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La Battaglia sulla Collina

«Spingete più forte» gridò Elia. Gli altri grugnirono spiaccicandosi contro il fieno. Piccoli steli
dorati s'incollavano al sudore, pizzicando caviglie, braccia, collo.
«Dai smettetela scemi» gridò spaventato Michele da sopra la balla di fieno. Quelli sotto risero.
«Smettila" urlò ancora Michele piagnucolando.
«No – sbottò Elia – così impari, Anita è la mia fidanzata».
«Le ho solo offerto un gelato» si difese Michele. Elia, però, s'infuriò ancora di più. Raccolse una
frasca da terra e prese a frustare le gambe del rivale. Mentre cercava di schivare i colpi, Michele
alzò per un attimo lo sguardo alla croce di legno che si stagliava sul crinale brullo. Gli scappò
una preghiera, ma nessuno rispose. Anzi, proprio in quel momento la balla di fieno si mise in
moto, iniziando a rotolare giù per il pendio della collina. Michele si dimenò, cercando di
mantenere l'equilibrio mentre la rotoballa accelerava giù per la discesa. Il mondo attorno sfocò
fino a divenire solo una serie di graffi colorati ai bordi della vista. Chiuse gli occhi e contrasse i
muscoli, pronto all’impatto. Sarebbe morto, o, peggio, avrebbe battuto la testa e sarebbe rimasto
scemo per il resto della vita.
«Oh, però, bada come sta sù» gridò Elia.
In effetti le gambe di Michele mulinavano impazzite. Avevano capito che il resto del corpo non
avrebbe collaborato e che quindi, se volevano salvarsi, dovevano farlo da sole. D'altronde a
mulinare erano abituate. Correre giù per il corso per andare a chiamare la mamma per il pranzo,
scappare dal cane che faceva da guardia ai peschi del vecchio Ghinea, fuggire da Elia e la sua
banda di bulli, correre verso la classe di Anita per arrivare prima di chiunque altro.
Quella volta, purtroppo, s'erano andate ad arrampicare su quella balla di fieno, chiudendosi in
una trappola. D’altronde erano gambe, mica un cervello. Eppure non eran ancora caduto. Aprì gli
occhi. La fine del campo di fieno, delimitata dal torrente, si avvicinava.
Si decise a saltar giù. Troppo tardi. La rotoballa s'impennò, sbatté nel fusto d’un cipresso e si
ribaltò nel fosso. E Michele con lei.
Quando riaprì gli occhi gli parve che il mondo ruotasse attorno a lui, come tempera disciolta
nell'acqua. Guardò meglio, e s'accorse che erano solo le spirali di fieno nella rotoballa. S'era
rovesciata su un fianco e s'era incastrata fra un cipresso e un masso della sponda. Lui era rimasto
sotto, talmente vicino che la punta del naso sfiorava i rametti gialli facendogli il solletico.
Sentiva insetti zampettargli sulla schiena, mischiando il loro pizzicare a quello dell'erba. C'era,
però, qualcos'altro che lo pungeva sui lombi, e che lo costringeva a inarcare la schiena per non
sentire dolore. Allungò una mano per capire cosa fosse, e fu come se qualcosa l'avesse morso.
Sentì i polpastrelli farsi scivolosi. Chiuse gli occhi per il dolore e si portò la mano alle labbra. Il
sapore del sangue agli invase la bocca. Sentì dei passi, delle voci.
«Oh, ma dov'è finito?»
«Sarà incastrato sotto la balla di fieno»
«Oddio e se è morto?». Qualcuno cominciò a balbettare e battere i denti, e Michele sentì dei
passi veloci che si allontanavano.
«Ma guarda sto’ scemo». Era la voce di Elia, e anche lui aveva paura. Tremante, si chinò in
ginocchio sul bordo del fosso e guardò sotto la balla di fieno. Di Michele nessuna traccia.
Michele si girò su un fianco e cercò di strisciare fuori. L'erba che si spappolava sotto il suo corpo
emanava un odore acre. Il sangue dalla ferita gli colava nei calzoni, appiccicando pelle e tela.
«Elia, ragazzi» chiamò. Le voci ammutolirono.
«Elia» ripeté. Le voci ripresero, ma questa volta più piano. Michele si rese conto che, in
lontananza, sentiva altri rumori. Battere di metallo, mugghiare di animali. Sulla collina stava
passando un pastore. Una delle voci si avvicinò e, dopo qualche attimo, lentamente, la balla di
fieno si sollevò. Si trovò faccia a faccia con un volto molto strano. Una faccia bruna, con una
barbona crespa e appuntita. Dove una persona normale avrebbe avuto un cappello, e sarebbe
stato comunque strano, visto il caldo, quell'uomo aveva un cono di metallo che gli copriva la
fronte, guance e mento. Michele gli scorse lo sguardo sul petto, e rimase abbagliato. I raggi del
sole, infatti, si riflettevano su una corazza di metallo. Michele si agitò cercando di allontanarsi,
fuggendo sull'altra sponda del fosso, ma l’uomo lo afferrò per un braccio e lo trasse a sé. Quando
lo ebbe a portata lo prese sotto le ascelle e lo tirò fuori. Michele si dimenò, scalciò, ma la stretta
era di ferro. Aveva la vista offuscata dalle lacrime, e solo con l'udito capì che c'erano altri. Sentì
nitrire dei cavalli, e voci concitate. Lontano ancora grida e sbattere di ferro.
L’uomo lo distese faccia a terra, e prese a frugargli attorno alla ferita. Michele guizzò su a
quattro zampe e cercò di scappare, ma quello lo afferrò per una caviglia e lo trascinò di nuovo
indietro. Una mano gli si posò sul collo. Lo schiacciava, ma al tempo stesso lo accarezzava e, a
poco a poco, Michele si calmò. Lo colpì freddo d'acqua sulla schiena, e poi una sensazione
bruciante fra i lembi della ferita, come quando aveva mangiato un peperoncino e gli era bruciata
la bocca. Sentì altro tessuto appiccicarsi alla pelle bagnata e, infine, una voce dire
«Ecco, era una ferita da niente, più spaventosa che altro»
«Se l'è fatta cadendo su questa lancia spezzata» disse un altro. Michele si voltò in quella
direzione. Alto, pelle olivastra e capelli riccioluti, un uomo era in ginocchio sul bordo del
torrente, e reggeva fra le mani un bastone spezzato, a una delle cui estremità era fissata una punta
di ferro. Anche lui era rivestito di ferro, aveva una spada che gli sbatteva sul fianco e un elmo
reclinato nell'erba accanto a sé. Michele si tirò a sedere, e si appoggiò con la schiena contro un
albero. La solidità del tronco lo fece sentire più sicuro. Si guardò attorno. Nella piccola radura
c'erano almeno dieci uomini, tutti bardati, e altrettanti cavalli. Gli uomini stavano acquattati,
nascosti dietro le felci, e scrutavano ansiosi verso la collina. Quello che lo aveva tirato fuori dal
fosso gli si mise davanti e gli sorrise.
«Vieni da una delle fattorie qua attorno?» gli chiese. Michele annuì.
«Da Scarperia» disse.
«Dev'essere un posto qui vicino» disse quello che aveva trovata la lancia mentre scagliava il
moncherino dell’arma di nuovo nell’acqua.
«Saresti dovuto rimanere chiuso in casa – disse quello che lo aveva curato – oggi qui c’è la
guerra.» Michele sentì un gemito alla sua destra. Si voltò e vide, poggiato come lui al tronco di
un albero, un uomo col braccio ferito. Lo teneva stretto al corpo, e si contorceva dal dolore.
Quello che lo aveva curato si alzò e andò a occuparsi di lui.
Michele lo osservò mentre gli stracciava il tessuto della manica, rivelando, poco sotto la spalla,
una ferita che arrivava fin quasi al gomito. Si voltò dall'altra parte, e quella scena per lui divenne
solo il mormorio soffuso del guaritore che cercava di tranquillizzare il ferito. D'improvviso
nessuno si curava più di lui. Avrebbe dovuto approfittarne per scappare, ma si sentiva attratto da
quella scena. Si avvicinò al gruppo principale degli uomini. A terra, reclinato fa l'erba, lo colpì
uno squarcio d'azzurro. Un drappo, agganciato a un'asta di legno che terminava con un punzone
di bronzo rilucente. Al centro del drappo si dipanava la figura, bianca, di un serpente, o un drago.
Guardando meglio, però, si accorse che anche l'asta della bandiera era sporca di sangue. Alzò lo
sguardo sul gruppo di uomini. Stavano tutti attorno a un individuo più anziano, che aveva i
capelli grigi intrisi di polvere e rigagnoli di sudore che gli colavano sulle guance, inerpicandosi
fra i riccioli della barba spumosa. Respirava ansimando, col petto che faticava a sollevare la
corazza. Gli uomini attorno a lui puntavano le dita verso la collina. Michele li seguì con lo
sguardo e vide che, in realtà, molti uomini vi si muovevano sopra, alcuni stagliandosi a dorso di
cavallo altri a piedi, ma tutti con frenesia e allarme. Ci fu uno squillo di tromba, che si spense,
però, strozzato. Michele non aveva idea di cosa stesse accadendo, ma di sicuro di lì a poco
sarebbe arrivata la polizia.
«I nostri sono in fuga ovunque, comandante» disse uno degli uomini rivolgendosi a quello più
anziano.
«Arriveranno i rinforzi, Bessas e Cipriano devono essere ormai vicini» replicò l'uomo. Il ferito
emise un suono più forte, e tutti si voltarono verso di lui. Il guaritore gli sussurrò qualcosa, ma
quello scosse la testa. Teneva gli occhi chiusi.Il guaritore si voltò e parlò a nome suo.
«Dice che non verranno, che rimarranno a valle. Lui li ha visti, sono fermi ai piedi delle colline e
non si muovono». L'uomo con concluse la frase con un inchino appena accennato. Il comandante
si tirò in piedi, sfoderò la spada e prese a colpire furente il tronco di un albero. Schegge di legno
schizzarono tutt'attorno, mentre gli altri cercavano di placare quello scatto d'ira che, però, si
concluse solo dopo che l'uomo ebbe calciato un elmo poggiato a terra.
«Credono che siate morto, signore» disse un altro degli uomini. Il vecchio comandante, si tirò la
barba tanto da strapparne dei ciuffi.
«E ci sperano! – gridò – lo so che quei due ci sperano». Passò un attimo di silenzio.
«Qualcuno deve andare da loro, dirgli che siete ancora vivo – disse il guaritore – allora dovranno
venire ad aiutarvi» aveva una voce spigolosa, che al temine di parole melodiose induriva
all'improvviso come acqua che congeli.
«Esatto – si fece avanti un altro – dobbiamo richiamare gli uomini. Il panico li ha colti, ma
saranno ancora disposti a combattere quando sapranno che siete vivo».
Il vecchio si voltò di nuovo verso la collina, poggiando il palmo della umano su un albero e
protendendosi a scrutare in avanti.
«Bessas e Cipriano sono due sciocchi – disse – se restano dove sono la cavalleria dei Goti li
travolgerà Devono muoversi, venire avanti».
Michele era rimasto ad ascoltarli senza capire niente di quello che dicevano, ma aveva
approfittato della loro scarsa attenzione per mettersi a frugare fra le loro cose. C’era un cumulo
di grandi dischi di legno dipinti di colori sgargianti. Azzurro, bianco, rosso, giallo. Tentò di
sollevarne uno, ma era troppo pesante, e tutto quello che riuscì a fare fu ribaltarlo. Scoprì che sul
retro erano agganciati strani, lunghi, oggetti dalla punta acuminata. Fece per prenderne uno
quando vide un' ombra stagliarsi sopra di lui. Il frastuono aveva richiamata l'attenzione degli
adulti. Michele sollevò lo sguardo appena in tempo per evitare il ceffone che lo stava per colpire.
«Uno di voi – stava intanto dicendo il comandante – prenda questa fibbia e la porti a Cipriano.
La riconoscerà, sa che è mia. Ditegli che sono vivo, e che devono venire ad aiutarci». Si strappò
dalla spalla una spilla d'oro raffigurante un leone eretto sulle zampe. Giovanni distese il braccio,
e offrì la spilla ai suoi soldati. Nessuno si mosse, e il metallo rimase a luccicare nei riflessi
verdastri del sole.
«Nessuno di noi riuscirebbe a valicare le linee dei Goti, signore, e se trovassero il vostro sigillo,
potrebbero veramente dirvi morto. Sarebbe la fine» disse uno dei soldati.
Michele intanto, era sgattaiolato via da quello che cercava di acchiapparlo. Avrebbe potuto
alzarsi e correre via, ma si stava divertendo, per cui, una volta giuro sul lato opposto del cumulo
si tirò in piedi e fronteggiò l'uomo che lo stava inseguendo, sfoderando anche un sorriso di sfida.
L'uomo però balzò in avanti con una velocità sorprendente per uno rivestito di ferro e lo afferrò
per le spalle. Lo sollevò di peso, e questa volta Michele non cercò neanche di liberarsi. Il soldato
lo trascinò di nuovo al centro della radura,
«Se nessuno vuole andrò io, ma quando tutto sarà finito vi farò frustare» stava ringhiando il
comandante, a cui la mancanza della fibbia aveva fatto calare il vestito lungo, rivelando i fianchi
bruniti dal sole e scalfiti dalle cicatrici.
«Vado io» disse Michele appena rimise i piedi per terra. Il vecchio comandante lo guardò
accigliato, accorgendosi solo in quel momento della sua presenza.
«Vai a casa, via di qui» gli gridò.
«Ma il ragazzo conosce questa terra, signore – intervenne il guaritore – e può passare
inosservato, i Goti non si cureranno di lui».
«Questo marmocchio scapperà con la mia spilla per rivenderla al mercato» sputò il comandante.
«Oggi non c'è il mercato, signore» intervenne Michele. Qualcuno rise, ma durò poco.
«E poi chi se la compra una spilla così. Cioè è bella ma sarà di stagno». Un lampo attraversò gli
occhi del comandante. Michele fece un passo indietro, una prima che qualunque cosa potesse
accadere fu di nuovo il guaritore a parlare.
«Certo, di stagno, certo. Ma il suo valore non è nel metallo, ma in quello che rappresenta. E poi
se farai quello che ti chiedo ci sarà una ricompensa per te» disse l'uomo. Alle sue parole
s'agganciarono subito quelle del comandante.
«Certo – disse – una ricompensa. Ti darò delle monete d'oro per i tuoi servigi. Abbastanza per
sfamare la tua famiglia per anni».
«Grazie signore – disse Michele – mamma è da sola e lo stipendio non basta mai Cos'è che devo
fare?» chiese. Il comandante si chinò per guardarlo negli occhi.
«Prendi la spilla – disse – e corri in quella direzione – indicò giù dalla collina, lungo il senso
della corrente – là troverai molti uomini accampati, soldati come noi. Chiedi di parlare con
Cipriano e mostragli questa spilla. Dì che Giovanni è ancora vivo, e che devono assolutamente
venire in nostro aiuto, attaccare» . Si guardarono per qualche secondo in silenzio.
«Hai capito?» disse Giovanni.
«Giovanni il fratello del falegname?» chiese Michele. Il comandante sollevò lo sguardo,
cercando una spiegazione di quanto detto dal ragazzo fra i suoi sottoposti. Nessuno, però, gliene
offrì.
«No, non sono colui che dici – riprese allora rivolto al ragazzo – ma ti prego fidati di me. Fai
quel che ti chiedo e avrai la tua ricompensa». Michele diede di spalle.
«Va bene» disse. Sentì una mano posarglisi sulla spalla.
«Cristo sia con te» disse Giovanni, e la stessa frase mormorarono a tutti gli altri.
«Ti accompagnerò io fino al termine del bosco» disse il guaritore. Si preoccupò di controllare il
ferito, e poi si incamminarono lungo il torrente.
«Il mio nome è Alexios» disse l’uomo voltandosi e sorridendo.
«Ciao Alessio – rispose il ragazzo – io mi chiamo Michele». L’uomo annuì lento e poi riprese a
camminare.
Scrutando fra gli alberi Michele vide sagome di cavalieri stagliarsi sul profilo della collina. Lo
sbattere dei loro zoccoli giungeva ovattato dell'erba, e sulle loro spalle sobbalzavano lunghe
chiome. Uno di loro sollevò il braccio con cui reggeva la spada e scagliò un urlo ferino contro il
cielo. Gli altri subito lo imitarono. Alexios si bloccò, e gli fece cenno di fare silenzio, ma il suo
tozzo dito sussultava, e anche gli occhi tremolavano come acqua spazzata dal vento. I cavalieri si
avvicinarono al galoppo. Giunti presso gli alberi deviarono, superando il punto in cui s'erano
acquattati Michele e Alexios. Metri dopo smontarono e s’infilarono fra le piante. Anche loro
avevano grandi scudi, ed elmi, ma non indossavano armature. Solo una cintura di cuoio, a cui era
agganciata la spada, teneva loro fermi i vestiti. Erano in quattro. Guidarono i cavalli per le briglie
fino al torrente e li fecero abbeverare. Le bestie bevvero a lungo, e due si azzuffarono. I loro
manti erano lucenti di sudore. Uno dei guerrieri estrasse qualcosa da una borsa legata alla sella,
le diede un morso, la passò agli altri. Risero. Uno di loro si chinò sull'acqua, a monte dei cavalli,
vi immerse le mani, se le portò al volto. Quando sollevò di nuovo la testa il suo sguardo incrociò
quello di Michele. Alexios si voltò lento, e vide il pericolo negli occhi del bambino. Il cavaliere
si stava avvicinando lentamente, acquattato fra le fronde. Aveva estratta la spada, e la teneva
stesa davanti a sé. I suoi commilitoni erano ammutoliti, e lo osservavano attenti. Alexios si tolse
lo scudo della schiena e ne staccò uno dei dardi, soppesandolo sul palmo della mano. Guardò
Michele e gliene porse uno.
«Lancialo sugli altri, quelli vicini ai cavalli» gli sussurrò. Il cavaliere era ormai distante pochi
metri. Dietro di lui i cavalli avevan drizzato i musi, e agitavano le code. L'unica ignara di tutto
era l'acqua del torrente, che continuava a gorgogliare fra le pietre. Alexios scattò in piedi mentre
già faceva roteare il braccio all'indietro. Un secondo dopo il dardo scattava fischiando. Seguì un
urlo di dolore, e il guerriero crollò al suolo mentre dal collo gli sgorgava una fontana di sangue.
Il nitrire dei cavalli scoppiò come un fulmine. Due degli altri guerrieri afferrarono le lance e
corsero avanti, mentre il terzo si affannava attorno alle bestie.
«Lancia!» gridò il guaritore mentre faceva di nuovo roteare il braccio. Un altro dardo fischiò in
aria. Seguì uno schiocco metallico, e uno dei due guerrieri s'arrestò di colpo, barcollando e
portandosi le mani al volto. Il compagno rallentò un attimo, dando così il tempo a Michele di
scagliare anche lui il suo colpo. Imitò il gesto del guaritore, cercando di mirare verso i cavalli. Il
dardo sfrondò alcuni rami sopra le loro teste e poi ricadde. All' ultimo momento, però, il
guerriero si accorse del pericolo, e rotolò sotto il ventre di uno degli animali.
Il guerriero ancora in piedi si schiantò su Alexios, rovesciandolo a terra. Il guaritore rimase
schiacciato sotto il suo stesso scudo, sputando con un rantolo tutta l'aria che aveva nei polmoni.
L’avversario cercava di soffocarlo sotto il suo peso, mentre il guaritore, all'opposto, tentava di
spingerlo via. Lo scontrò andò avanti per alcuni attimi. Poi, piano, piano, il goto iniziò a
prendere il sopravvento. Il legno dello scudo scricchiolava, e il guerriero biondo aveva una mano
stretta sul collo del guaritore, mentre con l’altra cercava di sollevare la spada. Alexios, con le
ultime forze, lo afferrò per i capelli e gli torse il collo. Nel poco tempo guadagnato liberò il
braccio sinistro da sotto lo scudo e cercò di afferrare l'ultimo dardo, rotolato poco più in là. Le
sue dita, però, sfioravano soltanto l'arma. Il nemico grugniva cercando di liberarsi. Nell’aria
strisciava l’odore pungente del sudore e dell' erba schiacciata.
Alexios fece scattare gli occhi strabuzzanti su Michele. Cercò di parlare, ma il peso del guerriero
sul petto non gli lasciava fiato. La sua mano si tese come un fascio di funi snudando i tendini del
dorso. Michele si avvicinò, incerto, e diede una piccola spinta al dardo. Le dita del guaritore vi
scattarono sopra. Uno spruzzo rosso macchiò l'erba, e raggiunse anche le mani di Michele. Il
ragazzo sollevò lo sguardo e vide il pugno del guaritore conficcare il dardo per la seconda volta
nel collo del nemico. Il goto si afflosciò e cadde di fianco con un tonfo sordo. Michele fuggì
all'indietro scalciando come una formica caduta sulla schiena. Alexios si tirò in ginocchio
sostenendosi sullo scudo mentre boccheggiava bramando aria. Si voltò e guardò Michele. Alzò il
braccio e indicò davanti a sè.
«I cavalli – ansimò – vai». Un attimo dopo un altro guerriero gli si scagliò addosso, e il guaritore
deviò solo all'ultimo il colpo di lancia.
«Vai» grugnì ancora, dopo che con un colpo di scudo ebbe spinto indietro il nemico
guadagnandosi il tempo di estrarre la spada prima che tornasse alla carica. A quattro zampe
Michele si avvicinò al nugolo di bestie. Il primo guerriero che li aveva attaccati era riverso con la
testa nel torrente. Michele si alzò in piedi e corse. Il cavalli tiravano le corde che li aggiogavano
e scalciavano alzando spruzzi di terra. Si guardò attorno, incerto sul da farsi. Vide l'uomo che
aveva cercato di placare i cavalli nascosto fra i cespugli. Si guardarono un attimo, e quello fece
per avvicinarsi. Un colpo secco richiamò però l'attenzione del ragazzo. La corda che teneva uno
dei cavalli s'era spezzata, liberando l'animale, che prese a girare su se stesso indeciso se fuggire o
restare.
Michele balzò in avanti e si aggrappò alla sella. L'animale scalciò, tenendo a distanza il
guerriero, e poi partì al galoppo. Sfondò la coltre di alberi che li separava dai campi. Le frasche
lo colpirono alle gambe e alla braccia come una scudisciate. Il suo vagito di dolore si perse nel
vento di quella folle corsa. Michele si schiacciò sul collo dell'animale, affondando il naso fra i
peli ispidi che gli punsero la faccia e nell'odore di stalla e fieno. Che lo portasse lontano, dietro di
lui c'era una follia alla quale né col sogno né con la realtà poteva trovare una ragione. Chiuse gli
occhi.
Dopo un tempo che non seppe contare il cavallo prima rallentò e poi si fermò. Michele stette
ancora un pò con gli occhi chiusi, steso sul dorso di pelo grigio poi si tirò su e si guardò attorno.
La collina era alle sue spalle, ma davanti a lui se ne alzava un' altra, fatta di innumerevoli
uomini, ognuno vestito come quelli che aveva lasciato nel bosco. Ferro sul petto, la testa chiusa
in un elmo e un canneto di lance che additava il cielo terso. Ogni Tanto, da una delle punte
s'alzava, come una testa stanca, un drappo colorato. Azzurri, rossi, bianchi, in ognuno era
intessuta una figura nascosta fra le pieghe. Michele sbatté gli occhi, sperando che sparissero, ma
ogni volta erano di nuovo lì. Cercò di girare il cavallo e andarsene, ma l'animale, adesso, non
voleva saperne di muoversi. Ne sentiva il ventre alzarsi e abbassarsi frenetico. Anche lui era
stanco. Si voltò indietro. Per tutta la valle e sui pendii delle colline si muovevano, come formiche
scappate dalla tana, figure minuscole. Sembravano non avere una direzione, e si spostavano a
caso. Alcune però, erano veloci, stavano a cavallo, mentre altre erano lente, e quando quelle
veloci raggiungevano quelle lente queste cadevano, e non si rialzavano più. Michele cercò di
spronare ancora il cavallo, ma ora, oltre alla ritrosia dell'animale c'era un'altra forza che lo
bloccava. Un uomo aveva afferrate le briglie Altri due stavano qualche passo lontano, entrambi
su un lato, e gli puntavano le lance all'altezza del costato. Michele sentì il petto scaldarglisi,
braccia e gambe scosse dai brividi e la guance inondarsi di lacrime bollenti. Nell'oscurità
offuscata che lo avvolse sentì mani forti stringerlo ai fianchi e tirarlo giù dalla sella.
«Si sarà perso – sentì dire – i goti avranno saccheggiato la sua fattoria e lui sarà riuscito a
scappare». Ora, come al collo del cavallo Michele stava aggrappato a quello dell’uomo che
l’aveva tirato giù. Non sapeva chi fosse, ma l'odore della pelle cotta dal sole lo rassicurava.
«Arrivano gli uomini di Giovanni – gridò qualcuno – ma sono in rotta, fuggono, i Goti fra poco
saranno qui». Seguì un trambusto, grida disordinate, scalpiccio di passi e clangore di ferro.
Michele s'aggrappò ancora più forte, e strinse le palpebre come un frutto da cui spremi gli ultimi
succhi.
«Ecco – disse l'uomo – poggiamolo qui». Michele sentì che lo adagiavano a terra, su una coperta,
forse, e comunque c'erano dei sassi che gli premevano sulla schiena. Non aprì gli occhi. Se li
teneva chiusi, certamente presto tutta quella gente sarebbe andata via, sarebbe tutto finito. Sentì
che gli versavano acqua sulle labbra. Aprì la bocca e bevve. Prima che le braccia dell’uomo lo
abbandonassero del tutto, gli si aggrappò a una manica. L'uomo dapprima cercò di liberarsi ma
poi, di fronte all'insistenza del ragazzo, si lasciò trascinare giù.
«Giovanni» disse Michele. Non ci fu risposta, e allora Michele s'infilò la mano in tasca e ne
estrasse la spilla. Sentì il peso del metallo sollevarsi dalla sua mano sudata, e poi fu afferrato per
il bavero, e di nuovo sollevare da terra.
«Chi ti ha dato questa spilla?»
«Giovanni" ripeté Michele, e questa volta accompagnò le parole indicando in direzione della
collina. Lo afferrarono per un braccio, lo rimisero in piedi e lo trascinarono attraverso quella
massa di uomini ognuno indaffarato in un'attività che non lo facesse pensare all'imminente arrivo
del nemico. Chi affilava la spada, uno ingrassava la corda dell'arco, chi, a occhi socchiusi,
mormorava una preghiera e chi, ancora, cercava il destinatario di un messaggio impossibile da
trovare.
Si fermarono di fronte a un capannello di uomini.
«Se rimaniamo qui ci investiranno – gridava qualcuno – le armate di Giovanni sono in rotta e lui
è morto»
«Proprio per questo non faremo niente – lo interruppe un' altra voce, roca e consunta – staremo
qui, e ci difenderemo»
«Ma signor comandante» provò a insistere il primo nonno.
«Basta – intervenne una terza voce – Cipriano ha ragione – non attaccheremo. Non faremo la
fine di Giovanni. Ci difenderemo qui e»
«Signori comandanti» intervenne allora il soldato che portava Michele. Tutti si voltarono verso
di loro. Michele sentì cadere su di sé il peso degli sguardi, come se, tutti insieme, quegli uomini
si fossero tolti armature, elmi, spade e glieli avessero gettati addosso. Il sole era a picco, ma lui
aveva freddo, e la ferita gli doleva.
«Signori comandanti – disse ancora il soldato – io credo che Giovanni non sia morto». Si scatenò
una valanga di esclamazioni e domande, ma tutto s'acquietò quando il soldato aprì mostrò sigillo
in forma di leone.
«Lo aveva questo ragazzo – disse additando Michele – arrivato poco fa su un cavallo dei goti»
Uno degli uomini che aveva parlato poco prima gli si piazzò davanti. Era avvolto in un mantello
bianco, e aveva zigomi sporgenti e occhi neri sopra una mascella in perenne tensione.
«Hai spogliato un cadavere» ringhiò l'uomo, e sollevò la mano pronto a schiaffeggiarlo.
«No! Non è vero – si difese Michele – lui è vivo». Il colpo non arrivò. Si allungò anzi l'ombra di
un' altra figura. Un uomo più anziano, con capelli grigi striati di bianco. Alto e con una cicatrice
appena accennata sotto l'occhio destro, poggiò una mano sulla spalla del commilitone. Si
guardarono per un attimo.
«È vero quel che dici ragazzo? Parla, svelto». Michele annuì, asciugandosi le lacrime.
L'uomo che lo aveva aggredito, allora, lo afferrò per le spalle.
«Dov'è?» gli chiese.
Michele, allora, si buttò a sedere sul prato e, senza prendere fiato raccontò tutto quello che gli era
successo, cosa gli aveva ordinato di fare l'uomo chiamato Giovanni, lo scontro con i guerrieri ai
margini del torrente. E già mentre raccontava ordini come frecce fendevano i ranghi. La massa
d’uomini si destò come una bestia infreddolita, e quando i ranghi furono serrati s’alzò un canto,
terreo come se le colline stesse mormorassero.
Quando le strofe terminarono vi un attimo sospeso, poi migliaia di voci gridarono all’unisono.
«Il Signore sia con noi, il Signore sia con noi, il Signore sia con noi!».
Michele continuava a parlare e il racconto tracimava nella realtà del suo mondo dove il babbo
non c’era più, e mamma lavorava troppo e nessuno gli voleva bene, forse solo Anita, o almeno
così sperava, qualcuno lo sollevò da terra e, risalendo la corrente d'uomini che si mettevano in
marcia, lo portò vicino ad alcuni alberi. Li lo poggiò a terra e lo coprì col suo mantello. Quando
anche lui s’incamminò anche alla battaglia Michele già dormiva.
Lo svegliò il freddo. Aprì gli occhi e vide che era calata la sera. Spirava una brezza fresca, che lo
intirizziva correndogli sulla pelle. Si alzò scostando la coperta rossa. Tutto, attorno era silente.
Michele scandagliò la valle, ma non vide traccia degli eserciti, dei cavalieri. Si tastò la schiena. Il
tocco gli causò dolore. La ferita c'era, nascosta sotto uno strato di garza ormai fradicio di sangue.
Gli bruciava, ma non troppo, e riusciva a camminare. D'altronde, per tornare a casa altro non
poteva fare.
Tornò al ruscello. Anche lì, nessun segno. Spariti i corpi dei morti, le tracce dei cavalli e quelle
degli uomini. Cosa ne era stato di Alexios? Aveva sopraffatto anche l'ultimo nemico o era stato
sconfitto? E cosa significava sconfitto? Poco oltre, nonostante il freddo, si tuffò nel torrente.
Ricordava esattamente qual era il punto dove l'uomo aveva gettato la punta di lancia. Frugò fra la
sabbia e i ciottoli del fondo. L'acqua era fresca e piacevole e gli pizzicava le gambe. Una giovane
trota gli guizzò fra le dita, ma, per quanto cercasse, non riuscì a trovare la lancia. Si tuffò di
nuovo nella pozza d'acqua e lì rimase sospeso, sul pelo dell’acqua.

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