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In copertina:
© Emiliano Ponzi
Progetto grafico:
XxYstudio
Jón Kalman Stefánsson
LA TUA ASSENZA
È TENEBRA
Traduzione di
Silvia Cosimini
Titolo originale:
Fjarvera þín er myrkur
Traduzione dall’islandese di
Silvia Cosimini
www.iperborea.com
ISBN 978-88-7091-895-3
LA TUA ASSENZA È TENEBRA
Racconta la mia storia
o in altre parole:
il primo ostacolo
Le cose davvero importanti ti lasciano addosso un segno indelebile,
sentimenti profondi, esperienze difficili, traumi, felicità intensa; dolori
o violenze che colpiscono la società o il tuo mondo possono
penetrarti dentro a una profondità tale da inscriversi nei geni, che poi
li tramandano di generazione in generazione, forgiando così chi
ancora non è nato. È una legge di natura. I geni trasportano le
sensazioni, i ricordi, le esperienze e i traumi da una vita all’altra, e in
questo modo alcuni di noi esistono ben oltre la loro dipartita, ben
dopo essere stati dimenticati del tutto. Il passato, pertanto, ce lo
portiamo costantemente dentro. È un continente invisibile, misterioso,
che talvolta si lascia percepire tra il sonno e la veglia. Un continente
con rilievi montuosi e distese marine che influiscono in maniera
stabile sul clima e sulle variazioni di luce che abbiamo in noi.
qualche conforto
Mi volto per dare uno sguardo alle mie spalle e vedo un uomo seduto
a un’estremità dell’ultima panca, accanto a un’asta di bandiera fatta
di un legno segnato dalle intemperie, appoggiata di traverso su
cinque file di panche. Magro, direi di mezza età, il volto scavato, una
calvizie incipiente, rughe evidenti sulla fronte. E mi osserva con uno
sguardo sardonico.
Forse sono morto.
Che sia così che succede? Tutto si spegne, l’essere si prosciuga, e
ti risvegli in una piccola chiesa con il diavolo seduto qualche fila
dietro di te, che è venuto per reclamare la tua anima.
Mi volto di nuovo a guardare. No, non può essere il maligno in
persona. Eppure qualcosa nel suo modo di fare mi dice che conosce
bene queste zone. Mi volto di fianco, lo guardo dritto in faccia, mi
schiarisco la gola: Scusa, sei il pastore, per caso?
e io sono vivo
la mia storia io
ritroverò il mio?
La Volvo percorre la stretta strada sterrata e piena di buche che
passa un centinaio di metri sopra la costa, abbastanza dritta ma con
diverse curve a gomito, entrambi i versanti si fanno più verdi a mano
a mano che mi addentro verso l’interno del fiordo – che si rivela più
profondo di quanto mi era sembrato dal cimitero.
Sto andando all’albergo dove a Sóley «prenderà un colpo»
quando mi vedrà. A dire il vero non so dove sia l’albergo, né che
aspetto abbia questa Sóley. Eppure dovrei trovarlo senza difficoltà, il
fiordo è poco popolato e un edificio di grandi dimensioni salta
sicuramente agli occhi. Qui abitano solo trentasei anime.
Di cui sei bambini, mi ha detto la donna. Non è una buona
percentuale.
Il primo ostacolo?
It’s all over now, baby blue –
Aldís era venuta fin quassù nel Nord per fare l’amore con il suo
fidanzato nella piscina di Krossnes. Aveva diciannove anni, si era
appena diplomata al liceo di Reykjavík quella primavera e in autunno
sarebbe andata all’università. Non era nei piani fermarsi in questo
fiordo. Né lei né il suo innamorato si erano dati la pena di informarsi
se avesse un nome. La piscina di Krossnes, situata circa cento
chilometri più a nord, «vasca esterna in cemento, in prossimità della
riva del mare, 12 x 6 m di superficie», era stata l’unica meta di
quell’itinerario. Era un viaggio di fidanzamento. Ólína, la madre di
Aldís, aveva organizzato per loro una grande festa nella casa di
Laugarás, e con ogni probabilità sarebbe stata l’ultima festa in quella
dimora; il padre di Aldís era morto di tumore l’autunno precedente e
la casa era stata messa in vendita.
La giovane coppia aveva sentito dire che la piscina di Krossnes
era in un punto isolato e lontano da qualsiasi centro abitato, proprio di
fronte al mare aperto, e che talvolta era perfino chiamata «la piscina
alla fine del mondo», e non solo: si diceva possedesse anche una
forza misteriosa. Quindi avevano fatto tutto quel tragitto fino al Nord,
otto ore su strade non sempre ben messe, soltanto per poter fare
l’amore di fronte alla potenza tumultuosa dell’Artico, avvolti dal calore
dell’acqua della piscina. Doveva essere una sorta di iniziazione, e
allo stesso tempo un appello o un voto al destino perché la loro vita
insieme fosse sempre così, pervasa della forza dell’oceano e avvolta
dal calore dell’amore.
Ma ecco che forano una gomma dell’auto. Venti chilometri a sud
della fattoria di Nes. A cento chilometri dalla piscina. E il cric è rotto.
Per il resto è una splendida giornata estiva, una brezza leggera,
quattordici gradi di temperatura, la vegetazione secca e frusciante, il
fiordo fragrante di fieno, profumato di mare.
Ma in casa a Nes non c’era nessuno.
La madre di Haraldur era andata alla fattoria di Oddi con uno dei due
trattori per prendere l’imballatrice che le due tenute avevano
comperato insieme, e per farsi prestare uno dei due figli, Halldór
oppure Páll il troll, per poter completare entro sera la raccolta del
fieno sull’appezzamento di terreno più grande – appezzamento che
Haraldur falciava a bordo dello Zetor rosso, con le porte della cabina
nuova fiammante spalancate nel sole e le Greatest Hits di Bob Dylan
a tutto volume sul registratore, quando la giovane coppia di Reykjavík
era sopraggiunta camminando lungo lo sfalcio e aveva riconosciuto
un brano famoso in sottofondo al rumore del voltafieno.
Un campagnolo che ascolta Dylan! E io che credevo non lo
conoscesse nessuno più su di Borgarnes, figuriamoci in questo buco
di culo, disse il fidanzato di Aldís, Jóhannes, stupefatto e non del tutto
privo di un filo di ammirazione mentre osservavano dal campo il
contadino impegnato nel suo lavoro. Il fieno era talmente secco che
Haraldur aveva difficoltà a distinguere le andane l’una dall’altra ma gli
piaceva starsene da solo, e il brano It’s All Over Now, Baby Blue era
appena iniziato quando vide quei due sconosciuti nel campo,
accerchiati dalla curiosità dei cani della fattoria vicina. Era chiaro dal
loro abbigliamento, e dal modo in cui il giovane interagiva con i cani,
rigido e quasi riluttante nei confronti del loro entusiasmo e del loro
interesse, che venivano dal Sud. Haraldur aveva sospirato, aveva
invertito il senso di marcia e con lo Zetor si era diretto verso quei due
mentre Dylan continuava a cantare sotto lo sferragliare del voltafieno
e il rombo rauco del motore: Leave your stepping stones behind now,
something calls for you, forget the dead you’ve left, they will not follow
you.
Gran bel pezzo, aveva detto Jóhannes quando Haraldur, fermato il
voltafieno e spento il motore, era sceso dal trattore; snello, la pelle
abbronzata, i jeans blu, non si era dato la pena di riabbottonarsi la
camicia a quadretti, che sventolava.
Gran bel pezzo.
Haraldur non aveva risposto, aveva abbassato lo sguardo per
celare la propria sorpresa. Non succedeva certo tutti i giorni che degli
sconosciuti, figuriamoci poi se venivano da Reykjavík, finissero tra i
campi falciati di Nes. Aveva alzato la testa dopo averli raggiunti e si
era scostato distrattamente il ciuffo di capelli dalla fronte.
Credo che siano state tre cose a conquistarmi, avrebbe raccontato
Aldís alle figlie, più di una volta: il modo in cui vostro padre era sceso
dallo Zetor, come si era scostato il ciuffo dalla fronte e poi come mi
aveva guardata, un’occhiata rapida, intensa e sfrontata, quando
aveva alzato l’auto con il suo cric e il povero Jóhannes si era messo a
cambiare la ruota.
Ólína, la madre di Aldís, aveva già capito che c’era qualcosa di strano
quando sua figlia tornò dal viaggio di fidanzamento distratta e in uno
stato di grande agitazione; si era chiusa nella sua stanza, rispondeva
di rado alle telefonate di Jóhannes, mangiava a malapena; il quarto
giorno crollò tra le braccia di sua madre.
All’inizio non fece altro che piangere, poi a poco a poco le uscì
dalla bocca – all’inizio solo frasi sconnesse, che alla fine si
allinearono – che non riusciva a smettere di pensare a quel
contadino, di cui però non sapeva niente. A parte che si chiamava
Haraldur, che ascoltava Bob Dylan, che aveva gli occhi di un azzurro
assurdo. Eppure era convinta di essere felice, pensava di non vedere
l’ora di cominciare una vita con Jóhannes, di avere una bella casa
con lui, tre figli, di visitare paesi lontani. Ma in un istante sembrava
che le avessero strappato via tutto – si trovava sull’orlo di un
precipizio e l’unica cosa che aveva voglia di fare era buttarsi di sotto.
Devo essere diventata pazza, mamma. Penso soltanto a come mi
guardava, con quegli occhi che si ritrova. Sono ossessionata dal
pensiero di tornare da lui, e… ed è da stupidi, ovvio. Perché dovrei
farlo? Mi renderei ridicola. E poi è un contadino. Ed è inconcepibile
che io abbia voglia di vivere lassù, lontano da tutto. E invece non
riesco a pensare ad altro. Mi sembra di essere sul punto di perdere la
ragione. Non sono mai stata così male. E non sono mai stata così
felice!
Ovvio che Ólína sapesse bene che cosa fare – ricordare ad Aldís
le sue responsabilità, ricordarle quant’era felice di essere la fidanzata
di un giovane così promettente, un ragazzo bravo e affidabile, che
l’amava più di ogni altra cosa e che avrebbe fatto di tutto per lei; e
che l’avrebbe portata con sé a New York, dove studiava il fratello di
Aldís. Ci avrebbe pensato la metropoli a prosciugare l’effetto del
contadino in quella valle isolata.
Ma nelle ultime settimane Ólína stava preparando il trasloco in una
casa più piccola e aveva dovuto passare in rassegna tutto ciò che si
era accumulato intorno alle loro vite, sua e di suo marito, in trent’anni
di matrimonio. Aveva raccolto fotografie, lettere, vestiti, libri… chi per
qualche motivo deve smontare pezzo per pezzo la propria casa, si
ritrova a toccare con mano i propri ricordi, rivive una seconda volta la
propria esistenza e la mette sul piatto di una bilancia. È evidente che
Ólína ha avuto una vita bella, perfino invidiabile. Ma non ha mai
amato Þorvaldur, suo marito, il padre dei suoi figli.
Ha smontato pezzo per pezzo la propria esistenza, ha sezionato il
passato, a volte sente la mancanza della compagnia di Þorvaldur. Ha
avuto una bella vita; eppure si sente come se l’avessero privata di
qualcosa; si vergogna di aver fretta di vivere senza di lui; e poi Aldís
piange tra le sue braccia.
Piange e vaneggia, come in un delirio, di un certo contadino che
l’ha guardata con degli occhi straordinariamente azzurri e tutto è
cambiato. Che lei e Jóhannes hanno proseguito il viaggio, che lui era
così felice e lei come paralizzata, sentiva se stessa rispondergli e poi
sorridergli quando riteneva che fosse il momento appropriato. Erano
arrivati alla piscina, avevano fatto l’amore… e mamma, a quel punto
ho capito che non lo amavo, che non l’avevo mai amato, che non
l’avrei mai amato. Voglio un mondo di bene a Jóhannes, è un
bravissimo ragazzo e farebbe qualsiasi cosa per me. Ma io non
riesco ad amarlo. Sono davvero cattiva. Forse credevo che amare
con tanta passione non fosse necessario. Sì, probabilmente credevo
che troppo amore mi avrebbe reso indifesa, confusa, irresponsabile.
E invece guardami adesso, mamma! È ridicolo. È così ridicolo, è
assurdo. Sono passati cinque giorni e non riesco quasi a respirare.
Allora è questo, l’amore, è così stupido, cieco e perfettamente irreale
– pensa davvero che mi importi di amare un contadino in chissà
quale fiordo orrendo alla fine del mondo? È stupido. Credo di dover
tornare da lui.
Invece di provare a far ragionare Aldís, disperata, in un tale stato di
agitazione che è del tutto incapace di riflettere con chiarezza e poi
comprare un biglietto per il primo volo per New York, due giorni dopo
di primo mattino Ólína accompagna sua figlia alla stazione delle
corriere.
Devi avere l’opportunità, le dice, che alcune donne non hanno mai,
o non hanno la forza né il coraggio di cercare; l’opportunità di
costruire da sola il tuo destino. Vai lassù nel Nord, va’ a vedere che
cosa ti aspetta. Puoi sempre tornare indietro. Magari scoprirai che
era soltanto uno stupido sogno, ma fa lo stesso. Si impara di più dagli
errori. E bisogna andare, per avere la possibilità di tornare indietro.
Diede ad Aldís del denaro e due libri che aveva appena letto
insieme al suo gruppo di lettura. Libri che l’avevano toccata mentre
preparava il trasloco e l’avevano indotta a ripensare da capo alla sua
esistenza. Una raccolta di poesie di Pablo Neruda, Venti poesie
d’amore e una canzone disperata, e un nuovo romanzo di un giovane
autore inglese, John Fowles, La donna del tenente francese. Pioveva
quella mattina, tirava vento, Ólína era rimasta accostata contro il
muro dell’autostazione, si era tenuta le mani sul cuore e aveva
mandato un bacio a sua figlia sulla punta delle dita quando la corriera
si era lentamente avviata. Incontro all’incertezza.
Haraldur sta caricando sul carro del fieno i tronchi di legno portati a
riva dalla mareggiata per farli seccare durante l’inverno nella grande
rimessa dei macchinari agricoli quando Aldís arriva con i due
contadini di Oddi. Loro spariscono subito in casa da sua mamma per
un caffè, e lasciano i due giovani nelle mani del destino.
Haraldur risale lungo la lingua di terra a bordo del suo Zetor, la
portiera è spalancata e un giovane musicista canadese, Leonard
Cohen, canta un brano del suo primo disco, I showed my heart to the
doctor, he said I’d just have to quit, then he wrote himself a
prescription, and your name was mentioned in it. Imbocca lo sterrato
d’accesso alla fattoria, guarda Aldís che è in piedi accanto all’alto
muro del cimitero, poi porta il carro a marcia indietro fino alla rimessa,
ferma il motore del trattore, spegne la musica, scende.
Avete forato di nuovo, le chiede.
La ragazza indossa un cappotto molto bello. Probabilmente qui in
campagna non si è mai visto nessuno con un cappotto così bello, o
con degli stivali neri di pelle così eleganti.
Avete forato di nuovo?
Lei si morde un labbro e il cuore le batte con una tale forza che le
fa quasi male il petto. Forse è stato tutto uno stupido, umiliante
malinteso; quell’istante, il suo sguardo, quello che pensava di aver
percepito nel contadino, la sua disinvoltura, la sua tristezza. Forse lui
l’aveva semplicemente guardata sovrappensiero, come capita
spesso, senza intenzione. Forse l’aveva guardata con lascivia,
magari è un bifolco a cui non interessa nient’altro che parlare di
fienagione, della salute delle bestie, del prezzo degli agnelli. Forse gli
interessava solo l’idea di prenderla da dietro contro il muro del
cimitero. Alzarle il vestito, ordinarle di mettersi carponi e poi
prenderla, come fanno le bestie. Forse i suoi occhi non erano affatto
così azzurri come li ricordava.
Lui sta in piedi, dritto, a circa due metri da lei, una sterna stride
verso l’estremità della lingua di terra, i due cani, che l’avevano
seguito dopo aver annusato Aldís a dovere, ora si sono fermati in
mezzo a loro e li guardano a turno, come se chiedessero: e adesso?
Haraldur si scosta i capelli, avete forato di nuovo, e visto che la
ragazza non risponde subito aggiunge: mi chiamo Haraldur, a
proposito.
Allora lei si morde il labbro inferiore, del tutto inconsapevole
dell’effetto che produce sul giovane contadino. Adesso usa la testa,
ragazza, si impone mentalmente, ma poi ricorda che cosa le ha detto
la moglie del contadino, Hafrún, che la vita morirebbe di noia se i
giovani non facessero mai qualche follia.
Lo so che ti chiami Haraldur, dice, e spera che la voce non tremi
troppo. Non l’ho dimenticato. No, non ho forato. Sono venuta con la
corriera. Era la prima volta che prendevo una corriera. È stato un
viaggio spaventosamente lungo e non avevo niente per passare il
tempo se non la pioggia, un romanzo inglese e un libro di poesie
sudamericane sull’amore e la disperazione. Di Neruda. L’hai letto?
Oppure il romanzo, La donna del tenente francese? La mamma dice
di non aver mai letto niente di meglio, e guarda che lei legge tanto.
Scusami, ma sono stata costretta a tornare. Soprattutto per chiederti
come mai mi hai guardata in quel modo. Lo so che è una domanda
stupida. Sei scandalizzato dal mio comportamento? In tal caso
possono ospitarmi i contadini di Oddi, poi prendo la prima corriera e
me ne torno a casa. Non devi preoccuparti per me. Non hai bisogno
di dimostrarmi nessuna premura. Qualcuno ti ha mai detto che hai
degli occhi di un azzurro incredibile? A proposito, io mi chiamo Aldís.
Ci possiamo sedere da qualche parte? Perché credo che dovremmo
parlare. Quella fattoressa gentile, Hafrún, mi ha regalato una bottiglia
di brennivín. Si dice così, fattoressa? È la prima volta che parlo con
persone di campagna. A volte bisogna sciogliere la lingua, alla gente
di campagna, mi ha detto. Però ecco, io non so che tipo di persona
sei. Forse mi permetto di parlarti così perché ascoltavi Bob Dylan, e
adesso Leonard Cohen, e oltretutto la mia canzone preferita. Non
c’era bisogno, sai. Però adesso sono qui e devo sapere chi sei.
Dovremo berci la bottiglia intera, secondo te?
Haraldur si scosta il ciuffo di capelli dagli occhi e sorride, il cuore di
Aldís ha un sussulto improvviso, poi con un cenno del capo indica il
cimitero e dice, so di un ottimo posto per stappare quella bottiglia. Ma
non so quanto dovremo bere. Hai tempo? Sono molto felice di
rivederti.
dietro a un camion,
Forse non esiste nessuna finalità, se non quella che noi stessi ci
inventiamo.
Il binario, la nostalgia
Procedo così lentamente lungo la strada che sembra sia diretto verso
una tomba anonima, dove nessuno farà una visita né verrà mai a
trovarmi, dove nessuno potrà rintracciarmi… tranne quella canzone,
quel ritornello, e la nostalgia che mette in ginocchio perfino la morte.
Sì, passano per questa strada due volte a settimana, corrono come
pazzi, senza riguardo come i più estremisti dei liberali – si vede che
hanno molta fretta di arrivare a destinazione. In due occasioni hanno
investito i cuccioli del mio Eiríkur di Oddi, tre border collie di razza.
Due la prima volta, uno la seconda, li hanno proprio spappolati.
Rimarresti sconvolto vedendo come possono ridurre un cucciolo di
cane dodici grossi pneumatici di un camion a gran velocità. Ne hanno
lasciato solo delle chiazze stampate sull’asfalto, niente che
ricordasse una vita, figuriamoci l’allegria di un cucciolo. Passano di
qui e seminano la morte, aveva detto Eiríkur, infuriato e triste, e il
responsabile del cantiere lo accusa di aver sparato per vendetta
contro i suoi camion. Eiríkur era talmente sbronzo dopo mezza
bottiglia di Calvados che era più probabile che beccasse la luna,
invece che quei camion, eppure adesso ha una denuncia a carico e
rischia la prigione. In questo momento non ricordo se la rischia per
aver sparato a un camion oppure per averlo mancato… comunque,
non ti fidare troppo di quel che dico, e men che meno di Eiríkur per
quel che riguarda questa faccenda, è un grande amante degli animali
e quei cuccioli erano quasi come suoi figli, quindi ha reagito con tutta
la rabbia che aveva dentro. E non è tutto… gli ho chiesto se pensava
di sparare al destino piuttosto che a quei camion, e lui si è messo a
ridere. Come ho detto, non prendermi troppo sul serio; ti ricordi come
sono fatta. E purtroppo non sono migliorata tanto, anche se sono
passati anni. Si dice spesso che l’età fa maturare le persone. Io non
me ne sono accorta, né per quanto riguarda me né gli altri. L’età
tranquillizza, in alcuni casi, certo, ti rende più fiacco. Soffoca
l’entusiasmo. Ma se è questo che si intende per maturità, allora prego
Dio che mi conceda di maturare tardi, e nemmeno del tutto… su, fatti
una bella birra, vedo che ci sei rimasto male.
Halldór e Páll, i figli di Skúli. Ricordati i loro nomi e per il resto non ti
soffermare su questi due, almeno non per il momento, li citiamo e
quasi contemporaneamente svaniscono di nuovo nell’ombra, restano
sullo sfondo, da lì ci osservano e faranno un passo avanti solo
quando saranno interpellati. È stato il più anziano dei due fratelli, il
primo, che si è incaricato di costruire la casa, un uomo pieno di senso
pratico, ha preso dai genitori. Hafrún, la madre, era nata in una
vecchia casa di torba che sorgeva nei pressi del fiume che scorre
lento tra due argini erbosi. Un fiume di buon carattere, se si
tralasciano tre o quattro accessi di rabbia all’anno, durante il disgelo,
quando spacca il ghiaccio che lo copre o si riscalda rapidamente e la
pioggia si riversa con foga sulla neve in montagna, dove nascono tutti
i fiumi; allora non rispetta gli argini, esonda su campi, prati, greti,
boschetti, smanioso di far danni. Ma in estate è benevolo e sognante.
Talmente benevolo che si direbbe si voglia prendere cura del
salmone che vi depone le uova, come se gli volesse bene, come se
non volesse rovinare le uova, né rovistarvi in mezzo. Forse
semplicemente gli piace sentire il salmone nuotare nel suo ventre.
Forse i suoi movimenti sono carezze morbide che gli danno
tranquillità. Proprio a causa di quegli accessi d’ira stagionali la
vecchia fattoria si trovava a circa cento metri dalla sponda del fiume,
un casale di torba costruito nel 1900, i ruderi ancora visibili dalla
strada, e Hafrún era nata lì. Un nome insolito, come lei, una delle
perle di questa campagna.
Era nata all’inizio degli anni Trenta, in un casale che aveva ben
poco in comune con il loro secolo inquieto, un casale di torba, pietra,
legname portato dalle mareggiate. Spesso diceva anche che il suo
nome era diviso in due, Haf, il mare, e Rún, le rune, per sottolineare
che era figlia di due epoche, di un antico passato, con radici profonde
nell’immobilismo, negli impedimenti, ma anche nella vicinanza tra le
persone, e dei nuovi tempi, del XX secolo, che sicuramente non era
scevro da difficoltà ma «immobilismo» era l’ultima parola che veniva
in mente per descriverlo. A essere più precisi, il XX secolo non aveva
ancora fatto tutta la strada per raggiungere il nord dell’Islanda, e men
che meno era arrivato qui nel fiordo, dietro a cento brughiere e monti
scoscesi, quando Hafrún era nata in una linda casupola di torba in cui
la luce faticava a entrare. Ci sono pregi e difetti nel vivere lontano da
tutti, perché i cambiamenti non avvengono con la stessa rapidità. La
Rivoluzione industriale aveva trasformato completamente l’Europa
nel XIX secolo, i binari ferroviari avevano inciso il continente per
collegarlo, le città si erano espanse, le fabbriche erano cresciute più
velocemente delle erbacce producendo profitti vertiginosi e fino ad
allora sconosciuti, benessere, inquinamento, attività, schiavitù e
stridenti ingiustizie. Ma in Islanda il tempo non si era quasi mosso per
cento anni, era rimasto fermo come una natura morta, per gran parte
del XIX secolo a malapena si era spostato, sembrava proprio che
vivessimo su un altro pianeta; nel resto d’Europa e in America si
costruivano fabbriche e città, i treni diventavano sempre più veloci, le
armi da fuoco più precise, mentre qui non si scomodavano nemmeno
gli uccelli, continuavamo a essere un popolo con scarpe malconce, i
piedi sempre fradici, continuavamo a lavorare negli stessi ovili bui,
nei fienili bassi, falciavamo i campi con gli stessi metodi millenari.
L’immobilismo cementava insieme i secoli e le generazioni tracciando
una linea ininterrotta mentre nel resto del mondo tutto cadeva a
pezzi, si disgregava, il nucleo delle cose si stava perdendo e non
restava che l’incertezza che ha spinto in avanti il mondo per quasi
due secoli. Qui da noi, in mezzo a questa natura tormentata,
dinamica, perpetuamente in movimento, l’immobilismo ci ha legati gli
uni agli altri, da sempre.
Accidenti, è incredibile, direi quasi un miracolo, diceva Skúli, che
questa nazione non sia soffocata da tempo sotto il peso dell’inedia,
che non sia marcita in questa maledetta inerzia.
Skúli aveva quasi due anni meno di sua moglie. Era nato in una casa
di legno nell’Ovest, a Rif, in un piccolo agglomerato costiero
sull’estremità della penisola di Snæfellsnes, o forse a Hellissandur,
impossibile ricordare tutto, o distinguere tra questi due piccoli porti
che si ergono così vicini l’uno all’altro, quando non si conosce bene la
zona. L’unico punto fermo nella sua esistenza era il ghiacciaio, che in
certe giornate non si stagliava contro il cielo ma sembrava
letteralmente sorreggerlo, come fosse un tetto. Aveva sette o otto
anni quando era arrivato in questo fiordo insieme al postino, come un
pacco qualsiasi. Questo è un tipo tosto, aveva detto il postino
recapitando Skúli a Botn. Uno tosto, però con lo sguardo tenero,
aveva risposto allora la padrona di casa, che gli aveva fatto da
madre. Il padre di Skúli era il figlio… No, scusa. Stiamo andando
troppo di fretta. Non siamo ancora arrivati a suo padre, anzi,
nemmeno a Hafrún e Skúli, un errore saltare subito a loro.
Ma forse sono proprio gli errori che rimettono in ordine la vita.
Adesso occupiamoci del lombrico.
Non è un bell’esempio
Che dire?
Mi rivolgo a Dio con disperazione e amore – lui mi risponde con la
morte.
Mi rivolgo a te con disperazione e amicizia – tu mi rispondi con la
solitudine!
È certo bello da parte tua, sei immenso come poeta, ma non è
certo un bell’esempio consolare un amico con la solitudine, per
quanto con versi ben composti.
Non è un bell’esempio.
Pétur scrive a un poeta tedesco che riposa nella tomba da decine
di anni, è morto prima che lui nascesse. Gli scrive delle lettere,
qualche giorno dopo le infila in un cofanetto blu sotto la branda.
Forse non è un esempio da seguire. Solo il buio può trasportare le
parole da un mondo all’altro, ma non si accolla il lavoro del postino.
Del resto, non è che i morti abbiano un indirizzo registrato. Sono al di
fuori di qualsiasi codice postale.
Non sto bene, poeta, gli ha appena confidato Pétur, ma mi
conforta scriverti. Mi sento sempre meglio quando siamo insieme, ho
l’impressione di trovarmi sul confine tra la vita e la morte e di poter
osservare entrambi i mondi. Mi avvicino a Eva e spero che senta la
mia presenza. Adesso devo lasciarti, per il momento. Mi attende la
lettura di un articolo, e della lettera che lo accompagna. Da una
donna del volgo. Chissà che divertimento. Perché dovrebbe essere
un divertimento? Capisci bene che sono stato costretto a finire la
bottiglia. E così ne restano solo due. La vita è davvero una prova,
poeta, davvero una prova, almeno per noi che abbiamo la sventura di
essere vivi. Tu sei morto, pertanto hai fatto più strada. Ti prego di
scusarmi, però non allontanarti troppo.
Adesso che c’è, aveva detto suo marito quando Sámur, il più vecchio
dei due cani, si era messo ad abbaiare. Snotra, la cagna, era rimasta
silenziosa come suo solito, non abbaiava mai e per questo sembrava
più riflessiva. Adesso che c’è, chi arriva, aveva detto suo marito, si
era alzato, aveva sbirciato dalla finestra. Era appena rientrato per
mangiare dopo essere rimasto per tutta la mattina fuori negli ovili.
Certo, la terra era ancora gelata lassù sulla brughiera, ma la
primavera si avvicinava, presto sarebbe arrivata la stagione
dell’agnellatura, che come sempre arrivava troppo presto. Tutto in
genere arriva troppo presto, in questa stagione. La primavera, gli
uccelli, l’agnellatura, la luce. A volte sembra proprio che Dio, il diavolo
o il destino tendano delle trappole alla vita, quassù nel Nord del
mondo. La attirano fuori dalla tana – allora si abbassa la guardia, ci si
apre, e poi il freddo glaciale cala di nuovo il pugno sulla delicata
vegetazione primaverile, oppure nevica sulle uova appena deposte.
Solo che adesso manca poco all’agnellatura e ci sono molte cose da
fare. Il marito di Guðríður, tra l’altro, è appena rientrato a casa, è stato
a pescare da Arnarstapi, esce da lì per tutto febbraio, marzo e una
parte di aprile, pesca sulla barca di un proprietario terriero della loro
regione; è appena rientrato a casa dopo un’assenza di nove
settimane. È tornato a casa con trenta pesci e appena un po’ di
credito in più presso l’emporio. Nel frattempo Guðríður si è occupata
di tutto, delle bestie, delle bambine, della casa e ha avuto ben poco
tempo per pensare o per leggere, certe sere si addormentava seduta,
esausta. Eppure, stupida com’è, ha consacrato una giornata intera,
ha sprecato energie preziose, per portare a Bær la risposta alla
lettera del pastore. Adesso fornirò loro qualcosa di cui sparlare,
aveva pensato. Non aveva voluto fermarsi, non aveva accettato
nemmeno del siero di latte. Ma pensa te che comportamento, aveva
detto Jóhannes, l’ufficiale distrettuale, non aveva nemmeno avuto il
tempo di chiederle della lettera, perché scrivere al pastore di un’altra
parrocchia, e poi proprio a lui, ma che senso ha?
A volte ha l’impressione che l’esistenza la stia soffocando, a volte
è come se le mancasse l’ossigeno nella vita – poi Sámur si è messo
ad abbaiare.
Suo marito si è alzato, ha sbirciato dalla finestra, toh, un uomo a
cavallo, aveva detto stupito, e le tre bambine si erano precipitate fuori
dal corridoio. Non sarà di nuovo il postino, accidenti, sarebbe davvero
troppo, aveva detto Gísli guardando sua moglie come se fosse stata
responsabile per l’arrivo inatteso del postino mentre lui era assente; il
marito di Guðríður si chiama Gísli, un nome comune eppure piuttosto
importante. Gísli si era stupito quando era tornato a casa da
Arnarstapi e le bambine concitate gli avevano raccontato della visita
inaspettata del postino, che si era fermato un’ora buona, aveva
bevuto una gran quantità di caffè, la figlia più grande non aveva mai
visto una cosa del genere, ne era rimasta contrariata; in poco più di
un’ora quel chiacchierone si era tracannato la dose di caffè che in
casa sarebbe bastata per una settimana.
1
Friedrich Hölderlin, da Abendphantasie: «E solo / Sotto il cielo come sempre io sono.»
2
Letteralmente «stanza del bagno», era in origine lo spazio per la sauna o per le abluzioni;
nel XVI secolo il termine passa a indicare la stanza principale – spesso l’unica – della casa.
Miss you baby, sometimes;
Fa bene sentirla ridere. C’è qualcosa nella sua risata che rende il
mondo più luminoso.
Sta ancora parlando al telefono.
Sì, è ancora attaccata a quel maledetto telefono.
Sóley sta sulla soglia della porta della sala da pranzo, con il telefono
in mano, sicuramente si è scaldato dopo tutte quelle parole, e mi
guarda con quel suo sorriso. Eri al telefono, le faccio, tanto per dire
qualcosa, per prendere tempo mentre penso a un modo per
nascondere i fogli sul tavolo.
Ah, sì. Scusami se ci ho messo così tanto, era la mia cara Dísa. Tu
la conosci appena, non è da tanto che si è trasferita qui nel fiordo. Ha
conosciuto Ágúst della fattoria di Hof e se n’è innamorata. E lui di lei,
del resto era inevitabile, dovresti vederla, è davvero una bellezza. Sei
così carina, le ha detto una volta mia sorella quando eravamo tutte e
tre qui una sera d’inverno a scolarci una bottiglia di grappa, che quasi
mi dispiace di non essere lesbica. Dísa era in tutto e per tutto una
ragazza di città quando è venuta qui con Ágúst, ce l’aveva scritto in
faccia che veniva dal quartiere occidentale di Reykjavík – questa non
dura a lungo qui in campagna, diceva la gente. Ti ricordi di Gústi, no?
Ah, faccio io, mi ricordo finché me ne ricordo, poi me ne dimentico,
e non è detto che sia giusto dimenticare.
Sóley ride piano, no, in effetti, e non c’è nemmeno bisogno di
ricordarsi tutto, bisogna pur dimenticare qualcosa per fare spazio al
nuovo, no? Il povero Gústi del resto non è mai stato un tipo da titoli in
prima pagina, eppure ha una certa aura, un certo magnetismo che
alcune donne avvertono, fino a perdere la testa per lui. Non ho mai
capito che cosa ci trovino, è evidente che non sono ricettiva al suo
fascino e ho sempre pensato che Dísa lui non se la meritasse
proprio. Infatti non sono rimasti insieme a lungo. Però è stato Gústi, e
non lei, ad averne abbastanza della schiavitù dei lavori agricoli, circa
tre anni fa si è trasferito nel Sud, ha trovato lavoro in un grande
magazzino della capitale, credo che stia per lo più dentro le celle
frigo, surgelato e ben conservato. Sono riusciti a tirare avanti ben
cinque anni insieme, hanno avuto la piccola Védís, che è un tesoro, e
alla fine Dísa, la donna di città del quartiere occidentale, si è adattata
talmente bene al fiordo, alle bestie, alla nostra piccola comunità, che
non riusciva a concepire l’idea di andarsene e ha preso in mano la
gestione della fattoria quando Gústi ha mollato. Si è riempita di debiti
per pagare la sua parte. Non solo si è presa la fattoria, ma anche la
mamma di Gústi, perché la vecchia si è rifiutata categoricamente di
andarsene da Hof se non con i piedi in avanti. Dísa avrebbe meritato
uno sconto consistente sul prezzo dei terreni, non ti pare? E nessuno
può rimproverare alla cara Dísa di trascurare la fattoria, la manda
avanti in modo esemplare.
Me ne sono accorto, dico, felice di ricordarmene, felice di averlo
notato quando sono passato in macchina davanti al casale. Ero
rimasto sorpreso di vedere quant’era florida e imponente la fattoria di
Hof, gli edifici di bella fattura, la porta di casa aperta, come se tutti
fossero i benvenuti. E quella muraglia di rotoballe di fieno.
Sì, si dà molto da fare, la mia Dísa. Certo, noi tutti le diamo una
mano se c’è bisogno, del resto è da sola con Védís e con la vecchia
Lúna… che ha vissuto la sua vita, come forse ti ricordi. È stata in
parlamento per un mandato, nel Framsóknarflokkur, il partito
progressista, e per tanto tempo ha anche tenuto una rubrica sul
secondo canale della radio. Alla gente piaceva ascoltare cosa avesse
da dire quella contadina impertinente, già attempata, che la sapeva
lunga e aveva un’opinione su qualsiasi cosa, con quella voce
raschiata dalle Camel. Ha compiuto settant’anni lo scorso inverno,
beve sherry quasi tutti i giorni, impara le lingue su internet e ormai se
la cava piuttosto bene con il francese e lo spagnolo. E si è perfino
fatta un fidanzato, il vecchio Kári di Botn, che ha ottant’anni – e chi se
lo sarebbe immaginato! Nessuno è in salvo dall’amore, come tutti e
due sappiamo bene. Dísa mi chiama spesso, oppure passa da qui
quando sa che non ho molti clienti – sono solo tre al momento, e
sono i primi ospiti stranieri dallo scorso gennaio! Forse li hai visti,
fuori in piscina; una coppia canadese con la figlia. Madre e figlia sono
imparentate con Eiríkur, l’hanno contattato la scorsa primavera e così
è andata a finire che li ha invitati tutti e tre alla festa che sta
organizzando con Elías, per il secondo anno consecutivo. Sono
arrivati in Islanda un paio di settimane fa, hanno concluso la
quarantena questa mattina e da allora non hanno quasi lasciato la
piscina. Hanno fatto appena in tempo, a uscire dalla quarantena
voglio dire, perché la festa si terrà questa sera, così sei avvertito.
Dísa mi gestisce il sito di prenotazioni dell’albergo, per questo sa che
la corriera che mi recapita il primo gruppo dell’estate dovrebbe
arrivare tra appena un’ora. Ecco, il primo gruppo dell’anno – e chissà,
forse l’ultimo. Questo virus ci ha dato una bella mazzata. Dísa ci
mette sempre una gran passione, si entusiasma per un sacco di
cose, la politica, i problemi mondiali, il riscaldamento globale, gli ultimi
libri pubblicati, da un po’ anche per i lavori per la costruzione della
centrale qui nel Nord, che hanno avuto un’accelerata per mitigare le
conseguenze economiche del virus, dicono. Per ribaltare la
situazione. Le persone al primo posto, è il loro mantra. A proposito, ti
sei preso un’altra birra, vuoi la terza?
Come, un’altra, sì, no, voglio dire no, due sono una dose
sufficiente, di mattina, e poi ho bevuto del vino rosso con tua sorella
Rúna prima di venire qui da te, ma grazie lo stesso, rispondo,
dispiaciuto che abbia smesso di parlare. Ha una voce limpida e roca
allo stesso tempo, sembra uscirle dal profondo della gola. Adesso mi
guarda, quasi pensierosa, con una traccia di tristezza negli occhi, poi
mi sorride.
Un sorriso può essere una droga, penso – a quel punto mi ricordo
dell’orologio. È fermo, dico, e glielo indico; l’orologio che segna il
tempo qui in Islanda si è fermato.
Sóley: È vero! Ma che stranezza… be’, dai, almeno così non
invecchiamo. Però non va, aspetta, dice, sparisce verso l’interno e io
resto a guardarla, la guardo allontanarsi, guardo la schiena magra e
mi perdo nei miei pensieri. Torna con un lungo bastone in mano, dà
un colpetto leggero all’orologio islandese, svegliati, tempo, dice, e
che questa donna sia una strega o una dea, il tempo si risveglia
davvero, ha un sussulto e riprende a scorrere. Gli uccelli ricominciano
il loro canto, il mondo torna a invecchiare.
E allora, che devo fare di te, caro, dice Sóley, dopo aver rimesso a
posto il bastone che ha svegliato il tempo. L’orologio si è fermato per
uno o due minuti appena, a quanto pare, quasi non si nota la
differenza con gli altri, le lancette dei minuti sono tutte più o meno allo
stesso punto eppure nessuna segna la stessa ora.
È in arrivo una corriera piena di turisti giapponesi, più di quaranta,
a cui si aggiungono i tre in piscina, quindi… e ovviamente il mio Ómar
dovrebbe uscire tra poco, dice lei, pensosa.
Ómar?
E chi è? Allora è sposata, è possibile? È accettabile che un solo
uomo possieda questi occhi dorati, quelle esitazioni quasi
impercettibili, quel sorriso che è una droga?
Sento la gelosia che mi rode dentro mentre lei abbassa lo
sguardo, mormorando qualcosa, poi alza la testa. No, ma cos’è, dice
sorpresa, avanza verso il bancone, sposta i fogli. Li riconosco, i tuoi
scarabocchi, dice. Ti ricordi, li chiamavi la grafia del diavolo. Dicevi di
aver imparato a scrivere all’inferno, avevi sempre quei buffi toni
drammatici. L’inferno è sicuramente il posto migliore dove imparare a
scrivere, per un autore, è il posto in cui la natura umana fa mostra di
sé nella maniera più evidente… Oh, non ti agitare, non mi metto a
ficcare il naso, non cerco nemmeno di leggerla, questa roba, come
farei, del resto, sei l’unico capace di decifrare questi scarabocchi, tu e
ovviamente il demonio, hai detto giusto. Sono parecchie pagine, è
praticamente un romanzo, accidenti. Allora hai ricominciato a
lavorare, ah, quanto sono contenta! Una volta mi hai detto che
esistevi soltanto mentre scrivevi – allora quindi sei tornato a esistere!
Devo confessarti che mi sono sentita quasi offesa quando me l’hai
detto, all’epoca… no, inutile indorarti la pillola, altro che quasi offesa,
ci sono rimasta malissimo. Se esistevi solo quando scrivevi, allora
stare con me che cos’era, una mezza esistenza, un ripiego?
Probabilmente ti sei accorto della mia reazione, e ti sei affrettato ad
aggiungere, per giustificarti, carino com’eri: non esisto se non riesco
a scrivere. Non credo che le tue parole mi siano state di grande
consolazione. Ero talmente idiota in quel periodo, volevo essere al
centro di tutto. E sai, sembra proprio che tu sia cambiato. Sei così
taciturno, e questo fa diventare me molto più loquace, di
conseguenza. L’ha notato anche Rúna, ha detto che hai fatto lo
stesso effetto anche a lei, dice di aver straparlato come se fosse una
questione di vita o di morte. Eppure a volte parlavi anche tu, e mica
poco! Insomma, devi dirmi di tacere. Mi sembra di non riuscire a
smettere. Devi dire qualcosa.
Io sorrido per nascondere l’imbarazzo. Sento che il battito del
cuore accelera, sento che il sangue comincia a scorrere più veloce,
che si riversa dritto nel cuore – presto vi sbatterà contro con tanta
forza che il cuore si trasformerà in una barca in mezzo a una
tempesta. Con poche possibilità di salvezza.
di leggere campanelle
Ási e Mundi sono riusciti per un pelo a evitare Elías che ha risalito la
china per raggiungere l’albergo a bordo di una vecchia Bmw nera;
stavano scendendo verso la piscina quando l’auto nera è arrivata
piano piazzandosi accanto alla Volvo. Elías è sceso dall’auto con
calma, alto ma lievemente curvo, emaciato, ossuto, le scapole così
magre che sembravano lame d’ascia. Deve aver superato la
sessantina, teneva in braccio un gatto, nero con le zampe bianche, lo
teneva come qualcosa di fragile. Ha vomitato un po’, ha detto Elías a
Sóley mentre entrava, poi mi ha visto, ha esitato un attimo, si è girato
a guardarla e ha chiesto, in che lingua mi devo rivolgere a questo
giovanotto? Puoi provare con l’islandese, ha detto lei sorridendo,
vedrai dove ti porta – è un vecchio amico. Ah, ha ribattuto Elías,
carezzando piano il gatto, un vecchio amico, che bello, è stupendo
avere un vecchio amico, si è meno soli nella vita. Un vecchio amico.
È perfino meglio del sesso, soprattutto quando gli anni cominciano a
farsi sentire. Questo invece è Alessandro Magno, sta sempre
malissimo in macchina ma non volevo lasciarlo a casa con Eiríkur e i
tre cani. Alessandro è molto schivo con loro, non sa come
comportarsi. È quel che nelle lingue straniere si dice un introverso, e
sospetto che la fragilità del mondo risieda proprio in chi ha questo
atteggiamento. Il poveretto ha vomitato diverse volte lungo il tragitto,
anche se andavo piano… ah, eccoti qua, angelo mio, ha detto
quando una giovane donna, di sicuro non più che ventenne, i capelli
neri, magra e di bassa statura, è uscita dalla cucina con una ciotola di
panna per il gatto, che ha cominciato a fare le fusa non appena l’ha
vista. Sai, Wislawa, che Alessandro ti adora senza limiti. A volte temo
che possa scappare di casa per l’amore che ha per te.
È bello essere amati, ha detto Wislawa, nel suo accento straniero,
il suono di quell’«ama-» è così cantilenato che la parola è ancora più
bella in bocca a lei. Allora è così che le lingue si allargano, ho
pensato. C’è una grande dolcezza nel portamento di quella giovane
donna, quasi adolescenziale nei movimenti, e ha come una luce
intorno.
Elías e Wislawa si sono chinati sorridendo accanto al gatto e alla
ciotola di panna, Elías ha mormorato qualcosa che l’ha fatta ridere e
il suo riso sembrava il solletico di leggere campanelle.
Io ho alzato gli occhi e ho incontrato quelli di Sóley. Mi stava
guardando, mi ha guardato fisso, a lungo. Io l’ho guardata a mia
volta, confuso, ma mi sono scaldato tutto, forse per l’imbarazzo, forse
per i suoi occhi, forse per l’amore, forse per timidezza.
È
È proprio difficile esistere.
E per molto tempo è stato tutt’altro che facile per Ásmundur, o Ási,
che ha cominciato a preparare gli attrezzi insieme a Mundi sul bordo
della piscina dove sguazzano quei tre, la coppia e la loro figlia –
quando si alza lui, il mondo si mette in agitazione.
Ho sempre avuto un problema con il desiderio sessuale, aveva
detto Ási, non ero ancora adolescente, anzi ero anche troppo
giovane, avevo appena dodici anni.
Così era iniziata la storia del nome della donna nella cucina
dell’albergo, la cuoca. È una storia grottesca di umiliazione, di
dipendenza profonda, di cattiveria e di affetto. Dal buio alla luce. È la
storia di come si diventa persone.
Á
Tu non scrivi libri, Mundi, ha detto Ási senza muoversi, ancora a
gambe larghe, con noi tre nella sua visuale, ben oltre il metro e
novanta, e certo non sotto i centocinquanta chili. Quest’uomo è una
forza della natura, ho pensato.
No, tu non scrivi libri e non lo farai a breve. Però mi pare di capire
che qui abbiamo un poeta, e i poeti hanno bisogno di sapere tutto.
Devono conoscere tutto. La vita deve scorrere verso di loro per
nutrirli delle sue storie e della sua forza, e noialtri abbiamo il dovere di
riferire ai poeti gli eventi più significativi della nostra vita e della vita
degli altri. Ciascuno naturalmente sceglie secondo il proprio gusto,
ma quando si comincia non si può tralasciare niente. Gunna dice che
davanti a un poeta siamo tutti nudi. Ma che nemmeno i poeti possono
tralasciare niente una volta che hanno iniziato a scrivere, non devono
evitare nessuna sofferenza, nessuna difficoltà. Ogni cosa deve venire
fuori.
Mundi: Dovrebbero dire tutto? Ti proibisco di coinvolgermi in una
storia del genere. Io voglio vivere la mia vita in pace. Non mi va
proprio per niente che un qualche poeta venga a metterci le mani.
Anche se è un amico di Sóley. La mia vita deve starsene fuori dalla
letteratura. E poi Elías starà per arrivare, quindi bisogna che tu
cominci a sintetizzare. E risparmiaci i dettagli scabrosi.
Allora accelero, ha detto Ási, l’uomo della schiatta dei troll,
raddrizzando la schiena. Non ho nessuna intenzione di essere
ancora qui quando arriva Elías, perché cominceremmo a litigare di
sicuro. Non avevi il telaio di una porta da sistemare, una doccia, dei
ganci allentati?
Ma certo, ha confermato Sóley, che sembrava avere difficoltà a
contenere le risa. Una delle docce negli spogliatoi delle donne è
difettosa, bisogna cambiare alcuni attaccapanni e la porta che esce
sulla piscina non si chiude bene, il telaio si è gonfiato ed è andato
fuori squadra. Quest’edificio è di pessima qualità, è stato costruito
male e ci dà sempre dei problemi. Hai un altro quarto d’ora, direi
anche venti minuti. Ho mandato un messaggio a Elías mentre parlavi,
gli ho detto di guidare piano, che eri nel bel mezzo di una storia. Mi
sta bene, ha risposto lui, Alessandro Magno ha appena vomitato, ci
sediamo sulla riva del fiume per riprenderci un po’. Quindi prosegui,
raccontagli delle pulsioni e di cosa c’entrano con Wislawa, ma lascia
perdere i dettagli sessuali. Non ci manca l’immaginazione. Non hai
bisogno di fare descrizioni troppo specifiche, con noi.
di risparmiarci i dettagli?
Á
Sóley ha sorriso, Ási ha alzato la testa, il silenzio si è dissipato. Sì,
ha preso questa consuetudine dalla mamma, dopo che quei
maledetti norvegesi le avevano messo sotto il cane che aveva prima.
Ti ricordi, no, che la mamma ha sempre battezzato i suoi cani con
nomi di musicisti, Dylan, Piaf, Beethoven…
Mundi: I gatti con nomi di personaggi famosi, i cani con nomi di
musicisti. Non ci si annoia proprio, in questo fiordo.
Ási: Allora anch’io dovrei dare nomi di musicisti ai miei alberi.
Questo si chiama Eric Clapton, questo David Bowie, e là c’è Chopin.
Una foresta musicale!
Sóley: Oppure dovresti dargli nomi di attori porno. Finiresti al
telegiornale. Perfino la BBC verrebbe a intervistarti.
Ási: Non mi prendere in giro. Sono sensibile.
Mundi: Sarebbe interessante conoscere la tua definizione di
sensibilità.
Sóley: Piacerebbe anche a me, però adesso dobbiamo tagliar
corto. Sei già uscito anche troppo dal seminato, caro Ási. E non oso
pensare dove andremmo a finire se ti chiedessimo una definizione di
sensibilità. Più o meno… un quarto d’ora fa volevi spiegarci perché
Wislawa si trova qui da noi, invece hai parlato solo di Kristmann
Guðmundsson, di internet e della tua prima eiaculazione. Hai cinque
minuti, poi avverto Elías che può rimettersi in marcia. E ricordati che
sto aspettando una corriera con quaranta turisti giapponesi. A loro
non posso certo proporre la storia della prima eiaculazione di un
agricoltore forestale che ha scritto al Congresso degli Stati Uniti e al
Parlamento inglese per reclamare giustizia.
Mundi: Una corriera con quaranta turisti. Una corriera piena di
soldi.
Sóley: Io preferisco vederli come persone in cerca di esperienze, e
desiderose di rilassarsi in piena pandemia di covid.
Smettetela con queste ciance, allora, ha detto Ási, ho solo cinque
minuti.
Cronache dell’inferno
Á
E a noi islandesi l’acqua geotermale, ha detto Ási, ma è una bella
idea la tua, la musica e il senso di colpa. Mundi, questa ce la
dobbiamo ricordare.
Me la sono già scritta, ha detto Mundi sempre seduto sul
davanzale della finestra, però adesso devi concludere, Elías sta per
arrivare. Ha un dottorato in storia e credo che ne abbia uno anche in
demonologia.
Adesso accelero, ha risposto Ási. Un tipo gioviale, un islandese, si
era presentato all’aeroporto in Islanda per prendere Wislawa, aveva
detto di conoscere quel suo parente, un uomo perbene, aveva detto,
di cui ci si poteva fidare; e aveva parlato per tutta la strada fino a
Reykjavík. Dell’Islanda, degli islandesi. Aveva portato un panino e
una Coca Cola – lei si era addormentata prima di arrivare a
Straumsvík. Di sicuro le avevano messo qualche droga nella Coca
Cola perché è tornata in sé solo qualche giorno dopo, si è svegliata in
una stanza orrenda con tre uomini che le hanno mostrato un video in
cui lei, stordita, incosciente per la droga, aveva rapporti con tutti loro.
Rapporti sessuali brutali, umilianti. Le avevano preso il passaporto,
avevano detto che il video sarebbe stato caricato su internet se lei
non… lei aveva risposto loro di andare all’inferno e di non darsi la
pena di tornare. Allora avevano tirato fuori delle fotografie che
ritraevano sua sorella, sorridente accanto allo zio, scattate il giorno
prima… sua sorella sarebbe stata costretta a prostituirsi se Wislawa
non avesse collaborato. Come hai detto tu, forse è stato il diavolo a
creare l’uomo. Dopo quest’episodio mi sono documentato sul
commercio di esseri umani e ho scoperto che rende quanto lo
spaccio di droga e il traffico d’armi. Si guadagnano le stesse cifre a
vendere bambini e donne come schiavi sessuali che a commerciare
con aerei militari – soltanto in Europa negli ultimi dieci anni migliaia di
persone sono state vendute nel giro della tratta sessuale. La nostra
Wislawa è una delle pochissime ad averla scampata. La cosa che mi
spaventa di più però è che queste informazioni sono accessibili a
tutti, non c’è da far fatica per trovarle. Sappiamo che esiste questo
traffico, eppure non facciamo niente. Che significa? Allora andremo
tutti all’inferno, alla fine? Mundi, tu hai viaggiato, hai letto libri, hai
venduto turbine per reattori, come te lo spieghi?
Mundi: Perché la bontà richiede troppi sforzi, è una tassa di infinite
ore di lavoro perse e alla fine ti getta nella disperazione – di
conseguenza, con tutta probabilità all’inferno ci va il novanta per
cento del genere umano. Dritto tra le fiamme.
Ási: Ne dobbiamo parlare meglio. Dovrò scrivere al Congresso
degli Stati Uniti e al Parlamento inglese. Comunque, la mia storia è
questa. Per il momento la chiudo qui. Più avanti ti racconterò l’ultima
parte, quella che chiamo «operazione di salvataggio». Posso
assicurarti che buona parte dei residenti di questo fiordo vi ha
partecipato. Perfino mio fratello, quell’idiota. Ma adesso la smetto,
vedo l’automobile di Elías, laggiù. Mundi, al lavoro!
Ti amo,
e sono al sicuro.
Ti amo,
e lo strazio mi stringe tra le braccia.
Dovresti venire anche tu, Sóley, aveva detto Elías. Lo vedi, il cielo ha
apparecchiato tutto il meglio per noi, niente vento, sole, temperatura
mite.
Farei di tutto per poterci essere, con voi tre e con Elvis, aveva
detto lei aprendosi in quel suo sorriso straordinariamente luminoso.
Ma lo sai che non posso promettervi niente. Qui c’è molto da fare.
Quaranta turisti giapponesi in arrivo. Li porterai a fare la tua solita
escursione domani mattina, non devo nemmeno ricordartelo. Spero
che tu non sia arrugginito e non abbia perso la tua verve, anche se
non porti in giro un gruppo dal novembre dello scorso anno.
Mai stato meglio, racconterò la storia del fiordo e parlerò anche un
po’ di Ási, aveva detto Elías sorridendo.
È
Il conducente di autobus consacrato ha ancora l’indice per aria. È il
dito che dovrebbe mettere a tacere me e i miei dubbi sul fatto che
Elías ed Eiríkur possano aspettare – quest’ultimo tra poco comincerà
certo a darsi da fare per portare in giardino tutto il necessario, i piatti, i
bicchieri, le posate, il vino rosso, il vino bianco, la birra, e per
apparecchiare i due lunghi tavoli sotto il tendone che ieri Ási e Mundi
l’hanno aiutato a montare.
Darsi da fare, no, non si può dire che abbia chissà quale fretta, per
quale motivo, poi? Elías ha appena iniziato a preparare da mangiare,
ci vogliono due, tre ore prima che sia tutto pronto, qui si lavora con
scrupolo.
In questo momento stanno seduti al grande tavolo della sala da
pranzo e selezionano una pila di fotografie e di documenti. Eiríkur
tiene in mano una vecchia foto che ritrae quattro uomini e due donne
nel soggiorno di una casa benestante; una è una donna di mezza
età, alta, con un’espressione forte e decisa, la più giovane ha gli
occhi che brillano e un sorriso affascinante. Sorridono tutti e cinque.
È una foto che sprigiona gioia. La gioia di una festa. Allora sono loro,
chiede Elías, ed Eiríkur annuisce, sorridendo, come le persone
fotografate.
Fuori dalle grandi finestre del soggiorno che affacciano sul fiordo,
sulla palude e sulla fattoria di Nes sull’altro versante, l’aria è talmente
ferma che si oppone a qualsiasi urgenza. La vita tende a rallentare il
passo in assenza di vento, vuole godersi il momento, assorbirlo fino
in fondo. Assorbire quel fiordo dove la superficie dell’acqua è
talmente liscia che si trasforma in uno specchio e la cinta rocciosa dei
monti si ammorbidisce, la loro asprezza assume una sfumatura
sognante. I monti ragionano in termini di secoli, e li comprendiamo
meglio, percepiamo i loro pensieri in maniera più tersa quando non
tira un alito di vento, oppure durante una tempesta.
E improvvisamente mi rendo conto che non c’è proprio bisogno
che mi sbrighi. Il destino attende che lo si porti a termine, nessuno
vuole offendere le norne, quelle donne così maestose e fiere.4
Oltretutto, dal punto in cui sono seduto vedo bene la strada, quando
passerà Rúna in macchina verso il fondo del fiordo per andare da
Elías, Eiríkur ed Elvis la vedrò di sicuro: prima di quel momento non
c’è bisogno che mi muova.
1
In inglese nel testo originale.
2
Famoso brano degli anni Settanta (Kenndu mér að kyssa rétt); testo di Skafti Sigþórsson,
musica di Hendrik Konrad Rasmus.
3
Kristmann Guðmundsson (1901-1983) visse in Norvegia; fu autore di diversi romanzi rosa di
successo, in lingua norvegese.
4
Il termine örlög, «destino», è plurale; personifica le norne della mitologia nordica, Urðr,
Verðandi e Skuld, che governavano rispettivamente il passato, il presente e il futuro.
Qui la primavera arriva tardi come all’inferno,
Piove su Pétur e sulla cavalla Ljúf mentre fanno ritorno a casa, dopo
aver lasciato tre libri nella fattoria di Uppsalir, due erano testi in
danese che trattavano di scienze naturali, di biologia, di astronomia.
Per farla breve, in sostanza, aveva detto nella piccola baðstofa dove
l’avevano invitato a sedersi, dove il possente postino si era seduto
solo poche settimane prima dando quasi fondo alle scorte di caffè
della casa – per farla breve, in sostanza, questi due libri parlano della
vita nel suolo, dei piccoli esseri che vi si trovano e dell’immensità
della volta celeste. Sì, ci portano dal suolo al buio tra le stelle, dove
l’uomo incontra i grandi misteri.
Se solo conoscessi un po’ meglio il danese, aveva detto Guðríður,
che era seduta di fronte a lui, curva, e sfogliava lentamente il primo
libro, le dita che tremavano un poco, gli occhi brillanti di entusiasmo.
Scintillavano, letteralmente. Non ho mai visto uno sguardo tanto
luminoso, aveva pensato Pétur.
Non gli hanno nemmeno chiesto che cosa volesse, a Pétur, è una
legge fondamentale, finché c’è un chicco di caffè, finché c’è qualcuno
di vivo per prepararlo, si deve offrire la bevanda nera che per
cent’anni buoni ha aiutato la gente a sopravvivere in questo paese
duro e bello. E oltretutto, facilita la conversazione.
Allora, arriva il caffè, aveva detto Gísli, il marito di Guðríður, fuori,
nella luce d’aprile, quando lei era appena uscita dal corridoio della
fattoria e si era portata la mano davanti agli occhi, involontariamente,
per quella luce accecante, dopo essere rimasta a lungo nell’ombra
come una stupida. Aveva salutato, è un onore, aveva detto, e dei libri
per me, sono senza parole.
E quindi era rimasta in silenzio, accontentandosi di sorridere.
Era l’altro suo sorriso, quello pericoloso. Pétur lo vedeva per la
prima volta.
Aveva ricevuto due lettere da Guðríður… due, be’, a essere precisi
soltanto una. La prima lettera era stata indirizzata alla redazione della
rivista. Però ci aveva messo tutta se stessa, dentro quella lettera,
senza averne avuto l’intenzione, senza nemmeno rendersene conto.
Il che probabilmente è ancora più pericoloso. E aveva indotto Pétur a
scriverle a sua volta, a risponderle, chiedendo poi al postino di
consegnarle la lettera personalmente. Devo fare una bella
deviazione, aveva detto il postino, un uomo di stazza imponente, è
fuori strada. Non si può chiamare vita se seguiamo sempre lo stesso
percorso, se non usciamo mai dal sentiero battuto, aveva risposto
Pétur, aggiungendo: Vivi. Frase ovviamente incomprensibile, come
se fossi morto, avrebbe commentato in seguito il postino. L’aveva
riferito varie volte, e in più località. Per questo molti sapevano della
lettera, certo, non ne conoscevano il contenuto, ovviamente no, ma
sapevano che il reverendo Pétur aveva scritto una lettera alla
fattoressa del casale di Uppsalir, sulla brughiera, di cui si sarebbe
parlato ben oltre i confini del suo distretto per via dell’articolo sul
lombrico, una donna che non era mai andata a scuola eppure sapeva
scrivere a quel modo.
Sì, mi ha ordinato di vivere, come se fossi morto o in fin di vita, e
poi di fare quella deviazione. È piuttosto fuori strada, gli ho fatto
notare io, e a quel punto mi ha intimato di vivere, come se vivere e
raggiungere posti fuori dal tragitto abituale fossero una e una sola
cosa. Provate voi a trovarci un senso! Ma la fattoressa di Uppsalir, sì,
giusto, quella che ha scritto del lombrico nella rivista, la cortesia e la
modestia fatte persona, e snella come una giovinetta, mi permetto di
dire, però ci ho percepito anche una certa durezza, sì, è proprio dura.
Sono parecchio sensibile, ecco il mio problema. Per questo ho capito
che quella sa pungere, quella sa anche mordere, se le gira, l’ho
capito che quando è così, è meglio non finire nelle sue grinfie, di
sicuro.
Non vorrei essere da nessun’altra parte che in quel sorriso, aveva
pensato Pétur sul cortile davanti al casale di Uppsalir. Da
nessun’altra parte – come se non avesse nessun obbligo nella vita,
come se il suo posto non dovesse essere altrove.
Le tre bambine avevano condotto Ljúf per le briglie, dovevano
darle una manciata di fieno e volevano trovare quello di buona
qualità, il migliore del fienile, è così carina, dicevano e la carezzavano
mentre le caramelle si scioglievano in bocca come raggi di sole. Il
loro padre stava lì, in mezzo a Pétur e al sorriso di sua moglie. Nel
silenzio.
È il minimo che potessi fare, aveva detto Pétur, ma poi aveva
dovuto distogliere lo sguardo da Guðríður per staccarsi dal suo
sorriso. Ripigliati, amico mio, aveva pensato, ricordando lo sguardo di
sua moglie Halla quand’era partito di primo mattino, con tre libri e
delle spiegazioni stranamente vaghe per quel giro di una giornata
intera. Dove vai, gli aveva chiesto, stupita, perché non aveva senso, e
Pétur era solito avvertirla con un buon preavviso se doveva andare
da qualche parte, a fare le sue commissioni per la zona, o a
Stykkishólmur per la rivista. Invece la decisione di partire era stata
presa tardi la sera precedente, di notte – era stata presa nella lettera
a Hölderlin. L’aveva scritto nella lettera, poi si era allontanato dal
tavolo, impaziente, spaventato da quella decisione – la notte non
aveva dormito quasi per niente. E aveva dimenticato di inventarsi una
spiegazione. Perché non poteva certo dirle, c’è questa donna, in un
casale di brughiera, un bel tratto di strada da qui, qualche ora a
cavallo, non è mai andata a scuola ma ha scritto un articolo
straordinario sui lombrichi. Tra tutte le creature del pianeta. Ha
qualcosa di fuori dal comune. Qualcosa che mi chiama. Le ho scritto
una lettera, l’ho affidata al postino, sapevo che non era di strada,
cosa che mi ha fatto notare lui stesso, ma io gli ho ordinato di vivere.
Come se stesse a me decidere. Io che non sono nemmeno riuscito a
fermare la morte quando avrei dovuto. Da quel momento nel mondo
non c’è mai più stata davvero la luce.
Aveva pensato a tutto questo mentre Halla lo guardava e
aspettava una spiegazione, un motivo per quel suo lungo giro di una
giornata intera. Voleva dirle quella cosa di Eva. Che gli sembrava che
nel mondo non ci fosse più stata davvero la luce, da quando era
morta. Perfino la luce divina era scemata. Ma perché dirle una cosa
del genere, non spiegava certo come mai avesse preparato i libri con
tanta cura, come mai l’idea di quella donna sconosciuta che viveva
sulla brughiera e il suo stile di scrittura l’avevano tanto colpito. Forse
era brutta, magari senza denti, con il seno cadente… Non spiegava
come mai l’amore aveva cominciato a spegnersi… si era spento con
una tale lentezza che per molto tempo non se n’era nemmeno
accorto, non lo sospettava nemmeno. E quando finalmente ne aveva
preso coscienza, sulle prime aveva creduto che fosse per un’uggia
vaga, forse per la nostalgia della vita a Copenaghen e le possibilità
che offriva, forse per la monotonia della campagna oppure per il fatto
di invecchiare e rendersi conto che non era ancora riuscito a
realizzare i sogni di gioventù.
Non si era accorto di che cosa stava succedendo, se non
quand’era troppo tardi.
La cosa peggiore di tutte, e la più terribile, è morire così piano che
quasi non te ne accorgi. È una sconfitta, una tragedia. Vieni battuto
senza avere la possibilità di difenderti. Sconfitte del genere finiscono
di rado sulle prime pagine della vita, e meno che mai nelle opere dei
poeti. Sono in pochi a farsi portavoce delle cose che muoiono così
lentamente che nemmeno ce ne accorgiamo. Su questo non si
compongono poemi epici, né tragedie. Sono dei banali martedì, degli
esangui mercoledì.
Ma possono essere la fonte di un’infelicità che ci paralizza.
Delle accuse che rivolgiamo a noi stessi, e che ci dilaniano.
Perché Halla aveva fatto di lui un uomo migliore. Era grazie lei che
era riuscito a trovare un punto fermo nell’esistenza e a mettere su
famiglia. Tre bellissimi figli, la quarta, Eva, era morta, sepolta nel
silenzio della terra. Ma era morta per entrambi, per Pétur come per
Halla. L’ho persa anch’io, aveva detto lei una volta, non molto tempo
fa. Che diritto ha lui di portare un dolore più greve di quello di Halla,
con la sua sensibilità dolente, eppure lei possiede anche una
risolutezza che poche cose riescono a piegare, una giovialità che
rende i giorni più leggeri, e un’onestà e una sincerità che Pétur non
ha mai conosciuto in uguale misura in altre persone. La sua
compagna di vita. E la gente dice che ha le mani fatte di luce. Ma
quando, e come, se n’è andato il calore del suo tocco, dove se n’è
andata l’impazienza di vivere al suo fianco, la gioia di risvegliarsi con
lei, dove se n’è andato…
La colpa è solo sua.
Per quale motivo è dovuto accadere così lentamente che se n’è
accorto solo quand’era troppo tardi, senza possibilità di difendersi?
Non so, aveva scritto Pétur a Hölderlin, quante volte sono andato
in chiesa e mi sono rivolto a Dio, ho invocato Gesù Cristo,
supplicando che mi dessero una risposta; dove se n’è andato
l’amore, perché la costanza è venuta a mancare? Ho supplicato per
avere una risposta, un’indicazione, un segno o qualcosa – ma non
c’è mai stata la minima reazione, per quale motivo, poeta?
Hölderlin: Forse perché Dio non ascolta domande a cui solo gli
esseri umani possono rispondere.
Gísli concorda a tal punto con il pastore che deve sedersi. Si siede,
sospira, fruga in tasca in cerca di tabacco, dice, proprio così, proprio
così, caro reverendo. È talmente vero che ho visto gente rinunciare a
ragionare e affidare ai pugni il proseguimento della discussione!
Pétur scuote il capo, sorridente, e Gísli pensa, mi piace parlare con
quest’uomo. Forse vivo troppo lontano da tutto. È vero quel che
blatera mio fratello ogni tanto nelle lettere, può fare dannatamente
piacere parlare con la gente, bisogna ammetterlo, ti risveglia tutto.
Devo dirlo a Guðríður dopo, quando il pastore se ne sarà andato.
Credo che le farà piacere. No, lo so che le farà piacere!
Un giorno ha rubato,
Qualche considerazione su
Guðríður aveva guardato Pétur con aria concentrata. Sono ottimi libri,
questi due, aveva detto, ma poi la sua voce era sfumata in
lontananza, il pastore era sprofondato nei suoi pensieri come se
cercasse di ricordare qualcosa. Le rughe sulla fronte si erano
approfondite. Portava una giacca scura, non proprio nuova, ma di
una stoffa di qualità. Nessuno si veste così in campagna.
Guðríður sorride.
Toglie il dito dalla pagina, sposta la mano di lato e d’un tratto la
posa sul braccio di Gísli, ve la lascia per qualche secondo. Gli
sguardi dei due uomini si incrociano. Pétur tossisce. Sono davvero
ottimi, ripete, questi due libri.
Certo, non li ho letti tutti dall’inizio alla fine, il mio cervello non è
ben forgiato per la scienza. Un mio conoscente a Copenaghen è
talmente premuroso da temere che io vegeti quassù, che non mi
tenga abbastanza al corrente, che… Voi leggete discretamente il
danese, non è così? Si interrompe, mi permettete di chiamarvi
Guðríður, vero, aggiunge come un cretino, ricoprendosi di vergogna.
Come diavolo deve chiamarla, se non Guðríður, è così che si chiama,
mica in un altro modo. Non può chiamarla Ásgerður, Hulda, Anna, né
certo cara fattoressa, men che meno «quella che scrive di lombrichi»,
non la può certo ribattezzare «quella con la grafia che abbaia come
fanno i cani». Ma a quel punto lei sorride di nuovo, di nuovo trasforma
l’atmosfera con quel sorriso pericoloso. Sorride e annuisce, conferma
che è una splendida idea chiamarla Guðríður. E che legge
discretamente il danese.
Le lingue, dice lui, quasi mangiandosi le parole, cerca di
dissimulare l’imbarazzo, è estremamente necessario apprendere le
lingue. Sono sempre stato convinto che familiarizzare con le lingue
straniere faccia maturare sia il popolo che i singoli individui. È nocivo
chiudersi nella propria cultura al punto da non vedere nient’altro
È
all’esterno. È una povertà che con il tempo può generare pregiudizi di
ogni sorta. Parlare una lingua straniera permette di viaggiare. E
inoltre… Dio mi perdoni, si interrompe di nuovo, quanto parlo! Non
dovete far caso alla metà di quel che racconto, ho questa tendenza,
parlo talmente tanto da uscire completamente dal seminato.
Si gratta la testa, arrabbiato con se stesso, perché l’evidenza gli è
saltata agli occhi d’un tratto, a metà frase – eccolo lì seduto,
nell’angusta baðstofa, a duecento metri di altitudine, ciarlando
dell’importanza di viaggiare, di fronte a una coppia forgiata da una
vita di duro lavoro, di difficoltà, soprattutto Gísli, le sue mani così
indurite dai calli che ricordano due barche di legno segnate dal
maltempo. Sono persone che lottano per la loro indipendenza, per
sopravvivere, per poter restare in piedi, ovviamente sognano di
procurarsi un terreno più facile, e lui sta lì, le mani in mano, a
disquisire di lingue straniere, dell’importanza di viaggiare… Non
bisogna prima riuscire a stare in piedi, per poter viaggiare? E come si
può viaggiare se tutte le energie se ne vanno per sopravvivere?
Quando la lotta consiste nell’allevare i figli, farli diventare adulti, e non
perdere mai la propria autonomia?
per la Morte
Forse siamo vivi
in ogni tempo
Non so per quale motivo mi sono dovuto assentare nel bel mezzo di
una scena – con Pétur che ha appena consegnato a Guðríður il
dizionario che il fratello del diavolo gli aveva venduto con lo sconto.
Come aveva reagito, lei, come aveva reagito Gísli?
La playlist della Morte, eccola qui, dice Rúna dopo aver salutato
Elías, poi si collega a Spotify sul suo telefono e così possiamo
ascoltare gli stessi brani che ascoltano i due amici nella fattoria di
Vík. Il tipo problematico con la chitarra, la carabina, i cuccioli morti – e
adesso posso aggiungere la risata contagiosa – sceglie la musica per
noi mentre siamo bloccati dietro a un contadino ottantenne che
approfitta dell’attesa per cercare l’album Ella Fitzgerald Sings the
Cole Porter Song Book nel vano portaoggetti.
Svegliati, svegliati, sonnambulo, svegliati! Devi smettere di vivere
da moribondo… approfitta del tempo, quei pochi anni che
camminiamo sulla terra… non sognare, sii tu il sogno… Rappano e
cantano, con slancio, gli irriverenti Rottweiler hundar.
Sii tu il sogno, non vivere da moribondo, vivi adesso. Gran bel
pezzo, dice Rúna. Il testo sembra proprio un messaggio per me e per
Eiríkur, in effetti abbiamo…
La sua voce sfuma nel nulla. Non so se è perché vuole ascoltare
meglio il brano, o perché il messaggio di cui parla l’ha talmente
sconvolta che non riesce a continuare.
Svegliati, svegliati, sii tu il sogno, non vivere da moribondo…
In un certo senso, la vita di Rúna si è fermata la sera in cui si è
vista arrivare in un occhio il tacco a spillo di sua madre in preda a un
accesso di risate, ha perso il controllo dell’auto sulla strada
ghiacciata e si è ritrovata poco dopo priva di sensi, capovolta, appesa
alla cintura di sicurezza come un pipistrello addormentato, mentre
sua madre, fratturata, chiedeva a Haraldur di tenerla tra le braccia.
Amore mio, aveva sussurrato, stringimi forte, non mi lasciare. Non
lasciarmi mai.
Non lasciarmi mai. Le ultime parole, e per questo…
I giorni sono filati via sulla Terra, sono diventati notte, loro hanno
avuto quattro figli e adesso Margrét è morta. Nessuno ha mai visto lei
e Kári litigare. Erano come due pali di recinzione quassù, al di fuori
del mondo. Solidi, taciturni, segnati dal tempo. Non sono mai stati
all’estero, e di rado a Reykjavík. La loro storia starebbe facilmente
tutta in un foglio A4, a caratteri grandi, con interlinea doppia. Kári si
prendeva delle sbronze colossali due volte all’anno insieme a Skúli, il
suo fratello di latte, l’unico uomo a cui portava rispetto. Poi era morto
anche Skúli. La gente muore di continuo. La camera da letto di Kári e
di Margrét dava sulla valle, avevano visto le luci esterne delle altre
fattorie spegnersi una dopo l’altra, i campi lasciati incolti, finché non
erano rimasti soli in quella valle carica di neve ma spesso piena di
verde. A Margrét piaceva sedersi alla finestra con il binocolo nelle
giornate terse d’inverno, contava le stelle sopra la valle, seguiva
quello che accadeva nel cielo, le piaceva andare fino alla fattoria di
Oddi per parlare con Skúli, che era di una cultura stupefacente. E
mentre lei osservava, Kári rimaneva a letto, con una luce fioca per
non disturbare Margrét, leggeva la Rivista agricola, leggeva le
biografie dei contadini, leggeva i libri di Halldór Laxness e di Gunnar
Gunnarsson. Se c’era troppa luce o era troppo nuvoloso per le stelle,
lui leggeva a voce alta qualche brano di Laxness o di Gunnarsson
per sua moglie che gli poggiava la testa sul petto, ascoltava la voce
provenire dal profondo, e si addormentava così – era morta nel
sonno circa una decina di anni prima.
Kári non aveva fatto sapere nulla a nessuno fino all’indomani. Era
rimasto tutto il giorno accanto a sua moglie, tenendole la mano,
sentendo come si raffreddava. I figli avevano pubblicato un
necrologio tutti insieme, un testo breve, dieci righe al massimo,
eppure ci avevano messo una sera intera a scriverlo. È che non
avevano trovato un granché da dire. Erano pochi gli eventi che
potessero avere un significato per chi non era di lì, e inoltre avevano
avuto qualche difficoltà a trovare una bella fotografia – nessuna foto
somigliava abbastanza alla persona che avevano conosciuto. Aveva
vissuto per settant’anni e non c’era molto da dire di lei. Tranne che
era stata un palo di recinzione, che sapeva gestire i tori, che le
piaceva contare le stelle, ascoltare suo marito leggere i libri di
Gunnarsson e di Laxness. Certe vite sono così prive di avvenimenti
che non si possono quasi descrivere. Proprio come i pali delle
recinzioni. Eppure le sostengono per noi.
Quattro anni più tardi Kári imbocca la secondaria diretta a Hof per
prendere un caffè e ripetere a Lúna le frasi in inglese che lei gli ha
insegnato. Più tardi andranno alla festa insieme. Sì, perfino Kári, lui
che non ha mai amato andare alle feste, né stare in mezzo a tanta
gente, che diventava come un cavallo riottoso ogni volta che Margrét
faceva il minimo accenno a un ballo o a qualche divertimento. La
gente diventa stupida quando si ritrova insieme agli altri, diceva a
volte. Che in un certo senso è assolutamente vero, ma è vero anche
che la gente si fa compagnia. Così tutto sommato forse noi non
sappiamo proprio un bel niente.
La corda malinconica
Adesso arriva
Era tornata a casa per salvare il matrimonio, per evitare la rovina. Era
tornata intorpidita dal dolore, trafitta dal senso di colpa, ma con la
ferma convinzione in cuor suo che il rapporto con Halldór sarebbe
stato un’avventura proibita che avrebbe portato con sé nella tomba.
Poi, due settimane più tardi, si era resa conto di essere incinta, e
questo aveva cambiato tutto. Ma in una maniera stranamente
contorta, l’idea di ammettere il suo tradimento adesso le sembrava
più facile, come se la vita che le cresceva nel ventre potesse
giustificare tutto. La vita non è forse sacra?
Il marito di Svana aveva ascoltato la sua confessione senza
parlare, poi era rimasto a lungo con lo sguardo basso, in silenzio, si
era alzato in piedi senza guardarla, era andato a prendere il fucile ed
era salito sui monti. Era tornato solo alle prime ore del mattino dopo,
quando lei era quasi impazzita per la paura e per l’ansia. Era tornato
con sedici pernici insanguinate, si era seduto in cucina per spennarle.
Lei l’aveva osservato senza parlare, aveva atteso che dicesse
qualcosa. Vai ad abortire, aveva detto infine, alla terza pernice.
L’aveva detto in tono calmo, come se stesse parlando del clima o di
qualcosa di banale, di un evento quotidiano, poi si era allungato a
prendere la quarta pernice: e non ne parliamo più. Mi hai umiliato e
nessuno lo deve sapere. Se hai un po’ di rispetto per me. Non ne
faremo parola, mai più. Me ne vado e ti lascio se pensi ancora a quel
disgraziato. Credevo di potermi fidare di te. Quando penso a voi due
insieme mi sento come se mi strappassero le viscere. Quante volte ti
sei fatta scopare? Non lo sapevi, che ti amo? Non lo sapevi, che sei
l’unica donna che ho mai amato? Gliel’hai preso in bocca? Ti è
piaciuto? Come hai potuto? E guarda, ti perdono tutto perché ti amo.
Non hai pensato alle nostre bambine, quando ti scopava? Non ci
posso credere. Hai pensato a me quando ti veniva dentro? Non devi
pensare a lui, mai più. Io amo solo te, sono niente senza di te. Vai a
stare da tua madre per un po’ e fissa un aborto. E col tempo le cose
tra noi torneranno come prima.
Parlava lentamente, con le mani intrise di sangue, concentrato, lo
sguardo duro, eppure talmente vulnerabile e fragile che Svana aveva
avuto solo voglia di piangere.
Non sono riuscita a pensare di ferirlo ancora di più. Mi sentivo
responsabile per lui, per la sua felicità e quella delle mie figlie. Lo
sapevo che le bambine avevano bisogno di lui. Hanno bisogno di
sicurezza. Hanno bisogno di un padre che ci sia sempre. Ma l’aborto
non l’ho mai preso in considerazione. E così ho fatto leva sul fatto
che la famiglia di mio marito è molto credente. Gli ho detto che
l’aborto era un peccato contro la vita. Che non potevo immaginare di
distruggere quella vita. Che era come se volessi… uccidere l’amore.
E non si può uccidere l’amore.
Non si uccide l’amore.
Così si era espressa Svana mentre il caffè si intiepidiva, diventava
freddo, sul tavolo di fronte a lei e il mese di ottobre riempiva il mondo
fuori con la sua luce felpata.
Povero bambino mio, aveva detto Hafrún con un tono talmente
sincero che la giovane madre si era commossa, le spalle avevano
ricominciato a tremare, in maniera quasi impercettibile, e poi aveva
pianto, in silenzio, sopra la testolina lanuginosa di Eiríkur.
Svana era andata da sua madre a Reykjavík prima che la
gravidanza diventasse evidente, con il pretesto di aver trovato
inaspettatamente un posto di lavoro ben pagato a Copenaghen
tramite la zia paterna; era di padre danese e a lei e suo marito faceva
piacere avere qualche risorsa in più, sognavano di prendere una
casa più grande – per questo motivo aveva accettato di andare a
lavorare nel macello di Búðardalur. Scriveva due lettere a settimana
al marito e alle figlie, le spediva a Copenaghen a un’amica che poi le
inoltrava a Hella, con il timbro postale danese.
Mio marito è una buona persona e mi ama moltissimo, ma è
talmente geloso che mi fa paura. So che non me la perdonerà mai. È
il prezzo che devo pagare. La cosa peggiore è che per questo motivo
non posso tenere Eiríkur con me. Mio marito si ricorderà il mio
tradimento, e quello che lui definisce la sua umiliazione, ogni volta
che guarderà questo bambino. Temo che… so che per questo motivo
non potrebbe mai amarlo. Temo anzi che sarebbe più forte di lui, non
riuscirebbe a nascondere il suo disprezzo, se non il suo odio, e così
avvelenerebbe tutta la famiglia. Per questo motivo ho deciso di
mettere al mondo Eiríkur senza che le mie bambine o la famiglia di
mio marito ne fossero al corrente. Avevo deciso subito di portarlo qui
da voi non appena avessi potuto, meglio se entro una settimana dal
parto. Sono riuscita a farlo soltanto adesso che ha già tre mesi. Non
ce l’ho fatta a separarmi subito da lui. Non sono stata abbastanza
forte.
Aveva riflettuto a fondo sulla questione. Halldór le aveva parlato
spesso dei suoi genitori e Svana aveva l’impressione di conoscerli,
per questo era sicura che con loro Eiríkur avrebbe trovato un riparo,
che sarebbe cresciuto avvolto dall’affetto e dalla sicurezza. Io lo amo,
il tuo Halldór, aveva proseguito Svana, mi sentivo incredibilmente
libera quando eravamo insieme. Tutto era felicità, passione. Ma
dubito che avrei portato qui il mio Eiríkur e che ve l’avrei lasciato, se
non fosse stato per te e per tuo marito. Credo che tu capisca cosa
voglio dire.
Eiríkur però non dovrà mai sapere che lei esiste. Ai suoi occhi…
Un solo giorno senza pensare a te. Senza che i miei pensieri vadano
a te. So anche che un giorno non riuscirò a trattenermi dal prendere
l’auto e venire quassù in questo fiordo del Nord, una donna mai vista
che raggiungerà la vostra fattoria per il solo motivo di chiedere un
bicchiere d’acqua. So che ti riconoscerò immediatamente. Ti
riconoscerò sempre, ovunque nel mondo, in qualsiasi momento.
Verrò fin qui per chiederti un bicchiere d’acqua. Solo un bicchiere
d’acqua. E solamente per bere da un bicchiere che tu hai appena
tenuto tra le mani. Il vetro avrà ancora il calore dei tuoi palmi. Forse
sarà tra sei anni, forse otto, dieci, magari dodici, non lo so
esattamente. Ma verrò, e ti chiederò quel bicchiere d’acqua. Poi lo
berrò lentamente mentre il calore delle tue manine passa nelle mie.
Perdonami. È per quel momento, amore mio, che riesco ancora a
vivere.
«Ma pensa», aveva scritto sua nonna sul biglietto per il sesto
compleanno di Eiríkur, che aveva trovato di sotto in cucina ad
aspettarlo quand’era sceso quella mattina, insieme a pönnukökur e
cioccolata calda. Lo aspettava con i regali: una grande pista per le
macchinine elettriche da parte di Páll, una chitarra per bambini da
parte di Halldór, una casa Playmobil dalla nonna e dal nonno… «Ma
pensa», aveva scritto lei con la sua grafia precisa e ferma, «solo sei
anni fa non eri nemmeno nato, io e tuo nonno avevamo vissuto per
quasi mezzo secolo e non avevamo idea che mancasse la cosa più
bella della vita – la nostra testolina di capelli neri! Pensa, il mondo
credeva di poter stare senza di te, com’è possibile! Siamo
infinitamente grati di averti nella nostra vita. Con te tutte le mattine
sono piene di luce. Tutte le mattine sto in ascolto e dico a tuo nonno:
be’, chissà se il nostro Eiríkur si sveglierà tra poco? A volte vieni da
me in cucina solo per abbracciarmi qualche secondo, poi torni a
giocare, e io sono infinitamente grata di poter esistere e avere te.
Buon compleanno al nostro bellissimo, meraviglioso bambino!»
E sotto Skúli ha aggiunto con la sua scrittura scomposta:
«Confermo tutto quello che ha scritto tua nonna!»
a centosettant’anni!
I giorni più belli però non erano forse quelli in cui a Oddi c’erano tutti
e due i fratelli?
Páll sembrava avere la capacità di calmare l’inquietudine interiore
di Halldór, che durante l’estate era solito trascorrere giornate intere in
campagna, oppure di punto in bianco partire per fare un giro verso
ovest a Ísafjörður, o magari al Nord fino ad Akureyri, e stare via per
giorni. La presenza di Páll era rasserenante. Era come il sole. Come
un sole pesante, forse un pochino ombroso, che emanava calore
piuttosto che luce, calma anziché gioia. E i momenti migliori del
mondo erano quelli in cui i fratelli portavano Eiríkur a pescare nella
baia, sulla piccola barca a motore. Non aveva più di tre anni quando
poté fare la sua prima uscita, senza la piena approvazione di Hafrún,
ma i fratelli avevano promesso di fare molta attenzione e, per
dimostrare quanto l’avesse presa sul serio, Halldór si era legato al
bambino con una corda. Il giorno dopo Hafrún era andata fino a
Reykjavík ed era tornata con un giubbotto salvagente per il nipotino.
Fin dai primi insediamenti in quel fiordo la pesca si era sempre
affiancata alle attività agricole, e per qualche tempo, negli anni
Sessanta del secolo scorso, sull’estremità della penisola, in basso
rispetto alla chiesa, era in funzione una piccola ghiacciaia. La pesca
era sempre stata un supplemento fondamentale per quella
campagna brulla; lompi e foche in primavera, qualsiasi cosa si
potesse trovare durante l’inverno. La pesca tuttavia era stata
abbandonata quasi del tutto negli anni in cui Eiríkur era piccolo, e i
due fratelli uscivano in mare solo per divertirsi, per pescare qualcosa
da mangiare e per non lasciare marcire la barca che Skúli e Kári
avevano costruito anni prima; per divertirsi e per godersi qualche
momento insieme, liberi, in mare aperto. Su quell’ampia baia che non
conosceva la quotidianità degli esseri umani, non si interessava alle
loro prove e alle loro complessità, ai loro infiniti doveri e alle loro
esigenze. E visto che adesso possedeva un giubbotto salvagente,
Eiríkur poteva andare con loro ogni volta che voleva, cioè
praticamente sempre, anche se i due fratelli uscivano all’alba,
quando la campagna non si era ancora svegliata del tutto, i monti
erano immersi in un sonno profondo, avvolti dalla bruma del mattino,
quasi come se avessero freddo.
Eiríkur sedeva ben intabarrato in mezzo al papà e allo zio, come
una collinetta erbosa in mezzo a due montagne, e loro a capo
scoperto, senza guanti, raramente con qualcosa di più pesante
addosso di un paio di jeans e di un maglione di lana, ben riforniti delle
provviste di Hafrún, cioccolata calda per Eiríkur, qualche volta Halldór
infilava di nascosto nel paniere anche una bottiglia di vino rosso, per
insaporire un pochino la giornata, come diceva – e infine il possente
registratore che sistemava a poppa, avvolto in vari strati di plastica,
perché la vita senza musica non è vita, è solo povertà e nevischio
bagnato.
Per rispetto verso gli abitanti del fiordo e della quiete del mattino
non accendevano mai il registratore prima di essere usciti al largo
nella baia, dove le onde hanno un respiro più greve e profondo; lì
allora sparavano la musica a tutto volume mentre calavano le reti,
mentre le tiravano su, mentre pulivano il pesce. Halldór si occupava
della scelta musicale, aveva passato la giornata precedente a
copiare i brani su una cassetta, ogni pezzo scelto con cura e
preceduto da una breve registrazione, letta da lui:
Ecco un pezzo dei Pink Floyd. Non sono particolarmente allegri, i
loro amici chiamerebbero un medico se li vedessero sorridere, ma la
loro musica ha il respiro immenso del mare. Ascoltiamo Your
Possible Pasts, Do you remember me… think we should be closer?
E adesso fate attenzione, perché questa è Etta James in persona,
una voce che con la sua bellezza malinconica ci infonde amore e
voglia di vivere, I’d Rather Go Blind, And baby baby, I would rather go
blind, boy, than see you walk away, see you walk away from me…
Più tardi, molto più tardi, probabilmente quando ormai era troppo
tardi, Eiríkur si era reso conto che con quelle presentazioni suo padre
non voleva soltanto divertire, e insegnare qualcosa a suo figlio, ma
anche, e forse soprattutto, rivolgersi a lui in un futuro prossimo, e
dirgli, ricordati di questi brani, sono stati il mio paesaggio interiore,
ascoltali e conoscerai i battiti del mio cuore.
Ricordati di me, non dimenticarmi. Ascolta questi brani e io sarò
accanto a te. Ascolta, e io avrò il coraggio di essere accanto a te con
tutto me stesso.
Dammi le tenebre
1
Incanti e fuochi fatui (Seiður og hélog, 1977) è il secondo volume di una serie di romanzi di
Ólafur Jóhann Sigurðsson. Il vestito da sposa (Brúðarkyrtillinn, 1978) è un romanzo di
Kristmann Guðmundsson.
Non prendi decisioni, e ti paralizzi
C’erano volute sette ore per arrivare a Reykjavík e Halldór era
riuscito ad ascoltare tutte e tre le cassette con la musica scelta
appositamente per il viaggio. Ogni pezzo scelto con cura, quello di
Morrissey però è l’unico che Eiríkur ricorda, Touch me, toccami. Per il
resto, quel viaggio è stato inghiottito da un oblio insaziabile, dal buco
nero in mezzo a tutti gli universi.
Sette ore, ripete il conducente di autobus consacrato mentre
prepara ancora i pönnukökur, si è cambiato la maglietta, Anthology 2
dei Beatles, il testo di Real Love sparso sul tessuto, And all my little
plans and schemes, lost like some forgotten dreams. I Beatles hanno
pubblicato questo disco sei mesi prima che padre e figlio facessero
quel viaggio fino a Reykjavík, il mondo aveva avuto la pelle d’oca
ascoltando Real Love che John Lennon aveva cantato su un nastro
magnetico poco meno di un anno prima di morire, e che i Beatles
rimasti avevano completato e arrangiato molto tempo dopo. Certo
che il mondo aveva avuto la pelle d’oca, perché erano tornati
insieme, ventisei anni dopo la loro separazione, i quattro amici, John,
Paul, George, Ringo. La loro grande amicizia spezzata si era
rinsaldata – anche se Lennon era morto da sedici anni. Cerchiamo
ogni modo possibile per vincere la morte, per ritrovare un’amicizia
perduta o momenti che sono spariti nel profondo di un passato
irrecuperabile – a volte ci riusciamo, anche se le leggi universali
dicono che non è fattibile.
E per questo non possiamo mai smettere di provarci.
Era l’autunno del 1996.
Avevano viaggiato verso sud e la musica non era più scaturita
come ossigeno in mezzo a loro. C’erano sette ore a separarli,
montagne di parole non dette e una madre morta.
Sette ore, ripete il pastore per la terza volta, e intanto batte
ritmicamente la spatola per i pönnukökur contro la bottiglia di single
malt che uno di noi due ha posato sul piccolo tavolo accanto alla
cucina, la batte come per chiedere la parola. Alzo gli occhi e
l’automobile con Halldór ed Eiríkur e il silenzio tra di loro che
nemmeno la musica può più colmare, tutto sparisce nella nebbia del
tempo, come l’intero anno 1996 e le cose che esistevano all’epoca,
tutti coloro che sono morti. George Harrison è morto, e David Bowie,
e Leonard Cohen, e Prince, e anche Amy Winehouse, che in effetti
aveva solo tredici anni quando loro sono andati al Sud in macchina,
altrimenti nelle tre cassette ci sarebbe stato uno dei suoi brani,
sicuramente Back to Black, che Halldór avrebbe interpretato più
avanti nelle feste di paese, facendo commuovere anche i contadini
più induriti e le operaie più scorbutiche. We only said goodbye with
words, I died a hundred times.
Ci siamo salutati solo con le parole, da allora sono morta cento
volte.
Esistono parole per qualsiasi cosa, ma possono essere del tutto
inutili se non sono seguite da un abbraccio.
Allora, che cosa era successo, perché questa freddezza tra padre
e figlio, da dove viene il dispiacere di Eiríkur, dove se n’è andata la
sua infanzia senza ombre, Eiríkur non avrebbe dovuto eiaculare sul
libro francese, sull’autobiografia della prostituta? L’autobiografia della
mamma, aveva pensato mentre lo sperma si spandeva sul volume e
macchiava la copertina. Halldór forse l’aveva scoperto, e non aveva
potuto perdonare a suo figlio… di essersi masturbato? A tredici anni?
E che cazzo, aveva detto il reverendo con la patente, non può
essere. Ma finiamola, faccio io. La storia del genere umano non
sarebbe mai esistita senza la masturbazione. Il cervello umano si
sarebbe cotto, sarebbe diventato un cactus. Perfino Gesù si
masturbava da adolescente, e anche da giovane. Chiudeva gli occhi
e pensava a Maria Maddalena, o al suo amico Pietro. Allora, hai
finito, posso intervenire?
Stacco di nuovo lo sguardo dai fogli, poso la matita e l’anno 1996
svanisce.
Sette ore, dice lui per la quarta volta quando vede che sono
tornato, oggi per coprire quel tragitto ci vorrebbero quattro ore al
massimo, Halldór avrebbe caricato la playlist su Spotify, sarebbe
stato più comodo, avrebbe impiegato meno tempo. Adesso ci vuole
meno tempo per tutto, tranne forse per il sesso, le partite di calcio, le
opere di Wagner. Sì, si fa prima a fare tutto, le nostre conoscenze
progrediscono, siamo arrivati sulla Luna, abbiamo mandato una
sonda oltre il nostro sistema solare, viviamo più a lungo, possiamo
comunicare con il mondo intero rimanendo seduti sul divano, eppure
l’umanità non è più felice. Non dovrebbe preoccuparci, questo, non ci
dice che abbiamo sbagliato strada come esseri umani? Senza la
felicità ogni vittoria è irrilevante, ogni ricchezza vana. Non è che
forse, in fin dei conti, siamo felici nella semplicità, nella facilità, chiede
e mi porge una foto di Hafrún e Skúli che era appesa sopra la cucina,
scattata durante il primo anno di matrimonio. Sono in piedi, stretti uno
accanto all’altra, davanti al vecchio casale di torba in cui era nata
Hafrún; un anno dopo avevano eretto la loro casa con il solaio
sorridente.
Osservo attentamente la fotografia, forse desidero vedere e vivere
la loro felicità, scorgo la vecchia fattoria di Framnes sullo sfondo, il
casale di torba che era stato ampliato con un edificio annesso di
legno rivestito di lamiera ondulata. Com’era consuetudine all’epoca.
La gente aveva qualche riluttanza a distruggere i casali di torba e
preferiva ampliarli con degli annessi in legno. Una bella cosa, perché
era come se il passato e il presente si sovrapponessero,
diventassero una cosa sola, accoglievano le persone, davano loro la
sensazione che i tempi fossero tenuti insieme da legami indistruttibili,
che dipendessero gli uni dagli altri. Il passato ci nutriva con la sua
presenza costante, alitava serenità nelle inquietudini del secolo
presente, ci aiutava a mantenerci in equilibrio in un mondo
costantemente mutevole, offriva sicurezza, il passato…
… ci teneva bloccati, dice il pastore con la patente. Ce lo
trascinavamo dietro come una catena, una palla di ferro. Ecco una
volta ancora la prova delle contraddizioni che caratterizzano
l’esistenza umana, com’è sempre stato. Non c’è niente di ovvio. Non
esitare a mettere in quarantena chiunque sostenga di comprendere il
nesso tra le cose, che affermi che tutto ha un senso, e non farlo
uscire di casa finché non ha compreso, finché non ha ammesso le
incongruenze, non ha scritto un romanzo in cui il mondo risulta
incomprensibile. Eiríkur era andato alle superiori nel Sud, al liceo di
Hamrahlíð, ovvio, aveva l’anima artistica, era tutto per la musica, gli
interessavano il teatro e il cinema; saranno state le serate al cineclub
organizzate da Hallgerður a Hólmavík a trasmettergli questa
passione?
Sì, sicuramente. Ho dimenticato di raccontare dell’importanza di
quelle serate nella vita di Eiríkur. Hallgerður, che un tempo era la
commessa paffuta della rivendita della Cooperativa, aveva fondato
un cineclub e proiettava film di Bergman, Kieślowski e David Lynch al
centro sociale. Eiríkur era sempre andato alle proiezioni, in genere ci
andava insieme a quelli della fattoria di Nes. A tredici anni dimostrava
già una tale passione per il cinema che per Natale Halldór gli aveva
regalato un videoregistratore e un piccolo televisore. Così Eiríkur si
dedicava con tale interesse ai film e alla musica che poteva restare
chiuso nella sua stanza anche per settimane, ne usciva solo per
mangiare.
A volte, quando era a Oddi, Halldór si appostava in silenzio alla
porta della camera del figlio, cercava di capire che cosa stesse
ascoltando, poi acquistava il disco o il cd e se lo ascoltava in
macchina, mentre faceva il fieno, quand’era in mare… era il suo
modo per trovare un contatto con il figlio, per vivere le stesse
sensazioni che viveva lui. Chissà, magari Eiríkur sapeva che suo
padre origliava dietro la porta, e sceglieva appositamente i brani;
erano messaggi per Halldór, e anche per sua madre, che era morta
perché lui potesse vivere. I will kiss you, I will kiss you, and we shall
be together.
Ti bacerò e saremo sempre insieme. Chi perde la madre da
piccolo, o peggio ancora alla nascita, si porta dentro una ferita che
impiega molto tempo a risanarsi, che si rimargina male,
probabilmente non si rimargina mai, si riapre ogni volta che la vita ci
si sfrega sopra o la urta. Ah, lui che non aveva idea che fosse sempre
viva, che lei che era morta era ancora in vita, che si era spinta fin
lassù nel Nord per chiedere un bicchiere d’acqua, per pronunciare
due volte il suo nome mentre Halldór riparava una macchina
legatrice. Perché non gli avevano mai detto…
Aspetta, faccio io, non siamo ancora arrivati a questo punto.
Sto solo cercando di dare una mano. È il nostro ruolo, aiutare, il
ruolo di noialtri che prepariamo i pönnukökur, che guidiamo le
corriere, che lavoriamo alle dipendenze di Dio o come corrieri per il
diavolo. Dare una mano, spronarti a proseguire, riempirti di
perplessità, spingerti giù da uno strapiombo, essere la rete di
sicurezza che ti accoglie – solo che non devi fidarti troppo. Sarai
giudicato per quello che fai, non per quello che hai intenzione di fare.
Svana arriva nel fiordo con Eiríkur, lo porge a sua nonna sopra il
tavolo della cucina perché non si uccide l’amore. Sedici anni dopo
Halldór lo accompagna in macchina nel Sud, fermati, non mi lasciare
mai, cantava Morrissey, erano anni che non si abbracciavano. Forse
non lo faranno mai più? Posso solo salutarti con le parole, ma
possono essere del tutto inutili se non sono seguite da un abbraccio.
Il loro rapporto non era più stato lo stesso, la loro affinità era sparita,
è stato difficile assistere a questo distacco tra loro, per Skúli e
Hafrún?
Possiamo definirlo una specie di abbraccio quando Halldór ed
Eiríkur si erano trovati seduti l’uno di fronte all’altro, ciascuno con la
propria chitarra, nel soggiorno di Oddi con le grandi finestre che
incorniciavano il fianco del monte, il cielo, l’edificio della scuola, le
fattorie di Hof e di Skarð; davanti a Halldór solo un caffè o una bibita
gassata. Era accaduto tredici volte, sempre il giorno dopo Natale. La
prima quando Eiríkur aveva undici anni, l’ultima il Natale prima di
partire per Parigi. Tredici volte, Halldór se lo ricorda, Eiríkur no. Si
erano seduti lì con le chitarre, uno davanti all’altro, le prime volte era
Halldór che guidava, poi con gli anni si erano spartiti i ruoli via via che
la tecnica di Eiríkur si perfezionava, superando perfino quella di
Halldór, che però aveva più esperienza; non c’era mai competizione
tra loro, solo un profondo desiderio di armonia; due anime che si
parlavano per mezzo della musica. Cantavano a volte, quando
serviva, Halldór con una voce alta e chiara, quella di Eiríkur più
bassa, aveva già una sfumatura cupa a quindici anni, scura, vellutata,
l’armonia tra di loro poteva essere talmente completa che a Hafrún
riusciva difficile trattenere le lacrime, seduta sul divano, mentre
teneva il capo ingrigito posato sulla spalla di Skúli. Eiríkur serio,
l’espressione concentrata, mentre Halldór a volte non riusciva a
smettere di sorridere. Smettila di sorridere, s’imponeva, Eiríkur si
imbarazza a vedermi ridere come un idiota… Solo che era così felice.
Nelle ultime cinque occasioni avevano finito per suonare Ashes to
Ashes di David Bowie, un pezzo che tutti e due amavano molto…
L’unica ombra su quei momenti felici era che Halldór percepiva
costantemente, profondamente, che una volta passato l’istante, una
volta sparita la magia, una volta messe via le chitarre, sarebbe
tornata la quotidianità, si sarebbe riaperta la distanza tra lui e suo
figlio.
È così, abbiamo i nostri momenti in cui la felicità ci benedice, poi
passano, si trasformano in passato, e il passato non ritorna mai più.
La malinconia è il nostro ricordo di una felicità trascorsa.
È la storia del genere umano.
Tutti invecchiano, perdono la vita. Viviamo ore luminose,
sperimentiamo la felicità, poi tutto svanisce, il tempo non si arresta, a
lui non importa niente di noi, il tale muore, il talaltro piomba
nell’infelicità, nella delusione, nell’alcolismo, e alla fine tutti se ne
vanno per non tornare mai più. Dalla vita alla morte, questo è il
decorso. Veniamo dal nulla, scompariamo nel niente, e alla fine tutto
si cancella. Raggiungiamo la felicità, poi la perdiamo. Ci troviamo di
fronte a due opzioni e nessuno sa con certezza quale sia quella
giusta, forse entrambe, forse nessuna delle due, magari tutto dipende
dal punto di vista. Non prendi una decisione, e ti paralizzi. Pétur ha
consegnato il libro a Guðríður, la luce si spegne nelle mani di Halla,
alla fine diventano due mani fatte di buio, due buchi neri, e il
tradimento è sempre il rovescio dell’amore, perché tutto ha almeno
due facce? Le vite di Halldór e di Svana si sono intrecciate un
autunno a Búðardalur, lei ha tradito suo marito perché è stata fedele
all’amore. Halldór sapeva che era sposata, che aveva due figlie e un
matrimonio stabile, pieno d’affetto. Non baciarmi, aveva chiesto lei,
non puoi baciarmi, se mi rispetti, se mi vuoi bene, se mi ami allora
non puoi baciarmi, non guardarmi così, ho paura, non puoi baciarmi.
Fidati di me, amore mio, aveva detto Halldór, e l’aveva baciata. Ti
bacio, e saremo sempre insieme. I will kiss you, I will kiss you, and we
shall be together.
Forse funziona nel brano dei Cure, ma non in questa storia, non in
questo universo.
Avevano conosciuto la felicità, l’avevano sacrificata ed Eiríkur era
nato con un buco nero dentro. Perché avevano tradito, perché non
avevano potuto vivere insieme, perché non avevano osato farlo,
perché non dovevano farlo, perché lei non aveva avuto il coraggio di
sacrificare tutto per l’amore? Ci sono sempre due opzioni, e non
importa quale si sceglie, da qualche parte si aprirà sempre un buco
nero. Allora come si fa a vivere?
Eiríkur se n’era andato dal fiordo con un buco nero dentro. Un
tragitto di sette ore. Toccami, stringimi, tienimi forte. L’unica canzone
che ricorda di tutto quel viaggio, delle tre cassette che Halldór aveva
registrato impiegandoci una giornata intera, ogni brano aveva il suo
significato, ogni testo il suo messaggio, e tutto si era dileguato sul
bordo di un buco nero. Eiríkur era seduto stretto contro la portiera, già
sentiva la mancanza della nonna e del nonno, il paesaggio sfrecciava
accanto a lui e Halldór doveva rallentare di tanto in tanto, faceva i
centotrenta su quella strada stretta senza nemmeno rendersene
conto. Non so come parlare con mio figlio, pensava, trattenendo le
lacrime al volante. Il Natale di tre anni prima Sóley e Rúna avevano
regalato a Eiríkur un’amaca, Halldór l’aveva appesa nella camera di
suo figlio, nel solaio. «Perché tu possa sognare a mezz’aria», aveva
scritto Sóley sul biglietto.
Ma conviene rischiare di sognare, se i sogni non si avverano mai?
And all my little plans and schemes, lost like some forgotten
dreams; tu prendi una decisione e succede qualcosa, il tale piomba
nella disperazione, il talaltro abbraccia la felicità, ma c’è sempre un
dazio da pagare. Non prendi una decisione, e ti paralizzi. Adesso che
ti ho visto sorridere, che ne sarà di me?
Adesso non so più se oso esistere
È giugno e certe frasi spiegano tutto.
Non è proprio una persona che s’incontra tutti i giorni, tua nuora, si
era sentita dire non di rado – Guðríður era arrivata senza niente da
un’anziana zia di Stykkishólmur circa vent’anni prima. Più sottile di
uno stecco ma si presentava bene, garbata, chiaramente senza
molte pretese, né per quanto riguardava l’alimentazione né per
qualsiasi altra cosa, che è sempre stata ritenuta una dote
apprezzabile per una lavorante. Steinunn cercava da tempo una
lavorante giovane, che contava di tenere a lungo in casa, qualcuno
che non avesse la tendenza, com’era consuetudine anche troppo
diffusa in quell’epoca senza eguali, di scapparsene via alla prima
occasione per andare a lavorare nel pesce in qualche centro costiero
dove si pagava in denaro sonante, o di andarsene perfino in Canada.
Aveva sentito parlare della ragazza appena arrivata dall’Est, e
l’aveva assunta. All’inizio non se n’era affatto pentita, la giovane si
dava da fare, era coscienziosa, sapeva stare al suo posto, lavorava
bene benché avesse la tendenza a distrarsi troppo spesso, rimaneva
immobile a fissare per aria, del tutto avulsa dal suo ambiente, oppure
si ritagliava del tempo in orario di lavoro per perdersi in qualche libro
di Björgvin, che ha una biblioteca di trenta, quaranta volumi. A lungo
era stata molto timida, si teneva in disparte, non si lamentava mai, poi
con il passare del tempo si era fatta più sicura. A poco a poco aveva
cominciato a sorridere, e il suo si era rivelato un sorriso che la gente
notava, alcuni più di altri – e nessuno quanto Gísli. Steinunn si era
prontamente accorta del cambiamento, aveva capito che stava
nascendo qualcosa tra di loro, aveva provato inutilmente a opporsi,
ovviamente aveva progetti di tutt’altro tipo per il figlio minore, non
certo un matrimonio con una lavorante senza né arte né parte. Ma i
giovani ormai avevano smesso di tener conto delle opinioni degli
anziani, e la cosa non è certo migliorata, povero mondo, dove andrai
a finire?
Da allora sono passati anni, quel che è stato è stato, va preso
come viene. All’epoca Steinunn e Björgvin non erano affatto
soddisfatti che la giovane coppia avesse scelto di rintanarsi lassù
sulla brughiera, Björgvin aveva cercato di far cambiare idea a Gísli,
voleva convincerlo a lavorare con lui e magari subentrare alla
gestione della fattoria entro quindici, vent’anni, ma Gísli si era
rifiutato, più cocciuto di un ariete. Però avevano dato loro quelle tre
nipotine, le pupille di Steinunn, che ora stava osservando la nuora
aprire la busta più grande, estrarne la rivista Natura e mondo.
Guðríður guarda Gísli.
Mica roba da poco, dice lui, e si gratta la spalla.
È
È impossibile negarlo,
Ólafur Ágústsson
Alcuni cenni sui finimenti dei cavalli
Ó
No, Ólafur Flemma non è in casa. Ha dovuto occuparsi di un certo
Þorkell di Hólar che aveva fatto la sciocchezza di calpestare non si sa
che accidente sulla battigia l’altro ieri, e la gamba si era gonfiata. Il
lavorante che era andato a chiamare Ólafur sosteneva che era
talmente gonfia che sembrava un campanile. Allora è meglio
spicciarsi prima che Þorkell si trasformi in una chiesa intera, gli aveva
risposto Ólafur.
Arriverà prima di cena, non mancherà al banchetto, si siederà a
tavola al momento giusto, come del resto anche Stefán e Jónas, tra
l’altro non stanno molto lontano da qui, abitano praticamente nella
casa accanto. Invece per il mio caro Pétur è diverso, aveva detto
Kristín, non è detto che riesca ad arrivare in tempo. Non perché abiti
lontano o perché debba cavalcare parecchie ore, no, no, solo perché
il Signore si è dimenticato di dotarlo della puntualità. Pétur sostiene
che la vita è più importante della precisione, e io non so che cosa
rispondergli.
Nemmeno Guðríður lo sapeva, per questo non aveva detto niente,
aveva solo sorriso seguendo quella donna imponente all’interno della
casa, l’aveva attraversata tutta fino alla camera in fondo, quella
rivolta a ovest. Lì doveva sistemarsi, sarebbe stata sua finché
soggiornava da loro. Questo è il tuo regno, aveva detto Kristín, e
aveva riso. Ma, be’, mi spiace che non sia più spaziosa, ho provato a
sistemarla un po’ per renderla adeguata.
Mi spiace che non sia più spaziosa; quella camera è grande come
l’intera baðstofa a Uppsalir, dove dormono in cinque, anzi, in sette
quando vengono in visita i genitori di Gísli… Kristín era rimasta in sua
compagnia per una buona mezz’ora, le aveva fatto portare il caffè,
qualche squisitezza comprata nella panetteria in cui Guðríður non
aveva mai avuto i mezzi per entrare, aveva riempito la grande stanza
con la sua presenza e con l’energia vitale che emanava, aveva
parlato talmente tanto che Guðríður non aveva avuto bisogno di dire
niente, solo ascoltare. Siamo talmente contente di averti qui, aveva
detto Kristín, e che abbiano deciso di offrirti un posto nel comitato di
redazione, sarai la prima donna. Stefán e Jónas ti accoglieranno con
la loro gentilezza, sono ottime persone, entrambi, ciascuno a suo
modo. Però aspettati che impieghino un po’ per imparare a parlare
con te. Ho l’impressione che tu sia un po’ nervosa, è perfettamente
comprensibile, ma che tu ci creda o no, lo sono anche loro. Ciascuno
a suo modo.
Siamo talmente contente; al plurale, ovvero Kristín e altre tre
donne di Stykkishólmur, più anziane, che si ritrovano con regolarità
per parlare di letteratura, politica e altri affari urgenti come l’istruzione
pubblica, le questioni scolastiche, la costruzione di ospedali. E i diritti
delle donne; una di loro, Ásgerður, la moglie di Jónas, ha avuto la
fortuna di conoscere Bríet Bjarnhéðinsdóttir,3 che poi le ha inviato il
testo della sua conferenza sulla condizione femminile.
Non so se ne hai sentito parlare, aveva detto Kristín, ma è stata la
prima volta che si è tenuta una conferenza del genere qui da noi.
Negli ultimi due anni abbiamo avuto scambi epistolari con Bríet, lei ci
ha inviato la traduzione danese di un famoso scritto di John Stuart
Mill che si intitola La servitù delle donne. Un’opera importante,
importantissima! L’abbiamo divorata, tutte quante, poi l’abbiamo fatta
leggere ai nostri mariti e io ho convinto il mio Ólafur a scriverci un
articolo su un giornale di Reykjavík, e adesso abbiamo proposto di
sovvenzionare la traduzione in islandese di questo testo così
importante. Ti lascio la copia danese sul tavolo, insieme a qualche
altro libro. Pétur mi ha detto che leggi tutto quello che ti capita tra le
mani, che sfrutti ogni momento libero.
«Pétur mi ha detto che…»
Allora ha parlato di lei, in questa casa. Si è preso la briga di farlo,
nonostante ci fossero tante altre cose di cui parlare. Il pastore ha
ragione, legge tutto quello che le capita tra le mani. È sempre stato
così. Non riesce a lasciare in pace i libri, sottrae minuti e ore al lavoro
nei campi e alla gestione della casa per leggere quando Gísli non
vede. Invece adesso, quando finalmente ha a disposizione dei libri
che aveva soltanto potuto sognare, e due ore tutte per sé, senza
nessun obbligo, come non le capitava da quand’era bambina, resta lì
seduta come pietrificata, su quella comoda poltrona. Sta lì come una
pecora rincretinita e lascia scorrere il tempo, lo spreca, lo sciupa. E
tra poco le porteranno in stanza una tinozza piena di acqua calda.
Dovrà fare un bagno. Ah, che delizia adagiarsi nell’acqua calda,
aveva detto Kristín. Ci si sente come nuovi! E non preoccuparti,
aveva aggiunto, hai tutto il tempo che ti serve per distenderti e per
leggere.
Tutto il tempo; quasi tre ore prima che vengano a chiamarla per la
cena, come le aveva spiegato Kristín. Una cena di tre portate, con
piatti di cui Guðríður ha a malapena sentito parlare, figuriamoci se li
ha assaggiati, un banchetto che fino a quel momento è appartenuto a
un altro mondo, lontano, in compagnia di uomini eruditi, dei quali
dovrà mostrarsi alla pari. Una donna di brughiera, stupida e
ignorante.
Ti siederai accanto a me questa sera, aveva detto Kristín
prendendole le mani magre e rovinate dal lavoro, stringendole forte,
come per consolarla. Ti sarò di sostegno mentre ti abitui all’ambiente
e ai miei uomini. Quindi non devi preoccuparti. Il mio Ólafur è la
gentilezza fatta persona, è così buono dentro che a volte dico che la
vita lo avrebbe schiacciato da tempo, se non avesse quel carattere
positivo, se si prendesse troppo sul serio, e se non avesse me al suo
fianco. Stefán lo conosci per fama, immagino, è il commerciante.
Certo a volte può risultare un po’ scostante, anzi proprio brusco, la
gente ha paura di lui. Ma io credo che sia in parte perché cerca di
diventare come suo padre, anche se non ne avrebbe bisogno, perché
a mio avviso era un uomo di un’arroganza tale che ne è perfino
morto, qualche anno fa. Ma le ruvidità di Stefán e il suo modo di porsi
aspro e sgarbato sono soltanto una facciata, nient’altro che un filtro,
perché sotto si nasconde un uomo tenero ed estremamente amabile
con i suoi figli. Credo che Dio giudichi gli uomini più che altro dal
modo in cui si comportano con i propri figli, e poi con gli animali. Può
anche essere che sia obbligato a nascondere la sua gentilezza,
perché altrimenti qualcuno cercherebbe di approfittarsene. La
gentilezza non è mai stata un buon fondamento per il business. Il
caro Jónas invece ha studiato legge a Copenaghen, una creatura di
grande intelligenza, ma pigro e indolente come un vecchio montone.
Per molti anni è stato sposato con una donna talmente rigida e seria
che quando la poveretta è morta di tisi, dieci anni fa, lui aveva quasi
perso il sorriso. Poco tempo dopo ha avuto la fortuna di conoscere la
sua Ásgerður, sono sposati da sei anni, con lei Jónas si è rifatto una
vita. È grazie a lei che cerca di tenersi aggiornato su quanto sta
accadendo nel mondo e di familiarizzare con il pensiero moderno
quando si tratta di questioni come l’istruzione del popolo e i diritti
delle donne. Non dirlo a nessuno, ma a volte ho il sospetto che le sue
opinioni siano in gran parte le opinioni di Ásgerður. Non hai niente da
temere, da parte di Jónas. Invece credo che tanto per cominciare
sarà lui a sentirsi a disagio in tua presenza, ce la metterà tutta per
dimostrarti che non ha pregiudizi e quant’è progressista, concorderà
con tutto quello che dici. Poi troverà un equilibrio, non ti preoccupare.
Infine c’è Pétur, che è il mio preferito. Gli altri lo rispettano molto, per
la sua erudizione e la sua eloquenza, talvolta ne hanno anche timore
perché Pétur sa essere davvero imprevedibile. D’altronde è stato lui
a suggerire di invitarti a far parte del comitato di redazione. Ne ha
parlato con me e io ho subito convinto Ásgerður, così la decisione è
stata presa in quattro e quattr’otto. Be’, adesso ti lascio in pace. Sarai
sicuramente stremata dopo tutto quel viaggio. Ti lascio qui con i libri,
più tardi ti mando le ragazze con la tinozza e l’acqua.
Poi Kristín era uscita. Una donna maestosa, affettuosa, che occupa lo
spazio ovunque vada con la sua passione, e con una forza interiore
che a Guðríður ricorda quella del mare. La signora se ne va e lei
rimane seduta immobile, una pecora rincretinita sulla poltrona, e
lascia passare il tempo. Lo lascia andare in malora. Ci sono due
motivi per quello spreco di tempo che passa seduta sulla poltrona
anziché andare a prendersi un libro da leggere, adesso che è da
sola, senza nessun obbligo da rispettare. Il primo è che è grazie a lui
che si trova lì. È stato un vero colpo scoprirlo. Doveva esserne così
assurdamente felice che si è illuminata tutta in volto, si è chiazzata di
rosso sul collo, incapace di controllarsi – Kristín non l’ha forse
guardata con aria sospetta, subodorando qualcosa?
Il secondo motivo è lo specchio alto quanto lei posizionato in un
angolo della stanza. Teme per l’appunto che se riuscisse ad alzarsi
dalla poltrona non sarebbe per andare a prendere qualcosa da
È
leggere, ma per piazzarsi davanti a quello specchio. È paralizzata
perché sarà almeno un quarto di secolo che non si osserva per
intero. A Uppsalir c’è soltanto uno specchietto in cucina, a casa dei
suoceri ce n’è uno più grande, ma non è certo alto come lei, e
oltretutto non ha mai avuto la tranquillità necessaria per mettercisi di
fronte da sola. E perché dovrebbe farlo, del resto, che c’è da vedere,
che importanza ha l’aspetto esteriore? Non è forse il pensiero e il
carattere a dar forma all’essere umano, ciò che appare non è forse
solo vanità? E oltretutto sono in pochi a vederla lassù sulla brughiera,
a parte le pecore e il cielo, e nessuno dei due nutre un grande
interesse per il suo aspetto.
È seduta sulla poltrona, come paralizzata perché il reverendo
Pétur si sta avvicinando a Stykkishólmur, non è puntuale perché
vivere è molto più importante che presentarsi all’ora esatta. Vuol dire
che lui vive più degli altri?
È seduta paralizzata perché non si specchia per intero da quando
era bambina nell’Est, nel Norðfjörður; lì una volta si era trovata con
suo papà di fronte a un grande specchio nella casa del commerciante
e di sua moglie. Ricorda che si tenevano per mano. Ricorda il calore
del suo palmo, il modo in cui le aveva strizzato l’occhio nello specchio
e aveva sorriso, riempiendola di gioia. Temeva che sarebbe stato
troppo difficile ricordare quel momento nello specchio, perché suo
padre era morto poco dopo. Aveva detto di voler andare in Francia a
nuoto, era stato trent’anni prima.
È seduta paralizzata perché da allora ha messo al mondo tre
bambine. Da allora le sono passati addosso tanti giorni e tante notti,
sicuramente hanno maltrattato il suo corpo.
Ma una persona, mormora Guðríður mentre finalmente riesce ad
alzarsi, che è più interessata al proprio riflesso che ai libri è una
persona che non ha nessun interesse per il sapere.
Perché c’è anche quel famoso libro, La servitù delle donne. Ed
ecco che Guðríður se lo sfoglia, a capo chino.
Ha trionfato sulla stupida vanità dello specchio.
Il libro è in danese. Mentalmente traduce in islandese una frase
all’inizio del testo: «Io credo che le relazioni sociali dei due sessi, che
sottomettono l’un sesso all’altro in nome della legge, sono cattive in
se stesse, e costituiscono oggidì uno dei precipui ostacoli che si
oppongono al progresso dell’umanità.»4 Chi trionfa sulla vanità, dice
lei allo specchio, è capace di pensieri del genere.
Avvicinati, dice lo specchio, e spiegami bene. Anch’io mi sento
molto solo.
Non ci casco così facilmente, dice lei, sarcastica. E continua la
lettura.
1
È il nome che si dà tradizionalmente ai cavalli con una macchia bianca sul muso.
2
Scritto del 1869 dal titolo The Subjection of Women. In italiano: La servitù delle donne, trad.
it. e prefazione di Anna Maria Mozzoni, R. Carabba editore, Lanciano 1926.
3
Bríet Bjarnhéðinsdóttir (1856-1940) è stata una delle prime sostenitrici islandesi
dell’emancipazione delle donne. Ha fondato la prima rivista femminile in Islanda,
Kvennablaðið.
4
John Stuart Mill, La servitù delle donne, cit.
Ricordati di me,
e i demoni si allontaneranno
Alzo gli occhi e tu non sei più in vita
É
immaginario con la spatola per i pönnukökur e con Édith Piaf.
Alzo gli occhi dai miei fogli, e tutti spariscono. Vengono risucchiati
come ombre in un passato svanito da tempo, quasi come se non
fossero mai esistiti.
Spariscono tutti. Guðríður e i tre uomini nel salotto buono, e
sparisce anche la casa, non esiste più, quella grande casa alla
norvegese in legno in un paesino intorno al 1900; con una giovane
domestica che aveva sussurrato qualche consiglio a Guðríður, e la
tedesca che trasformava i pasti in avventure, rendendo tollerabile la
vita in Islanda, e perfino Kristín, la fregata, grande e ingombrante,
determinata, vibrante di energia, sparisce anche lei senza lasciare
traccia, come se non avesse mai posato piede su questa terra.
Eppure l’aveva fatto, e lo si era notato.
Alzo gli occhi e tutto viene spazzato via.
Forse vogliono arrestare Zola per aver detto la verità, non sempre si
apprezzano certe cose, la verità tende a essere uno specchio
impietoso, dico, con quattro pönnukökur tiepidi arrotolati davanti. Ne
addento uno, do un’occhiata fuori dalla piccola finestra laterale e
vedo i ruderi della fattoria di Oddi sull’altra sponda del fiume, l’antico
sito del casale, dov’era nata Hafrún e dove lei e Skúli avevano eretto
la loro casa. La casa nuova, costruita da Halldór dopo che la vecchia
era andata a fuoco, è poco distante; una casa di cemento non
tinteggiata, con il tetto rosso. Halldór non ha mai voluto pitturarla,
diceva che il cemento doveva rimanere esposto al vento e alla
pioggia e così con il tempo avrebbe assunto l’aspetto delle rocce sui
monti. Forse la casa doveva trasformarsi in una parete di roccia con il
tetto rosso. E in quella roccia oggi abita Eiríkur. Da solo con i suoi
cani, tre border collie, una carabina, tre cuccioli morti e una chitarra
portata da Marsiglia. Ha lasciato il fiordo a sedici anni, lo sguardo sul
limitare della brughiera, aveva provato una fitta di dolore
strappandosi le radici e aveva percepito tutta la libertà che c’era nel
non avere più una casa. Se n’era andato e sette ore di lande piene di
silenzio si erano erette tra lui e la sua infanzia. Aveva abitato per dieci
anni a Reykjavík, aveva preso in affitto una stanza di un seminterrato
da una famiglia che si era trasferita lì dal fiordo, si era tuffato nella
vita artistica del liceo, aveva fatto il commesso in una rivendita e le
pulizie negli uffici per avere una certa indipendenza economica,
aveva lavorato per un anno in un bar dopo il diploma, poi si era
iscritto alla scuola di musica, dopodiché era partito per un corso a
Parigi.
Era tornato regolarmente a casa finché risiedeva a Reykjavík,
spesso pieno di regali. Musica dai negozi di dischi del Sud, libri d’arte
e di giardinaggio per sua nonna, ma anche libri sui motori, sulla storia
delle auto, sulla storia dei trattori; libri sulle scienze e gli scienziati per
il nonno – e lo aiutava nella lettura quando l’inglese diventava troppo
complesso. Una volta per esempio, a Natale, avevano passato
giornate intere su Bright Galaxies, Dark Matters di Vera Rubin, la
donna che aveva dimostrato l’esistenza della materia oscura. Hafrún
preparava una torta al cioccolato, del caffè, cucinava pollo e agnello e
a cena loro le facevano il resoconto di quanto avevano letto quel
giorno.
I suoi ricordi migliori e più forti erano legati a suo nonno e a sua
nonna, che gli mancavano costantemente. Eppure, con il passare del
tempo, per qualche motivo, gli era risultato sempre più difficile tornare
nel fiordo. L’idea di andare a fare un salto al Nord non era più
spontanea, continuava a rimandare. In questo modo poteva passare
un anno intero senza che Eiríkur si facesse vedere. E anche tre anni,
quando si era trasferito all’estero. Che è strano, perché i nonni gli
mancavano. Gli mancava il fiordo. La gente. Per quale motivo…
Non che Eiríkur non avesse mai raccontato niente. Loro erano andati
a trovarlo a Reykjavík, lui era tornato una volta per Natale e di nuovo
durante un’estate con la sua ragazza, poi l’avevano osservato da
lontano mentre si sistemava a Parigi, mentre si impratichiva con la
lingua; si erano accorti che l’interesse per gli studi si era raffreddato
dopo il primo anno. Al punto che l’anno successivo aveva smesso del
tutto di studiare e si era unito a una specie di compagnia
sperimentale – se avevano capito bene – che metteva insieme teatro,
cinema, musica e critica sociale. Eiríkur si entusiasmava sempre ogni
volta che parlava con loro di musica e poi di quel teatro, gli sentivano
nella voce quella passione che conoscevano bene, la stessa che
aveva da bambino quando parlava delle cose a cui teneva molto.
Sorridevano sentendo la sua passione, se lo vedevano davanti,
passarsi la mano nei capelli, lo sguardo acceso. In quel teatro aveva
conosciuto quattro musicisti, due francesi e due arabi, con cui aveva
fondato un gruppo e con i quali faceva teatro e suonava nei bar e nei
ristoranti un po’ in tutta la Francia – durante una di queste tournée
aveva incontrato Tove.
È danese e si chiama Tove, come la poetessa,1 vi manda i suoi
saluti.
Ma ce la farai conoscere presto, vero, aveva chiesto Hafrún
quando Eiríkur aveva pronunciato il suo nome per ben tre volte nella
stessa conversazione. Sembrava avesse bisogno di dirlo a voce alta.
Ma sì, certo, appena le cose si sistemano, aveva risposto Eiríkur,
confermando così che c’era qualcosa tra loro due; ma di questo però
non aveva mai parlato apertamente.
Che ci fa una danese a Parigi, si era azzardata a chiedere Hafrún,
cercando di nascondere la curiosità nel tono di voce.
Abita a Nizza, a dire il vero, nonna, ci siamo conosciuti nel sud
della Francia quando abbiamo suonato per diverse settimane con
l’allestimento di due testi teatrali di Alfred Jarry. È una giornalista
culturale, è specializzata in teatro, doveva scrivere un articolo sullo
spettacolo. Ha una grande passione per l’Islanda e per l’islandese e
sogna da tempo di poter visitare il nostro paese. È ovvio che abbiamo
una gran voglia di venire, solo che è abbastanza complicato trovare
un periodo che vada bene a tutti e due. Lei abita nel Sud, io a Parigi e
lavoro al centocinquanta per cento, lei oltretutto ha due bambine, di
dieci e sei anni.
Due bambine, che bello! Allora forse sono già diventata bisnonna
acquisita, aveva detto Hafrún felice, poi si era morsa le labbra
vedendo Skúli che portava un dito davanti alla bocca; non correre, le
aveva detto quel dito. Ah, aveva detto allora Hafrún, caro Eiríkur,
sono così contenta. Verrete da noi spero, prima o poi! E Tove deve
parlare benissimo il francese, se lavora come giornalista. Scrive per i
giornali francesi, no?
Sì, sì, quando parla non diresti mai che non è francese. Tutti qui a
Parigi danno per scontato che sia del Sud; a nessuno viene in mente
di dire che è danese. È venuta in Francia a sedici anni come rifugiata
linguistica.
Rifugiata linguistica, esiste?
Eiríkur aveva riso, pare di sì, dice. Tove sostiene che
aumenteranno in gran numero, nei prossimi anni. Sono persone
provenienti da paesi in cui la lingua si sta estinguendo dall’interno.
Proprio come sta succedendo con il danese. Tove dice che la sua
lingua madre sta annegando in gola ai suoi connazionali e che entro
pochi decenni non assomiglierà più a nessuno dei suoni che
attribuiamo agli esseri umani.
Ne avevo abbastanza, mi ha detto, sono venuta in Francia
fingendo di voler andare a scuola e invece ho fatto richiesta di asilo
linguistico, mi hanno offerto subito la cittadinanza per motivi
umanitari.
Ma sentitevi, dire certe cose del danese, aveva detto Hafrún.
Comunque, sarebbe bellissimo avervi qui.
Ma anche noi abbiamo assolutamente intenzione di venire, Tove vi
manda i suoi saluti!
Vi manda i suoi saluti, vi saluta, dice Eiríkur, però omette, non osa
dirlo, non vuole angustiare sua nonna, crearle delle preoccupazioni,
che il motivo per cui è complicato andare in Islanda insieme non è la
sua residenza, il suo lavoro al centocinquanta per cento, le due
bambine piccole, ma il fatto che è sposata, stabilmente sposata da
dieci anni. Ama Eiríkur con tutto il cuore ma non osa lasciare suo
marito. Ha paura delle conseguenze. Suo marito combatte da tempo
contro vari demoni del passato, ha avuto dei problemi con l’alcol e
Tove teme che possa perdere il controllo della sua vita, che si dia al
bere, alla rabbia, all’autocommiserazione, se lei lo lascia. E che le
figlie debbano assistere all’autodistruzione del loro papà.
Sposata a un uomo fragile. Madre di due figlie.
Allora ci risiamo, di nuovo Búðardalur?
La storia si ripete, è un serpente che si morde la coda.
Siete benedetti;
E lui l’aveva fatto, una cartolina allegra da una città dopo l’altra:
Milano, Mosca, Atene, Varsavia, Oslo, Tel Aviv… A volte spediva
delle foto dell’allestimento, lui dietro le quinte con la chitarra, vestito
di nero, talmente avvolto dalle tenebre che sembrava solo un
sospetto, un pensiero vago. Una tournée di continui successi, si
erano aggiunti altri ingaggi, il giro si era allungato. Alla fine i sei mesi
erano diventati sedici, il programma a volte era talmente fitto che
potevano passare settimane senza che Tove riuscisse a tornare a
casa dalla sua famiglia. Era stato il loro periodo più bello. Non
dovevano lasciarsi continuamente, non dovevano vivere in una
nostalgia eterna. Quella vita dietro le quinte del mondo aveva
occupato tutta la loro realtà.
E invece non sapevano, o forse evitavano di pensarci, che quella
lunga, felice tournée teatrale aveva reso sempre più difficile spostarsi
da un mondo all’altro. Era diventato sempre…
(…)
La foto ha impiegato cinque mesi a raggiungerlo, dice il conducente
d’autobus barbuto con la patente per guidarmi da un mondo all’altro,
da un’epoca all’altra, tra diversi piani dell’esistenza; è sparita la
spatola, sono spariti i bermuda variopinti e le magliette con i
musicisti, si è messo un paio di jeans scuri, un maglione nero, una
giacca blu di taglio sartoriale.
Avevi accennato da qualche parte che Skúli era venuto qui nel
fiordo da piccolo con il postino, aggiunge il mio accompagnatore, alza
lo sguardo verso il soffitto e dice, come se stesse citando il testo a
memoria:
È arrivato qui perché suo padre, Jón Gíslason, un marinaio, era
rimasto sdraiato sulla schiena davanti alla loro piccola casa di legno,
a guardare il terso cielo notturno tentando di avvistare la galassia che
era stata scoperta una decina di anni prima nel grande mondo, e di
cui aveva letto in un giornale inglese qualche ora prima. Così grande
ed estesa, aveva pensato, che al treno più veloce del mondo ci
vorrebbero milioni di anni per percorrerla dall’inizio alla fine. Come
può uno spazio così grande e importante essere stato nascosto alla
vista umana per migliaia di anni – se questa immensità è stata finora
celata alla nostra vista, cos’altro si nasconde allora al di fuori della
nostra vita, al di fuori della storia dell’uomo? Possiamo essere certi
che il mondo in cui abbiamo vissuto non sia mai esistito, a rigor di
logica?
Tu che ne dici, chiede il mio accompagnatore, vuoi lasciare Jón lì
disteso ancora per molto – e noi, a rigor di logica, non abbiamo mai
vissuto?
Si era svegliata subito dopo che lui era uscito, aveva visto il biglietto,
l’aveva letto e aveva sorriso, felice. Per le parole, per la scrittura
disordinata in cui ogni tratto testimoniava la presenza e il carattere di
Eiríkur, l’uomo che amava. Aveva letto il messaggio tre volte e aveva
avuto l’intenzione di metterlo nella scatola che portava sempre con
sé e che conteneva una gran quantità di biglietti del genere, di brevi
note, di messaggi allegri, lasciati per lei da Eiríkur nei posti più
improbabili negli ultimi anni. Piccole pillole di allegria e felicità che
talvolta tirava fuori quando aveva bisogno di consolazione, oppure
semplicemente quando voleva sentirsi felice, sorridere, averlo vicino.
Ma poi aveva ricevuto un sms disperato dalla figlia maggiore che
aveva avuto le sue prime mestruazioni ed era spaventata, ansiosa,
anche se sapeva che cosa le stava succedendo. Tove l’aveva
chiamata subito e le aveva parlato a lungo, era riuscita a consolarla,
a tranquillizzarla, l’aveva perfino fatta ridere e per questo aveva
sorriso posando il telefono e si era allungata a prendere il biglietto per
metterlo nella scatola – ma a quel punto erano cominciate le lacrime.
Che cosa significa, si era chiesta stupita asciugandosi le guance. Ma
ne erano arrivate altre, le lacrime scorrevano come una forza
indipendente, dopodiché si era messa a singhiozzare, senza freni.
Era distesa a faccia in giù sul letto, si scuoteva tutta e tremava e
piangeva così forte che non riusciva quasi a respirare. Piangeva
perché l’evidenza le era apparsa davanti agli occhi. Quella che aveva
cercato di negare anche troppo a lungo. Che quell’esistenza doppia
la stava dilaniando. E dilaniava anche Eiríkur. Che nonostante
fossero sempre stati felici insieme, nonostante l’amore, stavano
buttando via la vita. Aveva capito d’un tratto che la stupenda,
eccitante quotidianità contenuta nel biglietto non avrebbe mai potuto
essere la loro quotidianità. Per questo era crollata. E piangeva
affranta. Ma forse anche… profondamente sollevata? Come se d’un
tratto le avessero tolto una montagna dalle spalle.
E finalmente riusciva a respirare.
Così avremmo potuto essere noi tra trenta, quarant’anni – Eiríkur
non l’aveva ascoltata. Aveva guardato la foto, aveva visto la
stanchezza nella postura di sua nonna, la serietà insolita nel volto del
nonno e un sospetto misto ad apprensione gli si era destato dentro.
Aveva preso il telefono per chiamare Skúli, che aveva risposto da
Reykjavík, dalla stanza di ospedale di Hafrún.
Adesso puoi tornare
Tua nonna ci aveva proibito di dirti della sua malattia, dice Skúli al
telefono. Le hanno diagnosticato un tumore nove mesi fa, un tumore
al colon. Lo chiamano l’assassino silenzioso, perché quando cominci
ad accorgertene si è già diffuso così in profondità che non c’è più
molto da fare. Non voleva che ti disturbassimo. Abbiamo dovuto
prometterglielo. Eri così impegnato, con tutte quelle date per la
rappresentazione. E sembravi così felice con la tua compagna
danese che non ha voluto rovinare il momento. Mi passerà, aveva
detto. Ed Eiríkur deve godersi la vita. È giovane, avrà tutto il tempo
per pensare alla morte. Prima deve poter vivere. E poi non voglio che
mi veda così malridotta, sembro un rottame. Se mi toccasse la
malaugurata sorte di dovermene andare, qualcuno deve conservare
il ricordo di me quand’ero sana. È già sufficiente che ci siate voi tre, a
dovermi sopportare in questo stato. Tu la conosci, Eiríkur. È sempre
stata così, tua nonna. La persona più affettuosa del mondo, ma a
volte sa essere talmente cocciuta che dovrebbe entrare nel Guinness
dei primati. Ma la foto l’hai ricevuta solo adesso, dopo cinque mesi?
Sì, nonno, ha fatto il giro di otto città in sei paesi. Non ho mai visto
così tanti timbri su una busta.
Tua nonna si sarebbe divertita. Non voleva che tu lo sapessi. Te
l’ho già detto? Anzitutto per la ragione che ti ho spiegato prima,
perché non voleva che tu la vedessi in questo stato, ma anche
perché ne aveva abbastanza degli isterismi – così li chiamava – miei,
di Páll e di tuo papà. Secondo lei, le nostre preoccupazioni non
facevano che peggiorare la malattia, invece saperti così felice con la
danese le dava allegria e la forza di combattere contro il cancro.
Tove, si chiama così, giusto? E abbiamo capito che c’era del vero, le
dava effettivamente un’energia in più. Le cartoline che le hai mandato
da tutte quelle città d’Europa, dall’Africa e dall’Asia la rendevano
felice. A volte mi sembrava perfino che riuscissero ad attutire il
dolore, più della morfina. Ti ho mandato la fotografia a sua insaputa,
e quasi me n’ero pentito. Voglio dire, la vedevo così felice di ricevere
solo belle notizie da parte tua. Devo rimettermi in piedi, diceva, per
accogliere come si deve la nostra nuora danese. Probabilmente tua
nonna ha tutto sotto controllo, anche senza rendersene conto.
Perché hai ricevuto la foto soltanto quando l’ha voluto lei. La morte
non deve intralciare la vita più del necessario, mi ha risposto, quando
le ho spiegato che volevo informarti di quanto stava succedendo.
Non ho mai fatto niente senza consultarla. Ma adesso puoi tornare,
Eiríkur. Avevo pensato di chiamarti proprio oggi. È peggiorata
improvvisamente. Dovresti venire subito. Non so per quanto tempo
riesco a trattenerla. Sento che dall’aldilà la stanno tirando forte, e a
volte la morte ha più presa della vita. Non sono più tanto robusto.
Eppure non ho mai tirato con questa energia. Ho paura di non essere
abbastanza forte. Ho paura che tua nonna se ne stia andando. E se è
così, sono sincero, non so che ne sarà del mondo.
Due ore più tardi Eiríkur è in strada per l’aeroporto. Poche ore prima
del volo c’era un solo biglietto disponibile, in Saga Class, caro come
la morte, aveva pensato involontariamente Eiríkur, e aveva mandato
un sms a suo nonno dal treno per il terminal, dicendogli che stava
arrivando.
Eiríkur sta arrivando, aveva sussurrato Skúli a Hafrún. L’aveva
sussurrato nella nebbia che si era addensata intorno a lei nelle ultime
ventiquattr’ore. Vi era sprofondata a tal punto che ormai non sentiva
più suo marito, non sentiva più la sua presenza, anche se lui non si
allontanava mai dal suo capezzale. Le parlava, leggeva per lei, le
teneva la mano.
Perché avevano sempre fatto tutto insieme da quand’erano
bambini.
Erano legati l’uno all’altra come le dita di una mano, avevano
sempre risolto i problemi insieme. Quelli dolorosi, quelli difficili, quelli
quotidiani, e si erano aiutati a rialzarsi dopo i colpi della vita. Perché
c’erano stati dei colpi, la vita è un lungo respiro, succede sempre
qualcosa. C’erano stati problemi economici, c’era stato da sistemare i
recinti, prendere la decisione di abbattere un cane che li aveva
accompagnati con devozione e lealtà per quindici anni, c’era stato da
dipingere la casa, da andare a prendere Halldór nei fiordi dell’Est
perché non l’aveva smaltita per un mese intero, aveva perso il posto,
si era coperto di debiti, avevano dovuto accogliere Páll quand’era
tornato distrutto a casa dopo il naufragio della relazione con la
vedova del marinaio, a volte Eiríkur non rispondeva quando Hafrún
gli telefonava il sabato, lei lasciava squillare ma lui non la richiamava,
erano stati momenti pesanti. Avevano superato qualsiasi cosa
insieme e la vita aveva sempre sorriso nella loro direzione ogni volta
che passava dal fiordo. Erano benedetti, aveva proprio ragione Tove.
Avevano fatto tutto insieme. Ma adesso quel legame tra di loro si era
rotto e Hafrún si era persa da sola dentro una nebbia densa, le mani
sulle ginocchia, parlava da sola nella speranza che le sue parole in
un modo o nell’altro arrivassero anche a suo marito. Ti amo da più di
sessant’anni, diceva.
Ti amo da più di sessant’anni. Ti ricordi, avevo solo undici anni
quando me ne sono accorta, tu nemmeno dieci. Eravamo seduti
ciascuno su un cespo d’erba nella valle di Gufudalur. Dovevamo
badare alle pecore, era l’ultima estate del fiordo, perfino di tutta
l’Islanda. Eravamo stati lì a chiacchierare e a sognare, come si fa da
bambini. Mi piaceva guardarti parlare. Vedere come muovevi le
labbra, vedere la luce cambiare il colore dei tuoi occhi che potevano
diventare incredibilmente azzurri – e per la prima volta mi sono
accorta dello spazio che avevi in mezzo agli occhi e d’un tratto mi sei
parso il più carino, il più bello, il più simpatico che ci fosse al mondo.
Eri talmente vivace che i tuoi occhi brillavano. Devo averti guardato in
maniera strana perché hai smesso di parlare e mi hai chiesto,
preoccupato e premuroso, se c’era qualcosa che non andava. Se
qualcosa non andava? Eccome! Avevo undici anni, e mi ero presa
una cotta per un ragazzino di nove. Era umiliante. Ero talmente
arrabbiata che mi sono alzata e ti ho tirato un ceffone con tutta la
forza che avevo. Talmente forte che sei ruzzolato dal cespo. Confuso
e stupito, ti sei rialzato, il labbro inferiore spaccato, ma io ero già
corsa via a gambe levate. Non ho rallentato finché non sono uscita
completamente dalla tua visuale, mi sono buttata per terra in un
prato, strillando furiosa, imprecando contro il terreno molle. Ti ho
amato ogni singolo secondo da allora e fa talmente male, è talmente
ingiusto non sentire più la tua mano, non sentire più la tua voce.
Come posso morire se non mi sei accanto?
Poi si era messa a piangere.
Amore mio, aveva sussurrato Skúli vedendo quel pianto silenzioso
scendere dagli occhi chiusi e sparire tra le lenzuola. Si era alzato, le
aveva asciugato le lacrime, le aveva fatte sparire, sussurrando, sono
qui, e non ti lascerò mai! Le aveva tenuto forte le mani, le aveva
portate alle vecchie labbra, davanti agli occhi azzurri, ma senza
piangere, voleva essere forte per lei. Perché se chi ami è indifeso,
impaurito, piange di dolore e di solitudine, bisogna che tu sia forte. E
lui aveva promesso a sua madre di essere sempre forte. Lei gli aveva
strappato quella promessa sulla riva del mare, un’intera vita prima.
Promettimi di essere forte, per me e per Agnes, perché io posso tutto,
amore mio, finché tu sei forte.
Sii forte, amore mio.
Jón, il padre di Skúli, si gira sulla schiena fuori dalla loro casa per
cercare la nuova galassia, dice il reverendo con la patente. Bisogna
che tu ci vada, non puoi farne a meno; nell’Ovest, sulla Snæfellsnes,
in un passato più profondo.
Non c’è spazio, non c’è tempo, borbotto io e faccio attenzione a
non alzare lo sguardo in modo che lui… non mi metta con le spalle al
muro, non mi porti fuori strada. Bisogna tentare…
Sì, appunto, ecco la parola giusta; tentare. Perché Jón prova a
individuare la galassia che è stata appena scoperta. Anche se credo
che ci voglia un telescopio potente, e che non abbia nessuna
possibilità di vederla, non in questa vita – e nella bottiglia gli restano
quattro sorsate torbide. Forse cinque. Skúli dorme in casa mentre
suo padre se ne sta disteso fuori. Dorme con le due sorelle, sei e tre
anni, ciascuna da un lato. Fa così freddo in casa che i bambini
dormono tutti insieme, per scaldarsi a vicenda. Skúli si sveglia presto
quella mattina, prima delle sei, con la piccola Agnes quasi tra le
braccia. Gli scappa forte la pipì e ancora mezzo addormentato si alza
barcollando dal letto, il freddo del pavimento gli morde la pianta dei
piedi ma è troppo stanco per infilarsi i calzini o le scarpe. Apre la
porta, che si era imbarcata durante la notte, esce, inciampa contro
suo padre – e poi risponde al telefono, settant’anni dopo, accanto a
un letto di ospedale a Reykjavík.
Sì, mormoro io, è proprio così, ma scruto con cura i fogli in cui Kári
imbocca la laterale per Hof, Lúna e Dísa escono sulla soglia per
accoglierlo e salutano con un cenno della mano me e Rúna quando
passiamo in macchina davanti alla casa, diretti all’albergo dove Sóley
mi aspetta, o non mi aspetta, non lo so, io sono…
Si erano fermati a lungo davanti alla lapide, i due fratelli, poi Eiríkur li
aveva raggiunti; talmente a lungo che la loro presenza era
sicuramente filtrata nel terreno, fino a raggiungerli tutti e tre, perché
Jón non è il solo a essere sottoterra, nelle tenebre tra i poeti ciechi –
sulla lapide ci sono anche i nomi di Hulda e di Agnes, la sorellina, che
voleva dormire stretta a suo fratello. Agnes Jónsdóttir (1935-1939),
Hulda Jónasardóttir (1905-1939). Poi i tre avevano continuato il loro
viaggio fino a Uppsalir, dov’era cominciato tutto. Perché era stato una
sorta di pellegrinaggio.
Avevano seguito le strade di campagna percorrendo gli antichi
sentieri, e per gli ultimi chilometri avevano dovuto procedere a piedi,
non c’era una strada né una pista che portasse alla fattoria, quasi
nemmeno un tratturo. Poi si erano fermati davanti alle rovine cadenti
e alle pareti crollate e c’era rimasto poco, praticamente niente, a
ricordare la baðstofa dove Gísli e Guðríður si erano addormentati e
svegliati molte migliaia di volte e avevano avuto i loro momenti. Dove
erano nate le due bambine più piccole, dove avevano trascorso la
loro infanzia, forse monotona ma piena di affetto; dove Gísli aveva
nutrito i sogni di un appezzamento nelle campagne a valle, e magari
sulla riva del mare. Dove si era masturbato dentro un calzino di lana
e dove Pétur aveva visto per la prima volta un sorriso pericoloso.
Quella baðstofa adesso è sparita, è stata cancellata completamente,
sembra quasi che non sia mai esistita. Ed è sparito anche il cortile,
dove tre bambine entusiaste si erano precipitate a vedere Pétur e
Ljúf che si avvicinavano, è sparito il corridoio del casale dove la loro
mamma era rimasta nascosta come una sciocca, nel punto in cui le
tenebre incontravano la luce del giorno, era rimasta lì e aveva atteso
di sentire la voce del pastore per la prima volta. Il corridoio del casale
da dove sarebbe uscita con una pila di frittelle per Gísli e Björgvin e
per le sue bambine che non volevano allontanarsi dalla giumenta di
cinque anni; era uscita dal corridoio e poco più tardi aveva
attraversato il corpo di Eiríkur, che si era trovato lì in piedi davanti ai
ruderi poco meno di centovent’anni dopo – e il suo cuore aveva avuto
un sobbalzo a sentirne la presenza.
nella Gufudalur?
Due mesi dopo Hulda aveva accompagnato Skúli fino alla riva del
mare. In una giornata limpida e tersa. Il bambino aveva guardato
dritto davanti a sé per tutto il tempo, concentrato ad ascoltare sua
mamma, ad assorbire le sue parole e la sua presenza, a trattenere le
lacrime. Voleva tenerle lì, voleva essere forte per sua mamma.
Avevano camminato piano per allungare la strada, quel momento
insieme. Lei gli aveva raccontato del fiordo che lo attendeva e della
piccola valle piena di verde. Era stata lì poco più di un anno da
bambina, era stato un bel periodo, era stata accolta da brave
persone, e Margrét, che adesso è la fattoressa di Botn ed è
impaziente di tenere Skúli con sé, era la sua migliore amica. A volte
ci siamo scambiate delle lettere, aveva detto Hulda. Andrà tutto bene,
aveva detto Hulda.
Sei molto fortunato a poter partire. Hai solo sette anni e potrai
vedere delle belle campagne, un paesaggio variegato, e tutte le case
che ci sono a Stykkishólmur! È quasi come andare a Reykjavík. Non
conosco nessun bambino di sette anni che abbia visto tanto mondo
come te. Sei fortunato. Diventerai molto saggio. Sono orgogliosa di
te. Sei bello, bravo e simpatico. Andrà tutto bene, vedrai. Devi solo
avere pazienza. A volte deve succedere qualcosa di molto brutto,
perché possa succedere il meglio. Lo so che sarai felice. Invidio tutti
coloro che ti conosceranno, che vivranno vicino a te. Che fortuna che
hanno! Magari tra un anno si sarà sistemato tutto, potrò mandare
qualcuno a prenderti. Non vedo l’ora! Ma prima devi essere molto
forte per un po’, ce la fai, tesoro mio, me lo prometti?
Poi avevano raggiunto la riva e Hulda si era inginocchiata accanto
a lui. La barca che doveva traghettarlo fino al peschereccio era in
attesa lì vicino. Lo aveva abbracciato forte, l’aveva tenuto a lungo,
l’aveva stretto con tutta la forza con cui è possibile abbracciare a
questo mondo. E lui aveva sentito che la mamma tremava. Su, su,
aveva sussurrato lei, che stupida che sono, bagnarti questo tuo bel
maglioncino. Caro, caro il mio bel bambino, il mio bambino bravo e
bello!
Gli aveva aperto il palmo della mano, se l’era appoggiato sul
cuore, l’aveva chiuso dolcemente, ma ben stretto, e aveva detto
piano, adesso il mio cuore sarà sempre con te. Prenditene cura, e sii
forte.
Era rimasta sulla riva a guardarlo mentre si allontanava, la barca
era salpata e sua madre era diventata sempre più piccola via via che
si allontanava. Come se la distanza la cancellasse a poco a poco.
Come se la distanza fosse un altro nome per la morte.
dell’acqua?
Tre giorni più tardi raggiungono il Nord con la bara. Sul pick-up di
Halldór. È solo nell’abitacolo, perché Skúli, Páll ed Eiríkur sono seduti
su un materasso spesso posato sul pianale, contro la cabina di guida,
per tutto il tratto fino al Nord, un tragitto di cinque ore in auto, come se
volessero prendersi cura della bara, oppure per fare compagnia a
Hafrún. Nevica sopra di loro sulla brughiera di Holtavörðuheiði ed
Eiríkur ha talmente freddo che si è quasi trasformato in un ghiacciolo.
Che sarebbe stata un’ottima cosa perché i ghiaccioli non sentono
nulla, si sciolgono e basta. Forse è vietato sedersi sul pianale di un
pick-up che percorre la statale a cento all’ora. Forse non si può
nemmeno trasportare un cadavere e una cassa da morto in queste
condizioni – la bara certo è ben assicurata, ma i tre uomini non hanno
la cintura, sballottano e sobbalzano con i movimenti dell’auto, con le
curve della strada. Qualcuno sicuramente deve essersi allarmato,
forse è rimasto scioccato, si è perfino arrabbiato, in ogni modo, la
polizia viene informata di questo strano trasporto e li raggiunge
appena prima di arrivare a Borðeyri.
È
È vero, li ho visti ed è stato penoso. Però sono quasi sicuro che
quel tale puzzasse di alcol.
Avresti voluto chiedergli di fare il test, ti sembra il giorno giusto, il
momento, con la madre morta a due metri di distanza?
No, forse no. Oppure sì, ecco. È un’infrazione, guidare sotto gli
effetti dell’alcol. Non c’è dubbio.
Io dico che non è successo niente, non li abbiamo mai visti. E
non… non si misura il tasso alcolico del dolore.
Ragazzo, mi accendi!
E ha riso
Appena due anni più tardi Páll telefona a Eiríkur a Marsiglia, dove
vive in un piccolo appartamento comprato quando Tove l’ha coinvolto
nel teatro che dirige, quando ancora sognavano una vita insieme.
Páll gli telefona. Il placido Páll, il troll che un quarto di secolo prima
aveva preso un master su Kierkegaard, che aveva insegnato a lungo
al liceo di Keflavík, che per un certo periodo aveva preso la gestione
della fattoria di Nes e adesso era tornato a casa a Oddi, insieme a
Halldór, che si occupa da solo delle attività agricole perché Páll esce
a pesca da Hólmavík quattro o cinque volte a settimana su una
piccola barca a motore insieme a Elías, il vecchio professore di
storia.
Ti disturbo, gli chiede titubante, perché sente del chiasso intorno a
Eiríkur. No, no, sono appena arrivato alle prove con l’orchestra. Esco
un attimo, fa Eiríkur, e sbuca nel vicolo fuori dal teatro, dove la luna
piena riversa i suoi raggi freddi sulla città. Si accende una sigaretta,
ascolta suo zio.
Quella mattina Skúli si era alzato molto presto, prima delle sei. Aveva
preparato delle uova per Páll che stava uscendo a pesca, aveva
tostato il pane, preparato il caffè. Poi si era accomodato sul divano
per leggere Il maestro e Margherita di Bulgakov, uno dei romanzi
preferiti di Hafrún che Skúli non aveva mai letto. Páll aveva fatto
colazione e aveva sorriso tra sé, sentendo il padre ridere sul divano.
Cominciava a calare la sera quando Páll era rientrato e Skúli era
ancora comodamente disteso sul divano, il libro aperto sul petto, il
caffè talmente freddo nella tazza sul tavolino che sicuramente era
morto da diverse ore. All’ora di pranzo aveva preparato una frittata
per Halldór, fischiettando un’aria talmente gioiosa mentre era ai
fornelli che Halldór aveva mandato un sms a Páll: «Credo che papà
stia tornando tra noi :-)» Poi il figlio maggiore era tornato nello studio
di registrazione, si era immerso nelle sue cose, ignaro di tutto.
Dietro a ogni cosa, aveva detto una volta Skúli a Eiríkur mentre erano
distesi fianco a fianco sotto il lucernario del sottotetto, c’è una forza
gigantesca che probabilmente l’essere umano ha sempre presagito.
Una forza muta, invisibile, misteriosa che abbiamo chiamato Dio
oppure destino – abbiamo sempre avuto difficoltà a distinguere tra le
due cose. In qualsiasi modo la si chiami, questa forza sembra essere
il motore della vita. Delle grandi e delle piccole cose. Dell’esistenza
umana e del lombrico. La vita del pianeta Terra e delle galassie.
Imprime il moto al sistema solare, all’universo, e avvolge senza
dubbio tutto il cosmo intero.
Ci finiremo tutti, alla fine, diceva la nonna a mio papà – e adesso lo
dico a te. Ci spariremo dentro, ne faremo parte e diventeremo una
cosa sola con questa forza. Ma allora smetteremo di esistere, avevo
chiesto a papà angosciato, perché trovavo terrificante l’idea che tutti
noi, la mamma, il papà, le mie sorelle e io, dovessimo smettere di
esistere per sparire senza lasciare traccia e fonderci con quella forza
invisibile che stava all’origine di tutto. Mi sembrava un incubo
spaventoso. Certo, ho posto la domanda in maniera diversa, ero un
bambino, i miei interrogativi erano quelli di un bambino. Forse gli ho
chiesto se i bambini che muoiono non possono più giocare, se non
sentiranno più le canzoni, le storie lette per loro. Se non potranno più
vedere i propri genitori, le sorelle e i fratelli, gli amici. Sì, se tutti
smettono semplicemente di vivere perché l’essere umano si
trasforma in raggio di sole, in gocce di pioggia o in atmosfera.
E il nonno che cosa ha risposto?
Si è messo a ridere, ha detto che aveva fatto le stesse domande a
sua mamma. E che anche lei aveva riso dicendo che nessuno
scienziato avrebbe dovuto proporre una teoria senza averla prima
sottoposta a un bambino. Lo so che rimuginavano spesso tutti e due
su questa forza misteriosa, credo che ritenessero che la nostra vita,
qui e ora, che i nostri pensieri e le nostre azioni, in un modo o
nell’altro, influissero costantemente su questa forza. E di
conseguenza l’essere umano, che gli piacesse o meno, non era
responsabile soltanto nei confronti di se stesso e della propria vita,
ma anche del resto del mondo nella sua interezza. In altre parole – il
mondo ci plasma e noi lo plasmiamo con il nostro comportamento, la
nostra vita. E non è tutto, perché ciò che compi in questa vita ti
attenderà nell’aldilà, in qualche maniera. Capisci, figliolo?
Sono morti in tanti eppure la vita continua, non importa quali e quante
siano le persone che muoiono. La vita continua il suo corso come se
niente fosse successo. Non si cura né della giustizia né dell’equità.
Perché sono tutti morti: Hafrún, Skúli, Aldís, Margrét, Jón, Hulda, la
piccola Agnes ed Eva, la figlia di Pétur e di Halla. E molti, molti di più,
perché ti ricordi:
Guðríður «esce, e sono tutti morti.»
Significa che anche lei è morta. E Pétur. E Halla, che aveva le
mani fatte di luce. E Gísli, e le figlie avute con Guðríður. Björgvin e
Steinunn sono morti. Anche il loro figlio che era in Canada, eppure
con la morte ci faceva affari. Se ne sono andati tutti. Non resta più
molto di loro. Perfino le luci più fulgide si spengono. Perché è così;
muori e la vita continua il suo corso senza intoppi, si comporta come
se tu non fossi mai esistito. Non si ferma mai, nemmeno per una
frazione di secondo, che importa chi muore, che importa in quanti
muoiano, lei continua inarrestabile, perfettamente indifferente, e noi
siamo costretti a seguirla, siamo costretti a lasciarci dietro chi è
caduto, lo abbandoniamo, lo lasciamo indietro per seguire la vita. La
vita è sempre in fuga costante dalla morte, eppure è una fuga che
porta comunque verso la sua direzione. Il paradosso governa ogni
cosa. Il che significa che il destino non si riduce a un paio di calzini
inviati da Parigi, a una gomma forata, al sorriso di Guðríður e a
Búðardalur, ma si riduce in primo luogo e in ultima analisi a questo
paradosso.
È
È chiaro che di quel che dice questo mio accompagnatore c’è da
fidarsi quanto del paradosso in cui viviamo. Non c’era odore di zolfo
sulle sue dita?
È evidente che non ho il controllo della situazione.
1
Tove Ditlevsen (1917-1976), poetessa e romanziera danese.
A volte menti e tradisci
per amore
Sono morti quasi tutti,
Eiríkur era tornato nel fiordo una sera verso mezzanotte dopo un
lungo esilio in Francia, richiamato dal padre Halldór. Cominciava a
imbrunire, il crepuscolo d’agosto si faceva più denso e la quiete
pareva traspirare nel buio tra le stelle.
Avevo dimenticato che esistesse una quiete così profonda, aveva
pensato Eiríkur sull’aia davanti alla casa non tinteggiata, con le due
valigie accanto ai piedi, mentre il motore dell’auto si raffreddava
producendo qualche lieve schiocco.
Aveva dimenticato quella quiete, e anche il cielo notturno, che a
volte lì sembra talmente vicino che si ha l’impressione che faccia
parte del paesaggio, e di conseguenza sia più prossimo che altrove a
noi esseri umani.
Eiríkur aveva preso le grosse valigie, era entrato in casa, le aveva
posate nell’ingresso e aveva salutato il vecchio gatto guercio che gli
si era avvicinato miagolando, l’andatura irrigidita; due galline stizzose
gli avevano strappato un occhio quand’era ancora un micetto. Eiríkur
si era chinato per accarezzarlo e si era guadagnato subito la sua
fiducia. Aveva pensato di cominciare facendo un giro della casa e
salutare ogni stanza, ma una volta nell’ingresso si era sentito
talmente sopraffatto che non era riuscito ad andare oltre la cucina e
si era accasciato su una sedia accanto al vecchio tavolo, davanti a
una ciotola di legno piena di mele e una pila di riviste musicali
straniere. Era rimasto seduto a lungo immobile mentre accarezzava
distrattamente il gatto che teneva in grembo, un ciuffo di capelli
castani sugli occhi scuri. Probabilmente si era anche assopito,
esausto per il viaggio e per tutti gli eventi della vita che gli si erano
rovesciati addosso in quell’ultimo periodo, ma aveva aperto gli occhi
appena il gatto aveva miagolato piano per chiedergli di continuare ad
accarezzarlo. Lo aveva fatto, allungando intanto la testa per leggere
la copertina del Jazz Journal che stava in cima al mucchio, così
aveva notato che conteneva un articolo sull’album Chet Baker Sings
del 1954; un disco che l’artista aveva inciso in gioventù e che Eiríkur
conosceva a memoria. Chissà che non mi dica qualcosa di nuovo,
aveva pensato, voleva allungarsi a prendere la rivista, con cautela
per non disturbare la serenità del gatto, e aveva notato una vecchia
busta in formato A4 nascosta sotto la pila. E questa cos’è, aveva
mormorato Eiríkur mentre la prendeva. Non c’era l’indirizzo, il lembo
della busta era stato incollato di nuovo con un nastro adesivo che si
era seccato da tempo, per cui stava attaccato per metà come un
ricordo accartocciato. Sarà qualcosa che riguarda la gestione
agricola, dei vecchi documenti o delle carte che Halldór e Páll si sono
messi a rileggere per passare il tempo; forse il vecchio registro delle
greggi, con i nomi degli ovini, lo stato di salute, quanti agnelli hanno
figliato in una o nell’altra annata; oppure qualche bilancio ingiallito,
che potrebbe essere interessante rileggere perché le vecchie
contabilità domestiche sono una macchina del tempo – un viaggio nei
territori dei ricordi, sui paesaggi degli anni trascorsi.
Vediamo un po’, ci sarà da divertirsi, aveva pensato Eiríkur, e
aveva infilato la mano nella busta ed estratto una lettera che Hafrún
gli aveva scritto il 7 di ottobre del 1980; quando Eiríkur aveva appena
tre mesi. Una lettera di tre pagine, accompagnata dal suo certificato
di nascita. Eccoti qui, che dormi, aveva scritto.
Aveva posato dolcemente il gatto sulla sedia accanto alla sua, si era
alzato, era andato a prendere la bottiglia di Calvados in una delle due
valigie, aveva cercato un bicchiere, se n’era versato una dose doppia
e se l’era tracannata in un sorso, socchiudendo gli occhi mentre il
forte liquore di mele gli si diffondeva nelle vene e scendeva nello
stomaco. Poi aveva esplorato la casa in cui non era mai stato prima.
Non tornava nel fiordo dalla morte di Skúli. Perché avrebbe dovuto
farlo? Che motivo ci poteva essere, dopo che la vecchia casa era
andata a fuoco? E quell’incendio non era stato forse un messaggio,
una dichiarazione che la sua infanzia era bruciata, che lì non c’era
più nulla ad attenderlo – se non delle delusioni?
Eppure è tornato, ed entra per la prima volta nella casa nuova. La
camera di Páll è accogliente, come si aspettava, molto in ordine, ogni
cosa al suo posto; alle pareti le foto di qualche filosofo, dei Beatles, di
Bach e di Van Gogh, tre libri sul comodino e gli occhiali da lettura in
cima alla pila; una raccolta di poesie di Kavafis in norvegese, E se
non posso dire del mio amore. La stanza di Halldór – anche quella
con il letto pronto – più disordinata. Un mucchio di libri sul comodino,
fotografie di Eiríkur, Skúli e Hafrún, foto in bianco e nero della vita in
campagna una cinquantina di anni prima, un quadro di Georg Guðni.
Una delle quattro camere da letto della casa è ovviamente riservata a
lui. Suo padre e suo zio hanno comperato un letto matrimoniale, ma
la sua vecchia scrivania era ancora lì, le fotografie dei suoi nonni,
quelle che lo ritraevano insieme alle sorelle di Nes – ci avevano
perfino sistemato l’amaca: «Perché tu possa sognare a mezz’aria.»
Avevano arredato la camera come se Eiríkur ci avesse sempre
abitato e se ne fosse allontanato soltanto per poco… Aveva
accarezzato la sua vecchia scrivania, aveva guardato le foto, i libri
sistemati con cura su tre scaffali, gli era venuta voglia di distendersi
sull’amaca, di lasciarsi cullare, consolare – aveva avuto voglia
soprattutto di distendersi e piangere. Ma si era affrettato a uscire,
temeva che se saliva su quell’amaca non avrebbe avuto la forza di
rialzarsi; voleva continuare a cercare. Sperava di trovare qualcosa
che lo aiutasse a comprendere. Lettere, documenti, fotografie,
oppure semplicemente qualcosa che potesse aprire una breccia nel
mondo che per qualche motivo gli era stato tenuto lontano. Qualcosa
che… sì, perché no, lo avvicinasse a sua madre, che quindi non era
morta, che aveva continuato a vivere la sua vita, che forse era ancora
viva.
Si era ritrovato di fronte alla vecchia credenza in sala, costruita da
Skúli con il legname raccolto in riva al mare il primo anno di
matrimonio con Hafrún, e dentro aveva trovato la pila dei diari di suo
padre; la prima pagina era stata scritta in novembre, un mese dopo
che Eiríkur era arrivato nel fiordo. Ne era rimasto sbalordito. Che suo
padre avesse avuto la pazienza di tenere un diario, e sì, che ne
avesse avuto il coraggio. Otto diari, due pile. Quando Eiríkur li aveva
presi vi aveva trovato alcune lettere indirizzate a lui da parte di suo
padre Halldór, lettere che non erano mai state spedite. La prima
portava la stessa data della prima lettera che Halldór aveva inviato a
suo figlio a Marsiglia.
Ah, ci sono tante di quelle cose che devo dirti, che vorrei dirti!
Eiríkur si era seduto al tavolo in cucina, si era versato un altro
bicchiere di Calvados, aveva disposto i diari e le lettere davanti a sé
in ordine cronologico e aveva cominciato a leggere. È vero, spesso
saltava alcune pagine, sentiva di non avere il diritto di leggerle, ma
cercava comunque qualcosa che potesse aiutarlo a capire, leggeva
per trovare una spiegazione. Aveva cercato e letto tutte le parti
dedicate a sua madre, aveva appreso che non molto tempo prima
suo padre e suo zio erano andati nell’Ovest sulla Snæfellsnes, per
fare visita alla tomba del nonno e della nonna, poi erano andati a
Uppsalir, si erano fermati a lungo davanti ai ruderi della fattoria.
Aveva letto, e a poco a poco aveva potuto accedere all’universo di
suo padre. Seduto al tavolo della cucina sopra il quale era stato
consegnato a sua nonna quarant’anni prima, aveva letto, aveva
toccato i palpiti del cuore di suo padre, il suo rimpianto, la tristezza, i
rimproveri che si muoveva, le accuse che faceva a se stesso, aveva
letto della sua vita quotidiana e dei suoi momenti felici. Aveva
smesso di leggere verso le prime ore del giorno, era ancora
addormentato sul tavolo quando i lavoranti di Skarð erano andati a
prendere le vacche per la mungitura del mattino. Aveva sentito i loro
muggiti attraverso il sonno, li aveva percepiti senza difficoltà da quasi
due chilometri di distanza in quell’assenza totale di vento.
La prima lettera che aveva letto quella notte era anche la più
antica… Sì, possiamo anche intitolarla Missiva sotto l’imballatrice.
È
vedermi davanti la sedia vuota. È la realtà che mi schiaffeggia. Ci
manchi molto, a me e a mio fratello. Dovresti vedere come ci siamo
impegnati ad arredare la tua camera, soprattutto Palli. Io lo so che a
volte va a distendersi sull’amaca per farci un pisolino. Lui non ne
parla, però sì, gli manchi molto. Il nostro dolore più grande è averti
perso. Perché è così che ci sentiamo, a volte. Sono passati anni
dall’ultima volta che ti abbiamo visto. Le lettere che riceviamo ogni
tanto non ci danno molte informazioni sulla tua vita. Non sappiamo
come stai, cosa ti fa battere il cuore. Però dalle sorelle di Nes
abbiamo saputo che abiti in una casa confortevole, circondato da
persone che ti vogliono bene. Non prenderla come un rimprovero.
Siamo noi che ti abbiamo tradito, punto e basta. O meglio, io ti ho
tradito. Non Palli. Lui non ha mai tradito nessuno. Non ne è capace.
Dov’ero rimasto?
Sì, sotto l’imballatrice. E non potevo fare niente. Per essere più
precisi, non avrei dovuto nemmeno osservare. Ti assicuro che anche
se mi fossero toccati mille anni nel posto peggiore dell’inferno, non
sarei riuscito a resistere e vi avrei osservati comunque, di nascosto.
Avrei osservato quel vostro primo e purtroppo ultimo incontro. Avrei
osservato il volto di tua madre quando sei uscito con il bicchiere e i
tuoi lunghi capelli neri. Avevi impedito a tua nonna di tagliarteli dopo
aver visto una foto di uno dei Led Zeppelin su Rolling Stone, a cui ero
abbonato. Avevi sentito Haraldur e Aldís parlare in termini entusiastici
di quella band, e questo ti era bastato, sei sempre stato un loro fan da
allora. Ti ricordi, Eiríkur, del momento in cui sei uscito con il bicchiere,
e una donna sconosciuta ti stava aspettando accanto alla sua auto –
ti ricordi di lei? Ti ricordi come ho provato, dopo, maldestramente,
temo, perché non ce la facevo a nascondere il tremito nella voce, a
chiederti se avevi provato qualcosa di particolare? Non hai notato che
non ti ha tolto gli occhi di dosso? Nemmeno mentre beveva. Non
immaginavo che si potesse bere un bicchiere d’acqua con tanta
eleganza. Non credevo che solo vedere una persona bere un
bicchiere d’acqua potesse farmi piangere. Hai notato come teneva il
bicchiere, con entrambe le mani? Io ricordo la terra fredda, nascosto
sotto l’imballatrice. Ricordo di aver sperato che tua madre perdesse il
controllo. Cioè, che non riuscisse a domare i sentimenti che sapevo
scalpitare sotto quel contegno fermo e composto. Mi auguravo che ti
prendesse tra le braccia per stringerti forte. Che tenesse stretto il
bambino che di certo le era mancato ogni singolo istante da quando
la vita l’aveva costretta a consegnarti in grembo a tua nonna. Me lo
auguravo, e pensavo, adesso esco da qui! Adesso mi precipito da
loro e tutto andrà bene, sarà bello e staremo sempre insieme. Ma il
destino è poco incline a scrivere queste scene, perché tua madre ha
mantenuto la calma, è rimasta coerente. Ha finito di bere, per qualche
istante ha tenuto il bicchiere vuoto tra le mani. Immagino che volesse
farvi fluire dentro tutto il suo amore e il suo rimpianto, prima di
riconsegnartelo. Ho visto che ti guardava. Ho visto che ha sorriso,
che poi ti ha dato il bicchiere e tu l’hai preso. Ti ha guardato ancora
una volta, ha detto qualcosa, poi si è voltata, è salita in macchina, ha
messo in moto, si è allontanata dal fiordo e dalla nostra vita. Soltanto
allora sono potuto uscire dal mio nascondiglio. Con il binocolo. E che
tu ci creda o no, non ho più osato guardarci dentro, in quel binocolo,
da quella volta – me ne sono comprato uno nuovo. Mi piace
immaginare che il vecchio conservi quell’unico attimo che in un certo
senso abbiamo passato tutti e tre insieme. Non so se esiste una vita
dopo la morte. Anzi, non so proprio niente della morte. E forse non so
nemmeno molto della vita. Ma quando sarà il momento vorrei essere
sepolto nel cimitero qui a Nes, accanto alla mamma e al papà. E
l’unica cosa che ti chiedo è di mettere quel binocolo dentro la bara
con me. Lo so che è del tutto priva di logica, ma trovo conforto
nell’idea. Del tutto illogica. È vero. Ma va bene così, perché credo che
anche l’amore e la felicità siano fondamentalmente illogici. Immagino
che siano una musica, che non deve essere compresa ma solo
apprezzata, vissuta. E mi permetto di aggiungere che quando me ne
sarò andato, e spero che succeda tra molti anni, molti anni felici con
te sempre vicino, circondato da tanti nipotini allegri, quando me ne
sarò andato e riposerò sottoterra a Nes, ti autorizzo, e magari nel
giorno del mio compleanno, ma dipenderà dal clima, che ha sempre
deciso tutto, sulla nostra isola, da quando l’abbiamo popolata – ti
autorizzo a suonare dieci o quindici pezzi sulla mia tomba. Porta gli
strumenti migliori e regolali sul volume più alto, in modo che la
musica arrivi facilmente oltre il confine. Una buona metà dev’essere
costituita da pezzi che conosco. Ti lascio una lista alla fine della
lettera, mi sono divertito a compilarne una di circa duecento brani,
così hai da scegliere. L’altra metà la decidi tu, magari scegli anche
canzoni composte dopo la mia morte. È quello che mi rattrista di più,
forse il mio dispiacere più grande, che la morte non metta fine solo
alla mia vita, ma anche alla musica, perché mi perderò tutto quello
che verrà composto dopo che me ne sarò andato. Si può concepire
un’ingiustizia più nera?
Eiríkur, il contenuto della bottiglia è calato pericolosamente ed è
tempo di smettere, prima che diventi troppo sentimentale. Devo
anche cominciare a studiare una playlist per me e per la Morte – sarà
divertente! È stato bellissimo starmene qui a scriverti questa lettera,
insieme a quella che spedirò domani. Di sicuro sarai sorpreso dal mio
tono. Ho deciso di non trattenermi più e di esprimermi liberamente,
senza inibizioni. Credo che sia il modo migliore per arrivare a te.
Seguendo la bussola del cuore? Forse. O se non altro, ho deciso di
seguirla nella mia vita, ed era ora. Sai, credo che il gatto, questo
maledetto pirata guercio, si sia bevuto un po’ della bottiglia, perché a
quanto vedo si sta dando da fare per scrivere una poesia d’amore
alle galline, gliela reciterà domani. Anche se gli costerà l’altro occhio.
Credo che le galline la poesia non la sopportino proprio, ecco perché
sono così stizzose.
Intermezzo sul contesto, sulle responsabilità
Colpa mia, gli faccio eco, alzo la testa e incrocio gli occhi azzurri del
conducente d’autobus che ha preso i voti, l’unico colore dell’iride che
è ammesso all’inferno, e per questo può attraversarlo a bordo della
sua corriera; è colpa mia se tutte queste persone sono morte? Sono il
responsabile della morte di Hafrún e Skúli, di Eva e di Agnes, sono il
responsabile…
È la tua scrittura, questa, no? Chiede lui puntando l’indice sui fogli
scribacchiati davanti a me, sulla grafia disordinata.
Sì, purtroppo. Ma questo non significa che sia il responsabile della
loro morte.
Sei tu che scrivi, tu sei il responsabile, chi altri dovrebbe esserlo?
Ma insomma, tu chi sei?
Strana domanda, da un uomo che non ha la minima idea della
propria identità. Ricordati l’antica massima: trova te stesso, prima di
cercare gli altri! Però hai ragione, Guðríður invia una lettera e un
articolo che vorrebbe pubblicare in una rivista, Pétur va a trovarla in
sella alla sua Ljúf. Vi conosco di nome, dice Gísli, quando Pétur si
presenta, ho sentito parlare di voi. «A che cosa dobbiamo l’onore di
questa visita?» Forse avrebbe potuto rispondere: perché sia possibile
seppellire Skúli accanto alla sua Hafrún tra centodieci anni?
Ma sarebbe stata una risposta senza senso.
Per chi si sofferma sui dettagli, sì, sicuramente. Ma è
perfettamente logica per chi conosce il contesto. Halldór dà fuoco alla
casa dove abitava la felicità, il sottotetto era un sorriso alla
campagna, la vita rispondeva sorridendo a sua volta quando passava
per il fiordo. Non sono sicuro che si possa perdonare a qualcuno di
aver dato fuoco a una casa, perché l’ha fatto? E non si può nemmeno
perdonare chi tradisce. Come avevano fatto entrambi, Halldór ed
Eiríkur, che di conseguenza sono dannati.
Dannati, è una parola piuttosto forte. Non dimenticare che fino
all’età di quarant’anni Eiríkur era convinto che sua mamma fosse
morta per causa sua, e che fosse in parte responsabile della
malinconia di suo padre Halldór, e anche del suo alcolismo; e che di
conseguenza fosse colpa sua se non riuscivano a legare; soprattutto
da quando si era masturbato sulla copertina con la foto di sua madre.
Gli unici momenti in cui erano stati in sintonia erano quelli nel
soggiorno di casa a Oddi, quando Hafrún li convinceva a suonare
qualche pezzo insieme. In quei momenti si sentivano bene. Halldór
era talmente felice che non riusciva a smettere di sorridere. Ashes to
Ashes era la loro canzone preferita, l’avevano suonata ogni volta
negli ultimi tre anni, avresti dovuto sentirli intonare I’m happy, hope
you’re happy too… Non sono dannati, sono solo infelici. Ed Eiríkur…
Aveva guardato la bara di suo nonno calare sottoterra. Halldór
aveva dato fuoco alla casa. Come possono comunicare adesso che
Hafrún e Skúli non ci sono più? Eiríkur era tornato a Marsiglia dopo il
funerale del nonno, ma aveva fatto ritorno nel fiordo tre o quattro anni
dopo, con due valigie pesanti, un gatto guercio e una casa vuota ad
accoglierlo, ma per quale motivo, che cos’è successo? Lui ed Elías
stanno organizzando una festa in onore dei vivi e dei morti, poi forse
Eiríkur andrà in prigione, rischia fino a dodici anni. I cani saranno tutti
morti, quando uscirà. Non ti basta ammazzare la gente, te la prendi
anche con i cani. Non andrà a finire bene. A meno che tu non riesca a
cambiare le cose.
I mondi si mescolano
Un trattore arrugginito invia una lettera,
I rapporti tra lui e suo padre sono stati sporadici da quando Halldór
aveva accompagnato il figlio sedicenne al liceo a Reykjavík, e
Morrissey cercava disperato di trovare un contatto. Possono passare
dei mesi senza che Eiríkur senta suo padre, e non ha mai l’esigenza
di rompere quel silenzio per primo. D’un tratto, da circa un anno,
aveva cominciato a ricevere delle email da Halldór. Certo, parlavano
soltanto degli eventi quotidiani nel fiordo, della vita di suo padre e di
suo zio, ma Eiríkur percepiva qualcosa di non detto sotto la
superficie, e sospettava che quelle email fossero il suo tentativo per
riavvicinarsi a lui; che Halldór aspettasse un suo cenno che gli
permettesse di aprirsi e scrivere… in tutta libertà. Ma Eiríkur non
gliene aveva dato l’occasione. Non credeva nella sincerità di Halldór.
Per fortuna, aveva pensato quando le email erano diventate più
lunghe, più confuse, spesso scritte di notte e chiaramente da ubriaco,
tanto che la sincerità si confondeva con l’emotività, il sentimentalismo
diventava autocommiserazione, e da lì ad accuse di ogni sorta il
passo era breve, il tutto si mischiava in un cocktail che Eiríkur trovava
intollerabile, anzi lo disgustava. E una mattina, dopo aver letto otto
email notturne di quel genere, ne aveva avuto abbastanza. Aveva
risposto all’ultima con un breve messaggio secco: «Ti prego, da
questo momento in poi risparmiami le tue insopportabili email
melense da ubriaco! Non le reggo! Sono un’umiliazione per
entrambi.»
Si era pentito immediatamente di aver mandato quel messaggio e
aveva avuto difficoltà a concentrarsi per tutta la giornata. Aveva la
sensazione di aver commesso qualcosa di imperdonabile, ma si
rifiutava di presentargli delle scuse. Aveva atteso inquieto,
angosciato, una risposta, aspettandosi qualsiasi cosa, una lettera di
assoluzione o una piena di rabbia e di recriminazioni. Ma non aveva
mai ricevuto nessuna risposta. Non quel giorno, né il giorno dopo.
Erano passate settimane, mesi, e il silenzio si era esteso tra di loro
come un oceano – poi era arrivata quella lettera.
Oddi, 29 luglio 2017, caro Eiríkur, una lettera dal vecchio trattore
arrugginito in Islanda, penserai senza dubbio, temendo il peggio –
che cosa significa!? È normale che ti aspetti il peggio, dopo tutti i
messaggi che ti ho mandato la scorsa estate, soprattutto l’ultimo.
Zeppo dei vaneggiamenti di un ubriaco. Vaneggiamenti, penosi
sentimentalismi e autocommiserazione. E adesso una lettera! Che
significa, com’è possibile?
La spiegazione, se posso dirlo, sta nei miei sogni. In questi ultimi
cinque, dieci anni faccio un sogno ricorrente, un sogno penoso, dove
sto davanti a me stesso, il me diciassettenne, o diciottenne. È
evidente che il giovane si vergogna di me e mi accusa di averlo
deluso, addirittura tradito. Ma quando cerco di difendermi e
spiegargli, a lui che è così giovane, che la vita è molto più complicata
di quanto si possa ritenere alla sua età, che riesce a piegare senza
difficoltà anche le persone più solide, sono incapace di pronunciare
anche solo una parola – e così lui comincia a recidere i lacci che ci
tengono insieme. Io mi sento disperato, non riesco a immaginare di
perderlo, cerco di dire qualcosa, cerco di avvicinarmi a lui ma non
posso muovermi, ho l’impressione che l’anima si stia staccando da
me per andare verso quel giovane. Finalmente riesco a emettere un
grido lancinante – con cui in genere mi sveglio. Il sogno che ho fatto
la scorsa notte è stato estremamente doloroso, mi lamentavo
talmente forte nel sonno che Palli si è svegliato ed è venuto nella mia
stanza; quando mi sono svegliato, esausto e in un bagno di sudore,
l’ho trovato seduto sul mio letto, preoccupato. Ha detto che aveva
provato a svegliarmi, che era molto in apprensione perché ansimavo
e mi rivoltavo come in preda a una grande sofferenza. Mi sono
svegliato, ho visto Palli e ho detto: adesso devo scrivere una lettera a
Eiríkur.
Ed eccola qua!
Innanzitutto, prima di cominciare a scrivere, mi sono costretto a
rileggere le ultime quaranta, cinquanta email che ti ho mandato. Uff,
che lettura patetica! È terribile constatare quanto sia breve la
distanza tra la sincerità, un sentimentalismo umiliante e
l’autocommiserazione, e capire fino a che punto si può essere ciechi
quando siamo coinvolti. E anche quanto sia breve la distanza tra
l’autocommiserazione e le accuse ridicole che genera. Un cocktail
esplosivo!
Per farla breve, questa notte ho preso la decisione di scriverti una
lettera. Ho promesso a me stesso e a Palli di non farlo sotto gli effetti
di sostanze più forti di un normale caffè! Eiríkur, io spero che con
questa lettera, e con quelle che seguiranno dopo, se mi permetti di
scriverti ancora, io possa colmare il divario e il silenzio doloroso che
si sono creati da tempo tra di noi, e che mi fanno profondamente
male. Vale anche per Palli, non c’è niente che lo rattristi di più. So che
a volte ti ha scritto nella speranza di aprire una breccia. Voglio
comunque che tu sappia che capisco e rispetto la tua decisione di
ignorarmi. Però è come dice Palli: io ho soltanto te, tu hai soltanto
me, e la vita è troppo breve e disseminata di spine per allontanare le
persone a cui vogliamo bene. Lo so che ho fatto tanti errori nella vita.
Lo so che la gente mi commisera. Lo vedo e lo sento come mi
guardano, e brucia. Lo so che molti hanno rinunciato a starmi
accanto, mi sopportano come si fa con un malato incurabile. Alcuni
mi hanno detto che l’unica soluzione sarebbe andare in terapia. Ma io
dico che la forza di ciascun essere umano si misura dalla capacità
che ha di rimettersi in carreggiata da solo, o meno. Del resto, non è
l’alcol il mio nemico, sono io. La guerra più importante è quella che
ciascuno combatte contro se stesso. Devo mettere ordine dentro di
me. Devo trovare il coraggio di guardarmi in faccia, qui e ora, è solo
così che potrò riappacificarmi con il giovane che ero e che viene a
trovarmi in sogno. Scriverti una lettera, caro Eiríkur, non può che
essere una tappa fondamentale di questo percorso. Mi farebbe
piacere se mi rispondessi, anche solo con due parole, anche solo
telegrafiche – ma non pretendo niente. L’unica cosa che spero è che
tu legga questa lettera e… le altre che vorrei scriverti, se me lo
permetti. Se ti interessa. E che tu trovi, con i tuoi tempi, un motivo per
perdonarmi almeno in parte gli errori che ho commesso nei tuoi
confronti e nei confronti di tutti coloro che amo. Voglio fare del mio
meglio per non cadere nel vizio di cercare delle attenuanti, e di
chiacchierare con te solo… come una persona normale, di tutto e di
niente.
Ti ricordi del brano di Tom Waits, Yesterday Is Here dal disco
Franks Wild Years? Un pezzo stupendo, una perla, che ho perfino
ballato guancia a guancia nelle feste di campagna. Questa canzone
mi ha accompagnato dal giorno in cui l’ho sentita la prima volta, forse
è per questo che mi sento come se Tom Waits avesse incapsulato
tutta la mia vita in questa bella canzone malinconica. Sembra che
racconti il modo in cui la mia vita si è fermata:
Devi aspettare che torni ieri: credo che questa frase descriva
perfettamente la mia vita, purtroppo. Negli ultimi quarant’anni
almeno. Come dice mio fratello: non prendi decisioni, e ti paralizzi!
Ma adesso, basta!
Caro Eiríkur, mio caro Eiríkur, carissimo figlio mio, il mio orgoglio e
la mia felicità! Questa lettera deve segnare un nuovo inizio! Tornerò a
esistere, per davvero. Prenderò parte attiva nella mia vita. E sai che
cosa sogno, da tanti, tanti anni? Che io e te ci sediamo da qualche
parte, sereni e felici di avere l’uno la compagnia dell’altro, e suoniamo
insieme I’ll Follow the Sun. È il mio sogno. E sospetto, no, lo so, che
dipende soltanto da me se questo sogno si realizzerà!
Eiríkur sta leggendo la lettera per la terza volta quando Ekram esce
dal ristorante per portargli la cena e una caraffa di vino rosso, benché
lui non abbia ancora ordinato niente. Questo piatto si chiama mansaf,
dice Ekram in tono quasi solenne. Non l’hai mai assaggiato qui da
noi, perché preferiamo non proporlo sul menu. Il mansaf è il piatto
che si serve a un nemico per rabbonirlo, per conquistare il cuore di
qualcuno, per far felice un amico o consolare chi ha bisogno di
essere consolato. Quindi non lo si serve tutti i giorni. Ho detto alla mia
Batool che avevi un’aria particolarmente malinconica e che doveva
cucinare un piatto molto speciale per te. Allora faccio il mansaf, ha
detto. Secondo alcuni è un piatto da re – io dico che quello di Batool è
un piatto per gli dei. Forse stasera mia figlia vuol fare di te un dio,
signor islandese!
Ah, non va per niente bene, mi pare, faccio io e lancio uno sguardo
furtivo in direzione del conducente d’autobus consacrato. Furtivo, e
indagatore – sapeva già tutto, lui, quando prima ho descritto Eiríkur
che suonava I’ll Follow the Sun sul tavolo della cucina di Oddi, il
modo in cui aveva eseguito quella semplice melodia dalla bellezza
triste, e aveva cantato «più volte i pochi versi che era riuscito a
ricordare»? Sapeva dell’ansia di Eiríkur, degli esercizi estenuanti, di
come si sentiva davvero, eppure mi ha lasciato descrivere quella
scena nonostante le mancasse… un senso? E se l’è tenuto per sé,
per sottolineare la sua superiorità nei miei confronti? Gli lancio uno
sguardo furtivo ma non leggo niente sul suo volto, su quei maledetti
occhi azzurri, e ancora una volta il dubbio mi pervade.
Guardo di nuovo i fogli, voglio sapere come prosegue la storia,
come reagisce Eiríkur a quella lettera, come affronta l’effetto che
produce su di lui; e che cosa succede tra lui e Batool dagli occhi scuri
– guardo i fogli ma Marsiglia è sparita ed Eiríkur ha appena messo
per Elías il brano Mosaïque Solitaire del musicista belga-congolese
Damso; le note insistenti e malinconiche riecheggiano sulla superficie
del fiordo, talmente calmo che assomiglia alla felicità.
Je pleure que de l’intérieur pour que mes soucis se noient.
Il mio francese è talmente arrugginito, dice Elías, che faccio fatica a
capire le parole – sta parlando di lacrime?
Piango solo dentro di me, dice Eiríkur, perché anneghino i miei
dolori.
Elías: Ecco, mi pareva. Non è male come verso, mi fa venire in
mente quelli indimenticabili di una poesia di Werner Aspenström:
«Fin dove arriva la tua colonna di lacrime? / All’ombelico? Al petto?
Alla gola?»
Eiríkur: Una bella poesia, scritta da un autore importante.
Lo sai, giovanotto, riprende Elías, osservando il fiordo, che dalla
luna non si vede alcuna traccia di vita sulla Terra, e che noi siamo per
la maggior parte un fenomeno talmente effimero nella storia
geologica del nostro pianeta che tra un centinaio d’anni nessuno si
ricorderà di noi, ogni nostra traccia sarà sparita. Eppure, a volte
esistere può risultare davvero difficile. Estremamente difficile. Lo sai
che mi manca tanto.
Lo so, dice Eiríkur. Manca anche a me.
Per molto tempo sono stato convinto, dice Elías, che a poco a
poco il tempo sarebbe riuscito ad attenuare il rimpianto più forte. Ne
ero convinto, del resto bisogna che sia così, è solo in questo modo
che riusciamo a sopravvivere – eppure il rimpianto e il senso della
perdita fanno ancora male come tre anni fa. Lo sai che gli parlo tutti i
giorni, che comincio a farlo appena mi sveglio? Su, caro Palli, gli
faccio, appena sceso dal letto, è l’ora del caffè! Ah, Palli, non è che ti
va di dare da mangiare ai gatti nel frattempo? Non so nemmeno se mi
sente. Non so fin dove arrivino le nostre parole. Certi giorni temo che
raggiungano soltanto il margine della vita, temo che con le mie
chiacchiere io non faccia altro che trattenere la tristezza. La nutro, la
ingrasso. Eppure vado avanti. Non posso che andare avanti.
Lo dobbiamo a tutti, di andare avanti, dice Eiríkur, e posa la mano
su quella lunga e magra del vecchio professore, percorsa da vene
come il delta bluastro di un fiume. La posa dolcemente, la stringe
forte, la stringe con affetto e aggiunge: ci aiuteremo a vicenda, ad
andare avanti. Presto accadrà qualcosa di molto bello. Ne sono
sicuro.
Allora dentro Elías qualcosa si spezza e lacrime mute scendono
dagli angoli degli occhi, scorrono sulle guance magre e rasate di
fresco.
Fin dove arriva la tua colonna di lacrime?
Je pleure que de l’intérieur…
… pour que mes soucis se noient. Credo che Eiríkur abbia insegnato
a tutti, a me, a papà, a mia sorella, a Dísa e a Elías, ad ascoltare il
rap, mi dice Rúna quando ci fermiamo sul parcheggio dell’hotel,
scendiamo dall’auto e il brano di Damso ci riempie come un uccello
scuro e maestoso. Guardo la fattoria di Oddi dove ancora si intravede
il vecchio casale. I fratelli hanno ripulito accuratamente il sito dopo
l’incendio, ma hanno voluto lasciare le tracce dell’antica fattoria, e
adesso i ruderi ci appaiono davanti come una cicatrice nel
paesaggio.
Perché Halldór ha dato fuoco alla vecchia casa, chiedo a Rúna,
era malmessa?
Rúna, che stava osservando con un sorriso i turisti giapponesi
sguazzare felici tra grida e risate nella piscina calda, mi raggiunge.
Malmessa, dice lei. Era stata costruita da Skúli e mantenuta
dall’amore, certo che no! Però Halldór non ci ha dato spiegazioni,
aggiunge. La mamma invece era talmente arrabbiata con lui che non
gli ha rivolto la parola per molte settimane, il povero papà ha sofferto
tanto a ritrovarsi in mezzo al loro silenzio. Ero negli Stati Uniti quando
è successo, papà dice che Halldór aveva provato a convincerlo che
nella vecchia casa il ricordo dei suoi genitori e della loro felicità era
talmente sovrastante da paralizzarlo, spingendolo in questo modo a
bere ancora di più. Credo anche che abbia finito per convincersi che
costruire una casa nuova e dare fuoco a quella vecchia l’avrebbe
aiutato a trovare il suo equilibrio nella vita, a tornare sulla giusta
strada. Un ragionamento completamente illogico, ovviamente,
un’illusione.
Ed è andata in cenere?
Sì, è bruciata completamente. Del resto, i ricordi sono un ottimo
combustibile. Ah, è stata dura per tutti. Palli voleva continuare a
vivere nella vecchia casa, ma alla fine ha ceduto alle stupidaggini di
suo fratello. Ha lasciato che fosse lui a decidere. Io credo che non
avesse la forza necessaria per opporsi a Halldór, che tutte le sue
energie si concentrassero per vivere, attendere e sperare, e… sì, i
due fratelli hanno svuotato la casa vecchia, hanno accatastato nel
granaio tutta la mobilia che non aveva trovato posto in quella nuova.
Certi mobili sono ricordi, ha detto Halldór, si preferisce non
sacrificarli. E su questo ovviamente aveva ragione. Ma non si può
dire che sia andata a finire bene.
Forse non c’è niente che va a finire bene, è il pensiero che mi passa
per la mente mentre Rúna cammina verso l’albergo, dove sua sorella
sta chiacchierando con la coppia canadese davanti all’entrata.
L’uomo, alto e con una pancia così prominente che sembra abbia
ingoiato una balena, s’illumina tutto e ride allegramente a quello che
sta dicendo Sóley, e sua moglie, tozza, con un’aura mite e calda, ride
insieme a lui. Le due sorelle li guardano, sorridendo. Rúna
leggermente più piccola, più scura, sembra una nota in minore
accanto alla sorella, con la sua energia solare e contagiosa. E il suo
sorriso mi fa un effetto tale che mi giro e socchiudo gli occhi per un
attimo, forse nella speranza che quel mio accompagnatore
misterioso batta sulla bottiglia di whisky, mi riporti d’un tratto alla
roulotte che si intravede dall’ingresso dell’albergo, mi dica che cosa
ci riserva il destino, mi spieghi a che punto si fermano le parole, e poi
mi rimandi indietro – nel passato. Almeno me ne vado. Perché
quando lei sorride succede qualcosa che non capisco.
É
Non sa chi è Émile Zola
è il prezzo da pagare
Chiudo gli occhi e vedo Gísli nell’ovile, vedo che le spalle cominciano
a tremare. Chiudo gli occhi e vedo Halla seduta allo scrittoio di Pétur,
nello studiolo dove ogni più piccolo oggetto le ricorda suo marito. Le
ricorda l’uomo che ama ancora come quando le loro vite si sono
intrecciate, una ventina buona di anni fa. L’uomo che non riesce a
smettere di amare.
Ti amo, Pétur, gli aveva detto quella mattina quando era partito.
e i mondi si confondono
Siamo proprio sicuri che sia innocente, questo Dreyfus, chiede Ólafur
Flemma, e guarda Pétur sorridendo.
Be’, dice Pétur, innocente, chi può dirsi davvero innocente, esiste
l’innocenza negli esseri umani? Insomma, chi non porta una colpa
dentro di sé? E oltretutto, dove comincia questa colpa, nel pensiero o
negli atti, e dove sta la differenza? Ma c’è dell’altro, ciò che uno
considera una colpa, o perfino un crimine imperdonabile, un altro
vede come un atto di coraggio, infrangere la legge perché la vita non
soffochi. Non soffochi come… come un lombrico cieco sottoterra,
conclude, alza il bicchiere che la giovane lavorante gli ha portato e
raccoglie il coraggio per guardare negli occhi Guðríður, che non vede
da quando è partito dalla fattoria di Uppsalir in sella alla Ljúf. Ma
allora era nel suo ambiente, la contadina di un casale, mai andata a
scuola; adesso si trova nel ricco salone di Kristín e Ólafur. Collocata
in tutt’altro contesto, e non è detto che le si addica.
Non è detto, appunto, aveva confidato a Hölderlin mentre si dirigeva
a Stykkishólmur, che le si addica.
Vuoi dire, aveva chiesto Hölderlin, che essere tolta dal suo
ambiente abituale non le giova – che trasferirla da un universo
all’altro, da quello povero e ignorante a quello più ricco e colto, la
svaluterebbe?
Potrebbe darsi. Lo spero proprio. Perché non sono tranquillo. Non
sono affatto tranquillo. Fa’ attenzione, ho detto a Halla quando sono
partito questa mattina. Credo che Halla sia la persona migliore, la
persona più bella che abbia conosciuto. Le devo tutto. Un tempo
l’amavo moltissimo. Senza di lei quasi non esistevo. Ho visto che
tratteneva le lacrime e sapevo bene che cosa avrei dovuto dirle,
sapevo bene che cosa desiderava sentire. Eppure mi sono limitato a
dirle soltanto questo, fa’ attenzione. Attenzione a che cosa? Lei
chiede amore, chiede conforto, un abbraccio, io le accarezzo la
schiena come fosse un cavallo, e poi le dico di fare attenzione! Sono
un mostro?
È coraggio oppure viltà, amare, aveva chiesto Hölderlin, sei debole
oppure forte se riesci a soffocare l’amore, sei egoista oppure onesto
se segui il tuo cuore?
Ti sto chiedendo di aiutarmi, non di farmi domande!
Io sono morto, e il mio ruolo è fare domande. Tu sei vivo, e quindi il
tuo ruolo è cercare risposte.
Pétur alza il bicchiere sorridendo, dice quella cosa del lombrico e poi
guarda Guðríður, magra, curva, grigia e campagnola, seduta su
quella grande poltrona danese. Nessun pericolo!
Che sollievo!
No, purtroppo le cose non stanno così.
Non è magra, è esile. E per niente campagnola.
E siede dritta, con la schiena eretta, talmente dignitosa che
dev’essere perfino più bella di quanto voleva ricordare. Più bella di
quanto osava ricordare. Maledice Hölderlin, dice quella cosa sul
lombrico e alza il bicchiere verso di lei. Non sorridere, la supplica tra
sé e sé, non devi sorridere, io…
… non sono sicuro di riuscire a sopportarlo, mi dico, apro gli occhi e
torno nel parcheggio dell’hotel. C’è ancora qualche giapponese che
ride nella piscina ma vedo che altri sono saliti sul declivio del monte
sopra l’albergo per raccogliere i mirtilli pieni di sole. Le sorelle, la
luminosa e la tenebrosa, stanno ancora chiacchierando davanti alla
reception, ma la coppia di canadesi è sparita. Poi Sóley rientra. Con
la sua schiena magra, la sua energia luminosa e contagiosa. Entra
senza voltarsi a guardarmi e io sono fuori pericolo. Fino al momento
in cui deve assolutamente fermarsi un istante sulla porta, come se si
fosse appena ricordata qualcosa, si volta, mi lancia uno sguardo oltre
la spalla – e sorride. E si tratta di quel sorriso illegale, quello che
sembra trasformare ogni cosa intorno. Lei sorride, e gli dei
impongono il coprifuoco. Lei sorride, e io devo riscrivere tutto, lei
sorride e Hölderlin mormora: la vita diventa morte, la morte diventa
vita, e i mondi si confondono.
Lei sorride, e rientra in albergo.
Vedo la sua schiena magra sparire e nello stesso momento sento
dentro di me le note malinconiche di un pianoforte. A meno che non
sia un brano della playlist della Morte. Non riesco più a distinguere
una cosa dall’altra; i mondi scorrono l’uno nell’altro. Note
malinconiche a cui presto si aggiunge una voce, limpida eppure rotta
e dolente: I’m scared to say I love you, afraid to let you know.
Dal parcheggio all’ingresso dell’albergo ci sono solo pochi passi.
Perché non vado, perché non la prendo per le spalle magre e non le
dico quello che è stato già detto tante volte su questa terra, da tante
persone, in tutte le lingue del mondo? Le uniche parole che sembrano
non usurarsi mai. Se le pronuncio succede qualcosa. Se le
pronuncio, ritroverò la memoria.
Eiríkur aveva raccontato tutto a Batool, anche cose che non aveva
mai confidato a nessuno; and now the time has gone, and so, my
love, I must go. Ma nessuno desiderava quanto lui essere il figlio del
padre che tutti credevano fosse.
Le aveva raccontato quello che non avrebbe dovuto dire. Una
volta finito di parlare, Batool era rimasta immobile un momento,
guardando nel vuoto davanti a sé, come pensosa. Poi aveva spento
la sigaretta, si era alzata ed era rientrata nel ristorante. Senza
salutare. L’aveva lasciato lì, solo con se stesso e la bottiglia. Ecco,
ovvio, aveva pensato, ho passato il limite! Avrei fatto meglio a dare
ascolto a Marías, che ha tradotto Shakespeare e ha scritto dei bei
romanzi sostanziosi e deve pur saperne qualcosa.
Eiríkur infila la lettera nello zaino, tira fuori un libro, una raccolta di
poesie di Jorge Luis Borges, ne legge tre e cerca di riprendersi un
poco prima di entrare a pagare, ma è talmente scontento di sé,
talmente sconvolto che non riesce a concentrarsi. Svuota il bicchiere
di vino rosso, si alza. Sa che in quel ristorante non ci tornerà mai più.
Ha perso il suo rifugio. Chi apre il cuore agli sconosciuti non ha più un
rifugio, è vulnerabile e il mondo lo prende di mira.
Si alza, fa per entrare a pagare, e si apre in un sorriso radioso
vedendo Batool uscire e andargli incontro – e poi eccoli a casa da lui.
È successo e basta.
Grazie per avermi raccontato tutto, gli aveva detto quand’era
uscita. È stato toccante, molto bello. Sei stato generoso, perché
credo che tu non sia abituato ad aprirti in questo modo. Non ti
preoccupare, rimarrà tra noi. Tutti abbiamo bisogno di parlare, ogni
tanto. Di raccontare la nostra vita. Altrimenti diventiamo di pietra. Ti
accompagno a casa, aveva aggiunto. O meglio, l’aveva annunciato.
Come se avesse bisogno di protezione. O come se avessero bisogno
l’uno dell’altra. E lui aveva pensato, perfettamente sereno: sarà quel
che sarà.
Ed era stato.
Erano andati a casa sua.
Nella piccola abitazione dove non era mai entrata nessuna donna.
Tranne Tove, infatti l’appartamento sembrava quasi intimidito, come
se non sapesse più come comportarsi. Tove ci era entrata l’ultima
volta più di un anno prima, ci aveva passato la notte. Era stata
l’ultima loro notte insieme. Ti amerò per sempre, aveva detto. Ma non
posso più vivere in questo modo. Non posso lasciare mio marito. Non
ci riesco, non posso distruggergli la vita e rovinare quella delle mie
figlie. Devo fare una scelta, scelgo la soluzione che ferisce soltanto
noi due. Perdonami. Non vedo altra soluzione. Mi mancherai per tutta
la vita. Sarai sempre nel mio cuore.
Sempre nel mio cuore. Chiuso lì dentro. Serrato.
E adesso Batool sta in piedi accanto al divano, nello stesso punto
in cui stava Tove quando aveva pronunciato quelle frasi e l’aveva
chiuso a chiave nel suo cuore. Sta lì, alta, le gambe snelle, i capelli
lunghi e neri raccolti in uno chignon, e riempie l’appartamento con la
sua presenza. È davvero felice di averla lì, ma ha anche paura. Paura
di innamorarsi di lei. E tradire Tove. Tradire… il senso di vuoto che ha
lasciato. In un altro mondo, pensa lui, in un’altra vita, avrei desiderato
andare a letto con lei. Ma in questo mondo, non ce la faccio. Non
posso. Come glielo faccio capire?
Apre una bottiglia di vino rosso, una buona idea, perché almeno le
mani hanno qualcosa di cui occuparsi. Lei si guarda intorno nel
piccolo soggiorno, lo misura, misura la vita di Eiríkur, i tre scaffali di
libri, l’impianto stereo di qualità, la parete con i dischi e i cd. Ma in
particolare si sofferma a guardare la grande foto aerea del fiordo,
sopra il divano. È da qui che vieni, chiede. Lui annuisce. Che bello, ha
la forma di un abbraccio, dice. Ti accoglie a braccia aperte, oppure ti
tiene prigioniero?
Non sono sicuro di sapere qual è la differenza, risponde lui, versa il
vino in due bicchieri, ne porge uno a lei, poi si allunga a prendere il
telecomando. Non ha la serenità né la concentrazione per scegliere
un brano, lascia che se ne occupi Spotify. Non ricorda assolutamente
quale fosse la canzone che stava ascoltando quella mattina, che
riprende dove l’aveva interrotta: I’m sick of love, I hear the clock tick
this kind of love: I’m lovesick.
Love Sick. Una canzone che sembra essere stata composta per
descrivere il dolore di aver perso Tove.
Scusami, dice lui, ti dispiace se cambio?
Lei alza le spalle, quasi impercettibilmente, è casa tua, risponde.
I’m sick of love, I wish I’d never met you, canta Bob Dylan.
Mi sa che l’ho ascoltata troppe volte, spiega, in tono di scusa, e
aggiunge, perché ormai le ha già detto quasi tutto: a volte ho
l’impressione che Bob Dylan l’abbia scritta per me.
Just don’t know what to do, I’d give anything to be with you.
Come si chiama, chiede Batool.
Chi?
La donna a cui pensi così tanto che è impossibile avvicinarsi a te.
Lui sorride, quasi imbarazzato: è così ovvio? Ce l’ho scritto in
volto? Posso anche dirti come si chiama, è insignificante, non la
conosci. Si chiama Tove. Tutte le donne danesi si chiamano Tove.
Scusami, aggiunge, e non è chiaro se chieda scusa a Batool, a Tove
oppure a Bob Dylan; alza il telecomando per cambiare canzone, ma
a quel punto il brano finisce e quello successivo non può che essere
di Billie Holiday, la regina della malinconia. Le parole talmente rauche
che tutti e due percepiscono l’annuncio della fine, la tragica
conclusione. I’m a fool to want you, such a fool to hold you, to seek a
kiss not mine alone, to share a kiss that the devil has known. Sono
pazza a volerti, pazza a stringerti, a cercare un bacio non solo mio, a
condividere un bacio che il diavolo ha conosciuto.
Eiríkur sta in mezzo alla stanza con il telecomando in una mano, il
bicchiere di vino rosso nell’altra, una ciocca di capelli neri scende
lungo una tempia come una corda. Alza le braccia, ubriaco dopo tutto
quell’alcol, vulnerabile dopo essersi aperto in quel modo, e dice,
quasi come una capitolazione: scusa, mi sa che qui non troverai
nient’altro che rimpianto.
Allora Batool posa il bicchiere, gli si avvicina e dice: non ho niente
contro il rimpianto, ha una sua bellezza. E non c’è nulla di male nel
sentire la mancanza di qualcuno, solo che bisogna anche vivere.
Ti posso legare?
Era una lunga lettera. Eiríkur non scriveva un testo così lungo e
consistente da quando studiava a Parigi, praticamente in un’altra vita.
Non si aspettava una risposta da parte di Halldór, o per lo meno, non
una lettera, sarebbe tornato a casa da lì a quattro settimane quando
aveva imbucato la sua – certamente però si aspettava una telefonata
oppure un messaggio nella posta elettronica.
L’email era arrivata. E fu l’ultima cosa che Halldór gli avrebbe
scritto all’estero.
Ci arriviamo sempre, tutti. L’ultima cosa. Perché è così che va.
L’ultimo bacio. L’ultimo sorriso. L’ultimo orgasmo. L’ultimo
abbraccio. L’ultima tazza di caffè. L’ultima canzone. L’ultima lettera.
Un lungo messaggio in cui Halldór inizia ringraziando per la lettera
che Siggi, il postino, gli aveva portato da Hólmavík due giorni prima, e
che l’aveva reso talmente felice che «mi era sembrato che il giorno si
fosse trasformato in un sorriso, e le mie braccia fossero diventate
ali!»
La lettera era arrivata di mercoledì, lui era andato a Hólmavík il
venerdì successivo per fare la spesa per i giorni seguenti e si era
sentito alquanto fiero di sé per essere riuscito a non entrare nello
spaccio degli alcolici accanto alla Cooperativa. Non succedeva da
molto tempo. Ma questo non l’aveva detto nell’email a Eiríkur. Si era
accontentato di dirgli che era andato a Hólmavík per fare la spesa e
al ritorno era rimasto sorpreso di vedere la macchina di Páll nel
cortile di casa; era convinto che fosse in mare con Elías.
L’email riguardava più che altro Páll.
Il dislessico balbuziente specializzato in Søren Kierkegaard, a
lungo professore di liceo a Keflavík, alla fine aveva trovato un
impiego sul peschereccio di Elías, il vecchio professore di storia.
Un professore di storia e un dottore in filosofia a pesca sulla
stessa barca. Negli abissi della baia di Húnaflói è considerato un
onore essere pescati da quei due – loro pescano solo i pesci con il
quoziente intellettivo più alto. Anzi, scusa; era considerato un onore.
Non escono più in barca insieme. Ti ricordi, tutto finisce prima o poi.
L’ultimo giro in macchina. L’ultima corsa. L’ultimo libro. L’ultimo pasto.
L’ultima birra. L’ultima uscita in barca.
Poi tutto tace,
Halldór entra con i sacchi della spesa della Cooperativa. Páll non è in
casa e Halldór dà per scontato che sia nello studio per registrare la
lettura di La biblioteca del capitano Nemo di Per Olov Enquist – il
quarantesimo romanzo di cui Páll registra la versione audio. Aveva
cominciato a leggere a voce alta per Hafrún quand’era stremata dal
cancro, e ha scoperto che quell’attività gli dava così tanta calma e
gratificazione che ha continuato anche dopo la morte della madre.
Halldór si occupa di duplicare le letture, le manda agli amici, qui nel
fiordo, a Reykjavík, a Keflavík e a volte a Marsiglia da Eiríkur.
Halldór prepara la cena, poi si avvia per andare a chiamare suo
fratello. Apre la porta dello studio e vede il vecchio tavolo basso – che
i due fratelli avevano sistemato in un angolo – capovolto in mezzo al
granaio. Una zampa è rotta, il tavolo si è ribaltato come un animale
ferito da un colpo di pistola; con il muso in avanti e le terga in alto,
sembra la poppa di una nave che affonda.
E sopra, Páll penzola da una corda.
L’ho baciata
Eiríkur era atterrato poco più di un’ora dopo ed era stato il dolore ad
accoglierlo.
Buongiorno, Eiríkur, aveva detto il dolore, sono il dolore,
benvenuto in Islanda, bentornato a casa. Ti porto i saluti da parte di
tuo padre.
Perché lei sta seduta così dritta sulla sedia che sono pronto a tradire
tutto per lei?
Perché il reverendo ha quel lampo negli occhi, un lampo giovanile,
pieno di mestizia, e quando mi guarda sono pronta a commettere
cose imperdonabili, cose che non si dovrebbero assolutamente fare?
E per questo motivo bisogna arrestare Émile Zola?
Sì, ma anche perché lei ha scritto un articolo sul lombrico, il poeta
cieco delle zolle di terra, e per via dell’articolo lui ha cavalcato un
giorno intero fino al casale sulla brughiera con tre libri, uno dei quali
era appartenuto al fratello del diavolo. Non può certo andare a finire
bene, infatti è finita male.
Ma che ne sappiamo noi, del resto, se qualcosa va a finire bene o
male, a volte è una questione relativa, la conclusione cambia a
seconda del punto di vista.
Vi conosco di nome, dice Gísli, ho sentito parlare del reverendo, a
che cosa dobbiamo l’onore di questa visita?
Chi dobbiamo ringraziare – e c’entra in qualche modo con l’arresto
di Émile Zola?
Può essere. Può essere. Semplicemente perché tutti e due, Émile
Zola e Pétur, e in effetti anche Guðríður, hanno seguito l’ago della
bussola del cuore. È così che è cominciato tutto. Lei scrive un articolo
sul lombrico, dice che è un poeta cieco, il pensiero di Dio, e l’ago
della bussola del cuore comincia a vibrare. A meno che non fosse
l’ago della bussola del destino – non sono in molti, quelli capaci di
vedere la differenza.
Chi non porta dentro una qualche colpa, vogliamo parlarne? Non
dovremmo definire che cosa sia il coraggio, che cosa sia la viltà,
identificare il momento in cui tradiamo e quello in cui seguiamo il
cuore? Senza dimenticare che ciò che a qualcuno sembra un crimine
imperdonabile, qualcun altro lo ritiene il coraggio di commettere un
crimine perché la vita non soffochi. Per questo l’amore si
accompagna sempre al dolore, e il tradimento siede accanto a loro
sulla stessa barca. Ecco perché la vita a volte può essere così
difficile che si vede anche dalla luna. Talmente difficile che devi
legare l’uomo che ami con dei fili elettrici prima di cavalcarlo – e lo
cavalchi perché non hai il coraggio di fare davvero l’amore con lui, hai
troppa paura, perché una volta sei stata violentata da chi credevi di
amare, dall’uomo a cui pensavi di poter affidare il tuo cuore; sei stata
violentata da lui e da tre suoi amici e per questo non osi più amare.
Poi ecco, è morta. Ed è morto anche lui. Poi muore Páll. E muore
anche Halldór. Sono tanti quelli che se ne sono andati, talmente tanti
che in realtà non resta più nessuno, se non Eiríkur.
Allora potremmo dire che Eiríkur Halldórsson sia il punto finale e
malinconico di una lunghissima frase che il destino ha cominciato a
scrivere quando Guðríður si è seduta sul letto che condivideva con
Gísli, con le ginocchia come scrittoio, per lavorare al suo articolo sul
lombrico?
Sei mesi dopo il reverendo Pétur alza un calice di vino verso di lei,
nel bel salotto della casa del medico di Stykkishólmur, e pensa, non
devi sorridere! Ma evidentemente lei l’ha fatto, l’ha guardato e gli ha
sorriso.
E quindi a questo punto sono subentrati il tradimento e la tragedia?
Io sono morto, e il mio ruolo è fare domande. Tu sei vivo, e sta a te…
Abbasso subito lo sguardo di nuovo sui fogli in modo che non veda
quanto il suo complimento mi faccia felice. E leggo:
Aveva scritto il suo articolo sul poeta cieco delle zolle di terra,
Pétur aveva suonato una Gymnopédie sul pianoforte del medico e di
sua moglie. Quella stessa sera, su richiesta di Kristín, era passato il
fotografo e aveva scattato quattro fotografie. Lei e suo marito sono
seduti accanto sul divano nelle prime tre foto, gli altri quattro invitati
sono dietro di loro, in piedi. Ma quando tutti credevano che la seduta
fosse terminata Kristín aveva detto, ah, su, un’altra, stavolta voi due
giovani insieme sul divano. Allora sono ancora giovane, aveva
chiesto Pétur, e aveva sorriso, si era seduto con Guðríður sul divano,
le aveva rivolto un rapido sguardo e poi si era voltato verso il
fotografo. E la foto era stata scattata. L’istante era stato immortalato.
Centovent’anni più tardi l’abbiamo davanti agli occhi.
Perché poi è accaduto quello che non doveva accadere. Pétur suona
le Gymnopédies.
Un mio conoscente di Copenaghen, dice, seduto al piano, segue
tutte le novità in campo musicale e lo scorso inverno mi ha inviato lo
spartito di quest’opera particolare, molto affascinante. Faccio del mio
meglio, non siate troppo severi, l’ho suonata soltanto sul vecchio
armonium consunto della chiesa, che è talmente scordato da
spaventare anche i morti!
Socchiude gli occhi, fa un profondo sospiro, li riapre, guarda
Guðríður e comincia a suonare. Lei trattiene il fiato, gli occhi le si
riempiono di lacrime, piange.
Piange perché non sente suonare il pianoforte da un quarto di
secolo, da quando il capitano francese, l’amico di suo padre, aveva
eseguito per loro un Notturno di Chopin nella casa del commerciante
e di sua moglie. Piange perché quel brano è di una bellezza
straordinaria. Piange perché le manca terribilmente suo padre.
Piange perché Pétur è bello. Piange perché si rende conto che finché
abiterà sulla brughiera insieme al suo Gísli si perderà tutta la bellezza
che c’è nel mondo. Pétur suona e la vede piangere.
Due ore più tardi entra dalla finestra nella grande camera da letto
che le è stata assegnata.
I servitori di Bacco
Esisto perché gli universi sono usciti dai cardini, ha detto Eiríkur, e
avrebbe potuto aggiungere: perché molte persone sono morte.
Ed è vero: qui ci sono anche troppi morti. Ma c’è anche vita.
Perché Halldór non è morto.
Quindi in fin dei conti è stato il bere a salvarmi la vita, dice Halldór
sorridente a suo figlio quando riprende conoscenza dopo l’intervento.
Si pente all’istante di averlo detto, si pente di quel sorriso stupido, di
quella battuta completamente fuori luogo, perché Eiríkur s’irrigidisce
– e per la mente di Halldór passano innumerevoli frammenti di ricordi
sfrecciando come comete nere. Gli faccio schifo, mi disprezza, pensa
Halldór. Ma invece di chiedere scusa gli dice che qualcuno dovrebbe
dare da mangiare al povero gatto, il Bowie, e a quelle benedette
galline. Non posso farlo io da qui, dice.
Eiríkur evita di sottolineare l’evidenza, che basta telefonare a Dísa
o a Lúna a Hof e chiedere loro di fare un salto a Oddi per dare da
mangiare alle bestie. Invece dice, ti faccio sapere per il funerale di
Palli. Torna a casa in auto e si vergogna di essersi sentito
riconoscente verso Sævar, che era ricoverato nella stanza accanto a
quella di Halldór, con una spalla rotta, e lo aveva chiamato,
mortificato dopo l’incidente.
Una leggerezza imperdonabile, aveva detto. Una distrazione da
criminali, la mia. Springsteen, aveva detto. Something in the Night.
Un gran bel pezzo, un bel disco, aveva detto involontariamente
Eiríkur, poi aveva dovuto mordersi la lingua per non ringraziarlo di
aver evitato che Halldór andasse a prenderlo ubriaco. Non è stata
colpa tua, gli aveva detto poi. Mio padre era talmente ubriaco che non
aveva la forza né di guardarsi intorno né di mettersi in salvo. Quindi a
essere più precisi non sei stato tu a investirlo, ma l’alcol.
Sævar aveva abbassato gli occhi.
Non essere così crudele con lui, gli aveva chiesto Elías.
Elías ed Eiríkur hanno scavato la fossa per Palli, era una ferita
profonda nel suolo. Hanno posato la lapide. La pietra con la citazione
di Kierkegaard e il nome di Palli incisi così profondamente che il
tempo ha il suo bel daffare a cancellarli.
Il capolavoro di Halldór?
Lui l’aveva inteso in questo modo. Quando aveva cominciato il
lavoro, e la mano che teneva lo scalpello tremava per il dolore, il
rimpianto, la voglia di bere, l’autocommiserazione. Eiríkur osservava
suo padre e pensava, non potrò mai fidarmi di lui, mentre Bacco
distendeva una morbida coperta sulle spalle di Halldór e gli
sussurrava, sono l’unico che non ti giudicherà mai, lo sai. Sono
l’unico che ti capisce davvero. Nella mia dimora ci sono molti alloggi.
E questa è davvero il tuo capolavoro, aveva aggiunto quando Halldór
aveva posato il martello e lo scalpello, si era appoggiato all’indietro
per ammirare il lavoro. Puoi andarne fiero, ormai nessuno può più
pretendere altro da te. Eiríkur subentrerà alla gestione della fattoria,
tu non gli devi nulla. L’hai visto come ti guardava. Con freddo
disprezzo, direi! Non conosce la gratitudine. E non ti ha mai capito.
Lo sai che nessuno ti capisce, tranne me.
Halldór aveva preso il martello, l’aveva soppesato in mano,
pensieroso, poi l’aveva lanciato verso Bacco dicendo: e io sciolgo la
nostra convivenza!
Ma Bacco si era fatto una risata. Perché una cosa del genere
l’aveva sentita un’infinità di volte, l’aveva sentita pronunciare da un
gran numero di persone, nei momenti più disparati. Si era fatto una
risata, lucidando quel gancio che si chiama debolezza. Va bene così,
aveva detto. Tornerai indietro strisciando, ma va bene anche quello,
perché da me anche l’umiliazione ha un suo fascino. Io perdono tutto.
Per questo sono così amato.
Vaffanculo, gli aveva risposto Halldór.
Ed era tornato a Reykjavík. Dopo il funerale. Come previsto. Per la
riabilitazione dopo l’incidente e l’intervento. Si era fatto ospitare da
alcuni amici e prevedeva di tornare a casa entro qualche settimana.
Lo credevano entrambi, padre e figlio. E lo temevano entrambi. Ma i
giorni nel Sud erano stati difficili e in poco tempo il desiderio di bere
era diventato insopprimibile. Elías, che telefonava a Halldór tutti i
giorni, aveva capito la situazione e l’aveva raggiunto nella speranza
di riuscire a convincerlo a entrare in terapia a Vogur.
Prova a rimanere anche solo una settimana, gli aveva chiesto. Lo
devi a Palli, lo devi a Eiríkur, e lo devi anche a te stesso.
Halldór alla fine aveva accettato. Aveva troppa paura per non farlo.
Non aveva mai avuto tanta paura in tutta la sua vita. Non si era mai
sentito tanto indifeso. Era entrato a Vogur dieci giorni dopo, e con sua
grande sorpresa ci aveva trovato Sævar, che era appena stato
accettato pure lui.
Siamo qui tutti e due, io e Bruce Springsteen, aveva detto Sævar,
stupito ma felice, e adesso anche tu! Dev’essere il destino. Forse
mettiamo su un gruppo rock io e te, il destino e Bruce Springsteen!
È Ó
È stata una riunione proficua, aveva detto Ólafur Flemma quando lui
e Kristín avevano salutato Guðríður e Pétur. La tua presenza ha un
effetto benefico su di noi vecchi pedanti; la rivista ne guadagnerà in
qualità con te in squadra.
Fate la strada insieme, è un bene, aveva aggiunto Kristín
abbracciandoli entrambi al momento della partenza.
Secondo me lo sa, aveva detto Guðríður mentre si allontanavano
a cavallo. Credi che ci abbia… sentiti?
No, dice Pétur, o almeno lo spero! Comunque penso che l’abbia
capito quando mi ha sentito pronunciare il tuo nome per la prima
volta. Ogni tanto mi chiedo se riesce a vedere anche attraverso le
montagne.
E senza giudicare?
Ci vuole bene, a tutti e due, ha un cuore grande. Credo che provi
compassione per noi.
Avevano percorso insieme buona parte del tragitto sulla brughiera,
poi Pétur aveva invertito la marcia ed era tornato a casa.
Lei cavalca verso Uppsalir.
Con alcuni libri che le hanno regalato Kristín e Ólafur, dei dolciumi e
dei giocattoli per le bambine – e il compenso per aver partecipato alla
riunione. Lei che non aveva mai ricevuto alcun pagamento in moneta.
Torna a casa, le bambine si precipitano fuori dalla fattoria e le
corrono incontro strillando, circondate dai cani festosi. Gísli la aspetta
davanti alla porta, felice di riaverla, ma resta addossato al muro,
come se fosse intimidito.
Amore mio, dice lei, un groppo in gola, mentre conduce Ljúf per le
redini, le bambine felici alle calcagna.
Due giorni dopo scrive a Pétur, sono sconvolta, vieni, non venire!
Poi trascorre l’inverno.
Aprile fa ritorno con la sua luce, e la seconda riunione del comitato
di redazione. Guðríður riesce a malapena a dormire nelle notti
precedenti, tanta è l’impazienza. E la tristezza. Perché ha preso una
decisione. Pétur le ha scritto sei lunghe lettere durante l’inverno, le ha
inviate nascoste dentro dei documenti riguardanti la rivista. Penso
soltanto a te, scrive lui, sempre, costantemente. Ho l’impressione di
perdere il senno, eppure non sono mai stato tanto felice!
Bisogna che ci sia un oceano tra di noi, aveva detto a Pétur la notte
precedente. È la sola cosa che possa fermarmi. Altrimenti mollerei
tutto per venire da te, distruggerei così tante cose che non riuscirei
mai più a rimediare.
Smonta da cavallo. Abbracciami, gli chiede. Non mi lasciare, gli
chiede. Non mi lasciare mai. Amore mio. Devo andare. Non sono
niente senza di te. Il mio cuore sarà sempre con te, prenditene cura.
Sono nato per tenerti tra le braccia, dice lui. Sono nato soltanto per
vederti sorridere. Per sentirti parlare. Non riuscirò più a vivere se te
ne vai. Non puoi andartene. La mia vita non sarà che tenebra.
Questa vita non ci è stata destinata, dice Guðríður, e lo bacia.
Scendiamo con l’auto lungo la stradina tortuosa che porta alla fattoria
di Vík. Una strada che non di rado viene sepolta dalla neve in
inverno, e allora Elías deve parcheggiare sulla strada principale,
dove la neve è meno abbondante. Talvolta l’intero fiordo viene
ricoperto dalla neve e in quel caso Elías tira fuori gli sci, o la
motoslitta. Ma adesso non c’è neve, certo che no, è estate, è agosto,
la terra verdissima riluce sotto il sole, gli alberi accanto e sopra la
casa profumano, riecheggiano di canti di uccelli. Procediamo lungo la
stradina tortuosa ed Eiríkur ed Elías sono usciti per venirci incontro.
Elías più alto, leggermente curvo, ha appena parlato con Batool, che
si stava immettendo sulla piana di Þröskuldar insieme a suo figlio, i
suoi genitori e il giornalista francese che hanno incontrato in aereo,
per scoprire che stavano venendo tutti da noi. Aveva telefonato a
Elías per avere la conferma che avrebbe preparato il mansaf
seguendo la sua ricetta.
Rúna spegne il motore. Io sono seduto dietro, tra Wislawa e
Oleana, il mio cuore batte così forte che le due donne percepiscono
le onde d’urto. Eiríkur si inginocchia accanto alla sua cagna, la gratta
affettuosamente dietro le orecchie, ci osserva mentre ci avviciniamo.
La festa sta per cominciare.
Sono seduto sul sedile posteriore e allo stesso tempo qui nella
roulotte da dove scorgo Ási uscire dalla fattoria di Nes con Haraldur
tra le braccia, Gummi li segue tenendo la sedia a rotelle come un’ala
ripiegata. Ciascuno porta con sé la propria playlist, le dieci migliori
canzoni composte a partire da Please Please Me, e sono tutti
impazienti di presentarle a Eiríkur, fanno affidamento su di lui per
decidere quale sia la più significativa. Il telefono di Haraldur suona
mentre è ancora tra le braccia di Ási. È Halldór che vuol sapere se
sono arrivati alla festa. Io e Sævar abbiamo già superato Hólmavík,
dice lui, tu dove sei? In braccio ad Ási, risponde Haraldur. Halldór ride
e Paul McCartney riempie la macchina che ha comprato insieme a
Sævar con Do It Now, il brano che Halldór ed Eiríkur suoneranno
insieme durante la festa. L’inno alla vita, l’hanno ribattezzato. Do it
now, do it now, while the vision is clear… if you leave it too late, it
could all disappear.
Fallo adesso, perché domani potrebbe sparire tutto. E a noi
resterebbero i rimpianti.
Accidenti, credo che stiano venendo tutti alla festa, dice Sóley, si
volta sul sedile e mi guarda.
Ti bacio e staremo sempre insieme.
Questa vita non ci è stata destinata.
Il titolo provvisorio dell’autobiografia di Pétur è Nostalgia. Circa
trecento pagine scritte a mano, conservate nelle viscere della
Biblioteca Nazionale.
«Questa vita non ci è stata destinata» – l’incipit del testo.
Scritta nelle vicinanze di Reykjavík, dove lui e Halla si sono
trasferiti insieme alle due figlie all’inizio del secolo scorso.
Fotocopiata da Elías circa ottant’anni dopo.
L’autobiografia è dedicata «alle donne della mia vita, Halla
Magnúsdóttir e Guðríður Eiríksdóttir.» Ma non è chiaro se Halla sia al
corrente di questo manoscritto. È conservato, insieme a un certo
numero di lettere, in un cofanetto che Elías è il primo ad aprire. Molte
centinaia di lettere, parecchie indirizzate a Hölderlin, e circa trenta da
parte di Guðríður. Inviate per lo più dal Canada, dove si era trasferita
all’inizio di settembre, appena cinque mesi dopo aver detto addio a
Pétur sulla brughiera. Dov’erano rimasti abbracciati così a lungo che
le due giumente avevano cominciato a spazientirsi.
Lei e Gísli avevano lasciato l’Islanda insieme ai genitori di lui.
Padre e figlio si erano visti offrire un lavoro dal fratello di Gísli, erano
stati assunti dalla Morte, e Gísli non ha mai scritto le sue memorie.
Certo che no. Se l’avesse fatto, la sua biografia avrebbe potuto
intitolarsi come quella di Pétur, perché Gísli non era mai riuscito a
superare la nostalgia dell’Islanda. Gli mancavano i suoi ovini, gli
mancava la luce sulla brughiera, il profumo del fieno, gli mancava di
poter uscire a pesca, gli mancava di poter chiamare i cani. Erano
partiti, e la vita era diventata nostalgia. In compenso aveva potuto
continuare a vivere al fianco di Guðríður, a svegliarsi accanto a lei
per molte altre migliaia di mattine.
O finché lei non si era spenta nel sonno, trent’anni dopo.
Verrò da te quando muoio, recita la prima lettera che aveva scritto
a Pétur dall’estero. E aveva pensato la stessa cosa quando erano
salpati dall’Islanda. Mentre sul ponte aveva guardato insieme a Gísli
la sua isola sprofondare nel mare. E Gísli aveva pianto. Quell’uomo
vigoroso. Aveva pianto, e accecato dalle lacrime aveva cercato a
tentoni la mano di Guðríður. Aveva pianto perché sapeva che non
avrebbe mai rivisto il suo paese riaffiorare sulla superficie del mare.
Aveva pianto perché era il prezzo da pagare per poter tenere
Guðríður con sé. Era la sua terza dichiarazione d’amore per lei.
Sacrificare la sua vita per poter vivere al suo fianco. Per poter
abbracciare quella donna che dentro di sé sapeva di aver perso. E
che forse non era mai stata sua.
I monti erano sprofondati, le pecore erano sprofondate, i cani, la
giumenta che aveva cambiato nome, tutto era sprofondato e lui
aveva cercato a tentoni Guðríður per non annegare. Al suo fianco,
osservando ogni cosa sprofondare, lei aveva pensato, ecco dove
affonda il mio cuore. Malgrado ciò non aveva potuto evitare di
provare una vaga impazienza. Di poter mandare a scuola le bambine,
di poterle tenere con sé più a lungo. Impazienza di potersi stabilire in
città e avere la possibilità di andare ai concerti, di vedere
rappresentazioni teatrali, di potersi procurare più libri. Ormai sono
capace di leggere testi in inglese, aveva scritto a Pétur, fiera, circa un
anno più tardi.
Tutto era sprofondato e lei si trovava sul ponte, a gambe larghe
per non perdere l’equilibrio, incinta di cinque mesi.
La prima parola che ha detto è stata «mamma» e non «mom»,
aveva scritto a Pétur, e ne sono stata felice. Ecco che aspetto
abbiamo adesso, madre e figlio, aveva aggiunto, accompagnando
alla lettera una fotografia che la ritraeva insieme al piccolo Jón.
Guardo così spesso questa foto che sto diventando cieco, le
aveva risposto lui.
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Ellý Vilhjálms, Vegir liggja til allra átta, testo di Indriði Guðmundur Þorsteinsson, © Sena
Haukur Morthens, Fyrir átta árum, testo di Einar Markan, Tómas Guðmundsson, © Íslenskir
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il primo ostacolo
Sei morto,
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