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Gli Iperborei

Dello stesso autore:


La prima volta che il dolore mi salvò la vita, 2021
Crepitio di stelle, 2020
Storia di Ásta, 2018
Grande come l’universo, 2016
I pesci non hanno gambe, 2015
Il cuore dell’uomo, 2014
Luce d’estate ed è subito notte, 2013
La tristezza degli angeli, 2012
Paradiso e inferno, 2011

In copertina:
© Emiliano Ponzi
Progetto grafico:
XxYstudio
Jón Kalman Stefánsson

LA TUA ASSENZA

È TENEBRA

Traduzione di
Silvia Cosimini
Titolo originale:
Fjarvera þín er myrkur

Prima edizione: Benedikt bókaútgáfa, Reykjavík, 2020

Traduzione dall’islandese di
Silvia Cosimini

Questo libro è stato cofinanziato dall’Unione europea

Questo libro è stato tradotto con il sostegno finanziario di

The Icelandic Literature Center

© 2020, Jón Kalman Stefánsson


Published by agreement with
Copenhagen Literary Agency ApS, Copenhagen

© 2022, Iperborea S.r.l., Milano

www.iperborea.com

ISBN 978-88-7091-895-3
LA TUA ASSENZA È TENEBRA
Racconta la mia storia

e io avrò di nuovo un nome,

o in altre parole:

il primo ostacolo
Le cose davvero importanti ti lasciano addosso un segno indelebile,
sentimenti profondi, esperienze difficili, traumi, felicità intensa; dolori
o violenze che colpiscono la società o il tuo mondo possono
penetrarti dentro a una profondità tale da inscriversi nei geni, che poi
li tramandano di generazione in generazione, forgiando così chi
ancora non è nato. È una legge di natura. I geni trasportano le
sensazioni, i ricordi, le esperienze e i traumi da una vita all’altra, e in
questo modo alcuni di noi esistono ben oltre la loro dipartita, ben
dopo essere stati dimenticati del tutto. Il passato, pertanto, ce lo
portiamo costantemente dentro. È un continente invisibile, misterioso,
che talvolta si lascia percepire tra il sonno e la veglia. Un continente
con rilievi montuosi e distese marine che influiscono in maniera
stabile sul clima e sulle variazioni di luce che abbiamo in noi.

È sempre possibile trovare

qualche conforto

Forse me lo sono sognato.

Sono seduto in prima fila sulla panca di una fredda chiesa di


campagna; la quiete profonda all’esterno è rotta solo da qualche
belato e dal lontano stridore delle sterne, le finestre dell’edificio
incorniciano il cielo azzurro, il mare, una striscia di prato verde, la
montagna quasi brulla.
Spero che sia un sogno perché non ho alcun ricordo di me, non so
nemmeno chi sono né come mai mi trovo qui, non so…
… ma non sono da solo in chiesa.

Mi volto per dare uno sguardo alle mie spalle e vedo un uomo seduto
a un’estremità dell’ultima panca, accanto a un’asta di bandiera fatta
di un legno segnato dalle intemperie, appoggiata di traverso su
cinque file di panche. Magro, direi di mezza età, il volto scavato, una
calvizie incipiente, rughe evidenti sulla fronte. E mi osserva con uno
sguardo sardonico.
Forse sono morto.
Che sia così che succede? Tutto si spegne, l’essere si prosciuga, e
ti risvegli in una piccola chiesa con il diavolo seduto qualche fila
dietro di te, che è venuto per reclamare la tua anima.
Mi volto di nuovo a guardare. No, non può essere il maligno in
persona. Eppure qualcosa nel suo modo di fare mi dice che conosce
bene queste zone. Mi volto di fianco, lo guardo dritto in faccia, mi
schiarisco la gola: Scusa, sei il pastore, per caso?

L’uomo mi fissa in silenzio per un lungo momento. Talmente lungo da


risultare spiacevole. Il pastore, ripete infine; il fatto che sia seduto su
una panca in chiesa dovrebbe fare di me un pastore? Allora tu saresti
un vescovo, visto che stai vicino all’altare? Se fossi un conducente
d’autobus starei accanto a un autobus, sarei un medico se questa
chiesa fosse un ospedale, un rapinatore o un banchiere se ci fossimo
incontrati in una banca? E se fossi tutte queste cose insieme? Per
quanto tempo siamo quel che siamo, per quale motivo la vita non
dovrebbe trasformarti di continuo – cioè, sempre che tu sia
sufficientemente vivo – quando si smette di essere un pastore o un
rapinatore e si diventa qualcos’altro? Se esistono delle domande, non
dovremmo trovare anche le risposte? Quand’è che uno si chiama
Dingdong o Snati, e quale dei due nomi è migliore? Tieni a mente che
talvolta le domande sono vita, e le risposte morte, quindi attento a
dove metti i piedi, caro mio!
Non ha una voce particolarmente profonda, ma vi si distingue una
traccia di tenebra, e la sua espressione mostra una certa energia. Nei
tratti spigolosi, nella fronte segnata da rughe profonde, negli occhi
azzurri. Non riesco a fare a meno di pensare che uomini del genere
possono risultare pericolosi.
Quindi ritieni che io sia pericoloso, chiede l’uomo.
Resto sconcertato. Non intendevo, comincio, ma lui agita un
braccio, come se volesse farmi tacere, sbarazzarsi di me oppure
chiedermi di andarmene; scelgo l’ultima opzione. Mi alzo, gli rivolgo
un cenno del capo. Il pavimento cigola mentre mi avvio e…

… esco da questa vecchia chiesa di campagna che si erge


sull’imboccatura di un fiordo poco profondo, circondata da montagne
basse e un’ampia baia, di un blu freddo – i monti brulli sembrano
guadagnare in altezza e farsi più verdi a mano a mano che si
procede verso l’interno del fiordo. Il cimitero evidentemente precede
la costruzione della chiesa, perché le lapidi più antiche si sono
trasformate in grandi dossi d’erba senza nome sotto i quali riposano
persone ormai dimenticate da tutti, ma l’erba verde cattura i raggi del
sole e li invia di sotto, da loro, nelle tenebre. Forse è sempre possibile
trovare qualche conforto.
Le tombe meno antiche si trovano sul versante sud della chiesa, la
più recente che incontro nel mio giro per il cimitero è tenuta con cura.
A dire il vero, il nome della donna sulla croce è macchiato dal guano,
ma l’epitaffio scritto sotto, IL TUO RICORDO È LUCE, LA TUA ASSENZA È
TENEBRA, dimostra che è stata amata. Lo stesso non si può affermare
con certezza del suo vicino, Páll Skúlason di Oddi, perché la lapide,
una pietra levigata dal mare, grossa e pesante, non offre nient’altro
che una citazione del filosofo danese Søren Kierkegaard: «Se l’oblio
eterno insidiasse costantemente la sua preda e nessuna forza
riuscisse mai a strappargliela dalle mani, quanto sarebbe vuota e
disperata la vita?»1

La tua assenza è tenebra.


L’oblio eterno insidia il tuo ricordo.
Allora dove possiamo trovare conforto?
Anche i morti sorridono,

e io sono vivo

Qualcuno – magari sono stato io – ha parcheggiato una Volvo blu


talmente addossata all’alto muretto di cinta del cimitero che chi si
trova all’interno non riesce nemmeno a vederla. Con mio grande
sollievo l’auto non è chiusa a chiave, ma quando sto per salire al
posto di guida vedo una donna uscire dalla casa che si erge sulla
sommità di una collina, poco sopra la chiesa, e venire nella mia
direzione. Magra, i lunghi capelli scuri spettinati, lo zaino marrone
portato con noncuranza su una spalla. Non è sola, una pecora bruna
le corre davanti e mi viene incontro senza esitare, mi annusa le
scarpe, cerca di farmi le feste come fosse un cane, con una tale foga
che quasi mi fa cadere all’indietro. Basta, Hrefna, ordina la donna in
tono perentorio, e la pecora obbedisce.
Ah, devi scusarla, la Hrefna, mi dice con un sorriso la donna, che
nel frattempo mi ha raggiunto, ogni tanto si comporta in questo modo.
Benvenuto, davvero! Dio, non so dirti quanto sono stata felice, stavo
guardando dalla finestra della sala e ho visto che eri proprio tu quello
che si aggirava nel cimitero. Felice, e sorpresa, naturalmente; perché
tutto mi sarei aspettata fuorché di vederti qui. Quando sei arrivato?
Non mi sono accorta che c’era un’auto parcheggiata accanto al
cimitero, di solito queste cose si notano, non sono tante le macchine
in giro così presto di domenica mattina. Immagino tu vada in albergo
da Sóley, no? Le prenderà un colpo quando le dirò chi è arrivato!

Questa donna mi conosce! Allora forse potrà aiutarmi a ritrovare la


memoria, o per lo meno potrà dirmi come mi chiamo; già questo
magari aprirà uno spiraglio.
Ma qualcosa mi trattiene. Forse le parole del pastore in chiesa, a
meno che non sia un conducente d’autobus, oppure il diavolo in
persona: Tieni a mente che talvolta le domande sono la vita, e le
risposte la morte, quindi attento a dove metti i piedi, caro mio!
La donna mi osserva con quei suoi grandi occhi scuri sorridenti, di
sicuro aspetta che io dica qualcosa, ma a quel punto la pecora si
mette a belare e guarda verso la casa, da dove un cucciolo di cane
bianco e nero accorre a gran velocità, con la lingua penzolante per
l’entusiasmo, così straripante di vita e allegria che perfino i morti
sorridono. Mi chino accanto a lui, così evito di parlare. Hrefna mi si
strofina contro così forte mentre gratto il cane che faccio fatica a
rimanere in equilibrio. Su, ordina la donna in tono secco alla pecora,
e mi chiede di nuovo di scusare quella bestia anomala, che
evidentemente è convinta di essere un cane.
Sempre a fiutare la gente, spiega la donna, e a marcare il territorio
invece di brucare e schivare gli esseri umani, come devono fare le
pecore. Non è colpa sua, del resto; è stata allevata da una cagna che
poi è stata investita da una coppia di norvegesi la scorsa estate.
Qualcosa evidentemente va sacrificato, in cambio di tutti questi
turisti. Povera Snotra, difficile immaginare un cane migliore, era una
gran bella compagnia. Quei due norvegesi erano davvero desolati,
bisogna riconoscerlo, mi hanno perfino mandato un biglietto per
Natale, e del formaggio di capra, un bel pensiero, ma non mi aiuta a
dimenticare Snotra. Come se potessi dimenticare il giorno in cui l’ho
raccolta, agonizzante, sul ciglio della strada dove era stata
scaraventata dall’urto, e l’ho portata dietro la casa per abbatterla e
mettere fine alle sue sofferenze. Snotra mi ha guardata per tutto il
tempo, quegli occhi marroni pieni di una fiducia assoluta, convinta
che l’avrei aiutata. E invece le ho sparato.
Mi dispiace sapere del tuo cane, mi dispiace molto, faccio io,
senza pensare, senza cercare di trovare le parole adeguate. Mi
dispiace molto, ripeto.
Sei sempre stato così tenero con i cani, dice la donna in un tono
talmente caldo che mi sento un groppo in gola. Dopo che è successo,
prosegue, non riuscivo più a stare senza un cane, così ho preso
questa cagnolina festosa dal mio Eiríkur, un border collie di razza, e
l’ho chiamata Cohen. La mamma sarebbe stata contenta!
Comunque, la mia cagna Snotra aveva adottato Hrefna appena nata.
Era un bel rapporto il loro, Hrefna aveva appena un anno quando i
due norvegesi hanno investito il cane. La poverina è rimasta fuori di
casa a belare per settimane, non riusciva a capire che cosa fosse
successo alla sua mamma adottiva. Bisogna trovare il coraggio di
abbattere quel tormento, non si riesce nemmeno a pensare con
quella bestia che bela di continuo, diceva a volte papà quando belava
più del solito, ma non parlava sul serio. Lui… la donna tace di nuovo,
o piuttosto è come se la sua voce sfumasse nel nulla. Il sole sale più
in alto nel cielo, il mattino si riscalda e lei abbassa la zip del maglione
di pile blu scuro. Sotto indossa una camicia verde, leggera, i primi
bottoni aperti, vedo le forme arrotondate dei seni e abbasso lo
sguardo quando percepisco i capezzoli strofinarsi contro la stoffa
mentre sposta il peso del corpo da una gamba all’altra, e sento
qualcosa nel profondo dell’addome, non sono certo se sia desiderio o
dispiacere – dovrei pur sapere qual è la differenza, no?
La donna ride piano, un riso quasi profondo. Ah, quanto sono
felice di vederti! Eri letteralmente sparito, svanito nel nulla. Ti posso
abbracciare? Mica corriamo qualche pericolo, giusto? Sembra esitare
per un attimo, poi posa lo zaino, mi si avvicina e mi abbraccia. Mi
stringe così forte a sé che sento il suo corpo morbido e caldo. Poi
piega un poco la testa all’indietro, forse per guardarmi meglio, e mi
accarezza il volto con il palmo della mano destra. Un palmo piccolo e
talmente sottile che mi ricorda una farfalla. Una farfalla con qualche
callo, perché sono mani segnate dal lavoro. Forse mi sono irrigidito
per questa prossimità inattesa, lei se ne accorge e fa per liberarmi
dall’abbraccio, allora la stringo a mia volta. La stringo forte, assorbo il
suo calore e la sua tenerezza mentre cerco di trattenere le lacrime.
E sono sicuramente vivo.

I morti perdono il nome se non raccontiamo

la loro storia; quindi se racconti

la mia storia io

ritroverò il mio?
La Volvo percorre la stretta strada sterrata e piena di buche che
passa un centinaio di metri sopra la costa, abbastanza dritta ma con
diverse curve a gomito, entrambi i versanti si fanno più verdi a mano
a mano che mi addentro verso l’interno del fiordo – che si rivela più
profondo di quanto mi era sembrato dal cimitero.
Sto andando all’albergo dove a Sóley «prenderà un colpo»
quando mi vedrà. A dire il vero non so dove sia l’albergo, né che
aspetto abbia questa Sóley. Eppure dovrei trovarlo senza difficoltà, il
fiordo è poco popolato e un edificio di grandi dimensioni salta
sicuramente agli occhi. Qui abitano solo trentasei anime.
Di cui sei bambini, mi ha detto la donna. Non è una buona
percentuale.

Ha detto che non poteva lasciarmi ripartire subito. Ho qualcosa da


mangiare nello zaino, ha aggiunto, sfruttiamo questa bella giornata e
andiamo a sederci accanto alla mamma.
Invece di entrare in casa si è avviata verso il cimitero e io l’ho
seguita, per scoprire che sua mamma è la donna con il nome
cancellato dal guano, la cui assenza è tenebra. Deceduta poco più di
tre anni fa. La donna ha dato un saluto anche all’uomo che riposa
accanto a sua mamma, Páll di Oddi, passando accanto alla grande
lapide con la frase di Kierkegaard, l’ha salutato con gioia, come si fa
con un vecchio amico, poi ha tirato fuori le vivande che ha detto di
aver «infilato in fretta e furia» nello zaino, e un plaid che ha disteso
per terra e su cui ha disposto tutto quello che aveva. Due piatti con i
flatkökur,2 burro, carne affumicata, quattro fette di crostata, due calici
e una bottiglia di vino rosso che mi ha chiesto di aprire. Mi sono
seduto appoggiando la schiena contro il muretto del cimitero, lei di
fronte a me, accanto alla tomba. Le gambe incrociate, i capelli scuri e
spettinati pieni di sole; i grandi occhi bruni, circondati da una sottile
rete di rughe d’espressione, mi guardavano con un tale affetto che mi
sono sentito di nuovo un groppo in gola.
Vino rosso la domenica mattina, nel sole, con un amico tanto
atteso, così dovrebbe sempre essere la vita, ha detto. Lo sapevi che
la mamma a volte chiamava quest’angolo di cimitero «la caffetteria
preferita» sua e di papà? In questo punto si è sempre al riparo dal
vento, da qualsiasi direzione tiri; erano seduti qui quando le loro vite
si sono intrecciate. O quando finalmente è cominciata la vita, come
diceva lei di solito. La loro storia la conosci. Non ti voglio annoiare
raccontandotela ancora una volta. Per quanto sia proprio una bella
storia.
Credo che l’oblio, ho detto con prudenza, con lo stomaco
annodato per il timore di dire qualcosa di sbagliato, sia un buco nero
assopito in mezzo a tutte le galassie, che annienta la luce emanata
dai ricordi. Forse me la rammento, la loro storia, ma non per intero.
Raccontamela, dai. Mi piace ascoltarti.
Lei ha sorriso, si è protesa in avanti, ha ripulito dal guano la croce
di sua madre ed è apparso un nome. Aldís.
Quindi sua madre si chiama Aldís.
O meglio, si chiamava, visto che è morta, ovviamente, e forse da
morti non ci si chiama più. La morte ci priva di un nome e ci lascia
nell’anonimato. E suo padre si chiama Haraldur, è ancora vivo, o
forse non del tutto.
Qui erano seduti mamma e papà poco meno di mezzo secolo fa,
ha detto la donna.
Poco meno di mezzo secolo fa. Quando i vivi erano più numerosi
di quanto siano adesso.
È rimasta a osservare la croce per qualche momento, ha finito il
vino nel calice, se n’è versata dell’altro, mi ha guardato.

E così ecco la nostra prima storia

Il primo ostacolo?
It’s all over now, baby blue –

è maturità oppure vigliaccheria

rassegnarsi al proprio destino?

Aldís era venuta fin quassù nel Nord per fare l’amore con il suo
fidanzato nella piscina di Krossnes. Aveva diciannove anni, si era
appena diplomata al liceo di Reykjavík quella primavera e in autunno
sarebbe andata all’università. Non era nei piani fermarsi in questo
fiordo. Né lei né il suo innamorato si erano dati la pena di informarsi
se avesse un nome. La piscina di Krossnes, situata circa cento
chilometri più a nord, «vasca esterna in cemento, in prossimità della
riva del mare, 12 x 6 m di superficie», era stata l’unica meta di
quell’itinerario. Era un viaggio di fidanzamento. Ólína, la madre di
Aldís, aveva organizzato per loro una grande festa nella casa di
Laugarás, e con ogni probabilità sarebbe stata l’ultima festa in quella
dimora; il padre di Aldís era morto di tumore l’autunno precedente e
la casa era stata messa in vendita.
La giovane coppia aveva sentito dire che la piscina di Krossnes
era in un punto isolato e lontano da qualsiasi centro abitato, proprio di
fronte al mare aperto, e che talvolta era perfino chiamata «la piscina
alla fine del mondo», e non solo: si diceva possedesse anche una
forza misteriosa. Quindi avevano fatto tutto quel tragitto fino al Nord,
otto ore su strade non sempre ben messe, soltanto per poter fare
l’amore di fronte alla potenza tumultuosa dell’Artico, avvolti dal calore
dell’acqua della piscina. Doveva essere una sorta di iniziazione, e
allo stesso tempo un appello o un voto al destino perché la loro vita
insieme fosse sempre così, pervasa della forza dell’oceano e avvolta
dal calore dell’amore.
Ma ecco che forano una gomma dell’auto. Venti chilometri a sud
della fattoria di Nes. A cento chilometri dalla piscina. E il cric è rotto.
Per il resto è una splendida giornata estiva, una brezza leggera,
quattordici gradi di temperatura, la vegetazione secca e frusciante, il
fiordo fragrante di fieno, profumato di mare.
Ma in casa a Nes non c’era nessuno.
La madre di Haraldur era andata alla fattoria di Oddi con uno dei due
trattori per prendere l’imballatrice che le due tenute avevano
comperato insieme, e per farsi prestare uno dei due figli, Halldór
oppure Páll il troll, per poter completare entro sera la raccolta del
fieno sull’appezzamento di terreno più grande – appezzamento che
Haraldur falciava a bordo dello Zetor rosso, con le porte della cabina
nuova fiammante spalancate nel sole e le Greatest Hits di Bob Dylan
a tutto volume sul registratore, quando la giovane coppia di Reykjavík
era sopraggiunta camminando lungo lo sfalcio e aveva riconosciuto
un brano famoso in sottofondo al rumore del voltafieno.
Un campagnolo che ascolta Dylan! E io che credevo non lo
conoscesse nessuno più su di Borgarnes, figuriamoci in questo buco
di culo, disse il fidanzato di Aldís, Jóhannes, stupefatto e non del tutto
privo di un filo di ammirazione mentre osservavano dal campo il
contadino impegnato nel suo lavoro. Il fieno era talmente secco che
Haraldur aveva difficoltà a distinguere le andane l’una dall’altra ma gli
piaceva starsene da solo, e il brano It’s All Over Now, Baby Blue era
appena iniziato quando vide quei due sconosciuti nel campo,
accerchiati dalla curiosità dei cani della fattoria vicina. Era chiaro dal
loro abbigliamento, e dal modo in cui il giovane interagiva con i cani,
rigido e quasi riluttante nei confronti del loro entusiasmo e del loro
interesse, che venivano dal Sud. Haraldur aveva sospirato, aveva
invertito il senso di marcia e con lo Zetor si era diretto verso quei due
mentre Dylan continuava a cantare sotto lo sferragliare del voltafieno
e il rombo rauco del motore: Leave your stepping stones behind now,
something calls for you, forget the dead you’ve left, they will not follow
you.
Gran bel pezzo, aveva detto Jóhannes quando Haraldur, fermato il
voltafieno e spento il motore, era sceso dal trattore; snello, la pelle
abbronzata, i jeans blu, non si era dato la pena di riabbottonarsi la
camicia a quadretti, che sventolava.
Gran bel pezzo.
Haraldur non aveva risposto, aveva abbassato lo sguardo per
celare la propria sorpresa. Non succedeva certo tutti i giorni che degli
sconosciuti, figuriamoci poi se venivano da Reykjavík, finissero tra i
campi falciati di Nes. Aveva alzato la testa dopo averli raggiunti e si
era scostato distrattamente il ciuffo di capelli dalla fronte.
Credo che siano state tre cose a conquistarmi, avrebbe raccontato
Aldís alle figlie, più di una volta: il modo in cui vostro padre era sceso
dallo Zetor, come si era scostato il ciuffo dalla fronte e poi come mi
aveva guardata, un’occhiata rapida, intensa e sfrontata, quando
aveva alzato l’auto con il suo cric e il povero Jóhannes si era messo a
cambiare la ruota.

Haraldur aveva superato l’esame finale alla scuola di agraria di


Hvanneyri quella primavera e a tempo debito avrebbe assunto la
gestione della fattoria di Nes. Come suo padre Ari l’aveva ereditata
da suo padre, che a sua volta l’aveva avuta dal suo e così via, per sei
generazioni. Haraldur, l’unico figlio in vita dopo che il fratello
maggiore era morto annegato in mare pochi anni prima, sarebbe
stato la settima generazione. Era talmente ovvio che non c’era
nemmeno mai stato bisogno di parlarne. Ma una sera di primavera,
circa due mesi prima che Aldís e Jóhannes forassero lungo la strada
poco al di sopra della fattoria, Haraldur si sedette al tavolo in cucina
con i suoi genitori, davanti al caffè e alla cena; Ari curvo sui conteggi
dell’agnellatura – quali capi avevano figliato, quanti ancora dovevano
figliare, quali erano arrivati al termine – e Agnes mormorava sul suo
lavoro a maglia, un cane sonnecchiava sotto il tavolo e alla radio
tenuta a basso volume leggevano il romanzo La madre di Maksim
Gor’kij. Un momento di normale quotidianità nella campagna
islandese, dove tutto andava avanti in maniera immutabile. La natura
infida, rude, esigente eppure generosa, e un’esistenza statica, solida,
dove ogni cosa era al proprio posto. Haraldur era seduto tenendo tra
le mani la tazza di caffè che si stava raffreddando e guardava i suoi
genitori, la loro compostezza, il loro equilibrio; persone che
occupavano un posto sicuro nella vita. Sono felici, pensò. Non gli era
mai passato per la testa che il termine «felicità» potesse applicarsi ai
suoi genitori. Ma adesso gli era chiaro che nonostante i colpi che la
vita aveva loro riservato, la fatica estenuante, le lunghe giornate di
lavoro, abitavano comunque in un posto che amavano. Non
avrebbero potuto immaginare un’esistenza diversa da quella, e la
certezza che Haraldur avrebbe ereditato i terreni dava un senso a
tutte le loro difficoltà.
Era la cassa di risonanza della loro vita.
Osservò il tavolo massiccio, costruito da suo nonno sessant’anni
prima con il legno trasportato a riva dalla mareggiata. I suoi genitori
non sospettavano affatto che negli ultimi sei mesi Haraldur si fosse
sentito come incastrato in un crepaccio, incapace di muoversi. Per un
po’ aveva sperato che il corso di studi a Hvanneyri placasse i morsi
più intensi di quella fame di cultura, che lo convincesse a rassegnarsi
al suo destino e ai suoi doveri verso i genitori, il fratello morto e i suoi
antenati, una serie ininterrotta di sette generazioni che dormivano nel
cimitero e lo osservavano in silenzio. Invece il desiderio di sapere, di
potersene andare, era cresciuto durante l’inverno, e quando Haraldur
era tornato a casa in primavera aveva preso la decisione di battersi
per se stesso e i propri sogni; di iscriversi all’università e soprattutto
di trascorrere qualche anno all’estero.
Ma il pensiero di dirlo ai suoi genitori lo schiacciava. Sapeva che
avrebbe ferito sua madre e le avrebbe dato un grande dolore.
Sapeva che avrebbe finito per ferire anche suo padre, e soprattutto
temeva che lo avrebbe fatto arrabbiare così tanto da compromettere i
loro rapporti, da creare una tale divergenza di vedute tra loro che
avrebbe avvelenato la vita di tutti e tre, in particolare quella di sua
madre, che si sarebbe ritrovata in mezzo ai due uomini che amava.
Lei che camminava sempre curva, come se fosse costantemente
pensierosa, e invece si era abituata a camminare in quel modo per
non sembrare più alta di suo marito, che era basso di statura;
Haraldur aveva preso da lei la giovialità e l’ardore, che trent’anni di
lavori agricoli su una terra austera, nella monotonia della campagna,
avevano un poco smorzato.
Haraldur teneva lo sguardo basso sul tavolo della cucina,
ascoltava sua madre lavorare a maglia e canticchiare Vegir liggja til
allra átta con Elly Vilhjálms che era subentrata alla lettura del
romanzo radiofonico, e suo padre che borbottava qualcosa tra sé e
sé, immerso nella sua contabilità; basso di statura ma talmente
coriaceo ed energico che alcuni compaesani l’avevano
soprannominato a sua insaputa «l’uomo di ferro».
Vegir liggja til allra átta, enginn ræður för. Le strade portano per
ogni dove, nessuno decide dove andare.
Quindi se le strade portano in ogni direzione, è sempre possibile
andarsene, ovunque uno si trovi? L’unica cosa da fare è…
Alzò la testa quando si accorse che i ferri da calza non
tintinnavano più e sua madre aveva smesso di cantare. Alzò la testa
e incrociò il suo sguardo. Va tutto bene, Halli caro, gli chiese, in un
tono talmente diretto e carico di apprensione che Haraldur ebbe la
sensazione di non essere riuscito a nascondere la sua smania
crescente e l’angoscia che lo tormentava da quando era tornato da
Hvanneyri. Lanciò un’occhiata verso suo padre che era ancora curvo
sulla contabilità, come se non si accorgesse di loro, ma non
borbottava più. A quel punto Haraldur decise di parlare. Cominciò
senza riflettere, sulle prime non sentì nemmeno cosa gli usciva dalla
bocca tanto l’ansia gli pulsava in testa, solo che nelle ultime
settimane aveva pensato e ripensato a come poter dare loro quella
cattiva notizia nel modo più inoffensivo possibile, perché voleva
spiegarsi, voleva che capissero quant’era difficile anche per lui. E
perché aveva capito che…

… in poche parole, non sarebbe stato felice a fare il contadino. Amo


la terra ma non ce la faccio a pensare di gestire i nostri terreni. Non
riesco a immaginarmelo. Ho voglia di studiare. Desidero imparare.
Non riesco a pensare alla mia vita senza prima studiare. Voglio
essere felice. Forse vorrò occuparmi dei nostri terreni tra vent’anni.
Non siete ancora anziani. Sì, ne sono sicuro. Non vi sto rinnegando.
Solo che voglio davvero essere felice, e studiare. Bisogna che me ne
vada. Perdonatemi.

Ci fu un lungo silenzio dopo quelle parole, si sentiva soltanto il brusio


della radio. Be’, ragazzo mio, questa non me l’aspettavo proprio,
disse sua madre dopo, posando sul tavolo le mani stanche dal
lavoro, come se avesse bisogno di un sostegno. Il padre di Haraldur
continuò a rimanere in silenzio, curvo sopra i suoi conti, poi si riempì
la pipa, senza fretta, la accese aspirando piccole boccate ritmate e la
fumò con gli occhi semichiusi.
Felicità, disse infine Ari, come se non sapesse che farsene di
quella parola, come se non l’avesse mai pronunciata prima, si tolse la
pipa di bocca e osservò la brace raffreddarsi e spegnersi. Con
qualche leggero colpo la svuotò nel posacenere, si alzò, infilò in
tasca la pipa, l’incarto di tabacco e la scatola di fiammiferi e disse,
senza guardare in faccia suo figlio, mi dai il cambio alle tre. E uscì per
occuparsi dell’agnellatura.
Sessanta pecore che non avevano ancora partorito, un’agnellatura
insolitamente tardiva quell’anno, la primavera era stata fredda,
piovosa, avevano dovuto tenere il bestiame nell’ovile e vegliarlo
giorno e notte. Per tenere d’occhio la vita. Sua madre cominciò a
sparecchiare, Haraldur si accorse che le tremavano le mani.
Si sistemerà ogni cosa, disse, come se cercasse di far coraggio a
tutti, ma aveva una crepa nella voce. Poi passarono i giorni.

E l’inverno finalmente cominciò ad arretrare.


Concimarono i campi all’inizio di giugno. Haraldur sul trattore,
quello senza cabina, e Ari che si occupava di svuotare le sacche
nello spargiletame. Della questione non si era più discusso. Forse
suo padre sperava di cancellare le parole di Haraldur con il silenzio.
Far finta che non fossero mai state pronunciate. Del resto certe cose
sono talmente stupide e sconsiderate che non vale la pena di
gestirle, meglio che ci pensi il silenzio a toglierle di mezzo.
Haraldur sapeva che stava a lui riprendere la questione. A meno
che non volesse lasciare le cose come stavano e basta, e si
rassegnasse al suo destino. È bello avere dei sogni, ma per contro
ognuno ha pur sempre le proprie responsabilità, i propri doveri.
E allora il dubbio sta lì: è maturità oppure vigliaccheria,
rassegnarsi al proprio destino? È senso di responsabilità, oppure
codardia?
Haraldur sferragliava per i campi, un cerchio dopo l’altro, sullo
Zetor senza cabina, mentre i pensieri continuavano il loro giro infinito,
incerto, disperato. Suo padre era stato insolitamente loquace quel
giorno – del resto stava arrivando l’estate. Avevano visto i cumuli di
neve ridursi, il suolo sbucare da sotto il manto bianco, la vita
cominciava a fare ritorno dopo un lungo inverno complicato e una
primavera infida. Haraldur rientrò a marcia indietro con lo
spargiletame vuoto fino a casa, dove suo padre lo aspettava accanto
alle sacche.
Questo è il momento giusto, pensò Haraldur mentre saltava giù dal
trattore e girava dietro la macchina. Ari si piegò a prendere la prima
sacca, si alzò tenendola agilmente tra le braccia e la svuotò nello
spargiletame. Haraldur si schiarì la gola. Suo padre gli lanciò una
rapida occhiata, quasi sorridendo, e si piegò a prendere la seconda
sacca. Papà, disse Haraldur, stupito da quanto la sua voce fosse
uscita ferma, quasi aspra, si schiarì di nuovo la gola e cercò di
addolcire il tono. Papà, quella cosa che vi ho detto l’altra sera… mi
pesa tanto, papà, me ne dispiace parecchio, davvero, anzi ci sto
malissimo, ma ho paura di non poter… tacque perché ebbe
l’impressione che suo padre si stesse piegando su se stesso. Papà,
gli chiese incerto, papà, va tutto bene?
Suo padre non rispose, si accasciò sulle sacche, come se di punto
in bianco avesse deciso di riposarsi, magari di fare un sonnellino –
smaltire nel sonno le stupidaggini del figlio.

Ma non si rialzò più, e fu sepolto nel cimitero la settimana dopo. Il


giorno successivo Haraldur ordinò una cabina per lo Zetor.

Dove vai quando smetti di pensare –

venti poesie sull’amore, e una sulla

moglie del colonnello

Jóhannes assicura la ruota di scorta, mette quella forata nel


bagagliaio, salutano il giovane contadino, proseguono il loro viaggio.
Due ore buone di macchina in direzione nord per raggiungere la
piscina. Attraverso le brughiere, lungo i fiordi dove in alcuni tratti la
strada è appesa come un intruso alle pendici più ripide. Fanno
l’amore nella piscina a un passo dal greve risucchio dell’oceano
Artico. Jóhannes lancia un grido quando viene dentro Aldís, che si
aggrappa al bordo, pensando costantemente a quel contadino.
Rientrano a Reykjavík l’indomani. Qualche giorno dopo lei sale
sulla corriera per Hólmavík. È l’inizio di settembre, siamo alla metà
degli anni Settanta.

Ólína, la madre di Aldís, aveva già capito che c’era qualcosa di strano
quando sua figlia tornò dal viaggio di fidanzamento distratta e in uno
stato di grande agitazione; si era chiusa nella sua stanza, rispondeva
di rado alle telefonate di Jóhannes, mangiava a malapena; il quarto
giorno crollò tra le braccia di sua madre.
All’inizio non fece altro che piangere, poi a poco a poco le uscì
dalla bocca – all’inizio solo frasi sconnesse, che alla fine si
allinearono – che non riusciva a smettere di pensare a quel
contadino, di cui però non sapeva niente. A parte che si chiamava
Haraldur, che ascoltava Bob Dylan, che aveva gli occhi di un azzurro
assurdo. Eppure era convinta di essere felice, pensava di non vedere
l’ora di cominciare una vita con Jóhannes, di avere una bella casa
con lui, tre figli, di visitare paesi lontani. Ma in un istante sembrava
che le avessero strappato via tutto – si trovava sull’orlo di un
precipizio e l’unica cosa che aveva voglia di fare era buttarsi di sotto.
Devo essere diventata pazza, mamma. Penso soltanto a come mi
guardava, con quegli occhi che si ritrova. Sono ossessionata dal
pensiero di tornare da lui, e… ed è da stupidi, ovvio. Perché dovrei
farlo? Mi renderei ridicola. E poi è un contadino. Ed è inconcepibile
che io abbia voglia di vivere lassù, lontano da tutto. E invece non
riesco a pensare ad altro. Mi sembra di essere sul punto di perdere la
ragione. Non sono mai stata così male. E non sono mai stata così
felice!
Ovvio che Ólína sapesse bene che cosa fare – ricordare ad Aldís
le sue responsabilità, ricordarle quant’era felice di essere la fidanzata
di un giovane così promettente, un ragazzo bravo e affidabile, che
l’amava più di ogni altra cosa e che avrebbe fatto di tutto per lei; e
che l’avrebbe portata con sé a New York, dove studiava il fratello di
Aldís. Ci avrebbe pensato la metropoli a prosciugare l’effetto del
contadino in quella valle isolata.
Ma nelle ultime settimane Ólína stava preparando il trasloco in una
casa più piccola e aveva dovuto passare in rassegna tutto ciò che si
era accumulato intorno alle loro vite, sua e di suo marito, in trent’anni
di matrimonio. Aveva raccolto fotografie, lettere, vestiti, libri… chi per
qualche motivo deve smontare pezzo per pezzo la propria casa, si
ritrova a toccare con mano i propri ricordi, rivive una seconda volta la
propria esistenza e la mette sul piatto di una bilancia. È evidente che
Ólína ha avuto una vita bella, perfino invidiabile. Ma non ha mai
amato Þorvaldur, suo marito, il padre dei suoi figli.
Ha smontato pezzo per pezzo la propria esistenza, ha sezionato il
passato, a volte sente la mancanza della compagnia di Þorvaldur. Ha
avuto una bella vita; eppure si sente come se l’avessero privata di
qualcosa; si vergogna di aver fretta di vivere senza di lui; e poi Aldís
piange tra le sue braccia.
Piange e vaneggia, come in un delirio, di un certo contadino che
l’ha guardata con degli occhi straordinariamente azzurri e tutto è
cambiato. Che lei e Jóhannes hanno proseguito il viaggio, che lui era
così felice e lei come paralizzata, sentiva se stessa rispondergli e poi
sorridergli quando riteneva che fosse il momento appropriato. Erano
arrivati alla piscina, avevano fatto l’amore… e mamma, a quel punto
ho capito che non lo amavo, che non l’avevo mai amato, che non
l’avrei mai amato. Voglio un mondo di bene a Jóhannes, è un
bravissimo ragazzo e farebbe qualsiasi cosa per me. Ma io non
riesco ad amarlo. Sono davvero cattiva. Forse credevo che amare
con tanta passione non fosse necessario. Sì, probabilmente credevo
che troppo amore mi avrebbe reso indifesa, confusa, irresponsabile.
E invece guardami adesso, mamma! È ridicolo. È così ridicolo, è
assurdo. Sono passati cinque giorni e non riesco quasi a respirare.
Allora è questo, l’amore, è così stupido, cieco e perfettamente irreale
– pensa davvero che mi importi di amare un contadino in chissà
quale fiordo orrendo alla fine del mondo? È stupido. Credo di dover
tornare da lui.
Invece di provare a far ragionare Aldís, disperata, in un tale stato di
agitazione che è del tutto incapace di riflettere con chiarezza e poi
comprare un biglietto per il primo volo per New York, due giorni dopo
di primo mattino Ólína accompagna sua figlia alla stazione delle
corriere.
Devi avere l’opportunità, le dice, che alcune donne non hanno mai,
o non hanno la forza né il coraggio di cercare; l’opportunità di
costruire da sola il tuo destino. Vai lassù nel Nord, va’ a vedere che
cosa ti aspetta. Puoi sempre tornare indietro. Magari scoprirai che
era soltanto uno stupido sogno, ma fa lo stesso. Si impara di più dagli
errori. E bisogna andare, per avere la possibilità di tornare indietro.
Diede ad Aldís del denaro e due libri che aveva appena letto
insieme al suo gruppo di lettura. Libri che l’avevano toccata mentre
preparava il trasloco e l’avevano indotta a ripensare da capo alla sua
esistenza. Una raccolta di poesie di Pablo Neruda, Venti poesie
d’amore e una canzone disperata, e un nuovo romanzo di un giovane
autore inglese, John Fowles, La donna del tenente francese. Pioveva
quella mattina, tirava vento, Ólína era rimasta accostata contro il
muro dell’autostazione, si era tenuta le mani sul cuore e aveva
mandato un bacio a sua figlia sulla punta delle dita quando la corriera
si era lentamente avviata. Incontro all’incertezza.

Era stato un viaggio infinito. Molto più lungo di quello dell’estate


precedente, ed era piovuto per gran parte del tempo, una pioggia
così fitta e insistente che la terra era sparita e il mondo insieme a lei.
Le strade tortuose, strette, e in più punti la corriera era parsa sul
punto di tirare le cuoia per la fatica e lo sforzo sulle pendenze più
difficili. Un momento Aldís desiderava solo che la corriera andasse
più in fretta e la recapitasse presto a destinazione, l’attimo dopo
sperava ardentemente che il viaggio non finisse mai, e che l’eternità
consistesse in quel viaggio in corriera con il romanzo di Fowles e il
libro di poesie di Neruda accanto a sé.
Ma tutti i viaggi hanno un termine, ed erano quasi le cinque
quando si ritrovò davanti al parcheggio della Cooperativa di
Hólmavík, nel vento pungente, otto gradi. Già nello Hrútafjörður
aveva smesso di piovere ma le nuvole sul paesino grigio erano lastre
di piombo, il mare agitato, gelido, le persone accigliate, taciturne, non
la degnavano di uno sguardo.
Neruda non avrebbe mai potuto comporre poesie d’amore e di
disperazione in un posto come quello. Forse sarebbe caduto in preda
alla depressione e non avrebbe composto un bel niente, o forse
soltanto qualche poesia magari sui pesci, sulle pecore, sull’artrite, sul
grigiore dell’esistenza, sul brennivín.3
Le colava il naso, tirò su più volte, poi se lo soffiò, cercò riparo
dentro la Cooperativa. Si comprò una pylsa4 ma non aveva appetito,
la buttò nel cestino dei rifiuti dopo il primo morso e il pane rimase lì
capovolto, come sul punto di scoppiare a piangere. Neruda non
aveva mai composto versi per un panino in lacrime.
Aldís aveva promesso di chiamare casa non appena fosse arrivata
a Hólmavík, ma prima doveva trovare l’ufficio postale, l’unico posto
da dove era possibile telefonare al Sud. Se non era già chiuso. E che
cosa avrebbe dovuto dire a sua mamma? Era sembrato tutto così
facile, quando avevano organizzato quel viaggio, sua mamma era
proprio entusiasta, parlava come se Aldís stesse per andare incontro
a una splendida avventura – aveva detto che la invidiava.
Un’avventura?
Osservò il mare di un blu glaciale, le case grigie, la polvere che il
vento intenso alzava da terra. Il paese è proprio brutto. Sembra che
qui non possa succedere niente di bello. Come le era venuto in
mente di andare fin là? Com’era venuto in mente a sua mamma di
permetterle di fare quel viaggio, di prendere la corriera per andare in
quella desolazione? Oh, se solo Jóhannes fosse apparso
all’improvviso con la sua Toyota lì nel parcheggio della Cooperativa,
se fosse venuto a prenderla. Come le era venuto in mente di
lasciarlo, non avrebbe fatto meglio a telefonare a lui?
Chiuse gli occhi, fece un profondo respiro, si rimproverò
mentalmente, tenne gli occhi chiusi mentre pensava al contadino, a
come era saltato giù dal trattore, come si era scostato i capelli, come
l’aveva guardata. Aprì gli occhi, pronta a uscire, a trovare l’ufficio
postale, chiamare casa. Però non sapeva che cosa dire. Non voleva
dare preoccupazioni a sua mamma, o deluderla.
E come avrebbe fatto a trovare un modo per raggiungere quella
maledetta fattoria, Ystanes?
Dai, chiedi a qualcuno di darti un passaggio in macchina, le aveva
detto sua mamma, nessuno rifiuta una cortesia a una donna così
giovane e bella.
Aldís si guardò intorno ma non vide nessuno che sembrasse
interessato ad aiutare una «donna così giovane e bella». Due
giovanotti uscirono dalla Cooperativa con qualche pacchetto, salirono
su una jeep Willys rosso fuoco, partirono sgommando a tutto gas e
sparirono. Non rimase nulla tranne il vento, il mare freddo, le case
assonnate, un contadino con le spalle curve che faceva il pieno alla
sua Land Rover blu e una commessa paffuta, vestita con una camicia
marrone anche troppo attillata, la bocca piena di una grossa
caramella Freyja, che all’inizio l’aveva guardata con evidente
curiosità e poi si era rannicchiata sopra Vikan,5 immergendosi nei
pettegolezzi sulla gente famosa. Aldís andò alla cassa e dovette
tossicchiare due volte perché la ragazza staccasse gli occhi dalla
rivista – sapeva dirle dov’era l’ufficio postale?
La ragazza si prese tutto il tempo per rispondere, forse non aveva
voglia di smettere di masticare la caramella, cercava di ammorbidirla
e di godersi il gusto zuccherato. Infine sospirò, quasi afflitta, si
allungò a prendere l’involucro, si tolse di bocca la caramella mezza
masticata e la riavvolse accuratamente. Si pulì le dita sulla camicia,
girò davanti al bancone e disse, è proprio un gran bel cappotto. Toccò
la nuova arrivata sul gomito e aggiunse; accidenti com’è morbido!
Guarda lì, disse poi indicando un punto in mezzo alle case, quello è
l’ufficio postale, e sta per chiudere quindi devi spicciarti. Non ti ho mai
vista prima. Sei di Reykjavík, immagino? Hai dei parenti qui a
Hólmavík? Ti viene a prendere qualcuno? Insomma, spero che tu non
debba andare a lavorare in qualche fattoria, cioè, non con quel
cappotto, perché allora mi offro per tenertelo qui, ah, ah, ah! Va tutto
bene?
Poco mancò che Aldís non scoppiasse a piangere davanti a
quell’affetto inaspettato che affiorava da sotto il profluvio di parole di
quella ragazza, ma riuscì a trattenersi e a spiegarle con una discreta
compostezza che doveva solo chiamare a casa, a Reykjavík… e sì,
poi raggiungere quella fattoria, Ystanes – non è che sapeva dirle
come arrivarci?
Nes? È lì che stai andando? Da Haraldur? Ma certo, è ovvio che si
sia trovato una con un cappotto tanto elegante! Io l’avrei già
incastrato da tempo, se non fossi impegnata! Sei sicura che non
devo tenerti il cappotto, nel frattempo… ah, ah, ah, sto scherzando!
Però, cioè, sei fortunata, perché ora come ora non è per niente
complicato arrivarci. Vedi quel tipo là accanto alla pompa di benzina,
che fa il pieno e riempie anche due taniche – ecco, quello è appunto
Skúli di Oddi. La fattoria di Oddi non è lontana da Nes, aggiunse
vedendo l’espressione persa sul volto di Aldís, puoi farti dare
senz’altro un passaggio da lui. Ha una gran testa, c’è da credere che
sia andato all’università. Ma è una persona a posto. Ci sarà
sicuramente anche sua moglie Hafrún. Sono sempre insieme, e lei è
proprio un tesoro.
Aldís avanzò esitante attraverso il parcheggio. Il contadino la vide
avvicinarsi, staccò la pistola della pompa da una delle taniche e
raddrizzò la schiena. Alto, nerboruto, i tratti del volto duri. Aldís ebbe
l’impressione che la scrutasse con quegli occhi grigi e penetranti per
studiarla a fondo. La ragazza abbassò lo sguardo sulle sue mani
grandi, le mani di un lavoratore, e sentì l’ansia propagarsi lungo la
colonna vertebrale. Non poteva certo dire a un uomo con quelle mani
che aveva passato otto ore a sobbalzare dentro una corriera solo per
vedere di nuovo gli occhi del contadino di Nes? Ormai le sembrava
tutto ridicolo. La campagna intera avrebbe riso di lei per i prossimi
anni. Il che non faceva alcuna differenza, per lei, perché avrebbe
preso la prossima corriera per tornare indietro, e non l’avrebbero mai
più vista in quel posto.
Posso aiutarti, chiese il contadino e allora Aldís notò che tra gli
occhi aveva uno spazio insolitamente ampio. Che veda di più del
mondo rispetto a noialtri, pensò, poi abbassò la testa, stava per
posare a terra la piccola valigia ma si rese conto di essere in mezzo a
una pozzanghera, con i suoi eleganti stivali di pelle. Accidenti, pensò,
drizzò la schiena e vide una donna con i capelli castani screziati di
grigio uscire dall’ufficio postale con un pacco sottobraccio. Il
contadino seguì lo sguardo di Aldís. Allora sono arrivati i dischi di
Halldór, fece lui. Sì, eccoli qui, disse la donna, chissà come sarà
contento. Ma chi abbiamo qui, aggiunse guardando Aldís. Be’, disse il
contadino grattandosi la nuca, stavo proprio cercando di capirlo ma
non me la cavo molto bene. Credo che sia un compito più adatto a te.
La donna aprì il bagagliaio della Land Rover, vi sistemò il pacco,
poi si avvicinò ad Aldís, più bassa quasi di una testa. Ciao, cara,
disse, le porse la mano, calda, forte, callosa, Aldís la sentì mentre
gliela stringeva; mi chiamo Hafrún e questo signore qui è il mio Skúli.
Come possiamo aiutare una donna così giovane, bella ed elegante?
Come possiamo aiutare… La scelta delle parole, la stretta di mano
ferma, lo sguardo affettuoso della donna liberò qualcosa in Aldís, le
sciolse il nodo che aveva in gola; disse di essere arrivata con la
corriera, di non conoscere nessuno lassù ma di dover assolutamente
raggiungere una certa fattoria – la fattoria di Ystanes.
È detta anche Nes, la chiamano così. La commessa della
Cooperativa ha parlato di Nes. Sempre che abbia capito bene.
Insomma, sì, doveva proprio raggiungere Nes. Oppure si dice
scendere a Ystanes? Non so come dite, voi del posto, se dite
scendere, oppure salire a nord… In effetti non conosco per niente la
zona. Ci sono stata solo una volta. Anzi, nemmeno. Però prima devo
telefonare a Reykjavík dall’ufficio postale. Devo chiamare casa. Devo
chiamare mia mamma.
I due coniugi la ascoltarono in silenzio snocciolare tutte quelle
informazioni sconnesse. Non è un problema, puoi salire con noi,
disse Hafrún, ma devi sederti in mezzo. Dietro è pieno di scatoloni,
come sempre quando veniamo in paese a fare la spesa.
Aspettarono mentre Aldís andava all’ufficio postale a chiedere di
telefonare a casa. Sua mamma rispose all’istante. Va tutto bene,
mamma, disse Aldís affannata, sono a Hólmavík, ho trovato un
passaggio per la fattoria, ti darò mie notizie, aggiunse e la salutò in
tutta fretta, prima di scoppiare in lacrime.

E poi in macchina lasciarono il paese.


Hafrún accese subito la radio, mentre Haukur Morthens cantava
Fyrir átta árum, un brano musicato da Einar Markan su un testo di
Tómas Guðmundsson. Un pezzo che parla di come la vita possa
trasformarsi in rimpianto e malinconia se non si colgono le occasioni
quando si presentano.
Una bella canzone, disse Hafrún, anche se è un pochino
malinconica, no? Solo che di tanto in tanto ci tocca aggrapparci alla
malinconia, non è vero? L’esistenza ha tante facce, e noi ne
conosciamo ben poche. Non hai molti bagagli, cara. Non sapevo che
Haraldur e la mia Agnes volessero prendere una lavorante in casa.
Sono contenta per loro. Ne hanno proprio bisogno. È stato un brutto
colpo quando Ari se n’è andato in primavera, all’improvviso, non
aveva nemmeno sessant’anni, non si era mai ammalato. A dire la
verità, eravamo preoccupati per loro, in particolare per Haraldur, che
ha una specie di uggia addosso, non è soddisfatto di – oh, ma di che
cosa vado cianciando! Non dirglielo che te l’ho raccontato, non
sopporta la commiserazione, quel ragazzo.
Ho solo una valigia piccola perché non penso di fermarmi. E non
sono una lavorante, disse Aldís, mi sono diplomata al liceo di
Reykjavík. Non sono sicura di saper lavorare. Per lo meno, non i
lavori che si fanno in una fattoria.
Allora come mai vai da Haraldur a Nes, cara?
Non lo so. Credo di aver smesso di pensare.
Si va a Nes quando si smette di pensare?
Credo di essermi innamorata del contadino, di Haraldur, voglio
dire. Scusatemi, non è mia abitudine dire cose del genere.
Ecco un motivo più che valido per una visita. Anche quando si è
smesso di pensare e non si sanno fare i mestieri. Non sapevo che
Haraldur avesse una ragazza. Sono proprio contenta.
Aldís: Sa a malapena che esisto. Mi ha guardata solo una volta.
Hafrún: E magari non sa del tuo arrivo?
Aldís: Sono venuta in corriera. Il mio fidanzato ha detto che
sarebbe morto se me ne andavo. Se rompevo il fidanzamento. La
mia mamma mi ha incoraggiata a venire. Ha detto che bisogna
andarsene per avere la possibilità di tornare. Credo che volesse dire
che bisogna cogliere l’occasione quando ci si presenta. Come nella
canzone di prima.
Hafrún: Sembra avere del sale in zucca, la tua mamma.
Aldís: Ma non so se ne ho io, di sale in zucca. Mi sento come se
stessi delirando, come se non riuscissi più a controllare quello che
faccio. La mamma mi ha prestato due libri per il viaggio in corriera, un
romanzo inglese e un libro di poesie sudamericane sull’amore e sulla
disperazione.
Hafrún: È assolutamente necessario avere qualcosa da leggere
durante questi viaggi in corriera, lunghi e faticosi. Ma allora, se ho
capito bene sei fidanzata con un altro?
Aldís: Non più. Il mio ex fidanzato, avrei dovuto dire. Ho lasciato
l’anello a casa dalla mamma e anche una lettera per lui, dove ho
cercato di spiegargli tutto e gli ho chiesto di perdonarmi.
Skúli: Allora non sei preoccupata che il poveretto muoia?
Aldís: No, lui non sopporta il caos né gli imprevisti.
Hafrún: E Haraldur ti ha guardata solo una volta?
Aldís: Lo so.
Hafrún: Cos’è che sai, cara?
Aldís: Che tutta questa situazione mi fa sembrare una pazza
isterica. E probabilmente lo sono, in fondo. Ma lui mi ha guardata, ed
è cambiato tutto. Da quel momento non sono riuscita a pensare ad
altro che a lui. E non lo conosco per niente. Ha gli occhi azzurri. Ma è
anche un contadino, e io distinguo a malapena una pecora da una
mucca. Per voi, credo, sono una che non ha nessuna esperienza di
vita. È vero, non mi sono quasi mai sporcata i vestiti. Non sono mai
entrata in un ovile e ho paura che potrei svenire per la puzza. Di certo
non potete avere una gran considerazione per una persona come
me, voi. Perdonatemi, non sono abituata a esprimermi così… in
maniera tanto irragionevole. Potreste anche credere che non mi
abbiano educata bene.
Hafrún: Oh, fossi in te non mi preoccuperei troppo per questo! La
ragione e l’amore non vanno mai molto d’accordo. Sarebbe peggio il
contrario, perché a quel punto dovremmo davvero preoccuparci per
gli esseri umani. Chi è giovane non deve per forza fare affidamento
sulla ragione. Lascia che ci pensiamo noi più anziani, a far finta di
essere ragionevoli. La vita morirebbe di noia, se voi giovani non
faceste mai qualche follia.
Skúli: A quanto so, alla scuola cercano un’insegnante per il
prossimo inverno. Se hai frainteso lo sguardo del giovane Haraldur,
oppure se voi due avete bisogno di tempo perché le cose trovino il
verso giusto, perché a volte c’è bisogno di tempo perché si mettano a
posto, allora diremo che sei la nuova insegnante… Capita che ci
prendano sul serio, qui in campagna, per quale motivo non l’ho mai
capito. Comunque ti sei diplomata, e quindi puoi insegnare. A parte
questo, il fiordo ha bisogno di una persona come te.
Aldís: Che persona sono?
Skúli: Una persona che ha il coraggio di piantare tutto per uno
sguardo. Finché c’è qualcuno che lo fa, la vita non si fossilizza.

Qualcuno ti ha mai detto che hai

degli occhi di un azzurro incredibile?

Haraldur sta caricando sul carro del fieno i tronchi di legno portati a
riva dalla mareggiata per farli seccare durante l’inverno nella grande
rimessa dei macchinari agricoli quando Aldís arriva con i due
contadini di Oddi. Loro spariscono subito in casa da sua mamma per
un caffè, e lasciano i due giovani nelle mani del destino.
Haraldur risale lungo la lingua di terra a bordo del suo Zetor, la
portiera è spalancata e un giovane musicista canadese, Leonard
Cohen, canta un brano del suo primo disco, I showed my heart to the
doctor, he said I’d just have to quit, then he wrote himself a
prescription, and your name was mentioned in it. Imbocca lo sterrato
d’accesso alla fattoria, guarda Aldís che è in piedi accanto all’alto
muro del cimitero, poi porta il carro a marcia indietro fino alla rimessa,
ferma il motore del trattore, spegne la musica, scende.
Avete forato di nuovo, le chiede.
La ragazza indossa un cappotto molto bello. Probabilmente qui in
campagna non si è mai visto nessuno con un cappotto così bello, o
con degli stivali neri di pelle così eleganti.
Avete forato di nuovo?
Lei si morde un labbro e il cuore le batte con una tale forza che le
fa quasi male il petto. Forse è stato tutto uno stupido, umiliante
malinteso; quell’istante, il suo sguardo, quello che pensava di aver
percepito nel contadino, la sua disinvoltura, la sua tristezza. Forse lui
l’aveva semplicemente guardata sovrappensiero, come capita
spesso, senza intenzione. Forse l’aveva guardata con lascivia,
magari è un bifolco a cui non interessa nient’altro che parlare di
fienagione, della salute delle bestie, del prezzo degli agnelli. Forse gli
interessava solo l’idea di prenderla da dietro contro il muro del
cimitero. Alzarle il vestito, ordinarle di mettersi carponi e poi
prenderla, come fanno le bestie. Forse i suoi occhi non erano affatto
così azzurri come li ricordava.
Lui sta in piedi, dritto, a circa due metri da lei, una sterna stride
verso l’estremità della lingua di terra, i due cani, che l’avevano
seguito dopo aver annusato Aldís a dovere, ora si sono fermati in
mezzo a loro e li guardano a turno, come se chiedessero: e adesso?
Haraldur si scosta i capelli, avete forato di nuovo, e visto che la
ragazza non risponde subito aggiunge: mi chiamo Haraldur, a
proposito.
Allora lei si morde il labbro inferiore, del tutto inconsapevole
dell’effetto che produce sul giovane contadino. Adesso usa la testa,
ragazza, si impone mentalmente, ma poi ricorda che cosa le ha detto
la moglie del contadino, Hafrún, che la vita morirebbe di noia se i
giovani non facessero mai qualche follia.
Lo so che ti chiami Haraldur, dice, e spera che la voce non tremi
troppo. Non l’ho dimenticato. No, non ho forato. Sono venuta con la
corriera. Era la prima volta che prendevo una corriera. È stato un
viaggio spaventosamente lungo e non avevo niente per passare il
tempo se non la pioggia, un romanzo inglese e un libro di poesie
sudamericane sull’amore e la disperazione. Di Neruda. L’hai letto?
Oppure il romanzo, La donna del tenente francese? La mamma dice
di non aver mai letto niente di meglio, e guarda che lei legge tanto.
Scusami, ma sono stata costretta a tornare. Soprattutto per chiederti
come mai mi hai guardata in quel modo. Lo so che è una domanda
stupida. Sei scandalizzato dal mio comportamento? In tal caso
possono ospitarmi i contadini di Oddi, poi prendo la prima corriera e
me ne torno a casa. Non devi preoccuparti per me. Non hai bisogno
di dimostrarmi nessuna premura. Qualcuno ti ha mai detto che hai
degli occhi di un azzurro incredibile? A proposito, io mi chiamo Aldís.
Ci possiamo sedere da qualche parte? Perché credo che dovremmo
parlare. Quella fattoressa gentile, Hafrún, mi ha regalato una bottiglia
di brennivín. Si dice così, fattoressa? È la prima volta che parlo con
persone di campagna. A volte bisogna sciogliere la lingua, alla gente
di campagna, mi ha detto. Però ecco, io non so che tipo di persona
sei. Forse mi permetto di parlarti così perché ascoltavi Bob Dylan, e
adesso Leonard Cohen, e oltretutto la mia canzone preferita. Non
c’era bisogno, sai. Però adesso sono qui e devo sapere chi sei.
Dovremo berci la bottiglia intera, secondo te?
Haraldur si scosta il ciuffo di capelli dagli occhi e sorride, il cuore di
Aldís ha un sussulto improvviso, poi con un cenno del capo indica il
cimitero e dice, so di un ottimo posto per stappare quella bottiglia. Ma
non so quanto dovremo bere. Hai tempo? Sono molto felice di
rivederti.

Sono molto felice di rivederti.


E sono entrambi così giovani che il tempo sembra non esistere.

L’aurora boreale è il fumo dello spinello di Dio


Non ebbero bisogno di finire la bottiglia. Aldís ne bevve un sorso,
fece una smorfia, lui rise. Poi rimasero in silenzio, si guardarono
finché lei disse, non ho mai baciato un contadino. Nemmeno io,
rispose lui. In autunno vado all’università, disse lei. E lui: volevo
andarci anch’io, ma poi papà è morto. Condoglianze, mi dispiace
molto. Grazie, ma è per questo motivo che non posso studiare. C’è
sempre una soluzione. Davvero? Sì, e credo che se una persona
come me bacia un contadino, tutto è possibile. Che persona sei?
Quella che ti bacia, disse lei, e si sporse in avanti.
Si sposarono l’estate successiva.

Lei entrò all’università in autunno, studiò francese per un anno, ma


non sopportò la lontananza da Haraldur e si trasferì definitivamente
al Nord; si abituò magnificamente alla puzza di stalla, insegnò a
lungo nella scuola, che in seguito fu trasformata in un albergo. Sua
madre invece non si abituò mai alla puzza di stalla, nonostante
venisse regolarmente a farle visita anche per qualche settimana e
andasse molto d’accordo con la madre di Haraldur, che per qualche
motivo finiva sempre in un irrefrenabile attacco di risa dopo il primo
bicchiere di sherry, e Aldís si preoccupava di averne sempre una
bottiglia in casa, a Nes. Ma il sogno dell’università non si era spento,
e quando Sóley, la loro figlia maggiore, andò al liceo a Reykjavík, i
suoi genitori presero il coraggio, affittarono i terreni a Páll di Oddi e si
iscrissero all’università; tornarono a casa sette anni più tardi, dopo
aver vissuto a Reykjavík e a Parigi. Si trova sempre una soluzione.

Poco più di quarant’anni dopo, nel mese di marzo, rientrano a casa


dopo essere stati a Hólmavík insieme alla figlia più giovane – quella
che si è seduta con me a piedi nudi nel cimitero e mi ha raccontato la
loro storia. Si erano concessi uno sfizio, erano andati a cena in un
nuovo ristorante di Hólmavík. Una sera limpida e piena di stelle e
un’aurora boreale si era accesa in cielo appena avevano affrontato la
brughiera per tornare a casa; le strisce di luce fluttuavano e
ondeggiavano così luminose, così ammalianti che Aldís non era
riuscita a trattenersi e aveva sganciato la cintura di sicurezza per
poterle fotografare bene con il cellulare, e rallegrare gli amici
all’estero postandole immediatamente sul suo profilo Facebook, e
sotto aveva scritto: «L’aurora boreale in Islanda è il fumo dello
spinello di Dio!»
La mamma era sempre uno spasso quando si ubriacava, mi ha
confidato sua figlia poco più di tre anni dopo, e quand’era un po’ brilla
le prendeva una cotta incontrollabile per papà. Si trasformava in una
diciannovenne seduta nella Land Rover in mezzo a Hafrún e Skúli.
Guidavo io quella sera e la mamma era talmente sovreccitata che ha
cercato di infilarsi dietro, da papà, per fare la scema con lui dopo aver
postato le foto su Facebook, ma le è presa la ridarella perché lui ha
fatto una battuta che non ricordo e così è rimasta bloccata tra i sedili
dell’auto, incapace di divincolarsi, in preda al riso. Papà non era
molto d’aiuto, si era sganciato la cintura pure lui e rideva quanto lei,
piegato in basso sul sedile. Non siete molto a posto, ho detto io
voltandomi a guardarli.
E non avrei dovuto farlo, mi ha detto, osservando la croce di sua
madre. La strada era molto sdrucciolevole e io ero tesa per i due
bicchieri di vino rosso che avevo bevuto a cena e mi pareva di sentirli
tutti, attraversando la brughiera, con quelle curve e quei dossi. La
mamma strillava come una ragazzina, chiedeva a papà di aiutarla.
Vieni da me a nuoto, le aveva gridato lui dal fondo del sedile
posteriore. Allora mi sono girata.
La strada era molto sdrucciolevole, ha detto di nuovo, come se
stesse spiegando l’incidente a sua madre, chiedendo perdono.
Perché lei si era voltata e si era beccata il tacco a spillo dello
stivale della madre nell’occhio destro, aveva perso il controllo
dell’auto che era uscita di strada sulla sommità di una scarpata,
aveva fatto tre o quattro capriole e si era fermata, capovolta, sei metri
sotto il livello della strada. Quando aveva ripreso conoscenza era
appesa a testa in giù alla cintura di sicurezza, come un pipistrello
svenuto. Aldís piena di sangue, il corpo fratturato, morta tra le braccia
di Haraldur, quando la figlia era tornata in sé.
Che persona sono?

Quella che impedisce alla vita di fossilizzarsi.


Ma poi moriamo, e questo niente riesce a impedirlo. La morte
picchia così forte che perfino gli dei ne hanno paura.
A proposito, mi chiamo Aldís e sono morta.
E io mi chiamo Haraldur. Sono paralizzato dalla vita in giù e la tua
assenza è tenebra. E tu, come ti chiami?

Qualcuno spara con la carabina

dietro a un camion,

il letterato vende turbine per reattori,

le profughe siriane cucinano

piatti pericolosamente buoni

È una tortura, non ricordare come si chiama. È chiaramente una


cittadina del mondo, con un lungo percorso universitario alle spalle.
Era venuta qui nel Nord tre mesi prima dell’incidente – «ferita dalla
vita», come aveva detto lei. Non conosco il contesto, la storia, ma
pare ci sia stato un naufragio; un tradimento; non ha potuto avere
figli. Tutte queste cose si erano accavallate insieme, erano diventate
uno strazio e un dolore così grande che era tornata a casa dai suoi
genitori per rimettersi in sesto. Lì si sentiva protetta, al riparo dal
mondo, le scarpate della vita erano un po’ meno ripide, un po’ meno
accidentate. Le piaceva distendersi sul divano la sera, a leggere o ad
ascoltare Haraldur e Aldís bisticciare teneramente, ma con foga, per
stabilire chi fosse il musicista migliore, se Dylan o Cohen, o il miglior
giallista, Arnaldur Indriðason o Henning Mankell, chi il migliore
violoncellista, Pablo Casals oppure Pierre Fournier, chi il miglior
calciatore, Zidane o Thierry Henry. Era così bello ascoltarli… poi
l’auto era uscita di strada.
Era tornata a casa per rimettersi in sesto, per rimarginare le ferite
più profonde, aspettare che una sottile membrana le ricoprisse. Non
le interessava prendere in mano i terreni della fattoria. Non aveva
preso un dottorato in storia della filosofia per finire a fare la contadina
su un appezzamento di terra duro e isolato da tutto. Ma Haraldur non
ce la faceva proprio a pensare di andar via da lì, e certo lei non
poteva abbandonarlo da solo a Nes, paralizzato dalla vita in giù.
Abbiamo un centinaio di pecore, dice, quando le chiedo della loro
attività agricola. Centodue, l’ultimo inverno. Certo non bastano a farci
campare, nemmeno se fossero il quadruplo, ma noi non ce la
sentiamo di mollarle, poverine. Ci piace averle intorno, negli ultimi
due anni ho partecipato anche a qualche progetto creativo molto
divertente con la lana. È un modo per diversificare la gestione,
riceviamo delle sovvenzioni e poi falciamo i campi, così nel frattempo
non restano incolti. Papà ha chiesto a Eiríkur di Oddi e a Ási di
Sámsstaðir di costruirgli un grande soppalco nell’ovile, con tanto di
sollevatore per la sedia a rotelle, così se la passa bene lì durante
l’inverno, ascolta musica, legge, ripara qualche piccolo attrezzo,
riceve ospiti e… sai, non è poi così male vivere in questo fiordo.
Certo, l’attività agricola ormai è quasi ridotta a zero, però in questi
ultimi anni si sono trasferite qui persone di ogni genere, alcune più o
meno in fuga dalla vita. A Vík, per esempio, abita un anziano
professore di storia, un ex docente di letteratura che per qualche
motivo vende turbine per reattori alle imprese dei paesi lontani e si è
costruito una casa estiva a Sámsstaðir, dove passa lunghi periodi; lo
scorso anno Sóley ha preso a lavorare due sorelle profughe dalla
Siria, abitano in un appartamento dell’hotel e preparano dei piatti
pericolosamente buoni, tanto che in molti vengono da lontano solo
per pranzare. C’è vita, qui, nonostante tutto, e ti ricordi anche tu
quanto può essere bello questo fiordo, perfino durante l’inverno,
quando ci sembra di essere talmente lontani da tutto che è come se
non facessimo più parte di questo mondo. «Qui la quiete è talmente
profonda che si sente il brusio delle aurore boreali e dell’eterno» sta
scritto sul sito dell’albergo. Sóley è riuscita ad attirare parecchi turisti
stranieri prima che il coronavirus paralizzasse tutto. C’è stato un
buon giro lo scorso anno, e anche l’anno precedente, molti gruppi,
anche se negli ultimi mesi è stato tutto fermo, com’è ovvio. Abbiamo
avuto qualche turista islandese durante l’estate, ma i gruppi stranieri
sono spariti, si capisce. Eppure abbiamo continuato imperterrite a
farci sentire sui social media, siamo state sempre più presenti, e oggi
Sóley aspetta il suo primo gruppo consistente.
Lo gestite insieme, l’albergo? chiedo.
No, non esattamente. Io aiuto mia sorella a fare promozione,
scatto foto per la pagina Facebook, e a volte mi lascio tentare a
metterle anche sul mio profilo, più che altro per far contenti gli amici
all’estero. La quiete invernale o la calma estiva; agnelli nel sole, una
foca che dorme su uno scoglio. Sembra che tu viva dentro una
poesia, mi ha detto lo scorso inverno un’amica di New York. Forse in
un certo senso è vero, e per questo mi invidiano. La mia fonte di
rendita principale però in questi ultimi due anni è stata la traduzione,
traduco i bugiardini dei medicinali più disparati, un lavoro talmente
noioso che a volte esco con il fucile e sparo contro i paletti della
recinzione. Alcuni sono messi parecchio male, dopo lo scorso
inverno. Ma è divertente scaricare il fucile, almeno uno si sfoga. Il mio
Eiríkur invece è stato denunciato per aver sparato contro un camion,
rischia la prigione. Ecco quant’è ingiusta la vita.

Di nuovo questo Eiríkur. Che sembra abiti a Oddi, come il filosofo


sepolto nel cimitero. Eiríkur le ha regalato un cucciolo di cane, poi ha
sparato con la carabina dietro a un camion, e per questo deve andare
in galera. La donna pronuncia il suo nome con affetto. Saranno
amanti? Per quale motivo sparare dietro a un camion e rischiare di
andare in galera, quando si ha una donna come lei nella propria
esistenza; di un’intelligenza evidente, dalla presenza forte, un lampo
quasi sfrontato negli occhi scuri, una mestizia indefinita e intrigante
agli angoli della bocca… Chi è amato da una donna del genere non
spara certo con un fucile dietro a un camion, semmai spara fuochi
d’artificio, per festeggiare la propria vita.
Haraldur invece non fa festa con giochi pirotecnici, resta a letto
paralizzato dalla vita in giù, oppure seduto al tavolo in cucina, che
suo nonno aveva costruito tempo prima con il legname portato a riva
dalla mareggiata, oppure è fuori nell’ovile, o accanto alla grande
finestra del soggiorno che incornicia il fiordo, la baia ampia, la
cittadina di Vík sull’altra sponda, la vecchia chiesa, il cimitero, una
parte dell’ampio lotto di terreno che aveva falciato insieme a Bob
Dylan quasi mezzo secolo prima. I giorni passano, le settimane, i
mesi diventano anni. Lui legge biografie, libri di storia, ascolta
musica, si tuffa in un passato svanito da tempo, si immerge nella vita
degli altri. Quando la vita si ferma, dice, si vive negli altri.
Certe sere padre e figlia leggono l’uno per l’altra, guardano
insieme film, documentari, telegiornali, postano qualcosa sui social,
vivono affiancati, poi lui dice buonanotte, buonanotte, figliola cara, va
nella sua stanza, si issa sul letto, si addormenta e a quel punto Aldís
lo raggiunge, non più coperta di sangue e con il corpo fratturato, ma
giovane e radiosa, e dice, amore mio, oh, mi manchi terribilmente!

Le uniche parole che contano

Non conosco i dettagli e certi ricordi mi tornano alla mente in


frammenti. Forse non esiste nemmeno un quadro completo. Forse la
vita si trova soltanto nei frammenti.
Voglio che tu mi seppellisca, aveva detto Aldís a Haraldur mentre
erano insieme, i corpi spezzati, insanguinati, e lei morente nell’auto
distrutta – voglio che tu mi seppellisca dove ci siamo seduti per la
prima volta. Ti ricordi, quand’ero appena arrivata con la corriera,
abbiamo bevuto un po’ dalla bottiglia di brennivín che Hafrún mi
aveva consegnato mentre mi diceva, noi saremo a casa di Agnes,
cara, se dopo avessi bisogno di un passaggio. Ma non ho avuto
bisogno del loro passaggio, ovviamente, perché ero arrivata a casa,
ero arrivata da te. Non ho mai avuto un’altra casa, solo te. Tu sei
sempre stato la mia casa. Abbracciami, amore.
Abbracciami, amore. Le ultime parole.
Le uniche che contano.

Quello che viviamo, quello che inventiamo

No, non conosco abbastanza bene i dettagli per vedere il contesto.


I dettagli, il contesto?
I primi li viviamo, il secondo lo inventiamo.

Mi chiamo Robert Desnos

e so che è uno sforzo chiedere aiuto,

ma consolatevi, porto i calzini spaiati

e la vita è satura di sole

Quant’è profondo questo fiordo?

Mi allontano dalla fattoria di Nes, il paesaggio diventa più verde man


mano che mi spingo verso l’interno, i monti si fanno più alti,
indossano un manto di vegetazione, e sul fondo della valle si aprono
radure piuttosto fertili.
Ho salutato la donna al cimitero, mi ha abbracciato, abbiamo
praticamente finito la bottiglia. Fa bene sentirsi un po’ brilli in pieno
giorno, ha detto, anzi, non si dovrebbe fare nient’altro che questo. Poi
me ne sono andato. Sono partito, a bordo della Volvo con cui
immagino di essere arrivato quassù. Chissà quando. Forse in un’altra
vita. È stato struggente vedere la fattoria e i suoi dintorni, pietrosi e
verdi allo stesso tempo, allontanarsi nello specchietto retrovisore e
infine sparire del tutto dietro le creste e le colline. Ciò che sparisce
alla vista sembra non esistere più. E mi tormenta non ricordare il
nome di quella donna.
Però, non riesco a credere a quanto tu sia riuscito a farmi parlare,
mi ha detto mentre ci salutavamo, mentre tu sei così taciturno, non è
da te – che cosa ti è successo?

Che cosa ti è successo; ottima domanda.


Non conosco la risposta.

Proseguo lentamente e ascolto il brano che è iniziato quando ho


acceso il motore. No Introduction di Nas. L’ho riconosciuto subito.
Uno dei suoi pezzi migliori… I wrote this piece to get closure… this
goes to her with love, also goes to y’all.
Strano.
Ho l’impressione di aver dimenticato tutto quello che riguarda me
stesso, non so che lavoro faccio, in cosa consistono le mie capacità,
se sono amato, non so nemmeno se ho dei figli – come fa una
persona a dimenticare una cosa del genere? I ricordi sono spariti
senza lasciar traccia, e l’unica cosa che resta è un doloroso senso di
mancanza. Mi sento… come se la mia identità mi fosse stata sottratta
e qualcuno avesse riempito il vuoto che rimaneva con il mondo, la
sua storia, l’insofferenza, la nostalgia, il desiderio di equilibrio… che
finalità si può leggere, in tutto questo?

Forse non esiste nessuna finalità, se non quella che noi stessi ci
inventiamo.

L’irlandese Damien Rice prende il posto del musicista americano


mentre la fattoria di Nes sparisce dallo specchietto retrovisore: It
takes a lot to give, to ask for help, to be yourself, to know and love
what you live with.
It takes a lot to ask for help.
Vale anche per Haraldur, no?
Non si è forse incatenato, insieme alle due figlie, al fiordo, ai terreni
di famiglia – non sono forse tutti e tre intrappolati, perché lui non può
né vuole chiedere aiuto? Intrappolato in un’esistenza inerte. Sposato
alla morte. Non riesce ad allontanarsi da sua moglie.
Lui che un tempo era così giovane.
Certo, tutti un tempo sono stati giovani – eppure nessuno lo è stato
quanto Haraldur.
Nessuno saltava giù dallo Zetor come lui, dopo aver ascoltato Bob
Dylan – che all’epoca era giovane pure lui. Pensa, perfino Bob Dylan
è stato giovane, un tempo!
Era saltato giù dallo Zetor, atterrando agilmente sullo sfalcio
odoroso, con il ciuffo scuro e lungo che doveva scostarsi sempre
dagli occhi, con quell’aria da ragazzo, il sorriso radioso si era però
rabbuiato un poco due mesi prima, quando suo padre era morto e
con la sua morte aveva incatenato il figlio all’attività agricola.
Forget the dead… they will not follow you.
Purtroppo Bob Dylan non ha ragione, i morti ci seguono sempre.
Oscuri e luminosi, confortanti e accusatori.

Prima che ci alzassimo lasciando una bottiglia di vino rosso quasi


vuota, la donna mi aveva raccontato di un giornalista francese venuto
in questo fiordo alla fine di agosto dell’anno precedente, che si era
fatto notare da tutti perché portava i calzini spaiati. Un giornalista
culturale arrivato da Parigi, talmente affascinato dalla musica e dalla
cultura islandese che era venuto qui nel Nord per scrivere un lungo
articolo sull’Islanda, la sua cultura e la natura per la rivista GEO. Per
quale motivo hai scelto di venire qui da noi, aveva voluto sapere
Sóley. Perché non sapevo niente di questo fiordo, avevo trovato
poche informazioni su internet ma a giudicare dalla cartina sembrava
avere la forma di un palmo aperto, e poi ho scoperto che tu offri una
bella piscina e una pozza naturale calda.
Sóley aveva telefonato a sua sorella: c’è un giornalista francese,
un esemplare ben riuscito, è venuto fin qui con i calzini spaiati per
scrivere un articolo sull’Islanda, un calzino nero, l’altro bianco, con i
nomi di alcuni scrittori stampati sul tessuto. Ho visto anche i tuoi
preferiti. Te lo mando.
Dovevo, aveva detto la donna, posando il bicchiere di vino rosso
sull’erba, con cura perché rimanesse in equilibrio, poi si era
accarezzata i folti capelli, li aveva sollevati come se fossero ali scure;
dovevo fargli vedere la chiesa e le lapidi piantate nel terreno, i nidi
delle sterne e la vecchia ghiacciaia abbandonata sull’estremità della
lingua di terra, il legname trasportato dalla mareggiata dalla Siberia, e
poi rapportare il tutto al pensiero di Susan Sontag, perché sembra
che i francesi abbiano difficoltà a comprendere la natura se non la
collegano alla filosofia. Il francese era venuto, ed era rimasto
affascinato da ogni cosa. Ma soprattutto dalla chiesa, dalle lapidi
piantate nel terreno e da tutte le storie dimenticate che conservano.
Sono riuscita a guardare bene i calzini spaiati e non era una bugia –
sfoggiavano nomi di autori come Robert Desnos, César Vallejo,
Elizabeth Bishop, Sylvia Plath, Konstantinos Kavafis. Sei un uomo di
buon gusto, gli ho detto. È rimasto cinque giorni qui nel fiordo, si è
preso una bella sbronza insieme a papà sul soppalco nel fienile e si è
trovato molto bene con lui. Prima di andarsene mi ha promesso che
mi avrebbe mandato un paio di calzini da Parigi, li avrebbe scelti
appositamente per me in un negozio del Marais. L’ha ripetuto più
volte anche nelle lettere che mi ha scritto durante l’inverno. Si è
scusato perché mi ha mandato delle lettere vere, invece che una
mail, ma ha detto di essere convinto che in una lettera si riesca a
mettere molto di più di se stessi, e poi è bello riceverle con la posta –
oltre al fatto che creano posti di lavoro. Il suo articolo era stato
pubblicato nel numero di gennaio di GEO, ce ne ha mandata una
copia. Quest’uomo sa scrivere, ha detto papà. Nella lettera con cui
accompagnava la rivista aveva detto che sognava di poter tornare
presto a farci visita. Com’è il vostro fiordo in primavera, aveva
chiesto. Solo che subito dopo il virus si è abbattuto sul mondo e
nessuno ha più potuto viaggiare.
Nell’ultima lettera ha detto di avermi comprato i calzini, lasciando
intendere che fossero per strada. Si era espresso in maniera
talmente poco chiara che sinceramente non so dire se me li ha
mandati per posta o se ha intenzione di portarmeli di persona. Devo
ammettere che non vedo l’ora di vedere che cosa ha scelto, e
ovviamente, di sapere se verrà di persona. Non so esattamente cosa
voglio, potrebbe anche venirmi in mente di innamorarmi di lui, e non
sono sicura di avere il cuore abbastanza solido per farlo. Portava i
suoi calzini di Robert Desnos quando mi ha salutata, con dei versi di
una famosa poesia che Desnos aveva composto per la sua amata
negli anni Venti. «Ti ho sognata a lungo.» Naturalmente quel
mascalzone aveva scelto i calzini con i versi più potenti.
Ti ho sognata a lungo / ho camminato, parlato, giaciuto così a
lungo con il tuo spettro / che forse non mi resta altro che diventare
uno spettro tra gli spettri, o cento volte più ombra dell’ombra che si
avvicina a te / e che si insinua felice nella tua vita satura di sole.6
A dire il vero, aveva detto guardandomi con quei suoi occhi scuri,
non so perché ti racconto tutte queste cose. Forse perché ho la
sensazione che tu le apprezzi, oppure perché tu non creda che la mia
vita sia un fallimento, condannata alla solitudine e alla monotonia,
quassù, lontana da tutto, che sia diventata poco più che un’ombra.
Ma tu cosa ne pensi, voglio dire, ti sembra possibile che un
bell’uomo, piuttosto intelligente e simpatico, venga a trovare una
donna come me, con dei calzini dove sono stampati quei versi, è
ammissibile, si può giustificare, oppure è solo cattiveria?

Il binario, la nostalgia

e il treno che si porta sempre via

ciò che desideri

Mi aveva abbracciato prima di andarsene. Mi aveva stretto forte a sé.


Magra, con due occhi scuri e stupendi che si accendono quando
sorride – ma tanta mestizia negli angoli della bocca. Avrei dovuto
desiderarla? O avere un’erezione quando avevo sentito i suoi seni, il
suo corpo caldo?
Non era successo niente del genere. L’unica cosa che avevo
provato era stato un profondo desiderio di contatto fisico. Un bisogno
talmente profondo e forte che avevo avuto difficoltà a nascondere la
mia emozione, ma forse l’aveva percepita, perché aveva sorriso, quel
suo sorriso dolente mentre mi carezzava piano la guancia e diceva,
dio, che bello potersi abbracciare di nuovo.
Mi fermo, accosto al bordo della strada e scendo per riprendermi.
Sento gli effetti del vino rosso, ma soprattutto sono d’un tratto così
turbato che mi salgono le lacrime. Scendo, mi appoggio all’auto,
socchiudo gli occhi, inspiro il profumo della brughiera e del mare e la
tranquillità dell’ambiente mi conforta a poco a poco. Apro gli occhi,
alzo la testa e trasalisco quando vedo un uomo e una donna in piedi
vicino alla recinzione, proprio sotto la strada; mi fissano. Saranno ad
appena cinque metri da me, la donna è armata di fucile.

Ero talmente distratto e mezzo annebbiato dalle lacrime quando ho


accostato che non avevo notato né la recinzione né la fattoria né gli
annessi non tinteggiati, poco al di sopra del fiume che serpeggia
lungo il fondo del fiordo e sfocia nel mare. Sembra che quei due si
siano piazzati tra me e la fattoria, dove vedo tre bambini giocare con
spade e scudi. Il contadino alto e magro, la donna leggermente più
bassa, paffuta, imbraccia il fucile, ma la canna è puntata verso il
basso.

Che bella giornata, dico, sforzandomi di mantenere un tono allegro e


mascherare il mio sbigottimento nel vederli, ma non riesco a staccare
gli occhi dal fucile. Loro non rispondono, la donna lancia un rapido
sguardo al marito, poi lo abbassa sul fucile, come se lo soppesasse o
stesse valutando se spararmi, poi appoggia l’arma sul braccio, la
canna nella piega del gomito, si volta e torna verso casa. Il marito si
schiarisce la gola, scatarra, infila una mano nella tasca posteriore, ne
estrae un contenitore di plastica piatto, lo apre, si fa una presa di
tabacco, inclina un poco la testa all’indietro e sparge il tabacco
sull’arcata dentale. O sulle gengive, perché a quanto vedo gli manca
almeno la metà dei denti, quelli che restano ricordano delle lapidi
storte e battute dalle intemperie in un vecchio cimitero. Poi il
contadino ripone il contenitore in tasca, mi rivolge un breve cenno del
capo, si volta, raggiunge sua moglie.

Che ci faceva quella donna, con un fucile? Ho l’aria di essere un tipo


pericoloso, oppure in questo fiordo è consuetudine girare armati,
sparare dietro ai camion, ai paletti delle recinzioni e alle persone che
soffrono di amnesia al punto da paralizzarsi per la tristezza al volante
della loro auto? Chissà se la gente di qui dice, bene, bene, dai, caro
fucile, carabina mia, ci facciamo un bel giretto fuori, devo farti
prendere aria, chissà, magari avrai l’occasione per sparare a
qualcuno – e allora l’arma è tutta contenta.
Sono ripartito. Mi allontano da quella fattoria e dal fucile, mi dirigo
verso l’albergo. Non so che cosa mi aspetti, là; spero qualcosa di
diverso da un’arma da fuoco. Guido piano, mi godo l’ascolto di The
Train Song di Nick Cave, che segue Damien Rice. Nick Cave è nato
in Australia nel 1957, quindi si avvia verso la seconda fase della vita,
perché tutto invecchia e alla fine chiunque sia vivo adesso sparirà.
Perfino i bambini. La morte è la grande immobilità, si dice da qualche
parte, eppure non si ferma mai. Trapassa le persone, gli alberi, gli
imperi, i presidenti, le montagne, le dichiarazioni d’amore più
appassionate. Non si ferma mai, se non forse in qualche canzone, in
qualche poesia:
Tell me how long’s the train been gone, and was she there?

Difficile scrivere un testo più semplice di questo. Qualche


esclamazione ripetuta all’infinito.
Da quanto è partito il treno? E lei c’era, era a bordo?
Chiunque avrebbe potuto scriverlo. Perfino un agente di cambio di
cattivo umore, un politico serioso nel giorno più grigio dell’esistenza.
Non importa dove tu vada a cercare nella storia di un essere umano
– troverai sempre la stessa solfa sull’amore, la nostalgia e il
desiderio. Ritornelli monotoni e ripetuti all’infinito, e a dirla tutta
talmente abusati che ormai da tempo sono diventati dei triti cliché. Ed
è così facile ridere dei cliché. Li rigiri come niente. Tu scrolli la testa
con un sorriso, tranquillo e al sicuro nel tuo mondo. Poi d’un tratto,
perfino nel più banale dei martedì, nel più monotono dei lunedì, i
ritornelli esausti e monotoni ti si piantano con forza in mezzo agli
occhi.
Ti lacerano il petto.
Ti penetrano nel profondo del cuore.
Ti calpestano la volontà.
E sei tu quello che corre lungo il binario, dio mio, il treno è partito,
se n’è andato, è sparito – ditemi, c’era anche lei a bordo? Ditemi, lei
c’era, avete visto com’era vestita?
Com’era pettinata?
Corri lungo il binario come un disperato – lacerato dal verso più
vecchio del mondo. Le più spesse mura di un castello non riescono a
proteggerti, il più blindato dei rifugi antiatomici non può tenerti al
sicuro – nemmeno la felicità o il calore della quotidianità possono
darti conforto. Il verso di una vecchia canzone, quel ritornello
maledetto, s’insinua attraverso qualsiasi cosa. Penetra senza alcuno
sforzo nella saggezza, nel sapere, nei muscoli e nell’esperienza.
Fuggi pure verso altri paesi, altri emisferi, nasconditi nelle valli più
isolate, nei vicoli delle grandi città, quel maledetto verso,
quell’accidente di ritornello, rintraccerà il tuo cuore, che tu sia a
Buckingham Palace, nel ventre del Pentagono, sotto il letto del papa.
Ti rintraccia, ti strappa tutte le armi di mano, e comincia a cantare.
And was she there?
And was he there?

Procedo così lentamente lungo la strada che sembra sia diretto verso
una tomba anonima, dove nessuno farà una visita né verrà mai a
trovarmi, dove nessuno potrà rintracciarmi… tranne quella canzone,
quel ritornello, e la nostalgia che mette in ginocchio perfino la morte.

D’un tratto un potente colpo di clacson mi rimbomba contro.


Ero talmente distratto che non mi ero accorto di aver imboccato
una ripida curva a gomito, guidavo così piano che l’auto era quasi
ferma in mezzo alla strada e ora un enorme camion piomba giù lungo
la china, occupa tutta la stretta carreggiata e mi punta addosso,
troppo veloce per riuscire a frenare in tempo. Premo a fondo
l’acceleratore e all’ultimo momento riesco a sterzare sul ciglio, la
Volvo disegna un testacoda e si ferma con le ruote anteriori sul
margine ghiaioso della strada e quelle posteriori tra i poggi d’erba, e lì
il motore si spegne. Sono incollato al sedile e la canzone tace. Come
il richiamo alla donna che se n’è andata sul treno.
Allora il treno è partito.
E si porterà via ciò che desideri. Partito, e il treno ti lascia sul
binario Nostalgia – dove il suo nome sarà invocato per sempre, fino
alla fine.
Mentre il camion mi supera a gran velocità e la Volvo quasi oscilla
per lo spostamento d’aria, ne appare un altro esattamente identico, in
cima alla discesa, a velocità non inferiore. Tutto è successo talmente
in fretta, in maniera talmente concitata, che non sono riuscito a
vedere il conducente del primo camion, ma al volante del secondo c’è
una donna. Giovane, con biondi capelli lunghi, mi manda un bacio
sulla punta delle dita mentre mi sfreccia di fianco, solo una mano sul
volante e tutte quelle tonnellate di merci sulla strada stretta e
dissestata. Le fiancate dei due veicoli sono decorate con la stessa
immagine, il grande edificio giallo di una centrale elettrica immerso in
un bel paesaggio di brughiera, una cascata spumeggiante e una
famiglia di quattro persone, tutte radiose di gioia di vivere. I due
bambini, tra gli otto e i dodici anni, guardano sorridenti il proprio
cellulare, la donna, in piedi a gambe larghe, tiene un iPad con l’aria
concentrata ma allegra, l’uomo regge forte un montone per le corna,
lo sguardo ottimista verso la centrale, una frase disegna un sorriso
sopra la famigliola:

METTIAMO LE PERSONE AL PRIMO POSTO!

Una jeep piena di cani festosi

Sì, passano per questa strada due volte a settimana, corrono come
pazzi, senza riguardo come i più estremisti dei liberali – si vede che
hanno molta fretta di arrivare a destinazione. In due occasioni hanno
investito i cuccioli del mio Eiríkur di Oddi, tre border collie di razza.
Due la prima volta, uno la seconda, li hanno proprio spappolati.
Rimarresti sconvolto vedendo come possono ridurre un cucciolo di
cane dodici grossi pneumatici di un camion a gran velocità. Ne hanno
lasciato solo delle chiazze stampate sull’asfalto, niente che
ricordasse una vita, figuriamoci l’allegria di un cucciolo. Passano di
qui e seminano la morte, aveva detto Eiríkur, infuriato e triste, e il
responsabile del cantiere lo accusa di aver sparato per vendetta
contro i suoi camion. Eiríkur era talmente sbronzo dopo mezza
bottiglia di Calvados che era più probabile che beccasse la luna,
invece che quei camion, eppure adesso ha una denuncia a carico e
rischia la prigione. In questo momento non ricordo se la rischia per
aver sparato a un camion oppure per averlo mancato… comunque,
non ti fidare troppo di quel che dico, e men che meno di Eiríkur per
quel che riguarda questa faccenda, è un grande amante degli animali
e quei cuccioli erano quasi come suoi figli, quindi ha reagito con tutta
la rabbia che aveva dentro. E non è tutto… gli ho chiesto se pensava
di sparare al destino piuttosto che a quei camion, e lui si è messo a
ridere. Come ho detto, non prendermi troppo sul serio; ti ricordi come
sono fatta. E purtroppo non sono migliorata tanto, anche se sono
passati anni. Si dice spesso che l’età fa maturare le persone. Io non
me ne sono accorta, né per quanto riguarda me né gli altri. L’età
tranquillizza, in alcuni casi, certo, ti rende più fiacco. Soffoca
l’entusiasmo. Ma se è questo che si intende per maturità, allora prego
Dio che mi conceda di maturare tardi, e nemmeno del tutto… su, fatti
una bella birra, vedo che ci sei rimasto male.

Sono arrivato all’albergo.


Eccolo che arriva, allora, aveva detto la donna che non avrei
dovuto prendere troppo sul serio. Sóley. La donna che è un sole e
un’isola.7 Quella a cui sarebbe venuto un colpo quando avesse
saputo che stavo arrivando.
Eccolo che arriva, allora.

Sono rimasto seduto in macchina per un lungo momento, frastornato


dall’adrenalina che mi si era riversata nelle vene quando avevo
sterzato di lato, dopo il testacoda sul ciglio della strada, e mi ero
ritrovato con il muso dell’auto davanti alla carreggiata a guardare i
due camion allontanarsi a tutta velocità. Ma hanno dovuto rallentare
subito dopo, voltare a sinistra, passare uno stretto ponte. A quel
punto ho riconosciuto l’albergo sulle pendici verdi nel versante
opposto del fiordo. Perso nella musica, paralizzato dalla tristezza,
non mi ero accorto del bivio e mi ero addentrato troppo nel fiordo.
I camion erano già spariti quando ho imboccato la svolta, ho
passato il ponte e poco dopo ho superato due fattorie. L’abitazione
della prima non è stata tinteggiata, è in cemento grigio come i
ghiaioni e le cinture rocciose dei monti. Ma il cartello è stato
realizzato con cura, un pezzo di legno raccolto sulla spiaggia e
segato per dargli la forma di un cane seduto comodamente con le
zampe anteriori in avanti. Il nome di Oddi in lettere rosse, ben
disegnate.
Allora quella è la fattoria Oddi. Hafrún e Skúli ci abitavano mezzo
secolo fa, lei che aveva detto che l’amore non doveva seguire la
ragione. Páll, quello che riposa al cimitero di fianco ad Aldís, era
quindi figlio loro – e adesso ormai la morte se li è presi tutti e l’oblio
comincia a cancellarli. A giudicare dalla lapide, Páll era appassionato
di Kierkegaard. Ma è normale, qui, che i contadini e le loro famiglie
leggano di filosofie oscure e vadano a studiare a Parigi? Fa bene
all’agricoltura?
Ho rallentato nei pressi di Oddi, mi sono fermato vicino al cartello,
ho indugiato a guardare la casa. Sarei voluto scendere dall’auto per
respirare l’ambiente, la giornata tranquilla, il canto degli uccelli e il
gorgoglio del fiume che corre verso il mare cento metri sotto l’edificio
grigio, ma ho evitato di farlo quando un uomo magro con i capelli
castani e lunghi quasi fino alle spalle, una camicia rossa, un gilet di
pelle nero e un paio di jeans scuri è uscito di casa, portando una
chitarra elettrica a tracolla sulla schiena e una cassa anche troppo
grande tra le braccia, seguito da tre border collie festosi. È lui Eiríkur,
quello che rischia la prigione per aver sparato a un camion, o per
averlo mancato. Ha attraversato l’aia per raggiungere una jeep
Toyota rossa che stava lì con il bagagliaio spalancato e un’altra
cassa esattamente uguale già sistemata dentro, vi ha caricato la
seconda, le ha assicurate entrambe, si è sfilato la chitarra, ha
guardato i cani sorridendo e forse ha detto loro qualcosa, perché
quasi all’istante sono saltati tutti dentro, uno dopo l’altro,
accalcandosi sul sedile posteriore. Poi si è passato le mani tra i
capelli, ha dato una rapida occhiata alla strada e mi ha visto. Io ho
alzato una mano, non so se per salutarlo o per chiedergli scusa per
aver parcheggiato vicino al cartello della sua proprietà, per
osservarla. Ho alzato la mano, ho messo in moto la macchina e sono
partito. Eiríkur era in piedi sull’aia, teneva la chitarra in mano ed è
rimasto a osservarmi; un filo sottile nell’esistenza. Eiríkur, l’amante
dei cani, che rischia il carcere per aver sparato dietro a un camion
con il fucile. Un tipo difficile, uno con qualche problema.
La fattoria successiva si chiama Hof. È chiaramente più produttiva.
Una quantità di rotoballe di fieno avvolte in plastica bianca sta
ammassata contro la parete del fienile – sembrano un muro
difensivo, impilate per affrontare lo scontro con un lungo inverno. La
casa è su due piani, tre se si considera anche il seminterrato, è
bianca con il tetto verde, e la porta principale è semiaperta. Forse è
un messaggio al mondo, per fargli sapere che qui non si trova mai la
porta chiusa, che tutti sono i benvenuti, che siamo tutti fratelli e
sorelle. C’è ancora speranza, ho pensato, prima di svoltare
imboccando la laterale che porta all’albergo, situato in alto sul fianco
del monte; quattro automobili nel grande parcheggio, tre bandiere
immobili nell’aria ferma.
Mi sono fermato a lungo sotto le aste a osservare il fiordo, per
raccogliere il coraggio di entrare. Di lì a poco è passato Eiríkur, la
Toyota piena di cani festosi, tre musi ansanti. Ho seguito con lo
sguardo l’auto allontanarsi e ho provato una profonda solitudine
quando è sparita con Eiríkur e i cani oltre la punta più esterna. Mi
sono voltato a guardare verso destra, verso l’interno, dove la strada
sale sottile come un gigantesco serpente di pietra lasciando il fondo
erboso del fiordo.
Una via d’uscita. Allora esiste.
La zona intorno al grande edificio dell’albergo è molto ben tenuta,
la piscina sta lievemente più in basso e verso l’interno sul fianco del
monte, in diagonale rispetto a un edificio oblungo rivestito di lamiera
ondulata, dalla pozza naturale calda di fianco alla piscina si vede
salire il vapore. Tre persone in acqua stanno a galla sui materassini
gonfiabili. Un uomo corpulento con una gran pancia sporgente quasi
come un mucchio di fieno informe, una donna tozza con un bikini
rosso acceso, entrambi talmente immobili che possono essere morti,
e una ragazza più giovane, magra, che si spinge pigramente con lenti
movimenti delle braccia, quasi sognanti, vestita soltanto di un paio di
pantaloncini succinti. Che bella schiena, ho mormorato io, e in quel
momento la giovane ha alzato la testa a guardarmi, come se mi
avesse sentito. Si è tirata su pigramente sui gomiti rivelando i seni
nudi, addormentati, che sono sembrati svegliarsi al mio sguardo, farsi
caldi, sensuali. Ho deglutito a vuoto provando un vago desiderio al
basso ventre, me ne sono vergognato, dopotutto le stavo fissando le
tette. Ma se avessi evitato di abbassare lo sguardo lo si poteva
interpretare come pudicizia, si poteva pensare che fossi un piccolo
borghese scandalizzato dalla… dalla sua libertà, il suo relax… Sono
passati pochi, penosi secondi, sono rimasto a fissare l’incertezza, poi
la giovane ha sorriso, mi ha salutato con la mano, si è distesa di
nuovo, nascondendo i seni e liberandomi dal sortilegio.

Esistono sorrisi di livello mondiale?

Eccolo che arriva, allora.


Ha detto Sóley appena sono entrato nella hall dell’hotel con il
cuore che batteva forte perché stavo per incontrare una donna a cui
«sarebbe preso un colpo» nel vedermi. Era impegnata con la
stampante dietro il bancone ma continuava ad alzare la testa perché
Rúna, sua sorella alla fattoria di Nes, le aveva telefonato dicendole,
non indovinerai mai chi c’era seduto con me al cimitero da mamma –
e adesso sta venendo a trovarti!

Eccoti qua, allora, ha detto lei, alzando la testa e rivolgendomi un


sorriso che mi ha quasi spaventato. Ha sorriso e ha chiesto, oh, fatti
abbracciare, non c’è nessun pericolo, no? E senza attendere la
risposta ha fatto il giro del bancone, mi è venuta incontro con
un’andatura morbida, mi ha stretto forte tra le braccia e mi sono
stupito di sentirmi così bene nel suo abbraccio. Proprio come se fossi
di casa. Ho chiuso involontariamente gli occhi, godendomi il
momento mentre la giovane GDRN cantava nell’impianto bluetooth
sul bancone: ho bisogno di te, per ricordarmi da dove vengo, dove sto
andando.
Ho bisogno di te.
Non smettere, ho pensato, ma lei ha lasciato la stretta, ha fatto un
passo indietro, ha sorriso all’improvviso e io ho sentito un tuffo al
cuore. Sarà una decina di centimetri più bassa di me, magra ma
sembra robusta, i capelli lunghi fino alle spalle sono talmente biondi
che fanno pensare alle ali degli angeli. La mano destra ancora posata
delicatamente sul mio gomito, come se temesse di vedermi sparire,
evaporare nell’aria. Mi teneva il gomito mentre mi osservava e
socchiudeva gli occhi bruno dorati, come se volesse misurarmi. Il
labbro inferiore lievemente più carnoso del superiore, che si adagiava
su suo fratello come un bacio addormentato.
Ti è dispiaciuto che ti ho abbracciato? Ci hai messo così tanto ad
arrivare che cominciavo a chiedermi se tu non avessi rinunciato a
venire, e lo sai, ha aggiunto mentre mi lasciava il gomito, non devi
offenderti, forse in parte era anche un sollievo. La prima reazione è
stata di rabbia, lo ammetto, porca miseria, ho pensato, allora non
conto più di così – ma poi mi sono sentita come liberata da un peso.
O almeno mi è sembrato, ho pensato, dai, forse è meglio così – il
passato deve rimanere passato. Non ero nemmeno sicura che sarei
sopravvissuta vedendoti tornare. Pensa che dramma. Una donna
della mia età! Ti ricordi, avevi detto che te ne andavi per salvarci
entrambi. O forse sono stata io a dirlo? Insomma, adesso sei qui e
sono solo felice di vederti. Tutto a posto tra noi, vero?
Ho un vortice di pensieri in testa – allora c’è stato qualcosa tra di
noi. Qualcosa di reale. Eppure non mi ricordo di lei. Com’è possibile
dimenticare questi occhi così particolari, questo sorriso, quali forze si
sono impadronite di me, come mi hanno ridotto?
Tutto a posto tra noi, vero?
Che cosa vuol dire?
E per quale motivo ha dovuto suonare proprio quella canzone così
bella, carica di sofferenza, quando sono entrato… ho bisogno di te,
ho bisogno di te, ho bisogno di te…
Mi sono grattato la testa e mi sono aggrappato alla prima cosa che
mi è venuta in mente; la coppia misteriosa che mi ha guardato in
maniera così strana, lui con i denti che sembravano vecchie lapidi, lei
armata di fucile.
Sóley si è messa a ridere quando le ho descritto la situazione.
Erano Einar e Lóa, ha detto. Hanno preso in gestione la fattoria di
Framnes circa dieci anni fa. Einsi è il fratello minore di Ási, che
qualche anno prima ha preso Sámsstaðir. Devi conoscerlo, Ási,
quell’uomo è proprio un romanzo intero, tutto da sé. Ti sei spaventato
per il fucile? La mia cara Lóa è innocua e ha un cuore così buono che
in autunno quasi non riesce ad alzarsi dal letto per il dolore e
l’angoscia di dover mandare le bestie al macello. Eppure siamo
rimasti tutti sorpresi quando ha partecipato alla gara di tiro a
Sævangur, il 17 giugno scorso per la festa della Repubblica, fino a
quel momento praticamente non aveva mai toccato un fucile e invece
ha vinto contro molti tiratori in gamba, da allora coglie ogni occasione
per allenarsi, decisa a difendere il titolo. Allora è a causa loro, se ci
hai messo così tanto ad arrivare?
Be’, ecco, sì, ho risposto, oppure no, perché c’è stato quel
maledetto camion. O meglio, i camion, ho aggiunto, e le ho spiegato
che cosa era successo, che mi avevano quasi falciato. Un morto
biondo.
Povero caro, ha detto Sóley allora, ritrovarsi in una situazione del
genere! Li conosciamo bene. Sfrecciano su questa strada due volte a
settimana.
Poi ha detto quella cosa sulla maturità; che sperava di maturare
tardi, e non del tutto. Devi essere sconvolto dopo questa esperienza.
Vieni, andiamo a sederci in soggiorno, ti porto una birra, la tua
preferita, una Leffe scura. Ne tengo sempre qualche bottiglia, anche
se le altre marche sono più richieste. C’è da credere che abbia
sempre sperato di vederti riapparire. Ah, quanti problemi mi faccio
nella vita. Ma adesso sei qui, hai diritto a una bella birra!
E mi ha fatto strada in un soggiorno accogliente a cui si accede
dall’ingresso, si è seduta di fronte a me, sorridendo mi ha guardato
mentre bevevo la birra e mi ha raccontato – dopo aver accennato
all’uomo con i cani e le casse, a Oddi – la storia di Eiríkur che ha
sparato dietro a un camion, o al destino, i cuccioli investiti, la mezza
bottiglia di Calvados, il rischio di una condanna.
Ma guarda te quanto mi fai parlare, sembra che non riesca più a
fermarmi. Bevi la tua birra, lo capisco che sei traumatizzato dal fucile,
da quei camion assassini, e poi rivedermi dopo tutti questi anni, io
che ciarlo così tanto che non ti lascio nemmeno un po’ di spazio.
Faccio un salto di là a prendertene un’altra, oppure sei a posto?
Accidenti, adesso me ne scolo una anch’io, così ti faccio compagnia.
E ha sorriso di nuovo. Ha sorriso, e mi ha carezzato dolcemente il
dorso della mano. Poi è uscita.
È uscita e mi ha lasciato il calore della sua pelle sulle dita. E il suo
sorriso ovunque.
Mi sono allungato a prendere il blocco segnapunti dello Yahtzee
sul piccolo tavolo laterale, ho strappato la prima pagina, ho scritto sul
retro:
«Certi sorrisi riescono a cambiare i mondi. Anche quelli che non si
devono cambiare.»

Tu sei sempre tu, eppure mai lo stesso –

e nonostante tutto c’è sempre un motivo

per ridere in questo universo

La mite luce d’agosto inonda la grande finestra e illumina le costole


dei libri disposti in due scaffali marroni, e la pila ordinata delle riviste
sul piccolo tavolo rotondo accanto. Sóley ride nell’altra stanza. Era
squillato il telefono, l’avevo sentita rispondere, poi ridere, e già sento
la sua mancanza. La sua presenza, la voce, vederla sorridere e
guardare quegli occhi così particolari… eppure in un certo senso mi
sento sollevato a essere solo. Almeno non devo dare risposte. Ho
ancora un nodo nello stomaco per l’angoscia di essere scoperto.
«Ti ricordi, avevi detto che te ne andavi per salvarci entrambi. O
forse sono stata io a dirlo?»
Per quale motivo allora me ne sono dovuto andare, o è stata lei a
doverlo fare, per «salvare entrambi»?
Sóley ride di nuovo nell’altra stanza.
Mi alzo, mi avvicino agli scaffali per osservare i libri ma la
copertina della prima rivista cattura la mia attenzione. Una rivista di
astronomia, la copertina è un buio cielo notturno spaccato in due da
un titolo più chiaro, in forma di un raggio di luce: How many universes
are out there?
Mi sistemo di nuovo sul divano e sfoglio la rivista per trovare
l’articolo. Pensavo di dargli un’occhiata veloce, ma mi appassiona
talmente che prima di rendermene conto l’ho letto dall’inizio alla fine;
ripongo la rivista, mi alzo, mi avvicino alla finestra e guardo fuori, il
fiordo tranquillo, il fianco del monte dall’altro lato. Vedo la fattoria di
Einar e Lóa e una piccola roulotte bombata a circa mezzo chilometro
dalla loro fattoria. Sta nei pressi della costa, separata dalla fattoria da
arbusti e cespugli. Torno a sedermi sul divano, riapro la rivista per
rileggere qualche passaggio a caso nella speranza di aver letto male,
o di non aver compreso qualche dettaglio. È un articolo lungo e ben
scritto, rivolto al grande pubblico, il vocabolario non è troppo tecnico
e le conclusioni sono diluite per renderle più semplici. Solo che non si
può parlare di conclusioni, semmai di interrogativi su interrogativi,
incertezze su incertezze.
Secondo l’articolo il genere umano non è messo meglio di me.
I tre autori del pezzo, due donne e un uomo, tutti professori di
astronomia, affermano, con argomenti logici spiacevolmente
convincenti, che fin dall’inizio il genere umano è stato incatenato a
concezioni del mondo errate. L’uomo, in altre parole, nel corso della
sua storia non ha mai avuto una concezione realistica del mondo, ha
sempre vissuto con idee completamente distorte. Certo, le idee sono
cambiate, si sono evolute, ma hanno in comune il fatto di essere tutte
errate: il mondo in cui l’essere umano ha sempre ritenuto di vivere,
semplicemente, non è mai esistito.
Cinque secoli fa, si dice nell’articolo, si dava per scontato che la
Terra fosse al centro del mondo, e il sistema solare fosse l’intero
universo. Su questa incrollabile concezione abbiamo definito il ruolo
predominante dell’uomo e della Terra. Poi a poco a poco, in maniera
sempre più consistente, la scienza ha fatto progressi e da circa un
secolo i maggiori scienziati sono unanimi nell’affermare che il sistema
solare è soltanto una minima parte di un’enorme galassia, che a sua
volta costituisce l’universo. Poi sono passati gli anni, le conoscenze e
le tecnologie hanno fatto passi da gigante e noi scopriamo che la
nostra galassia è soltanto una tra migliaia di altre – e con questo
l’universo moltiplica le proprie dimensioni.
La nostra concezione del mondo si è basata su queste
conoscenze per decine di anni.
Solo che adesso si accumulano sempre maggiori informazioni che
lasciano presagire che l’universo infinito sia semplicemente uno tra
innumerevoli altri universi. L’universo che ieri era
incomprensibilmente grande e che ritenevamo contenesse Dio e
l’eternità si rivela essere solo uno di centinaia o migliaia di altri
universi. Quello che ieri era infinitamente grande oggi è niente più
che un piccolo frammento di un puzzle smisurato e misterioso. Per
coronare questo stato di incertezza e sottolineare la nostra
ignoranza, non sappiamo assolutamente che aspetto abbiano gli altri
universi. Nessuno ha la minima idea di che cosa vi si trovi, se
rispondano alle stesse regole che conosciamo noi, se abbiano
qualche punto di contatto, se si siano mai toccati, o quali
conseguenze abbiano avuto quei contatti, quelle vicinanze, quelle
collisioni – e infine se sia possibile spostarsi da un universo all’altro:

Quando si tratta delle grandi domande dell’esistenza, nonostante tutti


i progressi che abbiamo compiuto e la rapidità folgorante con la quale
le scienze si sono sviluppate negli ultimi decenni, siamo ancora poco
più che dei cavernicoli che si scaldano al fuoco la sera, osservano il
cielo stellato e non hanno idea di cosa rappresentino quei puntolini
luminosi. Tutto indica ormai che esiste un’infinità di universi, e quindi
che sia impossibile per la mente umana comprendere le logiche più
profonde dell’esistenza. Pertanto non è improbabile che alcuni
universi ne riflettano altri, e probabilmente in modo sorprendente e
misterioso. Per fare un esempio, tu potresti esistere in molti universi
diversi, in condizioni diverse, che rispondono a leggi di natura
diverse. Tu sei sempre tu, eppure mai lo stesso. In altri termini,
l’antica domanda «chi sono?» ha raggiunto una tale immensità che
provare a darle una risposta è un’impresa disperata.

Chiudo la rivista, mi alzo, la rimetto al suo posto, poi guardo fuori


dalla finestra. Cerco di trovare un po’ di pace nella ferma luce
d’agosto, nel fiordo tranquillo. Non so dire se mi sento sollevato
oppure terrorizzato.
In fin dei conti, tra me e il mondo non c’è tutta questa differenza,
entrambi siamo racchiusi sotto un velo d’ignoranza. Io sono vittima di
un’amnesia quasi totale, ma a quanto vedo il male che affligge il
mondo è molto più complesso.

Sóley è ancora al telefono.


Afferro una parola ogni tanto. Adesso ride. Allora nonostante tutto
c’è ancora qualche motivo per ridere. In questo universo.
Due corvi planano sui ruderi di una vecchia fattoria non lontana
dall’edificio grigio a un solo piano di Oddi. Quindi la vita passerebbe
integra, senza spezzarsi, da un universo all’altro? E che cosa sono gli
universi, non sono forse cose senza senso, se la vita non passa
dall’uno all’altro, che senso possiamo trovarvi, se non c’è la vita a
unirli?
O forse è la morte, lo spazio che li separa?

Io sono tenebra e nebbia

A dire il vero non so che armi abbiamo a disposizione, che possano


esserci utili, che facciano davvero effetto. Elías ha provato in tutti i
modi a far cadere le accuse, erano ridicole, lo sanno tutti, e io e mia
sorella abbiamo parlato con un vecchio amico che ha promesso di
aiutarci. Ma vedi, è così, a volte, cara Dísa, ci rendiamo conto della
nostra impotenza quando veniamo messi davvero alla prova, dice
Sóley, mi sorride e indica la cornetta come per spiegarmi, per
scusarsi di essersi interrotta e non avermi portato la birra.
Sono tornato nel grande ingresso, a meno che non si chiami
reception. Ogni cosa deve chiamarsi in qualche modo, avere un
nome, altrimenti è molto più difficile descriverla, comprenderla. Non ti
bacio finché non mi avrai detto il tuo nome.
Sóley mi indica il frigorifero dove tiene le birre, poi rivolge il dito
verso di me e indica di nuovo il frigo, e io capisco che posso servirmi
da solo. E lo faccio. Mi prendo un’altra Leffe scura, la apro con un
cavatappi a forma di foca che Sóley mi porge oltre il tavolo.
Sì, prosegue la sua conversazione al telefono camminando in giro
per la stanza, hai proprio ragione, è insopportabile, è inaccettabile.
Ma non so quali potenze… eh… no, anzi sì, lo so che Eiríkur ha detto
la stessa cosa, proprio questa mattina ha fatto un salto qui così
presto che nemmeno il diavolo era sveglio, era esaltato per la festa di
stasera, e allora ha detto… Non riesco a sentire il seguito, non so che
cosa abbia detto Eiríkur talmente presto questa mattina che il diavolo
dormiva ancora della grossa sotto la crosta terrestre; di che cosa
abbia parlato, che cosa fosse giusto ma inaccettabile, se Eiríkur
abbia pensato di comprarsi un fucile perché la carabina non basta
contro i camion a tutta velocità; Sóley entra in sala da pranzo e il
seguito della conversazione mi sfugge. Purtroppo. È così bello
guardarla. Vedere la curva morbida dei fianchi, guardare la schiena
magra. Osservare come cammina, dritta, fiera, eppure con
delicatezza, con misura. È scomparsa in sala da pranzo e il mondo si
è come smorzato. La vita si è impoverita. Il verso di una canzone mi
si accende dentro, sento la voce triste di John Lennon che canta:
There is no fun around when she’s not here.
Lei ride nell’altra stanza. Senza dubbio si possono costruire interi
mondi, su una risata. Interi universi. Un dio che non ride mai non può
essere onnipotente.
Mi avvicino a piccoli passi alla sala da pranzo, distinguo di nuovo
la voce di Sóley. Sì, dice, sono alla finestra, sto guardando fuori,
capisco che cosa vuoi dire, anche se ovviamente sarebbe più
comodo non capire. La maggior parte delle persone sceglie di capire
il minimo possibile, lo sai bene. Comprendere purtroppo significa
anche un certo numero di cose gravose, prendere posizione,
prendersi le proprie responsabilità, invece i pregiudizi e l’indifferenza
ti facilitano parecchio la vita. La vita diventa sempre più complessa,
quando si cerca di capire le cose. Eiríkur? Sì, lo so, oddio, se non
vedo l’ora, come no! E poi… Probabilmente Sóley si sposta verso
l’interno della sala, perché la voce si allontana e muore del tutto.
There is no fun…
Le bandiere pendono ancora immobili all’esterno, come se fossero
in profonda meditazione, oppure morte. La bandiera islandese, quella
canadese e quella dell’Unione europea. Mi volto e osservo la fila di
orologi sulla parete dietro il bancone della reception. Dodici orologi
che segnano il tempo in altrettanti luoghi diversi della Terra. Quello
che indica l’ora islandese segna quasi le undici. Mi avvicino di nuovo
alla sala da pranzo nella speranza di sentire la voce di Sóley. Ma
qualcosa mi blocca – dentro di me tutto gira all’impazzata.
È come se avessi preso una potente scossa elettrica che ha
liberato dentro di me un flusso di pensieri confusi e di sensazioni
indefinite. Vado al bancone, adocchio una pila di fogli A5, la carta
intestata dell’albergo. Mi sporgo a prenderne alcuni, trovo una penna
e mi metto a scrivere. Senza nemmeno rifletterci su.
O è proprio scrivere che mi permette di pensare?
Butto giù di fretta le frasi per riuscire a fissare tutto quello che mi
ossessiona, terrorizzato all’idea di dimenticarlo come ho dimenticato
tutta la mia vita: le parole che mi fluiscono in testa, che mi riempiono
il sangue, forse sorte dalla tenebra o dalla nebbia che sono io stesso.

«Eiríkur di Oddi. L’uomo che possiede una chitarra elettrica, tre


cuccioli morti, una carabina per sparare ai camion oppure al destino.
Che cos’altro possiede?»
 
1
Søren Kierkegaard, Timore e tremore, trad. it. di Franco Fortini e Kirsten Montanari
Guldbrandsen, Mondadori, Milano 2014. (Tutte le note a piè di pagina sono della traduttrice.)
2
Pane di farina di segale, non lievitato, simile a una piadina.
3
Letteralmente «vino che brucia», detto anche svartidauði («morte nera»), è un distillato
alcolico locale, prodotto da cereali o patate.
4
Insaccato di carne contenuto in un panino, con varie salse e cipolla croccante; l’equivalente
islandese di un hot dog.
5
«La settimana», una rivista islandese che si pubblica dal 1938.
6
Robert Desnos, «À la mystérieuse», dall’antologia Corps et biens, Gallimard, Parigi 1930,
inedita in italiano.
7
Il nome proprio della donna si compone di sól, «sole», ed ey, «isola».
Sei morto,

pertanto hai fatto più strada


Altrimenti non si può raccontare

Eiríkur di Oddi. L’uomo che possiede una chitarra elettrica, tre


cuccioli morti, una carabina per sparare ai camion oppure al destino.
Che cos’altro possiede?
Ha attraversato l’aia, si è allontanato dalla casa in cemento non
tinteggiata per raggiungere l’auto, una vecchia jeep Toyota,
abbastanza grande e potente per riuscire ad affrontare i rigori
dell’inverno e le strade innevate, e per ospitare tre cani e due grandi
casse. La jeep un tempo era rossa, ma la vernice si è scolorita.
Fortunato l’uomo il cui cuore è una vecchia jeep piena di cani festosi
– anche il cuore è rosso, allora pure lui scolorisce se deve
attraversare i cumuli di neve che la vita accatasta intorno a noi? Non
conoscono niente di più divertente, i cani di Eiríkur, che poter salire
sulla jeep con la persona che amano e di cui si fidano, oltretutto è
un’esperienza strana rimanere fermi mentre il paesaggio, che di
solito non si muove mai, la cosa più statica di tutte, passa davanti agli
occhi a tutta velocità. È un prodigio di cui non si stancano mai.
Eiríkur ha caricato le casse sulla jeep, poi si è allontanato in
retromarcia dalla casa.
Quella casa di cemento che non è mai stata tinteggiata. Per chi
passa di lì e non conosce la zona, la casa non dipinta sembra un
segno di pigrizia o perfino di incapacità nella gestione della fattoria,
che è uno degli insulti e delle critiche peggiori che conosciamo, ma
che cos’è davvero ciò che ci appare davanti agli occhi, a che cosa
dobbiamo credere?
La casa è stata costruita una decina di anni fa, ma Eiríkur ci abita
solo da tre, che è anche l’età del più anziano dei suoi cani. Tre anni
sono un periodo più che sufficiente per imbiancare una casa di poco
meno di duecento metri quadri, è fuori discussione. Ma fermati un
attimo, perché qui c’è un intoppo, una storia, un destino, e per questo
abbiamo bisogno di tornare indietro, nel passato, da dove tutti
proveniamo, da dove tutti discendiamo, dove si trova gran parte delle
spiegazioni, là dove tutto è cominciato. Torniamo indietro nella
speranza di comprendere meglio, di orientarci meglio. Quindi rallenta.
O meglio: rallentiamo il tempo. Altrimenti non si può raccontare.

Forse sono gli errori

che rimettono in ordine la vita

Halldór e Páll, i figli di Skúli. Ricordati i loro nomi e per il resto non ti
soffermare su questi due, almeno non per il momento, li citiamo e
quasi contemporaneamente svaniscono di nuovo nell’ombra, restano
sullo sfondo, da lì ci osservano e faranno un passo avanti solo
quando saranno interpellati. È stato il più anziano dei due fratelli, il
primo, che si è incaricato di costruire la casa, un uomo pieno di senso
pratico, ha preso dai genitori. Hafrún, la madre, era nata in una
vecchia casa di torba che sorgeva nei pressi del fiume che scorre
lento tra due argini erbosi. Un fiume di buon carattere, se si
tralasciano tre o quattro accessi di rabbia all’anno, durante il disgelo,
quando spacca il ghiaccio che lo copre o si riscalda rapidamente e la
pioggia si riversa con foga sulla neve in montagna, dove nascono tutti
i fiumi; allora non rispetta gli argini, esonda su campi, prati, greti,
boschetti, smanioso di far danni. Ma in estate è benevolo e sognante.
Talmente benevolo che si direbbe si voglia prendere cura del
salmone che vi depone le uova, come se gli volesse bene, come se
non volesse rovinare le uova, né rovistarvi in mezzo. Forse
semplicemente gli piace sentire il salmone nuotare nel suo ventre.
Forse i suoi movimenti sono carezze morbide che gli danno
tranquillità. Proprio a causa di quegli accessi d’ira stagionali la
vecchia fattoria si trovava a circa cento metri dalla sponda del fiume,
un casale di torba costruito nel 1900, i ruderi ancora visibili dalla
strada, e Hafrún era nata lì. Un nome insolito, come lei, una delle
perle di questa campagna.
Era nata all’inizio degli anni Trenta, in un casale che aveva ben
poco in comune con il loro secolo inquieto, un casale di torba, pietra,
legname portato dalle mareggiate. Spesso diceva anche che il suo
nome era diviso in due, Haf, il mare, e Rún, le rune, per sottolineare
che era figlia di due epoche, di un antico passato, con radici profonde
nell’immobilismo, negli impedimenti, ma anche nella vicinanza tra le
persone, e dei nuovi tempi, del XX secolo, che sicuramente non era
scevro da difficoltà ma «immobilismo» era l’ultima parola che veniva
in mente per descriverlo. A essere più precisi, il XX secolo non aveva
ancora fatto tutta la strada per raggiungere il nord dell’Islanda, e men
che meno era arrivato qui nel fiordo, dietro a cento brughiere e monti
scoscesi, quando Hafrún era nata in una linda casupola di torba in cui
la luce faticava a entrare. Ci sono pregi e difetti nel vivere lontano da
tutti, perché i cambiamenti non avvengono con la stessa rapidità. La
Rivoluzione industriale aveva trasformato completamente l’Europa
nel XIX secolo, i binari ferroviari avevano inciso il continente per
collegarlo, le città si erano espanse, le fabbriche erano cresciute più
velocemente delle erbacce producendo profitti vertiginosi e fino ad
allora sconosciuti, benessere, inquinamento, attività, schiavitù e
stridenti ingiustizie. Ma in Islanda il tempo non si era quasi mosso per
cento anni, era rimasto fermo come una natura morta, per gran parte
del XIX secolo a malapena si era spostato, sembrava proprio che
vivessimo su un altro pianeta; nel resto d’Europa e in America si
costruivano fabbriche e città, i treni diventavano sempre più veloci, le
armi da fuoco più precise, mentre qui non si scomodavano nemmeno
gli uccelli, continuavamo a essere un popolo con scarpe malconce, i
piedi sempre fradici, continuavamo a lavorare negli stessi ovili bui,
nei fienili bassi, falciavamo i campi con gli stessi metodi millenari.
L’immobilismo cementava insieme i secoli e le generazioni tracciando
una linea ininterrotta mentre nel resto del mondo tutto cadeva a
pezzi, si disgregava, il nucleo delle cose si stava perdendo e non
restava che l’incertezza che ha spinto in avanti il mondo per quasi
due secoli. Qui da noi, in mezzo a questa natura tormentata,
dinamica, perpetuamente in movimento, l’immobilismo ci ha legati gli
uni agli altri, da sempre.
Accidenti, è incredibile, direi quasi un miracolo, diceva Skúli, che
questa nazione non sia soffocata da tempo sotto il peso dell’inedia,
che non sia marcita in questa maledetta inerzia.

Skúli aveva quasi due anni meno di sua moglie. Era nato in una casa
di legno nell’Ovest, a Rif, in un piccolo agglomerato costiero
sull’estremità della penisola di Snæfellsnes, o forse a Hellissandur,
impossibile ricordare tutto, o distinguere tra questi due piccoli porti
che si ergono così vicini l’uno all’altro, quando non si conosce bene la
zona. L’unico punto fermo nella sua esistenza era il ghiacciaio, che in
certe giornate non si stagliava contro il cielo ma sembrava
letteralmente sorreggerlo, come fosse un tetto. Aveva sette o otto
anni quando era arrivato in questo fiordo insieme al postino, come un
pacco qualsiasi. Questo è un tipo tosto, aveva detto il postino
recapitando Skúli a Botn. Uno tosto, però con lo sguardo tenero,
aveva risposto allora la padrona di casa, che gli aveva fatto da
madre. Il padre di Skúli era il figlio… No, scusa. Stiamo andando
troppo di fretta. Non siamo ancora arrivati a suo padre, anzi,
nemmeno a Hafrún e Skúli, un errore saltare subito a loro.
Ma forse sono proprio gli errori che rimettono in ordine la vita.
Adesso occupiamoci del lombrico.

Non è un bell’esempio

consolare un amico con la solitudine;

sera di febbraio, mezzanotte di novembre

Il lombrico non è una specie vistosa, è una creatura fredda e cieca,


un poeta discreto che opera nel buio delle zolle di terra e appartiene
alla famiglia degli anellidi ermafroditi. Il suo ruolo è rivoltare la terra
per evitare che perda ossigeno e soffochi, e ne parliamo in
particolare qui per porlo in relazione al modo in cui i destini si
mettono in moto perché la nonna di Skúli, nonché trisnonna di Eiríkur,
verso la fine del XIX secolo aveva pubblicato un articolo molto
gradevole sul comportamento e la natura del lombrico, uscito sulla
rivista Natura e mondo – per la gente comune, pubblicata a
Stykkishólmur, edita da quattro intellettuali influenti, tre di loro
residenti lì, e il quarto, il reverendo Pétur Jónsson, pastore di una
parrocchia poco distante. Forse non ugualmente appassionato alla
rivista come i suoi colleghi, ma non certo privo di ingegno, non certo
privo di conoscenza, uscito brillantemente dall’università di
Copenaghen. Era venuto nella Snæfellsnes insieme alla moglie e
due bambini piccoli, pensava di fermarsi poco, forse cinque anni, la
carica in parrocchia pensata come il gradino di una costante ascesa
sulla scala delle funzioni pubbliche. È stupendo essere giovani, avere
dei sogni, abbiamo tante intenzioni, poi la vita si mette di traverso.

Pioveva a catinelle il giorno in cui siamo arrivati, aveva scritto Pétur in


una lettera a un amico; la vecchia chiesa ricordava una grossa bestia
che i cieli prevedevano di sacrificare.

Era subentrato a un pastore a cui era stato revocato l’incarico per


raggiunti limiti di età, cominciava a confondersi e negli ultimi tempi
non distingueva chiaramente tra vivi e morti, in chiesa si rivolgeva a
parrocchiani che nessuno vedeva tranne lui, alcuni dei quali
riposavano da anni nella terra buia del cimitero, talmente sfigurati che
non riusciva a trattenersi dal farne parola: è bello averti tra noi,
Ásgeir, manchi da molto tempo, ma che aspetto terribile che hai,
sembra che tu ti sia rivoltato sottoterra; cara Engilríður, ti sta cadendo
il braccio destro, ricordati di portarlo con te quando ti muovi, è
sciatteria lasciarsi dietro certe parti del corpo.
Non sarei sorpreso, scriveva Pétur ai suoi conoscenti, poco dopo
la nomina, che qualche parrocchiano mi trovi piuttosto scialbo, anche
troppo convenzionale, e sicuramente da me non si aspettano niente
di insolito, visto che il mio predecessore era in contatto diretto con il
regno dei morti!
Comunque, Pétur e sua moglie vennero accolti con gioia.
Portavano con sé l’energia della gioventù, lui la sua cultura, lei una
forza coinvolgente, era stata subito molto apprezzata tra i
parrocchiani, aiutava le donne durante il parto e lo faceva con tale
bravura che le paesane erano convinte che avesse le mani di una
guaritrice. Hai le mani fatte di luce, le diceva spesso Pétur mentre la
abbracciava, la baciava sul collo, all’epoca in cui tutto era bello e il
mondo un posto migliore. La mia Halla ha le mani fatte di luce,
scriveva fiero nelle lettere agli amici. Ne scrisse parecchie durante i
suoi primi anni sulla Snæfellsnes, lettere piene di energia e ricche di
spirito, poi si sono ridotte a poco a poco e in un certo senso anche la
vita pareva avesse rallentato il ritmo, forse si era anche offuscata
intorno a loro quando Pétur entra nel suo studiolo, nella sua
stanzetta, quindici, sedici anni dopo il loro arrivo alla parrocchia, per
leggere un articolo che parla di lombrichi, inviato da una donna del
volgo alla redazione della rivista.
Alla fine del XIX secolo.
Una sera di novembre, mezzanotte di febbraio.
L’interesse di Pétur per l’articolo è talmente scarso che lo mette
immediatamente da parte, se ne dimentica e s’immerge invece,
mentre la sera invecchia e si rabbuia, nell’opera del poeta inglese
William Wordsworth. Legge e si scola più di mezza bottiglia di vino
rosso. Ne aveva comperate dieci durante l’ultimo giro di acquisti al
villaggio, quattro settimane prima, e gliene rimangono soltanto tre.
Anzi, due e mezzo. Però avrebbero dovuto durare tre mesi. Che
tristezza, scrive in una lettera al suo amico, il poeta tedesco Hölderlin,
con quale rapidità finiscono le cose migliori di questo mondo, e con
quale lentezza se ne vanno le peggiori.
Si è scolato mezza bottiglia. E senza dubbio dovrà aspettare
qualche settimana prima di avere modo di procurarsi una nuova
dose. Gesù aveva trasformato l’acqua in vino, scrive Pétur al poeta, il
che ci dimostra che sapeva apprezzarlo. Quindi siamo nel giusto.
È quasi la mezzanotte di novembre, o forse è una tarda serata di
febbraio. Un mese buio, poco prima la neve si era sciolta e per
questo il buio è ancora più pesante, talmente pesante che la crosta
terrestre si imbarca, talmente scuro che le montagne si perdono. Si è
scolato una mezza bottiglia abbondante, ha letto le poesie di
Wordsworth, in canonica dormono tutti. I due figli che abitano ancora
in casa con loro, mentre il terzo, un ragazzo di diciott’anni, studia alla
Scuola latina nel Sud, a Reykjavík. Halla dorme, come anche
l’anziano lavorante con la bella voce canora e come le due massaie,
una sulla cinquantina, forte come un uomo ma scontrosa, non di rado
intorno a lei tira una brutta aria; l’altra poco più che ventenne, sembra
sgraziata, se non quasi – dio ci scampi – brutta quando la vedi per la
prima volta, ma l’impressione non dura molto, ha una gioia di vivere,
un calore e un’allegria che la rendono bella. Chi giudica dalla
superficie non capisce un granché.
Fa così buio che chi si azzardasse a uscire sparirebbe di sicuro
senza lasciar traccia, e non verrebbe ritrovato mai più.
Si va verso la mezzanotte. Poco prima, quella sera, Pétur aveva
sentito gli schiamazzi della vita filtrare dalle pareti, il lavorante che
cantava, Halla che si univa a lui, la giovane massaia che scherzava
con i due bambini, i loro strilli risuonano nel suo studiolo come un
messaggio di gioia. Poche cose lo rendono felice quanto sentirli
ridere. È una bella casa, un mondo in equilibrio. Eppure Pétur ha
finito più di mezza bottiglia e scrive una lettera a un poeta defunto da
tempo. Halla ha le mani fatte di luce. Una bella persona. La migliore
che abbia mai conosciuto. Pétur non ricorda quando ha smesso di
amarla.
Tutti dormono. Anche Eva, la pupilla di Pétur, la seconda figlia. La
sua risata ricorda i belati degli agnellini festosi, la bambina ride ed è
come se qualcuno ti facesse il solletico. Solo che adesso non ride
più, dorme sottoterra a ventitré passi dalla scrivania di suo padre.
Dorme lì da dieci anni, nove mesi e dieci giorni. Si era ammalata
dopo aver accompagnato suo papà, nonostante le proteste di Halla,
in un giro ufficiale per la campagna, nel clima umido della primavera,
che sul tardo pomeriggio era diventato una pioggia mista a nevischio,
un vento freddo e tagliente. Si erano infradiciati entrambi fino al
midollo, avevano preso il raffreddore, la tosse, lui si era ripreso, la
bambina no. Era morta otto giorni dopo tra le braccia di suo padre
che aveva recitato tutte le preghiere che conosceva, e in tre lingue,
ma la morte le aveva scavalcate tutte a passo lieve. Era arrivata,
aveva preso Eva, l’aveva portata con sé nelle tenebre e aveva
lasciato Pétur alla vita.

È stato allora che ti ho scritto la prima volta, aveva scarabocchiato


Pétur poco prima, nella sua trentottesima lettera a Hölderlin, appena
rientrato dopo la sua visita quotidiana alla figlia defunta. Va volentieri
a trovarla verso sera, soprattutto durante la notte, perché soltanto il
buio riesce a collegare i mondi tra cui la vita ha troppe difficoltà a
costruire ponti. Il buio si infiltra in mezzo, trasporta oltre i confini le
parole e il lutto: mi manchi, perdonami se ti ho delusa, perdonami se
non sono morto al posto tuo, hai freddo laggiù, ti danno abbastanza
da mangiare, c’è qualcuno che si occupa di te finché non arrivo, hai
qualcosa da leggere; tesoro mio, ti racconto una storia – c’era una
volta un gatto che…
È in questo periodo che ho cominciato a scriverti. Mi ero rivolto a
Dio con il mio amore più profondo, la disperazione più dolorosa – e lui
mi ha risposto con la morte. Credi che sia stato allora, che l’esistenza
ha cominciato ad affievolirsi? Una volta ti ho chiesto, che cosa devo
fare della mia vita? E tu mi hai risposto: … und einsam / Unter dem
Himmel, wie immer, bin ich.1

Che dire?
Mi rivolgo a Dio con disperazione e amore – lui mi risponde con la
morte.
Mi rivolgo a te con disperazione e amicizia – tu mi rispondi con la
solitudine!
È certo bello da parte tua, sei immenso come poeta, ma non è
certo un bell’esempio consolare un amico con la solitudine, per
quanto con versi ben composti.
Non è un bell’esempio.
Pétur scrive a un poeta tedesco che riposa nella tomba da decine
di anni, è morto prima che lui nascesse. Gli scrive delle lettere,
qualche giorno dopo le infila in un cofanetto blu sotto la branda.
Forse non è un esempio da seguire. Solo il buio può trasportare le
parole da un mondo all’altro, ma non si accolla il lavoro del postino.
Del resto, non è che i morti abbiano un indirizzo registrato. Sono al di
fuori di qualsiasi codice postale.
Non sto bene, poeta, gli ha appena confidato Pétur, ma mi
conforta scriverti. Mi sento sempre meglio quando siamo insieme, ho
l’impressione di trovarmi sul confine tra la vita e la morte e di poter
osservare entrambi i mondi. Mi avvicino a Eva e spero che senta la
mia presenza. Adesso devo lasciarti, per il momento. Mi attende la
lettura di un articolo, e della lettera che lo accompagna. Da una
donna del volgo. Chissà che divertimento. Perché dovrebbe essere
un divertimento? Capisci bene che sono stato costretto a finire la
bottiglia. E così ne restano solo due. La vita è davvero una prova,
poeta, davvero una prova, almeno per noi che abbiamo la sventura di
essere vivi. Tu sei morto, pertanto hai fatto più strada. Ti prego di
scusarmi, però non allontanarti troppo.

Direi che il lombrico è il pensiero di Dio

Il destino è antico come il mondo. Ne ha viste tante di cose,


presumibilmente ha visto tutto, il che sicuramente spiega come mai
abbia un bisogno inesauribile di mescolare le carte nella speranza
che succedano eventi inattesi. Eventi che ci possano divertire. Alcuni
li definiscono il passatempo degli dei. Mescolare le carte, scombinare
la vita, divertirsi ad annodare le cose, piazzare una svolta improvvisa
qui, rompere un ponte là, rimescolare i cuori, dare uno schiaffo
all’esistenza per ribaltare tutto ciò che è fermo e radicato. Ecco
perché in un banale martedì ti può capitare di vedere una bella donna
piangere al volante davanti a un semaforo rosso, un muratore che
fissa nel vuoto pietrificato di fronte alla nuova mescola di cemento, un
professore di matematica andare in crisi sull’autobus solo perché il
conducente gli ha dato il buongiorno; ecco, adesso sta per accadere
qualcosa, si rallegra il destino. Ed è stato senza dubbio il destino a far
sì che il plico inviato da Guðríður alla rivista Natura e mondo finisse
nelle mani di Pétur. Jónas, uno dei membri del comitato di redazione
di Stykkishólmur, aveva inoltrato al collega l’articolo e la lettera di
accompagnamento, incerto sul da farsi: «Questa donna che non ha
mai studiato scrive di lombrichi, ci ha inviato una lettera molto
interessante per giustificare il suo scritto. Che te ne pare?»
Hai sentito, poeta, mormora Pétur davanti alla raccolta di versi di
Hölderlin che tiene volentieri sullo scrittoio, un libro che è stato
pubblicato nel 1846 e che Pétur ha acquistato quando era a
Copenaghen – quand’ero vivo, come si dice a volte. Hai sentito,
mormora Pétur dopo aver finalmente aperto la busta, due ore e una
bottiglia di vino rosso più tardi; scrive di lombrichi, tu ne incontri,
laggiù sottoterra. Anche Darwin ne era appassionato, ha dedicato
loro un libro, ma che io sappia non sono stati in molti a pensare di
scrivere su quel cieco viaggiatore del suolo. Forse, dopotutto, c’è
qualcosa di interessante in questo articolo?
Tira fuori i fogli, li liscia, legge l’inizio:

Il lombrico appartiene alla famiglia degli anellidi ermafroditi, aiuta la


terra a respirare. È probabile che senza il suo intervento la terra
soffocherebbe, l’erba avvizzirebbe, appassirebbero i fiori, e che ne
sarebbe allora di noi, degli esseri umani?

Pétur alza lo sguardo, sconcertato, cerca la lettera di


accompagnamento all’articolo, aveva pensato di darvi una scorsa
veloce ma il contenuto, la scrittura, il modo in cui sono tracciate le
lettere, i pensieri che contengono – tutto ne rallenta la lettura. La
legge lentamente fino alla fine, alcuni punti anche due volte:

Sono in molti ad averne disgusto, il che si spiega senza alcun dubbio


con il fatto che i lombrichi prosperano al meglio nel buio del suolo, in
un silenzio assoluto. Una descrizione che ci ricorda non poco la
morte. Si spiega forse così il ribrezzo che molti provano per questo
animale così indispensabile?… Direi che il lombrico è il pensiero di
Dio, se ne avessi il coraggio.
Lo definirei il pensiero di Dio, se ne avessi il coraggio, che ne dici,
poeta, c’è qualcosa, no? mormora Pétur, fissando a lungo davanti a
sé mentre fuori la notte avanza lentamente nel buio assoluto. Infine
trae un lungo respiro, legge di nuovo la lettera. La rilegge per la terza
volta.

Allora non c’è altro da fare in questa situazione

che perdere la testa

Guðríður comincia la sua lettera, come fa spesso la gente del popolo


quando osa farsi avanti, oppure non può farne a meno – chiedendo
scusa. Che lei, una donna non istruita, con la grafia impacciata, si sia
fatta passare per la testa di inviare le sue considerazioni sul lombrico
a quella pubblicazione tanto curata – e prima di tutto vuole affrettarsi
a porgere i suoi ringraziamenti alla rivista, che cerca sempre di
procurarsi come può, o di prenderla in prestito. In effetti non capisce
che cosa le sia preso, come abbia osato inviare quelle considerazioni
mediocri e sicuramente confuse sul lombrico, solo che a volte non sa
controllare il proprio impeto, e questo purtroppo le crea qualche
problema nella vita; chiede perdono se il suo gesto può risultare
arrogante. Non è per arroganza che ha inviato l’articolo.
Ho sempre cercato di raccattare tutto il sapere che sono riuscita a
trovare, e che sicuramente non è gran cosa. Forse lo è per la gente
del mio livello, ma non certo per chi ha studiato, come le benevole
persone che dirigono questa rivista.
Non è gran cosa, scrive, però è pur sempre qualcosa. E mi è
sempre spiaciuto vedere il poco valore che la gente assegna al
lombrico, e come lo giudica, se non lo condanna, per le sue forme
semplici e per la sua cecità. Sono in molti ad averne disgusto, il che si
spiega senza alcun dubbio con il fatto che i lombrichi prosperano al
meglio nel buio del suolo, in un silenzio assoluto. Una descrizione
che ci ricorda non poco la morte. Si spiega forse così il ribrezzo che
molti provano per questo animale così indispensabile? Eppure ho
scoperto, sia attraverso le mie letture sia attraverso le mie
osservazioni, che probabilmente esistono poche creature altrettanto
importanti per il ciclo della vita. Come scrivo nel mio articolo, sembra
che aiutino la terra a respirare, e per questo motivo sono tentata di
affermare, anche se soltanto in questa mia modesta missiva e mai
nell’articolo, che in questo senso il contributo del lombrico alla vita è
più importante di quello degli esseri umani. Pertanto desidero, o
meglio mi sento spinta a inviarvi queste mie povere considerazioni,
con le quali cerco di informare eventuali lettori sul modo in cui il
lombrico contribuisce alla vita. È fondamentale che la gente
riconosca l’importanza delle cose più piccole. Che si renda conto che
tutto è ugualmente legittimo, donne come uomini, lombrichi come re.
Che non c’è niente di grande, se non la vita stessa. Direi che il
lombrico è il pensiero di Dio, se ne avessi il coraggio. Giudicate gli
sforzi, più che il risultato. Perdonate la mia impertinenza. So che
ognuno deve saper stare al proprio posto. Ma chi decide quale sia
questo posto? È forse un peccato avere le proprie opinioni al
riguardo, dubitare perfino che il posto sia stato ben scelto, o attribuito
con giustizia? Spero di non essermi coperta di ridicolo. Sinceramente
vostra, Guðríður Eiríksdóttir.

Pétur si sfrega gli occhi, pensa, direi che il lombrico è il pensiero di


Dio. Tira fuori la lettera che stava scrivendo a Hölderlin, fa per
aggiungervi qualcosa, vuole descrivere le emozioni inattese che ha
provato leggendo l’articolo e la lettera, impugna la penna, poi d’un
tratto rinuncia, mormora, perdonami amico, ripone la lettera e prende
un altro foglio. Scrive allora con mano ferma e sicura, Cara Guðríður,
sta calando la notte e ho appena concluso la lettura della tua lettera e
del tuo interessante articolo. Saremo molto onorati di pubblicarlo
nella rivista. Ho pensato che potrei prestarti due libri che ho qui in
biblioteca. Te li inoltrerò con piacere – se vorrai accettarli. Sono
sicuro che susciteranno il tuo interesse. È palese che hai una buona
disposizione per la ricerca, che hai una mente aperta, una coscienza
che desidera sapere. È molto bello. Ti invidio per questo.
Posa la penna. Sto andando troppo in fretta, poeta tedesco,
domanda al libro di poesie sul tavolo, e nemmeno le ho dato del voi!
No, risponde il poeta, non stai andando troppo in fretta, bisogna
afferrare la vita senza mai darle del voi quando si manifesta in questa
maniera rara, afferrarla e non preoccuparsi delle conseguenze.
Finisci quella lettera. Ma se la spedisci, poi cambia tutto. Perché
dovrei dar retta a quel che dici, chiede Pétur, non hai forse perso il
senno, non hai trascorso gli ultimi anni della tua vita alienato in una
torre? E oltretutto sei morto, che ne sai tu della vita?
Sono diventato pazzo proprio perché ho compreso la vita. E
desideravo da tempo confidarti che nella mia esistenza l’amore era
come un arcobaleno che scintillava eternamente davanti ai miei
occhi, e si allontanava ogni volta che cercavo di afferrarlo. Per questo
tutto è andato in pezzi, e in questa situazione non resta altro che
perdere il senno. Del resto, che ci fa un uomo con il senno se non ha
l’amore? Ecco perché non corri alcun pericolo a fidarti dei miei
consigli.
Ma questa è una cosa del tutto irrazionale, dice Pétur, eppure
continua a scrivere la lettera e prova qualcosa che non sentiva da
molti anni. Scrive la lettera, la invia, e si premura che il postino la
consegni personalmente al destinatario. Guðríður riceve la lettera, e
la legge. Ne è stupita, felicissima, fiera, confusa, impaurita. Passano
due settimane prima che osi dargli una risposta. Ma lo fa, e
sicuramente è un errore.
Un errore?
Noi non ne sappiamo niente.

E poi dove credi di andare?

Ho pensato che potrei prestarti due libri che ho qui in biblioteca – il


giorno dopo Pétur chiede al postino di portare la lettera a Guðríður. Il
postino arriva da Reykjavík, è diretto verso l’estremità della penisola
di Snæfellsnes, ha due cavalli. Dovrà fare una bella deviazione dal
percorso per consegnare personalmente quella lettera, perché
solitamente lascia la corrispondenza destinata a Uppsalir alla fattoria
principale a Bær, dove talvolta la posta attende per settimane prima
che qualcuno abbia un motivo per salire nei dintorni di Uppsalir,
oppure che chi sta sulla brughiera debba scendere a valle.
Guðríður Eiríksdóttir, Uppsalir. Il postino conosce il nome, in varie
occasioni ha lasciato a Bær della posta indirizzata a quella donna.
Non è affatto di strada, gli tocca fare una deviazione di almeno tre
ore in più e il tempo è sempre prezioso per il postino. Glielo fa pure
notare, devo allungare il percorso, dice, ma alla fine accetta di
consegnare la lettera.
Dopo due mesi buoni Pétur percorre la stessa strada, con tre libri e
non due destinati a Guðríður, dalla quale ha appena ricevuto una
risposta, che ha impiegato dieci giorni ad arrivare. Non era prioritaria,
contrariamente alla sua. Prima la donna ha dovuto portare la lettera a
Bær, da lì poi il plico è passato per Stykkishólmur, e infine ha
raggiunto Pétur. Ringrazio il pastore per la sua lettera.
Ringrazio il pastore per la lettera, che mi ha toccata
profondamente, scrive lei. Provo un certo imbarazzo a scrivervi in
maniera tanto diretta. Voi siete istruito. Avete una grafia bella e
chiara. Dev’essere una sofferenza per voi dover sopportare i miei
scarabocchi – non oso certo chiamarli grafia. Certe lettere sembrano
cani maleducati. Temo che alcuni di loro, e in particolare le f, le r e
probabilmente anche le þ, si mettano ad abbaiarvi in faccia. Temo
che non sappiano come comportarsi nella vostra bella dimora.
Riconoscenza è un termine troppo debole e banale per descrivere i
miei sentimenti nei confronti di tanta calda generosità, offrirvi di
prestarmi dei libri della vostra biblioteca. Li accetterei con gioia! Ma
ve la sentite davvero di prestarmeli, di volerli lasciare in questo
casale – in questo benedetto buio, in questa maledetta umidità?
Il benedetto buio, la maledetta umidità – la storia dell’Islanda?
Pétur sellò il suo cavallo, la Ljúf, e impiegò sei ore per raggiungere
il casale.
Eppure era andato ben più veloce del postino lo scorso mese di
febbraio. Lui di solito va al passo, il cavallo che gli porta le sacche è
sempre carico e poi deve fermarsi in diverse fattorie, per consegnare
la corrispondenza oppure per fare due chiacchiere, raccontare le
ultime, sapere che c’è di nuovo, raccogliere e diffondere notizie.
Ciascuno ha il proprio ruolo. Oppure se lo attribuisce. Pétur galoppa,
non si ferma mai, quasi non si guarda intorno, certo, di tanto in tanto
è costretto a passare in prossimità delle fattorie per evitare il terreno
più bagnato, in due occasioni deve passare dai cortili. Toh, ma
guarda, dove se ne va in giro il pastore, si chiede la gente che brucia
di curiosità. E sta arrivando la primavera. È aprile inoltrato. La
primavera è la stagione intermedia tra l’inverno e l’estate. È la
stagione del risveglio della natura.
E il periodo dell’anno in cui veniamo puniti più duramente per
esserci stabiliti su questa terra.
Ma è luminoso il mese di aprile, questo bisogna riconoscerglielo a
quel furfante, è straordinariamente luminoso e trabocca di un
ottimismo insolente. Gli uccelli migratori ritornano da oltre l’orizzonte
con i loro canti, portando sulle ali una promessa d’estate –
dev’essere un miracolo che tornino da noi volontariamente anno
dopo anno, secolo dopo secolo. Che diavolo li spinge fin quassù a
settentrione, nel freddo e nella luce, dal calore di terre più clementi;
sono proprio stupidi? Perché se gli islandesi avessero le ali, il nostro
paese si sarebbe svuotato già a partire dal XVI secolo.
Ma ecco là Pétur che cavalca, e procede piuttosto spedito. La sua
giumenta Ljúf spaventa un beccaccino, che se ne vola via, l’istante
dopo sente un piviere dorato e prova una profonda riconoscenza
verso gli uccelli migratori che non rinunciano mai a tornare da noi,
avrebbe quasi voglia di mettersi a cantare. È stupendo averli qui,
riempiono la volta celeste con il loro canto e il loro ottimismo e
rendono tutto più facile, dovremmo ringraziarli meglio, e più spesso di
quanto facciamo. Per questo Pétur ferma il cavallo, smonta e
ringrazia gli uccelli. Li ringrazia perché ci riservano una bella fiducia
immeritata, perché tornano anno dopo anno da regioni più calde e più
accoglienti, ti ringrazio, elegante piviere, pittima reale dalle lunghe
zampe, grazie a te, garrula pettegola, e tu beccaccino che sembri un
pugno chiuso quando ti nascondi tra i poggi, tra le canne, sotto gli
argini, e ti alzi in volo di scatto appena qualcuno si avvicina, e ti
trasformi in una musica divina. Grazie per non abbandonarci mai, per
tornare ogni anno con il vostro ottimismo, convinti che nessuna
tenebra potrà mai vincere la luce della primavera. Vi ringrazio, dice il
reverendo Pétur, poi si siede su un poggio umido, e scoppia in
lacrime.
Che vergogna, pensa, se qualcuno mi vedesse, piangere su un
poggio d’erba bagnato, e poi dove credi di andare?
Dove credi di andare; non cerca di rispondere.
Oppure non osa.
Lascia che il dolore che sente nel petto trovi uno sfogo. È raro che
se lo conceda, ha paura di… soccombere. Ha paura di ciò che
potrebbe scatenarsi quando si abbandona. Ha paura di scoppiare a
piangere, come fa adesso. Per fortuna è da solo, se non altro,
nessuno che possa vederlo.
Da solo? No, non proprio, perché accanto c’è il suo cavallo, una
bella giumenta grigio sabbia, una buona compagna che porta un bel
nome, Ljúf, «la Dolce».
Ljúf smette di strappare l’erba ancora esile e insapore dopo
l’inverno, avanza lentamente di tre o quattro passi verso il suo
padrone e gli mordicchia la spalla, con un affetto premuroso.
Mordicchia entrambe le spalle di Pétur, poi gli alita un poco nelle
orecchie quando il pianto sembra non volersi placare, perché le
lacrime continuano a sgorgare dal loro pozzo profondo, dove
albergano il rimpianto e il dolore.
Piange perché è primavera.
Perché la vita si risveglia dopo i lunghi, lenti mesi invernali,
appesantiti dal buio, da un clima da assassini, piange perché il
beccaccino è tornato con il suo bell’ottimismo, e perché gli sembra
disperatamente vulnerabile alle nevicate o ai rovesci di pioggia che
sicuramente arriveranno. Piange perché anche se al momento la luce
vince, alla fine dovrà tornare tenebra, piange perché sua moglie,
Halla, ha le mani fatte di luce e una bocca espressiva e delicata, e
l’ha guardato in maniera strana mentre lui sellava Ljúf e
impacchettava i libri, piange perché non ricorda quando ha preso
l’iniziativa di stringerla tra le braccia, per baciarla, abbracciarla, o per
mormorarle qualche sciocchezza all’orecchio per farla ridere come
prima faceva spesso, mille anni fa, come si è tenuti a fare, come si
deve fare, e più spesso di spesso, perché è la sola maniera di
calpestare i rovi della vita. Piange perché ha ricevuto una lettera in
cui alcuni caratteri gli hanno abbaiato contro come cani, piange
perché adesso l’erba inverdisce, presto nasceranno gli agnelli, presto
gli uccelli deporranno le uova, presto la vita trionferà, piange perché
lo strato di ghiaccio sta per liberare la terra e allora sarà più facile
scavare le tombe. Piange perché la piccola Eva è morta tra le sue
braccia, a soli sette anni, spaventata dalle tenebre che la
attendevano e nonostante tutto angosciata per il suo papà.
Si era risvegliata dal torpore febbrile, aveva aperto gli occhi azzurri
e aveva visto il suo papà disteso al suo fianco, come sempre da
quando erano tornati a casa, fradici, intirizziti, infreddoliti. Aveva
aperto gli occhi, aveva cercato di sorridere, gli aveva carezzato le
guance mal rasate, come per consolarlo: non essere triste, caro
papà, non devi essere triste. L’aveva sussurrato distintamente e con
un tono così carico di responsabilità e inquietudine che sembrava
invecchiata di decine di anni, sembrava diventata adulta in un solo
istante, aver acquisito una profonda saggezza di vita. Caro papà,
aveva sussurrato due volte ancora.
Un’ora più tardi era morta, e lui le era rimasto disteso accanto con
le sue preghiere vane, il suo dolore inutile e il tocco della bambina sul
suo volto – e per questo porta sempre la barba da allora. Come se
credesse di poter conservare in questo modo l’estrema carezza di
Eva sul suo volto.

A cosa dobbiamo l’onore?


No! Così non va, dice Pétur, con un tono di voce così forte e inatteso
che Ljúf trasalisce. Si asciuga le lacrime, si alza, le natiche bagnate.
Tutto è umido e fastidioso, la terra in disgelo, si direbbe proprio che
l’inverno stia mollando la presa, allora si può trovare un po’ di mitezza
a questo mondo, se non altro il sole cresce ogni giorno un po’ più in
alto, gli uccelli migratori convergono dall’orizzonte come fossero
buone notizie dalla vita – ma il freddo ne abbatterà ancora qualcuno.
Pétur stringe Ljúf tra le braccia, annusa la criniera, inspira il suo
calore e la sua fiducia, e la giumenta chiude per un istante i suoi
grandi occhi, come di felicità.
Dove credi di andare, allora, pastore?
Dove mi porta la bussola del cuore.
La bussola del cuore. Che bella espressione. Ma è un bene, credi
di averne il diritto, non sarà un azzardo, non sarà magari anche
sbagliato, ascoltare il cuore? Lo sai che è indomabile per sua natura
e può facilmente contribuire a distruggere se non lo si contiene, se
non si tiene a freno. Il cuore non esita un attimo, se gli capita, a
spezzare i matrimoni, e di conseguenza le famiglie, non esita a
preferire dissensi e ostacoli di fronte alla sicurezza e alla stabilità; chi
segue il proprio cuore rischia di ferire profondamente chi gli sta
vicino. La moderazione è l’ancora della vita, è l’equilibrio. Ciascuno
trova il proprio posto nell’esistenza e rimane lì, mantiene l’equilibrio in
un mondo instabile. Sopporta i traumi, le tentazioni, i terremoti del
cuore. È così che ciascuno trova il proprio scopo nella vita, e allora
tutto cresce, tutto fiorisce intorno a te e tu sei benedetto. Diciamolo
chiaro e tondo: si giustifica, questo viaggio?
No, sicuramente no.
La terra in alcuni punti è spugnosa e ondeggia sotto il cavaliere e
la sua cavalcatura, proseguono lesti, Ljúf si fa più disponibile dopo
quella sosta, oppure è solo determinata a portare più rapidamente
l’uomo a cui vuole bene, nella speranza che trovi conforto nella
velocità. Spesso i cavalli soffrono a vedere gli umani piangere, ma
non hanno braccia per consolarci e per questo talvolta hanno quello
sguardo pieno di tristezza. In alcuni punti la terra ondeggia talmente
tanto che sembra quasi sul punto di cedere, aprirsi, come se avesse
in mente di inghiottire l’uomo e il cavallo. Di inghiottirli e mandarli
direttamente all’inferno, dove saranno puniti. Il che è assai ingiusto,
perché la giumenta non è responsabile dei peccati di Pétur, quali che
siano. Non è responsabile dei peccati del mondo, di nessuno; l’unica
cosa che fa è brucare l’erba, sfregarsi contro una roccia, urinare,
defecare, ogni tanto sognare uno stallone vigoroso, gorgogliare di
piacere se qualcuno la accarezza o la gratta dietro le orecchie.
I peccati e i tradimenti del reverendo Pétur.
Allora è sempre un peccato, un tradimento imperdonabile
ascoltare il proprio cuore, andare verso il punto indicato da quest’ago
tremolante, anche se significa che interi mondi dovranno scomparire?
Diteci, cavallo, diteci cielo, cos’è più virtuoso, soffocare le voci del
cuore nella speranza che il mondo continui inalterato, oppure
aggrapparsi ai sentimenti, affidarsi al loro potere e trasformare
l’esistenza in incertezza? Soffocare il proprio cuore e con questo
sacrificarsi, probabilmente tradire se stessi, oppure vivere integri,
seguire l’ago della bussola del cuore?
Da qualche parte sta scritto, e lo si dà per vero: «Nessuno riesce a
vivere senza spezzare almeno una volta il proprio tesoro.»
È così?
Inutile chiederlo perché né il cavallo né il cielo rispondono, e meno
che mai il lombrico; del resto, c’è ancora la neve intorno alla fattoria di
Guðríður, il suolo è ancora gelato, i lombrichi si sono rintanati così in
profondità che non sentono le domande del pastore.

La fattoria si trova su una collina a circa duecento metri di altitudine,


di conseguenza è più vicina al cielo rispetto alle altre della regione.
Pétur ha fermato il cavallo a una discreta distanza dalla casa, o dal
casale, perché Uppsalir non è una tenuta molto vistosa nella neve
gelata. Un grande poggio d’erba, dimora di sorci più che di esseri
umani. La giumenta comincia a essere stanca, è in affanno, Pétur si
alza e si abbassa al ritmo del suo respiro. Il grosso cuore del cavallo
batte forte per la fatica, il tuo per la stupidità, mormora Pétur tra sé, e
poi schiocca leggermente le labbra a un angolo della bocca. Ljúf alza
la testa e riprende lentamente il cammino verso il casale, verso il
destino, verso il poggio che prende l’aspetto di una dimora umana
mentre cavallo e uomo si fanno più vicini. Appaiono delle finestre, o
meglio dei lucernari, lì c’è una porta e adesso due cani si fanno loro
incontro di corsa, uno abbaia, l’altro è silenzioso, ma entrambi
eccitati: una visita, fratelli e sorelle, questa sì che è una novità! Poco
dopo tre bambini escono dalla fattoria immersa nella penombra e
subito strizzano gli occhi per il chiarore della neve, si schermano la
fronte con le mani, impazienti di scoprire chi sia l’ospite inatteso.
Pétur cavalca fino al cortile, la schiena eretta sulla sua Ljúf che tiene
la criniera alta, e a quel punto esce il padrone di casa, piuttosto alto,
magro, muscoloso, i capelli scuri, le braccia lunghe e forti e i tratti del
volto affilati. Talmente affilati che ricordano una statua greca. Senza
dubbio è di poco più giovane di Pétur, ma leggermente più curvo,
come se la miseria, la terra così esigente avessero già cominciato a
piegarlo. L’espressione però è decisa, aspetta a salutare finché Pétur
non smonta, forse gli dà fastidio salutare chi si fa guardare dal basso.
Siate il benvenuto, dice infine, e i cani annusano con insistenza le
scarpe di Pétur, che il contadino si astiene dall’osservare, potrebbe
passare per curiosità, perfino invidia, perché sono scarpe buone,
certo un po’ consumate, un po’ rovinate, ma sono ancora buone.
Scarpe del genere non possono essere che di passaggio in questo
casale. Anche se Pétur non è ricco. I bambini, tre femmine, divorano
l’ospite con gli occhi, e la più piccola, che deve avere cinque anni, si
infila il pollice in bocca, come se il dito fosse talmente timido da
volersi nascondere.
Vi conosco di nome. Ho sentito parlare del reverendo. A cosa
dobbiamo l’onore di questa visita, domanda il contadino, che ancora
non guarda Pétur bensì la giumenta.
A cosa dobbiamo l’onore – la fattoria di Uppsalir non è
propriamente su una strada frequentata, non si trova affatto su una
via di transito, è lontana da tutto, insomma. Forse non proprio isolata,
ma ci vogliono quasi tre ore a passo sostenuto per raggiungere la
fattoria più vicina, e se non hai un cavallo è una distanza
considerevole, cinque, sei ore buone in tutto, e di rado le giornate
contengono tutto il tempo per effettuare un viaggio del genere. Per
qualche motivo Pétur esita a rispondere. Non sa esattamente che
cosa la provochi, ma d’un tratto sente una lieve palpitazione, che ti
prende, si domanda, mentre un altro pensiero lo tiene in sospeso: lei
c’è, sente, sta ascoltando?
Abbassa gli occhi sulle scarpe, poi sulle bambine, sorride, la più
grande, quattordici anni, comincia a ridacchiare. Lui si schiarisce la
gola, guarda il contadino.
Si schiarisce la gola e Guðríður si morde il labbro, nel corridoio
d’accesso alla casa, talmente all’interno che la luce del giorno non
arriva quasi, rimane praticamente nascosta nell’ombra, eppure
abbastanza vicino alla porta per sentire che cosa succede fuori,
sente le voci, i colpi di tosse, lo scalpiccio del cavallo; l’aveva sentito
smontare.

E dopo, dove andiamo a finire?

Adesso che c’è, aveva detto suo marito quando Sámur, il più vecchio
dei due cani, si era messo ad abbaiare. Snotra, la cagna, era rimasta
silenziosa come suo solito, non abbaiava mai e per questo sembrava
più riflessiva. Adesso che c’è, chi arriva, aveva detto suo marito, si
era alzato, aveva sbirciato dalla finestra. Era appena rientrato per
mangiare dopo essere rimasto per tutta la mattina fuori negli ovili.
Certo, la terra era ancora gelata lassù sulla brughiera, ma la
primavera si avvicinava, presto sarebbe arrivata la stagione
dell’agnellatura, che come sempre arrivava troppo presto. Tutto in
genere arriva troppo presto, in questa stagione. La primavera, gli
uccelli, l’agnellatura, la luce. A volte sembra proprio che Dio, il diavolo
o il destino tendano delle trappole alla vita, quassù nel Nord del
mondo. La attirano fuori dalla tana – allora si abbassa la guardia, ci si
apre, e poi il freddo glaciale cala di nuovo il pugno sulla delicata
vegetazione primaverile, oppure nevica sulle uova appena deposte.
Solo che adesso manca poco all’agnellatura e ci sono molte cose da
fare. Il marito di Guðríður, tra l’altro, è appena rientrato a casa, è stato
a pescare da Arnarstapi, esce da lì per tutto febbraio, marzo e una
parte di aprile, pesca sulla barca di un proprietario terriero della loro
regione; è appena rientrato a casa dopo un’assenza di nove
settimane. È tornato a casa con trenta pesci e appena un po’ di
credito in più presso l’emporio. Nel frattempo Guðríður si è occupata
di tutto, delle bestie, delle bambine, della casa e ha avuto ben poco
tempo per pensare o per leggere, certe sere si addormentava seduta,
esausta. Eppure, stupida com’è, ha consacrato una giornata intera,
ha sprecato energie preziose, per portare a Bær la risposta alla
lettera del pastore. Adesso fornirò loro qualcosa di cui sparlare,
aveva pensato. Non aveva voluto fermarsi, non aveva accettato
nemmeno del siero di latte. Ma pensa te che comportamento, aveva
detto Jóhannes, l’ufficiale distrettuale, non aveva nemmeno avuto il
tempo di chiederle della lettera, perché scrivere al pastore di un’altra
parrocchia, e poi proprio a lui, ma che senso ha?
A volte ha l’impressione che l’esistenza la stia soffocando, a volte
è come se le mancasse l’ossigeno nella vita – poi Sámur si è messo
ad abbaiare.
Suo marito si è alzato, ha sbirciato dalla finestra, toh, un uomo a
cavallo, aveva detto stupito, e le tre bambine si erano precipitate fuori
dal corridoio. Non sarà di nuovo il postino, accidenti, sarebbe davvero
troppo, aveva detto Gísli guardando sua moglie come se fosse stata
responsabile per l’arrivo inatteso del postino mentre lui era assente; il
marito di Guðríður si chiama Gísli, un nome comune eppure piuttosto
importante. Gísli si era stupito quando era tornato a casa da
Arnarstapi e le bambine concitate gli avevano raccontato della visita
inaspettata del postino, che si era fermato un’ora buona, aveva
bevuto una gran quantità di caffè, la figlia più grande non aveva mai
visto una cosa del genere, ne era rimasta contrariata; in poco più di
un’ora quel chiacchierone si era tracannato la dose di caffè che in
casa sarebbe bastata per una settimana.

Chiacchierone, curioso, tarchiato, nerboruto. Talmente grosso che


quando è entrato nella baðstofa2 pareva che tutto fosse rimpicciolito,
la casa si era come rattrappita e lui al confronto era diventato ancora
più grande. Si era seduto sul bordo del letto in mezzo alla stanza, le
gambe ben distanziate, aveva un che di incrollabile, come se potesse
sopportare qualsiasi cosa, come se tutto si frantumasse contro
quell’uomo così grosso. Si era guardato intorno come a voler
misurare il casale, poi aveva fissato gli occhi piccoli e scuri su
Guðríður, e si era schiarito la gola con una tale potenza che Sámur
era saltato su abbaiando.
È fuori dal mio giro, venire fin qui, aveva ripetuto, parecchio fuori,
aveva aggiunto, l’aveva detto tre volte mentre se ne stava seduto lì,
probabilmente per giustificare il consumo smodato di caffè e il
numero inverosimile di frittelle che Guðríður gli aveva servito,
attingendo alla riserva di farina di segale che calava in fretta, ma
senza lesinare, confidando che presto Gísli sarebbe tornato a casa
con le nuove scorte dall’emporio. Ma il reverendo Pétur non è un
uomo a cui si dice facilmente di no. Lo conosci, vero? E quindi eccomi
qui con una lettera per te, da parte sua. Eh, già, già. Certi sostengono
che abbia perduto la fede, lo sapevi? Un prete senza fede, e poi che
altro? Dove andiamo a finire, che pandemonio! Nel resto del mondo
si illuminano le città, al punto che sembra non faccia mai più notte,
ma è un bene, mi chiedo, e nell’Ovest, in America, sui treni a vapore
della ferrovia hanno messo dei cornetti parlanti che danno
informazioni ai passeggeri con una voce che sembra quella di un
troll. Le macchine si sono messe a parlare, e poi che altro, quando
cominceranno a dare ordini anche a noi? Cara signora mia, non
promette per niente bene. E qui la gente continua a imbarcarsi per
l’Ovest, tutti scappano via così in fretta che noi ci riduciamo alla
svelta, presto saremo meno di settantamila, non è positivo, insomma,
e che diavolo, magari ci sarà più spazio per noialtri che siamo
piuttosto convinti di non andare da nessuna parte, rimaniamo fedeli
alle nostre montagne e ai nostri antenati. E per coronare il tutto, c’è
chi vuole che le donne abbiano diritto di votare! Io le amo le donne, lo
puoi anche mettere per iscritto, sottolinearlo e spedirlo ai quattro
angoli del paese, sarebbe un mondo ben misero se non avessimo le
donne, sarebbe tutto molto più povero e grigio. Ma le donne non
hanno mai avuto diritto di votare semplicemente perché loro non
hanno la capacità di ragionamento che serve. Non è nella loro natura,
ragionare con la logica sulle questioni per cui di solito siamo chiamati
a votare. Non è una cosa che ho inventato io, eh, perché le donne
sono state messe a fianco dell’uomo da Iddio in persona, per
assecondarlo – per assecondarlo, bada bene. Non per caricarsi di
fardelli da sole, non per portarli al posto suo, no, ma per aiutarlo a
portarli se c’è bisogno. C’è una gran bella differenza, direi una
differenza fondamentale. E mi pare di capire che sia piuttosto chiaro
anche nella Bibbia, che Dio non ha mai previsto di dare alle donne il
diritto di voto; allora dobbiamo forse opporci alla volontà di Dio, del
Signore in persona, del comandante della vita, dell’imperatore dei
cieli? E credi che sia per questo, che il pastore ha perso la fede,
aveva chiesto il postino a Guðríður mentre lei preparava la terza
caffettiera, aggiungendo frittelle sulla pila davanti all’ospite, che se ne
serviva di gusto.
Lei, indaffarata, ascoltava, rispondeva sì quand’era il caso, sì, in
effetti, ma è incredibile, aveva compreso subito che era sufficiente,
l’ospite era soddisfatto di sentire la propria voce possente risuonare
nella baðstofa. Mica per niente, ne ha di cose da dire, è un uomo che
ha viaggiato parecchio. Si è fatto tutto il tragitto da Reykjavík. Le tre
bambine si erano sedute sul letto di fronte a lui. Era così raro
incontrare una persona che è stata a Reykjavík, figuriamoci poi se c’è
stata qualche giorno prima, era come se venisse da un altro mondo.
Era talmente emozionante che avevano preferito starsene sedute
nella baðstofa ad ascoltare l’ospite piuttosto che uscire con i cavalli.
Ma la più grande si era stufata di tutto quel bere caffè e mangiare
frittelle, era andata a controllare le scorte a due riprese.
Credi che sia per questo che il pastore ha perso la fede?
Guðríður aveva esitato a rispondergli, incerta se quella domanda
fosse stata rivolta a lei, se al postino interessasse davvero conoscere
la sua opinione, non era nemmeno certa che la perdita della fede del
pastore Pétur fosse legata in qualche modo all’illuminazione delle
grandi città, all’esodo degli islandesi, alle macchine parlanti, al diritto
di voto alle donne; in ogni caso, l’uomo non aveva atteso la sua
reazione e aveva continuato a parlare dopo essersi fatto un sorso di
caffè. No, non dico che siano tutti come il reverendo Pétur, a guardar
meglio forse sono pochissimi, a giudicare da quel che si sente in giro.
Non posso nemmeno dire di conoscerlo, quel furbacchione, io sono
solo uno di passaggio, so tutto ma non conosco nessuno e purtroppo
non gli ho mai sentito cantar messa. Però mi piacerebbe assai e ho
tutta l’intenzione di farlo prima o poi, pare che le sue messe siano
diverse, la gente ne parla, si dice siano piuttosto potenti. E questo ti
dà forza. I preti per la maggior parte sono privi di spirito, come il culo
delle vacche!
Il postino aveva fatto una pausa, come per valutare quel suo
paragone, poi era sembrato convenirne tra sé, o per lo meno si era
lasciato scappare una risata scrollando la testa, con un’aria allegra.
E comunque, che abbia o meno dello spirito, il reverendo porta un
gran peso dentro. Io lo percepisco. Sono molto sensibile, il che è un
difetto, a dire il vero, mi prendo troppo a cuore la sorte degli altri. E
alla fine ho scoperto che uno se la passa meglio, in tutti i sensi, ad
aver meno compassione verso il prossimo. È un peso, la
compassione, e ovviamente è solo per troppa bontà d’animo che ho
molte difficoltà a dire di no alla gente, per esempio quando mi si
chiede di fare una lunga deviazione per recapitare personalmente
una lettera. Perché è per questo motivo che sono qui, seduto a casa
tua. No, non è facile essere una persona perbene. Ma il reverendo
Pétur sa essere anche divertente, ha anche un buon senso
dell’umorismo, tanto che perfino il diavolo evita di andare ai ferri corti
con lui. Vi conoscete, quindi?
Soltanto dopo che nella baðstofa era calato il silenzio Guðríður si
era resa conto che quella era una domanda autentica, che il postino
aveva smesso di parlare per dare la parola a lei, per dare spazio a lei;
aveva deposto la tazza di caffè, con la dodicesima, la tredicesima o
quattordicesima frittella mezza mangiata nel palmo della mano
destra, gli occhi scuri nel volto grossolano e segnato dalle intemperie
l’avevano fissata, curiosi, indagatori. Lei aveva guardato le bambine,
la più piccola addormentata, aveva ceduto di fronte alla logorrea
dell’ospite, la seconda tirava su col naso, tossendo, e Björg, la più
grande, guardava il postino con un’espressione severa. Guðríður
aveva sorriso tra sé, un po’ per quanto Björg somigliasse a suo padre
con quell’espressione, un po’ per quanto fosse scandalizzata dalla
quantità di frittelle e di caffè che il postino si era trangugiato.
Conoscerlo, aveva detto infine, massaggiandosi le reni, il cuore in
preda a una palpitazione improvvisa, dire che lo conosco è
eccessivo.
Eccessivo, che significa, aveva detto il postino infilandosi la frittella
in bocca, ne ha mangiate diciassette, l’avrebbe informata sua figlia, e
l’avrebbe riferito anche a suo padre più tardi, una volta tornato a
casa. Il reverendo mi ordina di fare una lunga deviazione per portarti
la lettera, invece di lasciarla alla fattoria di Bær come d’abitudine.
Tanto eccessivo non mi pare.
Stava insinuando qualcosa? Cercava di carpirle qualche
informazione? Magari per poterla riferire di fattoria in fattoria, di
parrocchia in parrocchia? Strano quanto le battesse il cuore. Forte,
accelerato. Rimbombava perfino. Per quale motivo ti comporti così,
piccolo mio, ma il cuore ovviamente non le aveva risposto, aveva
solo continuato a battere accelerato. Sospirò e guardò dritto negli
occhi il postino, le era montata una rabbia improvvisa quando aveva
colto nella sua espressione un’evidente curiosità. Un’aria da
ficcanaso. La rabbia le aveva dato la sicurezza di sé che le serviva
per ritrovare la calma. Guðríður gli aveva rivolto uno sguardo glaciale,
un’espressione tagliente, secca, impersonale. Sapeva per
esperienza che era lo sguardo che poteva sbalestrare la gente – e il
postino parve trasalire. In realtà l’aveva dissimulata bene, ma lei
aveva notato la sua esitazione. Non ho mai incontrato il reverendo,
aveva detto infine, con quel tono di voce cortese, che è talmente
neutro e controllato da non poter contenere alcuna ambiguità.
Nessuna indecisione né dubbi, solo sicurezza, solo fatti
incontestabili.
Il reverendo, come il postino sicuramente sa, è uno degli editori
della rivista Natura e mondo. Ti ricordi probabilmente che mi sono
abbonata più volte. E suppongo che ti ricordi anche che qualche
settimana fa ti aspettava un plico a Bær, destinato alla stessa rivista.
Il plico conteneva un mio articolo che dovrà essere pubblicato nel
prossimo numero. Il reverendo l’ha revisionato, immagino che in
quella lettera ci siano dei commenti. Non so il motivo per cui ha voluto
che tu me la consegnassi di persona, forse è la procedura abituale, io
non posso saperlo, è il mio primo articolo. Il reverendo è istruito, io
non ho mai studiato; quindi ci sarà senz’altro bisogno di correggermi.
Del resto sono soltanto una donna. Il postino gradisce altro caffè?
No, aveva declinato l’offerta, forse meglio così, perché sua figlia si
sarebbe senz’altro risentita, non si sarebbe trattenuta dal
domandargli se pensava di dare fondo alle loro scorte. Aveva
declinato un altro caffè ma aveva chiesto, quasi sbigottito, allora la
fattoressa pubblica un articolo sulla rivista? Sì, aveva detto lei,
pubblico un articolo. Era stata sul punto di aggiungere, quasi
involontariamente, che vergogna, si era trattenuta a malapena,
mordendosi le labbra, non voleva perdere il vantaggio e
riconsegnargli senza sforzo la sua sicurezza. Posso chiedere su
quale argomento? Il lombrico. Come, il lombrico, le aveva fatto eco il
postino, talmente sorpreso che la sua voce profonda era diventata
quasi stridula. Sì, aveva detto lei, serrando un poco gli occhi,
rivolgendogli di nuovo quel suo sguardo freddo. Il postino
naturalmente sa che i lombrichi sono ermafroditi, ecco perché il
problema del voto alle donne nel loro caso non si pone. Sono molto
più evoluti del genere umano. Ovvio che bisogna scrivere dei
lombrichi, non l’avrebbe forse fatto anche il postino, aveva chiesto lei
con il suo tono neutro, quasi impersonale, e il postino, quell’uomo
massiccio, si era grattato la barba, aveva riso un poco, si era
dondolato sul bordo del letto, aveva abbassato gli occhi, è velenosa,
vostra madre, aveva detto infine alle tre bambine sul letto di fronte,
una di loro addormentata.

La morte non ti delude mai


Che peccato aver mancato il postino, aveva detto Gísli una volta
tornato a casa da Arnarstapi, mi hanno detto che è simpatico e che
non si risparmia, quando ha cose da raccontare. Non pensavo
proprio che facesse tutto quel giro per venire fin qui, e per portarti una
lettera del reverendo Pétur Jónsson. Dicono che abbia perso la fede,
ma che sappia comunque dare conforto. Questa cosa mi ha sempre
stupito molto, non l’ho mai capita. E ti manda una lettera, che ti viene
recapitata personalmente a casa, e dici che ha a che vedere con
l’articolo, ma è normale?
Non lo so, è la prima volta che pubblico un articolo.
Ed è stato sempre per quell’articolo che gli hai risposto? Jóhannes
ha detto che non ti sei nemmeno voluta fermare, come se avessi il
diavolo a morderti le calcagna.
Del diavolo non ne so niente, però ho pensato che dovevo
rispondere subito, e con cura; non succede tutti i giorni che mi
pubblichino un articolo, non volevo farli attendere troppo per dare loro
una risposta.
Allora magari il reverendo viene fin qui di persona, se gli mandi un
altro articolo?
Io ho spedito l’articolo alla redazione di Stykkishólmur,
evidentemente anche lui ne fa parte, benché non abiti lì, aveva detto
Guðríður continuando a lavare i vestiti di Gísli, gli indumenti da
marinaio che servono anche quando lavora fuori, sono impermeabili,
lo riparano perfettamente dalle bufere di neve, da quegli sputi del
diavolo. Voleva togliere l’odore del pesce, un odore che le dà fastidio.
Suo marito aveva borbottato qualcosa che lei non aveva afferrato. Il
reverendo si è offerto di prestarmi dei libri, aveva detto lei allora,
curva sopra il bucato, l’acqua, il sapone. Lui lo sa, evidentemente,
che ne ho un gran bisogno.
Ma che generosità, e comunque non capisco come mai il postino
abbia dovuto farsi tutto questo tragitto per portarti la lettera, e credo
che chiunque sarebbe stupito. Saresti diventata una corrispondente
del reverendo, laggiù?
Lei aveva continuato a strofinare i vestiti di pelle con foga,
storcendo il naso all’odore di pesce che emanavano, e io che ne so,
aveva mormorato, senza sapere veramente se era una risposta – e in
effetti non lo era, del resto – alla domanda di Gísli se lei e il pastore
erano diventati amici di penna, il che ovviamente era un’idea ridicola,
era già stupefacente che si fosse preso il disturbo di scriverle;
nemmeno lei, come Gísli, sa per quale motivo il postino abbia dovuto
per forza recapitarle la lettera a mano, come se venisse dal re o da
Dio in persona, invece di lasciarla, come tutta l’altra corrispondenza,
a casa dell’ufficiale distrettuale di Bær; come aveva fatto fino a quel
momento senza eccezione con le lettere del fratello di Gísli in
Canada, o della madre di Guðríður nel Norðfjörður e con le sue
riviste, Natura e mondo, Skírnir, Andvari, Il giornale dell’agricoltura, a
volte addirittura con Kringsjaa, la rivista norvegese di divulgazione
scientifica, quando poteva permettersela, o quando lei insisteva di
più. Ha sempre lasciato tutto a Bær, e lì ha sempre preso la loro
posta in uscita, per esempio le risposte di Gísli a suo fratello. Sono
lettere brevi, non ci sono molte novità a Uppsalir, per lo più è sempre
lo stesso ritornello, oggi ho tagliato la torba e l’ho legata, io e
Guðríður abbiamo rastrellato il fieno per tutto il giorno ieri, era
pesantissimo, l’abbiamo fatto seccare e poi l’abbiamo sistemato nei
covoni; l’autunno si avvicina; è arrivato l’inverno, caro fratello,
quest’autunno sono riuscito ad aggiungere al gregge due giovani
agnelli, la stagione del fieno è andata bene. È stato un rischio,
speriamo che il foraggio basti per tutto l’inverno. Spero che la mia
presunzione non sia punita con una primavera gelida, con il mare
ghiacciato intorno alla costa e carenza di fieno. Ogni tanto mi
preoccupo, non ci dormo la notte.

Ha passato notti insonni perché ha tenuto due agnelli in più rispetto al


solito, nella speranza di poter aumentare il gregge, e quindi le
entrate. Due agnelli che adesso sono diventati due bei lattonzoli, che
se Dio vorrà figlieranno due piccoli ciascuno. Ma non dobbiamo
pensare troppo in grande, è presunzione e ingratitudine chiedere
troppo. Che Dio mi conceda di non essere punito per non essere
stato più cauto, per il mio orgoglio, con fieno scarso e carestie
durante la prossima primavera, aveva scritto nell’ultima lettera a suo
fratello che si era trasferito a Winnipeg da dodici anni e qualche
tempo prima aveva fondato un’impresa di pompe funebri con dei
tedeschi e degli svedesi.
Il business più affidabile del mondo, caro fratello, gli aveva scritto
nell’ultima lettera dall’Ovest. La morte non ti delude mai, è
instancabile, non fa mai pause di riposo, è sempre impegnata, che ci
sia bel tempo o tempesta, che il raccolto sia scarso o abbondante, il
valore delle sue azioni non scende mai, anche se raramente
aumenta. L’azienda fiorirà, fratello, questo te lo posso assicurare. Del
resto, qui ci sono parecchi svedesi e tedeschi, e ultimamente anche
un certo numero di islandesi. Un bel parco di futuri clienti, ci diciamo
a volte quando nessuno sente. Vedrai, tra dieci anni sarò più ricco di
un commerciante in Islanda, avrò la pancia e porterò la tuba, che ci
fai ancora lì in quel tuo casale? Indipendenza, dici. Ma sì, certo,
naturalmente è il sogno di tutti gli islandesi diventare indipendenti.
Non dover prendere ordini dagli altri, alzarsi al mattino ed essere
padroni di se stessi. Ma questa ossessione dell’indipendenza il più
delle volte ci inchioda alla schiavitù della fatica e ci fa invecchiare
prima del tempo, e oltretutto, cosa che per me è anche peggio, ci
lascia così in balia dei commercianti che tutti i nostri discorsi sulla
libertà diventano ridicoli e illusori. Tu perdi il sonno perché ti sei
tenuto due agnelli in più rispetto a quanto hai sempre fatto prima, tu
sgobbi come una bestia da soma in quei campi per non dover
prendere ordini da nessuno, sgobbi talmente tanto che quando
finalmente ti sei messo a posto economicamente sei talmente
vecchio, logoro e piegato dal continuo lavoro che non riesci più
nemmeno a drizzare la schiena. Così finiscono tutti gli indipendenti in
Islanda, curvi, con la schiena spezzata. Chi riesce a essere
indipendente in Islanda non riesce a stare dritto. Vieni qua nell’Ovest.
Ti posso prestare i soldi per la traversata, senza problemi. Qui ci sono
tante opportunità per uomini laboriosi come te!

Forse dovremmo andare, aveva detto Guðríður quando Gísli le aveva


letto la lettera, là ci sono scuole per le bambine, aveva aggiunto con
la bocca secca, sentendo un prurito al coccige come le succede a
volte quando è molto impaziente o angosciata per qualche motivo – il
coccige è un sensore che si attiva, deve trattenersi per non
contorcersi tutta. Una scuola per le bambine, sì, certo, ma aveva
pensato – anche cultura per me. Imparerei l’inglese, avrei accesso a
tanti libri, non come qui, che li trovo per caso e solo ogni tanto. Ma
Gísli aveva mostrato poco entusiasmo, aveva borbottato soltanto
qualche parola del tipo, non tutti i viaggi fruttano, e non se n’era più
parlato.
Gísli aveva risposto alla lettera di suo fratello la sera prima di
partire per Arnarstapi. Aveva passato un’ora a scrivergli un breve
messaggio, bisogna mettere cura in ogni cosa che si fa. Seduto, le
spalle in avanti, la fronte aggrottata per la concentrazione, aveva
tenuto la penna in mano come un piccolo rastrello.

Su, su, mi sa che lascerò perdere l’America, o il Canada, non mi


prendo nemmeno la briga di capire la differenza, sono la stessa
identica cosa visti da qui, qualsiasi cosa stia sotto il cielo appare
identico se visto con gli occhi del Signore. Non dubito che si viva
bene là da te. Vi siete liberati da questo maledetto mare che gela, e
anche di quel pavone di Jóhannes, l’ufficiale distrettuale. Ma
qualcuno qui bisogna pure che esca a pescare, qualcuno deve
badare alle greggi. Lo so bene, fratello, che Uppsalir non è
considerata tra le terre migliori, non si diventa certo grassi e beati qui,
e men che meno si arriva a portare un bel cappello. Però sono
convinto che tra cinque, sette anni avrò gestito così bene le nostre
risorse che ci potremmo spostare su un terreno migliore, più facile.
Perfino sulla costa, magari. Allora potrò uscire in barca a pescare
mentre mi occupo dei lavori agricoli, e forse più avanti anche con mio
figlio, se il Signore mi vorrà benedire con un bel bambino maschio
volenteroso. Lascia che ti dica, fratello, che finalmente qui in Islanda
sembrano aprirsi diverse possibilità. Ora però non ho più posto per
certe ciance, ho quasi riempito il foglio, e sto partendo per Arnarstapi
per la stagione della pesca. Buona fortuna a occuparti dei morti, caro
fratello!
Aveva portato con sé la lettera, l’aveva lasciata a Bær. Si era
fermato poco, non voleva entrare e ascoltare i discorsi, la
presunzione e la boria di quel maledetto ufficiale distrettuale, però
aveva comunque accettato due mestoli di latticello sulla porta. Eh, sì,
bene, ecco, sono diretto all’alloggio per i pescatori, a sud, le solite
nove, dieci settimane. Bisogna fare quel che c’è da fare, altrimenti va
tutto in malora. Il tempo? Be’, l’avete detto voi, quand’è che fa
davvero bello qui da noi, sul serio. Forse più che altro di notte,
quando si dorme! Invece dai nostri compatrioti in Canada pare che le
belle giornate non siano rare, pare si veda un bel sole caldo per
diversi giorni di seguito, talmente caldo che bisogna svestirsi. È
davvero inimmaginabile. Non ci si può quasi credere. Sì, ecco, questo
mi ricorda per l’appunto che ho una lettera da dare al postino, in
realtà sono due, aveva detto Gísli, dopo aver tracannato il latticello,
era già quasi uscito, replicando eh, già e bene, allora alle ciarle della
padrona di casa, non voleva degnare di una risposta le chiacchiere
inutili di Jóhannes e aveva quasi dimenticato il postino quando gli era
uscita dalla bocca quella cosa del sole in Canada. Due lettere, per la
verità, aveva detto porgendole alla padrona di casa mentre si
accomiatava. Perché andava di fretta. Aveva davanti una buona
giornata di marcia per arrivare ad Arnarstapi, e in febbraio le giornate
sono scandalosamente corte. Corte e monotone come quel mese
scorbutico che è stato infilato in mezzo ai due mesi più lunghi
dell’anno, gennaio e marzo. Sono lunghi quanto la morte, si dice da
qualche parte, perché è stato detto e scritto di tutto su di loro, e ben
poco su febbraio, che si è infilato in mezzo a loro come una scusa,
come un’indecisione, non vive molto più a lungo di una mosca e di
conseguenza le sue giornate sono più corte. Per questo Gísli deve
spicciarsi se vuole approfittare della scarsa luce diurna, cosa che
deve assolutamente fare; vuole raggiungere la costa prima di notte.
Del resto non aveva nessuna voglia di fermarsi oltre, dopo aver
consegnato loro la posta. Quella per il Canada non dava problemi,
non c’era niente di cui vergognarsi, ma l’altra era indirizzata alla
rivista di Stykkishólmur. Guðríður ci aveva scritto: «Alla redazione di
Natura e mondo.»
Gísli sapeva bene che la lettera di Guðríður avrebbe suscitato
qualche interrogativo. Sapeva bene che Jóhannes e sua moglie
avrebbero studiato a fondo la busta, avrebbero provato a indovinarne
il contenuto. Se li vedeva già davanti, con la loro espressione
sbalordita. Quella benedetta donna, che è di una gentilezza rara,
badiamo bene, è un po’ troppo curiosa, e quell’accidente dell’ufficiale
distrettuale con il suo doppio mento e quello sguardo fisso negli occhi
sporgenti da merluzzo. No, in realtà non ha gli occhi da merluzzo,
non sono nemmeno particolarmente sporgenti, è solo buffo
immaginarlo così. Insomma, adesso ne parleranno, prima a Bær, poi
in tutta la loro maledetta campagna; diranno che quegli zotici di
Uppsalir mandano lettere alla gente bene di Stykkishólmur.

Poi esce nella luce

Quando Gísli era rientrato da Arnarstapi, con trenta pesci e un nuovo


credito, tutta la campagna sapeva che il postino aveva dovuto fare
quella lunga deviazione su ordine del reverendo Pétur Jónsson per
consegnare una lettera a Guðríður. E che lei non molto tempo dopo
si era fatta tutta la strada da Uppsalir con una risposta per il pastore.
Saresti diventata una corrispondente del reverendo, laggiù?
E io che ne so, aveva mormorato lei, china sul bucato, sull’odore,
sul fetore di suo marito dopo quasi nove settimane in mare. Si era
rifugiata nelle sue incombenze. Sapeva che si aspettava che lei gli
mostrasse la lettera, cosa che non aveva fatto, non era riuscita a
farlo. Per qualche motivo, voleva che fosse solo sua. Anche se
sapeva che in quel modo avrebbe ferito Gísli.
E poi ecco che il pastore in persona arriva a Uppsalir.
La notizia si verrà a sapere.
Vi conosco di nome, dice Gísli quando Pétur si presenta. Ho
sentito parlare del reverendo. Ma prima aveva chiesto, a che cosa
dobbiamo l’onore di questa visita?
Guðríður non era uscita sull’aia. Vado a preparare qualcosa, aveva
detto appena Gísli era uscito, però non aveva preparato niente,
aveva seguito di nascosto suo marito e si era fermata nel corridoio
d’accesso, dove il buio incontra la luce del giorno.
Rimane al limite, al confine, nascosta dal buio, attratta dalla luce.
Ha sentito l’ospite smontare da cavallo, suo marito porgergli i
saluti. Ha sentito quando l’ospite si è schiarito la gola e si è accorta
che stava trattenendo il respiro, tanto ansiosa di ascoltare, sentire la
sua voce, il tono, tesa, preoccupata, perché e se si mangiasse le
parole, a lei non piace chi parla così, e se avesse un tono altezzoso
nella voce, oppure – cosa perfino peggiore – se fosse stridula, come
quella degli uccelli? Ma quanto sei stupida, figliola mia, si era detta tra
sé, e aveva scosso la testa, che cosa vuoi che importi la voce di
quest’uomo, lei non fa certo parte della sua vita, della sua
quotidianità, non dovrà certo frequentarlo in quel senso; e perché sia
Gísli che lei sono così convinti che l’ospite sia il pastore Pétur? Ma
che aspetto ha, se è lui? Come si comporta, muove molto le mani, lo
sguardo è caloroso, il naso troppo grosso, i denti abbastanza sani, è
grasso come una foca, basso, di media corporatura?

Il visitatore tossisce di nuovo. Non so se sia un onore, dice. Scusate il


disturbo, mi chiamo Pétur Jónsson. Sono il pastore di… Vi conosco di
nome, e conosco la vostra parrocchia, ho sentito parlare di voi, lo
interrompe Gísli, e Guðríður trasalisce, è così insolito che suo marito
interrompa gli altri mentre parlano, figuriamoci in quel modo, in
maniera quasi scortese, come fosse in un duello con Pétur,
addirittura… Ma allora è proprio lui, che dio mi aiuti, mormora lei, e ha
quasi voglia di tirarsi un ceffone, di prendersi a schiaffi; nascondersi lì
al limitare, tra le tenebre e la luce, come se stesse origliando, nella
speranza che riprenda a parlare… e lui lo fa, la voce un tantino
esitante, forse per lo stupore alla reazione di Gísli. Sì, in effetti, non è
la vostra parrocchia, avete ragione, solo che avevo varie cose da fare
in questa zona, varie faccende e altre incombenze, le ho messe
insieme per fare un giro solo, diciamo, poi mi sono ricordato che
Guðríður abita da queste parti, e ne ho approfittato per portarle dei
libri che le avevo promesso. Ho chiesto indicazioni giù a Bær su
quale fosse la posizione precisa della fattoria e il tragitto migliore. Mi
hanno detto di salutarvi, tra l’altro. Non mi piace molto inviare libri per
posta, sono fragili. I libri anzi possono essere più fragili degli uomini,
e delle lettere. Per questo ho deciso di venire personalmente, visto
che dovevo passare da queste parti. Immagino che siate suo marito?
Direi proprio di sì, risponde Gísli, direi proprio di sì.
Perché risponde in quel modo, e… che aspetto avrà il reverendo
Pétur? Somiglierà alla voce, un pochino rauca, cordiale ma anche
con un sottotono o un’inflessione che non distingue del tutto, non
subito, eppure sembra proprio che corrisponda alla sua grafia: che
volto avrà quella voce, o meglio, il nostro aspetto corrisponde sempre
alla nostra voce, e viceversa?
Mi fa piacere, dice Pétur. Vostra moglie ha molte qualità, ma
questo naturalmente lo sapete meglio di altri. Il suo articolo è davvero
notevole. Mi ha costretto a pensare diversamente, e questo succede,
posso dirlo, anche troppo di rado ormai, si pensa di aver letto tanto,
sì, e di aver perso la capacità di sorprendersi. L’essere umano è
troppo incline al ristagno, a chiudersi nella sua arroganza, nei
pregiudizi, in impurità di ogni sorta, che lo sminuiscono. E il lombrico;
tendiamo con troppa facilità a considerare chi è molto più piccolo di
noi come privo di interesse, o a dargli un valore inferiore, figuriamoci
poi se ha una forma che appare sgradevole, se non ripugnante, e
oltretutto è cieco e si trova meglio nel buio – così si aggiunge il nostro
disprezzo, che è fratello dell’orgoglio. Eppure alcuni hanno la
capacità di vedere di più, più profondamente di altri, di vedere oltre i
pregiudizi, le opinioni tradizionali. Persone di questo tipo sono meno
schiave dei propri tempi, e per questo motivo riescono ad aprire gli
occhi al loro prossimo, possono mostrare quello che agli altri è celato.
Hanno la capacità di costringerci a vedere con occhi nuovi.
L’ambiente, noi stessi. Questa capacità l’ha pure vostra moglie – il
minimo che posso fare è prestarle dei libri. Il minimo che posso fare è
consegnarglieli di persona, visto che dovevo passare per queste
campagne. E avete tre figlie, tre belle bambine. A volte Dio ci offre dei
gioielli. Che stupido, che sbadato a non aver portato niente per voi
tre. Ma, aspettate. Chissà che cosa si nasconde nelle tasche interne?
Aspettate un attimo, vediamo, ma guarda cosa trovo, queste belle
caramelle luccicanti, di tre tipi diversi! Come siano finite qui non
saprei davvero spiegarmelo – ma forse non le volete?
Le bambine non rispondono, non osano, sono intimidite dagli
sconosciuti, forse sono intimidite anche dal modo di parlare di Pétur,
ma allora Gísli si mette a ridere, una risata breve, che fortuna che
avete – potete anche accettare, non credo che il reverendo morda…
Forse morde ma piano, come una mosca, dice Pétur, e ha un tono
più divertito nella voce.
Adesso bisogna che tu esca, cretina, dice piano a se stessa, e
trasalisce sentendo le proprie parole, la voce soffocata nel corridoio,
come se la casa le stesse parlando, la stesse spingendo fuori. Del
resto dovrebbe vergognarsi a starsene lì a origliare, di nascosto. Che
vergogna. È da imbecilli.
Possiamo invitare il reverendo a entrare, dice Gísli, a voce alta,
senza dubbio perché spera che Guðríður lo senta all’interno. Ovvio,
non sospetta che stia origliando dove il buio incontra la luce. Rimane,
non vista, a qualche metro da loro e le prude talmente il coccige che
fa fatica a rimanere ferma.
Vi ringrazio per l’invito, risponde Pétur, magari se potessi prima
rinfrescare la mia Ljúf.
Nascosto da qualche parte abbiamo del fieno per il cavallo,
ragazze, andate a prenderne una manciata per la giumenta.
Guðríður le sente partire, leggere, di corsa, desiderose di rendersi
utili, di poter dare da mangiare al cavallo, di poterlo coccolare, e
anche felici di sentire la dolcezza della caramella che si scioglie in
bocca. È come avere la bocca piena di sole. O di baci, pensa lei
involontariamente nel corridoio, e non ha in mente suo marito. Ha un
sussulto quando se ne accorge, ha paura di se stessa, la spaventa
ancora di più l’idea di uscire per raggiungere i due uomini, però lo
deve fare, è intollerabile l’idea di incontrare per la prima volta il
pastore nella baðstofa, dove gli spazi angusti e il tetto spiovente
creano una vicinanza a cui è difficile sottrarsi. Fa un profondo respiro
e recita a voce bassa, come una preghiera: «Si chiama materia
organica la combinazione di sostanze fondamentali che esistono
esclusivamente nella natura vivente, nelle piante e negli animali, e
materia inorganica tutte le sostanze fondamentali, e le loro
combinazioni, che esistono nella natura inerte.»
E poi esce nella luce.
Spero di lasciarmi alle spalle le tenebre, pensa.

Come si fa a lasciarsi alle spalle le tenebre?

Esce. E poi sono passati centoventi anni.


Esce e lui piange su un poggio d’erba, le natiche bagnate. Lei esce
e nel mondo succede qualcosa ogni volta che sorride, siete suo
marito, direi proprio di sì, direi proprio di sì, ma come si chiama vostra
moglie? Si chiama Mani di luce. È per questo che hai pianto con le
natiche bagnate su un poggio erboso e il cavallo non è riuscito a
consolarti? Uh, non fare queste domande, lei esce, è riuscita a
lasciarsi alle spalle le tenebre?
Le prude il coccige, poi sorride, qualcuno dovrebbe mettersi a
studiare quel sorriso, e poi scriverci una relazione, ma è legale
sorridere così, i sorrisi hanno forse il diritto di cambiare una vita, non
è che se ne dovrebbe discutere prima, fare un dibattito, siete suo
marito, direi proprio di sì, direi proprio di sì, ma voi scrivete lettere a
un poeta morto mezzo secolo fa, è un bene, è un esempio da imitare
che un vivo tenga una corrispondenza con la morte, vi aspettate che
risponda?
Tutti alla fine muoiono, i lombrichi e le persone. Tu sei morto,
pertanto hai fatto più strada. Lei esce. Come si fa a lasciarsi alle
spalle le tenebre?
Lei esce, e sono tutti morti.

 
1
Friedrich Hölderlin, da Abendphantasie: «E solo / Sotto il cielo come sempre io sono.»
2
Letteralmente «stanza del bagno», era in origine lo spazio per la sauna o per le abluzioni;
nel XVI secolo il termine passa a indicare la stanza principale – spesso l’unica – della casa.
Miss you baby, sometimes;

l’essere umano ha inventato il diavolo

per portare i propri peccati


Anche nella luce del sole dentro di noi

si annidano delle valli oscure – ma ecco che arriva herra Ásmundur!

All’improvviso sono in preda a uno stordimento talmente violento che


devo appoggiarmi al bancone per non perdere l’equilibrio, d’un tratto
non so più dove mi trovo – in quale luogo, in quale tempo, in quale
vita, e sì, in quale galassia. Poi a poco a poco l’ambiente intorno a me
si fa più netto, non si nasconde più nella vertigine – e mi trovo ancora
nella reception dell’albergo, l’edificio che un tempo ospitava la scuola
di questa regione. Negli anni in cui il fiordo era più popolato e le
pecore si distribuivano lungo i fianchi dei monti come belle parole. Mi
sono addormentato, ho perso conoscenza? E dov’è la mia birra,
mormoro io, poi mi cade lo sguardo su una pila di fogli A5 scritti fitti
che occupa una parte del bancone, numerati in basso, ma non
sembra che la sequenza sia molto ordinata, sembrano riversati sul
tavolo come un’emorragia; la pagina dodici sta di traverso sulla
trenta, la cinquantasette accanto alla prima:
«Eiríkur di Oddi. L’uomo che possiede una chitarra elettrica, tre
cuccioli morti, una carabina per sparare ai camion oppure al destino.
Che cos’altro possiede?»
Esitante, sposto alcune pagine, afferro qualche nome… ecco, là le
armi diventano sempre più precise, lì trema l’ago della bussola e i
lombrichi sono i poeti ciechi delle zolle di terra. «Buona fortuna a
occuparti dei morti, caro fratello!»
Continuo a leggere e piano piano il contenuto di quelle pagine
riaffiora alla memoria, mi ritorna in frammenti, come le pecore che
tornano dal monte in autunno. «Si ferma dove il buio incontra la
luce…»
E questa, da dove sbuca?
Non avrei dovuto appuntarmi solo qualche commento su
quell’Eiríkur che ho visto sparire dal fiordo? Non è questo che
suggerivano, le prime righe?
Non ho alcuna idea di dove stesse andando Eiríkur, e a dire il vero
non so quasi niente di quell’uomo. Tranne che da lontano sembrava
una rockstar triste, che ha dei cani, una carabina, tre cuccioli morti e
probabilmente è per quello che ha sparato dietro a un camion. Mi
piacerebbe sapere da dove viene tutta questa roba. Tutte queste
storie, e perché il loro bisogno di essere trascritte sulla carta era
talmente urgente che non ho potuto far altro che obbedire.
Da dove proviene ciò che non comprendiamo?
L’essere umano non sa un granché. È scientificamente provato, ti
ricordi, ho letto un articolo al riguardo, l’ho letto su una rivista
prestigiosa. Certo, la nostra conoscenza si accresce di continuo,
eppure sembra che più sappiamo, meno comprendiamo.
È il paradosso dentro il quale viviamo.

Sóley ride in sala da pranzo.

Fa bene sentirla ridere. C’è qualcosa nella sua risata che rende il
mondo più luminoso.
Sta ancora parlando al telefono.
Sì, è ancora attaccata a quel maledetto telefono.

Osservo i fogli. Non sono meno di settanta, certo, in formato A5, ma


sono riempiti con una scrittura piccola e fitta, talmente illeggibile che
a una prima occhiata sembra un alfabeto segreto. Devo averci messo
parecchio tempo a scrivere tutte queste storie, tutti questi destini,
questi respiri. Settimane, direi. Il che non torna in alcun modo, perché
quando mi sono seduto nel soggiorno accogliente, quando ho bevuto
la birra, quando ho letto l’articolo che spiega come l’umanità sia
imbrigliata nella rete dell’ignoranza non avevo ancora scritto un solo
rigo. Poi sono venuto di qua, un tantino scombussolato dalla lettura,
perfino avvilito, ed erano circa le undici del mattino. Adesso…
… alzo gli occhi verso la parete dietro il bancone della reception
dove sono allineati i dodici orologi sincronizzati sull’ora di Nuova
Delhi, Hong Kong, Tokyo, Mosca, Sydney, Los Angeles, New York,
Budapest, Londra, Parigi, Addis Abeba, l’Islanda. Undici città, un
paese. E tre lancette su ogni orologio, perché ce ne vogliono almeno
tre per contenere il tempo. La più sottile è sempre in movimento, non
si ferma mai, procede ansiosa, affannata, perfino disperata, un giro
dopo l’altro a inseguire ciò che per lei è irraggiungibile, che le sfugge
costantemente, seppure per poco. Magra, quasi emaciata per lo
sforzo. La lancetta mediana avanza un poco più lenta. Sembra
tranquilla ma è un’illusione, perché vibra continuamente, di una
tensione interna. Sa che non potrà mai concedersi un riposo, spinta
dall’agitazione della sua esile sorella. La terza invece si muove con
una tale lentezza che è ingrassata nell’ozio. Dodici orologi che
misurano il tempo con fedeltà, con precisione, eppure nessuno segna
la stessa ora.
Ne consegue che il tempo non è mai paragonabile, non è mai
identico, e pertanto è diverso anche da se stesso. Ma l’orologio che
segna il tempo in Islanda si è fermato, a quanto vedo, non si muove,
la lancetta magra, quella scarnificata, ha rinunciato a spostarsi, sta lì
appesa esausta, inanimata, come in attesa, e non misura più niente.
Se non forse la propria morte.

Ed eccoti qui a parlare da solo.

Sóley sta sulla soglia della porta della sala da pranzo, con il telefono
in mano, sicuramente si è scaldato dopo tutte quelle parole, e mi
guarda con quel suo sorriso. Eri al telefono, le faccio, tanto per dire
qualcosa, per prendere tempo mentre penso a un modo per
nascondere i fogli sul tavolo.
Ah, sì. Scusami se ci ho messo così tanto, era la mia cara Dísa. Tu
la conosci appena, non è da tanto che si è trasferita qui nel fiordo. Ha
conosciuto Ágúst della fattoria di Hof e se n’è innamorata. E lui di lei,
del resto era inevitabile, dovresti vederla, è davvero una bellezza. Sei
così carina, le ha detto una volta mia sorella quando eravamo tutte e
tre qui una sera d’inverno a scolarci una bottiglia di grappa, che quasi
mi dispiace di non essere lesbica. Dísa era in tutto e per tutto una
ragazza di città quando è venuta qui con Ágúst, ce l’aveva scritto in
faccia che veniva dal quartiere occidentale di Reykjavík – questa non
dura a lungo qui in campagna, diceva la gente. Ti ricordi di Gústi, no?
Ah, faccio io, mi ricordo finché me ne ricordo, poi me ne dimentico,
e non è detto che sia giusto dimenticare.
Sóley ride piano, no, in effetti, e non c’è nemmeno bisogno di
ricordarsi tutto, bisogna pur dimenticare qualcosa per fare spazio al
nuovo, no? Il povero Gústi del resto non è mai stato un tipo da titoli in
prima pagina, eppure ha una certa aura, un certo magnetismo che
alcune donne avvertono, fino a perdere la testa per lui. Non ho mai
capito che cosa ci trovino, è evidente che non sono ricettiva al suo
fascino e ho sempre pensato che Dísa lui non se la meritasse
proprio. Infatti non sono rimasti insieme a lungo. Però è stato Gústi, e
non lei, ad averne abbastanza della schiavitù dei lavori agricoli, circa
tre anni fa si è trasferito nel Sud, ha trovato lavoro in un grande
magazzino della capitale, credo che stia per lo più dentro le celle
frigo, surgelato e ben conservato. Sono riusciti a tirare avanti ben
cinque anni insieme, hanno avuto la piccola Védís, che è un tesoro, e
alla fine Dísa, la donna di città del quartiere occidentale, si è adattata
talmente bene al fiordo, alle bestie, alla nostra piccola comunità, che
non riusciva a concepire l’idea di andarsene e ha preso in mano la
gestione della fattoria quando Gústi ha mollato. Si è riempita di debiti
per pagare la sua parte. Non solo si è presa la fattoria, ma anche la
mamma di Gústi, perché la vecchia si è rifiutata categoricamente di
andarsene da Hof se non con i piedi in avanti. Dísa avrebbe meritato
uno sconto consistente sul prezzo dei terreni, non ti pare? E nessuno
può rimproverare alla cara Dísa di trascurare la fattoria, la manda
avanti in modo esemplare.
Me ne sono accorto, dico, felice di ricordarmene, felice di averlo
notato quando sono passato in macchina davanti al casale. Ero
rimasto sorpreso di vedere quant’era florida e imponente la fattoria di
Hof, gli edifici di bella fattura, la porta di casa aperta, come se tutti
fossero i benvenuti. E quella muraglia di rotoballe di fieno.
Sì, si dà molto da fare, la mia Dísa. Certo, noi tutti le diamo una
mano se c’è bisogno, del resto è da sola con Védís e con la vecchia
Lúna… che ha vissuto la sua vita, come forse ti ricordi. È stata in
parlamento per un mandato, nel Framsóknarflokkur, il partito
progressista, e per tanto tempo ha anche tenuto una rubrica sul
secondo canale della radio. Alla gente piaceva ascoltare cosa avesse
da dire quella contadina impertinente, già attempata, che la sapeva
lunga e aveva un’opinione su qualsiasi cosa, con quella voce
raschiata dalle Camel. Ha compiuto settant’anni lo scorso inverno,
beve sherry quasi tutti i giorni, impara le lingue su internet e ormai se
la cava piuttosto bene con il francese e lo spagnolo. E si è perfino
fatta un fidanzato, il vecchio Kári di Botn, che ha ottant’anni – e chi se
lo sarebbe immaginato! Nessuno è in salvo dall’amore, come tutti e
due sappiamo bene. Dísa mi chiama spesso, oppure passa da qui
quando sa che non ho molti clienti – sono solo tre al momento, e
sono i primi ospiti stranieri dallo scorso gennaio! Forse li hai visti,
fuori in piscina; una coppia canadese con la figlia. Madre e figlia sono
imparentate con Eiríkur, l’hanno contattato la scorsa primavera e così
è andata a finire che li ha invitati tutti e tre alla festa che sta
organizzando con Elías, per il secondo anno consecutivo. Sono
arrivati in Islanda un paio di settimane fa, hanno concluso la
quarantena questa mattina e da allora non hanno quasi lasciato la
piscina. Hanno fatto appena in tempo, a uscire dalla quarantena
voglio dire, perché la festa si terrà questa sera, così sei avvertito.
Dísa mi gestisce il sito di prenotazioni dell’albergo, per questo sa che
la corriera che mi recapita il primo gruppo dell’estate dovrebbe
arrivare tra appena un’ora. Ecco, il primo gruppo dell’anno – e chissà,
forse l’ultimo. Questo virus ci ha dato una bella mazzata. Dísa ci
mette sempre una gran passione, si entusiasma per un sacco di
cose, la politica, i problemi mondiali, il riscaldamento globale, gli ultimi
libri pubblicati, da un po’ anche per i lavori per la costruzione della
centrale qui nel Nord, che hanno avuto un’accelerata per mitigare le
conseguenze economiche del virus, dicono. Per ribaltare la
situazione. Le persone al primo posto, è il loro mantra. A proposito, ti
sei preso un’altra birra, vuoi la terza?
Come, un’altra, sì, no, voglio dire no, due sono una dose
sufficiente, di mattina, e poi ho bevuto del vino rosso con tua sorella
Rúna prima di venire qui da te, ma grazie lo stesso, rispondo,
dispiaciuto che abbia smesso di parlare. Ha una voce limpida e roca
allo stesso tempo, sembra uscirle dal profondo della gola. Adesso mi
guarda, quasi pensierosa, con una traccia di tristezza negli occhi, poi
mi sorride.
Un sorriso può essere una droga, penso – a quel punto mi ricordo
dell’orologio. È fermo, dico, e glielo indico; l’orologio che segna il
tempo qui in Islanda si è fermato.
Sóley: È vero! Ma che stranezza… be’, dai, almeno così non
invecchiamo. Però non va, aspetta, dice, sparisce verso l’interno e io
resto a guardarla, la guardo allontanarsi, guardo la schiena magra e
mi perdo nei miei pensieri. Torna con un lungo bastone in mano, dà
un colpetto leggero all’orologio islandese, svegliati, tempo, dice, e
che questa donna sia una strega o una dea, il tempo si risveglia
davvero, ha un sussulto e riprende a scorrere. Gli uccelli ricominciano
il loro canto, il mondo torna a invecchiare.
E allora, che devo fare di te, caro, dice Sóley, dopo aver rimesso a
posto il bastone che ha svegliato il tempo. L’orologio si è fermato per
uno o due minuti appena, a quanto pare, quasi non si nota la
differenza con gli altri, le lancette dei minuti sono tutte più o meno allo
stesso punto eppure nessuna segna la stessa ora.
È in arrivo una corriera piena di turisti giapponesi, più di quaranta,
a cui si aggiungono i tre in piscina, quindi… e ovviamente il mio Ómar
dovrebbe uscire tra poco, dice lei, pensosa.
Ómar?
E chi è? Allora è sposata, è possibile? È accettabile che un solo
uomo possieda questi occhi dorati, quelle esitazioni quasi
impercettibili, quel sorriso che è una droga?
Sento la gelosia che mi rode dentro mentre lei abbassa lo
sguardo, mormorando qualcosa, poi alza la testa. No, ma cos’è, dice
sorpresa, avanza verso il bancone, sposta i fogli. Li riconosco, i tuoi
scarabocchi, dice. Ti ricordi, li chiamavi la grafia del diavolo. Dicevi di
aver imparato a scrivere all’inferno, avevi sempre quei buffi toni
drammatici. L’inferno è sicuramente il posto migliore dove imparare a
scrivere, per un autore, è il posto in cui la natura umana fa mostra di
sé nella maniera più evidente… Oh, non ti agitare, non mi metto a
ficcare il naso, non cerco nemmeno di leggerla, questa roba, come
farei, del resto, sei l’unico capace di decifrare questi scarabocchi, tu e
ovviamente il demonio, hai detto giusto. Sono parecchie pagine, è
praticamente un romanzo, accidenti. Allora hai ricominciato a
lavorare, ah, quanto sono contenta! Una volta mi hai detto che
esistevi soltanto mentre scrivevi – allora quindi sei tornato a esistere!
Devo confessarti che mi sono sentita quasi offesa quando me l’hai
detto, all’epoca… no, inutile indorarti la pillola, altro che quasi offesa,
ci sono rimasta malissimo. Se esistevi solo quando scrivevi, allora
stare con me che cos’era, una mezza esistenza, un ripiego?
Probabilmente ti sei accorto della mia reazione, e ti sei affrettato ad
aggiungere, per giustificarti, carino com’eri: non esisto se non riesco
a scrivere. Non credo che le tue parole mi siano state di grande
consolazione. Ero talmente idiota in quel periodo, volevo essere al
centro di tutto. E sai, sembra proprio che tu sia cambiato. Sei così
taciturno, e questo fa diventare me molto più loquace, di
conseguenza. L’ha notato anche Rúna, ha detto che hai fatto lo
stesso effetto anche a lei, dice di aver straparlato come se fosse una
questione di vita o di morte. Eppure a volte parlavi anche tu, e mica
poco! Insomma, devi dirmi di tacere. Mi sembra di non riuscire a
smettere. Devi dire qualcosa.
Io sorrido per nascondere l’imbarazzo. Sento che il battito del
cuore accelera, sento che il sangue comincia a scorrere più veloce,
che si riversa dritto nel cuore – presto vi sbatterà contro con tanta
forza che il cuore si trasformerà in una barca in mezzo a una
tempesta. Con poche possibilità di salvezza.

Lei ride piano… ma guardati, che faccia che hai, dice.


Scusami, rispondo, riesco a dirlo senza imbarazzo, schiarendomi
la gola; sono completamente distratto, e… Cosa c’è, chiedo, vedendo
che ha distolto lo sguardo e fissa i fogli scarabocchiati sul bancone,
chiaramente stupefatta. Ma non è, dice, senza alzare la testa… ma
sì, accidenti, hai scritto sulla carta intestata dell’albergo. Com’è
possibile? Perché è escluso che tu sia riuscito a scrivere tutte queste
pagine mentre ero al telefono. Dísa parla tanto, è vero, ma non così
tanto! Sono proprio sbalordita. Nemmeno il diavolo in persona
saprebbe scrivere così in fretta.
Accarezza i fogli, con cura, il sole si sposta di qualche centimetro
nel cielo azzurro, ora arriva a splendere attraverso la grande finestra
che sovrasta la porta d’ingresso e riempie di luce i suoi capelli chiari.
Siamo così vicini l’uno all’altra che la sento respirare. Mi sorride
quando vede come la guardo. È come se avesse un nucleo luminoso
dentro, o un’energia contagiosa, eppure il suo volto ha un che di
malinconico.
La vita, a pensarci, è sempre complicata. Anche nella luce del sole
dentro di noi si annidano delle valli oscure. È il prezzo che si paga per
essere umani?
Forse sì.
Inspiro. Adesso devo dire qualcosa per distogliere la sua
attenzione da quei fogli, che sono del tutto incapace di spiegare.
Forse dovrei…
Ma la porta d’ingresso si apre di colpo e una voce maschile forte e
profonda riempie l’ingresso, spazza via ogni traccia di esitazione:
ecco che herra Ásmundur è arrivato al lavoro, e con lui Mundi il
mingherlino – entrambi pronti all’azione!

La natura passa il tempo ad allenarsi,

ma sulla luna non è possibile ascoltare Johnny

Cash e guardare l’olio del patio asciugarsi

Questo è Ásmundur, dice Sóley e sembra divertita, l’agricoltore


forestale del nostro fiordo. E questo invece è Mundi, che ci fa visita
quando vuole riposarsi dal mondo, si può dire così, vero Mundi?
Puoi dire di me tutto quello che vuoi, lo sai bene, Sóley, risponde
questo Mundi, un uomo esile, più basso di me, molto più basso, e sì,
un fuscello al confronto con l’agricoltore forestale. Ásmundur è un
grizzly, un fisico poderoso, con le spalle massicce e un paio di
braccia che potrebbero sicuramente svellere gli alberi più imponenti
con tutte le radici.
Io e Sóley siamo sobbalzati all’ingresso roboante di Ásmundur, ma
lei si è ripresa subito, ha riso, la tua presenza non sfugge a nessuno,
Ási, ha detto, e ci ha presentati. Un agricoltore forestale, faccio io,
piuttosto stupito, non sapevo nemmeno che esistessero in Islanda,
figuriamoci in questo fiordo isolato così a nord del mondo. Un
agricoltore forestale, ripeto, probabilmente con lo stupore nella voce,
perché questo Ási, o Ásmundur, scuote la testa e risponde con la sua
tonante voce di basso, sì, anni fa, quando eravamo piccoli, avrebbe
fatto notizia, anzi, avrebbero pensato che fosse fantascienza.
All’epoca era un privilegio potersi vantare di quattro o cinque sorbi in
cortile, cresciuti al riparo dei muri della casa, a nessuno passava per
la testa di piantare degli alberi in terreni esposti, eravamo convinti
che qui sarebbe morta qualsiasi cosa tentasse di attecchire e che
non si chiamasse erba, muschio, betulle nane, idee retrograde del
partito conservatore e avarizia dei tradizionalisti. Adesso i tempi sono
cambiati. Allevavo pecore, prima, come fanno quasi tutti qui nel
fiordo, negli ultimi tempi avevo un gregge di almeno cinquecento
capi, e poi ho mollato tutto. Il sistema più sicuro per diventare povero
in Islanda è allevare pecore, anche se per secoli gli ovini sono stati
considerati quasi sacri, per secoli ci hanno assicurato la
sopravvivenza anche nei periodi più duri, ma duri a tal punto che
ormai secondo ogni logica dovremmo esserci estinti. Cosa c’è di più
bello in questo mondo che vedere una pecora in salute nel suo
recinto? Ti tocca certe corde del cuore, di sicuro. Ma non ci paghi i
debiti con quelle corde, non ci mantieni un’automobile, non ci compri
un trattore, non vai a fare la spesa, non ci ingrassi il conto in banca.
No sir, non voglio mica passare per un coglione, un anno dopo l’altro.
Per questo motivo ho salutato le mie cinquecento pecore
nell’autunno di otto anni fa. Ho chiesto loro scusa. Mi puoi credere,
non esagero mai su queste cose. Ho preso quelle teste tra le mani,
una per una, le ho guardate negli occhi e ho chiesto loro scusa per la
stupidità del mondo, ho chiesto di perdonarmi per doverle mandare
incontro alla morte prima del tempo. Da allora coltivo alberi.
Un agricoltore forestale, dico di nuovo, come se ormai non
conoscessi altre parole che quelle.
Sì, caro mio, dice Ásmundur, si dice così.
Allora praticamente passi il tempo a guardar crescere gli alberi,
chiedo, e Ásmundur ride, ride come probabilmente farebbe un
trattore, e io che sono lì vicino mi sento vibrare tutti gli organi interni.
Questo devo raccontarlo alla mia Gunna! Che lavoro fai, eh, guardo
crescere gli alberi! E chi l’avrebbe detto che proprio io, tra tutti, avrei
avuto la pazienza per una cosa del genere? E invece è un’attività che
regala una profonda calma, guardare gli alberi crescere, tanto che
piano piano diventi talmente tranquillo che le sterne ti potrebbero fare
il nido addosso. E poi Sóley qui presente può confermare che ho
sempre votato per il partito dell’indipendenza, da quando sono nato.
Da quando sono nato, vecchio mio. La mia Gunna mi dice spesso,
Ási, tu sei matto a votare per un partito che ha sempre disprezzato i
contadini, e mai come negli ultimi quindici, vent’anni, da quando si è
convertito al neoliberalismo. I neoliberali disprezzano la povertà e di
conseguenza disprezzano quasi tutti i contadini islandesi, che sono
per la maggior parte poveri oppure costantemente al verde, o con
l’acqua alla gola, girano su vecchi macinini e non vanno mai
all’estero, tranne che in Norvegia con i viaggi organizzati dalle
associazioni agricole, gite che i neoliberali disprezzano tanto quanto i
contadini. Per questo coltivo alberi. Crescono con una tale lentezza
che nessuno si degna di odiarli.
Ási non vota per il partito dell’indipendenza, mi specifica Sóley, lo
dice solo per impressionare i suoi interlocutori o farli innervosire.
Però ha mandato un messaggio al Congresso degli Stati Uniti
quando Donald Trump è stato eletto presidente, suggerendo che una
buona parte della popolazione americana dovrebbe essere esiliata
sulla luna, preferibilmente sulla faccia nascosta. E poi ha scritto
anche al Parlamento inglese lo scorso inverno, quando è stato eletto
quel fanfarone presuntuoso di Boris Johnson.
Quei fetenti non mi hanno nemmeno risposto, si lamenta Ási
alzando le mani al cielo. Eppure sono un proprietario terriero
islandese. Ho un terreno immenso. Possiedo una parte di un fiume
pieno di salmoni, mezza montagna, sui miei possedimenti crescono
gli alberi e gli alberi sono i polmoni del pianeta, mi chiedo, è possibile
ignorare un uomo come me, Mundi, tu che ne pensi?
Mundi, quell’uomo esile, il fuscello, alza le spalle, io sono venuto
qui al Nord, dice, per non dover rispondere a domande come questa.
C’è chi dice che, in fin dei conti, una volta esaminate le cose a fondo
e soppesate ben bene, non si può far altro che trarre una sola
conclusione: il genere umano fa schifo. E più si conosce la storia
dell’uomo, più si seguono gli eventi di attualità, più è facile essere
d’accordo. Forse ci vuole una buona dose di cinismo, di egoismo e di
incorreggibile ottimismo per non sentirsi sfiduciati. Forse bisogna
essere sotto psicofarmaci per amare o aver fiducia nell’umanità.
Eppure io delle brave persone le conosco. Anche molto a posto, e
questo ti dice che quel che appare non è tutto, per questo è normale
mandare messaggi ed email al Congresso degli Stati Uniti, al papa o
alle Nazioni unite per chiedere giustizia. E per suggerire che tizio o
caio vengano spediti sulla luna. Io ieri ho passato una mano di olio al
patio di casa, mentre ascoltavo Johnny Cash. Poi ho bevuto una
bottiglia di vino rosso mentre lo guardavo asciugare. Credo che
questo sulla luna non si possa fare.
Ti sei bevuto una bottiglia intera? chiede Ási, e sembra sorpreso,
se non preoccupato.
Era piena quando l’ho aperta ieri sera, e vuota quando mi sono
svegliato. Qualcosa dev’essere successo. Del resto, mi hai detto più
di una volta che questo fiordo è pieno di spettri – forse qualcuno di
loro è venuto a scolarsi la bottiglia mentre facevo un salto in bagno.
Lo spero bene. Tu sei capace di pensare, e avresti dovuto fare il
filosofo invece di vendere quelle maledette turbine per reattori a una
clientela equivoca, anche se in quel caso non avresti i mezzi per
comprarti una casa estiva e fartela consegnare qui da noi. Chi riflette
molto in Islanda raramente ha le disponibilità per comprarsi una casa
estiva. Ma spero, anzi confido che i morti veglino su di te, un corpo
tanto fragile come il tuo non sopporterebbe più di due bicchieri di vino
rosso in una sera. Sei troppo importante. Chiamerei subito
un’ambulanza se ti vedessi bere di più, anzi, chiamerei l’elicottero del
guardacoste, si sposta più in fretta, e magari potrei salire a bordo
anch’io. Ho sempre voluto volare su quei loro elicotteri, ma per farlo
bisogna trovarsi in pericolo, un pericolo più serio di quello che si
rischia a guardare gli alberi crescere. Ovvio che questa zona è
infestata, dice Ási, e adesso mi guarda dritto negli occhi mentre
Mundi, il mingherlino che possiede una casetta estiva e
probabilmente vende turbine per reattori, si siede sul davanzale della
finestra, tira fuori un libriccino dalla tasca della giacca; porta un paio
di pantaloni chiari, sottili, di un tessuto elegante grigio mélange, e una
giacca sartoriale blu, mélange anche quella, come se stesse
andando a un incontro d’affari con i produttori di turbine; tira fuori un
paio di occhiali dall’altra tasca e si mette a leggere, si appoggia al
vetro della grande finestra e scalda la schiena al sole. Sóley ha
incrociato le braccia, si sporge in avanti sul bancone, sorridendo.
Ásmundur: Ovvio che questa zona è infestata. È perché noi siamo
sempre stati così pochi che di solito siamo riluttanti a lasciar andare
chi muore. Tranne quando siamo felici di sbarazzarcene. Faccio
l’agricoltore forestale, sì, lo sottoscrivo. Credo che sia un’attività
nobile quanto allevare pecore, solo molto più redditizia. Si hanno
sovvenzioni più consistenti, prestiti più vantaggiosi, si è più
considerati e non c’è nemmeno bisogno di macellare i propri amici
quando viene l’autunno. Gunna però dice che le manca sentire le
pecore ruminare nell’ovile durante l’inverno, sentire gli agnelli belare
in primavera e vederli saltare. Io sono assolutamente d’accordo con
lei. Mi capitava non di rado di andare nell’ovile d’inverno solo per
ascoltarle ruminare, sospirare, sentire il vento fischiare contro la
lamiera ondulata. Vedi, è come se gli alberi avessero una relazione
sentimentale con lo Stato, sono praticamente abbonato alle
sovvenzioni pubbliche. E che fanno gli alberi, sì, respirano per il
pianeta. Creano riparo dal vento e attirano gli uccelli. Agricoltore
forestale. Mi chiedo: è possibile rendersi più utili, si può vivere meglio
di così? Io non credo. Forse dovrei mandare un altro messaggio al
Congresso americano e informare i deputati, che ne dici, Mundi?
Sto leggendo, dice il mingherlino sul davanzale della finestra, cotto
dal sole, non so fare due cose contemporaneamente, leggere e farmi
un’opinione sugli alberi e sul Congresso americano, devo scegliere, e
scelgo di continuare a leggere. Chiedi a Sóley, lei è più intelligente di
noi due messi insieme.
Non so se sia un complimento, dire a qualcuno che è più
intelligente di noi due messi insieme, fa Ási scuotendo la testa. Tu
forse sei il cervello, ma io abbasso la media, è la mia Gunna che
pensa al posto mio. Io ho solo tre neuroni, uno per parlare, uno per
coltivare gli alberi e il terzo per mandare email e pretendere più
giustizia. Un tempo ne avevo quattro, ma il quarto era talmente
impregnato dalle pulsioni sessuali o insomma dalla lussuria che alla
fine sono stato costretto a sbarazzarmene. E mi è costato parecchio,
eh, è stata durissima! Prima o poi ti racconterò tutto.
Si interrompe e mi squadra, come a valutare se sia il caso di
raccontarmi subito del quarto neurone impregnato di pulsioni, di
lussuria, ma a quel punto Sóley si mette a parlare. Non afferro subito
le parole, il contenuto, mi distraggo a guardarle il viso, è come se
fossi risucchiato da quei suoi occhi così particolari, di un bruno
dorato. Sta parlando di… Ási, sta spiegando qualcosa. Che Ási e suo
fratello Einar si sono stabiliti qui nel fiordo per puro caso, o forse per
un’iniziativa del destino, a un anno di distanza l’uno dall’altro, molto
tempo fa. Hanno sposato due sorelle di Hólmavík. Ási però non era
estraneo al fiordo, aveva passato qualche estate qui in campagna da
alcuni parenti di Hof; aveva venduto la barca nel Nord e aveva preso
la gestione della fattoria quando i parenti avevano deciso di non aver
più voglia di sgobbare, di non voler più stare lontani da Reykjavík, né
di dover aspettare il riscaldamento globale, che non si era mai
presentato lassù nel Nord, portando giornate di sole più calde in cui
poter indossare i pantaloni corti… credo sia successo poco tempo
dopo la tua ultima visita quassù, mi spiega lei. Sembra voler
aggiungere un dettaglio e io trattengo il fiato, spero che dica qualcosa
d’altro al riguardo, per esempio quando è stata la mia ultima visita,
per quanto tempo sono rimasto, ma a quel punto Ási ride e dice, il
riscaldamento globale, ecco un’ottima spiegazione, buona quanto
tutte le altre!
Riscaldamento globale, pessima connessione internet. Come dice
la mia Gunna, chi pensa di fare il contadino in Islanda deve
accontentarsi di una semipovertà e di qualche raro viaggio all’estero,
a meno che non si tratti di andare in Norvegia con le gite degli
agricoltori, oppure di logorarsi con una serie di altri mestieri da
affiancare all’allevamento, alla manutenzione dei macchinari, degli
edifici, delle recinzioni. Magari accaparrarsi un lavoretto come
manovale, entrare in Parlamento, dedicarsi anima e corpo al turismo,
ma in quel caso bisogna indossare sempre il maglione tradizionale,
con qualsiasi clima, perché è quello che vogliono i turisti. E fare
attenzione al peso, perché essere grassi non corrisponde
all’immagine dei figli della natura. La natura non ingrassa mai, passa
il tempo ad allenarsi e a sollevare cascate e montagne pesantissime.
Sì, faccio io, sento che tutti si aspettano una mia reazione al
monologo dell’agricoltore forestale, solo che non so cosa dire, quindi
ripeto di nuovo sì, mi aggrappo a questa brevissima parola mentre mi
volto a guardare Sóley, e commetto un grave errore perché lei ha
quei maledetti occhi, quei capelli d’angelo e quel labbro superiore
che riposa su suo fratello come un bacio. Solo che in questo
momento non riposa, perché Sóley sta sorridendo e a me sembra
che, dentro, uno dei miei organi interni stia precipitando verso il
basso. Il cuore, spero. Speriamo che sprofondi del tutto, si mischi agli
escrementi ed evacui la prossima volta che vado in bagno. Almeno
me ne sarò sbarazzato e mi sentirò più leggero. Sarà molto più facile
vivere senza. Solo che il cuore non cade mai così in basso, semmai
atterra nello stomaco e si dimena lì come un uccello cieco e indifeso
tra flatkökur mezzo digeriti che galleggiano nel vino rosso e nella
birra. Sì, giusto, ripeto io, adesso parlo all’aria tra Sóley e Ási, ne
avevo sentito parlare, ma è un bene, voglio dire, le terre non devono
rimanere incolte. Un terreno abbandonato che non viene coltivato è
come un essere umano che ha perso ogni speranza.
Mi guardano tutti, anche il magrolino, il filosofo che vende turbine
per reattori abbassa il libro e mi osserva da sopra gli occhiali. Devo
aver detto una castroneria, mi sono tradito, mi sono scoperto e
adesso devo ammettere di aver perso la memoria. Che qualcuno o
qualcosa ha cancellato tutta la mia esistenza, mi ha spento, per poi
collocarmi su una panca della prima fila nella vecchia chiesa, dove mi
sono svegliato in un’amnesia totale, con il diavolo tre file più indietro.
Avendo scordato tutto quello che mi riguarda. L’unica cosa che so è
che mi manca moltissimo qualcuno, e che con tutta probabilità sono
stato innamorato di Sóley. In altre parole, mi hanno cancellato la vita
e i ricordi, ma non l’amore. Significa allora che è più forte della morte,
che sopravvive sempre, e che è l’unica cosa che ha la possibilità di
spostarsi tra le galassie? Sóley probabilmente è sposata; devo farmi
prestare il fucile da Lóa e liberarmi così di quell’Ómar, oppure devo…
continuano a guardarmi, tutti e tre. Devo dire qualcosa.

Tutti hanno bisogno di un nome,

anche chi è destinato a sparire

Il telefono mi salva. Squilla nella tasca di Sóley, pretende che ci si


occupi di lui e rompe la strana atmosfera che sembrava aver riempito
la grande hall dell’albergo.
Mai un attimo di pace, sospira lei.
Mundi continua a leggere, Sóley pesca il telefono dalla tasca
posteriore, guarda lo schermo, dice, toh, è il mio caro Elías, e sorride
ad Ási, un sorriso talmente malizioso che sembra quasi un ghigno.
Ási abbassa lo sguardo, mi pare che tiri una bestemmia. Lei si porta il
cellulare all’orecchio, caro Elías, a cosa devo questa telefonata? Hai
bisogno di spezie, che cosa… Sì, dovremmo averle, ma certo che sì,
figurati, sarei molto delusa se Wislawa e Oleana non ne tenessero un
po’ nascoste nel loro regno. Sì, sì, passa pure, ma certo, sono salite
un attimo sulla brughiera a raccogliere timo, alchemilla e altre erbe, di
sicuro non ci metteranno molto… No, non ancora, credo che il gruppo
arrivi non prima di un’ora, hai tutto il tempo. Perfetto. Mi vedrai
sorridere quando arrivi, conclude lei prima di rimettere il cellulare in
tasca, e io penso, si può essere salutati in un modo migliore e più
bello, mi vedrai sorridere quando arrivi. È grazie a te se sorrido…
… e infatti sorride quando infila il telefono in tasca, nei jeans blu
con una sottile banda d’argento lungo i fianchi. Lo ripone nella tasca
posteriore, mi guarda, con quel sorriso che viene rilevato dai
sismografi, e io provo un vago odio nei confronti di questo Elías, che
occupa un posto nella vita di Sóley che evoca il suo sorriso – spero
che vada fuori strada.
Era il mio caro Elías, dice lei, si è trasferito a Vík poco meno di tre
anni fa, sarà qui tra un quarto d’ora. Così potrai conoscere anche lui,
non sarà una seccatura, vedrai.
Ási: Mi permetto di avere la mia opinione in merito.
Wislawa, dico io, un nome familiare.
Sóley: Come no, è il nome di una poetessa! Spero che tu non
abbia dimenticato che all’epoca mi hai regalato uno dei suoi libri – ne
avevi due copie. Ti capita ancora di comprare libri che possiedi già?
Dimentica qualsiasi cosa, andrà a finire che si dimenticherà anche di
se stesso, dice a volte mia sorella Rúna. Un gran bel libro, l’avevi
sottolineato in qualche punto. Così ho pensato che quei versi ti
avessero entusiasmato… forse è per questo che mi sono rimasti
impressi. Come questo: Life on Earth is quite a bargain. Dreams, for
one, don’t charge admission.1
Mundi: Bello. Vorrei essere capace di leggere poesia. Invece sono
completamente incatenato alla prosa.
Io: Bisogna esserne capaci?
Ási: Be’, un tempo si cantava insegnami tu a baciar, come si fa ad
abbracciar.2 La sapevano tutti, questa canzone. Immagino che se
baciare non è una capacità innata, se c’è bisogno di imparare a farlo,
allora deve valere lo stesso anche per la poesia. Bisogna imparare a
leggerla.
Mundi: Vuoi dire che la poesia è un po’ come un bacio?
Ási: E cosa vuoi che ne sappia, io! Ti sembro un tipo che sa dare
risposte a domande del genere?
Non mi passa nemmeno per la testa di cercare la definizione
giusta per descrivere che tipo sei, dice Mundi. Sei troppo grosso. In
Giappone e in alcune città dell’Asia dove la popolazione esplode, le
strade si imbarcano sotto il peso della moltitudine e il
sovraffollamento ti soffoca, e io l’ho sperimentato di persona, ai troll
come te fanno pagare più tasse degli altri. È considerata una cosa
assolutamente normale, e legittima, perché occupate più spazio degli
altri in un mondo angusto.
Questa te la sei inventata, dice Ási, e non so se la lieve
contrazione che vedo intorno alla bocca dell’omone sia dovuta
all’irritazione oppure al tentativo di soffocare un sorriso. Difficile
leggere quest’uomo, capire quando è serio e quando non lo è.
Io non mento mai, io leggo, dice Mundi prima di sprofondare di
nuovo nel libro. Vedo che Sóley sorride di nascosto e una lieve
tristezza mi si insinua nel petto, dove si mischia all’incertezza che
improvvisamente mi assale, forse perché per un attimo ho creduto
che la Wislawa che lavora in cucina fosse la poetessa in persona,
anche se so che è morta da qualche anno. Questa sua omonima
dev’essere una delle sorelle siriane di cui mi parlava Rúna; vanno
sulla brughiera in cerca di alchemilla per cucinare piatti
pericolosamente buoni. È estenuante non sapere nulla di sé. Si sta
sempre sul chi vive, si ha paura di dire qualche assurdità, di ferire
qualcuno. Sono talmente smarrito che non so quali sono i miei piatti
preferiti, quale vino mi piace bere, se ho figli oppure no, se sono
sposato, se convivo, qual è la mia squadra del cuore nel campionato
inglese; sospetto di essere più attratto sessualmente dalle donne che
dagli uomini, però non so se sono capace di baciare come si deve, o
di abbracciare bene, non so nemmeno se… come… come mi
comporto quando sono con una donna. Quando ho rapporti, quando
faccio l’amore, quando amo, quando scopo. No, questo termine lo
rifiuto, scopare; certo, ha un che di sfacciato che solletica, ma
preferisco gli altri, amare, fare l’amore… e poi perché mi devo
mettere a pensare al sesso adesso, per provare a ricordare come mi
comporto, se sono passionale, tenero, volgare, che cosa mi piace,
che cosa mi eccita…
Sóley sorride ancora a Mundi e ad Ási, sta dicendo qualcosa, vedo
che le labbra si muovono ma non afferro le parole, sembra proprio
che mi abbiano chiuso l’accesso all’ambiente, che mi trovi
lontanissimo da qui, in un’altra dimensione, in un’esistenza parallela,
in un’altra galassia dove Sóley è distesa supina, nuda, e sospira
piano dicendo, amore mio, amore mio, mentre io la penetro
dolcemente da dietro, mi spingo profondamente in lei. Amore mio,
sussurra lei.
Poi ride.
Smettila di prenderci in giro, dice Ási.
Sóley osserva sorridendo Ási e Mundi, poi dice qualcosa mentre si
gira a guardarmi. Io non sento che cosa dice, sento solo che sospira
e si spinge contro di me mentre io entro dentro di lei.
Devo dire qualcosa, penso, e cerco con tutte le mie forze di
staccarmi da quel ricordo, da quella scena immaginata, o qualsiasi
cosa sia che mi riempie la coscienza…

Non saranno certo parenti, vero, mi sento formulare la domanda, lo


sguardo in aria in un punto a caso tra Sóley e Ási.

Come, rispondono entrambi. Mundi ha abbassato il libro, mi guarda


da sopra gli occhiali. Sembra divertito. Non oso guardare in volto
Sóley, convinto che la mia espressione sia un libro aperto, che lei
capisca al volo che cosa mi stava riempiendo la mente e la coscienza
un istante fa; cerco di pensare in fretta. Cerco di comprendere a quali
donne facessi riferimento, per quale motivo ho fatto quella domanda.
Setaccio il cervello alla velocità del fulmine per cercare chi ho visto o
sentito parlare da quando sono tornato cosciente in quella chiesa, ma
nessuno sembra coincidere con la mia domanda. Per qualche motivo
affiora il nome di Elías, il tizio che arriverà tra poco, e allora d’un tratto
il velo si squarcia – Wislawa, dico. Lo so che è morta, certo, ma non
saranno mica parenti?
No, no, dice Sóley, nemmeno lontanamente; la nostra Wislawa
non è nemmeno polacca. Però secondo noi quel nome le calza a
pennello, è vero, Ási?
Ási: Sei stata tu a suggerirglielo, e lei ha accettato subito. L’ha
preso al volo, come se le avessi lanciato un salvagente. Me lo
ricordo. Per quanto mi riguarda, avrei preferito un nome più semplice,
mi ci è voluto quasi un anno per imparare a scriverlo correttamente.
Ora finalmente mi è entrato in testa e non ne esce più.
Sóley: Tutti hanno bisogno di un nome, anche chi è destinato a
sparire.
Ah, allora è dovuta sparire, ho chiesto guardando Sóley, cosa che
però avrei fatto meglio a evitare, è talmente difficile smettere una
volta che si è cominciato che si va più sul sicuro a lasciar perdere. È
forse un modo di definire l’amore, quando qualcuno, per felicità o
disperazione, non riesce a smettere di guardare l’altro?
Gliela dobbiamo raccontare, Ási, chiede Sóley, la storia della
nostra Wislawa, posso?
Ási: Be’, ci sono due cose da valutare, per quel che mi riguarda, e
hanno lo stesso peso. Ci si può fidare di lui, e se sì, riusciremo a
raccontargli tutto come si deve, prima che arrivi Elías?
Io a lui affiderei il cuore, dice Sóley, senza staccare lo sguardo da
Ási, e a me si riempiono gli occhi di lacrime, che non oso asciugare
perché ho paura di attirare la loro attenzione e di svelare quale effetto
profondo hanno le sue parole su di me. Sbatto le palpebre con tale
foga che sembrano le ali di un uccellino che tenta invano di spiccare
il volo. Io gli affiderei il cuore, e mancano almeno dieci minuti all’arrivo
di Elías, anche quindici, guida pianissimo per via del gatto, quella
povera bestiola soffre il mal d’auto.
Ási: Allora va bene. Come vuoi. Da dove comincio?

Il suo riso è il solletico

di leggere campanelle

Ási e Mundi sono riusciti per un pelo a evitare Elías che ha risalito la
china per raggiungere l’albergo a bordo di una vecchia Bmw nera;
stavano scendendo verso la piscina quando l’auto nera è arrivata
piano piazzandosi accanto alla Volvo. Elías è sceso dall’auto con
calma, alto ma lievemente curvo, emaciato, ossuto, le scapole così
magre che sembravano lame d’ascia. Deve aver superato la
sessantina, teneva in braccio un gatto, nero con le zampe bianche, lo
teneva come qualcosa di fragile. Ha vomitato un po’, ha detto Elías a
Sóley mentre entrava, poi mi ha visto, ha esitato un attimo, si è girato
a guardarla e ha chiesto, in che lingua mi devo rivolgere a questo
giovanotto? Puoi provare con l’islandese, ha detto lei sorridendo,
vedrai dove ti porta – è un vecchio amico. Ah, ha ribattuto Elías,
carezzando piano il gatto, un vecchio amico, che bello, è stupendo
avere un vecchio amico, si è meno soli nella vita. Un vecchio amico.
È perfino meglio del sesso, soprattutto quando gli anni cominciano a
farsi sentire. Questo invece è Alessandro Magno, sta sempre
malissimo in macchina ma non volevo lasciarlo a casa con Eiríkur e i
tre cani. Alessandro è molto schivo con loro, non sa come
comportarsi. È quel che nelle lingue straniere si dice un introverso, e
sospetto che la fragilità del mondo risieda proprio in chi ha questo
atteggiamento. Il poveretto ha vomitato diverse volte lungo il tragitto,
anche se andavo piano… ah, eccoti qua, angelo mio, ha detto
quando una giovane donna, di sicuro non più che ventenne, i capelli
neri, magra e di bassa statura, è uscita dalla cucina con una ciotola di
panna per il gatto, che ha cominciato a fare le fusa non appena l’ha
vista. Sai, Wislawa, che Alessandro ti adora senza limiti. A volte temo
che possa scappare di casa per l’amore che ha per te.
È bello essere amati, ha detto Wislawa, nel suo accento straniero,
il suono di quell’«ama-» è così cantilenato che la parola è ancora più
bella in bocca a lei. Allora è così che le lingue si allargano, ho
pensato. C’è una grande dolcezza nel portamento di quella giovane
donna, quasi adolescenziale nei movimenti, e ha come una luce
intorno.
Elías e Wislawa si sono chinati sorridendo accanto al gatto e alla
ciotola di panna, Elías ha mormorato qualcosa che l’ha fatta ridere e
il suo riso sembrava il solletico di leggere campanelle.
Io ho alzato gli occhi e ho incontrato quelli di Sóley. Mi stava
guardando, mi ha guardato fisso, a lungo. Io l’ho guardata a mia
volta, confuso, ma mi sono scaldato tutto, forse per l’imbarazzo, forse
per i suoi occhi, forse per l’amore, forse per timidezza.

È
È proprio difficile esistere.
E per molto tempo è stato tutt’altro che facile per Ásmundur, o Ási,
che ha cominciato a preparare gli attrezzi insieme a Mundi sul bordo
della piscina dove sguazzano quei tre, la coppia e la loro figlia –
quando si alza lui, il mondo si mette in agitazione.
Ho sempre avuto un problema con il desiderio sessuale, aveva
detto Ási, non ero ancora adolescente, anzi ero anche troppo
giovane, avevo appena dodici anni.

Così era iniziata la storia del nome della donna nella cucina
dell’albergo, la cuoca. È una storia grottesca di umiliazione, di
dipendenza profonda, di cattiveria e di affetto. Dal buio alla luce. È la
storia di come si diventa persone.

Hai letto Harry Potter,

hai visto l’albero più antico di Parigi, il sesso

è più pericoloso di un omicidio?

Preferisci che la racconti io, ha chiesto Sóley ad Ási, che ha esitato,


abbassato gli occhi, ha dato un’occhiata all’orologio, poi al paesaggio
immobile e infine a Mundi, che ha riposto il libro. Mundi ha annuito,
quasi impercettibilmente, allora Ási ha guardato Sóley, no, no, è
meglio che la gestisca da me, ha detto lui, tirando un profondo
respiro. Ho sempre avuto un problema con il desiderio sessuale, non
ero ancora adolescente, anzi ero anche troppo giovane, avevo
appena dodici anni.
La mia Gunna a volte mi dice che Dio mi ha dato questo corpo
così grosso perché potesse contenere le mie pulsioni, la mia
maledetta libidine, e le potesse gestire decentemente. Ma ti posso
assicurare, e lo dico qui e adesso, che anche se il mio corpo è
sempre stato imponente, in questo senso non lo è mai stato
abbastanza, anzi, per molti anni non lo è stato affatto. Ti risparmio i
dettagli, e ti avverto, se ti fermi un po’ in questo fiordo, come fanno in
tanti – il nostro fiordo ha la tendenza a prendere in ostaggio la gente,
c’è qualcosa in questo posto che calma, e tranquillizza. Quindi, ti
avverto, o meglio, sappi che ho la tendenza a entrare nei dettagli,
soprattutto quando bevo. Del resto, dovrebbe far parte della terapia,
no? – essere sobrio e parlarne apertamente. Il mio psicologo mi ha
detto: Ási, parlane ogni volta che puoi. Pensa alle parole come una
nave cargo da riempire con il tuo desiderio sessuale, e poi lasciala
vagare nell’oceano, finché non sparisce. All’inizio non ci credevo, ma
so essere obbediente, così ho seguito il suo consiglio. Del resto non
avevo altra scelta. E sai che ti dico, ha funzionato. Da quel momento
in poi ho seguito le sue raccomandazioni con un tale scrupolo che è
stato un miracolo che il nostro fiordo non si sia spopolato. La gente
andava a nascondersi quando mi vedeva imboccare la strada per la
loro fattoria, o per la loro casa estiva. Si rifugiavano tutti negli edifici
esterni, si nascondevano sotto i tavoli, come se fossero in gran
pericolo. Ecco, adesso sai qual era la situazione. E ora vado avanti
con il racconto.

Ási mi aveva fissato per tutto il tempo mentre parlava, come se


volesse tenermi prigioniero del suo sguardo, oppure costringersi a
raccontarmi tutto, senza omettere niente, come spesso siamo tentati
di fare, raramente osiamo spingerci a fondo nelle nostre confessioni,
nell’onestà, non osiamo avventurarci fin dentro le zone più oscure.
Ma Ási era disposto a farlo. E sembrava addirittura volersi addentrare
nelle zone più oscure. Le parole erano compatte, non aveva mai un
momento di esitazione, le frasi come un lungo treno che avanza
lentamente, i vagoni assicurati l’uno all’altro, spinti da una forza
potente e incrollabile.
Ási aveva sottolineato di non sapere, ovviamente, in che rapporto
fossi io con il mio desiderio sessuale. Aveva detto proprio così, in che
rapporto ero. Come se le pulsioni fossero una forza autonoma, un
essere indipendente. E del resto, per lungo tempo le pulsioni
l’avevano sopraffatto.
Io sono, e sono sempre stato, aveva detto, un demonio forzuto, ho
la forza di tre uomini normali, sono nato così e non posso farmene un
vanto, non è una prodezza che mi sono costruito da me. Forte, sì,
come un toro, ma l’appetito sessuale era ancora più potente. Ero una
jeep, e le mie pulsioni un motore pensato per un aereo. Non poteva
funzionare. E infatti non ha funzionato. O meglio, forse quando le
acque si fossero placate. Ma non era un bello spettacolo, davvero, e
per tanto tempo è stato brutto, maledettamente brutto. Gli eventi della
vita non si vedono e non si comprendono prima che siano trascorsi,
prima che sia arrivata la fine – come dice spesso la mia Gunna. È un
nome di cui devi imparare ad avere rispetto! Senza di lei… be’,
insomma, non c’è bisogno che la faccia lunga a spiegartelo, chiedilo
a Sóley, lei ti confermerà quel che dico. Come il poeta, dico che i miei
anni beati sono stati quelli dell’infanzia. Che si è conclusa con lo
sviluppo. In quel momento per me la valle dai verdi declivi, il fiume
tranquillo e bacche in abbondanza, si è chiusa per sempre. Tutto è
cambiato! È arrivata l’adolescenza e ho avuto l’impressione che mi
avesse trasformato la realtà. Che avesse stravolto tutte le regole.
Che maledizione. Tutti cambiano, sarà successo anche a te, ovvio;
ho letto molto sull’argomento. A volte dico che potrei scriverci una
tesi, sul desiderio sessuale. Sarebbe una tesi provocatoria e di
grande effetto, se nella parte dimostrativa inserissi le mie esperienze!
Hai letto Harry Potter?
Come? Faccio io stupefatto, non me l’aspettavo proprio, non mi
aspettavo che mi facesse domande, e sicuramente non su Harry
Potter!
Sì, lo so, ha detto Ási, l’ho presa larga, lo ammetto.
Sì, un tantino larga in effetti, ha convenuto Mundi, il libro posato
sulle ginocchia. Stava comodo sull’ampio davanzale della finestra,
abbastanza spazioso per un uomo così magro e sottile. Davvero
larga, non mi stupisco se questo brav’uomo non ha capito. Si starà
chiedendo in che gabbia di matti sia capitato. Che fine ha fatto il
fascino bucolico islandese, da quando i contadini si sono messi a
parlare di desideri sessuali e di Harry Potter? Quindi anche il
maghetto aveva le sue pulsioni, oppure se la cavava con un
incantesimo, al bisogno? Perdonate le mie ciarle, di solito non parlo
così tanto.
In effetti devo ammettere che non ti credevo capace di infilare così
tante parole in una volta sola come hai fatto oggi, devi essere
esausto, aveva detto affettuosamente Sóley appoggiata al bancone
della reception, a braccia conserte, e io mi concedevo di guardarla,
per qualche istante. Sapevo che non c’era alcun pericolo, nessuno mi
stava osservando, sapevo che Ási avrebbe proseguito con il suo
racconto e quindi potevo fissarla senza rischi. E l’ho fatto, l’ho
assorbita con lo sguardo, lei nei suoi jeans con la banda argentata, la
maglietta nera e aderente che faceva risaltare la corporatura magra e
una tensione ambigua nel corpo. Darei qualsiasi cosa per vedere le
sue spalle nude, sono riuscito a pensare prima che Ási ricominciasse
a parlare. L’ho presa larga, aveva ripetuto, sì, ma mi esprimerò in
questo modo sempre per tutta la vita, se serve a sciogliere la lingua a
Mundi. Ti fa bene parlare così tanto nella stessa mattina. La mia
Gunna mi ha consigliato di leggere Harry Potter, mi ha messo davanti
tutti i libri uno sull’altro e proprio questa mattina ho riletto il passaggio
sulla biblioteca della scuola di magia, c’è una sezione in cui si
conservano i libri proibiti. La mia tesi di dottorato andrà catalogata lì.
Ecco il nesso.
Mundi: Ho visto i film. Ci sono persone uccise, torturate e
smembrate, ed è considerato accettabile. Però niente scene di sesso,
non si è mai visto nemmeno un seno, figuriamoci un pene.
Sóley: Se fosse così, i film sarebbero vietati ai minori di sedici
anni, ti puoi immaginare le perdite in termini di incassi.
Allora il sesso è più pericoloso di un omicidio, ho detto io, o meglio
ho chiesto, mi è uscita così, la frase è spuntata da non so dove, e di
nuovo mi è presa l’angoscia vedendo che Sóley mi ha guardato con
aria divertita. Ecco, ho detto qualche corbelleria, adesso mi scoprono.
Il sesso, ha detto Mundi, è l’argomento più popolare su internet,
eppure sono pochissimi coloro che ammettono di guardare
pornografia.
Ecco, l’hai detto, ha ribattuto Ási, l’ha quasi esclamato, puntando di
nuovo lo sguardo su di me. Maledetto internet! Ma tu sei un poeta,
ora che mi ricordo – siete riusciti a cogliere questo fenomeno,
esistono poesie capaci di descrivere questa mostruosità, questo dio?
Mi piacerebbe davvero leggere poesie di questo genere. La mia
Gunna sostiene che solo la poesia permette di afferrare l’essenza
dell’essere umano. Io però non sono d’accordo. Non sono fatto per
leggere poesie. Ho troppa smania dentro. Sono nato con un verme in
culo, si dimena in continuazione e per questo devo essere sempre in
movimento, non sopporto di dover stare fermo, sarò un cadavere
insopportabile, di sicuro, non starò immobile nemmeno nella tomba.
E se sto fermo per troppo tempo come adesso, sento un bisogno
irrefrenabile di parlare, altrimenti scoppio. No, non scoppio, però mi
sento come se quel maledetto verme si fosse messo a rodermi l’osso
sacro, e che ci stia attaccato come un cane. Una volta ho provato a
leggere Einar Benediktsson, per me le sue poesie sono come una
tempesta di parole, mi ci sono smarrito dentro e ci sono rimasto
bloccato, con l’osso sacro e tutto. Allora leggi Stefán Hörður, mi ha
detto Gunna. Io ci ho provato, ma c’è così tanto silenzio dentro i suoi
versi che il mio verme è impazzito, si è infilato su per l’intestino e di
conseguenza mi è venuta la diarrea.
Mundi: E poi c’è chi dice che la poesia non serve a niente!
Ma taci, tu, ha ribattuto Ási senza voltarsi, non è il momento di fare
del sarcasmo. Prima hai pronunciato quella parola, internet. Sai che
cos’è, mi ha chiesto Gunna una volta, molto tempo fa, quando il
mondo cominciava appena a rendersi conto di che fenomeno si
trattasse. No, le ho risposto io, non ne ho idea. Internet è il caos,
aveva detto lei. Ah, disordine, ho detto io, probabilmente hai ragione.
No, non disordine, mi ha corretto lei, e poi si è messa a citare chissà
quale libro in greco antico che aveva letto all’epoca. Lei legge
continuamente e a volte cerca di coinvolgermi, come se servisse a
qualcosa. Comunque, in quel libro si racconta che all’inizio dei tempi
era il Caos, e il Caos era una sorta di personaggio, o una divinità.
Non sono bravo con i dettagli.
Mundi: Però bisogna essere un po’ ferrati nella mitologia greca,
per essere un buon contadino.
Ma taci, di nuovo, ha detto Ási senza scomporsi. Quello che
Gunna voleva farmi capire a proposito di internet è che il fenomeno
aveva qualcosa di mitologico, era il vuoto e l’inizio di tutto allo stesso
tempo. Ed è quello che è successo, infatti. Non è così? Internet è
praticamente un nuovo cielo sopra di noi – un nuovo mondo
sotterraneo. Ci ho riflettuto un po’. Anzi, direi anche che ho meditato
parecchio, sulla questione. Credo che chi guarda gli alberi crescere
per professione possa diventare una specie di filosofo.
Mundi: E per questo la filosofia non è mai riuscita a prendere
piede, qui in Islanda. I filosofi sono corvi bianchi.
Sóley: Perché qui per sette secoli non sono cresciuti gli alberi?
Non abbiamo bisogno della filosofia, ha detto Ási, noi abbiamo le
strofe rimate. C’è della magia dentro.
Mundi: Sì, ma quelle strofe hanno impedito che in Islanda si
sviluppasse un pensiero.
Sóley: Oppure hanno coinciso perfettamente con la nostra
tendenza a cercare sempre la via più breve per arrivare a
destinazione.
Ma sentitevi, esprimervi così sulle strofe antiche, ha sbottato Ási
scandalizzato. Adesso smettetela di interrompermi, stavo parlando di
internet, di un nuovo cielo, ho detto, di nuovi mondi sotterranei. Sono
cambiamenti radicali. Talmente radicali che per la prima volta l’uomo
non ha avuto bisogno di morire per conoscere l’inferno. È l’inferno
che è salito fin da noi e adesso invade la realtà digitale. Il diavolo sa
sfruttare la tecnologia. Pare che ci sia una connessione potente,
all’inferno.
A Dante avrebbe fatto comodo, mi è sfuggito di bocca.
Ási ha avuto un momento di esitazione, Mundi si è concesso un
lieve sorriso e Sóley ha detto, con un tono intimo nella voce che mi
ha solleticato tutto il sistema nervoso e mi ha reso infinitamente
felice: ecco che te ne esci di nuovo con quel tuo Dante!
Non conosci Dante, aveva chiesto Mundi ad Ási che gli voltava le
spalle. Non è possibile coltivare alberi in Islanda se non hai mai letto
niente di questo autore, non si trova concime migliore. Gunna mi
delude, allora. Chiedile di Dante. È come il nostro Snorri Sturluson.
Stronzate, nessuno è come il nostro Snorri, aveva detto Ási, o
meglio, l’aveva dichiarato, perché si trattava di un verdetto, non si era
nemmeno dato la pena di voltarsi. Nessuno può uguagliare Snorri.
Mai. Lui era come Iron Man, Capitan America e Odino messi insieme.
Mundi si è coperto la bocca con una mano, Sóley ha riso, ma Ási
non si è scomposto. Bisogna aggiornare costantemente i termini di
paragone. Li hai visti, quei film dei supereroi, no? Fortissimi, e sono
più che certo che a Snorri sarebbero piaciuti. Quanto a Dante,
chiederò di lui a Gunna, ma nella mia vita ci sono due comete scure,
il desiderio sessuale e internet, e si combinano alla perfezione. Non
ho tempo di entrare nei dettagli, di raccontarti tutta la storia, lascerò
perdere i massimi sistemi, tienilo a mente, e forse sei pure fortunato,
non è tutto bello nella mia esistenza, ti risparmio un sacco di dettagli.
Ci saranno altri momenti. Cioè, nel caso in cui tu ti fermassi qui nel
nostro fiordo. Adesso ti parlo un po’ del desiderio sessuale.

Non hai mica intenzione di rovesciargli addosso ogni cosa, lo conosci


appena, ha detto Mundi, che ha posato il suo libro, però non sono
riuscito a distinguere il titolo e la cosa mi ha infastidito. L’hai
conosciuto appena venti minuti fa e adesso gli vuoi raccontare tutta
la tua vita. Non si fanno queste cose, non si può. Anche se sei un
agricoltore forestale e hai scritto al Congresso degli Stati Uniti e al
Parlamento inglese.
Ási si è girato appena, in modo da vedere tutti e tre, piantato a
gambe larghe, leggermente curvo, le spalle possenti sporgevano in
avanti, somigliava a un troll, o a una montagna.
Non si può? Chi ha il diritto di affermare una cosa del genere?
Gunna dice sempre che ogni epoca ha le proprie usanze e le proprie
opinioni su cosa si possa o non si possa fare, su cosa sia
appropriato. Più avanti magari verrà fuori che gli usi e i costumi che al
giorno d’oggi sono considerati gli unici accettabili saranno delle
cavolate nel migliore dei casi, e nel peggiore, indice di gravissimi
pregiudizi e di odio razziale. Come li consideravamo i neri, noi
bianchi, diciamo nel XVII secolo? E oltretutto allora sembrava
normale, se non una legge di natura, che le donne non avessero
praticamente alcun diritto. Se un Mundi di quell’epoca mi avesse
ripreso in malo modo per aver sostenuto i diritti delle donne, o per
aver dichiarato che la schiavitù era una crudeltà, che erano
pregiudizi, un peccato verso la vita, eh, mica mi avrebbe detto, no no,
non si dicono queste cose, non si può? Io sono un agricoltore
forestale, gli alberi crescono lentamente. E si imparano tante cose, a
guardarli crescere. Sono stato a Parigi… No, non fare quella faccia,
Mundi, questa digressione devo farla per forza… Io e Gunna ci siamo
stati lo scorso anno, come voi due sapete bene. Abbiamo preso il
battello lungo la Senna, siamo saliti sulla Torre Eiffel, abbiamo
passeggiato per il Marais. Quella città ve la raccomando caldamente.
Se non fossi un agricoltore forestale islandese sarei di certo un
parigino. Comunque, quello che volevo dire è che mentre Gunna ha
fatto un giro nella famosa libreria Shakespeare & Company, io con la
mia birra l’ho aspettata al sole in un piccolo parco di fianco alla
libreria e al caffè. E ho scoperto l’albero più antico della città. Perché
era stato piantato nel 1601, più di quattrocento anni fa. Sono rimasto
completamente affascinato, e stavo lì come impietrito davanti
all’albero quando la mia Gunna mi ha raggiunto, vacillando sotto il
peso di tutti i libri che aveva comprato. Ci siamo seduti, le ho dato
una birra che avevo nello zainetto e siamo rimasti a guardare l’albero,
che ormai è talmente decrepito da dover essere tenuto su con dei
paletti in cemento. Ho la sensazione di osservare il tempo, mi ha
detto Gunna. Ti rendi conto, Ási, che quell’albero ha visto scorrere
tante concezioni del mondo, opinioni, teorie. Quando l’hanno piantato
la gente pensava che la Terra fosse piatta, che fosse il centro
dell’universo, ed era una follia totale affermare il contrario. E la mia
Gunna aveva ragione. Lei ha sempre ragione. Ma l’albero ha
continuato a crescere nei secoli, indifferente a tutto, è cresciuto verso
l’alto, libero e indipendente. Sapeva per sua natura che spesso le
opinioni degli esseri umani sono effimere, come gli insetti. Un
comportamento accettabile oggi è considerato sbagliato domani. E
viceversa. Ma io osservo gli alberi crescere, per questo sono libero.
Mundi: Prima o poi dovrò scriverci un libro, sulle tue teorie, sulle
tue similitudini e le tue opinioni. Creerebbe scalpore e grandi
discussioni. E la gente si accapiglierebbe a lungo per capire a quale
genere attribuirlo: filosofia esistenziale, cagata totale, un nuovo
genere di surrealismo, guida pratica per comici?

Á
Tu non scrivi libri, Mundi, ha detto Ási senza muoversi, ancora a
gambe larghe, con noi tre nella sua visuale, ben oltre il metro e
novanta, e certo non sotto i centocinquanta chili. Quest’uomo è una
forza della natura, ho pensato.
No, tu non scrivi libri e non lo farai a breve. Però mi pare di capire
che qui abbiamo un poeta, e i poeti hanno bisogno di sapere tutto.
Devono conoscere tutto. La vita deve scorrere verso di loro per
nutrirli delle sue storie e della sua forza, e noialtri abbiamo il dovere di
riferire ai poeti gli eventi più significativi della nostra vita e della vita
degli altri. Ciascuno naturalmente sceglie secondo il proprio gusto,
ma quando si comincia non si può tralasciare niente. Gunna dice che
davanti a un poeta siamo tutti nudi. Ma che nemmeno i poeti possono
tralasciare niente una volta che hanno iniziato a scrivere, non devono
evitare nessuna sofferenza, nessuna difficoltà. Ogni cosa deve venire
fuori.
Mundi: Dovrebbero dire tutto? Ti proibisco di coinvolgermi in una
storia del genere. Io voglio vivere la mia vita in pace. Non mi va
proprio per niente che un qualche poeta venga a metterci le mani.
Anche se è un amico di Sóley. La mia vita deve starsene fuori dalla
letteratura. E poi Elías starà per arrivare, quindi bisogna che tu
cominci a sintetizzare. E risparmiaci i dettagli scabrosi.
Allora accelero, ha detto Ási, l’uomo della schiatta dei troll,
raddrizzando la schiena. Non ho nessuna intenzione di essere
ancora qui quando arriva Elías, perché cominceremmo a litigare di
sicuro. Non avevi il telaio di una porta da sistemare, una doccia, dei
ganci allentati?
Ma certo, ha confermato Sóley, che sembrava avere difficoltà a
contenere le risa. Una delle docce negli spogliatoi delle donne è
difettosa, bisogna cambiare alcuni attaccapanni e la porta che esce
sulla piscina non si chiude bene, il telaio si è gonfiato ed è andato
fuori squadra. Quest’edificio è di pessima qualità, è stato costruito
male e ci dà sempre dei problemi. Hai un altro quarto d’ora, direi
anche venti minuti. Ho mandato un messaggio a Elías mentre parlavi,
gli ho detto di guidare piano, che eri nel bel mezzo di una storia. Mi
sta bene, ha risposto lui, Alessandro Magno ha appena vomitato, ci
sediamo sulla riva del fiume per riprenderci un po’. Quindi prosegui,
raccontagli delle pulsioni e di cosa c’entrano con Wislawa, ma lascia
perdere i dettagli sessuali. Non ci manca l’immaginazione. Non hai
bisogno di fare descrizioni troppo specifiche, con noi.

Che fine ha fatto la promessa

di risparmiarci i dettagli?

Toh, il ragazzo ha raggiunto l’età della ragione, dicevano i miei


parenti quando si sono accorti che io, appena dodicenne, cominciavo
a interessarmi ai libri di Kristmann Guðmundsson.3 La mamma aveva
la sua opera completa, era un’ammiratrice, e papà non ne era molto
contento – credo che fosse geloso. Lo sai che reputazione aveva
Kristmann, si era sposato più volte, otto o nove matrimoni e non so
quante storie sulle sue conquiste femminili. Alcuni affermavano che
avesse imparato a ipnotizzare le donne quando abitava all’estero ed
era un autore famoso in tutto il mondo, e per questo quelle poverette
non erano del tutto in sé quando finivano a letto con lui. Altri si
spingevano fino a sostenere che Kristmann aveva l’abitudine di
intrufolarsi di notte al cimitero di Reykjavík in Suðurgata, nascosto dal
buio e dagli alberi, per riesumare le donne appena sepolte e… sì. Lo
sapete. Ho promesso di risparmiarvi i dettagli. La sola idea è
ripugnante. Eppure… eppure… non la trovi anche un pochino
eccitante? Il che è perfino peggio dell’atto in sé. Che cosa ci rivela di
te stesso, se uno schifo del genere ti solletica?
No, è ovvio che tu non voglia rispondere! Non ne sono stupito. O
come dice Gunna: il nostro sangue contiene tanti aspetti oscuri. Io
invece dico che essere umani è una gran fatica. Comunque,
insomma, giravano storie su Kristmann e nemmeno poche, e anche a
casa non potevamo fare a meno di sentirne alcune. Cose che io, da
bambino, non avrei certo dovuto sentire, ma che sentivo lo stesso.
Perché Kristmann era spesso oggetto di conversazione. Insomma,
non proprio di conversazione – mi misi a leggere i suoi libri dopo aver
sentito papà e mamma discutere per l’ennesima volta riguardo a
quello che scriveva. Non era una conversazione, certo, semmai una
litigata, papà aveva concluso che Kristmann non era un autore, non
era un poeta, semmai un villano che scriveva i libri con il pisello. La
sua, in altre parole, non era letteratura, solo lussuria. Entrambi si
erano scaldati molto ed erano anche piuttosto brilli. La mamma gli
rispose dicendo, sicuramente per provocazione: non è letteratura,
solo lussuria? Tu sei un cretino, un povero cretino che non capisce
niente. Non lo sai che letteratura e lussuria sono due facce della
stessa medaglia – per quale motivo credi che la gente legga?
A me questa sembrò una gran notizia. Il desiderio sessuale mi
aveva colto di sorpresa, come un ladro nella notte, in senso letterale,
e mi aveva rubato l’infanzia, o me l’aveva cancellata, per prendere il
suo posto. Ero andato a dormire una sera che ero un bambino, mi ero
svegliato il giorno dopo che ero qualcosa di totalmente diverso.
Quella notte sognai che ero a bordo di un peschereccio che navigava
sulle strade di Akureyri e davo una mano a tirare su una gran rete,
carica di pesci, in mezzo ai quali si dibatteva una donna nuda.
Avevamo issato la rete, i pesci si dimenavano morenti sul ponte e lei
giaceva lì nuda tra loro, con gli occhi chiusi. Stavamo tutti lì in piedi
come pietrificati a fissarla. A quel punto lei ha aperto gli occhi e mi ha
guardato dritto in faccia. Con quello sguardo potente e magnetico, e
poi mi ha attirato a sé con la sola forza dello sguardo. Ricordo che mi
sembrava che gli uomini intorno a me fossero scomparsi, svaniti, e io
d’un tratto mi ritrovavo vicinissimo a lei, i pesci si dimenavano e mi si
sfregavano addosso nella loro agonia. Lei mi slacciava la cintura, con
mano ferma mi prendeva dolcemente il membro durissimo, che solo
qualche settimana prima aveva raggiunto la sua dimensione
definitiva. E, lasciatemelo dire, era di dimensioni considerevoli. Io lo
trovavo spaventosamente grosso. Mi sembrava di avere un mostro
tra le gambe, ne avevo quasi paura. Il mio corpo non era ancora
cresciuto del tutto, feci uno scatto notevole circa sei mesi dopo, ma
quel maledetto pisello era diventato talmente grosso in confronto al
resto che facevo fatica a stare in equilibrio quando mi si rizzava. Le
proporzioni erano completamente scompensate. Insomma, la donna
me lo prese dolcemente, ma con vigore, mi attirò a sé, mi guardò
profondamente negli occhi, aprì le gambe e lo guidò dentro di sé. Dio
mio, non avevo mai immaginato che potesse esistere un posto così
morbido, caldo e umido! Le scivolai dentro, il membro penetrò
completamente, io rimasi senza fiato e sussurrai con voce roca, sto
per morire. E lei sussurrò a sua volta, ancora più rauca, ma certo che
stai morendo, e non ti piace? Sì, sussurrai io, mentre qualcosa mi
esplodeva dentro, e mi svegliai con la mia prima eiaculazione. I
pantaloni del pigiama fradici di sperma. Quella notte morì il bambino
che ero.
Mundi: Che fine ha fatto la tua promessa di risparmiarci i dettagli?
Questi non erano dettagli, ma una parte fondamentale della
narrazione, che semplicemente non sarebbe stata in piedi se l’avessi
omessa. Avevo ancora quel sogno fresco nella memoria quando
sentii mamma e papà litigare. Entrambi ubriachi, quel maledetto
brennivín è stato ancora più dannoso del povero Kristmann, per la
nostra famiglia. Io invece ero completamente sconvolto dopo quel
sogno. Quella nuova sensazione, quel sentimento, quella nuova vita.
Sì, credo di poter affermare senza ombra di dubbio di aver
abbandonato l’infanzia nell’arco di una notte. Non ho più cercato i
soldatini di piombo, eppure ne possedevo un esercito. Li ho regalati a
mio fratello. Lui non è mai cresciuto davvero. Per molto tempo, ogni
volta che andavo a dormire ho sperato sinceramente di incontrare di
nuovo la donna del sogno. Avevo talmente voglia di penetrarla che
tremavo, per due volte sono venuto al solo pensiero, e…
Mundi: Ehm.
Che cosa c’è, anche questi li chiami dettagli? Be’, in ogni caso, non
è più tornata. Se n’era andata. Allora sentii papà che diceva quella
cosa, che Kristmann aveva scritto i suoi romanzi con il pisello, e la
mamma che affermava che tutta la letteratura era lussuria. Certo,
l’aveva detto per provocarlo, ma ero giovane e non compresi l’ironia,
non sapevo nemmeno che esistesse, e quindi mi buttai a capofitto
nella lettura dei suoi libri nella speranza di incontrare la donna del
mio sogno.
E l’hai ritrovata? ho chiesto io.
No, ne ho letti cinque, dei suoi libri, prima di lasciar perdere.
Sóley: Non posso trattenere Elías per sempre.
Ah, quindi è in arrivo, ha detto allora Ási, si è girato, ha dato
un’occhiata fuori, alla giornata luminosa, al grande parcheggio dove
le bandiere pendevano perfettamente immobili, come a dichiarare
che nel mondo non stava più accadendo niente. No, sta ancora
aspettando, ha risposto Sóley. Gli ho mandato un altro sms poco fa,
gli ho detto che eri ancora nel bel mezzo del tuo racconto. Un mezzo
ben lungo, ha risposto lui, ma ha aggiunto che avrebbe aspettato
ancora tranquillo sul bordo del fiume che ad Alessandro Magno
passasse il mal d’auto. Però tutto ha un limite. E c’è una corriera che
sta per arrivare ed Elías vuol venire a prendere le spezie prima che io
debba ricevere i turisti. Cucinerà lui per la festa annuale in onore di
Páll di Oddi, di Elvis Presley e della vita.
Alessandro Magno?
Mundi: Il gatto di Elías.
Lo so, stavo solo riflettendo sul nome.
Sóley: Ha due gatti, Alessandro Magno e una femmina che si
chiama Cleopatra, si caccia sempre in qualche avventura, sparisce
sui monti per giorni, va a caccia, si procura da mangiare, crede di
essere un leone di montagna. Elías è un amante dei gatti, li battezza
con i nomi di personaggi storici, infatti è un grande appassionato di
storia. Appassionato, ma che dico, ha un dottorato in storia,
addirittura, è professore emerito all’università d’Islanda. E in un certo
senso è stata la storia del genere umano che li ha fatti incontrare,
Elías e Páll, la loro passione per la materia, e… ma…
Si è interrotta bruscamente, Ási ha abbassato gli occhi, Mundi l’ha
guardata. C’è un dolore in quel silenzio, talmente profondo o
problematico che nessuno dei tre pare sapere come superarlo, come
passare oltre. Sóley si è morsa le labbra, ha appoggiato una mano
sul fianco, e io ho provato un vago senso di desiderio. Il cane di tua
sorella Rúna, mi sono costretto a dire per cercare di attutire il
desiderio che cresceva rapidamente, ma anche per spezzare quel
silenzio – il cane di Rúna si chiama Cohen…

Á
Sóley ha sorriso, Ási ha alzato la testa, il silenzio si è dissipato. Sì,
ha preso questa consuetudine dalla mamma, dopo che quei
maledetti norvegesi le avevano messo sotto il cane che aveva prima.
Ti ricordi, no, che la mamma ha sempre battezzato i suoi cani con
nomi di musicisti, Dylan, Piaf, Beethoven…
Mundi: I gatti con nomi di personaggi famosi, i cani con nomi di
musicisti. Non ci si annoia proprio, in questo fiordo.
Ási: Allora anch’io dovrei dare nomi di musicisti ai miei alberi.
Questo si chiama Eric Clapton, questo David Bowie, e là c’è Chopin.
Una foresta musicale!
Sóley: Oppure dovresti dargli nomi di attori porno. Finiresti al
telegiornale. Perfino la BBC verrebbe a intervistarti.
Ási: Non mi prendere in giro. Sono sensibile.
Mundi: Sarebbe interessante conoscere la tua definizione di
sensibilità.
Sóley: Piacerebbe anche a me, però adesso dobbiamo tagliar
corto. Sei già uscito anche troppo dal seminato, caro Ási. E non oso
pensare dove andremmo a finire se ti chiedessimo una definizione di
sensibilità. Più o meno… un quarto d’ora fa volevi spiegarci perché
Wislawa si trova qui da noi, invece hai parlato solo di Kristmann
Guðmundsson, di internet e della tua prima eiaculazione. Hai cinque
minuti, poi avverto Elías che può rimettersi in marcia. E ricordati che
sto aspettando una corriera con quaranta turisti giapponesi. A loro
non posso certo proporre la storia della prima eiaculazione di un
agricoltore forestale che ha scritto al Congresso degli Stati Uniti e al
Parlamento inglese per reclamare giustizia.
Mundi: Una corriera con quaranta turisti. Una corriera piena di
soldi.
Sóley: Io preferisco vederli come persone in cerca di esperienze, e
desiderose di rilassarsi in piena pandemia di covid.
Smettetela con queste ciance, allora, ha detto Ási, ho solo cinque
minuti.
Cronache dell’inferno

Non possiamo evitare il mio desiderio sessuale. Dobbiamo per forza


passarci attraverso, ha cominciato Ási. O attraversarlo per uscirne.
Non so che cosa sia più adeguato.
Mundi: All’inizio era il sesso, e il sesso era Dio.
Ási: Questa non è affatto male. Forse però sarebbe anche meglio
ritoccare la frase e dire – all’inizio era il sesso e il sesso era presso
Dio. Trovo che sia più adeguato. Ora non interrompermi. Mi hai fatto
perdere venti secondi. Erano davvero sataniche, le mie pulsioni,
voglio dire. Mi pareva di scoppiare. L’età della ragione, dicevano i
miei parenti. La ragione! Ma nient’affatto, non c’era nulla di innocente
né di ragionevole – avevo dentro un tirannosauro urlante! Scusate
per le descrizioni che sto per farvi, ma tanto perché abbiate chiara la
situazione, ero talmente ammattito, talmente smanioso che infilavo il
cazzo in tutti i buchi che vedevo, tubi di scarico, rotoli di carta
igienica, custodie di plastica, due pecore del fiordo accanto. Che Dio
mi scampi, sembrava che tutti i buchi del mondo mi chiamassero a
gran voce. No, anzi, diciamo che intonavano un canto talmente
ipnotico che nessuna forza al mondo riusciva a trattenermi. Era come
se… sì, dai, la storia di quel tale, Ulisse, con le donne che con il canto
facevano perdere la testa agli uomini che non riuscivano più a
controllarsi, e…
Mundi: Le sirene, che…
Ási: Grazie! Non riesco mai a ricordare i nomi. Gunna mi ha
parlato di queste creature, una storia fantastica, davvero stupenda. È
stato un grande, quest’Omero, a inventarsi una cosa del genere, un
canto seducente che ti strappa la volontà e tu vaghi inebetito incontro
alla tua fine. Certo che ne inventa, la gente!
Sóley: Sono sempre esistite in ogni epoca, le sirene, anche se
quasi mai nella stessa forma. Cambiano aspetto, si adattano ai tempi,
ma la natura è sempre la stessa.
Mundi: E si prendono gioco dell’invidia e del pregiudizio. Ed ecco
che in un paesino del Nord dell’Islanda si sono impegnate perché un
mezzo troll ancora bambino copulasse con i tubi di scappamento.
Á
Ási: Il desiderio sessuale era il mio Ulisse.
Mundi: Non mi torna molto, questo paragone.
Ási: Tu vendi turbine per motori a reazione, che ne sai tu dei
paragoni. Lascia in pace i miei. Soprattutto adesso che la lancetta dei
secondi mi taglia il tempo a disposizione.
Come una cipolla, ho detto io.
Ási: Eh?
Taglia il tempo come una cipolla, finché non ne resta più nulla. Se
non le lacrime.
Sóley: Ah, qui ti riconosco.
Ási: Io l’ho incontrato per la prima volta poco fa, che ne so; posso
finire?
Sóley: Stiamo tutti aspettando.
Mundi: Se continua così ci ritroveremo davanti Elías prima di poter
uscire, e…
… no, non si può, ha convenuto Ási, mentre si aggiustava i
pantaloni in vita. No, non si può, ha ripetuto, quindi faccio un salto
avanti nel tempo, dai tormentati anni dell’adolescenza approdo qui
nel fiordo all’epoca in cui internet ha già cominciato a conquistare il
mondo. Certo, qui la connessione è stata molto lenta all’inizio. Ci
voleva un’infinità di tempo per vedere delle fotografie, e praticamente
mezza giornata per scaricare dei video – di conseguenza era
maledettamente complicato accedere al porno. Si perdeva sempre
da qualche parte per strada, annegava in mare, si smarriva sulle
brughiere. Ma poi un parlamentare della nostra circoscrizione si è
impegnato perché ci installassero una connessione più potente. Per
rafforzare la comunità ed evitare che i giovani se ne andassero,
aveva detto, ma naturalmente sperava soprattutto di ottenere voti per
la riconoscenza, visto che si avvicinavano le elezioni. E – bing! – si
sono spalancate le porte dell’inferno! Rimanevo ore e ore pietrificato
a guardare quelle porcherie. Non mi bastavano mai! Un video dopo
l’altro. Mi buttai di peso in quel pantano, in quelle sabbie mobili che
mi si chiudevano intorno. Si può dire che ci avessi preso la residenza,
lì dentro. Mi masturbavo così tanto e con una tale foga che avevo il
membro tutto rosso e gonfio. Ma essendo figlio di contadini sapevo
che cosa faceva al caso mio, avevo munto le vacche, valgono le
stesse leggi per loro e per gli eccessi masturbatori. Quindi prendevo
del grasso per mungitura e lo spalmavo regolarmente sul mio amico.
Così la cosa si sistemò e potevo continuare a masturbarmi, che fu un
sollievo – mi rifiuto di considerarli dettagli inutili, ha detto Ási a Mundi,
sono una parte fondamentale del racconto.
Mundi: Fai un altro salto avanti. La lancetta dei secondi avanza in
fretta.
D’accordo, d’accordo. Non riuscivo più a dormire per la fregola,
non c’era niente da fare. Il canto delle sirene mi teneva sveglio. Mi
attirava sempre più in profondità nel mondo di internet. I siti porno
che visitavo erano estremi, e la situazione andò fuori controllo
quando cominciai a frequentare i siti di incontri. Per la prima volta mi
persi del tutto. Per il momento evito di spiegarti quali effetti questo
demonio ebbe sulla vita famigliare, adesso non entro nell’argomento,
fu difficile per tutti, ero un uomo sposato e padre di tre figli. Ci furono
degli episodi, te lo posso assicurare, molto brutti. Il sesso, ho letto da
qualche parte, ti può aprire le porte di un bellissimo chiaro di luna,
oppure quelle dell’inferno. L’ho sempre trovata una bella frase,
davvero esemplificativa, anche se non capisco del tutto la questione
del chiaro di luna. Ma immagino che il sesso con quelli che…
d’accordo, Mundi, accelero: i siti di incontri mi introdussero al mondo
della prostituzione.
Mi ero creato un mio alter ego, entravo nei forum per dialogare,
per parlare spinto, per postare dei contenuti. Davo libero sfogo alle
mie fantasie come se fossi stata una macchina per produrne. Mi
uscivano fuori senza sforzo. Non mi interessavo più a nulla, lavoravo
senza convinzione. A casa era come se non ci fossi. Perfettamente
inutile. C’è mancato poco che diventassi scrittore, probabilmente
avrei potuto fare richiesta del sussidio per artisti. Ma dio mio, che
brutture, le mie cose come quelle di molti altri, su quei siti, perché
nemmeno gli altri erano angeli. E io, un campagnolo ingenuo,
all’inizio credetti che dietro a tutti quei nomi inventati ci fossero
semplicemente persone come me in cerca di uno sfogo ai loro
desideri. Non vedevo inganni, ecco, né menzogne, solo uomini
arrapati e donne in calore. Per qualche tempo ho scambiato molti
messaggi con una tale Caterina la Grande. Sentivo che c’era una
scintilla tra di noi, così quando mi ha proposto di incontrarci ho
abboccato subito all’amo. Mi ha fatto abboccare lentamente, si è
presa tutto il tempo e prima che me ne rendessi conto avevo
accettato di «aiutarla» con sessantamila corone, era in difficoltà a
pagare l’affitto del mese successivo, qualche stronzata del genere. Il
mio maledetto cazzo, lui prendeva tutte le decisioni. Come se avesse
una carta di credito intestata a suo nome, lui che non è nemmeno
legalmente abilitato a gestire le sue finanze. A casa mi sono
inventato un appuntamento dal dentista a Reykjavík, avevo trovato la
scusa per allontanarmi e per la cifra versata. Ma a poco a poco mi
sono accorto che dietro quei nomi immaginari c’era qualche
delinquente senz’anima che vendeva i corpi delle ragazze, alcune
andavano all’università e avevano un estremo bisogno di soldi, altre
si drogavano, e poi c’erano le straniere impastoiate nell’inferno della
schiavitù sessuale. Ma ormai ero talmente dipendente dal sesso che
non me ne fregava niente di cos’era giusto o sbagliato – potete
credermi, quel tipo di dipendenza non è meno deleteria della droga o
dell’alcol. Uno venderebbe l’anima, venderebbe i genitori, per la dose
successiva. Allora che cosa mi ha fatto rinsavire, di certo vorrai
saperlo; e io ti rispondo, ma alla svelta, perché Elías non rimarrà tutto
il giorno seduto sull’argine.
Sóley: E sta per arrivare una corriera piena di turisti.
Allora svelti e bene, svelti e bene, ha detto Ási, tirandosi su di
nuovo i pantaloni – mi sono iscritto al partito progressista per
giustificare i giri a Reykjavík, mi sono fatto coinvolgere nelle loro
attività. Come ha detto Mundi una volta, sarcastico come sa essere
lui, a quel partito si aderisce per salire più rapidamente la scala
sociale o per nascondere la propria dipendenza dal sesso. Wislawa è
stata l’ottava persona che ho incontrato.
Tramite quei siti?
Ási: Sì, sei donne, due giovani uomini. Non mi importava niente se
erano maschi o femmine, e per me è ancora così, del resto sono
talmente tante le belle persone interessanti di entrambi i sessi che è
uno spreco, è da stupidi frequentarne uno solo. Però cominciavo a
stare maledettamente male. La mia Gunna si era trasferita a
Hólmavík, i miei figli erano adulti, erano andati nella capitale e non mi
parlavano quasi più. Sì, si può anche dire che la mia vita per me non
aveva più senso. E così mi sentivo quando andai per l’ennesima volta
a Reykjavík, dove avevo un appuntamento con una donna che si
faceva chiamare «Your wet dream». Vedi, non avevo nemmeno
voglia di andare, ma ero spinto dal mostro che voleva dominarmi.
Sono arrivato nella capitale la sera tardi, ho fatto il check-in in
albergo, ho cercato di dormire ma non facevo che rigirarmi nel letto
finché non mi sono dato per vinto, ho preso il computer, pensavo di
guardarmi un film su Netflix ma ho visto che c’era un’email da Gunna.
Un lungo messaggio in cui mi ricordava questo o quell’episodio della
nostra vita, gli anni passati insieme, parlava con una dolcezza
affettuosa di che persona bella e buona io fossi, e mi vennero le
lacrime agli occhi. Aveva allegato al messaggio delle foto dei disegni
fatti dai bambini quand’erano piccoli. Gunna stava sistemando delle
vecchie cose, voleva condividere con me quello che aveva trovato, e
l’innocenza di quei disegni, la profonda gioia di vita – non ce l’ho fatta
più. Mi sono accasciato, ho pianto. Ho pianto per l’innocenza perduta.
Ho pianto perché il sesso aveva distrutto tutto quello che c’era di
bello nella mia vita. Ho pianto, e quella notte non ho dormito per
niente. Al mattino ho aperto il computer e ho letto i messaggi che
avevo ricevuto da quella «Your wet dream», messaggi che senza
dubbio prima avrebbero acceso i miei istinti più bassi, e che invece
stavolta mi riempivano di una profonda tristezza, di avvilimento. Ho
telefonato a Gunna e con mia grande sorpresa mi ha incoraggiato,
anzi, mi ha ordinato di andare a quell’appuntamento, ma per chiedere
perdono a quella donna, chiunque fosse. Dovevo fare di lei la
rappresentante di tutte coloro di cui avevo comprato i servizi, di cui
avevo sicuramente abusato, in alcuni casi; dovevo chiedere perdono
e proporle di aiutarla, se ne avessi avuto la possibilità.
Sono andato nell’albergo che avevamo scelto per incontrarci – e lì
mi aspettava la nostra Wislawa. E mentre entravo è successo
qualcosa. Non riesco a spiegarlo, solo che è successo qualcosa di
grosso. Mi sentivo come se fosse stato il destino a farci incontrare,
per salvarci a vicenda da quell’inferno in cui ci trovavamo entrambi
prigionieri. Sono stato due ore con lei, mi ha raccontato la sua storia.
Una ragazza siriana che aveva perso in guerra i genitori ed entrambi i
fratelli, uno di appena cinque anni, poverino. Non vi riferisco come
sono stati uccisi i suoi genitori, non ce la faccio proprio, è troppo
crudele. Erano rimaste in due, lei e sua sorella più piccola, la casa
solo un mucchio di rovine, la loro città un campo di battaglia. Avevano
deciso di fuggire, insieme ad altri come loro, avevano raggiunto la
costa del Mediterraneo e poi senza un soldo in tasca erano riuscite
ad arrivare in Grecia per il rotto della cuffia, duecento persone su un
gommone che ne poteva tenere cento al massimo. In Grecia le
attendeva l’inferno dei campi profughi. Fondati inizialmente con
intenti umanitari, finché il diavolo non ne ha assunto la gestione.
Pochissimi mesi dopo però la fortuna sembrò averle rintracciate,
perché nel campo incontrarono un lontano parente che disse di poter
offrire a Wislawa un lavoro in Islanda, si sarebbe occupato di tutte le
carte. Un lavoro ben pagato, in un albergo. Sicuramente avrebbe
potuto mettere da parte abbastanza denaro per tornare a prendere
sua sorella. Quel parente sembrava la gentilezza e la premura in
persona, e invece con una freddezza indescrivibile l’aveva venduta
come schiava sessuale tenendo la sorella come ostaggio, per
garanzia. Per usare le parole del poeta che il nostro Mundi cita
sempre: l’essere umano ha inventato il diavolo per portare i propri
peccati.
Mundi: Come al solito la citi nel modo sbagliato, però forse così è
addirittura meglio.
Ási: Pare che Dio abbia creato l’uomo a sua immagine – che cosa
ne dobbiamo dedurre? Chi si dedica alla discutibile attività di leggere
la storia del genere umano non può che pensare: questa non è la
storia dell’umanità, sono le cronache dell’inferno.
Forse, ho detto io, è stato il diavolo a creare l’uomo e quando Dio
si è accorto che era troppo tardi per tornare indietro, ci ha regalato la
musica e il senso di colpa.

Á
E a noi islandesi l’acqua geotermale, ha detto Ási, ma è una bella
idea la tua, la musica e il senso di colpa. Mundi, questa ce la
dobbiamo ricordare.
Me la sono già scritta, ha detto Mundi sempre seduto sul
davanzale della finestra, però adesso devi concludere, Elías sta per
arrivare. Ha un dottorato in storia e credo che ne abbia uno anche in
demonologia.
Adesso accelero, ha risposto Ási. Un tipo gioviale, un islandese, si
era presentato all’aeroporto in Islanda per prendere Wislawa, aveva
detto di conoscere quel suo parente, un uomo perbene, aveva detto,
di cui ci si poteva fidare; e aveva parlato per tutta la strada fino a
Reykjavík. Dell’Islanda, degli islandesi. Aveva portato un panino e
una Coca Cola – lei si era addormentata prima di arrivare a
Straumsvík. Di sicuro le avevano messo qualche droga nella Coca
Cola perché è tornata in sé solo qualche giorno dopo, si è svegliata in
una stanza orrenda con tre uomini che le hanno mostrato un video in
cui lei, stordita, incosciente per la droga, aveva rapporti con tutti loro.
Rapporti sessuali brutali, umilianti. Le avevano preso il passaporto,
avevano detto che il video sarebbe stato caricato su internet se lei
non… lei aveva risposto loro di andare all’inferno e di non darsi la
pena di tornare. Allora avevano tirato fuori delle fotografie che
ritraevano sua sorella, sorridente accanto allo zio, scattate il giorno
prima… sua sorella sarebbe stata costretta a prostituirsi se Wislawa
non avesse collaborato. Come hai detto tu, forse è stato il diavolo a
creare l’uomo. Dopo quest’episodio mi sono documentato sul
commercio di esseri umani e ho scoperto che rende quanto lo
spaccio di droga e il traffico d’armi. Si guadagnano le stesse cifre a
vendere bambini e donne come schiavi sessuali che a commerciare
con aerei militari – soltanto in Europa negli ultimi dieci anni migliaia di
persone sono state vendute nel giro della tratta sessuale. La nostra
Wislawa è una delle pochissime ad averla scampata. La cosa che mi
spaventa di più però è che queste informazioni sono accessibili a
tutti, non c’è da far fatica per trovarle. Sappiamo che esiste questo
traffico, eppure non facciamo niente. Che significa? Allora andremo
tutti all’inferno, alla fine? Mundi, tu hai viaggiato, hai letto libri, hai
venduto turbine per reattori, come te lo spieghi?
Mundi: Perché la bontà richiede troppi sforzi, è una tassa di infinite
ore di lavoro perse e alla fine ti getta nella disperazione – di
conseguenza, con tutta probabilità all’inferno ci va il novanta per
cento del genere umano. Dritto tra le fiamme.
Ási: Ne dobbiamo parlare meglio. Dovrò scrivere al Congresso
degli Stati Uniti e al Parlamento inglese. Comunque, la mia storia è
questa. Per il momento la chiudo qui. Più avanti ti racconterò l’ultima
parte, quella che chiamo «operazione di salvataggio». Posso
assicurarti che buona parte dei residenti di questo fiordo vi ha
partecipato. Perfino mio fratello, quell’idiota. Ma adesso la smetto,
vedo l’automobile di Elías, laggiù. Mundi, al lavoro!

Miss you baby, sometimes,

e poi si va a manifestare contro la solitudine

Sul ponte incrocio la corriera piena di turisti giapponesi. Stanno


andando verso l’albergo, io sto scendendo verso la roulotte che
Sóley mi ha dato in prestito e che si vedeva quando eravamo insieme
sullo spiazzo esterno. Una piccola protuberanza bianca sul terreno
paludoso oltre il fiume. Incontro la corriera piena di viaggiatori, di
turisti, di soldi. Esistono molti modi diversi di vedere il mondo e il
nostro punto di vista probabilmente definisce chi siamo davvero.
Dimmi come vedi il mondo, e ti dirò chi sei.
Rallento mentre mi avvicino al ponte a una sola corsia, accosto la
Volvo sul ciglio della strada e metto la freccia a destra, segnalo
all’autista della corriera che può passare per primo. Il conducente mi
risponde sfanalando, il suo modo per dirmi grazie. No, dovevo dire la
conducente, perché alla guida della corriera c’è una donna con i
capelli corti e gli occhiali da sole.
Intravedo i profili sorridenti di alcuni turisti mentre la corriera
sporca di fango e di polvere mi sfila lentamente accanto, due di loro
hanno sfoderato le macchine fotografiche e uno sembra che mi
faccia una foto. Chissà, magari finisco su un album fotografico in
Giappone, farò un gran bel viaggio. All’albergo Sóley, Wislawa e sua
sorella Oleana attendono la corriera, i passeggeri, la conducente e la
guida turistica. Il nome Oleana significa luce, luminosità, e ciò che fa
affondare le navi. Alcuni nomi sono poesie, o forse pianeti. Le tre
donne attendono la corriera insieme a Ómar, il marito di Sóley. O per
lo meno, a quanto ho capito, questo Ómar è il marito di Sóley.
Insomma, è quello che ha lasciato intendere.
E quindi è sposata.
Evidentemente.
È più che comprensibile.
Ma questo Ómar è degno di lei? Lei ha gli occhi color ambra, sono
pietre preziose, sono come le brughiere in una mite giornata di sole.
C’è un che di irresistibile nel suo modo di fare, come un’indecisione.
E quando sorride poi bisogna riallineare il mondo. È ovvio che sia
sposata. E Ómar che cosa ha fatto per meritarsela? Dove sono
sepolti i draghi che ha sconfitto per conquistarla, quali montagne ha
spaccato in due, quali tempeste ha vinto, e al mattino, quando si
sveglia dal sonno, si ricorda di inviare agli dei, al destino, un
telegramma per ringraziare?
Mi sa che lo odio, questo Ómar.
Che non è un bel sentimento, non è nobile, nemmeno intelligente,
d’altra parte l’invidia non si fa domande, se ne infischia del giudizio,
della ricchezza, della felicità, della bontà, dell’imparzialità, della
logica. L’invidia è la sorella oscura dell’amore, è tiranna e si prende
tutto quello che vuole.
Il mio Ómar, ha detto Sóley nella hall dell’albergo.

Oltrepasso lentamente il ponte, accendo lo stereo, guardo in basso,


la corrente placida del fiume, e spero di adocchiare un salmone. Lo
stereo ha scelto un nuovo brano per me, che inizia con
un’introduzione di pianoforte, sincopata ma orecchiabile, poi Regina
Spektor comincia a cantare. I’m so lonely, lonely, lonely, so I went to
a protest, just to rub up against strangers…
Sarebbe una buona idea, partecipare a una protesta contro la
solitudine. Magari potrei trovare uno scopo nella vita, andando in giro
per il mondo a organizzare manifestazioni di questo tipo. Ma prima
devo sistemarmi nella roulotte. Entrarci dentro, valutarla bene, farmi
un caffè, pensare a qualcosa mentre lo bevo.
Oh, I start to miss you baby, sometimes.
Miss you, baby, sometimes – e mi avvicino alla roulotte. Ecco, là si
intravede la fattoria di Einar e Lóa. Tutto tranquillo. Nessun fucile
puntato. Non voglio fermarmi troppo in questa roulotte, voglio tornare
presto – come un cretino ho promesso di andare alla festa che Elías
e Eiríkur hanno organizzato in onore di Páll di Oddi, della vita e di
Elvis Presley.
Questo qua è proprio un appassionato di Elvis, aveva detto Sóley
quando il gatto di Elías, Alessandro Magno, aveva finito di leccare il
latte con la panna portato da Wislawa e l’aveva seguita in cucina. Noi
tre eravamo rimasti nella hall, Sóley, io e questo Elías che era venuto
a cercare delle spezie, sta preparando un banchetto.
Questo qua è proprio un appassionato di Elvis, e c’è bisogno che
qualcuno gli dia da mangiare, guarda quant’è magro. Oltretutto
potrebbe aiutarvi a trovare nuovi aggettivi per descrivere Elvis. È
sempre stato bravo con le parole. Gli obbediscono come cani fedeli.
Chi trova parole nuove per Elvis è sempre il benvenuto a casa mia,
aveva detto Elías – e io non ho potuto far altro che accettare l’invito.
Solo che non ho voglia di compagnia. La compagnia, in generale, è
sopravvalutata.

Supero la fattoria di Einar e Lóa e devo subito rallentare per


abbandonare la strada asfaltata e imboccare uno sterrato appena
visibile che passa in mezzo alla morbida torbiera e scende verso la
piccola roulotte. Abbasso il finestrino per far entrare il mese di
agosto, il sole, l’odore di terra, di mare, quello delle betulle nane che
fanno ombra alla fattoria, il canto dei beccaccini, gli stridii delle
pettegole e le grida delle sterne che presto abbandoneranno il fiordo.
E Regina Spektor ha finito di cantare. Bella canzone.
Miss you, baby, sometimes.
Forse le dovrei scrivere una lettera e ringraziarla, è una cosa che
dovremmo fare sempre, no? Scrivere lettere di ringraziamento, ti
ringrazio di cuore per il pezzo musicale, per il disco, per la poesia, per
la storia, per il programma alla radio, per il film, per il discorso che hai
tenuto… dovrebbe mandare lettere del genere, la gente, no?
Messaggi, ringraziamenti, non è per questo motivo che sono stati
costruiti gli uffici postali, all’inizio, non è questa la ragione per cui
esiste il mestiere di portalettere, e l’idea all’origine della posta
elettronica? Perché la gente possa scambiarsi ringraziamenti,
solleciti, notizie, dichiarazioni d’amore?
Comincia un altro brano. Una voce arrochita e carica di emozione
ha sostituito quella di miss Spektor. For all the things that you’ve
given me will always stay broken but I’ll never throw them away.
Tom Waits. Faremmo fatica ad andare avanti nella vita, se non ci
accompagnasse lui.
E sono arrivato alla roulotte.
È talmente piccola che non sono certo vi possano trovare spazio
più di una tazza per il caffè, un rotolo di carta igienica e tre sterne.
Quelle tre che si alzano in volo stridendo nel momento in cui spengo
il motore ma aspetto a uscire dall’auto, voglio ascoltare il brano fino
alla fine. Summer is gone, but our love will remain. L’estate è finita,
ma il mio amore per te rimarrà per sempre. Sopravvivrà all’autunno,
all’inverno, al buio, alla delusione e a tutte le pietre più pesanti:

Ti amo,
e sono al sicuro.
Ti amo,
e lo strazio mi stringe tra le braccia.

Poi la canzone finisce.

Ogni cosa deve finire, perché qualcosa d’altro possa


rimpiazzarla.
Un amore fa spazio a un altro.
Io muoio per fare posto a una nuova vita.
Poso la chitarra perché qualcun altro la possa suonare.

La roulotte è parcheggiata in linea retta rispetto all’albergo e mi


sembra di intravedere Ási sul bordo della piscina – forse sta parlando
con la figlia della coppia canadese. Si sarà alzata per lui, avrà
scoperto i seni, si sarà trasformata nel canto di una sirena e Ási avrà
dimenticato di essere lì per riparare una porta? I seni di quella
ragazza avranno turbato anche Mundi, il filosofo che vende turbine
per motori a reazione, che viene nel fiordo per evitare di rispondere
alle questioni del mondo?
Sparsi davanti all’albergo ci sono alcuni turisti, quasi tutti portano
la mascherina davanti al naso e alla bocca, vanno e vengono, felici,
nel sole, non tira un filo di vento, ci sono quindici gradi, un clima
estivo migliore di questo nel mese di agosto è impossibile trovarlo
quassù nel Nord del mondo, e non ce n’è nemmeno bisogno.
Quindici gradi e un’aria così ferma che ti placa il sangue. Mi frugo in
tasca per cercare la chiave della roulotte. Non è grande, aveva detto
Sóley, ma è molto comoda, sentirai come ti abbraccia. Vieni da me se
ti manca qualcosa, è ovvio che la colazione la fai qui in albergo, però
dovrebbe esserci del caffè, qualche galletta svedese, e ti do del
burro, del formaggio di capra e una bottiglia di single malt. Così
dovresti essere pronto a tutto. Credi di poter stare bene… amore
mio?… aveva aggiunto.
Amore mio.
L’aveva detto dopo un attimo di esitazione. Come se non fosse
sicura di poterlo dire. Di non rischiare. Di averne il diritto. Ma l’aveva
detto lo stesso.

Tengo la chiave della roulotte in una mano e una bottiglia di whisky


nell’altra, del Macallan, diciotto anni. Non mi serve altro che un
bicchiere e della musica, e sono al sicuro. Miss you baby, sometimes.
Infilo la chiave nella toppa.
Ho chiamato la roulotte «il non luogo», aveva detto Sóley mentre
mi consegnava la chiave e la bottiglia di whisky. Intanto aveva
sorriso, e gli dei erano stati convocati in tutta fretta per riallineare il
mondo.
Il non luogo, bello. Il luogo che non esiste. È perfettamente
adeguato.
Apro la porta e prima di chiuderla subito a doppia mandata mi
accorgo che il tizio che era in chiesa, il pastore, il conducente
d’autobus, a meno che non sia il diavolo in persona, è già dentro,
seduto al piccolo tavolo rotondo in fondo alla roulotte.
Era ora che ti facessi vedere, dice.

Chiamami Snati. Oppure:

sono proprio felice che tu sia tornato.

Non ti perdonerò mai.

Si direbbe quasi che la roulotte diventi più spaziosa nel momento in


cui si entra. Credevo che fosse molto più piccola, dico mentre mi
siedo al tavolino rotondo, di fronte al religioso.
Istantaneamente prendo la decisione di non chiedermi chi sia
quest’uomo o per quale motivo si trovi qui. E mi stupisco di quanto sia
confortevole questa roulotte. Si avverte la cura in ogni piccolo
dettaglio. Le tende, la semplicità della tovaglia, le suppellettili. Poche
fotografie antiche in bianco e nero sulle mensole sopra il divanetto ad
arco; contadini che fanno il fieno, intenti all’agnellatura, a radunare le
greggi. Una foto ritrae una coppia di coniugi sorridenti e due
bambinetti di fronte a una bella casa di legno rivestita di lamiera
ondulata, con un abbaino che sembra un sorriso. Può essere, penso
io, stupito… può essere che siano…
Sì, dice lo sconosciuto, proprio così. Sono Hafrún e Skúli, con i
figli, Halldór e Páll.
Mi sporgo in avanti, con la pelle d’oca e troppo sconcertato per
domandarmi come abbia fatto l’uomo di chiesa a leggermi nel
pensiero. La coppia sembra circondata da un alone particolare. Si
tengono stretti, evidentemente felici, evidentemente innamorati, e i
due figli, Halldór e Páll, diciamo tra i sette e i dieci anni, sono seduti ai
loro piedi, a gambe distese, Halldór sorridente, Páll serio in volto. I
quattro formano un piccolo universo luminoso pieno di felicità. Un
universo che adesso si è sicuramente spento, è sparito, non ne è
rimasto niente se non quella fotografia in bianco e nero, conservata in
una piccola roulotte in un fiordo isolato.
Ma il tizio della chiesa come faceva a sapere a quali persone
stessi pensando? E che… No, non voglio scervellarmi, non sempre è
un bene conoscere le risposte. L’ignoranza rende liberi. Invece mi
accontento di dire che la roulotte sembra essere diventata più
spaziosa appena ho varcato la soglia.
Forse si adatta a te, o viceversa, fa lui, e ripete la frase che ha
pronunciato appena ho aperto la porta, era ora che ti facessi vedere.
Mi stavi aspettando, chiedo io, e a dire il vero lo chiedo
controvoglia, perché non è mia intenzione fargli domande. Le sue
risposte sembrano date a vanvera, nel migliore dei casi, azzardate
nel caso peggiore, o piene di incertezze.
Mi stavi aspettando, gli chiedo per la terza volta, e poi aggiungo,
perché forse due domande invece di una hanno più probabilità di
cavargli di bocca una risposta: e tu chi saresti?
Quel tizio mi sorride per la prima volta.
Alla maggior parte delle persone sorridere dona. Succede
qualcosa di bello nel loro volto. Un sorriso è una spezia, un balsamo,
una gioia, una porta che si apre. Ma del sorriso di questo tizio non so
davvero che pensare.
Finalmente una domanda sensata, fa l’uomo, quasi allegro. Mi
pareva di averti avvertito, però – a volte le domande sono la vita, le
risposte la morte.
Devi pure averlo un nome, tutto si chiama in qualche modo.
Montagne, animali, laghi, cibi, persone. Dio ha chiamato la luce
giorno, le tenebre notte, il firmamento cielo, il suolo terra. In altre
parole, creare il mondo non era abbastanza, perché non avrebbe
cominciato a funzionare, non sarebbe davvero esistito prima di dargli
un nome. Di conseguenza, senza un nome non esisti. Mi rivolgerei
all’aria.
I nomi sono solo un impiccio, comunque puoi chiamarmi Snati,
oppure Dingdong.
Uno è un nome che si dà ai cani, il secondo una parola senza
senso.
Potrei facilmente girare la domanda e chiedere a te come ti chiami.
Ma ho più tatto di te, e lascio perdere.
È inutile discutere con te. Tu sei aria. E poi mi aspettano. Devo
andare a una festa da Elías, Eiríkur ed Elvis Presley. Ci saranno molti
altri invitati. Non voglio farmi attendere, sarebbe scortese. Tu non sei
invitato, che io sappia. Vedi, l’umanità può essere suddivisa in due
categorie, chi viene invitato e chi no. E mi pare sia piuttosto chiaro in
che modo siamo suddivisi qui dentro. Al mio ritorno non ho alcun
dubbio che te ne sarai andato, sparito, evaporato. Quindi stammi
bene, gli faccio, e mi alzo per andarmene.
Non vuoi sapere che cosa sono questi fogli, chiede, e appoggia il
palmo su una pila di fogli A5 posati lì accanto, che per qualche motivo
non avevo notato; non vuoi sapere che cosa c’è scritto?
Non me ne può fregare di meno di questi tuoi fogli, e non me ne
frega nemmeno di sapere chi sei, o da dove vieni. Do per scontato
che tu sia un prete che ha abbandonato la fede, che tu abbia preso la
patente per guidare gli autobus e porti in giro i turisti. Sei passato
dalla religione al turismo. Due ambiti in cui girano parecchi soldi. Il
denaro e il potere avanzano da sempre seguendo le orme delle
religioni, e ormai le hanno soppiantate. Dio alla fine diventa sempre
demonio. Adesso però me ne vado, e com’è ovvio mi porto via anche
la bottiglia. A te non farebbe bene. Del resto, non puoi nemmeno
ubriacarti se vuoi riprendere la tua corriera. Non dimenticarti di
chiudere a chiave quando esci, e cerca di comportarti bene. Lóa qui
accanto possiede un fucile, si allena spesso a tirare e cerca dei
bersagli.
Non puoi andartene di già, dice semplicemente il pastore con la
patente, quasi come se fosse dispiaciuto, quasi come se fosse
intristito, mentre gira alcuni fogli in modo da rivelare le pagine scritte.
Il lato oscuro, penso mentre torno a sedermi. O meglio, mi accascio
sul sedile, poso la bottiglia sul tavolo davanti a me ed evidentemente
non devo avere un gran bell’aspetto perché quel tizio mi mette
davanti un bicchiere, un vecchio bicchiere crepato che non so da
dove diavolo esca, ma non è il momento di preoccuparmene; stappo
la bottiglia, verso. Mi faccio una bella sorsata di whisky, chiudo gli
occhi per assaporarlo meglio e sento l’alcol che mi scende nel torace
come un sussurro rilassante. Poi riapro gli occhi e guardo i fogli.
Certo che riconosco la mia scrittura.
Non è assolutamente mia intenzione cercare di capire, Snati,
come diavolo sei riuscito a procurarti questi fogli, non mi passa
nemmeno per la testa.
Allora stai imparando, dice lui. Quindi c’è speranza.
Speranza di che?
Ecco, è già svanita. E io che credevo che cominciassi a capire.
Che il diavolo ti prenda e ti ingoi in un solo boccone. Sto andando
a una festa. C’è chi è invitato e chi no.
Può anche essere, ma tu non te ne vai subito, dobbiamo prima
finire con certi dettagli. O meglio, dobbiamo permettere al destino di
compiersi. È l’unico modo, altrimenti non possiamo andare avanti. E
tu non puoi nemmeno sottrarti al compito che hai iniziato. Questo lo
sai.
Noi? Chi cazzo sono questi noi, qui non ci sono noi, solo io e poi tu
– e tu sei uscito ben fuori dal seminato. Il destino? Il mio destino è di
ascoltare Elvis Presley. Dopodiché posso dire di avere vissuto.
Sai perfettamente di che cosa sto parlando, ribatte il conducente
d’autobus consacrato, lo dice in tono calmo e con una tale sicurezza
che mi monta addosso una rabbia improvvisa. Purtroppo, mi tocca
dire, perché con tutta probabilità ha ragione.
E allora Elías ed Eiríkur, devo farli aspettare, chiedo, cerco di
avere un tono sarcastico e scuoto la testa come per dire, che
stronzate! Evidentemente non sono convincente, la domanda la
mormoro appena, ho il sospetto che il patto sia questo, che chi
comincia a raccontare una storia deve per forza portarla a termine.
Anche le storie che non finiscono mai, o quelle che non si dovrebbero
scrivere. Credo che sia una questione di responsabilità, borbotto io,
tenendo gli occhi bassi sul tavolo, su tutti quei fogli che lo
sconosciuto mi ha sparso davanti. E credo anche che la questione
stia nell’arrivare prima della morte.
Hai sicuramente ragione. Per quanto riguarda la responsabilità, e
per il fatto che quello che conta sia puntare contro la morte. Hai letto
quell’articolo sulla molteplicità degli universi, in albergo.
È una domanda o un’affermazione, chiedo, cercando di risultare
scostante. Mi irrita da morire dover essere d’accordo con questo
conducente d’autobus teologizzato e così autocompiaciuto. E tu che
ne sai dell’articolo, mi stavi spiando?
Accetterei volentieri del whisky, a volte sei talmente stupido che mi
viene quasi voglia di annegare la lucidità nell’alcol. Per allontanarmi il
più possibile da te. Lo sai, del resto, che l’alcol ha una doppia
funzione; serve da una parte a rendere allegri, dall’altra a far
evadere. Chi è convinto che le due cose siano una sola si trova in
grave pericolo. Loro possono aspettare, non preoccuparti, almeno
per il momento.
Loro, loro chi – chi sono queste persone in pericolo, che credono
che l’alcol sia una via di fuga?
Mi riferivo a Elías ed Eiríkur, accidenti se fai fatica a seguire il filo
del discorso. Il motivo per cui possono aspettare – dice il conducente
d’autobus consacrato, alza l’indice della mano destra e credo che
cerchi in questo modo di mettermi a tacere, è che dubito che quei due
non possano aspettare, visto che Elías è tornato a casa, ha
cominciato a preparare per la festa, il gatto è salito sul frigorifero,
offeso perché Elías ha fatto entrare tutti quegli stupidi cani in casa,
Eiríkur ha già sistemato l’impianto stereo in giardino e sta
controllando su Spotify le due playlist che ha preparato per la festa.
Una è dedicata a Elvis, l’altra è più generale. Sarà bello sentire Elvis
cantare a tutto volume sotto il sole. E non sarà male nemmeno
quando Eiríkur suonerà Í hjarta mér di Bubbi Morthens, Where Is My
Mind dei Pixies e S.O.S.A. di AZ. Si smuoveranno le montagne, quei
giganti addormentati!

Dovresti venire anche tu, Sóley, aveva detto Elías. Lo vedi, il cielo ha
apparecchiato tutto il meglio per noi, niente vento, sole, temperatura
mite.
Farei di tutto per poterci essere, con voi tre e con Elvis, aveva
detto lei aprendosi in quel suo sorriso straordinariamente luminoso.
Ma lo sai che non posso promettervi niente. Qui c’è molto da fare.
Quaranta turisti giapponesi in arrivo. Li porterai a fare la tua solita
escursione domani mattina, non devo nemmeno ricordartelo. Spero
che tu non sia arrugginito e non abbia perso la tua verve, anche se
non porti in giro un gruppo dal novembre dello scorso anno.
Mai stato meglio, racconterò la storia del fiordo e parlerò anche un
po’ di Ási, aveva detto Elías sorridendo.

Il cielo è un fan di Elvis, mi pare ovvio, avevo detto nel parcheggio


dell’albergo quando io e Sóley eravamo rimasti a guardare Elías e il
suo gatto allontanarsi in macchina; ci saranno altri invitati?
A parte te e il cielo, vuoi dire, sì, sì. Mia sorella Rúna, ovviamente,
e papà. Lui sostiene di essere morto, a dire il vero, dice che non è
piacevole per i vivi se i morti si presentano alle loro feste, ma verrà
anche lui. E poi ci sarà Dísa, la vecchia Lúna, Kári di Botn e tutta la
sua famiglia, i parenti dal Canada, Mundi e Ási, perché nonostante
l’atteggiamento che Ási ha con Elías, i due si trovano molto bene
insieme, sotto tanti aspetti, si scambiano visite durante i mesi
invernali, quando tutto è talmente immobile qui nel fiordo che è come
se il mondo si fosse addormentato. Sì, sono tutti invitati, e anche noi
qui in hotel, anzi, nessuno verrà escluso e non mi stupirei se molti
altri facessero un salto. Mi sa che ci sarà anche qualcuno che verrà
da lontano, per farci una sorpresa. È una festa che noi qui nel fiordo
aspettiamo da tempo, e perfino il cielo ha benedetto questa giornata,
è ovvio che stima molto Elvis Presley, in particolare Suppose e Can’t
Help Falling in Love, del resto bisognerebbe essere morti da mille
anni per non entusiasmarsi quando Elvis canta questi brani.
Lo sai, ero felice quando ballavamo su questi pezzi, aveva detto
dopo qualche attimo di silenzio. Poi sono riuscita a convincermi di
sentirmi sollevata che tu fossi sparito dalla mia esistenza. Anche se è
stata la cosa peggiore e più difficile che mi sia mai capitata. Credevo
di morire. Per giorni e giorni mi sembrava che mi mancasse l’aria,
letteralmente, non mangiavo, vivevo di caffè e dimagrivo a vista
d’occhio. Il mio povero Ómar era molto preoccupato per me. Voleva
che andassi dal medico.

Una volta lasciato l’albergo mi sono reso conto che Sóley si


aspettava che dicessi qualcosa, che reagissi in qualche modo.
Invece non le ho detto niente. Sono rimasto lì a guardare la corriera
apparire sulla cresta del monte, come una frase con cui la brughiera
si rivolge al fiordo.
Ma che cosa le dovevo dire?
Perché c’è stato un periodo in cui ballavamo insieme le canzoni
composte e interpretate apposta per il cielo. Un periodo in cui
eravamo innamorati.
Si è cancellato tutto. Come se non fosse mai esistito.
Per questo sono rimasto in silenzio a pensare che forse sarebbe
stato più corretto andare da Einar e Lóa per chiederle di spararmi,
meglio se a bruciapelo. Poi il dorso della mano di Sóley aveva
sfiorato il mio, leggermente, il contatto era stato una lieve, calda
scarica elettrica, mi era salito un groppo in gola e avevo provato un
intenso desiderio di vita.
Forse è raro che un essere umano si ricordi della propria felicità
senza soffrire, aveva detto. Solo che io sono così stupida e piena di
difetti che non sono mai riuscita a smettere di pensare a te. Da
quando sei sparito. Il tempo non mi ha aiutata per niente. Il mio primo
pensiero quasi ogni mattina eri tu. Ho passato le notti accanto a
Ómar pensando a te. Abbiamo fatto l’amore, è una bella persona, un
ottimo amante e mi ama, ma anche all’apice del piacere dovevo
concentrarmi per non sussurrare il tuo nome. È brutto. E poi eccoti
qui, sei tornato. Come se fosse la cosa più normale. Ti comporti come
se non fosse successo niente di strano. Io sono quasi morta quando
ho alzato la testa e ti ho visto nell’ingresso. Non capisco come abbia
fatto a restare in piedi. Ti saluto, parlo con te, ti offro una birra,
composta, come se avessi rivisto una vecchia conoscenza. E non hai
nemmeno un briciolo di vergogna. Ah, no, scusami, forse ce l’hai. È
naturale, non sei cambiato, è come se tu non fossi capace di
invecchiare. Però sei diverso. Anche mia sorella l’ha detto. Ha avuto
perfino l’impressione che tu sia paralizzato dal dolore. O meglio, dice
che sei lontano, e che sei talmente vulnerabile che sembra tu non
voglia far altro che rannicchiarti accanto a qualcuno. L’hai convinta a
raccontare tutte quelle storie – lo stesso vale per me, erano anni e
anni che non parlavo così tanto. E quindi lo sai, ho voglia di
abbracciarti e di prenderti a calci, nella stessa misura. Allora, il dolore
ti ha paralizzato, l’infelicità ti ha schiacciato? Non c’è bisogno che tu
mi risponda. Anzi sì, lo puoi anche fare, solo non subito, non sono
pronta a sentirtelo dire. Per il momento mi basta che tu sia tornato.
Non riuscirei a reggere nient’altro. Va’ nella roulotte, va’ a vedere se ti
ci trovi bene, sistemati, è là sulla torbiera sull’altra sponda del fiume,
si vede anche da qui, io ti posso guardare con il binocolo. Non
metterci troppo, sbrigati ad andare da Elías, da Eiríkur, da Elvis e dal
cielo. Ubriacati. Balla con Rúna. Balla con Dísa. Forse vengo anch’io,
forse no. Balla, però non quando mettono le nostre canzoni. Sono
felice che tu sia tornato. Non ti perdonerò mai. Adesso vado dentro a
preparare per l’arrivo dei quaranta turisti giapponesi.

Qualche istante dopo ho incrociato la corriera sul ponte.

L’amore ha tanti volti, e può attraversare indenne l’inferno, creare


scompiglio in paradiso.
Miss you baby, sometimes.

Il tempo è una pistola carica,

un giorno di ieri che non è mai arrivato

È
Il conducente di autobus consacrato ha ancora l’indice per aria. È il
dito che dovrebbe mettere a tacere me e i miei dubbi sul fatto che
Elías ed Eiríkur possano aspettare – quest’ultimo tra poco comincerà
certo a darsi da fare per portare in giardino tutto il necessario, i piatti, i
bicchieri, le posate, il vino rosso, il vino bianco, la birra, e per
apparecchiare i due lunghi tavoli sotto il tendone che ieri Ási e Mundi
l’hanno aiutato a montare.
Darsi da fare, no, non si può dire che abbia chissà quale fretta, per
quale motivo, poi? Elías ha appena iniziato a preparare da mangiare,
ci vogliono due, tre ore prima che sia tutto pronto, qui si lavora con
scrupolo.
In questo momento stanno seduti al grande tavolo della sala da
pranzo e selezionano una pila di fotografie e di documenti. Eiríkur
tiene in mano una vecchia foto che ritrae quattro uomini e due donne
nel soggiorno di una casa benestante; una è una donna di mezza
età, alta, con un’espressione forte e decisa, la più giovane ha gli
occhi che brillano e un sorriso affascinante. Sorridono tutti e cinque.
È una foto che sprigiona gioia. La gioia di una festa. Allora sono loro,
chiede Elías, ed Eiríkur annuisce, sorridendo, come le persone
fotografate.
Fuori dalle grandi finestre del soggiorno che affacciano sul fiordo,
sulla palude e sulla fattoria di Nes sull’altro versante, l’aria è talmente
ferma che si oppone a qualsiasi urgenza. La vita tende a rallentare il
passo in assenza di vento, vuole godersi il momento, assorbirlo fino
in fondo. Assorbire quel fiordo dove la superficie dell’acqua è
talmente liscia che si trasforma in uno specchio e la cinta rocciosa dei
monti si ammorbidisce, la loro asprezza assume una sfumatura
sognante. I monti ragionano in termini di secoli, e li comprendiamo
meglio, percepiamo i loro pensieri in maniera più tersa quando non
tira un alito di vento, oppure durante una tempesta.
E improvvisamente mi rendo conto che non c’è proprio bisogno
che mi sbrighi. Il destino attende che lo si porti a termine, nessuno
vuole offendere le norne, quelle donne così maestose e fiere.4
Oltretutto, dal punto in cui sono seduto vedo bene la strada, quando
passerà Rúna in macchina verso il fondo del fiordo per andare da
Elías, Eiríkur ed Elvis la vedrò di sicuro: prima di quel momento non
c’è bisogno che mi muova.

Il pastore conducente d’autobus sorride, abbassa il dito, vedo che


cominci a capire. È un bene. Ci risparmia le spiegazioni. Le
spiegazioni rallentano ogni cosa, appesantiscono, intralciano,
banalizzano. E non mi va di rivolgermi a te come si farebbe con un
bambino. Il mondo è già abbastanza stupido, non vedo il motivo per
cui dovrei farmene carico.
D’accordo, forse comincio a orientarmi un poco. Ciò non toglie che
non abbia ancora capito chi sono, da dove vengo, com’era la mia vita
prima di risvegliarmi in quella chiesa, o dove se n’è andata. Ho
l’impressione di aver amato, di essere stato amato. Sai quant’è
doloroso aver dimenticato le persone che si amano?
Chi tu sia è un particolare del tutto secondario. O dov’è andata a
finire la tua vita. I tuoi amori, i tuoi tradimenti qui non hanno nessuna
importanza. Quello che conta è che tu prosegua con le storie che hai
cominciato a raccontare. Suppongo che tu abbia compreso che
finché scrivi rallenti il corso del tempo. Bisogna pure che tu rinunci a
qualcosa, in cambio. L’accordo è questo. E una volta che cominci,
non devi più fermarti. La morte, si dice in un antico poema, è la
sorella dell’attesa.
Puoi raccontarmi qualsiasi fandonia, e credo tu lo sappia. Non so
che diamine mi è preso. Forse sono morto, semplicemente, e per
qualche motivo mi si impedisce di lasciar andare la vita. Forse sono
stato proiettato da un universo a un altro. Che ne sappiamo, noi, che
cosa è possibile, che cosa è del tutto escluso? Ammetto senza
problemi però che trovo un tantino sospetto essere riuscito a riempire
tutti quei fogli che adesso hai davanti mentre ero in albergo e Sóley
parlava al telefono con Dísa. È impossibile, non torna. Rallentare il
tempo, dici. Il tempo, che ci facciamo con il tempo? Credo che il
tempo sia una pistola carica, una frana che sta per abbattersi sulla
vita, un giorno di ieri che non è mai arrivato.
I nostri antenati ripetevano sempre che il tempo è una strofa con la
rima finale imperfetta, dice il pastore conducente d’autobus. Una rima
imperfetta, un giorno di ieri mai arrivato, una pistola carica –
l’arcobaleno perde la sua magia se tenti di spiegarlo. Non si
percepisce la magia di un bacio facendone un’analisi chimica. Ed è
sempre più importante percepire, piuttosto che comprendere.
Perché non scrivi tu, visto che a quanto pare hai tutto chiaro?
Scrivi tu, così io posso andare spensierato alla festa, bermi una birra,
del vino rosso, del brennivín ghiacciato, ascoltare Elvis… Che c’è?
Chi sa tutto non può scrivere. Chi sa tutto perde la capacità di
vivere, perché è l’incertezza che spinge l’essere umano ad andare
avanti. L’incertezza, la paura, la solitudine e il desiderio. E non
dimentichiamo il paradosso. Tu non sai un granché, questo è vero,
ma quando scrivi vedi attraverso i muri, attraverso i monti e le colline.
Vedi le cellule che si suddividono, vedi il presidente degli Stati Uniti
tradire la nazione, senti le parole d’amore sussurrate all’altro capo del
paese, chi piange dall’altra parte della città. Vedi una donna lasciare
suo marito, vedi un uomo che tradisce la moglie. Senti il pianto del
mondo. Questo è il paradosso, questa è la responsabilità e questo è
l’accordo. Non puoi sottrarti e per questo devi continuare.
A scrivere?
Sì, che altro? Scrivi, e potrai andare alla festa in onore di Páll di
Oddi, di Elvis Presley e della vita.
Scrivi. E non dimenticheremo.
Scrivi. E non saremo dimenticati.
Scrivi. Perché la morte è solo un altro nome per l’oblio.

 
1
In inglese nel testo originale.
2
Famoso brano degli anni Settanta (Kenndu mér að kyssa rétt); testo di Skafti Sigþórsson,
musica di Hendrik Konrad Rasmus.
3
Kristmann Guðmundsson (1901-1983) visse in Norvegia; fu autore di diversi romanzi rosa di
successo, in lingua norvegese.
4
Il termine örlög, «destino», è plurale; personifica le norne della mitologia nordica, Urðr,
Verðandi e Skuld, che governavano rispettivamente il passato, il presente e il futuro.
Qui la primavera arriva tardi come all’inferno,

ma Signore mio, castigami –

sono così felice di essere venuto


Fa’ attenzione, amore mio –

la cosa peggiore di tutte è morire così piano

che quasi non te ne accorgi

Piove su Pétur e sulla cavalla Ljúf mentre fanno ritorno a casa, dopo
aver lasciato tre libri nella fattoria di Uppsalir, due erano testi in
danese che trattavano di scienze naturali, di biologia, di astronomia.
Per farla breve, in sostanza, aveva detto nella piccola baðstofa dove
l’avevano invitato a sedersi, dove il possente postino si era seduto
solo poche settimane prima dando quasi fondo alle scorte di caffè
della casa – per farla breve, in sostanza, questi due libri parlano della
vita nel suolo, dei piccoli esseri che vi si trovano e dell’immensità
della volta celeste. Sì, ci portano dal suolo al buio tra le stelle, dove
l’uomo incontra i grandi misteri.
Se solo conoscessi un po’ meglio il danese, aveva detto Guðríður,
che era seduta di fronte a lui, curva, e sfogliava lentamente il primo
libro, le dita che tremavano un poco, gli occhi brillanti di entusiasmo.
Scintillavano, letteralmente. Non ho mai visto uno sguardo tanto
luminoso, aveva pensato Pétur.

Prima però aveva dovuto preparare il caffè, offrire qualcosa da


mangiare.

Non gli hanno nemmeno chiesto che cosa volesse, a Pétur, è una
legge fondamentale, finché c’è un chicco di caffè, finché c’è qualcuno
di vivo per prepararlo, si deve offrire la bevanda nera che per
cent’anni buoni ha aiutato la gente a sopravvivere in questo paese
duro e bello. E oltretutto, facilita la conversazione.
Allora, arriva il caffè, aveva detto Gísli, il marito di Guðríður, fuori,
nella luce d’aprile, quando lei era appena uscita dal corridoio della
fattoria e si era portata la mano davanti agli occhi, involontariamente,
per quella luce accecante, dopo essere rimasta a lungo nell’ombra
come una stupida. Aveva salutato, è un onore, aveva detto, e dei libri
per me, sono senza parole.
E quindi era rimasta in silenzio, accontentandosi di sorridere.
Era l’altro suo sorriso, quello pericoloso. Pétur lo vedeva per la
prima volta.
Aveva ricevuto due lettere da Guðríður… due, be’, a essere precisi
soltanto una. La prima lettera era stata indirizzata alla redazione della
rivista. Però ci aveva messo tutta se stessa, dentro quella lettera,
senza averne avuto l’intenzione, senza nemmeno rendersene conto.
Il che probabilmente è ancora più pericoloso. E aveva indotto Pétur a
scriverle a sua volta, a risponderle, chiedendo poi al postino di
consegnarle la lettera personalmente. Devo fare una bella
deviazione, aveva detto il postino, un uomo di stazza imponente, è
fuori strada. Non si può chiamare vita se seguiamo sempre lo stesso
percorso, se non usciamo mai dal sentiero battuto, aveva risposto
Pétur, aggiungendo: Vivi. Frase ovviamente incomprensibile, come
se fossi morto, avrebbe commentato in seguito il postino. L’aveva
riferito varie volte, e in più località. Per questo molti sapevano della
lettera, certo, non ne conoscevano il contenuto, ovviamente no, ma
sapevano che il reverendo Pétur aveva scritto una lettera alla
fattoressa del casale di Uppsalir, sulla brughiera, di cui si sarebbe
parlato ben oltre i confini del suo distretto per via dell’articolo sul
lombrico, una donna che non era mai andata a scuola eppure sapeva
scrivere a quel modo.
Sì, mi ha ordinato di vivere, come se fossi morto o in fin di vita, e
poi di fare quella deviazione. È piuttosto fuori strada, gli ho fatto
notare io, e a quel punto mi ha intimato di vivere, come se vivere e
raggiungere posti fuori dal tragitto abituale fossero una e una sola
cosa. Provate voi a trovarci un senso! Ma la fattoressa di Uppsalir, sì,
giusto, quella che ha scritto del lombrico nella rivista, la cortesia e la
modestia fatte persona, e snella come una giovinetta, mi permetto di
dire, però ci ho percepito anche una certa durezza, sì, è proprio dura.
Sono parecchio sensibile, ecco il mio problema. Per questo ho capito
che quella sa pungere, quella sa anche mordere, se le gira, l’ho
capito che quando è così, è meglio non finire nelle sue grinfie, di
sicuro.
Non vorrei essere da nessun’altra parte che in quel sorriso, aveva
pensato Pétur sul cortile davanti al casale di Uppsalir. Da
nessun’altra parte – come se non avesse nessun obbligo nella vita,
come se il suo posto non dovesse essere altrove.
Le tre bambine avevano condotto Ljúf per le briglie, dovevano
darle una manciata di fieno e volevano trovare quello di buona
qualità, il migliore del fienile, è così carina, dicevano e la carezzavano
mentre le caramelle si scioglievano in bocca come raggi di sole. Il
loro padre stava lì, in mezzo a Pétur e al sorriso di sua moglie. Nel
silenzio.
È il minimo che potessi fare, aveva detto Pétur, ma poi aveva
dovuto distogliere lo sguardo da Guðríður per staccarsi dal suo
sorriso. Ripigliati, amico mio, aveva pensato, ricordando lo sguardo di
sua moglie Halla quand’era partito di primo mattino, con tre libri e
delle spiegazioni stranamente vaghe per quel giro di una giornata
intera. Dove vai, gli aveva chiesto, stupita, perché non aveva senso, e
Pétur era solito avvertirla con un buon preavviso se doveva andare
da qualche parte, a fare le sue commissioni per la zona, o a
Stykkishólmur per la rivista. Invece la decisione di partire era stata
presa tardi la sera precedente, di notte – era stata presa nella lettera
a Hölderlin. L’aveva scritto nella lettera, poi si era allontanato dal
tavolo, impaziente, spaventato da quella decisione – la notte non
aveva dormito quasi per niente. E aveva dimenticato di inventarsi una
spiegazione. Perché non poteva certo dirle, c’è questa donna, in un
casale di brughiera, un bel tratto di strada da qui, qualche ora a
cavallo, non è mai andata a scuola ma ha scritto un articolo
straordinario sui lombrichi. Tra tutte le creature del pianeta. Ha
qualcosa di fuori dal comune. Qualcosa che mi chiama. Le ho scritto
una lettera, l’ho affidata al postino, sapevo che non era di strada,
cosa che mi ha fatto notare lui stesso, ma io gli ho ordinato di vivere.
Come se stesse a me decidere. Io che non sono nemmeno riuscito a
fermare la morte quando avrei dovuto. Da quel momento nel mondo
non c’è mai più stata davvero la luce.
Aveva pensato a tutto questo mentre Halla lo guardava e
aspettava una spiegazione, un motivo per quel suo lungo giro di una
giornata intera. Voleva dirle quella cosa di Eva. Che gli sembrava che
nel mondo non ci fosse più stata davvero la luce, da quando era
morta. Perfino la luce divina era scemata. Ma perché dirle una cosa
del genere, non spiegava certo come mai avesse preparato i libri con
tanta cura, come mai l’idea di quella donna sconosciuta che viveva
sulla brughiera e il suo stile di scrittura l’avevano tanto colpito. Forse
era brutta, magari senza denti, con il seno cadente… Non spiegava
come mai l’amore aveva cominciato a spegnersi… si era spento con
una tale lentezza che per molto tempo non se n’era nemmeno
accorto, non lo sospettava nemmeno. E quando finalmente ne aveva
preso coscienza, sulle prime aveva creduto che fosse per un’uggia
vaga, forse per la nostalgia della vita a Copenaghen e le possibilità
che offriva, forse per la monotonia della campagna oppure per il fatto
di invecchiare e rendersi conto che non era ancora riuscito a
realizzare i sogni di gioventù.
Non si era accorto di che cosa stava succedendo, se non
quand’era troppo tardi.
La cosa peggiore di tutte, e la più terribile, è morire così piano che
quasi non te ne accorgi. È una sconfitta, una tragedia. Vieni battuto
senza avere la possibilità di difenderti. Sconfitte del genere finiscono
di rado sulle prime pagine della vita, e meno che mai nelle opere dei
poeti. Sono in pochi a farsi portavoce delle cose che muoiono così
lentamente che nemmeno ce ne accorgiamo. Su questo non si
compongono poemi epici, né tragedie. Sono dei banali martedì, degli
esangui mercoledì.
Ma possono essere la fonte di un’infelicità che ci paralizza.
Delle accuse che rivolgiamo a noi stessi, e che ci dilaniano.
Perché Halla aveva fatto di lui un uomo migliore. Era grazie lei che
era riuscito a trovare un punto fermo nell’esistenza e a mettere su
famiglia. Tre bellissimi figli, la quarta, Eva, era morta, sepolta nel
silenzio della terra. Ma era morta per entrambi, per Pétur come per
Halla. L’ho persa anch’io, aveva detto lei una volta, non molto tempo
fa. Che diritto ha lui di portare un dolore più greve di quello di Halla,
con la sua sensibilità dolente, eppure lei possiede anche una
risolutezza che poche cose riescono a piegare, una giovialità che
rende i giorni più leggeri, e un’onestà e una sincerità che Pétur non
ha mai conosciuto in uguale misura in altre persone. La sua
compagna di vita. E la gente dice che ha le mani fatte di luce. Ma
quando, e come, se n’è andato il calore del suo tocco, dove se n’è
andata l’impazienza di vivere al suo fianco, la gioia di risvegliarsi con
lei, dove se n’è andato…
La colpa è solo sua.
Per quale motivo è dovuto accadere così lentamente che se n’è
accorto solo quand’era troppo tardi, senza possibilità di difendersi?
Non so, aveva scritto Pétur a Hölderlin, quante volte sono andato
in chiesa e mi sono rivolto a Dio, ho invocato Gesù Cristo,
supplicando che mi dessero una risposta; dove se n’è andato
l’amore, perché la costanza è venuta a mancare? Ho supplicato per
avere una risposta, un’indicazione, un segno o qualcosa – ma non
c’è mai stata la minima reazione, per quale motivo, poeta?
Hölderlin: Forse perché Dio non ascolta domande a cui solo gli
esseri umani possono rispondere.

Quelle parole, quella dichiarazione, quella conclusione, giungono a


Pétur nel momento in cui Gísli lo invita a sedersi sul bordo del letto
dove il postino si era accomodato settimane prima, per la
commissione affidatagli dal pastore. Gísli invece non si siede, non
subito, sceglie di restare in piedi, leggermente curvo in avanti com’è
sua abitudine, come se fosse costantemente pensoso, sempre
immerso nei suoi ragionamenti. Ha degli occhi intelligenti, aveva
pensato Pétur, ma poi gli tocca rispondere alle domande del
contadino curvo. Il reverendo si sposta parecchio, che cosa vi spinge
a fare un giro così lungo, il tempo è prezioso, non sarà certo per
consegnare tre libri al casale?
Gísli aveva alzato un poco la voce, come aveva fatto fuori, per
invitare Pétur a entrare, lì aveva parlato forte, di sicuro perché
Guðríður lo sentisse dall’interno e si rendesse conto che era arrivato
un ospite. Evidentemente si era sorpreso di non vederla uscire a
salutare, non è consuetudine aspettare in casa se arriva un ospite.
Tutti escono in cortile, persone e cani, è cortesia, e oltretutto l’arrivo
di un ospite è un avvenimento troppo importante per rimanere in
casa. O meglio, sempre che si possa uscire per via del clima, se non
è un azzardo varcare la soglia. Vuole che senta, aveva pensato,
nascosta nel corridoio, mentre origliava; vuole che senta, pensa di
nuovo, in cucina. In effetti non c’è bisogno di parlare a voce tanto alta,
non siamo distanti. Vuole che senta, e vuole che senta anche la
risposta. Ma di nuovo distingue quello strano tono nella voce di Gísli,
insistente, quasi aggressivo. Un tono che quasi non ricorda di avergli
mai sentito prima. Ma perché?
Solo l’uomo conosce la risposta, e talvolta la nasconde perfino a
se stesso, pensa Pétur, senza sapere da dove scaturisca questo
pensiero, o perché gli sia venuto in mente in quell’istante. Poi si
schiarisce la gola, ripete le spiegazioni già date all’esterno, varie
commissioni, e adesso aggiunge cercando di fingere una certa
afflizione, ah, è incredibile quanti incarichi può accumulare un povero
pastore, non voglio tediarvi con questi discorsi, caro fattore, di noie ce
ne sono a sufficienza in questo mondo.
Voi siete appena rientrato dalla stagione di pesca ad Arnarstapi,
l’ho appreso giù a Bær, dal nostro ufficiale distrettuale… Sì, è al
corrente di tutto, lo interrompe Gísli, deve averne dei vantaggi, quel
Jóhannes, a tenersi sempre al corrente su tutto, di sicuro!
Guðríður prova una sensazione spiacevole mentre prepara il caffè,
tira fuori qualcosa da mangiare, non lo si potrà certo considerare un
rinfresco coi fiocchi, lo sa, ma è pur sempre qualcosa, almeno ci
prova. Gísli si era permesso di comperare qualche dolciume prima di
partire da Arnarstapi, i biscotti inglesi Oxford e Harvard, panbiscotto,
uvetta passa, fichi secchi, datteri. Del superfluo, aveva detto una
volta tornato a casa, sconcertato da quello sperpero, quasi arrabbiato
con se stesso, e sicuramente lo era, in parte, ma l’aveva fatto anche
per il desiderio di tornare a casa e vedere la gioia sul volto di
Guðríður, di vedere il suo sorriso che lo tocca sempre nel profondo,
nonostante gli anni che passano, nonostante le difficoltà, le delusioni
e i problemi che hanno guastato brutalmente la loro esistenza e i loro
giorni. E certo, anche per la voglia di vedere la gioia delle bambine.
E adesso si porta in tavola solo il meglio.
Guðríður si dà da fare in silenzio, per poter seguire bene la
conversazione, e si sente pervasa da una sensazione spiacevole
quando suo marito interrompe Pétur e critica così apertamente
Jóhannes, ma che gli prende, pensa, e le tremano un poco le mani –
non è da lui. Pétur per fortuna non sembra lasciarsi turbare, ma non
conosce affatto Gísli, certo, non sa quanto sia inconsueto questo suo
comportamento, o quel tono di voce; sorride soltanto e dice, sì, c’è
sempre qualcuno che vuole sapere tutto, che vuole mettere il naso
ovunque. È vero. Noi magari li malediciamo, però non ci dispiace
ricevere le loro visite, impazienti di sapere le ultime novità – allora li
ringraziamo per essere come sono. Ecco com’è difficile vivere
insieme agli altri. Ecco com’è difficile essere una persona integra,
anzi, per molti di noi è quasi del tutto impossibile. Ciascuno si
trascina dietro i propri difetti come pesanti macigni. Spero abbia reso
bene la pesca, il tempo non ha causato troppo disagio?
Con gli anni Pétur ha imparato a fare domande ed evitare così di
esporsi alla curiosità, ha imparato a deviare l’attenzione altrove,
chiede per mettersi al riparo, chiede per starsene in pace, si informa
di argomenti di cui sa, o percepisce, che la gente parlerebbe
volentieri, e talvolta con una tale passione che i suoi interlocutori gli
sono riconoscenti di aver dato il via al discorso. Sa mettere in luce gli
altri – e ha modo così di rimanere lui stesso in ombra. Deve solo
stare attento a seguire i loro discorsi, per cogliere i contenuti, riuscire
a delineare i contorni, con sufficiente chiarezza per buttare là una
parola, una breve domanda al momento giusto, nel momento più
adeguato, per tenere viva la fiamma della conversazione, per il resto
può sparire in se stesso, restarsene da solo, protetto. E in quel
momento recita il suo ruolo in maniera impeccabile con Gísli, a cui fa
piacere parlare di pesca con chi se ne intende, come pare essere il
caso del pastore, che gli fa domande intelligenti, si informa con
sagacia e cognizione di causa. E allora è ancora più piacevole
raccontare. Talmente piacevole che Gísli diventa quasi loquace. I
sospetti nei confronti di Pétur, l’irritazione che aveva provato
pensando al pastore da quando era tornato da Arnarstapi e aveva
saputo della lettera scompare, si riduce a niente. Gísli parla, racconta
con passione, la grossa barca rompe le onde nella baðstofa, Gísli si
inumidisce le labbra, sanno di salsedine. Si alza di nuovo perché è
meglio stare in piedi quando si racconta, la storia risulta più
scorrevole. Pétur lo guarda concentrato, pieno di interesse, sembra
vivere in prima persona gli eventi e invece si trova immerso nei propri
pensieri. È seduto nella baðstofa ma è altrove. Magari ti guardo, ma
sono lontanissimo da te.

E non si torna indietro

Perché non ha saputo rispondere quando Halla gli ha chiesto il


motivo di quel viaggio?
L’unica risposta è stata picchiettare sui tre libri che aveva
impacchettato con cura, con affetto, e sorriderle come un cretino, o
come chi cerca di nascondere qualcosa di imperdonabile, e dire, ah,
c’è sempre qualcosa, come sai bene.
C’è sempre qualcosa.
È ovvio che è così, c’è sempre qualcosa. Obblighi e fastidi, la sua
parrocchia comprende molti casali, è il pastore di quasi trecento
anime, fa parte del consiglio distrettuale, della redazione della rivista,
del collegio sacerdotale, significa andare a Reykjavík una o due volte
all’anno – tanto per fare un esempio. Incarichi, commissioni, impegni.
Ma Halla è sempre stata al corrente dei suoi spostamenti, del dove e
del perché, e Pétur non è mai dovuto partire così all’improvviso, e
nemmeno per un giorno intero oltretutto, volendo guardar bene, non
ha nemmeno risposto alla sua domanda. O meglio, ha risposto come
se la cosa non la riguardasse. Come se rispondesse a una persona
qualsiasi. Ha risposto come se le loro vite non fossero intrecciate. Ha
risposto con una pacca sui libri, dicendo c’è sempre qualcosa. L’ha
poi baciata sulla fronte, ha provato a sorridere, e ci è riuscito. Perché
purtroppo è capace di scindersi in due. E di conseguenza non sarà
mai intero. Anche Halla ha provato a sorridere, lui se n’è accorto, ma
non ci è riuscita, è troppo onesta, troppo intera.
Poi lei gli ha gridato mentre si allontanava: Fa’ attenzione, amore
mio.
E allora era stato quasi sul punto di tornare indietro.
I libri poteva facilmente mandarli per posta, senza nemmeno che il
postino dovesse fare quella deviazione, allungare la strada, allora
sarebbe bastato depositare il pacco a Bær, allora non avrebbe
nemmeno ordinato al postino di vivere. Era stato quasi sul punto di
tornare indietro.
Quasi.
Ma non l’aveva fatto.
Perché era troppo tardi? Sei anni troppo tardi? Sette?
Non lo sa.
Fa’ attenzione, amore mio.
Amore mio. Non esiste un appellativo migliore.
Dimmi amore mio come tu solo sai dirlo, come tu solo sai
sussurrarlo, e le tenebre non mi spaventeranno più; dimmi amore
mio, e non annegherò; dimmi amore mio, e io andrò per il mondo a
sconfiggere i draghi. Dimmi fa’ attenzione, amore mio, e io piangerò
con le natiche infradiciate su un poggio d’erba accanto al mio cavallo
intristito. Dimmi amore mio e io sanguinerò dentro, perché non ti amo
più e la vita senza amarti non è vita, è un nevischio zuppo d’acqua.
Sanguino perché ho ricevuto una lettera, non era nemmeno
indirizzata a me, eppure era stata scritta per me. E ho avuto paura.
Perché quando l’ho letta ho avuto voglia di vivere, di tornare a essere
felice. Eppure non avevo ancora visto il sorriso di quella donna.
Adesso l’ho visto, adesso ho visto il suo sorriso, e ho paura che da
questo momento in poi non ci sia modo di tornare indietro.
È possibile essere felice nella propria infelicità, è ammissibile?
Qui la primavera arriva tardi come all’inferno

– e poi sente che comincia a pruderle il coccige

I pescatori non si trovano mai d’accordo su quale esca sia meglio


utilizzare, Pétur sente la sua voce pronunciare questa frase, non sa
dire se sia appropriata, era immerso così profondamente nei propri
pensieri che di lui nella baðstofa non era rimasta che una minima
parte. Forse solo quel decimo che è la superficie di ciascun individuo.
Sia come sia, quel frammento ha assolto egregiamente ai propri
doveri, ha valutato correttamente la situazione, ha trasmesso il
messaggio adeguato alle aree del linguaggio che hanno disposto le
parole e le hanno inviate al mondo: i pescatori non si trovano mai
d’accordo su quale esca sia meglio utilizzare.

Gísli concorda a tal punto con il pastore che deve sedersi. Si siede,
sospira, fruga in tasca in cerca di tabacco, dice, proprio così, proprio
così, caro reverendo. È talmente vero che ho visto gente rinunciare a
ragionare e affidare ai pugni il proseguimento della discussione!
Pétur scuote il capo, sorridente, e Gísli pensa, mi piace parlare con
quest’uomo. Forse vivo troppo lontano da tutto. È vero quel che
blatera mio fratello ogni tanto nelle lettere, può fare dannatamente
piacere parlare con la gente, bisogna ammetterlo, ti risveglia tutto.
Devo dirlo a Guðríður dopo, quando il pastore se ne sarà andato.
Credo che le farà piacere. No, lo so che le farà piacere!

Adesso li raggiungo, pensa Guðríður.


Gísli ha rallentato un poco il ritmo di quel suo racconto
insolitamente vivace.
Lei ha ascoltato come ha potuto, ed era da tempo che non lo
sentiva descrivere le sue uscite in mare in maniera così accesa: di
tanto in tanto Guðríður aveva l’impressione di trovarsi davvero in
mare aperto, di cavalcare le onde lì in mezzo alla brughiera.
Riceviamo visite troppo di rado, aveva pensato, almeno per la
millesima volta quell’anno, e siamo solo nel mese di aprile. Ma per
quanto sia bello sentire tutta quella passione in Gísli, lei di tanto in
tanto si distrae. La voce di suo marito si allontana, diventa un brusio
distante, un mormorio insignificante, e lei comincia a pensare
all’ospite. Involontariamente. Senza averne l’intenzione. È incredibile
come a volte non abbiamo alcun controllo su noi stessi. Come non
riusciamo a tenere a freno i nostri pensieri, figuriamoci le emozioni,
che hanno la tendenza a sparpagliarsi alla rinfusa per pendii e lande
come un gregge di pecore, salgono sui ghiaioni più ripidi, si gettano
nei fiumi glaciali più violenti e agitati, senza ascoltare nessuno, non
importa con quanta foga abbaino i cani pastore del buonsenso.
Non che si senta fuori controllo lì in cucina, in quell’angolino a cui
si accede dalla baðstofa, il caffè è pronto e tutto è disposto sul bel
vassoio che Gísli aveva avuto la fortuna di procurarsi qualche anno
prima, acquistandolo da alcuni marinai inglesi in cambio di tre paia di
calzini di lana, tre tuniche di vaðmál,1 due paia di guanti da pesca,
una scorta di tabacco buona per tre settimane. Non hai avuto
difficoltà a stare così tanto senza tabacco, aveva chiesto lei, e
vendere quegli indumenti? No, non se pensavo a quanto il vassoio ti
avrebbe resa felice, le aveva detto Gísli, e aveva abbassato lo
sguardo, forse perché non è assolutamente da lui esprimersi a quel
modo, mostrare i sentimenti in maniera così aperta, e lei si era
commossa, le erano venute le lacrime agli occhi. Perché c’era
l’amore, dietro quel dono. L’amore e il sacrificio. Lo sa bene quant’è
stato difficile per Gísli non avere tabacco per tre settimane. E privarsi
di quegli indumenti. Si ricorda di quella rinuncia ogni volta che prende
il vassoio. Ricorda quello che le aveva detto e come aveva abbassato
lo sguardo, impacciato per le proprie parole.
Ormai non ha più nessun motivo per rimandare ancora il momento
di unirsi a loro.
Ha ritrovato la sua compostezza, dentro di lei è tornata la calma,
se non fosse per quell’accenno di senso di colpa per essersi distratta
a quel modo mentre Gísli raccontava. La sua esposizione ha un ritmo
più lento, adesso è il reverendo Pétur a dire qualcosa… Si avvicina
per sentire meglio… La difficoltà di scegliere l’esca migliore. Sì, le
conosce quelle discussioni, Gísli gliene ha parlato. Possono essere
accalorate, a dir poco. Ma ormai è tutto pronto. Il caffè, i dolciumi
dell’emporio di Arnarstapi sul vassoio. Un rinfresco di tutto rispetto,
anche se il loro casale è piccolo, praticamente una capanna al
margine della brughiera, priva di tutti quei lussi che la modernità
ormai comincia a offrire, cucine a carbone, lampade a petrolio, stanze
più spaziose, sedie dove gli ospiti possano accomodarsi anziché
sedersi sul bordo dei letti, tazze raffinate per il caffè… Sì, vivono
davvero troppo isolati da tutto.
Lassù la primavera arriva tardi come all’inferno, aveva detto a Gísli
suo suocero, Björgvin, quando avevano voluto acquistare quei terreni
rimasti abbandonati da qualche anno; gli unici terreni che potevano
permettersi.
La primavera arriva tardi come all’inferno.
Björgvin aveva fatto di tutto per convincere Gísli a rimanere
qualche altro anno a lavorare per lui nel commercio, e poi in mare
insieme a un suo conoscente per la stagione di pesca. La pazienza
non è solo una virtù, è la sorella della ragione. Ma il bisogno di Gísli di
gestirsi da sé, l’antico sogno, l’ossessione di indipendenza degli
islandesi, era come un prurito persistente, e la constatazione che i
terreni di buona qualità si trovavano in vendita di rado li aveva
convinti a trasferirsi lassù. Erano stati giorni luminosi nella vita di
Guðríður.
Da allora erano passati quasi quattordici anni – le sue mani hanno
smesso di tremare.
Afferra il vassoio. Quel bel vassoio con i dolciumi di cui non deve
vergognarsi. Anche se l’ospite è una celebrità, un pastore istruito,
intelligente, avvezzo a case migliori. È perfettamente tranquilla.
Posata. Ed entra nella baðstofa, dopo aver lanciato un’occhiata
rapida al piccolo specchio che tiene dietro la parete divisoria. Lo tiene
lì per potersi ispezionare prima di entrare nella stanza comune le rare
volte che un ospite si spinge fin lassù. La vanità è un padrone
intransigente. Ma sì, è a posto. Al massimo delle sue possibilità. Vai
benissimo così, su, aveva pensato, si era rivolta alla sua immagine,
quella creatura che la guarda sempre nel piccolo specchio. Aveva
scelto l’espressione, sa farlo, è brava. Il suo volto sa assumere
un’espressione affettuosa, un sorriso amichevole, sa rendere
giocondi gli occhi verdi. No, non giocondi, è troppo, semmai affabili.
Sei pronta, aveva detto al suo riflesso, che le aveva sorriso a sua
volta.
Guðríður tiene il vassoio. Non ha nulla di cui vergognarsi. Entra
nella baðstofa con il suo sorriso amichevole, entra nelle
considerazioni del marito su quale esca sia più giusto utilizzare. Ho
visto gente prendersi a botte per queste faccende, davvero, sta
dicendo Gísli, ma in quel momento entra lei con il vassoio.
Entra con i suoi occhi. Arriva con il suo corpo esile.
Pétur alza la testa, incrocia per un attimo il suo sguardo, sorride.
Non amichevolmente, come fa lei. Quel sorriso arriva dal profondo
del sangue, c’è lui tutto intero dentro quel sorriso, la sua coscienza, i
suoi sogni, il suo dolore, la sua passione. Lei sobbalza, si scalda
tutta, è felice, ha paura, ma cerca di mantenere quel sorriso neutro e
amichevole e bada bene che le mani non si mettano a tremare.
Pensa, accidenti, e sente che comincia a pruderle il coccige.

Un giorno ha rubato,

un giorno ha commesso un crimine

Il reverendo è certo abituato a case migliori, dice Gísli mentre si


allunga verso il piccolo tavolo che ha costruito in primavera, l’anno
dopo aver portato a casa il vassoio. Se l’era procurato su una nave
inglese, è vero, ma non proprio nel modo che ha raccontato a
Guðríður.
Ogni cosa ha la sua spiegazione.
Erano incappati in una tempesta.
Il maltempo li aveva sorpresi durante una pesca miracolosa, il
mare ribolliva letteralmente di pesci che sembravano fare a gara per
abboccare.
L’equipaggio si dannava, sfacchinavano tutti come matti, non
pensavano ad altro che a tirare su le lenze in fretta, non si
guardavano intorno, tutta la concentrazione andava nella pesca, nel
tirare su il più possibile, riempire la barca e per questo non avevano
notato la tempesta che si stava addensando intorno a loro; il vento da
sudovest era arrivato a tutta forza, e con folate impetuose. Erano
riusciti a malapena a tirare su le lenze a bordo ma rientrare a terra
era fuori discussione. L’unica cosa che potevano fare era restare in
mare, tenersi a galla, tenersi in vita. Erano riusciti a salvare gli
attrezzi da pesca, tutti avevano potuto tirare su le proprie lenze
cariche di pesci – ma a quel punto erano alla mercé della bufera.
Furiosi rovesci di ghiaccio e neve talmente neri che sembrava che il
mondo fosse in agonia. E la terza raffica aveva abbattuto la vela, che
quasi era caduta tra i flutti smisurati, i marinai erano riusciti per il rotto
della cuffia a riportare in asse la nave prima che la quarta raffica li
investisse. Erano sopravvissuti, ma non i cinque uomini che erano
usciti a circa un chilometro da loro – una volta placata la bufera, era
apparsa ai loro occhi la chiglia che galleggiava come un sarcofago
tetro. L’aria si era ripulita, avevano visto la costa, avevano guardato
l’orizzonte sul mare aperto e tutto era meraviglioso, calmo e
luminoso. Quasi come se il cielo avesse voluto scacciare la tempesta
per osservare quei cinque uomini lottare disperati intorno alla barca,
nelle onde imponenti. E sembrava aver pensato, ah, vedervi lottare!
Voi così minuscoli che vi si vede appena, un episodio effimero – un
battito di ciglia e siete morti da mille anni. Per quale motivo lottare per
quell’attimo che è la vostra vita?
Andate a dormire.
E di nuovo l’aria si era rapidamente oscurata.
La volta del cielo si era fatta carica e nera di ghiaccio e di neve, il
vento urlava ed era impossibile per loro cambiare rotta, far vela in
direzione dell’altra barca e tentare di salvare i marinai che stavano
annegando. Tutto era sparito e il mondo era diventato un inferno.
Riuscivano appena a vedere a pochi metri dalla loro imbarcazione, la
burrasca strappava il mare e li sospingeva verso ovest lungo tutta la
Snæfellsnes, e fu solo all’altezza di Hellisvík, la grande stazione di
pesca, un approdo di prima scelta sulla punta esterna della penisola,
che riuscirono a ricondurla in un punto sicuro, accostando un
peschereccio inglese che aveva, come loro, cercato riparo da quella
tempesta. Gli inglesi a quel punto erano già sbronzi, e chissà come
Gísli si era ritrovato a bordo del loro peschereccio, insieme a due
compagni.
La mattina dopo si era risvegliato in uno degli alloggi per pescatori
di Hellisvík, con il vassoio sotto di sé. Non ricordava quasi nulla, non
aveva idea di come fosse arrivato su quella branda, se vi si fosse
trascinato da sé oppure se qualcuno del posto si fosse mosso a
compassione. Si era alzato a fatica, un mal di testa lancinante, aveva
trovato dell’acqua fredda, se l’era versata sul capo e lentamente gli si
era aperto uno spiraglio nella memoria. I tre compagni si erano
ritrovati nella cabina del peschereccio con tutto l’equipaggio inglese
completamente ubriaco, c’erano state conversazioni chiassose in
una specie di miscuglio di islandese e di inglese, qualcuno si era
azzuffato e Gísli aveva adocchiato il vassoio mentre scendeva dalla
barca e se l’era infilato sotto i vestiti, senza pensare. Non sapeva
perché. Non capiva che cosa gli fosse preso. Lui che non aveva mai
rubato niente. Un gesto del genere, una tale bassezza non gli era mai
passata per la testa. È indegno. Aver bevuto non è una scusa.
Bisogna essere onesti, in qualsiasi situazione. E comportarsi sempre
bene.
Era stata la prima volta, e che dio ci scampi, anche l’ultima che
Gísli rubava qualcosa. La vergogna gli bruciava dentro mentre
lentamente passavano di nuovo davanti alla barca inglese, dove tutti
parevano dormire della grossa. Ma non aveva avuto la forza di
restituire il vassoio. Sarebbe stato così umiliante, e poi di certo il fatto
si sarebbe risaputo in giro. Che lui, Gísli Björgvinsson, quel gran
lavoratore, un uomo affidabile, fosse in fin dei conti solo un miserabile
ladruncolo. Non avrebbe più potuto guardare in faccia nessuno.
Nessuno si sarebbe più fidato di lui. Non sarebbe più uscito dalla sua
fattoria nella brughiera. E forse perfino suo padre sarebbe venuto a
saperlo… No, esaminando le cose sotto ogni punto di vista era ovvio
che non avrebbe potuto restituire il vassoio. Quel che è fatto è fatto, e
non si può disfare. L’avrebbe semplicemente buttato via, quel vassoio
– ma quando era venuto il momento non se l’era sentita. Eppure
sarebbe stato così facile. Gli bastava farlo sparire in mare. Ma c’era
qualcosa di maledettamente strano, buttare un oggetto prezioso che
la gente bene di Stykkishólmur e Reykjavík non avrebbe affatto
disdegnato. Con il tempo si perdonano molte cose, se non tutte, la
vita può essere già abbastanza difficile, c’è già abbastanza freddo e
umido, ci sono tante contrarietà, è una battaglia continua, anche
senza lasciarsi dietro cose irrisolte, anche senza appesantirsi
l’esistenza con dissapori e vecchie frustrazioni. Anche se
sicuramente è vergognoso aver rubato quel vassoio, è una cosa per
cui deve vedersela con se stesso, è un peso che deve portare da
solo – ma gettare un oggetto in perfetto stato, di così buona fattura, è
imperdonabile, perché allora davvero il mondo sarebbe ben strano.
Per questo motivo Gísli aveva tenuto il vassoio. L’aveva nascosto
accuratamente ai compagni dell’equipaggio, poi l’aveva portato a
casa. Gli era dispiaciuto doversi sbarazzare dei vestiti, dei calzini di
lana, delle tuniche di vaðmál, dei guanti, dispiaciuto di vederli sparire
in una crepa del campo di lava a metà strada tra Arnarstapi e
Uppsalir. Li aveva infilati più profondamente possibile in quella crepa.
Gli bruciava, era stato uno spreco imperdonabile, eppure era l’unica
soluzione. Un sacrificio, un’attenuante. Sono passati cinque anni,
forse sei, e ancora capita che Gísli provi una fitta dentro quando
Guðríður serve i dolciumi su quel vassoio, le poche volte che hanno
ospiti, e poi a Natale, a Pasqua. Una fitta leggera. È la vergogna che
si fa sentire. L’umiliazione. Come in questo momento. Una fitta
leggera. Allora abbassa gli occhi, pensa al suo misfatto.

Qualche considerazione su

come utilizzare un calzino

Quando alza la testa, Guðríður ha appoggiato il vassoio sul piccolo


tavolo ed è tornata di nuovo in cucina per andare a prendere il caffè.
Gísli segue sua moglie con lo sguardo. Segue con lo sguardo quella
donna che ha avuto davanti agli occhi ogni singolo giorno per tutti
quegli anni, fatta eccezione per qualche settimana in inverno, quando
va ad Arnarstapi. È la sua quotidianità più quotidiana. Possono
passare mesi senza che Gísli veda un’altra persona che non sia lei.
Lei e naturalmente le bambine, ma con loro è diverso. Lei è la prima
cosa che vede quando si sveglia e l’ultima prima di sprofondare nel
sonno. Lei è la quotidianità in persona. Il suo quotidiano si chiama
Guðríður. E quando si considerano gli spazi angusti della casa, lui e
Guðríður stanno sempre uno sull’altra, soprattutto durante l’inverno
quando non possono uscire, quando il mondo è sepolto sotto la neve
ed è impensabile mettere il naso fuori, è davvero un prodigio che gli
anni non abbiano usurato qualcosa di importante. Eppure è così,
dopo tutti quegli anni, quella catena infinita e ininterrotta di giorni tutti
uguali, trova ancora piacevole guardarla camminare. È qualcosa che
lo tocca dentro nel profondo. Come si spiega? Come si spiega che
sia così piacevole guardarla camminare? Come la serenità fatta
persona, è dignitosa eppure può avere un’aria da ragazzina – e poi
quella cosa indefinita che lo attrae e che non sa spiegare a parole.
È davvero sorprendente.
Nonostante tutte le volte in cui si arrabbia con lei. Quando lei
dimentica le sue responsabilità. Quando è sconsiderata. Quando si
abbona di punto in bianco a questa o a quell’altra rivista. O quando si
rifiuta di annullare l’abbonamento negli anni di magra. E lui è rientrato
a casa dopo aver sgobbato per ore, un uomo affamato, stanco, che
pretende di essere ricompensato con un pasto, per recuperare le
energie e andare avanti, forse anche con l’anima un po’ ferita, magari
è primavera ed è tornato il freddo, una gelata, la neve, è stato
costretto a riportare tutte le bestie al chiuso e le scarse riserve di
fieno si assottigliano in maniera preoccupante; una delle pecore è
ammalata, oppure Gísli ha notato dei danni in uno degli edifici esterni
– entra, un uomo stanco, preoccupato, e lei è persa nel suo mondo.
Nei suoi pensieri. Nelle sue letture, nelle sue ricerche. Magari è
ancora a letto a metà giornata, sì, è successo, e le bambine non sono
ancora vestite, una negligenza totale. In quei momenti è come se Dio
lo stesse punendo. E sente qualcosa rompersi dentro.
Il momento più difficile è stato quando Guðríður rimase per
settimane costretta a letto dopo la nascita della loro ultima figlia, la
piccola Elín, ed era talmente inerte e abulica che non riusciva
nemmeno a prendersi cura della neonata, figuriamoci della casa.
Certo, non era colpa sua. Eppure. Come aveva sottolineato la madre
di Gísli, nel nostro paese le donne partoriscono da più di mille anni
senza dover rimanere a letto per settimane.
Perché alla fine Gísli era stato costretto ad andare a trovare i suoi
genitori.
Aveva dovuto lasciare Guðríður a casa a letto. Lasciare tutto il
peso delle responsabilità sulla figlia maggiore, Björg, piccola com’era.
Scendere nelle aree abitate per andare dai genitori e confidare loro i
suoi problemi. Confidare le sue disgrazie. Era stato un colpo, era
stato un boccone difficile da mandar giù. Allora sua madre aveva
detto quella cosa, sulle donne che partorivano da mille anni senza
dover rimanere a letto inermi, altrimenti che cosa ne sarebbe stato
della nostra nazione? Era un punto di vista, aveva dovuto convenirne,
ma solo tra sé, a lei non aveva detto niente. E sua madre
naturalmente doveva per forza andare avanti, mica si era fermata.
Come se assaporasse il proprio trionfo. Io l’ho sempre detto, aveva
continuato, e l’ho detto fin dall’inizio, spero non te ne sia dimenticato,
ti avevo avvertito, tuo padre mi è testimone, che per quanto adorabile
e intelligente possa essere Guðríður, non ha il nerbo. Non è la donna
che…
Ne aveva avuto abbastanza. Si era alzato e se n’era andato senza
dire una parola. Era uscito a sellare il suo Faxi, che allora era ancora
in gran forma, il vigore incarnato. Era quasi mezzanotte ma a lui non
importava nulla. Voleva tornare a casa, la situazione si sarebbe
sistemata in qualche modo, non aveva bisogno d’aiuto. Ma suo padre
l’aveva seguito fuori ed era riuscito a fargli deporre le armi.
L’indomani Gísli era partito conducendo per le briglie il cavallo, su
cui era montata Sigrún, una delle tre lavoranti dei suoi genitori.
Fu il giorno in cui la laboriosità arrivò a Uppsalir.
Nei mesi successivi Gísli ebbe modo di vedere con i propri occhi la
quantità di lavoro che una donna riusciva a portare a termine da sola.
Ebbe modo di vedere con i propri occhi la laboriosità fatta persona.
Perché era come se Sigrún non sapesse far altro che lavorare. Era
rimasta con loro due mesi e lui a volte aveva pensato, senza averne
l’intenzione, senza volerlo, che il sogno di un terreno migliore, magari
sulla costa, si sarebbe realizzato molti anni prima se avesse avuto al
suo fianco una donna come Sigrún.
L’idea gli era venuta così, inattesa. Gli si era insinuata dentro.
E per due volte al mattino aveva visto Sigrún togliersi la camicia da
notte.
Aveva finto di dormire entrambe le volte, Guðríður respirava
pesantemente al suo fianco. Era dimagrita molto ed era pallida. E
Sigrún era lì seduta, gli dava le spalle. Gísli aveva guardato la forte
schiena nuda mentre la donna era rimasta immobile per un istante,
come pensierosa. Poi distrattamente si era allungata a prendere gli
indumenti, aveva dovuto girarsi un poco. Per questo Gísli aveva
visto… di più. Ed era rimasto a guardare. Si era nutrito della nudità di
Sigrún. La struttura più forte di quella di Guðríður. Più consistente. I
seni molto più grossi, sembravano davvero… chiamarlo, imploranti,
quasi li aveva sentiti nei palmi. Morbidi, grossi e sodi, gli era proprio
sembrato che il capezzolo rivolto verso di lui si fosse indurito. Un
flusso caldo e inquieto l’aveva pervaso ed era stato molto difficile
rimanere immobile a letto. Poi Sigrún si era alzata piano e lui si era
accorto che era completamente nuda. Era rimasta lì, ferma, di fianco,
Gísli aveva visto il capezzolo turgido e dei peli scuri tra le cosce. Poi
si era voltata rivolgendogli le natiche nude, più larghe di quelle di
Guðríður, e quando si era piegata in avanti per raccogliere qualcosa i
glutei si erano allargati e lui aveva visto… poi si era vestita. Dopo era
andata di là in cucina, si era messa ad accendere il fuoco e lui era
rimasto coricato. Ansimando. Aveva socchiuso gli occhi e prima di
rendersene conto aveva infilato la mano sotto le coltri, come in cerca,
aveva stretto forte il membro duro, era talmente eccitato che era
venuto quasi subito. Aveva avuto appena il tempo di afferrare un
calzino e sospirando si era svuotato lì dentro. Era successo due
volte. E nei giorni successivi gli era bastato ripensare a quella scena
per sentirsi tutto eccitato.
Era stato un sollievo per lui quando la lavorante se n’era andata.

Non ho mai visto uno sguardo tanto luminoso –

ma ce l’ho mai avuto così duro?

Sigrún è tutta operosità e poco altro. Però parla troppo, l’operosità e


le ciarle non stanno bene insieme, c’è qualcosa che non torna in
quella combinazione. E non è mai stato particolarmente piacevole
guardarla camminare o muoversi.
Operosità?
La gente delle campagne a valle dovrebbe vedere come rastrella il
fieno Guðríður! Allora non direbbero che è oziosa e trasognata.
Allora la mamma non la coprirebbe di rimproveri. Perché a volte le
prende una tale foga che batterebbe facilmente tutte le Sigrún, senza
pietà! Dio del cielo, quant’è orgoglioso di lei in quei momenti. Ed è
anche un miracolo che sia riuscita a far crescere delle betulle sul lato
della casa che dà verso sud, o che riesca a raccogliere tante patate e
rape in quel suo piccolo orticello, e quanta fantasia ci metta a
preparare da mangiare con la poca varietà che hanno a disposizione.
Adoro come cucini, Guðríður, aveva detto la mamma di Gísli quando i
suoi genitori avevano soggiornato da loro per qualche giorno l’estate
precedente. E mi è venuta subito l’acquolina in bocca quando ho
intravisto il vostro casale da lontano. Gísli si era scaldato tutto alle
parole di sua madre. E si era riempito di orgoglio.
Eppure.
Le capita spesso di distrarsi. Per ore. Di essere fuori dal mondo.
Succede molto spesso. Quando sembra che non riesca a capire che
la vita è una lotta. Che non bisogna mai mollare un attimo, da
nessuna parte, e meno che mai lassù a quasi duecento metri di
altitudine. Lì magari la primavera arriva tardi, fa i capricci, l’erba
nuova e delicata gela subito, sono costretti a nutrire il gregge con il
fieno fin oltre l’agnellatura, e la vita è precaria. E allora si conta
davvero ogni filo di fieno. E la quantità di fieno dipende solamente e
impietosamente dall’accanimento indefesso con cui si è lavorato
l’estate precedente, senza distrarsi, riducendo le ore di sonno,
lasciando indietro qualsiasi cosa che non fosse il lavoro. In quei
momenti non c’è spazio per la lettura. Non c’è spazio per riflettere su
cose lontane. Perché quando la primavera arriva tardi e fa i capricci
bisogna affidarsi al fieno e non ai pensieri profondi. Gísli è comunque
talmente fiero quando la gente delle campagne a valle elogia sua
moglie in sua presenza che fa fatica a non darlo a vedere. Perché
succede anche questo. Magari dicono che sembra proprio che abbia
studiato, o che si potrebbe anche convocarla come insegnante per i
bambini del contado; d’altronde le loro figlie si distinguono quando
ogni inverno passano due settimane con il maestro itinerante a Bær.
Imparano ben poco di nuovo con lui, tanto sono già state istruite dalla
loro mamma. E guardarla camminare, la schiena sottile, le curve, è
ancora…
Non è poco, dice Pétur.

Come? Si riprende Gísli. Si era allontanato con il pensiero, non sa


dove, e se ne vergogna. Bisogna esserci sempre, essere presenti,
tutti interi nel momento. Bisogna essere ancorati alla realtà. Chiede
come, arrabbiato con se stesso. Fissa concentrato il pastore.
Che bel rinfresco, dice Pétur, mi sento un vescovo, se non il papa!
Si offre il poco che si ha, dice Gísli, e trattiene un sorriso – i
complimenti vanno accettati con modestia.
E poi arriva Guðríður con il caffè. Il caffè e il suo sorriso cordiale,
quello meno pericoloso, e si riattacca al discorso di suo marito; il
reverendo perdonerà il poco che abbiamo qui nella brughiera, sarà
certo abituato a case migliori. Il nostro caffè però è autentico, e nero
come può essere un caffè. Vedo che le bambine non ci pensano
nemmeno a rientrare, sono ancora fuori dalla vostra cavalla. Il
reverendo le scuserà, spero. Sono così giovani e poco avvezze agli
ospiti che non sanno bene come comportarsi e probabilmente
trovano più interessante la visita di un cavallo che quella di un essere
umano. Sono incorreggibili, sarebbe quasi il caso di rinnegarle, eh? In
loro difesa posso dire che siamo stati costretti ad abbattere il nostro
cavallo lo scorso autunno, il Faxi. A loro manca talmente tanto che
preferiscono la giumenta a voi.
Non c’è bisogno di scusarle, assolutamente, dice Pétur con un
gran sorriso, non sa smettere di sorridere accanto a questa donna, si
rende ridicolo. Assolutamente, e la mia Ljúf è certo molto più
interessante di me, quanto a intelligenza e compagnia.
Ljúf, la dolce, ma che bel nome per un cavallo, dice Guðríður, lo
dice con un tono talmente caloroso che Gísli la guarda stupito,
mentre lei si siede al suo fianco con un movimento così morbido che
il desiderio di abbracciarla gli brucia quasi le mani, ma si trattiene. C’è
un ospite.
Ecco qua il caffè, ed è autentico, dice Guðríður mentre ne versa
una tazza a Pétur, posata, cortese, sorridente. Nero come la notte di
gennaio, così dev’essere, dice lui, se ne fa un sorso, sospira di
soddisfazione, tende le braccia verso il pacchetto che ha posato sul
letto accanto a sé, lo scarta, poi porge a Guðríður due dei tre libri, e
lei li prende. Vorrebbe farlo sorridendo, riconoscente, equilibrata, ma
d’un tratto si sente in preda alla timidezza, all’insicurezza, le sale un
vago rossore sul collo bianco. Gísli riconosce certi segni. La pelle la
smaschera sempre e per questo non sa nascondere quello che prova
a chi la conosce, è sempre stato così, la sua pelle non sa mentire.
Prende i libri, vi si china subito sopra, comincia a sfogliare, supplica
silenziosamente le dita di non farle lo scherzo di mettersi a tremare, è
già abbastanza che sia la pelle a tradirla, è già abbastanza che sia lì
seduta con la gola e le guance arrossate come una fanciullina. Non
tremate, supplica lei in silenzio, e mormora, se solo conoscessi
meglio il danese, e si immerge nel testo, dimentica di tutto e tutti.
L’indice scorre sulle righe, muove le labbra, quasi impercettibilmente,
e gli occhi brillano, letteralmente brillano. Pétur pensa, non ho mai
visto uno sguardo tanto luminoso.
Muove le labbra, sembra distante dai due uomini, immersa nel
mondo del testo, e nella baðstofa cala il silenzio. Un silenzio di
tomba. Una delle bambine grida allegramente qualcosa fuori, Sámur
abbaia, per il resto niente, se non il tenue fruscio quando lei passa le
dita sulla carta, come se non volesse solo leggere le parole ma
anche toccarle, sentirle, fisicamente. I due uomini la osservano,
anche loro hanno dimenticato tutto il resto, Pétur la cortesia
dell’ospite, Gísli i doveri del padrone di casa, guardano e basta.
Ciascuno nel proprio modo. A Guðríður si sono formate due rughe in
mezzo agli occhi. Che sete meravigliosa, pensa Pétur, meravigliosa,
e d’un tratto Gísli si sente un ospite in casa propria. Ma che razza di
scempiaggine, cerca di pensare, vorrebbe scuotere la testa per
convincersene, e invece resta seduto come paralizzato, con una
strana tristezza addosso. Guarda il vassoio. Un giorno l’ha rubato. Un
giorno ha commesso un crimine. Ma solo perché ama la donna che
gli sta accanto, desiderava far felice quella persona che a volte
sembra fuori posto nella sua esistenza, sì, a volte si sente quasi
come se l’avesse solo in prestito. Che un giorno si sveglierà lì nella
baðstofa e lei sarà scomparsa, svanita.
Per tre volte ha sognato di svegliarsi nel letto coniugale, di tirarsi
su nella penombra e vedere che non è Guðríður quella distesa al suo
fianco ma Sigrún, con i suoi seni pieni sotto la camicia da notte, la
laboriosa, robusta Sigrún che ha l’unico difetto di parlare troppo. E di
non essere Guðríður.
Le bambine dormono nell’altro letto e tutte gli sembrano una
versione ridotta di Sigrún. Lui la guarda, percepisce l’energia che
emana da lei, e il ricordo del capezzolo turgido, della schiena grande
e muscolosa, delle natiche che si sono allargate, bastano a fargli
avere subito un’erezione. Guarda e ha voglia di svestirla, ha voglia di
penetrarla. E pensa anche, adesso il foraggio non ci mancherà mai.
Adesso non devo più contare i fili di fieno perché so che saranno
sempre abbastanza. Sente il mare fuori e nota il quarto letto, dove
dorme il tanto desiderato figlio maschio, che è ormai grande a
sufficienza per accompagnarlo a pescare. Vuole aspettare un attimo
prima di svegliarlo, perché Sigrún è desta ed è nuda e ci sono quei
seni grandi, le cosce forti, e lei comincia a carezzargli il membro con
le dita. Ti piace, vero, sussurra lei dopo, mentre le scivola dentro. Oh,
sì, sussurra Gísli. Ce l’hai mai avuto così duro? No, sussurra lui
eccitato. Non ce l’hai mai avuto così duro quando andavi a letto con
Guðríður, dice lei rauca, dice lei trionfante, dice lei allargando meglio
le gambe, ma lui senza sapere perché si sente talmente triste e
disperato che si mette a piangere. Si sveglia piangendo. Si sveglia
mentre ha un orgasmo. Viene mentre piange al fianco di Guðríður
addormentata.

Il fratello del diavolo

è un vecchio libraio di Copenaghen

Quando Guðríður, comincia Gísli, ma deve tossire, schiarirsi la gola,


mentre cerca di staccarsi da quel sogno idiota. Si schiarisce bene la
gola perché la voce che gli era uscita era talmente strozzata che
sembrava quella di un pollo spennato. Pétur lo guarda con una
garbata espressione di interesse. Quando la mia Guðríður legge,
ricomincia Gísli, la voce è tornata e sorride come per limare un
possibile spigolo dalle parole, sembra proprio che sparisca. A volte
sparisce così totalmente che quasi mi tocca andare nelle campagne
a valle per raccogliere gente e partire a cercarla!
Pétur: Una caratteristica ammirevole, devo dire, riuscire a
concentrarsi così sulle letture e sui propri pensieri. Le persone capaci
di farlo forse spariscono, ma non di rado fanno ritorno con qualcosa
di nuovo per noialtri incatenati al qui e ora. Ci offrono nuove
conoscenze, nuovi punti di vista. E adesso comprendo meglio come
sia riuscita a scrivere quell’articolo in cui si percepisce una grande
conoscenza, un grande sapere. Vi posso assicurare che non è una
caratteristica molto diffusa, purtroppo.
Gísli ride piano: Sparisce, sì, a volte lo fa davvero! Magari torno a
casa e il pranzo non è pronto, le bambine non sono vestite. Dov’è la
vostra mamma, chiedo. È uscita, mi rispondono, senza sapermi dire
altro. E lei si stupisce se sono infastidito quando finalmente
ricompare, magari ore più tardi. Perfino infreddolita perché è rimasta
a osservare le strolaghe che nidificano sul lago qui nella brughiera.
Una volta ha passato due giorni a scavare nel terreno per scoprire a
quale profondità arrivava l’acqua, e come cambiava il colore del
suolo via via che scendeva più in basso!
Chi nasce con una mente viva e accesa, dice Pétur, desidera
aprire gli orizzonti a noialtri che siamo incatenati all’abitudine. Vi siete
sposato molto bene.
Posso magari ricordare a lor signori che mi trovo accanto a voi,
dice Guðríður, ha alzato la testa dal secondo libro, tiene il dito sotto
un rigo come se non volesse perdere il legame con il mondo che vi
sta dentro. Le due rughe di concentrazione tra gli occhi sono sparite
ma una ciocca di capelli è caduta sul viso mentre era curva – come a
dire che la sua capigliatura non si fa domare. Il rossore sul collo non
se n’è andato, quel bel collo, pensa Pétur, ma Gísli ride, una risata
breve, si versa del caffè nella tazza e poi tracanna tutto il contenuto.
La bevanda nera è così rovente che deve farsi forza per non
risputarla tutta all’istante.
Sono ottimi libri, questi due, dice Pétur senza rendersene conto. È
seduto proprio di fronte a Guðríður o, più esattamente, lei è seduta di
fronte a lui. È lei che si è seduta dopo, lui non ha fatto altro che
accomodarsi dove gli hanno detto. Sta seduta con la schiena dritta, il
rossore sul collo, ha quella ciocca di capelli sciolta lungo la tempia.

Ho visto la bellezza, scriverà più tardi a Hölderlin. Tu l’hai vista un


tempo, mentre eri in vita, in un posto che non fosse l’universo delle
parole? Sai, credo che sia vero quello che dicono, che la bellezza può
renderti infelice, perché la vita non ne esce mai bene quando la
paragoni. Chi l’ha detto, chiede allora il poeta tedesco. Come faccio a
saperlo, e che differenza fa, oltretutto, perché ho visto la bellezza, ero
seduto di fronte a lei, mi è entrata dentro e mi ha strapazzato ben
bene, dovresti comporre dei versi su questo argomento, poeta! L’ho
già fatto, risponde Hölderlin, ma tu sei sempre vivo e per questo non
hai percorso ancora abbastanza strada, per te la lingua della morte è
un buio illeggibile. Può essere, risponde Pétur, ma avresti dovuto
vedere come stava seduta dritta, con il dito sotto un rigo del libro. Suo
marito ha tracannato una sorsata di caffè bollente, probabilmente
appartiene alla razza dei troll – io ho dovuto aspettare per poterlo
bere, ho dovuto lasciarlo raffreddare mentre lui se l’è trincato come
una bevanda dissetante. Ha svuotato la tazza in un attimo, l’ha
tracannata, e io guardavo sua moglie, pensavo a qualche
sciocchezza, poi ho sentito che stavo parlando, ho detto, sono ottimi
libri, questi due…

Guðríður aveva guardato Pétur con aria concentrata. Sono ottimi libri,
questi due, aveva detto, ma poi la sua voce era sfumata in
lontananza, il pastore era sprofondato nei suoi pensieri come se
cercasse di ricordare qualcosa. Le rughe sulla fronte si erano
approfondite. Portava una giacca scura, non proprio nuova, ma di
una stoffa di qualità. Nessuno si veste così in campagna.
Guðríður sorride.
Toglie il dito dalla pagina, sposta la mano di lato e d’un tratto la
posa sul braccio di Gísli, ve la lascia per qualche secondo. Gli
sguardi dei due uomini si incrociano. Pétur tossisce. Sono davvero
ottimi, ripete, questi due libri.
Certo, non li ho letti tutti dall’inizio alla fine, il mio cervello non è
ben forgiato per la scienza. Un mio conoscente a Copenaghen è
talmente premuroso da temere che io vegeti quassù, che non mi
tenga abbastanza al corrente, che… Voi leggete discretamente il
danese, non è così? Si interrompe, mi permettete di chiamarvi
Guðríður, vero, aggiunge come un cretino, ricoprendosi di vergogna.
Come diavolo deve chiamarla, se non Guðríður, è così che si chiama,
mica in un altro modo. Non può chiamarla Ásgerður, Hulda, Anna, né
certo cara fattoressa, men che meno «quella che scrive di lombrichi»,
non la può certo ribattezzare «quella con la grafia che abbaia come
fanno i cani». Ma a quel punto lei sorride di nuovo, di nuovo trasforma
l’atmosfera con quel sorriso pericoloso. Sorride e annuisce, conferma
che è una splendida idea chiamarla Guðríður. E che legge
discretamente il danese.
Le lingue, dice lui, quasi mangiandosi le parole, cerca di
dissimulare l’imbarazzo, è estremamente necessario apprendere le
lingue. Sono sempre stato convinto che familiarizzare con le lingue
straniere faccia maturare sia il popolo che i singoli individui. È nocivo
chiudersi nella propria cultura al punto da non vedere nient’altro
È
all’esterno. È una povertà che con il tempo può generare pregiudizi di
ogni sorta. Parlare una lingua straniera permette di viaggiare. E
inoltre… Dio mi perdoni, si interrompe di nuovo, quanto parlo! Non
dovete far caso alla metà di quel che racconto, ho questa tendenza,
parlo talmente tanto da uscire completamente dal seminato.
Si gratta la testa, arrabbiato con se stesso, perché l’evidenza gli è
saltata agli occhi d’un tratto, a metà frase – eccolo lì seduto,
nell’angusta baðstofa, a duecento metri di altitudine, ciarlando
dell’importanza di viaggiare, di fronte a una coppia forgiata da una
vita di duro lavoro, di difficoltà, soprattutto Gísli, le sue mani così
indurite dai calli che ricordano due barche di legno segnate dal
maltempo. Sono persone che lottano per la loro indipendenza, per
sopravvivere, per poter restare in piedi, ovviamente sognano di
procurarsi un terreno più facile, e lui sta lì, le mani in mano, a
disquisire di lingue straniere, dell’importanza di viaggiare… Non
bisogna prima riuscire a stare in piedi, per poter viaggiare? E come si
può viaggiare se tutte le energie se ne vanno per sopravvivere?
Quando la lotta consiste nell’allevare i figli, farli diventare adulti, e non
perdere mai la propria autonomia?

Gísli abbassa gli occhi, come se avesse individuato qualcosa di


interessante sul pavimento della baðstofa. Qualcosa di molto più
interessante dei vaniloqui dell’ospite, che viene a rubare il loro tempo,
a bere il loro caffè, a mangiare beni di lusso come i datteri.
Bisogna che mi sbrighi ad andarmene, pensa Pétur, è stato un
errore venire, è stato da stupidi. In fondo cos’altro c’era da aspettarsi
da un uomo che non desidera altro che ubriacarsi quando gli altri
vanno a dormire, un uomo che scrive lettere a un poeta tedesco che
giace morto nella tomba da mezzo secolo. Mia moglie ha le mani
fatte di luce, pensa, adesso vado a casa ad abbracciarla, pensa. Non
la abbraccio da così tanto tempo che bisognerebbe spararmi. La
abbraccio e le dico, amore mio. Sono parole, è un’espressione che
può tenerci in vita. E le dirò, pensa Pétur – ma poi sente chissà che
cosa, alza la testa dai suoi pensieri e incontra il sorriso di Guðríður.
Incontra i suoi occhi. Ma di che colore sono, esattamente? E quante
lingue bisogna conoscere, per poter descrivere quel sorriso? Pensa,
stupido com’è, disperato com’è: sarei pronto a vagare per mille anni
nelle tenebre se alla fine venissi ricompensato con quel sorriso, con
quegli occhi. Signore, castigami, sono così felice di essere venuto
quassù.

Il reverendo si fa riguardo a servirsi. Non c’è bisogno. Non deve


trattenersi. Ne abbiamo a sufficienza. Dice Gísli e porta la mano
destra accanto al vassoio, il palmo leggermente appoggiato al piano
del tavolo. Le dita non sono molto lunghe, ma forti e per qualche
motivo le ha allargate, come se volesse dimostrare la forza di tutte
loro, dimostrare che ciascun dito è abbastanza robusto e potente da
cavarsela da solo, se necessario.
Guðríður guarda la mano di suo marito. Quelle dita che conosce
così bene. Quella mano che ha fatto tante cose, ha sollevato pesi,
che possiede una resistenza infinita, ma sa anche toccarla con una
dolcezza quasi dolorosa. Perché ha messo la mano lì, e in quel
modo… mi strangolerebbe senza sforzo, è il pensiero che sfreccia
per la testa di Pétur.
Qui non ci possiamo lamentare di nulla, e meno che mai del cibo,
dice infine, e lui prende un biscotto, con un’esitazione involontaria. La
mano di Gísli è ancora appoggiata sul tavolo, come se l’avesse
dimenticata lì, e per un attimo le dita di Pétur si trovano ad appena
qualche centimetro da quelle del fattore, magre, fini, fragili al
confronto. Pétur infila il biscotto in bocca, estrae il terzo libro, lo
carezza come un gatto, lancia un’occhiata pensierosa di sbieco, le
rughe sulla fronte si approfondiscono. I due coniugi lo guardano,
ciascuno con i propri occhi diversi, con i propri pensieri diversi.
Mi è sembrato di intuire, dice Pétur, che foste discretamente a
vostro agio con il danese, o diciamo con il norvegese, non c’è una
gran differenza tra queste due lingue; a volte è come se l’una fosse la
versione storpiata dell’altra. Ma poiché so bene che leggendo molto
nelle lingue straniere si incontrano spesso parole sconosciute, il filo
del discorso si ingarbuglia di continuo, il significato si perde, e spesso
ci si smarrisce nella nebbia dei termini che non conosciamo, mi è
venuto in mente che questo libro potrebbe esservi compagno e
servitore nel vostro viaggio tra i due libri che vi ho dato prima.
Pétur carezza il terzo libro, più spesso degli altri due, Dizionario
islandese-latino-danese. È piuttosto vecchio, poveretto, si scusa il
reverendo, un po’ consumato, ha una lunga storia, ha quasi cento
anni. Me lo sono procurato da un antiquario di Copenaghen quando
abitavo là. Credo che il libraio fosse più vecchio di questo libro.
Avreste dovuto vederlo, talmente gobbo che ricordava quasi un
poggio d’erba o un pugno chiuso. Avrà avuto almeno duecento anni,
mi hanno assicurato i miei conoscenti danesi, ma la mente era
perfettamente lucida e gli occhi più incredibili che abbia mai visto.
Sembravano capaci di penetrare qualsiasi cosa, la carne umana o le
mura più spesse. Leggeva ogni persona come un libro aperto, proprio
nel profondo, e non aveva bisogno di dizionari per interpretarla.
Quasi un mito, a Copenaghen. C’era chi assicurava che fosse il
fratello del diavolo. Sicuramente per via di quegli occhi, di sicuro. Il
suo sguardo non lasciava indifferenti, quando si posava su qualcuno,
e non conosco nessuno che si sia azzardato a contrattare sul prezzo
con quel vecchio. Tutti hanno sempre pagato la cifra che chiedeva,
oppure rinunciavano all’acquisto. Qualche giorno dopo aver
comprato il libro uno dei miei amici che era venuto a trovarmi a casa
lo vide, riconobbe la copia, è facile a causa di queste due macchie
indelebili sulla copertina, guardate qui, sembrano due occhi, non è
vero? Uno triste e l’altro infantile. Riassumono la storia del genere
umano, mi venne da dire al libraio quando presi in mano il libro. Forse
apprezzò la mia facezia, perché una settimana più tardi quel mio
amico avrebbe voluto acquistarne lui stesso una copia, ma lasciò
perdere poiché il vecchio gli chiese una cifra esagerata, almeno sei
volte di più di quanto l’avessi pagato io. Ma adesso credo, dice Pétur,
e sorride mentre porge il libro a Guðríður, con un gesto timido, che
non fosse perché mi ero lamentato delle macchie, ma perché quei
due occhi penetranti, onniscienti, antichi di due secoli, avevano
previsto nell’arco di un istante dove avrei portato questo libro, molti
anni più tardi, sapevano che sarebbe finito dove la sapienza che
conteneva avrebbe trovato la sua più consona dimora.
 
1
Tessuto di lana di produzione locale, in uso fin dal Medioevo, con cui si confezionavano
tuniche, camicie e giacche.
Alcune persone sono pali di un recinto,

altre creano playlist

per la Morte
Forse siamo vivi

in ogni tempo

Non so per quale motivo mi sono dovuto assentare nel bel mezzo di
una scena – con Pétur che ha appena consegnato a Guðríður il
dizionario che il fratello del diavolo gli aveva venduto con lo sconto.
Come aveva reagito, lei, come aveva reagito Gísli?

Guðríður ha preso il dizionario. Ancora con questi libri, ha detto Gísli,


e ha posato la mano, forte, callosa, sul piccolo tavolo. Come se
volesse aggiungere, noi abbiamo bisogno di questa, quassù, per
tirare avanti, perché si possa scrivere altri libri, e perché qualcuno
abbia la possibilità di leggerli.

Ma di colpo sono stato catapultato di nuovo qui.


E sono ancora seduto nella roulotte. Con il mio compagno
misterioso, il conducente d’autobus consacrato.
Provo compassione per Gísli e sono preoccupato per lui, dico,
stacco lo sguardo dai fogli e vedo che il mio compagno ha indossato
un paio di bermuda variopinti e una maglietta a maniche corte bianca,
ed è intento a mescolare l’impasto per i pönnukökur, in piedi davanti
alla piccola cucina economica. Sulla sua maglietta campeggia la foto
del musicista angloamericano MF Doom, e sotto il primo verso del
testo di Accordion: «Livin’ off borrowed time, the clock tick faster.»
Bella frase. Ma a essere precisi l’immagine non è davvero quella di
MF Doom perché il musicista si presenta soltanto con una maschera
che gli copre il volto, e per questo sono in pochi a sapere che aspetto
abbia. Preferisco non dire al reverendo con la patente quanto mi
sembri appropriato che abbia scelto proprio quella maglietta, sono
entrambi mascherati, a modo loro, solo che uno sta chiaramente
nascondendo qualcosa mentre l’altro vuole che l’arte risulti più
importante dell’artista.
Preoccupato per Gísli, ripete il conducente consacrato, tenendo in
mano una padella nera e consunta come se fosse una dichiarazione.
Sei preoccupato soltanto per lui, e non per gli altri, Guðríður, Pétur,
Halla, e sì, per l’umanità in generale – ma davvero? Non hai notato
che gli esseri umani sembrano più propensi a raccontare di rovine e
di sventure, di incertezze e di dolori, o di tragedie. Pochi hanno
descritto come si sta in paradiso. Credo che la spiegazione sia che la
felicità non si racconta, la si vive. Chiedilo a Hölderlin, lui ha perso il
senno e quindi potrà confermarti quello che dico. Probabilmente a
Gísli starà bene, oppure no, ma alla fine tutto muore e allora sarà
troppo tardi per augurarsi la felicità. E comunque, si può pur sempre
preparare dei pönnukökur. Solo quando non è più possibile consolare
se stessi e il prossimo con dei pönnukökur tiepidi, allora i tempi sono
davvero grami. E poi c’è un’altra cosa, è chiaro, chi non ha ferite
d’amore non conosce la vita. Anzi, non ha mai vissuto.
Però sono tutte teorie, queste, conclude versando la prima
cucchiaiata di impasto nella padella, e il profumo dei pönnukökur
fragranti riempie la piccola roulotte. Abbasso lo sguardo sui fogli, ho
voglia di immergermi di nuovo in quei tempi, di sparire nel passato e
scoprire che cosa succede dopo; come si conclude quella visita, che
direzione prende il destino, le mani di Halla si sono rabbuiate?
Abbasso lo sguardo e a quel punto il passato è scomparso, è
rientrato nell’oscurità, e al suo posto vedo me stesso accanto a Rúna
di Nes, sul sedile anteriore della sua jeep blu. Ci stiamo dirigendo
verso l’hotel a cercare tre bottiglie di grappa e del cioccolato fondente
per fare le torte; poi ci sarà la festa per celebrare la vita, Páll di Oddi
ed Elvis Presley. Le forme arrotondate della roulotte si allontanano
nello specchietto retrovisore, per poi sparire dietro l’ampia fila di
arbusti che la separa dalla fattoria di Framnes.
Ormai sono così obbediente

che c’è da vergognarsi

– poi aggiungiamo I Love Paris

alla playlist della Morte

Sóley aveva chiesto a sua sorella di portarmi. Haraldur è a casa a


Nes ma ha promesso di venire dopo, con Ási e Mundi che sono
apparsi all’improvviso a Nes con della birra fredda, entrambi con una
lista dei migliori dieci brani della storia della musica, a partire da
Please Please Me dei Beatles, e volevano che anche Haraldur ne
creasse una sua. Ási ha detto di riporre grandi speranze nella lista di
Haraldur, che secondo lui confermerà come sia più corretta la sua
rispetto alla schifezza assemblata da Mundi.
Papà è stato contento quando sono partita, ha detto Rúna, e
sorride in maniera talmente profonda che la mestizia agli angoli della
bocca è quasi sparita. Mette su In a Sentimental Mood di John
Coltrane e Duke Ellington. Non esistono belle giornate senza
Coltrane, spiega – lui voleva cambiare il mondo, unire l’umanità
grazie alla musica e creare l’armonia sulla Terra. Rúna rallenta
quando ci avviciniamo a una curva a gomito che si snoda lungo il
fiordo, poi deve quasi fermarsi perché una vecchia jeep Bronco
scassata arriva sulla curva dalla direzione opposta, un tantino troppo
in mezzo alla strada. Un uomo di una certa età al volante, il volto
emaciato, i capelli grigi scomposti, sta seduto talmente in avanti sul
sedile che quasi tocca con la fronte il parabrezza e procede alla
velocità di una lumaca. Fa finta di non vederci, dico io.
Più che altro non ci ha visti sul serio, mi risponde Rúna. Quello è
Kári di Botn, che evidentemente non ha trovato gli occhiali. È già
successo. In casa non li trova, oppure non ha voglia di cercarli.
Sostiene che è difficile trovare gli occhiali senza gli occhiali. Non ci
vede quasi per niente se non li porta, per questo guida piano e si
tiene in mezzo alla carreggiata, che a volte qui nel fiordo è talmente
stretta che non c’è nessuna possibilità di sorpassarlo, così rimaniamo
bloccati dietro di lui finché non imbocca la laterale per Hof e lì si fa
prestare da Lúna un paio di occhiali di ricambio. Che non sono
abbastanza forti per lui, certo, ma meglio di niente.

Rúna imbocca la curva talmente piano che ho tutto il tempo per


ammirare l’ampia testa del fiordo che si apre al tornante; le due
fattorie, Skarð in lontananza e Sámsstaðir, quella di Ási, vicino al
punto in cui si distende la giovane foresta, che comincia a cambiare il
paesaggio, sale ben bene sul fianco del monte e si espande sulla
torbiera. La casa estiva gialla di Mundi, collocata a qualche centinaio
di metri dalla fattoria che troneggia su una bassa collina, e che
probabilmente verrà inglobata dal bosco entro qualche anno. Skarð si
trova ai piedi di un promontorio verde, nel punto di incontro tra due
vallate – una dall’aspetto pietroso, che si infila nell’entroterra verso
nord, l’altra che pare più verde ma che è in gran parte nascosta dal
promontorio. La fattoria di Skarð è ancora attiva. Conto dodici vacche
al pascolo sulla piana acquitrinosa sottostante.
Abbiamo appena passato il ponte quando siamo costretti a
fermarci. Non riusciamo a passare perché Kári sta in mezzo alla
strada. Rúna scende dall’auto per controllare che vada tutto bene,
ma torna subito. Kári si era fermato per rispondere al telefono. L’ha
chiamato sua figlia. Sta passando queste settimane nella sua casa,
nella piccola valle erbosa di Sunnandalur, era andata a raccogliere
bacche sul fianco del monte quando aveva visto l’auto di suo papà
procedere lentamente, e aveva capito che non era riuscito a trovare
gli occhiali. O che non aveva avuto voglia di cercarli. Non aveva con
sé il telefono e così si era affrettata a tornare fino a casa, da dove
l’aveva chiamato perché si fermasse. Gli aveva detto che sarebbe
andata lei a Botn con i figli per cercargli gli occhiali e glieli avrebbe
portati. Si era fatta promettere che non si sarebbe mosso fino al suo
arrivo. Ormai sono così obbediente che c’è da vergognarsi, aveva
detto Kári a Rúna, che aveva promesso alla figlia di fermarsi finché
non fosse arrivata lei, per assicurarsi che il padre non se ne andasse
in giro. Inutile che gli proponiamo di accompagnarlo fino a Botn dove
l’aspetta una tazza di caffè; è troppo fiero per accettare un aiuto. Dice
che le preoccupazioni e la sollecitudine degli altri nei suoi confronti
sono una forma di pietà malcelata.
E così noi, aggiunge Rúna, ma non riesce a finire la frase perché
le squilla il cellulare. Risponde, il telefono è chiaramente collegato
all’impianto stereo perché l’auto si riempie della voce di Elías, e poi
della sua risata, profonda e sincera, quando Rúna gli spiega la
situazione.
Potrebbe prolungarsi parecchio, la vostra attesa, fa lui, Kári è di
sicuro uno specialista, nel farsi aspettare. Qui peraltro tutto procede a
pieno ritmo e non serve mettersi fretta. Anche se Alessandro Magno
chiede di te, offeso a morte perché ho lasciato i cani liberi per casa.
Per il resto, in questo esatto momento sto andando da Eiríkur con la
prima birra del giorno, fa Elías – e poco dopo sento la voce di Eiríkur
per la prima volta. La voce di un uomo che suona la chitarra, spara
dietro ai camion, e che rischia il carcere. E parla ai suoi cani in
francese.
A volte lo fa, spiega Rúna quando le rivolgo uno sguardo
interrogativo – dice che vuole che siano bilingui.
Sei con il poeta, chiede la voce di Elías al telefono.
Sì, sono con il poeta, risponde Rúna.
E il poeta parla francese?
Io scuoto la testa.
No, il poeta non parla francese, dice Rúna.
Ma porca miseria. E io che ero sempre stato convinto che tutti i
poeti parlassero francese. Non è la lingua madre della poesia?
Hölderlin, faccio io, ma devo schiarirmi la voce, ricomincio:
Hölderlin potrebbe sostenere che è il tedesco.
Elías ride. Hai ragione! Quindi abbiamo una controversia
profonda, probabilmente ci hai fornito la spiegazione più plausibile
dietro a tutte le guerre tra Francia e Germania! Eiríkur mi ha appena
detto che stava traducendo un testo dal francese per i cani – che
canzone è, Eiríkur?
La risposta di Eiríkur non è chiara, ma non importa perché
riconosco subito il brano. Vaknaðu dei XXX Rottweiler hundar.
Eh, pensa te, che nome per un gruppo musicale, fa Elías, e poi
chiede, come hai detto? Non ho capito, Eiríkur, di quale playlist?
Si sente la voce di Eiríkur nell’impianto stereo dell’auto, ma
talmente sovrastata dalla musica assordante che non riusciamo a
capire che cosa risponda. Elías ride e sembra contagiare anche
Eiríkur, perché ride anche lui. Una risata contagiosa. A dire il vero
non me l’aspettavo.
La playlist della Morte, dice poi Elías – e la Morte con la m
maiuscola. Quel pezzo fa parte della playlist della Morte che Eiríkur
ha preparato in occasione di questa giornata. La trovate su Spotify –
sotto il nome di Eiríkur. Secondo lui la morte desidera ardentemente
la vita, ma è destinata a distruggerla ogni volta che cerca di
abbracciarla. È il suo dolore più grande, e la musica l’unica cosa che
può lenirlo. Questa playlist è il contributo di Eiríkur.

La playlist della Morte, eccola qui, dice Rúna dopo aver salutato
Elías, poi si collega a Spotify sul suo telefono e così possiamo
ascoltare gli stessi brani che ascoltano i due amici nella fattoria di
Vík. Il tipo problematico con la chitarra, la carabina, i cuccioli morti – e
adesso posso aggiungere la risata contagiosa – sceglie la musica per
noi mentre siamo bloccati dietro a un contadino ottantenne che
approfitta dell’attesa per cercare l’album Ella Fitzgerald Sings the
Cole Porter Song Book nel vano portaoggetti.
Svegliati, svegliati, sonnambulo, svegliati! Devi smettere di vivere
da moribondo… approfitta del tempo, quei pochi anni che
camminiamo sulla terra… non sognare, sii tu il sogno… Rappano e
cantano, con slancio, gli irriverenti Rottweiler hundar.
Sii tu il sogno, non vivere da moribondo, vivi adesso. Gran bel
pezzo, dice Rúna. Il testo sembra proprio un messaggio per me e per
Eiríkur, in effetti abbiamo…
La sua voce sfuma nel nulla. Non so se è perché vuole ascoltare
meglio il brano, o perché il messaggio di cui parla l’ha talmente
sconvolta che non riesce a continuare.
Svegliati, svegliati, sii tu il sogno, non vivere da moribondo…
In un certo senso, la vita di Rúna si è fermata la sera in cui si è
vista arrivare in un occhio il tacco a spillo di sua madre in preda a un
accesso di risate, ha perso il controllo dell’auto sulla strada
ghiacciata e si è ritrovata poco dopo priva di sensi, capovolta, appesa
alla cintura di sicurezza come un pipistrello addormentato, mentre
sua madre, fratturata, chiedeva a Haraldur di tenerla tra le braccia.
Amore mio, aveva sussurrato, stringimi forte, non mi lasciare. Non
lasciarmi mai.
Non lasciarmi mai. Le ultime parole, e per questo…

Alzo gli occhi dai fogli e faccio: Come?


Per questo, ripete il conducente d’autobus santificato, che ha fatto
una pila alta un palmo di pönnukökur fragranti, Haraldur non ha
potuto lasciare il fiordo e trasferirsi nel Sud, altrimenti chi avrebbe
tenuto Aldís tra le braccia? A meno che non se ne sia servito come
scusa, che non abbia avuto la forza di cominciare una nuova vita
senza di lei. E l’esistenza di questo padre e di sua figlia si è fermata.
In un certo senso, è ferma quanto la jeep di Kári, aggiunge
continuando a preparare i pönnukökur e poi con la spatola indica una
cornice di legno molto bella ma sbiadita, e una foto in bianco e nero
dei due fratelli di latte, Kári e Skúli. Skúli deve avere non più di sette,
otto anni, sorride ma c’è come un’ombra nei suoi occhi, del resto non
era da molto che era arrivato nel fiordo dalla Snæfellsnes; aveva
dovuto abbandonare tutto quello che amava, se n’era andato
portando con sé solo la nostalgia. Era stato recapitato qui nel Nord in
un fiordo sconosciuto che però con il tempo era diventato la sua casa
e il suo abbraccio; al suo fianco c’è Kári, due anni, si appoggia alla
gamba di Skúli, si aggrappa quasi, e osserva la macchina fotografica
concentrato, serio.
Abbasso gli occhi sui fogli. La figlia di Kári ha trovato gli occhiali ed
è partita per portarli a suo papà, che nella foto ha due anni ma al
volante della sua Bronco in mezzo alla strada è un anziano. Aspetta lì
obbediente che la figlia più giovane gli porti gli occhiali. Aspetta
tranquillo, del resto non se la passa affatto male lì, il vecchio
contadino ha trovato il disco di Ella e comincia ad ascoltare I Love
Paris. Ma certo che ascolta quel brano, fa parte del disco che Ella
canta ogni sera all’inferno come in paradiso – alcuni artisti sono fatti
in modo da riuscire a spostarsi liberamente tra questi due mondi.
I Love Paris sta di sicuro nella playlist della Morte.
A questo punto succede qualcosa.

Ciascuno era immerso nei propri pensieri,

e poi con un morso spezzò il sigaro in due

Skúli di Oddi. Ti ricordi, non è di questo fiordo. È arrivato a Botn da


bambino, con il postino che l’ha recapitato come un pacco qualsiasi.
Questo è un tipo tosto, aveva detto il postino. I due avevano
affrontato difficoltà di ogni sorta e le tempeste più violente, ma Skúli
non si era mai lamentato. Questo è un tipo tosto, aveva detto il
postino quando erano arrivati infreddoliti alla fattoria di Botn. Uno
tosto, eppure ha quello sguardo tenero, aveva detto allora la padrona
di casa, la madre di Kári.
Skúli aveva certo un carattere deciso e volitivo, ma aveva
comunque una natura troppo ottimista per poter diventare un duro,
del resto se n’era sempre infischiato del verdetto del postino che la
padrona di casa di Botn aveva addolcito, e forse aveva salvato Skúli
da una cattiva reputazione accennando al suo sguardo. Eppure è
così tenero. Erano molto diversi, i due fratelli di latte. Skúli con
un’energia vitale contagiosa che trascinava tutti con sé, e Kári
dall’umore più pesante, a volte ombroso. Era alto appena un metro e
sessanta ma era tutto muscoli e nervi, gli occhi di solito serrati e per
questo sembravano più piccoli e profondi di quello che erano in
realtà. Ambiguo di natura, restio ad aprirsi con gli altri, in pochi
sapevano cosa pensasse, ma si era capito subito che era un ottimo
contadino e che avrebbe ereditato la fattoria dei genitori; quasi non
camminava ancora che già usciva barcollando dalla casa per
rendersi utile, senza mai avere paura delle corna dei montoni
stizzosi, anche se la loro testa era grossa il doppio di lui. Ostinato,
risoluto e imperscrutabile come le montagne, inaspettatamente si era
rivelato l’uomo del futuro e aveva cominciato presto a interessarsi a
tutte le tecniche agricole più innovative e a impratichirsi in quelle che
gli piacevano di più. Che fossero la coltivazione dei campi, il
drenaggio, l’allevamento – o la selezione delle razze bovine.

A diciotto anni Kári aveva sentito parlare di un contadino della


Djúpadalur che aveva creato una sua propria razza selezionando le
bestie e ci era riuscito talmente bene che le sue vacche davano un
terzo in più delle altre, e aveva cominciato a proporre ai contadini
vicini e lontani di far incrociare le loro mucche con i suoi tori, a un
prezzo onesto. Kári aveva chiesto a suo padre di telefonare a quel
contadino e qualche settimana più tardi si era fatto accompagnare
nell’Ovest, nella Djúpadalur, per informarsi meglio su quei metodi di
selezione, per assistere alla monta di una delle vacche del vicino con
il migliore dei suoi tori.
Era l’inizio di marzo, il tragitto verso ovest reso difficoltoso dalla
neve. Padre e figlio erano partiti molto presto al mattino, al volante
della jeep Willys praticamente nuova, con le catene agli pneumatici e
armati di pale che avevano dovuto usare più di una volta per tirare
fuori la jeep dai cumuli di neve peggiori, erano arrivati a destinazione
verso mezzogiorno e tutto era pronto. Böðvar, il contadino e
proprietario del toro, li aveva accolti sull’aia della fattoria e poi li
aveva portati senza fretta alla stalla dove c’erano due uomini che
fumavano appoggiati al muro; il proprietario della vacca e suo figlio
adolescente. La figlia di Böðvar, diciotto anni, era nel recinto e teneva
saldamente la mucca con una corda mentre il toro mugghiava nella
stalla. Gli uomini si erano salutati, si erano presentati ma la figlia era
rimasta in silenzio, immobile nel recinto, reggeva la mucca per la
cavezza e teneva gli occhi bassi. La mia Margrét è l’unica che sa
gestire il toro, aveva detto Böðvar ai due contadini di Botn, come per
spiegare o giustificare la presenza della ragazza nel recinto, indifesa
davanti a quella bestia.
Poi la porta della stalla si era aperta e il toro era uscito, furioso.
Istintivamente Kári aveva fatto un passo indietro. Non aveva mai
visto un toro così grosso e irruente. Molto più grosso della vacca,
sembrava un delirio di forza e di potenza, si era immobilizzato non
appena aveva percepito gli uomini nella sua visuale. Si era voltato
verso di loro, scalciando per terra e muggendo con un tono basso,
come se il suono uscisse dalle profondità dell’inferno mentre li
studiava con i piccoli occhi sporgenti; sembrava soppesarli e valutare
se fosse il caso di avventarsi contro la recinzione che li proteggeva.
Allora la figlia aveva fischiato, il toro si era voltato, aveva visto la
mucca, aveva scosso la grossa testa, soffiando, si era avvicinato e
aveva cominciato a leccare il didietro della vacca mentre il membro
sottile, lungo e rosato cresceva, tremando di eccitazione sotto il
ventre. I giovani, Kári e il figlio del vicino, si erano avvicinati alla
recinzione e Kári aveva percepito la spiacevole vicinanza del ragazzo
mentre il toro leccava la mucca con una tale foga da spostarla e
Margrét, ben piantata su una gamba, aveva dovuto tirarla forte
dall’altro lato.
Dopo aver leccato con insistenza il deretano della vacca il toro
aveva arricciato il muso, aveva emesso un muggito, gli occhi ancora
più sporgenti e il membro sottile che tremava e sbatteva sotto il
ventre, poi si era alzato sulle zampe posteriori. Si era alzato
pesantemente, si era appoggiato sopra la vacca che aveva ceduto
sotto il peso muggendo per l’impazienza o la paura mentre il membro
le sprofondava dentro.
Il toro aveva dato quattro o cinque spintoni di una tale violenza che
la mucca era stata proiettata in avanti, ma Margrét aveva puntato i
talloni per terra, era rimasta immobile, e l’aveva spinta forte in senso
opposto, come per assicurarsi che il membro del toro penetrasse il
più possibile, e il suo corpo forte di giovinetta tremava per lo sforzo. I
giovani appoggiati alla recinzione e gli adulti al muro della stalla non
riuscivano a staccare gli occhi dalla scena, ciascuno immerso nei
propri pensieri.

Padre e figlio di Botn non avevano potuto fermarsi a lungo, volevano


affrontare le brughiere innevate prima che facesse notte, ma si erano
accordati con Böðvar per prendere in prestito il toro per qualche
settimana in primavera – due mesi dopo Kári va a prenderlo al
volante del loro trattore International comprato tre anni prima, con un
rimorchio pieno di fieno. Essendo il toro una bestia furiosa e
imprevedibile, non si era vista altra soluzione che mandare Margrét
insieme alla bestia, sarebbe rimasta ospite a Botn per tutto il tempo in
cui avrebbero tenuto l’animale per gestire il suo temperamento e
calmare le vacche quand’era necessario.
Kári era partito da Botn di notte ed era arrivato a destinazione
prima di mezzogiorno, non aveva potuto rifiutare l’invito a fermarsi a
pranzo per scaldare un poco le membra dopo esser stato sballottato
tutta la notte sul trattore senza cabina, lungo la brughiera esposta al
vento glaciale; aveva accettato il pranzo, aveva risposto alle
domande sull’andamento della stagione e sulle consuetudini agricole
del fiordo. Poi il toro era stato sistemato sul rimorchio, era stato
assicurato saldamente per il lungo viaggio, e Margrét e Kári erano
partiti.
Visto che il trattore offriva solo il sedile del conducente, che era un
seggiolino di ferro privo di schienale e rivestito con una vecchia pelle
di montone, Margrét era dovuta rimanere in piedi piegata in avanti
per quasi tutto il viaggio, tenendosi aggrappata al parafango e a volte
anche al sedile. Era stato un viaggio di quattordici ore, era stancante
per lei stare così piegata e in poco tempo aveva cominciato a farle
male il braccio a forza di doversi puntellare, ma non si era lamentata.
A metà del tragitto si era messo a piovere, una pioggia intensa che li
aveva inzuppati entrambi. Ma Kári non aveva mai rallentato e il
trattore aveva continuato a sferragliare avanzando contro il vento,
ostinato, mentre la luminosa aria primaverile si scuriva, si addensava,
si faceva quasi tenebra sotto quella pioggia battente che a volte
diventava nevischio. Kári non diceva un granché e lei non vedeva
alcun motivo per parlare, se non per chiedergli in un paio di casi di
fermarsi; era saltata agilmente dal trattore, era sparita dietro a una
grossa pietra per fare pipì; poi era salita sul rimorchio per carezzare il
toro e dirgli due parole prima di proseguire.
Un viaggio di quattordici ore. Margrét aveva approfittato dei
momenti in cui la strada era sufficientemente dritta e non troppo
rovinata dall’inverno per poter stare in piedi a gambe larghe senza
doversi reggere con le braccia, per poter prendere il pranzo al sacco,
mangiare il panino in fretta e furia; Kári si era portato soltanto del
pesce essiccato dal quale di tanto in tanto strappava qualche morso.
Era evidentemente a suo agio e sembrava quasi indifferente alla
presenza di Margrét. L’unica seccatura era la difficoltà di accendere il
sigarillo che teneva in una tasca interna. Il vento e la pioggia
spegnevano i fiammiferi, e in poco tempo i sigari si inzuppavano
talmente che la brace si smorzava. Eppure lui si rifiutava di lasciar
perdere, e di tanto in tanto si metteva di nuovo a trafficare. Una volta,
quando erano circa a metà strada e Kári aveva tentato inutilmente di
accendersi un sigarillo, Margrét aveva fatto schermo al fuoco con i
palmi delle mani, Kári era riuscito ad accendere una scintilla e lei
l’aveva visto sorridere per la prima volta. O meglio, per quanto
avesse potuto vedere, le era stato possibile interpretare quel
cambiamento sui tratti del volto come un sorriso, e non gli stava
affatto male. Un’ora più tardi Kári aveva buttato il mozzicone bagnato,
ne aveva preso uno nuovo e asciutto dalla tasca interna e aveva
affidato a Margrét la scatola di fiammiferi. Ma visto che il trattore
traballava sulla strada sconnessa e pietrosa, lei aveva dovuto sedersi
sulla coscia del conducente per proteggere il fiammifero acceso con
più facilità. Non era andata bene, così aveva dovuto sistemarsi un
poco più su, sia per avvicinarsi al sigarillo sia per essere più riparata,
e di conseguenza aveva dovuto sedersi con una natica contro
l’inguine di Kári e aveva sentito, mentre lui tirava il sigarillo tentando
di accenderlo, come il membro, che per qualche motivo era scivolato
fuori dalle mutande, si inturgidiva rapidamente. Aveva fatto finta di
nulla, era rimasta seduta per qualche momento, aveva guardato di
lato come pensosa mentre Kári fissava la strada, concentrato sulla
guida. Poi si era alzata, puntellandosi saldamente, mentre il trattore
proseguiva. Due ore dopo Kári aveva tirato di nuovo fuori la scatola di
fiammiferi, lei si era seduta sulla sua coscia, in alto. E il giorno era
diventato sera. Avevano sferragliato su per la brughiera, lungo una
valle, su per un’altra landa dove il nevischio si era progressivamente
voltato in pioggia.
Era quasi mezzanotte quando Kári aveva fermato il trattore su un
promontorio, con un cenno del capo aveva indicato verso nordovest,
in direzione di una breve valle che si apriva verdeggiante
nell’entroterra, e Margrét aveva intravisto le luci esterne di alcune
fattorie attraverso la pioggia. Quella là è Botn, aveva detto lui con una
traccia di orgoglio nella voce. Aveva preso di nuovo i fiammiferi e un
altro sigarillo, poi aveva avuto un momento di esitazione. Senza dire
una parola Margrét gli aveva tolto di mano la scatola, si era seduta
sulla sua coscia, aveva avvicinato il fiammifero acceso al sigarillo
fragrante e aveva sentito per la terza volta come il suo membro si
inturgidiva, si ingrossava e si induriva rapidamente nei pantaloni. Ma
invece di rimanere seduta ferma e distogliere lo sguardo, aveva
cominciato, con cautela eppure con decisione, con fermezza, a
strofinarglisi contro. Avanti e indietro. Non a lungo, forse mezzo
minuto, poi lui aveva sospirato forte, aveva rotto il sigaro a metà
mentre veniva. Aveva sentito Kári e il membro duro contrarsi, l’aveva
guardato spezzare in due il sigaro. Si era sollevata un poco, aveva
posato il palmo contro la coscia e aveva sentito il liquido caldo. Due
mesi dopo si erano sposati.

Sui pali di recinzione

I giorni sono filati via sulla Terra, sono diventati notte, loro hanno
avuto quattro figli e adesso Margrét è morta. Nessuno ha mai visto lei
e Kári litigare. Erano come due pali di recinzione quassù, al di fuori
del mondo. Solidi, taciturni, segnati dal tempo. Non sono mai stati
all’estero, e di rado a Reykjavík. La loro storia starebbe facilmente
tutta in un foglio A4, a caratteri grandi, con interlinea doppia. Kári si
prendeva delle sbronze colossali due volte all’anno insieme a Skúli, il
suo fratello di latte, l’unico uomo a cui portava rispetto. Poi era morto
anche Skúli. La gente muore di continuo. La camera da letto di Kári e
di Margrét dava sulla valle, avevano visto le luci esterne delle altre
fattorie spegnersi una dopo l’altra, i campi lasciati incolti, finché non
erano rimasti soli in quella valle carica di neve ma spesso piena di
verde. A Margrét piaceva sedersi alla finestra con il binocolo nelle
giornate terse d’inverno, contava le stelle sopra la valle, seguiva
quello che accadeva nel cielo, le piaceva andare fino alla fattoria di
Oddi per parlare con Skúli, che era di una cultura stupefacente. E
mentre lei osservava, Kári rimaneva a letto, con una luce fioca per
non disturbare Margrét, leggeva la Rivista agricola, leggeva le
biografie dei contadini, leggeva i libri di Halldór Laxness e di Gunnar
Gunnarsson. Se c’era troppa luce o era troppo nuvoloso per le stelle,
lui leggeva a voce alta qualche brano di Laxness o di Gunnarsson
per sua moglie che gli poggiava la testa sul petto, ascoltava la voce
provenire dal profondo, e si addormentava così – era morta nel
sonno circa una decina di anni prima.
Kári non aveva fatto sapere nulla a nessuno fino all’indomani. Era
rimasto tutto il giorno accanto a sua moglie, tenendole la mano,
sentendo come si raffreddava. I figli avevano pubblicato un
necrologio tutti insieme, un testo breve, dieci righe al massimo,
eppure ci avevano messo una sera intera a scriverlo. È che non
avevano trovato un granché da dire. Erano pochi gli eventi che
potessero avere un significato per chi non era di lì, e inoltre avevano
avuto qualche difficoltà a trovare una bella fotografia – nessuna foto
somigliava abbastanza alla persona che avevano conosciuto. Aveva
vissuto per settant’anni e non c’era molto da dire di lei. Tranne che
era stata un palo di recinzione, che sapeva gestire i tori, che le
piaceva contare le stelle, ascoltare suo marito leggere i libri di
Gunnarsson e di Laxness. Certe vite sono così prive di avvenimenti
che non si possono quasi descrivere. Proprio come i pali delle
recinzioni. Eppure le sostengono per noi.

Ridevo come una ragazzina


Ripartiamo lentamente dietro Kári che ha recuperato i suoi occhiali.
Sua figlia era accorsa per riportarglieli e si era fermata un attimo a
scambiare due parole con me e Rúna. Una persona allegra, scuoteva
la testa pensando a suo papà, come fanno regolarmente tutti e
quattro i figli. Tre di loro si sono costruiti una casa estiva sui terreni di
Botn, mentre questa donna energica ha acquistato uno dei lotti
abbandonati della valle insieme a suo marito e ha ristrutturato la casa
padronale, che è una cosa di cui rallegrarsi, perché, ti ricordi,
esistono poche cose altrettanto desolanti di un terreno incolto con le
case abbandonate, su cui il tempo ha cominciato a fare il suo lavoro –
è come abbandonare in mezzo al nulla una persona depressa o triste
per lasciarla morire.
Ci vediamo dopo, aveva detto la figlia di Kári al momento di
salutarci; perché ci sarà anche lei alla festa in onore di Elvis, di Páll e
della vita. Rúna sorride mentre ripartiamo adagio dietro Kári. Sorride
per quella donna, per Kári, forse anche perché aspetta un pacchetto
da Parigi?
Why, oh why do I love Paris – because my love is near.
Se ho il coraggio di amarti. Se ho il cuore abbastanza forte. Se
scegli un certo paio di calzini io non potrò fare a meno di amarti. Se
non mi mandi dei calzini, ma mi mandi te stesso.
Allora anche il giornalista francese in persona, quello con i calzini,
sta venendo fin qui nel Nord a bordo di un taxi, mentre scriviamo
queste righe? Allora le favole si avverano, la felicità vince, allora
dopotutto ci troviamo dentro una storia d’amore piena di emozioni?
Ah, speriamo! Ma così che ne sarà di Haraldur e della casa di Nes,
se un giornalista di Parigi conquista il cuore di Rúna? Non possiamo
certo sperare che un tizio che vive in una grande città, abituato a un
brulicare di vita, di teatri, di cinema, di eventi letterari, di rapporti
quotidiani con gli altri, che un tizio che vive e si muove in un mondo
del genere, possa pensare di diventare un allevatore in un fiordo
sparuto situato ai margini del mondo abitato, dove a volte d’inverno
non succede niente, talmente niente che la gente esce con il fucile e
spara alle recinzioni? Se arriva il francese Rúna porta le pecore al
macello; allora le pecore devono pagare con la loro vita, per
quest’amore? E di Haraldur che ne sarà?
Allora è una legge, che il prezzo per la felicità in un tal posto sia
l’infelicità altrove?
Il sorriso sulle labbra di Rúna si è spento, vi è tornata una certa
mestizia. Naturalmente sa che Haraldur non vuol vivere da
nessun’altra parte se non a Nes. Andare a dormire a pochi passi
dalla tomba di Aldís. Chi resterà al suo fianco, se Parigi espugna il
cuore di Rúna? Forse è per questo che ha paura di amare di nuovo,
di aprire il cuore… perché i morti a volte si rifiutano di lasciarci – o
forse siamo noi che non riusciamo a staccarci da loro. Ce li
trasciniamo dietro come massi pesanti e scuri. Liberateci, ci chiedono
loro, lasciateci sprofondare in una dimensione alla quale non avete
accesso. E continuate a vivere, perché solo così è possibile
consolare noi che siamo morti.
Ma Aldís ha chiesto a Haraldur di tenerla tra le braccia. Non devi
lasciarmi mai.
Mai è un periodo molto lungo. Molto più lungo della vita. Io muoio e
la vostra vita si ferma.
Finché un bel momento arriva qualcuno da Parigi con i calzini
spaiati, e la tua vita si inonda di sole?

Seguiamo lentamente Kári che ascolta ancora una volta Ella


dichiarare a Parigi il suo amore. Si immette sulla laterale per Hof,
dove Lúna e Dísa gli offriranno un caffè; e Lúna gli fa ripetere le frasi
in inglese prima che salga fino all’albergo a esercitarsi con la famiglia
canadese e con i turisti giapponesi.
Kári che aveva spezzato in due il sigarillo con i denti;
l’imperscrutabile, taciturno Kári, che impara l’inglese da vecchio?
Margrét era morta nel sonno, Kári seduto accanto a lei, tenendole
la mano, le aveva parlato, non aveva mangiato né bevuto, poi molto
più tardi quella stessa sera aveva telefonato a Hafrún e a Skúli,
aveva detto, ecco, allora, Margrét è morta.
E anni cupi sono sopraggiunti sui monti.
Cupi per il lutto, cupi per la mancanza di uno scopo, perché la vita
di Kári era diventata una recinzione caduta per terra, su cui l’erba
aveva cominciato a crescere. Sembrava aver completamente perso
ogni interesse per la vita, né i figli né gli amici della fattoria di Oddi,
finché erano in vita, erano riusciti a tirarlo su. Era diventato sempre
più scontroso, sempre più silenzioso, sempre più introverso, non
parlava più nemmeno con i suoi gatti e probabilmente sarebbe
sparito senza dignità sulla stenta erba invernale se Margrét non fosse
apparsa in sogno a Lúna.

Un sogno insolitamente vivido. Margrét aveva esordito salutando la


sua vecchia amica, si era scusata per il disturbo, però aveva detto
che i sogni di Kári erano talmente serrati che non era mai riuscita a
entrare, anche se ci provava da anni, così stavolta aveva deciso di far
visita alla sua amica per chiederle di andare a Botn, fare una bella
ramanzina a Kári e dirgli di tirarsi su. Perché era una vera vergogna,
un’umiliazione vedere come si era lasciato andare. Accasciato come
una recinzione inservibile davanti agli occhi di tutti. Una cosa del
genere nessuno la infligge a se stesso, e men che meno ai propri
figli. Bisogna dar loro gioia, non gravarli con preoccupazioni e dolore.
Vuole forse che i suoi nipoti ricordino il nonno come una recinzione
che non tiene, o un vecchio montone mezzo morto con cui
preferiscono non ritrovarsi mai da soli? Va’ e digli che deve essere la
persona che i nostri nipoti cercano, che vogliono andare a trovare, in
estate come d’inverno. Dev’essere il palo più affidabile della loro
esistenza.
Purtroppo, aveva detto Margrét a Lúna, Kári non ha mai creduto
che i sogni abbiano qualche significato, figuriamoci che i morti
possano manifestarsi con un messaggio dall’aldilà. Non ho
nessun’altra soluzione, aveva detto lei facendosi d’un tratto schiva,
anche da morta, non osava nemmeno guardare in faccia la sua
amica, che confidarti una cosa, fin dalla prima volta, dal momento in
cui lo feci godere sulla brughiera, a me e a Kári piaceva fare l’amore
in questo modo, io che mi spogliavo tutta tenendo solo le calze,
prendevo un sigaro, fumavo un poco davanti a lui e poi mi mettevo
carponi chiedendogli di prendermi da dietro. Negli ultimi anni mi
facevano talmente male le ginocchia che dovevamo farlo sul letto, e
una volta non ho fatto attenzione e con il sigaro ho dato fuoco alle
coperte. Dovemmo correre tutti nudi di sotto a prendere dell’acqua.
Kári con il suo bel membro ritto, e io che ridevo come una ragazzina.
Raccontagli tutto, non devi tralasciare né dimenticare niente,
altrimenti sarà inutile.
Io non ci penso proprio a dirgli queste cose, a Kári Guðjónsson,
voleva replicare Lúna alla sua amica, ma in quel momento si era
svegliata e Margrét si era dileguata. E Lúna, che non aveva mai
avuto problemi a dire come la pensava, anzi, semmai non aveva mai
saputo trattenersi, si vergognava talmente al pensiero di dover riferire
a Kári i dettagli della sua vita intima con Margrét che passarono delle
settimane prima che riuscisse a trovare il coraggio di andare a Botn; il
cuore le batteva talmente forte dall’ansia che per tre volte aveva
rischiato di uscire di strada lungo il tragitto.
Kári l’aveva accolta tutto trasandato, la barba lunga con i peli duri
ritti per aria come coltelli minacciosi, e quando Lúna aveva aperto il
frigorifero per prendere del latte non ci aveva trovato altro che una
pila di piatti pronti, marca 1944. Lúna aveva versato un goccio di latte
nel caffè, poi aveva tirato fuori la bottiglia di gin che aveva portato da
casa, aveva corretto il caffè a entrambi, aveva svuotato la tazza in
una sola sorsata – e gli aveva raccontato del sogno. Aveva riferito
quello che le aveva detto Margrét, che Kári non doveva essere come
una recinzione caduta, ma aveva avuto qualche ritegno a parlargli…
del resto. Non aveva avuto il coraggio. Sperava anche che non fosse
indispensabile. Kári l’aveva ascoltata con attenzione, aveva perfino
annuito riconoscendo il modo di parlare di Margrét nelle frasi di Lúna.
Ma poi a racconto concluso, lui aveva alzato la testa dicendosi
stupefatto che anche lei credesse a tutte le superstizioni e le storielle
da comari che riguardavano i sogni. I vecchi della loro età non
dovevano rendersi ridicoli con stupidaggini come quelle.
Allora Lúna si era arrabbiata, e per fortuna, perché la rabbia aveva
fatto volare via ogni remora dandole il coraggio di raccontare la
seconda parte del sogno, o meglio, quello che avrebbe dovuto
convincere Kári che era stata davvero Margrét a mandargli quel
messaggio; anche se giaceva nella tomba da sei anni.
L’orgasmo sulla brughiera, il sigaro che aveva dato fuoco al letto,
Margrét carponi, prendimi, e Kári che la penetra da dietro.
C’era stato un lungo silenzio nella cucina di Botn. Kári aveva
fissato Lúna, con i peli della barba minacciosi sul volto, come se
fosse arrabbiato. Poi si era alzato in piedi lentamente, era andato a
prendere un bicchiere ormai opaco, lo aveva riempito di gin per metà,
se l’era tracannato d’un colpo e aveva tirato una bestemmia.
Allora era proprio lei, aveva domandato Lúna, esitante, di nuovo
intimidita. Lui non aveva risposto, si era solo versato dell’altro gin. A
quel punto anche lei aveva preso un bicchiere, si era fatta una bella
sorsata, voleva dirgli di essere andata fin lì per rialzare la recinzione
caduta che Kári era diventato, ma aveva la lingua talmente impastata
dopo tutto quell’alcol che Kári aveva capito male, o forse non aveva
sentito bene, perché aveva risposto, dubbioso: hai detto di essere
venuta fin qui per sapere se mi si rizza ancora? Ma che ti aspetti,
figliola, sono un vecchio logoro – mi si rizza sì e no un paio di volte
alla settimana!
Allora Lúna era diventata tutta rossa e lì per lì era tornata timida
come un’adolescente, ma poi si era servita un altro gin, aveva fatto
un profondo respiro e aveva detto: Kári, sei vedovo da sei anni, io da
quattro anni più di te. Tutti e due abbiamo passato la settantina, i
giorni da trascorrere su questo lato della tomba non si moltiplicano di
certo. Due volte a settimana, hai detto. Non sarebbe uno spreco, un
gran peccato se noi due, in questi ultimi metri di vita, perdessimo
occasioni del genere?

Quattro anni più tardi Kári imbocca la secondaria diretta a Hof per
prendere un caffè e ripetere a Lúna le frasi in inglese che lei gli ha
insegnato. Più tardi andranno alla festa insieme. Sì, perfino Kári, lui
che non ha mai amato andare alle feste, né stare in mezzo a tanta
gente, che diventava come un cavallo riottoso ogni volta che Margrét
faceva il minimo accenno a un ballo o a qualche divertimento. La
gente diventa stupida quando si ritrova insieme agli altri, diceva a
volte. Che in un certo senso è assolutamente vero, ma è vero anche
che la gente si fa compagnia. Così tutto sommato forse noi non
sappiamo proprio un bel niente.

La corda malinconica

Solo che è di Bubbi Morthens il brano successivo nella playlist della


Morte, Afgan, che attacca mentre io e Rúna ci avviciniamo a Oddi:
Quando ho bussato alla tua porta mi ha aperto il tuo spettro, mi ha
detto, eri solo un sogno, ti ho visto soltanto in un miraggio.
Eiríkur ci vuole punire, lui e me voglio dire, dice Rúna scuotendo la
testa. Ne parlavamo appunto la scorsa settimana, siamo rimasti fino
a notte fonda a Oddi con Dísa ed Elías, a bere e ascoltare musica, io
ed Eiríkur abbiamo sottolineato che entrambi abbiamo passato un
periodo in cui attraversavamo la vita come fantasmi, come se
fossimo morti, avevamo smesso di vivere. Perché se la sua vita si
ferma l’uomo muore, non è così? La vita è movimento e la morte
immobilità, no? Ma dopo le cose sono cambiate… Poi si interrompe
vedendo Kári fermarsi sopra Oddi, uscire anchilosato dall’auto,
posizionarsi dietro alla macchina per urinare, proteggendo il vecchio
membro raggrinzito come una sigaretta. Io dirigo lo sguardo verso la
fattoria, l’edificio non ancora tinteggiato che Halldór aveva costruito
dopo che la bella casa antica di legno era andata a fuoco. Due sterne
sorvolano i ruderi della vecchia dimora vicino al fiume.
In tutti i ruderi, cimiteri, abitazioni, villaggi, città, treni, aerei, in tutto,
perfino nei sacchetti di plastica che volano nel vento, abitano delle
storie o dei frammenti del destino.
Il destino, lo costruiamo vivendo.
È il tessuto degli dei.
Oppure il tiro alla cieca del caso.
Skúli inciampa in suo padre nel mese di marzo, qualche settimana
dopo il postino lo porta a Botn, a duecento chilometri dal villaggio in
cui è nato. Poi lui e Hafrún prendono la fattoria di Oddi – e quasi
settant’anni più tardi Eiríkur ci abita da solo con tre cani, delle galline
stizzose, una chitarra, una carabina, e compone delle playlist per la
Morte, spara dietro ai camion e rischia la prigione, e allora che ne
sarà dei cani, non potrà certo portarli in cella con sé…

Non ci avevo pensato, allora, sta dicendo Rúna, nessuno se n’era


accorto, se non molto più tardi, che intorno al periodo della cresima
Eiríkur era diventato più schivo, più chiuso, e lo era stato per molti
anni nei confronti di Sóley e me, che eravamo quasi come sue
sorelle. Credo però che per molto tempo nessuno si fosse davvero
preoccupato di questo cambiamento. Eiríkur aveva sempre avuto un
lato cupo, si percepiva anche quand’era piccolo. No, forse non cupo,
semmai… forse era malinconia. Sicuramente a causa di sua madre,
ma c’era anche qualcosa d’altro. Non ci pensavamo troppo. I bambini
nel fiordo avevano ciascuno il proprio carattere ed Eiríkur era Eiríkur.
Sapeva anche essere meravigliosamente allegro e pieno di iniziativa,
non ci preoccupavamo troppo anche se a volte lo vedevamo
intristirsi. Però so che Hafrún a volte ne parlava con mamma e papà,
perché temeva che Eiríkur avesse quella che lei chiamava la corda
malinconica. O la corda della malinconia ereditaria.

Allora è successo solo nella mia testa?

La corda della malinconia ereditaria?


Kári ha finito di urinare e ripartiamo. Osservo i ruderi della casa
che Skúli e Hafrún avevano tirato su quando il mondo era molto più
giovane, erano accadute parecchie cose da allora. Che ne sarà di
tutte le storie del mondo, chi se ne prenderà cura?
I spent the whole day in my head, canta il rapper Mac Miller che ha
preso il posto di Bubbi Morthens. Well, maybe I should wake up
instead.
Sì, forse sarebbe meglio che mi svegliassi.
Non sognare, sii tu il sogno.

Allora è successo tutto soltanto nella mia testa?

Si comprenderà, forse, ma non subito, dice…

Adesso arriva

… il reverendo con la patente e versa un altro cucchiaio di impasto


nella padella, indossa ancora quei suoi bermuda da idiota. Però
adesso è il momento di Eiríkur. Ti ricordi, una volta hai scritto, ed è
stato molto tempo fa: «Eiríkur di Oddi. L’uomo che possiede una
chitarra elettrica, tre cuccioli morti, una carabina per sparare ai
camion oppure al destino. Che cos’altro possiede?»
Adesso ce l’hai, la risposta?
Perché mai dovrei averla, la risposta, e a parte questo non sono
certo che tu abbia voglia di sentirla, non è sempre auspicabile – ci
sono risposte che non fanno altro che porre nuove domande. Per
contro, sono proprio le domande, in primo luogo e in ultima analisi, a
muovere la vita – dimmi quali domande ti bruciano dentro e ti dirò chi
sei!
Non sono più tanto sicuro che mi interessi saperlo, mormoro io, e
distolgo lo sguardo dal conducente d’autobus che sembra piuttosto
soddisfatto di sé e della sua risposta incomprensibile, poi osservo i
fogli nel punto in cui la jeep si mette lentamente in moto con me e
Rúna a bordo; mi sta raccontando della corda malinconica che
Eiríkur porta dentro, che riecheggia anche in Páll, e in una certa
misura anche in Skúli, che in genere cerca sempre di vedere il lato
positivo dell’esistenza, è spinto dall’ottimismo, eppure è attratto dalla
musica più mesta: i Notturni di Chopin, il Requiem di Mozart, Chet
Baker, e tutti i giorni fa ascoltare alle pecore di Oddi la Pastorale in
Fa maggiore di Bach eseguita da Pablo Casals. È per questo che
eccellono su tutti gli altri ovini, dice spesso.
La stessa corda risuonava potentemente nel padre di Skúli, che
completamente ubriaco si era disteso sulla schiena, di notte, per
cercare di avvistare una nuova galassia nel cielo notturno sopra la
Snæfellsnes; e nella trisavola di Eiríkur, Guðríður, che un tempo
aveva scritto un articolo sui lombrichi, che a volte si sentiva prudere il
coccige, che aveva un sorriso pericoloso, degli occhi che spostavano
l’asse di rotazione terrestre e lasciavano il segno sulla poesia di
Hölderlin, anche se era morto molto tempo prima che lei nascesse –
e quando scriveva la sua grafia abbaiava come fanno i cani.
Perché è andata così, l’articolo sui lombrichi, scritto alla fine del
XIX secolo in un piccolo casale sulla brughiera, in condizioni di
povertà, negli anni Trenta del XX secolo aveva indotto un marinaio
sbronzo a distendersi sulla schiena, fuori, davanti a un’altra fattoria
nella speranza di vedere una galassia appena scoperta, suo figlio di
sei o sette anni inciampa nel suo corpo il mattino dopo, e si rimette in
piedi traballando scoprendo di essersi pisciato addosso – ecco
perché molto tempo dopo il bis-bisnipote di Guðríður si ritrova da solo
con la chitarra, la carabina, i tre cuccioli morti e la playlist della Morte.
Una volta Guðríður era uscita dal buio, e adesso sono tutti morti.
Il compito principale del tempo, allora, è ammazzare la gente?
Pétur ha consegnato a Guðríður il dizionario, quello comprato dal
fratello del diavolo, Gísli aveva posato la mano sul tavolo come a
voler dimostrare a Pétur la sua forza; fa’ attenzione, amore mio,
aveva detto Halla a suo marito, lei che aveva le mani fatte di luce.
Aveva fatto attenzione?
E che cosa significa, fare attenzione, il cuore batte forse con
attenzione, ti bacio con attenzione, Gísli aveva usato il calzino con
attenzione quando vi aveva svuotato il suo seme, ed è giusto che
Eiríkur, con la sua aria da rockstar triste, non sia più andato a letto
con nessuno da quando è tornato nel fiordo, tre anni fa, e si
accontenta di un calzino di lana; non deve fare molto bene alla
salute. Allora questa sinfonia del destino, che cresce e si dispiega
come la nostra immagine del mondo, non ruota intorno all’oblio e
all’amore, al tradimento e alla morte, alla ricerca della felicità e della
giusta dimensione, no, ruota in primo luogo e in ultima analisi intorno
alla mancanza di sesso, a dover venire dentro un calzino?
Non riesco proprio a immaginare

la mia vita senza di te


Non si può uccidere l’amore

Eiríkur è arrivato nel fiordo a tre mesi.


Avvolto ben bene, sul seggiolino sistemato nel sedile anteriore di
una Datsun sfinita.

Era l’inizio dell’inverno. Un periodo di disgelo. Dopo le pesanti


nevicate il clima si era mitigato e per oltre una settimana la neve si
era sciolta, era sparita dai campi lasciando qualche cumulo
rattrappito nei fossati. La viabilità era ottima e la brughiera sopra la
valle non creava nessun ostacolo. Probabilmente perché il destino
aveva voluto aprire a Eiríkur l’accesso verso il Nord – due giorni dopo
il suo arrivo si era scatenato il maltempo con neve abbondante, la
brughiera era stata chiusa per qualche giorno e la Strandvegur che
taglia il villaggio di Bjarnanes era diventata quasi impraticabile, e
allora la Datsun marrone e acciaccata che aveva parcheggiato
davanti alla fattoria di Oddi non ce l’avrebbe certo fatta ad arrivare.
Si era fermata vicino alla casa di legno a due piani costruita da
Hafrún e Skúli – il sottotetto così alto dava l’impressione di sorridere
sempre. Un bell’edificio, l’orgoglio della zona.

La vecchia Datsun si era fermata con un sospiro davanti alla fattoria


e ne era discesa una giovane donna magra che teneva un bambino
tra le braccia. Bella, la schiena dritta, ma il volto affaticato con le
occhiaie scure. I cani della fattoria le erano andati incontro, l’avevano
annusata, avevano fiutato gli pneumatici dell’auto marcandoli con
l’urina. Hafrún aveva salutato dalla porta, piccola, la corporatura fine
come quella di un’elfa, con la sua testolina di capelli corti, gli occhi
scuri a mandorla, vivi e caldi. Era da sola a casa. Halldór era andato
a Þorlákshöfn per la pesca all’aringa, quel troll di Páll era
all’università, alla facoltà di filosofia, stava preparando la tesi su
Søren Kierkegaard, Skúli era a Botn per aiutare Kári a costruire un
capanno.
Buongiorno, aveva detto Hafrún, che era uscita nel cortile; a cosa
devo l’onore di questa visita, chi è questa signora?
La giovane donna aveva abbassato gli occhi sul bambino, poi
aveva guardato Hafrún. Sei Hafrún, immagino, la madre di Halldór?
Hafrún aveva annuito, sentendo nascere dentro un vago sospetto.
La donna aveva stretto più forte il piccino, aveva fatto un profondo
respiro e aveva detto: mi chiamo Svana, sono la madre del figlio di
Halldór – questo è Eiríkur, il nostro bambino.
Allora mi sa che è meglio che ci facciamo un caffè, aveva detto
Hafrún, il volto impassibile. Non devi restare qui fuori al freddo con il
bambino.
Qualche minuto più tardi le due donne sono sedute una di fronte
all’altra in cucina. Hafrún prepara il caffè, porta in tavola delle kleinur
e una torta marmorizzata. La giovane donna parla, le racconta.
L’autunno precedente ha lavorato insieme a Halldór al macello di
Búðardalur, dove si sono innamorati.
Un amore proibito perché lei è sposata, e madre di due figlie.
Ho cinque anni più di Halldór e voglio che tu sappia che non mi era
mai passato per la testa di guardare altri uomini che non fossero mio
marito. Siamo sposati da sette anni. Gli ho promesso fedeltà, e
queste promesse non si possono infrangere. Non ci si rimangia la
parola data. Ho sempre considerato l’infedeltà come una cosa sporca
e imperdonabile. Qualcosa che non ci si può lavare di dosso, né si
può giustificare di fronte a se stessi. Certo, ognuno ha i propri
sentimenti e i propri istinti. Anch’io sono un essere umano. Ma
bisogna gestirli, i propri istinti, non il contrario. Ho sempre pensato
che fosse una questione di autocontrollo, che il tradimento fosse
l’effetto di una debolezza di carattere o di un egoismo imperdonabile,
della mancanza del senso di responsabilità. Io non sono
un’irresponsabile, spero di non essere egoista e non mi sono mai
sentita accusare di mancanza di volontà. Ma fino a che punto una
persona conosce se stessa, di fronte a forze ben al di sopra delle
proprie? Fino a che punto… Oh, scusami, già comincio a trovarmi
delle scuse, a cercare delle attenuanti, non era questa la mia
intenzione. Voglio che tu sappia che questa non è stata una
scappatella senza significato, una distrazione o una leggerezza da
parte di Halldór, anche se so bene che lui ama troppo la vita per
avere un senso di responsabilità molto spiccato. Credo che tu
capisca che cosa voglio dire. È stato… voglio che tu sappia che è
successo perché amo tuo figlio. Che… ecco, insomma, non avrei mai
immaginato che sarei andata con un uomo che non fosse mio marito.
E più di una volta. Molte di più. Una cosa del genere non si deve fare.
È sbagliata, forse è imperdonabile. Eppure lo farei di nuovo.
Immagino che a volte innamorarsi sia uno sbaglio. Forse è anche un
crimine, a volte.
Perché bisogna sapersi controllare, no? Aveva chiesto Svana a
Hafrún, che l’ascoltava in silenzio, e poi, quando la giovane donna
aveva smesso di parlare, aveva detto che da sempre pensava che
non cadere mai in errore in qualche modo era indice di una vita ben
noiosa e monotona.
Soprattutto quando si è giovani. Credo che il destino si
annoierebbe, se non commettessimo mai errori. O se l’amore
cominciasse a comportarsi con ragionevolezza.
Svana aveva sorriso, aveva abbassato lo sguardo, carezzato la
testolina di Eiríkur e gli aveva baciato i capelli. Però ho sempre
saputo come dovevo comportarmi, aveva detto lei come se stesse
parlando al figlio, poi aveva guardato di nuovo Hafrún, e ho sempre
disprezzato le persone che hanno avvelenato o distrutto il loro
matrimonio per un tradimento. Che brutta parola, tradimento. L’ho già
detto? Ma deve essere una brutta parola, perché è brutto ingannare il
proprio compagno. Veramente brutto. Credi davvero che sia possibile
perdonare una cosa del genere? Non riuscivo a controllarmi, eppure
sapevo perfettamente che cosa stavo facendo, l’ho sempre saputo.
Ero fuori controllo. Mi sentivo come… come se un asteroide mi
avesse centrato in pieno. Lo so che non è logico dire una cosa del
genere, nessuno viene colpito da un asteroide. Però mi sentivo
proprio così. Un asteroide luminoso che mi si è schiantato addosso,
mi è passato attraverso, e io mi sono sentita consumare da una
felicità incontrollata, senza limiti, irresponsabile.
Non avevo idea che fosse possibile amare così, in maniera
totalmente sconsiderata, aveva detto lei guardando di nuovo il suo
bambino, come se stesse rivolgendosi a lui, a un neonato incapace di
parlare, come per chiedergli scusa. Era come se non avessi mai
amato prima, l’idea era magnifica e spaventosa. Non solo stavo
tradendo mio marito andando con un altro, ma amavo Halldór con più
ardore, con più passione di quanto avessi mai amato mio marito. Mi
sentivo quasi sul punto di morire d’amore. Il che è impossibile, ovvio.
Si muore sotto una macchina. Si muore per un tumore. Nessuno
muore per amore, l’amore non si prende come un cancro di cui si
muore. Non ha senso. Non può avere senso.
Ma credo che purtroppo non esista nessuno come il tuo Halldór,
aveva aggiunto. È così pieno di vita che mi ha contagiata. E
quell’incoscienza liberatoria che si porta dietro sembra poter aprire
tutte le porte della vita.
Il caffè si raffreddava nella tazza davanti a Svana, la fetta di torta
era ancora intatta sul piatto, e Hafrún aveva annuito, abbassando la
testa, come per confermare, per sottolineare che non esisteva
nessuno come il suo Halldór. Lo so, tesoro, aveva detto, lo so. Ma
aveva evitato di aggiungere che per molti anni aveva temuto che
quella sua incoscienza tanto affascinante prima o poi si portasse
dietro delle conseguenze spiacevoli. Era già accaduto, ma non così.
Mai con una… portata del genere.
Hafrún aveva guardato Eiríkur tra le braccia di Svana, aveva
guardato i suoi occhi scuri e limpidi e si era sentita invadere da un
affetto profondo, intimo, che si destava, le sgorgava dentro e le
riempiva il cuore. Era ovvio che quel bambino era il figlio di Halldór. I
tratti ereditari erano evidenti. Lo stesso spazio tra gli occhi, ampio e
irresistibile, che aveva il suo Skúli. Uno spazio che sembrava dare
una dimensione diversa e più misteriosa al volto.
Non devi scusarti, cara, aveva detto Hafrún. Non devi giustificarti
con me. Non vogliamo vivere in un mondo in cui i giovani hanno
sempre un perfetto controllo sull’amore. L’amore non deve obbedire
come un cane. Grazie per essere venuta. Il tuo Eiríkur è anche il
nostro Eiríkur, qui sarà sempre casa sua.
Allora Svana si era messa a piangere. Aveva pianto sopra il caffè,
sopra la torta che aveva provato a mangiare, forse per far piacere a
Hafrún. Aveva pianto piano, quasi senza rumore, sulla testolina di
capelli fitti e soffici di Eiríkur, anche se aveva fatto il possibile per
trattenersi, le spalle magre scosse per lo sforzo. Aveva pianto,
masticato la torta, poi aveva continuato a parlare, guardando a turno
il bambino che teneva tra le braccia e Hafrún dall’altra parte del
tavolo. Il caffè, la torta, le kleinur in mezzo a loro, il volume basso
della musica alla radio, una sonata per violino e pianoforte di Händel.

Svana e Halldór avevano cercato di controllarsi quand’erano insieme


agli altri e fingere che non ci fosse niente tra loro, ma non c’erano
riusciti molto bene e presto la gente aveva cominciato a mormorare,
erano iniziate a girare delle voci che le colleghe le avevano riferito. Si
incontravano ogni sera a casa della vecchia vedova di Búðardalur
dove Svana aveva preso una stanza in affitto. La vecchia, che era
vedova da quindici anni, aveva cominciato subito a spegnere
l’apparecchio acustico quando arrivava Halldór. Così sai che io non
sento niente, aveva detto alla sua affittuaria con un sorriso malizioso,
come se le due donne stessero complottando insieme contro il resto
del mondo.
Non sapevo, aveva proseguito Svana, che l’amore potesse essere
così infinitamente bello e profondamente fisico. Non mi bastava mai.
Il mio corpo assorbiva la sua pelle, come un deserto che finalmente
accoglie la pioggia.
Era durata quattro settimane. Quattro settimane di frenesia, di
incoscienza, di tradimenti, di felicità immensa.
Poi era fuggita.
Può essere che l’amore sia una specie di disturbo psichico?
Perché quand’ero con Halldór non mi importava di nient’altro. Ero
totalmente irresponsabile. L’unica cosa importante eravamo io e lui.
Ero pronta a rinunciare a tutto, alla mia vita intera, solo per poter
stare con lui. Avevo perfino dimenticato di avere dei figli. Non ero mai
stata così felice. Aspettavo solo che mi chiedesse di andare con lui.
Ovunque tu voglia andare, amore mio, gli avrei detto.
Per questo era fuggita.
Sono scappata e sono tornata a casa, a Hella.
Sono partita senza salutarlo. Me la sono squagliata in fretta e furia.
Era un giovedì e quel fine settimana ci sarebbe stata una festa.
Halldór aveva fatto un salto qui nel fiordo per prendere dei vestiti più
eleganti. Per te, aveva detto, voglio farmi bello per te. Era partito al
mattino ed era tornato la sera, con i vestiti ma anche con delle
fotografie della sua famiglia e del fiordo, da far vedere a Svana. Ma
lei non c’era più. Se n’era andata.
Qualcosa mi diceva che se non me ne fossi andata subito, se non
avessi colto l’occasione mentre Halldór non c’era, non ce l’avrei più
fatta. L’amore che provavo per lui mi atterriva. Temevo che avrebbe
distrutto la mia vita e danneggiato in modo inaccettabile la mia
famiglia. Sono sposata con una brava persona. È un uomo gentile e
affidabile. Abbiamo una vita piacevole. Una bella casa. Credevo che
bastasse e mi sentivo bene, ero soddisfatta. Non riuscivo a
immaginare di vivere in maniera diversa. Sicuramente non avevo mai
riflettuto sul fatto che anche se volevo un gran bene a mio marito non
l’avevo mai amato. Forse credevo che tutti quei discorsi sull’amore e
sul bisogno d’amore fossero ossessioni tratte dalla letteratura e dai
film, o qualcosa che non fosse dato a tutti. Chi ha bisogno di una
passione di fuoco, quando si ha la stabilità e la sicurezza, due
bellissime bambine, un brav’uomo che ti ama? Credo che Halldór sia
l’uomo della mia vita. No, non lo credo, lo so. È l’unico che possa
amare. Ma quella sua bellissima incoscienza liberatoria mi spaventa
anche. Sono madre di due bambine, e i bambini hanno bisogno di
sicurezza. Io amo Halldór e so che anche lui mi ama. Ma a volte non
basta. A volte il senso di responsabilità è più importante dell’amore.

Era tornata a casa per salvare il matrimonio, per evitare la rovina. Era
tornata intorpidita dal dolore, trafitta dal senso di colpa, ma con la
ferma convinzione in cuor suo che il rapporto con Halldór sarebbe
stato un’avventura proibita che avrebbe portato con sé nella tomba.
Poi, due settimane più tardi, si era resa conto di essere incinta, e
questo aveva cambiato tutto. Ma in una maniera stranamente
contorta, l’idea di ammettere il suo tradimento adesso le sembrava
più facile, come se la vita che le cresceva nel ventre potesse
giustificare tutto. La vita non è forse sacra?
Il marito di Svana aveva ascoltato la sua confessione senza
parlare, poi era rimasto a lungo con lo sguardo basso, in silenzio, si
era alzato in piedi senza guardarla, era andato a prendere il fucile ed
era salito sui monti. Era tornato solo alle prime ore del mattino dopo,
quando lei era quasi impazzita per la paura e per l’ansia. Era tornato
con sedici pernici insanguinate, si era seduto in cucina per spennarle.
Lei l’aveva osservato senza parlare, aveva atteso che dicesse
qualcosa. Vai ad abortire, aveva detto infine, alla terza pernice.
L’aveva detto in tono calmo, come se stesse parlando del clima o di
qualcosa di banale, di un evento quotidiano, poi si era allungato a
prendere la quarta pernice: e non ne parliamo più. Mi hai umiliato e
nessuno lo deve sapere. Se hai un po’ di rispetto per me. Non ne
faremo parola, mai più. Me ne vado e ti lascio se pensi ancora a quel
disgraziato. Credevo di potermi fidare di te. Quando penso a voi due
insieme mi sento come se mi strappassero le viscere. Quante volte ti
sei fatta scopare? Non lo sapevi, che ti amo? Non lo sapevi, che sei
l’unica donna che ho mai amato? Gliel’hai preso in bocca? Ti è
piaciuto? Come hai potuto? E guarda, ti perdono tutto perché ti amo.
Non hai pensato alle nostre bambine, quando ti scopava? Non ci
posso credere. Hai pensato a me quando ti veniva dentro? Non devi
pensare a lui, mai più. Io amo solo te, sono niente senza di te. Vai a
stare da tua madre per un po’ e fissa un aborto. E col tempo le cose
tra noi torneranno come prima.
Parlava lentamente, con le mani intrise di sangue, concentrato, lo
sguardo duro, eppure talmente vulnerabile e fragile che Svana aveva
avuto solo voglia di piangere.
Non sono riuscita a pensare di ferirlo ancora di più. Mi sentivo
responsabile per lui, per la sua felicità e quella delle mie figlie. Lo
sapevo che le bambine avevano bisogno di lui. Hanno bisogno di
sicurezza. Hanno bisogno di un padre che ci sia sempre. Ma l’aborto
non l’ho mai preso in considerazione. E così ho fatto leva sul fatto
che la famiglia di mio marito è molto credente. Gli ho detto che
l’aborto era un peccato contro la vita. Che non potevo immaginare di
distruggere quella vita. Che era come se volessi… uccidere l’amore.
E non si può uccidere l’amore.
Non si uccide l’amore.
Così si era espressa Svana mentre il caffè si intiepidiva, diventava
freddo, sul tavolo di fronte a lei e il mese di ottobre riempiva il mondo
fuori con la sua luce felpata.
Povero bambino mio, aveva detto Hafrún con un tono talmente
sincero che la giovane madre si era commossa, le spalle avevano
ricominciato a tremare, in maniera quasi impercettibile, e poi aveva
pianto, in silenzio, sopra la testolina lanuginosa di Eiríkur.
Svana era andata da sua madre a Reykjavík prima che la
gravidanza diventasse evidente, con il pretesto di aver trovato
inaspettatamente un posto di lavoro ben pagato a Copenaghen
tramite la zia paterna; era di padre danese e a lei e suo marito faceva
piacere avere qualche risorsa in più, sognavano di prendere una
casa più grande – per questo motivo aveva accettato di andare a
lavorare nel macello di Búðardalur. Scriveva due lettere a settimana
al marito e alle figlie, le spediva a Copenaghen a un’amica che poi le
inoltrava a Hella, con il timbro postale danese.
Mio marito è una buona persona e mi ama moltissimo, ma è
talmente geloso che mi fa paura. So che non me la perdonerà mai. È
il prezzo che devo pagare. La cosa peggiore è che per questo motivo
non posso tenere Eiríkur con me. Mio marito si ricorderà il mio
tradimento, e quello che lui definisce la sua umiliazione, ogni volta
che guarderà questo bambino. Temo che… so che per questo motivo
non potrebbe mai amarlo. Temo anzi che sarebbe più forte di lui, non
riuscirebbe a nascondere il suo disprezzo, se non il suo odio, e così
avvelenerebbe tutta la famiglia. Per questo motivo ho deciso di
mettere al mondo Eiríkur senza che le mie bambine o la famiglia di
mio marito ne fossero al corrente. Avevo deciso subito di portarlo qui
da voi non appena avessi potuto, meglio se entro una settimana dal
parto. Sono riuscita a farlo soltanto adesso che ha già tre mesi. Non
ce l’ho fatta a separarmi subito da lui. Non sono stata abbastanza
forte.
Aveva riflettuto a fondo sulla questione. Halldór le aveva parlato
spesso dei suoi genitori e Svana aveva l’impressione di conoscerli,
per questo era sicura che con loro Eiríkur avrebbe trovato un riparo,
che sarebbe cresciuto avvolto dall’affetto e dalla sicurezza. Io lo amo,
il tuo Halldór, aveva proseguito Svana, mi sentivo incredibilmente
libera quando eravamo insieme. Tutto era felicità, passione. Ma
dubito che avrei portato qui il mio Eiríkur e che ve l’avrei lasciato, se
non fosse stato per te e per tuo marito. Credo che tu capisca cosa
voglio dire.
Eiríkur però non dovrà mai sapere che lei esiste. Ai suoi occhi…

… devo essere morta. Perché questo impedisce di soffrire. Ho un


secondo nome che non ho mai usato, adesso lo adotterò perché
Halldór abbia più difficoltà a rintracciarmi. Gli ho telefonato quando
sono arrivata a Reykjavík, non gli ho detto che ero incinta, quindi non
sa di Eiríkur, e gli ho fatto promettere di non seguirmi, di non provare
mai a cercarmi. Gli ho detto che lo amo, ma gli ho spiegato che
dovevo scegliere, che non riuscivo a immaginare di perdere le mie
bambine. Lui me l’ha promesso, solo che lo so com’è fatto, e mi ama.
Le persone innamorate infrangono le promesse. Lo capisci, che ho
dovuto scegliere tra tenermi il mio Eiríkur e correre il rischio di
trasformare la mia casa in un inferno per tutti, oppure venire qui nel
Nord e lasciarlo da voi?
Da te, si era corretta la giovane Svana, e le aveva consegnato il
piccino che piangeva oltre il tavolo della cucina, come se fosse una
tazza di caffè, e Hafrún aveva accolto il suo primo e unico nipote, di
cui fino a qualche minuto prima non aveva nemmeno sospettato
l’esistenza.
La donna era rimasta in silenzio per qualche istante, immobile, con
le mani in grembo e senza staccare gli occhi da Eiríkur tra le braccia
di sua nonna. Non era facile decifrare la sua espressione. Ma poi
aveva chiesto, pacata, e a malapena Hafrún aveva distinto un
tremore nella voce: non è che magari posso dire addio al mio
bambino?

So che non passerà

Un solo giorno senza pensare a te. Senza che i miei pensieri vadano
a te. So anche che un giorno non riuscirò a trattenermi dal prendere
l’auto e venire quassù in questo fiordo del Nord, una donna mai vista
che raggiungerà la vostra fattoria per il solo motivo di chiedere un
bicchiere d’acqua. So che ti riconoscerò immediatamente. Ti
riconoscerò sempre, ovunque nel mondo, in qualsiasi momento.
Verrò fin qui per chiederti un bicchiere d’acqua. Solo un bicchiere
d’acqua. E solamente per bere da un bicchiere che tu hai appena
tenuto tra le mani. Il vetro avrà ancora il calore dei tuoi palmi. Forse
sarà tra sei anni, forse otto, dieci, magari dodici, non lo so
esattamente. Ma verrò, e ti chiederò quel bicchiere d’acqua. Poi lo
berrò lentamente mentre il calore delle tue manine passa nelle mie.
Perdonami. È per quel momento, amore mio, che riesco ancora a
vivere.

Che tempi! Ah, ormai sono passati

Lui si ricorda di quell’episodio, di quella donna che si era presentata a


Oddi per chiedere un bicchiere d’acqua. Una situazione molto strana.
Non che chiedesse dell’acqua, ma che avessero mandato lui a
portarle il bicchiere, e che nessuno fosse uscito per salutare, com’è
consuetudine quando arriva un visitatore alla fattoria, sconosciuto o
meno, e gli si dà il benvenuto. Però aveva solo sette anni, all’epoca,
certo, il mondo poteva essere incomprensibile e gli adulti di solito
erano così seri o impegnati in cose senza interesse che Eiríkur aveva
chiesto più volte a Dio di non farlo mai diventare grande, di poter
rimanere sempre bambino. Ma quell’episodio se lo ricorda. Hafrún
era andata a prenderlo nello studio di registrazione allestito nel
granaio, quel giorno Halldór stava trascrivendo una lunga intervista
realizzata la settimana precedente a due sorelle molto anziane che
abitavano nelle campagne a nord del fiordo – l’intervista poi sarebbe
stata pubblicata in tre parti sul Corriere degli Strandir, e Halldór
l’avrebbe anche inviata in versione integrale, dopo averla montata,
come faceva spesso con materiali di questo tipo, al Museo Nazionale
d’Islanda perché vi venisse conservata. Hafrún era entrata nello
studio, aveva detto qualcosa a bassa voce a Halldór, che aveva
annuito e poi aveva piegato la testa, concentrato, sul suo lavoro,
mentre lei chiedeva a Eiríkur di accompagnarla. Gli aveva detto che
doveva parlargli, però era rimasta in silenzio per tutto il tempo mentre
attraversavano il cortile ed entravano in casa. Lì si era messa a
domandargli delle cose, cose stranamente sconnesse, con lo
sguardo fisso fuori dalla finestra della cucina, poi aveva fatto scorrere
l’acqua fredda e aveva riempito un gran bicchiere, chiedendo a
Eiríkur di portarlo alla donna che aspettava fuori. Solo allora aveva
notato l’automobile parcheggiata lì davanti, e la donna lì accanto. Lei
che lo osservava sorridendo mentre le si avvicinava, l’aveva
ringraziato per il bicchiere d’acqua, aveva pronunciato il suo nome
due volte, poi aveva bevuto senza mai staccare gli occhi da lui. Altro
non ricorda, il resto di quella giornata è stato inghiottito da un oblio
insaziabile. Eppure non era raro che gli si accendesse qualcosa
dentro, quando vedeva delle donne sconosciute e si distraeva a
fissarle, a lungo, immaginando che fosse arrivata sua madre. Che
non fosse affatto morta, che fosse stato solo un malinteso – che era
tornata e che non l’avrebbe lasciato mai più.
Per il resto, era felice. Per il resto, era bello esistere.

«Ma pensa», aveva scritto sua nonna sul biglietto per il sesto
compleanno di Eiríkur, che aveva trovato di sotto in cucina ad
aspettarlo quand’era sceso quella mattina, insieme a pönnukökur e
cioccolata calda. Lo aspettava con i regali: una grande pista per le
macchinine elettriche da parte di Páll, una chitarra per bambini da
parte di Halldór, una casa Playmobil dalla nonna e dal nonno… «Ma
pensa», aveva scritto lei con la sua grafia precisa e ferma, «solo sei
anni fa non eri nemmeno nato, io e tuo nonno avevamo vissuto per
quasi mezzo secolo e non avevamo idea che mancasse la cosa più
bella della vita – la nostra testolina di capelli neri! Pensa, il mondo
credeva di poter stare senza di te, com’è possibile! Siamo
infinitamente grati di averti nella nostra vita. Con te tutte le mattine
sono piene di luce. Tutte le mattine sto in ascolto e dico a tuo nonno:
be’, chissà se il nostro Eiríkur si sveglierà tra poco? A volte vieni da
me in cucina solo per abbracciarmi qualche secondo, poi torni a
giocare, e io sono infinitamente grata di poter esistere e avere te.
Buon compleanno al nostro bellissimo, meraviglioso bambino!»
E sotto Skúli ha aggiunto con la sua scrittura scomposta:
«Confermo tutto quello che ha scritto tua nonna!»

È bello esistere, avvolto dal calore e dall’affetto della nonna e del


nonno. In un universo sicuro, e la distanza dal resto del mondo
sembra rallentare il tempo: era meno incalzante, qui nel fiordo, come
se non vedesse alcun motivo per avere fretta, come se volesse
godersi la vita, in particolare nella cucina della fattoria di Oddi, dove il
tavolo rappresentava una specie di fulcro di tutta la zona. La gente
del fiordo e delle campagne circostanti veniva quasi tutti i giorni per
bersi un caffè, accettare un boccone, chiacchierare, chiedere consigli
sull’allevamento, l’organizzazione delle feste, le recinzioni, le
macchine imballatrici, le bestie; quella pecora è zoppa, quell’altra ha
sempre il respiro affannoso. Sono pochi i problemi che non sono stati
risolti intorno a questo tavolo, che non sono stati sistemati, che si
trattasse dei preparativi per una cresima, di una pecora senza fiato o
di un trattore rotto. Hafrún si occupava appunto dei trattori e dei
motori delle macchine agricole, era sempre stata affascinata dalla
tecnologia e dai macchinari, dai televisori e dai camion, dalle
imballatrici e dagli apparecchi radio, da come funzionavano le cose,
com’erano state costruite. Da bambina smontava tutte le attrezzature
che le capitavano a tiro per studiare che cosa avevano dentro; così
se un’imballatrice, una legatrice, un trattore o una macchina si
guastavano in qualche fattoria, cosa che accadeva di continuo, e il
contadino in questione non sapeva che pesci pigliare, la soluzione in
ultima analisi era chiamare Hafrún. Skúli affermava di non saper
distinguere una candela da un pistone, ma era un vero mago con la
falegnameria e conosceva perfettamente il carattere di tutte le sue
bestie. I contadini delle campagne quindi si rivolgevano a Hafrún per
motori e festeggiamenti, e a Skúli se le loro bestie avevano qualche
malanno.
E l’infanzia trascorreva tranquilla. Eiríkur si svegliava ogni mattina
nella sua cameretta del solaio, scendeva al piano di sotto dove la
nonna cucinava, sfornava torte, preparava confetture, faceva il
sanguinaccio, cuciva, lavorava a maglia, rivedeva la contabilità con il
brusio dei programmi radiofonici in sottofondo, che leggevano i
principali articoli dei giornali, parlavano di attualità e passavano le
dediche musicali degli ammalati. Hafrún si alzava sorridendo dalla
sedia quando lo vedeva scendere, a tre anni, cinque, sette, lo
accoglieva con un abbraccio forte e sincero, gli dava del pane tostato
con il formaggio e la marmellata di mirtilli. Poi Skúli rientrava per
prendere il caffè, portandosi dietro il suo caratteristico odore di stalla
e di fieno invernale, scuoteva la testa per i gusti musicali delle
dediche alla radio, diceva a Eiríkur che sarebbe stato meglio farsi
ricoverare, tutti e due, perché almeno il programma avrebbe
trasmesso musica migliore. Poi ciascuno mangiava la propria fetta di
pane, la kleina o la fetta di torta, con una tazza di cioccolata calda o
di caffè, Hafrún però sempre e soltanto con una tazza davanti –
Eiríkur non ricorda di averla mai vista mangiare.
Erano momenti meravigliosi, così avrebbero dovuto iniziare tutte le
mattine del mondo.
La vita è fatta come la felicità, il tempo si acciambellava come un
cane tranquillo sotto il tavolo nella cucina di Oddi, i nonni
conoscevano le risposte a quasi tutte le domande possibili, erano le
pietre angolari più affidabili del mondo. Lui era un bambino allegro,
sincero, che non conosceva niente di meglio del momento in cui sua
nonna, Aldís o perfino le sorelle gli pettinavano i capelli. Allora
socchiudeva gli occhi come un gatto che fa le fusa. Tutto era
inquadrato come si deve. Le uniche ombre, la madre morta e la
mancanza del padre, che era lontano per gran parte dell’anno, a
lavorare in diverse zone del paese.
Qui, un tempo, quando la vita aveva per così dire dimensioni
ridotte, la gente se la cavava con molti meno mezzi, forse perché
semplicemente l’offerta era più scarsa, c’erano meno occasioni, Oddi
aveva sostentato senza difficoltà due o anche tre generazioni, da
dieci a quindici persone, bambini e adulti. Era una delle tenute
migliori del fiordo, con campi di buona qualità, ottimi prati, vasti
pascoli d’altura, brughiere ricche di bacche, laghi pescosi e non
poche possibilità per uscire in mare. Poi già a partire dalla metà degli
anni Ottanta del secolo scorso la fattoria era riuscita a malapena a
mantenere due persone adulte. Il che forse non era poi così grave,
perché nessuno dei due fratelli sembrava portato per l’agricoltura.
Halldór diceva spesso che Páll era troppo intelligente per allevare
pecore, infatti era andato all’università, il primo del fiordo a farlo,
aveva preso una laurea in storia poi un master in filosofia, aveva
scritto una tesi di duecento pagine su Søren Kierkegaard prima di
dedicarsi all’insegnamento, a lungo alle scuole superiori di Keflavík,
dove aveva convissuto per qualche tempo con la vedova di un
marinaio facendo da padre ai suoi tre figli. Halldór si era diplomato al
liceo di Ísafjörður e aveva studiato un anno alla scuola di musica di
Reykjavík. Ma aveva addosso talmente tanta passione e tanta
energia che non riusciva a rimanere a lungo nello stesso posto. Da
ragazzo aveva suonato in qualche gruppo musicale durante l’estate,
alle feste di paese in giro per tutta l’Islanda, poi aveva trovato lavoro
come muratore e usciva in mare durante l’inverno. Ma tornava
sempre nel Nord per l’agnellatura, e dopo la nascita di Eiríkur
cercava sempre di fermarsi a Oddi per l’estate. Dava una mano con i
lavori alla fattoria, passava del tempo nello studio di registrazione che
aveva cominciato ad allestire. Girava per le zone rurali con un
registratore per raccogliere i racconti degli anziani, strofe, poesie,
vecchi detti popolari tramandati oralmente; per salvare certi ricordi da
un famelico oblio. A volte qualche vecchio amico musicista con il
quale aveva suonato gli faceva visita per una sessione nello studio,
magari organizzava una festa improvvisata nella sala della scuola. E
anche se non era molto più alto della chitarra, Eiríkur era stato
soprannominato il manager, poteva aiutare il papà e i suoi amici a
sistemare la sala per la festa, poteva stare con loro nello studio di
registrazione, ascoltarli durante le prove, o quando raccontavano i
loro aneddoti sui musicisti islandesi e stranieri. E aveva notato che la
voce di Halldór cambiava di tono, gli occhi si illuminavano di una luce
particolare quando parlava di artisti come Nick Drake, Tom Waits,
David Bowie, i Beatles, Nina Simone, Chet Baker… Parlava di tutti
loro come di vecchi amici di cui sentiva la mancanza… ed Eiríkur si
era ripromesso di esercitarsi meglio, sempre più spesso, alla chitarra,
di diventare talmente bravo da poter essere col tempo quell’amico
con cui suo papà avrebbe voluto fondare un gruppo. Sognava anche
che suo papà trovasse lavoro a Hólmavík e potesse così stare a casa
a Oddi più o meno tutto l’anno. Ma non lo esprimeva mai a voce alta.
Temeva di ferire la nonna e il nonno – temeva che potessero pensare
che non gli bastava stare con loro. E che considerava suo papà più
importante di loro… per questo non aveva mai rivelato quanto gli
mancasse, non sopportava l’idea di ferirli, ma andava in cucina ad
abbracciare la nonna quando quella sensazione si faceva più forte.
Lo faceva per cercare una consolazione nel suo affetto, ma anche
per il senso di colpa… di sentirsi triste nonostante la presenza dei
nonni.
Halldór era quindi quello che arrivava e che ripartiva sempre.
Arrivava come gli uccelli migratori in primavera, ripartiva quando il
buio faceva ritorno. Ma tornava anche per le vacanze di Natale e di
Pasqua.
Ti faccio guidare la macchina fino alla strada principale se avrai
imparato a suonare I’ll Follow the Sun alla chitarra la prossima volta
che torno, per Pasqua, aveva detto Halldór al momento di salutare
Eiríkur, che allora aveva sette anni, dopo le vacanze di Natale.
Allora, vediamo, aveva detto Halldór quattro mesi dopo, quand’era
tornato a casa il giorno prima del Giovedì Santo, ed Eiríkur si era
accomodato con la sua chitarra al tavolo in cucina, concentratissimo,
per suonare la melodia del brano dei Beatles che Paul McCartney
aveva composto a sedici anni, dopo un’influenza. Si era piegato sullo
strumento, con i capelli scuri che gli cadevano sugli occhi, aveva
suonato quel brano semplice e malinconico e aveva cantato più volte
i versi che era riuscito a imparare, la voce, che in seguito sarebbe
diventata un velluto scuro, era ancora quella limpida dell’infanzia, il
suo inglese spigoloso, aspro: And now the time has come, and so,
my love, I must go.
Ma porca miseria, mi fai piangere, figliolo, aveva esclamato
Halldór, prendendo Eiríkur tra le braccia e permettendogli non solo di
guidare l’auto fino alla strada, ma addirittura fino alla scuola, dove
l’aveva lasciato fare un gran giro sul parcheggio in modo che i
bambini della classe di Aldís a Nes lo vedessero bene; invidiato dai
compagni più piccoli perché poteva guidare un’auto, e dai più grandi
per avere un papà come Halldór, che spesso si intrufolava alle feste
della scuola, a Natale, a Pasqua e in primavera, con la sua chitarra
elettrica, conosceva tutti i brani più famosi e li cantava con una tale
ispirazione, con una tale energia che i ragazzi ballavano sui tavoli –
avere Halldór come padre era come andare in giro con una medaglia
appuntata addosso.

E l’infanzia scorreva senza ombre.

Era così dolce da bambino, Eiríkur, mi dice Rúna mentre lentamente


passiamo davanti alla fattoria di Oddi, dolce, sensibile, sincero,
sorridente, pieno di immaginazione. Io e Sóley facevamo di tutto per
poter rimanere a dormire a Oddi. Invidiavamo molto Eiríkur perché
viveva con i nonni. Sembrava che il tempo non esistesse quando
eravamo da loro. Erano così affettuosi, così simpatici. Skúli adorava
scherzare. Come Eiríkur, d’altronde. Si punzecchiavano di continuo a
vicenda, facevano scherzi anche a Hafrún e poi ridevano entrambi
come due idioti quando lei ci cascava…

Gli scherzi di Eiríkur; mettere il sale nel caffè di suo nonno,


acchiappare un topo nella stalla e lasciarlo libero in cucina perché
Hafrún ne era terrorizzata, svegliare quel gigante di suo zio
versandogli acqua fredda in faccia, nascondere le scarpe di suo
padre perché non riuscisse ad andarsene, quando in autunno doveva
partire per l’Est per lavorare come muratore, o per il Sud per
imbarcarsi. Una volta aveva nascosto così bene le scarpe che
Halldór ci aveva messo tre ore per trovarle. Nessuno aveva detto
niente. Halldór le aveva cercate, e quando finalmente le aveva
trovate aveva salutato i genitori, aveva salutato Eiríkur, fa’ il bravo a
scuola quest’inverno, piccolo. Sii buono con la nonna e il nonno. Vedi
di aiutarli. Ti chiamo. Ti scrivo. Imparati I’ll Follow the Sun alla chitarra
per quando torno. Impara Bell Bottom Blues. Rock’n’ Roll Suicide. Poi
Halldór se n’era andato, ed erano rimasti in tre, Eiríkur, Hafrún, e
Skúli. I tre moschettieri, aveva detto Skúli, dove l’hai messa la spada,
compare? Ed Eiríkur aveva ritrovato il sorriso.
Ovvio che sorrideva, perché negli anni in cui Eiríkur era piccolo
quel fiordo si sarebbe piazzato in cima alla lista dei dieci posti al
mondo dov’era più bello trascorrere l’infanzia, e bisognava proprio
mettersi d’impegno per annoiarsi. Attività agricole in quattordici
fattorie, contando anche Sunnudalur, tutte con dei bambini piccoli,
anche parecchi in alcune, e quando cominciavano le scuole in
autunno si aggiungevano decine di altri ragazzini dalle campagne
circostanti, e quelli che abitavano troppo lontano rimanevano in
convitto per cinque giorni alla settimana. In cima alla lista dei dieci
posti migliori; certo, non c’erano speranze di incontrare qualche
celebrità o qualche straniero, di finire in tv oppure di essere
intervistati da un giornalista per La domanda del giorno, non c’erano
negozi di giocattoli, né gelaterie, a dire il vero non c’erano negozi di
nessun tipo nei primi dieci anni di vita di Eiríkur, a parte tre scaffali
nella credenza di Oddi, una piccola sede distaccata della
Cooperativa di Hólmavík, gestita da Hafrún; si vendevano articoli di
prima necessità che la gente poteva farsi mettere in conto se la
strada per uscire dal fiordo era impraticabile, o se semplicemente
non c’era il tempo per andare a fare la spesa in paese nella stagione
dell’agnellatura, durante la fienagione, quando c’era da lavorare per
sistemare le recinzioni. Qui tra l’altro c’è una gran quantità di poggi
d’erba e prati e colline e scogliere che potevano facilmente diventare
campi di battaglia o terre lontane, ruscelli dove Eiríkur faceva
navigare le barche costruite da Skúli con il legno portato dalla
mareggiata, e poi Oddi non distava molto dalla riva del mare, che
nascondeva sempre qualcosa di inaspettato. Pesci strani o creature
marine misteriose che la morte aveva deformato, molluschi da poter
cuocere a casa, qualche pezzo o rottame di barche o di navi, alcune
straniere, e poi i tronchi di legno portati dalla corrente, alberi abbattuti
in Siberia oppure, come pensava la gente un tempo, venuti a galla
dalla grande foresta sottomarina sul fondo dell’oceano – come
messaggi da un’altra dimensione. In cima alla lista dei dieci posti
migliori. Anche se il mondo era molto lontano, anche se non c’erano
caffetterie, teatri, sale da concerto per gli adulti, parchi divertimenti,
giardinetti o campi da calcio decenti, e nemmeno un cinema.
Quest’ultima affermazione però non è proprio corretta, perché una
volta al mese Hafrún portava Eiríkur e le due sorelle di Nes a vedere
il film che veniva proiettato nel Centro sociale di Hólmavík, e non si
lasciava dissuadere né dal maltempo né dalle abbondanti nevicate.
Le piaceva guidare nel tempo più nero, avanzare piano per le strade
coperte di neve con le catene alla vecchia Land Rover, avanzare
lentamente sul manto stradale ghiacciato nelle belle giornate
invernali, quando il sole basso rotolava muto per il cielo di un azzurro
glaciale, ispido come un gomitolo di lana, talmente basso
sull’orizzonte che quasi lo si sentiva strusciarsi contro le creste dei
monti.

È davvero felice, si dice da qualche parte, chi sfrutta l’oggi ed è


impaziente del domani. Eiríkur non vedeva l’ora che arrivasse la
mattina per scendere in cucina con la nonna e il nonno, non vedeva
l’ora di ritrovarsi con le sorelle di Nes durante il giorno, non vedeva
l’ora di arrivare alla sera quando Hafrún leggeva per lui, gli
raccontava storie, gli recitava strofe e filastrocche. Quando il cielo
invernale era terso e le stelle scintillavano sul fiordo bianco e muto,
Skúli si stendeva accanto a lui sul letto sotto la grande finestra del
sottotetto e i due partivano insieme per un viaggio tra le stelle. Skúli
insegnava a suo nipote gli astri e le costellazioni, gli raccontava dei
buchi neri, gli spiegava come nascono le galassie, descriveva la
distanza che le separa, come si formano le aurore boreali, da dove
vengono gli asteroidi, gli diceva che nel corso del tempo si erano
schiantati sulla Terra come inviati dagli dei, e avevano cambiato tutto;
gli parlava delle comete, quei giganteschi pugni di ghiaccio che
sfrecciano per le tenebre dello spazio siderale, simili a creature divine
lanciate a gran velocità, e che in antichità erano considerate
annunciatrici di grandi avvenimenti; ma sono loro i grandi
avvenimenti, diceva suo nonno, sono le fiabe dei cieli. Appaiono per
cambiare tutto intorno a loro, e poi spariscono, e lasciano una scia di
rimpianto dentro gli esseri umani…
Allora papà è una cometa, pensava Eiríkur, allungato accanto a
suo nonno, con la testa appoggiata sul petto di Skúli, come spesso
accadeva, per inebriarsi della sua serenità e della sua voce profonda.
Lo pensava, ma non diceva mai niente.

E aveva cominciato la scuola all’età prevista.


E così erano arrivate le pigre serate invernali che fluttuavano
come isole di felicità nel suo mare di ricordi, i momenti in cui faceva i
compiti seduto in cucina, i cani sonnecchiavano sotto il tavolo, gli
leccavano i piedi, Hafrún sempre impegnata, sempre con qualcosa
da fare, preparare i pasti, cuocere in forno, fare marmellate, il
sanguinaccio, lavorare a maglia, stirare, rammendare gli abiti al
mormorio della radio in sottofondo. Canti corali, programmi sul
corretto uso della lingua, un concerto per pianoforte di Frédéric
Chopin, il radio romanzo della sera Incanti e fuochi fatui di Ólafur
Jóhann Sigurðsson, oppure Il vestito da sposa di Kristmann
Guðmundsson.1 Hafrún lo aiutava in storia, in geografia, nelle lingue
straniere, Skúli con la matematica e le scienze. Il nonno, che quasi
non era mai andato a scuola, si era sempre interessato alle materie
scientifiche, si era impegnato con la matematica e l’aveva
trasformata in un gioco per Eiríkur, trasformava i numeri in partner di
ballo, in eserciti o squadre di calcio, secondo l’ispirazione. E a volte,
quando la sera prendeva una certa piega, o la musica alla radio
scioglieva qualcosa negli animi, Skúli faceva una pausa, si
appoggiava all’indietro e cominciava a raccontare a Eiríkur della sua
infanzia nell’Ovest, sulla Snæfellsnes. Descriveva il ghiacciaio che si
erge eterno al di sopra delle vite umane, raccontava degli amici che
erano spariti dalla sua vita dopo che il postino l’aveva portato lì in
quel fiordo del Nord, lontano dai loro giochi e dalle loro bravate;
raccontava dei suoi genitori, del padre irruente ma volubile, della
madre cagionevole ma dalla volontà di ferro, e delle sue tre sorelle.
La più anziana, molto più grande di Skúli, a dieci anni era partita per
raggiungere i parenti in Canada, per alleggerire la gestione della
casa; le altre due erano più piccole di Skúli, una era sopravvissuta,
l’altra era morta giovane di tubercolosi. Ricordava la risata di sua
madre, il modo in cui inclinava la testa e increspava le labbra quando
doveva concentrarsi, come la sua gioia istintiva faceva scintillare
anche le giornate più grigie; o come suo padre si immergeva così
profondamente nella lettura che nemmeno Dio riusciva a
raggiungerlo; o quando le sorelle di Skúli si infilavano nel suo letto la
sera, magari spaventate oppure solo perché in casa faceva un freddo
schifoso, o perché papà non c’era, la mamma era talmente ammalata
che non aveva la forza di scendere dal letto, e allora si stringevano
tutte e due accanto a lui, Skúli raccontava loro delle storie,
trasformava il letto in una nave e la faceva navigare verso paesi
lontani dove c’era sempre il sole, e un clima così mite che nessuno si
ammalava, nessuno si ubriacava, c’era sempre cibo a sufficienza…
Hafrún allora si sedeva accanto a loro, sospendeva ogni lavoro, le
mani come assopite in grembo, ascoltava con gli occhi semichiusi,
poi li apriva del tutto se sentiva la voce di Skúli cambiare tono,
quando pronunciava i nomi delle sorelle. Gli unici ricordi vividi che
Eiríkur aveva delle mani di sua nonna risalgono a serate come quelle.
Altrimenti non le vedeva mai se non all’opera, talmente impegnate in
compiti di ogni genere che non si notavano nemmeno, e invece
eccole lì, piccole ma forti, sottili ma callose, riposte sul grembo,
immobili, quasi come se dormissero, mentre Skúli racconta della sua
infanzia, parla lentamente, si allontana chissà dove o carezza la testa
di Eiríkur, come distratto.
In seguito, molto più avanti, dopo essersi lasciato alle spalle Parigi
e Marsiglia ed essere tornato in quel fiordo quasi spopolato, Eiríkur si
rese conto che quelli erano gli unici momenti in cui aveva sentito suo
nonno parlare della sua infanzia nell’Ovest, sulla Snæfellsnes – della
sua vita prima che il postino lo recapitasse come un pacco in quel
fiordo dopo aver affrontato le tempeste e le brughiere più impervie.
Skúli stava seduto tenendosi stretto il nipote, parlava piano, un
sottofondo di raucedine nella voce, che si increspava un pochino
quando pronunciava i nomi delle sue sorelle. Sceglieva le parole con
attenzione, a volte faceva delle pause nel racconto per mettersi a
trafficare con la pipa; in quegli anni si poteva fumare in casa, e vicino
ai bambini, non era affatto pericoloso. Che tempi! Ah, ormai sono
passati…

Se sei amaro, sii dolce –

questi momenti me li voglio ricordare, ne ho

tutta l’intenzione, anche se dovessi arrivare

a centosettant’anni!

I giorni più belli però non erano forse quelli in cui a Oddi c’erano tutti
e due i fratelli?
Páll sembrava avere la capacità di calmare l’inquietudine interiore
di Halldór, che durante l’estate era solito trascorrere giornate intere in
campagna, oppure di punto in bianco partire per fare un giro verso
ovest a Ísafjörður, o magari al Nord fino ad Akureyri, e stare via per
giorni. La presenza di Páll era rasserenante. Era come il sole. Come
un sole pesante, forse un pochino ombroso, che emanava calore
piuttosto che luce, calma anziché gioia. E i momenti migliori del
mondo erano quelli in cui i fratelli portavano Eiríkur a pescare nella
baia, sulla piccola barca a motore. Non aveva più di tre anni quando
poté fare la sua prima uscita, senza la piena approvazione di Hafrún,
ma i fratelli avevano promesso di fare molta attenzione e, per
dimostrare quanto l’avesse presa sul serio, Halldór si era legato al
bambino con una corda. Il giorno dopo Hafrún era andata fino a
Reykjavík ed era tornata con un giubbotto salvagente per il nipotino.
Fin dai primi insediamenti in quel fiordo la pesca si era sempre
affiancata alle attività agricole, e per qualche tempo, negli anni
Sessanta del secolo scorso, sull’estremità della penisola, in basso
rispetto alla chiesa, era in funzione una piccola ghiacciaia. La pesca
era sempre stata un supplemento fondamentale per quella
campagna brulla; lompi e foche in primavera, qualsiasi cosa si
potesse trovare durante l’inverno. La pesca tuttavia era stata
abbandonata quasi del tutto negli anni in cui Eiríkur era piccolo, e i
due fratelli uscivano in mare solo per divertirsi, per pescare qualcosa
da mangiare e per non lasciare marcire la barca che Skúli e Kári
avevano costruito anni prima; per divertirsi e per godersi qualche
momento insieme, liberi, in mare aperto. Su quell’ampia baia che non
conosceva la quotidianità degli esseri umani, non si interessava alle
loro prove e alle loro complessità, ai loro infiniti doveri e alle loro
esigenze. E visto che adesso possedeva un giubbotto salvagente,
Eiríkur poteva andare con loro ogni volta che voleva, cioè
praticamente sempre, anche se i due fratelli uscivano all’alba,
quando la campagna non si era ancora svegliata del tutto, i monti
erano immersi in un sonno profondo, avvolti dalla bruma del mattino,
quasi come se avessero freddo.
Eiríkur sedeva ben intabarrato in mezzo al papà e allo zio, come
una collinetta erbosa in mezzo a due montagne, e loro a capo
scoperto, senza guanti, raramente con qualcosa di più pesante
addosso di un paio di jeans e di un maglione di lana, ben riforniti delle
provviste di Hafrún, cioccolata calda per Eiríkur, qualche volta Halldór
infilava di nascosto nel paniere anche una bottiglia di vino rosso, per
insaporire un pochino la giornata, come diceva – e infine il possente
registratore che sistemava a poppa, avvolto in vari strati di plastica,
perché la vita senza musica non è vita, è solo povertà e nevischio
bagnato.
Per rispetto verso gli abitanti del fiordo e della quiete del mattino
non accendevano mai il registratore prima di essere usciti al largo
nella baia, dove le onde hanno un respiro più greve e profondo; lì
allora sparavano la musica a tutto volume mentre calavano le reti,
mentre le tiravano su, mentre pulivano il pesce. Halldór si occupava
della scelta musicale, aveva passato la giornata precedente a
copiare i brani su una cassetta, ogni pezzo scelto con cura e
preceduto da una breve registrazione, letta da lui:
Ecco un pezzo dei Pink Floyd. Non sono particolarmente allegri, i
loro amici chiamerebbero un medico se li vedessero sorridere, ma la
loro musica ha il respiro immenso del mare. Ascoltiamo Your
Possible Pasts, Do you remember me… think we should be closer?
E adesso fate attenzione, perché questa è Etta James in persona,
una voce che con la sua bellezza malinconica ci infonde amore e
voglia di vivere, I’d Rather Go Blind, And baby baby, I would rather go
blind, boy, than see you walk away, see you walk away from me…
Più tardi, molto più tardi, probabilmente quando ormai era troppo
tardi, Eiríkur si era reso conto che con quelle presentazioni suo padre
non voleva soltanto divertire, e insegnare qualcosa a suo figlio, ma
anche, e forse soprattutto, rivolgersi a lui in un futuro prossimo, e
dirgli, ricordati di questi brani, sono stati il mio paesaggio interiore,
ascoltali e conoscerai i battiti del mio cuore.
Ricordati di me, non dimenticarmi. Ascolta questi brani e io sarò
accanto a te. Ascolta, e io avrò il coraggio di essere accanto a te con
tutto me stesso.

«Eiríkur Halldórsson, marinaio a tutti gli effetti a bordo della Sankti


María», stava scritto sulla busta del biglietto d’auguri che lo aspettava
sul comodino quando le note guizzanti di Eniga Meniga l’avevano
svegliato alle sei e mezza, ed era difficile dire chi fosse più
impaziente di festeggiare il compleanno, se Eiríkur o gli adulti.
Marinaio a tutti gli effetti, un regalo di compleanno migliore non si
poteva concepire, non in questo universo. Era come se Batman
avesse detto a Robin che da quel momento in poi erano alla pari; il
fiordo aveva festeggiato tirando fuori dal cassetto per l’occasione una
delle sue più belle giornate estive. Nemmeno una bava di vento,
dodici gradi quando i due fratelli avevano svegliato Eiríkur. Páll era
arrivato il giorno prima, solo ed esclusivamente per essere presente
e festeggiare Eiríkur. Mancavano due settimane alla fienagione,
l’erba era cresciuta, quel canto verde. Luglio, e la luce ancora
sovrastante. Il cielo non socchiudeva gli occhi da settimane, del resto
durante l’estate non c’è bisogno di riposarsi o dormire. La volta
celeste era ampliata dalla luce, dal canto degli uccelli delle brughiere
quando i tre avevano raggiunto in macchina la bocca del fiordo fino
alla rimessa da dove da secoli i residenti di Oddi calavano in mare le
imbarcazioni. Avevano preso il largo e la loro barca, la Sankti María,
che Páll aveva ridipinto in primavera, gialla come un girasole di Van
Gogh, tranne la prua che era rossa e ricordava un bacio, aveva
tagliato il fiordo piatto, avevano remato fino all’ampia baia placida con
il sole sopra, al di sopra di ogni cosa, come una tromba calda e
sfavillante. Di sicuro una delle giornate più belle del mondo. Un
giorno che non avrebbero mai dimenticato. Loro tre insieme con
qualche spuntino, gli attrezzi da pesca e la musica. Tre marinai, uno
compiva otto anni. Dodici gradi sulla terraferma, la giornata si
sarebbe riscaldata con il passare delle ore, sarebbe arrivata a
diciassette gradi, ma in mare fa più fresco, per questo hanno del
caffè, la cioccolata calda e i panini preparati da Hafrún. Avevano
navigato in mare, navigato il silenzio, il sole era salito più in alto
svegliando gli uccelli che ancora dormivano. Ovvio che non si
vedevano stelle, perché la luce le aveva spente tutte all’inizio di
maggio e mancavano ancora settimane prima che le più luminose
facessero ritorno. Ma va bene così, perché com’è scritto da qualche
parte: se le stelle sono gli uccelli del cielo invernale, allora gli uccelli
sono gli astri della terra.
Chi l’ha detto, aveva chiesto Páll, non me lo ricordo, aveva
risposto suo fratello. Non mi ricordo più niente ormai, incredibile il
poco che rimane in testa. Ed è un peccato perché in un certo senso
le cose che si dimenticano è come se non fossero mai esistite. Mai
accadute. Ma tu non temere, aveva detto a Eiríkur, questo momento
me lo voglio ricordare, ne ho tutta l’intenzione, anche se dovessi
arrivare a centosettant’anni!
Abbiamo il dovere di ricordare, oltretutto, aveva detto Páll, l’oblio è
un tradimento nei confronti della vita. Questo lo sapeva bene anche
Kierkegaard. «Se una generazione succedesse all’altra come nel
bosco il canto degli uccelli», ha scritto in Timore e tremore, «se
l’umanità attraversasse il mondo come la nave attraversa il mare,
come il vento il deserto, come un’azione vuota e sterile, se l’oblio
eterno insidiasse costantemente la sua preda e nessuna forza
riuscisse mai a strappargliela dalle mani, quanto sarebbe vuota e
disperata la vita?»
Amen, aveva detto Halldór. Queste sono frasi con cui pescare,
queste te le sei ricordate a menadito, io non mi ricordo nemmeno i
testi rock più facili, ormai, se non ho la chitarra. È così bello che ci
dovrei comporre un brano sopra, per non dimenticarmelo.
Kierkegaard è la mia chitarra, aveva detto Páll.
Sei sicuro che non sia un violoncello?
Chi è Kierkegaard, aveva chiesto Eiríkur.
Halldór: Un filosofo danese che scriveva lettere a Dio, e riceveva
perfino delle risposte. Tuo zio sa tutto su di lui. Su Søren
Kierkegaard. Kierkegaard significa cimitero.
Eiríkur: Come il cimitero di Nes?
Esattamente, come il cimitero di Nes. Il poveretto si chiamava
cimitero – che peso da portare! Un nome pieno di morte, di croci e di
defunti. Non bisogna stupirsi se a volte quel tipo era un po’ giù di
corda.
Páll: Conosceva la morte, per questo sapeva scrivere della vita in
maniera magistrale. E comunque ha sempre cercato di farsi strada
verso la luce con la scrittura, una strada che a volte deve essere per
forza oscura.
Halldór: Verso la luce, come quella di oggi? Non ne sono sicuro.
Comincio a conoscerlo anch’io, ormai attraverso di te e i tuoi scritti, e
se ricordo bene in un punto dice che nella vita ci sono sempre due
strade possibili, se ne può scegliere una oppure l’altra. In tutta onestà
e tenendo conto del tuo benessere, dico: fallo, oppure no, non
importa quale delle due scegli – entrambe le opzioni ti lasceranno dei
rimorsi. Non si balla su questo genere di musica, e non ti può dare le
ali per navigare verso la luce!
Dammi le tenebre, e saprò dove trovare la luce, solo che adesso
vogliamo la torta, io ed Eiríkur, aveva detto Páll, si era spostato
lentamente verso poppa, nella piccola stiva, e aveva preso tre belle
fette di torta al cioccolato fatta da Hafrún. La barca dondolava piano
sulla baia quieta e sonnecchiante, la riva scintillava al sole, cantava
letteralmente, e loro avevano il caffè, la cioccolata calda e la torta al
cioccolato migliore del mondo, uno dei tre festeggiava il compleanno,
aveva otto anni, era appena stato nominato marinaio a tutti gli effetti.
Era tanto, più di così non si poteva.
Si erano messi a loro agio sospirando, come si sta bene, si erano
detti, talmente felici di essere insieme che i morti avevano sorriso.
Avevano finito la torta, avevano preparato le lenze, le avevano calate
in profondità, erano rimasti in attesa che il pesce nelle tenebre là
sotto abboccasse. Il mare respirava quieto, a casa Hafrún aspettava
il pescato che avrebbe cucinato per la cena del compleanno. Pesce
freschissimo grigliato. Io preferisco il merluzzo, aveva detto Hafrún
mentre si preparavano quella mattina. Allora pregheremo il merluzzo
di abboccare, e scacceremo via tutti gli altri pesci inutili, aveva
promesso Halldór; e adesso stanno aspettando con le lenze in mano
sulla barca che dondola, felici di quel momento, il registratore che
suona le canzoni che Halldór aveva scelto nello studio
appositamente per quell’uscita in mare in occasione del compleanno.
Il sole è un fuoco in cielo, arde come la vita, perché deve ardere,
deve sempre ardere perché altrimenti il mondo si raffredda. Halldór
ha scelto tre canzoni per far piacere a Eiríkur, una di seguito all’altra,
dal disco Eniga Meniga, «Se sei amaro, allora sii dolce». L’ultimo
brano l’aveva messo a tutto volume, e loro avevano cantato, o meglio
urlato: «Mancano assi e manca la sega / manca la tinta e una
canzone allegra!» Avevano cantato così forte che i pesci si erano
immersi più in profondità per mettersi in salvo. Così non va, aveva
detto Halldór, mettiamo Miles e facciamogli chiamare i pesci con la
tromba. E certo che l’aveva fatto, certo che Miles Davis aveva
richiamato i pesci in superficie, anzi, il merluzzo più grande, grosso e
sodo aveva abboccato alla lenza di Eiríkur dicendogli, ti offro la mia
vita come regalo di compleanno.
Adesso possiamo anche rientrare, aveva detto Halldór, aveva
tirato su la lenza, acceso il motore, chiesto a suo fratello di mettersi al
timone, si era chinato accanto al registratore, aveva versato del vino
rosso nel bicchiere, abbassato il volume della musica, mandato il
nastro della cassetta avanti veloce, l’aveva fermato, aveva ascoltato,
l’aveva riavvolto un poco indietro, poi si era alzato con il bicchiere in
mano e aveva annunciato: ragazzi, questa non è una canzone, è una
catena montuosa. E sarà la nostra canzone. Da qui in avanti ogni
volta che la sentiremo ci ricorderemo di questa giornata, di questi
momenti passati insieme.
Poi Halldór aveva riavviato il registratore e loro erano rientrati a
casa con il pesce per la cena, in ascolto, felici di aver trascorso quei
momenti insieme mentre Paul McCartney cantava per loro, per la
baia, per il fiordo, per il sole e per la riva che scintillava, la riva che
riecheggiava e i cinque gabbiani che si libravano sopra la barca,
eternamente affamati:

And when I go away


I know my heart can stay with my love…

Cos’altro possiamo dire, se non: che tempi!


Per quale motivo giorni come questo devono finire, perché la
felicità non si ferma quando ci raggiunge, così che la possiamo
portare attraverso la vita come la tartaruga porta la sua casa, come
uno scudo invincibile contro le frecce dell’infelicità?

Dammi le tenebre

e saprò dove si trova la luce


Ovunque io vada il mio cuore rimarrà con te, buon compleanno,
Eiríkur, ti offro la mia vita come regalo di compleanno, un’infanzia
avvolta nell’affetto, nella sicurezza, nell’amore – ma a quarant’anni
Eiríkur abita da solo a Oddi, a vederlo da lontano sembra una
rockstar triste con la chitarra elettrica sulla schiena, mentre trasporta
una cassa, ubriaco fradicio spara una schioppettata dietro a un
camion o al destino e rischia fino a dodici anni di prigione; che cosa è
successo, perché la sua vita ha preso questo corso, dove sono finiti
la sicurezza, l’affetto? Ci si sbronza così di Calvados, si scarica il
fucile dietro a un camion o al destino dopo aver cantato Eniga
Meniga e My Love, dopo essere stati felici per il giorno del proprio
ottavo compleanno, ma dove sono Páll e Halldór, perché non parlano
di più con Eiríkur… Ah, sì, è vero, Páll giace sotto una grossa lapide
con la frase di Kierkegaard nel cimitero di Nes, è terribile, è doloroso,
ma Halldór dov’è? Si è dissolto, quel mondo che Skúli e Hafrún
avevano creato intorno a loro e con cui avevano riempito la casa di
Oddi, non ne è rimasto niente dopo la loro morte; allora non tiene, la
felicità, mal sopporta la vita e men che meno la morte? Allora una
persona non è in grado di trasformare la felicità in una tartaruga, e
nemmeno in un cane che ti segue alle calcagna, allora la felicità non
sa stare al passo, non c’è modo di addestrarla, non sa cosa sia la
lealtà; allora è finito tutto, non resta che la festa a casa di Elías e poi
nient’altro, dodici anni di prigione – aveva sbagliato Kierkegaard a
inscriverci dentro la luce, non ci restano che le tenebre davanti,
allacciatevi le cinture perché adesso arriva il buio?

Aspettiamo un attimo. Eiríkur ha solo otto anni.


Poi ne avrà nove.
E poi dieci.
Perché il tempo passa, lo fa sempre, è uno specialista nel
trascorrere, ha un dottorato nel farci invecchiare, e poi morire, poi
sparire. Il tempo era passato e così anche l’infanzia di Eiríkur, per lo
più priva di ombre. Halldór tornava a casa con gli uccelli migratori, per
le vacanze di Natale e di Pasqua, passava sempre più tempo nello
studio, si impratichiva con la chitarra, con il vecchio organo
Hammond, a volte faceva qualche sessione con i suoi storici
compagni musicisti, e portava avanti il suo progetto interminabile di
registrare i racconti degli anziani del fiordo e delle campagne del
Nord, di salvare il passato dall’oblio; perché se il vorace, eterno oblio
era sempre in agguato e niente riusciva a strappargli le prede dalle
grinfie – quanto sarebbe stata vuota e disperata la vita? A dieci anni
Eiríkur era talmente a suo agio nello studio di registrazione che
aiutava il papà quando poteva, in casa Hafrún li aspettava con il pane
appena sfornato, la crostata, le kleinur, le torte, magari si affacciava
nello studio, talvolta insieme a Skúli, per dire loro di rientrare per il
caffè, e per guardarli lavorare.
Prima che Eiríkur andasse al Sud a frequentare le superiori, in
primavera, Páll si era trasferito di nuovo nel fiordo e aveva preso in
mano la gestione della fattoria di Nes. Era tornato da solo. Tra lui e la
vedova le cose non erano andate. I figli della donna lo adoravano,
ogni tanto andavano a trovarlo nel fiordo, si fermavano qualche
tempo, e anche lei lo amava. Ma a volte diceva, e ogni volta sul serio,
che Páll si abbassava a vivere con lei, che non lo meritava, che era
un’alcolizzata, un’irresponsabile, non era stata nemmeno capace di
dargli un figlio, era diventata sterile in seguito alle complicazioni
dell’ultimo parto.
Non ti merito, diceva, e a volte temo che tu mi compatisca invece
di amarmi. Temo che la tua sia carità, non amore. Ho paura di
rovinarti la vita. A volte credo perfino che tu sia troppo buono per
potermi amare.
Páll l’aveva trovata a letto, o più esattamente sul divano, in
compagnia di un vecchio amico e compagno di equipaggio di suo
marito. Un capitano sfacciato e sicuro di sé, che chiamava Páll «il troll
pallido e moscio». È diecimila volte meglio di te, diceva la vedova al
capitano, il suo dito mignolo vale di più di tutta la tua squallida vita.
Poco più tardi aveva guardato l’orologio, si era alzata la gonna,
guarda, aveva detto, niente mutande; poi si era appoggiata in avanti
contro lo schienale del divano ordinandogli di scoparla. Se sei l’uomo
che dici di essere, allora vieni e prendimi, prendimi sul serio, come si
deve, scopami come nessuno mi ha mai scopata prima.
E questa era la situazione quando Páll era tornato a casa dopo le
ore di lezione a scuola. Lei nuda dalla vita in giù, con la gonna alzata
sulla schiena, il capitano che si accaniva dentro di lei da dietro come
un cane in calore. Nonostante il fiato grosso e i sospiri rumorosi del
capitano, la donna aveva sentito Páll salire le scale. Forse aspettava
di sentirlo arrivare. Aveva voltato la testa, lui l’aveva guardata negli
occhi e aveva capito tutto. Aveva girato i tacchi e se n’era andato. Il
capitano è troppo eccitato per notare qualcosa finché non esce,
piuttosto soddisfatto di sé, fa per andare alla macchina, per tornare a
casa da sua moglie che lo aspetta per pranzo, e trova l’auto ribaltata
su un lato, adagiata sul marciapiede come una tartaruga inerme. Páll
torna nel Nord, senza dire un granché, e in primavera assume la
gestione della fattoria di Nes. Sconsolato, ma in parte è anche un
sollievo per lui aver lasciato l’insegnamento. Gli piaceva trasmettere
ai ragazzi la passione per la filosofia e la storia, ma gli capitava di
balbettare talmente tanto che le ore di lezione potevano trasformarsi
in un incubo.
Dammi le tenebre e saprò dove si trova la luce.
Tutto è relativo.
E siamo arrivati al sesso. O alle pulsioni sessuali.
Che sono la luce e il buio del mondo.

Non riesco proprio a immaginare la mia vita senza di te

Non possiamo evitare il mio desiderio sessuale, avrebbe detto poi


Ásmundur in albergo, e avrebbe aggiunto, all’inizio era il sesso e il
sesso era presso Dio. Lo stesso vale per Eiríkur, non possiamo
evitare le sue pulsioni, che per fortuna nella sua vita non avevano la
stessa forza distruttiva, non erano mai state un tirannosauro urlante,
Eiríkur non aveva mai cercato di scopare tubi di scappamento, le
pecore non dovevano temerlo. Ma aveva cambiato ogni cosa. Il
desiderio sessuale, o forse meglio la sua maturità sessuale. Aveva
cambiato tutto e l’aveva spinto, a tredici anni, a spulciare tra i quattro
scaffali di libri in soggiorno nella speranza di trovare qualche
descrizione esplicita. Dopo aver sfogliato svariati libri con poco
successo, aveva tirato fuori per caso una biografia dal titolo Quando
resta soltanto la speranza, e aveva provato un tuffo al cuore
guardando la copertina, mentre leggeva il sottotitolo: Una donna di
piacere racconta la sua vita e il suo ambiente.
Era un giorno piovoso di luglio. La pioggia percuoteva le
montagne, il fiordo e le case, ci saranno stati appena sette gradi, le
vacche di Skarð stavano addossate al cancello della recinzione come
la depressione fatta persona, fissando il fienile della fattoria,
muggendo di tanto in tanto contro quel mondo ingiusto. Qualche
giorno prima Halldór era partito per il Nord per suonare
nell’orchestrina del ballo campestre e rimpiazzare un amico che si
era rotto un braccio, Skúli era nella stalla a sistemare le mangiatoie,
Hafrún era andata a fare una visita a quelli di Botn. Eiríkur aveva
aiutato suo nonno, era andato a prendergli gli attrezzi, gli aveva
tenuto le assi, finché non aveva sentito dentro una certa agitazione,
la testa gli si era riempita di immagini vaghe ed eccitanti, aveva avuto
un’erezione ed era corso in casa per nascondere il suo stato,
sperando di trovare uno sfogo. Che fino a quel momento era stato il
suo problema principale, da una parte trovare delle immagini e dei
testi provocanti, e dall’altra trovare uno sfogo alle pulsioni che si
erano destate dentro di lui qualche mese prima – semplicemente non
sapeva come… stapparsi. Si era rifugiato in casa, si era chiuso a
chiave in bagno, si era tolto i pantaloni e il solo fatto di starsene lì
nudo con il membro duro e tremante davanti aveva un che di
inspiegabilmente eccitante e proibito. Ma non bastava. Allora gli era
venuto in mente di andare in soggiorno e frugare tra i libri, ricordava
di aver visto una donna mezza nuda sulla copertina di un volume, e
dopo aver cercato un po’ l’aveva ritrovata: Quando resta soltanto la
speranza.
L’immagine di copertina era quella di una donna con i capelli
lunghi e ricci, le gambe nude, un vestito sottile che esaltava le sue
forme provocanti. Dava le spalle al fotografo e guardava di lato.
Eiríkur l’aveva fissata, gemendo disperato, e il membro talmente duro
che gli faceva male. Aveva osservato a lungo la foto, poi era corso in
camera con il libro, l’aveva appoggiato sul letto, si era tolto i vestiti, se
li era proprio strappati di dosso senza staccare gli occhi da quella
copertina, tremando per l’eccitazione, quasi esasperato dal desiderio
di dare sfogo a quell’istinto eccitato, fissando implorante la donna
sulla copertina. Non sembrava che il vestito corto si fosse appena
sollevato, non sembrava che le si vedessero un poco le natiche, non
aveva forse girato meglio la testa di lato, per vederlo nudo? Eiríkur
tremava. Era talmente eccitato che si sentiva male, il dolore al
membro turgido era così forte che se l’era preso tra le mani nella
speranza che il palmo caldo potesse lenirlo. La pelle del pisello si era
talmente tesa che gli si vedeva la punta liscia e brutta. Aveva cercato
di tirare il prepuzio sopra quella testa gonfia con un occhio solo, per
nasconderla, ci aveva provato tre volte, ed era venuto. Aveva emesso
un urlo basso sentendo dentro di sé quell’esplosione calda di
piacere, vicino alle natiche, ma mentre il seme si era sparso in fiotti
sopra il letto e il libro, Eiríkur aveva pensato che forse sua mamma
poteva assomigliare alla donna della copertina.
Forse era davvero la sua mamma.
Aveva abbassato gli occhi sul libro e aveva incrociato lo sguardo
della donna, chiazzato dal suo sperma e traboccante di tristezza.

Si era rigirato nel letto la notte, senza riuscire a prendere sonno.


Verso le due si era dato per vinto ed era sceso di nascosto per
infilarsi nel soggiorno silenzioso. Voleva guardare i due album di foto
che erano nel mobile, soprattutto il primo, in cui erano state raccolte
le fotografie dell’infanzia di Halldór e Páll fino ai cinque anni di Eiríkur.
Desiderava immergersi nel mondo in cui la sua sessualità non
esisteva ancora. Aveva sfogliato quell’album infinite volte, conosceva
ogni fotografia, ma quella notte l’aveva visto con occhi nuovi. E aveva
visto una cosa che era sempre stata evidente, e in maniera così
ovvia che non capiva come potesse essergli sfuggita – la sua
famiglia era molto più felice prima della sua nascita. E in maniera
particolare nel caso di suo padre Halldór. Da bambino e da giovane
sorrideva in ogni fotografia; benché fossero in bianco e nero, e in
alcuni casi sfocate, si vedeva chiaramente che emanava gioia,
un’energia di vita contagiosa. Invece appare molto più posato nelle
foto scattate dopo la nascita di Eiríkur – è diventato l’uomo che
Eiríkur ha sempre conosciuto. L’energia è ancora lì, ma il sorriso non
è altrettanto pieno, nei suoi occhi si distingue una certa inquietudine,
e non sembra più ugualmente aperto.
Eiríkur era rimasto seduto in soggiorno nella luce grigia di pioggia
di quella notte di luglio e a poco a poco si era reso conto di aver
ucciso non solo sua madre, ma in un certo senso anche suo padre,
assassinando la sua gioia di vivere.

Pioveva anche il giorno dopo, una pioggia pesante mentre le mucche


muggivano i loro lugubri carmi. Le vacche muggivano, pioveva, lui
aveva ucciso sua madre, aveva soffocato la gioia di vivere di suo
padre. E aveva compreso di doversene andare. Era ovvio. Non c’era
altro modo.
Aveva pensato, adesso non ho più un posto in cui stare.
E per questo se n’era andato non appena aveva avuto l’età per
farlo, a sedici anni.

A sud, fino a Reykjavík, al liceo. Era partito all’inizio di settembre,


dieci giorni prima del raduno delle greggi, il primo a cui non aveva
partecipato.
Voleva prendere la corriera da Hólmavík ma Halldór, che era a
Oddi da qualche settimana, non aveva voluto sentir ragioni e aveva
accompagnato in macchina suo figlio fino a Reykjavík. Erano partiti di
primo mattino.
Una di quelle giornate autunnali fresche e senza vento. Il fiordo
immobile, le montagne dei giganti ben disposti. I giorni più belli
dell’anno, il mondo fa bella figura nonostante sia carico di mestizia
perché l’estate se n’è andata e non tornerà mai più. Il canto degli
uccelli si è spento per sempre.
Ah, aveva detto Hafrún mentre abbracciava Eiríkur per la terza
volta, è incredibile commuoversi così per delle sciocchezze, sono
sempre un po’ troppo sensibile in questo periodo, tra l’estate e
l’autunno, è vero, caro Skúli, e poi sto invecchiando, certo, le ossa
sono meno solide. Perdonami, aveva aggiunto, stringendo tra le mani
la testa di Eiríkur e piegandosi all’indietro per rimirarselo meglio,
costretta a guardarlo da sotto in su. Ma dio quanto sei diventato alto!
Sei arrivato piccolissimo e ormai mi hai superata e te ne vai. Non
posso nemmeno immaginare la vita senza di te. Ma tu non ascoltare
le mie sciocchezze, va’, spicciati prima che ne dica altre, che Dio
m’aiuti, sembro ubriaca, aveva detto lei, lasciando suo nipote, l’aveva
fatto voltare e gli aveva dato una piccola spinta per lasciarlo andare.
Verso l’automobile dove Halldór lo aspettava, pronto per partire,
aveva aperto la portiera del sedile del passeggero e aveva fatto un
inchino mentre Eiríkur si avvicinava, sorridente, sugli occhi un ciuffo
di capelli scuri che cominciavano a ingrigire. Eiríkur si era guardato
indietro per un attimo appena si erano immessi sulla strada
principale. Hafrún era ancora dove l’aveva lasciata e Skúli l’aveva
raggiunta, si tenevano stretti guardando l’auto allontanarsi, e per
qualche motivo sembravano invecchiare sempre di più via via che
aumentava la distanza. Presto saranno spariti, aveva pensato Eiríkur,
voltando la testa e guardando la brughiera, cercando di trattenere le
lacrime.
Presto saranno spariti.

Si erano diretti verso sud. Eiríkur profondamente dispiaciuto, perché


comprendeva, o sospettava, che in un certo senso non sarebbe mai
più tornato. Aveva pensato, adesso non ho più un posto in cui stare.
Ma allora, potrò stare ovunque io voglia?
Avevano percorso la strada che si distendeva in grandi montanti
ripidi salendo sulla brughiera. Halldór scalava le marce, il motore
faceva fatica, nei giorni precedenti aveva registrato tre cassette da
novanta minuti per il viaggio, etichettandole come «pezzi miei e di
Eiríkur». Ogni brano era stato pensato con cura, non vedeva l’ora di
farli ascoltare al figlio. Aveva fatto partire la prima cassetta sul
margine della brughiera, Morrissey cantava All the Lazy Dykes,
Touch me, squeeze me, hold me too tightly, and when you look at me
you actually see me.
Tienimi stretto, non mi lasciare mai, amore mio, quando mi guardi
mi vedi davvero.
Avevano impiegato sette ore ad arrivare. Ci vogliono sette ore per
guidare da una vita all’altra. Iddio aveva creato il mondo in sei giorni,
il settimo l’aveva benedetto. Per questo tutte le cose importanti
devono accadere sette volte.
Di’ «ti amo» sette volte, altrimenti l’amore non sopravvive.
Ci vogliono sette ore per fuggire da se stessi.

 
1
Incanti e fuochi fatui (Seiður og hélog, 1977) è il secondo volume di una serie di romanzi di
Ólafur Jóhann Sigurðsson. Il vestito da sposa (Brúðarkyrtillinn, 1978) è un romanzo di
Kristmann Guðmundsson.
Non prendi decisioni, e ti paralizzi
C’erano volute sette ore per arrivare a Reykjavík e Halldór era
riuscito ad ascoltare tutte e tre le cassette con la musica scelta
appositamente per il viaggio. Ogni pezzo scelto con cura, quello di
Morrissey però è l’unico che Eiríkur ricorda, Touch me, toccami. Per il
resto, quel viaggio è stato inghiottito da un oblio insaziabile, dal buco
nero in mezzo a tutti gli universi.
Sette ore, ripete il conducente di autobus consacrato mentre
prepara ancora i pönnukökur, si è cambiato la maglietta, Anthology 2
dei Beatles, il testo di Real Love sparso sul tessuto, And all my little
plans and schemes, lost like some forgotten dreams. I Beatles hanno
pubblicato questo disco sei mesi prima che padre e figlio facessero
quel viaggio fino a Reykjavík, il mondo aveva avuto la pelle d’oca
ascoltando Real Love che John Lennon aveva cantato su un nastro
magnetico poco meno di un anno prima di morire, e che i Beatles
rimasti avevano completato e arrangiato molto tempo dopo. Certo
che il mondo aveva avuto la pelle d’oca, perché erano tornati
insieme, ventisei anni dopo la loro separazione, i quattro amici, John,
Paul, George, Ringo. La loro grande amicizia spezzata si era
rinsaldata – anche se Lennon era morto da sedici anni. Cerchiamo
ogni modo possibile per vincere la morte, per ritrovare un’amicizia
perduta o momenti che sono spariti nel profondo di un passato
irrecuperabile – a volte ci riusciamo, anche se le leggi universali
dicono che non è fattibile.
E per questo non possiamo mai smettere di provarci.
Era l’autunno del 1996.
Avevano viaggiato verso sud e la musica non era più scaturita
come ossigeno in mezzo a loro. C’erano sette ore a separarli,
montagne di parole non dette e una madre morta.
Sette ore, ripete il pastore per la terza volta, e intanto batte
ritmicamente la spatola per i pönnukökur contro la bottiglia di single
malt che uno di noi due ha posato sul piccolo tavolo accanto alla
cucina, la batte come per chiedere la parola. Alzo gli occhi e
l’automobile con Halldór ed Eiríkur e il silenzio tra di loro che
nemmeno la musica può più colmare, tutto sparisce nella nebbia del
tempo, come l’intero anno 1996 e le cose che esistevano all’epoca,
tutti coloro che sono morti. George Harrison è morto, e David Bowie,
e Leonard Cohen, e Prince, e anche Amy Winehouse, che in effetti
aveva solo tredici anni quando loro sono andati al Sud in macchina,
altrimenti nelle tre cassette ci sarebbe stato uno dei suoi brani,
sicuramente Back to Black, che Halldór avrebbe interpretato più
avanti nelle feste di paese, facendo commuovere anche i contadini
più induriti e le operaie più scorbutiche. We only said goodbye with
words, I died a hundred times.
Ci siamo salutati solo con le parole, da allora sono morta cento
volte.
Esistono parole per qualsiasi cosa, ma possono essere del tutto
inutili se non sono seguite da un abbraccio.
Allora, che cosa era successo, perché questa freddezza tra padre
e figlio, da dove viene il dispiacere di Eiríkur, dove se n’è andata la
sua infanzia senza ombre, Eiríkur non avrebbe dovuto eiaculare sul
libro francese, sull’autobiografia della prostituta? L’autobiografia della
mamma, aveva pensato mentre lo sperma si spandeva sul volume e
macchiava la copertina. Halldór forse l’aveva scoperto, e non aveva
potuto perdonare a suo figlio… di essersi masturbato? A tredici anni?
E che cazzo, aveva detto il reverendo con la patente, non può
essere. Ma finiamola, faccio io. La storia del genere umano non
sarebbe mai esistita senza la masturbazione. Il cervello umano si
sarebbe cotto, sarebbe diventato un cactus. Perfino Gesù si
masturbava da adolescente, e anche da giovane. Chiudeva gli occhi
e pensava a Maria Maddalena, o al suo amico Pietro. Allora, hai
finito, posso intervenire?
Stacco di nuovo lo sguardo dai fogli, poso la matita e l’anno 1996
svanisce.
Sette ore, dice lui per la quarta volta quando vede che sono
tornato, oggi per coprire quel tragitto ci vorrebbero quattro ore al
massimo, Halldór avrebbe caricato la playlist su Spotify, sarebbe
stato più comodo, avrebbe impiegato meno tempo. Adesso ci vuole
meno tempo per tutto, tranne forse per il sesso, le partite di calcio, le
opere di Wagner. Sì, si fa prima a fare tutto, le nostre conoscenze
progrediscono, siamo arrivati sulla Luna, abbiamo mandato una
sonda oltre il nostro sistema solare, viviamo più a lungo, possiamo
comunicare con il mondo intero rimanendo seduti sul divano, eppure
l’umanità non è più felice. Non dovrebbe preoccuparci, questo, non ci
dice che abbiamo sbagliato strada come esseri umani? Senza la
felicità ogni vittoria è irrilevante, ogni ricchezza vana. Non è che
forse, in fin dei conti, siamo felici nella semplicità, nella facilità, chiede
e mi porge una foto di Hafrún e Skúli che era appesa sopra la cucina,
scattata durante il primo anno di matrimonio. Sono in piedi, stretti uno
accanto all’altra, davanti al vecchio casale di torba in cui era nata
Hafrún; un anno dopo avevano eretto la loro casa con il solaio
sorridente.
Osservo attentamente la fotografia, forse desidero vedere e vivere
la loro felicità, scorgo la vecchia fattoria di Framnes sullo sfondo, il
casale di torba che era stato ampliato con un edificio annesso di
legno rivestito di lamiera ondulata. Com’era consuetudine all’epoca.
La gente aveva qualche riluttanza a distruggere i casali di torba e
preferiva ampliarli con degli annessi in legno. Una bella cosa, perché
era come se il passato e il presente si sovrapponessero,
diventassero una cosa sola, accoglievano le persone, davano loro la
sensazione che i tempi fossero tenuti insieme da legami indistruttibili,
che dipendessero gli uni dagli altri. Il passato ci nutriva con la sua
presenza costante, alitava serenità nelle inquietudini del secolo
presente, ci aiutava a mantenerci in equilibrio in un mondo
costantemente mutevole, offriva sicurezza, il passato…
… ci teneva bloccati, dice il pastore con la patente. Ce lo
trascinavamo dietro come una catena, una palla di ferro. Ecco una
volta ancora la prova delle contraddizioni che caratterizzano
l’esistenza umana, com’è sempre stato. Non c’è niente di ovvio. Non
esitare a mettere in quarantena chiunque sostenga di comprendere il
nesso tra le cose, che affermi che tutto ha un senso, e non farlo
uscire di casa finché non ha compreso, finché non ha ammesso le
incongruenze, non ha scritto un romanzo in cui il mondo risulta
incomprensibile. Eiríkur era andato alle superiori nel Sud, al liceo di
Hamrahlíð, ovvio, aveva l’anima artistica, era tutto per la musica, gli
interessavano il teatro e il cinema; saranno state le serate al cineclub
organizzate da Hallgerður a Hólmavík a trasmettergli questa
passione?
Sì, sicuramente. Ho dimenticato di raccontare dell’importanza di
quelle serate nella vita di Eiríkur. Hallgerður, che un tempo era la
commessa paffuta della rivendita della Cooperativa, aveva fondato
un cineclub e proiettava film di Bergman, Kieślowski e David Lynch al
centro sociale. Eiríkur era sempre andato alle proiezioni, in genere ci
andava insieme a quelli della fattoria di Nes. A tredici anni dimostrava
già una tale passione per il cinema che per Natale Halldór gli aveva
regalato un videoregistratore e un piccolo televisore. Così Eiríkur si
dedicava con tale interesse ai film e alla musica che poteva restare
chiuso nella sua stanza anche per settimane, ne usciva solo per
mangiare.
A volte, quando era a Oddi, Halldór si appostava in silenzio alla
porta della camera del figlio, cercava di capire che cosa stesse
ascoltando, poi acquistava il disco o il cd e se lo ascoltava in
macchina, mentre faceva il fieno, quand’era in mare… era il suo
modo per trovare un contatto con il figlio, per vivere le stesse
sensazioni che viveva lui. Chissà, magari Eiríkur sapeva che suo
padre origliava dietro la porta, e sceglieva appositamente i brani;
erano messaggi per Halldór, e anche per sua madre, che era morta
perché lui potesse vivere. I will kiss you, I will kiss you, and we shall
be together.
Ti bacerò e saremo sempre insieme. Chi perde la madre da
piccolo, o peggio ancora alla nascita, si porta dentro una ferita che
impiega molto tempo a risanarsi, che si rimargina male,
probabilmente non si rimargina mai, si riapre ogni volta che la vita ci
si sfrega sopra o la urta. Ah, lui che non aveva idea che fosse sempre
viva, che lei che era morta era ancora in vita, che si era spinta fin
lassù nel Nord per chiedere un bicchiere d’acqua, per pronunciare
due volte il suo nome mentre Halldór riparava una macchina
legatrice. Perché non gli avevano mai detto…
Aspetta, faccio io, non siamo ancora arrivati a questo punto.
Sto solo cercando di dare una mano. È il nostro ruolo, aiutare, il
ruolo di noialtri che prepariamo i pönnukökur, che guidiamo le
corriere, che lavoriamo alle dipendenze di Dio o come corrieri per il
diavolo. Dare una mano, spronarti a proseguire, riempirti di
perplessità, spingerti giù da uno strapiombo, essere la rete di
sicurezza che ti accoglie – solo che non devi fidarti troppo. Sarai
giudicato per quello che fai, non per quello che hai intenzione di fare.
Svana arriva nel fiordo con Eiríkur, lo porge a sua nonna sopra il
tavolo della cucina perché non si uccide l’amore. Sedici anni dopo
Halldór lo accompagna in macchina nel Sud, fermati, non mi lasciare
mai, cantava Morrissey, erano anni che non si abbracciavano. Forse
non lo faranno mai più? Posso solo salutarti con le parole, ma
possono essere del tutto inutili se non sono seguite da un abbraccio.
Il loro rapporto non era più stato lo stesso, la loro affinità era sparita,
è stato difficile assistere a questo distacco tra loro, per Skúli e
Hafrún?
Possiamo definirlo una specie di abbraccio quando Halldór ed
Eiríkur si erano trovati seduti l’uno di fronte all’altro, ciascuno con la
propria chitarra, nel soggiorno di Oddi con le grandi finestre che
incorniciavano il fianco del monte, il cielo, l’edificio della scuola, le
fattorie di Hof e di Skarð; davanti a Halldór solo un caffè o una bibita
gassata. Era accaduto tredici volte, sempre il giorno dopo Natale. La
prima quando Eiríkur aveva undici anni, l’ultima il Natale prima di
partire per Parigi. Tredici volte, Halldór se lo ricorda, Eiríkur no. Si
erano seduti lì con le chitarre, uno davanti all’altro, le prime volte era
Halldór che guidava, poi con gli anni si erano spartiti i ruoli via via che
la tecnica di Eiríkur si perfezionava, superando perfino quella di
Halldór, che però aveva più esperienza; non c’era mai competizione
tra loro, solo un profondo desiderio di armonia; due anime che si
parlavano per mezzo della musica. Cantavano a volte, quando
serviva, Halldór con una voce alta e chiara, quella di Eiríkur più
bassa, aveva già una sfumatura cupa a quindici anni, scura, vellutata,
l’armonia tra di loro poteva essere talmente completa che a Hafrún
riusciva difficile trattenere le lacrime, seduta sul divano, mentre
teneva il capo ingrigito posato sulla spalla di Skúli. Eiríkur serio,
l’espressione concentrata, mentre Halldór a volte non riusciva a
smettere di sorridere. Smettila di sorridere, s’imponeva, Eiríkur si
imbarazza a vedermi ridere come un idiota… Solo che era così felice.
Nelle ultime cinque occasioni avevano finito per suonare Ashes to
Ashes di David Bowie, un pezzo che tutti e due amavano molto…
L’unica ombra su quei momenti felici era che Halldór percepiva
costantemente, profondamente, che una volta passato l’istante, una
volta sparita la magia, una volta messe via le chitarre, sarebbe
tornata la quotidianità, si sarebbe riaperta la distanza tra lui e suo
figlio.
È così, abbiamo i nostri momenti in cui la felicità ci benedice, poi
passano, si trasformano in passato, e il passato non ritorna mai più.
La malinconia è il nostro ricordo di una felicità trascorsa.
È la storia del genere umano.
Tutti invecchiano, perdono la vita. Viviamo ore luminose,
sperimentiamo la felicità, poi tutto svanisce, il tempo non si arresta, a
lui non importa niente di noi, il tale muore, il talaltro piomba
nell’infelicità, nella delusione, nell’alcolismo, e alla fine tutti se ne
vanno per non tornare mai più. Dalla vita alla morte, questo è il
decorso. Veniamo dal nulla, scompariamo nel niente, e alla fine tutto
si cancella. Raggiungiamo la felicità, poi la perdiamo. Ci troviamo di
fronte a due opzioni e nessuno sa con certezza quale sia quella
giusta, forse entrambe, forse nessuna delle due, magari tutto dipende
dal punto di vista. Non prendi una decisione, e ti paralizzi. Pétur ha
consegnato il libro a Guðríður, la luce si spegne nelle mani di Halla,
alla fine diventano due mani fatte di buio, due buchi neri, e il
tradimento è sempre il rovescio dell’amore, perché tutto ha almeno
due facce? Le vite di Halldór e di Svana si sono intrecciate un
autunno a Búðardalur, lei ha tradito suo marito perché è stata fedele
all’amore. Halldór sapeva che era sposata, che aveva due figlie e un
matrimonio stabile, pieno d’affetto. Non baciarmi, aveva chiesto lei,
non puoi baciarmi, se mi rispetti, se mi vuoi bene, se mi ami allora
non puoi baciarmi, non guardarmi così, ho paura, non puoi baciarmi.
Fidati di me, amore mio, aveva detto Halldór, e l’aveva baciata. Ti
bacio, e saremo sempre insieme. I will kiss you, I will kiss you, and we
shall be together.
Forse funziona nel brano dei Cure, ma non in questa storia, non in
questo universo.
Avevano conosciuto la felicità, l’avevano sacrificata ed Eiríkur era
nato con un buco nero dentro. Perché avevano tradito, perché non
avevano potuto vivere insieme, perché non avevano osato farlo,
perché non dovevano farlo, perché lei non aveva avuto il coraggio di
sacrificare tutto per l’amore? Ci sono sempre due opzioni, e non
importa quale si sceglie, da qualche parte si aprirà sempre un buco
nero. Allora come si fa a vivere?
Eiríkur se n’era andato dal fiordo con un buco nero dentro. Un
tragitto di sette ore. Toccami, stringimi, tienimi forte. L’unica canzone
che ricorda di tutto quel viaggio, delle tre cassette che Halldór aveva
registrato impiegandoci una giornata intera, ogni brano aveva il suo
significato, ogni testo il suo messaggio, e tutto si era dileguato sul
bordo di un buco nero. Eiríkur era seduto stretto contro la portiera, già
sentiva la mancanza della nonna e del nonno, il paesaggio sfrecciava
accanto a lui e Halldór doveva rallentare di tanto in tanto, faceva i
centotrenta su quella strada stretta senza nemmeno rendersene
conto. Non so come parlare con mio figlio, pensava, trattenendo le
lacrime al volante. Il Natale di tre anni prima Sóley e Rúna avevano
regalato a Eiríkur un’amaca, Halldór l’aveva appesa nella camera di
suo figlio, nel solaio. «Perché tu possa sognare a mezz’aria», aveva
scritto Sóley sul biglietto.
Ma conviene rischiare di sognare, se i sogni non si avverano mai?
And all my little plans and schemes, lost like some forgotten
dreams; tu prendi una decisione e succede qualcosa, il tale piomba
nella disperazione, il talaltro abbraccia la felicità, ma c’è sempre un
dazio da pagare. Non prendi una decisione, e ti paralizzi. Adesso che
ti ho visto sorridere, che ne sarà di me?
Adesso non so più se oso esistere
È giugno e certe frasi spiegano tutto.

A meno che non spieghino un bel niente

Quasi sei mesi sono passati da quando Pétur è venuto


inaspettatamente in visita a Uppsalir con tre libri, uno dei quali un
vecchio dizionario che a Copenaghen un libraio ancora più vecchio,
probabilmente il fratello del diavolo, gli aveva venduto perché sapeva
che a tempo debito Pétur avrebbe portato il libro laddove il suo
sapere avrebbe trovato posto. Pétur aveva consegnato il libro a
Guðríður, il reverendo si fa riguardo a servirsi, gli aveva detto Gísli,
non c’è motivo, ne abbiamo a sufficienza. Pétur aveva sorriso, aveva
preso altri dolciumi, poi ne aveva presi altri, a casa nella sede
parrocchiale lo attendeva Halla, lei ha le mani fatte di luce. Ma può
essere complicato vivere perché a volte ti trovi di fronte a due
possibilità e sono entrambe pessime, allora che si fa? Non importa
quale scegli, dice Kierkegaard, le rimpiangerai entrambe.
E noi potremmo aggiungere: tu scegli un’opzione, e impari che a
volte tra felicità e infelicità ci corrono solo due lettere. Non scegli
nessuna delle due, e questo ti paralizza.
Pétur aveva sorriso, poco più tardi si era accomiatato. Un bel po’ di
strada per tornare a casa, presto avrebbe fatto sera. Meglio
affrettarsi. È stata una visita pregevole, aveva detto Gísli.
La coppia aveva accompagnato il pastore nel cortile, nell’aria
limpida. Presto sarebbe arrivata la primavera. La primavera stava
arrivando con la sua luce infinita, piena di aspettative, di ottimismo,
ma anche di incertezze, perché tornerà il gelo e avvolgerà le uova
degli uccelli, gli agnelli appena nati. Le figlie di Gísli e di Guðríður
avevano vezzeggiato e carezzato Ljúf mentre il suo padrone era in
casa e vedeva quel sorriso pericoloso per la prima volta. Adesso non
vorrà più andarsene, aveva detto Pétur. Si era accomiatato
sorridendo. Era ripartito sorridendo.
Dilaniato dalla disperazione, dalla paura, dalla felicità.
Si era allontanato, saldamente in sella al suo cavallo, e Guðríður si
era sentita sprofondare qualcosa nel petto.
Una visita pregevole, aveva detto Gísli guardando sua moglie di
sbieco. È un pastore, aveva detto lei, come se questo spiegasse
tutto, e invece no, quindi aveva aggiunto, non avevo mai avuto
l’occasione di parlare con un uomo tanto colto.
Poi si era fatta sera…

… e nuovi giorni erano sorti sulla landa.


Il periodo dell’agnellatura era iniziato con le sue veglie prolungate,
quando tutta l’attenzione si concentrava nel vigilare su quelle vite
appena nate. Non puoi nemmeno battere le palpebre perché
altrimenti la morte le ghermisce. Così i due coniugi non chiudono
occhio e la vita trionfa su quegli attimi, su quella battaglia. Quasi tutti
gli agnelli sopravvivono e il sangue canta di gioia nelle vene di Gísli,
abbraccia sua moglie senza motivo, la stringe forte a sé, quell’uomo
riservato che assai raramente dimostra quello che prova, cosa che
del resto non si deve fare, a meno che non siamo talmente vecchi
che nessuno ormai ci presta attenzione. Abbraccia stretta Guðríður
quando hanno appena finito di preparare il recinto in cui presto
separeranno gli agnelli dalle loro madri. L’abbraccia all’improvviso, la
stringe forte a sé, quasi con slancio, pieno di passione, di ardore – e
senza un motivo apparente.
Lavoriamo così bene insieme, dice quando la lascia andare. Lo
dice come se dovesse spiegare quell’abbraccio imprevisto, e il cuore
di Guðríður batte forte, gli occhi le si riempiono di lacrime e si volta
perché Gísli non lo noti. Sono passate sei settimane da quella visita.
Perché lei conta i giorni.
Non sa perché conta i giorni.
Ha letto e riletto i due libri con l’aiuto del dizionario, lo fa di
nascosto quando Gísli è fuori, oppure si priva del sonno. E conta i
giorni. Perché lo fai, figliola mia, chiede a se stessa, che stoltezza
sarà mai la tua? Ma non cerca di rispondere, del resto non ha tempo
da perdere a rimuginare, gli impegni sono fitti. Prima c’è l’agnellatura
e le veglie che richiede, i risvegli di primo mattino che vanno ad
aggiungersi a tutte le faccende di casa; il bucato, i pasti, l’istruzione
delle figlie, ascoltarle quando ripetono la lezione, e sì, ritagliarsi del
tempo per leggere. A volte le ore di una giornata non bastano. Ma
sono trascorse sei settimane, quarantadue giorni, e Gísli la stringe
inaspettatamente a sé. Forte, con calore, e dice con una sincerità
disarmante che lavorano bene insieme.
Il che significa, stiamo proprio bene insieme.
Il che significa, abbiamo una bella vita.
Il che significa, insieme possiamo fare tutto.
Il che significa, io ti amo.
La stringe forte, all’improvviso, poi la lascia e allora lei deve
voltarsi per nascondere le lacrime.
Scusami, sussurra Gísli. Magari crede che si sia arrabbiata, tende
un braccio e fa per toccarla ma lascia perdere e lo ritrae. Lei guarda il
recinto per gli agnelli. Domani mattina comincerà a mungere le
pecore con le due figlie maggiori, e a lavorare il latte. Altre
incombenze che vanno ad aggiungersi alle precedenti. Le faranno
male le mani all’inizio, mentre i calli si ispessiscono, i muscoli si
abituano allo sforzo. Le batte il cuore. Sei settimane. Il che significa
che ti amo. Scusami, sussurra Gísli, e lei gira la testa.
Perché dev’essere così complicata, la vita?
Talmente complicata che persone come Kierkegaard hanno
dovuto scrivere dei libri sull’argomento.
Gísli l’aveva stretta forte a sé, all’improvviso, talmente forte che lei
aveva sentito il membro duro sotto i pantaloni. La desidera. Per
questo motivo ha detto scusami. Perché l’ha fatto? Ne hanno passate
così tante insieme.
Lei abbassa lo sguardo, alza la lunga gonna con movimenti lenti,
la assicura in vita, si cala le mutande, rivolge un rapido sguardo al
marito, poi lentamente si appoggia in avanti contro le pietre della
parete, è bello sentire l’aria fredda sulle natiche nude. Lo guarda di
nuovo, prendimi, dice lei, presto, prendimi subito, e intanto allarga le
gambe e si piega un po’ di più, così che lui veda meglio, lo sa che lo
eccita, lo sente emettere un sospiro. Le bambine, sussurra lui e
comincia a slacciarsi i pantaloni. Va bene, se fai presto, dice lei, ce
l’hai già duro? Sì, guarda, sussurra lui rauco, e allora lei si volta a
guardare, lo sa che lui vuole, lo sa che lo eccita ancora di più quando
lei gli guarda il membro eretto. Prendimi, dice lei. Prendimi subito, gli
ordina. E allora lui la penetra, le scivola dentro senza sforzo. Esaltato,
eccitato, ansima piano. Attento a non mettermi incinta, mormora lei,
muove i fianchi e lui spasima, martella, poi geme mentre ritrae il
membro. Guarda, grida, quasi abbaia. Lei si volta e vede il membro
contrarsi, vede lo sperma schizzare fuori.
Il che significa che ti amo.
Il che significa che stiamo bene insieme.

È giugno e fa talmente chiaro che non lo possiamo nemmeno capire.


Non gela né nevica dall’otto di giugno, il che è stupendo, una
benedizione, e così tutto si schiera dalla parte della vita. Piove,
spunta l’erba. Guðríður semina le patate e le rape appena la terra si
libera dal gelo. L’erba cresce, gli agnelli vengono separati dalle madri
per la mungitura e belano disperati per giorni. Non mi abituerò mai,
sospira Guðríður, poverini. È la vita, risponde Gísli.
Certe frasi spiegano tutto. A meno che non spieghino un bel
niente.
L’erba continua a spuntare, gli agnelli crescono, molti di loro
sopravvivono, le pecore danno latte.
Un bel periodo. Prendimi. Guarda com’è duro.
È una bella estate, il sangue di Gísli canta e all’inizio di luglio i suoi
genitori vengono in visita e si fermano tre notti. Vengono in un
momento in cui le incombenze della primavera e della prima parte
dell’estate si sono concluse e la fienagione non è ancora iniziata, e
per questo si può respirare un po’. Ci si può rilassare. Almeno
quando l’età avanza, e si ha la fortuna di avere una fattoria dignitosa
e dei lavoranti su cui è possibile contare. Allora si può andare in giro
a cavallo per le campagne come un viaggiatore elegante. Quasi
quasi mi metto a parlare straniero, dice Björgvin, il padre di Gísli.
Non arrivano a mani vuote; piccoli doni, carne di vitello, biscotti, e
ovviamente dolciumi per le bambine, anche una giumenta di cinque
anni; e infine un pacco recapitato dal postino a Bær tre o quattro
settimane prima. Da parte dell’ufficiale distrettuale e di sua moglie,
che porgono i loro saluti.

Ma quant’è carina, ma perché mai Dio

dovrebbe andarsene in giro per queste lande,

non ha già abbastanza da fare

nelle campagne a valle?

Ah, ovvio che dovremmo descrivere la gioia incredibile delle tre


bambine quando sono arrivati i nonni con tutte quelle rarità come i
biscotti stranieri, le caramelle, i bei nastri di seta, perché era come se
fosse arrivato il Natale in piena estate. Del resto, perché aggirarsi nel
passato e cercarvi delle vite dimenticate, dei momenti spariti, se poi
tralasciamo di descrivere la gioia di tre bambine, tre sorelle, in una
fattoria di brughiera, un casale, una felicità che avrebbero ricordato
per tutta la vita? Per i doni, e poi per la giumenta che avevano portato
i nonni; una cavalla di cinque anni, di buona razza, rossa con una
macchia lungo tutto il muso, una macchia larga e bianca che quasi
brilla di notte, come se la sua testa fosse una lanterna, come se fosse
la luce. La giumenta è un dono per Gísli, e per Guðríður. Un
contadino senza un cavallo è un contadino povero, dice Björgvin. È di
buona razza, forte, può portare le balle di fieno più pesanti ed è
anche un ottimo cavallo da sella.
Un dono. No, non è il termine giusto. Qui bisogna scegliere con
cura le parole.
In effetti Björgvin non dice che la giumenta è un regalo, perché
altrimenti Gísli l’avrebbe rimandata indietro insieme ai suoi genitori.
Ne hai abbastanza, di fieno, per tenermi la cavalla quest’inverno,
chiede Björgvin a suo figlio.
Posso tenertela, se ne hai bisogno, risponde Gísli, nessuna bestia
è mai morta di fame qui da me. Non hai più spazio?
Non ho spazio, che vuol dire, quand’è che manca lo spazio?
Immagino che sia quello che la gente definisce una questione di punti
di vista, dipende da come si considera la questione. Ti chiedo solo di
tenerla qui quest’estate, e al massimo il prossimo inverno. Credevo di
essere abbastanza vecchio, di aver sfacchinato abbastanza nella vita
per non dover giustificare cose del genere. Decidi tu.
Può benissimo rimanere qui, dice Gísli, che evidentemente
preferisce chiudere il discorso.
Le donne intanto sono rimaste in silenzio, perfino Steinunn, per
quanto le sia difficile non mettere bocca. Temono che Gísli prenda
male questa richiesta, o questo dono velato. Temono che Björgvin
dica qualche sciocchezza che faccia alterare Gísli, che lo renda
scontroso, che provochi una risposta così brusca che i due coniugi
anziani non vogliano più lasciargli la cavalla.
Allora siamo a posto, dice Björgvin tirando fuori la bottiglia di
cognac che ha comprato da un marinaio francese a Ólafsvík. Parola
del Signore, allora, dice Gísli, e poi va con suo padre nell’ovile per
bersela fino in fondo e lì Björgvin ripete di nuovo quella frase, che un
contadino senza un cavallo è un contadino povero.
Un contadino povero, ribatte Gísli, è chi invidia gli altri.
Forse, dice Björgvin. In ogni caso, tuo fratello insiste con me e tua
madre perché ci trasferiamo da lui, nell’Ovest, in Canada. Sta
facendo fortuna con la morte, c’è una domanda costante, dice lui,
futuri clienti ovunque si posi lo sguardo. Ma che ci deve fare un
vecchio contadino all’estero, in un paese dove quasi nessuno parla
islandese? Bisogna riconoscere, ma che rimanga tra noi, che a volte
sono proprio stufo di queste maledette pecore, davvero, sono
talmente stupide in certi casi, e più cocciute del demonio. Io ho una
certa età, è vero, e va bene così, ma poi diventerò vecchio, non sarò
più buono a nulla, sarò un intralcio per tutti. Alla fine sarò anche
troppo vecchio per far rigare dritto i miei cani. I vecchi sono sempre
stati disprezzati in Islanda, perché non sono capaci di farsi obbedire
dai loro cani, sono inetti per qualsiasi incombenza. Ti chiederei di
farmi fuori prima che diventi troppo vecchio, sono sicuro di poter fare
affidamento su di te per una faccenda del genere, però non si può far
fuori la gente per motivi di umanità, solo per motivi di convenienza
economica. Lo vedi da te che tutto va di traverso, in questo mondo,
che le cose stanno insieme in maniera ben strana, se mi può venire
l’idea di prendere e trasferirmi oltreoceano da tuo fratello. Lui mi
assicura che laggiù i vecchi sono talmente rispettati che la gente si
toglie il cappello davanti a loro. Che ne dici?
Io non ho un cappello, e per questo non posso togliermelo quando
mi passi davanti.
Tu sei talmente testardo che non cambierebbe nulla, anche se ce
l’avessi. Credo che non te lo toglieresti nemmeno davanti a Dio se
passasse di qui con il suo cavallo.
Perché mai Dio dovrebbe andarsene in giro per queste lande, non
ha già abbastanza da fare nelle campagne a valle?
E io che ne so, di che giri faccia Dio – in realtà credo che si faccia
vedere assai poco, qui nel Nord del mondo. Non stavo parlando di
questo, volevo sapere che cosa ne diresti se me ne andassi verso
ovest, in Canada, come un cavallo sfinito, invece di invecchiare qui e
ritrovarmi un giorno talmente inutile che nemmeno i cani avrebbero il
minimo rispetto per me.
Non so che dirti. E non ho idea di cosa significhi essere vecchio.
Presto ci sarà da fare il fieno, che importanza può avere il Canada?
Certo, a volte là fa talmente caldo che la gente sta a torso nudo, e per
intere giornate. Mica poco. Un bel risparmio, la stoffa si consuma
meno.
Quindi non ti dispiace il Canada? Verresti anche tu?
Ma non dovevo tenerti la giumenta? Come faccio, se mi trasferisco
in Canada?
Björgvin scuote la testa, si allunga a prendere la bottiglia. Non è
che… comincia, ma in quel momento Guðríður li raggiunge con le
frittelle appena fatte.
Era uscita dal casale, fuori dal corridoio in penombra con quella
pila tiepida e profumata, aveva attraversato il cortile e aveva provato
una strana fitta al cuore, o una sensazione insolita. Forse perché
porta le frittelle sul bel vassoio che Gísli le ha regalato, per cui ha
sacrificato tante cose, e gliel’ha portato da Arnarstapi con un fare
così impacciato che lei si sente sempre quasi commossa quando lo
usa.
Attraversa il cortile, entra nella stalla. Benedetta sia la luce celeste,
dice Björgvin vedendola entrare, e Guðríður sorride constatando che
i due uomini sono già piuttosto alticci. Stanno seduti sulla mangiatoia,
Björgvin curvo in avanti, è ingrassato negli ultimi anni, la testa grossa
e l’espressione tipica di chi non ha mai dovuto chiedere scusa per
essere com’è, né ha dovuto dubitare dell’obbedienza dei suoi cani.
Gísli ha esattamente la stessa forma del cranio, ma è molto più alto di
suo padre, muscoloso, così magro che è praticamente scarno e sa
essere talmente cocciuto che perfino Dio e il diavolo si rendono conto
che è inutile cercare di tenerselo buono, o di fargli cambiare idea.
Guðríður lascia una bella pila di frittelle ai due uomini, ruba una
sorsata di cognac, si ferma dalle bambine che sono indaffarate con la
giumenta davanti alla rimessa e non riescono ad allontanarsene.
Restano sette frittelle, due per ciascuna, e la settima possono darla al
cavallo. Faccio finta di non aver visto, dice Guðríður, poi le abbraccia
tutte e tre, inspira rapidamente il loro odore e trattiene più a lungo la
maggiore, Björg, che è cresciuta talmente tanto negli ultimi mesi che
è quasi alta come sua madre, le sente i seni in boccio mentre la
stringe a sé. Tesoro mio, mormora, e deve impegnarsi per trattenere
le lacrime.
Tesoro mio, ma non riesce a parlare perché prima, in casa,
Steinunn aveva chiesto a Guðríður se potevano portare con loro
Björg il prossimo autunno e tenerla almeno fino a Natale. Lei e suo
marito ospitano appunto la scuola itinerante, e inoltre quell’inverno il
prefetto e sua moglie terranno in casa un giovane diplomato che si
occuperà dell’istruzione dei loro figli, le nostre fattorie distano appena
una mezz’ora a piedi, aveva detto Steinunn, so che non avrebbero
alcun problema a consentire a Björg di frequentare le lezioni insieme
a loro. Che ne dici, aveva chiesto a Guðríður, che aveva abbassato la
testa per nascondere la propria espressione. Avrebbe avuto voglia di
rispondere no, grazie, ma sa bene che non può privare sua figlia di
un’occasione del genere, sarebbe semplicemente imperdonabile.
Negarle un’istruzione e la possibilità di conoscere più comodità, più
spazio, ambienti più frequentati e più moderni. Sapeva che Björg ne
sarebbe stata talmente felice che avrebbe perso il sonno per
l’impazienza. Ma sapeva anche che se Björg avesse accettato, cosa
che avrebbe fatto di sicuro, lei l’avrebbe persa. Perché chi si
allontana una volta da un povero casale di brughiera isolato per
andare a studiare non fa mai più ritorno, se non come ospite.
L’abbraccia forte a sé fuori dalla rimessa. La stringe così forte mentre
trattiene le lacrime che Björg si mette a ridere. Mamma, ride, e allora
Guðríður lascia la presa. Dà il permesso alla figlia minore di correre
in casa a prendere altre frittelle, e una in più per la cavalla. Solo una,
dice Guðríður con fermezza. Quant’è carina, dice Elín, impregnata
dell’odore della giumenta. Le bambine vogliono trovarle un nome ma
hanno talmente tante proposte che non sanno decidere. Forse
dovremmo chiamarla Ljúf, dice involontariamente Guðríður…

Forse il pensiero divino

non è particolarmente bello,

ma se non altro lei ha le scarpe nuove

ed è più facile pisciare tra i poggi

All’inizio di settembre Guðríður si dirige a Stykkishólmur da sola in


sella a Ljúf, un tragitto di diverse ore, deve attraversare una
brughiera.
Brughiera, è una bella parola. Le brughiere sono quei luoghi in cui
la terra si solleva come per desiderio del cielo. Una bella parola,
certo, però talvolta significa anche solitudine, brutto tempo,
spostamenti faticosi e nebbia in cui perdersi, ma significa anche
libertà, quiete, sogni, e le brughiere più belle custodiscono laghi pieni
di trote salmonate e fiumi che si aprono la via gorgogliando tra i poggi
d’erba. Non sono molte le cose in questo mondo che eguagliano la
sensazione di distendersi tra i poggi su una brughiera islandese,
starsene lì e diventare una cosa sola con il cielo e con il profumo
dell’erica, dell’erba, chi ha fatto una cosa del genere può dire di aver
vissuto, di essere esistito, sempre che la terra non sia impregnata
d’umido, sempre che non piova, o non tiri un vento talmente furioso
che chi attraversa la brughiera a cavallo può dirsi fortunato se non
vola via dalla sella come un fuscello. E se non ti nevica addosso,
magari una neve bagnata, cosa che può succedere anche in piena
estate – tutto quello che punta verso il cielo, che sia un paesaggio o
un essere umano, per forza di cose deve sopportare più di chiunque
altro.
Però non nevica né tira vento quando Guðríður percorre la
brughiera e talvolta incrocia qualche agnello già grande, ben pasciuto
alla fine dell’estate, la prima e unica estate per la maggior parte di
loro. Il tempo è splendido e la quiete è talmente profonda che il cielo
si è avvicinato alla terra, come se gli esseri umani gli interessassero
più di prima e gli premesse in modo particolare tenere d’occhio
questa donna dai capelli biondo cenere, con il volto luminoso e occhi
che sono color ambra oppure bruni, il colore forse dipende da come
gira la luce, e le mani rosse dopo il bucato, ma fini sotto i calli. Quelle
dita lunghe, che tengono morbidamente le briglie della giumenta ben
disposta, qualche mese prima avevano scritto un articolo sul
lombrico, che da qui in avanti chiameremo soltanto il poeta cieco
delle zolle di terra. È a causa di quell’articolo che sta andando a
Stykkishólmur.
Un tragitto lungo, probabilmente otto ore, però non prendeteci alla
lettera perché non siamo pratici di queste zone. Comunque, Guðríður
si trova sulla brughiera e a volte avanza al passo, mai più veloce, sia
per risparmiare la cavalla sia nella speranza che la profonda serenità
della brughiera riesca a placare il suo cuore inquieto; il mondo là
sopra è talmente calmo che lo si potrebbe ritenere perfino felice.
Tre giorni prima invece si era scatenata una bufera che era durata
quarantotto ore. La prima, grande bassa pressione dell’autunno. Un
vento furioso da sudovest aveva frustato la campagna con piogge
violente e neve sulle vette più alte, che poi erano apparse di un
bianco splendente quando il maltempo si era placato. Un annuncio
bianco da parte dell’inverno. Sto arrivando.
Strano, pensa Guðríður sulla cavalla che avanza lentamente, in
autunno i monti possono imbiancarsi ed essere così belli da
sembrare il pensiero divino, eppure contengono in sé un annuncio
d’inverno, che sta per arrivare con le sue gelate e la sua tempesta, la
paura della fame, dell’isolamento – forse il pensiero divino non è bello
come vorremmo credere?
Attraversa la brughiera e si avvicina a Stykkishólmur. Lentamente,
eppure si avvicina a ogni passo. La brughiera è così intrisa d’acqua
dopo le piogge autunnali che Guðríður aspetta a smontare da cavallo
per urinare, aspetta finché non è salita più in alto, dove la terra è più
pietrosa. Si svuota contro un cumulo di pietre. Quando solleva la
lunga gonna si ricorda che ha indosso delle ottime scarpe e che
avrebbe anche potuto pisciare nelle torbiere senza paura di bagnarsi
i piedi. Ma se le toglie per sicurezza, per non bagnarle mentre fa pipì.
Perché Steinunn, che la settimana precedente era venuta a
prendere sua nipote, aveva dato a Guðríður dei vestiti quasi nuovi,
che aveva aggiustato perché stessero bene alla giovane nuora, e
anche queste scarpe alte ed eleganti, praticamente mai usate. A dire
il vero le vanno un po’ troppo grandi, ma non c’è bisogno che si
sappia in giro. L’unica cosa che si vede è che hai delle ottime scarpe,
le aveva detto Steinunn. Mia nuora non va a una riunione con
persone così importanti con un paio di pantofole di pelle di montone,
non finché io respirerò su questa Terra.
È l’inizio di settembre, porta delle ottime scarpe, ha appena urinato
sulla brughiera, è diretta a Stykkishólmur, la cittadina commerciale,
per incontrare persone importanti. Lei che è solo la fattoressa di un
casale. Che ne dirà l’ufficiale distrettuale di Bær, o la gente delle
campagne lì intorno?
Ma l’articolo non può certo essere l’unica giustificazione per quel
viaggio, e allora Gísli, non lo disturba che sua moglie se ne vada da
sola, e faccia stancare Ljúf per un trasferimento così lungo?
La cavalla si chiama Blesa, a dire il vero. Gísli aveva dato un taglio
a tutte le discussioni, aveva scartato il nome Ljúf che sembrava
essere il preferito da tutte. Si chiamerà Blesa,1 si chiamava così
prima di arrivare a Uppsalir, perché cambiare, aveva detto Gísli e le
ragazze conoscono abbastanza il padre da sapere che niente lo
smuove quando una decisione è stata presa. La cavalla però è
troppo carina per chiamarsi Blesa – e per questo tra noi ti
chiameremo Ljúf, le avevano sussurrato, perché ai cavalli piace
portare un nome grazioso. Comunque si chiami la cavalla, Guðríður è
diretta a Stykkishólmur. Si fermerà tre notti e quasi cinque giorni, se
si conta anche il viaggio di andata e ritorno, e per quali impegni? No,
perché l’articolo è stato scritto, ed è già anche stato pubblicato, quindi
cos’altro serve? E chi, di grazia, si occuperà nel frattempo del bucato
e dei pasti a Uppsalir, adesso che sono rimaste solo le due bambine
più piccole, visto che Björg è scesa nelle campagne a valle da sua
nonna per passare l’autunno da lei, e non tornerà prima di Natale?
Björg che per tutta l’estate non era riuscita quasi a pensare ad
altro se non a quello che l’attendeva. Fluttuava letteralmente, aveva
difficoltà a celare l’impazienza, la fretta, ma provava anche un
costante senso di colpa, oppure forse non vedeva l’ora di lasciare la
famiglia? Era uscita di nascosto la sera prima di partire con la nonna
per le aree rurali. Guðríður l’aveva vista, aveva atteso qualche
minuto, poi era uscita per seguire sua figlia e l’aveva trovata in
lacrime nascosta nel fieno del granaio; cominciava a comprendere o
a sospettare quello che Guðríður già sapeva, che, diciamocelo, non
sarebbe mai più tornata. Piangeva perché l’infanzia stava per
sfuggirle. Mamma, di’ alla nonna che non voglio andare, l’aveva
supplicata! Su, su, aveva risposto Guðríður abbracciando la sua
bambina, ingoiando le lacrime e l’angoscia: su, su, è solo per qualche
settimana!
Qualche settimana. Non meno di quindici.
Una lunga serie di giornate infinite in cui Guðríður avrebbe avuto
davanti agli occhi il letto vuoto di Björg come una ferita aperta.
Quindici settimane, e probabilmente altrettante con il nuovo anno. Un
inverno intero per la sua bambina in una casa grande, moderna,
piena di gente, traboccante di vita; cosa proverà a tornare di nuovo in
un casale di brughiera, nei mesi più bui, e vedere quello che prima
non aveva mai notato: la mancanza di spazio, la mancanza di luce, la
monotonia, la povertà? Non avrebbe fatto il possibile per poter
ripartire? E allora Guðríður l’avrebbe persa definitivamente, non solo
per qualche mese. Il prezzo da pagare per abitare in un posto così
isolato è che i bambini se ne vanno prima.
Sì, questo è il prezzo che si paga. Per l’indipendenza. Ma adesso
Guðríður è diretta a Stykkishólmur. Con un paio di scarpe troppo
grandi per lei, con i vestiti nuovi regalati da Steinunn, e affronta
questo viaggio per il poeta cieco delle zolle di terra. Ma per quali
impegni, e tre notti, cinque giorni contando anche l’andata e il ritorno,
chi si occupa di cucinare nel frattempo, forse Steinunn torna per stare
con suo figlio?
No, non andrebbe a finire bene. Non sopporterebbe di restare così
a lungo in quell’ambiente angusto, suo figlio non sopporterebbe di
avere accanto la madre, e per questo gli ha mandato la volenterosa
Sigrún, lei che una mattina si era vestita così lentamente che Gísli
aveva dovuto eiaculare in un calzino. La gente ne deve sopportare, di
cose, e anche i calzini, se vogliamo. Ma gli impegni, il motivo di
questo giro a cavallo oltre la brughiera?
Ah, sì, per l’appunto Björgvin e Steinunn avevano portato da Bær
una lettera per Guðríður. Steinunn se n’era ricordata soltanto il giorno
dopo il loro arrivo.

Povero mondo, dove andrai a finire?


Dio del cielo, ci siamo dimenticati di consegnare la posta, aveva detto
Steinunn a suo marito il mattino dopo. Quando tutti erano svegli,
tranne la figlia più piccola, Elín, che aveva avuto il permesso di
rimanere a letto.
Il cielo era terso, il chiarore estivo filtrava attraverso la
schermatura della finestra e Björgvin si teneva la testa tra le mani
come se fosse in profonda riflessione – in preda ai postumi della
sbornia, la voce squillante di sua moglie gli penetrava nel cervello
come tanti aghi incandescenti. Gísli invece era già uscito a urinare, a
liberarsi dell’aria intestinale, e stava bene, l’aveva già smaltita. La
posta, aveva detto lui, posta per noi, non sarà certo una cosa di gran
conto. Perché hai portato fin quassù della spazzatura?
Devo porgervi anche i saluti dell’ufficiale distrettuale, aveva detto
Steinunn.
Gísli: Metti anche quelli nella spazzatura.
Steinunn: Non parlare così davanti alle tue figlie. L’ufficiale e sua
moglie sono ottime persone. Gran lavoratori, coscienziosi, e vivono
bene.
Gísli: Chiamiamoli così; ma passano il tempo a sparlare degli altri.
Steinunn: Sono ottime persone, qualsiasi cosa tu ne dica! E
ovviamente erano molto sorpresi di ritrovarsi quella busta così
grande, una lettera, e di vedere chi era il mittente che scriveva alla
mia cara Guðríður. Ma pensa, hanno detto, tra un po’ ci mangerà in
testa!
Gísli: Povero ufficiale distrettuale, prima o poi perderà tutti i denti
dalla bocca per la curiosità. Ma che cosa sono le lettere, se non uno
spreco di carta e di tempo?
Sua madre non gli aveva risposto, probabilmente non aveva voglia
di discutere affermazioni del genere, né sulla questione di quale
fosse la natura delle lettere, né di disquisire ulteriormente sul
carattere dell’ufficiale distrettuale di Bær, conosce suo figlio e sa che
a volte è inutile discutere con lui, è come chiedere a una montagna di
spostarsi, a un merluzzo di nuotare fuor d’acqua, a un cane di
miagolare, e quindi aveva estratto la busta indirizzata a Guðríður e la
lettera, anche quella indirizzata a lei nella stessa grafia. Una grafia
raffinata e bella, e il mittente, secondo quant’era scritto dietro, era
Ólafur Ágústsson in persona, medico e armatore di Stykkishólmur,
che era stato in parlamento, aveva scritto di questioni nazionali sui
giornali di Reykjavík, ed era inoltre uno degli editori della rivista
Natura e mondo – la busta conteneva l’ultimo numero.
Guðríður l’aveva capito subito, aveva atteso di ricevere la sua
copia, ma era rimasta sorpresa che fosse accompagnata da una
lettera. Si era affrettata ad andare in cucina, fingendo di doversi
occupare di qualche cosa. Mio dio, aveva pensato, che cosa ho fatto?
Il cuore le batteva con una tale foga che si era dovuta appoggiare al
muro aspettando che il peggio passasse, che la terra si fermasse,
che la nausea si placasse. Allora non c’è il suo articolo dentro quella
rivista – è ovvio, e per questo le mandano anche una lettera! Come le
era venuto in mente, del resto, di mandare quello stupido articolo che
urlava tutta la sua ignoranza, la sua mancanza di educazione, chi
credeva di essere… Il pastore, il reverendo Pétur, quello che le aveva
detto… c’era da tenerne conto? Girano storie su quell’uomo, non c’è
da credere a un tipo su cui girano storie. La lettera che accompagna
la busta ha la stessa grafia e pertanto dovrebbe essere il medico in
persona, l’uomo più ricco di Stykkishólmur, ex parlamentare e
membro del comitato di redazione, il più conosciuto e rispettato dei
quattro, a scriverle, sicuramente una lettera densa in cui la dissuade
«dallo scrivere ancora, buona donna! Credete forse che non
sappiamo come impiegare meglio il nostro tempo, che a leggere le
vostre elucubrazioni incolte e superficiali?»
Naturalmente non era rimasta a lungo in cucina. Sapeva che la
stavano aspettando, non si era fermata molto, forse un minuto, certo
non dodici anni. Aveva inspirato profondamente, inghiottito l’aria
quasi come se stesse soffocando. Aveva lanciato una rapida
occhiata nel piccolo specchio e si era lasciata scappare
un’imprecazione vedendo quant’era rossa sulle guance e sul collo. In
tutta fretta aveva indossato la sua espressione composta, aveva
dovuto fare uno sforzo ma c’era riuscita. Poi era entrata nella
baðstofa con quell’espressione, per affrontare ciò che la attendeva, la
vergogna, l’umiliazione.
E invece no, no che non è andata così, assolutamente, altrimenti
Guðríður non si sarebbe trovata lassù sulla brughiera, e adesso
cominciava a scendere piano, ad allontanarsi dal cielo, da quella
bellezza infida. Perché è ovvio che l’articolo nella rivista c’era
eccome, e oltretutto in un punto di tutto rispetto, da pagina tre a
pagina quattro. Aveva aperto la busta con le dita tremanti, Steinunn
stava sorseggiando il caffè dopo averlo lasciato raffreddare, lei lo
preferisce tiepido, quasi freddo, il che è strano e non si addice a una
bevanda così buona, però dobbiamo accettare le differenze, l’inferno
è il posto in cui tutti si comportano nello stesso modo. Steinunn aveva
sorseggiato il caffè osservando Guðríður, un pochino stupita, un
pochino curiosa, aveva visto il rossore sulla pelle della sua
imperscrutabile nuora, a cui con il tempo aveva imparato a voler
bene, le aveva perdonato l’indole sognante che all’inizio giudicava
pura e semplice pigrizia e mancanza di iniziativa, ma con gli anni si
era resa conto che Guðríður non era fatta della stessa pasta degli
altri. Aveva osservato bene la busta e aveva subito sospettato che
dovesse trattarsi di un invio particolare. Anche l’ufficiale distrettuale e
sua moglie si erano espressi in tal senso, e per sostenerlo avevano
perfino specificato chi era il mittente. Ma aveva preferito attendere
fino al mattino per tirare fuori la missiva, sapeva che sarebbero stati
tutti più tranquilli, che suo marito e suo figlio non avrebbero avuto
urgenza di infilarsi il prima possibile nella stalla con la bottiglia di
cognac, e dal rossore sul collo e sulle guance di Guðríður, dal
tremore nelle dita, aveva capito di aver fatto bene ad aspettare.

Non è proprio una persona che s’incontra tutti i giorni, tua nuora, si
era sentita dire non di rado – Guðríður era arrivata senza niente da
un’anziana zia di Stykkishólmur circa vent’anni prima. Più sottile di
uno stecco ma si presentava bene, garbata, chiaramente senza
molte pretese, né per quanto riguardava l’alimentazione né per
qualsiasi altra cosa, che è sempre stata ritenuta una dote
apprezzabile per una lavorante. Steinunn cercava da tempo una
lavorante giovane, che contava di tenere a lungo in casa, qualcuno
che non avesse la tendenza, com’era consuetudine anche troppo
diffusa in quell’epoca senza eguali, di scapparsene via alla prima
occasione per andare a lavorare nel pesce in qualche centro costiero
dove si pagava in denaro sonante, o di andarsene perfino in Canada.
Aveva sentito parlare della ragazza appena arrivata dall’Est, e
l’aveva assunta. All’inizio non se n’era affatto pentita, la giovane si
dava da fare, era coscienziosa, sapeva stare al suo posto, lavorava
bene benché avesse la tendenza a distrarsi troppo spesso, rimaneva
immobile a fissare per aria, del tutto avulsa dal suo ambiente, oppure
si ritagliava del tempo in orario di lavoro per perdersi in qualche libro
di Björgvin, che ha una biblioteca di trenta, quaranta volumi. A lungo
era stata molto timida, si teneva in disparte, non si lamentava mai, poi
con il passare del tempo si era fatta più sicura. A poco a poco aveva
cominciato a sorridere, e il suo si era rivelato un sorriso che la gente
notava, alcuni più di altri – e nessuno quanto Gísli. Steinunn si era
prontamente accorta del cambiamento, aveva capito che stava
nascendo qualcosa tra di loro, aveva provato inutilmente a opporsi,
ovviamente aveva progetti di tutt’altro tipo per il figlio minore, non
certo un matrimonio con una lavorante senza né arte né parte. Ma i
giovani ormai avevano smesso di tener conto delle opinioni degli
anziani, e la cosa non è certo migliorata, povero mondo, dove andrai
a finire?
Da allora sono passati anni, quel che è stato è stato, va preso
come viene. All’epoca Steinunn e Björgvin non erano affatto
soddisfatti che la giovane coppia avesse scelto di rintanarsi lassù
sulla brughiera, Björgvin aveva cercato di far cambiare idea a Gísli,
voleva convincerlo a lavorare con lui e magari subentrare alla
gestione della fattoria entro quindici, vent’anni, ma Gísli si era
rifiutato, più cocciuto di un ariete. Però avevano dato loro quelle tre
nipotine, le pupille di Steinunn, che ora stava osservando la nuora
aprire la busta più grande, estrarne la rivista Natura e mondo.
Guðríður guarda Gísli.
Mica roba da poco, dice lui, e si gratta la spalla.

È
È impossibile negarlo,

alcuni stanno in sella meglio di altri

La busta conteneva due copie di Natura e mondo oltre a un foglio con


il titolo stampato in cima, il suo nome vergato con una bella grafia
solenne, i ringraziamenti del comitato editoriale e il nome di tutti e
quattro, ciascuno firmato di proprio pugno; i ringraziamenti erano stati
scritti da Ólafur. Guðríður si era sentita così intimorita davanti a quel
bel biglietto, e al suo nome tracciato con lettere che sembravano
regali, che l’aveva consegnato istintivamente a Steinunn, come per
liberarsene in fretta.
Che mi venga un colpo, dice Steinunn, evidentemente stupita, se
non sbigottita, leggendo il biglietto. Che mi venga un colpo, ripete,
con un’intonazione tale che Björgvin sospira piano, conosce sua
moglie e comprende dalla voce che è impossibile rimanersene in
pace a smaltire la sbornia. Porta dell’acqua fredda per tuo nonno,
tesoro, dice Guðríður a Björg, poi si siede sul bordo del letto con la
rivista, la appoggia sulle ginocchia, le usa come una specie di leggio,
accarezza la copertina dove spicca il tradizionale disegno del
ghiacciaio Snæfellsjökull, i titoli degli articoli e i loro autori.
Guðríður alza la testa. Steinunn è ancora in piedi con il biglietto,
Gísli è seduto sul letto matrimoniale, dall’espressione del volto
sembra che stia pensando alle pecore e alla fienagione, Björgvin
tiene lo sguardo basso, impaziente che gli portino dell’acqua.
Guðríður sorride a sua suocera, è l’unica cosa che le viene in mente
di fare mentre aspetta che le dita smettano di tremare per poter
sfogliare la rivista senza vergogna. Sorride, guarda, e si sente come
se il tempo si fosse fermato. Poi arriva Björg con un secchio di legno
pieno d’acqua fredda presa nel ruscello della fattoria, e il tempo
ricomincia a scorrere. Non ha dovuto andare lontano per prendere
l’acqua perché due anni prima, in estate, Gísli aveva sgobbato per
molte settimane per deviare il corso del ruscello e avvicinarlo alla
fattoria, poi aveva costruito un condotto che dal corridoio del casale
raggiunge il ruscello, che gela di rado, assicurando così un accesso
all’acqua con ogni condizione atmosferica. Che è una gran comodità,
un lusso paragonabile al petrolio di cui ormai dispongono le migliori
case delle campagne a valle. Björg entra con il secchio, libera il
tempo dall’imbarazzo e libera anche Guðríður, che consegna a sua
suocera l’altra copia della rivista, e scusandosi dice, ho scritto una
sciocchezzuola in questa rivista. Björgvin tracanna l’acqua fredda,
Steinunn si siede accanto a lui con la rivista, il suo volto dai tratti forti,
che raramente riesce a celare le variazioni atmosferiche del suo
umore, è disteso per la sorpresa. Apre la rivista con una fretta e
un’agitazione tali che quasi strappa la prima pagina. La sfoglia finché
non trova l’articolo di sua nuora, vede il nome di Guðríður scritto in
stampatello, poi il titolo dell’articolo e infine una breve introduzione da
parte degli editori dove tessono le lodi del suo scritto, del suo spirito
di osservazione, della maturità del suo pensiero nonostante le
manchi un’istruzione formale e abiti nelle ristrettezze di un
impegnativo casale di brughiera. «Guðríður Eiríksdóttir è l’esempio
lampante della cultura che alberga nel popolo della nostra nazione, e
che è sopravvissuta a durezze indescrivibili nel corso dei secoli. Se
riusciamo a emancipare questa cultura nel nostro popolo, non
avremo nulla da temere per il futuro della nostra nazione.»
Steinunn lo legge a voce alta per Björgvin, poi si volta a guardare
suo figlio e chiede, brusca, perché non ci avevi detto niente?
Gísli appoggia le mani sulle ginocchia e dice, come se non avesse
voglia di parlarne, come facevo a sapere che quegli uomini raffinati
avrebbero scritto certe cose?
Ma no, non volevo dire questo, mi riferivo al fatto che mia nuora ha
un articolo su una rivista prestigiosa, non avresti dovuto farmelo
sapere, dovevo proprio apprenderlo da degli sconosciuti?
Fartelo sapere? Come se non si dicessero anche troppe cose in
questo mondo. Però sì, è così, le cose stanno così.
Le cose stanno così? E non ti viene in mente di dire altro – perché
non ci hai detto niente? Guarda che cosa scrivono gli editori della
nostra Guðríður!
Come ho detto, non potevo sapere che cosa avrebbero scritto.
Che ne so di quel che pensano le persone come loro, e men che
meno di cosa scrivono. Io sono un contadino, che vuoi di più da me?
E non posso certo riferirti tutto quel che succede, chi si occuperebbe
della fattoria, altrimenti?
Non credo che ti sarebbero morte le bestie, se tu avessi mandato
due righe per dirci che Guðríður ha pubblicato un articolo su una
rivista!
Bah, dice Gísli, dimenandosi un poco, si gratta il collo. Forse è
vero. Ma non si può certo dire che sia la prima volta che qualcuno
pubblica un articolo, in questo mondo.
Può anche essere, dice sua madre, quasi con rabbia, ma né io, né
te, del resto, né tuo padre, abbiamo mai conosciuto una persona, e
conosciuta così bene, che si sia vista pubblicare un articolo. Non
solo, gli editori scrivono, aggiunge, scostando un poco la rivista dagli
occhi mentre legge: «Il primo articolo, e sicuramente non l’ultimo, di
questa donna del popolo, priva di istruzione scolastica eppure così
colta.»
Steinunn si alza in piedi, troppo agitata per rimanere ferma seduta.
Vedi, dice tenendo in alto la rivista; qui c’è il nome di tua moglie. E qui
la lodano, gli editori, che non sono persone qualunque, dovresti
saperlo. E mi pare di capire che la lettura di questo articolo renda più
intelligenti. E tu non ci hai detto niente.
Bah, dice Gísli, ci sono tante cose da dire. E di persone, ce ne
sono di ogni genere. Alcuni stanno in sella meglio di altri, molti hanno
opinioni ben precise su quali esche si debbano usare, alcuni pensano
di trasferirsi in Canada, qualcuno scrive un articolo per una rivista. È
tutto vero, ed è tutto giusto. E sicuramente non è poca cosa. Ma
riferirlo? Come ho detto prima, se ne dicono anche troppe, di cose, in
questo mondo. Che cosa sarebbe cambiato, anche se vi avessi
mandato due righe? Immaginavo che sareste venuti a trovarci, prima
o poi. Ed eccoti l’articolo. Quindi è tutto come dev’essere.
Steinunn guarda Gísli, poi guarda suo marito, come a chiedergli,
sei tu il responsabile? Björgvin sospira, agita entrambe le mani, forse
per scaricare la responsabilità e scongiurare qualsiasi partecipazione
nella faccenda, e poi dice, non dovremmo finire di leggere
quest’articolo? Faccio altro caffè, fa Guðríður mangiandosi le parole,
si alza, si affretta ad andare in cucina per preparare il caffè ma
soprattutto per leggere la lettera che accompagna la busta. E per
allontanarsi da loro mentre leggono l’articolo. Gísli sbuffa, si alza,
scruta attraverso la membrana che fa da schermo alla finestra. Fuori
è estate. L’estate in Islanda sale dalle zolle di terra fino al cielo.

Ai cavalli piace vedere posti nuovi;

con rispetto, sempre pronto a rendere servigio

È l’editore capo, Ólafur Ágústsson in persona, il medico, detto talvolta


Ólafur il ricco, Ólafur Flemma, a scrivere la lettera di
accompagnamento alla rivista che Guðríður legge in cucina. La legge
tre volte prima di trovare il coraggio di tornare nella baðstofa.
Ti ringrazio per l’articolo veramente notevole, scrive Ólafur, detto
Flemma, perché per fargli cambiare umore sembra che debbano
avvenire tutti i portenti di questo mondo; Ólafur il ricco, perché con gli
anni lui e sua moglie Kristín hanno fatto fortuna armando barche
coperte, è un medico conosciuto, rispettato, la gente si fida di lui, è
stato in parlamento e non di rado ha firmato articoli sui grandi giornali
di Reykjavík, esprimendo le proprie opinioni su questioni nazionali,
sulla politica, sulla medicina, sulla scuola, l’educazione, e di recente
ha commentato il libro La servitù delle donne dell’inglese John Stuart
Mill,2 esortando a farlo tradurre e pubblicare. In poche parole, una
voce nota in tutta l’Islanda, un uomo dei tempi nuovi, e ha sprecato
qualche suo momento prezioso per scrivere a Guðríður, che è solo la
moglie di un contadino sulla brughiera, abita in un casale, a
malapena qualcuno sa della sua esistenza, fatta eccezione forse per
tre poeti del distretto che hanno composto poesie e strofe piuttosto
malriuscite sul suo sorriso, e del pastore che tiene rapporti epistolari
con un poeta morto, che ha ordinato al postino di vivere e ha
percorso un bel tratto di strada per portarle un libro comprato dal
fratello del diavolo. Ma Ólafur le scrive:
Ti ringrazio per l’articolo veramente notevole – perdonami se mi
permetto di darti del tu, ti posso assicurare che non v’è la minima
traccia di una mancanza di rispetto. Come vedi, abbiamo reso onore
al tuo articolo, l’abbiamo anche accompagnato con qualche parola.
Non è nostra abitudine, anzi, credo sia un caso eccezionale. Ci
perdonerai spero per aver messo in evidenza, anzi, per aver
sottolineato che tu, come autrice dell’articolo, sei una donna del
popolo priva di istruzione formale e vivi in un piccolo casale di
brughiera. Non lo diciamo ovviamente a tuo discapito, bensì per
dimostrare che non dovrebbe esistere impedimento che non si possa
superare, o monte troppo alto da scalare, se c’è l’ingegno e una
volontà determinata, come l’autore dell’articolo – ovvero, tu – ha
brillantemente dimostrato. Come abbiamo scritto nell’introduzione: «Il
comitato editoriale è stato particolarmente felice di aver ricevuto
questo articolo in vista di una pubblicazione, perché a suo tempo la
rivista è stata fondata nella speranza di raggiungere tutti gli abitanti
della nostra lunga penisola di Snæfellsnes, che sono nati con il
desiderio di conoscenza in petto, ma che per le condizioni in cui
versano sono impossibilitati a coltivare lo studio o ad acquisire solide
conoscenze. Nella nostra povera società, così poco dinamica, dove
tuttavia finalmente s’intravede una possibilità di progresso nel
prossimo futuro, è estremamente necessario svegliare a coscienza
queste anime, e renderle attive. È ferma opinione del comitato
editoriale che Guðríður Eiríksdóttir di Uppsalir sia un ottimo esempio
di questo genere di persone. Una donna che abita, come anche
troppi dei nostri compatrioti, in condizioni molto dure, anguste, in una
fattoria oltretutto isolata, eppure alimenta quel fuoco inestinguibile di
conoscenza, ed è riuscita con la propria perseveranza ad acquisire
conoscenze poliedriche – e a metterle a frutto! Siamo fiduciosi che
questo primo articolo di Guðríður di Uppsalir non sarà affatto
l’ultimo.»
Ci sono tante altre parole, nella rivista. Noi invece vogliamo
aggiungere, perfino con insistenza, mi permetto di dire, che sarebbe
per noi un grande onore se tu ti sentissi in condizione di accettare un
posto nel comitato editoriale. Sarebbe motivo di gioia per tutti noi
quattro averti in redazione. Per te significherebbe un accesso
migliore a materiali e sapere di ogni sorta, nuovi libri, riviste straniere
che ti invieremmo gratuitamente. E sarebbe sicuramente profittevole
per te sedere alle riunioni con i tre eruditi che conducono il comitato
editoriale insieme a me. Infine, cosa immensamente importante,
questo sarebbe un messaggio per tutti, uomini e donne, che si
trovano nei tuoi stessi panni, persone intelligenti e avide di
conoscenza, a non lasciarsi mai perdere d’animo. Perché talvolta
tutto quel che serve è la volontà, e la costanza. Il comitato editoriale
si riunisce due volte all’anno, in settembre e in aprile, qui a
Stykkishólmur, nella dimora in cui abito con mia moglie Kristín – che
ti manda i suoi più cari saluti e spera di tutto cuore che tu accetti
l’offerta. Forse è meglio che tu lo faccia, perché altrimenti credo che
la mia Kristín sarebbe capace di montare in sella e venire a prenderti!
Lo dico naturalmente per celia, ma nondimeno per sottolineare con
quanto fervore speriamo in un sì da parte tua. E se tu e tuo marito
non volete affaticare inutilmente un cavallo per venire fin qua,
possiamo ovviamente mandare qualcuno a prenderti con una
cavalcatura. Qui non mancano i cavalli, a loro piace vedere posti
nuovi. Per il resto, non occorre che tu porti nient’altro che te stessa. Ti
riserveremo una camera tutta per te da noi, io e Kristín abbiamo
molto spazio, siamo anziani, e non dovrai pensare al vitto nemmeno
per un attimo, perché qui avrai di che mangiare come se ogni istante
fosse l’ultimo! E oltretutto riceverai un piccolo rimborso per il disturbo
e per il lavoro – per quanto un posto nel comitato editoriale non si
possa certo definire un lavoro di fatica, richiede comunque un
impegno. Mi raccomando scrivici al più presto, preferibilmente con un
sì, e noi ti accoglieremo con la gioia nel cuore. La riunione del
comitato editoriale si tiene al mattino del primo lunedì del prossimo
mese di settembre, quindi dovresti arrivare di domenica, e in tempo
per la squisita cena che inizia alle otto. Se il clima e la viabilità ci sono
d’intralcio, rimanderemo a quando il tempo lo consente. Con rispetto,
e sempre pronto a rendere servigio,

Ólafur Ágústsson
Alcuni cenni sui finimenti dei cavalli

e l’ottava meraviglia del mondo

Non è improbabile che Steinunn fosse rimasta più impressionata


dalla lettera che dall’articolo, la cui peculiarità fondamentale era
l’esser stato pubblicato, perché in effetti è un po’ difficile provare
interesse per i lombrichi, che si vedono di rado, che sono esseri quasi
invisibili e piuttosto brutti che vivono sotto la terra nera, soltanto gli
uccelli sanno apprezzarli. Ma ovviamente non è cosa da tutti i giorni
vedersi pubblicare un proprio articolo su una rivista, accompagnato
dalle lodi della redazione; non sarà certo d’impaccio fermarsi in
qualche fattoria sulla via del ritorno e farne cenno, come di sfuggita,
quasi distrattamente; l’articolo e poi la lettera di Ólafur, che aveva
riletto diverse volte per mandare a memoria alcune frasi.
Steinunn e Björgvin avevano letto la lettera e l’articolo mentre
bevevano il caffè, Gísli aveva borbottato qualche sciocchezza,
Guðríður aveva intrecciato i capelli di Elín, vi si era nascosta dentro,
aveva ascoltato sorridendo le ciarle della suocera. Björgvin aveva
tracannato la bevanda nera, ogni sorsata un soldato impegnato
contro i postumi della sbornia, poi si era alzato, aveva misurato la
baðstofa a grandi passi, non ne aveva dovuti fare molti a dire il vero,
aveva rilasciato un peto e convenuto con la constatazione logorroica
di sua moglie, che non era cosa da poco ricevere una lettera da
Ólafur, e Björgvin aveva aggiunto che per quanto lo riguardava Ólafur
era uno dei pochi uomini davanti ai quali si toglieva il cappello senza
nemmeno doverci pensare.
Allora non ha bisogno di trasferirsi in Canada, aveva detto Gísli.
Che?
Hai detto che ti vuoi trasferire in Canada perché così la gente si
sarebbe tolta il cappello davanti a te. Quindi lui non ne ha motivo.
Non ho voglia di star dietro alle tue battute, non faccio altro nella
vita, fammi solo dire che è una bella fortuna che adesso abbiate una
buona giumenta… che l’abbiate avuta in prestito, volevo dire, che me
la dobbiate tenere durante l’inverno, si era affrettato ad aggiungere
Björgvin cogliendo l’occhiata di fuoco che gli aveva rivolto sua
moglie. Perché è ovvio che ci vai con la giumenta, Guðríður, a
quell’incontro il prossimo settembre. È escluso che debbano venire a
prendere mia nuora come se fosse un’indigente a carico del distretto.
Vi porterò dei finimenti di buona qualità quando sarà il momento, i
tuoi sono consumati, Gísli, dall’ultima volta che li ho visti, e da allora
non si sono certo rimessi a nuovo.
I miei finimenti non hanno nulla che non va.
Vanno bene per le necessità quotidiane, non se la mia Guðríður
deve andare a un incontro con gli uomini più importanti della regione.
Per una volta, non essere cocciuto. Fai finta di non vederli, i miei. E i
tuoi vecchi li puoi mettere alla tua testardaggine, così te la cavalchi
per monti e valli.

Björgvin aveva avuto la meglio sulla questione dei finimenti, ed è con


quelli che Guðríður cavalca quel giorno di settembre, o più
esattamente quella sera, perché la luce comincia a calare, i monti e il
cielo si scuriscono, e si intravede in lontananza il borgo commerciale
di Stykkishólmur, con tre empori, una quantità sconcertante di case,
strade animate. È sempre stato un evento, un motivo di grande
attesa andare in paese, uscire dalla monotonia e immergersi nella
sua vita brulicante. Ma non aveva mai immaginato davvero che un
giorno le sarebbe toccato andarci da sola, su un cavallo di qualità,
con dei finimenti eleganti, con addosso vestiti quasi nuovi e un paio di
belle scarpe, non come un essere anonimo venuto giù dalla
brughiera ma come una donna con un nome, una donna con un
incarico. Forse aveva sognato diverse cose, aveva fatto i suoi sogni
sciocchi, banali, sulle cose che avrebbero potuto accaderle nella vita,
ma i sogni sono così tanti, oltretutto in questo paese c’è sempre stato
un abisso smisurato e del tutto invalicabile tra il sogno e la realtà, una
distanza talmente deprimente che non è mai stato possibile spiegare
davvero come gli islandesi siano riusciti a sopravvivere per tutti quei
secoli ardui su quei terreni brulli – è un dato di fatto che senza dubbio
va definito l’ottava meraviglia del mondo.
Qualcuno si trasforma in chiesa

e chi trionfa sulla vanità

può concepire grandi pensieri

Ólafur, il medico famoso in tutto il paese, l’uomo che non ha bisogno


di trasferirsi in Canada perché la gente si tolga il cappello quando
passa, che le ha scritto quella bella lettera, non è in casa quando
Guðríður arriva a Stykkishólmur in sella alla sua Ljúf e si dirige verso
la sua residenza, una delle dimore più ricche della cittadina
commerciale. Due piani spaziosi, un bel sottotetto dove far asciugare
i panni e tre stanze per i domestici. La casa è talmente grande che
Uppsalir ci starebbe dentro tre volte, e resterebbe ancora dello
spazio. Era smontata, era rimasta ferma accanto alla sua giumenta,
aveva osservato l’imponente edificio e improvvisamente il suo unico
desiderio era stato girare i tacchi e tornare a casa, nelle sue certezze,
al riparo. Come le era venuto in mente di accettare di prendere parte
alle riunioni insieme a quegli eruditi che avevano più buon senso e
cultura nel dito mignolo di quanta ne aveva lei in tutto il corpo? Farò
una figura ridicola appena aprirò bocca, aveva pensato, tenendo forte
le briglie di Ljúf che sfregava il muso contro di lei come un gatto
gigantesco. È meglio che torniamo a casa, aveva detto a voce bassa
al cavallo, solo che in quell’istante la porta si era aperta e ne era
uscita Kristín, imponente come una fregata, e aveva detto a voce
alta, sorridendo, devi essere Guðríður, te lo leggo in volto! Sai, avrò
sbirciato almeno cento volte dalla finestra, oggi, nella speranza di
vederti, e adesso eccoti qua! Ti posso abbracciare, aveva detto
quella donna alta, e senza aspettare risposta l’aveva stretta forte, più
alta di Guðríður di una testa intera, grande come una casa. Quanto
sei magra e sottile, fatti guardare meglio, aveva detto e l’aveva fatta
girare su se stessa; e che occhi! Sono una rarità, direi. Entra, prego,
Ólafur è uscito per una visita, tornerà a momenti, voglio sperare. Non
preoccuparti per il cavallo, non gli mancherà niente. Una giumenta,
dici; la farò portare da Jónas, che ha promesso di darle una stalla e di
trattarla con tutti i riguardi; e io non sarò certo da meno, con te!

Ó
No, Ólafur Flemma non è in casa. Ha dovuto occuparsi di un certo
Þorkell di Hólar che aveva fatto la sciocchezza di calpestare non si sa
che accidente sulla battigia l’altro ieri, e la gamba si era gonfiata. Il
lavorante che era andato a chiamare Ólafur sosteneva che era
talmente gonfia che sembrava un campanile. Allora è meglio
spicciarsi prima che Þorkell si trasformi in una chiesa intera, gli aveva
risposto Ólafur.
Arriverà prima di cena, non mancherà al banchetto, si siederà a
tavola al momento giusto, come del resto anche Stefán e Jónas, tra
l’altro non stanno molto lontano da qui, abitano praticamente nella
casa accanto. Invece per il mio caro Pétur è diverso, aveva detto
Kristín, non è detto che riesca ad arrivare in tempo. Non perché abiti
lontano o perché debba cavalcare parecchie ore, no, no, solo perché
il Signore si è dimenticato di dotarlo della puntualità. Pétur sostiene
che la vita è più importante della precisione, e io non so che cosa
rispondergli.
Nemmeno Guðríður lo sapeva, per questo non aveva detto niente,
aveva solo sorriso seguendo quella donna imponente all’interno della
casa, l’aveva attraversata tutta fino alla camera in fondo, quella
rivolta a ovest. Lì doveva sistemarsi, sarebbe stata sua finché
soggiornava da loro. Questo è il tuo regno, aveva detto Kristín, e
aveva riso. Ma, be’, mi spiace che non sia più spaziosa, ho provato a
sistemarla un po’ per renderla adeguata.
Mi spiace che non sia più spaziosa; quella camera è grande come
l’intera baðstofa a Uppsalir, dove dormono in cinque, anzi, in sette
quando vengono in visita i genitori di Gísli… Kristín era rimasta in sua
compagnia per una buona mezz’ora, le aveva fatto portare il caffè,
qualche squisitezza comprata nella panetteria in cui Guðríður non
aveva mai avuto i mezzi per entrare, aveva riempito la grande stanza
con la sua presenza e con l’energia vitale che emanava, aveva
parlato talmente tanto che Guðríður non aveva avuto bisogno di dire
niente, solo ascoltare. Siamo talmente contente di averti qui, aveva
detto Kristín, e che abbiano deciso di offrirti un posto nel comitato di
redazione, sarai la prima donna. Stefán e Jónas ti accoglieranno con
la loro gentilezza, sono ottime persone, entrambi, ciascuno a suo
modo. Però aspettati che impieghino un po’ per imparare a parlare
con te. Ho l’impressione che tu sia un po’ nervosa, è perfettamente
comprensibile, ma che tu ci creda o no, lo sono anche loro. Ciascuno
a suo modo.
Siamo talmente contente; al plurale, ovvero Kristín e altre tre
donne di Stykkishólmur, più anziane, che si ritrovano con regolarità
per parlare di letteratura, politica e altri affari urgenti come l’istruzione
pubblica, le questioni scolastiche, la costruzione di ospedali. E i diritti
delle donne; una di loro, Ásgerður, la moglie di Jónas, ha avuto la
fortuna di conoscere Bríet Bjarnhéðinsdóttir,3 che poi le ha inviato il
testo della sua conferenza sulla condizione femminile.
Non so se ne hai sentito parlare, aveva detto Kristín, ma è stata la
prima volta che si è tenuta una conferenza del genere qui da noi.
Negli ultimi due anni abbiamo avuto scambi epistolari con Bríet, lei ci
ha inviato la traduzione danese di un famoso scritto di John Stuart
Mill che si intitola La servitù delle donne. Un’opera importante,
importantissima! L’abbiamo divorata, tutte quante, poi l’abbiamo fatta
leggere ai nostri mariti e io ho convinto il mio Ólafur a scriverci un
articolo su un giornale di Reykjavík, e adesso abbiamo proposto di
sovvenzionare la traduzione in islandese di questo testo così
importante. Ti lascio la copia danese sul tavolo, insieme a qualche
altro libro. Pétur mi ha detto che leggi tutto quello che ti capita tra le
mani, che sfrutti ogni momento libero.
«Pétur mi ha detto che…»
Allora ha parlato di lei, in questa casa. Si è preso la briga di farlo,
nonostante ci fossero tante altre cose di cui parlare. Il pastore ha
ragione, legge tutto quello che le capita tra le mani. È sempre stato
così. Non riesce a lasciare in pace i libri, sottrae minuti e ore al lavoro
nei campi e alla gestione della casa per leggere quando Gísli non
vede. Invece adesso, quando finalmente ha a disposizione dei libri
che aveva soltanto potuto sognare, e due ore tutte per sé, senza
nessun obbligo, come non le capitava da quand’era bambina, resta lì
seduta come pietrificata, su quella comoda poltrona. Sta lì come una
pecora rincretinita e lascia scorrere il tempo, lo spreca, lo sciupa. E
tra poco le porteranno in stanza una tinozza piena di acqua calda.
Dovrà fare un bagno. Ah, che delizia adagiarsi nell’acqua calda,
aveva detto Kristín. Ci si sente come nuovi! E non preoccuparti,
aveva aggiunto, hai tutto il tempo che ti serve per distenderti e per
leggere.
Tutto il tempo; quasi tre ore prima che vengano a chiamarla per la
cena, come le aveva spiegato Kristín. Una cena di tre portate, con
piatti di cui Guðríður ha a malapena sentito parlare, figuriamoci se li
ha assaggiati, un banchetto che fino a quel momento è appartenuto a
un altro mondo, lontano, in compagnia di uomini eruditi, dei quali
dovrà mostrarsi alla pari. Una donna di brughiera, stupida e
ignorante.
Ti siederai accanto a me questa sera, aveva detto Kristín
prendendole le mani magre e rovinate dal lavoro, stringendole forte,
come per consolarla. Ti sarò di sostegno mentre ti abitui all’ambiente
e ai miei uomini. Quindi non devi preoccuparti. Il mio Ólafur è la
gentilezza fatta persona, è così buono dentro che a volte dico che la
vita lo avrebbe schiacciato da tempo, se non avesse quel carattere
positivo, se si prendesse troppo sul serio, e se non avesse me al suo
fianco. Stefán lo conosci per fama, immagino, è il commerciante.
Certo a volte può risultare un po’ scostante, anzi proprio brusco, la
gente ha paura di lui. Ma io credo che sia in parte perché cerca di
diventare come suo padre, anche se non ne avrebbe bisogno, perché
a mio avviso era un uomo di un’arroganza tale che ne è perfino
morto, qualche anno fa. Ma le ruvidità di Stefán e il suo modo di porsi
aspro e sgarbato sono soltanto una facciata, nient’altro che un filtro,
perché sotto si nasconde un uomo tenero ed estremamente amabile
con i suoi figli. Credo che Dio giudichi gli uomini più che altro dal
modo in cui si comportano con i propri figli, e poi con gli animali. Può
anche essere che sia obbligato a nascondere la sua gentilezza,
perché altrimenti qualcuno cercherebbe di approfittarsene. La
gentilezza non è mai stata un buon fondamento per il business. Il
caro Jónas invece ha studiato legge a Copenaghen, una creatura di
grande intelligenza, ma pigro e indolente come un vecchio montone.
Per molti anni è stato sposato con una donna talmente rigida e seria
che quando la poveretta è morta di tisi, dieci anni fa, lui aveva quasi
perso il sorriso. Poco tempo dopo ha avuto la fortuna di conoscere la
sua Ásgerður, sono sposati da sei anni, con lei Jónas si è rifatto una
vita. È grazie a lei che cerca di tenersi aggiornato su quanto sta
accadendo nel mondo e di familiarizzare con il pensiero moderno
quando si tratta di questioni come l’istruzione del popolo e i diritti
delle donne. Non dirlo a nessuno, ma a volte ho il sospetto che le sue
opinioni siano in gran parte le opinioni di Ásgerður. Non hai niente da
temere, da parte di Jónas. Invece credo che tanto per cominciare
sarà lui a sentirsi a disagio in tua presenza, ce la metterà tutta per
dimostrarti che non ha pregiudizi e quant’è progressista, concorderà
con tutto quello che dici. Poi troverà un equilibrio, non ti preoccupare.
Infine c’è Pétur, che è il mio preferito. Gli altri lo rispettano molto, per
la sua erudizione e la sua eloquenza, talvolta ne hanno anche timore
perché Pétur sa essere davvero imprevedibile. D’altronde è stato lui
a suggerire di invitarti a far parte del comitato di redazione. Ne ha
parlato con me e io ho subito convinto Ásgerður, così la decisione è
stata presa in quattro e quattr’otto. Be’, adesso ti lascio in pace. Sarai
sicuramente stremata dopo tutto quel viaggio. Ti lascio qui con i libri,
più tardi ti mando le ragazze con la tinozza e l’acqua.

Poi Kristín era uscita. Una donna maestosa, affettuosa, che occupa lo
spazio ovunque vada con la sua passione, e con una forza interiore
che a Guðríður ricorda quella del mare. La signora se ne va e lei
rimane seduta immobile, una pecora rincretinita sulla poltrona, e
lascia passare il tempo. Lo lascia andare in malora. Ci sono due
motivi per quello spreco di tempo che passa seduta sulla poltrona
anziché andare a prendersi un libro da leggere, adesso che è da
sola, senza nessun obbligo da rispettare. Il primo è che è grazie a lui
che si trova lì. È stato un vero colpo scoprirlo. Doveva esserne così
assurdamente felice che si è illuminata tutta in volto, si è chiazzata di
rosso sul collo, incapace di controllarsi – Kristín non l’ha forse
guardata con aria sospetta, subodorando qualcosa?
Il secondo motivo è lo specchio alto quanto lei posizionato in un
angolo della stanza. Teme per l’appunto che se riuscisse ad alzarsi
dalla poltrona non sarebbe per andare a prendere qualcosa da

È
leggere, ma per piazzarsi davanti a quello specchio. È paralizzata
perché sarà almeno un quarto di secolo che non si osserva per
intero. A Uppsalir c’è soltanto uno specchietto in cucina, a casa dei
suoceri ce n’è uno più grande, ma non è certo alto come lei, e
oltretutto non ha mai avuto la tranquillità necessaria per mettercisi di
fronte da sola. E perché dovrebbe farlo, del resto, che c’è da vedere,
che importanza ha l’aspetto esteriore? Non è forse il pensiero e il
carattere a dar forma all’essere umano, ciò che appare non è forse
solo vanità? E oltretutto sono in pochi a vederla lassù sulla brughiera,
a parte le pecore e il cielo, e nessuno dei due nutre un grande
interesse per il suo aspetto.
È seduta sulla poltrona, come paralizzata perché il reverendo
Pétur si sta avvicinando a Stykkishólmur, non è puntuale perché
vivere è molto più importante che presentarsi all’ora esatta. Vuol dire
che lui vive più degli altri?
È seduta paralizzata perché non si specchia per intero da quando
era bambina nell’Est, nel Norðfjörður; lì una volta si era trovata con
suo papà di fronte a un grande specchio nella casa del commerciante
e di sua moglie. Ricorda che si tenevano per mano. Ricorda il calore
del suo palmo, il modo in cui le aveva strizzato l’occhio nello specchio
e aveva sorriso, riempiendola di gioia. Temeva che sarebbe stato
troppo difficile ricordare quel momento nello specchio, perché suo
padre era morto poco dopo. Aveva detto di voler andare in Francia a
nuoto, era stato trent’anni prima.
È seduta paralizzata perché da allora ha messo al mondo tre
bambine. Da allora le sono passati addosso tanti giorni e tante notti,
sicuramente hanno maltrattato il suo corpo.
Ma una persona, mormora Guðríður mentre finalmente riesce ad
alzarsi, che è più interessata al proprio riflesso che ai libri è una
persona che non ha nessun interesse per il sapere.
Perché c’è anche quel famoso libro, La servitù delle donne. Ed
ecco che Guðríður se lo sfoglia, a capo chino.
Ha trionfato sulla stupida vanità dello specchio.
Il libro è in danese. Mentalmente traduce in islandese una frase
all’inizio del testo: «Io credo che le relazioni sociali dei due sessi, che
sottomettono l’un sesso all’altro in nome della legge, sono cattive in
se stesse, e costituiscono oggidì uno dei precipui ostacoli che si
oppongono al progresso dell’umanità.»4 Chi trionfa sulla vanità, dice
lei allo specchio, è capace di pensieri del genere.
Avvicinati, dice lo specchio, e spiegami bene. Anch’io mi sento
molto solo.
Non ci casco così facilmente, dice lei, sarcastica. E continua la
lettura.

Il diavolo segna un punto, legge Dante,

La servitù delle donne, e poi vogliono

arrestare Émile Zola!

È andata com’è andata, e allora? Che cosa non è accaduto sulla


Terra, che cosa non ha dovuto sopportare quel suo vetusto cuore –
meteoriti, divinità di ogni sorta, innumerevoli generazioni – la crosta
terrestre è così appesantita dagli eventi e dalle narrazioni che i
geologi non riescono in nessun modo a spiegarsi perché non abbia
ceduto già molto tempo fa. Con tutti gli avvenimenti che si sono
verificati sotto questo cielo, e che solo in minima parte sono stati
messi per iscritto. Le tragedie capaci di dilaniare gli dei, una bontà
che metterebbe in ginocchio perfino il diavolo… Forse l’umanità, o la
carità, verranno sconfitte, forse subiscono un contraccolpo ogni volta
che un destino viene dimenticato, ogni volta che una storia degna di
essere trascritta, consegnata ai libri, sprofonda nell’oblio senza
lasciare traccia.
Tutto considerato, non possiamo certo ritenerlo un evento degno
di nota, se una donna si guarda o non si guarda in uno specchio,
anche se è magra come un rivolo di pioggia, anche se la sua grafia
abbaia come fanno i cani, anche se ha un padre che è partito per la
Francia a nuoto dal Norðfjörður poco più di venticinque anni prima; il
corpo non fu mai ritrovato. Forse viene sbattuto ancora chissà dove
tra le onde dell’oceano, solo, sfinito, è mancato così tanto alla figlia –
che aveva posato il libro, però non per guardarsi nello specchio, ma
per fare il bagno. Molto semplicemente. Il diavolo non ha messo a
segno nessun punto.
Guðríður non aveva mai sollevato gli occhi dal libro, praticamente,
quando due giovani lavoranti erano entrate con una gran tinozza che
poi avevano riempito per metà di acqua calda. Aveva appena alzato
la testa al loro arrivo, le aveva salutate sorridendo, poi aveva
continuato a leggere, talmente concentrata che le due non avevano
osato disturbarla. E nemmeno potevano, del resto. Non la disturbate
se sta leggendo, aveva detto Kristín.
Ma appena se ne vanno Guðríður si alza, infila una mano
nell’acqua, chiude la porta a chiave, si spoglia senza guardare lo
specchio, entra con cautela nella tinozza, s’immerge lentamente e si
mette a ridere sentendosi circondare dall’acqua calda. La solletica in
maniera talmente piacevole che non può fare a meno di ridere. Ride,
alza la testa – e incrocia il proprio sguardo nello specchio.
Eccomi qua, dice lo specchio, avvicinati, non sono così male.
Sto facendo il bagno, dice lei, e tu non mi inganni.
Eppure appena una mezz’ora dopo è in piedi davanti allo
specchio, nuda, con un morbido asciugamano intorno alle spalle
magre. Allora è così che sei, mormora.
Una donna di brughiera di trentaquattro anni, giornate di lavoro
lunghe anche quindici ore, la fienagione sotto la pioggia, in piedi nella
torba gelida fino alle ginocchia per falciare qualche filo d’erba in più
nella speranza di poter aumentare il gregge di una pecora l’autunno
successivo, e così avvicinarsi un pochino di più al sogno di un terreno
nelle campagne a valle, magari un terreno sulla costa. Il lavoro si
riconosce sui suoi palmi, sulle mani, il dorso screpolato da mille
bucati, ma sta in piedi dritta e fiera, con i suoi seni piccoli, la curva
della schiena magra, e la grana liscia e morbida della pelle sembra
quasi senza tempo, come se il destino, Dio o chissà cosa avesse
intimato al tempo di fermarsi accanto alla sua pelle, o di rallentare la
sua corsa.
Allora è così che sei, mormora Guðríður al suo riflesso nello
specchio e continua a guardare, perde tempo invece di istruirsi, di
leggere La servitù delle donne. Si gira per guardarsi da ogni
angolazione. La vanità ha vinto, il diavolo ha segnato un punto.
Ah, ma davvero? E che ne sappiamo noi, di cosa è giusto e cosa è
sbagliato? Forse questa vanità fa parte di una ricerca personale, di
una forma di introspezione, forse il diavolo ha sempre una pila di libri
sul suo comodino, forse è un lettore accanito di testi antichi e
moderni e legge Dante e Jo Shapcott, Knut Hamsun e Amos Oz;
pensandoci bene, non è affatto improbabile. Ti ricordi, il diavolo è un
angelo caduto, un ribelle che non ha voluto accettare la tirannia dei
cieli – chi dubita e vuole osservare l’esistenza da ogni punto di vista,
si rifugia nella letteratura.
Non si vedeva tutta intera in uno specchio da quando da bambina
si era trovata al fianco di suo padre Eiríkur nella casa del
commerciante nel Norðfjörður, a Est. Eiríkur, che come sua figlia non
aveva studiato, ma aveva imparato talmente bene l’inglese e il
francese che a volte le famiglie benestanti del Norðfjörður gli
chiedevano di insegnarli ai loro figli, riuscendo così di tanto in tanto a
sottrarsi ai lavori di fatica che odiava, ma con i quali era cresciuto.
Aveva imparato l’inglese aprendosi un varco nei romanzi di Dickens,
che prendeva in prestito dal medico ubriacone del villaggio; e il
francese da un capitano che aveva conosciuto nei suoi traffici con le
golette francesi che ogni estate pescavano al largo dei fiordi orientali.
Eiríkur acquistava dai francesi il cognac, che poi offriva al medico per
poter accedere liberamente alla sua biblioteca. Il capitano,
ugualmente appassionato di libri, era venuto al corrente di questi
scambi e si era messo in contatto con Eiríkur. I due uomini erano
diventati subito amici, facevano lunghe camminate per le brughiere,
dormivano lì, lontano da tutti, sotto il cielo estivo, si scambiavano
lettere durante l’inverno. Una volta, nel periodo in cui Eiríkur
insegnava inglese e francese ai figli del commerciante e della sua
sposa, aveva portato Guðríður con sé nella loro grande casa. Sapeva
che la famiglia era partita per Copenaghen. La lavorante li aveva
lasciati entrare e Guðríður aveva potuto guardarsi intorno in quella
grande dimora, osservare i balocchi dei loro figli, talmente tanti che
non capiva come un bambino potesse vivere abbastanza a lungo da
giocare con tutti. Alla fine era stata attratta dallo specchio. Non sa
perché, ma si era quasi spogliata del tutto, forse solo per curiosità.
Ricorda loro due, lei, quasi nuda, e suo padre vestito, sorridente, con
il naso aguzzo, i capelli castani e folti, lo sguardo appassionato e
caldo, l’aveva incoraggiata a guardarsi bene, a studiare il suo corpo,
perché il corpo umano era una meraviglia, complesso e semplice allo
stesso tempo, perché ci è stato dato un corpo per ricordarci che non
siamo dei. Per ricordarci che mal sopportiamo il passare del tempo, e
per questo abbiamo il dovere di farne buon uso.
Eiríkur, vuoi che mi spogli anch’io, aveva chiesto la lavorante che
aveva sorpreso padre e figlia davanti allo specchio, aveva rivolto al
padre di Guðríður uno sguardo che la bambina non aveva compreso
ma che le aveva suscitato rabbia e gelosia. Se ne ricorda ancora, di
quello sguardo, un quarto di secolo dopo, di fronte a un altro
specchio, di nuovo nuda, lo ricorda e capisce. Ricorda la voce di suo
padre, calda, lievemente rauca, spesso appassionata. Ne ricorda il
sorriso. Ne ricorda gli occhi, un po’ cupi, un po’ mesti, ma anche pieni
di tenerezza. Sei mesi dopo quel momento insieme davanti allo
specchio si sveglia con suo padre seduto sul suo letto, le carezza la
testa e le parla. Ma lei è ancora mezza addormentata e non ricorda
tutto. Ricorda solo che le ha parlato a lungo, poi ha cantato per
addormentarla. Al risveglio la mattina dopo era sparito. Era partito a
nuoto durante la notte. Nella lettera lasciata per lei e per sua madre
aveva detto di voler andare in Francia a nuoto. Un anno dopo la
mamma si era risposata con un marinaio che parlava talmente male
del padre di Guðríður che lei aveva cominciato a detestarlo, ed era
andata a finire sulla penisola di Snæfellsnes.
Eiríkur era partito a nuoto, voleva andare dal suo amico, il
capitano, che due settimane prima era tornato a casa. Era partito a
nuoto con il suo sguardo appassionato ma anche quella corda
malinconica che molto tempo dopo riecheggia ancora in Páll, e in
fondo agli occhi del suo omonimo, il suo pronipote, che ha sparato
dietro a un camion e per questo rischia la prigione – che ne sarà
allora di noi, si chiedono i cani, preoccupati.

Ma non siamo ancora arrivati a quel punto, i cani devono aspettare e


anche Eiríkur, perché non è ancora nato, e adesso Guðríður si deve
rivestire in fretta. Gesù, com’è volato il tempo, e lei, come una pecora
rincretinita, l’ha sprecato davanti allo specchio. Ha osservato il suo
corpo, si è vergognata di esserne soddisfatta, perfino contenta, è una
cosa imperdonabile, si è vergognata ancora di più per essersi
accovacciata, di aver allargato le ginocchia, con le dita tra le gambe,
di essersi guardata lì, di essersi carezzata. Avrebbe fatto meglio a
mettere a frutto il tempo che aveva, a leggere La servitù delle donne.
Forse rimarrà stupida per sempre. Il diavolo ha segnato un punto?
Ma quando la lavorante più giovane torna a cercarla perché la
cena è pronta, Guðríður è seduta a leggere con la schiena dritta.
Alza la testa, sorride come sovrappensiero, talmente assorbita
dalla lettura che la domestica, una ragazza di diciott’anni che come
tutti gli altri in casa non vedeva l’ora di avere come ospite una donna
della brughiera, la trova così dignitosa e fiera, totalmente concentrata
sul libro, che si inchina involontariamente, come se Guðríður fosse
una nobildonna. Ah, giusto, la cena, dice lei, si alza, ma tiene ancora
il dito sulla pagina e pare restia a staccarsi dal testo.
Poi salgono al secondo piano della casa.
Si comincia con le posate più esterne, le sussurra la domestica
mentre entrano in sala da pranzo, ma prima che Guðríður riesca a
chiederle che cosa voglia dire, Kristín esclama: eccola qua!
E Guðríður entra nella grande sala, con un nodo nello stomaco.

Kristín, Ólafur, Stefán e Jónas sono seduti tutti e quattro al lungo


tavolo. Il lampadario che lo sormonta è talmente grande e luminoso
che Guðríður quasi ne ha paura; a casa non mi crederanno mai
quando lo racconterò, pensa. Il lampadario, i bicchieri di cristallo, le
posate d’argento, il vino rosso in tre panciute caraffe di cristallo, e il
cibo che è già in tavola, una cena di tre portate. Un cibo talmente
prelibato e dall’aroma così appetitoso che il nodo nello stomaco si
scioglie, si sente pervadere da un’impazienza felice e per questo
sorride radiosa mentre Kristín la presenta agli uomini – è quel sorriso,
quello pericoloso, su cui i poeti della campagna hanno spesso
composto versi, ma non molto riusciti, anzi.
Dovresti scriverci, su quel sorriso, aveva detto Pétur in una lettera
a Hölderlin, che aveva risposto, l’ho fatto molto tempo fa: tu mi hai
sorriso, e adesso non so più se oso esistere.
È una poesia, gli ha chiesto Pétur, ma il poeta tedesco non gli ha
ancora risposto nel momento in cui il pastore si avvicina a
Stykkishólmur, che si trova all’estremità di una lunga e stretta lingua
di terra, con un ottimo approdo e la vista sull’ampio Breiðafjörður e
sulle sue infinite isolette. Sono più numerose dei giorni dell’uomo,
affermano le antiche fonti; le lentiggini del mare, pensa Pétur, mentre
fa schioccare un angolo della bocca. Ljúf alza il capo, accelera,
prende un trotto confortevole.
Pétur dovrebbe arrivare a momenti, dice Ólafur quando sono già
tutti seduti e Guðríður ringrazia e mentalmente benedice la giovane
domestica guardando la fila tripla di posate disposte su entrambi i lati
del piatto. Questo devo proprio raccontarlo a casa, dice lei più volte
tra sé, se lo ripete come un mantra, come una preghiera; descrivere
la sala da pranzo, l’opulenza, le stoviglie, il tavolo, le sedie e le
vivande! Perché deve descrivere anche che cosa ha mangiato! Cosa
che dovremo fare anche noi, almeno riportare le voci del menu.
Guðríður non aveva mai assaggiato piatti tanto squisiti. Non sapeva
nemmeno che fosse possibile cucinare tanta bontà. Eppure ci prova,
a fare qualcosa a casa, a Uppsalir, con il poco che hanno, a
migliorare il gusto raccogliendo erbe come la cetraria, il timo,
l’alchemilla, le foglie di betulla, cerca di creare una piccola fiaba dalla
quotidianità. Io e Björgvin abbiamo l’acquolina in bocca appena
intravediamo il casale da lontano, aveva detto l’estate precedente
Steinunn mentre osservava Guðríður cucinare la carne di vitello
portata da lei e suo marito; sono stupita dalle magie che riesci a fare!
Ma i piatti che erano in tavola nella casa del medico appartengono
a un altro mondo. Il cibo è così gustoso, così diverso da qualsiasi
cosa abbia provato finora che ha dimenticato del tutto la sua
insicurezza, l’ansia di fare brutta figura, di rimanere senza parole, la
paura che quegli uomini e Kristín si accorgano che è stupida, che non
ha niente da dire, del resto ha sprecato il tempo davanti allo specchio
invece di leggere. Ha dimenticato ogni cosa mentre mangia. A volte
socchiude gli occhi per gustare meglio. Saturare le papille, sentire
sapori che nemmeno immaginava che esistessero. Ogni boccone
un’avventura, una nuova esperienza. Com’è possibile che un essere
mortale possa cucinare queste meraviglie, aveva chiesto sbalordita,
stupefatta, nel bel mezzo della cena, e Kristín, che osservava
sorridendo l’evidente piacere di Guðríður, aveva fatto chiamare la
cuoca, una donna tedesca che aveva incontrato da alcuni conoscenti
di Reykjavík due anni prima e che aveva assunto esclusivamente per
occuparsi dei pasti, non doveva accollarsi nessun’altra incombenza.
La tedesca era entrata, alta e imponente come la padrona di casa,
con una voce profonda, le sopracciglia unite sopra il grosso naso, gli
occhi penetranti, somigliava a certe forze della natura che è
preferibile non istigare alla collera. E quella donna scontrosa si era
illuminata, si era quasi commossa quando aveva visto e percepito
l’entusiasmo di Guðríður per i suoi manicaretti, e l’intelligenza che
trapelava dalle domande. Dovremmo scrivere anche di questo
argomento, sulla rivista, non credete, aveva detto Guðríður, e
chiederle di spiegarci come sia possibile trasformare certi alimenti in
un’avventura, una cena in un viaggio nel mondo delle delizie.
Secondo me, nessuno avrebbe più alcun motivo di trasferirsi in
Canada, se in Islanda tutti sapessero cucinare così!

Ma certo che dovremmo parlarne – aveva detto Kristín, ecco, guarda,


hai già cominciato a dare un’impronta alla rivista, e Guðríður aveva
abbassato lo sguardo per nascondere il sorriso. Dovremmo
descrivere il momento in cui i quattro si erano spostati in salotto,
Ólafur, Stefán, Jónas e Guðríður, mentre Kristín si era ritirata, adesso
vi lascio tranquilli, aveva detto, la fregata era tornata in porto e aveva
lasciato lo spazio a suo marito, senza più relegarlo nell’ombra.
Dovremmo descrivere come Stefán e Jónas, entrambi un po’ alticci,
avevano cercato ciascuno a suo modo di dimostrare a Guðríður le
loro qualità, la loro larghezza di vedute, il loro pensiero moderno, così
evidentemente appassionati e perfino esaltati dalla presenza di
Guðríður, che erano riusciti a placare l’ansia che le si era riaccesa
dentro dopo la cena. Descrivere come tutti si erano rilassati dopo il
primo bicchiere di cognac, com’erano tornati ad assomigliare a se
stessi mentre lei beveva un caffè dopo l’altro per attenuare gli effetti
del vino rosso, voleva rimanere concentrata, serena, dimostrare chi
era, attenta a sfruttare quell’occasione inaspettata, quella fortuna di
essere stata invitata, si sentiva come su una soglia, con la possibilità
di sbirciare dentro un mondo che aveva solo sognato; un mondo a cui
anche suo papà aveva desiderato appartenere per tutta la sua breve
vita. Sente che deve rimanere concentrata, con la mente sgombra,
per il bene di entrambi, per se stessa e per suo padre. Dovremmo
descrivere il momento in cui incautamente, in un solo sorso, ha dato
fondo al bicchiere di sherry che Ólafur le aveva offerto. Dovremmo
descrivere tutto questo, ma purtroppo non ne abbiamo il tempo,
perché adesso si apre la porta ed entra il reverendo Pétur. Lui che
considera la vita al di sopra della puntualità. Entra e non si dà
nemmeno la pena di salutare, perché dice senza tanti preamboli,
agitando le braccia, ci credereste, vogliono arrestare Émile Zola!

 
1
È il nome che si dà tradizionalmente ai cavalli con una macchia bianca sul muso.
2
Scritto del 1869 dal titolo The Subjection of Women. In italiano: La servitù delle donne, trad.
it. e prefazione di Anna Maria Mozzoni, R. Carabba editore, Lanciano 1926.
3
Bríet Bjarnhéðinsdóttir (1856-1940) è stata una delle prime sostenitrici islandesi
dell’emancipazione delle donne. Ha fondato la prima rivista femminile in Islanda,
Kvennablaðið.
4
John Stuart Mill, La servitù delle donne, cit.
Ricordati di me,

e i demoni si allontaneranno
Alzo gli occhi e tu non sei più in vita

È per via di Dreyfus, chiede il conducente d’autobus consacrato, e


agita la spatola per i pönnukökur come fosse una spada, come se si
considerasse il paladino della giustizia e della verità, forse dovrebbe
battersi per Dreyfus e salvare l’autore francese Émile Zola dalla
prigione, armato di una spatola per pönnukökur nella piccola roulotte
dalle forme arrotondate all’estremo Nord del mondo, ai margini del
mondo abitabile. Ancora con quei ridicoli bermuda tropicali, e ancora
una volta con una maglietta nuova. Questa è nera con una foto di
Édith Piaf, la cantante del dolore, nata sotto un lampione all’inizio del
secolo scorso, che ha vomitato sangue sul palco, alta quanto una
bottiglia di vino rosso ma con una voce più forte della morte, che in
quel momento stava aggiungendo Non, je ne regrette rien alla sua
playlist. La cantante guarda davanti a sé, ha uno sguardo sognante e
l’espressione di chi ha appena iniziato a cantare: Avec mes
souvenirs, j’ai allumé le feu… appicco il fuoco ai miei ricordi, alle mie
preoccupazioni, alla gioia, e spazzo via tutto, il bene, il male, perché
la mia vita inizia adesso – con te!
Non, je ne regrette rien, non rimpiango nulla. E voglio solo te.
Spazzo via tutto il resto. Vomito sangue e scelgo te. Prendo una
decisione, per questo non mi paralizzo e continuo a vivere. Per il
resto, sì, giusto, vogliono arrestare Émile Zola, maledetti – forse
perché aveva preso una decisione e non si era paralizzato, a meno
che non sia accaduto il contrario, e si sia ritrovato paralizzato proprio
perché non ha preso una decisione?
Vogliono arrestare Zola per via dell’affare Dreyfus, chiede di nuovo
il consacrato, ignora il mio borbottio, infilza lo stomaco di un nemico

É
immaginario con la spatola per i pönnukökur e con Édith Piaf.
Alzo gli occhi dai miei fogli, e tutti spariscono. Vengono risucchiati
come ombre in un passato svanito da tempo, quasi come se non
fossero mai esistiti.
Spariscono tutti. Guðríður e i tre uomini nel salotto buono, e
sparisce anche la casa, non esiste più, quella grande casa alla
norvegese in legno in un paesino intorno al 1900; con una giovane
domestica che aveva sussurrato qualche consiglio a Guðríður, e la
tedesca che trasformava i pasti in avventure, rendendo tollerabile la
vita in Islanda, e perfino Kristín, la fregata, grande e ingombrante,
determinata, vibrante di energia, sparisce anche lei senza lasciare
traccia, come se non avesse mai posato piede su questa terra.
Eppure l’aveva fatto, e lo si era notato.
Alzo gli occhi e tutto viene spazzato via.

Anche le figlie di Guðríður.


La più grande, Björg, appena arrivata a casa dei nonni nella
campagna a valle per trascorrervi l’inverno, l’impazienza e l’ansia si
alternano dentro di lei. Alzo lo sguardo e sparisce, e lo stesso vale
per suo nonno Björgvin, che quasi non sta nella pelle per la gioia di
averla in casa; spariscono entrambi.
E Gísli con le sue grandi mani, la sua operosità infaticabile. Gísli
che per settimane ha atteso con impazienza che Sigrún arrivasse a
Uppsalir. Ha intenzione di coricarsi prima di lei ogni sera, e fingere di
dormire quando la donna comincia a spogliarsi. Ce l’ha duro come
l’acciaio ogni volta che gli torna in mente. Quando pensa alla maniera
in cui lei si prepara per andare a dormire, si toglie un indumento dopo
l’altro, scopre il didietro… e si piega in avanti, così lui scorge le
natiche che si aprono e… ha tanta voglia di… muore dalla voglia di…
… e adesso che finalmente è arrivata è scappato nell’ovile, siede
paralizzato nella mangiatoia, non osa nemmeno entrare in casa.
Pensa a Guðríður che è a Stykkishólmur tra quegli uomini istruiti.
Gísli si guarda le mani forti, come a chiedersi se sono abbastanza
forti per trattenere Guðríður, a meno che invece non stia pensando a
cosa dovranno fare quando vedrà Sigrún spogliarsi… Mormora
qualcosa che non sento… e vedo Halla seduta alla scrivania di Pétur,
sembra che pianga. Cerco di avvicinarmi ma loro vengono inghiottiti
tutti, lei, Gísli, Guðríður, Pétur, vengono risucchiati via da un passato
svanito da tempo. Spariscono.

Vengono spazzati via quando il reverendo con la patente mi


domanda se Émile Zola è stato arrestato a causa dell’affare Dreyfus.
Lo chiede due volte, mentre combatte contro l’ingiustizia insieme a
Édith Piaf e a una spatola per i pönnukökur. Alzo lo sguardo, il
legame con il passato si spezza, sono tutti morti.

Allora dove rifugiarsi?

Forse vogliono arrestare Zola per aver detto la verità, non sempre si
apprezzano certe cose, la verità tende a essere uno specchio
impietoso, dico, con quattro pönnukökur tiepidi arrotolati davanti. Ne
addento uno, do un’occhiata fuori dalla piccola finestra laterale e
vedo i ruderi della fattoria di Oddi sull’altra sponda del fiume, l’antico
sito del casale, dov’era nata Hafrún e dove lei e Skúli avevano eretto
la loro casa. La casa nuova, costruita da Halldór dopo che la vecchia
era andata a fuoco, è poco distante; una casa di cemento non
tinteggiata, con il tetto rosso. Halldór non ha mai voluto pitturarla,
diceva che il cemento doveva rimanere esposto al vento e alla
pioggia e così con il tempo avrebbe assunto l’aspetto delle rocce sui
monti. Forse la casa doveva trasformarsi in una parete di roccia con il
tetto rosso. E in quella roccia oggi abita Eiríkur. Da solo con i suoi
cani, tre border collie, una carabina, tre cuccioli morti e una chitarra
portata da Marsiglia. Ha lasciato il fiordo a sedici anni, lo sguardo sul
limitare della brughiera, aveva provato una fitta di dolore
strappandosi le radici e aveva percepito tutta la libertà che c’era nel
non avere più una casa. Se n’era andato e sette ore di lande piene di
silenzio si erano erette tra lui e la sua infanzia. Aveva abitato per dieci
anni a Reykjavík, aveva preso in affitto una stanza di un seminterrato
da una famiglia che si era trasferita lì dal fiordo, si era tuffato nella
vita artistica del liceo, aveva fatto il commesso in una rivendita e le
pulizie negli uffici per avere una certa indipendenza economica,
aveva lavorato per un anno in un bar dopo il diploma, poi si era
iscritto alla scuola di musica, dopodiché era partito per un corso a
Parigi.
Era tornato regolarmente a casa finché risiedeva a Reykjavík,
spesso pieno di regali. Musica dai negozi di dischi del Sud, libri d’arte
e di giardinaggio per sua nonna, ma anche libri sui motori, sulla storia
delle auto, sulla storia dei trattori; libri sulle scienze e gli scienziati per
il nonno – e lo aiutava nella lettura quando l’inglese diventava troppo
complesso. Una volta per esempio, a Natale, avevano passato
giornate intere su Bright Galaxies, Dark Matters di Vera Rubin, la
donna che aveva dimostrato l’esistenza della materia oscura. Hafrún
preparava una torta al cioccolato, del caffè, cucinava pollo e agnello e
a cena loro le facevano il resoconto di quanto avevano letto quel
giorno.
I suoi ricordi migliori e più forti erano legati a suo nonno e a sua
nonna, che gli mancavano costantemente. Eppure, con il passare del
tempo, per qualche motivo, gli era risultato sempre più difficile tornare
nel fiordo. L’idea di andare a fare un salto al Nord non era più
spontanea, continuava a rimandare. In questo modo poteva passare
un anno intero senza che Eiríkur si facesse vedere. E anche tre anni,
quando si era trasferito all’estero. Che è strano, perché i nonni gli
mancavano. Gli mancava il fiordo. La gente. Per quale motivo…

… perché il paradosso è sempre stato uno dei pilastri dell’esistenza


umana. Quante volte dovrò ripeterlo. Non mi sembri il coltello più
affilato del cassetto, ma questo mi è toccato, dice il reverendo
barbuto, il conducente della corriera che propone trasferte per
l’inferno; chi c’è stato e ne ha fatto ritorno comprende meglio ogni
cosa.
Batte di nuovo sulla bottiglia di single malt con la spatola dei
pönnukökur, come se volesse tenere un discorso, magari sul
paradosso, che è uno dei fili conduttori nella storia del genere umano,
che la nostra storia è al contempo una tragedia, una soap opera, un
requiem e uno scherzo degli dei. A meno che non lo faccia per
nascondere quanto sia compiaciuto, visto che ho sottinteso che
comprende il mondo meglio degli altri. E con ciò, anche il paradosso
che la vita dell’uomo sembra condannata a essere.
Non sono compiaciuto, replica lui, e posso farci ben poco, se so
più di quanto sa la gente comune. Ho battuto la spatola contro la
bottiglia solo perché tu rimanessi in tema, è molto semplice: Eiríkur
va a Reykjavík, si diploma al liceo, si laurea alla scuola di musica,
suona per un certo periodo in un gruppo jazz, convive con una
ragazza per circa due anni, poi se ne va a Parigi: e dopo? Eiríkur
avrebbe attraversato un muro di fiamme e di zolfo, avrebbe
sacrificato un braccio, se non la propria vita, per il nonno e la nonna.
Eppure il legame con i luoghi d’infanzia si rompe, si sfilaccia. Per
quale motivo? E suo padre Halldór dov’è, che ne è stato della sua, di
vita, non è riuscito a mettere radici da nessuna parte dopo aver
conosciuto, amato e perduto Svana, la madre di Eiríkur – forse un
amore troppo forte può rovinarti la vita se non riesci a viverlo
appieno, è come un’esplosione atomica nel cuore, un bagliore che
illumina l’universo per un attimo prima che le radiazioni dell’infelicità e
del dolore si diffondano per le vene e ti paralizzino? Halldór è rimasto
paralizzato a tal punto che non è più stato in grado di vivere una vita
normale, né di avere un legame con il figlio, non ti pare eccessivo? Ed
Eiríkur, non ha certo perso il suo posto nel mondo soltanto perché si
è masturbato sopra un libro e involontariamente ha pensato a sua
madre mentre veniva; non basta certo a spiegare come mai ha
tagliato le radici… Chi recide le proprie radici, chi le perde e fugge dal
proprio passato non trova mai più un riparo, in questo mondo.

Allora ci risiamo, di nuovo Búðardalur?


Ciascuno ha un proprio modo di vivere. C’è chi è più aperto, chi lo è
di meno. Alcuni hanno un profondo bisogno di compagnia e di vita
sociale, altri sono portati per la solitudine. Quale che sia la tua
disposizione, non c’è nessun bisogno di andare a rivelarla al tuo
vicino, a chi ti sta accanto. Ciascuno ha un suo modo, nessuno
dovrebbe andare contro la propria natura. E ciascuno, naturalmente,
si porta dietro il proprio fardello. Le proprie ferite. I propri nodi. Alcuni
passano la vita intera a lavorarci sopra. Ma certi nodi, pare che solo
la morte sappia scioglierli – Páll, il troll, lo zio paterno di Eiríkur, in
pratica non ha pronunciato una sola parola dai dodici fino ai sedici
anni – quasi come se si fosse arreso davanti alla balbuzie che lo
affliggeva fin dall’infanzia e che si era aggravata nell’adolescenza. Si
era isolato, si era chiuso in se stesso e pochi, a parte forse Halldór,
sapevano che cosa gli passava per la testa.
È complicata la vita degli esseri umani, diceva Hafrún, che gli
preparava la cioccolata calda, o la crostata che piaceva tanto a suo
figlio Páll. Aveva avuto il permesso di domare un cavallo a soli tredici
anni, di affrontare una bufera con la Land Rover; si era piantato in un
cumulo di neve, era andato a cercare Halldór con il trattore, i due
fratelli avevano sfacchinato per liberare la macchina e si erano
impantanati di nuovo subito dopo. Skúli e Hafrún sapevano che lo
divertiva, che così riusciva a dimenticare se stesso per qualche
momento – a volte è un ottimo metodo, efficace quanto diverse
sedute dallo psicologo. Dimenticare se stessi, allontanarsi dalla
propria coscienza, dalle sofferenze che possono accompagnare il
nostro io. Poter dimenticare chi si è. Può essere uno sfogo, un gran
sollievo, un riposo tanto atteso, ma non è certo privo di rischi, perché
alcuni soccombono all’alcol o alle droghe, altri vengono attratti dal
sesso o dalle religioni, si imbarcano in lunghissimi viaggi nella
speranza di raggiungere una destinazione in cui non si ritroveranno
davanti a se stessi. Non è facile. Ma Hafrún e Skúli avevano
permesso a Páll di domare i cavalli, di piantarsi con l’auto nei cumuli
di neve. Sapevano che questo non avrebbe risolto niente, ma che
l’avrebbe aiutato a fare qualche passo avanti; c’è una gran differenza.
Ciascuno ha un suo modo.
Poi era andata com’era andata.
Era andata; sì, Eiríkur era partito per Reykjavík. Dieci anni dopo
era andato a Parigi. Sette ore, sette brughiere e un intero oceano tra
lui e il resto della famiglia a Oddi. Troppo distante per spedirgli le
crostate, di certo problematico provare a mandare fino a Parigi un
cavallo da domare o una Land Rover da piantare nella neve sui viali
della città. Ma ciascuno ha un suo modo, nessuno va contro la
propria natura. La famiglia rimasta a Oddi gli faceva sapere che loro
c’erano sempre. Halldór gli aveva inviato le registrazioni realizzate a
Lonesome Town, il nome che aveva dato allo studio allestito nel
granaio, di un brano di Ricky Nelson del 1959, che preferiva nella
versione di Paul McCartney e David Gilmour; aggiungiamola alla
playlist della Morte. Gli aveva inviato le voci dei vecchi del fiordo che
raccontavano il loro passato, ormai avviato a sprofondare nel buio,
registrazioni talmente ben realizzate, con brani musicali scelti con
tale gusto che sembravano programmi radiofonici di qualità, oppure
gli mandava le letture di Páll, che fossero poesie islandesi oppure
ricordi intramontabili; così non perdi l’Islanda e l’islandese, nel tuo
mondo laggiù, scriveva a suo figlio. Hafrún invece telefonava ogni
settimana a suo nipote, sempre alla stessa ora, alle undici del sabato
mattina, quand’era certa che fosse sveglio. In genere Eiríkur andava
a sedersi in una caffetteria o in un parco e ascoltava Hafrún
raccontare come lei e suo marito passavano le giornate. C’era da
foraggiare le bestie, poi l’agnellatura, la fienagione, la cerca, c’era da
riparare le recinzioni, da raccogliere le bacche, qualche uscita di
pesca; gli parlava delle loro letture, di cosa si diceva degli ultimi
romanzi pubblicati nel circolo dei lettori della campagna, che lei e suo
marito mandavano avanti da trent’anni; e gli raccontava che
sarebbero andati in vacanza con gli altri contadini, un viaggio in
Norvegia e in Finlandia, figurati un po’, in cosa mi sono fatta
trascinare!
A Eiríkur facevano molto piacere quelle sue telefonate abituali.
Diciamo pure che le aspettava con gioia. Certo, parlava meno di
Hafrún, forse sempre meno con il passare degli anni, ma a volte
socchiudeva gli occhi mentre sua nonna parlava, come se volesse
assorbire la sua voce, il suo calore, la sua calma, il suo sorriso
profondo, sentire il brusio della radio, sentire suo nonno fischiettare o
canticchiare qualcosa in sottofondo. Socchiudeva gli occhi, tornava
piccolo nella loro cucina, lontano dai pericoli del mondo. Socchiudeva
gli occhi, e sentiva la loro mancanza. Eppure, sì, parlava davvero
poco della sua quotidianità, e a poco a poco era stato come se dopo
ogni telefonata la distanza tra di loro, tutti quei chilometri di montagne
e di oceano, diventasse tangibile nella cucina della fattoria di Oddi.

Ormai ci considera dei campagnoli, aveva detto una volta Skúli,


rompendo il silenzio dopo una telefonata a Eiríkur. Eh, sì, aveva detto
Hafrún a voce bassa, non possiamo farci niente. È giovane, la grande
città gli offre tante cose da fare, sta facendo esperienza e poi deve
trovare se stesso come artista e come persona. E in questo processo
bisogna mettere da parte altri aspetti. Va bene così. Forse non avrei
dovuto parlargli in termini così entusiasti del viaggio in Norvegia,
aveva detto Hafrún. Passerà, aveva detto Skúli tendendole la mano.

Non che Eiríkur non avesse mai raccontato niente. Loro erano andati
a trovarlo a Reykjavík, lui era tornato una volta per Natale e di nuovo
durante un’estate con la sua ragazza, poi l’avevano osservato da
lontano mentre si sistemava a Parigi, mentre si impratichiva con la
lingua; si erano accorti che l’interesse per gli studi si era raffreddato
dopo il primo anno. Al punto che l’anno successivo aveva smesso del
tutto di studiare e si era unito a una specie di compagnia
sperimentale – se avevano capito bene – che metteva insieme teatro,
cinema, musica e critica sociale. Eiríkur si entusiasmava sempre ogni
volta che parlava con loro di musica e poi di quel teatro, gli sentivano
nella voce quella passione che conoscevano bene, la stessa che
aveva da bambino quando parlava delle cose a cui teneva molto.
Sorridevano sentendo la sua passione, se lo vedevano davanti,
passarsi la mano nei capelli, lo sguardo acceso. In quel teatro aveva
conosciuto quattro musicisti, due francesi e due arabi, con cui aveva
fondato un gruppo e con i quali faceva teatro e suonava nei bar e nei
ristoranti un po’ in tutta la Francia – durante una di queste tournée
aveva incontrato Tove.
È danese e si chiama Tove, come la poetessa,1 vi manda i suoi
saluti.
Ma ce la farai conoscere presto, vero, aveva chiesto Hafrún
quando Eiríkur aveva pronunciato il suo nome per ben tre volte nella
stessa conversazione. Sembrava avesse bisogno di dirlo a voce alta.
Ma sì, certo, appena le cose si sistemano, aveva risposto Eiríkur,
confermando così che c’era qualcosa tra loro due; ma di questo però
non aveva mai parlato apertamente.
Che ci fa una danese a Parigi, si era azzardata a chiedere Hafrún,
cercando di nascondere la curiosità nel tono di voce.
Abita a Nizza, a dire il vero, nonna, ci siamo conosciuti nel sud
della Francia quando abbiamo suonato per diverse settimane con
l’allestimento di due testi teatrali di Alfred Jarry. È una giornalista
culturale, è specializzata in teatro, doveva scrivere un articolo sullo
spettacolo. Ha una grande passione per l’Islanda e per l’islandese e
sogna da tempo di poter visitare il nostro paese. È ovvio che abbiamo
una gran voglia di venire, solo che è abbastanza complicato trovare
un periodo che vada bene a tutti e due. Lei abita nel Sud, io a Parigi e
lavoro al centocinquanta per cento, lei oltretutto ha due bambine, di
dieci e sei anni.
Due bambine, che bello! Allora forse sono già diventata bisnonna
acquisita, aveva detto Hafrún felice, poi si era morsa le labbra
vedendo Skúli che portava un dito davanti alla bocca; non correre, le
aveva detto quel dito. Ah, aveva detto allora Hafrún, caro Eiríkur,
sono così contenta. Verrete da noi spero, prima o poi! E Tove deve
parlare benissimo il francese, se lavora come giornalista. Scrive per i
giornali francesi, no?
Sì, sì, quando parla non diresti mai che non è francese. Tutti qui a
Parigi danno per scontato che sia del Sud; a nessuno viene in mente
di dire che è danese. È venuta in Francia a sedici anni come rifugiata
linguistica.
Rifugiata linguistica, esiste?
Eiríkur aveva riso, pare di sì, dice. Tove sostiene che
aumenteranno in gran numero, nei prossimi anni. Sono persone
provenienti da paesi in cui la lingua si sta estinguendo dall’interno.
Proprio come sta succedendo con il danese. Tove dice che la sua
lingua madre sta annegando in gola ai suoi connazionali e che entro
pochi decenni non assomiglierà più a nessuno dei suoni che
attribuiamo agli esseri umani.
Ne avevo abbastanza, mi ha detto, sono venuta in Francia
fingendo di voler andare a scuola e invece ho fatto richiesta di asilo
linguistico, mi hanno offerto subito la cittadinanza per motivi
umanitari.
Ma sentitevi, dire certe cose del danese, aveva detto Hafrún.
Comunque, sarebbe bellissimo avervi qui.
Ma anche noi abbiamo assolutamente intenzione di venire, Tove vi
manda i suoi saluti!
Vi manda i suoi saluti, vi saluta, dice Eiríkur, però omette, non osa
dirlo, non vuole angustiare sua nonna, crearle delle preoccupazioni,
che il motivo per cui è complicato andare in Islanda insieme non è la
sua residenza, il suo lavoro al centocinquanta per cento, le due
bambine piccole, ma il fatto che è sposata, stabilmente sposata da
dieci anni. Ama Eiríkur con tutto il cuore ma non osa lasciare suo
marito. Ha paura delle conseguenze. Suo marito combatte da tempo
contro vari demoni del passato, ha avuto dei problemi con l’alcol e
Tove teme che possa perdere il controllo della sua vita, che si dia al
bere, alla rabbia, all’autocommiserazione, se lei lo lascia. E che le
figlie debbano assistere all’autodistruzione del loro papà.
Sposata a un uomo fragile. Madre di due figlie.
Allora ci risiamo, di nuovo Búðardalur?
La storia si ripete, è un serpente che si morde la coda.

Tutte le donne danesi si chiamano Tove

Allora questa donna danese, la rifugiata linguistica, sarebbe apparsa


nel cortile di Oddi a bordo di una Datsun marrone, di una Toyota
verde, di una Subaru blu, con un neonato tra le braccia che poi
avrebbe consegnato a Hafrún sopra il tavolo della cucina, e che
avrebbe salutato chiedendo un bicchiere d’acqua sette, otto, nove
anni dopo? Búðardalur diventa Parigi, Parigi diventa Búðardalur,
allora questa è una musica che si ripete, donne che chiedono un
bicchiere d’acqua, uomini che si masturbano in un calzino?
Come, faccio io mentre alzo la testa senza mollare la matita, lascio
la punta appoggiata sull’ultimo tratto perché il barbuto conducente
d’autobus per l’inferno si renda conto che non mi va di essere
interrotto perché sto lottando contro il destino, e chi non mantiene la
concentrazione assoluta in una battaglia del genere può solo
dichiarare la propria resa; perché si renda conto che ho alzato
appena lo sguardo per buttar lì una parola e poi proseguo
imperturbabile, come, chiedo, e fingo di non notare quant’è pieno di
sé dopo che si è cambiato di nuovo la maglietta, e non ci penso
nemmeno a complimentarmi per quella nuova, anche se è davvero
bella, rossa scura con una foto di Nina Simone, che era alta come
una giraffa e ha avuto la sua dose di tragedia e di dolore, proprio
come la Piaf, o anche di alcol, di droga, se vogliamo parlarne; i versi
strazianti del brano Just Say I Love Him sotto la foto della cantante,
un pezzo che nemmeno a dirlo finisce dritto nella playlist della Morte,
non c’è scampo; come posso consegnare tutti questi destini, nella
speranza di dare una voce ai morti, alla vita una dimensione nuova,
se continui a interrompermi? Che io sappia, la danese non è ancora
venuta qui nel fiordo, e men che meno con un neonato. A quanto mi
risulta, non c’è mai stato un figlio tra di loro, anche se sicuramente
l’hanno sognato, hanno accarezzato l’idea, un’infinità di volte, mentre
come esuli d’amore portavano avanti un’esistenza dietro le quinte del
mondo. Un’esistenza in cui la felicità e l’infelicità si danno il cambio
continuamente; l’inganno e la menzogna sono commensali della
felicità e della sincerità: la disperazione saluta l’aspettativa,
l’irresponsabilità abbraccia l’affetto, e la vigliaccheria cammina al
passo con il sacrificio. Chiunque può arrivarci, l’unico biglietto
d’ingresso è l’amore. E sul retro, naturalmente – l’inganno.
Quindi la danese si chiama Tove, chiede il reverendo con la
patente per portarci tutti all’inferno e accende la radio, che ha ormai
rinunciato a riferirci le notizie di un mondo stanco, stremato dal
coronavirus, afflitto per dover ospitare quell’eterno adolescente che è
l’essere umano, e invece trasmette Just Say I Love Him di Nina
Simone.
A meno che non sia il mio accompagnatore a condurre il
programma; si chiama o si chiamava Tove, e com’è andata tra di loro
– male, immagino, perché adesso Eiríkur abita da solo a Oddi, con
una carabina, tre cuccioli morti, due grandi casse acustiche, la sua
chitarra?
Si chiamava come si chiamava, e si chiama ancora. Tutte le donne
danesi si chiamano Tove. Non hanno avuto figli ma hanno condiviso
per quattro anni un’esistenza dietro le quinte del mondo. Erano
domiciliati nell’amore.
Ed erano felici?

Siete benedetti;

come ci arriviamo laggiù?

Qualche mese dopo quella conversazione Eiríkur mandò ai nonni


una fotografia che ritraeva lui e Tove seduti al tavolo di un ristorante a
Lione, in una piazza piena di sole, le pinte di birra alzate, sorridenti ed
evidentemente felici. E fatti l’uno per l’altra. Sei mesi dopo lui
spedisce addirittura una foto delle sue bambine. Sapeva che li
avrebbe fatti felici. Sapeva che la nonna le avrebbe incorniciate
entrambe e le avrebbe sistemate tra le altre foto di famiglia. Poco
male, aveva pensato lui, perché c’erano scarse possibilità che
qualche conoscente di Tove vedesse la foto che li ritraeva insieme,
felici, oppure quella delle bambine, nel soggiorno della nonna e del
nonno nel Nord dell’Islanda.
Certo, si era reso conto che era stato uno sbaglio mandare la foto
delle figlie senza prima chiederlo a Tove – quasi imperdonabile. Ma
quando aveva spedito la fotografia era convinto che lui e Tove
sarebbero stati insieme entro un anno, due al massimo. Suo marito
aveva cominciato a vedere uno psicologo, il consumo di alcol si era
ridotto, stava diventando più forte.
Presto, aveva pensato Eiríkur – in effetti si era vergognato un po’
di cullare quel sogno – sarebbe stato abbastanza forte per incassare
il colpo quando Tove gli avesse detto di Eiríkur e avrebbe chiesto la
separazione. Abbastanza forte perché Tove non dovesse temere che
il divorzio lo rovinasse.
E dentro di sé Eiríkur sperava che finché le foto con Tove e le
bambine stavano tra quelle di famiglia a Oddi, le possibilità che le
loro vite potessero finalmente coincidere aumentavano
notevolmente. La logica è probabilmente una delle prime cose che
perdiamo, quando siamo innamorati.
Nostra nuora, diceva Hafrún agli ospiti, raggiante per l’evidente
felicità di Tove ed Eiríkur, contenta di vedergli uno sguardo così
radioso, allora forse le ombre che si portava dentro si erano
dissipate; e queste belle bambine sono le mie bisnipoti. Ecco quanto
siamo fortunati io e Skúli nella nostra vecchiaia!
Tuo nonno, aveva detto Hafrún quando aveva telefonato a Eiríkur
per ringraziarlo della fotografia di Tove, ha borbottato qualcosa, dice
che non avrebbe mai immaginato che in quel piattume che è la
Danimarca potesse nascere una donna così bella, vuole conoscere
la persona che ti rende tanto felice. Arriverà il momento, nonna,
aveva detto lui, speriamo al più presto! Solo che in questo periodo
abbiamo una quantità di lavoro pazzesca. Stiamo per allestire un
pezzo teatrale e partiremo per sei mesi in tournée con un programma
molto fitto. Ti ricordi che Tove l’anno scorso ha preso un teatro a
Marsiglia, mi ha convinto ad aiutarla a mettere su Il rinoceronte di
Ionesco. Siamo stati in giro per tutta la Francia per un mese con un
gruppo di attori internazionali, ciascuno recitava nella propria lingua e
il pubblico poteva leggere il testo in francese su un grande schermo.
Abbiamo avuto un tale successo che per i prossimi sei mesi
porteremo la rappresentazione in Europa e anche oltre.
Allora non voglio disturbarti con le mie telefonate, aveva detto la
nonna, felice di sentirgli quella passione nella voce, di sentire quanto
fosse entusiasta di partire per la tournée; mandaci una cartolina!

E lui l’aveva fatto, una cartolina allegra da una città dopo l’altra:
Milano, Mosca, Atene, Varsavia, Oslo, Tel Aviv… A volte spediva
delle foto dell’allestimento, lui dietro le quinte con la chitarra, vestito
di nero, talmente avvolto dalle tenebre che sembrava solo un
sospetto, un pensiero vago. Una tournée di continui successi, si
erano aggiunti altri ingaggi, il giro si era allungato. Alla fine i sei mesi
erano diventati sedici, il programma a volte era talmente fitto che
potevano passare settimane senza che Tove riuscisse a tornare a
casa dalla sua famiglia. Era stato il loro periodo più bello. Non
dovevano lasciarsi continuamente, non dovevano vivere in una
nostalgia eterna. Quella vita dietro le quinte del mondo aveva
occupato tutta la loro realtà.
E invece non sapevano, o forse evitavano di pensarci, che quella
lunga, felice tournée teatrale aveva reso sempre più difficile spostarsi
da un mondo all’altro. Era diventato sempre…

Non può andare a finire bene, dice il conducente dell’autobus per


l’inferno, che ha trovato una foto di Hafrún e Skúli spedita dal nonno a
Eiríkur mentre era in tournée. Una foto che l’aveva inseguito da una
città all’altra, da un paese all’altro, ci erano voluti cinque mesi perché
lo raggiungesse mentre si trovava ad Amsterdam. Skúli tiene stretta
sua moglie, il loro amore intenso e muto sembra più grande del
mondo intero. Hafrún sorride, un po’ come se stesse dicendo: va
bene così, e si appoggia contro suo marito che guarda serio la
macchina fotografica.
Eiríkur aveva estratto la foto da una busta di grandi dimensioni
quand’erano nella loro camera d’albergo. Tove si era alzata sui
gomiti, praticamente si era appena svegliata, nuda, i capelli spettinati.
Allora questi sono i tuoi nonni, gli aveva chiesto. Lui aveva annuito.
Ah, come sono belli, aveva detto Tove, e così felici insieme! Sono
davvero benedetti!

(…)
La foto ha impiegato cinque mesi a raggiungerlo, dice il conducente
d’autobus barbuto con la patente per guidarmi da un mondo all’altro,
da un’epoca all’altra, tra diversi piani dell’esistenza; è sparita la
spatola, sono spariti i bermuda variopinti e le magliette con i
musicisti, si è messo un paio di jeans scuri, un maglione nero, una
giacca blu di taglio sartoriale.
Avevi accennato da qualche parte che Skúli era venuto qui nel
fiordo da piccolo con il postino, aggiunge il mio accompagnatore, alza
lo sguardo verso il soffitto e dice, come se stesse citando il testo a
memoria:
È arrivato qui perché suo padre, Jón Gíslason, un marinaio, era
rimasto sdraiato sulla schiena davanti alla loro piccola casa di legno,
a guardare il terso cielo notturno tentando di avvistare la galassia che
era stata scoperta una decina di anni prima nel grande mondo, e di
cui aveva letto in un giornale inglese qualche ora prima. Così grande
ed estesa, aveva pensato, che al treno più veloce del mondo ci
vorrebbero milioni di anni per percorrerla dall’inizio alla fine. Come
può uno spazio così grande e importante essere stato nascosto alla
vista umana per migliaia di anni – se questa immensità è stata finora
celata alla nostra vista, cos’altro si nasconde allora al di fuori della
nostra vita, al di fuori della storia dell’uomo? Possiamo essere certi
che il mondo in cui abbiamo vissuto non sia mai esistito, a rigor di
logica?
Tu che ne dici, chiede il mio accompagnatore, vuoi lasciare Jón lì
disteso ancora per molto – e noi, a rigor di logica, non abbiamo mai
vissuto?

Non lo so, rispondo io, e non ho tempo di rifletterci, o per andare


nell’Ovest fino alla Snæfellsnes perché la fotografia ci ha messo
cinque mesi a raggiungere Eiríkur.

In un altro mondo. In un altro tempo


La foto aveva impiegato cinque mesi a raggiungerlo. Spedita a
Palermo, dove la compagnia teatrale doveva trovarsi sette giorni
dopo che Skúli l’aveva imbucata a Hólmavík. Ma per qualche motivo,
forse per le lungaggini soporifere del servizio postale italiano, la foto
era arrivata a Palermo soltanto tre settimane dopo, quando la
compagnia si trovava al Cairo, dove la lettera era stata inoltrata; ma a
quel punto loro erano già ad Atene. E così era andata avanti per
cinque mesi, la lettera aveva peregrinato per otto città e sei paesi
quando aveva raggiunto Eiríkur nell’albergo di Amsterdam. Cos’hai lì,
aveva chiesto Tove quando era salito in camera con una gran busta.
Eiríkur era uscito di nascosto più di un’ora prima, mentre lei dormiva
ancora, aveva scribacchiato un messaggio su un biglietto che aveva
lasciato accanto al suo telefono sul comodino: «Sono le otto e
mezza. Sono uscito per cercare un croissant dignitoso in questa città
di canali, biciclette e marijuana. Chissà che non mi capiti di incontrare
Chet Baker, che passa il tempo a cadere dalla finestra del quinto
piano di un albergo con la tromba e la tristezza tra le braccia. Allora
corro, lo prendo al volo, lo porto in camera e Chet suonerà per noi,
per ringraziarci, My Funny Valentine – Each day is Valentine’s day,
for us two, amore!»
Lei era sveglia quand’era tornato, seduta sul letto, scarmigliata,
nuda e calda. Che cos’hai lì, aveva chiesto vedendo la busta.
Non lo so, o meglio sì, voglio dire, me l’hanno spedita da casa e mi
pare di capire che abbia fatto un gran giro, la cosa strana è che
questa è la grafia del nonno. Che io ricordi non ha mai scritto un
biglietto, nemmeno per i regali che faceva alla nonna.
Ah, come sono belli, aveva detto Tove quando aveva visto la
fotografia, e così felici insieme! Amore mio… avremmo potuto essere
così tra trenta, quarant’anni. Se avessimo vissuto in un altro mondo.
O in un altro tempo.

Si era svegliata subito dopo che lui era uscito, aveva visto il biglietto,
l’aveva letto e aveva sorriso, felice. Per le parole, per la scrittura
disordinata in cui ogni tratto testimoniava la presenza e il carattere di
Eiríkur, l’uomo che amava. Aveva letto il messaggio tre volte e aveva
avuto l’intenzione di metterlo nella scatola che portava sempre con
sé e che conteneva una gran quantità di biglietti del genere, di brevi
note, di messaggi allegri, lasciati per lei da Eiríkur nei posti più
improbabili negli ultimi anni. Piccole pillole di allegria e felicità che
talvolta tirava fuori quando aveva bisogno di consolazione, oppure
semplicemente quando voleva sentirsi felice, sorridere, averlo vicino.
Ma poi aveva ricevuto un sms disperato dalla figlia maggiore che
aveva avuto le sue prime mestruazioni ed era spaventata, ansiosa,
anche se sapeva che cosa le stava succedendo. Tove l’aveva
chiamata subito e le aveva parlato a lungo, era riuscita a consolarla,
a tranquillizzarla, l’aveva perfino fatta ridere e per questo aveva
sorriso posando il telefono e si era allungata a prendere il biglietto per
metterlo nella scatola – ma a quel punto erano cominciate le lacrime.
Che cosa significa, si era chiesta stupita asciugandosi le guance. Ma
ne erano arrivate altre, le lacrime scorrevano come una forza
indipendente, dopodiché si era messa a singhiozzare, senza freni.
Era distesa a faccia in giù sul letto, si scuoteva tutta e tremava e
piangeva così forte che non riusciva quasi a respirare. Piangeva
perché l’evidenza le era apparsa davanti agli occhi. Quella che aveva
cercato di negare anche troppo a lungo. Che quell’esistenza doppia
la stava dilaniando. E dilaniava anche Eiríkur. Che nonostante
fossero sempre stati felici insieme, nonostante l’amore, stavano
buttando via la vita. Aveva capito d’un tratto che la stupenda,
eccitante quotidianità contenuta nel biglietto non avrebbe mai potuto
essere la loro quotidianità. Per questo era crollata. E piangeva
affranta. Ma forse anche… profondamente sollevata? Come se d’un
tratto le avessero tolto una montagna dalle spalle.
E finalmente riusciva a respirare.
Così avremmo potuto essere noi tra trenta, quarant’anni – Eiríkur
non l’aveva ascoltata. Aveva guardato la foto, aveva visto la
stanchezza nella postura di sua nonna, la serietà insolita nel volto del
nonno e un sospetto misto ad apprensione gli si era destato dentro.
Aveva preso il telefono per chiamare Skúli, che aveva risposto da
Reykjavík, dalla stanza di ospedale di Hafrún.
Adesso puoi tornare

Tua nonna ci aveva proibito di dirti della sua malattia, dice Skúli al
telefono. Le hanno diagnosticato un tumore nove mesi fa, un tumore
al colon. Lo chiamano l’assassino silenzioso, perché quando cominci
ad accorgertene si è già diffuso così in profondità che non c’è più
molto da fare. Non voleva che ti disturbassimo. Abbiamo dovuto
prometterglielo. Eri così impegnato, con tutte quelle date per la
rappresentazione. E sembravi così felice con la tua compagna
danese che non ha voluto rovinare il momento. Mi passerà, aveva
detto. Ed Eiríkur deve godersi la vita. È giovane, avrà tutto il tempo
per pensare alla morte. Prima deve poter vivere. E poi non voglio che
mi veda così malridotta, sembro un rottame. Se mi toccasse la
malaugurata sorte di dovermene andare, qualcuno deve conservare
il ricordo di me quand’ero sana. È già sufficiente che ci siate voi tre, a
dovermi sopportare in questo stato. Tu la conosci, Eiríkur. È sempre
stata così, tua nonna. La persona più affettuosa del mondo, ma a
volte sa essere talmente cocciuta che dovrebbe entrare nel Guinness
dei primati. Ma la foto l’hai ricevuta solo adesso, dopo cinque mesi?
Sì, nonno, ha fatto il giro di otto città in sei paesi. Non ho mai visto
così tanti timbri su una busta.
Tua nonna si sarebbe divertita. Non voleva che tu lo sapessi. Te
l’ho già detto? Anzitutto per la ragione che ti ho spiegato prima,
perché non voleva che tu la vedessi in questo stato, ma anche
perché ne aveva abbastanza degli isterismi – così li chiamava – miei,
di Páll e di tuo papà. Secondo lei, le nostre preoccupazioni non
facevano che peggiorare la malattia, invece saperti così felice con la
danese le dava allegria e la forza di combattere contro il cancro.
Tove, si chiama così, giusto? E abbiamo capito che c’era del vero, le
dava effettivamente un’energia in più. Le cartoline che le hai mandato
da tutte quelle città d’Europa, dall’Africa e dall’Asia la rendevano
felice. A volte mi sembrava perfino che riuscissero ad attutire il
dolore, più della morfina. Ti ho mandato la fotografia a sua insaputa,
e quasi me n’ero pentito. Voglio dire, la vedevo così felice di ricevere
solo belle notizie da parte tua. Devo rimettermi in piedi, diceva, per
accogliere come si deve la nostra nuora danese. Probabilmente tua
nonna ha tutto sotto controllo, anche senza rendersene conto.
Perché hai ricevuto la foto soltanto quando l’ha voluto lei. La morte
non deve intralciare la vita più del necessario, mi ha risposto, quando
le ho spiegato che volevo informarti di quanto stava succedendo.
Non ho mai fatto niente senza consultarla. Ma adesso puoi tornare,
Eiríkur. Avevo pensato di chiamarti proprio oggi. È peggiorata
improvvisamente. Dovresti venire subito. Non so per quanto tempo
riesco a trattenerla. Sento che dall’aldilà la stanno tirando forte, e a
volte la morte ha più presa della vita. Non sono più tanto robusto.
Eppure non ho mai tirato con questa energia. Ho paura di non essere
abbastanza forte. Ho paura che tua nonna se ne stia andando. E se è
così, sono sincero, non so che ne sarà del mondo.

Come posso morire se non mi sei accanto?

Due ore più tardi Eiríkur è in strada per l’aeroporto. Poche ore prima
del volo c’era un solo biglietto disponibile, in Saga Class, caro come
la morte, aveva pensato involontariamente Eiríkur, e aveva mandato
un sms a suo nonno dal treno per il terminal, dicendogli che stava
arrivando.
Eiríkur sta arrivando, aveva sussurrato Skúli a Hafrún. L’aveva
sussurrato nella nebbia che si era addensata intorno a lei nelle ultime
ventiquattr’ore. Vi era sprofondata a tal punto che ormai non sentiva
più suo marito, non sentiva più la sua presenza, anche se lui non si
allontanava mai dal suo capezzale. Le parlava, leggeva per lei, le
teneva la mano.
Perché avevano sempre fatto tutto insieme da quand’erano
bambini.
Erano legati l’uno all’altra come le dita di una mano, avevano
sempre risolto i problemi insieme. Quelli dolorosi, quelli difficili, quelli
quotidiani, e si erano aiutati a rialzarsi dopo i colpi della vita. Perché
c’erano stati dei colpi, la vita è un lungo respiro, succede sempre
qualcosa. C’erano stati problemi economici, c’era stato da sistemare i
recinti, prendere la decisione di abbattere un cane che li aveva
accompagnati con devozione e lealtà per quindici anni, c’era stato da
dipingere la casa, da andare a prendere Halldór nei fiordi dell’Est
perché non l’aveva smaltita per un mese intero, aveva perso il posto,
si era coperto di debiti, avevano dovuto accogliere Páll quand’era
tornato distrutto a casa dopo il naufragio della relazione con la
vedova del marinaio, a volte Eiríkur non rispondeva quando Hafrún
gli telefonava il sabato, lei lasciava squillare ma lui non la richiamava,
erano stati momenti pesanti. Avevano superato qualsiasi cosa
insieme e la vita aveva sempre sorriso nella loro direzione ogni volta
che passava dal fiordo. Erano benedetti, aveva proprio ragione Tove.
Avevano fatto tutto insieme. Ma adesso quel legame tra di loro si era
rotto e Hafrún si era persa da sola dentro una nebbia densa, le mani
sulle ginocchia, parlava da sola nella speranza che le sue parole in
un modo o nell’altro arrivassero anche a suo marito. Ti amo da più di
sessant’anni, diceva.
Ti amo da più di sessant’anni. Ti ricordi, avevo solo undici anni
quando me ne sono accorta, tu nemmeno dieci. Eravamo seduti
ciascuno su un cespo d’erba nella valle di Gufudalur. Dovevamo
badare alle pecore, era l’ultima estate del fiordo, perfino di tutta
l’Islanda. Eravamo stati lì a chiacchierare e a sognare, come si fa da
bambini. Mi piaceva guardarti parlare. Vedere come muovevi le
labbra, vedere la luce cambiare il colore dei tuoi occhi che potevano
diventare incredibilmente azzurri – e per la prima volta mi sono
accorta dello spazio che avevi in mezzo agli occhi e d’un tratto mi sei
parso il più carino, il più bello, il più simpatico che ci fosse al mondo.
Eri talmente vivace che i tuoi occhi brillavano. Devo averti guardato in
maniera strana perché hai smesso di parlare e mi hai chiesto,
preoccupato e premuroso, se c’era qualcosa che non andava. Se
qualcosa non andava? Eccome! Avevo undici anni, e mi ero presa
una cotta per un ragazzino di nove. Era umiliante. Ero talmente
arrabbiata che mi sono alzata e ti ho tirato un ceffone con tutta la
forza che avevo. Talmente forte che sei ruzzolato dal cespo. Confuso
e stupito, ti sei rialzato, il labbro inferiore spaccato, ma io ero già
corsa via a gambe levate. Non ho rallentato finché non sono uscita
completamente dalla tua visuale, mi sono buttata per terra in un
prato, strillando furiosa, imprecando contro il terreno molle. Ti ho
amato ogni singolo secondo da allora e fa talmente male, è talmente
ingiusto non sentire più la tua mano, non sentire più la tua voce.
Come posso morire se non mi sei accanto?
Poi si era messa a piangere.
Amore mio, aveva sussurrato Skúli vedendo quel pianto silenzioso
scendere dagli occhi chiusi e sparire tra le lenzuola. Si era alzato, le
aveva asciugato le lacrime, le aveva fatte sparire, sussurrando, sono
qui, e non ti lascerò mai! Le aveva tenuto forte le mani, le aveva
portate alle vecchie labbra, davanti agli occhi azzurri, ma senza
piangere, voleva essere forte per lei. Perché se chi ami è indifeso,
impaurito, piange di dolore e di solitudine, bisogna che tu sia forte. E
lui aveva promesso a sua madre di essere sempre forte. Lei gli aveva
strappato quella promessa sulla riva del mare, un’intera vita prima.
Promettimi di essere forte, per me e per Agnes, perché io posso tutto,
amore mio, finché tu sei forte.
Sii forte, amore mio.

Non bisogna offendere quelle donne fiere

Jón, il padre di Skúli, si gira sulla schiena fuori dalla loro casa per
cercare la nuova galassia, dice il reverendo con la patente. Bisogna
che tu ci vada, non puoi farne a meno; nell’Ovest, sulla Snæfellsnes,
in un passato più profondo.
Non c’è spazio, non c’è tempo, borbotto io e faccio attenzione a
non alzare lo sguardo in modo che lui… non mi metta con le spalle al
muro, non mi porti fuori strada. Bisogna tentare…
Sì, appunto, ecco la parola giusta; tentare. Perché Jón prova a
individuare la galassia che è stata appena scoperta. Anche se credo
che ci voglia un telescopio potente, e che non abbia nessuna
possibilità di vederla, non in questa vita – e nella bottiglia gli restano
quattro sorsate torbide. Forse cinque. Skúli dorme in casa mentre
suo padre se ne sta disteso fuori. Dorme con le due sorelle, sei e tre
anni, ciascuna da un lato. Fa così freddo in casa che i bambini
dormono tutti insieme, per scaldarsi a vicenda. Skúli si sveglia presto
quella mattina, prima delle sei, con la piccola Agnes quasi tra le
braccia. Gli scappa forte la pipì e ancora mezzo addormentato si alza
barcollando dal letto, il freddo del pavimento gli morde la pianta dei
piedi ma è troppo stanco per infilarsi i calzini o le scarpe. Apre la
porta, che si era imbarcata durante la notte, esce, inciampa contro
suo padre – e poi risponde al telefono, settant’anni dopo, accanto a
un letto di ospedale a Reykjavík.

Sì, mormoro io, è proprio così, ma scruto con cura i fogli in cui Kári
imbocca la laterale per Hof, Lúna e Dísa escono sulla soglia per
accoglierlo e salutano con un cenno della mano me e Rúna quando
passiamo in macchina davanti alla casa, diretti all’albergo dove Sóley
mi aspetta, o non mi aspetta, non lo so, io sono…

… un dettaglio secondario, dice il conducente d’autobus, poi si versa


un bicchierino senza offrirmene. I tuoi ricordi e il tuo amore non
devono mettersi in mezzo, a questo punto. Le norne, le tessitrici del
destino, aspettano che ti occupi di loro, non bisogna offendere quelle
donne fiere. Continua a fare quel che devi fare. Se ci riesci
abbastanza bene, in modo che il mondo intorno a noi se ne accorga,
allora forse ti dirò chi sei. Non prima.

Amore mio, ho visto il mondo intero

Solo Dio conosce le risposte, si dice da qualche parte, ma Dio non


dice una parola da duemila anni e quindi l’essere umano resta qui
con le sue domande, le incertezze, la paura dell’inutilità del tutto. Dio
conosce le risposte e il grande contesto, gli esseri umani restano
nell’incertezza, e da lì escono i racconti. Ma allora il diavolo dove lo
vogliamo collocare?
Scruto i fogli, leggo quella cosa su Dio, le risposte e l’incertezza su
dove si debba collocare il diavolo e vedo Jón, il padre di Skúli,
convincere il distillatore di frodo del paese a fargli avere una bottiglia,
la mano è tornata a posto, presto riprenderà il mare e potrà
pagargliela.
Il mio accompagnatore si rigira tra le dita il bicchierino pieno.
Erano tempi difficili, dice lui.
Gli lancio un’occhiata di sotto in su. Ha lo sguardo di chi ha
viaggiato talmente lontano che sa già come va a finire. È possibile
che sia la stessa persona che preparava i pönnukökur nella roulotte
non molto tempo fa? Può un uomo con quel viso, con
quell’espressione, indossare un paio di bermuda ridicoli, sventolare
intorno la spatola per i pönnukökur come un Don Chisciotte fuori
tempo?
Erano tempi difficili, ripete lui – gli anni Trenta. La crisi, o i suoi
strascichi, colpivano ancora come un’ascia spietata la vita quotidiana
della gente comune, e quell’inverno da Hulda e Jón la miseria si era
fatta sentire. Il clima era stato talmente instabile che le ripercussioni
sulla pesca erano state pesanti, oltretutto Jón si era fatto male a una
mano e non usciva in mare da settimane – la somma che doveva al
commerciante continuava a crescere. Dovevano lesinare su tutto, il
carbone era finito due giorni prima e la casa era gelida.
Ed era colpa di Jón.
Se non si erano trasferiti da tempo in una casa migliore. Se non
avevano dei risparmi da parte. Sono proprio come la mamma,
pensava lui a volte, e lo scriveva nelle lettere alle sorelle, perché
qualsiasi cosa dica la contabilità domestica, non riesco a trattenermi
dal comprare libri che mi parlano, di abbonarmi alle riviste, e io e
Hulda siamo perfino andati fino a Reykjavík per ascoltare delle
conferenze, per andare a teatro. Qualcuno in paese ha sicuramente
storto il naso! E c’è poca compassione adesso che siamo davvero
alle strette. Gli sta bene, pensa la gente. Vi ho detto che i miei
compagni di equipaggio per fare gli spiritosi mi chiamano «Jón
l’erudito», maledetti?
Jón l’erudito – lui e Hulda possedevano un centinaio di libri, più di
quanti ne aveva l’istitutore itinerante, quasi quanti ne possedeva il
prefetto di Ólafsvík. Ma, sì, c’è un’altra cosa: non era proprio del tutto
sobrio quando si era fatto male in mare l’inverno precedente. E in
casa ieri mattina faceva talmente freddo che Hulda si era svegliata
con i suoi lunghi capelli scuri congelati contro la parete, e lui aveva
dovuto tagliarglieli. Era preoccupato per lei, aveva perfino cominciato
a pensare a quali libri e quali riviste poteva sacrificare per scaldare
un po’ la casa. Perché Hulda da bambina aveva avuto la tubercolosi,
certo, non aveva riportato troppe conseguenze, ma l’inverno prima la
malattia si era ripresentata e Hulda non era quasi riuscita a lavorare,
le veniva subito il fiatone; non era forse stato quel freddo, a
risvegliare la malattia?

Ma è notte e Jón è ubriaco fuori di casa, e la porta d’ingresso, fatta di


un legno che tende a imbarcarsi con l’umidità tanto che bisogna
forzarla per aprirla, è come bloccata, la casa si rifiuta di farlo entrare.
È un segno, pensa Jón.
Era uscito presto quel giorno per prendere accordi con il
commerciante, sperando di poter ottenere qualcosa da mangiare e
del carbone a credito, ma nell’emporio aveva incontrato dei marinai
inglesi e aveva chiesto loro, com’era solito fare ogni volta che li
incontrava, se magari non potessero allungargli dei vecchi giornali di
qualche settimana prima, che avevano già letto e riletto e di cui
potevano liberarsi senza rimpianto. I marinai l’avevano invitato a
salire sulla loro nave, l’avevano tentato con una birra. Solo una,
aveva pensato lui, poi scendo. Ma le birre erano diventate molte di
più ed era sera inoltrata quando finalmente era sceso a terra, e a quel
punto non se l’era sentita di tornare subito a casa, ubriaco, a mani
vuote. Non sopportava l’idea di sentire la delusione di Hulda, e meno
che mai di vedere la rabbia nello sguardo di Skúli, che era
abbastanza grande per capire il nesso tra il bere e le difficoltà della
famiglia, il freddo in casa, la malattia della mamma e la tosse
persistente della piccola Agnes. E Jón, quasi senza pensare, era
passato a trovare il distillatore di frodo, aveva preso una bottiglia a
credito, poi si era accoccolato nella rimessa, era rimasto lì tutta la
sera su un mucchio di vecchie reti, aveva letto i giornali, si era fatto
qualche sorso dalla bottiglia. Gli inglesi gli avevano dato una bella
pila di riviste, una conteneva un lungo articolo su Edwin Hubble che
una decina di anni prima aveva fatto una scoperta rivoluzionaria sulla
presenza di altre galassie. Jón quell’articolo l’aveva letto tre volte.
Sempre più esaltato, sempre più felice, e alla fine si era ritrovato con
un tale entusiasmo addosso che non era riuscito a trattenersi ed era
corso a casa per raccontarlo a Hulda. Era talmente entusiasta che
aveva dimenticato di essere sbronzo, di non essere più ripassato da
casa dal momento in cui era uscito per chiedere al commerciante di
fargli credito, che rientrava a mani vuote e ubriaco. Aveva
dimenticato tutti questi dettagli. Che del resto nemmeno contavano –
che importanza ha il quotidiano quando il cielo dà un colpo di tosse,
aveva pensato, e aveva fatto gli ultimi metri fino a casa quasi di
corsa.
Ma la porta era bloccata.
Era piovuto molto negli ultimi giorni e il legno si era gonfiato
talmente tanto che la porta si era bloccata e non si smuoveva. La
casa si rifiutava di farlo entrare. Jón aveva sospirato, aveva alzato lo
sguardo al cielo e si era reso conto che doveva essere passata la
mezzanotte e Hulda dormiva di sicuro. Ma aveva anche visto che il
cielo era quasi del tutto sgombro, la temperatura era scesa, le stelle
stavano tornando. È un segno, si era detto Jón – è un segno!
Era chiaro!
Il destino e sua madre Guðríður gli stavano mandando un
messaggio dicendo che da quel momento in poi avrebbe sempre
dovuto alzare gli occhi al cielo, dove regnano la vita e la bellezza.
Non doveva far altro che distendersi per terra per contemplare tutto il
cielo con un solo sguardo, e aspettare di smaltirla mentre cercava
quella galassia appena scoperta. Perché in un certo senso sarebbe
stato come posare gli occhi sull’eternità.
Aveva tirato fuori la bottiglia dai pantaloni, l’aveva lanciata lontano
con disprezzo, e si era sdraiato di schiena. Chi cerca l’eternità non ha
più bisogno di bere. Doveva solo riprendersi dalla nausea che era
salita quando si era disteso. Passerà subito. Poi guardare, parlare
con il cielo, e ascoltarlo. La notte passerà, poi tornerà in casa,
abbraccerà Hulda, le bacerà i capelli, le bacerà il collo, gli occhi, dirà,
svegliati, amore mio, perché ho visto il mondo intero. E quando ho
visto che la vita è più grande della morte ho buttato via la bottiglia,
perché sapevo che non avrei avuto mai più bisogno di bere. Amore
mio. Andrà tutto bene.

È così bello ascoltarti, lo sai, vero?

In un cimitero spoglio verso l’estremità della penisola di Snæfellsnes,


un punto talmente estremo che si vede soltanto il mare a perdita
d’occhio, si trova ancora la bella lapide di Jón Gíslason, una lastra di
pietra piuttosto grande, lisciata e modellata per secoli dal mare,
almeno trenta chili, trovata da sua moglie Hulda. L’aveva cercata a
lungo, era andata per ogni dove, aveva percorso chilometri di costa
per trovare la pietra giusta, e l’aveva portata a casa per tutto quel
tratto di strada. La pietra era così pesante, e lei con le sue braccia
esili, con i polmoni tisici, aveva avuto bisogno di fermarsi molte volte
per l’affanno, aveva avuto bisogno di riposarsi, poi si era messo a
nevicare, a nevicare forte, e la neve l’aveva trasformata in un angelo
triste che portava una lapide per la morte.
Circa ottant’anni dopo si trovano in tre davanti a quella lapide,
Halldór e Páll, poi Eiríkur nello spazio in mezzo a loro, e leggono
quello che Hulda aveva inciso personalmente sulla pietra,
un’incisione così profonda che il tempo non era ancora riuscito a
consumarla: JÓN GÍSLASON (1901-1939), MARINAIO, AMATO MARITO E PADRE.
DOLOROSAMENTE RIMPIANTO.
Due date che incorniciano la nascita e la morte e poi quel breve
trattino in mezzo in cui dovrebbe trovar posto tutta la sua esistenza,
tutti i suoi pensieri, i sogni, il contatto delle sue mani, gli occhi
sorridenti, astuti, che potevano scurirsi per il dolore, potevano
diventare tenebrosi, dovrebbe trovar posto tutta la sua infanzia,
beniamino delle sorelle, legato a sua madre, amato da Hulda, amato
dai figli, nonostante li avesse delusi tutti. Tutto questo dovrebbe
trovare posto in quel breve trattino, un marinaio rispettato per il
coraggio, l’accortezza, l’abilità, che non si lasciava spaventare da
nessuna tempesta, un po’ troppo incline ad alzare il gomito ma
animato da un desiderio inestinguibile di conoscenza; sei proprio un
gran cervello, dicevano a volte i suoi compagni di equipaggio. Ed era
morto fuori dalla porta di casa sotto un cielo terso di una notte di
febbraio, amato, dolorosamente rimpianto.
Rimpianto e oblio.

Ricordati di me, e i demoni si allontaneranno.


Dimenticami, e mi strapperanno le viscere.

Si erano fermati a lungo davanti alla lapide, i due fratelli, poi Eiríkur li
aveva raggiunti; talmente a lungo che la loro presenza era
sicuramente filtrata nel terreno, fino a raggiungerli tutti e tre, perché
Jón non è il solo a essere sottoterra, nelle tenebre tra i poeti ciechi –
sulla lapide ci sono anche i nomi di Hulda e di Agnes, la sorellina, che
voleva dormire stretta a suo fratello. Agnes Jónsdóttir (1935-1939),
Hulda Jónasardóttir (1905-1939). Poi i tre avevano continuato il loro
viaggio fino a Uppsalir, dov’era cominciato tutto. Perché era stato una
sorta di pellegrinaggio.
Avevano seguito le strade di campagna percorrendo gli antichi
sentieri, e per gli ultimi chilometri avevano dovuto procedere a piedi,
non c’era una strada né una pista che portasse alla fattoria, quasi
nemmeno un tratturo. Poi si erano fermati davanti alle rovine cadenti
e alle pareti crollate e c’era rimasto poco, praticamente niente, a
ricordare la baðstofa dove Gísli e Guðríður si erano addormentati e
svegliati molte migliaia di volte e avevano avuto i loro momenti. Dove
erano nate le due bambine più piccole, dove avevano trascorso la
loro infanzia, forse monotona ma piena di affetto; dove Gísli aveva
nutrito i sogni di un appezzamento nelle campagne a valle, e magari
sulla riva del mare. Dove si era masturbato dentro un calzino di lana
e dove Pétur aveva visto per la prima volta un sorriso pericoloso.
Quella baðstofa adesso è sparita, è stata cancellata completamente,
sembra quasi che non sia mai esistita. Ed è sparito anche il cortile,
dove tre bambine entusiaste si erano precipitate a vedere Pétur e
Ljúf che si avvicinavano, è sparito il corridoio del casale dove la loro
mamma era rimasta nascosta come una sciocca, nel punto in cui le
tenebre incontravano la luce del giorno, era rimasta lì e aveva atteso
di sentire la voce del pastore per la prima volta. Il corridoio del casale
da dove sarebbe uscita con una pila di frittelle per Gísli e Björgvin e
per le sue bambine che non volevano allontanarsi dalla giumenta di
cinque anni; era uscita dal corridoio e poco più tardi aveva
attraversato il corpo di Eiríkur, che si era trovato lì in piedi davanti ai
ruderi poco meno di centovent’anni dopo – e il suo cuore aveva avuto
un sobbalzo a sentirne la presenza.

Ma il figlio di Guðríður, il pupillo, l’ultimo della nidiata, il figlio maschio


tanto desiderato che Gísli aveva sognato di mettere al mondo per
poter uscire in barca con lui, era disteso di traverso davanti alla porta
d’ingresso, quando alle prime luci dell’alba Skúli era uscito per
andare a urinare. Si era svegliato con un bisogno urgente ed era
uscito alla svelta, con una tale fretta che era inciampato in suo padre.
Era caduto, era ruzzolato sulla terra fredda. Fuori era ancora buio, un
cielo terso di stelle, la Via Lattea sospesa da qualche parte lassù
nell’oscurità e non si era mossa nonostante quel bambino di sette
anni fosse caduto addosso a suo padre, fosse ruzzolato sulla terra
fredda del mattino spaventandosi a tal punto che la vescica si era
svuotata.
Oh, no, aveva pensato Skúli sentendo l’urina calda scorrere e
impregnare il pigiama. Si era alzato pieno di pipì e aveva visto suo
padre disteso sulla schiena, stranamente immobile, stranamente
rigido, con la testa piegata all’indietro.
Papà, aveva sussurrato Skúli, papà, svegliati! E si era messo a
scuoterlo vedendo che Jón non gli rispondeva. L’aveva implorato di
svegliarsi perché non poteva rimanere lì disteso, la mamma e le
bambine stavano per svegliarsi. Papà, aveva sussurrato lui, più volte.
Papà caro, devi svegliarti! Scusami se mi sono arrabbiato con te.
Non mi arrabbierò mai più, se adesso ti svegli. Non vuoi raccontarmi
che cosa hai letto? È così bello ascoltarti, papà caro, lo sai, vero, e lo
sai che ti voglio bene, aveva sussurrato Skúli cercando di ripulire il
vomito dalla faccia di suo padre. Ma Jón non rispondeva. Sembrava
non gli importasse più di niente. Era disteso sulla schiena, la testa
piegata all’indietro, come per uno spasmo. Era soffocato nel suo
stesso vomito mentre cercava un’altra galassia nel cielo notturno.

Ti ricordi quando ti ho dato un ceffone

nella Gufudalur?

Due mesi dopo Hulda aveva accompagnato Skúli fino alla riva del
mare. In una giornata limpida e tersa. Il bambino aveva guardato
dritto davanti a sé per tutto il tempo, concentrato ad ascoltare sua
mamma, ad assorbire le sue parole e la sua presenza, a trattenere le
lacrime. Voleva tenerle lì, voleva essere forte per sua mamma.
Avevano camminato piano per allungare la strada, quel momento
insieme. Lei gli aveva raccontato del fiordo che lo attendeva e della
piccola valle piena di verde. Era stata lì poco più di un anno da
bambina, era stato un bel periodo, era stata accolta da brave
persone, e Margrét, che adesso è la fattoressa di Botn ed è
impaziente di tenere Skúli con sé, era la sua migliore amica. A volte
ci siamo scambiate delle lettere, aveva detto Hulda. Andrà tutto bene,
aveva detto Hulda.
Sei molto fortunato a poter partire. Hai solo sette anni e potrai
vedere delle belle campagne, un paesaggio variegato, e tutte le case
che ci sono a Stykkishólmur! È quasi come andare a Reykjavík. Non
conosco nessun bambino di sette anni che abbia visto tanto mondo
come te. Sei fortunato. Diventerai molto saggio. Sono orgogliosa di
te. Sei bello, bravo e simpatico. Andrà tutto bene, vedrai. Devi solo
avere pazienza. A volte deve succedere qualcosa di molto brutto,
perché possa succedere il meglio. Lo so che sarai felice. Invidio tutti
coloro che ti conosceranno, che vivranno vicino a te. Che fortuna che
hanno! Magari tra un anno si sarà sistemato tutto, potrò mandare
qualcuno a prenderti. Non vedo l’ora! Ma prima devi essere molto
forte per un po’, ce la fai, tesoro mio, me lo prometti?
Poi avevano raggiunto la riva e Hulda si era inginocchiata accanto
a lui. La barca che doveva traghettarlo fino al peschereccio era in
attesa lì vicino. Lo aveva abbracciato forte, l’aveva tenuto a lungo,
l’aveva stretto con tutta la forza con cui è possibile abbracciare a
questo mondo. E lui aveva sentito che la mamma tremava. Su, su,
aveva sussurrato lei, che stupida che sono, bagnarti questo tuo bel
maglioncino. Caro, caro il mio bel bambino, il mio bambino bravo e
bello!
Gli aveva aperto il palmo della mano, se l’era appoggiato sul
cuore, l’aveva chiuso dolcemente, ma ben stretto, e aveva detto
piano, adesso il mio cuore sarà sempre con te. Prenditene cura, e sii
forte.
Era rimasta sulla riva a guardarlo mentre si allontanava, la barca
era salpata e sua madre era diventata sempre più piccola via via che
si allontanava. Come se la distanza la cancellasse a poco a poco.
Come se la distanza fosse un altro nome per la morte.

Era salpata – poco meno di sette decenni dopo lui è seduto al


capezzale di Hafrún e le tiene forte la mano. Si è addormentato,
esausto. La testa era caduta in avanti, la fronte era appoggiata sul
materasso. Si era addormentato, e si trova sul ponte della nave che
si allontana da sua mamma. La guarda diventare sempre più piccola,
la guarda morire, ma a quel punto Skúli comprende che l’unica cosa
da fare è lasciarsi scivolare nella barchetta che il peschereccio si
trascina dietro, e remare fino a terra. Allora potrà salvare non solo
sua mamma e Agnes, ma anche Hafrún. Ma non importa quanto ci
provi, non riesce a muoversi, una forza potente e invisibile lo
trattiene. Si accanisce, ci mette tutta la forza che ha, ma non si
muove. Non è abbastanza forte. Piange amaramente sul materasso
del letto ma si sveglia quando Hafrún gli accarezza la nuca, per
tranquillizzarlo.
Alza lo sguardo e incontra il suo sorriso. Allora sei tornata,
sussurra lui felice. Lei non risponde, il suo palmo caldo, la mano
magra, lo carezza teneramente. Ti ricordi, sussurra poi lei, e deve
mettercela tutta per farsi sentire, ti ricordi quando ti ho dato un
ceffone nella Gufudalur? Lui annuisce, poi lei si lascia andare di
nuovo sul cuscino, esausta, e sussurra, ancora sorridendo, ah, come
potevo non innamorarmi di te?
Skúli le stringe la mano e sente che il pianto torna a riempirgli il
petto, ma ha promesso di essere forte e quindi si sporge in avanti, le
bacia la mano, le bacia le dita, riesce a trattenere il pianto. Si siede di
nuovo, controlla il cellulare e vede un sms di Eiríkur, inviato due ore
prima: «Nonno, ho trovato un biglietto in Saga Class (!) decollo tra
due ore, chiedi a papà di venire a prendermi all’aeroporto, sarò lì al
massimo tra sei ore.»
Skúli si alza, si china verso Hafrún e le sussurra che Eiríkur sta
arrivando. Lei apre gli occhi, sorride di nuovo, gli stringe la mano, due
volte.
E allora Skúli piange.
Piange da bambino di sette anni su un peschereccio che si
allontana da sua mamma, da uomo anziano in un ospedale di
Reykjavík.

Si comprende solo l’incomprensibile

E poi Hafrún entra nelle tenebre da dove nessuna frase ci ha mai


raggiunti, dice il conducente d’autobus consacrato, e rigira il
bicchierino vuoto tra le lunghe dita. Il tono della voce mi dà la
spiacevole sensazione che conosca sia le tenebre in cui tutti
sembrano sparire, sia le frasi che vi sono bloccate e che non sono
mai riuscite a raggiungere il mondo dei vivi.
Guardo i fogli nella speranza di potermi allontanare da
quest’uomo. Di poter tornare a me stesso, seduto nella jeep accanto
a Rúna, diretto all’albergo. Deve andare a prendere tre bottiglie di
grappa per la festa, della cioccolata fondente per le torte francesi al
cioccolato. Ho una gran voglia di tornare lì, di ascoltare il prossimo
brano sulla playlist della Morte, e di vedere Sóley, di assorbire il suo
sorriso e quella sua energia luminosa che sembra rendermi la vita più
facile. E voglio incontrare la famiglia canadese in piscina, scoprire
come siano imparentati con Eiríkur, per quale motivo ha dei parenti
nell’Ovest oltreoceano – sospetto che la risposta potrebbe aiutarmi a
capire il nesso. Sempre che ci sia, il nesso.
Abbasso lo sguardo sui fogli scritti, i caratteri piccoli, fitti, la grafia
scomposta del diavolo, ma non riesco a ritrovare me e Rúna, vedo
invece Eiríkur uscire dal Leifsstöð, l’aeroporto di Keflavík. Anzi, per
essere più precisi, dall’aeroporto che si trova sopra Keflavík, sorto
sugli antichi pascoli comunitari di Njarðvík. Halldór è andato a
prendere suo figlio. Non si vedono da… tre, quattro anni?

È invecchiato, pensa Eiríkur, che quasi non se l’aspettava. Perché


Halldór è dimagrito molto, l’agilità e la passione giovanile sono
sparite. Il volto è diventato più appuntito, più scuro, ed è come se gli
occhi si fossero infossati. Non lo riconosco più, pensa Eiríkur
sconfortato, non sa dire niente, lo saluta a malapena, sta solo di
fronte a suo padre, aggrappato alla grossa valigia, è tornato il
bambino di sei anni che teme di non essere abbastanza bravo
perché suo papà decida di volerlo con sé nel suo gruppo musicale.
Hai portato la chitarra, dice Halldór invece di salutarlo, e fa un cenno
con la testa verso il manico che spunta dietro la spalla sinistra di
Eiríkur – che si limita ad annuire. Con la chitarra, la grossa valigia
pesante che si è trascinato dietro per tutta l’Europa negli ultimi mesi,
e dall’Africa a Baghdad. Tove si era offerta di tenergli valigia e
chitarra nel piccolo appartamento che Eiríkur aveva acquistato a
Marsiglia poco più di un anno prima. Ma lui aveva rifiutato la
proposta, aveva scelto di portarle con sé in Islanda, senza saperne il
motivo. E adesso annuisce alle parole di suo padre come a conferma
del fatto che ha portato la chitarra, ma anche per salutarlo. Non si
vedono da tre, quattro anni, e si salutano con uno che dice, hai
portato la chitarra, e l’altro che annuisce. Potrei suonargli I’ll Follow
the Sun, si dice per un momento Eiríkur mentre segue suo padre.
Riconoscente che non gli abbia parlato né chiesto altro e si sia
accontentato di dire che l’automobile era parcheggiata lì vicino.

Si allontanano dall’aeroporto senza dire niente, attraversando il


campo di lava tra Keflavík e Reykjavík che ha cominciato a indossare
i forti colori autunnali. Eiríkur si imprime nella mente l’ambiente, si
rende conto di quanto l’Islanda gli sia mancata. La luce, l’odore, il
paesaggio. Guarda il campo di lava, i tetti di Keflavík e il ghiacciaio
Snæfellsjökull sull’altro versante dell’ampia baia di Faxaflói. È come
se volesse dirmi qualcosa, pensa Eiríkur mentre risponde con un sì a
una frase di suo padre.
Si erano scambiati qualche parola, qualche frase, all’inizio. Eiríkur
aveva chiesto di sua nonna, del nonno, Halldór della tournée teatrale.
Poi erano rimasti in silenzio. Non era esattamente un silenzio
piacevole, eppure avevano avuto difficoltà a romperlo. Come se non
sapessero più né parlare, né tacere insieme.
Ne siamo mai stati capaci, si chiede Eiríkur mentre scivolano fuori
da Njarðvík, piegano sulla Reykjanesbraut e passano di fianco ai
concessionari di auto. I dintorni di Keflavík sono belli, aveva detto una
volta Páll a Eiríkur, forse perché a volte sembra davvero che non sia
affatto un paesaggio, solo vento, spazio e gabbiani. Il panorama
diventa misterioso e affascinante quando non c’è.
Probabilmente si comprendono meglio le spiegazioni
incomprensibili in sé e per sé, pensa Eiríkur e concorda, forse con
troppo entusiasmo, quando Halldór gli chiede se può continuare ad
ascoltare Páll che legge Il mentitore di Martin A. Hansen, o meglio Il
diacono di Sandey, titolo che per qualche motivo porta nella
traduzione islandese. Páll è tornato a casa, spiega Halldór, per
leggere dei romanzi per la mamma. Nelle ultime settimane ha avuto
qualche difficoltà a leggere, si stanca subito, invece ascoltare non le
dà problemi ed è stata molto felice quando le abbiamo portato le
letture di Palli.
Eiríkur si sente così sollevato, così felice che suo padre non abbia
voluto ascoltare della musica che forse ha accettato con troppo
entusiasmo la proposta della lettura di Palli – l’idea di ascoltare
musica accanto a Halldór, canzoni cariche di ricordi, è assolutamente
soverchiante. Aveva temuto perfino che suo padre avesse preparato
una compilation di brani da ascoltare insieme lungo la strada. Le loro
canzoni. Eiríkur si era appoggiato all’indietro sul sedile, sollevato
mentre ascoltava Páll che leggeva. «Com’è che ti ho chiamato, ieri
sera?»

«Nataniel! Adesso me lo ricordo. Avevo bisogno di parlare con


qualcuno, e allora ti ho chiamato, non so da dove.»

Eiríkur ascolta, osserva il campo di lava, i monti bassi, l’oceano blu e


scarmigliato. Più veloce, guida più veloce, pensa, vedendo che suo
padre supera di rado i cento all’ora. Vai più veloce, più veloce che
puoi!
Socchiude gli occhi, si avvicinano a Hafnarfjörður, invia a sua
nonna messaggi mentali, uno dopo l’altro, nonna cara, nonnina, sto
arrivando, sto arrivando! Perdonami se ci ho messo così tanto a
tornare. Ma adesso sono qui e non vi lascerò più, né te né il nonno.
Non andartene. Non so come faremo ad andare avanti senza di te.
E a quel punto telefona Páll.

Ma i morti possono conversare?

Ed era andata com’era andata. Le cose vanno così. Devono


succedere. La vita è movimento. La chiamiamo morte quando si
ferma. Com’è che ti ho chiamato, ieri sera? La vita dà forma al
destino, oppure è il destino a dare forma alla vita, Dio ha creato il
mondo, o è stato il mondo a creare Dio? Com’è che ti ho chiamato?
Non mi hai mai chiamato in nessun modo, e men che meno Nataniel,
e meno che mai ieri sera perché tu esisti soltanto da otto ore circa.
Se si fanno le somme, il risultato è centoventi anni. Hai ragione a dire
che è andata com’è andata, perché ogni cosa deve succedere.
Hafrún era entrata nelle tenebre, lasciando Skúli in lacrime al suo
capezzale, lui che probabilmente non piangeva da quando aveva
ricevuto la lettera che suo zio gli aveva scritto quand’era a Nord, a
Botn, per fargli sapere della morte di sua madre Hulda e della piccola
Agnes. Se n’erano andate a un giorno di distanza. Agnes era stata la
prima. Dio sia lodato, aveva aggiunto lui. Adesso riposano accanto a
tuo padre. Spero che tu sia in salute.
Aveva scritto «Dio sia lodato» perché Hulda era riuscita a tenere a
bada la morte abbastanza a lungo per poter stringere tra le braccia la
sua Agnes, in modo che non morisse da sola – e poi si era affrettata
a raggiungerla nelle tenebre? E l’aveva trovata, la sua bambina, nel
buio, è possibile trovare qualcuno dopo la morte? Che Jón le avesse
accolte entrambe? I morti possono conversare, si possono consolare
a vicenda, oppure cose del genere sono dominio esclusivo della vita?
Accidenti quante domande che fai – nel 1939 morirono di tisi circa
cento persone. Perché le cose stanno così. Halldór ed Eiríkur erano
all’altezza della fonderia di alluminio di Straumsvík quando Páll
aveva telefonato a suo fratello. La mamma se n’è andata, aveva
detto.
E così Eiríkur era arrivato troppo tardi?
La questione non è arrivare tardi, l’importante è esserci, essere
presenti in un modo o nell’altro, e lui non c’era stato. Aveva fallito, e lo
sapeva. Per questo aveva sperato che suo padre accelerasse, che
superasse i limiti di velocità, nella speranza di poter guadagnare un
po’ di tempo. Poi era andata com’era andata.

Com’era andata, penso io, abbasso lo sguardo, vedo Eiríkur e


Halldór arrivare troppo tardi al letto di ospedale, e vedo che entrambi
hanno fallito, ciascuno a suo modo.
Un pesce nuota lo stesso quando lo si priva

dell’acqua?

Tre giorni più tardi raggiungono il Nord con la bara. Sul pick-up di
Halldór. È solo nell’abitacolo, perché Skúli, Páll ed Eiríkur sono seduti
su un materasso spesso posato sul pianale, contro la cabina di guida,
per tutto il tratto fino al Nord, un tragitto di cinque ore in auto, come se
volessero prendersi cura della bara, oppure per fare compagnia a
Hafrún. Nevica sopra di loro sulla brughiera di Holtavörðuheiði ed
Eiríkur ha talmente freddo che si è quasi trasformato in un ghiacciolo.
Che sarebbe stata un’ottima cosa perché i ghiaccioli non sentono
nulla, si sciolgono e basta. Forse è vietato sedersi sul pianale di un
pick-up che percorre la statale a cento all’ora. Forse non si può
nemmeno trasportare un cadavere e una cassa da morto in queste
condizioni – la bara certo è ben assicurata, ma i tre uomini non hanno
la cintura, sballottano e sobbalzano con i movimenti dell’auto, con le
curve della strada. Qualcuno sicuramente deve essersi allarmato,
forse è rimasto scioccato, si è perfino arrabbiato, in ogni modo, la
polizia viene informata di questo strano trasporto e li raggiunge
appena prima di arrivare a Borðeyri.

Li raggiunge, i lampeggianti accesi, fa loro cenno di fermarsi, di


accostare sul ciglio. Cosa che Halldór fa, spegne il motore, esce e
Skúli, Páll ed Eiríkur scendono dal pianale. Due agenti, appena
trentenni, escono dalla volante e si avvicinano ai quattro uomini.
Dove state andando? Chiede uno dei due, poi si morde subito un
labbro e l’altro abbassa lo sguardo; hanno visto la cassa da morto e
si adombrano in volto con un’aria dispiaciuta.
Per qualche momento cala il silenzio. I quattro uomini osservano i
due agenti, che tergiversano, quello che aveva formulato la domanda
si guarda la punta dei piedi, imbarazzato.
Stiamo portando a casa la mamma, risponde Halldór. Spero non ci
siano problemi. Spero che non ci siano leggi che proibiscono di
tornare a casa, anche da morti.
No, in effetti no. Certo che no, si affretta a rispondere il poliziotto
imbarazzato.
Però ci avete fermati. Quindi non possiamo trasportare la mamma
morta dietro sul pianale del pick-up? Lo vedete anche voi che
l’abbiamo assicurata bene. Non se ne va da nessuna parte. Anche
se, in effetti, se n’è già andata. Per il resto, credo che i morti non
siano di pertinenza del codice di leggi che rappresentate. Dovreste
essere degli dei, per avere qualcosa da ridire. E di certo non lo siete –
scusate la franchezza.
Gli agenti si scambiano un’occhiata, esitanti. La cosa è partita
male. No, dice quello che era rimasto in silenzio, no, forse non è
proibito trasportare il cadavere della propria madre su un pianale,
anche se certo è una cosa estremamente insolita… però voi sul
pianale non ci potete stare, senza cintura, e andarvene in giro per le
strade del paese. Questo è ovvio. Non si può. Questa è un’infrazione.
Dovreste saperlo!
Allora la mamma deve rimanere da sola, sul pianale?
Signore, senta, comincia l’agente, mentre il collega continua a
tenere lo sguardo basso, ma a quel punto Skúli si stacca di un passo
dal pick-up, accanto al quale si trovava tra Páll ed Eiríkur, e comincia
a parlare. Parla lentamente, a voce bassa, lo sguardo fisso rivolto a
turno ai giovani agenti: io e mia moglie ci conoscevamo da più di
sessant’anni e siamo sposati da più di mezzo secolo.
O meglio, lo siamo stati. Adesso è morta. Io non so vivere senza di
lei. È un dato di fatto. Non mi sto lagnando. Mi attengo ai fatti. Lei si
chiama Hafrún, e si chiamerà così per l’eternità, questo la morte non
lo potrà cambiare. Non ho intenzione di provare a descriverla per voi,
che siete così giovani e oltretutto avete il vostro bel daffare. Mi
accontento di dire che il mondo sarebbe un posto straordinariamente
bello se ci fossero più persone come lei. Un paradiso. Ma Dio ha
deciso di chiamarla a sé troppo presto, e senza di me. Questo è un
dato di fatto con cui devo imparare a convivere. Non so come andrà.
Un pesce nuota lo stesso quando lo si priva dell’acqua? Ha un senso,
per la Terra, continuare a girare, se hanno spento il sole? Voi siete
giovani. È il vostro ruolo far rispettare la legge, proteggere chi ne ha
bisogno, ed è una nobile missione. Andate a fare il vostro dovere. Qui
non c’è niente per voi, se non una vecchia contadina morta e quattro
uomini in lutto. A questo punto il compito tocca ai cieli, agli dei e al
tempo.

I due poliziotti restano seduti nella volante in silenzio per un lungo


momento, osservano il pick-up allontanarsi, e sparire, con i quattro
uomini seduti nel pianale. Con i maglioni e i berretti, tranne il vecchio
che è a capo scoperto, i capelli grigi piuttosto lunghi svolazzano in
ogni direzione. Facciamo finta di non averli trovati, dice infine uno dei
due, quello che aveva chiesto dove stavano andando. Ma il
conducente non puzzava, secondo te? Chiede l’altro esitante. Di
alcol, vuoi dire? Sì, e non avremmo dovuto…
Cosa?
Chiedergli di fare il test.
C’era sua mamma nella cassa.
Sì, lo so.
E l’hai visto suo padre, hai sentito cosa ha detto.
Sì, certo, però…
Non hai notato quanto spazio aveva in mezzo agli occhi? Non
avevo mai visto niente di simile.
Sì, sì, è vero, però, cioè, voglio dire…
Ho avuto l’impressione che mi guardasse con il terzo occhio. Il
terzo occhio, capisci. Ho sentito dire che per chi fa yoga quello è il
punto in cui si concentra l’energia di vita al momento della morte.
Eeeh, sì, forse, però io quella cosa lì dello yoga non l’ho mai
capita. Queste cose le lascio a mia moglie. Ammetto che c’era
qualcosa di strano. Ma ciò non toglie che il tizio alla guida…
Ma li hai visti in faccia? Non hai visto che avevano tutti quanti una
faccia come, non so come dire, forse come una lacrima. Sì, erano
come una lacrima. È l’unica cosa che mi viene in mente.
L’espressione del volto, dico.
Come una lacrima?
Hai capito cosa voglio dire. Non sono capace di spiegare certe
cose. Insomma, li hai visti anche tu.

È
È vero, li ho visti ed è stato penoso. Però sono quasi sicuro che
quel tale puzzasse di alcol.
Avresti voluto chiedergli di fare il test, ti sembra il giorno giusto, il
momento, con la madre morta a due metri di distanza?
No, forse no. Oppure sì, ecco. È un’infrazione, guidare sotto gli
effetti dell’alcol. Non c’è dubbio.
Io dico che non è successo niente, non li abbiamo mai visti. E
non… non si misura il tasso alcolico del dolore.

Abbassa lo sguardo, evidentemente imbarazzato. Poi allunga un


braccio verso l’autoradio, forse per rompere il silenzio spiacevole che
riempie l’auto dopo le parole del collega. L’accende, la sintonizza su
Bylgjan e alza il volume quando sente le note iniziali di Tragedy dei
Bee Gees.
Ma nella playlist della Morte non ci mettiamo nemmeno un pezzo
dei Bee Gees. No, certo che no. Non siamo mica dei cialtroni.

Ragazzo, mi accendi!

L’avevano sentito tutti l’odore, Eiríkur, Palli e Skúli. Ma non ne


avevano fatto parola. Nessuno di loro ne aveva avuto il coraggio.
Hafrún però sicuramente avrebbe voluto parlarne, se ne sarebbe
offesa, solo che lei aveva smesso di parlare, saldamente assicurata
al pianale del pick-up, per occupare, non molto tempo dopo, il posto a
lei riservato nel cimitero di Nes. Non diceva più niente, perché era
sparita nelle tenebre da cui non proviene alcun suono. Nessuna
notizia, nessun evento degno di nota, niente musica. Sparita nelle
tenebre e nel silenzio.
Là dove tutto viene inghiottito.
Osserviamo disorientati le persone a cui vogliamo bene sparire
laggiù, chiamiamo, urliamo, piangiamo, imploriamo, ma non
otteniamo risposte. Nessuna reazione. Lo spazio tra loro e noi
sembra invalicabile almeno quanto lo spazio che separa le galassie.
Oltretutto, bisogna pagare con la vita per poterci andare,
letteralmente, e non ci sono possibilità di tornare indietro, il biglietto
vale solo per l’andata.
Nessuna reazione. Salvo forse quando ci fu bisogno di rialzare il
vecchio Kári di Botn, che era diventato un’inutile recinzione caduta,
uno spettacolo fastidioso, allora Margrét era tornata dal mondo dei
morti e aveva fatto in modo che le volte in cui il marito aveva
un’erezione fossero sfruttate al meglio. È l’unico caso che
conosciamo. Ogni universo ha le sue eccezioni.
Assicurata saldamente al pianale, poi calata sottoterra qui nel
cimitero di Nes, ed era stato il vecchio pastore, il reverendo Arnljótur,
a celebrare il funerale. Era il suo pastore e un suo amico, aveva
officiato il matrimonio con Skúli, battezzato e cresimato i ragazzi.
Te ne sei andata, aveva detto, e la sensazione è quella di essere
stati privati di una montagna. Una montagna mite, generosa e verde,
abbondante di bacche, sulla quale si trova un lago placido e
profondo. Una montagna che attirava a sé la luce e il sole. Che
riverberava quel calore che rende più mite la vita intorno a sé. Te ne
sei andata e sicuramente il numero degli uccelli diminuirà, presto
tacerà il loro canto. La tua presenza rendeva tutti persone migliori.
Per questo noi rimaniamo qui, noi che siamo peggiori. Nessuno saprà
più aggiustare i trattori se si guastano. Grazie per essere stata con
noi tutti questi anni. Ormai dobbiamo imparare a vivere senza di te,
mentre i cieli esultano per averti accolta. Non vedo l’ora di ritrovarti,
amica mia.
Arnljótur aveva concluso il suo discorso, l’aveva tenuto a braccio,
la voce esile e rotta dalla vecchiaia, eppure abbastanza forte per la
piccola chiesa, che era stracolma; molti non avevano trovato posto
all’interno. Un flusso ininterrotto di automobili e Álfrún di Skarð, che
aiutava sempre Arnljótur a tenere messa, si spostava da una vettura
all’altra indicando ai conducenti dov’era meglio parcheggiare,
distribuiva il programma con i salmi e avvisava di sintonizzarsi su un
canale radio per poter ascoltare dall’auto. Arnljótur aveva tenuto la
sua omelia, gli era venuta dal cuore, poi si era seduto, stanco,
intristito, e in chiesa era calato il silenzio, aveva riempito le macchine
parcheggiate fuori. Il pastore aveva abbassato gli occhi, come in
attesa che il coro cantasse l’ultimo brano, un coro di sette persone,
cinque donne, due uomini – un coro più grande non avrebbe trovato
spazio sulla piccola balconata. Poi d’un tratto si era riscosso, si era
schiarito la gola, si era alzato con qualche difficoltà, aveva osservato i
fedeli e aveva detto ad alta voce, sarà un’esperienza straordinaria
per me essere morta.
Sì, sarà un’esperienza straordinaria per me essere morta, me lo
aveva detto Hafrún dopo aver capito di aver perso la battaglia. È una
novità. La cosa più strana, aveva continuato, la cosa più strana
sicuramente sarà non poter più intervenire su quanto accade in
campagna, e meno che mai a casa, a Oddi. Temo che il Padre dei
Cieli mi debba legare come una pecora cocciuta per farmi rimanere
nell’aldilà. Però l’ultima cosa che chiedo, l’ultima cosa a cui tengo in
questo mondo, è far sì che i miei tre ragazzi, Halldór, Palli ed Eiríkur,
cantino un brano alla fine della celebrazione, per me e per Skúli.
Arnljótur si era interrotto, si era schiarito di nuovo la voce, poi
aveva alzato gli occhi e le braccia in alto e aveva detto, con voce
forte: fate scendere tutto! E subito dopo, non dal cielo ma dalla
balconata del coro, erano discesi due chitarre, un piccolo
amplificatore, due microfoni, una batteria, due bacchette e uno
sgabello. I due fratelli ed Eiríkur si erano alzati per prenderli. Doveva
essere una sorpresa per te, caro Skúli, gli aveva detto Arnljótur
vedendo che osservava la scena stupito. Adesso ascolteremo una
delle vostre canzoni preferite. Una canzone che Hafrún mi ha detto
ascoltavate spesso mentre preparavate la cena il sabato sera. E mi
ha chiesto di dirti: ti ricordi come ci divertivamo, ti ricordi come non
vedevamo l’ora di cucinare insieme, ti ricordi quando ballavo come
una sciocca, e a te piaceva sempre tanto!
Ragazzi, prego – la chiesa è vostra.

Padre e figlio avevano sistemato gli strumenti in silenzio, avevano


accordato le chitarre, ed erano rimasti immobili per qualche istante
fianco a fianco guardando la chiesa che era ancora più gremita. In
molti erano scesi dall’auto appena avevano capito che cosa stava
succedendo, erano entrati silenziosamente e avevano riempito il
piccolo andito e lo stretto passaggio tra le panche. Aspettavano in
silenzio, aspettavano cercando di nascondere la propria impazienza
per rispetto al dolore. Attendevano, osservando il padre e suo figlio, e
quel troll di Páll. Halldór quasi sull’attenti, la nuca dritta, vestito di un
completo a quadri, i capelli pettinati all’indietro, Eiríkur li aveva legati
in una coda di cavallo, portava un completo nero, una camicia di seta
scura con il colletto sbottonato, gli occhi bassi, guardando di lato,
mentre Páll con il suo solito maglione islandese pesante, la testa
rasata, sembrava una montagna dietro la piccola batteria. Poi Eiríkur
aveva alzato la testa per incrociare lo sguardo di suo padre. Uno
sguardo pieno di affetto. Avevano provato per ore nello studio, senza
che Skúli lo sapesse, per insegnare a Páll a tenere il tempo nel modo
più semplice possibile e cambiare ritmo quand’era necessario.
Halldór aveva annuito ed Eiríkur aveva fatto un passo avanti, aveva
avvicinato le labbra a uno dei microfoni e aveva contato; uno, due,
tre, quattro, uno, due, tre, quattro – e aveva aperto il brano con il suo
famoso riff di chitarra, l’aveva fatto con un’energia tale che tutti, che
fossero in chiesa o in macchina, erano rimasti senza fiato. E poi
padre e figlio avevano attaccato a cantare. Le voci perfettamente
armonizzate, quella appena scura di Eiríkur, quella alta e chiara di
Halldór. Avevano modificato un poco il testo, l’avevano adattato a
Hafrún, perché era lei che cantava tramite loro, cantava per suo
marito per l’ultima volta:

Boy, you really got me goin’


you got me so I don’t know what I’m doin’ now
yeah, you really got me now
you got me so I can’t sleep at night

Ragazzo, mi accendi, mi fai impazzire, mi togli il sonno, ti amo


talmente tanto che per quasi sessant’anni i battiti del tuo cuore sono
stati i miei, il mio sorriso il tuo, i miei sogni i tuoi, e per questo fin
dall’inizio gli anni con te sono stati i migliori del mondo. Ti amo così
tanto che non ho mai smesso di sentirmi tremare le ginocchia ogni
volta che ti vedevo da lontano, non ho mai smesso di desiderarti, di
volerti, non ho mai smesso di aver voglia di svegliarmi con te, di
sentire il tuo odore, di ascoltarti parlare, sei sempre stato la mia
felicità e il mio compagno migliore, non ho mai potuto immaginare la
vita senza di te, ed ecco che sono morta. Come posso morire senza
di te, chi mi guiderà nelle tenebre se non ci sei? See, don’t ever set
me free, I always wanna be by your side, sempre, sempre!

Perdonatemi, aveva detto la Morte, che stava rabbuiata in mezzo a


loro. Potrete mai perdonarmi?

Essere solo e senza di te, è la morte

Potremo un giorno perdonare la morte?

Il mio misterioso accompagnatore, il pastore che ha rinnegato la fede


e ha preso la patente per trasportarmi da un universo all’altro, mi
osserva in silenzio. Come se non avesse sentito la mia domanda.
D’altronde non sono nemmeno sicuro di averla formulata; e ancora
meno sicuro che mi importi di conoscere la risposta.
È così difficile, fa lui alla fine, guardando fuori dal finestrino che
incornicia il fiordo nel punto in cui si apre e sgorga nell’ampia baia, da
quella finestra che sembra ingrandirsi – è così difficile, così
incredibilmente grave perdere la persona che ami e che contava tutto
per te, che anche i più gagliardi si ritrovano in ginocchio. Per molti
però non sapere che cosa viene dopo è ancora più difficile. Sempre
che dopo ci sia qualcosa. Qualcosa di diverso dall’essere cancellati.
Qualcosa di diverso dall’inutilità del vuoto. Sappiamo che Hafrún era
entrata nelle tenebre dove il tempo e lo spazio si dissolvono e non
hanno più alcun senso. Sappiamo che qualcuno la stava aspettando
nell’aldilà. Un uomo, e stando a quanto era riuscita a distinguere,
assomigliava moltissimo al suo Skúli. Forse era solo perché suo
marito le mancava così tanto che tutto nell’aldilà aveva più o meno le
sue fattezze. Quell’uomo le si era avvicinato, l’aveva presa
dolcemente per le spalle e le aveva detto: Allein zu sein, und ohne
Dich, ist der Tod.
Non so il tedesco, aveva risposto Hafrún, che significa?
Essere solo e senza di te, è la morte.

E ha riso

Appena due anni più tardi Páll telefona a Eiríkur a Marsiglia, dove
vive in un piccolo appartamento comprato quando Tove l’ha coinvolto
nel teatro che dirige, quando ancora sognavano una vita insieme.
Páll gli telefona. Il placido Páll, il troll che un quarto di secolo prima
aveva preso un master su Kierkegaard, che aveva insegnato a lungo
al liceo di Keflavík, che per un certo periodo aveva preso la gestione
della fattoria di Nes e adesso era tornato a casa a Oddi, insieme a
Halldór, che si occupa da solo delle attività agricole perché Páll esce
a pesca da Hólmavík quattro o cinque volte a settimana su una
piccola barca a motore insieme a Elías, il vecchio professore di
storia.
Ti disturbo, gli chiede titubante, perché sente del chiasso intorno a
Eiríkur. No, no, sono appena arrivato alle prove con l’orchestra. Esco
un attimo, fa Eiríkur, e sbuca nel vicolo fuori dal teatro, dove la luna
piena riversa i suoi raggi freddi sulla città. Si accende una sigaretta,
ascolta suo zio.

Quella mattina Skúli si era alzato molto presto, prima delle sei. Aveva
preparato delle uova per Páll che stava uscendo a pesca, aveva
tostato il pane, preparato il caffè. Poi si era accomodato sul divano
per leggere Il maestro e Margherita di Bulgakov, uno dei romanzi
preferiti di Hafrún che Skúli non aveva mai letto. Páll aveva fatto
colazione e aveva sorriso tra sé, sentendo il padre ridere sul divano.
Cominciava a calare la sera quando Páll era rientrato e Skúli era
ancora comodamente disteso sul divano, il libro aperto sul petto, il
caffè talmente freddo nella tazza sul tavolino che sicuramente era
morto da diverse ore. All’ora di pranzo aveva preparato una frittata
per Halldór, fischiettando un’aria talmente gioiosa mentre era ai
fornelli che Halldór aveva mandato un sms a Páll: «Credo che papà
stia tornando tra noi :-)» Poi il figlio maggiore era tornato nello studio
di registrazione, si era immerso nelle sue cose, ignaro di tutto.

E il nonno ha riso, ha chiesto Eiríkur, osservando la sigaretta


consumarsi.
Sì, di cuore. Mi ha fatto piacere sentirlo. Credo che abbia riso, e si
sia messo a fischiettare preparando la frittata, perché aveva deciso di
morire oggi. Certo, non che creda sul serio che una decisione del
genere si possa prendere, a meno che uno non decida di togliersi la
vita. Ma ho l’impressione che papà l’abbia fatto. Era sanissimo. Lo
sai. Pare che il cuore abbia smesso di battere. Sì, credo che papà
abbia deciso di morire oggi. È per questo che si è alzato così presto
per prepararmi la colazione, e poi la frittata per Dóri. Ecco perché l’ho
sentito ridere così di cuore leggendo il libro. Sapeva che avrebbe
rivisto la mamma prima di sera, e rideva per l’attesa gioiosa di
ritrovarla.

Un quindici per cento di vita

Dietro a ogni cosa, aveva detto una volta Skúli a Eiríkur mentre erano
distesi fianco a fianco sotto il lucernario del sottotetto, c’è una forza
gigantesca che probabilmente l’essere umano ha sempre presagito.
Una forza muta, invisibile, misteriosa che abbiamo chiamato Dio
oppure destino – abbiamo sempre avuto difficoltà a distinguere tra le
due cose. In qualsiasi modo la si chiami, questa forza sembra essere
il motore della vita. Delle grandi e delle piccole cose. Dell’esistenza
umana e del lombrico. La vita del pianeta Terra e delle galassie.
Imprime il moto al sistema solare, all’universo, e avvolge senza
dubbio tutto il cosmo intero.
Ci finiremo tutti, alla fine, diceva la nonna a mio papà – e adesso lo
dico a te. Ci spariremo dentro, ne faremo parte e diventeremo una
cosa sola con questa forza. Ma allora smetteremo di esistere, avevo
chiesto a papà angosciato, perché trovavo terrificante l’idea che tutti
noi, la mamma, il papà, le mie sorelle e io, dovessimo smettere di
esistere per sparire senza lasciare traccia e fonderci con quella forza
invisibile che stava all’origine di tutto. Mi sembrava un incubo
spaventoso. Certo, ho posto la domanda in maniera diversa, ero un
bambino, i miei interrogativi erano quelli di un bambino. Forse gli ho
chiesto se i bambini che muoiono non possono più giocare, se non
sentiranno più le canzoni, le storie lette per loro. Se non potranno più
vedere i propri genitori, le sorelle e i fratelli, gli amici. Sì, se tutti
smettono semplicemente di vivere perché l’essere umano si
trasforma in raggio di sole, in gocce di pioggia o in atmosfera.
E il nonno che cosa ha risposto?
Si è messo a ridere, ha detto che aveva fatto le stesse domande a
sua mamma. E che anche lei aveva riso dicendo che nessuno
scienziato avrebbe dovuto proporre una teoria senza averla prima
sottoposta a un bambino. Lo so che rimuginavano spesso tutti e due
su questa forza misteriosa, credo che ritenessero che la nostra vita,
qui e ora, che i nostri pensieri e le nostre azioni, in un modo o
nell’altro, influissero costantemente su questa forza. E di
conseguenza l’essere umano, che gli piacesse o meno, non era
responsabile soltanto nei confronti di se stesso e della propria vita,
ma anche del resto del mondo nella sua interezza. In altre parole – il
mondo ci plasma e noi lo plasmiamo con il nostro comportamento, la
nostra vita. E non è tutto, perché ciò che compi in questa vita ti
attenderà nell’aldilà, in qualche maniera. Capisci, figliolo?

All’epoca non avevo capito, ma credo di capirlo adesso, aveva detto


Eiríkur, circa venticinque anni più tardi, davanti alla bara di suo
nonno, che era rimasta in soggiorno per ventiquattr’ore, in modo che i
tre, Eiríkur, Palli e Halldór, potessero dargli il loro estremo saluto
ciascuno a suo modo. E l’avevano fatto. Páll aveva vegliato accanto
al feretro di suo padre per metà della notte, gli aveva raccontato
come mai la sua relazione con la vedova del marinaio di Keflavík non
aveva funzionato, gli aveva raccontato del suo rapporto con Elías;
anche Halldór era rimasto a lungo accanto alla bara, non aveva
parlato quanto suo fratello, ma aveva suonato e cantato le canzoni
preferite di Skúli.
Credo di capirlo, adesso, dice Eiríkur. Grazie per aver fatto del
mondo un posto più bello. Di’ alla nonna che mi manca tanto. Dille
che mi intristisco sempre il sabato mattina verso le undici perché era
l’orario in cui mi telefonavate. Dille che mi dispiace molto, che ho
paura di non riuscire a perdonarmi che per un certo periodo, prima a
Reykjavík, poi a Parigi, queste telefonate sono state una seccatura
per me, un motivo di irritazione. Solo perché sapevo che mi avreste
chiamato. Sì, per un certo periodo mi sono vergognato di voi. Tutto
quello che mi raccontavate, il fiordo, quello che succedeva alla
fattoria, la vostra quotidianità, lo giudicavo da campagnoli. Vi
consideravo due bifolchi, nonno, e mi vergognavo quando la nonna
citava qualche brano di un libro o di una canzone in inglese. Aveva
una pronuncia così rigida che in bocca a lei l’inglese sembrava fatto
di sassi. Quattro volte ho lasciato squillare il telefono senza
rispondere. Ho fatto finta di non sentire. E non ho mai richiamato.
Eppure lo sapevo che vi sareste preoccupati. Eppure temevo che
sapeste perché non rispondevo. Brucia, nonno, brucia. Mi ricordo
ancora la data precisa di ognuna delle quattro volte in cui mi sono
comportato così. Probabilmente mi ero persuaso che un giorno, più
avanti, avrei avuto la possibilità di rimediare. È straordinario, credo,
quanto siamo disposti a convincerci di questo, che poi in futuro si
potrà… che dopo sarà possibile… Eppure, nonno, vedi, a volte quel
dopo non arriva. E l’errore si paga per tutta la vita. La cosa più difficile
è non poterselo perdonare. Però ho sognato tante volte di avervi in
visita. Sognavo di farvi vedere Parigi, di portarvi nei miei posti
preferiti. Sapevo che saresti stato bene al tavolino di un caffè
all’aperto, a guardare la vita che scorre, sapevo che alla nonna
sarebbe piaciuto visitare i musei e sedere sotto un ombrellone ai
Giardini di Lussemburgo, sorseggiare un bicchiere di vino bianco,
leggere un libro, tu con una birra fredda che la prendevi
bonariamente in giro, e la città brulicante di vita tutto intorno. E non
vedevo l’ora di presentarvi a Tove. Ero incredibilmente fiero di lei ed
ero convinto che ne sareste rimasti affascinati. Ma è stato
impossibile. Non siete riusciti a incontrarla. Sono stato troppo
codardo per dirvi la verità, per dirvi che era sposata e che non
poteva, non osava, non se la sentiva di lasciare suo marito. Per
quattro anni, nonno, ho vissuto in due mondi paralleli. Da una parte
c’era il mondo insieme a Tove, un mondo di cui pochissimi erano a
conoscenza, ma che era quello che dirigeva tutto il resto. Dall’altro
c’era il mondo in cui vivevo davanti agli occhi degli altri, pagavo le
tasse e le fatture – il mondo di tutti i giorni. Per quattro anni questo
mondo si era fermato. Era come paralizzato. Avevo messo in pausa
ogni mio progetto perché la relazione con Tove, di cui quasi nessuno
doveva essere al corrente, aveva assoggettato la mia vita. Gli amici e
i conoscenti che non ne sapevano niente avranno pensato che una
forza invisibile mi avesse paralizzato, in molti si sono preoccupati per
me. Alcuni mi hanno suggerito di andare da uno psicologo. Altri di
bere di meno. Io davo loro ragione, ma non ho mai fatto niente, se
non annegarmi nel lavoro, cercare rifugio nella musica. Di che cosa si
può parlare, se l’argomento che conta più di ogni altro non può
essere sfiorato? Se non si può parlare del proprio amore, quali sono
le conseguenze? Avevo voglia di parlare a tutti di quell’amore che
sembrava avermi liberato dalla tristezza che è sempre stata un brusio
di fondo dentro di me da quando ho memoria. La malinconia dovuta
all’assenza di mia mamma, al fatto di non riuscire a entrare in
sintonia con papà. Le due cose si sovrappongono, da sempre. E poi
c’era il senso di colpa per aver percepito la vostra delusione, o la
vostra tristezza, per come andavano le cose tra me e papà. Perché io
e lui non avevamo un rapporto vero. Quand’ero bambino credevo
fosse colpa mia. Pensavo di non essere abbastanza divertente,
abbastanza bravo, abbastanza intelligente, di non imparare
abbastanza in fretta le canzoni che mi faceva suonare, o di non
suonarle abbastanza bene. Adesso so che non era vero. Lo so che la
colpa era di entrambi, e lo è ancora. Non riesco a spiegarlo, è come
se qualcosa dentro di noi si bloccasse quando ci troviamo insieme,
riusciamo a legare senza troppi sforzi soltanto per mezzo della
musica. Quand’ero bambino ci bastava ascoltare un pezzo che
piaceva a tutti e due. Di solito erano i brani che papà mi faceva
scoprire, e io ero contento che mi piacessero le stesse cose che
piacevano a lui… Ero talmente contento che… Poi più tardi,
nell’adolescenza, quando ho cominciato a scoprire e a scegliere la
musica da solo, purtroppo questo canale si è chiuso. Povero papà, di
sicuro non vedeva l’ora di… potermi conoscere attraverso la musica
che piaceva a me. Magari ci avrebbe aiutato ad aprirci a vicenda, ad
abbassare la soglia tra di noi e le cose sarebbero state più facili, per
tutti. Ma ho fallito. Non ce l’ho fatta. Non volevo farlo entrare nel mio
mondo. Volevo costruirmi uno mio, di mondo, che lui non conosceva.
Davo risposte evasive ogni volta che mi chiedeva che cosa stavo
ascoltando. Ah, nonno, ma perché la vita dev’essere così
maledettamente complicata, tutti questi nodi! «Mancano assi e
manca la sega / manca la tinta e una canzone allegra.» Ero così
felice il giorno in cui papà e Palli mi hanno nominato marinaio sulla
Sankti María, convinto che poi sarebbe andato tutto bene, che non ci
sarebbero stati più dei muri tra me e papà. Mi sentivo come se mi
avesse invitato a far parte del suo gruppo musicale, come se fossi
uno dei suoi amici. Ma il giorno dopo si è ripresentata la stessa
distanza, gli stessi muri tra di noi, alcuni alti quanto le brughiere più
elevate, dove si scatena il brutto tempo. Poi mi sono reso conto che
la bottiglia di vino rosso che papà aveva portato con sé durante
quell’uscita di pesca, e che si era scolato in quantità, aveva
contribuito non poco a distenderlo, a renderlo più sincero… Io credo,
nonno, di aver capito con il tempo di non poter confidare a papà i miei
sentimenti. Certo, sapevo che… la mancanza di rapporti tra me e
papà rattristava te e la nonna e per questo ero sempre molto
contento di vedere quanto vi faceva piacere se io e papà suonavamo
insieme il giorno di Natale, qui in soggiorno. Che fossero gli unici
momenti in cui tra noi due c’era un’armonia completa? Sì, è
probabile, purtroppo, dopo la mia adolescenza. Ero contento, anzi,
proprio felice, nel vedere la vostra gioia. Felice ma allo stesso tempo
anche triste, perché sapevo che dopo quei momenti ci sarebbe stata
una delusione per tutti. Quando le cose avessero ripreso il loro corso.
Nonno, non sono forse io il responsabile principale, più di papà? Tu lo
sai com’è, com’è sempre stato. Non ha difficoltà a conquistare la
gente, ma non ha tenuta. Non si può fare affidamento su di lui. E sai –
ma non devi dirlo alla nonna – mi angosciava l’idea di presentare
Tove a papà. Ero impaziente di presentarla a voi, ci pensavo di
continuo, ma ero angosciato pensando di doverla presentare a papà.
Credo fosse perché temevo che papà mi facesse vergognare, ma
anche che lei se ne invaghisse. Ci complichiamo la vita più di quanto
lo sia già, nonno! Ah, se tu avessi conosciuto Tove! Se solo tu e la
nonna aveste potuto vederci insieme, perché allora sì che mi avreste
visto felice, sorridente, mi avreste sentito ridere, senza la minima
ombra. Sognavo di portarla qui, e non mi è stato possibile. Non avevo
il diritto di tradirla, di esporre al rischio il suo mondo e la sua famiglia.
Non ho potuto nemmeno invitarvi a venire da me. O meglio, mi ero
convinto che non fosse possibile. Mi dicevo che sarebbe stato più
facile l’anno successivo, quando la nostra relazione fosse uscita alla
luce del giorno e Tove e io non avremmo avuto più niente da
nascondere, allora… Dio mio, quanto mi dispiace! Nonno, ti ricordi
quando passavamo giornate intere a leggere il libro di Vera Rubin
sulla materia oscura, Dark matters, e abbiamo scoperto che
costituisce l’ottantacinque per cento di tutta la materia del cosmo?
Che la maggior parte dell’universo è del tutto invisibile, che nessuno
è riuscito a spiegarne l’esistenza in maniera soddisfacente. Ricordo
quant’eri entusiasta, ti chiedevi se per caso la materia oscura non
fosse proprio la forza di cui parlavano tuo padre e la mia bisnonna.
L’ottantacinque per cento del mondo è invisibile; esattamente come
la mia esistenza all’epoca! La mia vita era nascosta al mondo per
l’ottantacinque per cento. Solo il quindici per cento di me viveva la
vita di tutti i giorni, bastava appena a fare il bucato, cucinare semplici
pasti, guardare la partita di calcio, e non molto altro. Ero incapace di
organizzare qualsiasi cosa, mi realizzavo soltanto nella musica. E
ovviamente con Tove. Nonno, eravamo così felici insieme! Ma quella
felicità ci stava anche uccidendo a poco a poco. Paralizzava la nostra
vita. Trascuravamo tutto, tranne l’amore. Tove trascurava le sue figlie,
suo marito, ovviamente, gli amici; io i miei amici – e voi. Possiamo
affermare che trascurassimo anche la vita, il che è senza dubbio un
peccato mortale. È stato per questo, nonno, che non sono mai
tornato a trovarvi negli ultimi anni della vostra vita. È stato per questo
che vi ho traditi. Per questo ho finto di non notare nessun
cambiamento quando la nonna si è ammalata. Quando la sua
energia cominciava a sfumare. Magari è stato anche un sollievo
quando ha smesso di telefonarmi e si è accontentata di scrivermi
delle lettere. Non c’è niente di più egoista dell’amore. Si impossessa
di te. È come una droga. Può renderti schiavo. Soprattutto l’amore
che deve rimanere segreto. Perché si trasforma nella materia oscura
che governa il mondo. Ho tradito entrambi voi. Non sono sicuro di
potermelo perdonare. E per questo non potrò mai tornare a vivere
qui.

Il destino è più strano della bontà

Sono morti in tanti eppure la vita continua, non importa quali e quante
siano le persone che muoiono. La vita continua il suo corso come se
niente fosse successo. Non si cura né della giustizia né dell’equità.
Perché sono tutti morti: Hafrún, Skúli, Aldís, Margrét, Jón, Hulda, la
piccola Agnes ed Eva, la figlia di Pétur e di Halla. E molti, molti di più,
perché ti ricordi:
Guðríður «esce, e sono tutti morti.»
Significa che anche lei è morta. E Pétur. E Halla, che aveva le
mani fatte di luce. E Gísli, e le figlie avute con Guðríður. Björgvin e
Steinunn sono morti. Anche il loro figlio che era in Canada, eppure
con la morte ci faceva affari. Se ne sono andati tutti. Non resta più
molto di loro. Perfino le luci più fulgide si spengono. Perché è così;
muori e la vita continua il suo corso senza intoppi, si comporta come
se tu non fossi mai esistito. Non si ferma mai, nemmeno per una
frazione di secondo, che importa chi muore, che importa in quanti
muoiano, lei continua inarrestabile, perfettamente indifferente, e noi
siamo costretti a seguirla, siamo costretti a lasciarci dietro chi è
caduto, lo abbandoniamo, lo lasciamo indietro per seguire la vita. La
vita è sempre in fuga costante dalla morte, eppure è una fuga che
porta comunque verso la sua direzione. Il paradosso governa ogni
cosa. Il che significa che il destino non si riduce a un paio di calzini
inviati da Parigi, a una gomma forata, al sorriso di Guðríður e a
Búðardalur, ma si riduce in primo luogo e in ultima analisi a questo
paradosso.

In primo luogo e in ultima analisi, ripete il conducente d’autobus


consacrato. Ma sì, sicuramente il destino è anche il tacco della
scarpa di Aldís nell’occhio di Rúna, Pétur che annuncia l’arresto di
Émile Zola, Jón che si distende supino e soffoca nel vomito, e Chet
Baker che cade da una finestra di Amsterdam ma Eiríkur non è nei
paraggi per prenderlo al volo. Il destino è Svana che consegna
Eiríkur sopra il tavolo della cucina, il destino è avere una madre
morta e pensare inavvertitamente a lei quando ti masturbi per la
prima volta, il destino è non riuscire a legare con gli altri perché…

… mi tuffo nei fogli nella speranza di evitare il mio accompagnatore


insistente e a volte importuno. Mi tuffo nei fogli e vedo me e Rúna che
salutiamo con la mano Lúna e Dísa sui gradini della fattoria di Hof
mentre in cortile Védís, la figlia di Dísa, sta cercando di insegnare al
cane un nuovo balletto visto su TikTok; ma quanti giorni, settimane,
se non mesi ci vorranno per oltrepassare Hof in macchina e
raggiungere finalmente l’albergo? E quanto manca a questa festa che
Eiríkur ed Elías terranno in onore della vita, di Presley e di Páll… Ah,
giusto, anche Páll è morto. Ti ricordi, riposa nel cimitero di Nes sotto
una massiccia lapide con le parole di Kierkegaard. Ed Elvis Presley,
è morto anche lui, lo sanno tutti. Nessuno vuol mancare a questa
festa, mi ha detto Sóley; e nessuno verrà escluso. Mi sa, aveva
aggiunto, che ci sarà anche qualcuno che verrà da lontano.
Da lontano? Anche da molto lontano?
La festa è in onore della vita, di Páll e di Elvis Presley, che sono
entrambi morti. Il che significa, in altre parole, che questa festa si
tiene per celebrare i vivi e i morti? E che gli invitati verranno da
entrambi i mondi, da questo e dall’aldilà? Forse allora sta arrivando
anche Guðríður con il suo sorriso, e allora probabilmente verrà anche
Pétur per spiegarci come mai hanno dovuto arrestare Émile Zola?
Vengono anche Ólafur Flemma, il medico, e sua moglie Kristín, la
fregata, Hulda ripulirà il vomito dal volto di Jón, lo aiuterà ad alzarsi e
lo porterà alla festa, e, ah, la piccola Eva, la pupilla di suo papà Pétur,
anche lei potrà venire, finalmente potrà tornare a rivedere la luce del
sole, magari accompagnando per mano la piccola Agnes che da
ottant’anni non vede l’ora di poter correre tra le braccia di suo fratello
Skúli; che deve venire pure lui, senza dubbio, insieme a Hafrún, e
Aldís porta sua mamma e sua suocera, a cui offrirà dello sherry – e
chissà che Hölderlin non possa partecipare anche lui alla festa dalla
scarpata superiore, lui che sa consolare con la solitudine?
Ecco allora, la spiegazione più plausibile alla playlist della Morte,
la lista di canzoni che continuiamo a seguire; questa lista non è forse
il modo che Eiríkur ha trovato per consolare la morte, o anche per
stringere con lei un patto affinché questa sera spalanchi le sue porte,
in questo fiordo che ha la forma di un abbraccio? Il destino è l’artefice
di ogni cosa, si dice da qualche parte, e se è lui che organizza questa
festa perché per una sera i vivi e i morti possano ritrovarsi, allora il
destino è davvero più strano della bontà.

Bellissima canzone, dice Rúna, quando in auto sentiamo Stranger


Than Kindness interpretata da Nick Cave, il fratellastro di Eiríkur;
ovvio che va aggiunta senza indugi alla playlist della Morte.

Il reverendo, che presumibilmente ha la patente per guidare il destino


stesso, si versa un bicchierino. Ha finito mezza bottiglia di whisky, la
tiene per sé e a me porge una tazza di caffè nero caldo. L’amore può
renderti schiavo, dice, niente male, in fondo è vero. Eiríkur rivela a
suo nonno, «ho tradito entrambi voi. Non sono sicuro di potermelo
perdonare. E per questo non potrò mai tornare a vivere qui.» Eppure
qualche anno dopo lo ritroviamo qui nel fiordo. Significa che ha
trovato l’assoluzione, e per questo è potuto tornare? Non c’è niente di
più bello del perdono. Il perdono e l’amore sono rispettivamente il
braccio sinistro e il braccio destro di Cristo. Ma se è stato il perdono
che ha permesso a Eiríkur di tornare, perché allora ha sparato con la
carabina dietro a un camion, perché rischia la prigione, perché abita
da solo, perché questa mattina assomigliava a una corda
malinconica, nera e sottile, quando l’abbiamo visto davanti alla
fattoria con la chitarra sulla schiena? Allora il perdono non è più di
questo?

Sospiro. Accetto il caffè, sospiro perché mi credevo in viaggio per la


Snæfellsnes, verso Guðríður nella casa del medico a Stykkishólmur.
Pétur ha appena annunciato che arresteranno Émile Zola; voglio
sapere che cosa succede dopo.
Non sarò certo io a fermarti, dice il mio accompagnatore. Tu vai
dove ti pare. Io non ti sarò d’intralcio.
Abbasso gli occhi sui fogli. Hanno appena sepolto Skúli e la vita
continua come se non fosse mai esistito. Vedo Eiríkur tornare a
Marsiglia. Dove abita tuttora. In quella città che diventa sempre più
calda, come se l’inferno vi si stesse avvicinando. Si guadagna da
vivere tenendo concerti, componendo jingle per la pubblicità, abita da
solo in un piccolo appartamento e Tove gli manca da morire. Lo vedo
diventare cliente regolare di un ristorante mediorientale, giocare a
scacchi con il proprietario, guardare le partite di campionato del
Liverpool insieme ai suoi figli, vedo una donna dalle gambe lunghe e
lo sguardo oscuro o pericoloso come le notti del deserto, ma non
comprendo la natura del loro rapporto, se tra loro c’è qualcosa di quel
genere. Poi ritrovo Eiríkur accanto a due valigie sul cortile di Oddi,
forse tre anni fa, e nessuno che esce per accoglierlo se non la notte
d’agosto e un gatto guercio.
Non sarò certo io a fermarti, dice il conducente d’autobus
consacrato, mentre spinge verso di me la tazza di caffè.
Non sarò certo io a fermarti.

È
È chiaro che di quel che dice questo mio accompagnatore c’è da
fidarsi quanto del paradosso in cui viviamo. Non c’era odore di zolfo
sulle sue dita?
È evidente che non ho il controllo della situazione.

 
1
Tove Ditlevsen (1917-1976), poetessa e romanziera danese.
A volte menti e tradisci

per amore
Sono morti quasi tutti,

ma qui non ci sono caratteri

che abbaiano come cani

Eiríkur era tornato nel fiordo una sera verso mezzanotte dopo un
lungo esilio in Francia, richiamato dal padre Halldór. Cominciava a
imbrunire, il crepuscolo d’agosto si faceva più denso e la quiete
pareva traspirare nel buio tra le stelle.
Avevo dimenticato che esistesse una quiete così profonda, aveva
pensato Eiríkur sull’aia davanti alla casa non tinteggiata, con le due
valigie accanto ai piedi, mentre il motore dell’auto si raffreddava
producendo qualche lieve schiocco.
Aveva dimenticato quella quiete, e anche il cielo notturno, che a
volte lì sembra talmente vicino che si ha l’impressione che faccia
parte del paesaggio, e di conseguenza sia più prossimo che altrove a
noi esseri umani.
Eiríkur aveva preso le grosse valigie, era entrato in casa, le aveva
posate nell’ingresso e aveva salutato il vecchio gatto guercio che gli
si era avvicinato miagolando, l’andatura irrigidita; due galline stizzose
gli avevano strappato un occhio quand’era ancora un micetto. Eiríkur
si era chinato per accarezzarlo e si era guadagnato subito la sua
fiducia. Aveva pensato di cominciare facendo un giro della casa e
salutare ogni stanza, ma una volta nell’ingresso si era sentito
talmente sopraffatto che non era riuscito ad andare oltre la cucina e
si era accasciato su una sedia accanto al vecchio tavolo, davanti a
una ciotola di legno piena di mele e una pila di riviste musicali
straniere. Era rimasto seduto a lungo immobile mentre accarezzava
distrattamente il gatto che teneva in grembo, un ciuffo di capelli
castani sugli occhi scuri. Probabilmente si era anche assopito,
esausto per il viaggio e per tutti gli eventi della vita che gli si erano
rovesciati addosso in quell’ultimo periodo, ma aveva aperto gli occhi
appena il gatto aveva miagolato piano per chiedergli di continuare ad
accarezzarlo. Lo aveva fatto, allungando intanto la testa per leggere
la copertina del Jazz Journal che stava in cima al mucchio, così
aveva notato che conteneva un articolo sull’album Chet Baker Sings
del 1954; un disco che l’artista aveva inciso in gioventù e che Eiríkur
conosceva a memoria. Chissà che non mi dica qualcosa di nuovo,
aveva pensato, voleva allungarsi a prendere la rivista, con cautela
per non disturbare la serenità del gatto, e aveva notato una vecchia
busta in formato A4 nascosta sotto la pila. E questa cos’è, aveva
mormorato Eiríkur mentre la prendeva. Non c’era l’indirizzo, il lembo
della busta era stato incollato di nuovo con un nastro adesivo che si
era seccato da tempo, per cui stava attaccato per metà come un
ricordo accartocciato. Sarà qualcosa che riguarda la gestione
agricola, dei vecchi documenti o delle carte che Halldór e Páll si sono
messi a rileggere per passare il tempo; forse il vecchio registro delle
greggi, con i nomi degli ovini, lo stato di salute, quanti agnelli hanno
figliato in una o nell’altra annata; oppure qualche bilancio ingiallito,
che potrebbe essere interessante rileggere perché le vecchie
contabilità domestiche sono una macchina del tempo – un viaggio nei
territori dei ricordi, sui paesaggi degli anni trascorsi.
Vediamo un po’, ci sarà da divertirsi, aveva pensato Eiríkur, e
aveva infilato la mano nella busta ed estratto una lettera che Hafrún
gli aveva scritto il 7 di ottobre del 1980; quando Eiríkur aveva appena
tre mesi. Una lettera di tre pagine, accompagnata dal suo certificato
di nascita. Eccoti qui, che dormi, aveva scritto.

Eiríkur aveva dovuto leggere la lettera due volte prima di assimilarne


il contenuto. Finché non era riuscito a comprendere che in una certa
misura la sua intera esistenza si basava su una menzogna.
Eccoti qui, che dormi.
Tre pagine scritte fitte, vergate nella grafia minuta ed elegante di
Hafrún, seduta esattamente a quello stesso tavolo, che all’epoca
però si trovava nella vecchia casa, qualche ora dopo che le era stato
consegnato Eiríkur. L’aveva scritta con i gomiti sul piano del tavolo, la
testa appoggiata su una mano, l’aveva scritta con cura, soppesando
ogni parola, aveva descritto sua madre e quella visita breve e carica
di conseguenze; aveva descritto l’aspetto, qualche tratto del carattere
che era riuscita a cogliere in quella giovane donna. Aveva parlato
dell’amore che Svana provava per Halldór, e aveva accennato anche
all’episodio del bicchiere d’acqua.
Tre pagine, scritte con mano ferma. Senza caratteri che
abbaiavano come cani. Al contrario, erano molto ben tracciati – e il
calore e l’affetto fluivano tra le righe. Fluivano come un fiume
maestoso e placido sotto ogni frase, mentre Eiríkur dormiva stanco
tra le braccia calde di Skúli:

Eccoti qui, che dormi, spossato in un mondo ingiusto, nell’assenza di


tua mamma che in tutta probabilità, purtroppo, non conoscerai mai.
Sei un bel bambino, con quello spazio strano e affascinante tra gli
occhi. Come tuo padre, e come tuo nonno che adesso ti tiene in
braccio. Mi pare di capire che anche la tua trisnonna Guðríður ce
l’avesse. A volte ho l’impressione che in questo spazio si apra un
terzo occhio, lo dico spesso a tuo nonno, che all’epoca mi aveva
ipnotizzata, quando arrivò qui nel fiordo con il postino. Perché aveva
sette anni, e io quasi nove, e non glielo perdonavo che mi avesse
fatta innamorare, lui che aveva due anni in meno. Che stupidaggini.
Non so quando leggerai questa mia, tesoro, o che aspetto avrà il
mondo quando lo farai. So solo che il futuro è sempre ben diverso da
quello che immaginiamo. Ti chiedo di perdonarmi, di perdonare tutti
noi, tuo nonno, tuo padre e tuo zio, per aver deciso di non dirti la
verità. È difficile prendere la decisione di mentire, la menzogna è del
tutto contraria alla mia natura. Ma la vita ci piega quando le pare e
piace, e questa è l’unica cosa giusta da fare, non c’è altra soluzione.
Di questo sono più che certa, e non ho molto altro da dire.

Una lettera di tre pagine, dove Hafrún si rivolge a Eiríkur, il bambino


addormentato tra le braccia di Skúli e l’uomo adulto che diventerà in
futuro; adesso che è appena tornato a casa dopo un lungo esilio e
tutti sono morti. O meglio, quasi tutti. Eiríkur apre la busta, legge la
lettera e scopre la menzogna sulle sue origini.

A volte si mente perché si ama

Come reagisce un uomo che a quasi quarant’anni scopre che la sua


intera vita si basa su una menzogna? Che tutti intorno a lui gli hanno
mentito fin dall’inizio, che le persone a cui voleva più bene, che
l’hanno protetto e l’hanno avvolto con il loro calore e il loro affetto,
l’hanno ingannato fin dalla nascita, o in altre parole, che il mondo in
cui ha vissuto in un certo senso non è mai esistito – come reagisce,
come la prende? Forse allora è per questo che, completamente
ubriaco, ha sparato con il fucile dietro a un camion e rischia la
prigione, perché la sua vita è costruita su una menzogna, non è mai
esistita?
Come ha reagito?

Aveva posato dolcemente il gatto sulla sedia accanto alla sua, si era
alzato, era andato a prendere la bottiglia di Calvados in una delle due
valigie, aveva cercato un bicchiere, se n’era versato una dose doppia
e se l’era tracannata in un sorso, socchiudendo gli occhi mentre il
forte liquore di mele gli si diffondeva nelle vene e scendeva nello
stomaco. Poi aveva esplorato la casa in cui non era mai stato prima.
Non tornava nel fiordo dalla morte di Skúli. Perché avrebbe dovuto
farlo? Che motivo ci poteva essere, dopo che la vecchia casa era
andata a fuoco? E quell’incendio non era stato forse un messaggio,
una dichiarazione che la sua infanzia era bruciata, che lì non c’era
più nulla ad attenderlo – se non delle delusioni?
Eppure è tornato, ed entra per la prima volta nella casa nuova. La
camera di Páll è accogliente, come si aspettava, molto in ordine, ogni
cosa al suo posto; alle pareti le foto di qualche filosofo, dei Beatles, di
Bach e di Van Gogh, tre libri sul comodino e gli occhiali da lettura in
cima alla pila; una raccolta di poesie di Kavafis in norvegese, E se
non posso dire del mio amore. La stanza di Halldór – anche quella
con il letto pronto – più disordinata. Un mucchio di libri sul comodino,
fotografie di Eiríkur, Skúli e Hafrún, foto in bianco e nero della vita in
campagna una cinquantina di anni prima, un quadro di Georg Guðni.
Una delle quattro camere da letto della casa è ovviamente riservata a
lui. Suo padre e suo zio hanno comperato un letto matrimoniale, ma
la sua vecchia scrivania era ancora lì, le fotografie dei suoi nonni,
quelle che lo ritraevano insieme alle sorelle di Nes – ci avevano
perfino sistemato l’amaca: «Perché tu possa sognare a mezz’aria.»
Avevano arredato la camera come se Eiríkur ci avesse sempre
abitato e se ne fosse allontanato soltanto per poco… Aveva
accarezzato la sua vecchia scrivania, aveva guardato le foto, i libri
sistemati con cura su tre scaffali, gli era venuta voglia di distendersi
sull’amaca, di lasciarsi cullare, consolare – aveva avuto voglia
soprattutto di distendersi e piangere. Ma si era affrettato a uscire,
temeva che se saliva su quell’amaca non avrebbe avuto la forza di
rialzarsi; voleva continuare a cercare. Sperava di trovare qualcosa
che lo aiutasse a comprendere. Lettere, documenti, fotografie,
oppure semplicemente qualcosa che potesse aprire una breccia nel
mondo che per qualche motivo gli era stato tenuto lontano. Qualcosa
che… sì, perché no, lo avvicinasse a sua madre, che quindi non era
morta, che aveva continuato a vivere la sua vita, che forse era ancora
viva.
Si era ritrovato di fronte alla vecchia credenza in sala, costruita da
Skúli con il legname raccolto in riva al mare il primo anno di
matrimonio con Hafrún, e dentro aveva trovato la pila dei diari di suo
padre; la prima pagina era stata scritta in novembre, un mese dopo
che Eiríkur era arrivato nel fiordo. Ne era rimasto sbalordito. Che suo
padre avesse avuto la pazienza di tenere un diario, e sì, che ne
avesse avuto il coraggio. Otto diari, due pile. Quando Eiríkur li aveva
presi vi aveva trovato alcune lettere indirizzate a lui da parte di suo
padre Halldór, lettere che non erano mai state spedite. La prima
portava la stessa data della prima lettera che Halldór aveva inviato a
suo figlio a Marsiglia.
Ah, ci sono tante di quelle cose che devo dirti, che vorrei dirti!
Eiríkur si era seduto al tavolo in cucina, si era versato un altro
bicchiere di Calvados, aveva disposto i diari e le lettere davanti a sé
in ordine cronologico e aveva cominciato a leggere. È vero, spesso
saltava alcune pagine, sentiva di non avere il diritto di leggerle, ma
cercava comunque qualcosa che potesse aiutarlo a capire, leggeva
per trovare una spiegazione. Aveva cercato e letto tutte le parti
dedicate a sua madre, aveva appreso che non molto tempo prima
suo padre e suo zio erano andati nell’Ovest sulla Snæfellsnes, per
fare visita alla tomba del nonno e della nonna, poi erano andati a
Uppsalir, si erano fermati a lungo davanti ai ruderi della fattoria.
Aveva letto, e a poco a poco aveva potuto accedere all’universo di
suo padre. Seduto al tavolo della cucina sopra il quale era stato
consegnato a sua nonna quarant’anni prima, aveva letto, aveva
toccato i palpiti del cuore di suo padre, il suo rimpianto, la tristezza, i
rimproveri che si muoveva, le accuse che faceva a se stesso, aveva
letto della sua vita quotidiana e dei suoi momenti felici. Aveva
smesso di leggere verso le prime ore del giorno, era ancora
addormentato sul tavolo quando i lavoranti di Skarð erano andati a
prendere le vacche per la mungitura del mattino. Aveva sentito i loro
muggiti attraverso il sonno, li aveva percepiti senza difficoltà da quasi
due chilometri di distanza in quell’assenza totale di vento.
La prima lettera che aveva letto quella notte era anche la più
antica… Sì, possiamo anche intitolarla Missiva sotto l’imballatrice.

Missiva sotto l’imballatrice.

Ovvero: come spiegare il carattere

stizzoso delle galline

Non ti volevo disturbare mentre eri in mare, aveva detto Hafrún al


figlio maggiore una volta rientrato dalla stagione di pesca all’aringa
su un peschereccio da Siglufjörður, tre settimane dopo che Svana le
aveva consegnato Eiríkur sopra il tavolo della cucina, e poi l’aveva
salutato con poche parole a proposito di un bicchiere d’acqua in un
prossimo futuro. Non ti volevo disturbare mentre eri in mare, non
sarebbe cambiato niente. Il destino ha parlato e noi non possiamo
opporci alle sue decisioni. Però abbiamo la possibilità di provare ad
adattarci.
Gli aveva mostrato il certificato di nascita e la lettera che aveva
scritto a Eiríkur, indirizzata al futuro. Poi la busta era stata richiusa
con del nastro adesivo che era ingiallito ed era ormai secco quando
Eiríkur l’aveva aperta quasi quarant’anni dopo.
Non so, e sicuramente non lo saprò mai, scriveva Halldór nella
lettera sotto l’imballatrice, se abbiamo reagito nel modo migliore, se
abbiamo preso la decisione giusta, o meglio se è stato giusto
acconsentire alla decisione della mamma – a volte mi sento come se
la scelta mi avesse paralizzato. Come se avesse scollegato qualche
contatto. Che è brutto da dire, perché abbiamo avuto te, che sei stato
sempre la nostra felicità. Ma capisco tua mamma, e rispetto la sua
scelta difficile. È la donna più bella, la donna migliore e più
affascinante che io abbia mai conosciuto. Temo che da quel
momento la mia vita sia trascorsa soltanto nel rimpianto per lei, e per
quel mondo che ho avuto modo di vivere. Che non ci è stato
destinato. Io credo, temo, che l’unica vera ragione per cui non sono
mai più riuscito a legarmi a un’altra donna sia perché ho sempre
cercato tua mamma in tutte le altre. Una cosa del genere non può
andare a finire bene, e infatti non è finita bene. Una volta l’hai vista.
Te ne ricordi? È venuta alla fattoria quando avevi sette o otto anni, ha
chiesto un bicchiere d’acqua, come aveva promesso di fare. Aveva
telefonato da Hólmavík, sapevamo che stava arrivando e abbiamo
fatto in modo che fossi tu e nessun altro a portarglielo. Io ho voluto –
e ho dovuto! – tenermi a debita distanza, perché niente doveva
rovinarle quel momento. Te ne ricordi? Eravamo nello studio di
registrazione. Stavo montando un’intervista a quei due anziani,
fratello e sorella, che vivevano da soli a Reykjanes, ricordo che la loro
fattoria è stata abbandonata un paio di anni dopo. Del resto, erano
talmente anziani che non si capiva come riuscissero a mandarla
avanti, con una cinquantina di pecore, due mucche e venti galline.
Ágúst non aveva più nemmeno un dente e praticamente non riusciva
a lavorare, Árelía talmente curva che sembrava una u rovesciata, con
quelle due grosse verruche nere sulla faccia da cui uscivano dei peli
duri e spessi. Una volta sei venuto con me a trovarli ma avevi
talmente paura di Árelía che ti sei rifiutato di entrare in casa!
Comunque, stavo montando il materiale di quelle interviste e tu mi
giravi intorno, quando tua nonna è venuta a chiamarti.
Avevo deciso di tenermi alla larga, per non mettere a rischio la
situazione, ma non ne ho avuto la forza; sono uscito di nascosto e mi
sono infilato sotto l’imballatrice che stava a circa cinquanta metri dal
cortile. Sono rimasto lì, senza farmi vedere, e ho osservato tutta la
scena con il binocolo. È stato uno dei momenti più belli della mia vita.
Anche se non mi sono mai sentito così infelice.
Non potevo fare niente. Ero vincolato al patto. Punito per
l’incoscienza della mia gioventù. Per aver trattato l’amore senza
riguardo. Anche prima di incontrare tua madre avevo ferito troppe
persone con il mio egoismo, con il mio egocentrismo, ero convinto di
poter vivere senza alcuna responsabilità. Che dovessimo seguire
sempre, senza avere dubbi, quella che papà qualche volta chiamava
la bussola del cuore. Non so da dove l’avesse tirata fuori, questa, o
se quella benedetta bussola esista davvero. Ma in quegli anni ero
talmente innamorato della vita che mi sembrava ovvio dover seguire
quell’ago – tutto il resto era un tradimento verso se stessi e verso la
vita. Era vigliaccheria, era arrendersi. In parte ho ancora una certa
simpatia per questo atteggiamento, per questo punto di vista, ma c’è
anche molto altro. Il cuore è saggio a suo modo, certo, e sa dire
sempre la verità. E questo è bellissimo, ma ho imparato che la vita
non sempre la tollera, quella verità.
Cala la sera qui nel fiordo. Sai, mi piace stare qui seduto al tavolo
in cucina, a scriverti e ad ascoltare la mia musica – in questo
momento Bill Evans. Mi piace perché ho quasi l’impressione di
essere qui con te, come se anche tu fossi seduto qui e stessimo
chiacchierando, come fa la gente, come fanno le famiglie, come
devono fare un padre e suo figlio. Ed è una pena alzare gli occhi e

È
vedermi davanti la sedia vuota. È la realtà che mi schiaffeggia. Ci
manchi molto, a me e a mio fratello. Dovresti vedere come ci siamo
impegnati ad arredare la tua camera, soprattutto Palli. Io lo so che a
volte va a distendersi sull’amaca per farci un pisolino. Lui non ne
parla, però sì, gli manchi molto. Il nostro dolore più grande è averti
perso. Perché è così che ci sentiamo, a volte. Sono passati anni
dall’ultima volta che ti abbiamo visto. Le lettere che riceviamo ogni
tanto non ci danno molte informazioni sulla tua vita. Non sappiamo
come stai, cosa ti fa battere il cuore. Però dalle sorelle di Nes
abbiamo saputo che abiti in una casa confortevole, circondato da
persone che ti vogliono bene. Non prenderla come un rimprovero.
Siamo noi che ti abbiamo tradito, punto e basta. O meglio, io ti ho
tradito. Non Palli. Lui non ha mai tradito nessuno. Non ne è capace.
Dov’ero rimasto?
Sì, sotto l’imballatrice. E non potevo fare niente. Per essere più
precisi, non avrei dovuto nemmeno osservare. Ti assicuro che anche
se mi fossero toccati mille anni nel posto peggiore dell’inferno, non
sarei riuscito a resistere e vi avrei osservati comunque, di nascosto.
Avrei osservato quel vostro primo e purtroppo ultimo incontro. Avrei
osservato il volto di tua madre quando sei uscito con il bicchiere e i
tuoi lunghi capelli neri. Avevi impedito a tua nonna di tagliarteli dopo
aver visto una foto di uno dei Led Zeppelin su Rolling Stone, a cui ero
abbonato. Avevi sentito Haraldur e Aldís parlare in termini entusiastici
di quella band, e questo ti era bastato, sei sempre stato un loro fan da
allora. Ti ricordi, Eiríkur, del momento in cui sei uscito con il bicchiere,
e una donna sconosciuta ti stava aspettando accanto alla sua auto –
ti ricordi di lei? Ti ricordi come ho provato, dopo, maldestramente,
temo, perché non ce la facevo a nascondere il tremito nella voce, a
chiederti se avevi provato qualcosa di particolare? Non hai notato che
non ti ha tolto gli occhi di dosso? Nemmeno mentre beveva. Non
immaginavo che si potesse bere un bicchiere d’acqua con tanta
eleganza. Non credevo che solo vedere una persona bere un
bicchiere d’acqua potesse farmi piangere. Hai notato come teneva il
bicchiere, con entrambe le mani? Io ricordo la terra fredda, nascosto
sotto l’imballatrice. Ricordo di aver sperato che tua madre perdesse il
controllo. Cioè, che non riuscisse a domare i sentimenti che sapevo
scalpitare sotto quel contegno fermo e composto. Mi auguravo che ti
prendesse tra le braccia per stringerti forte. Che tenesse stretto il
bambino che di certo le era mancato ogni singolo istante da quando
la vita l’aveva costretta a consegnarti in grembo a tua nonna. Me lo
auguravo, e pensavo, adesso esco da qui! Adesso mi precipito da
loro e tutto andrà bene, sarà bello e staremo sempre insieme. Ma il
destino è poco incline a scrivere queste scene, perché tua madre ha
mantenuto la calma, è rimasta coerente. Ha finito di bere, per qualche
istante ha tenuto il bicchiere vuoto tra le mani. Immagino che volesse
farvi fluire dentro tutto il suo amore e il suo rimpianto, prima di
riconsegnartelo. Ho visto che ti guardava. Ho visto che ha sorriso,
che poi ti ha dato il bicchiere e tu l’hai preso. Ti ha guardato ancora
una volta, ha detto qualcosa, poi si è voltata, è salita in macchina, ha
messo in moto, si è allontanata dal fiordo e dalla nostra vita. Soltanto
allora sono potuto uscire dal mio nascondiglio. Con il binocolo. E che
tu ci creda o no, non ho più osato guardarci dentro, in quel binocolo,
da quella volta – me ne sono comprato uno nuovo. Mi piace
immaginare che il vecchio conservi quell’unico attimo che in un certo
senso abbiamo passato tutti e tre insieme. Non so se esiste una vita
dopo la morte. Anzi, non so proprio niente della morte. E forse non so
nemmeno molto della vita. Ma quando sarà il momento vorrei essere
sepolto nel cimitero qui a Nes, accanto alla mamma e al papà. E
l’unica cosa che ti chiedo è di mettere quel binocolo dentro la bara
con me. Lo so che è del tutto priva di logica, ma trovo conforto
nell’idea. Del tutto illogica. È vero. Ma va bene così, perché credo che
anche l’amore e la felicità siano fondamentalmente illogici. Immagino
che siano una musica, che non deve essere compresa ma solo
apprezzata, vissuta. E mi permetto di aggiungere che quando me ne
sarò andato, e spero che succeda tra molti anni, molti anni felici con
te sempre vicino, circondato da tanti nipotini allegri, quando me ne
sarò andato e riposerò sottoterra a Nes, ti autorizzo, e magari nel
giorno del mio compleanno, ma dipenderà dal clima, che ha sempre
deciso tutto, sulla nostra isola, da quando l’abbiamo popolata – ti
autorizzo a suonare dieci o quindici pezzi sulla mia tomba. Porta gli
strumenti migliori e regolali sul volume più alto, in modo che la
musica arrivi facilmente oltre il confine. Una buona metà dev’essere
costituita da pezzi che conosco. Ti lascio una lista alla fine della
lettera, mi sono divertito a compilarne una di circa duecento brani,
così hai da scegliere. L’altra metà la decidi tu, magari scegli anche
canzoni composte dopo la mia morte. È quello che mi rattrista di più,
forse il mio dispiacere più grande, che la morte non metta fine solo
alla mia vita, ma anche alla musica, perché mi perderò tutto quello
che verrà composto dopo che me ne sarò andato. Si può concepire
un’ingiustizia più nera?
Eiríkur, il contenuto della bottiglia è calato pericolosamente ed è
tempo di smettere, prima che diventi troppo sentimentale. Devo
anche cominciare a studiare una playlist per me e per la Morte – sarà
divertente! È stato bellissimo starmene qui a scriverti questa lettera,
insieme a quella che spedirò domani. Di sicuro sarai sorpreso dal mio
tono. Ho deciso di non trattenermi più e di esprimermi liberamente,
senza inibizioni. Credo che sia il modo migliore per arrivare a te.
Seguendo la bussola del cuore? Forse. O se non altro, ho deciso di
seguirla nella mia vita, ed era ora. Sai, credo che il gatto, questo
maledetto pirata guercio, si sia bevuto un po’ della bottiglia, perché a
quanto vedo si sta dando da fare per scrivere una poesia d’amore
alle galline, gliela reciterà domani. Anche se gli costerà l’altro occhio.
Credo che le galline la poesia non la sopportino proprio, ecco perché
sono così stizzose.
Intermezzo sul contesto, sulle responsabilità

e su una casa in fiamme


Amore mio, adesso andrà tutto bene, aveva mormorato Jón, perché
aveva appena compreso che la vita sarà sempre più grande della
morte, e aveva scagliato lontano la bottiglia perché chi lo sa e si
mette in cerca dell’eternità non ha più bisogno di bere. Amore mio,
aveva mormorato lui, e si era girato sulla schiena per osservare
meglio il cielo. Dovrai sempre alzare gli occhi verso il cielo, gli aveva
detto sua madre Guðríður, dove regnano la vita e la bellezza. Prendi
il cielo come punto di riferimento, anziché gli uomini, così diventerai
grande. Adesso sono grande, mamma, aveva pensato lui, si era
girato sulla schiena ed era soffocato nel vomito. È per questo che il
postino era arrivato nel fiordo portando Skúli. È per questo che Svana
aveva consegnato Eiríkur sopra il tavolo della cucina a Hafrún, che
l’aveva accolto. E adesso è morta. Io non so vivere senza di lei. Si
chiama Hafrún, e si chiamerà così per l’eternità, questo la morte non
lo può cambiare. Non so come andrà. Un pesce nuota lo stesso
quando lo si priva dell’acqua? Ha un senso, per la Terra, continuare a
girare, se hanno spento il sole? Voi che siete ancora vivi dovete darmi
una risposta. Io vivrò per quell’attimo, amore mio. Dovresti scriverci,
su quel sorriso, aveva detto Pétur in una lettera a Hölderlin, che
aveva risposto, l’ho fatto molto tempo fa: tu mi hai sorriso, e adesso
non so più se oso esistere.
È una poesia?
Sì, a meno che non sia la vita, talvolta sono la stessa cosa.
Composta dal poeta cieco delle zolle di terra.
La vita o la poesia?
Sono la stessa cosa.
Allora hai imparato parecchio, dice il conducente d’autobus
consacrato, accende la radio che improvvisamente è talmente
grande che ha quasi le dimensioni di un intero sistema solare e per
questo si fa sentire in tutto l’universo. Suona Blue in Green di Miles
Davis e Bill Evans.
Se ne avessi il coraggio, definirei il lombrico il pensiero di Dio.
Giudicate gli sforzi, più che il risultato. Perdonate la mia impertinenza.
So che ognuno deve saper stare al proprio posto. Ma chi decide
quale sia questo posto? Direi che il lombrico è il pensiero di Dio, se
ne avessi il coraggio.
Hai sentito, mormora Pétur a Hölderlin, mentre legge la lettera di
Guðríður in cui alcuni caratteri, soprattutto la f, la r e probabilmente
anche la þ, possono abbaiare come dei cani; è per questo motivo che
Skúli è arrivato con il postino, è per questo motivo che la sua bara è
stata calata in una ferita aperta del cimitero di Nes. Una ferita che
abbiamo richiuso con il nostro rimpianto. Vogliono arrestare Émile
Zola e per questo Halldór ha portato fuori la mobilia e le suppellettili
della vecchia casa prima di darle fuoco. Ah, la vecchia casa ha preso
fuoco, ha scritto Halldór a Eiríkur. Io e Palli siamo riusciti a salvare
buona parte delle cose che conteneva, ma non tutto.
Riuscire a salvare tutto quello che contiene una casa di legno in
fiamme, deve essersi consumata molto lentamente, aveva pensato
Eiríkur, sospettoso, ma non aveva fatto domande, forse, purtroppo, in
fondo in fondo era riconoscente a suo padre di non avergli dato più
alcuna ragione per tornare nel fiordo. L’infanzia andata in fumo riposa
nel cimitero di Nes.
Kierkegaard significa cimitero.
Eiríkur: Come quello di Nes?
Esattamente, come il cimitero di Nes. Quel poveretto si chiamava
cimitero – che peso da portare! Un nome pieno di morte, di croci e di
defunti. Non bisogna stupirsi se a volte quel tipo era un po’ giù di
corda.
E non c’è da stupirsi se siamo un tantino giù di corda anche noi
adesso – qui sono morti in tanti, e la colpa è tua.

Colpa mia, gli faccio eco, alzo la testa e incrocio gli occhi azzurri del
conducente d’autobus che ha preso i voti, l’unico colore dell’iride che
è ammesso all’inferno, e per questo può attraversarlo a bordo della
sua corriera; è colpa mia se tutte queste persone sono morte? Sono il
responsabile della morte di Hafrún e Skúli, di Eva e di Agnes, sono il
responsabile…
È la tua scrittura, questa, no? Chiede lui puntando l’indice sui fogli
scribacchiati davanti a me, sulla grafia disordinata.
Sì, purtroppo. Ma questo non significa che sia il responsabile della
loro morte.
Sei tu che scrivi, tu sei il responsabile, chi altri dovrebbe esserlo?
Ma insomma, tu chi sei?
Strana domanda, da un uomo che non ha la minima idea della
propria identità. Ricordati l’antica massima: trova te stesso, prima di
cercare gli altri! Però hai ragione, Guðríður invia una lettera e un
articolo che vorrebbe pubblicare in una rivista, Pétur va a trovarla in
sella alla sua Ljúf. Vi conosco di nome, dice Gísli, quando Pétur si
presenta, ho sentito parlare di voi. «A che cosa dobbiamo l’onore di
questa visita?» Forse avrebbe potuto rispondere: perché sia possibile
seppellire Skúli accanto alla sua Hafrún tra centodieci anni?
Ma sarebbe stata una risposta senza senso.
Per chi si sofferma sui dettagli, sì, sicuramente. Ma è
perfettamente logica per chi conosce il contesto. Halldór dà fuoco alla
casa dove abitava la felicità, il sottotetto era un sorriso alla
campagna, la vita rispondeva sorridendo a sua volta quando passava
per il fiordo. Non sono sicuro che si possa perdonare a qualcuno di
aver dato fuoco a una casa, perché l’ha fatto? E non si può nemmeno
perdonare chi tradisce. Come avevano fatto entrambi, Halldór ed
Eiríkur, che di conseguenza sono dannati.
Dannati, è una parola piuttosto forte. Non dimenticare che fino
all’età di quarant’anni Eiríkur era convinto che sua mamma fosse
morta per causa sua, e che fosse in parte responsabile della
malinconia di suo padre Halldór, e anche del suo alcolismo; e che di
conseguenza fosse colpa sua se non riuscivano a legare; soprattutto
da quando si era masturbato sulla copertina con la foto di sua madre.
Gli unici momenti in cui erano stati in sintonia erano quelli nel
soggiorno di casa a Oddi, quando Hafrún li convinceva a suonare
qualche pezzo insieme. In quei momenti si sentivano bene. Halldór
era talmente felice che non riusciva a smettere di sorridere. Ashes to
Ashes era la loro canzone preferita, l’avevano suonata ogni volta
negli ultimi tre anni, avresti dovuto sentirli intonare I’m happy, hope
you’re happy too… Non sono dannati, sono solo infelici. Ed Eiríkur…
Aveva guardato la bara di suo nonno calare sottoterra. Halldór
aveva dato fuoco alla casa. Come possono comunicare adesso che
Hafrún e Skúli non ci sono più? Eiríkur era tornato a Marsiglia dopo il
funerale del nonno, ma aveva fatto ritorno nel fiordo tre o quattro anni
dopo, con due valigie pesanti, un gatto guercio e una casa vuota ad
accoglierlo, ma per quale motivo, che cos’è successo? Lui ed Elías
stanno organizzando una festa in onore dei vivi e dei morti, poi forse
Eiríkur andrà in prigione, rischia fino a dodici anni. I cani saranno tutti
morti, quando uscirà. Non ti basta ammazzare la gente, te la prendi
anche con i cani. Non andrà a finire bene. A meno che tu non riesca a
cambiare le cose.
I mondi si mescolano
Un trattore arrugginito invia una lettera,

che cosa significa?

«… è stato bellissimo starmene qui a scriverti questa lettera, insieme


a quella che spedirò domani», ha scritto Halldór a suo figlio nella
Lettera sotto l’imballatrice. «Di sicuro sarai sorpreso dal mio tono. Ho
deciso di non trattenermi più e di esprimermi liberamente, senza
inibizioni. Credo che sia il modo migliore per arrivare a te.»

Il modo migliore per arrivare a te – cosa che evidentemente è


riuscita, perché Eiríkur fa ritorno con le due valigie, un gatto guercio
lo accoglie con i suoi miagolii e il suo amore impossibile per le galline.
Un gatto, una casa vuota, l’assenza dei due fratelli ed Eiríkur scopre,
a quasi quarant’anni, che il suo dolore più grande, anzi, la tragedia
della sua vita, si basa su… un malinteso. O forse una menzogna? A
meno che non sia coraggio, quello che ci vuole per prendere una
decisione tanto dolorosa e necessaria?

La lettera, la prima, che Halldór aveva spedito a Marsiglia, attende


Eiríkur nella cassetta della posta quando sta per partire. Trasalisce
leggendo chi la manda, ma poi la infila in fretta nello zaino, è in
ritardo, il suo gruppo ha prenotato qualche ora in uno studio per
registrare dei jingle pubblicitari che una radio locale gli aveva chiesto
di comporre. Un lavoro che avrebbe dovuto concludere verso metà
giornata, ma Eiríkur è talmente pensieroso per via di quella lettera
che lui e i suoi colleghi finiscono solo prima di cena, e invece di
leggerla a casa, nel suo piccolo appartamento, decide di andare nel
ristorantino arabo-italiano che frequenta regolarmente da qualche
mese, gestito da una coppia, dai loro tre figli e le nuore. Il padrone,
Ekram, è un giordano basso e magro, con occhi piccoli e scuri che
brillano di passione, sua moglie Melania, è italiana, lo supera di una
testa almeno e a Eiríkur ricorda una Sophia Loren più alta; indossa
abiti colorati, è ingombrante, chiassosa, affettuosa. E per quanto lì si
mangi molto bene, è l’atmosfera allegra e casalinga che Eiríkur
apprezza in quel ristorante; talmente casalinga che gli ricorda la
cucina di Oddi. La metà degli avventori sono clienti abituali che la
famiglia tratta come fossero amici, si siedono volentieri al loro tavolo
per chiacchierare davanti a un bicchiere di vino – i figli maschi della
coppia, due gemelli, bassi come Ekram, lo stesso sfavillio di passione
nello sguardo, in più di un’occasione hanno portato con loro Eiríkur
nel bar accanto per seguire le partite del Liverpool, la squadra per cui
tengono tutti e tre, nel campionato inglese.
Una sera calda, il suo solito tavolo sulla piazza davanti al
ristorante è libero, ed Ekram sembra comprendere che Eiríkur ha
bisogno di essere lasciato tranquillo, allontana i nipoti dalla piazza,
senza dire una parola gli porta una Leffe grande, ghiacciata e scura,
gli dà una leggera pacca sulla spalla, poi si ritira. Eiríkur beve la birra,
esamina la busta e l’indirizzo scritto con cura, ma c’è un tremito in
alcune lettere, come se balbettassero – negli ultimi anni a Halldór
tremano le mani. Certo, pensa Eiríkur accendendosi una sigaretta,
perché non fanno mai in tempo a smaltirla.
Fuma, beve la sua birra, guarda la busta.

I rapporti tra lui e suo padre sono stati sporadici da quando Halldór
aveva accompagnato il figlio sedicenne al liceo a Reykjavík, e
Morrissey cercava disperato di trovare un contatto. Possono passare
dei mesi senza che Eiríkur senta suo padre, e non ha mai l’esigenza
di rompere quel silenzio per primo. D’un tratto, da circa un anno,
aveva cominciato a ricevere delle email da Halldór. Certo, parlavano
soltanto degli eventi quotidiani nel fiordo, della vita di suo padre e di
suo zio, ma Eiríkur percepiva qualcosa di non detto sotto la
superficie, e sospettava che quelle email fossero il suo tentativo per
riavvicinarsi a lui; che Halldór aspettasse un suo cenno che gli
permettesse di aprirsi e scrivere… in tutta libertà. Ma Eiríkur non
gliene aveva dato l’occasione. Non credeva nella sincerità di Halldór.
Per fortuna, aveva pensato quando le email erano diventate più
lunghe, più confuse, spesso scritte di notte e chiaramente da ubriaco,
tanto che la sincerità si confondeva con l’emotività, il sentimentalismo
diventava autocommiserazione, e da lì ad accuse di ogni sorta il
passo era breve, il tutto si mischiava in un cocktail che Eiríkur trovava
intollerabile, anzi lo disgustava. E una mattina, dopo aver letto otto
email notturne di quel genere, ne aveva avuto abbastanza. Aveva
risposto all’ultima con un breve messaggio secco: «Ti prego, da
questo momento in poi risparmiami le tue insopportabili email
melense da ubriaco! Non le reggo! Sono un’umiliazione per
entrambi.»
Si era pentito immediatamente di aver mandato quel messaggio e
aveva avuto difficoltà a concentrarsi per tutta la giornata. Aveva la
sensazione di aver commesso qualcosa di imperdonabile, ma si
rifiutava di presentargli delle scuse. Aveva atteso inquieto,
angosciato, una risposta, aspettandosi qualsiasi cosa, una lettera di
assoluzione o una piena di rabbia e di recriminazioni. Ma non aveva
mai ricevuto nessuna risposta. Non quel giorno, né il giorno dopo.
Erano passate settimane, mesi, e il silenzio si era esteso tra di loro
come un oceano – poi era arrivata quella lettera.

Eiríkur sospira, svuota il boccale di birra, apre la busta. Oddi, 29 luglio


2017, caro Eiríkur, una lettera dal vecchio trattore arrugginito in
Islanda, penserai senza dubbio, temendo il peggio – che cosa
significa!?

Dobbiamo aspettare ieri

Oddi, 29 luglio 2017, caro Eiríkur, una lettera dal vecchio trattore
arrugginito in Islanda, penserai senza dubbio, temendo il peggio –
che cosa significa!? È normale che ti aspetti il peggio, dopo tutti i
messaggi che ti ho mandato la scorsa estate, soprattutto l’ultimo.
Zeppo dei vaneggiamenti di un ubriaco. Vaneggiamenti, penosi
sentimentalismi e autocommiserazione. E adesso una lettera! Che
significa, com’è possibile?
La spiegazione, se posso dirlo, sta nei miei sogni. In questi ultimi
cinque, dieci anni faccio un sogno ricorrente, un sogno penoso, dove
sto davanti a me stesso, il me diciassettenne, o diciottenne. È
evidente che il giovane si vergogna di me e mi accusa di averlo
deluso, addirittura tradito. Ma quando cerco di difendermi e
spiegargli, a lui che è così giovane, che la vita è molto più complicata
di quanto si possa ritenere alla sua età, che riesce a piegare senza
difficoltà anche le persone più solide, sono incapace di pronunciare
anche solo una parola – e così lui comincia a recidere i lacci che ci
tengono insieme. Io mi sento disperato, non riesco a immaginare di
perderlo, cerco di dire qualcosa, cerco di avvicinarmi a lui ma non
posso muovermi, ho l’impressione che l’anima si stia staccando da
me per andare verso quel giovane. Finalmente riesco a emettere un
grido lancinante – con cui in genere mi sveglio. Il sogno che ho fatto
la scorsa notte è stato estremamente doloroso, mi lamentavo
talmente forte nel sonno che Palli si è svegliato ed è venuto nella mia
stanza; quando mi sono svegliato, esausto e in un bagno di sudore,
l’ho trovato seduto sul mio letto, preoccupato. Ha detto che aveva
provato a svegliarmi, che era molto in apprensione perché ansimavo
e mi rivoltavo come in preda a una grande sofferenza. Mi sono
svegliato, ho visto Palli e ho detto: adesso devo scrivere una lettera a
Eiríkur.
Ed eccola qua!
Innanzitutto, prima di cominciare a scrivere, mi sono costretto a
rileggere le ultime quaranta, cinquanta email che ti ho mandato. Uff,
che lettura patetica! È terribile constatare quanto sia breve la
distanza tra la sincerità, un sentimentalismo umiliante e
l’autocommiserazione, e capire fino a che punto si può essere ciechi
quando siamo coinvolti. E anche quanto sia breve la distanza tra
l’autocommiserazione e le accuse ridicole che genera. Un cocktail
esplosivo!
Per farla breve, questa notte ho preso la decisione di scriverti una
lettera. Ho promesso a me stesso e a Palli di non farlo sotto gli effetti
di sostanze più forti di un normale caffè! Eiríkur, io spero che con
questa lettera, e con quelle che seguiranno dopo, se mi permetti di
scriverti ancora, io possa colmare il divario e il silenzio doloroso che
si sono creati da tempo tra di noi, e che mi fanno profondamente
male. Vale anche per Palli, non c’è niente che lo rattristi di più. So che
a volte ti ha scritto nella speranza di aprire una breccia. Voglio
comunque che tu sappia che capisco e rispetto la tua decisione di
ignorarmi. Però è come dice Palli: io ho soltanto te, tu hai soltanto
me, e la vita è troppo breve e disseminata di spine per allontanare le
persone a cui vogliamo bene. Lo so che ho fatto tanti errori nella vita.
Lo so che la gente mi commisera. Lo vedo e lo sento come mi
guardano, e brucia. Lo so che molti hanno rinunciato a starmi
accanto, mi sopportano come si fa con un malato incurabile. Alcuni
mi hanno detto che l’unica soluzione sarebbe andare in terapia. Ma io
dico che la forza di ciascun essere umano si misura dalla capacità
che ha di rimettersi in carreggiata da solo, o meno. Del resto, non è
l’alcol il mio nemico, sono io. La guerra più importante è quella che
ciascuno combatte contro se stesso. Devo mettere ordine dentro di
me. Devo trovare il coraggio di guardarmi in faccia, qui e ora, è solo
così che potrò riappacificarmi con il giovane che ero e che viene a
trovarmi in sogno. Scriverti una lettera, caro Eiríkur, non può che
essere una tappa fondamentale di questo percorso. Mi farebbe
piacere se mi rispondessi, anche solo con due parole, anche solo
telegrafiche – ma non pretendo niente. L’unica cosa che spero è che
tu legga questa lettera e… le altre che vorrei scriverti, se me lo
permetti. Se ti interessa. E che tu trovi, con i tuoi tempi, un motivo per
perdonarmi almeno in parte gli errori che ho commesso nei tuoi
confronti e nei confronti di tutti coloro che amo. Voglio fare del mio
meglio per non cadere nel vizio di cercare delle attenuanti, e di
chiacchierare con te solo… come una persona normale, di tutto e di
niente.
Ti ricordi del brano di Tom Waits, Yesterday Is Here dal disco
Franks Wild Years? Un pezzo stupendo, una perla, che ho perfino
ballato guancia a guancia nelle feste di campagna. Questa canzone
mi ha accompagnato dal giorno in cui l’ho sentita la prima volta, forse
è per questo che mi sento come se Tom Waits avesse incapsulato
tutta la mia vita in questa bella canzone malinconica. Sembra che
racconti il modo in cui la mia vita si è fermata:

Well, today is grey skies


Tomorrow is tears
You’ll have to wait ’til yesterday is here

Devi aspettare che torni ieri: credo che questa frase descriva
perfettamente la mia vita, purtroppo. Negli ultimi quarant’anni
almeno. Come dice mio fratello: non prendi decisioni, e ti paralizzi!
Ma adesso, basta!
Caro Eiríkur, mio caro Eiríkur, carissimo figlio mio, il mio orgoglio e
la mia felicità! Questa lettera deve segnare un nuovo inizio! Tornerò a
esistere, per davvero. Prenderò parte attiva nella mia vita. E sai che
cosa sogno, da tanti, tanti anni? Che io e te ci sediamo da qualche
parte, sereni e felici di avere l’uno la compagnia dell’altro, e suoniamo
insieme I’ll Follow the Sun. È il mio sogno. E sospetto, no, lo so, che
dipende soltanto da me se questo sogno si realizzerà!

Nessuno dovrebbe mai confidare

agli altri la propria vita

Eiríkur sta leggendo la lettera per la terza volta quando Ekram esce
dal ristorante per portargli la cena e una caraffa di vino rosso, benché
lui non abbia ancora ordinato niente. Questo piatto si chiama mansaf,
dice Ekram in tono quasi solenne. Non l’hai mai assaggiato qui da
noi, perché preferiamo non proporlo sul menu. Il mansaf è il piatto
che si serve a un nemico per rabbonirlo, per conquistare il cuore di
qualcuno, per far felice un amico o consolare chi ha bisogno di
essere consolato. Quindi non lo si serve tutti i giorni. Ho detto alla mia
Batool che avevi un’aria particolarmente malinconica e che doveva
cucinare un piatto molto speciale per te. Allora faccio il mansaf, ha
detto. Secondo alcuni è un piatto da re – io dico che quello di Batool è
un piatto per gli dei. Forse stasera mia figlia vuol fare di te un dio,
signor islandese!

Eiríkur è troppo distratto e sconvolto dalla lettera per avere la forza di


ringraziare; quando torna in sé, Ekram è già sparito all’interno dopo
averlo servito, dopo avergli versato del vino rosso nel bicchiere e
averlo salutato con una leggera pacca sulla spalla.
Forse vuol fare di te un dio.
Ekram è un uomo appassionato, parla molto e con vivacità, ha la
tendenza a lanciarsi in grandi dichiarazioni ed Eiríkur a volte si
domanda se sia il caso di prenderlo sul serio. Ma è riconoscente per
quella cena, non mangia niente dalla mattina, scopre di avere una
gran fame e il mansaf è talmente gustoso che riesce a placare un
poco quel turbinio di emozioni che gli si agita dentro dopo aver letto
la lettera. Emozioni talmente confuse e tormentate che non sa
esattamente come si debba sentire.
La prima reazione però è di collera. Eiríkur pensa che Halldór
abbia delle pretese ingiuste nei suoi confronti. E non gli interessa
ritrovarsi suo padre tra le braccia.
Poi legge di nuovo la lettera e la collera si placa, sostituita dal
dubbio.
Eiríkur lo sa che la lettera avrebbe reso felici Hafrún e Skúli. Lo sa
che dovrebbe – per questo motivo, se non altro – rispondergli di
averla ricevuta. E dare una possibilità a suo padre.
Ma posso fidarmi di lui, pensa, se gli porgo un mignolo, non è che
si prende tutto il braccio? Devo aspettarmi che mi telefoni,
completamente ubriaco, a qualsiasi ora del giorno e della notte, e che
mi costringa ad ascoltare i suoi discorsi senza senso, i
sentimentalismi, l’autocommiserazione, le recriminazioni di un
alcolista; sarà questo il prezzo da pagare? Ma non lo devo forse alla
nonna e al nonno, di dare una possibilità a Halldór… A meno che il
problema, il nodo, non sia io, e non lui. Non è che sono io il giovane
che vede in sogno?
Ricomincia a scorrere la lettera per la quarta volta ed è arrivato quasi
a metà quando percepisce un cambiamento nell’atmosfera. Alza gli
occhi e vede uscire dal ristorante Batool, la figlia di Ekram e Melania,
con una bottiglia di rakı e due bicchierini. Tre o quattro uomini seduti
agli altri tavoli raddrizzano involontariamente la schiena e la seguono
con lo sguardo mentre lei gira tra i tavoli, alta, con le gambe lunghe
come un purosangue arabo, incurante della propria bellezza, e si
ferma poi accanto a Eiríkur, posa la bottiglia e i bicchieri sul tavolo,
appoggia la mano allo schienale della sedia di fronte a lui e chiede,
posso?
Lui appoggia la schiena all’indietro, sorpreso.
Batool, alta come sua madre, ha la struttura più sottile, e in
famiglia è quella che si intrattiene meno con gli avventori. Esce
qualche volta dalla cucina per controllare suo figlio, un vivace
bambino di cinque anni che gioca spesso nel quartiere con altri suoi
coetanei, ed è chiaro che è molto legato a sua madre. Eiríkur ha
scambiato qualche parola con lui, a volte, ma non ha mai visto un
possibile padre nei paraggi. Batool è sempre amabile se qualcuno
dei clienti le si rivolge, ma c’è qualcosa nel suo modo di fare,
soprattutto nei grandi occhi scuri, che tiene tutti a debita distanza.
Non è freddezza, forse un po’ di alterigia, ed Eiríkur non l’ha mai
vista sedersi al tavolo dei clienti, meno che mai con una bottiglia di
rakı.
Posso, chiede di nuovo, ed Eiríkur annuisce. Lei fa un accenno di
sorriso, forse per il silenzio di Eiríkur, si siede, riempie i bicchieri, ne
spinge uno di fronte a lui, prende l’altro, inclina morbidamente la testa
all’indietro e lascia che il forte liquore le scorra lentamente dentro. I
lunghi capelli neri raccolti in uno chignon rivelano il collo magro e
lungo.
Riempie di nuovo il bicchiere e le cade l’occhio sul pacchetto di
sigarette appoggiato sul tavolo davanti a Eiríkur. Ah, sospira, e io che
avevo smesso. Si sporge a prendere il pacchetto, estrae una
sigaretta, l’accende, si appoggia di nuovo all’indietro sulla sedia con
le braccia incrociate e fuma in silenzio, mentre Eiríkur finisce di
mangiare.
Si conoscono appena. Si sono rivolti la parola solo un paio di volte
in precedenza. Lei era uscita dal ristorante per controllare suo figlio e
si era fermata al tavolo di Eiríkur per chiedergli dell’Islanda, del suo
paese, della lingua. Non si era trattenuta a lungo, ma c’era qualcosa
in lei che l’aveva incuriosito. Qualcosa di diverso dalla bellezza e dal
fascino che il suo abbigliamento trascurato non era riuscito a
nascondere.
Eiríkur finisce il piatto, cerca di apprezzarne il sapore ma sa di
essere talmente sottosopra che farebbe meglio a tornare a casa.
Prima di dire qualche stupidaggine…
Un piatto delizioso, dice. Il mansaf – per siglare la pace tra nemici,
o per consolare; sottoscrivo. Sei una maga in cucina. Grazie per
averlo preparato per me! E sì; anche per tutti gli altri piatti che ho
mangiato qui da voi!
Batool sorride. Ha un bel sorriso che illumina i tratti spigolosi del
volto, ma riesce appena a increspare lo sguardo scuro e profondo.
Papà ha detto che sembravi agitato per via di quella lettera, dice
lei con la sigaretta accesa tra le lunghe dita, ed era preoccupato per
te. È per questo che ti ho preparato questo piatto. Spero non sia
morto nessuno.
Riempie di nuovo i bicchieri e lui svuota immediatamente il suo,
nella speranza che l’alcol riesca a placare l’indecisione e il tumulto
che sente dentro. Per la lettera, ma forse anche per la presenza di
quella donna. Devo tornare a casa, pensa di nuovo. Solo che come
faccio ad alzarmi e andarmene, adesso? È venuta a sedersi al mio
tavolo con una bottiglia. Devo darle una spiegazione.
Lei versa di nuovo e lui svuota il suo bicchiere all’istante, ancora
una volta. Non è una buona idea, si dice quando sente che la sua
attenzione comincia ad affievolirsi. Concentrati, intima a se stesso. E
guai a guardare quegli occhi. Sono talmente scuri e profondi che è
facile perdercisi dentro. Le dico solo che è una lettera da parte di mio
padre, poi la saluto e me ne vado.
È di mio padre, questa lettera, fa lui, sorride e aggiunge, non ho
mai ricevuto lettere da parte sua, è la prima.
La prima, ripete.
La prima lettera.
Non pretendo niente.
Il mio sogno.
Un trattore arrugginito.
Sono diventato un uomo di cui il giovane che ero prova vergogna.
Mi disprezza.
Be’, è tardi, mi ha fatto piacere parlare con te. Molto piacere.
Grazie di nuovo per tutti i piatti che mi hai preparato. Sai che potresti
cambiare il mondo, con la tua cucina. Mi piace venire qui da voi, si sta
bene. Mi piace anche chiacchierare con il tuo bambino. Non ho mai
visto suo papà – forse non ha un padre?
Ma che cazzo sto dicendo?
Scusami, fa lui, è una domanda stupida e indiscreta!
Lei tiene gli occhi bassi sul tavolo. A me piace cucinare per te, dice
poi, e parla lentamente, come se stesse scegliendo le parole. Ti ho
visto suonare con il tuo gruppo al club. Diciamo anche che ti ho
osservato con attenzione. E che credo che tu sia una bella persona.
Ma ho pensato la stessa cosa di altri uomini in precedenza, e mi sono
sbagliata. Sai, certe persone sono così meschine che possono
diventare crudeli, se trovano l’occasione. Ma il mio Jojo non è frutto
dell’immacolata concezione. Dio non mi degnerebbe certo di uno
sguardo. Però non ce l’ha, un padre.
È chiaro che Eiríkur l’ha offesa. Bisogna proprio che torni a casa,
pensa per la terza volta. Ecco che a causa delle mie domande
stupide le devo una spiegazione, oltretutto ha cucinato quel piatto
delizioso apposta per me. Sono in debito con lei e con la sua famiglia
per avermi accolto così bene, sera dopo sera, in realtà mi hanno
offerto un rifugio. Le dico che sono sconvolto per la lettera, confuso,
un tantino alticcio, ed è meglio per tutti che me ne stia da solo. Le
posso anche dire che tra me e Halldór c’è un rapporto complicato,
senza entrare nel dettaglio. Non ho il diritto di farlo, né nei confronti di
Halldór né nei confronti di Batool. O come dice Javier Marías:
nessuno dovrebbe mai confidare agli altri la propria vita, perché
sarebbe imperdonabile.
Eiríkur la guarda, e allora lei alza gli occhi. Questi occhi, pensa lui,
e d’un tratto prova un profondo desiderio di lasciarsi andare; prima di
rendersene conto ha già cominciato a parlare e non riesce a fermarsi.
Comincia quasi a metà frase. O a metà di un pensiero. Come se
quella donna conoscesse la sua storia, il suo contesto.

Ho tradito tutti coloro che amo. Perdonami, non ho nessun diritto di


raccontarti queste cose, ma ho tradito mia nonna, ho tradito mio
nonno. Mi hanno cresciuto loro. Sono stati i miei genitori, e io non ero
accanto a loro quando sono morti, e fa male, brucia, la cosa peggiore
però è che sono stato assente anche quando erano vivi. Ho amato.
Adesso è finita. Eppure non è finita, dentro di me. Adesso appartengo
al rimpianto e alla nostalgia e sarà sempre così. È tutto collegato alla
materia oscura. E a una vita al quindici per cento, che basta appena
a lavare i calzini, bere una birra e tradire chi si ama. E adesso siamo
rimasti soltanto io e papà, e lo zio Palli. Palli è un troll. Potrei dire che
è grande quanto la luna. Un’anima luminosa e bella, però a volte
credo che il destino si serva di lui come un’armonica a bocca per
suonarci il blues. Dio, come mi manca! Ho tradito anche lui. Ci si
ritrova paralizzati, e si tradisce chi si ama. Palli è un pescatore e ha
un master in Kierkegaard. Un nome che significa cimitero. Nella vita
avrai sempre davanti due scelte, ha detto Kierkegaard, entrambe ti
causeranno dei rimorsi, se non ne scegli nemmeno una ti ritroverai
un’esistenza al quindici per cento. Credo che Palli sia la persona più
bella che conosco. Balbetta, a volte balbetta così tanto che sembra
che la vita stia cercando di farlo tacere.
E tua mamma, gli chiede Batool. E lui risponde prontamente, è
morta perché sono nato io. È il patto, una vita in cambio di una morte,
sto ancora pagando il conto. Lo stiamo pagando entrambi, io e papà.
E adesso ti ha scritto una lettera?
Sì, e chi se lo aspettava! Quand’ero bambino, continua Eiríkur,
sognavo di essere il migliore amico di mio papà. Di essere la persona
che avrebbe voluto con sé nel suo gruppo rock, eppure stavo sempre
male, mi sentivo a disagio ogni volta che cercava di comunicare in
maniera sincera con me, o di abbracciarmi. Mi irrigidivo tutto quando
mi stringeva. Non va bene. Credo che siano trent’anni che non ci
abbracciamo, e io ne ho trentasei. Qualcosa dentro di lui è morto
quando sono nato. Insomma, sono cresciuto in un fiordo nel Nord del
mondo, i miei nonni mi hanno dato tutto il loro amore per averne
pochissimo in cambio, da parte mia. Papà era come gli uccelli
migratori in Islanda, arrivava con la primavera e se ne andava in
autunno. Per il resto dell’anno si faceva vedere di rado. Praticamente
non so nemmeno che vita abbia fatto. Ma credo, o piuttosto temo, di
non aver mai capito quale sensazione fosse più forte in me, l’ansia o
l’impazienza, quando aspettavamo il suo ritorno. Ho sempre avuto
l’impressione di dovergli dimostrare qualcosa. Di dover essere
divertente, intelligente, e allo stesso tempo di dover fare attenzione a
non stancarlo, a non infastidirlo con la mia presenza. Non c’era nulla
che desiderassi più ardentemente della sua approvazione. Papà è
bravissimo con la chitarra, ha suonato in varie band quand’era
giovane, credo che ogni tanto lo faccia ancora. Ogni volta che se ne
andava, come faceva sempre, per andare a lavorare nel Sud,
nell’Est, nell’Ovest, in mare, come muratore, e si assentava per molti
mesi, sceglieva un pezzo che dovevo imparare alla chitarra per poi
suonarlo davanti a lui quando tornava. Ricordo che il primo fu I’ll
Follow the Sun dei Beatles, una vera perla scritta da Paul McCartney.
Avevo solo sette anni, mi esercitai per prepararla come se fossi
posseduto; quando mio papà è tornato conoscevo alla perfezione la
musica e il testo. E nel momento in cui l’ho visto scendere dall’auto
nel cortile di casa avevo addosso un tale stress, una tale angoscia
che mi sono chiuso completamente, mi sembrava di avere un sasso
nello stomaco. Mio papà mi ha piazzato sul tavolo in cucina e io ho
cominciato a suonare. L’ho fatta abbastanza bene, credo, le dita
conoscevano automaticamente il pezzo dopo tutti quegli esercizi, ma
ero talmente terrorizzato che non ero più in me, ho dimenticato quasi
del tutto le parole e ho ripetuto più volte i pochi versi che sono riuscito
a ricordare, con la mia voce rotta di bambino: And now the time has
gone, and so, my love, I must go. Credo che nessuno abbia notato
quanto stavo male, forse non si aspettavano che un bambinetto di
sette anni conoscesse davvero il testo. In ogni modo, papà era molto
felice. Mi ha preso tra le braccia e prima di rendermene conto mi
sono ritrovato al volante della sua bella macchina, me l’ha lasciata
guidare fino alla scuola, che si trovava a circa mezzo chilometro dalla
fattoria, ho fatto qualche giro nel parcheggio finché papà non è stato
ben sicuro che gli altri bambini ci avessero visto. E nei giorni
successivi i compagni non parlarono praticamente d’altro, tutti mi
invidiavano da morire perché avevo guidato una macchina vera e
avevo un padre straordinario. Ma nessuno desiderava quanto me
essere il figlio del padre che tutti credevano fosse.

Qualche parola sulla colonna di lacrime,

e su quanto può essere alta

Ah, non va per niente bene, mi pare, faccio io e lancio uno sguardo
furtivo in direzione del conducente d’autobus consacrato. Furtivo, e
indagatore – sapeva già tutto, lui, quando prima ho descritto Eiríkur
che suonava I’ll Follow the Sun sul tavolo della cucina di Oddi, il
modo in cui aveva eseguito quella semplice melodia dalla bellezza
triste, e aveva cantato «più volte i pochi versi che era riuscito a
ricordare»? Sapeva dell’ansia di Eiríkur, degli esercizi estenuanti, di
come si sentiva davvero, eppure mi ha lasciato descrivere quella
scena nonostante le mancasse… un senso? E se l’è tenuto per sé,
per sottolineare la sua superiorità nei miei confronti? Gli lancio uno
sguardo furtivo ma non leggo niente sul suo volto, su quei maledetti
occhi azzurri, e ancora una volta il dubbio mi pervade.
Guardo di nuovo i fogli, voglio sapere come prosegue la storia,
come reagisce Eiríkur a quella lettera, come affronta l’effetto che
produce su di lui; e che cosa succede tra lui e Batool dagli occhi scuri
– guardo i fogli ma Marsiglia è sparita ed Eiríkur ha appena messo
per Elías il brano Mosaïque Solitaire del musicista belga-congolese
Damso; le note insistenti e malinconiche riecheggiano sulla superficie
del fiordo, talmente calmo che assomiglia alla felicità.
Je pleure que de l’intérieur pour que mes soucis se noient.
Il mio francese è talmente arrugginito, dice Elías, che faccio fatica a
capire le parole – sta parlando di lacrime?
Piango solo dentro di me, dice Eiríkur, perché anneghino i miei
dolori.
Elías: Ecco, mi pareva. Non è male come verso, mi fa venire in
mente quelli indimenticabili di una poesia di Werner Aspenström:
«Fin dove arriva la tua colonna di lacrime? / All’ombelico? Al petto?
Alla gola?»
Eiríkur: Una bella poesia, scritta da un autore importante.
Lo sai, giovanotto, riprende Elías, osservando il fiordo, che dalla
luna non si vede alcuna traccia di vita sulla Terra, e che noi siamo per
la maggior parte un fenomeno talmente effimero nella storia
geologica del nostro pianeta che tra un centinaio d’anni nessuno si
ricorderà di noi, ogni nostra traccia sarà sparita. Eppure, a volte
esistere può risultare davvero difficile. Estremamente difficile. Lo sai
che mi manca tanto.
Lo so, dice Eiríkur. Manca anche a me.
Per molto tempo sono stato convinto, dice Elías, che a poco a
poco il tempo sarebbe riuscito ad attenuare il rimpianto più forte. Ne
ero convinto, del resto bisogna che sia così, è solo in questo modo
che riusciamo a sopravvivere – eppure il rimpianto e il senso della
perdita fanno ancora male come tre anni fa. Lo sai che gli parlo tutti i
giorni, che comincio a farlo appena mi sveglio? Su, caro Palli, gli
faccio, appena sceso dal letto, è l’ora del caffè! Ah, Palli, non è che ti
va di dare da mangiare ai gatti nel frattempo? Non so nemmeno se mi
sente. Non so fin dove arrivino le nostre parole. Certi giorni temo che
raggiungano soltanto il margine della vita, temo che con le mie
chiacchiere io non faccia altro che trattenere la tristezza. La nutro, la
ingrasso. Eppure vado avanti. Non posso che andare avanti.
Lo dobbiamo a tutti, di andare avanti, dice Eiríkur, e posa la mano
su quella lunga e magra del vecchio professore, percorsa da vene
come il delta bluastro di un fiume. La posa dolcemente, la stringe
forte, la stringe con affetto e aggiunge: ci aiuteremo a vicenda, ad
andare avanti. Presto accadrà qualcosa di molto bello. Ne sono
sicuro.
Allora dentro Elías qualcosa si spezza e lacrime mute scendono
dagli angoli degli occhi, scorrono sulle guance magre e rasate di
fresco.
Fin dove arriva la tua colonna di lacrime?
Je pleure que de l’intérieur…

Dove le parole si fermano

… pour que mes soucis se noient. Credo che Eiríkur abbia insegnato
a tutti, a me, a papà, a mia sorella, a Dísa e a Elías, ad ascoltare il
rap, mi dice Rúna quando ci fermiamo sul parcheggio dell’hotel,
scendiamo dall’auto e il brano di Damso ci riempie come un uccello
scuro e maestoso. Guardo la fattoria di Oddi dove ancora si intravede
il vecchio casale. I fratelli hanno ripulito accuratamente il sito dopo
l’incendio, ma hanno voluto lasciare le tracce dell’antica fattoria, e
adesso i ruderi ci appaiono davanti come una cicatrice nel
paesaggio.
Perché Halldór ha dato fuoco alla vecchia casa, chiedo a Rúna,
era malmessa?
Rúna, che stava osservando con un sorriso i turisti giapponesi
sguazzare felici tra grida e risate nella piscina calda, mi raggiunge.
Malmessa, dice lei. Era stata costruita da Skúli e mantenuta
dall’amore, certo che no! Però Halldór non ci ha dato spiegazioni,
aggiunge. La mamma invece era talmente arrabbiata con lui che non
gli ha rivolto la parola per molte settimane, il povero papà ha sofferto
tanto a ritrovarsi in mezzo al loro silenzio. Ero negli Stati Uniti quando
è successo, papà dice che Halldór aveva provato a convincerlo che
nella vecchia casa il ricordo dei suoi genitori e della loro felicità era
talmente sovrastante da paralizzarlo, spingendolo in questo modo a
bere ancora di più. Credo anche che abbia finito per convincersi che
costruire una casa nuova e dare fuoco a quella vecchia l’avrebbe
aiutato a trovare il suo equilibrio nella vita, a tornare sulla giusta
strada. Un ragionamento completamente illogico, ovviamente,
un’illusione.
Ed è andata in cenere?
Sì, è bruciata completamente. Del resto, i ricordi sono un ottimo
combustibile. Ah, è stata dura per tutti. Palli voleva continuare a
vivere nella vecchia casa, ma alla fine ha ceduto alle stupidaggini di
suo fratello. Ha lasciato che fosse lui a decidere. Io credo che non
avesse la forza necessaria per opporsi a Halldór, che tutte le sue
energie si concentrassero per vivere, attendere e sperare, e… sì, i
due fratelli hanno svuotato la casa vecchia, hanno accatastato nel
granaio tutta la mobilia che non aveva trovato posto in quella nuova.
Certi mobili sono ricordi, ha detto Halldór, si preferisce non
sacrificarli. E su questo ovviamente aveva ragione. Ma non si può
dire che sia andata a finire bene.

Forse non c’è niente che va a finire bene, è il pensiero che mi passa
per la mente mentre Rúna cammina verso l’albergo, dove sua sorella
sta chiacchierando con la coppia canadese davanti all’entrata.
L’uomo, alto e con una pancia così prominente che sembra abbia
ingoiato una balena, s’illumina tutto e ride allegramente a quello che
sta dicendo Sóley, e sua moglie, tozza, con un’aura mite e calda, ride
insieme a lui. Le due sorelle li guardano, sorridendo. Rúna
leggermente più piccola, più scura, sembra una nota in minore
accanto alla sorella, con la sua energia solare e contagiosa. E il suo
sorriso mi fa un effetto tale che mi giro e socchiudo gli occhi per un
attimo, forse nella speranza che quel mio accompagnatore
misterioso batta sulla bottiglia di whisky, mi riporti d’un tratto alla
roulotte che si intravede dall’ingresso dell’albergo, mi dica che cosa
ci riserva il destino, mi spieghi a che punto si fermano le parole, e poi
mi rimandi indietro – nel passato. Almeno me ne vado. Perché
quando lei sorride succede qualcosa che non capisco.

Tu sorridi e per questo desidero vivere.


Tu mi hai sorriso, e adesso non so più se oso esistere.

É
Non sa chi è Émile Zola

e per questo perde il suo tesoro,

è il prezzo da pagare

È una poesia, aveva chiesto Pétur a Hölderlin mentre cavalcava


verso Stykkishólmur in sella alla Ljúf – qualche ora più tardi entra nel
salotto a casa del medico e annuncia che quei maledetti vogliono
arrestare Émile Zola!

Quando Pétur entra e affascina tutti con la sua presenza e la sua


passione, il cuore di Guðríður batte talmente forte che teme lo si
possa sentire per tutta l’alta brughiera fino a casa, a Uppsalir, a casa
da Gísli. E non si può, assolutamente. Suo marito non deve sentire
come le batte il cuore. Guarda Pétur e pensa, Gísli non sa chi è Émile
Zola.
Il che in effetti è vero. Non sa chi è Émile Zola. E probabilmente
non ha nemmeno mai sentito parlare dell’affare Dreyfus.
A Gísli non piace leggere. La lettura sottrae tempo al lavoro, e a
parte questo è un’attività noiosa. Ah, sì, tende a essere anche troppo
burbero, ma una volta ha rubato, senza dubbio soltanto per vedere
Guðríður sorridergli, come solo lei sa fare.
È un bel gesto, a suo modo, no? Quasi una specie di dichiarazione
d’amore.
Ha rubato per vederla sorridere. Ha commesso un furto perché ha
sempre avuto paura di perderla. Una paura talmente forte che è stata
una delle ragioni per cui a suo tempo ha voluto trasferirsi sulla
brughiera, contro il consiglio di tutti.
Forse è addirittura il motivo principale?
A spingerlo lassù, verso le brughiere, non è stato quindi un
ostinato desiderio di indipendenza, come tutti pensavano,
dandogliene merito, ma la paura di perdere Guðríður; quella lotta
incessante contro le dure condizioni della brughiera era la sua
grande poesia d’amore per lei?
Ma pensa un po’. Però adesso sono passati quasi vent’anni.
E Gísli è seduto sulla mangiatoia nell’ovile, e Guðríður è a
Stykkishólmur circondata da uomini istruiti, una serata elegante.
Era partita quella mattina. Con fierezza aveva montato il cavallo.
Era un piacere guardarla. Allora, ecco che parte, la padrona di casa,
aveva detto Sigrún alle spalle di Gísli.
Sigrún, la gran lavoratrice. Era arrivata la sera prima. Mandata da
Steinunn, la madre di Gísli.
Ovvio che Gísli aveva sospettato, anzi, ne era convinto, quando
quell’estate il medico Ólafur aveva scritto a Guðríður e l’aveva
invitata a prender parte alla riunione del comitato di redazione a
Stykkishólmur a settembre, che se sua moglie avesse accettato, sua
madre gli avrebbe mandato Sigrún. Aveva subito atteso con
impazienza il suo arrivo lassù sulla brughiera, e nell’ultimo periodo
l’impazienza era salita a tal punto che a volte non era riuscito a
dormire accanto a Guðríður mentre ripensava a come Sigrún si era
tolta lentamente la camicia da notte e si era piegata in avanti…
L’impazienza di rivivere quel momento era stata per lui come un
prurito negli ultimi due mesi, aveva attenuato, o accantonato, l’ansia
di perdere Guðríður per tutto il tempo in cui sarebbe rimasta a
Stykkishólmur – sapendola circondata da uomini istruiti, e da quel
pastore. Era così impaziente che pensava e ripensava a quale fosse
la posizione migliore nel letto per fingere di dormire la sera, mentre lei
si spogliava dopo che le bambine si erano addormentate. Era
impaziente di vederla scoprire i grossi seni pesanti, di piegarsi
lentamente in avanti, di vedere le natiche allargarsi, e… Lui a letto,
carezzando il membro duro, eccitato di sapere che Sigrún era sveglia
e avrebbe sentito i suoi gemiti trattenuti…
E adesso è arrivata!
E lo aspetta in casa. Lui lo sa, che lei lo aspetta. Ha visto come lo
guardava mentre cenavano. Per questo si è rifugiato nell’ovile e
quasi non osa rientrare!
Perché gli è apparsa davanti agli occhi una semplice, evidente,
palese constatazione appena si è sentito addosso il caldo sguardo
della donna, se avesse ceduto al desiderio avrebbe tradito Guðríður.
Impossibile interpretare la faccenda in altro modo. E allora l’avrebbe
persa. Le cose sarebbero andate senza dubbio così. Ci avrebbe
pensato l’Onnipotente, a fare succedere qualcosa di terribile.
Avrebbe perduto il suo tesoro, è il prezzo da pagare. Dev’essere il
prezzo che si paga. Per questo non osa rientrare.

Chiudo gli occhi e vedo Gísli nell’ovile, vedo che le spalle cominciano
a tremare. Chiudo gli occhi e vedo Halla seduta allo scrittoio di Pétur,
nello studiolo dove ogni più piccolo oggetto le ricorda suo marito. Le
ricorda l’uomo che ama ancora come quando le loro vite si sono
intrecciate, una ventina buona di anni fa. L’uomo che non riesce a
smettere di amare.
Ti amo, Pétur, gli aveva detto quella mattina quando era partito.

Lui era al fianco della sua Ljúf, chiaramente impaziente di partire. Le


redini in mano e quel lampo in fondo agli occhi che lei una volta
riusciva ad accendere senza difficoltà, e che gli dava un’aria
piacevolmente giovanile.
Ti amo, Pétur, aveva detto. L’aveva mormorato piano, quasi come
se sentisse di non avere più il diritto di dirlo, poi l’aveva abbracciato
forte, l’aveva stretto a lungo. Aveva voglia di dirgli tante cose, ma più
di tutto desiderava che fosse lui a dirle qualcosa. Desiderava che
pronunciasse il suo nome. Che le dicesse che la amava. Allora non
avrebbe più avuto bisogno di aver paura. Come ne ha da molti anni.
L’aveva abbracciato forte, aveva sussurrato il suo nome e lui le aveva
carezzato la schiena. Come si fa con i cavalli. Allora lei aveva
deglutito a vuoto, aveva mollato l’abbraccio. Pétur era salito in groppa
alla sua Ljúf e lei aveva pronunciato di nuovo il suo nome, senza
riuscire a trattenersi. L’aveva detto con un tono supplicante, e sul
volto di suo marito si era dipinta quell’espressione afflitta. Lo aveva
visto muovere le labbra.
Ascolta il bracciante che canta le ninnananne alle bambine, oltre la
parete separatoria. Sa che la lavorante più giovane è distesa poco
lontano, con gli occhi chiusi, e ascolta volentieri. Devo scrivere una
lettera, aveva detto Halla prima di rifugiarsi nello studiolo per poter
stare da sola. Ascolta il canto e di lì a poco le lacrime cominciano a
scorrere. Scorrono in silenzio sul bel volto, restano sospese un
istante, impotenti, stanche, sul piccolo mento, prima di precipitare
sulla blusa. Amore mio, sussurra lei sullo scrittoio. Si allunga a
prendere il maglione che Pétur ha lasciato accanto alla sedia, lo porta
al naso, inspira il suo odore, lo assorbe, e piange così forte che la
sentono nel resto della casa.

Apro gli occhi, osservo il fiordo, sento dentro di me il pianto doloroso


di Halla e temo di non poter fare niente per consolarla. Temo che la
vita possa essere talmente ingiusta che a volte non esiste
consolazione. Che a volte non ci sia altra scelta che piangere e
accettare la sofferenza – nella tenue speranza di poterle
sopravvivere.

… scared to say I love you –

e i mondi si confondono

Siamo proprio sicuri che sia innocente, questo Dreyfus, chiede Ólafur
Flemma, e guarda Pétur sorridendo.
Be’, dice Pétur, innocente, chi può dirsi davvero innocente, esiste
l’innocenza negli esseri umani? Insomma, chi non porta una colpa
dentro di sé? E oltretutto, dove comincia questa colpa, nel pensiero o
negli atti, e dove sta la differenza? Ma c’è dell’altro, ciò che uno
considera una colpa, o perfino un crimine imperdonabile, un altro
vede come un atto di coraggio, infrangere la legge perché la vita non
soffochi. Non soffochi come… come un lombrico cieco sottoterra,
conclude, alza il bicchiere che la giovane lavorante gli ha portato e
raccoglie il coraggio per guardare negli occhi Guðríður, che non vede
da quando è partito dalla fattoria di Uppsalir in sella alla Ljúf. Ma
allora era nel suo ambiente, la contadina di un casale, mai andata a
scuola; adesso si trova nel ricco salone di Kristín e Ólafur. Collocata
in tutt’altro contesto, e non è detto che le si addica.
Non è detto, appunto, aveva confidato a Hölderlin mentre si dirigeva
a Stykkishólmur, che le si addica.
Vuoi dire, aveva chiesto Hölderlin, che essere tolta dal suo
ambiente abituale non le giova – che trasferirla da un universo
all’altro, da quello povero e ignorante a quello più ricco e colto, la
svaluterebbe?
Potrebbe darsi. Lo spero proprio. Perché non sono tranquillo. Non
sono affatto tranquillo. Fa’ attenzione, ho detto a Halla quando sono
partito questa mattina. Credo che Halla sia la persona migliore, la
persona più bella che abbia conosciuto. Le devo tutto. Un tempo
l’amavo moltissimo. Senza di lei quasi non esistevo. Ho visto che
tratteneva le lacrime e sapevo bene che cosa avrei dovuto dirle,
sapevo bene che cosa desiderava sentire. Eppure mi sono limitato a
dirle soltanto questo, fa’ attenzione. Attenzione a che cosa? Lei
chiede amore, chiede conforto, un abbraccio, io le accarezzo la
schiena come fosse un cavallo, e poi le dico di fare attenzione! Sono
un mostro?
È coraggio oppure viltà, amare, aveva chiesto Hölderlin, sei debole
oppure forte se riesci a soffocare l’amore, sei egoista oppure onesto
se segui il tuo cuore?
Ti sto chiedendo di aiutarmi, non di farmi domande!
Io sono morto, e il mio ruolo è fare domande. Tu sei vivo, e quindi il
tuo ruolo è cercare risposte.

Pétur alza il bicchiere sorridendo, dice quella cosa del lombrico e poi
guarda Guðríður, magra, curva, grigia e campagnola, seduta su
quella grande poltrona danese. Nessun pericolo!
Che sollievo!
No, purtroppo le cose non stanno così.
Non è magra, è esile. E per niente campagnola.
E siede dritta, con la schiena eretta, talmente dignitosa che
dev’essere perfino più bella di quanto voleva ricordare. Più bella di
quanto osava ricordare. Maledice Hölderlin, dice quella cosa sul
lombrico e alza il bicchiere verso di lei. Non sorridere, la supplica tra
sé e sé, non devi sorridere, io…
… non sono sicuro di riuscire a sopportarlo, mi dico, apro gli occhi e
torno nel parcheggio dell’hotel. C’è ancora qualche giapponese che
ride nella piscina ma vedo che altri sono saliti sul declivio del monte
sopra l’albergo per raccogliere i mirtilli pieni di sole. Le sorelle, la
luminosa e la tenebrosa, stanno ancora chiacchierando davanti alla
reception, ma la coppia di canadesi è sparita. Poi Sóley rientra. Con
la sua schiena magra, la sua energia luminosa e contagiosa. Entra
senza voltarsi a guardarmi e io sono fuori pericolo. Fino al momento
in cui deve assolutamente fermarsi un istante sulla porta, come se si
fosse appena ricordata qualcosa, si volta, mi lancia uno sguardo oltre
la spalla – e sorride. E si tratta di quel sorriso illegale, quello che
sembra trasformare ogni cosa intorno. Lei sorride, e gli dei
impongono il coprifuoco. Lei sorride, e io devo riscrivere tutto, lei
sorride e Hölderlin mormora: la vita diventa morte, la morte diventa
vita, e i mondi si confondono.
Lei sorride, e rientra in albergo.
Vedo la sua schiena magra sparire e nello stesso momento sento
dentro di me le note malinconiche di un pianoforte. A meno che non
sia un brano della playlist della Morte. Non riesco più a distinguere
una cosa dall’altra; i mondi scorrono l’uno nell’altro. Note
malinconiche a cui presto si aggiunge una voce, limpida eppure rotta
e dolente: I’m scared to say I love you, afraid to let you know.
Dal parcheggio all’ingresso dell’albergo ci sono solo pochi passi.
Perché non vado, perché non la prendo per le spalle magre e non le
dico quello che è stato già detto tante volte su questa terra, da tante
persone, in tutte le lingue del mondo? Le uniche parole che sembrano
non usurarsi mai. Se le pronuncio succede qualcosa. Se le
pronuncio, ritroverò la memoria.

Ti amo, Pétur. Non posso smettere di amarti. Non mi lasciare, non mi


abbandonare, amore mio, ho paura, come posso continuare a vivere
se non mi ami più?
Fa’ attenzione, dice Pétur, e parte in sella al suo cavallo.
Una volta Gísli ha rubato, una volta ha commesso un crimine, è
stata la sua dichiarazione d’amore, e adesso eccolo lì nell’ovile che
non osa rientrare.
E vogliono arrestare Émile Zola!
Si è mai visto qualcuno sedere così eretto nella storia del genere
umano, o piangere così amaramente sullo scrittoio del proprio
marito? Pétur se ne va a cavallo, Gísli resta lì fermo, Halla piange,
Guðríður è seduta a schiena dritta e Sóley entra in albergo, la vedo
sparire mentre la canzone continua a suonare, suona tra i sistemi
solari, tra gli universi, that simplest of words, won’t come out of my
mouth…

Sì, lo so, lo so, mormoro io sopra i miei fogli, sopra la scrittura


disordinata, badando bene a non alzare la testa e a non guardare il
conducente d’autobus consacrato che sta in piedi al finestrino rivolto
verso l’albergo, e mi osserva. So che devo mettere da parte il mio
amore, anche se sembra l’unica cosa che mi è rimasta della mia vita
precedente; probabilmente anche l’unica che potrebbe riportarmi
indietro. Forse questo amore è come quella canzone, Scared, deve
rimanere segreto – deve rimanere una hidden track. Fisso i miei fogli
e vedo tutto, vedo Pétur che se ne va a cavallo, Halla che piange,
vedo che Gísli non osa alzarsi dalla mangiatoia, vedo che Guðríður
sta seduta con una tale dignità che senza dubbio Pétur non ha
scampo.
Lo spazio che separa le galassie è esattamente quello.
E lo è anche Scared, lo spazio è una hidden track.
Lo spazio è il tradimento, il pianto sopra uno scrittoio
centovent’anni fa. Lo spazio tra le galassie è il momento in cui si
smette di eiaculare dentro un calzino, è brindare per la colpa, per il
coraggio, per i poeti ciechi, quello spazio è l’abuso di alcol, quello
spazio sono le lettere mai scritte, o mai inviate, lo spazio è la prima
lettera che Halldór ha inviato a Eiríkur a Marsiglia.
Quello spazio è sentire la tua mancanza.
Quello spazio è il rimpianto per ciò che non sarà mai.
Sul tradimento, su ciò che non comprendiamo

e il problema di scegliere la musica giusta

Va bene sentire la mancanza di qualcuno, ma bisogna anche vivere.

Eiríkur aveva raccontato tutto a Batool, anche cose che non aveva
mai confidato a nessuno; and now the time has gone, and so, my
love, I must go. Ma nessuno desiderava quanto lui essere il figlio del
padre che tutti credevano fosse.
Le aveva raccontato quello che non avrebbe dovuto dire. Una
volta finito di parlare, Batool era rimasta immobile un momento,
guardando nel vuoto davanti a sé, come pensosa. Poi aveva spento
la sigaretta, si era alzata ed era rientrata nel ristorante. Senza
salutare. L’aveva lasciato lì, solo con se stesso e la bottiglia. Ecco,
ovvio, aveva pensato, ho passato il limite! Avrei fatto meglio a dare
ascolto a Marías, che ha tradotto Shakespeare e ha scritto dei bei
romanzi sostanziosi e deve pur saperne qualcosa.
Eiríkur infila la lettera nello zaino, tira fuori un libro, una raccolta di
poesie di Jorge Luis Borges, ne legge tre e cerca di riprendersi un
poco prima di entrare a pagare, ma è talmente scontento di sé,
talmente sconvolto che non riesce a concentrarsi. Svuota il bicchiere
di vino rosso, si alza. Sa che in quel ristorante non ci tornerà mai più.
Ha perso il suo rifugio. Chi apre il cuore agli sconosciuti non ha più un
rifugio, è vulnerabile e il mondo lo prende di mira.
Si alza, fa per entrare a pagare, e si apre in un sorriso radioso
vedendo Batool uscire e andargli incontro – e poi eccoli a casa da lui.
È successo e basta.
Grazie per avermi raccontato tutto, gli aveva detto quand’era
uscita. È stato toccante, molto bello. Sei stato generoso, perché
credo che tu non sia abituato ad aprirti in questo modo. Non ti
preoccupare, rimarrà tra noi. Tutti abbiamo bisogno di parlare, ogni
tanto. Di raccontare la nostra vita. Altrimenti diventiamo di pietra. Ti
accompagno a casa, aveva aggiunto. O meglio, l’aveva annunciato.
Come se avesse bisogno di protezione. O come se avessero bisogno
l’uno dell’altra. E lui aveva pensato, perfettamente sereno: sarà quel
che sarà.
Ed era stato.
Erano andati a casa sua.
Nella piccola abitazione dove non era mai entrata nessuna donna.
Tranne Tove, infatti l’appartamento sembrava quasi intimidito, come
se non sapesse più come comportarsi. Tove ci era entrata l’ultima
volta più di un anno prima, ci aveva passato la notte. Era stata
l’ultima loro notte insieme. Ti amerò per sempre, aveva detto. Ma non
posso più vivere in questo modo. Non posso lasciare mio marito. Non
ci riesco, non posso distruggergli la vita e rovinare quella delle mie
figlie. Devo fare una scelta, scelgo la soluzione che ferisce soltanto
noi due. Perdonami. Non vedo altra soluzione. Mi mancherai per tutta
la vita. Sarai sempre nel mio cuore.
Sempre nel mio cuore. Chiuso lì dentro. Serrato.
E adesso Batool sta in piedi accanto al divano, nello stesso punto
in cui stava Tove quando aveva pronunciato quelle frasi e l’aveva
chiuso a chiave nel suo cuore. Sta lì, alta, le gambe snelle, i capelli
lunghi e neri raccolti in uno chignon, e riempie l’appartamento con la
sua presenza. È davvero felice di averla lì, ma ha anche paura. Paura
di innamorarsi di lei. E tradire Tove. Tradire… il senso di vuoto che ha
lasciato. In un altro mondo, pensa lui, in un’altra vita, avrei desiderato
andare a letto con lei. Ma in questo mondo, non ce la faccio. Non
posso. Come glielo faccio capire?
Apre una bottiglia di vino rosso, una buona idea, perché almeno le
mani hanno qualcosa di cui occuparsi. Lei si guarda intorno nel
piccolo soggiorno, lo misura, misura la vita di Eiríkur, i tre scaffali di
libri, l’impianto stereo di qualità, la parete con i dischi e i cd. Ma in
particolare si sofferma a guardare la grande foto aerea del fiordo,
sopra il divano. È da qui che vieni, chiede. Lui annuisce. Che bello, ha
la forma di un abbraccio, dice. Ti accoglie a braccia aperte, oppure ti
tiene prigioniero?
Non sono sicuro di sapere qual è la differenza, risponde lui, versa il
vino in due bicchieri, ne porge uno a lei, poi si allunga a prendere il
telecomando. Non ha la serenità né la concentrazione per scegliere
un brano, lascia che se ne occupi Spotify. Non ricorda assolutamente
quale fosse la canzone che stava ascoltando quella mattina, che
riprende dove l’aveva interrotta: I’m sick of love, I hear the clock tick
this kind of love: I’m lovesick.
Love Sick. Una canzone che sembra essere stata composta per
descrivere il dolore di aver perso Tove.
Scusami, dice lui, ti dispiace se cambio?
Lei alza le spalle, quasi impercettibilmente, è casa tua, risponde.
I’m sick of love, I wish I’d never met you, canta Bob Dylan.
Mi sa che l’ho ascoltata troppe volte, spiega, in tono di scusa, e
aggiunge, perché ormai le ha già detto quasi tutto: a volte ho
l’impressione che Bob Dylan l’abbia scritta per me.
Just don’t know what to do, I’d give anything to be with you.
Come si chiama, chiede Batool.
Chi?
La donna a cui pensi così tanto che è impossibile avvicinarsi a te.
Lui sorride, quasi imbarazzato: è così ovvio? Ce l’ho scritto in
volto? Posso anche dirti come si chiama, è insignificante, non la
conosci. Si chiama Tove. Tutte le donne danesi si chiamano Tove.
Scusami, aggiunge, e non è chiaro se chieda scusa a Batool, a Tove
oppure a Bob Dylan; alza il telecomando per cambiare canzone, ma
a quel punto il brano finisce e quello successivo non può che essere
di Billie Holiday, la regina della malinconia. Le parole talmente rauche
che tutti e due percepiscono l’annuncio della fine, la tragica
conclusione. I’m a fool to want you, such a fool to hold you, to seek a
kiss not mine alone, to share a kiss that the devil has known. Sono
pazza a volerti, pazza a stringerti, a cercare un bacio non solo mio, a
condividere un bacio che il diavolo ha conosciuto.
Eiríkur sta in mezzo alla stanza con il telecomando in una mano, il
bicchiere di vino rosso nell’altra, una ciocca di capelli neri scende
lungo una tempia come una corda. Alza le braccia, ubriaco dopo tutto
quell’alcol, vulnerabile dopo essersi aperto in quel modo, e dice,
quasi come una capitolazione: scusa, mi sa che qui non troverai
nient’altro che rimpianto.
Allora Batool posa il bicchiere, gli si avvicina e dice: non ho niente
contro il rimpianto, ha una sua bellezza. E non c’è nulla di male nel
sentire la mancanza di qualcuno, solo che bisogna anche vivere.

Ti posso legare?

È in piedi accanto a lui, che la supera di appena cinque centimetri. Ne


sente il calore del corpo, sente l’odore, dolce, caldo, speziato. È
troppo tempo che non si trova così vicino a una donna. Lotta contro il
desiderio di sporgersi in avanti per morderle quel suo bel collo, sente
il membro indurirsi. Accade così in fretta che non riesce a farci niente.
Lei lo percepisce, e qualcosa cambia nel suo sguardo, qualcosa che
Eiríkur non comprende. Scusami, dice lui, è successo e basta, non ho
il controllo. Non volevo. Scusa.
Vuoi dire, chiede lei, che non hai voglia?
Non lo so, risponde lui sincero, la guarda in quegli occhi neri, neri e
vertiginosamente profondi, e dice quasi senza pensare: hai baciato il
diavolo, oppure Dio, per avere degli occhi così?
I’m a fool to want you, canta Billie Holiday, pity me, I need you, I
know it’s wrong, it must be wrong.
Mi hai chiesto, dice lei, che non pare essersi scomposta davanti
alla stupidità della sua domanda, se mio figlio non avesse un padre.
Mio figlio è la cosa migliore, la cosa più bella che abbia mai avuto.
Quella che amo di più, dell’amore più forte e più profondo di cui sia
capace. È il mio scopo nella vita, eppure è arrivato a me passando
attraverso l’odio. No, non ce l’ha un padre. È stato concepito
nell’odio, nel disprezzo, nella violenza. Forse è stato il diavolo, perché
non ha le stesse pretese di Dio. Forse questi occhi li ho presi dopo.
Non sapevo che potesse essere tanto difficile vivere.
Con le lunghe dita accarezza esitando il braccio di Eiríkur, sale
verso il volto, gli sfiora una guancia con il dorso della mano, le
orecchie e la nuca con le dita, come se lo stesse studiando, come se
lo esplorasse. Penso a te, dice lei, dalla prima volta che sei venuto al
ristorante e non sapevamo se tu fossi un poeta o una rockstar che
fuggiva dalla vita. Ho chiesto ai miei fratelli di scoprire chi fossi, sono
venuta quattro volte a sentirti suonare. Volevo scoprire com’eri
dentro. Però ci sono ancora molte cose che non capisco. Ho cucinato
per te trentotto volte e forse ho cercato di sedurti con ogni singolo
piatto. Credo di aver voglia di te perché sei triste. Voglio scopare con
te perché ho la sensazione che tu non sia pericoloso, di sicuro non
sei cattivo; voglio farlo perché credo che tu sia buono, triste e perso.
Ho voglia di te perché credo che tu ami un’altra donna e per questo
non potrai innamorarti di me. Ho voglia di te perché sono quasi sicura
che non mi faresti mai del male.
Gli accarezza il volto, la bocca, si sporge in avanti, appoggia
lievemente le sue labbra morbide e carnose sulle sue e sussurra, ti
posso legare?

Chi cerca la verità trova la poesia

Allora, si è fatto legare? Aveva una corda, dei lacci abbastanza


lunghi, oppure ha dovuto farseli prestare dai vicini: scusate, mi
chiamo Eric, abito al quarto piano, ci siamo incontrati qualche volta
lungo le scale, avresti mica una corda da prestarmi? È venuta a
trovarmi una donna, ha le gambe lunghe come un purosangue arabo,
due occhi scuri e profondi come la notte nel deserto. To share a kiss
that the devil has known – ho il sospetto che abbia avuto il diavolo in
persona come amante e adesso è il mio turno, il che è fantastico, per
non dire tremendo. Ho il sospetto che la curva dei suoi fianchi sia più
bella di quelle che avrebbe potuto disegnare Salvador Dalí, ho il
sospetto che i suoi seni potrebbero scatenare una guerra, e che
nemmeno Cristo avrebbe saputo trattenersi dal guardarli pensando a
cose che hanno ben poco a che vedere con il Discorso della
montagna. E vuole legarmi. Io non ho mai provato, non l’ho nemmeno
mai immaginato, devo riconoscere che è un’idea eccitante, farsi
prendere così, farsi scopare in questo modo. Dio, spero che tu ce
l’abbia, una corda! Non mi sentivo così eccitato da quando mi sono
masturbato sulla biografia di una prostituta, un quarto di secolo fa. Ho
talmente voglia di farmi prendere in quel modo che…

Hai finito, chiedo dopo aver deposto la matita e guardo stupito il


conducente d’autobus. Stupito da quel suo… sfogo, e in parte spero
che si sia trasformato nel maligno in persona, oppure che si sia
infilato di nuovo quei suoi bermuda ridicoli e una maglietta che si
addica alla sua logorrea intrisa di sesso; magari con una foto dei
Rolling Stones prima che si trasformassero in mummie affumicate,
oppure con Rihanna che canta Sex with Me. Invece ha ancora il suo
completo scuro. Il volto rugoso con la barba rossiccia e gli occhi che
aprono le porte dell’inferno e per questo hanno visto tutto, non si
addicono per niente a quei discorsi.
Hai finito, chiedo. Non sembra ascoltarmi, guarda fuori dal
finestrino come se non avesse mai detto nemmeno una parola.
Guarda l’albergo, osserva me e Rúna che aspettiamo seduti su una
panchina contro il muro cotto dal sole. Lei mi ha appena raccontato
che Sóley si è accordata con il gruppo di giapponesi per preparare un
bel buffet dove potranno servirsi a volontà, e così potranno
partecipare tutte e tre, lei e le sorelle siriane, alla festa in onore della
vita, di Elvis Presley e di Páll. Rúna parla solo di tre donne, non
accenna a quel tale Ómar, come se fosse svanito nel nulla, come se
io fossi riuscito a espellerlo da quest’universo con i miei scritti, e
perché no? È già successo qualcosa del genere nella storia
dell’umanità, dove un paradosso scaccia l’altro. Chi cerca la verità
trova la poesia. Chi cerca la poesia trova se stesso. Chi cerca se
stesso può vagare tra gli universi.
Abbasso gli occhi sui miei fogli, leggo:
Ti ho scelto

perché stavi per partire

È riuscita a legare Eiríkur.


Ti posso legare, aveva chiesto, e lui aveva risposto esitante, con
un cenno del capo, sì, perché mi fido di te.
Gli aveva legato mani e piedi a una sedia della cucina con dei fili
elettrici. Gli aveva tagliato i vestiti, si era spogliata e lui aveva
pensato, ho visto la bellezza. Poi in piedi davanti a lui aveva guardato
il suo membro. Quell’organo eretto e duro che si è reso colpevole di
cose indicibilmente orribili e crudeli nel corso della storia, e che in
quel momento tremava vulnerabile, supplicante, davanti al suo
silenzioso proprietario, e sul volto della donna si era dipinta
un’espressione talmente strana che per un attimo Eiríkur aveva avuto
paura che volesse prendere il coltello con il quale gli aveva tagliato i
vestiti per tranciargli il membro di netto. Ma a quel punto lei lo aveva
afferrato forte per i capelli, gli aveva rovesciato la testa all’indietro,
l’aveva guardato profondamente negli occhi e si era seduta sul suo
membro dicendo, non devi assolutamente chiudere gli occhi. E si era
messa a cavalcarlo. L’aveva cavalcato lentamente, con
determinazione e quasi con rabbia, quasi brutalmente, e con le dita
lunghe si era aggrappata così forte ai suoi capelli che Eiríkur non
riusciva a muovere la testa.
Poi gli aveva liberato le mani, e se n’era andata.

E così erano passati i giorni. Lei gli aveva proibito di andare al


ristorante, ma in tarda sera gli portava sempre qualcosa dalla cucina,
lo guardava mangiare, poi lo legava al letto, o alla sedia, e lo
prendeva. Lo scopava, con foga, quasi con violenza. E così erano
passate tre notti. Lui lasciava che fosse lei a decidere, le lasciava
condurre il gioco. Percepiva qualcosa di incredibilmente fragile in
quella donna fiera e non voleva rovinare niente, desiderava
avvicinarsi a lei, poterla stringere tra le braccia, e per questo lasciava
che fosse lei a gestire la situazione. Anche se mormorava il suo
nome all’apice del piacere, anche se la quarta notte aveva avuto il
permesso di baciarla, la quinta lei aveva pronunciato il suo nome
durante l’orgasmo, la sesta aveva smesso di legarlo, e dopo quella
volta si erano sempre amati sul divano, sotto la grande fotografia che
a lei piaceva così tanto. Diceva di essere affascinata da quella
mescolanza di bellezza spoglia, di mitezza e di brutalità. Io ti porto la
cena, gli aveva detto, e tu in cambio mi racconti del tuo fiordo. Dimmi
com’è possibile vivere in un posto dove mi assicuri che la
temperatura non supera mai i diciassette gradi in piena estate, dove
l’inverno è talmente lungo e buio che si ha l’impressione che il mondo
sia morto.
E per la prima volta in molti anni, Eiríkur ha voglia di parlare del
fiordo. Si sente pervaso da un doloroso desiderio di convincere
Batool, e allo stesso tempo di convincere anche se stesso, che quello
è il suo fiordo, che quello è un posto dove vale la pena vivere.
Aveva cominciato a descrivere quello di cui non aveva mai smesso
di sentire la mancanza: la quiete, il canto degli uccelli, l’odore fresco
del mare, le notti buie dell’inverno, il cielo invernale talmente
disseminato di stelle da sembrare più vicino alla terra rispetto a
qualsiasi altro posto al mondo. E poi le aveva raccontato delle
persone. Prima erano state storie di un lontano passato, storie che
conosceva bene grazie alle ricerche di Halldór, grazie a tutte le
letture di bambino sul Corriere degli Strandir a casa a Oddi.
Ti brillano talmente gli occhi quando parli del tuo fiordo, aveva
detto Batool, che scompare tutta la tristezza che hanno dentro.
Continua, non smettere!
E lui aveva continuato, le aveva raccontato, si era avvicinato pian
piano al suo tempo, si era avvicinato a se stesso. Sentiva di volerlo,
di averne voglia. Le aveva raccontato di Kári e di Margrét, di Aldís e
di Haraldur che avevano scoperto che il destino consiste in una
gomma forata, in Bob Dylan e Leonard Cohen a bordo di uno Zetor
rosso. Batool si appassiona talmente ai suoi racconti che vorrebbe
ascoltarli ogni notte.
E le aveva raccontato di sua nonna e di suo nonno.
Del nonno che era arrivato come un pacco con il postino.
Le aveva raccontato del giorno del suo ottavo compleanno, «se sei
amaro, allora sii dolce». Le aveva perfino raccontato di quando si era
masturbato sopra il libro Quando resta soltanto la speranza
pensando a sua mamma. E infine le aveva letto la lettera di Halldór,
prima in islandese, poi gliel’aveva tradotta in francese.
Gli hai risposto, gli aveva chiesto.
No, non ci sono riuscito. Non riesco a scrivere a Halldór.
Perché lo chiami Halldór e non papà?
Perché è molto più Halldór che mio padre. Gli ho mandato
un’email, l’ho ringraziato per la lettera, dovrebbe bastare.
Che cosa gli hai detto nell’email?
Grazie per la lettera. Non me l’aspettavo. Ma mi ha reso felice.
Nient’altro?
Nient’altro?! Ci ho messo un’ora per scriverla!
Rileggimi la sua lettera, gli aveva chiesto. E lui l’aveva fatto, al che
lei aveva previsto che avrebbe ricevuto un’altra lettera, perché gli
aveva mandato quell’email.
Ed era andata proprio così. Era arrivata una seconda lettera.
Halldór era stato molto felice di aver ricevuto una risposta, talmente
felice che Eiríkur si era commosso, aveva pianto; e prima di
rendersene conto gli aveva scritto a sua volta.
Aveva letto entrambe le lettere a Batool la notte successiva.
Lei era rimasta a lungo in silenzio, distesa al suo fianco, dopo aver
fatto l’amore, dopo che lui le aveva letto le lettere. Sembrava triste, gli
accarezzava i capelli, accarezzava tutto il corpo magro di Eiríkur con
la punta del dito medio. Sono lettere molto belle, aveva detto infine.
Sono talmente belle che ormai possiamo anche lasciarci. Voglio che
tu sappia che ti ho scelto perché sei buono, fragile e sensibile, perché
avevo voglia di tenerti tra le braccia e perché sei stato gentile con il
mio bambino. Perché quando suoni, qualcosa dentro di me si mette a
piangere, e perché sapevo che stavi per partire. Ormai ti sei liberato
scrivendo a tuo padre, ecco perché devi tornare a casa, nel tuo
fiordo. Finché non lo fai non puoi ricominciare a vivere. Va’ a casa,
islandese. Va’, prima che tu perda quello che possiedi, e che hai
trascurato. Va’ a casa, prima che sia troppo tardi. Va’ a casa prima
che qualcosa ti inchiodi per terra.

The next day they’re gone –

probabilmente è l’impazienza a permettere

all’essere umano di spostarsi tra gli universi

Marsiglia, 24 agosto 2017. E questa cos’è! Ho pensato quando ho


visto una busta nella cassetta della posta, almeno tre settimane fa.
Ero in ritardo, avevo prenotato uno studio con il mio gruppo per
registrare tre jingle pubblicitari composti per una radio locale, ho
preso la lettera, l’ho infilata nello zaino e ho dovuto aspettare fino a
sera per trovare il tempo di leggerla… e mi ha toccato talmente che
non ho trovato la forza di rispondere, se non con quell’email di poche
parole. Ha smosso profondamente lo spesso strato di fango che
ristagna sul fondo della mia esistenza, l’ha smosso a tal punto che
non ho visto più niente.
Nessuno dovrebbe mai confidare agli altri la propria vita – forse è
la frase più scura che conosco, la più triste, eppure è stata sempre il
mio mantra. È stato il mio sole nero, la mia luna di tenebra, la luce
che mi guida. Ma chi non confida mai la propria vita agli altri a poco a
poco si trasforma nel guscio di una conchiglia. Procede lentamente
attraverso la vita, sempre più contratto all’interno del guscio, si avvita
su se stesso – e tutte le cose importanti di cui non parla mai si
calcificano con il guscio, che con gli anni si ispessisce e diventa più
duro, rendendo sempre più difficile per gli altri avvicinarsi a te, e per
te avvicinarti agli altri. Il guscio diventa allo stesso tempo una
protezione e una prigione. Vuoi vivere in questo modo? Vuoi morire in
questo modo?
Ah, mi piacerebbe presentarti alla famiglia che gestisce il
ristorante arabo-italiano che è stata la mia seconda casa per sei
mesi. So che leghereste bene, tu ed Ekram, il proprietario. Che dice
di essere felicissimo di vedermi ogni sera sulla loro piazzetta, con un
bicchiere di vino, un goccetto di qualcosa di forte, una sigaretta, un
libro da leggere. Mi assicura che visto che assomiglio a un mix tra
Nick Cave e Johnny Depp sono un’ottima pubblicità per il suo
ristorante – per questo mi fa uno sconto del trenta per cento! Che
persona straordinaria! Sarebbe capace di parlare una serata intera di
Elvis Presley, delle sue canzoni, delle sue incisioni e della sua vita
senza ripetersi mai; oppure elencarti quelle che secondo lui sono le
cinquanta migliori partite di scacchi del mondo. La migliore, la più
fatidica è stata, secondo lui, quella disputata nel deserto della
Giordania molte migliaia di anni fa, quando Dio e il diavolo si
contesero la supremazia sull’essere umano. Per fortuna ha vinto Dio,
ho detto. Chi ti dice che ha vinto Dio, mi ha risposto Ekram…

Dopo la tua prima lettera ho pensato molto al nostro fiordo, ne ho


parlato talmente tanto che me lo sono sognato. E questa mattina al
risveglio mi è parso di aver sognato che il fiordo stava seduto nella
mia cucina come un essere in carne e ossa, con la sua quiete, i suoi
bassi monti antichi, l’odore del mare, lo stridore delle sterne, il canto
estivo del beccaccino, i belati sui declivi, i muggiti della fattoria di
Skarð… Era seduto davanti a una tazza di caffè e quando sono
entrato mi ha detto: allora, Eiríkur, sono venuto a prenderti. Devi
tornare a casa.
E a quel punto ho capito! Tu e Palli potete fare le pulizie nella mia
stanza – sto tornando a casa! E sai una cosa, non vedo l’ora.
Davvero, sto morendo dalla voglia di inspirare l’aria del fiordo, di
rivedere te e Palli. Palli che non abbraccio dal giorno del funerale del
nonno. Non ho mai avuto l’occasione di dirti che trauma è stato per
me perdere lui e la nonna. Per molti anni dopo la loro morte non sono
riuscito nemmeno a immaginare di tornare a casa nel fiordo. Mi
sembrava terribilmente vuoto e triste senza di loro. Credevo che
fossero immortali, e che per questo non fosse un problema anche se
li trascuravo. Se mi facevo sentire poco. Credevo che fossero troppo
importanti per morire, credevo di avere tutto il tempo. Il rimpianto per
le cose che non sono mai state, per quello che non è mai successo, è
più pesante di qualsiasi altra cosa al mondo.
Uno dei pezzi che ascolto continuamente in questi giorni è One
Day dei rapper americani U.G.K. Well, well, cantano e rappano; well,
well, well, hello baby, for one day you’re here, and then you’re gone…
Man if you got kids, show’em you love’em ’cause God just might
call’em home, ’cause one day they’re here, and baby, the next day
they’re gone.
Ridi pure, sai, puoi anche scuotere la testa, perché credo di sapere
che non sei mai riuscito a farti piacere il rap, ma ho deciso che
quando torno a casa noi tre, io, tu e Palli, dobbiamo registrare One
Day in studio, alla nostra maniera! Tre contadini del Nord negli
Strandir che registrano rap americano; chi lo direbbe mai… lo sai che
Dio ha il vizio di convocare le persone nel bel mezzo di una frase, di
una festa, nel bel mezzo della felicità, di un bacio, e allora è troppo
tardi per dire le parole che bisogna dire, troppo tardi per tre contadini
degli Strandir per registrare un rap americano nello studio in un
vecchio granaio, The next day you’re gone, baby – non immagini
nemmeno quanto sia impaziente di sentire la voce profonda di Palli
cantare questo verso…
… e adesso devo chiudere le ultime questioni qui a Marsiglia.
Potrebbe volerci del tempo, devo annullare i contratti, sarà uno choc
per i ragazzi del gruppo, ma mi capiranno, e saranno felici per me. Ci
vorrà del tempo ma non voglio darmi più di quattro settimane. Ho già
prenotato il volo per tornare a casa. Non sto nella pelle! O come si
dice da qualche parte: «È l’impazienza a permettere all’essere
umano di spostarsi tra gli universi.»

Tutto finisce prima o poi

Era una lunga lettera. Eiríkur non scriveva un testo così lungo e
consistente da quando studiava a Parigi, praticamente in un’altra vita.
Non si aspettava una risposta da parte di Halldór, o per lo meno, non
una lettera, sarebbe tornato a casa da lì a quattro settimane quando
aveva imbucato la sua – certamente però si aspettava una telefonata
oppure un messaggio nella posta elettronica.
L’email era arrivata. E fu l’ultima cosa che Halldór gli avrebbe
scritto all’estero.
Ci arriviamo sempre, tutti. L’ultima cosa. Perché è così che va.
L’ultimo bacio. L’ultimo sorriso. L’ultimo orgasmo. L’ultimo
abbraccio. L’ultima tazza di caffè. L’ultima canzone. L’ultima lettera.
Un lungo messaggio in cui Halldór inizia ringraziando per la lettera
che Siggi, il postino, gli aveva portato da Hólmavík due giorni prima, e
che l’aveva reso talmente felice che «mi era sembrato che il giorno si
fosse trasformato in un sorriso, e le mie braccia fossero diventate
ali!»
La lettera era arrivata di mercoledì, lui era andato a Hólmavík il
venerdì successivo per fare la spesa per i giorni seguenti e si era
sentito alquanto fiero di sé per essere riuscito a non entrare nello
spaccio degli alcolici accanto alla Cooperativa. Non succedeva da
molto tempo. Ma questo non l’aveva detto nell’email a Eiríkur. Si era
accontentato di dirgli che era andato a Hólmavík per fare la spesa e
al ritorno era rimasto sorpreso di vedere la macchina di Páll nel
cortile di casa; era convinto che fosse in mare con Elías.
L’email riguardava più che altro Páll.
Il dislessico balbuziente specializzato in Søren Kierkegaard, a
lungo professore di liceo a Keflavík, alla fine aveva trovato un
impiego sul peschereccio di Elías, il vecchio professore di storia.
Un professore di storia e un dottore in filosofia a pesca sulla
stessa barca. Negli abissi della baia di Húnaflói è considerato un
onore essere pescati da quei due – loro pescano solo i pesci con il
quoziente intellettivo più alto. Anzi, scusa; era considerato un onore.
Non escono più in barca insieme. Ti ricordi, tutto finisce prima o poi.
L’ultimo giro in macchina. L’ultima corsa. L’ultimo libro. L’ultimo pasto.
L’ultima birra. L’ultima uscita in barca.
Poi tutto tace,

poi tutto si perde

È così che succede.

Halldór entra con i sacchi della spesa della Cooperativa. Páll non è in
casa e Halldór dà per scontato che sia nello studio per registrare la
lettura di La biblioteca del capitano Nemo di Per Olov Enquist – il
quarantesimo romanzo di cui Páll registra la versione audio. Aveva
cominciato a leggere a voce alta per Hafrún quand’era stremata dal
cancro, e ha scoperto che quell’attività gli dava così tanta calma e
gratificazione che ha continuato anche dopo la morte della madre.
Halldór si occupa di duplicare le letture, le manda agli amici, qui nel
fiordo, a Reykjavík, a Keflavík e a volte a Marsiglia da Eiríkur.
Halldór prepara la cena, poi si avvia per andare a chiamare suo
fratello. Apre la porta dello studio e vede il vecchio tavolo basso – che
i due fratelli avevano sistemato in un angolo – capovolto in mezzo al
granaio. Una zampa è rotta, il tavolo si è ribaltato come un animale
ferito da un colpo di pistola; con il muso in avanti e le terga in alto,
sembra la poppa di una nave che affonda.
E sopra, Páll penzola da una corda.

Una zampa era talmente malmessa, scrive Halldór nell’email a


Eiríkur, che il tavolo non ha retto il peso di Páll, tutti i suoi centotrenta
chili, si è spezzata, così il tavolo si è capovolto e Páll ha perso
l’appoggio.
Di sicuro le ha provate tutte per rimettere i piedi su quel tavolo
sotto di sé, o almeno sull’angolo che sporgeva più in alto, nella
speranza di potersi appoggiare. Dev’essere per questo che il collo
era tutto livido per lo sfregamento intenso, ma il tavolo si era spostato
troppo e si è dimenato invano. Palli non avrebbe mai voluto morire in
questo modo. Lo sai com’era mio fratello. Era pieno di riguardo per gli
altri, estremamente attento, non voleva ferire nessuno. Sono certo
che non era sua intenzione togliersi la vita. Era triste, addolorato,
credo di sapere per quale motivo. Ma so anche che non voleva
morire. Forse voleva assicurarsi che quella non fosse la soluzione.
Forse voleva stare lì per un po’, fino ad avere la certezza di voler
vivere. Ma la zampa del tavolo ha ceduto. Ho paura che mio fratello
sia morto piangendo, non per la paura bensì per l’angoscia, sapendo
quale dolore avrebbe causato a noi tutti…

L’ho baciata

Halldór aveva trascorso la notte a costruire una bara con il legname


portato dalla mareggiata che aveva piallato con l’intenzione di
utilizzarlo per ampliare il pollaio. Ma non aveva costruito la bara da
solo. Tuo papà mi ha telefonato quella sera tardi, avrebbe raccontato
in seguito Elías a Eiríkur, per dirmi che cosa era successo. Era l’unico
a sapere del nostro rapporto. Che io e Palli eravamo amanti. L’ho
raggiunto subito e abbiamo costruito la bara insieme. Non ho avuto il
coraggio di dirgli che era colpa mia se Palli era tornato presto a casa
e aveva fatto quello che aveva fatto. Perché quando eravamo in mare
quella mattina io avevo raccolto tutto il mio coraggio e gli avevo detto
di non essere abbastanza forte per il nostro amore. Ero ancora
sposato con Fanney e questo gioco a nascondersi, che andava
avanti anche da troppo tempo, era diventato troppo penoso sia per
me che per Palli. Gli avevo detto che non ce la facevo più. Gli avevo
detto che ero costretto a scegliere di stare con Fanney. Che era mio
dovere. Ma che non avevo mai amato nessuno come Palli. E lui lo
sapeva. Temo anche che sapesse che il vero motivo era che mi
mancava il coraggio di prendere la decisione giusta. Di scegliere il
nostro amore. Ho temuto il giudizio della società. La viltà è il difetto
peggiore, si dice nel Maestro e Margherita, e sul mio capo pende
questa sentenza. Ho aiutato tuo papà a costruire la bara. Poi è
venuto al Sud a prenderti.
Halldór era andato incontro a Eiríkur, che aveva preso un biglietto
aereo per tornare in Islanda, e sarebbe atterrato di primo mattino il
giorno successivo. Era andato nel Sud in macchina, si era messo in
strada talmente presto che aveva avuto il tempo di fare un giro per
Keflavík, aveva parcheggiato accanto alla chiesa e aveva fatto due
passi per il vecchio quartiere. Vagando senza una meta precisa
mentre ascoltava Páll che leggeva Pan di Knut Hamsun sull’iPod.
Non sappiamo come sia accaduto, non esattamente.
Con tutta probabilità, Halldór era talmente preso dal romanzo di
Hamsun e dalla lettura, talmente perso nella voce di suo fratello, che
non aveva fatto attenzione ad attraversare la strada quando aveva
tagliato di traverso sulla Norðfjörðsgata per tornare verso la
macchina. Non aveva fatto attenzione, non si era guardato intorno, la
voce di Páll era talmente forte e profonda che Halldór non si era
accorto del fuoristrada che sopraggiungeva a velocità sostenuta. Il
conducente stava tornando a casa dopo un turno di notte, era
insonnolito al volante e la poca concentrazione rimastagli era
dedicata a trovare Something in the Night di Bruce Springsteen su
Spotify per tenersi sveglio; una delle canzoni preferite di Halldór, tra
tutte quelle del rocker americano. Il conducente della jeep aveva
trovato il brano, l’aveva messo su, aveva alzato la testa e si era
accorto troppo tardi di quel contadino magro.
L’impatto con l’auto era stato talmente violento che Halldór si era
rotto il bacino ed era stato scagliato contro la facciata di una casa
costruita quasi sul bordo della strada; aveva sbattuto la testa ed era
morto all’istante. Il conducente era rimasto così sconvolto che era
scappato, ma circa mezz’ora più tardi una ragazzina di quattordici
anni che consegnava i giornali aveva trovato Halldór, si era chinata
accanto a lui, nel panico aveva raccolto gli auricolari che erano caduti
durante l’incidente, li aveva portati alle orecchie e la bella voce
profonda di Páll aveva letto per lei: «L’ho baciata! Ho pensato. Mi
sono alzato, per non sedermi mai più.»

Eiríkur era atterrato poco più di un’ora dopo ed era stato il dolore ad
accoglierlo.
Buongiorno, Eiríkur, aveva detto il dolore, sono il dolore,
benvenuto in Islanda, bentornato a casa. Ti porto i saluti da parte di
tuo padre.

Il conducente del fuoristrada si era costituito due giorni dopo.


Distrutto e pieno di rimorsi, pronto ad accettare la condanna. Rimorso
è una bella parola, è degna di rispetto, comunque non è mai riuscita a
riportare in vita chi è morto. Per questo Eiríkur è tornato da solo nel
Nord dopo un lungo soggiorno all’estero; con due valigie, il cadavere
di suo padre e la voce di Páll che legge Pan di Knut Hamsun. L’ho
baciata.
A volte la vita è così difficile

che si vede anche dalla luna


«Non c’è niente che mi affligge, se non il mio desiderio di partire, di
andarmene non so dove, da qualche parte, lontano», scrive il tenente
Glahn in Pan, quello che ha dato un bacio, che si è alzato e non si è
più seduto. Niente che mi affligge; eppure si è sparato e Hamsun ha
dovuto assolutamente scriverne. Esattamente come noi abbiamo
dovuto scrivere del suicidio di Palli. E anche di tutto il resto,
dell’incidente d’auto sulla brughiera, di Aldís morta, di Haraldur
paralizzato; abbiamo dovuto scrivere di quando la figlia di Pétur e di
Halla è morta, di quando Jón è soffocato nel vomito, di quando Hulda
e Agnes sono morte, di quando è morta Margrét, di quando Hafrún e
Skúli sono morti; e adesso del cranio fracassato di Halldór a Keflavík.
Perché non scriviamo di più di felicità, nel mondo ci sono tante
persone felici; si ride nelle caffetterie, ora qualcuno suona il clacson
solo per un’esuberante allegria di vivere, ora un altro stappa una
bottiglia di champagne solo per celebrare la vita, alcuni bambini
ridono in modo talmente sincero e contagioso che il loro riso
potrebbe evitare una guerra mondiale. Dovrebbe poterla evitare, se ci
fosse un senso in questo nostro mondo. Ma non c’è, e per questo il
tenente Glahn si è sparato, per questo Páll si è impiccato, forse
senza volerlo, forse perché desiderava solo misurarsi con la morte, le
aveva sussurrato, vuoi ballare, sì grazie, aveva detto quella dama
scura, era salita sul tavolo per raggiungerlo e la zampa malmessa
non aveva tollerato il peso e si era rotta, perché in questo mondo
tutto va storto e non si può scampare al dovere di scriverne. Un tale
bacia una donna, e si spara.
Páll si impicca, Halldór ed Elías costruiscono la bara, Elías torna a
casa per confessare ogni cosa. I tradimenti, l’amore, la viltà che si era
trasformata in una corda, era diventata la zampa rotta di un tavolo, e
Halldór sale in macchina e guida fino al Sud. Ventiquattr’ore dopo
Eiríkur torna nel fiordo, e sono quasi tutti morti; torna a casa nel fiordo
più o meno quarant’anni dopo che Svana l’aveva consegnato
dall’altra parte del tavolo della cucina e Hafrún l’aveva accolto.
Abbiamo già raccontato ogni cosa.
Ed è successo perché Pétur e Guðríður sono andati a
Stykkishólmur centovent’anni prima. Ciascuno sul proprio cavallo di
nome Ljúf.
Lei arriva a destinazione nel pomeriggio, lui verso sera e annuncia
a tutti che vogliono arrestare Émile Zola – per quale motivo?

Perché lei sta seduta così dritta sulla sedia che sono pronto a tradire
tutto per lei?
Perché il reverendo ha quel lampo negli occhi, un lampo giovanile,
pieno di mestizia, e quando mi guarda sono pronta a commettere
cose imperdonabili, cose che non si dovrebbero assolutamente fare?
E per questo motivo bisogna arrestare Émile Zola?
Sì, ma anche perché lei ha scritto un articolo sul lombrico, il poeta
cieco delle zolle di terra, e per via dell’articolo lui ha cavalcato un
giorno intero fino al casale sulla brughiera con tre libri, uno dei quali
era appartenuto al fratello del diavolo. Non può certo andare a finire
bene, infatti è finita male.
Ma che ne sappiamo noi, del resto, se qualcosa va a finire bene o
male, a volte è una questione relativa, la conclusione cambia a
seconda del punto di vista.
Vi conosco di nome, dice Gísli, ho sentito parlare del reverendo, a
che cosa dobbiamo l’onore di questa visita?
Chi dobbiamo ringraziare – e c’entra in qualche modo con l’arresto
di Émile Zola?
Può essere. Può essere. Semplicemente perché tutti e due, Émile
Zola e Pétur, e in effetti anche Guðríður, hanno seguito l’ago della
bussola del cuore. È così che è cominciato tutto. Lei scrive un articolo
sul lombrico, dice che è un poeta cieco, il pensiero di Dio, e l’ago
della bussola del cuore comincia a vibrare. A meno che non fosse
l’ago della bussola del destino – non sono in molti, quelli capaci di
vedere la differenza.
Chi non porta dentro una qualche colpa, vogliamo parlarne? Non
dovremmo definire che cosa sia il coraggio, che cosa sia la viltà,
identificare il momento in cui tradiamo e quello in cui seguiamo il
cuore? Senza dimenticare che ciò che a qualcuno sembra un crimine
imperdonabile, qualcun altro lo ritiene il coraggio di commettere un
crimine perché la vita non soffochi. Per questo l’amore si
accompagna sempre al dolore, e il tradimento siede accanto a loro
sulla stessa barca. Ecco perché la vita a volte può essere così
difficile che si vede anche dalla luna. Talmente difficile che devi
legare l’uomo che ami con dei fili elettrici prima di cavalcarlo – e lo
cavalchi perché non hai il coraggio di fare davvero l’amore con lui, hai
troppa paura, perché una volta sei stata violentata da chi credevi di
amare, dall’uomo a cui pensavi di poter affidare il tuo cuore; sei stata
violentata da lui e da tre suoi amici e per questo non osi più amare.

Poi ecco, è morta. Ed è morto anche lui. Poi muore Páll. E muore
anche Halldór. Sono tanti quelli che se ne sono andati, talmente tanti
che in realtà non resta più nessuno, se non Eiríkur.
Allora potremmo dire che Eiríkur Halldórsson sia il punto finale e
malinconico di una lunghissima frase che il destino ha cominciato a
scrivere quando Guðríður si è seduta sul letto che condivideva con
Gísli, con le ginocchia come scrittoio, per lavorare al suo articolo sul
lombrico?
Sei mesi dopo il reverendo Pétur alza un calice di vino verso di lei,
nel bel salotto della casa del medico di Stykkishólmur, e pensa, non
devi sorridere! Ma evidentemente lei l’ha fatto, l’ha guardato e gli ha
sorriso.
E quindi a questo punto sono subentrati il tradimento e la tragedia?

Queste sono le domande, sono state formulate tutte, quindi dove


sono le risposte?

Io sono morto, e il mio ruolo è fare domande. Tu sei vivo, e sta a te…

… raccontare come sono andate davvero le cose, dice il conducente


d’autobus consacrato, il mio accompagnatore; ha un tono più
È
autoritario nella voce e lo sguardo minaccioso. È evidente che non lo
trova divertente, anzi, forse lo disgusta proprio.
Alzo gli occhi e faccio fatica a nascondere quanto mi dia
soddisfazione vederlo alterato, accorgermi che ha perso la
compostezza di prima. Mi sento pervadere da una specie di allegria,
da una sensazione di libertà, così potente che ho difficoltà a
trattenere un sorriso di trionfo. Mi sento come se mi fossi finalmente
liberato, in un certo senso. Non so esattamente da che cosa, forse da
lui. O da quello che rappresenta.
Che vuoi dire, faccio io con aria innocente.
Non tutti sono costretti a morire, non succede mai, dice lui
stirandosi la schiena. E diventa talmente alto che d’un tratto la sua
presenza riempie tutto lo spazio della roulotte. Non avevi nessun
diritto di far morire Halldór. Hai fatto morire troppe persone nel corso
del tempo, più di quante immagini – del resto non ti ricordi quasi più
nulla. Tutto quello che resta della tua vita di prima è il ricordo del
sorriso di Sóley. Nient’altro, eppure è anche troppo. Non dovresti
ricordarti nulla. La tua vita precedente, i ricordi e le sensazioni,
devono essere sepolti così in profondità che la tua mente non
dovrebbe nemmeno esserne consapevole. Così doveva essere.
Diciamo che questo era il patto. Sei entrato nella luce che fende le
tenebre e dovevi svegliarti in uno stato di amnesia totale in chiesa, in
modo che né tu, né i tuoi ricordi, né la tua vita potessero intralciare e
colorare gli eventi che dovevi riferire. Dovevi essere una percezione,
non una coscienza. Non ha funzionato. Invece di cancellarsi del tutto,
i tuoi ricordi si sono calati nel profondo del tuo essere come un
doloroso senso di privazione. Un fallimento. È andato tutto storto. Il
che è un bene, perché la vita non va avanti senza errori. Si potrebbe
arrivare a dire che gli errori sono il necessario scarto magnetico del
destino. Immagino che tu sappia che Dio e il diavolo hanno creato
l’essere umano di comune accordo. L’ultima cosa che Dio ha donato
all’uomo è stata la coscienza – poi ha dichiarato che la sua creazione
era completa. Ma a quel punto il diavolo gli ha dato l’inconscio.
Perché l’hai fatto, gli ha chiesto Dio, non capisci che gli hai dato una
cosa che nemmeno noi comprendiamo del tutto? Hai trasformato la
nostra creatura in un enigma.
E il diavolo che cosa ha detto?
Niente, non ce n’era bisogno, Dio ha avuto la risposta mentre
formulava la domanda.
E quale sarebbe?

Il conducente d’autobus consacrato guarda fuori dal finestrino, finge


di non aver sentito la mia domanda, osserva l’albergo davanti al
quale io sto chiacchierando con la famiglia canadese mentre Rúna
entra nella reception. Sorridono tutti, io trasalisco vedendo il sorriso
della loro figlia. Quel sorriso l’ho già visto. L’abbiamo già visto tutti.
Perplesso, mi volto a guardare il mio accompagnatore, che appoggia
altri fogli bianchi sul tavolo e li sospinge verso di me, e vedo
Halldór…

… attraversare quella strada di Keflavík, talmente concentrato sulla


voce di suo fratello che non si accorge del fuoristrada che si sta
avvicinando un po’ troppo veloce, il conducente insonnolito dal turno
di notte – e che lo investe. Ma questa volta il conducente ha il tempo
di sterzare all’ultimo momento e non lo centra in pieno, solo di
striscio. È comunque un impatto violento, tanto che l’uomo perde il
controllo della vettura, va a finire dritto contro il pianale di un camion
e perde i sensi. La ragazzina quattordicenne che distribuisce i
giornali è testimone dell’incidente, corre da Halldór, si china su di lui,
gli chiede se la sente. Gli sono caduti gli auricolari, l’iPod è uscito
dalla tasca, ha saltato la traccia della lettura di Knut Hamsun ed è
passato alle Gymnopédies di Erik Satie.
L’opera che Pétur ha suonato al pianoforte a casa del medico a
Stykkishólmur centovent’anni prima.
Il termine gymnopédie viene dal greco e significa «danza di
giovani nudi».

Alzo gli occhi sul conducente d’autobus consacrato.


Non ci resta più molto, mi dice.
Ciò che non comprendiamo

rende il mondo più ampio


E poi è finita

Le Gymnopédies ci accompagnano da quando Pétur le ha suonate al


pianoforte per la nonna Guðríður a Stykkishólmur quasi
centovent’anni fa, dice Eiríkur, appoggiando la chitarra appena ha
finito di eseguire l’opera del compositore francese per Elías.
Sono entrati nella casa di Vík che Elías ha trasformato
completamente negli ultimi due anni. Il piano terra, che prima era
suddiviso in tanti spazi di piccole dimensioni, è diventato un unico
soggiorno aperto con cucina a vista. Le grandi vetrate affacciate sul
fiordo, sulla fattoria di Nes e sulla chiesa che si innalza sulla sponda
opposta, scendono fino a terra, e si aprono per uscire direttamente in
giardino.
Bellissima, dice Elías, non capita spesso di sentire questa musica
interpretata alla chitarra. Me la registri, quando hai tempo? Hai detto
che Guðríður era tua nonna – ma credo che tu debba tornare indietro
di qualche generazione. Non era la tua bis-bisnonna?
Secondo me non torna, risponde Eiríkur, e si allunga verso il tavolo
da pranzo per prendere la foto appoggiata su una pila di fogli, i
documenti che lui ed Elías hanno raccolto negli ultimi mesi e che
riguardano Guðríður e Pétur. Secondo me non torna, perché mi
sarebbe troppo distante. Ho percepito una presenza molto forte
quando sono andato a vedere i ruderi di Uppsalir, la scorsa
primavera.
Lo sai che alcuni sarebbero tentati di definire la tua un’esperienza
«extrasensoriale»?
Mah, extrasensoriale è un termine che non mi piace! Però è
successo qualcosa quand’ero lì. Mi trovavo davanti ai resti della
casa, ho chiuso gli occhi per assorbire l’ambiente e ho sentito il
profumo delle frittelle calde, lassù, sulla brughiera, lontano dalle zone
abitate. Strano, ho pensato – e allora l’ho sentita passarmi attraverso.
Insomma, mi sono sentito come se qualcuno mi passasse attraverso,
e in quello stesso istante ho capito che era lei. Ho telefonato a papà
mentre tornavo a casa e gli ho raccontato quell’esperienza, che cosa
mi era successo. Lui e Sævar erano ancora in Canada, bloccati lì dal
covid, ben accuditi in casa dei nostri parenti. Ed è successa un’altra
cosa strana oltre tutto il resto, perché proprio quella mattina i nostri
cugini avevano dato questa foto a papà – e lui me l’aveva appena
inviata per email!
Elías posa il coltello, si asciuga le mani, passa sull’altro lato del
tavolo per sedersi accanto a Eiríkur e osservare la fotografia.
Stanno bene insieme, dice lui.
Sì, concorda Eiríkur con un sorriso. Immagino che sia cominciato
tutto lì. Presto Pétur si alzerà per sedersi al piano, si metterà a
suonare la prima Gymnopédie, e le cose prenderanno il loro corso.
So che non è andata proprio così. Eppure… guarda come sono belli
insieme! Sono davvero fatti l’uno per l’altra. Sono radiosi per la
felicità. Hanno avuto la possibilità di essere felici, l’hanno meritato –
per un breve istante. Perché poi è finita.

Esisto perché gli universi

sono usciti dai cardini

Perché poi è finita, ripete il conducente d’autobus, e di nuovo ho


l’impressione di sentirgli un vago odore di zolfo sulle dita.
Ha tirato fuori un’altra bottiglia di whisky, un Talisker. Ha buon
gusto, il tipo, lo devo ammettere. Il bicchiere mezzo pieno davanti a
lui sprigiona un aroma affumicato. Ha appena svuotato una bottiglia
intera e ha aperto la seconda, pare che il whisky non gli faccia
nessun effetto. Rigira il bicchiere, senza tempo come l’atmosfera che
ci avvolge. Abbasso gli occhi sui fogli nel momento in cui Rúna esce
dall’hotel con una camicia verde che le ha prestato sua sorella, e che
sta alla perfezione con i suoi capelli scuri. Sorride. Non riesce a
smettere di sorridere, perché sta arrivando il giornalista di Parigi. È
atterrato a Keflavík verso le quindici e trenta. Sono arrivato, le ha
scritto in un sms, «con il mio amore saturo di sole. Pronto a vivere
alla fine del mondo, finché ci sarai anche tu. Finché vorrai guardarmi.
Quando penso, penso a te. È stato così dalla prima volta che ti ho
vista. Lo sai. La tua presenza mi dà una tale gioia, mi rende talmente
felice che gli angeli mi invidiano. E se mi ami, sparerò con te ai paletti
della recinzione per i prossimi cento anni.»
Che bella dichiarazione d’amore, aveva detto Sóley, dev’essere
proprio degno di te. Hai detto che è un amante dolce e tenero; allora
resta solo da sapere se è bravo anche per occuparsi dell’agnellatura.
Rúna aveva risposto al suo francese: «La festa sarà già
cominciata quando arrivi. Vieni direttamente alla fattoria di Vík. Ci
saranno tutti. Se indosso una camicia verde vuol dire che ti amo.»

Lo sai che il francese non è solo, in macchina, dice il conducente di


autobus senza staccare gli occhi dalla fotografia di Pétur e Guðríður.
Non sarebbe meglio che tu raccontassi in breve com’è cominciato
tutto, come ha preso il via questa storia?
Ma io non ho la minima idea di come sia cominciato tutto, non so
rispondere alla tua domanda.
Non ne hai idea, davvero? E allora chi lo dovrebbe sapere, non sei
tu il responsabile di tutto, qui?
Sì, probabilmente sì. Allora in questo caso io sono Dio e il diavolo
insieme, perché sono riuscito a creare qualcosa che non comprendo.
Il che è un bene, immagino, perché ciò che non comprendiamo rende
il mondo più ampio.
Finalmente, dice il conducente d’autobus aprendosi in un raro
sorriso, finalmente!

Abbasso subito lo sguardo di nuovo sui fogli in modo che non veda
quanto il suo complimento mi faccia felice. E leggo:
Aveva scritto il suo articolo sul poeta cieco delle zolle di terra,
Pétur aveva suonato una Gymnopédie sul pianoforte del medico e di
sua moglie. Quella stessa sera, su richiesta di Kristín, era passato il
fotografo e aveva scattato quattro fotografie. Lei e suo marito sono
seduti accanto sul divano nelle prime tre foto, gli altri quattro invitati
sono dietro di loro, in piedi. Ma quando tutti credevano che la seduta
fosse terminata Kristín aveva detto, ah, su, un’altra, stavolta voi due
giovani insieme sul divano. Allora sono ancora giovane, aveva
chiesto Pétur, e aveva sorriso, si era seduto con Guðríður sul divano,
le aveva rivolto un rapido sguardo e poi si era voltato verso il
fotografo. E la foto era stata scattata. L’istante era stato immortalato.
Centovent’anni più tardi l’abbiamo davanti agli occhi.

Sono seduti talmente vicini l’uno all’altra che è quasi sconveniente.


Pétur ha appoggiato la mano su quella di lei, quasi per scusarsi,
quasi come a dirle, oh, scusami, ma da qualche parte uno deve pur
metterle, le mani. Lui sorride. Entrambi sorridono. E gli occhi di
Guðríður brillano di una luce così intensa che tutto diventa bello,
anche il tradimento.
Perché a volte bisogna che ci sia una falla, dice Eiríkur guardando
la fotografia. A volte qualcuno deve piombare nell’infelicità e nel
dolore. È ingiusto, ma non ci si può fare molto. Era tutto scritto,
doveva succedere. Io esisto perché gli universi sono usciti dai cardini.

Non hanno dormito quasi per niente

Perché poi è accaduto quello che non doveva accadere. Pétur suona
le Gymnopédies.
Un mio conoscente di Copenaghen, dice, seduto al piano, segue
tutte le novità in campo musicale e lo scorso inverno mi ha inviato lo
spartito di quest’opera particolare, molto affascinante. Faccio del mio
meglio, non siate troppo severi, l’ho suonata soltanto sul vecchio
armonium consunto della chiesa, che è talmente scordato da
spaventare anche i morti!
Socchiude gli occhi, fa un profondo sospiro, li riapre, guarda
Guðríður e comincia a suonare. Lei trattiene il fiato, gli occhi le si
riempiono di lacrime, piange.
Piange perché non sente suonare il pianoforte da un quarto di
secolo, da quando il capitano francese, l’amico di suo padre, aveva
eseguito per loro un Notturno di Chopin nella casa del commerciante
e di sua moglie. Piange perché quel brano è di una bellezza
straordinaria. Piange perché le manca terribilmente suo padre.
Piange perché Pétur è bello. Piange perché si rende conto che finché
abiterà sulla brughiera insieme al suo Gísli si perderà tutta la bellezza
che c’è nel mondo. Pétur suona e la vede piangere.
Due ore più tardi entra dalla finestra nella grande camera da letto
che le è stata assegnata.

La stanza è al piano terra ma la finestra è talmente alta che Pétur


deve alzarsi sulla punta dei piedi per riuscire a bussare leggermente
contro il vetro con la punta delle dita. Lei si volta quasi all’istante,
come se aspettasse la sua visita. Si guardano negli occhi per qualche
secondo, poi lei apre la finestra, fa un passo indietro, attende. Ma per
Pétur non è facile entrare. Si deve issare sulle braccia e non ha la
forza necessaria, cerca di facilitarsi il compito scalciando e agitando
le gambe. Ridicolo, pensa, manca solo che mi veda qualcuno! Poi
atterra con la testa in avanti nella camera e si impiglia nelle tende.
Quando finalmente riesce a rialzarsi, Guðríður gli sta di fronte e gli
assesta uno schiaffo.
Non hanno dormito quasi per niente quella notte. E nemmeno la
successiva. Non ci sono riusciti. Non hanno osato. Ed è stato intimo,
bello, perfettamente imperdonabile, è stato il più profondo dei
tradimenti.
Malgrado ciò, ci sono forti possibilità che il tribunale di competenza
sul cielo e sulla Terra, composto in parti uguali di domiciliati al
paradiso e all’inferno, li abbia dichiarati non colpevoli. È vero che la
vita è incomprensibile. O, per come stanno le cose, a volte il destino
si ribalta, e tu ti trovi davanti a due scelte difficili.
Due scelte, nessuna delle due è quella giusta.
Eppure lo sono entrambe.

I servitori di Bacco

Esisto perché gli universi sono usciti dai cardini, ha detto Eiríkur, e
avrebbe potuto aggiungere: perché molte persone sono morte.
Ed è vero: qui ci sono anche troppi morti. Ma c’è anche vita.
Perché Halldór non è morto.

Certo, è stato investito, Sævar stava tornando a casa dopo il turno di


notte.
Stanco, insonnolito, cerca un brano di Bruce Springsteen su
Spotify, non vede l’ora di cantare a squarciagola insieme al musicista
americano che è stato suo fedele compagno per decenni. Trova il
pezzo, alza la testa, e investe Halldór. Proprio così. Ma all’ultimo
istante riesce a sterzare di lato e la jeep lo prende appena di striscio.
Solo che la velocità era così sostenuta e il fuoristrada così pesante
che Halldór viene scagliato contro il ciglio della strada, gravemente
ferito, mentre Sævar va a sbattere contro un camion fermo e il
pianale gli spacca il parabrezza dal lato del passeggero.

Quando Eiríkur atterra poco meno di un’ora dopo all’aeroporto di


Keflavík, Halldór è già stato portato a Reykjavík in ambulanza. Si è
rotto il bacino.
Poteva andare molto peggio, dice il medico a Eiríkur.
Probabilmente tuo padre non se la sarebbe cavata se non avesse
avuto un alto tasso alcolico nell’organismo, era completamente
ubriaco, diciamocelo. Il corpo era molle, i muscoli rilassati al
momento dell’urto.

Quindi in fin dei conti è stato il bere a salvarmi la vita, dice Halldór
sorridente a suo figlio quando riprende conoscenza dopo l’intervento.
Si pente all’istante di averlo detto, si pente di quel sorriso stupido, di
quella battuta completamente fuori luogo, perché Eiríkur s’irrigidisce
– e per la mente di Halldór passano innumerevoli frammenti di ricordi
sfrecciando come comete nere. Gli faccio schifo, mi disprezza, pensa
Halldór. Ma invece di chiedere scusa gli dice che qualcuno dovrebbe
dare da mangiare al povero gatto, il Bowie, e a quelle benedette
galline. Non posso farlo io da qui, dice.
Eiríkur evita di sottolineare l’evidenza, che basta telefonare a Dísa
o a Lúna a Hof e chiedere loro di fare un salto a Oddi per dare da
mangiare alle bestie. Invece dice, ti faccio sapere per il funerale di
Palli. Torna a casa in auto e si vergogna di essersi sentito
riconoscente verso Sævar, che era ricoverato nella stanza accanto a
quella di Halldór, con una spalla rotta, e lo aveva chiamato,
mortificato dopo l’incidente.
Una leggerezza imperdonabile, aveva detto. Una distrazione da
criminali, la mia. Springsteen, aveva detto. Something in the Night.
Un gran bel pezzo, un bel disco, aveva detto involontariamente
Eiríkur, poi aveva dovuto mordersi la lingua per non ringraziarlo di
aver evitato che Halldór andasse a prenderlo ubriaco. Non è stata
colpa tua, gli aveva detto poi. Mio padre era talmente ubriaco che non
aveva la forza né di guardarsi intorno né di mettersi in salvo. Quindi a
essere più precisi non sei stato tu a investirlo, ma l’alcol.
Sævar aveva abbassato gli occhi.

Io non lo sapevo, allora, dice Eiríkur a Elías spostando la pila di carte


su un altro tavolo in modo che non sia di intralcio durante la
preparazione del pranzo, che come papà anche Sævar era stato a
lungo un servitore di Bacco. Ero talmente arrabbiato con papà che mi
sono augurato di non doverlo mai più vedere in faccia. Avevo
l’impressione che mi avesse tradito, che mi avesse imbrogliato, come
se mi avesse attirato qui con l’inganno, con due lettere in cui aveva
finto di essere un uomo degno di fiducia. Non ci vedevamo da tre
anni, Palli era appena morto, e lui viene a prendermi fino a Keflavík in
macchina completamente sbronzo. Ero arrabbiato con lui, ero
arrabbiato con me stesso per essermi fidato. Sono tornato a casa a
Oddi verso mezzanotte, sono andato dritto nel granaio da Palli e
sono rimasto a lungo accanto alla sua bara.
Poi mi sono seduto al tavolo in cucina, ho aperto la busta con la
lettera della nonna e ho scoperto che il mondo in cui vivevo
praticamente non era mai esistito.

Forse non esisto

Pochi giorni dopo Elías va a prendere Halldór a Reykjavík.


Come Hulda circa ottant’anni prima sulla punta estrema della
Snæfellsnes, Eiríkur ed Elías avevano setacciato la riva del mare in
cerca della pietra più adatta per la lapide di Páll, l’avevano trovata,
l’avevano trasportata con il trattore fino a casa a Oddi, l’avevano
infilata nel granaio e vi avevano costruito sotto uno sgabello in modo
che Halldór si potesse sedere comodamente e incidere il nome di
suo fratello e la citazione di Kierkegaard.
Ci aveva lavorato anche quindici ore al giorno, con estrema cura.
Vi si era dedicato con passione, con concentrazione, come se l’opera
della sua vita intera dovesse essere rappresentata nella scritta sulla
lapide di suo fratello. Quanto sarebbe vuota e disperata la vita, se tu
mi dimenticassi!
Ma la mano che teneva lo scalpello tremava per la mancanza
dell’alcol, tremava per il dolore, per il rimpianto, per i rimorsi.
E tremava per l’autocommiserazione.

Non essere così crudele con lui, gli aveva chiesto Elías.

Lui ed Eiríkur avevano scavato la fossa a mano, era l’unica cosa da


fare. Avevano scavato nel buio, nel tempo, avevano incontrato i poeti
ciechi. E a casa a Oddi la mano di Halldór tremava.
Non essere così crudele, gli aveva chiesto Elías. La rabbia e il
rancore sfigurano il pensiero, danneggiano ogni cosa, ti tolgono
l’ossigeno. Il perdono invece apre tutte le porte, la vita diventa più
vasta.
Lo so, aveva detto Eiríkur, solo che non riesco a controllarmi. Mi
sento come se fossi intrappolato in un crepaccio. Come se non
sapessi più chi sono. Mi sento come se per una vita intera fossi stato
qualcun altro, e non io. Quando sono tornato a casa ho trovato ad
aspettarmi una lettera inattesa da parte della nonna. Scritta quasi
quarant’anni fa. E dopo averla letta mi sento come se fino a questo
momento la mia esistenza fosse stata una specie di Truman show.
La morte di mia madre, aveva detto, è sempre stata la montagna
su cui la mia vita, senza volerlo, si misurava. In altre parole, mi
rendeva la persona che sono. E a quasi quarant’anni scopro che
quella montagna non è mai esistita, e di conseguenza sono stato
formato da qualcosa che non è reale – significa forse che la mia
persona è un’illusione, che la mia vita è un malinteso? E che chi ha
avuto a che fare con me nel corso del tempo, chi mi ha voluto bene e
mi ha perfino amato, si è legato a una persona che non è mai
esistita? Ho amato una donna per quattro anni, e lei amava me. Poi
se n’è andata e io credo di essere rimasto bloccato per lungo tempo
dentro il senso di perdita nei suoi confronti. O nella nostalgia
dell’amore. Ci si può anche innamorare della nostalgia. Ma lei ha
amato me o l’uomo che entrambi credevamo che fossi? Sono un
chitarrista, non sono male, me la cavo abbastanza da essere
richiesto come session man per incidere dischi di jazz e blues. Ho
una tonalità riconoscibile, limpida e con una vena di malinconia. Una
tonalità che naturalmente è sempre stata definita dalla mia
personalità – che era costruita su un malinteso… La mia vita è stata
paralizzata dalla nostalgia finché un’altra donna non mi ha legato a
una sedia, a casa. Ha detto di avermi sentito suonare e di aver visto
l’uomo che ero dentro. Io credo di amarla, credo che anche lei mi ami.
Ma adesso ha poca importanza, perché ha amato un uomo che non
esisteva. Scusami, farnetico e mi lamento, dovrei vergognarmi, lo so.
E la cosa peggiore è che sono arrabbiato con tutte le persone a cui
volevo più bene. Sono talmente arrabbiato, sto talmente male che il
mio malessere quasi soffoca il dolore e il lutto per Palli. Sono
addirittura arrabbiato con la nonna e il nonno e mi capita di maledirli.
E non lo devo fare. Mi disprezzo per questo.
A volte, aveva detto Elías, perdonarsi è la cosa più difficile. Eppure
a volte è la cosa più importante, l’inizio di tutto.
Forse, aveva detto Eiríkur, forse è vero. Ma non bisogna sapere
chi siamo, per perdonarci?

Ciao papà, ciao luce del sole

Elías ed Eiríkur hanno scavato la fossa per Palli, era una ferita
profonda nel suolo. Hanno posato la lapide. La pietra con la citazione
di Kierkegaard e il nome di Palli incisi così profondamente che il
tempo ha il suo bel daffare a cancellarli.
Il capolavoro di Halldór?
Lui l’aveva inteso in questo modo. Quando aveva cominciato il
lavoro, e la mano che teneva lo scalpello tremava per il dolore, il
rimpianto, la voglia di bere, l’autocommiserazione. Eiríkur osservava
suo padre e pensava, non potrò mai fidarmi di lui, mentre Bacco
distendeva una morbida coperta sulle spalle di Halldór e gli
sussurrava, sono l’unico che non ti giudicherà mai, lo sai. Sono
l’unico che ti capisce davvero. Nella mia dimora ci sono molti alloggi.
E questa è davvero il tuo capolavoro, aveva aggiunto quando Halldór
aveva posato il martello e lo scalpello, si era appoggiato all’indietro
per ammirare il lavoro. Puoi andarne fiero, ormai nessuno può più
pretendere altro da te. Eiríkur subentrerà alla gestione della fattoria,
tu non gli devi nulla. L’hai visto come ti guardava. Con freddo
disprezzo, direi! Non conosce la gratitudine. E non ti ha mai capito.
Lo sai che nessuno ti capisce, tranne me.
Halldór aveva preso il martello, l’aveva soppesato in mano,
pensieroso, poi l’aveva lanciato verso Bacco dicendo: e io sciolgo la
nostra convivenza!
Ma Bacco si era fatto una risata. Perché una cosa del genere
l’aveva sentita un’infinità di volte, l’aveva sentita pronunciare da un
gran numero di persone, nei momenti più disparati. Si era fatto una
risata, lucidando quel gancio che si chiama debolezza. Va bene così,
aveva detto. Tornerai indietro strisciando, ma va bene anche quello,
perché da me anche l’umiliazione ha un suo fascino. Io perdono tutto.
Per questo sono così amato.
Vaffanculo, gli aveva risposto Halldór.
Ed era tornato a Reykjavík. Dopo il funerale. Come previsto. Per la
riabilitazione dopo l’incidente e l’intervento. Si era fatto ospitare da
alcuni amici e prevedeva di tornare a casa entro qualche settimana.
Lo credevano entrambi, padre e figlio. E lo temevano entrambi. Ma i
giorni nel Sud erano stati difficili e in poco tempo il desiderio di bere
era diventato insopprimibile. Elías, che telefonava a Halldór tutti i
giorni, aveva capito la situazione e l’aveva raggiunto nella speranza
di riuscire a convincerlo a entrare in terapia a Vogur.
Prova a rimanere anche solo una settimana, gli aveva chiesto. Lo
devi a Palli, lo devi a Eiríkur, e lo devi anche a te stesso.
Halldór alla fine aveva accettato. Aveva troppa paura per non farlo.
Non aveva mai avuto tanta paura in tutta la sua vita. Non si era mai
sentito tanto indifeso. Era entrato a Vogur dieci giorni dopo, e con sua
grande sorpresa ci aveva trovato Sævar, che era appena stato
accettato pure lui.
Siamo qui tutti e due, io e Bruce Springsteen, aveva detto Sævar,
stupito ma felice, e adesso anche tu! Dev’essere il destino. Forse
mettiamo su un gruppo rock io e te, il destino e Bruce Springsteen!

Avevano seguito le sei settimane di trattamento, sempre con


Springsteen insieme a loro. Ho perso tutto perché bevevo, aveva
detto Sævar, il lavoro, le donne, la famiglia, tramite un amico avevo
trovato un impiego come guardiano notturno, un incarico in cui mi
sono nascosto per tre anni. Lavoravo di notte, tornavo a casa al
mattino, bevevo e ascoltavo musica fino a mezzogiorno, giravo per la
mia piccola casetta con Bruce Springsteen, Billie Holiday, Bacco,
l’autocommiserazione e la solitudine. You fall in love with lonely, you
end up that way. Pensavo che la mia vita sarebbe sempre stata
quella, e cominciavo ad accontentarmi. O meglio, credevo di
accontentarmi, invece ero solo intontito, perché il re Bacco è come un
ragno che anestetizza la sua vittima prima di divorarla. La mangia
viva, ne succhia il contenuto e lascia solo l’involucro tanto che la
preda rimane convinta di essere ancora viva. Poi a quel punto ti
investo e credo che sia la cosa migliore che mi sia mai capitata. Ho
l’impressione che siamo entrambi così difettosi da non poter far altro
che compensarci a vicenda. Che siamo due tali incapaci che
possiamo solo contare l’uno sull’altro.
Dopo il trattamento Halldór si era trasferito nel Sud, a Keflavík, ed
Eiríkur aveva preso la gestione della fattoria, senza dire niente, senza
protestare. Duecento ovini, quattordici galline, un gatto alla sua
ottava vita, ai quali aveva aggiunto tre cuccioli di border collie quando
il loro proprietario, un vecchio solitario del Nord che era sempre stato
legato alla famiglia di Oddi, aveva scoperto di avere un tumore
incurabile e si era imbarcato sul suo peschereccio prima che il male
gli portasse via la dignità. Quando era ancora in vista della costa
aveva mandato un sms a Eiríkur per chiedergli di tenere i suoi
cuccioli. Eiríkur era andato a prenderli, li aveva messi in una scatola
di cartone foderata con del fieno morbido e un vecchio maglione di
lana islandese, e ci infilava una mano dentro ogni volta che
cominciavano a guaiolare mentre erano in macchina per Oddi. Loro
si accucciavano tutti e tre stretti contro la mano, gli leccavano le dita,
ed Eiríkur sorrideva.

In poco tempo Halldór e Sævar avevano fondato la ditta Ciao sole –


costruzioni e ristrutturazioni! che ebbe un tale successo che avevano
deciso di partire per il viaggio che sognavano da tempo, negli Stati
Uniti. Erano andati a trovare Elvis Presley a Memphis, Billie Holiday a
Baltimora, Jim Morrison in Florida ed erano finiti da Bruce
Springsteen nel New Jersey, dove si erano fatti fotografare. La foto
che Eiríkur aveva trovato sul cellulare la mattina dopo.
Padre e figlio avevano parlato poco da quando Halldór si era
trasferito nel Sud. Eiríkur era felice che Halldór avesse smesso di
bere, ma non riusciva ancora a fidarsi di lui e preferiva mantenere le
distanze. Se avevano qualche rapporto, era solo per la fattoria e i
terreni. Più che altro email e qualche telefonata, tutte brevi e faticose
per entrambi. Poi arriva la foto di Halldór e Sævar con un gran sorriso
fuori dalla casa dove Springsteen aveva trascorso l’infanzia. Si
tengono per le spalle e gli occhi di Halldór sono pieni di luce e di
felicità sincera. Sotto la foto c’era scritto: «A mio figlio, Eiríkur: Hello
sunshine, won’t you stay?»
Eiríkur aveva osservato a lungo la fotografia, aveva zoomato su
Halldór, aveva ingrandito il dettaglio degli occhi, l’aveva guardato
meglio. Poi aveva aperto il computer e aveva scritto un’email a
Batool, la prima in due anni: «Mia amata Batool! Sei viva, felice,
ancora con le gambe così lunghe che le chiese prendono fuoco? Tra
dieci giorni vengo a Marsiglia per lavoro, resto due settimane; una
birra?»
Aveva inviato il messaggio, poi aveva preso il telefono, aveva
cercato il numero di Halldór e l’aveva chiamato. Ciao papà, aveva
detto.
Ciao papà, ciao luce del sole.

Champagne, birra o arma da fuoco?

Halldór era rimasto talmente colpito nel ricevere una telefonata da


Eiríkur e sentire quant’era sincera e calda la voce di suo figlio che si
era commosso. La colonna di lacrime gli era salita su per la gola,
inarrestabile, aveva impregnato le corde vocali rendendogli la voce
così poco chiara e impastata che Eiríkur si era subito irrigidito. È
ubriaco, aveva pensato, cazzo, riaggancio, è stato uno sbaglio, mi ha
preso in giro un’altra volta! Halldór aveva sentito subito quel silenzio
improvviso e glaciale, aveva serrato il telefono senza sapere cosa
fare, non riusciva a dire niente. A quel punto Sævar aveva preso per
le spalle il suo amico, e questo l’aveva aiutato. Scusami, era riuscito
a dirgli Halldór, mi si è rotta la voce, mi è quasi venuto da piangere.
Sono immensamente felice di sentirti. Pensa te quanto mi sono
rammollito. Non lo raccontare a Kári!
Ed Eiríkur si era messo a ridere.
E due settimane dopo aveva rivisto Batool a Marsiglia.

Aveva risposto al messaggio lo stesso giorno, proponendogli di


vedersi in un caffè. Eiríkur si presenta per tempo, con il cuore che
palpita un poco, cercando di ricordarsi che tra loro è finita. Lui aveva
fatto in modo che finisse, con il suo silenzio. Oltretutto aveva appreso
che lei aveva un amante. Pensa, devo solo rivederla ancora una
volta. Dopodiché sarò libero.
Lei si fa attendere, arriva con un ritardo di venti minuti buoni e ride
vedendo il modo in cui lui la guarda.
Ridi di me, dice lui, incerto, in parte felice, in parte offeso.
Sì, risponde lei con un sorriso, senza sedersi. Perché adesso
capisco come mai mi hai evitata.
Scusami, dice lui. Perdonami. Sono sparito, lo so, e non ti ho
cercata. Posso spiegarti come mai l’ho fatto? Non vuoi sederti e
darmene la possibilità?
Lei lo guarda con quei suoi occhi grandi e scuri. Ti aspetto dal
giorno che sei partito, dice poi. Volevo contattarti, ma sapevo che
l’iniziativa doveva partire da te. Tu sei di quelli capaci di amare per
pietà, e a me non interessa quel tipo di amore. Ti ho detto addio più di
due anni fa. E ti ho incoraggiato ad andartene perché chi ama è
indifeso. È così facile ferirlo, abusare di lui, fargli del male. Amare è
affidare il proprio cuore agli altri. Io non ne avevo il coraggio. Ed è
stato un sollievo per me vederti partire. Non mi ero mai sentita così
infelice. La mamma diceva che dovevo aspettare. Se è degno di te,
diceva, tornerà. Sarebbe stata una prova. Dovevo armarmi di
pazienza. Ma devo ammettere che cominciavo a preoccuparmi.
Ho saputo che adesso hai un amante. È vero?
Il cameriere che aveva atteso vicino al loro tavolo osservandoli, un
uomo dignitoso sulla cinquantina, si avvicina, sposta la sedia vuota
per offrirla a Batool e chiede sorridendo: che cosa posso offrirvi,
champagne, una birra, oppure un’arma da fuoco?
Cominciamo con una birra, dice Batool, si siede e aspetta che il
cameriere si allontani, poi dice, sì, è vero, mi sono trovata un amante.
Geloso?
Io? Perché mai? Non ne ho alcun diritto.
Quindi bisogna avere l’autorizzazione, per essere gelosi? Non ti è
importato niente, la notizia non ti ha fatto alcun effetto?
Come no. Non ci ho dormito per settimane.
Ah, ne sono molto felice! La mamma ha detto anche che se eri
una persona onesta ci avresti perso il sonno. È stato soltanto uno. Ed
è durata poco. Speravo che attutisse il desiderio di te, la tua
mancanza. E non ha fatto altro che peggiorare le cose. Il confronto è
andato tutto a tuo vantaggio. In realtà mi sei mancato talmente tanto
che sono quasi andata da un medico. Papà e i miei fratelli mi
dicevano di venire in Islanda e darti una bella lezione, stavano
malissimo a vedermi in quello stato, quasi distrutta dalla tua assenza.
Bisogna penare, mi ha detto allora la mamma, soffrire talmente tanto
per l’assenza di qualcuno da perdere quasi la ragione. È solo a quel
punto che si è certi di amare davvero. Ma adesso sei tornato. Ho
visto come mi hai guardata quando sono arrivata. Significa che sei
mio?
Eiríkur apre la bocca, fa per parlare, ma un’auto passa lentamente
di fianco a loro, il finestrino abbassato sul lato del conducente e
Kanye West a un volume tale che Batool non sente quel che dice
Eiríkur, la voce annega nella musica: Hey hey hey hey hey, please
say you will, for real, I pray you will. I pray you will!
Il cameriere arriva con le birre ma gira i tacchi appena vede come
si guardano quei due – riporta le birre al bar e torna con lo
champagne.

Perdonare talvolta coincide

con accettare se stessi


Sei adorabile da quanto sei stupido, dice Batool quando la bottiglia di
champagne è ormai quasi vuota ed Eiríkur le ha raccontato tutto, il
suicidio che non avrebbe dovuto essere un suicidio, suo padre
investito da Springsteen e da Sævar, mentre andava a prendere
Eiríkur all’aeroporto completamente ubriaco; Eiríkur che era tornato a
casa a Oddi per scoprire che la sua esistenza era un’illusione; eccoti
qui, che dormi, esausto in un mondo ingiusto.
Da allora ho l’impressione di non sapere più chi sono. Per questo
non mi sono più fatto sentire. Mi dicevo che non avevo il diritto di
stare… con te. Che dovevo scoprire chi ero, prima di poter
cominciare a vivere. Ero completamente confuso. A volte mi
auguravo di non averti mai conosciuta. Ma ti sognavo sempre.
Sognavo una vita con te. E con tuo figlio. Qui, oppure a casa. Ma
prima dovevo sbarazzarmi di tutta la collera che avevo nel sangue.
Dovevo affrontare questa rabbia per poter perdonare le persone che
amo. Dovevo trovare me stesso, prima di poter tornare da te.
Sei adorabile per quanto sei stupido, dice Batool. Non sai chi sei, e
non sei mai stato la persona che noi ritenevamo tu fossi? Credi che io
non abbia mai saputo chi eri? Ti ho guardato negli occhi nei momenti
in cui eri completamente vulnerabile, completamente sincero. Dai
tutto te stesso quando fai l’amore con me. Vieni da me con tutta
l’anima. E questo mi manca terribilmente. Tutti veniamo al mondo con
un nostro modo d’essere. È vero, gli eventi della vita possono
modificarlo, ma se è puro non ne alterano la natura. Tu sei quello che
sei, e lo sei sempre stato. Ma hai bisogno di perdonare. Perdonare,
che talvolta coincide con accettare se stessi. Chi perdona trova se
stesso. E chi trova se stesso è libero.

Per questo proseguiamo

La felicità e l’infelicità provengono da una stessa sorgente, per


questo a volte la vita è così difficile che si vede anche dalla luna.
La luna verso la quale Eiríkur ha sparato con la carabina mentre i
due camion sfrecciavano a tutta velocità lungo la strada, e uno degli
autisti gli ha scattato una foto con l’arma imbracciata.
Allora Eiríkur, mi spiega il conducente d’autobus, non sparava
dietro ai camion, furioso e disperato per aver perso i cuccioli. Al
contrario, era uscito con la carabina per celebrare la vita. E non era
affatto «talmente sbronzo dopo mezza bottiglia di Calvados che era
più probabile che beccasse la luna, invece che quei camion», perché
Elías, Rúna e Sóley erano davanti alla fattoria, sorridenti, lui con una
birra, loro con un bicchiere di vino.
Lo so, dico alzando le braccia come per scusarmi. Ma quando l’ho
scritto non potevo saperlo, e non sapevo nemmeno che Páll giaceva
in una bara nel granaio quando Eiríkur era tornato a casa. Vabbe’,
non è grave. Si descrive il mondo come lo si vede di volta in volta. E
nessuno l’ha mai descritto talmente bene che non sia possibile farlo
meglio.
Per questo possiamo proseguire.

Hölderlin ha perduto il senno e per questo

può confermare tutto quel che dico

Sono sconvolta, scriveva Guðríður a Pétur, una volta tornata a casa


dal soggiorno a Stykkishólmur, con la voce, le dita e i baci del pastore
come segni di bruciature sul corpo, sono sconvolta, perché non avrei
mai immaginato che la felicità e l’infelicità fossero una sola cosa. Mai
avrei sospettato che amare potesse essere un tradimento. Vorrei non
averti mai incontrato. Conto i giorni, le ore, i minuti che mi separano
dal momento in cui ti rivedrò. Credi che innamorarsi sia perdere il
senno? Amore mio, scrivimi! No, non devi scrivermi! Vieni a trovarmi!
Anzi no, non venire mai a trovarmi!

È Ó
È stata una riunione proficua, aveva detto Ólafur Flemma quando lui
e Kristín avevano salutato Guðríður e Pétur. La tua presenza ha un
effetto benefico su di noi vecchi pedanti; la rivista ne guadagnerà in
qualità con te in squadra.
Fate la strada insieme, è un bene, aveva aggiunto Kristín
abbracciandoli entrambi al momento della partenza.
Secondo me lo sa, aveva detto Guðríður mentre si allontanavano
a cavallo. Credi che ci abbia… sentiti?
No, dice Pétur, o almeno lo spero! Comunque penso che l’abbia
capito quando mi ha sentito pronunciare il tuo nome per la prima
volta. Ogni tanto mi chiedo se riesce a vedere anche attraverso le
montagne.
E senza giudicare?
Ci vuole bene, a tutti e due, ha un cuore grande. Credo che provi
compassione per noi.
Avevano percorso insieme buona parte del tragitto sulla brughiera,
poi Pétur aveva invertito la marcia ed era tornato a casa.
Lei cavalca verso Uppsalir.

Con alcuni libri che le hanno regalato Kristín e Ólafur, dei dolciumi e
dei giocattoli per le bambine – e il compenso per aver partecipato alla
riunione. Lei che non aveva mai ricevuto alcun pagamento in moneta.
Torna a casa, le bambine si precipitano fuori dalla fattoria e le
corrono incontro strillando, circondate dai cani festosi. Gísli la aspetta
davanti alla porta, felice di riaverla, ma resta addossato al muro,
come se fosse intimidito.
Amore mio, dice lei, un groppo in gola, mentre conduce Ljúf per le
redini, le bambine felici alle calcagna.
Due giorni dopo scrive a Pétur, sono sconvolta, vieni, non venire!
Poi trascorre l’inverno.
Aprile fa ritorno con la sua luce, e la seconda riunione del comitato
di redazione. Guðríður riesce a malapena a dormire nelle notti
precedenti, tanta è l’impazienza. E la tristezza. Perché ha preso una
decisione. Pétur le ha scritto sei lunghe lettere durante l’inverno, le ha
inviate nascoste dentro dei documenti riguardanti la rivista. Penso
soltanto a te, scrive lui, sempre, costantemente. Ho l’impressione di
perdere il senno, eppure non sono mai stato tanto felice!

Ci sarà anche questa volta, quella donna di brughiera, aveva chiesto


Halla quando Pétur si stava preparando a partire. Si chiama
Guðríður, aveva risposto, sì, è nel comitato di redazione, lo sai.
E allora il cuore di Halla aveva smesso di battere. Aveva formulato
la domanda in quel modo perché voleva sentire Pétur pronunciare il
nome di Guðríður. E la voce l’aveva tradito. La voce e quello scintillio
nello sguardo. Era partito, erano passate quattro notti, lei non era
quasi riuscita a dormire, e adesso probabilmente sta facendo ritorno.
Cala la sera, Halla pettina i capelli della figlia più piccola, cerca di
sorridere alle sue chiacchiere. Ha appena letto una lettera di sua
sorella che abita a Reykjavík, ha saputo che presto si libererà un
posto di pastore nelle parrocchie di Lágafell e di Kjalarnes. Le pettina
i capelli, cerca di sorridere, pensa allo scintillio negli occhi di Pétur.
Ahia, mamma, non tirare così forte, dice la sua bambina. Ma papà
non doveva tornare oggi?
Sì, sta tornando. È finita la seconda riunione.
L’ultima, perché per Guðríður non ve ne saranno altre. Due
riunioni, poi era finita.
Cavalca così bene, ha una postura elegante.
Smonta da cavallo. Sono saliti sulla brughiera, Uppsalir è in quella
direzione, la canonica nell’altra.
Perché le cose stanno così.
E lei sta per partire.

Bisogna che ci sia un oceano tra di noi, aveva detto a Pétur la notte
precedente. È la sola cosa che possa fermarmi. Altrimenti mollerei
tutto per venire da te, distruggerei così tante cose che non riuscirei
mai più a rimediare.
Smonta da cavallo. Abbracciami, gli chiede. Non mi lasciare, gli
chiede. Non mi lasciare mai. Amore mio. Devo andare. Non sono
niente senza di te. Il mio cuore sarà sempre con te, prenditene cura.
Sono nato per tenerti tra le braccia, dice lui. Sono nato soltanto per
vederti sorridere. Per sentirti parlare. Non riuscirò più a vivere se te
ne vai. Non puoi andartene. La mia vita non sarà che tenebra.
Questa vita non ci è stata destinata, dice Guðríður, e lo bacia.

Ti bacio e staremo sempre insieme.


Chiedilo a Hölderlin, ha perduto il senno e per questo può
confermare tutto quel che dico.

E staremo sempre insieme

Scendiamo con l’auto lungo la stradina tortuosa che porta alla fattoria
di Vík. Una strada che non di rado viene sepolta dalla neve in
inverno, e allora Elías deve parcheggiare sulla strada principale,
dove la neve è meno abbondante. Talvolta l’intero fiordo viene
ricoperto dalla neve e in quel caso Elías tira fuori gli sci, o la
motoslitta. Ma adesso non c’è neve, certo che no, è estate, è agosto,
la terra verdissima riluce sotto il sole, gli alberi accanto e sopra la
casa profumano, riecheggiano di canti di uccelli. Procediamo lungo la
stradina tortuosa ed Eiríkur ed Elías sono usciti per venirci incontro.
Elías più alto, leggermente curvo, ha appena parlato con Batool, che
si stava immettendo sulla piana di Þröskuldar insieme a suo figlio, i
suoi genitori e il giornalista francese che hanno incontrato in aereo,
per scoprire che stavano venendo tutti da noi. Aveva telefonato a
Elías per avere la conferma che avrebbe preparato il mansaf
seguendo la sua ricetta.
Rúna spegne il motore. Io sono seduto dietro, tra Wislawa e
Oleana, il mio cuore batte così forte che le due donne percepiscono
le onde d’urto. Eiríkur si inginocchia accanto alla sua cagna, la gratta
affettuosamente dietro le orecchie, ci osserva mentre ci avviciniamo.
La festa sta per cominciare.
Sono seduto sul sedile posteriore e allo stesso tempo qui nella
roulotte da dove scorgo Ási uscire dalla fattoria di Nes con Haraldur
tra le braccia, Gummi li segue tenendo la sedia a rotelle come un’ala
ripiegata. Ciascuno porta con sé la propria playlist, le dieci migliori
canzoni composte a partire da Please Please Me, e sono tutti
impazienti di presentarle a Eiríkur, fanno affidamento su di lui per
decidere quale sia la più significativa. Il telefono di Haraldur suona
mentre è ancora tra le braccia di Ási. È Halldór che vuol sapere se
sono arrivati alla festa. Io e Sævar abbiamo già superato Hólmavík,
dice lui, tu dove sei? In braccio ad Ási, risponde Haraldur. Halldór ride
e Paul McCartney riempie la macchina che ha comprato insieme a
Sævar con Do It Now, il brano che Halldór ed Eiríkur suoneranno
insieme durante la festa. L’inno alla vita, l’hanno ribattezzato. Do it
now, do it now, while the vision is clear… if you leave it too late, it
could all disappear.
Fallo adesso, perché domani potrebbe sparire tutto. E a noi
resterebbero i rimpianti.

Accidenti, credo che stiano venendo tutti alla festa, dice Sóley, si
volta sul sedile e mi guarda.
Ti bacio e staremo sempre insieme.
Questa vita non ci è stata destinata.
Il titolo provvisorio dell’autobiografia di Pétur è Nostalgia. Circa
trecento pagine scritte a mano, conservate nelle viscere della
Biblioteca Nazionale.
«Questa vita non ci è stata destinata» – l’incipit del testo.
Scritta nelle vicinanze di Reykjavík, dove lui e Halla si sono
trasferiti insieme alle due figlie all’inizio del secolo scorso.
Fotocopiata da Elías circa ottant’anni dopo.
L’autobiografia è dedicata «alle donne della mia vita, Halla
Magnúsdóttir e Guðríður Eiríksdóttir.» Ma non è chiaro se Halla sia al
corrente di questo manoscritto. È conservato, insieme a un certo
numero di lettere, in un cofanetto che Elías è il primo ad aprire. Molte
centinaia di lettere, parecchie indirizzate a Hölderlin, e circa trenta da
parte di Guðríður. Inviate per lo più dal Canada, dove si era trasferita
all’inizio di settembre, appena cinque mesi dopo aver detto addio a
Pétur sulla brughiera. Dov’erano rimasti abbracciati così a lungo che
le due giumente avevano cominciato a spazientirsi.
Lei e Gísli avevano lasciato l’Islanda insieme ai genitori di lui.
Padre e figlio si erano visti offrire un lavoro dal fratello di Gísli, erano
stati assunti dalla Morte, e Gísli non ha mai scritto le sue memorie.
Certo che no. Se l’avesse fatto, la sua biografia avrebbe potuto
intitolarsi come quella di Pétur, perché Gísli non era mai riuscito a
superare la nostalgia dell’Islanda. Gli mancavano i suoi ovini, gli
mancava la luce sulla brughiera, il profumo del fieno, gli mancava di
poter uscire a pesca, gli mancava di poter chiamare i cani. Erano
partiti, e la vita era diventata nostalgia. In compenso aveva potuto
continuare a vivere al fianco di Guðríður, a svegliarsi accanto a lei
per molte altre migliaia di mattine.
O finché lei non si era spenta nel sonno, trent’anni dopo.
Verrò da te quando muoio, recita la prima lettera che aveva scritto
a Pétur dall’estero. E aveva pensato la stessa cosa quando erano
salpati dall’Islanda. Mentre sul ponte aveva guardato insieme a Gísli
la sua isola sprofondare nel mare. E Gísli aveva pianto. Quell’uomo
vigoroso. Aveva pianto, e accecato dalle lacrime aveva cercato a
tentoni la mano di Guðríður. Aveva pianto perché sapeva che non
avrebbe mai rivisto il suo paese riaffiorare sulla superficie del mare.
Aveva pianto perché era il prezzo da pagare per poter tenere
Guðríður con sé. Era la sua terza dichiarazione d’amore per lei.
Sacrificare la sua vita per poter vivere al suo fianco. Per poter
abbracciare quella donna che dentro di sé sapeva di aver perso. E
che forse non era mai stata sua.
I monti erano sprofondati, le pecore erano sprofondate, i cani, la
giumenta che aveva cambiato nome, tutto era sprofondato e lui
aveva cercato a tentoni Guðríður per non annegare. Al suo fianco,
osservando ogni cosa sprofondare, lei aveva pensato, ecco dove
affonda il mio cuore. Malgrado ciò non aveva potuto evitare di
provare una vaga impazienza. Di poter mandare a scuola le bambine,
di poterle tenere con sé più a lungo. Impazienza di potersi stabilire in
città e avere la possibilità di andare ai concerti, di vedere
rappresentazioni teatrali, di potersi procurare più libri. Ormai sono
capace di leggere testi in inglese, aveva scritto a Pétur, fiera, circa un
anno più tardi.
Tutto era sprofondato e lei si trovava sul ponte, a gambe larghe
per non perdere l’equilibrio, incinta di cinque mesi.
La prima parola che ha detto è stata «mamma» e non «mom»,
aveva scritto a Pétur, e ne sono stata felice. Ecco che aspetto
abbiamo adesso, madre e figlio, aveva aggiunto, accompagnando
alla lettera una fotografia che la ritraeva insieme al piccolo Jón.
Guardo così spesso questa foto che sto diventando cieco, le
aveva risposto lui.

Ti bacio e staremo sempre insieme.


Amore mio, allora sei qui, aveva detto Pétur felice quando
Guðríður gli aveva fatto visita una notte, molto tempo dopo. Quasi
trent’anni dopo.
Sì, non ti ricordi, ti ho promesso che sarei venuta da te una volta
morta. E adesso starò sempre con te.
Ti bacio e staremo sempre insieme.

E così vanno le cose, dice il conducente d’autobus.


Si è alzato e d’un tratto sembra grande quanto tutto quello che non
capisco. Te ne stai andando, gli chiedo; restano da chiarire ancora
tante cose, ci sono ancora tante domande senza risposta. Tanti
interrogativi. Che ne è di Svana, la madre di Eiríkur, e che ne è di…
Ma è ovvio che restano da chiarire tante cose, che ci sono ancora
tante domande. Deve essere così. Lo sai bene quanto me. Altrimenti
non avremmo alcun motivo per continuare.

Rúna si ferma, spegne il motore, guarda sua sorella sorridendo.


Eiríkur si alza, i nostri sguardi si incrociano, e così può avere inizio.
La festa a cui nessuno vuol mancare, i vivi come i morti. La birra ha
avuto tutto il tempo di ghiacciarsi nel ruscello. La playlist della Morte
è pronta. Non ci resta che vivere.
E staremo sempre insieme.
Playlist della Morte

Bob Dylan, It’s All Over Now, Baby Blue, © Sony/ATV Music Publishing LLC

Ellý Vilhjálms, Vegir liggja til allra átta, testo di Indriði Guðmundur Þorsteinsson, © Sena

Haukur Morthens, Fyrir átta árum, testo di Einar Markan, Tómas Guðmundsson, © Íslenskir
Tónar

Leonard Cohen, One of Us Cannot Be Wrong,

© Sony/ATV Music Publishing LLC

Nas, No Introduction, testo di Erik Ortiz, Kevin Crowe, Kenny Bartolomei, Nasir Jones, ©
Warner Chappell Music, Inc., Universal Music Publishing Group

Damien Rice, It Takes a Lot to Know a Man, testo di Brian Kelley, Chase Rice, Jesse Rice, ©
Warner Chappell Music, Inc.

Nick Cave, The Train Song, testo di John Samuel Carter, James Clay Fuller, Russell Black III
Jones, Charles Clarence Pruet, Michael Ashok Sain, © Universal Music Publishing Group

GDRN, Þarf þig, © Alda Music

The Beatles, I Don’t Want to Spoil the Party, testo di John Lennon, Paul McCartney, ©
Sony/ATV Music Publishing LLC

Regina Spektor, Summer in the City, © Sony/ATV Music Publishing LLC

Tom Waits, Broken Bicycles, © Zoetrope Music Co., Fifth Floor Music, Inc.

Bubbi Morthens, Í hjarta mér, © Sena

Pixies, Where Is My Mind, testo di Charles Thompson, © Universal Music Publishing Group

AZ, S.O.S.A., album autoprodotto

Elvis Presley, Suppose, testo di George Goehring, Sylvia Dee, © Kobalt Music Publishing
Ltd., Raleigh Music Publishing

Elvis Presley, Can’t Help Falling in Love, testo di George Weiss, Hugo Peretti, Luigi
Creatore, © Kobalt Music Publishing Ltd.
Madvillainy, Accordion, testo di Daniel Thompson Dumile, Jackson Otis Lee, © Madlib
Invazion Music, Lord Dihoo Music

John Coltrane & Duke Ellington, In a Sentimental Mood, testo di Duke Ellington, Irving Mills,
Manny Kurtz, © Impulse!

XXX Rottweiler hundar, Vaknaðu, © XXX Rottweiler hundar

Ella Fitzgerald, I Love Paris, testo di Cole Porter,

© Warner Chappell Music, Inc.

Bubbi Morthens, Afghan, © Steinar

Mac Miller, Good News, testo di Jon Brion, Malcolm McCormick, © Kobalt Music Publishing
Ltd., Universal Music Publishing Group

Johann Sebastian Bach, Pastorale in Fa maggiore

The Beatles, I’ll Follow the Sun, testo di John Lennon, Paul McCartney, © MPL
Communications Inc.

Derek & The Dominos, Bell Bottom Blues, testo di Eric Clapton, Bobby Whitlock, © Warner
Chappell Music, Inc.

David Bowie, Rock’n Roll Suicide, testo di David Bowie, Jorge Seu, © Tintoretto Music,
Chrysalis Music Ltd.

Pink Floyd, Your Possible Pasts, testo di George Roger Waters, © BMG Rights Management

Etta James, I’d Rather Go Blind, testo di Ellington Jordan, Billy Foster, © Arc Music, Arc
Music Corp

Olga Guðrún, Eniga meniga, © Spor

Paul McCartney, My Love, testo di Paul McCartney, Linda McCartney, © Sony/ATV Songs
LLC, Warner Chappell Music Canada Ltd., Sparko Phone Music, Sony/ATV Ballad,
Bulbyyork Music, Songs Of Hear The Art, Nyankingmusic, MPL Communications Inc., 23rd
Precinct Music Ltd.

Morrissey, All the Lazy Dykes, testo di Steven Morrissey, Alain Whyte, © Artemis
Muziekuitgeverij B.v., Universal Music Publishing Ltd.

The Beatles, Real Love, testo di George Harrison, John Lennon, Paul McCartney, ©
Parlophone EMI

Amy Winehouse, Back to Black, testo di Amy Winehouse, Mark Daniel Ronson, © Emi Music
Publishing Ltd.

The Cure, The Same Deep Water as You, testo di Laurence Andrew Tolhurst, Robert James
Smith, Simon Gallup, Roger O’Donnell, Boris Williams, Porl Thompson, © Fiction Songs Ltd.
David Bowie, Ashes to Ashes, © Sony/ATV Music Publishing LLC, Songtrust Ave, Tintoretto
Music

Édith Piaf, Non, je ne regrette rien, testo di Charles Dumont, Michel Vaucaire, © Peermusic
Publishing, Semi, Reservoir Media Management Inc.

Paul McCartney & David Gilmour, Lonesome Town, testo di Baker Knight, © Parlophone

Nina Simone, Just Say I Love Him, testo di Sam Ward, Rodolfo Falvo, Martin Kalmanoff,
Jimmy Dale, Jack Val, © Colpix Records

Chet Baker, My Funny Valentine, testo di Richard Rodgers, Lorenz Hart, © Pacific Jazz
Records

The Kinks, You Really Got Me, testo di Ray Davies, © Edward Kassner Music Co. Ltd.

Nick Cave, Stranger Than Kindness, testo di Anita Lane, Blixa Bargeld, © Freibank
Musikverlags und vermarktungs GmbH

Miles Davis & Bill Evans, Blue in Green, © Columbia Records

Tom Waits, Yesterday Is Here, testo di Kathleen Brennan, Tom Waits, © Peermusic
Publishing, Jalma Music

Damso, Mosaïque solitaire, testo di Gaetano Antonio Toscano, Kevin Eddy Kali, Mounir
Houllich, Soriba Konde, William Kalubi, © Universal Music Publishing Group

Paul McCartney, Scared, © Virgin EMI Records, HearMusic

Bob Dylan, Love Sick, © Columbia Records

Billie Holiday, I’m a Fool to Want You, testo di Frank Sinatra, Jack Wolf, Joel Herron, Taito
Vainio, © Columbia Records

UGK, One Day, testo di Mr. 3-2, Chris Jasper, Rudolph Isley, Ronald Isley, O’Kelly Isley,
Marvin Isley, Ernie Isley, Bun B & Pimp, © Jive

Bruce Springsteen, Something in the Night, © Universal Music Publishing Group

Erik Satie, Gymnopédies

Bruce Springsteen, Hello Sunshine, © Universal Music Publishing Group

Kanye West, Say You Will, testo di Jeff Bhasker, Benjamin Mcildowie, Kanye Omari West,
Malik Yusef El Shaba Jones, Dexter Mills, Jay W. Jenkins, © Universal Music Publishing Ltd.,
Emi Blackwood Music Inc., Universal Music Corp., Sony/ATV Songs LLC, Way Above Music,
Ultra Empire Music, Jabriel Iz Myne, Young Jeezy Music Inc., Ultra Empire Music (bmi), Get
Ya Frog On Publishing, Please Gimme My Publishing Inc.

Paul McCartney, Do It Now, © MPL Communications Inc.


Sommario

LA TUA ASSENZA È TENEBRA

Racconta la mia storia e io avrò di nuovo

un nome, o in altre parole:

il primo ostacolo

Sei morto,

pertanto hai fatto più strada

Miss you baby, sometimes;

l’essere umano ha inventato il diavolo

per portare i propri peccati

Qui la primavera arriva tardi

come all’inferno, ma Signore mio,

castigami – sono così felice di essere venuto

Alcune persone sono pali di un recinto,

altre creano playlist per la Morte

Non riesco proprio a immaginare

la mia vita senza di te

Non prendi decisioni, e ti paralizzi

Adesso non so più se oso esistere


Ricordati di me,

e i demoni si allontaneranno

A volte menti e tradisci per amore

Intermezzo sul contesto, sulle

responsabilità e su una casa in fiamme

I mondi si mescolano

A volte la vita è così difficile

che si vede anche dalla luna

Ciò che non comprendiamo

rende il mondo più ampio

Playlist della Morte


La traduttrice: Silvia Cosimini

Nata a Montecatini Terme (PT) nel 1966, si laurea in filologia


germanica a Firenze e nello stesso anno si trasferisce in Islanda per
un progetto di ricerca all’Istituto Arnamagnæano, laureandosi in
lingua e cultura islandese all’Università di Reykjavík con una tesi
sulla traduzione. In Italia frequenta il Master in traduzione letteraria
della Ca’ Foscari di Venezia e il corso di specializzazione «Tradurre
la Letteratura» della SSIT di Misano Adriatico. Da più di vent’anni si
dedica esclusivamente alla traduzione e alla promozione della
letteratura islandese contemporanea e medievale: ha tradotto autori
quali Halldór Laxness, Thor Vilhjálmsson, Guðbergur Bergsson,
Arnaldur Indriðason, Hallgrímur Helgason, Jón Kalman Stefánsson,
Andri Snær Magnason e molti altri. Nel 2011 le è stato assegnato il
premio nazionale per la traduzione dal Ministero dei Beni e delle
Attività Culturali, e nel 2019 il premio Orðstír dal presidente della
Repubblica islandese. È tutor didattico presso il dipartimento di
Filologia Germanica dell’Università degli Studi di Bologna e docente
a contratto di lingua e letteratura islandese all’Università Statale di
Milano.

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