Sei sulla pagina 1di 10

PSICOLOGIA DEL LAVORO 16/11/2022

Riprendiamo da dove avevamo lasciato: stiamo vedendo il concetto di motivazione. La volta scorsa
abbiamo parlato del goal setting che ci consente poi d avviare una serie di azioni per ottenere il
risultato sperato e abbiamo parlato dell’importanza della relazione tra obiettivo e processo
considerando che il processo non è relativo solo all’azione ma in realtà è un processo lungo e
articolato che prevede diverse fasi e che ha una distinzione fondamentale tra parte di definizione
dell’obiettivo (goal setting) e poi una parte di goal striving che è come poter agire per raggiungere
l’obiettivo. Quindi abbiamo parlato di quanto sia importante la definizione degli obiettivi e che attiva
una serie di processi che permettono al soggetto di raggiungere il suo scopo. Abbiamo parlato infatti
di focalizzazione, intensità, persistenza e strategie che riguardano appunto l’azione. Poi abbiamo
parlato però di una serie di elementi che possono andare a interferire l’articolazione del processo
della definizione degli obiettivi, alcuni elementi sono di carattere personale, altri elementi sono di
carattere contestuale e riguardano la relazione tra il lavoratore e il lavoro. Tutti questi elementi
vanno a influenzare i livelli di goal committment, cioè l’impegno verso l’obiettivo. Per esempio se
colui che ha assegnato i compiti non è sufficientemente in grado di comprendere quali siano gli
obiettivi strategici ecc non ho fiducia e stima. Detto questo, ci spostiamo verso il goal striving che ha
a che fare con tutti quegli elementi, quei sforzi che mettiamo in campo per poter raggiungere gli
obiettivi. Quando parliamo di sforzi necessari per poter raggiungere gli obiettivi, in realtà parliamo di
strategie di autoregolazione perch tutti noi abbiamo risorse di cui siamo più o meno consapevoli. Nel
processo di goal striving è fondamentale attivare i processi di autoregolazione e di fatto
rappresentano dei processi psicologici cioè pensiero, ragionamento, attenzione, regolazione
emotiva, riflessione che permettono di controllare i comportamenti per arrivare allo scopo. Quindi
non è che io nel momento in cui mi viene fissato l’obiettivo, stabilisco cosa fare e
indipendentemente da quello che accade intorno a me andrò dritto per la mia strada e metterò in
campo tutte le energie in quella direzione. In realtà, per fortuna, siamo dotati di una mente capace
di attivare dei processi autoregolatori che consentono di modulare il nostro comportamento
riflettendo, prestando attenzione agli elementi più significativi, insomma provando a riflettere su
quanto quello che facciamo è effettivamente utile rispetto all’obiettivo da raggiungere. Quali sono i
meccanismi di autoregolazione che solitamente utilizziamo? Sicuramente il monitoraggio che ci
consente di prestare attenzione ai comportamenti che abbiamo deciso di adottare. E quindi
chiederci sostanzialmente “Quello che sto facendo mi sta consentendo di raggiungere l’obiettivo?”.
Quindi il monitoraggio mi fa pensare a un processo, quindi io ho un obiettivo che mi è stato fissato
per la fine del mese e nel frattempo decido cosa fare per raggiungere l’obiettivo ma soprattutto
monitoro le mie attività per capire se quello che sto facendo in realtà mi sta consentendo di
raggiungere o meno l’obiettivo. Questa azione di monitoraggio è fondamentale soprattutto quando
abbiamo degli obiettivi a medio lungo termine dove diventa fondamentale riflettere su ciò che
abbiamo deciso di fare perchè nel momento in cui quello che abbiamo deciso di fare non è utile
allora siamo in tempo per ripensarci e trovare delle strategie nuove più efficaci. Per esempio
sappiamo che il primo appello di psicologia del lavoro è il 2 febbraio e io mi organizzo sapendo che
per passare questo esame è necessario studiare e sottolineare il libro e basta. Qualora io decidessi di
monitorare solo questa strategia, il 2 febbraio cioè alla fine del processo vado a verificare se quello
che ho fatto è risultato efficace. Se invece attivo un processo di autoregolazione di monitoraggio,
man mano mi pongo delle domande tipo “Leggere e sottolineare si sta rivelando una strategia
efficace per raggiungere l’obiettivo? Oppure, visto che all’esame ci sono domande aperte, è meglio
scrivere 15 righe su un tema?”. Quindi il monitoraggio ci aiuta a correggere il tiro per non arrivare al
2 febbraio davanti a un compito e non sapere come rispondere. L’altra funzione dell’autoregolazione
è l’autovalutazione, quindi il fatto di prestare estrema attenzione ai feedback ricevuti grazie a un
confronto con degli standard cioè l’elemento di autovalutazione può essere autovalutazione rispetto
a se stessi (per esempio rispetto a quello che abbiamo fatto per un altro esame e man mano mi
autovaluto e vedo se effettivamente rispetto a quei standard sto riuscendo ad acquisire informazioni
e ricordarmele?), ma può anche essere un’autovalutazione grazie a un confronto con degli standard
esterni, per esempio faccio il confronto con un collega che ha sostenuto l’esame l’anno prima e mi
dice che rispetto a quello che il compito, secondo la sua esperienza, mi conviene utilizzare una
strategia che per lui ha funzionato. Oppure possiamo fissare noi degli standard di qualità, per
esempio dopo aver studiato ogni capitolo provo a rispondere a una domanda e una volta risposto e
fissato degli standard andiamo a leggere la risposta per capire quanto siamo stati in grado di essere
esaustivi. Un’altra caratteristica dell’autoregolazione è la reazione interna, è importante saper
governare le nostre reazioni. Quindi la reazione interna racchiude tutti quei processi interni che
attiviamo a seguito del monitoraggio e dell’autovalutazione perchè se noi utilizzassimo il
monitoraggio e l’autovalutazione come fini a se stessi, cioè mi sono accorta che quello che sto
facendo non sta funzionando, ovviamente non ci sarebbe la reazione interna cioè la resa di coscienza
che sarebbe il caso di cambiare strategia. Quindi la reazione interna è un processo di
autoregolazione perchè segue alla fase di monitoraggio (di riflessione su quello che sto facendo) e
alla fase di autovalutazione (confronto con degli standard) ed è una cosa molto concreta, un’azione,
che mi fa eventualmente cambiare quello che sto facendo in funzione dell’obiettivo. Questi processi
sono fondamentali per raggiungere il risultato perchè in qualsiasi tipo di situazione, se non siamo in
grado di controllare le nostre reazioni, di comprendere se quello che stiamo facendo sia utile o meno
e di riflettere sul processo, sicuramente questo potrebbe portarci a una grande difficoltà nel
ritrovarci di fronte a una situazione nella quale non siamo stati in grado di raggiungere l’obiettivo.
Quindi poi andare a cercare le cause diventa un processo ancora più complicato. Questi processi
aiutano a raggiungere gli scopi. L’ultimo step è la valutazione degli esiti è un momento fondamentale
che avviene alla fine del processo ma in realtà risulta strategico un po’ per le ragioni che abbiamo
detto poco fa, mentre il monitoraggio, l’autovalutazione avvengono durante il processo perchè mi
aiutano a correggere il tiro all’occorrenza, in realtà la valutazione degli esiti avviene alla fine del
processo, Quindi l’informazione che proviene dalla valutazione degli esiti risponde alla domanda “I
risultati ottenuti sono appropriati rispetto agli investimenti effettuati?”. Cioè facendo un bilancio in
base all’impegno che ci ho messo, alla strategia che ho adottato, sono stati efficaci per raggiungere
questo obiettivo? Intanto è utile porsi questa domanda e rispondere perchè sulla base della risposta
siamo in grado di apprendere. La finalità della valutazione degli esiti non è dire “tu sei bravo, tu non
sei bravo”nell’ottiva del giudizio, ma ha sempre una finalità di apprendimento perchè nel momento
in cui io ricevo una valutazione, a seconda della valutazione ricevuta, comprendo cosa avrei potuto
fare meglio, quali sono gli elementi che avrei potuto sviluppare in modo migliore, quali sono le
strategie che non hanno funzionato. Nella valutazione degli esiti spesso incidono altri processi, per
esempio il concetto di equità e il concetto di giustizia. L’equità è il rapporto tra ciò che si è dato e ciò
che si è ricavato, per esempio la prof si è spesa tanto per questo lavoro, poi però ottiene di contro il
risultato che un giorno a lezione non si presenta nessuno senza essere stata avvisata e allora si dice
“Ma come, tutto l’investimento che ho fatto per creare una relazione con gli studenti, per impostare
un rapporto di fiducia e rispetto e poi ottengo questo”. Questo vale soprattutto nell’ambito
lavorativo, ma anche per noi se studiamo tantissimo per un esame però il voto che prendiamo per i
nostri standard non è soddisfacente, è chiaro che rimaniamo delusi. Al concetto di equità si aggiunge
anche il concetto di confronto che può essere interno cioè il bilancio tra quello che ho dato e quello
che ho ricavato, ma può anche essere sociale, cioè il confronto tra quello che ho dato e ho ricavato
io, e quello che ha dato l’altro e ha ricavato. E quindi ci può essere una percezione di non equità nel
momento in cui il mio impegno è stato 100 e ho ottenuto 80, e l’impegno del mio compagno è stato
80 e ha ottenuto 100. Questo con la motivazione c’entra perchè nel momento in cui percepisco una
mancanza di equità, allora potrei sentirmi meno motivato la volta successiva a impegnarmi così
tanto. E questa è la teoria dell’equità di Adams. Il concetto di giustizia è molto simile al concetto di
equità ma ha sfumature diverse. Il concetto di giustizia è legato al fatto che il mio grado di
soddisfazione rispetto a quello che ho fatto si misura rispetto al modo in cui sono stata trattata
dall’organizzazione in funzione di quello che ho fatto. Cioè, il mio impegno, fermarmi oltre l’orario di
lavoro e non ricevere straordinari, supportare i miei colleghi, cercare da sola le informazioni, viene
riconosciuto dall’organizzazione? Il riconoscimento può essere formale (avere una responsabilità in
più), economico (l’organizzazione vede il mio impegno e alla fine del progetto mi premia con un
bonus economico), informale ( di fronte al mio grande impegno mi viene fatto un elogio pubblico
riconoscendomi il merito). Quando invece il concetto di giustizia ha degli esiti negativi? Quando
quello che si è dato all’organizzazione non viene riconosciuto e valorizzato e sento che il modo in cui
l’organizzazione mi tratta non è adeguato rispetto a quello che faccio. Questo elemento lo
riprenderemo quando parleremo di contratto psicologico, il quale si rompe in corrispondenza di
situazioni di questo tipo, cioè quando do tanto all’organizzazione ma ricevo un trattamento di livello
basso e non vengo riconosciuto e valorizzato. Quindi questi 2 elementi sono fondamentali in
relazione alla motivazione perchè se io sto in un’azienda in cui sto dando tanto e per 1 anno mi
spendo tanto, ma poi vedo che ricevo un trattamento che non valorizza il mio contributo, pian piano
il mio goal committment, il mio livello di motivazione, andrà scemando perchè appunto non troverò
un riscontro in quello che faccio. E’ chiaro però che se il mio lavoro mi piace, lo farò comunque con
passione. Il concetto di giustizia coinvolge a pieno titolo l’organizzazione nel momento in cui non
presa attenzione al valore di ciascun dipendente e al valore del suo contributo. L’organizzazione così
ci perde, perchè se a lungo andare non ti senti valorizzato e a un certo punto trovi un’altra
organizzazione in cui puoi ricominciare da zero e far vedere il tuo valore, aspettandoti che ciò ti
venga riconosciuto, allora magari inizi a guardarti attorno e a pensare di abbandonare
l’organizzazione in cui sei al momento che non ti valorizza. La giustizia organizzativa si divide in 3
elementi fondamentali: la giustizia distributiva, cioè i benefici che ho ottenuto dopo avere eseguito
un compito e ottenuto un risultato, sono distribuiti in modo equo per esempio abbiamo un gruppo
di lavoro in cui ognuno ha dato il suo contributo al raggiungimento dell’obiettivo quindi i benefit
sono distribuiti in modo equo (ovviamente ci deve essere qualcuno che supervisiona il lavoro). Poi
c’è la giustizia procentrale, cioè legata alla procedura che si è portata avanti e quindi per esempio
all’adeguatezza nei modi di distribuire le risorse da parte dell’organizzazione. Per esempio io fisso un
obiettivo per un reparto, quel reparto ha tutti gli elementi strategici per poter raggiungere il
risultato? Tutti i membri hanno il supporto tecnologico, formativo, amministrativo per poter
raggiungere quel risultato? Quindi adeguatezza di distribuire le risorse umane, strumentali,
economiche che mettono le persone nelle condizioni di poter raggiungere un certo obiettivo. In
questo caso possiamo trovarci davanti a qualcuno che ha ricevuto strumenti in più rispetto a qualcun
altro e quindi ci troviamo davanti a un’ingiustizia perchè il mio risultato è stato scarso non perchè io
non mi sono sufficientemente impegnato, ma perchè gli strumenti messi a disposizione erano
differenti tra le persone. Poi c’è la giustizia interpersonale, cioè la percezione di come si viene
trattati in termini di rispetto e dignità anche in relazione alle altre persone. E anche qui il ruolo del
manager è fondamentale perchè se c’è un trattamento diverso da parte del manager a seconda delle
persone semplicemente per una questione di simpatia personale, potrebbe far calare i livelli di
motivazione. Magari faccio tanto per essere riconosciuto dal manager e poi parla sempre con
un’altra collega perchè gli sta più simpatica. Perchè questi 3 elementi della giustizia organizzativa
sono fondamentali? Perchè chiamano direttamente in causa l’organizzazione e ci interroghiamo su
che cosa l’organizzazione può fare per assicurare una percezione di giustizia organizzativa da parte
dei dipendenti che sia consona e che vada a sostenere e a realizzare un’azione che sia congruente a
quello che l’organizzazione si aspetta da quei dipendenti. E allora come si fa a mantenere questi
livelli di giustizia in equilibrio? Prima di tutto puntare sui sistemi di valutazione. La valutazione nelle
organizzazioni è sempre un tema molto complicato soprattutto nella pubblica amministrazione dove
il concetto di valutazione è entrato da qualche anno, ma non c’è un vero e proprio sistema di
valutazione; c’è una burocratizzazione della valutazione ma non corrisponde a nulla di quello che ci
siamo detti oggi e di quello che abbiamo parlato la volta scorsa, proprio del concetto di valutazione
che si fonda sulla relazione tra chi fissa gli obiettivi e chi li deve eseguire e raggiungere, è
semplicemente un compilare una scheda che ci consente di dire quanto una persona ha rispettato
certi standard, ma qual è la formazione reale di chi dovrebbe fare quella valutazione rispetto a
questi elementi; quindi diventa semplicemente un’azione burocratica che consiste nel compilare un
modulo nel vedere come più o meno vanno le cose, senza avere degli strumenti adeguati e invece la
valutazione delle performance è fondamentale anche soprattutto per accedere a dei benefit o ad
avere posizioni di maggiore rilievo, quindi se viene fatta male, tutte le decisioni che vengono prese
dopo possono causare delle conseguenze negative. Per esempio il manager fa una valutazione
sbagliata di quel dipendente perchè è stato assente o si è occupato di altro, bene o male quella
persona ha visto che lavora adeguatamente e allora gli dà una valutazione positiva. Questa
valutazione passa nelle mani del top management che decide di assegnare a quelle risorse che
hanno avuto una valutazione molto positiva, un bonus. Il bonus viene erogato (terzo passaggio),
raggiunge le persone, il collega che ha lavorato molto di più e si è dedicato di più rispetto a quello
che ha preso il bonus ha un effetto molto deleterio per le persone perchè è una percezione di
ingiustizia in questo caso e può portare a un disengagement, mancanza di committment, impegno,
di adesione e affezione verso l’organizzazione ecc. Quindi come possiamo vedere, non è un
problema circoscritto in cui si può dire “Vabbè questa volta è stata sbagliata la valutazione, la
prossima volta cambieranno le cose”, ma è un problema che poi si ripercuote su tanti altri elementi
arrivando poi alle persone coinvolte. Quindi nelle organizzazioni è fondamentale avere un sistema di
valutazione. Domanda di una collega: “La poca chiarezza e trasparenza delle organizzazioni, può
avere effetti anche su chi non ha ricevuto un rimprovero? Per esempio, se si decide di licenziare un
lavoratore per assumerne un altro, colui che rimane nell’organizzazione se non ha ben chiari i motivi
del licenziamento, potrebbe inficiare questo sulla sua performance?”. Risposta della prof: certo.
Innanzitutto, il licenziamento è già un tema un po’ particolare perchè ci devono essere una serie di
giustificazioni per licenziare, quindi diciamo che l’azienda dovrebbe arrivare a giustificare a fronte di
un calo significativo del fatturato, deve essere licenziato per una giusta causa. Però in generale,
dovremmo metterla al contrario: anche per chi non riceve quel bonus perchè magari non se l’è
meritato, che effetti ha sulla persona? E’ chiaro che anche su quella persona ha un effetto deleterio
perchè quello è, diciamo molto banalmente, un rinforzo a un comportamento, magari anche a un
senso di autoefficacia, quindi la persona si convince di aver fatto bene, di aver raggiunto l’obiettivo,
si sente super forte perchè è stato riconosciuto come tale e quindi anche il modo in cui si pone con
gli altri colleghi, nel modo in cui si relazionerà da ora in poi con l’organizzazione, il fatto di
pretendere qualcosa in futuro, sarà sicuramente frutto di questa azione. Cioè si genera proprio una
reazione a catena che non si può controllare, perchè l’errore originale l’ha fatto il manager che non
ha saputo valutare. Una volta che è partito quel meccanismo non si può più tornare indietro perchè
è stata una reazione a catena che ha portato a dei risultati che non sono più controllabili da nessuno.
Le reazioni si propagano come se fosse un sassolino che viene lanciato in acqua e si creano quei
cerchi concentrici che non sono più governabili, ma si amplificano solamente. Quindi avere un
sistema di valutazione chiaro e adeguato e anche formare i manager che effettueranno delle
valutazioni con dei criteri, delle strategie, metodologia è fondamentale. Quali sono gli strumenti di
valutazione che il manager usa? Sicuramente abbiamo detto che fissa degli obiettivi e li verifica alla
fine ma come li verifica durante? Si pone l’obiettivo di incontrarsi periodicamente con le persone per
fare un monitoraggio? Oppure, decide di dedicare un giorno all’osservazione dei suoi collaboratori
per capire che cosa stanno facendo e come lo stanno facendo? Ha degli strumenti adeguati per
effettuare la valutazione? Questo è fondamentale perchè per esempio io decido di assumermi
questa responsabilità di dedicare 2 ore a settimana per supervisionare il lavoro delle persone. Quindi
in quelle 2 ore non mi occupo di altro, sto nel reparto e osservo il comportamento e il modo di
lavorare dei colleghi. Ma che strumenti ho per farlo? Se non ho strumenti adeguati, che cosa
osservo? Qual è l’oggetto dell’osservazione e della valutazione? Quali sono gli indicatori
comportamentali che mi fanno dire se quella cosa la sta facendo bene o la sta facendo male?
Possono essere implicite, magari io conosco benissimo il contenuto del lavoro e quindi mi viene
naturale guardare quello che fa quella persona e dire “Sulla base di quello che gli ho detto di fare sta
facendo bene questo, questo e può migliorare su questo, questo e questo”. Ma se io sono il manager
di un’area di 20 persone, ciascuna delle quali si occupa di cose diverse delle quali io non ho
competenze su tutto, come faccio a valutare? Quindi il concetto di avere anche degli strumenti
adeguati è responsabilità anche dell’organizzazione formare, fornire gli strumenti, avere un sistema
di valutazione chiaro. Perchè la valutazione di un manager dovrebbe essere diversa da un altro?
Bisogna avere un sistema di valutazione chiaro che aiuta il manager a eseguire correttamente il suo
lavoro di valutazione. Esempio: in enel hanno una pratica in cui il responsabile di un reparto fissa
degli obiettivi con un tempo per ciascuna delle persone all’interno di un colloquio iniziale
individuale. Alla fine di quel tempo, c’è un momento dedicato alla valutazione in cui il manager ha un
foglio davanti con i parametri che sono stati fissati inizialmente e che vanno a operazionalizzare gli
obiettivi. Stessa scheda viene data al dipendente che si autovaluta. Quindi il manager valuta
l’operato di quel dipendente sulla base dei suoi parametri e il dipendente si autovaluta sulla base
degli stessi parametri. Alla fine di questa fase di valutazione e autovalutazione c’è un momento in cui
ci si incontra e nell’ambito di un colloquio vengono messe in campo delle schede e vengono
paragonate l’autovalutazione con l’eterovalutazione. E’ un momento di confronto nel quale si va a
verificare lo scarto che c’è tra l’autovalutazione effettuata dal dipendente e la valutazione effettuata
dal manager. Sugli elementi con il maggiore scarto, si apre un confronto. “Perchè tu ti sei valutato
così in modo basso mentre io ti ho dato una valutazione più alta? Proviamo a scendere nel dettaglio,
cosa fai, cosa non fai, perchè, cosa ti manca, cosa vorresti”. O al contrario “Perchè la valutazione del
manager è così bassa rispetto a quella che ho fatto io? E’ stato il manager che non è stato in grado di
identificare un comportamento e valorizzarlo oppure sono io che non gliel’ho fatto vedere o non ho
manifestato la capacità di raggiungere un obiettivo in modo adeguato?”. Quindi questo confronto è
un momento di grande apprendimento perchè ci si interroga sulle valutazioni e si intuisce quali
potrebbero essere le strade da intraprendere. E’ un momento importante innanzitutto perchè c’è
trasparenza, non è che il manager fa una valutazione osservando il comportamento, la passa al top
management che decide se dare o meno il bonus, quindi il dipendente non saprà mai per cosa è
stato valutato, qual è la sua valutazione. L’altro vantaggio di fare una cosa di questo tipo, è utilizzare
quello come un momento di apprendimento nel quale il dipendente si vede attraverso gli occhi di
qualcun altro, si guarda dall’esterno e si domanda “Perchè mi ha dato una valutazione di questo
tipo? Qual è l’elemento che non mi ha consentito di raggiungere una valutazione elevata? Forse il
manager si aspettava qualcosa di diverso e a me non era chiaro? Chiariamocelo, così partiamo di là.
Su questi elementi si gioca poi il confronto: è un momento di apprendimento perché, da quel
momento, non solo il dipendente comprende delle cose ma anche il manager, che non si aspettava
che quella persona dedicasse tanto tempo ad una certa attività e lo sa fare anche molto bene. Di
conseguenza, ripensa anche un po’ al modo in cui verranno fissati gli obiettivi e capisce chi mettere a
capo per compiere determinati obiettivi e chi è più performante su altri. Per questo motivo, le
informazioni di ritorno anche per il manager sono importanti e significative. Trasparenza perché il
processo deve essere trasparente: gli elementi e gli oggetti di valutazione devono essere trasparenti.
Teoricamente, dovrebbe essere trasparente anche la metodologia. Ad esempio, io l’ho vista questa
scheda, fisicamente, ed è una scheda in cui non è presente soltanto un punto elenco (supervisione
dei colleghi più giovani; formazione per supporto a chi sta sul campo…) con una serie di obiettivi che
andiamo a misurare. Ciascuno di questi obiettivi, in realtà, è stato spacchettato in micro-obiettivi o
comunque reso più fluido, lasciando intendere che ci sono dei comportamenti adeguati per poter
raggiungere quel tipo di obiettivo: quanto più gli obiettivi saranno operazionalizzati, resi
comprensibili, tanto più sarà semplice perché già sanno che saranno quelli gli elementi su cui
saranno valutati e si dovranno autovalutare. Quindi, anche quello è un momento importante, nel
quale, probabilmente, si condividono e fissano gli obiettivi e si comprende anche il senso di essi. La
trasparenza e la chiarezza delle regolo sono un elemento assolutamente fondamentale per evitare le
problematiche del confronto interpersonale: io percepisco di essere stato valutato su alcuni aspetti e
di aver avuto magari una valutazione bassa mentre il mio collega è stato valutato su altro e la sua
valutazione è risultata più elevata, quindi lui ha ottenuto il bonus e io no ma non giocavamo ad armi
pari perché le regole erano diverse; dunque stiliamo delle regole comuni e nel momento in cui le
condividiamo possiamo agire in modo sereno anche effettuando un confronto a posteriori che ci
consentirà di avere una chiarezza fondamentale su quello che è stato l’intero processo e sugli esiti a
cui ha portato. Ma se non c’è chiarezza sulle regole, mi viene il dubbio che ci siano stati dei
favoritismi e gli effetti del dubbio possono addirittura equivalere o anche essere superiori
all’accadimento di un fatto reale: magari non c’è stata una disparità di trattamento ma il fatto che
non siano state condivise adeguatamente le regole all'inizio e che io, quindi, non le conoscessi, fa
venire il dubbio che ci siano stati favoritismi. Se io ho il dubbio che sia stato fatto un favoritismo,
l’effetto su di me di insoddisfazione e demotivazione sarà equivalente all’avere una prova di
trattamento non equo. È un paradosso, ma è così perché noi lavoriamo molto sulla nostra
percezione delle cose, quindi se, dal nostro punto di vista, la percezione di come è stato il processo
può portare a cose non chiare allora, con l’insinuazione del dubbio, l’esito sarà di un certo tipo.
Questo per ritornare al senso di responsabilità dell’organizzazione che dovrebbe cercare di
monitorare questi elementi per evitare che si creino situazioni di questo genere che purtroppo sono
all’ordine del giorno. Nel sistema di valutazione, la trasparenza delle regole e gli strumenti
dell’operazionalizzazione cercano di ridurre al minimo il rischio di rendere la valutazione soggettiva.
Il grado di soggettività deve essere sempre tenuto in conto se è una persona che valuta, a meno che
non ci sia un compito con delle risposte multiple in cui la valutazione quella è. Tuttavia, il grado di
soggettività può variare in base a quanto riusciamo a mettere su un sistema strutturato, valido, con
dei criteri chiari e delle regole condivise. Molto più questi elementi sono fumosi, tanto più si
prenderà spazio la soggettività perché se io non ho strumenti a cui aggrapparmi valuto in base a ciò
che vedo e quello che vedo è ciò che si aggancia alla mia idea di valutazione, di comportamento
performante. La questione della trasparenza è fondamentale non tanto nella valutazione ma già da
prima perché se c’è una trasparenza nel fissare gli obiettivi e quindi io so cosa si aspetta il mio capo
da me, rispetto a quell’obiettivo che abbiamo fissato insieme, mi comporterò in un certo modo ma
se manca a monte la chiarezza su questo, interpreterò quell’obiettivo sulla base dei miei parametri e
criteri di valore e metterò in atto un certo tipo di comportamento che potrà piacere o meno, potrà
rivelarsi più o meno efficace e potrà essere valutato più o meno positivamente.

RELAZIONE TRA LAVORATORE E LAVORO

Fino a questo momento ci siamo occupati di guardare la prospettiva del lavoratore in una logica più
intrapersonale, ora ci spostiamo ad una logica più di relazione tra il lavoratore e il lavoro. Quindi,
introduciamo un altro elemento fondamentale, ovvero l’oggetto della prestazione lavorativa del
lavoratore, il lavoro. Il lavoro può influire sugli elementi di natura motivazionale, personale e
individuale e come il lavoratore può influire sull’attività lavorativa a seconda del grado di
commitment, di impegno, di attenzione, di stress… Rispetto al concetto di lavoro e al mercato del
lavoro in generale, stiamo assistendo a tantissime trasformazioni: siamo già transitati verso
un’industria 4.0, c’è grandissima competizione e una focalizzazione e predisposizione verso le
risposte just in time, perché l’azienda non si può prendere il tempo di studiare delle soluzioni nuove
visto che il mercato è fortemente competitivo e ritardare l’uscita di un prodotto aumenta le
possibilità che qualcun altro possa farlo uscire prima. Questi elementi di natura generale portano ad
una maggiore flessibilità contrattuale (abbiamo parlato di come i primi contratti a tempo
indeterminato non ci siano più, rispetto a 30 anni fa). Adesso ci sono diverse forme contrattuali
come il tirocinio, lo stage, l’apprendistato, il contratto a tempo determinato, il contratto a tempo
indeterminato, il contratto di collaborazione occasionale (che ancora di più ci fanno percepire la
flessibilità e l’instabilità del lavoro). A questo corrisponde anche una segmentazione dei lavoratori, le
cui caratteristiche vanno a distribuirsi in maniera differente a seconda di quella che può essere la
strada scelta da ciascuno. All’inizio abbiamo parlato del concetto di diversità e di come nel tempo sia
cambiato l’approccio ad essa: risorsa o svantaggio? valore o problema da gestire?. Anche questo è
un elemento su cui riflettere perché determina una serie di scelte organizzative e prassi che che ci
sono nelle risorse umane. La sicurezza e la qualità della vità lavorativa, il concetto di benessere, di
stabilità, la job insecurity (quanto la percezione di insicurezza lavorativa va a inficiare sulle
prestazioni)... Quanto, per esempio, i contratti a termine possano avere un approccio al lavoro e un
impegno verso il lavoro differente rispetto a chi ha un contratto a tempo indeterminato: chi ha un
contratto a tempo determinato tende a impegnarsi un po’ meno perché l’instabilità può generare
questo tipo di atteggiamento, a differenza di chi ha un contratto a tempo indeterminato la cui
stabilità può portare a impegnarsi di più o può succedere l’esatto contrario. Se io sono così insicuro
di quello che sarà di me, magari posso avere un atteggiamento più disengaged nei confronti del mio
lavoro e degli obiettivi che mi vengono prefissati. Ci sono però anche dei contratti a tempo
determinato su cui le aziende giocano un po’: fino all’ultimo non ti dicono se lo rinnoveranno o
meno, non facendo trapelare nulla. In quella situazione, all’inizio potresti essere animato dalla voglia
di farti riconfermare ma man mano che il tempo passa, non arrivano notizie positive e l’azienda non
ti dice cosa sarà di te, potresti decidere di investire le tue energie nel cercare qualcosa al di fuori. La
prospettiva cambia a seconda di come la percezione di insicurezza lavorativa influisce sui
comportamenti delle persone. Ancora, il declino della sindacalizzazione: c’è un grande dibattito su
quanto, in realtà, sia leale il rapporto dei sindacati a tutela del lavoratore e quanto, invece, spesso il
sindacato sia in combutta con l’organizzazione e vada a stabilire degli accordi che non sempre vanno
a totale vantaggio dei dipendenti per garantire un certo status quo. Questo dubbio può portare il
lavoratore all’incapacità di gestire l’esperienza lavorativa perché non si sente tutelato. Tutto questo
influisce sulla relazione che ciascuno ha con il proprio lavoro.

RELAZIONE TRA LAVORATORE E LAVORO IN TERMINI DI DOMANDE E RISORSE

Ci sono delle teorie che hanno provato a spiegare i comportamenti lavorativi e organizzativi delle
persone a fronte dell’equilibrio spesso instabile, o a volte solido, tra job demands e job resources.
Tra le job demands abbiamo: la complessità, la pesantezza dei compiti, le scadenze ravvicinate, i
carichi di lavoro che possono essere eccessivi, l’ambiguità, l’incertezza del ruolo, la responsabilità, i
conflitti fra le persone, l’insicurezza… Queste sono tutte job demands, ovvero richieste connesse al
lavoro. A queste richieste risponde il lavoratore con le sue risorse (job resources, non ancora
personal resources). Le job resources sono le risorse legate al lavoro: la possibilità di controllo
professionale, la possibilità di essere autonomo nella gestione dei processi, la partecipazione alle
decisioni, la possibilità di contare su feedback positivi da parte dei superiori, il sostegno sociale,
l’ambiente di lavoro positivo, il clima positivo all’interno del contesto lavorativo… Queste job
resources non fanno altro che proteggerci dall’esito negativo che le job demands possono avere
sulle persone. Ci possono essere anche delle organisational demands come l’avere dei ruoli di
responsabilità, il fatto che l’azienda si aspetti determinati standard… quindi queste pressioni anche
di natura organizzativa possono mettere in difficoltà il lavoratore che risponde avvalendosi, ad
esempio, dei tabulati delle job resources (laddove esistano). Alle volte però è più necessario
avvalersi alle personal resources ovvero le risorse di natura personale che attengono ad elementi
come autoefficacia, resilienza, capitale psicologico, capacità di attribuzione causale… che vanno a
proteggere il lavoratore dal peso che le job resources e le organisational resources possono avere su
di lui e possono andare a infierire sul comportamento organizzativo. Se le job demands sono molto
forti (un compito eccessivamente complesso, un carico di lavoro eccessivo…), vanno a premere sul
lavoratore che se non ha delle risorse personali e non può avvalersi di risorse organizzative tali per
controbilanciare il peso delle job demands, allora questo disequilibrio provocherà degli esiti negativi
per la persona, prima di tutto, e per l’organizzazione. Quando questi elementi sono in equilibrio, il
lavoratore riesce a gestire il carico di lavoro perché ritiene di avere le risorse personali e lavorative
sufficienti per poter gestire quel carico. Quando invece le cose cominciano a non essere più in
equilibrio, si generano esiti negativi. Da un lato le domande mentali perché esistono anche le
personal demands e interpersonal demands: la gestione della famiglia perché essa incide sul lavoro e
sulla capacità della persona di gestire quel carico che non è più esclusivamente un carico lavorativo
ma un carico di natura personale o interpersonale; il conflitto di ruolo, quando non è chiaro il ruolo
che svolgo o quando ne ho uno doppio nella vita familiare o anche nel contesto organizzativo; gli
emotional demands, ovvero il carico emotivo che ci portiamo dietro quando lavoriamo a contatto col
pubblico, con la malattia, con il disagio psichico, con qualsiasi tipo di problematica che investe la
sfera di natura emotiva; il workload, ovvero il carico di lavoro in termini di scadenze, complessità,
mole di lavoro da portare avanti. Dall’altro lato possiamo contare su degli elementi che vanno a
controbilanciare queste richieste: un’azione di coaching, di supporto, di addestramento rispetto a
quelle che potrebbero essere le risorse da mettere in campo per gestire efficacemente situazioni di
questo tipo; il supporto sociale, per esempio se sono inserito in un reparto in cui c’è un carico di
lavoro eccessivo, il lavoro è perlopiù di tipo intellettuale quindi più complicato, ma posso contare su
un clima di lavoro, un contesto nel quale c’è supporto, aiuto e serenità nelle relazioni allora riuscirò a
controbilanciare l’effetto che quel carico di lavoro ha su di me. Alle volte, si fa difficoltà ad accettare
un incarico di responsabilità non tanto per il carico reale di lavoro connesso ad essa, quanto per il
clima che c’è all’interno del reparto: se il clima è positivo e so di poter contare sul supporto dei
colleghi, mi sentirò molto più sereno nell’accettare un carico di lavoro più impegnativo; quando il
contesto lavorativo e le relazioni sono conflittuali, c’è un clima negativo, la percezione del carico di
lavoro diventa più pesante rispetto a quello che in realtà è. Anche il grado di autonomia può
rimodulare l’effetto che ha su di noi il carico di lavoro: un conto è avere qualcuno che ti dice
esattamente cosa fare e come lo devi fare (Taylor parlava di alienazione perché non c’è un grado di
coinvolgimento nella ricerca di soluzioni, nel pensare creativamente e nel dare il proprio contributo
personale) proteggendoti dal sentirsi schiacciato dal peso del lavoro e delle responsabilità quando
quel contenuto man mano perde di significato. Questi sono gli elementi che dovrebbero tenere in
equilibrio il lavoratore in termini di richieste e risorse.

RUOLO DELLE RISORSE PERSONALI

All’interno di questo scenario, diventa assolutamente strategico anche avvalersi di un sé, poter
contare su un set di risorse personali che aiutano il lavoratore a sentir meno il peso delle richieste.
Le risorse personali sono delle caratteristiche di natura psicologica o aspetti del sé che riguardano le
abilità di controllare e influenzare l’ambiente con successo. Abilità o percezione di abilità: io potrei
essere in grado di influenzare il mio ambiente di lavoro con successo perché, ad esempio, sono una
persona fortemente carismatica e se vado in ufficio e dico una certa cosa, i miei colleghi mi seguono;
anche la percezione di abilità ha un ruolo importante perché io pretendo di essere in grado di
svolgere una certa attività e la faccio in un certo modo, portando un carico personale significativo.
Sicuramente rientrano qui le caratteristiche di personalità (ci sono alcune persone di cui notiamo
una forte personalità) che hanno un certo impatto sul peso delle responsabilità e del contenuto del
lavoro. A seconda di quelle che sono le caratteristiche di personalità prevalenti, il peso delle job
demands può avere un effetto diverso su di noi. La self-efficacy, ovvero il senso di autoefficacia
percepita nei confronti di una specifica attività: se io ritengo di avere le capacità di poter raggiungere
un certo obiettivo, non mi farò scalfire dal fatto che il mio capo oggi mi ha assegnato un’attività
nuova da fare; chi ha un basso senso di autoefficacia rispetto a quella novità avrà grandissime
difficoltà ad accettare di eseguirla, magari dovrà farla per forza ma con fatica. Il locus of control, in
riferimento ai processi di attribuzione causale interni o esterni: le persone che hanno dei processi di
attribuzione causale esterni, ovvero che ritengono che la responsabilità di tutto quello che accade
sia sempre di qualcun altro, di fronte ad un eccessivo carico di lavoro non troveranno delle risorse
per risolvere i problemi ma delle giustificazioni al fatto di non avere le capacità di poterlo fare; chi ha
un locus of control interno ha una grande focalizzazione sul sé internamente, ritiene di avere il
potere di cambiare le cose e quindi affronterà diversamente il carico di lavoro che gli verrà
assegnato. L’autostima perché se io ho un’alta autostima, mi possono dare tante cose da fare ma
posso farcela. Chi ha una bassa autostima (in questo caso parliamo più di percezione) si sentirà
facilmente schiacciato anche da una variazione minima al modo di lavorare tradizionale. La resilienza
in riferimento a cosa facciamo di fronte alle criticità: chi ha alti livelli di resilienza riuscirà a mettere
in campo quelle risorse necessarie non solo per affrontare la situazione ma anche per superarla in
modo virtuoso, uscendone anche rafforzato; chi ha un basso livello di resilienza sarà schiacciato dal
peso di quelle responsabilità. Le strategie di coping ovvero le strategie di fronteggiamento di
situazioni problematiche che risultano più o meno efficaci: se io posso contare su un set di strategie
di coping variegato (centrato sul problema, sulla relazione, sull’evitamento, sulle emozioni…),
sceglierò quello più adeguato a seconda della situazione; se io ho un set di strategie di coping
limitato, il continuo utilizzo di un’unica strategia risulterà inefficace rispetto a quello che è il
problema, quindi sarò schiacciato dal peso delle job demands. Le strategie di coping ci danno un set
di risorse diverso per affrontare situazioni anche complesse relative alle richieste lavorative. Le
strategie di coping si apprendono nel corso del tempo attraverso l’esperienza, attraverso i processi
di autoriflessione, autoregolazione, di monitoraggio, di valutazione di quello che ci accade.
Ultimamente si sta lavorando molto sul concetto di antifragilità, la risorsa che, di fronte a una
situazione critica, permette di uscirne non solo rafforzato ma riesce anche a cogliere il valore di quel
momento critico, gli aspetti positivi di quella criticità, l'opportunità nella difficoltà. Anche il livello di
motivazione è una risorsa personale: se io sono fortemente motivato nei confronti del mio lavoro, di
fronte ad una richiesta complessa e ambiziosa, se mi piace così tanto il mio lavoro io la accoglierò
comunque, se il mio lavoro non mi piace, quella richiesta avrà un peso specifico molto più rilevante.
In più, la motivazione può variare nel corso del tempo. Alcune sono caratteristiche più stabili legate a
tratti della personalità, altre invece sono più vicine alle competenze quindi più allenabili (la capacità
di essere resiliente, la capacità di aumentare il proprio senso di autoefficacia…). Questo può avvenire
però solo se riconosciamo di avere dei punti di debolezza che possiamo allenare perché se non
abbiamo consapevolezza di avere, ad esempio, un basso livello di autostima che mi porta ad avere
problemi nelle relazioni interpersonali, nei rapporti lavorativi, nel lavoro che devo svolgere e nel
raggiungere gli obiettivi, non lavorerò su quello. Ma se riconosco che i miei livelli di autostima sono
bassi potrei lavorare su questo ed avere un effetto positivo, ovvero affrontare con più serenità le
richieste lavorative che mi si presenteranno.

Potrebbero piacerti anche