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GIORDANO STELLA

Daniele Comboni,
il vescovo africano

Seminario Diocesano Missionario


REDEMPTORIS WATER
di LUGANO

MARCIANUM PRESS
© 2009, Marcianum Press s.r.L, Venezia.

ISBN 978-88-89736-61-6

Immagine di copertina: cartina dell’Africa tratta da Grande Atlante di


Geografia Universale, Stabilimenti di G. Civelli, Milano 1871.
Collezione privata.
5

Capitolo Primo
Teseul

Frazione di Limone del Garda, Teseul era formata antica­


mente da due grosse cascine, incastonate nel panorama d’una
collina; faceva da sfondo la superficie increspata del più bel lago
lombardo. Nel 1830, ‘Tanno della siccità1’ che devastò letteral­
mente il territorio, vi abitava un nucleo di circa cinquecento
contadini, detti, però, “giardinieri”.
Figlio di Luigi Comboni e di Domenica Pace, Antonio Da­
niele nasce il 15 marzo 1831, nella ricorrenza di San Longino,
il legionario romano a cui una leggenda attribuiva il colpo di
grazia, infetto con una lancia, a Gesù agonizzante sulla croce,
per accelerarne la morte e la sepoltura. Poi il legionario romano
(ma non esistono prove né documenti in proposito) avrebbe
aderito alla religione cristiana, concludendo la propria esistenza
in Cesarea di Cappadocia1, con il martirio.
11 neonato portava il nome d’un fratellino, nato nel 1828 e
deceduto nel volgere d’una giornata. Domenica Pace si rivelava
madre prolifica, ma vuoi perché i figli nascevano con un patri­
monio genetico già compromesso, vuoi per le carenze della me­
dicina del tempo, la prole era sottoposta, regolarmente, ad una
precoce falcidie. Basti pensare che tra Vigilio, il primogenito, e
il nostro erano nati e poi deceduti due bambini ed una femmi­
na addirittura era spirata nel giro di pochi minuti, il tempo di
ricevere il battesimo, ma non il “nome”, ritenuto inessenziale.
Nel pomeriggio dei 16 marzo, Luigi, scortato da un drappel­
lo di “giardinieri”, in abito scuro, cui faceva da scia uno stuolo
di pie donne dalla lunga gonna, si diresse al battistero della par­
rocchia. Reggeva il bambino, accuratamente fasciato, una vec-

Regione dell’Asia Minore nella Turchia orientale.


Daniele Comboni, il vescovo africano
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chia amica della madre, Agata Bertella, la madrina. Dopo la ce­


rimonia, presieduta dal parroco Pietro Roncelli, segui la stesura
deiratto o “fede di nascita”.
Pietro Martinelli, il padrino, pescatore di professione, firmò
o tentò di firmare con uno sgorbio, Agata, dal canto suo, trac­
ciò il segno di croce degli “illetterati”2; avendo dimestichezza
con la scrittura, il teste Pietro Segala scrisse il proprio nome,
senza difficoltà. Successivamente la comitiva raggiunse 1’abita-
zione del neonato - un edificio a due piani con il locale a pian
terreno, adibito a stalla - per festeggiare l’evento con un mode­
sto simposio3 a base di vino rosso.
Il padre del battezzato era originario di Boglìasco (comune
che s’affacciava sulla riva bresciana del Garda) dov’era nato nel
1803. Al compimento del quindicesimo anno aveva lasciato i
genitori per accasarsi presso un fratello maggiore, già ammoglia­
to e “giardiniere” d’un fondo intestato a Giacomo e Giovanni
Ferrari, dimoranti a Teseul. A quel tempo la manovalanza gene­
rica prevaleva sull’uso degli strumenti sofisticati e, per condurre
un’azienda di proporzioni notevoli, occorreva un vero esercito
di lavoranti. Gente nota in Piemonte come i “bifolchi”, i “colo­
ni” nel centro e nel sud Italia e tutti accomunati da un’estrema
indigenza. E questo spesso li spronava, alla scadenza del contrat­
to, verso l’emigrazione, in attesa d’un posto migliore, più simile
ad un’utopia che ad una speranza concreta.
Se pertanto i Comboni decisero di rimanere, per vari decen­
ni a Teseul, la ragione è presto individuata: la vita dei contadi­
ni, in riva al lago, aveva caratteristiche meno frustranti. Fu in­
fatti a Limone del Garda che Luigi conobbe Domenica Pace, di
due anni più anziana di lui, per sposarla il 24 luglio 1826. Ebbero
ben otto figli, ma solo Daniele raggiunse i cinquantanni.
L’epoca in cui il nostro vide la luce era percorso da un pa­
triottismo strisciante, fenomeno non molto vasto, in verità, e

2 Analfabeti.
5 Brindisi.
Capitolo Primo. Teseul

che coinvolgeva, generalmente, i ceti più evoluti. Ne faceva


parte, sia pure in misura ridotta, lo stesso clero.
Legate al potere assoluto, esercitato dagli Asburgo4, le auto-
rità ecclesiastiche mostravano, a tale riguardo, un certo allarmi­
smo e, nel 1833, il vicario generale della diocesi Giovanni Bat­
tista Corselli, con una circolare diretta alle parrocchie, avverti­
va i subordinati del rischio rappresentato, per l’integrità della
fede, dell’esistenza di molte sette segrete. Tra queste - è il caso
di puntualizzarlo - svolgeva un ruolo di primo piano la masso­
neria. Quel che più turbava i sacerdoti, comunque, era il cosid­
detto “giuseppinismo”, un’anomalia nata con l’imperatore
Giuseppe II, tentato a ridurre la Chiesa al modesto rango di sa­
tellite, sottoposto al potere politico. Il monarca si dimostrava
munifico nei confronti delle parrocchie, sostenute in vario
modo e, in particolare, con uno stipendio erogato ai titolari
delle medesime, ma questo al solo scopo di sottrarre all’autorità
del pontefice le nomine episcopali5 o, comunque, di condizio­
narle, pesantemente.
Ma torniamo al nostro Daniele. Egli apparteneva ad una fa­
miglia assai povera e altrettanto devota. A tavola spesso man­
giava polenta condita con l’olio ed il formaggio, sostituito in
rare occasioni che coincidevano con ricorrenze o festività im­
portanti, con la salsiccia. Non mancava naturalmente il latte di
mucca e, sia pure saltuariamente, persino la carne di manzo ar­
ricchiva, si fa per dire, la mensa dei giardinieri. I quali, nei mesi
invernali, difendevano le limonaie dalle aggressioni del gelo,
con dei tramezzi di legno.
Nel 1836 il colera si abbattè sulla piccola comunità come un
flagello, come una grandinata dalle proporzioni gigantesche, per
provocare una catastrofe inarrestabile. Si trattava di un conto
esoso che, ciclicamente, era necessario pagare e a cui i limone-

4 La dinastia che faceva capo all’Impeto Austro-Ungarico e governava le re­


gioni del Lombardo-Veneto.
5 Da episcopo, vescovo.
Damele Comboni, il vescovo africano
8

si opponevano una sola arma: la devozione, E alla Madonna


delle Grazie essi si rivolsero, con una novena di messe cantate.
Daniele intanto cresceva e dai sette ai nove anni frequentò
le scuole elementari sotto la guida del maestro Antonio Susio
che dimorava a Gardone. Distruzione s’articolava nel modo se-
guente: esisteva una scuola elementare detta “minore”, in grado
di garantire, per la durata d’un biennio, un approccio piuttosto
modesto con l’alfabeto e l’aritmetica e che corrispondeva, per
certi versi, al nostro “proscioglimento”6 d’ottocentesca memo­
ria. L’insegnamento del catechismo spettava invece ai sacerdo­
ti. Esisteva, poi, per chi avesse esigenze d’apprendimento più
vasto, la scuola elementare “maggiore” che aveva sede in città.
Essa prevedeva un ciclo di studi della durata d’un anno, antici­
pato comunque da un esame d’ammissione; preparava general­
mente gli alunni agli studi medi e superiori. L’orario scolastico
aveva un’estensione giornaliera di tre ore e mezza, riservando al
mattino la fase più consistente di tutto l’impegno. Una mulat­
tiera, lunga complessivamente due chilometri, conduceva Da­
niele alla scuola: non esisteva il tempo materiale per un ritorno
spedito all’abitazione e così il ragazzo pranzava a mezzogiorno
presso gli zii Paola e Giuseppe Comboni. S’alzava, di norma, in
un’ora antelucana e, dopo la colazione a base di latte caldo e po­
lenta abbrustolita, scendeva per un sentiero tortuoso e acciden­
tato; ad un certo punto attraversava il letto d’un torrente; nes­
suno l’accompagnava perché Vigilio, undicenne, aveva già con­
seguito il proscioglimento e tutti, in casa, avevano iniziato or­
mai da un pezzo, una dura giornata di lavoro.
Un enorme stanzone ospitava la scolaresca, ma vuoi perché
lo stipendio - un vero stipendio da fame - non costituiva un in­
centivo per l’insegnante, vuoi perché l’istruzione, nella menta­
lità popolare, non godeva di molto credito, l’unico frutto ap­
prezzabile, ottenuto da quegli alunni, si risolveva in ben poca

6Una sorta di mini-licenza elementare attribuita a chi dimostrava dì saper leg­


gere e scrivere.
Capitolo Pruno. Teseul
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cosa: la stesura maldestra e faticosa della propria firma.


D’altronde un sacerdote francese aveva riassunto, attraverso un
plausibile allarme, l’ansia avvertita dai ceti più facoltosi: non si
rischiava, somministrando ai cittadini tranquilli troppe nozioni
di trasformarli in pericolosi rivoluzionari?
Ed ora qualche dettaglio inerente al programma scolastico.
Oltre all’aritmetica e alla grammatica, Daniele seguiva, con
molta assiduità, le lezioni di catechismo, anche se queste, secon­
do una direttiva, a dir poco carente, s’articolavano su fragili basi
mnemoniche. La puntigliosa serie di domande, trascritte sul
testo della dottrina cristiana, presupponeva il riscontro d’una ri­
sposta collettiva, difficilmente ponderata, perché basata sulle
parole più che su concetti assimilati. E allora cosa accadeva? Ai
molti comprensibili silenzi di chi non aveva fissato nella memo­
ria conoscenze del tutto estranee ad un apprendimento ragiona­
to seguivano spesso le punizioni: bacchettate a teste colpevoli di
mancata concentrazione ed obbligo per il “negligente” di rima­
nere in ginocchio per un certo tempo, in una sorta di gogna ri­
paratrice.
Bisogna, però ricordare - e questo per dare a Cesare quel che
è di Cesare - che un decreto imperiale, poi fatto proprio dal ve­
scovo De Ferrari, imponeva la spiegazione dei temi proposti,
nelle giornate festive. E ciò era indubbiamente una prova di
modernità.
Esistevano, nel paesino, oltre alla parrocchiale, due chieset­
te minori.
Situata a pochi passi da Teseul, una era intitolata a San
Pietro in Oliveto e solo le rogazioni, celebrate una volta all’an-
no, l’aprivano al culto dei giardinieri. Durante la cerimonia,
cara ai fedeli, don Pietro benediceva le limonaie e gli uliveti. Il
secondo oratorio, situato a nord del paese, era dedicato a San
Rocco, in ricordo d’un’antica peste che aveva decimato la po­
polazione locale. Nativo di Montpellier (dove aveva visto la
luce nel XIV secolo) il santo era rappresentato con una gamba
gonfiata da un enorme bubbone, venerato però dalla gente per
via deH’efoismo mostrato nell’assistenza d’infermi e moribondi.
Daniele Comboni, il vescovo africano
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Ma poi, a Limone del Garda, come in altre comunità, dissemi'


nate in Europa, ['ufficio di protettrice dalle pestilenze divenne
una prerogativa della Madonna, detta “la Madonna delle
Grazie”. Sia pure di poco più ampia della chiesetta in questione
era la Parrocchiale.
E veniamo adesso alla “vocazione” o meglio airatteggiamen'
to che sembrava tutto improntato ad un rapporto privilegiato
con la religione cristiana.
Durante la frequenza del primo biennio scolastico si registrò
un’assidua presenza del nostro alle funzioni liturgiche. ChierL
chetto fisso alle messe, egli scandiva i tempi dell’Elevazione, fa'
cendo squillare il campanello, sempre pronto, in ogni caso, ad
onorare in ginocchio, col fumo che saliva dal turibolo, l’osten-
sorio benedicente. Daniele indossava una piccola talare nera
oppure scarlatta, secondo gli schemi previsti dal calendario ec-
clesiastico e partecipava attivamente alle cerimonie dei vespri,
rinunciando al richiamo dei giochi.
Malgrado il temperamento focoso ed irruente, restio comun'
que alla sopraffazione, sentiva intensamente il legame dell’ami-
cizia. Ma la chiamata al sacerdozio che mostrava precocemente
i primi indizi, faceva pender la bilancia delle sue scelte per i vari
impegni religiosi a scapito dei passatempi. Nell’abitazione di
Teseul, tanto per dirne una, costruiva, per gioco, altarini, tra'
sformando gli abiti vecchi in paramenti e conferendo ad un non
male bicchiere gli attributi del calice. E celebrava la messa, cen
cando di riprodurne tutte le scansioni, i gesti ieratici7 e le locu-
zioni latine. Insomma pareva che il suo ingresso in seminario
fosse proprio lì, dietro l’angolo, come una decisione priva d’ah
ternative.
Concluso il primo corso delle elementari, Daniele, tra il
1840 ed il ’41 seguì un corso di grammatica, tenuto dal sacerdo­
te Pietro Patuzzi. Si trattava d’un insegnante privato che per

7 Sacri, sacerdotali.
Capitolo Primo. Teseul
11

una cifra irrisoria - 75 centesimi al mese - l’introduceva nel


mondo delle parole e dei numeri. Rimanendo in paese, però, la
preparazione culturale rischiava d’inaridire sul nascere, non
avendo un humus nel quale alimentarsi. Allora Luigi e Dome­
nica, verosimilmente consigliati dal sacerdote che aveva intui­
te le doti del piccolo allievo, decisero per il futuro del loro ra­
gazzo, il conseguimento della licenza elementare. Due le vie che
si presentavano, in vista di tale obiettivo: il trasferimento a Ve­
rona oppure a Brescia. Se non direttamente, Verona era rag­
giungibile mediante un percorso più agevole: l’approdo alla
sponda del lago attraverso un breve tragitto, sicuramente non
dispendioso.
E poi, in quella città, abitavano i Rambottini.
Nato a Limone del Garda, Francesco Rambottini svolgeva le
mansioni di domestico presso famiglie altolocate. Aveva, a quel
tempo, trentotto anni, un anno in meno della consorte Barbara
Larcher, originaria di Folgheria. Sulla scorta di quanto archivia­
to sullo “Status Chatedralis” della parrocchia, i coniugi abitava­
no nel circondario di Santa Felicita. Un mediocre tran tran
scandiva il loro tenore di vita ed essi, per migliorarlo, tenevano
a dozzina qualche ragazzo, venuto a studiare in città. Spinti o
costretti dalla taccagneria (i proventi dei poveri non offrivano
mai occasione d’arricchimento) gli improvvisati albergatori le­
sinavano spesso sul vitto concesso a quei ragazzi. Temendo, pe­
rò, che gli stessi rivelassero ai famigliari il trattamento da fame,
avevano escogitato una sconcertante contromisura: opportuna­
mente istruiti, gli allievi rispondevano a chi formulava doman­
de sull’argomento, che “mangiavano a sufficienza”. Stranamen­
te il responso restava inalterato qualunque fosse la persona che
avesse tentato d’investigare, ma lo stratagemma, alla fine, mo­
strò tutte le sue crepe. Anche perché i ragazzi, nel corso delle
vacanze, tornavano in famiglia dimagriti.
Sul primo anno trascorso dal nostro a Verona non sono ri­
masti né tracce né documenti. Pur nell’assenza di prove, l’ipote­
si d’una proficua presenza alla scuola, diretta da don Ricobelli,
resta verosimile. Solo così si spiega la presentazione effettuata
11
Daniele Comboni, il vescovo africano

dal sacerdote a don Mazza, un campione dell’apostolato. Essa


comunque presupponeva, come condizione essenziale per “l’ac-
cettazione”, che fossero il parroco ed il maestro a provvedere in
tal senso. Il motivo è comprensibile. Intendendo usare con ocu-
latezza il denaro offerto da più d’un mecenate, don Mazza pre­
tendeva giustamente, in via preliminare, il curriculum dei can­
didati.
Ma ritorniamo a Daniele. Nel 1842 lui fece la sua prima co­
munione a Limone del Garda. Concluso, con “eminenza” il
corso di studi e conseguito il diploma elementare (se così pos­
siamo chiamarlo) ritornò a casa.
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Capitolo Secondo
L’incontro con don Nicola

L'ingresso neLl’Istituto, fondato da Nicola Mazza, uno dei sa­


cerdoti più prestigiosi della città, non fu immediato.
Condotto inizialmente dal padre Luigi (e correva l'anno
1842) Daniele si trasferì a Verona, per riscrizione, come alunno
esterno presso il ginnasio del seminario. Continuava ad essere
ospite dei Rambottini e le spese per la famiglia, rimasta a Li­
mone del Garda, si stavano facendo davvero insostenibili.
Portato a socializzare con il vivace mondo giovanile della
città, il ragazzo conobbe, a quel tempo, gli allievi “dell’Istituto”
e l'incontro con il fondatore si rivelerà, per il suo futuro di
prete, fondamentale. Egli ne informò il padre e Rambottini
seguì le pratiche per l'ammissione nella “struttura" realizzata
dal sacerdote per facilitare gli alunni, privi di mezzi, nella pro­
secuzione degli studi. A corredo dei documenti seguì la racco­
mandazione fatta dal prefetto del seminario don Ganassim.
Sembra comunque che ad accelerare l'accettazione abbia con­
tribuito il colloquio del “camilliano”1 padre Giovanni Perelli
con il Direttore. Tutto si concluse positivamente il 20 febbraio
1843, allorché Luigi Comboni, giunto apposta in città, accom­
pagnò il figlio dal religioso. 11 ragazzo fu esaminato con il con­
sueto rigore e, ammesso nell'Istituto, non nascose le sue ten­
denze all'ordinazione sacerdotale. Don Mazza informò il geni­
tore sui requisiti richiesti dal regolamento per la permanenza in
quella Casa. Condotta esemplare, in primo luogo, sotto tutti ì
profili e poi l'impegno costante nelle discipline con l'obiettivo
d’un risultato eccellente. Mancando soltanto una delle condi­

1Appartenente alla Congregazione fondata nel 1586 da Camillo de Lellis i cui


adepti operavano come infermieri negli ospedali..
Damele Comboni, il vescovo africano
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zioni richieste l’alunno sarebbe tornato immediatamente in fa­


miglia.
Dovendo rendere conto ai benefattori, destinati a moltipli­
carsi alla luce dei risultati che premiavano l’iniziativa, don
Mazza si mostrava intransigente (e con piena ragione) verso gli
inetti.
Se forte d’una vocazione salda e tenace, il ragazzo fosse arri­
vato al sacerdozio, avrebbe potuto restare nell’istituto ancora
per un quadriennio ad approfondire gli studi di teologia.
L’edificio che l’ospitava aveva sede nel quartiere di Santo
Stefano, in via San Carlo. Guidato da un rettore scrupoloso e
con la supervisione del fondatore, il collegio prevedeva due di­
versi gruppi di discepoli, con materie d’insegnamento comple­
tamente difformi. Il primo comprendeva gli adolescenti che,
con espressione moderna, potremmo definire “i liceali”, Un
liceo preceduto dal ginnasio. Il ciclo di studi, in ogni caso, se­
guiva un corso chiamato “d’umanità” ed uno di filosofia.
Entrambi si protraevano per un biennio. Per gli studenti che lo
frequentavano esisteva l’opportunità d’optare per le carriere ci­
vili oppure di proseguire sino “all’ordinazione”. Il secondo grup­
po d’allievi comprendeva quello già avviato al corso di teologia
o alla specializzazione quadriennale. Don Mazza, in sostanza,
pretendeva per i suoi preti una preparazione rigorosa. Terminati
gli studi, esisteva per tutti l’opportunità di far ritorno alla dio­
cesi originaria.
Ma chi era don Mazza? Nato a Verona il 10 marzo 1790, era
il primogenito d’otto fratelli, cinque dei quali morti precoce­
mente. Il genitore, un accorto mercante di seta, assai facoltoso,
aveva nome Luigi, marito di Rosa Paiola, una donna dalla fede
adamantina, assidua nel campo della carità. Che il padre di
don Nicola fosse un uomo di grandi risorse, lo si deduce da un
particolare illuminante; l’acquisto d’un palazzo destinato ad
abitazione, situato vicino alla Chiesa di San Pietro Incarnano.
Era un’epoca, quella (e mi riferisco ai primi anni dell’ottocen­
to), assai turbolenta, con Napoleone sempre in procinto di tra­
sformare l’Europa in un’immensa carneficina. Nel 1796 le trup­
Capitolo Secondo. L’incontro con don Nicola
15

pe francesi s’insediarono in vari quartieri di Verona e venti tra


battaglie e scaramucce disseminarono, nella città, lutti e distru­
zioni.
Tutto questo scompiglio cessò quando l’imperatore, sconfitto
a Waterloo, venne esiliato a Sant’Elena. Già negli ultimi anni
del 700, comunque, Luigi, preoccupato per le sorti della fami­
glia, aveva comprato a Marcellise una splendida villa, circonda­
ta da un ampio podere ove collocare i congiunti. Lui stesso, nei
momenti di tensione durante i quali Verona diventava terreno
di scontro tra i militari ed i cittadini insofferenti, si rifugiava in
campagna.
A Marcellise sorgeva una chiesetta, dedicata alla “Gran
Madre di Dio” e probabilmente deteriorata; amico del clero (e
in special modo di quello più evoluto) la fece restaurare a pro­
prie spese. L’approccio del piccolo Nicola con l’alfabeto avven­
ne dunque in mezzo alla pace campestre e ad istruirlo provvide
la madre, personalmente, coadiuvata da ottimi preti. Lui fre­
quentava, con assiduità, il vicino oratorio dei “filippini”2 e s’im­
pegnò a finanziare gli studi di Michelangelo Bonomi, apparte­
nente ad una famiglia assai povera, ma intenzionato ad entrare
nella Congregazione sopraccitata. Nicola accompagnava l1 ge­
nitore nell’oratorio, per assistere devotamente alle funzioni li­
turgiche e scelse per direttore spirituale padre Antonio Cesari,
uomo di grande erudizione, protettore degli emarginati. Il reli­
gioso eccelleva anche nelle vesti di predicatore e in quelle di
letterato, autore, fra l’altro, di un'Imitazione di Cristo che spiega­
va in chiave moderna e, più accessibile, la monografia dei
Kempis3.
Ma torniamo alla figura di Nicola. Indossato l’abito talare, ai
compimento del diciassettesimo anno, egli fu allievo del semina­

2 Preù regolari della Congregazione fondata da San Filippo Neri.


3 Tommaso da Kempis, morto nel 1471, è autore del libro L'imitazione di Cristo,
espressione della corrente detta devotio moderna mediante la quale si dà rilie­
vo alla riproduzione dell’umiltà, dell’abnegazione e, in special modo, della pas­
sione di Cristo.
Daniele Comboni, il vescovo africano
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rio diocesano, in qualità di esterno, giungendo al sacerdozio il 26


marzo 1814. Un altro religioso ch’ebbe un influsso notevole sul
giovane Mazza fu don Giovanni Bertone, il direttore spirituale
del seminano. A Verona, in sostanza, il figlio del mercante me­
cenate ebbe modo di contattare sacerdoti di limpida fede e di ca­
rità esemplare oltre che preparati sul piano della dottrina. Egli
amava intensamente il ministero prescelto e dava molta impor­
tanza al precetto della confessione. Sul finire della settimana,
tanto per dime una, percorrendo a piedi un tratto di strada con­
siderevole - lo completava nell’arco di due ore - tornava a
Marcellise dov’era di grande aiuto al parroco di quel paese. Dal
1816 (e aveva ventisei anni) insegnò Matematica presso il semi­
nario, poi anche Storia universale e le sue lezioni ottennero l’ap­
prezzamento d’un numero sempre crescente di chierici. In quel­
lo stesso anno, nei paesino ove risiedeva, conobbe il giovane fi­
glio d’un falegname (Luigi Dusi) che, per mancanza di mezzi, ri­
schiava d’interrompere gli studi. Lo condusse allora in città,
presso una donna fidata che lo teneva “a pensione” e pagando
successivamente ogni spesa inerente alla sua istruzione.
Un analogo comportamento ebbe con un ragazzo povero e
intelligente di Marcellise: Alessandro AdegarL Entrambi un gior­
no diventeranno sacerdoti e validi insegnanti presso il semina­
rio diocesano, futuri pilastri della fondazione don Mazza.
Malgrado l’eccellenza degli studi e la condizione di benestante,
don Nicola mai s’estraniava dalle miserie della realtà contadina.
E fu in tale ottica d’apostolato lungimirante che venne a cono­
scenza d’un episodio increscioso. Una donna dai costumi, non
particolarmente cristallini, aveva abbandonate due figlie, nate
da amori irregolari, destinate probabilmente ad un avvenire in­
felice. Per loro si profilava una strada piena d’insidie e con una
meta obbligata: la prostituzione.
Don Mazza si prese cura delle bambine affidandole ad una
persona, assolutamente sicura e, poiché le situazioni di degrado
caratterizzavano spesso i ceti più deboli, si vide costretto ad oc­
cuparsi di altri giovani vite. Alcune appartenevano alla catego­
ria degli orfani, numerosa e variegata, ma non mancavano i figli
Capitolo Secondo. L’incontro con don Nicola
17

e soprattutto le figlie, frutto di rapporti illegittimi e subito ab­


bandonate. Progettando, per le bambine, una famiglia alternati­
va, basata su sani principi, don Mazza le affidò a una madre “so­
stitutiva”, scelta per le sue doti di accoglienza. Abitava in una
casetta che s’affacciava sul Lungoadige, alla sponda sinistra del
fiume. Essendo purtroppo diffuso il fenomeno dell’abbandono (e
a incentivarlo contribuivano le molte epidemie di colera) apri­
rà una sorta di collegio nel rione San Paolo, in una zona poi di­
venuta emblematica: via Cantarane.
La mole di carità, espressa dai sacerdote, è rappresentata da
questi numeri: se nel 1836 le assistite furono centosessanta, do­
dici anni più tardi il raddoppio coronerà l’iniziativa. Agli inizi
degli anni trenta, per rimarcare il distacco dalla famiglia anagra­
fica e l’ingresso in quella “evangelica”, don Mazza lascerà Mar-
cellise (dove risiedeva) per stabilirsi presso la comunità femmi­
nile da lui fondata. Ottenne in uso, per le funzioni liturgiche,
loratorio di San Giovanni in Sacco, divenuta, di conseguenza,
la chiesa di adozione.

Dopo l’aiuto fornito ai giovani di Marcellise, il sacerdote


fondò il collegio maschile per indigenti, penalizzati dalla situa­
zione famigliare. Nel 1833 il conte Pietro Alberini, amico ed
estimatore di don Nicola, acquistò dal fisco (che l’aveva verosi­
milmente espropriata) l’antica chiesa di San Carlo ed alcuni pa­
lazzi adiacenti a fini di mecenatismo.
Sorgeva, a quel punto, la “Casa per giovani talenti distinti” che
già da quell'anno toccarono quota trentuno. E tra gli insegnanti
emerse, per lo zelo e la competenza profusi, don Luigi Dusi.
Mentre i gesuiti, seguendo la tradizione medioevale, si dedi­
cavano all’educazione dei “nobili”, con l’intento di trasformarli
nei dirigenti ecclesiastici dell’avvenire, gli scolopi4, ì somaschi5

4 Membri della Comunità religiosa regolare delle Scuole Pie, fondata da San
Giuseppe Calasam:io.
5 Membri della Congregazione di chierici regolan costituita da San Girolamo

Emiliani in Somasca (Bergamo).


Daniele Comboni, il vescovo africano
18

ed altri ordini interessati concentrarono il loro impegno verso i


figli dei contadini e degli operai. Contavano di seminare, tra i
seguaci di Cristo, i principi della santità più che l’amore della
carriera. “Buoni costumi, docilità d’indole, sani criteri e sommo
ingegno” costituivano il metro di scelta di don Nicola, intenzio­
nato a portare verso i gradini più alti dell’istruzione solo chi
fosse provvisto di qualità eminenti.
Un resoconto del 1846 fornisce al lettore un quadro della si­
tuazione esistente nell’Istituto: 12 sacerdoti studenti, 25 chieri­
ci, 90 allievi iscritti al ginnasio e al liceo e 13 universitari.
Alla direzione della struttura il fondatore aveva collocato
una compagine di sacerdoti dotati di solida preparazione umani­
stica e religiosa, mai disgiunta dalla propensione alla carità.
Insomma già s’intravedeva, sia pure in embrione, il marchio in­
confondibile della “Pia Società don Mazza”. Per finanziare l’isti­
tuzione, molto seria ed attiva e immancabilmente circondata da
un’aureola di rinomanza, il sacerdote attingeva ai contributi
elargiti dalla Corte imperial-regia6 e a quella degli amici vero­
nesi. Dal 1842 organizzò corsi per sacerdoti studenti, candidati
a perfezionare l’apprendimento nelle discipline più complesse:
Dogmatica7, Morale, Sacre Scritture, Diritto, Patristica8 e
Oratoria, Estimatore di San Tommaso d’Aquino, figura basilare
per l’acquisizione d’una cultura ecclesiastica di primo piano, in­
trodusse lo studio di Sant’Alfonso de Liguori, maestro di teolo­
gia morale.
Riguardo alla formazione dei numerosissimi allievi, don Maz­
za coltivava un progetto sempre all’avanguardia rispetto ai tem­
pi: e se distribuiva le “ragazze”, avute in affido, a uno stuolo di
“mamme e zie”, scelte con oculatezza, non progettava per le me­
desime solo un futuro d’occupazione domestica. No, lui voleva
integrare tale prerogativa con l’insegnamento dell’alfabeto e

6 Corte Imperial-Regia degli Asburgo dimorante a Vienna.


7 Parte della teologia cristiana e musulmana relativa ai dogmi.
8 Complessi di studi effettuati sulla Bibbia dai Padn della chiesa.
Capitolo Secondo. L'incontro con don Nicola
19

dell’aritmetica. Un rettore coadiuvato da chierici e sacerdoti,


sovrintendeva a quella scuola così speciale, disseminata in varie
case private e unica sotto il profilo della direzione. Nel collegio
maschile convivevano giovani di varie età, suddivise in camera­
te, intitolate ad un gruppo selezionato di santi. Responsabile
d’ogni settore che poteva ospitare ragazzi adolescenti oppure
chierici, risultava sempre un prefetto, affiancato da un vice.
L’obiettivo che si prefiggeva il fondatore era di preparare dei
buoni servitori della Chiesa, fedeli aH’autorità dello Stato e mo­
delli nella società. “Dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio
quel che è di Dio" non poteva costituire solo una dicotomia, ma
piuttosto un binomio inscindibile nella formazione del cittadi­
no ideale.
Altra meta proposta dal religioso: l’impegno nelle discipline
morali, mirate all’eccellenza dei risultati. Risultati mai vincolati
alle strettoie della cultura: cuore e intelligenza dovevano compe­
netrarsi non rappresentando lo studio l’unico, vero strumento di
maturazione spirituale, «Allievi buoni e bravi, provvisti di comi
bassi, eccellenti nell’esercizio dell’urmltà». Ostracismo quindi ai
“secchioni", pronti ad esibire una votazione esemplare come
espressione di vanità. La disciplina coincideva con l’abitudine
alla severità. Ad ogni ragazzo, infatti, era assegnato un libretto,
una sorta di pagella permanente sulla quale il prefetto annotava
sia gii elementi positivi che quelli improntati alla negligenza:
quest’ultima presupponeva l’espulsione degli immeritevoli dal­
l’istituto, sostituiti da candidati scelti tra i ceti più poveri.
Molta importanza si dava alla valutazione della “condotta”
alla luce della verità, dell’onestà, del coraggio e della forza mo­
rale, ma anche la castità, la pazienza e l’obbedienza ai superio­
ri costituivano una prerogativa fondamentale. Don Mazza, pe­
raltro, forniva l’esempio d’una spiritualità intensa e convinta,
vissuta in prima persona. Un esempio, dunque, per il futuro
dei sacerdoti oppure dei laici votati ad una carriera civile che
non cancellasse i valori acquisiti nel prestigioso collegio.
Il direttore chiedeva a tutti una fiducia illimitata nella Prov­
videnza (senza la quale l’Istituzione non sarebbe mai decollata)
Daniele Comboni, il vescovo africano
20

pronti al servizio del prossimo nel quale individuare Vimmagine


di Cristo Salvatore. I “figli” di don Mazza ringraziavano quotidia­
namente il Signore per i molti doni elargiti alla comunità, stret­
ta attorno a San Carlo, una chiesa edificata nel 1614 a solo tren­
tanni dalla morte del cardinale lombardo. Qui il fondatore gui­
dava un ricco avvicendarsi di devozioni così articolate. Al mat­
tino preghiera e meditazione, visita al Santissimo Sacramento
nelle ore pomeridiane e, alla sera, recita puntuale del rosario.
Ogni venerdì si celebrava il rito della “Via crucis” e le giornate
festive erano contrassegnate dall’Ufficio della Madonna, nelle
prime ore del mattino e dal Catechismo e la benedizione nel po­
meriggio. Una volta all’anno, per arricchire il bagaglio di fede,
con un incentivo mirato, si tenevano gli esercizi spirituali.
La festa dell’Immacolata e quella di San Giuseppe erano il
motivo d un’attenzione speciale, insieme al culto di San
Francesco Saverio, San Luigi Gonzaga e San Pietro Apostolo.
Nel 1834 don Mazza aveva istituito la devozione al Sacro Cuo­
re, nell’ottava del Corpus Domini, festività riconosciuta ufficial­
mente dalla Chiesa nel 1856.
Ed ora qualche dettaglio sull’istruzione, impartita nella strut­
tura, conforme, tra l’altro, alle disposizioni ministeriali. Il corso
di grammatica iniziava puntualmente il 3 novembre, per con­
cludersi l’anno seguente, il 25 d’agosto. Materie d’insegnamen­
to erano poi religione, latino, matematica, storia e geografia a
cui s’aggiungevano, nel terzo e quarto anno, lo studio del greco.
Le discipline previste per i “corsi d’ umanità” non si discostava­
no sostanzialmente da quelle dei cicli antecedenti. La “morali­
tà” degli alunni, era sottoposta a un rigoroso vaglio semestrale.
Fatta eccezione per la religione, tutte le discipline venivano
sempre affidate a un unico ed eclettico docente.
Per quanto concerne Daniele, premiato ogni anno con il
giudizio di “prima eminenza” ebbe come insegnante di religione
don Salvatore e suo prefetto fu don Ganassini, sacerdote di
grande talento, autore fra l’altro di quattro biografie d’illustri
preti locali. Dotati d’una mente agile, parecchi allievi, dopo lo
studio approfondito del greco, si cimentavano con gli esercizi di
Capitolo Secondo. L’incontro con don Nicola
21

traduzione. Non trascuravano, in ogni caso, le scienze esatte e


dedicavano un’attenzione speciale alla geografia che forniva a
tutti l’opportunità d’un approccio fecondo e prezioso col map-
pantondo,
E siccome i popoli venivano, di norma, suddivisi in fedeli al
messaggio cristiano ed infedeli, guardare agli stati in cui le mis­
sioni alternavano successi prodigiosi a laceranti sconfitte, di­
ventava un esercizio quasi obbligato.
Il nostro Daniele fu attratto inizialmente dal fascino orienta­
le del Giappone, ma poi il suo cuore battè soltanto per l’Africa
nera, gravata da quella che allora veniva chiamata la “maledi­
zione di Cam”9.
Unitamente ai compagni, Daniele s’alzava in ore antelucane
per recarsi in chiesa a pregare o a meditare oppure ad assistere
alla santa messa. La comunione, di norma, la riservava alle fe­
stività.
Terminato l’incontro con il Signore, impreziosito dal contri­
buto dell’intimità personale, giungeva il momento “sereno”
della colazione. La quale consisteva essenzialmente nella “po­
lenta di don Mazza”, intinta in una scodella di latte bollente. A
questo punto gli allievi, ordinati in file composte e silenziose,
lasciavano tutti il collegio e, fiancheggiando il Lungadige, rag­
giungevano il seminano.
In anticipo rispetto ai tempi, il fondatore aveva optato per la
rinuncia ad una divisa speciale, sostituita da vesti di operai e
contadini, i ceti da cui provenivano quegli studenti. La data per
indossar la talare veniva procrastinata il più possibile.
Nel contesto della giornata le lezioni duravano quattro o
cinque ore, con il riposo fissato per la domenica ed il giovedì.
L’orario scolastico, poi, prevedeva in periodi prestabiliti, le rap­
presentazioni teatrali oppure i saggi inerenti alle discipline inse-

9 Cam, figlio di Noè che, scoperto il padre nudo perché ubriaco, non esita a
disonorarlo a differenza dei fratelli Sem e Jafet, che lo ricoprono con rispetto­
so affetto.
Daniele Comboni, il vescovo africano
22

givate. Un modo per incentivare la creatività degli alunni, nella


prospettiva d’un apostolato sacerdotale sempre gradito ai fedeli
ed un sistema tutto sommato originale che interrompeva profi­
cuamente la monotonia dell’apprendimento “ufficiale”. Nelle
sue scelte educative don Mazza si dimostrava un pioniere.
Perciò aveva inserito, fra le materie tradizionali, lo studio ap­
profondito dell’inglese, del tedesco e del francese.
Nel 1839 don Luigi Dusi, coadiuvato da un ragazzo di pelle
nera, allora appena dodicenne - svolgeva le mansioni di dome­
stico presso la famiglia Miniscalchi - iniziò ad insegnare anche
la lingua araba. Il 26 agosto d’ogni anno i ragazzi tornavano dai
genitori per le vacanze e Daniele portava con sé un discreto ba­
gaglio di libri. Non voleva, in nessun modo, troncare il rappor­
to con le discipline predilette; il padre, però, lo vedeva entrare
spesso nelle case degli ammalati e dei vecchi per visite che rite­
neva obbligatorie. Se poi Luigi gli offriva piccole mance, esse si
trasformavano immediatamente in elemosine per gli indigenti.
Malgrado l’impegno legato a un futuro di seminarista, Daniele
non disdegnava la manualità del lavoro, aiutando Vigilio ed il
padre nella cultura delle limonaie.

Nel 1843 Gioberti10 diede alle stampe II primato civile e mo­


rale degli italiani, un libro destinato a suscitare molto scalpore e
altrettante speranze fra i cittadini più evoluti.
Poiché l’unità della nazione stava a cuore anche a quest’ul-
timi, riuniti idealmente in una sorta d elite, il sacerdote, asse­
condando il percorso d’un’utopia, avanzava una proposta inno­
vativa: la federazione degli stati sotto la guida del papa. In altre
parole: una visione neoguelfa della politica.
Chi aveva antenne sensibili e la propensione a un progresso
più radicale, fiutava aria di novità: il quarantotto, l’anno delle
rivolte, destinate ad infiammare l’intera Europa, era nell’aria.

10Vincenzo Gioberti, sacerdote nato a Torino nel 1801 e morto a Parigi nel
1852, autore del saggio II primato civile e morale degli Italiani.
Capitolo Secondo. L’incontro con don Nicola
23

Morto Gregorio VI e salito al soglio pontificio il cardinale


Mastai Ferretti11, la gente guardava al successore di Pietro come
ad un uomo mandato dalla Provvidenza, per instaurare, cornine
ciando proprio dall’Italia, un nuovo assetto sociale. Quando a
Milano scoppiarono i primi moti insurrezionali, passati alla sto­
ria come “le cinque giornate”, ci fu chi vide nel papa un con­
dottiero, sì il liberatore dal giogo imperiale dell’Austria,
Essendo poi risultato che Pio IX era soltanto una guida spi­
rituale, aliena dai gesti rivoluzionari, serpeggiò nel mondo dei
patrioti, un senso di frustrazione. E 1 entusiasmo iniziale finì per
mutarsi, nelle persone deluse, in un moto istintivo di biasimo.
E Verona? A Verona, come nel resto d’Italia, quel fermento
di modernità provocava sconcerto non solo in ambienti aperti
alla cultura, ma anche tra i sacerdoti. Gli stessi studenti del se­
minario (o almeno una parte minoritaria) guardavano a quel­
l’evento come a un miraggio di prosperità, ma non mancavano
i cauti e i diffidenti, sempre pronti a considerare il rovescio
della medaglia. E poi - va rimarcato, con assoluta franchezza -
nel sud della penisola la cacciata degli “aborriti” Borboni per
fare posto ad un monarca straniero, lasciava la stragrande mag­
gioranza dei cittadini indifferente.
Neanche al Nord e, in generale, nelle regioni lombardo-ve­
nete, la sostituzione dell’Imperatore, con un monarca sabaudo,
suscitava entusiasmo, ma semmai perplessità e diffidenza.
Né sfuggiva ai religiosi l’anticlericalismo dichiarato di varie
sette votate all’insurrezione. E poi a molti era chiaro che un
eventuale governo costituzionale, collegato a un parlamento
eletto dal popolo rappresentava, in definitiva, solo uno spec­
chietto per le allodole. In altre parole Toligarchia dei ricchi,
composta dal 2% dei sudditi, non avrebbe portato dei cambia­
menti importanti rispetto alFassolutismo monarchico della co­
siddetta Restaurazione11 12, Tutt’al più avrebbe appurato che la

11II Cardinale Mastai ferretti, più noto come Papa Pio IX.
12 Assetto dell’Europa sancito dal Congresso di Vienna nel 1815 che riporta­
va gli Stati al periodo antecedente a Napoleone Bonaparte.
Daniele Comboni, il vescovo africano
24

nobiltà germogliata nel medioevo e continuata a proliferare nel


corso dei secoli, aveva perso una parte notevole del suo potere.
Don Mazza osservava, non senza apprensione, “quel vento
impetuoso e inarrestabile” che percorreva le corti dell’intera
Europa. E prudentemente aveva impedito agli studenti del semi­
nario di fare politica, un argomento di discussione pericoloso
per il buon andamento del Collegio. Lo stesso prefetto don
Ganassini, nel 1850, quando credette che la fiammata della ri­
volta fosse esaurita, parlò di abusi tentati e miseramente falliti,
inneggiando al ritorno d un mondo più disciplinato. E che dire
infine dei vescovi, proposti alla Curia romana dall’imperatore
dal quale ricevevano prebende e benefici? Ebbene, anche per
loro quei conati di mutamento così radicali sembravano, a tutti
gli effetti, un salto nel buio. Ma c’è dell’altro.
Nel 1852 don Mazza, parlando dei crucci che affliggevano i
contemporanei, ricorreva a una definizione inequivocabile: «il
tempo dei matti». La sua riluttanza nei confronti della politica,
d’una certa politica proclive all’insurrezione, considerata la pana­
cea di tutti i mali, nasceva dalla diffidenza verso le sette segrete,
impregnate di massoneria e nemiche giurate del clero. Egli infat­
ti aveva la convinzione che la dinastia imperiale, grazie al con­
senso più o meno palese della Santa Sede, fosse legittimata a go­
vernare. Il rispetto per l’imperatore dal quale la Chiesa locale ri­
ceveva emolumenti e protezione non significava cieca obbedien­
za ad ogni sua risoluzione bensì il riconoscimento d’un potere co­
stituito. Un potere che, per il momento, non aveva alternative.
Nel 1839 al sacerdote fu conferito da Ferdinando I la meda­
glia prò piis mentis. Egli era stimato e spesso lodato dalla famiglia
degli Asburgo e per la leale fedeltà al governo e per l’apostola­
to che andava svolgendo con un impegno encomiabile.
Il fondatore mostrava certamente gratitudine verso il nerbo
dei benefattori che gli permetteva d’essere in prima fila nel mi­
nistero della carità, ma la devozione sincera non aveva nulla in
comune col servilismo. Intanto accettava le donazioni anche da
parte di chi non nascondeva l’insofferenza per il giogo imposto
da Vienna e, nel 1852, soffrì per l’arresto del conte Cario
Capitolo Secondo. L’incontro con don Nicola
25

Montanari, oppositore del regime. Quando seppe che il patrio­


ta, dopo un sommario processo, aveva subito la condanna al­
l’impiccagione, ebbe il coraggio di presentarsi dal generale
Radetzky13 * 15, per domandarne il rilascio. La perorazione fu vana e
alla sentenza emessa dal Tribunale seguì l’esecuzione capitale.
Avendo compiuti i vent’anni, Daniele conobbe sicuramente
quell’episodio nel quale intravide tutti i connotati del sopruso;
non prese però posizioni diverse dal superiore in campo politi­
co. La vocazione per il ministero da svolgere in territorio africa­
no ne proiettava la mente lontano dai conflitti sanguinosi che
affliggevano i luoghi a lui famigliati. Daniele era orientato verso
un cristianesimo libero da intralci di frontiera. Per fare il mis­
sionario nelle nazioni colpite dall’anatema di Cam, occorreva­
no ingenti risorse e non solo di tipo economico. In Africa, in­
fatti, i religiosi, a causa del clima malsano erano esposti a una
vera decimazione e poiché “la messe era molta, ma scarso il nu­
mero degli operai”, occorreva ampliare tutti gli spazi rivolti a
tale obiettivo.
A quell’epoca, poi (e compiendo un passo a ritroso, ritorno
al ’48) il nostro ebbe a soffrire un grave lutto,
Vigilio, il primogenito, gioia e speranza dei genitori, s’era
ammalato di tubercolosi, un morbo assolutamente inguaribile.
Assistito dai famigliati con immenso affetto e, dopo aver rice­
vuto, in più d’un’occasione, i sacramenti, affrontò la morte, se­
renamente. Era “l’unico” figlio, l’unico su cui contare perché da
un nome onorato come Comboni potesse germogliare una pro­
genie di lavoratori onesti e religiosi. Non sappiamo se lo studen­
te abbia partecipato al funerale del fratello (al quale era legato
da una attaccamento profondo) perché l’insurrezione ed il con­
seguente assedio della città, operato dai militari, impediva i
viaggi o meglio li sconsigliava.

13Generale austriaco di antica famiglia ungherese (Trebnice 1766 - Milano


1858). Governatore militare della Lombardia, si distinse per le guerre vinte
contro l’esercito Piemontese, sconfitto duramente nel 1849 a Novara.
27

Capitolo Terzo
La vocazione

Aveva da poco compiuto i dodici anni quando, per assecon­


dare un progetto della Provvidenza, Daniele fece il suo ingresso
nell’Istituto Don Mazza, per restarvi sino al 1857.
In una lettera, scritta proprio quell’anno e indirizzata al par­
roco di Limone del Garda, egli affermava: «Se abbandono l’idea
di consacrarmi alle “Missioni Straniere”, sono martire per tutta
la vita d’un desiderio che cominciò nel mio spirito da ben 14
anni e sempre crebbe a misura che conobbi l’altezza dell’aposto-
lato».
Pare che la decisione di farsi prete sia sbocciata, nell’intimi­
tà del suo cuore, il giorno della prima comunione.
Nel 1843, l’anno in cui don Nicola l’accolse nella struttura
da lui fondata fu favorevolmente impressionato dall’ordinazione
di ben cinque religiosi tra i quali don Angelo Vinco (destinato
a trasformarsi in un modello da imitare) e don Gioachino Tom­
ba il primo successore alla guida dell’Istituto dopo la morte del
fondatore.
Ma veniamo all’ambiente, permeato di sano entusiasmo in
cui maturò la vocazione del nostro. Già dal 1840, continuando
la tradizione che lo voleva ai primi posti nell’invio di sacerdoti
in terra africana, per assistere gli europei ed i creoli, la Francia
aveva iniziato l’opera di conversione degli aborigeni. In quel­
l’anno, peraltro, padre Francois Libermann aveva fondato la
Congregazione del Sacro Cuore di Maria (poi fusa, nel 1848, con
la Congregazione del Santo Spirito) votata alla conversione dei
negri abitanti nell’arcipelago delle Mascarene e delle isole
Antille.
Intanto a Verona, per iniziativa dell’abate Antonio Cesari e
di don Gaspare Bertoni (entrambi confessori di don Mazza) me­
diante conferenze e pubblicazioni mirate, si diffondeva il prò-
Daniele Cornboni, il vescovo africano
28

getto d’una missione globale da trasferire e diffondere tra i non


credenti. E non è finita.
Nel 1830 il vescovo Giuseppe Grasser fondava VOpera Leo­
poldina avente il compito di potenziare, nel Nord America, le
missioni già funzionanti e nove anni più tardi battezzerà perso-
nalmente lo schiavo negro dodicenne del conte Francesco Me
niscalchi Erizzo. Nello stesso periodo vedeva la luce in città un
ufficio di rappresentanza di Propaganda Fide, varato ufficial­
mente nel 1842.
Iniziava intanto la pubblicazione dei preziosissimi Annali,
inerenti quell’argomento specifico e che il chierico Francesco
Bricolo raccoglieva per conto di don Nicola.

Ed ora un breve accenno al tema “Missioni” con particolare


riferimento al continente africano.
Nel 1600 e poi nei decenni seguenti i portoghesi avevano
tentato d’insediare in Angola ed in Monzambico centri d’apo­
stolato ed un’analoga operazione era stata compiuta dai france­
si nel Madagascar. Le zone situate nel cuore dell’Africa restava­
no per tutti un mistero impenetrabile dato che le carte geogra­
fiche lasciavano in bianco le mappe, popolate a volte di fiere
esotiche, di negri dai tratti somatici immaginari, di fiumi dai
percorsi tumultuosi che attraversavano il Sahara.
Verso la fine del XVIII secolo si cominciarono ad organizza­
re le spedizioni esplorative che poi trovarono qualche riscontro
su riviste e giornali europei, collegati a tali ricognizioni. I risul­
tati comunque furono scarsi e le tragedie connesse ai viaggi,
spesso avventurosi, innumerevoli. L’arrivo dei missionari in
zone, mai visitate dai bianchi, percorse la storia dell’Ottocento
solo a cominciare dagli anni quaranta.
Nella biblioteca del Collegio, fondata da don Nicola, non
mancavano libri legati a quell’argomento e all’Africa in modo
speciale. Peraltro gli Annali di Propaganda Fide che puntual­
mente arrivavano nell’Istituto, offrivano un panorama molto
aggiornato sulle Missioni esistenti in tutto in pianeta. In Africa,
per il momento, erano dieci le circoscrizioni ecclesiastiche,
CapitoLo Terzo. La vocazione
29

elencate in vano modo, secondo gli ordini d’appartenenza, ma


la loro dislocazione interessava essenzialmente i litorali; 1 terri­
tori centrali restavano dunque preclusi.
Il primo missionario mazziano, inviato nel Centro Africa, fu
don Angelo Vinco. Nato a Cerro Veronese nel 1819, aveva fat­
to il suo ingresso nel prestigioso collegio a quindici anni, conse­
guendo l’ordinazione sacerdotale, proprio nel decennio succes­
sivo. In base al progetto del fondatore che voleva preti eccellen­
ti, sotto il profilo accademico e altrettanto efficienti nell’eserci­
zio del ministero, la loro permanenza in seminario avrebbe do­
vuto protrarsi per un quadriennio. Sennonché l’ingresso nelle
missioni andava anticipato a causa d’un’esigenza particolare che
il nostro, sempre pragmatico, sintetizzerà attraverso una sorta di
manifesto: «Se nelle missioni non si va sotto i trent’anni è me­
glio abbandonare il pensiero perché, avanzata un po’ l’età né si
potrà più apprendere le diverse lingue sconosciute delle tribù
dell’Africa ove mai andremo e perché l’esperienza assicura che
il cimentarsi in quelle regioni in età più avanzata della soprad­
detta porta seco una subita morte».
Il missionario spesso s’identificava nella figura del martire
e per il rischio di malattie letali, dovute al clima insalubre e
per la mole d’impegni indescrivibili. Per risolvere il suo pro­
blema di sacerdote, pronto al sacrificio della vita, don Angelo
fece ricorso a tutte le risorse di mediatore, convinto e appas­
sionato. Del resto il superiore, prima d’assecondarne le aspira­
zioni, consultò un religioso di grande prestigio: don Gaspare
Bertoni che gli fornì il proprio assenso. Poi prese gli opportu­
ni contatti con il cardinale Fransoni, prefetto dì Propaganda
Fide1, affinché l’allievo trovasse accoglienza in un collegio ro­
mano che preparava gli aspiranti al nuovo apostolato, pieno
d’incognite. Nel messaggio già predisposto per preparare l’ac­
cettazione del prete, don Nicola citava, sia pure a livello in­

1 Cardinale responsabile dell’Istituzione ecclesiastica.


Daniele Comboni, il vescovo africano
30

formale un fatto nuovo e per certi versi eclatante: la propen­


sione di altri allievi, pronti a seguire Pesempio del “pioniere”.
Don Vinco, dunque, partì dalla città che l’aveva educato il 3
dicembre 1845, festa di San Francesco Saverio, un “Servo di
Dio” che s’era a suo tempo distinto in quel ministero rischioso
e affascinante. L’evento del tutto nuovo, nella struttura eretta
da don Nicola, provocò una spinta all’emulazione e già, nel
1849, il direttore citava il caso d’un gruppo di religiosi (il loro
numero sfiorava già la decina) disposto a seguire Pesempio del
“veronese”.
Ma esiste, in proposito, un episodio assimilabile, per certi
versi, ad un fioretto. Pur non avendo il denaro per acquistare il
biglietto della diligenza, don Mazza aveva finito col prenotarlo
ugualmente; sennonché alPultimo istante si presentò, nel colle­
gio, ricevuto dalla portinaia, un sacerdote già anziano, per con­
segnare alcune monete avvolte in un rotolo. Poi se nera anda­
to senza che la donna l’avesse riconosciuto e senza neppure dare
il suo nome tanto che il fatto si trasformò in leggenda e il bene­
fattore divenne per tutti “San Gaetano, il santo della Provvi­
denza”.
11 3 aprile, in seguito a varie sollecitazioni (ma a dare il con­
tributo decisivo fu la relazione scritta dal canonico maltese don
Casolari, preoccupato per l’espansione dell’Islam in quelle ter­
re) il papa Gregorio XVI istituì il vicariato dell’Africa Centrale,
una terra ampia e senza confini precisi, avvolta in un alone di
mistero. Tale evento ebbe comunque una risonanza notevole
nel mondo cristiano, accolto, fra l’altro, con molto favore, da
don Nicola. La spedizione avente come traguardo proprio “quei
territori” fu capeggiata da don Casolam, nominato per l’occasio­
ne, vicario2. E di quel periodo, inoltre la sua consacrazione epi­
scopale.

2Vicariato: ufficio e giurisdizione dei vari vicari (chi fa le veci di un’autorità)


m diritto canonico.
31

Al prelato, originario di Malta, s’aggregarono il gesuita3


Massimiliano Ryllo, il “padre” genovese Emanuele Pedemonte,
il sacerdote di Lubiana Ignazio Knoblecher e, naturalmente,
don Vinco. Lasciando Roma quel gruppo di coraggiosi indicò la
Siria (dove contava d’apprendere la lingua araba presso i cristia­
ni maroniti) come prima tappa. La comitiva, formata da Ryllo,
Knoblecher e Vinco, giunse ad Alessandria d’Egitto il 18 aprile
1847 e qualche giorno dopo il gesuita veniva nominato provi­
cario4. Infatti monsignor Casolari che probabilmente non si
sentiva all1 altezza del compito assunto, aveva già rassegnato le
dimissioni.
Alla fine di giugno il prelato maltese, ora semplice missiona­
rio e padre Pedemonte raggiunsero ì compagni di fede e succes­
sivamente l’intera compagine approdò al Cairo ove padre Ryllo
(ed anche questo faceva parte dell’avventura) ebbe a soffrire un
attacco di dissenteria5. Il 28 settembre la spedizione s’avviò, con
il barcone affittato sull’Alto Nilo, ma il malanno che aveva col­
pito il provicario impose lunghissime soste e così la meta
(Khartum) diede loro il benvenuto solo l’il febbraio 1848. Edi­
ficata alla confluenza del Nilo Bianco e del Nilo Azzurro, essa
doveva la fondazione al pascià6 d’Egitto Mohammed Alì. Ma
compiamo un passo a ritroso.
Sedici anni prima il condottiero, grazie a colpi di mano ben
azzeccati, aveva conquistati, uno dopo l’altro, tutti i tenitori cir­
costanti che vennero per questo chiamati Bolad-es-Sudan, il
paese dei negri.
La città, se così vogliamo definirla, figurava allora composta
da circa ventimila abitanti, ospitati generalmente in rozze ca­
panne impastate con rami e fango. Sotto il profilo etnico, for­
mavano comunità eterogenee; esistevano, infatti, insieme agli

3 Religioso della Congregazione di Gesù, fondata da Sant’Ignazio di Loyola nel


quarto decennio del secolo XVI.
4 Chi fa le veci del vicario.

5 Infezione intestinale accompagnata da diarrea, spesso con muco e sangue.


6 Titolo dignitario turco.
Daniele Comboni, il vescovo africano
32

schiavi, i mercanti di origine europea e mediorientale, i proprie­


tari di barche affittate ai viaggiatori occasionali o a chi s'avven­
turava in quelle terre spesso inesplorate. La scelta della città di
Khartum, come capitale, dipendeva essenzialmente dalla posi­
zione strategica in grado di favorire Laccesso in Etiopia tramite
il Fiume Azzurro7 e di raggiungere i laghi equatoriali. Quanto
l’acqua fosse importante in quelle regioni assetate, periodica­
mente devastate dalla furia delle grandi piogge, avrò modo di il­
lustrarlo compiutamente più avanti.
Mi limiterò, per il momento, a parlare della salute, una salu­
te accettabile, anche se minacciata continuamente da eventi
imprevedibili che obbligavano i missionari ad operare a tutto
campo: dall’attività di muratori a quella d’insegnanti o di medi­
ci improvvisati. Puntualmente la stagione delle piogge trasfor­
mava il territorio in un’immensa palude e le conseguenze dovu­
te alla malaria o ad altri micidiali contrattempi decimavano let­
teralmente la popolazione. L’undici giugno 1848, festa di Pente­
coste, venne inaugurata a Khartum la nuova sede missionaria,
composta fra l’altro da una cappella e da una scuola per neri
analfabeti, ma già il giorno 17, quando una settimana era appe­
na trascorsa, morì padre Ryllo, stroncato da un attacco di feb­
bre. Prima però di lasciare gli amici e i fratelli di fede, il sacer­
dote provvide a nominare il responsabile della struttura ovvero
padre Knoblecher,
Un incentivo alla scelta della missione fu, per Daniele, la
lettura di Storia dei martiri del Giappone, scritta da Alfonso de
Liguori8. Essa completava la prima parte del libro Vittoria dei
martiri pubblicata dallo stesso autore nel 1776. Sorvolando sui
metodi usati per convertire gli aborigeni, il volume esaltava il
sacrificio dei religiosi, uccisi dagh infedeli per lo zelo e la passio­

7 Una parte del Nilo.


8 Dottore della Chiesa (Mananella di Napoli 1696, Pagani 1787), esperto di
teologia morale, nel 1748 scrisse un manuale, poi pubblicato nel corso di varie
edizioni. Si prodigò per gli strati piu poveri della popolazione.
Capitolo Terzo. La vocazione
33

ne profusi. Il seminarista apprese tutte quelle storie, impregnate


di santo eroismo (certe letture in Collegio avvenivano pubbli­
camente) con un entusiasmo indescrivibile, pronto lui stesso di
primo acchito ad emulare esperienze irripetibili.
Sin dai primordi del cristianesimo missione e martirio risul­
tavano quasi sinonimi e la partenza verso le terre lontane, ove
la morte era perennemente in agguato, veniva sempre conside­
rata in un’aureola di santità. Fu comunque negli anni quaranta,
quando don Vinco partì alla volta di Roma per consacrare se
stesso alla conversione dei negri o degli islamici che l’Africa e i
suoi problemi divennero, per l’istituto don Mazza, una priorità.
E che dire, a quel punto, del “seme” lanciato sul letto di morte
da don Luigi Dusi? Con lo scopo di aiutare, in modo più incisi­
vo, gli africani, egli aveva imparato ben venti lingue e, prima
d’avviarsi verso la Casa del Padre supplicò il superiore di dedi­
care una parte non trascurabile di energie in tale forma di apo­
stolato. Terminato il corso propedeutico9, don Vinco pensò dap­
prima che la sua destinazione fosse la terra del Ceylon, ma dopo
aver appreso la diversa risoluzione di don Nicola, non nascose
l’immensa gioia. Sì, la sua meta era l’Africa, la meta da sempre
agognata. Consigliò allora al compagno dL studi don Giovanni
Beltrame di recarsi lui stesso nella città di Roma avendo come
obiettivo quello da lui perseguito. Del resto il sacerdote aveva
già da tempo progettato d’incamminarsi per quella strada. E
scriveva: «La vocazione d’andarmene proprio in Africa ed unico
mio scopo era la conversione di quelli genti barbare e... selvag­
ge a religione e civiltà». Un simile approccio con il ministero
risulta del tutto distorto alfocchio di noi moderni perché indi­
cativo d un’indiscussa superiorità del mondo occidentale, ma al­
l’epoca in cui trionfava il colonialismo e la Chiesa parlava dal
“pulpito” detta espressione appariva più comprensibile. Ed, in
ultima analisi, figurava un’espressione in sintonia coi tempi.

9 Di preparazione.
Daniele Comboni, il vescovo africano
34

Anche Daniele Comboni si preparava al grande passo, aven-


do come traguardo il continente africano. Come preliminare
alla partenza che non risultava immediata e bisognava arricchi­
re mediante una conoscenza approfondita della cultura locale, si
cimentò neirapprendimento della lingua araba, sotto la guida di
Bakhit Coenda, il domestico del conte Siniscalchi, battezzato
dal vescovo Grasser. Il ragazzo, di pelle nera, era originario di
Nuba e grazie a tale circostanza del tutto accidentale, il nostro
conobbe l’idioma, poi messo a frutto, usato a Gebel Nuba. Pe­
riodicamente nel collegio giungevano i messaggi di don Vinco,
sempre attesi con trepidazione dai chierici e letti pubblicamen­
te. Gli effetti sono intuibili: il coinvolgimento in una causa che
rivelava tutta la sua urgenza e suscitava in molti il desiderio
d’emulazione.
E probabile che don Nicola, un vero antesignano nel campo
educativo, dopo la lettura dei messaggi sollecitasse gli allievi al­
la discussione, per meglio ponderare, nei singoli casi, la propen­
sione al sacrificio e valutare, con pragmatismo, rischi, fatiche,
imprevisti.
Uno dei più convinti assertori della Missione restava Da­
niele Comboni che in una lettera inviata al suo Parroco - corre­
va l’anno 1857 - affermava testualmente: «Come qualche volta
parmi avergli detto, io inchino a percorrere la carriera quantun­
que ardua delle missioni e precisamente da otto anni quella
dell’Africa Centrale». Detto ideale, malgrado la mole infinita di
sofferenze inflitte a volte dalla gelosia e dalla mediocrità dei
confratelli, mai s’affievolì, con il progredire degli anni. Infatti,
nel 1876, rivolgendosi al cardinale Franchi, prefetto di Propa­
ganda Fide, egli scriveva: «Fu nel gennaio 1849 che, studente di
filosofia, nell’età di diciannove anni, io giurai ai piedi del mio
venerato superiore don Mazza di consacrare tutta la mia vita
nell’Apostolato dell’Africa Centrale né mai venni meno con la
grazia di Dio, per variar di circostanze al mio voto e da quel
punto intesi ad apparecchiarmi a così tanta impresa».
Per finire, nel 1879, ribadiva, con altrettanta fermezza, il
concetto: «Benché affranto nel corpo, pella grazia di Gesù il
Capitolo Terzo. La vocazione
35

mio spirito è saldo e vigoroso e son risoluto, come lo fui da tren-


tanni in poi (dal 1849) di tutto soffrire e dar mille volte la vita
pella Redenzione dell’Africa Centrale e della Nigrizia».
Alla parola “Nigrizia” che suona un po’ goffa per noi cristia-
ni del XXI secolo, dovremo abituarci, cogliendo in essa, però,
insieme a un elemento di preminenza della cultura europea su
quella africana, un sentimento d’amore e di dedizione assoluti.
Le dichiarazioni del nostro (e si trattava duna sorta di ma­
nifesto della Missione) sono posteriori alla partenza per l’Africa
e se confermano l’amore profondo e appassionato per i fratelli
negri, non fanno riferimento a un ostacolo che, inizialmente, si
frappose a un evento così radicale: il distacco dai genitori. Essi
erano anziani e presto le forze per lavorare li avrebbero abban­
donati.
Una legge naturale e devastante, sul piano umano, giungen­
do la vecchiaia con largo anticipo rispetto ai parametri attuali.
E poi, a quell’epoca, non esisteva la previdenza sociale per cui
solo i figli insediati sotto il tetto paterno rappresentavano una
sicurezza per l’avvenire. Infatti la speranza che qualcuno, nei
momenti di desolazione o d’impotenza, ti fosse accanto, pronto
ad allungarti un bicchiere d’acqua (non molto, in verità, ma ti­
pico d un’assistenza rudimentale) costituiva un motivo di con­
solazione.
A casa Comboni, purtroppo, Vigilio se n’era andato e, senza
il sostegno di Daniele, all’incapacità di dominare gli eventi si
sarebbe aggiunto lo spettro dell’indigenza. L’unica alternativa a
tanto squallore restava forse l’ospizio, una struttura di mera be­
neficenza con ospiti assimilabili ai mendicanti.
Daniele amava intensamente 1 genitori ed essendo uomo di
cuore e di giudizio, non poteva in alcun modo tollerare che il
loro futuro fosse precluso ad ogni forma di dignità. Pertanto fu
giocoforza occuparsi concretamente anche della loro “solitudi­
ne”, priva di certezze materiali. E un argomento, quest’ultimo,
su cui avrò occasione di ritornare.
Vorrei, per il momento, soffermarmi su un episodio legato
alla missione: il ritorno d’Angelo Vinco in Italia, avvenuto nel
Damele Comboni, il vescovo africano
36

gennaio 1849, con lo scopo di reperire risorse da destinare alla


Nigrizia. Portava allora il turbante e aveva i baffi e la barba neri
e vistosi e tutto ciò contrastava con il candore della sua veste,
ideata per un sole che martellava indefessamente e che solo un
certo colore - il colore bianco - poteva in qualche modo con­
trastare.
L’Istituto di Propaganda Fide aveva scelto Khartum perché
rappresentava un’ideale finestra aperta sulla civilissima Europa
(pur nella lontananza geografica) ed era l’Europa, in sostanza,
che inviava i missionari ed i fondi per sostenerli. Don Vinco ri­
mase per circa due mesi in Europa e poi fece ritorno alla missio­
ne. La sua testimonianza, effettuata nella struttura fondata da
don Nicola, fece un’impressione indescrivibile. Cosi la ricorda­
va, in uno scritto, Daniele Comboni: «Avendo raccontato, con
tutto lo slancio della sua anima, molti dettagli assai interessan­
ti ai cinquecento allievi dei suoi Istituti di San Carlo e Can­
tatane e date molte spiegazioni sulla deplorevole condizione
degli sfortunati ragazzi di razza camita, vi accese il fuoco della
carità divina che non può arrestarsi che nella carriera di dedi­
zione completa e del sacrificio per la salvezza degli infedeli».
11 sacerdote chiese il permesso a don Mazza d’inviare a Ve­
rona i ragazzi neri “consenzienti” perché imparassero la nostra
lingua, conoscessero la nostra civiltà e, nel contempo, insegnas­
sero l’arabo ai missionari del domani. Da persona lungimirante
com’era, il superiore concesse il proprio assenso.
Prima di rientrare a Khartum (e ciò accadde nell’ottobre del
’49) don Vinco fece una sosta a Roma, per informare la Santa
Sede sui passi sinora compiuti e sui progetti futuri. Nel novem­
bre del ’49, con il beneplacito del governatore Khalid Pascià, il
coraggioso prete veronese e i padri Knoblecher e Pedemonte
s’unirono ad una spedizione mercantile che approdò a Gon-
konkoro, il punto piu a sud mai raggiunto da una missione cat­
tolica.
Il racconto dell’attività missionaria, compiuta in Sudan, da
religiosi intrepidi e capaci, aveva commosso profondamente il
fondatore tanto da indurlo a fare del proprio istituto un centro
Capitolo Terzo. La vocazione
37

pilota per la conversione dei negri. Esisteva, comunque, un’al­


tra esigenza connessa al mondo africano: la schiavitù; e don
Mazza pensò, fra le altre cose, di provvedere al riscatto di giova­
ni schiave, per educarle cristianamente a Verona. Per potenzia­
re dette strutture occorrevano molte risorse, ma nel contempo,
un’urgenza balzava all’occhio: ai popoli più evoluti serviva, sul­
l’argomento, un’informazione mirata e di prima mano.
In effetti il 3 dicembre 1839, sull’esempio del predecessore,
il papa Gregorio XVI, con il drammatico messaggio In supremo
apostolatiis De nigritarum commerci exercendi aveva denunciato
l’assurdo fenomeno all’opinione mondiale. Purtroppo né i gior­
nali dei vari stati italiani né gli organi di stampa stranieri o mis­
sionari avevano concesso il giusto spazio al documento. Con
un’eccezione, però.
A Verona “L’Accademia d’Agricoltura” dette un grande ri­
lievo alla denuncia del papa, definendola «efficacissimo stru­
mento contro il vile e turpe commercio dei neri, per la loro
umana e civile elevazione».
Ad occuparsi concretamente dell’emancipazione degli schia­
vi e in particolare delle ragazze avviate alla prostituzione o a po­
polare gli harem degli sceicchi, fu, senza dubbio don Nicolò
Olivieri.
Nato e residente a Genova, prima che l’enciclica papale
avesse additato al mondo la piaga d’un commercio anacronisti­
co e disumano, aveva fondato in città La prima Opera del nscat-
to delle fanciulle nere, Il varo della fondazione era coinciso con la
liberazione del primo schiavo. Tutto l’entusiasmo per quell’ini­
ziativa così meritoria e destinata a precorrere i tempi aveva tro­
vato origine nella lettura degli Annali di Propaganda Fide.
Nel 1847, reduce da una malattia gravissima che l’aveva
condotto sul punto di morte, don Olivieri, ormai sessantenne,
vendette tutti i suoi beni, libri compresi e, accompagnato dalla
domestica, partì per l’Egitto. Benché fosse sempre vissuto in una
città di navigatori, aveva molta paura del mare e degli sposta­
menti effettuati a bordo d’imbarcazioni. Il che non gli impedì
d’affrontare un viaggio lungo il Mediterraneo, reso ancora più
Daniele Comboni, il vescovo africano
38

arduo dall’ignoranza dell’arabo e dell’inglese. Nel territorio, an­


ticamente soggetto ai faraoni, godeva dell’appoggio incondizio­
nato e attivo d’un personaggio importante: parlo del console
Nardo” Paolo Cerutti. Ebbene, forte di quell’aiuto istituzionale,
nel corso della prima spedizione, il prete riuscì a liberare nove
ragazzi.
Tra il 1853 e il 1857 tredici furono le spedizioni con un uni­
ca meta: l’Egitto e numerosi gli acquisti dL giovani di pelle scura,
pagati a caro prezzo. Nel 1850, quando la vecchiaia già incom­
beva, conobbe don Biagio Verri di Barni, divenuto in seguito il
collaboratore più fidato. 11 1857 fu, per entrambi, l’anno dell’ul­
timo viaggio compiuto nel territorio egiziano. Infatti, da quel
momento, toccò al solo don Biagio occuparsi di “quel commer­
cio”, contemporaneamente “il superiore” viaggiava in lungo e in
largo per l’Europa, in cerca di risorse che servissero per sistema­
re le schiave emancipate. Occasionalmente il genovese venne a
sapere che don Nicola perseguiva il suo stesso ideale e il loro de­
stino finì per incrociarsi.
Se a testimoniare l’incontro tra i due non esiste un docu­
mento, è certa la presenza delle ragazze fatte arrivare in Europa
dal sacerdote e poi collocate nell’Istituto di Via Cantarane a
Verona. Un ambiente d’estrema indigenza accolse un giorno
don Olivieri a Marsiglia: stava per affrontare l’ultimo viaggio
verso una destinazione dove la pelle bianca e quella scura ave­
vano un identico valore. Morì a 72 anni, assistito, durante il
trapasso dal fedelissimo don Biagio. Per entrambi è in corso
presso la Congregazione per le Cause dei Santi, un dossier che
li porti agli altari.
Inizialmente don Mazza non nascose una certa perplessità a
ricevere nei suoi collegi gli africani, per il contrasto che tale
evento assumeva con lo spirito costitutivo dell’Istituto. Fu pro­
babilmente il vescovo Luigi Canossa (in seguito promosso car­
dinale) a indurlo a un atto di carità senza precedenti: accoglie­
re la gente di colore non solo obbediva ai canoni d’un sano e
santo principio, ma avrebbe prodotto in futuro dei risultati ap­
prezzabili sotto il profilo missionario.
Capitolo Terzo. La vocazione
39

Per meglio illustrare lo spirito del fondatore la sua testimo-


nianza risulta fondamentale. Egli aveva infatti in progetto di
«ogni anno comperare con qualche mezzo dodici morette
schiave da sette od otto anni e farmele venire qui a Verona nel
mio Istituto femminile dove altre trecento povere giovanette
tengo raccolte dando ad esse un’educazione da donne di fami'
glia. Perché le morette possano aver compiuta la loro educa'
zione almeno dieci anni ci vogliono. Però io voglio rimandare
in Africa dopo il decimo anno il primo drappello di esse, il
primo anno comperate, nell’anno seguente il secondo, nel
terzo il terzo e così via». Venivano gettate le basi, sia pure in­
consciamente del futuro “Piano di Comboni” avente come
obiettivo la conversione della Nigrizia attraverso i missionari
africani.
Ma veniamo al nostro seminarista. Nel 1850, dopo aver ul­
timati i corsi ginnasiali e liceali, egli iniziò lo studio della teo­
logia. E di quell’anno la richiesta, inoltrata al superiore di
portare l’abito talare che doveva, prima dell’uso, ottenere la
benedizione del vescovo oppure d’un altro sacerdote. La ve­
stizione avveniva in chiesa, pubblicamente, durante un gior­
no festivo; il che propiziava, di norma, un massiccio afflusso
di fedeli. Il 29 febbraio 1852, all’inizio della quaresima, Da­
niele riceveva, con la tonsura, i primi due ordini dell’ostaria-
to10 11 e del lettorato11, direttamente dal vescovo. La cerimonia
ebbe luogo nella cappella episcopale. L’esorcistato12 e Pacco-
litato13 (altre due tappe importanti dell’ordinazione) coinci­
sero, invece, con la domenica di Pentecoste che, nel 1853,
cadeva il 15 maggio.

10 Uno degli ordini minori nella gerarchia sacerdotale cattolica.


11 Grado di Lettore nella gerarchia sacerdotale cattolica.
12 Nella gerarchia dell’ordinazione sacerdotale, terzo grado degli ordini minori.
13 11 quarto e più elevato degli ordini minori dei sacerdoti cattolici.
Damele Comboni„ il vescovo africano
40

Il seminario era situato in un edificio grandioso, collegato a


destra con il cortile di rappresentanza; un altro cortile di più
modeste dimensioni, era ubicato sulla sinistra dove s’affacciava
l’austero portone d’ingresso. Il piano inferiore ospitava le aule
scolastiche e quello superiore le stanze dei professori e dei chie­
rici, le camerate per gli studenti ed i refettori. Attraverso lo stu­
dio della teologia, Damele approfondì il suo rapporto con Dio,
riuscendo a interpretare, in modo originale, il concetto di divi­
nità, ma fu con Fazione che la sua fede s’arricchirà d’un alimen­
to fondamentale.
Nella biografia dedicata a Damele Comboni, Juan Manuel
Lozano elenca le discipline insegnate nel seminario maggiore e
cioè teologia, dogmatica, teologia morale, teologia pastorale, in­
troduzione all’Antico e al Nuovo Testamento, la lingua ebraica
e quella greca, storia della Chiesa e pensiero teologico, diritto
canonico, catechetica, metodica e pedagogia. Solo per le ultime
materie si ricorreva all’italiano mentre per le altre (ebraico
compreso) ad essere privilegiato era il latino. Quel sistema ana­
cronistico e forse controindicato per un apprendimento più age­
vole, venne abolito solo dopo il Concilio Vaticano IL
Nel 1852, ultimati in modo eccellente i corsi predisposti dal
“programma”, il seminarista Comboni avrebbe dovuto accedere
all’ordinazione sacerdotale. Ma vuoi per una serie di concomi­
tanze negative - la sede episcopale di Verona mancava, da vario
tempo, d’un titolare - vuoi per altri motivi, l’ambito riconosci­
mento continuava ad essere procrastinato.
Probabilmente tra la Corte imperiale di Vienna che voleva
collocare in città un uomo di sua fiducia e la Curia romana non
esisteva, rispetto a tale nomina, uniformità di vedute. Pertanto
solo nel 1854 quando Benedetto Riccabona occupò la sede va­
cante, il problema venne risolto. A quel punto il nostro inoltrò
l’apposita istanza per ottenere l’ordinazione. Ma, a tale riguardo,
è necessaria una premessa. Le leggi ecclesiastiche vietavano di
conferire il sacerdozio a candidati che non disponessero dell’au­
tonomia economica. Ciò era legato a una prassi difficilmente
accettabile ai giorni nostri.
Capitalo Terzo. La vocazione
41

Il titolo di prete veniva riconosciuto ai membri di congre­


gazioni che ne permettessero la sussistenza nell’ambito d’un
monastero. Unica alternativa: l’esistenza d’un beneficio lega­
to a una parrocchia, una cappellania od una chiesa con cura
d’anime oppure a un reddito assicurato dalla famiglia d’origi­
ne (tale norma, è stata da tempo abolita perché se “la mensa
comune” garantisce il sostentamento a determinati religiosi,
il sacerdote risulta, a tutti gli effetti, “un servitore della dio­
cesi”, tenuta a provvedere alle sue necessità).
Ma veniamo al caso specifico. A Verona il numero dei preti
era superiore a quello delle chiese dotate di “benefici”; si tratta­
va duna sconcertante eredità napoleonica che, per incamerar­
ne i beni immobiliari, aveva sciolto gran parte delle istituzioni
ecclesiastiche. Daniele aspirava ad inserirsi nel gruppo di sacer­
doti di don Nicola, ma non essendo riconosciuta alla struttura
alcuna veste giuridica, cadeva l’opportunità della cosiddetta
“mensa comune”. Bisognava rivolgersi altrove e lui chiese la ga­
ranzia, prevista dagli Ordinamenti, all’Imperiale Luogotenenza.
Documento fondamentale per l’inoltro della domanda, l’attesta­
to di povertà rilasciato dal parroco di Limone del Garda e quel­
lo di “buona salute” compilato a Vienna dal dottor Lorenzo
Renchlin. La Luogotenenza, però, oppose all’istanza il rifiuto
della medesima; infatti il candidato risultava iscritto in un con­
testo anagrafico ben definito e toccava pertanto all’episcopio di
Brescia esaminare la pratica. Allora intervenne personalmente
il vicario generale della diocesi, osservando che la città di
Verona ospitava da tempo il religioso e, per tutelarne le aspet­
tative, don Pietro Grana provvide a cancellare Comboni dallo
“Status” della parrocchia.
Il 25 novembre 1854 l’ufficio preposto concesse al nostro il
“titolo patrimoniale” a carico dell’erario, ma ad una precisa con­
dizione: il sacerdote doveva impegnarsi a fissare la residenza in
un comune del Veneto. Un eventuale trasferimento avrebbe
comportato la revoca del beneficio.
Conclusi positivamente gli studi, Daniele poteva accedere,
con il beneplacito episcopale, agli agognati ordini maggiori. Essi
Damele Comboni, il vescovo africano
42

prevedevano tre tappe fondamentali: il suddiaconato14, il diaco­


nato15, il presbiteriato16. Il primo titolo consentiva al religioso
di “cantare” l’epistola, durante la messa, l’obbligava al celibato
e a recitare quotidianamente l’ufficio divino. Essendo i vari
gradi della consacrazione scanditi da cicli prestabiliti, al chieri­
co venne concessa l’opportunità d’esercitare i doveri liturgici
inerenti ai tre passaggi degli interstizi. In altre parole al suddia­
cono si riconosceva la “condizione” sopraindicata all’inizio del
terzo anno di teologia; nell’anno seguente, superate le prove
d’esame, si conseguiva il diaconato; il presbiteriato, dal canto
suo, coronava la conclusione dell’ultimo corso.
L’ordinazione del nostro coincise con l’assenza del vescovo
dalla città e così Comboni, a titolo riparatorio, fu dispensato
dall’obbligo degli interstizi. Al momento cruciale, però, monsi­
gnor Riccabona a cui competeva l’onere della “funzione” non si
trovava nell’episcopio.
La proclamazione del “dogma dell’Immacolata”, fissata per
l’otto dicembre 1854, aveva chiamato a Roma molti prelati e lui
voile unirsi alla prestigiosa cerimonia.
Non sarebbe rientrato in città che ai primi di gennaio del­
l’anno ormai imminente.
Fu consigliato all’aspirante o meglio agli aspiranti (perché
anche Francesco Grigo si trovava nelle stesse condizioni) di ri­
volgersi al vescovo di Trento monsignor Tschiderer, al fine di
acquisire la sospirata consacrazione.
Due giorni dopo la “solennità”, svoltasi a Roma e destinata
a lasciare una traccia profonda nel mondo cristiano, il vicario
generale di Verona rilasciava i documenti necessari per ricevere
altrove quanto precluso momentaneamente nel luogo di resi­
denza. Ai due chierici sarà conferito il suddiaconato nello stes­
so giorno e diverranno diaconi il 17 dicembre, terza domenica
d’avvento.

14 Nella gerarchla sacerdotale cattolica, primo degli ordini maggiori,


15 Ordine maggiore antecedente al presbiteriato.
16 Ultimo ordine maggiore prima del sacerdozio.
Capitolo Terzo. La vocazione
43

Non avendo Daniele compiuti 1 24 anni, l’età per consegui­


re il presbiteriato, fu richiesta a Roma una speciale dispensa,
concessa dal cardinale Mucchi. 11 31 dicembre 1854, dopo
un’intensa preparazione spirituale, fatta attraverso gli opportuni
esercizi, Daniele Comboni giungeva all’ordinazione nella cap­
pella attigua al palazzo episcopale di Trento, E ignota la data in
cui fu celebrata la prima messa anche se essa coincise verosimil­
mente con l’inizio del nuovo anno. Dopo l’esordio avvenuto a
Trento, con l’atto più squisitamente sacerdotale, Daniele tornò
a Verona a festeggiare l’evento insieme al superiore e ai confra­
telli.
11 giovane pensava all’Africa come al luogo ideale per realiz­
zare il suo apostolato, ma essendo un uomo pragmatico, ancor­
ché dotato di fede, non poteva per il momento considerar la
partenza come un evento immediato.
Anche don Mazza, in quel periodo, fervido d’iniziative in cui
la parola “missione” stava assumendo un significato speciale,
concentrava ogni energia verso l’obiettivo non più dilazionabi­
le. Progettava, in altre parole, di riscattare dalla schiavitù un
certo numero di africane da trasferire a Verona,
Qui, per le ragazze, era pronta una nuova casa, nella prospet­
tiva d’una formazione cristiana.
Alcune di loro, in futuro, assecondando la propria inclina­
zione si sarebbero forse sposate; altre, invece, in un regime di li­
bertà assoluta, avrebbero dato una mano alla Missione. Don
Mazza, in ogni caso, contava di rimpatriare le africane cosi che
il seme del cristianesimo fosse trapiantato in una terra dove la
“croce” restava un simbolo ignoto.
Capitolo Quarto
Un cuore per l’Africa

L’aspirazione di don Mazza, preludio sia pure imperfetto di


quello che, nel futuro, sarebbe diventato l1 “Piano” del nostro
Cornboni, venne inizialmente frainteso sia nell’ambiente vero­
nese che presso la Santa Sede, Si scambiò in sostanza per un
“cantiere” di nozze, ancorché sante e cristiane tra i negri educa­
ti negli Istituti della città, il progetto del fondatore quasi che
egli mirasse a istituire un’agenzia matrimoniale. Fu questa l’os­
servazione mossa dal Cardinale Fransoni, ma il rilievo non esau­
riva le critiche sull’argomento. Riscattare infatti gli schiavi da
mercanti privi di scrupoli costava cifre esorbitanti: come avreb­
be potuto don Mazza, noto per l’esiguità delle risorse, avere a di­
sposizione tanto denaro? E non è finita.
Le offerte da lui impiegate provenivano generalmente da
fondi assegnati alla Chiesa locale e allora perché dirottarle nel
cuore d’un Continente ritenuto selvaggio e lontano? Già avvez­
zo alle battaglie e consapevole, per esperienza, che solo la
“Croce” accompagna le decisioni autenticamente cristiane, don
Mazza non si arrese. E spiegò (o tentò di spiegare) al Prefetto di
Propaganda Fide su quali criteri fondava i suoi interventi e, pur
prevedendo la scelta del matrimonio per alcune allieve, rifiuta­
va a priori il titolo di paraninfo1.
Riguardo alla penuria di denaro, si trattava d’un impedimen­
to assolutamente risolvibile. E ancora. Votato per sua natura
alla prudenza, non pensava minimamente di compiere un salto
nel buio, ma di mandare sul posto, con compiti esplorativi, dei
missionari. Solo dopo i dovuti ragguagli si sarebbe provveduto a
realizzare il disegno.

1 Mediatore di nozze.
Daniele. Comboni, il vescovo africano
46

Nel richiedere i chiarimenti, la Curia romana aveva nasco-


sto al fondatore un dettaglio: a sollevare sospetti sull’opera da
lui lanciata era stato il delegato diocesano di Propaganda Fide e
non per limpidi scopi, ma solo per “punire” il sacerdote, reo di
simpatie per il discusso Rosmini2. La Santa Sede, in ogni caso,
concesse il proprio assenso ad inviare in Africa i missionari le-
gando la decisione al “placet” dell’imperatore. Ma le difficoltà
inerenti a quel progetto, anziché diminuire, sembrava dovesse­
ro crescere oltre le previsioni. Sacerdote lungimirante, don
Nicola non si scoraggiava.
Che cosa, in sostanza, era accaduto alle Missioni? Fattori del
tutto inattesi stavano ingarbugliando la già intricata matassa.
Dopo i moti del ’48 le elargizioni europee sembrava si fossero
chiuse tanto che il prefetto Fransoni aveva deciso d’abbandona­
re l’Africa al suo destino.
Per cercare un rimedio all’inconveniente grave e apparente­
mente privo di sbocchi, padre Knoblecher allora si recò a
Vienna. Fu ricevuto dall’imperatore in persona e da lui fornito
d’un adeguato appoggio finanziario.
Sul suo esempio molti esponenti della nobiltà allargarono le
loro borse così che l’impresa, varata tra un mare di tribolazioni,
avesse la garanzia d’una durevole continuità. Ma il missionario
fece molto di più. Fondò a Vienna un’Associazione (la Marien
Verein) destinata a raccogliere fondi in permanenza per quella
parte del mondo dimenticata. Basta: ottenuto quanto desidera­
va, padre Knoblecher puntò verso Roma e qui chiese il sostegno
necessario a proseguire nell’attività intrapresa.
Ebbe un colloquio con Pio IX che, visti i risultati consegui­
ti, sospese la decisione presa in precedenza e, in segno di stima,
lo nominò provicario della Missione. Era il 13 agosto 1851. Per
sostenere e diffondere l’iniziativa, gli mise a disposizione cinque

2 Antonio Rosmini, filosofo teologo italiano (Rovereto 1797, Stresa 1855).


Ha scritto tra l’altro Cinque piaghe della Chiesa (1848) e Costituzione secondo la
giustizia sociale (1848). 1 due libri vennero messi all’indice nel 1849. Antonio
Rosmini è stato di recente beatificato.
Capitolo Quarto, Un cuore per l’Africa
47

sacerdoti sloveni e due laici che accettarono di operare al suo


fianco. Don Angelo Vinco, chiamato il “figlio del tuono” per­
ché un giorno, con la carabina, aveva ucciso un leone pronto a
divorare uomini inermi e bambini, grazie al contributo fornito
dall’amico Bruno-Rollet, nel gennaio 1851 iniziò il viaggio di ri-
cognizione in territori ancora inesplorati.
Le escursioni, ricche d’incognite e sempre pericolose, gii per­
misero un approccio più incisivo con numerose tribù, rimaste
ignote agli studiosi e a molti esperti. Per fissare, in modo inde­
lebile, quelle peripezie egli le aveva affidate ai fogli d’un diario
che intendeva tenere gelosamente segreto. Intanto a causa delle
disparità di vedute tra la varie etnie di provenienza (non si po­
trebbe altrimenti trovare una spiegazione plausibile) sorsero
tensioni e incomprensioni tra i missionari e tale clima di preca­
rietà indusse il provicario a richiamare don Angelo Vinco a
Khartum, presso la sede della Missione. Circolavano notizie ca­
lunniose sul conto del suo operato che bisognava, per far torna­
re la pace tra i religiosi, dissipare urgentemente. La “colpa” del
sacerdote (se così vogliamo chiamarla) non aveva alcun legame
con la realtà delle cose.
Il vice console del regno sardo, Vandey, gli aveva sottoposto
un questionario che venne poi pubblicato sul Bulletin de la
Società de Geographie de Paris e Pinterpellato aveva risposto con
precisione ai vari quesiti. Il rifiuto di consegnare anche il diario
aveva fatto nascere il sospetto che esistessero le zone d’ombra su
quanto visto e scoperto. Da qui le mormorazioni, poi divenute
discredito, ritrattate dal funzionario sabaudo solo dopo la morte
del sacerdote.
Ma compiamo un passo a ritroso. Persino col provicario, ri­
masto insoddisfatto dalle risposte fomite, i rapporti non appari­
vano chiari e soprattutto sereni, il che indusse don Vinco a fug­
gire da quel mondo avvelenato, iniziando un nuovo viaggio
d’esplorazione. Meglio la spontaneità dei cosiddetti selvaggi che
le trappole degli europei, inclini aH’egocentrismo e alla gelosia.
Era il terzo viaggio, il secondo pensato ed effettuato nella soli­
tudine totale.
Daniele Comboni, il vescovo africano
48

I rischi, in quella zona, per i viaggiatori rappresentavano


come una spada di Damocle3, perennemente protesa* Rischi do­
vuti alle febbri, sempre imprevedibili e virulente, alle guerriglie
in atto fra le diverse tribù, agli assalti di animali famelici in
cerca di preda. Per farla breve don Vinco morì il 22 gennaio
1853, a trentatre anni. Giunta la notizia del decesso anche a
Verona (e ciò accadde nel giro di qualche mese) fece un’enor­
me impressione sul fondatore, fermo tuttavia nei suoi propositi
di carità.
Nel settembre dello stesso anno don Giovanni Beltrame e
don Antonio Castagnaro delPistituto mazziano partirono per la
missione.
Prima però si fermarono per un certo tempo a Venezia dove
operavano ì padri mechitaristi4 dai quali appresero l’arabo e al­
cune notizie mediche da utilizzare in “quei territori selvaggi ed
esecrandi”. Esisteva infatti la convinzione che la maledizione di
Cam fosse la causa non solo dei molti disagi, ma anche un per­
corso obbligato il cui traguardo, dopo la morte, restava l’infer­
no. Bisognava quindi moltiplicare l’impegno in modo che la
conversione all’unica fede salvifica preservasse i neri dalla dan­
nazione perenne.
Per uno speciale riguardo, dovuto al “ministero”, i sacerdoti
furono accolti gratuitamente sulla nave che collegava Venezia
al porto di Alessandria d’Egitto. A Korosko essi raggiunsero la
carovana di cui facevano parte, insieme al provicario, cinque
missionari austriaci. Per attraversare il deserto, il vasto deserto
di Atmur, avevano al loro seguito settecento cammelli, carichi
di otri d’acqua, vivande e quanto occorresse per il bivacco not­
turno. La meta finale era Berber, ma prima che fosse toccata
morirono due missionari.

3 La spada trattenuta da un crine di cavallo che Dionigi il giovane fece pen­


dere dal soffitto dove sedeva il favorito Damocle per convincerlo dell’incertez­
za cronica del potere.
4 Religiosi della Congregazione di rito cattolico fondata da Pietro Mechitar.
Capitolo Quarto. Un cuore per l’Africa 49

11 6 febbraio 1854 lo stesso don Castagnaro, prostrato da una


febbre tropicale, andò a raggiungere in Cielo i suoi compagni di
fede. Del resto, in circa ventanni, nel vicariato africano, ben
quarantaquattro furono le morti dei missionari. Messo al corren­
te del nuovo lutto, il fondatore cosi scriveva: «Forti o mio don
Giovanni ad ottenere, quanto che sia, la stessa palma. La salvez­
za dell’uman genere costò a Cristo il suo sangue. Oh qual bel
pensiero che anima e infiamma! Cristo vi associò a lui nella
stessa impresa! Mi duole che tu sia solo, ma Iddio ti sarà com­
pagno, amico e duce. Cerco di preparare dei compagni. Dispon­
ga e benedica Dio».
Don Mazza si apprestava a organizzare una spedizione per
surrogare il personale, venuto meno, quando un contrattem­
po bloccò i preparativi. O i fondi da impiegare in quell’impre­
sa s’avviavano all’esaurimento o qualche intralcio i cui detta­
gli risultano ignoti, stava affacciandosi all’orizzonte. E assai
probabile che l’eco dei dissapori nati tra il provicario’ed i mis­
sionari siano giunti a Verona, Se a dapprima don Vinco ven­
ne considerato un vero martire, adesso la sua immagine, offu­
scata dalle brutture della calunnia, non appariva più immaco­
lata. Scrivendo infatti a don Beltrame, il fondatore esaltava
don Castagnaro come la “prima vittima della carità” quasi
che l’altro, “il figlio del tuono”, avesse perduto per strada la
sua aureola. Malgrado i lutti e la precarietà in cui il ministe­
ro si dibatteva, in cima ai pensieri del nostro restava l'idea
dell’Africa.
Tornato a Verona, dopo l’ordinazione, Comboni aveva ini­
ziato il primo corso d’aggiornamento agli studi. Nel libro famo­
so e contestato Le cinque piaghe della Chiesa, dopo aver appurato
«l’insufficiente educazione del clero, compiuta nei seminari»,
Antonio Rosmini raccomandava di «non applicare troppo pre­
sto agli uffici ecclesiastici i teneri ministri dell’altare». Ma il
fondatore, prima che tale legittima esortazione avesse prodotto
nel clero un immotivato sconcerto, aveva già provveduto, nel­
l’ambito della struttura da lui promossa a sopperire a quella
grave lacuna. Anche a Torino, peraltro, dove operavano dei re­
Daniele Comboni, il vescovo africano
50

ligiosi eccellenti quali Cottolengo, Cafasso e Giovanni Bosco


(in seguito canonizzati) sera pensato d'offrire ai sacerdoti un
bagaglio di discipline in sintonia coi tempi.
Ma ritorniamo a Verona. Qui tutti gli iscritti ai corsi qua­
driennali vivevano in comunità, guidate da un rettore vigi­
lante, coadiuvato da un valoroso vicerettore. Prendevano 1
pasti ad un'unica mensa e pregavano nello stesso luogo, in
orari prestabiliti avendo ognuno la libera scelta sul tipo di
orazione da adottare. E non è finita. Sottoponevano al vaglio
dei superiori i testi delle conferenze e deL sermoni, tenuti in
varie sedi, dopo il beneplacito del revisore che aveva annota­
to a margine di ogni scritto, le opportune osservazioni. Veni­
va inoltre proposto a quegli allievi un metodo di vita austera,
aliena dalle lusinghe del lusso per privilegiare, in spirito di
umiltà, i suggerimenti mirati da qualunque parte arrivassero,
rifuggendo dalla durezza nei comportamenti col prossimo.
Anche il perdono cristiano, sincero ed effettivo doveva sana­
re ogni offesa, ancorché immeritata. 1 preti educati in colle­
gio non solo approfondivano i temi di teologia, ma esercita­
vano il ministero in diverse chiese e, soprattutto, attraverso la
predicazione.
Il nostro parlò dal pulpito di San Giovanni in Sacco, appar­
tenuto in un recente passato ad un ospizio per la nobiltà deca­
duta. Affidato a don Mazza, e trovandosi in via Cantarane, fu
utilizzato dal prete per la liturgia e le preghiere delle ragazze
ospitate nell'istituto. Pur impegnando ogni energia al servizio
del prossimo a cui lo legava l’espletamento del ministero, il no­
stro con la mente correva all'iniziativa che più gli stava a cuore:
l’evangelizzazione dei negri dimenticati, E a tale proposito non
solo si preparava spiritualmente, ma anche attraverso una serie
d’approfondimenti idonei allo scopo.
Nel 1855 aveva chiesto l’autorizzazione a leggere i libri proi­
biti (alcuni dei quali messi all’indice in modo frettoloso e av­
ventato) e poi s’applicò con passione nell'apprendimento delle
lingue, con un’attenzione speciale per l’arabo, l’inglese, il fran­
cese e lo spagnolo. Siccome il pensiero dell’Africa lo dominava
Capitolo Quarto. Un cuore per l'Africa
51

sin dall'adolescenza, alle discipline insegnate in seminario ave­


va presto affiancate quelle che riteneva indispensabili al suo im­
pegno futuro.
Un approccio fecondo con i fratelli della Nigrizia presuppo­
neva il rapporto con il potere politico e diplomatico di vari
stati, in grado di favorire o d’ostacolare l’attività missionaria. E
in primo luogo col mondo dei benefattori, insediati general­
mente tra le nazioni europee. Si sa che Comboni aveva impara­
to i dialetti parlati nel Sudan meridionale e le prime nozioni di
arabo dal giovanissimo Bakhit, il servo del conte Miniscalchu
Cercava inoltre d’istruirsi nel campo della sanità, aiutato profi­
cuamente dal dottor Benedetto Patuzzi che gli fece dono d’un
libro di medicina, composto dal Bucsan (il testo fu poi portato
dal sacerdote nei luoghi delle Missioni).
Nel 1855 (e l’evento si ripeteva drasticamente in ogni regio­
ne italiana) il Veneto venne investito da un’epidemia di colera
che provocò un vuoto di dimensioni apocalittiche, fra le popo­
lazioni. In molte parrocchie mancò il titolare, deceduto proba­
bilmente mentre assisteva i fedeli. Un’assistenza non più limi­
tata all’ufficiatura del viatico, ma estesa a un vasto complesso
di incombenze, prima assicurate dalla famiglie. In una lettera
pastorale, diretta ai sacerdoti, il vescovo li invitava ad occupar­
si concretamente degli ammalati. Il nostro rispose all’appello,
con sollecitudine e, destinato a Buttapietra, lontano un chilo­
metro dal capoluogo, fornì un aiuto prezioso al parroco Gia­
como Franchi, vecchio e disabile. In più d’un frangente rispose
esemplarmente a chi ne richiedeva l’intervento, distinguendosi
spesso in mansioni che, per certi versi, esulavano dal suo ruolo
di prete.
All’impegno della liturgia affiancava quella di “missionario”
apprendista, svolgendo in certi casi, funzioni di medico e di in­
fermiere, non disdegnando, quando le necessità lo esigevano, di
sostituire il becchino nel seppellimento dei morti. Lo slancio
prodotto a favore del prossimo non fu dimenticato dai parroc­
chiani e, dopo alcuni decenni, quel tipo d’apostolato, semplice
e generoso, assunse dei contorni leggendari. Una volta, tanto
Daniele Comboni, il vescovo africano
52

per fare un esempio, per effettuare un senapismo5 ad un colero­


so di Sellino, piccola frazione del paese, usò un pezzo della ca­
micia che s’era ritagliato con le forbici. Un'altra volta, avendo
dimenticato il portamonete in una casa, tornò il giorno dopo a
recuperarlo. Era vuoto. Compresa allora la lezione - la miseria
assoluta è un incentivo a soccorrere chi ne diventa la vittima -
consegnò anche l’ultima svanzica6 trovata in tasca.
Nell’estate del 1857 aveva concluso il terzo anno di perfezio­
namento negli studi. Mancava ancora un anno per completare,
secondo il regolamento proposto dal fondatore, la preparazione
ad un sacerdozio “moderno ed incisivo”. Ai primi di settembre,
però, sarebbe dovuto partire il primo contingente di missionari
e, quando Daniele tornò dalle vacanze, trascorse a Limone del
Garda, don Mazza lo mise ai corrente del fatto nuovo. Già dal
1854 padre Ignazio Knoblecher aveva concesso al fondatore il
permesso per l’insediamento d’una missione sul Nilo Azzurro, in
un territorio non molto distante dall’Etiopia. Sotto il profilo
amministrativo avrebbe goduto d’un’ampia autonomia, pur re­
stando soggetto al provicario. Inizialmente la sede eletta venne
indicata in Khartum ed un religioso, scelto dal superiore, sareb­
be rimasto laggiù, quale procuratore della Missione. Trovandosi
già nella zona, don Beltrame trovò la soluzione inidonea data la
presenza massiccia dei mussulmani.
E così, con l’approvazione del provicario, fu individuata una
località più propizia. Ma, a complicare le cose, un’altra difficol­
tà era insorta: l’assoluta mancanza di fondi. Allora intervenne
monsignor Mitterrutzner, uno dei membri più attivi della
Marien Verein il quale, dopo un colloquio con don Nicola, riu­
scì a procurare le necessarie risorse.
Tra ì missionari scelti dall’Istituto è giusto ricordare don
Giovanni Beltrame - a cui fu conferito il grado di superiore
- don Angelo Melotto, don Alessandro Dal Bosco ed il laico

5 Cataplasma revulsivo fatto con farina di senape.


6 Lira austriaca.
Capitolo Quarto. Un cuore per l’Africa
53

Isidoro Zelli che esercitava la professione di fabbro. Nella


missione non esisteva nulla praticamente e chi avesse svolto,
con competenza, un lavoro risultava sempre il benvenuto. Il
nostro conobbe le modalità del progetto, in preda all’appren-
sione. Che cosa aveva determinato quel cambiamento, simi­
le, a prima vista, ad una resa ingloriosa? L’amore per i geni­
tori, intenso e consapevole essendo lui l’unico rimasto in
vita di otto figli. Negando, con la propria decisione, una di­
scendenza ad un cognome onorato (Comboni) egli sottraeva
contestualmente ai suoi vecchi la prospettiva d’un sostenta­
mento materiale. Perché le loro entrate, alleggerite da tutte
le spese effettuate nel tentativo d’una terapia impossibile che
alleviasse la tubercolosi di mamma Domenica, apparivano
ora precarie.
Una situazione non meno penosa accomunava il nostro a
don Melotto: anche i suoi genitori mancavano d’un reddito ido­
neo ad una vecchiaia serena. Già nel 1856, con un encomiabi­
le tempismo, don Angelo s’era attivato per procurare ai con­
giunti un adeguato sostegno. Don Mazza venne informato sullo
stato d’estrema indigenza della famiglia Comboni solo nel ’57.
Consigliato da don Negrelli ad inoltrare l’istanza per un sussidio
presso la Corte imperiale, così scriveva: «Mi fu del tutto nuovo
il fatto del mio Daniele Comboni. Purtroppo, per disgrazie di
malattie varie accadute nella sua famiglia a lui bisognerebbe,
prima di partire per l’Africa, aggiustare i debiti di casa per que­
ste malattie contratte che volentieri lo lasciassero partire. Cotal
bisogno me lo disse ora in occasione della sua lettera, per cui gli
domandai com’è la cosa. Egli diceva d’accomodar la faccenda,
senza dirmi niente per la partenza. Ora già della cosa parlammo
e cerchiamo alla meglio di accomodare».
Conoscendo, per esperienza, lo stato di disagio finanziario in
cui il fondatore si dibatteva, il nostro sembrava restio a rivelare
le proprie vicende private. Nascoste, per pudore, a don Nicola
le miserie che affliggevano i genitori, s’era confidato a un noto
predicatore: don Bencioloni. Era il 9 agosto 1857. Ed il sacerdo­
te, uomo d’indubbio talento e ricco d’esperienza pastorale,
Daniele Comboni, il vescovo africano
54

l’aveva inviato a padre Giovanni Marani, prossimo agli ottan-


danni, ma lucido e pieno di buon senso.
Entrando nella stanza di quest’ultimo, il “giovane prete” tre­
mava come una foglia. Temeva infatti che lui, vagliate a fondo
le sue perplessità, lo giudicasse inadatto al nuovo impegnativo
ministero.
Padre Marani lo mise a proprio agio e, dopo averlo ascoltato
con attenzione, formulò un commento improntato alla massima
stima. E disse, in dialetto: «E va ben, se consola, la so vocazion
della missione l’è delle più ciare che io abbia visto... E vaga en nome
de Dio el staga allegro».
Da persona avvezza a scrutare nelle coscienze e, soprattutto
nei complicati rapporti che legano i genitori ad un figlio prete,
consigliò le strategie più opportune a preparare i medesimi,
nella prospettiva d’un doloroso distacco. C’era un lungo discor-
so da fare, riguardo a quel dettaglio e l’incarico preliminare an­
dava affidato a don Pietro Grana, parroco di Limone del Garda.
Sì, bisognava con molta diplomazia, sdrammatizzare i pericoli
dell'avventura. No, nessun salto nel buio perché il sacerdote
partiva insieme a un gruppo di confratelli e, poi, compatibil­
mente con le esigenze della Missione, sarebbe tornato, almeno
una volta all’anno dai suoi congiunti. Ma c’era un altro fattore
da considerare. Se avesse trovato difficoltà insormontabili, in
quelTambiente così diverso e lontano, sarebbe rientrato per
sempre nella città di Verona. Contava, in ogni caso (e questo
faceva parte del patto già concordato coi superiori) d'ottenere
l’azzeramento d’ogni situazione debitoria dei genitori. E non è
finita.
Esisteva l’opportunità d'una breve vacanza da fare serena­
mente a Limone del Garda dove egli giunse in effetti nel mese
di agosto. Se per convincere il padre dell’assoluta certezza di
quella scelta, dovette sudare le proverbiali sette camice, per la
madre Domenica inferma e rassegnata ad una morte precoce, il
“colpo” si tramutò in un autentico dramma. Spesso infatti la
donna, quando una funzione liturgica la conduceva in parroc­
chia, sostava presso la pila dell’acqua santa, chiedendo a tutti i
Capitolo Quarto. Un cuore per l’Africa
55

fedeli d’unirsi a lei in preghiera. Una preghiera, rivolta alla


Madonna perché dissuadesse il figliolo dai suoi propositi di
“missionario”.
Intanto s’avvicinava il giorno della partenza ed il ragazzo,
pensando di mitigare la pena del lungo distacco, donò ai geni'
tori una sua immagine. Sul retro, dettate da una fede incrollabi-
le, si leggevano queste parole «Chi ama il padre e la madre più
di me, non è degno di me».
Più tardi mamma Domenica, mostrando il ritratto alle ami'
che, così commentava: «Di otto figli che il Signore mi diede,
sono rimasta con uno di carta».
Ai primi di settembre don Mazza versò ai missionari quanto
distribuito ai genitori. Le somme di vario importo, assegnate
alle famiglie, sono indicative duna procedura encomiabile a so-
stegno delle medesime. In altre parole la Corte di Vienna, se
non eccelleva per la tendenza a una vita morigerata, non fu in­
sensibile alle problematiche delle missioni che sostenne costane
temente. Basta: il 5 settembre il drappello di sacerdoti si radu-
nò presso l’istituto dove risiedeva il fondatore, per ottenere, du­
rante il commiato, l’ambita benedizione.
Espresse, con sincerità, ma senza il ricorso alla retorica, le
parole di don Nicola furono poche e incisive: «La sola gloria di
Dio promovete sempre che tutto il resto è vanità. La vostra mis­
sione, come v’ho detto sempre, voglio che sia sotto l’immediata
protezione e tutela di Maria Vergine Immacolata, in memoria
ed onore del grande mistero testé definito e dell’apostolo delle
Indie San Francesco Saverio. Don Giovanni Beltrame sarà fin
d’ora il vostro superiore immediato dal quale in ogni cosa dipen­
derete; lui morto o assente sottentrerà don Francesco Oliboni e
in terzo luogo don Alessandro Dal Bosco».
Daniele Comboni, in via gerarchica, occupava il quinto
posto. Il giorno in cui una cerimonia, semplice e riservata, coin­
cise con il congedo dalla città, partirono i primi sacerdoti: don
Beltrame e don Dal Bosco. Gli altri raggiunsero i confratelli il
giorno 8 settembre. A loro s’unì, in spirito di umiltà e di servi­
zio, il fratello laico Isidoro Zilli. Il giorno dieci, dopo l’invio
Damele Comboni, il vescovo africano
56

(Turi telegramma a Verona, s’imbarcarono tutti sulla nave


Bombay, diretta ad Alessandria d’Egitto. Da Trieste e poi prose­
guendo sino all’isoletta di Corfù, il viaggio venne turbato da un
forte vento ed i religiosi, alla prima esperienza di navigazione,
patirono atrocemente il mal di mare. L’unico rimasto indenne a
tale mconveniente risultò Comboni, nato e vissuto in una zona
lacustre e avvezzo probabilmente alle traversie dell’imbarco. A
rasserenare i missionari nelle giornate seguenti contribuì la vi­
sione dell’arcipelago greco e di Creta, in particolare, conosciu­
ta sui libri di storia.
Lo sbarco in Egitto avvenne il giorno quindici e, per i con­
fratelli, la sosta di due settimane permise un approccio diretto
col mondo arabo. Ma la spedizione, avente nella capitale una
tappa d’avvicinamento, già incombeva e allora il padre guardia­
no dei francescani offrì a tutti un pellegrinaggio in Terra Santa.
Esso sarebbe avvenuto, per mezzo d un piroscafo francese, gra­
tuitamente. Mentre, con l’intento di fare acquisti per la missio­
ne, don Beltrame e don Oliboni partivano alla volta della capi­
tale egiziana, Melotto Dal Bosco e Comboni stavano per imbar­
carsi in direzione di Giaffa.
In Terra Santa ove conobbe padre Ratisbonne (un ex gesui­
ta, fondatore di due nuove congregazioni, intitolate a Santa
Maria di Sion) il nostro provò una serie di emozioni davvero ir­
ripetibili. Vide infatti la colonna alla quale Cristo era stato le­
gato con una fune per subire la flagellazione, la pietra dell’un-
zione del corpo e il luogo che aveva ospitato l’incontro del fi­
glio di Dio, con la madre e la Maddalena, dopo la resurrezione.
Tutto, sino ai primordi del cristianesimo aveva trovato il fonda­
mento nella tradizione che nessuno sottoponeva al vaglio d’una
critica mirata o d’un’indagine approfondita.
Celebrata nel punto in cui la Vergine aveva sostato dinanzi
al Crocefisso, la prima messa fu dedicata alla madre; una secon­
da, incentrata sulla figura paterna, trovò la sede ideale nel luogo
dell’esecuzione, operata dai legionari romani. L’ultima messa
venne officiata davanti al Santo Sepolcro, preceduta da un’in­
tensa preparazione. Così descrisse Comboni le sensazioni prova­
Capitolo Quarto. Un cuore per l'Africa
57

te; «In questi due notti ebbi modo d’effondere preghiere inde­
gne, ma assai ferventi per la mia missione».
Il 14 ottobre 1857 la comitiva, a bordo della nave Marsey,
raggiunse di nuovo Alessandria d’Egitto. Qui prese il treno a
vapore ed al Cairo avvenne il ricongiungimento con don Bei-
trame e don Oliboni. Comprendendone appieno la sofferenze,
del resto fortemente condivise, il nostro scriveva spesso ai ge­
nitori: «Io sono martire per amore delle anime più abbando­
nate e voi divenite martiri per l’amore di Dio, sacrificando al
bene delle anime un unico figlio». Ravvisava insomma nel
loro dolore, umanamente insanabile, il marchio del doppio
martirio.
Ma ritorniamo all’avventura del viaggio. Il 22 ottobre, con
una barca a vela, i missionari presero la direzione del Sud. Se
non insorgevano intoppi, il tragitto sul fiume Nilo non avrebbe
oltrepassato la durata d’un mese, occorrevano due settimane per
attraversare il deserto della Nubia e poi una marcia di tredici
giorni con meta finale Khartum. Il calcolo teneva conto essen­
zialmente di alcune carte approntate dagli esploratori, il che
non garantiva alle medesime il sostegno dell’esattezza. Nella ca­
pitale del Sudan, a quanto è dato sapere, la missione potè inse­
diarsi soltanto Tetto gennaio 1858, trascorsi due mesi e mezzo
dalla partenza.
Ma compiamo un passo a ritroso. Il 30 ottobre la comitiva
era pervenuta ad Asyut e il 15 del mese successivo ci fu l’in­
contro con il provicario ad Assuan. Monsignor Knoblecher
accolse i religiosi con molta cordialità, comunicando che la
stazione di Santa Croce sarebbe stata a loro disposizione. Al
momento di congedarsi, però, Comboni ebbe l’intuizione che
un ulteriore e più proficuo abboccamento con lui avrebbe ri­
solto più d’un’emergenza. Tutto del resto, in quei luoghi, fatta
eccezione per la robustezza della fede, pronta a cimentarsi con
le prove più dolorose, si risolveva nel clima dell’incertezza.
Basta: i nostri, ad Assuan, privilegiarono per breve tempo, la
via più sicura del deserto; quindi, avuta cura di evitare la furia
delle cateratte ed i rischi ad essa connessa, tornarono a navi­
Daniele Combonì, il vescovo africano
58

gare sul fiume Nilo che procedeva, impetuoso, in mezzo alla


sabbia infuocata della Nubia. Abbandonata la barca, in pros­
simità di Korosko, i confratelli impiantarono la loro tenda
sotto una pianta di datteri. Si trattava, malgrado la precarietà
della struttura, della prima “vera dimora” realizzata nel conti­
nente africano.
Daniele Comboni, sempre preciso e documentato, non ha
lasciato una descrizione di quella parte del viaggio così disagia­
ta. Per avere un’idea delle difficoltà, bisogna rifarsi alle testimo­
nianze d’un coraggioso prelato, il cardinale Massaia che aveva a
suo tempo affrontato tale esperienza. Egli infatti, nelle “memo­
rie” parlava di scogli di pietra o di qualche collina che a tratti
s’ergeva, simile ad un sarcofago, tra la monotonia della rena.
Rarissime anche le oasi, allietate, in qualche caso, dall’oro delle
mimose. Una visione, quella dei fiori, destinata a rompere il gri­
giore d’una piattezza infinita, oppressa da una noia sepolcrale.
Per chi non possedeva una fede salda e tenace e quindi neppu­
re l’opportunità di cogliere, in quello squallore, la mano della
Provvidenza, la disperazione sembrava l’unico sbocco d’un pere­
grinare senza senso.
Per i credenti, però ed i missionari in special modo, votati al
sacrificio, non esistevano margini entro cui l’angoscia avesse il
sopravvento. In effetti i problemi esistenziali, legati a una lotta
snervante contro le trappole tese dalla Natura, imponevano
drasticamente la vigilanza continua. Continua e ragionata. Bi­
sognava, innanzi tutto, custodire gli otri che racchiudevano un
elemento vitale quanto introvabile in mezzo alla rena infuoca­
ta. Durante le soste, la prudenza suggeriva d’appendere quelle
grosse borse di pelle ai rami degli alberi e ciò per evitare che
certi insetti, attratti dall’umidità, venissero ad insidiarle con 1
pungiglioni acuminati. Se poi le piante, sempre assai rare, man­
cavano, bisognava avvolgere gli otri entro pesanti coperte.
Altra cautela da tener presente: gli spostamenti notturni quan­
do la luna li favoriva perché nelle ore di luce la vampa del sole
ed il conseguente riverbero avevano un impatto micidiale sulla
salute dei pellegrini. Con un seguito di quarantasette cammelli
Capitolo Quarto. Un cuore per l’Africa
59

e ventisei ghirbe7 di acqua attinta dal Nilo, il 10 dicembre i mis­


sionari iniziarono la traversata. A fine anno, a Berber, essendo
il fiume a portata di mano, noleggiarono due grosse barche e,
dopo aver licenziato i cammellieri, continuarono il viaggio ver­
so Khartum. Presero, un certo momento, una barca a vela deno­
minata “Stella mattutina” ed il 18 gennaio approdarono nella
capitale sudanese. Qui, con rincarico di procuratore della mis­
sione, lasciarono Alessandro Dal Bosco.
L’avventura riprese insieme a un nuovo compagno: Mattheus
Kirchner, d’origine austriaca, inviato dal provicario per visitare
le nuove stazioni di Santa Cruz e Gonkonkoro. Per due volte,
durante il viaggio, l’imbarcazione si arenò; poi un vento impe­
tuoso ridusse la vela a brindelli e praticamente inutilizzabile. A
metà strada tra Santa Croce e Khartum, nei pressi del territorio
abitato dagli Shilluk, Daniele fu colto da una violentissima feb­
bre. Non avendo i missionari né ghiaccio né medicine, il ma­
lanno, dopo sei giorni, guarì naturalmente. Per non allarmare i
genitori, il nostro nelle sue lettere, non ne parlò ed il dettaglio
solo più tardi divenne noto.
Navigando sul fiume Bianco (il Nilo, com’è noto, si fregia di
almeno sei nomi) i missionari furono colti dal panico. Infatti, in
quella zona, abitavano i Dinka (un popolo che l’anno preceden­
te aveva già sterminato un drappello d’esploratori) e gli Scilluk,
guerrieri invincibili, “selvaggi e disumani”. Riguardo a tale dice­
ria che aveva, però, tutte le parvenze della leggenda, bisognava
tener nella giusta considerazione un presupposto. Periodica­
mente bande spietate di arabi venivano nel territorio per rapire
donne, bambini e persino adulti, ridotti in schiavitù e poi riven­
duti. La diffidenza verso la razza bianca risultava quindi plausi­
bile. Ma c’è dell’altro. Sia pure animati da rette intenzioni, i
missionari non presentavano, rispetto ai mussulmani, tratti so­
matici inconfondibili. Almeno a un esame sommario. Lo stesso

7 Sacco impermeabile usato nell’Africa settentrionale e nell’Arabia per tra­


sportare l’acqua.
Daniele Comboni, il vescovo africano
60

Daniele Comboni condivideva il terrore dei confratelli e, con


l’intento d’esorcizzarlo, s’inginocchiava dinanzi alPimmagine
della Madonna, collocata nella cappella dell’imbarcazione, per
pregare con molto fervore.
Nelle lettere inviate ai famigliati, si soffermava, dando prova
d un acuto spirito d’osservazione, sulle descrizioni ambientali. E
citava le canne da zucchero, le piante di datteri e di banane,
nate e cresciute rigogliosamente in riva al Nilo. Ma l’interesse
primario s’incentrava sulla “Nigrizia”, un termine usato dagli
studiosi per indicare l’Africa più misteriosa, popolata di gente
dalla pelle bruna. Lasciata alla spalle Khartum e toccando i ter­
ritori dove avrebbe fondato, insieme ai confratelli, la nuova
missione, ebbe netta la sensazione d’essere, per certi versi, un
pioniere e decise di compilare il giornale di viaggio a beneficio
di chi, nel futuro, avrebbe seguito il suo esempio. L’incanto
creato dall’imponenza davvero regale del Nilo continuava ad
arricchirsi di nuovi particolari: fiere mai viste prima d’allora (e
mi riferisco principalmente ai coccodrilli e agli ippopotami) e
poi baobab le cui fronde straordinarie sfioravano altezze davve­
ro vertiginose.
E ancora. Tra il lussureggiare del verde incontaminato il mis­
sionario vide le corna enormi e attorcigliate dei bufali ed una
mandria superba di elefanti procedere nella foresta. Non aven­
do nozioni precise riguardo alla fauna, credette d’individuare,
tra i branchi degli animali, anche le tigri (che in effetti manca­
vano) e pensava che l’abbigliamento delle signore più facoltose
derivasse dalle pellicce di tale specie. Si trattava, verosimilmen­
te, di pelli di leopardo.
Sì, la Natura, in quel continente selvaggio, mostrava un
volto superbo, ricco di seduzione ed il missionario ne subiva il
fascino, intensamente. Difatti le sue impressioni, dettate da una
fede vigorosa e corroborata da una ricchezza di stimoli, trovava
il compendio in queste parole: «Quanto è grande e potente il
Signore», Senonchè il religioso non era approdato laggiù per la­
sciarsi affascinare dallo scintillio dei colori e neppure dalla pre­
senza copiosa e variegata delle fiere esotiche.
Capitolo Quarto. Un cuore per l’Africa
61

L’azione appena intrapresa e destinata a tradursi in uno svi-


luppo grandioso* verteva “sull’Uomo”, principalmente, “l’Uo-
mo”, con la maiuscola, da accompagnare per mano nel gregge di
Cristo. Procedendo con l’imbarcazione - il viaggio aveva caden­
ze lentissime, frenate da una miriade di imprevisti - Daniele co­
minciava a familiarizzare con le tribù che vivevano in riva al
Nilo. Almeno attraverso un fugace contatto visivo. Poter usu­
fruire dell’acqua d’un fiume immenso in regioni dove la siccità
s’alternava alle grandi piogge, veniva considerato un privilegio.
Dinanzi agli occhi abbacinati dei missionari sfilavano, come
nelle sequenze d’un film, le tribù degli Hassianeh, formata da
pastori nomadi, gli Schambab e 1 Lawins, armati di lancia e
istintivamente bellicosi. Con la comparsa della razza Baggara
s’eclissarono i tratti somatici nubani-arabi per lasciare il posto a
fisionomie più marcatamente africane: dei dinka e degli schilluk
dalla pelle nera. La lingua dinka godeva d’una vasta diffusione
in quei territori, ma il nostro che l’aveva appresa dal servo del
conte Miniscalchi, s’accorse di non poterla utilizzare; veniva in­
fatti compresa solo dai Gebel Nuba,
Poco o nulla sapevano i missionari delle popolazioni che
avrebbero dovuto convertire. Più che nozioni precise circolava­
no sul loro conto voci improntate alla diffidenza, racconti che
si dipanavano in un contesto di sangue e di crudeltà. Tutti i sel­
vaggi intravisti sulle piroghe erano nudi e questo, di primo ac­
chito, suscitava un senso di disagio in chi puntava all’approccio
con moduli di civiltà così primordiali e inconsueti. Eppure la
fosca aureola di “crudeltà” che accomunava legioni di aborigeni
avrebbe dovuto aprirsi ad una disamina onesta ed equilibrata.
Pur condividendo i pregiudizi del tempo, immuni tuttavia dal
disprezzo, il missionario s’accorse che la presunta efferatezza dei
negri rappresentava uno strumento di prevenzione dalle anghe­
rie compiute a loro danno.
Comprese allora (e il dettaglio fu il risultato dell’esperienza
diretta) che nella zona meridionale, rimasta indenne dalle scor­
rerie degli arabi, non esisteva sfiducia né diffidenza nei confron­
ti degli europei. Le conclusioni del nostro, a tale riguardo, furo­
Daniele Comboni, il vescovo africano
62

no riassunte in una frase emblematica: «È vero che questi uomi­


ni massacrano, uccidono, sono crudeli contro i bianchi, ma solo
quando sono provocati».
Daniele Comboni rimase molto colpito dalla nudità integra­
le delle persone. Forse comprese che la mancanza d’un abbiglia­
mento, ancorché ridotto in certi casi, all’essenziale, non dipen­
deva soltanto dalla calura eccessiva, ma soprattutto dall’indi­
genza dei popoli. Balzava all’occhio comunque un’eccezione: le
donne sposate coprivano a volte il fianco destro o il sinistro con
pelli di capra o di montone, ma senza cautele eccessive nella
prospettiva del pudore.
La statura dei maschi, sempre superiore alla media e la robu­
stezza della complessione destarono l’ammirazione degli euro­
pei. Persona attenta e perspicace, in grado di valutare la realtà
circostante, il nostro aveva scoperto un particolare: la tendenza
degli africani di circolare, abitualmente, muniti di lance, coltel­
li e faretre colme di frecce. Tutto ciò costituiva l’indizio duna
potenziale tutela contro i predatori di schiavi, sempre all’erta ed
attivi. Ma a tale proposito andavano aggiunte sicuramente altre
ragioni: i conflitti imprevedibili con le tribù rivali e la caccia
agli animali eseguita in modo del tutto estemporaneo.
Comboni trascriveva sulla carta le sue osservazioni, sicuro di
facilitare in futuro, l’azione dei missionari. Ed ecco cosa il suo
diario metteva in luce. Esisteva presso quelle popolazioni il ri­
corso puntuale alla poligamia (un sistema usato sin dai tempi
più antichi, per incrementare le tribù) ma lo stile di vita dei ma­
schi propendeva generalmente ad un ozio immotivato. E questo
malgrado La fertilità della terra e la necessità di trarre dalla me­
desima un’adeguata fonte di raccolto. Come dare una spiegazio­
ne a tale anomalia, considerando la vocazione dell’fiomo sapiens,
nata ai primordi della civiltà, per l’agricoltura.7 Ebbene, il nostro
individuò, nella circostanza, l’assoluta mancanza dell’incentivo;
sì, era lo sfruttamento, esercitato dai bianchi a vanificare l’op­
zione d’un esistenza dinamica. E l’inattività produceva, con l’in­
digenza, la fame e le malattie. Così egli scriveva alla madre: «Se
vedeste le miserie che ci sono in queste contrade, se ne aveste
Capitolo Quarto. Un cuore per l’Africa
63

cento di figli, li avreste dati a Dio perché venissero a portare


sollievo a queste “povere anime”», E le “povere anime” aveva-
no bisogno d’un nutrimento speciale: “l'eucarestia” essendo loro
«i poveri negri ancora avvolti nelle tenebre dell’ignoranza e deb
T idolatria».
Per contro la “messe”, carica in quel preciso contesto, d’un
significato evangelico, risultava spropositata per cui occorreva
una vera legione di missionari.
Quando ancora si trovava in Terra Santa il nostro scrisse di­
verse lettere, ora indirizzate congiuntamente ai genitori, ora al
padre, ora alla madre. Benché la sua vocazione al ministero
fosse assai radicata, egli soffriva molto per la lontananza dal
paese e quel dolore, in chi aveva lasciato, era speculare e reci­
proco, con un dettaglio da considerare. Malgrado il rischio delle
malattie e della morte incombente, lui aveva tutta una vita da­
vanti a sé, una vita da dedicare ai fratelli e, con questo ideale
ben radicato nella coscienza, trovava la forza di reagire alle tra­
versie, Per i genitori (e per la madre, in special modo, aggredita
da un morbo incurabile) tutto si delineava in una prospettiva
più fosca. L’unica loro speranza, l’unico figlio sopravvissuto ad
una tragedia domestica senza confronti, viveva adesso in un
continente remoto la cui distanza aveva dimensioni davvero
spropositate.
Era quella un’epoca in cui la gente comune andava a piedi e
l’esistenza, di norma, si dipanava entro minuscoli agglomerati di
case, cinti idealmente dalle mura medioevali. Il campanile svet­
tava, come una sentinella, sopra i tetti più alti e la sua voce
chiamava i fedeli alla messa, accompagnava il sacerdote lungo
la strada del viatico ed annunciava ogni tipo di calamità invi­
tando i paesani a intervenire, come se appartenessero a una sola
grande famiglia.
Ma ritorniamo al nostro missionario. Egli provava lo stesso
intenso dolore dei propri congiunti, rimasti ad aspettare nella
casa incastonata tra gli uliveti e dove le limonaie liberavano nel
cielo terso oppure macchiato di nubi, un aroma sottile e strug­
gente. Esisteva come una simbiosi bruciante nell’accorato di­
Daniele Combonì, il vescovo africano
64

stacco. E allora Daniele esprimeva i propri sentimenti in questi


termini: «Trovo che voi siete molto addolorati per la mia sepa­
razione. E non sapete che non faccio passo senza che io v’abbia
nel cuore. Se scrivo, se cammino, se passeggio, parmi sempre di
essere al vostro fianco. Io ho sempre rivolto il cuore a voi, parto
ogni giorno con voi, sono a parte dei vostri affari e pregusto le
delizie che Dio mi riserba nel Cielo». In un’altra lettera elogia­
va i genitori per il sacrificio compiuto a sostegno degli emargi­
nati nei quali identificava il volto di Cristo. E li consolava o
cercava di farlo con parole sempre toccanti. «Addio, caro padre,
cara mamma, voi siete e vivete sempre nel mio cuore, lo vi amo
e vi stimo poi gran cosa, perché sapete fare un’opera eroica che
i grandi del secolo, gli eroi del mondo non sanno fare». Sì, quel­
l’angoscia gli procurava una ferita acuta, lancinante che com­
pendiava in un proclama di fede: «Dio volle darmi questa croce
di sentire in modo insolito il dolore per voi e per la madre».
Partendo infatti da Khartum apprese che lo stato di salute
della poveretta s’era aggravato per cui la percezione della morte
si preannunciava come un evento indifferibile. A meno d’una
grazia speciale della Madonna. Lui comunque intuiva che mai
l’avrebbe rivista in questo mondo. Il 14 febbraio 1858 i missio­
nari lasciarono l’imbarcazione per insediarsi nella stazione loro
assegnata. Lì trovarono i religiosi della Marten Verein e don
Joseph Lanz (il superiore Bartolomeo Mozjm era morto proprio
in quei giorni) propose ai nuovi arrivati di formare un’unica co­
munità, mettendo insieme risorse, strumenti ed energie. A suo
parere sarebbe stato opportuno che due dei sacerdoti appena
giunti, si trasferissero nell’altra sponda del fiume e due, invece,
restassero laddove lo sbarco era avvenuto. Conoscendo le diret­
tive del Superiore, deciso a fondare una nuova distinta “stazio­
ne”, don Beltrame non accettò. E così i “veronesi” occuparono
una capanna a forma di cono, alta tre metri e con un diametro
di appena quattro.
Si trattava d’una vecchia stalla, destinata alle mucche nella
quale i cinque “mazziani” (c’era infatti, con i sacerdoti, il fratel­
lo laico) trovarono uno scomodo riparo, reso ancora più angu­
Capitolo Quarto. Un cuore per t Africa
65

sto dalla presenza delle valige. Il “Kherif’, la stagione delle gran­


di piogge, manifestava le prime tremende avvisaglie. E allora bi­
sognava, con accorgimenti mirati, dare alla capanna una par­
venza di casa.
Figlio d’un falegname ed esperto nell’arte già praticata dal
padre, don Beltrame approntò una tavola idonea a vari usi e alla
mensa in comune in particolare e poi costruì una porta che tu­
telasse la “casa” dall’aggressione degli animali feroci e da quelle
delle intemperie. Preparò inoltre una cassetta per il sale ed una
per custodire i paramenti e persino un leggio su cui appoggiare
il messale. Avendo nel frattempo i missionari edificato una spe­
cie di forno, don Oliboni vi cuoceva il pane, preparato perso­
nalmente; a don Melotto avevano affidato l’incarico di lavan­
daio e a don Comboni quello di sarto, pronto a rattoppare gli
abiti e le camice dei confratelli. Con l’aiuto d’alcune donne,
probabilmente retribuite - per gli uomini il lavoro sembrava
una faccenda estranea ai loro interessi - i missionari poterono
erigere altre due capanne, occupate a iniziare dall’aprile del '58.
Non conoscendo la lingua del posto, i contatti con le perso­
ne risultavano difficoltosi e così i missionari, avendo parecchio
tempo a disposizione, l’impegnarono per rendere gli ambienti
più confortevoli, trovando per giunta uno sfogo alle personali
inclinazioni. A parte le incombenze domestiche, svolte al servi­
zio della comunità, ognuno occupava le ore Ubere come meglio
credeva.
Don Daniele aveva ripreso, con la consueta regolarità, la
corrispondenza con i genitori, un cugino di nome Eustachio, il
parroco don Pietro Grana e, per finire, il dottor Patuzzi.
Dotato d’un eccellente spirito d’osservazione e d’un talento
per la scrittura sicuramente notevole, ebbe modo di verificare
gli appunti buttati giù durante il tragitto sul fiume Nilo. Era ap­
passionato della Natura e aveva descritto le abitudini degli ani­
mali incontrati e delle iene, in special modo, portate dall’istin­
to di accanite carnivore, a scavare persino le fosse per recupera­
re le salme delle persone sepolte. La zona poi pullulava di ragni
e di scorpioni ed uno di questi un giorno, cadendo dal tetto
Daniele Camboni, il vescovo africano
66

duna capanna, l’aveva beccato impietosamente ad un dito. La


“piccola tragedia”, dovuta a quell’ambiente così ostile, venne
inserito in una lettera inviata ai genitori e reso noto verosimil­
mente ai paesani che lo commentarono attorno ai tavoli delle
osterie o durante le ore trascorse nel tepore opaco delle stalle.
Stava intanto per iniziare l’attesa e temuta stagione delle
grandi piogge che martellavano letteralmente il territorio da
marzo fino a novembre, con punte di più marcata intensità tra
il finire dell’estate e l’inizio del nuovo autunno. Non si trattava
naturalmente d’un nubifragio, ma del susseguirsi di temporali
improvvisi che s’abbattevano sulla foresta, sugli agglomerati di
capanne e sulle strade invase dal fango. Duravano spesso non
più di due o tre ore, ma si ripetevano con una veemenza inau­
dita.
Don Beltrame ha lasciato di quei fenomeni un resoconto ef­
ficace: «Gli urli di cento bestie feroci neirìnterno della bosca­
glia ne annunciano la venuta; i negri si affaccendono di racco­
gliere il bestiame nelle “zetibeh” e poi tornano a rinchiudersi
nelle loro capanne. L’orizzonte s’intorbida, il cielo s’oscura, im­
mensi globuli di nuvole fumose che pigliano gli aspetti più stra­
ni, più mutabili, i pm fantastici, s’avanzano precipitosi dalla
parte orientale e cacciati dal vento furiosamente per li spazi in­
determinati, ondeggiano, s’avvolgono, s’incontrano con altri
globi di nuvole di forme incredibili, provenienti dal sud, repen­
te guizzano i lampi ed illuminano di riflessi sanguigni le masse
fluttuanti; il tuono scroscia e la romba si diffonde e là cadono i
fulmini rovinando annose piante ed uccidendo talora qualche
animale. Qualche volta, però, mescolati in uno, gli immensi
globi di nuvole, s'acquieta il vento e l’acqua cade sulla terra a
dirotto, come riversata da un’immensa fontana».
L’impegno primario, per i missionari, fu di conoscere a fondo
gli individui che avrebbero dovuto convertire, le abitudini e, so­
prattutto, la lingua. I contatti iniziali con la tribù dei kick fini­
rono per dissipare il clima di sospetto e di paura nel quale i re­
ligiosi erano incappati. No, nessuna tendenza al delitto, al de­
litto gratuito, insomma, albergava nei loro animo. Si trattava,
Capitolo Quarto. Un cuore per l’Africa
67

senz’ombra di dubbio di civiltà primitive, pronte all’incontro se­


reno coi nuovi arrivati se questi si presentavano con atteggia­
menti pacifici. Appena il ghiaccio fu rotto, s’instaurò, tra gli eu­
ropei e gli aborigeni, un rapporto di confidenza e di amicizia. «E
i negri - osservava Comboni - ci portano legna e paglia e tutto
ciò che vi è».
Egli, come i confratelli, rilevava l’estrema indigenza che li
affliggeva, uno stato di precarietà che solo l’esercizio del lavoro
avrebbe potuto sanare. Ma loro, al disagio della fatica, preferi­
vano quello dell’ozio cibandosi solo di frutti, staccati diretta-
mente dai rami degli alberi e simili alle nostre more. E l’accet­
tazione della povertà che sapeva di fatalismo, induceva il nostro
ad esprimere questo commento: «Vedete a quali miserie vanno
soggetti coloro che non vennero illuminati dalla fede». Sì, il
principale obiettivo dei missionari restava la conversione di
“quei pagani” così che, assimilati al gregge di Cristo, iniziassero
contestualmente un percorso di promozione umana e sociale.
Esperto nell’arte della medicina, in un mondo ove di norma
essa coincideva coi riti della magia, Daniele riuscì a guarire
dalle malattie più d’un africano. La riconoscenza per la salute ri­
conquistata veniva espressa da loro in un modo assai singolare,
afferrando cioè la mano del taumaturgo, per sputarvi dentro con
forza. Dapprima il nostro tentò di ribellarsi a tale usanza, consi­
derata agli occhi d’un europeo una villania, ma la reazione e lo
sconcerto d’una paziente l’indussero ad accettare quel tipo di
comportamento paradossale. No, non si poteva imporre la civil­
tà, con la sola forza, anche se il nostro, succube dei pregiudizi
ottocenteschi, rimaneva fermo nell’opinione più volta espressa:
«Non esisteva possibilità di salvezza fino a che nessuno correva
a salvare i negri dell’Africa». «Anzi - sottolineava - essi an­
dranno in perdizione».
Lo zelo e l’entusiasmo dei “pionieri” non si placavano, sen­
nonché in quelle terre dove le foreste prevalevano e l’afa tre­
menda e la pioggia spesso si alternavano, con risultati nefasti,
bisognava mettere in conto le malattie, capaci di demolire entro
brevissimo tempo, le fibre più resistenti.
Daniele Comboni, il vescovo africano
1 68

Il primo a soffrire di tale inconveniente era stato il nostro


mentre ancora viaggiava sul Nilo, ma nel 1858, alla vigilia di
San Giuseppe anche don Oliboni venne aggredito dal solito
morbo che aveva spezzato più d una vita: la febbre. Si trattò, nel
caso specifico, d una febbre rapida e micidiale che, nel volger di
qualche giorno, portò l’uomo alPagonia. Era il 26 marzo quando
la morte venne a visitarlo; tre giorni dopo avrebbe compiuti i
trentatre anni. Malgrado il suo amore pieno ed esclusivo per
quelPesistenza difficile da programmare, egli si spense serena­
mente, incitando i confratelli a proseguire nelPopera appena in­
trapresa. Cominciava, in quel periodo, il fenomeno delle grandi
piogge, con le acque che poi stagnavano nelle falle aperte sui
sentieri o lungo i campi, ospitando nugoli d’insetti, pronti a se­
minare le epidemie.
A subire l’attacco d una violentissima febbre fu stavolta Gio­
vanni Beltrame e poi toccò a fratello Isidoro, il “fabbro” della
stazione. Se però il superiore giunse rapidamente alla guarigio­
ne - e si trattava, in quel caso, d’un esito del tutto fisiologico -
Isidoro ebbe invece una ricaduta per cui, trasferito a Khartum,
si spense l’undici giugno. Era un uomo dalla complessione robu­
sta, ricordava l’amico Comboni e pertanto l’infermità aveva ac­
celerato il suo decorso. Nel frattempo anche il prete austriaco
Joseph Lanz che non apparteneva alla famiglia mazziana, cadde
ammalato, ma senza conseguenze dirompenti: il morbo si risol­
se celermente.
Contattando gli aborigeni “predisposti” alla conversione, i
missionari appresero un particolare importante sulle tradizioni
religiose. Un’opinione assai radicata e tramandata oralmente
voleva che il loro Dio - Dendid - soprannominato il “grande
intenditore”, avesse creato la vita nelle molteplici connotazio­
ni. Per coglierne le differenze si ricorreva a strani ragionamenti,
frutto di pregiudizi, mai analizzati in profondità. Si pensava,
tanto per dirne una, che la pelle chiara dei bianchi derivasse
dall’acqua con la quale era stata realizzata; un intervento, effet­
tuato con il carbone, aveva invece prodotto la pelle scura.
Esisteva inoltre l’opinione d’un colloquio privilegiato concesso
Capitolo Quarto. Un cuore per rAfrica
69tf

ai bianchi, esclusa la razza nera da tale prerogativa. Da dove sca­


turiva quell’ipotesi, sicuramente affascinante, ma ostica da giu­
dicare sul piano interpretativo? Difficile poterlo stabilire.
Le tribù consideravamo il dio Dendid un benefattore, pro­
penso ad effettuare soltanto scelte improntate all’equità e per­
tanto non lo temevano, limitandosi ad onorarlo con le preghie­
re, Diverso era invece l’atteggiamento nei confronti del diavo­
lo, temuto per i malefici diffusi a piene mani e per i quali la pra­
tica dell’esorcismo8 compiuta con il sacrificio di animali, assu­
meva un’importanza fondamentale.
Ma c’è dell’altro. Procedendo l’autunno del 1859 verso la sua
fine naturale, nei cieli dell’Africa comparve un bel giorno la sa­
goma d’una cometa. Era considerata un segno fortemente nega­
tivo, inviato dal diavolo per indicare l’arrivo d’una calamità e
allora con lo scopo di neutralizzarne gli effetti, si ricorse ad un
olocausto9 di ben otto buoi. In quell’occasione gli aborigeni bru­
ciarono intere praterie, sicuri, con tale espediente, d’appiccare
il fuoco all’astro “maligno e crudele” che qualcuno tentò di fe­
rire a morte, lanciando delle frecce avvelenate. Quando Dio
volle la misteriosa cometa scomparve dal cielo e quella gente
nuda, perennemente in balia dei cambiamenti inspiegabili, im­
posti dalla Natura, decise di festeggiare l’evento, con un tripu­
dio di danze.
E veniamo ai nostri sacerdoti. Appena riuscirono a pronun­
ciare qualche parola nella lingua Dinka (o Gien) incominciaro­
no l’opera di conversione, radunando cioè i “neofiti”10 all’ombra
d’un grande albero ove avvenne la predicazione, una predicazio­

8 Nella terminologia comune a tutte le religioni su tratta d’un rito a mezzo del
quale si allontanano demoni o spiriti maligni da luoghi o da persone. Nel rito
cattolico l’esorcismo è una pratica volta ad espellere il demonio dal corpo dei
battezzati.
9 Sacrificio propiziatorio durante il quale uno o più animali (di norma pecore

o buoi) venivano arsi totalmente in onore del Dio. Pratica in uso anche pres­
so gli antichi ebrei.
10 Convertiti di recente.
Daniele Comboni, il vescovo africano
- 70

ne senza pretese, fatta d’insegnamenti elementari. I progressi


nell’apprendimento delFidioma usato dai negri furono lenti, ma
ad un certo punto Giovanni Beltrame, coadiuvato da un indivi-
duo del posto, di nome Casual, riuscì persino a compilare un di­
zionario dinka. Nella fase d’avvio i vocaboli furono sostanziai-
mente duemila: un’espansione insperata li portò, entro breve
tempo, al raddoppio. Don Oliboni era stato incaricato di predi­
sporre un catechismo essenziale che venne pian piano tradotto
nella lingua Gien.
Morto precocemente il sacerdote, l’incombenza passò a don
Melotto, aiutato per l’occasione da padre Lanz. Insieme ad un
manuale religioso, semplice ed abbordabile che contenesse gli
elementi fondamentali del Vecchio e del Nuovo Testamento,
venne redatta persino una grammatica. Con tale espediente
l’approccio tra gli europei e gli africani si tramutò in una profi­
cua realtà. Nel frattempo “fortissime e lunghe febbri” colpirono
il nostro per ben cinque volte. L’infermità incise sulla sua salu­
te, con esiti che si protrassero sino all’agosto del ’58.
In quell’anno il superiore Beltrame e don Melotto compi­
rono un’esplorazione a oriente dei Fiume Bianco e, nell’autun­
no, lo stesso Comboni, convalescente, effettuò una ricognizio­
ne a occidente del Nilo. Verso la metà di novembre una vio­
lentissima febbre insidiò, di nuovo, il suo organismo, mai risa­
nato del tutto per la durata di cinque giorni. Il commento al­
l’eterna precarietà della salute fu il seguente: «Dio non mi
volle con lui».
La morte regnava come un monarca spietato, nell’ambito
della Missione. Tra il 1851 ed il 1857, tanto per citare un esem­
pio, diversi preti, inviati in quella zona, erano morti. Nel 1858
lo stesso provicario Knoblecher, destinato ad una fama di stu­
dioso più che a quello d’apostolo della Nigrizia (e a determinar­
ne il profilo sarà la Storia) lasciò per sempre le angosce di que­
sto mondo.
Aveva dato un impulso notevole alla fondazione della
Marien Verem, sempre in prima linea nella tutela della Missione
e il merito va qui ampiamente riconosciuto.
Capitolo Quarto, Un cuore per TAfrica
71

In mezzo alla costernazione per la perdita dei confratelli una


tremenda notizia colpì Comboni: la morte inaspettata della
madre.
Ma veniamo agli antefatti. Fino al mese di marzo la corri­
spondenza con l’Europa e con il paese natio, in special modo,
aveva seguito un percorso ragionevolmente spedito e regolare,
ma poi, di punto in bianco, incominciarono ad infuriare i venti
del sud e la navigazione che collegava Khartum a Santa Croce,
subì una brusca interruzione. Solo il 13 novembre, perciò, dopo
un blocco durato alcuni mesi, venne ripristinato il ponte ideale
che univa 1*Africa ai territori d’origine dei missionari. E così a
Santa Croce venne smistata una gran quantità di corrisponden­
za arretrata ed una lettera - una vera mazzata - riguardava il no­
stro Daniele. Sua madre era morta il 14 luglio, ma solo adesso
gli fu concesso di piangere, compiendo nel contempo il tentati­
vo di mitigare l’angoscia del genitore, con la medicina della
fede. Don Giovanni Beltrame trovò per l’amico accenti di con­
solazione. E non è finita. Il giorno 4 novembre i confratelli ce­
lebrarono una santa messa, a suffragio della defunta. Prostrato
nel fisico e con il cuore a brindelli, il nostro si domandava per­
ché mai la vita dei missionari somigliasse tanto a quella dei
primi martiri, annientati dalle torture e dalle persecuzioni. Ma
poi trovò una risposta nella dottrina che l’aveva accompagnato
in tutti quegli anni di studio e di apostolato: «La Chiesa di
Cristo cominciò sulla terra, crebbe e si propagò tra le stragi e i
sacrifici dei suoi figli. Lo stesso suo Capo e fondatore Gesù
Cristo spirò sopra un infame patibolo, i suoi apostoli subirono la
fine del divino Maestro. Tutte le missioni ove si diffuse la Fede,
furono piantate e s’accrebbero e giganteggiarono nel mondo tra
il furore dei principi, tra i patiboli e le persecuzioni che distrug­
gevano i credenti».
Morto monsignor Knoblecher, dopo gli opportuni contatti
con la Marien Verein e la Santa Sede venne eletto vicario padre
Kirchner, suo amico ed estimatore. Egli, del resto, aveva visita­
to il Sudan, in qualità di missionario e conosceva la situazione
locale. Tra l’altro aveva tradotto dalla lingua Kich i vangeli
Daniele Comboni, invescovo africano

della domenica e quelli dei giorni festivi. Mentre padre


Kirchner si trovava a Roma per colloqui inerenti il nuovo inca­
rico, padre Morlan e padre Kaufmann, allarmati dai molti de­
cessi che avevano ridotto la Stazione di Konkonkoro sul Nilo a
uno sparuto gruppo di superstiti, avevano deciso d’abbandonar-
la. Uno contava di trasferirsi a Santa Croce e l’altro di rientra­
re in Europa. La Missione venne smantellata nel dicembre del
1858, ma essendo il territorio presidiato da sacerdoti europei,
don Beltrame decise di traslocare con i confratelli a Khartum
dove Dal Bosco, fiaccato dalle malattie subite, operava con
molta fatica. Accompagnata daH’aborigeno Kher-Alla, la comi­
tiva si mise in viaggio il 15 giugno 1859, a bordo d’un battello
inviato dal “procuratore”.
Il paese di Santa Croce conviveva da sempre con le paludi,
zona malsana, perciò e per di più frequentata dai trafficanti di
schiavi e dai commercianti d’avorio. Poiché l’infame mercato
vedeva da sempre gli arabi nel ruolo di protagonisti, l’odio da
essi innescato veniva esteso a tutti i bianchi, compresi i missio­
nari. Durante il viaggio i mazziani, abituati dal fondatore ad un
pragmatismo santo e generoso, contavano d’individuare una
sede ove fondare una nuova Stazione. Sempre con la mente
concentrata in quell’idea, alla confluenza del Sibet con il fiume
Bianco, don Beltrame e don Melotto lasciarono l’imbarcazione
per esplorare la riva. La febbre impedì al nostro d’unirsi ai con­
fratelli. Era indebolito e preoccupato e, non avendo i religiosi al
calar della sera, fatto ritorno alla base, la sua apprensione, per
altro giustificata, raggiunse l’apice. Che cosa era dunque succes­
so? Forse i religiosi avevano smarrito la strada, difficilmente in­
dividuabile nella foresta; con l’intento di procurargli un’indica­
zione, egli fece issare, in cima “all’albero”, un faro acceso.
Quando le speranze cominciavano a vacillare, arrivò Kher
Allah, portatore d’una notizia rassicurante, i confratelli aveva­
no passato la notte presso il capo villaggio Akòl Guorgieb che
li aveva accolti, con molta cordialità. Non fu riferito a Com­
boni un particolare: il rischio corso dai missionari, scambiati per
commercianti di schiavi. Solo la presenza di spirito di Akòl
Capitolo Quarto. Un cuore per l’Africa
73

Guorgieb era riusciti a salvarli. Egli volle comunque accompa­


gnarli sino aH’imbarcazione e, pensando di fare un regalo prezio­
so, lasciò un bue alla Missione.
Comboni raccontava a don Bricolo, un sacerdote che mai ne
tradì la fiducia, le sue peripezie: «Fino dai primi dello scorso di­
cembre e durante tutto il viaggio fino a Khartum, fui talmente
malmenato dalle febbri e rovinato nello stomaco che non mi
resta che un funesto pronostico sull’esito della mia salute. Ora
mi trovo indebolito all’estremo, pieno di dolori, soggetto ad af­
fanni penosissimi e pieno di tutti i sintomi che annunziano il
termine della vita. Sia benedetto in eterno il Signore!».
Il 4 aprile 1859, giunto a Khartum, il nostro appariva così di­
strutto che la morte sembrava dovesse accoglierlo, in un abbrac­
cio liberatorio. Ma poi non accadde nulla d’irreparabile. Chi in­
vece venne stroncato da un’improvvisa febbre cerebrale, dia­
gnosticata in base a un’analisi empirica dai confratelli, fu don
Melotto. Bastarono appena quattro giorni di agonia per trasci­
narlo alla tomba. In conclusione l’organico dei missionari maz-
ziani, nel breve giro d’un biennio, aveva subito il dimezzamen­
to. Il superiore corse allora ai ripari, il che lo portò a una deci­
sione immediata. Se Comboni fosse rimasto laggiù, in balia del
clima infernale, la morte sarebbe venuto a visitarlo rapidamen­
te. Sì, il rientro in Europa, per un’adeguata convalescenza, s’im­
poneva, con tutta l’urgenza del caso.
Nel giugno del ’59 il nostro lasciava i confratelli a Khartum
per prepararsi a un doloroso ritorno. Soffriva infatti i postumi
d’una malattia, mai risanata del tutto e resa ancora più angoscio­
sa dai lutti recenti e da un’amara considerazione: li avrebbe rivi­
sti su questa terra i suoi compagni? Daniele Comboni salì su un
cammello ad Omdurman e la traversata dello sterminato deserto
si protrasse per due settimane. Avendo solo una base friabile
sulla quale posare gli zoccoli, l’animale spesso dondolava e que­
sta sua andatura pencolante procurava dolori atroci al viaggiato­
re, prostrato, logorato dalle febbri ed aggredito dalla dissenteria.
Ad accentuare i disagi c’era poi un sole che martellava, im­
placabile, e, come se non bastasse, il vento, di tanto in tanto,
Daniele Comboni, il vescovo africano
- 74

sollevava nugoli di polvere, irta, compatta, bruciante. Il nostro


aveva spesso l’impressione che il traguardo (l’Europa, con le sue
certezze e una convalescenza dignitosa) si tramutasse in un fra­
gile, triste miraggio. Ad Abudan potè finalmente salire su di
una barca, noleggiata per ultimare un’altra tappa, ma giunto a
Dongol e, formando il fiume delle cateratte, dovette, per forza
di cose, interrompere il viaggio. Per riprendere la via del deser­
to bisognava si formasse la carovana e la sosta durò qualche
giorno.
Quando la marcia tornò nuovamente a snodarsi lungo quel
mare di sabbia, il nostro apprese dai cammellieri una novità, si­
mile per certi versi a un contrattempo: un ordine del pascià, giu­
stamente allarmato dai moki rischi ambientali, imponeva un
cambiamento di rotta. Il percorso avrebbe seguito scansioni più
lunghe e spinose ed incerta restava l’attesa per la provvista del­
l’acqua. Solo ogni 48 ore si faceva tappa nelle adiacenze d’un
pozzo.
Durante l’impervio tragitto che sembrava interminabile il
nostro fu colpito dalla febbre per ben undici volte e, a colmar la
misura delle sofferenze, s’aggiunse un nuovo episodio di dissen­
teria. Dopo tredici giorni di vero calvario, egli giunse a Wade-
Hilfa, ai confini dell’Alto Egitto e qui noleggiò una barca, diret­
to ad Assuan. Concluso un breve ciclo di riposo nella cittadina
di Kenneh, ospite d’un francescano che l’aveva accolto, partì
verso il Cairo e da lì, per Alessandria. Una nave, successiva­
mente, lo ricondusse in Italia e lo sbarco avvenne a Napoli.
Si sa che, in quel periodo, ebbe un colloquio con il cardina­
le Barnabò, prefetto di Propaganda Fide. Il prelato naturalmen­
te chiese ragguagli sulla situazione delle missioni africane. Da
Roma Daniele Comboni diresse a Verona e, poi, raggiunse il
padre a Limone, in riva al lago. Con il cuore sempre rivolto ai
problemi della Nigrizia, egli non si piegava alle traversie causa­
te da una salute irrimediabilmente compromessa e già pensava
a un ritorno nel Continente africano. Qui l’istituto mazziano
aveva ridotto l’organico al lumicino essendo presenti solo il su­
periore e don Dal Bosco.
Capitolo Quarto. Un cuore per TAfrica
- 75

Giustamente preoccupato per la morte di tanti preti, padre


Kirchner pensava ad innovazioni che, in qualche modo, frenas­
sero il doloroso fenomeno. La nuova strategia missionaria pre­
vedeva la costruzione d’un edificio di dimensioni notevoli nel­
l’Alto Egitto, una zona per altro immune dalle malattie. An­
nessa alla Casa già predisposta per laccoglienza di tutti i missio­
nari destinati al Centro Africa, avrebbero dovuto sorgere anche
due scuole: una per insegnare i segreti dell’agricoltura ed una
per istruire gli aborigeni in vari mestieri manuali. Dalla sede i
religiosi sarebbero partiti per il Sudan, in base a cicli prestabili­
ti, sostituiti nelle missioni “ambulanti” da altri coraggiosi con­
fratelli.
Per farla breve, nel settembre del 1860, i padri Beltrame e
Dal Bosco, abbandonate le precedenti strutture, approdarono
alla stazione di Scellal, appena costituita nel sud dell’Egitto.
Tutto era stato impiantato secondo i nuovi criteri ed anche la
scuola funzionava.
Nell’anno successivo il prò vicario fece sapere a Comboni
che la sistemazione ottenuta stava riscuotendo il consenso di
don Dal Bosco mentre il “superiore” appariva stanco e sfiducia­
to. Il nostro comprese però che il provicario aveva perso gran
parte dell’iniziale entusiasmo. Troppi lutti, troppi disagi da af­
frontare con un clima che sembrava creato per ostacolare ogni
intervento a favore della Nigrizia. Padre Kirchner, in altre paro­
le, chiedeva alla Santa Sede dei mutamenti, proponendo di af­
fidare l’intera Missione ai francescani. L’idea trovò consenzien­
ti i prelati di Propaganda Fide e il 4 ottobre 1861 Pio IX dichia­
rava il vicariato di quella parte dell’Africa, sfera di competenza
dei minoriti. A loro quindi spettava di ripartire i missionari in
base alle richieste ed alle necessità.
Rientrato in Europa dove gli venne affidato il rettorato d’un
prestigioso Collegio, padre Kirchner lascerà in seguito l’insegna­
mento per insediarsi in una parrocchia di Schessltz. Lo sostituì,
nel delicatissimo incarico, padre Reinthaler. La scelta d’un reli­
gioso tedesco aveva motivazioni plausibili: la missione era nata
ed operava sotto il patrocinio dell’Austria e, per questo, i fran­
Daniele Comboni, il vescovo africano
< 76

cescani, destinati ad un ministero cosi delicato, avrebbero dovu-


to appartenere ad una nazione “amica”. La decisione, come ve­
dremo, non risulterà azzeccata. Ma veniamo ai nostri religiosi.
Passando dalla città di Verona, padre Reinthaler ebbe un
colloquio con il fondatore don Mazza. Espresse parole d'elogio
per gli uomini da lui inviati e, poiché la missione passava sotto
la direzione dei frati “minori”, chiese ai mazziani, intenzionati a
collaborare, d’entrare come terziari nell’Ordine di San Fran­
cesco. Persona prudente e lungimirante, don Mazza non prese
alcun impegno volendo prima consultarsi con don Beltrame.
Spettava a lui, come superiore, esprimere un’opinione qualifica­
ta. Nel frattempo il fondatore aveva stabilito di mandare
Daniele Comboni presso la curia romana per un colloquio con
il prefetto di Propaganda Fide sulle risoluzioni da adottare. Oc­
cupava l’incarico, in quel momento, il cardinale Bamabò che,
dopo aver ascoltato con attenzione il sacerdote, lo dirottò dal
generale dei minoriti, padre Bernardo da Portogruaro così che il
nuovo progetto potesse tradursi in un’azione concreta. Il supe­
riore dei francescani l’informò d’un antefatto: era stato lui stes­
so a domandare ai veronesi di rimanere nel vicariato, ma padre
Kirchner, palesando non pochi dubbi in proposito, s’era pro­
nunciato per il disimpegno.
Il cardinale Barnabò mise al corrente Comboni d’una circo­
stanza importante: il ministro dei francescani restava in carico
soltanto un anno e poi sarebbe arrivata la sostituzione. Biso­
gnava pertanto che don Nicola accelerasse i tempi dell’accordo
per poi sottoporlo al vaglio di Propaganda Fide. Cambiando in­
fatti il superiore (ed il cardinale prefetto aveva dalla sua una
lunga esperienza in materia) una diversa risoluzione da parte del
ministro generale rientrava nella logica delle decisioni da assu­
mere, Daniele Comboni allora scrisse al fondatore pregandolo
di preparare, almeno a livello di bozza, quanto suggerito. Aven­
do già ricevuto ampi ragguagli sulle opzioni di don Beltrame e
padre Reinthaler, don Mazza, prima d’attuare un disegno così
complesso, voleva consultare i missionari. Solo da una dialetti­
ca seria, fatta di prò e di contro, sarebbe scaturita una disamina
Capitolo Quarto, Un cuore per l’Africa
— - 77

determinante. Nella lettera inviata a Comboni questi veniva


pregato di puntualizzare a Sua Eminenza un dettaglio già evi­
denziato in un precedente intervento: a Verona si educavano
ragazzi africani di ambo i sessi, ma non esisteva un’agenzia ma­
trimoniale per future coppie. Meglio mettere le carte in tavola,
onestamente. Tanto più che i pregiudizi sono sempre duri a mo­
rire, specie se attorno ad essi continua a spirare un’aura d’ambi­
guità.
In ogni caso i mazziani ottennero dal cardinale prefetto una
missione autonoma dai francescani e perciò Daniele Comboni
ringraziava l’illustre prelato in una lettera dell’otto marzo.
Nello stesso mese (era il 1862) don Beltrame e don Dal
Bosco giungevano nella città di Verona. Due giorni dopo il fon­
datore inviava una coppia di sacerdoti dal cardinale per sotto­
porre alla sua attenzione una nuova avvincente proposta: inizia­
re l’esplorazione delle terre abitate dalle tribù dei Bisharin, tra
il Mar Rosso ed il Nilo e poi aprire una Casa per i mazziani nella
capitale egiziana. La missione, in futuro, si sarebbe insediata tra
la popolazione di razza nuba, a nord dell’Etiopia. Il cardinale ap­
provò l’idea e ne trasmise la sintesi al generale dei francescani
che, prima di concedere l’assenso, attese la relazione d’un inca­
ricato inviato a Khartum.
Riguardo alla spedizione dei missionari in quei territori,
l’operazione si rivelò fallimentare. Non per mancanza d’impe­
gno o carenze nel ministero, ma per motivi ambientali.
Il 28 settembre 1861 aveva lasciato Trieste il primo contin­
gente di minoriti tedeschi, composto da cinque preti e ventotto
laici con destinazione Scellàl. L’approdo avvenne in novembre.
Il clima torrido, incompatibile con quello a cui sono avvezzi gli
europei, provocò una vera falcidie tra i nuovi arrivati. Nel 1862
anche il provicario ed un terzo del centinaio di frati, incauta­
mente mandati allo sbaraglio, andò incontro ad una misera fine
tanto da consigliare il rimpatrio di tutti i superstiti. La casa di
Scellàl venne chiusa e sembrava che la missione, in quella zona,
fosse naufragata per sempre.
79

Capitolo Quinto
Un piano per il riscatto
della Nigrizia

Dal 1859 al 1864 Daniele Comboni, pur deciso ad occupar­


si della prediletta Nigrizia, rimase lontano dal continente afri­
cano, visitato saltuariamente e con lo scopo di costituire laggiù
una missione più solida e duratura. Per prepararsi adeguatamen­
te ad un avvenire operoso, pregava intensamente, annotando
osservazioni connesse allo sviluppo dei suoi progetti.
Intanto il fondatore gli aveva affidato l’educazione di un
drappello di giovani d’entrambi i sessi, originari dellAirica e il
nuovo ufficio lo riempiva di gioia. Don Mazza contava, una volta
condotti gli allievi verso la “nuova fede”, corroborata dall’abitu-
dine ad un lavoro sano ed efficiente, di rimandarli nei luoghi di
provenienza dove costituire nuove comunità, improntate al mes­
saggio cristiano. Aveva pertanto incaricato i missionari Beltrame
e Dal Bosco d’agire di conseguenza, suggerendo di raccogliere i
ragazzi da trasferire in Italia. Bisognava, in quel caso, dedicare la
giusta attenzione ad un pregiudizio difficile da smantellare.
Le tribù indigene non si fidavano minimamente dei bianchi
dai quali continuavano a subire molte angherie ed erano ogni
volta riluttanti ad assecondare gli inviti dei missionari. La razza
bianca, per loro, rappresentava l’inimicizia, i soprusi, lo sfrutta­
mento. Fu stabilito, perciò, di rimandare la soluzione di quel
problema al sopraggiungere d una situazione più favorevole. Era
necessario, per il momento, individuare basi sicure e, dopo aver
operato, in modo santo e cristallino, acquisire la confidenza
degli aborigeni. Solo allora un’alleanza tra le due parti in causa
si profilava come un evento possibile.
Nel 1856 monsignor Mitterrutzner aveva condotto a Verona
quattro ragazzi negri, senza riuscire ad assuefarli al nuovo clima
Daniele Comboni, il vescovo africano
■* 80 -

e l’esito si rivelò catastrofico per la loro sopravvivenza. Preso


atto della circostanza, don Mazza aveva deciso di rimandare i
superstiti in una struttura religiosa napoletana dove il divario di
temperatura si preannunciava meno traumatico e quindi più fa-
vorevole a un inserimento ambientale. Più tardi (era il 1860) il
fondatore ebbe in consegna dal carmelitano padre Luigi altri
due ragazzi d’origine etiope, appartenenti ad un gruppo di tren­
ta schiavi. Essendo il convento carmelitano assai povero, il mis­
sionario, reduce dall’India, aveva pensato come soluzione idea­
le, all’istituto mazziano. Don Nicola, saggio e prudente indivi­
duò in Comboni il soggetto più idoneo ad occuparsi della que­
stione. E gli affidò i quattro “moretti” (il termine, un po’ razzi­
sta per noi moderni, non escludeva, nei loro confronti, un at­
teggiamento di carità) perché li conducesse in Campania, pres­
so il collegio “della Palma”.
Il nostro partì da Verona, con i ragazzi, accompagnato da
don Luciano da Lonigo, il 26 novembre. Prima d’avviarsi a de­
stinazione, la comitiva passò da Brescia dove Daniele contava
d’incontrare il padre. Sennonché un’improvvisa tempesta che
sconvolse il lago di Garda, impedì di fatto l’appuntamento. La
meta allora divenne Milano e qui Comboni conobbe don
Marinoni, il fondatore del P.I.M.E1 con il quale manterrà nel fu­
turo, un fitto scambio epistolare. Sosta a Monza, dopo la parten­
za e quindi il gruppo dei viaggiatori, senza più fermate interme­
die, ebbe come obiettivo la città di Genova. L’imbarco era pre­
visto nella serata e l’approdo a Napoli nel pomeriggio dell’indo­
mani.
Parlatore affascinante e sempre efficace nelle relazioni socia­
li, il sacerdote ottenne per sé ed i compagni lo sconto d’un terzo
per il tragitto d’andata. La nave “Stella d’Italia” salpò la sera del
28 novembre facendo tappa a Livorno per poi proseguire, diret­
tamente, sino alla meta. Poiché le maggiori potenze europee
avevano stilato un accordo per la lotta senza quartiere contro la

Pontificio Istituto Missioni Estere.


Capitolo Quinto. Un piano per il riscatto della Nigrizia
81

schiavitù, il religioso che accolse il nostro all’arrivo, non mancò


di palesargli dubbi e perplessità per quanto da lui operato. A
questo punto è necessaria una premessa.
Era quella un’epoca assai travagliata in cui i Borboni, scon­
fitti da Garibaldi, s’accingevano ad abbandonare la capitale (ed
il trono) e fra gli stati più ostili al turpe commercio si distingue­
vano la Gran Bretagna e il Piemonte. Daniele Comboni riten­
ne l’informazione un dono delia Provvidenza e, possedendo il
carisma del “diplomatico”, pensò di procurarsi tutti gli appoggi
indispensabili al conseguimento dello “scopo”. Uno scopo
santo, indubbiamente, ma che non poteva sottrarsi alle restri­
zioni imposte dai vari governi. Si portò allora a Palermo dove
esisteva un ufficio di rappresentanza del re sabaudo e, quindi, a
Roma, raggiunse l’ambasciatore britannico presso la Santa Sede.
Esposto ai funzionari il progetto di don Nicola, ebbe lettere da
presentare ai consolati inglese e piemontese in Egitto, per spie­
gare, più nel dettaglio le finalità del suo viaggio. A Roma il car­
dinale Barnabò gli consegnò dei messaggi per l’ambasciata fran­
cese e quella austriaca ed un attestato di “missionario apostoli­
co”. Ma fece di più.
Ottenne, per lui, a titolo completamente gratuito un passag­
gio d’andata e ritorno sulle navi appartenenti agli stati da lui
contattati. Contando in un approccio fecondo con la lingua
abissina, Comboni cercava adesso una grammatica che gli per­
mettesse lo studio della medesima. Anche a tale proposito il
cardinale promise un valido aiuto. Il libro era in corso di stam­
pa e, appena ultimato, avrebbe provveduto ad inviargliene
copia.
A Roma il nostro conobbe una religiosa eccezionale: Madre
Emilie Julien, superiora generale delle suore di San Giuseppe
dell’Apparizione. Resterà legato a lei «coi vincoli della più
santa amicizia» (quest’ultima affermazione è inserita in una let­
tera inviata al fondatore) e avrà modo di collaborare con l’Or­
dine, nella Missione. Che si trattasse duna persona d’indubbio
talento, lo aveva riconosciuto persino il pontefice il quale, un
giorno, mettendole sul capo lo zucchetto, aveva esclamato: «Se
Daniele Comboni, il vescovo africano
■ 4 82

lei fosse uomo, madre, la farei cardinale». Ma ritorniamo alle vi­


cende del missionario.
Il 21 dicembre 1860, con la benedizione di Pio IX, si prepa­
rò al nuovo incarico, particolarmente spinoso e non soltanto per
il pericolo di malattie. No, egli aveva ben altri e ben più ingar­
bugliati problemi da affrontare. Basta: partì l’indomani e, appe­
na sbarcato a Malta, proseguì con la nave diretta ad Alessandria
d’Egitto. Un severo editto del sultano2, esaminato con attenzio­
ne dal religioso, parlava chiaro: le autorità consolari, facenti
capo alla Turchia, avevano l’ordine d’ostacolare, con ogni mez­
zo, il trasferimento degli africani in Europa. Il 4 gennaio Com­
boni fece tappa nella capitale egiziana e, successivamente, a
Suez, s’imbarcò sulla nave Candy, diretta ad Aden. Durato una
settimana, il viaggio venne intralciato da una rovinosa burrasca.
La traversata che interessava circa 700 passeggeri, non vide
Comboni inoperoso.
Avendo un talento speciale negli abboccamenti personali,
egli tentava di metterlo a frutto in ogni occasione, soprattutto
nella prospettiva che tanto gli stava a cuore. Dal colloquio con
Emannuabal Robert, un facoltoso cattolico, oriundo di Rèu-
nion, conobbe importanti dettagli sulla situazione locale esi­
stente a Madagascar e, parlando con Bonavatur Mas, raccolse
notizie di prima mano, riguardo all’Africa Orientale. Le rifles­
sioni, nate dal dialogo con passeggeri, esperti ed affidabili, lo
portarono a una conclusione, sicuramente pragmatica. Bisogna­
va infatti tener conto, nell’iniziativa che stava per intraprende­
re, d’un presupposto fondamentale: diversi consolati ed amba­
sciate impedivano drasticamente il passaggio degli africani in
Europa e lo stesso Kirchner, informando il nostro su quanto già
conosceva per sommi capi, non mancò di rimarcare la propria
opinione in proposito: anche lui condivideva tale orientamen­
to. Daniele Comboni mise al corrente don Mazza sugli sviluppi
dell’ iniziativa.

2 Titolo del sovrano delflmpero Ottomano.


Capitolo Quinto. Un piano per il riscatto della Nigrizia
83

11 progetto di trasferire a Verona ragazzi negri, a scopo edu-


cativo, sembrava dunque svanire.
Esisteva, per il momento, una sola alternativa e il nostro
la sottopose al vaglio d’un’analisi mirata, pronto a trarre da
essa le decisioni più opportune. Occorreva dunque rivolgersi,
per dare corpo al progetto, alle nazioni africane situate ad est
e, in particolare, alle isole poste sotto il controllo dell’autori­
tà parigina. A Comboni non sembrava indispensabile che i
ragazzi da “liberare” appartenessero ad una nazione oppure ad
un’altra. Importante era incominciare, e forse la diffidenza
verso un’azione squisitamente cristiana sarebbe venuta meno,
lasciando un margine ragionevolmente accettabile alla spe­
ranza.
Comboni contava di reperire ad Aden un gruppo di cento
ragazzi pur ritenendo il suo obiettivo proficuo se il numero fosse
rimasto inferiore o dimezzato. Ma la questione da affrontare non
presentava impedimenti di sola matrice numerica. Per evitare i
controlli, messi in atto dai turchi, bisognava arrivare in Europa
compiendo il periplo del continente africano e passando poi da
Gibilterra. Siccome anche i francesi si apprestavano ad effettua­
re misure più restrittive in quello specifico campo, sarebbe stato
opportuno accelerare l’operazione. Il vicario di Aden ed il mis­
sionario coltivavano una speranza e cioè che la Società Mas-
Vidal le cui navi collegavano Marsiglia col Madagascar, acco­
gliessero i giovani ospiti, gratuitamente chiedendo solo un con­
tributo per gli alimenti. A Dio piacendo il trasferimento avreb­
be seguito il suo corso dopo pochi mesi quando il nostro fosse
tornato nella città di Verona.
Uomo da sempre votato alle risoluzioni concrete, Comboni
suggeriva persino il nome del sacerdote a cui delegare il ruolo
d’accompagnatore: don Clerici. Ma c’era un altro fattore da
considerare. Chi avrebbe fatto da scorta alle ragazze? Ebbene, il
nostro pensava ad una donna di “provati costumi” ed età cano­
nicale, riservata, coraggiosa, robusta e, possibilmente, assai brut­
ta. Compilando l’identikit della candidata ideale, spiccava il
nominativo dell’ex economa, la signora Borgato, indubbiamen­
Daniele Comboni, il vescovo africano
<84

te all’altezza della delicata missione, anche a motivo delle fat-


tezze sgraziate.
Don Mazza disapprovò quel progetto. E ciò malgrado l’allie­
vo si proponesse non solo di liberare dei giovani schiavi, ma ad­
dirittura di domandare l’assenso delle famiglie per il loro ingres­
so in Italia.
Ad Aden, dove si trovava, Comboni ebbe sentore e poi la
certezza assoluta che tra il governatore inglese Mr. Playfair ed il
prefetto apostolico3 padre Jouvelon non corresse buon sangue.
Anzi covava tra i due un aperto conflitto. Il funzionario britan­
nico provava un odio profondo verso i cattolici, arrivando a
considerare beni privati e quindi tassabili i loro averi, compresi
gli arredi ed i paramenti sacri. Comboni temeva che Jouvelon,
disgustato dalla diatriba di cui si sentiva la vittima, presentasse
le dimissioni per lasciargli l’eredità di quel rischiosissimo incari­
co. L’ipotesi - è il caso di puntualizzarlo - trovò un riscontro
verso la fine del 1863.
Per il momento, verosimilmente allarmato, il nostro cercava
d’accelerare i tempi della missione in modo da condurla in
porto, senza ulteriori dilazioni. Malgrado la tensione esistente
tra i cattolici e il governatore, egli ebbe certamente dal medesi­
mo un’accoglienza serena, il che fu coronato da un risultato
fruttuoso. In sostanza il missionario ottenne il passaporto per
sette giovani etiopi facenti parte d’un gruppo di quattrocento
persone (giovani, in maggioranza, di ambo i sessi) destinati al
mercato arabo. Parlando con i ragazzi appartenenti all’etnia
“Oroni”, venne a conoscenza d’un fatto nuovo e increscioso, le­
gato a difficoltà contingenti: battezzati tempestivamente, essi
non avevano mai ricevuto un’adeguata preparazione. Allora
s’accinse, con tutto l’impegno del caso, ad istruirli nella dottri­
na cristiana.

3Ecclesiastico nominato dalla Congregazione di Propaganda Fide, a capo delle


missioni e dei fedeli, con diritto e facoltà di vescovo in territori di missioni
non eretti a diocesi.
Capitolo Quinto. Un piano per il riscatto della Nigrizia
— 85

Il 2 febbraio, portando con sé i compagni avuti in consegna,


partì, con la fregata francese Du Chylà che aveva ospitato i no-
stri gratuitamente. Turbata dalla tempesta (una costante nei
molti viaggi marittimi del missionario) la navigazione durò
nove giorni, nove giorni d’inferno. Arrivato al Cairo, il sacer-
dote ebbe in consegna dal provicario una giovane di razza din-
ka, Caterina Zenob, futura collaboratrice dei missionari nella
compilazione del dizionario di lingua Gien. Comboni esibì alle
autorità i documenti approntati per la prosecuzione del viaggio,
ma ciò nonostante alla dogana di Alessandria d’Egitto venne ar­
restato unitamente ai ragazzi. Sul passaporto appariva, attestata
dal governatore, la cittadinanza britannica degli abissini, ribadi­
ta, carte alla mano, ad un impiegato, addetto al controllo, che
“aveva mangiata la foglia”.
Il nostro provò a parlare, mentendo a fin di bene, di abori­
geni indiani. Convinto esattamente del contrario, ma anche dei
sani principi che animavano il sacerdote, il funzionario lasciò
partire i “prigionieri”, accolti sul piroscafo Nettuno, diretto in
Europa. La lotta per l’affrancamento degli africani dai pregiudi­
zi sulla razza bianca, non era affatto conclusa.
Un abissino di nome Bullo, indottrinato da un arabo, teme­
va che il suo destino e quello dei compagni di “sventura” fosse
la tavola degli europei. Essi venivano alimentati, in una pro­
spettiva a dir poco raccapricciante: allietare gli appetiti degli
italiani con la loro carne ed in particolare col cervello, una por­
zione del corpo assai pregiata perché depositaria dell’intelligen­
za. Un bel giorno Bullo disse a Daniele: «Io so perché ci dai
tanto da mangiare (e la supposizione coinvolgeva tutti i ragazzi
arrivati con lui) tu vuoi che diventiamo grassi per divorarci».
Per convincerlo d’un’intenzione, immune dal cannibalismo,
ignoto per altro in Europa, il missionario dovette sudare le pro­
verbiali sette camice. Riuscì, nel proprio intento, grazie a una
dialettica4 fondata sull’evidenza. Il ragazzo aveva infatti una

4 Arte del ragionare. Logica.


Daniele Comboni, il vescovo africano
86

complessione minuta, eppure il suo riscatto era costato una cifra


spropositata: ben cento talleri. Ebbene: un importo del genere -
concluse il sacerdote - corrispondeva al prezzo d’acquisto di
venti mucche, in grado di procurare una quantità di carne più
che ragguardevole. Il paragone tranquillizzò il piccolo Bullo.
L’ambientamento a Verona dei giovani ospiti non fu sogget-
to a contrasti o difficoltà e tutto faceva pensare a un inserimen-
to fecondo nella comunità di don Nicola. Completata leduca-
zione, il fondatore pensava al ritorno degli africani presso le fa­
miglie d’origine. Del resto lo stato di schiavitù aveva segnato
profondamente le piccole anime e sentirsi amati e apprezzati gli
restituiva il ruolo perduto o forse solo smarrito di figli di Dio.
Tutto sembrava procedere nel verso giusto, sennonché nel mese
di luglio del 1863, un ragazzo di dodici anni, colpito da un
morbo incurabile, perse la vita.
Purtroppo la febbre o altri indecifrabili malanni, annidati nei
cromosomi5, distrussero rapidamente ancora tre esistenze.
Salvatore, Pietro e Gaetano - questi i nomi imposti agli abissi­
ni - lasciarono presto la serenità d'un ambiente che, proprio in
quei mesi, aveva iniziato a sorridere, come una promessa. Ad
uno di loro, a causa d’una malattia che provocava cancrena, fu
necessario amputare la gamba destra, un altro fu privato delle
gambe, tagliate sino alle cosce. Commentava allora amaramen­
te Comboni, in una lettera indirizzata a padre Noecher: «I neri
non possono vivere in Europa come abbiamo dolorosamente
sperimentato a Napoli, a Roma e ultimamente a Verona».
Il provicario avrebbe voluto che il sacerdote lo raggiunges­
se nel continente africano, per un’esplorazione in alcune terre
bagnate dal Nilo Bianco, ma don Mazza oppose, per il momen­
to, un motivato rifiuto. Voleva infatti che il nostro restasse
nell’Istituto per aiutarlo nella preparazione dei missionari.
Aveva poi un secondo incarico da affidargli: l’istruzione e

5 Ciascuno degli organuli più o meno allungati presenti nei nuclei delle cellu­
le in cui hanno sede i geni portatori dei caratteri ereditari.
Capitolo Quinto. Un piano per il riscatto della Nigrizia
87 h

l’educazione di tutti i ragazzi etiopi. Comboni che già conosce­


va il loro idioma si propose di insegnargli anche la lingua
araba, un sussidio d’estrema utilità nelle nazioni d’origine
dove la maggioranza sarebbe tornata. Nella struttura posta in
via Cantarane si trovavano tredici ragazze, originarie del
Sudan, d’età compresa tra i dodici e i diciotto anni, suddivise
in quattro classi. Gli allievi d’entrambi i sessi studiavano, con
la religione (e le nozioni bibliche fondamentali) l’italiano, le
scienze esatte e l’arabo la cui conoscenza veniva, in questo
modo approfondita.
Il fondatore, in quei giorni - era l’ottobre del 1861 - malgra­
do il desiderio di Comboni d’occuparsi, in prima persona, della
Nigrizia, facendo ritorno nei territori africani a lui famigliari, si
dimostrava restio ad assecondarlo. Forse i loro rapporti si stava­
no deteriorando. Infatti inviando una lettera ai missionari
Beltrame e Dal Bosco, don Mazza raccomandava «Non iscrivia­
te a chicchessia e molto meno a don Comboni e qualunque cosa
Comboni vi avesse a scrivere, non prendiate dal suo scritto nes­
suna disposizione. Se Iddio, come spero, mi ha ispirato per que­
sta Missione, non credo sia prudente cercare in altri il progres­
so della medesima».
Pensare che il nostro aveva comunicato al conte Guido
Carpegna (conosciuto durante un viaggio e al quale resterà le­
gato da una profonda amicizia) d'essere incaricato di sbrigare la
corrispondenza con i confratelli operanti nei territori attraver­
sati dal Nilo. Che cosa dunque era cambiato nell’atteggiamen­
to del superiore, da sempre votato alla prudenza e per di più ani­
mato da una sincera ammirazione per il sacerdote irruente e ge­
neroso, ubbidiente e instancabile? Difficile poterlo stabilire.
Non certamente un sentimento d’invidia, ma forse il disagio per
i molti lutti che avevano colpito la Missione. Oppure egli aveva
scambiato per ispirazione divina ciò che nasceva da un momen­
taneo angoscioso ripensamento. Infatti, dopo qualche giorno, il
superiore scriveva ai “suoi figli”, inviati in missione d’incorag­
giare Comboni a fornire slancio ed idee in quello speciale setto­
re perché «le sue parole - affermava testualmente - potrebbero
Daniele Comboni, il vescovo africano
88

assai giovare». Il rapporto con Guido Carpegna, poi esteso ai fa-


magliari, è testimoniato da un corposo scambio epistolare.
La corrispondenza proseguiva ancora nel 1877 quando Com­
boni comunicava agli amici la nomina a vicario apostolico, in
seguito promosso alla dignità episcopale, il primo vescovo afri-
cano nella lunga storia della Chiesa. Ma compiamo un passo a
ritroso.
E allora è necessario ricordare il vincolo di amicizia che legò
il missionario a Luigi Canossa, nipote di Maria Maddalena (poi
santificata) appartenente a una gloriosa casata. Nel dicembre
del ’61 il prelato incaricava il sacerdote di sollecitare la Santa
Sede per l’invio del “breve”6 che lo toccava direttamente. Si
trattava della recente nomina a vescovo che risaliva al 29 di­
cembre.
Due mesi dopo Canossa s’insediava ufficialmente nel palazzo
episcopale. Coincide con quel periodo la consegna a Daniele
Comboni del “dossier” relativo alla canonizzazione della sua pa­
rente per l’inoltro alla Curia romana. Ma esiste un altro episo­
dio significativo nel proficuo rapporto tra i due.
Nel 1862 fu il vescovo Luigi Canossa a battezzare e cresima­
re i giovani africani, portati in Italia dal missionario. Cono­
scendo il valore e la potenza della preghiera, Daniele Comboni
metteva costantemente nelle mani di Dio dubbi, progetti e de­
lusioni, sicuro d’aver in lui un interlocutore attento e insostitui­
bile. Bisognava, a quel punto, “ascoltare” quanto dal “Cielo” il
Signore gli suggeriva e agire di conseguenza. Se poi, nell’eserci­
zio del ministero, la croce immancabilmente faceva sentire il
suo peso, ecco individuata una ragione ulteriore della protezio­
ne divina.
Daniele Comboni pensava costantemente alle missioni te­
nendo conto, però, d’un presupposto incontrovertibile: i confra­
telli inviati nel Continente più bisognoso della parola di Dio,

6Lettera pontificia, sigillata con Panello del pescatore (o piscatorio) contenen­


te, di norma, affari del dominio temporale.
Capitolo Quinto. Un piano per il riscatto della Nigrizia
89

andavano incontro sovente ad una morte precoce e una sorte


esattamente speculare, toccava ai negri condotti nel nostro
Paese, con l’intento di trasformarli in futuri ambasciatori del
Vangelo. Sì, il sistema di conversione avrebbe dovuto subire
profonde modifiche così che il seme lanciato producesse frutti
copiosi.
Ma veniamo ad un episodio destinato a rivoluzionare la vo-
cazione del nostro. Il 15 settembre 1864, nella città di Roma,
iniziava il triduo che precedeva la beatificazione d’una suora ec-
cezionale: Margherita Maria Alacoque, Si trattava duna “visio­
naria”7 (un fenomeno molto apprezzato a quel tempo) devota al
Sacro Cuore, visto come strumento di redenzione attraverso la
fede e la sofferenza. Daniele Comboni, nella circostanza, assiste'
va al susseguirsi delle funzioni, sempre affollate dal clero e dai
fedeli. Partecipando alla comune preghiera, condivisa intensa­
mente, si sentì come inondato da un fiotto di luce ed intuì, at­
traverso una sorta di folgorazione, qual era la via da praticare
per la salvezza dell’Africa. Un’esperienza davvero irrepetibile
che un mese più tardi racconterà al superiore don Mazza quasi
con tono profetico: «Questo piano credo che sia opera di Dio
perché mi balenò al pensiero il 15 settembre mentre faceva il
triduo alla Beata Alacoque e il giorno 18 settembre in cui “quel­
la serva di Dio”8 venne beatificata, il cardinale Bamabò compi­
va di leggere il mio piano: vi lavorai sessanta ore continue».
Daniele Comboni era convinto che quel progetto, destinato
a mutare radicalmente l’atteggiamento verso il problema
“Nigrizia” fosse dovuto all’ispirazione della Madonna. E lo affer­
merà pubblicamente, quattro anni più tardi, durante la consa­
crazione dell’Africa nera alla Madonna de la Salette. «Sei tu la
divina Madre che mi hai ispirato il nuovo piano per la rigene­
razione dell’Africa Centrale che il vicario di Cristo e molti ve­
scovi hanno approvato».

7Chi, nell’esperienza religiosa, ha visioni.


8 Cristiano morto in fama di santità che può essere venerato con il culto pub'
blico solo dopo la sua elevazione a Beato.
Daniele Comboni, il vescovo africano

Il Piano proposto alla Santa Congregazione di Propaganda


Fide è scritto in uno stile accattivante, atto a suscitare dei sen-
timenti magnanimi e a dar vita, nel contempo ad un approccio
che non contemplava alternative di sorta. L’incipit9 del nostro,
in sostanza, introduce a gradi in un mondo da lui conosciuto, in
tutte le sfumature e presentato al lettore nella giusta luce. Un
lettore privilegiato: il cardinale Bamabò, tenuto ad assumere,
insieme al pontefice, le decisioni più opportune in materia. Ma
torniamo al testo originale che inizia con queste parole: «Un
buio misterioso ricopre ancora oggidì quelle remote contrade
che l’Africa nera nella sua vasta estensione racchiude. Governi
civili e private società si adoperarono energicamente ad epoche
diverse affinché s’imprendessero indagini attorno a quell’im-
mensa regione, allestendovi all’uopo ben provvedute spedizioni.
Sennonché malgrado gli innumerevoli sforzi ed i più grandi sa­
crifici non si potè mai strappare quell’impenetrabile velo che
per volgere di tanti secoli sopra vi sta disteso».
Più avanti egli accenna agli esploratori europei, volti a sco­
prire i misteri di quello sterminato continente, non certo per se­
minarvi la civiltà, qui intesa in senso cristiano, ma per indivi­
duare ricchezze nascoste nel sottosuolo e l’opportunità di pro­
durre beni di consumo legati all’agricoltura, a fini esclusivi di
lucro. Il termine “colonialismo”10, espressione ignota all’otto­
cento e quindi esente da ogni esecrazione, non viene usata dal
nostro. La sua attenzione, in ogni caso, si concentra sulle con­
dizioni “spirituali e sociali” di quei popoli incurvati sotto l’im-
pero di Satana. La maledizione di Cam faceva parte della cultu­
ra corrente e non ci resta pertanto che prenderne atto.
Comboni traccia una breve storia delle Missioni.
Nessun accenno all’Organismo “ufficiale” (Propaganda Fide)
ma l’indicazione di un dettaglio fondamentale e cioè l’invio
promosso da papa Gregorio XVI di sacerdoti e di laici nei terri-

9L’inizio.
10Politica che intende assicurare Colonie, perlopiù localizzate nel “terzo
mondo” a determinate nazioni sopraffattrici.
Capitolo Quinto. Un piano per il riscatto della Nigrizia
91 h

tori più martoriati dell’Africa. Sarà Pio IX, però, nel fatidico
1848, a dare un impulso speciale alle Missioni. Il nostro, a tale
riguardo, elogiava, senza riserve monsignor Mitterrutzner, attivo
nell’Associazione Marien Verein e nel reclutamento di sacerdoti
della Germania austriaca e bavarese, veri precursori d’un mini­
stero esemplare, accompagnato da infiniti disagi.
Una menzione speciale andava ai francescani, senza dimen­
ticare, per il suo zelo esemplare, don Nicola Mazza. Per farla
breve solo quattro stazioni erano state fondate nella zona infida
attraversata dal Nilo. Sì, in quelle “sventurate contrade”, come
le definiva il sacerdote, il clima risultava micidiale agli europei
la cui esistenza veniva generalmente stroncata in tempi brevi.
Comboni aveva esplorato e studiato a fondo il territorio, va­
gliati la natura, i costumi e le condizioni sociali delle varie etnie
e, insieme alla tragedia dei pionieri, chiamati “atleti di Cristo”,
considerava un fattore di rilevanza notevole la mancanza di un
centro vitale che funzionasse da fulcro al perpetuarsi dell’opera
di propaganda. E affermava testualmente: «Una missione qua­
lunque perché le si possa garantire lo spirito di vitalità che si
diffonde vigoroso per la sua superficie a conservare i preziosi
germogli, l’esistenza, il ministero, un centro vitale che le som­
ministri e le mantenga possibile la recluta annuale onde si rifor­
niscono le file dei Missionari continuamente...».
Ebbene, tale realtà progettuale trovava uno scoglio insupera­
bile negli impedimenti climatici e nel proliferare delle malattie
incurabili.
Comboni era dunque convinto che, diversamente da quanto
avveniva in America, in Asia ed in Oceania, accomunate al­
l’Europa da «qualche omogeneità d’indole e d’abitudine al
clima, l’Africa costituisse un problema a sé».
E qui è il caso di osservare che egli o non conosceva esatta­
mente la situazione esistente in India e nell’America meridio­
nale (tanto per citare due esempi) o, preso dal fervore della pe­
rorazione, tendeva a calcare la mano solo sulle questioni scot­
tanti proposte all’attenzione del cardinale prefetto. L’analisi
della materia risultava in effetti drammatica ed il crescendo
Daniele Comboni, il vescovo africano
92

continuo e martellante dei concetti espressi, contribuiva a riba-


dirla. «Noi siamo testimoni del fiero scempio che fecero i più
robusti missionari, le fatiche, i disagi ed il fatai clima africano;
talmentecchè quelli che sopravvissero al periglioso viaggio sul
Fiume Bianco non appena l’apprendimento di una lingua di una
tribù ove si era presentata una Stazione cattolica rendevasi ido­
nei ad evangelizzare gli africani, soccombevano tosto ad una
morte pressoché improvvisa, lasciando sempre sterile di frutto
l’opera della conversione dei negri i quali per la sempre e suc­
cessiva reiterata decimazione dei missionari, gemono ancora
sotto Pimpero del più degradante feticismo11. La Propaganda,
poi, alla quale sono note tutte le Istituzioni che impresero nel­
l’Europa l’educazione d’individui della razza etiope, è in grado di
confermare la verità dell’inefficacia ed opportunità della crea­
zione di un clero indigeno istituito nelle nostre contrade e de­
stinato ad evangelizzare il Centro dell’Africa».
Né d’altro canto era possibile trasferire altrove gli indigeni
perché «l’esperienza ha dimostrato che il negro nell’Europa non
può ricevere una completa istruzione cattolica da riuscir poi ca­
pace per una costante disposizione dell’animo a promuovere
nella sua terra natale la propagazione della Fede; perché ritorna­
to nell’Africa è reso inetto per le quasi connaturate abitudini
contratte nel centro della civiltà che diventano ripugnanti e
nocevoli nella condizione della vita africana».
Daniele Comboni, a questo punto, avvertiva un rischio vita­
le e cioè che la Santa Sede, valutata la gravità della situazione,
sospendesse il flusso dei missionari in quella specifica zona per­
ché l’operazione avrebbe comportato fra i medesimi una vera
strage, con una dispersione d’energie, utili altrove. A meno che,
all’ultimo momento, spuntasse un’idea nuova e risolutiva.
La preoccupazione del religioso era che una parte del mondo
così popolata, così bisognosa di conversione, restasse senza pa­

11Carattere di alcune religioni primitive nelle quali prevale il culto degli og­
getti, dotati di poteri magici.
Capitolo Quinto. Un piano per il riscatto della Nigrizia
93

stori: Ed ecco allora pronto un altro piano, diverso magari dai


precedenti che pure avevano prodotto dei frutti intrisi di santi'
tà. In questa parte delPAfrica, ben delimitata, occorreva cam-
biare rotta radicalmente, pur nell’unicità d’un principio valido
per tutto il Continente. Tanto per cominciare gli aborigeni an-
davano senz’altro suddivisi in raggruppamenti tribali, tenendo
comunque presente un’analogia di base «medesima indole, abi-
tudini, tendenze e costumi conosciuti abbastanza da coloro che
da lunga pezza occupavansi per loro bene».
Questa l’osservazione del nostro, persuaso che «la carità del
Vangelo possa loro applicare comuni rimedi ed aiuti che torni­
no efficaci a comunicare alla grande famiglia dei negri i prezio­
si vantaggi della cattolica Fede», Si trattava, in altre parole,
d’una realtà omogenea sotto il profilo etnico che avrebbe potu­
to percorrere, compattamente, la strada diretta all’ovile della
cristianità. Egli partiva, con pragmatismo, da una piattaforma
che costituiva il complesso delle missioni. Ed affermava testual­
mente: «Ora quantunque la Santa Sede Apostolica non sia
giammai riuscita a piantare stabilmente la Fede nella vasta tribù
della Nigrizia Centrale, tuttavia profuse le benefiche sue solle­
citudini nelle Isole e nella Corte che circondano la grande pe­
nisola africana ove fondò dodici vicariati, nove Prefetture apo­
stoliche e dieci diocesi».
Seguiva la mappa delle strutture riguardanti l’Egitto, la Fran­
cia, la Libia, il Marocco, la Sierra Leone, le Ghinee, il Natal, il
Senegai, il Congo, le isole Annabone, Coresco e Ferrandopi, il
Madagascar, FAbissinia ect. .
Per realizzare compiutamente il progetto, non si poteva pre­
scindere, in alcun modo, dalla cooperazione richiesta ai vicaria­
ti, alle prefetture e alle diocesi, presenti nel territorio. Dopo il
preambolo lungo e articolato, il nostro abbozzava il piano nelle
sue linee fondamentali.
«Disegno - quindi, si legge nel testo originale - che noi ose­
remmo proporre e sottomettere alla Santa Congregazione di
Propaganda Fide, sarebbe la creazione d’innumerevoli Istituti
d’ambo i sessi che dovrebbero circondare tutta l’Africa, giudi­
Daniele Combom, il vescovo africano
94

ziosamente collocati in luoghi opportuni alla minima distanza


dalle regioni interne della Nigrizia, sopra terreni sicuri ed al­
quanto civilizzati in cui potesse vivere ed operare sì Peuropeo
che l’indigeno africano. Questi Istituti maschili e femminili cia­
scuno collocato giuste le norme delle costituzioni canoniche,
dovrebbero accogliere giovani e giovanette della razza negra
allo scopo d’istruirli nella religione cattolica e nella cristiana ci­
viltà per creare altrettanti Corpi d’ambo i sessi destinati ciascu-
no della sua parte ad avanzarsi e distendersi nelle regioni inter­
ne della Nigrizia per piantarvi la Fede e civiltà ricevute».
Naturalmente i nuovi organismi avrebbero dovuto essere af­
fidati agli Ordini religiosi e alle Istituzioni approvate dalla
Santa Chiesa con l’accordo dei superiori degli Enti medesimi e
l’ufficio di Propaganda Fide su cui ricadeva l’onere di coordina­
re uomini ed energie. Prendendo a modello tutte le strutture
operanti in altre missioni, disseminate lungo l’intero pianeta, si
sarebbero in seguito fondati sia i seminari che le stazioni, con
un’avvertenza, però: l’Africa aveva esigenze specifiche e pecu­
liari,
I compiti da assegnare ai nuovi istituti si profilavano assai
complessi e, per certi versi, rivoluzionari. Loro obiettivo prima­
rio: infondere nell’animo dei negri da convertire o già converti­
ti «lo spinto di Gesù Cristo, l’integrità dei costumi, la speranza
della Fede, le massime della morale cristiana, la cognizione del
catechismo cattolico ed i primi rudimenti dello scibile umano di
prima necessità».
Bisognava, in via preliminare, diffondere su vasta scala la pa­
rola di Cristo e successivamente pensare all’educazione della
progenie di Cam, quasi sempre votata ad una sterile inerzia, fi­
glia del fatalismo. L’emancipazione sociale poteva infatti scatu­
rire da un solo elemento: il lavoro. Ed ecco come Comboni pen­
sava di affrontare questo problema: «Ciascuno dei maschi verrà
istruito nella scienza pratica dell’agraria e in una o più arti di
prima necessità e ciascuna femmina verrà del pari istruita nei la­
vori donneschi di prima necessità affinché i primi diventino uo­
mini onesti e virtuosi, utili e attivi e le seconde riescano pure
Capitolo Quinto. Un piano per il riscatto della Nigrizia
95

virtuose ed abili donne di famiglia. Crediamo che questa attiva


applicazione a cui vorremmo assoggettati tutti i membri degli
africani Istituti, influisca poderosamente sul morale vantaggio
della razza etiope, inclinata altrimenti alla pigrizia e all’inazio­
ne».
L’enunciazione del piano rappresenta una sorta di manifesto,
teso a liberare gli africani dalla sudditanza della miseria tramite
un’opera di rinnovamento compiuta in loco. L’impulso per tale
pacifica rivoluzione doveva giungere dall’Europa, da uomini il­
luminati e generosi, ma trascorsa la fase d’avvio, spettava agli
aborigeni prendere il posto dei missionari. Individuate le basi di
nuove, efficaci strutture, la direzione delle medesime diventava
compito dei negri, i soli idonei ad operare in un certo contesto
ambientale.
Comboni tracciava un abbozzo delForganigramma12 da adot­
tare e ne indicava, tenuto conto del sesso, obblighi e composi­
zione. Il mondo maschile aveva bisogno, principalmente «di
abili catechisti a cui si darà una più estesa cognizione delle
scienze sacre». Seguiva un lungo elenco di professioni idoneo
agli esponenti di sesso maschile.
Anche per Tuniverso femminile, mai considerato gregario e
comunque inferiore a quello dell’altro sesso, il programma di
vita si preannunciava attraente e stimolante.
Ed ecco come esso s’articolava nell’ottica d’un emancipazio­
ne che non considerasse le ragazze solo come potenziali “ fabbri­
che” di figli, sottomesse ai padri ed in futuro ai mariti. Partendo
infatti dalle più giovani, sicuramente più ricettive ad un’educa­
zione sganciata dalla tradizione, Comboni pensava a un proget­
to che producesse «abili istitutrici a cui si darà la possibile istru­
zione nella morale cattolica affinché ne infondano le massime e
la pratica nella degradata femminile società africana dalla quale,
come fra noi, dipende quasi del tutto la rigenerazione della

12 Rappresentazione grafica dei singoli organi in un’azienda e, nella fattispecie,


nei vari territori di missione.
Daniele Comboni, il vescovo africano
96

grande famiglia dei negri». Il ruolo delle donne veniva elabora­


to attraverso una serie d’occupazioni mirate. L’opera di “trapian­
to”, indicata dal religioso, doveva iniziare dalle zone costiere per
poi insediasi nei territori centrali del Continente, meno cono­
sciuti dagli esploratori e di conseguenza soggetti a maggiori in­
cognite.
Comboni non si proponeva di popolare le aree, conquistate
alla Fede cristiana, di sacerdoti e di suore, ma di cittadini one­
sti e consapevoli, pronti ad abbracciare uno stile di vita più con­
sono alla personale inclinazione.
Esisteva poi l’obiettivo duna formazione locale del clero
che attingesse alla sezione degli «individui più distinti per pietà
e sapere e con la vocazione alla vita ecclesiastica». A questo ri­
guardo Comboni mirava ad un sacerdozio eccellente, senza
però sovraccaricare i preti indigeni di tutto il fardello cultura­
le, tipico dei seminari europei. Bisognava quindi privilegiare le
discipline teologiche e scientifiche di prima necessità riducen-
do l’istruzione dai dodici anni, normalmente previsti, ad otto
per gli africani.
La preoccupazione principale del missionario riguardava il
popolo etiope, ritenuto infingardo e incostante nel ministero sa­
cerdotale. Forse quel severo giudizio derivava dall’esperienza,
dal contatto assiduo con gli aborigeni. In ogni caso, pur lascian­
do al cardinale prefetto l’onere e l’onore della scelta, egli non
mancava di suggerire prudenza sull’argomento. E, senza smenti­
re una consuetudine ormai radicata, non si perdeva in compli­
cati preamboli, ma puntava dritto al nocciolo della questione.
«Tuttavia speciale condizione dell'incostanza e mollezza che
contraddistinguono l’indole e il carattere della razza etiope
dovrà imporre la più rigorosa cautela nel determinare agli aspi­
ranti al Sacerdozio, l’epoca della promozione agli ordini sacri; e
noi siamo pienamente convinti che sia assolutamente necessa­
rio di stabilire che non si debbano promuovere che in seguito a
parecchi anni di provata fermezza e castità, percorsi nel tiroci­
nio d’una vita esemplare ed attiva e nel ministero della dispen­
sazione della parola divina, esercitata nella già stabilita Stazione
Capitolo Quinto. Un piano^per l 1 riscatto della Nigrizia
97

dell’interno della Nigrizia nella condizione di un severo e irre­


prensibile celibato».
Riluttante ai mezzi termini, Comboni privilegiava l’assoluta
chiarezza verbale. E le espressioni «provata fermezza e castità» e,
più avanti, «irreprensibile celibato» ne sono le prove tangibili.
Per il personale femminile, con la vocazione al nubilato, il
nostro aveva pronta un’etichetta esemplare «Vergini della cari­
tà». In altre parole toccava al clero, alle suore, ai catechisti, ai
maestri, agli artisti, alle istitutrici formare il nerbo della Fa­
miglia cattolica, destinata ad estendersi in tutte le regioni ine­
splorate della Nigrizia. Per quanto concerneva l’intervento degli
europei ai quali affidare l’incarico per nuove missioni, prefettu­
re e vicariati, esso doveva subire una riduzione nel tempo. In­
fatti le statistiche indicavano che una presenza più breve,in
certi luoghi, era compatibile con l’inclemenza del clima; un pro­
lungamento dei mandati significava incentivare la morte dei re­
ligiosi. Consigliabile, quindi, se non addirittura necessario il ri­
cambio frequente dei missionari europei fino alia sostituzione
integrale con personale aborigeno di provata capacità.
Diversa era invece la situazione che riguardava le donne a
cui la Natura aveva concesso una resistenza maggiore ai disagi
causati dagli sbalzi imprevedibili e non di rado violenti della
meteorologia. In virtù di questo riscontro Comboni prospettava
la creazione d’istituzioni femminili composte da personale euro­
peo, da trasferire in pianta stabile in Africa. Naturalmente la
decisione finale andava sottoposta al vaglio di vicari e di prefet­
ti apostolici, nominati dalla Santa Sede.
E ancora. Il chiodo fisso del nostro, determinato da una col­
laudata esperienza, restava il destino del popolo etiope. Popolo
che egli amava e si proponeva d’amare sempre di più, colman­
dolo d’un’attenzione particolare. Perciò segnalava al cardinale
prefetto (al quale il piano era indirizzato) Popportunità di ve­
gliare sulla maturazione religiosa di quell’etnia, forse la più di­
sarmata di fronte alle “ tentazioni”. Sì, occorreva che i vicari ed
i prefetti procedessero alle “ispezioni” nei territori loro affidati
al fine di «correggere, confermare e migliorare le condizioni del
Daniele Comboni, il vescovo africano
98

cattolicesimo in quelle perigliose contrade ove sovente un turpe


egoismo ed il fanatico fervore deH’islamismo corrompe e deva­
sta l’opera del sacerdozio cristiano». Ma il missionario guardava
lontano, pronto con la fiducia del pioniere ad allargare gli oriz­
zonti del suo progetto, E proponeva, dopo che il seme gettato
dalla parola di Cristo, avesse dato i primi frutti, di fondare quat­
tro grandi Università Africane teologiche e scientifiche nei
quattro punti strategicamente più idonei, vale dire ad Algeri, al
Cairo, a S, Denis, nell’isola di Réunion e in un’importante città
delle coste occidentali.
Insieme alle strutture sopraccitate egli contava sulla creazio­
ne di «stabilimenti artistici di perfezionamento per candidati a
ricevere quel tipo di formazione», fiducioso, con tale accorgi­
mento, di migliorare, educando i negri al lavoro, il loro tenore
di vita e la propensione ad abbracciare la fede cattolica.
Per l’attuazione del piano, Comboni mirava alla costituzione
d’un Comitato dei Sacri Cuori di Gesù e Maria per la conver­
sione della Nigrizia che avrebbe dovuto svilupparsi sulle basi di
norme precise e motivate: 1

1. Con la nomina di un Procuratore, insediato a Roma in ac­


cordo con il Prefetto di Propaganda Fide e incaricato di so­
vrintendere agli adempimenti affidati alle varie Missioni.
2. Stabilendo «contatti con Ordini, congregazioni maschili e
femminili per la creazione di Case e di strutture nel Conti­
nente africano e di corrispondere con i vicariati e Prefetture
apostoliche ivi operanti».
3. Provvedendo «con mezzi pecuniari e materiali per l’attuazio­
ne del nuovo progetto».
4. Fondando «Istituti, Seminari e Stabilimenti artistici [leggi
idonei ad insegnare un lavoro qualificato] nei centri più
opportuni dell’Europa e deiFAmerica per le Missioni africa­
ne».
5. Costituendo «un gruppo di Missionari, particolarmente ver­
sati nel settore dell’apostolato e soprattutto zelante per di­
scutere personalmente con i Prefetti ed i vicari apostolici a
Capitolo Quinto. Un piano per il riscatto della Nigrizia
99*-

tutela della “Società” e abbozzata nelle sue linee fondamen-


tali». Tra le esperienze riconosciute all’organismo quella di
esplorare le coste e le zone più adatte ad impiantare le nuove
Stazioni.
6. Studiando ed operando «in modo efficace allo scopo di dar
concretezza al piano proposto».
7. Raccogliendo e pubblicando annualmente in varie lingue i
programmi delle Opere della nuova “Società” deputata al
varo del piano e dell’esperienza maturata traendo istruzioni
per migliorare la condizione degli Africani Istituti e Cristia-
nità a vantaggio della rigenerazione della Nigrizia.

Da un esame attento della proposta elaborata emerge una


verità incontestabile: Comboni nulla lasciava all’improvvisazio­
ne, ma in lui prevalevano i dati certi e assoluti. Profondo cono­
scitore dell’animo umano e dei contrasti che a volte insorgeva­
no tra i vari Ordini e le gerarchie ecclesiastiche, pronti a mono­
polizzare persino il privilegio di compiere il bene - 1 orgoglio
umano, purtroppo, non sempre riesce a inchinarsi alla santa
umiltà del Vangelo - aveva previsto per i promotori del piano
limiti e prerogative ben definiti così che l’egocentrismo del sin­
golo finisse per cedere sempre alle vere istanze del “servizio”.
Un servizio fatto d’amore e di dedizione e teso unitamente alla
conversione dei negri.
Pur convinto che un passo avanti a favore degli africani av­
venisse esclusivamente con l’attuazione del Piano, Comboni
non solo chiedeva il patrocinio della Santa Sede, ma pubblican­
do annualmente i risultati ottenuti e facendo tesoro d’ogni rilie­
vo mosso al proprio operato, contava di migliorare l’aiuto forni­
to ai fratelli più sventurati.
Nel redigere il suo progetto, egli formulava l’auspicio d’un
rapido accoglimento da parte della Santa Sede. Non più camil-
liani o mazziani o francescani (tanto per dare un’idea delle vere
priorità) ma un unico santo organismo chiamato a cooperare
nel nome di Cristo. Speranza, quindi, nell’unità, la semplicità,
l’utilità del nuovo disegno, sottoposto all’attenzione del Santo
Daniele Comboni, il vescovo africano
100

Padre, del Cardinale prefetto e, via via, dei Consultori di Pro­


paganda Fide.
Comboni completava il documento, frutto d un “raptus” mi­
stico, durato sessanta ore, con un atteggiamento d’umiltà, pron­
to ad accettare il verdetto dei superiori anche nel caso d’un mo­
tivato rifiuto. «Servi inutiles sumus» annotava in segno di ob­
bedienza. In margine aH’elaborato seguiva il consenso espresso
dal cardinale prefetto, confortato dal “si”, ottenuto da Pio IX.
Per l’attuazione del Piano il prelato invitava il nostro a chie­
dere i lumi dell’assistenza alla Pia Opera della Propagazione
della Fede di Lione e di Parigi.
La stesura dell’atto terminava con un’annotazione di tipo
operativo: «Come corollario di questo nuovo Disegno sortirà la
realizzazione del Piano del M.R. Don Nicola Mazza al cui istitu­
to verrà assegnato un vicariato od una Prefettura apostolica
nell’Africa Centrale, assistita dalla Società Maria di Vienna».
101

Capitolo Sesto
Un viaggio interminabile

Daniele Comboni si preparava da tempo a una serie infinita


di viaggi durante i quali gli incontri con religiosi di spicco ed
esponenti della finanza avrebbero potuto propiziare il varo dei
suoi progetti.
Non esistendo il telefono ed essendo il servizio postale ina­
deguato alla rapidità delle decisioni, il nostro spesso operava
come se il responsabile de 11’importante iniziativa fosse lui stes­
so. In realtà tutto era avvenuto sotto la tutela “nominale” di
don Nicola Mazza, non sempre informato tempestivamente nel­
l’evoluzione di quel disegno. Pertanto il sacerdote, prima di par­
tire per Verona dove contava di conferire con il superiore,
aveva chiesto al cardinale prefetto la concessione d’un vicaria­
to autonomo per l’Istituto mazziano.
A Verona non tutti approvavano ciò che Comboni aveva di­
scusso e proposto alla Santa Sede. E non perché il suo piano
presentasse gravi lacune o fosse comunque inaccettabile, ma per
un problema di gerarchie e, in ultima analisi, di gelosie incon­
fessate. Anche il fondatore, in qualche modo, era stato tagliato
fuori essendo tutto accaduto a nome suo, ma senza un interven­
to personale.
Lo stesso Comboni, giungendo a Verona (ma prima era pas­
sato da Firenze dove aveva scritto al superiore per fornire mag­
giori ragguagli riguardo al Piano) aveva captato un senso di
gelo, se non d’aperta ostilità nei suoi confronti. Un senso di gelo
che coinvolgeva persino don Mazza dal quale il diretto interes­
sato aveva appreso qualche avvisaglia dall’amico e confidente
don Francesco Bricolo. Il comportamento del nostro, in verità,
collimava con le sante regole della dottrina cristiana; l’avere in­
fatti comunicato al pontefice, senza intermediari, il frutto
“d’un’ispirazione” non poteva attribuirsi ad una mancanza. Ed il
Daniele Comboni, il vescovo africano
<102

commento scritto a posteriori non lasciava adito a dubbi: «Io


avrei dovuto consultare il mio superiore, prima di far nulla. Ma
il pensiero che in una lettera poco avrei fatto e il Superiore che
va cauto non avrebbe dato il suo giudizio che, dopo lungo
tempo, seguii l’impulso del mio cuore. Penso d’aver fatto bene».
Per meglio comprendere la disparità di vedute rispetto al
Piano elaborato e successivamente visionato da don Nicola oc­
corre leggere le osservazioni espresse dai due in tempi diversi ed
inviate, per sondarne l’opinione, al cardinale Barnabò,
Scriveva Daniele Comboni il 26 dicembre 1864: «Partito da
Roma mi recai a Verona ove il mio superiore don Mazza aveva
letto e studiato il sunto del piano per la conversione della
Nigrizia, ne fu contentissimo e parve il mio buon vecchio rin­
giovanire per la speranza di veder presto effettuato qualche cosa
di stabile per il bene dell’Africa interna».
Ascoltiamo adesso l’altra campana, ovvero la voce prudente
del fondatore: «Questo piano, teoricamente parlando, mi piace
assai essendo conforme al mio piccolo con cui intendea sul prin­
cipio alla conversione di una piccola parte dell’Africa ed a
mano a mano distendermi [secondo le circostanze lo avrebbero
permesso] poi alle parti più interne della stessa Africa. 11 piano
di Comboni però abbraccia tutta PAfrica di primo getto nello
stesso tempo. Tal progetto, io dico, a me piace teoricamente ma
si affacciano all’esecuzione grandissime ed enormi difficoltà alle
quali io mi sentiva e mi sento per ora nell’assoluta impossibilità
di vincere e superare. Il perché io dissi a don Comboni: per me
non ardisco di promuovere l’impresa; per altro non la impedisco
a te, non volendo oppormi a quello che la Provvidenza e Bontà
di Dio intendesse da fare; però fa pure quello a cui si senti di­
sposto ed animato, ma opera come non spinto da me e come
opera del mio Istituto intentata, ma come ho detto da te stac­
cato e non dipendente da me. Che se l’opera verrà da Dio co­
minciata, io col mio Istituto sarò sempre pronto a coadiuvare
tutto ciò che il mio Istituto potesse».
La corretta intuizione del “missionario” aveva trovato in don
Mazza il destinatario ideale: probabilmente il progetto nasceva
Capitolo Sesto, Un viaggio interminabile
103

da un’ispirazione divina e come tale ogni tentativo di contra­


starlo sarebbe caduto nel nulla. Conosceva, però, il fondatore,
per esperienza diretta un’altra cosa: nella Chiesa convivevano
da sempre l’ardimento delle feconde iniziative ed il freno impo­
sto dalla cautela. Guai alla carità che procede a briglie sciolte,
in un mondo dove la mediocrità degli stessi credenti non solo
crea barriere, ma a volte dirotta gli slanci più generosi verso il
baratro del fallimento! Ma torniamo al nostro Comboni.
Con il beneplacito del superiore parti per Bressanone dove
avrebbe incontrato monsignor Mitterrutzner col quale discusse,
in modo approfondito, il passaggio dalla teoria all’esecuzione del
piano. Mentre si trovava in quella città dove godeva d’un’ami-
cizia, mai inquinata da invidie e gelosie, egli scrisse a padre
Noecher, il presidente della Società di Colonia, con l’intento di
coinvolgerlo nella nuova impresa. Sperava intanto nella riparti­
zione del vicariato per l’Africa in due settori, uno riservato a se
stesso, l’altro ai francescani. Per quanto concerne il gruppo, le­
gato a don Nicola, si disponeva a cooperare in futuro dopo il si­
curo decollo dell’iniziativa. Da Bressanone il nostro tornò a
Verona, pronto alla partenza per Torino dove ebbe modo di
contattare don Giuseppe Ortalda, canonico della Cattedrale e
direttore diocesano di Propaganda Fide. L’eloquio di don Com­
boni, dal fascino coinvolgente, derivava in primo luogo dall’ar­
dore della carità che lo poneva al servizio della Nigrizia la cui
conversione appariva urgente e indifferibile. Durante il soggior­
no torinese egli fu ospite dei salesiani ed ebbe un incontro con
il fondatore. Fece anche una conferenza agli allievi dell’orato­
rio, illustrando i particolari del piano e suscitando negli ascolta­
tori il desiderio di vicinanza, se non materiale, attraverso il soc­
corso della preghiera.
11 canonico Ortalda gli consigliò di dare il “Piano” alle stam­
pe e fu cosi che la tipografia Falletti trasformò II nuovo disegno
per la conversione della Nigrizia in un opuscolo di ben sedici pa­
gine.
A Torino Comboni ebbe modo di conoscere Alessandro
Manzoni e di assistere, durante una seduta del Senato, a una di­
Daniele Comboni, il vescovo africano
104

scussione su un tema destinato a suscitare più d una perplessità:


il reclutamento militare esteso ai chierici. Ma era arrivato il
momento duna nuova e proficua partenza, proprio in un perio­
do in cui l’inverno stava manifestando tutto il suo rigore. Da
Torino il nostro si portò a Susa e qui salì su di un’enorme car­
rozza, tirata da ventidue cavalli che avrebbe dovuto varcare il
valico del Moncenisio. Sennonché una nevicata di proporzioni
inattese bloccò dopo sei ore di tragitto - un tragitto già difficol­
toso sin daU’inizio - la comitiva. Esso proseguì tra disagi inde­
scrivibili, con delle slitte trainate da sette coppie di cavalli, in
mezzo alla tormenta. L’ospitalità dei monaci di San Bernardo si
rivelò, a quel punto, provvidenziale. Ma non c’era tempo da
perdere e all’alba, malgrado i fiocchi di neve che frustavano let­
teralmente i volti dei passeggeri, l’avventura riprese per conclu­
dersi solo alla fine della giornata.
A San Michele Comboni salì sul treno che avrebbe attraver­
sato i territori della Savoia. Giunse a Lione il giorno 16 dicem­
bre, come documenta una lettera inviata all’amico Bricolo. Nel­
la città che s’affaccia sul Mediterraneo dimorò presso il semina­
rio delle missioni africane e conobbe il rettore monsignor
Augustin Planque, già vicario apostolico del Dahomey. I france­
si infatti operavano lungo le zone costiere e avevano inviato
laici e sacerdoti anche nel Senegai. Augustin Planque, di cin­
que anni più anziano del religioso italiano, lo accolse con entu­
siasmo. Era stato insegnante presso il seminario di Cambrai
quando monsignor Bresillac, un tempo vicario delle Indie orien­
tali, aveva chiesto ad alcuni preti di formare, insieme a lui,
un’associazione di missionari, votati esclusivamente alla con­
versione delle regioni più abbandonate dell’Africa. Planque ac­
cettò la proposta ed essendo poi stato scelto si dedicò ad un’ini­
ziativa analoga a quella ideata dal religioso mazziano. Più tardi
il sacerdote francese venne nominato rettore del seminario
delle missioni e fondò l’istituto delle Suore di Nostra Signora
degli Apostoli per le stazioni africane. Il loro ministero, in con­
clusione, pur nell’assenza d’una conoscenza diretta, aveva segui­
to percorsi quasi comuni. Monsignor Planque lesse, nella versio­
Capitolo Sesto. Un viaggio interminabile
105

ne francese, redatta dall’abate Nicolet, il testo prodotto dal no­


stro. Ebbene, a quel punto, la disparità di vedute esplose, con
veemenza, per trasformarsi, tout court, in un disaccordo totale.
Per farla breve il rettore non accettava l’idea di missionari, in­
viati in Africa, come candidati al martirio.
Un’affermazione del genere, anche se suffragata da più d’un
riscontro oggettivo, non andava aggiunta al “documento” per­
ché avrebbe frenato il naturale entusiasmo di tanti giovani con
una vocazione ben precisa.
Considerare le terre africane come una sorta di ghigliottina
ideale per chi vi s’insediava (ovviamente il sacerdote usava
espressioni diverse) non faceva bene alla “causa” delle missioni.
E poi c’era un altro fattore da considerare: la presunta incapaci­
tà dei missionari di trasformarsi in catechisti, seminatori della
parola di Cristo. Questo, almeno, il parere di “monsignore”,
scettico persino nella formazione d’un comitato con la potestà
di proporre “il piano” e di pilotarlo. Insomma il progetto, per
lui, presentava gravi lacune su tutti i fronti.
Una disamina attenta ed equilibrata indica all’osservatore
dei giorni nostri l’inconsistenza di quegli appunti. A parte la de­
cimazione subita dai missionari per via delle febbri tropicali (un
fenomeno, questo, difficilmente occultabile) destava perplessità
l’asserita inettitudine degli africani di trasformarsi in paladini di
Cristo, maestri del suo Vangelo. Il rilievo appariva ancora più
fragile quando assimilava la razza negra al rango dei subumani.
Aveva un senso il tentativo di educarli alle conoscenze della ci­
viltà occidentale, nata da un “germe” del cristianesimo se poi gli
africani restavano eternamente selvaggi?
Si, forse avrebbero appreso norme più consone alla dignità di
figli di Dio pur nelle strettoie d’un’anomalia di base, quella che
rendeva indispensabile il soccorso degli europei. Dopo il fardel­
lo di critiche, determinato da una spietata esegesi1, del piano
originario nulla rimaneva da salvare.

1 Studio e interpretazione critica di un testo,


Daniele Comboni, il vescovo africano
106

Come se non bastasse, monsignor Planque, degno religioso


certamente, ma ostinato nei suoi principi, aveva in mente di
biasimare il “documento” sia segnalando le sue riserve al cardi­
nale Barnabò, sia mediante un’analoga iniziativa presso il Con­
siglio di Propaganda Fide, insediato a Lione.
A quanto è dato sapere nulla scrisse di negativo a Sua
Eminenza, ma con i prelati della città non lesinò le censure.
Uomo avvezzo alle battaglie, specie quando la santità dell’obiet­
tivo lo animava, Comboni non si arrese. Neppure di fronte alla
presa di posizione irrazionale dei sacerdoti francesi, per certi
versi plagiati dall’irriducibile rettore.
Scriveva Comboni al cardinale Barnabò: «lo sono convinto
che il piano presenta mille difficoltà. Il problema che io oso di­
scutere è di per se stesso sommamente difficile: diciotto secoli
s

non l’hanno ancora sciolto. E appunto per le sue difficoltà che


10 mi sento eccitato a raddoppiare gli sforzi, per meditarvi sopra
e muovere i più grandi uomini ad occuparsene e destarne il più
grande interesse e provocare calde preghiere dei buoni per otte­
nere da Dio la grazia di veder qualche luce e preparare la via a
qualche scioglimento. La lacrimevole miseria dei poveri negri
pesa immensamente sul mio cuore e non vi è sacrificio che io
non mi senta disposto ad abbracciare per il loro bene».
D’altro canto, a Roma, aveva chiesto senza mezzi termini,
precise risposte su quanto da lui prospettato. «Ditemi e propo­
nete un Piano migliore che io straccerò il mio».
Da Lione Daniele Comboni si rivolse a Guglielmo Massaia,
originario dell’astigiano e vicario apostolico degli Oromo, per
domandare attraverso un colloquio, consigli ed utili appoggi per
11 futuro. La risposta fu positiva e l’accoglienza a Parigi dove di­
morava il prelato, assai calorosa. Ospitato dai cappuccini in Rue
de Santè, il nostro ebbe modo di visitare palazzi e basiliche,
giardini e parchi e di passeggiare sul Lungosenna. Sempre alla
ricerca di protezioni e di fondi da destinare alle missioni, egli
accettò persino (e la sua scelta finì di colmare l’arco temporale
di sei mesi) di vivere alla corte di Napoleone III e della moglie
Eugenia di Montijo.
Capitolo Sesto. Un viaggio interminabile
107 —

Avendo condotto una vita avventurosa e toccato con mano la


situazione d'estrema indigenza in cui si dibattevano le popolazio-
ni africane, monsignor Massaia, con l’intento di porre un rimedio
a tali disagi, aveva compiuto innumerevoli viaggi. Era stato con­
sacrato vescovo da Gregorio XVI. Divenuto, un certo momento,
il consigliere del Negus, il suo successore l’aveva esautorato, man­
dandolo poi in esilio. Il prelato usava il nostro, abile negoziatore
e conoscitore di varie lingue, come segretario. Si trattava d’una
mansione da completare entro un termine ragionevolmente mo­
desto, non essendo Comboni uomo di curia e di carriera.
Diversamente dall’atteggiamento tenuto da monsignor
Planque, Massaia aveva espresso un’ammirazione incondiziona­
ta per quanto proposto dal religioso italiano. Ne fa fede il se­
guente brano d’una lettera inviata al cardinale prefetto: «Di
questo venerando sacerdote, pieno di zelo, di fervore, di virtù,
non posso parlar che bene. Arricchito dal Signore di doni natu­
rali e di preclare virtù, era nato per divenire un modello di Mis­
sionario. Robustezza di salute, energia non comune e volontà di
ferro lo spingono a grandi imprese. Adomo di dottrina, superio­
re alla mia e di eloquenza tutta particolare cattivasi ben presto
la stima e l’animo di tutti».
In altre parole il religioso aveva compreso appieno la ric­
chezza umana e cristiana del giovane prete mazziano, apprezzan­
done la vastità della cultura, il carisma nell’esercizio della diplo­
mazia e, in primo luogo, il grande cuore capace di sopportare il
“peso” di tutta l’Africa. E qui il riferimento al famoso “ Piano”
balzava all'occhio, evidente.
A Parigi il nostro conobbe molte persone: religiosi o missio­
nari quali Josè Benito Sessa, benedettino o presuli di grande
prestigio come l’arcivescovo della città, Lavigerie con il quale
avverranno in futuro alcuni fruttuosi contatti. Ebbe insomma,
Comboni, tra i suoi infiniti meriti, anche quello d’esperto delle
“pubbliche relazioni”. Il

Il 9 aprile 1864 lasciò Parigi diretto a Reims e poi prosegui


per Colonia dov’ebbe un incontro con padre Noecher, parroco
Daniele Comboni, il vescovo africano
ì 108----------- —---- —----------—

di San Giacomo e i suoi collaboratori. Il comitato ristretto,


composto dal diretto interessato, un sacerdote e due laici esami­
nò il piano nel corso d’una riunione e poi ne propose la pubbli­
cazione sul bollettino intitolato Jahresench.
Aveva approvato, con entusiasmo, le idee elaborate dal prete
italiano, ma fece di più, impegnandosi a sostenerne le attività
missionarie con un contributo annuale di 5.000 franchi. Conse­
gnò a Comboni, per le sue spese di viaggio, 500 franchi. Da Co­
lonia Comboni partì per Aquisgrana e, attraversato il territorio
del Belgio, in senso longitudinale, ebbe, come meta provvisoria,
la città di Londra. Tornato a Parigi il 28 aprile, 1*indomani rag­
giunse Amiens, accompagnato da monsignor Massaia. Con la
chiara intenzione di dare un contributo all’emancipazione degli
schiavi, il vescovo di quella diocesi aveva inviato presso la
Santa Sede l’abate Capello, per illustrare al cardinale Barnabò
il suo progetto. Il prelato propose che la questione fosse affron­
tata con il consulto di don Comboni ed ecco spiegato il motivo
del nuovo viaggio. Il primo maggio, in ogni caso, il nostro era a
Parigi dove assistette all’ordinazione di monsignor Guillaume-
René Meignan, promosso vescovo nella sede di Chalours-sur-
Marne. La cerimonia fornì l’occasione d’un nuovo colloquio tra
il nostro, Massaia e Lavigerie. E probabile che, proprio in quel
mese, Daniele Comboni abbia raggiunta la Spagna. Egli infatti
pensava di realizzare il disegno proposto dal vescovo d’Amiens,
scegliendo come sede operativa Tanagonia. Il 24 maggio, festa
dell’Ascensione, si riuniva a Parigi il Consiglio di Propaganda
Fide e il nostro, rientrato in Francia, grazie alla mediazione di
monsignor Massaia e Augusto Nicolas, fu ammesso alla seduta.
E non è finita.
Il presidente Bernard de Glajeux volle lasciargli lo spazio per
un intervento e lui potè illustrare, in lingua francese, le moda­
lità del suo piano. In segno d’approvazione il presidente assicu­
rò, qualora avesse trovato le persone idonee a sostenerlo, tutto
il suo aiuto. Lo autorizzò, a quel punto, d’informare il cardinale
Barnabò su quanto concordato verbalmente alla presenza di va­
lorosi prelati, esperti in materia. Il 28 maggio monsignor Mas-
Capitolo Sesto. Un viaggio interminabile
-109

saia e Comboni furono ricevuti, in privato, dall’imperatrice Eu­


genia e successivamente ebbe modo di conferire con lo stesso
Napoleone.
Alla vigilia del suo rientro in Italia, il nostro fece una pun­
tata a Ginevra, seguita da un viaggio a Torino. Il tempo stretta-
mente necessario per comunicare al canonico Ortalda ciò che
sinora aveva prodotto il tormentatissimo piano e poi proseguì
per Milano, penultima tappa, prima di raggiungere Verona.
In quei mesi aveva tenuto una fitta corrispondenza con
l’amico Francesco Bricolo il quale l’aveva avvisato d’una circo­
stanza incresciosa: l’Istituto, il suo Istituto, non si preparava ad
accoglierlo, con la dovuta serenità. Anzi un assurdo rigetto da
parte del superiore era quanto lo attendeva. Che cosa stava ac­
cadendo? Don Mazza, di primo acchito, aveva approvato il
“piano”, ma con riserva, una riserva che significava se non aper­
to dissenso qualcosa che molto gli somigliava. I due poi (e la
cosa era nota ad entrambi) se si distinguevano per la fede
schietta e convinta, avevano con la medesima, un atteggiamen­
to difforme. Pur avendo a cuore la sorte degli africani e predili­
gendo da sempre le innovazioni, il primo mostrava un’eccessiva
ponderazione in ogni suo intervento. Un po’ perché i mutamen­
ti sono sempre ostici da digerire da parte dei benpensanti un po’
perché la stessa Chiesa suggeriva una sana prudenza negli impe­
gni che direttamente o indirettamente la coinvolgevano. E poi
a frenare gli slanci del fondatore contribuiva l’età non più verde
e di conseguenza portata ad una maggiore gradualità operativa.
Malgrado la venerazione che lo legava al superiore, Daniele
Comboni era un vero uomo d’azione, irruente e passionale. Era
insomma un vulcano d’idee, sempre pronto a rompere gli indu­
gi specie se aveva il consenso della Santa Sede.
Per quanto concerne l’esecuzione del piano egli aveva, in
varie occasioni, scavalcato il superiore, ma come conciliare l’ur­
genza di certe intuizioni con la pacatezza di don Nicola?
«Io non so precisamente di qual delitto sia colpevole da ac­
cagionare tanto cruccio al superiore», scriveva a don Mazza da
Roma. Forse la parola “delitto” è sproporzionata alle dimensioni
Daniele Comboni, il vescovo africano
110

del contenzioso (se così vogliamo definirlo) ma indubbiamente


il rapporto tra i due mostrava più d un’incrinatura. E ancora, A
Verona lo accusavano d’aver ricevuto denaro a nome del supe­
riore senza consegnarlo. E si affermava, con assoluta certezza,
che ad erogare la somma fosse stato il conte Giovanelli, Frutto
d’una distorsione, dovuta al modo di riportar le notizie, la men­
zogna fu riferita a Comboni mentre si trovava a Lione. Sì, l’epi­
sodio aveva un fondamento (anche se poi travisato nella sostan­
za) scrisse il nostro a don Bricolo. Il denaro da lui ricevuto do­
veva, per istruzione del fondatore, aver la Nigrizia come destina­
taria, Guai a stornarlo, per iniziative diverse, disattendendo la
volontà del donatore. Tale, del resto, appariva l’indicazione for­
nita in altre occasioni dal fondatore. Quel che, nella circostan­
za, bruciava al sacerdote era che “quel buon vecchio” soffrisse a
causa sua, senza una ragione plausibile.
Ma esisteva, nella vicenda, tutto un complesso d’inesattezze
che andava urgentemente demolito. Il denaro del GiovanneLli
era stato versato dal nostro nelle mani di don Nicola perché
fosse lui ad inviarlo alle missioni. Siccome l’ultima offerta risa­
liva al '62 per quale motivo il superiore, durante l’ultimo incon­
tro avvenuto a Verona, aveva taciuto? Approfittando della
lunga assenza del missionario qualcuno sicuramente aveva sof­
fiato sul fuoco per distruggere una consonanza fatta di stima ed
affetto che durava ormai da un decennio. Costantemente leale
verso l’amico don Bricolo, egli non rifuggiva da un angoscioso
sospetto e cioè che don Mazza considerasse l’allievo estraneo
all’Istituto. E Comboni ebbe conferma di tale assurdità da un
appunto che Barnabò aveva trasmesso a Massaia; veniva in so­
stanza affermato, sia pure ufficiosamente, l’estromissione dal no­
stro dalla struttura mazziana. Comboni era annichilito, non solo
per il dolore causato al superiore, ma anche nella prospettiva
d’un disimpegno di chi doveva (o avrebbe dovuto) appoggiarlo.
Indubbiamente la croce era compagna da sempre della santi­
tà: il particolare, in ogni caso, lo consolava soltanto marginal­
mente. Se infatti tra lui e don Mazza il disaccordo prendeva il
sopravvento, il progetto avrebbe perso ogni suo slancio, avvian­
Capitolo Sesto, Un viaggio interminabile
111

dosi verso un destino fallimentare. In fondo Daniele Comboni,


malgrado le doti eccellenti di cui la Provvidenza l’aveva arric­
chito, risultava un satellite subalterno che “rifletteva” la luce,
irraggiata dal fondatore. Questi, per contro godeva di solida
fama non solo nella città di Verona, ma in tutto l’impero asbur­
gico e persino a “corte”. Conscio dell’ingiustizia di cui si senti­
va investito, Daniele Comboni, per il momento, depose la sua
amarezza ai “piedi del Crocefisso e della Regina dei martiri”. E
visse l’angoscia dell’abbandono come uno strumento d’espiazio­
ne. E scriveva «Giammai il mio cuore si senti legato a Gesù e a
Maria come adesso, in questa terribile incertezza dei miei dise­
gni e del mio avvenire, trovo un’immensa felicità d’essere cat­
tolico e prete e tocco con mano che Dio è infinitamente buono
e che non abbandona coloro che sperano in lui: non so se sia
imbecillità o forza ricevuta da Dio. Non sento la mia triste po­
sizione e mi trovo sicuro e contento di cuore. O quanto sono
buoni Gesù e Maria!».
Al suo rientro a Verona apprese una novità che lo ferì pro­
fondamente: un’insanabile incomprensione con i confratelli
aveva finito per allontanare don Bricolo dall’ Istituto. Comboni
temeva sinceramente di dover subire un’analoga sorte e che la
cacciata dell’amico fosse in parte dovuta al loro rapporto di con­
fidenza e di stima. Giungendo pertanto in città cercò senz’indu­
gio l'incontro col superiore. Ed ecco come questo fu riportato in
una lettera scritta ad un amico: «Gli dissi che non gli chiedevo
nemmeno il perché mi volesse lontano dall’istituto; solo do­
mandatogli nel caso così fosse il suo volere, si compiacesse di
metterlo in iscritto. Dichiaro io don Nicola Mazza che il sacer­
dote Daniele Comboni da ventitré anni attaccato al mio Isti­
tuto, non vi appartiene più».
Bisogna, a questo punto, registrare che la mossa del nostro si
rivelò azzeccata.
Commosso, il vecchio prete, gli gettò le braccia al collo e la
ruggine che aveva intaccato il loro collaudato sodalizio, si dissi­
pò. Ma il superiore fece di più. Dovendo il discepolo recarsi a
Roma, per un contatto con la Santa Sede, gli consegnò una let­
Daniele Comboni, il vescovo africano
112

tera, indirizzata a Barnabò con cui domandava un vicariato per


l’Africa, a nome dell’Istituto. Il documento portava la data del
24 giugno, festa di San Giovanni Battista. Dopo il colloquio
con il superiore e prima che la curia romana divenisse la meta
d’una richiesta e d un resoconto risolutivi, egli raggiunse Vienna
dove contava, in accordo con la Marien Vereìn, di sviluppare il
suo piano, avendo presenti gli incontri con religiosi e prelati,
avvenuti a Colonia e a Parigi, Ritornò nella città di Verona e di
qui si mise di nuovo in viaggio, diretto a Roma, Ricevuto dal
cardinale prefetto, riferì a parole quanto per via epistolare aveva
chiesto al fondatore. La risposta di Sua Eminenza non fu pur­
troppo incoraggiante.
Il vicariato dell’Africa era già stato assegnato ai francescani
e bisognava, di conseguenza, interpellare il generale dell’Ordi­
ne. Conosciuta, più nel dettaglio, la proposta del sacerdote, il
minorità lo rimandò a padre Lodovico da Casoria perché discu­
tesse con lui sui modi e sui tempi della divisione dei compiti
nell’esercizio del ministero.
Il 5 luglio Comboni già si trovava a Napoli, ma ebbe la per­
cezione, chiara e inequivocabile che le idee del frate sulle mis­
sioni non coincidessero minimamente con quelle di don Nicola,
Per arrivare a una decisione proficua, padre Lodovico e don
Comboni si trasferirono a Roma per sottoporre al generale dei
francescani una convenzione più equa ed accettabile. E la solu­
zione adottata alla fine fu la seguente: due sarebbero stati i vi­
cariati; uno ad Occidente e uno a Oriente del Nilo. All’istituto
mazziano veniva affidato quello orientale, fermo restando che la
città di Khartum era destinata ad ospitare entrambe le strutture
missionarie. Comboni e padre Lodovico decisero di presentare a
don Nicola e successivamente alla Marien Verein la bozza già
predisposta. Il frate inoltre propose al nostro d’accompagnarlo
in una visita in Africa, in quella che sarebbe stata la sede del
ministero, ma l’ideatore del piano chiese d’interpellare, sulla
questione, il cardinale prefetto. Intanto pensò d’informare gli
amici di Verona e di Colonia su come procedeva la nuova ini­
ziativa.
Capitolo Sesto. Un viaggio interminabile
“113-

Tutto sembrava procedere nel verso giusto, sennonché l'otto


di agosto don Nicola Mazza morì. Aveva 75 anni, molti dei
quali impiegati per soccorrere gli indigenti e preparare un clero
colto e consapevole. Addolorato per la perdita del superiore,
Comboni avvertiva, in modo palpabile, il peso dell’incertezza:
sarebbe riuscito, senza una valida spalla, a realizzare quanto il
Signore gli aveva ispirato a Roma?
11 17 di agosto scrisse a padre Lodovico per sondarne le in­
tenzioni: riteneva l’accordo appena stilato, ancora fattibile?
La risposta del frate, improntata ad un corretto pragmatismo,
fu la seguente: occorreva che il nuovo direttore dell’Istituto -
don Gioachino Tomba - chiedesse lumi in proposito a Propa­
ganda Fide. Al che il cardinale Barnabò non oppose veti di
sorta. Comboni allora si recò a Roma dove fu ricevuto da Pio
IX in persona e, quindi tornò a Verona e successivamente a
Venezia, per curare personalmente una nuova edizione del
Piano. Da Venezia passò a Lonigo incontrando l’amico don
Bosco. E poi ancora a Roma per un ulteriore abboccamento
con Casoria (che, nel frattempo, aveva conferito con il pon­
tefice ed il cardinale prefetto) e il nostro ebbe allora un so­
spetto: senza tener conto delle decisioni già prese con la San­
ta Sede, i francescani sembravano assai riluttanti alla sparti­
zione del vicariato. Padre Casoria, in ogni caso, intendeva
rendere pubblico il progetto delle missioni, contando di farsi
accompagnare, durante i contatti ufficiali con i potenziali be­
nefattori, da tre religiosi di pelle nera: padre Bonaventura ed
i fratelli laici Mabruch e Giovanni Alì. Sennonché i mezzi fi­
nanziari a sua disposizione erano scarsi e a tale inconvenien­
te sopperì, almeno in parte, il canonico Mitterrutzner, solle­
citato dal nostro. Accompagnati dal sacerdote mazziano, i
missionari giunsero a Verona il 31 ottobre. Qui l’ideatore del
piano ricevette dal superiore don Tomba notizie a dir poco
avvilenti: nessun impegno finanziario era possibile assumere
per la missione. Solo le giovani negre, educate a Verona nel-
l’Istituto femminile, sarebbero state concesse per eventuali
necessità legate al ministero.
Daniele Comboni, il vescovo africano
^314 —

La Marien Verein, dal canto suo, promise a Casoria il mobi-


lio che avrebbe trovato a Scellal - una stazione assegnata ai
francescani - ma nessun donativo d’altra natura, I minoriti lo­
cali fecero ancora di meno, rifiutando di ospitare presso i loro
conventi i confratelli di pelle nera. Alloggiati in un albergo
della città, le spese di permanenza lievitarono sensibilmente.
Pur continuando la collaborazione formale tra Comboni e il
francescano, le divergenze sul piano operativo non erano affat­
to risolte. Infatti padre Lodovico, ostinato come tutti i santi, re­
stava deH’opinione che il vicariato africano non dovesse subire
ripartizioni e, di nascosto dall’amico, raccomandava alla Marien
Verein di caldeggiare il suo punto di vista. Ma era arrivato il mo­
mento della partenza per l’Africa. La comitiva salpò da Trieste
il 12 novembre sulla nave Aquila Imperiale.
Daniele Comboni, in quei giorni, provava l’angoscia dell’ab­
bandono. Infatti dopo la morte del fondatore, il vescovo Luigi
Canossa aveva deciso che tutti gli allievi dell’Istituto venissero
inviati presso il seminario diocesano. E, a tal proposito, era stato
emanato un decreto. Parallelamente s’era creata come una frat­
tura tra le due istituzioni della città ed essendo quella mazziana
priva di protettori, sembrava dovesse soccombere. Persino i
corsi quadriennali di perfezionamento per religiosi giunti all’or­
dinazione erano stati sospesi. Ma torniamo al viaggio.
Esso, secondo copione, fu avversato da una tremenda tempe­
sta. Perirono, a causa dell’uragano, parecchie persone e 44 bovi­
ni. Padre Lodovico, dal canto suo, soffrì enormemente giurando
in cuor suo che mai sarebbe salito su di una nave. Dopo sette
giorni di dolorose peripezie, lo sbarco avvenne ad Alessandria
d’Egitto. A quel punto la comitiva proseguì per la capitale e qui
a padre Bonaventura s’unì un drappello di religiosi tra cui don
Palmentieri, nipote di Casoria. Insieme ai sette missionari, il
francescano e Comboni iniziarono un viaggio lunghissimo che
aveva Assuan come meta e fu necessario, pertanto, prendere a
nolo una nave. Il 26 dicembre la comitiva raggiungeva Kenneh
e padre Samuele, minorità, fu invitato ad accompagnare
Comboni sino a Scellal. Il frate già conosceva il missionario ed
Capitolo Sesto, Un viaggio interminabile
- 115-

anche il testo del piano e nell’ottobre del ’65 gli aveva manife-
stato, con una lettera, il proprio assenso. Il 2 gennaio il gruppo
approdò a Esnah e, abbandonata l’imbarcazione, si presentò al
pascià per consegnargli una credenziale2 ricevuta dal consolato
austriaco che operava in Egitto. Dal pascià Daniele Comboni
ottenne un biglietto gratuito per sé, padre Lodovico ed il nipo­
te don Palmentieri, su di una nave diretta ad Assuan e l’arrivo
ebbe luogo il 5 dello stesso mese.
Recatosi infine a Scellal, Daniele Comboni inviò al canoni­
co Ortalda un’esortazione a sostenere il suo piano, mediante
un’ampia pubblicità: «Vorrei avere a disposizione cento lingue e
cento cuori per raccomandare la povera Africa che è la parte del
mondo meno nota e più abbandonata. Ma i S.S. Cuori di Gesù
e di Maria bastano per tutti ed io aspetto miracoli per la loro
mediazione». Mentre Casoria s’insediava nella missione a lui as­
segnata, Comboni, accompagnato dal francescano padre Sa­
muele, stava cercando nell’Alto Egitto, la zona più idonea ove
fondare il collegio. Due giorni dopo la festa dell’epifania giunse
a Scellal il principe Hohenzollern e, Casoria, appreso dal nobi­
luomo che a Napoli stava infuriando un’epidemia di colera, vol­
le a tutti i costi tornare in patria. Poco dopo anche Comboni
era di nuovo in partenza.
Arrivato al Cairo lasciò a padre Venanzio una lettera con la
quale raccomandava d’aprire i collegi maschili e femminili del­
l’Istituto mazziano. E, per sollecitare l’intervento, inviò un mes­
saggio analogo al cardinale Bamabò, al canonico Mitterrutzner
e al superiore don Tomba. Né dimenticò l’amico di sempre: il
benefattore Guido Carpegna.
Il varo dei nuovi collegi costituiva il primo passo per l’attua­
zione del piano e tutti i missionari della zona accolsero l’inizia­
tiva, con molto favore. Sennonché padre Venanzio, conscio di
quanto rischioso fosse il mondo in cui operava per il continuo

2Lettera di garanzia riguardante l’individuo che la consegna ad un’autorità ci­


vile e religiosa.
Daniele Comboni, il vescovo africano
116

alternarsi di prerogative, diritti, concessioni e dinieghi, pensò


bene, prima di dar corso alla proposta, d’interpellare il cardina­
le Barnabò. E un mese dopo costui scriveva al prefetto apostoli­
co; «Non prenda impegni né con Comboni né con altri». Che
cosa era dunque accaduto? Sia al Cairo che a Scellal esisteva un
aperto contrasto tra padre Bonaventura, il superiore inviato dai
francescani e l’economo africano. Intanto Comboni, dal Cairo,
non stava con le mano in mano e chiese (ottenendo dal pascià)
notevoli porzioni di terreno sulle quali edificare i collegi di
Negadeh e Esneh.
Sempre pieno di perplessità per la sorte del suo progetto il 9
marzo partì per Alessandria d’Egitto, contando d’essere a Roma
in tempi brevi. Arrivò nella città dei pontefici il 15 marzo, im­
mediatamente ricevuto dal cardinale prefetto. Saputo delle do­
nazioni acquisite dal missionario, Sua Eminenza aveva scritto a
don Tomba, per domandarne il parere sulla costituzione d’una
nuova Casa a Negadeh da affidare in gestione a tre suore di San
Giuseppe deU’Apparizione o del Buon Pastore. Si chiedevano
inoltre ragguagli sui finanziamenti elargiti dalla Società di Co­
lonia e sul loro impiego.
Al cardinale, però, premeva conoscere un altro particolare:
Daniele Comboni faceva ancora parte dell’Istituto mazziano? In
attesa d’una risposta risolutiva, ai fini d’una discussione più pon­
derata, Barnabò pretese dal nostro una relazione sul viaggio
compiuto a Scellal. Il documento subì ritardi nella compilazio­
ne perché il sacerdote, colpito da febbre durante il soggiorno in
Egitto, non s’era ancora ristabilito. Essendo ancora in forse la
sua stessa esistenza, l’Istituto don Mazza, in quel momento, na­
vigava in pessime acque. Come pensare al mantenimento di
missionari in territori ove i prezzi fluttuavano, condizionati dal­
le carestie o dalle inondazioni? Il 21 marzo 1865 il superiore don
Tomba confermò ai cardinale (che l’aveva interpellato) l’appar­
tenenza del nostro alla struttura mazziana. Questa, però, non
poteva far fronte alle necessità della missione che con l’invio
d’alcun giovani educati a Verona. Si trattava d’un piccolo aiuto,
in verità, ma non esisteva la prospettiva immediata dì conces­
Capitolo Sesto. Un viaggio interminabile
117 *

sioni più ampie. Riguardo all’elargizione effettuata dalla Società


di Colonia, il nuovo rettore era d’accordo che fosse impiegata a
favore della Nigrizia.
Malgrado i molti contrasti e il rischio d’un fallimento totale
deH’iniziativa, il cardinale promise il suo appoggio. Contava in­
fatti di assegnargli il vicariato pur in presenza duna trafila di
pratiche da affrontare. Scriveva allora Comboni, fiaccato dalle
febbri tropicali e con il morale a pezzi: «Sembra che Dio non
abbia segnato l’epoca della vocazione alla fede dei giovani afri­
cani». Non restava che la preghiera assidua e mirata. Intanto
egli manteneva i contatti con l’istituto, ma ormai appariva chia­
ro che avrebbe dovuto addossarsi l’onere di quell’impresa, per
ora solo scritta sulla carta. E poi, come accadeva da sempre, du­
rante le lunghe assenze, si cominciava a parlare di lui, con una
punta di sospetto, quasi avesse voluto staccarsi volontariamen­
te dall’originaria pianta mazziana.
Capitolo Settimo
Verso la fondazione

Per poter realizzare il complicatissimo Piano, libero da vin­


coli, insidie e imprevisti, Comboni pensava, in cuor suo, a una
fondazione nuova e indipendente. Certo occorreva il beneplaci-
to del cardinale prefetto e quella non meno impegnativa del ve­
scovo. La prima mossa da compiere era d’avere a disposizione
una propria Casa e questa l’ottenne in un edificio attiguo alla
Chiesa di San Pietro Incarnano. Il missionario, però, aveva bi­
sogno di personale adeguato ad educare e poi d’un direttore.
Esso fu individuato nella persona di Alessandro Dal Bosco,
già compagno nel ministero svolto a Khartum. Nato a Bormio
nel 1830, il sacerdote era solo d’un anno più anziano di lui. Do­
po il rientro dall’Africa aveva ricoperto l’incarico di vice retto­
re della famiglia mazziana, in seguito dimissionario, forse per
motivi di salute. Aveva ottenuto la nomina a cappellano presso
l’ospedale di Legnago. Fu il vescovo Canossa a proporgli il
nuovo Ufficio ed il religioso, benché riluttante - non si sentiva
all’altezza - finì per accettare e si trasferì a Verona. Esisteva il
seminario (almeno a livello d’ipotesi) esisteva il direttore, ma
l’acquisizione di missionari o meglio d’allievi d’avviare al diffi­
cile apostolato si rivelava soltanto una speranza. Sennonché a
dotare di personale la neonata struttura provvide, inconsapevol­
mente, un decreto del re che, per assegnare all’erario il patrimo­
nio d’immobili, sottratti alla Chiesa, aveva soppresso gli ordini
religiosi, operanti nel Veneto. Fu questa una costante - una
sorta di pirateria legalizzata — nei rapporti non sempre sereni tra
il mondo cattolico ed il governo “sabaudo”.
Anche l’ordine camilliano che aveva fondato due Case e
s'occupava dell’assistenza agli infermi, subì ovviamente gli effet­
ti di quella legge nefasta. Malgrado il sopruso patito che dan­
neggiava pesantemente il destino dei confratelli, il padre prò-
Daniele Comboni, il vescovo africano
120-

vinciale Luigi Artini riuscì a tenerne uniti un certo gruppo, non


molto numeroso a dire il vero, ma orientato alla fedeltà del voto
espresso. Da diversi anni egli accarezzava Pidea d’inviare i suoi
religiosi nelle stazioni missionarie a collaborare con i vari ordi­
ni, presenti nei territori. Ed ora, malgrado la situazione d’estre­
ma precarietà in cui la Congregazione si dibatteva, persisteva
nei suoi propositi. Alcuni camilliani di spicco: Giovanni
Battista Zanoni, Stanislao Carcereri, Luigi Tezza ed il suddiaco­
no Franceschini si dichiararono pronti ad appoggiare Comboni.
Questi, entrato a far parte della famiglia mazziana quand’era
adolescente, grazie alla presentazione del camilliano Perelli,
conosceva perfettamente i “ministri degli infermi” il cui Ordi­
ne aveva operato (e continuava ad operare) nel delicato setto­
re dell’assistenza. Dal compagno di seminario Giovanni Bat­
tista Carcereri, fratello di Stanislao, egli seppe dell’intenzione
di quei religiosi e ne informò il vescovo immediatamente. Il 17
aprile 1867 mentre Comboni accompagnava a Roma le giova­
ni africane educate nell’Istituto, monsignor Canossa convocò
presso la sede episcopale i camilliani, disposti a partire per
l’Africa. La risposta degli interpellati fu positiva e, quando
Comboni tornò da Roma essi chiesero di aggregarsi alla strut­
tura missionaria di prossima istituzione. Il 1° giugno 1867, per
decreto del vescovo, nacque L'opera del buon pastore sotto la cui
tutela avrebbe operato in futuro il sacerdote. Due giorni dopo i
camilliani, pur confermando la fedeltà all’ordine di apparte­
nenza, si posero al servizio del vescovo e di Comboni per quel­
la che definirono la loro “seconda vocazione”. Il nostro scrisse
a Barnabò per annunciare la creazione del nuovo Istituto e, già
prevedendo più d’un intralcio al progetto, chiese al prelato
d’insistere presso Canossa perché perseverasse neH’appoggiarlo.
Intanto per partecipare alla celebrazione del martirio dei Santi
Pietro e Paolo, il vescovo s’era recato nella città di Roma. Qui
ebbe un lungo colloquio con la congregazione dei vescovi e dei
religiosi riguardo al piano missionario che intendeva assecon­
dare. I quattro camilliani s’erano espressi per un rapporto per­
petuo con la Missione, ma i superiori, più cauti, avevano opta­
Capitolo Settimo. Verso la fondazione
121

to per un periodo di 5 anni. E così il vescovo dovette piegarsi


a quella risoluzione.
Nell’udienza del 5 luglio Pio IX approvò l’istanza, fermo re­
stando che al vescovo sarebbe rimasta la potestà per le decisio­
ni future. Nel frattempo il generale dei camilliani, sostenuto
dalla “consulta”1 pose il veto sulla partenza dei religiosi per la
missione. Il provinciale, padre Luigi Artini, non era ovviamen­
te d’accordo e nacque una sorta di contenzioso che sembrava
dovesse far naufragare il progetto ancora in embrione. Com­
boni, dal canto suo, mise i religiosi di fronte a una drastica scel­
ta: o lasciare Lordine oppure l’idea d’una partenza per l’Africa
restava lettera morta. Si dovette infine individuare una via di
mezzo: sotto il profilo della professione religiosa, i camilliani re­
stavano tali, ma per le questioni connesse all’apostolato africa­
no, l’autorità decisionale passava al vescovo.
Il decreto del 1° giugno che istituiva la nuova Opera del
Buon Pastore e che prevedeva l’accorpamento dei nuovi “adep­
ti”, venne attribuito a Canossa, almeno nominalmente. Di fatto
era stato Comboni il compilatore. Nella stessa data erano nati
anche il Programma e lo Stato Generale dell’Organismo, un vero
manifesto delle Missioni da installare in uno dei continenti più
popolosi del mondo e bersagliato dalle calamità d’ogni tipo.
Nella fase preliminare furono pertanto inserite le cosiddette
opere preparatorie e cioè le strutture per la formazione del per­
sonale. Esse, naturalmente, sarebbero dovute rimanere in terri­
torio europeo, dirette da un apposito Consiglio. Una vera e pro­
pria associazione fondata dal vescovo Canossa e diretta da
Daniele Comboni detta dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria, per la
conversione della Nigrizia, faceva da corollario. I vari soci s’im­
pegnavano a pregare ogni giorno per la conversione dell’Africa,
versando nel contempo una quota annua dell’importo minimo
d’un franco. Chi avesse concorso con una somma maggiore
avrebbe potuto fregiarsi del titolo di “associato” e ai sottoscrit­

1 Consìglio di persone riunite allo scopo di decidere su determinate questioni.


Daniele Comboni, il vescovo africano
122

tori di elargizioni di cento o più franchi competeva l’onore di


“benefattori” speciali, ma anche il diritto d’intervenire, come
membri attivi, alle riunioni del Consiglio, Per poter raccogliere
i capitali indispensabili all’iniziativa, Daniele Comboni si mise
subito all’opera e già nel mese di ottobre gli associati che ave-
vano contribuito con il loro obolo, annoveravano 240 indivi-
dui. Presieduto dal vescovo, coadiuvato dal fratello marchese
Ottavio e dall’arciprete del Duomo Perbelloni, il Consiglio cen-
trale venne costituito nel mese di gennaio 1868.
Tutto sembrava ormai procedere speditamente, ma mentre
Luigi Canossa s’accingeva a dar corso alle risoluzioni pontificie,
i quattro camilliani sottoscrissero congiuntamente una lettera
con cui dichiaravano di rinunciare alla partenza per l’Africa. 11
motivo di quell’assurdo ripensamento dipendeva da una delibe­
ra della Consulta facente capo alla loro congregazione in base
alla quale i camilliani disubbidienti sarebbero stati considerati
infedeli. 11 vescovo, dal canto suo, stimò quel voltafaccia un
vero attentato alla propria autorità. Un atto d’apostasia2, in
altre parole. Per tale comportamento minacciava la “sospensio­
ne a divinis”3 dei religiosi.
Mediatore paziente e lungimirante, Daniele Comboni rag­
giunse i renitenti a Marzana in Val Pantena e li convinse a par­
tire, pur senza rinunciare al titolo di “camilliani”. Canossa fece
di più, promettendo il suo intervento presso i superiori, con lo
scopo di appianare la controversia. Costoro, in ogni caso, rifiu­
tarono di benedire i presunti “ribelli” e padre Tezza, alla luce di
tale censura, ritenne giusto dissociarsi dall’operato dei confra­
telli.
Trascorso un breve periodo i padri Giovanni Zanoni e Sta­
nislao Carcereri ed il giovane Giuseppe Franceschini, nato a

2 Abbandono totale e pubblico della propria religione per seguirne un’altra.


3 La sospensione dalla celebrazione dei misteri divini. La sospensione compor­
ta una serie di divieti che rendono gli atti vietati illeciti ma non invalidi a
meno che l’invalidità non sia esplicitamente prevista dalla legge.
Capitolo Settimo. Verso la fondazione
123

Treviso nel 1846 e, per il momento, soltanto diacono, s’avvia­


rono verso Marsiglia, in attesa del nostro, impegnato in una
missione, affidatagli dai superiori: condurre a Roma le giovani
africane avute in consegna dalla struttura mazziana. Nel frat­
tempo monsignor Canossa e monsignor Luigi Ciurcia, delegato
apostolico in Egitto avevano concordato la fondazione al Cairo
di due Istituti per la preparazione dei missionari africani.
Nella prospettiva d’un avvenimento così importante,
Comboni ebbe un colloquio con la superiora delle canossiane,
ma il risultato non fu per nulla esaltante. Il personale femmini­
le fu allora cercato presso la superiora dell’Ordine di San
Giuseppe dell’Apparizione e questa gli accordò due religiose, in­
caricate di accompagnare le africane educate a Verona. Il 24 no­
vembre la comitiva, composta dal nostro, due suore e dodici ra­
gazze nere, lasciò finalmente Roma, puntando, attraverso alcu­
ne tappe intermedie, verso l’antico porto francese del Me­
diterraneo. Qui i missionari, seguiti dal frate Pietro Bertoldi,
stavano per trasferirsi nel continente africano e qui Comboni
incontrò la superiora delle suore di San Giuseppe dell’Appari­
zione che gli affidò tre religiose: Maria Bertholon, Elisabet
Cambefort e Madeleine Carcomin da impegnare nell’Istituto
del Cairo. All’ultimo istante s’unirono al gruppo anche tre ra­
gazze africane, istruite in Baviera; frate Bertoldo, invece, in di­
saccordo con padre Zanoni, venne rimandato a Verona. I 23
missionari partirono dalla città di Marsiglia a bordo del pirosca­
fo Peluse ed il primo dicembre la nave stava avvistando le coste
della Sicilia. Il 5 dello stesso mese, dopo una burrasca che aveva
sconvolto il mare greco, avvenne lo sbarco ad Alessandria
d’Egitto.
Aggiungo qui, per inciso, che grazie a Daniele Comboni tutti
gli accompagnatori viaggiavano gratis ed anche il trasporto di
ben 46 casse, contenenti provviste e bagagli, era avvenuto senza
aggravio di spese. Ad Alessandria i missionari furono accolti,
con molto calore, da monsignor Ciurcia e poi si trasferirono in
treno nella capitale. Fu un’esperienza gratificante, soprattutto
per le ragazze negre, normalmente discriminate dalla società
Daniele Comboni, il vescovo africano
■«124

aborigena e, per l’occasione, comodamente sedute lungo i vagò'


ni accanto ai “colleglli” maschi. L’arrivo al Cairo coincise con
la vigilia dell’Immacolata.
Trascorsi alcuni giorni, Comboni prese in affitto dai maroni­
ti4 un convento, composto da tre edifici. Uno di questi rimase
ai proprietari, gli altri due, compiuta dai missionari un’accurata
ripulitura, ospitarono distintamente il collegio maschile, consa­
crato al “cuore di Gesù”, e quello femminile ch’ebbe invece il
patrocinio del “Cuore immacolato” di Maria. Nelle immediate
adiacenze sorgeva una grotta che la tradizione indicava come il
rifugio di Gesù, Giuseppe e Maria, dopo la fuga in Egitto. L’im­
mensa fiducia in Dio, tipica del nostro missionario, coinvolgeva
i confratelli, portati ad assecondarlo in ogni progetto.
Scriveva, in quei giorni Comboni, al vescovo Luigi Canossa:
«Confido nella Provvidenza, Monsignore e stia certo che sotto
il manto della sua autorità troveremo questo denaro che fa me­
stiere. Abbiamo un’Associazione, approvata da Pio IX, abbiamo
lingua per battere, penna per scrivere, coraggio per avere delle
ripulse, tutte cose che sono contenute nel famoso: “Petite per
ottenere, con certezza, l’accipiatis”5».
La vita, nella nuova sede, era dispendiosa e Comboni non
sempre aveva denaro a disposizione per affrontare le numerose
emergenze. Lui comunque non disperava, considerando inviati
della Provvidenza i benefattori coi quali mai interrompeva i
contatti. Il 4 febbraio, quando le ultime risorse vennero meno,
fu pregato d’accogliere nell’Istituto una schiava negra di nome
Mahbuba, malata di tubercolosi. Battezzata da don Daniele e
cresimata dal vescovo copto6, morì dopo dieci giorni. La situa­
zione finanziaria, mai risultata fiorente, peggiorava a vista d’oc­
chio. Scriveva, in proposito, il missionario: «Eravamo a un
punto tale che, per mancanza di denaro, non ci portavano non

4 Cattolici di rito orientale diffusi generalmente nel Libano.


5 “Chiedete e riceverete”.
6 Cristiano monofisita (ovvero che ammette in Cristo la sola natura divina)

dell’Egitto e dell’Eritrea.
Capitolo Settimo. Verso la fondazione
125 r

solo i viveri, ma neppure l’acqua del Nilo, Avevo preso in pre­


stito, m’ero caricato di debiti, mi vergognavo di andare per le
vie della città». A febbraio, però, durante la permanenza nel­
l’istituto della giovane negra, arrivò da Colonia una cambiale di
5.000 lire. Altro denaro, intanto, giungeva dalla città di Parigi.
Dopo l’istituzione del Consiglio Centrale, con sede a Vero­
na, monsignor Canossa aveva inviato una circolare a tutti i ve­
scovi italiani, raccomandando “l’Opera del Buon Pastore”.
In quei giorni i missionari, pur tra una marea di difficoltà di
tipo operativo, trovarono il tempo di visitare le piramidi e di ce­
lebrare la messa nella Grotta della Sacra Famiglia. Furono am­
ministrati diversi battesimi e impedita la vendita di un’africana
robusta e di bell’aspetto a due arabi. Insieme ai successi (se così
vogliamo chiamarli) e alle piccole gioie legate alla fede o alle
escursioni turistiche, non mancarono le sofferenze. A marzo, in­
fatti, in quella zona scoppiò un’epidemia di vaiolo provocando
la morte d’un africano e di tre ragazze nere. Anche Franceschini
subì il contagio e poi fu colpita dal morbo (dal quale non restò
immune neppure il nostro) suor Maria Bertholon. Il 28 aprile
1868 venne conferita a Comboni, insieme ad alcuni vescovi e
sacerdoti, la “croce della corona d’Italia”. La conferma ufficiale,
però, giunse solo il 24 maggio, ma la Santa Sede (e aveva più
d’un motivo per comportarsi in tal modo) ordinò ai religiosi di
rifiutare l’onorificenza.
Anticipando la decisione papale, il nostro a mezzo del vesco­
vo aveva rimandato al mittente quell’attestato, incompatibile
con il “carattere” di sacerdote cattolico e di missionario aposto­
lico.
127

Capitolo Ottavo
Un mondo di persecuzioni

La via della santità è disseminata di croci che giungono, in


qualche caso, dagli apparati stessi della Chiesa, chiamata alla ve-
rifica d’iniziative, non sempre promosse a ragion veduta. La pru-
denza, la riflessione, il “bilanciamento dei prò e dei contro”, ven­
gono da secoli usati dal mondo dei “prelati controllori” (in qual­
che caso con eccessiva severità) salvo poi glorificare “i servi di
Dio”, dapprima ingiustamente bistrattati. Daniele Comboni non
rappresentò un’eccezione alla regola, ma semmai una conferma.
A parte i contrasti che un certo momento guastarono persi­
no il rapporto col fondatore (e di cui ho riferito nei precedenti
capitoli) vorrei soffermarmi su una valanga di meschinità dovu­
ta a religiosi di spicco e che in più d’un'occasione si rivelò de­
leteria per il ministero del nostro. Ma veniamo ai casi specifici.
Tra i consensi ottenuti, dopo l’avvenuta “ispirazione” del
Piano, è il caso di segnalare quello di Castellacci, arcivescovo di
Petra, ma di fatto vicegerente1 del vicariato romano. Costui,
purtroppo, si avvaleva quando le decisioni da assumere erano
assai delicate duna sorta di “ninfa Egeria”1 2: parlo di suor
Apollonia. Viveva, in quegli anni, la monaca presso l’ex conser­
vatorio dell’Immacolata Concezione, detto delle Viperesche.
Quando monsignor Castellacci, divenuto vicegerente, scoprì
nel convento disordini e anomalie, su consiglio di Pio IX pose
la struttura sotto il diretto controllo delle Figlie della Croce, un
istituto serio e rinomato. Superiora allora divenne Madre Maria
Apollonia e, tra le consorelle, spiccava la figura carismatica3 di

1 Responsabile per conto dei Vicariato romano.


1 Detto di chi ispira, suggerisce ad altri idee e consigli.
3 Una figura che fonda la legittimità del proprio potere su un’innata capacità

di comando.
Daniele Comboni, il vescovo africano
128

suor Apollonia, al secolo Chiara Persi. Naca nel 1840, dopo un


fruttuoso contatto con le Figlie della Croce, ne aveva apprezzato,
di primo acchito, lo zelo e la carità. Entrò nel noviziato di La
Puye, diocesi di Poitier dov’ebbe presto un approccio con i fe­
nomeni paranormali4.
La stima incondizionata per le supposte “visioni” venne, in
primo luogo, dalla “madre-maestra” Apolonie, confortata in tale
intuizione, dal superiore del convento, padre Michel Fradin.
Bisogna a questo punto rilevare una serie di episodi inspiegabi­
li, dovuti alla visionaria, o addirittura sconcertanti, che indus­
sero i superiori ad espellere dall’Istituto le più devote novizie.
Un segnale di santità? Più d’una riserva è lecita a tale riguardo.
Ma c’è dell’altro.
Nel 1865 suor Apollonia lasciò la congregazione per fondar­
ne un’altra: le Figlie Angeline della Croce e assunse il nome di
“suor Teresa de Angelis”; l’ex maestra volle seguirla e, nomina­
ta superiora del neonato convento, si chiamò suor Maria An­
gelica del Sacro Cuore di Gesù. Coinvolto, sia pure marginal­
mente nella vicenda, anche l’abate Fradin finì per lasciare l’or­
dine entrando nel noviziato dei redentoristi5.
Per rimediare ai molti danni d’immagine provocati dalla re­
ligiosa, monsignor Pie, il vescovo di Poitier, dovette interveni­
re in prima persona. Nell’agosto del 1886 la suora ebbe una vi­
sione che confidò a monsignor Castel lacci. Aveva, in sostanza,
grazie ai suoi poteri “paranormali”, «visto un uomo vestito da
missionario, accanto alla figura di Gesù e, nei dintorni, una
moltitudine di neri». Il messaggio ricevuto e interpretato, in
quell’occasione, fu il seguente: «Va’ a guadagnarmi tutte queste
anime, se sei del tuo istituto, altrimenti non lo potrai. Io ti mo­
strerò la mia regola, fondate una casa di missionari per neri...

4 Fenomeni che si presentano non soggetti alle normali leggi fisiche e psichi'
che. Tipici del medianismo e della telepatia.
5 Ecclesiastici regolari appartenenti alla Congregazione del Redentore, fonda­

ta da S. Alfonso de Liguori nel XVIII secolo.


Capitolo Ottavo. Un mondo di persecuzioni
129

Voi darete lo spirito del Buon Pastore e farete osservare sola­


mente le regole stabilite dal Codice Canonico6 per i preti che
vivano in comunità. Non rifiutate la grazia, essa è efficace e
forte. Tocca a te corrispondere, non arrestarti nelle difficoltà».
Totalmente all’oscuro sui precedenti della religiosa il 6 set­
tembre 1866 Comboni, accompagnato dal vicegerente, andò da
lei. Fu condotto in carrozza dallo zelante prelato, ben disposto in
apparenza nei suoi confronti. Ottenne il permesso speciale d’en­
trare nel convento di clausura dove risiedeva suor Teresa de
Angelis, al riparo dai veti imposti dai regolamenti ed ebbe con
la veggente7 più d un colloquio. Inizialmente attribuì alla “visio­
ne” una valenza positiva, ma poi grazie alla disamina effettuata
dal gesuita Luigi Canossa, la sua opinione mutò. Il vicegerente,
purtroppo, continuava ad essere come ipnotizzato dalla religiosa,
provvista di strani poteri, non sempre finalizzati a scopi santi.
Tanto che nel maggio del 1867, durante un colloquio a tu per tu,
il nostro osò definire la suora con l’appellativo di “illusa”.
Il prelato prontamente replicò: «Se l’affare [leggi la realizza­
zione del Piano] riuscirà, la mia croce di vescovo sarà sua».
Dando prova di grande fermezza e di coraggio, Comboni al­
lora rispose: «Le opere di Dio non si fondano sulla menzogna».
Intanto era sorto a Verona il seminario del “Buon Pastore”,
con il compito di educare e formare dei sacerdoti per le missio­
ni africane. Contemporaneamente, per volontà del vicegerente,
vide la luce in città anche un collegio femminile (le cui figure
di spicco risulteranno suor Angelica del Sacro Cuore e suor
Teresa del Angelis) con l’intento di preparare le religiose ad un
analogo fine. Pur non nutrendo alcuna fiducia nella visionaria
e nella superiora da lei plagiata, il vescovo le aveva fatte ospita­
re dalle Canossiane8. Poi entrambe avevano aperto una loro

6 Codice Canonico (o di diritto canonico) è il principale testo legislativo


nella Chiesa latina.
7 Maga, indovina.
8 Religiose della Congregazione fondata dalla Beata Maddalena di Canossa al

principio del XIX secolo.


Daniele Comboni, il vescovo africano
130

Casa, con la garanzia del vicegerente, personaggio d’indubbio


rilievo presso la Santa Sede. Tra il prelato diocesano e quello ro­
mano, comunque, il rapporto già cominciava ad incrinarsi. Il
vescovo vedeva di buon occhio l’iniziativa, legata all’Istituzione
del Buon Pastore, ma non tollerava che essa potesse prescinde­
re dalle rivelazioni di Chiara Persi.
Durante la celebrazione del martirio dei Santi Apostoli Pie­
tro e Paolo, Canossa e Castellacci ebbero un lungo colloquio,
presto sfociato in un aperto dissenso. Dissenso poi continuato
anche attraverso una serrata polemica epistolare. Intuita la gra­
vità degli influssi operati dalla visionaria sul vicegerente,
Canossa adesso rifiutava d’inviare nelle missioni africane suore
che non garantissero la sicurezza d’una vocazione sincera.
Coglieva insomma nel contegno delle consorelle i segnali d’un
fanatismo inconcepibile con gli ideali d un’esistenza cristiana.
Sentendosi forse sminuito nelle prerogative d’alto prelato, il vi­
cegerente richiamò a Roma le religiose e ad esse s unì un drap­
pello di africane. Chiara Persi, per l'occasione, scelse un nuovo
nome: suor Serafina dell’Ostia.
Se per il vescovo Canossa i guai relativi a quella contesa
sembravano avviati a conclusione, per Comboni il confronto
con Castellacci divenne, da quel momento, un vero calvario.
Per organizzare il nuovo viaggio nel continente africano dove
condurre anche le giovani negre, il nostro aveva bisogno di fi­
nanziamenti e allora partì per Colonia, la sede più disponibile e
generosa dei benefattori. E ancora. Nel maggio del 1867 Castel­
lacci aveva offerto al missionario un prestito di 1500 scudi con
cui fare fronte alle spese. In quel frangente egli chiese a Com­
boni (che non ebbe remore a rilasciarla) una ricevuta. Il dena­
ro, però, non venne consegnato al sacerdote, pregato di andare
a ritirarlo da Chiara Persi che lo teneva presso di sé. Sennonché
la religiosa rifiutò a Comboni la borsa che conteneva il denaro,
con un pretesto a dir poco allucinante. Dio infatti - affermò -
le aveva suggerito di comportarsi in quel modo e il vicegerente,
sempre disposto ad ascoltarne i pareri, avallò la paradossale ri­
soluzione. Che fare di fronte a un atteggiamento che rasentava
Capitolo Ottavo. Un mondo di persecuzioni
131

i confini della paranoia9? Ricorrere alla pazienza, tutta la pazien­


za necessaria ad un “vero ministro di Dio”.
Il conto delle traversie, causate dalla visionaria, non era
chiuso però. Le giovani africane, condotte a Roma, si trovava­
no presso il convento delle Viperesche, e quando Comboni si
presentò in quella sede per averle in restituzione, dovette scon­
trarsi con l’ostilità di Chiara Persi, spalleggiata dal vicegerente.
Abituata a plagiare le consorelle - un’attività nella quale era
maestra - essa fomentò la ribellione delle ragazze contro il mis­
sionario, tacciato di pazzia conclamata, propensione al furto e
all’ingratitudine verso i benefattori. E non è finita. Istigate da
chi nella disobbedienza individuava un punto d’onore, le giova­
ni negre firmarono una petizione diretta al cardinale Barnahò
con cui chiedevano di rimanere in città. Secondo loro, la voce
della coscienza suggeriva di evitare le terre d’origine, privile­
giando un’opzione più ragionata. Sì, l’ideale di farsi suore non
era affatto caduto, cambiava invece la scelta della struttura ove
esercitare il ministero.
Disperato, il nostro, ma non ancora sconfitto, si rivolse al
cardinale prefetto, presto imitato dal “gesuita” Luigi Canossa
che sosteneva la tesi del missionario. Intralciata dall’escursione
garibaldina nei territori pontifici, la corrispondenza tra Roma e
Verona subiva spesso intralci e contrattempi. Da persona avvez­
za alle schermaglie della diplomazia, Bamabò consigliò al nostro
d’interpellare il cardinale Patrizi, superiore del vicegerente e, in
ultima istanza, lo stesso pontefice.
Comboni, per parte sua, espose a Pio IX e al porporato roma­
no la situazione venuta a determinarsi, ma la risposta non fu
purtroppo esaltante; bisognava risolvere il caso direttamente
con Castellacci. Questi, però, malgrado i tentativi reiterati, ri­
fiutò per ben venti volte di ricevere il sacerdote. Frattanto le
giovani negre, oggetto del contenzioso, per volontà del pontefi-

9Malattia mentale caratterizzata da idee deliranti di persecuzione o di gran­


dezza.
Daniele Comboni, il vescovo africano
132

ce, furono esaminate da un barnabita10 e da due domenicani do


podiché lasciarono il monastero, accolte temporaneamente
dalle suore di San Giuseppe dell1 Apparizione. Per tre di loro, in
ogni caso, un’ingiunzione papale intimò il rilascio immediato.
A questo punto il vicegerente fece trasmettere al missionario un
ordine di comparizione presso il Tribunale di Roma. Il consiglio
del vice-prefetto di Propaganda Fide, interpellato in proposito,
fu di citare il Castellacci presso il Tribunale ecclesiastico al fine
di ottenere la ricevuta dei soldi mai incassati. Seguì un ultima-
tum diretto al prelato: o entro due giorni il documento richie­
sto veniva restituito od una denuncia penale avrebbe concluso
la controversia.
Intanto Pio IX interveniva, con decisione. Per prima cosa di­
spose un’ispezione presso il convento delle Viperesche, il che
determinò le dimissioni immediate di Castellacci e il deferi­
mento al Santo Uffizio di Chiara Persi di cui, dopo quell’episo­
dio, si perderanno le tracce.
Prima che una suora sconsiderata, in combutta con un pre­
lato a dir poco irriflessivo, avesse prodotto una montagna di
guai, una serie di frenetiche vicende aveva condotto il nostro in
territorio egiziano a fondare due collegi insieme ai camilliani.
In quei giorni al Cairo e nei dintorni, s’era scatenato il vaio­
lo coinvolgendo la stessa Missione e mietendo più d’una vitti­
ma tra la popolazione. Un po’ per un carisma naturale, un po’
perché i camilliani esercitavano il loro ufficio negli ospedali,
padre Zanoni aveva acquisito una conoscenza notevole nel
campo della medicina. Essendo il più anziano dei confratelli e,
almeno teoricamente, il meno esposto al pericolo di tentazioni,
Daniele Comboni aveva voluto assegnarlo al Collegio femmini­
le. Qui il religioso s’era distinto per l’abilità dimostrata nella te­
rapia, curando le suore e le ragazze che numerose affluivano
nella struttura. Sennonché, durante la visita ad alcune giovani

L0Chierico regolare dell’Ordine di San Paolo, fondato da S, Antonio Maria


Zaccaria.
Capitolo Ottavo. Un mondo di persecuzioni
13.3

negre, egli abusò della fiducia accordata, commettendo atti con­


trari alla morale cristiana. Uomo prudente, Comboni volle ap-
purare la modalità dei misfatti e gli fu d’aiuto, durante rinvesti-
gazione, padre Carcereri. Accertate le colpe del religioso, av­
venne il suo spostamento in una nuova stazione, ma senza che
il fatto fosse gravato da un’umiliante pubblicità e anzi in un
clima di discrezione assoluta.
Nel settembre del ’68, dopo un viaggio effettuato in una
forma che nascondesse la verità dell’accaduto, egli rientrò in
Italia, pieno di frustrazioni e con l’ossessione Ud’una denuncia” ai
superiori. La sua reazione si concretizzò attraverso atti inconsul­
ti e furono inondate di delazioni11, zeppe di falsità, alcune delle
strutture deputate a esercitare il controllo sull’attività di
Comboni. E arrivarono lettere assurde persino a monsignor
Ciurcia, il superiore diretto della Missione e poi al vescovo
Canossa, ai camilliani Artini e Guardi, a padre Tezza, atteso al
Cairo e alla madre di lui, monaca visitandina12. Con il solo
scopo di suscitare sconcerto nei destinatari dei velenosi messag­
gi, padre Zanoni spargeva calunnie a piene mani su quanto, in
prima persona, sosteneva d’aver assistito. Parlava, innanzi tutto,
d’una montagna di debiti sotto la quale l’istituzione sembrava
dovesse crollare e poi di promiscuità peccaminosa esistente tra i
religiosi d’entrambi i sessi e infine d’un’attenzione morbosa di
Franceschini per una ragazza africana. Si trattava, in altre paro­
le, di materiale esplosivo che fece un’impressione negativa su chi
personalmente non conosceva Comboni come la madre di Tezza.
Inizialmente proclive all’invio dei camilliani nella missione
e poi ostile in conformità alle decisioni assunte dal “superiore”
Camillo Guardi, padre Artini non mancò di denunciare le pre­
sunte mostruosità al cardinale prefetto. Non sappiamo cosa il
prelato abbia pensato dell’ideatore del piano, ma è conservata

ILAccuse, denuncie.
12 Religiosa dell’Ordine della Visitazione, Congregazione femminile istituita
in Francia da S. Francesco di Sales e da Jeanne Fran^oise Frémont de Chantal
nel XVII secolo.
Daniele Comboni, il vescovo africano
134

in archivio una sua lettera, diretta a Daniele Comboni che ac­


cennava a “qualche sinistra notizia” giunta in proposito sulla
Missione. Abituato da sempre a portare la croce, il nostro soffrì,
in primo luogo, per le pene inflitte ingiustamente dai suoi fra­
telli di fede. Possibile - avrà pensato - che il cristianesimo, di­
spensatore di pace e altruismo, si fosse mutato in un vortice
d’intolleranza? Tutti, a cominciare dai camilliani (e il mio ap­
punto tocca principalmente i superiori) miravano essenzialmen­
te al loro “particulare”; avevano infatti previsto, con largo anti­
cipo rispetto ai tempi, il fallimento legato all’invio dei missio­
nari nei territori africani. Comboni, in altre parole, sarebbe
stato una testa calda, un visionario e poi, in definitiva apparte­
neva ad un altro ordine, una diversa famiglia. Perché avallare,
con largo anticipo, un suo progetto? Forse le accuse rivolte al
missionario non stavano esattamente in questi termini, ma la
sostanza del contenzioso non si discostava di molto. Quel che
nella circostanza ferì particolarmente il sacerdote fu l’ostilità
condivisa, senza reticenze, dal confratello Giovanni Beltrame.
Questi andava scrìvendo, con una distorsione dei fatti a dir
poco indecorosa, che di «cento missionari cinquanta apostata­
rono propter vinum et mulieres13 », «La nuova missione combo-
niana - rincarava la dose - la ritengo per un’utopia perché co­
nosco bene il progettista, uomo leggero che non voleva meco».
Perché tanta acrimonia? Le radici di quella contesa, mantenuta
dal nostro nei limiti della decenza, vanno ricercate in un episo­
dio del tutto irrilevante: la concessione avvenuta, nel 1866,
della croce di Cavaliere d’Italia a don Beltrame e da lui accet­
tata con danno nelle relazioni coi superiori. Ma torniamo a
padre Zanoni.
Malgrado la testimonianza da lui fornita fosse inconsistente,
le sue denunce finirono per lasciare il segno. Il cardinale Bar-
nabò, tanto per cominciare, esortò i camilliani, partiti per la
missione, a rientrare in Italia, in ciò spalleggiato, senza aver

13 “A causa del vino e delle donne”.


Capitolo Ottavo. Un mondo di persecuzioni
135

prima ascoltata “l’altra campana”, da Luigi Canossa. «Sono in


un oceano di dolori» scriveva il nostro al prelato ed il chiari­
mento fornito su quanto di calunnioso era giunto in episco­
pio14, servì ad appianare il loro rapporto. Con il cardinale
Barnabò che pure conosceva a fondo (o avrebbe dovuto cono­
scere il sacerdote) il ritorno a una giusta normalità, si rivelò più
complesso.
Per prima cosa Sua Eminenza diede mandato a monsignor
Ciurcia per un’ispezione molto accurata presso i due istituti in­
criminati ed il riscontro che poi scagionò totalmente Daniele
Comboni non fu stilato che il 3 aprile 1869, e quindi con sei
mesi di ritardo rispetto ai presunti misfatti. Pensare che il no­
stro, nella vicenda di cui padre Zanoni era stato il protagonista
in negativo, aveva tenuto un comportamento estremamente
prudente. Nessuna pubblicità sull’accaduto, noto soltanto a lui
e a padre Stanislao Carcereri. E poi aveva approfittato dell’in­
vio del religioso in altra Casa, per indurlo a troncare i suoi rap­
porti con le ragazze.
Infine gli diede il permesso di compiere un viaggio in Terra
Santa e solo quando l’episodio sembrava avviato a un’equa riso­
luzione, lo rimandò in Italia. Già compagno di studi del cardi­
nale prefetto, animato da sentimenti contrari all’operato del no­
stro, padre Guardi approfittò dell’amicizia che lo legava al pre­
lato per biasimare ufficialmente Canossa. Secondo il ministro
generale, egli avrebbe ottenuto, con artifizi, i rescritti pontifici15
che ponevano i camilliani alle sue dirette dipendenze. Pertanto
sia il missionario che il presule furono colpiti da censura.
Monsignor Canossa si ribellò all’ingiustizia e il ricorso al papa
produsse la cancellazione deH’immotivato rilievo.
Ma è forse opportuno ritornare sull’accusa rivolta a Com­
boni dalla malafede del camilliano Zanoni. 11 nostro, in quel­
l’occasione, mise in campo tutte le risorse del “vero pastore”, fé-

14 Vescovato.
15 Decisioni dell’autorità ecclesiastica su questioni teologiche o disciplinari.
Daniele C amboni, il vescovo africano
136

rito dalPimpostura e dai ricatti. E rispose a Barnabò con la vee­


menza di chi proclama la verità senza piaggerie od incertezze
verbali: «Già vedo e comprendo che la croce mi è totalmente
amica che l’ho eletta da qualche tempo per una sposa indivisi­
bile ed eterna. E colla croce per isposa diletta e maestra, sapien­
tissima di prudenza e sagacità, con Maria mia madre carissima e
con Gesù mio tutto, non temo Eccellentissimo Principe, né le
procelle di Roma né le tempeste d’Egitto né i torbidi di Verona
né le nuvole di Lione e di Parigi e certo a passo lento e sicuro
camminando sulle spine, arriverò ad iniziare stabilmente e pian­
tare l’opera ideata della Redenzione della Nigrizia centrale che
tanti hanno abbandonata e che è Peperà più difficile e scabrosa
dell’apostolato cattolico».
C’è un accenno, in questa lettera, “alle nuvole di Lione” ov­
vero all’intervento di Propaganda Fide di quella città che indus­
se il cardinale Barnabò a consigliare la soppressione dell’Opera
del Buon Pastore perché priva di mezzi adeguati.
Quando il nostro conobbe quell’intenzione scrisse all’illu­
stre prelato. «L’E.V. ha dichiarato specialmente due cose che
sono affatto aliene dalla verità. Innanzi tutto l’Opera del Buon
Pastore ha lo scopo di mantenere i seminari delle missioni e i
centri per le suore missionarie in Europa e non gli istituti in
terra di missione. Basterebbe l’articolo I degli Statuti per ca­
pirlo. In secondo luogo non è vero che l’Opera si sia arricchi­
ta soltanto di quaranta giorni d’indulgenza concesse dal vesco­
vo di Verona; anche il papa ha concesse sei indulgenze plena­
rie con rescritto autografo. Tutte queste cose insieme ad altri
particolari che l’E.V. ha giudicato bene d’esporre e citare al
presidente di Lione ove io fui benissimo accolto, mi hanno
fatto assai male; come mi ha recato e reca assai pregiudizio che
l’E.V fa di tanto in tanto che don Comboni è un matto, un
pazzo da quattordici catene etc; ha trattenuto qualche insigne
benefattore disposto a soccorrermi ed ha raffreddato moltissi­
mi».
Niente servilismo, nessun ossequio formale verso il superio­
re, ma pane al pane e vino al vino, come raccomanda il Van­
Capitolo Ottavo. Un mondo di persecuzioni
137

gelo. In quei giorni il nostro, per obbedienza sospese l’Opera del


Buon Pastore, in attesa di tempi migliori.
Malgrado l’opposizione della Santa Sede, sicuramente fuor­
viata da informazioni incomplete o addirittura distorte, Daniele
Comboni non esitò a rilanciare il suo progetto, E divenne, col
tempo, il fondatore d’una nuova congregazione, provicario di
quella parte dell’Africa che tanto gli stava a cuore, ottenendo in
seguito anche la nomina a vescovo. Ma questo è solo un antici-
po di ciò che conto d’esporre nei successivi capitoli. Per il mo­
mento voglio soltanto occuparmi delle innumerevoli croci che
attraversarono la breve vita del nostro.
I maggiori crucci, del resto, gli arrivarono proprio dai religio­
si che avrebbero dovuto sostenerlo in prima persona, nell’eser­
cizio del ministero. Mancando, dopo la morte del fondatore, i
sacerdoti mazziani, pronti a seguirlo nella missione, dovette op­
tare, pur tra una serie d’impedimenti, per il sostegno dei camil-
liani. La collaborazione con i medesimi fu contrassegnata da
luci e ombre e un valido aiuto venne, principalmente, da una
sola persona: padre Stanislao Carcereri. Egli condivideva col
nostro un temperamento votato all'azione e la vocazione al sa­
crificio.
Comboni stimava a tal punto il camilliano da nominarlo,
durante il suo viaggio in Europa, vicario generale della zona a
lui assegnata, affidandogli addirittura il collegio maschile del
Cairo, Fra i due esisteva una diversa valutazione sul modo di
concepire il ministero. Padre Carcereri restava nell’intimo un'
camilliano, sempre pronto con Franceschini a rendere più inci­
siva la presenza attiva dell’Ordine nella Missione.
Libero dai vincoli d’una Congregazione se non con quella da
lui fondata e di cui rendeva conto direttamente a Propaganda
Fide, Daniele Comboni aveva una visione diversa sul modo
d’evangelizzare quei popoli “dimenticati”. In base alle direttive,
espresse da padre Artini, i camilliani avrebbero dovuto affianca­
re, come gregari i francescani, i domenicani ed altre famiglie re­
ligiose radicate nel territorio. Ma forse a causa dei risultati otte­
nuti e anche perché ogni Ordine finisce per obbedire ad una
Daniele Combom, il vescovo africano
138

mentalità corporativa, padre Carcereri richiese, a nome dei ca-


milliani, la giurisdizione esclusiva sopra il collegio del Cairo.
Egli coltivava sicuramente un suo disegno e cioè la spartizione
del vicariato, riservando ai confratelli tutte le strutture della ca­
pitale egiziana e ai camilliani quelle del Sudan. 11 nostro spoppo-
se, con decisione, alla proposta e padre Carcereri, nel frattem­
po, chiese ed ottenne il permesso di raggiungere il Kordofan, per
una presunta missione esplorativa. Si fece accompagnare, per
l’occasione, da Franceschini e da due laici uno dei quali appar­
tenenti agli oblati16 camilliani. Appena giunto a destinazione,
però, comunicò per lettera a monsignor Ciurcia il desiderio
d’aprire un centro missionario per i neri a E1 Obeid.
Intendeva infatti fondare una stazione separata sotto il pa­
trocinio dei camilliani, ma poiché Comboni, nel 1872, venne
nominato provicario di tutta l’Africa Centrale e Carcereri, die­
tro sua designazione, vicario, il progetto, per il momento, si
arenò. 11 dissidio, però, tra il nostro ed il collaboratore principa­
le covava come la brace sotto la cenere ed esplose, all’improv­
viso, pur se in forma ridotta, a causa d’una ragazza negra, parlo
di Maria Maragase. Il superiore non la voleva nel vicariato e
proibì a Carcereri di condurla con sé, nel Kordofan, durante
l’esplorazione sopraccennata. Successivamente il provicario di­
spose il suo allontanamento dagli Istituti del Cairo e negò al ca-
milliano d’accompagnarla nel Sudan.
Il motivo del provvedimento era noto ad entrambi: correva
voce d’una relazione tra la donna e il sacerdote, poi punito con
dieci giorni d’esercizi spirituali. Neanche le suore dell’Istituto
amavano l’intraprendente Marietta, ma padre Carcereri imputa­
va quell’atteggiamento di diffidenza, nei suoi confronti, alla ge­
losia. Essendo il vicario in partenza per l’Europa, per un viaggio
che riguardava l’intera Missione, egli promise alla donna, dopo
il rientro, di collocarla in una struttura religiosa a lui più favo­

16Laici che volontariamente e senza pronunciare voti fanno parte di una


Congregazione religiosa per determinati serivizi.
Capitolo Ottavo, Un mondo di persecuzioni
139-

revole. Venuto a conoscenza dell’intenzione, il rettore dell’Isti­


tuto del Cairo, informò il superiore il quale lo pregò di mediare
presso i camilliani in modo che la proposta restasse solo un’ipo­
tesi, priva di conseguenze. Non parlò di padre Zanoni né di
tutto il discredito che il sacerdote aveva causato alla Missione,
ma l’accenno era sottinteso. La diplomazia, nel caso specifico,
avrebbe dovuto animare ogni iniziativa del rettore; don Rolleri,
però, si limitò a informare il vicario del divieto imposto e lo fece
probabilmente con le parole sbagliate.
Anziché chinare il capo, dinanzi alla volontà del superiore,
padre Stanislao gli mandò una lettera piena d’insolenze dove lo
definiva «belva e carnefice».
L’atto di ribellione appariva chiaro e proseguì successivamen­
te anche nel corso del viaggio perché il “vice” mostrava, svolgen­
do il ministero, di non tener conto delle direttive impartite da chi
era il responsabile del vicariato. Tanto per fare un esempio, men­
tre si trovava a Vienna, egli propose a Comboni di mutare il me­
todo nella conduzione della Missione. Niente più edifici di pietra
o di mattone, ma solo agglomerati di capanne, sedi di stazioni do­
tate singolarmente d’un sacerdote e d’un laico. Comboni aveva
più d’un motivo per avversare tale sistema che comportava il fra­
zionamento eccessivo della struttura, con scarse opportunità di
collegamento con il provicario. E poi l’idea di Carcereri privile­
giava l’assenza di chiese che invece il superiore riteneva indispen­
sabili, come indispensabile era certamente per lui l’uso di costru­
zioni in muratura, fatte per contrastare validamente il fenomeno
dei nubifragi e le conseguenti inondazioni. E non è finita.
Le febbri risultavano inseparabili all’esercizio della missione
e le morti causate da epidemie o da altri fattori climatici, non si
contavano. Come pensare, con una prospettiva del genere di ri­
durre al minimo la presenza del personale? Alla fine comunque
il punto di vista del nostro prevalse, pur tra la riluttanza del vi­
cario che aveva più d’una ragione di dissapore con il suo capo.
La ragione della contesa non era purtroppo placata, ma sembra­
va avviarsi verso una china pericolosa, E veniamo alla succes­
sione dei fatti.
Daniele Comboni, il vescovo africano
140

Seguendo un suggerimento di monsignor Ciurcia, non condi'


vìsa però dal provicario, padre Stanislao si stava adoperando*
con molto impegno, per la chiusura della comunità femminile
esistente al Cairo e informò della decisione la superiora delle
suore di San Giuseppe dell’Apparizione, Veronica Pettinati, Le
religiose operanti nella capitale egiziana sarebbero state ospitate,
per il momento, dalle suore dell’Ospedale. Approdato a Roma, il
camilliano, informò della circostanza sia la Madre Generale
dell’Ordine coinvolto, suo malgrado, sia l’Ufficio di Propaganda
Fide, Sembrava una soluzione già concordata e il 18 aprile padre
Carcereri informò il rettore dell’imminente stesura d un docu­
mento che contemplava il passaggio delle missionarie alla strut­
tura ospedaliera per il primo luglio. Informando il provicario del­
l’accaduto, don Rolleri non nascose la propria indignazione, in­
dignazione estesa all’operato della superiora dell’istituto egiziano.
Per Comboni l’evento si trasformò in una tegola che, di punto in
bianco, gli fosse caduta sul capo. Per prima cosa cercò di rassicu­
rare la religiosa allarmata e, nel contempo, si rivolse al cardina­
le prefetto, manifestando il più totale dissenso per quanto stava
accadendo. Ignare dell’azione intrapresa da Carcereri, le suore
pensavano che il provicario in persona avesse optato per la loro
sostituzione con personale educato presso gli istituti veronesi.
Comboni, invece (e l’equivoco, nato in sordina stava ormai di­
lagando) attribuiva la soluzione da lui aspramente osteggiata alla
Superiora generale delle suore di San Giuseppe.
Il 1° agosto 1874 padre Stanislao e la superiora in questione
s’incontrarono presso l’ufficio del cardinale prefetto ed è facile
immaginare l’umiliazione del camilliano quando apprese la vo­
lontà del provicario di annullare ogni cambiamento prodotto.
Messo alle strette il religioso tentò di discolparsi con una spie­
gazione puerile: il superiore aveva cambiato opinione su quanto
già concordato in precedenza. Ferito nel suo prestigio di colla­
boratore principale, concepì un assurdo risentimento sia verso
la ministra generale delle suore di san Giuseppe sia nei confron­
ti di Comboni. Intanto il contenzioso tra i due era sul punto di
trasformarsi in un vero scontro e ciò per l’ostinazione di
Capitolo Ottavo. Un mondo di persecuzioni
141

Carcereri che non voleva (o non poteva) ammettere i tanti er­


rori commessi. Se in spirito di umiltà avesse chiesto perdono al
superiore che lo stimava, lo avrebbe certamente ottenuto e con
speditezza. Sennonché, proprio in quei giorni, aveva inviate let­
tere di fuoco al provicario, stigmatizzate persino da Franceschi-
ni. Il quale esprimeva, in proposito, tutte le sue riserve: «Quel
tuo stile secco, amaro, pungente toccherebbe i nervi più sensi­
bili, per non dir morti».
E altrove: «Tu non domandi, no, né supplichi Monsignore di
una cosa: quasi che fosse tuo suddito, tu gliela comandi e impe­
ri, anzi lo minacci come allora quando con le Suore di San
Giuseppe, con il prefetto di Propaganda Fide, avvenne una riu­
nione, presso la Santa Sede, avente lo scopo d’esaminare la pro­
mozione a vescovo del provicario».
Ebbene, in quell’occasione, il cardinale Mitra a cui compe­
teva l’ufficio di relatore, propose per il momento, di soprasse­
dere alla nomina per tre motivi fondamentali. Gli istituti del
Cairo e di Khartum, oltre a determinare costi esorbitanti, rap­
presentavano una palla al piede sotto il profilo dell’utilità mis­
sionaria, Il centro del vicariato avrebbe dovuto, nella prospet­
tiva d’una maggiore efficienza, trovare la collocazione ad E1
Obeid. La missione poteva raggiungere il massimo grado del­
l’efficienza solo dopo l’apertura d’una stazione fra i nubani. Si
trattava di progetti elaborati da Carcereri che il cardinale
Mitra, studioso di manoscritti medioevali, non conosceva in
profondità.
Egli pertanto ammetterà, nel 1877, quand’era in corso il
conferimento della dignità episcopale a Comboni, d’aver udito
voci contrastanti sul suo conto.
Il rapporto tra il provicario ed il suo vice stava subendo un
tale carico d’animosità che solo una rottura definitiva avrebbe
potuto sanarlo. Giunto a Khartum, Carcereri ebbe un incontro
col superiore e gli segnalò l’intenzione di lasciare il vicariato per
trasferirsi a Berber, nella casa dei camilliani. Avendo invano
tentato una conciliazione (che prevedeva, fra l’altro, il perdono
di tutte le intemperanze commesse dal subalterno) monsignor
Damele Combom, il vescovo africano
142

Comboru ne accettò le dimissioni. E scrisse testualmente:


«Secondando la vostra intenzione espressami verbalmente a
Khartum nel p.p. febbraio e comunicatami per iscritto in parec-
chie vostre lettere dal Cairo a da Wadi-halfa, nelle quali mi di­
chiaraste di voler rinunciare all’ufficio di mio vicario generale,
considerando hic et nunc17 è incompatibile colla vostra posizio­
ne di prefetto della casa camilliana di Berber vi dichiaro con
questo mio foglio che ho accettato definitivamente la vostra ri­
nuncia dalle predetta carica».
Qualche tempo dopo, a mente fredda, il superiore che aveva
sostituito il dimissionario con il canonico Pasquale Fiore, com­
mentava l’evento con queste parole: «Non fui io che deposi il
padre Stanislao, egli stesso rifiutò più volte per lettera e anche
a voce e sempre indecorosamente di restar vicario generale, spe­
rando forse che lo scongiurassi; io invece noi pregai, ma accet­
tai la sua rinunzia e non sotto l’aspetto di risentimento verso di
me, ma sotto l’aspetto della incompatibilità dell’ufficio di pre­
fetto (superiore) camilliano e di vicario generale».
La diatriba tra il nostro e Carcereri non era purtroppo con­
clusa con l’uscita del religioso dal vicariato, ma continuò sotto
altre forme. Se ritorno sull’argomento è per due motivi: ribadi­
re una volta di più come la strada della santità sia disseminata
di spine e puntare il dito sulla mancanza di carità di tanti, di
troppi ministri di Dio. Ma veniamo al caso specifico.
Fu imputata ingiustamente a Comboni una scarsa oculatezza
nel campo amministrativo. Egli godeva indubbiamente di gran­
de prestigio nelle relazioni sociali. Parlatore affascinante, riusci­
va a conquistare chiunque l’avvicinasse e a trasformarlo in be­
nefattore se ne aveva i mezzi e la volontà per operare in tal
senso. Diverso era invece l’approccio con la gestione delle risor­
se, difficile da controllare tenendo conto d’una costante: la pre­
carietà della vita dovuta a fattori ambientali che, nel continen­

17 Qui ed ora.
Capitolo Ottavo. Un mondo di persecuzioni
143

te africano, vanificavano ogni previsione di bilancio, legato ai


denaro. Tornando a Carcereri, sempre severo nel giudicare il su­
periore, dovette dopo il ritorno dal viaggio, effettuato in Euro­
pa, fornire il resoconto delle spese. Ebbene il provicario indivi­
duò alcune incongruenze sui costi del tragitto dalla città di par­
tenza alla capitale egiziana. Mancavano praticamente, 1.943
lire, una cifra considerevole ancorché priva di pezze giustificati­
ve. Pur dovendo fornire ragguagli ai benefattori e, in particola­
re, alla ìsAarien Verezn, sulle donazioni ottenute e sul loro impie­
go, Comboni sembrava riluttante a dare pubblicità all’accaduto
e ciò per mettere un freno ad un’annosa diatriba. Diatriba che,
dopo le dimissioni di Carcereri, non aveva più nessun motivo di
continuare.
Sennonché la notizia fornita dal nostro, e mantenuta nel li­
mite della confidenza affinché rimanesse segreta, finì per errore
su una circolare della stessa Associazione. La relazione aveva
“occupato” otto pagine di cui una mezza dedicata al viaggio del
camilliano. Una copia della circolare arrivò a don Squaranti,
rettore del seminario delle missioni veronesi che scrisse allarma­
to a don Rolleri. Il timore che i benefattori, disgustati dal pessi­
mo impiego del loro denaro, usassero per l’avvenire una maggio­
re cautela, si stava giustamente trasformando in un deprecabile
evento. Padre Carcereri, dal canto suo, ricevette il “documen­
to” a Berber dove operava e, coltivando un forte risentimento
verso l’ex superiore, progettava in cuor suo di vendicarsi.
La contesa si stava inasprendo e, malgrado la mano tesa dal
nostro, proseguì senza interruzioni sino alla primavera del 1877.
Si cercò, in tutti i modi, di fomentare una campagna denigrato­
ria contro Comboni (anche allo scopo d’ostacolarne la nomina
a vescovo) nella quale vennero implicati persino don Losi e don
Rolleri ed il camilliano Franceschini.
Per ben tre volte il giovane prete, in base ad una voce poi
circolata con insistenza, aveva tenuto rapporti di dubbia onestà
con alcune donne. Il primo accusatore, successivamente allon­
tanato dalla Missione, era stato padre Zanoni ed il provicario,
in quel frangente, non aveva esitato a difendere il camilliano.
Daniele Comboni, il vescovo africano
144

Si mormorava che Career eri avesse mostrata troppa indulgenza


per la condotta del confratello e una volta comunque il vicario
gli aveva inflitto, per punizione, dieci giorni di esercizi spiritua­
li. Franceschini non mutò vita e, trasferito ad E1 Obeid, sembra­
va eccedesse nel bere, avendo persino una concubina etiope.
Dovette allora intervenire il provicario che rimosse il sacerdote
dal ministero di parroco nella missione della città. Nacque da
quell’episodio una reazione contro il buon nome del superiore,
fatta soprattutto di calunnie.
In altre parole Carcereri inviò una lettera piena di falsità a
padre Guardi perché la trasmettesse al cardinale prefetto. Le il­
lazioni del religioso si configuravano in questi termini: monsi­
gnor Comboni non forniva ai camilliani e alle suore le necessa­
rie risorse per operare, non recitava l’ufficio, non celebrava l’eu­
carestia, astenendosi dalla confessione da diversi mesi e, dulcis
in fundo, era letteralmente plagiato da una religiosa alla quale
era demandato il governo della missione. La persecuzione, volta
a screditare il missionario, non si esaurisce nel resoconto da me
fornito che è solo un compendio dei tanti, dei troppi soprusi su­
biti anche da parte di religiosi educati nei suoi stessi istituti,
come don Losi e don Rolleri. Ed ecco cosa scriveva, in proposi­
to, il provicario: «Ad onta dei tanti combattimenti ho la con­
solazione di vedere il vicariato marciare in avanti. Posso dire
che è un miracolo del Sacro Cuore, lo non temo di tutto l’in­
ferno: so tutte le cose e, benché l’ampia guerra sia andata avan­
ti assai pure tutti colla grazia di Dio vincerò e Dio sarà glorifi­
cato. Mi hanno combattuto i santi e i birbanti. Ma le opere di
Dio devono essere combattute. Ed io sono più allegro che mai e
forte come la morte».
145 —

Capitolo Nono
La regola

Ho ricordato, nel precedente capitolo, i termini dell’ispezio­


ne affidata a monsignor Ciurcia sulla moralità degli istituti coiti-
boniani. In data 3 aprile 1869 il presule informava il cardinale
prefetto d’aver ultimata l’indagine durata sei mesi. L’operato del
nostro, in base ai riscontri effettuati, risultava, sotto ogni profi­
lo, ineccepibile. Ricevuta la relazione, il cardinale Barnabò
l’aveva girata, per conoscenza, al ministro generale dei camillia-
ni. Questi, da sempre ostile alla permanenza dei confratelli nella
missione, chiese d’investigare sulla situazione economica degli
istituti. Pensava, in tal modo, di ridimensionare il lavoro e so­
prattutto l’immagine del provicario.
Uomo dalla barba fluente, tenace e scrupoloso, monsignor
Ciurcia fornì alla Santa Sede quanto richiesto e Daniele Com­
boni uscì nuovamente indenne da ogni ombra di sospetto e potè
proseguire, sia pure tra le immancabili difficoltà, nel ministero.
Aveva, in quegli anni, rivisto l’amico ed estimatore padre Pietro
da Taggia, ricevendo l’appoggio incondizionato ed il conforto
più ampio ed entusiasta.
Dopo aver visitato le case erette dai missionario, scriveva,
ammirato a Luigi Canossa: «Questo istituto, non abbastanza lo­
dato per il santo fine a cui tende, ha fatto e fa del gran bene.
Con meraviglia in sì poco tempo da che esiste, ha fatto più con­
versioni, specialmente di adulti che io, vecchio missionario,
non ottenni in vari anni. Per mezzo di esso bambini e adulti mo­
rirono col battesimo e salvaronsi: ecco la mia allegrezza e il mio
gaudio».
E la stessa lettera annunciava, in un altro passo: «Ogni volta
che visito questo istituto e io faccio ben di spesso, sempre vi
veggo ordine, pace, concordia, soggezione e pietà. Vedo inoltre
la frequenza ai SS. Sacramenti, il catechismo, la predicazione,
Daniele Comboni, il vescovo africano
146

l’orazione, gli esercizi e la lettura spirituale che si praticano neh


l’istituto costantemente, Insomma io ne sono contentissimo e
ne giubilo perché tutto lodevole, niente riprovevole». Monsi­
gnor Canossa fece stampare questa testimonianza e la diramò a
tutti gli ambienti ecclesiastici dov’era fiorito il discredito a
danno del nostro.
Daniele Comboni aveva abbozzato il Regolamento per il
personale di ambo i sessi operante direttamente o indirettamen­
te nella Missione già dal finire del 1867. Ed eccone alcuni det­
tagli. Per l’istituto femminile del “Sacro Cuore di Maria” aveva
previsto la sveglia alle cinque del mattino (da ritoccare legger­
mente durante i mesi invernali) la recita delle preghiere, appe­
na interrotto il riposo, mezz’ora di orazione mentale, la messa e
le devozioni.
Prima di mezzogiorno, esecuzione d’una lettura spirituale di
circa un quarto d’ora in arabo o in italiano, separatamente e alle
quattordici in punto, la recita del rosario. L’orario della cena era
sempre anticipato da una visita al Santissimo. Alle ventuno,
prima di coricarsi, alle religiose era imposta una preghiera detta
della sera e, quindi, un accurato esame di coscienza. Durante la
giornata le ragazze si esercitavano nella lettura e nella scrittura,
seguendo poi corsi speciali incentrati sulle incombenze domesti­
che, senza trascurare, però, un artigianato modesto, facilmente
realizzabile.
Nel 1869, redatto da padre Carcereri, ma sottoscritto dal­
l’ispiratore Daniele Comboni, era nato il Regolamento per i mis­
sionari degli Istituti dei Neri in Egitto. Per l’occasione fu inserita
una serie di direttive spirituali e disciplinari improntate a una
ponderata severità. La vocazione, naturalmente, rappresentava
un elemento importante, se non fondamentale, della persona.
E, per finire, il gruppo guidato dal nostro era composto da sacer­
doti e da laici diretti in ogni singola struttura da un superiore.
La fraternità, ovvero la “comunione fra i membri della missio­
ne”, ne costituiva il cemento, il simbolo unificante. Ogni sacer­
dote era tenuto a consegnare al superiore gli emolumenti con­
nessi alla celebrazione della messa o alle elargizioni ottenute dai
Capi co ! ( >_N ono, La regola
147

benefattori; poteva, però, in base a una scelta precisa, impiega­


re in modo esclusivo i doni ricevuti dai congiunti o i proventi
personali. Era comunque vietata l’amministrazione dei beni pos­
seduti dai religiosi prima del proprio ingresso nell3istituto. L’ob­
bedienza costituiva, insieme alla castità, una prerogativa irri­
nunciabile.
Sull’esempio espresso a suo tempo da don Nicola Mazza, lo
studio veniva raccomandato come un elemento formativo di
particolare rilevanza. L’osservanza della pietà, qui intesa come
un atteggiamento di devozione al Signore, assumeva un grande
valore per il missionario che aveva il dovere d’assistere alla
santa messa, di recitare il rosario, di dedicare tutti i “ritagli di
tempo” sottratti a un impegno costante nella carità, alla lettura
dei testi sacri, alla visita del Santissimo, alla meditazione, “al­
l’ufficio delle ore”, previsto per i sacerdoti. Un giorno alla setti­
mana era riservato alla confessione e ad un severo esame di co­
scienza. Nella giornata di mercoledì si teneva nella cappella o
nell’edificio adibito al culto un’ora di adorazione comunitaria e
faceva da corollario la celebrazione della messa avente come
obiettivo la “conversione Nigritiae”, Gli esercizi spirituali, da
cui nessuno era esente, avevano cadenza annuale e, nei mesi di
marzo e di maggio, si onoravano le figure di San Giuseppe e
della Madonna mediante apposite novene. Non era imposto al
religioso io studio dell’arabo, ma della lingua ufficiale che si par­
lava nella nazione ospitante.
Comboni avrebbe dovuto, operando nella città di Verona,
imprimere agli Istituti per la formazione missionaria un impulso
tutto speciale. Invece aveva optato per una diversa risoluzione:
svolgere il ministero in terra africana perché da lì scaturisse la
fiamma dell’apostolato.
Il Concilio Vaticano1 I era nell’aria ed egli cercava d’indivi­
duare il modo più idoneo ed efficace per sottoporre al consesso

1Assemblea composta prevalentemente da Vescovi in cui vengono trattate


questioni relative alla fede, al culto, alla disciplina dei credenti.
Daniele Comboni, il vescovo africano
h 148

dei vescovi e dei cardinali il problema che tanto gli stava a


cuore. Alcuni prelati, passando dal Cairo e visitando i suoi isti'
tuti, avevano promesso il loro appoggio per lo sviluppo delle
missioni, ma alle parole non avevano poi fatto seguito atti con-
creti.
Quando seppe che la Chiesa di Roma avrebbe convocato i
suoi pastori ufficialmente, inviò a Pio IX un’istanza firmata dai
missionari e dai giovani neri ospiti negli Istituti perché al
Concilio fossero esaminati le istanze ed i bisogni della Nigrizia.
Nel gennaio 1870 egli scriveva al vescovo Canossa di prendere
accordi con monsignor Ciurcia e con il cardinale Barnabò, per
mettere a punto, in tal senso, una strategia mirata. E precisava:
«Non sarebbe questo il momento di fare un colpo di stato e
d’invocare i lumi della Chiesa e l’appoggio di tutti i cattolici del
mondo rappresentato dai vescovi al Concilio, per avere in poco
tempo, uomini e denaro da stringere d’assedio la Nigrizia? Ah
monsignore e Padre Mio, mi sembra che questo sarebbe un ar­
gomento del Concilio!».
Qualche giorno dopo raccomandava al cardinale prefetto i
«cento milioni di negri che giacciono sepolti nelle ombre della
morte, la decima parte dell’umanità».
Intanto accadeva, nelle vicinanze della missione, un fatto
increscioso: Samuel Baker, un esploratore, passava con il suo
esercito diretto in Sudan e l’evento, per gli aborigeni, nulla
aveva di allettante. Al contrario assumeva i risvolti dell’insicu­
rezza. Comboni allora domandò a molti il sostegno della pre­
ghiera e comunicò con orgoglio a don Fochesato che le orazio­
ni a favore della sua opera coinvolgevano più di duecento tra
monasteri e istituti. Era l’aiuto, ancorché disarmato, che più lo
confortava, stimolando pensieri di pace e di conversione.
Poi accadde un fatto apparentemente ordinario, in quella
terra desolata, che per il nostro si caricò d’un illuminante signi­
ficato. La notte dunque avanzava, nera e popolata d’insidie
quand’egli si diresse verso la casa d’un moribondo a cui portare
i sussidi della religione. Persona sensibile e generosa, Comboni
ne aveva seguito le fasi della malattia (una malattia chiusa ad
149

ogni speranza) con partecipazione ed affetto. L’uomo ormai era


avviato verso un mondo di gioia immutabile, pensava il missio­
nario ritornando alla base. E proprio in quel momento egli fu
colpito visivamente dal profilo aguzzo delle piramidi sullo sfon­
do del cielo stellato. La vista di quei monumenti, voluti dal fa­
raone e nati dalla sofferenza di centinaia di schiavi impegnati
nella costruzione, ricordò al nostro le tragiche vicissitudini del
popolo ebreo prima dell’esodo verso la terra promessa.
Anche i negri attualmente gemevano sotto il giogo imposto
dagli stranieri e purtroppo nessun Mosè sembrava venisse a libe­
rarli, Fu una folgorazione.
Ricordando la forte impressione, generata da quell’esperien­
za, il profeta della Nigrizia espresse il seguente commento:
«Come un lampo, colpì il mio spirito il pensiero di approfittare
del Santo Concilio Ecumenico e di presentarmi a tutti i vesco­
vi del mondo cattolico, raccolti attorno alla tomba di San
Pietro, per conferire con il vicario di Gesù Cristo sui più impor­
tanti interessi della Chiesa cattolica e sulla sua influenza in
tutto il mondo».
Se prima l’idea s’era affacciata in modo imperfetto nella sua
mente, da quell’istante essa prese corpo compiutamente ed egli
chiese a molti di pregare affinché il Signore lo illuminasse ri­
guardo al Piano. Con il consenso di Propaganda Fide, a cui
competeva la sorveglianza delle Missioni, monsignor Canossa
nel gennaio 1870 convocò a Roma il provicario, al quale affidò
l’incarico di “suo teologo personale”. 11 nostro dunque giunse in
città il 15 marzo, alla vigilia del 39° compleanno,
A Roma naturalmente incontrò il vescovo che mai aveva
cessato di sostenerlo, specie nelle circostanze più travagliate.
Ebbe l’occasione di rivedere il cardinale Barnabò col quale era
entrato in conflitto per mille incomprensioni, poi totalmente
sanate, E non è finita.
Il canonico Mitterrutzner, nominato per la vastissima erudi­
zione aiutante del segretario generale del Concilio monsignor
Fresler, arricchì la serie dei suoi contatti sulla scia di un’amici­
zia, rimasta intatta negli anni. A Roma avvenne il colloquio tra
Daniele Comboni, il vescovo africano
150

il nostro e padre Guardi. Malgrado il tono sereno in cui s’era


svolto, Comboni non fu ingannato dai sentimenti del camillia-
no nei suoi confronti: un'ostilità mai sopita e pronta ad attizzar­
si alla prima occasione.
Ma ritorniamo al Concilio. Durante una seduta, seguita dal
missionario nel ruolo di spettatore, avvenne una disputa accesa
tra chi propugnava l’infallibilità del pontefice in materia di fede
e chi s’opponeva a quella tesi con argomenti sicuramente erudi­
ti e di grande spessore. Il commento del nostro, al riguardo, fu
espresso in questi termini: «Queste contese hanno ridotto al
punto che la definizione dell’infallibilità è necessaria, altrimen­
ti nessuno crederebbe».
Il viaggio a Roma di Comboni non è certamente legato alle
disquisizioni sull’autorità del pontefice che vedeva schierati, sui
poli opposti, i più eminenti prelati. La sua costante preoccupa­
zione restava l'Africa, il continente più tormentato del mondo,
il più ignorato nella prospettiva salvifica dei discendenti di
Cam. Il rapporto a “Propaganda Fide sull’Opera della Rigenera­
zione dell’Africa con l’Africa stessa”, sollecitata dal cardinale
Barnabò, fu presentata ai principi della Chiesa nei primi giorni
dell’aprile 1870. Nella relazione l’autore non si dilungava in
progetti, ma esponeva la realtà operativa di tutti gli istituti. Un
ampio accenno era riservato alle modalità di finanziamento e
alla fonte delle medesime.
Riguardo alle vicende del “Buon Pastore” la cui attività risul­
tava sospesa, Comboni insisteva per ottenere un impulso che ne
rimettesse in cammino i meccanismi. Prima di dirigersi a Roma,
il nostro aveva composto, sotto la supervisione del vescovo, il
Postulatimi prò Nigris2 con il quale si proponeva di stringere d’as­
sedio la Nigrizia per arrivare alla soluzione di tutte le anomalie
che ad essa si riferivano. Una volta giunto presso la Santa Sede,
scoprì che il modo migliore per affrontare la delicata questione
era di redigere un documento da sottoporre ai presunti interes­
sati per un esame accurato e l’eventuale convalida.

2 Una richiesta insistente e motivata a favore dei negri.


Capitolo Nono. La regola
151

Scriveva allora a don Gioachino Tomba, il superiore degli


istituti mazziani: «Ho preparato un Postulatum per richiamare
l’attenzione della Chiesa all’infelice Nigrizia e ho parecchi arci'
vescovi e vescovi che ne parleranno a suo tempo al Concilio».
La stesura di quella carta fondamentale per l’evoluzione del
Piano s’intrecciò con la compilazione del rapporto da consegna'
re il più celermente possibile a Propaganda Fide.
Fu un lavoro immane che s’intrecciava ai colloqui con i di'
versi padri conciliari, la consulenza di Mitterrutzner e le indica'
zioni del cardinale Barnabò. Venti le modifiche apportate al
testo originario e, quando il prefetto di Propaganda Fide lo ri'
tenne accettabile, fu stampata una sorta di circolare destinata a
tutti i prelati convenuti a Roma.
Era il 24 giugno e ben 70 risultavano le firme dei padri con'
ciliari che avevano espresso l’adesione al documento. Il 18 lu­
glio, dopo la proclamazione dell’infallibilità pontificia in mate'
ria di fede, il segretario di Propaganda Fide Alessandro Franchi,
lo presentava a Pio IX il quale apponeva il sigillo di rito ordì'
nando la trattazione dell’argomento quando l’ordine del gior-
no, legato al problema specifico, lo stabilisse. La circolare, in­
viata a molti padri conciliari per un approccio di prima mano
con un tema forse conosciuto solo in superficie, conteneva un
preambolo originale: faceva infatti riferimento al Concilio di
Trento, indetto per sconfiggere le eresie allora emergenti e la
riforma luterana3 in particolare, composto però da presuli ve­
nuti dall’Europa. A Roma invece, per avviare la Chiesa verso
un traguardo in sintonia coi tempi, erano giunti “pastori” da
ogni parte del mondo. C’erano, in altre parole, americani, in­
diani, giapponesi, cinesi, australiani e rappresentanze del Medio
Oriente. Mancavano, comunque, totalmente gli africani. Il no-
stro pose l’accento su tale anomalia per rimarcare, qualora fosse
stato necessario, l’urgenza imposta della conversione dei negri. 1
padri conciliari raggiungevano complessivamente le 680 unità e

ì Riforma protestante proposta da Martin Lutero (1483-1546).


Daniele Comboni, il vescovo africano
152

il fatto che solo 70 avessero accettato di sostenere, con la pro­


pria firma, il Postulatum} sembra, a prima vista, un segno di di-
sinteresse per un problema così scottante.
La realtà delle cose si rivelava diversa. Conoscere infatti
tutti i recapiti dei religiosi non costituiva una soluzione abbor-
dabile; esisteva, poi, la difficoltà obiettiva di raggiungere gli in­
teressati anche epistolarmente. Fu questo il motivo che indus­
se il sacerdote a scegliere il metodo più efficace della circolare.
Apprezzato da molti prelati, il postulato non ebbe, sul piano
pratico, dei risultati esaltanti. Procurò tuttavia a Comboni un
missionario eccellente: don Pasquale Fiore da Trani, conosciu­
to occasionalmente durante una processione. Una volta conse­
gnato il documento che tanto gli stava a cuore e che fu ogget­
to di discussione e di disanima, il nostro orientò ogni sforzo al
metodo operativo.
Tanto per fare un esempio, il 3 di luglio si rivolse a don
Bosco (al quale era unito da una sincera amicizia) pregandolo di
assegnargli due preti da destinare agli istituti del Cairo. Intanto
i padri conciliari abbandonavano la Santa Sede (a Roma ne ri­
masero 200, impegnati in vari progetti) con il proposito di far
ritorno a novembre per aggiornare o completare i lavori rimasti
inconclusi. Sennonché il 20 settembre 1870 Roma fu liberata
(si fa per dire) dal generale Cadorna alla guida dell’esercito sa­
baudo e se ciò per la “storia ufficiale” ebbe una vasta eco di con­
senso, non fu esente da ingiustizie, soprusi, perpetrati ai danni
della Chiesa. Cito un solo esempio: moltissimi beni sottratti alla
Santa Sede furono venduti all’asta a prezzi di liquidazione e
spesso assegnati a voltagabbana, un tempo fedeli al pontefice
(almeno nominalmente) e poi divenuti, per interesse, accesi op­
positori.
Il 21 settembre Comboni già si trovava a Verona e udì dagli
“strilloni”4 la novità, una novità che non mancò di addolorarlo:

4 Venditori ambulanti di giornali che urlavano i titoli degli argomenti ritenu­


ti importanti. Una figura ormai scomparsa.
Capitolo Nono. La regola
153

la presa della Capitale. Pensò subito al Papa come a un prigio­


niero in quella che un tempo era stata la sua dimora legittima.
La situazione venuta a determinarsi lo turbava profondamente.
Il primo ottobre, in una lettera invita al cardinale prefetto, di­
chiarava la personale ed immutata lealtà al Pontefice e alle sue
istituzioni. Visto lo stato di precarietà che ormai regnava a
Roma, dove la Chiesa era vista come un corpo estraneo da parte
del “nuovo governo”, il Concilio venne sospeso a tempo inde­
terminato. Comboni era preoccupato. Chissà se il Postulatimi
avrebbe proseguito il suo cammino, considerato il clima ostile
in cui la Curia romana era costretta ad operare. Prima di lascia­
re la città, quando ancora la tempesta nata dalle insidie della
guerra sembrava un rischio remoto, il cardinale Barnabò aveva
parlato chiaro al missionario. Le sue parole, o meglio il succo
del suo messaggio lanciato in quell’occasione emerge da una let­
tera inviata dal nostro alla Società di Colonia nel 1871: «Mio
caro Comboni, una delle due: o mi porti nero su bianco che vi­
vrai ancora 35 anni oppure stabiliscimi bene questo collegio di
Verona in modo che dia buoni missionari per l’Africa. Nell’uno
come nell’altro caso, tu hai grandi speranze (speranze di svolge­
re quanto prima una grande attività missionaria) nell’Africa
Centrale. Ma se non mi metti a posto il collegio di Verona o ti
capitasse qualche incidente che ti riporti all’altro mondo, forse
la tua bell’opera potrebbe andarsene in fumo».
Il missionario prese alla lettera il suggerimento e con l’ap­
poggio senza riserve del vescovo, in seguito definito «un vero
angelo per l’Africa», curò con impegno i preliminari dell’impre­
sa. Un aiuto fondamentale, in quel frangente, venne dal retto­
re del seminario diocesano Pietro Dorigotti. Questi, inizialmen­
te seguendo le direttive del vescovo, aveva stabilito per tutti gli
allievi lo stesso tipo di istruzione, senza eccezione per i mazzia-
ni sospettati in passato di simpatie rosminiane. Tale provvedi­
mento aveva finito per provocare la momentanea chiusura del
seminario fondato da don Nicola Mazza. Nel caso del nostro, sia
il prelato che il rettore fecero un’eccezione concedendo ai chie­
rici di Comboni una maggiore autonomia di studio che doveva
Daniele Comboni, il vescovo africano
154

giustamente contemplare il futuro destino dei missionari.


Bisognava, a quel punto, individuare un nuovo rettore e don
Dorigotti suggerì il nominativo di don Antonio Squaranti.
Questi, però, non possedeva la giusta preparazione per quel-
Pincarico e allora Comboni pregò il cardinale Barnabò di accet­
tare per un anno intero il sacerdote presso il Collegio di
Propaganda Fide, ma gli eventi legati alla spedizione militare,
sfociata poi nell’impresa di Porta Pia, non fornirono alla richie­
sta l’esito preventivato. Originano di Cornioli dov’era nato nel
1837, il religioso diresse l’istituzione sino al 1877, anno in cui
partì con il superiore per la missione dell’Africa e dove esercitò,
per conto del vicariato, l’ufficio d’amministratore. Già dal 1867
il nostro aveva affittato, presso la Chiesa di San Pietro Incar­
narlo, un modesto edificio per destinarlo ai suoi chierici. Ma,
essendo il numero dei missionari aumentato notevolmente, fu
necessario pensare ad una più ampia struttura.
Allora Comboni rivolse la sua attenzione al palazzo Caobelli,
sito in Santa Maria dell’Organo, che sembrava adatto a quel
fine. E, pur non avendo il denaro, decise di acquistarlo. Mentre
don Dorigotti s’occupava della trattativa, lui rivolse messaggi
mirati ad alcuni potenti intercessori europei. L’idea fu premiata
dal successo. Infatti, nei giorni antecedenti al Natale, l’impera­
trice Maria Anna Pia d’Austria elargì la somma che occorreva.
E non è finita.
Lunedì 1 marzo 1872 a Montano, frazione di Verona, distan­
te dal centro abitato quattro chilometri, venne inaugurato
l’Istituto delle Pie Madri della Nigrizia. Era un progetto che il
nostro accarezzava da tempo, da quando cioè aveva deciso di
consacrare tutte le proprie energie per la conversione degli afri­
cani. Al momento della fondazione esisteva nella struttura solo
una postulante: Maria Caspi, ma a lei s’unirono presto Luigia
Zago, la proprietaria dell’immobile e l’amica Isabella Lodrich.
Maria Caspi (o Marietta, come la chiamavano i conoscenti)
aveva incontrato il nostro nella casa di padre Franceschini,
dove lavorava in qualità di domestica. Si trattava d’una perso­
na esemplare per fede e umanità verso il prossimo e aveva, si fa
Capitolo Nono. La regola
155

per dire, un solo “neo”: era nata da un’unione naturale. Un det-


taglio stimato oggigiorno irrilevante, ma che a quell’epoca, con­
trassegnata da una morale codina, faceva sentire il suo peso
sotto il profilo morale e religioso.
La circostanza venne diffusa nel corso d’un necrologio, segui­
to al decesso della religiosa e la notizia ferì intimamente la su­
periora per l'Africa, suor Teresa Grigolini, Pur essendone a co­
noscenza sin dalPorigine dei suoi approcci con la religiosa,
Comboni non aveva mai colto nella vicenda nulla di negativo,
limitandosi ad apprezzare Marietta per le squisite doti personali
e attribuendo al fatto contingente - le colpe dei genitori - nes­
sun elemento degno di biasimo.
Ma torniamo all'Istituto. Il 17 gennaio s’aggregò al nucleo
originario Marietta Scandola, in marzo giunse la bresciana
Angela Rossolari e in luglio la vicentina Teresa Caviola.
Il “fondatore”, a quel punto, ebbe netta la percezione che il
nuovo convento fosse troppo distante dalla Casa Madre alla
quale erano demandati il controllo e la gestione. Quattro chilo­
metri, ai giorni nostri, appaiono irrilevanti, ma in un'epoca in
cui la gente comune affrontava a piedi i tragitti (e talvolta
anche quelli più impegnativi) la realtà figurava profondamente
diversa. Fu così che il nostro, contando di trasferire in città le
Pie Madri, acquistò l’antico convento dei benedettini olivetani
al numero uno di Santa Maria dell’Organo.
Bisognava allora pensare a una superiora e, dopo vari avvi­
cendamenti, non sempre fortunati nella scelta, nel 1873 don
Antonio Squaranti insediò nel ruolo così delicato e importante
Madre Pia Galli. Nell’anno seguente le Pie Madri della Nigrizia
cominciarono ad operare concretamente lasciando un’impronta
notevole nella storia dei comboniani.
Dagli annali del Buon Pastore del gennaio 1872 si apprende
che monsignor Luigi Canossa aveva dato disposizione per la re­
visione delle Regole, approvate da qualche anno. Dietro quel
decreto c’era stato un lungo lavoro di preparazione che aveva
coinvolto, insieme al nostro e ai più diretti collaboratori, anche
il cardinale Barnabò.
Daniele Comboni, ii vescovo africano
156-

Per accelerare la procedura del documento, Daniele Com­


boni aveva deciso d’essere a Roma già dal gennaio del 72, ma
dovette, per motivi di forza maggiore, procrastinare l’arrivo. Pri­
ma della partenza egli passò da Milano dov’ebbe un contatto
proficuo con monsignor Marinoni, il fondatore del P.I.M.E. Una
volta approdato presso la Curia romana, consegnò al cardinale
prefetto il testo delle nuove regole. Era stato redatto, tra la fine
del 1871 ed i primi di febbraio dell’anno seguente, un aggiorna­
mento della precedente stesura. Pur presentando analogie di
stile e di contenuti, quest’ultima eliminava alcune parti ritenu­
te inessenziali per soffermarsi su di un dettaglio fondamentale:
la Casa operante al Cairo.
Un altro motivo per cui il vescovo aveva ordinato la revisio­
ne del documento era quella di dare al medesimo un’impronta
più marcatamente giuridica.
Da dove trassero ispirazione le Regole? Principalmente dal
“Règlement de la Congrégation des Missions Etrangères de
Paris”5 che indicava il seminario come «il centro di corrispon­
denza di tutti gli istituti e delle missioni dell’Africa, il legame
che li unisce, il fondamento che li sostiene». Il nostro scriveva
in proposito ad un amico: «Lei sa che la mia piccola Con­
gregazione è sul modello del Seminario per le Missioni Estere di
Parigi e quelli che ne fanno parte devono avere tutte le virtù dei
religiosi ed essere ogni istante disposti alla morte per la salvezza
dei neri».
In altre parole: una vocazione così radicata nell’esercizio del­
l’apostolato da considerare il martirio come una componente
della Missione. Altra struttura presa a modello: il P.I.M.E. di
monsignor Marinoni. Ma esaminiamo alcuni elementi qualifi­
canti delle nuove Regole. L’introduzione cita, innanzitutto, i
Santi Patroni, poi l’obiettivo dell’Istituto arricchito dalla pre­
senza dei fratelli coadiutori.

5 Regolamento della Congregazione delle Missioni Straniere di Parigi.


Capitolo Nono. La regola
157

Un posto speciale Comboni conferiva alla preghiera: erano


infatti previsti, dopo l’ingresso nelle sue Case, sei giorni di eser­
cizi spirituali per ogni singolo fratello ed un giorno di ritiro
mensile per la preparazione alla morte, compagna fedele e onni­
presente nella Missione.
Un rilievo notevole veniva poi dato alla spiritualità del reli­
gioso, invitato a trovare il compenso per il soccorso prestato ai
fratelli negri nella consapevolezza di lavorare per Dio. La lezio­
ne spirituale, la visita quotidiana al Santissimo, le pratiche della
pietà, Tesarne giornaliero di coscienza rendevano il testo della
regola gratificante a chi possedeva una fede robusta, votata al
sacrificio. Un elemento distintivo delle nuove norme era rap­
presentato dai voti emessi. Infatti, insieme ai tre voti tradizio­
nali, era previsto il votum relìgionis6, donazione totale di sé per il
servizio reso al Signore, mediante il quale la conversione d’un
mondo pagano e primordiale assumeva i vincoli della consacra­
zione.
La fede, la preghiera intensa e continua, il sentimento di Dio
ed un interesse vivo della sua gloria per il bene delle anime co­
stituivano l’essenza della nuova regola. Naturalmente tutto que­
sto fervore di buone azioni doveva sublimarsi attraverso la cari­
tà. A padre Sembianti, pieno di dubbi sulla formazione dei mis­
sionari destinati a un’offerta cosi radicale della propria vita, scri­
veva: «Una missione sì ardua e laboriosa come la nostra non
può vivere di patina e di soggetti dal collo storto, ma pieni
d’egoismo e di se stessi che non curano come si deve la salute e
la conversione delle anime. Bisogna accenderli di carità che
abbia la sua sorgente in Dio e nell’amore di Cristo e quando si
ama davvero Cristo allora sono dolcezze le privazioni e i pati­
menti. Povero Gesù. Quanto è poco amato da chi dovrebbe
amarlo. Ed io sono fra questi».

6 II voto della religione.


159

Capitolo Decimo
Visto da vicino

Lunedì, 2 luglio 1877, i porporati di Propaganda Fide, presie­


duti dai cardinale prefetto Antonio Franchi, proposero la nomi­
na a vescovo di Daniele Comboni assegnandogli il titolo di vi­
cario apostolico per l’Africa Centrale.
L’interessato venne informato della decisione il giorno Ile
ne fu felice per due motivi: innanzi tutto essa sanzionava la de­
finitiva caduta delle calunnie a suo carico e poi premiava tangi­
bilmente l’opera del missionario. Nel commentare la circostan­
za, in una lettera diretta al vescovo di Brescia, il nostro scrive­
va: «Un povero figlio di uno scartor di limone, nato nelle grot­
te e vissuto all’ombra di San Carlo, che ha mangiato per molti
lustri polenta e “squaquaciò” dell’alto Tacuso, essere sollevato
alFonore dell’Episcopal dignità è cosa da meravigliare; è la veri­
tà della sentenza di San Paolo che le cose deboli del mondo
elesse Dio per confutare i forti».
11 giorno 31 luglio, festa di Sant’Ignazio, furono promulgati
ufficialmente i due decreti che assegnavano al nostro la diocesi
di Claudiopoli. Essa aveva assunta tale denominazione in onore
di Claudio Cesare, figlio di Druso, ed era situata nell’Armenia
inferiore ai confini con la Cilicia. Nella nomina a vescovo aveva
giocato un ruolo determinante anche Luigi Canossa, da poco
elevato alla porpora cardinalizia, che mai aveva cessato di ap­
prezzare il missionario, malgrado il cedimento temporaneo agli
stimoli della calunnia. Una calunnia montata ad arte e diffusa
capillarmente presso chi aveva il potere di demolire l’immagine
del provicario. Questi fu ricevuto in udienza privata da Pio IX
che, esprimendo la propria gioia per quella meritata promozione,
gli donò una croce pastorale e cinque libri del pontificale1.

1 Libro del rituale proprio del Vescovo.


Daniele Comboni, il vescovo africano
160

Nella motivazione della nomina redatta in latino appariva,


sia pure in filigrana, un segno della riabilitazione: «Essendo tu
vissuto per molti anni in Africa hai date prove splendidissime
della tua pietà, della tua prudenza, del tuo consiglio e del tuo
desiderio ardente e arte non comune di promuovere e di propa­
gandare la cattolica Religione».
L’ordinazione avvenne il 12 agosto nella cappella di Propa­
ganda Fide. Prima della “cerimonia” il missionario s’era appar­
tato in sacristia per indossare il camice e la stola. Insieme a lui
fu ordinato, in quell’occasione, monsignor Mocenni, delegato
apostolico del Perù.
Ma com’era fisicamente Daniele Comboni? Era un uomo
alto, corpulento, dalle mascelle ben scolpite, i capelli (poi dira­
dati e ingrigiti) che formavano un ciuffo sulla fronte. Sembrava,
a prima vista (anche se si trattava di mera apparenza, avendo lui
a lungo convissuto con le malattie) il ritratto della salute: aveva
gli occhi neri dallo sguardo intenso che produceva un senso di
sicurezza in chi aveva occasione di contattarlo. L’ultima fotogra­
fia che si possiede del vescovo, subito dopo l’ordinazione, lo mo­
stra ingrassato, ma tale impressione era dovuta all’abbigliamen­
to indossato per l’occasione. Durante un colloquio a tu per tu,
pur senza dare alle parole il tono della censura, Pio IX aveva af­
fermato: «Comboni non fai penitenza, sembra che l’Africa Cen­
trale non ti faccia male». E invece (e il pontefice nera al cor­
rente) accadeva l’esatto contrario.
Ritornando al ritratto, appena abbozzato, bisogna aggiunge­
re che il vicario aveva la fronte alta ed una lunga barba brizzo­
lata. Sì, il suo viso aperto e sincero, illuminato dalla bontà, par­
lava un linguaggio d’amore: l’amore per gli africani, in ogni
caso, non si riduceva a “vampa passeggera di fervore”. «Io morrò
con l’Africa sulle labbra» aveva annunciato in uno scritto e la
sua frase si tramutò in profezia.
Egli possedeva la convinzione che l’esistenza del vicariato in
quella zona così tormentata fosse opera della costanza, delle fede
incrollabile in Dio, della croce che accompagnava ogni azione
salvifica rivolta ai fratelli.
Capitolo Decimo. Visto da vicino
161

E in una lettera rivolta ai religiosi della sua città con cui


contestava la vacuità di certe critiche, prive di fondamento, af­
fermava: «Che a Verona dicano quello che vogliono, ma il Papa
e i più potenti e buoni missionari d’Oriente sono convinti che
fu la fermezza incrollabile del ciabattino peccatoraccio di Com­
boni; ed ora comincio a vederlo un poco anch’io che, aiutato
dalle preghiere ferventi del mondo intero e dall’eroismo dei più
perseguitati miei collaboratori, sono riuscito (servus inutilis
sum) a non far cadere l’ardua missione».
Qualche volta, bersagliato dalla maldicenza che minacciava
di far naufragare l’opera intrapresa per il riscatto della Nigrizia,
commentava “ai piedi della Croce”: «Non trovo parole per
esprimere il dolore che provo per la mia profonda afflizione di
cuore e con quale gravità e intensità pesi su di me il pensiero
della desolazione e del letargo in cui sono immersi questi infeli­
ci (i neri dell’Africa). 11 pensiero mi toglie, in molte notti, il
sonno ed il mattino mi alzo più stanco».
Quindi il suo disagio esistenziale di uomo sconfitto dalla me­
schinità dei religiosi, tiepidi nel loro credo, lo feriva non tanto
come persona, ma per il rischio implicito di sottrarre all’Africa
un paladino, pronto ogni giorno ad immolarsi per una Causa su­
blime.
Una volta il vescovo Canossa gli aveva inviato una censura
per colpe da lui mai commesse ed i camilliani, sostenuti da don
Beltrame, s’erano uniti a lui in una sorta d’astioso linciaggio
morale a cui persino il cardinale prefetto sembrava prestasse
ascolto. Ebbene, il nostro, in quell’occasione, s’era rivolto al
prelato con queste sferzanti parole: «Io, o Eminentissimo
Principe, non ho paura di nessuno al mondo fuorché di me stes­
so, che esamino ogni giorno e raccomando fervidamente al
Cuore di Gesù, di Maria, di Giuseppe. Conosco assai bène i ne­
mici della mia opera e non ho timore di essi».
Non solo non temeva l’ostilità dei confratelli, ma nei mo­
menti di maggior tensione si sentiva pervaso da un senso di
quiete assoluta. «Era - egli sosteneva - la calma che Dio mi
concedeva sempre nella tempesta». Fu oggetto, un certo mo­
Daniele Comboni, il vescovo africano
■ «162

mento, della perfidia di don Rolleri e don Losi, appartenenti


alla sua stessa “famiglia”. Per non parlare dei camilliani più
volte citati. Eppure, malgrado le assurdità delle accuse rivolte
alla Missione, non concepì mai sentimenti di odio o di rivalsa.
Ogni mattino, dopo la messa nella quale riversava l’abban­
dono dell’apostolo ferito e ingiuriato, così esprimeva la sua in­
dulgenza verso i persecutori: «Perdono di cuore i miei nemici
dei quali sono indegno, tutti coloro che mi calunniano, tutti co­
loro che parlano male di me, sia pure santi matti, tutti coloro
che in qualche modo mi danneggiano o mi vogliono male».
Sin dagli anni della giovinezza, Comboni era stato, nel­
l’esercizio del ministero, iperattivo. Aveva viaggiato moltissi­
mo, ma essendo i mezzi di locomozione spesso precari, aveva
sottoposto il suo fisico, in più d’un’occasione, ad estenuanti fa­
tiche. Non voglio qui ricordare le cavalcate a dorso di cammel­
lo noleggiato tra Berber e Khartum sulle sabbie infide del de­
serto o i tragitti, sempre rischiosi, effettuati su scomode barche,
lungo le acque del Nilo, Neppure il transito per la civilissima
Europa rappresentava un comfort perché ai treni dell’epoca,
rozzi e disagevoli, bisognava spesso alternare le poco ospitali
carrozze. Durante le interminabili peregrinazioni che lo condu-
cevano persino a Mosca o a Madrid, aveva mille persone da
contattare, missioni delicate da condurre e, in certi casi, persi­
no affari minuti da accudire. Una volta comprò un cappello da
cardinale per “l’amico” Luigi Canossa presso il sarto della
Santa Sede e, in un’altra occasione, le bottiglie d’acqua per
don Rosignoli.
Doveva, nel contempo, porre rimedio agli errori commessi
dai subalterni, annullando, tanto per citare un esempio, l’ordi­
nativo fatto da don Giovanelli di centinaia di candele destina­
te all’immagine del Sacro Cuore o quello relativo a seimila bot­
tiglie di vino che non servivano alla Missione. Il denaro era
molto prezioso, doppiamente prezioso, in un continente che
conviveva da sempre con l’indigenza; e poi bisognava rendere
conto ai benefattori di tutte le spese sostenute. Per correttezza,
in primo luogo.
Capitolo Decimo. Visto da vicino
163*

Monsignor Comboni era un uomo di grande bontà, sempre


pronto a cogliere il lato positivo nel carattere delle persone che
lo circondavano. Scoprire doti eccezionali di carità nei missio-
nari dell’entourage e diffonderle capillarmente nelle campagne
di propaganda faceva parte del suo stile d’addetto ai rapporti so­
ciali. La sua generosità lo induceva ad onorare i sostenitori neh
l’opera di missionario, salvo poi pentirsi di lodi rivolte a perso-
ne risultate, di punto in bianco, immeritevoli.
L’errore commesso nel valutare i confratelli non gli impedi di
perdonare le ingiustizie subite. Comboni era un vero vulcano
nell’ideare i progetti, rapido ad elaborare nuove iniziative adat­
tandole all’emergenza o agli imprevisti. Era anche un individuo
concreto e ostinato, mai disposto alla resa, neppure di fronte ad
un fallimento incombente.
Tutto concentrato sul “piano” curato con un dispendio di
energie inimmaginabile, a volte trascurava il dettaglio, col ri­
schio di far naufragare un’importante operazione.
Nel 1879, tanto per dirne una, il ministero degli Esteri gli
garantì un viaggio gratuito per tutta la comitiva da lui presiedu­
ta, previa vidimazione consolare sui biglietti impiegati per il tra­
sferimento da Napoli ad Alessandria d’Egitto. Egli però trascu­
rò questa pratica di ordinario buon senso e, giunto a Napoli, il
rischio d’esclusione dall’imbarco per sé e per il suo seguito sem­
brava inevitabile. Riuscì ad ovviare al contrattempo grazie a
una serrata dialettica con il consolato francese.
Abile e affascinante nelle relazioni col prossimo, otteneva
somme cospicue dai benefattori, ma come amministratore non
sempre si rivelava all’altezza del compito assunto. Non che aves­
se, come sul dirsi, le mani bucate, era anzi parsimonioso pur ma­
nifestando carenze per l’accumularsi degli oneri, in quello spe­
cifico campo. Fu il solo appunto che gli rivolse la Santa Sede,
riguardo alle molte accuse mosse dai camilliani, con l’invito ad
assumere un buon revisore dei conti.
Arrivato a Khartum, nel 1877, il nostro informava il cardi­
nale Simeoni, nuovo prefetto di Propaganda Fide, d’aver
condotto in Africa don Antonio Squaranti in qualità di conta­
Daniele Comboni, il vescovo africano
164

bile del vicariato- In una lettera inviata a Luigi Canossa, duran­


te un periodo di “vacche magre”, il sacerdote scriveva: «Volen­
do giudicare rettamente del dissesto finanziario, egli (leggi
Comboni) non ne ha colpa- Essa proviene da doppia causa:
dalla inettitudine amministrativa di alcuni amministratori loca­
li e dalla spaventosa carestia che quest’anno desola questi
paesi».
Si coglie, nel giudizio emesso da don Squaranti, una larvata
censura, pur nella convinzione che il guaio venuto a determi­
narsi trovasse l’esca principalmente in più d’un fattore ambien­
tale. Ma conto di ritornare su questo scottante problema, in
modo approfondito, più avanti.
Oltre che ideatore di slogans, prodotti per illustrare le esi­
genze della Missione (i cento milioni di africani e l’annuncio
che Cristo era morto anche per loro, tanto per fornire un’indi­
cazione), Comboni eccelleva nell’arte del diplomatico, in grado
di coinvolgere laici e religiosi nell’esecuzione del Piano. Sapeva
insomma, con molta abilità, suscitare la convinzione nei bene­
fattori, anche in quelli che elargivano somme modeste, e quan­
to il loro aiuto fosse importante- Aveva poi lodato i dirigenti
della Marien Verein per i suggerimenti espressi in più di un’occa­
sione, ritenendoli determinanti per la riuscita dell’impresa e at­
tribuendo ai medesimi una portata maggiore all’impegno effet­
tivamente profuso. Pur valorizzando i potenziali sostenitori, il
nostro mai s’abbassava al rango d’adulatore. Inoltre usava il
metro della schiettezza persino verso i superiori, senza mai pie­
garsi alle furberie del servilismo.
Con il cardinale Barnabò, reo - si fa per dire - d’aver presta­
to attenzione alle voci malevoli della calunnia, impiegò la sfer­
za della verità, ovvero l’esatta indicazione dei fatti, senza abbel­
limenti od orpelli- Il che lo scagionò completamente.
Era dotato di un’intelligenza sopraffina e ciò lo portava ad
eccellere in ogni tipo di disciplina. Frequentando il Seminario,
ottenne un profitto notevole nelle materie più disparate, ma la
preparazione conseguita non fu il richiamo per l’uso della cultu­
ra fine a se stessa. No, lui sin dalla giovinezza ebbe un obiettivo
Capitolo Decimo» Visto da vicino
165*

primario: la missione in terra africana a cui dedicare tutte le


proprie energie. Benché la vita non gli avesse mai risparmiato le
delusioni, mantenne intatta la capacità di cogliere il lato comi­
co delle situazioni più intricate e apparentemente senza sbocco
restando sereno anche nei momenti più dolorosi.
Basta un esempio. Saputo che don Mazza, fuorviato dai soli­
ti fomentatori di perversioni, provava nei suoi confronti un im­
meritato dissenso, scrisse all’amico Bricolo: «Benediciamo il
Signore che tutto dispone pel nostro migliore. Benché Dio
m’abbia dato un temperamento ilare e tale che io godo e sono
sempre contento e forse vi sono poche persone al mondo più fe­
lici di me, tuttavia queste cose mi fanno molta impressione e mi
fanno male al cuore».
Aveva Comboni una fede adamantina che lo portava a ve­
dere il volto di Cristo in tutte le persone sofferenti, ma non as­
sumeva atteggiamenti d’asceta2 e men che meno di santo. La
vita nelle terre desolate ove operava era contrassegnata dai sa­
crifici che condivideva con i negri; sapeva comunque sottrarre
alla tensione del ministero ritagli di serenità, bevendo magari
con i confratelli il Valpolicella, un vino della sua terra di “ado­
zione”.
Tra i pochi nemici di monsignor Comboni si distinse per il
furore “iconoclasta”3, don Bartolo Rolleri. Aveva seguito il su­
periore sino in Egitto per ricoprire la carica di superiore nel­
l’Istituto maschile del Cairo, ma rifiutando pervicacemente
d’entrare nella Missione di Khartum. Temeva l’effetto delle ma­
lattie che spesso distruggevano le fibre più resistenti in un breve
volger di tempo? Può darsi. Sino al 1875 il sacerdote, originario
del piacentino, aveva collaborato con dedizione e lealtà con i
superiori.
Ad un certo punto, però, con un voltafaccia immotivato,
s’era schierato apertamente a fianco di Carcereri contribuendo,

2 Chi è dedito a vita austera e contemplativa. Monaco, cenobita, eremita.


3 Chi è caratterizzato o animato da un violento ed immotivato istinto di di­
struzione.
Daniele Comboni, il vescovo africano
166 —

nel modo più dissennato, alla campagna diffamatoria contro il


provicario. Non contento dei guai provocati, gli mandava, con
una cadenza settimanale, i messaggi più insolenti; né tralascia­
va occasione di metterlo in cattiva luce presso le autorità della
Chiesa. Secondo Comboni, il religioso non era un uomo malva­
gio, ma solo testardo e d5intelligenza modesta, soggetto ai pre­
giudizi. Nel 1879 presentò le dimissioni al superiore e, rientrato
in Italia, continuò nella sua azione demolitrice tentando di
coinvolgere il cardinale Canossa. Questi però lo convinse d’es­
sere incorso in un colpevole errore, assegnandolo ancora alla
“famiglia” del provicario. Uomo lungimirante e generoso,
Daniele Comboni lo perdonò e la Missione gli aprì di nuovo le
porte.
Il nostro conosceva con esattezza ì termini delle denunce ef­
fettuate in malafede, ma volle ugualmente tenerlo presso di sé e
accompagnarlo nel Sudan perché “toccasse con mano” quanto
le calunnie diffuse a suo danno, fossero solo il prodotto della
menzogna. L’indulgenza non si limitò a suggellare il perdono:
Comboni scelse Rolleri come confessore. E lo scelse guidato da
Gesù stesso, in questa ispirazione.
Ogni lunedì il monsignore s’accostava al confessionale per
accusarsi di varie colpe che il subalterno, con il tono dell’inqui­
sitore, volutamente accentuava. Scriveva Comboni: «Non mi
risparmia una mancanza per piccola che sia e dopo che ho detto
le mie colpe e i difetti, egli dice altre cose sulle mie mancanze
o sul dir troppo forte le secrete4 o sul correr troppo dopo l’ele­
vazione o nell’ultimo Vangelo o nelle ore diurne o cominciare
il versicelo del salmo prima che gli altri abbiano finito il prece­
dente o nel lodarmi (benché io sia convinto d’essere meno di
zero)».
A volte il confessore rimproverava il penitente per colpe
neppure commesse: ad esempio accusandolo d’aver dilapidato

4 Nellaliturgia precedente al Vaticano li, l’orazione recitata a bassa voce nella


Messa, dopo roffertorio.
Capitolo Decimo» Visto da vicino
167

molte risorse elargite dai benefattori. La pazienza e Pumiltà del


superiore finirono per cancellare ogni pregiudizio e don Rolleri
(che a sua volta si confessava dal provicario) mutò atteggiamene
to e le critiche assurde cessarono di punto in bianco.
Daniele Comboni era molto attaccato alla famiglia, ma es-
sendo il dialogo diretto impedito dalla lontananza ricorreva alle
lettere ricche d’umanità e nelle quali un mondo nuovo e para'
dossale (almeno per gli europei) si dipanava come per incante-
simo.
Si trovava dunque il missionario nella capitale egiziana dove
fu lo spettatore divertito e sconcertato dì scene davvero incre­
dibili. Intanto una premessa. Vigeva, in quel paese, la consuetu­
dine di preparare, almeno una volta all’anno, un grande velo
“del più fino damasco, ricamato in oro e di gemme” che poi ve­
niva portato alla Mecca affinché potesse adornare la tomba di
Maometto e qui il velo doveva restare sino al compimento del
ciclo solare per essere poi sostituito con uno nuovo di zecca.
Quello collocato in precedenza veniva quindi ritirato. Ad effet­
tuare tale operazione, certamente considerevole sotto il profilo
della fede, toccava a un personaggio di rilievo; in quel frangen­
te specifico la prestigiosa incombenza fu compito delia sorella
del re d’Egitto.
Ma ecco, in proposito, alcuni dettagli che chiamerò di cor­
nice e che sono colti dal nostro con vivo senso dell’ironia:
«Questo velo viene portato da un cammello il quale diventa su­
bito santo, in modo che diventano felici coloro che lo toccano.
Il primo giorno dell’arrivo viene esposto nel tempio che è il più
grande e devoto, nel quale entrai con don Angelo ed Alessan­
dro, ma dopo aver fatto legare i piedi con sandali di tela bian­
chissima, previo il generoso “bachisis” a chi presiede alle porte,
questo velo vien baciato e toccato dai grandi e poi dal popolo.
Il terzo giorno poi, il cammello santificato per aver portato alla
Mecca il velo vien condotto a bardatura d’oro nella grande piaz­
za del Cairo della Esbischieh. Coloro che vogliono diventar
santi che fanno? Si distendono nudi in mezzo alla piazza e supi­
ni per terra e il cammello, per tre ore continue, passeggia sopra
Damele Comboni, il vescovo africano
168

questi corpi vivi e nudi: a chi rompe il braccio, a chi un orec-


chio, chi una gamba etc. Ed è una meraviglia le bastonate e per-
cosse che si danno e le risse che succedono perché tutti vorreb­
bero essere ammessi al grande onore di essere calpestati dal
cammello santificato».
La descrizione prosegue soffermandosi sulla sfilata di tutti
quei candidati all’invalidità, canonizzati sul campo. Un onore
speciale era riservato al cammello, l’involontario dispensatore
di grazie ai fedeli maomettani. Non si poteva, dopo quell’espe­
rienza irripetibile, adibirlo a nessun servizio, avendo raggiunto i
requisiti della sacralità.
Attento osservatore della realtà circostante, Comboni riferi­
va quanto da lui percepito con lo stile del giornalista, non ri­
sparmiando neppure i dettagli statistici. La popolazione del
Cairo superava il milione di unità facendo pertanto della capi­
tale egiziana una metropoli. Muniti di minareti5 snelli ed ele­
ganti, le moschee superavano numericamente le quattrocento
unità; tre invece le chiese cattoliche, frequentate da quattro-
cento fedeli. Maroniti, copti, greci e armeni6 davano al culto
cristiano un’impronta di disparità tanto che il nostro aveva la
sensazione di ritrovarsi nella resuscitata comunità di Babilonia.
Anche se questa, a rigor di termini, aveva trovato la propria
controfigura nei vari quartieri musulmani.
La comitiva dei missionari, composta da dieci persone di cui
cinque laici (secondo il racconto effettuato del nostro ai fami­
gliati), venne, subito dopo l’arrivo, ospitata nell’episcopio del
Cairo ottenendo in consegna, come aiutante, un giovane nato
da una concubina di pelle scura e da un adultero bianco origi­
nario della Toscana.
Poi il gruppetto dei laici salì sulla barca più grande (o dahhia,
per usare il gergo locale), la più dotata di pidocchi, ospiti sicu-

5 Torre annessa alla moschea dalla quale il muezzin chiama con canti rituali i
fedeli per invitarli alla preghiera.
6 Appartenenti alla Chiesa Cristiana monofisita sorta in Armenia, staccatasi

dall’ubbidienza a Roma nel XV secolo.


Capitolo Decimo. Visto da vicino
169

ramente indesiderabili ma molto attivi. La dahhia dei missiona­


ri aveva dimensioni più modeste, meno pidocchi ma una quan­
tità spropositata di cimici, di topi e di mosche “pungentissime”,
compagne di viaggio fedeli per tutta la durata del tragitto.
Questo si snodava contromano, pur senza intoppi dovuti alla
corrente; le sponde apparivano ricche di palme da zucchero, ba­
nane, datteri ed altri specie vegetali. Il nostro ebbe la sensazio­
ne che Le terre bagnate dal fiume fossero fertili, la vita delle per­
sone, in ogni caso, non presentava segni confortevoli di nessun
tipo. Intanto le case fatte di terra cotta al solleone avevano un
aspetto miserando: basse, più basse della statura d’un uomo,
sembravano fragili e poco adatte ad opporre una resistenza ade­
guata alle intemperie. Per definirne la struttura, Comboni ricor­
reva ad un’immagine di rara efficacia; la sola forza d un pugno
avrebbe potuto atterrarle. Naturalmente La gente girava nuda:
uomini, donne, bambini e tutto ciò rappresentava un indizio di
assoluta miseria. Numerosi i volatili che nidificavano su alberi
talora giganteschi: tortore, colombi, tacchini. Per un quarto
d’ora al giorno, durante la sosta, i missionari “cacciavano”.
Usavano schioppi ed il nostro si dimostrava ogni volta un tira­
tore provetto.
La sveglia a bordo (una sveglia ideale, naturalmente) coinci­
deva con le prime luci dell’alba e alzarsi, per i missionari, signi­
ficava staccar la testa dal grosso fardello che aveva funzionato
da guanciale. A questo proposito il nostro ricordava con nostal­
gia la sollecitudine materna, volta a procurargli, con il “com­
fort” della morbidezza, un sonno più riposante. Egli aveva mo­
strato contrarietà per l’adozione di tale sistema che considerava
probabilmente troppo borghese e comunque incompatibile con
l’esistenza del missionario. Ora, però, mentre la barca lo cullava
e gli insetti mordevano ferocemente, il desiderio delle dolcezze
perdute aveva il sopravvento. Al mattino, durante il risveglio,
ogni missionario sentiva le ossa peste come se qualcuno lo aves­
se picchiato con il bastone. Giunti nella città di Minich, don
Giovanni Beltrame volle comprare per tutti un pezzo di tela con
cui confezionare rudimentali cuscini. Per cucire il suo Comboni
Daniele Comboni, il vescovo africano
170

impiegò mezza giornata e pensò allora alla madre che, per un


analogo impegno, non avrebbe speso più di un’ora di fila.
A bordo esisteva l’impegno della devozione religiosa: la me­
ditazione, l’ufficio, l’orazione vocale, la lezione spirituale e un
accurato esame di coscienza. Altro adempimento importante: la
stesura individuale delle memorie destinate principalmente al
mondo dei benefattori.
Capitavano, a volte, anche strane avventure: uomini nudi,
con la testa rasata su cui spiccava una gran coda di capelli, sali­
vano a bordo per domandar l’elemosina. Si trattava di preti
copti scismatici7, che non s’accontentavano del pane, ricevuto
e divorato con avidità, sempre pronti a domandare denaro con
insistenza. Era necessario, in quei casi, cacciarli a bastonate.
11 nostro accennava, ma senza atteggiamenti di martirio, alle
difficoltà di buttare giù una lettera viaggiando su uno scomodo
barcone; fungeva da scrittoio la valigia od il ginocchio o si com­
piva l’operazione sdraiati per terra. Ogni sera, alle undici, avve­
niva una sorta di miniassemblea per elaborare progetti di apo­
stolato, studiando il modo migliore per affrontare le incognite
d’una realtà primitiva e dei tutto nuova. Nel salutare i genitori,
durante quel “dialogo” muto tenuto a distanza, il sacerdote li
elogiava per aver dato alla Chiesa un missionario e ricordava,
nel breve commiato, alcune persone - laici e religiosi - cono­
sciute al paese.
La lettera recante la data del 30 ottobre 1857, composta a
Sciut, racconta i dettagli d’un nubifragio accaduto sul Nilo nelle
fasi d’avvicinamento alla meta.
Ed eccone il testo: «N.B. Lasciata fuori la circostanza più cri­
tica del nostro viaggio. 11 Nilo, al Monte Abu-Feda, trovasi
fiancheggiato da due alte montagne che non gli lasciano altra
uscita per lo spazio di tre miglia; questo spazio è pericolosissimo
ed ogni poco succedono naufragi per la forza e l’irregolarità dei 1

1Appartenenti ad una Chiesa separata, fondata rifiutando l’autorità della


Chiesa di provenienza.
Capitolo Dee imo. Visto da vie ino
— 17D

venti. Appena entrati colle nostre due barche in questo labirin-


to, un veementissimo vento squarciò la vela maggiore, ruppe in
molti pezzi le sponde della barca e i sei marinai della nostra pie-
cola barca non sapevano più che fare perché ad uno cadde sulla
testa una trave mentre le due barche cozzavano insieme. In que­
sto frangente don Giovanni ed io cavammo le scarpe e i vestiti
ad eccezione della camicia e pantaloni per gettarci nel fiume
zeppo, in questo tratto, di vortici. Don Francesco s’attaccò ad
una trave, don Alessandro ad un’asse e don Angelo, senza far né
bene né male, abbracciò il crocifisso e quando ci apparecchia­
vamo a darci reciprocamente l’assoluzione, il vento ci gettò in
un banco di sabbia e fummo salvi. Uscimmo a terra e cantam­
mo due allegre canzoni e ci troviamo lieti a Sciut ove domatti­
na speriamo di celebrar messa. Benedetto il Signore e benedet­
ta Maria che è sempre con noi. Da questi luoghi sono passati
altri e noi pure».

Un altro messaggio giunse a Limone del Garda verosimil­


mente nei primi mesi del 1858, la data della partenza: il 27 no­
vembre 1857.
Daniele ragguagliava puntualmente i genitori sugli sposta­
menti in modo da renderli partecipi, giorno per giorno, dell’af­
fascinante avventura. Usando un tono colloquiale, privo di re­
torica, dava l’impressione di trovarsi lui stesso a Teseul e di par­
lare ai suoi dinanzi al caminetto di casa mentre il fuoco crepita­
va allegramente e tutto lì intorno sapeva di pace e di serenità.
Per conferire al ricordo una maggiore vivacità, in un connubio
ideale con la realtà paesana, egli s’aggrappava visivamente al
panorama che la natura man mano gli dispiegava: alle sponde
lussureggianti di vegetazione del Nilo, alle sabbie bruciate dalla
calura, ad ogni pur minuscolo cambiamento, contrassegnato da
un verde intenso o dal deserto totale.
Le relazioni sociali, a quel tempo, avevano un punto di rife­
rimento fondamentale nei molti proverbi, l’antica saggezza dei
popoli, in qualche caso venata di crudeltà. Esisteva ad esempio
a Limone e presso altre innumerevoli comunità, disseminate in
Daniele Comboni, il vescovo africano
172

ogni parte del mondo, un detto che sembrava inventato per su­
scitare sconforto: “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”.
Ed in effetti, nell’Ottocento, bastava percorrere pochi chilo­
metri per destare in chi rimaneva a casa la sensazione dell’ab­
bandono. Specie se il distacco si protraeva per una durata con­
siderevole. Comboni ne comprendeva il significato pur nella
convinzione che ai cristiano restassero altri valori a cui aggrap­
parsi. E se la lontananza, priva del supporto della fede, poteva
produrre ferite irrimediabili, nei veri credenti finiva per cemen­
tare gli affetti.
Le avversità, sempre in agguato, contrassegnarono queirin­
terminabile tragitto, simile in tutto e per tutto ad una penosa
odissea. Ed eccone un breve saggio.
«Quanto alla nostra salute io non so come sia; fin dai giorno
della nostra partenza dal Cairo noi dormiamo o sopra un pezzo
di asse in barca o sotto una piccola tenda su di una fragile stuo­
ia, sempre esposti al ludibrio dei venti, della polvere, delle mo­
sche che sono innumerabìli e seccanti sì che paiono pronipoti
di quelli che ai tempi di Faraone costituivano una piaga
d’Egitto; mangiamo sempre pane fresco comprato al Cairo il
quale ci durerà ancor per mesi e sosteniamo non pochi altri di­
sagi propri dei lunghi e difficili viaggi; eppure dobbiamo confes­
sare per grazia di Dio che ci troviamo tutti in miglior stato di sa­
lute di quella che fummo in Europa».
Per rendere più viva l’attenzione di quella ch’era la pena
d’una complessa missione (una pena, però, accettata serena­
mente) il nostro forniva ragguagli anche di tipo climatico e se
sotto la tenda il termometro segnava tranquillamente i 32 gradi,
lungo il deserto poteva toccare anche i 43. Per arrivare a
Khartum bisognava formare una carovana di ben sessanta cam­
melli, guidata da personale addestrato.
Mentre la comitiva attendeva il momento della partenza per
la tappa più impegnativa di tutta la spedizione, il capo della mi­
lizia egiziana venne a interpellare Comboni per un inconve­
niente che gli era occorso. Soffriva per gli esiti d’una malattia
venerea e il missionario comprese che si trattava della sifilide.
Capitolo Decimo, Visto da vicino
173

Come trovare un rimedio sicuro per un morbo così devastante


ed in apparenza incurabile?
Non avendo cognizioni sanitarie in quello specifico campo,
Comboni si limitò a un consiglio empirico, inadatto forse a una
terapia efficace, ma sicuramente opportuno: l’astinenza sessuale
con ogni tipo di donna, compresa la propria moglie. La risposta
del capitano lasciò interdetto il religioso: lui non ricorreva ai
rapporti adulterini per un motivo assai semplice, il numero delle
consorti (alcune delle quali retrocesse al ruolo di concubine)
raggiungeva già la decina. Sì, la poligamia imperversava in quel­
le terre povere ed infelici.
Infatti la religione cristiana era approdata in Egitto nel
quinto secolo portata da San Frumenzio, che operava a nome
di Sant’Anastasio, il patriarca di Alessandria. Poi vennero i
musulmani e il seme lanciato e germogliato nel cuore dei con­
vertiti inaridì.
Comboni osservava amaramente che nella Nubia vigeva la
pena di morte tanto per chi predicava quanto per chi praticava
la religione cristiana. Solo nel 1848 monsignor Knoblecher era
riuscito a stabilire una missione a Khartum per occuparsi più
degli schiavi neri che dei musulmani.
Nel dicembre del 1857 Daniele Comboni scrisse dalla città
di Korosko ai genitori. Aveva tanto sperato nella partenza, ma i
cammelli in quel momento trasportavano i prigionieri incatena­
ti, da smistare in parte a Khartum in parte a Kaher-el-Azrek,
così che il clima infernale li sterminasse.
Sia pure con modalità totalmente opposte, la stessa sorte era
riservata a certi condannati della Russia, confinati nella Siberia
e destinati al rigore letale del gelo. L’attesa del viaggio con meta
la capitale del Sudan si protrasse per due settimane.
Ma forse è arrivato il momento di passare ad altro argomen­
to, offrendo lo spazio ad un dramma piuttosto frequente nelle
missioni e con il quale i genitori, sia pure con molta apprensio­
ne, avrebbero dovuto familiarizzare.
li nostro - ed era il marzo del 1858 - si trovava in una loca­
lità imprecisata appartenente alla tribù dei Kick. Ebbene, nella
Daniele Comboni, il vescovo africano
-174 —

sera in cui si celebrava la festa di San Giuseppe, don Francesco


Oliboni venne colpito da un disturbo allo stomaco, curato con
la magnesia e un po’ di olio di ricino.
Sembrava che Pinconveniente, data la natura benigna dei
primi sintomi, si risolvesse rapidamente. Sennonché il giorno
dopo Pinfermo venne colpito da una violentissima febbre che
s’aggravò con un ritmo davvero inatteso. Il 22 del mese egli
chiedeva il conforto dei sacramenti. S’era confessato e comuni­
cato sin dal mattino e, prima dell’estrema unzione, volle tutti i
compagni attorno al letto per un estremo commiato che rappre­
sentasse uno sprone a realizzare il progetto del superiore. A dare
insomma un significato alla morte ormai imminente.
Don Francesco Oliboni, come già ricordato in un preceden­
te capitolo, morì il 26 marzo. Al mattino dell’indomani, don
Beltrame e don Comboni lavarono e vestirono la salma per de­
positarla in una cassa da loro stessi inchiodata. Conclusi i fu­
nerali, la bara fu collocata in una fossa profonda, scavata nella
vicina foresta. Due giorni dopo, una iena in cerca di cibo la dis­
seppellì, ma essendo il legno impiegato assai resistente, la vio­
lazione del cadavere rimase un tentativo privo di conseguenze.
Con il racconto dell’episodio, il nostro forniva un esempio di
quella ch’era la vita del missionario, attraverso una panoramica
ampia e drammatica e sicuramente lontana dall’immaginario
comune, E commentava l’accaduto con un invito rivolto al
padre: «Non dubitate, caro Padre, io sono venuto missionario
per faticare nella gloria di Dio e consumare la vita pel bene
delle anime; anche se mirassi caduti tutti i miei compagni,
quando la prudenza od altre cause non mi consigliassero il con­
trario, io starò saldo e metterò ogni sforzo per realizzare il gran
piano del Signore. Vi prometto per altro, ed è una regola che
abbiamo noi missionari, che qualora scorgiamo apertamente
che è impossibile alle nostre forze fisiche resistere sotto questi
climi, con qualche spedizione ritorneremo a faticare nelle patrie
contrade. Ma faccia il Signore. Voi frattanto state allegri: una
vittima fra noi quattro la si prevedeva, sia fatta la volontà di
Dio».
Capitolo Decimo. Visto da vicino
175

Dedizione assolata, quindi, accoglimento del sacrificio come


una componente dell’apostolato, ma nessuna sfida all’impossibi­
le. Anche quando affrontava i temi spinosi, Comboni non ab­
bandonava i toni semplici e colloquiali, esenti dalla retorica.
Sapeva cogliere il lato comico nelle situazioni della quotidiani­
tà e qui ne offro un saggio assai gustoso. Unitamente ai confra­
telli, egli voleva entrare nella dimestichezza dei Kich per son­
darne le intenzioni, instaurando con loro un rapporto più inci­
sivo ed amichevole. Con tale proposito prese gli opportuni con­
tatti col capo della tribù dei Tiut e, per guadagnarsi la sua bene­
volenza, gli mandò persino un dono.
Poi, per facilitare la conoscenza degli aborigeni, chiese di vi­
sitare le loro capanne. La risposta fu positiva, ma con un’ecce­
zione: penetrare infatti nella dimora del “capo” comportava il
rischio del divoramento da parte di uno spirito “cannibale” che
non placava la sua voracità neppure dinanzi agli oggetti appa­
rentemente non commestibili. Comboni promise all’uomo la
cacciata drastica e definitiva di quello spirito superbamente
malvagio così che l’abitazione potesse godere in futuro dell’in­
violabilità. E non è finita.
Per meglio condividere alcuni scottanti problemi delia tribù
ospitante, cominciò a praticare la medicina con risultati eccel­
lenti. Il popolo, dal canto suo, dimostrava una gratitudine senza
riserve per le guarigioni che, di primo acchito, sembravano mi­
racolose.
Comboni non si stancava mai di citare, nelle sue lettere, l’at­
tività delle zanzare che, al culmine d’una stagione perversa, as­
sumeva ritmi frenetici. Ma anche le formiche voracissime rap­
presentavano un flagello per le persone. Mangiavano di tutto ed
ogni capanna, a causa di quell’appetito davvero insaziabile, non
poteva conservarsi intatta per più d’un anno.
il nostro, al riguardo, ha lasciato una testimonianza illumi­
nante: «Il primo giorno che ponemmo le nostre casse nella ca­
panna vennero subito investite dalle formiche e se non fosse
stata una continua diligenza in noi, che distruggiamo le loro
case fabbricate entro il legno, esse a quest’ora ci avrebbero di­
Daniele Comboni, il vescovo africano
176

vorate le casse. Basta che io vi dica che in tutta la pianura dei


Kich, per lo spazio di 400 miglia, vi sono ponticelli di terra della
grandezza della camera ove voi dormite (i genitori n.d.a.) e mi­
gliaia di più ogni dieci passi».
Nella stessa lettera il missionario si soffermava a descrivere i
temporali, diversi nella fisionomia e negli effetti da quelli noti
nella civilissima Europa: «È una cosa stupenda qui, al Centro
delPAfrica, i temporali e le bufere. Sono tanto terribili i tempo­
rali che si formano tutti in un colpo che atterrano a volte ca­
panne, alberi etc. Così pure compariscono nell’aria dei vortici
di polvere fatti a cilindro che girano rapidamente».
Daniele Comboni scriveva con una certa frequenza per esse­
re sempre informato sulla salute dei genitori ed in particolare
della madre, che sapeva in pericolo di vita. La posta, però, non
sempre riusciva a seguire un iter sicuro e puntuale ed il nostro
spiegava perché: «Correvano già sette mesi da che io non potea
scrivervi e spedire una riga stante che i venti del Sud impediva­
no alle navi dei negozianti di Khartum d’avanzarsi oltre le im­
penetrabili barriere delle fitte boscaglie che dividono i paesi del
dominio egiziano nella Nubia dalle tribù dei negri in mezzo alle
quali dimorano. Quand’ecco un battello a vapore, già fin dal
1857 partito dal Cairo, quando noi eravamo ancora in
Alessandria d’Egitto sotto la guida di Monsieur Lefreque, nego­
ziante francese in Avorio, solcano per la prima volta le famose
acque del Fiume Bianco, ci recava un gran fascio di lettere
d’Europa, tra le quali le carissime vostre che mi annunziavano
la morte della mia cara genitrice».
11 dolore espresso, mitigato solo dalla fede, è sincero ed in­
tenso.
Infatti a Luigi Comboni un unico figlio restava, operante in
una zona densa di rischi e simile, per certi versi, a un fronte di
guerra. Il nostro tentava di consolare il genitore alla luce della
speranza cristiana e, per dare alla figura della madre il giusto ri­
salto, scriveva: «Dio volle chiamarla a sé per darle un premio
ben meritato di quei patimenti e sacrifici che ella sostenne du­
rante la sua vita e perché volle pietosamente porgere a noi oc-
Capitolo Decimo. Visto da vicino
177

castone di patir qualcosa per amor suo. Sì, padre mio carissimo,
ella ha finito di piangere su questa terra; ed ora si trova al pos­
sesso della gloria del cielo a dividere coi suoi cari figli la gioia
del Paradiso che mai finirà aspettando noi, vinta la lotta di que­
sto temporale pellegrinaggio, andiamo a congiungersi con essi.
10 esulto di gioia perché ora ella m’è più vicina e voi pure ralle­
gratevi che il Signore volle esaudire i fervidi voti dei nostri cari
che ora pregano per noi e per la nostra salvezza al trono di Dio.
Esultiamo ambedue e dirvi quasi gloriamoci a vicenda perché
Iddio, per sua infinita misericordia, pare si degni di farci sentire
e mostrarci i contrassegni infallibili quai suoi teneri figli ci ama
e ci ha predestinati alla gloria. Noi siamo sommamente avven­
turati perché Dio ci largisce e benignamente ci porge mezzi ed
occasioni di patire per amor suo».
Dalla storia personale egli passava alla storia dell’umanità re­
denta da Cristo e da questa alle vicissitudini sempre ammanta­
te di sofferenza delle missioni a favore dei miserabili, degli ulti­
mi, degli emarginati. Ed ecco il suo commento su tale “esaltan­
te realtà”: «Non si legge di verun santo che non abbia menato
una vita tra le spine, i travagli e le avversità: delle stesse anime
giuste che noi pur conosciamo una non v’ha che non sia tribo­
lata, afflitta e disprezzata. Oh la palma del cielo non si può ac­
quistare senza pene, afflizioni e sacrifici e quelli che si trovano
visitati con questa sorta di favori celesti, possono a buon diritto
chiamarsi beati su questa terra mentre godono della beatitudine
dei santi pei quali fu somma delizia il patire gran cose per la glo­
ria di Cristo».
Daniele Comboni non limitava Fattività epistolare alle rela­
zioni famigliari, ma teneva i contatti con il mondo dei benefat­
tori e costantemente con la Santa Sede. In una lettera inviata
11 12 marzo dal Cairo al cardinale Barnabò, accendeva un flash
sul ministero esercitato con tanta passione dai confratelli e su
quello femminile in special modo. E sottolineava, con pragma­
tismo venato da un’infinita tristezza: «Frattanto io sono d’avvi­
so che non ci riuscirà gran fatto difficile guadagnare a Gesù
Cristo molti di quei negri che in qualità di schiavi o di servi di­
Daniele Comboni, il vescovo africano
178

morano nelle case dei buoni cattolici ove è naturale che una
volta convertiti sia più facile perseverare nella fede. Nel metter
mano a questa operazione importantissima, ho rilevato con
piena certezza essere quivi ancora costume che la servitù nelle
famiglie cristianissime è per poco abbandonata a se stessa: Viri'
teressarsi a lei è stimata cosa umiliante e ad eccezione di qual­
che famiglia singolare tra le poche, vige tuttavia il lacrimevole
abuso di trascurare l’istruzione religiosa dei neri che appunto
perché non hanno che un abbozzo miserabile di religione sareb­
bero i più atti a ricevere la Fede. Avviene invece sovente che
essi abbiano la sventura di capitare sotto il dispotismo di qual­
che vecchia servente fanatica mussulmana la quale facilmente
impone le proprie superstizioni senza che i padroni se ne diano
gran pensiero. Noi conosciamo alcuni di questi schiavi divenu­
ti pel tal guisa maomettani nella casa stessa dei loro eminente­
mente d’altronde cattolici padroni».
In altre parole il divario tra padrone e servi non si colmava
neppure alla luce d’una “solida” fede cristiana incapace di dissi­
pare le ombre del colonialismo. I padroni andavano in chiesa
regolarmente per obbedire al precetto domenicale, ma l’aposto­
lato per loro restava lettera morta.
1 primi (umanamente parlando) continuavano ad essere i
primi, senza alcuna attenzione per gli “ultimi” ed il ricco
Epulone non divideva le briciole della sua mensa con la servitù.
In una lettera del 29 aprile 1873 diretta al prefetto di Propa­
ganda Fide, Daniele Comboni stigmatizzava una piaga apparen­
temente inspiegabile: la schiavitù. Un colloquio con sir Baste
Frère, ambasciatore di S.M. Britannica, era servito a puntualiz­
zare quell’oneroso problema e ad individuarne la soluzione. L’il­
lustre interlocutore di fede anglicana8 aveva manifestata la fer­
ma intenzione di stringere accordi con vari sultani allo scopo di
debellare, una volta per tutte, la tratta dei negri. Il suo campo

8 Della Chiesa nazionale d’Inghilterra, con liturgia simile alla cattolica ma con
a capo il monarca britannico.
Capitolo Decimo. Visto da vicino
179 -

d’azione, però, era circoscritto alle regioni di Zanzibar e di


Marcotte ove il fenomeno, diversamente da quanto accadeva in
altre parti dell’Africa, si presentava meno appariscente.
Una volta ritornato in Inghilterra egli contava di conferire
con le più alte autorità chiedendo il loro intervento affinché
quel turpe commercio restasse, in chi l’aveva subito, solo un
deprecabile ricordo. Da uomo portato a studiare le cose in pro-
fondità, lasciando alla teoria un esile spazio, Daniele Comboni
affrontava il tema con realismo, attento più ai sussidi della
fede che non ai colpi d’ala della diplomazia accademica e su­
perficiale.
E scriveva, senza paraocchi: «Il sistema, adoperato sin qui
dalle potenze europee e specialmente dall’Inghilterra per di­
struggere la tratta dei neri è inefficace a raggiungere lo scopo
che si vorrebbe ottenere. I sultani dei paesi sunnominati ricevo­
no S.E. rAmbasciatore con gentilezza e splendore come già
fece, con lo stesso, S. Altezza il Kedivè9; essi sottoscriveranno
qualunque trattato e daranno tutte le garanzie sulla carta, ma
partito l’ambasciatore, continueranno a promuovere e protegge­
re l’infame traffico, perché ciò è nella natura dei principi
dell’Alcorano ed è sorgente per loro di qualche risorsa e como­
dità. Nei tre mesi e più di viaggio che noi abbiamo fatto fin qui
dal Cairo incontrammo più di quaranta barche di schiavi e di
schiave affatto nudi ch’erano stipati come le sardine; e nel de­
serto incontrammo più di 20 carovane di negre affatto ignude
che marciavano a piedi, cacciate a colpi di staffile. Tutte queste
venivano condotte a pien meriggio sotto gli occhi del governo
locale. Taccio dell’immenso numero di schiavi che viene ogni
anno estratto dal nostro vicariato e che va a stoccare nei porti
di Tripoli e Tunisi. Non potei quindi astenermi dal crollare il
capo quando lessi a Berber sul Time il seguente brano del di­
scorso della Corona pronunciato ai sei del p.p. febbraio dalla

9Titolo di Viceré d’Egitto quando questo paese faceva parte dell’Impero


Ottomano.
Daniele Comboni, il vescovo africano
180

Regina d’Inghilterra nel Parlamento a Londra: “Il mio ultimo


discorso, milords e signori s’informò dei provvedimenti adattati
per finirla efficacemente colla tratta dei negri sulle coste orien-
tali dell’Africa. Ho spedito un ambasciatore per Zanzibar (Baste
Frère) ed egli porta istruzioni che mi paiono meglio atte a con­
seguire lo scopo propostomi. Egli è recentemente arrivato al suo
destino e si è messo in comunicazione col Sultano”».
«L’unico mezzo per abolire o scemare la tratta dei negri -
commentava il nostro - è di favorire ed aiutare efficacemente
l’apostolato cattolico di quelle infelici contrade donde si strap­
pano volutamente a migliaia e migliaia i poveri negri, commet­
tendo 1 più orribili eccessi ed ove si esercita l’infame traffico. Fra
tutti i paesi del mondo è l’Africa Centrale ove si fa il più fiero
scempio di queste infelici creature. E siccome questa orribile
piaga dell’umanità interessa altamente il mio vicariato, io avrò
molto da fare ed agire e conteggiare sovra tali argomenti.
Io avrei in mano le file per trattare colle più alte sfere dei go­
verni delle grandi potenze d’Europa in tale affare, ma oggi do­
minano unicamente governi atei e rivoluzionari, quindi non
farò un passo, senza prima sottomettere al superiore giudizio
della S.C. sulle cui istruzioni agirò in proposito».
Per completare il discorso sul fenomeno della schiavitù vo­
glio qui citare una circolare del 10 agosto 1873 diretta a tutto il
clero del vicariato. Essa inizia condannando apertamente la
consuetudine al concubinato di un folto drappello di bianchi
che egli intendeva escludere dai sacramenti e soprattutto da un
ruolo fondamentale: quello di padrini di battesimo. Tanto più
che agli stessi, in base a una norma ecclesiastica allora vigente,
era negata la sepoltura cristiana.
Ma il cruccio principale del missionario restava la pratica
della schiavitù, favorita a volte dai cosiddetti credenti. E allora
non usava mezzi termini per indicare tale incongruenza: «Un
altro deplorabile delitto abbiamo da compiangere in taluni dei
nostri fedeli ed è la cooperazione diretta o indiretta al disuma­
no commercio degli schiavi ed aH’orribile tratta dei neri. Sono
tanto là trascorsi alcuni da considerare i neri come specie diver­
Capitolo Decimo. Visto da vicino
181

sa di esseri umani e media tra i puri animali e l’uomo: pretendo­


no che i neri per loro condizione debbano essere schiavi e che
debbano servire come un articolo di speculazioni industriali.
Perciò, con massimo nostro dolore, abbiamo preso che v’ha ta­
luno dei cristiani i quali con denaro e con armi prestano aiuto
a coloro che vanno violentemente a strappare dalle loro fami­
glie e rapire dai loro paesi queste infelicissime vittime della più
spietata barbarie che sono i nostri dilettissimi Figli e preziosa
nostra eredità e che non mancano di quelli che ne fanno acqui­
sti per venderli ad altri e di quelli che li maltrattano con disu­
mane percosse fino al sangue e di quelli che illegittimamente li
maritano e poi ne vendono la prole oppure vendono separata­
mente la moglie dal marito e dai figli».
Moltissimi furono gli scritti inviati per i motivi più disparati
ai confratelli, ai benefattori, ai superiori, sempre ricchi di osser­
vazioni e suggerimenti inerenti all’apostolato che egli voleva
generoso ed instancabile.
Nel 1880 il vescovo Comboni trasmise al cardinale Luigi
Canossa una relazione sulla “carestia e pestilenza dell’Africa
Centrale”, un vero diario della tragedia abbattutasi su quella po­
polazione e condivisa in prima persona dai missionari.
Il documento cita un fenomeno purtroppo ricorrente nel ter­
ritorio del vicariato: la periodica carenza della pioggia (con rife­
rimento speciale alle stagioni del 1877) che aveva determinato
una tremenda carestia. La fecondità dei terreni ne risultò com­
promessa e i semi messi a dimora (piantagioni, fiori, ma anche
l’erba dei prati), aggrediti da un sole implacabile, non produsse­
ro alcun germoglio. E se venne a mancare il cibo per la fauna
erbivora, una sorte non meno crudele toccò agli esseri umani.
Senza lasciarsi irretire dai lacci della retorica, il missionario
esordisce con un drammatico riscontro: «La fame sofferta dai
popoli che abitano lungo i fiumi fu spaventosa oltremodo e tre­
menda ancora quella che soffersero gli arabi dei deserto ai quali
essendo perita gran parte dei cammelli per fame, le nostre caro­
vane che furono costrette a valicare quei deserti, costarono alla
missione grandi sacrifici ed enormi spese perché il prezzo del
Daniele Comboni, il vescovo africano
182

nolo dei cammelli che sopravvissero all’universale eccidio, fu


quadruplicato anche perché essendo deboli e sfiniti per inedia
non portavano che un terzo od un quarto del loro carico rego­
lare. Quindi quadruplicate erano le spese delle nostre spedizio­
ni finché per molto tempo essendo periti o affamati d’inedia
cammelli e cammellieri, le spedizioni cotanto necessarie per re­
care soccorso alle missioni colpite dalla carestia, ci tornarono
sommamente difficili od affatto impossibili».
Comboni insisteva, in modo quasi ossessivo, sul frenetico au­
mento dei prezzi perché era proprio partendo da quelPanomalia
che la tragedia si dipanava, inarrestabile. Domandare sacrifici a
chi è ricco non comporta sovente una rinuncia considerevole,
ma succhiare il sangue agli indigenti quand’essi già si trovano
impotenti dinanzi alle spese ordinarie risulta, sul piano etico,
insopportabile. Allora persino la carità, l’atto più puro ed eroi­
co che l’uomo possa esercitare verso il suo simile, deve frenare i
suoi slanci, per manifesta impotenza, dinanzi ai veti imposti da
una circostanza ineludibile.
Ma voglio tornare al racconto del nostro, solo in apparenza
“contabile”, perché sostanzialmente indicativo della catastrofe
abbattutasi in un crescendo davvero inesorabile su quelle popo­
lazioni: «Di che avvenne che quasi tutti gli animali di prima ne­
cessità salirono a prezzi favolosi, cioè a dieci, a dodici ed anche
a venti volte dei prezzi ordinari. Il frumento, a cagion d’esem­
pio, fu pagato dallo stesso Console Austro-ungarico, il Signor
Cavaliere Hansal, in ragione di 72 talleri all’Ardeb (sacco di
circa 100 chilogrammi) mentrecché dapprima si paga solo 5 tal­
leri. Poi il frumento mancò anche a Khartum e non vi si trova­
va a nessun prezzo e nel regno di Cordofan lo si sarebbe pagato
anche 500 franchi all’Ardeb, ma non ve n’era punto. Il durah
(o mais) che è il nutrimento principale delle popolazioni dei
possedimenti egiziani nel Sudan che formano un territorio più
vasto di tutta l’Italia ed è pure il nutrimento ordinario degli al­
lievi, orfani e schiavi rifugiati nei nostri stabilimenti del
Cordofan, da circa tre talleri suo prezzo ordinario, salì a trenta-
sette talleri e più l’Ardeb, cioè a un prezzo quarantasei volte
CapitoLo Decimo. Visto da vicino
183

maggiore dell’ordinario. Lo stesso avviene alle carni assai


magre, flosce e ributtanti di animali smunti dalla fame e dive-
nuti come scheletri, il cui prezzo salì a dieci e dodici volte piu
caro dell’ordinario. Lo stesso e ancor peggio toccò a Gebel-
Nuba ove per di più venne a mancare il sale e fu necessario nu­
trirsi per molto tempo di sì meschini alimenti senza essere con­
diti col sale. Da tutto questo è facile tirare la conseguenza, come
ad una gran parte delle popolazioni africane della classe povera
mancò affatto di che vivere; ed io constatai con i miei propri
occhi, Testrema miseria di moltissime località in cui interi vil­
laggi decimati dalla fame, vivevano di erbe, di semi di fieno ed
anche escrementi di cammelli e altri animali».
Il frammento di relazione sopra riportato rappresenta solo un
esempio della sofferenza che aveva colpito gli africani. La trage­
dia aveva assunto dimensioni apocalittiche, a cominciare dalla
mancanza di acqua che costringeva la gente a percorrere enor­
mi distanze per attingerla in pozzi, spesso prosciugati o custodi­
ti da malandrini che offrivano, col contagocce, un elemento in­
quinato dal fango, ma non per questo meno essenziale. Il Nilo
(o Fiume Bianco, come si chiamava il corso d’acqua in quella
zona) andò incontro ad un periodo di magra ed i terreni da esso
lambiti patirono nei mesi di luglio, agosto e settembre, una ter­
ribile sete.
Arse le campagne, le praterie e le stesse cisterne, i pozzi del
Cordofan e del Darfur, normalmente profondi sino a quaranta
metri ove lo scavo risultava più accentuato, si disseccarono.
Benché giungessero aiuti da qualche zelante cattolico ed, oc­
casionalmente, persino dai musulmani che non ignoravano
l’opera dei missionari, fu necessario acquistare l’acqua a prezzi
esorbitanti: un ulteriore salasso per le risorse già esigue delle
“stazioni”. I religiosi, tanto per dirne una, erano obbligati a con­
servare quella usata il mattino per le abluzioni, in modo che
fosse utilizzata, nel corso della giornata come dissetante. 11 razio­
namento del liquido, divenuto via via sempre più raro e prezio­
so, fece sì che i confratelli rinunciassero persino a lavarsi la fac­
cia, dopo la sveglia. E per quattro mesi il bucato medesimo si
Daniele Comboni, il vescovo africano
184

trasformò in un'attività del tutto superflua e quindi improponi­


bile.
Essendo l’acqua mancata nel Cordofan, si trasferì il persona­
le nei grandi stabilimenti del Malbes ove operava una colonia
agricola fondata dai missionari, ma qui la penuria di viveri ob­
bligava la gente a consumare quotidianamente soltanto il pran­
zo o, in alternativa, la cena. Fare due pasti normali, sia pure ri­
dotti all’essenziale, diventava un’utopia.
La Missione d’altronde era invasa continuamente da auten­
tiche legioni di bambini che si disputavano l’acqua, usata per
l’igiene personale, con lo scopo di dissetarsi. Ma, a questo pro­
posito, il provicario aveva più d’un dettaglio da porre in risalto,
legato all’attività delle suore il cui comportamento, nella rac­
colta dell’acqua, aveva risvolti eroici. Infatti le religiose, dopo
un cammino di molte ore sotto un sole che martellava, arriva­
vano al pozzo sfinite, per iniziare una trattativa umiliante con 1
custodi africani ed il risultato era magro: l’acquisto d’alcune
borme (vasi di due o tre litri) d’acqua fangosa, pagate singolar­
mente quattro o cinque franchi, A quel punto le suore, in un
clima di vera tregenda, tra urli di belve affamate in agguato
nella foresta, percorrevano il tragitto inverso per giungere alla
“stazione” a notte fonda.
Con enormi sacrifici, i religiosi riuscirono persino a scavare
un pozzo affidato alla custodia di due robusti catecumeni10.
«Senonchè di notte - annotò Comboni nella relazione - ve­
nivano ladri assetati e colla violenza portavano via l’acqua per
venderla a loro profitto. In Malbes la missione aveva tre vacche
alle quali si dava un po’ da bere due volte la settimana.
Ma che? Essendo esse bruciate dalla sete e macilente oltre
modo finirono per non dare più latte, la distribuzione di esso si
riduceva quasi a niente».
Più avanti il missionario cita il caso duna religiosa che
aveva ottenuto dalla superiora il permesso di andare a raccoglie-

10Chi sta ricevendo l’istruzione nella dottrina cristiana fondamentale per es­
sere ammesso al battesimo.
Capitolo Decimo. Visto da vicino
185

re l’acqua «dato che a Malbes erano quasi tutti ammalati o stre­


mati di forze e privi d’ogni cosa per ristabilirsi».
Premetto che, prima d’avviarsi verso la zona ove sorgeva il
pozzo, la suora era andata a far provvista di viveri. Ma voglio qui
ridare la parola al provicario: «Essendo (Pincaricata) recata ai
pozzi, lottando animosamente con quegli africani, riuscì dopo
molti stenti ad acquistare a caro prezzo due ghirbe (grossi otri)
di acqua e, caricato il cammello, partì a piedi con un moro, re­
centemente riscattato, alla volta della capitale. Si trattava di un
tragitto di sette ore difficilissimo e ingombrato di belve feroci e
ladri e assassini: ma la carità trionfò di tutti gli ostacoli. Essa
continuò, piena di coraggio e senza timore, il suo cammino in
mezzo al fischiar delle belve e dei cani ed il ruggir dei leoni che
la facean tremare. Percorsi ben tre quarti e più di strada, il cam­
mello smunto dalla fame e stremato di forze, cadde stramazzone
per terra. Con l’aiuto dell’accompagnatore la suora tentò inva­
no di rialzarlo. Né le frustate né altri metodi più affettuosi ed
umani ebbero un effetto positivo. Che fare in un frangente così
ricco d’insidie? Dopo un consulto angoscioso con il compagno
di viaggio, la suora decise di lasciarlo sul posto, a custodire
quanto acquistato con tanta fatica e sacrifici per avventurarsi
nella notte alla ricerca improbabile di qualche aiuto. Invocò
dapprima il soccorso della Vergine Immacolata e poi, via, nel
buio, attenuato dal “debole raggio di luna di tre o quattro gior­
ni”. Ad un certo punto giunse agii orecchi della religiosa un ab­
baiar forsennato di cani, segno della vicinanza di qualche villag­
gio. Allora, con tutta la forza che aveva in corpo e che il terro­
re dell’avventura ingigantiva, cominciò a invocare “Nas taslù!
Nas taslù! O genti venite! O genti venite!”.
Dopo pochi minuti d’attesa, come se la Madonna avesse
esaudito la sua preghiera, ecco comparire due robusti Baggara
(erano custodi delle mandrie) i quali le domandarono, esterre­
fatti, la ragione di quel suo vagare, sola e indifesa, in un labirin­
to di rischi. Conosciuta più nel dettaglio la sua peripezia, s’offri­
rono d’accompagnarla sin dove il negro era rimasto a custodire
il cammello, l’acqua infangata ed i viveri. Benché di fede mus­
Daniele Comboni, il vescovo africano
186

sulmana, non negarono il proprio sostegno a quell5impresa. E


subito s’avviarono, guidati dalla religiosa, verso il luogo selvag-
gio e malsicuro dove il negro attendeva, accanto ai cammello
stremato e steso al suolo e alle vettovaglie, preziose nella circo­
stanza, come un tesoro impareggiabile. Sollevato, un po’ colle
buone maniere, un po’ ricorrendo alla frusta, l’animale si rimise
in piedi e la spedizione riprese per concludersi solo ad Obeid
dove tutti giunsero a mezzanotte, più morti che vivi».
Il racconto prosegue con informazioni di tipo operativo: le
derrate, al prezzo di mercato, avevano costi sempre più inacces­
sibili e allora la Missione acquistò una macchina a vapore con
la quale innaffiare il giardino di Khartum (l’unico terreno colti­
vabile, rimasto ai religiosi) per un importo spropositato: 70.000
franchi.
Purtroppo la serie di calamità non era giunta all’epilogo.
Portato da un’anomalia naturale a eccessi di siccità o di nubifra­
gi, il clima africano verso la fine del 1878 mutò improvvisamen­
te. E la stagione delle piogge si rivelò dirompente.
Il cielo, di punto in bianco, spalancò le sue fosche saracine­
sche ai lampi, ai fulmini, ai tuoni, preludio d’un diluvio apoca­
littico di cui gli indigeni non ricordavano, a memoria d’uomo,
l’uguale.
Presto il Fiume Bianco e il Fiume Azzurro rovesciarono oltre
le sponde un vortice d’acqua spaventoso che minacciava di de­
molire, insieme alla capitale, gli stabilimenti dei missionari. Al
comando d’ingegneri militari, migliaia di soldati innalzarono ar­
gini estremamente efficaci e, tagliando gli alberi del giardino
per formare dighe, gli stessi religiosi opposero alla fiumana una
barriera invalicabile. Solo danni minori si registrarono, ma limi­
tatamente agli edifici più solidi.
A quel punto i contadini gettarono i semi sottratti alla sicci­
tà nei terreni ridiventati fecondi, con la speranza (o la certezza)
d’avere a disposizione, in un futuro ragionevolmente vicino,
grano, mais, sesamo ed erbe. La mostruosa carestia sembrava de­
stinata a tramutarsi in un ricordo sgradevole e la prospettiva
degli abbondanti raccolti metteva al riparo gli aborigeni dall’in­
Capitolo Decimo. Visto da vicino
187

digenza e dalla fame. Sennonché un destino crudele tornò ad


accanirsi contro quella gente, già messa a dura prova e il nostro
fu testimone d’una catastrofe senza precedenti.
Ma diamo di nuovo spazio alla relazione: «Durante il dilu­
viar delle piogge, a centinaia ed a migliaia crollavano le case e
le capanne perché fabbricate di terra cotta al sole o di paglia o
di canne fragilissime ed i poveri abitanti si trovarono improvvi­
samente sul lastrico, giorno e notte, a cielo scoperto, sia che di­
luviassero le piogge, a torrenti, sia che risplendesse il sole coi
suoi dardi infuocati; sicché gli infelici esposti a tutte queste in­
temperie furono colpiti da un furioso nembo di violentissime
febbri di sì maligna natura che in breve tempo quei paesi per
una sterminata estensione furono seminati di cadaveri d ogni
sesso ed età ed i pochi superstiti, divenuti cadaveri ambulanti,
s’aggiravano per le vie e pei deserti pallidi e consunti, chieden­
do soccorso. Il terrore e lo sgomento si diffusero tra gli abitanti
e la tremenda epidemia si sparse nelle città, nei grossi villaggi e
nelle campagne con tale impeto ed intensità che gran parte di
quelle regioni si tramutò in breve tempo in uno sterminato ci­
mitero. Noi siamo testimoni della strage che menò quella tre­
menda epidemia nei paesi bagnati dal Fiume Bianco ed Azzurro
e dal Nilo. In un’ora, mezz’ora, dieci minuti, vedemmo colpiti
da morte individui che prima godevano florida salute.
Anche parecchi nostri cattolici quasi improvvisamente ful­
minati da codesto implacabile malore che si manifestava con
sintomi di febbre nervosa, talora tifoidea, talora petecchiale11 e,
appena, ci restava il tempo d’amministrare l’Estrema Unzione in
“articulo mortis”. In parecchie città, borgate e villaggi gran nu­
mero di abitanti e famiglie intere che avevano sofferto la fame
nel precedente anno, dopo essersi nutriti delle primizie dell’ab­
bondante raccolta, cadevano morti presso le novelle derrate
ammonticchiate nelle capanne o nei cortili delle loro abitazio­
ni; e persone degne di fede che ritornavano a Khartum da lun-

LL Che è caratterizzata da petecchie: tifo.


Daniele Comboni, il vescovo africano
188

ghe peregrinazioni nei paesi del Fiume Azzurro e del Fiume


Bianco, mi assicuravano d’aver trovato città e villaggi quasi spo-
gliati e le case, le vie pubbliche e le campagne ingombre di ca­
daveri putrefatti, distesi accanto alle biade, al durah, al frumen­
to ed al sesame che avevano raccolto e che per la loro esalazio­
ne, l’epidemia s’era sparsa sopra vasti territori, mietendo vittime
dappertutto».
Nemmeno la Missione fu risparmiata e benché le febbri e
un’alimentazione insufficiente avessero inferro un duro colpo
alla salute dei confratelli, essi avvertirono l'imperativo morale
di dedicarsi all’assistenza di moribondi ed infermi oppure di chi,
a causa delia pestilenza, aveva perduto i famigliar!.
Metà Khartum, tanto per dare un’idea del vuoto prodotto
dall’epidemia, era spopolato e la città di Scendi, l’antica capita­
le della Nubia, aveva perduto gran parte degli abitanti.
Essendo l’indigenza la vera sovrana di molte nazioni africa­
ne, le autorità si videro costrette a rinunciare ad almeno un
quarto delle imposte consuete.
E non è finita. Una porzione considerevole della popolazio­
ne di Khartum era perita ed una sorte non meno crudele acco­
munava la strage umana a quella della fauna domestica.
Cammelli, mucche e persino cani subirono una drastica de­
cimazione e le carcasse, rimaste a cielo aperto, si. preparavano
ad inquinare, con il loro tremendo fetore, l’atmosfera inguari­
bilmente ammorbata. Scriveva ancora il vicario: «Tutte le
suore di Khartum caddero inferme e la stessa laboriosissima
suor Saverana di Normandia che da ben tre anni nel micidia­
lissimo clima di Khartum non aveva mai sofferto ombra di ma­
lattia, fu colpita da una fierissima febbre che la riduceva a mal
partito. Quasi tutte le allieve ed orfane dell’istituto femminile
caddero inferme e molte di esse ebbero a soccombere sotto la
falce della morte. Tutti i sacerdoti, meno uno solo [leggi
Comboni] con tutti i fratelli coadiutori europei e quasi tutti i
membri dello stabilimento maschile furono bersagliati da inter­
minabili cocentissime febbri e fierissimi morbi e molti giunse­
ro agli estremi».
Capitolo Decimo. Visto da vicino
189^

Un esempio per tutti. Don Policarpo Genoud, trafitto da


«fulmineo pestilenziale tifo in venti minuti esalò l’ultimo respi­
ro».
E, malgrado la tragedia fosse la padrona incontrastata della
città, i religiosi minati da una convalescenza sempre procrasti­
nata, assolsero ai loro doveri di carità verso i confratelli o
chiunque li interpellasse in cerca d’aiuto o di sollievo.
Un frammento della “relazione” conduce il lettore per mano
in quell’angosciosa realtà: «Allora - annotava Comboni - io
restai solo nella capitale del Sudan per amministrare i sacra­
menti ed assistere ai bisogni estremi tanto del numeroso perso­
nale interno alla missione quanto degli esterni della città di
Khartum sicché mi fu d’uopo compiere ad un tempo i moltepli­
ci uffici di vescovo, di parroco, di vicario, di superiore, d’ammi­
nistratore, di amico ed infermiere. Ma Dio mi riserbava un po­
tentissimo aiuto nelle abilissime suore Saverana e Germana
che erano affrante pure esse da fierissime febbri, la prima che
quasi sempre rimaneva a letto o in una stanza inferma, era ad
ogni momento consultata nelle malattie come praticissima nel
conoscere le febbri ed il tempo ed abilissima a governare gli
ammalati».
Ed ora un breve profilo di suor Germana che, “quantunque
debilitata e febbricitante”, mantenne per quattro mesi indicibi­
li fatiche giorno e notte nell’assistere gli ammalati, nel curarli e
nel preparare a ben morire quanti ammalati parlavano l’arabo,
l’italiano, il francese».
«Con questa coraggiosa ed instancabile figlia della carità -
soggiunge, quasi in sordina Daniele Comboni - io divisi enormi
fatiche, atrocissime pene e travagli indicibili, ed essa fatta tutta
a tutti, affatto dimentica dei suoi malori, correva dappertutto
ove l’altrui bisogno lo richiedeva».
L’afflizione del missionario non derivava soltanto daH’impo-
tenza del “fisico”, sempre più disarmato dinanzi agli attacchi
delle malattLe, ma anche da un’apprensione di tipo spirituale;
egli infatti sentiva nella propria carne i chiodi che idealmente
fissavano ai legni intersecati della Croce, la sofferenza dei dere­
Daniele Combonì, il vescovo africano
190

litti colpiti dalla pestilenza, ne condivideva le pene «senza mai


dormire una sola ora né di giorno né di notte».
La sera del 16 gennaio 1878 - tanto per dirne una - accorse
al capezzale di un «infelice e dovizioso negoziante eterodosso
che aveva atteso ai suoi affari commerciali ed alla sera esalava
l’ultimo anelito; mi colpì una fierissima febbre e mi ridusse a
una deplorevole condizione».
Ma, sia pure con lo spettro della morte, divenuta sua compa­
gna abituale, non s’arrese mai alle ingiurie della mala sorte. «La
croce - commentava — è la sola via regale che mena al trionfo.
Il cuore sacratissimo di Gesù palpitò altresì per i poveri negri».
In mezzo a tante devastazioni che cancellavano intere città e
villaggi egli sulla scorta d’informazioni non sempre attendibili,
era persuaso che «la carestia e la pestilenza dell’Africa Centrale
fossero ben più terribili e spaventose di quelle della Cina e delle
Indie e di tutte le Missioni apostoliche dell’Universo».
E puntualizzava: «Nelle Indie e nella Cina, accanto alla fame
e alla carestia v’ha generalmente un clima mite e sopportabile
che in parecchie province è più salubre che in Europa. Inoltre
colà si respira generalmente un’aria esilarante e pura e si beve
acqua limpida, saporita e fresca. La mitezza del clima, la purez­
za e la freschezza dell’aria sono un delizioso ristoro ed una gran­
de risorsa per i poveri affamati».
Non so se il nostro conoscesse a fondo la situazione del­
l’India, afflitta dal colonialismo e dalla piaga della lebbra, vista
come uno strumento d’espiazione per colpe commesse da deter­
minati individui o dai loro avi, più che un morbo crudele, figlio
d’un clima infernale e d’un’igiene carente. E che dire dell’assur­
dità delle caste, esca di conflitti sociali dall’esito sempre nefa­
sto?
La condizione esistenziale di tanti cinesi non si presentava,
a un’analisi approfondita, più favorevole. Ma ritorniamo ai det­
tagli della catastrofe riportati nella relazione.
In mezzo a tanti disagi il provicario ebbe una consolazione:
le nazioni europee ed americane più progredite ed, in special
modo, i cattolici francesi, tedeschi, italiani, belgi e britannici
Capitolo Decimo, Visto da vicino
191

avevano adesso un approccio più realistico con La tragedia che


aveva messo in ginocchio molte nazioni africane. In un recente
passato un’analoga calamità aveva ferito a morte la Cina e le
Indie orientali, non risparmiando neppure l’Africa, toccata mar­
ginalmente, ma i benefattori avevano risposto all’appello dei
missionari, con encomiabile generosità.
Il paragone tra le Missioni d’Oriente e quelle a lui affidate
proseguiva in un crescendo davvero inesauribile.
«Al contrario della maggior parte dei paesi dell’Africa Cen­
trale, accanto alla fame ed alla più desolante penuria vi è un
clima pesante ed insopportabile, vi dominano calori eccessivi e
soffocanti anche aH’intemo delle abitazioni e dei tuguri ove si
può riparare all’ombra. Negli interminabili deserti poi il missio­
nario non ha riparo alcuno né vi ha striscia d’ombra mentre
viaggia sotto i dardi cocenti della canicola, dalle undici antime­
ridiane alle quattro del pomeriggio, senza trovar che arida sab­
bia e cielo di fuoco sotto quaranta, cinquanta ed anche sessan­
ta gradi è vano cercar sollievo e torna affatto impossibile trova­
re alcuna delle suaccennate risorse che ristorano il povero affa­
mato dell’India e della Cina. Di più nelle nostre immense regio­
ni lontane dai grandi fiumi come nel Cordofan, nel Darfur, a
Gebel Nuba o nelle tribù interne dei negri, al flagello della fame
venne associato quello ancor più terribile della sete ove l’acqua
sucida, fangosa, salmastra e ributtante attinta da pozzi della pro­
fondità di trenta, quaranta metri, si pagò talvolta più cara che il
vino in Italia e vi furono giorni in cui tornò impossibile ottene­
re, a nessun prezzo, perché totalmente mancò».
Come se non bastasse, in molte regioni persino il sale scar­
seggiava, con l’impossibilità di trasformare in cibo il cespo d’er­
ba altrimenti ostico al palato. Conoscendo la realtà missionaria
solo attraverso i giornali specializzati, Comboni era convinto
che tra l'Africa Centrale e le terre dell’estremo Oriente esistes­
se una sorta d’abisso, la linea di demarcazione che normalmen­
te divide il deserto dall’oasi.
Nel l’approfondire la sua disamina appassionata, egli puntava
sicuramente a un obiettivo: una maggiore attenzione degli euro­
Daniele Comboni, il vescovo africano
192

pei per la Nigrizia, vittima di secolari quanto assurdi anatemi.


Ed insisteva: «In tutto il mondo dell’Africa Centrale, ad ecce­
zione della città di Khartum la quale, dopo la fondazione della
Missione cattolica, possiede alcune case costruite di pietre e
mattoni cotti ad esempio nello stabilimento della missione e
della nostra residenza che fu il primo ad erigersi all’europea, in
tutta l’Africa Centrale, dicea, non vi è alcuna casa di pietra o di
mattoni cotti alla foggia europea: ma le poche case dei grandi e
doviziosi sono costruiti di sabbia o di fango o terra cotta al sole,
ma così fragile che hanno brevissima durata e cadono e si sciol­
gono da sé, dopo pochissime stagioni di piogge dirotte nel
Kharif. Questi, dissi, appartengono alle famiglie privilegiate ed
opulente delle principali città ove ha sede un Pascià od un go­
vernatore della Provincia».
Un’analisi spietata ed amara il nostro tracciava anche a pro­
posito del fatalismo che animava il comportamento dei musul­
mani di media cultura, portati a un’inerzia dai risvolti parados­
sali.
E commentava: «Il mussulmano affamato che non possiede o
non trova più di che satollarsi e campare la vita (e molto più il
negro schiavo così costituito dal suo padrone) convinto come
egli è dalla fiera legge del fatalismo, secondo la quale egli deve
subire il suo destino voluto da Dio, cioè che egli deve assoluta-
mente morire avendo Dio a ciò destinato, egli senza punto scuo­
tersi o sconcertarsi né fare strepito alcuno, né muover lamento,
senza fare ogni sforzo e adoperarsi per opporvi rimedio ed allon­
tanare da sé quella tremenda sciagura e sovente, sempre in preda
al suo fatalismo, si colloca sulla porta od al fianco della sua abi­
tazione o dietro ad una capanna o sotto un albero ed ivi impas­
sibile ed a sangue freddo, aspetta imperturbabile la morte escla­
mando col suo profeta: Allah Kerim, cioè Dio è degno d’onore».
Lo stesso ineluttabile destino - a detta del missionario - ac­
cettava supinamente quando una calamità lo colpiva in modo
diretto o negli affetti famigliati.
«Egli non si commuove né fa strepito alcuno né s’adopera
gran fatto di rimuovere lontano un tale infortunio e perciò av­
Capitolo Decimo. Visto da vicino
193

viene non di rado che in una stessa città, in un medesimo vil­


laggio, succedano gravi infortuni senza che il pubblico si avveg­
ga o se ne dia per inteso o si sforzi di allontanarli o apporvi ri­
medio».
Si coglieva, in quell’atteggiamento passivo, la tendenza al­
l’inerzia assoluta, l’incapacità di reagire confidando in un’alter­
nativa: tutto cadeva dall’alto come una pioggia benefica od una
tempesta devastante. Tutto era dono d’Allah e andava quindi
accettato con gioia perché Dio sapeva emettere sentenze inap­
pellabili salvando le anime elette e scagliando i reietti fra le sof­
ferenze dell’inferno. Tale mentalità, refrattaria alla speranza,
preoccupava il missionario, messo di fronte ad una priorità:
senza la conversione al Vangelo, parlare di Provvidenza era co­
me diffondere un messaggio vuoto, un vento di parole inutili e
prive di senso.
L’appello ai benefattori diventava, a quel punto, una richie­
sta pressante.
«Si tratta di cavare dal senso della barbarie cento milioni
d’infedeli sui quali pesa ancora l’anatema di Caanan. Si tratta di
guadagnare questo mondo di negri che gemono sotto il peso
della schiavitù. Per ottenere questa rigenerazione della Nigrizia
è debito sacro di Primo Pastore e Vescovo apostolico dell’Africa
Centrale di fare appello alla fede e alla carità di tutti i cattolici
dell’Universo affinché, fidenti delle immancabili promesse di
colui che ci ha detto “petite et accipietis, quaerite et invenìetis > pul­
sate et aperietur vobìs”12 tutti innalzino a Dio una fervida pre­
ghiera al duplice oggetto. Che Dio susciti nel seno della Chiesa
dei fervidi e santi operai evangelici e delle generose e pie suore
di carità, Madri della Nigrizia che sotto alla bandiera del
Vicario Apostolico dell’Africa Centrale, lo assistano e lo aiuti­
no a conquistare quell’anime a Cristo e alla divina sua Chiesa.
Che Dio susciti dal seno della Chiesa e della civiltà cristiana dei
generosi benefattori che con sante ed abbondanti largizioni ab­

12 “Chiedete ed otterrete, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”.


Daniele Comboni, il vescovo africano
U94

biano a coadiuvare questa grande Opera dell’Apostolato


dell’Africa Centrale perché raggiunga l’alto suo compito e si
stabiliscano in quelle remote contrade tutte le opere cattoliche
necessarie a mantenere la fede e il divino culto affinché quelle
genti abbiano ad entrare a far parte del grande ovile di Cristo».
195

Capitolo Undicesimo
Il vescovo santo

L’ordinazione episcopale del nostro era avvenuta nel corso


duna cerimonia semplice e a un tempo solenne, tenutasi nella
cappella del Collegio urbano di Propaganda Fide.
Subito dopo per il neo eletto era iniziato l’abituale “tour de
force”, fatto soprattutto di contatti con le persone pronte a so-
stenere la travagliata missione del Centro Africa. E i viaggi in
lungo e in largo per l’Europa alla ricerca costante di benefatto­
ri, non si contarono.
Sorvolo molti dettagli delle vicende frenetiche che caratte­
rizzarono l’ultimo scorcio di vita del missionario e passo all'ulti­
mo viaggio compiuto nel dicembre dell’ottanta. Egli infatti pro­
gettava di trasferirsi nel Sudan, con il vapore della Compagnia
Rubattino, ma siccome questo non garantiva la regolarità degli
scali (sempre piuttosto aleatori) preferì affidarsi alla nave egizia
Nagila. Un benefattore gli assicurò lo sconto del sessanta per
cento sui biglietto marittimo. Con un gruppo di dodici persone,
Daniele Comboni il 30 dicembre lasciava il Cairo. Sosta a
Zigazig dove il capostazione ferroviario, suo amico ed estimato­
re, gli mise a disposizione un’intera carrozza.
Il giorno di San Silvestro, essendo trascorsi 26 anni dall’or­
dinazione sacerdotale, il missionario, accompagnato da don
Rolleri, don Rosignoli e dai sacerdoti stranieri Dicht e
Ohrwaller, lasciava Suez, diretto a Suakin. Della carovana face­
vano parte anche i confratelli P, Francesco Pimazzoni di Verona,
Albert Sebastian, originario della Sassonia e Paul Beshir di
Aleppo. Non mancavano le Pie Madri: Amalia Andreis, Maria
Rosa Colpo, Caterina Chincarini, Elisabetta Venturini, Rosita
Conte e Francesca Dalmasso. Alla comitiva fu aggiunto, in qua­
lità di domestico, il portoghese Domenico Correja. Il pomerig­
gio 5 gennaio 1881 la carovana fece una sosta a Suakin. Qui il
Daniele Comboni, il vescovo africano
<1%

gruppo si divise in due segmenti e alcuni religiosi trovarono al­


loggio presso una famiglia; gli altri andarono ad occupare una
casa disabitata. Per attraversare il deserto occorreva il supporto
dei cammelli ed in meno duna giornata ne offrirono al provica­
rio ben quarantotto.
E così iniziò l’avventura, sempre piena d’incognite, lungo la
marea di sabbia che sembrava non conoscesse confini. L’ap­
proccio non fu tra i più agevoli perché nella notte si scatenò un
nubifragio che costrinse i missionari a cercare rifugio sotto alcu­
ni cespugli. L’indomani, però, un’improvvisa calura, penetrando
tra gli abiti fradici, diede ai confratelli un conforto inaspettato.
La comitiva osservava ogni dettaglio, con comprensibile curio­
sità e provò meraviglia dinanzi alla frugalità dei cammellieri bi-
sharin, avvezzi a nutrirsi con la polenta di durah, condita con
un po’ di burro e di latte acido. Per dissetarsi usavano un’acqua
di dubbia potabilità. L’arrivo a Khartum era previsto per il 29
gennaio, ma fu anticipato d’un giorno; la festa dei confratelli,
già presenti in sede, si distinse per il sincero entusiasmo mani­
festato.
Prima di partire per l’Africa, Daniele Comboni aveva opera­
to (compatibilmente con lo scarso tempo messo a disposizione
da un giro convulso di relazioni e di spostamenti continui) alla
stesura definitiva delle Costituzioni. Nel 1876 il cardinale pre­
fetto di Propaganda Fide, esaminate le bozze già sottoposte alla
verifica di un esperto prelato, aveva scritto a Luigi Canossa, pre­
gandolo di predisporre un nuovo testo, con un riguardo specia­
le per le osservazioni espresse dalla Santa Sede.
A Verona, però, nessuno, per il momento aveva analizzato il
documento. Dopo il suo arrivo in Italia e, quando padre Sem­
bianti dirigeva il seminario “comboniano”, il nostro gli chiese
l’aiuto per una revisione delle carte rapida ed efficace. A quel
punto il vescovo avrebbe concesso il suo “placet”, imprimendo
alla pratica una plausibile accelerazione.
Ma lo stesso Comboni, pur preoccupato di dare alle Costi­
tuzioni il giusto coronamento, era troppo indaffarato e, giunto
al Cairo, scrisse a padre Sembianti: «E mio assoluto desiderio
Capitolo Undicesimo, il vescovo santo
197

che sieno più presto che sia possibile compilate le Regole tanto
deiristituto maschile quanto del femminile (è desiderio presun-
to di Roma). Dunque coraggio e all'opera».
La raccomandazione del vicario al religioso, propenso a coin­
volgere il superiore, in modo più ampio e incisivo, era di lavo­
rare col massimo impegno.
«Io prego la sua bontà a stendere le regole di ambedue gli
Istituti Africani di Verona, a poco a poco, sottomettendole poi
al giudizio del padre Vignola e poi me le mandi. Io penserò a
farle esaminare dai gesuiti e consultar Roma. Dopo penserò io
fare il resto, ma se aspetta le modificazioni dalLAfrica, verrà il
dì del giudizio perché io non ho tempo a crear Regole mentre
invece, contemplate quelle di Verona, a colpo d’occhio, veggo
le modificazioni da farsi, “attenta esperientia Africana».
Per quanto concerneva le “Costituzioni femminili”, sentite
le dirette interessate, il missionario precisava: «Nelle regole
femminili, poi, cambio affatto l’organizzazione (a Verona per av­
viar l’opera si son fatte regole per una casa) e stabilisca la Ge­
nerale con due Assistenti Provinciali e Superiore delle diverse
Case d’Europa, d’Africa, d’Asia, Superiore ed Economa genera­
le della Casa Madre».
Il commento finale trovava il suo corollario attraverso que­
ste parole: «Fatto il sostanziale e sottomessolo al giudizio altissi­
mo etc ed anche dei missionari, spero che uscirà una vera opera
di Dio».
Egli forse pretendeva dai confratelli, incapaci di assecondar­
lo nel suo attivismo frenetico, più di quanto fossero in grado di
accordargli; rivelava, in ogni caso, qualche carenza negli inter­
venti a tavolino. Interventi per i quali occorreva una mentalità
burocratica ancorché indispensabile, il cui fine era compendia­
to in un concetto assolutamente cristallino «un servizio mirato
ed efficiente».
Nel giugno del 1881 quando la vita gli riservava solo uno
scampolo di tempo da dedicare all’adorata Nigrìzia, scriveva al
cardinale prefetto di Propaganda Fide: «Se in Verona dal 1867
in cui cominciai l’opera fino ad oggi vi fosse stato un vescovo
Daniele Comboni, il vescovo africano
198

serio, positivo, fermo, sempre coerente a se stesso, la mia opera


avrebbe fatto passi da gigante, le Regole dei miei Istituti fonda'
mentali di Verona avrebbero ottenuta la formale approvazione
della Santa Sede».
Probabilmente Luigi Canossa, a quell’epoca semplice vesco-
vo, non aveva prestato al documento l’attenzione che meritava.
Ma a questo punto una domanda sorge spontanea: non sarebbe
toccato a lui, a Daniele Comboni, un impegno più incisivo
nella faccenda? Il totale asservimento ai doveri dell’apostolato
non avrebbe dovuto costituire una remora per il superiore da un
intervento concreto, senza pretendere più di quanto fosse ragio-
nevole dai suoi gregari, ma lui contava di dare il tocco risoluti'
vo alla stesura delle Costituzioni, tralasciando i passaggi inter­
medi, lontani da uno stile operativo che aborriva gli indugi.
11 15 marzo 1881 il vescovo Daniele Comboni festeggiava,
senza pensare ad una fine ormai prossima, il cinquantesimo
compleanno. Molte personalità di Khartum, tra le quali spicca-
va il governatore del Sudan Raif Pascià, parteciparono a quel-
l’evento che coincise con una cena. Non mancarono naturai'
mente i confratelli.
Scriveva allora al cardinale Canossa, sempre stimato ed ono-
rato, malgrado le non poche incomprensioni e gli screzi spesso
causati dalla malafede di chi gii stava accanto; «Oggi compio i
cinquantanni, mio Dio! Si diventa vecchi, a gran passi, senza
far niente. E vero che mi trovo qui dinanzi un Vicariato, il più
laborioso e difficile del mondo, che cammina abbastanza bene e
che è portato a un punto, mercè la grazia divina che otto anni
fa, non avrei mai creduto di vedere, in vista degli enormi osta-
coli che aveva preveduti ed al cui progresso vi ho fatto concor­
rere per volere di Dio e, con il suo aiuto, anche il mio dito. Ma
dopo tutto è grazia se io non vi ostacolo e possa esclamare con
l’apostolo “servus inutilis sum”».
Nel luglio del 1881, tornato da un viaggio lungo e travaglia­
to compiuto ad E1 Obeid, Daniele Comboni incappò in un nu­
bifragio che lo costrinse a rimanere su di un materasso fradicio,
per più di cinque ore.
Capitolo Undicesimo. Il vescovo santo
199f-

Quando potè raggiungere la sede del vicariato era in preda a


una febbre violenta che provocava l’insonnia ed altri malanni
concomitanti. La sua fibra d'acciaio, sempre sostenuta da una
forza interiore salda e tenace, sembrava adesso consunta. Alle
sofferenze dovute alla malattia altre se n’erano aggiunte a mina­
re un fisico giunto allo stremo: le morti improvvise di suore e
missionari e la defezione1 dei confratelli intimoriti dalla situa­
zione locale.
La sera del 10 ottobre 1881, Daniele Comboni, di punto in
bianco, entrava in agonia. Gli era accanto, insieme a un fedele
drappello di religiose, padre Antonio Bouchet, originario del
Canada, il quale lascerà dell’evento una memorabile testimo­
nianza: «Allorché lo vidi agli estremi momenti, gli dissi “Mon­
signore il supremo istante è arrivato. Sono venticinque anni che
voi combattete le sante battaglie del Signore alle quali avete sa­
crificato la vita: rinnovate il vostro sacrificio”. L’apostolo della
Nigrizia non parlava più, ma conservava perfettamente la cono­
scenza. Ad un tratto la sua grande e nobile figura s’illuminò
d’un raggio della gioia celeste e ci mostrò il cielo. La sua morte
ci ha immerso nel più profondo dolore, ma la certezza che il no­
stro Padre si trovava in cielo ci ha sostenuto. Noi missionari e
suore presenti a questa morte del giusto abbiamo ripetuto il suo
grido: “O Nigrizia o morte!” Erano le ventidue».
Il ricordo, ancorché sincero, risentiva della retorica, tipica di
quel periodo d’esasperato romanticismo, ma ciò non cancella
una verità incontrastata: una morte santa ha fatto da corollario
a una vita intemerata. Il cordoglio per il vuoto lasciato dal mis­
sionario fu indubbiamente sincero, tra i confratelli e le persone
d’ogni ceto sociale presenti ai funerali.
La salma fu tumulata nel giardino della Missione accanto a
quella di monsignor Ryllo, un prete eroico, protagonista, ai pri­
mordi del ministero, a fianco del nostro.

1 Abbandono di un’organizzazione.
Daniele Comboni, il vescovo africano
200

Il giorno stesso della morte - e a ricordarlo, probabilmente,


è una leggenda - prima che la notizia giungesse in Europa, nel
cielo di Limone del Garda apparve una croce luminosa. La
morte del provicario coincise, purtroppo, con un episodio della
Storia, contrassegnata da tutta una sequenza di soprusi, a danno
delLinfelicissimo Sudan. Parlo del colpo di mano attuato da
Mohammed Ahmed el Mahdi che, malgrado il nome impregna-
to di sacralità (e qui mi riferisco alla religione musulmana), era
un guerriero fanatico e assai crudele. Espulsi gli egiziani dalla
città di Khartum, egli condusse le truppe sino a Toski, nelle
adiacenze della città di Assuan.
Tutte le missioni, create a Khartum, El Obeid, Delen,
Malbes e Berber, caddero sotto gli artigli degli invasori ed i cri­
stiani catturati finirono in massa in prigione* Pochi gli scampa­
ti all’arresto, fuggiti in Egitto; per gli altri la reclusione si con­
cluse solo nel 1898. In quegl’anni, infatti, il generale inglese
Kitchener sconfisse le truppe “madhiste” e, per i cattolici, il pe­
riodo delle “catacombe” giunse a conclusione.
Nel settembre del 1899, padre Ohrwalder celebrava la prima
messa a Khartum alla presenza d’alcuni fedeli scampati alPop-
pressione dei musulmani. Intanto al fondatore era succeduto
Francesco Jojar, attratto con ogni energia da un obiettivo: dare
all’istituto missionario la struttura solida e duratura delta con­
gregazione2.
Dopo le sue dimissioni, subentrò nelPincarico monsignor
Antonio Roveggio, giunto nel Sudan nei ’900 con una decina
di missionari e decìso a riaprire la gloriosa sede di Khartum e a
fondare a Lull una stazione nuova di zecca.
«La mia opera non morrà» aveva annunciato il fondatore
mentre, al culmine di un’esistenza intensa e travagliata, s’appre­
stava a tornare alla Casa del Padre e la sua profezia appare più
che mai valida ai giorni nostri. Anche la “Croce” continua ad
essere la più fedele compagna d ogni iniziativa: l’Opera combo-

2 Gruppo di persone formanti una comunità con finalità religiose.


Capitolo Undicesimo, Il vescovo santo
201

niana si è sviluppata in tre continenti e conta attualmente, tra


laici e sacerdoti, circa 4.000 persone. L’ultimo ramo, nato dalla
pianta originaria, porta l’etichetta di “Missionarie Secolari3
comboniane” e comprende per ora 160 membri, destinati ad au-
mentare e a diffondersi in ogni regione del mondo.
Benché la fama di santità avesse caratterizzato ogni momen­
to della tumultuosa esistenza del provicario, la pratica di cano­
nizzazione4 venne introdotta dal Postulatore5 solo nel 1927.
Fino a quel periodo tutte le risorse e le energie della Con­
gregazione erano state impiegate nel consolidamento delle me­
desime e anche per sanare le molte ferite causate dalla Grande
Guerra. Ad occuparsi concretamente della positio6 fu l’archivi­
sta padre Agostino Capovilla dopo aver sentito vari testimoni
bresciani e veronesi.
Il 24 febbraio 1928 ebbe inizio a Verona il processo ordinario
o informativo7 con tanto d’Attore8, di Promotore9, di notaio e di
avvocati. Interrotto il 12 dicembre, venne ripreso il 14 ottobre
1929 per concludersi il 4 novembre, nel corso di 40 sessioni
erano sfilati dinanzi alla commissione ben 29 testi. Furono
ascoltati, in quell’occasione, anche il cugino del “servo di Dio”,
Fausto Comboni e Teresa Grigolini, già missionaria del Sudan,
ma soprattutto Paolo Meroni, superiore generale dell’Ordine in
possesso di un’ampia e articolata documentazione,
11 6 febbraio 1929 si apriva un secondo processo ordinario a
Khartum presieduto dal vicario apostolico monsignor Paolo

^ Che appartengono alla vita laica pur affiancando una congregazione religios
4 Santificazione.
5 Nel diritto canonico, il sacerdote che tratta presso la Congregazione per le

Cause dei Santi la causa di beatificazione di un servo di Dio o la sua canoniz­


zazione.
6 Iter della pratica di beatificazione o di canonizzazione di un servo di Dio.
7 Esame preliminare della posizione dì un individuo destinato al culto degli al­

tari, effettuato presso la diocesi d’origine.


8 Chi promuove la causa di cui al punto 7.
9 Promotore (o avvocato del Diavolo) è l’incaricato a studiare e verificare gli

aspetti negativi nella vita di un servo di Dio.


Daniele Comboni, il vescovo africano
4 202

Tranquillo Silvestri. Le sessioni furono ventidue e ventinove le


persone interrogate, poi il Tribunale si spostò ad Assuan per te-
nere tra il 12 e il 24 marzo diciassette sessioni ed ascoltare nella
circostanza altri nove individui.
L’audizione comprese sudanesi, egiziani, mercanti siriani e li'
banesi, arabi, neri, domestici, ufficiali, allevatori, ma anche mis­
sionari giunti apposta dall’Italia. Emersero allora episodi total­
mente ignoti alla commissione e che mettevano in risalto lo spi­
rito ecumenico10 e generoso del fondatore. Ma veniamo ai casi
concreti. Due donne di settantanni rivelarono al Tribunale fatti
davvero toccanti, destinati a cambiare radicalmente la loro sto­
ria personale.
Intanto una premessa: esse, durante la fanciullezza, erano
state rapite alle famiglie e poi vendute come schiave. Alla pri­
ma era capitato un padrone privo di scrupoli il quale, dopo
aver riscontrato sul volto della bambina i segni deturpanti del
vaiolo, l’aveva abbandonata nel giardino della Missione. Gua­
rita dal male e recuperata nel fisico grazie alle cure dei religio­
si, egli pretendeva di rientrarne in possesso e Comboni dovet­
te ricorrere all’autorità giudiziaria per impedire una nuova
azione nefasta.
La seconda donna, riscattata dalla Missione, era stata invia­
ta in Italia per rientrare nel Sudan in qualità di sarta. L’aspetto
più rilevante di quel processo mise in luce che ad esaltare la fi­
gura del religioso non furono solo i cattolici (pur costituendo
costoro il nerbo dei testimoni) ma anche i greci ortodossi, i
copti ed otto mussulmani. Disse Said Mohamed Toha, in par­
tenza per il pellegrinaggio della Mecca: «Mi parlava di Gesù,
amava molto Dio, amava tutti, ma aveva una predilezione per i
poveri. Non temeva nulla».
Una volta concluso il processo, gli atti presero la via della
Santa Sede, unitamente agli scritti del missionario. I teologi, in­
caricati d’esaminare il dossier, nulla trovarono sull’esistenza del

10 Di tutto il mondo cattolico.


Capitolo Undicesimo. Il vescovo santo
203

nostro che contrastasse con l’ammissione al titolo ufficiale di


“Beato”.
Tuttavia monsignor Natucci, il promotore generale, colse
una serie d’incongruenze nel rapporto tra il “Servo di Dio” ed 1
camilliani, ma sopratutto nella difesa ad oltranza della religiosa
Virginia Mansour, operata dal fondatore. Espose tutte le sue per­
plessità nelle “animadversiones”11 composte nel 1943.
A quel documento fondamentale, seguirono nel 1952 le “re-
sponsiones”11 12 dell’avvocato Carlo Snider.
Successivamente - ed era trascorso un anno - la Congrega'
zione incaricata a giudicare sugli atti, emise un decreto, datato
26 giugno, che archiviava la Causa e l’etichetta “Reponatur”13,
poneva una seria ipoteca sulla chiusura definitiva dell’mcarta-
mento.
Avendo già offerto un ampio saggio delle controversie che
opposero il nostro ai camilliani, non ritengo opportuno torna­
re sull’argomento. Uno spazio chiarificatore merita invece la
diatriba, montata con acrimonia, ch’ebbe come vittima la
suora. Essa proveniva dal Libano e, approdata a Verona, venne
relegata per molto tempo nel ruolo di postulante14 senza mai ac­
cedere alle condizioni di professa15. Il motivo aveva origini assai
meschine. Non avendo Nicola Grieff conseguito il rettorato
dell’Istituto, era andato dapprima a lamentarsi presso il cardina­
le Canossa, poi, insieme a fratei Giacomo Cavallini e al giardi­
niere Stefani, espresse le medesime lagnanze a don Sembianti.
Le critiche non erano serene perché si tentò d’insinuare che
la decisione del nostro di rifiutare l’ambito incarico al sacerdo­
te dipendesse essenzialmente dalla religiosa. Un influsso di tipo
diabolico “avrebbe confidato a mezza bocca il delatore”. Ma ri­

11 Le deduzioni.
12 Le risposte.
13 Pratica archiviata.
14 Nella regola di alcuni ordini religiosi, chi chiede d’essere ammesso come no­

vizio e si trova nel periodo del postulantato.


15 Suora a pieno titolo.
Daniele Comboni, il vescovo africano
204

torniamo alla suora- Madre Maria Bollezzoli, la superiora, la


trattava con umanità, continuando ad assicurare la postulante
che una decisione definitiva per il suo ingresso in convento non
spettava a lei personalmente, ma solo a padre Sembianti.
Costui, dal canto suo, mostrava intolleranza verso il superiore,
costretto a usare parole forti per tutelare il buon nome della li­
banese e, soprattutto, la sua assoluta innocenza.
E scriveva «Ho sudato e patito per salvare bianchi, neri, pn>
testanti, turchi infedeli, peccatori e prostitute: ho fatto bene a
gente che mi ha sputato in faccia, a buone giovani, ho questua­
to e sudato per alimentar poveri, infelici preti, frati, monache e
non suderò e questuerò per Virginia che fu uno dei più valenti
operai della vigna aspra e difficile dell’Africa e che sempre mi
trattò bene?»
Conoscitore di persone, capace di leggere nei cuori di chi
coglieva nella vocazione un valido strumento di servizio, lui
pensava di trasferire la suora, assurdamente emarginata, nel vi­
cariato dove avrebbe dato di sé una prova eccellente. Purtroppo
la congiura perpetrata nei suoi confronti non s’era affatto pla­
cata, ma stava esplodendo in maniera paradossale. Nel 1880,
non ancora pago dei molti guai combinati, fratei Cavallini in­
formava Luigi Comboni che il figlio subiva l’influsso (una sorta
d’insana passione) della Mansour. E facile immaginare la reazio­
ne del vecchio, incapace di valutare la situazione con il neces­
sario equilibrio e desideroso di neutralizzare il misfatto. Propose
pertanto un rimedio, un rimedio assurdo, chiedendo alla “ragaz­
za” di sposare il cugino Alessandro che sembrava innamorato di
lei. E non è finita. La superiora, dal canto suo, fece un ulterio­
re passo falso supplicando il vecchio Comboni di perorare pres­
so il vicario le aspirazioni, ingiustamente precluse, della postu­
lante.
Fraintendendo il significato di quel messaggio, Luigi mandò
al figlio una lettera piena di sdegno e poi una seconda (a cui al­
legava, fra l’altro, lo scritto della superiora) che provocò nel
monsignore un disagio così profondo da minarne le forze fisiche
ormai fiaccate e la capacità di reagire. Rimase a letto, impoten­
Capitolo Undicesimo. Il vescovo santo
205

te e amareggiato per tre Lunghissimi giorni. Come se non bastas­


se il cardinale Canossa s'intromise nella vicenda facendo della
“diatriba da sacristia” una questione di stato. Egli andava sog­
getto a frequenti crisi depressive e, quando Tangoscia s’impadro­
niva di Lui, trovava lo sfogo attraverso attacchi di bile che il
clero veronese chiamava “le canossine”.
Ma qui è necessaria, ponendo l’accento sulle controversie
avvenute in precedenza, una precisazione. Il nostro aveva ac­
quisito a Sestrì, nella provincia di Genova, da Geremia
Properzi, conosciuto occasionalmente, una casa che intendeva
aggregare ai beni già posseduti dall’istituto comboniano. Per as­
secondare il benefattore ed ampliare la struttura (e questo in
una fase successiva) acquistò un convento dove progettava di
trasferire tre italiane e due arabe, tra cui Virginia Mansour e la
sorella giunte da poco in Italia. Il cardinale, informato quando
già le cose sembravano incamminate, dapprima approvò il pro­
getto, salvo poi bocciarlo con un pretesto e cioè la mancanza
d’un avvertimento effettuato a tempo debito. Pensare che la
nuova Casa e gli istituti veronesi dei quali il porporato s’occu­
pava marginalmente e senza il minimo impegno operavano
sotto la sua giurisdizione da tutti riconosciuta.
Ad un certo punto il cardinale Canossa giunse ad affermare
che la struttura di Sestri era nata per suggerimento della
Mansour. E sì che al momento della costituzione il fondatore
neppure sapeva dell’esistenza della ragazza. Per dissipare quel­
l’assurdità così grossolana, Comboni scrisse, in preda allo scon­
forto: «Io non so più in qual mondo oggi si vive. Io sono qui
esposto alla morte a servire il mio Gesù tra le pene e le croci,
contento di morire per salvare i poveri neri e per essere fedele
alla mia vocazione ardua, difficile e santa e poi mi lascerò gui­
dare da bassi fini indegni di un apostolato della Nigrizia etc.
Non ho fiato di scrivere, né lena, io sono stupito nel vedermi
trattato così».
Il furore persecutorio avente come bersaglio non tanto l’im­
magine del missionario in quanto tale ma solo astiose censure
per un misfatto inesistente, non si placò. Il cardinale scrisse a
Daniele Comboni, il vescovo africano
*206'—

Simeoni, prefetto di Propaganda Fide, chiedendo d’impedire la


partenza della Mansour per la Missione del Sudan. Lo stesso
padre Sembianti, l’informatore del porporato, non aveva nasco­
sto al fondatore il suo aperto dissenso riguardo all’impiego della
postulante. Specie quando le suore del Sudan ne reclamavano
la cooperazione immediata, decisione che il religioso attribuiva
ad un desiderio “insano” del superiore.
Questi, per parte sua, gli rispondeva: «Ho operato riguardo a
Virginia, senza ombra di passione».
E altrove: «No, non allignò nel mio cuore passione fuor che
quella dell’Africa». Insomma un carteggio frenetico correva tra
Verona e Roma, tra Verona ed il Sudan. E lo stress psicologico
a cui fu sottoposto il missionario era davvero immenso. Un
colpo mortale inferro ad una fibra che aveva sconfitto le malat­
tie e le avversità d’ogni tipo, pur trovandosi adesso impreparata
ad un’assurda battaglia voluta da “pastori” irresponsabili.
Quando giunse in Italia la notizia della sua morte, il cardina­
le Canossa, forse pentito per il grave errore commesso e since­
ramente amareggiato, fece collocare in cattedrale una lapide
che n’esaltava le molte benemerenze.

11 29 settembre 1959 il superiore generale della Congrega­


zione, padre Gaetano Brioni, ordinava la creazione di uno Stu-
dium combonianum pronto a raccogliere tutti gli elementi repe­
ribili sulla figura del fondatore: spiritualità, altruismo, attività
instancabile a favore degli africani. Nel 1967 e poi nel ’72 si ce­
lebrò il centenario di fondazione degli istituti e il 1981 fu ricor­
dato per un motivo altrettanto degno di menzione: il religioso
(le cui spoglie rimanevano sepolte nel giardino del vicariato
africano) si trovava ormai da un secolo presso la Casa del Padre,
Tutte queste manifestazioni, sicuramente sincere e per certi
versi riparatrici di tante ingiustizie subite, indussero il superiore
generale Salvatore Calva a compiere un passo importante pres­
so il cardinale Palazzini per domandare la rimozione del “repo-
natur” che aveva di fatto bloccato il processo canonico. Il 12
maggio il porporato inviava un appunto ai comboniani spiegan­
Capitolo Undicesimo. Il vescovo santo
207 *

do il motivo per cui nel ’53 era stato emesso il decreto. Il postu-
latore rispose alla nota ufficiale allegando tre studi miranti a
puntualizzare delle novità sostanziali e in particolare le distor­
sioni interpretative sull’operato del “Servo di Dio”.
Il 26 febbraio 1982 la Congregazione per le Cause dei Santi»
con voto unanime cancellava ogni impedimento nato da dubbi
rimasti per anni insoluti, consentendo la riapertura del proces­
so, La norma introdotta dal Papa permise il passaggio diretto
nella stesura della Positio super virtutibus, La Causa iniziò il suo
iter nel 1984 grazie soprattutto agli esperti dello Studium combo-
nianum e ben 215 archivi e numerose biblioteche offrirono pre­
ziosi contributi su fatti mai indagati con la dovuta solerzia. La
Positio fu sottoscritta dal Relatore il 21 luglio 1988 e si compo­
neva di un ponderoso dossier.
Nel 1989 i consultori storici risposero singolarmente a varie
domande poste sulLargomento e il 12 ottobre 1993 i consultori
teologici espressero il loro assenso su quanto esaminato.
Un analogo prezioso risultato emerse dai confronti di vesco­
vi e cardinali membri della Congregazione per le Cause dei
Santi. Era il 15 dicembre 1993. Toccava adesso al pontefice
emettere il decreto che sancisse l’eroicità delle virtù di Com-
bom, chiamato in gergo canonico “Servo di Dio”. E ciò accad­
de dopo un lasso di tempo ragionevolmente contenuto, il 26
marzo 1994, In quell’occasione papa Wojtyla aveva confidato a
padre Venanzio Malese d’attendere un segno dall’Alto. Un
segno che desse il via alla procedura della beatificazione. E un
segno, in realtà, s’era già riscontrato, ma più di vent’anni prima
quando la Causa sembrava avviata ad uno sterile epilogo.
Ed ecco gli antefatti. Nel 1970, nella cittadina brasiliana di
Sao Mateus, un uomo privo d’una gamba e padre di 5 rampolli
che a stento riusciva a mantenere, lasciò in ospedale la figlia
Maria Josè. L’uomo si chiamava Josè e la bambina undicenne,
alta appena un metro e soprattutto malnutrita, accusava una
febbre intensa e forti dolori addominali. Il medico diagnosticò
la perforazione degli intestini con peritonite all’ultimo stadio.
Vista comunque l’insistenza del genitore e la sua fiducia nella
Daniele Comboni, il vescovo africano
208

guarigione, egli aprì l’addome della paziente, ma dopo una rico­


gnizione di pochi minuti, decise di ricucire perché la bambina
sarebbe morta sotto la lama del bisturi. Nulla da fare in sostan­
za, nessuna speranza di terapia.
A quel punto la comboniana Luigia Polo mise sotto il guan­
ciale della paziente un’immaginetta del “Servo di Dio”. Due
giorni dopo la bambina, come se una mano misteriosa fosse in­
tervenuta alPinsaputa dei sanitari era sfebbrata e trascorse due
settimane, durante le quali la religiosa aveva continuato a do­
mandare l’intercessione del “missionario”, la brasiliana guarì. Fu
il medico stesso ad appurarlo: infatti gli intestini ispezionati con
diligenza non presentavano anomalie di sorta. Tutto era torna­
to normale.
Dal 10 aprile all’8 maggio 1993, celebrandosi a Roma il sino­
do straordinario delPAfrica, 500 furono i prelati (vescovi e ar­
16

civescovi) giunti dal continente più bistrattato del mondo. Era il


clima propizio per inserire, in un adeguato contesto, l’istanza che
stava a cuore ai comboniani. Bisognava, a quel punto, trovare la
miracolata che, dopo più di ventanni, sembrava svanita nel
nulla. Di punto in bianco, però, Maria Josè ricomparve, godeva
duna salute invidiabile e a dare all’episodio un’impronta più
confortante contribuì un fatto nuovo e inatteso: era madre di tre
bambini. Fu sentita, venne ascoltato il dottor Carlos Cassano
dos Santos che l’aveva operata ed una commissione nominata
dalla Santa Sede esplorò la vicenda in tutti i suoi possibili risvol­
ti. Il 24 gennaio, essendo ponente (o relatore) il cardinale africa­
no Francis Arinze, i prelati della Congregazione attribuirono la
guarigione all’intercessione del “Servo di Dio”. Il quale, nel
corso d’una solenne cerimonia tenutasi a Roma, venne procla­
mato “Beato”. Era il 17 marzo 1996.
Per l’elevazione alla santità occorreva un altro “segno” e
questo non mancò di presentarsi in tempi brevi. L’11 novembre

16Riunione, consiglio, assemblea di sacerdoti, di vescovi, di prelati, per deci­


dere su questioni normative o di fede.
Capitolo Undicesimo. Q vescovo santtj
209

1997, nel reparto di maternità di Khartum, era stata ricoverata


una musulmana, Lubna Abdel Azur, madre di cinque figli (fra
cui un neonato) venuti alla luce con il taglio cesareo. Gra-
vissime emorragie, nel pomeriggio, misero a repentaglio la vita
appesa a un filo della puerpera, giunta in mattinata. Le fu prati­
cata un’isteroctomia17 d’urgenza. In serata comunque il caso
sembrava risolto, essendo attesa soltanto una morte liberatoria.
Con il consenso di Lubna, una religiosa comboniana collocò
sotto il guanciale un’immagine del missionario. I medici che as­
sistevano s’unirono alla preghiera guidata con fervore dalla
suora ed anche il marito della paziente pregò. Il giorno 12 no­
vembre i sanitari procedettero ad un ulteriore intervento, deter­
minato dalla presenza d’un emiperitoneo18 che trovava alimen­
to dall’arteria uterina sinistra. Era la terza operazione in 48 ore.
Il collasso si preannunciava imminente sennonché la religiosa
non sembrava orientata alla resa. L’indomani, senz’alcun segno
premonitore, si registrò un decisivo miglioramento nelle condi­
zioni dell’inferma che venne dimessa cinque giorni dopo. L’ana­
lisi di quell'evento straordinario iniziò presso la curia arcivesco­
vile di Khartum e vennero interrogati, per l’occasione, tre gine­
cologi (uno cattolico di rito copto e due ortodossi).
Finalmente PII aprile 2002 i cinque esperti della Consulta
medica riesumarono il caso e la guarigione venne riconosciuta
inspiegabile alla sola luce della scienza. Il 6 settembre i consul­
tori teologici convalidarono la singolarità di quanto avvenuto e,
per un giudizio definitivo, l’analisi passò al vaglio dei cardinali
della Congregazione per le Cause dei Santi. Dopo un iter acci­
dentato, iniziato negli anni venti e protrattosi fra mille traver­
sie sino al giorni nostri, Giovanni Paolo II decretò la santità di
Daniele Comboni. Era 5 ottobre 2003.

17Intervento chirurgico di asportazione dell’utero.


18 Membrana sierosa che riveste le pareti interne e avvolge quasi tutti gli or­
gani addominali.
211*

Gli scritti

Sunto del nuovo disegno della Società dei Sacri cuori


di Gesù e di Maria per la conversione della Nigrizia
proposto alla S. Congregazione di Prop.da Fide

da D. Daniele Comboni deWlsLo Mazza 1864


Roma, 18 settembre 1864

Un buio misterioso ricopre ancora oggidì quelle remote


contrade, che l’Africa Negra nella sua vasta estensione rac­
chiude. Governi civili e private società si adoperarono energi­
camente ad epoche diverse, affinché si imprendessero indagi­
ni intorno a quella sterminata regione, allestendovi all’uopo
ben provvedute spedizioni. Sennonché, malgrado grinnume-
revoli sforzi ed i più grandi sacrifizi, non si potè mai strappare
quelbimpenetrabile velo, che pel volgere di tanti secoli sopra
vi sta disteso.
Or mentre che gl’intrepidi investigatori si occuparono fino
ai dì nostri di quella inesplorata parte del globo, adoperandosi
senza posa per giungere al termine delle loro ricerche collo scio­
gliere i problemi geografici, e collo scoprire i tesori che loro
stanno ascosi per arricchire la storia naturale ed il commercio,
il filantropo cristiano, volgendo lo sguardo alle condizioni spiri­
tuali e sociali di quei popoli incurvati sotto l’impero di Satana,
profuse a sua volta gli effetti di fraterna commiserazione, e l’ef­
ficacia della sua cooperazione pel miglioramento della triste lor
sorte. E per verità, questi pietosi sentimenti ricevettero fino ai
nostri giorni da varie parti poderosi ed efficaci impulsi, si fece­
ro pure ognora lodevoli cose per sollevare l’infelice schiatta dei
Negri dalla sua deplorabile condizione, coH’indirizzarla a vivere
secondo il lume delle verità cristiane.
Daniele Comboni, il vescovo africano
-212

Per tacere delle molteplici e differenti spedizioni di zelanti


Missionari, che parecchi Ordini religiosi, e Società ecclesiasti­
che intrapresero nei secoli trapassati, dietro l’autorizzazione
della Sacra Congregazione di Propaganda Fide, allo scopo di sol­
levare il vessillo della Croce nelle infuocate lande abitate dai
Negri, il Pontefice Gregorio XVI di veneranda memoria fonda­
va la Missione dell’Africa Centrale; e l’immortale Pio IX glorio­
samente regnante, confermando i decreti del suo Predecessore,
ne accomiatava i Missionari, i quali battendo la via del Nilo,
nel 1848 penetravano nel novello Vicariato apostolico, il più
vasto del mondo, che abbracciava una superficie maggiore di
quella del doppio di tutta l’Europa. In questo campo vastissimo
aperto allo zelo della carità del Vangelo fecero inauditi sforzi pa­
recchi degni Sacerdoti della Germania austriaca e bavarese, e
soprattutto del Tirolo tedesco, raccolti dall’eccelso Comitato
della Società di Maria, e dalle fervidi sollecitudini del beneme­
rito Professor Mitterrutzner; quindi i Missionari dell’Istituto
Mazza di Verona; e da ultimo un drappello numeroso di
Francescani. Questa eletta falange della milizia di Cristo, dopo
malagevoli ostacoli ed enormi sacrifizi, riusciva a fondare lungo
le spiagge del maestoso Nilo, che scorre fra il tropico del Cancro
e l’Equatore, quattro Stazioni importantissime, fissando come
centro di comunicazione la metropoli del Sudan egiziano, cui le
condizioni politiche e la sua geografica posizione destinavano
ad essere l’ultimo appoggio degli europei, che in quelle remote
parti si recano.
Sennonché, tutti questi generosi conati della carità del
Vangelo, tutte queste nobilissime sollecitudini di oltre tre lustri
rompevansi all’urto di quegli scogli, che vi ergevano insormon­
tabili un turpe egoismo, la caterva dei disagi, e l’inclemenza del
clima di quelle sventurate contrade micidiali all’europeo; e col
sacrifizio della vita di oltre tre quarti degli Atleti di Cristo con­
sacrati a quella malagevole impresa, si comprarono a caro prez­
zo i tenui frutti di mal sicure e limitate conversioni.
Noi, che per qualche tempo esplorammo quelle remote
tribù, e per quanto il permettevano i fieri morbi che ci tradus­
Gli scritti
213 :-

sero più volte sull’orlo del sepolcro, ne studiammo la natura, i


costumi, e le condizioni sociali, abbiam rilevato, fra le altre
cose, che oltre al primo ostacolo che si attraversava alla conver­
sione dei negri, cioè l’inclemenza del clima, campeggiava il di-
fetto e la mancanza di un centro vitale, che fosse capace di per­
petuare l’opera della propagazione della Fede nell’Africa
Centrale.
Una Missione qualunque, perché le si possa garantire la per­
petuazione, abbisogna di un centro sicuro da cui emani inces­
santemente lo spirito di vitalità, che si diffonda vigoroso per la
sua superficie a conservarne i preziosi germogli, l’esistenza e il
ministero; un Centro vitale che le somministri e le mantenga
possibile la recluta annuale, onde si riforniscono le file dei
Missionari continuamente assottigliate dall’inclemenza dei
climi, dalle fatiche, e dal martirio. Questo centro di vitalità si
presta opportuno in generale negli Istituti e Seminari d’Europa
a beneficio delle Missioni dell’Asia, dell’America, e
dell’Oceania, essendovi tra l’Europa e queste tre parti del globo
qualche omogeneità d’indole, di abitudini, e di clima, od alme­
no tra l’una e le altre una potenza di comunicare ed una suscet­
tibilità di ricevere perennemente e stabilmente le magiche im­
pressioni della vita, che sui corpi dell'umana società suole in­
fondere lo spirito del Vangelo.
Ma questo centro benefico, donde emani quello spirito di vi­
talità cotanto necessario per la conservazione e perpetuazione
delle Missioni straniere, qui nell’Europa non può prestarsi op­
portuno ed efficace per la conversione dei negri; stanteché
l’esperienza chiaramente ha dimostrato che il Missionario euro­
peo non può prestare la sua opera di redenzione in quelle infuo­
cate regioni dell’Africa interna esiziali alla sua vita, che non
può reggere alla gravezza delle fatiche, alla molteplicità dei di­
sagi, e all'inclemenza del clima; e del pari l’esperienza ha dimo­
strato che il negro nell’Europa non può ricevere una completa
istituzione cattolica, da riuscir poi capace per una costante di­
sposizione dell’animo e del corpo, a promuovere nella sua terra
natale la propagazione della Fede; perché, o non può vivere
Daniele Comboni, il vescovo africano
214

nell’Europa, o ritornato nell’Africa ne è reso inetto per le quasi


connaturate abitudini europee contratte nel centro della civil­
tà, che diventano ripugnanti e nocevoli nella condizione della
vita africana.
Noi siamo testimoni oculari del fiero scempio che fecero dei
più robusti Missionari le fatiche, i disagi, ed il fatai clima africa­
no; talmentecché quelli che sopravvissero al periglioso viaggio
al Fiume Bianco, non appena coll’apprendimento della lingua
di una tribù, ove si era piantata una Stazione cattolica, rende-
vansi idonei ad evangelizzarne gli africani, soccombevano tosto
ad una morte pressoché improvvisa, lasciando sempre sterile di
frutto l’opera della conversione dei negri, i quali per la sempre
successiva e reiterata decimazione dei Missionari gemono anco­
ra sotto l’impero del più degradante feticismo. La Propaganda
poi, alla quale son note tutte le Istituzioni che impresero
nell’Europa l’educazione d’individui della razza etiope, è in
grado di confermare la verità dell’inefficacia ed inopportunità
della creazione di un clero indigeno istituito nelle nostre con­
trade, e destinato ad evangelizzare il centro dell’Africa.
L’esperienza adunque avendo chiaramente dimostrato che il
sistema tenuto fino ad ora, benché utilissimo per la conversio­
ne degli infedeli delle altre parti del globo, è nulladimeno affat­
to inopportuno per la rigenerazione dell’Africa interna, perché
il missionario europeo, non potendo vivere in quelle infocate
regioni, non riuscirà mai a stabilirvi e perpetuarvi la Fede, e l’in­
digeno africano istituito nell’Europa per le suesposte ragioni di­
venta inetto ad esercitare l’apostolico ministero nel suo paese
natale, la S. Congr.ne di Propag.da Fide è nella dura alternati­
va, o di decretare l’estinzione dell’importante Missione
dell’Africa Centrale, o di sollecitare la creazione di un disegno,
che risvegli più fondate speranze di esito più felice per la con­
versione dei negri.
Ora la desolante idea di vedere forse per molti secoli sospesa
l’opera della Chiesa a vantaggio di tanti milioni di anime ge­
menti ancora nelle tenebre e nelle ombre di morte, dee ferire
profondamente e fieramente conquidere il cuore di ogni pio e fe-
Gli scritti
215

delc cattolico infiammato dallo spirito della carità di Gesù


Cristo. Egli è perciò che a secondare l’impulso di questa sovrau­
mana virtù, e a dileguare per sempre dal filantropo cristiano lo
straziante pensiero di lasciare avvolte nell’infedeltà e nella bar­
barie quelle immense e popolate regioni, che sono senza dubbio
le più necessitose e le più derelitte del mondo, è d’uopo abban­
donare il sentiero fino ad ora seguito, mutare l’antico sistema, e
creare un disegno, che guidi più efficacemente al desiato fine. Il
perché nella nostra infermità abbiamo tentato di rintracciare
una via probabile, se non sicura, affine di iniziare un provvedi­
mento alla rigenerazione futura di quelle anime abbandonate, al
cui vantaggio si appuntarono sempre tutti i pensieri della nostra
vita, e per le quali saremmo lieti di versare il nostro sangue fino
all’ultima stilla.
Ed ecco balenarci alla mente un disegno, che se non presen­
ta tutti quei vantaggi che si ritraggono da quelli escogitati a prò
delle altre Missioni del mondo, riuscirà forse efficace a produr­
re un considerabile miglioramento all’infelice condizione dei
Negri; sì che per le vie tracciate dalla Provvidenza essi giunge­
ranno a poco a poco a partecipare ai frutti ineffabili della
Redenzione dell’Uomo-Dio.
Non solamente i negri dell’Africa interna, ma quelli altresì
delle coste e di tutte le altre parti della grande penisola, benché
spartiti in migliaia di differenti tribù, sono improntati più o
meno della medesima indole, abitudini, tendenze, e costumi co­
nosciuti abbastanza da coloro, che da lunga pezza occuparonsi
pel loro bene; e quindi pare a noi che la carità del Vangelo possa
loro applicare comuni rimedi ed aiuti, che tornino efficaci a co­
municare alla grande famiglia dei negri i preziosi vantaggi della
cattolica Fede. Sembra quindi a noi opportuno, e diremmo quasi
necessario, che fra i molteplici escogitati che si potrebbero met­
tere in opera a beneficio della rigenerazione dei negri, quello do­
vrebbe trascegliersi, che riunisce in sé un’assoluta unità di con­
cetto accoppiata ad una generale semplicità di applicazione,
E tale appunto ci sembrerebbe il disegno che noi abbiamo
ideato per la conversione dei negri; disegno, che quantunque
Daniele Combonì, il vescovo africano
216

vasto nella sua estensione, e malagevole nella sua completa at­


tuazione, ci apparirebbe tuttavia uno e semplice nel suo concet­
to e nella sua applicazione.
Questo disegno non si limiterebbe perciò agli antichi confi­
ni tracciati della Missione dell’Africa Centrale, che abbiamo
veduta riuscire infelicemente per le ragioni suesposte, ma ab-
braccerebbe tutta intera la stirpe dei negri; e perciò spieghereb­
be e distenderebbe la sua attività su quasi tutta l’Africa, i cui
paesi sono abitati dalla razza etiope.
Ora quantunque la S. Sede Apdica non sia giammai riuscita
a piantare stabilmente la Fede nelle vaste tribù della Nigrizia
Centrale, tuttavia profuse le benefiche sue sollecitudini nelle
Isole e sulle Coste che circondano la grande penisola africana,
ove fondò dodici Vicariati, nove Prefetture apdiche, e dieci
Diocesi. Fioriscono infatti più o meno splendidamente.
A settentrione i due Vicariati apostolici dell’Egitto e di
Tunisi, e le tre Prefetture ap.liche dell’Alto Egitto, di Tripoli, e
di Marocco.
A ponente i cinque Vicariati ap.lici della Senegambia, di
Sierra Leone, dei Dahomei, delle Guinee, e di Natal, e le tre
Prefetture ap.liche del Senegai, del Congo, e delle isole
Annabon Corisco e Ferdinando-po’.
A mezzodì i due Vicariati Ap.lici dei Distretti orientale, ed
Occidentale del Capo di Buona Speranza.
A sud-est il Vicariato ap.co di Madagascar, e le tre Prefetture
apdiche di Zanguebar, delle Isole Seychelles, e delle Isole
Nossibè, S. Maria, e Mayotte.
Al nord-est i due Vicariati Apostolici dell’Abissinia e dei
Gallas.
Fra le dieci Diocesi poi fioriscono in peculiar modo e setten­
trione quella di Algeri, ed a sud-est quella di S. Denis all’Isola
della Réunion nell’Oceano Indiano. Egli è quindi naturale che,
per realizzare l’ideato Disegno, è d'uopo invocare l’aiuto e la
cooperazione di codesti Vicariati, Prefetture, e Diocesi già stabi­
lite attorno all’Africa, le quali mirando più davvicino la lagri-
mevole miseria e l’estremo bisogno dell’immense popolazioni
Gli scritti
— 217

dell’interno, sulle quali non ancora brillò l’astro luminosissimo


della Fede, potranno concorrere validamente colPautorità, col
consiglio, e coll’opera ad assistere ed agevolare la grande impre-
sa della rigenerazione delle vaste e popolose tribù dell’intera
Nigrizia.
Il Disegno quindi, che noi oseremmo proporre e sottomette­
re alla S. Congr.ne di Prop.da Fide, sarebbe la creazione d’innu-
merabili Istituti d’ambo i sessi che dovrebbero circondare tutta
l’Africa, giudiziosamente collocati in luoghi opportuni alla mi­
nima distanza dalle regioni interne della Nigrizia, sopra terreni
sicuri ed alquanto civilizzati, in cui potessero vivere ed operare
sì l’europeo che l’indigeno africano.
Questi Istituti maschili e femminili, ciascuno collocato e sta­
bilito giusta le norme delle costituzioni canoniche, dovrebbero
accogliere giovani e giovanette della razza negra allo scopo
destituirli nella religione cattolica e nella cristiana civiltà, per
creare altrettanti Corpi d’ambo i sessi, destinati, ciascuno dalla
sua parte, ad avanzarsi mano mano e distendersi nelle regioni
interne della Nigrizia per piantarvi la Fede e la civiltà ricevuta.
A reggere questi Istituti sarebbero chiamati gli Ordini reli­
giosi e le Istituzioni cattoliche maschili e femminili, approvate
dalla Chiesa, o riconosciute, o permesse dalla S. Congr.ne di
Prop.da Fide, dietro il beneplacito di questa e l'accordo recipro­
co coi Capi e Superiori generali di questi Ordini ed Istituzioni.
Oltre a ciò, dietro il mandato della Propaganda, si potranno
fondare pel medesimo scopo nuovi Seminari per le Missioni
africane, modellati sul piano dei Seminari della Missioni estere
già esistenti, coll’applicazione di tutte quelle norme, che per
l’Africa si esperimentassero opportune.
Questi Istituti sarebbero posti sotto la giurisdizione dei Vica­
riati e Prefetture ap.liche già esistenti sulle Coste dell’Africa, o
di quelli che alla S. Congr.ne di Prop.da Fide piacesse di fonda­
re in seguito ai progressi dell’Opera del nuovo Disegno.
Il personale della Direzione di codesti Istituti governerebbe i
Corpi dei propri allievi etiopi secondo le regole e lo spirito della
propria Istituzione adattata all’opportunità ad ai bisogni
Daniele Combom, il vescovo africano
218

dell’Africa interna; e si proporrebbe per ispecial fine la regger


za ed il buon andamento degli Istituti dei negri e delle negre,
senza però trascurare di promuovere ed operare tutto quel bene
che potrebbe fare al paese, ove gl’istituti sarebbero collocati.
L’istituzione, che dovrà darsi a tutti gl’individui d’ambo i
sessi appartenenti agli Istituti che circonderebbero l’Africa, sarà
d’infonder loro nell’animo e radicarvi lo spirito di Gesù Cristo,
l’integrità dei costumi, la fermezza della Fede, le massime della
morale cristiana, la cognizione del catechismo cattolico, ed i
primi rudimenti dello scibile umano di prima necessità. Oltre a
questo, ciascuno dei maschi verrà istruito nella scienza pratica
dell’agraria, e in una o più arti di prima necessità; e ciascuna
femmina verrà del pari istruita nei lavori donneschi di prima
necessità; affinché i primi diventino uomini onesti e virtuosi,
utili ed attivi; e le seconde riescano pure virtuose ed abili donne
di famiglia. Crediamo che questa attiva applicazione al lavoro,
a cui vorremmo assoggettati tutti i membri degli africani Istituti,
influisca poderosamente sul morale e spirituale vantaggio degli
individui della razza etiope, inclinata oltremodo alla pigrizia ed
all’inazione.
Compiuta l’educazione religiosa e civile negli Istituti, la db
rezione a ciascuno degli individui d’ambo i sessi, che uscirà dalla
giurisdizione del proprio Istituto, farà tutto quel bene che starà
entro i limiti del suo potere, prestandogli aiuto e consiglio, per­
ché sia posto in condizione da conservare i sani principi di reli­
gione e di morale, che gli furono scolpiti nell’animo coll’istitu­
zione ricevuta.
Da ciascuno di questi Istituti, che circonderanno la grande
penisola africana, si formeranno altrettanti Corpi maschili e
femminili, destinati a trapiantarsi gradatamente nelle regioni
della Nigrizia centrale, affine di iniziarvi e stabilirvi l’opera sa­
lutare del Cattolicesimo, e piantarvi delle Stazioni, dalle quali
emanerà la luce della Religione e dell’incivilimento.
Il Corpo dei giovani negri, formato dagli individui, che si
giudicheranno atti al grande scopo, sarà composto: 1°. di abili
catechisti, a cui si darà una più estesa cognizione delle scienze
Gli scritti
219

sacre. 2°. di abili maestri, a cui si darà la possibile istruzione


nelle scienze di prima necessità adattabili ai paesi dell’interno.
3B. di abili artisti, a cui si comunicherà la cognizione pratica
delle arti necessarie e più utili alle regioni centrali, per formar-
li virtuosi ed abili agricoltori, medici, flebotomi, infermieri, far­
macisti, falegnami, sarti, muratori, calzolai etc.
Il Corpo delle giovanette negre, formato parimenti degli indi­
vidui più atti al grande scopo, sarà composto: l9. di abili istitutri­
ci, a cui si darà la possibile istituzione nella religione e nella mo­
rale cattolica, affinché ne infondano le massime e la pratica nella
degradata femminil società africana, dalla quale, come fra noi, di­
pende quasi del tutto la rigenerazione della grande famiglia dei
negri. 29. di abili maestre e donne di famiglia, le quali dovranno
promuovere Pistruzion femminile in leggere, scrivere, far conti,
filare, cucire, tessere, assistere agli infermi, ed esercitare tutte le
arti donnesche più utili ai paesi della Nigrizia Centrale.
Trapiantati mano mano questi gran Corpi da ciascuno dei di­
versi Istituti che circonderanno l’Africa nei diversi punti dei
paesi delPinterno, ciascun individuo, mentre presterà la sua
opera a propagarvi la religione e la civiltà, in cui venne a tal
uopo istituito, ed a promuovere l’agricoltura in quei vergini ter­
reni di libera occupazione, potrà abbracciare quello stato di vita,
a cui si sentirà più inclinato.
Dalla classe dei catechisti formata dal Corpo dei giovani
negri, si caverà la sezione degli individui più distinti per pietà e
sapere, nei quali si scorgerà una probabile disposizione allo stato
ecclesiastico; e questa verrà destinata all’esercizio del divin mi­
nistero. Nell’istituzione di questa privilegiata sezione si esclude­
rà la moltiplicità delle materie, a cui si assoggettano gli alunni
dei Seminari d’Europa, e si limiterà l’istruzione alle discipline
teologiche e scientifiche di prima necessità, sufficienti ai biso­
gni ed alle esigenze di quei paesi; e calcolato il precoce svilup­
po fisico e intellettuale dell’indigeno africano, codesta istituzio­
ne non vorremmo già prolungata ai dodici e più anni stabiliti
nell’Europa; ma crediamo sufficiente che possa limitarsi dai sei
agli otto anni, secondo che si giudicherebbe opportuno.
Daniele Comboni, il vescovo africano
220

Tuttavia la speciale condizione dell’incostanza e mollezza,


che contraddistinguono Pindole ed il carattere della razza etio­
pica, dovrà imporre la più rigorosa cautela nel determinare agli
aspiranti al Sacerdozio l’epoca della promozione agli ordini
sacri; e noi siamo pienamente convinti che sia assolutamente
necessario di stabilire, che non si debbano promuovere che in
seguito a parecchi anni di provata fermezza e castità, percorsi
nel tirocinio di una vita esemplare ed attiva e nel ministero
della dispensazione della Parola divina, esercitato nelle già sta­
bilite Stazioni dell5interno della Nigrizia nella condizione di un
severo ed irreprensibile celibato.
Dal Corpo delle giovani negre che non si sentiranno incli­
nate allo stato coniugale, si caverà parimenti la sezione delle
Vergini della Carità, formata degli individui più distinti per
pietà ed istruzione pratica del catechismo, delle lingue, e dei la­
vori donneschi. Questa sezione privilegiata costituirà la più
eletta falange del Corpo femminile destinata a reggere le scuole
delle fanciulle, e compiere le funzioni più importanti della cari­
tà cristiana, e ad esercitare il ministero della donna cattolica fra
le tribù della Nigrizia.
In tal guisa, mercè il ministero importantissimo del Clero in­
digeno e delle Vergini della Carità, coadiuvato dall’opera bene­
fica dei catechisti, dei maestri, e degli artisti, delle istitutrici,
delle maestre e donne di famiglia, si formeranno a poco a poco
numerose famiglie cattoliche, e sorgeranno fiorite società cri­
stiane, e la nostra santa religione, dispiegando il salutare suo in­
flusso sull’etiopica famiglia, stenderà grado grado il suo benefi­
co impero sulla vasta estensione delle inesplorate regioni del­
l’intera Nigrizia.
Avendo l’esperienza dimostrato che la sola continuata per­
manenza nei paesi dell’interno, e non già una temporanea di­
mora è perigliosa ed esiziale all’europeo, perciò le fondazioni
delle Missioni e delle Cristianità che si verranno in progresso di
tempo a stabilire nei paesi dell’Africa Centrale, saranno perso­
nalmente iniziate ed avviate dai Missionari europei, a tal fine
deputati dai rispettivi Vicari e Prefetti ap.lici; l quali pure do­
Gli scritti
- 221

vranno determinare il personale dei catechisti o Sacerdoti indi­


geni di provata idoneità, a cui verrà affidata la permanente di­
rezione delle Stazioni e Cristianità dell’interno, già iniziate ed
avviate dai Missionari europei.
D’altro iato le statistiche della Missioni africane avendo di­
mostrato che la donna europea, attesa la vantaggiosa elasticità
del suo fisico, l’indole del suo morale, e le abitudini del suo vi­
vere domestico e sociale, resiste a gran pezza più che il
Missionario europeo all’inclemenza del clima africano; perciò,
dietro il giudizio ed il mandato dei rispettivi Vicari o Prefetti
ap.lici, potranno stabilirsi degli Istituti regolari femminili
d’Europa nei paesi dell’interno dell’Africa meno fatali all’euro­
peo, affine di prestare con maggiore efficacia i meravigliosi ed
importanti servigi della donna cattolica per la rigenerazione
della grande famiglia dei negri.
Siccome l’indole ed il carattere della razza etiope è oltremo­
do variabile ed incostante, perciò crediamo opportuno e neces­
sario che la S. Congr.ne di Prop.da Fide abbia ad autorizzare i
Vicari o Prefetti ap.lici di legittima e rispettiva giurisdizione a
decretare frequenti visite apostoliche nelle Missioni e
Cristianità stabilite nell’interno, affine di correggere, conferma­
re e migliorare le condizioni del Cattolicesimo in quelle peri­
gliose contrade, ove sovente un turpe egoismo, ed il fanatico
fervore dell’islamismo corrompe e devasta l’opera del sacerdozio
cristiano; ed ove il tenore di vita, il clima, ed altre speciali cir­
costanze contribuiscono ad illanguidire col corpo lo spirito, ed a
snervare la disciplina ecclesiastica con grave pericolo della fede;
deputando a tale scopo idonei missionari europei, che senza ri­
schio assoluto della vita per la ragione suesposta potranno com­
piere con grande vantaggio l’importante loro Missione.
Allo scopo di coltivare gl’ingegni più distinti, che avessero a
sortire dalla sezione dei Missionari indigeni, per formarli ad abili
ed illuminati capi delle Cristianità dell’interno della Nigrizia, la
Società destinata a regolare il nuovo disegno, in seguito ai pro­
gressi delle sue grandi opere, potrà fondare all’uopo quattro
grandi Università Africane Teologico-Scientifiche nei quattro
Daniele Comboni, il vescovo africano
222

punti più importanti, che circondano l’Africa, quali sarebbero,


a nostro giudizio, Algeri, il gran Cairo, S. Denis all'Isola della
Réunion nell'Oceano Indiano, ed una delle città più importan­
ti delle coste occidentali dell’Africa sull’Oceano Atlantico.
In questi quattro Centri Universitari, come pure in altri
punti di grande importanza delle Isole e delle Coste che circon­
dano l'Africa, si potranno fondare in progresso di tempo dei
grandi stabilimenti Artistici di Perfezionamento pei giovani
negri cavati dal Corpo degli Artisti più atti a riceverne una più
elevata istituzione, affinché, mercè l’introduzione delle arti per
migliorare le condizioni materiali delle vaste tribù della Nigri-
zia, venga ai Missionari agevolato il sentiero per introdurvi più
radicalmente e stabilmente la Fede.
A realizzare e dirigere il nuovo Disegno verrà stabilito in una
delle capitali d’Europa un Comitato, composto di abili, ed atti­
vi Prelati, Ecclesiastici, e distinti Secolari, dipendente dalla S.
Congreg.ne di Prop.da Fide. Questo Comitato, governato da un
Presidente, piglierà il nome di Comitato della Società dei Sacri
Cuori di Gesù e di Maria per la Conversione della Nigrizia.
La Missione speciale di questo Comitato sarà: 1~. Col mezzo
di un Procuratore stabilito a Roma comunicare colla S.
Congr.ne di Prop.da Fide, e trattare sopra ciascuna delle impre­
se più importanti della nuova Società. 2~. Trattare coi Centri
generali degli Ordini e Congregazioni maschili e femminili per
la fondazione degli Africani Istituti, e corrispondere coi mede­
simi Centri, e coi Vicariati e Prefetture apostoliche dell’Africa,
e colle direzioni degli Istituti dei Negri. 3S. Provvedere ai mezzi
pecunian e materiali per l’attuazione del nuovo disegno giusta il
beneplacito della Sacra Congregazione di Propaganda Fide. 4~.
Fondare Istituti, Seminari, e Stabilimenti artistici nei Centri
più opportuni dell'Europa e dell’America per le Missioni del­
l’Africa. 52. Stabilire un Corpo di colti e zelanti Missionari eu­
ropei, per trattare personalmente coi Vicari e Prefetti ap.lici
dell’Africa, e coi capi degli Istituti gl'interessi della nuova So­
cietà, ed esplorare le coste ed i punti più importanti dell’Africa,
ove piantare gl'istituti dei negri. 6e. Studiare e mettere in opera
Gli scritti
223

i mezzi più efficaci per migliorare il sistema di realizzazione del


nuovo disegno. 7S. Raccogliere e pubblicare annualmente in
varie lingue i progressi delle Opere della nuova Società, e dalla
pratica esperienza trarre istruzione per migliorare la condizione
degli africani Istituti e Cristianità a vantaggio della rigenerazio­
ne della Nigrizia.
Noi speriamo fermamente che questo Disegno della Società
dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria per la conversione della Nigri­
zia, qualora venga benignamente accolto dalla S. Sede ap.lica, ot­
terrà la cooperazione di tutte quelle sante Istituzioni, che finora si
occuparono, o tentarono di promuovere i vantaggi spirituali della
razza etiope; e verrà protetto ed assistito da quelle pie Società, che
forniscono di mezzi pecuniari e materiali le sante Opere istituite
per la propagazione della Fede di Gesù Cristo.
Finalmente ci sorride nell’animo la più dolce speranza che
l'unità, la semplicità, e l’utilità del nuovo disegno della Società
dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria per la Conversione della Ni­
grizia appagherà la mente ed il cuore del SS.mo nostro Padre,
l’immortale Pontefice Pio IX, delPE.mo Cardinal Prefetto Ge­
nerale e degli E.mi e R.mi componenti e Consultori della Sacra
Congreg.ne di Prop.da Fide; ed in pari tempo troverà un’eco di
approvazione, ed un appoggio di favore e di aiuto nel cuore dei
cattolici di tutto il mondo investiti e compresi dallo spirito di
quella sovrumana carità, che abbraccia l’immensa vastità del­
l’universo, e che il divin Salvatore è venuto a portar sulla terra:
ignem veni mittere in terram et quid volo nisi ut accendaturì
Se la S. Sede ap.lica sorriderà benignamente al nuovo Dise­
gno della Società dei SS. Cuori di G. e di M. per la Conversio­
ne della Nigrizia, noi saremo lieti di consacrare le nostre debo­
li forze e tutta la nostra vita per cooperare nella nostra infermi­
tà alla grand’opera; fermi nella certezza che avrà un esito felice,
perché vi avremmo conosciuta la suprema volontà del cielo; e il
gran Dio delle misericordie cancellerà per sempre il tremendo
chirografo della maledizione, che pesa da tanti secoli sui miseri
figliuoli di Cam; e la benedizione si stenderà pacifica e si perpe­
tuerà nella grande famiglia dei negri.
Daniele Comboni, il vescovo africano
224

Se poi la S. Sede ap.lica non giudicherà di approvare questo


nuovo Disegno, noi saremo lieti di sottometterci pienamente
alle sempre adorabili disposizioni della Provvidenza divina; ed
avremo un nuovo argomento per esclamare a tutta ragione col
grande Apostolo: servi inudles sumus.
Lode e Gloria ai SS. Cuori di Gesù e di Maria a S. Giuseppe,
ai SS. Apostoli, e a S . Francesco Saverio, al B. P. Claver, ed alla
B. M. Alacoque. D. Daniele Comboni dell’Ist.o Mazza Miss.o
Ap.co delPAfrica Centrale, Roma 18 Settembre 1864, giorno
della Beatificazione di Suor M. Alacoque della Visitazione.
P.S. La Santità di N. S. Pio IX. si è degnata d’incoraggiare
l’esecuzione di questo nuovo Disegno per la Conversione della
Nigrizia; e Sua Em.za il Card. Bamabò Prefetto generale della S.
Congregazione di Propaganda Fide vuole che concorra l’assi­
stenza della Pia Opera della Propagazione della Fede di Lione e
Parigi.
Come corollario di questo nuovo Disegno sortirà la realizza­
zione del Piano del M. R. D. Nicola Mazza, al cui Istituto verrà
assegnato un Vicariato od una Prefettura apostolica nell’Africa
Centrale assistita dalla Società di Maria di Vienna. D. D.
Comboni

A p. Giuseppe Sembianti
El'Obeid, 16 luglio 1881

[...] Perdoni, mio caro Padre, se io, che in fatto di tutte que­
ste virtù, sono molto al di sotto di lei, senza calcolare tutta quel­
la caterva di difetti e infermità che ho, mentre la sua vita è da
angelo, vengo a farle da maestro di spirito.
Ma sono Capo e Fondatore dell’Opera più difficile di aposto­
lato, che deve formare dei santi e delle sante per convertir
PAfrica; e lo strumento primo per formare questi Dio ha voluto
che fosse Lei, e che deve a poco a poco apprendere ciò che ci
vuole, e conoscere a fondo l’anatomia dello spirito umano, per
Gli scritti
— 225-

poter formare dei santi apostoli, etc. etc.; quindi le parlo schiet-
to e le faccio da maestro, certo che ella farà lo stesso anche per
me, e tutto ciò a gloria di Dio, a confusione ed emendazione no­
stra, (perché la perfezione è un alto monte, e noi non siamo che
a’ piedi), e per la salvezza dei poveri negri, che sono le anime
più abbandonate del mondo.
Ma ella dirà «Se sono così bambino e povero di virtù, e se
sono così inetto per conseguenza a fare il mio dovere col forma­
re dei santi, è meglio che scappi, e che vada nel mio Convento,
e che Dio mandi qui un altro più capace di me e più virtuoso di
me: io dispero di riuscirvi». E qui dove io voleva il mio
Sembianti (perché ho intenzione di batterlo; ora ho appena co­
minciato, e ciò per salvare la Nigrizia, e per farsi santo se stesso).
Ah piano, mio caro. E vero che ella è bambino in virtù. Ma
si ricordi di una massima inculcatami dal P. Marani, che era più
ruvido di lei, di sgraziate maniere, e talvolta mostrava di avere
molto poca carità (ed in ciò non lo imiti per nulla). Io trattai
da Chierico il P. Marani, feci la confessione generale da lui, e
diede il consiglio definitivo della mia Vocazione (quella matti­
na il P. Benciolini stava fuori, che aspettava di sapere da me la
risoluzione del P, Marani, 9 agosto 1857) dicendomi: «Mi lo co­
nosso da cerico, mi Pò consiglia da cièrico e da prete in tutte le
sò cose (cose sue): mi gò in mente come in uno specie tutta la
so vita, le so cose, el so difetto capitàl, quel che Pha fatto per
batterlo, etc. etc. Mi Pè dal 1820 che ho comincia a esaminar le
vocazioni, e per tanti anni ho fatto questo, e gavea per maestro
gnente manco che D. Gasparo. E ben el se consola, e noi gab­
bia paura (tremava come una foglia perché avea timore che mi
dicesse che per l’Africa non avea nessuna vocazione, timore che
alla mattina del 9 avea esternato al R Benciolini, che mi rispon­
deva: “lu el farà quel che el Signor vorrà, el vaga dentro da D.
Marani, e el farà quel che’l che dirà”): Pè tanti ani che esamino
vocazioni e de Missionari e de preti e de frati etc.; la so voca-
zion alla missione e all’Africa Pè dele più ciare che abbia visto:
ghe sta qua e D. Vinco, e Zara Gesuita, e D. Ambrosi, e cento
altri; la so vocasion me par delle più ciare e sicure che mi abbi
Daniele Combom, il vescovo africano
226

visto; e son veccio, go i cavei grisi, e go sulle spale sessantaset-


te, quasi sessanta otto ani; el vaga en nome de Dio, e le staga al-
legro. Mi inginocchiai, mi benedisse, lo ringraziai piangendo di
consolazione, e corsi a raccontar tutto al P. Benciolini, (che ri­
deva). Dunque (scusi della parentesi) continuo».
Lei, caro padre, si ricordi di una massima inculcatami dal R
Marani, ed era questa: «Chi confida in se stesso, confida nel più
grande asino del mondo» e soggiungeva: «tutta la nostra confi­
denza deve essere in Dio». E in ciò vengono meno molte anime
sante che io conosco, e tanti Gesuiti, e frati, e preti pii, e reli­
giosi che si mettono il cilicio, e si battono il petto, e Trappisti e
Certosini e anime di grande orazione etc. etc. i quali con una
vita santa, e con molta orazione dicono di confidare in Dio (li
ho veduti coi miei occhi e sentiti colle mie orecchie, e non so­
lamente religiosi e preti, ma prelati, vescovi, e qualche cardina­
le), dicono Dio può tutto, Dio farà tutto, provveder! a tutto,
portiamo la croce umiliamoci, annientiamoci, etc... Ma quando
capita la tempesta, vien meno la speranza umana, non vedono
luccicare il denaro, tutto è croce, capita Tumiliazione, sentono
che non han credito, etc. etc. allora cadono sotto il peso la fi­
ducia in Dio è zero (confidavano nel più grande asino di questo
mondo), e la vera e reale perfezione è andata in fumo.
Tutto questo è toccato a me cento volte, ed ho conchiuso che
il P. Marani avea ragione, e che l’unico labaro e rifugio e fortez­
za è mettere tutta la propria fiducia in Dio, che è un galantuo­
mo, e l’unico galantuomo, che ha testa, cuore, e coscienza, e che
da noi può far far miracoli; ed ho sperimentato che la piena fi­
ducia negli uomini non ci assicura affatto, fossero vescovi, santi
(che mangiano) cardinali, principi, re, potenti etc., insomma fi­
ducia piena nell’uomo, va soggetta a disillusione. Lasciai una
cosa (scrivo dopo essere scappato tre volte dalla mia camera ove
piove giù e dopo aver mutato tavolo tre volte in oggi).
Dissi che D. Marani era ruvido, bisbetico a certi momenti,
con poca carità (di scarsella), etc. etc. (ed in ciò non lo imiti);
ma D. Marani era un santo, grande maestro di spirito, gran con­
sigliere di anime, uomo nato e fatto per comandare e farsi ri­
Gli scritti
227

spettare, profondo conoscitore del cuore umano, modello di


preti, direttori di spirito, zelatori di anime, un vero missionario
e padre spirituale, che non ha studiato molto, ma che era dot'
tissimo nelle scienze sacre e nel governo dell’anime, perché
avea profondamente studiato, compreso, e divorato un gran
libro divino: “D. Gaspare Bertoni”, Requìescat in pace.
Ora lei, benché incapace, privo di virtù etc., pure è stato de'
stinato da Dio (e niente v’ha di più chiaro più che il soie) ad es-
sere Rettore degli Istituti Africani. In questo affare ella non ci
entra niente. Dunque ella è sicura che soddisferà (colla abitua'
le diligenza e volontà stimmatina, che vuole solo Dio), ella spO'
gliata di se stessa deve confidare in Dio, e star tranquillo e certo,
che al suo posto ella farà quello e più che farebbe il Venerabile
Avila, il General dei Gesuiti etc. perché lei non è che semplice
strumento e Pulcinella del Signore.
Dunque non si sconforti e scoraggi se riceverà colpi da orbo,
per ritrarlo dalla via, etc., poiché satana ci fa una guerra tre'
menda adesso, perché va accorgendosi che fra non molto deve
sloggiare daH’Africa, e che io e lei (scusi della santa umiltà)
siamo destinati suoi precipui persecutori e nemici. Tiri dunque
avanti, s’aspetti dei colpi tremendi, e vada avanti e taccia. Mio
Dio, che digressioni! Ma torniamo alle sue lettere. Non creda
che a personaggi serii scriva così alla babbalana, senza rilegger'
le (e lei le sue lettere le compassa). A tei appariscono così me'
glio quel che sono, cioè, un macaco de comuni confessorum
non pontificum etc., con lei ho confidenza; e se non me la dà,
me la prendo; e le scrivo giù giù, e conoscerà quel sono. Ma coi
grandi, coi re (ho ricevuto ieri una bella lettera dal re dei Belgi),
coi cardinali... di Roma etc. scrivo come se fossi un uomo serio,
e colla mia... riesco a farmi creder tale.
Sono tanto oppresso ed afflitto, che vado fuori d’argomento
senza accorgermi. Sa perché le ho citato il giudizio del P. Marani
sulla mia Vocazione? Certi matti veronesi teste piccole non ca'
piscono e vogliono sputar sentenze e decidere etc. a carico del
prossimo. Ma Ella è uomo che capisce. Dunque avanti. Le ho
accennato e specificato questo fatto non per altro se non per
Daniele Comboni, il vescovo africano
228

dirle, che nel corso della mia ardua e laboriosa intrapresa, mi


parve più di cento volte di essere abbandonato da Dio, dal Papa,
dai Superiori, e da tutti gli uomini (un’anima sola quando ero
sotto il peso delle più tremende afflizioni, e desolazioni non mi
ha abbandonato quando poteva parlarmi, e mi ha confortato a
mettere tutta la mia fiducia in Dio protettore unico dell’inno'
cenza, giustizia e delle opere di Dio, e questa è V. M.).
Vedendomi cosi abbandonato e desolato, ebbi cento volte la
più forte tentazione (ed anche eccitamenti da uomini pii, rispet­
tabili, ma senza coraggio e fiducia in Dio) di abbandonar tutto,
rassegnar l’opera alla Propaganda, e mettermi umile servo a di­
sposizione della Santa Sede, o del Card. Pref., o di qualche
Vescovo. Ebbene, ciò che non mi fece mai venir meno alla mia
Vocazione (anche quando mi trovava accusato alla più alta au­
torità, per modo di dire, di venti peccati capitali, benché non
ve ne sieno che soli sette) (anche quando avea 70.000 franchi
di debito, gl’istituti di Verona disordinati, nell’Africa C.le molti
morti e nessuna prospettiva di luce, ma tutto tenebre ed io colla
febbre a Khartum), ciò che mi sostenne il coraggio a star fermo
al mio fino alla morte, o fino a decisioni differenti della S. Sede,
fu la convinzione della sicurezza della mia Vocazione, fu sempre
e toties quoties perché il P. Marani mi ha detto ai 9 ag. 1857,
dopo maturo esame: «la vostra vocazione alle missioni
dell’Africa, è una delle più chiare che io abbia vedute».
Dunque anche lei si trova nel caso che mi trovavo io. Ella è
certa che Dio vuole che faccia il Rettore degli Istituti Africani.
Il suo animo debole, piccolo, fragile, la sua bambina virtù non
deve scoraggiarlo in nessuna circostanza avversa (finora cammi­
nò sulle rose, ma capiteranno le spine), ella deve tirare innanzi
senza fiatare, e senza dir mai al Superiore «Non ne posso più,
sono sfiduciato, ha da fare coi matti, e specialmente con quel
matto di Mgr. Comboni che mi salta di palo in frasca, fa confu­
sioni, dice, disdice etc. etc. Io voglio mettermi tranquillo e tor­
nare alle Stimmate». Caro mio sarebbe il modo di rimaner sem­
pre bambino nella virtù. Dunque coraggio, avanti, e ci trovere­
mo in cielo.
Gli scritti
229

D. Bortolo alla prima febbre (era in viaggio da Khartum a


Cordofan) si scoraggiò e tornò indietro, la febbre continuò per al­
cuni giorni, e scoraggiato mi supplicò di tornare addietro perché
non avea salute. La stessa preghiera mi ripetè in iscritto mentre
10 stava ad ELObeid. Poi gli parve di star meglio (della malattia
di D. Losi [lapsus per Rolleri], e più tremende ne abbiamo soste-
nuti tutti noi, molte Suore, e specialmente Suor Vittoria e
Concetta; anzi Sr. Concetta soffre ogni anno malattie tre volte
più forti di D. Bortolo; ma nessuno mai chiese di tornare addie­
tro), e mi scrisse (era per partire per Nuba) che se io lo credeva,
rischierebbe di restare alle condizioni che le scrissi le. di essere
con D. Losi padroni di tutto, Vicario G.le, Amminis.re Generale,
mai dipendere in nulla da me, fuorché solo dirmi quel che farà,
etc. etc. etc. e ciò intendeva di provare con piena libertà di tor­
nare addietro quando gli piaceva se non gli accomodava (e non
ha nessun’abilità), e andare ove gli accomodava, perché egli non
era legato alla missione con nessun Giuramento.
Noi dicemmo: «siamo sull’aria così; se gli torna la febbre
forte come prima, domanda subito di tornare in Europa, etc.
etc.» ed io non risposi sillaba, perché alla 1- sua petizione gli ac­
cordai il permesso colia patente di ritorno. Ciò a supplemento
di quanto dissi di D. Bortolo, in risposta alla sua Ne 26e, ove
dice; «godrei che D. Bortolo potesse restare nell’interno». Su
Sestri, siamo intesi, faccia quanto ordina S. Em.za; benissimo
che Sr. Metilde destiniamo al Cairo, perché credo il ritiro di
Sestri a quest’ora un fatto compiuto. Mandai a Giorgio l’attesta­
to della sua abiura, perché il frate cattolico rifiutò di confessar­
lo, perché lo crede ancora scismatico. Preghi per lui.
E non sarebbe bene che lei facesse da S. Em. parlare a D.
Tomba per D. Giovan. Beltrame, nemico capitale dell’Opera?
Credo di si. Io poi ho un mondo di argomenti per sbugiardare la
sua tracotanza sulle bugie etc. che stampò che nessuno potè aiu­
tarlo nel fare il dizionario e la grammatica de’ Dinca, e che egli
.fu il primo mentre è falso, mentre fu il primo Mozgan e Lanz,
col quale Lanz D. Beltrame io, e D. Melotto facemmo insieme
11 dizionario, la grammatica, ed un lungo trattato di Religione
Daniele Comboni, il vescovo africano
230

cattolica, che io poi insegnai alle maestre in Verona. Ora D.


Losi prese da Khartum, e me lo restituì a Nuba adesso un gros-
so volume Denca: cioè, il trattato comune di Religione che
aveva anch’io e D. Beltrame. Il dizionario e grammatica lo pos­
siede Mitterrutzner.
Di più le prediche di Lanz etc. e un gran catechismo tutto
Opera di Lanz, che io stamperò; e Lanz morì nel 1860 in mano
del Prov.o e di D. Beltrame, prima che D. Beltrame desse mano a
perfezionare il comune lavoro, e che stampò solo da qualche
anno. Vi sono dei discorsi in Denca di Lanz fatti prima che noi
giungessimo ai Kic, e incominciassimo nell’aprile 1858 insieme il
be-à-ba dei Denca. E un birbone, un superbo, un egoista, un uo­
mo pieno di gelosia come sorridendo mi disse due volte il Mini-
stro Cesare Correnti. Lo dissi a Baschera. Povera Comini, perdu­
ta causa D. Beltrame. Basta è un vero liberale moderno, e basta.
Circa la Spazi Vicaria delle vecchie la mia opinione da
tempo, e l’opinione di Sr. Teresa di qui è che non rinnovi più i
voti, e che se non si tranquillizza colle vecchie, rimandarla a
casa sua. Ciò che farà lei sarà ben fatto. Il librone di Messe in
canto fermo, portato da D. Policarpo è a Khartum. Così mi as­
sicurò D. Luigi. Colla prima occasione sicura lo manderò a
Verona. Mei ricordi però ancora. Feci però una nota per ricor­
darmelo. Consegnai a D. Losi 20 franchi del piacentino etc.
Vale. Gesù mio sono stracco, debole! Sia fatta la volontà di Dio.
Benedico D. Luciano etc. Preghi per Daniele Vescovo.

Al Card. Alessandro Barnabò

Scendy, nella Nubia Superiore, 29 aprile 1873

E.mo e Rev.mo Principe,

Mentre arenati da due giorni fra le cateratte di Halfaia,


siamo nell’impossibilità di avanzarci impediti anche dal vento
Gli scritti
231

contrario, ho l’onore di annunziarle come io m’ebbi fin dal


Cairo le veneratissime sue 8 novembre 28 novembre, non che
il Rescritto 11 dicembre del S. Officio pell’lndulto del sabato; di
che le rendo infinite grazie.
L’illustre Sir Barde Frère Ambasciatore di S. M. Britannica
raccomandatomi colla pregiata sua 28 novembre è venuto a tro­
varmi col suo seguito nel mio Istituto di Cairo, e conferimmo
insieme per ben tre ore sul doloroso argomento della schiavitù.
Benché questo esimio signore appartenga alla Chiesa
Anglicana, pure sembra animatissimo pella missione filantropi-
ca, ond’è incaricato dal suo Governo, Egli non era diretto per
l’Africa Centrale, che è il vero miserando teatro della schiavi­
tù; sebbene per Zanzibar a Mascatte; e vuole stringere rapporti
con quei Sultani per abolire praticamente la tratta dei negri, e
dopo alcuni mesi ritornerà in Europa, cioè, a Londra. Conve­
nimmo di corrispondere insieme usque ad mortem sul fine uma­
nitario suddetto. Credei però prudente di tacergli per ora lo
strazio che ora fa dei negri fra Gondocoro e le sorgenti del Nilo
l’altro Inglese Sir Samuel Baker, desiderando prima constatare il
fatto.
Sembra però che sia vero quello che mi si era annunziato,
mentre il capitano della mia barca, da dove io scrivo, mi assicu­
ra essere egli stato per ben tre anni fino ad otto mesi fa con Sir
Baker e di aver egli con Baker grande e Baker piccolo ammaz­
zate parecchie migliaia di negri coi loro capi, perché si rifiutaro­
no di accompagnarlo innanzi fino ai N’Yamza. Ma su ciò scrive­
rò in avvenire.
11 sistema adoperato fin qui dalle potenze Europee e special-
mente dall’Inghilterra per distruggere la tratta dei neri è ineffica­
ce a raggiungere lo scopo che si vorrebbe ottenere. I Sultani dei
paesi sunnominati riceveranno S. E. l’Ambasciatore con gentilez­
za e splendore, come già fece collo stesso S. Altezza il Kedive; essi
sottoscriveranno qualunque trattato: e daranno tutte le garanzie
sulla carta: ma partito l’Ambasciatore, continueranno a promuo­
vere e proteggere l’infame traffico, perché ciò è nella natura dei
principii dell’Alcorano, ed è sorgente per loro di qualche risorsa
Daniele Comhoni, il vescovo africano
232

e comodità. Nei tre mesi e più di viaggio che noi abbiamo fatto
fin qui dal Cairo, incontrammo più di 40 barche di schiavi e
schiave affatto nudi ch'erano stipate come le sardine; e nel deser­
to incontrammo più di 20 carovane di negre affatto ignude che
marciavano a piedi, cacciate talvolta a colpi di staffile.
Tutte queste venivano condotte a pien meriggio sotto gli
occhi del Governo locale, che n'è il primo fautore e promotore,
ed erano dirette pel Cairo ed Alessandria. Taccio dell’immenso
numero di schiavi che viene ogni anno estratto dal nostro
Vicariato, e che va a sboccare nei porti di Tripoli e Tunisi. Non
potei quindi astenermi dal crollare il capo quando lessi a Berber
sul Times il seguente brano del discorso della Corona pronun­
ziato ai 6 del p.p. febbraio dalla Regina d’Inghilterra nel
Parlamento di Londra: «Il mio ultimo discorso, milords e signo­
ri, s'informò dei provvedimenti adottati per finirla efficacemen­
te colla tratta dei negri sulle coste orientali dell’Africa. Ho spe­
dito un Ambasciatore per Zanzibar (Sir Barde Frère); egli porta
istruzioni, che mi paiono le meglio atte a conseguire lo scopo
propostomi. Egli è recentemente arrivato al suo destino, e si è
messo in comunicazione col Sultano».
L’unico mezzo per abolire o scemare la tratta dei negri è di
favorire ed aiutare efficacemente l'apostolato cattolico di quel­
le infelici contrade, donde si strappano violentemente a miglia­
ia e migliaia i poveri negri commettendo i più orribili eccessi,
ed ove si esercita l’infame traffico. Fra tutti i paesi del mondo è
l’Africa Centrale, ove si fa il più fiero scempio di queste infeli­
ci creature. E siccome questa orribile piaga dell’umanità interes­
sa altamente il mio Vicariato, io avrò molto da fare ad agire e
carteggiare sovra tale argomento. Io avrei in mano le fila per
trattare colle più alte sfere dei governi delle grandi potenze
d'Europa su tale affare, ma oggi dominano unicamente governi
atei e rivoluzionari: quindi non farò un passo, senza prima tutto
sottomettere al sapiente giudizio della S. C., sulle cui istruzioni
unicamente agirò in proposito.
Le bacio la Sacra Porpora e mi dichiaro di Vostra Eminenza
U.mo e d.mo figlio, Daniele Comboni Pro-Vicario Apost.
Gli scritti
233

Al Card. Alessandro Barnabò

Khartum, 12 maggio 1873

E.mo Principe,

Dopo novantotto (98) giorni dacché partii dal Cairo, giunsi


finalmente colla gran carovana a Khartum. Non le posso a pa-
role esprimere le pene, i disagi, le fatiche, gli aiuti e le grazie ce­
lesti, e le vicende che ci accompagnarono in questa perigliosa
ed ardua peregrinazione. I SS.mi Cuori di Gesù e di Maria, che
furono incessantemente il dolce e soave argomento delle nostre
speranze e preghiere ci hanno salvato da tutti i pericoli, e pro­
tetti mirabilmente tutti e singoli i membri della ragguardevole
nostra carovana, specialmente nelParduo e terribile tragitto del
gran Deserto di Atmur, in cui per ben 13 giorni dal mezzodì alle
4 p.e avevamo 58 gradi di Réaumur galoppando sul cammello
da 16 a 17 ore al giorno; sicché tutti giungemmo ai 4 corr.te sani
e salvi a Khartum. Due dispacci telegrafici, uno mio al Cairo,
Paltro delPI. R, Console A-U. a Londra, annunziavano nello
stesso giorno questo avvenimento.
Essendo molto affaticato, non le favello ora della vantaggio­
sa impressione prodotta in tutto il Sudan pel mio arrivo in
Khartum, e per la venuta delle Suore; non le parlo degli affari
della missione, e come la trovai; né del vero miracolo operato a
Scellal dalla M.sa Maddalena di Canossa morta in odore di san­
tità a favore della mia Superiora, Sr. Giuseppina Tabraui, che
guarita al terzo giorno della novena da mortai morbo potè pas­
sare incolume il Gran Deserto etc. etc. Di tutto questo le scri­
verò entro il mese. Ora mi limito ad informarla del felice arrivo
della carovana a Khartum pella quale aveva ogni cosa prepara­
to il mio Vicario Generale, che tre mesi prima io avea fatto qui
venire all’uopo, dopo la partenza dei due francescani che occu­
pavano questa Stazione.
Già fin dal mio ingresso nel Vicariato alle prime cateratte
del Nilo io ho cominciato a mostrare ai Governatori turchi il
Daniele- Comboni, il vescovo africano
<234

Gran Firmano, che S. M. Apostolica Tlmperatore Francesco


Giuseppe I ottenne dal Gran Sultano di Costantinopoli a favo­
re dei mio Vicariato dell’Africa Cde; per cui tutte le autorità
turche andarono a gara a favorirci in ogni cosa nel lungo e di­
sastroso viaggio. A Corosco in due soli giorni avemmo pronti a
nostra disposizione 65 scelti cammelli pel deserto: a Berber lo
stesso Pascià Governatore mi diede la sua barca per tragittare in
15 giorni a Khartum, etc. etc. Il mio ingresso poi alla mia resi­
denza fu un vero trionfo, di cui rimasi confuso. Il Console au­
striaco in grande uniforme seguito da tutta la colonia cristiana
d’ogni setta di Khartum, venne ad incontrarmi alla barca e ri­
voltami una commovente allocuzione, in cui a nome di S. M,
Apostolica mi felicitava della mia nomina a Provicario e del
mio arrivo nel Vicariato, ed a nome di tutta la colonia cristiana
del Sudan e della città di Khartum mi ringraziava per aver con­
dotto il primo in Sudan le Suore per l’educazione della gioven­
tù femminile, m’invitava ad entrare nella mia residenza.
Io, dopo fatta una conveniente risposta, e presentati i missio­
nari e le Suore, per le contrade principali della città fra il rim­
bombo dei mortai e dei fucili, circondato dai missionari e dal
Corpo Consolare e seguito da tutta la colonia cristiana, entrai
in chiesa indi nella mia maestosa residenza, ove mi furono dal
Console presentati i principali della Colonia. Alla sera venne a
farmi visita col numeroso suo seguito il capo turco del Governo
generale del Sudan; e felicitandomi del mio arrivo, mi offerse i
suoi ampli servigi in ogni cosa che fosse di mio gradimento.
Speriamo!!!
Non mancò poi chi ripetè una benevola parola del Console,
cioè, che ringraziava cordialmente il Pontefice Pio IX d’aver
data nuova vita al Vicariato, e di aver qui mandato le Suore in
servigio della missione. L’Angelico Dottore così pregava: da
mihi, D.ne, inter prospera et adversa non deficere, ut in illis non ex-
tollar, in istis non deprimar. Da mia parte dopo aver sentito gli
Osanna, m’apparecchio al Crucifige.
Ieri poi ho fatto il mio ingresso solenne, Inter Missarum so-
lemnia ho recitato il lingua araba la mia Pastorale, nella quale
Gli sericei
235

ho esposto nettamente il principale obbietto della missione ri­


cevuta dall’immortale Pio IX. Vi assistevano oltre a 130 catto­
lici, gran numero di eretici d’ogni risma, musulmani ed idolatri,
e n’era piena la cappella, i portici e la corte della missione. Fui
assicurato che in Khartum da ben undici anni non si era mai
sentita la parola di Dio dall’altare; ciò che non posso ancor cre­
dere. Qui ci aspetta non piccolo lavoro, poiché ad eccezione di
due famiglie, tutti vivono in concubinato. Confido nella grazia
del S, Cuore di Gesù, a cui dedicherò solennemente tutto il
Vicariato nella 4.a domenica di agosto dedicata al S. Cuore di
Maria. Il S. Cuore di Gesù invocato dai membri dell’Apostolato
della Preghiera, come mi scrisse il P. Ramière, deve fare il mira­
colo della conversione dei cento milioni di anime, onde consta
questa immensa missione.
La missione novella del Cordofan sembra bene avviata; ma
mi ci vuole denaro per gli stabilimenti. Le Suore e le Istitutrici
negre sono accolte qui in Khartum in un palazzo a 3 minuti di
distanza dal giardino della missione, ed è separato da esso per
mezzo di un’ampia strada di Khartum.
Riceva gli ossequi del mio Vicario G.le, il P. Stanislao, dei
missionari e delle Suore e del suo indeg.mo figlio D. Comboni
Pr. Vic.o Ap.co

A Madre Emilie Julien

Khartum, 4 giugno 1873

Mia venerarissima Madre,

Ho appena ricevuto la sua cara lettera del 24 aprile, che mi


ha fatto un gran piacere; allorché ho consegnato alle nostre tre
Suore le sue lettere, esse le hanno baciate e si misero a piange­
re per la gioia, tale è la potenza materna. Lei non vivrebbe in
alcun posto della terra così vivamente come nell’Africa centra­
Daniele Comboni, il vescovo africano
h 236

le. Queste tre figlie sono incomparabili. La ringrazio infinita­


mente per le quattro Suore che mi ha mandato e che sono già
al Cairo e la ringrazio anche per quelle che mi manderà nel set­
tembre prossimo. Bisogna che le dica che la Missione di
Khartum non può impiantarsi bene senza almeno 6 Suore.
Per conseguenza, per amor di Dio, faccia che la spedizione di
settembre sia almeno di 7 Suore. In quanto a quelle che sono al
Cairo, sto dando l’ordine immediato di lasciare subito l’Egitto e
di recarsi a Scellal, nella Nubia Inferiore, affinché nel mese di
agosto possano passare il deserto, essendo quest’epoca molto fre­
sca. Quelle che arriveranno al Cairo in settembre, partiranno
per Khartum nel mese di ottobre. Sr. Giuseppina mi dice che al­
cune fra le quattro arrivate al Cairo, possono essere Superiore,
poiché se la morte giunge per una Superiora, la casa può resta­
re senza Superiora per molto tempo a causa dell’immensa di­
stanza, perché qui, a causa del deserto, siamo lontane
dall’Europa più che l’Australia dal Giappone, Una lettera può
arrivare da questa capitale del Sudan in 40 giorni a Marsiglia,
ma noi abbiamo impiegato 99 giorni dal Cairo a Khartum,
La prego di autorizzare me a destinare le Suore sia a
Khartum, sia al Cordofan, secondo che lo creda opportuno per
il bene di queste due case, e ciò d’accordo con le Superiore di
queste due case, perché noi soli qui possiamo giudicare sul biso­
gno delle Missioni. Mi ha compreso? Così nelle lettere di obbe­
dienza non metta che la tal Suora è destinata per Khartum o per
il Cordofan, ma metta per il Sudan. Allora il Pro-vicario
Apostolico e la Superiora provinciale del Sudan s’accorderanno
per la destinazione delle Suore, perché noi dobbiamo curare la
salute assai preziosa delle nostre Suore. Se una è stanca o per la
febbre e per il lavoro a Khartum, la facciamo passare al
Cordofan e viceversa, etc. etc. Del resto è difficile trovare delle
Suore così buone, così generose, così eroiche come queste tre
qui.
In quanto a quelle nere che le ha offerto Don Biagio, io non
le ricevo. Io e Sr. Giuseppina, così come tutti noi Missionari e
le nostre Suore abbiamo stabilito di non ricevere più delle nere
Gli scritti
237

che siano state in Europa. Esse sono la rovina delle Missioni e


la morte delle Suore. Il viaggio dal Cairo a Khartum mi è costa­
to 22.000 franchi e noi eravamo in 28. Ogni nera mi costa, per
questo viaggio, 800 franchi: con questa somma ne comperiamo
sei. Poi il nutrimento, Pabbigliamento etc. di una nera al Cairo
ci costa molto e non ne abbiamo alcuno profitto. Poi queste
nere venute dall’Europa non pensano che a maritarsi e ci tolgo­
no il tempo e le risorse che dobbiamo consacrare alla Missione.
Poi giammai riceverò una nera offerta da Don Biagio, perché
questo santo uomo ha sempre proibito alle buone nere che sono
nei monasteri d’Europa, di venire da noi al Cairo: queste hanno
la vocazione di farsi religiose. Egli le indirizza tutte alle Clarisse
del Cairo e ha avuto pure il coraggio di scrivermi di mandare
dalle Clarisse quelle, fra le nostre nere, che vogliono diventare
religiose. Al contrario egli invia sempre a noi quelle che le
Clarisse rifiutano e che non possono restare in altri conventi
d’Europa. Dunque, che Dio benedica Don Biagio, ma mai rice­
verò alcune sue nere che sono state sempre il martirio delle no­
stre Suore e il male delle nostre case. Cosi non riceverò mai dei
neri di P. Lodovico di Napoli: essi sono la feccia e il fango della
Nigrizia perché questo sant’uomo manca di buoni soggetti edu­
catori.
Veniamo a Khartum. L’entusiasmo con il quale le Suore sono
state ricevute a Khartum è impossibile descriverlo. Il Console è
venuto in gran gala a riceverci alla barca e, a nome
delLImperatore d’Austria, del Pascià del Sudan e della colonia
europea, mi ha ringraziato di aver, per primo, condotto le Suore
nel Sudan. Il Pascià del Sudan è venuto nella mia bella residen­
za per ringraziarmi di aver condotto le Suore e la stessa cosa mi
ha ripetuto in una grande cena ch’egli ha dato in mio onore.
Cosa rimarcabile. Il grande muftì, o capo della religione musul­
mana del Sudan, in un brindisi mi ha felicitato di aver condot­
to qui le Suore. Per la colonia europea le Suore sono il braccio
destro del mio apostolato. Due sole famiglie cattoliche qui vivo­
no cristianamente: tutte le altre vivono in concubinato. A que­
st’ora, cioè un mese dopo il nostro arrivo a Khartum, le concu­
Daniele Comboni, il vescovo africano
—*238

bine sono istruite dalle Suore e in poco tempo faremo molti ma­
trimoni.
Sr. Giuseppina è un’apostola e un predicatore matricolato; si
è già introdotta in molte famiglie, parla ai manti, alle donne,
alle concubine, a tutti; insinua la morale e la religione cattolica
e il nostro confessionale lavora. In una parola, abbiamo una
grande missione da compiere a Khartum: le Suore faranno dei
miracoli, ma mi occorrono delle Suore. Lei leggerà negli Annali
molte cose che non ho il tempo di dire qui, perché entro due
giorni io parto per il Cordofan. Sono venuto a Khartum con un
firmano del sultano di Costantinopoli che l’Imperatore
d’Austria mi ha ottenuto. Il grande Pascià del Sudan è divenu­
to mio amico e protettore: egli mi ha regalato il suo piroscafo a
vapore per andare sul Fiume Bianco alla minor distanza dal
Cordofan; con il vapore fino a Abu-Gherab impiegherò sola­
mente cinque giorni. Sono in una felice situazione qui in
Sudan. In nessuna parte del mondo il prete e le Suore sono così
rispettate come nell’Africa Centrale.
Ho scelto il P. Stanislao Carcereri per mio grande Vicaro:
egli ha fatto molto nell’Africa Centrale. Ho dato alle Suore per
confessore il canonico Pasquale Fiore, un santo uomo che diri­
gerà le Suore nella via della perfezione. Sr. Maddalena e la
buona Domitilla sono state le sole che nel terribile viaggio del
deserto e nel viaggio di 99 giorni dal Cairo a Khartum, non
hanno mai avuto il minimo male, il minimo dolor di testa; ma
le dirò ciò che tutti dicono: “Il dito di Dio è qui”. Io ne sono
confuso e vedo che Dio si serve sempre dei deboli per le impre­
se più difficili. La Canossa ha fatto un grande miracolo.
Abbiamo camminato sempre 18 ore al giorno sui cammelli nel
deserto, sotto 50 gradi di calore, nella stagione più temibile. Sr.
Giuseppina e le nostre Suore (io avevo nella tasca l'Olio Santo,
sempre, per l’Estrema Unzione) hanno attraversato il deserto
meglio di me e dei Missionari. Infine, dopo 13 giorni, siamo
scesi a Berber sulla fine del deserto all’epoca più critica.
Adempiremo i nostri obblighi alla Canossa. Ella ci ha condotto
a Khartum in perfetta salute, per miracolo.
Gli scritti
239 —

Una parola sulle nostre case. La mia residenza è un palazzo


ben più lungo che quello della Propaganda a Roma e ha un giar-
dino che 20 uomini ogni giorno devono lavorare e che confina
con le rive del Nilo Azzurro. Avevo stabilito di dividere questo
palazzo in due, per le Suore con un muro di divisione, ma il P.
Carcereri ha preso per le Suore un palazzo vicino a noi con un
bel giardino: è una delle costruzioni più solide di Khartum, vi­
cino alla mia residenza che è la più imponente costruzione, non
soltanto di Khartum, ma di tutto il Sudan e che era costato al
mio predecessore Mons, Knoblecher più di un milione di fran­
chi. Ma a Sr. Giuseppina non piace troppo la sua residenza; è
per questo che stiamo per costruire per fare la divisione del mio
palazzo. Nello stesso tempo ho stabilito di costruire una chiesa
tre volte più grande che la piccola che abbiamo che non è suf­
ficiente per i nostri fedeli. Per il nutrimento qui è a buon mer­
cato: potrò trattare le Suore come delle contesse, con poco. Ma
le provvigioni non possono essere fatte che per la missione, per­
ché tutto è prodotto a casa nostra, esce dalla nostra terra.
Mi dispiace molto di aver rifiutato a Roma Sr. Genoveffa,
antica Superiora del Cairo, quando lei me l’ha offerta. Se vuol
venire, la mandi subito al Cairo per partire per Khartum con le
quattro Suore preparate. Ho ordinato al P. Stanislao di scriver­
le a questo proposito. Sr. Genoveffa, della quale conosco l’abi­
lità, qui a Khartum farebbe dei miracoli. In questa città di
50.000 abitanti siamo più maestri che altro: ella farebbe molto
bene.
Lasci che le dica una cosa: in cinque anni il Vicariato
dell’Africa centrale sarà dei più fiorenti, ma se lei mi manda al­
meno 50 Suore in questi cinque anni e delle Suore arabe più
che può. Occorre che lei stabilisca una Provincia e darmi per
Madre Provinciale una brava e santa donna. Sr. Giuseppina ha
tutte le qualità, eccetto la salute. Ella lavora notte e giorno,
anche con la febbre e non c’è potenza sulla terra che possa di­
stargliela; questa non può durare: è un miracolo che ella viva. E
per questo che, pur vedendola sempre al lavoro, temo sempre
che muoia, perché Dio vuole che ci curiamo e non che ci am­
Damele Comboni, il vescovo africano
240

mazziamo: il miracolo della Canossa è straordinario, ma se la


persona miracolosamente guarita vuole uccidersi, è colpa sua se
muore.
Se c’è una Superiora Provinciale che per obbedienza mette
all’ordine la Superiora Sr. Giuseppina, ella vivrà più a lungo per
la salvezza delle anime, perché Sr. Giuseppina, come missiona-
ria, è incomparabile; certo lei non ne ha una simile in tutta la
sua Congregazione e io sarei ben sfortunato se la perdessi. Ella
continua a bere il latte di asina, ma avendo saputo che il latte
di cammello è migliore, farò comprare una cammeila per Sr.
Giuseppina e la farà mettere nel suo giardino. L’obblighi a cura-
re la sua salute. Non manchi di inviarmi le Suore a settembre.
Pensi che il ritardo a inviarmi le lettere d’obbedienza nel gen­
naio scorso, mi è costato più di 12.000 franchi e tutte le pene di
un viaggio di 99 giorni. Glielo avevo scritto prima ma lei non
mi aveva creduto. Le Suore che partiranno dal Cairo il mese di
agosto in 50 giorni saranno a Khartum e con molto agio. Lei
avrà già ricevuto 5.000 franchi da Lione e ora scriverò a
Colonia per lei...
Mons. Ciurcia, pressato dai francescani, ci ha proibito di
battezzare al Cairo, poi sono stato denunciato a Roma per la
nera di Don Biagio che era scappata dalle nostre Suore. Che
questa nera (quella che mi aveva mandato con Sr. Germana) sia
scappata da noi è un gran crimine, ma che sia scappata dalle
Clarisse 20 giorni dopo, per questo c’è indulgenza plenaria.
Infine, i Francescani non sono nostri amici al Cairo, salvo il P.
Pietro e qualche altro santo religioso. E per questo che tengo
aperte le case al Cairo per il diritto, per fare più tardi ciò che ho
nel mio spirito, ma per il momento mi occorre concentrare il
nervo delle forze nel Vicariato, dove abbiamo la missione diret­
ta di convertire questi popoli. Se noi non possiamo battezzare al
V

Cairo, a chi destinare i 25.000 franchi per anno? E per questo,


per il momento, che ridurrò il Cairo come una Procura per
l’Africa Centrale. I bisogni più urgenti sono nel Vicariato...
La casa di Khartum mi costerà più di 100.000 franchi. La
facciata è più lunga che il palazzo di Propaganda della Piazza di
Gli scritti
241

Spagna fino alla libreria poliglotta sulla Piazza di S. Andrea


delle Fratte. Il giardino è più grande che il suo alla Cappelletta.
Ho dovuto fare lo stesso progetto e tutto per le Suore come è il
palazzo della mia residenza che è costato 600.000 franchi. La
porta delle Suore con i SS. Cuori di Gesù, Maria e Giuseppe mi
costa più di mille franchi, ma questo Istituto di Suore è un’ope­
ra eterna e la casa sarà intatta dopo mille anni.
Aspetto la Superiora Provinciale di Khartum. Per ogni Suora
araba che ha fatto una buona riuscita, come Sr. Anna, siamo in­
tesi, le pagherò 500 franchi. Saluti da parte mia Sr. Caterina e
tutte le Suore di Roma, la Madre Assistente. Preghi Gesù per il
suo dev.mo Daniele Gomboni, Prego la Madre Generale di met­
tere il bollo da 20 Centesimi alla lettera alPUnità Cattolica e
spedirla.
243

Glossario

Congregazione di Propaganda Fide: costituita da Papa Gregorio XV nel 1622,


fu investita di ampie facoltà nella direzione dell’attività missionaria.

Gogna: collare di ferro che sì stringeva attorno al collo dei condannati alla
berlina. Esposizione al pubblico ludibrio.

Maledizione di Cam (o Camita); anatema lanciato contro i discendenti di


Cam ed esteso agli africani per cui, senza conversione alla religione cristia­
na, i negri dopo la morte rischiavano le pene dell’inferno.

Massoneria: associazione segreta costituitasi in forma organizzata nel XVIII


secolo in Inghilterra, ispirata al nazionalismo e al deismo e poi diffusa con
vari scopi in tutto il mondo.

Mecenate: amico dell’imperatore Augusto, protettore di Virgilio e di Orazio.


Il termine fu esteso a tutti i protettori di artisti, poeti e letterati.

Nigrizia: attività pastorale tendente a valorizzare la cultura africana e a sosti­


tuire gradualmente i missionari europei con quelli locali.

Rogazioni: processioni penitenziali cattoliche di propiziazione del buon esito


dei raccolti, celebrate con apposite liturgie.
245

Sommario

Capitolo Primo, Teseul .................................................. 5


Capitolo Secondo, L’incontro con don Nicola ................ 13
Capitolo Terzo, La vocazione ...................................... 27
Capitolo Quarto. Un cuore per TAfrica......................... 45
Capitolo Quinto. Un piano per il riscatto
della Nigrizia .................................... 79
Capitolo Sesto. Un viaggio interminabile............... 101
Capitolo Settimo. Verso la fondazione ........................ 119
Capitolo Ottavo. Un mondo di persecuzioni ............. 127
Capitolo Nono. La regola........................................... 145
Capitolo Decimo. Visto da vicino.................................. 159
Capitolo Undicesimo. 11 vescovo santo................................ 195
Gli scritti ................................................................................. 211
Glossario................................................................................. 243
Sommario................................................................................. 245

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