professione, le nostre carriere studentesche si
erano dilatate, quelli che erano studenti modello al liceo non lo furono più: per fortuna, posso
aggiungere, perché viceversa avrei fatto a tempo a laurearmi prima che scoppiasse il ’68! Invece,
pur essendo stati gli studenti super del liceo, la nostra carriera universitaria era notevolmente
peggiorata, ci allontanavamo ogni giorno dal modello dello studente di sinistra doc anche come
standard di studi ecc.: avevamo cognizione di quello che stava covando sotto la cenere dal punto di
vista del rapporto con il nostro mondo di provenienza, l’Università? Ho forti dubbio: si sarebbe
riusciti poi a recuperare, ma solo con grande difficoltà.

- Ci puoi tracciare un profilo politico di Guido Bianchini?

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Bianchini era un persona così straordinaria che è difficile tracciarne un profilo esclusivamente
politico. Devo dire che ci si è provato, in morte si è parlato molto di lui, delle volte ho l’impressione
che con il bene che gli volevamo abbiamo fatto così tanti medaglioni da semplificare raccontando
episodi che, se fosse su una nuvoletta, ci manderebbe a quel paese. Guido è stato il più giovane
partigiano d’Italia, era molto più vecchio di noi di esperienza di quanto non lo fosse come età. In un
anno di guerra partigiana ai tedeschi ha fatto tempo a fare poco, ma quelli dell’Osoppo hanno
cercato di ammazzarlo. La guerra tra partigiani era feroce, rispetto a queste recriminazioni
reciproche che sono venute fuori dieci anni dopo la giusta linea è: ciascuno ha ragione a denunciare
tutte le infamie degli altri. Guido era stato circondato da quelli dell’Osoppo che gli dicevano: “Vieni
fuori Bianchini, ti faremo un giusto processo”. Però, non parliamo di come si potevano essere
comportati quelli della Stella Rossa, per cui dalla guerra partigiana Guido era uscito sicuramente
indurito.
Poi aveva fatto l’esperienza politica nel PSI, era sposato con Licia De Marco, di Monselice,
compagna di università di mia madre di qualche anno più giovane, non una sua amica peraltro:
quando Guido mi invitò per la prima volta a mangiare a casa loro ricordo la sorpresa che ci fu nel
sapere di chi ero figlio io. Intanto era maturato il rapporto con Toni, lui poi per suo conto aveva
sempre avuto una notevole capacità e curiosità, non si era laureato in chimica ma aveva lavorato
con ditte farmaceutiche: aveva un tipo di preparazione e attenzione nel mischiare gli aspetti
tecnoscientifici e politici delle cose che era molto rara in un mondo di operai e di umanisti, di
lavoratori dipendenti e laureati in materie umanistiche, questo era infatti l’assetto culturale e
ideologico allora prevalente. Ha cominciato la sua grande stagione che aveva già una certa età
rispetto ai ragazzini che noi eravamo, ha iniziato a mettere in piedi questa grande esperienza
girando tra Marghera e Ferrara, dove c’erano industrie del settore chimico.
Aveva un’umiltà spaventosa per una persona del suo livello, ciò legato anche ad una persona
pesante, con un umorismo feroce, rompicoglioni, che mandava a quel paese spesso. Per tutti gli anni
’60 ha giocato un ruolo importante, aveva un linguaggio attraverso cui si capiva bene con gli operai:
un’altra persona che aveva una grande capacità mimetica era Toni Negri, solo che a Guido veniva
naturale, mentre in Toni era proprio capacità mimetica. A nessuno sarebbe passato per la mente di
credere che fosse umiltà, era una pazienza di infiltrarsi e di capire gli atteggiamenti che era
incredibile per una persona come Toni, ma a Guido queste cose invece venivano spontanee. Lui era
per la linea di massa, era sempre stato assolutamente per la linea di massa. Io mi chiedo se non
avremmo dovuto capire prima alcune cose che lui ha detto: ho in mente con assoluta precisione la
rottura avvenuta nel convegno che facemmo a Torino nella primavera del ’71 in preparazione del
congresso di Roma di Potere Operaio, in cui Guido poneva in maniera drastica la questione. Lui di
solito non faceva grandi discorsi in certe sedi, era l’uomo delle riunioni di lavoro, luoghi in cui era
prezioso ed aveva un ruolo fondamentale, mentre faceva raramente relazioni e interventi ufficiali ai
convegni, ciò oltre ad aver scritto poco, non lasciando quindi molto per chi non lo conosceva.
Infatti, Potere Operaio esisteva da anni e parecchi di quelli che c’erano fin dall’inizio non avevano
percezione di chi fosse Guido e dell’importanza che aveva, lo consideravano un simpatizzante della
generazione precedente, e anche da qui si capisce il suo mimetismo geniale. Aveva una capacità
straordinaria di parlare in qualsiasi ambiente, in qualsiasi capannello e in qualsiasi punto del Nord
Italia: magari al Sud sarebbe stato tradito per l’accento come foresto, ma in pianura padana in ogni
sciopero e capannello a un certo punto si sentiva la voce dialettale veneta o veneta-lombarda di
Guido, tutti stavano zitti e lo seguivano perché erano convinti che fosse uno della fabbrica vicina.
Quindi, aveva una capacità straordinaria di fare lotta sociale, di viverla, di organizzarla.
Il discorso teorico e politico di rottura (non di rottura formale, perché non era per queste cose) fu a
Torino nel ’71, quando lui disse una cosa che lì per lì mi parve stupida, la prima volta che Guido
diceva una cosa che mi appariva tale: poi mi sono accorto che era una cosa intelligente, anche se
credo che fu giocata male politicamente. Guido disse: “La fine dello sviluppo in un posto è sviluppo
altrove”. Lui non voleva assolutamente lasciare il discorso classico operaista sullo sviluppo, mentre
noi ci preparavamo ad affrontare lo Stato-crisi, con ciò che sul piano dell’elaborazione teorica,

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politica e dei nostri anni successivi intendevamo noi per superamento dello Stato-crisi. Ma quello di
Guido non era un discorso opportunista, e si mise in quella sede a parlare di ciò che stava
avvenendo in India e degli investimenti lì. Io resto del parere che c’è una forma non di
opportunismo soggettivo ma di opportunismo politico detta così, però c’era anche un’intuizione
politica notevole sull’unità dell’economia-mondo. Come discorso di fase non poteva reggere e non
aveva senso, si mandava tutti a casa; però, magari facendo lo stesso una parte delle cose che
dovevamo fare in quel momento, ma avendolo come punto di riferimento teorico e generale non
sarebbe stato male, perché in realtà su alcune di quelle cose alla lunga, vent’anni dopo, è venuto
fuori che aveva ragione. Eravamo un po’ prigionieri di una visione eurocentrica, anche se
l’operaismo è stato il primo a superare certi limiti della nazionalità, però è rimasto prigioniero del
mondo sviluppato occidentale, per cui cosa significassero gli investimenti nel Terzo Mondo
all’inizio degli anni ’70 non lo avevamo ben capito, se non come modo di sfuggire alla forza qui.
Comunque, eravamo un po’ prigionieri della lunga polemica con i guevaristi, con gli m-l ecc. e
quindi non lo capivamo. Mi ricordo questo discorso di Guido così ricco di futuro lungo, anche se
non era elaborato per essere un’alternativa alle proposte di breve termine dell’ultimo periodo di
Potere Operaio e poi dell’Autonomia, non aveva quella caratura, non lo aveva nemmeno pensato
così; però, aveva moltissima ricchezza strategica sul futuro del capitalismo mondiale, come spesso
capitava Guido era parecchio avanti.
Lui si è trovato a disagio in carcere, perché era dentro con persone che erano di gran lunga più
giovani di lui, con i ragazzi del ’77 insomma. Se io mi trovassi in galera con i miei studenti di
adesso sarei sicuramente molto a disagio; lui invece se la cavò alla grande. A distanza di anni i
detenuti comuni di Padova ancora si ricordavano delle battute di Guido sulla colpa delle loro
mamme e delle loro fidanzate perché facevano tutto loro e li lasciavano incapaci di farsi il letto, di
pulire, perché quelli ne combinavano una peggio dell’altra.
Un’altra cosa da mettere in rilievo è il Guido didattico, docente culturale, politico, scientifico e via
dicendo, questo è anche il lavoro che ha fatto a Scienze Politiche ed è descritto in quell’elogio che
ne fa Luciano. In realtà, scritta da lui abbiamo questa cosa per certi versi geniale ma così lontana
quando è uscita che è Sul sindacato e altri scritti: bisogna che passino altri anni perché la si
apprezzi in pieno, è necessario provare a ripensare quel periodo di dibattito sul sindacato e allora il
libro di Guido apparirà in tutta la sua importanza. E’ uscito almeno dieci anni troppo presto, quando
queste cose avevano perso di importanza, fa i conti con una dimensione storica, ma bisogna
aspettare che torni in primo piano per essere resa in tutta la sua brillantezza. Devo dire che mi
interessa molto dell’ultimo Guido ciò che scrisse sulla scienza e sulla tecnica, quella è la cosa che
mi sta più a cuore e che mi ha anche creato alcune rotture psicologiche con il mondo di Seattle e
simili. Ci sono suoi scritti dell’ultimo periodo e soprattutto degli anni ’70 che ha lasciato fra adepti
e adepte scientifici quando lavorava nel movimento dei precari sull’uso delle nuove tecniche e
sull’immateriale. Gli appunti, le cose che ha scritto, detto o pensato Guido tra il ’76 e il ’79 io non
ho mai avuto il privilegio di vederle; la fase elaborativa e la sua riflessione su quel periodo in corso
non l’ho vissuta perché si erano diversificati i percorsi. Questi scritti dopo il ’77 sul lavoro precario
all’università e con alcuni elementi di riflessione sull’immateriale non sono dattiloscritti ma sono
appunti di lezioni e dibattiti a cui ha partecipato: sono sicuramente cose che andrebbero recuperate.

- Quali sono state le ricchezze e i limiti delle esperienze operaiste in generale (al di là della
diversità di percorsi da cui sono contrassegnate) e nello specifico veneto?

Dopo il ’68 si entra in una dimensione diversa, cambia anche il soggetto. Secondo me, si tratta di
un’esperienza preziosa, molto avanti: potrei dire che era tutto bello, in realtà non lo era perché
eravamo anche una piccola banda di paranoici, c’era pure un’autoesclusione da circuiti sociali e
pratici, c’erano asprezze e miserie. In quel periodo tutta la ricchezza del mio vivere giovanile e
studentesco consisteva nello stare qui e andare a giocare a carte, un altro faceva il musicista, ognuno
aveva il peso del mantenersi nell’isolamento socioculturale, e poi cambiavi. Il dibattito che si faceva

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con la cultura di sinistra dell’epoca era talmente umanistico che ti veniva da fargli battute feroci.
Quindi, i legami anche per motivi pratici si tagliavano. L’aspetto positivo o negativo che ha Negri è
che la gente gli va dietro un po’ a calci in culo, quindi si trova un gruppo di persone che non ha
niente da dirsi al di fuori di quello.
Nel corso del movimento sono sorte altre esperienze minoritarie che erano più ricche, perché
avevano più aspetti comunitaristici, il che magari era anche il loro limite da altri punti di vista: lì
c’era solamente il fascino di questo discorso avanzato, una decina di persone di cui almeno 4-5 che,
se non fosse stato per quello, non avrei mai scelto di frequentare nella mia vita e loro avrebbero
fatto altrettanto con me. Da una parte non facevamo politica, dall’altra eravamo proprio il
minigruppo di persone più panpolitico che esistesse, nel senso che pagava a una coerenza politica
un prezzo umano tutt’altro che piccolo. Per il resto era molto bello, davvero dopo poco non potevo
più stare a sentire le stupidaggini che dicevano gli altri. Già dal ’63-’64 avevo messo
vittoriosamente e con molto successo in azione il “doppio binario”, fino a che la “GPU interna” mi
pose l’aut-aut su da che parte stare: evidentemente ognuno ha il suo Dna, a me è rimasto quello del
doppio binario come dimensione naturale. All’inizio ci stetti malissimo, dopo non avrei mai più
potuto tornare indietro, però i prezzi personali erano notevoli. Quando cominciava la stagione delle
assemblee di movimento, ci rincontravamo come piccolo gruppetto e facevamo fatica a orientarci di
nuovo in quel casino.
Tutto ciò riguardava la dimensione padovana, perché nel frattempo era sorta anche una realtà
veneziana: Toni aveva visto una possibilità molto maggiore di riuscita a Venezia e per un anno
lasciò Padova, la sua casa era il punto di riferimento. A Venezia si organizzò con Cacciari e con
gente che dava gli spazi, furono persone utilissime per tante cose, anche se l’intervento alle 4 e
mezza del mattino non era il mestiere loro, mentre era una cosa che avrebbe fatto l’altro giro
veneziano, quello nato intorno a Boato.
Io non sono invece in grado di dire molto su quel periodo così delicato e negativo della rottura del
primo anno di movimento studentesco, pur essendo stato uno di quelli che ha occupato fisicamente
l’università, anzi ho avuto il privilegio di mettere la prima catena al primo degli istituti in
occupazione dell’università di Padova. Tuttavia, per miei problemi e per gli studi i primi mesi della
primavera e dell’estate del ’68 li avevo un po’ persi, quindi sono rientrato quando la frattura era già
in atto: al convegno di Venezia del settembre del ’68 ovviamente stavo con Toni. La maturazione
della frattura con il giro di Contropiano avrebbe avuto un effetto non da poco, non tanto sul piano
politico quanto sul piano della continuità.
A un certo punto eravamo migliaia e, a parte i nostri maestri, solo le figure dei quadri operai di
Marghera rappresentavano la continuità tra il vecchio operaismo e Potere Operaio. Mettendo in
piedi e creando una nuova esperienza abbiamo avuto un notevolissimo successo nel nascente
movimento: andrebbe poi fatto un discorso su cosa furono le lotte qua, sulla nuova generazione
operaia, cosa significavano i cambiamenti per noi e poi per il nuovo modello capitalistico. E’ tra il
’69 e il ’72-’73 che si crea una vera differenza tra il Nord-Est e il resto del paese. Però, la continuità
veniva meno: c’era la fortuna verticale di questo giro veneziano, che in realtà era più coerente con il
mondo del vecchio operaismo ma aveva fatto di necessità virtù. Una certa ricchezza potenziale
venne meno, probabilmente per alcuni torti dei dirigenti politici il nascente Potere Operaio ebbe un
ruolo e un’infatuazione leninista, e il modo naturale di ragionare dei nuovi collaborò alla creazione
di un discorso da neopartito, una cosa che sul piano soggettivo determinò una frattura a posteriori
dimostratasi negativa. C’erano certe esperienze che avevano perso alcuni parametri del vecchio
operaismo, qualcosa si ruppe. L’esperienza di quella generazione era completamente diversa da
quella precedente e fu forse troppo legata ai ritmi dell’università: c’erano esempi di comitati operai-
studenti, con comitati di base studenteschi e comitati di fabbrica, tutto vero e tutto bello, però quella
ricchezza di anni del vecchio operaismo padovano in qualche modo venne meno. C’era un humus
negli anni ’60 che dopo, rispetto a questo boom, saltò.
Prima ho parlato di un prezzo molto alto per aver fatto questa esperienza così singolare e
arricchente intellettualmente e politicamente, non tanto eticamente, perché non è che si riuscirono a

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creare rapporti nuovi, per quanto questo voglia dire. Forse prendemmo allora quel modo di
ragionare e comportarci così antitattico e per estremizzazioni che caratterizzò (non solo nel male ma
anche nel bene) il vecchio PO, che poi avrebbe creato reazioni eccessive e portato le generazioni
successive a credere che l’unica cosa che contasse era l’attività tattica, il gradualismo e via dicendo.
Ciò avveniva per reazione a quelle puntualizzazioni estreme a cui bisognava velocemente
adeguarsi, spesso senza dare alle cose il tempo di maturare e di crescere.

- Prima hai accennato al cambiamento della dimensione e della diffusione territoriale della zona.

Questo è importante per noi. Un aspetto è quello che riguarda le lotte nell’entroterra veneto, che
naturalmente assumono una vera dimensione e possono svilupparsi completamente solo con la
stagione dei contratti. Qui essa è negativa, e in qualche modo anche a Marghera, però consente
un’enorme diffusione nella provincia a cui l’apparato sindacale non può fra fronte. Fortunatamente
viene meno il vecchio apparto di controllo antisindacale che spazzammo via da un momento
all’altro e si crearono i livelli di massa, perché non è che funzionasse solo una generazione di
quadri. C’era una generazione di persone che hanno vissuto la grande stagione di lotte di massa, con
anche elevati livelli di violenza di massa, nella bassa padana, veronese, vicentina; poi, dopo questa
punta alta tornano a cambiare completamente vita, però si tratta di un qualcosa che è rimasto. Ciò
non riguarda solo la bassa padovana, ma tutto il territorio veneto, salvo che si è divisi in due, e da
nord scendono quelli di LC. Noi restiamo chiusi: per nostra salvezza abbiamo le aree a nord e sud di
Marghera, Chioggia e via dicendo, poi il territorio di Schio, Valdagno ecc. La cosa secondo me
centrale dell’esperienza è stata la lotta sui trasporti, il cui equivalente si ha solo nelle lotte sulla casa
a Roma: questo spiega la dimensione di massa dell’Autonomia anni dopo, del movimento negli anni
’70 nel Veneto e a Roma, poi c’è Bologna che aveva delle sue particolarità. Quando ci siamo
contati eravamo “eserciti” nel Lazio e nel Veneto e ciò era dovuto principalmente a queste lotte.
Ora, le vicende che creano un livello di massa sono a Roma nel ’74 le lotte sulla casa, che hanno
una diffusione di decine di migliaia sul territorio, e nel Veneto prima, nel ’71-’72, la lotta sui
trasporti: nascono i comitati di paese, noi facciamo perno sull’università di Padova e sulle fabbriche
di Marghera. E’ il momento di boom dei pullman, la linea trasporti era una forma molto alienate e
quindi faceva arrabbiare, con l’aumento dei prezzi, le code inaudite, per cui alle fermate dei
pullman si organizzano le lotte. Con il contrasto sociale dell’epoca quella cosa sfonda
immediatamente e soprattutto si creano paese per paese comitati di 10-15 persone. Poi naturalmente
non tutti resteranno, una parte di questi diventeranno anzi i nostri peggiori nemici anni dopo, ma ciò
non cambia il fatto che in meno di un anno, tra il ’71 e il ’72, c’è nel Veneto un boom e una
moltiplicazione enorme di queste lotte e delle persone coinvolte. Si toccano anche soggetti radicali
che diversamente non avremmo mai conosciuto e che poi diventeranno pure leader sociali
significativi, e li si raggiunge solo tramite queste cose. Una situazione simile l’avrei vista anni dopo
solo nell’esperienza romana delle lotte sulla casa.

- Come analizzi l’incontro che ci fu tra Potere Operaio e il Manifesto, che ebbe una certa
consistenza soprattutto in Veneto?

Padova e Venezia sono due cose diverse, qui è una guerra fin dall’inizio. Ci furono 6-7 mesi
drammatici, con la nascita di un comitato a Pordenone, quindi una riapertura del rapporto. Ci sono
incontri con operai di Marghera che fanno riferimento al Manifesto, quindi viene fondato un
comitato politico. Mentre a Roma ci sono incontri, da noi non riesce ad esserci questa cosa, salvo
che gli portiamo via i medi. Altrove per un certo periodo si è andati verso una specie di alleanza,
perché il problema è che il Manifesto gli operai ce li avevano solo a Roma e al centro. Qui nacque a
livello operaio il comitato di Marghera, ci fu anche un periodo di cooperazione reale al di là delle
differenze. Non avevano personale, e poi dopo ci fu la fiera delle ambiguità. Quando quelli decisero
di fare il quotidiano Toni disse a Pintor: “Ma una persona come te perché deve fare un quotidiano?

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Tu devi assumere la direzione politica, il quotidiano lo facciamo fare ad Oreste…”. Però non ci
cascarono!

- Questa vicenda riflette però un certo limite nel cercare continuamente di agganciare delle
alleanze di respiro molto corto.

Questo era un limite di tutti. L’oscenità della verticalizzazione del comando e della direzione in
realtà non era simile a quella di Brandirali, ma era il tentativo di unire la forza e i vantaggi con la
divina libertà di cui avevamo goduto, seppure in mezzo alle paranoie di piccolo gruppo. In questi
aspetti c’erano poi alcuni salti della quaglia: si andò verso un primo inabissamento, poi ci sarà il
grande balzo romano delle lotte per la casa. Io però partii militare all’inizio del ’72, andai a Catania
e tornai ben poche volte a casa, quindi vidi da lontano questo massimo dell’inabissamento. Da qui
ci fu anche la riscoperta di un leninismo d’accatto, appiccicaticcio: non è che qualcuno girasse con i
galloni, il problema non era questo, si trattava di un modo per garantirsi libertà d’azione senza tutta
la lunga partita del coinvolgimento e della discussione dal basso. Pagavamo prezzi alti, facevamo
quello che volevamo e riuscimmo ad anticipare anche delle cose di notevole spessore.

- Da questa ricerca insieme a Romano abbiamo elaborato un’ipotesi particolare rispetto alle
varie esperienze operaiste, tenendo sempre conto del fatto che parliamo di percorsi che, pur
provenendo da una comune matrice teorica e politica, si sono poi differenziati in modo più o
meno netto. La ricchezza dell’operaismo sta nell’aver rotto ed essere andato avanti rispetto alla
tradizione socialcomunista da una parte in una lettura socioeconomica nuova, dall’altra
nell’individuazione dell’operaio-massa come figura non solo potenzialmente anticapitalista ma
anche in grado di andare contro se stessa. Il grande limite, su cui sono franate le varie
esperienze operaiste, è invece rappresentato dalla politica, non meramente intesa come
problema organizzativo, bensì innanzitutto come questione di proposta, progetto, della
rielaborazione di grandi fini e obiettivi. Cosa ne pensi di questa ipotesi?

Sono d’accordo, però si legano nel male e nel bene. Le esperienze operaiste intanto sono in
recupero ed in ritardo, in realtà con il loro compiersi cessano anche la loro funzione, perché a quel
punto diventa il problema di un discorso politico più ampio che magari riesce a mantenere alcune
radici. La proposta politica aveva completamente perso, e non solo in Italia, il suo rapporto con il
mutamento della base produttiva. Però, sono percorsi che negli anni ’60 erano già vicine al
tramonto: erano arrivati in piena maturazione ma non avevano avuto, salvo in alcuni piccolissimi
momenti dell’esperienza nordamericana negli anni ’30, nessuna forma di rappresentazione politica.
Si potrebbe discutere se nel congresso di Bad Godesberg la destra socialdemocratica avesse in
qualche modo dimostrato una capacità di modificare il vecchio modello socialdemocratico tedesco.
Anche se non usarono mai quei termini si potrebbe forse dire che la destra socialdemocratica a Bad
Godesberg in qualche modo una sua parificazione con il livello produttivo l’avesse avuta.
Bisognerebbe studiare e approfondire la questione: Sergio Bologna, che è il maggiore esperto delle
vicende tedesche, non ha mai fatto indagini e analisi in questi termini su Bad Godesberg, sul prima
e sul dopo e in generale sul ceto politico socialdemocratico tedesco degli anni ’50 che potrebbe
forse essere l’unico ad aver approssimato certe questioni.
Nel fare queste cose superi e distruggi la follia della dimensione politica (quando ho cominciato a
far politica si parlava di cittadino in fabbrica ed operaio nella società, era demenza pura), e crei le
condizioni per poter fare politica. Direi piuttosto che la cosa negativa è costituita da come da queste
esperienze siano sorti a più riprese pericolosissimi discorsi sulla specificità del politico. In qualche
modo erano forse anche legati ai temi e alla qualità di questa esperienza che, anche se limitata, è
fondante. Andrebbe fatto un discorso sul come mai a più riprese prima nel gruppo trontiano, poi in
Contropiano e via dicendo, da un’esperienza così positivamente “antipolitica” abbia trovato spazio
l’autonomia del politico e la sua teorizzazione esplicita. Ci sono almeno due teorizzazioni esplicite

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dell’autonomia del politico, questa è la questione veramente clamorosa, ma per rispondere
bisognerebbe fare un seminario. Se parliamo di una dimensione storica c’è da recuperare una
tradizione in cui abbiamo fatto bene a distruggere la politica che c’era: l’operaismo è arrivato fino a
lì, poi ha segmentato la politica. Ma ricordiamoci anche alcune grandi intuizioni: a Firenze nel ’70
fummo tra i primi a capire l’inflazione. La ripresa del ruolo centrale dello Stato come si dava con
l’inflazione fu una grande intuizione, ricordo che venne colto questo discorso nel ’70: non solo
nell’agosto del ’69 ci cambiò il terreno sotto i piedi nel sociale, ma da lì a poco era ripreso il
meccanismo inflativo. Mi chiedo, invece, come mai né noi né altri siamo mai riusciti a capire
l’importanza di una cosa che può sembrare una stupidaggine ma non lo è, cioè l’IVA: si tratta di un
momento squisitamente politico di modificazione radicale e redistribuzione del reddito a favore di
un particolare gruppo sociale che è quello del piccolo e medio commercio, che allora era stritolato
tra lotte operaie e ripresa capitalistica delle grandi fabbriche, cosa che tra l’altro poi è strettamente
legata con la liquidazione della destra eversiva fatta dal governo Andreotti-Malagodi. Se parliamo
di politica bisogna capire che cosa significa: probabilmente sulle tracce di una certa esperienza si
sarebbe dovuto essere in grado di proseguire altre cose, però quello che mi meraviglia di più è
quanto dicevo prima, cosa che può creare sconcerto ma che riprenderei in un’analisi più ampia. C’è
il discorso sulla capacità da parte dello Stato di utilizzare un’occasione per modificare gli assetti di
reddito, cosa che peraltro era usata poi anche a scopi politici. Quindi, in parte ho ripreso la vostra
domanda, ma in parte la rovescerei: mi colpisce di più il fatto che da questa matrice siano sorti a più
riprese e da parte di soggetti diversi filoni organici di autonomia del politico, di cui (come dicevo
prima) ci sono almeno due teorizzazioni, o forse di più.

- Tu hai fatto una tesi su Du Bois che poi hai pubblicato presso l’Enciclopedia Scientifica: hai
avuto modo di conoscere De Caro?

E’ una persona meravigliosa, ma l’ho conosciuta molto poco; aveva scritto delle cose bellissime. A
un certo punto venne invitato a cooperare dentro l’ambito del movimento in un progetto di ricerca
scientifica sull’URSS e sui paesi socialisti, e anche qui l’intuizione era altissima: però, meno di un
mese dopo gli fu chiesto un articolo per una rivista, il che impediva lo sviluppo della ricerca.
Dunque, c’era sicuramente una grande intuizione: lui aveva anche dei problemi fisici, quindi era
un’intelligenza che si coinvolgeva in una ricerca, ma questa doveva potersi svolgere con i tempi di
un progetto parallelo, non poteva certo essere speso per i tempi di una rivista di movimento. Poi De
Caro non l’ho più visto: sicuramente è stata una persona molto importante in un momento della mia
vita, dal momento che mi ha permesso di pubblicare questo libro.

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12
13
Progetto di RICERCA SUL FEMMINISMO
La ricerca sul femminismo è iniziata nel novembre del 2000 ed è tuttora
in corso, possiamo, quindi, per il momento, descrivere i presupposti da
cui è partito il nostro lavoro e i nodi che si intendono affrontare, ma
occorre rimandare le possibili considerazioni e le analisi alla sua
conclusione. Premettiamo, anticipando, che preferiamo parlare
di femminismi, per indicare che più d'uno sono stati i percorsi teorici e
pratici che hanno costellato gli anni '70, ognuno con proprie peculiari
specificità.

Il progetto non è volto solo ad una mera ricostruzione cronologica degli


avvenimenti che hanno costituito la storia di quel movimento, ma è un
tentativo, unico nel suo genere, che mira ad un approfondimento dei
nodi affrontati nella loro complessità dalle donne che ne hanno fatto
parte.

La ricerca mette in luce le ricchezze e i limiti di un movimento che ha


espresso, pur con molteplici differenze e diversi obiettivi, una critica
radicale tesa a sovvertire l'organizzazione capitalistica e patriarcale della
società.

L'obiettivo del progetto non è quello di resuscitare un passato che non


c'è più, né quello di idealizzare ambiti femministi che diventarono
soggetti politici attivi nel tentativo di assumere un protagonismo politico
diretto e non mediato e delegato ad altri. La pretesa che si pone il nostro
lavoro è quella di partire dall'analisi critica e soggettiva dei percorsi fatti
per andare a ragionare nel presente e nel futuro, per individuare i nodi
rimasti aperti.

E' stato preparato un "Documento di presentazione" e una "Traccia di


intervista" che sottoponiamo di volta in volta alle donne contattate. Il
Documento di presentazione introduce il progetto e specifica gli obiettivi
che ci si pone, è doveroso annotare che, se lo riscrivessimo oggi, sarebbe
sicuramente da approfondire o ampliare in quanto la ricerca sta fornendo
via via nuovi spunti di riflessione critica. La Traccia d'intervista non
rappresenta uno schema rigido, ma uno strumento metodologico per
affrontare la complessità dei temi proposti: i punti e i nodi in essa
presenti possono essere arricchiti, rielaborati, cambiati dalle donne via
via contattate oppure si può decidere di discutere solo di quelli ritenuti
più interessanti. Stiamo contattando donne che sono state vicine o
interne, a livello di intellettualità militante o come militanti attive,
all'esperienza dei movimenti femministi, i primi, quelli degli anni '70, e
quelli successivi, degli anni '80, oppure che, pur non facendone parte,
possono avere dei punti di vista di particolare interesse. Alle donne
incontrate facciamo delle interviste che vengono successivamente
sbobinate e ri-sottoposte all'intevistata così che possa eventualmente
riguardarle e sistemarle.

Dal materiale fin qui raccolto emergono già ricchi spunti di riflessione:
sotto forma di chiacchierata le intervistate affrontano nodi di discussione
e di elaborazione politica del percorso femminista, di ieri e di oggi,
restituendo analisi, progetti, prospettive che dal passato guardano al
presente e al futuro.

Il progetto affronta la complessità del rapporto tra il sistema capitalistico


e un percorso di liberazione delle donne ricercando le complicità, le
interconnessioni, le contraddizioni che si sono venute o si vengono a
creare. Partendo da un'analisi di quello che può essere definito lo
specifico femminile, le protagoniste della ricerca si confrontano sulla
questione della soggettività e sul ruolo che le donne oggi hanno nel
campo del lavoro, nella gestione di un potere decisionale una volta
negato. Considerando gli aspetti di forza propositiva che le donne
possono mettere in campo per una trasformazione dell'esistente le
intervistate riflettono sulla dimensione della politica e affrontano il nodo
della riproduzione nella sua molteplicità interpretativa, intesa quindi non
solo come riproduzione sessuale, ma come riproduzione di capacità
umana. Attraverso questi ambiti focali, si apre una complessità analitica
in cui riflessioni individuali e collettive entrano in relazione critica tra loro
ed offrono strumenti nuovi di ricerca per l'elaborazione di un discorso
che guardi al futuro.
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