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Dispositivo dell'art.

32 Costituzione
La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo [38 2] e
interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.Nessuno può
essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di
legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della
persona umana.

CHE COS’È LA DIPENDENZA DA CIBO?


La dipendenza da cibo rientra nella sfera dei disturbi dell’alimentazione. Si
tratta di un’alterazione patologica del comportamento che normalmente si tiene con
il cibo.
Mentre alcuni problemi come la bulimia e l’anoressia sono stati da tempo sdoganati
e ampiamente studiati, la dipendenza da cibo è ancora in parte poco conosciuta.
Eppure affligge molte persone. Questo disturbo si manifesta con un bisogno
compulsivo di mangiare cibi particolarmente appetibili. Esistono dei farmaci che
possono aiutare a ridurre il problema, ma spesso si rivelano utili alcune soluzioni
che permettono di arginare questo disturbo.

GLI ALIMENTI CHE SCATENANO DIPENDENZA


Ci sono degli alimenti che, grazie alla loro composizione chimica, sono in grado di
dare una particolare gratificazione al nostro organismo. Alcuni cibi, ad esempio,
stimolano la produzione di dopamina e serotonina, neurotrasmettitori coinvolti nel
meccanismo del piacere.
I cibi che scatenano più facilmente un problema di dipendenza sono quelli ad alto
contenuto di grassi e di zuccheri. Un esempio è quello della cioccolata, classico
alimento che crea dipendenza.

LE CAUSE
Non è sempre facile ravvisare le cause che hanno portato all’insorgere della
dipendenza da cibo. Nella maggior parte dei casi, si tratta di un problema di
ordine psicologico, che può nascondere diversi fattori.
Talvolta il maggior responsabile è lo stress: una vita frenetica, un’intensa
attività lavorativa e il nervosismo ne ne consegue possono condurre ad una sfrenata
ricerca del piacere attraverso il cibo.
Anche una cattiva educazione alimentare può portare all’insorgere del problema. Chi
cresce in un ambiente in cui si consumano cibi sani e in cui viene fornita
un’adeguata informazione sulla qualità del cibo e della sua assunzione ha meno
probabilità di sviluppare dipendenza.
In certi casi il cibo diventa un mezzo per affrontare sentimenti ed emozioni:
abbuffarsi può trasformarsi in un metodo per dimenticare un episodio spiacevole o
per dare sfogo a tutti i pensieri negativi della giornata.

Bullismo: c’è un legame con i disturbi alimentari


Tra bullismo e disturbi alimentari, come anoressia e bulimia, c’è un doppio legame.
A rischio di avere un cattivo rapporto con il cibo sia chi fa atti di bullismo sia
chi li subisce
Esiste un legame tra bullismo e disturbi alimentari. A dichiararlo è un nuovo
studio pubblicato sull’International Journal of Eating Disorders, realizzato da
esperti dell’Università della North Carolina. Già si sapeva che il bullismo era
legato a un maggior rischio di ansia, depressione e problemi psicologici, ma ora si
è scoperto che il bullismo può aumentare le possibilità di incorrere in rapporti
malsani con il cibo, come l’anoressia e la bulimia. E, sorprendentemente, a
manifestare questi disagi non sarebbero solo le vittime di questo grave e sempre
più diffuso fenomeno giovanile, ma anche gli stessi responsabili di atti di
bullismo.
Analisi sui bulli e sulle vittime del bullismo
Per condurre la ricerca gli esperti americani hanno esaminato un campione di 1420
bambini, che sono stati suddivisi in quattro categorie: bambini che non sono mai
stati coinvolti in fenomeni di bullismo; quelli che talvolta sono stati vittime e
talvolta artefici; le vittime del bullismo; infine, i bambini che sono stati solo
bulli.
Conseguenze per tutti
In base ai dati raccolti è emerso che chi è stato vittima di episodi di bullismo
corre maggiori rischi (in percentuale quasi doppia) di soffrire di disturbi
alimentari rispetto a coloro che non lo sono mai stati. I bambini sia bulli sia
vittime hanno più probabilità di diventare anoressici o bulimici. E, ancora,
l’impatto del bullismo sui bulli veri e propri sarebbe molto significativo,
registrandosi una percentuale del 30,8% di giovani che presentano i sintomi della
bulimia rispetto al 17,6% di quelli che non sono mai stati coinvolti nel bullismo.
A sorpresa, più a rischio proprio gli esecutori.
I bulli adottano con più facilità rispetto agli altri comportamenti bulimici, come
l’abbuffarsi o il sottoporsi a purghe e a pratiche di eliminazione del cibo
ingerito. Questo fenomeno può essere spiegato dal fatto che probabilmente a
prendere in giro gli altri si diventa più sensibili sulla propria immagine corporea
e si viene anche assaliti da sensi di colpa per il comportamento che è stato
adottato, che favorisce il ricorso a un atteggiamento autopunitivo e a gesti
autolesivi. Esiste, dunque, un legame tra bullismo e disturbi alimentari che
riguarda non soltanto le vittime di questo fenomeno, ma anche gli stessi esecutori
degli atti di bullismo, sui quali intervengono danni alla propria autostima,
un’alterazione della percezione di sé, e conseguenze sulle relazioni sociali e
affettive a lungo termine.

I SINTOMI
Spesso la dipendenza da cibo si manifesta, nei suoi casi più gravi, con l’abitudine
ad abbuffarsi di particolari alimenti. Chi soffre di questo disturbo può arrivare a
consumare dalle 5.000 alle 15.000 calorie al giorno. Questo comportamento, chiamato
binge eating, non è però l’unico sintomo.
Alcuni infatti presentano caratteristiche molto più sfumate, che tendono a
confondersi con delle comuni scorrette abitudini alimentari. Ad esempio, al posto
di grandi abbuffate ci può essere il consumo continuo di cibo durante la giornata.
In questo caso sono poche le calorie ingerite durante il singolo pasto, ma durante
le 24 ore sono numerose le volte in cui ci si ferma a mangiare.
Ecco altri segnali che indicano un rapporto di dipendenza con il cibo:
• mangiare più velocemente del normale;
• mangiare anche quando ci si sente pieni;
• cercare di svuotare lo stomaco per poter mangiare di nuovo;
• mangiare senza avere fame e senza distinguere il senso di sazietà;
• cercare di mangiare in solitudine, diminuendo l’apporto di cibo quando
si è in compagnia;
• pensare spesso al cibo e all’atto di mangiare;
• aumentare la spesa e il tempo dedicati al cibo;
• notare un repentino aumento di peso;
• notare una ridotta mobilità.

LE CONSEGUENZE
Come accade per ogni dipendenza, il problema non è il semplice consumo eccessivo di
cibo. Se così fosse, uno sforzo di volontà e una buona dieta potrebbero risolvere
il disturbo. Al contrario, nell’organismo si scatena un meccanismo complesso.
Nell’immediato, il consumo di alimenti che danno dipendenza provoca un senso di
piacere. Poco dopo però ci si sente in colpa: il subentrare di pensieri negativi
porta in questo caso alla ricerca di un modo per sfogare la frustrazione. Per
questo si torna a cercare consolazione nel cibo, cadendo in un circolo vizioso.
La prima conseguenza negativa della dipendenza da cibo è dunque di ordine
psicologico. Ci si abbuffa per stare meglio, ma si finisce per stare peggio. Da qui
scaturiscono altri problemi di tipo depressivo, quali sbalzi di umore e sensi di
colpa.
Ma l’abbuffarsi di cibo in maniera costante può portare anche a gravi problemi
fisici. L’aumento eccessivo di peso spesso sfociano nel sovrappeso e nell’obesità.
Aumentano anche i rischi di ammalarsi di ipercolesterolemia (ovvero colesterolo
alto), diabete mellito, ipertensione e malattie cardiache. Nel lungo periodo si può
incorrere in problemi renali, ictus e disturbi all’apparato scheletrico. Nei casi
più gravi si può arrivare alla morte.

LE TERAPIE
Attualmente non esistono farmaci specifici per controllare la dipendenza da cibo.
Si possono però adottare alcuni protocolli terapeutici per arginare il problema.
Ad esempio alcuni antidepressivi e alcuni inibitori della ricaptazione della
serotonina possono diminuire gli stati ansiosi che accompagnano l’introduzione di
cibo, e permettono di iniziare a lavorare sul problema.
Può rivelarsi molto utile la psicoterapia, che cerca di scavare a fondo per
scoprire l’origine del disturbo. In questo caso però la terapia richiede molto
tempo, e non mostra i suoi effetti nell’immediato.

LE SOLUZIONI PER ARGINARE IL PROBLEMA


Ci sono alcuni consigli che possono aiutare a tenere sotto controllo la dipendenza
da cibo, e ad imparare a mangiare correttamente. Innanzitutto è importante mettere
da parte l’impulsività.
Prima di avventarsi sul cibo, provate a chiedervi se avete davvero fame o se è solo
bisogno di una valvola di sfogo. In quest’ultimo caso, cercate qualcosa che vi
aiuti a distrarvi. Ad esempio provate a telefonare ad un amico e sfogate con lui i
vostri problemi.

I disturbi del comportamento alimentare esistevano anche in passato?


Storicamente sappiamo che sono esistite Sante e Santi che digiunavano, anche in
condizioni estreme, cioè quando il cibo era già scarso di per sé, ma che
consideravano questo comportamento una sorta di “offerta” a Dio, di “fioretto”
continuo, che veniva portato avanti con la rinuncia al cibo per se stessi, a
vantaggio della donazione di esso alle persone più bisognose.
Essi non mettevano in atto comportamenti paralleli del tipo “procurarsi il vomito”,
“assumere purganti”, “selezionare appositamente certi cibi e non altri”… e,
soprattutto, il loro pensiero non era condizionato in modo ossessivo dal cibo, dal
peso e dalla forma del corpo, bensì sublimato e rivolto a Dio.
Il sacrificio aveva anche lo scopo di essere offerto a Dio in vista di una
ricompensa ultraterrena, affinché venissero “scomputate” agli umani le colpe
commesse in vita. A questo scopo quindi, alcuni penitenti, per lo più appartenenti
a qualche ordine ecclesiastico, si “offrivano” come “oggetto sacrificale”,
destinato a Dio per la redenzione degli uomini e per abbreviare la permanenza dei
defunti in purgatorio, oppure desideravano condividere le sofferenze di Cristo
sulla croce, per cui nessun tormento appariva loro eccessivo. Scrive Vandereycken:
“Le stigmate, cioè le ferite di Cristo, che comparvero in molte sante digiunatrici,
erano parte naturale di tale stile di vita”. Non c’era, pertanto, in queste
persone, nulla che avesse a che fare con un pensiero “patologico”; si trattava
semmai di un pensiero legato alla fede, alla religione, magari condotto in modo un
po’ estremo e rigido, ma comunque coerente con la scelta dell’abito talare.
“Nel periodo tra il XV e il XVII secolo – continua Vandereycken – quando le
concezioni demonologiche erano assai diffuse, furono sospettati di possessione
tutti coloro che digiunavano, fosse o meno per motivi religiosi”. Sicché in questi
casi, e i medici erano d’accordo, l’unica cura possibile erano gli esorcismi.
Tra il XVII e il XIX secolo venne di moda, fra i teatranti che si esibivano di
città in città, l’esposizione del proprio corpo consunto sino alle ossa, per
mostrare il quale, chiedevano in cambio l’elemosina. Queste persone, tuttavia, non
si privavano del cibo.
Se ci riferiamo, invece, ad un passato più recente, e cioè fino a prima di 30 anni
fa circa, incominciano ad arrivare segnalazioni e descrizioni di comportamenti
alimentari anomali, che fanno pensare agli attuali disturbi del comportamento
alimentare. Studiosi come Kaplan e Garfinkel nel 1984 e Bell nel 1985 ne descrivono
i primi casi. E’ tuttavia solo in questi ultimi 20 anni che sono stati fatti studi
più sistematici sul piano  psicopatologico, clinico e psicometrico, che hanno
permesso di capire meglio l’origine delle varie forme.

Cibo nell’arte. Abbiamo visto la svolta in senso naturalistico della pittura


olandese e fiamminga del ‘500, legata al movimento della riforma protestante.
L’olandese Pieter Bruegel il Vecchio è sicuramente uno dei grandi della pittura
cinquecentesca; una delle sue opere più significative è il “Matrimonio contadino”
del 1568. Si tratta di un vero e proprio affresco storico con scene di vita reale:
delle nozze contadine con brocche di vino rosso, scodelle di polenta, pasticci
d’avena. Le zuppe di cereali erano evidentemente il massimo che due persone umili
avevano allora a disposizione e potevano offrire ai loro invitati. In ogni caso,
nel quadro di Bruegel gli alimenti sono i protagonisti assoluti dell’opera.
Insieme a tanti pittori fiamminghi in questo filone di pittura naturalistica si
inserisce un artista italiano, il cremonese Vincenzo Campi, con una serie di
dipinti dedicati al cibo, in particolare “La fruttivendola” del 1580 e “La
pollivendola”.  Tra le opere di fine 1500 va, inoltre, accennato a una serie
notevole di dipinti del tedesco George Flegel, con vivide descrizioni del cibo del
tempo: frutta fresca e secca, biscotti e dolci, bevande e pane. Un dipinto
caratteristico è, infine, “Il mangiafagioli” del bolognese Annibale Carracci (1584)
che ritrae – senza intenti ironici – la scena quotidiana di un contadino che mangia
una zuppa di fagioli, con in primo piano anche del pane, dei porri e una brocca di
vino. Di tutt’altro genere sono, invece, le opere del milanese Giuseppe Arcimboldi,
capace di costruire con qualunque tipo di alimento teste antropomorfe. Tra i suoi
quadri, conosciutissimi dal grande pubblico segnaliamo “L’imperatore Rodolfo II in
veste di Vertumno” del 1591.
A simbolo della pittura sul cibo del ‘600 possiamo prendere un famoso dipinto
dell’olandese Jan Vermeer. “La lattaia” (1660) raffigura un donna che sta versando
del latte con una brocca all’interno di una ciotola; sul piano di lavoro della
lattaia Vermeer dipinge anche una piccola natura morta con del pane spezzato, un
cestino pieno di pagnotte e un contenitore per il latte. Nelle successive nature
morte fiamminghe dell’età barocca saranno moltissime le tele con trionfi di frutta
e selvaggina pieni di cibi arrivati dal nuovo mondo: caffè e cioccolato, pomodori e
peperoni.
Dal barocco seicentesco arriviamo all’Ottocento. Due opere francesi significative
sono “La colazione sull’erba” di Edouard Manet del 1863, efficace raffigurazione
della borghesia, classe emergente del tempo, e “Il mercato del 4 stagioni” della
pittrice Louise Maria Schryves, che rappresenta, invece, un’altra classe sociale,
gli umili venditori di verdure del mercato.
Nel ‘900 entrano nell’arte sul cibo anche i disturbi alimentari. Da un lato abbiamo
le figure scarne – al limite dell’anoressia – dell’austriaco Egon Schiele,
dall’altro i personaggi dilatati e senza ombre (con forte richiamo all’obesità dei
nostri giorni) del colombiano Fernando Botero. Anche la contrapposizione dei
modelli alimentari novecenteschi ha trovato ampio spazio nella pittura. L’opera
“Zuppa Campbell” dello statunitense Andy Warhol (1962) è un buon esempio della
globalizzazione alimentare iniziata nel dopoguerra, con l’omologazione dei gusti in
tristi fast-food e in misere imitazioni dei cibi veri. Al cibo industriale
inscatolato e privato di nutrienti e sapori, possiamo contrapporre il dipinto
“Vucciria” (1974) del siciliano Renato Guttuso.  Lo storico mercato di Palermo è
raffigurato attraverso un trionfo di colori, odori e sapori, con la tela riempita
completamente da passanti e venditori – stretti in pochissimo spazio – pesci spada
e carni appese ai ganci, uova e formaggi, frutta e verdure. Uno spot perfetto della
cucina meridionale e della cucina mediterranea in generale.
In definitiva – nel corso dei secoli – l’arte ci ha raccontato la società con la
lente del cibo, della cucina, dei luoghi conviviali. Secondo l’antropologo Marino
Niola “la civiltà stessa è una sorta di cucina. Perché strappa gli umani alla loro
naturalità nuda e cruda e li trasforma, li rende coltivati”. “Non a caso – conclude
Niola – le parole coltura e cultura hanno lo stesso significato.” Come a dire: chi
ama la cultura, ama il cibo che dalle colture proviene. (3-2015)

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