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Gee J. R.

Amery

Come in Alto
Così in Basso
I I – Il sangue dei gemelli
Copyright © 2022, by Gee J.R. Amery
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A te
che hai scelto
di proseguire
questo viaggio
Prologo

15 novembre 2025 d.C.


Castello del conte Valentine - Regno di Albor, Inferno

Rullano i tamburi della battaglia, i cuori tremano e i tuoni


ruggiscono.
la paura mi attanaglia, figli miei, ma voi siete leoni
l’oscurità è di fronte a me e la luce è alle spalle.
Oh guerriero, perdona la mia mancanza.
L’anima è ormai rassegnata.

Ma ora la pioggia cade, lavando via il timor.


Alza il pugno al cielo, oh guerriero, combatti con onore.
La fredda morte ha posato il suo velo, ci prenderà alle prime luci.
Ma tu combatti, oh guerriero, combatti con onore…

Un’ombra mi strappa il coraggio, vedo il suo sorriso. Mi vuole.


È vicino, sento l’odore del suo odio e si prende gioco di me.
Ora posso vedere il futuro, sangue, carne e morte.
Gli artigli del nemico affilati come spade.
Brillano in attesa della caduta del primo uomo.

Ma ora la pioggia cade, lavando via il timor.


Alza il pugno al cielo, oh guerriero, combatti con onore.
La fredda morte ha posato il suo velo, ci prenderà alle prime luci.
Ma tu combatti, oh guerriero, combatti con onore…

Dopo la canzone il silenzio dominò le segrete. Nessuno, guardie


comprese, osava proferire parola. I prigionieri dietro le sbarre,
guardavano in direzione della cella di Capricorno, come raccolti in
preghiera.
Il regnante, rinchiuso in fondo al corridoio semibuio, aveva cantato
con voce grave, amaro e fiero al tempo stesso.
Il conte Anuman Valentine, signore del castello, era immobile di
fronte all’ingresso delle segrete, i pugni serrati dietro la schiena per
nascondere l’irritazione. Prese un respiro profondo, avanzò oltre la
soglia. Il rumore degli stivali sul pavimento di pietra spezzò la quiete.
Afferrò una torcia e, giunto alla fine del breve tragitto, illuminò
l’ultimo cubicolo.
La fiamma che reggeva come un’arma rese onore all’imponente
demone prigioniero. La figura seduta sul pavimento mostrava la
propria dignità nonostante arti e collo fossero bloccati alla parete
retrostante da robuste catene e il corpo fosse ricoperto di tagli,
ustioni e gravi ferite.
La criniera, nera come gli artigli delle grosse mani bestiali,
contornava un muso sanguinante da leone e gli occhi, dorati e
scintillanti, erano stanchi. Un possente braccio poggiava sulle
ginocchia delle gambe caprine e l’altro giaceva al suo fianco,
spezzato in più punti. Il petto muscoloso, visibile attraverso uno
squarcio nella cotta di maglia, era deturpato da una vecchia cicatrice
a forma di X. La coda leonina si agitò nervosa.
«Prostrati» gli ordinò Anuman, conscio che non avrebbe potuto
farlo in alcun modo a causa del bacino fratturato.
«Il valore non si piega alla codardia, Valentine». La risposta
dell’altro fu quasi un ringhio.
Il conte si lasciò scappare un sorrisetto divertito; gli occhi
attraversati, però, da un lampo d’odio. «Sei nelle mie segrete» lo
canzonò. «Pensi che questo tuo atteggiamento da intrepido
guerriero possa condurti verso la libertà? Hai perso il tuo castello, la
tua gente, le tue terre e qui marcirai, Sir Gallach. Ma non prima di
aver parlato».
«Sai molto bene anche tu che non accadrà».
Anuman annuì e senza smettere di fissarlo ordinò alle guardie:
«Portate tutto l’occorrente. Oggi l’uccellino canterà in mio onore».
Capricorno aveva resistito come mai nessun altro di fronte a un
assedio di tre mesi, barricato nella sua fortezza quando il conte, suo
carceriere, Nahenia e Solomon erano riusciti dapprima a catturarlo
e, infine, decimare i suoi uomini.
Era l’unico regnante ancora dalla parte del Progetto Thoctar.
Ripensò a suo fratello Asmodeus. Probabilmente col suo aiuto
sarebbe riuscito a resistere e a battere gli altri tre. O forse no. Forse
sarebbe morto anche lui, come i suoi uomini, come la sua gente, e
sentire Anuman rimarcarlo fu ciò che più di tutto gli fece male. Il
volere di Lucifer sembrava impossibile da annullare.
Strinse i denti, ruggì per la rabbia; fu così forte e tenebroso da
risuonare in tutte le carceri.
Un calpestio annunciò l’arrivo spedito del servo, tra le mani un
fodero contenente svariati attrezzi da tortura.
Il conte aprì la cella. «Bene, bene, ancora non ti è passata la
voglia di ruggire, questo significa che le prestazioni che ti abbiamo
riservato fino a ora non sono servite abbastanza».
«L’unica prestazione che mi aspetto da un traditore come te è da
amante a pagamento, Valentine!»
Un affronto che zittì anche le mosche attorno alle sue ferite.
Anuman serrò la presa sul manico di un martello estratto dal
fodero, ne saggiò la pesantezza. No, non sarebbe stato divertente
usarlo. «Portami il ferro» ordinò al servo che scattò imboccando
l’uscita del corridoio sulla sinistra.
Valentine avanzò misurando i passi: «Non abbiamo mai avuto
tanta simpatia reciproca e, detto in tutta onestà, ti ho sempre trovato
privo di spina dorsale, soprattutto quando tuo fratello ti bazzicava
intorno». La voce che arrivò alle orecchie del duca era minacciosa.
«Eppure sono io quello che ha resistito a discapito dei tradimenti
di voi vermi» il leone sputò di fronte a sé con disprezzo e aggiunse:
«Sono io il codardo che ha deciso di combattere insieme a due
alleati contro uno solo, vero? Tu sia maledetto, Valentine, insieme ai
tuoi avi e ai tuoi discendenti… ma dimenticavo, tua moglie non ti
darà mai un maschio e la tua casata non avrà mai un successore».
Gli rise in faccia, stroncato però dai dolori lancinanti.
Anuman si contrasse in una smorfia furiosa. «Siamo nella stessa
condizione vecchio leone, anche la tua stirpe non ha mai avuto la
possibilità di vedere la luce. Sbaglio o sei sterile? Un vero peccato».
Il duca provò a trattenere la frustrazione, non fu affatto facile.
Emise un ringhio così potente che gli altri carcerati temettero
potesse crollare il soffitto. «Forza bastardo, fa’ ciò che devi e lascia
in pace la mia anima! Devi uccidermi? Fallo! Perché se non lo farai
io troverò il modo di uscire e per te non ci sarà scampo!»
Anuman si allontanò e lo scalpiccio del servo li raggiunse. «Ecco a
lei, Signore» disse trafelato.
Anuman lasciò cadere il martello e prese il lungo spuntone di ferro
incandescente, lo rigirò tra le mani, un mezzo sorriso gli comparve
sulle labbra. «Non ce ne sarà bisogno vecchio mio, perché tu non le
vedrai le prime luci del domani».
Eroi o traditori?

14 settembre 2025 d.C.


Piazza dei Giudici - Sila, Paradiso

«Sbatteteli in cella!»
«Bugiardi!»
«No! Lasciateli andare!»
«Sono dei traditori bastardi!»
Le Dominazioni cercavano di riportare l’ordine in aula, purtroppo
senza successo.
La situazione era ingestibile, nemmeno le numerose guardie
presenti riuscivano a sedare o placare gli animi con la minaccia delle
armi.
Gli spettatori erano furiosi con gli imputati che ancora non
avevano fatto la loro comparsa e che, di lì a poco, sarebbero stati
giudicati. I cittadini di Sila minacciavano di venire alle mani, alcuni
provavano a saltare giù dagli spalti. Il vociare concitato, le grida
rabbiose e gli insulti si udivano da un capo all’altro dell’aula di
tribunale.
I portoni si aprirono, entrarono due Potestà armate, che a ogni
passo facevano tintinnare le gambe metalliche.
I cinque Arcangeli scortati e ammanettati, al seguito.
Le grida e gli insulti si intensificarono.
Gabriel, in testa, zoppicante e sanguinante, veniva strattonato da
due guardie verso l’imminente giudizio. Mantenere la calma gli
veniva difficile, lo scontro con Baal e l’addio a Odry l’avevano
debilitato più del previsto.
Mathael, subito dietro, camminava a testa alta, ma anche lei,
come gli altri, iniziava a risentire degli effetti della battaglia. Non
degnò di uno sguardo i Serafini, seduti in prima fila sulla destra, e
nemmeno un singolo cittadino furioso.
Michael invece si guardava intorno senza capacitarsi di tutto
quell’odio. Si erano lasciati sfuggire l’ultima reliquia, questo era
indubbio, ma nessuno capiva il sacrificio di averci provato
affrontando l’esercito di uno dei demoni più forti? Erano ciechi forse?
O le loro menti erano state plagiate?
Raziel portava, con un misto di stizza e orgoglio, delle nuove ferite
provocate da una piccola rissa scatenatasi prima del loro ingresso.
Sollevò entrambe le mani per mostrare il dito medio a chiunque
incrociasse il suo sguardo. Sputò in terra e in tutta risposta venne
spinto da uno degli accompagnatori armati.
Uriel era l’ultimo, serio e preoccupato come non si era mai visto.
Ascoltava con attenzione e scandiva dentro di sé le frasi di disprezzo
che riusciva a distinguere. Da lì in poi la vita sarebbe stata un
inferno, ne era certo.
In alto la bandiera della giustizia veniva agitata da un vento
impetuoso. Sembrava che anche Dio fosse in collera.
Tutti gli occhi erano puntati sui cinque, compresi quelli di Chris e
dei compagni. Yovus incoraggiava una buona parte della platea a
inveire contro di loro. «Sono dei traditori!» gridò. «Non hanno diritto
a un processo, dovrebbero essere banditi all’istante!»
«Non meritano le ali! Avremmo dovuto già gettarli sulla Terra!» gli
diede manforte Hamenam.
Le Dominazioni decisero di approfittare dell’arrivo degli Arcangeli
per far leva sulla curiosità del popolo e farlo tacere. Si scambiarono
uno sguardo eloquente e rimase in piedi solo il più anziano. I simboli
enochiani sulle labbra si illuminarono e la sua voce tuonò nell’aria.
«Parlo per Dio e con Dio, Nostro Signore».
Il chiasso si tramutò in mormorio per rispetto di quelle parole.
I pochi che ancora stavano protestando, tacquero quando lo
stesso aggiunse: «Gli imputati saranno trattenuti accettando la
volontà di Dio, se egli deciderà che dovranno essere puniti o se
deciderà che è la libertà ciò che meritano».
«È inammissibile!» protestò Chris, battendo un pugno sulla
seduta, seguito a ruota da altri suoi pari che riaccesero la miccia
della discussione.
«Non ammetto che le vostre lamentele siano per noi fonte di
disturbo» disse aspro il giudice. «Giudichiamo per mano di Nostro
Signore, ciò che diremo sarà legge».
Chris si zittì astioso e, sotto consiglio di Holian, cercò di darsi un
contegno, saettando occhiate irose contro i cinque.
«Bene» enunciò la Dominazione con ritrovata calma. «Visto che
gli animi sono infiammati, cercheremo di non tirare per le lunghe
questo processo. Al centro dell’aula abbiamo gli Arcangeli che sono
scesi con le proprie legioni sulla Terra senza consenso e hanno
cacciato un esercito demoniaco. Come possiamo notare, essi sono
solo cinque, in quanto sul campo mancavano Cassiel Blanchett, che
si trova attualmente in prigione, e il suo gemello Raphael». Si voltò
prima a destra e poi a sinistra con entrambe le mani sollevate per
bloccare qualsiasi commento. «Nell’oggettività dei fatti, questo è ciò
che è accaduto». Poi sedette.
La donna, sua collega, si voltò verso gli imputati e domandò: «C’è
altro che dovremmo sapere?»
«Favoreggiano il nemico!» Chris scattò in piedi, rispondendo per
primo. «Abbiamo le registrazioni della battaglia, dall’inizio alla fine.
Collaborano con i demoni, Satan è uno di loro; avete una vaga idea
di quanto pericoloso sia lui da solo?»
Alcune frasi di protesta si levarono dagli spalti, ma vennero zittite
dalle Dominazioni. Tornato il silenzio, la donna commentò: «Questa
affermazione mi porta al precedente processo e alla confessione
della presenza di demoni nascosti sul piano terrestre». Poi ordinò:
«Mostrateci ciò che avete».
Chris non perse tempo. Chiese a Holian di portare un dispositivo
USB allo stesso angelo che in precedenza si era occupato di
mostrare le prove. Venne collegato alla sfera che proiettò a
mezz’aria due icone video. La prima venne selezionata e avviata:
durava ore.
«Questa è la battaglia. Consiglio di accelerare la velocità di
riproduzione per ovvi motivi. Come ben saprete, il globo di cui si
serve il Cherubino Barakiel può vedere qualsiasi luogo della Terra e
anche oltre, se solo non fosse proibito dal millenario Patto delle
Anime. Il tutto viene registrato e conservato. Quel giorno, in
particolare, nella sala di controllo, chiunque ha potuto assistere a ciò
che stava accadendo». Chris parlò come un fiume in piena:
«Abbiamo raccolto anche le testimonianze di coloro che erano
presenti, con tanto di firma e giuramento solenne, tutte persone
disposte a testimoniare qui, oggi, se solo lo voleste. Abbiamo visto
gli Arcangeli aiutare quattro demoni: Satan di cui ho accennato
poc’anzi, Odry, colei che Gabriel ha portato al DEM, Belial, il figlio
bastardo di Lucifer, e un demone sconosciuto che, a quanto pare, ha
rubato il nostro Graal. Oltre al danno, la beffa: hanno aiutato un
ladro».
Mathael lo squadrò con disprezzo. «A nostra insaputa» dichiarò,
ma venne ignorata.
Le riprese scorrevano davanti agli occhi di tutti, il pubblico era
troppo preso dallo spettacolo per potersi lamentare. Un coro
orripilato spezzò il discorso di Chris: era stata appena mostrata la
scena del soldato incastrato negli spallacci di Gabriel per un errore
di Zachary.
Il Serafino colse lo spunto: «Vedete i loro volti? Questi disgraziati
hanno nascosto e aiutato dei mostri che godevano della sofferenza e
della morte del prossimo!»
Negli animi di chi stava dalla parte dei Serafini la rabbia verso i
traditori cresceva sempre di più.
A Michael non interessava seguire il video, sapeva bene com’era
andata; se avesse chiuso gli occhi avrebbe rivisto tutto. Ciò su cui
era concentrato andava oltre: gli spettatori seguivano le riprese,
rapiti dalle scene di battaglia e sangue incorniciate dagli attacchi
infuocati di Uriel, di Odry e Zachary; chi era riuscito a staccare gli
occhi dallo schermo giudicava gli Arcangeli con espressioni
disgustate. Alcuni, i peggiori, mostravano una grande delusione
scuotendo il capo. Si pose di nuovo la domanda: “Davvero non
riescono a capire? Un’eternità passata a servire il DEM, il Paradiso,
gli angeli, innumerevoli secoli a proteggere il genere umano. Ma è
più semplice puntare il dito che aprire gli occhi”.
«Le prove sono schiaccianti, tagliamo loro le ali!» L’accusa di
Yovus riportò Michael alla realtà.
Raziel non riuscì più a trattenersi: troppo scherno, troppe accuse
ingiuste, troppa rabbia da sfogare. «Ci siamo battuti contro Baal per
impedirgli di rubare una reliquia. Se fosse stato per voi senza palle,
ora avremmo fottute orde di demoni a spasso sulla Terra a fare
chissà quali casini!»
«Sciocchezze!» controbatté il Serafino Kazel. «Usate la cacciata
di Baal come scusa per nascondere l’alleanza con quei bastardi.
Poi? Cosa farete? Qual è il vostro intento?»
«Ma che cazzate spari, Kazel!» Raziel batté un pugno sul banco di
fronte a lui. «Abbiamo salvato gli umani e voi vi preoccupate se
quattro demoni erano dalla nostra parte? Ma che avete di
sbagliato?»
I simboli sulla bocca della Dominazione anziana brillarono e
questa fece per dire qualcosa, ma Mathael prese la parola.
«Abbiamo fatto qualcosa di importante. Si tratta di un passo avanti
dopo millenni: due opposte fazioni che collaborano per schiacciare
un nemico comune. Non tutti i demoni sono alleati, come non lo
sono gli angeli» sfidò Chris con uno sguardo glaciale. «Mi pare il
caso di ammettere che il Patto delle Anime sia divenuto obsoleto».
«Tu, razza di cagna ignorante! Come osi?» tuonò il Serafino
scattando in piedi. «Il Patto è frutto di uno degli accordi più difficili
mai raggiunti. I nostri antichi predecessori ci hanno creduto e l’hanno
stipulato per mantenere un perfetto equilibrio tra i mondi. Come puoi
sputare su qualcosa su cui hai giurato fedeltà?»
«Posso» la risposta della donna spiazzò chiunque, Dominazioni
comprese «e non ho problemi ad ammetterlo. E sai perché? Perché
è stato inutile e fin dall’inizio non è stato rispettato, altrimenti il
Distretto per l’Equilibrio dei Mondi non avrebbe avuto senso di
esistere, non trovi?»
I volti di Uriel e Michael si illuminarono e, Gabriel girò il capo verso
la collega, sorpreso da quella considerazione su cui non si era mai
soffermato. Raziel batté un altro pugno sul banco. «Ben detto!»
Prima che Chris o qualsiasi altro Serafino potesse ribattere, parlò
la Dominazione donna. «Noi eravamo lì quel giorno, a titolo di
testimoni. Solo le anime più alte hanno avuto l’immenso onore di
partecipare al dibattito e alla stesura del Patto delle Anime».
Mathael serrò la mascella, certa che con quella informazione
intendesse metterla in soggezione. «Nutro un profondo rispetto per
coloro che gli hanno dato vita e sono certa che in entrambe le fazioni
ci fosse la volontà di risolvere le cose. Ma ammettiamolo: l’ingenuità
e la sconfinata fiducia nel prossimo hanno portato il Paradiso a
chiudere gli occhi. E ora siete ciechi verso qualsiasi cosa. Non volete
ammettere che il tempo di quel concordato sia passato, non volete
ammettere che quattro demoni abbiano avuto il cuore di aiutarci. Ma
soprattutto non volete ammettere che noi Arcangeli abbiamo fatto
tanto per voi e che i Serafini, che hanno in pugno le vostre menti,
invece, non si siano mossi per venire in nostro aiuto. Se sono morti i
nostri soldati, i vostri figli, mariti, fratelli… è anche per colpa loro».
Il vociare dal pubblico riprese impetuoso.
«E se anche fosse?» S’intromise Hamenam. «Il trattato è legge e
come tale va rispettato. Voi non l’avete mai fatto, non avete
nemmeno mai rispettato gli ordini del vostro superiore».
E Dunne aggiunse a gran voce, spazientito, rivolgendosi ai giudici:
«Ci stiamo dimenticando del succo della questione: hanno intrapreso
rapporti col nemico. Abbiamo le prove, che volete in più?»
Uriel prese un respiro profondo, poi parlò: «Hanno bisogno del
nostro aiuto per rivoltarsi contro Lucifer!»
Michael lo guardò con tanto d’occhi, non era sicuro se fossero le
cose giuste da dire. Ma tacque.
Il turco proseguì: «Il loro contributo è stato fondamentale per
schiacciare il nemico, grazie al quale Gabriel ha potuto annientare
Baal. Sempre grazie a loro abbiamo ottenuto informazioni che da
soli non avremmo mai potuto ottenere. Come avrete immaginato, noi
diamo qualcosa a loro e viceversa. Ormai è inutile tergiversare: sì,
abbiamo collaborato con alcuni demoni. E ora abbiate il coraggio di
dirmi che non avreste approfittato di una tale fonte di informazioni sul
nemico pur di rafforzare il DEM, il controllo che la struttura vanta da
tempo immemore e uccidere Lucifer».
«Avete agito alle spalle di tutti noi» continuò Dunne, ricevendo
manforte dai colleghi.
Gabriel strinse i pugni, la sola vista di Chris lo infastidiva a tal
punto da trarre soddisfazione nell’immaginarne il pestaggio.
Raziel scattò fuori dalla postazione sfuggendo al controllo, quasi
raggiunse Chris ma due guardie lo bloccarono in tempo. «Sei un
coglione Chris, hai merda nel cervello!» gridò, allungando le mani
ammanettate verso di lui. Intanto le scorte armate lo allontanavano
con una certa fatica. «Vuoi farci credere che se te ne avessimo
parlato, tu ci avresti dato via libera? Ci avete lasciati soli in mezzo ai
demoni, ai cadaveri dei nostri alleati. Avete portato a vostro sfavore
la chiara prova che siete rimasti a guardare!»
Yovus e Hamenam scoppiarono a ridere. «Taci, razza di
imbecille!» gridò il primo.
Il secondo si accodò. «Abbiamo agito in tal modo per organizzare
un piano. Il torto è dalla vostra parte, non dalla nostra. Non siamo
certo stati noi ad agire senza avere una tattica o qualsivoglia
organizzazione da seguire, cosa per cui, tra l’altro, siete stati
addestrati».
Chris sorrise strafottente e applaudì, confermando quanto appena
detto. «Dentro il vostro gruppo c’è sempre stato del marcio.
Guardatevi, siete l’abominio della nostra razza: disorganizzati,
irrispettosi, traditori. Non vi pentite delle vostre scelte sbagliate, di
aver dato un tetto al nemico e per esso siete disposti a scendere a
ogni compromesso».
«Gli abomini son sempre stati allontanati» commentò Kazel.
«Seguendo la legge, son stati buttati angeli che hanno commesso
reati meno gravi. Loro devono essere il nuovo esempio. Nessuno di
noi lavora sodo per permettere a gente del genere di portare alla
rovina il nostro sistema».
Uriel scosse il capo. «Portare alla rovina il sistema? Non vi
sembra di esagerare?»
«Il turco non comprende proprio» rise Chris. Si avvicinò agli
imputati, tenuto sotto controllo dalle guardie. «Devo ricordarti che
Raziel ha un’umana per cameriera e che ora, a causa vostra e dei
vostri amici cornuti, è a conoscenza della nostra esistenza e
dell’identità di ognuno di voi?»
Il pubblico ammutolì.
Dunne era fiero di aver zittito tutti quanti: gli umani dovevano
restare al di fuori degli affari angelici e demoniaci e vivere credendo
di essere gli unici esseri viventi intelligenti e superiori. Una delle
prime e più importanti regole del Patto.
I cittadini ripresero a parlare. «A quante persone lo avrà detto
l’umana?» era la domanda più comune. «Quanto tempo ci vorrà
prima che la notizia venga divulgata?» Qualcuno, invece, restava
positivo, certo che pochi esseri umani in tutta la Terra ci avrebbero
creduto.
Il Serafino approfittò del brusio in crescita, si avvicinò al volto di
Raziel e sibilò: «Vi schiaccerò a uno a uno, farò lo stesso con i vostri
amici infernali e la tua puttana francese, così eviteremo che si venga
a sapere di noi».
L’Arcangelo smise di pensare.
Lo colpì con una testata sul naso, lasciandolo stordito e
sanguinante.
Un boato riempì l’arena.
Chris portò una mano sotto le narici e si lasciò scappare un breve
ghigno divertito. Proprio ciò che voleva. Scattò in avanti e saltò
sopra il banco dell’imputato, colpendolo in viso con un destro
micidiale che mandò Raziel a terra.
La rissa era iniziata.
Le Dominazioni scattarono in piedi imponendo l’ordine, ma
nessuno le considerò.
Michael non aspettava altro, lo stesso fu per Gabriel che ben
volentieri raggiunse Dunne e gli sferrò una seconda testata, imitando
il collega.
Uriel si allontanò dalla postazione per andare a bloccare il
Serafino, ma si trovò immischiato nella zuffa senza volerlo. Gli arrivò
una ginocchiata sullo stomaco che lo fece piegare in avanti.
Lo stesso gruppo di Serafini corse a dare manforte al compagno.
«Siete quattro contro uno, bastardi!» disse Kazel menando un
pugno in faccia a Michael seguito da un altro che colpì Uriel su un
fianco.
Le voci dei giudici quasi assordarono gli spalti, ma nessuno dei
partecipanti alla zuffa parve sentirle.
La situazione era degenerata in meno di cinque minuti e la platea
tifava i favoriti come fossero a uno scontro di boxe di gruppo.
Fu però uno schizzo di sangue sulla tunica della Dominazione più
giovane a far perdere loro la pazienza: era stato raggiunto il limite.
I tre sollevarono le braccia all’unisono. I rabbiosi e agitati Arcangeli
e Serafini vennero sorpresi da una invisibile forza che li costrinse a
fermarsi di colpo. Ogni muscolo si era irrigidito e quasi fecero fatica
a respirare, costretti a una semi apnea. Potevano solo muovere gli
occhi, spostare lo sguardo febbrile e agitato per trovare la causa del
loro stato.
Nessuno spettatore ebbe più il coraggio di parlare. Nessuno aveva
mai visto le Dominazioni così furiose, tantomeno si era mai vista una
scena simile in tribunale.
«È una vergogna!» gridò il giudice più anziano. «Questo è un
luogo in cui calma e serietà sono le parole d’ordine. Dove credete di
essere?»
I presi in causa non poterono far altro che ascoltare.
«Verrete puniti tutti quanti, e non importa che siate Serafini o
Arcangeli. La vostra condotta è stata deplorevole, un errore che
segnerà di certo in negativo la carriera di ognuno di voi. Decideremo
le vostre condanne in separata sede» affermò con tono grave. «Ci
aggiorniamo tra ventiquattro ore. Allo scadere saprete quale sarà la
vostra sorte».
La Dominazione donna aggiunse: «Ora libereremo i vostri corpi
così sarete in grado di muovervi per essere scortati nelle segrete. Vi
avverto: nessun passo falso».
Entrarono in aula una decina di Potestà con nuove manette per i
Serafini. Come promesso, a tutti venne concessa la libertà di
movimento e vennero scortati fino al DEM.

Raziel, capo chino e schiena poggiata alla parete di fondo della


cella, si dava dello stupido per essersi lasciato condizionare da
Dunne e averlo attaccato. Solo a mente fredda si era reso conto
della provocazione fatta proprio per farlo passare dalla parte del
torto. Soprattutto, iniziò a temere davvero per l’incolumità di Karen.
Uriel, Michael e Gabriel, come lui, tacevano, carichi di
risentimento.
L’unica che non riusciva a stare ferma era Mathael, che
camminava avanti e indietro in quello spazio ristretto. Non si dava
pace, non si capacitava di ciò che era accaduto fino a quel
momento. Tutto ciò che pensava era stato espresso dai compagni
senza mezzi termini. E, a pensarci bene, tornando indietro, non si
sarebbe posta problemi e sarebbe entrata volentieri dentro la rissa
per spaccare qualche brutta faccia.
Dietro le sbarre nessun Arcangelo osò commentare. Erano in una
posizione precaria e non vi era l’intenzione di peggiorare la
situazione.
Non si poté dire lo stesso per i Serafini, che criticavano con
sdegno la scelta dei loro superiori, ritenendosi dalla parte del giusto.
Domandarono più volte di poter conferire con una Dominazione, ma
non ci fu verso. Dopotutto nessuno di loro aveva alzato un dito e a
iniziare era stato l’ungherese. Si erano limitati a difendersi a vicenda:
perché dovevano stare lì con i veri criminali?
Le segrete non erano mai state così affollate.

II

16 settembre 2025 d.C.


Distretto per l’equilibrio dei mondi - Sila, Paradiso

«Le cinque del pomeriggio, sono in perfetto orario». Il Serafino


Hezef Yan, del Distretto Sanitario, osservava con ammirazione il
maestoso ingresso del DEM. Entrò evitando il via vai degli impiegati
e con gli occhi color della pece cercò qualcuno che potesse
accoglierlo. Tolse il cappello bianco e sistemò con una mano i capelli
ramati dal taglio marziale. “Il DEM è davvero grande quanto dicono”
pensò.
Gli ultimi avvenimenti e le rivelazioni avvenute durante il processo
agli Arcangeli avevano scosso chiunque. Erano passati tre giorni dal
fatto e la consapevolezza che i cinque fossero rimasti in cella aveva
disteso la tensione.
Il visitatore si rilassò nel vedere una Potestà in avvicinamento. Ne
osservò l’incedere rigido, soffermandosi in particolare sulle lame
appuntite che sostituivano le gambe, le quali tintinnavano sul
pavimento a ogni passo.
«Dottor Yan, corretto?» domandò l’angelo soldato, fermandosi a
pochi passi.
«Corretto» Hezef mostrò la lettera d’invito firmata dal Serafino
Dunne e col sigillo delle Dominazioni. «Mi fa strada verso la sede
della riunione?»
La Potestà chinò appena il capo, scrutò dalla sua altezza l’uomo e
poi la missiva, attraverso l’elmo bianco e piumato che ne celava gli
occhi. Annuì, si voltò di spalle e con movimenti meccanici avanzò
facendo strada.
Il dottore lo seguì ammirando l’incredibile equilibro che gli
permetteva di restare in piedi su degli spilli. Aprì i bottoni della
giacca bianca e sciolse il nodo al foulard verde lime per sopportare
la temperatura.
Presero l’ascensore e salirono fino al sesto piano, in silenzio. Le
porte condussero su un atrio senza finestre o arredamento. La
Potestà aprì un portone bianco con maniglie tonde in ottone e chinò
il capo in segno di saluto.
Yan ringraziò ed entrò.
La sala a forma di semicerchio, dalla pavimentazione a
scacchiera, conteneva tre grandi troni sui quali sedevano le
Dominazioni che lo salutarono con un cenno del capo, un trono più
piccolo, ma altrettanto importante, occupato da Chris e uno uguale
vuoto.
Questi si alzò per accoglierlo con un sorriso smagliante, gli strinse
la mano con vigore e lo invitò ad accomodarsi nella quinta seduta.
L’occhio di Chris cadde sulla valigetta che Yan aveva con sé e
mentre la osservava vide il suo viso incupirsi.
«Cosa avete per noi?» la voce della Dominazione più anziana
invase la stanza.
Hezef non prese posto, ma usò la sedia per poggiarvi la
ventiquattrore in pelle e tirar fuori una cartella bianca con su scritto il
nome di Agatha Dunne, sua paziente. Estrasse quattro fogli che
distribuì a ognuno di loro. «Questi sono i risultati delle analisi di sua
figlia».
Chris trattenne il fiato. Seguì i movimenti precisi del collega, per lui
fin troppo lenti: gli dava sui nervi. «Non è più mia figlia» sbottò. Si
agitò sulla fodera di pelle e si sporse in avanti per afferrarne una
copia. «Spero che le sue analisi abbiano portato a qualcosa di
concreto, visto quanto tempo abbiamo dovuto aspettare, dottore».
Gli lanciò uno sguardo torvo, reso più d’impatto dai tagli causati dalla
lite in tribunale e la conseguente colluttazione con Mathael.
«Ho dovuto fare alcuni accertamenti perché non sono riuscito a
capacitarmi dei risultati» considerò Yan, sedendo ora sul trono
assegnato. «Come potete leggere, le analisi affermano la natura
della ragazza: una mezzosangue, la madre è una demonessa e il
padre è un angelo. È quindi inutile precisare che la sua
sopravvivenza sul nostro piano è resa possibile dai geni paterni,
nonostante sia nel complesso di costituzione fragile».
Le Dominazioni tacquero, solo il più anziano sbirciò in direzione di
Dunne per un istante: lo sguardo del Serafino scorreva irrequieto sui
valori e i risultati, evitando di soffermarsi su ciò che per lui era
incomprensibile e cercando i dati che le sue competenze di base
potevano comprendere.
«Vi chiedo di girare il documento per leggere un’altra importante
informazione: la paziente è gravida».
«Gravida?» Chris si voltò di scatto poi seguì le indicazioni di Yan,
leggendo la parte retrostante. «Mi auguro sia uno scherzo di cattivo
gusto».
«Se volessi scherzare, la inviterei a prendere un drink nel locale a
pochi minuti da qui» ribatté l’altro Serafino.
La Dominazione donna si rivolse a Dunne. «Come mai tanto
preoccupato? Mi sembra la notizia meno rilevante».
Chris tacque, punto sul vivo. Fissò il documento poi Hezef e infine
la Dominazione. Scrocchiò l’indice facendo leva con il pollice. «Lei
porta ancora legalmente il mio cognome e sto provvedendo per
annullare ogni legame di parentela. Ma adesso non posso farlo
perché la nostra legge me lo impedisce: lei non è autosufficiente e, a
quanto pare, in stato interessante». Gli occhi chiari si fecero
rabbiosi. «Se permette, per me questa è una notizia altrettanto
incresciosa».
La donna annuì, comprensiva. «La ragazza continuerà a stare in
cella e da domani inizieremo con gli interrogatori. Ma non li guiderà
lei, Dunne. Incaricheremo qualcuno esterno alla famiglia».
«Holian? Hamenam? Oppure qualcuno esterno al DEM stesso?
Non voglio che estranei vengano a conoscenza di ciò che accade
nella mia famiglia… e a me» precisò torvo il Serafino.
«Chiunque sarebbe vincolato dal segreto professionale, Dunne»
rispose la Dominazione più giovane. «Nessuno di questa struttura
verrà scelto. L’incarico sarà affidato a qualcuno del Distretto
dell’Equilibrio del Paradiso, la trasferiremo lì».
Per la seconda volta, Chris tacque. Si lasciò andare contro lo
schienale. «Come voi ordinate, Eccellenze» sottolineò alzando
appena le mani. «Ho giusto un’altra richiesta: voglio sapere chi è il
padre». Portò la sua attenzione sul medico e continuò: «Ha
ammesso lei stessa di essere stata a letto con due Arcangeli,
Cooper e Blanchett, e io voglio sapere chi dei due è il responsabile».
«Non ci sono problemi» confermò Hezef Yan. «Prenderò in
prestito il vostro materiale e vi spedirò i risultati delle analisi».
Le Dominazioni, con un simultaneo cenno del capo, dichiararono
chiusa la riunione e invitarono i due a uscire. I Serafini obbedirono e
si congedarono.
Ad attenderli fuori vi era la stessa Potestà che aveva appena
chiamato l’ascensore. La discesa fu silenziosa e solo quando il
capitano angelico si fu dileguato al pian terreno lasciando il visitatore
alle cure di Dunne, quest’ultimo si decise a parlare. «Quanto dovrò
aspettare per i risultati?» domandò standogli al passo.
«Dai tre ai sette giorni, non di più» lo tranquillizzò l’altro.
Anche il tragitto per l’infermeria fu silenzioso. Ma di fronte alla
porta, Yan si fermò. «Devo ammettere che mi ha molto turbato la
faccenda. Non mi sarei mai e poi mai immaginato che una cosa del
genere potesse accadere».
Chris strinse la mascella annuendo a quelle parole. «Nessuno
avrebbe potuto, va al di là di ogni immaginazione. È stata mandata
qui con l’inganno da Baal in persona, ma è chiaro che a guidarlo ci
fosse Lucifer. Sono stati furbi, molto furbi…»
«E se ce ne fossero altri?»
L’ennesima pugnalata per Chris, che rimase a fissare gli occhi
scuri dell’interlocutore, ragionando sull’ipotesi più che ammissibile.
«Occorrerebbe sterminare l’intero dipartimento… ma sarebbe un
atto immondo» si affrettò a dire. «A ogni modo si dovrebbe optare
per un controllo di massa, l’intero DEM dovrebbe essere analizzato,
ogni singolo impiegato».
«Ogni singolo impiegato di ogni singolo distretto» precisò Yan
«perché potrebbero essere ovunque».

III

11 settembre 2025 d.C.


Distretto per L’Equilibrio del Paradiso - Moera, Paradiso
La fustigazione di Agatha andava avanti da circa quindici minuti.
Era stata condotta lì affinché l’interrogatorio venisse gestito da
qualcuno di esterno. Solo dopo aver ottenuto le risposte che
cercavano, l’avrebbero riportata a Sila: essendo una succube, il
DEM si sarebbe occupato della detenzione in attesa del processo
definitivo.
Legata al soffitto, piangeva a dirotto e invocava pietà. Era stata
rasata per mettere in bella mostra le corna ormai in ricrescita, ma
soprattutto per toglierle un po’ di dignità. Le mura isolate non erano
riuscite, nemmeno quella volta, a contenere le sue grida.
Jolin Silva le spense la sigaretta sul ventre e godette nel vederla
soffrire. Con lui vi erano due boia che eseguivano ogni suo ordine.
«La frusta sarà solo l’antipasto, se non parlerai» l’avvertì,
squadrando il corpo semi nudo della prigioniera.
«Vi supplico, basta, ho già detto tutto ciò che sapevo». Il pianto
convulso le fece mancare il respiro.
«Hai sete?» Jolin cambiò atteggiamento in modo drastico, si grattò
la testa nera e afferrò una bottiglia in vetro piena d’acqua, poggiata
sul tavolino accanto alla porta d’ingresso.
Agatha annuì piano tirando su col naso. Con fatica alzò il viso
provato, profonde occhiaie rosse le cerchiavano gli occhi.
Il Serafino le si avvicinò e con un movimento brusco la costrinse a
tirare indietro il capo. Uno dei boia le infilò in bocca un grosso imbuto
in acciaio e il contenuto della bottiglia venne versato di getto.
La bocca e la gola bruciarono: l’avevano appena costretta a bere
Acqua Santa. Essendo lei una mezzosangue la pelle non veniva
intaccata dal liquido benedetto, ma, se ingerito, era tutto un altro
discorso.
Agatha avvertì gli organi quasi collassare dal dolore e tutto ciò che
riuscì a fare fu vomitare sangue sul pavimento e addosso al Serafino
di fronte a lei. Gridare le divenne impossibile.
Jolin tolse l’imbuto, invitando i boia ad allontanarsi. «Forza, so che
hai ancora tanto da dire, quindi non perdiamoci in stronzate. Ci sono
altre spie qui in Paradiso?»
Agatha scosse la testa.
«Vuoi dirmi che sei l’unica spia mandata da quei cani? Hanno
giocato proprio male le loro carte, vista la fine che hai fatto».
Ma la ragazza non rispose. Rimase a fissargli le scarpe lucide con
gli occhi annebbiati, scossa dai singhiozzi.
«Bene».
Una seconda volta venne costretta a trangugiare Acqua Santa e
una seconda volta venne invasa da un dolore lancinante dal quale le
era impossibile scappare.
Il sangue fluì densò dalle narici e dai lati della bocca, ancora
costretta a trattenere l’imbuto che venne poi lanciato verso una
parete dallo stesso Jolin, preso da uno scatto d’ira. «Parla, cagna
maledetta!»
La voce non riuscì a uscirle dalla gola. Rantolò parole senza
senso, vomitò di nuovo. “Uccidimi, ti prego” avrebbe voluto dirgli, ma
riuscì solo a pensarlo.
Tre schiaffi consecutivi sulla parte sinistra del volto le fecero
perdere l’udito per un istante. Il Serafino l’afferrò per il collo,
fissandola con i suoi occhi azzurri. «Parla, puttana».
«Non… so… altro» biascicò. «Lo giuro su… Dio».
«Mettetela sul lettino».
L’ordine venne eseguito in fretta. Agatha venne sganciata e,
ancora legata mani e piedi, trascinata di peso su una lastra di
metallo ghiacciata poggiata su ruote, simile a un tavolo operatorio.
Poi le corde di mani e piedi vennero legate a due appigli sotto il
ripiano in modo da tenerle il corpo bloccato.
Jolin, intanto, aveva immerso più volte un grosso panno dentro un
catino colmo d’acqua.
Si avvicinò alla prigioniera, lo sguardo freddo. «Hai detto di aver
mentito sulla tua identità per poter salire in Paradiso insieme a
Dunne, costretta da Baal. Dopo quanto tempo hai iniziato a fornirgli
informazioni?»
Agatha tacque per qualche secondo, deglutì con dolore. Si
focalizzò su ciò che il Serafino teneva tra le mani e terrorizzata si
affrettò a rispondere: «Due settimane… dopo il mio arrivo».
Jolin parve ironicamente ammirato. «Pensavo ci avessi messo
molto meno, immagino ti sia presa il tuo tempo per ambientarti. E
quali informazioni gli hai fornito?»
«Distretti… eserciti… armi…» rispondere le veniva difficile, ma
farlo le garantiva una speranza di uscire da lì, o almeno di far
cessare le torture. Eppure sembrò non bastare: il torturatore preparò
il canovaccio zuppo. «No, aspettate…»
Il Serafino le bloccò il capo con una mano e glielo coprì col panno,
poi un boia le versò sul volto altra acqua. Ad Agatha parve di
affogare, si dimenò ma gambe e braccia tese e legate strette le
impedivano i movimenti. Provò a gridare ma fu peggio.
Durò pochi secondi che le parve un tempo infinito.
L’orrendo trattamento venne sospeso e lei, cercando di trattenere i
singhiozzi e riprendendo a respirare, si affrettò a proseguire l’elenco
delle informazioni fornite ai demoni, con la speranza che la
lasciassero andare al più presto. «Dove sono le basi terresti… quanti
angeli ci sono… le guardie, gli Arcangeli sulla Terra».
«Puttana» sibilò Jolin.
Il supplizio riprese, stavolta più a lungo e ad Agatha sembrò di
essere giunta alla fine dei suoi giorni. E avrebbe preferito andasse
così, piuttosto che resistere e subire chissà quali altre crudeltà. Ma,
com’era ovvio, gli angeli l’avrebbero tenuta in vita per spremerla fino
all’ultima goccia, lo sapeva.
Quando la succube poté riprendere a respirare, giunse un’altra
scomoda domanda: «Come sei riuscita a comunicare con i demoni?
Tu non puoi smaterializzarti».
Respirare adesso era pressoché impossibile percorsa com’era da
dolori atroci, ma si sforzò di rispondere: «Un generatore di portali…
l’ho usato per… spostarmi di nascosto».
Il Serafino ringhiò qualcosa tra i denti poi le sferrò un pugno sul
fianco scoperto, mozzandole il fiato.
Agatha si sentì svenire e sarebbe stato cento volte meglio che
continuare a essere sveglia.
«Perché Lucifer ha rubato le reliquie?»
«Non lo so…» biascicò con la bocca impastata di sangue. Sopra il
volto sfinito comparve di nuovo l’imbuto, le venne infilato in bocca e
fu costretta a bere altra Acqua Santa. Le andò di traverso e fu
ancora più doloroso.
D’improvviso si pentì di ogni malefatta, nonostante quasi ogni sua
azione fosse stata guidata da qualcuno più forte di lei.
Non aveva avuto scelta: tradire o morire.
Nel corso di quegli anni era stata sempre nel mezzo, una
demonessa che non si sentiva tale, un angelo di adozione che non
avrebbe mai potuto essere altro. Nella sofferenza non seppe
nemmeno a quale dio rivolgersi; poiché Agatha un dio non l’aveva
mai avuto.
«Sì che lo sai!» gridò il Serafino. «Dimmelo e smetterò» ma lei
continuò a dibattersi come un pesce in una rete, impossibilitata a
rispondere.
Il torturatore godeva nel farle ciò; la ragazza in lui rivide Chris e si
domandò se il sadismo fosse una caratteristica di ogni Serafino.
Agatha urinò, perdendo il controllo sul proprio corpo. Se ne rese
conto e pianse, mentre Jolin rideva di lei insieme ai due boia dallo
sguardo coperto dal cappuccio.
«Io non lo so!» strillò con disperazione, ferendosi la gola e
tentando invano di liberarsi dalla stretta ferrea del suo aguzzino.
«Allora dimmi quali altri piani ha quel maledetto del tuo Signore».
Agatha scosse il capo supplichevole. «Non so niente. Nessuno lo
sa».
Il Serafino le rispose con un altro pugno nel fianco che le provocò
un altro conato di vomito. «Sei una puttana inutile!» Gettò secchio e
imbuto in terra e le liberò polsi e caviglie, spingendola giù dal lettino,
lasciando che cadesse sul pavimento freddo. Fece il giro e prima
che lei potesse anche solo mettersi carponi, l’afferrò per il collo e la
lanciò contro la parete.
La ragazza cercò di mettersi in piedi, ma scivolò in ginocchio,
macchiando la parete bianca con il sangue che le impregnava le
mani.
«Come comunicavi con quei maledetti?» Jolin le si avvicinò a
grandi passi. «Sei sempre stata qui. Come hai fatto?»
Agatha si chiuse in posizione fetale, ma si affrettò a rispondere
con la speranza di evitare altro dolore. «Baal… mi aveva dato un
dispositivo impossibile da rintracciare» trasalì per un movimento
brusco del Serafino: si era chinato su di lei. Con voce roca e alterata
dal pianto continuò: «Per non destare sospetti cambiavo sempre
luogo in cui attivare il portale. Nei mesi pari ci incontravamo il
sedicesimo giorno, nei mesi dispari il ventunesimo. Capitava di non
presentarmi agli incontri in assenza di novità, e a volte anche per il
pericolo che avrei potuto correre: cercavo di essere prudente».
«Vi voglio fuori» ordinò Jolin, passandosi una mano sul viso rasato
e imperlato di sudore; i boia obbedirono.
Lui e la prigioniera rimasero soli.
«Un piano fin troppo intelligente da usare contro di noi» aggiunse.
La ragazzina deglutì. «Vi prego, ho collaborato! Lasciatemi
andare… vi ho detto tutto ciò che sapevo» tentò una seconda volta
con la magra speranza di convincerlo a liberarla.
Jolin si alzò e raggiunse la porta, la chiuse a chiave e si voltò con
un lampo perverso nello sguardo. «No, non abbiamo finito» si
avvicinò slacciando i pantaloni.
Agatha indietreggiò d’istinto trovandosi con le spalle al muro. «Per
pietà, lasciami andare…» la voce le si ruppe e questo divertì il
carceriere che si inginocchiò e, afferrandola per le caviglie, la
trascinò verso di sé. «Sei una succube, no? A te piace scopare».
Agatha provò a divincolarsi, senza successo. Cercò di ritrovare in
sé la forza di reagire, di lottare, ma Jolin le menò uno schiaffo
violento, ferendola con l’anello che aveva all’anulare. Lei allungò le
mani per graffiarlo, ma il Serafino le bloccò entrambi i polsi sul
pavimento facendo pressione su di essi; le braghe già calate.
La ragazza gridò in cerca d’aiuto, un aiuto che non sarebbe mai
giunto. Voltò il capo concentrandosi sulle ruote del lettino di metallo.
Le fece male.
Chiuse gli occhi.
Ricordò con quanta forza Gabriel avesse difeso Odry dalle torture
di Chris e desiderò con ardore che qualcuno in quel momento
facesse lo stesso.
Ma nessuno avrebbe lottato per lei.
Il principe

09 dicembre 2025 d.C.


Notting Hill - Londra, Terra

Erano passate tre mesi dalla battaglia che aveva segnato la


sconfitta di Lucifer, l’Imperatore infernale.
Il Generale demoniaco Sergei Baal Katromirov era stato
annientato e l’esercito, o ciò che ne restava, aveva fatto ritorno in
condizioni disastrose annunciando la perdita dell’ultima reliquia
mancante nella collezione del Signore Oscuro: il Graal.
Era stato un tracollo oltraggioso. La notizia era arrivata in ogni
angolo dei regni affiliati, allarmando i regnanti sostenitori, impegnati
a combattere su altri fronti.
Gli animi erano scombussolati, all’Inferno. Il Sovrano sperperava
le ricchezze, i suoi capricci erano ormai emersi alla luce del sole,
chiari e indecenti. Troppi per continuare a subire a testa bassa.
I ribelli avevano iniziato a uscire allo scoperto, facendo leva sullo
scontento generale per allargare l’opposizione. Quindi avevano dato
il via alla rivolta.
I civili avevano oltrepassato con la forza i posti di blocco, infranto i
passaggi che segnavano i confini con ogni distretto, spingendosi
come una marea incontrollabile fino al cancello nero del palazzo.
Tutti erano ammassati quasi gli uni sugli altri attorno a esso come
una terribile bomba pronta a esplodere.
Lucifer si era barricato nel Quartier Generale, circondato da
numerose file di soldati che tenevano a bada i tentativi di sommossa.
Dentro la sala del trono camminava avanti e indietro, nervoso come
un animale in gabbia. Pensava e ripensava a tutto ciò che era
accaduto. Si trovava con le spalle al muro, ma non riusciva a
smettere di cercare una soluzione.
La prima cosa da salvare era la sua credibilità: la violenza sarebbe
stata utile fino a un certo punto. Il popolo non lo venerava più come il
dio che aveva sempre fatto credere di essere.
Era stato molto bravo a giocare con le menti deboli dei bisognosi,
li aveva sfruttati facendoli passare per eroi virtuosi ai quali il sistema
doveva molto. Ma il lento risveglio collettivo era già iniziato e lui non
se n’era reso conto per tempo.
Tutto era peggiorato con la fuga di Odry e Satan Crane, due dei
membri del suo Concilio Ristretto ormai decimato. La notizia del loro
allontanamento volontario era trapelata e il popolo aveva iniziato a
dubitare, a riflettere. Perché due dei suoi più utili e importanti
collaboratori avrebbero dovuto fare una cosa simile?
La domanda aveva trovato una risposta in certi messaggi che
andavano in onda su qualsiasi schermo della Capitale da tre mesi.
Il volto del giovane Belial compariva di tanto in tanto nei televisori
delle famiglie benestanti, negli schermi dei computer, sui monitor
pubblicitari affissi ai palazzi delle zone ricche e su quelli malmessi
dei bassifondi.
La sua voce, il volto e gli occhi grigi dallo sguardo brillante,
accentuati dai capelli neri, attiravano l’attenzione. Con un taglio corto
e pulito e un’espressione decisa aveva lasciato tanti a bocca aperta,
riuscendo a trasmettere una maturità che nessuno aveva mai
creduto di vedere in lui.
Il principe, rimasto a lungo soggiogato dal padre, si rivoltava
contro il sistema di cui aveva fatto parte.
Aveva raccontato la propria storia, si era pentito e scusato. Poi
aveva iniziato con i discorsi di incoraggiamento ai rivoluzionari,
incitando gli spettatori ad andare contro la monarchia dittatoriale che
stava conducendo il regno al collasso.
Frutto di un perfetto e capillare hackeraggio, di cui Odry andava
molto fiera, i discorsi del ragazzo smuovevano l’orgoglio di quelle
povere anime stremate e schiacciate.
Anche quella volta, alla partenza della trasmissione, la Capitale
ammutolì.
«Siete il mio popolo» iniziò Belial «e siete ciò che non dovreste
essere: servi. Quel despota con la pancia piena vi fa mangiare la
polvere da tutta la vita! Dovreste essere la sua forza e viceversa, ma
allora ditemi: come può darvi sicurezza un individuo come Lucifer?!»
Venne enunciata una verità assoluta. Ormai pendevano dalle sue
labbra, guardandolo e ascoltandolo come fonte di speranza e
orgoglio. Forte e risoluto, riscaldava i cuori di chi aveva iniziato a
perdere la speranza e rinvigoriva gli animi di coloro che da settimane
cercavano di penetrare nel Quartier Generale.

«Continua» intimò Satan con il solo movimento delle labbra, da


dietro la telecamera. Passò una mano tra i capelli color carota; lo
sguardo blu serio e concentrato.
L’artefice di ogni discorso del ragazzo era proprio lui. Aveva
costruito tutto facendo affidamento sulla dote di abile oratore di cui
disponeva e lasciando che anche Belial contribuisse. Sapeva, infatti,
che il principe non avrebbe raggiunto la giusta enfasi se avesse
dovuto imparare a memoria qualcosa di fatto e finito.
Odry amministrava le riprese. Con una coda disordinata da cui
sfuggivano corti ciuffi rosso ciliegia e una tazza di latte corretto tra le
mani, si spostava con una sedia con rotelle da un computer all’altro,
affinché la barriera virtuale non venisse infranta dai tecnici di Lucifer,
che senza sosta tentavano di debellare il virus inattaccabile.

«Un padre che maltratta i propri figli non è degno di tale nome e
voi siete tutti figli suoi. Ma è giunto il momento di impugnare le armi
e digrignare i denti, è giunto il momento per voi di riprendere in mano
le vostre vite e la vostra terra!»
Un grido di assenso si levò dalla folla, così alto e potente da far
vibrare le vetrate del castello.
Erano in visibilio, entusiasti, carichi.
Lucifer strinse i pugni.

«Abbiamo ancora un minuto, poi rischiamo di essere scoperti»


comunicò Odry a bassa voce guardando gli schermi a uno a uno, le
immagini riflesse negli occhi del colore del cielo limpido.
«Vi dico solo questo, per concludere» continuò Belial, in perfetto
orario per la fine della breve orazione «affilate le lame e risvegliate il
coraggio perché arriverà presto il giorno della liberazione».
I civili esplosero, inneggiando alle parole del giovane, battendo le
mani, i pugni sugli scudi dei militari, i piedi sulla strada, ricevendo
l’ennesima dose di motivazione necessaria per continuare a tenere
testa all’esercito.
Il principe aveva ragione: nessuno avrebbe mollato.
Erano un’unica entità in cerca di libertà, un unico cuore che
batteva vigoroso e insieme avrebbero fatto la differenza.

«Siamo offline» annunciò Odry facendo ricadere le spesse cuffie


attorno al collo e portando gli occhiali sulla testa. Orgogliosa, si
sporse in avanti per dare una pacca sul ginocchio di Belial.
«Hai fatto un ottimo lavoro» gli disse Satan battendogli una mano
sulla spalla «e io sono fiero di te» aggiunse con un radioso sorriso.
La demonessa annuì per confermare.
Il ragazzo si lasciò andare con la schiena sul divano, tirò un
sospiro di sollievo. «Ho sempre paura di fare la figura del coglione
con i tuoi testi. Sono troppo arzigogolati per quelle persone e ho
difficoltà a memorizzarli».
«Hanno capito tutti quanti» sminuì Satan. «Hanno bisogno di
concetti semplici ma non di sentirsi trattare come degli ignoranti. I
miei scritti sono il giusto compromesso».
«Un pochino poetici, ma concordo» ribatté Odry.
«Io li definirei epici» rispose Satan. «Comunque ripeto: hai fatto un
ottimo lavoro».
«Grazie, ora posso andare a farmi una doccia? Non mi avete
nemmeno lasciato respirare dopo il turno di lavoro».
«Vai, vai tranquillo, te lo meriti!» convenne il rosso. «Ti preparo il
pranzo» aggiunse, sistemando i fogli sparsi con gli appunti del
discorso.
«Anche per me, grazie». Odry distese gambe e braccia,
spingendosi coi piedi si allontanò dal tavolo.
«Ci mancherebbe». Il demone andò in cucina. Era di buon umore,
e nell’ultimo periodo non era capitato spesso. Le dirette
di Belial andavano bene e il lavoro per farle funzionare era
egregio. La rivoluzione pianificata dal Progetto Thoctar era iniziata e
lui non poteva essere più fiero del loro lavoro. L’ultimo pensiero
positivo andò ad Asmodeus, il fondatore del progetto stesso, poi
tornarono i ricordi cupi.
Tre mesi prima si erano battuti contro Baal, erano usciti vincitori
ma nel momento cruciale Zachary li aveva traditi.
Odry non aveva più affrontato l’argomento, ma si era buttata a
capofitto nella sua ricerca. Negli occhi le brillava la luce sinistra della
vendetta, ma anche della delusione più profonda. Voleva ucciderlo
con le proprie mani e non si sarebbe data pace fino a che non ci
fosse riuscita.
Lui invece, per tenere la mente occupata, si era dedicato alla cura
della casa londinese insieme a Karen, Vicky e le sorelle succubi,
aiutando e ringraziando la padrona di casa per averli accolti
nonostante non li conoscesse.
Un altro buio pensiero riguardava gli Arcangeli. Questi si erano
rivelati amichevoli e propensi alla collaborazione, li avevano tenuti al
sicuro nelle loro case sulla Terra e aiutati durante lo scontro con gli
eserciti demoniaci nell’Irlanda del Nord, tutto per impedire a Lucifer
di rubare il Graal. Poi Gabriel e gli altri non si erano più fatti vivi: non
un messaggio, non una chiamata. Come se non fossero mai esistiti.
La loro presenza li avrebbe fatti sentire meno soli e… più al sicuro.
Raphael era l’unico che ancora faceva la spola tra Terra e
Paradiso, di nascosto, per tenere sotto controllo la salute di Odry, di
Georgette e di Vicky. Non si era mai espresso in merito allo stato dei
compagni e cercava sempre di trattenersi il meno possibile.

«Dov’è Ania?» domandò Belial a bocca piena, mentre si gustava il


panino imbottito, distogliendolo da quei pensieri.
«Non ne ho idea, forse è ancora in camera o magari è uscita»
rispose Odry. «Da quando Zachary ci ha traditi, si è chiusa in se
stessa molto più di prima e non ho davvero idea di cosa fare per
aiutarla» ammise con rammarico.
«Le ho comprato un dolce» esordì il giovane. «Dopo tutto ciò che
ha fatto per noi non le abbiamo mai regalato nulla di carino».
La demonessa annuì mortificata. «Non hai tutti i torti. Dobbiamo
rimediare, non ci ha nemmeno mai chiesto un soldo…»
Satan si trovò d’accordo. «Dobbiamo trovare il modo di aiutarla a
riprendersi, o almeno farla distrarre».
Belial con sconforto disse: «Sì, e dobbiamo anche racimolare
qualcosa per noi. I fondi che avevamo stanno finendo».
«Io sono riuscita a prelevare qualcosa dal mio conto, posso
provvedere alle spese finché mi sarà possibile» dichiarò Odry. «Ora
che Baal è stato messo fuori gioco, ho potuto recuperare le mie
carte di credito» aggiunse rivolgendosi a Satan che la fissò
sconvolto. «Ho recuperato anche le tue» precisò la ragazza con una
smorfia lasciando che quello si rasserenasse.
«E io devo lavorare!» Belial poggiò la testa sul bracciolo del
divano per la stanchezza.
«In effetti i tuoi soldi li ha Lucifer» Satan, divertito, gli poggiò di
fronte una fetta di torta alla cannella.
«Già, il principe che non ha un proprio conto ma un padre che gli
paga tutto. A proposito di principe, pensate ci seguiranno?»
Odry gli rubò un pezzo di torta e rispose, rassicurandolo: «Lo
stanno già facendo, dobbiamo continuare a mobilitare le masse e
tutto andrà come deve». Poi si estraniò dalla conversazione. In
sottofondo Satan chiedeva a Belial di raccontargli come fosse
andata la giornata.
Fissò il parquet sotto ai piedi, poi si voltò verso il soggiorno
intercettando il groviglio di cavi e infine lo schermo piatto del
computer. Un’idea iniziò a farsi strada con la prepotenza di un carro
armato. Gli occhi passavano in rassegna ogni dettaglio sul monitor,
le immagini dell’Inferno in subbuglio, scandagliando mentalmente
ogni possibilità di riuscita.
«Devi scendere all’Inferno, Belial» disse d’un tratto.
Il ragazzo si voltò verso di lei, perplesso. «Sei matta?»
Odry inarcò il sopracciglio. «No, tutt’altro. Lucifer in questo lasso di
tempo starà di certo riorganizzando le forze per un secondo attacco
più forte di quello in Irlanda. Inoltre la nostra gente prima o poi avrà
bisogno della tua presenza lì con loro. Quindi è meglio che ci
sbrighiamo a guidare il popolo dalla nostra parte, senza attendere
che il loro Imperatore ci anticipi con un bel lavaggio del cervello di
massa. O un genocidio».
Satan tacque.
«Lì con loro? In mezzo a loro? All’Inferno?» Belial iniziò ad avere
paura. «E io come faccio? I discorsi li scrive Satan! Non saprei cosa
dire! E ti ricordo che sono scappato anche io e che per quanto ne
sappiamo potrebbe esserci una taglia sulla mia testa consistente
quanto la vostra!»
«L’intera città ti smembrerà senza ripensamenti se non dirai
qualcosa che faccia trovare la speranza, quindi devi renderti
indipendente. A ogni modo ci faremo venire in mente un discorso
semplice, ma dovrai metterci del tuo come sempre, dopotutto
credono in te. Quindi non mi preoccuperei troppo della taglia finché
sei in mezzo a coloro che rimangono a fissare la tua immagine a
bocca aperta. Loro saranno la tua forza» continuò Odry grattandosi
la fronte, pensierosa.
«E per quanto riguarda Lucifer? Come facciamo a impedire che
l’esercito torni qui?»
«Dobbiamo mettere fuori uso i portali, è l’unico modo». La
demonessa si alzò in piedi espirando con stanchezza. «La mia idea
è questa: quando Belial scenderà dovrà usare il popolo come ariete
e sfondare i cancelli affinché tutte le forze affluiscano all’ingresso.
Così facendo gli occhi di Lucifer saranno puntati sulla rivolta e non
su di lui che dovrà approfittarne per entrare e manomettere il
funzionamento dei portali».
Il ragazzo si stava torturando le mani.
Satan divenne dubbioso. «Quello primordiale è impossibile da
distruggere».
«Invece no» lo contraddisse Odry. «Il portale primordiale può
essere corrotto, secondo i miei studi. Occorrerebbe versarvi dentro
dell’Etere angelico che lo porterebbe al collasso per un tempo
indefinito; la sua ricalibratura dipenderà dalla potenza stessa di cui è
dotato, da quanto tempo impiegherà a rigettare l’elemento di
contaminazione e dalla quantità di Etere inserito. Belial avrà poco
tempo per fare ciò che deve e tornare qui. Forzando gli impulsi è
anche possibile che una volta danneggiato, gli altri portali vadano in
overload creando un innesco a catena».
Silenzio.
«Io non ho capito niente» ammise Belial con spiazzante onestà.
«Io pure» confermò Satan.
Odry sbuffò. «Cosa non vi è chiaro?»
«Tutto» risposero in coro, ma Belial, sempre più preoccupato,
incalzò: «Ho capito solo che hai bisogno dell’Etere angelico. Come
hai intenzione di procurartelo?»
«Raphael potrebbe portarcene un po’, dato che è l’unico con cui
abbiamo ancora contatti» e, a tradimento, l’immagine di Gabriel le
tornò alla mente. Tentò in ogni modo di non farsi distrarre, ma alla
fine cedette, come sempre. E questo le fece male. «Glielo
chiederemo quando scenderà per le solite visite» si affrettò ad
aggiungere, distogliendo lo sguardo.
Satan s’intenerì di fronte alla palese sofferenza d’amore
dell’amica. «Si farà vivo, vedrai».

II

«Non va bene per niente, cazzo». Odry borbottava da cinque


minuti la stessa solfa.
Erano passati tre giorni dall’ultimo discorso e già la situazione si
stava incrinando.
«Cosa c’è che non va?» domandò Satan, posando sul tavolo
accanto al computer i nuovi appunti per il discorso che Belial
avrebbe dovuto esporre al rientro dal lavoro.
La demonessa indicò lo schermo con le riprese in tempo reale dei
civili al Quartier Generale, grazie ai droni comandati a distanza.
«Come avevo immaginato, stanno iniziando a essere scontenti
dell’assenza di Belial, quando mai un leader non combatte insieme
al suo popolo?» aggrottò le sopracciglia.
Satan si morse le labbra. Il ragazzo avrebbe dovuto sacrificarsi
per scendere tra la folla e guidare la rivolta, ma non avevano ancora
avuto modo di chiedere a Raphael di portare l’Etere.
«Raphael dovrebbe venire stasera» Odry diede corpo ai suoi
pensieri. «Il generatore è in fase di ultimazione, ma potrebbe
reggere solo andata e ritorno».
«D’accordo. Appena Belial rincaserà, ci accerteremo che voglia
davvero unirsi al popolo».
«Non abbiamo alternative».
Belial quella sera finì il turno al supermercato alle sette, e
mezz’ora dopo era a casa.
Karen gli andò incontro e lo baciò sulla guancia, con amore. Ania
non staccò gli occhi dal muro del soggiorno che aveva iniziato ad
affrescare due giorni prima e Odry lo salutò con un cenno del capo,
distraendosi solo per un momento dal macchinario che aveva di
fronte.
Satan lo raggiunse e gli sorrise, mascherando alla bell’e meglio il
suo turbamento. «Oggi giornata piena?»
«Sì» rispose lui sospirando. «I soliti ragazzini che hanno
combinato il solito disastro e, ovviamente, hanno messo me a pulire
perché sono l’ultimo arrivato».
«Il solito sfigato» commentò Odry divertita, giocherellando con una
chiave inglese.
«Avanti, vieni a mangiare qualcosa: ho appena finito di preparare
la cena» lo invitò il rosso.
Belial lo seguì in cucina, senza notare la tensione, e si accomodò
sulla prima sedia. «È già pronto il discorso di oggi?»
«Senti…» Satan si passò una mano dietro il collo. «Odry aveva
ragione, i popolani sono nervosi, vogliono che tu li guidi nella rivolta,
il prima possibile».
Il giovane prese a masticare con calma, da quando Odry aveva
avanzato il progetto, per lui era come essere diventato il
protagonista di un incubo.
«Il portale reggerà l’andata e il ritorno di una persona sola. Ma tu
devi essere consapevole di ciò che ti aspetta. Non vogliamo che ti
accada nulla» avvisò la demonessa.
Belial si voltò verso Odry che si era appena seduta a tavola e
seria scrutava entrambi. Karen, angosciata, si accomodò poco
distante.
«Prenditi ancora del tempo per pensarci, valuta bene ogni
dettaglio».
«Quali dettagli?» domandò il ragazzo, turbato.
«Potrebbero aggredirti, potrebbe andar storto qualcosa con le
guardie di Lucifer o con gli stessi membri del Concilio. Sono cose
che devi valutare, non puoi prendere una decisione senza analizzare
pro e contro» rispose Satan.
«Non hanno tutti i torti» constatò Vicky. «I leader politici scendono
spesso in mezzo al popolo, soprattutto per stimolarli a stare dalla
loro parte».
«Ovviamente qui parliamo di frotte di demoni incazzati» precisò
Odry, mentre Ania ignorava l’ennesimo richiamo di Satan per la
cena.
«La situazione peggiorerà se continuerò a stare qui. Giusto?»
domandò il ragazzo.
Nessuno dei due rispose ma fu Ania a intromettersi dall’altra
stanza. «Se tirerà il vento, l’aquilone si alzerà in volo. E se anche il
vento dovesse cambiare, l’aquilone continuerà a volare».
Tra i presenti calò un silenzio imbarazzante.
Karen ruppe la tensione con una risatina nervosa e Belial chiese:
«Ma perché dice sempre cose strane?»
Odry, però, aveva colto al volo la metafora. «Intende dire che se
qualcosa è destinata a funzionare, funzionerà a prescindere dalla
piega che prenderanno gli eventi». Si versò da bere e Satan annuì
piano.
«Perché non può andare uno di voi?» domandò il ragazzo con un
barlume di speranza, ma la rossa lo smontò in meno di un secondo.
«Per tre semplici motivi: il primo è che io servo qui a controllare che
il generatore funzioni, altrimenti sono cazzi; Satan deve proteggere
la casa e solo lui è in grado di mantenere attiva e costante la
barriera che ci avvolge e, terzo, tu sei il principe, loro sono i tuoi
sudditi. Non ti avranno scelto come sovrano, certo, ma ti scelgono
ora come leader».
Belial di toccare cibo proprio non se la sentì più. La
consapevolezza che qualcosa potesse andar storto lo faceva
rabbrividire, in quel caso avrebbe messo a rischio la propria vita e
quella di tutti gli altri. «Non lo so, non me la sento…»
«Se il popolo ti ama ti proteggerà, vedrai» lo rassicurò Vicky.
«Comunque dipenderà tutto da come ti porrai e da cosa dirai»
aggiunse Odry. «Basta una sola parola sbagliata e potresti ritrovarti
con la testa staccata dal corpo».
«Non mi invogli a scendere, Odry» rispose Belial allontanando il
pasto a metà. Sbuffò infastidito e tornò alla carica: «Quanto ci
metterà il dottore a portarci l’Etere?» si mostrò nervoso, ora, nei
confronti dell’Arcangelo assente.
«Mangia!» lo rimproverò Satan, spingendo il piatto verso di lui.
«Da loro la situazione è piuttosto delicata ed è comprensibile che si
faccia attendere. In ogni caso, ti ho preparato un discorso adatto alla
situazione, ma è un po’ lungo e dovrai spicciarti a memorizzarlo».
«Ho sempre fatto schifo con lo studio frettoloso» mugugnò Belial e
si alzò, rifiutando di nuovo la cena, per andare a leggere il testo
abbozzato da Satan.
«Hai sempre fatto schifo e basta» precisò Odry con la solita
pungente ironia, iniziando a mangiare. «Hai quindici minuti, poi
andiamo in onda!»
«Prova a rielaborarlo a parole tue e ricorda di mostrarti convinto!»
continuò Satan a voce più alta.
«Parla con il cuore» aggiunse Vicky, ormai immersa nella cena.
“Sì, come se fosse facile” pensò Belial.

III

La sera seguente, Raphael giunse più tardi del solito.


Si materializzò, come sempre e per buona educazione, di fronte
alla porta di casa. Suonò il campanello e fu Satan ad aprire e farlo
accomodare.
«Mezz’ora di ritardo è inaccettabile, chiedo scusa» si apprestò a
dire l’Arcangelo francese, con una nota di amarezza. «Ho dovuto
trattenermi per via di una brutta notizia che mi è stata riferita solo
oggi: la spia è gravida».
«Non c’è bisogno di scusarti» si affrettò a dire Satan battendogli
una mano sulla spalla.
«Di che spia parli?» s’intromise Odry, voltandosi con la sedia.
«Agatha, la ragazza che si è divertita a prendersi gioco di Cassiel
e Gabriel».
Odry si irrigidì. «Quindi… stai dicendo che Gabriel potrebbe
essere il padre?»
Satan guardò Raphael attonito, apprendendo in ritardo la
delicatezza della questione.
«Sempre che non abbia avuto rapporti con altre persone».
L’Arcangelo legò i lunghi capelli biondi. «In ogni caso, dov’è
Georgette? Oggi inizio da lei».
Odry sentì un vuoto allo stomaco, tornò a concentrare l’attenzione
sugli schermi. Laconica rispose: «Di sopra, al secondo piano, con
Vicky. La prima camera sulla sinistra».
Raphael quindi raggiunse la stanza e bussò tre volte per farsi
riconoscere.
«Avanti!» La formosa succube dalla pelle lilla sedeva sul bordo del
letto, intenta a intrecciare i dorati capelli di Georgie. Gettò uno
sguardo verso l’entrata e ruotò gli occhi verdi, le pupille da gatto si
restrinsero, seccata. «Per quanto ancora dovrò vedere la tua brutta
faccia?»
«Finché lo riterrò opportuno» ribatté l’Arcangelo. Chiudendo la
porta, si rivolse alla bambina: «Ciao Georgie, come stai oggi?»
«Benissimo!» squittì lei saltellando sul posto. «Tu, invece?»
«Bene, grazie» mentì l’uomo. Aprì la borsa con gli attrezzi che gli
occorrevano, lo sguardo cupo andò alla breve ricerca dello
stetoscopio e di un cavo multiplo con cinque ventose che collegò al
proprio telefono. «Siediti e togli la camicetta».
La bimba di sei anni si accomodò sul letto con un balzo e grazie
all’aiuto di Vicky riuscì a rimuovere l’indumento. La succube però
scrutò a fondo l’Arcangelo, mentre si districava con le dita la chioma
verde acido. «Sicuro di stare bene?»
Raphael usò sulla bambina il primo apparecchio, tacque per
concentrarsi sui battiti e il respiro; intanto ponderava la risposta, ma
presto convenne che non ce ne fosse una migliore di un’altra.
Ripose lo stetoscopio e attaccò le ventose sotto le orecchie, sui polsi
e all’altezza del cuore; selezionò alcune opzioni sullo schermo del
cellulare e rimase in attesa mentre venivano calcolati i valori e
illustrati in un grafico a linee. «Dopo vi parlerò di come si sono
evolute le cose da noi e del perché nessuno è tornato qui».
Vicky storse il naso, accarezzando ora la testa della bimba che si
fissava i piedi a penzoloni sulla sponda del letto. Georgie alzò il volto
e fissò Raphael, gli mise le manine sulle guance senza dire nulla. Si
limitò a osservarlo e Vicky la guardò stranita.
«Cosa c’è?» domandò lui, intenerito.
«Sei triste» dedusse la piccola.
«Non essere invadente, tesoro» la rimbeccò la succube, severa.
L’apparecchio suonò più volte e lo schermo mostrò i risultati,
secondo Raphael, ottimi. «Brava» disse «si vede che stai seguendo i
miei consigli: stai recuperando e tornando in salute». Sorrise
debolmente, staccò le ventose e ripose tutto nella borsa. Sollevò lo
sguardo sulla demonessa mentre aiutava la piccola a rivestirsi. «Ora
tocca a te».
Raphael diede un’occhiata alla brutta ferita che Vicky si era
procurata durante l’attacco dei demoni di Baal a Budapest: il foro,
provocato da una grossa scheggia di legno, stava cicatrizzando
bene. Disinfettò i punti e cambiò i bendaggi.
«Presta attenzione!» le intimò duro dato che Victoria non aveva
mai seguito le sue avvertenze.
Lei non gli diede retta, ma non gli staccò gli occhi di dosso.
Qualcosa in lui non andava. Certo, non aveva mai avuto una buona
considerazione di lui, a parte il fatto che si rendeva utile come
medico, ma quella volta sembrava perso nei suoi ragionamenti.
«Hai una faccia di merda» lo approcciò seria. «Addirittura
peggiore degli altri giorni. Sono davvero messe tanto male le cose in
Paradiso?»
«Non intendo ripetermi, racconterò quando saremo tutti insieme».
«Perché rispondi sempre in modo tanto sgarbato?»
«Da che pulpito…»
Una volta terminato anche con lei, le invitò a scendere al piano di
sotto per raggiungere gli altri: sarebbe stato il turno di Odry, ma
anche il momento giusto per dire tutto. Quest’ultima, insieme a Belial
e agli altri, era accomodata alla tavola imbandita: era già ora di cena.
Georgie si sedette accanto a Karen e Odry seguì Raphael con lo
sguardo tenendo le labbra incollate al bicchiere pieno di vino.
Anche a lei saltò subito all’occhio il suo strano stato
d’animo.«Tutto bene doc?»
“No” pensò lui “Ma perché mentire ancora? Hanno il diritto di
sapere”. Sospirò, tolse gli occhiali da vista e massaggiò gli occhi con
due dita. «Prima della visita a Odry, voglio darvi alcune novità».
Fece una pausa, in attesa che tutta l’attenzione fosse rivolta a sé.
«Cassiel e tutti gli Arcangeli che hanno partecipato alla battaglia per
il recupero del Graal sono stati incarcerati. La durata della pena è e
rimarrà di tre mesi, se tutto andrà bene».
Un brusio si diffuse nella stanza.
«È uno scherzo?!» commentò Satan, sgomento.
Karen mise una mano davanti alla bocca con le lacrime agli occhi
pensando alla sorte di Raziel e venne consolata da Vicky che
protestò: «Come hanno potuto! Non si rendono conto del grosso
contributo che hanno dato?»
«È ridicolo» si accodò Molly, la succube alta e muscolosa,
ricevendo il consenso di Summer accanto a lei, la sorella minore.
«Gabriel…» disse Odry in un soffio. «Sta bene?»
Raphael, rigido e a disagio per essere stato sommerso da quel
fiume di commenti e domande, rispose: «Stanno bene, tutto
sommato. Sono stati processati e sarebbe andata molto peggio se
non ci fosse stata l’attenuante per aver tentato di salvare la reliquia».
«Sono stati torturati?» domandò Satan angosciato.
«No».
«Aspetta. Quando è successo?» chiese Vicky.
«Tre mesi fa, appunto…»
La succube lo squadrò inviperita. «E perché ce lo dici solo ora?
Più volte ti abbiamo chiesto informazioni».
«Non volevo che vi preoccupaste. Con ciò che affrontate ogni
giorno, ho ritenuto che tacere fosse la scelta migliore».
«E tu, quattrocchi, com’è che non sei finito in cella con tutti gli
altri?»
«Perché sono rimasto al DEM a disposizione dei feriti. E se fossi
in cella voi vi sareste dovuti arrangiare» ribatté aspro.
Victoria si esibì in una smorfia sprezzante e distolse lo sguardo,
invitata da una gomitata ricevuta da Ruby, l’altra sorella della
succube, dalla pelle rossa e la chioma nera.
«A questo proposito» proseguì Odry amareggiata per la notizia
«abbiamo un favore da chiederti: tu potresti procurarci dell’Etere?»
L’Arcangelo si mostrò sorpreso e per un attimo incrociò lo sguardo
preoccupato di Belial. «A che vi serve?»
«Ho pensato ad alcune possibili situazioni che potrebbero
verificarsi nel prossimo futuro». Odry si scompose sulla sedia,
lasciando andare le spalle contro lo schienale: «Lucifer si starà
preparando. Sono certa che stia organizzando le forze per un nuovo
attacco alla Terra e le probabilità che questo sia molto più potente
del precedente sono alquanto elevate».
«Per cercare il Graal? Per costringerci a renderglielo usando gli
umani come capro espiatorio?» domandò il francese.
Lei bevve un ampio sorso di vino e fece spallucce. «Conosciamo
Lucifer, ma al contempo è come se fosse un mistero. Macchina
sempre qualcosa. Tutt’oggi non sappiamo a cosa gli servano le
reliquie, per esempio. In ogni caso, ciò che ho in mente per impedire
una catastrofe e darci il tempo di organizzarci è far scendere Belial
all’Inferno così da far ribellare l’intera Capitale affinché si abbatta sul
Quartier Generale. Sfrutteremo l’effetto sorpresa per distruggere il
generatore che hanno ricostruito, deviando il flusso costante di
energia quantica, poi bisognerà contaminare il portale primordiale
con l’Etere per sospendere l’attività di tutti i portali e imprigionare
Lucifer all’Inferno». Bevve un altro lungo sorso. «È un’idea
pericolosa, lo so, ma può funzionare».
«Sei davvero convinta che uno come Belial possa riuscire in
un’impresa del genere?» Il tono di Raphael era scettico. «Insomma,
guardalo: è terrorizzato e l’ultima volta che c’era in ballo qualcosa di
grosso è scappato a gambe levate mettendo in difficoltà proprio te».
Il ragazzo si mostrò offeso. «Infatti non ci vado».
«Io mi fido di lui». Odry fu spiazzante, spostò gli occhi a sinistra
intercettando il principe colpito da quell’affermazione tanto sincera.
«È in gamba e se la caverà».
«Ho detto che non ci vado, tu sei pazza. Mi uccideranno lì sotto».
«Non dire cazzate, organizzeremo ogni cosa nel minimo dettaglio.
E puoi stare tranquillo che se ci sarò io a muovere le redini, nulla
potrà andare storto».
Belial abbassò lo sguardo. Il nobile incoraggiamento della
demonessa non sortì l’effetto sperato. «Io sto bene qui. Non puoi
obbligarmi».
«Non abbiamo molta scelta» Odry fu glaciale. «Ne riparliamo».
Silenzio.
Raphael non si scompose, ma le intimò con un cenno del capo di
seguirlo. «Devo visitarti, faremo in fretta».
Odry annuì e si alzò con lentezza.
Si spostarono nella camera da letto che Ania le aveva assegnato.
«Sto peggio di ieri, il mio malessere sembra aumentare ogni
giorno di più» si confidò la demonessa.
«Malessere fisico o…»
«Mentale. E quello mentale mi fa star male anche nel corpo. In
realtà è molto più di questo».
L’Arcangelo la fece accomodare e, dopo aver preso l’occorrente
dalla borsa, le attaccò al petto le stesse ventose collegate al telefono
che aveva utilizzato con Georgette. Non disse nulla fino alla
comparsa dei valori sullo schermo, il tutto mentre lei lo osservava
con impazienza. «In effetti i tuoi valori sono instabili» annunciò. Fece
un’altra prova e di fronte ai nuovi risultati scosse il capo. «Così tanto
che da una misura all’altra sono cambiati».
«Ogni notte è massacrante e non dormo che per un’ora al
massimo» Odry prese un respiro profondo. «Ho così tanto caldo che
mi sembra di impazzire».
«E se fosse un virus che attacca voi demoni? L’ultima volta mi hai
detto che hai iniziato a sentirti così dopo che siete stati al Kokilon. Mi
rendo conto di quanto assurda possa essere l’ipotesi, ma non
escluderei niente».
«Anche io ho pensato a un virus, ma anche allo stress o
all’esposizione prolungata a protezioni angeliche a casa di Uriel e
Raziel. Ma ciò che provo è diverso». Odry poggiò la schiena contro
la spalliera del letto, lo fissò dritto negli occhi e Raphael poté
scorgere una stanchezza infinita. «Provo delle emozioni non mie,
una rabbia che non mi appartiene e mi sento affaticata, come se
questo corpo mi andasse stretto».
«Potrebbero anche essere effetti collaterali causati dalle torture al
DEM. Dopotutto hai interrotto all’improvviso le sedute di recupero col
tuo collega Gaki. I traumi sono difficili da recuperare».
«Rimarrà tra noi questa discussione?»
«Sì, certo» Raphael ripose l’apparecchio nella borsa. «Sarà
pericoloso per voi tenere l’Etere. Ne sei consapevole, vero?»
Odry annuì. «Belial è figlio di Lucifer e lui era un Cherubino, perciò
il ragazzino potrebbe farcela». Sistemò la maglia e si prese un
attimo per pensare, lo scrutò mentre era indaffarato a sistemare
l’attrezzatura. «Io sento una voce».
L’Arcangelo rallentò e si fece attento. «Una voce? Cosa dice?»
«Non ne ho idea… a volte sembra arrabbiata, a volte ha un tono
pacato e sembra stia provando a consolarmi» si portò le mani in
grembo. «È come se ci fosse qualcun altro dentro di me, nella mia
testa».
“Non pensavo che anche i demoni potessero soffrire di malattie di
questo tipo” pensò l’Arcangelo. Poi annuì. «Farò qualche ricerca in
merito, ma temo di conoscere già la risposta».
«Non sono schizofrenica» puntualizzò la demonessa inviperita,
come gli avesse letto nel pensiero.
«Va bene. Tornerò appena possibile con qualcosa che possa
aiutarci a capire di più. Per ora abbiamo finito».
I due tornarono dagli altri. L’Arcangelo salutò, si scusò per la
notizia comunicata tanto tardi e augurò buona cena; dopo che la
rossa gli ebbe ricordato di prendere l’Etere, si smaterializzò in un
fascio di luce. L’ambiente si illuminò per qualche attimo e la forte
luce a Odry diede fastidio. “Come fossi un animale notturno con una
torcia puntata addosso” pensò stizzita, sedendosi.
Le facce di Belial e di Satan attirarono la sua attenzione: il primo
mangiava contrariato, il secondo era in evidente imbarazzo. «Che
succede?» chiese.
Rispose Vicky: «Il ragazzino continua a ripetere che non se la
sente di andare Giù. In effetti me la farei sotto anche io».
«Tu non sai difenderti, lui sì» ribatté Odry.
«Questo non implica che debba farmi andare bene la cosa»
borbottò Belial. «Un conto è stare dietro uno schermo, un altro è
mettere a rischio la propria vita».
Odry scosse il capo. «Tu hai paura di Lucifer, è normale».
«E dimmi niente!» commentò la succube dalla pelle lilla.
«Sì, lo so» la rossa annuì. «Ma qui Belial è l’unico in grado di fare
qualcosa, di smuovere la situazione in maniera concreta. Prima o poi
dovrà rendersi utile». Si rivolse a lui: «Prendilo come un battesimo
del fuoco».
«Non fai ridere». Belial si alzò. «Non ho più fame, me ne vado a
letto. Buonanotte».
La demonessa sospirò. “Così giovane” pensò, “ma deve svegliarsi
e reagire, soprattutto adesso che può rivelarsi una buona arma”.
Poggiò i gomiti sul tavolo. Lo sguardo di Satan puntato addosso la
irritava. «La smetti?» sbottò riempiendosi un bicchiere.
«Sono preoccupato, lo siamo tutti» ribatte l’altro con ovvietà
ricevendo le conferme delle succubi e di chi era rimasto.
Karen accarezzò una spalla della demonessa con dolcezza. «Con
noi puoi parlare cara, lo sai» le disse, ma Odry non si addolcì.
«Parliamo di altro per piacere» rispose.
Vicky, apprensiva, fece per dirle qualcosa quando Georgie impose
alla rossa di farle spazio. Le si arrampicò sulle gambe sedendosi su
di lei. Fu un gesto che a Odry strappò un sorriso. Quindi le
accarezzò i capelli ordinati in due trecce.
«Cos’ha detto Raphael della visita? Sta bene?» domandò
voltandosi verso Vicky che posò la forchetta e si pulì col tovagliolo.
«Ha detto che è forte e che si sta riprendendo bene, i valori sono a
posto ed è tutto sotto controllo». Anche lei diede una carezza alla
piccola, le strizzò le guance piene con una smorfia.
Georgie si sistemò meglio sulle gambe della demonessa e riprese
a mangiare. «Siamo una famiglia strana» esordì.
Satan chinò il capo ridendo, così come Karen e a seguire tutti gli
altri.
«Sì, siamo una famiglia disagiata» confermò Odry con un
sopracciglio sollevato. Avvicinò il viso alla guancia di Georgie, le
schioccò un bacio e le sistemò i capelli sulla schiena, mentre le
veniva riempito il piatto da Satan. Strinse bene i fiocchi alla fine delle
trecce bionde. E all’improvviso oscuri pensieri la turbarono.
Georgette era così piccola e già aveva perso entrambi i genitori.
Era stata catapultata in un mondo diverso, tenuta lontana dai
coetanei per abituarla a cosa dire e non dire agli umani. Doveva
essere dura non godere più dell’amore di qualcuno che ti viene
portato via.
Lei, invece, non sapeva cosa si provasse, non aveva mai ricevuto
un affetto simile da bambina o, almeno, non lo ricordava e Belial non
era poi così diverso da lei. E forse era meglio non ricordare affatto.
Aveva già represso la sofferenza nello scoprire di avere un
gemello che l’aveva usata e tradita, e la gioia nello scoprire, invece,
che l’uomo che l’aveva allevata era in realtà sempre stato il padre
biologico.
Non voleva rimuginarci oltre. Poteva anche bastare.
11 febbraio 2001 d.C.
Orfanotrofio Theseus Willimor Crane – Valle Herith, Inferno

«Forza bastarda! Entra!» Una grossa mano viscida la strattonò e


la spinse.
Le grida di suo fratello erano assordanti. La chiamava, ma Odry
era già dentro l’orfanotrofio. Lo vide per l’ultima volta oltre il portone
pesante, che si chiuse separandoli.
Volle liberarsi dalla presa del grosso demone maleodorante,
corpulento, con la pelle rossa ricoperta di piaghe e peli scuri, ma ne
fomentò la rabbia. Si dibatteva con furia graffiando la mano che la
teneva stretta. «Lasciami! No!» strillò, cercando di fuggire. I piedi
scivolavano sul pavimento lurido del grande e spoglio atrio, che in
quel momento ospitava una decina di tavoli e il doppio delle panche
con bambini, ragazzi e adolescenti seduti in attesa della colazione.
Vide poco della struttura nella quale si trovava, ma il grigiore che
aleggiava come un orrendo presagio fu abbastanza per farle capire
quanto già detestasse quel posto.
Sentì una donna gridare rimproveri. «Riportate il muso sulle vostre
scodelle!»
Odry inciampò, perse il cappello che Zachary le aveva prestato
per ripararsi dalla neve, ma per fortuna riuscì a recuperarlo.
Il demone l’afferrò per i lunghi capelli rosso ciliegia trascinandola
su per la scalinata scura fino a un corridoio senza finestre, dove le
sue grida rimbombavano. Entrarono in una stanza e fu scaraventata
su un letto duro con una coperta di lana infeltrita.
«Rimarrai qui finché non la pianterai di frignare. Ti ci dovrai
abituare a questo buco».
«Voglio andare con lui!» Odry strillò, batté i pugni sul materasso,
le lacrime le annebbiavano la visuale ma era ancora abbastanza
lucida per distinguere la porta. Gli si scagliò contro riempiendogli le
gambe di pugni. «Io devo andare con lui! Lasciatemi uscire!» e
quando quello provò a spingerla via in malo modo, lei gli afferrò il
braccio e lo morse così forte da farlo sanguinare.
Si ritrovò scaraventata contro una parete. Sbatté la schiena con
violenza tale da toglierle il respiro e, prima che potesse alzarsi, la
raggiunse un calcio nello stomaco. «Tuo fratello ha trovato una
famiglia, ma se si comporterà come te farà presto una brutta fine».
Odry vomitò.
La porta si chiuse con uno strattone. I cardini vibrarono, la polvere
cadde dalle travi del soffitto come neve e le arrivò tra i capelli e nelle
narici. Non trovò la forza di muoversi, le lacrime erano inarrestabili.
Prese un respiro dopo un lungo attimo di apnea. Tossì e gattonò
verso il primo letto che riuscì a trovare, notandone due file lungo le
pareti lunghe. Indossò con rabbia il cappello del fratello, salì sul
materasso e si nascose sotto la coperta nauseabonda. Riprese a
piangere e i suoi lamenti arrivarono oltre il corridoio. Le mani
premute così forte contro il volto da sentire una pressione sugli
occhi. Strinse la mascella, si morse la lingua e i singhiozzi divennero
ringhi rabbiosi. Il dispiacere per la separazione era insopportabile
quanto la sensazione di sentirsi soffocare da lacrime e muco.
Passarono i minuti, forse anche le ore, non seppe dirlo, non le
importava, si preoccupò solo quando sentì il cigolio della porta che si
apriva. Non voleva vedere nessuno. Il nervoso fu tale da portarla a
riempirsi di pugni testa e fronte.
Qualcuno, però, la scoprì piano e la bloccò tenendola per i polsi.
«Devi smetterla di urlare così, non ti porterà a nulla. Ti prego, cerca
di calmarti!»
Odry aprì gli occhi e si trovò davanti una giovane succube dalla
pelle lilla, occhi con pupille da gatto verde acido, capelli dello stesso
colore legati in una coda bassa e due corna da ariete. Quindi gridò
forte e scalciò con violenza.
«Smettila! Ti picchieranno se continuerai a piangere in questo
modo e non ti potrò aiutare se lo faranno!» Le ripetè quella, ma lei
non volle sentire ragioni. In quel posto non ci voleva stare.
La sguattera, infine, la ricoprì e a lei parve di sentire rumore di
acqua e straccio. Forse la succube stava pulendo proprio il suo
vomito. Bene, nessuno presente in quel buco schifoso meritava di
meglio. Poi avvertì i suoi passi in allontanamento, stava andando
via.
Il resto della giornata non fu molto diverso. Odry pianse e strillò,
nessun bambino potè mettere piede nel dormitorio poiché le grida
erano insostenibili. Altre succubi, verso l’ora di pranzo, provarono a
tranquillizzarla trascinandola di peso fuori per condurla a tavola, ma
lei era incontenibile. Così venne confinata in uno stanzino buio e
spoglio.
La notte ricoprì la valle e l’orfanotrofio.
Odry venne ricondotta nello stanzone; le compagne di stanza,
bambine dai cinque anni, sue coetanee, fino ai dieci erano già
dentro. Tutte insieme provarono a distrarla con qualche vecchio
giocattolo di legno o una favola, ma non c’era proprio nulla da fare.
Mentre il cielo notturno sfogava pioggia e tuoni, la porta si
spalancò facendo trasalire ogni anima. Sulla soglia comparve il
grosso demone, dietro di lui una demonessa anziana dall’aria
austera e furiosa, con due grandi corna arcuate. Sullo sfondo una
folla di ragazzi e ragazze poco più grandi.
Le orfane filarono di corsa ognuna nel proprio letto.
Odry lo riconobbe, e senza pensarci due volte gli si gettò addosso
colpendolo con tutta la forza che aveva. «Voglio andare via!» Venne
interrotta da uno schiaffo che la stordì. Un fischio nell’orecchio la
fece rabbrividire. Si sentì sollevare e schiaffeggiare, poi
scaraventare a terra. Naso e bocca sanguinavano già.
Nella testa il ricordo degli occhi celesti di Zachary che con orrore
assistevano alla loro separazione. Un fratello che le prestava il
proprio cappello per premura, che l’abbracciava la notte e le
prometteva una vita che avrebbero potuto vivere lontano da lì, in
mezzo a immense distese di un verde ormai raro e prezioso
all’Inferno.
Sarebbe riuscita a scappare, avrebbe raggiunto il suo gemello e
avrebbero vissuto insieme.
Un calcio al fianco le strappò un grido di dolore e frustrazione. Era
sempre stato Zachary a proteggerla, ma era giunto il momento di
farlo da sola. Così, incerta, tornò in piedi e provò a passargli tra le
gambe puntando alla porta dove la demonessa anziana serrava la
presa su un bastone.
Un bambino poco più grande di Odry, capelli rossi come le foglie
autunnali e occhi blu, trasalì appena la vide a pochi passi dalla
soglia. Si guardarono per mezzo secondo poi lo sguardo del ragazzo
divenne puro orrore quando lei venne afferrata e sbattuta sul
pavimento.
In mezzo al supplizio, Odry avvertì il pianto delle compagne di
classe.
Si rialzò per l’ennesima volta e un pugno sulla guancia la mandò
giù, facendole sbattere la tempia sul parquet lercio. Pianse ancora,
sentì qualcosa di denso colarle sul viso. Un’altra ferita. Su di lei
un’ombra: il demone si era chinato. «Madame Maxille vuole che tu
viva. Io non ho niente da perdere, stronzetta. Decidi tu se avere la
possibilità, un giorno, di rivedere quel pidocchio di tuo fratello o finire
oggi stesso di respirare».
Attorno a lei tutto girava, ogni odore le provocava nausea. Il
malessere fisico che provava le dava un pericoloso sentore di
svenimento. Aveva resistito fin troppo contro quel colosso. “Basta,
voglio andare via” pensò.
La pelle divenne bollente, tanto calda da bruciare la mano del
demone poggiata sulla spalla, il quale urlò allontanandosi. Odry si
rannicchiò in posizione fetale, gli occhi premuti contro le ginocchia.
Non voleva più vedere ciò che la circondava, non voleva stare in
quella realtà.
Ciò che percepì dopo furono grida, odore di tessuto che andava a
fuoco, di carne e legno bruciati.
Qualcuno ordinò agli altri di correre. Le urla di chi era nei paraggi
si spensero tra atroci sofferenze, quelle di chi era sopravvissuto si
fecero distanti. Sopravvivere a cosa?
Aprì gli occhi e vide fiamme, solo fiamme. Lingue infuocate di un
bellissimo color amarena che si agitavano tutt’intorno, che
mangiavano e demolivano quel maledetto posto, il cadavere annerito
del demone che non era riuscito a sfuggire al fuoco giaceva a pochi
centimetri dal suo letto. Si sentì protetta, coccolata.
Le finestre esplosero, ma non ebbe paura. Gli abiti erano divenuti
cenere e lei si riscoprì nuda, un tutt’uno con le fiamme che la
avvolgevano.
Eppure riprendere a singhiozzare fu inevitabile, la sofferenza era
ancora vivida e spinosa. Soffocò nei suoi stessi singulti, ma non
sentiva le lacrime colarle sulle guance. Nascose di nuovo il viso tra
la ginocchia, facendosi più piccola di quello che era.
Il fuoco la cullava con dolcezza e lei volle farsi cullare dell’amore
che ne scaturiva.
Paura di non farcela

L’angoscia straziante aveva svegliato Belial, il giorno dopo.


Dormire era stato quasi impossibile. Aveva sognato il Quartier
Generale, i corridoi interni cupi come vene. La sala del trono nella
realtà onirica gli era sembrata ancora più grande, talmente immensa
da dare aria e toglierne il doppio. Si era sentito insignificante,
impotente. Il pavimento nero gli ricordava una lastra di ghiaccio che
lo separava dalla morte, sotto di lui il riflesso mostruoso di Lucifer
scalpitava e lo osservava dal suo trono, gli occhi rossi gli
penetravano la mente. Da suo padre non aveva scampo nemmeno
nel sonno.
Si era risvegliato per l’ennesima volta alle cinque del mattino e,
madido di sudore, aveva costretto il suo corpo a infilarsi sotto la
doccia e mettere qualcosa nello stomaco.
In casa tutti ancora dormivano. Avrebbe avuto una sola ora di
solitudine, poi sarebbe arrivata Karen, la prima ad alzarsi per
affrontare la giornata.
Aprì il forno: c’era la torta alle mele della sera precedente.
Eccellente, era gustosa, ma lo stomaco non ne accettò più di tre
bocconi. Rimise il resto dove l’aveva trovato, aprì il frigorifero e
afferrò una bottiglia di succo d’arancia, ne tracannò il contenuto
come se sul fondo potesse trovare la pace. Gettò il contenitore vuoto
nella spazzatura.
E ora? Osservò l’orologio a muro: ancora cinquanta minuti di
solitudine.
Non c’era soluzione all’angoscia che gli masticava lo stomaco.
Doveva costringersi a ragionare sulla proposta – che suonava come
un obbligo – di andare all’Inferno per creare un po’ di disordine.
“Un po’ di disordine. Riduttivo se in quel disordine ci deve finire
Lucifer”.
Si era così abituato al piano terrestre, alla sua pace, ai suoi
abitanti che la sola idea di tornare Giù gli suonava come la punizione
più grande in seguito al più grave dei peccati.
La sua colpa era essere il principe? Sì. Se un tempo aveva
approfittato di quella posizione privilegiata, adesso la stessa lo
costringeva all’angolo. Qualcuno lo definiva Karma, altri avrebbero
detto “la ruota gira” o “tutto torna indietro, sempre”.
Non volle accettarlo. Doveva esserci qualcun altro, qualcuno che
avrebbe saputo tener testa al popolo e all’Imperatore.
Si era rassegnato all’idea che né Odry né Satan sarebbero potuti
andare: erano forti, ma ricercati. Inoltre, la loro presenza sulla Terra
era fondamentale. Senza di lei, il passaggio da un mondo all’altro
non poteva effettuarsi. Il rosso avrebbe agito se qualcosa fosse
andato storto, mentre la demonessa avrebbe fatto di tutto per tenere
attivo il collegamento.
Belial chiuse gli occhi e vide se stesso in uno spazio vuoto. Si
scrutò come un estraneo. Le oggettive capacità di mescolarsi nella
folla sarebbero state sia una buona difesa: gli sarebbe bastato
modificare il proprio aspetto. Era agile, molto più di Satan e Odry, e
sarebbe sgusciato via da qualunque minaccia con facilità.
Mancavano però degli elementi fondamentali. Era davvero
convinto dei discorsi che l’amico gli faceva memorizzare e ripetere?
Era davvero convinto dell’ideologia che portava avanti e che cercava
di insinuare nella mente del popolo?
«Basta. Mi lavo i denti e me ne vado». Dovette dirlo ad alta voce
per convincersi. Una volta terminato e indossata la giacca pesante,
uscì di casa.
Percorse lento il tragitto, cercando di godersi l’ambiente
circostante. Non gli fu difficile: amava la Terra.
Alcuni gruppi di ragazzi appena usciti dalla discoteca tornavano a
casa, altri attendevano l’apertura dei primi bar per fare colazione. Ma
per le strade vi era anche il via vai di persone che andavano o
tornavano dal lavoro. Incrociò lo sguardo di una ragazza con zaino in
spalla e due libri tra le braccia; di sicuro una studentessa pendolare.
Più avanti un tassista fuori dall’auto, intento a fumare una sigaretta
in attesa di clientela. Gente comune, gente in mezzo a cui si era
adattato bene.
Autobus a due piani, biciclette, automobili. Una città meravigliosa
che non dormiva mai.
Ma il pensiero venne sostituito dall’ombra che aveva aleggiato su
di lui tutta la notte. E se fosse andato all’Inferno e fosse rimasto
bloccato lì sotto? Quante possibilità c’erano che il piano di Odry
fosse imperfetto?
“I suoi piani non sono mai imperfetti… eppure la sfiga è sempre in
agguato”. Sospirò e riuscì a schivare in tempo un palo della luce
contro cui avrebbe sbattuto.
Il flusso dei pensieri non mutò nel corso della giornata.
Lavorare in quelle condizioni non lo rese produttivo e quel turno fu
il più lungo di sempre. Il responsabile lo riprese diverse volte,
facendogli pesare la lentezza e la disattenzione.
«Queste due marche di pelati non vanno messe vicine, te l’ho
detto mille volte. E perché ancora non sei andato a pulire la porcilaia
che hanno lasciato quei ragazzini nel reparto dei vini?»
Come se problemi del genere potessero avere una posizione
prioritaria nella testa di Belial.
A fine turno rientrò a casa.
Salutò Karen che lo aveva raggiunto alla porta per dargli il
consueto bacio sulla fronte. Poi salutò anche Satan e Odry, entrando
nel soggiorno, e loro ricambiarono.
«Com’è andata la mattinata?» domandò il demone.
«Come sempre» rispose il ragazzo con un sospiro. «I soliti
stronzetti che giocano a fare i duri del quartiere. Ho dovuto pulire per
un’ora. Vado a fare una doccia. È già pronto il pranzo?»
«Certo» confermò il rosso.
Belial ringraziò e passò oltre, rifugiandosi in bagno. Alla vista dei
suoi amici, tutta la negatività era raddoppiata e sotto il getto d’acqua
non poté far altro che crucciarsi, ancora. Terminato, si rivestì e si
diresse verso la cucina. Il suo incedere leggero non venne udito, per
cui Karen e Satan, che stavano parlando tra loro, non si accorsero
della sua presenza.
«È solo un ragazzo» disse l’umana con voce preoccupata «ed è
una responsabilità troppo grande per lui».
«Però Odry ha ragione» rispose il demone. «Noi non possiamo
andare, nessuno di noi può».
«Potreste evitare semplicemente di mandarlo lì! È un omicidio!»
«Karen, pensi che noi siamo tranquilli? Ho paura anch’io, eppure
mi rendo conto che Belial ha tutte le potenzialità. È riuscito a rubare
una reliquia, cosa che Baal e Lilith non sono stati capaci di fare. Ha
un potere raro e immenso che non ha mai avuto la possibilità di
sviluppare e sarà solo grazie a questo che riuscirà nell’impresa».
Vicky si unì alla conversazione: «Ha più coraggio di ciò che
sembra e l’unico in grado di affrontare questa missione è lui. Tempo
fa non gli avrei affidato la mia vita, ora sì».
«Povero caro…» sospirò la francese.
La succube ribatté: «È terrorizzato, ma sono sicura che capirà».
«Lucifer va fermato. Se dovesse avere la possibilità di tornare sul
piano terrestre, sarebbe la fine per tutti», aggiunse Satan.
Belial chiuse gli occhi. L’idea che i suoi amici potessero morire per
mano di un essere tanto crudele gli fece male. Il pensiero che Karen,
una donna che lo trattava come un figlio, con un amore che lui non
aveva mai provato, potesse subire le peggiori torture da parte dei
demoni del Sovrano, gli fece montare la rabbia.
Così comprese. “Devo farlo per tutti loro. Contano su di me”
Eppure la paura ancora lo attanagliava.
Avanzò uscendo dal nascondiglio, sorprendendo i tre. «E se
sbagliassi tutto?» chiese con aria abbattuta.
Lo sguardo di Satan si addolcì così come quello di Karen, che gli
si accostò con fare apprensivo. «Potresti sbagliare, potresti fallire ma
io sono certo che tu invece porterai tutti noi e la nostra gente alla
vittoria e in un mondo sicuro». Il rosso gli sorrise.
«Non voglio che Lucifer salga sulla Terra e faccia una strage. Io,
ragazzi, me la sto facendo sotto. Però… penso sia la cosa giusta da
fare». Le labbra si piegarono in un sorriso timido. «Sarebbe meglio
se rimanessimo in contatto tra noi…»
«Pensi che ti lasceremmo senza comunicazione in balia di tutto e
tutti?» Odry si accostò allo stipite dell’arco che conduceva in cucina,
addentò una fetta di pane. «Avrai i miei droni puntati sulla nuca e un
auricolare connesso al mio, così è meglio?» sorrise.
Belial annuì sospirando. «Meglio di così… Ora dovrò preparare il
nuovo discorso» si voltò verso Satan «che immagino sarà più sentito
degli altri».
Lui annuì: «Lo è, ma così come ti ho sempre detto e, ti ha
precisato anche Vicky, ci devi mettere del tuo».
«Certo che sì». Il ragazzo incrociò lo sguardo di Odry, penetrante
e deciso. Uno sguardo in cui si riconobbe.
Sì, ci sarebbe riuscito. Il momento del riscatto era vicino.
Il principe doveva prendersi il proprio spazio.

II

«Ti ho già detto che non sopporto quando mi fissi» sbottò Odry
rompendo il silenzio. La cena era terminata da qualche ora, ma lei
non si era mossa dal tavolo e Satan stava finendo di riporre i piatti
appena lavati dentro lo sgocciolatoio.
«E io ti ho già detto che non posso farci nulla». Il demone sospirò
scuotendo il capo con dissenso. «Sono preoccupato, non puoi
impedirmi di esserlo».
«Non fissarmi. Punto». Risentita si alzò per prendersi da bere.
«D’accordo. Scusa». Satan si asciugò le mani e riappese il
canovaccio al gancio accanto al lavabo. Si voltò mantenendo lo
sguardo basso, poi si sedette a tavola. Di sottecchi osservò la spilla
appuntata alla maglia dell’amica, poi si sentì in difetto e si concentrò
sull’orologio da parete: erano le nove di sera. «Odry… ti va di
parlare?»
«No» borbottò lei. Chiuse il frigo e stappò una bottiglia di birra.
«Non prendermi in giro, dai… Ti conosco molto bene, so che vuoi,
te lo leggo negli occhi. Inoltre non abbiamo più avuto modo di stare
insieme, da soli, come abbiamo sempre fatto. Ti osservo e…»
«E infatti mi dai fastidio». Odry gli riservò un’occhiata risentita, ma
tornò a sedersi di fronte a lui.
«Finiscila e fammi finire». La rossa aggrottò le sopracciglia, ma
non osò ribattere. «Come dicevo, ti osservo. L’ho capito che non
smetti mai di pensare a Zachary, è una cosa continua. Quando
invece pensi di essere sola, vedo che con i droni segui Balthazar da
lontano senza mai provare a contattarlo. Perché non vuoi avere un
dialogo nemmeno con lui?»
«Non sono affari tuoi di come mi sento e cosa penso, quindi esci
dalla mia testa, manipolatore del cazzo».
La delusione nel volto di Satan fu evidente. «Se insultarmi ti farà
sentire meglio, fa’ pure, ma non puoi continuare a comportarti in
questo modo. Sto cercando di aiutarti».
Odry non rispose, prese un lungo sorso dalla bottiglia. “Riesce
sempre a farmi sentire in colpa” pensò.
«Io ti sono vicino e lo sarò sempre. Sai molto bene che su di me
puoi fare affidamento. Sono preoccupato per te, tutti lo siamo.
Eppure, nessuno si espone più perché allontani chiunque».
«Cosa dovrei risponderti? Anzi, rettifico, cosa vorresti che ti
rispondessi? Che vorrei staccare la spina perché non riesco a
vivere? Ho paura di non poter continuare così».
Satan annuì come se avesse immaginato una risposta del genere.
«Vorrei che ti aprissi con me. Certo, non è un obbligo, ma sfogarti ti
farebbe bene e ti invito a continuare. Parlami di questo: perché non
riesci a vivere?»
Odry si sporse verso di lui rabbiosa. «Davvero non riesci a
capirlo? Ti sembra vita, questa? Da quanto siamo fuggitivi? Sono
passati quattro mesi».
«Non sono mica un’estensione del tuo cervello per capirti a fondo,
per questo sto chiedendo» fece spallucce e la indicò. «Tu reagisci in
un modo, io in un altro. Sto male anch’io, mi sento inutile e
impotente, mi sento un peso per Ania, per gli Arcangeli… Tu soffri
anche per aver scoperto di avere un padre e un fratello di sangue,
ma soprattutto per un fratello che ha tradito tutti noi e te in primo
luogo. È proprio di questo che vorrei tu parlassi». Sorrise mesto. «Ti
sei sempre esposta. Fossi stata la Odry di un tempo ti saresti
comunque messa in comunicazione con loro, in un modo o nell’altro.
Stavolta invece qualcosa ti frena».
Odry si irrigidì, strinse la presa sulla bottiglia. «Io voglio essere
libera, Satan. Voglio vivere in tranquillità, mentre avere un contatto
con loro implicherebbe la nascita di un milione di altri problemi! Ecco
cosa mi frena!»
«Non posso darti torto» ammise lui «ma cosa faresti se avessi la
possibilità di entrare in contatto con Zachary?»
«A parte ucciderlo?» Odry tamburellò le dita sul tavolo e si agitò
sulla sedia.
Satan colse al volo i segni di disagio ma attese. Lo sguardo
puntato sul volto dell’amica ogni tanto, però, cadeva sulla spilla.
La demonessa si morse le labbra. «Non so cosa farei se lo
vedessi, vorrei chiedergli così tante cose da non saper dare voce a
nessuna di esse. Per esempio, vorrei chiedergli come è
sopravvissuto da bambino. O se… prova le stesse cose che provo
io».
Il rosso notò l’imbarazzo sul suo volto. Non commentò: doveva
essere già abbastanza difficile per lei aprirsi e ammettere quelle
cose, prima di tutto a se stessa.
«Vorrei chiedere perché il suo fuoco è così diverso dal mio,
scoprire se oltre a ciò ci sono altre differenze tra noi. A volte penso
che in quei giorni avrei potuto avvicinarmi di più a lui» sorrise al
pensiero di quella possibilità «e chissà se la nostra vicinanza
avrebbe potuto fargli cambiare idea sul suo piano».
Satan sorrise di rimando.
«Comunque vorrei avere delle risposte, anche se magari lui non
può darmele. Non so…» Odry sospirò.
Il demone poggiò gli avambracci sul tavolo, sporgendosi nella sua
direzione come stesse entrando in una confidenza. «Le parole
verrebbero da sé. E mi dispiace per il fatto che proprio lui si sia
comportato in quel modo. Sarebbe bello
se fosse sotto il giogo di Lucifer, no? Se avesse agito in quel
modo perché costretto, così voi avreste la possibilità di
conoscervi…»
Lei continuò la frase: «E magari avere il bel rapporto che Vicky ha
con le sorelle».
«Tutto questo, però, potresti averlo con Balthazar…»
Satan la vide sussultare e immaginò che il solo udire quel nome le
avesse fatto attorcigliare le budella. «Balthazar… ancora fatico a
crederci». Si passò le mani sul viso strofinando con forza. «Tutta
questa faccenda è assurda, cos’altro capiterà domani? Ci sono altre
cose che devo scoprire? Non ce la faccio più».
Il pesante sospiro dell’amico la costrinse a guardarlo: il volto
marcato da un sorriso pieno di tenerezza. «Odry…» disse lui
«perché stai sviando il discorso? Dovresti davvero provare a
interagire con lui. Quando tutto questo finirà, potrai avere una vera
famiglia. La tua famiglia. Non sprecare l’occasione, tu che puoi…»
«Io che posso cosa, Satan? Chissà se mai potrò fare qualcosa!
Contattare Balthazar per dirgli: “Ciao papà, ti va di essere una
famiglia felice?” Mi prendi per il culo? C’è una crepa immensa tra noi
ormai e non so se riusciremo mai a richiuderla».
«Ti manca molto?»
«Ogni minuto». Odry fu lapidaria, distolse lo sguardo scacciando
una lacrima con il dito.
«Penso che anche a lui tu manchi tanto e non credo che la crepa
che sostieni esserci sia così reale. In verità – permettimi di dirtelo –
ultimamente ti crei problemi per cose inutili. Sono sicuro che vi
rivedrete presto».
Odry non rispose, restò con la testa voltata dal lato opposto, un
gomito poggiato sullo schienale della sedia mentre con la mano
scacciava via le lacrime in un sostenuto silenzio.
Avrebbe voluto rivedere Balthazar, questo sì. Eppure una brutta
sensazione non l’aveva mai abbandonata, soprattutto nell’ultimo
periodo, e questa le sussurrava che no, non si sarebbero mai più
rivisti.
16 febbraio 2012 d.C.
Baraccopoli, 20° Distretto – Confine della Capitale, Inferno

Il respiro affannato le tappava le orecchie, in bocca sapore di ferro


dovuto allo sforzo per la corsa. La mente vuota.
Le baracche si susseguivano rapide una dietro l’altra, il vociare
rabbioso alle sue spalle era ancora a distanza di sicurezza. Una
succube si spostò appena in tempo dalla strada sterrata, tirò indietro
il suo bambino che stava per essere travolto. «Vai piano,
maledetta!» le gridò contro mentre il figlio iniziava a piangere.
Odry non rispose. Le lunghe trecce rosse le frustavano la schiena
e le braccia, gli occhi azzurri come il cielo del Paradiso tenevano
sotto controllo ogni anfratto o svincolo.
Se i contrabbandieri l’avessero raggiunta, l’avrebbero picchiata e
stuprata. Se invece l’avessero trovata e presa le guardie imperiali,
sarebbe stato anche peggio.
“A destra!” si disse. Svoltò un angolo, sbattendo la spalla contro il
muro per il drastico cambio di direzione. Strinse i denti ma non si
fermò. La presa salda della mano sinistra sul pesante borsone a
tracolla. La rimessa non era distante, si sarebbe nascosta lì finché i
mercenari non si fossero stancati di cercarla. Poi sarebbe tornata in
officina e avrebbe sistemato i pezzi rubati.
Non era stata una mossa saggia rubare a chi ruba e rivende, per
mestiere, al mercato nero da una vita; la fame, ancora una volta, non
le aveva dato scelta. Collaborare col cartello della droga non era di
certo stata una mossa astuta, ma in cambio di un apparecchio per
mandare in tilt qualsiasi videocamera di sorveglianza, quelli le
avrebbero dato di che vivere per una settimana intera, forse due.
Da un vicolo appena superato giunsero ordini gridati da un uomo:
gli inseguitori si erano divisi.
Con la coda dell’occhio vide per un istante uno di loro che correva
nella parallela a destra, la teneva d’occhio. Poi udì un rumore ben
peggiore: il rombo di una moto alle sue spalle.
«Cazzo!» lamentò tra i denti. Deviò la corsa in una strettoia tra
due basse palazzine in totale degrado; nonostante fosse magra e
agile ebbe difficoltà a passare. Il borsone si impigliò in un gancio di
ferro che sporgeva dal lato del muro, lo strattone fu così forte e
inaspettato da farla cadere col sedere per terra. «Merda! Non
adesso!» imprecò. Liberò la cinghia e riprese a correre.
Si aggiunse un altro rumore di motore. Insieme a esso, Odry sentì
da lontano qualcuno dire: «Va verso nord–est! Muovetevi, quella
puttana è veloce!»
Al termine del vicolo spuntò una creatura enorme. “Mezzo uomo,
mezzo coglione” pensò Odry. Gli passò sotto le gambe in scivolata,
così veloce che quello nemmeno riuscì a sfiorarla. Il grosso demone
ricevette manforte da due suoi compagni, ma Odry, abile e
calcolatrice, schivò entrambi, saltò su un cassonetto della
spazzatura e si lanciò su una scala di ferro affissa al muro di un
palazzo. Si arrampicò raggiungendo il tetto e seminando insulti.
“Pensavo di non farcela” pensò, sudata per la fatica.
«Via! Via!» sentì gridare da uno degli inseguitori. Poi le moto si
allontanarono e il cuore si alleggerì, ma lei non smise di correre:
doveva essere certa di non incappare in una trappola.
Uno sparo la fece sussultare. Un improvviso dolore alla spalla
destra le strappò un grido. La maglia le si impregnò di sangue, una
sensazione di torpore le invase il braccio. Di fronte a sé una serie di
terrazze e tetti spioventi creavano un percorso tortuoso ma
abbastanza sicuro. Si voltò intercettando una figura con la divisa
militare nera e lo stemma della corona Morningstar ricamato sul lato
sinistro del petto. “Le guardie imperiali” pensò, e piuttosto che farsi
prendere completamente dal panico, agì. Scagliò due grosse palle di
fuoco sul soldato, che morì sul colpo, bruciato.
Un altro proiettile le sfiorò il fianco squarciandole la maglia: la
seconda guardia si era nascosta dietro un catorcio arrugginito.
Odry fece in tempo a intercettare un terzo uomo dotato di
mitragliatore, quindi riprese a correre prima che la pioggia di proiettili
la colpisse. “La rimessa è vicina” si disse, infondendosi coraggio per
continuare.
Finalmente la vide. Accelerò senza sapere come.
Una fitta alla gamba la fece urlare e cadere di faccia. Un brutto
rumore di ferraglia provenne dal borsone. Una chiazza di sangue si
allargò sotto la coscia sinistra. Ringhiò, tossì per la polvere che
ricopriva il tetto e si rialzò; zoppicante riprese la marcia. Si spostò
più al centro per evitare i proiettili del mitragliatore. Mancavano
almeno cinque metri al termine del percorso, poi avrebbe dovuto
trovare il modo di saltare per superare il vuoto che la separava dalla
terrazza di un’altra struttura. “Oppure torno indietro, loro si aspettano
invece che prosegua dritta”. Fece dietrofront stando bassa e
trattenendo i lamenti tra i denti.
Dalla strada arrivavano gli ordini che le guardie imperiali si
scambiavano tra loro. «Raggiungila lì sotto, proverà a saltare quindi
potrai spararle» disse uno.
“Che stupidi bastardi” pensò lei, soddisfatta del suo piano
semplice ma efficace. Ma udì passi alle sue spalle, uno sparo e
l’ennesimo lancinante dolore, stavolta alla schiena.
«L’ho presa!»
Poi divenne buio.

Il tanfo penetrante di urina stantia e muffa le pizzicò il naso,


svegliandola.
Odry aprì gli occhi, sbatté più volte le palpebre e mentre
riprendeva conoscenza il male inflitto dagli spari tornò vivido. Si
lamentò con la guancia premuta contro la branda nella quale stava
distesa.
Era stata arrestata. Di nuovo.
Aveva perso il bottino, il che equivaleva a soldi persi e fatica
sprecata. Quindi niente cibo per i giorni a venire.
Le ultime volte Satan e Vicky, che vivevano con lei, erano riusciti a
raccogliere abbastanza kort per tirarla fuori. Sospirò amareggiata nel
pensare all’unico modo con cui la succube avrebbe potuto trovare il
denaro: la prostituzione.
Lacrime di rabbia le appannarono la vista. Si costrinse a mettersi a
sedere e solo in quel momento si rese conto di avere compagnia.
Fuori dalle sbarre un uomo sulla sessantina la fissava. Aveva
barba e capelli brizzolati e curati, un completo color magenta
gessato e scarpe nere lucidissime. Fumava un grosso sigaro.
«Finalmente sveglia» disse. «Sono qui da tre ore».
Odry rimase in silenzio, lo sguardo astioso parlò per lei. Si poggiò
con la schiena contro il muro adiacente la branda, scostò una delle
lunghe trecce scarmigliate. Inarcò un sopracciglio.
«Se non ti spiace, entro. Aprite questo tugurio!»
Una guardia si avvicinò con un pesante mazzo di chiavi e obbedì
senza battere ciglio.
Odry riconobbe in lui un uomo di potere. “Chi è?” Lo fissò
contrariata mentre quello entrava e si metteva al centro della cella.
Prese una boccata di fumo che trattenne per pochi secondi, con lo
sguardo attento la studiava.
Le sbarre vennero richiuse.
«Odry Crane. È corretto?»
«Tu sai il mio nome ma io non so il tuo» rispose lei squadrandolo.
«Balthazar Krause». L’uomo le indicò le ferite; la ragazzina non si
era accorta che le erano state fasciate. «Fanno male, vero? Tieni,
bevi. Hai bisogno di forze per la conversazione che stiamo per
avere» e le porse una bottiglia di cognac.
Odry gli strappò di mano il dono e bevve con avidità. «Come fai a
saperlo?» domandò. «Come fai a sapere che l’alcol è la mia fonte di
vita?»
«Sei una demonessa particolare. Ti osservo da tempo». Balthazar
sorrise furbo. «Ho visto come analizzi gli apparecchi elettronici: li
rubi, li apri, ne studi il funzionamento, li modifichi, li potenzi. Crei
versioni aggiornate di quelle esistenti. Il tutto nella tua baracca, con
attrezzi rubati o da te stessa forgiati. Non ho potuto osservarti più da
vicino, ma già tutto ciò è strabiliante. Sei un’ignorante impagabile,
non hai in testa nessuna nozione tecnica, eppure hai fatto cose
notevoli».
Odry gli sputò sui piedi e, stizzita, rispose: «Io studio, brutto
vecchio di merda, per quello che posso, almeno. Ho trovato dei libri
in un mercato e tutte le mie conoscenze nascono da quelle nozioni…
e non lavoro in una baracca, bensì in un garage!» Si mise a braccia
conserte, offesa.
Il demone sospirò, gettò un po’ di cenere sulla macchia di saliva e
rimise in bocca il sigaro. Poi aprì la giacca scoprendo un gilet della
stessa fantasia e da una tasca interna tirò fuori un libro con
copertina flessibile che le porse.
La ragazzina lesse il titolo: «La particella di Dio – Se l’universo è la
domanda, qual è la risposta?»
«Questo è un saggio interessante» commentò Balthazar. «Il
bosone è la particella che conferisce non solo una massa a tutte le
altre, ma dà loro l’esistenza stessa. Viene definita “particella di Dio”.
Libri come questi sono costosi e introvabili nei mercatini puzzolenti in
cui bazzichi».
La voglia di Odry di allungare una mano, prendere quel libro e
leggerlo trapelò dagli occhi celesti. L’orgoglio e il buon senso, però,
la fecero desistere. «Stai cercando di corrompermi per ottenere cosa
di preciso?»
«Sarò breve. Lucifer ti vuole tra i suoi ranghi». Il libro rimase tra
loro, come simbolo dell’offerta appena pronunciata.
Odry si agitò sulla branda. «Vuole me? Solo perché rivendo
oggetti al mercato?» Alla fine, curiosità e desiderio, furono più forti
del suo spirito. Si allungò afferrando il “dono di pace” e lo sfogliò.
Balthazar, attento, non si lasciò sfuggire il dettaglio delle pupille
della ragazzina dilatarsi dopo alcune righe lette in rapidità. «No»
rispose «non per questo. Ti vuole perché sei una ragazzina di
quindici anni che crea marchingegni ai livelli di grandi scienziati».
«Diciassette» precisò lei muovendo il sopracciglio. Piegò la testa
di lato lasciandosi scappare una piccola smorfia soddisfatta. «Devo
fare solo questo? Creare tecnologie?»
«Sarai l’arma dell’Imperatore, quindi no, non solo questo. Parliamo
anche dei tuoi straordinari poteri. Sei l’unica a poter controllare il
fuoco, sai?»
«Conosci davvero parecchie cose su di me» constatò ora lei con
una nota di preoccupazione. «Volete farmi diventare un soldato?»
«Non un semplice soldato. Avrai una vita agiata, niente più fame e
pericoli. Niente più inseguimenti». Balthazar le si avvicinò,
chinandosi e poggiando sui talloni. «Ti servirà un attrezzo? Ti verrà
recapitato in poche ore. Vorrai studiare? Potrai, anzi, dovrai farlo».
Odry si soffermò sugli occhi neri del demone, un nodo le si formò
in gola. «Studiare? Beh… non sono mai andata a scuola ma so
leggere e scrivere…» si vergognò e questo la portò a cambiare
argomento, puntando la cenere che cadeva dal sigaro. Quell’odore
le piaceva.
«Non hai molto tempo per decidere». L’uomo si alzò. «Il tempo di
Lucifer è prezioso, ed è raro che conceda certe possibilità a un
popolano».
No, non ne aveva e non voleva più morire di fame. «Accetto!»
Odry rispose di getto e a gran voce. «Voglio studiare e poter creare
tutto ciò che voglio, come e quando voglio. So che se dovessi
rifiutare un’occasione del genere non mi capiterebbe più nella vita e
dovrei passare l’esistenza a rischiare di perdere le mani per aver
rubato da mangiare».
Balthazar sorrise soddisfatto. Annuì e tirò l’ennesima boccata di
fumo, che uscì mentre disse: «Adesso pagherò la cauzione e verrai
via con me. Inizierai la tua nuova vita. I sacrifici saranno immensi,
ma alla fine ti guarderai allo specchio soddisfatta di ciò che vedrai
riflesso».
«Io però vivo insieme ad altre persone, possono venire anche
loro? Sono la mia famiglia».
«No. Sono venuto qui perché Lucifer è te che vuole» Balthazar era
categorico, eppure lo sguardo fu ammiccante. «Ma potrai aiutarli
appena ne avrai la possibilità, se vorrai».
Odry deglutì. «D’accordo… Ora vorrei andare via da qui».
Il demone ordinò alla guardia di aprire e fece accomodare fuori
prima la ragazzina. Nel tragitto per uscire, lasciò all’ingresso il
denaro della cauzione e firmò il modulo. Quindi uscirono dalla
struttura e lei, finalmente, poté respirare aria meno fetida.
«Bene, Odry, andremo dritti al Quartier Generale dove verrai
vestita e nutrita. Lì dormirai per una notte, per darmi il tempo di
sistemare alcuni aspetti burocratici: ti farò da tutore, mentore, vedila
come ti pare. Poi verrai a casa con me».
«A casa con te?» si voltò di scatto verso di lui strabuzzando gli
occhi. Già s’immaginava la reggia in cui avrebbe vissuto.
Balthazar tirò fuori da un’altra tasca interna un sigaro più piccolo.
Lo spuntò, glielo porse ed estrasse una scatola di fiammiferi.
«Proprio così». Sorrise con un sopracciglio sollevato.
Odry lo fissò incredula. In meno di venti minuti aveva sconfitto la
povertà, trovato un lavoro e un futuro su cui concentrarsi. Dove
stava la fregatura? Ci avrebbe pensato in un secondo momento.
Prese il sigaro e lo strinse tra le labbra, non aveva mai fumato prima
di allora ma l’aroma che stava assaporando, nonostante fosse
ancora spento, la fece innamorare. Rifiutò i fiammiferi con un gesto
della mano e lo accese con il pollice. Aspirò il fumo e tossì forte,
quasi le venne da vomitare. «Mi ci devo abituare» rantolò con le
lacrime agli occhi.
«Oh sì, ne sono sicuro» considerò Balthazar, riponendo i
fiammiferi nella giacca.
Non siamo al sicuro

Quel periodo fu uno dei peggiori mai vissuti dagli Arcangeli.


Tutti, tranne Raphael, si trovavano in cella in seguito alla rissa
provocata nell’aula di tribunale durante il processo.
Erano rinchiusi notte e giorno sotto la luce accecante, a contatto
con pareti e pavimento gelidi; con cibo scarso e continui commenti di
scherno da parte delle guardie di ronda. Non veniva permesso loro
nemmeno di radersi e barba e capelli erano cresciuti in media tra i
tre e i quattro centimetri.
Ma non c’era niente di peggio delle visite a sorpresa dei Serafini,
che mettevano a dura prova la loro resistenza psicologica. Una vera
ingiustizia. Perché erano stati costretti a mesi di reclusione quando
Chris e i colleghi, anch’essi parte attiva durante la lite, avevano
dovuto pagare solo una multa? E perché nessuno faceva niente per
evitare che continuassero i soprusi?
«È inammissibile che siamo ancora qui!» sbraitò Raziel, si voltò
giusto in tempo per intravedere Michael alzare gli occhi al soffitto.
«È inutile che sprechi le energie, non ti ascolteranno» rispose
Uriel, seduto a gambe incrociate al centro della propria cella.
Yovus Bruun, giunto nel corridoio in quel momento, batté un
manganello sulle sbarre dell’ungherese. «Taci, bastardo che non sei
altro. È colpa vostra se siete qui, soprattutto tua dato che non riesci
mai a darti una cazzo di regolata».
«Te lo faccio ingoiare e potrei non riferirmi al manganello, stronzo»
ribatté Raziel.
«Se non fosse stato per noi» precisò Michael «adesso Lucifer e
Baal sarebbero sulla Terra a distruggere e a uccidere!»
«Se non fosse stato per voi, ci sarebbero più umane e demonesse
insoddisfatte. Non è così?» rispose il Serafino, passando una mano
tra i lunghi capelli mossi.
«Schifosi». Entrò anche Kazel Askarov, pulendo gli occhiali
rettangolari con un panno grigio. Per un attimo diede un’occhiata alle
telecamere. «Per quanto ancora intendete usare questa scusa?
L’abbiamo capito tutti che è stata una messinscena per provare a
ottenere l’ammirazione delle Dominazioni. E perché no, del Paradiso
intero. Avete fatto male i calcoli».
«Se anche fosse?» insinuò Michael con un sorrisetto da sbruffone.
Il terzo ad arrivare fu Chris e nell’aria si potè percepire subito
l’irritazione di Mathael. «Se anche l’aveste fatto?» domandò ironico.
«Dimentico sempre che dobbiamo rivolgerci a voi come foste
decerebrati. Per legge, angeli e demoni non possono avere contatti
se non per ammazzarsi a vicenda».
«Vi preoccupate un po’ troppo delle nostre relazioni interpersonali
e troppo poco del vostro dovere» considerò piccata Mathael.
«Ti senti presa in causa?» avanzò Dunne accostandosi alle sue
sbarre.
Uriel si alzò in piedi. «Per quale motivo siete venuti qui? Sperate
in un nostro passo falso?»
«Magari sì, magari no» Yovus fece spallucce.
Uriel scosse il capo, lanciò uno sguardo duro a Michael e si
sporse per fare lo stesso con Raziel, incoraggiandoli a non cedere
alle provocazioni.
Ma i Serafini non erano affatto soddisfatti.
«Tutto questo è iniziato per colpa di Cassiel e Gabriel Cooper che
non sono riusciti a tenere il cazzo nelle mutande» continuò Kazel.
Michael commentò con espressione ironica e contrariata, certo
che sarebbe riuscito a infastidire l’amico di fronte a lui. «Gabe hai
sentito che ha detto? Avrei già sfondato la cella per appenderlo al
muro, fossi stato in te».
«Ragazzi…» sospirò Uriel.
«Gli ha dato le colpe di tutto» protestò il biondo «e lui dovrebbe
anche stare zitto?»
E Gabriel abboccò. Si alzò in piedi, puntò il dito contro il Serafino e
fece per dire qualcosa quando giunse la Dominazione più anziana.
Tutti ammutolirono.
«Dunne, Bruun e Askarov voi non dovreste stare qui».
Chris sorrise affabile nonostante l’espressione tirata. «Concordo,
Eccellenza. Son dovuto scendere per recuperare i miei colleghi.
Intendevano punzecchiare i prigionieri».
Yovus e Kazel gli lanciarono una brutta occhiata, ma lui rispose
con una peggiore.
«Lei è sospeso, comunque» rispose glaciale la Dominazione
«poiché la sua condotta non è stata delle migliori nell’ultimo
periodo».
Gli Arcangeli si scambiarono sguardi complici, per quanto fosse
loro possibile date le postazioni. Un senso di soddisfazione invase
ognuno di loro.
«Questo perché ha superato il limite: continua a provocare i
prigionieri mandando avanti i suoi colleghi. Che atteggiamento
riprovevole per un Serafino. Inoltre, Dunne, ieri sera abbiamo
ricevuto dal Distretto per l’Equilibrio del Paradiso la segnalazione di
una denuncia ai suoi danni per violenza domestica. Ne sa
qualcosa?»
Il sangue di Chris si congelò. «Cosa?» chiese a mezza voce
voltandosi per un momento verso Mathael che lo guardava con
soddisfazione. «Me lo dice in questo modo?»
«Il processo in merito alla denuncia avverrà quanto prima e avrà
tutto il tempo di incaricare un legale. Per quanto riguarda la
sospensione, parlo anche a nome dei due giudici ora assenti: siamo
quasi giunti all’esasperazione e abbiamo deciso di getto. Spero non
abbia nulla in contrario».
Dunne avrebbe voluto spaccargli la faccia, ma dovette trattenersi
e, cercando di darsi un contegno, domandò: «Il mio sostituto?»
«Hamenam, l’unico ad aver avuto un po’ più di sale in zucca
rispetto a voialtri».
Nessuno degli Arcangeli si aspettava un simile ribaltamento della
situazione e qualche espressione divertita non tardò a comparire.
Chris digrignò i denti al solo udire il nome del collega. Hamenam
era uno di quelli che faceva la bella faccia, gentile con tutti, quasi
tonto. “Un grandissimo falso, codardo e figlio di puttana”.
«Tre settimane, Dunne. Si ritiri e ragioni sugli errori commessi, la
prenda come una vacanza forzata».
Il Serafino non riuscì nemmeno a ribattere tanto si sentiva avvilito.
Si limitò ad annuire e, senza indugiare, andò via seguito dai
compagni.
La Dominazione guardò gli Arcangeli a uno a uno e in seguito
annuì a confermare i suoi pensieri. «Per tutti voi, i nostri piani sono
differenti. Vedrete la luce del sole tra due settimane, sempre che
manteniate un atteggiamento consono e che non salti fuori qualche
altra bugia» annunciò. «Avete commesso reati gravi, questo è certo,
ma non crediate che siamo ciechi o incapaci di ragionare con
oggettività. Riteniamo che abbiate avuto coraggio e che abbiate fatto
una grande cosa, per questo non ci sentiamo di lasciarvi qui fino alla
fine dei tempi. Qualcuno ha consigliato di privarvi delle vostre
preziose ali e cacciarvi dal Paradiso e vi confesso che l’idea ci ha
particolarmente stuzzicati, eppure non possiamo eliminare tutti i
nostri Arcangeli, due dei quali, tra voi qui presenti, dei perpetui con
una fondamentale rilevanza». Fece una pausa, sembrava ragionare.
Poi riprese, ma a voce più bassa e con una velata nota di ironia.
«Temiamo che il vostro contributo possa rivelarsi indispensabile in
futuro». Con un cenno del capo salutò e uscì.
Mathael scosse il capo. «Per i Serafini non valiamo nulla, ma forse
le Dominazioni vedono in noi qualcos’altro».
«Ti sbagli, nessuno di noi è indispensabile». Cassiel parlò per la
prima volta dopo tanto tempo, enunciando una verità che fece male
a ognuno di loro.
Passò qualche secondo e Raziel imprecò volgarmente. «È
assurdo che debba marcire ancora qui nonostante sia stato alla
larga dai demoni molto più di voi».
Uriel cercò di giustificare la scelta dei giudici per riportarlo alla
ragione. «Sei stato meno attivo ma come me li hai ospitati e, anche
se si trattava di una tua proprietà, per loro è stato oltraggioso».
«Oltraggioso è il fatto che per rispetto delle regole mi sono
trattenuto dalla voglia di toccare Karen tante di quelle volte da non
riuscire a contarle. Mentre voi, invece, avete fatto i maiali tutto il
tempo!»
«Diretto e giusto!» commentò Michael per sdrammatizzare.
«Fanculo, ragazzino!»
«Sono più vecchio di te, ragazzino» lo canzonò ancora l’altro.
Gabriel osservava e ascoltava ogni movimento e ogni parola.
Durante quei mesi era stato piuttosto taciturno, non aveva
comunicato granché. Già poche notti
dopo l’incarcerazione aveva iniziato a pensare, a ragionare sul
proprio percorso di “vita”.
Agatha, Odry, Baal e tutti i morti a lui legati. Tutti quelli che non era
riuscito a salvare gli pesavano come un macigno sulla coscienza. E
a pensarci bene, anche coloro che avevano fatto parte delle ultime
vicende non se l’erano passata poi tanto meglio.
Uriel e Raziel avevano perso tutto, Mathael forse si era liberata di
Chris – unica nota positiva –, Raphael ne era rimasto fuori finché il
fratello non c’era stato troppo dentro. Michael era stato l’unico
fortunato ad aver perso poco e niente. E lui e Cassiel? La situazione
precipitava, si sentiva soffocare; un figlio con Agatha era l’ultima
cosa al mondo che avrebbe voluto e dallo sguardo vuoto di Cassiel,
poco distante, intuì che per lui fosse lo stesso.
E come per mettere il dito nella piaga, si era accorto di essere
capitato nella stessa cella in cui era stata rinchiusa Odry tempo
prima. Era stato il caso? Ironia della sorte? Un brutto scherzo delle
guardie convinte da Chris? Forse era solo Dio che cercava di
impartirgli l’ennesima lezione che lui non riusciva a comprendere.
Passava intere giornate a fissare la bruciatura lasciata sulle
mattonelle e più la fissava, più stentava a darsi pace.
Le aveva promesso che sarebbe tornato. Perché l’aveva fatto?
Iniziò a pensare di aver provato emozioni e sentimenti fasulli, nati
in un’occasione in cui tutto era a rischio, anche la propria vita. Le
loro strade si erano incrociate nel peggiore dei modi, ma aveva
iniziato a conoscerla in profondità attraverso avvenimenti che
avevano segnato entrambi. Come un marchio a fuoco sulla pelle.
Ma per quanto provasse a non pensare a lei, falliva sempre. La
mente correva a ricercarne il volto, il profumo, il calore… il tocco.
«Gabriel è troppo assorto per poterci dare retta» ironizzò Michael
distogliendolo da quei pensieri.
«Quanto rimani tu, Cassiel?» domandò Uriel per coinvolgere il
ragazzo. «Ci farai compagnia ancora per un po’?»
«Rimarrò qui tre mesi in più rispetto a voi» rispose pacato il
francese.
«Hai fatto un ottimo lavoro a incastrare quella stronza di Agatha»
Mathael glielo disse con affetto sincero.
«Hai avuto davvero fegato» aggiunse Uriel. «Siamo fieri di te».
«Grazie» si limitò a rispondere Cassiel, con freddezza.
L’Imperatore

Lucifer era assorto in un tornado di pensieri che vorticava veloce e


incontrollato. Taciturno, sedeva a capo del grande tavolo del Concilio
Ristretto, constatando con rabbia che era quasi del tutto vuoto.
Erano rimasti solo in quattro al suo cospetto e, dopo il Graal,
questa era stata l’ennesima grande perdita.
Intanto il popolo assediava giorno e notte la fortezza, dando filo da
torcere alle guardie esauste che dovevano affrontare turni più lunghi
e avevano meno ore per riposare. I regnanti oppositori rimasti non
demordevano, premendo affinché abdicasse.
Aveva giurato: non si sarebbe mai fatto piegare in quel modo. Solo
i deboli, o gli esseri umani, si abbandonavano a una simile sorte, ma
questo non poteva di certo capitare a lui. Presto o tardi tutti si
sarebbero piegati dinnanzi alla bandiera dei Morningstar.
Sapeva di non avere molto tempo ancora a disposizione, le rivolte
andavano sedate con le buone o con le cattive.
Si alzò innervosito dalle sue stesse considerazioni e prese a
camminare per la sala con le mani dietro la schiena, facendo
ondeggiare la preziosa veste di seta bordeaux che indossava.
«Balthazar» esordì rompendo il teso silenzio e facendo sobbalzare
l’uomo «tu sei un bravo oratore. In tribunale, e non solo, hai sempre
dato grande dimostrazione di questa tua abilità» gli si avvicinò.
«Perciò voglio che tu ti affacci al balcone e parli col popolo».
Lilith nascose un sorriso divertito sotto la mano, Ishtar e Belphagor
si voltarono verso Balthazar che guardava il Sovrano con tanto
d’occhi. «Posso parlare a un pubblico ragionevole, mio Signore, e
non è certo questo il caso. Quella marmaglia urlante è
incontenibile».
«Ti devo ricordare che sei vivo grazie a me? Hai fatto scappare la
ragazza e finora non hai fatto nulla per rimediare. Il minimo che puoi
fare è obbedire senza remore». Si spostò alle sue spalle poggiando
le mani sullo schienale dello scranno su cui sedeva il demone.
«Belial, un poppante che fino a poco tempo fa si crogiolava notte e
giorno tra le cosce delle succubi, ha mosso quasi un’intera città
contro di me e tu non hai il coraggio di uscire là fuori per fare una
cosa tanto semplice?»
Krause annuì con un groppo in gola. Nella posizione in cui era non
poteva certo permettersi di contraddirlo. «Avete ragione».
«Lo so». Il Sovrano gli batté le mani sulle spalle. «Coraggio, esci e
fai la tua magia».
Balthazar si alzò, sistemò la cravatta divenuta d’un tratto troppo
stretta. Si avviò verso la portafinestra che gli avrebbe permesso
l’accesso al balcone. Scansò con nervosismo un paggio intenzionato
ad aprire, facendo da sé.
Una gelida folata di vento che puzzava di bruciato entrò nella sala
e, insieme a essa, le grida e gli insulti della popolazione che
riempirono gli ambienti, turbando la servitù fino ad allora rimasta in
rispettoso e timoroso silenzio.
Lucifer tornò a sedere. Lo osservava come un avvoltoio, in attesa
di un eventuale fallimento. Gli occhi sanguigni puntati sulla sua nuca,
le mani serrate sui braccioli dello scranno.
Un ragazzo nella folla tese il braccio per indicare il balcone.
«Guardate! Lassù!»
Ogni uomo, donna o ragazzino alzò gli occhi per scoprire chi si
fosse affacciato.
Il popolo ammutolì. Era da mesi che nessun volto importante
veniva avvistato al Quartier Generale e vedere l’avvocato di Lucifer
pronto a parlare, lasciava presagire che qualcosa da lì a poco
sarebbe potuto succedere. Così, in un misto di rabbia e timore,
rimasero tutti con il naso all’insù, in attesa.
Balthazar sfoggiò il sorriso più affabile e aprì le braccia come per
accogliere la vista di tutta la piazza. «Buongiorno, fratelli miei! Oggi
vi parlerò in nome del nostro amato Sovrano!»
Dalla folla si levò un brusio sempre più forte. Qualcosa non
andava e il demone non aveva nemmeno iniziato a improvvisare un
discorso.
«Che abbia il coraggio di mostrarsi!» disse un popolano, ricevendo
manforte da chi gli stava attorno.
«L’Imperatore ha mandato me che sono il suo uomo più fidato!»
esclamò quello dall’alto. «Sta lavorando senza sosta per voi,
nonostante soffra per la sfiducia che nutrite in lui a causa di un
ragazzino che non ha mai combinato nulla di buono!»
«Sei solo un corrotto!» urlò qualcun altro dalla folla.
«Il principe ci ha mostrato la realtà dei fatti, voi invece siete degli
assassini!» gridarono ancora.
Balthazar batté le mani sulla balaustra scura del balcone. «Volete
credere a uno sciocco che ha solo il coraggio di mostrarsi da dietro
uno schermo e che vi dice cose che nemmeno potete provare? Noi,
al contrario, siamo qui in carne e ossa! Mi espongo per il mio
Signore e per voi che siete miei fratelli. Mi espongo al vostro giudizio
quando potrei stare al caldo nel mio studio!»
«Bugiardi! Siete solo dei corrotti maledetti!» continuarono.
«La mia vita prosegue a prescindere che sia qui dinnanzi a voi o
meno! Il principe Belial si nasconde chissà dove e manda avanti voi
perché non ha il fegato di affrontare suo padre di persona!»
«Lui è un dittatore, noi non l’abbiamo mai scelto!» brontolò un
grosso demone dalla testa di toro.
«Vi sbagliate! Lucifer è un monarca che vi ha scelti come figli e,
come un padre, fa di tutto per tirare avanti! Un padre severo è un
padre giusto! Qui non se la passa bene nessuno, vi dico, e lui si è
spesso sacrificato senza farlo pesare. Voi invece vorreste lasciarvi
guidare da un giovanotto che non sa nulla di questa vita, di politica,
di gestione e che fa ciò che fa solo per il gusto di andare contro suo
padre! L’avete mai visto tra voi negli ultimi tempi? Ha mai
passeggiato nelle vostre strade come il nostro Signore ha fatto in
passato? Ha mai accarezzato le teste dei vostri bambini?»
«Il tuo Signore ci fa morire di fame, chiude i granai e non
distribuisce nulla, la gente muore e voi ingrassate sempre di più!
Assassini!» strillò una donna, gli altri la seguirono. Uno di loro in
preda alla collera lanciò un sasso che disegnò un arco
oltrepassando le mura perimetrali e atterrò nei giardini interni.
Balthazar trattenne un insulto per l’affronto e mentì: «I granai sono
chiusi perché non c’è niente da conservare! Il vostro Signore vi è più
vicino di quanto crediate!»
«I granai sono chiusi per non spartire nemmeno un misero tozzo
di pane» un altro, imitando l’uomo di prima, tirò un altro sasso che
finì accanto al precedente, trovando supporto anche in altri
compagni furiosi. In pochi secondi la parte anteriore dei giardini
interni venne invasa da numerosi oggetti, cibarie avariate comprese.
Un ragazzo con la fionda scagliò una pietra che rimbalzò nel petto di
Balthazar.
L’avvocato indietreggiò seguito dalle grida e dagli insulti del popolo
furioso e divertito dalla sua fuga.
Lucifer gli si parò di fronte, accigliato. «Deduco tu abbia fallito»
considerò gettando uno sguardo verso il balcone.
«Sapevo di fallire, ci siamo approcciati a loro troppo in ritardo mio
Signore».
Il Sovrano gli sferrò un ceffone di rovescio così potente da farlo
volare dall’altro capo della stanza. Poi si rivolse agli altri tre. «Avete
due giorni per convincere la folla!» gridò, facendo oscillare i
lampadari. Poi, come non fosse accaduto nulla, recuperò il controllo
e si sistemò i capelli con calma. «Fallite e non vedrete l’alba del
terzo giorno» concluse pacato, per poi andarsene senza voltarsi.
L’atmosfera nella sala divenne rigida e tesa. Vi erano solo le grida
di rabbia dei popolani a riempire l’ambiente.
In secoli di carriera, Balthazar non si era mai trovato in una
situazione simile: il suo orgoglio non era mai stato calpestato e
distrutto in quel modo.
Belphagor rimase a guardare il compagno con un misto di
compassione e soddisfazione: la credibilità di Lucifer veniva meno e
con la sua anche quella dei collaboratori. Il Thoctar funzionava a
rilento, ma funzionava e i sacrifici stavano portando frutti succulenti.
Ishtar si era fatta più vicina a Balthazar per aiutarlo a risollevarsi,
ma lui l’aveva scansata con rabbia e frustrazione e si era rialzato in
piedi pulendosi gli abiti con movimenti secchi. «L’avete sentito, no?»
sbottò, andando verso l’uscita della sala. «Cercate un modo per
portare il popolo dalla nostra parte. Ormai siamo tutti in ballo». Uscì,
lasciando gli altri membri del Concilio da soli.
Lilith si alzò e sbirciò fuori dal balcone. «Questo è il prezzo da
pagare. Abbiamo accettato tutte le sue scemenze e ora ci troviamo a
morire per i suoi errori».
«Ci hai mangiato sulle sue scemenze» ribatté Ishtar. «Voltafaccia,
porta a termine ciò su cui hai giurato». Anche lei se ne andò.
Belphagor salutò la collega che ancora controllava il popolo e uscì
dalla struttura.
Non si sarebbe certo impegnato a cercare una soluzione per
favorire Lucifer e il tempo a disposizione l’avrebbe usato per portare
avanti il progetto Thoctar. Tramite un passaggio segreto conosciuto
dalla servitù e da chi, come lui, aveva qualcosa da nascondere,
entrò nei sotterranei del Quartier Generale e percorse una delle
tante gallerie costruite durante gli anni.
Una volta fuori, il clamore della folla inferocita si presentò alle sue
orecchie come qualcosa a cui si stava abituando. Una buona parte
era ancora concentrata sotto il balcone e davanti ai portoni controllati
dai soldati. Qualche gruppo si aggirava attorno alle mura perimetrali
in cerca di un modo alternativo per entrare e Belphagor riuscì a
mimetizzarsi alla perfezione tra di loro grazie agli abiti semplici e un
ampio scialle rosso adagiato sul capo, a coprirgli il volto, e sulle
spalle.
Il tragitto per arrivare a casa durò quasi mezz’ora, le strade erano
intasate e camminare sui marciapiedi senza imbattersi in risse e
inseguimenti era ormai quasi impossibile. I rischi più grandi li
avrebbe corsi se qualche soldato di Lucifer l’avesse fermato.
Una volta giunto tolse il mantello e a grandi passi si diresse verso
il tavolo in legno di noce al centro del salone all’ingresso.
L’arredamento ricordava lo stile dei nativi americani, nonché
frammenti e ricordi di una vita vissuta secoli addietro. Come ogni
giorno, il suo occhio si posò su una grande teca poco distante
dall’arco che introduceva allo studio, dove era solito rilassarsi in
compagnia della pipa e di una tazza di tè. Dietro il vetro vi erano
oggetti della sua cultura, della potente tribù dei Powhatan, conosciuti
anche come Algonchini della Virginia: una collana di piccole ossa
abbinata a un bracciale e lunghi orecchini, una giacca color
cammello decorata sulle maniche con perle d’acqua dolce, un
copricapo di rame, piume e denti d’orso. Sopra il corredo era stata
esposta una mazza da guerra in pietra e ossidiana.
Era tutto lì, ordinato, curato e ben illuminato da faretti posti in alto
e in basso, in modo da avere una visuale chiara degli oggetti a lui
più cari. Il petto si riempì d’orgoglio, alzò il mento con fierezza.
«Perché sei già tornato?» Alle sue spalle Awinita lo fissava con le
braccia conserte, stando poggiata allo stipite della porta che
conduceva alla cucina. I suoi occhi da cerbiatto lo studiavano
rabbuiati.
«Luce mia» Belphagor voltò il capo verso di lei. «Sono solo molto,
molto stanco. La mattinata è stata corta ma intensa».
Apprensiva, la donna annuì appena. «Ho visto cosa è accaduto e
non voglio che domani torni da lui».
«Non dipende da te o da me, sai che devo mantenere la mia
copertura».
«Io non voglio che tu vada!» sentenziò la donna, scostandosi la
lunga treccia nera dalla spalla con un movimento nervoso. «Sei in
costante pericolo lì dentro».
«Ci ha ordinato di trovare un modo per riavvicinare a lui la
popolazione, pena la morte» confessò Belphagor, per darle ragione.
«Dobbiamo trovare un luogo per nasconderci quando arriverà il
momento».
«Sono settimane che tengo pronto tutto ciò che può servirci.
Saremmo dovuti andare via tempo fa, con Vicky» ammise lei
avvicinandosi. L’immensa preoccupazione le aveva segnato i
lineamenti e lui non poté biasimare quegli occhi spaventati.
«Preghiamo che tutto vada secondo i nostri piani e per noi ci sarà
una speranza».
«Spero tu abbia ragione, non possiamo continuare a vivere come
reietti».
«Lo faremo se nessuno accontenterà il Sovrano, in caso contrario
avrò ancora la possibilità di stare alla sua tavola, al sicuro».
«No, non sono tranquilla soprattutto se lui rimarrà instabile come
nelle ultime settimane. Lo sai che io non mi sbaglio mai!» precisò lei
alzando un dito ammonitore prima di sparire dentro la cucina.
Lui tacque, Awinita aveva ragione.
Lucifer non era rimasto coerente a se stesso nemmeno per mezzo
minuto in quegli ultimi tempi. Lavorare per lui significava rischiare la
vita ogni istante.
Il Sovrano si aspettava tanto dal Concilio, o da ciò che ne
rimaneva, e vedere che nessuno aveva la capacità di esaudire i suoi
desideri con uno schiocco di dita non rendeva i ricchi meno immuni
dei poveri.
«Vieni, il pranzo è pronto» annunciò la donna trafficando con piatti
e padelle.
Gli esiliati

Zachary sedeva su una poltrona vecchia e consumata davanti a


un caminetto acceso. Fissava il fuoco vivace che gli si rifletteva nello
sguardo assorto. L’occhio gli cadde sulla mano destra: ancora una
volta percepì la soddisfazione provata tempo prima nel rubare il
Graal agli angeli.
Si era sentito potente, invincibile.
Poi ricordò lo sguardo della sorella, delusa e arrabbiata. “Non
avresti capito, in ogni caso” pensò, rivolto a lei. Passò una mano tra i
capelli freschi di tinta castana per spostarli dal volto, infastidito.
Sentendosi strozzare aprì il primo bottone della camicia in raso nero.
L’appartamento seminterrato nel quale soggiornavano alla
periferia di Londra era accessoriato in modo da concedere una vita
dignitosa, ma non era abbastanza grande per tutti.
«Chiudi la finestra, il chiasso mi sta facendo impazzire».
Malik obbedì. Il ragazzone biondo e tutto muscoli, poi, si avvicinò
al fuoco per scaldarsi e rassicurarlo con una pacca sulla spalla: le
labbra cucite tra loro ne rendevano impressionante il volto, ma
Zachary cercava sempre di non farglielo pesare.
Malik un tempo era stato un angelo, un semplice operaio e, come
tanti altri, anche lui era stato esiliato a causa di un crimine: una
storia d’amore con la figlia di un importante Serafino. Aveva avuto il
coraggio di andare contro l’uomo che non voleva accettare la loro
relazione; aveva osato metterlo in ridicolo e quello, per vendetta, lo
aveva catturato, gli aveva cucito le labbra, strappato le ali e buttato
giù dal Paradiso.
La porta d’ingresso si spalancò e poi si chiuse con violenza. Dei
passi pesanti scesero le scale.
Un individuo incappucciato li raggiunse, poggiò sul vecchio tavolo
di legno una busta piena della spesa del giorno. «È tutto ciò che
sono riuscito a comprare».
Zachary annuì «Grazie mille Jelos. Vieni a scaldarti».
L’uomo tolse il cappuccio e mostrò il volto ornato da una folta
barba ramata e una testa calva. «Dove sono i ragazzi?» domandò.
«Alcuni cercano roba da mangiare, altri fanno giri di ronda».
Il barbuto annuì, distribuendo sul tavolo i viveri recuperati «Parli
del solito giro?»
«Sì» rispose Zachary. «Dobbiamo accertarci di non essere
osservati».
«Maria però è da sola a Madrid da troppo tempo… non
potremmo…»
«No, Jelos» tagliò corto il demone. «Non possiamo bloccarci
proprio adesso. Se stiamo facendo tutto questo è proprio per far sì
che tu e Maria un giorno possiate stare assieme senza dover
nascondere il vostro legame. Un angelo caduto e un’umana? I tre
mondi non sono ancora pronti per questo».
«Sta per partorire!»
«Quando arriverà il momento noi saremo lì, amico mio. Ma ciò che
stiamo facendo qui, adesso, è molto importante».
Jelos annuì e con fare nervoso si accarezzò la barba, poi si voltò
verso il giovane Malik e con un cenno del capo gli intimò di
avvicinarsi. Nel frattempo, tolse dalla busta un paio di forbici e una
boccetta di vetro con del liquido verdastro.
Zachary storse il naso nel vedere l’occorrente in mano all’amico.
«Non funzionerà, è condannato a rimanere così finché chi gli ha fatto
questo non se ne occuperà».
«Ne ho le palle piene di nutrirlo con latte, omogeneizzati e brodino
pronto!» rispose nervoso Jelos. «Tanto vale provare! Mi è stato
assicurato che questo disinfettante agisce contro le ferite
angeliche».
«Preso al Kokilon di Londra, immagino».
«Ci puoi scommettere!»
«Ti hanno fregato alla grande».
Malik, speranzoso, si sedette ignorando la considerazione di
Zachary, pronto per farsi operare senza anestesia.
Jelos, con le forbici, gli tagliò i fili neri sulle labbra e aprì la
boccetta da cui fuoriuscì un odore nauseabondo che schifò
entrambi; poi versò il liquido sulle ferite sanguinanti, provocando una
schiuma densa.
Il giovane diede un pugno sul tavolo, colto da un dolore
inaspettato, facendo sobbalzare Zachary.
In pochi istanti i buchi smisero di bruciare e Malik portò le dita
sulle labbra per tastare e assicurarsi di essere libero. Si alzò di
scatto facendo indietreggiare Jelos, ma appena aprì bocca per ridere
felice, nuovi fili spuntati dal nulla gli bucarono ancora una volta la
carne, facendolo dimenare per il dolore e la disperazione.
In pochi istanti fu reso ancora una volta muto dalla maledizione
eterna e Zachary non poté che scuotere il capo con dissenso. «Te
l’avevo detto. Tutto quello che farete sarà inutile».
Jelos lanciò contro una parete la boccetta ormai vuota, lo stesso
fece con le forbici e Malik si sedette, tenendosi la testa tra le mani e
chiudendo forte gli occhi per distrarsi dal dolore e ricacciare indietro
le lacrime.
In quel momento entrarono altre due persone, entrambe
incappucciate e con alcune buste di cibo che posarono sul tavolo.
Non dissero nulla, era bastato loro osservare i presenti e scambiarsi
un’occhiata fugace per capire cosa fosse appena accaduto: i
tentativi per liberare l’angelo caduto andavano avanti da tempo e
ormai avevano imparato a riconoscere i segnali.
Zachary batté le mani sulle ginocchia e si alzò. «Bene» disse
avvicinandosi al tavolo per svuotare le buste. «Bastiamo noi per
iniziare, gli altri sapranno che fare quando arriveranno».
Jelos, ora accanto al ragazzone, si rivolse ai nuovi arrivati che in
quel momento toglievano la felpa uno e il cappotto l’altra: «Behetan,
novità?»
La donna dai lineamenti orientali e i corti capelli blu scosse il capo.
«Solo semplici umani. Nessun demone, nessun angelo. Ma se
Brutus la smettesse di flirtare con qualsiasi essere vivente,
passeremmo molto più inosservati».
L’uomo con lei, capelli castani, barba incolta e occhi neri, sorrise
compiaciuto e Jelos lo rimproverò: «L’ultima volta che qualcuno ha
accettato le tue avances ti sei ritrovato con una del Concilio di
Lucifer che ti trattava come un cane da compagnia».
«Fredda come il ghiaccio, stronza come poche» ribatté Brutus.
«Comunque Eniel ci raggiungerà più tardi, gli riferirò tutto».
Behetan rise. «Da quando siete riusciti a impedire alla tua ex e
agli amici di rubare la reliquia, tu e lui siete diventati così assenti!
Non montatevi la testa».
Zachary intervenne, interrompendo i loro discorsi e dando inizio
alla riunione. «Pensavo che potremmo sfruttare il figlio di Lucifer e la
figlia di Asmodeus».
Malik e Jelos si scambiarono uno sguardo perplesso, il primo più
sofferente del secondo.
«E in che modo?» domandò la donna, sistemando il ciuffo sulla
fronte.
«Usandoli a nostro favore. Potrebbero rivelarsi due pedine molto
utili».
«Belial non si è mai rivelato valoroso» ragionò Brutus.
«Durante la battaglia sì, invece. Si fa portatore di un potere di cui
nemmeno immagina la grandezza».
Jelos storse il naso «E l’altra? Ti ricordo che è solo una bambina».
Malik concordò con un cenno del capo.
«Una bambina con una caratteristica utilissima. Sarà una zavorra
da tenere per poco tempo» considerò Zachary. «Avvicinarci a loro
sarà semplice: l’aura di Malik, Jelos ed Eniel non ha più nulla a che
fare con una angelica. La vostra, Behetan e Brutus, non è più
paragonabile a quella di un demone, bensì a quella di scarti della
società. Come voi, anche quella di tutti gli altri. Dobbiamo solo
cercare di attenuarla il più possibile per non metterli in allerta».
Jelos, sprezzante, considerò: «Questo coglione di Brutus e
quell’altro coglione di Eniel si son fatti sentire un po’ troppo quando
hanno provato a proteggere le reliquie da Lilith e Baal».
«Facile parlare, tu sei rimasto a casa a grattarti le palle» ribatté il
demone preso in causa.
Behetan annuì. «È un’idea interessante, ma dobbiamo sviluppare
un piano a regola d’arte se non vogliamo trovarci Satan e tua sorella
in mezzo alle scatole. Quella maledetta non ha fatto altro che
cercarci ed era quasi arrivata a noi. È stato un miracolo che non
abbia rintracciato questo posto».
Zachary la trapassò con lo sguardo. «Portale rispetto». E lei
abbassò gli occhi.
«Quindi dobbiamo cercare un nuovo alloggio?» domandò Jelos.
«Esatto».
«Potremmo usare il mio». La voce profonda di una donna li colse
di sorpresa, facendo voltare tutti.
Con un lungo vestito nero in velluto, ampiamente scollato sulla
schiena, e dalla bellezza matura, la donna si mosse in avanti. I
capelli bianchi risaltavano sull’incarnato scuro, raccolti in centinaia di
treccine che ondeggiavano al suo incedere. «Ho un posto sicuro e
ben protetto».
Zachary si alzò con un grande sorriso pieno di emozione. La
raggiunse e la strinse forte, baciandole più volte il capo.
Karasi ricambiò la stretta. «Sono felice di rivederti, ragazzo mio.
Mi sei mancato». Si allontanò di qualche centimetro e lo osservò con
sguardo dolce. Gli accarezzò la guancia seguendo i lineamenti del
volto. «È passato tanto tempo, ma tu sei rimasto bello e fiero». Gli
sfiorò i capelli mossi con le dita. «Vedo che hai seguito il mio
consiglio: ti sta bene la tinta castana».
«Pensavo fossi morta quel giorno…» rispose lui, senza riuscire a
staccarsi dagli occhi di lei.
«Non potevo morire senza salutarti» e senza ulteriori convenevoli
si sporse baciandolo con trasporto.
Jelos, Malik e Behetan spostarono lo sguardo, imbarazzati,
mentre Brutus ghignò divertito.
Zachary rispose al bacio con altrettanta passione. La spinse
dapprima contro una parete, poi verso la camera da letto che
condivideva con Jelos e si richiuse la porta alle spalle con un calcio.
Karasi allentò i lacci del corsetto nero e del vestito, lasciandoli
cadere sul pavimento. Gli saltò in braccio e gli strappò la maglia.
«Non ti è mai passata questa voglia» constatò Zachary con una
punta di ironia, mentre già non riusciva a contenere l’eccitazione che
lei gli aveva risvegliato. La gettò sul letto e continuò a spogliarsi
mentre la strega lo aiutava.
«Come puoi biasimarmi, dopo tutti questi anni?» gli sorrise prima
di chinarsi e posargli languidi baci su addome e basso ventre,
massaggiandolo con entrambe le mani.
Zachary chiuse gli occhi e si lasciò accarezzare dalla donna che
sapeva benissimo come trattarlo. Le poggiò una mano sulla testa,
incoraggiandola a intensificare il movimento. Le mani di Karasi
salirono fino al petto, tastandolo con bramosia.
Nessuna era mai riuscita a farlo sentire in quel modo, era legato a
lei in maniera particolare: l’aveva salvato, gli aveva fatto da madre e
l’aveva reso ciò che era.
«Voltati» le disse e lei non se lo fece ripetere. Obbedì e scostò i
capelli dalla spalla lasciando la schiena ricoperta di tatuaggi nuda,
poi si piegò in avanti, concedendosi.
«Stavolta intendi restare?»
«Sì. Ciò che abbiamo iniziato lo finiremo insieme».
16 dicembre 2004 d.C.
Bosco di Baard – confine della Capitale, Inferno

La neve alta almeno mezzo metro e il freddo pungente rendevano


difficile compiere anche un semplice passo.
Il clima all’Inferno era sempre stato rigido ma sembrava
peggiorare ogni anno di più.
Zachary correva, si allontanava dal borgo confinante con la
boscaglia. Il fiato corto, la gola bruciava, il cuore come un tamburo.
Nessuno più lo seguiva, ma ancora non si sentiva al sicuro. Si
nascose dietro un tronco e cercò di rallentare il respiro.
Rimase in ascolto, ma c’era solo silenzio.
Passarono i minuti ed ebbe la conferma di non avere più nessuno
alle costole. Poi si addormentò. In sogno tornò il ricordo dell’uomo
che lo aveva adottato, l’ennesimo, mentre si slacciava i pantaloni e
lo guardava in un modo che non gli piaceva, poi la corsa.
Si svegliò di colpo con una rinnovata paura e una piacevole
sensazione di calore tra le gambe. Si era fatto la pipì addosso.
Intanto aveva ricominciato a nevicare.
Si guardò intorno: si trovava in mezzo a un insieme disordinato di
alti alberi stretti tra loro. Conosceva molto bene quel posto che
pullulava di creature pericolose e fameliche, difficili da affrontare se
non si era armati a dovere. Gli venne da piangere al solo pensiero di
essere nuovamente solo. “Io però indietro non torno, andrò avanti,
anche se non so dove…” si disse, tirando su col naso.
Come in risposta ai dubbi lo raggiunse un invitante profumo di
cibo. “Carne? È davvero profumo di carne quello che sento?” Si alzò
e si rese conto di avere anche i piedi bagnati: i lembi strappati dalla
mantellina di pelliccia erano stati avvolti male e la neve, entrando, si
era sciolta. In effetti anche la camiciola era fradicia. Lo stomaco
emise un brontolio che pareva un ruggito. Tutti elementi che lo
convinsero a cercare la fonte del profumo.
Camminò per cinque minuti e dovette creare una fiammella che
riuscì a tenere accesa tra le mani per non congelare del tutto.
D’un tratto un’energia conosciuta risvegliò i suoi sensi. Percepì un
fuoco acceso nei paraggi, così accelerò il passo e inciampò, poi
prese a correre e si fermò, rabbrividendo: era di fronte a una grotta
piuttosto cupa. L’oscurità che proveniva dall’interno sembrava
potesse afferrarlo e inghiottirlo. In quanti avrebbero potuto
sconfiggere quel mostro nero con un potere come il suo? Si fece
coraggio, avanzò superando l’ingresso e riuscì a scorgere una luce
rossastra sul fondo. L’acquolina gli riempì la bocca, deglutì.
Da dietro un angolo roccioso spuntò una donna che aveva tutta
l’aria di essere una strega: lineamenti maturi, incarnato scuro
decorato da tatuaggi tribali – una linea orizzontale che le
attraversava il volto da un orecchio all’altro, una verticale che partiva
dal labbro inferiore e giungeva al mento – e lunghi capelli bianchi
posati sulla spalla destra.
«Non… non sono un ladro» balbettò lui. «Ho fame, in cambio ho
questa pelliccia. Ti prego, non uccidermi!» si affrettò a dire, sfilando
la mantella con una mano, mentre con l’altra teneva accesa la
debole fiamma.
La donna lo squadrò da capo a piedi e gettò una rapida occhiata
all’esterno. «Sei da solo?» domandò, tesa.
Lui annuì mentre di sottecchi guardava il pasto alle sue spalle: su
una pietra piatta vi era della carne già mangiucchiata, dall’odore
sembrava essere stata aromatizzata con dell’erba selvatica.
«Qual è il tuo nome? Sempre se ne hai uno» gli chiese, facendolo
sussultare.
«Sì, ce l’ho… Mi chiamo Zachary».
La donna gli guardò la piccola mano che reggeva la fiammella.
Ragionò sulla possibilità che quello fosse solo uno sciocco
trucco.«L’hai creata tu, Zachary?»
«Sì».
«Non ti credo, piccolo bugiardo. Dammi una dimostrazione».
Il bambino sgranò gli occhi, terrorizzato. L’avrebbe mandato di
nuovo in mezzo alla neve a morire se non avesse obbedito? Unì le
mani soffocando la fiamma, le mostrò i palmi vuoti. Deglutì mentre
lei lo guardava con sospetto. Si concentrò un poco e due piccoli
fuochi comparvero, poi li unì forgiandone uno non più grande di una
fragola.
«Bene, Zachary, immagino tu abbia fame. Possiamo fare uno
scambio se vuoi».
Il radicale cambio della donna lo rasserenò: ora le sue labbra
erano piegate in un mezzo sorriso. Annuì porgendole la pelliccia ma
lei rifiutò.
«Non mi interessa, quella. Voglio il tuo fuoco». La donna si chinò
sulle ginocchia per essere alla sua altezza e lui arrossì, pieno di
imbarazzo. «Puoi mettere il tuo potere al mio servizio in cambio di
cibo, acqua, vestiti e tutto il resto. Che ne pensi? Mi sembra
un’offerta allettante, molto più della bufera e della notte in
solitudine».
«Il mio potere?» Zachary sembrò confuso: c’era già un fuoco
acceso sul fondo della grotta. «Cosa vuoi che faccia?»
Karasi scosse la testa. «Sei debole, non dimostri certo chissà
quale potenza, ma forse, con il giusto allenamento, potrai essermi
molto, molto utile». Gli sorrise, lo afferrò bruscamente per un polso e
lo condusse davanti al fuoco e al cibo. «Mangia e riscaldati».
Zachary cadde in ginocchio di fronte al rudimentale piatto. Gli
salirono le lacrime agli occhi per l’emozione e iniziò a mangiare con
le mani, tremando tutto. La fiammella l’aveva seguito, affiancandosi
alla sua spalla.
Così smunto e gracile non sembrava potesse ambire a diventare
qualcosa di più potente, ma il sesto senso di Karasi le stava
comunicando proprio il contrario.
C’era qualcosa in lui…
“Con un po’ di aiuto riuscirà ad aumentare e utilizzare al meglio il
potere che possiede: questo fuoco che controlla”. Si incantò sulla
fiamma, assorta nei suoi pensieri. “Una dote perduta oggigiorno, tutti
gli elementali sono stati sterminati e questo ragazzino sembra invece
appartenere a una delle loro tribù”. Spostò lo sguardo su di lui e
disse: «Sia chiaro, non ho intenzione di farti da madre, quindi niente
piagnistei, niente capricci, niente bambinate di qualsivoglia genere,
altrimenti ti ributto in mezzo al bosco. Sono stata chiara?»
«Non puoi essere peggio di quelle creature che girano qui
attorno» rispose lui a bocca piena. «Quindi farò il bravo».
«Bene. Mangia e resta qui, dopo andrò a cercarti qualcosa da
indossare e domani inizierà il tuo addestramento».
«Va bene, grazie. Come ti chiami?»
«Karasi».
«D’accordo Karasi. Devo essere la tua guardia del corpo?»
domandò perplesso.
«Qualcosa di più, piccoletto. Qualcosa di più».
L’Etere

Raphael quella sera non aveva sentito un grande appetito. La


cena era stata scarna e veloce: i pensieri confusi non gli avevano
permesso di concentrarsi troppo sui bisogni primari. In realtà andava
avanti così da tutto il giorno.
Lo attendeva qualcosa di molto importante a circa quaranta minuti
a piedi da casa.
Più volte si era chiesto se il piano di Odry avrebbe funzionato. In
ogni caso lui avrebbe dovuto prelevare solo un poco di Etere durante
la notte, perché era tanto preoccupato?
“Perché rischio grosso per qualcosa che non mi riguarda”
concluse, raccogliendo i capelli in una bassa coda di cavallo. Si
fermò a osservare il proprio riflesso nello specchio in camera da
letto, mancava solo la giacca scura con cappuccio presa in prestito
dall’armadio del fratello. Non si soffermò sull’aspetto o sulla
funzionalità dell’abbigliamento, ma sulla propria persona. “Quanta
presunzione” si rimproverò. “Sanno ciò che fanno, conoscono il loro
mondo e la questione mi riguarda molto più di quanto voglia
ammettere”.
Il rimorso nei confronti di Odry, Satan, Victoria e Georgette giunse
come una spina nel cuore. Tutti loro avevano bisogno di lui per
compiere un passo importante e se tutto fosse andato per il verso
giusto, Lucifer, il nemico comune, sarebbe stato indebolito.
“Non c’è tempo da perdere” si disse, “devo approfittarne oggi che
nessuno mi trattiene al DEM”.
Chris, da quando gli Arcangeli erano tornati in Paradiso,
nonostante fosse stato sospeso dalle Dominazioni, si era accanito
su di lui in maniera particolare. Essendo gli altri rinchiusi in cella,
rimaneva l’unico a disposizione. Lo aveva riempito di compiti e lo
perseguitava con comportamenti aggressivi, proprio come faceva
con i suoi colleghi chiusi in cella. Era potuto tornare a casa solo
quella sera dopo che gli infermieri, vedendolo sfinito, si erano offerti
di coprirlo per la notte.
Erano le undici passate, il quartiere dove viveva era ormai vuoto e
lui poté uscire e procedere senza problemi.
Evitò il centro nel quale i giovani passavano da un locale all’altro o
passeggiavano prima di rientrare a casa. Le luci, la musica e il
vociare bastarono a coprire i pensieri che non smettevano di
importunarlo.
Una coppia gli tagliò la strada, entrambi si scusarono con timore e
passarono oltre.
Raphael sorrise tra sé. Così abbigliato e con tale atteggiamento
circospetto sembrava proprio un tipo poco raccomandabile. “È così
che si finisce a frequentare i demoni”. Un altro pensiero maligno che,
stavolta, non venne coperto da rumori esterni.

«Sissignore, sono dietro di lui».


Un uomo con la divisa del corpo di guardia al servizio del DEM
svoltò l’angolo e accelerò appena il passo per non perdere di vista
Raphael; sistemò l’auricolare nero con cui comunicava. Scambiò
uno sguardo con la coppietta, la quale ebbe come la conferma della
pericolosità dell’incappucciato.
«È molto importante che tu non lo perda di vista».
«Signor Dunne, lasci fare a me». L’uomo fece attenzione a non
fare rumore con gli stivali. Ragionando aggiunse: «Sembra che il
soggetto si stia dirigendo nella periferia di Sila, non riesco a
immaginare cosa possa esserci lì di tanto interessante per un
medico».
«Non è un semplice medico, bensì un Arcangelo traditore. Ti
ricordo che tempo fa dei demoni sono entrati in città passando per la
barriera. È possibile che stia raggiungendo uno dei suoi schifosi,
nuovi amici».
«Sarò pronto ad agire».
Raphael proseguì per le strade meno affollate e in circa quaranta
minuti di camminata giunse alla grande barriera.
Lo sguardo si soffermò per alcuni istanti sulle sfumature di colore
che essa prendeva grazie al movimento fluido del puro Etere del
quale era formata. Immaginò per un istante la breve ma intensa
sofferenza dei demoni saliti in Paradiso, nell’attraversarla, per poi
salvare Odry. Nessun angelo con corpo umano sarebbe riuscito a
oltrepassarla o toccarla senza subire danni, tantomeno le creature
infernali.
Dalla tasca dei pantaloni estrasse una provetta di vetro e la
stappò, l’avvicinò alla barriera lattiginosa facendovi passare
attraverso il collo del piccolo contenitore; pollice e indice cautamente
posizionati alla base per non farsi male. L’Etere fluì all’interno della
provetta. Era bellissimo: Raphael ne ammirò ancora le sfumature
violacee che si adagiavano piano sul fondo. Fin troppo piano.
Guardò attorno a sé con la speranza di sbrigarsi. «Dépêche-toi!
Liquide stupide![1]»
«Hey!» una voce sconosciuta alle sue spalle lo mise in allarme.
«Bastardo, dico a te!»
Raphael venne colpito alla schiena da un manganello elettrico che
gli diede una scossa. La guardia che l’aveva seguito fece per
sferrare un altro colpo, ma l’Arcangelo lo parò con l’avambraccio,
prendendo un’altra scarica. «Perché stai rubando l’Etere,
Arcangelo?» il terzo colpo non andò a segno: Raphael allontanò
l’uomo con un calcio in pieno petto e fece in tempo a mettere il
contenitore in tasca.
La guardia estrasse dalla fondina un piccolo mitra e glielo puntò
contro, sul volto un sorriso beffardo. «Fatti guardare in faccia».
Il francese alzò le mani senza rispondere. Studiò la zona di
sottecchi: i palazzi di quella porzione di periferia erano abbastanza
vicini da consentire un’agevole fuga, ma avrebbe dovuto essere
molto veloce. Di aprire le ali non se ne parlava, avrebbe dato troppo
nell’occhio.
«Hai sentito? Leva quel cappuccio!»
E anche smaterializzarsi non sarebbe stata una buona idea, gli
unici incapaci di farlo erano proprio gli angeli semplici come colui
che aveva di fronte e doveva fargli credere di essere uno di loro.
La guardia si avvicinò minacciandolo col manganello, ma Raphael
entrò diretto nella difesa scoperta e gli sferrò un pugno nello
stomaco, facendolo indietreggiare. Il rumore metallico del colpo gli
ricordò dell’utilizzo di ulteriori protezioni durante le ronde notturne.
L’angelo gli puntò contro il mitra ma non fu abbastanza veloce.
Raphael evocò il fioretto e gli tagliò la gola prima che quello potesse
sparare. Lo ritrasse subito, fissando il corpo con occhi sgranati,
mentre questo cadeva a terra con un tonfo sordo. L’arma scomparve
e lui rimase lì, col cuore che batteva all’impazzata. “Cosa ho fatto?”
Gli occhi ancora fissi sul cadavere. Ebbe timore di se stesso e della
reazione guidata dalla paura.
Agitato, tese l’udito nella speranza che non vi fosse nessuno nei
paraggi. Forse, sarebbe stato fortunato.
Con mani tremanti si chinò sul corpo e lo prese tra le braccia.
Chiuse forte gli occhi, gli chiese scusa dal più profondo del cuore e
si rivolse anche al Signore, con la speranza che egli comprendesse
l’errore. “Ti prego, non c’è oscurità nel mio cuore. Tu lo sai”.
Non sapeva bene come agire, come risolvere la situazione.
Sarebbe stato immondo lasciarlo lì, e sarebbe stato da pazzi portarlo
al DEM per curarlo di nascosto. Ormai le telecamere avevano
ripreso tutto e nonostante il volto fosse coperto dal cappuccio e dal
buio, Serafini e Dominazioni ci avrebbero messo poco a collegarlo
all’uccisione. E a lui restavano pochi secondi per agire.
“Ania” pensò, riaprendo gli occhi con sorpresa per non averci
pensato subito. E senza indugiare ancora, si smaterializzò.

II

«Aprite, per favore!» Raphael bussò con forza alla porta


d’ingresso facendo sobbalzare Odry, concentrata di fronte al
generatore. La mezzanotte era passata da un pezzo e lei come al
solito non riusciva a dormire. Gettò da una parte il panno sporco di
grasso e si alzò rapida; aprì la porta e Raphael entrò in tutta fretta
con un cadavere tra le braccia.
«Che hai fatto?»
«Aiutami a farlo sparire».
«Mettilo nel caminetto». La rossa chiuse a chiave la porta.
L’Arcangelo obbedì e raggiunse il fuoco. Con un piccolo aiuto infilò
il corpo nello spazio ridotto, si allontanò il più veloce possibile, e
andò a sedersi sul divano. Grazie all’intervento di Odry le fiamme
divennero più alte e feroci; in pochi istanti la guardia angelica
divenne carbone, infine polvere.
Raphael non aveva mai assistito a un fenomeno del genere da
vicino e spostò lo sguardo sulla donna ammettendone la potenza.
Odry rimase impassibile a osservare le fiamme che proiettavano
una luce amarena sul suo viso e in buona parte della stanza.
«Dimmi cos’è successo» esordì, quando la cenere dell’angelo e
della legna erano ormai una cosa sola.
«Stavo raccogliendo l’Etere e questo soldato del DEM è giunto
all’improvviso. Mi ha seguito, è chiaro». Raphael si massaggiò le
tempie per darsi un contegno. «Sto risentendo delle pressioni che mi
fanno al Distretto e non mi sono soffermato a valutare abbastanza a
lungo ogni possibilità. Ma non ho scusanti». Tolse dalla tasca la
provetta e la poggiò sul tavolino di fronte al divano. «Ho potuto
riempirla solo per metà, spero sia sufficiente».
«Basterà» rispose Odry, decisa. Si voltò a guardarlo con
attenzione. «Stenditi, hai una faccia pessima».
Raphael invece si alzò. Non riusciva a stare seduto, tantomeno a
seguire l’ultimo consiglio.
Odry si rammaricò e lo seguì con lo sguardo. «Sono cose che
possono capitare. Non devi crucciarti così tanto e poi meglio a lui
che a te». E con un po’ di imbarazzo domandò: «Che mi dici di
Gabriel?»
«Come gli altri non mangia abbastanza e subisce le provocazioni
dei Serafini. Non posso dirti di più perché c’è solo questo. Sono in
bilico, tutti quanti. In base alla loro condotta potrebbe peggiorare la
situazione».
«Gli hanno fatto del male?» continuò lei. Era evidente quanto
fosse preoccupata e quell’angoscia Raphael poté comprenderla
appieno, poiché era la stessa che lo corrodeva per Cassiel.
«No, nessuno osa toccarli».
Odry rilassò appena le spalle ma la sua espressione non mutò.
«Chissà per quanto sarà così» si morse le labbra e dopo un lungo
silenzio diede voce a una domanda martellante. «Si sa di chi è il
figlio?»
Raphael scosse il capo «Ancora no».
«Raphael!» Belial li fece sobbalzare. «Sei qui per l’Etere? Quindi
posso andare?» Il ragazzo scese le scale a gran velocità.
«Cosa ti ha detto Satan?» lo rimproverò la demonessa «Non puoi
andare con il buio, dovrai aspettare fino a domattina!»
«Ma se scendo adesso sarà più facile! Mi camufferò meglio con
l’oscurità e destabilizzeremo il Quartier Generale!»
«No». Odry fu tagliente. «Tu stai alle nostre direttive, non
possiamo sbagliare, altrimenti moriamo tutti. Sai molto bene quali
rischi corriamo, qui ognuno di noi fa dei sacrifici ed è giusto che
vengano riconosciuti».
Belial aggrottò le sopracciglia. «Se non abbiamo rischiato fino a
ora, non vedo perché dovremmo rischiare quando scenderò. Questo
è il momento perfetto per agire».
«Ho detto no e non si discute» ribatté dura la rossa. Prese la
boccetta di Etere e se la mise in tasca, poi si rivolse a Raphael.
«Domani agiremo alle prime luci dell’alba, ci sarai?»
«No» ribatté l’Arcangelo «perché non intendo creare sospetti
restando troppo a lungo sulla Terra».
Odry annuì. «Permettici di ospitarti almeno per la notte».
«Non ce n’è alcun bisogno». Raphael indicò il piano sovrastante
con un cenno del capo. «Saluta tutti. E grazie».
«Guardati le spalle».
E, dopo aver ricevuto il saluto di Odry, l’Arcangelo si smaterializzò,
lasciando lei e il principe da soli.
«Tu sei un idiota!» tuonò Odry a gran voce contro Belial,
superandolo per raggiungere la sua camera. «Mi fai fare sempre
figure del cazzo quando apri quella fogna che hai al posto della
bocca». Brusca salì le scale, sbuffando a ogni passo.
«Ma che problemi hai?» ribatté il giovane. «Mi avete sempre rotto
le palle perché non facevo mai nulla di utile e ora che voglio farlo
rompi le palle lo stesso!»
«Torna a letto o domani raggiungerai il tuo popolo all’Inferno con la
testa al contrario».
«Non sai dire altro, tu? Speri di risolvere tutto con le minacce? Io
non sono il tuo burattino!»
«Se vuoi metto da parte le minacce e passo dritta ai fatti» sibilò la
rossa fermandosi a metà scalinata.
«Non hai mai saputo affrontare i problemi come una persona
normale, pensi che le minacce ti rendano superiore? Usi le tue
stronzate come una scusa per giustificare il tuo passato, ma ricorda
che molte delle sfortune che hai subito sono state una conseguenza
delle tue scelte. Quindi smettila di comportarti così!»
Odry strinse con violenza la presa sul passamano. «Come osi
parlare di ciò che nemmeno conosci?! Il mio passato non ti riguarda
e sei l’ultima persona al mondo che può giudicare qualcuno, tu che
non sei altro che un ragazzino viziato, ignorante e inutile!»
«Tanto inutile che l’unico che può risolvere la situazione qui sono
io! Non Satan che in realtà se la fa sotto, non tu che non sai
nemmeno controllare quel cervello squagliato che ti ritrovi!»
«Sì, esatto, sei inutile come un cavallo zoppo e per questo verrai
condotto al macello, così che coloro che valgono più di te possano
andare avanti». La demonessa mollò la presa dal corrimano
bruciato, scese qualche scalino fino ad avere il ragazzo di fronte a
sé. «Io non so chi ti credi di essere, ma azzardati a parlarmi così
un’altra volta e ti spacco la faccia. Me ne fotto di te, non vali nulla» il
viso era contratto in una smorfia di disprezzo e una rabbia così
accesa che fece avvampare il camino in soggiorno. Trasfigurata
com’era non sembrava più lei.
Belial strinse i pugni, arrabbiato e avvilito. Scosse il capo. «Ciò
che farò, lo farò per altre persone: per Karen, Ania, Vicky e la sua
famiglia e per Georgette. Non certo per te che meriti di rimanere sola
a vita. Spero che Gabriel non mantenga mai la promessa, te lo
meriteresti».
Odry gli sferrò uno schiaffo rovente che lo costrinse a
indietreggiare. Il fuoco ruggì così come lei. «Io ho subito torture che
sarebbero spettate a te, sono salita sulla Terra per cercare di salvarti
e tu com’è che mi ripaghi?» minacciosa avanzò. L’aria intorno a loro
divenne densa e bollente. Gli occhi di lei brillavano sinistri, di un
viola acceso.
Belial si massaggiò la guancia ridacchiando. «Ben ti sta, stronza».
La demonessa gli sferrò un altro schiaffo, ma Belial lo incassò
piuttosto bene, essendo già preparato. A seguire ne giunse un terzo.
«Non sfidarmi, verme».
La voce di Odry si sdoppiò. Dalle labbra, oltre la sua, ne uscì una
seconda bassa, gutturale e raccapricciante.
Belial sbiancò.
«Tu hai il sangue di Lucifer l’assassino, anche tu meriti la mor…»
«Odry?!» Satan, in pigiama, comparve dalla cima delle scale.
«Cosa succede?»
La demonessa si voltò verso di lui spaesata, poi portò l’attenzione
su Belial.
«Per un momento è stata posseduta da qualcosa!» si affrettò a
dire il ragazzo, preoccupato.
«Faresti meglio a tacere» sibilò lei, squadrandolo. «Vattene a letto.
All’alba ti voglio pronto».
Belial la superò per salire due scalini alla volta, lanciò uno sguardo
eloquente a Satan e si chiuse nella propria stanza.
Il demone osservò l’amica mentre questa tornava di fronte al
caminetto per spegnere il fuoco, assorbendolo.
Faceva finta di nulla e alla fine si mise a braccia conserte
nascondendo le mani tremanti per l’orrore. Cosa aveva detto? Cosa
le era appena accaduto? Quella rabbia non le apparteneva. Non
aveva mai parlato in quel modo, era stata crudele eppure era certa
che qualcosa la stesse guidando. “La stessa voce di sempre”
ragionò, ma non osò porsi ulteriori domande per non risvegliare la
presenza di cui aveva una paura folle.
Odry Crane

“L’una e mezza di notte”. Odry spostò lo sguardo dall’orologio a


muro nel salotto e tornò a scrutare il camino acceso.
Il ricordo di come aveva agito durante il litigio con Belial ancora la
agitava. Ci aveva rimuginato per ore senza riuscire a darsi una
spiegazione al riguardo.
Era raggomitolata nell’angolo sinistro del divano, una bottiglia di
cognac poggiata a terra oltre il bracciolo, un sigaro tra le dita.
Pensava. Una nuvoletta di fumo si dissipò nell’aria, a seguire ve ne
fu una seconda poi una terza fino a un susseguirsi di sbuffi
ravvicinati.
Stare da sola le mancava. Durante gli ultimi mesi di caos e delirio
non era più riuscita a concentrarsi su se stessa, così tanti doveri e
preoccupazioni le pesavano sulle spalle e le impedivano di
ascoltarsi. Forse l’ultimo scatto d’ira era dovuto a questo… così
tante cose a cui pensare, a cui trovare una risoluzione. Oppure
trovare una via di fuga. Si sentiva sopraffatta dagli eventi, due passi
indietro che non riusciva a recuperare.
Una nuova nuvola si aggiunse alle altre. Accigliata e incantata
sulle fiamme, allungò una mano oltre il bracciolo, il freddo del vetro
della bottiglia fu un toccasana per il calore che sentiva ribollirle nelle
vene. Bevve un sorso.
“Belial vuole scendere a tutti i costi, e ha tutta l’aria di uno che non
ha idea di cosa fare ma che vuole agire per tornare alla normalità il
prima possibile. Non posso biasimarlo ma di questo passo
rischieremmo una nuova guerra, e saremmo impreparati, in netta
minoranza… No, uno scenario del genere sarebbe devastante e non
posso permettere che accada. Pensa Odry. Pensa a un modo per
sistemare le cose”. Chiuse gli occhi, li massaggiò con due dita. Era
esausta. “Se Zachary non ci avesse traditi, a quest’ora avrei un
pensiero in meno; se lo avessi saputo…” sospirò ma subito si diede
della stupida. “Come avrei potuto saperlo? È stato così abile da
ingannare perfino Satan. Non avrei dovuto fidarmi, lo avrei dovuto
tenere lontano e invece – perché in fondo sono una stronza
sentimentalista – mi sono fatta abbindolare con la storia del gemello
scomparso, gli ho permesso di illudermi e poi di abbandonarmi per
l’ennesima volta”. Buttò via la cenere con stizza.
Stava davvero provando a prendersi in giro? La verità era che lei
aveva sempre bramato un momento come il ritrovamento di un
familiare, sapere di non essere mai stata sola al mondo, di avere
qualcuno col suo stesso sangue con cui condividere la vita che le
rimaneva. Ma sia Zachary che Balthazar erano stati un sogno a
occhi aperti e a tratti un incubo da cui non era riuscita a scappare,
qualcosa che la tormentava di continuo.
In quell’agonia, per accartocciarle l’anima ancora un po’, si
aggiunse, a tradimento, l’immagine di Gabriel. Avrebbe voluto averlo
lì accanto, si sarebbe confidata perché Gabriel non l’avrebbe mai
giudicata e lei lo sapeva. Si sentì sola e meschina nei confronti di
Satan. Lui era sempre lì con lei, ma le cose erano cambiate. Lei era
cambiata e si era allontanata.
Forse era ancora in collera con lui per averla immischiata in tutta
quella assurda situazione. Non lo sapeva e non aveva la forza di
indagare, almeno non in quel momento.
Dormire era divenuto impossibile e spaventoso. L’arrivo della notte
la agitava e più si agitava più il suo malessere aumentava. “In
pratica, un cane che si morde la coda”.
Raphael però le aveva portato un sonnifero. Lei non lo aveva
ancora preso e aveva fissato la boccetta poggiata sul comodino ogni
notte. Ora, la stessa boccetta poggiata sul tavolino di fronte,
sembrava chiamarla. Non le piaceva sapere di dover ricorrere a certi
metodi, temeva di diventarne dipendente e, in fatto di dipendenze,
ne sapeva qualcosa.
“Magari una volta ogni tanto, solo per riprendere un po’ di
energie… Riuscirei a tornare attiva e a ragionare con lucidità”. L’idea
iniziava a stuzzicarla.
Raphael era stato categorico: non più di quindici gocce a notte.
“E sia!” si disse dandosi coraggio. L’afferrò, lesse le indicazioni per
scrupolo. Stappò e aspirò con la pippetta incorporata un poco di
liquido. Avrebbe dovuto diluirlo con dell’acqua, ma non potendo bere
nient’altro che alcol versò le gocce direttamente sulla lingua. Ne
contò venticinque, dieci in più della dose consigliata per paura che
non facesse effetto.
Il sapore dolciastro a tratti acido la schifò, così si lavò la bocca con
un sorso di cognac. Molto meglio. Scosse la testa poiché un primo
senso di confusione la colse di sorpresa. “Cazzo, ha fatto subito
effetto” pensò stordita. Si alzò piano, spense il mozzicone di sigaro
nel posacenere in marmo e con la bottiglia in una mano e una
coperta nell’altra si diresse in camera.
Salì le scale barcollando. Tutto intorno a lei iniziò a essere
confuso; i sensi rallentati, la percezione dello spazio alterata. Si
sorresse al corrimano. Lo sguardo si spostò alla ricerca del muro, o
di un secondo appiglio, tutto ciò che riuscì a vedere furono i soggetti
in movimento all’interno dei quadri. Le sembravano liquidi, pronti a
schizzare dalle preziose cornici: gli alberi del primo dipinto parevano
di gomma e la casa tra loro si spostava in mezzo ai tronchi; l’ampio
abito violetto di una dama seicentesca nel secondo usciva fuori e a
Odry parve di poter toccare i merletti e i pizzi. Inciampò nell’ultimo
gradino e cadde in ginocchio. Si fece male, eppure riuscì a evitare
che la bottiglia si rompesse. Ma ora doveva trovare la forza di alzarsi
e raggiungere la sua camera.
Provò usando il muro come supporto e tentando – invano – di
tornare presente a se stessa tra una bestemmia e un insulto.
Ciò che la circondava girava come fosse dentro a una lavatrice, i
sensi sempre più lenti. Nella confusione intravide una figura scura in
piedi alla fine del corridoio. Non ci si soffermò poi tanto, non capiva
più nulla e probabilmente era solo un’altra allucinazione. Almeno era
consapevole che le stranezze erano solo stranezze.
Dopo tanti sforzi e cadute raggiunse il letto e vi si gettò. Chiuse gli
occhi e crollò addormentata. La bottiglia scivolò sul pavimento e il
liquore si versò sul tappeto.

Era a Londra, nella sua stanza, il suo luogo sicuro. Riconobbe il


profumo di ciliegia e cannella sul cuscino dove il volto era premuto.
Una strana sensazione la spinse a mettersi seduta.
Voltò la testa verso la finestra, fuori era buio. No, non era solo
buio. Aggrottò le sopracciglia e si strofinò gli occhi per assicurarsi di
aver visto bene. Mise gli occhiali. L’esterno era nero, come una
dimensione sconfinata.
Con cautela scese dal letto e a piedi nudi uscì in corridoio.
Diede una rapida occhiata da un lato e dall’altro: non vi erano
movimenti, nessuna voce al piano di sotto. Sembrava sola, eppure
sentiva di non esserlo. Qualcun altro era in casa con lei.
Chiuse la porta e si diresse verso la stanza di Satan, bussò ma
non ricevette risposta, così aprì di poco la porta per guardarci
dentro. «Sat?» chiamò, ma era vuota. Richiuse e passò alla camera
adiacente, quella di Belial. Anche lì non c’era nessuno, il letto ben
fatto. Provò con le altre sul suo stesso piano ma erano tutte vuote.
«Ragazzi! C’è qualcuno?» chiese sporgendosi dalle scale.
Nessuna risposta.
«Sono sola?» si domandò, confusa. Scese al piano di sotto,
controllò la cucina, il bagno e il salotto. Il camino era acceso, ma il
fuoco era nero e dalla canna fumaria cadevano delle candide piume
che bruciavano all’istante. Lo stesso fuoco consumava un grosso
sigaro. Rivolti verso il quadrante in muratura vi erano gli anfibi di
Belial, come aspettassero di entrare. Oltre quella scena che mise in
soggezione Odry – ma che lei stessa ritenne stranamente consueta,
come fosse normale – in casa non c’era anima viva.
All’improvviso la sensazione provata poco prima la terrorizzò.
Qualcosa di negativo, di sinistro, sembrava avvicinarsi sempre di
più.
Si voltò, ma non vide niente di anomalo, solo la porta d’ingresso.
Di nuovo quel qualcosa di oscuro, di nuovo alle sue spalle.
Si voltò ancora. Niente.
Si sentì vulnerabile. Non le piacque.
Tornò alle scale e salì. Qualcosa la seguiva, accelerò. Il cuore in
gola, non aveva mai provato una paura simile. Raggiunse il piano di
sopra.
Era lì, la vide. L’entità era ferma sul fondo del corridoio, la fissava
con occhi invisibili, neri come il resto della sua figura.
All’improvviso percepì un’altra presenza dietro di sé. Si girò
allarmata, ma per il momento quella non intendeva palesarsi. Anche
lei voleva farla morire di paura? Una consapevolezza le tolse il
respiro: aveva voltato la schiena alla prima entità. Odry sapeva cosa
sarebbe accaduto.
L’ombra che l’aveva fissava da lontano adesso era a un millimetro
da lei.
Odry provò a gridare, ma non le uscì un suono. Provò a scappare,
ma i piedi erano pesanti e inchiodati al pavimento. Provò anche ad
attaccare, ma non uscì alcun fuoco.
Terrorizzata, deglutì. Era in trappola e sarebbe morta.
L’entità allungò una mano nella sua direzione; l’avrebbe presa,
Odry lo sapeva, così preda dell’impotenza chiuse gli occhi
proteggendosi con le braccia.
La spilla che aveva appuntata alla maglia splendeva, rossa come
il fuoco che le ardeva nell’animo. Fu però l’altra entità a toccarla.
Odry venne tirata all’indietro: la stava allontanando dall’ombra
maligna. Quindi, non era malevola? La stava salvando?
Accadde tutto così in fretta, vi fu un forte spostamento d’aria
calda, seguito da uno stridio simile alla plastica sulla fiamma. Odry
non ebbe il coraggio di aprire gli occhi e guardare, ma sembrava che
l’ombra stesse soccombendo contro l’entità che cercava di
proteggerla.
A tradimento, udì nella testa quella voce rabbiosa che la
tormentava giorno e notte, stavolta le ripeteva con insistenza una
parola. «Votharte! Votharte». Le mani che ancora le stringevano le
spalle la scossero con violenza. Ma lei non capiva.
«Basta!» Riuscì a strillare. «Basta, lasciami in pace!»
La voce ora pareva provenire da qualcuno che le stava di fronte.
«Votharte! Votharte».
«Smettila, io non ti capisco! Mi stai facendo impazzire!» Fu lì,
quando si decise a sollevare la testa, che venne accecata da una
forte luce.
Udì un secondo grido.

Odry sbarrò gli occhi e scattò a sedere. Il petto si alzava e


abbassava rapido, il cuore le batteva forte tanto da farle male, la
testa doleva. Sudata dalla testa ai piedi aveva inzuppato le lenzuola
pulite.
Si passò una mano sul viso. «È stato solo un fottuto incubo».
Decise di alzarsi, la sveglia sul comò segnava le sette e mezza del
mattino. Entrò in bagno, si specchiò, con ribrezzo osservò le
occhiaie. “Ho una faccia di merda”. Lo stordimento dovuto alle gocce
prescritte da Raphael non si era dissipato del tutto. “Non prenderò
mai più una roba simile in vita mia” si ripromise.
La luce rossastra della spilla regalata da suo padre la attirò. «Mi
sono dimenticata di toglierla, spero non si sia rovinata durante la
notte». La rimosse e la rigirò tra le dita controllandola con occhio
critico, sembrava essere tutto a posto. Era così bella, con la pietra
rossa romboidale incastonata in una cornice di fregi dorati. Così la
riappuntò sulla maglia e si spogliò per entrare in doccia.
Rilassò i muscoli, la testa reclinata all’indietro, il getto d’acqua
bollente le sferzava il viso. Non riusciva però a scacciare la
sensazione opprimente dell’ombra. Le immagini del sogno impresse
nella mente, quella parola di cui non conosceva il significato. “Di
questo passo impazzirò davvero” sospirò.
«Buongiorno!» Satan con un sorriso e un delizioso profumo di
frittelle la accolsero in cucina.
«Ciao» biascicò Odry in risposta, si sedette di peso e scomposta
sulla sedia.
Il demone la baciò sulla testa. «Sembri distrutta, ma ho visto che
hai dormito».
Lei si massaggiò le palpebre e sollevò le sopracciglia. «Sei entrato
a controllarmi anche oggi?»
Satan le fece una smorfia sottolineando l’ovvietà di quella
domanda. «Certo che sì! Anche se non vuoi che mi preoccupi per
te».
Odry annuì stanca, non aveva la forza di ribattere. «Ho preso le
gocce che mi ha portato Raphael e non le prenderò mai più. Ho
passato una notte di merda».
Satan fece crollare le spalle dispiaciuto. «Parlagliene subito
appena lo vedi, questa cosa sta peggiorando di giorno in giorno e…»
«Lo farò» lo interruppe lei con un gesto brusco della mano. «Ora,
per favore, fammi uno scotch con un poco di caffè».
«Subito». Satan prese dalla madia una tazza capiente e il liquore.
«La vuoi una fetta di crostata alla pesca? O preferisci le frittelle
ancora calde?»
«E me lo chiedi? La crostata!»
Satan sorrise intenerito. La sua migliore amica, nonostante tutto,
non aveva mai perso quel caratteristico lato ironico, tantomeno
quello goloso.
Odry poggiò gomiti e avambracci sul tavolo, una gamba sotto al
sedere e l’altra a penzoloni. Osservò la schiena di Satan indaffarato
sul piano cottura mentre tagliava e riponeva in un piattino una
generosa fetta di crostata, poi notò la mano sinistra con la punta
delle dita incerottate. «Ti sei fatto male?» gli domandò prendendo la
tazza di caffè corretto che le stava porgendo.
Satan si guardò confuso per poi minimizzare scuotendo la testa.
«Nulla di che, tranquilla, ero talmente assonnato che quando stavo
sfornando la crostata l’ho presa senza guanto». Mostrò la mano.
«Incidenti di routine nella vita di uno chef».
Odry scosse il capo. «Sei sempre il solito scemo».
La rivolta

Belial era seduto sul divano da almeno due ore. Non aveva
dormito e non aveva fatto colazione tanto era agitato. “Fammi
scendere prima che impazzisca” pensò, in realtà rivolto a Odry.
Guardò il generatore che emetteva un continuo ronzio, diventato
ormai parte integrante della quotidianità. Poi, di sottecchi, osservò la
demonessa.
Quella scolò in un sol colpo il rum corretto con un poco di
caffèlatte, poi aprì un piccolo sportello laterale del marchingegno
rumoroso e iniziò a trafficare con alcuni cavi. «Come ho detto ieri, la
carica reggerà solo due viaggi: andata e ritorno. Usa il nostro
collegamento solo se dovessi renderti conto che il piano non può
essere portato a termine. Non dovrai lasciare nulla indietro. Per
ridurre al minimo i danni, dovrai prima immergerti e versare l’Etere in
un secondo momento; rompi la provetta, stappala, fa’ come vuoi.
Comunque comunicheremo tramite questo» gli consegnò un
auricolare. «Toccalo due volte per aprire la chiamata, un solo tocco
per chiuderla. Chiaro?»
Belial annuí, inserì l’auricolare e prese un respiro profondo.
La tensione tra loro era ancora palpabile. Non una parola in più
venne pronunciata. A stento si scambiarono uno sguardo.
Satan li raggiunse, anche lui a corto di sonno e assai angosciato.
«Sicura che funzionerà?»
La rossa rimase in silenzio per diversi secondi, poi ammise: «Non
sono ancora riuscita a collaudarlo».
«Quindi potrebbe anche non funzionare?» sbottò l’amico.
Odry non rispose, la sua espressione era tutt’altro che
rassicurante. Si limitò ad avvicinarsi al pc portatile poggiato sul
divano, accanto a Belial, e a impostare le coordinate. Poi sollevò il
generatore e raggiunse il cortile retrostante della villa, poggiandolo
sull’erba, al centro. Accese i convertitori che azionarono il
movimento di generazione delle onde quantiche per attivare il
portale, il quale si materializzò poco distante dal marchingegno e
iniziò a vorticare lento per poi acquisire maggiore velocità e intensità,
illuminando l’erba e le piante circostanti con la sua luce violacea.
Belial e Satan l’avevano seguita.
«Tra pochi istanti saremo pronti» annunciò lei.
Il rosso si voltò verso il ragazzo, lo guardò per un attimo e poi lo
strinse con impeto. «Ti prego, fa’ attenzione» e il giovane rispose
alla stretta con un leggero imbarazzo.
Odry nemmeno lo guardò.
Una volta dato il via, entrò nel portale per non prolungare l’ansia
che lo corrodeva.
«Ti prego, dimmi che lo riporterai a casa tutto intero» disse Satan
avvicinandosi a Odry che annuì piano, ribattendo con ironia: «Abbi
fede».

Belial fu avvolto dall’immensa luce per diversi secondi fino a


quando non si ritrovò in un vicolo laterale al bar che Satan e Odry
erano soliti frequentare.
La prima cosa a colpirlo fu l’insegna luminosa a led verdi e
lampeggianti, poi le assordanti grida del popolo.
Essere di nuovo lì fu come ricevere un pugno nello stomaco. Stare
sulla Terra gli piaceva, era circondato da persone che lo degnavano
di considerazione e calore umano; lì sotto, invece, iniziava ad avere
paura e a sentirsi fuori posto. Prese a passeggiare avanti e indietro,
inspirando ed espirando per calmarsi. “Devo muovermi altrimenti
impazzisco”.
Uscì dal vicolo e iniziò a camminare tra la gente, senza farsi
riconoscere. Teneva il capo chino per la vergogna, pensando a come
avrebbe potuto fare una comparsa a effetto. L’unica opzione
interessante sarebbe stata salire sulla grande fontana al centro del
piazzale di fronte al Quartier Generale. Se avesse urlato qualcosa
per attirare l’attenzione, avrebbe compiuto il primo passo. Dalla
tasca estrasse l’ultimo discorso scritto da Satan, lo dispiegò e diede
una lettura veloce alle parole chiave evidenziate in giallo. “Che figura
di merda se mi vedessero sbirciare da questo foglio” pensò.
In breve tempo, tra un rimuginio e l’altro, si trovò ai piedi della
fontana.
Strinse i pugni e si decise: con agilità saltò sul primo bordo, poi
salì ancora fino ad arrampicarsi in cima. Guardò la folla e deglutì:
«Salve a tutti».
Nessun risultato. La gente continuava a gridare insulti contro
Lucifer mostrando armi di fortuna, come bastoni e tubi di ferro,
coltellacci da cucina e catene. I gruppi più vicini al cancello
provavano ad abbattere le guardie reali.
“Ovvio” pensò Belial. “Così concentrati verso il Quartier Generale
non mi considereranno mai”.
«Si può sapere che cazzo aspetti?»
La voce di Odry attraverso l’auricolare lo fece sobbalzare, ma lui
non rispose. Si schiarì la gola e ripeté, con tutta la voce che riuscì a
tirar fuori: «Salve a tutti!»
I primi a voltarsi furono coloro che stavano attorno alla fontana;
alcuni impiegarono più di altri a riconoscerlo, ma presto la voce si
sparse e una buona parte dei rivoltosi si ritrovò con lo sguardo
puntato su di lui.
Silenzio.
Il ragazzo tacque. Cosa poteva dire per iniziare? Il testo che aveva
letto e riletto gli si era cancellato dalla memoria e sentì di voler
vomitare. La cosa più scontata che gli venne in mente fu: «Mi avete
riconosciuto, vero?»
Il silenzio provocò non poca sorpresa anche all’interno del
palazzo.
«Sei imbarazzante».
La considerazione di Odry gli mise ancor più agitazione.
Lucifer teneva d’occhio la situazione da dietro una finestra.
«Fallirai sciocco ragazzo, fallirai» sussurrò tra sé.
Belial accennò un sorriso che gli morì subito sulle labbra, non era
più certo della riuscita del piano. Ormai era lì, al centro
dell’attenzione e il popolo presente si aspettava qualcosa da lui.
«Vedo che siete tutti riuniti sotto il Quartier Generale. Protestate
ma non agite» disse con voce tremante e poca convinzione. “Ho
detto una cazzata, ora mi uccidono!”
«Attento alle stronzate che spari». Odry lo ammonì, l’attenzione
concentrata sullo schermo.
Satan, dietro di lei, si mangiava le unghie e batteva un piede,
senza controllo.

Perché era finito in mezzo a quelle persone? A Belial sembrò di


aver dimenticato ogni cosa.
Lo scopo di tutto era portare avanti un progetto nel quale si era
trovato coinvolto, del quale conosceva ben poco. Altre persone ne
muovevano i fili e lui, in quel momento, si sentì un perfetto burattino.
Era davvero ciò che voleva?
In effetti non sarebbe stato male mostrarsi valoroso, dimostrare
che non era più l’idiota del passato. La consapevolezza di sé si era
rivelata quando aveva recuperato la reliquia che nemmeno sua
madre, Baal e Gaki erano riusciti a conquistare. Partecipare alla
battaglia contro l’esercito del Generale russo, poi, gli aveva fatto
comprendere che di valore e coraggio lui ne aveva da vendere. Tutti
coloro che l’avevano sempre avvilito e sminuito non avrebbero
potuto fare altro che ricredersi.
Avrebbe portato un popolo a ribellarsi contro il tiranno e da lì
sarebbe iniziata la scalata per la sua vendetta personale. “Fanculo
tutti”.
«Sono qui per voi e come un fratello, sono qui per banchettare alla
tavola della vittoria».
Il popolo tacque ancora.
«Sarò il vostro condottiero attraverso il mondo corrotto in cui
viviamo!» Le parole scritte da Satan gli tornarono alla mente, un
lampo di soddisfazione gli riempì il petto. «Ma potrò guidarvi solo se
lo vorrete!»
Fece una pausa e li osservò: nei loro sguardi scorse una scintilla,
una nuova luce.
Pian piano dei commenti si levarono dalla massa.
I discorsi in diretta del principe erano sempre stati toccanti e
motivazionali, ma la persona che avevano di fronte era
completamente diversa, non tanto d’aspetto. Forse di spirito?
Si accorse che i presenti cercavano di capire se di lui ci si potesse
fidare davvero. Erano distrutti, sofferenti e lasciati a loro stessi.
Avevano bisogno di qualcuno che li riportasse su, come un bambino
che dopo una caduta cerca di rifugiarsi tra le braccia della madre.
Lui doveva sostituirsi al padre che li aveva traditi.
Adesso era di fronte a loro e non gli restava che guadagnarsi un
po’ di fiducia, doveva toccarli nel profondo. «Lucifer vi costringe alla
fame, la nostra terra è ormai sterile grazie al suo egoismo! Ditemi:
chi di voi ieri ha rinunciato alla cena per darla ai propri figli? E chi di
voi non ha dato da mangiare nemmeno ai propri figli?»
Un altro mormorio.
«Non ho sentito!» incitò.
Finalmente la voce del popolo si levò timida.
«Non mangio da due giorni!» disse uno proprio sotto di lui.
«Ha ragione! Lavoro per tre kort al giorno e i miei bambini
muoiono di fame! Non veniamo tutelati, siamo invisibili!» protestò un
altro demone.
«Stai andando bene!»
Il ragazzo ebbe un tuffo al cuore: forse non era poi così incapace
e se avesse continuato nel modo giusto, avrebbe ottenuto ciò che gli
serviva. «Lo so che siete stanchi, frustrati, che temete per
l’incolumità delle vostre donne e dei vostri piccoli, che non guardate
in faccia nessuno per proteggerli, ma poi siete costretti a vederli
morire in ogni caso!»
Diversi uomini risposero a gran voce, incrementando un’euforia
contagiosa.
«Io non mi sono comportato bene con voi, lo ammetto». Belial
riportò il silenzio con quell’ammissione. «Ho passato anni della mia
vita a ignorare chiunque e a pensare solo a me stesso».
Il ragazzo riconobbe, però, parecchi sguardi storti: concordavano
con le sue ultime parole. Doveva trovare qualcos’altro per poter
riportare alto il consenso.
«Sono una persona nuova da quando ho lasciato questo mondo e
ho aperto gli occhi! Mi son reso conto di aver sempre vissuto in
mezzo a uomini e donne poveri di spirito, dei bugiardi che non
aspettavano altro che pugnalarsi alle spalle a vicenda».
«Bastardi!» Gridò qualcuno. «Tutti uguali!»
«Ed ero così anche io. Credetemi se vi dico che non ho mai visto
tante persone così unite, molti di voi nemmeno si conoscono!»
Un vociare convinto, finalmente, si alzò da quel pubblico
improvvisato.
«Ora calca sulla loro rabbia! Invitali ad agire!»
Belial prese un respiro profondo. Il petto si caricò di orgoglio.
«Dobbiamo combattere. Dobbiamo radere al suolo le difese, entrare
nel palazzo e buttare Lucifer giù dal trono!»
Un boato di giubilo esplose tra i civili che sollevarono le braccia al
cielo impugnando le armi di fortuna. Senza aspettare, corsero tutti
verso la prima fila di soldati posti di fronte ai cancelli, i quali alzarono
gli scudi pronti a reggere l’attacco. La folla era inferocita, assetata di
vendetta e si avventò sui militari come un’onda anomala.
L’impatto fu brutale.
Belial rimase a guardare la scena a bocca aperta, incredulo del
potere di quelle poche parole.
I popolani neutralizzarono le prime file, molti non ne uscirono
indenni, ma così facendo abbatterono il primo ostacolo. Un’altra
schiera di demoni armati proteggeva il cancello ma anche questi
vennero travolti.
In pochi minuti i morti iniziarono ad ammassarsi sotto le mura.

Lucifer digrignò i denti.


Un soldato terrorizzato lo raggiunse alle spalle, ma rimase a
distanza. «Mio Signore, i civili stanno arrivando al portone! Sono
troppi, non riusciremo a tenerli a bada a lungo».
Il Sovrano non gli diede retta. Si allontanò dalla finestra e a passo
spedito si diresse verso l’ingresso. Era stato sfidato e nessuno
sarebbe dovuto sopravvivere a tale sfrontatezza.
«Signore dovete mettervi al sicuro!» azzardò il soldato che gli
andò dietro, ma la testa gli esplose e le cervella schizzarono
ovunque.
Lucifer scansò con un gesto della mano chiunque si frapponesse
tra lui e l’obiettivo. Soldati, impiegati, succubi e incubi venivano
lanciati via da una forza misteriosa. “Qualcuno ha bisogno di una
lezione”. Percepì la collera aumentare con le urla dei suoi uomini e
del popolo intento ad abbattere l’ultima protezione dinnanzi al
portone.
Balthazar gli fu a fianco in pochi istanti. «Mio Signore dovete
correre ai ripari!» e anche lui venne spinto via, finendo contro un
gruppo di persone in fuga.
L’Imperatore procedette, gli occhi rossi brillavano famelici.
«Aprite!» ordinò con voce terribile.
I soldati all’interno chinarono il capo in segno d’obbedienza, mossi
dalla paura.

Belial era ormai in mezzo alla ressa.


Cercava di farsi strada, con agilità schivava i più grossi che
rischiavano di schiacciarlo. Ricevette spintoni e gomitate, perse
l’auricolare e nemmeno se ne accorse. Era terrorizzato, il fragore
attorno a lui era divenuto insopportabile. Il cervello macchinò decine
di ipotesi su come sarebbe potuta andare a finire e la possibilità che
a causa del suo fallimento le persone a lui care potessero morire gli
provocò la nausea.
Un movimento ambiguo lo mise in allarme: il portone si stava
aprendo.

Le prime luci dell’alba tingevano di colori caldi il soggiorno della


villa di Ania.
Odry e Satan stavano fissando gli schermi in rispettoso silenzio.
Tenevano d’occhio il ragazzo che di tanto in tanto spariva tra la folla,
ma anche la loro attenzione venne attirata dall’apertura del Quartier
Generale.
«Cosa sta succedendo?» chiese Satan.
Odry non rispose. Concentrata, si limitò a muovere sul lato destro
il drone per non perdere di vista Belial.
Karen li raggiunse in giardino. Teneva tra le mani un vassoio con
due tazze da tè, una corretta per la demonessa. «Stanno
vincendo?»
«Il peggio sta per arrivare» rispose l’altra. L’umana però, nel
raggiungerli, non si accorse dei fili aggrovigliati e inciampò.
La demonessa si voltò con gli occhi sbarrati nel momento in cui le
tazze si rovesciarono sul generatore.
Ci fu un botto, il computer collegato al macchinario emise delle
scintille e il monitor si spense, seguì un cortocircuito e uno stridio
violento all’orecchio che costrinse la rossa a levare l’auricolare e a
lanciarlo lontano.
La francese gridò.
Satan trasalì.
Odry andò su tutte le furie.

II

Lo stridio di metallo pesante sul pavimento si propagò nella


piazza. Il portone si spalancò.
La sagoma imponente e austera di Lucifer si palesò di fronte al
popolo. Mosse qualche passo avanti e la plumbea luce del cielo gli
illuminò il viso pallido e furioso.
L’intera folla ammutolì; alcuni indietreggiarono.
Nessuno si aspettava la sua comparsa.
Lucifer puntò gli occhi rossi sul figlio che, spaventato, deglutì.
«Tu» sibilò il Sovrano.
A Belial quell’uomo faceva paura, ma l’odio che provava era più
grande, così si arrampicò su un popolano parecchio alto che lo
sostenne senza problemi, poi si mise in piedi sulle sue spalle.
«Finalmente ti fai vivo! Era ora!»
«Taci, inutile ammasso informe!» Lucifer avanzò di tre passi e con
lui, la calca, si fece indietro. «Cosa speri di fare? Tu, che non hai
fatto altro per diciotto anni che trastullarti come un bambino viziato
tra le cosce delle succubi quando il tuo amato popolo moriva di
fame!»«Moriva di fame perché tu gli portavi via qualsiasi cosa»
ribatté il ragazzo «quindi non farmi la predica, perché è così che
sono stato cresciuto e solo standoti lontano ho capito come
funzionano le cose!»
«Sei solo un ragazzino che gioca a fare l’eroe. Ma guardati! Non
hai nemmeno un vero aspetto, sei andato a rubarlo a qualcun altro,
sei un ladro, una bugia». Le parole di Lucifer furono crudeli così
come il suo sorriso e non avrebbe potuto toccare tasto più dolente.
Belial, essendo un Informem, per essere accettato da coloro che
si aggiravano per il castello, tre anni prima aveva davvero rubato
l’aspetto a un giovane straccione morto il giorno stesso davanti a lui.
Voleva solo sentirsi normale, come gli altri. Quindi, invece che
nascondersi nelle ombre con le sembianze di un’entità fumosa e
oscura, da allora aveva potuto camminare su due gambe, mangiare
e comunicare.
Strinse i pugni e mandò giù la paura: doveva affrontare suo padre
da solo.
«Io non ho un aspetto tutto mio» disse «ma di faccia ne ho una
sola».
Lucifer si mosse ancora, era sempre più vicino. «Tu sei solo, figlio
mio, lo sei sempre stato e sempre lo sarai. Nessuno ti ama. Come si
potrebbe amare un essere come te? Credi che i Crane siano dalla
tua parte? Non lo sono, ti sopportano solo perché non hanno avuto
scelta, ma ti disprezzano, come tutti. Sei un peso». Indicò con la
mano aperta ogni singolo demone davanti a lui. «Anche loro ti
odiano perché il cibo che non arrivava lo consumavi anche tu».
Un brusio si diffuse tra il popolo.
«Lo sanno bene, non c’è bisogno che tu glielo ripeta. Io mi sono
scusato di fronte a tutti; l’importante nella vita è migliorare, no? Tu
sei stato buttato giù a calci per le tue buone intenzioni, ma sei
peggiorato e non ammetti le tue colpe. Io sono qui per recuperare
ciò che non ho fatto in passato e ciò che tu non hai mai saputo fare».
Il sorriso crudele restò sulle labbra di Lucifer. «Satan ti deve aver
imbottito per bene con discorsi sulla libertà, il riscatto e la lealtà,
eppure vi sfugge un piccolissimo particolare: questo mondo è mio e
posso farne ciò che voglio». La mano sinistra era nascosta
dall’ampia manica della sopravveste.
Erano proprio quelle le parole che Belial stava aspettando. Sul
volto comparve un’espressione beffarda. «Avete sentito tutti? Lui
dice di poter fare ciò che vuole nel suo mondo! In realtà fa ciò che
vuole con le vostre terre, le vostre vite! Cazzo! Perché ne avete
tanto timore? Lui sarà pur forte, ma noi siamo numerosi e uniti!»
Il popolo però era intimorito dalla presenza del Sovrano, che di
tutta risposta aprì il braccio destro con un ghigno divertito. «Come
vedi… sei solo».
Belial serrò la mascella e saltò giù dalle spalle del demone per poi
sparire tra la folla.
Lucifer riuscì a intuirne il tragitto notando lo sguardo di alcuni
popolani che seguivano il principe. All’improvviso tra i suoi piedi si
schiantò un pomodoro ammuffito, il cui succo maleodorante schizzò
sulla veste.
Il popolo fu terrorizzato da quel gesto.
Giunse un secondo pomodoro.
Lo sguardo sbarrato di Lucifer puntava al terreno. Incredulo, non
riuscì a realizzare nell’immediato cosa stesse accadendo.
I popolani ripresero a essere aggressivi; alcuni soldati li
spintonarono. Altri ortaggi marci volarono verso il Sovrano insieme a
grida, insulti e incitamenti a sfondare il cancello.
Le parole non avevano funzionato. Belial non aveva l’esperienza
del padre, ma quel gesto iniziale era bastato per mancargli di
rispetto. E Lucifer non era più abituato da tempo a subire un attacco
personale.
«Vuoi il loro raccolto? Eccotelo!» Un terzo pomodoro gli finì sul
petto imbrattandolo ovunque. Belial ricomparve sulla fontana
salendovi in cima.
Non bastava: mancava ancora qualcosa per scatenare il caos.
Balthazar raggiunse di nuovo il Sovrano. «Sire vada dentro, torni
nella torre!»
Ma quello non sembrava sentire, anzi, lo sguardo era fisso sulla
veste, osservava la macchia rossa senza riuscire a reagire ai
richiami.
Si stavano davvero ribellando a lui…
Belial raggiunse la fragile fila di soldati e ne puntò uno, al quale
avrebbe rubato l’aspetto. Gli si parò davanti e la guardia, sorpresa
nel ritrovarselo di fronte, esitò, lasciandosi afferrare e trascinare tra i
rivoltosi, finendo schiacciato sotto decine di piedi. A lui si sostituì il
principe sotto mentite spoglie.
E fu proprio quell’azione a scatenare il caos.
La scomparsa momentanea del soldato aprì un varco e la furia del
popolo penetrò le mura del castello.
L’ultima linea venne spezzata, lasciando entrare una buona parte
della popolazione dentro i giardini, come una rete debole che non
riesce a trattenere un banco di pesci troppo grande.
Ormai non c’era più spazio per la paura, il piano doveva essere
concretizzato.
«Signore! Vada dentro!» aveva gridato ancora Balthazar, ma
Lucifer rimaneva inchiodato sul posto. Lo sguardo di sangue ora era
fisso sui rivoltosi. «Come osate…» sibilò, ma l’avvocato tornò alla
carica, lo strattonò per la veste. «Signore!» gli gridò ancora e Lucifer
lo afferrò per il collo scaraventandolo contro una parete. Era fuori di
sé.
L’orda invase i giardini interni, calpestando piante e fiori,
devastandone la perfezione. In pochi attimi furono al portone.
Belial, col nuovo aspetto, si apprestò a entrare impartendo ordini
agli altri soldati, incoraggiandoli a dare il massimo mentre lui,
approfittando del delirio, si nascondeva nella tromba delle scale di
servizio.
Le grida dei popolani erano terribili, soprattutto i loro insulti verso
l’Imperatore.
Il Sovrano, infine, perse ogni briciolo di lucidità. La mano, fino a
quel momento tenuta nascosta dentro l’ampia manica, era aperta col
palmo verso l’esterno. Sulla sua testa sbucarono fuori lunghe corna
nere ricurve. Gli occhi divennero interamente rossi e luminosi. «Io vi
ho dato la possibilità di far parte del mio mondo, avete scelto di
rinunciarvi e di ribellarvi a me, vostro padre!»
Tutti si bloccarono. Nessun muscolo rispondeva ai comandi,
nessuno era capace anche solo di urlare o muovere gli occhi.
Il bel volto di Lucifer era trasfigurato, divenuto osceno e terribile.
«Anche io andai contro mio padre e patii la peggiore delle condanne!
Ma io non sono come lui, io non sono misericordioso e non avrò
pietà per voi». Vomitò quelle parole con disprezzo con una voce
gutturale e agghiacciante.
Fu un istante.
Tutti coloro che si trovavano di fronte al Signore Oscuro, popolo o
soldati che fossero, esplosero come fuochi d’artificio in uno
spettacolo di sangue e interiora.
I soldati alle sue spalle si ritrassero d’istinto mettendosi al riparo
dietro i portoni.
Balthazar, accovacciato sul pavimento, si alzò piano per assistere
allo scempio.
Lilith, ai piani superiori, osservava le migliaia di morti che ormai
ricoprivano l’intera piazza e buona parte delle vie principali.
La Capitale era stata quasi del tutto spazzata via. Intorno alle
mura vi erano solo sangue, viscere e cadaveri.
Tuttavia Lucifer non sembrava esserne sollevato. Il petto si alzava
e abbassava rapido. Aveva permesso alla sua versione bestiale di
uscire allo scoperto e non riusciva ad accettarlo.
«Chiudete i cancelli» disse infine. Si voltò per dirigersi nella torre;
lo scalpiccio degli zoccoli sul marmo nero echeggiò nella hall.
«Ripulite tutto e bruciate i resti nel deserto del Karkaron. Che sia un
monito per tutto il regno». Poi si allontanò sparendo nelle stanze
private.
Il comandante delle guardie, dolorante per la colluttazione col
popolo, tornò a impartire ordini ai soldati sopravvissuti per
coordinare le pulizie.
Nel giro di mezz’ora venne acceso il fuoco e una buona parte dei
resti dei rivoltosi venne fatta bruciare.
Belial sentiva le gambe molli per il terrore e una voglia incredibile
di scappare. Tutte quelle persone disperate, vittime innocenti di una
lotta tra i più forti… Uomini e donne, bambini condannati a morte,
famiglie distrutte. Avevano creduto in lui e lui alla fine si era
nascosto. Gli venne di nuovo da vomitare.
Ma aveva una missione importante da portare a termine, lo
doveva a tutti loro.
Uscì allo scoperto con lo stesso aspetto da soldato e passò dietro
al generatore che aveva permesso al resto dell’esercito infernale di
salire sul piano terrestre durante la battaglia per il Graal. Mutò il dito
indice in una lama fine e lunga almeno cinque centimetri e con essa
penetrò accanto al motore, arrivando a distruggere il chip.
Il macchinario emise un rumore sinistro e si spense.
Tutti lo udirono ma nessuno osò dire nulla, troppo impauriti per
dare un’ulteriore orrenda notizia al Sovrano.
Belial si finse sorpreso e venne ammonito da un collega che disse:
«Zitto, ci penseremo dopo».
«D’accordo. Coprimi qualche minuto, vado a pisciare». E con
questa banale scusa, il ragazzo riuscì ad allontanarsi senza
problemi. Fino a quel momento la missione non si era rivelata affatto
facile, sperò solo non si complicasse.
Nel tragitto verso il portale primordiale, ripensò decine di volte alle
povere persone uccise da Lucifer e pensieri ben peggiori gli si fecero
largo nella mente.
E se fosse stata solo colpa sua?
Dopotutto si sarebbe potuto limitare fin da subito ad appropriarsi
dell’aspetto di un soldato e girare nella struttura in tutta tranquillità.
“No, ha avuto senso portare l’attenzione sul popolo in rivolta per
minimizzare tutto il resto” ragionò. “Ha avuto perfettamente senso.
Ha avuto senso il sacrificio di centinaia, migliaia di persone. Tutto
per uno stupido portale. Quante mogli ora senza un marito? Quanti
figli senza un padre e bambini senza più genitori? Non è giusto,
cazzo! Non è giusto”. Belial si commosse. Tirò su col naso e non
fece in tempo a ricacciare indietro le lacrime che s’imbatté in una
scena orribile.
Ishtar, con una lunga e trasparente veste blu notte, stava di fronte
a una giovane succube dalla pelle scura, inginocchiata e
terrorizzata. La grande iena, accanto alla padrona, fissava la
ragazza con occhi famelici e l’acquolina che le colava dalle fauci.
«La prego, mia signora! Non…»
«Non vivrai, per questo tuo affronto al Sovrano. Nessuno di voi
ribelli sopravvivrà» e, dopo le spietate parole, la belva si avventò
sulla preda, azzannandole la faccia.
Belial le sorpassò con lo stomaco in subbuglio, mantenendo la
freddezza di un soldato. E fu proprio grazie a questo autocontrollo,
ma soprattutto all’aspetto rubato, che riuscì a passare oltre senza
destare sospetti.
“Chissà cosa avrebbero fatto Odry e Satan in questa situazione”
ragionò. Era certo che nemmeno loro avrebbero potuto salvare i
rivoltosi; questo pensiero un po’ lo rassicurò.
In meno di cinque minuti raggiunse la parte più antica del Quartier
Generale e la paura crebbe: ora si trovava di fronte al portone.
Nei dintorni non c’era nessuno e poté tornare al suo aspetto. Mise
le mani sui fianchi osservando ogni minimo particolare dell’ingresso
e pensando al modo per entrare, ma avrebbe potuto passare dalla
parte opposta solo tramite Aini e Inia.
“A meno che…”
Si chinò per valutare la fessura tra il portone e il pavimento e
calcolò anche lo spazio laterale. Soddisfatto mutò forma, divenendo
un ammasso gelatinoso e scuro. Passò sotto l’ingresso e riprese una
consistenza umana, ma un malessere lo colse all’improvviso:
smaterializzarsi e diventare tutt’uno, per alcuni istanti, con una
sostanza tossica come l’Etere non era stata una buona idea.
La grotta era illuminata solo dal bagliore scarlatto dell’ipnotica
piscina, ora unico portale funzionante. L’improvvisa paura di morire
lo bloccò. “Odry ha detto che buttandomi assieme all’Etere mi farei
male perché le particelle attaccherebbero le mie, o qualcosa del
genere” pensò. “E se, invece, mi disintegrassero?”
Non poteva essere, Odry aveva sempre ragione. Di sicuro non si
sarebbe sciolto, sparendo per sempre. O almeno così sperava.
Stappò la boccetta e gettò il tappo lontano, tremante si avvicinò
alla piscina.
«O ti fermi tu, o ti fermo io e ti posso assicurare che per te non
sarà piacevole, affatto».
La voce di Lucifer lo inchiodò sul posto lasciandolo in un gesto a
metà. Belial si voltò di scatto e se avesse avuto un cuore battente,
l’avrebbe sentito fermarsi.
I passi del Signore Oscuro riecheggiarono sulla pietra, le sue
corna ancora fuori dal cranio e gli occhi iniettati di sangue.
Il ragazzo indietreggiò e sollevò la boccetta, spostando il braccio
sul portale. «Ti conviene stare indietro: questo è Etere angelico».
«Posala. Subito» sibilò l’altro avanzando minaccioso.
«No!» esclamò il giovane «E se non stai lì, distruggerò questo
portale».
Lucifer si fermò. «Non sfidare la mia pazienza, figlio» disse tra i
denti.
«Altrimenti mi ucciderai? Non aspetti altro e lo stesso Lilith». La
voce gli si incrinò, indietreggiò ancora sbattendo il tallone destro
contro il bordo di pietra della piscina. «Perché mi avete messo al
mondo se di me non vi è mai importato niente?»
Lucifer inclinò appena il capo. «Sei il mio unico erede e a modo
mio ti amo. Tua madre ti ha voluto come unico capriccio, perché
dopo essere andata contro
Adamo – anni dopo aver dato alla luce Eva – è stata punita e
privata del dono di procreare». Lo fissò dritto negli occhi. «Posa la
boccetta e mettiamo fine a questa inutile rivolta». Si avvicinò di un
passo e sembrò sorridere in modo amorevole. «Belial, mio caro
ragazzo, vuoi davvero che altri innocenti muoiano?»
Il principe aggrottò le sopracciglia. «Tu… tu non dici la verità.
Avresti potuto contenere la rivolta, invece per te è stato più comodo
uccidere tutti, sapendo che c’ero anche io lì in mezzo».
«Non avrei mai potuto contenere la rivolta, loro non avrebbero mai
creduto alle mie parole, sarebbe stata una causa persa» avanzò
ancora di un passo. «Belial, sei il mio erede, non prendere le parti di
chi vorrebbe portarti via il trono, loro non sono tuoi amici».
«Hai avuto un sacco di tempo per provare a farmi questo lavaggio
del cervello, padre, Ora è tardi». La mano strinse la provetta fino a
spaccarla, l’Etere colò.
Ma Lucifer fu altrettanto veloce.
Gli bastò un gesto della mano per investire il ragazzo con una
potenza invisibile che lo scaraventò contro la parete rocciosa, oltre la
piscina. Fu un volo che gli fece battere il capo con violenza.
Belial provò a rialzarsi ma la stessa forza lo sollevò da terra e lo
ributtò giù. Questa volta, con l’impatto, il cranio si aprì in due.
Lucifer continuò ad attaccarlo, il volto sfigurato da una rabbia
simile alla pazzia, e si fermò solo quando il corpo del principe era
ormai ridotto a uno scuro ammasso informe, scuro e sanguinolento.
All’improvviso l’Imperatore sentì una dolorosa fitta al cuore e fu
costretto a reggersi poggiando una mano alla pietra, l’altra sul petto.
“Che mi succede?”
Un rumore sinistro lo costrinse a guardare in basso: il portale
primordiale, nero e viscoso, ribolliva e fumava…
Belial ce l’aveva fatta: la fonte principale di nutrimento di Lucifer
era stata contaminata, e il sovrano ne risentì all’istante. Lo sorprese
un forte capogiro che lo costrinse a chiudere gli occhi per resistere e
non cadere a terra.
«Signore!» la voce di Balthazar gli giunse distorta, il suono dei
passi in corsa ancor di più. «Mio Signore! Ho sentito un…» il
demone sgranò gli occhi nel vederlo in tali condizioni e rabbrividì allo
stesso modo nel notare il portale corrotto. Iniziò a sudare. «Vi
smaterializzo nelle vostre stanze».
«No!» sbraitò Lucifer, cadaverico. «Andrò da solo! Nessuno…
nessuno deve venire a conoscenza di questo» alzò gli occhi su di lui
e cadde in ginocchio.
«Mio Signore» ribatté l’altro andandogli in soccorso «avete fatto
un ottimo lavoro disintegrando il popolo in rivolta e quel traditore di
Belial, ma non potete fare tutto da solo. Anche il leone più forte e
temuto necessita di aiuto e di riposo. Ci smaterializzeremo insieme
nella vostra stanza e non farò parola ad anima viva di questa
vicenda. Penserò a tutto io, non ci saranno altri servi».
Lucifer scosse il capo. «Chiudi quella merda di bocca, Balthazar»
e, furioso quanto disgustato, si alzò a fatica. «Ringrazia mio padre
che ancora non ti ho ammazzato per aver fatto scappare Odry, la
mia arma migliore. Ora sparisci».
Balthazar maledisse sua figlia e la scelta di fuggire alleandosi col
nemico, che aveva messo in pericolo anche lui. Poi obbedì,
dileguandosi.
Lucifer, finalmente, era solo. Si concesse un sospiro di
stanchezza, superò il portale ignorando i resti di Belial e varcò un
portone di legno coperto da un fitto intreccio di rami di edera che lo
celavano alla vista. Lo aprì ed entrò.
Non volle ammetterlo a se stesso, ma aveva bisogno di aria pulita.
La vegetazione della grande stanza di Eva lo travolse con la sua
pace.
Dopo aver chiuso la porta d’ingresso, si diresse sul comodo
divano e si distese, senza dire una parola. Il suo corpo, con
lentezza, stava recuperando sembianze umane.
La donna, di fronte alla finestra, preoccupata, era rimasta a
osservarlo per tutto il tempo e, come lui, preferì tacere; si limitò ad
avvicinarsi con la sedia a rotelle e fermarsi al lato del divano, tolse
un prezioso fazzoletto dalla tasca della veste da camera e deterse la
fronte dell’amato, imperlata di sudore. «Spero che qui ti sentirai
meglio. Sono contenta che tu sia venuto da me».
«Sono qui per stare lontano da tutti».
Eva ritrasse la mano e abbassò lo sguardo, avvilita da quelle
parole. Poi guardò altrove. «Perché quell’insensato genocidio?»
«Insensato? Non erano recuperabili».
«Sei sempre più velenoso con chi ti ama. Ma tutto ciò che ti
accade è solo per causa tua».
Lucifer scattò a sedere e si voltò verso di lei. «Tutto ciò che mi
accade è per colpa Sua!» tuonò. «E voi esseri inutili non lo capirete
mai!» Quello slancio lo fece sentire peggio. Testa e schiena
crollarono sullo schienale.
«Il popolo è la forza di un re. Senza di esso tu non sei niente. Hai
raso al suolo buona parte di questo regno, ora sei solo».
«Ci sei tu…»
Eva si rilassò e l’attenzione tornò su di lui. Si avvicinò ancora e
sforzò con le braccia per sedergli accanto. Gli poggiò il capo sul
braccio e gli afferrò la mano. «Hai un piano per ognuno di noi. Ma io,
anche volendo, non scapperei via. La mia vita inizia e finisce con te»
nella voce c’era rassegnazione. «La ricerca è lenta» aggiunse,
cambiando discorso.
«Ne manca solo una. Ci sono vicino perché so chi la possiede». E
non a caso fissò le fiamme del camino sempre acceso. «Presto tutto
finirà».
«Lui… sta morendo».
Lucifer aggrottò le sopracciglia in un moto di sofferenza. «Lo so».
«Se lo sai, perché hai atteso tutto questo tempo? Hai lasciato che
agissero quegli incompetenti di cui ti circondi, se avessi fatto tutto di
persona a quest’ora sarebbe davvero finita!» Eva alzò la voce e si
staccò da lui. «Invece hai preferito stare comodo sul tuo bel trono a
giudicare chiunque, senza muovere un dito e sollevando solo
pretese. Io non vedo un Imperatore, io vedo solo un despota».
«Come osi…» Lucifer la fissò con occhi furiosi, mentre a Eva
cominciò a mancare il respiro. «Come osi insultarmi in questo
modo? Tu non sai cosa significa per me, tu non sai niente. Vivi sulle
mie spalle e osi giudicarmi?»
«Sono costretta…» la voce le uscì a fatica.
Il Sovrano la lasciò andare e riportò lo sguardo sulle fiamme
scoppiettanti, mentre Eva tossiva con forza. Dopo alcuni istanti di
silenzio, Lucifer posò il capo sulle sue cosce.
Lei si irrigidì ma lo accarezzò, passandogli le dita tra i capelli
corvini, proprio come piaceva a lui. Chiuse gli occhi e il respiro si
regolarizzò.
Lucifer osservò il soffitto, concentrandosi sul profilo dei rami e
delle foglie d’edera per cacciare via la nausea che gli provocava
violenti capogiri. “Non vincerai tu” pensò con rabbia, rivolgendosi a
quel padre che lo aveva allontanato “a costo di sterminare un mondo
intero, io avrò ciò che è mio”. «Resterò con te. Non entrerà più
nessuno fino a un mio nuovo ordine: nessuna serva, nessun paggio.
Lasceranno cibo, abiti e messaggi fuori dalla porta. Solo Balthazar
saprà della mia permanenza qui. Ora prendi carta e penna e
scrivi…»

III

Era tanto che Belphagor desiderava dedicarsi a sua moglie, a


causa degli ultimi avvenimenti non rimanevano più tanto tempo soli.
Ma la quiete venne interrotta da Lucifer, per l’ennesima volta e lui
dovette alzarsi dalla tavola appena apparecchiata.
Hakam, il nuovo gufo che aveva preso il posto dell’anziana e
defunta Houchi, era entrato dalla finestra del salone e si era posato
su una sedia vuota: nel becco teneva un foglio più volte ripiegato. Il
demone lo prese ringraziandolo con una carezza, lo aprì e lesse il
contenuto. S’incupì.
«È lui» ipotizzò Awinita «non è vero?»
«Sì: riunione straordinaria del Concilio Ristretto».

Anche Lilith e Ishtar dovettero precipitarsi nella sala del trono.


Furono le prime ad arrivare.
«Spero sia davvero importante» Lilith sedette al proprio posto e
sbuffò, accavallando le gambe.
«Ovvio, altrimenti non ci avrebbe convocati tanto di fretta» ribatté
l’altra, accomodandosi.
«Sei una delle prime leccaculo di Lucifer, ma lui non ti considera
come vorresti».
«Ti sbagli, il mio è semplice rispetto. Non mi sorprende che tu non
lo conosca».
Lilith sorrise beffarda. In realtà lo aveva conosciuto, il rispetto, e in
passato ne aveva nutrito fin troppo.
Dopo il suo allontanamento spontaneo dal Paradiso e la caduta di
Lucifer, si erano ritrovati sulla Terra e lui, in un certo qual modo,
l’aveva salvata prendendosene cura. La demonessa gli era rimasta
accanto per amore, anche quando l’odio e il senso di vendetta lo
avevano incattivito e reso ciò che era.
Un amore che non riusciva a cancellare, un amore che lottava
ogni giorno contro il disprezzo. Lui amava Eva, non lei.
Belphagor, entrando, la distolse dai pensieri. Le salutò entrambe,
ma solo Ishtar rispose, lei si limitò a lanciargli un’occhiata
indecifrabile.
“Lucifer? Balthazar?” pensò il demone. In effetti attorno al tavolo vi
erano solo loro tre.
Balthazar arrivò poco dopo. Silenzioso, sedette accanto allo
scranno vuoto di Lucifer. «Sarò sintetico, non ci vorrà molto» li
guardò uno per uno, serio. «Lui oggi non ci sarà, ha ben altri piani.
Mi ha reso però portatore di un messaggio molto importante: vuole
l’ultima reliquia».
Silenzio.
Tutti i membri del Concilio erano certi che, prima o poi,
l’Imperatore sarebbe tornato alla carica.
«La riconquista del potere sull’Inferno sarà ancora lontana se ci
saranno rivoltosi a metterci i bastoni tra le ruote» continuò
l’avvocato. «Dobbiamo indagare, stilare una lista di chi dirige la
rivolta, individuare eventuali nascondigli, punti di raccolta. Occorre
setacciare il regno, a costo di abbattere fino all’ultima abitazione.
Una volta che tutto sarà di nuovo sotto il controllo di Lucifer,
procederemo con la ricerca della reliquia».
Belphagor sentì il sangue gelare nelle vene.
Lilith sminuì il tutto con un gesto della mano. «Piano divertente,
ma perché Lucifer ha mandato te per dirci questo?»
Balthazar imitò il gesto. «Non ti riguarda».
Ishtar si mostrò piuttosto interessata. «I regnanti contro di noi sono
stati sistemati, quindi chi rimane?»
«È partito tutto dalla Capitale, è difficile a dirsi, ma pensiamo sia
implicato Asmodeus».
Belphagor volle sondare il terreno. «In che modo?»
«Ancora non lo sappiamo» rispose Balthazar «ma questo scempio
ha avuto luogo a seguito della sua dipartita».
«Satan e Odry dopo la sua morte sono fuggiti e si sono schierati
contro Baal. Di certo si è sviluppato tutto grazie a loro» considerò
Ishtar, ma l’avvocato la fulminò con uno sguardo. Nessuno doveva
permettersi di avanzare certe accuse verso sua figlia, ma non poté
certo escludere l’ipotesi. «Possibile» rispose quindi, duro. «In ogni
caso, partiremo dalla vedova Gallach, la figlia e Victoria Himenez,
l’ex segretaria di Asmodeus».
«Ma non abbiamo prove che loro facciano parte dei rivoltosi»
ribatté Belphagor, ora terrorizzato.
«Sono inutili» sbottò Balthazar «e ora che i braccianti sono stati
decimati dal nostro Sovrano, dobbiamo tagliare i viveri a tutti coloro
che portano via il pane a noi destinato».
«Quando iniziamo?» Ishtar era impaziente.
«Domani all’alba» sentenziò infine l’avvocato.
La forza del Concilio era stata più che dimezzata, ora restavano
solo loro quattro a dover chiudere i conti.
IV

La notte era tetra, le nuvole nascondevano la luna e le stelle,


come sempre a Londra, in quel periodo.
A Notting Hill pioveva a dirotto, andava avanti così ormai da
diversi giorni.
I rami degli alberi più vicini battevano sui vetri del secondo piano
della villa vittoriana di lady Anastasia Ide Fletcher, meglio conosciuta
come Ania.
Tutti all’interno dormivano beati. Tutti tranne Satan e, ovviamente,
Odry.
Il demone si agitava nel letto senza riuscire a trovare una
posizione comoda, inoltre il rumore continuo proveniente dalla
finestra, spifferi compresi, lo irritava come non mai. Troppi pensieri,
troppi problemi senza apparente risoluzione: Belial disperso
all’Inferno, il Graal chissà dove e Lucifer, di certo, alla sua ricerca,
loro senza la protezione degli Arcangeli…
Si mise a pancia giù e portò il cuscino sopra la testa. “Vorrei
dormire almeno un paio d’ore” pensò sbuffando.
Un’ora dopo sembrava essersi rilassato, quando un battere
perforò il tanto agognato sonno.
Satan scattò a sedere. «E che cazzo! Basta!» sbottò esasperato,
scostò brusco le coperte, si voltò verso la finestra e la vista di una
figura piccola e tondeggiante gli mozzò il fiato. Rimase in silenzio a
fissarla, con gli occhi spalancati cercava di mettere a fuoco per
capire di cosa si trattasse. Si alzò facendo attenzione a non
rimanere incastrato nelle lenzuola – come spesso capitava. Si
avvicinò, capì ed ebbe un tuffo al cuore: «Il gufo di Belphagor?!»
Il pennuto, come fosse soddisfatto di essere stato riconosciuto,
riprese a battere col becco sul vetro per farsi aprire.
Il demone lo fece entrare di tutta fretta permettendogli di scaldarsi
all’interno della camera. «Sei un nuovo gufo di Belphagor?»
domandò agitato e la bestiola, intirizzita, agitò le piume per scacciare
le fredde gocce d’acqua.
Prese il volo atterrando dapprima sulla spalla di Satan e poi sul
letto. Si appollaiò tra le coperte sotto lo sguardo perplesso del
demone e agitò una zampetta per fargli notare un biglietto legato a
essa con un nastro.
«D’accordo, fa’ come se fossi a casa tua!» Satan, rassegnato, si
avvicinò per recuperare il messaggio e si sedette accanto a lui.
Amici miei.
Scrivo queste righe per informarvi di gravi questioni.
Lucifer ha deciso di agire contro i rivoltosi tramite ciò che resta del Concilio Ristretto.
Sono stato obbligato, insieme a Ishtar, a uccidere Mina, suo fratello e il compagno di
quest’ultimo. Abbiamo atteso che fossero insieme in casa per agire. Sono stato l ’unico a
soffrire per ciò che è accaduto.
Conto su di voi per continuare a salvare delle vite e per ciò che farete vi sarò grato per
l’’eternità.
Thoctar olgadar.

Satan passò una mano tra i capelli sospirando, si distese sul


materasso tirando il piumone fino al naso. Chiuse gli occhi e vide i
volti di coloro che erano stati nominati nella missiva dell’amico. “Tutti
morti” pensò con un nodo alla gola. “Com’è riuscito a uccidere degli
amici? Dove ha trovato la forza?”
Si immaginò al suo posto, accanto a Ishtar mentre uccideva Mina
e gli altri. Li aveva guardati negli occhi?
Si sentì male. Belphagor, però, doveva stare peggio. Il ricordo del
sigillo che lo legava a Flauros lo impensierì. Si alzò gettando la
lettera sul materasso e si mise di fronte allo specchio sull’anta
dell’armadio. Si tolse la maglia e si voltò di spalle: il marchio del
patto dell’Infante era scomparso. Satan passò le dita nel punto dove
Belphagor lo aveva inciso; la pelle era sensibile e gli doleva. “Cosa
devo fare adesso? Non sono più vincolato al progetto e di questo
passo non ci sarà più nessuno dalla nostra parte. Io…”
Venne distratto dal gufo che si spostò sul comodino.
«Tu perché sei ancora qui? Ti ho lasciato anche la finestra
aperta…»
Di tutta risposta il pennuto chiuse i grandi occhi gialli.
Lo stesso fece Satan che si rinfilò sotto le coperte. “Chissà come
ha giustificato l’assenza di Georgette. Fortuna che lei è qui, al
sicuro…”
Raphael Blanchett

Chris sedeva sulla poltrona di pelle nel proprio studio, lo sguardo


fisso sulla finestra, osservando la parte di Sila che riusciva a vedere;
le spalle alla porta.
In realtà era intrappolato in un groviglio oscuro di pensieri.
Il piano di eliminare la squadra degli Arcangeli era andato in fumo,
quelli non solo avevano vinto l’atroce battaglia contro Baal, ma erano
rimasti tutti in vita. C’era ancora una possibilità di riuscita e questo
era ciò che più gli importava.
Un altro grosso problema era la condizione di Agatha di cui ancora
non riusciva a capacitarsi. Non solo la succube lo aveva abbindolato
come un fesso, crescendo in casa sua, approfittando di lui, ma
aveva fregato chiunque, soprattutto Cassiel Blanchett e Gabriel
Cooper.
Inammissibile.
Strinse il pugno che teneva premuto contro la bocca. “Puttana
maledetta, mi ha inferto un colpo troppo pesante, adesso le
Dominazioni mi tengono gli occhi puntati addosso e non posso più
agire con la stessa libertà di prima”. Si torturò le labbra con i denti,
staccando la pelle fino a farle sanguinare.
L’intero gruppo di Serafini era tenuto sotto controllo. Erano usciti in
parte puliti dal processo, evitandone un secondo che li avrebbe visti
colpevoli di omissione di soccorso. In compenso avevano ricevuto
multe salate e lui rischiava un altro incontro con i giudici per la
denuncia di Mathael. E verso di lei i pensieri furono peggiori. “Se
solo l’avessi tra le mani…” Come se non bastasse, rischiava tutti i
giorni di essere visto al DEM dalle Dominazioni, data la sospensione
dalla struttura. Più rimuginava più si infuriava.
Qualcuno, però, bussò alla porta strappandolo da quei pensieri.
«Avanti!» disse schiarendosi la gola, senza ruotare la poltrona.
«Mi permetta di disturbarla signor Dunne» esordì Morin, la nuova
riccia segretaria del Serafino «ma sono arrivati i risultati del test di
paternità di sua… figlia».
«Lascia tutto sulla scrivania e chiudi la porta quando esci».
La donna annuì e, dopo aver fatto come ordinato, lasciò l’ufficio
con lo sguardo basso, senza aggiungere alcunché.
Chris si voltò e agguantò il fascicolo con nervosismo. Strappò in
malo modo la busta bianca ed estrasse un foglio, con occhi febbrili
lesse il contenuto.
“No” pensò stringendo le carte. Si alzò di scatto sbattendo i fogli
sulla scrivania, la poltrona scivolò verso la finestra. “Lui? Bastardo” e
in fretta e furia uscì dallo studio andando alla ricerca di Holian. Lo
intercettò mentre si allontanava dalla zona ristoro. «Holian! Devi
venire con me» ordinò, e quello annuì.
«Sono arrivati i risultati?» gli domandò una volta dentro
l’ascensore e Chris serrò la mascella senza rispondere. Holian
annuì, intuendo. «Cooper è il padre?»
«…Blanchett».
Holian alzò un sopracciglio. «Poteva andare peggio. Hai
l’appoggio di tutti noi, inoltre nessuno ha spifferato la tua presenza
qui. Alle guardie ci penserò io, in cambio di qualche soldo e avrai
tutto il tempo che vorrai per parlare con l’Arcangelo».
Chris approvò con un cenno del capo. Sentiva il respiro farsi via
via più accelerato, l’adrenalina arrivare al cervello.
Una volta aperte le porte il primo a uscire fu Holian che si avvicinò
al gabbiotto delle guardie. «Andate in pausa, qui ci penso io» e
senza dare loro il tempo di ribattere, gettò sul tavolo una sacchetta di
monete d’oro. «Prendetele e state lontani per mezz’ora, se qualcuno
vi fa domande dite che ve l’ho concesso io per il duro lavoro che
svolgete qui».
Le quattro guardie si scambiarono occhiate timorose, ma molto
propense a spartirsi la paga extra. «Grazie signore!» disse quello
che, a un primo impatto, sembrava il più vecchio tra loro. Se ne
andarono, lasciandogli libero accesso alla cabina di controllo. Chris
lo guardò nascosto dietro una colonna, Holian gli diede via libera.
Disattivò la modalità di registrazione delle telecamere e si sedette
davanti agli schermi.
Chris non se lo fece ripetere. Uscì allo scoperto, si fece
consegnare un mazzo di chiavi dall’amico e con passo svelto e
nervoso si diresse alle prigioni.
Tutti gli Arcangeli lo sentirono arrivare, ma vederlo irrompere nel
corridoio bianco fu come incontrare un demonio in un incubo.
«Ti siamo mancati così tanto che sei tornato prima?» L’ironia di
Michael lo irritò più di quanto già non fosse.
Gabriel e gli altri, invece, lo studiarono col fiato sospeso e scuri in
volto.
«Taci!» sbottò quello, tirando un calcio sulle sbarre. Avanzò
cercando la cella di Cassiel e quando vi fu davanti la spalancò. «Tu
e io adesso ci facciamo una bella chiacchierata» lo agguantò per i
capelli, approfittando del fatto che fosse ammanettato mani e piedi.
«Rendiamo partecipi anche i tuoi compagni». Lo trascinò al centro
del corridoio e lo gettò a terra.
«Chris! Tu non dovresti essere qui». Uriel scattò in piedi e Raziel
lo imitò subito dopo. «Parliamone come persone civili!» continuò il
turco.
«Siete solo dei cani bastardi che ammazzerò uno alla volta
appena ne avrò l’occasione». Dunne tolse la giacca e rimboccò le
maniche della camicia. Girò intorno a Cassiel e gli sferrò un calcio
nello stomaco, poi un secondo sul viso. L’Arcangelo, dolorante,
cercò di rimettersi in piedi, ma un pugno ben assestato lo raggiunse
al fianco destro e lo atterrò; il tutto mentre gli altri protestavano a
gran voce.
«Che cazzo fai?!» gridò Raziel.
«Guardie!» chiamò Mathael, senza ottenere risultati.
Chris li ignorò. «Sono venuto per darti una bella notizia,
Blanchett» gli sferrò un pugno sul naso «diventerai padre di uno
schifosissimo mezzosangue» lo colpì sulla guancia. «Dimmi, non sei
felice?»
Gabriel fu l’ultimo a metabolizzare: Agatha incinta di Cassiel?
Cassiel invece avrebbe voluto fuggire via, più dalla notizia che dal
pestaggio. Avere mani e piedi ammanettati non gli rese la vita più
semplice e se avesse potuto, sarebbe scappato rinunciando alla sua
dignità.
Michael allungò un braccio verso Chris con l’intento di bloccarlo,
ma il tentativo venne neutralizzato con un calcio che gli ruppe il
polso. L’osso fuoriuscì dalla carne.
Le grida del biondo si aggiunsero a quelle di Cassiel che,
all’ennesimo colpo, sputò sangue.
Più le proteste degli altri Arcangeli proseguivano e aumentavano
d’intensità, più Chris infieriva su Cassiel, il cui viso era divenuto una
maschera rossa. Ma fu costretto a fermarsi. La punta fredda di una
lama gli premette all’improvviso sotto l’orecchio destro, una linea di
sangue gli sporcò il colletto della camicia.
«Non accetto un comportamento tanto meschino nei confronti di
mio fratello».
Chris sorrise malefico. Si voltò piano con le mani alzate verso
Raphael, e il ghigno si espanse. «Io, però, sono disarmato».
Raziel sputò per terra insultandolo, Uriel a gran voce cercava di
chiamare le guardie, ignaro che fossero state pagate per
allontanarsi, Michael si teneva stretto il polso stringendo i denti e
piangendo per il dolore.
Gabriel avrebbe voluto sfondare la porta e far pentire il Serafino di
essere nato.
«E lui è legato» rispose Raphael.
Chris affrontò senza timore la lama che ora lo minacciava
sfiorando un bottone della camicia. «Cosa vuoi fare dottore?
Trafiggermi?»
«Non sono fatto della tua pasta, anche se ti meriteresti di peggio».
Dunne si avvicinò di un passo lasciandosi ferire al petto. «E
dimmi: di che pasta sei fatto? Di quella di chi ruba l’Etere di
nascosto? Che ci hai fatto?» Lo sfidò tenendo il mento alto e un
sorriso detestabile. «O meglio, che ci fanno i tuoi amici demoni?»
Rapido colpì il lato piatto della lama spostandola abbastanza da
accorciare la distanza e menare un destro contro le costole di
Raphael, il quale si piegò in avanti e il fioretto dorato scomparve.
Veloce il francese rispose con un colpo di palmo diretto al mento
dell’avversario che indietreggiò con sorpresa, a seguire un altro
all’orecchio sinistro che provocò a Chris un forte fischio e la
momentanea perdita dell’udito. Raphael si mise in posizione con i
pugni in alto. «È la tua occasione di picchiare un quattrocchi, o
almeno di provarci».
Chris si passò una mano sotto al mento bagnato di sangue. Sputò
per terra e tornò alla carica più inferocito che mai. Scattò in avanti
piegandosi su un lato, colpì l’altro fianco dell’Arcangelo per poi
passare al sinistro e infine sulla bocca dello stomaco; Raphael
incassò bene, scartò di lato, afferrò il Serafino in vita e si lanciò
all’indietro trasportando anche lui, facendogli battere il capo e la
schiena sul pavimento.
Nessuno si aspettava una simile azione da parte di Raphael,
nemmeno lo stesso Chris che, stordito dal colpo, impiegò diversi
secondi per riprendersi.
Il Serafino si alzò con fatica, imprecò nell’accorgersi che perdeva
sangue anche dalla testa. Si lanciò addosso a Raphael con
rinnovato furore e questa volta gli sconquassò il busto di pugni.
L’altro riuscì a pararne solo uno; al terzo colpo incassato lo spinse e
Cassiel, con entrambi i piedi, gli fece lo sgambetto e Dunne cadde
seduto. Con un balzo fu pronto per tornare all’attacco, ma qualcosa
lo distolse dallo scontro con i due Blanchett.
Holian era comparso sulla soglia intimandogli con lo sguardo di
filare via. Così Chris raccolse le sue cose e raggiunse l’altro
Serafino, sanguinando.
Il francese lo lasciò passare.
«Non finisce qui!» gridò Chris verso gli Arcangeli, mentre l’altro
quasi lo trascinava via.
Raphael si accertò che i due fossero davvero scomparsi per
avvicinarsi al fratello agonizzante a terra. «Stai bene?» e quello
annuì debolmente, restando disteso. «Otterrò il permesso di curarti e
mettere il gesso a Michael» gli accarezzò i capelli con premura.
Cassiel non rispose, ma ci pensò Uriel. «La situazione sta
degenerando. Raphael, tu sei l’unico che può fare qualcosa».
«Non posso, invece» l’Arcangelo si voltò verso di lui «perché sono
nella vostra stessa situazione, anche se fuori dalle sbarre:
controllano molto bene anche me».
«Lei come sta?» Gabriel, da egoista, cambiò discorso e Raphael
lo fulminò, ma annuì per rispondergli in modo positivo. «Dovrete
resistere» aggiunse. «Nessuno avrà pietà di voi e io non ci sarò
sempre».

II

Una voce familiare attirò l’attenzione di Vicky, intenta fino a quel


momento a smaltarsi le unghie di rosso in camera da letto.
Incuriosita, sporse la testa dalla porta e guardò verso le scale,
sperando di capire chi fosse l’ospite, ma vide solo degli stivali neri
tirati a lucido e, di fronte a essi, le scarpette di Karen, le pantofole di
Satan e gli anfibi di Odry.
La succube aggrottò le sopracciglia, scese i primi gradini tendendo
per bene le orecchie a punta. “Chi è a quest’ora?” si domandò,
notando l’orario nell’orologio a muro che segnava le tre e mezza del
pomeriggio.
«Oui[2] Karen, Raziel sta bene. Almeno per ora». Raphael era
arrivato da pochi minuti. «Sono pazzi quei Serafini, soprattutto
Dunne: se ha avuto il coraggio di aggredire mio fratello e rompere un
polso a Michael, è capace di tutto».
«Ancora tu?» esordì Vicky, scendendo le scale e ancheggiando
come il suo solito. Acida aggiunse: «Ormai vedo la tua faccia più di
quante volte veda il mio culo allo specchio».
«Sono qui per aggiornarvi e per i controlli di routine».
«Oppure potresti tenerti per te le notizie di merda e venire solo per
i controlli di routine, che ne pensi?»
Karen si voltò a guardarla quasi con le lacrime agli occhi per il
timore che a Raziel venisse fatto del male, ma la succube non se ne
curò.
«Pathétique[3]» Raphael fu sprezzante. «L’ultima volta mi hai
rimbeccato per aver omesso alcune informazioni. Qui ci sono
persone a cui interessa».
«Smettila di parlare nella tua lingua» agitò la coda con irritazione
ma Satan la guardò storto e invitò l’Arcangelo ad accomodarsi con
un gesto della mano.
«Siete così premuroso monsieur Blanchett» aggiunse Karen,
davvero sorpresa dalla reazione della succube. «Prego, venite a
sedervi, vi faccio una tazza di tè».
Odry tornò in postazione per cercare di ripristinare il contatto con
Belial.
Ma Vicky non si arrese. «Ti hanno pestato per bene, vedo».
«Sei troppo insistente per essere una che non apprezza la mia
presenza» precisò Raphael, poi rivolse l’attenzione su Odry. «Tu,
invece, come ti senti?»
Quella espirò. «Che posso dire, doc? Mi sento uno schifo e non
solo perché non abbiamo più notizie di Belial, ma anche perché sudo
ogni maledetta notte, non riesco a respirare. Questo mio malessere
peggiora. E le tue gocce non le prenderò mai più!»
Satan si morse il labbro inferiore, apprensivo. «Perché non mi hai
detto niente?!»
«Perché avresti iniziato a starmi addosso facendomi stare ancora
peggio».
«Non è vero…»
«Sì che è vero» ribatté seccata inarcando un sopracciglio.
«Secondo me è perché non scopi» considerò Vicky. «Tu potresti
uscire e andare a sbatterti chiunque, invece scegli di non farlo».
Odry distolse lo sguardo, celò il disagio e tornò al lavoro.
«Se scopare fosse una soluzione a ogni problema, saremmo tutti
rilassati come te» commentò Raphael, squadrando giudicante la
succube. «In tutti i sensi».
«Tu invece sei un verginello presuntuoso».
«Vicky basta. Raphael non merita tanto odio» intervenne Satan
mortificato e la succube gli riservò un’occhiataccia. «Ti sei
dimenticato che lui viene qui per dovere, ma che ci disprezza tutti
quanti? Bene, perché io non lo potrei mai dimenticare. Non riesco a
inquadrarne l’atteggiamento».
«Allora, per quale motivo sei ancora qui con noi? Continua a
mettere quel volgare smalto mentre noi parliamo di cose più
importanti. Poi fatti trovare in camera perché devo cambiarti le
garze».
Vicky aprì la bocca per rispondere in malo modo, ma una brutta
espressione di Satan la zittì all’istante. Impettita scostò i lunghi
capelli verdi dalla spalla e salì le scale senza aggiungere una parola.
«Devi scusarla, non le piacciono le persone che la giudicano per
via della razza» la giustificò il demone.
Odry incalzò, avvicinandosi all’Arcangelo. «Dimmi di Gabriel, gli
hanno fatto del male?»
Raphael esibì un debole sorriso. «No. Chris ha odiato lui più di
tutti, ma ora sul gradino più alto del podio, come dicevo prima, c’è
salito mio fratello. Ha confessato l’intenzione di buttarci giù uno per
uno. Nessuno è al sicuro dietro le sbarre, ma neanche da uomo
libero».
«Vieni a stare qui, c’è spazio per tutti». Satan non ci pensò un
minuto di più e Odry annuì per dargli manforte.
«Non posso stare lontano da Cassiel, so che possono fargli altro
male. Ho avuto fortuna con Chris e devo ringraziare Holian, l’altro
Serafino, se mio fratello non è finito in coma. Inoltre, è mio dovere
seguire la frattura di Michael e le possibili brutture che anche gli altri
subiranno. Temo anche per Mathael, Chris ha ricevuto da poco la
sua denuncia. Ho ucciso un uomo che lavorava per lui ed è un
miracolo che ancora non sia accaduto null’altro. Non posso fuggire
in questo modo».
Satan sentì le viscere contorcersi, troppe responsabilità sulle
spalle di una sola persona. «Se ti serve qualcosa, qualsiasi cosa,
Raphael, facci un fischio e noi interverremo subito».
Odry annuì ancora. «Siamo saliti in Paradiso una volta, possiamo
farlo di nuovo. Adesso cerca di rilassarti e beviti una tazza di tè: è
l’ideale per stendere i nervi, o almeno così si dice».
Ma Raphael scosse il capo, preso dall’angoscia all’idea di poter
rimanere senza far nulla; li ringraziò e si diresse verso la stanza di
Vicky per la visita di controllo.
«Entra» la risposta velenosa della succube non tardò a farsi
sentire. Seduta sul letto soffiava sulle unghie affinché lo smalto
asciugasse più in fretta.
L’Arcangelo richiuse la porta, poggiò la borsa sul letto e l’aprì.
«Spogliati».
La donna lo squadrò agitando la coda leonina. «Attento a come
parli a una succube, potrei eccitarmi».
«A te basta un nonnulla per eccitarti».
«Non insultarmi» sbottò seccata levandosi la maglia con cautela
per non rovinare lo smalto. Evitò di guardarlo. «Fai ciò che devi e
quando te ne vai chiudi la porta».
Raphael le si sedette accanto, tolse le garze e con un certo
disappunto notò che la ferita aveva rallentato la cicatrizzazione. «Ti
stai muovendo troppo, i punti non guariranno mai in questo modo».
«Non sperare che rimanga ferma per quattro cuciture del cazzo».
Raphael non rispose, si limitò a disinfettare e mettere le garze
nuove. «Cassiel mi ha chiesto di te». E di fronte allo sguardo stranito
della succube, spiegò: «Me lo ha chiesto quando lo stavo curando. Il
suo primo pensiero sei stata tu».
E solo a quel punto la voce di Vicky si ammorbidì. «Come sta?»
«È stato picchiato da Chris, il marito di Mathael, perché ha messo
incinta la figlia adottiva».
«Povero Cassiel. Quella stronza di Agatha è sempre stata una
vipera, sì, so chi è, non esserne così meravigliato! Stava nell’harem
di Belial».
«Quando lui uscirà di prigione e verrà qui, non illuderlo, per favore.
Non potreste avere una vita degna e non sei in grado di apprezzare
uno come lui».
Vicky aggrottò le sopracciglia. «Non confondere il mero
appagamento sessuale con un sentimento. Cassiel sarà anche un
bravo ragazzo, ma è molto ingenuo e io non ho alcuna intenzione di
prendermi delle responsabilità stando appresso a un ragazzino».
«Nei suoi pensieri hai sostituito Agatha. Devi allontanarlo perché
se finirà di nuovo nei guai sarà anche a causa del grosso errore che
ha commesso cedendo alle tue avances». L’Arcangelo si alzò per
riporre l’occorrente nella borsa.
«Guarda che è stato lui ad accettare! Io non ho colpa se si illude
da solo!»
«Non ti ho dato la colpa» ripose lui, severo «ti chiedo solo di
allontanarlo qualora volesse avvicinarsi».
Vicky rimase in silenzio per alcuni istanti. Si limitò a osservarlo
mentre riponeva tutto ciò che aveva usato. «Tu proteggi tutti, ma chi
protegge te?»
«Mi insulti e poi ti preoccupi per la mia incolumità? Metti in ordine i
pensieri, succube» Raphael uscì e, come richiesto, chiuse la porta,
mentre Vicky gli indirizzava un insulto.
Tornò al piano di sotto e, dopo aver visitato anche Odry e
Georgette, si trattenne per consumare il tè preparato da Karen e non
arrecarle un dispiacere. Poi se ne andò, angosciato per il destino
che attendeva il fratello.

III

Era notte fonda.


Nonostante questo, Raphael non riusciva a prendere sonno.
Sedeva su una poltrona da esterni posta sull’ampia terrazza della
stanza da letto, nella villa in Paradiso. Guardava il cielo che
manteneva le delicate sfumature lilla anche col buio notturno. Le
stelle brillavano.
Il panorama constava di abitazioni signorili dai giardini ben curati e
di strade illuminate costeggiate da aranci.
Pace ovunque.
Niente di tutto ciò era di sollievo al suo animo turbato.
Tra le mani una tazza di tè caldo, il cui fumo veniva portato via
dalla brezza.
I pensieri andarono al fratello chiuso in cella, percosso da un
Serafino e vivo per miracolo. Quel fratello troppo ingenuo e vittima di
se stesso per riuscire a selezionare con lucidità le persone di cui
circondarsi.
Si sentì in colpa per essere a casa, per avere a disposizione un
letto comodo e buon cibo, tuttavia nei giorni precedenti la tensione e
il lavoro erano stati troppo pesanti anche per uno come lui.
“Devo trovare il modo di portarlo fuori da lì” pensò. Ma la prigione
non era di per sé un pericolo, il pericolo reale era Chris. “E se
prendesse di mira tutti, uno dopo l’altro?” si chiese. “Il prossimo
potrebbe essere Gabriel, un altro che ha osato toccare la figlia
adottiva che ormai detesta. Meglio lui che ha la pelle più dura del
cemento che Cassiel”. Scosse il capo con dissenso e terminò il tè,
poggiando poi la tazza sul tavolino in legno lì accanto. Accavallò le
gambe. “Occorre un bravo avvocato, ma soprattutto uno che abbia la
stoffa per difendere mio fratello”.
Nei giorni precedenti, aveva spedito così tante mail da averne
perso il conto, la maggior parte indirizzate ai più rispettabili avvocati
che, però, avevano rifiutato l’incarico. Alcuni non avevano nemmeno
risposto e Raphael sapeva che aspettare sarebbe stato inutile.
“Nessuno vuole mettersi contro questo sistema. Non sono
nemmeno interessati a starmi a sentire per accertarsi che non sia
davvero una partita persa in partenza”.
Raphael e Cassiel erano soli.
Una possibilità si fece largo tra i pensieri e lui stesso ne ebbe
timore.
Balthazar.
Il demone era molto conosciuto anche in Paradiso per le sue doti
straordinarie, un avvocato eccellente che, non per niente, lavorava
per Lucifer e per pochi ricchi nobili dell’Inferno.
Ma come avrebbe potuto raggiungerlo?
Odry gli aveva detto che tutti i collegamenti tra Terra e Inferno
erano saltati e non ne era mai esistito alcuno tra il regno di Lucifer e
il Paradiso.
E se avesse chiesto il permesso di utilizzare il portale attraverso
Georgette?
Sarebbe stato molto più semplice, più veloce e comodo. L’unica
incognita sarebbe stata la durata dell’incontro con l’avvocato
infernale ma, soprattutto, la brutale accoglienza che i demoni gli
avrebbero potuto riservare. Occorreva un mandato o una lettera di
invito da parte di Balthazar. Ma come contattarlo?
Una folata di vento smosse i rami degli alberi e i suoi lunghi capelli
biondi, ondulati grazie alla treccia sciolta da poco. L’aria fredda lo
distrasse da quei ragionamenti che si stavano addentrando troppo in
un’oscura profondità, riportandolo alla realtà.
“Georgette non durerebbe tanto a lungo…”
E solo in quel momento si rese conto di quanto disumana fosse
quell’ultima idea: si sentì un mostro.
“Come ho potuto anche solo prendere in considerazione questa
crudeltà?” Non era da lui e si sorprese di averci anche ragionato
abbastanza a lungo.
Per Cassiel avrebbe fatto di tutto, ma non si riteneva tanto spietato
e subdolo da far rischiare la vita a una bambina. “Basterebbe anche
una sola attivazione del suo portale per condurla alla morte. Che il
Signore mi perdoni”.
Portò gli occhiali sopra la testa, chiuse gli occhi stanchi e
massaggiò le palpebre con due dita.
Rientrò in camera da letto portando con sé la tazza vuota. Chiuse
la porta finestra e, nel buio della stanza, si bloccò di colpo fissando il
pavimento con occhi sgranati. Aveva avuto un’idea. Poggiò la tazza
sul comodino, corse verso le scale e scese in salotto, poi imboccò il
corridoio a sinistra che l’avrebbe condotto alla biblioteca.
Aprì una imponente doppia porta decorata da un bassorilievo
dorato, accedendo a una grande stanza quadrata con un tavolo e
due poltrone al centro; tutte le pareti coperte da libri di ogni tipo,
sistemati in ordine alfabetico per argomento. Una scala a chiocciola
accanto all’ingresso portava al piano superiore a vista, contornato da
una balaustra in ferro battuto dorato, utilizzabile in caso di ricerca tra
i libri più antichi.
L’Arcangelo accese la luce e in una ventina di passi fu davanti allo
scaffale che si ergeva dalla parte opposta rispetto all’entrata,
cercava un libro in particolare.
“Eccolo, ero certo di averlo conservato”.
Lo afferrò e iniziò a consultarlo senza nemmeno sedersi,
sfogliando rapido le pagine. Lesse con avidità, deglutì e sussultò
trovando la conferma di quanto ipotizzato.
“Ora so cosa fare”.
Balthael

«Bel posto». Raphael si lasciò scappare un commento ammirato.


Si trovava in un parco del diciannovesimo secolo a Kromlau, in
Germania, a poco più di cinque chilometri dal confine con la Polonia.
Era buio e nei dintorni non c’era più nessuno da ore. Un momento
scelto per evitare problemi con gli esseri umani.
La lussureggiante boscaglia con rododendri e azalee, purtroppo in
fiore, era agitata dal forte vento. La selva abbracciava un lago
attraversato da un ponticello in pietra senza passamano o barriere.
L’Arcangelo era lì proprio per quello.
“Il Ponte del Diavolo” pensò, osservandolo dalla riva, a una decina
di metri di distanza. Il freddo umido lo costrinse a sistemare meglio
la sciarpa attorno al collo.
Le placide acque riflettevano l’immagine del ponte, regalando
all’unico spettatore presente la visione di un cerchio perfetto.
Raphael si concesse un attimo per venerare la bella visione che
non avrebbe rivisto. “Quando mi ricapiterà di venire qui per
un’evocazione, dopotutto?”
Il solo pensiero gli tolse il fiato. Era arrivato a prendere una
decisione importante, ma molto pericolosa. Infilò le mani in tasca: le
dita, a destra, giochicchiavano con un gessetto, mentre dall’altra
parte stringevano un foglio di carta ripiegato più volte. Si diede la
forza di agire e si decise.
Raggiunse il ponte e si guardò intorno per accertarsi di essere
solo per davvero. Prese un respiro profondo e mosse il primo passo
per salire, quando una folata di vento lo investì così forte da farlo
indietreggiare.
Raphael puntò lo sguardo verso il cielo: la luna nel suo primo
quarto spuntava tra le nuvole in corsa e sarebbe stata l’unica
testimone. Andò oltre il corpo celeste, raggiunse il Creatore e gli
chiese scusa per le sue scelte, certo che avrebbe compreso. “Tu ami
gli umani come io amo mio fratello, non è così?”
Salì sul ponte e arrivò a metà. Diede un’occhiata al proprio riflesso
e ammise a se stesso di avere dei dubbi. Tirò fuori il foglio dalla
tasca e lo aprì con cautela, stendendolo tra le mani: vi era un sigillo.
[4]

Lesse una alla volta le lettere contenute nel primo cerchio esterno.
“Balthael” pensò. “Ma non è più questo il tuo nome”.
Studiò linee e simboli per capire da dove iniziare. Prese il gessetto
e lo rigirò tra le dita macchiandole di rosso, poi si chinò poggiando
sui talloni e con cautela iniziò a tracciare il primo cerchio. Si accertò
fosse abbastanza grande da poter contenere tutti gli elementi
previsti in maniera chiara e continuò.
La concentrazione venne spezzata più volte dal timore di come si
sarebbero potuti evolvere i fatti. Anche solo averci provato l’avrebbe
messo nei guai. “Tanto vale andare fino in fondo” si consolò.
Il foglio si agitava sotto la forza del vento e l’Arcangelo dovette
bloccarlo a terra con la mano libera e la punta della scarpa. Ebbe
non poche difficoltà a terminare il sigillo a causa della scarsa
illuminazione: le nuvole erano aumentate e avevano coperto quasi
del tutto il sottile spicchio di luna.
“Ora viene la parte complicata” pensò. Girò il foglio e diede una
fugace occhiata alle frasi scritte di suo pugno alcuni giorni prima.
Avrebbe solo dovuto leggerle. In realtà la parte complicata sarebbe
stata andare contro ciò che aveva sempre difeso con onore.
Ma per Cassiel avrebbe fatto qualsiasi cosa.
Espose il testo alla scarsa luce, sforzò la vista e si schiarì la gola.
«Per la tromba dell’Apocalisse, ai tuoi piedi, Balthael, deponiamo il
terribile bacio, in lode di tutte le tue iniquità». Rabbrividì. «Dacci la
tentazione immorale, ogni sorta di condanna e il potere immenso di
giudicare».
Raphael alzò lo sguardo e rimase in attesa. Attorno non vi era
altro che silenzio, si abbassò di nuovo sul testo accertandosi di
averlo letto in maniera corretta.
Mancava l’ultimo tocco.
Evocò il fioretto e con la punta si ferì il palmo della mano,
abbastanza in profondità da far colare sei gocce di sangue al centro
del sigillo, che s’illuminò. Ripiegò in tutta fretta il documento, lo
ripose in tasca e lo stesso fece col gessetto. Deglutì, mentre le linee
da lui tracciate iniziarono a pulsare.
L’aria si riempì di un vociare grave, un tono che gli ricordò antiche
preghiere di monaci. “No, non sono voci” ragionò dopo un attimo di
attenzione. “È un ronzio. Sono mosche”.
Il fugace bagliore dell’arma che veniva riportata indietro e quello
del cerchio rischiararono una figura in piedi dall’altra parte del ponte.
Balthazar lo squadrò da capo a piedi, tra le dita di una mano
teneva un sigaro, l’altra era in tasca. Indossava un completo prugna
gessato e un foulard nero abbinato a scarpe e guanti in pelle.
Raphael aggrottò la fronte, ce l’aveva fatta. E mentre estraeva una
garza con la quale bloccare il flusso di sangue, osservava il demone
venire verso di lui.
«Raphael» disse l’altro in finto tono amichevole. «Vedo che hai
cambiato corpo nel corso di questi millenni».
«Tu, invece, hai mantenuto lo stesso, Balthael. Ma ti trovo bene».
Il sorriso del demone s’indebolì e lo sguardo divenne sprezzante.
«Mi chiamo diversamente, dovresti saperlo».

Balthael non seppe dire quanto durò la caduta, forse troppo, o


forse fu breve.
La sofferenza aveva dilatato il tempo.
Si schiantò al suolo sul piano terrestre e l’impatto gli fece perdere
la percezione di ogni singolo dolore. Sollievo.
Il cielo era plumbeo con alcune sfumature violacee a est. Era un
giorno cupo o tarda sera? Quando era caduto? I pochi ricordi si
accavallarono tra loro, divennero melmosi, e infine lontani.
Poi vi fu il buio.
La fredda neve lo destò e con la veglia ricomparve l’agonia.
L’angelo caduto poté sentire i monconi sulla schiena pulsare, dove
prima vi erano le sue meravigliose ali. Si diede la spinta per
affondarli nella bianca distesa che li avrebbe anestetizzati; solo il
busto ruotò, le gambe rimasero di lato: la schiena era spezzata.
Gridò forte e così a lungo da perdere la voce, poi pianse tutte le
lacrime che il suo cuore infranto riuscì a donargli. Era stato ridotto
così dai propri fratelli, aveva creduto nella loro libertà e in cambio
aveva ricevuto un tradimento tanto profondo da allontanare da quel
posto anche la sua anima.
Un nuovo dolore lo sorprese. Sollevò il capo per quanto poté,
guardò il busto: due costole spuntavano dal petto. Il capo crollò,
vomitò sangue e quasi affogò in esso.
Svenne di nuovo.

Erano passati cinque secoli e Balthael non aveva fatto altro che
vagare senza meta in cerca di cibo e acqua. La voglia di vivere non
si era mai spenta. Aveva iniziato a nascondersi da belve pronte a
cibarsi di lui e da uomini che cercavano di ucciderlo appena lo
vedevano.
L’aspetto era mutato, il risentimento e l’odio l’avevano reso un
essere diverso.
La pelle, putrefatta in parecchi punti, era infestata di mosche ed
emanava un forte odore di decomposizione. Tempo addietro era
riuscito, con grande forza di volontà, a raddrizzare il bacino e a
fissarlo, ma aveva impiegato tanto per riprendere a camminare. Il
busto ormai era flesso in avanti, la schiena curva, una gamba
doveva essere trascinata.
Spesso aveva ragionato sul senso di quella vita che detestava, di
un’esistenza fatta di sopravvivenza, senza scopo. Un angelo che di
divino non aveva più nulla. Un essere che non poteva vivere e non
aveva il permesso di morire.
Aveva ragionato anche sulla morte, un desiderio così ardente da
farlo piangere ogni notte. Ma lo stesso Dio che l’aveva cacciato, gli
impediva di raggiungerla.
Eppure, sarebbe stata l’unica gioia.

Kromlau – 2 marzo 1490

Abraham Krause, diacono appena giunto in paese, fissava i primi


alberi di una fitta boscaglia a sud del complesso di modeste
abitazioni. Era buio da un pezzo.
Due uomini, posti ai lati ma un passo indietro, reggevano una
torcia ciascuno per illuminare il prossimo passaggio.
«Padre!» un contadino del posto lo raggiunse impugnando un
forcone. Al seguito una decina di uomini di umili origini, anch’essi
armati. «Noi siamo pronti ad andare».
Krause annuì, lisciò la stola bianca e oro e sistemò i paramenti
liturgici. Con voce grave proveniente da dietro la folta barba grigia
diede l’ordine di partire.
Il piccolo gruppo si addentrò nel bosco, servendosi della luce delle
fiaccole per evitare rovi, buche e per tenere lontani gli animali
notturni. Uno degli uomini accanto a lui, in tono sommesso e
timoroso, disse: «Padre, vi si sporcheranno gli abiti. Il fango, il
bosco, ma soprattutto la missione non sono degni della vostra
eleganza».
«Non è eleganza, Eugen. Si tratta di un incarico di un’importanza
tale da non ammettere un abbigliamento che non sia sacro. Sarà
come dirigere la Santa Messa».
Quelle parole ammutolirono chiunque. Il rispetto per il diacono e
per l’aiuto che stava offrendo li riempì di orgoglio.
L’inquisizione spagnola si era spinta fino all’area germanica. La
caccia alle streghe stava raggiungendo l’apice in quegli anni e per i
paesani Krause era un miracolo.
Da settimane, nel bosco, si aggirava una creatura che si cibava di
animali selvatici o attirava in qualche modo pecore e maiali
dell’allevatore Eugen, per poi abbandonare le carcasse al confine tra
la vegetazione e le abitazioni: le teste intatte erano attaccate agli
scheletri ben spolpati e venivano abbandonate come a segnare il
suo territorio.
«O come monito per tutti» commentò il diacono, dopo aver
ascoltato per l’ennesima volta il racconto di Ralph, l’altro contadino
con la torcia. «“Non avvicinatevi o farete la stessa fine”. Penso sia
esattamente questo il messaggio. Parliamo di un essere senziente,
una creatura malvagia proveniente dalle profondità dell’Inferno. Il
male in carne e ossa va estirpato come erba cattiva».
Si fermarono di fronte a un laghetto. Sulla superficie scura
galleggiavano alcune foglie secche.
Il fratello dell’allevatore si accostò al diacono con un agnello e lo
gettò in acqua. La creatura si agitò, belando disperata: non stava
affogando, ma aveva percepito qualcosa.
Krause iniziò a recitare una preghiera in latino. Ralph e Eugen
rimasero in piedi a fare luce, gli altri, dietro, si inginocchiarono.
Vi fu un rumore alla destra del gruppo, poi dei passi veloci attutiti
da erba e da terra umide.
Alcuni sussultarono, altri invocarono il nome di Dio a voce alta.
Un verso gutturale risuonò, dall’altra parte del lago.
La voce del diacono si sovrappose a quelle spaventate dei
popolani.
Ancora passi, un violento fruscio dietro di loro.
Tre uomini si alzarono con le armi in pugno, pronti ad agire.
Le torce di Ralph e Eugen si spensero all’improvviso ma il diacono
non si fece intimorire e il tono divenne più deciso.
Solo un terribile grido alle sue spalle lo distolse dalla preghiera. Si
voltò per assicurarsi che tutti fossero vivi, ma l’oscurità del bosco
glielo impedì. Urlarono altre persone e lui venne spinto così forte da
qualcosa da volare in acqua. Il belare dell’agnello cessò.
Una voce profonda e affaticata lo sorprese a destra. «Mi cacciate
come fossi il demonio, ma voi stessi avete ucciso decine di innocenti
cercando di estirpare il male che vive dentro di voi».
Il diacono sudò freddo, urinò in acqua. Si fece il segno della croce
e chiuse gli occhi.
«Dimmi il tuo nome».
L’umano fremette alla richiesta, rispose sull’orlo del pianto:
«Abraham Krause». Un dolore lancinante all’addome lo fece gridare.
Fu solo grazie all’arrivo del giorno, almeno dieci ore dopo, che lo
scempio venne alla luce. Quattordici cadaveri, compreso un agnello,
erano stati divorati. Di loro erano rimasti gli scheletri con le teste
intatte.
Balthael, che era riuscito a sopravvivere fino ad allora, terminava il
pasto con l’ultimo corpo che già pullulava di mosche e vermi. Le
stesse mosche si fondevano con lui e, come per un gioco del
destino, ne rinvigorivano l’aspetto rendendolo, con pazienza, quello
di un tempo.
Poi, di fronte a sé, vide la fine di una veste rossa tanto lunga da
coprirne i piedi, di una lucentezza e una perfezione che non vedeva
da tempo.
«È da tanto che non ci vediamo, amico mio» disse il visitatore.
Balthael sollevò il capo. Lo riconobbe. Sorrise commosso.

Raphael annuì e sostenne lo sguardo. “Non essere scontroso, non


provocarlo: hai bisogno di lui” pensò. «Ti ho evocato per chiederti
aiuto».
L’espressione del demone si stirò, beffarda. «Non mi aspettavo
nulla di diverso, in effetti. Come può un demone aiutare un
Arcangelo?»
L’altro prese un respiro profondo e si concesse pochi secondi per
soppesare le parole. «Ti chiedo di aiutarmi a salvare mio fratello
Cassiel da un brutto gioco messo in atto da una… spia».
Balthazar si mostrò interessato alla questione. «Aiutarti? Intendi,
quindi, stipulare un contratto o… un patto?»
«Qualsiasi cosa pur di farlo uscire da quel disastro».
Ci fu un attimo di silenzio.
Fu Balthazar, stavolta, a concedersi del tempo per studiare colui
che gli stava davanti: corrucciato, postura rigida, una mano in tasca.
Il vento smosse i capelli di Raphael e portò via la cenere appena
caduta dal sigaro del demone. Il freddo sembrò intensificarsi.
«Dovrei sapere come sono andate le cose, chi è implicato in
questa storia. Sai, un po’ di informazioni utili».
L’angelo inspirò. Temeva di perdere il controllo della lingua e dire
qualcosa che Lucifer avrebbe potuto usare contro di loro. Ma sapeva
che avrebbe dovuto giocare con astuzia per non farsi fregare,
dopotutto aveva a che fare con uno dei demoni più astuti del regno
del Signore Oscuro. «Una spia di Sergei ha drogato mio f