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Between Science & Society

Scienza e società verso il 2030

a cura di Mirella Orsi e Roberto Paura


SOMMARIO

Mirella Orsi, Roberto Paura


Introduzione 3

LE NUOVE SFIDE DEL DIALOGO SCIENZA-SOCIETÀ:


MODELLI TEORICI E PROBLEMI EMERGENTI

Roberto Paura
Ricezione pubblica della scienza e negazionismo scientifico: una
sfida per la “società della conoscenza” del XXI secolo 9

Antonio Camorrino
Scienza-Società. Analisi sociologica di una relazione complessa 29

Adolfo Fattori
La circostanza postumana. Complotti “metafisici” e paure
contemporanee 41

Mara Di Berardo
La comunicazione pubblica della scienza e della tecnologia per
la partecipazione sociale al 2050 49

Pietro Maturi
Una questione non solo grammaticale: verso un’uguaglianza 63
di genere linguistica

COLMARE IL DIVARIO SCIENZA- SOCIETÀ:


PROGETTI DI RICERCA E CASI-STUDIO

Giovanni Battista Barone, Vania Boccia, Davide Bottalico,


Luisa Carracciuolo
Le scienze computazionali per la società con il contributo attivo
della società: l’esperienza di SCoPE@Scuola 75
Giovanni Brancato
La sfida sociale delle Facoltà mediche
nell’era della comunicazione (anche) digitale 85

Anna Irene Cesarano


Autonomous driving: un’indagine esplorativa sulla percezione
pubblica 95

Sergio Ferraris
Informare sui nuovi scenari dell’energia 105

Andrea Galluzzi, M. Licia Paglione


Umanizzando la tecnica. Spunti dal pensiero filosofico di Ro-
mano Guardini per la società tecno-nichilista 111

Evelina Isola, Margherita Porzio, Francesca Santapaola


Life beyond plastic: mobilitazione giovanile e attivazione di buone
pratiche per mitigare l’impatto antropico sull’ambiente 121

Stefano Oricchio
Politiche di mitigazione e partecipazione. Dall’impatto am-
bientale del digitale a Ecosia 131

Grazia Quercia
Biohacking device e transumanesimo. Umani aumentati tra
fiction e realtà 139

Gennaro Russo, Massimo Pica Ciamarra


Espansione dell’umanità nello Spazio: la Città Cislunare e il
nuovo paradigma di OrbiTecture 147

Clementina Sasso
La missione spaziale Solar Orbiter e il suo impatto scientifico
e sociale 161

Angelo Zinzi, Carlotta Pittori, Rosa Tagliamonte, Fabrizio Lucarelli


I tool di SSDC come esempio di apertura dei dati spaziali alla
comunità 171

2
INTRODUZIONE

di Mirella Orsi1, Roberto Paura2

L’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è un programma d’azione sot-


toscritto nel settembre 2015 dai 193 Paesi membri dell’ONU. L’Agenda inglo-
ba 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals,
SDGs) che i governi si sono impegnati a raggiungere nell’arco temporale di 15
anni e un totale di 169 “target” o traguardi. La conferenza Between Science
and Society, organizzata dall’Italian Institute for the Future nell’ottobre 2019
a Napoli, ha focalizzato la sua attenzione su cinque di queste diciassette sfi-
de-chiave. La lotta al cambiamento climatico, la salute, la lotta alla disparità di
genere, le fonti di energia pulita e l’innovazione tecnologica. Obiettivi “comu-
ni” che – anche se a prima vista può sembrare diversamente – sono collegati tra
loro al punto che lavorarci considerando come ogni sfida-chiave sia collegata
alle altre può rivelarsi la scelta vincente.
Prendiamo ad esempio due questioni come il cambiamento climatico e la
parità di genere. Se parliamo di crisi climatica, le donne in prima linea in
questa lotta sono tantissime, anche in settori dove persiste una fortissima
discriminazione di genere. Tuttavia, uno degli aspetti più interessanti è che in
alcuni di questi contesti sono nate delle iniziative dove la lotta alla disparità
di genere si traduce in passi avanti nel contrasto al cambiamento climatico e
viceversa. In altri casi ancora, il raffronto tra prospettive diverse sulla stessa
tematica ha fornito nuove chiavi di lettura e di interpretazione. Da sempre,
la storia della scienza è ricca di esempi dove l’eterogeneità, la collaborazione
e la cooperazione sono state il preambolo di grandi scoperte. Tuttavia, mai
come ora il processo di conoscenza e il correlato progresso scientifico passa
sempre di più attraverso meccanismi legati alla transdisciplinarietà e alla mul-
tidisciplinarietà.
Riferendosi all’attuale cultura della ricerca, John Ziman, che per anni ha
studiato gli aspetti sociologici della scienza, parla di “scienza post-accademi-
ca”. Attualmente infatti assistiamo a una richiesta sempre più crescente di
iniziative che prevedano la nascita di gruppi di lavoro “ibridi”. Accademici,
comunicatori scientifici e altre figure chiave diventano parti essenziali di queste
“comunità ibride” che, grazie a competenze molto diverse, possono rispondere
in modo più efficace a sfide e problematiche di interesse comune. La scienza e
la società stanno cambiando, evolvendo e a tratti coevolvendo. Tuttavia, questo
processo appare estremamente complesso e queste due realtà sembrano da un

1
  Between Science & Society HUB. E-mail: mirellaorsi.mi@gmail.com.
2
  Italian Institute for the Future. E-mail: r.paura@futureinstitute.it.
4 Mirella Orsi, Roberto Paura

lato lontane e incapaci di comprendersi e dall’altro intimamente legate e desi-


derose di comunicare tra loro.
In questo contesto, anticipare le sfide a venire diviene essenziale, dato che
storicamente ci si è spesso limitati a inseguire i problemi anziché prevenirli. Da
qui i grandi fallimenti del dialogo tra scienza e società: dalla gestione dell’ener-
gia nucleare agli organismi geneticamente modificati, dalla crisi della mucca
pazza ai vaccini (tornati sulla cresta dell’onda nell’attuale emergenza pandemi-
ca), ogni volta la comunità scientifica e chi si occupa di comunicazione della
scienza si trova a reagire di fronte a una crisi, anziché ad agire in ottica antici-
pante. Eppure, molto spesso è possibile prevedere con largo anticipo crisi po-
tenziali, che siano di rischio naturale (una pandemia, un disastro provocato dai
cambiamenti climatici), di rischio artificiale (un incidente nucleare, un effetto
imprevisto di una nuova tecnologia), o di rischio sociale (la resistenza della
società verso specifiche innovazioni, fenomeni di negazionismo scientifico). È
evidente allora che manca un passaggio essenziale: non si tratta di colmare un
divario, come spesso si sente ancora dire nel mondo della comunicazione scien-
tifica, quanto di costruire ponti nuovi tra scienza e società, vale a dire modelli di
dialogo innovativi e anticipanti.
L’accelerazione scientifico-tecnologica è stata la caratteristica più vistosa
del XX secolo e lo sarà anche di questo secolo. Già oggi possiamo prevedere
alcuni dei nuovi sviluppi della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica
e possiamo, usando strumenti di visioning, immaginare ulteriori sviluppi non
ancora presenti nell’agenda degli enti di ricerca. Almeno dagli anni Sessan-
ta, numerosi strumenti di previsione vengono usati a questo fine, dall’horizon
scanning al metodo Delphi, dal design fiction ai metodi dell’anticipazione. Ma
raramente tali strumenti vengono applicati anche alla previsione delle possibili
risposte della società. Un metodo innovativo, il science fiction prototyping, vede
cittadini e scienziati dialogare con visionari (spesso autori di fantascienza) per
immaginare in anticipo possibili conseguenze impreviste dell’introduzione sul
mercato di una novità tecnologia, che gli sviluppatori, impegnati come sono
nella fase di ricerca e sviluppo, non hanno tempo di immaginare; spesso gli
scenari che ne risultano sono in ottica pessimistica, cosa che permette di preve-
nire possibili aspetti indesiderabili di quella tecnologia e correggerli in tempo;
altre volte sono ottimistici, ossia immaginano applicazioni originali e innovative
in grado di contribuire efficacemente al progresso sociale. Un maggiore coin-
volgimento dei cittadini è un punto su cui insistono i più recenti programmi
di scienza e società dell’Unione europea; farlo in chiave anticipante potrebbe
rappresentare un punto di svolta.
Il convegno e questo volume non rappresentano pertanto un lavoro finito,
ma il primo passo di un cammino lungo, tortuoso ma stimolante volto a ela-
borare un modello di progresso inclusivo e solidale in grado di anticipare e
affrontare efficacemente le grandi sfide di questo secolo. Ecco perché, a monte
della conferenza, è nato BSS-HUB (Between Science & Society HUB) che, gra-
Introduzione 5

zie al comitato scientifico e alla collaborazione con enti e istituzioni di ricerca,


promuoverà iniziative volte a facilitare questo dialogo e ad anticipare le future
sfide derivanti dall’impatto sociale dei nuovi sviluppi tecnologici e scientifici.
Ovviamente, siamo consapevoli di quanto sia complessa l’equazione che regola
il rapporto tra scienza e società, come siamo certi che, a momenti di dialogo ef-
ficaci e produttivi, si accompagneranno fenomeni che sembreranno vanificare
il nostro lavoro. Sarà un work in progress laborioso, ma una delle caratteristiche
più belle del mondo scientifico è quella capacità di vedere nella complessità
delle opportunità e di reagire a situazioni in cui normalmente “getteremmo la
spugna” con un “non è mai troppo tardi!”. Quindi, mettiamoci al lavoro!
LE NUOVE SFIDE DEL DIALOGO SCIENZA-SOCIETÀ:
MODELLI TEORICI E PROBLEMI EMERGENTI
Ricezione pubblica della scienza e negazionismo scientifico: una sfida per
la “società della conoscenza” nel XXI secolo

di Roberto Paura1

L’evoluzione dei modelli di comunicazione della scienza ha portato, nella


seconda metà del secolo scorso, al graduale sviluppo del concetto di “Public
Understanding of Science” (PUS). Nato negli Stati Uniti, tale concetto è espres-
sione di un imperativo fortemente sentito nella società americana dell’epoca in
seguito all’umiliazione del lancio dello Sputnik sovietico nel 1957, quello cioè
di aumentare l’alfabetizzazione scientifica dei cittadini americani, prerequisito
fondamentale per recuperare la primazia mondiale nel campo dello sviluppo
tecnoscientifico. Appena sei mesi dopo lo Sputnik, la National Science Foun-
dation lanciava il programma PUS sulla base di un sondaggio effettuato dalla
National Science Writers’ Association che mostrava come il pubblico america-
no fosse generalmente molto attratto verso le notizie scientifiche ma possedesse
una comprensione molto scarsa di questi argomenti.
Alla base dell’ideologia PUS c’è la persistente idea di un modello diffusio-
nista della conoscenza, che va instillata in un pubblico generalmente orientato
positivamente verso la scienza, ma in media scientificamente ignorante, sulla
base del principio più la conosci, più la ami (Bauer, 2009). Il rapporto del 1985
The public understanding of science pubblicato dalla Royal Society confermava
tale ideologia, portando all’istituzione nel Regno Unito della Committee for
the Public Understanding of Science (COPUS), con l’obiettivo di coordinare le
iniziative a sostegno di più efficaci programmi di comunicazione della scienza,
anche in termini di finanziamento a progetti ad hoc.
Nel corso degli anni Novanta, diverse controversie nella percezione pub-
blica della scienza, dalla crisi della “mucca pazza” alla clonazione della pecora
Dolly fino al dibattito sugli OGM, dimostrarono che le cose non erano così
semplici. La comunità scientifica si è scoperta in difficoltà nei suoi sforzi di
dialogare con i cittadini e prendersi carico delle loro preoccupazioni su questi
argomenti al di là dell’aspetto puramente scientifico. Ciò spinse nel 2000 la
Camera dei Lord inglese a promuovere un rapporto molto critico sui risultati
della PUS. Come risultato, nel 2002 il COPUS decise di sciogliersi e gli esperti
di comunicazione della scienza iniziarono a discutere della necessità di adottare
un nuovo modello nelle relazioni tra scienza e società, battezzato Public Enga-
gement in Science and Technology (PEST). Questo nuovo modello si spingeva
oltre l’approccio diffusionista e sosteneva il bisogno di un coinvolgimento at-
tivo del pubblico nel dibattito scientifico e negli orientamenti politici (Bucchi,

1
  Italian Institute for the Future. E-mail: r.paura@futureinstitute.it.
10 Roberto Paura

2003, 2004). Nondimeno, il bisogno di valutare l’efficacia dei nuovi strumen-


ti di comunicazione della scienza, certamente più interattivi dei precedenti,
riportò presto il nuovo modello al problema dell’alfabetizzazione scientifica:
la valutazione dei metodi continuava a monitorare esclusivamente i livelli di
informazione e conoscenza da parte del pubblico di argomenti scientifici come
parametro di efficacia, dimostrando dunque la persistenza dell’ideologia diffu-
sionista (Bauer, 2009).
In diverse occasioni, l’Unione Europea ha continuato a spingere per nuove
formulazioni della relazione tra scienza e società, da adottarsi in particolare
all’interno dei programmi di ricerca europei: da “Science in Society” a “Scien-
ce with and for Society”, quest’ultima adottata nei programmi Horizon 2020
e basata sull’azione-chiave “Responsible Research & Innovation” (RRI), che
prevede che gli attori sociali (ricercatori, cittadini, decisori politici, imprese, or-
ganizzazioni del terzo settore ecc.) lavorino insieme durante tutto il processo di
ricerca e innovazione al fine di meglio allineare sia il processo che i suoi risultati
con i valori, i bisogni e le aspettative della società.
Tutti questi sforzi non hanno tuttavia impedito l’emergere di fenomeni
ciclici di “negazionismo scientifico”, la cui dimensione sembra anzi crescere
negli ultimi anni, almeno se guardiamo allo scenario italiano. Qui, l’attenzione
pubblica verso la scienza si è focalizzata su una serie di eventi controversi, tutti
basati su un netto declino nella fiducia pubblica nella scienza: il caso perdu-
rante degli OGM (Campa, 2016), la legge 40/2004 che limita la fecondazione
assistita e la ricerca sulle cellule staminali embrionali e il successivo referendum
del 2005 (Balistreri e Pollo, 2005), le controversie sulla sperimentazione anima-
le (Germain, Chiapperino e Testa, 2017), il caso Stamina concernente un trat-
tamento controverso per le malattie neurodegenerative basato sull’impiego di
cellule staminali mesenchimali (Campa, 2014), la diffusione della bufala delle
scie chimiche (Bencivelli, 2013), il dibattito sui vaccini, a seguito dell’inquie-
tante declino della copertura vaccinale in diverse regioni italiani, causato dalla
diffusa credenza di una correlazione tra autismo e vaccini (basata sul celebre
studio fraudolento di Andrew Wakefield, cfr. Park, 2011) e dallo scetticismo
sull’effettiva efficacia dei vaccini (Ferrazzoli, 2018).

Il concetto di “pubblico neutrale” e il ruolo dei determinanti culturali

La successione di eventi che minano le relazioni tra scienza e società richie-


de di mettere in questione uno degli assunti di base della comunicazione della
scienza, vale a dire il concetto di “pubblico” come soggetto neutrale e passivo
della comunicazione. È attraverso il riferimento a un “pubblico” generico di
non addetti ai lavori che la comunità scientifica costruisce la demarcazione tra
scienza e società: una demarcazione che contribuisce a separare chiaramente
la costruzione della conoscenza scientifica dalla sua ricezione, la quale produr-
Ricezione pubblica della scienza e negazionismo scientifico 11

rebbe inevitabilmente una “distorsione” a causa di metodi deficitari di trasmis-


sione della conoscenza. Come mostrano Simis et al. (2016), tra i ricercatori e
in generale tra i membri della comunità scientifica persiste una concezione tra-
dizionale di “pubblico”, a dispetto dei lunghi decenni di elaborazione sull’ar-
gomento da parte delle agenzie responsabili per l’innovazione dei modelli di
comunicazione della scienza: il 75% delle risposte degli scienziati che hanno
partecipato alla survey «indica che gli scienziati concettualizzano il pubblico
come un “altro”, una scoperta consistente con la precedente ricerca su questo
argomento». (Simis et al., 2016).
È interessante osservare la diversificazione di queste risposte. Nel 42% dei
casi la nozione di pubblico è concettualizzata come “altro neutrale”, un insie-
me di persone nei cui confronti i rispondenti non esprimono giudizi di valo-
re particolari, ma che definiscono genericamente come “persone comuni” o
più specificamente come “esterne all’accademia e alla ricerca”, “individui che
vivono e lavorano al di fuori dell’ambiente universitario”, specificando così
ulteriormente la demarcazione tra la comunità scientifica e gli altri. Un 18%
dei commenti classifica il pubblico come un “altro non-scientifico negativo”,
esprimendo giudizi negativi verso il pubblico, definito come generalmente non
informato o ignorante di fatti relativi alla scienza, di ristrette vedute, “indif-
ferente o a volte recalcitrante verso l’importanza della scienza nella società”.
D’altra parte, il 15% ha opinioni positive verso il pubblico, ancora definito
come un “altro non-scientifico” ma in questo caso senza pregiudizi negativi,
piuttosto come un insieme di soggetti che beneficiano degli effetti sociali della
ricerca scientifica e che ne finanziano le attività. Solo il 12% dei rispondenti
suggerisce che i ricercatori si sentano a propria volta parte del pubblico e non
riconoscano l’esistenza di una chiara demarcazione tra loro e gli altri, mentre
il 13% definisce il concetto di pubblico come “sorpassato”, suggerendo di ab-
bandonarlo perché non produttivo di significato (Simis et al., 2016).
Diverse ricerche hanno iniziato a focalizzati sulla differenziazione del pub-
blico sulla base di determinanti culturali. Già nel 2008, in un editoriale sul
Journal of Science Communication, Pietro Greco sollecitava a considerare «i
determinanti culturali nella percezione della scienza» come «una ricchezza e
non certo un limite per il governo democratico della società della conoscenza»,
commentando:

È del tutto illusorio pensare che esista una comunicazione neutra e intrinsecamente
oggettiva. Anche le informazioni più formalizzate e analitiche hanno qualche
incrostazione più o meno visibile: ovvero, hanno un portato culturale storicamente
determinato e più o meno profondo. Cosicché ogni tipo di informazione può
generare effetti diversi e imprevedibili anche in pubblici altamente omogenei.
(Greco, 2008)

Alcuni studi hanno dimostrato le virtù di un simile approccio. Nel suo ar-
12 Roberto Paura

ticolo, Greco riportava una ricerca condotta da Dan M. Kahan, docente all’U-
niversità di Yale noto per i suoi studi sulle origini culturali della cognizione
umana, finalizzata ad analizzare la percezione del rischio associato alle nano-
tecnologie. Il gruppo di Kahan aveva analizzato un campione di 1600 cittadini
americani con un reddito medio-alto e un livello di istruzione superiore, divi-
dendoli in due sottogruppi, uno esposto alle problematiche delle nanotecno-
logie senza aver prima ricevuto una formazione e una conoscenza adeguata
dei temi, l’altro dopo un’analisi approfondita delle questioni. All’interno del
sottogruppo meno informato, gli uomini mostravano un livello più basso di
percezione del rischio rispetto alle donne, e non si osservava diversificazione
tra i gruppi etnici. Diversamente, nel gruppo esposto a una maggiore quantità
di informazione la percezione del rischio si riduceva tra gli uomini, aumentan-
do nella componente femminile; inoltre, tra i bianchi la percezione del rischio
calava considerevolmente, mentre tra i non bianchi aumentava significativa-
mente (Kahan et al., 2008).
Il contesto culturale gioca un ruolo più importante nell’attitudine verso la
scienza e la tecnologia rispetto all’alfabetizzazione scientifica. È certamente
vero che, all’aumento del PIL pro capite, il tasso di alfabetizzazione scientifica
in un paese aumenta in modo proporzionale; ma ciò non si traduce automa-
ticamente in un più positivo orientamento verso la scienza: se in India, per
esempio, sembra esserci una diretta correlazione tra l’aumento della conoscen-
za scientifica e l’incremento dell’attitudine positiva verso la scienza, in Europa
si osserva invece un calo una volta raggiunto un certo livello di alfabetizzazione
scientifica (Bauer, 2009).
Emergono anche differenze generazionali. Analizzando i livelli di cono-
scenza scientifica, l’interesse e l’orientamento verso la scienza in diversi paesi
europei (dati Eurobarometro) all’interno di cinque coorti generazionali (i nati
prima del 1930, i nati tra il 1930 e il 1949, i baby boomer nati tra i 1950 e il
1962, la generazione X nata tra il 1963 e il 1977 e i nati dopo il 1977), emergo-
no risultati interessanti: per esempio, in Italia c’è un significativo declino della
conoscenza scientifica a partire dalla generazione X. La generazione dopo il
1977 in Italia è chiaramente meno interessata alla scienza di quella precedente.
L’attitudine, espressa sulla base di risposte positive all’affermazione “la scien-
za rende le nostre vite più confortevoli, facili e sane”, vede le generazioni più
giovani in Francia rispondere in modo decisamente più negativo rispetto alle
generazioni precedenti, analogamente al Portogallo, mentre paradossalmente
la generazione post-1977 in Italia sembra avere un orientamento più positivo,
in contrasto con gli altri paesi (Bauer, 2009).
Ricezione pubblica della scienza e negazionismo scientifico 13

Fig. 1 – Livello di alfabetizzazione scientifica per coorti generazionali. Fonte: Bauer, 2009.

Fig. 2 – Livello di interesse nella scienza per coorti generazionali. Fonte: Bauer, 2009.
14 Roberto Paura

Fig. 3 – Livello di attitudine positiva verso la scienza e la tecnologia per coorti generazionali. Fonte:
Bauer, 2009.

I determinanti culturali nella ricezione della scienza

Nel 1932 il fisico Wolfgang Pauli, uno dei padri fondatori della mecca-
nica quantistica, che all’epoca insegnava fisica teorica all’ETH di Zurigo, fu
convinto dal padre a rivolgersi a un suo collega, il celebre psicanalista Carl
Gustav Jung, per tentare di curare la sua depressione. Jung, che da tempo stava
sviluppando la sua ricerca sugli archetipi e il simbolismo alchemico, fu molto
colpito da Pauli, e chiese a una delle sue giovani assistenti di prenderlo in cura
e riportargli tutte le trascrizioni dei sogni di Pauli. Ben presto, i due iniziarono
un incessante dialogo, principalmente in forma di corrispondenza, che avrebbe
avuto un significativo impatto sulle loro teorie. Jung stava all’epoca cercando
una spiegazione per fenomeni che sembravano inspiegabili in termini di mera
causalità, come l’avverarsi di sogni premonitori o altri tipi di singolari coin-
cidenze: una volta, durante un alterco con Sigmund Freud, Jung, molto ani-
mato, spiegò l’improvvisa caduta di uno scaffale dello studio come un effetto
della sua rabbia; Pauli, da parte sua, era oggetto di una credenza superstiziosa
all’università, ironicamente battezzata “effetto Pauli”: ogni qualvolta entrava
in laboratorio, la strumentazione iniziava a non funzionare correttamente e gli
esperimenti non producevano i risultati attesi (Montanari, 2016).
Al di là degli aspetti aneddotici, Pauli e Jung condividevano una visione
della scienza che metteva in questione il puro materialismo. Jung accusava la
scienza dell’epoca di essere «basata principalmente su verità statistiche e cono-
scenze astratte, fornendo così un’immagine del mondo irrealistica e razionale»,
mentre per Pauli la scienza, in particolare la fisica quantistica, «era incompleta
perché, anche quando riconosce il ruolo essenziale dell’osservatore nella mec-
Ricezione pubblica della scienza e negazionismo scientifico 15

canica quantistica, continua a escludere sentimenti, valori, realtà psicologiche,


e in generale il reame del non-razionale e del qualitativo» (Main, 2014). Queste
premesse sono essenziali per comprendere il contesto personale e culturale nel
quale fu sviluppato il concetto di “sincronicità”, che gode oggi di grande po-
polarità in quanto nozione apparentemente scientifica, spesso connessa al fenomeno
dell’entanglement e in generale alla meccanica quantistica, sebbene tali analogie si
basino su mere suggestioni, prive di rilevanza scientifica. Per Jung, tuttavia, le scoper-
te di Pauli fornivano una spiegazione scientifica alle sue teorie ed egli fu in grado di
prendere a prestito questi concetti, in particolare la nozione di complementarità, per
definire la sincronicità come una spiegazione complementare alle tradizionali spiega-
zioni causali. Il volume L’interpretazione della natura e della psiche (1952) includeva
il saggio di Jung Sincronicità come principio di connessioni acausali e quello di Pauli
L’influenza delle immagini archetipiche sulle teorie scientifiche di Keplero. Come ha
sintetizzato Roderick Main dell’Università di Exeter:

(…) la particolare revisione della scienza verso cui puntava la sincronia integrava
in un quadro olistico audace in grado di tenere insieme non solo tipi di scienza
radicalmente diversi come la fisica e la psicologia, ma anche la scienza empirica nel
suo insieme e l’ambito trans-empirico della religione, e non solo la scienza e la re-
ligione mainstream, ma anche alcune delle loro forme occulte della controcultura.
(Main, 2014)

Il caso della sincronicità di Pauli e Jung esemplifica perfettamente la que-


stione di come le persone traspongano le idee scientifiche in accordo con i loro
contesti culturali, bias cognitivi ed eventi personali. La concezione dominante
della comunicazione della scienza è basata sull’idea che sia possibile trasferire
conoscenza scientifica senza alterazioni significative da un contesto all’altro,
e che la stessa conoscenza in contesti diversi produca gli stessi orientamenti e
comportamenti (cfr. Bucchi, 2010). Quando decidiamo di abbandonare questa
concezione per comprendere in modo più preciso cosa accade nel processo di
ricezione delle idee scientifiche, dobbiamo inevitabilmente cercare nuovi para-
digmi interpretativi.
Un primo indizio proviene dal testo del famoso sociologo Stuart Hall, En-
coding/Decoding (1980), in cui egli notava che il modo in cui il messaggio è
codificato non può garantire o prescrivere come sarà decodificato:

Se non ci fossero limiti, il pubblico potrebbe semplicemente leggere qualsiasi cosa


a suo piacimento in qualsiasi messaggio. Senza dubbio esistono dei fraintendimen-
ti totali di questo tipo. Ma la vasta gamma [di messaggi] deve contenere un certo
grado di reciprocità tra momenti di codifica e momenti di decodifica, altrimenti
non si potrebbe parlare di uno scambio comunicativo efficace. Tuttavia, questa
“corrispondenza” non è data, ma costruita. Non è “naturale”, ma il prodotto di
un’articolazione tra due momenti distinti. (Hall, 1980)
16 Roberto Paura

Adam Nieman (2000) osserva che le teorie di Hall sui diversi modi di deco-
dificare un messaggio possono essere efficacemente applicate allo studio della
ricezione della conoscenza scientifica. Ci sono tre modalità diverse di ricezione:
la prima è la “posizione dominante-egemonica”, in cui il destinatario decodi-
fica il messaggio riferendosi al codice con cui è stato codificato, in virtù di un
“timbro di legittimità” codificato nel messaggio, che «appare contiguo con ciò
che è “naturale”, “inevitabile”, “dato per scontato” riguardo l’ordine sociale»
(Hall, 1980); la seconda modalità è un “codice opposizionale”, per cui i desti-
natari interpretano il messaggio in modo opposto rispetto al significato dato
dal mittente perché credono che il messaggio sia situato in una “cornice di
riferimento” che essi non condividono, cosicché vi oppongono una cornice di
riferimento alternativa. La modalità di mezzo è rappresentata dal “codice nego-
ziato”, in base al quale la legittimità della posizione egemonica da cui proviene
il messaggio è accettata, ma i destinatari si riservano il diritto di modificar-
ne l’applicazione nel contesto di ricezione a seconda delle “condizioni locali”
(Nieman, 2000).
Possiamo fare molti esempi di applicazione di questa teoria al problema
del negazionismo scientifico. Nel caso più semplice, quello della validità dei
vaccini, la posizione egemonica dello scienziato che ne afferma la bontà e
l’efficacia è respinta dai negazionisti, secondo i quali la comunità scientifica
coltiva interessi di natura economica (Big Pharma) se non addirittura di na-
tura socio-politica (controllo sociale), per cui alla cornice di riferimento dello
scienziato (l’efficacia del vaccino in termini scientifici) si sostituisce quella degli
oppositori (il vaccino come strumento di dominazione). Se ciò è vero, diventa
evidente quanto poco serva insistere su dati e pubblicazioni che dimostrano la
sicurezza dei vaccini o la loro efficacia, dal momento che l’opposizione da parte
dei negazionisti si basa su temi completamente diversi. Scienziati e oppositori
parlano, cioè, lingue diverse e codificano e decodificano il messaggio in modo
diametralmente diverso.
Prima di analizzare in che modo i determinanti culturali possono spiegare la
persistenza di forme di negazionismo scientifico anche in presenza di un livello
di alfabetizzazione scientifica molto alto, o di un sincero interesse nell’impresa
scientifica, vale la pena approfondire il problema della ricezione pubblica della
scienza analizzando la proposta di Egil Asprem (2016), il cui modello teori-
co, proposto per comprendere la diffusione di concezioni scientifiche distorte
all’interno di ambiti culturali particolari come quello dei nuovi movimenti re-
ligiosi e del cultismo contemporaneo (per es. la New Age), può essere esteso a
qualsiasi altro ambito di ricezione.
Asprem osserva che esistono importanti similarità tra “religione popolare”
e popular science, ossia la conoscenza scientifica condivisa da pubblici diversi
attraverso il processo di traduzione da parte della “divulgazione” della scienza.
Entrambi i concetti partono da una dimensione in cui le idee vengono prodotte
– rispettivamente la teologia e la scienza professionale – per poi venire tradot-
Ricezione pubblica della scienza e negazionismo scientifico 17

te nel processo di ricezione in una forma più semplice e intuitiva, che porta
all’affermazione della religione popolare di spiegazioni di senso comune nella
scienza. Si tratta di un processo di ottimizzazione cognitiva che porta i diversi
tipi di pubblico a preferire, nella fase di trasposizione, le idee più attraenti e
immaginifiche. La fig. 4 mostra il modello proposto da Asprem per spiegare il
processo di traduzione che porta lo spazio di input, rappresentato dalla “scien-
za riflessiva”, verso lo spazio di output, rappresentato dalla scienza popolare.
La scienza riflessiva è caratterizzata da processi di elaborazione riflessivi, men-
tre la traduzione ha luogo in uno spazio dove dominano processi di elabora-
zione intuitivi; al tempo stesso, la scienza professionale è caratterizzata dalla
ricerca di spiegazioni di fenomeni che non includono l’agency, ossia che non
richiedono l’azione di soggetti capaci di azioni intenzionali, mentre il dominio
della psicologia intuitiva in cui il processo di traduzione prende luogo è carat-
terizzato dalla ricerca di spiegazioni caratterizzate dall’agentività. Un esempio
lampante è, nella divulgazione della meccanica quantistica, l’uso di metafore
secondo cui una particella “sceglie” in quale fessura passare all’interno dell’e-
sperimento della doppia fenditura, come se fosse dotata di intenzionalità (cfr.
Smith, 2013). Si tratta di meccanismi tipici della scienza popolare (folk science)
che agisce nella fase di trasposizione di un concetto scientifico con l’obiettivo di
ottimizzare a livello cognitivo il concetto originale. Come scrive Asprem:

La scienza popolare, così come l’euristica usata per insegnare la scienza a studenti
e non-scienziati, incoraggia le persone a pensare alla scienza intuitivamente piut-
tosto che riflessivamente. Nel fare ciò, essi mescoleranno e confonderanno fre-
quentemente inferenze tra domini ontologici [diversi] e prenderanno scorciatoie
ricadendo nelle relativamente semplici interazioni causali della fisica popolare
[folk physics]… per cui l’errore scientifico è inevitabile. (Asprem, 2016; corsivo
nell’originale)
18 Roberto Paura

Fig. 4 – Il processo di traduzione dalla scienza professionale alla scienza popolare secondo Asprem (2016).

Per sua natura, la scienza popolare favorirebbe concetti e rappresentazioni


memorabili e attraenti, come nel caso analizzato da Asprem del paradosso del
gatto di Schrödinger trasformato in simbolo dell’intera meccanica quantistica.
Ciò avviene perché il dominio dei destinatari non condivide lo stesso contesto
socio-culturale dei mittenti, in cui i concetti originali prendono forma, per cui
i destinatari inevitabilmente traducono questi concetti all’interno dei loro fra-
mework. Studiando la trasposizione dei concetti scientifici nei nuovi movimenti
religiosi e nel cultismo, Asprem ha sviluppato un modello che ha chiamato
“imbuto a specchio” per la sua peculiare configurazione, mostrata in fig. 5. Qui
notiamo l’esistenza di due “nicchie ecologiche”, rappresentate da un lato dai
contesti sociali della produzione di conoscenza scientifica (laboratori, universi-
tà, centri di ricerca, riviste peer-review, convegni ecc.) e dall’altro dai contesti in
cui le idee religiose o spirituali prendono forma (culti New Age, testi spirituali
ecc.). Il dominio della scienza popolare, dove ha luogo il processo di ottimizza-
zione cognitiva dei concetti scientifici, ha una dimensione ridotta perché mo-
stra che solo una parte dell’insieme della produzione di conoscenza scientifica
fluisce verso il dominio religioso e spirituale: «Esso seleziona rappresentazioni
minimamente controintuitive, minimizza quelle massimamente controintuitive,
e rappresenta (o traduce) concetti difficili da comprendere in metafore intu-
itive, inferenzialmente ricche, più facili da pensare» (Asprem, 2016; corsivo
nell’originale).
Ricezione pubblica della scienza e negazionismo scientifico 19

Fig. 5 – Il modello di imbuto a specchio proposto da Asprem (2016).

È importante osservare che le due nicchie si estendono lungo l’intero asse


verticale, che misura il livello di elaborazione delle idee; ciò indica che la pro-
duzione di conoscenza scientifica non può essere separata dalle riflessioni intu-
itive, che spesso precedono quelle riflessive. In aggiunta, Asprem specifica che

la trasmissione dalla scienza popolare ad altri domini culturali non è un proces-


so meramente ricettivo. Quando giunge all’attenzione di persone situate in una
differente nicchia culturale, il concetto scientifico ottimizzato alimenta un attivo
processo di produzione di significato attraverso cui arriva ad assumere ancora altre
forme e significati. La comunicazione non è semplicemente un processo di codifica
e decodifica di capsule di informazione, ma un processo in cui attiviamo le nostre
rispettive capacità inferenziali. (Asprem, 2016; corsivo nell’originale)

L’erosione della fiducia nella scienza

Il 22 aprile 2017, in occasione della Giornata della Terra, un gran numero di


marce di protesta furono organizzate in più di 600 città in tutto il mondo sotto
il nome di “Marcia per la Scienza”. La principale si tenne a Washington D.C.,
con circa 100mila partecipanti, numero notevole considerando gli stringenti
limiti vigenti negli Stati Uniti per eventi di questo tipo. L’obiettivo era quello
di far sentire la voce degli scienziati e dei sostenitori della coscienza contro una
crescente deriva anti-scientifica da parte dell’opinione pubblica mondiale e di
molti leader internazionali, incluso in particolare il presidente americano Do-
nald Trump. Il presidente, che in precedenza aveva descritto il cambiamento
climatico come una fake news, e che una volta al potere aveva iniziato a ridurre
20 Roberto Paura

i finanziamenti alle agenzie governative impegnate nella ricerca sul cambiamen-


to climatico e le politiche energetiche sostenibili, veniva citato come la manife-
stazione più smaccata di erosione globale della fiducia nella scienza. Per il 93%
dei partecipanti alla Marcia, l’obiettivo di «incoraggiare il pubblico a sostenere
la scienza» era percepito come “molto importante” (Levy, 2017).
La Marcia per la Scienza ha alimentato un grande dibattito tra gli esperti
di comunicazione della scienza, divisi tra sostenitori e critici dell’iniziativa. Se-
condo questi ultimi, il principale errore starebbe nell’indicare la scienza come
un’entità monolitica che parla con una sola voce, nascondendo i problemi che
affliggono la ricerca scientifica contemporanea, come per esempio «risultati
irriproducibili, manipolazione delle statistiche, diffusi abusi sessuali e discrimi-
nazione di genere, conflitti o almeno qualcosa di simile a conflitti di interesse
finanziari, per citarne solo alcuni» (Nature, 2017). Già nel 2010 il sociologo
della scienza Massimiano Bucchi suggeriva di abbandonare la tradizione pola-
rizzazione “scientisti contro anti-scientisti”, sostituendo a questi concetti quelli
di “scientismo attivo” e “scientismo passivo”, quest’ultimo definito come la
posizione di coloro che chiedono che la scienza rispetti i bisogni della società,
e non viceversa. Secondo Bucchi, lo scientismo ha bisogno dell’anti-scientismo
per costruire un nemico contro cui mobilitarsi, al punto che alcuni scienziati (è
il caso, per esempio, dell’evoluzionista Richard Dawkins, dell’astrofisico Neil
deGrasse Tyson, o più recentemente del medico italiano Roberto Burioni) han-
no costruito intere carriere grazie al loro ruolo di campioni della scienza. Ana-
logamente, l’anti-scientismo ha bisogno dello scientismo in quanto “invasore
a cui resistere”, e anche in questo campo una pletora di pseudo-scienziati si è
fatta un nome grazie alla loro opposizione alla cosiddetta “scienza ufficiale”. Il
concetto stesso di “scienza ufficiale”, che gli oppositori dello scientismo spesso
usano come contrario di una presunta “scienza indipendente”, ha finito per
essere accettato dagli stessi campioni dello scientismo attivo, dal momento che
essi propongono una scienza da accettare o rigettare in blocco (Bucchi, 2010).
Diversi studi sui determinanti culturali del negazionismo scientifico mo-
strano che non è così. Le statistiche sull’interesse dei cittadini nella scienza
(come i sondaggi periodici dell’Eurobarometro) evidenziano che un 30% del-
la popolazione non è interessata ai temi scientifici e tecnologici: «Espressioni
di non-coinvolgimento sono interpretate dai comunicatori della scienza come
“fallimenti” nel coinvolgimento. Ma, dalla prospettiva dei rispondenti, pos-
sono essere modi per dare un messaggio, modi di protestare contro la loro
inclusione in categorie in cui non vogliono identificarsi» (Burns e Medvecky,
2018). La concezione dominante della comunicazione pubblica della scienza
definisce quest’ampia categoria con il termine disengaged, “disimpegnati”, che
suggerisce un’omogeneità di opinioni e posizioni da parte dei suoi membri
nei confronti della scienza e implica l’assunzione che più incisive iniziative di
comunicazione della scienza possano risolvere il “problema”, incoraggiando
il pubblico a un maggiore coinvolgimento nei temi scientifici. Ma politiche e
Ricezione pubblica della scienza e negazionismo scientifico 21

iniziative di questo tipo sono inesorabilmente destinate al fallimento, perché


basate sull’assunto menzionato da Bucchi dell’esistenza di una “Scienza” da
accettare o respingere nella sua interezza; la categoria del disengaged dev’essere
analizzata approfonditamente per comprendere le ragioni dietro il comporta-
mento dei suoi componenti.
In questa categoria ricadono infatti scelte molto diverse tra loro. Per esem-
pio, molte persone respingono semplicemente la scienza e la tecnologia come
brand, perché si identificano in opposizione a essa: si tratta spesso di profes-
sionisti nel campo delle scienze umane, artisti, appassionati di argomenti non
scientifici. Altre persone possono avere motivazioni ideologiche, perché identi-
ficano il brand “scienza e tecnologica” come un’interferenza politica nelle loro
vite, o a causa delle loro ideologie ecologiche o anti-tecnologiche. C’è poi il
caso delle persone che non hanno fiducia nelle istituzioni scientifiche: queste
persone sono in realtà interessate ai temi scientifici e tecnologici, ma precisa-
mente per la ragione per cui hanno scelto di prendere le distanze dalle istitu-
zioni scientifiche, perché non vi credono o non condividono le loro politiche o
i loro studi; si tratta di un’area molto complessa, che include sia i sostenitori di
teorie del complotto che persone che hanno invece fiducia nella scienza ma non
negli scienziati (Bursn e Medvecky, 2018).
Per spiegare queste attitudini, il sociologo Gordon Gauchat ha proposto il
modello dell’alienazione, che trae ispirazione dalle idee di teorici di primo pia-
no come Jürgen Habermas, Ulrich Beck, Anthony Giddens e Robert Merton.
In breve, l’accelerazione tecnologica stimola l’ascesa di élite tecnocratiche che
prendono decisioni basate sulla conoscenza e l’expertise, chiedendo al grande
pubblico un mero atto di fede nella loro abilità, dal momento che i non addetti
ai lavori non possono possedere lo stesso grado di conoscenza degli esperti. Il
risultato è che «il pubblico si sente alienato dagli esperti scientifici e dalle autori-
tà istituzionali perché sperimenta direttamente le conseguenze della conoscenza
esperta nella forma di rischio e incertezza, ma allo stesso tempo è tenuto lontano
dalle deliberazioni formali di scienziati e burocrati» (Gauchat, 2011). La produ-
zione di conoscenza scientifica e le deliberazioni delle élite tecnocratiche possono
essere solo non-democratiche (da qui l’assunto corrente secondo cui “la scienza
non è democratica”), ma ciò stimola il fenomeno dell’alienazione istituzionale, di
cui le attitudini negative verso la scienza sono un chiaro sintomo. Studi condotti
da Gauchat sui cittadini americani riguardo le loro posizioni nei confronti del
cambiamento climatico o della ricerca sulle cellule staminali hanno mostrato che,
in aggiunta a una serie di determinanti culturali, «le persone che riportano livelli
più alti di alienazione dalle principali istituzioni riportano anche attitudini più
negative verso la scienza» (Gauchat, 2011). A conclusioni analoghe giunge Tipal-
do (2019), che nel suo libro La società della pseudoscienza indica come principali
responsabili della sfiducia nella scienza «il tentativo da parte della politica di
annullare il dibattito e il conflitto democratico sulle issues di pubblica rilevanza,
ricorrendo alla scienza e all’expertise come vati forieri di Verità».
22 Roberto Paura

Le considerazioni di Gauchet e Tipaldo consentono di comprendere me-


glio l’apparente contraddizione tra un diffuso scetticismo degli scienziati come
esperti e una positiva valutazione della scienza come ambito. I sondaggi sulla
fiducia nella scienza evidenziano chiaramente che l’opinione pubblica mostra
un livello molto più alto di fiducia nella scienza rispetto a settori come l’econo-
mia o la politica (Peters, 2015). L’istituto di ricerca italiano Observa mostra, per
esempio, che le notizie scientifiche in Rete e sui social media sono considerate
molto o abbastanza credibili dal 59,1% dei rispondenti, rispetto al 39,3% delle
notizie economiche e finanziarie e al 38,3% delle notizie politiche nazionali
e internazionali (Bucchi e Saracino, 2018). Ciò mostra che la scienza sembra
essere meno affetta di altri settori dal problema della sfiducia nell’informazione
online. Tuttavia, lo stesso istituto osserva che per il 67,1% dei rispondenti il fe-
nomeno della falsificazione e fabbricazione dei dati è considerato molto diffuso
tra gli scienziati, il 69,3% considera che il plagio sia un comportamento molto
o abbastanza diffuso, e il 79,7% considera diffuso il problema del conflitto di
interessi (Bucchi e Saracino, 2018).
Ciò spiega come mai i sondaggi mostrino regolarmente che la fiducia negli
scienziati vari a seconda della loro affiliazione, dal momento che la fiducia è più
alta per gli scienziati che appartengono al mondo accademico rispetto a quel-
li provenienti dall’industria (Peters, 2015). C’è una crescente preoccupazione
dell’opinione pubblica verso l’integrità etica degli scienziati, che può essere
spiegata in diversi modi: come il risultato di episodi passati in cui gli scien-
ziati hanno mostrato poco interesse negli effetti collaterali della loro ricerca o
a causa dei legami tra impresa scientifica e complesso militare-industriale (in
entrambi i casi l’esempio più lampante è il progetto Manhattan); come effet-
to della medializzazione della scienza, ossia dell’eccessiva spettacolarizzazione
del contenuto scientifico, che spesso produce attese eccessive sui ritorni della
ricerca (è il caso, per esempio, delle terapie genetiche dopo il Progetto Geno-
ma Umano) o che comporta annunci sensazionali di scoperte poi ritrattate (i
casi della fusione fredda, dei neutrini superluminali, o delle onde gravitazionali
primordiali); come risultato di una radicale trasformazione dell’impresa scien-
tifica in epoche recenti, sottoposta a processi di efficientamento economico
(il publish or perish, la continua ricerca di finanziamenti, criteri di valutazione
stringenti ecc.) che minano la tradizionale visione di una scienza come impresa
scientifica disinteressata e orientata al bene comune.
Un significativo passo avanti nell’identificazione dei determinanti culturali
della sfiducia nella scienza è rappresentato dallo studio di Bastiaan Rutjens,
Robbie Sutton e Romy van der Lee (2017), che hanno sistematicamente inve-
stigato i precedenti ideologici della fede nella scienza e nella volontà di soste-
nere la scienza, così come dello scetticismo nella scienza – in particolare verso
il cambiamento climatico, i vaccini e l’ingegneria genetica. I ricercatori hanno
riconsiderato precedenti studi che hanno mostrato un collegamento tra conser-
vatorismo politico e negazione dell’origine antropica del cambiamento clima-
Ricezione pubblica della scienza e negazionismo scientifico 23

tico, notando che, sebbene tale correlazione sia incontrovertibile, non emerge
invece in altre controversie su temi scientifici come gli OGM o i vaccini. È
anche vero che esiste una relazione tra orientamento religioso e fiducia nella
scienza: essi notano che, dal momento che religiosità e ideologia politica sono
strettamente interrelate (un conservatore è in media più religioso di un libe-
rale), alcuni dei precedenti studi sullo scetticismo nella scienza possono avere
confuso il conservatorismo con la religiosità. Inoltre, poiché sia i conservatori
che i credenti pongono generalmente maggior enfasi sui valori morali (come
ad esempio l’importanza di preservare l’ordine naturale delle cose), è essenzia-
le considerare anche la moralità (le preoccupazioni morali riguardo concetti
come naturalezza e purezza) come potenziale determinante di scetticismo nei
confronti della scienza.
Nei tre studi condotti dai ricercatori emergono risultati molto interessanti.
Al livello di fiducia nella scienza, emerge in prima istanza una componente
demografica: gli uomini hanno più fiducia nella scienza rispetto alle donne, e la
fiducia diminuisce con l’età; tale componente diventa però irrilevante quando
entrano in gioco altri determinanti, come la moralità, il conservatorismo politi-
co e l’ortodossia religiosa: emerge che l’ortodossia religiosa è il più forte fattore
predittivo negativo verso la fiducia nella scienza. Riguardo lo scetticismo nel
legame tra HIV e AIDS, non c’è correlazione con la fiducia nella scienza, la
moralità o la religione, ma emerge una correlazione con il conservatorismo.
Sul tema del cambiamento climatico, viene confermato che il conservatorismo
politico è un predittore significativo di scetticismo (e non c’è associazione con
le preoccupazioni morali o la religiosità). Riguardo allo scetticismo verso gli
OGM, la principale correlazione sembra essere quella di una bassa fiducia nella
scienza, mentre i sostenitori di idee politiche conservatrici sono mediamente
meno scettici sugli OGM. Un’evidenza particolarmente interessante emerge
sul tema dei vaccini, come spiegano gli autori:

In questo modello, l’identità religiosa è il predittore più forte dello scetticismo


nei vaccini (seguito da preoccupazioni morali e fiducia nella scienza). Tuttavia,
l’effetto dell’ortodossia religiosa non è più significativo nel momento in cui viene
aggiunta la fede nella scienza. Ciò suggerisce che mentre le persone che si identifi-
cano come religiose hanno in genere un problema con i vaccini che non può essere
attribuito a una più ampia carenza di fiducia nella scienza, i conservatori religiosi
in particolare sono probabilmente scettici sui vaccini a causa di una più ampia
sfiducia nella scienza. (Rutjens, Sutton e van der Lee, 2017; corsivo nell’originale)

Sintetizzando i risultati di questo studio su una rivisita divulgativa, Rutjens


ha suggerito «un paio di lezioni da imparare riguardo l’attuale crisi di fiducia
che affligge la scienza» (Rutjens, 2018). Primo, la concezione tradizionale della
comunicazione pubblica della scienza, che considera lo scetticismo verso la
scienza un elemento monolitico, una categoria indistinta che richiede solo un
24 Roberto Paura

lavoro di alfabetizzazione scientifica per ridurne le dimensioni, va abbandona-


ta. Piuttosto, esistono tipologie diverse di scetticismo verso la scienza: anche la
convinzione che la sfiducia nella scienza sia esclusivamente collegata all’ideolo-
gia politica è sbagliata, con l’eccezione dello scetticismo verso il cambiamento
climatico (la fig. 6 mostra in dettaglio le correlazioni che emergono dagli studi
dei ricercatori). Ciò suggerisce il bisogno di abbandonare la convinzione che
lo scetticismo scientifico possa «essere risolto semplicemente aumentando le
conoscenze scientifiche della gente». I ricercatori non offrono soluzioni per
affrontare il problema, ma credono che il loro studio possa rappresentare un
punto di partenza per identificare possibili soluzioni: «Alcune persone sono ri-
luttanti ad accettare particolari risultati scientifici, per diverse ragioni. Quando
l’obiettivo è combattere lo scetticismo e aumentare la fiducia nella scienza, un
buon punto di partenza è riconoscere che lo scetticismo scientifico si presenta
in molte forme» (Rutjens, 2018).

Fig. 6 – L’immagine sintetizza le principali evidenze di Rutjens, Sutton e van der Lee, 2017.

Il conservatorismo politico è il principale predittore dello scetticismo cli-


matico, mentre l’identità religiosa e la purezza morale sono fortemente corre-
late allo scetticismo vaccinale. Esistono correlazioni tra ortodossia religiosa e
bassi livelli di fiducia nella scienza e sostegno alla scienza, mentre solo l’ultimo
studio mostra una correlazione tra ortodossia religiosa e bassi livelli di alfabe-
tizzazione scientifica (la linea tratteggiata). L’ultimo studio mostra ancora che
una bassa alfabetizzazione scientifica è un buon predittore dello scetticismo
sugli OGM, mentre gli studi precedenti mostravano che un basso livello di
fiducia nella scienza è un buon predittore dello scetticismo su OGM e vaccini.
Ricezione pubblica della scienza e negazionismo scientifico 25

Affrontare la sfida della società della conoscenza nel XXI secolo

Siamo lontani dai tempi di Vannevar Bush, il consigliere presidenziale au-


tore del celebre rapporto Science: The Endless Frontier del 1945, che aprì la
grande stagione dell’accelerazione tecno-scientifica guidata dagli Stati Uniti, in
grado di scalzare, nel secondo dopoguerra, la leadership da sempre detenuta
dall’Europa. Le considerazioni di Bush sono naturalmente ancora valide quan-
to all’indispensabilità del progresso scientifico per risolvere le grandi sfide del
futuro, ma le ricette esposte nel secondo capitolo del rapporto, intitolato “We
Must Renew Our Scientific Talent”, sono state superate dai fatti: il deficit di
scienza e tecnologia tra gli studenti non è più il problema più rilevante per la
costruzione di una moderna e matura società della conoscenza.
Perché? Perché è cambiata la natura delle sfide scientifiche e tecnologiche.
Agli inizi degli anni Novanta, Silvio Funtowicz e Jerome Ravetz proposero la
definizione di “scienza post-normale” per riferirsi a quei settori di frontiera
della ricerca che superano la “scienza normale”, concetto coniato dal filosofo
della scienza Thomas S. Kuhn per definire l’insieme delle conoscenze scienti-
fiche assodate e consolidate. La scienza post-normale si occupa di questioni
scientifiche dove l’incertezza dei fatti, il ruolo dei valori, la presenza di interessi
e la potenzialità dei rischi implicano l’abbandono di un’idea di oggettività della
scienza (Funtowicz e Ravetz, 1993). Non si applica quindi a tutta la scienza di
frontiera: per fare un esempio, il dibattito sulle diverse interpretazioni della
meccanica quantistica, non chiamando in causa valori e interessi collettivi, resta
un ambito di controversia limitato ai fisici teorici e ai filosofi della fisica (sebbe-
ne afflitto dai problemi menzionati riguardo le concezioni errate che emergono
nella fase di ricezione di queste idee nel grande pubblico; cfr. Paura, 2018).
Viceversa, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, i progressi delle tecniche di
editing genomico Crispr, il futuro dell’energia nucleare, sono ambiti di ricerca
in cui valori, interessi e rischi assumono una dimensione collettiva, coinvolgen-
do l’intera società, che in nessun caso può restare esclusa dal dialogo con la
comunità scientifica per la definizione di obiettivi, finalità e strategie. Si tratta
di questioni in cui l’incertezza resta molto alta non solo per quanto riguarda
l’esito della ricerca (sarà possibile realizzare un’IA forte? la Crispr può risol-
vere le principali malattie genetiche? è possibile ottenere una fusione nucleare
controllata per scopi civili?), ma anche per quanto attiene ai possibili rischi
connessi, sia quelli noti sia quelli ignoti (un’IA forte può rappresentare una
minaccia per la specie umana, anche in termini di disoccupazione tecnologica?
l’editing genomico può comportare modifiche ereditate dalla prole in grado di
generare effetti collaterali incontrollati nelle generazioni successive? la fusione
nucleare, anche se controllata, può compromettere la salute o l’ambiente in
caso di incidente?).
La scienza post-normale ha come sua peculiarità il fatto che «nella sua at-
tività di soluzione del problema il dominio tradizionale dei “fatti” sui “valori”
26 Roberto Paura

si inverte». Più precisamente, le due categorie (fatti e valori) non possono più
«essere realisticamente separate» (Funtowicz e Ravetz, 1993). Già trent’anni fa,
i due autori mettevano in guardia dagli effetti devastanti di una crisi di legitti-
mità della scienza e dei sistemi esperti che sarebbe potuta emergere, se le auto-
rità avessero cercato di basare i loro appelli alla responsabilità sulle tradizionali
certezze dei fatti scientifici, senza tenere in conto anche i temi etici e gli interes-
si particolari della società. È evidente che questi appelli sono caduti nel vuoto,
altrimenti non ci troveremmo oggi a parlare dell’importanza della vaccinazione
o persino del terrapiattismo (la sfericità della Terra è un assunto che appar-
tiene alla “scienza normale”; ma tale è l’estensione della messa in discussione
della legittimità della comunità scientifica, che persino questi concetti possono
essere rifiutati in ragione di una priorità assegnata a sistemi di valori diversi,
come – nel caso di specie – quelli religiosi o politici; cfr. Camorrino, in questo
volume). Siamo forse ancora in tempo a correggere la rotta, se vogliamo sperare
di costruire un più efficace dialogo tra scienza e società nel XXI secolo, dove ci
attendono nuove, importanti sfide del progresso tecnoscientifico, alcune delle
quali non possiamo nemmeno ancora prevedere.

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Scienza-Società. Analisi sociologica di una relazione complessa

di Antonio Camorrino1

Introduzione: problematizzare il rapporto scienza-società

Se è assai complesso prevedere con certezza quali saranno i conflitti che


ci riserverà il prossimo futuro, è assai facilmente prevedibile che molti di que-
sti saranno espressione del delicato rapporto tra scienza e società. Già la sola
diade “scienza/società” andrebbe in realtà problematizzata, come fa da anni il
famoso scienziato sociale Bruno Latour. Lo studioso francese mette infatti in
guardia dal creare fittizie separazioni concettuali, laddove le parole “scienza”
e “società” non delineano in alcun modo entità nettamente distinte. Politica,
scienze, fatti, valori, natura, società, costituiscono tutti campi intimamente in-
trecciati e nient’affatto compartimenti stagni, l’uno disgiunto dall’altro. Se per
modernità si intende tradizionalmente l’epoca delle grandi separazioni, a fron-
te di quanto viene testimoniandoci la quotidianità è preferibile confessare il
carattere finzionale di queste illusorie disgiunzioni: in tal senso “non siamo mai
stati moderni” (Latour, 2009). Il processo di recisione dei legami “vischiosi”
tra gli esseri umani e il cosmo di cui la modernità sembrava essersi presa carico,
non è infatti mai addivenuto a compimento. Umani e non umani concorrono
costantemente alla formazione – afferma Latour – di “collettivi” nei quali la
commistione tra fatti e valori deve considerarsi l’ordinarietà. L’età moderna, in
sostanza, nel quadro generale dell’evoluzione cosmologica, non rappresenta lo
stadio di alcuna speciale secessione tra entità che popolano l’universo. Questo
significa che il primo passo per affrontare in modo adeguato i problemi che
intercorrono tra scienza e società, volendo restare nel solco tracciato da Latour,
consisterebbe proprio nel rifiutare questa impostazione dualistica – e tutto
sommato ideologica –, retaggio di una modernità mai inveratasi (Latour, 2008).
La sociologia del rischio non fa che rincarare la dose, per molti versi. Il
plesso nevralgico di quest’autorevole corrente di pensiero ruota, ad avviso di
chi scrive, intorno al rovesciamento della equazione fondativa della modernità:
a più conoscenza non corrisponde più certezza ma, bensì, più incertezza (Beck,
Giddens e Lash, 1999; Camorrino, 2016). Le “idee chiare e distinte” di carte-
siana memoria finiscono col rendere più fitta la nebbia del mondo, piuttosto
che diradarla. D’altra parte, il fatto che il dispiegamento del processo di razio-
nalizzazione avrebbe in ultimo – e in modo solo apparentemente paradossale

1
 Università degli Studi di Napoli Federico II – Dipartimento di Scienze Sociali. E-mail: antonio.
camorrino@unina.it.
30 Antonio Camorrino

– aumentato il grado di inconoscibilità effettivo dell’esistente, è cosa che già


Max Weber comprese benissimo. In uno scontro immaginario con gli Otten-
totti, gli Occidentali – secondo un noto esempio formulato dal padre fondatore
della sociologia comprendente –, avrebbero molto più facilmente smarrito la
via di casa, per così dire. Se i primi – abitanti di una remota comunità tribale
– conoscono infatti la più piccola piega del loro universo, i secondi tentenna-
no al cospetto di un mondo che appare sempre più oscuro, e solo in “linea di
principio” esplorabile razionalmente. Attraverso quello che è passato alla storia
come il “paradosso del tram”, Weber evidenzia quanto sia necessario un grado
crescente di cieca fiducia nei depositari dei saperi specialistici per attraversa-
re incolumi i dedali labirintici di una società altamente razionalizzata (Weber,
2004). Kafka, a riguardo, scrisse pagine che non hanno perso un briciolo della
loro attualità2.
Alla luce di questa sintetica premessa introduttiva, esporrò la mia rifles-
sione nel seguito del saggio soffermandomi nel primo paragrafo su ciò che ho
definito “razionalità complottista” e sulla cifra postmoderna del fenomeno.
Nel secondo, in modo assai sintetico, focalizzerò l’attenzione sulla questione
dei no-vax e della pseudoscienza, ma solo per evidenziare l’importanza di una
lettura controintuitiva dei fatti sociali. Nelle conclusioni tirerò le fila del ra-
gionamento, sottolineando quanto in ballo, nel rapporto scienza-società, ci sia
nientedimeno che una trasformazione dell’immaginario della natura umana e
non umana.

La delegittimazione delle istituzioni: “razionalità complottista” e direttori


di sala postmoderni

Una delle più rilevanti questioni – in termini sociologici – dei nostri giorni
è che alla massima parte delle istituzioni roccaforti della modernità, non è ac-
cordata più quella legittimazione che in modo pressoché aproblematico veniva
loro riconosciuta sino a qualche decennio orsono (Berger e Luckmann, 2010).
Lasciate che mi serva di un esempio tratto dalla vita quotidiana per poter
restituire questo stato di cose. La mia natura abitudinaria fa sì che da qualche
anno, nei giorni feriali, io consumi il pranzo nello stesso ristorante. Ciò impli-
ca – immaginate a Napoli, poi! – che io sia in confidenza con buona parte del
personale. Non di rado mi attardo quindi, nel corso del pasto, nelle più svariate
tipologie di conversazione con coloro i quali prestano servizio in quel momento
nel locale. Pochi giorni prima di dedicarmi alla scrittura di questo saggio, come
quasi ogni giorno nel break di mezza giornata, ero seduto al tavolo. Nell’attesa
dell’ordinazione, il direttore di sala mi coinvolge – conoscendo i miei interessi

2
  Sulle implicazioni sociologiche relative al carattere “assurdo” dell’esistenza già prefigurate
nell’opera di Franz Kafka, si veda Pecchinenda (2018).
Scienza-Società. Analisi sociologica di una relazione complessa 31

professionali per la sociologia della religione (che probabilmente gli apparirà


come una materia assai diversa da quella che in parte è) – in una discussione
sulla fede, rivelatrice di quello che una volta si sarebbe detto lo “spirito del
tempo”. Con l’occasione della comunione della figlioletta, questi aveva ultima-
mente assistito a diverse funzioni preparatorie al sacramento. Infatti, nell’in-
tenzione di accompagnare la bimba nel percorso, si stava “piegando” – vista la
sua decisa ritrosia nei confronti del mondo ecclesiale – a frequentare i diversi
momenti delle prediche. Nella conversazione che ne scaturì col sottoscritto,
questi si chiedeva ad alta voce come si potesse ancora nel 2020 credere a quelle
che lui vedeva come favolette su angeli, santi e paradiso. Io mi limitavo a os-
servare senza interagire, nel tentativo di attenermi a una delle regole auree del
metodo sociologico. Fin qui, niente di originale. Si dava il caso, però, che io
fossi a conoscenza di una delle più radicate credenze del direttore in questione:
il terrapiattismo. A più riprese nel corso dei nostri incontri precedenti, questi
mi aveva intrattenuto sulle sue teorie e convinzioni circa le mistificazioni cui
eravamo sottoposti quotidianamente da secoli: la Terra non è affatto ellittica,
è piatta e tutte le immagini che possediamo dell’universo conosciuto non sono
nient’altro che una sofisticata riproduzione computerizzata senza alcun refe-
rente concreto. Una simulazione non molto lontana da un videogame, tutto
sommato (Pecchinenda, 2003). Una volta che questi ebbe concluso l’invettiva
contro la natura favolistica delle Scritture, mi affrettai a fargli notare che in lui
conviveva l’anima scettica di una sorta di illuminismo anticlericale con quella
invece più (tecnicamente) “premoderna” del terrapiattista: diciamo che, quan-
tomeno sul piano logico, appellarsi all’anno in corso – questo fatidico 2020 –,
a rigore, non rappresentava una ragione formalmente corretta per sostenere
entrambe le posizioni. Ma per fortuna siamo in una società in cui ciascuno,
nel rispetto dell’altro, può ritenere di credere in ciò che vuole. Pagai il conto,
salutai cordialmente e tornai a lavoro.
C’è un motivo preciso per cui mi sono lungamente soffermato su quest’e-
sempio. Siamo al cospetto infatti, mi pare, di un prezioso caso di analisi di so-
ciologia della conoscenza, una cartina di tornasole capace di rivelare un profilo
di coscienza del mondo tipico dei nostri giorni. Quello che voglio dire è che il
punto di vista del direttore è interamente ascrivibile all’orizzonte di senso della
postmodernità. Un “pastiche” (Jameson, 1989) di prospettive premoderne e
moderne che confluiscono in una visione del mondo “iperreale” (Baudrillard,
2009) basata su quella che forse è possibile definire una “razionalità complot-
tista”. Se le due prospettive paiono infatti di primo acchito in aperta contrad-
dizione, è solo perché non le consideriamo alla luce di questo peculiare tipo
di “razionalità”. L’ethos alla base di questa particolare forma di esperienza e
conoscenza del mondo è innervato sul radicato sospetto nel sistema istituzio-
nale e su tutto quanto ne discende. La battaglia contro le presunte arretratezze
della Chiesa non collima dunque automaticamente – come verrebbe forse da
pensare – con l’appoggio incondizionato al progresso scientifico. La delegitti-
32 Antonio Camorrino

mazione che più in generale ha colpito le istituzioni sociali, produce infatti una
tenace diffidenza su quanto non è più sostenuto dal supporto delle “grandi
narrazioni” (Lyotard, 2008).
Il dubbio circa l’esistenza di qualche interesse mascherato fa sempre più
spesso capolino: “c’è qualcosa dietro” è una espressione che sintetizza bene
questo stato di cose.
L’incredibile successo delle teorie della cospirazione è sintomatico di que-
sta inedita condizione sociale. Il pervasivo sentimento di crisi dei significati
(Tagliapietra, 2010), produce la persuasione diffusa che dietro a un mondo “in-
sensato” se ne nasconda un altro che ne giustifichi l’andamento, risolvendo così
le aporie di un’esistenza altrimenti percepita come assurda e inessenziale: poco
importa se al prezzo di sapersi dominati da un pugno di famiglie sordidamente
alleate in nome del controllo segreto del pianeta (Camorrino, 2018a). Secondo
Karl Popper con il cospirazionismo il pantheon omerico discende nuovamente
sulla Terra. Le alterne vicende mondane vengono così inscritte in una dram-
maturgia popolata di infidi e capricciosi burattinai che orientano i destini di
inermi esseri umani (Popper, 1972). Le conspiracy theories sono una versione
postmoderna della teodicea, con le quali si riesce a conferire significato alla
iniqua distribuzione della giustizia e della sofferenza. Abbandonarsi in preda a
una rassegnazione masochistica tra le braccia di un sistema di assoggettamen-
to, riduce comunque il carico affettivo di un’altrimenti intollerabile assenza
di senso (Neiman, 2011). In questa situazione di “coinvolgimento emotivo”
l’evidenza di eventuali fatti contraddittori non è affatto sufficiente a minare gli
intimi convincimenti degli individui: l’attivazione del pensiero magico provve-
de a trasfigurare la realtà (Elias, 1988), assicurando il consolidamento della “ra-
zionalità complottista”. Sufficiente pensare al caso degli UFO: qualsiasi prova
contraria, o assenza della prova, è percepita come un tentativo governativo di
manipolazione o insabbiamento, fatto che concorre a rinforzare la credenza,
non a scalfirla (Paura, 2017).
Il direttore del mio racconto non rifiutava dunque di credere nelle sacre
scritture in virtù di uno slancio positivo; anzi, rinnegava alcune delle più grandi
conquiste della scienza moderna e contemporanea, dalla teoria copernicana
allo sbarco sulla Luna. Ciò che anima il suo ragionamento non è dunque né un
progressismo modernista, né un conservatorismo reazionario di stampo pre-
moderno, quanto piuttosto una “razionalità” tutta postmoderna, basata non
più sulla inquestionabile fede nel sacro né sul dubbio metodico di un’autorevo-
le prassi scientifica, ma sulla credenza incrollabile nell’esistenza di una doppia
realtà, l’una superficiale e ingannatrice, l’altra profonda e autentica, per quanto
miserevolmente abitata da cinici e spietati signori del mondo. Da siffatto punto
di vista la diffusione di questo tipo di razionalità rivela l’emergenza di un nuovo
“sistema mimetico” che da Platone in poi non cessa di duplicare la realtà al fine
di integrare i significati dell’esistenza terrena e “distrarci” dal nostro carattere
mortale (Pecchinenda, 2014). Internet ha naturalmente giocato un ruolo assai
Scienza-Società. Analisi sociologica di una relazione complessa 33

importante nella propagazione virale di quest’atmosfera di “complotto cosmi-


co” (Douglas, 1996), seppure non è certamente l’unica variabile intervenuta
a determinare questo stato di cose (Camorrino, 2015). Le dinamiche tipiche
della “industria culturale” (Morin, 1963) e una certa “mediamorfosi del mon-
do” (Ragone, 2015) hanno poi concorso a inglobare nell’orizzonte di senso
postmoderno questo sdoppiamento della realtà, peraltro topos della cultura
occidentale (Bittarello, 2008). Quel che è interessante notare relativamente al
tema affrontato in questa sede è che la Rete, luogo deputato da un certo imma-
ginario a produrre il rischiaramento delle contraddizioni dell’impresa umana
grazie a un accesso libero e universale alla conoscenza (Musso, 2007), ha invece
contribuito a produrre il mondo intricatissimo delle postverità (Ferraris, 2017).
Insomma, bisognerà attendere l’ennesima rivoluzione rifondatrice per uscire
dal giogo mistificatore della caverna platonica!

Ancora sulla relazione scienza-società: no-vax! e pseudoscienza

A mio avviso, tener conto di quanto sinora detto può essere estremamente
utile se desideriamo ben interpretare i delicatissimi scenari sociotecnici che
si aprono sul prossimo futuro. In tal senso anche il caso del movimento che
un po’ frettolosamente è stato definito dei “no-vax” è quantomai istruttivo. Si
tenga conto di una premessa fondamentale: la sociologia deve rifiutare le valu-
tazioni ovvie del senso comune. In massima parte, esse rappresentano insidiose
trappole per il ragionamento scientifico e veri e propri ostacoli sulla via della
conoscenza. Nonché impedimenti talvolta insormontabili per approntare solu-
zioni pratiche ai problemi sociali.
Sono talmente note le ragioni del dibattito sui “no-vax” infuriato in Italia
in questi anni, che è superfluo ritornarci su3. Mi limito quindi a rilevare quegli
aspetti utili a evidenziare la complessità del fenomeno e, più in generale, delle
problematiche inerenti al dialogo “scienza-società”.
Qualsiasi proposta basata sul mero miglioramento della comunicazione
scientifica deve ritenersi infatti insufficiente a colmare l’ideale gap tra una pre-
sunta comunità di scienziati illuminati e una sfera pubblica intrappolata in un
imperdonabile stato di analfabetismo scientifico (Bucchi, 2006). Medesima in-
fausta diagnosi sociologica per chi si appellasse all’ignoranza come alla causa
di quanti si oppongono alla somministrazione obbligatoria dei vaccini. Studi
documentati certificano difatti che i possessori di titoli di studio più elevati
rappresentano lo zoccolo duro di coloro i quali si schierano contro la obbli-
gatorietà della totalità dei vaccini (Bucchi e Saracino, 2019). È la volontà degli

3
  Ho ragionato altrove più estesamente su questo tema. I vecchi e nuovi media giocano natural-
mente un ruolo rilevantissimo in questo scenario. Si veda Camorrino (2017) e, per un’utile analisi da
diversa prospettiva, anche Ferrazzoli (2018).
34 Antonio Camorrino

individui di scegliere per sé stessi e per la famiglia a rappresentare la spinta a ri-


fiutare diktat per i propri bambini che appaiono come calati dall’alto. Il sospet-
to è poi decisamente potenziato dal timore che queste scelte politico-sanitarie
possano nascondere ragioni che niente hanno a che vedere con la sfera della
salute (Bucchi e Saracino, 2018). Il “no!” parrebbe quindi essere pronunciato
non per qualche deficit di conoscenza, ma per una rivendicazione soggettiva
di emancipazione nella gestione del proprio corpo e di quello dei propri cari,
per fattori emotivi, e, contestualmente, per un generale sentimento di sfiducia
verso la delega alla comunità e alle istituzioni sanitarie delle questioni della cura
e della salute (Bucchi 2015, 2016 e 2017).
E poi – proprio come ci insegna un certo ramo della sociologia contem-
poranea – il carattere “riflessivo” della tardomodernità determina un indebo-
limento delle fondamenta dell’edificio della conoscenza scientifica (Giddens,
1994). Un indebolimento quantomeno nella percezione collettiva della solidità
e stabilità delle affermazioni che da quest’istituzione provengono. Certo un
miglioramento della qualità della comunicazione scientifica non può che essere
utile e ben accetto. Ma se all’interno della stessa comunità scientifica esistono
posizioni contrapposte tra di loro seppur tutte egualmente scientifiche, quale
di queste incontrovertibilmente dovrebbe essere comunicata? Insomma, pen-
sare che da un lato ci sia un polo scientifico granitico che non attende altro
che si comunichino a dovere i risultati a una società in predicato di essere alfa-
betizzata, costituisce una visione assai semplicistica delle cose (Bucchi 2010).
Una trasfigurazione ancorata a un immaginario fissamente positivistico che non
tiene conto delle crisi interne alla modernità (Harvey 2002) e che, dunque,
finisce per non trovare riscontro empirico nella realtà sociale. Si considerino
in tal senso anche il profluvio di fronti abbarbicati su posizioni pseudoscientifi-
che che rivendicano però, per i loro metodi, procedure e risultati, il medesimo
statuto di scientificità (quando non superiore in virtù di una supposta vergini-
tà rispetto agli interessi delle grandi multinazionali farmaceutiche o chimiche)
delle pratiche e della conoscenza ufficiale: su tutti, si pensi ai casi Stamina e Di
Bella (Tipaldo, 2019).

Conclusioni: scienza-società e l’immaginario della natura umana e non


umana

Il dibattito è inoltre acceso dalle straordinarie possibilità squadernate


dall’ampliamento esponenziale delle innovazioni tecnoscientifiche. Questioni
prima giurisdizione esclusiva della sfera divina divengono scottanti temi dell’a-
genda delle cose umane (Jonas, 1990). Basti far cenno ai temi dell’inizio e del
fine vita, su cui discipline accademiche ad hoc sono quotidianamente impe-
gnate, comitati bioetici istituiti e intorno a cui si solleva l’opinione pubblica e
il discorso politico. Tali questioni intaccano alle radici l’immagine del mondo
Scienza-Società. Analisi sociologica di una relazione complessa 35

nella quale per secoli gli esseri umani hanno visto ancorata la loro identità e il
senso profondo del loro essere (Beck, 2017). Per esempio, il nesso biologico
tra madre e prole, certo per millenni, è oggi riarticolato dall’avanzamento acce-
lerato delle tecnologie della riproduzione e dalla globalizzazione degli scenari
esistenziali e del mercato (Beck e Beck-Gernsheim, 2012). Nel caso della gesta-
tional surrogacy le spinose questioni sollevate dal dibattito internazionale non
si esauriscono affatto nella sola dimensione comunicativa del fenomeno ma
rinviano a polarizzazioni morali, culturali, retoriche e politiche (Bandelli, 2019;
Bandelli e Corradi, 2019). Una riflessione di carattere più generale intorno al
rapporto scienza-società confluisce giocoforza nell’ambito dell’antica interro-
gazione intorno ai limiti dell’azione umana (Pacelli, 2013), il cui perimetro è
oggi scolorito dalla radicale ricomposizione della gerarchia dei valori e dal con-
tributo decisivo di portentosi sviluppi tecnoscientifici (Camorrino, 2019a). Le
scivolose formulazioni del “principio di precauzione” rendono bene l’idea delle
profonde trasformazioni avvenute nella relazione tra le forme della produzione
tecnoscientifica e gli strumenti della regolazione sociale e giuridica. Questi ul-
timi paiono sempre più inadeguati al cospetto di una sfera che sfugge in modo
crescente alle maglie dei dispositivi tradizionali utili alla gestione delle faccende
umane (Ewald, 1996). Siamo cioè innanzi a una riscrittura della questione della
responsabilità, che diventa un ulteriore dirimente tema dell’attualità non solo
politica – tema comunque in gran parte interno al rapporto scienza-società per
come qui lo si sta intendendo (Camorrino, 2019b).
Il nucleo del problema è che la scienza, in sostanza, non è più percepita
esclusivamente come l’istituzione in grado di trovare soluzioni ai problemi e
di garantire, attraverso la ricerca, un futuro migliore e di benessere per l’intera
umanità. Essa viene anzi contestualmente vissuta come uno dei primi vettori di
minaccia (Beck, 2003). Basti pensare alla gigantesca questione – cui qui possia-
mo solo accennare – del Climate Change (Giddens, 2009). La radicalizzazione
del processo di industrializzazione ha delineato scenari in cui sembra a rischio
l’intera biosfera (Beck, 2001). L’immaginario della “apocalisse autoprodotta” si
sposta dall’incubo dell’inverno nucleare4 (Anders, 1992) a quello della deserti-
ficazione, dell’innalzamento dei mari, del riscaldamento globale, ecc. (Camor-
rino, 2018b). Per reazione a questo timore circa la sopravvivenza della specie
umana e non umana, siamo testimoni di un ritorno della natura a fulcro im-
maginale del nostro tempo (Camorrino, 2019c). Anzi, nel quadro più generale
del processo di desecolarizzazione che sta interessando globalmente la società
(Berger 1999) – seppur con fisionomie, modalità e sfumature differenti – la
sfera naturale viene assurgendo a entità cultuale, in ossequio a vere e proprie
forme di ecospiritualità (Camorrino e Calia, 2019; Choné, 2017; Taylor, 2010).

4
  L’industria culturale ha digerito a modo suo questi inediti scenari distopici, dando luce a una
vasta gamma di prodotti non solo cinematografici. Si veda Caramiello (1987) e Calia e Caramiello
(2019).
36 Antonio Camorrino

In definitiva la relazione sempre più complessa e interrelata tra scienza e so-


cietà ha concorso – insieme ad altre variabili – a ingenerare trasformazioni così
profonde che l’immagine stessa della natura umana e non umana ne è emersa
radicalmente cambiata (Camorrino, 2018c e 2018d). Ciò non significa affatto
indulgere in visioni apocalittiche poiché questo stato di cose può determinare
tanto pericoli quanto opportunità (Beck, 2014).
In conclusione, possiamo solo augurarci che nei dibattiti sui potenziali con-
flitti scienza-società – non di rado animati da toni anche accesi – si tenga conto
della complessità “figurazionale” (Elias, 2010) del problema. Le scienze sociali
possono essere certamente d’aiuto a fornire un quadro controintuitivo dello
scenario generale in cui questi conflitti hanno luogo. Inutile – rectius: dannoso
– servirsi di “categorie-zombie” (Beck, 2015) per cercare di prevedere o, addi-
rittura, risolvere problemi futuri. Nei limiti di un breve saggio – e senza alcuna
pretesa di successo – è questo l’obiettivo del presente contributo: fornire un
piccolissimo apporto a una lettura del fenomeno scienza-società auspicabil-
mente sottratto dalle pastoie del senso comune e dell’ideologia.

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La circostanza postumana. Complotti “metafisici” e paure contemporanee

di Adolfo Fattori1

Nessuno può farci niente


contro questa circolarità delle masse
e dell’informazione…
Oggi il sapere sull’evento
non è che la forma degradata
di quello stesso evento.
(Jean Baudrillard, 1984)

«La paura è un’arma… che voi potete usare,


e non permettete ad altri di usarla contro di voi.
Vi è stato insegnato il modo di usarla.
Usatela!»
(Fritz Leiber, 1950)

Reincanti

Immaginare la forma che prenderà il mondo del futuro nei termini delle isti-
tuzioni di base della nostra società – lavoro, politica, economia, istruzione, ricer-
ca scientifica e tecnologica, unioni affettive – non può prescindere dal prendere
in esame gli universi simbolici (Berger, Luckmann, 1997) che ne forniranno la
cornice descrittiva e legittimante – i modi in cui ci spiegheremo e giustifichere-
mo, dal punto di vista del senso comune, prima di tutto, la realtà in cui vivremo.
Quella che nel suo Meditazioni del Chisciotte (2014) il sociologo spagnolo
José Ortega y Gasset definisce la circostanza: «La circostanza! Circum-stantia!
Le cose mute che ci circondano», intendendo con questo termine il mondo
che ci sta intorno, e il modo in cui lo interpretiamo e in cui agiamo. Il mondo
sociale e naturale, insomma, ma filtrato dalla nostra “visione del mondo”, dal
modo in cui, socialmente, lo costruiamo, in un lavoro di negoziazione continua,
al nostro interno, fra pulsioni individuali e istanze sociali.
Pensando all’oggi – e a quanto il tempo in cui viviamo può darci indicazioni
sul futuro che verrà – non possiamo evitare di soffermarci sulle trasformazioni
che stanno avvenendo nell’immaginario collettivo, nel modo in cui ci descri-
viamo il mondo attuale, e quindi nel sistema di aspettative, paure, idee che
abbiamo nei confronti del futuro che ci attende.
Dopo secoli di egemonia, sempre crescente, di una visione del mondo fon-
1
  Accademie di Belle Arti di Napoli. E-mail: adolfofattori@libero.it
42 Adolfo Fattori

data sulla fiducia nel progresso, nella scienza, nella conoscenza, sembra ci sia
una stasi, un ripiegamento, un ritorno – anche se con vesti in parte nuove –
verso una visione del mondo fondata sul pensiero pre-razionale, magico. Assi-
stiamo a un reincanto del mondo, probabilmente radicato nella sensazione della
progressiva estraneità dai contesti in cui si costruisce la realtà sociale, e dalla
paura di essere in balia di forze che, seppur concrete, sono al di fuori del no-
stro controllo, forze invisibili, impalpabili, animate da intenzioni ostili, ma che
agiscono negli interstizi e negli anfratti della vita quotidiana, tanto da innescare
reazioni simili a quelle degli appartenenti alle società arcaiche, immerse nel
soprannaturale (Camorrino, 2019). Lo conferma il successo mondiale di “nar-
razioni” che rimandano a silenziose invasioni aliene, complotti extra-umani e
via dicendo (Paura, 2017).
Atteggiamento puntualmente riflesso in quei prodotti dell’immaginario
narrativo e scientifico della tarda modernità che rimandano agli universi del
magico, del soprannaturale, o a quelli della cospirazione, del complotto, che han-
no come comun denominatore la percezione di essere inermi – il che produce
spavento, diffidenza e rabbia – di fronte a poteri soverchianti e occulti.
Insomma, una reinterpretazione del “complotto metafisico” di cui scriveva
Philip K. Dick (2015), o, tornando a Ortega y Gasset e al Don Chisciotte, degli
“incantatori” che l’hidalgo di Cervantes sostiene nascondano la vista della real-
tà agli uomini… Convinti che “la verità sia dentro di noi”, sulla scorta dell’on-
da lunga che in Occidente proviene dalla cultura americana e dal suo rapporto
col sacro (Bloom, 1992; Davis, 1999; Castaneda, 1970), sentiamo di avere gli
strumenti e le capacità (Tipaldo, 2019) per difenderci dalle minacce invisibili
che ci vengono da un cosmo (insieme profano e sacro) ostile attraverso il di-
gitale, la nostra “work station”, sintesi del rifugio antiatomico (Signori, 2008;
2009) contemporaneo e della metropoli moderna (Benjamin, 1976; Simmel,
1996): un luogo in cui e da cui praticare i rituali di un sacro “tecnologico”, “a
bassa intensità” (Ortoleva, 2019) che ci permetta di esorcizzare i demoni della
contemporaneità, come nel romanzo L’alba delle tenebre di uno dei maestri
della science fiction, Fritz Leiber (1950).
Forse l’esito, ipotizzato da sociologi e filosofi, della tendenza al passag-
gio da una Umanità così come definita dall’Umanesimo e dalla Modernità a
una post-umanità per ora solo in fieri è da cercare in questo ritorno al passato,
piuttosto che in un passaggio ad una dimensione umana “superiore” a quella
definita dal percorso moderno (Fattori, 2019).

Sacra scienza

In L’alba delle tenebre (1991), pubblicato nel 1950 – uno dei capolavori
della fantascienza apocalittica – Fritz Leiber immagina che in un mondo posta-
tomico (assimilabile temporalmente agli anni che stiamo vivendo) una umanità
La circostanza postumana 43

imbarbarita sia sotto il dominio di una setta di sacerdoti che hanno trasformato
la scienza in una sorta di religione, assiomatica e rigida, sostanzialmente magi-
ca, sacra. Un feroce ed efficiente strumento di potere.
Prescindendo dal contesto “postatomico” del romanzo, scritto in piena
“guerra fredda” (cfr. Signori 2008; 2009), potremmo avere una conferma di
quel che William Burroughs scriveva a proposito proprio della science fiction,
che «… ha la cattiva abitudine di avverarsi» (1994).
Non certo riguardo alla storia del mondo, figuriamoci, quanto alla capacità
di percepire, immaginare – rendendo letterali metafore, iperboli o altre figure
retoriche – proiettandole nel futuro, tendenze e curvature che saranno del rap-
porto umano con la realtà, sociale e naturale.
Così, in questo caso, forzando leggermente la mano, possiamo paragonare
il terrore degli abitanti del mondo immaginato da Leiber ai nostri contem-
poranei, invasi da paure escatologiche (Camorrino, 2019) di varia natura, che
possiamo considerare, in ultima analisi, l’esito ultimo di ormai consolidate dif-
fidenze e sospetti verso le istituzioni scientifiche (e di quelle politiche e culturali
che ne sono le custodi).
Si torna a una dimensione magica, pre-razionale, in cui i detentori delle co-
noscenze scientifiche sono percepiti come apprendisti stregoni, in commercio
con le grandi – e invisibili, sovra-umane – conglomerazioni economico-poli-
tico-finanziarie, magari emanazione di estranei invasori, come i rettiliani (cfr.
Paura, 2017).
Assistiamo a una sorta di sacralizzazione della scienza in senso magico, eso-
terico: saperi lontani, opachi, oscuri, sempre più estranei, forse effetto dell’inca-
pacità progressiva della scuola di trasmettere conoscenze, che si riverbera sulla
possibilità di ancorare a paradigmi riconoscibili la comunicazione scientifica, an-
che divulgativa o giornalistica, e contemporaneamente di una diffidenza sempre
più diffusa nei confronti delle istituzioni pubbliche, dei “sistemi esperti” (cfr.
Giddens, 1999) nel loro complesso, in tempi in cui tutta la tradizione del pensie-
ro occidentale – politico, etico, scientifico – viene messa in discussione.
Istituzioni e apparati percepiti come inutili, inadeguati, se non direttamente
oppressivi, ostili: tenebrosi, appunto.

Controllo

La fantasia di organizzazioni o esseri (umani o meno, terrestri o alieni) che


decidono per noi in piena luce o nascosti e mimetizzati fra noi è nella maggior
parte dei casi strettamente intrecciata con l’idea di essere continuamente sotto un
controllo invisibile e costante, che impregna l’intera realtà sociale e la vita quo-
tidiana – esaltando fenomeni che pure hanno una loro consistenza e portandoli
all’estremo limite. E andando ben oltre l’analisi teorica e il discorso scientifico.
Su quest’ultimo piano – poco sensibile alle sirene neo-escatologiche o pa-
44 Adolfo Fattori

ra-fantascientifiche – ne scrivevano già, nel 1986, Carlo Formenti in Prometeo


e Hermes, e nel 1987 Fausto Colombo in L’immagine indiscreta (cfr. Fattori,
2010), conservando l’abituale equidistanza fra tentazioni da “apocalittici” e il-
lusioni da “integrati”, attenti a descrivere e circoscrivere i mutamenti in corso
e le loro possibili implicazioni, anche future.
Sullo stesso tema, a processi di digitalizzazione della vita sociale e a pro-
gressi nelle tecnologie dell’immagine molto più avanzati, è intervenuto anche
il sociologo Zygmunt Bauman, prima verso la fine del Novecento (1999), poi,
ma con molta maggiore preoccupazione, insieme al giornalista David Lyon, nel
2014 (cfr. anche Fattori, 2014).
L’accento che i primi e i secondi pongono sui fenomeni connessi alla sorve-
glianza elettronica e al controllo digitale è differente, meno “patico” quello di
Formenti e Colombo, più allarmista quello di Bauman e Lyon.
In sostanza, Formenti e Colombo, scrivendo all’alba della proliferazione di
strumenti di comunicazione e sorveglianza (antenne, videocamere…), mettono
l’accento sui cambiamenti che investono l’ambiente urbano e sociale, i panorami
metropolitani; Bauman e Lyon, scrivendo molto più tardi, possono già argomen-
tare a “rivoluzione digitale” in pieno corso, degli sviluppi ultimi delle tecnologie
di sorveglianza, di droni e microtecnologie varie, paventando i rischi connessi a
possibilità di controllo della privacy tendenzialmente pervasive e totali.
E le riflessioni di questi studiosi non sono altro – seppur con declinazioni e
forza differenti – che il risvolto sul piano dell’osservazione scientifica delle pre-
occupazioni e paure che si agitano nell’esercizio del senso comune. Alla base,
la paura cui già accennavo di poter perdere – o di aver già perso – il controllo
sulla propria vita, sulle sue routines e sulla sua organizzazione, a opera di forze
incomprensibili e incontrollabili.
Forse la descrizione narrativa più completa delle direzioni e dei bersagli che
le attuali angosce escatologiche hanno come oggetto – almeno per quanto ri-
guarda le tecnologie digitali – viene messa in scena nella serie televisiva britan-
nica Black Mirror, ideata dallo sceneggiatore e produttore britannico Charlie
Brooker e trasmessa a partire dal 2011.
Nelle cinque stagioni che finora sono state realizzate, la serie, ambientata in
un futuro molto vicino ai nostri anni, dispiega un intero ventaglio di possibili
sviluppi e usi delle tecnologie digitali – tecnologie, ricordiamolo, di gestione di
informazione, comunicazione, controllo, simulazione – e delle implicazioni che
questi potrebbero avere sulla nostra vita quotidiana e sulla sua riarticolazione
in senso, naturalmente, distopico.

Inner-Outer Spaces

Il racconto della sindrome da controllo (nella sua versione più estrema, e


quindi idealtipica, direi), dell’essere sotto osservazione da parte di entità ignote,
La circostanza postumana 45

vede una sua versione originaria grazie a uno dei più raffinati e visionari scrittori
di science fiction, uno degli autori che l’hanno condotta al suo compimento, l’in-
glese James Graham Ballard, in uno dei suoi primi racconti, The Watch-towers,
pubblicato in originale nel 1962 e in italiano prima nel 1965 come Essi ci guardano
dalle torri, poi nel 2003 in una nuova traduzione col titolo Le torri d’osservazione.
Il racconto – da quel che ci dice lo stesso Ballard – si svolge in un presen-
te possibile, indistinguibile dal nostro – magari, come avviene spesso nei suoi
racconti, come in molta narrativa tardomoderna vicina o ibridata con la science
fiction – in un futuro di appena qualche anno più avanti.
La città dove vive il protagonista, Renthall, è controllata dall’alto da un gran
numero di “torri” sospese al cielo, apparse improvvisamente, da un giorno all’altro:
una presenza incombente, opprimente e aliena, di cui non si conosce l’origine – né,
tantomeno, si conoscono i moventi degli eventuali occupanti, o di chi le controlla,
magari da lontano, ma che si pensa servano a controllare comportamenti e routine
degli umani. Ogni tanto dal basso si intravedono finestre che si aprono, forme
vaghe che sembrano osservare dall’alto ciò che avviene sulla superficie della città.
Il Consiglio che regge la città si è arrogato il compito di fare da interme-
diario fra i cittadini e i presunti occupanti delle torri: impartisce ordini e im-
posizioni, elargisce consigli… fra tutti, quello forse più coattivo riguarda lo
scoraggiare le attività sociali, pare che le “torri” non vogliano: scuole, teatri,
cinema chiusi, anche le relazioni affettive si atrofizzano. La città è congelata, in
letargo. Disincanto, conformismo, depressione sono la norma.
Renthall però non si adatta, è insofferente alla mancanza di vita provocata
dall’apparire delle torri, e decide di rompere la stasi che ha colpito i suoi con-
cittadini, e si dà da fare per organizzare un vento pubblico, che scuota le acque,
per provocare una qualsiasi reazione – se non dalle torri, almeno dal Consiglio
della città, perché in realtà crede che non ci sia nessun vero rapporto fra Con-
siglio e torri.
E infatti viene convocato dal Consiglio, che però sospende contestualmente
la seduta sine die.
La vita quotidiana riprende, anche se con lentezza, ma Renthall sente puzza
di bruciato: scopre presto che coloro con cui è in contatto non capiscono di
cosa parli, perché non vedono più le Torri e ne hanno perso anche il ricordo!

Circostanze

Il racconto di Ballard si presta a molte riflessioni, e – in seconda battuta – a


un possibile confronto con il romanzo di Leiber di cui ho discusso più sopra.
Sono lontani fra loro dal punto di vista temporale – li dividono quindici anni,
anni in cui si è passati dalla paura dell’annichilazione nucleare a quella della
dittatura dei media – ma hanno un nucleo comune: la paura di perdere il con-
trollo della propria vita.
46 Adolfo Fattori

Fritz Leiber affabula sul rischio (che nei nostri anni si attualizzerà con for-
za) di una deriva della percezione comune degli apparati e delle procedure del-
la scienza in senso “esoterico”, magico-religioso, estraneo, inserendosi in una
tradizione della science fiction che trae ispirazione dalla diffusione latente, sotto
traccia, di paure magari indefinite, sottili, che nascono da un clima, quello degli
anni Cinquanta del Novecento, che mescolano la paura della catastrofe atomi-
ca con quelle dell’invasione aliena (a sua volta metafora dell’invasione “comu-
nista”) spingendone all’estremo le implicazioni, e scegliendo come terminale
una declinazione dell’idea di scienza come apparato separato e, autonomo, che
si fa potere opprimente e autoreferenziale. James Ballard è più sottile, il suo
racconto si presta a più linee interpretative, come d’altra parte è da attendersi
da un autore che già dagli esordi esprimeva un immaginario e un suo sguardo
sul processo sociale molto più articolato, diffratto, eccentrico.
Il nucleo di Le torri d’osservazione giace e prende corpo senza dubbio dal
tema della paura delle invasioni aliene che però Ballard sfrutta come sfondo
per immaginare una dimensione in cui queste generino una sorta di allucina-
zione collettiva – sfruttata dal “Consiglio della città” per suoi fini occulti (e
qui emerge un altro dei miti contemporanei – a bassa intensità? [cfr. Ortoleva,
2019] – ossia quello del complottismo), fin quando l’allucinazione non sfuma,
e il solo protagonista, Renthall, ne rimane invischiato. O ancora, al contrario,
che la “cospirazione” ai danni della popolazione della città sia reale e che i
suoi autori riescano a cancellare la realtà del complotto dalle memorie e dalla
percezione della popolazione, rendendola immanente, pervasiva, ma occulta.
Solo Rendhall ne rimane consapevole, isolato dagli altri e ormai inoffensivo, a
predicare in un deserto di abulia e di (auto?)inganno. Nella “circostanza” – per
dirla con Ortega y Gasset – in cui vivono Renthall e i suoi concittadini si è infil-
trato un elemento estraneo, ostile, che condiziona la vita quotidiana e il mondo
sociale percepito che somiglia, grazie alla presenza delle “torri” alla natura dal
“volto orchesco” prodotto di quell’“ambiente artificiale tardo-moderno” di cui
scrive Carlo Formenti pensando a telecamere di sorveglianza e tecnologie del
controllo (Formenti, 1986), e che già fa intravedere le membrane deformanti
fra la realtà e la nostra percezione che popoleranno i mondi allucinati di Philip
K. Dick.
In questo non c’è differenza fra il futuro descritto nel 1965 da Ballard e
quello immaginato nel 1950 da Leiber: cambiano solo la tipologia delle tecno-
logie messe in scena, e le modalità con cui gli umani interiorizzano la loro con-
dizione di impotenza nei confronti non del caso in generale, di lunghe catene
di eventi di cui non sono che occorrenze episodiche, ma di forze al di fuori del
proprio controllo, dotate di scopi precisi, anche se spesso imperscrutabili.
La circostanza postumana 47

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La comunicazione pubblica della scienza e della tecnologia
per una partecipazione sociale al 2050

di Mara Di Berardo1

L’alfabetizzazione scientifica è la capacità di impegnarsi con idee scientifi-


che e in questioni relative alla scienza come un cittadino riflessivo ed è neces-
saria per comprendere e prendere parte a discussioni che coinvolgono scienza
e tecnologia. Si compone di tre competenze chiave e conoscenze scientifiche
specifiche relative a contenuti, procedure ed epistemologia (OECD, 2017). Per
aumentare il livello di alfabetizzazione scientifica esistono percorsi di educazio-
ne cosiddetti formali, strutturati e istituzionalizzati con certificazione, e attività
di comunicazione pubblica di scienza e tecnologia. L’aumento dell’alfabetizza-
zione scientifica passa attraverso iniziative svolta da enti di ricerca e altre isti-
tuzioni, giornalisti scientifici, divulgatori e comunicatori. A queste, si affianca-
no altre attività informali quotidiane svolte direttamente dai pubblici, intesi al
plurale in termini demografici, per livelli di alfabetizzazione scientifica e perché
multi-sfaccettati e/o frammentati. In generale, comunicazione pubblica della
scienza è il processo di pubblicazione, disseminazione e comunicazione dei
risultati e dei processi della ricerca scientifica di istituzioni di ricerca pubbliche
o private, nel cui ambito rientrano naturalmente anche i pubblici considerati
non esperti.
Con comunicazione pubblica di scienza e tecnologia si intende spesso la
sola divulgazione, anche non istituzionale, ma alcuni modelli di classificazio-
ne (Lewenstein B.V., 2003; Bucchi, 2008; Bucchi, Trench, 2016) forniscono
un quadro interpretativo per diverse possibilità comunicative. Tali possibilità
coesistono spesso simultaneamente in diversi percorsi, a volte superando la
semplice trasmissione di contenuti descritta nel modello del deficit per orien-
tarsi verso una modalità comunicativa più dialogica (Bucchi, 2008), come nei
modelli contestuale e della competenza laica, e finanche partecipativa, in cui
il coinvolgimento pubblico è visto come un fattore di democratizzazione della
scienza. La citizen science (scienza dei cittadini, cfr. Irwin, 1995; Bonney, 1996)
è considerata la pratica dei cittadini di eseguire esperimenti scientifici e degli
scienziati di lavorare assieme ai cittadini (SOCIENTIZE, 2014). È parte inte-
grante delle priorità politiche degli approcci “Open Innovation/Open Science/
Open to the world” (Commissione Europea, 2016) e “Reponsible Research
and Innovation” che sostengono il coinvolgimento degli stakeholders nei pro-
cessi di ricerca e innovazione (Commissione Europea, 2013). La RRI è un tema

1
  Millennium Project & Consiglio Nazionale delle Ricerche – Istituto per le Applicazioni del
Calcolo “M. Picone”. E-mail: mdiberardo@gmail.com.
50 Mara Di Berardo

trasversale di Horizon 2020 ed è particolarmente promossa dal suo program-


ma “Science with and for society”, che mira a ridurre il divario tra comunità
scientifica e società con azioni sui suoi elementi tematici e azioni integrate per
il cambiamento istituzionale. Di fatto, esistono diversi approcci alla scienza dei
cittadini (Haklay, 2013, 2015; Bonney et al., 2009; Shirk et al., 2012), anch’essi
con vari livelli di coinvolgimento. A partire dal semplice rilevamento passivo di
dati o dalla condivisione di potenza di calcolo, i modelli di classificazione evol-
vono in progetti di intelligenza distribuita, in cui si utilizzano anche le abilità
dei partecipanti, fino ad arrivare a progetti di scienza collaborativa o parteci-
pativa, in cui i progetti sono co-creati e i cittadini sono presenti fin dalle fasi
iniziali dei progetti o li autogestiscono in alcune forme estreme.
Anche la digital science (scienza digitale) si inserisce nell’approccio di aper-
tura alla ricerca e all’innovazione della Commissione Europea (DG Connect,
2013): si riferisce alla trasformazione radicale di scienza e innovazione attivata
dai servizi e dagli strumenti delle TIC (Tecnologie dell’Informazione e del-
la Comunicazione) nella ricerca ad alta intensità di dati e computazionale in
ambienti virtuali e collaborativi. È promossa nel contesto dell’Agenda Digi-
tale dell’Unione Europea per la scienza eccellente, una delle sette iniziative
faro della strategia Europa 2020, e attraverso il programma Horizon 2020, che
contribuisce al suo sviluppo con tecnologie e componenti, modelli, metodi e
strumenti, piattaforme e infrastrutture collaborative e altre innovazioni per
comprendere le sfide che essa comporta. Le TIC trasformano il sistema scien-
tifico, rendono possibile l’intelligenza collettiva (Lévy, 1996) e la creazione di
nuova conoscenza scientifica, democratizzano la ricerca e portano alla nascita
di discipline e connessioni per studiare nuove domande e nuovi argomenti di
ricerca. Al contempo, questo approccio favorisce l’istruzione inclusiva di lungo
periodo, le competenze digitali, le conoscenze tecnologiche ed un più ampio
senso di iniziativa e comproprietà (SOCIENTIZE, 2014).
I sistemi sociali costituiscono una sfida prioritaria per la scienza digitale, data
l’eterogeneità degli approcci di differenti discipline scientifiche. Si possono com-
piere progressi in questo ambito combinando approcci sperimentali e computa-
zionali in cui gli open data sono fondamentali per la riproducibilità dei risultati.
Esempi di sistemi scienza-società-politica relativi alla scienza dei cittadini sono
gli osservatori dei cittadini, che sviluppano sistemi ambientali di monitoraggio e
di informazione utilizzando applicazioni innovative per l’osservazione della ter-
ra. La Global System Science (GSS, Scienza dei Sistemi Globali) combina poi
ICT avanzate, computational modeling e dialoghi con i cittadini per sviluppare
prospettive politiche integrate su problemi altamente complessi e interconnessi,
come quelli relativi alle sfide globali di fronte a cui si trova l’umanità (Glenn,
Florescu, 2018), e per definire un’agenda della ricerca che le affronti. La GSS
produce evidenze scientifiche per il processo decisionale, l’azione pubblica e la
società civile e definisce i concetti e i dubbi necessari per identificare politiche
efficaci e responsabili che si occupano di sistemi globali (SOCIENTIZE, 2014).
La comunicazione pubblica della scienza e della tecnologia 51

Quella che si potrebbe definire come una citizen digital science (scienza di-
gitale dei cittadini) supporta una partecipazione pubblica online ai processi di
creazione di conoscenza scientifica e di definizione di politiche pubbliche della
ricerca, lo sviluppo di alfabetizzazione scientifica e anche di altri tipi di alfabe-
tizzazione. Ad esempio, la digital and media literacy (alfabetizzazione digitale
e ai media) è intesa come un insieme di competenze per utilizzare criticamen-
te e con sicurezza Internet e l’ampia varietà di strumenti digitali disponibili
e per accedere ai media in tutti i formati, averne una comprensione critica e
interagire con essi (Expert Group on Media Literacy 2016). L’alfabetizzazione
digitale e ai media indirizza l’obiettivo di una trasformazione digitale dell’Eu-
ropa che funzioni per tutti nel rispetto di valori comuni (Commissione Eu-
ropea, 2020), nel cui ambito si collocano il Piano d’Azione per l’Istruzione
Digitale (COM/2018/022), la Nuova Agenda per le Competenze per l’Euro-
pea (COM/2016/381) e il Quadro Europeo delle competenze digitali (Ferrari,
2013) che le indirizza.
In tale contesto, il recente studio triennale del Millennium Project2 (MP)
Work/Technology 2050. Scenarios and Actions (Glenn, 2019) indica azioni e
suggerimenti che possono migliorare anche la comunicazione della scienza e
della tecnologia e le attività di scienza dei cittadini e di scienza digitale. Lo
studio indirizza i temi del lavoro e della tecnologia seguendo gli impatti delle
Next Technologies (NTs)3 al 2050 grazie alla partecipazione allo studio di oltre
450 esperti di futures studies, intelligenza artificiale, economisti, artisti, docen-
ti, scienziati, ingegneri e altri esperti di lavoro e tecnologia. Include tre sce-
nari dettagliati al 2050 formulati attraverso nove RealTime Delphi (RDT, cfr.
Gordon, Pease, 2005)4, un compendio di azioni definite tramite 30 workshop
Charrette5 nazionali in 19 Paesi e valutazione e analisi delle azioni effettuata
tramite cinque RTD.
Alcune azioni suggerite nello studio per migliorare le prospettive dell’u-
manità al 2050 si rivolgono al miglioramento della comunicazione istituzionale
della scienza e della tecnologia, intesa come quella parte della comunicazio-
ne della scienza che va oltre la comunità scientifica, altre come le piattaforme
digitali per l’intelligenza collettiva, possono essere utili per il coinvolgimento
dei cittadini anche nella scienza digitale. Rielaborando decine di commenti dei
2
 Il Millennium Project è un network senza affiliazioni di governo, partecipativo, globale e volon-
tario di esperti di previsione sociale. Per info: www.millennium-project.org.
3
  Per Next Technologies si intendono IA, distinta in debole, forte e super IA, e robotica, biologia
sintetica e genomica, stampa 3D/4D e biostampa, Internet of Things, intelligenza umana aumenta-
ta, telepresenza e comunicazioni olografiche, droni e altri veicoli autonomi, nanotecnologia, scienze
computazionali, realtà virtuale e aumentata, blockchain, cloud analytics, informatica quantistica, in-
telligenza collettiva e le loro future sinergie (Glenn, 2019).
4
  Il RTD è un’applicazione online del metodo di comunicazione strutturata (Di Berardo, 2008;
Di Berardo, 2009) in isolamento Delphi (Dalkey, Helmer, 1951).
5
  Il Charrette è un metodo di comunicazione strutturata intensivo face-to-face che scompone il
tema per la discussione in sottogruppi e in sessioni plenarie.
52 Mara Di Berardo

rispondenti, si forniranno suggerimenti sui temi della comunicazione pubblica


di scienza e tecnologia, proponendo in conclusione di integrare queste attività
per migliorare le capacità partecipative della società.

Verso un futuro desiderabile

I modelli di comunicazione pubblica di scienza e tecnologia sono un utile


quadro interpretativo per considerare la coesistenza simultanea di diversi per-
corsi di comunicazione: possono integrarsi a seconda di specifiche condizioni
e questioni in gioco (Bucchi, 2008) e rispondere a obiettivi, pubblici e ambiti di-
versi. Sembra però che ci sia ancora molto da fare. Secondo lo studio Work/Tech-
nology 2050. Scenarios and Actions del Millennium Project, i direttori di laboratori
scientifici nazionali e altri leader nella comunità scientifica e tecnologica dovrebbero
impegnarsi di più nel rendere l’attuale scienza e la tecnologia futura comprensibili
per il pubblico generale. Questa azione per il miglioramento della comunicazione
della scienza e tecnologia da parte di scienziati ed istituzioni di ricerca è stata valutata
come la più efficace e fattibile per un futuro positivo di scienza e tecnologia al 2050.
Per i partecipanti allo studio c’è «bisogno di molta comunicazione e si fa poco» in
tal senso, nonostante questa azione sia «vitale perché troppi nelle società resistono a
ciò che non capiscono semplicemente perché non lo capiscono». In effetti, «le per-
sone hanno paura di ciò che non capiscono e possono diventare paranoiche» e «c’è
assoluto bisogno di una migliore comunicazione della scienza e della tecnologia per
contrastare il nazionalismo e il pensiero compartimentato: specialmente nell’era della
post-verità e delle fake news la gente deve essere educata alla capacità di distinguere
tra fatti (reali) e teorie del complotto, opinioni distorte o faziose, ecc.». Questa attività
è «importante per evitare il pericolo di una società divisa tra chi non capisce la scienza
e chi le dà valore». Bisognerebbe comprendere «come insegnare alla gente a impe-
gnarsi nell’apprendimento continuo e nell’educazione permanente. Quando le next
technologies prolifereranno, il gap di conoscenza tra gli istruiti e i non istruiti avrà un
impatto negativo significativo sulla coorte di non istruiti in ogni paese». Al contrario,
«una società che apprezza la scienza promuoverà sicuramente una visione a lungo
termine e prenderà misure tempestive in relazione allo sviluppo tecnologico». Inol-
tre, «una cittadinanza informata potrebbe anche fare la giusta pressione sui politici e
col tempo aiutare il dialogo con la comunità scientifica e tecnologica»6.
Per aumentare il coinvolgimento nella comunicazione della scienza e del-
la tecnologia, «il pubblico deve anche essere motivato a impegnarsi nelle di-
scussioni di laboratorio» e un supporto potrebbe arrivare dalle NTs perché
«la tecnologia accelerante renderà più facile presentare dati specifici allo stile
di apprendimento cognitivo degli individui». Gli esperti del Work/Tech 2050
provano a fornire suggerimenti per migliorare la comunicazione della scienza e

6
  Tutte le citazioni provengono da Glenn, 2019 e sono tradotte dall’autrice.
La comunicazione pubblica della scienza e della tecnologia 53

della tecnologia dei centri di ricerca già oggi, ad esempio con «un incarico spe-
cifico per la sensibilizzazione, un portavoce di laboratorio», un comunicatore
della scienza e della tecnologia per chi si occupa di ricerca. Alcuni sostengono
che «molti laboratori scientifici nazionali sono in ristrettezze economiche ed è
improbabile che creino un incarico per questo lavoro» e che «rendere la scien-
za comprensibile al pubblico richiede un grosso budget e tempo lontano dalla
conduzione della ricerca, per cui è improbabile che venga finanziato». Per altri,
invece, la comunicazione pubblica della scienza e della tecnologia è un’azione
facilmente attuabile perché «molti centri di ricerca hanno un dipartimento di
pubbliche relazioni» e basterebbe «considerare una direttiva dall’autorità rile-
vante che dice di farlo e aggiungere qualche piccolo fondo extra nel budget».
Spesso, però, «le abilità nel comunicare la scienza mancano» ed è «richiesto
anche uno sforzo per formare sia i direttori che i ricercatori di base» «hanno
bisogno di formazione per migliorare il loro impatto».
Imparare a comunicare scienza e tecnologia per i pubblici è infatti come
imparare una lingua straniera (Angela, 2009) e necessita capacità di comunica-
zione verbale e non verbale e di motivazioni per attrarre. Esistono già master
e corsi di formazione in comunicazione della scienza, come alcuni dei parte-
cipanti allo studio suggeriscono, però il problema non è soltanto educativo:
«Molti degli scienziati migliori non vogliono avere a che fare con il pubblico,
ma non c’è bisogno di tutti gli scienziati migliori, solo di alcuni, e coloro che
non vogliono avere a che fare con il pubblico dovrebbero sostenere coloro che
lo fanno», come è successo per Carl Sagan7.
Rispetto a come procedere, «molti laboratori pubblicano già comunicati
stampa e organizzano persino forum che riguardano i propri risultati»; «i co-
municatori della scienza invogliano i loro lettori con parole selezionate con at-
tenzione, interviste chiave, immagini visivamente mozzafiato e angolazione av-
vincente». Per aumentare comprensione e coinvolgimento, «ci potrebbe essere
bisogno di un po’ di sforzo da parte della comunità scientifica e tecnologica
per visualizzare meglio i dati, inclusi modelli interattivi online che il pubblico
può facilmente usare». Inoltre, «spiegare come funziona la tecnologia è meno
importante di spiegare come influirà sulla vita della gente». Secondo i parteci-
panti allo studio, si potrebbe a tal fine «aiutare la gente a immaginare possibili
esiti quando un’innovazione tecnologica diventa comune, mostrare, non dire
(show, don’t tell): serie TV come Black Mirror raggiungono un’audience più
ampia di quanto facciano i canali scientifici». Per alcuni, «i video su web (tipo
YouTube) dovrebbero rendere questo compito più facile», ma i ricercatori do-
vrebbero anche «creare alleanze con i media tradizionali»: il progetto Science
and entertainment exchange8, ad esempio, «ha lavorato su un numero di film e
7
  Carl Edward Sagan, astronomo, astrofisico, astrobiologo e astrochimico, è stato un famoso
divulgatore scientifico e autore di fantascienza. Secondo il commento contenuto nel Work/Tech 2050,
i colleghi scienziati ne hanno riconosciuto la leadership pubblica, invece di escluderlo.
8
  Info: http://scienceandentertainmentexchange.org/.
54 Mara Di Berardo

show televisivi popolari con il potere di raggiungere la persona comune e for-


mare la sua idea su cosa è la scienza e su cosa fanno gli scienziati». «Discovery
Channel e show televisivi simili sono buoni, ma c’è bisogno di fare di più, nelle
scuole e nei media tradizionali di tutti i tipi» e si dovrebbe anche creare un
accordo strategico tra l’Agenzia della Scienza e della Tecnologia, le università
e i social media.
Un’azione valutata nello studio Work/Tech 2050 che potrebbe essere inte-
grata con la precedente è specificamente diretta alle associazioni scientifiche
(ad es., International Science Council, accademie scientifiche e così via) e ai
loro network che «dovrebbero sicuramente far parte del processo che mantie-
ne il mondo informato su scienza e tecnologia, inclusa l’IA». Tali associazioni
dovrebbero sviluppare metodi e procedure per adempiere alla responsabili-
tà che hanno nel definire e comunicare fatti scientifici, perché l’IA potrebbe
accelerare terribilmente l’impatto della disinformazione. Sembra un’azione
scontata perché «sono la fonte e il centro della conoscenza scientifica, chi altri
potrebbe essere più efficace? Naturalmente dipende da quanto prendono se-
riamente in considerazione questa responsabilità». Alcuni partecipanti hanno
infatti la sensazione che gli scienziati comunichino «in un modo che sembra
quasi mirato ad avere un piccolo gruppo di persone che comprende ciò su cui
lavorano», quando è invece importante che imparino a «comunicare meglio
con la popolazione generale, piuttosto che provare a rinforzare una specie di
elitarismo». A tal fine, «i regolamenti che creano queste istituzioni dovrebbero
imporre questo obbligo con urgenza», agendo «contro i comitati scientifici e le
accademie che degenerano in burocrazie scientifiche». In questo modo, «molte
di queste organizzazioni sarebbero gestite da team di lavoro più coscienti e pre-
parati a fare il proprio lavoro». Anche per queste azioni si riconoscono attività
in atto da potenziare, come ad esempio la relazione degli scienziati con i social
media, considerata molto importante. In effetti, «associazioni e accademie han-
no già alcuni forum per comunicare con il pubblico che spesso non è capace
di accedere a tali informazioni; migliorarli potrebbe richiedere di andare nelle
comunità, a livello di strada, sui trasporti pubblici, nei servici pubblici locali,
anche nella sanità, nelle librerie pubbliche, negli uffici dei servizi governativi
per raggiungere la gente e ricevere feedback», un po’ come succede in alcuni
modelli di comunicazione pubblica della scienza e della tecnologia.

Scienza partecipativa al 2050

Come la strategia di apertura dell’Unione Europea, che include scienza dei


cittadini e scienza digitale, anche altre azioni suggerite nello studio Work/Tech
2050 del Millennium Project si rivolgono sia alla partecipazione dei cittadini,
sia all’utilizzo di tecnologie digitali per l’intelligenza collettiva. Si suggerisce ad
esempio di creare sistemi nazionali di intelligenza collettiva per allarme tempe-
La comunicazione pubblica della scienza e della tecnologia 55

stivo relativo a problemi e opportunità. Questi sistemi possono essere pubblici/


privati, accessibili ad esperti/cittadini e sviluppare costante analisi strategica,
rendendo più facile per il pubblico intervenire nel processo decisionale. Se-
condo i rispondenti, «la partecipazione pubblica è sempre una buona idea» ma
«abbiamo bisogno anche di politici e congressi collegati a queste associazioni»
scientifiche. Un sistema di questo tipo «sarebbe essenziale per favorire un lavo-
ro più collaborativo e inclusivo nel mondo attraverso il web»: se tutti «fossero
collegati a un sistema di intelligenza collettiva con ampia inclusione e accesso,
ciò potrebbe creare il più ampio degli impatti» e potrebbe aiutare i decisori a
prendere decisioni correndo qualche rischio: «Ci sarà un crescente bisogno da
parte del sistema politico di cercare attivamente informazioni sui votanti e (…)
si comprenderà che la gente vuole in effetti condividere tali informazioni».
Gli esperti dello studio affermano infatti che «le attività partecipative per
aumentare la consapevolezza di opportunità e sfide e il policy making riflessi-
vo sono molto, molto importanti e dovrebbero essere implementate in diversi
settori politici: «Essere informati da segnalazioni sui problemi e le opportunità
potrebbe formare i cittadini a costruire il proprio pensiero critico» perché un
sistema di questo tipo «potenzia piuttosto che limitare e non ha bisogno di
essere perfettamente implementato per essere efficace». Alcuni, però, pensa-
no che il pubblico non sia capace di auto-governarsi, chiedendosi quale sia il
livello di rappresentazione in questi sistemi: «Il pubblico non può e non do-
vrebbe partecipare nel processo decisionale in quanto la decisione è stata presa
eleggendo i propri rappresentanti governativi». Ragionare, quindi, sui livelli
di partecipazione ai progetti di scienza dei cittadini, così come ai processi de-
cisionali pubblici, diventa importante per generare fiducia e trasparenza: «È
probabile che diventi il prossimo sviluppo rispetto a indagini e focus group in
quanto i politici lottano per guadagnare un vantaggio competitivo rispetto a
quali questioni perseguire». Secondo alcuni, «questo tipo di sistema potrebbe
essere una nuova forma di democrazia, come la democrazia liquida, che cerca
consenso globale», ma può avere valore solo se reso parte di un programma
generale che promuove la previsione sociale: «(…) da solo potrebbe essere fa-
cilmente ignorato o non considerato seriamente dai capi di governo o dal pub-
blico generale».
In termini tecnici, una piattaforma di intelligenza collettiva ha per i rispon-
denti «lo stesso valore di tutti i servizi forniti da Google». Modelli simili «in
parte esistono già nelle comunità informali dei social media favorite da esperti,
ricercatori e principali dipendenti aziendali che ascoltano il dialogo e lo usano
per estrare temi e modelli. Ha senso favorire la crescita di queste comunità e
costruirne altre», magari come «un’estensione di ciò che diversi gruppi (…)
stanno già cercando di fare». Il loro ruolo «è già dei think-tank nel mondo,
ma alcuni potrebbero non collegare/integrare la loro raccolta di informazioni
in maniera abbastanza ampia da permettere un’analisi strategica appropriata».
Nei commenti si consiglia quindi di «unire sistemi già operativi (…) e connet-
56 Mara Di Berardo

terli in qualche modo in un sistema di intelligenza collettiva di allarme tempe-


stivo accessibile ai cittadini». Un sistema di intelligenza collettiva è, in fondo,
«una questione di progettazione del processo, non di tecnologia»: richiede di
ragionare sulla qualità e sull’obiettività, di dotarsi di un moderatore eccezio-
nale che deve capire «come gestire il sovraccarico di informazioni, assegnando
significato, e come gestire libertà di espressione rispetto a protezione e alla pri-
vacy» e di indirizzare protezione dell’informazione per prevenire hackeraggio
e falsificazione. Per alcuni, però, «l’attrattività di partecipazione a tali decisioni
riflessive sarà limitata alle poche élite con tempo libero ed energia per leggere
e pensare»: «La natura nerd percepita dai contribuenti potrebbe limitarne in-
tegrazione e influenza». Si dovrà allora cercare di far usare abbastanza questi
sistemi «per essere all’altezza, nella pratica, degli scopi previsti» e una sfida
importante sarà «la definizione dei requisiti per la partecipazione dei cittadini,
anche in termini di inclusività e barriere» e di definizione di un consenso prece-
dente rispetto a problemi e opportunità. Questi sistemi potrebbero «nel lungo
termine (determinare) sicuramente un apprendimento sociale e un effetto di
profondo sviluppo, ma nel breve termine potrebbe creare paura, insicurezza e
tensioni e richieste complesse verso il governo». I rispondenti affermano quin-
di che «i benefici di questi sistemi devono essere efficacemente comunicati al
di là degli aspetti tecnici, in quanto pochi possono cogliere l’ampiezza di utiliz-
zare questo tipo di approccio»: si dovrà sviluppare «una campagna di sensibi-
lizzazione pubblica concertata sul loro bisogno», così da «spingere il pubblico
a richiederli ai propri politici» e anche a usarli abbastanza da essere all’altezza
delle aspettative.
Nello studio Work/Tech 2050 si suggerisce di costituire anche un’Orga-
nizzazione per la Scienza e Tecnologia (S&T), un soggetto istituzionale che ha
esiti diversi nei tre scenari alternativi al 20509 del MP. L’Organizzazione S&T
è intesa come un sistema online di intelligenza collettiva: condivide previsioni
su tecnologia, suoi potenziali impatti e diverse altre opinioni aggiornate su base
globale, come accade in Wikipedia ma con maggiore peer review. Questo siste-
ma dovrebbe mostrare contraddizioni e differenze messe l’una accanto all’altra
e collegamenti a dati e ricerca, agendo come un sistema di allerta rapido. Se-
condo i risultati dello studio, l’Organizzazione S&T dovrebbe collaborare con
altri paesi per costituire un’organizzazione S&T internazionale: una piattafor-
ma online di intelligenza collettiva sulle implicazioni sociali, economiche e oc-
cupazionali alternative delle tecnologie e delle scoperte scientifiche emergenti,
disponibili per tutti. Questa organizzazione «ha il potenziale di influenzare l’e-
lettorato, che potrebbe allora influenzare le scelte politiche con effetti a medio
e lungo termine sull’occupazione o sul concetto di lavoro/attività utile» ed è

9
  Gli scenari sono “Un complesso miscuglio”, “Disordini politico-economici, angoscia per il
futuro”, “Se gli uomini fossero liberi: l’economia dell’autorealizzazione”. Per una sintesi in italiano,
cfr. Glenn, Florescu, 2018.
La comunicazione pubblica della scienza e della tecnologia 57

«un’opportunità per connettere questioni socio-economiche allo sviluppo tec-


nologico internazionale con una comunità più ampia». È importante, però, che
non sia utilizzata per manipolare le persone e non diventi una nuova burocrazia
ma che adotti metodi trasparenti10, esplori anche soluzioni sociali e sia collegata
con sistemi di istruzione e apprendimento formali e non formali, suggeriscono
i partecipanti allo studio Work/Tech 2050.

Conclusioni

I progetti di scienza dei cittadini e scienza digitale ridefiniscono la comuni-


cazione pubblica di scienza e tecnologia. La scienza dei cittadini è un’opportu-
nità importante non solo per aumentare l’alfabetizzazione scientifica pubblica
(Bonney et al., 2009; Shirk et al., 2012) e le facoltà critiche (Sis.net, 2013) ma
anche per aiutare il pubblico a discernere tra fake news e fatti scientifici (SiS.
net, 2017), sviluppare competenze scientifiche, comprensione e conoscenza dei
concetti scientifici dello studio, cambiare atteggiamento e comportamento e
generare impatto sociale e comunitario con coinvolgimento e interesse (Bonney
et al., 2009). I cittadini giocheranno un ruolo sempre più esteso nella ricerca
scientifica in diversi modi, ad esempio contribuendo all’agenda della ricerca e
a rafforzare la voce sociale dei più vulnerabili, aiutando al contempo la demo-
cratizzazione della scienza (Sis.Net, 2013). Alcuni definiscono infatti la scienza
dei cittadini come partecipazione pubblica alla ricerca scientifica (Shrink et al.,
2012): i cittadini ne diventano fattore abilitante, la fanno loro stessi (movimenti
do it yourself) e contribuiscono a una ricerca più responsabile e democratica.
Anche la scienza digitale, che coinvolge la società in nuovi modi, con nuovi
strumenti e piattaforme e creando nuove relazioni tra scienza e società, può
migliorare l’alfabetizzazione scientifica dei cittadini e aumentare l’interesse per
scienza e tecnologia (DG CONNECT, 2013): mentre spinge la scienza a diven-
tare più globale, collaborativa, creativa e vicina alla società (SOCIENTIZE,
2014), la scienza digitale incoraggia anche una trasformazione digitale dell’Eu-
ropa, supportando alfabetizzazione digitale e ai nuovi media della società.
Spesso non è molto chiaro se le attività di comunicazione pubblica di scienza
e tecnologia abbiano successo, in parte anche perché nella pratica non c’è con-
senso sull’obiettivo e su cosa costituisca un miglioramento della comprensione
pubblica della scienza (Lewenstein, 2003). Le pratiche di scienza dei cittadini
possono aiutare a comprendere che l’alfabetizzazione scientifica si rivolge a di-
versi aspetti dell’apprendimento dei soggetti, utili anche per indirizzare nuovi
obiettivi di alfabetizzazione. Ad esempio, una participatory literacy (alfabetizza-
zione partecipativa) può intendersi come un’abilità composita che deriva da un

10
  Nello studio si suggeriscono il Radical Technology Inquerer (Linturi et al., 2014) e la Futures
Map (Sharpe, Van der Heijdeen, 2007).
58 Mara Di Berardo

percorso di apprendimento in cui il soggetto è al centro del processo e in rap-


porto con una comunità, similmente a quanto accade nei percorsi partecipati-
vi di apprendimento per l’alfabetizzazione (ad esempio Jurmo, 1984). Queste
pratiche educative sviluppano abilità collaborative, pensiero critico, autostima
attraverso livelli crescenti di partecipazione al processo e contribuiscono allo
sviluppo personale e anche al cambiamento sociale. Allo stesso modo, la scien-
za dei cittadini digitale può rivolgersi anche a una electronic participatory lite-
racy (alfabetizzazione partecipativa elettronica): secondo Hockly et al. (2013),
l’alfabetizzazione partecipativa in ambito digitale è la capacità di contribuire
all’intelligenza collettiva di network digitali e di avvalersi dell’intelligenza col-
lettiva di quei network per obiettivi personali e/o collettivi. Il set di competen-
ze è composito e può riguardare linguaggio, informazione e comunicazione,
alfabetizzazione digitale, interculturale e di networking. Questi processi di alfa-
betizzazione sembrano così indirizzare più competenze contemporaneamente
e influenzarsi a vicenda.
Per liberare il potenziale della scienza dei cittadini sarà necessario superare
alcune delle sue problematiche (Haklay, 2015), in parte comuni alla scienza in
generale e potenzialmente anche ai processi partecipativi pubblici, e suppor-
tarne lo sviluppo con misure specifiche di istruzione e apprendimento, appro-
priate tecnologie per il coinvolgimento, attività di disseminazione, consapevo-
lezza, sensibilizzazione e divulgazione e attività di monitoraggio e valutazione
collettiva e dinamica, indirizzando al meglio anche data policy e accesso (Sanz
et al., 2015). Allo stesso modo, l’efficacia delle azioni dello studio Work/Tech
2050 discusse per migliorare anche scienza dei cittadini e scienza digitale può
essere incrementata sviluppando altre azioni e in maniera integrata. Ad esem-
pio, parallelamente all’istruzione tecnico-scientifica, lo studio propone di cre-
are un sistema di apprendimento personalizzato basato sull’indagine per l’au-
torealizzazione e di focalizzarsi sullo sviluppo di creatività, pensiero critico,
relazioni sociali, lavoro autonomo, etica e armonia sociale, per conoscere se
stessi e costruire e condurre una vita lavorativa significativa. Ancora in senso
collaborativo, lo studio propone di aiutare le persone a comprendere il futuro
in un ambiente sempre più complesso e dinamico, ad esempio con piattafor-
me osservatorio o di horizon scanning per la ricerca di segnali che potrebbero
aggiornare i trend dell’occupazione e tecnologici e supportare discussioni sul
futuro dell’occupazione. Sviluppare queste azioni in chiave di alfabetizzazione
partecipativa (digitale), oltre che scientifica, potrebbe facilitare anche un mag-
giore coinvolgimento dei cittadini nei processi decisionali, come già accade con
alcune attività scientifiche che includono membri del pubblico nella compren-
sione e nell’influenza di politiche pubbliche (Rowe, Frewer, 2005), e aumentare
la consapevolezza delle condizioni sociali che influenzano la vita e il benessere
dei cittadini (SiS.net, 2013).
I risultati che un progetto di scienza aperta dovrebbe considerare sono
relativi ai ricercatori (ad esempio, scoperte scientifiche), ai partecipanti come
La comunicazione pubblica della scienza e della tecnologia 59

individui (ad esempio, acquisire nuove competenze o conoscenza) e ai sistemi


socio-ecologici di riferimento (influenzare politiche, costruire capacità comu-
nitaria). Il mix di questi output rende la partecipazione pubblica nella ricerca
scientifica un concetto potente (Shirk et al., 2012) della comunicazione pubbli-
ca di scienza e tecnologia e può supportare quel processo unico e articolato di
“socializzazione della scienza” alla base della cittadinanza scientifica (Quaran-
ta, 2007; Greco, 2008), per la quale è necessario intersoggettivizzare la scienza
come un’impresa umana generale e collettiva (Quaranta, 2007). Alfabetizzazio-
ne scientifica, digitale, ai media e partecipativa potranno essere considerate e
valutate come dimensioni di base per una maggiore e più consapevole parteci-
pazione della società a processi di creazione di intelligenza collettiva finalizzati
a indirizzare le sfide globali dell’umanità.

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Una questione non solo grammaticale:
verso un’uguaglianza di genere linguistica

di Pietro Maturi1

Una delle grandi trasformazioni in corso nelle società contemporanee più


evolute – nel mondo occidentale ma non soltanto – è quella che riguarda i
rapporti tra i generi: in primo luogo, il riconoscimento della parità tra donne
e uomini che, benché lungi dall’essersi realizzata interamente, ha già da tem-
po iniziato a modificare profondamente il ruolo maschile e quello femminile
sia nel contesto privato sia in quello pubblico, e ha finalmente visto l’ingresso
delle donne, in misura certo del tutto insufficiente ma comunque sempre
crescente, in posizioni professionali e politiche che fino a non molto tempo
fa erano state riservate esclusivamente agli uomini; in secondo luogo, ancora
più lentamente e gradualmente ma in maniera ormai sempre più significati-
va, il riconoscimento dei diritti delle persone appartenenti alle minoranze di
orientamento sessuale e di identità di genere, in un processo che vede oggi
questa componente della società via via più presente nel dibattito pubblico
come protagonista delle proprie rivendicazioni, ma anche come tema di di-
scussione di pressante attualità per tutte le forze politiche, sociali e culturali
in campo.
Questi profondi cambiamenti sociali e culturali richiedono a tutte e a tutti
noi di impegnarci ancora a fondo per un futuro sempre più sviluppato nella
direzione della totale ed effettiva parità tra donne e uomini e tra persone di
diverso orientamento sessuale o identità di genere. In ogni caso, le parziali ma
positive trasformazioni avvenute hanno già cominciato a influire sui compor-
tamenti e sugli atteggiamenti che adottiamo in qualunque ambito della nostra
vita sociale.
Fra i campi nei quali gli effetti delle trasformazioni già iniziano a sentirsi
in modo significativo vi è quello degli usi linguistici, in italiano così come in
tante altre lingue, nonostante forti resistenze, in parte prevedibili e in par-
te meno prevedibili, come vedremo nei successivi paragrafi. Le lingue stori-
co-naturali sono infatti, per definizione, dei sistemi dinamici che evolvono nel
tempo e che manifestano la propria vitalità e la propria funzionalità proprio
attraverso questa loro capacità di adattamento ai cambiamenti del pensiero,
del costume, della cultura, che sono in grado di accompagnare e anche di
favorire.

1
  Dipartimento di Scienze sociali, Università di Napoli Federico II. E-mail: maturi@unina.it.
64 Pietro Maturi

Il genere grammaticale nelle lingue

Nei diversi sistemi linguistici la dimensione più sensibile rispetto alla que-
stione qui studiata, ossia quella dei rapporti tra i generi, è naturalmente quella
del genere grammaticale, cioè di quella categoria che, in molte lingue ma non
in tutte, oppone un genere “maschile” a uno “femminile” (oltre ad altri even-
tuali generi come il “neutro”). Questa categoria, percepita come “naturale”
da chi come noi parla una lingua che la possiede, non è affatto una categoria
universale: vi sono infatti numerose lingue, in Europa e altrove, che ne sono
completamente prive, dette comunemente con una locuzione inglese gender-
less languages (tra queste possiamo ricordare importanti lingue di famiglia non
indoeuropea come l’ungherese, il turco, il finlandese, il giapponese, ma anche
lingue indoeuropee come l’armeno e il persiano o farsi). Le lingue che invece
possiedono la categoria del genere grammaticale presentano a loro volta molte
differenze l’una rispetto all’altra. Non potendo qui addentrarci in una analisi
approfondita di questa tipologia, basterà ricordare che vi sono lingue con tre
generi – maschile, femminile e neutro (come ad esempio il tedesco e il russo,
oltre al noto caso di lingue antiche come il latino e il greco) – e lingue a due
generi (come l’italiano, il francese, lo spagnolo, ecc.).
Esistono inoltre lingue come l’inglese dove la categoria del genere è sì pre-
sente ma in forma molto marginale, in quanto è circoscritta ai soli pronomi
personali di terza persona singolare (she vs. he, her vs. him) e ai corrispondenti
aggettivi e pronomi possessivi (her vs. his, hers vs. his).

Genere grammaticale e sistemi di potere

L’italiano, come altre lingue romanze e non romanze, possiede sostantivi


di genere femminile e di genere maschile in riferimento non solo alle persone
(p.es. la ragazza vs. il ragazzo) e agli esseri animati (p.es. la puledra vs. il pule-
dro), ma anche, e in modo del tutto arbitrario, agli oggetti inanimati (p.es. la
forchetta, la tazza vs. il cucchiaio, il bicchiere).
Quando il referente è una persona, la corrispondenza di genere è molto
alta, nel senso che la stragrande maggioranza dei sostantivi riferiti a donne è
di genere femminile e la stragrande maggioranza dei sostantivi riferiti a uomi-
ni è di genere maschile (con alcune marginali eccezioni dovute ad accidentali
motivazioni storico-culturali, come il soprano e il contralto, riferiti a donne, o
la sentinella e la guardia, riferite sia a donne sia a uomini). In linea generale,
l’accordo tra il genere dei sostantivi e il genere della persona a cui si riferiscono
è garantito e reso quasi automatico in italiano da meccanismi morfologici molto
semplici che permettono, con la sostituzione di una desinenza o l’aggiunta di
un suffisso, il passaggio dal maschile al femminile o viceversa, come per esem-
pio nelle coppie il figlio vs. la figlia, l’infermiere vs. l’infermiera, il professore vs.
Una questione non solo grammaticale 65

la professoressa, il senatore vs. la senatrice, ecc. ecc. In altri casi, la forma del so-
stantivo resta inalterata, ma la differenza di genere viene rivelata e resa esplicita
da articoli e aggettivi accordati, come in il nostro preside vs. la nostra preside, il
bravo cantante vs. la brava cantante.
Benché questi semplici e regolari meccanismi si possano applicare pratica-
mente a qualunque sostantivo, si è venuta inopinatamente a creare, negli ultimi
decenni di rapida trasformazione sociale e culturale, una situazione del tutto
confusa e illogica. Infatti, via via che le donne venivano finalmente conquistan-
do nuovi spazi e andavano a ricoprire nuove professioni, funzioni e ruoli da cui
il sistema tradizionale di potere le aveva da sempre escluse, riservandole ai soli
uomini, si rendeva necessario, per definire colei che le svolgeva, produrre i ter-
mini femminili corrispondenti a quelli maschili facendo ricorso ai meccanismi
morfologici di cambio di genere. In questo modo si sono iniziate a diffondere
tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX parole nuove ma regolarissime come
professoressa e dottoressa, per definire donne che insegnano o che si sono laure-
ate o che esercitano la professione medica.
Più tardi, però, in molti altri casi altrettanto inediti e nuovi a causa dell’a-
tavica occupazione maschile del potere, l’assenza di fatto del corrispettivo
femminile nell’uso concreto e quotidiano della lingua ha spinto molti parlanti,
anziché a produrre e usare regolarmente le forme femminili come la lingua
avrebbe consentito e anzi richiesto, a estendere l’uso del maschile anche in
riferimento a donne, e ha perfino spinto molte donne a riferirsi a sé stesse e
alle proprie colleghe usando il maschile e rifiutando implicitamente o esplicita-
mente il genere grammaticale femminile. Per esempio Voghera e Vena (2016)
hanno mostrato l’uso ancora oggi frequente del genere maschile nei curricula
delle docenti universitarie, redatti dalle stesse docenti, che in molti casi si defi-
niscono professore, ricercatore, direttore, ecc. Si è cominciato così a dire, di una
professionista che esercita attività legale, l’avvocato Anna Russo, di una politi-
ca che svolge il ruolo di capo dell’amministrazione comunale, il sindaco Rosa
Verdi, di una docente che dirige un dipartimento universitario, il direttore prof.
ssa Lucia De Rosa, ecc., violando le regole logiche, semantiche e morfologiche
della corrispondenza tra il genere grammaticale e quello della persona a cui ci
si sta riferendo.
Se questa soluzione è tuttora preferita da molti uomini e anche da molte
donne, è spesso nella convinzione che essa stabilisca una parità di denomina-
zione a prescindere dal sesso della persona2, anche se in realtà si tratta di una
parità che si manifesta non con forme neutre, prive di genere, assenti nella
morfologia italiana, ma nel segno della prevaricazione, grammaticale e sociale,
del genere maschile a danno di quello femminile. Un’altra motivazione spesso
2
  Da un’intervista del magazine Open a Beatrice Venezi, direttrice d’orchestra: «Lei è nata a
Lucca, ha 29 anni ed è direttrice d’orchestra da quando ne aveva 22. Anzi è “direttore”, preferisce
farsi chiamare così: “Non penso serva sottolineare il genere di un professionista”»: www.open.onli-
ne/2019/10/18
66 Pietro Maturi

addotta dai fautori e dalle fautrici del cosiddetto “maschile neutro” fa riferi-
mento alla presunta cacofonia del termine femminile, nella convinzione che
“sindaca” suoni peggio di “sindaco” o che “assessora” suoni peggio di “asses-
sore”. Questa motivazione di tipo estetico capovolge l’effetto con la causa: se i
termini femminili suonano in modo poco familiare è proprio perché non se ne
fa uso frequentemente.
Si sono diffuse, come conseguenza di questa resistenza contro il genere
femminile, anche espressioni ibride del tipo il ministro è arrivata o anche la
ministro è arrivata, il nuovo direttore si è insediata, ecc., che violano elementari
meccanismi di accordo del participio, dell’aggettivo e perfino dell’articolo col
sostantivo a cui si riferiscono.

Il sessismo nella lingua italiana

Questa situazione nuova e per molti versi disorientante per l’utente della
lingua, prodottasi grosso modo a partire dalla seconda metà del XX secolo, è
stata per la prima volta descritta e denunciata dalla linguista Alma Sabatini che
negli anni Ottanta, per incarico del governo allora presieduto da Bettino Craxi,
svolse una approfondita indagine quantitativa e qualitativa su di un vasto cor-
pus di testi, i cui risultati vennero pubblicati e analizzati nel suo noto volume
Il sessismo nella lingua italiana, pubblicato appunto a cura della Presidenza
del Consiglio dei Ministri (Sabatini, 1986). In questo volume Sabatini, insieme
alle sue collaboratrici Marcella Mariani, Edda Billi e Alda Santangelo, mette in
particolare evidenza, tra gli altri, tre aspetti che rivelano la asimmetria degli usi
linguistici correnti a discapito, naturalmente, del genere femminile:
1. La netta prevalenza della forma maschile del sostantivo per tutte le fun-
zioni di maggior prestigio (ingegnere, avvocato, ministro, assessore, professo-
re ordinario, rettore, ecc.), a prescindere dal genere di chi le svolge, mentre
nelle funzioni meno alte si usa tranquillamente il femminile riferito a donne
(impiegata, maestra, domestica, portinaia, stiratrice, e così via);
2. l’uso del maschile collettivo nel caso di gruppi misti, anche quando la
componente femminile è maggioritaria o fortemente maggioritaria, gruppi
a cui tradizionalmente ci si riferisce col solo maschile: gli alunni della se-
conda classe, gli insegnanti di questo liceo, cari colleghi, gli iscritti alla nostra
associazione, i cittadini del nostro comune, ecc.
3. l’uso del solo maschile quando ci si riferisce a una funzione astratta,
non ancora ricoperta da una persona specifica, uomo o donna: p.es. le ele-
zioni del sindaco, la nomina del nuovo insegnante di inglese, i compiti del
segretario del partito, ecc.
Di fronte a questo quadro, che metteva in evidenza un uso ancora profon-
damente sessista della lingua all’epoca della pubblicazione del testo, l’Autrice e
le sue collaboratrici proposero, all’interno dello studio citato, delle Linee guida
Una questione non solo grammaticale 67

per un uso non sessista della lingua italiana, con l’obiettivo dichiarato di “dare
visibilità linguistica alle donne e pari valore linguistico a termini riferiti al sesso
femminile” (Sabatini, 1986).

La questione di genere nel XXI secolo

Negli ultimi decenni stiamo assistendo ad alcuni cambiamenti che certa-


mente vanno nella direzione auspicata da Alma Sabatini e dalle sue Linee gui-
da3. La discussione sull’accordo di genere, a differenza che nel passato, è oggi
molto presente nella società italiana e sui mezzi di comunicazione di massa.
Alle professioniste, alle dirigenti, alle politiche, alle artiste intervistate viene
chiesto sempre più spesso quale genere preferiscano usare per definire il pro-
prio ruolo, anche se le loro risposte mostrano una grande divisione proprio tra
le donne: sebbene il numero di coloro che scelgono il femminile sia in costante
aumento, sono ancora tantissime – forse la maggioranza – quelle che optano
per il maschile. E non risulta affatto chiaro se l’elemento determinante della
scelta di ciascuna sia la generazione a cui appartengono, l’orientamento politi-
co, aspetti della personalità, o altro ancora.
Tuttavia, nella profonda oscillazione tuttora vigente nell’uso linguistico ita-
liano emergono due aspetti rilevanti:
1. non è più dato per scontato l’uso del maschile come negli anni in cui
lavorava Alma Sabatini, ma ormai sempre più spesso viene sentita come
necessaria una riflessione e una scelta da parte di ciascuna donna e, natural-
mente, anche da parte degli uomini nel momento in cui debbano rivolgersi
a loro o menzionarne la professione;
2. si sono diffusi e sono diventati ormai di uso corrente – benché niente
affatto generalizzato – molti termini che fino a non molto tempo fa non
venivano mai utilizzati nella loro forma regolare femminile, come p.es. sin-
daca, ingegnera, assessora, rettrice, cancelliera, avvocata, entrati comunque a
far parte del lessico dell’italiano contemporaneo a fianco ai corrispondenti
maschili.
Questa parziale, ma innegabile evoluzione dell’italiano si svolge comunque,
nel contesto europeo, con una molto maggiore lentezza e incertezza rispetto
ad altre lingue come il tedesco, il francese, lo spagnolo, nelle quali l’afferma-
zione del femminile è ormai pressoché completa e sostanzialmente indiscussa.
Il confronto risulta agevole e lampante quando per esempio si confrontino le
traduzioni, come chiunque può fare comodamente nel caso dei sottotitoli e dei
doppiaggi delle serie televisive. Nella celebre serie spagnola La casa de papel,

3
  Sullo stato di avanzamento della questione dell’uso del femminile esistono ormai numerosissi-
mi studi monografici e raccolte di saggi. Tra gli altri, si vedano Robustelli (2016), Robustelli (2018),
Giusti e Regazzoni (2009), Corbisiero, Maturi e Ruspini (2016), Corbisiero e Maturi (2016).
68 Pietro Maturi

per fare un esempio recentissimo, una delle protagoniste è la funzionaria di


polizia Raquel Murillo: questo personaggio è definito inspectora nella versione
originale in lingua castigliana, inspectrice nella versione francese (doppiaggio e
sottotitoli), Kommissarin in quella tedesca (idem), tutti termini inequivocabil-
mente femminili nelle tre lingue, dove il maschile suona rispettivamente inspec-
tor, inspecteur e Kommissar. In italiano, invece, la povera Raquel diventa, suo
malgrado, l’ispettore Murillo.

Nuove soluzioni per i gruppi misti

Per quanto riguarda l’espressione del genere relativamente ai gruppi for-


mati da donne e da uomini, tradizionalmente definiti al maschile (“maschile
collettivo”), si vanno diffondendo abbastanza rapidamente nuovi usi, basati su
quattro possibili strategie alternative al maschile:
1. la ripetizione del termine nei due generi, preferibilmente con la prece-
denza al femminile: care amiche e cari amici, le cittadine e i cittadini, le e gli
adolescenti, tutte e tutti coloro che vorranno candidarsi, ecc. ecc.: questa so-
luzione ha però lo svantaggio dell’allungamento del testo, soprattutto nella
comunicazione veloce online;
2. il ricorso nella forma scritta, per economia di caratteri e per evitare la
ripetizione, alla barra obliqua per separare le desinenze, o a elementi grafici
come l’asterisco * (o, meno spesso, la chiocciola @) per rappresentare a
un tempo le desinenze dei due generi: care/i colleghe/i, car* collegh*, car@
collegh@, e simili (questa soluzione però non è praticabile nell’uso orale)4;
3. l’uso di termini che evitino di indicare il genere: p.es. chi intende preno-
tarsi o coloro che intendono prenotarsi invece di quelli che intendono preno-
tarsi, ecc.
4. la scelta del solo femminile, a cui per la verità si fa ricorso molto ra-
ramente, motivata o dalla forte prevalenza delle donne in un gruppo con
pochi o pochissimi uomini, o, in termini ideologici, dalla rivendicazione in
alcuni contesti politici del capovolgimento dei rapporti di potere a favore
delle donne. Questa soluzione, poco praticata in italiano, è quella prescelta
in Spagna dall’alleanza di diversi partiti progressisti, che ha sostituito la sua
precedente denominazione Unidos Podemos ‘uniti possiamo’ con la varian-
te femminile Unidas Podemos ‘unite possiamo’. Allo stesso modo, l’univer-
sità di Leipzig (Lipsia) in Germania ha adottato ufficialmente il femminile
per tutti i ruoli, anche quando siano ricoperti da uomini, scegliendo sempre
4
  Anche qui lo spagnolo ha escogitato una nuova forma comune ai due generi, creata ad hoc, che,
benché definita “non necessaria” dalla Real Academia Española, ha raggiunto una qualche diffusione
anche in ambito scolastico e accademico: invece che todos y todas “tutti e tutte”, si propone todes, per
amigos y amigas “amici e amiche” amigues, e così via. Questa proposta ha il vantaggio di poter essere
utilizzata anche nell’uso orale.
Una questione non solo grammaticale 69

le forme Professorin, Assistentin, Studentin, Rektorin col suffisso femminile


-in5.
L’aspetto, tra quelli indicati dalle Linee guida, in cui ci sono stati i minori
cambiamenti nell’uso, riguarda quello delle funzioni astratte, cioè della defi-
nizione dei ruoli non ancora ricoperti da una persona specifica, di cui quindi
non si può prevedere il genere. Ad esempio, se chi guida un Comune è una
donna, questa potrà scegliere di essere chiamata Sindaca, tuttavia nello statuto
comunale si parlerà sempre del ruolo del Sindaco, al maschile, e allo scadere del
mandato della Sindaca verranno indette elezioni per il nuovo Sindaco, sempre
al maschile6.

Genere grammaticale, identità di genere e orientamento sessuale

Per quanto riguarda gli usi linguistici di genere in relazione alle persone
omosessuali e transessuali, le cose sono rese più complesse dalla frequente con-
fusione tra categorie concettuali ben distinte, quali il sesso, l’identità di genere
e l’orientamento sessuale. Nel caso delle donne e degli uomini transgender, il
sesso biologico definito alla nascita non coincide con l’identità di genere assun-
ta dalle persone. La donna transgender è nata di sesso maschile ma ha adot-
tato una identità di genere femminile, ed è diventata a tutti gli effetti sociali
e anche legali una donna. L’uomo transgender è nato di sesso femminile ma
ha adottato una identità di genere maschile ed è diventato a tutti gli effetti un
uomo (nell’attuale legislazione italiana e di molti altri Paesi avanzati il cambio
di genere non è più subordinato alla modifica chirurgica degli organi genitali).
La conseguenza logica di tutto questo, dal punto di vista linguistico, è l’u-
tilizzo del genere grammaticale corrispondente alla scelta biografica della per-
sona, ovvero alla sua identità di genere e non al sesso biologico. È dunque
corretto e rispettoso usare sempre il femminile per chi è diventata donna e
sempre il maschile per chi è diventato uomo. Una scelta diversa, cioè l’accordo
grammaticale col sesso biologico assegnato alla nascita (così come l’uso del
nome proprio corrispondente e non di quello assunto per propria decisione al
momento della transizione), rivela immediatamente un atteggiamento transfo-
bico da parte di chi la adotta, e corrispondentemente viene percepito come in-
sultante, discriminante e aggressivo da chi lo subisce (si ricordino per esempio
gli attacchi transfobici alla deputata transgender Vladimir Luxuria, aggredita
alla Camera anche attraverso l’utilizzo del genere maschile da parlamentari di
diverso orientamento politico).
5
  https://www.universita.it/universita-lipsia-solo-femminile-per-titoli-accademici/
6
  L’Università di Napoli l’Orientale, però, guidata da tempo da Rettrici (le professoresse Lida
Viganoni e Elda Morlicchio), ha inserito nella lista degli organi dell’Ateneo la voce ‘Rettrice’, e non
più ‘Rettore’ (vedi http://www.unior.it/ateneo/5/1/organi.html ). Resta da vedere cosa accadrà se e
quando, dopo di loro, dovesse essere eletto un uomo al vertice dell’Ateneo.
70 Pietro Maturi

Nel caso invece delle persone omosessuali, si tratta al contrario di donne e


di uomini che non hanno effettuato alcuna transizione di genere (definite tec-
nicamente “cisgender”), ma che hanno un orientamento sessuale rivolto a per-
sone del loro stesso sesso, ossia uomini che sono attratti da uomini, donne che
sono attratte da donne. Le persone cisgender conservano l’identità acquisita
dalla nascita e si riconoscono nel sesso attribuito anagraficamente e socio-cul-
turalmente. Nel loro caso sesso biologico e identità di genere coincidono. Sul
piano linguistico, quindi, l’assegnazione del genere grammaticale femminile
alle donne omosessuali e di quello maschile agli uomini omosessuali è la logica
e naturale conseguenza di tale scelta identitaria, né più né meno che per le
donne e per gli uomini eterosessuali. Simmetricamente a quanto avviene per i
transgender, infatti, gli atteggiamenti omofobici si rivelano nell’uso del femmi-
nile per insultare e deridere i maschi gay, e del maschile per insultare e deridere
le donne lesbiche.
Il quadro fin qui sommariamente delineato, che nell’ambito di una società
inclusiva e paritaria potrebbe apparire di semplice accoglimento e logicamente
non problematico, diventa in realtà più complesso per un’altra serie di fattori,
legati da un lato a particolari tradizioni e dall’altro a nuove forme di espres-
sione della personalità. Infatti, come ho avuto modo di osservare in dettaglio
alcuni anni fa attraverso uno spoglio di forum web frequentati da giovani gay
e lesbiche (Maturi, 2016), nelle comunità omosessuali vige un duplice atteggia-
mento nei confronti del genere grammaticale: da un lato è comune l’adesione
al modello sopra descritto, cioè la rivendicazione dell’uso del maschile per i gay
e del femminile per le lesbiche, insieme al fastidio e all’insofferenza verso l’uso
omofobico del femminile per i maschi e del maschile per le femmine; dall’altro
lato, però, non è raro (in particolare tra i maschi) l’utilizzo scherzoso, o talvolta
serio, del genere grammaticale opposto nel riferirsi a sé stesse/i o ad amiche e
amici dello stesso orientamento sessuale. Anzi, in ambienti omosessuali dello
scorso secolo questa abitudine era particolarmente diffusa, mentre il lavoro ci-
tato sembra mostrare che le persone delle generazioni più giovani siano sempre
più propense a respingerla, sia pure con qualche oscillazione.
Infine, un ulteriore grado di complessità nasce con la progressiva emersione
di nuovi modelli di comportamento e di nuovi tipi di identità nell’ambito del
mondo omo e transessuale, rappresentato fino a poco tempo fa dall’acronimo
LGBT, che ora si arricchisce di continuo di nuove lettere dell’alfabeto (LGBTQ,
LGBTQI, LGBTQIA, ecc.), o anche, più sinteticamente ed ecumenicamente,
LGBT+. Non possiamo addentrarci qui nei dettagli di queste evoluzioni del
recente passato e verosimilmente del futuro prossimo della questione relativa
alla moltiplicazione delle identità. Possiamo però accennare brevemente alla
diffusione di quello che viene definito genere non binario o genderqueer, cioè
di persone che rifiutano di assumere una identità orientata decisamente ver-
so il maschile o verso il femminile. In questo caso sorgono nuove interessanti
questioni legate anche al genere grammaticale, a cominciare dai nomi propri
Una questione non solo grammaticale 71

di persona (vengono adottati nomi che non indicano uno dei due generi) e dai
pronomi con cui è corretto riferirsi a queste persone. In inglese sono nati in tal
senso pronomi come ze che supera la classica distinzione tra she e he e forme
come Mx. che sostituisce Mr. e Ms. Queste forme genderless soddisfano le esi-
genze non binaristiche, ma risolvono anche alcuni dei problemi discussi sopra
a proposito, per esempio, delle funzioni astratte. L’italiano sta muovendo solo
i primissimi passi in questa direzione, ma è presto per poter dire quali innova-
zioni verranno introdotte nel prossimo futuro.

Conclusioni

La breve rassegna di cambiamenti in corso nella lingua italiana in relazione


alle questioni di genere conferma l’assunto da cui siamo partiti: le lingue sono
strumenti adattivi che nel tempo acquisiscono dimensioni di uso e di forma
corrispondenti alle innovazioni sociali e culturali, sia pure con un tempo di
latenza rispetto alla velocità di queste innovazioni e non senza resistenze legate
alle sempre presenti controreazioni culturali rispetto al nuovo, nella società e
nella lingua.
Come già da tempo è stato osservato dalla letteratura sul tema (cfr. tra gli
altri Eckert e McConnell-Ginet, 2013), esistono due spinte che producono ef-
fetti a volte contrapposti: quella della categorizzazione del genere, che va nella
direzione della espressione della dualità maschile vs. femminile, e che domina
lo sviluppo linguistico in tante lingue europee, tra cui anche l’attardato italiano,
e quella della decategorizzazione del genere, che spinge invece nella direzione
opposta, cioè verso la cancellazione delle differenze anche grammaticali, come
avviene per esempio in inglese quando si evita di usare he o she preferendo
they, o come propongono i gruppi genderqueer per avversare il binarismo di
genere. Il futuro ci dirà se una di queste direzioni prevarrà sull’altra o se, come
è certamente auspicabile, si troveranno delle vie per conciliare e soddisfare
tutte le legittime esigenze in campo.
72 Pietro Maturi

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COLMARE IL DIVARIO SCIENZA- SOCIETÀ:
PROGETTI DI RICERCA E CASI-STUDIO
Le Scienze computazionali per la società
con il contributo attivo della società: l’esperienza di SCoPE@Scuola

di Giovanni Battista Barone1, Vania Boccia2, Davide Bottalico3, Luisa Carracciuolo4

La comunicazione della scienza può essere considerata il “primo passo” per


raggiungere l’ambizioso obiettivo di diffondere e consolidare un’idea di scienza
meno distante e utile alla società (“Science with and for Society”). Infatti, i non
addetti ai lavori generalmente hanno difficoltà ad approcciarsi alle questioni
scientifiche e ad accettare il concetto di scienza “utile”. Superare tale difficoltà
è possibile solo se a tutti sarà data la possibilità di comprendere: 1) la differenza
tra scienza e pseudoscienza; 2) che le scoperte fatte dalla scienza, migliorando
la comprensione del mondo, forniscono soluzioni a problemi concreti; 3) che il
contributo di ciascuno è indispensabile a “guidare” la ricerca scientifica nel suo
processo verso la scoperta e la realizzazione di soluzioni in grado di migliorare
la qualità della vita di ogni individuo.
Da alcuni decenni le Scienze Computazionali (SC) sono riconosciute come
il “terzo pilastro” della conoscenza scientifica, come si evince dalla seguente
buona definizione (Tinsley et al., 2014): «L’uso degli algoritmi computazionali
per tradurre modelli matematici che rappresentano il comportamento dell’uni-
verso fisico in modelli computazionali che predicono il futuro e ricostruiscono
il passato, e che sono usati per simulare un ampio spettro di prodotti, processi
e sistemi».
L’utilizzo delle SC ha migliorato la conoscenza in diversi contesti applica-
tivi: dalla previsione meteorologica/climatica, all’utilizzo delle risorse energe-
tiche e ai terremoti, al folding delle proteine, alla genomica, alla conoscenza
dei processi chimici o di diffusione di virus, all’evoluzione delle galassie e delle
supernovae, solo per citarne alcune. In alcuni casi, le SC possono essere consi-
derate essenziali per la soluzione dei problemi del mondo attuale (si pensi, ad
esempio, agli studi relativi ai cambiamenti climatici).
Il mondo delle SC comprende una grande quantità di aree di conoscenza e
competenze: dalla modellizzazione matematica dei problemi alla progettazione
di algoritmi, dall’implementazione del software alla progettazione e gestione di
sistemi di elaborazione complessi. Tutti questi skills sono collegabili a varie di-
scipline didattiche: dalla matematica all’informatica, dalla fisica e dalle scienze
della terra alla biologia e alla medicina.

1
  Università degli Studi di Napoli Federico II. E-mail: giovannibattista.barone@unina.it.
2
  Liceo Pluricomprensivo “Renato Cartesio”. E-mail: vania.boccia@liceorenatocartesio.it.
3
  Università degli Studi di Napoli Federico II. E-mail: davide.bottalico@unina.it.
4
  Consiglio Nazionale delle Ricerche. E-mail: luisa.carracciuolo@cnr.it.
76 Giovanni Battista Barone, Vania Boccia, Davide Bottalico, Luisa Carracciuolo

Proprio in tale contesto, l’iniziativa SCoPE@Scuola (Carracciuolo et al.,


2018) intende contribuire alla diffusione di contenuti relativi alle SC, offrendo
agli studenti delle scuole la possibilità di acquisire una visione più ampia dei
sistemi informatici come strumenti utili a risolvere problemi complessi e a far
progredire la conoscenza in vari campi della ricerca accademica e industriale.
Il presente lavoro illustra l’iniziativa SCoPE@Scuola come primo passo di un
impegno che intende fare dell’informazione sui temi scientifici la prima azione per
aumentare sempre più il numero di cittadini responsabili, coinvolti e coinvolgibili
in tutte le fasi della ricerca scientifica. Il saggio è quindi così organizzato: nella pri-
ma sezione si descrive come il concetto di “Scienza con e per la Società” può essere
declinato nell’ambito delle scienze computazionali; nella seconda e terza sezione
si descrive l’iniziativa SCoPE@Scuola evidenziando come questa, partendo dalla
scuola, può essere considerata la base di un processo formativo/informativo pro-
pedeutico a un coinvolgimento più ampio di tutti gli individui della società civile.

Le scienze computazionali “con e per” la società

Le sfide che attendono l’umanità nei prossimi decenni (Glenn et al., 2019)
richiederanno sempre più che individui e comunità (intelligenza individuale e
collettiva) siano consapevoli degli strumenti che la conoscenza scientifica for-
nisce. La padronanza di questi strumenti doterà gli individui e le comunità di
una maggiore resilienza ai problemi e, allo stesso tempo, consentirà loro di pre-
venire conseguenze indesiderate e/o non previste dello sviluppo tecnologico.
Inoltre, la cooperazione di tutti i componenti della società (scienziati e non)
in contesti informali consentirà agli scienziati di conoscere le reali aspettative
e necessità della società relativamente ai risultati della ricerca scientifica. Ad
esempio, nel campo delle SC, i termini “efficacia” ed “efficienza” hanno assun-
to significati diversi nel corso della storia: infatti, oggi, la misurazione dell’effi-
cienza degli algoritmi tiene conto non solo delle prestazioni temporali ma anche
delle questioni connesse al consumo energetico, poiché la tutela dell’ambiente
è diventata un problema cruciale per la società. L’interazione tra scienza e resto
della società ha quindi indotto, e forse continuerà a farlo, un cambiamento di
significato di tali termini.
Il grande pubblico accetterà il concetto di “Scienza con e per la Società”
solo se comprenderà che la scienza è sempre e continuamente alla ricerca della
verità sul mondo e, in questa lunga ricerca, il contributo di tutti i cittadini è
utile se non necessario.
Il protocollo che è alla base delle SC può essere considerato un archetipo
del processo che la scienza usa per consolidare la conoscenza e affermare la
verità: gli scienziati lavorano con un approccio basato su una forte interazione
e integrazione di competenze in un flusso operativo che include continui adat-
tamenti e correzioni (fig. 1)
Le scienze computazionali per la società con il contributo attivo della società 77

Fig. 1 – Il processo alla base delle Scienze Computazionali. Credits to SPPEXA Project (Bungartz at al., 2015).

Inoltre, le SC possono abituarci a guardare a problemi complessi come unio-


ne di problemi più semplici ma interconnessi tra loro. Tale “sguardo” genera ne-
gli individui ciò che Wing (2016), nel suo discorso sul “pensiero computaziona-
le”, dice essere “un’attitudine”: saper guardare ai problemi usando la prospettiva
“migliore” e formulare soluzioni che siano “abbastanza buone” per tutti.
Perciò gli autori del presente lavoro sono convinti che parlare alle persone
di “cosa siano” e di “come funzionino” le SC sia un buon modo per promuo-
vere una maggiore fiducia nella scienza e dare alle persone una consapevolezza
più profonda del suo potenziale e dei suoi meccanismi: secondo gli autori è più
importante discutere con i cittadini di come la scienza raggiunga un obiettivo
piuttosto che vantarne i risultati. Poiché il processo che sta alla base delle SC
fornisce una prova di come diverse abilità e predisposizioni siano tutte utili a
fare in modo che la scienza raggiunga un obiettivo, secondo alcuni risultati del
progetto Hypatia EU Horizon 20205, le SC possono essere usate per far fronte
al problema del divario di genere nelle attività STEM (AAUW, 2010).

L’iniziativa SCoPE@Scuola

Tra le attività internazionali che hanno l’obiettivo di progettare e attuare


strategie per l’insegnamento delle SC (e di tematiche ad esse strettamente colle-
gate come il calcolo parallelo e distribuito) si ritrovano alcune iniziative come:
Il Workshop on Teaching Computational Science (WTCS) che è parte dell’Inter-
national Conferences on Computational Science (ICCS) (Tirado-Ramos et al., 2017).

5
 Cfr. http://www.expecteverything.eu/hypatia/
78 Giovanni Battista Barone, Vania Boccia, Davide Bottalico, Luisa Carracciuolo

La NSF/IEEE-TCPP Curriculum Initiative on Parallel and Distributed Com-


puting – Core Topics for Undergraduate (TCPP Curriculum Initiative, 2019).
Lo European Workshop on Parallel and Distributed Computing Education
for Undergraduate Students (Euro-EDUPAR, 2019).
Tuttavia, le suddette iniziative sono principalmente legate a contesti univer-
sitari mentre pochi sembrano, a oggi, gli sforzi fatti per divulgare i contenuti
delle SC tra gli alunni della scuola secondaria o nel grande pubblico. L’ini-
ziativa SCoPE@Scuola supera parzialmente questi limiti e intende dare una
risposta agli obiettivi (Tab. 1) identificati nel documento Science education for
responsible citizenship (Commissione europea, 2015).

Obiettivo 1
L’educazione scientifica dovrebbe essere una componente essenziale di un processo continuo
di apprendimento che coinvolga tutti, dagli alunni della scuola materna ai cittadini adulti.
Obiettivo 2
L’educazione scientifica dovrebbe valorizzare l’importanza dell’acquisizione di competenze
con particolare attenzione all’apprendimento attraverso la scienza e alla connessione fra STEM e
STEAM6. Evidenziare il legame fra la scienza e le altre discipline sarebbe di stimolo e supporto ad
un approccio basato sul “creative thinking”7.
Obiettivo 3
Per ottenere una maggiore qualità dei risultati di apprendimento negli studenti, dovrebbe essere
migliorata la qualità dell’insegnamento favorendo un continuo sviluppo professionale degli insegnati.
Obiettivo 4
Dovrebbe essere rafforzata la collaborazione tra 1) i fornitori di attività e contenuti formativi in con-
testo formale, non formale e informale, 2) l’impresa e 3) la società civile. Tale collaborazione favorirebbe
un più significativo coinvolgimento di tutti gli attori della società con il mondo scientifico che favorisca
l’adozione di studi e carriere in ambito scientifico a supporto dell’occupazione e della competitività.
Obiettivo 5
È necessario prestare maggiore attenzione alla promozione della ricerca e innovazione
responsabili (RRI) attraverso il miglioramento della comprensione pubblica dei risultati scientifici
e la capacità, da parte della cittadinanza, di discuterne benefici e conseguenze.
Obiettivo 6
Tenendo conto delle esigenze della società e degli sviluppi globali, dovrebbe essere posta l’atten-
zione sulla interazione delle varie strategie di innovazione e di educazione scientifica messe in atto a
vari livelli: dal livello locale a quello regionale, dal livello nazionale a quello europeo e internazionale.

Tab. 1 – Gli obiettivi di The Framework for Science Education for Responsible Citizenship.

6
 Con gli acronimi STEM e STEAM si intende rispettivamente Science, Technology, Engineering
and Mathematics e Science, Technology, Engineering, Arts and Mathematics.
7
 Si veda ad esempio https://courses.lumenlearning.com/educationalpsychology/chapter/creati-
ve-thinking/ per una definizione di creative thinking.
Le scienze computazionali per la società con il contributo attivo della società 79

Gli ideatori dell’iniziativa SCoPE@Scuola, alcuni anni fa, interrogandosi


sulle azioni da mettere in atto per motivare i giovani allo studio delle discipline
scientifiche (e, nel contempo, renderli più consapevoli nell’uso della tecnolo-
gia), hanno ritenuto che parlare agli studenti del mondo delle SC potesse essere
il modo. A questo si è aggiunta la convinzione che il mondo delle SC potesse
essere un contesto interessante per gli studenti delle scuole perché: (1) è uno
strumento necessario per risolvere i problemi attuali e complessi sia in ambito
scientifico che in quello tecnologico, (2) è basato su un approccio multi/inter-
disciplinare che combina continuamente conoscenze e competenze, (3) i suoi
argomenti possono essere collegati a varie discipline oggetto dei curricula sco-
lastici. Per questo motivo l’iniziativa SCoPE@Scuola si è rivolta a studenti degli
ultimi tre anni di scuola secondaria frequentanti, in particolar modo, indirizzi
di studio naturalmente collegati con il mondo STEM.
SCoPE@Scuola è iniziata alla fine del 2014; negli ultimi anni ha coinvolto
diverse scuole del distretto di Napoli e ha dato l’opportunità di trasmettere ai
giovani studenti contenuti sul mondo del calcolo (scientifico, parallelo, ad alte
prestazioni e distribuito) in un contesto “non formale” e “informale”. SCoPE@
Scuola ha inoltre promosso attività e progetti di apprendimento basati sul lavo-
ro volti a scoraggiare l’abbandono scolastico.
L’iniziativa SCoPE@Scuola si basa su un protocollo per la definizione di-
namica dei contenuti che, sulla base del tipo di destinatario, attinge quelli più
adatti all’interno di un portfolio di temi teorici e laboratori. Tale portfolio è
attualmente costituito da una serie di macro asset che consentono di esplorare
tutti gli aspetti della progettazione, gestione e utilizzo delle infrastrutture per
il calcolo: dalla realizzazione di prototipi di computer paralleli “fatti in casa”
(o “a scuola”), fino al processo alla base delle SC (la “catena del problem sol-
ving”) che dalla formalizzazione matematica del problema porta al software
“parallelo” per la soluzione “in silico” del problema stesso.
SCoPE@Scuola, ispirata dall’antico proverbio cinese che cita Se ascolto di-
mentico, se vedo ricordo, se faccio capisco, è concepita come un “luogo” in cui
vengono svolte attività sia informative che pratiche: la parte informativa prevede
seminari e visite guidate; le attività pratiche comprendono esperienze di labora-
torio focalizzate su argomenti tecnologici e scientifici relativi alle SC. I risultati
raccolti, anche mediante questionari online, ci fanno pensare che questo tipo
di iniziativa può essere utile sia per aumentare la consapevolezza degli studenti
sull’utilità, nel mondo reale, di tutte le conoscenze acquisite a scuola, sia per
aiutarli nelle loro future scelte educative e/o lavorative. Infatti, le risposte a tali
questionari, sottoposti a un centinaio di partecipanti in forma anonima al termine
del primo anno dell’iniziativa (Carracciuolo et al., 2018), hanno permesso di
concludere che solo un 30% dei partecipanti all’inziativa era già informato sul
ruolo del calcolo/supercalcolo nell’avanzamento della conoscenza ma che oltre
il 70% avrebbe voluto approfondirne i temi eventualmente in percorsi Univer-
sitari (circa il 30%) o di formazione professionale (circa il 20%).
80 Giovanni Battista Barone, Vania Boccia, Davide Bottalico, Luisa Carracciuolo

L’iniziativa SCoPE@Scuola ha iniziato ad affrontare anche il problema


del divario di genere nelle attività STEM, con diverse azioni coerenti con le
raccomandazioni descritte in Get Girls Interested in Science and Engineering
(AAUW, 2010): 1) diffondere le informazioni relative ai risultati che le don-
ne hanno saputo ottenere nel campo della matematica e più in generale delle
scienze; 2) illustrare agli studenti i rischi che derivano dagli stereotipi; 3) aiu-
tare le ragazze a riconoscere le loro abilità utili per la loro carriera; 4) incorag-
giare le ragazze delle scuole superiori a frequentare studi di matematica, fisica,
chimica, informatica e ingegneria.
In più, l’iniziativa SCoPE@Scuola si pone i seguenti obiettivi, coerenti con
gli Obiettivi 1 e 3 esposti in Tabella 2:
Coinvolgere gli insegnanti delle scuole in un processo di formazione pe-
er-to-peer in stretta collaborazione con ricercatori e scienziati delle università e
degli istituti di ricerca.
Incoraggiare e sostenere l’apprendimento permanente degli studenti e degli
insegnanti (life-long learning).
Durante il 2013, quando l’iniziativa è stata concepita e progettata, molto
lavoro è stato fatto per identificare l’insieme di contenuti e procedure che rap-
presentano il “modus operandi” di SCoPE@Scuola e che costituiscono il cosid-
detto “protocollo di attuazione” dell’iniziativa, che prevede i seguenti passaggi:
Il team di SCoPE@Scuola incontra gli insegnanti e discute con loro per
individuare un insieme di attività di laboratorio coerente con il percorso didat-
tico degli studenti.
Gli studenti e i rispettivi insegnanti partecipano ai seminari introduttivi sul-
la storia dei supercalcolatori e sul ruolo del calcolo scientifico nella risoluzione
di problemi complessi, prendono parte alla visita guidata dello SCoPE data-
center (centro di supercalcolo dell’Università degli Studi di Napoli Federico
II).
Il team di SCoPE@Scuola prepara/integra i materiali didattici per le suc-
cessive attività di laboratorio relative alle tematiche di scienze computazionali
scelte con gli insegnanti.
Dal momento che la platea che partecipa all’iniziativa è abbastanza variega-
ta sia per curricula scolastici sia per l’età degli studenti coinvolti, si cerca sem-
pre di sviluppare, in concerto con gli insegnanti, attività che facciano frequenti
riferimenti a ciò che gli studenti acquisiscono a scuola. Tutta la parte rimanente
dell’attività, che non può essere riferita ai curricula, è resa abbastanza accessi-
bile agli studenti, poiché l’obiettivo dell’iniziativa non è quello di rendere gli
studenti in grado di padroneggiare contenuti complessi (ad esempio strumenti
matematici avanzati) ma di aiutare le giovani menti ad apprezzare il ruolo di
ogni componente della scienza e della tecnologia nella soluzione di problemi
complessi.
Ogni gruppo di studenti può essere coinvolto in laboratori relativi a uno o
più temi e tutti gli aspetti relativi alle attività da svolgere sono discussi con gli
Le scienze computazionali per la società con il contributo attivo della società 81

insegnanti durante le prime due fasi dell’iniziativa. Tale processo decisionale


non ignora le questioni relative alle conoscenze pregresse degli studenti e ai
curricula offerti nelle diverse scuole per scegliere in modo opportuno il livello
di approfondimento di alcuni temi (ad esempio gli strumenti matematici utiliz-
zati per descrivere i fenomeni fisici) e il tipo di attività (orientate alla tecnologia
o alla scienza).

Fig. 2-3 – I risultati relativi a come l’iniziativa ha cambiato la percezione dell’utilità della matematica

Ricordiamo inoltre che l’iniziativa SCoPE@Scuola ha voluto porre una for-


te enfasi sul ruolo della matematica che dalla maggior parte degli studenti è
percepita come una disciplina difficile e inutile. L’obiettivo è quello di aiutare
gli studenti a concepirlo, invece, come uno strumento utile e persino divertente
nel processo di acquisizione della conoscenza. Considerati i risultati fin qui
82 Giovanni Battista Barone, Vania Boccia, Davide Bottalico, Luisa Carracciuolo

ottenuti (fig. 2-3), l’iniziativa intende continuare a impegnarsi per perseguire il


suddetto obiettivo.

Conclusioni e sviluppi futuri

L’obiettivo principale dell’iniziativa SCoPE@Scuola è promuovere una


maggiore consapevolezza sociale sul ruolo delle scienze computazionali come
strumento strategico per acquisire conoscenze e risolvere problemi complessi,
evidenziando anche come ogni attore della scienza e della tecnologia sia, in un
approccio interdisciplinare, necessario/utile per trovare soluzioni alle nuove sfide
per l’umanità. L’iniziativa SCoPE@Scuola intende raggiungere il suo obiettivo:
Pianificando, implementando e verificando le best practices per la diffusione
dei contenuti relativi alle SC.
Raggiungendo un pubblico il più ampio possibile (dai giovani studenti ai
cittadini adulti) utilizzando non solo le scuole come luogo di comunicazione
della scienza.
Esplorando l’approccio STEAM con nuovi linguaggi “ibridi” che ricevano
contributi dalle arti (dal cinema al teatro, dalla letteratura alla pittura).
Per promuovere queste azioni l’iniziativa SCoPE@Scuola intende iniziare
a scuola il processo di educazione/comunicazione ma allo stesso tempo esten-
dere la sua azione alle famiglie degli studenti e, più in generale, a tutta la so-
cietà civile. Seguendo, infatti, un approccio di tipo open schooling8, l’iniziativa
vuole coinvolgere sia le scuole che altri enti della società civile in un approccio
simbiotico che arricchisca il processo di formazione educativa con i contenuti
richiesti dalle nuove esigenze della comunità locale/globale, che a sua volta
potrà beneficiare delle nuove conoscenze e abilità rese disponibili da questo ar-
ricchimento quando le scuole (con i loro studenti e insegnanti) saranno diven-
tate a loro volta computational science evangelists9. È anche importante notare
che la partecipazione ad attività di comunicazione/divulgazione permette agli
studenti di sviluppare le cosiddette soft skills, importanti non solo nel lavoro
ma anche nella vita di tutti i giorni. L’iniziativa SCoPE@Scuola intende infine
continuare a impegnarsi per affrontare il problema del divario di genere nelle
attività STEM.

8
 Cfr. ad esempio “SwafS-01-2018-2019 policy briefing slides” per una definizione del paradigma
open schooling.
9
 Definiamo un science evangelist come «una persona che condivide la sua passione per la scienza
e la curiosità sul mondo», cfr. https://mypatchworkplanet.com/2014/03/16/am-i-a-science-evangelist/
Le scienze computazionali per la società con il contributo attivo della società 83

Bibliografia

Bungartz H.J., Nagel H.J, Neumann P., «SPPEXA – Overview and Coordination Project»,
BDEC Meeting, Frankfurt, 7 luglio 2015.
Carracciuolo L., Barone G.B., Bottalico D., Boccia V., «SCoPE@Scuola: (In)-formative
Paths on Topics Related with High Performance, Parallel and Distributed Comput-
ing», in D. Heras et al. (a cura di), Euro-Par 2017: Parallel Processing Workshops, Eu-
ro-Par 2017. Lecture Notes in Computer Science, vol. 10659, Springer, 2018.
Commissione europea, Science education for responsible citizenship, 2015: https://bit.
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Glenn J.C., Florescu E., Lo stato del futuro 19.1, edizione italiana a cura di R. Paura, M. Di
Berardo, Italian Institute for the Future, Napoli, 2018.
NSF/IEEE-TCPP, Curriculum Initiative on Parallel and Distributed Computing, 2019:
https://grid.cs.gsu.edu/~tcpp/curriculum/
Oden T., Ghattas O., «Computational Science: The Third Pillar of Science», 2014: https://
tamest.org/news/newscomputational-science-the-third-pillar-of-science/
The American Association of University Women (AAUW), Why So Few? Women in Sci-
ence, Technology, Engineering, and Mathematics, AAUW Research Report, 2010.
Tirado-Ramos A., Shiflet A.B., «The Art of Teaching Computational Science», Procedia
Computer Science 108 (2017), 2119-2120.
Wing J.M., «Computational Thinking», Communications of ACM 49:3 (2006), 33–35.
La sfida sociale delle Facoltà mediche
nell’era della comunicazione (anche) digitale

di Giovanni Brancato1

Il composito, nonché spesso problematico, rapporto tra media, scienza e


società sembra essere tornato con ancora più vigore rispetto al passato al centro
del dibattito scientifico e accademico nel corso degli ultimi decenni, in partico-
lare dall’inizio degli anni Duemila (Greco, Pitrelli, 2009; Bucchi, Trench, 2014;
Tipaldo, Scamuzzi, 2017). A essere chiamato maggiormente in causa è senza
alcun dubbio l’ormai consolidato, seppur in continua evoluzione, sistema me-
diale ibrido dell’era digitale (Chadwick, 2013), soprattutto per il ruolo sempre
più centrale che ricopre nelle società moderne. È all’interno di questi inediti
“luoghi” che prendono vita, si sviluppano e si consolidano in modo rilevante le
pratiche sociali, culturali, politiche ed economiche che caratterizzano la società
contemporanea (Agcom, 2018; Censis, 2020).
I nuovi spazi comunicativi, come ad esempio i siti web e i blog ma ancor di
più le piattaforme di social networking, stanno divenendo veri e propri punti
di riferimento non solo nella raccolta e nella diffusione di informazioni per gli
addetti ai lavori (Martinelli et al., 2017), ma anche per chi, in nome della cosid-
detta “disintermediazione”, è entrato in contatto diretto con specifici temi e si è
trovato dinanzi alla necessità di far fronte ad una mole di dati, spesso superflui
o, erroneamente, ritenuti tali. Infatti, se, da un lato, un accesso caratterizzato
da una quasi illimitata “libertà” di fruizione apre a nuovi orizzonti del sapere
per gli utenti/fruitori, dall’altro, il trovarsi inondati da un flusso continuo di
informazioni non fa altro che aumentare i rischi del consolidarsi di una qua-
si sistematica incapacità di scelta e gestione dei contenuti (Vaccaro, Rizzuto,
Brancato, 2019).
Una sensazione di inadeguatezza, quest’ultima, palesata non solo dinanzi
alla difficoltà di reperire informazioni veritiere, ma anche di ritenere di pos-
sedere un background culturale tale da permettere di discernere ciò che vera-
mente è reale da ciò che non lo è, dando la possibilità a fenomeni come quello
delle fake news e delle echo chambers di diffondersi in maniera (quasi) capillare
nel sistema dei media e del giornalismo attuale. Nell’ambito dell’informazione
e della divulgazione di temi tecno-scientifici, ciò è ben rappresentato in uno dei
casi più esemplificativi che ha interessato il nostro Paese nel corso degli ultimi
anni: l’ampio dibattito social sul tema dei no vax in Italia (Comunello et al.,
2017), che ha “toccato” a più livelli l’opinione pubblica, tanto da avere ricadute

1
  Sapienza Università di Roma. E-mail: giovanni.brancato@uniroma1.it.
86 Giovanni Brancato

anche in ambito legislativo – basti pensare alla cosiddetta “Legge Vaccini”2 con
la quale è stato innalzato da quattro a dieci il numero dei vaccini obbligatori da
zero a sedici anni.
Alla luce dello scenario fin qui descritto, il contributo si propone di evi-
denziare il ruolo che le istituzioni e gli enti pubblici sono chiamati a svolgere in
un’epoca sempre più caratterizzata da una sfiducia generalizzata nei confronti
del sistema politico nella sua interezza (Ronsavallon, 2012), al fine di arginare i
rischi di una diffusione sempre maggiore di approcci e contenuti pseudo-scien-
tifici nella società contemporanea (Tipaldo, 2019). Nello specifico, il focus della
trattazione saranno le attività messe in atto dalle Università quali luoghi depu-
tati, oltre che alla formazione e alla ricerca, anche alla valorizzazione e al tra-
sferimento della conoscenza, con particolare attenzione alle pratiche attuative
e alle modalità con cui le facoltà mediche, che sono i soggetti deputati all’edu-
cazione tecno-scientifica nell’ambito disciplinare di appartenenza nel contesto
della formazione superiore in Italia, possono trovare legittimazione ed essere
facilmente riconoscibili dagli utenti, adempiendo a quelli che sono i desiderata
della terza missione istituzionale. Per far ciò, si è scelto di porre l’attenzione, in
primis, sull’inedito rapporto tra soggetti pubblici ed enti deputati alla ricerca
e alla formazione, da un lato, e la società civile, dall’altro; e, secondariamente,
sugli elementi che caratterizzano l’esperienza di un caso di studio virtuoso che
è ben riuscito a coniugare le pratiche formative ed educative “classiche” delle
università con quella più “innovativa” della cosiddetta “Terza Missione”, ov-
vero la Facoltà di Medicina e Odontoiatria della Sapienza Università di Roma.

La mission sociale delle università

Nel corso degli ultimi anni, le PA si sono trovate dinanzi a nuove e sempre
più numerose sfide, in nome di un tanto lungo quanto auspicato processo di
riforma delle amministrazioni reso ancora più necessario dal consolidamento
di pratiche comunicazionali inedite, emerse a seguito dell’avvento del web e
delle tecnologie digitali (Lovari, 2013). In tale contesto, è possibile rintracciare
alcuni spunti di riflessione che si inseriscono in quel dibattito scientifico che
ha come oggetto del contendere il non semplice rapporto che, nel corso degli
anni, si è instaurato tra il mondo scientifico, in senso lato, ed in particolare le
istituzioni scientifiche, siano esse Enti di ricerca o Università, in senso stretto, e
quello in cui esso si sviluppa, ovvero la società circostante (Scamuzzi, Tiapldo,
2015).
Tale approccio, inquadrato nell’inedita cornice di riflessione propria del
public engagement (Bartoletti, Faccioli, 2015), ha contribuito in maniera indi-

2
  Decreto-legge 7 giugno 2017, n. 73, recante “Disposizioni urgenti in materia di prevenzione
vaccinale”.
La sfida sociale delle facoltà mediche 87

scutibile a cambiamenti e, in alcuni casi, a vere e proprie trasformazioni nella


percezione delle pubbliche amministrazioni da parte dei cittadini. Entro que-
sto cambio di applicazione del concetto stesso di “coinvolgimento del pubbli-
co” sembra concretizzarsi la necessità di un vero e proprio shift cognitivo da
parte, innanzitutto, dei luoghi deputati alla ricerca e alla formazione scientifi-
ca, ovvero le Università, in linea con la cosiddetta RRI (Ricerca e Innovazione
Responsabile), la quale sembra rappresentare, a livello internazionale, la più
plausibile, nonché la più tangibile, delle risposte a tale esigenza. È proprio in
questa direzione, infatti, che ha scelto di muoversi la Comunità Europea, grazie
alla sua implementazione all’interno del Programma Europeo di Ricerca Hori-
zon2020, definendone gli elementi cardine e le sue specificità.

Responsible Research and Innovation (RRI) implies that societal actors (research-
ers, citizens, policy makers, business, third sector organisations, etc.) work togeth-
er during the whole research and innovation process in order to better align both
the process and its outcomes with the values, needs and expectations of society.
In practice, RRI is implemented as a package that includes multi-actor and public
engagement in research and innovation, enabling easier access to scientific results,
the take up of gender and ethics in the research and innovation content and pro-
cess, and formal and informal science education3.

La Responsible Research & Innovation, quindi, pone al centro, insieme allo


sviluppo della ricerca scientifica e alla diffusione dei suoi risultati, la dimensio-
ne “partecipativa” in tale processo di tutti quegli attori sociali chiamati in cau-
sa, dai cittadini ai decisori politici, dalle Università agli imprenditori; mettendo
in atto un vero e proprio cambio di prospettiva nell’ambito degli studi dei
modelli comunicativi che intercorrono tra il mondo della scienza, largamente
inteso, e la società nella sua complessità (De Bortoli, Flores, 2017).
Nell’era della società della conoscenza, tale approccio trova la sua appli-
cazione più evidente in ambito universitario in quell’insieme di attività pro-
prie della cosiddetta “Terza Missione” (Boffo, Moscati, 2015; Balduzzi, Vaira,
2018). Con tale etichetta si fa riferimento a quell’insieme di attività, anche eco-
nomicamente orientate, portate avanti dall’Università contemporaneamente a
quelle riconducibili alla sfera della formazione e della ricerca scientifica, che
hanno una ricaduta in termini sociali e culturali per il territorio nel quale essa
agisce e che, inoltre, mirano alla valorizzazione e al trasferimento della cono-
scenza tecno-scientifica. In particolare, l’Agenzia Nazionale di Valutazione del
Sistema Universitario e della Ricerca individua due macro-obiettivi strategi-
ci di Terza Missione/Impatto sociale, ovvero “Valorizzazione della ricerca” e
“Produzione di beni pubblici”, ai quali sono riconducibili complessivamente
otto ambiti di attività (Anvur, 2018). Le prime riguardano la gestione della
3
  Fonte: https://ec.europa.eu/programmes/horizon2020/en/h2020-section/responsible-resear-
ch-innovation
88 Giovanni Brancato

proprietà industriale attraverso, ad esempio, il deposito di brevetti e privati-


ve vegetali; poi si inseriscono quelle attività inerenti alla creazione di imprese
spin-off, lo svolgimento di attività conto terzi, e la realizzazione di strutture di
intermediazione, quali uffici di trasferimento tecnologico, uffici di placement,
incubatori, parchi scientifici, consorzi e associazioni per la Terza Missione. A
esse si aggiungono le attività di gestione del patrimonio e quelle strettamente
legate ad una dimensione culturale, come ad esempio scavi archeologici, poli
museali, attività musicali, immobili e archivi storici, biblioteche ed emeroteche
storiche, teatri e impianti sportivi; ma anche quell’insieme di azioni volte alla
salute pubblica, quali la sperimentazione clinica, gli studi non interventistici, le
attività di empowerment e la realizzazione di strutture a supporto.
Infine, oltre anche a quelle inerenti alla formazione continua, all’appren-
dimento permanente e alla didattica aperta, come quelle volte all’ottenimento
di crediti ECM (Educazione Continua in Medicina) e alla certificazione delle
competenze, i progetti nell’ambito dei percorsi di Alternanza Scuola-Lavoro e
la realizzazione di MOOC (Massive Online Open Course), vi sono le azioni di
Public Engagement che l’ANVUR definisce come «l’insieme di attività organiz-
zate istituzionalmente dall’ateneo o dalle sue strutture senza scopo di lucro con
valore educativo, culturale e di sviluppo della società e rivolte a un pubblico
non accademico» (Anvur, 2018, p. 41). È proprio su quest’ultimo insieme di
pratiche che, anche in risposta ai diktat imposti da un complesso e articolato
processo di riforma del sistema universitario (Moscati, Regini e Rostan, 2010;
Gherardini, 2015; Morcellini, Rossi, Valentini, 2017), è stato chiesto ai ricerca-
tori di compiere un enorme sforzo negli ultimi anni. Non è un caso, difatti, che
risulta sempre maggiore la produzione di un’ampia letteratura scientifica sul
tema, seppur abbastanza recente, che mira a un’analisi del rapporto “mediato”
tra scienza e società, attraverso lo studio di casi virtuosi riconducibili alle atti-
vità di enti pubblici, centri di ricerca e università, sia nel contesto nazionale sia
in quello internazionale, che bene sono riusciti a coniugare questi elementi in
un approccio capace di “aprire” la conoscenza verso la società civile (Neresini,
Bucchi, 2011; De Bortoli, Predazzi, Scamuzzi, 2015; De Bortoli, Flores, 2017).

Formazione, salute e società

Sempre più numerosi studi e ricerche, svolti non solo nel contesto specifi-
catamente accademico, evidenziano il ruolo che i mezzi di comunicazione, in
primis la televisione e Internet, rivestono quali fonti informative privilegiate
su temi tecno-scientifici in ambito medico e sanitario (Agcom, 2018; Censis,
2016). Ciò, insieme alla già citata condizione di “stress informativo” vissuto
dagli utenti nell’era della disintermediazione, indotto in particolar modo da un
sovraccarico di informazioni spesso risultate, inoltre, inesatte o totalmente fal-
se, sembra far emergere la necessità di un’azione di mediazione di quei soggetti
La sfida sociale delle facoltà mediche 89

istituzionali esperti nell’ambito della sanità e della salute pubblica (Brancato,


Filetti, 2018). A essere evocate dai cittadini, dunque, non sono solo le azioni
di gestione e di controllo, ma anche quelle comunicative e informativo-divul-
gative, a cui enti e istituzioni, nazionali e internazionali, sono chiamati a dar
seguito. L’intento è quello di sviluppare un processo di empowerment cognitivo
volto alla promozione della salute, caratterizzato dall’acquisizione di una mag-
giore consapevolezza individuale e collettiva nell’ambito del benessere perso-
nale, ovvero in termini di health literacy (Nutbeam, 2008).
Oltre a quello del Ministero della Salute e dell’Istituto Superiore della Sa-
nità, in quanto massime autorità a livello nazionale in ambito medico-sanitario,
e del WHO (Organizzazione Mondiale della Sanità) a livello sovranazionale,
emerge con sempre maggior forza il ruolo che in tale contesto sembrano rico-
prire quelli che sono per eccellenza i luoghi deputati alla formazione e all’edu-
cazione su temi scientifici in ambito medico-sanitario, ovvero le facoltà medi-
che del sistema universitario nazionale. Tale centralità, talvolta poco esperita,
ben si coniuga con le tre missioni del sistema universitario, precedentemente
evocate, e in particolar modo con quella sociale e culturale. Per tali ragioni, l’at-
tenzione è stata posta sulle attività realizzate da una delle tre facoltà mediche
della Sapienza Università di Roma: la Facoltà di Medicina e Odontoiatria4. La
scelta di selezionare la Facoltà di Medicina e Odontoiatria del primo Ateneo
romano si fonda su due ordini di ragioni. A livello macro, è stata selezionata la
Facoltà di Medicina e Odontoiatria della Sapienza in quanto non solo fa parte
dell’Ateneo più grande d’Europa, in termini di studenti iscritti, ma svolge le
proprie attività di ricerca, formazione e assistenza sanitaria presso la più gran-
de struttura ospedaliera del territorio nazionale ed europeo5, ovvero l’Azienda
Ospedaliero-Universitaria Policlinico Umberto I. Da un punto di vista micro,
invece, si è scelto di prendere in esame la Facoltà di Medicina e Odontoiatria,
rispetto alle altre due presenti nel medesimo Ateneo, in quanto essa rappresen-
ta l’espressione più diretta dell’evoluzione della storica Prima Facoltà di Medi-
cina e Chirurgia della Sapienza, a seguito del riordino delle Facoltà avvenuto
nel 2010 con la riforma della Legge Universitaria e dello Statuto d’Ateneo6.
Composta da una comunità accademica di circa 600 docenti e di 10.500
studenti, suddivisi tra le oltre 140 proposte formative (corsi di laurea trienna-
le e magistrale e corsi post-lauream), a loro volta articolate in tre grandi aree
(medico-chirurgica, odontoiatrica e professioni sanitarie), la Facoltà svolge le
proprie attività didattico-formative prevalentemente presso l’Azienda Ospeda-
liero-Universitaria Policlinico Umberto I, ma anche presso ulteriori otto poli
didattici dislocati sull’intero territorio regionale. Come precedentemente indi-
4
  La Facoltà di Medicina e Odontoiatria è una delle tre strutture della Sapienza Università di
Roma, insieme a quelle di Farmacia e Medicina e di Medicina e Psicologia, dedicate alla formazione
e alla ricerca in ambito medico e sanitario.
5
  http://www.policlinicoumberto1.it/media/1046950/carta_servizi_policlinico_-_18.04.2019.pdf
6
  D.R. n. 602 del 30 settembre 2010, Sapienza Università di Roma.
90 Giovanni Brancato

cato, in linea con i desiderata indicati dall’ANVUR e in risposta a un’evidente


“necessità di comunicazione” che sembra interessare sempre più il mondo della
scienza e dell’accademia in generale, ma anche e soprattutto quello della medici-
na e della salute, la Facoltà di Medicina e Odontoiatria della Sapienza ha avviato
alcune significative attività e iniziative di valore culturale e sociale che possono
essere racchiuse in tre linee d’intervento: la prima riguardante la produzione di
contenuti di comunicazione e divulgazione scientifica; la seconda inerente l’or-
ganizzazione di eventi e seminari su temi di cogente interesse sociale; la terza
basata sulla realizzazione di accordi e protocolli d’intesa con organizzazioni non
governative e associazioni senza scopo di lucro di utilità sociale.
A tal riguardo, per quanto concerne la prima area di intervento, all’inter-
no di una più ampia collaborazione con il Dipartimento di Comunicazione e
Ricerca Sociale dello stesso Ateneo, la Facoltà di Medicina e Odontoiatria ha
dato vita a un progetto editoriale che ha visto la realizzazione di un magazi-
ne online di divulgazione medico-scientifica della Facoltà, dal titolo Sapienza
Medica7. Prodotto in una prima fase unicamente in versione cartacea, il maga-
zine rappresenta un luogo di divulgazione del sapere scientifico su temi come
la ricerca, la formazione e l’innovazione in ambito medico-sanitario, grazie al
contributo sia di membri interni alla community Sapienza, dunque in primo
luogo studiosi e ricercatori nelle scienze mediche, sia di esperti nell’ambito del-
la comunicazione e della divulgazione scientifica e sia di esponenti della società
civile. La seconda classe di attività organizzate dalla Facoltà è quella riconduci-
bile alla programmazione e alla realizzazione di momenti di confronto su temi
di assoluta rilevanza nel dibattitto pubblico. Tra questi è possibile individuare
due tipologie di eventi, i quali, seppur realizzati negli spazi dell’Ateneo dalla
Facoltà, oltre alla presenza di studenti, docenti e ricercatori della Sapienza,
hanno visto la partecipazione di membri esterni al mondo accademico. La pri-
ma tipologia di eventi, nella quale è possibile ricondurre ad esempio quello dal
titolo “Dalla ricerca alla startup medtech – Dock3: una nuova opportunità per
i giovani ricercatori”, svoltosi il 25 febbraio 2019 e realizzato in collaborazione
con la terza università romana, ha l’obiettivo di creare momenti di interazione
e di scambio tra il mondo accademico e quello industriale e dell’imprenditoria,
al fine di dar vita ad un processo bidirezionale di valorizzazione e trasferimen-
to della conoscenza. La seconda tipologia, invece, si contraddistingue per la
realizzazione di eventi e seminari di approfondimento su tematiche specifiche,
come ad esempio il seminario interfacoltà in occasione della “Giornata interna-
zionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, che ha avuto luogo
il 25 novembre 2019, nei quali l’università mette a disposizione della società
civile i propri saperi, in un’ottica multidisciplinare, al fine di proporre chiavi di
lettura per interpretare e comprendere la realtà che ci circonda.
Infine, la terza linea d’intervento nella quale si concretizza l’azione della

7
  https://sapienzamedica.uniroma1.it
La sfida sociale delle facoltà mediche 91

Facoltà di Medicina e Odontoiatria della Sapienza in termini di Terza Missione


è quella relativa alla sottoscrizione di protocolli d’intesa con altre realtà non
provenienti dal mondo accademico, con lo scopo di dar vita a collaborazioni
tra diversi attori, volte allo sviluppo della conoscenza e all’accrescimento del
benessere sociale. A titolo esemplificativo, tra le più recenti attività svolte in tal
senso, vi è la firma di due protocolli d’intesa tra la Facoltà di Medicina e Odon-
toiatria e altrettante organizzazioni no profit di utilità sociale, in particolare la
Fondazione Operation Smile Italia Onlus e l’Associazione Sindrome di Williams
Onlus, siglati rispettivamente il 20/03/2019 e il 23/01/2020, grazie ai quali le
parti si impegnano a dar vita a progetti di studio e di ricerca volti al perse-
guimento di uno sviluppo socialmente responsabile nell’ambito dell’assistenza
medico-sanitaria e di promozione della salute.

Note conclusive

Alla luce di quanto emerso dall’analisi del caso di studio sopramenziona-


to, porre maggiore attenzione alla dimensione digital sembra rappresentare la
necessità più urgente, nonché la risposta più obbligata, affinché i cittadini pos-
sano dar risalto al ruolo di primo piano che in tale contesto le facoltà mediche
possono e “devono” ricoprire. Sfruttare appieno le possibilità che i media di-
gitali offrono oggigiorno permetterebbe a questi attori privilegiati nei processi
di formazione e di divulgazione di temi utili alla collettività, come quello della
salute pubblica e della ricerca medica, di affermarsi nel dibattitto pubblico
quali fonti informative per eccellenza nell’ambito proprio di competenza.
Sebbene comprendere l’assoluta importanza di concentrare gli sforzi an-
che nella direzione del Digital Public Engagement sembra rappresentare la via
maestra da percorrere nell’era dei social, come emerge ad esempio dalla scelta di
passare dalla versione esclusivamente cartacea a quella online di Sapienza Medica
dopo un periodo di “rodaggio” utile in termini di reputazione, riconoscibilità e
legittimazione del magazine, non bisogna tuttavia dimenticare quanto la scelta
più adatta non equivalga sempre e in maniera univoca a quella anche più sempli-
ce da perseguire. Infatti, dar vita ad attività “native digitali”, che siano in grado di
attivare meccanismi di coinvolgimento della società, richiede non solo profondi e
strutturali cambiamenti nelle fasi di ideazione, progettazione e realizzazione, ma
anche il tempo e le condizioni necessarie affinché esse riescano ad attecchire nelle
abitudini e nei comportamenti sociali e culturali degli individui.
92 Giovanni Brancato

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Autonomous driving: un’indagine esplorativa sulla percezione pubblica

di Anna Irene Cesarano1

Il settore dell’automotive è in continua evoluzione. Le auto a guida autonoma


(self-driving cars) sono il risultato di una progettazione complessa che adotta una
buona varietà di dispositivi e sensori che captano informazioni dall’ambiente ester-
no trasmesse poi a un computer interno, in modo da garantire al veicolo efficienza,
sicurezza, stabilità (cfr. Cesarano, 2020). In accordo con il significato che ritrovia-
mo nei più comuni dizionari (es. Treccani), il termine autonomo si riferisce alla
capacità e alla facoltà di governarsi o reggersi da sé. La National Highway Traffic
Safety Administration (NHTSA), ovvero l’agenzia governativa statunitense per la
sicurezza stradale, delinea una definizione di auto autonoma alquanto precisa, con-
statando che si tratta di “un veicolo il cui funzionamento avviene senza un interven-
to diretto da parte del guidatore per controllare sterzata, accelerazione e frenata e
che è progettato in maniera tale che egli non si aspetti di controllare costantemente
la strada, quando la modalità automatica è in esecuzione” (Zanchin et al., 2017). In
accordo con quanto detto sopra, sarebbe proprio la capacità del veicolo di rilevare
informazioni esterne con tecniche quali Radar, Lidar, Gps ecc., in un’ibridazione
tra tali componenti e i sistemi di controllo avanzato a bordo dell’auto, a permettere
il raggiungimento di un certo grado di autonomia circa i percorsi da seguire ed
eventuali ostacoli e segnali da monitorare.

La guida autonoma come applicazione benefica dell’IA

La guida autonoma costituisce una feconda applicazione dell’Intelligenza


Artificiale (IA) nel settore automotive, che rappresenta il futuro della smart
mobility e le cui applicazioni interesseranno, oltreché la sfera automobilisti-
ca, svariati aspetti, non secondari, della società in cui viviamo. L’IA a oggi è
rintracciabile nei campi più disparati, da quello manifatturiero al finanziario,
dal settore sanitario al digital marketing, rendendosi protagonista per ciò che
riguarda il design, lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione dei vei-
coli. L’IA è oggi al centro di un acceso dibattito intellettuale che vede studiosi
di diversa vocazione scientifica divisi tra enunciazioni e categorizzazioni.
Una categorizzazione univoca dell’IA risulta alquanto ardua da proporre
proprio perché si tratta di una disciplina a cavallo di due settori scientifici,
collocandosi su due versanti: quello di chiara matrice ingegneristica, che si dà
come scopo quello di costruire macchine ausiliari alle attività umane e in certi
1
  Università degli studi di Napoli Suor Orsola Benincasa. E-mail: annairene.cesarano@studenti.unisob.na.it
96 Anna Irene Cesarano

casi in grado di competere con l’Uomo in compiti soprattutto intellettuali, e


quello di natura psicologica, orientato a costruire macchine il cui obiettivo è la
riproduzione delle caratteristiche essenziali dell’attività cognitiva umana, de-
stando l’attenzione su alcune tradizionali diatribe della filosofia e sugli enigmi
della mente, ad esempio il tanto dibattuto problema mente-corpo (cfr. Corde-
schi e Tamburini, 2001).
Nel giugno del 1956 quattro studiosi americani – John McCarthy, Natha-
niel Rochester, Marvin Minsky e Claude Shannon – in un seminario organizza-
to negli Stati Uniti (Dartmouth New Hampshire) e rimasto storico per la defi-
nizione di tale disciplina, gettarono le basi di quella che sarebbe stata definita
la base programmatica dell’IA, definendone le aree di ricerca a essa correlata e
i primi programmi per calcolatori cosiddetti “intelligenti”. Nella presentazione
del convegno che segnò la nascita dell’IA si legge:

In linea di principio [per IA si intende] ogni aspetto dell’apprendimento e dell’intelli-


genza che si può descrivere con una precisione tale da permetterne la simulazione con
macchine appositamente costruite. Si cercherà di costruire macchine in grado di usare
il linguaggio, di formare astrazioni e concetti, di migliorare se stesse e risolvere proble-
mi che sono ancora di esclusiva pertinenza degli esseri umani (McCarthy et al., 1956).

Le macchine descritte dai pionieri dell’IA come “intelligenti” sono dei cal-
colatori digitali, che in virtù delle loro particolari caratteristiche e proprietà
fondamentali possono essere considerate degli strumenti dotati di straordinaria
capacità di elaborazione simbolica, mai osservata prima in una macchina, e per
questo motivo accostati ad alcuni tratti specifici intrinseci all’intelligenza uma-
na. Una delle sfide più attese dell’IA per il futuro, dunque, è rappresentata da
un veicolo driverless, senza conducente, come ebbe a dire nel 2016 Elon Musk,
fondatore di Tesla, uno dei colossi internazionali all’avanguardia nello sviluppo
della guida autonoma, in un’intervista alla BBC: «Nel lungo termine, nessuno
comprerà un’auto se non è autonoma. Possedere un’auto che non è autonoma a
lungo termine sarà come possedere un cavallo: la possiederesti e la useresti per
motivi sentimentali ma non per l’uso quotidiano» (cit. in Cellan-Jones, 2016).
Il proliferare di ricerche, studi e progetti nel settore dei trasporti e logistica negli
ultimi anni è un indicatore dell’importanza assunta da questo particolare filone di
studi; di fronte ai numeri, è innegabile il grande vantaggio che la guida autonoma po-
trebbe offrire a una società tecnologicamente avanzata come la nostra. Ogni anno nel
mondo si contano circa 1.400.000 persone che perdono la vita coinvolte in incidenti
stradali, un’autentica strage. Ma le statistiche più accreditate parlano chiaro in rela-
zione alle cause di questi incidenti, che nel 90% dei casi (Parlamento europeo, 2019)
sono da attribuirsi a comportamenti inappropriati o a distrazione del conducente; e
solo in una, a dir poco, esigua percentuale, pari al 2% circa dei casi, la responsabilità
viene attribuita a difetti tecnologici del veicolo (che in buona parte, peraltro, dipen-
dono da inadeguata manutenzione). Come scrive Butti (2016):
Autonomous driving 97

Con la diffusione su larga scala del driverless, la diminuzione del numero e della
gravità degli incidenti sarà drastica: questo viene indicato da tutte le previsioni
scientifiche indipendenti attualmente disponibili […]. I benefici sopra sintetica-
mente illustrati in termini di sicurezza sono tuttavia da soli sufficienti per promuo-
vere la tecnologia della guida senza conducente.

La percezione del pubblico sull’autonomous driving

Il mio progetto di ricerca si inserisce all’interno del tema della “Strategia di ricer-
ca e innovazione per la specializzazione intelligente RIS3 Campania” e gli ambiti di
sviluppo in essa declinati: aerospazio, beni culturali, turismo, edilizia sostenibile, bio-
tecnologie, salute dell’uomo, agroalimentare, energia e ambiente, materiali avanzati
e nanotecnologie, trasporti e logistica. La ricerca prevede lo sviluppo di sistemi inno-
vativi a supporto della guida autonoma (guida parzialmente autonoma), coniugando
uno dei settori a carattere trasversale (Information & Communication Technologies)
con un settore a carattere verticale (Trasporti e Logistica) di particolare rilevanza per
la Regione Campania. In particolare, il tema della ricerca prevede lo sviluppo di un
nuovo paradigma di mobilità più sicura e intelligente, con crescenti quote di automa-
zione che vanno armonizzate con le caratteristiche dell’essere umano per permetter-
gli di mantenere un ruolo attivo nel nuovo sistema socio-tecnico.
Il tema di ricerca intende indagare le metodologie necessarie alla concettua-
lizzazione, alla prototipazione e alla verifica di interfacce utente più adeguate ad
assicurare un’efficace interazione con il guidatore (nell’ambito della guida parzial-
mente o totalmente autonoma), tenendo in considerazione gli aspetti tecnologici
come quelli relativi all’individuo e alle sue peculiarità cognitive, comportamentali,
azionali, ecc. L’ applicazione di metodologie innovative di progettazione (basate
sullo UCD e sulla UX) indirizzeranno la progettazione nella fase di concettualiz-
zazione, per consentire una prototipazione preliminare del costrutto tecnologico e
della sua interfaccia prima che questo diventi un prodotto definitivo e permettere
di verificare anticipatamente come le persone interagiscono con il sistema tecno-
logico. Nel caso questa cooperazione, studiata tramite metodologie empiriche, dia
segnali promettenti o metta in evidenza alcuni elementi critici, l’interfaccia utente
potrà essere modificata di conseguenza. Quindi, oltre alle metodologie di concet-
tualizzazione e prototipazione, anche lo sviluppo di metodiche di verifica delle tec-
nologie costituiscono parte essenziale dell’impianto innovativo della ricerca.
All’interno del centro di ricerca Scienza Nuova (Università degli studi di Napoli
Suor Orsola Benincasa) sono disponibili ambienti di simulazione, sia finalizzati al
dominio automotive, sia riconfigurabili, grazie rispettivamente alla presenza di un
simulatore di guida e di un ambiente virtuale nel quale è possibile riprodurre diverse
esperienze di interazione. Sono impiegati diversi strumenti tecnologicamente avanza-
ti, come l’eye-tracking, sensori biometrici, sistemi per la rilevazione dello stato emo-
zionale attraverso videocamere ecc. Tuttavia, il filone di studi riconducibile all’auto-
98 Anna Irene Cesarano

nomous driving rimane un settore di nicchia circoscritto a un pubblico ristretto e per


lo più specialistico che ne conosce realmente le funzionalità e le applicazioni. Per tale
motivo, l’obiettivo della ricerca è stato quello di indagare e studiare la percezione e la
rappresentazione della guida autonoma in tutti i suoi aspetti, testando il livello di co-
noscenza di concetti come automazione, auto a guida autonoma, robotaxi, per capire
quanto i cittadini ne sappiano realmente di guida autonoma, toccando temi come la
sicurezza, la fiducia2, l’innovazione, l’affidabilità, la stabilità.
La tab. 1 sintetizza il disegno di ricerca, mentre nella tab. 2 la mappa concettua-
le riporta gli indicatori e le dimensioni esplorate dallo studio. Il campione è forma-
to da adulti (18-65 anni) residenti in Campania stratificato in base all’età, mentre
il questionario è strutturato con domande chiuse, prevedendo alla fine di alcune
domande rilevanti l’opzione “Altro”, dove l’intervistato può scegliere liberamente
di scrivere la propria risposta in merito al quesito sottoposto. L’ambito territoriale
viene circoscritto alle province campane in quanto la Campania è la regione dove
risiede il progetto di dottorato a caratterizzazione industriale ed è un tema partico-
larmente rilevante per tale territorio come già ribadito sopra, quindi il target della
ricerca comprende adulti campani. Il metodo utilizzato è la Web Survey tramite
questionario strutturato, in quanto risulta impossibile oggi condurre uno studio
senza l’ausilio delle tecnologie digitali che facilitano la diffusione, la raccolta, l’ana-
lisi e l’individuazione del target, che in questo caso comprende ampiamente anche
i cosiddetti “nativi digitali” (cfr. Prensky, 2001; Cesarano, 2018).

Disegno di ricerca

Obiettivo
Studiare la percezione e la rappresentazione della guida autonoma
(Research Questions):
Metodo: Web survey
Unità di analisi: Adulti di età compresa tra i 18-65 anni
Ambito territoriale: Province campane
Campionamento: Casuale stratificato (in base all’età)
Insieme degli adulti di età compresa tra i 18-65 anni residenti in
Popolazione:
Campania
Raccolta dati: Questionario strutturato

Tab. 1 – Disegno di ricerca

Le dimensioni esplorate dallo studio sono quella socio-grafica, quella cono-


scitiva del fenomeno e infine quella afferente ai valori, atteggiamenti, opinioni,
rappresentazioni del concetto. Per ogni dimensione si è ritenuto utile studiare

2
  Il tema della fiducia nelle persone risulta cruciale per l’introduzione delle auto a guida autono-
ma, e la paura connessa ad una mancanza di sicurezza e stabilità
Autonomous driving 99

alcuni indicatori: in particolare per quella socio-grafica età, genere, residenza,


titolo di studio e condizione occupazionale; nella dimensione conoscitiva si è
scelto di operare verso alcuni indicatori come il grado di conoscenza del settore,
acquisizione del concetto di guida autonoma, di automazione, di robotaxi; la
sfera valoriale risulta ampiamente indagata da numerosi indicatori quali la perce-
zione dei temi relativi alla guida autonoma attraverso mass media e new media,
rappresentazione (interna) mentale del soggetto, valutazione delle opinioni sulla
guida autonoma (safety, utilità, progresso), percezione e rappresentazione del
concetto di automazione ecc. Il questionario è strutturato con 21 domande che
partono da un tema generico, inerente alla domanda di ricerca circa i mezzi usati
per gli spostamenti ordinari, il tempo impiegato per tali spostamenti, il sistema
di trasporti pubblici e l’uso dell’automobile, per poi addentrarsi nel cuore della
ricerca esplorando con domande mirate la conoscenza e la percezione della gui-
da autonoma, del robotaxi, e indagando in due domande specifiche le questioni
legali ed etiche legate alla responsabilità civile in caso di incidente stradale.

Studiare la percezione e rappresentazione della guida autonoma


Dimensione Dimensione conoscitiva del Valori, atteggiamenti, opinioni, rappre-
socio-geografica fenomeno sentazioni, immagini del concetto
Percezione dei temi relativi alla guida auto-
Età Grado di conoscenza del settore
noma attraverso mass media e new media
Acquisizione del concetto di Rappresentazione del concetto interna
Genere
guida autonoma (immagine mentale del soggetto)
Conoscenza personale del
Rappresentazione del concetto esterna
Residenza concetto di guida autonoma vs.
(immagine che ne danno soggetti esterni)
concetto effettivo
Conoscenza del concetto di au- Valutazione delle opinioni sulla guida
Titolo di studio
tomazione autonoma (safety, utilità, progresso ecc.)
Grado di differenziazione tra le opi-
Conoscenza del concetto di
Occupazione attuale nioni e il settore relativo alla guida
robotaxi
autonoma
Opinioni sulla
guida autonoma
Percezione e rappresentazione del con-
cetto di automazione
Percezione e rappresentazione del con-
cetto di guida autonoma
Percezione e rappresentazione del con-
cetto di robotaxi

Tab. 2 – Mappa concettuale degli indicatori e delle dimensioni di ricerca


100 Anna Irene Cesarano

La quinta domanda della survey intendeva analizzare sia la dimensione co-


noscitiva del fenomeno che quella valoriale: viene chiesto all’utente attraverso
una scala di frequenza che va dal “mai” al “molto spesso” se negli ultimi sei
mesi, attraverso i mass media e new media, avesse avuto conoscenza della guida
autonoma. Quel che emerge nettamente dai dati è che il “mai” sovrasta sulle al-
tre opzioni di risposta, ad esempio alle domande “letto un articolo di giornale”
o “visto un video online di un’auto che guida da sola” (fig. 1).

Fig. 1 – Frequenza con cui negli ultimi sei mesi i rispondenti sono venuti in contatto con il concetto di
guida autonoma

Appare dunque una scarsissima conoscenza del concetto di guida autono-


ma, anche se il campione era formato da una percentuale di giovanissimi che
si attesta intorno al 40% (pari a circa 112 persone su 235 totali) del campione
con un’età che va dai 18 ai 35 anni, con una forte dimestichezza con le nuove
tecnologie.
Il “no” (64,8% dei casi) è essere anche la risposta con percentuale più alta
alla domanda “Hai mai guidato un’auto provvista di sistemi di assistenza alla
guida?”

Fig. 2 – Risposte alla domanda: “Hai mai guidato un’auto provvista di sistemi di assistenza alla guida?”
Autonomous driving 101

Nelle risposte successive del questionario emergono, tuttavia, dei fattori


importanti degni di considerazione. Nonostante la scarsa o nulla conoscenza
della guida autonoma (com’era prevedibile) da parte di una quota considere-
vole del campione, che tra l’altro era composto maggiormente da donne (circa
il 64,8%) che potrebbe essere considerato come un “gender gap”, in quanto
meno interessate a tale settore e meno informate su ciò, non emerge dai dati
una completa sfiducia nella sicurezza dell’autonomous driving, come invece ci
si potrebbe attendere. Ciò si evince dalle risposte alla domanda se con l’in-
troduzione del robotaxi potrebbero aumentare gli incidenti stradali: una sola
persona ha risposto “10” (molto probabile) su una scala da 1 a 10 (235 risposte
totali) mentre la frequenza più alta è stata 1, come si nota nelle fig. 3-4, ma una
certa condizione di incertezza sulle reali possibilità offerte dalla guida auto-
noma dettata da una scarsa conoscenza del settore. Di conseguenza, è logico
pensare che se le persone avessero una maggiore percezione e conoscenza della
guida autonoma, avrebbero maggiore fiducia e meno paura all’introduzione
delle driverless car.

Fig. 3 – Percezione dei rischi e benefici connessi alla guida autonoma

Fig. 4 – Percezione dei rischi e benefici connessi alla guida autonoma, in particolare all’introduzione dei
robotaxi
102 Anna Irene Cesarano

La condizione di incertezza è ben visibile dai dati: in fig. 4 la frequenza più


alta si attesta quasi sempre attorno a “incerto”, anche quando viene superata di
poco da “abbastanza d’accordo” all’affermazione se le auto a guida autonoma
rappresentino un progresso auspicabile. Ciò conferma quanto affermato sopra,
ovvero che le persone non nutrono sfiducia nei confronti della guida autonoma,
ma non ne hanno una giusta conoscenza, una corretta percezione e soprattutto
non si sentono informate su tale argomento, ma dimostrano comunque di avere
un interesse verso tale settore e lo considerano un avanzamento tecnologico,
per cui possiedono un’immagine mentale interna di progresso. Nel diagramma
in fig. 5 è possibile notare come il 48,7% degli utenti abbia risposto con un’im-
magine di progresso e avanzamento tecnologico alla domanda “Che rappresen-
tazione ti viene in mente leggendo la definizione di guida autonoma?”.

Fig. 5 – Risposte alla domanda “Che rappresentazione ti viene in mente leggendo la definizione di guida
autonoma?”

La questione etico-legale sembra essere uno dei punti più critici, se non
spinosi, per l’introduzione delle auto senza conducente. Il principio di re-
sponsabilità civile e penale negli incidenti stradali risulta essere un tema di
accesi dibattiti e in grado di canalizzare l’attenzione di diversi studiosi (cfr.
Gaeta, 2019). All’interno della ricerca tale spinoso problema è affrontato in
due domande, chiedendo direttamente agli utenti la loro opinione in caso di
incidente stradale sia con un’auto a guida completamente autonoma, sia con
un’auto parzialmente autonoma.
Dai due diagrammi a torta in fig. 6-7 emerge subito una differenza tangibile
nelle risposte degli utenti al variare (seppur di poco nella stesura e lettura, ma
che comunque ha un grande significato) della domanda posta. In un’auto a
guida completamente autonoma, secondo i soggetti del campione la responsa-
bilità civile e penale sarebbe nel 27,8% dei casi dell’azienda che produce l’auto
(produttore), mentre nel 24,8% dei casi ricadrebbe sull’azienda che produce le
componenti dell’auto (produttore delle componenti del prodotto), e nel 22,6%
dei casi sia l’azienda che produce le componenti dell’auto a guida autonoma
che il proprietario dell’auto; le restanti percentuali si dividono tra il proprie-
tario dell’auto (17,4%) e quote bassissime che si attestano intorno allo 0.4%
(pari a 1 persona), per diverse risposte date liberamente tramite l’opzione “Al-
Autonomous driving 103

tro” contemplata alla fine. In un’auto a guida parzialmente autonoma spicca


invece una percentuale piuttosto alta, pari al 39,1% delle risposte, che attribui-
sce responsabilità al proprietario dell’auto, mentre un 34,8% sia al proprietario
dell’auto che all’azienda che produce le componenti del prodotto; le restanti
percentuali si dividono in un 11,7% per l’azienda che produce le componenti
dell’auto, 7,8% per l’azienda che produce l’auto e quote pari allo 0,4% per
ogni persona che ha dato risposta libera a tale quesito.

Fig. 6 – Risposte alla domanda “In un ipotetico incidente commesso da un’auto a guida completamente
autonoma, di chi sarebbe la responsabilità civile e penale?

Fig. 7 – Risposte alla domanda: “In un ipotetico incidente commesso da un’auto a guida parzialmente
autonoma, di chi sarebbe la responsabilità civile e penale?

Conclusioni

Da un confronto tra le risposte a queste due ultime domande si potrebbe


affermare che nel caso di guida totalmente autonoma le persone attribuiscono
la responsabilità dell’incidente stradale a soggetti che non si identificano nel
proprietario dell’auto, ma che sembrano piuttosto divisi tra varie soggettività
esterne, per es. l’azienda che produce l’auto, o le componenti dell’auto, o in
concausa con il proprietario. Diversamente avviene quando l’auto è a guida
parzialmente autonoma: in tal caso la responsabilità viene riconosciuta sia nella
soggettività del proprietario dell’auto sia quando questi è in concausa con l’a-
zienda che produce le componenti di guida autonoma.
Infine, per quel che riguarda il concetto di automazione (fig. 8), sembra
riproporsi quella condizione di incertezza e neutralità verificatasi in alcune do-
mande sugli effetti della guida autonoma. Infatti, la maggior parte delle rispo-
104 Anna Irene Cesarano

ste su una scala di frequenza da 0 a 10 si attestano intorno a 5, caratterizzando


una condizione di indecisione, dovuta forse a mancanza di elementi per espri-
mersi, ma si ripropone il già citato consenso delle persone verso la tecnologia
e il progresso: ad affermazioni quali “l’automazione della vita quotidiana mi
lascia perplesso” o “trovo aberrante la sostituzione delle macchine agli esseri
umani”, la frequenza più alta è 0.

Fig. 8 – Percezione relativa a rischi e benefici all’automazione della vita quotidiana

Bibliografia

Butti L., Auto a guida autonoma: sviluppo tecnologico, aspetti legali ed etici, impatto ambien-
tale, «Rivista giuridica dell’ambiente», n. 3/4, 2016
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Cordeschi, Intelligenza artificiale. Manuale per le scienze umane, Carocci, Roma, 2001.
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Prensky M., Digital Natives, Digital Immigrants, «On the Horizon», vol. 9 n. 5, ottobre
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sification of autonomous cars, «IEEE International Conference on Systems, Man, and
Cybernetics», novembre 2017.
Informare sui nuovi scenari dell’energia

di Sergio Ferraris1

L’allarme clima è sempre più presente nello scenario informativo. Sono ba-
stati cinque anni dall’Accordo di Parigi per vedere aumentati gli allarmi circa i
cambiamenti climatici. Si tratta di un fenomeno ampiamente prevedibile, visto
che in questo periodo la quantità di CO2 presente nell’atmosfera è aumentata
fino a 408,55 parti per milioni, ma soprattutto sono stati terminati una serie di
studi scientifici su fenomeni cruciali che non erano mai stati osservati in prece-
denza, i tipping point. Ciò ha portato a tutta una serie di revisioni circa i limiti
collegati alle emissioni come l’abbassamento della soglia limite di aumento di
temperatura entro il 2100 non oltre gli 1,5°C, l’aumento della generazione rin-
novabile al 55% al 2050 in Europa e l’incremento della generazione rinnova-
bile. Nel frattempo in tutto il Pianeta è aumentata la sensibilità ai cambiamenti
climatici da parte dell’opinione pubblica, ma non in maniera tale da ribaltare
gli equilibri politici esistenti. Si tratta di un elemento importante sul fronte
dell’informazione il fatto che i programmi politici ecologisti sul clima trovino
un eco di grande portata presso i media, ma abbiano un risultato, in termini
percentuali, marginale dal punto di vista politico.
Per quanto riguarda l’aspetto relativo alle questioni geopolitiche, il mondo
dell’energia è centrale sotto il profilo concreto, ma marginale dal punto di vista
mediatico. Prendiamo il caso della Brexit. L’informazione sulla Brexit e i suoi
risvolti economici è molto diffusa, ma si trova molto meno circa la possibile
secessione della Scozia e i relativi risvolti energetici. È molto difficile, infatti,
trovare sulla stampa internazionale non specialistica informazione sulle conse-
guenze energetiche di un eventuale secessione della Scozia. Il perché è chiaro.
La Scozia, in caso di abbandono del Regno Unito, negherebbe l’accesso al pe-
trolio del Mare del Nord, a una delle zone più promettenti dell’Isola Britannica
per le rinnovabili, visto che dispone di vento, biomasse e maree. E non basta.
Con il suo reingresso nell’Unione europea a seguito della secessione varrebbero
per la Scozia le regole energetiche e di mercato europee – che sono state ride-
finite di recente – per cui il resto del Regno Unito diventerebbe un soggetto
marginale per gli scozzesi che avrebbero convenienza nell’esportare energia
nel continente. In questo caso la mancanza d’informazione è congeniale a non
allarmare le opinioni pubbliche e i mercati che potrebbero reagire in maniera
negativa.
Circa la geopolitica del petrolio la questione è diversa. L’opinione pubblica
1
  Giornalista scientifico/ambientale, direttore della rivista di Legambiente QualEnergia. E-mail:
sergio@sergioferraris.it.
106 Sergio Ferraris

dei paesi fornitori non corre pericolo visto che in molti di loro la ricchezza
derivante dal petrolio viene distribuita nella società – come nella penisola ara-
ba – mentre in altri paesi come il Venezuela, la Nigeria e i paesi dell’ex Unione
Sovietica si opera una chiusura informativa verso l’opinione pubblica circa le
questioni energetiche e il loro valore, che raramente viene visto come Pil sot-
tratto alla società per utilizzi comuni. Del resto un’analoga chiusura avviene
anche nei paesi che sono destinatari delle fonti fossili. L’informazione circa la
geopolitica delle fossili nei paesi occidentali, se esiste, è essenzialmente di ca-
rattere etico e raramente affronta questioni economiche e politiche. Si tratta di
chiusure informative, queste delle energie fossili, che spesso affondano le radici
nella segretezza dei dati. Un caso per tutti: le riserve del più grande giacimento
petrolifero convenzionale del mondo, il saudita Ghawar, non sono più comu-
nicate ufficialmente da decenni, con ogni probabilità per evitare turbative di
mercato.
Per quanto riguarda il capitolo delle disuguaglianze il settore energetico
soffre, volutamente, di una dicotomia informativa di notevole spessore che ri-
guarda due aspetti. Quello ambientale e quello sociale. Con l’aggravante del
fatto che spesso non vengono messe in luce le connessioni tra la crescita delle
disuguaglianze sociali e impatti ambientali. Spesso si tratta, per ora, di una
questione legata alle novità dei fenomeni. Trasformare un fenomeno come l’in-
quinamento urbano da polveri sottili in un dato informativo relativo alla salute,
e magari anche alla perdita di valore, è particolarmente complesso e lungo. Ma
si tratta di operazioni utili quando vengono compiute, perché, se si usano i con-
tenuti giusti, diventa possibile agganciare all’informazione la quotidianità delle
persone, trasformando l’informazione descrittiva, o al massimo empatica, in
informazione utile: qualità fondamentale per innescare processi di transizione
sociale verso la sostenibilità. Si tratta di una declinazione, quella dell’utilità, che
deve essere costantemente presente nei processi informativi e lungo la filiera
dell’informazione quando ci si occupa di contenuti ambientali ed energetici,
concepiti per essere d’ausilio alla transizione.

La transizione energetica

«L’età della pietra non finì perché erano finite le pietre». Questa famosa
frase di Ahmed Zaki Yamani, ministro del petrolio saudita dal 1962 al 1986,
pronunciata durante un’intervista del 2000 all’agenzia Reuters, si riferiva al fat-
to che l’era del petrolio non finirà per il suo esaurimento ma per altri motivi,
che il ministro non specificava. La realtà è che in materia d’energia si è passati
dalla legna, al carbone, al fossile per due motivi. Il primo è il progresso delle
tecnologie che hanno consentito l’utilizzo di materiali in precedenza non uti-
lizzabili, mentre il secondo è legato alla sempre maggiore intensità energetica.
Si tratta di un meccanismo che è necessario tenere bene in conto quando si in-
Informare sui nuovi scenari dell’energia 107

forma sull’energia. Gli schemi energetici sono necessari per descrivere qualsiasi
fenomeno legato all’energia.
Con l’arrivo delle rinnovabili si realizza, nei fatti, un salto di paradigma:
si usano cioè le tecnologie per utilizzare energie caratterizzate da un’intensità
energetica minore. Per molti esperti del settore si tratta di un passo indietro,
per i sostenitori delle rinnovabili un salto in avanti. In realtà hanno torto tut-
ti e due. Si tratta, se vogliamo utilizzare una metafora, di un salto in alto, in
un’altra direzione: un cambio di paradigma. Per questo motivo non si possono
utilizzare le metodologie informative tradizionali. Abbiamo a che fare con tipo
nuovo di generazione energetica che impone un diverso tipo di utilizzo. Dal
lato della generazione si deve tenere conto del fatto che le rinnovabili genera-
no dove c’è la risorsa, ossia il Sole, il vento o la biomassa e sono intermittenti.
Dal lato del consumo, invece, impongono i consumi su una scala temporale
che non è decisa dagli utenti, a cui tocca adeguarsi, adeguando anche l’archi-
tettura di rete, alle esigenze sia della generazione, sia del consumo. In termini
di mutazione dell’informazione di fronte a questo nuovo scenario, è probabile
che l’utente cresciuto in questo contesto energetico desideri che l’informazio-
ne assomigli alla rete energetica rinnovabile: distribuita, vicina, bidirezionale
(che contempli cioè sia il ruolo di produttore, sia quello di consumatore), etica
(che rispetti cioè il contesto sul quale opera). Le prime due caratteristiche nel
mondo dell’informazione esistono già e sono il web, e ancora di più i social.
La dimensione etica non appartiene al mezzo dell’informazione ma alla fonte,
ossia al giornalista in primo luogo e alla testata/editore in seconda battuta.
L’efficienza energetica è il completamento del cambio di paradigma e sem-
bra voler sfidare la seconda legge della termodinamica, quella che sancisce la
non reversibilità degli stati fisici in assenza di un’aggiunta d’energia. Efficien-
za energetica significa utilizzare le tecnologie per produrre più lavoro, inte-
so come unità della fisica, con meno energia. Il metodo per realizzare ciò è
il miglioramento delle tecnologie, specialmente quelle energetiche tese alla
conservazione dell’energia e a un suo migliore utilizzo. Si tratta di tecnologie
spesso considerate a torto “povere” perché il meccanismo di conservazione
dell’energia è spesso “semplice” – nel suo funzionamento, ma non nella sua
realizzazione – e non mostra il lavoro di ricerca sottostante. Un esempio di ciò è
l’isolamento termico degli edifici, settore nel quale la tecnologia dei materiali è
estremamente innovativa: si è arrivati, per esempio, a cambiare comportamen-
to e proprietà dello scarto da pulper delle cartiere rendendolo inerte, ignifugo
e resistente all’umidità, e si tratta sostanzialmente di fibre di cellulosa ossia di
carta di bassa qualità. Il problema dell’informazione circa l’efficienza energeti-
ca è che le tecnologie applicate godono di uno scarso interesse mediatico, sono
molto tecniche e di difficile comprensione per l’utente medio, spesso anche per
i giornalisti, con un punto di ritorno economico dilazionato nel tempo (anche
di diversi anni, per esempio nel caso degli infissi). A tutto ciò bisogna aggiun-
gere il fatto che uno dei dati più interessanti per l’utenza è quello del risparmio
108 Sergio Ferraris

economico, immediato e nel tempo; su questo fronte, ma anche su altri, l’in-


formazione ambientale è carente sul piano dell’elaborazione autonoma. Non è
giornalisticamente ammissibile, infatti, utilizzare dati di provenienza aziendale
circa il quadro economico – e quindi i risparmi – che riguardando l’utilità per i
cittadini. Si tratta di un problema che riguarda tutto il contesto informativo re-
lativo alla transizione energetica. Il lavoro giornalistico su quest’aspetto neces-
sita di fonti affidabili, di capacità e competenze avanzate in grado di consentire
elaborazioni autonome su dati esistenti, della possibilità di ricorrere a una rete
di esperti indipendenti e di tempo.

L’informazione

La diffusione dell’informazione circa la transizione energetica pone il pro-


blema dei vettori d’informazione e della pervasività dell’informazione stessa e
della sua sedimentazione. Volendo semplificare: come si trasporta l’informa-
zione, come la si diffonde e come si consolida l’informazione. Il tutto reso più
complesso dalla digitalizzazione, che se da un lato semplifica alcuni aspetti,
come la diffusione e la realizzazione – un sito web è estremamente più semplice
rispetto a una rivista cartacea – sotto il profilo concettuale complica non poco
il processo cognitivo, specialmente sotto il profilo della creazione e gestione
avanzata del contenuto. Interessante per analizzare il fenomeno è il confronto
diretto tra carta e digitale. Nel primo caso abbiamo un oggetto, la rivista, che
è pensata come singolo prodotto, con caratteristiche fisse e stabili quali il for-
mato e il numero di pagine e con contenuti altrettanto fissi sia come tipologie,
sia come organizzazione. Grafica, testi e fotografie sono gli elementi costitutivi
di una rivista che ha un formato fisico fisso e viene distribuita secondo uno
schema preciso a un target determinato. Il digitale destruttura tutto ciò e lo
rende fluido anche dal punto di vista della fruizione nel senso che i target di
riferimento non sono più decisi dall’editore o dal giornalista, ma dagli algoritmi
che gestiscono i sistemi Seo e dei social. Si tratta di un aspetto che è ben chiaro
agli utenti, ma molto meno a chi produce questi contenuti e dalla cui analisi
potrebbero nascere non poche sorprese, se si usa il metodo della creazione di
contenuti data driven in maniera preventiva. Da un’esperienza condotta nel
mese di maggio del 2018 in Italia è emerso che l’argomento “autoproduzione
energetica” nelle sue varianti linguistiche era stato cercato dagli italiani 97 volte
nel mese di riferimento. Una quota irrisoria rispetto alla platea di persone con-
nesse a internet in Italia che, all’epoca, era di 43 milioni di utenti dei quali 34
milioni attivi su social. Tutto ciò rappresenta due barriere per i contenuti della
transizione energetica. Il primo è che gli algoritmi sono quantomeno indiffe-
renti a questi contenuti (e la loro indifferenza ostacola la diffusione innescando
una circolarità negativa), il secondo è che in questo quadro si innesca una sorta
di “autocensura realizzativa” da parte di giornalisti ed editori. Si tratta di feno-
Informare sui nuovi scenari dell’energia 109

meni che riguardano anche altri settori dell’informazione oltre a quello energe-
tico e quello ambientale, ma in questo caso il deficit informativo su ciò rischia
di produrre rallentamenti non banali circa la lotta ai cambiamenti climatici.
Una delle attenzioni più importanti da porre per tentare di scardinare la cir-
colarità negativa di cui sopra è rappresentata dalla scelta dei linguaggi, delle pa-
role e dei simboli. Un’informazione tecnica, infatti, può divenire “appetibile”
per un determinato target anche in base al linguaggio, alle parole e alla grafica
adottata. Si tratta di una questione complessa perché non è sostenibile, sotto il
profilo della realizzazione dei contenuti, declinare in maniera diversa più volte
lo stesso contenuto. Ciò che è necessario fare da questo punto di vista è di “as-
semblare” il contenuto tenendo conto dei vari target e raggiungendo uno o più
punti di mediazione, badando all’utilizzo da parte dell’utenza e ricordandoci,
nel caso della transizione energetica, che si tratta di “contenuti utili”, sia per le
persone, sia per il Pianeta.

L’equilibrio tra scienza e divulgazione

I canali di diffusione dell’informazione, ossia i vettori, sulla transazione


energetica non differiscono molto da quelli di altri tipi. Un errore da non fare è
di favorire i nuovi media, nella creazione dei contenuti, rispetto a quelli “tradi-
zionali”. Questa è un’epoca caratterizzata da una transizione anche nei media,
che da parte degli utenti si sovrappone alla transizione in corso nel campo
dell’energia. È comune, per esempio, commentare sui social una trasmissione
televisiva o un articolo scritto, oppure interagire con una radio tramite mes-
saggio audio WhatsApp, come al contrario diventa prassi incorporare nei testi
web post di Facebook o di Twitter.
Anche in base alla definizione dei target di cui sopra, una volta che fatta
la scelta e la declinazione è necessario mettere a punto una serie “strumen-
ti” affinché il prodotto informativo possa essere fruito con soddisfazione dal
target di riferimento. La categoria “soddisfazione” è fondamentale anche per
l’informazione alla transazione energetica, come per tutti i prodotti, perché è
necessario che l’utente 1) riconosca l’utilità dell’informazione; 2) la faccia pro-
pria; 3) ne amplifichi la diffusione, aspetto essenziale nelle dinamiche social; 4)
si fidelizzi alla tipologia di contenuti tornando su contenuti simili.
Umanizzando la tecnica. Spunti dal pensiero filosofico
di Romano Guardini per la società tecno-nichilista

di Andrea Galluzzi1, M. Licia Paglione2

È tempo di pensare al tutto, partendo dal tutto.


Guardini 2009 [1948]

La tecnica nella contemporaneità tecno-nichilista

Il fenomeno della tecnica nella contemporaneità è diventato talmente per-


vasivo da essere assunto a chiave interpretativa della società, da alcuni definita
– a partire proprio da questa rilevanza ma anche con il fine di evidenziarne i
pericoli – «tecno-nichilista» (Magatti 2009, 2018).
Tale definizione sta a sottolineare che la predominanza della tecnica nella
vita sociale racchiuda, oltre ad una serie di possibilità, anche dei seri rischi.
Questi ultimi sono legati al modo in cui la potenza («ciò che può essere») nella
vita sociale diventa un potere («ciò che si può far essere») monopolizzato da
una visione della realtà concentrata sui mezzi piuttosto che sui fini, e dunque
priva di un orientamento ulteriore e più integrale che spinga avanti e renda
attuabile un divenire immaginato in modo condiviso, con esiti ambivalenti per
i singoli e per la vita in comune. Come evidenzia il sociologo Mauro Magatti:

La tecnica che si configura secondo un sistema integrato tornerà ancora più po-
tente. Proclamandosi onnipotente. Cioè promettendo all’uomo – reso Dio – di
diventare lui stesso onnipotente. Ma ciò non può che avvenire in un duplice e
contraddittorio movimento: mentre viene liberata, la volontà di potenza soggettiva
viene contestualmente ingabbiata nelle maglie del sistema tecnico cedendo quote
crescenti della propria autonomia. (Magatti, 2018, p. 218)

Ripercorrendo i passi storici che hanno condotto a tale situazione, si col-


gono, però, elementi che segnalano che questo non sia l’unico esito possibile o
l’unico frutto della maturazione di una capacità umana di per sé molto positiva.
Già il pensiero classico, per sottolineare il valore e la grandezza di questa
capacità dell’uomo, attraverso la figura mitica di Prometeo descriveva la tecni-
ca come un dono divino. Nel corso della storia si è continuato a interpretare
questa capacità come una «eccentricità», cioè una spinta ad andare oltre e tra-
scendersi (Magatti 2018, p. 11), che permette il divenire, che apre al futuro,
1
  Istituto Universitario Sophia. E-mail: andrea.galluzzi@sophiauniversity.org.
2
  Istituto Universitario Sophia. E-mail: licia.paglione@sophiauniversity.org.
112 Andrea Galluzzi, M. Licia Paglione

rendendo immaginabili nuove possibilità. Le riflessioni filosofiche su questo


tema si sono divise nel corso del tempo estremizzandosi tra posizioni catastro-
fiste (le più), che augurerebbero un ritorno al passato, e posizioni integrate che
sosterrebbero in modo quasi fideistico la bontà della tecnica. Al di là della posi-
zione che si ritiene più corretta, oggi è evidente che lo sviluppo della tecnica ap-
paia sempre più come un fenomeno con il quale è necessario confrontarsi, che
richiede uno sguardo capace di aprire «nuovi sentieri di riflessione e compren-
sione» (Magatti, 2018, p. 30), attraverso lenti che sappiano focalizzare oltre le
posizioni estreme, e individuare modi per «tenere aperta la potenza» (Magatti,
2018, p. 212), senza «consegnarla unilateralmente nelle mani di una tecnica che
la traduce nel suo linguaggio fatto di aumento, competizione, performance»
(Giaccardi, Magatti, 2019), ma permettendole di attuarsi in forme ulteriori ri-
spetto a quelle che il sistema tecnico monopolizzante sta permettendo.
In questa prospettiva diventa a nostro parere interessante – ed è ciò che
proponiamo attraverso questo contributo – (ri)scoprire il pensiero di un autore
il cui acume filosofico è in continua riscoperta da parte di” con “continua a
suscitare interesse tra gli studiosi contemporanei: Romano Guardini.

Romano Guardini: filosofo del «cuore che sa»

Romano Guardini (Verona, 1885 – Monaco di Baviera, 1968), teologo e


filosofo italo-tedesco, culturalmente legato all’ambito cattolico, è considera-
to una delle figure più significative della vita culturale europea del XX seco-
lo. Personaggio poliedrico, intraprese studi che spaziarono dalla chimica, alle
scienze politiche alla teologia, insegnò in varie università tedesche tra cui quella
di Berlino (1923-39), dove gli fu affidata la cattedra di filosofia della religio-
ne e visione cattolica del mondo (incarico che ricoprì successivamente anche a
Tubinga e Monaco) dalle cui lezioni sviluppò uno dei suoi saggi di maggiore
rilievo: La visione cattolica del mondo (1923).
Il pensiero elaborato da Guardini, ispirato dalla fede cristiana e fortemente
legato a una visione etico-religiosa del mondo, ha avuto e ha tutt’oggi la ca-
pacità di aprire nuovi sentieri per una lettura della realtà centrata sull’uomo,
considerato non solamente nella sua dimensione razionale, ma anche in quella
affettiva e spirituale. L’originalità filosofica e teologica del suo pensiero si può
descrivere attraverso alcune coordinate di base, fondamentali per comprende-
re anche il suo pensiero sulla tecnica e il rapporto tra essa e la persona umana.

Coordinate di fondo del pensiero guardiniano

Per accedere all’universo teorico guardiniano – come ben sottolinea Silva-


no Zucal (2018), uno dei suoi maggiori studiosi – occorre tenere presente tre
Umanizzando la tecnica 113

elementi decisivi. Il primo è il “maestro” (aspetto che non approfondiremo in


questa sede): San Bonaventura3. Guardini ne segue gli insegnamenti e la visio-
ne; è un punto di partenza nei suoi studi e un costante riferimento intellettuale,
nel quale trova un modello di pensiero, sulla scia di Platone e Agostino, in cui
si trovano connessi inscindibilmente conoscenza e amore, cuore e ragione. Il
secondo elemento è un particolare metodo conoscitivo della realtà, chiamato
«opposizione polare», sviluppato da Guardini per circa un ventennio e divul-
gato in un saggio del 1925 (Der Gegensatz). L’opposizione polare – figurabile
come un campo di forze fra due poli magnetici – si esprime come una tensione
dialettica che crea un dinamismo aperto. La sintesi di questa tensione dà luogo
alla costruzione di una unità concreta, che non si risolve come nella dinamica
hegeliana tesi-antitesi-sintesi, né tantomeno si realizza nel semplice accosta-
mento delle parti, ma si dà in relazione all’intero che le parti stesse definiscono,
senza poter essere riducibile ad una sola di esse.
Lo scopo di Guardini, attraverso l’opposizione polare, è quello di riuscire
a trovare un metodo per poter avanzare nella conoscenza della realtà oggettiva
svincolandosi dai limiti del soggetto, impresa che egli riteneva possibile dato
che la realtà, a suo parere, può essere esperita come qualcosa di strutturato e
dunque accessibile in qualche modo allo spirito (Gerl, 201). Nel tentativo di
dare una fondazione empirica alla definizione del sistema delle opposizioni e
trovandosi di fronte a un’impresa troppo ardua, Guardini sceglie di restringere
il campo di ricerca concentrandosi sull’umano, «concreto vivente». La dinami-
ca della struttura di opposti definita nel 1925 traccia un complesso sistema di
relazioni per descrivere il quale – dati i limiti del linguaggio naturale – l’autore
si serve anche di opportuni schemi geometrici. Seppur nella sua provvisorietà
di «scheletrica impalcatura» (Guardini, 2016 [1925]), come l’autore stesso la
definisce, questo apparato teorico apre scenari importanti, descrivibili in termi-
ni di una visione rivolta alla totalità delle cose.
Il terzo elemento è la particolare visione del mondo, maturata da Guardi-
ni in seguito alla chiamata a ricoprire la cattedra di filosofia della religione a
Berlino e codificata in un saggio edito nel 1923 (Vom Wesen katholischer Wel-
tanschauung). Imperniata sui cardini dell’opposizione polare e autentico mani-
festo programmatico della sua produzione intellettuale, la visione del mondo
(Weltanschauung) guardiniana esprime la struttura caratteristica del suo pen-
siero filosofico-teologico e fa da sfondo e prospettiva a tutta la speculazione del
nostro autore, dando l’imprinting ai successivi quarant’anni della sua attività
di pensatore. Nel corso dello sviluppo della Weltanschauung, egli matura l’i-
dea che il proprio compito non era tanto quello di «portare avanti la ricer-
ca in una specifica disciplina teologica, bensì di interpretare la realtà cristiana
con responsabilità scientifica e ad alto livello spirituale» (Guardini, 1986). Da
qui egli trae ispirazione per delineare una particolare visione del mondo intesa

3
  Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274), filosofo e teologo francescano.
114 Andrea Galluzzi, M. Licia Paglione

come «un moto conoscitivo volto [...] alla totalità delle cose» (Guardini, 2018
[1923]), in grado di cogliere la tensione polare che si articola fra l’intero e le sue
parti. La Weltanschauung guardiniana si orienta verso una forma di conoscenza
esprimibile non come una sintesi a valle di una analisi, come avviene per le
scienze particolari, ma come qualcosa che nella sua interezza si dà già “a priori”
e va progressivamente ampliandosi verso una sempre maggiore profondità e
pienezza (Guardini, 2018 [1923]). Ciò comporta che al termine di un processo
conoscitivo si torni all’inizio ma con una nuova consapevolezza, con un nuovo
arricchimento nello sguardo. Si potrebbe dire che la prospettiva guardiniana
sul reale sia a spirale (Gerl, 2016). Essa richiede un atteggiamento empatico
che mette in gioco cuore e mente «coimplicando e impegnando tutto intero
il proprio essere» (Zucal, 2018), dando luogo ad un processo conoscitivo che
riesce ad andare oltre la settorialità dei saperi.
Sebbene la Weltanschauung guardiniana trovi la propria scaturigine in una
particolare esperienza di fede, essa – come si può cogliere – sfocia in un gua-
dagno universale: non si traduce in una prospettiva ideologica che trasforma la
fede in integralismo, ma piuttosto si offre come uno sfondo prospettico, come
uno spazio transdisciplinare dal quale guardare la realtà oltre il filosofico, oltre
il teologico, oltre lo scientifico. I vari livelli di conoscenza, presi nella loro par-
ticolarità e nel loro insieme, portano a cogliere il mondo come espressione di
opposizioni polari, mai risolte ma esperibili nella loro totalità. Questi due ele-
menti – la teoria dell’opposizione polare e la visione cattolica del mondo – pos-
sono essere immaginati come assi cartesiani in grado di fornire le coordinate
del pensiero guardiniano: attraverso di essi si ottiene una «griglia ermeneutica»
(Zucal, 2018) che permette di orientarsi nel vasto panorama teorico di questo
studioso, illuminando con la giusta luce tutta la sua produzione intellettuale ed
in particolare i suoi scritti sulla tecnica.

Una visione della tecnica tra impedenza e possibilità

La riflessione filosofica del Novecento sulla tecnica porta a tracciare un


quadro del problema con varie sfumature, tutte concordanti sul fatto che la tec-
nica sia in sé qualcosa di ambivalente: da una parte rappresenta una proprietà
costitutiva dell’uomo, dall’altra assume un carattere di autonomia che costringe
l’uomo stesso a una sorta di sottomissione con tanti rischi. Si tratta di una situa-
zione in cui la tecnica può costituire da una parte una possibilità per l’uomo e il
suo futuro, ma dall’altra una perdita, un disagio, una impedenza – proporrem-
mo di dire noi – termine mutuato dalla fisica e che potremmo considerare, in
questo contesto e in senso traslato, come qualcosa che attua sia una resistenza
al moto dello spirito, sia un disorientamento di fondo.
Non è possibile in queste righe tentare una trattazione più approfondita,
ma si può comunque definire meglio il concetto di moto dello spirito come una
Umanizzando la tecnica 115

tendenza (già definita da Aristotele con il termine òrexis, come ben evidenziato
in Nussbaum, 1996) di un ente verso il proprio bene e il proprio fine; con il
termine resistenza si intende qui l’azione di contrasto che la tecnica esercita
su questo tipo di movimento e con disorientamento si intende il disordine che
essa provoca nel medesimo movimento, il quale si trova a perdere un senso
unico e coerente. I segni di questi elementi di impedenza sono rintracciabili nel
pensiero di tutti i filosofi del Novecento che hanno analizzato il fenomeno della
tecnica. Riportiamo qui, a mo’ di esempio, solo due contributi fondamentali.
Arnold Gehlen (1904-1976) sottolinea, ad esempio, come la tecnica, nonostan-
te la sua importanza per lo sviluppo della specie umana, non riesca a soddisfare
pienamente l’altrettanto suo fondamentale bisogno di sicurezza ma introduca
un fattore di incertezza o disagio, sintomo di una profonda trasformazione cul-
turale. Per Gehlen è possibile superare il senso di insoddisfazione e insicurezza
non con una negazione del mondo della tecnica, ma semplicemente assumendo
un diverso comportamento nei suoi confronti per aiutare l’uomo a conquistare
il proprio «posto nel mondo» (cfr. Gehlen, 2003 [1957]). In Gunther Anders
(1902-1992) l’impedenza si esprime nei concetti di «vergogna prometeica» e
«dislivello prometeico». Anders parla anche di un disordine interiore in cui
l’uomo si trova a causa di una mancata proporzionalità fra la nostra capacità di
previsione e la nostra capacità di produrre, che si rivela potenzialmente infinita
e che costituisce un grave rischio per l’umano (cfr. Anders, 1963 [1956]).
Nel dibattito sulla tecnica si colloca anche Guardini. Egli ne parla a più
riprese nell’insieme degli scritti che hanno per oggetto l’epoca moderna e i rap-
porti dio-uomo-natura-cultura, ma è nelle Lettere dal lago di Como (nove testi
epistolari diretti ad un caro amico scritti fra il 1923 e il 1925) che questo feno-
meno, letto attraverso le coordinate di cui dicevamo precedentemente, trova
in Guardini una originale chiave di lettura. Le lettere, che vanno lette nel loro
insieme, trattano del rapporto tra uomo e tecnica, presentando un pensiero
che si evidenzia come un cammino esperienziale fatto da domande e tentativi
di risposta.
Nella Lettera I l’autore descrive la sensazione di qualcosa che si impone su
di lui e dappertutto: la perdita di una cultura che vede l’uomo inserito armo-
niosamente nella natura e la nascita di un mondo “disumanizzato”. Egli mani-
festa forte sgomento per il decadimento che trova sintetizzato nell’immagine
del paesaggio sul lago di Como, la cui armoniosa e contadina umanizzazione
viene spezzata dalla presenza di una ciminiera, che lui vede, plasticamente,
come segno evidente del progredire della tecnica. Nelle parole «il mondo della
natura compenetrata di umanità è in procinto di tramontare» (Guardini, 1993
[1927], p.13) si comprende bene la tensione e insieme l’angoscia che l’autore
prova nel vedere compiersi un mutamento epocale nella storia umana. L’autore
sostiene che ciò che viene costruito dall’uomo dovrebbe mantenere un legame
con la natura e potrebbe dunque dirsi «naturale», ma egli stesso si accorge che
questa visione va gradualmente perdendosi: quella che appare al suo sguar-
116 Andrea Galluzzi, M. Licia Paglione

do è un’epoca caratterizzata da un uomo che non solo non è più in grado di


rispettare la propria misura naturale, ma va anche sempre più manifestando
la volontà di «stabilire liberamente i propri obiettivi, indipendentemente da
qualsiasi legame organico, sulla base di forze rese libere per mezzo della ragio-
ne e assoggettate alla volontà autonoma per mezzo della macchina» (Guardini,
1993 [1927], p. 89). Da qui la progressiva perdita di autocontrollo da parte
dell’uomo sul potere indottogli dalla tecnica e l’emergere insistente di ciò che
in queste righe abbiamo identificato con il termine impedenza. La domanda es-
senziale dunque è: può l’uomo riprendere in mano il proprio potere? E quale la
strada da percorrere per orientarsi verso questo obiettivo nel disorientamento
della nuova epoca?
È nella lettera IX, l’ultima del carteggio, che avviene per il nostro autore
una svolta decisiva: in quelle righe viene espressa la necessità di una presa di
coscienza in favore dell’umano e l’urgenza di riportare la tecnica al suo ruolo
originario, cioè parte costituente del concreto vivente e motore della sua attività.
La conseguenza di questa svolta è quella di far emergere nell’uomo una nuova
consapevolezza di sé e la scelta di non fuggire la propria epoca ma di tornare
ad impadronirsi della storia: «noi stessi siamo il nostro tempo! Nostro sangue e
nostra anima, questo è il nostro tempo» (Guardini, 1993 [1927], p. 95). E ancora:

Noi però osserviamo che si può aderire ai fatti della storia con libera scelta, con
una vera e propria decisione: perché essa proviene da un cuore che sa. E ciò ha
il suo peso, il nostro posto è nel divenire. Noi dobbiamo inserirvici [...]. A noi è
imposto il compito di dare una forma a questa evoluzione e possiamo assolvere
tale compito soltanto aderendovi onestamente; ma rimanendo tuttavia sensibili,
con cuore incorruttibile, a tutto ciò che di distruttivo e di non umano è in esso. Il
nostro tempo è dato a ciascuno di noi come terreno sul quale dobbiamo stare e ci
è proposto come compito che dobbiamo eseguire (Guardini, 1993 [1927], p. 95).

Affrontare questo compito, il cui esito rimane comunque incerto, richiede


un nuovo atteggiamento, proporzionato alle forze scatenate dalla tecnica. In
particolare, la riflessione dell’autore indica la necessità di una nuova fondazio-
ne culturale che sappia abbracciare il vivente e il suo mondo; che sappia fare
tesoro della nobiltà del passato per farla valere nel presente; che non riduca ma
– al contrario – sia capace di accrescere la tecnica, umanizzandola; che sappia
riportare la cultura alle sue proprie radici, non quelle del sapere ma dell’essere.
Il punto di partenza per realizzare una tale novità culturale è, a parere di
Guardini, la riscoperta dell’interiorità:

Nell’intimo dell’uomo deve scaturire una nuova forza. Essa gli frutterà una libertà
nuova riguardo al mondo, gli offrirà un punto da ricercarsi più in profondità, dove
tutto, entrando in relazione, prenderà significato (Guardini 1993 [1927], p.102).
Umanizzando la tecnica 117

Da questa riscoperta diventerà possibile, nella prospettiva guardiniana, tro-


vare di nuovo la strada per orientarsi oltre le impedenze della tecnica e ritrovare
il senso delle cose e del proprio essere, in una visione globale in grado di ricom-
porre ciò che il progresso della tecnica tende a disgiungere.

Verso il divenire: da un «cuore che sa» una nuova umanizzazione della


tecnica

Con il progresso della tecnica in effetti l’uomo ha teso a disgiungersi, stac-


carsi da ogni legame organico con la natura, seguendo un andamento che Guar-
dini definisce «non-umano» e «innaturale»4, intendendo con questi aggettivi
l’effetto dell’allontanamento da un’armonia generale originaria in cui l’uomo
dominava la natura inserendosi in essa. Da qui la definizione di «uomo-non-u-
mano», riferita all’uomo dell’epoca che si sta affacciando; l’espressione non
allude ad un giudizio morale, ma piuttosto descrive la situazione di chi non
riesce più a fare tesoro dell’esperienza vissuta e – cosa ancora peggiore – non
è padrone del proprio agire. L’uomo-non-umano – scrive Guardini – è «una
struttura storicamente prodotta [...] in cui il campo di esperienza dell’uomo è
fondamentalmente superato dal campo della sua conoscenza e della sua azio-
ne» (Guardini, 1993 [1950], p. 70).
Nonostante i rischi di esiti «non-umani» del progresso tecnico, Guardini
mantiene un’idea carica di speranza. Egli ritiene che il progresso non sia qual-
cosa di negativo, a patto che avanzi senza lasciare indietro la dimensione origi-
naria dell’uomo armonicamente inserito nel proprio ambiente naturale e socia-
le. Ciò diventa a suo parere possibile – come accennato – se l’uomo impara ad
accedere alla propria interiorità e a porre come epicentro del proprio pensare
e agire quello che guardinianamente si direbbe un «cuore che sa» (Guardini,
1993 [1927], p. 95), ovvero la capacità di coniugare razionalità e affettività,
capacità necessaria per esercitare potere sul proprio potere (Guardini, 1993
[1950]). È in questa idea che si può rintracciare la “chiave” per realizzare la
proposta guardiniana sulla questione della tecnica.
Da questa chiave, è possibile evidenziare un aspetto della ricca eredità che
Romano Guardini lascia al dibattito contemporaneo su questo tema, cioè l’idea
della co-essenzialità di tecnica e umanità: la tecnica non è qualcosa di esterno
all’uomo ma parte di lui, “impronta” di una possibilità, di un oltre, di una tra-
scendenza, che lo caratterizza in quanto uomo, parte necessaria per essere dav-
vero e pienamente umano. Guardini nutre profonda fiducia nel fatto che l’uo-
mo del suo tempo si stia preparando a dar concretezza a questa co-essenzialità:
4
  I concetti di umano-non-umano e natura-non-naturale appaiono inizialmente nelle Lettere dal
lago di Como (1993 [1927]), ma verranno approfonditi ed esplicitati da Guardini con maggiore con-
sapevolezza 25 anni più tardi nelle opere: La fine dell’epoca moderna (1993 [1950]) e Il potere (1993
[1951]).
118 Andrea Galluzzi, M. Licia Paglione

Ho la convinzione che una nuova forma ed immagine dell’uomo sia in elaborazione;


diversa da quella della antichità, diversa da quella del Medio Evo. E in particolar modo
fondamentalmente diversa da quella dell’umanesimo, del classicismo e del romantici-
smo. Essa si addice a quel nuovo evento di cui abbiamo parlato. Si conforma alla pro-
fondità umana nella cui venuta riponiamo le nostre speranze. È un tutt’uno con quel
campo nuovo sul quale si svolge la lotta contro le invadenti forze scatenate. E su questo
terreno la battaglia sarà coronata da successo. È a quella profondità ed è in conformità
di quella immagine che il tempo nuovo verrà foggiato (Guardini, 1993 [1927], p. 105).

Con ciò Guardini sembrerebbe lanciare un invito molto simile a quello rin-
tracciabile nella teoria sociologica contemporanea e citato inizialmente: trovare
modi per «tenere aperta la potenza» (Magatti, 2018, p. 212), cioè per riportare
la tecnica al servizio della fioritura dell’umano, avviandola verso un processo di
nuova umanizzazione.

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Life beyond plastic: mobilitazione giovanile e attivazione di buone
pratiche per mitigare l’impatto antropico sull’ambiente

di Evelina Isola, Margherita Porzio, Francesca Santapaola

Gli oceani e i mari ricoprono i tre quarti della superficie terrestre, con-
tengono il 90% della biosfera, svolgono un ruolo fondamentale dal punto di
vista climatico e rappresentano un importante fattore di prosperità economi-
ca e benessere sociale. Tuttavia, oggi sono sempre più a rischio: si stima che,
ogni anno, tra i 5 e i 13 milioni di tonnellate di plastica finiscano negli oceani
del mondo causando l’80% dell’inquinamento marino (Jambeck et al., 2015).
Seguendo questo trend, entro il 2025 gli oceani conterranno una tonnellata di
plastica ogni tre tonnellate di pesce ed entro il 2050 ci sarà, in peso, più plastica
che pesce (Ellen Mac Arthur Foundation, 2017). L’inquinamento marino da
plastica sta assumendo sempre più l’aspetto di una vera emergenza globale,
tanto da essere inserita tra le sei emergenze ambientali più gravi dall’UNEP1.
Allarmanti anche i dati che riguardano il Mar Mediterraneo: la plastica nel
Mare Nostrum rappresenta il 95% dei rifiuti rinvenuti in mare e il Mediterraneo
è classificato come la sesta grande zona di accumulo di rifiuti plastici al mondo
(WWF Italia, 2018). Si tratta soprattutto di plastica che contiene polietilene,
presente in prevalenza negli imballaggi e nei prodotti monouso (Morgana et al.,
2017). Il marine litter2 non solo provoca danni enormi agli ecosistemi marini
(perdita di biodiversità, specie marine a rischio, inquinamento), ma ha un im-
patto economico estremamente negativo per attività come il turismo e la pesca.
A peggiorare la situazione è il continuo aumento della produzione di plastiche
in Europa, a fronte di una percentuale di riciclaggio molto bassa: 31% nel 2017
(PlasticsEurope, 2019).
Sul lato del consumo è l’Italia a detenere primati poco edificanti: utilizzia-
mo 2,1 milioni di tonnellate di plastica per gli imballaggi, secondi in Europa
solo ai tedeschi, e usiamo ogni giorno 32 milioni di bottiglie di acqua minerale,
primi in Europa e tra i primi al mondo (WWF Italia, 2018). Nell’estate 2018
Legambiente ha monitorato 97 rifiuti ogni chilometro quadrato di mare, con
valori più elevati nel Mar Ligure e nello Ionio dove la media raggiunge rispetti-
vamente 122 e 180 rifiuti ogni chilometro quadrato di mare. La percentuale di
plastica varia dall’85 al 97% e il 40% è usa e getta (Legambiente, 2019).
Appare evidente che occorre intervenire con urgenza su diversi fronti, coin-
volgendo tutti gli attori chiave: comunità scientifica, decisori politici, imprese e

1
  United Nations Environment Programme
2
  “Spazzatura marina”, ossia rifiuti persistenti di origine antropica dispersi deliberatamente o
accidentalmente nell’ambiente e che si trovano in mare o lungo le coste
122 Evelina Isola, Margherita Porzio, Francesca Santapaola

cittadini. Un cambiamento verso questa direzione trova sostegno nell’alto livel-


lo di consapevolezza degli italiani sull’impatto negativo della plastica sull’am-
biente (93%). Al momento, tuttavia, tale consapevolezza non si traduce in si-
gnificative modifiche delle abitudini quotidiane: solo il 57% degli intervistati
dichiara di effettuare la raccolta differenziata, mentre appena il 18% ha evitato
di comprare prodotti senza packaging (Eurobarometro, 2017).
È inoltre importante rilevare non solo che per il 96,6% degli italiani la plastica
è ritenuta fondamentale, ma che la quota sale fino a quasi il 100% tra i millen-
nials (18-34 anni), i quali non esitano a riconoscere il ruolo chiave che la plastica
esercita in ambiti decisivi della nostra vita, come la sanità o l’high-tech, con punte
nettamente più elevate rispetto alle altre classi di età. Ed è ancora più significativo
che il richiamo all’impatto ambientale negativo, in caso di abbandono di plastica,
sia più alto tra le generazioni di età più elevata (25,8% tra gli over 65 anni e 21%
tra i 35-64 anni) che tra i millennials (13,5%) (CENSIS, 2018).

Alle radici del problema: il perché e le cause

Le cause del problema sono globali e possono essere riassunte in quattro


ambiti fondamentali: produzione, uso, inadeguata gestione dei rifiuti, modello
di economia lineare.

Produzione smisurata
Si prevede che nei prossimi trent’anni la produzione di plastica cresca ancora
del 70%, restando in linea con una tendenza che ha visto la produzione mondiale
aumentare di venti volte dagli anni Sessanta (Kaza et al., 2018). In questo quadro,
il nostro Paese ha un ruolo da protagonista: l’Italia è infatti il maggior produttore
di plastica tra i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo ed è responsabile del 2%
della produzione mondiale di manufatti in plastica (WWF, 2019). Questo tasso
di produzione è dovuto alla massiccia diffusione della plastica in tantissimi setto-
ri: dagli imballaggi per alimenti, ai cosmetici, fino all’industria tessile.

Uso brevissimo
Materiale economico, versatile, sicuro e leggero, la plastica ha da subito
avuto una rapidissima e straordinaria diffusione, rendendosi in breve ideale per
la produzione di oggetti monouso. Si tratta soprattutto di plastica che contiene
polietilene, presente in prevalenza negli imballaggi e nei prodotti monouso.
Infatti, secondo l’Unione Europea, sono 10 le tipologie di prodotti (monouso)
che da soli rappresentano il 70% dei rifiuti in plastica presenti in mare.

Gestione non adeguata


Gran parte di questa plastica viene dispersa nell’ambiente. A livello globale
circa il 37% dei rifiuti di plastica non è gestito o è gestito male, ossia non è
Life beyond plastic 123

raccolto, è disperso in natura oppure è abbandonato in discariche abusive, in-


quinando il suolo, l’acqua dolce e gli oceani con macro, micro e nanoplastiche
(Corepla, 2018). In Europa, regione virtuosa rispetto ad altre zone del mondo,
vengono prodotti circa 25,8 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica ogni anno.
Meno del 30% di questi rifiuti viene raccolto per essere riciclato, molti finisco-
no in discarica o all’inceneritore (rispettivamente il 31% e il 39%) e una quota
significativa lascia l’Unione Europea per essere trattata in Paesi terzi, in cui
possono essere applicate differenti norme ambientali (Morgana et al., 2017). In
Italia il sistema non è completamente efficiente: nel 2017, la frazione di plastica
da imballaggi non idonea al riciclo è stata del 38% (più di 500 mila tonnellate),
di questa percentuale più dell’80% è stata destinata al recupero energetico (ter-
movalorizzatori o cementifici in Italia e all’estero) e circa il 20% è stata avviata
alla discarica (Corepla, 2018).

Mercati secondari insufficienti


Il costo elevato del processo di riciclo e la sua complessità ostacolano l’af-
fermarsi di un modello di economia circolare nella filiera delle materie plasti-
che. Un’altra criticità è rappresentata dal fatto che la maggior parte dei ma-
teriali plastici riciclati sono di qualità inferiore rispetto alla plastica vergine e
quindi vengono commercializzati a un prezzo inferiore, questo a fronte di un
alto costo di tutto il processo. La possibilità di dare seconda vita alla plastica
in maniera più redditizia ed efficiente è in gran parte legata al miglioramento
della qualità della plastica riciclata, ma anche alla possibilità di immettere nel
sistema plastica di “qualità”.

Criticità nel Mediterraneo

I rifiuti spiaggiati, la plastica in mare, il turismo e il traffico marittimo sono


gli agenti che esercitano la pressione maggiore sul Mediterraneo. Nessuno è
in grado di dire esattamente quanta plastica finisca in mare, ma si stima che,
ogni anno, tra i 5 e i 13 milioni di tonnellate di plastica – dall’1,5 al 4% del-
la produzione mondiale – finiscano negli oceani del mondo causando l’80%
dell’inquinamento marino. Nel Mediterraneo, i Paesi orientali rappresentano
il fanalino di coda nella gestione dei rifiuti, causando il maggior apporto di
plastica in mare. In Italia le zone più critiche sono la costa di Venezia vicina al
delta del Po e la Sicilia. Il Po, insieme al Ceyhan e Seyhan in Turchia e al Nilo, è
tra i fiumi più contaminati del Mediterraneo e da solo porta 1.350 tonnellate di
plastica nell’Adriatico ogni anno (Liubartseva et al., 2018). I rifiuti portati dal
fiume si sommano a quelli generati dalle intense attività marittime e turistiche
di Venezia.
Dall’altra parte della Penisola, le cose non sono molto diverse: tra l’Isola
d’Elba e la Corsica l’Institut français de recherche pour l’exploitation de la mer
124 Evelina Isola, Margherita Porzio, Francesca Santapaola

ha individuato, un “Garbage patch”, simile a quelli negli Oceani Atlantico e


Pacifico. A differenza di queste, “l’isola di plastica” del Tirreno ha una forma-
zione “periodica”, in quanto le correnti del Mar Mediterraneo hanno un anda-
mento stagionale che ne causa la formazione e il disfacimento. Alcune zone di
questo ammasso contengono più di 1,25 milioni di frammenti di plastica per
km2. Altre zone critiche per il nostro Paese sono i grandi porti commerciali,
dove si trovano grandi concentrazioni di rifiuti; due esempi sono il Golfo di
Napoli e il porto della città di Ancona.

Cambiare paradigma: verso una soluzione

In pochi anni, decine di Paesi in tutto il mondo hanno adottato politiche


per ridurre l’uso di plastica usa e getta. A questo cambio di rotta ha certamente
contribuito l’impegno delle Nazioni Unite, che hanno posto la lotta alla plastica
monouso tra le proprie priorità a partire dal 2018.
In Europa, infatti, è entrata in vigore il 2 luglio 2019 un’importante diret-
tiva (Parlamento Europeo, 2019) contrastare il problema della plastica usa e
getta, che gli Stati hanno due anni per recepire. La disposizione è frutto della
European Strategy for Plastic in a Circular Economy, primo documento strate-
gico che fornisce linee di indirizzo su come trasformare, in ottica di economia
circolare, tutta la filiera della plastica. La direttiva europea è ambiziosa e in-
troduce alcuni elementi importanti anche dal punto di vista concettuale, come
per esempio una maggiore responsabilità da parte dei produttori per quanto
riguarda i costi di rimozione dei rifiuti. Vengono inoltre banditi alcuni prodotti
in plastica monouso per cui esistono alternative in commercio: bastoncini co-
tonati, posate, piatti, cannucce, mescolatori per bevande, aste per palloncini,
ma anche tazze, contenitori per alimenti e bevande in polistirene espanso e tutti
i prodotti in plastica oxodegradabile. Per le bottiglie di plastica sono previsti
obiettivi specifici: la raccolta separata delle bottiglie di plastica del 90% entro
il 2029 (77% entro il 2025), l’introduzione di prescrizioni di progettazione per
garantire che i tappi rimangano fissati alle bottiglie, l’obbligo di integrare per-
centuali crescenti di plastica riciclata nelle bottiglie nuove. Sono anche previste
campagne di comunicazione, misure per ridurre il consumo di contenitori per
alimenti e tazze per bevande in plastica ed etichettature obbligatorie per pro-
dotti come filtri di sigaretta, bicchieri di plastica, assorbenti e salviette umidi-
ficate, per informare i consumatori sugli impatti negativi in caso di abbandono
nell’ambiente e dare indicazione sul corretto smaltimento. Secondo i dati diffu-
si dalla Commissione europea, grazie alla nuova direttiva, si trarranno benefici
ambientali ed economici, così quantificabili: si eviterà l’emissione di 3,4 milio-
ni di tonnellate di CO2 equivalente; si ridurranno danni ambientali per un costo
equivalente pari a 22 miliardi di euro entro il 2030; si genereranno risparmi per
i consumatori pari a circa 6,5 miliardi di euro.
Life beyond plastic 125

Ma il cambio di paradigma non deve avvenire soltanto a livello giuridico


e amministrativo: anche la gestione ambientale deve diventare di primaria im-
portanza nella difesa dall’inquinamento da plastica. Uno dei mezzi di conser-
vazione più efficaci degli habitat marini sono le aree protette: la creazione di
sistemi di protezione efficaci ed equamente gestiti dovrebbe essere perseguita
in modo sistematico dai governi di ogni Stato costiero. Infatti, l’Italia e il suo
mare sono un elemento prezioso non solo dal punto di vista strettamente am-
bientale, ma anche per importanti attività economiche come il turismo e la
pesca. Le Aree Marine Protette favoriscono e promuovono la ricerca, il turismo
sostenibile e valorizzano luoghi di interesse nazionale contribuendo a mantene-
re e conservare processi ecologici essenziali, tutelare la biodiversità e assicurare
un uso sostenibile delle risorse. La loro istituzione garantisce il monitoraggio di
specie e habitat, contribuisce a minimizzare l’impatto ambientale della nautica
da diporto e favorisce un aumento nella disponibilità delle risorse ittiche, con
benefici che vanno ben al di là dei loro confini.

Il progetto “Life beyond plastc”: finalità, destinatari e risultati attesi

Il progetto Life Beyond Plastic è finanziato dall’Agenzia Italiana per la Co-


operazione allo Sviluppo e realizzato da Istituto Oikos in collaborazione con
Caretta Calabria Conservation, Comune di Milano, Cooperativa Demetra On-
lus, HelpCode Italia, Ingegneria Senza Frontiere Milano, Mani Tese Campania,
Mani Tese Sicilia, Mondadori Scienza Spa – Rivista Focus, MUSE – Museo
delle Scienze di Trento, Università degli studi di Milano-Bicocca.
Il progetto vuole dare un contributo concreto alla lotta all’inquinamento
marino, che costituisce uno dei target principali (14.1) dell’Obiettivo 14 dell’A-
genda 2030 dell’ONU per lo Sviluppo Sostenibile, attraverso azioni di sensibi-
lizzazione e mobilitazione giovanile ed esperienze pilota volte alla prevenzione
e riduzione di rifiuti, soprattutto di plastica. La strategia si basa su tre dinami-
che di cambiamento che concorrono sinergicamente al raggiungimento di un
obiettivo comune: modificare i comportamenti individuali e collettivi per miti-
gare l’impatto antropico sull’ambiente e contribuire a ridurre l’inquinamento
dei mari (SDG14, target 14.1).
Possiamo identificare tre dinamiche d’intervento:
Changing schools.
Changing individuals & communities.
Changing practices.
La prima ha come obiettivo avviare un cambiamento concreto nelle scuole
attraverso iniziative di educazione alla sostenibilità e di cittadinanza attiva ri-
volte a studenti e insegnanti. Con il secondo ambito si vuole intervenire sull’o-
pinione pubblica (con un focus particolare sui giovani 18-35 anni), attraverso
azioni di sensibilizzazione e mobilitazione su consumo responsabile e parteci-
126 Evelina Isola, Margherita Porzio, Francesca Santapaola

pazione civica. L’ultimo ambito di intervento interessa enti pubblici e aziende


private con attività di analisi e sperimentazione finalizzate all’adozione di poli-
tiche e pratiche di riduzione della plastica.
I tre campi di intervento individuano quattro target, ciascuno con i propri
obiettivi raggiungibili con azioni ad hoc:
Studenti (10-18) e insegnanti/educatori acquisiscono maggiore consapevo-
lezza sul tema dello sviluppo sostenibile (Agenda 2030) e sulla necessità di pre-
servare le risorse marine (SDG 14) mobilitandosi in azioni di cittadinanza re-
sponsabile volte a ridurre il consumo di plastica all’interno di scuola e territorio.
Giovani (18-35) acquisiscono maggiore consapevolezza sull’impatto del
loro stile di vita e sono maggiormente predisposti a modificare la propria per-
cezione e comportamento di consumo con particolare riferimento ai prodotti
monouso di plastica e agli imballaggi.
I decisori politici acquisiscono maggiori competenze sull’impatto del loro
sistema di procurement e si fanno promotori di politiche e pratiche di riduzione
della plastica presso enti e territorio.
Imprenditori (in particolare gli organizzatori di grandi eventi in spiaggia), si
convincono che la sostenibilità ambientale è un obiettivo d’impresa e adottano
sistemi di prevenzione e riduzione dei rifiuti nell’erogazione dei loro servizi.

Target 1
Con la prima azione, in sinergia con l’Agenda 2030 e la Strategia Nazio-
nale ECG, si intende sollecitare nei giovani non solo una riflessione condivisa
sulle criticità dell’attuale modello di sviluppo, ma soprattutto incoraggiare a
contribuire in prima persona alla costruzione di una società aperta, sostenibile
e inclusiva, in un’ottica di appartenenza e partecipazione. Per tale motivo gli
studenti verranno esortati a mobilitarsi e mobilitare i loro coetanei attraverso
iniziative territoriali, organizzate da loro stessi, volte a promuovere modelli di
consumo più sostenibili, offrendo così opportunità concrete di sperimentare
le competenze di cittadinanza attiva acquisite nei percorsi ECG (PlasticLess
Heroes), in un’azione cooperativa con il territorio e la comunità scolastica (rete
PlasticLess Schools).
In questo ambito è stato sviluppato un kit didattico online gratuito a dispo-
sizione della comunità docente e studentesca, dal titolo “Il mare in classe” e
fruibile sul sito dell’Istituto: https://www.istituto-oikos.org/mareinclasse.

Target 2
Le azioni di public awareness ed engagement, che mirano ad aumentare la
consapevolezza e generare un cambiamento orientato alla riduzione di ogget-
ti di plastica monouso, sono concepite in maniera integrata e multicanale in
modo da coinvolgere un pubblico vasto ed eterogeneo: uniscono infatti con-
tenuti multimediali (sito web, video, mobilitazione digitale) a manifestazioni e
incontri (mostra, performances artistiche, eventi divulgativi).
Life beyond plastic 127

Target 3 e 4
Oltre ad agire sulla conoscenza e sui comportamenti, grazie al coinvolgi-
mento di enti pubblici e soggetti privati, il progetto si fa promotore di analisi
d’impatto e azioni pilota (riduzione di plastica in uffici pubblici e in grandi
eventi) che mostreranno come diversi attori possano contribuire e avviare pra-
tiche volte al cambiamento. I risultati relativi ai vantaggi economici e ambien-
tali derivanti da tali sperimentazioni verranno diffusi attraverso momenti di
scambio e confronto (linee guida, workshops, un convegno), promuovendone
l’adesione presso altri stakeholders in un’ottica di replicabilità.

Risultati attesi
Dinamica d’intervento Indicatori
Changing schools Almeno 2.000 studenti (10-18) aumentano le proprie
competenze sul tema del marine litter e si fanno pro-
motori di iniziative territoriali a tutela dell’ambiente e
delle risorse marine
Changing individuals and communities Almeno 1.000.000 di giovani (18-35) sono resi maggior-
mente consapevoli da una campagna nazionale sull’in-
quinamento marino e incoraggiati verso modelli e stili
di consumo sostenibili in grado di mitigare l’impatto
antropico sull’ambiente
Changing practices Rafforzate competenze di enti pubblici e soggetti priva-
ti che, attraverso il coinvolgimento in processi di analisi
di impatto ambientale, adottano pratiche di riduzione e
riuso limitando l’inquinamento generato dalle materie
plastiche

Considerazioni conclusive

Negli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile la plastica non è citata in maniera


esplicita, ma il primo dei traguardi dell’SDG 14 punta alla prevenzione e ri-
duzione di ogni forma di inquinamento marino, con particolare riferimento a
quello legato alle attività terrestri: tra questi la plastica ha un ruolo da protago-
nista. Perché improvvisamente aziende e governi sono così attivi nel contrasta-
re l’emergenza plastica? Un ruolo molto importante è giocato dalla crescente
attenzione delle persone per le tematiche ambientali.
In tutti i Paesi l’inquinamento da plastica è il risultato di fallimenti nel suo
complesso ciclo di vita: dalla produzione al consumo, dalla gestione dei rifiuti
ai mercati secondari per il riciclo. Per cambiare sono necessari forti investimen-
ti pubblici e privati e, anche se alcune soluzioni e pratiche sono già disponibili,
queste dovranno essere condivise e ampliate per massimizzarne l’impatto. La
partecipazione e la mobilitazione di tutti è fondamentale: governi, industria e
cittadini devono assumersi le proprie responsabilità e collaborare per costruire
128 Evelina Isola, Margherita Porzio, Francesca Santapaola

un modello efficiente di economia circolare in cui la plastica non necessaria-


mente venga evitata, ma smetta di diventare un rifiuto.
Cittadini più sensibili ed esigenti significa elettori e consumatori con il po-
tere di influenzare le decisioni di governi e imprese verso scelte più sostenibili.
Anche a livello locale e individuale, ciascuno può fare scelte rispettose dell’o-
ceano: piccoli cambiamenti nella vita quotidiana, se portati avanti con costanza
dalla collettività, portano a trasformazioni efficaci. Nel cambiare le proprie abi-
tudini in un’ottica di riduzione del consumo di plastica è importante ricordarsi
che l’ottica da adottare è quella della conversione verso un modello di econo-
mia circolare, che eviti quanto più possibile ogni formula di “usa e getta”, di
qualsiasi materiale si tratti.
Il progetto Life Beyond Plastic intende contribuire a un vero cambiamento
culturale a favore di modelli e pratiche di consumo più sostenibili in particolare
tra i millennials e i giovanissimi, intercettandoli in contesti di vita quotidiana
(comunità, scuola, tempo libero e luoghi di lavori) e coinvolgendo enti pubbli-
ci e privati in uno sforzo congiunto a favore della prevenzione e riduzione di
rifiuti.

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Politiche di mitigazione e partecipazione.
Dall’impatto ambientale del digitale a Ecosia

di Stefano Oricchio1

Ritorno al futuro: un’assenza sorprendente

È il 21 ottobre 2015 e Marty McFly, il protagonista della celebre trilogia


cinematografia intitolata Ritorno al futuro, è appena sbarcato in quello che per
un adolescente degli anni Ottanta come lui rappresenta un avvenire tutto da
esplorare2. Per noi, invece, si tratta ormai di un passato prossimo che consente
un breve confronto tra l’immaginario del futuro che dominava quegli anni e
la storia recente. A stupire, in questa comparazione, non è tanto la presenza
ingombrante di tecnologie che nel mondo attuale, se esistono, sono appena
dei prototipi (le scarpe auto-allaccianti, il “volopattino”, l’idratatore di cibi, le
auto volanti), bensì l’assenza quasi totale di dispositivi digitali connessi in Rete:
a eccezione di una scena in cui si assiste a una sorta di videochiamata, nel 2015
del film nessun personaggio china il capo su uno schermo come oggi fa pres-
sappoco chiunque. Il futuro immaginato nel film è divertente e suggestivo ma
anche molto pesante e materiale se rapportato al nostro presente in cui le prin-
cipali cinque aziende del mondo non vendono auto, bevande o abbigliamento
bensì dati e informazioni (cfr. Mosco, 2017). Per scelta o per errore, il film di
Zemeckis ha messo in scena una società futura ben diversa dalla cosiddetta era
dell’informazione (Castells, 2010), nella quale a essere centrale non è la mate-
rialità delle automobili volanti bensì un processo apparentemente immateriale
come la comunicazione digitale.

Ritorno al presente: un problema in-aspettato

Sin dai suoi albori, la digitalizzazione ha nutrito grandi aspettative nei con-
fronti di un mondo nuovo e immateriale. Molto a lungo si è creduto che il di-
gitale, spezzettando, codificando e comprimendo l’informazione, la affrancasse
definitivamente dai supporti fisici che sino ad allora le erano necessari. Libri,
quaderni, calendari, dischi, orologi, calcolatori, termometri, radio, telefoni e
televisori sarebbero dunque spariti dalle nostre case per convergere (Jenkins,
2007) e integrarsi in un unico apparecchio, dapprima fisso e poi portatile, con

1
  Università della Calabria – Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali. E-mail: stefano.oric-
chio@unical.it.
2
  Ritorno al futuro – Parte II. Regia di Robert Zemeckis. 1989; USA: Universal Pictures.
132 Stefano Oricchio

tutti i vantaggi del caso: dalla leggerezza per la trasportabilità al risparmio di


spazio, materia ed energia. Tuttavia, sebbene tale de-materializzazione sia ef-
fettivamente riscontrabile (fig. 1), lo è solo fino a un certo punto, oltre il quale
essa si eleva a mito, come nel caso dell’ufficio senza carta, un progetto mai com-
piutamente realizzato sia per ragioni economiche che culturali (Sellen, Harper,
2002).

Fig. 1 – Frame da un video di Doug Thomsen in cui si rappresenta il processo di convergenza e ri-me-
diazione degli strumenti comunemente presenti su una scrivania. https://www.ilpost.it/2014/10/03/
evoluzione-scrivania-1980-oggi/

Di recente, inoltre, la retorica sull’immaterialità della società digitale sta rivelan-


do il suo carattere mitologico anche sul fronte decisivo della sostenibilità ambien-
tale. Dopo una lunga infatuazione ecologico-digitale che ancora caratterizza ampie
fasce della popolazione e delle istituzioni politico-culturali, da qualche anno si sus-
seguono studi e ricerche che, pur discordando spesso sulle cifre esatte, eviden-
ziano come la Rete, a dispetto della sua presunta immaterialità, presenti un costo
ambientale molto alto dovuto al funzionamento della sua immensa infrastruttura
fisica, tutt’altro che immateriale (cfr. Sissa, 2008; Chan et al., 2013; Andrae, Elder,
2015; Belkhir, Elmeligi, 2018; Pirina, 2019). Contrariamente al guidare un’auto o
al fare una lavatrice, accendere il PC o usare lo smartphone sembrano gesti eco-
logicamente neutri, eppure i problemi ambientali imputabili a essi e alla loro con-
nessione sono i più svariati – dal consumo energetico alle conseguenti emissioni di
CO2, dall’estrazione e trattamento di minerali pericolosi all’accumulo incontrollato
di rifiuti elettronici – e coinvolgono ogni nodo della Rete, che siano i mastodontici
data center dei colossi del Web o i dispositivi del singolo ed ignaro utente.
Il lavoro svolto dai nostri dispositivi non si vede ma esiste: occorre ricor-
darsi che «la materialità delle tecnologie mediali (…) rappresenta un vincolo
Politiche di mitigazione e partecipazione 133

costitutivo ineludibile, per cui l’immaterialità è sempre parziale e mai comple-


tamente realizzabile» (Pellegrino, 2018) e che dunque «l’onere computazionale
è sempre altrove»3. L’entità del problema è tale che si assiste, parallelamente
allo sviluppo oramai pluridecennale del Green IT (cfr. Murugesan, 2008), alla
ristrutturazione in senso ecosostenibile della Rete stessa – il cosiddetto Green
Web, il cui obiettivo è proprio quello di abbattere le emissioni derivanti dal
funzionamento e dall’utilizzo pervasivo di Internet (Greenpeace, 2017). La via
più logica e semplice per assolvere a questo compito cruciale sta nella transizio-
ne verso le fonti energetiche rinnovabili per alimentare i propri data center, una
strategia che Google, ad esempio, dichiara di attuare già da tempo4.

Navigare per riforestare: una soluzione in-attesa?

Non stupisce che il motore di ricerca per eccellenza, appartenente a una


delle aziende più potenti del mondo, abbia immediatamente colto la necessità
di limitare il proprio impatto ambientale, anche solo per ragioni di marketing.
Ciò che può meravigliare è piuttosto che il Green Web sia stato portato su
tutt’altro livello da un motore di ricerca assai più piccolo e modesto: Ecosia5.
Offerto da un’omonima impresa sociale tedesca, questo strumento, che resti-
tuisce risultati di ricerca del tutto adeguati e molto simili a quelli di Google,
permette agli utenti di piantare alberi mentre navigano sul web. L’azienda in-
fatti, dopo aver monetizzato gli annunci sponsorizzati su cui gli utenti hanno
cliccato, devolve mensilmente l’80% dei suoi profitti a una serie di associazioni
partner che implementano progetti di riforestazione in svariati Paesi. Oltre ad
alimentare la propria infrastruttura con energie rinnovabili, fornendo quindi
un servizio online carbon-neutral, Ecosia contribuisce a sequestrare dall’atmo-
sfera quote in eccesso di CO2 grazie all’azione ecosistemica degli alberi piantati.
In questo modo, il motore di ricerca tedesco va ben oltre la semplice compen-
sazione delle proprie emissioni e diventa addirittura carbon-negative: in soli
dieci anni (dicembre 2009 – dicembre 2019) sono stati infatti piantati più di 80
milioni di alberi. Una cifra tutt’altro che irrisoria, anzi, decisamente rilevante
e in costante aumento (il contatore sulla homepage aggiunge al computo un
albero ogni 0,8 secondi)6, che attesta la capacità dei media digitali di influire
sull’ambiente fisico al punto da creare una “natura 2.0” (cfr. Büscher, 2014).
Proprio per questo, da qui in poi, non discuteremo in termini quantitativi
dell’impatto ambientale di questo strumento (operazione eccessivamente com-
plessa e probabilmente inutile perché – oltre alle troppe e incerte variabili da
3
 @eschatonit, 3 ottobre 2019: https://www.facebook.com/eschatonit/posts/2551649418191589.
Ultimo accesso il 10 gennaio 2020.
4
 Google, “Energia rinnovabile”: https://www.google.com/about/datacenters/renewable/?hl=it.
5
  https://www.ecosia.org/
6
  Ecosia, “Perché non piantare alberi mentre fai le tue ricerche su Internet?”: https://info.ecosia.org/what
134 Stefano Oricchio

considerare, come l’età e la durata degli alberi piantati – ci sono delle evidenti
contraddizioni relative, per esempio, al finanziamento della riforestazione at-
traverso proventi pubblicitari con cui Ecosia favorisce il sistema di produzione
e di consumo responsabile dell’attuale crisi ambientale; inoltre, il diffuso uti-
lizzo di software anti-pubblicitari rischia di vanificare l’intero progetto). D’ora
in avanti, piuttosto, utilizzeremo Ecosia come un pretesto per considerare la
questione della partecipazione alle politiche ambientali di mitigazione.

Materializzare per partecipare: una soluzione dis-attesa?

Nel complesso e variegato mondo delle politiche ambientali, quelle di mi-


tigazione rappresentano forse la categoria oggi più importante in quanto diret-
tamente rivolta al problema più esteso, grave ed impellente da contrastare: il
cambiamento climatico. Discusse a livello internazionale a partire dalla Con-
ferenza di Rio (1992), le strategie di mitigazione hanno conosciuto un enorme
sviluppo in questi tre decenni, andando a interessare diversi settori e concretiz-
zandosi in una gran varietà di pratiche e tecnologie (fig. 2).

Fig. 2 – Tassonomia delle politiche di mitigazione, a cura dell’Università del Salento


http://www.ecologicacup.unile.it/index.php/2016-06-14-11-00-23/elenco-tematiche/19-cambiamen-
ti-climatici?showall=&start=10
Politiche di mitigazione e partecipazione 135

Data la numerosità e la complessità di questi processi, è chiaro che essi


abbiano mobilitato non solo politici ma anche e soprattutto scienziati, inge-
gneri, tecnici, attivisti, giornalisti, commercianti e persone comuni che hanno
visto letteralmente entrare nelle loro case i nuovi dispositivi ambientali (dalla
lampadina a risparmio energetico al pannello solare, passando per i detersivi
biodegradabili ai bidoni per la raccolta differenziata). Forse più di altri ambiti,
quello delle politiche ambientali di mitigazione testimonia la proliferazione de-
gli ibridi a cui Bruno Latour ha dedicato gran parte del suo lavoro intellettuale
per dimostrare l’artificiosità della distinzione natura-cultura e i rischi epistemo-
logici e politici connessi a questa separazione tutta moderna (cfr. Latour, 1995;
Latour, 2000) di cui la crisi climatica rappresenta uno dei tanti fallimenti. È
opportuno ricordare che, affinché abbiano un margine di successo, le politiche
ambientali necessitano della partecipazione del pubblico (Bagliani, Dansero,
2011). Questa rappresenta un classico oggetto della teoria politica che, tra-
dizionalmente e con le dovute eccezioni, si è perlopiù concentrata sui modi
informazionali, discorsivi e relazionali con cui una comunità può affrontare un
problema (alcuni esempi in fig. 3).

Fig. 3 – Scala della partecipazione pubblica, a cura della International Association for Public Participation

Più recentemente – a fronte di sviluppi tecnologici che, come abbiamo vi-


sto all’inizio, sono stati inimmaginabili persino per la fantascienza – sta però
emergendo un dibattito impostato sulla partecipazione materializzata, ovvero
sulla partecipazione degli oggetti e delle persone attraverso di essi. A partire
136 Stefano Oricchio

dallo stesso Latour e dal suo progetto di rivalutazione degli attori non-umani si
è infatti sviluppato un intero filone sociologico e filosofico incentrato sulle cose,
dall’Ontologia Orientata agli Oggetti di Graham Harman agli studi sulla mora-
lità degli artefatti tecnologici (Verbeek, 2011), il cui esito per noi più rilevante
si trova nel lavoro di Noortje Marres incentrato proprio sulla partecipazione
materializzata alla questione ambientale (Marres, 2015). Tutti i dispositivi ambien-
tali citati sopra, e più in generale tutte le merci riconducibili alla green economy,
rappresentano in effetti degli artefatti o dei procedimenti che, incorporando delle
soluzioni tecniche in grado di diminuire il loro impatto ambientale o quello di altre
merci, permettono all’utente di “fare qualcosa” per l’ambiente e così partecipare
alla questione ambientale senza impegnarsi politicamente ma semplicemente svol-
gendo azioni quotidiane come accendere una lampadina a basso consumo. «Invece
di cercare di aumentare la conoscenza del pubblico delle problematiche ambientali,
queste iniziative si basano sull’ azione e sull’impatto – su ciò che le persone possono
fare per i problemi in questione» (Marres, 2015, TdA).
È chiaro dunque che la partecipazione materializzata presenti delle notevoli
differenze rispetto a quella classica, discorsiva e informazionale. Quest’ultima,
infatti, costituisce un modello particolarmente laborioso che, oltre alle sue già
impegnative forme istituzionali (fig. 3), può declinarsi anche nei termini conflit-
tuali della militanza e della contestazione, ancor più complessi e rischiosi. La par-
tecipazione materializzata, invece, si presenta come una delega a un artefatto, un
semplice e pacifico atto di consumo accessibile anche a chi non ha tempo o modo
di dedicarsi alla cosa pubblica. Ciò comporta il rischio, assai attuale, che la par-
tecipazione ambientale si svuoti di significato politico diventando una questione
privata tra le altre. Tuttavia, le tecnologie partecipative non sono tutte uguali. In
esse intervengono due variabili fondamentali: il costo e l’impegno (in termini di
tempo o di competenze) richiesto all’utente. Differenziare i rifiuti domestici, per
esempio, è un’operazione il cui costo – espresso dalla tassa sulla nettezza urbana
– è in costante aumento ed è inoltre abbastanza impegnativa a cause delle diverse
regole che la caratterizzano. Una lampadina LED o un sapone biodegradabile
non implicano invece alcun impegno per il consumatore e hanno un costo solo
leggermente superiore rispetto agli equivalenti tradizionali. Un pannello solare,
infine, comporta un grosso investimento iniziale e un elevato impegno tra instal-
lazione e manutenzione. Presumibilmente, le tecnologie partecipative più costose
e impegnative saranno quelle che porteranno più spesso l’utente a riflettere sul
senso ecologico delle proprie scelte e azioni, mentre quelle più semplici ed eco-
nomiche difficilmente indurranno tale consapevolezza. Dal punto di vista edu-
cativo, dunque, uno strumento totalmente gratuito ed estremamente semplice
come Ecosia non rappresenta una tecnologia partecipativa particolarmente vali-
da ai fini della sensibilizzazione ambientale. Anzi, in essa si annidano le tendenze
più tipiche e contraddittorie dell’attivismo digitale, dallo slacktivism (Schumann,
2015) all’internet-centrismo (Morozov, 2014). Con un gioco di parole si potrebbe
quindi dire che utilizzare un motore di ricerca ecologico resta un’attività troppo
Politiche di mitigazione e partecipazione 137

immateriale per mitigare i pericoli ambientali connessi alla presunta immateria-


lità della società dell’informazione. Ci sono tuttavia alcune caratteristiche che
distinguono Ecosia da altri casi di partecipazione materializzata e che sembrano
presentare opportunità molto interessanti piuttosto che ulteriori criticità.

Ritorno al passato: una speranza da coltivare per il futuro

Innanzitutto, il modo in cui Ecosia, inteso come tecnologia partecipativa


nell’ambito della silvicoltura, viene finanziata. Se è vero che il finanziamento da
proventi pubblicitari rischia di annullare gli effetti ambientali diretti – al punto che,
metaforicamente, per ogni albero piantato potremmo trovarci una busta di pla-
stica in più nel mare – esso rappresenta non di meno un modello alternativo. Nei
dispositivi partecipativi domestici discussi sopra, infatti, il costo ricade unicamente
sul consumatore, mentre i grandi impianti di mitigazione elencati in fig. 2 (centrali
energetiche, trasporti su rotaia, centri trattamento rifiuti, ecc.) sono finanziati dal
settore pubblico o da grandi aziende. Con Ecosia, invece, è un insieme di privati
(gli inserzionisti) a scegliere di pagare la propria pubblicità sfruttando un cana-
le sostenibile: una sorta di crowdfunding attraverso cui attuare collettivamente un
principio di corporate social responsability che diventa addirittura il core business
del motore di ricerca ecologico. Il valore generato dalla comunicazione online vie-
ne così devoluto per una causa sociale, piuttosto che investito privatamente. L’esito
finale, ovvero il territorio riforestato, rappresenta allora il risultato di un lavorìo
reticolare che – pur caratterizzando, come già detto, tutte le politiche ambientali –
qui diventa ancora più complesso, diffuso e partecipato.
Ecosia rappresenta dunque un’innovativa rete socio-tecnica ibrida, compo-
sta da attanti umani e non-umani: tra i primi troviamo gli utenti, gli inserzioni-
sti, lo staff di Ecosia, i suoi partner tecnico-commerciali e il personale delle as-
sociazioni che attuano la riforestazione; tra i secondi, invece troviamo i grandi
protagonisti del nostro presente e del futuro, ovvero i dispositivi e l’infrastrut-
tura digitale che mediano i rapporti nella rete umana ma, soprattutto, gli alberi.
È su quest’ultimo elemento, decisamente meno innovativo e futuristico, che si
gioca il significato eco-politico di Ecosia, facilmente comprensibile quando si
ricorre agli strumenti della critica del valore (cfr. Jappe, 2013; Jappe, Latouche,
2014): contrariamente agli altri dispositivi della green economy – che incor-
porano una gran quantità di tecnologia, lavoro umano e di valore di scambio,
contribuendo così a ulteriori emissioni – Ecosia rappresenta un dispositivo po-
litico in cui un’infrastruttura tecnologica già esistente viene messa a servizio
dell’ambiente e non di altra tecnologia. In quanto elemento naturale, l’albero
non richiede lavoro umano o tecnologico per svilupparsi; produce un valore
d’uso essenziale senza produrre valore di scambio; assorbe CO2 piuttosto che
emetterla; è una tecnologia da coltivare, guardando al passato per costruire un
futuro sostenibile.
138 Stefano Oricchio

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Biohacking device e transumanesimo
Umani aumentati tra fiction e realtà

di Grazia Quercia

L’immaginario legato all’innovazione tecnologica si è espresso, storicamen-


te, in forme diverse. Il fantasticare su una realtà possibile è stato il filo rosso che
ha accomunato per un lungo periodo la produzione letteraria, facendo nascere
storie come Frankenstein, i racconti steampunk, per poi consolidarsi durante
il complesso periodo degli anni Ottanta. La decade è stata caratterizzata dalla
commercializzazione di tecnologie innovative che aprivano la porta a futuri
fino ad allora inconcepibili.
I “grandiosi anni Ottanta” (a detta di Umberto Eco, 2000), sono caratte-
rizzati dalla digitalizzazione e, per questo, introducono l’idea della macchina
come destinatario dell’atto comunicativo, oltre all’elemento dell’interattività
dei dispositivi (Ciofalo, 2011). Il movimento cyberpunk si concretizza e tocca
il proprio apice in quest’epoca, in cui la tecnologia digitale inizia a cambiare le
abitudini dei soggetti, interpretandone sogni, paure, speranze o, concretamen-
te, individuarne possibilità.
Il cyberpunk è un movimento letterario che esplora le ramificazioni dell’e-
sperienza tecnologica, nonché un prodotto di paraletteratura di genere fan-
tascientifico. Nonostante fosse un puro fenomeno commerciale destinato a
un mercato di massa, il filone letterario ha fornito una visione avanguardista
della tecnologia, riconoscendone l’influenza e la potenza, assumendo quindi
una posizione prettamente anti-umanista. Mentre il racconto di finzione ha
sempre espresso il dualismo uomo/natura nell’ottica umanista, il cyberpunk
ha distrutto tale dualismo per fondere gli elementi e porre al centro il rapporto
uomo-macchina: elemento distintivo è la fascinazione della tecnologia e degli
effetti che può avere sull’umanità, spesso privi dell’ansia modernista, ma pie-
ni della fiducia post-modernista (Hollinger, 1990). Bruce Sterling riassume il
caposaldo del movimento letterario in un’espressione significativa: «La distru-
zione portata all’essere umano dalla tecnologia non porta a futuristici zombie
ma a speranzosi mostri» (Sterling, 1987). Capostipite è la Trilogia dello Sprawl
(1984-1988) di William Gibson: è ambientata in un futuro vicino in cui domi-
nano multinazionali, mentre l’economia è dominata dal mercato nero, nel con-
testo di una danza degli affari che prevede la costante circolazione di dati. La
tecnologia ha pervaso l’uomo con chip per il collegamento diretto al cyberspa-
zio in cui svolgere la danza, oppure personalità salvate su schede di memoria.
Il tema del corpo tecnologico è quindi centrale dei romanzi di finzione, ma
soprattutto di riflessione sociologica. Hassan (1977) afferma infatti che:
140 Grazia Quercia

Per prima cosa dobbiamo comprendere che la forma umana – inclusi i desideri
umani e tutte le sue rappresentazioni esterne – possono cambiare radicalmente
[…] Dobbiamo capire che cinquemila anni di umanesimo potrebbero arrivare ad
una fine, nel momento in cui si trasforma in qualcosa che dobbiamo senza dubbi
chiamare post-umanesimo.

Il connubio tra l’uomo e la macchina è spesso rappresentato dall’umanizza-


zione delle macchine, o, nella declinazione che interessa questo studio, dall’in-
vasione di parti tecnologiche nel corpo umano, come arti artificiali, circuiti
impiantati e alterazioni genetiche, nonché l’invasione della mente umana attra-
verso tecniche che ridefinisco la natura del sé (Sterling, 1988). La stessa radice
cyber- proviene dal termine cibernetica coniato nel 1948: per Norbert Weiner,
la cibernetica comprendeva la mente umana, il corpo umano e il mondo delle
macchine automatiche e cercava di ridurre tutti e tre al comune denominatore
del controllo e della comunicazione (Weiner, 1948).
Il concetto di cyber e l’ondata di fantascienza cyberpunk ha interessato l’accade-
mica Donna Haraway (1984), la quale ha collegato alla questione di genere le pos-
sibilità tecnologiche, concretizzando un futuro ideale. Si concentra principalmente
sulla figura del cyborg, che consente di eludere il dualismo concettuale di cultura/
natura e mente/corpo, umano/macchina e naturale/artificiale, per aprire una serie di
possibilità che surclassano il genere. Cyborg è quindi l’unione delle parole cybernetic
e organism, coniato dai medici Manfred Clynes e Nathan Kline nel 1960: consiste nel
reimmaginare il corpo umano sotto l’ascendente delle macchine, come corpi mecca-
nici umanizzati e, soprattutto, gli esseri umani migliorati attraverso apparati tecnolo-
gici, come esoscheletri, protesi meccaniche o dispositivi impiantati.
L’immaginario letterario si è quindi fuso con la realtà negli scritti della Ha-
raway, e non solo, dando vita ad un nuovo immaginario cyborg nel genere della
fiction, soprattutto audiovisiva.

Cyborg umani sullo schermo

I film e i telefilm prodotti a partire dagli anni Ottanta hanno visto protago-
nisti umani migliorati attraverso differenti tecnologie, conservando un aspetto
più o meno umano.
Nei telefilm L’uomo da sei milioni di dollari (ABC, 1974-1978) e nel suo
spin-off La donna bionica (ABC/NBC, 1976-1978), i protagonisti Steve Austin
e Jaime Sommers sono esseri umani implementati con parti bioniche, che dona-
no straordinarie capacità. Steve riceve gambe, braccio destro e occhio sinistro,
mentre a Jaime sono stati sostituiti il braccio destro, le gambe e l’orecchio de-
stro: tali parti meccaniche conferiscono ai due una velocità fuori dal comune,
la capacità di vedere o ascoltare oltre l’umano possibile e una forza titanica.
Gli esseri umani migliorati impersonano, di solito, la figura del vigilante
Biohacking device e transumanesimo 141

o del difensore, come nei casi della serie cinematografica RoboCop (1987), di
Cyborg Cop (1993) e del lungometraggio I nuovi eroi (1992). Nei primi due casi,
gli esseri umani, a seguito di incidenti che hanno profondamente danneggiato
il corpo, vengono “riparati” attraverso l’installazione di protesi che non emu-
lano le funzioni umane, ma le superano, creando super-poliziotti dalle capacità
super-umane. Si distingue in parte il caso di I nuovi eroi, in cui i corpi vengono
sì modificati, ma attivando la rigenerazione accelerata dei tessuti, in modo tale
da non poter danneggiare un corpo che già di per sé supera le naturali capacità.
Il miglioramento del corpo ha visto misure estreme nei film il cui protagonista
diventa super-umano grazie ad un intero esoscheletro: un caso è Darth Vader
in Star Wars (1977), che dopo essere stato ustionato dalla lava ha indossato una
maschera che funge da respiratore e una tuta corazzata nera, che gli permette di
proteggere il suo corpo ustionato da attacchi esterni. Un esoscheletro davvero
celebre che non vuole curare il suo portatore, ma solo proteggerlo e donargli
poteri straordinari, è Iron-Man: sebbene il personaggio sia nato negli anni Ses-
santa dalla mente di Stan Lee, il culto del supereroe è arrivato in televisione nei
primi anni Novanta, per poi apparire sugli schermi cinematografici nel 2008
con il primo della serie di film che lo vedono protagonista.
Durante gli anni Novanta l’ondata cyberpunk non ha arrestato la sua in-
fluenza sulla produzione audiovisiva, mostrando sempre più sofisticate unioni
tra uomo e tecnologia. Johnny Mnemonic è un film del 1995 che basa la sua
storia sulla bolla mnemonica artificiale installata nel cervello del protagonista,
per trasportare un software illegale; il film è liberamente ispirato all’omonimo
racconto di William Gibson. Dall’oriente proviene invece un prodotto fumetti-
stico, adattato per il grande schermo: Ghost in The Shell (1995) racconta della
convivenza tra robot umanizzati ed umani robotizzati, descrivendo alcune tec-
nologie installate su uomini, che così hanno acquisito, anche in questo caso,
capacità superiori.
Sebbene il decennio 1980 sia celebre per la forte immaginazione riguardo
lo sviluppo tecnologico emersa parallelamente all’inizio di un’era digitale, e
protratta negli anni successivi, anche il panorama reale si è mosso verso l’inve-
stigazione delle possibilità tecnologiche sull’uomo.

Post-umanesimo e trans-umanesimo

I primi seguaci del filone post-umanista che fondarono un gruppo di di-


scussione scientifica appartenevano all’Università della California di Los An-
geles, auto-dichiarandosi transumanisti. L’università divenne il focolare del
movimento transumanista e ispirò l’artista Natasha Vita-More, la quale decretò
come volere dell’arte transumanista l’estensione della vita e la sconfitta della
morte attraverso il Transhumanist Arts Statement del 1982. Nell’anno seguente
diffonde invece il Transhuman Manifesto, in cui spiega i valori fondanti del
142 Grazia Quercia

transumanesimo, che consistono nella “libertà morfologica”, nonché libertà ed


esaltazione della diversità, e nella possibilità di modificare a piacimento il pro-
prio corpo.
Il movimento ha fatto presa fino alla creazione del World Transhumanist
Association, l’associazione mondiale a promozione delle idee transumaniste nel
mondo fondata nel 1988 da Nick Bostrom e David Pearce, filosofi. I due hanno
il merito di aver istituzionalizzato il movimento transumanista:

L’importanza della WTA non sta tanto nella sua vasta diffusione, ma nel fatto che
i fondatori ne hanno focalizzato fin dall’inizio l’azione sul mondo accademico, cer-
cando cioè di presentare il transumanismo come una disciplina “seria” e merite-
vole di studio in ambito universitario. A questo scopo è stata lanciata anche una
rivista tecnica di studi transumanisti, il Journal of Evolution and Technology, che
pubblica articoli sottoposti alla pratica della peer-review. (Manzocco, 2019)

Nel 2008 la WTA diventa la Humanity+, con la rivista h+ Magazine a se-


guito, mentre l’intero movimento ha conquistato soprattutto la fucina di idee
che è la Silicon Valley: anche Google, nel 2013, ha creato nel Google X Lab la
compagnia di biotecnologie Calico (California Life Company) che si occupa
di prolungare la vita umana. L’azione si pone al crocevia tra business e ricerca
scientifica, pienamente in linea con il biocapitalismo contemporaneo e la ricer-
ca di un’ottimizzazione biomedica delle prestazioni umane.
In sostanza, il transumanesimo può essere definito un movimento intellet-
tuale e culturale che afferma la possibilità e la desiderabilità del miglioramento
della condizione umana attraverso la ragione applicata, specialmente attraverso
lo sviluppo e la diffusione ampia di tecnologie possibili per combattere l’in-
vecchiamento e per sfruttare al meglio l’intelletto umano, il suo fisico e le sue
capacità psicologiche (More, 2013).
Pedersen e Mirrlees (2017) creano una tassonomia della retorica transuma-
nista, basandosi sugli studi di retorica di Kenneth Burke, individuando quattro
tematiche alla base dei vari filoni transumanisti (Tab. 1):
Biohacking device e transumanesimo 143

Temi associati alla retorica transumanista

Tema 1 Tema 2 Tema 3 Tema 4


Legittimare la scienza Capacità umana Supereroismo Vulnerabilità
Legittimazione del pro- Rifiuto delle limitazio- Celebrazione del supe- Reazione a un senso
gresso tecnologico attra- ni biologiche umane reroismo o allusione a condiviso di vulnerabi-
verso i campi e le pratiche per giustificare il pro- supereroi di finzione e lità, militarismo e paura
della scienza, dell’inge- gresso tecnologico, ad tattiche identitarie usate del futuro, preferenza
gneria, della tecnologia e esempio: gli uomini per inquadrare il sogget- di possibili futuri astrat-
dovrebbero essere più to in relazione agli eroi. ti piuttosto che scenari
della matematica.
forti, dovrebbero vo- Collaborazione tra Hol- specifici.
Collaborazione tra il
lare, superare le malat- lywood e gli obiettivi del Tattiche identitarie usate
complesso industriale mi- tie, vivere per sempre, complesso militare-in- per rendere personale la
litare e i centri di ricerca ecc. dustriale. I franchise ci- paura. Contestualizza-
universitari. Collaborazione tra il nematografici favorisco- zione e militarismo post
complesso industriale no gli obiettivi militari. 11 settembre.
di ricerca medico e
militare.

Tab. 1 – Temi associati alla retorica transumanista (Pedersen, Mirrlees, 2017: 40)

Il primo tema riguarda la dedizione alla scienza ingegneristica come re-


sponsabile del miglioramento della condizione umana. Seguendo i principali
discorsi portati avanti dalla scienza, dall’ingegneria, dalla tecnologia e dalla ma-
tematica, il transumanesimo si basa su neuroscienze, genomica, robotica, nano-
tecnologia, computer e intelligenza artificiale (Hansell, Grassie, 2011). Questo
tema si concentra anche in gran parte sul miglioramento del corpo umano o
sulla bioconvergenza.
Il secondo tema caratterizza il transumanesimo attraverso un evidente cam-
bio nell’agency umana. In una visione transumanista, la soggettività umana
comporterebbe il rifiuto del determinismo biologico su ogni fronte, compresa
la credenza che accetta la mortalità come un dato di fatto, fino all’importanza
di vivere ogni aspetto dell’esistenza umana attivamente. Sfidando ogni limite
biologico, la capacità mentale è potenziata, l’invecchiamento è rallentato o in-
vertito e le emozioni sono controllate. Astrazioni come la natura umana diven-
tano variabili da scegliere, piuttosto che tollerare.
Il terzo tema indica come il transumanesimo eserciti una ricerca verso la
figura astratta del supereroe, contribuendo al sensazionalismo che lo circonda.
Il futuro immaginato punta alla meraviglia, al limite del pericolo. Si presentano
scenari in cui l’essere umano può ridefinire la sua identità, acquisendo capacità
per compiere imprese straordinarie. Il supereroismo si presenta come un futu-
ro realizzabile nonostante l’improbabilità di un tale risultato.
Il quarto tema presenta, invece, un contrasto: l’ideologia post-umanista
punta sulla paura e il panico verso il futuro, provocando una paura distopica,
144 Grazia Quercia

che invece il transumanesimo propone di fugare attraverso la digitalizzazione,


da indossare come un mantello che protegge in maniera passiva e disinteressa-
ta. (Pedersen, Mirrlees, 2017)
D’interesse per questo studio è il primo tema, che riguarda la modificazione
del corpo: si ispira all’ideologia grinder che crede che la scienza appartenga a
chiunque e considera fondamentale poter ricorrere alle scoperte scientifiche
per poter migliorare la condizione umana. Solitamente i grinder aggiungo-
no su di sé dispositivi senza alcun test precedente, realizzando i propri valori
dell’azione e dell’esperimento diretto (Brickley, 2019). I grinder sono meglio
conosciuti come biohacker, con l’obbiettivo di hackerare la biologia umana
attraverso la tecnologia, distinguendosi in due diramazioni fondamentali: il fine
medico-curativo e quello hobbistico.
I primi biohacker organizzati possono essere rintracciati a Boston, nel 2008,
quando Mackenzie Cowell e Jason Bobe fondarono DiyBio, un network di dif-
ferenti figure professionali come artisti, imprenditori e hobbisti con l’obbiettivo
della modificazione fisica e genetica per contrastare i limiti naturali dell’uomo
(Schmeink, 2016). Celebre, invece, è Aaron Traywick, fondatore della Ascen-
dance Biomedical, che, tra le altre cose, si iniettò il presunto vaccino per l’her-
pes dal vivo durante una conferenza sul biohacking (Sandal, 2018).
Anche in Italia sono comparse alcune imprese di questo tipo, come
Biohackers Italia con sede a Milano, che si occupa di promuovere diete pa-
leo, barrette energetiche e prodotti Bullettproof, ma che cerca di sviluppare
tecnologie sottopelle e tecniche per estendere la vita; a Roma è nato Open Bio-
Medical, no profit, che sviluppa protesi 3D open source; Be.In.To è invece un
gruppo Torinese nato nel contesto del FabLab (Paura, 2019).
Hackerare il corpo umano può avere due obbiettivi principali: il primo com-
prende la cura, la ricerca dell’immortalità, il potenziamento genomico, mentre
il secondo vuole integrare uomo e dispositivi intelligenti. Allo stesso modo si
distinguono due tipologie di aggiunte possibili sul corpo, nonché parti impian-
tabili (chirurgiche, permanenti, mediche e specialistiche) e parti inseribili (non
chirurgiche, removibili, hobbistiche). I dispositivi inseribili costituiscono un
caso di rilievo per la loro recente commercializzazione, ma soprattutto per il
successo tra la popolazione che si è confrontata con la libera scelta nel proprio
corpo dei dispositivi che soddisfano diversi bisogni accessori.
L’idea di inserire dispositivi digitali risale alla teorizzazione di Alan Westin
che, nel 1967, immaginò la possibilità di inserire chip di riconoscimento sul
corpo, poi realizzato con gli esperimenti del 1998 di Kevin Warwick, che inserì
su di sé una capsula RFID capace di comunicare con altri dispositivi. Tale pra-
tica per fini hobbistici è stata portata avanti da DangerousThings.com a partire
dal 2005 (Heffernan, Vetere, Chang, 2017), seguita poi da altre compagnie.
Non più finzione: la fusione tra uomo e macchina immaginata dal movimen-
to cyberpunk si fa realtà, sostituendo anche ai prodotti audiovisivi fantascien-
tifici i documentari dalle stesse tematiche. È ciò che mostrano alcuni episodi
Biohacking device e transumanesimo 145

dello show Dark Net (Showtime, 2016-2017) in cui si mostrano luci e ombre del
progresso tecnologico. Più precisamente è l’episodio 2 della stagione 1 a mostra-
re gli impianti sottocutanei RFID inseriti da una compagnia di biohacking con
le semplici funzioni di comunicare con dispositivi di riconoscimento, pagamento
e mostrare i segni vitali attraverso un’app sullo smartphone. Lo stesso episodio
riporta altri casi di esseri umani aumentati attraverso la tecnologia, come il regista
intento a costruire un occhio-telecamera da inserire su di sé, per poter registrare
le immagini in prima persona e creare documentari non condizionati da attrezza-
ture cinematografiche. È conosciuto come Eyeborg e si è ispirato all’immaginario
occhio bionico che compare nella serie L’uomo da sei milioni di dollari.

Conclusioni

L’immaginario tecnologico si è concretizzato in movimenti che realizzano le


proiezioni descritte nei prodotti di finzione, principalmente degli anni Ottan-
ta. La diffusione di pratiche transumaniste realizza quindi sogni, forse anche
paure, dell’uomo che si interseca con la tecnologia, rendendo possibile la figura
del cyborg. È già stato legittimato il primo cyborg del mondo: è Neil Harbis-
son e possiede un’antenna impiantata chirurgicamente nel cranio per tradurre
colori in suoni. La sua è tecnologia sia curativa sia hobbistica, non distanzian-
dosi quindi dalla volontà di essere tecnologia di chi inserisce nel proprio corpo
dispositivi per facilitare la quotidianità: le pratiche di biohacking attraverso i
dispositivi aprono infinite frontiere per il superamento dei limiti umani, con al-
trettanti rischi. Interessante è l’affermazione ottimista del cyborg, che dovreb-
be catturare l’attenzione di tutte le scienze per osservare dei fenomeni sociali e
culturali in atto, destinati a cambiare l’uomo in quanto essere (Zorloni, 2017):

[…] in futuro utilizzeremo nuove parti del corpo costruite al 100% in materiale
organico. Anche la mia antenna verrà prodotta così. E se la tecnologia diventerà
organica, ci sarà un grande cambiamento nel modo di “essere” (e non di “usare”)
la tecnologia.

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Espansione dell’umanità nello Spazio:
le Città Cislunare e il nuovo paradigma di OrbiTecture

di Gennaro Russo1, Massimo Pica Ciamarra2

La ricerca spaziale è stata sempre stimolata dalla consapevolezza del poten-


ziale miglioramento della vita sulla Terra, ma soprattutto dall’innato desiderio
di esplorare, crescere, innovare ed evolvere. Tuttavia, fin dagli albori dell’Era
Spaziale, solo un ristretto numero di persone (circa 600) ha avuto il privilegio
di viaggiare nello Spazio. Nonostante il grande impatto sociale delle attività
spaziali, troppo pochi sono coloro che hanno l’opportunità di conoscere lo
Spazio e le potenzialità che offre. Lo sviluppo dell’economia spaziale (demo-
cratizzazione dello spazio) farà abbandonare logiche di selezione degli abitanti,
come fatto finora con gli astronauti.
Esplorare il Quarto Ambiente (assenza di peso) significa abbandonare
l’ambiente atavicamente noto all’umanità: la gravità. Questo tuttavia non si-
gnifica dover rinnegare la gravità, tanto che resta necessario un training fisico
in vista di viaggi su Luna e Marte. La permanenza di lunga durata richiederà
inoltre di garantire un ciclo giorno-notte negli habitat spaziali; la gestione
della luce (quella artificiale o quella solare) sarà un altro paradigma fonda-
mentale. Alle configurazioni spaziali attuali, in realtà “paleolitiche”, suben-
treranno soluzioni coerenti con il contesto: sfere, anelli, corpi in rotazione,
orbite, ecc.

La Città Cislunare

Lo spazio geo-lunare è l’ambiente più vicino e più adatto su cui concentrar-


si. Le infrastrutture scientifiche, industriali e ricreative situate in orbita bassa
terrestre (Low Earth Orbit, LEO), orbita bassa lunare (Low Lunar Orbit, LLO)
e punti di librazione Lagrangiani sosterranno la vita al di fuori dell’atmosfera
terrestre, mentre diversi tipi di trasporto garantiranno mobilità e collegamenti
con la Terra. Il Center for Near Space (CNS) dell’Italian Institute for the Futu-
re3 ritiene che nella seconda metà di questo secolo – simbolicamente 100 anni
dopo il primo passo di una persona fuori dalla Terra – una comunità perma-
nente di mille individui distribuiti in vari quartieri affollerà lo spazio cis-lunare:

1
  Center for Near Space & Trans-Tech. E-mail: g.russo@nearspace-iif.it.
2
  Center for Near Space & Pica Ciamarra Associati International. E-mail: picaciamarra@pcaint.eu.
3
  http://www.nearspace-iif.it
148 Gennaro Russo, Massimo Pica Ciamarra

una vera Città Cislunare, utile anche come punto intermedio per viaggi verso
Marte.
Vivere nello spazio richiede un’efficace integrazione e una valutazione si-
multanea di molti aspetti. Per affrontare questa ricerca, il gruppo di lavoro
“OrbiTecture” del CNS coinvolge scienziati, tecnologi, architetti, botanici, ar-
tisti, sociologi, psicologi e altri professionisti, ma anche studenti universitari e
delle scuole superiori. Lavora su storie e ragionamenti relativi alla costruzione
al di fuori del nostro pianeta, facendo ampio uso di tecniche robotiche innova-
tive di manifattura additiva, sia per la struttura principale che per le strutture
secondarie interne dell’infrastruttura spaziale.

OrbiTecture® – il Nuovo Paradigma

Il termine OrbiTecture® (contrazione dei Orbital Architecture, architettura


orbitale) definisce un approccio sistemico alla progettazione architettonica con
nuovi requisiti di abitabilità per i futuri habitat spaziali umani in orbita e sulla
superficie dei pianeti, dedicati non solo alla ricerca ma anche alle attività di
produzione, alla vita comune e allo sviluppo sociale. È stato presentato per la
prima volta nella sua formulazione fondamentale nel 2017 dalla rivista interna-
zionale di architettura Le Carré Bleu4, ma la prima presentazione fu fatta nel
2015 presso la Città della Scienza di Napoli nell’ambito delle attività del Center
for Near Space.
OrbiTecture richiama il neologismo “urbatettura”, coniato nei primi anni
Sessanta dall’architetto Jan Lubicz-Nycz per illustrare il suo progetto (non re-
alizzato) per Tel Aviv (cfr. Zanelli, 2010), con mega-strutture multifunzionali
integrate che disegnano intere parti della città. Il termine, successivamente
ripreso da Bruno Zevi (2006), per affermare l’indissolubile rapporto tra ur-
banistica e architettura e sostenere le inedite opportunità insite in questo
approccio. Allo stesso modo, i progettisti del concetto di OrbiTecture man-
tengono la necessità di andare oltre l’approccio finora adottato nella costru-
zione di infrastrutture spaziali – in particolare quello utilizzato per l’attuale
Stazione Spaziale Internazionale – basato sulla divisione in compartimenti
e giustapposizione di componenti e unità pre-assemblati, a favore di un ap-
proccio sistemico alla progettazione di nuovi habitat spaziali, sulla base dei
principi di funzionalità, comfort, vivibilità e costruzione diretta nello spazio
(De Martino et al., 2017).

4
  Le Carré Bleu, “OrbiTecture”, n. 2-3. 2017, www.lecarrebleu.eu
Espansione dell’umanità nello Spazio 149

Fig. 1 – Città Cislunare

Studio di sistema

Progettare la Città Cislunare


Uno dei principali o più importanti studi complessivi necessari è quello del-
la Città Cislunare nel suo insieme. La necessità è di bilanciare adeguatamente
la distribuzione delle funzioni tra i 10-12 quartieri e le tecnologie di supporto
per consentire la migliore vita di una popolazione permanente di 1000 persone.
Il processo di sviluppo nel tempo della Città Cislunare è un altro problema
fondamentale, per ridurre al minimo tempi e costi, utilizzando anche lo svilup-
po di un sistema di trasporto sistematico e complesso che può essere stimato
nell’ordine di 100mila passeggeri equivalenti all’anno. La corretta identificazio-
ne di funzioni come nodo di interscambio, molo, rifornimento di carburante,
manutenzione, costruzione, alloggio, aree di lavoro, spazi di socializzazione, è
altrettanto importante e lo stesso è l’acquisizione e il trasporto di materie prime
(dalla Terra, dalla Luna, dagli asteroidi).
Il CNS ha assunto come criteri:
• minimo peso pro capite
• spazio massimo pro capite
• integrazione di diverse attività inconcepibili negli spazi attuali della ISS,
progettati non per la gente comune.

Habitat
Lo sviluppo della Città Cislunare richiederà la definizione di habitat in orbi-
ta e sulla superficie di pianeti che soddisfino non solo requisiti di ricerca scien-
tifica ma anche esigenze di vita quotidiana. Sarebbe fondamentale introdurre
fin dall’inizio altri tipi di requisiti, oltre quelli noti sugli ambienti scientifici, per
150 Gennaro Russo, Massimo Pica Ciamarra

sostenere una vita quotidiana più sostenibile. Le comunità di persone dedicate


alla gestione dei quartieri e dei loro sistemi, per mantenerli, per guardare agli
aspetti economico-finanziari della vita nello spazio, per iniziare una vita eco-
nomico-commerciale più generale fino a ospitare turisti o viaggiatori, avranno
bisogno dell’adozione e del soddisfacimento di nuovi requisiti per i quali sono
ormai necessari approfonditi studi preliminari e sviluppi tecnologici.
Le assunzioni di base possono essere:
• Limitare i costi di trasferimento riducendo la massa da trasportare e im-
plementando la realizzazione in condizioni di gravità ridotta, sia all’in-
terno dei moduli pressurizzati (compresi gli alimenti) sia nel vuoto, fa-
cendo ampio uso della manifattura additiva nel vuoto.
• La realizzazione nello spazio con l’uso di materie prime lunari/asteroi-
dee dovrà essere accompagnata da assemblaggio, integrazione e test nel-
lo spazio in modo da stabilire un vero Made in Space.
• La presenza di gravità ridotta può offrire molti vantaggi che devono
essere sfruttati per ottimizzare l’intero processo.
• I quartieri lunari della Città Cislunare saranno in parte sotterranei con
edifici in superficie. Definire la configurazione e le connessioni tra le
diverse parti considerando anche le loro funzionalità rispetto all’utilizzo
previsto.
• Limitare la dipendenza dalla Madre Terra massimizzando i principi di
sostenibilità e usando l’agricoltura in situ.
• Estendere allo spazio i principi e i concetti della Green Economy e della
Circular Economy.

SpaceHub®

Il CNS ha studiato una stazione spaziale multifunzione per 100 persone


chiamata SpaceHub® e posizionata nel punto Lagrangiano L1. L’analisi dei
requisiti funzionali, le numerose valutazioni e i principi logici hanno fatto sì che
il sistema si sviluppasse su una configurazione planetomorfa, in funzione anche
di come sono state identificate le specifiche e le tecnologie di fabbricazione e
costruzione.
Espansione dell’umanità nello Spazio 151

Fig. 2 – SpaceHub

Configurazione
SpaceHub è composto da tre elementi primari, collegati tra loro da 3 “cap-
sule/ascensori”, che ruotano rigidamente intorno all’asse a 2 giri/min per pro-
durre diversi valori della accelerazione di gravità e simulare quindi diverse con-
dizioni gravitazionali. I tre elementi sono:
Miranda, sfera centrale di 44 m. di diametro, ospita l’hangar di attracco
delle astronavi e il laboratorio in microgravità.
Aristarco, a 38 m. di distanza dall’asse, due toroidi sovrapposti con gravità
lunare.
Galilaei, a 83 m. dall’asse, elemento toroidale con gravità marziana.
Il sistema sarà fabbricato e assemblato in situ, con tecnologie di strutture
gonfiabili e processi di additive manufacturing (stampa 3D) in materiali me-
tallici e non. Per il sostentamento degli abitanti, circa 2/3 della superficie dei
toroidi è destinata a colture edibili oltre ad aree a verde per un habitat confor-
tevole e una migliore vita a bordo. Al fine di supportare missioni su Marte e
Luna, è dotato di ambienti di training.
152 Gennaro Russo, Massimo Pica Ciamarra

Fig. 3- Sezione dei toroidi

Spazi per la ricerca


Il 70% dei laboratori è all’interno di Miranda, a gravità ridotta. Il “labora-
torio in microgravità”, collegato alla struttura con sistemi di cuscinetti, rimane
fermo non risentendo della forza centrifuga prodotta dal movimento rotazio-
nale. Per studiare situazioni collegate agli ambienti lunari e marziani, ulteriori
laboratori sono in Aristarco e Galilaei.

Spazi per il turismo e il relax


Aristarco e Galilaei accolgono spazi di soggiorno e di socializzazione arre-
dati con opere d’arte: locali di ristoro, spazi religiosi, aree verdi e aree destinate
allo sport. Sono disponibili camere singole per l’equipaggio e il personale ope-
rativo a lunga permanenza, e camere doppie per i turisti e gli ospiti. Si preve-
dono 30-40 turisti (residenti per periodi limitati) in minialloggi di ca. 25 m2. In
Miranda è previsto un ambiente per cinema olografico e teatro.

Servizi
L’hangar ha funzione di arrivo/partenza delle navette, gestione traffico, ma-
nutenzione/rifornimento e accesso alla struttura. Vero cuore dello SpaceHub,
il suo interno è caratterizzato da due piattaforme d’attracco contrapposte che
consentono avvicinamento e successivo ancoraggio dei veicoli per le operazio-
ni di sbarco, rifornimento e manutenzione. La sala di controllo dell’hangar è
posizionata all’esterno dell’hangar (interna a Miranda); la finestra monitor per-
mette la supervisione delle operazioni di attracco e manutenzione con ausilio
di AI (intelligenza artificiale) e AR (realtà aumentata). Lo spazio è tale da poter
accogliere contemporaneamente 4 specialisti.
Espansione dell’umanità nello Spazio 153

La sala medica è dotata di 5 posti letto e sala di pronto soccorso ed è posi-


zionata su Aristarco; garantisce il controllo sanitario degli occupanti e il costan-
te monitoraggio dei pazienti in condizioni diverse dall’ambiente terrestre, oltre
alle usuali pratiche sanitarie.

Fig. 4 – Sala controllo dell’Hangar

Bisogni e riciclaggio
Per la permanenza in ambiente spaziale è necessario sviluppare un sistema
in grado di sostenere la vita degli abitanti attraverso una continua rigenerazio-
ne delle risorse primarie. È quindi necessario realizzare un sistema chiuso dal
punto di vista della materia (ma aperto da quello dell’energia) che riproduca in
piccolo i cicli che si sviluppano sulla Terra. I sistemi biorigenerativi basati sulle
piante superiori contribuiranno a risolvere questi problemi. Le piante devono
essere rappresentate da efficienti colture agrarie in grado di fornire all’equipag-
gio, nel lungo periodo, una dieta adeguata (come quantità e qualità). Un tale
sistema biorigenerativo a ciclo chiuso deve contribuire alla produzione di cibo
fresco, alla generazione di ossigeno ed alla rimozione dell’anidride carbonica
dall’aria interna (dovuta alla respirazione umana) attraverso la fotosintesi, alla
depurazione dell’acqua tramite il processo di traspirazione, alla utilizzazione
dei residui della biomassa, dei rifiuti organici dei processi e dei reflui fisiologici,
dopo opportuni trattamenti, e al benessere psicologico dell’equipaggio.
Sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS) i sistemi di riciclaggio produco-
no 25-30 l/giorno di acqua; su SpaceHub si stima un consumo medio di acqua
di 50-60 l/giorno, di cui 5 l/giorno per bere e cucinare, implementando il mas-
simo riciclaggio possibile per ridurre al minimo la necessità di rifornimenti da
altre parti della città cislunare o di produzione in orbita (es. la NASA prevede
di ottenere 1 litro di acqua da 5 kg di roccia di asteroidi).
154 Gennaro Russo, Massimo Pica Ciamarra

Il ciclo dell’acqua sarà completamente chiuso e tutta l’acqua presente a


bordo (l’acqua presente nell’atmosfera di cabina, l’acqua impiegata per l’igie-
ne personale, l’urina) sarà recuperata e depurata. L’adozione di un sistema ad
acqua con cianobatteri per la protezione dalle radiazioni cosmiche comporta la
necessità di grandi quantità d’acqua da riciclare con continuità e un ambiente
che può essere ben integrato con i suddetti altri sistemi.

Fig. 5 – Sistema ECLSS avanzato

OrbiTech®

Un’occasione successiva di riflessione è stata quella di sviluppare concetti


simili in risposta a un bando di concorso internazionale volto a identificare le
proposte per un insediamento nello spazio di 2.000 abitanti con la possibilità
di crescita per tappe fino a 10.000. Basandoci su principi simili ai precedenti,
siamo arrivati a OrbiTech®5.

Cartesio
Questo il nome della nuova struttura che presenta un raggio di 400 m. Per la
sua definizione, siamo partiti dallo SpaceHub, che abbiamo scalato di un fattore
2.7 in modo da poter ospitare fino a 2000 persone. La struttura risulta così costitui-
ta dalla sfera centrale Miranda del diametro di 110 m e due toroidi dal diametro di
sezione di 20 m; abbiamo chiamato il nuovo modulo SpaceHub+.
CARTESIO accoglie al suo interno 5 moduli di SpaceHub+ disposti lungo
ICARO, ascensore spaziale e asse di rotazione e collegamento tra i moduli che
insieme formano una colonia spaziale circoscritta da una membrana sferica atta
a produrre energia e costituire una protezione dalle radiazioni spaziali meno

5
  http://www.pcaint.com/it/2019-orbitech/
Espansione dell’umanità nello Spazio 155

critiche, conferendo l’aspetto planetomorfico. Tutte le parti dello SpaceHub+


(sia Miranda che i toroidi) saranno ricoperte dal “guanto” di acqua dello spes-
sore di 10 cm con all’interno batteri e alghe. Lungo Icaro si trovano due Dry-
dock per l’attracco delle navicelle, tra i moduli 1-2 e 4-5.

Fig. 6 – OrbiTech(R)

Miranda
110 m di diametro, accoglie i settori terziario/produttivo/formazione e ri-
cerca. Destinata al terziario e alla produzione in bassa gravità (vaccini, medi-
cinali, materiali, pezzi di ricambio per la stazione e per i mezzi di trasporto,
ma anche energia, acqua e aria (ovvero ciclo dell’acqua), o cibo, con attività
integrative rispetto alle colture green). È divisa in due metà: una, suddivisa in 6
piani, segue la rotazione dei toroidi esterni generando condizioni di microgra-
vità differenziata; l’altra fissa per consentire di sperimentare l’assenza di gravità
combinata in un unico ambiente flessibile destinato a ricerca e produzione.

Fig. 7 – Sezione dei toroidi e vista dal loro interno


156 Gennaro Russo, Massimo Pica Ciamarra

Aristarco e Galilaei
Avranno 3 gravità diverse, Aristarco raggio=100 m / gravità / gravità Luna
(g/go= 0,16); Galilaei 230 / gravità Marte (g/go= 0,37); Teseo 350 m (nel mo-
dulo centrale) / gravità pari a circa il 50% di quella terrestre (g/go= 0,56). I
toroidi sono atti ad accogliere alloggi e spazi di supporto, su 3 livelli nella parte
inferiore della sezione toroidale. La parte superiore (ca. 50% dell’intera sezio-
ne) è destinata a spazi verdi, agricoltura, socializzazione.
La manutenzione della struttura avviene attraverso un modulo pressuriz-
zato che si muove su un binario posto sulla circonferenza esterna dei toroidi,
svolgendo al contempo la funzione di collegamento perimetrale
Fra Miranda e Toroidi vi saranno centrifughe, zone frigo e congelatori, si-
stemi di smaltimento rifiuti speciali “tipo ospedalieri”, banche di sangue per
emergenze a bordo; macchine per il manufacturing di parti metalliche e plasti-
che sia in additive manufacturing che per asportazione truciolo, con evidente
necessità di recupero e riciclo del truciolo, grandi trasformatori elettrici, batte-
rie di accumulo, convertitori AD/AC e AC/AD, celle di coltura e mantenimen-
to di batteri, intero ciclo dell’acqua e ECLSS.
Moduli pressurizzati fra Miranda e i suoi Toroidi per gli spostamenti e tra-
sporti di materiali e persone analoghi si muovono su binario posto sulla circon-
ferenza esterna dei toroidi, con funzione di collegamento perimetrale e manu-
tenzione.

Dedalo
È la membrana sferica esterna (raggio ca. 400 m) deputata a produzione
di energia e protezione da radiazioni solari. Una parte di questa, una serie di
pezzi concavi, tanto da avere ca. 20-30 antenne del diametro di 15-20 m, svolge
la funzione di antenna per le telecomunicazioni tra la Terra e i pianeti interni
(Marte prevalentemente).

Drydock
L’attracco veicoli spaziali per il trasporto merci e persone avviene attraverso
un sistema di docking posto perpendicolarmente l’asse centrale ICARO. La
manutenzione è effettuata da un bacino di carenaggio scorrevole composto da
due piani attrezzati per la manutenzione così come per le operazioni di carico/
scarico.
Espansione dell’umanità nello Spazio 157

Fig. 8 – Drydock

LunHab

Il CNS sta attualmente studiando un insediamento lunare. Sotto il profilo


metodologico, la proposta per un primo insediamento sulla Luna segue un per-
corso analogo: ma una volta ipotizzato il suo ordine di grandezza, i principi lo-
gici di riferimento sono sostanzialmente diversi. Non si tratta di pensare a unità
finite capaci di galleggiare o muoversi nello spazio. C’è necessità di interagire
con una preesistenza peraltro poco nota: il suolo lunare, così come in un futuro
sarà quello di Marte o di altri pianeti. In questi casi si tratta anche di ragionare
su insediamenti di fatto mai finiti, cioè predisposti alla crescita. Irragionevole
perseguire tipologie d’intervento a igloo o comunque isolate, semmai poi rad-
doppiabili e collegabili fra loro tramite condotti, e così via.
La prima valutazione è dove collocarsi, quale punto cioè individuare sul
nostro satellite naturale: per es. nelle grandi cavità naturali, oppure avvalersi
del ghiaccio d’acqua che abbonda nei crateri polari sempre in ombra. Potreb-
be essere preferibile costruire nelle grandi cavità naturali (lava tubes) create
dall’attività vulcanica: offrono protezione da radiazioni e dai meteoriti, inoltre
possono mitigare gli enormi sbalzi termici nel netto passaggio giorno-notte con
ritmo circadiano 28 volte più ampio di quello terrestre. Ci sarà però inevitabil-
mente bisogno di spazi, unità lavorative (estrazione), laboratori di ricerca fuori
da queste cavità, inizialmente di dimensioni magari ridotte, ma adatti a crescere
e raggiungere le dimensioni via via necessarie.
158 Gennaro Russo, Massimo Pica Ciamarra

Fig. 9 – Modello logico-matematico di LunHab

Quale che sia la scelta, va considerata la differente gravità rispetto a quella ter-
restre (sulla Luna ridotta a circa 1/6 di quella terrestre) e l’articolata configurazione
morfologica di quale che sia la collocazione prescelta. Sembra ovvio allora porsi
l’obiettivo di non avere l’esigenza di dover preliminarmente “spianare” una su-
perficie (operazione ampia e certamente invasiva), cioè di considerare quel suolo
quasi come zona di interesse “archeologico”, di avvalersi della molto minore forza
di gravità che facilita la realizzazione di un habitat “sospeso” dal suolo. Lasciato
nella sua configurazione attuale, il suolo lunare resta quindi così libero per ricerche,
scavi, lavorazioni, circolazione. Diversamente da SpaceHub o OrbiTech, LunHab
non sarà una struttura chiusa in sé, completa: deve poter crescere e modificarsi
secondo esigenze impreviste. Non avrà morfologia definita, non sarà un igloo o un
“oggetto”, ma un sistema in evoluzione. Anche alternative a “tenda” (tensostruttu-
re) o a “cupola” possono ridurre i punti di contatto al suolo, ma non rispondono
ad agevoli modalità di crescita o di modificazione, esigenza che sembra prevalente.
Avendo assunto la similitudine “archeologica”, appoggi al suolo puntuali,
magari una copertura che non abbia necessità di sostegni in posizioni esat-
tamente predefinite, in un certo senso ha similitudini con principi della Vil-
le Spatiale di Yona Friedman (1958)6. Ha maglie larghe, magari con sostegni
concettualmente “ad albero”, cioè caratterizzati da un solo punto in basso e
ramificazioni verso l’alto, in modo da ridurre la dimensione delle luci libere.
La copertura è una sorta di ampia coltre, una struttura tridimensionale artico-
lata planimetricamente e altimetricamente, per fornire anche protezione dalle
radiazioni, produzione di energia, produzione di ossigeno; una sorta di “coltre
volante” modulare, accrescibile e modificabile, un ampissimo spazio porticato.

6
  https://www.moma.org/collection/works/104695
Espansione dell’umanità nello Spazio 159

Fig. 10 – Yona Friedman (1958): obiettivi diversi, con analogie e coincidenze

La “coltre”, non necessariamente piana, può avere ondulazioni: zone in-


terne più alte per consentire spazi maggiori; più basse in qualche punto per
agevolare arrivo e manutenzione delle superfici in copertura: totalmente libera
ma continua, costruita modularmente, facilmente accrescibile e adattabile al
mutare delle esigenze. Eventuali ondulazioni nella copertura possono aiuta-
re a risolvere eventuali problemi di dinamica strutturale. Come SpaceHub, la
copertura ha una finitura con serbatoi modulari esaedrici o simili, spessi 10-20
cm, contenenti acqua e/o cianobatteri o alghe, su una piastra di celle solari in
grado di catturare l’energia solare.
Da un punto di vista funzionale, il primo insediamento sarà costituito principal-
mente da laboratori scientifici, capacità di estrazione e spazi di supporto. Per il loro
dimensionamento si può fare riferimento alle grandi basi antartiche che ospitano fino
a 1200-1300 persone (McMurdo, ad esempio). Supponendo un ampio uso di auto-
mazione e robotica, CNS prevede un insediamento di circa 100 persone, il 50% per
l’estrazione, il 30% per la ricerca, il 10% per la gestione e il 10% per il turismo.
Ci saranno anche spazi utili per accogliere gli animali: sia per il benessere
degli individui (animali domestici) sia per la catena alimentare che deve arric-
chire le colture.
Gli spazi confinati saranno nel complesso dell’ordine dei 50.000 m3; in
questi è da garantire aria e da determinare idonee condizioni di abitabilità. Il
ciclo dell’acqua dovrà assicurare almeno 1.500 l/g di acqua potabile, oltre alle
altre quantità per usi personali, per le piante, ecc. Gli spazi per piante/vegetali/
agricoltura (nelle quantità necessarie per le esigenze di alimentazione) sono an-
ch’essi al di sotto della “coltre”, ma in parti trasparenti (per il soleggiamento).
Devono avere dimensioni notevoli, che possono ridursi in termini di superficie
sviluppandosi su terrazzamenti ed in altezza.
160 Gennaro Russo, Massimo Pica Ciamarra

Questione sostanziale è che in habitat ex-


traterrestri occorre produrre aria: sono an-
che questi limiti concreti al dimensionamen-
to degli ambienti confinati. Un importante
contributo alla produzione di ossigeno viene
direttamente dal sistema ECLSS (Environ-
mental Control and Life Support System) che
include le coltivazioni. Il sistema oggi usato
sulla Stazione Spaziale Internazionale è già
molto sofisticato, ma resta un sistema aper-
to e necessita di frequenti ricariche e smal-
timento rifiuti. Così come ipotizzato per lo
SpaceHub, un sistema ECLSS completa-
mente chiuso in massa consentirà continuità
di produzione di ossigeno, smaltimento del-
la CO2 e produzione di cibo. Altro ossige-
no può derivare dall’estrazione; se si estrae
l’acqua presente nel sottosuolo lunare, da
H2O si può ottenere idrogeno e ossigeno.
L’idrogeno serve come propellente utile per
le apparecchiature della stazione, per i mezzi
di trasporto superficiali e anche per i mezzi
di trasporto verso altri punti della Città Ci-
slunare.
Il Comitato Scientifico del CNS continua
ad accogliere competenze diverse e a consi- Figura 11 – Rappresentazione artistica
dell’insediamento superficiale
derare sempre nuovi aspetti delle sue ricerche.

Bibliografia

Zanelli A., «Una parola per costruire», IBC 2, 2010: http://rivista.ibc.regione.emilia-ro-


magna.it/xw-201002/xw-201002-a0010
Zevi B., Saper vedere la città, Einaudi, Torino, 2006.
De Martino G., Pica Ciamarra M., Russo G., Torre V., «Orbitecture et SpaceHub: l’ap-
proche systemique», Le Carré Bleu 2-3 (2017).
La missione spaziale Solar Orbiter e il suo impatto scientifico e sociale

di Clementina Sasso

Perché studiamo il Sole?

Il Sole è sempre stato oggetto di curiosità e studio fin dall’antichità, per


la sua vicinanza alla Terra. È infatti l’unica stella di cui riusciamo a risolvere i
dettagli della superficie e per questo, studiando il Sole, possiamo avere infor-
mazioni anche sulle altre stelle che popolano l’universo. Rappresenta l’unica
fonte di energia esterna per la Terra, fornendole ~1.36 KW/m2 (in circa 20-
30 minuti il Sole fornisce alla Terra l’energia di cui ha bisogno per un anno)
ed è dunque fondamentale per la nostra vita. Se il Sole si spegnesse, le for-
me di vita complessa avrebbero probabilità pressoché nulle di sopravvivenza.
Al giorno d’oggi, siamo interessati a studiare il Sole, principalmente per tre
ragioni:
Il Sole è composto per la maggior parte da idrogeno ed elio, che alle alte
temperature solari sono ionizzati, cioè divisi in ioni con carica positiva ed elet-
troni con carica negativa. Questo gas di particelle cariche (definito plasma)
interagisce costantemente con il campo magnetico solare. Le condizioni di
temperatura e pressione del plasma solare sono difficilmente riproducibili in
laboratorio e, dunque, il Sole e l’eliosfera (che è l’enorme bolla di plasma in cui
è immerso il sistema solare) rappresentano un grande laboratorio per studiare
in dettaglio l’interazione tra plasmi e campi magnetici (ESA – Solar Orbiter
Assessment Study Report, 2009). Lo studio di quest’interazione ci aiuta a com-
prendere meglio anche altri campi dell’astrofisica come la formazione stellare,
l’attività nei nuclei galattici e la fisica del plasma, che trova applicazioni prati-
che ad esempio nei reattori per la fusione termonucleare.
Il campo magnetico generato all’interno del Sole ha un ciclo di circa 11 anni,
in cui varia la sua forza, raggiungendo un minimo, un massimo e poi di nuovo
un minimo di attività. Quando il campo magnetico è al suo massimo di attività,
il Sole emette maggiore energia, e viceversa. Campi magnetici particolarmente
intensi sono spesso associati a fenomeni esplosivi di rilascio di energia e massa
che possono investire la Terra e avere conseguenze sulla nostra vita quotidiana.
Infatti, questi fenomeni improvvisi si manifestano con una forte emissione di
radiazione energetica, in particolare raggi UV, X, gamma e particelle ionizzate
che, quando impattano sull’atmosfera terrestre, possono provocare aumenti di
densità che modificano l’orbita di satelliti, tempeste magnetiche con disturbo
delle trasmissioni radio, correnti elettriche indotte che possono influenzare le
nostre reti di distribuzione dell’energia (ricordiamo il black-out del 1989 in Ca-
162 Clementina Sasso

nada e Usa, provocato da un forte brillamento solare), emissioni di radiazioni e


particelle che rappresentano un pericolo concreto per le nostre attività spaziali
quali la Stazione Spaziale Internazionale e gli astronauti che vi si trovano a bordo.
L’idea è di predire la durata precisa dei cicli di attività magnetica solare per
munirci di strumenti di protezione a Terra, in tempo.
Infine, siamo interessati a conoscere l’influenza solare sul clima terrestre
studiando, in particolare, il flusso di radiazione UV emanato dal Sole. I modelli
climatici più sofisticati tengono conto del flusso UV solare, la cui variazione è
legata alla variazione dell’attività magnetica e stimano gli effetti di questa varia-
zione. Ad oggi, non risulta che l’aumento di temperatura misurato sulla Terra
negli ultimi decenni possa essere correlato con variazioni dell’attività solare
(Fourth National Climate Assessment, 1990).

Cosa studiamo?

Come abbiamo visto, tutti i fenomeni fisici che avvengono sul Sole sono
strettamente legati al campo magnetico solare che viene generato negli strati in-
terni del Sole con meccanismi che non conosciamo ancora nei dettagli. Il cam-
po magnetico viene portato “a galla” dalla convezione che ha luogo nello strato
più esterno della parte interna del Sole, appena sotto la sua superficie. Una
volta emerse in superficie, le linee di forza del campo magnetico solare vengono
trascinate e deformate dal plasma solare a causa della rotazione differenziale
solare che crea configurazioni complesse in cui viene accumulata energia. Il
Sole, infatti, ruota in maniera differenziale, e cioè più velocemente all’equatore
che ai poli. Il plasma, che è formato da particelle cariche che risentono del
campo magnetico, resta intrappolato nelle linee di campo e muovendosi per
via della rotazione trascina con sé queste linee, deformandole (fig. 1). L’energia
trasportata in superficie dal campo magnetico alimenta i molteplici fenomeni
che avvengono nell’atmosfera del Sole.

Fig. 1 – Il processo di deformazione delle linee di forza del campo magnetico solare, dovuto alla rotazione
differenziale solare (Fonte: https://www.youtube.com/watch?v=-PTQaOWkEfs)
I fenomeni che studiamo, dunque, sono le espressioni del campo magnetico
La missione spaziale Solar Orbiter 163

sulla superficie e nell’atmosfera solare: macchie solari, facole, brillamenti, archi


coronali, streamer, ecc. Le particelle cariche che formano il plasma solare, come
già detto, risentono dell’attrazione del campo magnetico e si dispongono lungo
le sue linee di forza, rendendo queste ultime da invisibili, visibili. Le macchie
solari, ad esempio (fig. 2), sono zone della superficie solare più scure del resto
del Sole. Nelle macchie si concentra infatti un campo magnetico molto forte
che inibisce il meccanismo di convezione attraverso il quale parte della luce,
che proviene dall’interno del Sole dove è stata generata, arriva in superficie.

Fig. 2 – Macchia solare. L’immagine è stata ottenuta da


V. M. de Jorge Henriques con il Solar Swedish telescopio
(Scharmer et al, 2003) situato all’Osservatorio del Roque
de los Muchachos, alle Isole Canarie. È gestito dalla Royal
Swedish Academy of Sciences di Stoccolma.

Anche il numero delle macchie solari, che sono la manifestazione del cam-
po magnetico solare sulla superficie del Sole, varia ciclicamente durante 11
anni, seguendo lo stesso ciclo di attività del campo magnetico. Praticamente,
più forte e attivo è il campo magnetico più macchie ci saranno sulla superficie
solare. Quello che osserviamo è dapprima l’assenza, o quasi, di macchie (anche
per periodi estesi di diverse settimane) sulla superficie solare, poi un periodo di
intensa attività in cui il Sole è ricoperto da un alto numero di macchie, e infine,
al termine di questi 11 anni, di nuovo l’assenza, o quasi, di macchie.
Un’altra caratteristica delle macchie solari è che si presentano sempre in
coppia, rappresentando l’una il polo positivo del campo magnetico che le
attraversa e l’altra il polo negativo. Per undici anni la disposizione delle po-
larità delle macchie si mantiene costante nei due emisferi solari: se nell’emi-
sfero nord la macchia più a est ha polo positivo e quella più a ovest ha polo
negativo, nell’emisfero sud solare la situazione si presenta invertita. Finito un
ciclo solare, la polarità delle macchie s’inverte. Lo studio dell’attività solare
è dunque di fondamentale importanza per poter predire i fenomeni esplosi-
vi che hanno luogo nell’atmosfera solare e conoscere l’energia emessa dalla
nostra stella è utile per quantificare l’influenza del Sole sul clima terrestre.
Le macchie sono visibili nella fotosfera, che è la parte più bassa dell’atmosfera
solare e sono i piedi dei grandi archi che si estendono per migliaia di chilometri
fino alla corona solare, la parte più esterna dell’atmosfera (fig. 3).
164 Clementina Sasso

Fig. 3 – Arco coronale. L’immagine è stata ottenuta dal telescopio TRACE (Strong et al., 1994) a bordo
del Solar and Heliospheric Observatory (SOHO, Domingo et al., 1995). Si vede come il plasma, risen-
tendo del campo magnetico solare, si dispone lungo le sue linee di forza.

La missione Solar Orbiter

Solar Orbiter è la prima missione di classe-media del Programma dell’A-


genzia Spaziale Europea Cosmic Vision 2015-2025, realizzata in collaborazio-
ne con la NASA (Müller et al., 2013). È stata progettata per rispondere alla
seguente domanda scientifica: in che modo il Sole crea e controlla l’eliosfera e
perché l’attività solare varia col tempo?
Lo farà grazie ai dieci strumenti che ci sono a bordo e che si dividono tra
remote-sensing, cioè telescopi che osserveranno la superficie e l’atmosfera sola-
re da lontano, e strumenti in-situ, che invece misureranno le caratteristiche del
plasma direttamente nel vento solare. In particolare, gli in-situ effettueranno
misure del plasma del vento solare, dei campi, delle onde e delle particelle
energetiche mentre gli strumenti remote-sensing produrranno immagini ad alta
risoluzione e spettroscopiche del Sole contemporaneamente da dentro e fuori
il piano dell’eclittica, del campo magnetico della fotosfera, immagini del disco
solare nel visibile, nell’UV e nei raggi X e immagini della corona. Questa suite
di strumenti ci permetterà di ottenere misure dalla fotosfera, che è il primo
strato dell’atmosfera solare, fino al vento solare che è lo sciame di particelle
emesse costantemente dal Sole e che arriva fino a Terra. Lo studio e la combina-
zione di questi dati ci permetterà di seguire il percorso di un evento che nasce
sul Sole e si propaga nell’eliosfera.
La sonda è stata lanciata il 10 febbraio 2020 da Cape Canaveral tramite
un razzo Atlas V e dopo una fase di crociera di circa due anni ci invierà le
La missione spaziale Solar Orbiter 165

prime osservazioni scientifiche a dicembre 2021. È stata definita una missio-


ne storica, perché per la prima volta osserveremo i poli solari e come si com-
porta il campo magnetico ai poli. Solar Orbiter infatti, grazie alla sua orbi-
ta inclinata sull’eclittica, ci fornirà per la prima volta misure ai poli, dove il
campo magnetico solare inverte la sua polarità e dove crediamo risiedano i
meccanismi fondamentali dell’origine dello stesso campo all’interno del Sole.
Per poter inclinare l’orbita della sonda e avvicinarla sempre più al Sole, verrà
sfruttato il campo gravitazione di Venere (per ben 7 volte) e della Terra (1
volta), attraverso degli assist gravitazionali con questi due pianeti. La tecnica
utilizzata è quella della fionda gravitazionale, che permette alle sonde di fare
viaggi molto lunghi, che sarebbero altrimenti proibitivi se non addirittura im-
possibili, per un motivo di costi e per i tempi troppo lunghi. Dunque, grazie
alla gravità della Terra e di Venere, che agiscono proprio come delle fionde,
catturando la sonda e poi rilanciandola con velocità maggiore a ogni passaggio,
Solar Orbiter si avvicinerà sempre più al Sole e inclinerà sempre più la sua or-
bita rispetto all’eclittica. In questo modo, potrà raggiungere il punto più vicino
al Sole mai raggiunto con attrezzature telescopiche e osservare i poli solari, mai
osservati finora perché al momento tutte le sonde solari orbitano sull’eclittica.
Inoltre, in alcune fasi della missione Solar Orbiter ruoterà a una velocità ridot-
ta insieme al Sole per osservare le strutture che evolvono sulla superficie solare e
nell’eliosfera per almeno una rotazione solare completa. La fase della missione no-
minale è di 4 anni ma è prevista un’estensione della missione di altri 3 anni e mezzo.
Gli obiettivi scientifici della missione si possono riassumere in queste quattro
domande:
Cosa guida il vento solare e dove ha origine il campo magnetico coronale?
In che modo i fenomeni transienti solari guidano la variabilità dell’eliosfe-
ra?
In che modo le eruzioni solari producono la radiazione di particelle energe-
tiche che riempie l’eliosfera?
Come funziona la dinamo solare e come guida le connessioni tra il Sole e
l’eliosfera?
Tra gli strumenti a bordo, Metis è il coronagrafo italiano frutto di una col-
laborazione internazionale guidata dall’Agenzia Spaziale Italiana e l’Istituto
Nazionale di Astrofisica (Antonucci et al., 2019). Il Principal Investigator è
Marco Romoli dell’Università di Firenze. Un coronagrafo è uno strumento che
simula un’eclissi solare, attraverso l’utilizzo di un occultatore che blocca la luce
proveniente dalla superficie del Sole e lascia passare quella che proviene dallo
strato più esterno dell’atmosfera solare, la corona. Metis fornirà immagini della
corona vicina sia in luce bianca polarizzata (lunghezza d’onda 580-640 nm) che
nell’UV (nella riga Ly-α dell’idrogeno a 121.6 nm) e potrà derivare le mappe
coronali della densità degli elettroni e dell’idrogeno neutro, la velocità del flus-
so in uscita dell’idrogeno neutro e dei protoni.
166 Clementina Sasso

Cosa comunicare?

Quello che ci interessa comunicare alla società sono soprattutto le ricadute


pratiche della ricerca spaziale nella vita di tutti i giorni. Nel caso di Solar Or-
biter, conoscere il campo magnetico solare e come interagisce con l’eliosfera ci
aiuta a proteggere le attività sulla Terra dalle tempeste magnetiche. In un’epoca
in cui qualsiasi attività umana dipende dall’efficienza delle telecomunicazio-
ni e dalla velocità delle trasmissioni, è fondamentale predire l’arrivo di una
tempesta magnetica che possa interferire con le nostre attività essenziali. Lo
stesso discorso vale per la comprensione dei cambiamenti climatici: conoscere
il flusso della radiazione solare, la cui variazione è strettamente legata al ciclo
dell’attività magnetica solare, può aiutarci a definire gli scenari climatici che ci
attendono.
A queste motivazioni, che riguardano strettamente lo studio astrofisico, bi-
sogna aggiungere il fatto che, per ogni missione spaziale, vengono sviluppate
nuove tecnologie che possono poi trovare applicazione nella vita di tutti i gior-
ni, applicazioni che molto spesso sono anche ignote al momento della realizza-
zione delle stesse. Ci sono molte invenzioni che possono essere portate come
esempio (è possibile trovare la lista aggiornata, da cui sono state selezionate
anche quelle di seguito, a questo indirizzo web: https://spinoff.nasa.gov):
La fibra di carbonio, che è un materiale usato per i componenti degli stru-
menti a bordo di alcune missioni spaziali, viene utilizzata con successo nel cam-
po delle protesi.
La ricerca in microgravità ha permesso lo sviluppo di bracci robotici, che
consentono di operare direttamente in risonanza magnetica e sono utili per
somministrare farmaci antitumorali in modo mirato alle cellule malate.
Sempre la ricerca in microgravità ha permesso la sperimentazione di nuovi
farmaci nello Spazio in modo più facile che sulla Terra: ad esempio nel caso
dell’osteoporosi, ossia la perdita di massa ossea che colpisce gli anziani, i farma-
ci vengono testati sugli astronauti di stanza sulla Stazione Spaziale Internazio-
nale, che in un mese in microgravità perdono circa l’1,5% di massa ossea che è
quanta ne perde un anziano in un anno;
La coperta termica spaziale utilizzata dagli sportivi o nelle operazioni di
salvataggio è anch’essa una tecnologia sviluppata nell’ambito delle missioni
spaziali.
Per quanto riguarda Solar Orbiter, la protezione degli strumenti di bordo
è affidata a uno scudo termico ad alta tecnologia composto da diversi strati di
titanio e una copertura esterna con una pellicola protettiva sviluppata appo-
sitamente (chiamata “Solar Black”) da Airbus Defence and Space. Le “porte
scorrevoli” predisposte sulla parete dello scudo termico proteggono le finestre
di acquisizione degli strumenti. Questa tecnologia potrebbe in seguito trovare
una sua applicazione sulla Terra.
La comunicazione della missione Solar Orbiter e i rapporti con le agenzie di
La missione spaziale Solar Orbiter 167

stampa e i media sono stati gestiti dall’Agenzia Spaziale Europea (ESA) prima e
dopo il lancio e, in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Americana (NASA),
durante la fase pre-lancio e quella del lancio stesso, visto che questo ultimo è
stato effettuato dalla base NASA di Cape Canaveral. Da aprile 2019 l’ufficio
comunicazione dell’ESA ha aperto i lavori, organizzando delle teleconferenze
con i responsabili della comunicazione dei gruppi dei dieci strumenti a bordo
di Solar Orbiter, con l’idea di avere un coordinamento minimo e una direzione
comune almeno per gli eventi principali che sono stati individuati nella spedi-
zione del satellite dalla Germania a Cape Canaveral, il lancio e il rilascio dei
primi dati scientifici. Per il resto, ogni gruppo ha potuto gestire la propria co-
municazione in maniera autonoma coordinandosi con le istituzioni scientifiche
locali coinvolte e le agenzie spaziali nazionali.
Per quanto riguarda i social, l’ESA ha deciso di affidare questo tipo di co-
municazione a un unico account su Twitter, @ESASolarOrbiter, insieme all’ha-
shtag #weareallsolarorbiters.

Nel team di Metis abbiamo definito un gruppo di lavoro sulla comunicazio-


ne che si è interfacciato per le decisioni comuni con i team della comunicazione
dell’ESA e della NASA. Il gruppo, denominato “Outreach”, è stato suddiviso
in sei sottogruppi, ognuno affidato a un responsabile: relazioni con le scuole,
relazioni con l’ESA/NASA, relazioni con i media, gestione dei social media,
gestione del sito-web, realizzazione e produzione gadget. I sottogruppi sono
stati pensati per lavorare in modo tale da poter arrivare al più ampio pubblico
possibile e coinvolgerlo nelle diverse fasi della missione. In particolare, abbia-
mo pensato di rivolgerci a tre gruppi principali: le scuole, il pubblico generico
dei mass-media e dei social e quello più attento e interessato all’argomento.
Per le scuole ci si è mossi in due modi: sono stati organizzati e si continueranno
organizzare incontri con i ricercatori del team di Metis sparsi su tutto il territo-
rio nazionale con le classi di ogni ordine e grado ed è stato realizzato un crow-
dfunding che ha permesso a cinque ragazzi di una scuola toscana di assistere al
lancio di Solar Orbiter. Visto il successo del lancio di Solar Orbiter e l’ottima
copertura dei giornali e media nazionali e locali dell’evento, molte scuole han-
no chiesto spontaneamente un incontro con un ricercatore del team di Metis.
Come già accennato, le relazioni con i media si sono svolte a più livelli a
seconda dell’evento da comunicare. Per quelli concordati con l’ESA, l’agenzia
ha convocato le conferenze stampa invitando tutti i network europei più im-
portanti e ha indicato per ogni nazione dei rappresentanti locali da intervistare
e/o contattare. Il team di Metis, oltre al proprio Principal Investigator, aveva al
suo interno anche un portavoce ufficiale della missione nominato direttamente
dall’ESA, così ha potuto sempre essere presente sulle reti televisive italiane che
hanno seguito l’evento del lancio direttamente da Cape Canaveral. Ogni richie-
168 Clementina Sasso

sta d’intervista, anche in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e,


grazie all’impegno di tutti i ricercatori del team, è stata soddisfatta e sono stati
realizzati anche articoli per riviste scientifiche di divulgazione italiane e non.
Siamo riusciti anche a essere presenti con alcuni membri del nostro team alle
tavole rotonde con il pubblico generico organizzate dalla NASA, al Kennedy
Space Center qualche giorno prima del lancio.
Sui social abbiamo creato due account, uno su Facebook e uno su Twit-
ter con il nome “Metis coronagraph – Solar Orbiter”. Questi account hanno
raggiunto una buona fetta di pubblico (generico e specialistico) attratti soprat-
tutto dall’evento del lancio che è stato trasmesso in diretta direttamente da
Cape Canaveral. La fase pre-lancio è stata pensata a partire da fine ottobre
2019, con la pubblicazione di tre post a settimana, per iniziare a convogliare
l’attenzione degli utenti sull’imminente lancio e, alla fine, questa strategia si è
rivelata vincente, risultando in un alto numero di visualizzazioni del video del
lancio. I post di entrambi gli account sono scritti sia in italiano che in inglese.
Per il pubblico più specialistico abbiamo un sito web http://metis.oato.inaf.it
con i dettagli tecnici e scientifici che riguardano sia Solar Orbiter che Metis e
che serve anche da archivio fotografico e delle notizie giornalistiche, in partico-
lare quelle pubblicate dai giornali e media italiani.
Il limite più grande di tutto il lavoro svolto risiede nel fatto di non aver
potuto contare su una figura specialistica all’interno del team, che si dedicasse
esclusivamente alla gestione della divulgazione e della comunicazione. Solo da
poco, infatti, iniziano a uscire i primi bandi di ricerca dove è possibile prevede-
re che una parte di budget sia dedicata proprio a queste attività. Quindi, tutto
il lavoro è stato svolto in contemporanea con quello scientifico, organizzativo
e ingegneristico della missione e sulla base della volontà e disponibilità dei sin-
goli membri del team. Soprattutto per questo motivo, possiamo ritenerci molto
soddisfatti dei risultati raggiunti. La missione ha una durata nominale di dieci
anni che saranno scanditi da diversi eventi da portare all’attenzione del pubbli-
co (fly-by con Venere e la Terra, prime osservazioni scientifiche degli strumenti,
ecc.), dunque i rapporti con la stampa e i media continueranno e, di volta in
volta, a seconda dell’evento, verrà deciso come muoversi in accordo con l’ESA.
Nel frattempo, gli incontri con le scuole e l’attività sui social continueranno con
la cadenza della fase pre-lancio per tenere viva l’attenzione del pubblico fino
all’evento di rilievo successivo.
La missione spaziale Solar Orbiter 169

Bibliografia

Antonucci E., Romoli M., Andretta V. et al., «Metis: the Solar Orbiter visible light and
ultraviolet coronal imager», A&A, in pubblicazione.
Domingo V., Fleck B., Poland A.I., «The SOHO mission: An overview», Sol. Phys. 162, n.
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Müller D., Marsden R.G., St. Cyr O.C., Gilbert H.R., and The Solar Orbiter Team, «Solar
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Region and Coronal Explorer», Space Sci. Rev. 70 (1994), 119-112.
I tool di SSDC come esempio di apertura dei dati spaziali alla comunità

di Angelo Zinzi1, Carlotta Pittori2, Rosa Tagliamonte3, Fabrizio Lucarelli4

Sebbene i dati provenienti da missioni spaziali possano apparire di difficile


fruizione e di scarso interesse per un comune cittadino, negli ultimi anni le
tecnologie applicate a tali archivi hanno fortemente puntato verso un aumento
dell’accessibilità, anche tramite l’utilizzo di software e tool web con una inter-
faccia grafica comprensibile anche a persone non esperte.
Esempi di sforzi in questa direzione possono essere testimoniati dalla volontà di
rendere un numero sempre crescente di archivi di dati spaziali aderenti ai principi
FAIR (Findability, Accessibility, Interoperability, Reusability – Ricercabilità, Ac-
cessibilità, Interoperabilità, Riutilizzabilità, cfr. Wilkinson et al., 2016), che spesso
in campo astronomico corrispondono all’utilizzo degli standard dell’Osservatorio
Virtuale (VO – Virtual Observatory) e del corrispettivo relativo ai dati di esplora-
zione planetaria (VESPA – Virtual European Solar and Planetary Access).
In quest’ambito lo Space Science Data Center (SSDC) dell’Agenzia Spazia-
le Italiana (ASI) è ormai da decenni uno dei punti di riferimento per le comuni-
tà scientifiche afferenti a osservazione dell’universo ed esplorazione del sistema
solare, sia con la messa a disposizione di dataset e cataloghi secondo i predetti
standard VO, che con lo sviluppo di tool web che permettono di estrarre in
maniera rapida e funzionale informazioni scientifiche dai dati archiviati.
Tra i tool di SSDC di maggior interesse possiamo certamente annoverare:
il Multi-Mission Interactive Archive (MMIA), che permette, da una singola
interfaccia, di accedere alla grande maggioranza dei dati delle varie missioni
dedicate all’osservazione dell’universo lontano archiviati in SSDC;
il SED tool, tramite il quale è possibile ricostruire, a partire dai dati citati in
precedenza, una Spectral Energy Distribution (SED – Distribuzione Spettrale
di Energia) lungo un vasto intervallo di lunghezze d’onde, così da ricavare una
informazione completa, sia nel dominio temporale che spettrale, relativamente
a sorgenti astrofisiche;
MATISSE (Multi-purpose Advanced Tool for the Instruments for the Solar
System Exploration – Zinzi et al., 2016), il primo tool di SSDC espressamen-
te progettato per lo sfruttamento di dati acquisiti da missioni di esplorazione
planetaria, con funzionalità avanzate anche per nel campo della proiezione tri-
dimensionale del dato; vari tool di analisi scientifica interattiva per molte delle

1
  Space Science Data Center & Agenzia Spaziale Italiana. E-mail: angelo.zinzi@ssdc.asi.it.
2
  Space Science Data Center & INAF-OAR. E-mail: carlotta.pittori@ssdc.asi.it.
3
  Agenzia Spaziale Italiana. E-mail: rosa.tagliamonte@est.asi.it.
4
  Space Science Data Center & INAF-OAR. E-mail: fabrizio.lucarelli@ssdc.asi.it.
172 Angelo Zinzi, Carlotta Pittori, Rosa Tagliamonte, Fabrizio Lucarelli

missioni spaziali supportate da SSDC, tra cui in particolare l’AGILE-LV3 tool,


che permette di analizzare in maniera semplice e veloce i dati di alta energia
della missione AGILE, utilizzato anche per le attività didattiche descritte suc-
cessivamente.
Al classico impegno di SSDC verso le comunità scientifiche di riferimento,
negli ultimi si è affiancato anche lo sviluppo di attività rivolte a soggetti non di-
rettamente coinvolti nella ricerca scientifica, come istituti scolastici e pubblico
in genere.
Tali attività comprendono la partecipazione a eventi di divulgazione scien-
tifica, come la “Notte Europea dei Ricercatori”, regolarmente organizzata in
ASI da alcuni anni, e il coinvolgimento in attività didattiche, spesso rientranti
nei percorsi di PCTO (ex Alternanza Scuola-Lavoro), introdotti dalla legge
107/2015 (anche conosciuta come “La Buona Scuola”). Obiettivo di questo
lavoro è quello di dimostrare come l’utilizzo dei tool di SSDC in programmi
di questo tipo possa contribuire ad accrescere l’interesse del pubblico, e degli
studenti in particolare, verso temi scientifici in generale, così da avere un im-
patto positivo sul tessuto sociale del quale fanno parte i vari istituti scolastici
coinvolti.

SSDC e i suoi tool

SSDC affonda le sue radici nei primi anni Novanta, con la costituzione del
BeppoSax Data Center (per il satellite per astronomia a raggi X BeppoSax),
evolvendo poi nel 2000 nel centro multi-missione ASI Science Data Center
(ASDC), dedicato alla gestione e allo sfruttamento dei dati delle missioni di
astrofisica delle alte energie. Negli ultimi anni il centro ha espanso il proprio
campo di attività, fino a incorporare altri settori delle scienze spaziali, come
l’astrofisica in altre bande di energia e lo studio di pianeti ed esopianeti, assu-
mendo l’attuale denominazione.
I due scopi principali di SSDC sono l’archiviazione, l’analisi e la distribu-
zione dei dati di missioni spaziali, insieme allo sviluppo di tool scientifici per
l’estrazione di informazione scientifica di alto livello a partire dai dati di inte-
resse. Questi obiettivi sono stati generalmente perseguiti seguendo un “approc-
cio operativo” che coinvolge sia scienziati che partner industriali. Il centro è
formato da personale dell’ASI, dell’INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica) e
dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare), con il supporto informatico
ICT fornito da aziende, quali, attualmente, Telespazio e Serco. Questo approc-
cio ha permesso lo sviluppo di tool software e servizi focalizzati sugli interessi
reali delle specifiche comunità scientifiche, diventando, in alcuni casi, punti di
riferimento per esse.
I tool di SSDC come esempio di apertura dei dati spaziali alla comunità 173

Le attività didattiche di SSDC

Il centro ha recentemente allargato i propri interessi verso tematiche come


la didattica e la divulgazione scientifica, partecipando anche a eventi locali (es.
la “Notte Europea dei Ricercatori” in ASI e il “Maker Faire” di Roma), il-
lustrando le proprie attività al pubblico. In questo contesto la possibilità di
entrare a far parte (a partire dall’anno scolastico 2017-2018) dei percorsi di
“Alternanza Scuola-Lavoro” proposti dall’ASI è stata immediatamente vista da
SSDC come un’ottima occasione per dimostrare l’utilità dei propri tool, non
solo a vantaggio della comunità scientifica, ma anche per utenti poco esperti.
Il percorso di alternanza “standard” previsto dal regolamento ASI prevede
tre fasi ben definite:
Fase 1: la struttura dell’ASI è presentata alle scuole partecipanti, mostrando
loro l’organizzazione, le attività, le peculiarità e i ruoli professionali presenti;
Fase 2: viene quindi condotto uno stage breve direttamente all’interno della
sede dell’ASI, così da rendere gli studenti consapevoli delle differenti attività
proposte;
Fase 3: lo stage lungo, a conclusione del percorso, permette di svolgere at-
tività lavorative estremamente vicine a quelle effettivamente svolte in ASI, così
come descritto nel piano didattico.
Nel caso delle attività di SSDC, durante lo stage breve vengono illustrate
brevemente, tramite dei seminari tenuti da personale del centro, le attività re-
lative ad astrofisica delle alte energie ed esplorazione del sistema solare. Dopo
alcune settimane, gli studenti ritornano in ASI per la fase di stage lungo, nel
corso del quale vengono coinvolti nelle attività di SSDC per due giorni, uno
per ogni ramo (astrofisica delle alte energie ed esplorazione del sistema solare).
Queste attività sono finalizzate a riprodurre (seppur parzialmente) alcune ana-
lisi scientifiche discusse in una serie di pubblicazioni di riferimento, quali, ad
esempio, l’osservazione e l’analisi di impressionanti emissioni di energia sotto
forma di raggi gamma molto rapide e intense avvenute in galassie attive e re-
gistrate dal satellite AGILE (Tavani et al., 2009) o l’analisi mineralogica delle
zone scure della superficie dell’asteroide Vesta, esplorato dalla missione NASA
Dawn (Russell et al., 2007; Russell et al., 2012).
Le attività di astrofisica delle alte energie sono mirate alla riproduzione
di una serie di risultati scientifici tramite l’utilizzo del tool interattivo online
AGILE-LV3 (Pittori, 2019), sviluppato per l’analisi dati del satellite gamma
AGILE. I casi proposti agli studenti comprendono l’analisi di eventi cosmici
di emissione di raggi gamma eccezionalmente elevata originatisi nei buchi neri
supermassivi al centro di due galassie distanti (a titolo di esempio si sono usati
gli ATel #7631 e ATel #918; cfr. Lucarelli et al., 2015; Munar-Androver et al.,
2016).
Dopo una breve introduzione sull’astrofisica delle alte energie e in parti-
colare sui buchi neri al centro dei cosiddetti “nuclei galattici attivi” o AGN
174 Angelo Zinzi, Carlotta Pittori, Rosa Tagliamonte, Fabrizio Lucarelli

(active galactic nuclei), utilizzando il tool AGILE-LV3, agli studenti, suddivisi


in piccoli gruppi, è stato chiesto di:
• cercare nell’intero archivio dati pubblico di AGILE le osservazioni re-
lative alle sorgenti cosmiche prescelte, i cui enormi buchi neri posti al loro
centro si pensa siano responsabili delle emissioni transienti di energia rilevate
e riportate negli ATel;
• generare, tramite la selezione dell’apposita funzione del tool, una “curva
di luce”, ovvero un grafico riportante la luminosità dell’oggetto lungo un de-
terminato periodo di tempo (anche di alcuni anni), utilizzando intervalli tem-
porali di circa un mese;
• identificare il mese di massimo flusso ed effettuare un’analisi accurata su
periodi di tempo più brevi, all’interno del mese di interesse, provando a ripro-
durre i risultati degli ATel;
• inserire i risultati così ottenuti nel tool SSDC multi-missione SED Tool,
così da confrontare i dati alle varie lunghezze d’onda, acquisiti da altre missioni
spaziali, disponibili per le sorgenti selezionate. L’immagine risultante è un gra-
fico dell’energia emessa in funzione della lunghezza d’onda: partendo dal radio
fino ai raggi gamma, passando da visibile e raggi X.
Per le attività incentrate sull’esplorazione del sistema solare, gli studenti
utilizzano il tool MATISSE, seguendo il lavoro di Palomba et al. (2014) relativo
allo studio, tramite spettroscopia infrarossa, delle zone scura della superficie
dell’asteroide Vesta. Dopo che nella fase di stage breve è stato loro illustrato il
tool MATISSE, la giornata dedicata per lo stage prolungato inizia con un semi-
nario specificamente focalizzato sugli aspetti necessari allo studio delle super-
fici planetarie con spettroscopia infrarossa. Viene quindi illustrato brevemente
l’articolo di Palomba et al. (2014) che fungerà da riferimento e vengono infine
fornite ai ragazzi una serie di osservazioni dello spettrometro VIR, a bordo del-
la missione NASA Dawn, da cercare ed analizzare tramite l’utilizzo combinato
di MATISSE e JS9, un tool online (non SSDC) per la lettura delle immagini nel
formato FITS generate come output da MATISSE. In questo modo gli studenti
possono estrarre, sotto la supervisione di personale esperto SSDC, le informa-
zioni spettrali (albedo nel vicino infrarosso, radianza nell’infrarosso termico
e parametri spettrali a 1 e 2 micron), che nell’articolo di riferimento vengono
utilizzate per caratterizzare la composizione mineralogica e l’origine delle varie
zone scure presenti sulla superficie di Vesta.
Un ulteriore percorso di alternanza è stato poi sviluppato a partire dall’an-
no scolastico 2018-2019, sulla base delle attività relative all’esplorazione del
sistema solare. In questo caso, però, le attività si svolgono direttamente nell’i-
stituto scolastico sotto la supervisione di personale ASI qualificato, che si reca
in loco per una serie di incontri (da un minimo di 4 a un massimo di 8) e si
concludono con una giornata di workshop in ASI. In questo caso gli studenti
vengono introdotti non solo alle nozioni necessarie all’espletamento con suc-
cesso del singolo lavoro scientifico, ma vengono edotti anche su altre tematiche
I tool di SSDC come esempio di apertura dei dati spaziali alla comunità 175

di interesse, come la necessità di preservare i dati spaziali e le modalità di scrit-


tura e revisione di un articolo scientifico. La necessità di presentare il lavoro
svolto in una sede istituzionale quale quella dell’ASI, rende infine necessario
la redazione , da parte degli studenti coinvolti, di una presentazione in Power-
Point chiara ed efficace. Il tipo di esperienza prolungata e approfondita riesce
chiaramente a coinvolgere maggiormente gli studenti, permettendo loro una
comprensione più accurata di tutta la tematica, così da diminuire la distanza tra
loro e il mondo della ricerca.

Conclusioni

Lo Space Science Data Center dell’ASI, dopo esser diventato un punto di


riferimento per la comunità scientifica che si occupa di astronomia, astrofisica
e scienze planetarie, ha di recente allargato i propri interessi anche alla divul-
gazione e alla didattica. I risultati di questi primi anni di lavoro sul tema sono
incoraggianti e mostrano che, se ben guidati, gli studenti delle scuole superiori
di secondo grado sono aperti alla conoscenza di tematiche generalmente viste
come ostiche e di nicchia. L’obiettivo è far capire loro che l’accesso ai dati di
missioni spaziali non è riservato solo a una ristretta cerchia di ricercatori, ma
che l’utilizzo di protocolli per la loro interoperabilità e di tool web per l’analisi
mette ormai a disposizione la conoscenza in essi racchiusa a chiunque abbia
voglia di seguire corsi anche di livello base.
Per questo motivo nel prossimo futuro l’attenzione dedicata a tali attività
andrà a incrementare e i tool saranno, compatibilmente con il loro risvolto
scientifico, resi di sempre più facile utilizzo anche per un pubblico non esperto.

Bibliografia

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Munar-Adrover P et al., The Astronomer’s Telegram 9186, 2016.
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Zinzi A. et al., «MATISSE: A novel tool to access, visualize and analyse data from planetary
exploration missions», Astronomy and Computing 15 (2016), 16-28.
Between Science & Society – Scienza e società verso il 2030

a cura di Mirella Orsi e Roberto Paura

Cover: Fabio Caiazzo


Layout e impaginazione: Chiara Manzillo

© Italian Institute for the Future 2020

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