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Gee J. R.

Amery

Come in Alto
Così in Basso
I I – Il sangue dei gemelli
Copyright © 2022, by Gee J.R. Amery
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A te
che hai scelto
di proseguire
questo viaggio
Prologo

15 novembre 2025 d.C.


Castello del conte Valentine - Regno di Albor, Inferno

Rullano i tamburi della battaglia, i cuori tremano e i tuoni


ruggiscono.
la paura mi attanaglia, figli miei, ma voi siete leoni
l’oscurità è di fronte a me e la luce è alle spalle.
Oh guerriero, perdona la mia mancanza.
L’anima è ormai rassegnata.

Ma ora la pioggia cade, lavando via il timor.


Alza il pugno al cielo, oh guerriero, combatti con onore.
La fredda morte ha posato il suo velo, ci prenderà alle prime luci.
Ma tu combatti, oh guerriero, combatti con onore…

Un’ombra mi strappa il coraggio, vedo il suo sorriso. Mi vuole.


È vicino, sento l’odore del suo odio e si prende gioco di me.
Ora posso vedere il futuro, sangue, carne e morte.
Gli artigli del nemico affilati come spade.
Brillano in attesa della caduta del primo uomo.

Ma ora la pioggia cade, lavando via il timor.


Alza il pugno al cielo, oh guerriero, combatti con onore.
La fredda morte ha posato il suo velo, ci prenderà alle prime luci.
Ma tu combatti, oh guerriero, combatti con onore…

Dopo la canzone il silenzio dominò le segrete. Nessuno, guardie


comprese, osava proferire parola. I prigionieri dietro le sbarre,
guardavano in direzione della cella di Capricorno, come raccolti in
preghiera.
Il regnante, rinchiuso in fondo al corridoio semibuio, aveva cantato
con voce grave, amaro e fiero al tempo stesso.
Il conte Anuman Valentine, signore del castello, era immobile di
fronte all’ingresso delle segrete, i pugni serrati dietro la schiena per
nascondere l’irritazione. Prese un respiro profondo, avanzò oltre la
soglia. Il rumore degli stivali sul pavimento di pietra spezzò la quiete.
Afferrò una torcia e, giunto alla fine del breve tragitto, illuminò
l’ultimo cubicolo.
La fiamma che reggeva come un’arma rese onore all’imponente
demone prigioniero. La figura seduta sul pavimento mostrava la
propria dignità nonostante arti e collo fossero bloccati alla parete
retrostante da robuste catene e il corpo fosse ricoperto di tagli,
ustioni e gravi ferite.
La criniera, nera come gli artigli delle grosse mani bestiali,
contornava un muso sanguinante da leone e gli occhi, dorati e
scintillanti, erano stanchi. Un possente braccio poggiava sulle
ginocchia delle gambe caprine e l’altro giaceva al suo fianco,
spezzato in più punti. Il petto muscoloso, visibile attraverso uno
squarcio nella cotta di maglia, era deturpato da una vecchia cicatrice
a forma di X. La coda leonina si agitò nervosa.
«Prostrati» gli ordinò Anuman, conscio che non avrebbe potuto
farlo in alcun modo a causa del bacino fratturato.
«Il valore non si piega alla codardia, Valentine». La risposta
dell’altro fu quasi un ringhio.
Il conte si lasciò scappare un sorrisetto divertito; gli occhi
attraversati, però, da un lampo d’odio. «Sei nelle mie segrete» lo
canzonò. «Pensi che questo tuo atteggiamento da intrepido
guerriero possa condurti verso la libertà? Hai perso il tuo castello, la
tua gente, le tue terre e qui marcirai, Sir Gallach. Ma non prima di
aver parlato».
«Sai molto bene anche tu che non accadrà».
Anuman annuì e senza smettere di fissarlo ordinò alle guardie:
«Portate tutto l’occorrente. Oggi l’uccellino canterà in mio onore».
Capricorno aveva resistito come mai nessun altro di fronte a un
assedio di tre mesi, barricato nella sua fortezza quando il conte, suo
carceriere, Nahenia e Solomon erano riusciti dapprima a catturarlo
e, infine, decimare i suoi uomini.
Era l’unico regnante ancora dalla parte del Progetto Thoctar.
Ripensò a suo fratello Asmodeus. Probabilmente col suo aiuto
sarebbe riuscito a resistere e a battere gli altri tre. O forse no. Forse
sarebbe morto anche lui, come i suoi uomini, come la sua gente, e
sentire Anuman rimarcarlo fu ciò che più di tutto gli fece male. Il
volere di Lucifer sembrava impossibile da annullare.
Strinse i denti, ruggì per la rabbia; fu così forte e tenebroso da
risuonare in tutte le carceri.
Un calpestio annunciò l’arrivo spedito del servo, tra le mani un
fodero contenente svariati attrezzi da tortura.
Il conte aprì la cella. «Bene, bene, ancora non ti è passata la
voglia di ruggire, questo significa che le prestazioni che ti abbiamo
riservato fino a ora non sono servite abbastanza».
«L’unica prestazione che mi aspetto da un traditore come te è da
amante a pagamento, Valentine!»
Un affronto che zittì anche le mosche attorno alle sue ferite.
Anuman serrò la presa sul manico di un martello estratto dal
fodero, ne saggiò la pesantezza. No, non sarebbe stato divertente
usarlo. «Portami il ferro» ordinò al servo che scattò imboccando
l’uscita del corridoio sulla sinistra.
Valentine avanzò misurando i passi: «Non abbiamo mai avuto
tanta simpatia reciproca e, detto in tutta onestà, ti ho sempre trovato
privo di spina dorsale, soprattutto quando tuo fratello ti bazzicava
intorno». La voce che arrivò alle orecchie del duca era minacciosa.
«Eppure sono io quello che ha resistito a discapito dei tradimenti
di voi vermi» il leone sputò di fronte a sé con disprezzo e aggiunse:
«Sono io il codardo che ha deciso di combattere insieme a due
alleati contro uno solo, vero? Tu sia maledetto, Valentine, insieme ai
tuoi avi e ai tuoi discendenti… ma dimenticavo, tua moglie non ti
darà mai un maschio e la tua casata non avrà mai un successore».
Gli rise in faccia, stroncato però dai dolori lancinanti.
Anuman si contrasse in una smorfia furiosa. «Siamo nella stessa
condizione vecchio leone, anche la tua stirpe non ha mai avuto la
possibilità di vedere la luce. Sbaglio o sei sterile? Un vero peccato».
Il duca provò a trattenere la frustrazione, non fu affatto facile.
Emise un ringhio così potente che gli altri carcerati temettero
potesse crollare il soffitto. «Forza bastardo, fa’ ciò che devi e lascia
in pace la mia anima! Devi uccidermi? Fallo! Perché se non lo farai
io troverò il modo di uscire e per te non ci sarà scampo!»
Anuman si allontanò e lo scalpiccio del servo li raggiunse. «Ecco a
lei, Signore» disse trafelato.
Anuman lasciò cadere il martello e prese il lungo spuntone di ferro
incandescente, lo rigirò tra le mani, un mezzo sorriso gli comparve
sulle labbra. «Non ce ne sarà bisogno vecchio mio, perché tu non le
vedrai le prime luci del domani».
Eroi o traditori?

14 settembre 2025 d.C.


Piazza dei Giudici - Sila, Paradiso

«Sbatteteli in cella!»
«Bugiardi!»
«No! Lasciateli andare!»
«Sono dei traditori bastardi!»
Le Dominazioni cercavano di riportare l’ordine in aula, purtroppo
senza successo.
La situazione era ingestibile, nemmeno le numerose guardie
presenti riuscivano a sedare o placare gli animi con la minaccia delle
armi.
Gli spettatori erano furiosi con gli imputati che ancora non
avevano fatto la loro comparsa e che, di lì a poco, sarebbero stati
giudicati. I cittadini di Sila minacciavano di venire alle mani, alcuni
provavano a saltare giù dagli spalti. Il vociare concitato, le grida
rabbiose e gli insulti si udivano da un capo all’altro dell’aula di
tribunale.
I portoni si aprirono, entrarono due Potestà armate, che a ogni
passo facevano tintinnare le gambe metalliche.
I cinque Arcangeli scortati e ammanettati, al seguito.
Le grida e gli insulti si intensificarono.
Gabriel, in testa, zoppicante e sanguinante, veniva strattonato da
due guardie verso l’imminente giudizio. Mantenere la calma gli
veniva difficile, lo scontro con Baal e l’addio a Odry l’avevano
debilitato più del previsto.
Mathael, subito dietro, camminava a testa alta, ma anche lei,
come gli altri, iniziava a risentire degli effetti della battaglia. Non
degnò di uno sguardo i Serafini, seduti in prima fila sulla destra, e
nemmeno un singolo cittadino furioso.
Michael invece si guardava intorno senza capacitarsi di tutto
quell’odio. Si erano lasciati sfuggire l’ultima reliquia, questo era
indubbio, ma nessuno capiva il sacrificio di averci provato
affrontando l’esercito di uno dei demoni più forti? Erano ciechi forse?
O le loro menti erano state plagiate?
Raziel portava, con un misto di stizza e orgoglio, delle nuove ferite
provocate da una piccola rissa scatenatasi prima del loro ingresso.
Sollevò entrambe le mani per mostrare il dito medio a chiunque
incrociasse il suo sguardo. Sputò in terra e in tutta risposta venne
spinto da uno degli accompagnatori armati.
Uriel era l’ultimo, serio e preoccupato come non si era mai visto.
Ascoltava con attenzione e scandiva dentro di sé le frasi di disprezzo
che riusciva a distinguere. Da lì in poi la vita sarebbe stata un
inferno, ne era certo.
In alto la bandiera della giustizia veniva agitata da un vento
impetuoso. Sembrava che anche Dio fosse in collera.
Tutti gli occhi erano puntati sui cinque, compresi quelli di Chris e
dei compagni. Yovus incoraggiava una buona parte della platea a
inveire contro di loro. «Sono dei traditori!» gridò. «Non hanno diritto
a un processo, dovrebbero essere banditi all’istante!»
«Non meritano le ali! Avremmo dovuto già gettarli sulla Terra!» gli
diede manforte Hamenam.
Le Dominazioni decisero di approfittare dell’arrivo degli Arcangeli
per far leva sulla curiosità del popolo e farlo tacere. Si scambiarono
uno sguardo eloquente e rimase in piedi solo il più anziano. I simboli
enochiani sulle labbra si illuminarono e la sua voce tuonò nell’aria.
«Parlo per Dio e con Dio, Nostro Signore».
Il chiasso si tramutò in mormorio per rispetto di quelle parole.
I pochi che ancora stavano protestando, tacquero quando lo
stesso aggiunse: «Gli imputati saranno trattenuti accettando la
volontà di Dio, se egli deciderà che dovranno essere puniti o se
deciderà che è la libertà ciò che meritano».
«È inammissibile!» protestò Chris, battendo un pugno sulla
seduta, seguito a ruota da altri suoi pari che riaccesero la miccia
della discussione.
«Non ammetto che le vostre lamentele siano per noi fonte di
disturbo» disse aspro il giudice. «Giudichiamo per mano di Nostro
Signore, ciò che diremo sarà legge».
Chris si zittì astioso e, sotto consiglio di Holian, cercò di darsi un
contegno, saettando occhiate irose contro i cinque.
«Bene» enunciò la Dominazione con ritrovata calma. «Visto che
gli animi sono infiammati, cercheremo di non tirare per le lunghe
questo processo. Al centro dell’aula abbiamo gli Arcangeli che sono
scesi con le proprie legioni sulla Terra senza consenso e hanno
cacciato un esercito demoniaco. Come possiamo notare, essi sono
solo cinque, in quanto sul campo mancavano Cassiel Blanchett, che
si trova attualmente in prigione, e il suo gemello Raphael». Si voltò
prima a destra e poi a sinistra con entrambe le mani sollevate per
bloccare qualsiasi commento. «Nell’oggettività dei fatti, questo è ciò
che è accaduto». Poi sedette.
La donna, sua collega, si voltò verso gli imputati e domandò: «C’è
altro che dovremmo sapere?»
«Favoreggiano il nemico!» Chris scattò in piedi, rispondendo per
primo. «Abbiamo le registrazioni della battaglia, dall’inizio alla fine.
Collaborano con i demoni, Satan è uno di loro; avete una vaga idea
di quanto pericoloso sia lui da solo?»
Alcune frasi di protesta si levarono dagli spalti, ma vennero zittite
dalle Dominazioni. Tornato il silenzio, la donna commentò: «Questa
affermazione mi porta al precedente processo e alla confessione
della presenza di demoni nascosti sul piano terrestre». Poi ordinò:
«Mostrateci ciò che avete».
Chris non perse tempo. Chiese a Holian di portare un dispositivo
USB allo stesso angelo che in precedenza si era occupato di
mostrare le prove. Venne collegato alla sfera che proiettò a
mezz’aria due icone video. La prima venne selezionata e avviata:
durava ore.
«Questa è la battaglia. Consiglio di accelerare la velocità di
riproduzione per ovvi motivi. Come ben saprete, il globo di cui si
serve il Cherubino Barakiel può vedere qualsiasi luogo della Terra e
anche oltre, se solo non fosse proibito dal millenario Patto delle
Anime. Il tutto viene registrato e conservato. Quel giorno, in
particolare, nella sala di controllo, chiunque ha potuto assistere a ciò
che stava accadendo». Chris parlò come un fiume in piena:
«Abbiamo raccolto anche le testimonianze di coloro che erano
presenti, con tanto di firma e giuramento solenne, tutte persone
disposte a testimoniare qui, oggi, se solo lo voleste. Abbiamo visto
gli Arcangeli aiutare quattro demoni: Satan di cui ho accennato
poc’anzi, Odry, colei che Gabriel ha portato al DEM, Belial, il figlio
bastardo di Lucifer, e un demone sconosciuto che, a quanto pare, ha
rubato il nostro Graal. Oltre al danno, la beffa: hanno aiutato un
ladro».
Mathael lo squadrò con disprezzo. «A nostra insaputa» dichiarò,
ma venne ignorata.
Le riprese scorrevano davanti agli occhi di tutti, il pubblico era
troppo preso dallo spettacolo per potersi lamentare. Un coro
orripilato spezzò il discorso di Chris: era stata appena mostrata la
scena del soldato incastrato negli spallacci di Gabriel per un errore
di Zachary.
Il Serafino colse lo spunto: «Vedete i loro volti? Questi disgraziati
hanno nascosto e aiutato dei mostri che godevano della sofferenza e
della morte del prossimo!»
Negli animi di chi stava dalla parte dei Serafini la rabbia verso i
traditori cresceva sempre di più.
A Michael non interessava seguire il video, sapeva bene com’era
andata; se avesse chiuso gli occhi avrebbe rivisto tutto. Ciò su cui
era concentrato andava oltre: gli spettatori seguivano le riprese,
rapiti dalle scene di battaglia e sangue incorniciate dagli attacchi
infuocati di Uriel, di Odry e Zachary; chi era riuscito a staccare gli
occhi dallo schermo giudicava gli Arcangeli con espressioni
disgustate. Alcuni, i peggiori, mostravano una grande delusione
scuotendo il capo. Si pose di nuovo la domanda: “Davvero non
riescono a capire? Un’eternità passata a servire il DEM, il Paradiso,
gli angeli, innumerevoli secoli a proteggere il genere umano. Ma è
più semplice puntare il dito che aprire gli occhi”.
«Le prove sono schiaccianti, tagliamo loro le ali!» L’accusa di
Yovus riportò Michael alla realtà.
Raziel non riuscì più a trattenersi: troppo scherno, troppe accuse
ingiuste, troppa rabbia da sfogare. «Ci siamo battuti contro Baal per
impedirgli di rubare una reliquia. Se fosse stato per voi senza palle,
ora avremmo fottute orde di demoni a spasso sulla Terra a fare
chissà quali casini!»
«Sciocchezze!» controbatté il Serafino Kazel. «Usate la cacciata
di Baal come scusa per nascondere l’alleanza con quei bastardi.
Poi? Cosa farete? Qual è il vostro intento?»
«Ma che cazzate spari, Kazel!» Raziel batté un pugno sul banco di
fronte a lui. «Abbiamo salvato gli umani e voi vi preoccupate se
quattro demoni erano dalla nostra parte? Ma che avete di
sbagliato?»
I simboli sulla bocca della Dominazione anziana brillarono e
questa fece per dire qualcosa, ma Mathael prese la parola.
«Abbiamo fatto qualcosa di importante. Si tratta di un passo avanti
dopo millenni: due opposte fazioni che collaborano per schiacciare
un nemico comune. Non tutti i demoni sono alleati, come non lo
sono gli angeli» sfidò Chris con uno sguardo glaciale. «Mi pare il
caso di ammettere che il Patto delle Anime sia divenuto obsoleto».
«Tu, razza di cagna ignorante! Come osi?» tuonò il Serafino
scattando in piedi. «Il Patto è frutto di uno degli accordi più difficili
mai raggiunti. I nostri antichi predecessori ci hanno creduto e l’hanno
stipulato per mantenere un perfetto equilibrio tra i mondi. Come puoi
sputare su qualcosa su cui hai giurato fedeltà?»
«Posso» la risposta della donna spiazzò chiunque, Dominazioni
comprese «e non ho problemi ad ammetterlo. E sai perché? Perché
è stato inutile e fin dall’inizio non è stato rispettato, altrimenti il
Distretto per l’Equilibrio dei Mondi non avrebbe avuto senso di
esistere, non trovi?»
I volti di Uriel e Michael si illuminarono e, Gabriel girò il capo verso
la collega, sorpreso da quella considerazione su cui non si era mai
soffermato. Raziel batté un altro pugno sul banco. «Ben detto!»
Prima che Chris o qualsiasi altro Serafino potesse ribattere, parlò
la Dominazione donna. «Noi eravamo lì quel giorno, a titolo di
testimoni. Solo le anime più alte hanno avuto l’immenso onore di
partecipare al dibattito e alla stesura del Patto delle Anime».
Mathael serrò la mascella, certa che con quella informazione
intendesse metterla in soggezione. «Nutro un profondo rispetto per
coloro che gli hanno dato vita e sono certa che in entrambe le fazioni
ci fosse la volontà di risolvere le cose. Ma ammettiamolo: l’ingenuità
e la sconfinata fiducia nel prossimo hanno portato il Paradiso a
chiudere gli occhi. E ora siete ciechi verso qualsiasi cosa. Non volete
ammettere che il tempo di quel concordato sia passato, non volete
ammettere che quattro demoni abbiano avuto il cuore di aiutarci. Ma
soprattutto non volete ammettere che noi Arcangeli abbiamo fatto
tanto per voi e che i Serafini, che hanno in pugno le vostre menti,
invece, non si siano mossi per venire in nostro aiuto. Se sono morti i
nostri soldati, i vostri figli, mariti, fratelli… è anche per colpa loro».
Il vociare dal pubblico riprese impetuoso.
«E se anche fosse?» S’intromise Hamenam. «Il trattato è legge e
come tale va rispettato. Voi non l’avete mai fatto, non avete
nemmeno mai rispettato gli ordini del vostro superiore».
E Dunne aggiunse a gran voce, spazientito, rivolgendosi ai giudici:
«Ci stiamo dimenticando del succo della questione: hanno intrapreso
rapporti col nemico. Abbiamo le prove, che volete in più?»
Uriel prese un respiro profondo, poi parlò: «Hanno bisogno del
nostro aiuto per rivoltarsi contro Lucifer!»
Michael lo guardò con tanto d’occhi, non era sicuro se fossero le
cose giuste da dire. Ma tacque.
Il turco proseguì: «Il loro contributo è stato fondamentale per
schiacciare il nemico, grazie al quale Gabriel ha potuto annientare
Baal. Sempre grazie a loro abbiamo ottenuto informazioni che da
soli non avremmo mai potuto ottenere. Come avrete immaginato, noi
diamo qualcosa a loro e viceversa. Ormai è inutile tergiversare: sì,
abbiamo collaborato con alcuni demoni. E ora abbiate il coraggio di
dirmi che non avreste approfittato di una tale fonte di informazioni sul
nemico pur di rafforzare il DEM, il controllo che la struttura vanta da
tempo immemore e uccidere Lucifer».
«Avete agito alle spalle di tutti noi» continuò Dunne, ricevendo
manforte dai colleghi.
Gabriel strinse i pugni, la sola vista di Chris lo infastidiva a tal
punto da trarre soddisfazione nell’immaginarne il pestaggio.
Raziel scattò fuori dalla postazione sfuggendo al controllo, quasi
raggiunse Chris ma due guardie lo bloccarono in tempo. «Sei un
coglione Chris, hai merda nel cervello!» gridò, allungando le mani
ammanettate verso di lui. Intanto le scorte armate lo allontanavano
con una certa fatica. «Vuoi farci credere che se te ne avessimo
parlato, tu ci avresti dato via libera? Ci avete lasciati soli in mezzo ai
demoni, ai cadaveri dei nostri alleati. Avete portato a vostro sfavore
la chiara prova che siete rimasti a guardare!»
Yovus e Hamenam scoppiarono a ridere. «Taci, razza di
imbecille!» gridò il primo.
Il secondo si accodò. «Abbiamo agito in tal modo per organizzare
un piano. Il torto è dalla vostra parte, non dalla nostra. Non siamo
certo stati noi ad agire senza avere una tattica o qualsivoglia
organizzazione da seguire, cosa per cui, tra l’altro, siete stati
addestrati».
Chris sorrise strafottente e applaudì, confermando quanto appena
detto. «Dentro il vostro gruppo c’è sempre stato del marcio.
Guardatevi, siete l’abominio della nostra razza: disorganizzati,
irrispettosi, traditori. Non vi pentite delle vostre scelte sbagliate, di
aver dato un tetto al nemico e per esso siete disposti a scendere a
ogni compromesso».
«Gli abomini son sempre stati allontanati» commentò Kazel.
«Seguendo la legge, son stati buttati angeli che hanno commesso
reati meno gravi. Loro devono essere il nuovo esempio. Nessuno di
noi lavora sodo per permettere a gente del genere di portare alla
rovina il nostro sistema».
Uriel scosse il capo. «Portare alla rovina il sistema? Non vi
sembra di esagerare?»
«Il turco non comprende proprio» rise Chris. Si avvicinò agli
imputati, tenuto sotto controllo dalle guardie. «Devo ricordarti che
Raziel ha un’umana per cameriera e che ora, a causa vostra e dei
vostri amici cornuti, è a conoscenza della nostra esistenza e
dell’identità di ognuno di voi?»
Il pubblico ammutolì.
Dunne era fiero di aver zittito tutti quanti: gli umani dovevano
restare al di fuori degli affari angelici e demoniaci e vivere credendo
di essere gli unici esseri viventi intelligenti e superiori. Una delle
prime e più importanti regole del Patto.
I cittadini ripresero a parlare. «A quante persone lo avrà detto
l’umana?» era la domanda più comune. «Quanto tempo ci vorrà
prima che la notizia venga divulgata?» Qualcuno, invece, restava
positivo, certo che pochi esseri umani in tutta la Terra ci avrebbero
creduto.
Il Serafino approfittò del brusio in crescita, si avvicinò al volto di
Raziel e sibilò: «Vi schiaccerò a uno a uno, farò lo stesso con i vostri
amici infernali e la tua puttana francese, così eviteremo che si venga
a sapere di noi».
L’Arcangelo smise di pensare.
Lo colpì con una testata sul naso, lasciandolo stordito e
sanguinante.
Un boato riempì l’arena.
Chris portò una mano sotto le narici e si lasciò scappare un breve
ghigno divertito. Proprio ciò che voleva. Scattò in avanti e saltò
sopra il banco dell’imputato, colpendolo in viso con un destro
micidiale che mandò Raziel a terra.
La rissa era iniziata.
Le Dominazioni scattarono in piedi imponendo l’ordine, ma
nessuno le considerò.
Michael non aspettava altro, lo stesso fu per Gabriel che ben
volentieri raggiunse Dunne e gli sferrò una seconda testata, imitando
il collega.
Uriel si allontanò dalla postazione per andare a bloccare il
Serafino, ma si trovò immischiato nella zuffa senza volerlo. Gli arrivò
una ginocchiata sullo stomaco che lo fece piegare in avanti.
Lo stesso gruppo di Serafini corse a dare manforte al compagno.
«Siete quattro contro uno, bastardi!» disse Kazel menando un
pugno in faccia a Michael seguito da un altro che colpì Uriel su un
fianco.
Le voci dei giudici quasi assordarono gli spalti, ma nessuno dei
partecipanti alla zuffa parve sentirle.
La situazione era degenerata in meno di cinque minuti e la platea
tifava i favoriti come fossero a uno scontro di boxe di gruppo.
Fu però uno schizzo di sangue sulla tunica della Dominazione più
giovane a far perdere loro la pazienza: era stato raggiunto il limite.
I tre sollevarono le braccia all’unisono. I rabbiosi e agitati Arcangeli
e Serafini vennero sorpresi da una invisibile forza che li costrinse a
fermarsi di colpo. Ogni muscolo si era irrigidito e quasi fecero fatica
a respirare, costretti a una semi apnea. Potevano solo muovere gli
occhi, spostare lo sguardo febbrile e agitato per trovare la causa del
loro stato.
Nessuno spettatore ebbe più il coraggio di parlare. Nessuno aveva
mai visto le Dominazioni così furiose, tantomeno si era mai vista una
scena simile in tribunale.
«È una vergogna!» gridò il giudice più anziano. «Questo è un
luogo in cui calma e serietà sono le parole d’ordine. Dove credete di
essere?»
I presi in causa non poterono far altro che ascoltare.
«Verrete puniti tutti quanti, e non importa che siate Serafini o
Arcangeli. La vostra condotta è stata deplorevole, un errore che
segnerà di certo in negativo la carriera di ognuno di voi. Decideremo
le vostre condanne in separata sede» affermò con tono grave. «Ci
aggiorniamo tra ventiquattro ore. Allo scadere saprete quale sarà la
vostra sorte».
La Dominazione donna aggiunse: «Ora libereremo i vostri corpi
così sarete in grado di muovervi per essere scortati nelle segrete. Vi
avverto: nessun passo falso».
Entrarono in aula una decina di Potestà con nuove manette per i
Serafini. Come promesso, a tutti venne concessa la libertà di
movimento e vennero scortati fino al DEM.

Raziel, capo chino e schiena poggiata alla parete di fondo della


cella, si dava dello stupido per essersi lasciato condizionare da
Dunne e averlo attaccato. Solo a mente fredda si era reso conto
della provocazione fatta proprio per farlo passare dalla parte del
torto. Soprattutto, iniziò a temere davvero per l’incolumità di Karen.
Uriel, Michael e Gabriel, come lui, tacevano, carichi di
risentimento.
L’unica che non riusciva a stare ferma era Mathael, che
camminava avanti e indietro in quello spazio ristretto. Non si dava
pace, non si capacitava di ciò che era accaduto fino a quel
momento. Tutto ciò che pensava era stato espresso dai compagni
senza mezzi termini. E, a pensarci bene, tornando indietro, non si
sarebbe posta problemi e sarebbe entrata volentieri dentro la rissa
per spaccare qualche brutta faccia.
Dietro le sbarre nessun Arcangelo osò commentare. Erano in una
posizione precaria e non vi era l’intenzione di peggiorare la
situazione.
Non si poté dire lo stesso per i Serafini, che criticavano con
sdegno la scelta dei loro superiori, ritenendosi dalla parte del giusto.
Domandarono più volte di poter conferire con una Dominazione, ma
non ci fu verso. Dopotutto nessuno di loro aveva alzato un dito e a
iniziare era stato l’ungherese. Si erano limitati a difendersi a vicenda:
perché dovevano stare lì con i veri criminali?
Le segrete non erano mai state così affollate.

II

16 settembre 2025 d.C.


Distretto per l’equilibrio dei mondi - Sila, Paradiso

«Le cinque del pomeriggio, sono in perfetto orario». Il Serafino


Hezef Yan, del Distretto Sanitario, osservava con ammirazione il
maestoso ingresso del DEM. Entrò evitando il via vai degli impiegati
e con gli occhi color della pece cercò qualcuno che potesse
accoglierlo. Tolse il cappello bianco e sistemò con una mano i capelli
ramati dal taglio marziale. “Il DEM è davvero grande quanto dicono”
pensò.
Gli ultimi avvenimenti e le rivelazioni avvenute durante il processo
agli Arcangeli avevano scosso chiunque. Erano passati tre giorni dal
fatto e la consapevolezza che i cinque fossero rimasti in cella aveva
disteso la tensione.
Il visitatore si rilassò nel vedere una Potestà in avvicinamento. Ne
osservò l’incedere rigido, soffermandosi in particolare sulle lame
appuntite che sostituivano le gambe, le quali tintinnavano sul
pavimento a ogni passo.
«Dottor Yan, corretto?» domandò l’angelo soldato, fermandosi a
pochi passi.
«Corretto» Hezef mostrò la lettera d’invito firmata dal Serafino
Dunne e col sigillo delle Dominazioni. «Mi fa strada verso la sede
della riunione?»
La Potestà chinò appena il capo, scrutò dalla sua altezza l’uomo e
poi la missiva, attraverso l’elmo bianco e piumato che ne celava gli
occhi. Annuì, si voltò di spalle e con movimenti meccanici avanzò
facendo strada.
Il dottore lo seguì ammirando l’incredibile equilibro che gli
permetteva di restare in piedi su degli spilli. Aprì i bottoni della
giacca bianca e sciolse il nodo al foulard verde lime per sopportare
la temperatura.
Presero l’ascensore e salirono fino al sesto piano, in silenzio. Le
porte condussero su un atrio senza finestre o arredamento. La
Potestà aprì un portone bianco con maniglie tonde in ottone e chinò
il capo in segno di saluto.
Yan ringraziò ed entrò.
La sala a forma di semicerchio, dalla pavimentazione a
scacchiera, conteneva tre grandi troni sui quali sedevano le
Dominazioni che lo salutarono con un cenno del capo, un trono più
piccolo, ma altrettanto importante, occupato da Chris e uno uguale
vuoto.
Questi si alzò per accoglierlo con un sorriso smagliante, gli strinse
la mano con vigore e lo invitò ad accomodarsi nella quinta seduta.
L’occhio di Chris cadde sulla valigetta che Yan aveva con sé e
mentre la osservava vide il suo viso incupirsi.
«Cosa avete per noi?» la voce della Dominazione più anziana
invase la stanza.
Hezef non prese posto, ma usò la sedia per poggiarvi la
ventiquattrore in pelle e tirar fuori una cartella bianca con su scritto il
nome di Agatha Dunne, sua paziente. Estrasse quattro fogli che
distribuì a ognuno di loro. «Questi sono i risultati delle analisi di sua
figlia».
Chris trattenne il fiato. Seguì i movimenti precisi del collega, per lui
fin troppo lenti: gli dava sui nervi. «Non è più mia figlia» sbottò. Si
agitò sulla fodera di pelle e si sporse in avanti per afferrarne una
copia. «Spero che le sue analisi abbiano portato a qualcosa di
concreto, visto quanto tempo abbiamo dovuto aspettare, dottore».
Gli lanciò uno sguardo torvo, reso più d’impatto dai tagli causati dalla
lite in tribunale e la conseguente colluttazione con Mathael.
«Ho dovuto fare alcuni accertamenti perché non sono riuscito a
capacitarmi dei risultati» considerò Yan, sedendo ora sul trono
assegnato. «Come potete leggere, le analisi affermano la natura
della ragazza: una mezzosangue, la madre è una demonessa e il
padre è un angelo. È quindi inutile precisare che la sua
sopravvivenza sul nostro piano è resa possibile dai geni paterni,
nonostante sia nel complesso di costituzione fragile».
Le Dominazioni tacquero, solo il più anziano sbirciò in direzione di
Dunne per un istante: lo sguardo del Serafino scorreva irrequieto sui
valori e i risultati, evitando di soffermarsi su ciò che per lui era
incomprensibile e cercando i dati che le sue competenze di base
potevano comprendere.
«Vi chiedo di girare il documento per leggere un’altra importante
informazione: la paziente è gravida».
«Gravida?» Chris si voltò di scatto poi seguì le indicazioni di Yan,
leggendo la parte retrostante. «Mi auguro sia uno scherzo di cattivo
gusto».
«Se volessi scherzare, la inviterei a prendere un drink nel locale a
pochi minuti da qui» ribatté l’altro Serafino.
La Dominazione donna si rivolse a Dunne. «Come mai tanto
preoccupato? Mi sembra la notizia meno rilevante».
Chris tacque, punto sul vivo. Fissò il documento poi Hezef e infine
la Dominazione. Scrocchiò l’indice facendo leva con il pollice. «Lei
porta ancora legalmente il mio cognome e sto provvedendo per
annullare ogni legame di parentela. Ma adesso non posso farlo
perché la nostra legge me lo impedisce: lei non è autosufficiente e, a
quanto pare, in stato interessante». Gli occhi chiari si fecero
rabbiosi. «Se permette, per me questa è una notizia altrettanto
incresciosa».
La donna annuì, comprensiva. «La ragazza continuerà a stare in
cella e da domani inizieremo con gli interrogatori. Ma non li guiderà
lei, Dunne. Incaricheremo qualcuno esterno alla famiglia».
«Holian? Hamenam? Oppure qualcuno esterno al DEM stesso?
Non voglio che estranei vengano a conoscenza di ciò che accade
nella mia famiglia… e a me» precisò torvo il Serafino.
«Chiunque sarebbe vincolato dal segreto professionale, Dunne»
rispose la Dominazione più giovane. «Nessuno di questa struttura
verrà scelto. L’incarico sarà affidato a qualcuno del Distretto
dell’Equilibrio del Paradiso, la trasferiremo lì».
Per la seconda volta, Chris tacque. Si lasciò andare contro lo
schienale. «Come voi ordinate, Eccellenze» sottolineò alzando
appena le mani. «Ho giusto un’altra richiesta: voglio sapere chi è il
padre». Portò la sua attenzione sul medico e continuò: «Ha
ammesso lei stessa di essere stata a letto con due Arcangeli,
Cooper e Blanchett, e io voglio sapere chi dei due è il responsabile».
«Non ci sono problemi» confermò Hezef Yan. «Prenderò in
prestito il vostro materiale e vi spedirò i risultati delle analisi».
Le Dominazioni, con un simultaneo cenno del capo, dichiararono
chiusa la riunione e invitarono i due a uscire. I Serafini obbedirono e
si congedarono.
Ad attenderli fuori vi era la stessa Potestà che aveva appena
chiamato l’ascensore. La discesa fu silenziosa e solo quando il
capitano angelico si fu dileguato al pian terreno lasciando il visitatore
alle cure di Dunne, quest’ultimo si decise a parlare. «Quanto dovrò
aspettare per i risultati?» domandò standogli al passo.
«Dai tre ai sette giorni, non di più» lo tranquillizzò l’altro.
Anche il tragitto per l’infermeria fu silenzioso. Ma di fronte alla
porta, Yan si fermò. «Devo ammettere che mi ha molto turbato la
faccenda. Non mi sarei mai e poi mai immaginato che una cosa del
genere potesse accadere».
Chris strinse la mascella annuendo a quelle parole. «Nessuno
avrebbe potuto, va al di là di ogni immaginazione. È stata mandata
qui con l’inganno da Baal in persona, ma è chiaro che a guidarlo ci
fosse Lucifer. Sono stati furbi, molto furbi…»
«E se ce ne fossero altri?»
L’ennesima pugnalata per Chris, che rimase a fissare gli occhi
scuri dell’interlocutore, ragionando sull’ipotesi più che ammissibile.
«Occorrerebbe sterminare l’intero dipartimento… ma sarebbe un
atto immondo» si affrettò a dire. «A ogni modo si dovrebbe optare
per un controllo di massa, l’intero DEM dovrebbe essere analizzato,
ogni singolo impiegato».
«Ogni singolo impiegato di ogni singolo distretto» precisò Yan
«perché potrebbero essere ovunque».

III

11 settembre 2025 d.C.


Distretto per L’Equilibrio del Paradiso - Moera, Paradiso
La fustigazione di Agatha andava avanti da circa quindici minuti.
Era stata condotta lì affinché l’interrogatorio venisse gestito da
qualcuno di esterno. Solo dopo aver ottenuto le risposte che
cercavano, l’avrebbero riportata a Sila: essendo una succube, il
DEM si sarebbe occupato della detenzione in attesa del processo
definitivo.
Legata al soffitto, piangeva a dirotto e invocava pietà. Era stata
rasata per mettere in bella mostra le corna ormai in ricrescita, ma
soprattutto per toglierle un po’ di dignità. Le mura isolate non erano
riuscite, nemmeno quella volta, a contenere le sue grida.
Jolin Silva le spense la sigaretta sul ventre e godette nel vederla
soffrire. Con lui vi erano due boia che eseguivano ogni suo ordine.
«La frusta sarà solo l’antipasto, se non parlerai» l’avvertì,
squadrando il corpo semi nudo della prigioniera.
«Vi supplico, basta, ho già detto tutto ciò che sapevo». Il pianto
convulso le fece mancare il respiro.
«Hai sete?» Jolin cambiò atteggiamento in modo drastico, si grattò
la testa nera e afferrò una bottiglia in vetro piena d’acqua, poggiata
sul tavolino accanto alla porta d’ingresso.
Agatha annuì piano tirando su col naso. Con fatica alzò il viso
provato, profonde occhiaie rosse le cerchiavano gli occhi.
Il Serafino le si avvicinò e con un movimento brusco la costrinse a
tirare indietro il capo. Uno dei boia le infilò in bocca un grosso imbuto
in acciaio e il contenuto della bottiglia venne versato di getto.
La bocca e la gola bruciarono: l’avevano appena costretta a bere
Acqua Santa. Essendo lei una mezzosangue la pelle non veniva
intaccata dal liquido benedetto, ma, se ingerito, era tutto un altro
discorso.
Agatha avvertì gli organi quasi collassare dal dolore e tutto ciò che
riuscì a fare fu vomitare sangue sul pavimento e addosso al Serafino
di fronte a lei. Gridare le divenne impossibile.
Jolin tolse l’imbuto, invitando i boia ad allontanarsi. «Forza, so che
hai ancora tanto da dire, quindi non perdiamoci in stronzate. Ci sono
altre spie qui in Paradiso?»
Agatha scosse la testa.
«Vuoi dirmi che sei l’unica spia mandata da quei cani? Hanno
giocato proprio male le loro carte, vista la fine che hai fatto».
Ma la ragazza non rispose. Rimase a fissargli le scarpe lucide con
gli occhi annebbiati, scossa dai singhiozzi.
«Bene».
Una seconda volta venne costretta a trangugiare Acqua Santa e
una seconda volta venne invasa da un dolore lancinante dal quale le
era impossibile scappare.
Il sangue fluì densò dalle narici e dai lati della bocca, ancora
costretta a trattenere l’imbuto che venne poi lanciato verso una
parete dallo stesso Jolin, preso da uno scatto d’ira. «Parla, cagna
maledetta!»
La voce non riuscì a uscirle dalla gola. Rantolò parole senza
senso, vomitò di nuovo. “Uccidimi, ti prego” avrebbe voluto dirgli, ma
riuscì solo a pensarlo.
Tre schiaffi consecutivi sulla parte sinistra del volto le fecero
perdere l’udito per un istante. Il Serafino l’afferrò per il collo,
fissandola con i suoi occhi azzurri. «Parla, puttana».
«Non… so… altro» biascicò. «Lo giuro su… Dio».
«Mettetela sul lettino».
L’ordine venne eseguito in fretta. Agatha venne sganciata e,
ancora legata mani e piedi, trascinata di peso su una lastra di
metallo ghiacciata poggiata su ruote, simile a un tavolo operatorio.
Poi le corde di mani e piedi vennero legate a due appigli sotto il
ripiano in modo da tenerle il corpo bloccato.
Jolin, intanto, aveva immerso più volte un grosso panno dentro un
catino colmo d’acqua.
Si avvicinò alla prigioniera, lo sguardo freddo. «Hai detto di aver
mentito sulla tua identità per poter salire in Paradiso insieme a
Dunne, costretta da Baal. Dopo quanto tempo hai iniziato a fornirgli
informazioni?»
Agatha tacque per qualche secondo, deglutì con dolore. Si
focalizzò su ciò che il Serafino teneva tra le mani e terrorizzata si
affrettò a rispondere: «Due settimane… dopo il mio arrivo».
Jolin parve ironicamente ammirato. «Pensavo ci avessi messo
molto meno, immagino ti sia presa il tuo tempo per ambientarti. E
quali informazioni gli hai fornito?»
«Distretti… eserciti… armi…» rispondere le veniva difficile, ma
farlo le garantiva una speranza di uscire da lì, o almeno di far
cessare le torture. Eppure sembrò non bastare: il torturatore preparò
il canovaccio zuppo. «No, aspettate…»
Il Serafino le bloccò il capo con una mano e glielo coprì col panno,
poi un boia le versò sul volto altra acqua. Ad Agatha parve di
affogare, si dimenò ma gambe e braccia tese e legate strette le
impedivano i movimenti. Provò a gridare ma fu peggio.
Durò pochi secondi che le parve un tempo infinito.
L’orrendo trattamento venne sospeso e lei, cercando di trattenere i
singhiozzi e riprendendo a respirare, si affrettò a proseguire l’elenco
delle informazioni fornite ai demoni, con la speranza che la
lasciassero andare al più presto. «Dove sono le basi terresti… quanti
angeli ci sono… le guardie, gli Arcangeli sulla Terra».
«Puttana» sibilò Jolin.
Il supplizio riprese, stavolta più a lungo e ad Agatha sembrò di
essere giunta alla fine dei suoi giorni. E avrebbe preferito andasse
così, piuttosto che resistere e subire chissà quali altre crudeltà. Ma,
com’era ovvio, gli angeli l’avrebbero tenuta in vita per spremerla fino
all’ultima goccia, lo sapeva.
Quando la succube poté riprendere a respirare, giunse un’altra
scomoda domanda: «Come sei riuscita a comunicare con i demoni?
Tu non puoi smaterializzarti».
Respirare adesso era pressoché impossibile percorsa com’era da
dolori atroci, ma si sforzò di rispondere: «Un generatore di portali…
l’ho usato per… spostarmi di nascosto».
Il Serafino ringhiò qualcosa tra i denti poi le sferrò un pugno sul
fianco scoperto, mozzandole il fiato.
Agatha si sentì svenire e sarebbe stato cento volte meglio che
continuare a essere sveglia.
«Perché Lucifer ha rubato le reliquie?»
«Non lo so…» biascicò con la bocca impastata di sangue. Sopra il
volto sfinito comparve di nuovo l’imbuto, le venne infilato in bocca e
fu costretta a bere altra Acqua Santa. Le andò di traverso e fu
ancora più doloroso.
D’improvviso si pentì di ogni malefatta, nonostante quasi ogni sua
azione fosse stata guidata da qualcuno più forte di lei.
Non aveva avuto scelta: tradire o morire.
Nel corso di quegli anni era stata sempre nel mezzo, una
demonessa che non si sentiva tale, un angelo di adozione che non
avrebbe mai potuto essere altro. Nella sofferenza non seppe
nemmeno a quale dio rivolgersi; poiché Agatha un dio non l’aveva
mai avuto.
«Sì che lo sai!» gridò il Serafino. «Dimmelo e smetterò» ma lei
continuò a dibattersi come un pesce in una rete, impossibilitata a
rispondere.
Il torturatore godeva nel farle ciò; la ragazza in lui rivide Chris e si
domandò se il sadismo fosse una caratteristica di ogni Serafino.
Agatha urinò, perdendo il controllo sul proprio corpo. Se ne rese
conto e pianse, mentre Jolin rideva di lei insieme ai due boia dallo
sguardo coperto dal cappuccio.
«Io non lo so!» strillò con disperazione, ferendosi la gola e
tentando invano di liberarsi dalla stretta ferrea del suo aguzzino.
«Allora dimmi quali altri piani ha quel maledetto del tuo Signore».
Agatha scosse il capo supplichevole. «Non so niente. Nessuno lo
sa».
Il Serafino le rispose con un altro pugno nel fianco che le provocò
un altro conato di vomito. «Sei una puttana inutile!» Gettò secchio e
imbuto in terra e le liberò polsi e caviglie, spingendola giù dal lettino,
lasciando che cadesse sul pavimento freddo. Fece il giro e prima
che lei potesse anche solo mettersi carponi, l’afferrò per il collo e la
lanciò contro la parete.
La ragazza cercò di mettersi in piedi, ma scivolò in ginocchio,
macchiando la parete bianca con il sangue che le impregnava le
mani.
«Come comunicavi con quei maledetti?» Jolin le si avvicinò a
grandi passi. «Sei sempre stata qui. Come hai fatto?»
Agatha si chiuse in posizione fetale, ma si affrettò a rispondere
con la speranza di evitare altro dolore. «Baal… mi aveva dato un
dispositivo impossibile da rintracciare» trasalì per un movimento
brusco del Serafino: si era chinato su di lei. Con voce roca e alterata
dal pianto continuò: «Per non destare sospetti cambiavo sempre
luogo in cui attivare il portale. Nei mesi pari ci incontravamo il
sedicesimo giorno, nei mesi dispari il ventunesimo. Capitava di non
presentarmi agli incontri in assenza di novità, e a volte anche per il
pericolo che avrei potuto correre: cercavo di essere prudente».
«Vi voglio fuori» ordinò Jolin, passandosi una mano sul viso rasato
e imperlato di sudore; i boia obbedirono.
Lui e la prigioniera rimasero soli.
«Un piano fin troppo intelligente da usare contro di noi» aggiunse.
La ragazzina deglutì. «Vi prego, ho collaborato! Lasciatemi
andare… vi ho detto tutto ciò che sapevo» tentò una seconda volta
con la magra speranza di convincerlo a liberarla.
Jolin si alzò e raggiunse la porta, la chiuse a chiave e si voltò con
un lampo perverso nello sguardo. «No, non abbiamo finito» si
avvicinò slacciando i pantaloni.
Agatha indietreggiò d’istinto trovandosi con le spalle al muro. «Per
pietà, lasciami andare…» la voce le si ruppe e questo divertì il
carceriere che si inginocchiò e, afferrandola per le caviglie, la
trascinò verso di sé. «Sei una succube, no? A te piace scopare».
Agatha provò a divincolarsi, senza successo. Cercò di ritrovare in
sé la forza di reagire, di lottare, ma Jolin le menò uno schiaffo
violento, ferendola con l’anello che aveva all’anulare. Lei allungò le
mani per graffiarlo, ma il Serafino le bloccò entrambi i polsi sul
pavimento facendo pressione su di essi; le braghe già calate.
La ragazza gridò in cerca d’aiuto, un aiuto che non sarebbe mai
giunto. Voltò il capo concentrandosi sulle ruote del lettino di metallo.
Le fece male.
Chiuse gli occhi.
Ricordò con quanta forza Gabriel avesse difeso Odry dalle torture
di Chris e desiderò con ardore che qualcuno in quel momento
facesse lo stesso.
Ma nessuno avrebbe lottato per lei.
Il principe

09 dicembre 2025 d.C.


Notting Hill - Londra, Terra

Erano passate tre mesi dalla battaglia che aveva segnato la


sconfitta di Lucifer, l’Imperatore infernale.
Il Generale demoniaco Sergei Baal Katromirov era stato
annientato e l’esercito, o ciò che ne restava, aveva fatto ritorno in
condizioni disastrose annunciando la perdita dell’ultima reliquia
mancante nella collezione del Signore Oscuro: il Graal.
Era stato un tracollo oltraggioso. La notizia era arrivata in ogni
angolo dei regni affiliati, allarmando i regnanti sostenitori, impegnati
a combattere su altri fronti.
Gli animi erano scombussolati, all’Inferno. Il Sovrano sperperava
le ricchezze, i suoi capricci erano ormai emersi alla luce del sole,
chiari e indecenti. Troppi per continuare a subire a testa bassa.
I ribelli avevano iniziato a uscire allo scoperto, facendo leva sullo
scontento generale per allargare l’opposizione. Quindi avevano dato
il via alla rivolta.
I civili avevano oltrepassato con la forza i posti di blocco, infranto i
passaggi che segnavano i confini con ogni distretto, spingendosi
come una marea incontrollabile fino al cancello nero del palazzo.
Tutti erano ammassati quasi gli uni sugli altri attorno a esso come
una terribile bomba pronta a esplodere.
Lucifer si era barricato nel Quartier Generale, circondato da
numerose file di soldati che tenevano a bada i tentativi di sommossa.
Dentro la sala del trono camminava avanti e indietro, nervoso come
un animale in gabbia. Pensava e ripensava a tutto ciò che era
accaduto. Si trovava con le spalle al muro, ma non riusciva a
smettere di cercare una soluzione.
La prima cosa da salvare era la sua credibilità: la violenza sarebbe
stata utile fino a un certo punto. Il popolo non lo venerava più come il
dio che aveva sempre fatto credere di essere.
Era stato molto bravo a giocare con le menti deboli dei bisognosi,
li aveva sfruttati facendoli passare per eroi virtuosi ai quali il sistema
doveva molto. Ma il lento risveglio collettivo era già iniziato e lui non
se n’era reso conto per tempo.
Tutto era peggiorato con la fuga di Odry e Satan Crane, due dei
membri del suo Concilio Ristretto ormai decimato. La notizia del loro
allontanamento volontario era trapelata e il popolo aveva iniziato a
dubitare, a riflettere. Perché due dei suoi più utili e importanti
collaboratori avrebbero dovuto fare una cosa simile?
La domanda aveva trovato una risposta in certi messaggi che
andavano in onda su qualsiasi schermo della Capitale da tre mesi.
Il volto del giovane Belial compariva di tanto in tanto nei televisori
delle famiglie benestanti, negli schermi dei computer, sui monitor
pubblicitari affissi ai palazzi delle zone ricche e su quelli malmessi
dei bassifondi.
La sua voce, il volto e gli occhi grigi dallo sguardo brillante,
accentuati dai capelli neri, attiravano l’attenzione. Con un taglio corto
e pulito e un’espressione decisa aveva lasciato tanti a bocca aperta,
riuscendo a trasmettere una maturità che nessuno aveva mai
creduto di vedere in lui.
Il principe, rimasto a lungo soggiogato dal padre, si rivoltava
contro il sistema di cui aveva fatto parte.
Aveva raccontato la propria storia, si era pentito e scusato. Poi
aveva iniziato con i discorsi di incoraggiamento ai rivoluzionari,
incitando gli spettatori ad andare contro la monarchia dittatoriale che
stava conducendo il regno al collasso.
Frutto di un perfetto e capillare hackeraggio, di cui Odry andava
molto fiera, i discorsi del ragazzo smuovevano l’orgoglio di quelle
povere anime stremate e schiacciate.
Anche quella volta, alla partenza della trasmissione, la Capitale
ammutolì.
«Siete il mio popolo» iniziò Belial «e siete ciò che non dovreste
essere: servi. Quel despota con la pancia piena vi fa mangiare la
polvere da tutta la vita! Dovreste essere la sua forza e viceversa, ma
allora ditemi: come può darvi sicurezza un individuo come Lucifer?!»
Venne enunciata una verità assoluta. Ormai pendevano dalle sue
labbra, guardandolo e ascoltandolo come fonte di speranza e
orgoglio. Forte e risoluto, riscaldava i cuori di chi aveva iniziato a
perdere la speranza e rinvigoriva gli animi di coloro che da settimane
cercavano di penetrare nel Quartier Generale.

«Continua» intimò Satan con il solo movimento delle labbra, da


dietro la telecamera. Passò una mano tra i capelli color carota; lo
sguardo blu serio e concentrato.
L’artefice di ogni discorso del ragazzo era proprio lui. Aveva
costruito tutto facendo affidamento sulla dote di abile oratore di cui
disponeva e lasciando che anche Belial contribuisse. Sapeva, infatti,
che il principe non avrebbe raggiunto la giusta enfasi se avesse
dovuto imparare a memoria qualcosa di fatto e finito.
Odry amministrava le riprese. Con una coda disordinata da cui
sfuggivano corti ciuffi rosso ciliegia e una tazza di latte corretto tra le
mani, si spostava con una sedia con rotelle da un computer all’altro,
affinché la barriera virtuale non venisse infranta dai tecnici di Lucifer,
che senza sosta tentavano di debellare il virus inattaccabile.

«Un padre che maltratta i propri figli non è degno di tale nome e
voi siete tutti figli suoi. Ma è giunto il momento di impugnare le armi
e digrignare i denti, è giunto il momento per voi di riprendere in mano
le vostre vite e la vostra terra!»
Un grido di assenso si levò dalla folla, così alto e potente da far
vibrare le vetrate del castello.
Erano in visibilio, entusiasti, carichi.
Lucifer strinse i pugni.

«Abbiamo ancora un minuto, poi rischiamo di essere scoperti»


comunicò Odry a bassa voce guardando gli schermi a uno a uno, le
immagini riflesse negli occhi del colore del cielo limpido.
«Vi dico solo questo, per concludere» continuò Belial, in perfetto
orario per la fine della breve orazione «affilate le lame e risvegliate il
coraggio perché arriverà presto il giorno della liberazione».
I civili esplosero, inneggiando alle parole del giovane, battendo le
mani, i pugni sugli scudi dei militari, i piedi sulla strada, ricevendo
l’ennesima dose di motivazione necessaria per continuare a tenere
testa all’esercito.
Il principe aveva ragione: nessuno avrebbe mollato.
Erano un’unica entità in cerca di libertà, un unico cuore che
batteva vigoroso e insieme avrebbero fatto la differenza.

«Siamo offline» annunciò Odry facendo ricadere le spesse cuffie


attorno al collo e portando gli occhiali sulla testa. Orgogliosa, si
sporse in avanti per dare una pacca sul ginocchio di Belial.
«Hai fatto un ottimo lavoro» gli disse Satan battendogli una mano
sulla spalla «e io sono fiero di te» aggiunse con un radioso sorriso.
La demonessa annuì per confermare.
Il ragazzo si lasciò andare con la schiena sul divano, tirò un
sospiro di sollievo. «Ho sempre paura di fare la figura del coglione
con i tuoi testi. Sono troppo arzigogolati per quelle persone e ho
difficoltà a memorizzarli».
«Hanno capito tutti quanti» sminuì Satan. «Hanno bisogno di
concetti semplici ma non di sentirsi trattare come degli ignoranti. I
miei scritti sono il giusto compromesso».
«Un pochino poetici, ma concordo» ribatté Odry.
«Io li definirei epici» rispose Satan. «Comunque ripeto: hai fatto un
ottimo lavoro».
«Grazie, ora posso andare a farmi una doccia? Non mi avete
nemmeno lasciato respirare dopo il turno di lavoro».
«Vai, vai tranquillo, te lo meriti!» convenne il rosso. «Ti preparo il
pranzo» aggiunse, sistemando i fogli sparsi con gli appunti del
discorso.
«Anche per me, grazie». Odry distese gambe e braccia,
spingendosi coi piedi si allontanò dal tavolo.
«Ci mancherebbe». Il demone andò in cucina. Era di buon umore,
e nell’ultimo periodo non era capitato spesso. Le dirette
di Belial andavano bene e il lavoro per farle funzionare era
egregio. La rivoluzione pianificata dal Progetto Thoctar era iniziata e
lui non poteva essere più fiero del loro lavoro. L’ultimo pensiero
positivo andò ad Asmodeus, il fondatore del progetto stesso, poi
tornarono i ricordi cupi.
Tre mesi prima si erano battuti contro Baal, erano usciti vincitori
ma nel momento cruciale Zachary li aveva traditi.
Odry non aveva più affrontato l’argomento, ma si era buttata a
capofitto nella sua ricerca. Negli occhi le brillava la luce sinistra della
vendetta, ma anche della delusione più profonda. Voleva ucciderlo
con le proprie mani e non si sarebbe data pace fino a che non ci
fosse riuscita.
Lui invece, per tenere la mente occupata, si era dedicato alla cura
della casa londinese insieme a Karen, Vicky e le sorelle succubi,
aiutando e ringraziando la padrona di casa per averli accolti
nonostante non li conoscesse.
Un altro buio pensiero riguardava gli Arcangeli. Questi si erano
rivelati amichevoli e propensi alla collaborazione, li avevano tenuti al
sicuro nelle loro case sulla Terra e aiutati durante lo scontro con gli
eserciti demoniaci nell’Irlanda del Nord, tutto per impedire a Lucifer
di rubare il Graal. Poi Gabriel e gli altri non si erano più fatti vivi: non
un messaggio, non una chiamata. Come se non fossero mai esistiti.
La loro presenza li avrebbe fatti sentire meno soli e… più al sicuro.
Raphael era l’unico che ancora faceva la spola tra Terra e
Paradiso, di nascosto, per tenere sotto controllo la salute di Odry, di
Georgette e di Vicky. Non si era mai espresso in merito allo stato dei
compagni e cercava sempre di trattenersi il meno possibile.

«Dov’è Ania?» domandò Belial a bocca piena, mentre si gustava il


panino imbottito, distogliendolo da quei pensieri.
«Non ne ho idea, forse è ancora in camera o magari è uscita»
rispose Odry. «Da quando Zachary ci ha traditi, si è chiusa in se
stessa molto più di prima e non ho davvero idea di cosa fare per
aiutarla» ammise con rammarico.
«Le ho comprato un dolce» esordì il giovane. «Dopo tutto ciò che
ha fatto per noi non le abbiamo mai regalato nulla di carino».
La demonessa annuì mortificata. «Non hai tutti i torti. Dobbiamo
rimediare, non ci ha nemmeno mai chiesto un soldo…»
Satan si trovò d’accordo. «Dobbiamo trovare il modo di aiutarla a
riprendersi, o almeno farla distrarre».
Belial con sconforto disse: «Sì, e dobbiamo anche racimolare
qualcosa per noi. I fondi che avevamo stanno finendo».
«Io sono riuscita a prelevare qualcosa dal mio conto, posso
provvedere alle spese finché mi sarà possibile» dichiarò Odry. «Ora
che Baal è stato messo fuori gioco, ho potuto recuperare le mie
carte di credito» aggiunse rivolgendosi a Satan che la fissò
sconvolto. «Ho recuperato anche le tue» precisò la ragazza con una
smorfia lasciando che quello si rasserenasse.
«E io devo lavorare!» Belial poggiò la testa sul bracciolo del
divano per la stanchezza.
«In effetti i tuoi soldi li ha Lucifer» Satan, divertito, gli poggiò di
fronte una fetta di torta alla cannella.
«Già, il principe che non ha un proprio conto ma un padre che gli
paga tutto. A proposito di principe, pensate ci seguiranno?»
Odry gli rubò un pezzo di torta e rispose, rassicurandolo: «Lo
stanno già facendo, dobbiamo continuare a mobilitare le masse e
tutto andrà come deve». Poi si estraniò dalla conversazione. In
sottofondo Satan chiedeva a Belial di raccontargli come fosse
andata la giornata.
Fissò il parquet sotto ai piedi, poi si voltò verso il soggiorno
intercettando il groviglio di cavi e infine lo schermo piatto del
computer. Un’idea iniziò a farsi strada con la prepotenza di un carro
armato. Gli occhi passavano in rassegna ogni dettaglio sul monitor,
le immagini dell’Inferno in subbuglio, scandagliando mentalmente
ogni possibilità di riuscita.
«Devi scendere all’Inferno, Belial» disse d’un tratto.
Il ragazzo si voltò verso di lei, perplesso. «Sei matta?»
Odry inarcò il sopracciglio. «No, tutt’altro. Lucifer in questo lasso di
tempo starà di certo riorganizzando le forze per un secondo attacco
più forte di quello in Irlanda. Inoltre la nostra gente prima o poi avrà
bisogno della tua presenza lì con loro. Quindi è meglio che ci
sbrighiamo a guidare il popolo dalla nostra parte, senza attendere
che il loro Imperatore ci anticipi con un bel lavaggio del cervello di
massa. O un genocidio».
Satan tacque.
«Lì con loro? In mezzo a loro? All’Inferno?» Belial iniziò ad avere
paura. «E io come faccio? I discorsi li scrive Satan! Non saprei cosa
dire! E ti ricordo che sono scappato anche io e che per quanto ne
sappiamo potrebbe esserci una taglia sulla mia testa consistente
quanto la vostra!»
«L’intera città ti smembrerà senza ripensamenti se non dirai
qualcosa che faccia trovare la speranza, quindi devi renderti
indipendente. A ogni modo ci faremo venire in mente un discorso
semplice, ma dovrai metterci del tuo come sempre, dopotutto
credono in te. Quindi non mi preoccuperei troppo della taglia finché
sei in mezzo a coloro che rimangono a fissare la tua immagine a
bocca aperta. Loro saranno la tua forza» continuò Odry grattandosi
la fronte, pensierosa.
«E per quanto riguarda Lucifer? Come facciamo a impedire che
l’esercito torni qui?»
«Dobbiamo mettere fuori uso i portali, è l’unico modo». La
demonessa si alzò in piedi espirando con stanchezza. «La mia idea
è questa: quando Belial scenderà dovrà usare il popolo come ariete
e sfondare i cancelli affinché tutte le forze affluiscano all’ingresso.
Così facendo gli occhi di Lucifer saranno puntati sulla rivolta e non
su di lui che dovrà approfittarne per entrare e manomettere il
funzionamento dei portali».
Il ragazzo si stava torturando le mani.
Satan divenne dubbioso. «Quello primordiale è impossibile da
distruggere».
«Invece no» lo contraddisse Odry. «Il portale primordiale può
essere corrotto, secondo i miei studi. Occorrerebbe versarvi dentro
dell’Etere angelico che lo porterebbe al collasso per un tempo
indefinito; la sua ricalibratura dipenderà dalla potenza stessa di cui è
dotato, da quanto tempo impiegherà a rigettare l’elemento di
contaminazione e dalla quantità di Etere inserito. Belial avrà poco
tempo per fare ciò che deve e tornare qui. Forzando gli impulsi è
anche possibile che una volta danneggiato, gli altri portali vadano in
overload creando un innesco a catena».
Silenzio.
«Io non ho capito niente» ammise Belial con spiazzante onestà.
«Io pure» confermò Satan.
Odry sbuffò. «Cosa non vi è chiaro?»
«Tutto» risposero in coro, ma Belial, sempre più preoccupato,
incalzò: «Ho capito solo che hai bisogno dell’Etere angelico. Come
hai intenzione di procurartelo?»
«Raphael potrebbe portarcene un po’, dato che è l’unico con cui
abbiamo ancora contatti» e, a tradimento, l’immagine di Gabriel le
tornò alla mente. Tentò in ogni modo di non farsi distrarre, ma alla
fine cedette, come sempre. E questo le fece male. «Glielo
chiederemo quando scenderà per le solite visite» si affrettò ad
aggiungere, distogliendo lo sguardo.
Satan s’intenerì di fronte alla palese sofferenza d’amore
dell’amica. «Si farà vivo, vedrai».

II

«Non va bene per niente, cazzo». Odry borbottava da cinque


minuti la stessa solfa.
Erano passati tre giorni dall’ultimo discorso e già la situazione si
stava incrinando.
«Cosa c’è che non va?» domandò Satan, posando sul tavolo
accanto al computer i nuovi appunti per il discorso che Belial
avrebbe dovuto esporre al rientro dal lavoro.
La demonessa indicò lo schermo con le riprese in tempo reale dei
civili al Quartier Generale, grazie ai droni comandati a distanza.
«Come avevo immaginato, stanno iniziando a essere scontenti
dell’assenza di Belial, quando mai un leader non combatte insieme
al suo popolo?» aggrottò le sopracciglia.
Satan si morse le labbra. Il ragazzo avrebbe dovuto sacrificarsi
per scendere tra la folla e guidare la rivolta, ma non avevano ancora
avuto modo di chiedere a Raphael di portare l’Etere.
«Raphael dovrebbe venire stasera» Odry diede corpo ai suoi
pensieri. «Il generatore è in fase di ultimazione, ma potrebbe
reggere solo andata e ritorno».
«D’accordo. Appena Belial rincaserà, ci accerteremo che voglia
davvero unirsi al popolo».
«Non abbiamo alternative».
Belial quella sera finì il turno al supermercato alle sette, e
mezz’ora dopo era a casa.
Karen gli andò incontro e lo baciò sulla guancia, con amore. Ania
non staccò gli occhi dal muro del soggiorno che aveva iniziato ad
affrescare due giorni prima e Odry lo salutò con un cenno del capo,
distraendosi solo per un momento dal macchinario che aveva di
fronte.
Satan lo raggiunse e gli sorrise, mascherando alla bell’e meglio il
suo turbamento. «Oggi giornata piena?»
«Sì» rispose lui sospirando. «I soliti ragazzini che hanno
combinato il solito disastro e, ovviamente, hanno messo me a pulire
perché sono l’ultimo arrivato».
«Il solito sfigato» commentò Odry divertita, giocherellando con una
chiave inglese.
«Avanti, vieni a mangiare qualcosa: ho appena finito di preparare
la cena» lo invitò il rosso.
Belial lo seguì in cucina, senza notare la tensione, e si accomodò
sulla prima sedia. «È già pronto il discorso di oggi?»
«Senti…» Satan si passò una mano dietro il collo. «Odry aveva
ragione, i popolani sono nervosi, vogliono che tu li guidi nella rivolta,
il prima possibile».
Il giovane prese a masticare con calma, da quando Odry aveva
avanzato il progetto, per lui era come essere diventato il
protagonista di un incubo.
«Il portale reggerà l’andata e il ritorno di una persona sola. Ma tu
devi essere consapevole di ciò che ti aspetta. Non vogliamo che ti
accada nulla» avvisò la demonessa.
Belial si voltò verso Odry che si era appena seduta a tavola e
seria scrutava entrambi. Karen, angosciata, si accomodò poco
distante.
«Prenditi ancora del tempo per pensarci, valuta bene ogni
dettaglio».
«Quali dettagli?» domandò il ragazzo, turbato.
«Potrebbero aggredirti, potrebbe andar storto qualcosa con le
guardie di Lucifer o con gli stessi membri del Concilio. Sono cose
che devi valutare, non puoi prendere una decisione senza analizzare
pro e contro» rispose Satan.
«Non hanno tutti i torti» constatò Vicky. «I leader politici scendono
spesso in mezzo al popolo, soprattutto per stimolarli a stare dalla
loro parte».
«Ovviamente qui parliamo di frotte di demoni incazzati» precisò
Odry, mentre Ania ignorava l’ennesimo richiamo di Satan per la
cena.
«La situazione peggiorerà se continuerò a stare qui. Giusto?»
domandò il ragazzo.
Nessuno dei due rispose ma fu Ania a intromettersi dall’altra
stanza. «Se tirerà il vento, l’aquilone si alzerà in volo. E se anche il
vento dovesse cambiare, l’aquilone continuerà a volare».
Tra i presenti calò un silenzio imbarazzante.
Karen ruppe la tensione con una risatina nervosa e Belial chiese:
«Ma perché dice sempre cose strane?»
Odry, però, aveva colto al volo la metafora. «Intende dire che se
qualcosa è destinata a funzionare, funzionerà a prescindere dalla
piega che prenderanno gli eventi». Si versò da bere e Satan annuì
piano.
«Perché non può andare uno di voi?» domandò il ragazzo con un
barlume di speranza, ma la rossa lo smontò in meno di un secondo.
«Per tre semplici motivi: il primo è che io servo qui a controllare che
il generatore funzioni, altrimenti sono cazzi; Satan deve proteggere
la casa e solo lui è in grado di mantenere attiva e costante la
barriera che ci avvolge e, terzo, tu sei il principe, loro sono i tuoi
sudditi. Non ti avranno scelto come sovrano, certo, ma ti scelgono
ora come leader».
Belial di toccare cibo proprio non se la sentì più. La
consapevolezza che qualcosa potesse andar storto lo faceva
rabbrividire, in quel caso avrebbe messo a rischio la propria vita e
quella di tutti gli altri. «Non lo so, non me la sento…»
«Se il popolo ti ama ti proteggerà, vedrai» lo rassicurò Vicky.
«Comunque dipenderà tutto da come ti porrai e da cosa dirai»
aggiunse Odry. «Basta una sola parola sbagliata e potresti ritrovarti
con la testa staccata dal corpo».
«Non mi invogli a scendere, Odry» rispose Belial allontanando il
pasto a metà. Sbuffò infastidito e tornò alla carica: «Quanto ci
metterà il dottore a portarci l’Etere?» si mostrò nervoso, ora, nei
confronti dell’Arcangelo assente.
«Mangia!» lo rimproverò Satan, spingendo il piatto verso di lui.
«Da loro la situazione è piuttosto delicata ed è comprensibile che si
faccia attendere. In ogni caso, ti ho preparato un discorso adatto alla
situazione, ma è un po’ lungo e dovrai spicciarti a memorizzarlo».
«Ho sempre fatto schifo con lo studio frettoloso» mugugnò Belial e
si alzò, rifiutando di nuovo la cena, per andare a leggere il testo
abbozzato da Satan.
«Hai sempre fatto schifo e basta» precisò Odry con la solita
pungente ironia, iniziando a mangiare. «Hai quindici minuti, poi
andiamo in onda!»
«Prova a rielaborarlo a parole tue e ricorda di mostrarti convinto!»
continuò Satan a voce più alta.
«Parla con il cuore» aggiunse Vicky, ormai immersa nella cena.
“Sì, come se fosse facile” pensò Belial.

III

La sera seguente, Raphael giunse più tardi del solito.


Si materializzò, come sempre e per buona educazione, di fronte
alla porta di casa. Suonò il campanello e fu Satan ad aprire e farlo
accomodare.
«Mezz’ora di ritardo è inaccettabile, chiedo scusa» si apprestò a
dire l’Arcangelo francese, con una nota di amarezza. «Ho dovuto
trattenermi per via di una brutta notizia che mi è stata riferita solo
oggi: la spia è gravida».
«Non c’è bisogno di scusarti» si affrettò a dire Satan battendogli
una mano sulla spalla.
«Di che spia parli?» s’intromise Odry, voltandosi con la sedia.
«Agatha, la ragazza che si è divertita a prendersi gioco di Cassiel
e Gabriel».
Odry si irrigidì. «Quindi… stai dicendo che Gabriel potrebbe
essere il padre?»
Satan guardò Raphael attonito, apprendendo in ritardo la
delicatezza della questione.
«Sempre che non abbia avuto rapporti con altre persone».
L’Arcangelo legò i lunghi capelli biondi. «In ogni caso, dov’è
Georgette? Oggi inizio da lei».
Odry sentì un vuoto allo stomaco, tornò a concentrare l’attenzione
sugli schermi. Laconica rispose: «Di sopra, al secondo piano, con
Vicky. La prima camera sulla sinistra».
Raphael quindi raggiunse la stanza e bussò tre volte per farsi
riconoscere.
«Avanti!» La formosa succube dalla pelle lilla sedeva sul bordo del
letto, intenta a intrecciare i dorati capelli di Georgie. Gettò uno
sguardo verso l’entrata e ruotò gli occhi verdi, le pupille da gatto si
restrinsero, seccata. «Per quanto ancora dovrò vedere la tua brutta
faccia?»
«Finché lo riterrò opportuno» ribatté l’Arcangelo. Chiudendo la
porta, si rivolse alla bambina: «Ciao Georgie, come stai oggi?»
«Benissimo!» squittì lei saltellando sul posto. «Tu, invece?»
«Bene, grazie» mentì l’uomo. Aprì la borsa con gli attrezzi che gli
occorrevano, lo sguardo cupo andò alla breve ricerca dello
stetoscopio e di un cavo multiplo con cinque ventose che collegò al
proprio telefono. «Siediti e togli la camicetta».
La bimba di sei anni si accomodò sul letto con un balzo e grazie
all’aiuto di Vicky riuscì a rimuovere l’indumento. La succube però
scrutò a fondo l’Arcangelo, mentre si districava con le dita la chioma
verde acido. «Sicuro di stare bene?»
Raphael usò sulla bambina il primo apparecchio, tacque per
concentrarsi sui battiti e il respiro; intanto ponderava la risposta, ma
presto convenne che non ce ne fosse una migliore di un’altra.
Ripose lo stetoscopio e attaccò le ventose sotto le orecchie, sui polsi
e all’altezza del cuore; selezionò alcune opzioni sullo schermo del
cellulare e rimase in attesa mentre venivano calcolati i valori e
illustrati in un grafico a linee. «Dopo vi parlerò di come si sono
evolute le cose da noi e del perché nessuno è tornato qui».
Vicky storse il naso, accarezzando ora la testa della bimba che si
fissava i piedi a penzoloni sulla sponda del letto. Georgie alzò il volto
e fissò Raphael, gli mise le manine sulle guance senza dire nulla. Si
limitò a osservarlo e Vicky la guardò stranita.
«Cosa c’è?» domandò lui, intenerito.
«Sei triste» dedusse la piccola.
«Non essere invadente, tesoro» la rimbeccò la succube, severa.
L’apparecchio suonò più volte e lo schermo mostrò i risultati,
secondo Raphael, ottimi. «Brava» disse «si vede che stai seguendo i
miei consigli: stai recuperando e tornando in salute». Sorrise
debolmente, staccò le ventose e ripose tutto nella borsa. Sollevò lo
sguardo sulla demonessa mentre aiutava la piccola a rivestirsi. «Ora
tocca a te».
Raphael diede un’occhiata alla brutta ferita che Vicky si era
procurata durante l’attacco dei demoni di Baal a Budapest: il foro,
provocato da una grossa scheggia di legno, stava cicatrizzando
bene. Disinfettò i punti e cambiò i bendaggi.
«Presta attenzione!» le intimò duro dato che Victoria non aveva
mai seguito le sue avvertenze.
Lei non gli diede retta, ma non gli staccò gli occhi di dosso.
Qualcosa in lui non andava. Certo, non aveva mai avuto una buona
considerazione di lui, a parte il fatto che si rendeva utile come
medico, ma quella volta sembrava perso nei suoi ragionamenti.
«Hai una faccia di merda» lo approcciò seria. «Addirittura
peggiore degli altri giorni. Sono davvero messe tanto male le cose in
Paradiso?»
«Non intendo ripetermi, racconterò quando saremo tutti insieme».
«Perché rispondi sempre in modo tanto sgarbato?»
«Da che pulpito…»
Una volta terminato anche con lei, le invitò a scendere al piano di
sotto per raggiungere gli altri: sarebbe stato il turno di Odry, ma
anche il momento giusto per dire tutto. Quest’ultima, insieme a Belial
e agli altri, era accomodata alla tavola imbandita: era già ora di cena.
Georgie si sedette accanto a Karen e Odry seguì Raphael con lo
sguardo tenendo le labbra incollate al bicchiere pieno di vino.
Anche a lei saltò subito all’occhio il suo strano stato
d’animo.«Tutto bene doc?»
“No” pensò lui “Ma perché mentire ancora? Hanno il diritto di
sapere”. Sospirò, tolse gli occhiali da vista e massaggiò gli occhi con
due dita. «Prima della visita a Odry, voglio darvi alcune novità».
Fece una pausa, in attesa che tutta l’attenzione fosse rivolta a sé.
«Cassiel e tutti gli Arcangeli che hanno partecipato alla battaglia per
il recupero del Graal sono stati incarcerati. La durata della pena è e
rimarrà di tre mesi, se tutto andrà bene».
Un brusio si diffuse nella stanza.
«È uno scherzo?!» commentò Satan, sgomento.
Karen mise una mano davanti alla bocca con le lacrime agli occhi
pensando alla sorte di Raziel e venne consolata da Vicky che
protestò: «Come hanno potuto! Non si rendono conto del grosso
contributo che hanno dato?»
«È ridicolo» si accodò Molly, la succube alta e muscolosa,
ricevendo il consenso di Summer accanto a lei, la sorella minore.
«Gabriel…» disse Odry in un soffio. «Sta bene?»
Raphael, rigido e a disagio per essere stato sommerso da quel
fiume di commenti e domande, rispose: «Stanno bene, tutto
sommato. Sono stati processati e sarebbe andata molto peggio se
non ci fosse stata l’attenuante per aver tentato di salvare la reliquia».
«Sono stati torturati?» domandò Satan angosciato.
«No».
«Aspetta. Quando è successo?» chiese Vicky.
«Tre mesi fa, appunto…»
La succube lo squadrò inviperita. «E perché ce lo dici solo ora?
Più volte ti abbiamo chiesto informazioni».
«Non volevo che vi preoccupaste. Con ciò che affrontate ogni
giorno, ho ritenuto che tacere fosse la scelta migliore».
«E tu, quattrocchi, com’è che non sei finito in cella con tutti gli
altri?»
«Perché sono rimasto al DEM a disposizione dei feriti. E se fossi
in cella voi vi sareste dovuti arrangiare» ribatté aspro.
Victoria si esibì in una smorfia sprezzante e distolse lo sguardo,
invitata da una gomitata ricevuta da Ruby, l’altra sorella della
succube, dalla pelle rossa e la chioma nera.
«A questo proposito» proseguì Odry amareggiata per la notizia
«abbiamo un favore da chiederti: tu potresti procurarci dell’Etere?»
L’Arcangelo si mostrò sorpreso e per un attimo incrociò lo sguardo
preoccupato di Belial. «A che vi serve?»
«Ho pensato ad alcune possibili situazioni che potrebbero
verificarsi nel prossimo futuro». Odry si scompose sulla sedia,
lasciando andare le spalle contro lo schienale: «Lucifer si starà
preparando. Sono certa che stia organizzando le forze per un nuovo
attacco alla Terra e le probabilità che questo sia molto più potente
del precedente sono alquanto elevate».
«Per cercare il Graal? Per costringerci a renderglielo usando gli
umani come capro espiatorio?» domandò il francese.
Lei bevve un ampio sorso di vino e fece spallucce. «Conosciamo
Lucifer, ma al contempo è come se fosse un mistero. Macchina
sempre qualcosa. Tutt’oggi non sappiamo a cosa gli servano le
reliquie, per esempio. In ogni caso, ciò che ho in mente per impedire
una catastrofe e darci il tempo di organizzarci è far scendere Belial
all’Inferno così da far ribellare l’intera Capitale affinché si abbatta sul
Quartier Generale. Sfrutteremo l’effetto sorpresa per distruggere il
generatore che hanno ricostruito, deviando il flusso costante di
energia quantica, poi bisognerà contaminare il portale primordiale
con l’Etere per sospendere l’attività di tutti i portali e imprigionare
Lucifer all’Inferno». Bevve un altro lungo sorso. «È un’idea
pericolosa, lo so, ma può funzionare».
«Sei davvero convinta che uno come Belial possa riuscire in
un’impresa del genere?» Il tono di Raphael era scettico. «Insomma,
guardalo: è terrorizzato e l’ultima volta che c’era in ballo qualcosa di
grosso è scappato a gambe levate mettendo in difficoltà proprio te».
Il ragazzo si mostrò offeso. «Infatti non ci vado».
«Io mi fido di lui». Odry fu spiazzante, spostò gli occhi a sinistra
intercettando il principe colpito da quell’affermazione tanto sincera.
«È in gamba e se la caverà».
«Ho detto che non ci vado, tu sei pazza. Mi uccideranno lì sotto».
«Non dire cazzate, organizzeremo ogni cosa nel minimo dettaglio.
E puoi stare tranquillo che se ci sarò io a muovere le redini, nulla
potrà andare storto».
Belial abbassò lo sguardo. Il nobile incoraggiamento della
demonessa non sortì l’effetto sperato. «Io sto bene qui. Non puoi
obbligarmi».
«Non abbiamo molta scelta» Odry fu glaciale. «Ne riparliamo».
Silenzio.
Raphael non si scompose, ma le intimò con un cenno del capo di
seguirlo. «Devo visitarti, faremo in fretta».
Odry annuì e si alzò con lentezza.
Si spostarono nella camera da letto che Ania le aveva assegnato.
«Sto peggio di ieri, il mio malessere sembra aumentare ogni
giorno di più» si confidò la demonessa.
«Malessere fisico o…»
«Mentale. E quello mentale mi fa star male anche nel corpo. In
realtà è molto più di questo».
L’Arcangelo la fece accomodare e, dopo aver preso l’occorrente
dalla borsa, le attaccò al petto le stesse ventose collegate al telefono
che aveva utilizzato con Georgette. Non disse nulla fino alla
comparsa dei valori sullo schermo, il tutto mentre lei lo osservava
con impazienza. «In effetti i tuoi valori sono instabili» annunciò. Fece
un’altra prova e di fronte ai nuovi risultati scosse il capo. «Così tanto
che da una misura all’altra sono cambiati».
«Ogni notte è massacrante e non dormo che per un’ora al
massimo» Odry prese un respiro profondo. «Ho così tanto caldo che
mi sembra di impazzire».
«E se fosse un virus che attacca voi demoni? L’ultima volta mi hai
detto che hai iniziato a sentirti così dopo che siete stati al Kokilon. Mi
rendo conto di quanto assurda possa essere l’ipotesi, ma non
escluderei niente».
«Anche io ho pensato a un virus, ma anche allo stress o
all’esposizione prolungata a protezioni angeliche a casa di Uriel e
Raziel. Ma ciò che provo è diverso». Odry poggiò la schiena contro
la spalliera del letto, lo fissò dritto negli occhi e Raphael poté
scorgere una stanchezza infinita. «Provo delle emozioni non mie,
una rabbia che non mi appartiene e mi sento affaticata, come se
questo corpo mi andasse stretto».
«Potrebbero anche essere effetti collaterali causati dalle torture al
DEM. Dopotutto hai interrotto all’improvviso le sedute di recupero col
tuo collega Gaki. I traumi sono difficili da recuperare».
«Rimarrà tra noi questa discussione?»
«Sì, certo» Raphael ripose l’apparecchio nella borsa. «Sarà
pericoloso per voi tenere l’Etere. Ne sei consapevole, vero?»
Odry annuì. «Belial è figlio di Lucifer e lui era un Cherubino, perciò
il ragazzino potrebbe farcela». Sistemò la maglia e si prese un
attimo per pensare, lo scrutò mentre era indaffarato a sistemare
l’attrezzatura. «Io sento una voce».
L’Arcangelo rallentò e si fece attento. «Una voce? Cosa dice?»
«Non ne ho idea… a volte sembra arrabbiata, a volte ha un tono
pacato e sembra stia provando a consolarmi» si portò le mani in
grembo. «È come se ci fosse qualcun altro dentro di me, nella mia
testa».
“Non pensavo che anche i demoni potessero soffrire di malattie di
questo tipo” pensò l’Arcangelo. Poi annuì. «Farò qualche ricerca in
merito, ma temo di conoscere già la risposta».
«Non sono schizofrenica» puntualizzò la demonessa inviperita,
come gli avesse letto nel pensiero.
«Va bene. Tornerò appena possibile con qualcosa che possa
aiutarci a capire di più. Per ora abbiamo finito».
I due tornarono dagli altri. L’Arcangelo salutò, si scusò per la
notizia comunicata tanto tardi e augurò buona cena; dopo che la
rossa gli ebbe ricordato di prendere l’Etere, si smaterializzò in un
fascio di luce. L’ambiente si illuminò per qualche attimo e la forte
luce a Odry diede fastidio. “Come fossi un animale notturno con una
torcia puntata addosso” pensò stizzita, sedendosi.
Le facce di Belial e di Satan attirarono la sua attenzione: il primo
mangiava contrariato, il secondo era in evidente imbarazzo. «Che
succede?» chiese.
Rispose Vicky: «Il ragazzino continua a ripetere che non se la
sente di andare Giù. In effetti me la farei sotto anche io».
«Tu non sai difenderti, lui sì» ribatté Odry.
«Questo non implica che debba farmi andare bene la cosa»
borbottò Belial. «Un conto è stare dietro uno schermo, un altro è
mettere a rischio la propria vita».
Odry scosse il capo. «Tu hai paura di Lucifer, è normale».
«E dimmi niente!» commentò la succube dalla pelle lilla.
«Sì, lo so» la rossa annuì. «Ma qui Belial è l’unico in grado di fare
qualcosa, di smuovere la situazione in maniera concreta. Prima o poi
dovrà rendersi utile». Si rivolse a lui: «Prendilo come un battesimo
del fuoco».
«Non fai ridere». Belial si alzò. «Non ho più fame, me ne vado a
letto. Buonanotte».
La demonessa sospirò. “Così giovane” pensò, “ma deve svegliarsi
e reagire, soprattutto adesso che può rivelarsi una buona arma”.
Poggiò i gomiti sul tavolo. Lo sguardo di Satan puntato addosso la
irritava. «La smetti?» sbottò riempiendosi un bicchiere.
«Sono preoccupato, lo siamo tutti» ribatte l’altro con ovvietà
ricevendo le conferme delle succubi e di chi era rimasto.
Karen accarezzò una spalla della demonessa con dolcezza. «Con
noi puoi parlare cara, lo sai» le disse, ma Odry non si addolcì.
«Parliamo di altro per piacere» rispose.
Vicky, apprensiva, fece per dirle qualcosa quando Georgie impose
alla rossa di farle spazio. Le si arrampicò sulle gambe sedendosi su
di lei. Fu un gesto che a Odry strappò un sorriso. Quindi le
accarezzò i capelli ordinati in due trecce.
«Cos’ha detto Raphael della visita? Sta bene?» domandò
voltandosi verso Vicky che posò la forchetta e si pulì col tovagliolo.
«Ha detto che è forte e che si sta riprendendo bene, i valori sono a
posto ed è tutto sotto controllo». Anche lei diede una carezza alla
piccola, le strizzò le guance piene con una smorfia.
Georgie si sistemò meglio sulle gambe della demonessa e riprese
a mangiare. «Siamo una famiglia strana» esordì.
Satan chinò il capo ridendo, così come Karen e a seguire tutti gli
altri.
«Sì, siamo una famiglia disagiata» confermò Odry con un
sopracciglio sollevato. Avvicinò il viso alla guancia di Georgie, le
schioccò un bacio e le sistemò i capelli sulla schiena, mentre le
veniva riempito il piatto da Satan. Strinse bene i fiocchi alla fine delle
trecce bionde. E all’improvviso oscuri pensieri la turbarono.
Georgette era così piccola e già aveva perso entrambi i genitori.
Era stata catapultata in un mondo diverso, tenuta lontana dai
coetanei per abituarla a cosa dire e non dire agli umani. Doveva
essere dura non godere più dell’amore di qualcuno che ti viene
portato via.
Lei, invece, non sapeva cosa si provasse, non aveva mai ricevuto
un affetto simile da bambina o, almeno, non lo ricordava e Belial non
era poi così diverso da lei. E forse era meglio non ricordare affatto.
Aveva già represso la sofferenza nello scoprire di avere un
gemello che l’aveva usata e tradita, e la gioia nello scoprire, invece,
che l’uomo che l’aveva allevata era in realtà sempre stato il padre
biologico.
Non voleva rimuginarci oltre. Poteva anche bastare.
11 febbraio 2001 d.C.
Orfanotrofio Theseus Willimor Crane – Valle Herith, Inferno

«Forza bastarda! Entra!» Una grossa mano viscida la strattonò e


la spinse.
Le grida di suo fratello erano assordanti. La chiamava, ma Odry
era già dentro l’orfanotrofio. Lo vide per l’ultima volta oltre il portone
pesante, che si chiuse separandoli.
Volle liberarsi dalla presa del grosso demone maleodorante,
corpulento, con la pelle rossa ricoperta di piaghe e peli scuri, ma ne
fomentò la rabbia. Si dibatteva con furia graffiando la mano che la
teneva stretta. «Lasciami! No!» strillò, cercando di fuggire. I piedi
scivolavano sul pavimento lurido del grande e spoglio atrio, che in
quel momento ospitava una decina di tavoli e il doppio delle panche
con bambini, ragazzi e adolescenti seduti in attesa della colazione.
Vide poco della struttura nella quale si trovava, ma il grigiore che
aleggiava come un orrendo presagio fu abbastanza per farle capire
quanto già detestasse quel posto.
Sentì una donna gridare rimproveri. «Riportate il muso sulle vostre
scodelle!»
Odry inciampò, perse il cappello che Zachary le aveva prestato
per ripararsi dalla neve, ma per fortuna riuscì a recuperarlo.
Il demone l’afferrò per i lunghi capelli rosso ciliegia trascinandola
su per la scalinata scura fino a un corridoio senza finestre, dove le
sue grida rimbombavano. Entrarono in una stanza e fu scaraventata
su un letto duro con una coperta di lana infeltrita.
«Rimarrai qui finché non la pianterai di frignare. Ti ci dovrai
abituare a questo buco».
«Voglio andare con lui!» Odry strillò, batté i pugni sul materasso,
le lacrime le annebbiavano la visuale ma era ancora abbastanza
lucida per distinguere la porta. Gli si scagliò contro riempiendogli le
gambe di pugni. «Io devo andare con lui! Lasciatemi uscire!» e
quando quello provò a spingerla via in malo modo, lei gli afferrò il
braccio e lo morse così forte da farlo sanguinare.
Si ritrovò scaraventata contro una parete. Sbatté la schiena con
violenza tale da toglierle il respiro e, prima che potesse alzarsi, la
raggiunse un calcio nello stomaco. «Tuo fratello ha trovato una
famiglia, ma se si comporterà come te farà presto una brutta fine».
Odry vomitò.
La porta si chiuse con uno strattone. I cardini vibrarono, la polvere
cadde dalle travi del soffitto come neve e le arrivò tra i capelli e nelle
narici. Non trovò la forza di muoversi, le lacrime erano inarrestabili.
Prese un respiro dopo un lungo attimo di apnea. Tossì e gattonò
verso il primo letto che riuscì a trovare, notandone due file lungo le
pareti lunghe. Indossò con rabbia il cappello del fratello, salì sul
materasso e si nascose sotto la coperta nauseabonda. Riprese a
piangere e i suoi lamenti arrivarono oltre il corridoio. Le mani
premute così forte contro il volto da sentire una pressione sugli
occhi. Strinse la mascella, si morse la lingua e i singhiozzi divennero
ringhi rabbiosi. Il dispiacere per la separazione era insopportabile
quanto la sensazione di sentirsi soffocare da lacrime e muco.
Passarono i minuti, forse anche le ore, non seppe dirlo, non le
importava, si preoccupò solo quando sentì il cigolio della porta che si
apriva. Non voleva vedere nessuno. Il nervoso fu tale da portarla a
riempirsi di pugni testa e fronte.
Qualcuno, però, la scoprì piano e la bloccò tenendola per i polsi.
«Devi smetterla di urlare così, non ti porterà a nulla. Ti prego, cerca
di calmarti!»
Odry aprì gli occhi e si trovò davanti una giovane succube dalla
pelle lilla, occhi con pupille da gatto verde acido, capelli dello stesso
colore legati in una coda bassa e due corna da ariete. Quindi gridò
forte e scalciò con violenza.
«Smettila! Ti picchieranno se continuerai a piangere in questo
modo e non ti potrò aiutare se lo faranno!» Le ripetè quella, ma lei
non volle sentire ragioni. In quel posto non ci voleva stare.
La sguattera, infine, la ricoprì e a lei parve di sentire rumore di
acqua e straccio. Forse la succube stava pulendo proprio il suo
vomito. Bene, nessuno presente in quel buco schifoso meritava di
meglio. Poi avvertì i suoi passi in allontanamento, stava andando
via.
Il resto della giornata non fu molto diverso. Odry pianse e strillò,
nessun bambino potè mettere piede nel dormitorio poiché le grida
erano insostenibili. Altre succubi, verso l’ora di pranzo, provarono a
tranquillizzarla trascinandola di peso fuori per condurla a tavola, ma
lei era incontenibile. Così venne confinata in uno stanzino buio e
spoglio.
La notte ricoprì la valle e l’orfanotrofio.
Odry venne ricondotta nello stanzone; le compagne di stanza,
bambine dai cinque anni, sue coetanee, fino ai dieci erano già
dentro. Tutte insieme provarono a distrarla con qualche vecchio
giocattolo di legno o una favola, ma non c’era proprio nulla da fare.
Mentre il cielo notturno sfogava pioggia e tuoni, la porta si
spalancò facendo trasalire ogni anima. Sulla soglia comparve il
grosso demone, dietro di lui una demonessa anziana dall’aria
austera e furiosa, con due grandi corna arcuate. Sullo sfondo una
folla di ragazzi e ragazze poco più grandi.
Le orfane filarono di corsa ognuna nel proprio letto.
Odry lo riconobbe, e senza pensarci due volte gli si gettò addosso
colpendolo con tutta la forza che aveva. «Voglio andare via!» Venne
interrotta da uno schiaffo che la stordì. Un fischio nell’orecchio la
fece rabbrividire. Si sentì sollevare e schiaffeggiare, poi
scaraventare a terra. Naso e bocca sanguinavano già.
Nella testa il ricordo degli occhi celesti di Zachary che con orrore
assistevano alla loro separazione. Un fratello che le prestava il
proprio cappello per premura, che l’abbracciava la notte e le
prometteva una vita che avrebbero potuto vivere lontano da lì, in
mezzo a immense distese di un verde ormai raro e prezioso
all’Inferno.
Sarebbe riuscita a scappare, avrebbe raggiunto il suo gemello e
avrebbero vissuto insieme.
Un calcio al fianco le strappò un grido di dolore e frustrazione. Era
sempre stato Zachary a proteggerla, ma era giunto il momento di
farlo da sola. Così, incerta, tornò in piedi e provò a passargli tra le
gambe puntando alla porta dove la demonessa anziana serrava la
presa su un bastone.
Un bambino poco più grande di Odry, capelli rossi come le foglie
autunnali e occhi blu, trasalì appena la vide a pochi passi dalla
soglia. Si guardarono per mezzo secondo poi lo sguardo del ragazzo
divenne puro orrore quando lei venne afferrata e sbattuta sul
pavimento.
In mezzo al supplizio, Odry avvertì il pianto delle compagne di
classe.
Si rialzò per l’ennesima volta e un pugno sulla guancia la mandò
giù, facendole sbattere la tempia sul parquet lercio. Pianse ancora,
sentì qualcosa di denso colarle sul viso. Un’altra ferita. Su di lei
un’ombra: il demone si era chinato. «Madame Maxille vuole che tu
viva. Io non ho niente da perdere, stronzetta. Decidi tu se avere la
possibilità, un giorno, di rivedere quel pidocchio di tuo fratello o finire
oggi stesso di respirare».
Attorno a lei tutto girava, ogni odore le provocava nausea. Il
malessere fisico che provava le dava un pericoloso sentore di
svenimento. Aveva resistito fin troppo contro quel colosso. “Basta,
voglio andare via” pensò.
La pelle divenne bollente, tanto calda da bruciare la mano del
demone poggiata sulla spalla, il quale urlò allontanandosi. Odry si
rannicchiò in posizione fetale, gli occhi premuti contro le ginocchia.
Non voleva più vedere ciò che la circondava, non voleva stare in
quella realtà.
Ciò che percepì dopo furono grida, odore di tessuto che andava a
fuoco, di carne e legno bruciati.
Qualcuno ordinò agli altri di correre. Le urla di chi era nei paraggi
si spensero tra atroci sofferenze, quelle di chi era sopravvissuto si
fecero distanti. Sopravvivere a cosa?
Aprì gli occhi e vide fiamme, solo fiamme. Lingue infuocate di un
bellissimo color amarena che si agitavano tutt’intorno, che
mangiavano e demolivano quel maledetto posto, il cadavere annerito
del demone che non era riuscito a sfuggire al fuoco giaceva a pochi
centimetri dal suo letto. Si sentì protetta, coccolata.
Le finestre esplosero, ma non ebbe paura. Gli abiti erano divenuti
cenere e lei si riscoprì nuda, un tutt’uno con le fiamme che la
avvolgevano.
Eppure riprendere a singhiozzare fu inevitabile, la sofferenza era
ancora vivida e spinosa. Soffocò nei suoi stessi singulti, ma non
sentiva le lacrime colarle sulle guance. Nascose di nuovo il viso tra
la ginocchia, facendosi più piccola di quello che era.
Il fuoco la cullava con dolcezza e lei volle farsi cullare dell’amore
che ne scaturiva.
Paura di non farcela

L’angoscia straziante aveva svegliato Belial, il giorno dopo.


Dormire era stato quasi impossibile. Aveva sognato il Quartier
Generale, i corridoi interni cupi come vene. La sala del trono nella
realtà onirica gli era sembrata ancora più grande, talmente immensa
da dare aria e toglierne il doppio. Si era sentito insignificante,
impotente. Il pavimento nero gli ricordava una lastra di ghiaccio che
lo separava dalla morte, sotto di lui il riflesso mostruoso di Lucifer
scalpitava e lo osservava dal suo trono, gli occhi rossi gli
penetravano la mente. Da suo padre non aveva scampo nemmeno
nel sonno.
Si era risvegliato per l’ennesima volta alle cinque del mattino e,
madido di sudore, aveva costretto il suo corpo a infilarsi sotto la
doccia e mettere qualcosa nello stomaco.
In casa tutti ancora dormivano. Avrebbe avuto una sola ora di
solitudine, poi sarebbe arrivata Karen, la prima ad alzarsi per
affrontare la giornata.
Aprì il forno: c’era la torta alle mele della sera precedente.
Eccellente, era gustosa, ma lo stomaco non ne accettò più di tre
bocconi. Rimise il resto dove l’aveva trovato, aprì il frigorifero e
afferrò una bottiglia di succo d’arancia, ne tracannò il contenuto
come se sul fondo potesse trovare la pace. Gettò il contenitore vuoto
nella spazzatura.
E ora? Osservò l’orologio a muro: ancora cinquanta minuti di
solitudine.
Non c’era soluzione all’angoscia che gli masticava lo stomaco.
Doveva costringersi a ragionare sulla proposta – che suonava come
un obbligo – di andare all’Inferno per creare un po’ di disordine.
“Un po’ di disordine. Riduttivo se in quel disordine ci deve finire
Lucifer”.
Si era così abituato al piano terrestre, alla sua pace, ai suoi
abitanti che la sola idea di tornare Giù gli suonava come la punizione
più grande in seguito al più grave dei peccati.
La sua colpa era essere il principe? Sì. Se un tempo aveva
approfittato di quella posizione privilegiata, adesso la stessa lo
costringeva all’angolo. Qualcuno lo definiva Karma, altri avrebbero
detto “la ruota gira” o “tutto torna indietro, sempre”.
Non volle accettarlo. Doveva esserci qualcun altro, qualcuno che
avrebbe saputo tener testa al popolo e all’Imperatore.
Si era rassegnato all’idea che né Odry né Satan sarebbero potuti
andare: erano forti, ma ricercati. Inoltre, la loro presenza sulla Terra
era fondamentale. Senza di lei, il passaggio da un mondo all’altro
non poteva effettuarsi. Il rosso avrebbe agito se qualcosa fosse
andato storto, mentre la demonessa avrebbe fatto di tutto per tenere
attivo il collegamento.
Belial chiuse gli occhi e vide se stesso in uno spazio vuoto. Si
scrutò come un estraneo. Le oggettive capacità di mescolarsi nella
folla sarebbero state sia una buona difesa: gli sarebbe bastato
modificare il proprio aspetto. Era agile, molto più di Satan e Odry, e
sarebbe sgusciato via da qualunque minaccia con facilità.
Mancavano però degli elementi fondamentali. Era davvero
convinto dei discorsi che l’amico gli faceva memorizzare e ripetere?
Era davvero convinto dell’ideologia che portava avanti e che cercava
di insinuare nella mente del popolo?
«Basta. Mi lavo i denti e me ne vado». Dovette dirlo ad alta voce
per convincersi. Una volta terminato e indossata la giacca pesante,
uscì di casa.
Percorse lento il tragitto, cercando di godersi l’ambiente
circostante. Non gli fu difficile: amava la Terra.
Alcuni gruppi di ragazzi appena usciti dalla discoteca tornavano a
casa, altri attendevano l’apertura dei primi bar per fare colazione. Ma
per le strade vi era anche il via vai di persone che andavano o
tornavano dal lavoro. Incrociò lo sguardo di una ragazza con zaino in
spalla e due libri tra le braccia; di sicuro una studentessa pendolare.
Più avanti un tassista fuori dall’auto, intento a fumare una sigaretta
in attesa di clientela. Gente comune, gente in mezzo a cui si era
adattato bene.
Autobus a due piani, biciclette, automobili. Una città meravigliosa
che non dormiva mai.
Ma il pensiero venne sostituito dall’ombra che aveva aleggiato su
di lui tutta la notte. E se fosse andato all’Inferno e fosse rimasto
bloccato lì sotto? Quante possibilità c’erano che il piano di Odry
fosse imperfetto?
“I suoi piani non sono mai imperfetti… eppure la sfiga è sempre in
agguato”. Sospirò e riuscì a schivare in tempo un palo della luce
contro cui avrebbe sbattuto.
Il flusso dei pensieri non mutò nel corso della giornata.
Lavorare in quelle condizioni non lo rese produttivo e quel turno fu
il più lungo di sempre. Il responsabile lo riprese diverse volte,
facendogli pesare la lentezza e la disattenzione.
«Queste due marche di pelati non vanno messe vicine, te l’ho
detto mille volte. E perché ancora non sei andato a pulire la porcilaia
che hanno lasciato quei ragazzini nel reparto dei vini?»
Come se problemi del genere potessero avere una posizione
prioritaria nella testa di Belial.
A fine turno rientrò a casa.
Salutò Karen che lo aveva raggiunto alla porta per dargli il
consueto bacio sulla fronte. Poi salutò anche Satan e Odry, entrando
nel soggiorno, e loro ricambiarono.
«Com’è andata la mattinata?» domandò il demone.
«Come sempre» rispose il ragazzo con un sospiro. «I soliti
stronzetti che giocano a fare i duri del quartiere. Ho dovuto pulire per
un’ora. Vado a fare una doccia. È già pronto il pranzo?»
«Certo» confermò il rosso.
Belial ringraziò e passò oltre, rifugiandosi in bagno. Alla vista dei
suoi amici, tutta la negatività era raddoppiata e sotto il getto d’acqua
non poté far altro che crucciarsi, ancora. Terminato, si rivestì e si
diresse verso la cucina. Il suo incedere leggero non venne udito, per
cui Karen e Satan, che stavano parlando tra loro, non si accorsero
della sua presenza.
«È solo un ragazzo» disse l’umana con voce preoccupata «ed è
una responsabilità troppo grande per lui».
«Però Odry ha ragione» rispose il demone. «Noi non possiamo
andare, nessuno di noi può».
«Potreste evitare semplicemente di mandarlo lì! È un omicidio!»
«Karen, pensi che noi siamo tranquilli? Ho paura anch’io, eppure
mi rendo conto che Belial ha tutte le potenzialità. È riuscito a rubare
una reliquia, cosa che Baal e Lilith non sono stati capaci di fare. Ha
un potere raro e immenso che non ha mai avuto la possibilità di
sviluppare e sarà solo grazie a questo che riuscirà nell’impresa».
Vicky si unì alla conversazione: «Ha più coraggio di ciò che
sembra e l’unico in grado di affrontare questa missione è lui. Tempo
fa non gli avrei affidato la mia vita, ora sì».
«Povero caro…» sospirò la francese.
La succube ribatté: «È terrorizzato, ma sono sicura che capirà».
«Lucifer va fermato. Se dovesse avere la possibilità di tornare sul
piano terrestre, sarebbe la fine per tutti», aggiunse Satan.
Belial chiuse gli occhi. L’idea che i suoi amici potessero morire per
mano di un essere tanto crudele gli fece male. Il pensiero che Karen,
una donna che lo trattava come un figlio, con un amore che lui non
aveva mai provato, potesse subire le peggiori torture da parte dei
demoni del Sovrano, gli fece montare la rabbia.
Così comprese. “Devo farlo per tutti loro. Contano su di me”
Eppure la paura ancora lo attanagliava.
Avanzò uscendo dal nascondiglio, sorprendendo i tre. «E se
sbagliassi tutto?» chiese con aria abbattuta.
Lo sguardo di Satan si addolcì così come quello di Karen, che gli
si accostò con fare apprensivo. «Potresti sbagliare, potresti fallire ma
io sono certo che tu invece porterai tutti noi e la nostra gente alla
vittoria e in un mondo sicuro». Il rosso gli sorrise.
«Non voglio che Lucifer salga sulla Terra e faccia una strage. Io,
ragazzi, me la sto facendo sotto. Però… penso sia la cosa giusta da
fare». Le labbra si piegarono in un sorriso timido. «Sarebbe meglio
se rimanessimo in contatto tra noi…»
«Pensi che ti lasceremmo senza comunicazione in balia di tutto e
tutti?» Odry si accostò allo stipite dell’arco che conduceva in cucina,
addentò una fetta di pane. «Avrai i miei droni puntati sulla nuca e un
auricolare connesso al mio, così è meglio?» sorrise.
Belial annuì sospirando. «Meglio di così… Ora dovrò preparare il
nuovo discorso» si voltò verso Satan «che immagino sarà più sentito
degli altri».
Lui annuì: «Lo è, ma così come ti ho sempre detto e, ti ha
precisato anche Vicky, ci devi mettere del tuo».
«Certo che sì». Il ragazzo incrociò lo sguardo di Odry, penetrante
e deciso. Uno sguardo in cui si riconobbe.
Sì, ci sarebbe riuscito. Il momento del riscatto era vicino.
Il principe doveva prendersi il proprio spazio.

II

«Ti ho già detto che non sopporto quando mi fissi» sbottò Odry
rompendo il silenzio. La cena era terminata da qualche ora, ma lei
non si era mossa dal tavolo e Satan stava finendo di riporre i piatti
appena lavati dentro lo sgocciolatoio.
«E io ti ho già detto che non posso farci nulla». Il demone sospirò
scuotendo il capo con dissenso. «Sono preoccupato, non puoi
impedirmi di esserlo».
«Non fissarmi. Punto». Risentita si alzò per prendersi da bere.
«D’accordo. Scusa». Satan si asciugò le mani e riappese il
canovaccio al gancio accanto al lavabo. Si voltò mantenendo lo
sguardo basso, poi si sedette a tavola. Di sottecchi osservò la spilla
appuntata alla maglia dell’amica, poi si sentì in difetto e si concentrò
sull’orologio da parete: erano le nove di sera. «Odry… ti va di
parlare?»
«No» borbottò lei. Chiuse il frigo e stappò una bottiglia di birra.
«Non prendermi in giro, dai… Ti conosco molto bene, so che vuoi,
te lo leggo negli occhi. Inoltre non abbiamo più avuto modo di stare
insieme, da soli, come abbiamo sempre fatto. Ti osservo e…»
«E infatti mi dai fastidio». Odry gli riservò un’occhiata risentita, ma
tornò a sedersi di fronte a lui.
«Finiscila e fammi finire». La rossa aggrottò le sopracciglia, ma
non osò ribattere. «Come dicevo, ti osservo. L’ho capito che non
smetti mai di pensare a Zachary, è una cosa continua. Quando
invece pensi di essere sola, vedo che con i droni segui Balthazar da
lontano senza mai provare a contattarlo. Perché non vuoi avere un
dialogo nemmeno con lui?»
«Non sono affari tuoi di come mi sento e cosa penso, quindi esci
dalla mia testa, manipolatore del cazzo».
La delusione nel volto di Satan fu evidente. «Se insultarmi ti farà
sentire meglio, fa’ pure, ma non puoi continuare a comportarti in
questo modo. Sto cercando di aiutarti».
Odry non rispose, prese un lungo sorso dalla bottiglia. “Riesce
sempre a farmi sentire in colpa” pensò.
«Io ti sono vicino e lo sarò sempre. Sai molto bene che su di me
puoi fare affidamento. Sono preoccupato per te, tutti lo siamo.
Eppure, nessuno si espone più perché allontani chiunque».
«Cosa dovrei risponderti? Anzi, rettifico, cosa vorresti che ti
rispondessi? Che vorrei staccare la spina perché non riesco a
vivere? Ho paura di non poter continuare così».
Satan annuì come se avesse immaginato una risposta del genere.
«Vorrei che ti aprissi con me. Certo, non è un obbligo, ma sfogarti ti
farebbe bene e ti invito a continuare. Parlami di questo: perché non
riesci a vivere?»
Odry si sporse verso di lui rabbiosa. «Davvero non riesci a
capirlo? Ti sembra vita, questa? Da quanto siamo fuggitivi? Sono
passati quattro mesi».
«Non sono mica un’estensione del tuo cervello per capirti a fondo,
per questo sto chiedendo» fece spallucce e la indicò. «Tu reagisci in
un modo, io in un altro. Sto male anch’io, mi sento inutile e
impotente, mi sento un peso per Ania, per gli Arcangeli… Tu soffri
anche per aver scoperto di avere un padre e un fratello di sangue,
ma soprattutto per un fratello che ha tradito tutti noi e te in primo
luogo. È proprio di questo che vorrei tu parlassi». Sorrise mesto. «Ti
sei sempre esposta. Fossi stata la Odry di un tempo ti saresti
comunque messa in comunicazione con loro, in un modo o nell’altro.
Stavolta invece qualcosa ti frena».
Odry si irrigidì, strinse la presa sulla bottiglia. «Io voglio essere
libera, Satan. Voglio vivere in tranquillità, mentre avere un contatto
con loro implicherebbe la nascita di un milione di altri problemi! Ecco
cosa mi frena!»
«Non posso darti torto» ammise lui «ma cosa faresti se avessi la
possibilità di entrare in contatto con Zachary?»
«A parte ucciderlo?» Odry tamburellò le dita sul tavolo e si agitò
sulla sedia.
Satan colse al volo i segni di disagio ma attese. Lo sguardo
puntato sul volto dell’amica ogni tanto, però, cadeva sulla spilla.
La demonessa si morse le labbra. «Non so cosa farei se lo
vedessi, vorrei chiedergli così tante cose da non saper dare voce a
nessuna di esse. Per esempio, vorrei chiedergli come è
sopravvissuto da bambino. O se… prova le stesse cose che provo
io».
Il rosso notò l’imbarazzo sul suo volto. Non commentò: doveva
essere già abbastanza difficile per lei aprirsi e ammettere quelle
cose, prima di tutto a se stessa.
«Vorrei chiedere perché il suo fuoco è così diverso dal mio,
scoprire se oltre a ciò ci sono altre differenze tra noi. A volte penso
che in quei giorni avrei potuto avvicinarmi di più a lui» sorrise al
pensiero di quella possibilità «e chissà se la nostra vicinanza
avrebbe potuto fargli cambiare idea sul suo piano».
Satan sorrise di rimando.
«Comunque vorrei avere delle risposte, anche se magari lui non
può darmele. Non so…» Odry sospirò.
Il demone poggiò gli avambracci sul tavolo, sporgendosi nella sua
direzione come stesse entrando in una confidenza. «Le parole
verrebbero da sé. E mi dispiace per il fatto che proprio lui si sia
comportato in quel modo. Sarebbe bello
se fosse sotto il giogo di Lucifer, no? Se avesse agito in quel
modo perché costretto, così voi avreste la possibilità di
conoscervi…»
Lei continuò la frase: «E magari avere il bel rapporto che Vicky ha
con le sorelle».
«Tutto questo, però, potresti averlo con Balthazar…»
Satan la vide sussultare e immaginò che il solo udire quel nome le
avesse fatto attorcigliare le budella. «Balthazar… ancora fatico a
crederci». Si passò le mani sul viso strofinando con forza. «Tutta
questa faccenda è assurda, cos’altro capiterà domani? Ci sono altre
cose che devo scoprire? Non ce la faccio più».
Il pesante sospiro dell’amico la costrinse a guardarlo: il volto
marcato da un sorriso pieno di tenerezza. «Odry…» disse lui
«perché stai sviando il discorso? Dovresti davvero provare a
interagire con lui. Quando tutto questo finirà, potrai avere una vera
famiglia. La tua famiglia. Non sprecare l’occasione, tu che puoi…»
«Io che posso cosa, Satan? Chissà se mai potrò fare qualcosa!
Contattare Balthazar per dirgli: “Ciao papà, ti va di essere una
famiglia felice?” Mi prendi per il culo? C’è una crepa immensa tra noi
ormai e non so se riusciremo mai a richiuderla».
«Ti manca molto?»
«Ogni minuto». Odry fu lapidaria, distolse lo sguardo scacciando
una lacrima con il dito.
«Penso che anche a lui tu manchi tanto e non credo che la crepa
che sostieni esserci sia così reale. In verità – permettimi di dirtelo –
ultimamente ti crei problemi per cose inutili. Sono sicuro che vi
rivedrete presto».
Odry non rispose, restò con la testa voltata dal lato opposto, un
gomito poggiato sullo schienale della sedia mentre con la mano
scacciava via le lacrime in un sostenuto silenzio.
Avrebbe voluto rivedere Balthazar, questo sì. Eppure una brutta
sensazione non l’aveva mai abbandonata, soprattutto nell’ultimo
periodo, e questa le sussurrava che no, non si sarebbero mai più
rivisti.
16 febbraio 2012 d.C.
Baraccopoli, 20° Distretto – Confine della Capitale, Inferno

Il respiro affannato le tappava le orecchie, in bocca sapore di ferro


dovuto allo sforzo per la corsa. La mente vuota.
Le baracche si susseguivano rapide una dietro l’altra, il vociare
rabbioso alle sue spalle era ancora a distanza di sicurezza. Una
succube si spostò appena in tempo dalla strada sterrata, tirò indietro
il suo bambino che stava per essere travolto. «Vai piano,
maledetta!» le gridò contro mentre il figlio iniziava a piangere.
Odry non rispose. Le lunghe trecce rosse le frustavano la schiena
e le braccia, gli occhi azzurri come il cielo del Paradiso tenevano
sotto controllo ogni anfratto o svincolo.
Se i contrabbandieri l’avessero raggiunta, l’avrebbero picchiata e
stuprata. Se invece l’avessero trovata e presa le guardie imperiali,
sarebbe stato anche peggio.
“A destra!” si disse. Svoltò un angolo, sbattendo la spalla contro il
muro per il drastico cambio di direzione. Strinse i denti ma non si
fermò. La presa salda della mano sinistra sul pesante borsone a
tracolla. La rimessa non era distante, si sarebbe nascosta lì finché i
mercenari non si fossero stancati di cercarla. Poi sarebbe tornata in
officina e avrebbe sistemato i pezzi rubati.
Non era stata una mossa saggia rubare a chi ruba e rivende, per
mestiere, al mercato nero da una vita; la fame, ancora una volta, non
le aveva dato scelta. Collaborare col cartello della droga non era di
certo stata una mossa astuta, ma in cambio di un apparecchio per
mandare in tilt qualsiasi videocamera di sorveglianza, quelli le
avrebbero dato di che vivere per una settimana intera, forse due.
Da un vicolo appena superato giunsero ordini gridati da un uomo:
gli inseguitori si erano divisi.
Con la coda dell’occhio vide per un istante uno di loro che correva
nella parallela a destra, la teneva d’occhio. Poi udì un rumore ben
peggiore: il rombo di una moto alle sue spalle.
«Cazzo!» lamentò tra i denti. Deviò la corsa in una strettoia tra
due basse palazzine in totale degrado; nonostante fosse magra e
agile ebbe difficoltà a passare. Il borsone si impigliò in un gancio di
ferro che sporgeva dal lato del muro, lo strattone fu così forte e
inaspettato da farla cadere col sedere per terra. «Merda! Non
adesso!» imprecò. Liberò la cinghia e riprese a correre.
Si aggiunse un altro rumore di motore. Insieme a esso, Odry sentì
da lontano qualcuno dire: «Va verso nord–est! Muovetevi, quella
puttana è veloce!»
Al termine del vicolo spuntò una creatura enorme. “Mezzo uomo,
mezzo coglione” pensò Odry. Gli passò sotto le gambe in scivolata,
così veloce che quello nemmeno riuscì a sfiorarla. Il grosso demone
ricevette manforte da due suoi compagni, ma Odry, abile e
calcolatrice, schivò entrambi, saltò su un cassonetto della
spazzatura e si lanciò su una scala di ferro affissa al muro di un
palazzo. Si arrampicò raggiungendo il tetto e seminando insulti.
“Pensavo di non farcela” pensò, sudata per la fatica.
«Via! Via!» sentì gridare da uno degli inseguitori. Poi le moto si
allontanarono e il cuore si alleggerì, ma lei non smise di correre:
doveva essere certa di non incappare in una trappola.
Uno sparo la fece sussultare. Un improvviso dolore alla spalla
destra le strappò un grido. La maglia le si impregnò di sangue, una
sensazione di torpore le invase il braccio. Di fronte a sé una serie di
terrazze e tetti spioventi creavano un percorso tortuoso ma
abbastanza sicuro. Si voltò intercettando una figura con la divisa
militare nera e lo stemma della corona Morningstar ricamato sul lato
sinistro del petto. “Le guardie imperiali” pensò, e piuttosto che farsi
prendere completamente dal panico, agì. Scagliò due grosse palle di
fuoco sul soldato, che morì sul colpo, bruciato.
Un altro proiettile le sfiorò il fianco squarciandole la maglia: la
seconda guardia si era nascosta dietro un catorcio arrugginito.
Odry fece in tempo a intercettare un terzo uomo dotato di
mitragliatore, quindi riprese a correre prima che la pioggia di proiettili
la colpisse. “La rimessa è vicina” si disse, infondendosi coraggio per
continuare.
Finalmente la vide. Accelerò senza sapere come.
Una fitta alla gamba la fece urlare e cadere di faccia. Un brutto
rumore di ferraglia provenne dal borsone. Una chiazza di sangue si
allargò sotto la coscia sinistra. Ringhiò, tossì per la polvere che
ricopriva il tetto e si rialzò; zoppicante riprese la marcia. Si spostò
più al centro per evitare i proiettili del mitragliatore. Mancavano
almeno cinque metri al termine del percorso, poi avrebbe dovuto
trovare il modo di saltare per superare il vuoto che la separava dalla
terrazza di un’altra struttura. “Oppure torno indietro, loro si aspettano
invece che prosegua dritta”. Fece dietrofront stando bassa e
trattenendo i lamenti tra i denti.
Dalla strada arrivavano gli ordini che le guardie imperiali si
scambiavano tra loro. «Raggiungila lì sotto, proverà a saltare quindi
potrai spararle» disse uno.
“Che stupidi bastardi” pensò lei, soddisfatta del suo piano
semplice ma efficace. Ma udì passi alle sue spalle, uno sparo e
l’ennesimo lancinante dolore, stavolta alla schiena.
«L’ho presa!»
Poi divenne buio.

Il tanfo penetrante di urina stantia e muffa le pizzicò il naso,


svegliandola.
Odry aprì gli occhi, sbatté più volte le palpebre e mentre
riprendeva conoscenza il male inflitto dagli spari tornò vivido. Si
lamentò con la guancia premuta contro la branda nella quale stava
distesa.
Era stata arrestata. Di nuovo.
Aveva perso il bottino, il che equivaleva a soldi persi e fatica
sprecata. Quindi niente cibo per i giorni a venire.
Le ultime volte Satan e Vicky, che vivevano con lei, erano riusciti a
raccogliere abbastanza kort per tirarla fuori. Sospirò amareggiata nel
pensare all’unico modo con cui la succube avrebbe potuto trovare il
denaro: la prostituzione.
Lacrime di rabbia le appannarono la vista. Si costrinse a mettersi a
sedere e solo in quel momento si rese conto di avere compagnia.
Fuori dalle sbarre un uomo sulla sessantina la fissava. Aveva
barba e capelli brizzolati e curati, un completo color magenta
gessato e scarpe nere lucidissime. Fumava un grosso sigaro.
«Finalmente sveglia» disse. «Sono qui da tre ore».
Odry rimase in silenzio, lo sguardo astioso parlò per lei. Si poggiò
con la schiena contro il muro adiacente la branda, scostò una delle
lunghe trecce scarmigliate. Inarcò un sopracciglio.
«Se non ti spiace, entro. Aprite questo tugurio!»
Una guardia si avvicinò con un pesante mazzo di chiavi e obbedì
senza battere ciglio.
Odry riconobbe in lui un uomo di potere. “Chi è?” Lo fissò
contrariata mentre quello entrava e si metteva al centro della cella.
Prese una boccata di fumo che trattenne per pochi secondi, con lo
sguardo attento la studiava.
Le sbarre vennero richiuse.
«Odry Crane. È corretto?»
«Tu sai il mio nome ma io non so il tuo» rispose lei squadrandolo.
«Balthazar Krause». L’uomo le indicò le ferite; la ragazzina non si
era accorta che le erano state fasciate. «Fanno male, vero? Tieni,
bevi. Hai bisogno di forze per la conversazione che stiamo per
avere» e le porse una bottiglia di cognac.
Odry gli strappò di mano il dono e bevve con avidità. «Come fai a
saperlo?» domandò. «Come fai a sapere che l’alcol è la mia fonte di
vita?»
«Sei una demonessa particolare. Ti osservo da tempo». Balthazar
sorrise furbo. «Ho visto come analizzi gli apparecchi elettronici: li
rubi, li apri, ne studi il funzionamento, li modifichi, li potenzi. Crei
versioni aggiornate di quelle esistenti. Il tutto nella tua baracca, con
attrezzi rubati o da te stessa forgiati. Non ho potuto osservarti più da
vicino, ma già tutto ciò è strabiliante. Sei un’ignorante impagabile,
non hai in testa nessuna nozione tecnica, eppure hai fatto cose
notevoli».
Odry gli sputò sui piedi e, stizzita, rispose: «Io studio, brutto
vecchio di merda, per quello che posso, almeno. Ho trovato dei libri
in un mercato e tutte le mie conoscenze nascono da quelle nozioni…
e non lavoro in una baracca, bensì in un garage!» Si mise a braccia
conserte, offesa.
Il demone sospirò, gettò un po’ di cenere sulla macchia di saliva e
rimise in bocca il sigaro. Poi aprì la giacca scoprendo un gilet della
stessa fantasia e da una tasca interna tirò fuori un libro con
copertina flessibile che le porse.
La ragazzina lesse il titolo: «La particella di Dio – Se l’universo è la
domanda, qual è la risposta?»
«Questo è un saggio interessante» commentò Balthazar. «Il
bosone è la particella che conferisce non solo una massa a tutte le
altre, ma dà loro l’esistenza stessa. Viene definita “particella di Dio”.
Libri come questi sono costosi e introvabili nei mercatini puzzolenti in
cui bazzichi».
La voglia di Odry di allungare una mano, prendere quel libro e
leggerlo trapelò dagli occhi celesti. L’orgoglio e il buon senso, però,
la fecero desistere. «Stai cercando di corrompermi per ottenere cosa
di preciso?»
«Sarò breve. Lucifer ti vuole tra i suoi ranghi». Il libro rimase tra
loro, come simbolo dell’offerta appena pronunciata.
Odry si agitò sulla branda. «Vuole me? Solo perché rivendo
oggetti al mercato?» Alla fine, curiosità e desiderio, furono più forti
del suo spirito. Si allungò afferrando il “dono di pace” e lo sfogliò.
Balthazar, attento, non si lasciò sfuggire il dettaglio delle pupille
della ragazzina dilatarsi dopo alcune righe lette in rapidità. «No»
rispose «non per questo. Ti vuole perché sei una ragazzina di
quindici anni che crea marchingegni ai livelli di grandi scienziati».
«Diciassette» precisò lei muovendo il sopracciglio. Piegò la testa
di lato lasciandosi scappare una piccola smorfia soddisfatta. «Devo
fare solo questo? Creare tecnologie?»
«Sarai l’arma dell’Imperatore, quindi no, non solo questo. Parliamo
anche dei tuoi straordinari poteri. Sei l’unica a poter controllare il
fuoco, sai?»
«Conosci davvero parecchie cose su di me» constatò ora lei con
una nota di preoccupazione. «Volete farmi diventare un soldato?»
«Non un semplice soldato. Avrai una vita agiata, niente più fame e
pericoli. Niente più inseguimenti». Balthazar le si avvicinò,
chinandosi e poggiando sui talloni. «Ti servirà un attrezzo? Ti verrà
recapitato in poche ore. Vorrai studiare? Potrai, anzi, dovrai farlo».
Odry si soffermò sugli occhi neri del demone, un nodo le si formò
in gola. «Studiare? Beh… non sono mai andata a scuola ma so
leggere e scrivere…» si vergognò e questo la portò a cambiare
argomento, puntando la cenere che cadeva dal sigaro. Quell’odore
le piaceva.
«Non hai molto tempo per decidere». L’uomo si alzò. «Il tempo di
Lucifer è prezioso, ed è raro che conceda certe possibilità a un
popolano».
No, non ne aveva e non voleva più morire di fame. «Accetto!»
Odry rispose di getto e a gran voce. «Voglio studiare e poter creare
tutto ciò che voglio, come e quando voglio. So che se dovessi
rifiutare un’occasione del genere non mi capiterebbe più nella vita e
dovrei passare l’esistenza a rischiare di perdere le mani per aver
rubato da mangiare».
Balthazar sorrise soddisfatto. Annuì e tirò l’ennesima boccata di
fumo, che uscì mentre disse: «Adesso pagherò la cauzione e verrai
via con me. Inizierai la tua nuova vita. I sacrifici saranno immensi,
ma alla fine ti guarderai allo specchio soddisfatta di ciò che vedrai
riflesso».
«Io però vivo insieme ad altre persone, possono venire anche
loro? Sono la mia famiglia».
«No. Sono venuto qui perché Lucifer è te che vuole» Balthazar era
categorico, eppure lo sguardo fu ammiccante. «Ma potrai aiutarli
appena ne avrai la possibilità, se vorrai».
Odry deglutì. «D’accordo… Ora vorrei andare via da qui».
Il demone ordinò alla guardia di aprire e fece accomodare fuori
prima la ragazzina. Nel tragitto per uscire, lasciò all’ingresso il
denaro della cauzione e firmò il modulo. Quindi uscirono dalla
struttura e lei, finalmente, poté respirare aria meno fetida.
«Bene, Odry, andremo dritti al Quartier Generale dove verrai
vestita e nutrita. Lì dormirai per una notte, per darmi il tempo di
sistemare alcuni aspetti burocratici: ti farò da tutore, mentore, vedila
come ti pare. Poi verrai a casa con me».
«A casa con te?» si voltò di scatto verso di lui strabuzzando gli
occhi. Già s’immaginava la reggia in cui avrebbe vissuto.
Balthazar tirò fuori da un’altra tasca interna un sigaro più piccolo.
Lo spuntò, glielo porse ed estrasse una scatola di fiammiferi.
«Proprio così». Sorrise con un sopracciglio sollevato.
Odry lo fissò incredula. In meno di venti minuti aveva sconfitto la
povertà, trovato un lavoro e un futuro su cui concentrarsi. Dove
stava la fregatura? Ci avrebbe pensato in un secondo momento.
Prese il sigaro e lo strinse tra le labbra, non aveva mai fumato prima
di allora ma l’aroma che stava assaporando, nonostante fosse
ancora spento, la fece innamorare. Rifiutò i fiammiferi con un gesto
della mano e lo accese con il pollice. Aspirò il fumo e tossì forte,
quasi le venne da vomitare. «Mi ci devo abituare» rantolò con le
lacrime agli occhi.
«Oh sì, ne sono sicuro» considerò Balthazar, riponendo i
fiammiferi nella giacca.
Non siamo al sicuro

Quel periodo fu uno dei peggiori mai vissuti dagli Arcangeli.


Tutti, tranne Raphael, si trovavano in cella in seguito alla rissa
provocata nell’aula di tribunale durante il processo.
Erano rinchiusi notte e giorno sotto la luce accecante, a contatto
con pareti e pavimento gelidi; con cibo scarso e continui commenti di
scherno da parte delle guardie di ronda. Non veniva permesso loro
nemmeno di radersi e barba e capelli erano cresciuti in media tra i
tre e i quattro centimetri.
Ma non c’era niente di peggio delle visite a sorpresa dei Serafini,
che mettevano a dura prova la loro resistenza psicologica. Una vera
ingiustizia. Perché erano stati costretti a mesi di reclusione quando
Chris e i colleghi, anch’essi parte attiva durante la lite, avevano
dovuto pagare solo una multa? E perché nessuno faceva niente per
evitare che continuassero i soprusi?
«È inammissibile che siamo ancora qui!» sbraitò Raziel, si voltò
giusto in tempo per intravedere Michael alzare gli occhi al soffitto.
«È inutile che sprechi le energie, non ti ascolteranno» rispose
Uriel, seduto a gambe incrociate al centro della propria cella.
Yovus Bruun, giunto nel corridoio in quel momento, batté un
manganello sulle sbarre dell’ungherese. «Taci, bastardo che non sei
altro. È colpa vostra se siete qui, soprattutto tua dato che non riesci
mai a darti una cazzo di regolata».
«Te lo faccio ingoiare e potrei non riferirmi al manganello, stronzo»
ribatté Raziel.
«Se non fosse stato per noi» precisò Michael «adesso Lucifer e
Baal sarebbero sulla Terra a distruggere e a uccidere!»
«Se non fosse stato per voi, ci sarebbero più umane e demonesse
insoddisfatte. Non è così?» rispose il Serafino, passando una mano
tra i lunghi capelli mossi.
«Schifosi». Entrò anche Kazel Askarov, pulendo gli occhiali
rettangolari con un panno grigio. Per un attimo diede un’occhiata alle
telecamere. «Per quanto ancora intendete usare questa scusa?
L’abbiamo capito tutti che è stata una messinscena per provare a
ottenere l’ammirazione delle Dominazioni. E perché no, del Paradiso
intero. Avete fatto male i calcoli».
«Se anche fosse?» insinuò Michael con un sorrisetto da sbruffone.
Il terzo ad arrivare fu Chris e nell’aria si potè percepire subito
l’irritazione di Mathael. «Se anche l’aveste fatto?» domandò ironico.
«Dimentico sempre che dobbiamo rivolgerci a voi come foste
decerebrati. Per legge, angeli e demoni non possono avere contatti
se non per ammazzarsi a vicenda».
«Vi preoccupate un po’ troppo delle nostre relazioni interpersonali
e troppo poco del vostro dovere» considerò piccata Mathael.
«Ti senti presa in causa?» avanzò Dunne accostandosi alle sue
sbarre.
Uriel si alzò in piedi. «Per quale motivo siete venuti qui? Sperate
in un nostro passo falso?»
«Magari sì, magari no» Yovus fece spallucce.
Uriel scosse il capo, lanciò uno sguardo duro a Michael e si
sporse per fare lo stesso con Raziel, incoraggiandoli a non cedere
alle provocazioni.
Ma i Serafini non erano affatto soddisfatti.
«Tutto questo è iniziato per colpa di Cassiel e Gabriel Cooper che
non sono riusciti a tenere il cazzo nelle mutande» continuò Kazel.
Michael commentò con espressione ironica e contrariata, certo
che sarebbe riuscito a infastidire l’amico di fronte a lui. «Gabe hai
sentito che ha detto? Avrei già sfondato la cella per appenderlo al
muro, fossi stato in te».
«Ragazzi…» sospirò Uriel.
«Gli ha dato le colpe di tutto» protestò il biondo «e lui dovrebbe
anche stare zitto?»
E Gabriel abboccò. Si alzò in piedi, puntò il dito contro il Serafino e
fece per dire qualcosa quando giunse la Dominazione più anziana.
Tutti ammutolirono.
«Dunne, Bruun e Askarov voi non dovreste stare qui».
Chris sorrise affabile nonostante l’espressione tirata. «Concordo,
Eccellenza. Son dovuto scendere per recuperare i miei colleghi.
Intendevano punzecchiare i prigionieri».
Yovus e Kazel gli lanciarono una brutta occhiata, ma lui rispose
con una peggiore.
«Lei è sospeso, comunque» rispose glaciale la Dominazione
«poiché la sua condotta non è stata delle migliori nell’ultimo
periodo».
Gli Arcangeli si scambiarono sguardi complici, per quanto fosse
loro possibile date le postazioni. Un senso di soddisfazione invase
ognuno di loro.
«Questo perché ha superato il limite: continua a provocare i
prigionieri mandando avanti i suoi colleghi. Che atteggiamento
riprovevole per un Serafino. Inoltre, Dunne, ieri sera abbiamo
ricevuto dal Distretto per l’Equilibrio del Paradiso la segnalazione di
una denuncia ai suoi danni per violenza domestica. Ne sa
qualcosa?»
Il sangue di Chris si congelò. «Cosa?» chiese a mezza voce
voltandosi per un momento verso Mathael che lo guardava con
soddisfazione. «Me lo dice in questo modo?»
«Il processo in merito alla denuncia avverrà quanto prima e avrà
tutto il tempo di incaricare un legale. Per quanto riguarda la
sospensione, parlo anche a nome dei due giudici ora assenti: siamo
quasi giunti all’esasperazione e abbiamo deciso di getto. Spero non
abbia nulla in contrario».
Dunne avrebbe voluto spaccargli la faccia, ma dovette trattenersi
e, cercando di darsi un contegno, domandò: «Il mio sostituto?»
«Hamenam, l’unico ad aver avuto un po’ più di sale in zucca
rispetto a voialtri».
Nessuno degli Arcangeli si aspettava un simile ribaltamento della
situazione e qualche espressione divertita non tardò a comparire.
Chris digrignò i denti al solo udire il nome del collega. Hamenam
era uno di quelli che faceva la bella faccia, gentile con tutti, quasi
tonto. “Un grandissimo falso, codardo e figlio di puttana”.
«Tre settimane, Dunne. Si ritiri e ragioni sugli errori commessi, la
prenda come una vacanza forzata».
Il Serafino non riuscì nemmeno a ribattere tanto si sentiva avvilito.
Si limitò ad annuire e, senza indugiare, andò via seguito dai
compagni.
La Dominazione guardò gli Arcangeli a uno a uno e in seguito
annuì a confermare i suoi pensieri. «Per tutti voi, i nostri piani sono
differenti. Vedrete la luce del sole tra due settimane, sempre che
manteniate un atteggiamento consono e che non salti fuori qualche
altra bugia» annunciò. «Avete commesso reati gravi, questo è certo,
ma non crediate che siamo ciechi o incapaci di ragionare con
oggettività. Riteniamo che abbiate avuto coraggio e che abbiate fatto
una grande cosa, per questo non ci sentiamo di lasciarvi qui fino alla
fine dei tempi. Qualcuno ha consigliato di privarvi delle vostre
preziose ali e cacciarvi dal Paradiso e vi confesso che l’idea ci ha
particolarmente stuzzicati, eppure non possiamo eliminare tutti i
nostri Arcangeli, due dei quali, tra voi qui presenti, dei perpetui con
una fondamentale rilevanza». Fece una pausa, sembrava ragionare.
Poi riprese, ma a voce più bassa e con una velata nota di ironia.
«Temiamo che il vostro contributo possa rivelarsi indispensabile in
futuro». Con un cenno del capo salutò e uscì.
Mathael scosse il capo. «Per i Serafini non valiamo nulla, ma forse
le Dominazioni vedono in noi qualcos’altro».
«Ti sbagli, nessuno di noi è indispensabile». Cassiel parlò per la
prima volta dopo tanto tempo, enunciando una verità che fece male
a ognuno di loro.
Passò qualche secondo e Raziel imprecò volgarmente. «È
assurdo che debba marcire ancora qui nonostante sia stato alla
larga dai demoni molto più di voi».
Uriel cercò di giustificare la scelta dei giudici per riportarlo alla
ragione. «Sei stato meno attivo ma come me li hai ospitati e, anche
se si trattava di una tua proprietà, per loro è stato oltraggioso».
«Oltraggioso è il fatto che per rispetto delle regole mi sono
trattenuto dalla voglia di toccare Karen tante di quelle volte da non
riuscire a contarle. Mentre voi, invece, avete fatto i maiali tutto il
tempo!»
«Diretto e giusto!» commentò Michael per sdrammatizzare.
«Fanculo, ragazzino!»
«Sono più vecchio di te, ragazzino» lo canzonò ancora l’altro.
Gabriel osservava e ascoltava ogni movimento e ogni parola.
Durante quei mesi era stato piuttosto taciturno, non aveva
comunicato granché. Già poche notti
dopo l’incarcerazione aveva iniziato a pensare, a ragionare sul
proprio percorso di “vita”.
Agatha, Odry, Baal e tutti i morti a lui legati. Tutti quelli che non era
riuscito a salvare gli pesavano come un macigno sulla coscienza. E
a pensarci bene, anche coloro che avevano fatto parte delle ultime
vicende non se l’erano passata poi tanto meglio.
Uriel e Raziel avevano perso tutto, Mathael forse si era liberata di
Chris – unica nota positiva –, Raphael ne era rimasto fuori finché il
fratello non c’era stato troppo dentro. Michael era stato l’unico
fortunato ad aver perso poco e niente. E lui e Cassiel? La situazione
precipitava, si sentiva soffocare; un figlio con Agatha era l’ultima
cosa al mondo che avrebbe voluto e dallo sguardo vuoto di Cassiel,
poco distante, intuì che per lui fosse lo stesso.
E come per mettere il dito nella piaga, si era accorto di essere
capitato nella stessa cella in cui era stata rinchiusa Odry tempo
prima. Era stato il caso? Ironia della sorte? Un brutto scherzo delle
guardie convinte da Chris? Forse era solo Dio che cercava di
impartirgli l’ennesima lezione che lui non riusciva a comprendere.
Passava intere giornate a fissare la bruciatura lasciata sulle
mattonelle e più la fissava, più stentava a darsi pace.
Le aveva promesso che sarebbe tornato. Perché l’aveva fatto?
Iniziò a pensare di aver provato emozioni e sentimenti fasulli, nati
in un’occasione in cui tutto era a rischio, anche la propria vita. Le
loro strade si erano incrociate nel peggiore dei modi, ma aveva
iniziato a conoscerla in profondità attraverso avvenimenti che
avevano segnato entrambi. Come un marchio a fuoco sulla pelle.
Ma per quanto provasse a non pensare a lei, falliva sempre. La
mente correva a ricercarne il volto, il profumo, il calore… il tocco.
«Gabriel è troppo assorto per poterci dare retta» ironizzò Michael
distogliendolo da quei pensieri.
«Quanto rimani tu, Cassiel?» domandò Uriel per coinvolgere il
ragazzo. «Ci farai compagnia ancora per un po’?»
«Rimarrò qui tre mesi in più rispetto a voi» rispose pacato il
francese.
«Hai fatto un ottimo lavoro a incastrare quella stronza di Agatha»
Mathael glielo disse con affetto sincero.
«Hai avuto davvero fegato» aggiunse Uriel. «Siamo fieri di te».
«Grazie» si limitò a rispondere Cassiel, con freddezza.
L’Imperatore

Lucifer era assorto in un tornado di pensieri che vorticava veloce e


incontrollato. Taciturno, sedeva a capo del grande tavolo del Concilio
Ristretto, constatando con rabbia che era quasi del tutto vuoto.
Erano rimasti solo in quattro al suo cospetto e, dopo il Graal,
questa era stata l’ennesima grande perdita.
Intanto il popolo assediava giorno e notte la fortezza, dando filo da
torcere alle guardie esauste che dovevano affrontare turni più lunghi
e avevano meno ore per riposare. I regnanti oppositori rimasti non
demordevano, premendo affinché abdicasse.
Aveva giurato: non si sarebbe mai fatto piegare in quel modo. Solo
i deboli, o gli esseri umani, si abbandonavano a una simile sorte, ma
questo non poteva di certo capitare a lui. Presto o tardi tutti si
sarebbero piegati dinnanzi alla bandiera dei Morningstar.
Sapeva di non avere molto tempo ancora a disposizione, le rivolte
andavano sedate con le buone o con le cattive.
Si alzò innervosito dalle sue stesse considerazioni e prese a
camminare per la sala con le mani dietro la schiena, facendo
ondeggiare la preziosa veste di seta bordeaux che indossava.
«Balthazar» esordì rompendo il teso silenzio e facendo sobbalzare
l’uomo «tu sei un bravo oratore. In tribunale, e non solo, hai sempre
dato grande dimostrazione di questa tua abilità» gli si avvicinò.
«Perciò voglio che tu ti affacci al balcone e parli col popolo».
Lilith nascose un sorriso divertito sotto la mano, Ishtar e Belphagor
si voltarono verso Balthazar che guardava il Sovrano con tanto
d’occhi. «Posso parlare a un pubblico ragionevole, mio Signore, e
non è certo questo il caso. Quella marmaglia urlante è
incontenibile».
«Ti devo ricordare che sei vivo grazie a me? Hai fatto scappare la
ragazza e finora non hai fatto nulla per rimediare. Il minimo che puoi
fare è obbedire senza remore». Si spostò alle sue spalle poggiando
le mani sullo schienale dello scranno su cui sedeva il demone.
«Belial, un poppante che fino a poco tempo fa si crogiolava notte e
giorno tra le cosce delle succubi, ha mosso quasi un’intera città
contro di me e tu non hai il coraggio di uscire là fuori per fare una
cosa tanto semplice?»
Krause annuì con un groppo in gola. Nella posizione in cui era non
poteva certo permettersi di contraddirlo. «Avete ragione».
«Lo so». Il Sovrano gli batté le mani sulle spalle. «Coraggio, esci e
fai la tua magia».
Balthazar si alzò, sistemò la cravatta divenuta d’un tratto troppo
stretta. Si avviò verso la portafinestra che gli avrebbe permesso
l’accesso al balcone. Scansò con nervosismo un paggio intenzionato
ad aprire, facendo da sé.
Una gelida folata di vento che puzzava di bruciato entrò nella sala
e, insieme a essa, le grida e gli insulti della popolazione che
riempirono gli ambienti, turbando la servitù fino ad allora rimasta in
rispettoso e timoroso silenzio.
Lucifer tornò a sedere. Lo osservava come un avvoltoio, in attesa
di un eventuale fallimento. Gli occhi sanguigni puntati sulla sua nuca,
le mani serrate sui braccioli dello scranno.
Un ragazzo nella folla tese il braccio per indicare il balcone.
«Guardate! Lassù!»
Ogni uomo, donna o ragazzino alzò gli occhi per scoprire chi si
fosse affacciato.
Il popolo ammutolì. Era da mesi che nessun volto importante
veniva avvistato al Quartier Generale e vedere l’avvocato di Lucifer
pronto a parlare, lasciava presagire che qualcosa da lì a poco
sarebbe potuto succedere. Così, in un misto di rabbia e timore,
rimasero tutti con il naso all’insù, in attesa.
Balthazar sfoggiò il sorriso più affabile e aprì le braccia come per
accogliere la vista di tutta la piazza. «Buongiorno, fratelli miei! Oggi
vi parlerò in nome del nostro amato Sovrano!»
Dalla folla si levò un brusio sempre più forte. Qualcosa non
andava e il demone non aveva nemmeno iniziato a improvvisare un
discorso.
«Che abbia il coraggio di mostrarsi!» disse un popolano, ricevendo
manforte da chi gli stava attorno.
«L’Imperatore ha mandato me che sono il suo uomo più fidato!»
esclamò quello dall’alto. «Sta lavorando senza sosta per voi,
nonostante soffra per la sfiducia che nutrite in lui a causa di un
ragazzino che non ha mai combinato nulla di buono!»
«Sei solo un corrotto!» urlò qualcun altro dalla folla.
«Il principe ci ha mostrato la realtà dei fatti, voi invece siete degli
assassini!» gridarono ancora.
Balthazar batté le mani sulla balaustra scura del balcone. «Volete
credere a uno sciocco che ha solo il coraggio di mostrarsi da dietro
uno schermo e che vi dice cose che nemmeno potete provare? Noi,
al contrario, siamo qui in carne e ossa! Mi espongo per il mio
Signore e per voi che siete miei fratelli. Mi espongo al vostro giudizio
quando potrei stare al caldo nel mio studio!»
«Bugiardi! Siete solo dei corrotti maledetti!» continuarono.
«La mia vita prosegue a prescindere che sia qui dinnanzi a voi o
meno! Il principe Belial si nasconde chissà dove e manda avanti voi
perché non ha il fegato di affrontare suo padre di persona!»
«Lui è un dittatore, noi non l’abbiamo mai scelto!» brontolò un
grosso demone dalla testa di toro.
«Vi sbagliate! Lucifer è un monarca che vi ha scelti come figli e,
come un padre, fa di tutto per tirare avanti! Un padre severo è un
padre giusto! Qui non se la passa bene nessuno, vi dico, e lui si è
spesso sacrificato senza farlo pesare. Voi invece vorreste lasciarvi
guidare da un giovanotto che non sa nulla di questa vita, di politica,
di gestione e che fa ciò che fa solo per il gusto di andare contro suo
padre! L’avete mai visto tra voi negli ultimi tempi? Ha mai
passeggiato nelle vostre strade come il nostro Signore ha fatto in
passato? Ha mai accarezzato le teste dei vostri bambini?»
«Il tuo Signore ci fa morire di fame, chiude i granai e non
distribuisce nulla, la gente muore e voi ingrassate sempre di più!
Assassini!» strillò una donna, gli altri la seguirono. Uno di loro in
preda alla collera lanciò un sasso che disegnò un arco
oltrepassando le mura perimetrali e atterrò nei giardini interni.
Balthazar trattenne un insulto per l’affronto e mentì: «I granai sono
chiusi perché non c’è niente da conservare! Il vostro Signore vi è più
vicino di quanto crediate!»
«I granai sono chiusi per non spartire nemmeno un misero tozzo
di pane» un altro, imitando l’uomo di prima, tirò un altro sasso che
finì accanto al precedente, trovando supporto anche in altri
compagni furiosi. In pochi secondi la parte anteriore dei giardini
interni venne invasa da numerosi oggetti, cibarie avariate comprese.
Un ragazzo con la fionda scagliò una pietra che rimbalzò nel petto di
Balthazar.
L’avvocato indietreggiò seguito dalle grida e dagli insulti del popolo
furioso e divertito dalla sua fuga.
Lucifer gli si parò di fronte, accigliato. «Deduco tu abbia fallito»
considerò gettando uno sguardo verso il balcone.
«Sapevo di fallire, ci siamo approcciati a loro troppo in ritardo mio
Signore».
Il Sovrano gli sferrò un ceffone di rovescio così potente da farlo
volare dall’altro capo della stanza. Poi si rivolse agli altri tre. «Avete
due giorni per convincere la folla!» gridò, facendo oscillare i
lampadari. Poi, come non fosse accaduto nulla, recuperò il controllo
e si sistemò i capelli con calma. «Fallite e non vedrete l’alba del
terzo giorno» concluse pacato, per poi andarsene senza voltarsi.
L’atmosfera nella sala divenne rigida e tesa. Vi erano solo le grida
di rabbia dei popolani a riempire l’ambiente.
In secoli di carriera, Balthazar non si era mai trovato in una
situazione simile: il suo orgoglio non era mai stato calpestato e
distrutto in quel modo.
Belphagor rimase a guardare il compagno con un misto di
compassione e soddisfazione: la credibilità di Lucifer veniva meno e
con la sua anche quella dei collaboratori. Il Thoctar funzionava a
rilento, ma funzionava e i sacrifici stavano portando frutti succulenti.
Ishtar si era fatta più vicina a Balthazar per aiutarlo a risollevarsi,
ma lui l’aveva scansata con rabbia e frustrazione e si era rialzato in
piedi pulendosi gli abiti con movimenti secchi. «L’avete sentito, no?»
sbottò, andando verso l’uscita della sala. «Cercate un modo per
portare il popolo dalla nostra parte. Ormai siamo tutti in ballo». Uscì,
lasciando gli altri membri del Concilio da soli.
Lilith si alzò e sbirciò fuori dal balcone. «Questo è il prezzo da
pagare. Abbiamo accettato tutte le sue scemenze e ora ci troviamo a
morire per i suoi errori».
«Ci hai mangiato sulle sue scemenze» ribatté Ishtar. «Voltafaccia,
porta a termine ciò su cui hai giurato». Anche lei se ne andò.
Belphagor salutò la collega che ancora controllava il popolo e uscì
dalla struttura.
Non si sarebbe certo impegnato a cercare una soluzione per
favorire Lucifer e il tempo a disposizione l’avrebbe usato per portare
avanti il progetto Thoctar. Tramite un passaggio segreto conosciuto
dalla servitù e da chi, come lui, aveva qualcosa da nascondere,
entrò nei sotterranei del Quartier Generale e percorse una delle
tante gallerie costruite durante gli anni.
Una volta fuori, il clamore della folla inferocita si presentò alle sue
orecchie come qualcosa a cui si stava abituando. Una buona parte
era ancora concentrata sotto il balcone e davanti ai portoni controllati
dai soldati. Qualche gruppo si aggirava attorno alle mura perimetrali
in cerca di un modo alternativo per entrare e Belphagor riuscì a
mimetizzarsi alla perfezione tra di loro grazie agli abiti semplici e un
ampio scialle rosso adagiato sul capo, a coprirgli il volto, e sulle
spalle.
Il tragitto per arrivare a casa durò quasi mezz’ora, le strade erano
intasate e camminare sui marciapiedi senza imbattersi in risse e
inseguimenti era ormai quasi impossibile. I rischi più grandi li
avrebbe corsi se qualche soldato di Lucifer l’avesse fermato.
Una volta giunto tolse il mantello e a grandi passi si diresse verso
il tavolo in legno di noce al centro del salone all’ingresso.
L’arredamento ricordava lo stile dei nativi americani, nonché
frammenti e ricordi di una vita vissuta secoli addietro. Come ogni
giorno, il suo occhio si posò su una grande teca poco distante
dall’arco che introduceva allo studio, dove era solito rilassarsi in
compagnia della pipa e di una tazza di tè. Dietro il vetro vi erano
oggetti della sua cultura, della potente tribù dei Powhatan, conosciuti
anche come Algonchini della Virginia: una collana di piccole ossa
abbinata a un bracciale e lunghi orecchini, una giacca color
cammello decorata sulle maniche con perle d’acqua dolce, un
copricapo di rame, piume e denti d’orso. Sopra il corredo era stata
esposta una mazza da guerra in pietra e ossidiana.
Era tutto lì, ordinato, curato e ben illuminato da faretti posti in alto
e in basso, in modo da avere una visuale chiara degli oggetti a lui
più cari. Il petto si riempì d’orgoglio, alzò il mento con fierezza.
«Perché sei già tornato?» Alle sue spalle Awinita lo fissava con le
braccia conserte, stando poggiata allo stipite della porta che
conduceva alla cucina. I suoi occhi da cerbiatto lo studiavano
rabbuiati.
«Luce mia» Belphagor voltò il capo verso di lei. «Sono solo molto,
molto stanco. La mattinata è stata corta ma intensa».
Apprensiva, la donna annuì appena. «Ho visto cosa è accaduto e
non voglio che domani torni da lui».
«Non dipende da te o da me, sai che devo mantenere la mia
copertura».
«Io non voglio che tu vada!» sentenziò la donna, scostandosi la
lunga treccia nera dalla spalla con un movimento nervoso. «Sei in
costante pericolo lì dentro».
«Ci ha ordinato di trovare un modo per riavvicinare a lui la
popolazione, pena la morte» confessò Belphagor, per darle ragione.
«Dobbiamo trovare un luogo per nasconderci quando arriverà il
momento».
«Sono settimane che tengo pronto tutto ciò che può servirci.
Saremmo dovuti andare via tempo fa, con Vicky» ammise lei
avvicinandosi. L’immensa preoccupazione le aveva segnato i
lineamenti e lui non poté biasimare quegli occhi spaventati.
«Preghiamo che tutto vada secondo i nostri piani e per noi ci sarà
una speranza».
«Spero tu abbia ragione, non possiamo continuare a vivere come
reietti».
«Lo faremo se nessuno accontenterà il Sovrano, in caso contrario
avrò ancora la possibilità di stare alla sua tavola, al sicuro».
«No, non sono tranquilla soprattutto se lui rimarrà instabile come
nelle ultime settimane. Lo sai che io non mi sbaglio mai!» precisò lei
alzando un dito ammonitore prima di sparire dentro la cucina.
Lui tacque, Awinita aveva ragione.
Lucifer non era rimasto coerente a se stesso nemmeno per mezzo
minuto in quegli ultimi tempi. Lavorare per lui significava rischiare la
vita ogni istante.
Il Sovrano si aspettava tanto dal Concilio, o da ciò che ne
rimaneva, e vedere che nessuno aveva la capacità di esaudire i suoi
desideri con uno schiocco di dita non rendeva i ricchi meno immuni
dei poveri.
«Vieni, il pranzo è pronto» annunciò la donna trafficando con piatti
e padelle.
Gli esiliati

Zachary sedeva su una poltrona vecchia e consumata davanti a


un caminetto acceso. Fissava il fuoco vivace che gli si rifletteva nello
sguardo assorto. L’occhio gli cadde sulla mano destra: ancora una
volta percepì la soddisfazione provata tempo prima nel rubare il
Graal agli angeli.
Si era sentito potente, invincibile.
Poi ricordò lo sguardo della sorella, delusa e arrabbiata. “Non
avresti capito, in ogni caso” pensò, rivolto a lei. Passò una mano tra i
capelli freschi di tinta castana per spostarli dal volto, infastidito.
Sentendosi strozzare aprì il primo bottone della camicia in raso nero.
L’appartamento seminterrato nel quale soggiornavano alla
periferia di Londra era accessoriato in modo da concedere una vita
dignitosa, ma non era abbastanza grande per tutti.
«Chiudi la finestra, il chiasso mi sta facendo impazzire».
Malik obbedì. Il ragazzone biondo e tutto muscoli, poi, si avvicinò
al fuoco per scaldarsi e rassicurarlo con una pacca sulla spalla: le
labbra cucite tra loro ne rendevano impressionante il volto, ma
Zachary cercava sempre di non farglielo pesare.
Malik un tempo era stato un angelo, un semplice operaio e, come
tanti altri, anche lui era stato esiliato a causa di un crimine: una
storia d’amore con la figlia di un importante Serafino. Aveva avuto il
coraggio di andare contro l’uomo che non voleva accettare la loro
relazione; aveva osato metterlo in ridicolo e quello, per vendetta, lo
aveva catturato, gli aveva cucito le labbra, strappato le ali e buttato
giù dal Paradiso.
La porta d’ingresso si spalancò e poi si chiuse con violenza. Dei
passi pesanti scesero le scale.
Un individuo incappucciato li raggiunse, poggiò sul vecchio tavolo
di legno una busta piena della spesa del giorno. «È tutto ciò che
sono riuscito a comprare».
Zachary annuì «Grazie mille Jelos. Vieni a scaldarti».
L’uomo tolse il cappuccio e mostrò il volto ornato da una folta
barba ramata e una testa calva. «Dove sono i ragazzi?» domandò.
«Alcuni cercano roba da mangiare, altri fanno giri di ronda».
Il barbuto annuì, distribuendo sul tavolo i viveri recuperati «Parli
del solito giro?»
«Sì» rispose Zachary. «Dobbiamo accertarci di non essere
osservati».
«Maria però è da sola a Madrid da troppo tempo… non
potremmo…»
«No, Jelos» tagliò corto il demone. «Non possiamo bloccarci
proprio adesso. Se stiamo facendo tutto questo è proprio per far sì
che tu e Maria un giorno possiate stare assieme senza dover
nascondere il vostro legame. Un angelo caduto e un’umana? I tre
mondi non sono ancora pronti per questo».
«Sta per partorire!»
«Quando arriverà il momento noi saremo lì, amico mio. Ma ciò che
stiamo facendo qui, adesso, è molto importante».
Jelos annuì e con fare nervoso si accarezzò la barba, poi si voltò
verso il giovane Malik e con un cenno del capo gli intimò di
avvicinarsi. Nel frattempo, tolse dalla busta un paio di forbici e una
boccetta di vetro con del liquido verdastro.
Zachary storse il naso nel vedere l’occorrente in mano all’amico.
«Non funzionerà, è condannato a rimanere così finché chi gli ha fatto
questo non se ne occuperà».
«Ne ho le palle piene di nutrirlo con latte, omogeneizzati e brodino
pronto!» rispose nervoso Jelos. «Tanto vale provare! Mi è stato
assicurato che questo disinfettante agisce contro le ferite
angeliche».
«Preso al Kokilon di Londra, immagino».
«Ci puoi scommettere!»
«Ti hanno fregato alla grande».
Malik, speranzoso, si sedette ignorando la considerazione di
Zachary, pronto per farsi operare senza anestesia.
Jelos, con le forbici, gli tagliò i fili neri sulle labbra e aprì la
boccetta da cui fuoriuscì un odore nauseabondo che schifò
entrambi; poi versò il liquido sulle ferite sanguinanti, provocando una
schiuma densa.
Il giovane diede un pugno sul tavolo, colto da un dolore
inaspettato, facendo sobbalzare Zachary.
In pochi istanti i buchi smisero di bruciare e Malik portò le dita
sulle labbra per tastare e assicurarsi di essere libero. Si alzò di
scatto facendo indietreggiare Jelos, ma appena aprì bocca per ridere
felice, nuovi fili spuntati dal nulla gli bucarono ancora una volta la
carne, facendolo dimenare per il dolore e la disperazione.
In pochi istanti fu reso ancora una volta muto dalla maledizione
eterna e Zachary non poté che scuotere il capo con dissenso. «Te
l’avevo detto. Tutto quello che farete sarà inutile».
Jelos lanciò contro una parete la boccetta ormai vuota, lo stesso
fece con le forbici e Malik si sedette, tenendosi la testa tra le mani e
chiudendo forte gli occhi per distrarsi dal dolore e ricacciare indietro
le lacrime.
In quel momento entrarono altre due persone, entrambe
incappucciate e con alcune buste di cibo che posarono sul tavolo.
Non dissero nulla, era bastato loro osservare i presenti e scambiarsi
un’occhiata fugace per capire cosa fosse appena accaduto: i
tentativi per liberare l’angelo caduto andavano avanti da tempo e
ormai avevano imparato a riconoscere i segnali.
Zachary batté le mani sulle ginocchia e si alzò. «Bene» disse
avvicinandosi al tavolo per svuotare le buste. «Bastiamo noi per
iniziare, gli altri sapranno che fare quando arriveranno».
Jelos, ora accanto al ragazzone, si rivolse ai nuovi arrivati che in
quel momento toglievano la felpa uno e il cappotto l’altra: «Behetan,
novità?»
La donna dai lineamenti orientali e i corti capelli blu scosse il capo.
«Solo semplici umani. Nessun demone, nessun angelo. Ma se
Brutus la smettesse di flirtare con qualsiasi essere vivente,
passeremmo molto più inosservati».
L’uomo con lei, capelli castani, barba incolta e occhi neri, sorrise
compiaciuto e Jelos lo rimproverò: «L’ultima volta che qualcuno ha
accettato le tue avances ti sei ritrovato con una del Concilio di
Lucifer che ti trattava come un cane da compagnia».
«Fredda come il ghiaccio, stronza come poche» ribatté Brutus.
«Comunque Eniel ci raggiungerà più tardi, gli riferirò tutto».
Behetan rise. «Da quando siete riusciti a impedire alla tua ex e
agli amici di rubare la reliquia, tu e lui siete diventati così assenti!
Non montatevi la testa».
Zachary intervenne, interrompendo i loro discorsi e dando inizio
alla riunione. «Pensavo che potremmo sfruttare il figlio di Lucifer e la
figlia di Asmodeus».
Malik e Jelos si scambiarono uno sguardo perplesso, il primo più
sofferente del secondo.
«E in che modo?» domandò la donna, sistemando il ciuffo sulla
fronte.
«Usandoli a nostro favore. Potrebbero rivelarsi due pedine molto
utili».
«Belial non si è mai rivelato valoroso» ragionò Brutus.
«Durante la battaglia sì, invece. Si fa portatore di un potere di cui
nemmeno immagina la grandezza».
Jelos storse il naso «E l’altra? Ti ricordo che è solo una bambina».
Malik concordò con un cenno del capo.
«Una bambina con una caratteristica utilissima. Sarà una zavorra
da tenere per poco tempo» considerò Zachary. «Avvicinarci a loro
sarà semplice: l’aura di Malik, Jelos ed Eniel non ha più nulla a che
fare con una angelica. La vostra, Behetan e Brutus, non è più
paragonabile a quella di un demone, bensì a quella di scarti della
società. Come voi, anche quella di tutti gli altri. Dobbiamo solo
cercare di attenuarla il più possibile per non metterli in allerta».
Jelos, sprezzante, considerò: «Questo coglione di Brutus e
quell’altro coglione di Eniel si son fatti sentire un po’ troppo quando
hanno provato a proteggere le reliquie da Lilith e Baal».
«Facile parlare, tu sei rimasto a casa a grattarti le palle» ribatté il
demone preso in causa.
Behetan annuì. «È un’idea interessante, ma dobbiamo sviluppare
un piano a regola d’arte se non vogliamo trovarci Satan e tua sorella
in mezzo alle scatole. Quella maledetta non ha fatto altro che
cercarci ed era quasi arrivata a noi. È stato un miracolo che non
abbia rintracciato questo posto».
Zachary la trapassò con lo sguardo. «Portale rispetto». E lei
abbassò gli occhi.
«Quindi dobbiamo cercare un nuovo alloggio?» domandò Jelos.
«Esatto».
«Potremmo usare il mio». La voce profonda di una donna li colse
di sorpresa, facendo voltare tutti.
Con un lungo vestito nero in velluto, ampiamente scollato sulla
schiena, e dalla bellezza matura, la donna si mosse in avanti. I
capelli bianchi risaltavano sull’incarnato scuro, raccolti in centinaia di
treccine che ondeggiavano al suo incedere. «Ho un posto sicuro e
ben protetto».
Zachary si alzò con un grande sorriso pieno di emozione. La
raggiunse e la strinse forte, baciandole più volte il capo.
Karasi ricambiò la stretta. «Sono felice di rivederti, ragazzo mio.
Mi sei mancato». Si allontanò di qualche centimetro e lo osservò con
sguardo dolce. Gli accarezzò la guancia seguendo i lineamenti del
volto. «È passato tanto tempo, ma tu sei rimasto bello e fiero». Gli
sfiorò i capelli mossi con le dita. «Vedo che hai seguito il mio
consiglio: ti sta bene la tinta castana».
«Pensavo fossi morta quel giorno…» rispose lui, senza riuscire a
staccarsi dagli occhi di lei.
«Non potevo morire senza salutarti» e senza ulteriori convenevoli
si sporse baciandolo con trasporto.
Jelos, Malik e Behetan spostarono lo sguardo, imbarazzati,
mentre Brutus ghignò divertito.
Zachary rispose al bacio con altrettanta passione. La spinse
dapprima contro una parete, poi verso la camera da letto che
condivideva con Jelos e si richiuse la porta alle spalle con un calcio.
Karasi allentò i lacci del corsetto nero e del vestito, lasciandoli
cadere sul pavimento. Gli saltò in braccio e gli strappò la maglia.
«Non ti è mai passata questa voglia» constatò Zachary con una
punta di ironia, mentre già non riusciva a contenere l’eccitazione che
lei gli aveva risvegliato. La gettò sul letto e continuò a spogliarsi
mentre la strega lo aiutava.
«Come puoi biasimarmi, dopo tutti questi anni?» gli sorrise prima
di chinarsi e posargli languidi baci su addome e basso ventre,
massaggiandolo con entrambe le mani.
Zachary chiuse gli occhi e si lasciò accarezzare dalla donna che
sapeva benissimo come trattarlo. Le poggiò una mano sulla testa,
incoraggiandola a intensificare il movimento. Le mani di Karasi
salirono fino al petto, tastandolo con bramosia.
Nessuna era mai riuscita a farlo sentire in quel modo, era legato a
lei in maniera particolare: l’aveva salvato, gli aveva fatto da madre e
l’aveva reso ciò che era.
«Voltati» le disse e lei non se lo fece ripetere. Obbedì e scostò i
capelli dalla spalla lasciando la schiena ricoperta di tatuaggi nuda,
poi si piegò in avanti, concedendosi.
«Stavolta intendi restare?»
«Sì. Ciò che abbiamo iniziato lo finiremo insieme».
16 dicembre 2004 d.C.
Bosco di Baard – confine della Capitale, Inferno

La neve alta almeno mezzo metro e il freddo pungente rendevano


difficile compiere anche un semplice passo.
Il clima all’Inferno era sempre stato rigido ma sembrava
peggiorare ogni anno di più.
Zachary correva, si allontanava dal borgo confinante con la
boscaglia. Il fiato corto, la gola bruciava, il cuore come un tamburo.
Nessuno più lo seguiva, ma ancora non si sentiva al sicuro. Si
nascose dietro un tronco e cercò di rallentare il respiro.
Rimase in ascolto, ma c’era solo silenzio.
Passarono i minuti ed ebbe la conferma di non avere più nessuno
alle costole. Poi si addormentò. In sogno tornò il ricordo dell’uomo
che lo aveva adottato, l’ennesimo, mentre si slacciava i pantaloni e
lo guardava in un modo che non gli piaceva, poi la corsa.
Si svegliò di colpo con una rinnovata paura e una piacevole
sensazione di calore tra le gambe. Si era fatto la pipì addosso.
Intanto aveva ricominciato a nevicare.
Si guardò intorno: si trovava in mezzo a un insieme disordinato di
alti alberi stretti tra loro. Conosceva molto bene quel posto che
pullulava di creature pericolose e fameliche, difficili da affrontare se
non si era armati a dovere. Gli venne da piangere al solo pensiero di
essere nuovamente solo. “Io però indietro non torno, andrò avanti,
anche se non so dove…” si disse, tirando su col naso.
Come in risposta ai dubbi lo raggiunse un invitante profumo di
cibo. “Carne? È davvero profumo di carne quello che sento?” Si alzò
e si rese conto di avere anche i piedi bagnati: i lembi strappati dalla
mantellina di pelliccia erano stati avvolti male e la neve, entrando, si
era sciolta. In effetti anche la camiciola era fradicia. Lo stomaco
emise un brontolio che pareva un ruggito. Tutti elementi che lo
convinsero a cercare la fonte del profumo.
Camminò per cinque minuti e dovette creare una fiammella che
riuscì a tenere accesa tra le mani per non congelare del tutto.
D’un tratto un’energia conosciuta risvegliò i suoi sensi. Percepì un
fuoco acceso nei paraggi, così accelerò il passo e inciampò, poi
prese a correre e si fermò, rabbrividendo: era di fronte a una grotta
piuttosto cupa. L’oscurità che proveniva dall’interno sembrava
potesse afferrarlo e inghiottirlo. In quanti avrebbero potuto
sconfiggere quel mostro nero con un potere come il suo? Si fece
coraggio, avanzò superando l’ingresso e riuscì a scorgere una luce
rossastra sul fondo. L’acquolina gli riempì la bocca, deglutì.
Da dietro un angolo roccioso spuntò una donna che aveva tutta
l’aria di essere una strega: lineamenti maturi, incarnato scuro
decorato da tatuaggi tribali – una linea orizzontale che le
attraversava il volto da un orecchio all’altro, una verticale che partiva
dal labbro inferiore e giungeva al mento – e lunghi capelli bianchi
posati sulla spalla destra.
«Non… non sono un ladro» balbettò lui. «Ho fame, in cambio ho
questa pelliccia. Ti prego, non uccidermi!» si affrettò a dire, sfilando
la mantella con una mano, mentre con l’altra teneva accesa la
debole fiamma.
La donna lo squadrò da capo a piedi e gettò una rapida occhiata
all’esterno. «Sei da solo?» domandò, tesa.
Lui annuì mentre di sottecchi guardava il pasto alle sue spalle: su
una pietra piatta vi era della carne già mangiucchiata, dall’odore
sembrava essere stata aromatizzata con dell’erba selvatica.
«Qual è il tuo nome? Sempre se ne hai uno» gli chiese, facendolo
sussultare.
«Sì, ce l’ho… Mi chiamo Zachary».
La donna gli guardò la piccola mano che reggeva la fiammella.
Ragionò sulla possibilità che quello fosse solo uno sciocco
trucco.«L’hai creata tu, Zachary?»
«Sì».
«Non ti credo, piccolo bugiardo. Dammi una dimostrazione».
Il bambino sgranò gli occhi, terrorizzato. L’avrebbe mandato di
nuovo in mezzo alla neve a morire se non avesse obbedito? Unì le
mani soffocando la fiamma, le mostrò i palmi vuoti. Deglutì mentre
lei lo guardava con sospetto. Si concentrò un poco e due piccoli
fuochi comparvero, poi li unì forgiandone uno non più grande di una
fragola.
«Bene, Zachary, immagino tu abbia fame. Possiamo fare uno
scambio se vuoi».
Il radicale cambio della donna lo rasserenò: ora le sue labbra
erano piegate in un mezzo sorriso. Annuì porgendole la pelliccia ma
lei rifiutò.
«Non mi interessa, quella. Voglio il tuo fuoco». La donna si chinò
sulle ginocchia per essere alla sua altezza e lui arrossì, pieno di
imbarazzo. «Puoi mettere il tuo potere al mio servizio in cambio di
cibo, acqua, vestiti e tutto il resto. Che ne pensi? Mi sembra
un’offerta allettante, molto più della bufera e della notte in
solitudine».
«Il mio potere?» Zachary sembrò confuso: c’era già un fuoco
acceso sul fondo della grotta. «Cosa vuoi che faccia?»
Karasi scosse la testa. «Sei debole, non dimostri certo chissà
quale potenza, ma forse, con il giusto allenamento, potrai essermi
molto, molto utile». Gli sorrise, lo afferrò bruscamente per un polso e
lo condusse davanti al fuoco e al cibo. «Mangia e riscaldati».
Zachary cadde in ginocchio di fronte al rudimentale piatto. Gli
salirono le lacrime agli occhi per l’emozione e iniziò a mangiare con
le mani, tremando tutto. La fiammella l’aveva seguito, affiancandosi
alla sua spalla.
Così smunto e gracile non sembrava potesse ambire a diventare
qualcosa di più potente, ma il sesto senso di Karasi le stava
comunicando proprio il contrario.
C’era qualcosa in lui…
“Con un po’ di aiuto riuscirà ad aumentare e utilizzare al meglio il
potere che possiede: questo fuoco che controlla”. Si incantò sulla
fiamma, assorta nei suoi pensieri. “Una dote perduta oggigiorno, tutti
gli elementali sono stati sterminati e questo ragazzino sembra invece
appartenere a una delle loro tribù”. Spostò lo sguardo su di lui e
disse: «Sia chiaro, non ho intenzione di farti da madre, quindi niente
piagnistei, niente capricci, niente bambinate di qualsivoglia genere,
altrimenti ti ributto in mezzo al bosco. Sono stata chiara?»
«Non puoi essere peggio di quelle creature che girano qui
attorno» rispose lui a bocca piena. «Quindi farò il bravo».
«Bene. Mangia e resta qui, dopo andrò a cercarti qualcosa da
indossare e domani inizierà il tuo addestramento».
«Va bene, grazie. Come ti chiami?»
«Karasi».
«D’accordo Karasi. Devo essere la tua guardia del corpo?»
domandò perplesso.
«Qualcosa di più, piccoletto. Qualcosa di più».
L’Etere

Raphael quella sera non aveva sentito un grande appetito. La


cena era stata scarna e veloce: i pensieri confusi non gli avevano
permesso di concentrarsi troppo sui bisogni primari. In realtà andava
avanti così da tutto il giorno.
Lo attendeva qualcosa di molto importante a circa quaranta minuti
a piedi da casa.
Più volte si era chiesto se il piano di Odry avrebbe funzionato. In
ogni caso lui avrebbe dovuto prelevare solo un poco di Etere durante
la notte, perché era tanto preoccupato?
“Perché rischio grosso per qualcosa che non mi riguarda”
concluse, raccogliendo i capelli in una bassa coda di cavallo. Si
fermò a osservare il proprio riflesso nello specchio in camera da
letto, mancava solo la giacca scura con cappuccio presa in prestito
dall’armadio del fratello. Non si soffermò sull’aspetto o sulla
funzionalità dell’abbigliamento, ma sulla propria persona. “Quanta
presunzione” si rimproverò. “Sanno ciò che fanno, conoscono il loro
mondo e la questione mi riguarda molto più di quanto voglia
ammettere”.
Il rimorso nei confronti di Odry, Satan, Victoria e Georgette giunse
come una spina nel cuore. Tutti loro avevano bisogno di lui per
compiere un passo importante e se tutto fosse andato per il verso
giusto, Lucifer, il nemico comune, sarebbe stato indebolito.
“Non c’è tempo da perdere” si disse, “devo approfittarne oggi che
nessuno mi trattiene al DEM”.
Chris, da quando gli Arcangeli erano tornati in Paradiso,
nonostante fosse stato sospeso dalle Dominazioni, si era accanito
su di lui in maniera particolare. Essendo gli altri rinchiusi in cella,
rimaneva l’unico a disposizione. Lo aveva riempito di compiti e lo
perseguitava con comportamenti aggressivi, proprio come faceva
con i suoi colleghi chiusi in cella. Era potuto tornare a casa solo
quella sera dopo che gli infermieri, vedendolo sfinito, si erano offerti
di coprirlo per la notte.
Erano le undici passate, il quartiere dove viveva era ormai vuoto e
lui poté uscire e procedere senza problemi.
Evitò il centro nel quale i giovani passavano da un locale all’altro o
passeggiavano prima di rientrare a casa. Le luci, la musica e il
vociare bastarono a coprire i pensieri che non smettevano di
importunarlo.
Una coppia gli tagliò la strada, entrambi si scusarono con timore e
passarono oltre.
Raphael sorrise tra sé. Così abbigliato e con tale atteggiamento
circospetto sembrava proprio un tipo poco raccomandabile. “È così
che si finisce a frequentare i demoni”. Un altro pensiero maligno che,
stavolta, non venne coperto da rumori esterni.

«Sissignore, sono dietro di lui».


Un uomo con la divisa del corpo di guardia al servizio del DEM
svoltò l’angolo e accelerò appena il passo per non perdere di vista
Raphael; sistemò l’auricolare nero con cui comunicava. Scambiò
uno sguardo con la coppietta, la quale ebbe come la conferma della
pericolosità dell’incappucciato.
«È molto importante che tu non lo perda di vista».
«Signor Dunne, lasci fare a me». L’uomo fece attenzione a non
fare rumore con gli stivali. Ragionando aggiunse: «Sembra che il
soggetto si stia dirigendo nella periferia di Sila, non riesco a
immaginare cosa possa esserci lì di tanto interessante per un
medico».
«Non è un semplice medico, bensì un Arcangelo traditore. Ti
ricordo che tempo fa dei demoni sono entrati in città passando per la
barriera. È possibile che stia raggiungendo uno dei suoi schifosi,
nuovi amici».
«Sarò pronto ad agire».
Raphael proseguì per le strade meno affollate e in circa quaranta
minuti di camminata giunse alla grande barriera.
Lo sguardo si soffermò per alcuni istanti sulle sfumature di colore
che essa prendeva grazie al movimento fluido del puro Etere del
quale era formata. Immaginò per un istante la breve ma intensa
sofferenza dei demoni saliti in Paradiso, nell’attraversarla, per poi
salvare Odry. Nessun angelo con corpo umano sarebbe riuscito a
oltrepassarla o toccarla senza subire danni, tantomeno le creature
infernali.
Dalla tasca dei pantaloni estrasse una provetta di vetro e la
stappò, l’avvicinò alla barriera lattiginosa facendovi passare
attraverso il collo del piccolo contenitore; pollice e indice cautamente
posizionati alla base per non farsi male. L’Etere fluì all’interno della
provetta. Era bellissimo: Raphael ne ammirò ancora le sfumature
violacee che si adagiavano piano sul fondo. Fin troppo piano.
Guardò attorno a sé con la speranza di sbrigarsi. «Dépêche-toi!
Liquide stupide![1]»
«Hey!» una voce sconosciuta alle sue spalle lo mise in allarme.
«Bastardo, dico a te!»
Raphael venne colpito alla schiena da un manganello elettrico che
gli diede una scossa. La guardia che l’aveva seguito fece per
sferrare un altro colpo, ma l’Arcangelo lo parò con l’avambraccio,
prendendo un’altra scarica. «Perché stai rubando l’Etere,
Arcangelo?» il terzo colpo non andò a segno: Raphael allontanò
l’uomo con un calcio in pieno petto e fece in tempo a mettere il
contenitore in tasca.
La guardia estrasse dalla fondina un piccolo mitra e glielo puntò
contro, sul volto un sorriso beffardo. «Fatti guardare in faccia».
Il francese alzò le mani senza rispondere. Studiò la zona di
sottecchi: i palazzi di quella porzione di periferia erano abbastanza
vicini da consentire un’agevole fuga, ma avrebbe dovuto essere
molto veloce. Di aprire le ali non se ne parlava, avrebbe dato troppo
nell’occhio.
«Hai sentito? Leva quel cappuccio!»
E anche smaterializzarsi non sarebbe stata una buona idea, gli
unici incapaci di farlo erano proprio gli angeli semplici come colui
che aveva di fronte e doveva fargli credere di essere uno di loro.
La guardia si avvicinò minacciandolo col manganello, ma Raphael
entrò diretto nella difesa scoperta e gli sferrò un pugno nello
stomaco, facendolo indietreggiare. Il rumore metallico del colpo gli
ricordò dell’utilizzo di ulteriori protezioni durante le ronde notturne.
L’angelo gli puntò contro il mitra ma non fu abbastanza veloce.
Raphael evocò il fioretto e gli tagliò la gola prima che quello potesse
sparare. Lo ritrasse subito, fissando il corpo con occhi sgranati,
mentre questo cadeva a terra con un tonfo sordo. L’arma scomparve
e lui rimase lì, col cuore che batteva all’impazzata. “Cosa ho fatto?”
Gli occhi ancora fissi sul cadavere. Ebbe timore di se stesso e della
reazione guidata dalla paura.
Agitato, tese l’udito nella speranza che non vi fosse nessuno nei
paraggi. Forse, sarebbe stato fortunato.
Con mani tremanti si chinò sul corpo e lo prese tra le braccia.
Chiuse forte gli occhi, gli chiese scusa dal più profondo del cuore e
si rivolse anche al Signore, con la speranza che egli comprendesse
l’errore. “Ti prego, non c’è oscurità nel mio cuore. Tu lo sai”.
Non sapeva bene come agire, come risolvere la situazione.
Sarebbe stato immondo lasciarlo lì, e sarebbe stato da pazzi portarlo
al DEM per curarlo di nascosto. Ormai le telecamere avevano
ripreso tutto e nonostante il volto fosse coperto dal cappuccio e dal
buio, Serafini e Dominazioni ci avrebbero messo poco a collegarlo
all’uccisione. E a lui restavano pochi secondi per agire.
“Ania” pensò, riaprendo gli occhi con sorpresa per non averci
pensato subito. E senza indugiare ancora, si smaterializzò.

II

«Aprite, per favore!» Raphael bussò con forza alla porta


d’ingresso facendo sobbalzare Odry, concentrata di fronte al
generatore. La mezzanotte era passata da un pezzo e lei come al
solito non riusciva a dormire. Gettò da una parte il panno sporco di
grasso e si alzò rapida; aprì la porta e Raphael entrò in tutta fretta
con un cadavere tra le braccia.
«Che hai fatto?»
«Aiutami a farlo sparire».
«Mettilo nel caminetto». La rossa chiuse a chiave la porta.
L’Arcangelo obbedì e raggiunse il fuoco. Con un piccolo aiuto infilò
il corpo nello spazio ridotto, si allontanò il più veloce possibile, e
andò a sedersi sul divano. Grazie all’intervento di Odry le fiamme
divennero più alte e feroci; in pochi istanti la guardia angelica
divenne carbone, infine polvere.
Raphael non aveva mai assistito a un fenomeno del genere da
vicino e spostò lo sguardo sulla donna ammettendone la potenza.
Odry rimase impassibile a osservare le fiamme che proiettavano
una luce amarena sul suo viso e in buona parte della stanza.
«Dimmi cos’è successo» esordì, quando la cenere dell’angelo e
della legna erano ormai una cosa sola.
«Stavo raccogliendo l’Etere e questo soldato del DEM è giunto
all’improvviso. Mi ha seguito, è chiaro». Raphael si massaggiò le
tempie per darsi un contegno. «Sto risentendo delle pressioni che mi
fanno al Distretto e non mi sono soffermato a valutare abbastanza a
lungo ogni possibilità. Ma non ho scusanti». Tolse dalla tasca la
provetta e la poggiò sul tavolino di fronte al divano. «Ho potuto
riempirla solo per metà, spero sia sufficiente».
«Basterà» rispose Odry, decisa. Si voltò a guardarlo con
attenzione. «Stenditi, hai una faccia pessima».
Raphael invece si alzò. Non riusciva a stare seduto, tantomeno a
seguire l’ultimo consiglio.
Odry si rammaricò e lo seguì con lo sguardo. «Sono cose che
possono capitare. Non devi crucciarti così tanto e poi meglio a lui
che a te». E con un po’ di imbarazzo domandò: «Che mi dici di
Gabriel?»
«Come gli altri non mangia abbastanza e subisce le provocazioni
dei Serafini. Non posso dirti di più perché c’è solo questo. Sono in
bilico, tutti quanti. In base alla loro condotta potrebbe peggiorare la
situazione».
«Gli hanno fatto del male?» continuò lei. Era evidente quanto
fosse preoccupata e quell’angoscia Raphael poté comprenderla
appieno, poiché era la stessa che lo corrodeva per Cassiel.
«No, nessuno osa toccarli».
Odry rilassò appena le spalle ma la sua espressione non mutò.
«Chissà per quanto sarà così» si morse le labbra e dopo un lungo
silenzio diede voce a una domanda martellante. «Si sa di chi è il
figlio?»
Raphael scosse il capo «Ancora no».
«Raphael!» Belial li fece sobbalzare. «Sei qui per l’Etere? Quindi
posso andare?» Il ragazzo scese le scale a gran velocità.
«Cosa ti ha detto Satan?» lo rimproverò la demonessa «Non puoi
andare con il buio, dovrai aspettare fino a domattina!»
«Ma se scendo adesso sarà più facile! Mi camufferò meglio con
l’oscurità e destabilizzeremo il Quartier Generale!»
«No». Odry fu tagliente. «Tu stai alle nostre direttive, non
possiamo sbagliare, altrimenti moriamo tutti. Sai molto bene quali
rischi corriamo, qui ognuno di noi fa dei sacrifici ed è giusto che
vengano riconosciuti».
Belial aggrottò le sopracciglia. «Se non abbiamo rischiato fino a
ora, non vedo perché dovremmo rischiare quando scenderò. Questo
è il momento perfetto per agire».
«Ho detto no e non si discute» ribatté dura la rossa. Prese la
boccetta di Etere e se la mise in tasca, poi si rivolse a Raphael.
«Domani agiremo alle prime luci dell’alba, ci sarai?»
«No» ribatté l’Arcangelo «perché non intendo creare sospetti
restando troppo a lungo sulla Terra».
Odry annuì. «Permettici di ospitarti almeno per la notte».
«Non ce n’è alcun bisogno». Raphael indicò il piano sovrastante
con un cenno del capo. «Saluta tutti. E grazie».
«Guardati le spalle».
E, dopo aver ricevuto il saluto di Odry, l’Arcangelo si smaterializzò,
lasciando lei e il principe da soli.
«Tu sei un idiota!» tuonò Odry a gran voce contro Belial,
superandolo per raggiungere la sua camera. «Mi fai fare sempre
figure del cazzo quando apri quella fogna che hai al posto della
bocca». Brusca salì le scale, sbuffando a ogni passo.
«Ma che problemi hai?» ribatté il giovane. «Mi avete sempre rotto
le palle perché non facevo mai nulla di utile e ora che voglio farlo
rompi le palle lo stesso!»
«Torna a letto o domani raggiungerai il tuo popolo all’Inferno con la
testa al contrario».
«Non sai dire altro, tu? Speri di risolvere tutto con le minacce? Io
non sono il tuo burattino!»
«Se vuoi metto da parte le minacce e passo dritta ai fatti» sibilò la
rossa fermandosi a metà scalinata.
«Non hai mai saputo affrontare i problemi come una persona
normale, pensi che le minacce ti rendano superiore? Usi le tue
stronzate come una scusa per giustificare il tuo passato, ma ricorda
che molte delle sfortune che hai subito sono state una conseguenza
delle tue scelte. Quindi smettila di comportarti così!»
Odry strinse con violenza la presa sul passamano. «Come osi
parlare di ciò che nemmeno conosci?! Il mio passato non ti riguarda
e sei l’ultima persona al mondo che può giudicare qualcuno, tu che
non sei altro che un ragazzino viziato, ignorante e inutile!»
«Tanto inutile che l’unico che può risolvere la situazione qui sono
io! Non Satan che in realtà se la fa sotto, non tu che non sai
nemmeno controllare quel cervello squagliato che ti ritrovi!»
«Sì, esatto, sei inutile come un cavallo zoppo e per questo verrai
condotto al macello, così che coloro che valgono più di te possano
andare avanti». La demonessa mollò la presa dal corrimano
bruciato, scese qualche scalino fino ad avere il ragazzo di fronte a
sé. «Io non so chi ti credi di essere, ma azzardati a parlarmi così
un’altra volta e ti spacco la faccia. Me ne fotto di te, non vali nulla» il
viso era contratto in una smorfia di disprezzo e una rabbia così
accesa che fece avvampare il camino in soggiorno. Trasfigurata
com’era non sembrava più lei.
Belial strinse i pugni, arrabbiato e avvilito. Scosse il capo. «Ciò
che farò, lo farò per altre persone: per Karen, Ania, Vicky e la sua
famiglia e per Georgette. Non certo per te che meriti di rimanere sola
a vita. Spero che Gabriel non mantenga mai la promessa, te lo
meriteresti».
Odry gli sferrò uno schiaffo rovente che lo costrinse a
indietreggiare. Il fuoco ruggì così come lei. «Io ho subito torture che
sarebbero spettate a te, sono salita sulla Terra per cercare di salvarti
e tu com’è che mi ripaghi?» minacciosa avanzò. L’aria intorno a loro
divenne densa e bollente. Gli occhi di lei brillavano sinistri, di un
viola acceso.
Belial si massaggiò la guancia ridacchiando. «Ben ti sta, stronza».
La demonessa gli sferrò un altro schiaffo, ma Belial lo incassò
piuttosto bene, essendo già preparato. A seguire ne giunse un terzo.
«Non sfidarmi, verme».
La voce di Odry si sdoppiò. Dalle labbra, oltre la sua, ne uscì una
seconda bassa, gutturale e raccapricciante.
Belial sbiancò.
«Tu hai il sangue di Lucifer l’assassino, anche tu meriti la mor…»
«Odry?!» Satan, in pigiama, comparve dalla cima delle scale.
«Cosa succede?»
La demonessa si voltò verso di lui spaesata, poi portò l’attenzione
su Belial.
«Per un momento è stata posseduta da qualcosa!» si affrettò a
dire il ragazzo, preoccupato.
«Faresti meglio a tacere» sibilò lei, squadrandolo. «Vattene a letto.
All’alba ti voglio pronto».
Belial la superò per salire due scalini alla volta, lanciò uno sguardo
eloquente a Satan e si chiuse nella propria stanza.
Il demone osservò l’amica mentre questa tornava di fronte al
caminetto per spegnere il fuoco, assorbendolo.
Faceva finta di nulla e alla fine si mise a braccia conserte
nascondendo le mani tremanti per l’orrore. Cosa aveva detto? Cosa
le era appena accaduto? Quella rabbia non le apparteneva. Non
aveva mai parlato in quel modo, era stata crudele eppure era certa
che qualcosa la stesse guidando. “La stessa voce di sempre”
ragionò, ma non osò porsi ulteriori domande per non risvegliare la
presenza di cui aveva una paura folle.
Odry Crane

“L’una e mezza di notte”. Odry spostò lo sguardo dall’orologio a


muro nel salotto e tornò a scrutare il camino acceso.
Il ricordo di come aveva agito durante il litigio con Belial ancora la
agitava. Ci aveva rimuginato per ore senza riuscire a darsi una
spiegazione al riguardo.
Era raggomitolata nell’angolo sinistro del divano, una bottiglia di
cognac poggiata a terra oltre il bracciolo, un sigaro tra le dita.
Pensava. Una nuvoletta di fumo si dissipò nell’aria, a seguire ve ne
fu una seconda poi una terza fino a un susseguirsi di sbuffi
ravvicinati.
Stare da sola le mancava. Durante gli ultimi mesi di caos e delirio
non era più riuscita a concentrarsi su se stessa, così tanti doveri e
preoccupazioni le pesavano sulle spalle e le impedivano di
ascoltarsi. Forse l’ultimo scatto d’ira era dovuto a questo… così
tante cose a cui pensare, a cui trovare una risoluzione. Oppure
trovare una via di fuga. Si sentiva sopraffatta dagli eventi, due passi
indietro che non riusciva a recuperare.
Una nuova nuvola si aggiunse alle altre. Accigliata e incantata
sulle fiamme, allungò una mano oltre il bracciolo, il freddo del vetro
della bottiglia fu un toccasana per il calore che sentiva ribollirle nelle
vene. Bevve un sorso.
“Belial vuole scendere a tutti i costi, e ha tutta l’aria di uno che non
ha idea di cosa fare ma che vuole agire per tornare alla normalità il
prima possibile. Non posso biasimarlo ma di questo passo
rischieremmo una nuova guerra, e saremmo impreparati, in netta
minoranza… No, uno scenario del genere sarebbe devastante e non
posso permettere che accada. Pensa Odry. Pensa a un modo per
sistemare le cose”. Chiuse gli occhi, li massaggiò con due dita. Era
esausta. “Se Zachary non ci avesse traditi, a quest’ora avrei un
pensiero in meno; se lo avessi saputo…” sospirò ma subito si diede
della stupida. “Come avrei potuto saperlo? È stato così abile da
ingannare perfino Satan. Non avrei dovuto fidarmi, lo avrei dovuto
tenere lontano e invece – perché in fondo sono una stronza
sentimentalista – mi sono fatta abbindolare con la storia del gemello
scomparso, gli ho permesso di illudermi e poi di abbandonarmi per
l’ennesima volta”. Buttò via la cenere con stizza.
Stava davvero provando a prendersi in giro? La verità era che lei
aveva sempre bramato un momento come il ritrovamento di un
familiare, sapere di non essere mai stata sola al mondo, di avere
qualcuno col suo stesso sangue con cui condividere la vita che le
rimaneva. Ma sia Zachary che Balthazar erano stati un sogno a
occhi aperti e a tratti un incubo da cui non era riuscita a scappare,
qualcosa che la tormentava di continuo.
In quell’agonia, per accartocciarle l’anima ancora un po’, si
aggiunse, a tradimento, l’immagine di Gabriel. Avrebbe voluto averlo
lì accanto, si sarebbe confidata perché Gabriel non l’avrebbe mai
giudicata e lei lo sapeva. Si sentì sola e meschina nei confronti di
Satan. Lui era sempre lì con lei, ma le cose erano cambiate. Lei era
cambiata e si era allontanata.
Forse era ancora in collera con lui per averla immischiata in tutta
quella assurda situazione. Non lo sapeva e non aveva la forza di
indagare, almeno non in quel momento.
Dormire era divenuto impossibile e spaventoso. L’arrivo della notte
la agitava e più si agitava più il suo malessere aumentava. “In
pratica, un cane che si morde la coda”.
Raphael però le aveva portato un sonnifero. Lei non lo aveva
ancora preso e aveva fissato la boccetta poggiata sul comodino ogni
notte. Ora, la stessa boccetta poggiata sul tavolino di fronte,
sembrava chiamarla. Non le piaceva sapere di dover ricorrere a certi
metodi, temeva di diventarne dipendente e, in fatto di dipendenze,
ne sapeva qualcosa.
“Magari una volta ogni tanto, solo per riprendere un po’ di
energie… Riuscirei a tornare attiva e a ragionare con lucidità”. L’idea
iniziava a stuzzicarla.
Raphael era stato categorico: non più di quindici gocce a notte.
“E sia!” si disse dandosi coraggio. L’afferrò, lesse le indicazioni per
scrupolo. Stappò e aspirò con la pippetta incorporata un poco di
liquido. Avrebbe dovuto diluirlo con dell’acqua, ma non potendo bere
nient’altro che alcol versò le gocce direttamente sulla lingua. Ne
contò venticinque, dieci in più della dose consigliata per paura che
non facesse effetto.
Il sapore dolciastro a tratti acido la schifò, così si lavò la bocca con
un sorso di cognac. Molto meglio. Scosse la testa poiché un primo
senso di confusione la colse di sorpresa. “Cazzo, ha fatto subito
effetto” pensò stordita. Si alzò piano, spense il mozzicone di sigaro
nel posacenere in marmo e con la bottiglia in una mano e una
coperta nell’altra si diresse in camera.
Salì le scale barcollando. Tutto intorno a lei iniziò a essere
confuso; i sensi rallentati, la percezione dello spazio alterata. Si
sorresse al corrimano. Lo sguardo si spostò alla ricerca del muro, o
di un secondo appiglio, tutto ciò che riuscì a vedere furono i soggetti
in movimento all’interno dei quadri. Le sembravano liquidi, pronti a
schizzare dalle preziose cornici: gli alberi del primo dipinto parevano
di gomma e la casa tra loro si spostava in mezzo ai tronchi; l’ampio
abito violetto di una dama seicentesca nel secondo usciva fuori e a
Odry parve di poter toccare i merletti e i pizzi. Inciampò nell’ultimo
gradino e cadde in ginocchio. Si fece male, eppure riuscì a evitare
che la bottiglia si rompesse. Ma ora doveva trovare la forza di alzarsi
e raggiungere la sua camera.
Provò usando il muro come supporto e tentando – invano – di
tornare presente a se stessa tra una bestemmia e un insulto.
Ciò che la circondava girava come fosse dentro a una lavatrice, i
sensi sempre più lenti. Nella confusione intravide una figura scura in
piedi alla fine del corridoio. Non ci si soffermò poi tanto, non capiva
più nulla e probabilmente era solo un’altra allucinazione. Almeno era
consapevole che le stranezze erano solo stranezze.
Dopo tanti sforzi e cadute raggiunse il letto e vi si gettò. Chiuse gli
occhi e crollò addormentata. La bottiglia scivolò sul pavimento e il
liquore si versò sul tappeto.

Era a Londra, nella sua stanza, il suo luogo sicuro. Riconobbe il


profumo di ciliegia e cannella sul cuscino dove il volto era premuto.
Una strana sensazione la spinse a mettersi seduta.
Voltò la testa verso la finestra, fuori era buio. No, non era solo
buio. Aggrottò le sopracciglia e si strofinò gli occhi per assicurarsi di
aver visto bene. Mise gli occhiali. L’esterno era nero, come una
dimensione sconfinata.
Con cautela scese dal letto e a piedi nudi uscì in corridoio.
Diede una rapida occhiata da un lato e dall’altro: non vi erano
movimenti, nessuna voce al piano di sotto. Sembrava sola, eppure
sentiva di non esserlo. Qualcun altro era in casa con lei.
Chiuse la porta e si diresse verso la stanza di Satan, bussò ma
non ricevette risposta, così aprì di poco la porta per guardarci
dentro. «Sat?» chiamò, ma era vuota. Richiuse e passò alla camera
adiacente, quella di Belial. Anche lì non c’era nessuno, il letto ben
fatto. Provò con le altre sul suo stesso piano ma erano tutte vuote.
«Ragazzi! C’è qualcuno?» chiese sporgendosi dalle scale.
Nessuna risposta.
«Sono sola?» si domandò, confusa. Scese al piano di sotto,
controllò la cucina, il bagno e il salotto. Il camino era acceso, ma il
fuoco era nero e dalla canna fumaria cadevano delle candide piume
che bruciavano all’istante. Lo stesso fuoco consumava un grosso
sigaro. Rivolti verso il quadrante in muratura vi erano gli anfibi di
Belial, come aspettassero di entrare. Oltre quella scena che mise in
soggezione Odry – ma che lei stessa ritenne stranamente consueta,
come fosse normale – in casa non c’era anima viva.
All’improvviso la sensazione provata poco prima la terrorizzò.
Qualcosa di negativo, di sinistro, sembrava avvicinarsi sempre di
più.
Si voltò, ma non vide niente di anomalo, solo la porta d’ingresso.
Di nuovo quel qualcosa di oscuro, di nuovo alle sue spalle.
Si voltò ancora. Niente.
Si sentì vulnerabile. Non le piacque.
Tornò alle scale e salì. Qualcosa la seguiva, accelerò. Il cuore in
gola, non aveva mai provato una paura simile. Raggiunse il piano di
sopra.
Era lì, la vide. L’entità era ferma sul fondo del corridoio, la fissava
con occhi invisibili, neri come il resto della sua figura.
All’improvviso percepì un’altra presenza dietro di sé. Si girò
allarmata, ma per il momento quella non intendeva palesarsi. Anche
lei voleva farla morire di paura? Una consapevolezza le tolse il
respiro: aveva voltato la schiena alla prima entità. Odry sapeva cosa
sarebbe accaduto.
L’ombra che l’aveva fissava da lontano adesso era a un millimetro
da lei.
Odry provò a gridare, ma non le uscì un suono. Provò a scappare,
ma i piedi erano pesanti e inchiodati al pavimento. Provò anche ad
attaccare, ma non uscì alcun fuoco.
Terrorizzata, deglutì. Era in trappola e sarebbe morta.
L’entità allungò una mano nella sua direzione; l’avrebbe presa,
Odry lo sapeva, così preda dell’impotenza chiuse gli occhi
proteggendosi con le braccia.
La spilla che aveva appuntata alla maglia splendeva, rossa come
il fuoco che le ardeva nell’animo. Fu però l’altra entità a toccarla.
Odry venne tirata all’indietro: la stava allontanando dall’ombra
maligna. Quindi, non era malevola? La stava salvando?
Accadde tutto così in fretta, vi fu un forte spostamento d’aria
calda, seguito da uno stridio simile alla plastica sulla fiamma. Odry
non ebbe il coraggio di aprire gli occhi e guardare, ma sembrava che
l’ombra stesse soccombendo contro l’entità che cercava di
proteggerla.
A tradimento, udì nella testa quella voce rabbiosa che la
tormentava giorno e notte, stavolta le ripeteva con insistenza una
parola. «Votharte! Votharte». Le mani che ancora le stringevano le
spalle la scossero con violenza. Ma lei non capiva.
«Basta!» Riuscì a strillare. «Basta, lasciami in pace!»
La voce ora pareva provenire da qualcuno che le stava di fronte.
«Votharte! Votharte».
«Smettila, io non ti capisco! Mi stai facendo impazzire!» Fu lì,
quando si decise a sollevare la testa, che venne accecata da una
forte luce.
Udì un secondo grido.

Odry sbarrò gli occhi e scattò a sedere. Il petto si alzava e


abbassava rapido, il cuore le batteva forte tanto da farle male, la
testa doleva. Sudata dalla testa ai piedi aveva inzuppato le lenzuola
pulite.
Si passò una mano sul viso. «È stato solo un fottuto incubo».
Decise di alzarsi, la sveglia sul comò segnava le sette e mezza del
mattino. Entrò in bagno, si specchiò, con ribrezzo osservò le
occhiaie. “Ho una faccia di merda”. Lo stordimento dovuto alle gocce
prescritte da Raphael non si era dissipato del tutto. “Non prenderò
mai più una roba simile in vita mia” si ripromise.
La luce rossastra della spilla regalata da suo padre la attirò. «Mi
sono dimenticata di toglierla, spero non si sia rovinata durante la
notte». La rimosse e la rigirò tra le dita controllandola con occhio
critico, sembrava essere tutto a posto. Era così bella, con la pietra
rossa romboidale incastonata in una cornice di fregi dorati. Così la
riappuntò sulla maglia e si spogliò per entrare in doccia.
Rilassò i muscoli, la testa reclinata all’indietro, il getto d’acqua
bollente le sferzava il viso. Non riusciva però a scacciare la
sensazione opprimente dell’ombra. Le immagini del sogno impresse
nella mente, quella parola di cui non conosceva il significato. “Di
questo passo impazzirò davvero” sospirò.
«Buongiorno!» Satan con un sorriso e un delizioso profumo di
frittelle la accolsero in cucina.
«Ciao» biascicò Odry in risposta, si sedette di peso e scomposta
sulla sedia.
Il demone la baciò sulla testa. «Sembri distrutta, ma ho visto che
hai dormito».
Lei si massaggiò le palpebre e sollevò le sopracciglia. «Sei entrato
a controllarmi anche oggi?»
Satan le fece una smorfia sottolineando l’ovvietà di quella
domanda. «Certo che sì! Anche se non vuoi che mi preoccupi per
te».
Odry annuì stanca, non aveva la forza di ribattere. «Ho preso le
gocce che mi ha portato Raphael e non le prenderò mai più. Ho
passato una notte di merda».
Satan fece crollare le spalle dispiaciuto. «Parlagliene subito
appena lo vedi, questa cosa sta peggiorando di giorno in giorno e…»
«Lo farò» lo interruppe lei con un gesto brusco della mano. «Ora,
per favore, fammi uno scotch con un poco di caffè».
«Subito». Satan prese dalla madia una tazza capiente e il liquore.
«La vuoi una fetta di crostata alla pesca? O preferisci le frittelle
ancora calde?»
«E me lo chiedi? La crostata!»
Satan sorrise intenerito. La sua migliore amica, nonostante tutto,
non aveva mai perso quel caratteristico lato ironico, tantomeno
quello goloso.
Odry poggiò gomiti e avambracci sul tavolo, una gamba sotto al
sedere e l’altra a penzoloni. Osservò la schiena di Satan indaffarato
sul piano cottura mentre tagliava e riponeva in un piattino una
generosa fetta di crostata, poi notò la mano sinistra con la punta
delle dita incerottate. «Ti sei fatto male?» gli domandò prendendo la
tazza di caffè corretto che le stava porgendo.
Satan si guardò confuso per poi minimizzare scuotendo la testa.
«Nulla di che, tranquilla, ero talmente assonnato che quando stavo
sfornando la crostata l’ho presa senza guanto». Mostrò la mano.
«Incidenti di routine nella vita di uno chef».
Odry scosse il capo. «Sei sempre il solito scemo».
La rivolta

Belial era seduto sul divano da almeno due ore. Non aveva
dormito e non aveva fatto colazione tanto era agitato. “Fammi
scendere prima che impazzisca” pensò, in realtà rivolto a Odry.
Guardò il generatore che emetteva un continuo ronzio, diventato
ormai parte integrante della quotidianità. Poi, di sottecchi, osservò la
demonessa.
Quella scolò in un sol colpo il rum corretto con un poco di
caffèlatte, poi aprì un piccolo sportello laterale del marchingegno
rumoroso e iniziò a trafficare con alcuni cavi. «Come ho detto ieri, la
carica reggerà solo due viaggi: andata e ritorno. Usa il nostro
collegamento solo se dovessi renderti conto che il piano non può
essere portato a termine. Non dovrai lasciare nulla indietro. Per
ridurre al minimo i danni, dovrai prima immergerti e versare l’Etere in
un secondo momento; rompi la provetta, stappala, fa’ come vuoi.
Comunque comunicheremo tramite questo» gli consegnò un
auricolare. «Toccalo due volte per aprire la chiamata, un solo tocco
per chiuderla. Chiaro?»
Belial annuí, inserì l’auricolare e prese un respiro profondo.
La tensione tra loro era ancora palpabile. Non una parola in più
venne pronunciata. A stento si scambiarono uno sguardo.
Satan li raggiunse, anche lui a corto di sonno e assai angosciato.
«Sicura che funzionerà?»
La rossa rimase in silenzio per diversi secondi, poi ammise: «Non
sono ancora riuscita a collaudarlo».
«Quindi potrebbe anche non funzionare?» sbottò l’amico.
Odry non rispose, la sua espressione era tutt’altro che
rassicurante. Si limitò ad avvicinarsi al pc portatile poggiato sul
divano, accanto a Belial, e a impostare le coordinate. Poi sollevò il
generatore e raggiunse il cortile retrostante della villa, poggiandolo
sull’erba, al centro. Accese i convertitori che azionarono il
movimento di generazione delle onde quantiche per attivare il
portale, il quale si materializzò poco distante dal marchingegno e
iniziò a vorticare lento per poi acquisire maggiore velocità e intensità,
illuminando l’erba e le piante circostanti con la sua luce violacea.
Belial e Satan l’avevano seguita.
«Tra pochi istanti saremo pronti» annunciò lei.
Il rosso si voltò verso il ragazzo, lo guardò per un attimo e poi lo
strinse con impeto. «Ti prego, fa’ attenzione» e il giovane rispose
alla stretta con un leggero imbarazzo.
Odry nemmeno lo guardò.
Una volta dato il via, entrò nel portale per non prolungare l’ansia
che lo corrodeva.
«Ti prego, dimmi che lo riporterai a casa tutto intero» disse Satan
avvicinandosi a Odry che annuì piano, ribattendo con ironia: «Abbi
fede».

Belial fu avvolto dall’immensa luce per diversi secondi fino a


quando non si ritrovò in un vicolo laterale al bar che Satan e Odry
erano soliti frequentare.
La prima cosa a colpirlo fu l’insegna luminosa a led verdi e
lampeggianti, poi le assordanti grida del popolo.
Essere di nuovo lì fu come ricevere un pugno nello stomaco. Stare
sulla Terra gli piaceva, era circondato da persone che lo degnavano
di considerazione e calore umano; lì sotto, invece, iniziava ad avere
paura e a sentirsi fuori posto. Prese a passeggiare avanti e indietro,
inspirando ed espirando per calmarsi. “Devo muovermi altrimenti
impazzisco”.
Uscì dal vicolo e iniziò a camminare tra la gente, senza farsi
riconoscere. Teneva il capo chino per la vergogna, pensando a come
avrebbe potuto fare una comparsa a effetto. L’unica opzione
interessante sarebbe stata salire sulla grande fontana al centro del
piazzale di fronte al Quartier Generale. Se avesse urlato qualcosa
per attirare l’attenzione, avrebbe compiuto il primo passo. Dalla
tasca estrasse l’ultimo discorso scritto da Satan, lo dispiegò e diede
una lettura veloce alle parole chiave evidenziate in giallo. “Che figura
di merda se mi vedessero sbirciare da questo foglio” pensò.
In breve tempo, tra un rimuginio e l’altro, si trovò ai piedi della
fontana.
Strinse i pugni e si decise: con agilità saltò sul primo bordo, poi
salì ancora fino ad arrampicarsi in cima. Guardò la folla e deglutì:
«Salve a tutti».
Nessun risultato. La gente continuava a gridare insulti contro
Lucifer mostrando armi di fortuna, come bastoni e tubi di ferro,
coltellacci da cucina e catene. I gruppi più vicini al cancello
provavano ad abbattere le guardie reali.
“Ovvio” pensò Belial. “Così concentrati verso il Quartier Generale
non mi considereranno mai”.
«Si può sapere che cazzo aspetti?»
La voce di Odry attraverso l’auricolare lo fece sobbalzare, ma lui
non rispose. Si schiarì la gola e ripeté, con tutta la voce che riuscì a
tirar fuori: «Salve a tutti!»
I primi a voltarsi furono coloro che stavano attorno alla fontana;
alcuni impiegarono più di altri a riconoscerlo, ma presto la voce si
sparse e una buona parte dei rivoltosi si ritrovò con lo sguardo
puntato su di lui.
Silenzio.
Il ragazzo tacque. Cosa poteva dire per iniziare? Il testo che aveva
letto e riletto gli si era cancellato dalla memoria e sentì di voler
vomitare. La cosa più scontata che gli venne in mente fu: «Mi avete
riconosciuto, vero?»
Il silenzio provocò non poca sorpresa anche all’interno del
palazzo.
«Sei imbarazzante».
La considerazione di Odry gli mise ancor più agitazione.
Lucifer teneva d’occhio la situazione da dietro una finestra.
«Fallirai sciocco ragazzo, fallirai» sussurrò tra sé.
Belial accennò un sorriso che gli morì subito sulle labbra, non era
più certo della riuscita del piano. Ormai era lì, al centro
dell’attenzione e il popolo presente si aspettava qualcosa da lui.
«Vedo che siete tutti riuniti sotto il Quartier Generale. Protestate
ma non agite» disse con voce tremante e poca convinzione. “Ho
detto una cazzata, ora mi uccidono!”
«Attento alle stronzate che spari». Odry lo ammonì, l’attenzione
concentrata sullo schermo.
Satan, dietro di lei, si mangiava le unghie e batteva un piede,
senza controllo.

Perché era finito in mezzo a quelle persone? A Belial sembrò di


aver dimenticato ogni cosa.
Lo scopo di tutto era portare avanti un progetto nel quale si era
trovato coinvolto, del quale conosceva ben poco. Altre persone ne
muovevano i fili e lui, in quel momento, si sentì un perfetto burattino.
Era davvero ciò che voleva?
In effetti non sarebbe stato male mostrarsi valoroso, dimostrare
che non era più l’idiota del passato. La consapevolezza di sé si era
rivelata quando aveva recuperato la reliquia che nemmeno sua
madre, Baal e Gaki erano riusciti a conquistare. Partecipare alla
battaglia contro l’esercito del Generale russo, poi, gli aveva fatto
comprendere che di valore e coraggio lui ne aveva da vendere. Tutti
coloro che l’avevano sempre avvilito e sminuito non avrebbero
potuto fare altro che ricredersi.
Avrebbe portato un popolo a ribellarsi contro il tiranno e da lì
sarebbe iniziata la scalata per la sua vendetta personale. “Fanculo
tutti”.
«Sono qui per voi e come un fratello, sono qui per banchettare alla
tavola della vittoria».
Il popolo tacque ancora.
«Sarò il vostro condottiero attraverso il mondo corrotto in cui
viviamo!» Le parole scritte da Satan gli tornarono alla mente, un
lampo di soddisfazione gli riempì il petto. «Ma potrò guidarvi solo se
lo vorrete!»
Fece una pausa e li osservò: nei loro sguardi scorse una scintilla,
una nuova luce.
Pian piano dei commenti si levarono dalla massa.
I discorsi in diretta del principe erano sempre stati toccanti e
motivazionali, ma la persona che avevano di fronte era
completamente diversa, non tanto d’aspetto. Forse di spirito?
Si accorse che i presenti cercavano di capire se di lui ci si potesse
fidare davvero. Erano distrutti, sofferenti e lasciati a loro stessi.
Avevano bisogno di qualcuno che li riportasse su, come un bambino
che dopo una caduta cerca di rifugiarsi tra le braccia della madre.
Lui doveva sostituirsi al padre che li aveva traditi.
Adesso era di fronte a loro e non gli restava che guadagnarsi un
po’ di fiducia, doveva toccarli nel profondo. «Lucifer vi costringe alla
fame, la nostra terra è ormai sterile grazie al suo egoismo! Ditemi:
chi di voi ieri ha rinunciato alla cena per darla ai propri figli? E chi di
voi non ha dato da mangiare nemmeno ai propri figli?»
Un altro mormorio.
«Non ho sentito!» incitò.
Finalmente la voce del popolo si levò timida.
«Non mangio da due giorni!» disse uno proprio sotto di lui.
«Ha ragione! Lavoro per tre kort al giorno e i miei bambini
muoiono di fame! Non veniamo tutelati, siamo invisibili!» protestò un
altro demone.
«Stai andando bene!»
Il ragazzo ebbe un tuffo al cuore: forse non era poi così incapace
e se avesse continuato nel modo giusto, avrebbe ottenuto ciò che gli
serviva. «Lo so che siete stanchi, frustrati, che temete per
l’incolumità delle vostre donne e dei vostri piccoli, che non guardate
in faccia nessuno per proteggerli, ma poi siete costretti a vederli
morire in ogni caso!»
Diversi uomini risposero a gran voce, incrementando un’euforia
contagiosa.
«Io non mi sono comportato bene con voi, lo ammetto». Belial
riportò il silenzio con quell’ammissione. «Ho passato anni della mia
vita a ignorare chiunque e a pensare solo a me stesso».
Il ragazzo riconobbe, però, parecchi sguardi storti: concordavano
con le sue ultime parole. Doveva trovare qualcos’altro per poter
riportare alto il consenso.
«Sono una persona nuova da quando ho lasciato questo mondo e
ho aperto gli occhi! Mi son reso conto di aver sempre vissuto in
mezzo a uomini e donne poveri di spirito, dei bugiardi che non
aspettavano altro che pugnalarsi alle spalle a vicenda».
«Bastardi!» Gridò qualcuno. «Tutti uguali!»
«Ed ero così anche io. Credetemi se vi dico che non ho mai visto
tante persone così unite, molti di voi nemmeno si conoscono!»
Un vociare convinto, finalmente, si alzò da quel pubblico
improvvisato.
«Ora calca sulla loro rabbia! Invitali ad agire!»
Belial prese un respiro profondo. Il petto si caricò di orgoglio.
«Dobbiamo combattere. Dobbiamo radere al suolo le difese, entrare
nel palazzo e buttare Lucifer giù dal trono!»
Un boato di giubilo esplose tra i civili che sollevarono le braccia al
cielo impugnando le armi di fortuna. Senza aspettare, corsero tutti
verso la prima fila di soldati posti di fronte ai cancelli, i quali alzarono
gli scudi pronti a reggere l’attacco. La folla era inferocita, assetata di
vendetta e si avventò sui militari come un’onda anomala.
L’impatto fu brutale.
Belial rimase a guardare la scena a bocca aperta, incredulo del
potere di quelle poche parole.
I popolani neutralizzarono le prime file, molti non ne uscirono
indenni, ma così facendo abbatterono il primo ostacolo. Un’altra
schiera di demoni armati proteggeva il cancello ma anche questi
vennero travolti.
In pochi minuti i morti iniziarono ad ammassarsi sotto le mura.

Lucifer digrignò i denti.


Un soldato terrorizzato lo raggiunse alle spalle, ma rimase a
distanza. «Mio Signore, i civili stanno arrivando al portone! Sono
troppi, non riusciremo a tenerli a bada a lungo».
Il Sovrano non gli diede retta. Si allontanò dalla finestra e a passo
spedito si diresse verso l’ingresso. Era stato sfidato e nessuno
sarebbe dovuto sopravvivere a tale sfrontatezza.
«Signore dovete mettervi al sicuro!» azzardò il soldato che gli
andò dietro, ma la testa gli esplose e le cervella schizzarono
ovunque.
Lucifer scansò con un gesto della mano chiunque si frapponesse
tra lui e l’obiettivo. Soldati, impiegati, succubi e incubi venivano
lanciati via da una forza misteriosa. “Qualcuno ha bisogno di una
lezione”. Percepì la collera aumentare con le urla dei suoi uomini e
del popolo intento ad abbattere l’ultima protezione dinnanzi al
portone.
Balthazar gli fu a fianco in pochi istanti. «Mio Signore dovete
correre ai ripari!» e anche lui venne spinto via, finendo contro un
gruppo di persone in fuga.
L’Imperatore procedette, gli occhi rossi brillavano famelici.
«Aprite!» ordinò con voce terribile.
I soldati all’interno chinarono il capo in segno d’obbedienza, mossi
dalla paura.

Belial era ormai in mezzo alla ressa.


Cercava di farsi strada, con agilità schivava i più grossi che
rischiavano di schiacciarlo. Ricevette spintoni e gomitate, perse
l’auricolare e nemmeno se ne accorse. Era terrorizzato, il fragore
attorno a lui era divenuto insopportabile. Il cervello macchinò decine
di ipotesi su come sarebbe potuta andare a finire e la possibilità che
a causa del suo fallimento le persone a lui care potessero morire gli
provocò la nausea.
Un movimento ambiguo lo mise in allarme: il portone si stava
aprendo.

Le prime luci dell’alba tingevano di colori caldi il soggiorno della


villa di Ania.
Odry e Satan stavano fissando gli schermi in rispettoso silenzio.
Tenevano d’occhio il ragazzo che di tanto in tanto spariva tra la folla,
ma anche la loro attenzione venne attirata dall’apertura del Quartier
Generale.
«Cosa sta succedendo?» chiese Satan.
Odry non rispose. Concentrata, si limitò a muovere sul lato destro
il drone per non perdere di vista Belial.
Karen li raggiunse in giardino. Teneva tra le mani un vassoio con
due tazze da tè, una corretta per la demonessa. «Stanno
vincendo?»
«Il peggio sta per arrivare» rispose l’altra. L’umana però, nel
raggiungerli, non si accorse dei fili aggrovigliati e inciampò.
La demonessa si voltò con gli occhi sbarrati nel momento in cui le
tazze si rovesciarono sul generatore.
Ci fu un botto, il computer collegato al macchinario emise delle
scintille e il monitor si spense, seguì un cortocircuito e uno stridio
violento all’orecchio che costrinse la rossa a levare l’auricolare e a
lanciarlo lontano.
La francese gridò.
Satan trasalì.
Odry andò su tutte le furie.

II

Lo stridio di metallo pesante sul pavimento si propagò nella


piazza. Il portone si spalancò.
La sagoma imponente e austera di Lucifer si palesò di fronte al
popolo. Mosse qualche passo avanti e la plumbea luce del cielo gli
illuminò il viso pallido e furioso.
L’intera folla ammutolì; alcuni indietreggiarono.
Nessuno si aspettava la sua comparsa.
Lucifer puntò gli occhi rossi sul figlio che, spaventato, deglutì.
«Tu» sibilò il Sovrano.
A Belial quell’uomo faceva paura, ma l’odio che provava era più
grande, così si arrampicò su un popolano parecchio alto che lo
sostenne senza problemi, poi si mise in piedi sulle sue spalle.
«Finalmente ti fai vivo! Era ora!»
«Taci, inutile ammasso informe!» Lucifer avanzò di tre passi e con
lui, la calca, si fece indietro. «Cosa speri di fare? Tu, che non hai
fatto altro per diciotto anni che trastullarti come un bambino viziato
tra le cosce delle succubi quando il tuo amato popolo moriva di
fame!»«Moriva di fame perché tu gli portavi via qualsiasi cosa»
ribatté il ragazzo «quindi non farmi la predica, perché è così che
sono stato cresciuto e solo standoti lontano ho capito come
funzionano le cose!»
«Sei solo un ragazzino che gioca a fare l’eroe. Ma guardati! Non
hai nemmeno un vero aspetto, sei andato a rubarlo a qualcun altro,
sei un ladro, una bugia». Le parole di Lucifer furono crudeli così
come il suo sorriso e non avrebbe potuto toccare tasto più dolente.
Belial, essendo un Informem, per essere accettato da coloro che
si aggiravano per il castello, tre anni prima aveva davvero rubato
l’aspetto a un giovane straccione morto il giorno stesso davanti a lui.
Voleva solo sentirsi normale, come gli altri. Quindi, invece che
nascondersi nelle ombre con le sembianze di un’entità fumosa e
oscura, da allora aveva potuto camminare su due gambe, mangiare
e comunicare.
Strinse i pugni e mandò giù la paura: doveva affrontare suo padre
da solo.
«Io non ho un aspetto tutto mio» disse «ma di faccia ne ho una
sola».
Lucifer si mosse ancora, era sempre più vicino. «Tu sei solo, figlio
mio, lo sei sempre stato e sempre lo sarai. Nessuno ti ama. Come si
potrebbe amare un essere come te? Credi che i Crane siano dalla
tua parte? Non lo sono, ti sopportano solo perché non hanno avuto
scelta, ma ti disprezzano, come tutti. Sei un peso». Indicò con la
mano aperta ogni singolo demone davanti a lui. «Anche loro ti
odiano perché il cibo che non arrivava lo consumavi anche tu».
Un brusio si diffuse tra il popolo.
«Lo sanno bene, non c’è bisogno che tu glielo ripeta. Io mi sono
scusato di fronte a tutti; l’importante nella vita è migliorare, no? Tu
sei stato buttato giù a calci per le tue buone intenzioni, ma sei
peggiorato e non ammetti le tue colpe. Io sono qui per recuperare
ciò che non ho fatto in passato e ciò che tu non hai mai saputo fare».
Il sorriso crudele restò sulle labbra di Lucifer. «Satan ti deve aver
imbottito per bene con discorsi sulla libertà, il riscatto e la lealtà,
eppure vi sfugge un piccolissimo particolare: questo mondo è mio e
posso farne ciò che voglio». La mano sinistra era nascosta
dall’ampia manica della sopravveste.
Erano proprio quelle le parole che Belial stava aspettando. Sul
volto comparve un’espressione beffarda. «Avete sentito tutti? Lui
dice di poter fare ciò che vuole nel suo mondo! In realtà fa ciò che
vuole con le vostre terre, le vostre vite! Cazzo! Perché ne avete
tanto timore? Lui sarà pur forte, ma noi siamo numerosi e uniti!»
Il popolo però era intimorito dalla presenza del Sovrano, che di
tutta risposta aprì il braccio destro con un ghigno divertito. «Come
vedi… sei solo».
Belial serrò la mascella e saltò giù dalle spalle del demone per poi
sparire tra la folla.
Lucifer riuscì a intuirne il tragitto notando lo sguardo di alcuni
popolani che seguivano il principe. All’improvviso tra i suoi piedi si
schiantò un pomodoro ammuffito, il cui succo maleodorante schizzò
sulla veste.
Il popolo fu terrorizzato da quel gesto.
Giunse un secondo pomodoro.
Lo sguardo sbarrato di Lucifer puntava al terreno. Incredulo, non
riuscì a realizzare nell’immediato cosa stesse accadendo.
I popolani ripresero a essere aggressivi; alcuni soldati li
spintonarono. Altri ortaggi marci volarono verso il Sovrano insieme a
grida, insulti e incitamenti a sfondare il cancello.
Le parole non avevano funzionato. Belial non aveva l’esperienza
del padre, ma quel gesto iniziale era bastato per mancargli di
rispetto. E Lucifer non era più abituato da tempo a subire un attacco
personale.
«Vuoi il loro raccolto? Eccotelo!» Un terzo pomodoro gli finì sul
petto imbrattandolo ovunque. Belial ricomparve sulla fontana
salendovi in cima.
Non bastava: mancava ancora qualcosa per scatenare il caos.
Balthazar raggiunse di nuovo il Sovrano. «Sire vada dentro, torni
nella torre!»
Ma quello non sembrava sentire, anzi, lo sguardo era fisso sulla
veste, osservava la macchia rossa senza riuscire a reagire ai
richiami.
Si stavano davvero ribellando a lui…
Belial raggiunse la fragile fila di soldati e ne puntò uno, al quale
avrebbe rubato l’aspetto. Gli si parò davanti e la guardia, sorpresa
nel ritrovarselo di fronte, esitò, lasciandosi afferrare e trascinare tra i
rivoltosi, finendo schiacciato sotto decine di piedi. A lui si sostituì il
principe sotto mentite spoglie.
E fu proprio quell’azione a scatenare il caos.
La scomparsa momentanea del soldato aprì un varco e la furia del
popolo penetrò le mura del castello.
L’ultima linea venne spezzata, lasciando entrare una buona parte
della popolazione dentro i giardini, come una rete debole che non
riesce a trattenere un banco di pesci troppo grande.
Ormai non c’era più spazio per la paura, il piano doveva essere
concretizzato.
«Signore! Vada dentro!» aveva gridato ancora Balthazar, ma
Lucifer rimaneva inchiodato sul posto. Lo sguardo di sangue ora era
fisso sui rivoltosi. «Come osate…» sibilò, ma l’avvocato tornò alla
carica, lo strattonò per la veste. «Signore!» gli gridò ancora e Lucifer
lo afferrò per il collo scaraventandolo contro una parete. Era fuori di
sé.
L’orda invase i giardini interni, calpestando piante e fiori,
devastandone la perfezione. In pochi attimi furono al portone.
Belial, col nuovo aspetto, si apprestò a entrare impartendo ordini
agli altri soldati, incoraggiandoli a dare il massimo mentre lui,
approfittando del delirio, si nascondeva nella tromba delle scale di
servizio.
Le grida dei popolani erano terribili, soprattutto i loro insulti verso
l’Imperatore.
Il Sovrano, infine, perse ogni briciolo di lucidità. La mano, fino a
quel momento tenuta nascosta dentro l’ampia manica, era aperta col
palmo verso l’esterno. Sulla sua testa sbucarono fuori lunghe corna
nere ricurve. Gli occhi divennero interamente rossi e luminosi. «Io vi
ho dato la possibilità di far parte del mio mondo, avete scelto di
rinunciarvi e di ribellarvi a me, vostro padre!»
Tutti si bloccarono. Nessun muscolo rispondeva ai comandi,
nessuno era capace anche solo di urlare o muovere gli occhi.
Il bel volto di Lucifer era trasfigurato, divenuto osceno e terribile.
«Anche io andai contro mio padre e patii la peggiore delle condanne!
Ma io non sono come lui, io non sono misericordioso e non avrò
pietà per voi». Vomitò quelle parole con disprezzo con una voce
gutturale e agghiacciante.
Fu un istante.
Tutti coloro che si trovavano di fronte al Signore Oscuro, popolo o
soldati che fossero, esplosero come fuochi d’artificio in uno
spettacolo di sangue e interiora.
I soldati alle sue spalle si ritrassero d’istinto mettendosi al riparo
dietro i portoni.
Balthazar, accovacciato sul pavimento, si alzò piano per assistere
allo scempio.
Lilith, ai piani superiori, osservava le migliaia di morti che ormai
ricoprivano l’intera piazza e buona parte delle vie principali.
La Capitale era stata quasi del tutto spazzata via. Intorno alle
mura vi erano solo sangue, viscere e cadaveri.
Tuttavia Lucifer non sembrava esserne sollevato. Il petto si alzava
e abbassava rapido. Aveva permesso alla sua versione bestiale di
uscire allo scoperto e non riusciva ad accettarlo.
«Chiudete i cancelli» disse infine. Si voltò per dirigersi nella torre;
lo scalpiccio degli zoccoli sul marmo nero echeggiò nella hall.
«Ripulite tutto e bruciate i resti nel deserto del Karkaron. Che sia un
monito per tutto il regno». Poi si allontanò sparendo nelle stanze
private.
Il comandante delle guardie, dolorante per la colluttazione col
popolo, tornò a impartire ordini ai soldati sopravvissuti per
coordinare le pulizie.
Nel giro di mezz’ora venne acceso il fuoco e una buona parte dei
resti dei rivoltosi venne fatta bruciare.
Belial sentiva le gambe molli per il terrore e una voglia incredibile
di scappare. Tutte quelle persone disperate, vittime innocenti di una
lotta tra i più forti… Uomini e donne, bambini condannati a morte,
famiglie distrutte. Avevano creduto in lui e lui alla fine si era
nascosto. Gli venne di nuovo da vomitare.
Ma aveva una missione importante da portare a termine, lo
doveva a tutti loro.
Uscì allo scoperto con lo stesso aspetto da soldato e passò dietro
al generatore che aveva permesso al resto dell’esercito infernale di
salire sul piano terrestre durante la battaglia per il Graal. Mutò il dito
indice in una lama fine e lunga almeno cinque centimetri e con essa
penetrò accanto al motore, arrivando a distruggere il chip.
Il macchinario emise un rumore sinistro e si spense.
Tutti lo udirono ma nessuno osò dire nulla, troppo impauriti per
dare un’ulteriore orrenda notizia al Sovrano.
Belial si finse sorpreso e venne ammonito da un collega che disse:
«Zitto, ci penseremo dopo».
«D’accordo. Coprimi qualche minuto, vado a pisciare». E con
questa banale scusa, il ragazzo riuscì ad allontanarsi senza
problemi. Fino a quel momento la missione non si era rivelata affatto
facile, sperò solo non si complicasse.
Nel tragitto verso il portale primordiale, ripensò decine di volte alle
povere persone uccise da Lucifer e pensieri ben peggiori gli si fecero
largo nella mente.
E se fosse stata solo colpa sua?
Dopotutto si sarebbe potuto limitare fin da subito ad appropriarsi
dell’aspetto di un soldato e girare nella struttura in tutta tranquillità.
“No, ha avuto senso portare l’attenzione sul popolo in rivolta per
minimizzare tutto il resto” ragionò. “Ha avuto perfettamente senso.
Ha avuto senso il sacrificio di centinaia, migliaia di persone. Tutto
per uno stupido portale. Quante mogli ora senza un marito? Quanti
figli senza un padre e bambini senza più genitori? Non è giusto,
cazzo! Non è giusto”. Belial si commosse. Tirò su col naso e non
fece in tempo a ricacciare indietro le lacrime che s’imbatté in una
scena orribile.
Ishtar, con una lunga e trasparente veste blu notte, stava di fronte
a una giovane succube dalla pelle scura, inginocchiata e
terrorizzata. La grande iena, accanto alla padrona, fissava la
ragazza con occhi famelici e l’acquolina che le colava dalle fauci.
«La prego, mia signora! Non…»
«Non vivrai, per questo tuo affronto al Sovrano. Nessuno di voi
ribelli sopravvivrà» e, dopo le spietate parole, la belva si avventò
sulla preda, azzannandole la faccia.
Belial le sorpassò con lo stomaco in subbuglio, mantenendo la
freddezza di un soldato. E fu proprio grazie a questo autocontrollo,
ma soprattutto all’aspetto rubato, che riuscì a passare oltre senza
destare sospetti.
“Chissà cosa avrebbero fatto Odry e Satan in questa situazione”
ragionò. Era certo che nemmeno loro avrebbero potuto salvare i
rivoltosi; questo pensiero un po’ lo rassicurò.
In meno di cinque minuti raggiunse la parte più antica del Quartier
Generale e la paura crebbe: ora si trovava di fronte al portone.
Nei dintorni non c’era nessuno e poté tornare al suo aspetto. Mise
le mani sui fianchi osservando ogni minimo particolare dell’ingresso
e pensando al modo per entrare, ma avrebbe potuto passare dalla
parte opposta solo tramite Aini e Inia.
“A meno che…”
Si chinò per valutare la fessura tra il portone e il pavimento e
calcolò anche lo spazio laterale. Soddisfatto mutò forma, divenendo
un ammasso gelatinoso e scuro. Passò sotto l’ingresso e riprese una
consistenza umana, ma un malessere lo colse all’improvviso:
smaterializzarsi e diventare tutt’uno, per alcuni istanti, con una
sostanza tossica come l’Etere non era stata una buona idea.
La grotta era illuminata solo dal bagliore scarlatto dell’ipnotica
piscina, ora unico portale funzionante. L’improvvisa paura di morire
lo bloccò. “Odry ha detto che buttandomi assieme all’Etere mi farei
male perché le particelle attaccherebbero le mie, o qualcosa del
genere” pensò. “E se, invece, mi disintegrassero?”
Non poteva essere, Odry aveva sempre ragione. Di sicuro non si
sarebbe sciolto, sparendo per sempre. O almeno così sperava.
Stappò la boccetta e gettò il tappo lontano, tremante si avvicinò
alla piscina.
«O ti fermi tu, o ti fermo io e ti posso assicurare che per te non
sarà piacevole, affatto».
La voce di Lucifer lo inchiodò sul posto lasciandolo in un gesto a
metà. Belial si voltò di scatto e se avesse avuto un cuore battente,
l’avrebbe sentito fermarsi.
I passi del Signore Oscuro riecheggiarono sulla pietra, le sue
corna ancora fuori dal cranio e gli occhi iniettati di sangue.
Il ragazzo indietreggiò e sollevò la boccetta, spostando il braccio
sul portale. «Ti conviene stare indietro: questo è Etere angelico».
«Posala. Subito» sibilò l’altro avanzando minaccioso.
«No!» esclamò il giovane «E se non stai lì, distruggerò questo
portale».
Lucifer si fermò. «Non sfidare la mia pazienza, figlio» disse tra i
denti.
«Altrimenti mi ucciderai? Non aspetti altro e lo stesso Lilith». La
voce gli si incrinò, indietreggiò ancora sbattendo il tallone destro
contro il bordo di pietra della piscina. «Perché mi avete messo al
mondo se di me non vi è mai importato niente?»
Lucifer inclinò appena il capo. «Sei il mio unico erede e a modo
mio ti amo. Tua madre ti ha voluto come unico capriccio, perché
dopo essere andata contro
Adamo – anni dopo aver dato alla luce Eva – è stata punita e
privata del dono di procreare». Lo fissò dritto negli occhi. «Posa la
boccetta e mettiamo fine a questa inutile rivolta». Si avvicinò di un
passo e sembrò sorridere in modo amorevole. «Belial, mio caro
ragazzo, vuoi davvero che altri innocenti muoiano?»
Il principe aggrottò le sopracciglia. «Tu… tu non dici la verità.
Avresti potuto contenere la rivolta, invece per te è stato più comodo
uccidere tutti, sapendo che c’ero anche io lì in mezzo».
«Non avrei mai potuto contenere la rivolta, loro non avrebbero mai
creduto alle mie parole, sarebbe stata una causa persa» avanzò
ancora di un passo. «Belial, sei il mio erede, non prendere le parti di
chi vorrebbe portarti via il trono, loro non sono tuoi amici».
«Hai avuto un sacco di tempo per provare a farmi questo lavaggio
del cervello, padre, Ora è tardi». La mano strinse la provetta fino a
spaccarla, l’Etere colò.
Ma Lucifer fu altrettanto veloce.
Gli bastò un gesto della mano per investire il ragazzo con una
potenza invisibile che lo scaraventò contro la parete rocciosa, oltre la
piscina. Fu un volo che gli fece battere il capo con violenza.
Belial provò a rialzarsi ma la stessa forza lo sollevò da terra e lo
ributtò giù. Questa volta, con l’impatto, il cranio si aprì in due.
Lucifer continuò ad attaccarlo, il volto sfigurato da una rabbia
simile alla pazzia, e si fermò solo quando il corpo del principe era
ormai ridotto a uno scuro ammasso informe, scuro e sanguinolento.
All’improvviso l’Imperatore sentì una dolorosa fitta al cuore e fu
costretto a reggersi poggiando una mano alla pietra, l’altra sul petto.
“Che mi succede?”
Un rumore sinistro lo costrinse a guardare in basso: il portale
primordiale, nero e viscoso, ribolliva e fumava…
Belial ce l’aveva fatta: la fonte principale di nutrimento di Lucifer
era stata contaminata, e il sovrano ne risentì all’istante. Lo sorprese
un forte capogiro che lo costrinse a chiudere gli occhi per resistere e
non cadere a terra.
«Signore!» la voce di Balthazar gli giunse distorta, il suono dei
passi in corsa ancor di più. «Mio Signore! Ho sentito un…» il
demone sgranò gli occhi nel vederlo in tali condizioni e rabbrividì allo
stesso modo nel notare il portale corrotto. Iniziò a sudare. «Vi
smaterializzo nelle vostre stanze».
«No!» sbraitò Lucifer, cadaverico. «Andrò da solo! Nessuno…
nessuno deve venire a conoscenza di questo» alzò gli occhi su di lui
e cadde in ginocchio.
«Mio Signore» ribatté l’altro andandogli in soccorso «avete fatto
un ottimo lavoro disintegrando il popolo in rivolta e quel traditore di
Belial, ma non potete fare tutto da solo. Anche il leone più forte e
temuto necessita di aiuto e di riposo. Ci smaterializzeremo insieme
nella vostra stanza e non farò parola ad anima viva di questa
vicenda. Penserò a tutto io, non ci saranno altri servi».
Lucifer scosse il capo. «Chiudi quella merda di bocca, Balthazar»
e, furioso quanto disgustato, si alzò a fatica. «Ringrazia mio padre
che ancora non ti ho ammazzato per aver fatto scappare Odry, la
mia arma migliore. Ora sparisci».
Balthazar maledisse sua figlia e la scelta di fuggire alleandosi col
nemico, che aveva messo in pericolo anche lui. Poi obbedì,
dileguandosi.
Lucifer, finalmente, era solo. Si concesse un sospiro di
stanchezza, superò il portale ignorando i resti di Belial e varcò un
portone di legno coperto da un fitto intreccio di rami di edera che lo
celavano alla vista. Lo aprì ed entrò.
Non volle ammetterlo a se stesso, ma aveva bisogno di aria pulita.
La vegetazione della grande stanza di Eva lo travolse con la sua
pace.
Dopo aver chiuso la porta d’ingresso, si diresse sul comodo
divano e si distese, senza dire una parola. Il suo corpo, con
lentezza, stava recuperando sembianze umane.
La donna, di fronte alla finestra, preoccupata, era rimasta a
osservarlo per tutto il tempo e, come lui, preferì tacere; si limitò ad
avvicinarsi con la sedia a rotelle e fermarsi al lato del divano, tolse
un prezioso fazzoletto dalla tasca della veste da camera e deterse la
fronte dell’amato, imperlata di sudore. «Spero che qui ti sentirai
meglio. Sono contenta che tu sia venuto da me».
«Sono qui per stare lontano da tutti».
Eva ritrasse la mano e abbassò lo sguardo, avvilita da quelle
parole. Poi guardò altrove. «Perché quell’insensato genocidio?»
«Insensato? Non erano recuperabili».
«Sei sempre più velenoso con chi ti ama. Ma tutto ciò che ti
accade è solo per causa tua».
Lucifer scattò a sedere e si voltò verso di lei. «Tutto ciò che mi
accade è per colpa Sua!» tuonò. «E voi esseri inutili non lo capirete
mai!» Quello slancio lo fece sentire peggio. Testa e schiena
crollarono sullo schienale.
«Il popolo è la forza di un re. Senza di esso tu non sei niente. Hai
raso al suolo buona parte di questo regno, ora sei solo».
«Ci sei tu…»
Eva si rilassò e l’attenzione tornò su di lui. Si avvicinò ancora e
sforzò con le braccia per sedergli accanto. Gli poggiò il capo sul
braccio e gli afferrò la mano. «Hai un piano per ognuno di noi. Ma io,
anche volendo, non scapperei via. La mia vita inizia e finisce con te»
nella voce c’era rassegnazione. «La ricerca è lenta» aggiunse,
cambiando discorso.
«Ne manca solo una. Ci sono vicino perché so chi la possiede». E
non a caso fissò le fiamme del camino sempre acceso. «Presto tutto
finirà».
«Lui… sta morendo».
Lucifer aggrottò le sopracciglia in un moto di sofferenza. «Lo so».
«Se lo sai, perché hai atteso tutto questo tempo? Hai lasciato che
agissero quegli incompetenti di cui ti circondi, se avessi fatto tutto di
persona a quest’ora sarebbe davvero finita!» Eva alzò la voce e si
staccò da lui. «Invece hai preferito stare comodo sul tuo bel trono a
giudicare chiunque, senza muovere un dito e sollevando solo
pretese. Io non vedo un Imperatore, io vedo solo un despota».
«Come osi…» Lucifer la fissò con occhi furiosi, mentre a Eva
cominciò a mancare il respiro. «Come osi insultarmi in questo
modo? Tu non sai cosa significa per me, tu non sai niente. Vivi sulle
mie spalle e osi giudicarmi?»
«Sono costretta…» la voce le uscì a fatica.
Il Sovrano la lasciò andare e riportò lo sguardo sulle fiamme
scoppiettanti, mentre Eva tossiva con forza. Dopo alcuni istanti di
silenzio, Lucifer posò il capo sulle sue cosce.
Lei si irrigidì ma lo accarezzò, passandogli le dita tra i capelli
corvini, proprio come piaceva a lui. Chiuse gli occhi e il respiro si
regolarizzò.
Lucifer osservò il soffitto, concentrandosi sul profilo dei rami e
delle foglie d’edera per cacciare via la nausea che gli provocava
violenti capogiri. “Non vincerai tu” pensò con rabbia, rivolgendosi a
quel padre che lo aveva allontanato “a costo di sterminare un mondo
intero, io avrò ciò che è mio”. «Resterò con te. Non entrerà più
nessuno fino a un mio nuovo ordine: nessuna serva, nessun paggio.
Lasceranno cibo, abiti e messaggi fuori dalla porta. Solo Balthazar
saprà della mia permanenza qui. Ora prendi carta e penna e
scrivi…»

III

Era tanto che Belphagor desiderava dedicarsi a sua moglie, a


causa degli ultimi avvenimenti non rimanevano più tanto tempo soli.
Ma la quiete venne interrotta da Lucifer, per l’ennesima volta e lui
dovette alzarsi dalla tavola appena apparecchiata.
Hakam, il nuovo gufo che aveva preso il posto dell’anziana e
defunta Houchi, era entrato dalla finestra del salone e si era posato
su una sedia vuota: nel becco teneva un foglio più volte ripiegato. Il
demone lo prese ringraziandolo con una carezza, lo aprì e lesse il
contenuto. S’incupì.
«È lui» ipotizzò Awinita «non è vero?»
«Sì: riunione straordinaria del Concilio Ristretto».

Anche Lilith e Ishtar dovettero precipitarsi nella sala del trono.


Furono le prime ad arrivare.
«Spero sia davvero importante» Lilith sedette al proprio posto e
sbuffò, accavallando le gambe.
«Ovvio, altrimenti non ci avrebbe convocati tanto di fretta» ribatté
l’altra, accomodandosi.
«Sei una delle prime leccaculo di Lucifer, ma lui non ti considera
come vorresti».
«Ti sbagli, il mio è semplice rispetto. Non mi sorprende che tu non
lo conosca».
Lilith sorrise beffarda. In realtà lo aveva conosciuto, il rispetto, e in
passato ne aveva nutrito fin troppo.
Dopo il suo allontanamento spontaneo dal Paradiso e la caduta di
Lucifer, si erano ritrovati sulla Terra e lui, in un certo qual modo,
l’aveva salvata prendendosene cura. La demonessa gli era rimasta
accanto per amore, anche quando l’odio e il senso di vendetta lo
avevano incattivito e reso ciò che era.
Un amore che non riusciva a cancellare, un amore che lottava
ogni giorno contro il disprezzo. Lui amava Eva, non lei.
Belphagor, entrando, la distolse dai pensieri. Le salutò entrambe,
ma solo Ishtar rispose, lei si limitò a lanciargli un’occhiata
indecifrabile.
“Lucifer? Balthazar?” pensò il demone. In effetti attorno al tavolo vi
erano solo loro tre.
Balthazar arrivò poco dopo. Silenzioso, sedette accanto allo
scranno vuoto di Lucifer. «Sarò sintetico, non ci vorrà molto» li
guardò uno per uno, serio. «Lui oggi non ci sarà, ha ben altri piani.
Mi ha reso però portatore di un messaggio molto importante: vuole
l’ultima reliquia».
Silenzio.
Tutti i membri del Concilio erano certi che, prima o poi,
l’Imperatore sarebbe tornato alla carica.
«La riconquista del potere sull’Inferno sarà ancora lontana se ci
saranno rivoltosi a metterci i bastoni tra le ruote» continuò
l’avvocato. «Dobbiamo indagare, stilare una lista di chi dirige la
rivolta, individuare eventuali nascondigli, punti di raccolta. Occorre
setacciare il regno, a costo di abbattere fino all’ultima abitazione.
Una volta che tutto sarà di nuovo sotto il controllo di Lucifer,
procederemo con la ricerca della reliquia».
Belphagor sentì il sangue gelare nelle vene.
Lilith sminuì il tutto con un gesto della mano. «Piano divertente,
ma perché Lucifer ha mandato te per dirci questo?»
Balthazar imitò il gesto. «Non ti riguarda».
Ishtar si mostrò piuttosto interessata. «I regnanti contro di noi sono
stati sistemati, quindi chi rimane?»
«È partito tutto dalla Capitale, è difficile a dirsi, ma pensiamo sia
implicato Asmodeus».
Belphagor volle sondare il terreno. «In che modo?»
«Ancora non lo sappiamo» rispose Balthazar «ma questo scempio
ha avuto luogo a seguito della sua dipartita».
«Satan e Odry dopo la sua morte sono fuggiti e si sono schierati
contro Baal. Di certo si è sviluppato tutto grazie a loro» considerò
Ishtar, ma l’avvocato la fulminò con uno sguardo. Nessuno doveva
permettersi di avanzare certe accuse verso sua figlia, ma non poté
certo escludere l’ipotesi. «Possibile» rispose quindi, duro. «In ogni
caso, partiremo dalla vedova Gallach, la figlia e Victoria Himenez,
l’ex segretaria di Asmodeus».
«Ma non abbiamo prove che loro facciano parte dei rivoltosi»
ribatté Belphagor, ora terrorizzato.
«Sono inutili» sbottò Balthazar «e ora che i braccianti sono stati
decimati dal nostro Sovrano, dobbiamo tagliare i viveri a tutti coloro
che portano via il pane a noi destinato».
«Quando iniziamo?» Ishtar era impaziente.
«Domani all’alba» sentenziò infine l’avvocato.
La forza del Concilio era stata più che dimezzata, ora restavano
solo loro quattro a dover chiudere i conti.
IV

La notte era tetra, le nuvole nascondevano la luna e le stelle,


come sempre a Londra, in quel periodo.
A Notting Hill pioveva a dirotto, andava avanti così ormai da
diversi giorni.
I rami degli alberi più vicini battevano sui vetri del secondo piano
della villa vittoriana di lady Anastasia Ide Fletcher, meglio conosciuta
come Ania.
Tutti all’interno dormivano beati. Tutti tranne Satan e, ovviamente,
Odry.
Il demone si agitava nel letto senza riuscire a trovare una
posizione comoda, inoltre il rumore continuo proveniente dalla
finestra, spifferi compresi, lo irritava come non mai. Troppi pensieri,
troppi problemi senza apparente risoluzione: Belial disperso
all’Inferno, il Graal chissà dove e Lucifer, di certo, alla sua ricerca,
loro senza la protezione degli Arcangeli…
Si mise a pancia giù e portò il cuscino sopra la testa. “Vorrei
dormire almeno un paio d’ore” pensò sbuffando.
Un’ora dopo sembrava essersi rilassato, quando un battere
perforò il tanto agognato sonno.
Satan scattò a sedere. «E che cazzo! Basta!» sbottò esasperato,
scostò brusco le coperte, si voltò verso la finestra e la vista di una
figura piccola e tondeggiante gli mozzò il fiato. Rimase in silenzio a
fissarla, con gli occhi spalancati cercava di mettere a fuoco per
capire di cosa si trattasse. Si alzò facendo attenzione a non
rimanere incastrato nelle lenzuola – come spesso capitava. Si
avvicinò, capì ed ebbe un tuffo al cuore: «Il gufo di Belphagor?!»
Il pennuto, come fosse soddisfatto di essere stato riconosciuto,
riprese a battere col becco sul vetro per farsi aprire.
Il demone lo fece entrare di tutta fretta permettendogli di scaldarsi
all’interno della camera. «Sei un nuovo gufo di Belphagor?»
domandò agitato e la bestiola, intirizzita, agitò le piume per scacciare
le fredde gocce d’acqua.
Prese il volo atterrando dapprima sulla spalla di Satan e poi sul
letto. Si appollaiò tra le coperte sotto lo sguardo perplesso del
demone e agitò una zampetta per fargli notare un biglietto legato a
essa con un nastro.
«D’accordo, fa’ come se fossi a casa tua!» Satan, rassegnato, si
avvicinò per recuperare il messaggio e si sedette accanto a lui.
Amici miei.
Scrivo queste righe per informarvi di gravi questioni.
Lucifer ha deciso di agire contro i rivoltosi tramite ciò che resta del Concilio Ristretto.
Sono stato obbligato, insieme a Ishtar, a uccidere Mina, suo fratello e il compagno di
quest’ultimo. Abbiamo atteso che fossero insieme in casa per agire. Sono stato l ’unico a
soffrire per ciò che è accaduto.
Conto su di voi per continuare a salvare delle vite e per ciò che farete vi sarò grato per
l’’eternità.
Thoctar olgadar.

Satan passò una mano tra i capelli sospirando, si distese sul


materasso tirando il piumone fino al naso. Chiuse gli occhi e vide i
volti di coloro che erano stati nominati nella missiva dell’amico. “Tutti
morti” pensò con un nodo alla gola. “Com’è riuscito a uccidere degli
amici? Dove ha trovato la forza?”
Si immaginò al suo posto, accanto a Ishtar mentre uccideva Mina
e gli altri. Li aveva guardati negli occhi?
Si sentì male. Belphagor, però, doveva stare peggio. Il ricordo del
sigillo che lo legava a Flauros lo impensierì. Si alzò gettando la
lettera sul materasso e si mise di fronte allo specchio sull’anta
dell’armadio. Si tolse la maglia e si voltò di spalle: il marchio del
patto dell’Infante era scomparso. Satan passò le dita nel punto dove
Belphagor lo aveva inciso; la pelle era sensibile e gli doleva. “Cosa
devo fare adesso? Non sono più vincolato al progetto e di questo
passo non ci sarà più nessuno dalla nostra parte. Io…”
Venne distratto dal gufo che si spostò sul comodino.
«Tu perché sei ancora qui? Ti ho lasciato anche la finestra
aperta…»
Di tutta risposta il pennuto chiuse i grandi occhi gialli.
Lo stesso fece Satan che si rinfilò sotto le coperte. “Chissà come
ha giustificato l’assenza di Georgette. Fortuna che lei è qui, al
sicuro…”
Raphael Blanchett

Chris sedeva sulla poltrona di pelle nel proprio studio, lo sguardo


fisso sulla finestra, osservando la parte di Sila che riusciva a vedere;
le spalle alla porta.
In realtà era intrappolato in un groviglio oscuro di pensieri.
Il piano di eliminare la squadra degli Arcangeli era andato in fumo,
quelli non solo avevano vinto l’atroce battaglia contro Baal, ma erano
rimasti tutti in vita. C’era ancora una possibilità di riuscita e questo
era ciò che più gli importava.
Un altro grosso problema era la condizione di Agatha di cui ancora
non riusciva a capacitarsi. Non solo la succube lo aveva abbindolato
come un fesso, crescendo in casa sua, approfittando di lui, ma
aveva fregato chiunque, soprattutto Cassiel Blanchett e Gabriel
Cooper.
Inammissibile.
Strinse il pugno che teneva premuto contro la bocca. “Puttana
maledetta, mi ha inferto un colpo troppo pesante, adesso le
Dominazioni mi tengono gli occhi puntati addosso e non posso più
agire con la stessa libertà di prima”. Si torturò le labbra con i denti,
staccando la pelle fino a farle sanguinare.
L’intero gruppo di Serafini era tenuto sotto controllo. Erano usciti in
parte puliti dal processo, evitandone un secondo che li avrebbe visti
colpevoli di omissione di soccorso. In compenso avevano ricevuto
multe salate e lui rischiava un altro incontro con i giudici per la
denuncia di Mathael. E verso di lei i pensieri furono peggiori. “Se
solo l’avessi tra le mani…” Come se non bastasse, rischiava tutti i
giorni di essere visto al DEM dalle Dominazioni, data la sospensione
dalla struttura. Più rimuginava più si infuriava.
Qualcuno, però, bussò alla porta strappandolo da quei pensieri.
«Avanti!» disse schiarendosi la gola, senza ruotare la poltrona.
«Mi permetta di disturbarla signor Dunne» esordì Morin, la nuova
riccia segretaria del Serafino «ma sono arrivati i risultati del test di
paternità di sua… figlia».
«Lascia tutto sulla scrivania e chiudi la porta quando esci».
La donna annuì e, dopo aver fatto come ordinato, lasciò l’ufficio
con lo sguardo basso, senza aggiungere alcunché.
Chris si voltò e agguantò il fascicolo con nervosismo. Strappò in
malo modo la busta bianca ed estrasse un foglio, con occhi febbrili
lesse il contenuto.
“No” pensò stringendo le carte. Si alzò di scatto sbattendo i fogli
sulla scrivania, la poltrona scivolò verso la finestra. “Lui? Bastardo” e
in fretta e furia uscì dallo studio andando alla ricerca di Holian. Lo
intercettò mentre si allontanava dalla zona ristoro. «Holian! Devi
venire con me» ordinò, e quello annuì.
«Sono arrivati i risultati?» gli domandò una volta dentro
l’ascensore e Chris serrò la mascella senza rispondere. Holian
annuì, intuendo. «Cooper è il padre?»
«…Blanchett».
Holian alzò un sopracciglio. «Poteva andare peggio. Hai
l’appoggio di tutti noi, inoltre nessuno ha spifferato la tua presenza
qui. Alle guardie ci penserò io, in cambio di qualche soldo e avrai
tutto il tempo che vorrai per parlare con l’Arcangelo».
Chris approvò con un cenno del capo. Sentiva il respiro farsi via
via più accelerato, l’adrenalina arrivare al cervello.
Una volta aperte le porte il primo a uscire fu Holian che si avvicinò
al gabbiotto delle guardie. «Andate in pausa, qui ci penso io» e
senza dare loro il tempo di ribattere, gettò sul tavolo una sacchetta di
monete d’oro. «Prendetele e state lontani per mezz’ora, se qualcuno
vi fa domande dite che ve l’ho concesso io per il duro lavoro che
svolgete qui».
Le quattro guardie si scambiarono occhiate timorose, ma molto
propense a spartirsi la paga extra. «Grazie signore!» disse quello
che, a un primo impatto, sembrava il più vecchio tra loro. Se ne
andarono, lasciandogli libero accesso alla cabina di controllo. Chris
lo guardò nascosto dietro una colonna, Holian gli diede via libera.
Disattivò la modalità di registrazione delle telecamere e si sedette
davanti agli schermi.
Chris non se lo fece ripetere. Uscì allo scoperto, si fece
consegnare un mazzo di chiavi dall’amico e con passo svelto e
nervoso si diresse alle prigioni.
Tutti gli Arcangeli lo sentirono arrivare, ma vederlo irrompere nel
corridoio bianco fu come incontrare un demonio in un incubo.
«Ti siamo mancati così tanto che sei tornato prima?» L’ironia di
Michael lo irritò più di quanto già non fosse.
Gabriel e gli altri, invece, lo studiarono col fiato sospeso e scuri in
volto.
«Taci!» sbottò quello, tirando un calcio sulle sbarre. Avanzò
cercando la cella di Cassiel e quando vi fu davanti la spalancò. «Tu
e io adesso ci facciamo una bella chiacchierata» lo agguantò per i
capelli, approfittando del fatto che fosse ammanettato mani e piedi.
«Rendiamo partecipi anche i tuoi compagni». Lo trascinò al centro
del corridoio e lo gettò a terra.
«Chris! Tu non dovresti essere qui». Uriel scattò in piedi e Raziel
lo imitò subito dopo. «Parliamone come persone civili!» continuò il
turco.
«Siete solo dei cani bastardi che ammazzerò uno alla volta
appena ne avrò l’occasione». Dunne tolse la giacca e rimboccò le
maniche della camicia. Girò intorno a Cassiel e gli sferrò un calcio
nello stomaco, poi un secondo sul viso. L’Arcangelo, dolorante,
cercò di rimettersi in piedi, ma un pugno ben assestato lo raggiunse
al fianco destro e lo atterrò; il tutto mentre gli altri protestavano a
gran voce.
«Che cazzo fai?!» gridò Raziel.
«Guardie!» chiamò Mathael, senza ottenere risultati.
Chris li ignorò. «Sono venuto per darti una bella notizia,
Blanchett» gli sferrò un pugno sul naso «diventerai padre di uno
schifosissimo mezzosangue» lo colpì sulla guancia. «Dimmi, non sei
felice?»
Gabriel fu l’ultimo a metabolizzare: Agatha incinta di Cassiel?
Cassiel invece avrebbe voluto fuggire via, più dalla notizia che dal
pestaggio. Avere mani e piedi ammanettati non gli rese la vita più
semplice e se avesse potuto, sarebbe scappato rinunciando alla sua
dignità.
Michael allungò un braccio verso Chris con l’intento di bloccarlo,
ma il tentativo venne neutralizzato con un calcio che gli ruppe il
polso. L’osso fuoriuscì dalla carne.
Le grida del biondo si aggiunsero a quelle di Cassiel che,
all’ennesimo colpo, sputò sangue.
Più le proteste degli altri Arcangeli proseguivano e aumentavano
d’intensità, più Chris infieriva su Cassiel, il cui viso era divenuto una
maschera rossa. Ma fu costretto a fermarsi. La punta fredda di una
lama gli premette all’improvviso sotto l’orecchio destro, una linea di
sangue gli sporcò il colletto della camicia.
«Non accetto un comportamento tanto meschino nei confronti di
mio fratello».
Chris sorrise malefico. Si voltò piano con le mani alzate verso
Raphael, e il ghigno si espanse. «Io, però, sono disarmato».
Raziel sputò per terra insultandolo, Uriel a gran voce cercava di
chiamare le guardie, ignaro che fossero state pagate per
allontanarsi, Michael si teneva stretto il polso stringendo i denti e
piangendo per il dolore.
Gabriel avrebbe voluto sfondare la porta e far pentire il Serafino di
essere nato.
«E lui è legato» rispose Raphael.
Chris affrontò senza timore la lama che ora lo minacciava
sfiorando un bottone della camicia. «Cosa vuoi fare dottore?
Trafiggermi?»
«Non sono fatto della tua pasta, anche se ti meriteresti di peggio».
Dunne si avvicinò di un passo lasciandosi ferire al petto. «E
dimmi: di che pasta sei fatto? Di quella di chi ruba l’Etere di
nascosto? Che ci hai fatto?» Lo sfidò tenendo il mento alto e un
sorriso detestabile. «O meglio, che ci fanno i tuoi amici demoni?»
Rapido colpì il lato piatto della lama spostandola abbastanza da
accorciare la distanza e menare un destro contro le costole di
Raphael, il quale si piegò in avanti e il fioretto dorato scomparve.
Veloce il francese rispose con un colpo di palmo diretto al mento
dell’avversario che indietreggiò con sorpresa, a seguire un altro
all’orecchio sinistro che provocò a Chris un forte fischio e la
momentanea perdita dell’udito. Raphael si mise in posizione con i
pugni in alto. «È la tua occasione di picchiare un quattrocchi, o
almeno di provarci».
Chris si passò una mano sotto al mento bagnato di sangue. Sputò
per terra e tornò alla carica più inferocito che mai. Scattò in avanti
piegandosi su un lato, colpì l’altro fianco dell’Arcangelo per poi
passare al sinistro e infine sulla bocca dello stomaco; Raphael
incassò bene, scartò di lato, afferrò il Serafino in vita e si lanciò
all’indietro trasportando anche lui, facendogli battere il capo e la
schiena sul pavimento.
Nessuno si aspettava una simile azione da parte di Raphael,
nemmeno lo stesso Chris che, stordito dal colpo, impiegò diversi
secondi per riprendersi.
Il Serafino si alzò con fatica, imprecò nell’accorgersi che perdeva
sangue anche dalla testa. Si lanciò addosso a Raphael con
rinnovato furore e questa volta gli sconquassò il busto di pugni.
L’altro riuscì a pararne solo uno; al terzo colpo incassato lo spinse e
Cassiel, con entrambi i piedi, gli fece lo sgambetto e Dunne cadde
seduto. Con un balzo fu pronto per tornare all’attacco, ma qualcosa
lo distolse dallo scontro con i due Blanchett.
Holian era comparso sulla soglia intimandogli con lo sguardo di
filare via. Così Chris raccolse le sue cose e raggiunse l’altro
Serafino, sanguinando.
Il francese lo lasciò passare.
«Non finisce qui!» gridò Chris verso gli Arcangeli, mentre l’altro
quasi lo trascinava via.
Raphael si accertò che i due fossero davvero scomparsi per
avvicinarsi al fratello agonizzante a terra. «Stai bene?» e quello
annuì debolmente, restando disteso. «Otterrò il permesso di curarti e
mettere il gesso a Michael» gli accarezzò i capelli con premura.
Cassiel non rispose, ma ci pensò Uriel. «La situazione sta
degenerando. Raphael, tu sei l’unico che può fare qualcosa».
«Non posso, invece» l’Arcangelo si voltò verso di lui «perché sono
nella vostra stessa situazione, anche se fuori dalle sbarre:
controllano molto bene anche me».
«Lei come sta?» Gabriel, da egoista, cambiò discorso e Raphael
lo fulminò, ma annuì per rispondergli in modo positivo. «Dovrete
resistere» aggiunse. «Nessuno avrà pietà di voi e io non ci sarò
sempre».

II

Una voce familiare attirò l’attenzione di Vicky, intenta fino a quel


momento a smaltarsi le unghie di rosso in camera da letto.
Incuriosita, sporse la testa dalla porta e guardò verso le scale,
sperando di capire chi fosse l’ospite, ma vide solo degli stivali neri
tirati a lucido e, di fronte a essi, le scarpette di Karen, le pantofole di
Satan e gli anfibi di Odry.
La succube aggrottò le sopracciglia, scese i primi gradini tendendo
per bene le orecchie a punta. “Chi è a quest’ora?” si domandò,
notando l’orario nell’orologio a muro che segnava le tre e mezza del
pomeriggio.
«Oui[2] Karen, Raziel sta bene. Almeno per ora». Raphael era
arrivato da pochi minuti. «Sono pazzi quei Serafini, soprattutto
Dunne: se ha avuto il coraggio di aggredire mio fratello e rompere un
polso a Michael, è capace di tutto».
«Ancora tu?» esordì Vicky, scendendo le scale e ancheggiando
come il suo solito. Acida aggiunse: «Ormai vedo la tua faccia più di
quante volte veda il mio culo allo specchio».
«Sono qui per aggiornarvi e per i controlli di routine».
«Oppure potresti tenerti per te le notizie di merda e venire solo per
i controlli di routine, che ne pensi?»
Karen si voltò a guardarla quasi con le lacrime agli occhi per il
timore che a Raziel venisse fatto del male, ma la succube non se ne
curò.
«Pathétique[3]» Raphael fu sprezzante. «L’ultima volta mi hai
rimbeccato per aver omesso alcune informazioni. Qui ci sono
persone a cui interessa».
«Smettila di parlare nella tua lingua» agitò la coda con irritazione
ma Satan la guardò storto e invitò l’Arcangelo ad accomodarsi con
un gesto della mano.
«Siete così premuroso monsieur Blanchett» aggiunse Karen,
davvero sorpresa dalla reazione della succube. «Prego, venite a
sedervi, vi faccio una tazza di tè».
Odry tornò in postazione per cercare di ripristinare il contatto con
Belial.
Ma Vicky non si arrese. «Ti hanno pestato per bene, vedo».
«Sei troppo insistente per essere una che non apprezza la mia
presenza» precisò Raphael, poi rivolse l’attenzione su Odry. «Tu,
invece, come ti senti?»
Quella espirò. «Che posso dire, doc? Mi sento uno schifo e non
solo perché non abbiamo più notizie di Belial, ma anche perché sudo
ogni maledetta notte, non riesco a respirare. Questo mio malessere
peggiora. E le tue gocce non le prenderò mai più!»
Satan si morse il labbro inferiore, apprensivo. «Perché non mi hai
detto niente?!»
«Perché avresti iniziato a starmi addosso facendomi stare ancora
peggio».
«Non è vero…»
«Sì che è vero» ribatté seccata inarcando un sopracciglio.
«Secondo me è perché non scopi» considerò Vicky. «Tu potresti
uscire e andare a sbatterti chiunque, invece scegli di non farlo».
Odry distolse lo sguardo, celò il disagio e tornò al lavoro.
«Se scopare fosse una soluzione a ogni problema, saremmo tutti
rilassati come te» commentò Raphael, squadrando giudicante la
succube. «In tutti i sensi».
«Tu invece sei un verginello presuntuoso».
«Vicky basta. Raphael non merita tanto odio» intervenne Satan
mortificato e la succube gli riservò un’occhiataccia. «Ti sei
dimenticato che lui viene qui per dovere, ma che ci disprezza tutti
quanti? Bene, perché io non lo potrei mai dimenticare. Non riesco a
inquadrarne l’atteggiamento».
«Allora, per quale motivo sei ancora qui con noi? Continua a
mettere quel volgare smalto mentre noi parliamo di cose più
importanti. Poi fatti trovare in camera perché devo cambiarti le
garze».
Vicky aprì la bocca per rispondere in malo modo, ma una brutta
espressione di Satan la zittì all’istante. Impettita scostò i lunghi
capelli verdi dalla spalla e salì le scale senza aggiungere una parola.
«Devi scusarla, non le piacciono le persone che la giudicano per
via della razza» la giustificò il demone.
Odry incalzò, avvicinandosi all’Arcangelo. «Dimmi di Gabriel, gli
hanno fatto del male?»
Raphael esibì un debole sorriso. «No. Chris ha odiato lui più di
tutti, ma ora sul gradino più alto del podio, come dicevo prima, c’è
salito mio fratello. Ha confessato l’intenzione di buttarci giù uno per
uno. Nessuno è al sicuro dietro le sbarre, ma neanche da uomo
libero».
«Vieni a stare qui, c’è spazio per tutti». Satan non ci pensò un
minuto di più e Odry annuì per dargli manforte.
«Non posso stare lontano da Cassiel, so che possono fargli altro
male. Ho avuto fortuna con Chris e devo ringraziare Holian, l’altro
Serafino, se mio fratello non è finito in coma. Inoltre, è mio dovere
seguire la frattura di Michael e le possibili brutture che anche gli altri
subiranno. Temo anche per Mathael, Chris ha ricevuto da poco la
sua denuncia. Ho ucciso un uomo che lavorava per lui ed è un
miracolo che ancora non sia accaduto null’altro. Non posso fuggire
in questo modo».
Satan sentì le viscere contorcersi, troppe responsabilità sulle
spalle di una sola persona. «Se ti serve qualcosa, qualsiasi cosa,
Raphael, facci un fischio e noi interverremo subito».
Odry annuì ancora. «Siamo saliti in Paradiso una volta, possiamo
farlo di nuovo. Adesso cerca di rilassarti e beviti una tazza di tè: è
l’ideale per stendere i nervi, o almeno così si dice».
Ma Raphael scosse il capo, preso dall’angoscia all’idea di poter
rimanere senza far nulla; li ringraziò e si diresse verso la stanza di
Vicky per la visita di controllo.
«Entra» la risposta velenosa della succube non tardò a farsi
sentire. Seduta sul letto soffiava sulle unghie affinché lo smalto
asciugasse più in fretta.
L’Arcangelo richiuse la porta, poggiò la borsa sul letto e l’aprì.
«Spogliati».
La donna lo squadrò agitando la coda leonina. «Attento a come
parli a una succube, potrei eccitarmi».
«A te basta un nonnulla per eccitarti».
«Non insultarmi» sbottò seccata levandosi la maglia con cautela
per non rovinare lo smalto. Evitò di guardarlo. «Fai ciò che devi e
quando te ne vai chiudi la porta».
Raphael le si sedette accanto, tolse le garze e con un certo
disappunto notò che la ferita aveva rallentato la cicatrizzazione. «Ti
stai muovendo troppo, i punti non guariranno mai in questo modo».
«Non sperare che rimanga ferma per quattro cuciture del cazzo».
Raphael non rispose, si limitò a disinfettare e mettere le garze
nuove. «Cassiel mi ha chiesto di te». E di fronte allo sguardo stranito
della succube, spiegò: «Me lo ha chiesto quando lo stavo curando. Il
suo primo pensiero sei stata tu».
E solo a quel punto la voce di Vicky si ammorbidì. «Come sta?»
«È stato picchiato da Chris, il marito di Mathael, perché ha messo
incinta la figlia adottiva».
«Povero Cassiel. Quella stronza di Agatha è sempre stata una
vipera, sì, so chi è, non esserne così meravigliato! Stava nell’harem
di Belial».
«Quando lui uscirà di prigione e verrà qui, non illuderlo, per favore.
Non potreste avere una vita degna e non sei in grado di apprezzare
uno come lui».
Vicky aggrottò le sopracciglia. «Non confondere il mero
appagamento sessuale con un sentimento. Cassiel sarà anche un
bravo ragazzo, ma è molto ingenuo e io non ho alcuna intenzione di
prendermi delle responsabilità stando appresso a un ragazzino».
«Nei suoi pensieri hai sostituito Agatha. Devi allontanarlo perché
se finirà di nuovo nei guai sarà anche a causa del grosso errore che
ha commesso cedendo alle tue avances». L’Arcangelo si alzò per
riporre l’occorrente nella borsa.
«Guarda che è stato lui ad accettare! Io non ho colpa se si illude
da solo!»
«Non ti ho dato la colpa» ripose lui, severo «ti chiedo solo di
allontanarlo qualora volesse avvicinarsi».
Vicky rimase in silenzio per alcuni istanti. Si limitò a osservarlo
mentre riponeva tutto ciò che aveva usato. «Tu proteggi tutti, ma chi
protegge te?»
«Mi insulti e poi ti preoccupi per la mia incolumità? Metti in ordine i
pensieri, succube» Raphael uscì e, come richiesto, chiuse la porta,
mentre Vicky gli indirizzava un insulto.
Tornò al piano di sotto e, dopo aver visitato anche Odry e
Georgette, si trattenne per consumare il tè preparato da Karen e non
arrecarle un dispiacere. Poi se ne andò, angosciato per il destino
che attendeva il fratello.

III

Era notte fonda.


Nonostante questo, Raphael non riusciva a prendere sonno.
Sedeva su una poltrona da esterni posta sull’ampia terrazza della
stanza da letto, nella villa in Paradiso. Guardava il cielo che
manteneva le delicate sfumature lilla anche col buio notturno. Le
stelle brillavano.
Il panorama constava di abitazioni signorili dai giardini ben curati e
di strade illuminate costeggiate da aranci.
Pace ovunque.
Niente di tutto ciò era di sollievo al suo animo turbato.
Tra le mani una tazza di tè caldo, il cui fumo veniva portato via
dalla brezza.
I pensieri andarono al fratello chiuso in cella, percosso da un
Serafino e vivo per miracolo. Quel fratello troppo ingenuo e vittima di
se stesso per riuscire a selezionare con lucidità le persone di cui
circondarsi.
Si sentì in colpa per essere a casa, per avere a disposizione un
letto comodo e buon cibo, tuttavia nei giorni precedenti la tensione e
il lavoro erano stati troppo pesanti anche per uno come lui.
“Devo trovare il modo di portarlo fuori da lì” pensò. Ma la prigione
non era di per sé un pericolo, il pericolo reale era Chris. “E se
prendesse di mira tutti, uno dopo l’altro?” si chiese. “Il prossimo
potrebbe essere Gabriel, un altro che ha osato toccare la figlia
adottiva che ormai detesta. Meglio lui che ha la pelle più dura del
cemento che Cassiel”. Scosse il capo con dissenso e terminò il tè,
poggiando poi la tazza sul tavolino in legno lì accanto. Accavallò le
gambe. “Occorre un bravo avvocato, ma soprattutto uno che abbia la
stoffa per difendere mio fratello”.
Nei giorni precedenti, aveva spedito così tante mail da averne
perso il conto, la maggior parte indirizzate ai più rispettabili avvocati
che, però, avevano rifiutato l’incarico. Alcuni non avevano nemmeno
risposto e Raphael sapeva che aspettare sarebbe stato inutile.
“Nessuno vuole mettersi contro questo sistema. Non sono
nemmeno interessati a starmi a sentire per accertarsi che non sia
davvero una partita persa in partenza”.
Raphael e Cassiel erano soli.
Una possibilità si fece largo tra i pensieri e lui stesso ne ebbe
timore.
Balthazar.
Il demone era molto conosciuto anche in Paradiso per le sue doti
straordinarie, un avvocato eccellente che, non per niente, lavorava
per Lucifer e per pochi ricchi nobili dell’Inferno.
Ma come avrebbe potuto raggiungerlo?
Odry gli aveva detto che tutti i collegamenti tra Terra e Inferno
erano saltati e non ne era mai esistito alcuno tra il regno di Lucifer e
il Paradiso.
E se avesse chiesto il permesso di utilizzare il portale attraverso
Georgette?
Sarebbe stato molto più semplice, più veloce e comodo. L’unica
incognita sarebbe stata la durata dell’incontro con l’avvocato
infernale ma, soprattutto, la brutale accoglienza che i demoni gli
avrebbero potuto riservare. Occorreva un mandato o una lettera di
invito da parte di Balthazar. Ma come contattarlo?
Una folata di vento smosse i rami degli alberi e i suoi lunghi capelli
biondi, ondulati grazie alla treccia sciolta da poco. L’aria fredda lo
distrasse da quei ragionamenti che si stavano addentrando troppo in
un’oscura profondità, riportandolo alla realtà.
“Georgette non durerebbe tanto a lungo…”
E solo in quel momento si rese conto di quanto disumana fosse
quell’ultima idea: si sentì un mostro.
“Come ho potuto anche solo prendere in considerazione questa
crudeltà?” Non era da lui e si sorprese di averci anche ragionato
abbastanza a lungo.
Per Cassiel avrebbe fatto di tutto, ma non si riteneva tanto spietato
e subdolo da far rischiare la vita a una bambina. “Basterebbe anche
una sola attivazione del suo portale per condurla alla morte. Che il
Signore mi perdoni”.
Portò gli occhiali sopra la testa, chiuse gli occhi stanchi e
massaggiò le palpebre con due dita.
Rientrò in camera da letto portando con sé la tazza vuota. Chiuse
la porta finestra e, nel buio della stanza, si bloccò di colpo fissando il
pavimento con occhi sgranati. Aveva avuto un’idea. Poggiò la tazza
sul comodino, corse verso le scale e scese in salotto, poi imboccò il
corridoio a sinistra che l’avrebbe condotto alla biblioteca.
Aprì una imponente doppia porta decorata da un bassorilievo
dorato, accedendo a una grande stanza quadrata con un tavolo e
due poltrone al centro; tutte le pareti coperte da libri di ogni tipo,
sistemati in ordine alfabetico per argomento. Una scala a chiocciola
accanto all’ingresso portava al piano superiore a vista, contornato da
una balaustra in ferro battuto dorato, utilizzabile in caso di ricerca tra
i libri più antichi.
L’Arcangelo accese la luce e in una ventina di passi fu davanti allo
scaffale che si ergeva dalla parte opposta rispetto all’entrata,
cercava un libro in particolare.
“Eccolo, ero certo di averlo conservato”.
Lo afferrò e iniziò a consultarlo senza nemmeno sedersi,
sfogliando rapido le pagine. Lesse con avidità, deglutì e sussultò
trovando la conferma di quanto ipotizzato.
“Ora so cosa fare”.
Balthael

«Bel posto». Raphael si lasciò scappare un commento ammirato.


Si trovava in un parco del diciannovesimo secolo a Kromlau, in
Germania, a poco più di cinque chilometri dal confine con la Polonia.
Era buio e nei dintorni non c’era più nessuno da ore. Un momento
scelto per evitare problemi con gli esseri umani.
La lussureggiante boscaglia con rododendri e azalee, purtroppo in
fiore, era agitata dal forte vento. La selva abbracciava un lago
attraversato da un ponticello in pietra senza passamano o barriere.
L’Arcangelo era lì proprio per quello.
“Il Ponte del Diavolo” pensò, osservandolo dalla riva, a una decina
di metri di distanza. Il freddo umido lo costrinse a sistemare meglio
la sciarpa attorno al collo.
Le placide acque riflettevano l’immagine del ponte, regalando
all’unico spettatore presente la visione di un cerchio perfetto.
Raphael si concesse un attimo per venerare la bella visione che
non avrebbe rivisto. “Quando mi ricapiterà di venire qui per
un’evocazione, dopotutto?”
Il solo pensiero gli tolse il fiato. Era arrivato a prendere una
decisione importante, ma molto pericolosa. Infilò le mani in tasca: le
dita, a destra, giochicchiavano con un gessetto, mentre dall’altra
parte stringevano un foglio di carta ripiegato più volte. Si diede la
forza di agire e si decise.
Raggiunse il ponte e si guardò intorno per accertarsi di essere
solo per davvero. Prese un respiro profondo e mosse il primo passo
per salire, quando una folata di vento lo investì così forte da farlo
indietreggiare.
Raphael puntò lo sguardo verso il cielo: la luna nel suo primo
quarto spuntava tra le nuvole in corsa e sarebbe stata l’unica
testimone. Andò oltre il corpo celeste, raggiunse il Creatore e gli
chiese scusa per le sue scelte, certo che avrebbe compreso. “Tu ami
gli umani come io amo mio fratello, non è così?”
Salì sul ponte e arrivò a metà. Diede un’occhiata al proprio riflesso
e ammise a se stesso di avere dei dubbi. Tirò fuori il foglio dalla
tasca e lo aprì con cautela, stendendolo tra le mani: vi era un sigillo.
[4]

Lesse una alla volta le lettere contenute nel primo cerchio esterno.
“Balthael” pensò. “Ma non è più questo il tuo nome”.
Studiò linee e simboli per capire da dove iniziare. Prese il gessetto
e lo rigirò tra le dita macchiandole di rosso, poi si chinò poggiando
sui talloni e con cautela iniziò a tracciare il primo cerchio. Si accertò
fosse abbastanza grande da poter contenere tutti gli elementi
previsti in maniera chiara e continuò.
La concentrazione venne spezzata più volte dal timore di come si
sarebbero potuti evolvere i fatti. Anche solo averci provato l’avrebbe
messo nei guai. “Tanto vale andare fino in fondo” si consolò.
Il foglio si agitava sotto la forza del vento e l’Arcangelo dovette
bloccarlo a terra con la mano libera e la punta della scarpa. Ebbe
non poche difficoltà a terminare il sigillo a causa della scarsa
illuminazione: le nuvole erano aumentate e avevano coperto quasi
del tutto il sottile spicchio di luna.
“Ora viene la parte complicata” pensò. Girò il foglio e diede una
fugace occhiata alle frasi scritte di suo pugno alcuni giorni prima.
Avrebbe solo dovuto leggerle. In realtà la parte complicata sarebbe
stata andare contro ciò che aveva sempre difeso con onore.
Ma per Cassiel avrebbe fatto qualsiasi cosa.
Espose il testo alla scarsa luce, sforzò la vista e si schiarì la gola.
«Per la tromba dell’Apocalisse, ai tuoi piedi, Balthael, deponiamo il
terribile bacio, in lode di tutte le tue iniquità». Rabbrividì. «Dacci la
tentazione immorale, ogni sorta di condanna e il potere immenso di
giudicare».
Raphael alzò lo sguardo e rimase in attesa. Attorno non vi era
altro che silenzio, si abbassò di nuovo sul testo accertandosi di
averlo letto in maniera corretta.
Mancava l’ultimo tocco.
Evocò il fioretto e con la punta si ferì il palmo della mano,
abbastanza in profondità da far colare sei gocce di sangue al centro
del sigillo, che s’illuminò. Ripiegò in tutta fretta il documento, lo
ripose in tasca e lo stesso fece col gessetto. Deglutì, mentre le linee
da lui tracciate iniziarono a pulsare.
L’aria si riempì di un vociare grave, un tono che gli ricordò antiche
preghiere di monaci. “No, non sono voci” ragionò dopo un attimo di
attenzione. “È un ronzio. Sono mosche”.
Il fugace bagliore dell’arma che veniva riportata indietro e quello
del cerchio rischiararono una figura in piedi dall’altra parte del ponte.
Balthazar lo squadrò da capo a piedi, tra le dita di una mano
teneva un sigaro, l’altra era in tasca. Indossava un completo prugna
gessato e un foulard nero abbinato a scarpe e guanti in pelle.
Raphael aggrottò la fronte, ce l’aveva fatta. E mentre estraeva una
garza con la quale bloccare il flusso di sangue, osservava il demone
venire verso di lui.
«Raphael» disse l’altro in finto tono amichevole. «Vedo che hai
cambiato corpo nel corso di questi millenni».
«Tu, invece, hai mantenuto lo stesso, Balthael. Ma ti trovo bene».
Il sorriso del demone s’indebolì e lo sguardo divenne sprezzante.
«Mi chiamo diversamente, dovresti saperlo».

Balthael non seppe dire quanto durò la caduta, forse troppo, o


forse fu breve.
La sofferenza aveva dilatato il tempo.
Si schiantò al suolo sul piano terrestre e l’impatto gli fece perdere
la percezione di ogni singolo dolore. Sollievo.
Il cielo era plumbeo con alcune sfumature violacee a est. Era un
giorno cupo o tarda sera? Quando era caduto? I pochi ricordi si
accavallarono tra loro, divennero melmosi, e infine lontani.
Poi vi fu il buio.
La fredda neve lo destò e con la veglia ricomparve l’agonia.
L’angelo caduto poté sentire i monconi sulla schiena pulsare, dove
prima vi erano le sue meravigliose ali. Si diede la spinta per
affondarli nella bianca distesa che li avrebbe anestetizzati; solo il
busto ruotò, le gambe rimasero di lato: la schiena era spezzata.
Gridò forte e così a lungo da perdere la voce, poi pianse tutte le
lacrime che il suo cuore infranto riuscì a donargli. Era stato ridotto
così dai propri fratelli, aveva creduto nella loro libertà e in cambio
aveva ricevuto un tradimento tanto profondo da allontanare da quel
posto anche la sua anima.
Un nuovo dolore lo sorprese. Sollevò il capo per quanto poté,
guardò il busto: due costole spuntavano dal petto. Il capo crollò,
vomitò sangue e quasi affogò in esso.
Svenne di nuovo.

Erano passati cinque secoli e Balthael non aveva fatto altro che
vagare senza meta in cerca di cibo e acqua. La voglia di vivere non
si era mai spenta. Aveva iniziato a nascondersi da belve pronte a
cibarsi di lui e da uomini che cercavano di ucciderlo appena lo
vedevano.
L’aspetto era mutato, il risentimento e l’odio l’avevano reso un
essere diverso.
La pelle, putrefatta in parecchi punti, era infestata di mosche ed
emanava un forte odore di decomposizione. Tempo addietro era
riuscito, con grande forza di volontà, a raddrizzare il bacino e a
fissarlo, ma aveva impiegato tanto per riprendere a camminare. Il
busto ormai era flesso in avanti, la schiena curva, una gamba
doveva essere trascinata.
Spesso aveva ragionato sul senso di quella vita che detestava, di
un’esistenza fatta di sopravvivenza, senza scopo. Un angelo che di
divino non aveva più nulla. Un essere che non poteva vivere e non
aveva il permesso di morire.
Aveva ragionato anche sulla morte, un desiderio così ardente da
farlo piangere ogni notte. Ma lo stesso Dio che l’aveva cacciato, gli
impediva di raggiungerla.
Eppure, sarebbe stata l’unica gioia.

Kromlau – 2 marzo 1490

Abraham Krause, diacono appena giunto in paese, fissava i primi


alberi di una fitta boscaglia a sud del complesso di modeste
abitazioni. Era buio da un pezzo.
Due uomini, posti ai lati ma un passo indietro, reggevano una
torcia ciascuno per illuminare il prossimo passaggio.
«Padre!» un contadino del posto lo raggiunse impugnando un
forcone. Al seguito una decina di uomini di umili origini, anch’essi
armati. «Noi siamo pronti ad andare».
Krause annuì, lisciò la stola bianca e oro e sistemò i paramenti
liturgici. Con voce grave proveniente da dietro la folta barba grigia
diede l’ordine di partire.
Il piccolo gruppo si addentrò nel bosco, servendosi della luce delle
fiaccole per evitare rovi, buche e per tenere lontani gli animali
notturni. Uno degli uomini accanto a lui, in tono sommesso e
timoroso, disse: «Padre, vi si sporcheranno gli abiti. Il fango, il
bosco, ma soprattutto la missione non sono degni della vostra
eleganza».
«Non è eleganza, Eugen. Si tratta di un incarico di un’importanza
tale da non ammettere un abbigliamento che non sia sacro. Sarà
come dirigere la Santa Messa».
Quelle parole ammutolirono chiunque. Il rispetto per il diacono e
per l’aiuto che stava offrendo li riempì di orgoglio.
L’inquisizione spagnola si era spinta fino all’area germanica. La
caccia alle streghe stava raggiungendo l’apice in quegli anni e per i
paesani Krause era un miracolo.
Da settimane, nel bosco, si aggirava una creatura che si cibava di
animali selvatici o attirava in qualche modo pecore e maiali
dell’allevatore Eugen, per poi abbandonare le carcasse al confine tra
la vegetazione e le abitazioni: le teste intatte erano attaccate agli
scheletri ben spolpati e venivano abbandonate come a segnare il
suo territorio.
«O come monito per tutti» commentò il diacono, dopo aver
ascoltato per l’ennesima volta il racconto di Ralph, l’altro contadino
con la torcia. «“Non avvicinatevi o farete la stessa fine”. Penso sia
esattamente questo il messaggio. Parliamo di un essere senziente,
una creatura malvagia proveniente dalle profondità dell’Inferno. Il
male in carne e ossa va estirpato come erba cattiva».
Si fermarono di fronte a un laghetto. Sulla superficie scura
galleggiavano alcune foglie secche.
Il fratello dell’allevatore si accostò al diacono con un agnello e lo
gettò in acqua. La creatura si agitò, belando disperata: non stava
affogando, ma aveva percepito qualcosa.
Krause iniziò a recitare una preghiera in latino. Ralph e Eugen
rimasero in piedi a fare luce, gli altri, dietro, si inginocchiarono.
Vi fu un rumore alla destra del gruppo, poi dei passi veloci attutiti
da erba e da terra umide.
Alcuni sussultarono, altri invocarono il nome di Dio a voce alta.
Un verso gutturale risuonò, dall’altra parte del lago.
La voce del diacono si sovrappose a quelle spaventate dei
popolani.
Ancora passi, un violento fruscio dietro di loro.
Tre uomini si alzarono con le armi in pugno, pronti ad agire.
Le torce di Ralph e Eugen si spensero all’improvviso ma il diacono
non si fece intimorire e il tono divenne più deciso.
Solo un terribile grido alle sue spalle lo distolse dalla preghiera. Si
voltò per assicurarsi che tutti fossero vivi, ma l’oscurità del bosco
glielo impedì. Urlarono altre persone e lui venne spinto così forte da
qualcosa da volare in acqua. Il belare dell’agnello cessò.
Una voce profonda e affaticata lo sorprese a destra. «Mi cacciate
come fossi il demonio, ma voi stessi avete ucciso decine di innocenti
cercando di estirpare il male che vive dentro di voi».
Il diacono sudò freddo, urinò in acqua. Si fece il segno della croce
e chiuse gli occhi.
«Dimmi il tuo nome».
L’umano fremette alla richiesta, rispose sull’orlo del pianto:
«Abraham Krause». Un dolore lancinante all’addome lo fece gridare.
Fu solo grazie all’arrivo del giorno, almeno dieci ore dopo, che lo
scempio venne alla luce. Quattordici cadaveri, compreso un agnello,
erano stati divorati. Di loro erano rimasti gli scheletri con le teste
intatte.
Balthael, che era riuscito a sopravvivere fino ad allora, terminava il
pasto con l’ultimo corpo che già pullulava di mosche e vermi. Le
stesse mosche si fondevano con lui e, come per un gioco del
destino, ne rinvigorivano l’aspetto rendendolo, con pazienza, quello
di un tempo.
Poi, di fronte a sé, vide la fine di una veste rossa tanto lunga da
coprirne i piedi, di una lucentezza e una perfezione che non vedeva
da tempo.
«È da tanto che non ci vediamo, amico mio» disse il visitatore.
Balthael sollevò il capo. Lo riconobbe. Sorrise commosso.

Raphael annuì e sostenne lo sguardo. “Non essere scontroso, non


provocarlo: hai bisogno di lui” pensò. «Ti ho evocato per chiederti
aiuto».
L’espressione del demone si stirò, beffarda. «Non mi aspettavo
nulla di diverso, in effetti. Come può un demone aiutare un
Arcangelo?»
L’altro prese un respiro profondo e si concesse pochi secondi per
soppesare le parole. «Ti chiedo di aiutarmi a salvare mio fratello
Cassiel da un brutto gioco messo in atto da una… spia».
Balthazar si mostrò interessato alla questione. «Aiutarti? Intendi,
quindi, stipulare un contratto o… un patto?»
«Qualsiasi cosa pur di farlo uscire da quel disastro».
Ci fu un attimo di silenzio.
Fu Balthazar, stavolta, a concedersi del tempo per studiare colui
che gli stava davanti: corrucciato, postura rigida, una mano in tasca.
Il vento smosse i capelli di Raphael e portò via la cenere appena
caduta dal sigaro del demone. Il freddo sembrò intensificarsi.
«Dovrei sapere come sono andate le cose, chi è implicato in
questa storia. Sai, un po’ di informazioni utili».
L’angelo inspirò. Temeva di perdere il controllo della lingua e dire
qualcosa che Lucifer avrebbe potuto usare contro di loro. Ma sapeva
che avrebbe dovuto giocare con astuzia per non farsi fregare,
dopotutto aveva a che fare con uno dei demoni più astuti del regno
del Signore Oscuro. «Una spia di Sergei ha drogato mio fratello per
cavargli tutte le informazioni possibili sulla collaborazione tra
Arcangeli e due demoni che ha avuto luogo qui, sulla Terra».
«Si tratta di Satan e Odry Crane, corretto?»
Raphael dapprima tacque, aveva importanza la loro identità?
Temeva di metterli nei guai, ma in effetti Balthazar era lì solo grazie
all’evocazione e, una volta conclusa la richiesta, sarebbe stato di
nuovo catapultato all’Inferno. Nessuno di loro sarebbe potuto salire
in maniera differente.
«Sì, è corretto» confermò, poi proseguì: «La spia, una succube
mezzosangue, ha riportato le informazioni al padre adottivo, il
Serafino responsabile della squadra di Arcangeli del distretto da cui
provengo. Cassiel è stato raggirato e trascinato in tribunale con le
registrazioni della sua involontaria confessione usate contro di lui.
Ha parlato della collaborazione senza fare i singoli nomi, ha detto
dell’avvertimento di Lucifer, di aver giaciuto con un’altra succube e di
amarla».
«Com’è andata a finire?»
«Cassiel è in cella e stanno decidendo cosa fare di lui. Le cose
sono peggiorate perché se prima non c’erano prove concrete della
collaborazione tra Arcangeli e demoni, con la battaglia per il Graal
sono state ottenute. Lui sconterà una pena più lunga rispetto agli
altri».
«In poche parole occorrerebbe dimostrarne l’innocenza, tirarlo
fuori dalla prigionia e farlo tornare tra le tue braccia» sminuì
Balthazar.
«La fai sembrare semplice. Lo è?»
«Speravo in qualcosa di più coinvolgente, ma mi accontenterò
della soddisfazione di aver ricevuto le suppliche di un Arcangelo».
Raphael ignorò la provocazione. «Quindi? Qual è la tua risposta?
Necessiti di tempo per pensarci?»
Balthazar rimase a fissarlo, non rispose subito. Si limitò a
guardarlo dritto negli occhi senza levare dalla faccia il sorriso
smaliziato. «Cosa ottengo in cambio?»
Ed ecco una delle parti più difficili per l’angelo. «Denaro? Cosa
vuoi?»
«Ne ho così tanto da potermi permettere di vivere di rendita per
cinque secoli».
«Un avvocato che non accetta denaro, cosa accetterebbe? So che
hai già in mente qualcosa e so anche che è una necessità del tuo
Signore, non tua».
«E cosa te lo fa pensare?» Balthazar gli girò intorno. «Pesa le tue
parole, angelo. So che stai per dire qualcosa come “Nessuno di voi
ha necessità e desideri reali, solo quelli che vi impone il vostro
Sovrano” e quindi ti consiglio di risparmiare il fiato. O devo ricordarti
che ciò che accade Giù, accade anche Su?»
«Io sto agendo per il bene di mio fratello, vado contro le decisioni
di chi sta sopra di me. Io lo sto facendo per qualcuno che amo».
«Non ami il tuo Dio?» Balthazar fu pungente. Si fermò alla sua
destra, sorrise nel leggere stizza negli occhi del nuovo cliente.
«Ebbene, accetto l’incarico. E ti dirò di più: ho già in mente la
ricompensa».
Raphael rimase in attesa, mentre il demone gli tornava di fronte.
«Voglio Odry».
L’Arcangelo esitò. «Prego?»
«Voglio Odry» ripeté. «Voglio che la porti qui da me sana e salva.
Mi evocherai e mi farai parlare con lei, concedendomi del tempo per
chiarire alcuni fatti personali. Non intendo farle del male, non
preoccuparti: non le torcerei mai un capello».
«Solo questo?» Raphael non era convinto. Perché una richiesta
tanto semplice? “Puzza di trappola” considerò tra sé.
«Non è solo questo, è molto più di questo, molto più di te e tuo
fratello». Se fosse stato possibile, quelle parole avrebbero
avvelenato il sangue del francese. «Il mio prezzo è alto. Consideralo
un regalo di Natale anticipato; dovrebbe essere tra sei giorni,
giusto?»
«La mia risposta è no».
Balthazar fece un passo indietro. «No? E perché mai? Preferisci
che Cassiel rimanga a marcire pur di non organizzare un incontro tra
me e lei?»
«E quale sarebbe il passo successivo? Approfittare di un nostro
momento di debolezza per prendervi anche Satan?»
Il demone rise e scosse il capo. «Io sono da solo. Ma immagino tu
pensi abbia avuto il tempo di pianificare qualcosa di macabro
insieme a Lucifer per catturare quei due. Ti ricordo che mi hai
evocato tu, senza nessun avviso, né invito».
«Siete così spietati che di sicuro era in programma da tempo, o
vuoi farmi credere che il tuo Signore non ha mai più avuto intenzione
di riportare indietro i traditori?»
Il volto di Balthazar mutò in un battito di ciglia: si fece serio, duro,
impaziente. «Rivuoi tuo fratello? Portami Odry».
«Dimmi perché».
«È mia figlia».
Raphael rimase spiazzato da quella rivelazione. Guardò il demone
sbigottito. Non ne sapeva nulla, non era mai stato affar suo, in effetti,
ma la notizia lo fece sentire inadeguato.
Balthazar aveva cercato di nasconderlo fino all’ultimo e, forse,
aveva sputato il rospo per disperazione. E se fosse stato ignoto
anche a Lucifer e a tutti coloro che stavano intorno all’avvocato?
Satan e Victoria lo sapevano?
D’un tratto il demone non gli parve più tanto sicuro di sé. Era
arrivato a rivelare un importante segreto pur di convincerlo ad
accettare. Chi aveva davvero in pugno la situazione?
«Chi mi assicura che sia la verità?»
«Lei. Parlale e avrai la conferma». Balthazar ruotò il polso per
dare un’occhiata all’orologio. «Non posso stare qui tutta la notte. Ora
firmiamo il contratto». Con uno schiocco di dita a mezz’aria, tra loro,
comparve una pergamena: in alto al centro vi era il sigillo del
demone, subito sotto il suo nome e l’ordine demoniaco, a seguire un
testo fitto con diversi passaggi segnati in grassetto. Infine, lo spazio
per le firme.
Raphael la prese con delicatezza tra le mani e lesse il testo sotto
lo sguardo annoiato dell’avvocato. Con stupore notò la trasparenza
del vincolo, in cui, però, veniva evidenziato il diritto di prendersi il
tempo necessario per trovare una soluzione.
«Non ti preoccupare» lo interruppe Balthazar, comprendendo dallo
sguardo dove fosse arrivato con la lettura «non mi ci vorrà molto
tempo. Sarò ben propenso a sbrigarmi qualora ti spicciassi a farmi
vedere Odry. Magari più di una volta».
L’Arcangelo terminò e con un cenno del capo si rese disponibile.
«Una penna?»
«Il tuo dito».
Raphael storse il naso. «Una firma col sangue?»
«Un patto molto più stretto».
Nello stesso punto in cui poco prima fluttuava la pergamena,
comparve uno stiletto con l’elsa dalle sfumature prugna e nere.
«Prima il cliente. Ah, indice sinistro: è più vicino al cuore».
Raphael lasciò il contratto che rimase in aria, in attesa. Afferrò
l’arma e fece come indicato, in seguito premette il polpastrello nel
riquadro designato lasciando l’impronta rossa. Intanto anche
Balthazar si era ferito e firmò per secondo.
La pergamena si accartocciò e prese fuoco. Da essa nacquero
due spirali di fumo e cenere, ognuna rivolta verso uno dei presenti.
Trapassarono gli abiti e bruciarono il centro del petto.
Raphael sgranò gli occhi e aprì cappotto e camicia sottostante per
liberare il punto dolente. Marchiato a fuoco sulla pelle vi era il patto
dell’infante. «Cosa significa?»
«Significa che se uno dei due viene meno agli accordi presi,
muore. Oppure, se uno dei due muore il patto di spezza».
«Tutta questa recita per arrivare a questo?» Raphael si sentì
preso in giro.
«Volevo essere certo che tu fossi convinto della sincerità e della
tua lealtà in merito alla mia richiesta. Perché ti sorprende tanto?»
Balthazar sorrise soddisfatto, girò sui tacchi e si diresse verso
l’oscurità dalla quale era giunto. «È tempo che vada. Ricorda il tuo
compito, angelo, e non tardare troppo se vuoi che tuo fratello venga
tirato fuori dai guai».
Scomparve nel buio della foresta e il sigillo si spense.
Raphael si coprì e sistemò meglio la sciarpa. Rabbrividì e gettò lo
sguardo sulle linee da lui tracciate; col piede le cancellò il meglio
possibile.
Chiuse gli occhi. Finalmente poté lasciarsi andare alla nausea
causata dall’evocazione, punizione obbligatoria per ogni angelo che
avesse osato evocare un demone. Vomitò sangue oltre il ponte, in
acqua. Lo sforzo fu tanto e si ritrovò con le lacrime agli occhi.
Rivide la scena, si sentì sottomesso dal nemico con cui aveva
stipulato il patto. Aveva firmato l’accordo col proprio sangue. Non
poteva più tirarsi indietro. Per nessuno era mai giunto a tanto,
nemmeno per se stesso, ma la vita di Cassiel valeva oro, valeva più
delle regole che era costretto a seguire.
“Mi hai visto, lo so, mi hai osservato. Ma non giudicarmi” disse al
proprio Dio. “Non giudicarmi, non ho peccato: voglio solo salvare la
vita della persona che amo”.
Balthazar si nascose dietro alcuni arbusti, ma avvolto dal buio
notturno Raphael non avrebbe comunque potuto vederlo. La
tensione uscì tutta con un sospiro veloce e pesante. Il demone
chiuse gli occhi.
Di clienti ne aveva affrontati a centinaia nella sua lunga vita, anche
di gran lunga peggiori. Era la ricompensa a intimorirlo: Odry. Una
ricompensa che bramava con ogni cellula del suo corpo, ma che
temeva come la morte.
Sperò di aver fatto i passi giusti e si accese la speranza di poter
riabbracciare sua figlia, anche se forse sarebbe stata l’ultima volta.
03 Gennaio 1995 d.C.
Ultimo villaggio del popolo della Nura – Oltre i confini dell’Impero,
Inferno

«Meeshan! Dove sei?! Meeshan rispondimi, ti prego!» gridava


Balthazar.
I soldati di Lucifer avevano massacrato e distrutto tutto ciò che
avevano incontrato. L’aria era pesante, il panorama dipinto di un
rosso acceso. Odori di bruciato, di polvere da sparo e sangue si
unirono in un groviglio nauseante.
Del popolo della Nura non era rimasto nessuno. O almeno, così
pareva.
Il demone scavalcò i cadaveri delle persone con cui aveva vissuto
negli ultimi anni, di quelle stesse persone semplici che lo avevano
accolto e che avevano approvato la sua relazione con una di loro.
Erano tutti morti, schiacciati dal peso della corona.
Lucifer era riuscito a decimare l’ultimo popolo scomodo, uno dei
pochi che avrebbe potuto schiacciarlo.
Balthazar avanzò tra i resti di coloro che aveva tradito, tra i quali si
era mischiato per fare le veci di Lucifer, per mostrare quanto
l’Imperatore fosse grande. Sapeva come sarebbe andata a finire,
eppure il cuore si riempiva di crepe a ogni passo. Di fronte a lui lo
stendardo con il simbolo della casata Mornigstar era conficcato nel
petto di un uomo. L’avvocato tremò e riprese a gridare. «Meeshan!»
Si scompose in uno sciame di mosche che si dispersero nell’area
colpita dall’attacco per cercare sua moglie.
Meeshan si trovava all’interno di un tempio di granito scuro con
pianta rettangolare, circondato da imponenti colonne. Al centro vi era
un altare e sul fondo, in mezzo a due colonne più piccole che
reggevano delle fiaccole, vi era la monumentale statua del dio del
fuoco, Rakelech.
La donna si trascinava con i gomiti, una gamba sanguinava
copiosa, lasciando una lunga scia rossa. Il ventre gonfio le
ostacolava i movimenti, ma non si sarebbe arresa. I lunghi capelli
color ciliegia sembravano ancora più vividi in mezzo alla pietra
scura. Il vestito verde brillante, dal taglio impero, era sporco e
rovinato.
Vederla in quello stato fu una sofferenza. Le mosche si
ricomposero e Balthazar la raggiunse di corsa, con mani tremanti la
bloccò per le spalle. «Forza, ti porto via da qui!»
Lei però lo spinse e a denti stretti rispose: «Devo fare ciò che è
giusto e tu non puoi impedirmelo!»
«Lo faremo altrove! Se rimani morirai!» provò a sollevarla ma lei si
dibatté. Balthazar fu costretto a tapparle la bocca per evitare che le
sue grida attirassero i soldati. «Non urlare ti prego!» il demone
soffocò la voce per quanto poté, ma sua moglie non demordeva.
«Devo raggiungerlo Balthazar, non impedirmelo!»
Il demone sollevò il capo sull’altare e aggrottò la fronte. «Cosa
intendi fare? Cosa c’è di più importante della tua vita?»
«La sua!» rantolò premendosi una mano sulla pancia. «Dovrai
aiutarmi e mi devi promettere che farai tutto ciò che ti dirò senza
obiettare» il tono duro non ammetteva repliche. Gli occhi celesti
come il cielo terrestre lo scrutarono con ansia.
«Dannazione Mee, non è il momento per altro che non sia la
fuga». Nonostante la considerazione, il demone la sollevò. «Ti metto
sopra l’altare?» e alla conferma, la posò sul granito freddo.
Meeshan chiuse gli occhi e si distese, allungò una mano toccando
la pietra scura e pregò per qualche istante. Poi dalla cintola dell’abito
estrasse un pugnale. «Tieni».
Nei tre anni in cui si era mischiato tra di loro aveva visto vari rituali
in onore alla loro divinità, ma nessuno di essi prevedeva un pugnale,
a meno che non ci fosse di mezzo un sacrificio. Un brutto
presentimento lo afferrò come una mano invisibile intenzionata a
strozzarlo. «Cos’hai intenzione di fare?»
«Devi estrarlo tu, se sarà una femmina potrò salvarla
consacrandola a lui, come da sempre è stato nella nostra tribù; a
quel punto sarà Rakelech a decidere per lei. Se invece sarà un
maschio non potrò fare nulla per lui, ma tu sì, tu potrai». Gli porse
l’arma, la lama splendeva sotto le luci tremolanti delle fiaccole.
«No». Balthazar scosse il capo, afferrò il pugnale e lo poggiò sul
ripiano. «No, no, no. Tu sei pazza se pensi che ti sventri. Potrei
portarti via e nasconderti e potrai fare la tua consacrazione una volta
partorito, come si deve».
«Fa’ come dico… ti prego. Ci uccideranno entrambi quando ci
troveranno e sai bene che accadrà. Tu hai tradito il tuo Signore
sposandomi di nascosto». Meeshan lo guardò contrita, gli occhi
carichi di lacrime ma anche di un coraggio che Balthazar non aveva
mai avuto in vita sua.
«Rischierai la morte…» rispose con un filo di voce.
«Sarebbe il mio più grande rimpianto vivere insieme di nascosto,
con il nostro bambino nella tua ombra».
In lontananza sentirono la voce degli imperiali che cercavano
sopravvissuti per porre fine alla loro vita.
Il demone sgranò gli occhi e la guardò; lo scintillio del pugnale lo
fece star male. «Meeshan, non posso…» la voce gli morì in gola.
«Lo so e spero mi perdonerai un giorno, ma nostro figlio potrebbe
avere una vita migliore lontano da me. Lucifer ci ha cancellati, non
deve accadere anche con lui». Gli prese la mano, la strinse forte
mentre un velo di sudore freddo le imperlava la fronte. «Facciamo
così: tu fallo uscire e poi portami da te, lontano da qui. D’accordo?»
A Balthazar non dispiacque come proposta. Ma come avrebbe
potuto farle una cosa tanto orribile? Come avrebbe potuto farlo a se
stesso? E se lei fosse morta? Il bambino avrebbe vissuto senza
madre, se fosse sopravvissuto. La mano tremò, tremarono anche le
gambe. Sudava, ma aveva freddo.
Lei gli sorrise tra le lacrime. «Ti amo». Chiuse gli occhi e si
preparò.
Balthazar le sollevò l’abito e deglutì alla vista del ventre gonfio di
sette mesi. Afferrò e avvicinò la lama fin quasi a sfiorarle la pelle, ma
si fermò. «È una pazzia» disse.
Le voci si avvicinavano. La donna gli afferrò il braccio per
incoraggiarlo, singhiozzò per lo sforzo di trattenere la paura, ma
soprattutto per rimanere sveglia e dargli l’ultimo saluto.
Quindi la lama tagliò.
Meeshan strinse i denti così forte da scheggiarseli. I muscoli, i
tendini, i nervi… tutto era teso e irrigidito per contenere il dolore,
emise un ringhio strozzato e piegò la testa di lato. La statua, austera,
rappresentava un uomo forte con un’armatura dipinta di nero. Nella
mente di lei viaggiavano le preghiere, con la speranza che Rakelech
le udisse.
I fuochi delle fiaccole oscillarono mentre la voce di Meeshan
andava via via ad aumentare.
«Resisti, ti prego». Balthazar sudava, i tremori erano peggiorati.
Finì di incidere e divaricò la ferita, facendola gridare ancora. Tagliò
anche la placenta.
Gli uomini in lontananza tacquero: avevano sentito.
«Tiralo fuori!» strillò lei.
Balthazar prese coraggio, affondò le mani nella sacca e con
cautela tastò al suo interno. Ciò che gli sembrò di toccare lo
raccapricciò. Riluttante, estrasse il bambino e glielo mise sul petto.
Non udì ciò che lei disse, probabilmente qualcosa sul fatto che fosse
un maschietto. Tolse il nastro che teneva al collo lo tagliò in due con
il coltello e lo legò all’estremità del cordone ombelicale del piccolo.
La voce di sua moglie gli arrivava ovattata, ma riuscì comunque a
percepirne la perplessità e la paura. Il cuore batté ancora più forte
quando si accorse della presenza di un altro corpicino. Infilò le mani
nella pancia ed estrasse una bambina.
Due gemelli.
Balthazar si voltò verso Meeshan e gliela mostrò.
Il volto provato e sudato della donna, per un attimo, sembrò
rilassarsi. Consegnò a Balthazar il maschio e con le poche forze che
le restavano prese tra le braccia la bambina, dopo che anche a lei fu
chiuso il cordone. La guardò con attenzione, le contò le dita di ogni
mano: era perfetta. La protese verso la statua e iniziò la
consacrazione. «A te, mio dio… io consacro il frutto del mio ventre e
del mio amore affinché tu possa accoglierla al tuo fianco, guidarla e
proteggerla fino a quando la… luna non spegnerà la sua luce…»
chiuse gli occhi. Il sangue fluiva rapido macchiando l’altare e i
gradini sotto di esso.
Le fiamme oscillarono con maggior vigore, avvamparono e
avvolsero le colonne. Poi strisciarono come serpenti rossi fino a loro
e avvolsero la donna, ora terrorizzata.
Balthazar, ammutolito, fece due passi indietro. Voltò il capo verso
la grande statua del dio che sembrava giudicarli, gli occhi parevano
vivi.
Il terreno tremò, l’altare si crepò e la spaccatura procedette fino
alla statua tagliandola in due. Il fuoco passò dalla madre, che uscì
illesa, alla bambina, avvolgendola senza farle alcun male; lei lo
assorbì tutto, fino a gettare il tempio nel buio.
La piccola iniziò a piangere e suo fratello, ancora tra le braccia di
Bathazar, la imitò poco dopo.
Meeshan era incredula. «Lui… lui ha davvero accolto la mia
preghiera» guardò suo marito e con le ultime forze gli sorrise. «È
stata scelta, il mio dovere qui è finito… ora spetta a te».
«Ora spetta a noi, vorrai dire». Balthazar si assicurò che i neonati
fossero ben saldi tra le braccia della madre. Alle sue spalle, seppur
ancora in lontananza, udì gli uomini di Lucifer. Non l’avevano
riconosciuto e il demone fu grato di essere tanto fortunato. Quindi
posò un bacio sulla fronte della moglie. «Adesso ti porto a casa».
Si smaterializzò, lasciando i soldati di stucco.
Nell’atrio della grande villa, Balthazar chiamò a gran voce i suoi
servi. Abbassò lo sguardo su Meeshan, ma il sorriso vittorioso si
spense.
Meeshan era morta. Tra le braccia teneva ancora i bambini che
strillavano disperati.
Balthazar, per un attimo, non seppe più nemmeno come respirare.
Rimase a fissare il corpo sventrato della moglie e, di nuovo, smise di
udire qualsiasi cosa.
Alcuni servi lo raggiunsero, presero i neonati e li avvolsero in degli
asciugamani, ma il demone vide solo ombre veloci girargli intorno.
Ciò che amava se n’era andato per sempre.
Se l’avesse portata a piedi in un luogo sicuro, se avesse atteso
qualche giorno per smaterializzarsi, forse lei avrebbe potuto vivere
con lui e i loro piccoli.
L’aveva uccisa.
Cadde in ginocchio. Non se ne accorse, ma le braccia la
stringevano forte contro il petto, mentre due uomini della servitù
provavano a farlo alzare.
La mente piena solo di colpa e odio. E se avesse potuto, se quella
relazione non fosse stata un segreto da tenere lontano da Lucifer,
avrebbe barattato l’anima dei loro figli per lei.
Un barlume di speranza

Belial era stanco e dolorante. Si sarebbe lamentato se fosse stato


in grado. Non aveva mai sentito un vero bisogno di bere o di
mangiare, ma se in quel momento avesse trovato dell’acqua
l’avrebbe trangugiata solo per sentirsi un po’ più vivo, un po’ più
umano.
Il suo corpo nudo e informe vagava trascinandosi ormai da due
giorni nella Capitale e all’occorrenza si celava alla vista dei soldati di
ronda. Cadaveri o spazzatura non faceva differenza, ogni cosa era
un potenziale nascondiglio. Il busto era quasi del tutto ricostruito: le
braccia, dal gomito fino alla mano, mantenevano un aspetto fumoso,
così come le gambe. Finché non avesse recuperato le forze, ci
avrebbe messo il doppio del tempo a ricomporsi.
Non sapeva dove andare, non era uscito spesso dal Quartier
Generale quando le cose ancora gli andavano bene e lo stordimento
non lo aiutava a mettere in atto un vero piano per sopravvivere. Le
vie erano vuote, spettrali, e anche se attorno non vi era altro che
silenzio, il ragazzo si sentiva osservato e seguito. Era sfinito, ma i
sensi non mentivano. Non era solo.
Qualcuno lo afferrò tappandogli la bocca e lo trascinò dentro una
casa malmessa, lasciandolo inerme contro la parete di fondo
dell’abitazione, lontano da porte e finestre. Belial non aveva avuto la
forza e il tempo di reagire e il timore che per lui potessero essere gli
ultimi minuti di vita lo mise in agitazione.
«Non siamo al sicuro qui, dobbiamo lasciare la Capitale il prima
possibile». Belphagor si allontanò dal ragazzo che, nel riconoscerlo,
tirò un sospirò di sollievo e rimase supino sul pavimento polveroso.
«Sei messo male, ragazzo» con le mani sui fianchi gli sorrise «ma
hai la pelle dura. È stato Lucifer, vero?»
Belial si limitò ad annuire, mentre fissava il soffitto.
«Vedo che hai perso tutto, abiti e qualsiasi possibile collegamento
col piano terrestre» continuò l’altro «quindi immagino che non ci sia
alcun modo di comunicare con Odry e Satan… Hai fatto una cosa
pericolosissima».
Il ragazzo confermò con un cenno del capo.
«Dobbiamo andarcene. Ishtar sta monitorando la zona insieme
alla sua iena dall’infallibile fiuto e rischiamo di venire scoperti. Io non
posso perdere la posizione accanto a Lucifer, sono rimasto l’unico
informatore» e un forte senso di colpa lo costrinse a distogliere lo
sguardo da Belial, anche per fuggire alle immagini della morte della
cara amica Mina che lui gli suscitava. «Abbiamo un’ora di tempo,
dopodiché ti infilerò in una sacca per spostarci con più facilità».
Belial rispose con un lamento strozzato e un debole sorriso
all’idea di diventare un bagaglio.
«Non hai perso il senso dell’umorismo, bene» commentò
Belphagor, sollevato.

Erano passati cinque giorni dall’attacco al Quartier Generale e il


principe aveva riacquistato le forze e l’aspetto col quale si era
sempre mostrato. Belphagor aveva recuperato per lui degli abiti
puliti, trovati in una delle tante case ormai disabitate.
Occupavano da un’ora buona la dimora di una famiglia sterminata
durante l’attacco di Lucifer, avevano messo qualcosa sotto i denti,
avevano bevuto e ora si ritrovavano di fronte a un focolare, tenuto
basso per non attirare l’attenzione dei soldati sempre in allerta.
«Dobbiamo trovare un modo per andarcene!» sbottò Belial,
disperato. «Non possiamo aspettare di ricevere notizie da Odry,
sono certo che qualcosa sia andato storto, il generatore non
funzionava bene e… e se dovesse essere accaduto quello che
temo, non sapremo quanto ci metterà a ripararlo e io voglio tornare a
casa!»
Belphagor rimase colpito dalle parole del ragazzo. Aveva appena
parlato di una casa e non si riferiva certo al luogo nel quale aveva
sempre vissuto. Il Quartier Generale gli era sempre stato ostile, e
viceversa. «Pazienta, mio caro» rispose il demone. «L’unica cosa
che possiamo fare, per il momento, è allontanarci il più possibile da
Lucifer. Dovremo essere cauti e furtivi, le sentinelle sono ovunque».
«Siamo gli unici a muoverci in città e lo stiamo facendo da giorni.
Quando troveremo un po’ di civiltà?»
«Non hai mai studiato la geografia dell’Inferno, vero?»
«No…»
«Ecco. Sai che ancora non siamo usciti dal regno in cui hai
sempre vissuto da ignorante?»
«Hey! Non c’è bisogno di insultare!»
Belphagor si irrigidì e dopo alcuni istanti annuì. «Devi scusarmi,
non posso prendermela con te. Temo ogni giorno per Awinita e per
la sua incolumità. È da sola e il mio cuore è soffocato dal terrore».
«Beh» ammise Belial, «se non fosse stato per la mia lentezza, ora
saresti insieme a lei».
«Se non fosse stato per te, Lucifer non sarebbe confinato qui».
Belial arrossì. «Se non fosse stato per Odry e Satan, non sarei
riuscito a fare nulla». E fu allora che il ragazzo sprofondò in quel
turbine di insicurezze che l’aveva sempre accompagnato.
Per fortuna il nuovo amico riuscì a distrarlo. «Te la senti di uscire
ora?»
Belial sospirò e accettò, seppur con uno sguardo poco convinto.
«Basta che fai come ti dico: se ti dico di nasconderti tu ti nascondi,
se ti dico di scappare tu scappi, siamo intesi?» Belphagor lo fissava
con occhi che non ammettevano repliche.
Il principe si alzò dalla logora poltrona sulla quale stava riposando
e allungò le maniche del maglione di lana, fin troppo grande per lui,
pronto per tornare fuori al freddo.
Uscirono di soppiatto dalla casa abbandonata. Le fioche
illuminazioni dei lampioni e le vecchie insegne lampeggianti al neon
rischiaravano a stento la porzione di borgo in cui si trovavano,
proiettando sull’asfalto riflessi colorati e sinistri. Il silenzio, alternato
al ronzio elettrico delle insegne, rendeva la fuga più complicata:
dovevano prestare attenzione e non fare il minimo rumore.

Una iena fuori misura, minacciosa e famelica, seguiva l’odore del


principe traditore. Il suono delle grosse zampe che affondavano nel
terriccio umido di quelle vie abbandonate accompagnava quello dei
passi della padrona.
Ishtar aveva i sensi tesi per captare qualsiasi stimolo. La lunga
veste scura e gli accessori in cuoio, come il corsetto, gli spallacci e i
bracciali, le donavano un’aria da cacciatrice. I manici dei pugnali
d’oro inseriti nei foderi sulle cosce, visibili grazie agli spacchi laterali,
brillavano sotto le deboli luci ai lati della strada.
La bestia sollevò il capo e arrestò la marcia. Annusò ancora una
volta l’aria percependo un altro odore ben noto e si voltò verso la
demonessa, fissandola negli occhi.
«Non è solo, dunque?»
La iena ululò e riprese a camminare più rapida.
Ishtar la seguì con passo leggero e attese che la sua compagna
giungesse a destinazione per poter agire in nome di Lucifer.

Belphagor e Belial avevano sentito.


Tesi come la corda di un arco, svoltarono nel primo vicolo utile
ripassando a memoria la strada tracciata sulla mappa mentale del
primo. Il ragazzo gli stava dietro a fatica. Con un gesto secco della
mano, Belphagor impose al giovane di fermarsi, dopo aver notato
con la coda dell’occhio uno strano movimento.
Erano stati raggiunti.
La iena gli balzò addosso, Belial indietreggiò colto di sorpresa.
«Un’altra mela marcia oggi cadrà» commentò Ishtar, avvicinandosi
«Per troppo tempo Lucifer ha protetto e nutrito dei traditori».
Belphagor estrasse il pugnale e l’animale si scansò in tempo per
evitare un affondo, poi indietreggiò, richiamato dal fischio della
padrona.
«Consegnami il ragazzo e la punizione per te non sarà mortale».
Belial sussultò e indietreggiò ancora.
«Ora che siamo soli possiamo ragionare» rispose l’altro demone
«e so che tu non sei cieca quanto Balthazar».
La iena ringhiò mostrando i denti. La bava colò fuori dalle fauci.
«Vuoi invocare pietà?» chiese Ishtar.
«No, voglio che tu ripensi a ciò che ti ha fatto Lucifer e ragioni sul
motivo per cui sono qui insieme a Belial».
«Come osi provare a manipolarmi?» sibilò lei.
«No! Voglio che tu apra gli occhi. Vuoi davvero continuare a
servire colui che ti ha costretta a entrare nel Concilio per sostituire
l’uomo che ti ha rovinata?»
Ishtar portò una mano al ventre e digrignò i denti «Il nostro
Sovrano mi ha dato la possibilità di riscattarmi».
«Impedendoti di vendicarti anche su Azazel e costringendoti a
lavorare al suo fianco».
«Azazel prima o poi avrebbe fatto una brutta fine, e così è stato. Io
non mi sarei mai abbassata a uccidere un verme come lui. Mi è
bastato eliminare quel maiale di Sitri. Sostituirlo per me è stata una
vittoria».
«Stai continuando a giustificare Lucifer che dice di amarti come
una figlia, ma lui non ha punito coloro che ti hanno fatto del male e
maledetto la creatura che ti hanno costretto a mettere al mondo».
«Taci». Ishtar estrasse i pugnali e la iena rizzò il pelo ispido lungo
la schiena maculata.
Belial toccò la spalla al compagno. «Perché glielo dici? Così la
farai incazzare!» ma venne ignorato.
«Non è il principe il traditore e tu lo sai molto bene» riprese
Belphagor. «Lucifer lo è, Lucifer che ci ha sempre riempito di bugie e
ci ha utilizzati tutti come burattini». Sudava freddo; il ragazzo con lui
non aveva forze a sufficienza per reggere uno scontro e da lì a poco
si sarebbe trovato da solo contro due.
Ishtar gli puntò contro un pugnale. «So bene ciò che faccio, so in
quale gabbia sono costretta a vivere. Non sai di cosa parli e cosa
provo, tu non conosci la sofferenza nell’uccidere una figlia perché
malata».
Sul volto del demone comparve un sorriso benevolo, pieno di
empatia. «Tu non l’hai uccisa» la contraddisse. «Per tutto questo
tempo l’hai cresciuta e tenuta al tuo fianco, celandola alla vista di
tutti. Lei è un Domator come te e me».
Belial sgranò gli occhi e li puntò sulla iena. “È lei!” pensò,
sconvolto. “Belphagor l’ha saputa riconoscere perché hanno la
stessa natura!”
La demonessa digrignò i denti. «Devi morire».
No, Ishtar non avrebbe ragionato, Belphagor se ne rese conto.
«Corri».
Belial obbedì.
L’altro, con uno scatto inaspettato, si gettò sulla iena, ma quella
sgusciò via per inseguire il ragazzo.
Il principe mise distanza dal compagno di viaggio e accelerò,
pensando a come confondere la belva che gli stava alle calcagna.
Era certo che non sarebbe andato troppo lontano a causa delle sue
condizioni. Svoltò a sinistra, imboccando un vicolo, azione di cui si
pentì subito: la stradina era troppo lunga per sperare in uno sbocco
che gli avrebbe permesso di seminare la iena, le pareti troppo alte e
senza appigli per poterla confondere con un’improvvisa arrampicata.
Ma continuò a correre. Vide all’ultimo momento una fune spezzata,
un tempo utilizzata per stendere il bucato, e riuscì ad appendersi
giusto in tempo. La bestia balzò e spalancò le fauci per afferrarlo,
ma venne anticipata dall’agilità del ragazzo che iniziò ad
arrampicarsi e poi a saltare, anche se con molta fatica, tra le finestre
più alte.
Belial giunse in cima all’abitazione alla sua destra e procedette di
fretta in quel percorso fatto di terrazze e tetti scivolosi. Finché,
balzata con molta probabilità da scale antincendio o balconcini, la
iena si palesò di fronte a lui. Ringhiò e gli saltò addosso.
Il giovane scivolò, batté la nuca e rotolò giù da un tetto spiovente.
Buio.
La prima cosa che vide, una volta sveglio, furono un paio di occhi
scuri che si esibirono in un amichevole occhiolino. «Sei sveglio! Era
ora. Ho temuto di dover continuare a trasportarti in una borsa!»
Belphagor gli poggiò sul collo un panno imbevuto di acqua
ghiacciata e tirò un sospiro di sollievo nel notare i riflessi ancora
presenti in Belial.
«Sei matto? È gelido!»
«Sarebbe stato meglio tenerti con me, vista la fine del fesso che
hai fatto».
«Che è successo?»
Belphagor si alzò per riporre il panno nella bacinella e ravvivare il
fuoco nel caminetto. «Ishtar è forte, ma il suo più grande punto
debole è sempre stata Zenda: la figlia che ha tramutato in iena.
Quando ne ho rivelato l’identità di fronte a te, lei ha temuto che tu
potessi prenderla in ostaggio e farle del male. Si è distratta per
questo, una sciocchezza».
Belial si mise a sedere, si massaggiò la nuca dolente e ripensò al
breve battibecco tra Ishtar e l’amico. Ricordò lo sguardo furioso della
demonessa che nascondeva un’emozione più profonda: paura o
tristezza? «Chi è Sitri?»
Belphagor sospirò e guardò il vecchio tappeto che aveva sotto ai
piedi, recuperando la memoria. «Un vecchio amico di Azazel, ex
membro del Concilio Ristretto. È stato ucciso da Ishtar».
«Fin qui c’ero arrivato».
«Molto tempo prima che tu entrassi nel gruppo, all’incirca
centocinquant’anni fa, lui e Azazel stuprarono Ishtar. Lei si vendicò
uccidendo Sitri. Lucifer ha notato la sete di sangue pari a quella di
un vero Sanguor, l’ha messa alla prova e ha deciso di farla entrare
nel Concilio per sostituire Sitri».
«E perché la figlia ha quell’aspetto?»
«È nata anche lei Domator, ma la madre tramite un pesante sigillo
l’ha costretta a tale forma per proteggerla. O almeno così credo.
Sono certo, invece, che nei suoi confronti avesse sviluppato una
sorta di ossessione. Comunque non ci darà più fastidio, Zenda
invece è fuggita quando ti ho trovato. Ti stava riportando al Quartier
Generale».
Belial rabbrividì al solo pensiero. Si mise più comodo e quasi gridò
quando voltò la testa: in un angolo al buio di quell’ennesimo
nascondiglio di fortuna vi era il corpo di Ishtar, con gli occhi ancora
spalancati e un grosso squarcio alla gola. Il sangue ormai rappreso
era colato fino all’ombelico.
«Si merita un funerale anche una come lei, il mio rispetto mi
spinge a farlo» commentò Belphagor, tornando dal ragazzo e
sedendo ai piedi del letto. «Poi la
seppellirò con la speranza che la trovino il più tardi possibile. Ma
ora dobbiamo fare una cosa importante».
Il giovane si incupì nel notare il repentino cambio d’espressione
nel compagno. Rimase in ascolto.
«Dobbiamo raggiungere Leviatano nel suo castello e salvarlo»
sorrise «e la tua presenza sarà fondamentale, principino».
I caduti

Agatha aveva affrontato tre lunghi mesi al Distretto per l’Equilibrio


del Paradiso. Dopo la sua cattura era stata condotta nella struttura
dove – costretta a confessare – aveva subito ogni tipo di sevizia.
Come se non fosse bastato, per volontà delle Dominazioni, era stata
tenuta lontana dal DEM poiché, altrimenti, Chris – già piuttosto fuori
controllo – avrebbe sfogato su di lei tutta la sua furia.
Dopo novanta giorni di detenzione, vista la sospensione del padre,
era stata trasferita e rinchiusa in una cella al DEM in attesa del
giudizio definitivo.
Nessuno degli Arcangeli aveva osato dire qualcosa in merito: tutti
avevano visto le condizioni in cui era stata ridotta, il suo sguardo
spento. Solo Uriel le aveva chiesto una volta come stesse, senza
ricevere risposta.

Da quando era stato sospeso dalle Dominazioni, Chris si recava a


lavoro solo a tarda sera per evitare problemi e per non essere visto,
così avrebbe potuto comunque rimanere aggiornato. Nonostante le
sue accortezze, era stato più volte avvistato, ma nessuno aveva mai
osato parlarne. La situazione era peggiorata dopo la denuncia di
Mathael.
Il Serafino sedeva nel suo ufficio. Le informazioni estorte alla
succube erano poche ma interessanti, utili. Da almeno un’ora
leggeva e rileggeva le risposte sullo schermo del computer, unica
fonte di luce nella stanza, senza darsi pace per essere stato tanto
cieco. Se avesse potuto, avrebbe spaccato la parete a pugni per la
rabbia.
Era rigido, il volto contratto in un’espressione furente, la voglia di
andare da Agatha e di riempirla di botte era forte, ma forse avrebbe
potuto fare qualcosa di molto più utile.
Spense il monitor e uscì dalla stanza dirigendosi verso
l’ascensore. Diede uno sguardo all’orologio da polso: erano appena
passate le undici e mezza.
La vendetta sarebbe stata un balsamo per il suo cuore spezzato, e
avrebbe iniziato con colei che più di tutti si era approfittata della sua
bontà: ormai aveva deciso.
Giunse al piano delle carceri e fu assai generoso con le guardie di
fronte agli schermi della videosorveglianza.
«Signor Dunne…» balbettò uno di loro alla vista dei denari. Il
collega spalancò la bocca quando ebbe di fronte la propria parte.
Chris sorrise maligno nel notare il riflesso dell’oro negli occhi del
giovane.
«Fino al mio ritorno, ci sarà un problema con i server» si limitò a
dire, e proseguì compiaciuto nell’udire il rumore dei computer che
venivano spenti.
«È arrivato il Malaugurio» ironizzò Michael, seduto in modo tale da
vederlo per primo. Il polso ingessato.
Gli altri Arcangeli si voltarono nella direzione dalla quale il Serafino
stava sopraggiungendo.
Quello, d’altro canto, non degnò nessuno di uno sguardo. Si fermò
invece di fronte alla cella di Agatha.
La succube, rannicchiata sul pavimento freddo, dava le spalle alle
sbarre. Il corpo smunto era coperto da una maglietta azzurra di
parecchie taglie più grande. Dalla cella accanto, Cassiel, a petto
nudo, guardava Chris con disprezzo.
«Nonostante ti abbia trattato come un pezzo di merda, continui a
coprirla di attenzioni» ironizzò Chris. Non ricevette risposta, ma uno
sputo quasi gli raggiunse la punta della scarpa destra.
«Vattene via, Dunne» ordinò Raziel «o sarò costretto a centrarti
quella faccia del cazzo con un altro sputo».
Chris non si scompose, si limitò a sogghignare e dopo qualche
istante gli diede le spalle. Si avvicinò alle sbarre e aprì la porta
ferrata, la spalancò facendo risuonare il fracasso del metallo in tutto
l’andito. Si avventò su Agatha che iniziò a strillare disperata e a
scalciare con altrettanta forza. «È arrivato il tuo momento, per troppo
tempo sei rimasta qui, immonda creatura».
Con un calcio richiuse la cella e tenendola per la maglietta la
trascinò verso l’uscita.
«Cassiel! Ti prego, ti prego aiutami! Aiutatemi vi supplico!» pianse
Agatha allungando una mano verso gli Arcangeli, ma nessuno di loro
poté fare qualcosa.
«Chris! È innocua ormai!» tuonò Gabriel e se anche gli altri non la
pensavano allo stesso modo, andarono contro il Serafino con ogni
sorta di insulto.
Solo Uriel taceva; truce, lanciò occhiate perplesse alle telecamere.
Ciò che Dunne aveva appena fatto era contro le regole, possibile
che nessuno desse l’allarme?
Il Serafino continuava imperterrito la sua marcia. «Lei sarà solo la
prima» disse poi scomparendo oltre la soglia accompagnato dalle
urla della ragazza.
«Fanculo» borbottò Raziel. «Non ha compassione nemmeno per
la stronza che ha cresciuto».
«Dobbiamo fare qualcosa» sbottò Gabriel ma Uriel rispose con un
ghigno rassegnato. «Chiedendo aiuto alle stesse guardie che, di
certo, lui ha corrotto? Non ti sorprende che continui ad agire
indisturbato?»

Chris trascinò Agatha fino alla porta di servizio e lì, per evitare che
le sue grida attirassero l’attenzione degli ultimi impiegati rimasti al
DEM, con un calcio nello stomaco la fece tacere. Salì le scale
ignorando i lamenti di dolore della succube e giunto al pian terreno
passò per il giardino, raggiungendo l’uscita secondaria.
«Questa è la via che hai utilizzato per aiutare i tuoi amici demoni,
giusto?»
Quel tono terrorizzò Agatha che prese a piagnucolare.
Chris sapeva molto bene quali strade e vicoli prendere per evitare
le zone ancora vive nonostante l’ora tarda. Sapeva anche come
agire nel caso in cui qualche sfortunato l’avesse visto.
«Papà ti prego…»
«Non osare chiamarmi così, non sono più tuo padre!» con uno
strattone le intimò di seguirlo, infastidito dall’incedere sofferente ma
lei a stento si reggeva in piedi. «Cammina!» le ringhiò.
Procedettero fino a uscire da Sila, oltrepassare la barriera di Etere
e quella delle grandiose statue bianche.
Agatha piangeva supplicandolo di risparmiarla. Aveva capito cosa
intendeva fare ed era certa che a ciò non sarebbe sopravvissuta.
Di fronte a loro, attraversata da una patina di Etere che ne
delimitava il confine, vi era il Pozzo dell’Infedele, la voragine
provocata da Lucifer durante la caduta.
Dunne la spinse a terra e il volto della ragazza si ritrovò a un
millimetro da quel buco terribile.
Lei si voltò un istante, si specchiò negli occhi crudeli di Chris che
la sovrastava e in quel breve attimo comprese quanto troppo in là si
fosse spinta. «Papà» ripetè a mezza voce; staccarsi dal suo sguardo
le era impossibile. Sarebbe voluta scappare, ma era pietrificata dal
terrore.
Chris avanzò minaccioso. «Vai all’Inferno».
L’afferrò per i fianchi e la gettò nel Pozzo.
Le grida della ragazza vennero inghiottite dal vuoto.

II

«Sì, Malik, è da quelle parti» gli comunicò Jelos dall’auricolare.


Il ragazzone cercava di distinguere le forme nel buio della grande
campagna di Longji nella contea di Lonseng, in Cina. Cercava da
mezz’ora qualcuno che si era schiantato in una delle tante terrazze
di riso; nonostante fosse in un punto rialzato che permetteva di
avere una larga veduta della zona circostante non riusciva a
scorgere nulla di simile a una figura umanoide.
«Hai trovato qualcosa?» e Malik batté due volte sull’apparecchio
per rispondere di no.
Il potere di Karasi aveva permesso loro di individuare un essere
non umano nel raggio di qualche metro da dove si trovava ora lui.
Era stata molto utile e da quando si era unita alla squadra le costanti
ricerche per allargare il gruppo di seguaci si erano velocizzate,
permettendo così l’inserimento di nuove reclute pronte a tutto pur di
seguire Zachary. O, probabilmente, pur di non morire da sole.
Un rantolo strozzato, d’improvviso, lo attirò.
Malik aguzzò la vista e prestò attenzione a dove mettere i piedi,
quindi avanzò in direzione del lamento.
A due metri da lui, nella terrazza sottostante, un corpo scomposto
e gracile era disteso tra l’erba tagliata e ben curata del campo.
Quindi il ragazzo batté tre volte per comunicare la riuscita della
ricerca, si avvicinò e si chinò.
Alla vista di quel volto, sbiancò.
«Benissimo! Dovrebbe essere ancora in vita, ma fa’ attenzione a
come lo sollevi, avrà sicuramente qualcosa di rotto».
Jelos parlò al vuoto, il suo interlocutore nemmeno l’aveva sentito
tanto era grande lo shock per il ritrovamento.
Agatha aveva ancora la forza di respirare, anche se in modo
flebile e irregolare, ed emetteva bassi lamenti. La spina dorsale
doveva essere spezzata in chissà quanti punti, alcune ossa
spuntavano fuori dalla carne delle gambe, le braccia avevano una
forma innaturale. Malik era riuscito a riconoscerne i lineamenti
nonostante il buio: il volto pesto, la testa del tutto rasata e l’aspetto
devastato dalla caduta. “Che ci fai tu qui?” pensò squadrando il
corpo.
Non la vedeva da due anni.

III

Chris si ritrovò da solo, con le mani tremanti per l’eccesso di


adrenalina. Si rese conto di aver perso la cognizione del tempo. Era
da anni che non gettava qualcuno oltre la porta e rifarlo gli diede…
nuova vita.
Nelle orecchie era ancora presente l’eco delle grida di Agatha e,
da questo accompagnato, ripercorse la strada fino alle carceri del
DEM. Il suo unico pensiero era di condannare alla stessa sorte
Cassiel e poi Gabriel. E infine tutti gli altri.
Sì, lo avrebbe fatto quello stesso giorno.
La sua figura scura, con un’espressione esaltata, tornò nei corridoi
bianchi e immacolati del sotterraneo. Le guardie nella sala di
controllo riconobbero in lui qualcosa di pericoloso, non gli rivolsero la
parola e il Serafino fece lo stesso, superandoli.
Quando giunse tra le celle, gli Arcangeli ammutolirono e rimasero
a fissarlo tutt’altro che amichevoli. Che fine aveva fatto Agatha?
«Blanchett, è il tuo momento» disse, e c’era una nota pericolosa
quanto folle nella frase. Sganciò dalla cintura il mazzo di chiavi e
Cassiel non tardò a realizzare quanto fosse in pericolo.
Aveva intenzione di torturarlo fino alla morte? Oppure di ucciderlo
lontano da occhi e orecchie indiscrete? Possibile che il sistema di
sicurezza del DEM fosse tanto corrotto da lasciarlo agire in piena
libertà?
Gabriel batté i palmi delle mani sulle sbarre così forte da farle
vibrare. «Chris, non costringermi a usare la forza».
«Dopo toccherà anche a te» sibilò invece Dunne con un lampo
delirante negli occhi chiari. Con passo strascicato si accostò alla
cella di Cassiel e gli sorrise. La serratura scattò e l’Arcangelo
indietreggiò, incollando la schiena nuda alla parete. «Lasciami in
pace! Per favore!»
Quanto gli piacevano le suppliche! Chris stava iniziando ad
abituarcisi. Era come avere il potere di decidere per la
sopravvivenza altrui, come essere Dio. Lo agguantò per la caviglia e
lo strattonò facendogli battere la nuca sul pavimento, stordendolo
quanto bastava per non avviare una colluttazione. «Tu ora verrai a
fare un giro con me». Quindi uscì dalla cella e prima che le urla e le
proteste degli Arcangeli potessero farsi più forti, si smaterializzò.
«Ora lo ammazza!» esclamò Michael, disperato.
«Non credo proprio» ribatté Gabriel a denti stretti. Afferrò le sbarre
tirò con forza provando ad aprirsi un varco. I palmi bruciarono, ma la
vita di Cassiel era più importante e doveva salvarlo.
Michael sgranò gli occhi e saltò sul posto, investito da
un’improvvisa carica. «Forza Gabe! Esci da lì, puoi farcela!»
«Forza gorilla!» anche Raziel iniziò a tifare per lui, con gli applausi
di Uriel a fargli da sottofondo. «Apri quelle sbarre come faresti col
culo di Chris!»

Il Serafino fu di nuovo di fronte alla voragine.


L’aria gelida gli intirizzì le membra ma lo fece anche sentire vivo
come non mai.
Cassiel si trovò bocconi sull’erba fresca e un calcio improvviso al
fianco sinistro lo destò del tutto.
«Molto meglio smaterializzarsi, non trovi? Più veloce e meno
faticoso di una lunga camminata. Per non parlare dell’ulteriore
disturbo che avremmo arrecato ai cittadini dormienti!» un altro calcio
lo colpì allo stesso fianco. «Credevi che ti avrei permesso di
passarla liscia solo perché le Dominazioni sono troppo lente per fare
giustizia? Io me ne fotto, mi sono stancato di te e dei tuoi compagni.
Vi distruggerò a uno a uno».
Chris infierì con una terza pedata sull’orecchio del francese. Tolse
la giacca e la gettò a terra mentre l’Arcangelo cercava di riprendere il
controllo di sé: questo sollevò lo sguardo tremolante e vide attorno
solo verde e un cielo notturno, le nuvole danzavano insieme alle
stelle, niente case, niente persone. Mise a fuoco il terreno giusto in
tempo per realizzare di essere in una pessima situazione.

Raphael spalancò gli occhi nella piena oscurità di camera sua.


Il battito del cuore accelerato era accompagnato da una orribile
sensazione di disagio che lo costrinse a mettersi seduto e scostare
con nervosismo le coperte. Premette l’interruttore accanto al letto
per accendere la luce e si dissetò con un bicchiere d’acqua
preparato prima di andare a dormire.
Il malessere crebbe troppo in fretta per essere ignorato, fu come
un pugno in faccia.
“Sta succedendo qualcosa, lo sento, lo so” pensò alzandosi di
scatto e andando verso l’armadio.
Non era la prima volta che quella sensazione soffocante gli faceva
visita, e l’ultima volta aveva preceduto la morte da umani sua e di
suo fratello.
Sì, ne era certo: stava accadendo qualcosa a Cassiel.
Fu pronto in pochissimi minuti e non perse tempo in tragitti inutili.
Si smaterializzò al DEM, di fronte alla cella del gemello.
«L’ha portato via!» lo accolse Raziel.
«Chris l’ha preso e si è smaterializzato!» specificò Michael.
Gabriel continuava a forzare le sbarre che avevano iniziato a
deformarsi. Ogni muscolo, nervo, tendine era sotto sforzo.
Anche Uriel parlò: «Devi andare a cercarlo, non è passato molto
tempo, dovresti fare ancora in tempo a salvarlo».
Ma Raphael sapeva già dove il Serafino aveva portato Cassiel e si
sentì ancora peggio al solo pensiero. Deglutì e si smaterializzò.

Chris sovrastò Cassiel con mole e peso, puntandogli un piede


sulla scapola. «Subirai la sorte che tutti i traditori, Lucifer per primo,
hanno patito» gli sputò addosso. «Schifoso bastardo, tira fuori le
ali!»
L’altro sgranò gli occhi, terrorizzato, e cercò di alzarsi in piedi e
fuggire. In risposta ricevette un gancio sul fianco, così forte da
provocargli un senso di nausea.
Dunne, dalla schiena, nascosto dentro alla cinta, estrasse uno
spesso pugnale e si chinò sul malcapitato. Con la mano sinistra gli
tenne la faccia bloccata contro l’erba, con l’altra gli squarciò la
schiena in verticale all’altezza delle scapole.
Il grido di Cassiel riecheggiò in quel luogo pacifico e isolato.
Chris lo accoltellò alla coscia per intimargli di stare immobile.
Riuscì, con non poca fatica, a tirare fuori le due ali superiori e con
furia menò dei colpi precisi contro l’attaccatura.
Un suono di ossa spezzate si unì alle urla di Cassiel e a quelle di
Dunne che inveiva contro di lui con offese e insulti.
Il Serafino gettò via il primo arto martoriato e passò al secondo
senza alcuna pietà: più l’Arcangelo urlava più lui godeva nel ferirlo e
massacrarlo.
Era poi così diverso dai demoni che tanto odiava e ai quali faceva
la guerra?
La seconda ala fu gettata al lato opposto.
Le lacrime rigarono il viso di Cassiel e le suppliche al Signore si
elevavano al cielo, senza però ricevere risposta. Si sentì come
spazzatura, un cane sofferente, abbandonato. Aveva perso un
occhio per il suo dio e i compagni avevano deciso di fraternizzare
con chi gli aveva fatto tutto ciò. Era stato tradito da colei che aveva
sempre amato. Ingannato dai suoi stessi simili. Ma quel che era
peggio era sentire il Serafino, una delle cariche più illustri di tutto il
Paradiso, godere della sua sofferenza, felice di vederlo schiacciato
al suolo e in lacrime come un bambino.
Chris strinse con forza le piume tirandole verso di sé. La terza ala
cadde sulla prima a sinistra e la quarta a destra; il tutto si concluse in
pochi minuti. Accatastate l’una sull’altra, si dibattevano come pesci
in debito d’ossigeno.
Dunne si alzò soddisfatto e imbrattato dalla testa ai piedi come un
macellaio, lo afferrò per i capelli nonostante il sangue scivoloso
rendesse la presa meno salda. Lo trascinò verso la voragine e si
chinò per dargli l’ultimo saluto. «Non sei mai piaciuto a nessuno, sei
l’inutile e stupida copia di tuo fratello. Due sfigati leccaculo, ecco
cosa siete. Non temere, lui ti raggiungerà presto».
E dopo un sadico sorriso, lo gettò nel Pozzo.
Ma Cassiel riuscì ad aggrapparsi al bordo scivoloso, mentre lo
strato di Etere gli bruciava le braccia.
Chris gli pestò le dita con le scarpe. «Molla questa cazzo di
presa!» gli intimò. S’infuriò ancora di più quando le ultime forze del
francese, spinte dall’istinto di sopravvivenza, lo portarono a issarsi
sugli avambracci. La testa bionda del povero martoriato fu a portata
e venne presa a calci.
Cassiel, stordito, scivolò aggrappandosi ancora con le mani.

Raphael si materializzò ai confini del Paradiso, dietro di lui la fila di


immense statue bianche a delimitarne i confini. Col batticuore
osservò ogni dettaglio della zona, poi vide di spalle il Serafino.
«Cassiel!»
Grazie alla luce dell’area fuori da Sila, riuscì a distinguere in
lontananza l’erba sporca di sangue e, con raccapriccio, le quattro ali
bianche del fratello gettate via come immondizia: si dibattevano,
dovevano essere state strappate da poco.
Non riuscì a vederlo e temette di essere arrivato troppo tardi.
Il Serafino si voltò verso Raphael, gli sorrise, pestò le mani della
sua vittima e si smaterializzò.
Si smaterializzò anche Raphael.
Cassiel precipitò.
Raphael si gettò col braccio teso, scivolò sull’erba insanguinata e
per lo slancio quasi cadde anche lui nel Pozzo: il busto ormai oltre lo
strato di Etere che aveva iniziato a bruciargli gli abiti. Non ebbe
nemmeno la forza di gridare il suo nome. Fu spettatore inerme della
sua disfatta, di un corpo straziato che cadeva.
Troppo tardi per salvarlo, giusto in tempo per vedere l’ultima
sfumatura di orrore dipinta sul viso del gemello.

Chris si materializzò al DEM, insanguinato dalla testa ai piedi.


Trovò gli Arcangeli sempre più cupi.
Fissò con occhi sbarrati la cella vuota di Gabriel. Le sbarre
deformate e piegate. «Cane bastardo. Dove è andato?» chiese a
mezza voce.
«Sono qui».
La voce grave giunse alle sue spalle. Il Serafino si voltò alzando la
guardia, ma non fu abbastanza veloce da evitare una testata sul
naso.
Chris urtò una parete con la schiena. Si riebbe dalla sorpresa,
afferrò il coltello insanguinato e con la guardia alta andò all’attacco.
Gabriel indietreggiò per evitare il primo affondo e batté la spalla sulle
gelide grate retrostanti per evitarne un altro. Cercò di allontanare
Dunne con un pugno che non andò a segno, ma riuscì a porre
distanza dall’arma pericolosa. «Sparisci, bastardo».
«Ti ammazzo» ringhiò il Serafino tornando alla carica. Menò un
pugno sul fianco scoperto di Gabriel, approfittando della difficoltà di
muoversi per lo spazio ristretto, e affondò il coltello nell’altro fianco,
dove si aprì uno squarcio profondo.
Raziel allungò le braccia per provare a bloccarlo, non ci riuscì e
rischiò di perdere un dito.
Gabriel lo caricò come un toro furioso, ottenendo un affondo di
lama nel ventre. Indietreggiò, vide il sangue poi incrociò lo sguardo
divertito dell’avversario. Ma il dolore non lo percepì. Tornò all’attacco
e Chris fu ben felice di accoglierlo: piegò sulle ginocchia e con un
sinistro colpì la ferita sul ventre, mentre il destro puntò alla gola
togliendogli il fiato. Chris approfittò di quel momento per affondare la
lama una terza volta nella coscia dell’Arcangelo.
«Siete così deboli» disse con disprezzo e a un altro tentativo
dell’avversario di attaccare, agì con una pugnalata nel petto.
«Chris!» la voce di Holian sovrastò il trambusto dello scontro.
Il Serafino, noto a tutti per la sua freddezza, questa volta
sembrava davvero preoccupato. Sudava freddo. «Dobbiamo andare
via, tu devi andare via, subito» disse, e Chris capì al volo cosa
intendesse. Si allontanò da Gabriel e si smaterializzò, seguito da
Holian.
«Gabe!» Michael si sporse per cercare con lo sguardo l’amico, un
po’ distante da lui. «Come stai?»
«Devo trovarlo» fu l’unica risposta.
«Ma che cazzo dici? Ora si farà scortare dagli amichetti, sono
troppo forti per noi, sopratutto nelle condizioni in cui siamo. E tu sei
ferito!»
Raziel mollò un calcio alla parete della cella. «Liberaci da questo
posto di merda!»
«No» ribatté Uriel. «Gabriel, non ci metteranno molto a riattivare la
sorveglianza e tu verrai in ogni caso etichettato come un fuggitivo.
Noi serviamo qui, avremo bisogno di stare al DEM una volta che ci
faranno uscire».
Gabriel grugnì contrariato.
«Io voglio uscire!» protestò Raziel.
Michael annuì. «Uriel ha ragione. Gabe, vai a Londra e fatti
curare. Se Raphael dovesse farsi vivo gli diremo di venire da te».
L’Arcangelo si voltò verso il turco che, a sua volta, con un cenno
del capo, lo incoraggiò a scappare. «Saluta i ragazzi».
Gabriel scomparve.
12 Novembre 2025 d.C.
Castello di Capricorno, Regno di Trystor – Inferno

L’attenzione del duca andò oltre la merlatura su cui poggiò e la


vista che gli si presentò lo fece ruggire di rabbia.
Erano accerchiati da ogni lato.
Il cielo nero era striato dalle scie rosse delle frecce infuocate,
soffocato dai fumi dell’olio bollente gettato contro gli eserciti nemici
dalle fauci dei gargoyles ricaricati senza sosta.
«Mio signore!» gli gridò una giovane sentinella, imponendogli con
un gesto di chinarsi. Un dardo passò a un millimetro dalla testa di
Capricorno, armata di massicce corna arcuate verso l’alto. Il duca
imprecò furioso, rialzandosi senza timore alcuno. Grosso com’era,
un buon arciere o cecchino lo avrebbe potuto centrare anche da un
miglio o più di distanza. Un vero e proprio colosso a differenza del
fratello Asmodeus.
Puntò lo sguardo ambrato verso le file nemiche in continuo
avvicinamento. Si ammassarono lungo la cinta muraria, riparandosi
dalle frecce con gli scudi alzati sopra le teste. A gruppi di dieci,
approfittando del riparo, si fecero largo tra i compagni trasportando
delle imponenti scale di ferro. Riuscirono a sollevarle e arpionandole
alla pietra, alla base delle mura e sotto la continua pioggia infuocata.
Ma cascate di olio bollente si riversarono lungo tutto il perimetro,
sciogliendo e ustionando qualsiasi corpo vi fosse al di sotto. Le grida
di dolore furono così forti da divenire un’unica voce.
«Ricaricate!» tuonò Capricorno.
«Signore! Sono riusciti a oltrepassare il ponte» strillò una guardia,
correndogli incontro.
«Abbatteteli! Non permettete che arrivino al portone!» gridò in
risposta il duca, spostandosi di fretta sull’altro lato del
camminamento della torre.
Sotto di lui un gruppo di uomini con lo stemma di Anuman
Valentine trainava una grossa testuggine arietaria lunga due metri,
con le fattezze di un cinghiale.
Capricorno serrò i pugni contro la pietra della cinta, le nocche
sbiancarono. «Non devono usare l’ariete! Abbatteteli!»
Gli arcieri incoccarono, tesero gli archi fino allo spasimo, si
sporsero dai bastioni. Puntarono.
Scoccarono.
La pioggia letale si abbatté sulle truppe nemiche, la prima squadra
d’assalto si dimezzò ma fu subito sostituita da una seconda, pronta a
scagliare il primo colpo contro il portone. Una terza si accodò,
ricambiando l’attacco ricevuto.
La prima fila della resistenza fu annientata, alcuni guerrieri
caddero nel vuoto, oltre i merli.
Un forte rumore metallico squarciò l’aria: il primo colpo del
cinghiale contro il portone.
«Avanti, forza!» li sentì gridare Capricorno.
«Non permettetegli di entrare!» sbraitò, spronando i suoi uomini
che, a gran velocità, si fiondarono giù dalla torre per andare a
rinforzare la difesa della porta. «Maledetto Valentine» ruggì tra i
denti.
Dalle caditoie continuava inesorabile la colatura dell’olio bollente.
«August!» Chiamò il regnante a gran voce, rivolgendosi al
capitano delle truppe. Lo raggiunse con ampie falcate mentre usciva
dalla seconda torre. «Voglio il resoconto della situazione, subito».
Quello si passò un panno sul viso stanco e sudato. «Signore, sarò
franco… la situazione è tragica: gli uomini sono esausti, vengono
decimati sempre di più ogni minuto che passa, le scorte di cibo e
acqua iniziano a scarseggiare…»
«Quanto tempo ancora potrà reggere il castello?» ringhiò l’altro,
camminando attraverso la corte, diretto al portone principale. Il
rumore sordo degli zoccoli sulla pietra si unì al fracasso che lo
circondava.
August lo seguì. «A essere sinceri, nemmeno un’ora».
«Ce la faremo, invece! Non permetterò a quei cani bastardi di
prendere il mio regno né il mio castello. Piuttosto la morte!» si voltò
verso l’uomo che a stento gli stava al passo e lo guardò dall’alto
della sua statura. «Raziona le scorte di cibo, una sola pagnotta a
testa, non di più. Il popolo capirà e se così non dovesse essere, fai
in modo che comprendano! Anche con le cattive».
«Come ordinate, signore!» scattò il capitano, correndo verso il lato
opposto per comunicare le nuove disposizioni al tenente.
Capricorno, invece, andò a dare manforte ai guerrieri ammassati
davanti al portone. Salì su un rialzo di legno usato dai balestrieri per
arrivare alle feritoie. Sapeva che non avrebbero retto a lungo sotto i
colpi dell’ariete: era solo questione di tempo. Era anche conscio che
i suoi uomini avevano bisogno di ritrovare la motivazione e il
coraggio, la forza necessaria che avrebbe permesso loro di resistere
fino alla fine.
Il cinghiale metallico urtò l’ingresso per la terza volta.
«Ascoltate!» disse a gran voce Capricorno.
Nessuno perse la concentrazione, ciascuno di loro tese le
orecchie per ascoltare.
«Questo è l’assedio più difficile che il nostro regno abbia mai
affrontato e mi rincresce dirvi che non è la fine, bensì soltanto l’inizio
della guerra». Tacque, passando in rassegna ognuno degli uomini
che aveva di fronte.
Molti erano giovani, nemmeno ventenni, altri oltre i trenta. Tutti
erano spaventati.
Al quarto colpo al portone i cardini iniziarono a saltare.
Serrò i pugni. «Vedo nei vostri volti la paura, la stanchezza e la
fame, ma sappiate che sono fiero di voi. Voglio ricordarvi che
quest’oggi non sarà solo la nostra vita a essere in gioco, ma la vita
dell’intero mondo che conosciamo, che abbiamo imparato ad amare,
nella buona e nella cattiva sorte. Il nostro mondo». Levò in alto la
scure, grande e pesante quanto venti asce dei suoi. «Resistete,
combattete per la nostra terra! Abbattiamo l’usurpatore!
Combattiamo per la libertà!»
L’urlo orgoglioso dell’intero castello si levò in alto fino al cielo,
inglobando l’ennesimo urto. Ma al sesto colpo il portone si infranse e
le truppe di Valentine irruppero con violenza.
«Che gli antichi dèi ci assistano» sussurrò Capricorno.
«Signore, siamo riusciti a entrare nella fortezza: il portone nord ha
ceduto».
«Serrate l’attacco, usate ogni mezzo per distruggere il castello,
voglio vederlo crollare stanotte stessa» ordinò Anuman, cacciando il
soldato con un gesto secco della mano. Lisciò i capelli rosso sangue
ben laccati e inspirò a fondo.
«Alla fine era solo questione di tempo prima che ciò accadesse»
constatò velenosa Nahenia, sdraiata in un letto di cuscini, gustando
un po’ d’uva che le stava porgendo una serva. «Anzi, devo dire che
Capricorno è stato piuttosto deludente. Da come ha sempre vantato
la potenza del suo esercito, pensavo che avrebbe resistito di più. E
invece…»
«Non essere sciocca!» la rimproverò Anuman, fulminandola con
un’occhiataccia. «Ti ricordo che siamo accampati in questo posto da
quasi tre mesi e quel bastardo ha finora respinto non uno, ma ben
quattro eserciti. Da solo. Lui non è Leviatano o Moloch, lui è
Capricorno di nome e di fatto, si è preparato anni per questo giorno,
sapeva saremmo arrivati a questa battaglia e si è organizzato, con i
fiocchi oserei dire». Con nervosismo, si versò da bere.
«Non parlarmi in questo modo, Valentine». Nahenia sedette e
ordinò alla stessa serva di scioglierle la lunga treccia bionda per
cambiare acconciatura. «Avrà anche tali attributi, ma rimane pur
sempre una grande delusione».
Solomon, dai lunghi capelli neri, seduto poco distante dalla
marchesa, si intromise rivolgendosi ad Anuman: «Pensi che
Capricorno alzerà bandiera bianca?»
«No, non cederà. Conoscendolo preferirebbe di gran lunga farsi
ammazzare e io non vedo l’ora di poterne avere l’onore».
«Lasciamene un pezzo» ribatté l’altro. «Desidero appendere le
sue belle corna alla parete, starebbero bene come trofeo di caccia».
La marchesa rise lanciandogli un acino d’uva, e una volta attirata
la sua attenzione lo incoraggiò a raggiungerla con un gesto e
un’espressione sensuale del volto.
Solomon si alzò dalla cassapanca su cui sedeva, dimenticò la
mela per metà sbucciata e addentata per occuparsi di qualcosa di
più interessante. Rimise il coltello nello stivale e si parò di fronte alla
demonessa che lo osservava con desiderio.
Lei allontanò la serva e invitò il barone a inginocchiarsi ai suoi
piedi. Osservò i suoi muscoli costretti dentro gli abiti, il petto
vigoroso, il collo taurino. Le bastò un solo sguardo per fargli perdere
il controllo. Il demone l’afferrò per una caviglia trascinandola a sé, si
accomodò tra le sue gambe, si sporse afferrandole un seno e la
baciò con forza. Slacciò la cintura e calò i pantaloni, mentre la
marchesa sollevava in fretta e furia gli strati dell’abito.
Anuman non batté ciglio, abituato ai loro improvvisi momenti di
passione. Si concentrò sul fuoco acceso al centro della tenda dentro
un braciere e non permise ai gemiti di piacere dei due amanti di
distrarlo. Sorseggiò dal calice.
Rimuginava.
Era consapevole della tenacia di Capricorno, ma sapeva anche
che non avrebbe potuto reggere ancora a lungo un assedio di tale
portata. “È solo questione di tempo…” si disse.
Le fiamme lo ipnotizzarono, quasi gli sembrò di vederle ballare
con le sembianze di abili danzatrici. La luminosità gli ferì gli occhi,
ma non riuscì a smettere di osservarle. I pensieri erano senza freni.
“Lucifer otterrà ciò che desidera, i ribelli cadranno insieme alla loro
speranza e tutti quegli inutili ideali. Coloro che si pongono contro la
corona saranno eliminati. È solo questione di tempo…”
Strinse il bracciolo della seduta di legno, il freddo pungente
dell’esterno penetrava attraverso i lembi mal chiusi della tenda,
intirizzendogli il collo.
Sapeva che avrebbe vinto la guerra, eppure una cupa sensazione
non gli permetteva di stare tranquillo. Posò il calice vuoto sul tavolino
circolare accanto a sé, si massaggiò il volto stanco. “È solo
questione di tempo. Moriremo tutti”.
Un fratello da salvare

«Per favore! Aiutatemi!»


Una voce maschile al piano terra svegliò gli inquilini di villa
Fletcher.
Odry fu la prima a presentarsi scendendo rapida le scale in
quanto, anche quella notte, non riusciva a dormire.
Venne seguita da Satan che faticò a realizzare cosa stesse
accadendo. Il demone inorridì nel vedere Raphael imbrattato di
sangue, bianco come un lenzuolo, con i capelli sciolti e in disordine;
Odry gli andò incontro. «Che è successo? Sei ferito?»
«Cassiel». L’Arcangelo l’afferrò per le spalle. «Cassiel è stato
buttato sulla Terra!»
«Dobbiamo trovarlo». Odry si liberò dalla presa di Raphael per
raggiungere la postazione di schermi e dispositivi in soggiorno. Iniziò
a pigiare con rapidità sulla tastiera. Gli occhi passavano in rassegna
i monitor che scandagliavano mappe e, in sequenza, aprivano file
dopo file e programmi con scritte incomprensibili.
«Tu quindi non sei ferito?» domandò Satan avvicinandosi all’altro
che, sconvolto, non badò alle sue parole, continuando piuttosto a
fissare il lavoro misterioso della demonessa. «Che cos’hai in mente
di fare per trovarlo?» chiese infatti.
Dalle scale sopraggiunsero anche Vicky e Karen, allarmate.
La rossa si grattò il naso senza distrarsi. «Se Cassiel è caduto nei
pressi di un portale, posso rilevare la sua posizione, anche solo in
modo approssimativo, seguendo le frequenze elettromagnetiche che
emettono i portali quando sono in fase di attesa. Se nessuno li usa
per entrare o uscire, rimangono in stand by e questo, forse, potrebbe
aiutarci. Rilevano qualsiasi altra forma di energia nei paraggi e se
trovassi anche solo uno di questi con una minima anomalia,
potremmo partire subito».
Raphael decise di sederle accanto e lei sentì un particolare
profumo di ginepro nero misto all’odore ferroso del sangue. «Avevi
detto che l’Etere ti serviva per manomettere i portali, come è
possibile che invece funzionino? Inoltre potrebbe essere in fin di
vita» commentò il francese.
«Perché i portali variano da Inferno, Terra e Paradiso. Noi
abbiamo disattivato le vie di accesso a tutti quelli collegati tra Terra e
Inferno ma non tra Terra e Paradiso. Spero si trovi nei pressi di uno
di quelli» ribatté Odry.
L’Arcangelo si sentì tirare per la maglia: Georgie, giuntagli
accanto, lo fissava con intensità. «Posso cercarlo con voi? Voglio
renderti il favore, tu ti preoccupi sempre per me» disse preoccupata.
Lui alzò la mano per accarezzarle la testolina, ma si trattenne per
non sporcarla di sangue. «Mi aiuterai a curarlo quando lo riporterò
qui, va bene?»
Satan sorrise con dolcezza e così fecero Vicky e Karen.
«Lo faccio io». Ania si avvicinò piano, mise una mano sulla testa
di Georgie. Guardò Karen che capì al volo e portò via la piccola nelle
camere al piano superiore.
«Dammi il tuo sangue e vedrò di cercare tuo fratello» aggiunse
poi, aprendo una nicchia nascosta nella libreria. E sotto lo sguardo
meravigliato dei presenti, scrollò le spalle. «Qui ci tengo gli artefatti
magici, è sempre meglio non averli a portata di mano o in vista».
Prese una grande tavola ovale di legno nero con bordi spessi e
rialzati di tre centimetri – antica a giudicare dalle condizioni e dalla
fattura – con alcune rune incise a crudo. Porse a Raphael un
coltello. «Fanne colare quanto più ti è possibile». Nel frattempo, si
strofinò i palmi con del sale grosso.
Satan sedette sul bracciolo del divano, incredulo. Vicky avrebbe
voluto avvicinarsi, ma il buonsenso glielo impedì.
Il francese non ci pensò due volte. Con un gesto preciso e veloce
si provocò un taglio nel palmo della mano. Piegò un lato della bocca,
dolorante, e premette per far colare il sangue, imbrattando per una
buona parte la tavola.
Intanto la giovane aveva disposto in una ciotola metallica tre erbe
e tre unguenti profumati. Si mise in ginocchio, accese due candele
bianche disposte a destra e a sinistra e chiuse gli occhi,
concentrandosi. «Il sangue dei gemelli è tra gli ingredienti più potenti
che si possano usare in un rituale» disse. Lo fece ondeggiare in
maniera ipnotica all’interno della tavola.
Odry, Satan e Raphael si guardarono in silenzio e Vicky rabbrividì.
Ania iniziò a recitare una strana litania. Aprì gli occhi per
accendere un fiammifero e gettarlo nella ciotola metallica: il fuoco
bruciò erbe e unguenti liberando un denso fumo bianco. Poi mischiò
le ceneri ancora calde col sangue, continuando a recitare quella che
sembrava essere la formula di un incantesimo. Proseguì così per un
minuto, poi i suoi occhi divennero bianchi.
Satan e Vicky trasalirono, Odry la fissava con stupore, Raphael
era piuttosto corrucciato.
«Lo sento, è flebile…» comunicò Ania.
«È ancora… vivo?» sussurrò l’Arcangelo tremante per la tensione.
La giovane annuì piano. «È difficile, non riesco a mettere a fuoco
nulla di lui, sento che è vivo ma non riesco a spingermi più in là».
Corrugò la fronte. «Non riesco a individuarlo, non capisco perché,
eppure sento che ci sono vicina». Continuava a far vorticare gli
ingredienti.
L’attenzione dei presenti si spostava da lei agli oggetti del rituale.
La speranza di Raphael era grande.
Odry tornò a scrutare i monitor che illuminavano la parte di salotto
nella quale lei e Raphael erano seduti.
«Ci sono quasi» annunciò Ania, con gli occhi bianchi fissi nel
vuoto. «Odry, cerca a nord–est».
Le dita della rossa procedettero sulla tastiera. «Non vedo nulla».
Ania poggiò in malo modo la tavola sul pavimento, facendo
sobbalzare tutti. Si mise in ginocchio e vi immerse le mani: il livello
del sangue iniziò a salire, come se una fonte misteriosa e invisibile
stesse riempiendo il contenitore ovale. Iniziò a cercare tastando il
fondo, come se le sue dita potessero percepire il territorio e
permetterle di trovare Cassiel. «Odry. Cinquantanove gradi più a
ovest».
«Non trovo un cazzo!»
«Forza!» le incoraggiò Raphael.
«Trovato!» Ania e Odry urlarono all’unisono, facendo trasalire sia
Vicky che Satan.
«Dove?» domandò il francese scattando in piedi.
Ania uscì dallo stato di trance e si tamponò il sangue che le colava
dal naso con la manica della felpa; con limpida sicurezza negli occhi
dorati, rispose: «In India, nel Rajasthan, in mezzo al deserto».
«Vado subito, ha bisogno d’aiuto».
Ma la rossa annunciò: «Raphael sappi che non sarai solo. Ci sono
altre persone in avvicinamento rapido, il portale sta captando altre
frequenze».
Satan si alzò con impeto: «Dobbiamo sbrigarci!»
Vicky rimase con Ania, gli altri si smaterializzarono.

II

Odry teneva tra le mani il piccolo palmare che segnava le


posizioni con delle icone azzurre lampeggianti. Furono investiti da un
forte vento carico di sabbia che sferzò i loro volti con prepotenza.
«Come facciamo a trovarlo? Siamo nel bel mezzo di una tempesta di
sabbia» urlò coprendosi il viso con le mani.
Raphael si posizionò di fronte ai due demoni e aprì le ali per
proteggerli, schermando gli occhi con l’avambraccio sinistro.
«Dovrebbe essere qui da qualche parte!»
«Non riesci a percepirlo in alcun modo?» domandò Satan,
avvicinandosi a fatica.
L’Arcangelo non rispose, troppo concentrato a capire cosa
vedesse: una macchia nera in movimento, illuminata in parte dalle
prime luci dell’alba orientale. «Forse ho visto qualcuno!»
«Dobbiamo muoverci!» lo incoraggiò Odry.
Raphael avanzò. Riuscì a mettere a fuoco e la macchia scura
cominciò ad apparire tutt’altro che un’unica entità: Odry aveva
ragione, c’era davvero qualcun altro in quel posto.
Due persone stavano chine su una terza che giaceva inerme. Uno
dei due, grosso quasi quanto Gabriel, proteggeva con un panno il
volto dell’uomo disteso, mentre l’altro sembrava parlargli.
Raphael accelerò la sua andatura. «Lo vedo!»
Satan, seccato da tutta quella sabbia, si fermò. «Tenetevi pronti ad
agire, non riuscirò a controllare la tempesta per molto» e, detto ciò,
chiuse gli occhi, alzò le braccia di fronte a sé e si concentrò.
Per qualche istante sembrò non accadere nulla e lui era immobile,
ma quando riaprì gli occhi, neri, ogni singolo granello di sabbia
trasportato dal vento rimase sospeso nell’aria.
«Sbrighiamoci, non resisterà a lungo» intervenne Odry. Lo
sconosciuto prestante, biondo, vestito di nero e con la bocca cucita,
stava accanto a un uomo che avrebbe voluto incontrare solo per
ucciderlo: Zachary.
Aveva i capelli poco più lunghi e una ricrescita rossa non più ben
coperta dalla tinta castana.
«Tu!» tuonò la ragazza. Aprì i palmi con rabbia ed evocò il fuoco
amarena.
Zachary si voltò verso di lei. «Odry, non ora».
In risposta la ragazza, in preda alla collera, lo investì con una
vampata.
Zachary resistette all’attacco e si chinò su Cassiel; Odry si rese
conto di non poterlo più colpire con tanta forza, altrimenti avrebbe
rischiato di far del male all’Arcangelo.
«Non sapreste come trattarlo; io me ne occupo da anni, ormai»
disse il demone.
«Stagli lontano, lurido bastardo traditore!» Odry tentò una
fiammata più alta, ma sapeva che sarebbe stato uno scontro ad armi
pari. E nessuno dei due voleva far del male a Cassiel.
Satan era ancora lì, distante dallo scontro, che cercava di
trattenere la tempesta di sabbia con sempre maggiore difficoltà,
mentre seguiva distratto ciò che accadeva.
Zachary si era dapprima circondato di una fiamma scura e aveva
avvolto Cassiel, sollevandolo tra le braccia, poi l’aveva spenta per
impedire alla sorella di attaccarlo, altrimenti lei avrebbe rischiato di
uccidere il caduto in condizioni già disastrose.
Raphael e Malik combattevano l’uno contro l’altro: il primo, armato
e in netta superiorità, aveva provato a raggiungere il fratello, ma il
secondo gli aveva sbarrato la strada. L’Arcangelo non poté fare nulla
e, intanto, Malik continuava a tenerlo lontano, minacciando anche
Satan, sempre più sfinito.
«Carogna! Lo usi come scudo!» strillò Odry.
«Devo proteggerlo» rispose Zachary, laconico.
«Non è compito tuo! Lascia stare mio fratello!» Raphael si
distrasse e un pugno ben assestato nel pomo d’Adamo gli mozzò il
fiato, facendogli anche perdere l’equilibrio e cadere in ginocchio sulla
sabbia.
Zachary ormai aveva ben stretto a sé Cassiel, e guardava Odry
con uno strano, malinconico, sguardo. «È giusto che vada così,
sorellina».
Odry, accecata dall’odio, infiammò gli avambracci e gli occhi le
brillarono di un viola intenso. Tentò un disperato attacco
scagliandogli contro una cannonata di fuoco, ma una fiammata nera
avvolse lui e Malik che si dissolsero in pochi istanti assieme
all’Arcangelo ferito.
La tempesta tornò ad abbattersi sul luogo desolato.
L’attacco della demonessa aveva raggiunto temperature tanto alte
da trasformare la sabbia in vetro e Raphael riuscì, appena in tempo,
a mettersi di fronte a lei con le ali spiegate. I piccoli ma taglienti
frammenti di vetro si infransero e penetrarono nelle ali
dell’Arcangelo.
«Dobbiamo andare via subito!» gridò Satan.
Odry sembrava essersi persa dentro se stessa e non sentì le
parole dell’amico.
Se l’era fatto sfuggire di nuovo. Per la seconda volta aveva
anticipato le sue mosse portandosi via qualcosa di importante.
La frustrazione la rese sorda finché Raphael l’afferrò per un
braccio e insieme a Satan si smaterializzarono.
Ricomparirono nel salotto della casa di Londra dove, ad attenderli,
vi erano Vicky, Ania e… Gabriel.
L’Arcangelo era disteso sul divano: quattro centimetri di barba, il
capo poggiato su un cuscino, i piedi sul bracciolo, il petto nudo
insanguinato.
Accanto a lui, Karen lo ripuliva con mano tremante e grande
concentrazione.
Satan diede un colpetto a Odry sul braccio invitandola a
riprendersi e lei, come richiamata alla realtà, scosse la testa, sbatté
le palpebre e, alla vista dell’Arcangelo, incredula, si bloccò.
Erano passati mesi dall’ultima volta che aveva visto Gabriel e
trovarselo di fronte la destabilizzò. Ma le gambe si mossero da sole,
si gettò su di lui posandogli le mani sulle guance. «Gabe… che ti è
successo?»
«Mi sono fatto…»
Ma Raphael lo interruppe: «Chris ti ha fatto uscire per ucciderti?»
«Sono uscito da solo».
«Alla fine hai davvero deformato le sbarre della tua cella… Karen
lascialo a me, occupati di Satan».
«Hai deformato…?» Odry ammutolì e Karen la prese per le spalle
facendola spostare per lasciare al francese lo spazio per lavorare.
«Gabe» disse flebile e lui le dedicò un sorriso rassicurante.
Raphael sostituì l’umana pulendo le lacerazioni del collega.
«Perché lo hai fatto?»
«Per provare a salvare Cassiel».
«Chris l’ha buttato giù e Zachary l’ha rapito». Raphael fu tagliente,
dentro soffriva più che mai.
Gabriel spalancò gli occhi puntandoli su Odry che annuì tetra e
aggiunse: «Sono arrivati prima di noi».
Satan si coricò sulla poltrona, esausto e con tremiti evidenti agli
arti tanto che Karen gli porse un bicchiere con acqua e zucchero.
«Se Zachary non fosse stato certo della sopravvivenza di Cassiel,
non l’avrebbe portato via» considerò Raphael. «Cosa vuole farci?»
«Non ne ho idea. Mi ha detto: “È giusto che vada così sorellina”.
Non ho idea di cosa intenda, ma sono certa che ha un piano in
mente» spiegò la rossa.
«Però è un bene per un certo verso, no?» Avanzò Vicky. «Lo
rimetterà in sesto e poi potrete riprenderlo».
«Penso la stessa cosa» ammise Raphael «ed è l’unico pensiero
che mi aiuta a restare positivo».
«E se invece lo usasse per qualcos’altro? Stiamo parlando di
Zachary, non è certo un buon samaritano» continuò Odry, sentendo
la rabbia montare insieme a quel fastidioso calore che non la faceva
dormire la notte.
«Ha anche detto che è una cosa di cui si occupa da tempo,
immagino si riferisse al fatto di raccogliere angeli caduti» commentò
Raphael. «Non penso si sia limitato a curare i disgraziati per tutto
questo tempo».
«Vorrà creare un esercito?» azzardò Satan preoccupato.
«Un esercito?» lo canzonò Vicky. «Ha già ottenuto ciò che voleva,
ovvero il Graal. Perché dovrebbe voler creare un esercito?»
Raphael scosse il capo. «Non so quanto possa essergli utile un
esercito di angeli caduti. Non hanno ali quindi non possono volare.
Non so se possano smaterializzarsi e molti di loro, dopo la caduta,
rimangono menomati».
«Lo ucciderò, fosse l’ultima cosa che faccio in questa vita»
borbottò Odry avvicinandosi ancora al divano. Avere Gabriel a così
pochi passi da lei, ferito, senza poterlo toccare, la faceva star male
più di quanto già non stesse. Inoltre, tanti dubbi arrivarono a
disturbarla ancor di più.
Cosa avrebbe potuto fare l’Arcangelo ora? Sarebbe stato rischioso
per lui tornare in Paradiso?
Una preoccupazione futile si sovrappose alle altre portandola a
distogliere lo sguardo da lui: come si sarebbe dovuta comportare nei
suoi confronti? Preoccuparsi così tanto sarebbe stato fuori luogo?
Gabriel non la guardava, fissava una suppellettile in uno dei tanti
ripiani della libreria per distogliere l’attenzione dal dolore che le
suture di Raphael gli arrecavano.
«D’accordo, adesso dobbiamo riposare, Gabriel e Raphael più di
tutti». Satan si alzò piano. «Raph tu puoi prendere la stanza di
Belial, lui è bloccato Giù, all’Inferno, e…»
«E Gabe può prendere la mia» lo precedette Odry, ignorando gli
sguardi apprensivi dell’amico. «Dormire è un lusso che non posso
più permettermi, resterò qui a lavorare».
Entrambi gli Arcangeli ringraziarono; il francese aiutò con cautela il
collega ad alzarsi e con la rossa lo accompagnò al piano di sopra,
nonostante le proteste di Gabriel per fare da solo.
Odry sistemò lenzuola e cuscini che erano in totale disordine.
Afferrò tutti i quaderni e i fogli zeppi di calcoli sparsi per la stanza e li
poggiò sulla cassettiera, in imbarazzo.
Tra lei e Gabriel, ormai soli, era piombato uno spesso disagio.
Probabile che nemmeno lui sapesse come rapportarsi con lei visto
come si erano lasciati e tutti i mesi passati dietro le sbarre. Odry non
era mai riuscita a gestire situazioni simili. «Scusa, c’è ancora un po’
di casino, ma ora puoi stenderti» disse facendo attenzione a non
guardarlo.
Lui annuì e si sfilò le scarpe. Portò le mani a slacciare i pantaloni,
quando un improvviso senso di pudore glielo impedì. Si affrettò a
cercare qualsiasi argomento per allentare la tensione. «Appena
possibile parlerò con Raphael per capire come comportarmi».
«Dovresti, la tua posizione è pericolosa e occorre pensare a un
piano a mente lucida. Speriamo di avere il tempo necessario». La
rossa accennò un mezzo sorriso. «Ora ti lascio riposare» e senza
attendere oltre, si chiuse la porta alle spalle lasciandolo solo.
Gabriel, con amarezza, sedette di peso sul letto, si portò una
mano sugli occhi e sospirò.

«Seguimi» disse Vicky «devi riposare, hai un aspetto di merda».


«Posso anche andare a casa mia, non preoccuparti» ribatté
Raphael.
«In questa sei al sicuro, lì no, qui è meglio» la succube salì le
scale e gli fece cenno di seguirla. «Ti detesto per il novanta per
cento del tempo, ma Cassiel ti ama e io devo in qualche modo
ricambiare il favore» aggiunse sul pianerottolo. Fu disarmante e lui
non osò ribattere.
Solo quando furono nella stanza di Belial, domandò: «Perché sei
andata a letto con lui?»
«Cassiel è tanto solo e incompreso e anche tu lo sei, a me queste
cose non sfuggono». Chiuse la porta e andò ad aprire l’armadio per
cambiare federe e lenzuola. «Perciò ho pensato che aiutarlo a
sbloccarsi, facendogli provare qualcosa di nuovo, potesse in qualche
modo aiutarlo a vivere meglio».
«Capisco. Lui si lega subito alle persone, soprattutto alle donne e
tu e Agatha lo avete come… incastrato, senza volerlo, immagino»
aggiunse sistemando gli occhiali sul naso.
«Dovresti smetterla di paragonarmi a quella, sto cercando di
aiutarti, Raphael». Vicky lo guardò seria. Sistemò le lenzuola
gettando da un lato quelle sporche e si accinse a cambiare anche la
federa. «Resta qui, nel tuo mondo non sei al sicuro, almeno non con
quel pazzo in libertà» aggiunse tradendo una velata preoccupazione.
«Non posso, devo tornare e cercare di incastrare Chris,
proteggere Uriel e gli altri, ma più di tutto voglio tenerlo sotto
controllo e alla larga da voi».
«Sappiamo cavarcela, nemmeno Sergei è riuscito a metterci fuori
gioco e non lo farà di certo lui. Almeno rimani fino a quando non ti
sarai ripreso, hai ferite ovunque».
«Tu non capisci, è questione di tempo e loro sono soli, bloccati
lì…»
Vicky gli mise le mani sulle spalle fissandolo con i suoi occhi felini.
«Basta, Raphael. Tu non stai bene e ti faresti ammazzare, non è
questo il modo di aiutare i tuoi amici. E dovresti solo dire “grazie
Vicky” anziché ribattere ogni dannato argomento. Non fai altro che
preoccuparti per gli altri, senza renderti conto che stai trascurando te
stesso». Era granitica e non avrebbe ammesso un’altra mezza
parola. Gli prese la mano e lo tirò appena, convincendolo a sedersi.
«Vado a prendere le pinzette e una bacinella». Si dileguò facendo
ritorno pochi istanti dopo. Trovò il francese con la testa tra le mani:
non l’aveva mai visto tanto vulnerabile: «Lo ritroveremo, vedrai, lo
riporteremo a casa».
L’uomo respirò a fondo, accogliendo il conforto che Vicky riusciva
a dargli in un momento così disperato. «Non capisco dove ho
sbagliato. Forse, se mi fossi mosso prima, non saremmo a questo
punto».
La succube sospirò sedendogli alle spalle, al centro del letto.
«Non hai sbagliato nulla. Ti stai incolpando inutilmente per qualcosa
su cui non hai mai avuto potere. Devi rassegnarti al fatto che c’è
sempre qualcosa di più grande di te».
Raphael riconobbe la durezza di quelle parole. Tacque.
«Ora cerca di stare fermo, farò più in fretta che posso».
Il primo ticchettio del vetro contro la plastica diede il via a una
rimozione che si rivelava già lunga e faticosa.
«Sei stato molto coraggioso a difendere Odry da se stessa.
Questo lo ha fatto lei non è vero?»
«Sì… ma è il minimo. L’avrebbe fatto chiunque».
«Sai molto bene che non è vero».
«Ci sono angeli buoni e angeli crudeli».
«Proprio come i demoni, pensa un po’!»
«Già…»
«Non biasimo i tuoi pregiudizi nei nostri confronti, ammetto di
esserlo stata a mia volta, ma mi sono ricreduta vedendo Gabriel,
conoscendo Michael e Uriel, ma soprattutto con Cassiel che non si è
mai curato delle apparenze. Insomma, una donna con le corna e la
coda non piace a chiunque».
«Non mi hai nominato».
«Fatti due domande».
Tra i due calò il silenzio, spezzato solo dal ticchettio delle schegge
che cadevano sul fondo della bacinella.
«Vuoi compagnia stanotte?» chiese d’un tratto la succube.
Gliel’aveva chiesto sul serio? Raphael rimase interdetto e impiegò
qualche secondo prima di rispondere. Si voltò verso di lei,
corrucciato quanto spaesato. «Perché me lo domandi?»
«Non voglio sedurti».
«Non hai risposto alla mia domanda».
«Pensavo avessi bisogno di compagnia» Vicky fece spallucce.
«Certo che potresti ringraziare di tanto in tanto, ti avrei fatto solo un
favore».
Raphael abbassò la testa, annuì tra sé, tornò a sedersi composto
e tolse gli occhiali per pulirli con un panno che aveva nella tasca.
Vicky immaginò stesse pensando a qualcosa di specifico.
«Sai, Cassiel ha detto di amarti». L’espressione dell’Arcangelo si
incupì e un senso di dispiacere lo assalì.
«Io no. Forse ho davvero sbagliato ad andare a letto con lui,
volevo tutto tranne che illuderlo». Vicky scosse il capo con dissenso.
«Ma non penso tu sia così ingenuo da credere il contrario. So che
hai capito che tipa sono».
«Lo so, lo so bene. Nonostante siamo esseri superiori anche noi
sbagliamo, come gli umani. Quindi non preoccuparti».
«Il fatto è che l’hai protetto fin troppo, mi sorprende che uno come
lui sia diventato Arcangelo. Non prenderla male, sono sincera: potrà
essere forte e valido, ma non conosce il mondo e la realtà, oppure
non la vede come la vedono le persone normali».
«Tieni a freno la lingua» l’Arcangelo fu tagliente e Vicky ricambiò
con ben poca delicatezza nell’estrarre le successive schegge.
Eppure aveva ragione. L’aveva tenuto in una campana di vetro
perché lo considerava incapace di affrontare la realtà. Si sentì un
mostro, aveva rovinato suo fratello, lo aveva mandato al macello.
«Ecco l’ultima!» esclamò Vicky dopo un’ora di silenzio. «Mi merito
un pezzo di torta di Karen. Tu…»
Ma il francese si alzò di scatto, interrompendola. Si fece vicino
all’uscita, invitandola ad andarsene. «Grazie, ho bisogno di
riposare».
La demonessa aggrottò le sopracciglia, lo squadrò e scodinzolò
nervosa. Buttò le pinzette nella bacinella, si alzò e gliela passò in
malo modo, facendo quasi saltare via i frammenti di vetro all’interno.
«Ti auguro di dormire di merda». E sbatté la porta con violenza.
Raphael la chiuse a chiave, tolse gli occhiali da vista e li pose
sulla cassettiera. Si appoggiò su di essa con le mani, chiuse gli
occhi. Respirò a fondo più volte per provare a rilassarsi e per
sopprimere la profonda insicurezza. Non ci riuscì. Spense la abat–
jour e la camera sprofondò nell’oscurità.

III

“Non riesco a dormire” fu l’ultimo pensiero di Gabriel prima di


alzarsi dal letto, con assoluta cautela. Accese la luce e si prese
qualche attimo per studiare la stanza. La sveglia sul comò segnava
le due, era ancora notte. Il profumo di Odry era ovunque, tra le
lenzuola, nelle federe… Non si era mai ritrovato a osservare i suoi
effetti personali da vicino: regnava un apparente disordine, che a
uno sguardo attento mostrava, invece, un personale senso logico.
Afferrò una maglia abbandonata sulla poltrona, accarezzò la stoffa
perché era troppo codardo per fare lo stesso su di lei. Si soffermò
sul vetro della finestra che era stato ricoperto di calcoli ed equazioni
con un pennarello nero. Sorrise tra sé, affascinato. Per un attimo
vide anche il proprio riflesso: finalmente era riuscito a radersi; i punti
coperti dalle garze non avevano ripreso a sanguinare. “Meno male”
pensò.
Sapeva che più si fosse concentrato, più avrebbe colto dettagli
che lo avrebbero reso inerme di fronte a lei. Poggiò la maglia, si alzò
e aprì piano la porta temendo potesse cigolare; una volta fuori, la
sua attenzione venne attirata da una fioca luce bluastra proveniente
dal soggiorno. Pensò subito a Odry.
Scese le scale e i passi pesanti portarono la demonessa a
staccare lo sguardo dallo schermo del computer.
«Solita insonnia?» domandò lui.
«Peggiorata, oserei dire». Odry sollevò gli occhiali da vista sulla
testa e si massaggiò gli occhi. «Tu non dovresti muoverti dal letto» lo
canzonò, voltando la sedia a ruote e tornando a prestare attenzione
ai monitor.
«Non riesco a dormire». Il pensiero di non essere riuscito ad
aiutare Cassiel non gli aveva lasciato prendere sonno. Le sedette
accanto. «Che stai facendo?»
«Cerco di rimettere in funzione il generatore che Karen ha
danneggiato. Belial è rimasto bloccato all’Inferno e non mi darò pace
fino a quando non lo avrò recuperato, anche se stavolta sarà più
difficile del previsto» sospirò, spostò il cursore e rimpicciolì la finestra
con i dati di programmazione del software. Ora vi era solo una
cartina dell’Inghilterra. Un puntino rosso su di essa attirò per un
istante lo sguardo di Gabriel.
«Perché diavolo Belial è lì sotto?» domandò allarmato. «E poi
perché è bloccato? È stato catturato?»
Odry si lasciò andare sullo schienale di pelle imbottito della sedia.
Prese coraggio e lo guardò, il cuore le cadde nello stomaco.
Scosse la testa, emanò profumo di cannella e ciliegia che investì
Gabriel e sentì che gli era mancato da morire. «Il popolo è in rivolta,
in questi mesi abbiamo mandato dei messaggi tramite Belial per
mobilitare la Capitale contro Lucifer; abbiamo dovuto spedirlo lì
perché non bastava più una semplice faccia sullo schermo, il popolo
necessitava della sua presenza fisica, stava passando per codardo».
Prese un sorso di whisky dalla tazza. «Il collegamento si è interrotto
nel momento in cui tutti hanno attaccato i cancelli del Quartier
Generale. C’è stato un cortocircuito sui miei sistemi. Non abbiamo
più sue notizie da quel giorno».
«È un ragazzino… non potevi mandare Satan?»
«Sarei andata io stessa, ma avevano bisogno del loro principe».
«Ma ci sono altri portali! Perché non ne usa uno per tornare sulla
Terra?»
«Non ho deciso di mandare Belial all’Inferno solo per incitare le
folle, ma anche per mettere fuori uso il portale primordiale con
l’Etere. Se il ragazzino non è tornato, due sono le possibilità: o c’è
riuscito, e quindi tutti i portali che permettono di entrare e uscire
dall’Inferno sono fuori uso, e Lucifer è relegato Giù, oppure è stato
ammazzato da suo padre. E prego ogni giorno che l’opzione giusta
sia la prima».
«E tu? Come stai dopo ciò che è successo con… tuo fratello?»
Odry si morse le labbra e rimase in silenzio per diversi istanti, nei
quali il disagio tra lei e Gabriel pesò come un macigno. «Come pensi
possa stare? Voglio solo avere l’occasione per farlo fuori, puoi stare
certo che lo ammazzerò con le mie mani, a costo di crepare io
stessa per questo».
L’Arcangelo scosse il capo. «Zachary avrebbe potuto osservarci
da lontano, invece ha preferito infiltrarsi ed entrare in contatto con te.
Penso che in questo fosse sincero».
Lei tacque. Rimuginò sulle parole di Gabriel. «No, Zachary è
subdolo e astuto, sono del parere che non sia mai stato sincero, ma
che ci abbia fatto credere il contrario solo per arrivare al Graal».
«Quindi pensi ti abbia solo sfruttata per stare nel gruppo».
«Lo ha fatto con tutti, ma ha giocato bene la carta del gemello
scomparso».
L’Arcangelo si mise più comodo, poggiando la schiena. «Mi
dispiace che tu abbia affrontato la sua scomparsa da sola. Cioè, non
che fossi sola, però, voglio dire… mi dispiace». Distolse lo sguardo
per evitare di vedere quello perplesso della demonessa, la quale
annuì piano, giocando nervosa con la catenina che aveva al collo.
«Posso dire lo stesso per te, Raphael ci ha raccontato tutto:
dall’arresto alla detenzione».
«Sì, è stata una vera seccatura. In cella non ci davano abbastanza
cibo e ho perso molte energie…»
«Sei dimagrito e hai il viso molto provato, ma qui ti riprenderai».
«Sì. Voglio anche ricominciare con gli allenamenti. Mi inventerò
qualcosa».
Lei riprese a lavorare al computer, cercando di distrarsi
dall’imbarazzo che stava crescendo. Ma Gabriel tornò alla carica con
un ultimo tentativo di dialogo. «Carina la collana. Chi te l’ha
regalata?»
«Satan, due settimane prima che Belial partisse per l’Inferno».
Ci fu altro silenzio.
Ciò che c’era stato era andato perduto? C’era mai stato, in effetti,
qualcosa tra loro?
Gabriel decise di farsi più vicino.
Odry si irrigidì e non riuscì a resistere: si voltò a guardarlo di
nuovo, nonostante sentisse un vuoto nello stomaco. Aveva bisogno
di tenere un contatto visivo con lui. In quel momento le sembrò di
vederlo per la prima volta. Era sempre stato così profondo il blu dei
suoi occhi? Vi si perse. Gli osservò il naso e la lieve gobbetta frutto
di una vecchia frattura; notò alcune cicatrici e il tatuaggio in
enochiano sullo zigomo sinistro, poco sotto l’occhio verso l’esterno.
Anche lui la osservava, lo sguardo era indecifrabile. Le sorrise.
Il respiro le si fermò.
Tre mesi lontani, tre mesi di completo silenzio. Non si erano
lasciati nel migliore dei modi ed era forse questo a scombussolarla.
E Gabriel? Avrebbe voluto farsi ancora più vicino, ma sarebbe
stato il caso? La donna di fronte a lui aveva un’espressione strana.
Cosa significava? Era concentrata su di lui: per quale motivo? I
pentacoli incisi nel celeste dei suoi occhi sembravano brillare. Il
sopracciglio spaccato dal pestaggio di Chris stonava su quel viso
così bello. La pelle perfetta, le ciglia lunghe.
«Scusa se ti ho disturbata».
«Non disturbi mai». Odry spostò l’attenzione sulle ferite. «Ti ha
proprio pugnalato per bene…»
«Avrebbe voluto ammazzarmi. Ha chiarito che intende buttare giù
tutti gli Arcangeli della nostra squadra. Temo che possa fare lo
stesso che ha fatto a Cassiel anche con Raziel, Michael e Uriel».
«Riusciremo ad aiutarli prima che questo accada e, come dissi a
Raphael, siamo già saliti in Paradiso una volta, possiamo farlo di
nuovo» gli sorrise.
«Oh no, non è il caso, soffrireste».
«Si soffre sempre…»
Gabriel si schiarì la gola in preda all’imbarazzo. Odry non fu da
meno; sistemò con disagio i capelli dietro le orecchie.
«Hai visto che ho mantenuto la promessa?» azzardò lui. «Sono
tornato».
Odry sorrise con un cenno del capo. «Sì, hai mantenuto la tua
promessa».
“E cosa ho ottenuto? Niente” pensò Gabriel. Aveva provato a
recuperare qualcosa, ma iniziò a temere che non ci fosse nulla da
fare. “Recuperare qualcosa che probabilmente non è mai esistito?”
«Bene, io torno a letto» si alzò. «Perché… non vieni anche tu?»
«Con te in quelle condizioni?»
«Non sto poi così male».
«No, infatti. Ti hanno giusto pugnalato… quante? Dieci volte?»
La solita ironia di Odry. A Gabriel fuggì un sorriso.
«Tra qualche giorno» aggiunse lei «quando smetterai di
sanguinare».
L’Arcangelo si arrese. «Va bene. Hai bisogno di qualcosa?»
Odry scosse il capo. «No. Pensa a riposare, devi essere in forze
per spaccare il culo a quel Serafino» gli sorrise. Dentro, però, si
sentì precipitare in un baratro senza fine. Non si era mai sentita così
codarda come in quel momento. Avrebbe voluto affrontare
l’argomento, avrebbe voluto parlare di loro, ma il coraggio le mancò.
«Già. A ogni modo non stare troppo di fronte allo schermo, ti fa
male agli occhi». L’Arcangelo salì le scale e quando fu in cima
aggiunse: «Buonanotte ragazzina».
«Notte» la voce le morì in gola.
Solo cenere… proprio come lei

Prese un respiro profondo, si impose la calma; la morsa di ansia


che sentiva crescerle nelle viscere la metteva a disagio. “Non è la
prima volta che stiamo insieme nello stesso letto” si disse invano.
Ma quella volta sarebbe stata diversa, decisamente più tesa, forse
imbarazzante visto come si erano lasciati la sera precedente. Le
venne difficile decidersi o, quantomeno, agire in modo normale.
“Dopotutto è la mia camera…” pensò ancora col sopracciglio
sollevato.
Infine prese coraggio e bussò.
Giunse il suono ovattato dei passi di Gabriel, poi la porta si aprì.
L’espressione dell’Arcangelo fu di pura sorpresa. Era già pronto per
infilarsi sotto le coperte, col busto in parte coperto da garze e grossi
cerotti e i piedi nudi. «Dopo due giorni hai deciso di venire, alla
fine…» si fece da parte e Odry, entrando, sentì il suo sguardo su di
lei.
«È sempre la mia camera…» borbottò andando spedita verso il
letto. Non riuscì a guardarlo. Si sedette sul lato destro, poggiò il
portatile sul comodino e sopra di esso il tablet. Non sapeva cosa
dire. «Almeno ricordi che ho sempre preferito dormire dal lato della
porta» “Che frase patetica” si rimproverò. Alzò con difficoltà lo
sguardo su di lui. Gli sorrise mesta e l’Arcangelo ricambiò,
sedendosi. «Certo, dopotutto è la tua camera» ribatté con una punta
d’ironia. «Quindi un po’ ti ho convinta che il mio stato di salute non è
poi così grave o sei qui… per altro?»
Odry gli riservò un’occhiata critica. «Non sono convinta del tutto,
sia chiaro. Sei ricoperto di ferite anche abbastanza gravi, ma…
volevo stare qui nel mio spazio, con te. E darti questo».
Gabriel si vide porgere ciò che a prima vista sembrava un vetro
scuro rettangolare, grande quanto un cellulare di nuova
generazione. Stranito domandò: «Cosa sarebbe?»
«Il tuo nuovo telefono. Consideralo un regalo di Natale».
«È già Natale?» Gabriel aveva perso la cognizione del tempo.
«Grazie. Io però non ho potuto…»
«Non ti preoccupare. Sei tornato, no? Questo basta».
Lui annuì grato. Rigirò il costoso pensiero tra le mani. «È un
vetro…»
«No, al massimo è un display. Però è comunque un telefono,
molto più resistente grazie a un processo chimico che prevede la
sostituzione degli ioni di sodio con quelli di potassio tramite
immersione in una soluzione di nitrato di potassio a quattrocento
gradi. Poi, ovviamente, il sistema operativo te l’ho reso veloce e
intuitivo ed è connesso con Cintia».
«Premetto che non ho capito niente del processo di produzione
del vetro, ma… perché collegato con Cintia?»
«Beh» Odry arrossì «così se ti capitasse qualcosa, lo verrei a
sapere subito…»
«Non ce n’era bisogno, il mio non va bene?»
«Prima di scappare hai avuto il tempo di recuperare il tuo
cellulare?»
«No, hai ragione» rispose lui. Rigirò il dispositivo tra le mani e la
ringraziò baciandola sullo zigomo. Era diventata all’improvviso più
calda. «Imparerò a usarlo con calma» poggiò la schiena alla testiera
del letto. «Mi fa piacere che tu sia qui» le disse, dando voce al
pensiero di poco prima.
Anche lei si poggiò contro la spalliera. «Se dovessi farti male
stanotte dammi un calcio e allontanami, ti do il permesso».
Gabriel scosse il capo. «Il massimo che può arrecarmi disturbo è il
calore che emana la tua pelle». Qualcosa nelle sue parole trasmise
malinconia e desiderio, nonostante la sfumatura ironica della frase.
«Quindi non preoccuparti, mi fa piacere se rimani».
La rossa si fissò le mani raccolte sul ventre. «Vorrà dire che ti
abbraccerò di proposito» ghignò «giusto per arrecarti disturbo».
Stese le gambe e si lasciò scivolare poggiando la testa sul cuscino.
Gli occhi puntati sul soffitto: c’era una macchia di muffa nell’angolo in
alto a sinistra, accanto alla finestra. Non l’aveva mai notata.
Dopo alcuni istanti Gabriel prese coraggio e ruppe il silenzio
imbarazzante: «Eppure sento che oltre ai problemi di cui mi hai
parlato ieri, c’è dell’altro. Sei pensierosa, sembra che qualcosa ti
turbi molto di più».
Odry, accigliata, domandò. «Cosa intendi?»
«Non te lo so dire di preciso. Negli occhi hai una strana luce,
come se stessi pensando a qualcosa di davvero profondo».
La demonessa scosse il capo minimizzando con un sorrisetto. Ma
la piega sulle labbra si appiattì subito. «Sì, può darsi» rispose.
L’Arcangelo si fece attento. La lasciò parlare.
«Ho costretto Belial a fare una cosa che non avrebbe voluto fare,
esattamente come costringevano me anni fa e siamo rimasti in
collera l’uno con l’altra».
Gabriel s’incupì e una brutta sensazione lo pervase. «Cosa vuoi
dire?»
Odry era titubante. Il rifiuto nel parlarne era dovuto alla
riservatezza o al timore di ripercorrere con la mente brutti ricordi? Il
silenzio l’avrebbe distrutta, quindi forse sarebbe stato meglio aprirsi,
almeno con lui. Annuì. «Prima spegni la luce per favore».
Gabriel allungò il braccio e premette l’interruttore. Seguì il sospiro
pesante di Odry.
«Tre settimane dopo essere stata lasciata sull’altare da quel cane
di Stephen ripudiai ogni contatto con il mondo. Non sono mai stata
molto espansiva, lo hai visto, però quello fu il periodo più cupo e
orribile della mia vita. Entrai in una spirale di eccessi e di silenzio. Mi
chiusi in casa, troncai ogni rapporto con chiunque, solo Satan e
Balthazar cercavano in tutti i modi di rompere il muro che avevo
innalzato». Confessare le costava fatica e Gabriel riuscì a percepire
una grande sofferenza. «Mi drogavo, e mi vergogno come una ladra
nell’ammetterlo. Non volevo rendermi conto di ciò che provavo, non
volevo vivere, volevo solo annientarmi. E oltre alla depressione
causata dall’abbandono di quel bastardo, venivo costretta a radere
al suolo i territori dei regnanti che si mettevano contro Lucifer.
Villaggi, Gabriel, villaggi interi. Una volta capitò a una città, con
innocenti che non capivano cosa stesse accadendo, che pagavano
per le colpe di un signore che non avevano scelto».
Odry non ebbe il coraggio di voltare lo sguardo su Gabriel, temeva
di leggere orrore sul suo volto. «Ricordo, nonostante gli effetti della
Ethernit, che Baal un giorno è venuto a prelevarmi di persona,
buttandomi dentro la doccia e imponendomi di seguirlo in uno dei
tanti raid. A pensarci è stato imbarazzante farmi vedere in quelle
condizioni, ma in quel momento non m’importava, non provavo
niente». Ce l’aveva fatta, aveva sputato il rospo. Non seppe dire se
si sentisse più leggera o più pesante, ma di una cosa era certa:
Gabriel avrebbe cambiato opinione su di lei. Come biasimarlo? Si
sarebbe di certo pentito di aver fatto sesso e dato confidenza a
un’assassina con un passato da drogata. «Ciò che ti è stato detto su
di me è vero» concluse dopo qualche attimo di silenzio.
Gabriel non si aspettava nulla di tutto ciò. Durante il racconto,
soprattutto alla fine, si era fatto travolgere da una moltitudine di
emozioni contrastanti: rabbia, pena, tristezza, orrore. Staccò la
schiena dalla testiera del letto e le si avvicinò con cautela, sedendo
verso di lei a gambe incrociate. Le piantò lo sguardo negli occhi,
l’espressione era dura: fronte aggrottata, mascella e mandibola
serrate tra loro.
La sua idea di Odry assunse tutt’altra forma: una donna spezzata
dal proprio passato, ma che da esso aveva anche tratto una forza
incredibile. Maledetto Lucifer, maledetti tutti.
Non appena la demonessa si decise a guardarlo, si sciolse. Così
piccola, fragile e potente al tempo stesso.
E lei non si sentì giudicata. Avrebbe voluto piangere.
«Tu sai che tutto ciò non ti definisce, vero?» chiarì l’uomo.
Odry scrollò le spalle, gli sfiorò la mano con le dita: una minuscola
ricerca di conforto. «Non lo so, non so più cosa sono e perché sono
qui».
«C’è sempre un motivo, nulla è lasciato al caso» rispose Gabriel.
Lei distolse lo sguardo per non cedere all’emozione di fronte a
quell’angelo simile a un gigante dal fare protettivo.
«Sicuramente c’è un motivo se sei qui, c’è un motivo per il nostro
incontro e per tutto ciò che ci sta accadendo. Ma, a prescindere da
tutto, l’importante è che tu capisca che non sei un’assassina. Avresti
voluto evitare tante morti inutili, ti hanno solo costretta».
«Potevo andarmene, potevo rifiutarmi ed essere congedata con
disonore, ma non ci dovevo restare lì, così come non dovevo andare
tutte le altre volte». Girò il viso dal lato opposto. «Mi auguro tu non
dica nulla di tutto questo a nessuno».
Gabriel le mise una mano sotto il mento, la fece voltare di nuovo
verso di sé. «Sei stata costretta» sottolineò. «Lucifer non ti avrebbe
lasciata andare così facilmente. Lo conosci meglio di me. Non è
colpa tua».
Odry si agitò sotto il tocco delicato, inaspettato visto chi aveva
davanti. «Apprezzo il tuo tentativo di convincermi del contrario»
borbottò.
«E comunque puoi stare tranquilla, non lo dirò a nessuno». La
mano di Gabriel scese sulla spalla in una dolce carezza, poi lungo il
braccio e intrecciò le dita con le sue. «Mi spiace davvero che tu
abbia dovuto passare tali atrocità».
Rimasero qualche secondo a osservarsi nella penombra.
Odry strinse la presa. Avrebbe voluto avvicinarsi e poggiarsi al suo
petto, farsi avvolgere dalle sue braccia. Ma ebbe paura. Riuscì solo
a trovare la forza di sdrammatizzare con un rinnovato ghigno sul
volto. «Non starai diventando un po’ troppo smielato, Cooper?»
«Se la metti in questo modo, allora vado a dormire e smetto di
metterti in imbarazzo». L’Arcangelo slacciò la presa e a lei
dispiacque.
«Scusa… non sono mai stata tanto incline a questo tipo di
attenzioni, non ne ho ricevute nemmeno così tante, almeno non da
un uomo con cui ho avuto dei trascorsi… espliciti, diciamo così. Dire
a te queste cose è diverso».
Gabriel si coricò su di un lato senza smettere di osservarla, si
coprì. «Apprezzo ciò che hai fatto perché ci vuole forza a
ripercorrere ricordi tanto dolorosi. Io non so se ci riuscirei. Quindi
grazie per aver condiviso con me tutto questo».
Odry deglutì. “Sei più forte di ciò che pensi, gigante buono. Ed è
anche grazie a te se oggi sono qui”. «Buonanotte, Gabe».
«Buonanotte ragazzina».

22 aprile 2021 d.C.


Quartiere elitario, Distretto 2 – Capitale, Inferno
Stava distesa sul fianco destro.
Il letto sfatto.
La guancia premuta contro il cuscino, la federa macchiata di
trucco. Le lacrime si erano seccate e avevano sporcato la stoffa di
seta color panna. Lo sguardo, perso sulla parete di fronte a sé, non
riusciva a distinguere alcuna sagoma. Le tapparelle erano state
abbassate del tutto, la casa era al buio. Come la sua mente.
Non ricordava un momento in quel periodo in cui era rimasta
lucida per più di cinque minuti. In realtà non aveva alcuna intenzione
di rimanere presente a se stessa.
Da tre settimane non rispondeva alle chiamate di Satan, Balthazar
o di chiunque altro provasse a contattarla. Ventuno giorni dopo
essere stata lasciata dalla persona dalla quale credeva di essere
amata e con la quale era pronta a creare un futuro, una famiglia. La
sua famiglia.
“E invece eccomi qui…” si disse tirandosi a sedere e il movimento
fece cadere una bottiglia che si frantumò a contatto col pavimento di
marmo. Ma a lei non importava.
I gesti erano sempre gli stessi in quelle lunghe giornate. Stappò
un’altra bottiglia, la bevve in un sorso e quasi soffocò. Si pulì la
bocca con l’avambraccio e in un lampo d’ira la lanciò contro la porta
della cabina armadio. Ci fu un’esplosione di schegge. Si sporse
verso il comodino sulla destra, la mano raggiunse subito un coltellino
e con esso tagliuzzò della polvere. Si sporse ancora e la inspirò
tutta, per poi gettarsi di schiena sul materasso. Ripulì le narici con
due dita.
Era troppo per lei. Si sentì misera e inutile, sentì di aver toccato il
fondo. Non era più uscita di casa, aveva smesso di lavorare, di
vivere. Stava commettendo un grosso errore, lo sapeva, eppure non
riusciva a fermarsi perché nulla sembrava alleviare quel dolore.
Premette con forza i palmi contro gli occhi, singhiozzando. “Non è
giusto” pensò, e no, non era affatto giusto. La sua vita era sempre
stata ingiusta e credeva di essersi abituata, di aver forgiato
un’armatura abbastanza robusta da resistere a qualsiasi affronto, a
qualsiasi pugnalata. Aveva abbassato la guardia con lui e gli aveva
permesso di illuderla.
Stephen non aveva aspettato molto per rifarsi una vita, iniziando
esattamente il giorno seguente, dopo aver mandato in fumo dieci
anni di relazione e un matrimonio.
Odry era distrutta. La mente provava ad annientare il corpo e lei
non riusciva a combatterla.
La Ethernit aveva iniziato a far effetto. Era una droga sintetica
potente ambita dai ricchi e dai poveri che avrebbero ucciso per
poterla provare almeno una volta. Nei sobborghi, però, giravano
varie imitazioni della stessa matrice, molto più dannose e dalle quali
lei si teneva alla larga. L’euforia durò poco, il battito cardiaco
accelerò, la sua temperatura salì superando con molte probabilità i
quarantacinque gradi centigradi. La tristezza riprese il sopravvento.
La testa abbandonata sulla spalla sinistra, gli occhi lucidi semi aperti.
Il tempo iniziò a scorrere indefinito.
Si assopì senza accorgersene.
Fu uno scandito bussare a destarla. Arrivò distorto insieme a una
voce ovattata e pesantemente cadenzata.
Odry tirò su la testa, non capiva.
Un altro colpo alla porta. La voce di Cintia si palesò: «Il Generale
Sergei Baal Katromirov è alla porta, dice che è urgente. Lo faccio
entrare?»
“No” pensò Odry, non ne aveva alcuna voglia. Si passò una mano
sul viso per levare i capelli appiccicati da lacrime e bava. Aveva
dormito con la bocca aperta. «Fallo… fallo entrare» bofonchiò però,
la bocca impastata. Si mise a sedere, i piedi sfiorarono il pavimento
di marmo gelato. Ebbe un brivido. Tutto girò come una trottola.
Chiuse gli occhi, le mani serrate sulla testa.
La porta d’ingresso venne chiusa con delicatezza, poi sentì uno
scricchiolio in avvicinamento. Lo sfregamento della pelle degli stivali
del Generale creava un sottofondo fastidioso. Odry si concentrò per
non lasciarsi andare alla rabbia.
La porta della camera da letto si spalancò.
Odry alzò la testa intercettando la figura di Sergei: indossava abiti
militari neri come le piume di un corvo, dello stesso colore dei capelli
in parte raccolti in una piccola coda. I lineamenti duri e freddi. Legate
in vita teneva due lunghe sciabole. Il demone raggiunse le tende
scure, le scostò, sollevò le tapparelle e aprì le imposte facendo
entrare l’aria pungente la luce del pomeriggio inoltrato.
Odry strinse forte le mani sugli occhi, sofferente. Si rannicchiò
nascondendo il viso tra gli avambracci. «Troppa… luce» lamentò.
«C’è puzza».
«Apro quando cazzo mi pare!»
Il Generale ignorò la constatazione. «Sei rimasta lontana dal
Quartier Generale e dalle tue mansioni militari e ingegneristiche per
troppo tempo. Mi servi. La regione del Dounber si è ribellata al
proprio regnante: Anuman Valentine. Il castello sarà una presa facile
con te. I popolani e il vassallo si sono nascosti nei sotterranei, un
suicidio inconsapevole». Si spostò in bagno e Odry udì lo scrosciare
dell’acqua nella doccia. Poi tornò da lei, e si avvicinò: «Preparati».
«Sergei… Io non sono in grado…» Odry mosse la mano destra
con dissenso, la sinistra ancora le copriva gli occhi.
«Devi fare ciò per cui sei stata plasmata».
«Parli troppo veloce. Cosa dovrei fare…?»
«Non ci arrivi?»
Il russo doveva aver fatto qualche strano movimento, perché sentì
lo scricchiolio dei guanti in pelle e l’odore di menta e vodka che lo
caratterizzava.
Il fresco entrava dalla finestra.
«Non voglio arrivarci, Sergei, è diverso».
«La regione del Dounber deve essere rasa al suolo. Valentine non
ne ha più bisogno».
«E da quando agiamo per conto di quel codardo?» Odry fu
sprezzante e Baal fece altrettanto. «Da quando è stato Lucifer a
ordinarlo».
Ci furono attimi di silenzio, attimi in cui la demonessa si incantava
sul suono dello sciabordio contro il piatto doccia, altri in cui provava
a mettere insieme un pensiero di senso logico. «Io non lo faccio»
riuscì a dire.
«Non ti sto offrendo una scelta. Partiremo di notte, li coglieremo
col buio».
«Col buio… certo. Per poi lanciare i fuochi d’artificio. Voglio che
vengano salvati bambini e donne, o non farò nulla».
«Non tollero questi atteggiamenti da tossica sentimentalista,
Crane, e non mi voglio ripetere». Il Generale le rivolse un’occhiata
critica quanto schifata, e Odry sbottò. «Non sono una tossica! Sono
il miglior soldato dell’esercito della corona Morningstar! Sono la
mente più brillante in questo cazzo di mondo! I miei gradi militari
sono alti quasi quanto i tuoi! Questo… è solo un momento». Sotto lo
sguardo severo e glaciale di Baal abbassò la testa, vergognandosi
dell’improvviso scatto d’ira.
«Un momento che va avanti da settimane. Il nostro miglior
esemplare scovato nella sua tana a leccarsi le ferite e a piangere.
Tira fuori le palle e usale».
«I civili, Baal…»
«Ne discuteremo in auto».
«D’accordo… Io però non sono in condizioni di alzarmi» mugugnò
e il Generale si spazientì.
Si sentì agguantare sotto le ascelle. Baal la portò in bagno di peso
e senza alcuna delicatezza la mise sotto al soffione facendola
protestare a gran voce.
«Muoviti» disse lapidario «ti aspetto in macchina» e dopo queste
parole se ne andò, lasciandola da sola a inzupparsi gli abiti.
Odry sentì la voce metallica di Cintia porgere i saluti al Generale
poi la porta richiudersi. Sospirò. Sfregò il viso con le mani, le fece
scivolare tra i capelli portandoli all’indietro. Sperò che vi fosse un
modo per lavare le sue preoccupazioni, ma la speranza fluì nello
scarico insieme all’acqua.

Regione di Dounber – Inferno

Erano in viaggio da sei ore, il sole era calato oltre l’orizzonte


posando un velo oscuro sul regno.
Stavano tutti seduti sul retro del furgone. La tenda di plastica era
stata mal chiusa e le fibbie oscillavano con gli scossoni del mezzo
sulla strada rovinata. Il vento gelido entrava nel cassone e fin dentro
le ossa.
Gli uomini tremavano dal freddo, il suono dei denti che sbattevano
e il loro continuo alitarsi sulle mani irritò Odry, anche se,
segretamente, li invidiava: pure lei avrebbe voluto provare quella
sensazione.
Riportò l’attenzione sullo spiraglio lasciato dal tendone verde,
incantandosi sulla fila di mezzi militari che riuscì a scorgere dopo
una curva. Erano venticinque in tutto. Si prospettava un attacco
violento.
Nello stesso suo mezzo vi erano altri quindici soldati che
imbracciavano le armi. Sette di loro erano giovani alla prima
esperienza, si riconoscevano dagli sguardi impauriti; gli altri, come
lei, li avevano vuoti e rassegnati.
“Di questo passo non arriveremo mai” pensò sbuffando. Dalla
tasca della divisa nera estrasse un sigaro, lo accese illuminando la
penombra con la fiammella che le uscì dal pollice.
Un soldato si rivolse a lei: «Perché, una volta arrivati, non accende
un piccolo falò? Ci stiamo congelando e io potrei cagare ghiaccioli».
Odry prese una boccata di fumo e lo espirò dal naso. «Il fuoco
attirerebbe le sentinelle appostate e sarebbe come segnare la nostra
posizione, manderebbe all’aria l’intera organizzazione. Sono le
basi».
«Già, Crane ha ragione! Poi a Sergei glielo vai a dire tu?» brontolò
Straygor, il suo sottufficiale, che si stringeva nel giubbotto imbottito.
Odry tornò a guardare il paesaggio.

«Il primo plotone è stato annientato, il secondo lo sta


sostituendo». Baal sistemò guanti e cappello. «Pensano ancora di
doversi difendere da un attacco frontale».
“Il terzo” ripensò Odry “ha proseguito sui nostri mezzi per
raggiungere un punto strategico a ovest, oltre la montagna, dove
faranno saltare cinque chili di esplosivo per far crollare il tunnel
attraverso cui cinquecento anime tenteranno di fuggire”.
«E quando saranno in trappola, entrerà in gioco Crane. Saremo
veloci ed efficienti». Il russo le lanciò uno sguardo severo,
quell’ultima non era una previsione ma un ordine. Poi procedette
spedito verso la testa del convoglio.
«Sissignore!» risposero in coro i soldati per poi disporsi secondo
le direttive.
Intanto lei non smetteva di fissare Baal con astio. “Non ha mai
parlato così tanto e così a lungo in vita sua. Maledetto”.
Straygor la tirò per un braccio, allontanandola dalla scia di soldati
e armamenti in movimento. «Sicura di essere in forze? Non hai una
bella faccia».
«Sto bene, dammi un momento. Nel frattempo sistema la squadra,
portala in postazione; io vi raggiungo subito».
Straygor non sembrò tanto convinto, ma ubbidì all’ordine.
«Coraggio, in marcia!» disse a gran voce.
La demonessa si voltò puntando lo sguardo sulla cittadella in
fondo al pendio, circondata dalla montagna. “Non resterà alcuna via
di fuga, una sola porta per entrare e uscire… Sarà un massacro”. Si
passò una mano sul viso, tremava. L’effetto della Ethernit era finito
da un pezzo e lei necessitava di una spinta o non sarebbe riuscita
ad affrontare la situazione.
Portò automaticamente una mano dentro la tasca interna della
giacca militare, prese una bustina di plastica e riversò un po’ di
contenuto sul dorso della mano. La aspirò tutta e sperò che nessuno
l’avesse vista. Alzò la testa verso il cielo, gli occhi chiusi, due dita
strette sulle narici. A breve si sarebbe sentita meglio.
Il sottufficiale e la squadra la aspettavano nella parte più alta del
monte.
«Siamo pronti, Baal ha già dato il via all’attacco» le rese noto
Straygor, indicando ciò che accadeva sotto di loro.
Odry gli si accostò, ebbe un tuffo al cuore.
Si levarono al cielo le grida di sorpresa e orrore dei soldati nemici,
attaccati da cyborg dalle fattezze animali, una delle nuove armi che
Lucifer le aveva richiesto. La sua tecnologia usata solo alla fine, per
rendere più teatrale la vittoria della corona Morningtar. Macchine
utilizzate per conquistare e schiacciare i più deboli. Strinse i pugni.
Avrebbe dovuto attendere l’esplosione dietro la montagna,
segnale per attaccare col fuoco. Pregò di non sentirla mai, anche se
sapeva che sarebbe accaduto.
Infine giunse. Fu terribile, assordante e le sembrò segnare l’ultimo
battito del proprio cuore pronto a schizzarle fuori dal petto; intanto, i
colpi di cannone dei cyborg si abbattevano sulle mura della cittadella
e grossi blocchi di pietra crollarono al suolo schiacciando alleati e
nemici.
No, non voleva farlo. Non voleva che le vittime a suo carico
aumentassero. “Non sono un’assassina” pensò.
«Odry… è il momento». Avanzò Straygor, le mise una mano sulla
spalla. Il sottufficiale la scrutava sempre più in ansia, così i sette
uomini disposti attorno a lei per proteggerla. Il segnale era stato
lanciato da diversi secondi, fin troppo in ritardo secondo la tabella di
marcia. Lei non sembrava volersi muovere. Gli occhi fissi sul
massacro.
«Odry!» continuò Straygor.
«Generale Crane!» sì accodò un soldato.
Passò il minuto, poi il minuto e mezzo.
«Generale!» continuò un altro, preoccupato. Sarebbero potuti
essere accusati di insubordinazione o tradimento.
«Allontanatevi». La voce grave di Odry fu quasi un sollievo.
Obbedirono.
Odry si avvicinò al precipizio. Le mani tremavano e sudavano.
Inspirò a fondo rilassando le braccia. Le vene si illuminarono di
rosso, e in un secondo gli avambracci si infiammarono. Richiamò a
sé tutto il potere di cui disponeva. “Mi dispiace” pensò tra le lacrime.
E si lasciò andare.
Uno tsunami di fuoco corse rapido giù per la montagna fino a
investire la cittadella. E, al contatto con l’olio che i nemici avrebbero
usato per difendersi, esplose.
Odry gridò per darsi forza, per scaricare tutto l’odio e l’orrore che
provava per se stessa e per quel mondo corrotto. Gridò insieme alle
persone in fiamme, al loro dolore. Si unì al ruggito del fuoco, al
rombo del crollo delle torri e del resto delle mura.
Il plotone di Baal si mise al riparo.
Presto sarebbe rimasta solo la cenere… Proprio come lei.
Zachary

La prima cosa che Cassiel distinse, dopo che la sua vista si fu


abituata alla semioscurità del luogo, furono un paio di scuri occhi a
mandorla. «È sveglio!» Lo sguardo si allontanò per rivelare una
donna orientale con i capelli corti e blu, che venne affiancata da un
ragazzone tutto muscoli e con le labbra cucite.
Cassiel si percepì su qualcosa di morbido. La vista si abituò presto
alla luce rossastra che proveniva dalla sua destra e alla penombra
dalla parte opposta: il fuoco scoppiettante all’interno del caminetto
illuminava a stento l’ambiente. «Chi siete?» domandò quasi afono.
«Io sono Behetan, lui è Malik. Ora sei salvo: sei caduto nel bel
mezzo del deserto».
L’Arcangelo provò a mettersi seduto, ma i dolori che sentiva in
tutto il corpo glielo impedirono. Quindi tornò con la testa poggiata sul
cuscino e chiuse l’unico occhio buono. Nel tentativo di mettere in
ordine i ricordi, si materializzarono il volto di Chris, sfigurato
dall’odio, e la voragine che l’aveva inghiottito e lasciato cadere sul
piano terrestre. Il dolore alla schiena tornò vivido, la testa iniziò a
girare, ciò che gli era accaduto era tornato a tormentarlo. Con uno
scatto si sporse all’esterno del letto e vomitò.
«Faccio io». Un uomo calvo e con una folta barba rossa si
avvicinò sbuffando, gettò uno straccio sul pavimento e iniziò a pulire.
«Sei stato molto resistente». Qualcun altro parlò dal fondo della
stanza, poi dei passi in avvicinamento. Una figura alta si mise tra lui
e il fuoco, chinandosi e poggiando sui talloni. Zachary gli sorrise
compassionevole.
Cassiel voltò lo sguardo verso di lui e sgranò l’occhio, strinse le
coperte e deglutì. «Tu!» sibilò. «Traditore».
«Calmati, so che è una situazione ambigua, ma c’è una buona
motivazione se sei qui».
«Cosa vuoi da me?» il francese provò paura. E se il demone
avesse deciso di catturare a uno a uno gli Arcangeli e gli alleati per
ucciderli ed evitare che provassero a portargli via la reliquia rubata?
Jelos gettò via con stizza il secchio contenente lo straccio sporco
e batté una mano sul materasso, minaccioso. «Sta’ zitto e ascoltalo.
Devi ringraziare lui se sei ancora vivo, è stato lui a salvarti il culo».
«Ci ha traditi» rantolò l’Arcangelo. «Ha combattuto al nostro fianco
per creare un diversivo e rubare il Graal!»
Zachary annuì. «Ha tutta l’aria di essere stato un tradimento, lo
ammetto. Ma credimi se ti dico che c’è davvero un buon motivo e
che vorrei renderti partecipe».
«Perché?»
«Perché hai coraggio, ne hai subito tante eppure sei ancora vivo.
Sei uno di noi».
«Io non sono come voi, non sono un demone».
«Hey! “Demone” sarà tua madre!» protestò Jelos,
sovrapponendosi alla risata di Behetan che disse: «Non siamo tutti
demoni. Malik e il pelatone sono angeli caduti, proprio come te».
Cassiel si mostrò diffidente, così, a un cenno di Zachary, i due
presi in causa sollevarono le maglie mostrando gli squarci mai del
tutto guariti delle ali strappate.
«Questo è ciò che siamo» disse Zac. «Un gruppo di angeli caduti
e demoni rinnegati, insieme per un progetto di tutto rispetto: unire
tutti i mondi in un’unica grande realtà».
Cassiel non era del tutto lucido, ma fu in grado di considerare
quanto potesse essere da pazzi quel pensiero. «Esseri umani, angeli
e demoni? Insieme? No, gli uomini sono terrorizzati alla sola idea
della nostra esistenza e angeli e demoni si odiano».
«Si odiano perché gli è stato insegnato così, perché ormai è
difficile capire che siamo usciti tutti dallo stesso ventre» Zachary si
alzò e prese a camminare avanti e indietro per la stanza. «Il cane
ama alla follia il gatto con cui è cresciuto, lo vede come parte della
famiglia: un fratello».
«Ma ormai…»
Zac lo interruppe. «Sì, hai ragione, le attuali generazioni sono
calcificate sulle vecchie concezioni. Infatti servono i nuovi senza
l’influenza dei vecchi o, al massimo, giovani guidati da vecchi
ragionevoli e tolleranti».
L’ombra scura di un presentimento rabbuiò Cassiel. Non osò dargli
voce, ma quasi gli sembrò di poter leggere le intenzioni del suo
interlocutore: uccidere gli oppositori, giungere a una vera e propria
carneficina. Forse.
«Vuoi stare con Victoria, giusto?»
All’Arcangelo brillò l’occhio al solo ricordo della succube. «Sì…»
«So che è stata bene con te. Ha detto di essere preoccupata per
aver sentito su di te l’odore di un’altra demonessa. Aveva ragione?»
Cassiel confermò.
«Ho visto nei suoi occhi che a te ci ha tenuto fin da subito».
Zachary trattenne un sorriso furbo e domandò: «Si tratta di quella
ragazza di nome Agatha, vero?»
«Sì. Stai dicendo la verità su di lei? Su Vicky, intendo».
«Perché dovrei mentire sui sentimenti altrui?» Il demone si bloccò.
«Ti ho già detto cosa mi interessa raggiungere, quindi per me
sarebbe solo una vittoria vedere realizzarsi coppie come la vostra. E
poi… voglio smettere di nascondere la mia identità e far finta di
essere umano ovunque vada».
«E allora che c’entrava il Graal?»
«Senza la forza che mi ha donato la reliquia, secondo te come
potrei sperare di annientare Lucifer? Ho in mente qualcosa, amico
mio. Devi fidarti di me».
Malik notò che il francese aveva rilassato appena le spalle e ne
approfittò per avvicinarsi al tavolo, prendere pane e formaggio
adagiati su un tagliere in legno, tornare indietro e offrirglieli. Gli
sorrise, per quanto gli fosse possibile a causa delle terribili cuciture,
e Cassiel si concesse qualche boccone.
«Impara a conoscere noi e i nostri buoni propositi, così aiutarci in
questa impresa ti verrà naturale, te lo garantisco. E potrai avere
Victoria tutta per te».

II

Zachary mescolava il composto con il cuore che batteva forte. Da


tempo non si sentiva così: orrendo, inutile.
Tolse la giacca e la camicia, gettando entrambe sul pavimento.
Infilò in fretta dei guanti in lattice sulle mani tremolanti.
Si guardò allo specchio posto sopra il lavandino del bagno e gli
venne il desiderio di tirare un pugno al proprio riflesso per spaccarlo
in mille pezzi. “Come ho potuto ridurmi così?” pensò.
La ricrescita rivelava i suoi capelli naturali, rossi come quelli di sua
sorella.
“Non vincerai tu”.
A chi si stava rivolgendo? Non a se stesso, di certo. Nemmeno a
Odry. Forse a Balthazar, a colui che l’aveva generato e
abbandonato, dimenticato.
Ogni volta che si vedeva in quello stato provava repulsione, si
detestava, odiava il suo sangue.
Pettinò i capelli con rabbia, tra i denti del pettine ne rimasero
parecchi, strappati. Lo lanciò nel piatto della doccia. Prese il
pennello e si impose la calma, due respiri profondi e il cuore sembrò
rallentare. Le mani però non smettevano di tremare. “Perché devo
arrivare sempre a questo punto?”
Lasciava passare sempre del tempo prima di tingere la ricrescita. I
sentimenti che provava erano contrastanti e quando non era più
possibile nascondere il rosso, quando l’urgenza di nascondere la
sua identità diventava impellente, il senso di malessere lo metteva
all’angolo, come fosse sopra un ring, dove lui perdeva sempre.
Una goccia di tinta gli cadde sul petto, così fredda da
sorprenderlo.
Gli occhi gli pizzicarono. «Questa roba dà fastidio al naso» disse.
“Bugiardo! Non è vero! Stai per piangere come un coglione”.
«Karasi! Ho bisogno d’aiuto!»
I passi della donna lo raggiunsero presto e il suo battito si calmò
un poco. «Cosa ti occorre?» la voce calda gli sciolse la tensione.
Karasi alzò un sopracciglio scrutandolo, sporto com’era sul
lavandino.
«Questa merda mi cola addosso, aiutami a ripulirmi prima che mi
macchi».
«Non sai fare le cose più semplici». Seccata, la donna prese un
rotolo di carta dalla cucina e lo tamponò. «Per prima cosa non devi
stare curvo, ma dritto davanti allo specchio».
«Lo so come cazzo si fa una tinta. Pulisci queste gocce e basta».
Karasi lo sculacciò forte. «Calmati subito, ragazzino».
Quell’azione lo fece raddrizzare e gli strappò un sorriso,
distogliendolo per un istante dai brutti pensieri. «Per favore»
aggiunse.
Karasi annuì severa. Lo pulì ovunque si fosse macchiato, gli mise
sulle spalle un asciugamano e gli impose di procedere con ordine.
«Affronta te stesso, non avere timore, tu sei lontano anni luce da
quel bimbo sperduto nella neve» gli sorrise e di sorrisi non ne
dispensava poi tanti.
«Ti sbagli di grosso» rispose lui. «Se così fosse non avrei bisogno
di tutto questo».
«Non è un bisogno reale. È un’imposizione a te stesso».
Zachary non rispose, si limitò a scuotere piano il capo con
dissenso e Karasi gli diede un’altra sculacciata. «Cosa posso fare
per levarti questo broncio?»
«Lo sai, mi conosci fin troppo bene».
Senza aggiungere altro, lei gli si pose di fronte, si chinò sulle
ginocchia mettendogli le mani sui fianchi, lo accarezzò piano
scendendo sulle cosce fino a risalire per slacciargli cinta e pantaloni.
Zachary continuò a spalmare la tinta fermandosi di tanto in tanto
per guardare ciò che Karasi stava facendo: quello speciale
trattamento gli era sempre piaciuto; gli sembrava di dominarla,
quando, in realtà, era sempre stata lei a sopraffarlo. Portò lo sguardo
allo specchio e vedersi con la tinta su metà capo lo fece ripiombare
nei cattivi pensieri.
Fortuna che Karasi riuscì a essere più presente. Le mani
lasciarono cadere i pantaloni e strinsero le natiche, la bocca si fece
avida e il volto affondò ancor di più.
Zachary chiuse gli occhi e poggiò il pennello. «Così non verrà
bene…» disse ansimando.
Karasi non lo ascoltò, concentrata com’era su ciò che stava
facendo e continuò così per diversi minuti fino a quando non si sentì
soddisfatta nel sentirsi invadere dal suo piacere.
Il demone, tremante, non riuscì a staccarle gli occhi di dosso,
nemmeno dopo che lei si fu rialzata e ripulita. «Grazie» mormorò
sistemando i pantaloni.
«Rimani concentrato, hai un grande futuro davanti a te».

III

Nella vecchia sala da pranzo, illuminata dal camino, candele e


incanti fluttuanti di Karasi, il tavolo era occupato da povere pietanze
e da cinque commensali. Di fronte al fuoco scoppiettante, due
uomini e una donna parlavano piano per non disturbare la cena.
«Ma quanto ci mette Zachary?» affermò il primo, pelle nera e
occhi bianchi, rivolgendosi all’amica accanto a sé.
«È così vanitoso che si starà vestendo di tutto punto solo per stare
in casa» scommise quella, alta, seno prosperoso, biondi capelli ricci
e una benda sull’occhio destro.
«Bianca ha ragione» considerò il terzo, tarchiato, togliendo il
cappello di lana per rimetterlo dopo aver sistemato i capelli unti.
«Io vorrei capire perché non mangiate». Behetan si intromise nella
conversazione, voltandosi verso di loro. «Kaf? Non hai più spazio?»
«Sono a dieta, grazie» rispose l’altro, sistemando il cappello con
imbarazzo.
«Siamo a posto anche noi» enunciò Amon, il demone dagli occhi
perlacei.
La sala si ammutolì: Karasi entrò, il mento alto e quel cipiglio
austero.
Salutò i presenti che ricambiarono, si avvicinò al tavolo e prese un
calice di vino appena riempito e porto da Malik, che le sorrise con
adorazione.
«Quei tre sono impazienti» la informò Jelos a bassa voce.
«Vengono da lontano e il ragazzo li fa aspettare».
La donna si limitò ad annuire e a sorseggiare, ragionando su
Zachary e i suoi atteggiamenti.
Quasi come evocato, il demone entrò. Indossava abiti formali per
l’occasione, che mettevano in risalto la sua figura: un dolcevita color
mattone con cappotto, pantaloni e stivaletti neri. Niente a che vedere
con l’abbigliamento degli altri presenti.
Raggiunse il tavolo e si versò del vino, sollevando il calice verso
Karasi per brindare in silenzio. «Buonasera, spero che il cibo e la
temperatura siano di vostro gradimento».
Era pensieroso. La donna se ne accorse.
«Ti fai sempre attendere. Noi abbiamo fatto chilometri per…» Kaf,
l’angelo caduto tarchiato, venne interrotto da un gesto della mano
dello stesso Zachary.
«Lo so, ci ho messo più tempo del previsto» il demone bevve un
sorso. «Vi porgo le mie scuse. Proprio per questo inizierò il mio
discorso senza troppi preamboli e potrete levare il disturbo quando
lo riterrete opportuno».
Karasi gli lanciò una brutta occhiata che lui ignorò.
«Comunque vi ringrazio per la pazienza» aggiunse Zachary.
Raggiunse il caminetto e i tre si spostarono, sedendosi al tavolo
insieme agli altri. «Abbiamo attraversato momenti difficili e alcuni di
noi ancora non si sono del tutto rilassati. Lo capisco benissimo.
Stare secoli e millenni in un posto che non ci appartiene, costretti a
nascondere ciò che siamo, è una tortura».
«Potremmo creare scompiglio» considerò Jelos.
«Assurdo, no?» ribatté Zachary. «Noi dobbiamo avere paura di
terrorizzare gli umani».
«Il Patto delle Anime» gli rammentò Bianca, sistemando dietro
l’orecchio un ciuffo riccio. «Abbiamo le mani legate».
«Dovrebbero avere paura di noi» considerò Kaf, ignorando una
smorfia di Amon. «Però Bianca ha ragione. Dove vorresti arrivare?»
«Io mi sono stancato di nascondermi. È una vita che scappo da
chiunque voglia farmi del male. Spiegatemi perché lo sto facendo da
questi insulsi esseri viventi chiamati umani. Il Paradiso li ha sempre
tenuti in una campana di vetro per non disturbare la loro misera
vita».
«Dove vorresti arrivare?» Amon ripeté la domanda dell’amico, ma
in tono più grave.
«Unire i mondi. Ecco dove voglio arrivare». Le parole di Zachary
equivalevano a quelle di una persona delirante, soprattutto se
accompagnate dallo sguardo con occhi spalancati che rivolse ai
presenti, uno per uno.
Jelos aggrottò la fronte, cercò Karasi con lo sguardo ma lei si era
fatta in disparte, accomodandosi su una sedia di fronte al camino:
fissava le fiamme e ascoltava.
La fragorosa risata di Brutus spezzò il silenzio che si era creato,
ma aumentò la tensione. L’uomo si alzò dal tavolo grattando la barba
incolta. «Mi piace questa tua idea, Zac» lo raggiunse dandogli una
pacca sulla spalla. «Come vuoi agire senza che ci puntino addosso
armi e carri armati?»
Bianca intervenne: «Secondo il mio punto di vista stiamo
sbagliando. Siamo superiori agli umani, ma mettiamoci nei loro
panni: pensate a qualcuno che temete. A nessuno fa piacere stare al
posto del più debole».
«Sarà inevitabile» puntualizzò Brutus «perché sono deboli».
Amon si alzò e iniziò a camminare su e giù per la stanza. «Quindi
dovremmo puntare alla loro debolezza per imporci. E poi? Vogliamo
gli esseri umani come schiavi personali?»
«E cosa ne pensate di vivere con loro da pari?» domandò Kaf,
togliendo di nuovo il berretto per sistemare i capelli.
«È quello per cui dovremmo combattere!» esclamò Jelos e Malik
si voltò a guardarlo con una certa luce negli occhi. «Parliamo di voi
demoni, forse vi toccherà nel profondo e vi farà pensare. A molti di
voi Lucifer non ha mai dato il posto che avreste meritato nella
società, per molti è stato impossibile fare un passo in avanti. Poi, a
quanto pare, qualcuno si è ribellato e ha deciso di creare un gran
casino mettendogli contro il suo popolo e isolarlo come una bestia in
gabbia».
«E questo che c’entra?» domandò Brutus, con un sorrisetto furbo
in volto. «Non è paragonabile».
«No, giusto. La maggior parte dei demoni aveva forconi e lo
stomaco vuoto da chissà quanto, i più forti si sono incazzati e gli
hanno fatto il culo, anche se la maggior parte ha perso la propria
vita. Gli esseri umani non hanno poteri, ma sanno creare molto più
scompiglio di quanto immaginiamo. Sappiamo bene quanti governi
nascondano armi di distruzione di massa. Volete mettervi contro una
bomba nucleare?»
Bianca alzò gli occhi al soffitto. «Hanno gli angeli come alleati e
noi siamo quattro gatti che non riescono a mettersi d’accordo».
Zachary chiese sprezzante: «Pensi davvero che quelli della tua
specie siano tutti dalla parte degli umani? Li hai conosciuti, proprio
come hanno fatto Malik, Jelos, Kaf, Eniel e tutti i caduti che qui non
sono presenti».
«Bomba nucleare?» Brutus rise ancora. «Stai parlando di demoni
e angeli contro un coglione dietro una scrivania che dà l’ordine di
lanciare una bomba!»
«Stiamo andando fuori tema» intervenne Karasi.
Seguì un momento di silenzio.
La donna proseguì: «Abbiamo provato a intralciare il Concilio di
Lucifer per accaparrarci le reliquie, senza successo. Abbiamo preso
il Graal solo grazie a Zachary, che ha rischiato la pelle in mezzo alla
battaglia contro Baal ed è lui che dovete ringraziare perché voi,
anche in coppia, non siete riusciti a combinare alcunché».
Eniel sollevò gli occhi verdi su Brutus e nel vedere il suo volto
contrariato scosse il capo, smuovendo i lunghi capelli castani.
«Eravamo in due, ma Baal e Gaki erano forti e ci hanno fatto
perdere tempo» si giustificò. «Inoltre sono arrivati quasi subito gli
angeli e…»
Zachary lo zittì. «Sta parlando lei».
Karasi riprese: «Avete accettato di seguirci in questa impresa, chi
solo, chi disperato. Sapevate fin dall’inizio a cosa saremmo andati
incontro, eppure molti di voi ora si tirano indietro. Avete paura?
Temete la morte? Una buona parte dei presenti l’ha vista in faccia e
ora avete paura di rivederla combattendo per la vostra e la nostra
libertà?»
«Va bene, d’accordo! Abbiamo capito» sbuffò Eniel, accarezzando
senza accorgersene la profonda cicatrice sul proprio collo, dopo i
ricordi spiacevoli causati dalle parole della donna. «Facciamo il
punto della situazione».
«Voglio che angeli e demoni possano unirsi tra loro, che gli umani
vengano a conoscenza della nostra esistenza e che ci siano unioni
anche con loro». Zachary si voltò verso Jelos e lo indicò, quello
abbassò lo sguardo. «Per esempio, lui vorrebbe vivere in pace con
Maria, un’umana. Io intendo essere padrone delle mie scelte. Quindi
userò il Graal a nostro favore. La reliquia ha potenziato i miei poteri
e al momento opportuno verrà usata per creare un po’ di
scompiglio».
«Smetti di fare il misterioso ed esponi loro il tuo piano». Karasi gli
si avvicinò con un sorriso sensuale e incoraggiante.
04 agosto 2012 d. C.
Miniera abbandonata – Regno di Babylon, Inferno

«Devi essere certo di ciò che fai, te l’ho detto mille volte! Ormai hai
diciassette anni, quando lo capirai?» Karasi era furiosa.
Zachary provava e riprovava a controllare i turbini di fuoco. La
donna gli aveva insegnato la nuova tecnica una settimana prima e a
lui sembrava la cosa più complicata che avesse mai fatto nella vita.
Lei aveva mantenuto la sua parola, tenendolo con sé e
insegnandogli negli anni come controllare e usare il proprio potere. Il
tutto mentre si spostavano come nomadi.
Gli aveva rivelato la sua vera natura e la sua identità: era una
potente sciamana e padroneggiava la magia antica dei vecchi
Korkur – un ordine sacerdotale ormai estinto –, un potere con il
quale era riuscita a mettersi in salvo in centinaia di situazioni. Aveva
passato quattrocento anni a nascondersi da qualcuno, ma non gli
aveva mai rivelato di chi si trattasse.
E non aveva mai perso tempo a rinfacciargli quanto per lei, a
volte, lui fosse un problema.
Il ragazzino, infatti, attirava l’attenzione a causa del colore dei
capelli, una particolare sfumatura di rosso caratteristica del popolo
della Nura, decimato diciassette anni prima. Ma non solo. Gli
incidenti col fuoco che spesso, a causa di emozioni forti, gli erano
capitati, avevano insospettito gli abitanti di ogni villaggio o paese nei
pressi dei quali si accampavano. Quella volta avevano trovato un
posticino sicuro in una miniera abbandonata e sarebbe stato difficile
scovarli.
«Possibile che dopo anni ancora tu non abbia capito come
controllare i tuoi attacchi? Mi stai solo facendo perdere tempo!»
incalzò Karasi.
Zachary, capelli lunghi fino alle spalle e mossi, sul viso
un’espressione furiosa, si voltò verso di lei per rispondere in malo
modo col dito puntato nella sua direzione, e per errore fuggì una
fiammata nera a zampilli che lei, con una barriera, evitò. «Scusa, ma
te lo meriti, fai sempre la stronza quando mi alleno!»
«Non sono io la stronza, qui!» La donna si alzò con fare
minaccioso. «Ti alleno da troppo tempo, il tuo fuoco è diventato
oscuro e potente solo grazie alla mia magia, ma non riesci a fare la
metà delle cose che dovresti saper fare. Non mi sorprende che ben
tre famiglie ti abbiano trattato come un rifiuto».
Zachary serrò la mascella. «E a me non sorprende che tu stia
fuggendo da qualcuno che ti vuole morta».
«Senti un po’» Karasi lo afferrò per un orecchio «con chi credi di
avere a che fare? Io ti ho preso perché ho bisogno di te, ho grandi
progetti e anche tu hai bisogno di me. Hai un enorme potenziale, ma
il tuo più grosso difetto è che prendi alla leggera ogni cosa che dico
e non credi abbastanza nelle tue capacità».
Zachary la spinse via, liberandosi. «Nemmeno tu credi in me».
La donna sospirò e mise le mani avanti. «D’accordo, facciamo un
passo indietro. Hai ragione, ho detto qualcosa di orribile: sono
impaurita, ho il timore che ogni giorno ci trovino e possano separarci.
Tu, poi, sei riconoscibile e fai danni ovunque perché non riesci a
controllare te stesso e il tuo potere».
Il ragazzo l’ascoltò, confuso.
«Quindi d’ora in poi proveremo a comportarci in modo diverso. Io
sarò più calma e lavorerò insieme a te sulle tue emozioni; tu, invece,
mi darai retta. Ho più esperienza e ricordati che senza di me saresti
morto di fame in mezzo alla neve molto tempo fa».
Zachary borbottò un insulto e si limitò a quello, conscio di non
avere scelta. Poi la guardò mentre si allontanava per attizzare il
fuoco. Non aveva torto, tutto sommato lo trattava come un figlio e
cercava di aiutarlo e di renderlo più forte. E non riuscì a immaginare
la sua vita senza quella che ormai era diventata per lui quasi una
madre.
Mosse un passo verso di lei, impacciato e mortificato. Si finse
interessato a ciò che faceva, mentre lei lo ignorava. Poi si avvicinò
fino a che a Karasi fu impossibile far finta di nulla.
«Che vuoi?» sbottò la sciamana.
«Non mi hai mai detto da chi scappi. Mi trascini con te in lungo e
in largo, ma non so da chi fuggiamo».
Karasi sbuffò e si sedette su una folta pelliccia piegata più volte.
«Da Capricorno, mio fratello. Mi dà la caccia per essermi opposta a
una pazzia architettata da lui e Asmodeus, un altro fratello.
Capricorno è astuto, si è proprio meritato il titolo di regnante alla
morte di nostro padre. Non mi sorprende che ogni volta siamo a un
soffio dal venire beccati».
«Quale pazzia?» domandò il ragazzo, curioso.
«Non sono affari tuoi». La donna sospirò e Zachary ebbe
l’impressione che volesse dire dell’altro. Infatti, lei aggiunse: «Senti,
è giusto che ti dica il motivo per cui ho deciso di tenerti con me e
allenarti».
Il rosso le si sedette di fronte, senza smettere di fissarla. «Volevi
una guardia del corpo, ci avrei scommesso».
«No, cretino. Te l’ho già detto che è qualcosa di più importante. Tu
sei destinato a molto più di questo, sei destinato al mondo e lui a te.
Ma non quello in cui viviamo; un mondo diverso».
Zachary scoppiò a ridere e smise solo quando venne
schiaffeggiato. «Ascoltami, imbecille!» tuonò la donna, facendogli
abbassare lo sguardo. «È per questo che ti tengo al sicuro, che ti
alleno e ti potenzio. Tu vieni da un popolo che non esiste più, sei un
sopravvissuto, esattamente il sopravvissuto che cercavo da tempo».
Il ragazzo sgranò gli occhi e rabbrividì. Cosa intendeva? Come
richiamato dal proprio potere, si osservò i palmi delle mani, che lei
afferrò con vigore.
«Il fuoco brucia, purifica, unisce. Ti scorre nelle vene da quando
per la prima volta hai riempito d’aria i polmoni, anzi, da molto prima!
Avrai il potere, sarai il potere».
Gli occhi celesti di Zachary brillarono d’eccitazione. Per la prima
volta si sentì parte di qualcosa di grande; assaporò il concetto di
destino, di qualcosa che avrebbe potuto compiere solo lui. Grazie a
poche parole si sentì speciale e unico. Tremava.
«Ma prima di ottenere tutto questo, prima di compiere la missione
per cui sei nato, dovrai uccidere una persona».
Il demone si bloccò. Uccidere qualcuno? Come avrebbe potuto?
La paura lo pervase, ma non glielo diede a vedere: voleva renderla
fiera. Quindi si fece coraggio e annuì, ricambiò la stretta delle mani e
la guardò così intensamente da renderla orgogliosa. Percepì un
nuovo calore, una nuova scintilla di vita. «Dimmi cosa devo fare».

17 settembre 2022 d.C.


Bosco di Eranthe – Regno di Deverer, Inferno
«Ti piace così?»
Zachary rabbrividì, la voce di Karasi contro il suo orecchio era
calda e sensuale. La donna gli posò un bacio languido sul lobo per
poi prenderlo tra i denti e morderlo piano; il respiro pesante.
Lui, disteso, sollevò il capo per dare un’occhiata a ciò lei gli stava
facendo: lo massaggiava con tale intensità che la sua eccitazione
aumentava in quella mano abile. «Ti prego…» gemette «vai giù».
«Ma ho appena iniziato» ribatté l’altra leccandogli la guancia.
«Preferisco quando me lo succhi» ironizzò il ragazzo.
Ormai era divenuto adulto, un ventisettenne con tutti i muscoli al
proprio posto.
Karasi strinse la presa sul suo membro, infastidita, facendolo
gemere di dolore, ma lo baciò con passione. Gli leccò il mento
scendendo sul collo, poi sul petto fino al ventre, accontentando
quella insolente richiesta.
Zachary chiuse gli occhi e piegò una gamba per stare più comodo,
le passò una mano sui capelli e le spinse il capo più giù. «Sei la più
brava» ammise. «Nessun’altra sa prendermi come fai tu».
«Non esiste un’altra, ragazzino» rispose lei fermandosi per
qualche secondo.
«Sei gelosa?» la punzecchiò.
Karasi alzò il busto, lo squadrò con un sopracciglio sollevato.
«Come potrei essere gelosa di un ragazzino come te?» Si denudò,
gettando l’abito e gli si sedette sopra, traendo appagamento nel
vederlo godere.
«Quindi… non dovrebbe esistere un’altra, giusto?» Zachary si
mise a sedere, le afferrò le natiche e si infilò meglio tra le sue cosce,
poggiando la fronte sul suo petto. «Se esistesse la ucciderei» le
sentì dire e rabbrividì di piacere. Le baciò il seno, le toccò la schiena
così forte da lasciarle segni, aumentò il ritmo. La fece stendere e
prima che lei potesse ribellarsi e decidere qualsiasi altra posizione,
le afferrò il collo e strinse, spingendo con forza. La guardò dall’alto, il
respiro irregolare, l’addome contratto, qualche ciuffo rosso ondulato
incollato alla fronte.
Karasi portò indietro il capo, aprì la bocca e si lasciò andare al
piacere. «Più forte» ordinò.
«Supplicami». Zachary strinse la presa, concentrandosi
sull’espressione di estasi della donna che subito si tramutò in
irritazione. «Sai che non lo farò» e lui sorrise compiaciuto. Mollò la
presa, allontanò il bacino e la fece girare. L’afferrò per i fianchi
costringendola a mettersi sulle ginocchia e la penetrò di nuovo,
tenendola per i capelli. «Stasera comando io».
Karasi non riuscì a rispondere come avrebbe voluto e Zachary
continuò a dirigere l’amplesso che divenne via via più violento e
intenso finché entrambi vi si arresero.
La donna rimase coricata a pancia in giù, stremata e percorsa da
brividi. «Diventi sempre più irruento» borbottò, tenendo la faccia
incollata al cuscino.
«Da che ho memoria mi hai insegnato a dominare. E ora che lo
faccio a letto ti lamenti?» Zac si alzò e raggiunse il catino dell’acqua
posto di fianco al fuoco per lavarsi il viso. Fissò il proprio riflesso e
divenne serio.
Lei stessa poté percepire della tensione. «Se odi così tanto i tuoi
capelli, tingili, cambia colore; cambia identità, scegli quella che più ti
piace». Si voltò su di un fianco osservandolo da lontano, adesso era
seria tanto quanto lui.
«Come fai a sapere che si tratta di questo? Come fai a sapere
tutto ciò che mi passa per la testa?»
«Perché sono vecchia, di persone ne ho incontrate tante nella mia
vita» si mise seduta «e il tuo sguardo parla per te, ti tradisci ogni
volta che ti specchi. Eppure continuo a chiedermi perché odi una
cosa, o meglio, una persona, che non conosci».
«Mi basta ciò che mi è stato fatto». Zachary tornò accanto al letto
per rivestirsi, senza guardarla in volto. «Mi hanno abbandonato,
hanno preferito tenere lei quando invece eravamo in due. Mi è stata
lasciata solo una misera foto. Si sono dimenticati di me».
«Foto che fissi ogni notte prima di addormentarti» puntualizzò lei.
«Mi osservi troppo. Smettila».
«Non ho molto altro su cui focalizzarmi».
Zachary annuì. «Comunque non li tingerò, non voglio che il mio
passato vinca su di me».
«A ogni modo dovresti: durante questi anni ti sei fatto conoscere e
la gente associa la tua presenza alla mia. Ti ricordo che Capricorno
è sempre all’erta».
«Bastava dirlo prima invece che tirare fuori i miei problemi
personali» rispose seccato.
«I tuoi problemi sono la fonte principale delle perdite di controllo
sul tuo potere. Inoltre era una cosa che ti avrei detto a prescindere,
colgo solo l’occasione».
«Ho imparato da tempo a gestirmi, ma per te non sarà mai
abbastanza». Zachary afferrò una brocca d’acqua posizionata
accanto al letto e la gettò sulla parete opposta, infrangendola. «Cosa
cazzo devo fare per evitare i tuoi giudizi e i tuoi rimproveri costanti?»
Karasi scattò in piedi furiosa. «Io ti sto forgiando, ti sto
preparando. Ti ricordo che esiste una profezia e tu ne fai parte, così
come ne fa parte la tua gemella».
Zachary aggrottò le sopracciglia. «Sì, me lo ricordo molto bene.
Eppure, continuo a non capacitarmene. Un bel giorno un tizio
qualunque si è svegliato e ha sentito la necessità di scrivere di due
gemelli separati da bambini e del loro destino?»
«È stata scritta da uno dei Drustar, una civiltà proveniente
dall’Abisso. È una cosa seria, non l’avrei considerata se non fosse
stato così. Non si sa molto su di loro, si sono estinti un secolo dopo
l’arrivo di Lucifer. Sappiamo solo che molti erano sciamani o stregoni
potenziati dall’unione con gli elementali, quindi mi sembra inutile
spiegarti di quanti e quali poteri fossero dotati. Tu sei colui che potrà
impedire la salita al trono del nuovo Sovrano, tu potrai unire i mondi
e farci tornare alla luce. Devi solo trovare ciò che serve».
Zachary si allontanò camminando su e giù per l’ambiente. «Certo
che potresti fornirmi tutte le informazioni insieme. L’ultima volta che
me ne hai parlato ero un ragazzo». Sedette di nuovo, in preda ora
all’agitazione: nuovi e orrendi pensieri erano giunti a disturbarlo.
«Per quanto ne sappiamo potrei anche non essere io. Sai quanti
gemelli di sesso diverso esistono? E tu per una sensazione del
cazzo mi hai preso, addestrato e impedito di trovare una famiglia che
mi volesse bene davvero».
«Non ero sicura fossi tu quando ti ho preso, è vero. Ma dovresti
essermi grato, avrei potuto lasciarti morire di fame e freddo in mezzo
alla neve» rinfacciò per l’ennesima volta «dato che l’unica cosa che
sapevi fare era una stupida, inutile fiammella!»
«Stupida? Inutile?» Il viso dell’uomo si trasfigurò, una vena
pulsante comparve sul collo. Percepì rabbia, si sentì avvilito,
sminuito. Usato.
Nei tre anni prima di incontrare Karasi era passato da una famiglia
all’altra, era stato sfruttato in ogni modo, maltrattato e abbandonato
perché si ribellava alle ingiustizie subite. Non gli era mai stata
concessa pazienza. Karasi l’aveva preso con sé e gli aveva fatto
pesare ogni sforzo fatto nei propri confronti.
L’entrata dell’ennesima grotta adibita a rifugio venne chiusa da
una barriera di fuoco che diveniva nera con l’ammontare della
rabbia. Anche il falò prese quel colore, lo stesso le fiamme che
avvamparono nel letto.
«Questo è abbastanza per te?» Le braccia presero fuoco.
Karasi si guardò attorno. Sul viso un’espressione terrorizzata.
«Così rovini tutto! Fermati!» Attivò una barriera che potesse
proteggerla. «Cosa ti avevo detto? Non hai controllo sulle tue
emozioni! Ora spegniti o saremmo costretti a fuggire ancora per
colpa tua!»
«No» rispose Zachary «sarà per colpa tua. Io posso nascondermi
e nessuno mi cercherebbe, tu non puoi dire lo stesso».
A Zachary arrivò un ceffone sulla guancia. «Riprenditi!
Ucciderebbero anche te perché sanno che siamo legati!»
Zachary strinse i pugni, le fiamme si abbassarono.
Lei forzò un sorriso e, con cautela, cercando di nascondere il lieve
tremore della mano, gli tolse qualche ciuffo dalla fronte, poi gli
accarezzò una guancia col dorso delle dita. «Oltre al destino
importante, hai un grande potere. Non ho mai visto un fuoco di
questo genere, devi andarne fiero».
«Sai benissimo che è così grazie alla tua magia…»
Una freccia lo colpì alla spalla, cogliendolo di sorpresa e facendolo
cadere su un ginocchio.
Una voce in avvicinamento gridò: «C’è anche lei! Capricorno la
vuole viva!»
August, capitano delle truppe, fece il suo ingresso nella grotta e
Karasi lo riconobbe subito. Scattò all’indietro coprendosi con le
poche coperte che non erano bruciate, intanto Zachary non perse
tempo e agì: con un cannone di fuoco scuro lo colpì al petto,
sbalzandolo via.
Un altro arciere appena sopraggiunto scoccò una freccia che si
infranse nella barriera di Karasi. Questa, mentre si vestiva in tutta
fretta, esclamò: «Spingili fuori, dobbiamo scappare!»
Il ragazzo obbedì: spezzò a metà la freccia conficcata nella spalla,
creò un vortice che, nervoso, si agitava verso i nemici, costringendoli
ad allontanarsi.
Ma una volta uscito allo scoperto, prima di poter anche solo
immaginare che ce ne potessero essere altri, venne investito da una
pioggia di frecce.
Karasi gridò con tutto il fiato che aveva in corpo.
Zachary attivò una barriera rendendo vano un secondo attacco. Le
frecce conficcate nella carne divennero cenere, lasciando solo ferite
sanguinanti.
In mezzo agli alberi e sulla parete rocciosa sopra di loro vi erano
almeno una trentina di uomini e quando Karasi uscì e li vide quasi si
sentì mancare.
Capricorno aveva studiato molto bene i suoi movimenti nel corso
degli anni e, vista la compagnia di cui godeva la sorella, si era
premunito.
«Li annientiamo in un attimo!» Zachary, sofferente, cercò di
rassicurarla.
Karasi vide oltre il gran numero di avversari da affrontare: tre di
loro avevano attivato le rispettive barriere, attorno alle mani sfere di
luce verde. «Capricorno ha assoldato dei Kanbu, demoni di rango
basso con capacità magiche apprese nel tempo».
«Come te?» ironizzò lui.
«Non osare, io provengo da una famiglia illustre e la magia ce l’ho
nel sangue».
Zachary si voltò verso i tre. Avevano zanne ingiallite, corna
rovinate e spezzate, volti umanoidi dall’incarnato pallido e abiti
consunti.
Come richiamati dalla curiosità del ragazzo sui loro poteri, i Kanbu
attaccarono. I primi due lo investirono con spostamenti d’aria che
spensero la sua protezione infuocata.
La stessa Karasi rimase sorpresa: o loro erano troppo forti o
Zachary, per quanto migliorato, non riusciva a reggere per più di un
certo tempo le proprie creazioni.
Il terzo demone era avanzato per avvicinarsi alla sciamana e,
approfittando della sua interdizione, rilasciò lo stesso attacco. Karasi
venne sbalzata lontano e batté la schiena contro la parete rocciosa
dentro la quale si erano nascosti per mesi.
«Hey tu!» Zachary era furioso per l’affronto e investì lo stesso con
un’ondata di fuoco che colpì anche alcuni arcieri vicini.
I sopravvissuti misero l’arco in spalla e impugnarono un’altra
arma, chi la spada corta, chi il pugnale.
Il ragazzo fu pronto a difendersi ma una nuova pioggia di frecce
partì da punti ignoti in mezzo al bosco; una lingua di fuoco le
incenerì tutte.
«Dobbiamo separarci!» gridò all’improvviso Karasi, dolorante,
alzandosi in piedi a fatica: una delle frecce si era conficcata in una
spalla. «Vai a nord, c’è un portale che ti condurrà da alcune persone
che ti aspettano. Zac devi ascoltarmi! Sarai la loro guida e porterai i
mondi a unirsi in uno».
Ma lui la ignorò: non aveva intenzione di lasciarla sola. Si diede la
carica e lanciò palle di fuoco agli avversari. Alcuni bruciarono
fuggendo via, altri morirono sul colpo. Indietreggiò spingendo anche
lei. «Andiamo insieme! Fammi strada, ti copro le spalle!»
«Dammi ascolto! Non hai tempo e io sono troppo lenta: vai a nord,
costeggia la montagna e segui l’aura del portale. Non perdere altro
tempo».
Zachary lanciò fiammate tutto attorno. Gli uomini di Capricorno
venivano uccisi e feriti, ma le frecce che piovevano dal cielo lo
destabilizzavano.
Karasi quindi lo smaterializzò contro il suo volere e Zachary si
ritrovò nel bosco, lontano dallo scontro, guardia alta e occhi sbarrati;
il respiro veloce gli riempiva le orecchie. «Karasi!» chiamò con
orrore.
Intorno solo il cinguettio degli uccelli e il fruscio di animali
striscianti in mezzo ai cespugli.
«Karasi!»
Poi, all’improvviso, un silenzio innaturale.
Cercò di controllare il respiro. Aprì la mano e accese una palla di
fuoco pronta per essere lanciata.
Un Kanbu uscì allo scoperto. Anche lui, tra le mani, due sfere
pronte per essere scagliate.
«Ti conviene sparire dalla mia vista» intimò Zachary, ma l’altro
sorrise beffardo, mettendo in mostra due file di denti storti e gialli.
Presto nuovi scalpiccii giunsero da ogni lato e il ragazzo comprese
che erano troppi e molto più abili di lui.
“Come cazzo hanno fatto a sapere dove fossi?” pensò. E prima
ancora che potesse attaccare i soldati, che non sembravano avere
particolari doti strategiche, venne colpito in pieno da uno
spostamento d’aria che lo mandò a terra. Batté la schiena contro un
tronco e quando lanciò una fiammata al Kanbu, colpendolo, una
freccia proveniente dall’alto si conficcò nel braccio.
Zachary gridò e un’altra lo colpì alla coscia. Attivò una barriera e
altre frecce si disintegrarono prima di toccarlo. Ma dovette impiegare
una grande concentrazione e fare uno sforzo mai fatto per
mantenere attivo lo scudo, soprattutto contro gli attacchi del demone
sciamano. Quello si avvicinava e lui indietreggiava, più Zachary
attaccava più quello lo sfotteva: il ragazzo non avrebbe potuto
competere con l’esperienza dell’altro demone. Continuò ad attaccare
e a soccombere finché la coscienza non si fece sentire: avrebbe
dovuto dare retta a Karasi e andare verso l’unica via di fuga
esistente.
Cercò di fare mente locale. “Ha detto di andare a nord, verso
l’aura del portale”. Quindi scattò in una corsa disperata, senza
riuscire a mantenere alta la protezione attorno a sé; subito una
decina di soldati, tra uomini e creature, gli furono alle calcagna,
divise in due file per lasciare spazio d’azione al Kanbu.
Il demone lanciava attacchi rivolti alle gambe di Zachary, con
l’intento di arrestare la corsa e poterlo catturare vivo, ma riuscì solo
a farlo inciampare più volte. Il ragazzo a ogni colpo continuava a
correre a perdifiato, sorprendendosi del controllo che riusciva a
mantenere sulle proprie gambe.
Quattro uomini spuntarono d’improvviso da destra. Uno di loro,
arciere, scoccò una freccia che lo mancò, costringendolo a deviare
la corsa verso sinistra.
Zachary accelerò, pensando a Karasi e a dove fosse, temendo per
la sua incolumità. Come un flash, il suo cervello gli fece immaginare
le possibili torture alle quali avrebbero potuto sottoporla. La rabbia
montò. Lanciò sfere e lingue di fuoco a destra e a sinistra colpendo
alla cieca solo tronchi e cespugli.
Ben presto un sentiero segnato da fiamme nere indicò il tragitto ai
nemici, alcune di esse sbarrarono la strada a molti inseguitori, ma
ciò non fu abbastanza per fermare i più desiderosi di catturarlo, tra
cui il Kanbu.
Zachary venne colpito alla schiena, ma anche quella volta riuscì a
rimanere saldo sulle gambe, continuando a correre senza voltarsi
indietro. Il sangue gli inzuppò la casacca colando fino alle gambe.
Schivò un attacco e saltò delle radici, deviò ancora il percorso per
evitare un nuovo soldato che quasi riuscì a prenderlo. Corse più
veloce che poté fino a quando la luce violacea si mostrò in
lontananza. Davanti a lui il vortice era in procinto di chiudersi e
senza indugiare ci si gettò dentro.

Si svegliò: prono, il capo riverso di lato, la guancia sinistra


solleticata dall’erba bagnata. La pioggia gli aveva inzuppato i vestiti
e il freddo gli era penetrato nelle ossa. Tremò, le ferite iniziavano a
farsi sentire e il dolore era insopportabile. Il sangue aveva macchiato
il prato. Non riusciva a muoversi.
Aprì gli occhi, la vista annebbiata a causa dell’acqua. Sollevò il
braccio meno dolorante per pararsi il viso e solo allora distinse le
alte mura esterne di una casa che a lui sembrò appartenere a un
ricco aristocratico. Finestre troppo grandi, finiture di pregio. Troppo
per un comune cittadino infernale.
Dove lo aveva mandato Karasi? Già… Karasi. Che fine aveva
fatto? L’avevano catturata? Torturata? O forse era riuscita a
scappare? Zachary ci sperò con tutta l’anima anche se era
probabile, invece, che l’avessero uccisa.
Pianse serrando forte le palpebre. Non emise un solo lamento, ma
dentro di sé gridava.
Poi, all’improvviso, la pioggia smise di bagnarlo.
Una mano gli si posò sulla spalla, era piccola e fredda. «Riesci ad
alzarti?»
Era la voce di una ragazza magra e minuta, con lunghi capelli
arancioni e accesi occhi dorati; Zachary non percepì ostilità in lei. Si
sentì meno in pericolo e pregò di non sbagliarsi.
«Non lo so».
«Prova a fare uno sforzo, non posso lasciarti qui in giardino».
Così, annuendo, lui provò a fare forza con le braccia ma delle fitte
alla schiena e alla spalla lo ributtarono bocconi a terra. «Non ci
riesco» ma si alzò e riprovò con l’aiuto della sconosciuta, riuscendo
a mettersi in ginocchio. La vista tremolò. Vomitò dopo lunghi attimi di
agonia.
La ragazza copriva entrambi con un ombrello nero.
Strofinò il polso sulla bocca e si alzò con lentezza. Lei lo
precedette sul vialetto lastricato attendendo sotto il portico,
invitandolo poi a entrare in casa.
«Grazie per il tuo aiuto» borbottò lui impacciato varcando la soglia.
La ragazza non fiatò, ripose l’ombrello e chiuse a chiave la porta.
«Mi chiamo Ania» gli disse.
Constantine Schneider

«Dunque, Vostre Eminenze, analizziamo i fatti dal principio».


L’ispettore Costantine Schneider, un Serafino del DEP, Distretto
per l’Equilibrio del Paradiso, si sedette di fronte alle tre Dominazioni.
L’uomo, dai capelli bianchi al lato sinistro e neri al lato destro, un
occhio azzurro e l’altro nero, sistemò il mantello scuro sulle spalle.
«Abbiamo notato che qui al DEM la situazione sta… sfuggendo di
mano».
La Dominazione anziana s’incupì, i simboli in lingua enochiana si
illuminarono e la voce si propagò nella stanza spoglia. «I problemi
sono venuti alla luce non appena la figlia adottiva del Serafino Chris
Dunne ha portato alla confessione un Arcangelo dinnanzi al sacro
tribunale, rivelando la presenza di demoni sul piano terrestre e la
collaborazione tra questi e alcuni della sua stessa squadra. Poi
siamo venuti a conoscenza che la ragazza è in realtà una succube,
mandata qui come spia dal deceduto Sergei Baal Katromirov. Sei
Arcangeli su sette sono stati imprigionati e solo una di loro, Mathael,
è già stata rilasciata poiché con meno capi d’imputazione rispetto
agli altri. Ma lei è stato convocato d’urgenza a causa della
successiva fuga di due Arcangeli e della succube. Pare che l’unico
rimasto fuori dal carcere, Raphael Blanchett, abbia corrotto le
guardie per alterare la videosorveglianza e coprire Gabriel Cooper
che ha forzato prima la sua cella e poi quella di Cassiel e della
demonessa; questo perché in assenza di chiavi».
La donna dei tre aggiunse: «Questo è ciò che afferma Dunne».
«E noi non possiamo dare per certe le parole di un singolo
individuo. Se non ci sono prove tangibili sarà difficile per me fare
luce sulla questione». Schneider aprì il fascicolo contenente tutte le
notizie e le dichiarazioni trascritte. Mise una mano sulla guancia,
assorto. «Occorrerà interrogare gli Arcangeli, le guardie, i Serafini e
tutti coloro che possono essere stati presenti in quelle ore».
«Bene» convenne la Dominazione anziana. «Sarà seguito in tutto,
vitto e alloggio sono a nostre spese. Si tratta di una questione
importante».
«Vi ringrazio Eminenze, andrò a parlare con gli Arcangeli rimasti
poi interrogherò gli altri possibili testimoni». Si alzò e si inchinò al
loro cospetto.
I giudici, in contemporanea, lo salutarono con un cenno del capo e
lo seguirono con lo sguardo finché quello non fu fuori.
Una Potestà raggiunse l’ispettore e il rumore dei passi metallici la
precedette. «Le farò strada nella struttura finché non avrà
memorizzato il luogo. Dove la porto?»
«Devo interrogare gli Arcangeli Michael, Uriel e Raziel. Può
condurmi da loro, grazie». Il Serafino mise sottobraccio il fascicolo e
seguì la Potestà che con i suoi movimenti meccanici lo condusse
alle carceri.
«Oggi visite?» lo accolse Michael, con la mano premuta sul gesso
attorno al polso che, quella mattina, aveva ripreso a fargli male.
Raziel si alzò di scatto e indicò il Serafino. «Fammi uscire».
«Bálint, ti taglio il braccio se non mostri rispetto» rispose la
Potestà.
«Signori, calmiamoci un momento e andiamo con ordine».
Schneider si avvicinò alle celle in modo da poter osservare meglio
tutti e tre. «Sono giunto qui per disquisire in merito agli ultimi
avvenimenti» indicò le sbarre distorte. «Chi vuole deporre per
primo?»
«Io» si propose Michael «a patto che mi venga dato qualcosa per
il dolore. Questo polso mi sta facendo impazzire».
«Non gli stai facendo un favore» ribatté la Potestà.
«È giusto che gli venga dato qualcosa: è un prigioniero, non una
bestia» precisò il Serafino, poi chiese di aprire la cella. «Andremo
nella stanza numero sette».
Una volta dentro, Schneider e l’Arcangelo si sedettero a un tavolo
posizionato lì per l’occasione; il terzo angelo rimase fuori, di guardia.
«Da dove cominciamo?» Michael era piuttosto nervoso, in più il
suo antidolorifico non si vedeva ancora. «Anche se mi farebbe
comodo non soffrire come un cane. Da quando non c’è Raphael…»
Il Serafino si sistemò meglio sulla sedia, aprì il fascicolo e
posizionò tra lui e Michael un registratore. «È la prassi» disse,
notando lo sguardo indignato dell’Arcangelo. «Comunque posso solo
immaginare cosa stia patendo, ma sono certo che dopo il nostro
colloquio le verrà portato quanto richiesto».
«Carino da parte sua non chiamarlo interrogatorio. Suona molto
più amichevole».
Schneider ignorò la considerazione. «Iniziamo da quando siete
rientrati in Paradiso dopo la battaglia».
«Va bene, non ho nulla da nascondere» mentì l’altro.
«Avete intrapreso un’alleanza con dei demoni tenendo tutto il
dipartimento all’oscuro della faccenda, è corretto?»
“Sono nella merda, perfetto!” pensò Michael. “Ma arrivati a questo
punto, perché mentire? Cassiel ha spifferato tutto e noi non
possiamo più fuggire”. «È corretto» rispose.
«Quindi conferma che i problemi all’interno della struttura sono
iniziati quando è venuto tutto a galla?»
«Confermo in parte». “Meno male che non ha chiesto di Odry e
Satan!”
Il Serafino sollevò un sopracciglio. «Cosa intende?»
«I problemi ci sono sempre stati. Diciamo che piano piano
abbiamo perso la pazienza. Si può dire “la goccia che ha fatto
traboccare il vaso”?»
«Un cliché, ma calza a pennello. Di quali problemi parla?»
Prima che Michael potesse rispondere, bussò un’infermiera e
quando le venne dato il permesso di entrare, posò sul tavolo un
bicchiere con una pastiglia ormai quasi del tutto sciolta. Non disse
una parola, non guardò nessuno e uscì.
L’Arcangelo tirò un sospiro di sollievo e sollevò il bicchiere con
mano tremante. «I Serafini hanno impedito l’accesso a qualsiasi
infermiere per potermi curare come si deve, nonostante l’ordine delle
Dominazioni. Così Raphael ha fatto ciò che ha potuto e di nascosto
mi forniva qualcosa per il dolore».
Schneider gli diede il tempo di bere e di riprendersi. Michael era
l’Arcangelo più famoso del Paradiso, eppure in lui non vedeva altro
che un giovane uomo vulnerabile e preoccupato.
«Per tornare alla domanda di prima» riprese l’altro «posso dirle
che gli esempi sono innumerevoli, ma in generale Chris si è sempre
dimostrato uno che impiega fin troppo tempo a macchinare un piano
efficace, poi è sempre stato irascibile e non si è mai lasciato
scappare l’occasione per sminuire chiunque fosse sotto di lui. A conti
fatti, penso lo facesse di proposito per farci cadere in fallo… o
qualcosa di simile. Non lo so, è un pazzo».

Uriel, prima di accomodarsi, strinse cordiale la mano di Schneider.


«Grazie di essere qui».
«Grazie a lei, piuttosto, per la collaborazione» il Serafino sorrise.
«Dunque. Secondo la sua visione dei fatti, quando sono iniziati i veri
problemi?»
L’Arcangelo si accarezzò il mento, pensieroso. «È complicato
fissare un punto preciso, in realtà. Ma penso sia stato quando
Agatha, la figlia adottiva di Dunne, ha portato Cassiel in tribunale. In
particolare, quando, durante lo stesso processo, lei è stata
smascherata. I Serafini hanno iniziato a comportarsi in modo
ambiguo, soprattutto Chris che non ha perso tempo ad arrestarci al
nostro rientro dalla battaglia per il Graal. Una volta rinchiusi in cella,
abbiamo dovuto sopportare parecchio».
Constantine segnò qualcosa nel blocco degli appunti di fronte a
sé. «Cosa facevano?»
«Le segrete sono state uno dei tanti posti in cui passeggiavano,
quindi ci assillavano con le loro provocazioni. Di sicuro speravano di
farci reagire per indurire o prolungare la nostra pena; o magari
entrambe. Ma temo che Dunne sia impazzito quando ha scoperto
che Agatha è stata ingravidata da Cassiel. Una sera o una mattina –
credo di aver perduto la cognizione del tempo – è venuto
appositamente per picchiarlo. Raphael ha avuto un tempismo
perfetto; Cassiel sarebbe potuto morire».
«Capisco. In che modo è avvenuto il suo rapimento e quello di
Agatha Dunne?»
«Chris ha ottenuto le chiavi. Ha aperto prima la cella della ragazza
e l’ha portata via. Non so dirle quanto tempo dopo, poi, è tornato a
prelevare anche Cassiel. Nel frattempo, ci ha minacciati, di nuovo, di
buttarci sulla Terra».
Raziel si sedette, le braccia conserte e un’espressione truce per
comunicare tutto il suo disappunto. «Quando ci farete uscire da
questa merda di posto?»
«Presto, da quello che dice il vostro dossier» rispose il Serafino,
con estrema calma «ma dovrete anche continuare a comportarvi in
maniera civile. E collaborare. Le chiedo anche di andarci piano con i
termini scurrili. Sa, sto registrando» e indicò il dispositivo ancora
attivo.
Raziel rimase a fissarlo.
«Cominciamo: avete notato qualche alterazione nella sorveglianza
di turno?»
«Certo che sì, non c’era nessuno! Dunne è passato come se nulla
fosse. Secondo Uriel quell’animale ha corrotto quei coglioni che
stanno dietro i monitor del controllo video. Dopo un po’ è tornato per
Gabriel, ma lui aveva già fatto in tempo a uscire dalla cella, così si
son presi a pugni e a pugnalate».
«Come ha fatto il signor Cooper a uscire?»
«Ha deformato le sbarre. Le ha aperte come le tende di casa sua.
Non pensavo fosse così forte».
«Evidentemente…» anche Schneider rimase sorpreso nell’averne
conferma. «Ha fatto lo stesso con le altre due celle?»
«Hanno detto questo Chris e gli amici? No, cazzo, le altre due
sono state aperte allo stesso modo per dare la colpa a Gabriel. O
almeno ci hanno provato. L’hanno fatto di fronte a noi come se non
esistessimo, quei bastardi! Ma nessuno di voi crederà mai a degli
Arcangeli che sono stati messi nella merda per colpa di alcuni
demoni, vero?»
Constantine non volle dargli la soddisfazione, quindi proseguì. «E
cosa mi dice del dottor Blanchett?»
«Quando Chris è venuto da noi per picchiare Cassiel, il sesto
senso da gemello l’ha portato a salvarlo e sono stato felice di vedere
quella faccia di merda di Dunne pesta; hanno fatto un po’ di
wrestling, quella roba da ring. La seconda volta Raphael non è
intervenuto abbastanza in fretta».
«Mi sta dicendo che non è la prima volta che Dunne commette
violenza nei vostri confronti?»
Raziel annuì.
Schneider lo congedò e rimase solo nella sala. Fissava
concentrato i dossier, giocherellando irrequieto con la penna, e
incrociava le informazioni con quelle degli appunti presi. “Possibile
che non ci siano prove e che nessuno al di fuori degli Arcangeli
abbia visto niente, nemmeno per sbaglio?” Si grattò la fronte con la
penna. “La testimonianza di tre carcerati contro cinque Serafini. Sarà
più difficile del previsto”.
«Buongiorno, chiedo scusa per il ritardo». Mathael entrò trafelata,
con due cartelle piene tra le braccia. Posò tutto sul tavolo e prese
posto, porgendogli la mano.
Schneider fu strappato dai suoi pensieri e si affrettò a ricambiare.
«Ha portato qualcosa per me?»
«No, purtroppo» rispose lei, sistemando i capelli dietro le orecchie.
«Mi vengono affidate le pratiche di tutti i Serafini, può immaginare
molto bene che la mia posizione ne risentirebbe ancor di più se non
soddisfacessi questi loro dispetti».
«Comprendo, vuole esplicitare la sua opinione in merito?»
«Parliamo del loro atteggiamento nei miei confronti?» rispose
stizzita. «Sono sempre stati i cagnolini di Chris e da quando ho
scontato la mia pena e sono tornata a lavorare, quell’essere e gli
scagnozzi mi hanno caricata di lavoro. Penso ci sia di mezzo anche
un po’ di vendetta a causa della denuncia per violenza domestica.
Se invece vuole la mia opinione in merito all’atteggiamento di Chris
nei confronti di tutti gli Arcangeli, beh è molto peggiore».
«Pensa che sia stato tutto organizzato ad hoc per mettervi nella
condizione di essere giustiziati?»
Mathael immaginò che quella informazione fosse stata fornita da
uno dei colleghi già sentiti, quindi annuì. «Credo di sì. Ci ha sempre
disprezzati perché non abbiamo mai voluto seguire i suoi stupidi
piani che, per inciso, ci hanno sempre messo a rischio».
«Vede, signora, il problema è questo: abbiamo una squadra di
Arcangeli che sostiene una versione, la squadra dei Serafini una del
tutto opposta, anche se devo ancora interrogarli; le Dominazioni
stanno nel mezzo. Ovviamente non ci sono prove tangibili». Mise
una mano sotto il mento, scrutandola con attenzione. «Capisce ciò
che voglio dire?»
«Le prove sono sepolte sotto metri di terra, quei disgraziati le
hanno nascoste bene. E noi, qui, siamo in pericolo. Quanto pensa ci
metterà uno come Chris, Serafino, forte e con anni di esperienza alle
spalle, a buttare giù un Arcangelo che non può impugnare la propria
arma? O una come me?» Lo sconforto di Mathael si palesò
attraverso lo sguardo. «Schneider, lei deve insistere con le guardie
della sicurezza».
«Farò del mio meglio, ma se sono state corrotte e vivono come
voi, in un clima di timore costante, sarà difficile farle confessare»
sorrise mesto.
«Quindi lei crede alla nostra versione?»
«Siete arrabbiati, il vostro rancore è quasi palpabile. Ma non
posso credere ciecamente a nessuno, io credo nelle prove che, a
oggi, sono inesistenti. Ma le rendo noto che faccio fatica ad
accettare la collaborazione che avete intrapreso con i demoni,
nonostante siate riusciti a scongiurare un disastro. Questi,
comunque, non sono affari di competenza del mio Distretto».
«Capisce ora perché abbiamo evitato di dirlo a Chris? Se
avessimo aspettato lui, ora chissà in che situazione saremmo».
Schneider le diede ragione con un cenno del capo, eppure non
sembrava del tutto convinto dell’idea che un Serafino influente come
lui si fosse macchiato di simili atrocità e negligenze. «Bene, ora la
lascio libera di andare, è stato un piacere interloquire con lei».
A Mathael quasi dispiacque dover abbandonare l’interrogatorio di
gran lunga più piacevole del lavoro d’ufficio che l’attendeva. Si alzò,
raccolse le cartelle, lo salutò e uscì.
Fu un ulteriore dispiacere incrociare Chris a tre metri dalla stanza,
affiancato dalla Potestà.
Si scambiarono uno sguardo astioso, poi il Serafino raggiunse il
collega dell’altro Distretto, chiuse la porta alle spalle e sedette di
fronte a lui. «Finalmente qualcuno che possa aiutarci a far luce sulla
questione. Gli Arcangeli stanno coprendo dei demoni che si
nascondono sul piano terrestre e…»
Schneider alzò una mano, interrompendo il discorso. «Deve
perdonarmi, ma sono qui per l’improvvisa scomparsa dei tre
Arcangeli e della succube».
Chris aggrottò le sopracciglia e si mise a braccia conserte.
Schneider analizzò ogni suo movimento “È restio a esporsi, le
braccia sono rigide, tiene la schiena all’indietro sullo schienale come
a voler fuggire dalla questione”.
«Non vedo perché non partire dall’inizio! È chiaro che le cose
sono collegate».
«Non metto in dubbio la sua affermazione, ma i fatti sono sfociati
in qualcosa che ha richiesto l’intervento del DEP; ergo, mi occuperò
di ciò che mi compete. I demoni fanno parte del campo dell’Equilibrio
dei Mondi».
Chris si mostrò infastidito. «Bene, allora iniziamo».
Schneider gli rivolse un breve sorriso e, accompagnato con un
cenno del capo, indicò un livido quasi scomparso sul naso di Dunne
e i punti sulla guancia. «Quello sembra un brutto colpo. Ha lottato
con uno degli Arcangeli da poco?»
«No, è a causa di un allenamento intensivo».
«Sì, ho avuto modo di leggere qualcosa su di lei: è un pugile, non
è così?»
Silenzio.
«Quindi non ha avuto modo di incrociare nessun Arcangelo».
«Mathael e Raphael» rispose Chris con stizza «prima che lui
scappasse con gli altri. Ma se anche fosse, quei due cadrebbero
ancora prima di provare a colpirmi».
Il sorrisetto che gli si dipinse sul volto fu alquanto fastidioso, ma
Schneider rimase serio e non gli diede soddisfazione.
«Gli altri li ho incrociati nelle carceri, tutti rinchiusi nelle loro
gabbie».
«Mi racconta la sua versione dei fatti?»
«La sola versione dei fatti, intende?» Dunne si sporse in avanti.
«Come mai così serio e sospettoso nei miei confronti? Nei confronti
di Mathael ho percepito un certo tatto».
“Stava origliando?” Schneider rimase impassibile. «L’ascolto».
«A quanto pare, quel traditore di Raphael ha corrotto le guardie
per coprire la fuga di Cooper che, a sua volta, ha fatto uscire Cassiel
e la succube. Per fuggire hanno dovuto contare sulla forza di quello
scimmione perché le chiavi stanno alla parete della sala di controllo.
Immagino abbia visto, venendo qui, le condizioni delle sbarre».
«Ho visto, ho visto. Una forza notevole».
«Un grande spreco. Poi penso siano scesi sulla Terra e abbiano
raggiunto quei cani dei loro amici demoni». Chris distolse lo sguardo,
indispettito, si massaggiò la gola.
“È a disagio” ragionò Schneider. «I sette Arcangeli in servizio
presso il DEM sono sotto la sua giurisdizione. In quali rapporti
siete?»
«Se si fossero comportati meglio, saremmo in ottimi rapporti e
godrebbero del mio più totale rispetto».
La supponenza di Dunne continuò a infastidire Schneider.
«Invece hanno sempre preferito approfittare della mia fiducia e
dello spazio che davo alle loro opinioni durante l’organizzazione di
ogni missione. Mi hanno sempre scavalcato».
«Forse non è stato abbastanza fermo e severo».
Lo sguardo di Chris lo trapassò e l’indignazione si dipinse sul suo
volto, ma cercò di contenersi. «A quanto pare…»
«Cosa l’ha trattenuta dal punirli in precedenza con qualche
sanzione? Per evitare che si arrivasse a tutto ciò, intendo».
Chris batté le mani sul tavolo. «Senti un po’, Schneider, mi hai già
seccato. Ti consiglio di levare quello scetticismo dal tuo modo di
fare, soprattutto quando parli con me».
L’altro Serafino si sporse in avanti, lo fissò. «È il principio di una
minaccia o soltanto un caldo consiglio?»
Dunne sorrise sfacciato, lo squadrò, poi si alzò. «Quando ci
saranno domande utili a trovare quei maledetti, fammi un fischio.
Fino ad allora non farmi perdere tempo» e si avviò verso l’uscita.
Schneider fissò la porta lasciata aperta, dubbioso. Sentì di aver
esagerato. Se avesse evitato certi commenti e certe domande, forse,
sarebbe riuscito a strappargli qualcosa di interessante. Oppure
poteva bastare anche solo quella serie di reazioni.
A seguire vennero interrogati gli altri quattro Serafini, ma in
ognuno dei casi fu un buco nell’acqua. Nessuno di loro disse
qualcosa di utile, nessuno sapeva nulla, ma tutti avevano
disprezzato gli Arcangeli, descrivendoli come traditori.
Interrogare le guardie di turno la sera della sparizione dei quattro
si rivelò infruttuoso, sia per le scarse informazioni fornite, in quanto i
due negavano qualsiasi tipo di corruzione, sia per l’atteggiamento
quasi timoroso nell’affrontare la questione.
Schneider passò al distretto una settimana, lasso di tempo in cui
osservò con attenzione i Serafini, le Dominazioni e tutti coloro che
giravano attorno a quelle figure angeliche. Studiò tutte le riprese, ma
non vi trovò nulla che potesse servirgli: erano state manomesse e
risultava mancante un blocco di un’ora e venti minuti. Non seppe
nemmeno se considerarla una valida prova.
“Possibile che Cooper ci abbia messo così poco tempo ad aprire
con la forza tre celle?” pensò. “Occorre valutare il dolore provato nel
toccare le sbarre, quelle basse temperature ustionano la pelle. Però
non coincide il fatto che in un’ora e venti minuti nessuno se ne sia
accorto”.
Il Serafino aveva anche sperato nella presenza di qualche altro
carcerato, ma da tempo ormai, lì sotto, vi erano stati solo gli
Arcangeli e la succube.
Qualcosa gli diceva che la chiave erano i due potenziali corrotti.
“Devo spingermi oltre” pensò, chiudendo il file delle riprese, aperto
nell’ultimo tentativo di capirci qualcosa. “Potrei chiedere il permesso
di controllare gli acquisti delle guardie per confermare la presenza di
una somma di denaro maggiore rispetto alla media in uscita”.
Scosse il capo, prendendosi per stupido. “Questo significa
arrampicarsi sugli specchi. Non avranno di certo ricevuto un bonifico,
saranno stati dati loro dei denari in contanti. Ci vorrebbe il Telechel,
ma la legge lo vieta se non vi sono morti implicate”. Sospirò
viaggiando con la mente fino all’immagine della creatura Celeste: un
essere alto dalla pelle bianca come il latte, ossuto, gli occhi coperti
da due piccole ali e tutto il resto del corpo collegato a una
gigantesca macchina della quale i cavi si perdevano oltre la vista.
Era in grado di ipnotizzare colui che veniva condotto a giudizio. A
nessun altro era permesso osservarlo, e così poteva scoprire se ciò
che si sosteneva fosse davvero la verità o una menzogna.
“Ma in effetti non è così semplice come può sembrare, si parla di
quattro fuggitivi accusati di alto tradimento nei confronti di Dio”
pensò ancora torturandosi il mento con le unghie. “Devo tornare in
sede e chiedere il mandato per sottoporre tutti gli indiziati al
Telechel” e così si decise; raccolse tutti i documenti a sua
disposizione e lasciò il DEM quella notte stessa.

Chris si allontanò dalla vetrata dello studio in tutta fretta, uscì in


corridoio con incedere nervoso, intercettò e prese Holian per un
braccio trascinandolo dentro una delle sale riunioni, a quell’ora
vuota. Era solito trattenersi sempre oltre l’orario in quei mesi e così,
come lui, facevano anche gli altri Serafini.
«È arrivato il momento Holian, non possiamo più indugiare:
Schneider tornerà qui con i rinforzi e noi dobbiamo agire prima che
chiudano il DEM».
«Calmati, vorrà dire che domani prenderemo le giuste precauzioni
e tutto tornerà… in equilibrio».
«L’equilibrio che anche gli altri mondi conosceranno presto: il mio
dominio».
«Il nostro» lo corresse l’altro.
Chris si lasciò scappare un sorriso compiaciuto; batté una mano
sulla spalla del compagno. «Andiamo, dobbiamo avvisare gli altri».
La caccia

Mathael, seduta nella comoda poltrona girevole del suo ufficio,


fissava il proprio riflesso sullo schermo scuro del computer.
Pensava.
Da quando era stata scarcerata, si era trasferita in un
appartamento in affitto vicino al DEM, in attesa di trovare la casa dei
sogni per ricominciare tutto da capo. E in quei giorni la temporanea
sistemazione le mancava da morire. Lavorare nella struttura era
diventato una tortura. La tensione le rendeva complicata la gestione
dei compiti e Chris non faceva altro che renderle la vita difficile.
Inoltre, la richiesta di divorzio le era stata rifiutata, forse per ripicca
più che per puro interesse nel restare con lei, surreale vista la piega
che avevano preso gli eventi e la denuncia ancora in corso. L’unica
cosa che poteva fare era attendere il verdetto del processo.
Si sentiva osservata, minacciata anche solo con uno sguardo.
Stava iniziando ad avere paura.
Quel giorno sembrava non finire mai. Mancava un’ora alla pausa
pranzo e lei aveva terminato le mansioni da svolgere. Così,
sbuffando, si trovò a sistemare i cassetti della scrivania. Tra fogli
bianchi, ricerche da terminare non urgenti, lettere e riviste, trovò
qualcosa di cui si era scordata.
In mezzo alle pagine di un settimanale di economia, trovò un foglio
ripiegato più volte. Lo distese e il suo sguardo divenne curioso: era
la stampa di una foto che tempo prima aveva scattato alla schiena di
Satan dopo essere stati a letto assieme, mentre lui dormiva.
“Avrei dovuto fare delle ricerche su questi simboli, ma l’ho
dimenticato!” esclamò tra sé. Passò le dita sul foglio, come volesse
accarezzare la schiena del demone che, a pensarci bene, le
mancava.
La memoria la riportò alla battaglia, nella quale Satan si era
trasformato in qualcosa che poteva avvicinarsi alla sua reale forma.
A causa della mutazione, buona parte degli abiti erano stati lacerati
e, una volta recuperata la forma umana, lei aveva notato che alcuni
sigilli si erano infranti, scomparendo dalla pelle. Li aveva visti di
sfuggita, preoccupata com’era per lo scontro e lo stato di salute del
demone. Per sua sfortuna, non riusciva a ricordare quali fossero stati
cancellati.
Ma di cosa si trattava? Rune? Antichi simboli di origine
demoniaca?
Mathael aveva studiato tanto e a lungo per arrivare dov’era, ma
non aveva mai approfondito abbastanza la storia più antica del
regno di Lucifer.
Decise di rimettersi al computer e di fare una ricerca.
Passarono trenta minuti.
Era fin troppo assorta tanto da non sentire i morsi della fame; fu
un grido femminile, invece, a destarla dalla profonda concentrazione.
Staccò lo sguardo dal monitor e rimase in attesa. Udì un macabro
gorgoglio. Andò verso la porta cercando di non far rumore coi tacchi
a spillo; aprì piano.
Lo spettacolo che le si presentò davanti fu agghiacciante: tre
guardie stavano sgozzando degli stagisti, quattro di loro erano già a
terra; una donna delle pulizie cercò di fuggire urlando, ma venne
agguantata e le spararono alla testa. Le pareti erano ricoperte di
schizzi di sangue. Il peggio fu vedere Kazel e Yovus dare manforte
ai soldati: il primo afferrò una segretaria appena uscita
dall’ascensore e le spezzò il collo.
Mathael richiuse la porta a chiave con tutte le mandate disponibili
e vi si appoggiò con la schiena. “Cosa sta succedendo?” Corse
verso la finestra e abbassò le imposte facendo calare il buio. Sperò
pensassero che l’ufficio fosse vuoto. “E ora che faccio?”
All’improvviso un’immagine, che sperava di aver dimenticato, le
occupò la mente: grida, sangue, morte. Le mancò il respiro. Scivolò
sulle ginocchia, chiuse gli occhi per imporsi calma e un respiro
regolare. Premette le mani sulle orecchie e chinò il busto in avanti.
“Devi stare concentrata” si disse. “Respira, respira” ma intorno a lei
le grida aumentavano.
Sotto le ginocchia non percepì più le mattonelle, bensì un
lastricato. Aprì gli occhi, era notte e l’aria fredda la fece rabbrividire.
Abbassò lo sguardo, stranita. Indossava gli abiti della sua vecchia
vita: un peplo drappeggiato a mo’ di tunica color zafferano, fermato
in vita da una cintura. Con un mantello di lana scura cercava di
ripararsi, avvolgendosi le braccia e la testa. Posò le mani a terra e
con raccapriccio riuscì a distinguere la chiara sensazione della
sabbia tra le pietre. “Non può essere reale”.
Un piede sconosciuto quasi le schiacciò la mano facendola gridare
dalla paura. Cadde seduta di lato e il mantello si spostò scoprendole
il capo.
Ciò che vide la fece tremare da capo a piedi.
Il tempio di Atena era in fiamme, un fiume di persone cercavano di
mettersi in salvo.
Altre grida. Mathael non riuscì a riconoscere le voci dei Serafini,
ormai era troppo lontana da quella realtà. Cercò di risollevarsi ma la
paura la immobilizzava.
«I cristiani!» sentì dire da un ragazzo prima che gli venisse tagliata
la gola da un gruppo di uomini vestiti di nero e col cristogramma
ricamato sul petto.
“Il giorno in cui morii, ad Atene fu soppresso il paganesimo…”
comprese Mathael.
Trovò la forza di alzarsi, la vista annebbiata e tremolante per la
paura. Aveva vissuto quell’esperienza secoli addietro, ma il ricordo
era sempre stato latente. Le sarebbe piaciuto fare qualcosa, come
aiutare suo padre a sopravvivere, evitarsi una morte atroce,
cambiare il corso degli eventi.
La voce di un’amica d’infanzia la scosse. «Eleni! Eleni vieni da
questa parte!» le gridava.
Mathael ebbe un tuffo al cuore nel sentirsi chiamare col vecchio
nome. Si voltò, intercettò la ragazza con lo sguardo e si diede a una
folle corsa. Gli stretti calzari di cuoio le raschiavano i piedi, ma il
dolore sarebbe potuto essere un buon compromesso per la
salvezza.
Ancora una volta si ricordò che non si sarebbe salvata.
Rivisse quindi anche la cattura della sua amica Daines. Quattro
uomini la strattonarono trascinandola fino a un angolo della strada,
le strapparono gli abiti e la picchiarono con ferocia per farla smettere
di gridare. «Schifosa pagana!» li sentì inveire. Mathael, ancora una
volta, si sentì impotente.
Suo padre la chiamò, lei si voltò verso di lui e la vista della sua
uccisione la lasciò senza fiato per la seconda volta. Gli occhi fissi sul
cadavere che si accasciava al suolo con una lama insanguinata che
spuntava dal petto.
Dietro di lui una luce intensa, accecante in quella terribile notte.
Otto ali bianche spiccavano su tutto, ognuna di esse con un
grande occhio dall’iride nera, dilatata e con una luce rossa al centro,
come una telecamera fissa su di lei. Due piccole ali coprivano la
parte superiore del volto della creatura, lasciando scoperta la bocca
piena di denti aguzzi. Queste non erano attaccate al cranio, ma
distanziate almeno due centimetri e collegate da quella che
sembrava essere una luminosa e azzurra forza elettromagnetica.
Una veste bianca lo avvolgeva per intero. Un essere gigantesco,
luminoso.
Sollevò un braccio a scatti come fosse una vecchia e malandata
marionetta e il rumore le ricordò un braccio meccanico mal oleato.
Indicò qualcosa tra loro due, in mezzo alla polvere. Mathael era
ipnotizzata e, nonostante ne avesse timore, mosse alcuni passi in
avanti tenendo gli occhi fissi sul punto indicato in cui iniziò a
scorgere delle scritte.
Decine di persone in fuga la sfioravano, correvano da una parte
all’altra, a volte urtandola, ma nessuno di loro calpestò lo strano
messaggio. Per tutti lei era solo una ragazza terrorizzata ormai fuori
di senno.
L’ennesimo urto la fece cadere in ginocchio. Lo sguardo fu
catturato da alcuni simboli illeggibili. “Cosa sono? Non riesco a
capire…” pensò “anche se non mi sono nuovi…” Gli occhi passarono
da un simbolo all’altro, poi guardò la creatura angelica che ancora
puntava il messaggio con le dita lunghe e ossute.
Un dolore sordo la distolse dalla visione. Poggiò sui talloni, si
guardò il petto insanguinato: una lama fuoriusciva dalla carne e dagli
abiti.
Mathael fu sul punto di gridare, ma si rese conto di essere di
nuovo nel suo ufficio.
Sudava, era affannata, tremava come una foglia. Si alzò e
raggiunse la scrivania con gambe malferme: non c’era tempo per
ragionare su ciò che aveva appena rivissuto. Prese carta e penna e
con un tratto disordinato e frettoloso riprodusse ciò che ricordava
della visione.

«Hey fermi! Cosa volete fare?»


La voce terrorizzata di uno degli uomini della sicurezza attirò
l’attenzione dei tre Arcangeli dietro le sbarre.
A seguire vi fu uno sparo. Poi la voce del secondo uomo che
chiedeva aiuto e un nuovo sparo.
Raziel scattò in piedi ma un gesto di Uriel gli impose di tacere.
Michael trattenne il fiato mentre un brivido gli percorreva la schiena.
Presto, tra le schiere di celle, comparvero tre guardie armate
seguite da Hamenam. Questo, con un sorrisetto furbo e soddisfatto,
squadrò dalla testa ai piedi i prigionieri «Finalmente ci incontriamo!»
«Cosa cazzo vuoi?» sbottò Raziel. «Li avete ammazzati voi quei
due?»
Il Serafino rise di gusto. «Ve lo dirò con tutta la sincerità di cui
dispongo: stiamo ripulendo il DEM, voi sarete i prossimi a morire».
«Chris…» mormorò Uriel. «È iniziata la sua vendetta. Ha coinvolto
tutti».
Hamenam fece spallucce. «Qui sono tutti corrotti, nessuno ha il
coraggio di ragionare da solo. I denari, cari miei, muovono il nostro
mondo. Menti atrofizzate mosse dai fili trasparenti delle alte schiere.
Ma oggi tutto terminerà».
Raziel mollò un calcio alla parete. «Siete pazzi! Fammi uscire e
vedi come ti riduco!»
Michael ingoiò l’orrore e parlò: «Hamenam, amico, perché seguire
le pazzie di Dunne e non avvertire le Dominazioni? Potresti
diventare il nuovo responsabile della squadra degli Arcangeli, una
buona ricompensa per aver collaborato con…»
«Sono morte».
Tutti tacquero.
«I loro giganteschi e inermi corpi sono stati appesi ai balconi
dell’ultimo piano, privati delle loro teste. Uno spettacolo interessante,
devo dire» continuò il Serafino sistemandosi il colletto della camicia.
Uriel provò a ribattere, ma un soldato gli sparò alla spalla e lui non
riuscì a evitarlo.
«Siete inutili. Non ho mai sopportato il vostro atteggiamento
ribelle» poi si rivolse ai suoi uomini. «Giustiziateli, non abbiamo…»
Fu un’ombra alle sue spalle, alta e minacciosa, a distrarlo. Fece
per voltarsi quando sentì due mani afferrargli il capo. Un’improvvisa
torsione gli spezzò il collo.
Barakiel fissava torvo le guardie armate con i suoi occhi neri
contornati da ciglia bianche, tanto profondi da metterli in soggezione.
Alle sue spalle un Trono due volte più alto di lui, composto da tre
anelli dorati tempestati di occhi rossi e folli.
La bestia li attaccò con un velocissimo anello di luce che li
sbudellò all’istante, senza dar loro il tempo di reagire.
«Tu?» Michael era sconcertato; Uriel gli sorrise con riconoscenza
e Raziel sputò su uno dei cadaveri maciullati per poi ringraziarlo.
«Scusate il ritardo» disse il Cherubino e aiutato dal Trono aprì
tutte le celle, liberandoli. Poi gli ordinò di tornare indietro e
proteggere il Globo.
Uriel e Raziel non lo avevano mai visto dal vivo; per Michael,
invece, erano passati secoli dall’ultima volta che aveva avuto modo
di trovarsi di fronte a lui.
I capelli, bianchi, mossi e lunghi fino alle spalle, erano raccolti in
una coda bassa che nella corsa per giungere nelle carceri si era
allentata. Il viso dai lineamenti spigolosi si rilassò in un sorriso
amichevole. «Ora che siete liberi, possiamo andare».
Mathael non passò molto tempo al buio. Riuscì a mettere nella
tasca dei pantaloni il foglio ripiegato, quando la porta dell’ufficio
venne sfondata.
Si tolse i tacchi e li lanciò alle due guardie appena entrate, poi si
smaterializzò lasciandosi dietro le loro imprecazioni.
Comparve sulle scale di servizio, prese un respiro profondo e
chiuse gli occhi per ragionare sul da farsi.
«Cosa succede?» La voce di Yovus la colse di sorpresa, ma per
fortuna il Serafino era ancora nell’andito, dietro la grande porta di
metallo.
«Mathael si è appena smaterializzata» rispose uno dei suoi
uomini, uno di quelli che con molta probabilità aveva fatto irruzione
nell’ufficio.
«I dispositivi che ha fatto installare Holian all’interno di ogni
lampada riusciranno a captare la scia energetica delle
smaterializzazioni, quindi il radar la troverà in meno di un minuto:
state pronti».
La donna sbarrò gli occhi e scattò di corsa giù per le scale, ma
percorse una rampa sola e la porta si spalancò di colpo.
«È qui!» gridò Yovus, affacciandosi alla tromba delle scale.
Il frastuono dei passi concitati riempì l’intero spazio e non si fecero
attendere gli spari delle guardie appostate al piano sottostante.
Mathael era circondata e la presenza del Serafino rappresentava
un grossissimo problema. Aprì le quattro ali per farsi scudo, giusto in
tempo per proteggere il corpo da tre proiettili che si conficcarono
negli arti piumati; l’adrenalina le permise di non sentire dolore. Evocò
la spada e fece un giro su se stessa per provare a colpire un uomo
alle sue spalle. La lama deviò come per miracolo un altro proiettile
che rimbalzò sulla parete e trapassò il petto di una guardia più in
basso.
La discesa divenne semplice quando riuscì ad afferrare la pistola
del morto e scaricarla su coloro che si facevano troppo vicini.
«Uccidetela! Non deve arrivare all’uscita!» sbraitò il Serafino
agitando le braccia in direzione dell’Arcangelo. «Possibile che voi
stronzi non riusciate a farla fuori?»
Come evocate da quelle parole, altre guardie sbucarono dal piano
terra.
Mathael tagliò una gola e trapassò uno sterno con la lama in suo
possesso; ma venne trascinata all’indietro, tirata per le ali doloranti
da Kazel che la gettò a terra e la colpì sul fianco con un calcio.
All’improvviso, una fiammata blu le passò sopra e investì il
Serafino. Qualcuno la scavalcò per raggiungere il nemico e Uriel la
trascinò per i piedi per portarla via dal nuovo scontro, che durò ben
poco.
Kazel, sorpreso nel trovarsi di fronte Barakiel, provò ad attaccare,
ma un secondo in ritardo: il Cherubino gli afferrò la testa con
entrambe le mani e anche a lui spezzò il collo.
Accanto al turco, Michael e la collega, Raziel aveva recuperato
un’arma da fuoco e sparava agli ultimi uomini di Kazel che non si
erano dati alla fuga alla vista dei rinforzi.
Mathael sgranò gli occhi, incredula nel trovarsi di fronte Barakiel:
non si aspettava il suo intervento, non si aspettava si sarebbe mosso
dalla sua postazione. «Tu qui? Che ne sarà del tuo ruolo?»
«Presto sarebbero giunti a me, quindi ho preferito anticiparli e
venire in vostro soccorso».
Michael annuì con decisione. «Andiamo sulla Terra, quindi?»
Il Cherubino confermò con un cenno del capo. Poco più alto di
Gabriel, Barakiel dovette chinare il capo per poter uscire dalla porta
secondaria. «Forza, dobbiamo sbrigarci».
Raggiunsero la parte retrostante del muro perimetrale e lo
scavalcarono. Per loro fortuna la zona era vuota, il suolo era
disseminato di cadaveri: tutti coloro che avevano provato a scappare
dal DEM avevano optato per l’uscita principale, la più battuta da
guardie e Serafini che mietevano vittime con crudeltà. Una volta
fuori, avrebbero dovuto attraversare la città, con la speranza di
raggiungere in fretta e incolumi il confine. Lì si sarebbero
smaterializzati.
Barakiel li condusse attraverso alcune scorciatoie.
«Come fai a sapere come muoverti se non esci mai dalla tua
stanza?» domandò Michael, curioso.
«Per distrarmi dal piano terrestre» rispose l’altro «osservo queste
vie così come molte altre, conosco il nostro mondo come le mie
tasche».
«Sono da quella parte!» gridò un soldato nella loro direzione.
Poi, una pioggia di proiettili cadde sui cinque in fuga, ma nessuno
venne colpito. Si diedero a una corsa disperata tra le palazzine per
seminare gli inseguitori. Non potevano spiegare le ali tra i vicoli per
mancanza di spazio, non potevano volare oltre le strutture perché
sarebbero stati un bersaglio troppo facile. Mathael, intralciata dalle
ali ferite, veniva aiutata da Uriel a passare in mezzo alle abitazioni.
Due Serafini, Yovus e Holian, spuntarono a sinistra. «Fermi!»
ordinò il primo.
Mathael roteò la lama creando uno scudo invisibile. “Ha fermato
gli attacchi di Baal nelle segrete dell’Inferno” si disse, per
incoraggiare più se stessa che per reale certezza. I Serafini
l’avrebbero spaccato e nel profondo lei lo sapeva.
Yovus e Holian si fecero più vicini e a loro si unirono alcune
guardie, che vennero polverizzate dal fuoco blu di Uriel senza avere
il tempo di fuggire.
I Serafini erano veloci e con una resistenza fisica che gli Arcangeli
non si sarebbero mai aspettati.
«Che spine nel fianco!» sbottò Raziel a denti stretti.
«Stiamo per uscire!» annunciò Barakiel.
Una freccia di luce colpì la spalla sinistra di Michael.
Nonostante la corsa sfrenata, Holian, noto a tutti per la mira
infallibile anche a distanze impossibili, era riuscito a centrare il
bersaglio ed era pronto a scoccare ancora, mirando alla testa.
L’Arcangelo incassò e non fiatò, continuando a correre. Avrebbe
voluto utilizzare le ali come scudo, ma il peso lo avrebbe rallentato,
così come stava accadendo all’amica dietro di lui.
La seconda freccia si infranse contro la catena di Raziel, appena
evocata.
Mancavano meno di mille metri al confine.
Yovus evocò due asce, una per mano, e lanciò la prima con una
forza inaudita. Si conficcò nel terreno a cinque metri dai fuggitivi;
subito questo si spaccò e si aprì, deformandosi. Il passaggio fu
devastato da un’esplosione sotterranea che raggiunse gli Arcangeli
e il Cherubino, minacciando di inghiottirli. Tutti riuscirono a salvarsi
saltando oltre le spaccature.
Holian prese la mira, appostandosi sopra una statua, e scoccò
colpendo Uriel alla coscia. L’Arcangelo riprese a sentire anche il
dolore del proiettile conficcato nella spalla.
Un’altra freccia, ora in direzione di Barakiel, venne deviata ancora
dalla catena argentata di Raziel.
Lo stesso, che non ci vide più dalla rabbia, deviò la corsa e si
lanciò come un pazzo verso i Serafini. Mentre gridava insulti faceva
roteare e schiantare l’arma contro la pavimentazione e le pareti delle
case, producendo detriti e scintille.
«Torna indietro!» gli ordinò Michael disperato. «Quello si fa
ammazzare!»
«Sa cavarsela da solo» rispose il Cherubino. «Ci raggiungerà».
Le abitazioni terminarono e i fuggitivi arrivarono alla barriera di
Etere. L’attraversarono e la sofferenza fu breve.
Misero piede in campo aperto e si videro circondati dall’intero
esercito del DEM. La prima fila stava in ginocchio con pistole e mitra,
la seconda li chiudeva in un semicerchio puntando loro alabarde
dalle lame luminescenti.
«Come cavolo hanno fatto a passare?» si sorprese Michael. «Gli
angeli semplici dovrebbero essere tutti disintegrati».
«Deve essere stata una smaterializzazione di Chris» intuì
Mathael.
Dunne venne fatto passare come Mosè nel Mar Rosso. «Fine
della corsa».
I quattro si fermarono di colpo con il sottofondo della battaglia tra
Raziel, Holian e Yovus in mezzo alle ultime strutture.
«Ma che ti prende, Chris?» strillò Mathael esasperata con lo
scudo ancora attivo di fronte a sé e ai compagni.
«Zitta! Ne ho abbastanza di voi. Comando io, adesso. Le
Dominazioni sono cadute, così come chiunque abbia osato opporre
resistenza. E così cadrete anche voi».
Michael gli si parò davanti con impeto d’ira e gli puntò un dito
contro. «E chi comanderai? Ti sposterai in altri Distretti uccidendo i
loro Arcangeli e i loro Serafini? Fin dove vuoi arrivare?»
Dunne si limitò a sorridere, macabro. E quella parve proprio una
conferma.
Lucifer era stato cacciato e umiliato per molto meno. Aveva
pagato ed era stato marchiato per aver amato e aver chiesto di
essere elevato al pari di Dio. Perché ora Chris agiva indisturbato e
impunito? Perché Lucifer aveva attirato l’ira di Dio e non quel
Serafino che seminava dietro di sé cadaveri della loro gente?
«Tu meriti di finire all’Inferno». Michael evocò la spada dorata,
pronto a combattere.
«Io sto bene qui». Chris alzò appena le mani ed evocò due armi.
Sulla sinistra comparve un tirapugni di metallo, borchiato, con due
grosse lame ricurve alle estremità. Sulla destra una spada che
Michael conosceva fin troppo bene: la lama nera e lucente, l’elsa
dorata e intarsiata aveva l’impugnatura foderata in velluto rosso
sangue; era tanto bella e perfetta da sembrare un gioiello.
Il cuore di Barakiel mancò un battito.
L’Arcangelo invece strinse i denti, una rabbia cieca gli crebbe nel
petto. Avanzò per fermarlo e con lui Mathael. «Dobbiamo
andarcene» gli disse a bassa voce. «Non ce la faremo».
«Lo so» rispose lui «ma iniziate ad andare» e in corsa raggiunse il
suo avversario.
«Vedo che la vista di questa spada ti ha fatto tornare la voglia di
combattere!» Chris strinse la presa sulle armi, gli bastò poco per
captare la falla nella guardia dell’Arcangelo. Fletté sulle ginocchia e
si spostò di lato puntando alle costole. Michael, però, era stato
fortunato: la ferita alla spalla gli procurò una fitta che gli fece perdere
presa sulla spada, costringendolo a piegarsi dal lato opposto per non
perderla; quindi deviò e si allontanò. Chris tornò all’attacco e scaricò
su Michael una serie di pugni, ginocchiate e colpi di spada capaci di
mettere in seria difficoltà anche un colosso come Gabriel. Provò a
conficcargli la lama del tirapugni sul fianco, ma l’altro riuscì a salvarsi
passando sotto il colpo e posizionandosi al suo fianco. Con una
gomitata di fortuna colpì il Serafino alla mascella.
Intanto Barakiel aveva sfilato la parte superiore della tunica
bianca, troppo preziosa per rischiare di strapparla, e restò a torso
nudo mentre faceva uscire le due ali rosse. «Uriel, Mathael,
dobbiamo spiccare il volo con tutta la forza che abbiamo. Dobbiamo
essere più veloci di loro».
«Ma gli altri…» avanzò il turco.
«Fidati di me: sono scaltri i nostri amici. Michael ci sta dando il
tempo di fuggire, ma non resisterà a lungo».
I tre spiccarono il volo staccandosi da terra di una decina di metri
e come schegge presero la direzione dei cancelli.
«Stanno scappando!» esclamò Dunne e il quarto Arcangelo a
spiccare il volo fu un ammaccato Raziel.
I proiettili riempirono il cielo candido e il rumore assordante delle
armi invase lo spazio.
Chris non si lasciò distrarre dall’organizzazione dei soldati intenti a
occuparsi dei fuggitivi. Abbandonò le armi al suolo e afferrò le spalle
dell’avversario bloccandolo in una presa d’acciaio, premendo un dito
contro il foro della freccia, gli sferrò una pesante testata sulla fronte,
poi una seconda sul naso.
Michael si sentiva una nullità. Durante quei brevi minuti il Serafino
lo aveva ridotto quasi a uno straccio. La ferita alla spalla contava
ben poco, lo stesso il polso che doleva in maniera terribile. Chris gli
era superiore e, se non avesse fatto qualcosa, sarebbe morto di lì a
poco.
La spada dall’impugnatura di velluto brillava grazie ai fuochi delle
armi e alla luce del cielo. Michael agì. Con il polso ingessato menò
un pugno sul naso di Chris così forte da farlo cadere a terra e far
crepare il gesso; il contraccolpo gli strappò un grido di dolore.
Lacrimante si lanciò sulla spada, afferrandola e allontanandola da
Chris. «Tu non hai il diritto di impugnarla, non meriti nemmeno di
guardarla!»
Una parete rossastra, così alta da perdersi alla vista, circondò
tutta l’area. Barakiel aveva creato una divisione per impedire a
soldati e Serafini di uscire dai confini per raggiungerli; anche se
prima o poi l’avrebbero abbattuta. Nessuno osò passare, tutti
sapevano che avrebbero fatto una brutta fine.
Non appena Michael la vide, quasi guidato dalla paura, aprì le ali e
spiccò il volo, schivando per un pelo un altro degli attacchi micidiali
di Chris appena rialzatosi in piedi. Si fiondò verso la parete, ruotò su
se stesso e avvolse le ali attorno al corpo per proteggersi.
Attraversarla fu più doloroso dell’Etere.
Uriel lo afferrò per non farlo cadere: Michael perdeva parecchio
sangue ma non aveva mai mollato la presa dalle due spade.
Barakiel, Raziel e Mathael li attendevano oltre il confine e, una
volta riuniti, scesero in picchiata sulla Terra.

II

«Occupatevi delle zone tre, quattro e sette, io vado nella otto» e


con queste parole Chris congedò i suoi colleghi che si separarono
per perlustrare i piani restanti del DEM, al fine di assicurarsi che
nessuno fosse sopravvissuto al massacro.
Il Serafino, col naso appena ripulito dal sangue, salì le scale:
l’unico desiderio era quello di entrare nel regno di Barakiel, la stanza
che nessuno aveva mai visto, alla quale non era concesso accedere
senza il permesso del Cherubino.
Così raggiunse l’ultimo piano e storse il naso nel constatare
quando piccolo fosse l’atrio, decorato da due piante laterali. Puntò
l’attenzione sulla porta bianca di fronte. “Che cosa nascondevi qui
dentro?” si domandò mettendo una mano sulla maniglia. Aprì.
Si trovò in un ambiente bianco e all’apparenza infinito.
Trattenne il fiato.
Di fronte all’ingresso, ad almeno tre metri di distanza, vi era un
gigantesco Trono, molto più grande rispetto a quelli a cui era
abituato. L’angelo primitivo, composto da tre cerchi che ruotavano su
loro stessi, aprì gli innumerevoli occhi e lo fissò. Proteggeva un
grande Globo fluttuante: sembrava fatto di vetro, l’interno pieno di
fumo grigiastro che si muoveva placido; di fronte uno sgabello basso
coperto da un drappo di seta bianca.
Chris si preparò ad attaccarlo e neutralizzarlo, ma quello smise di
ruotare e si aprì, come per invitarlo ad accomodarsi. Il Serafino si
mosse con cautela raggiunse la postazione e, in soggezione, si
sedette. Si strofinò le mani sulle cosce e mosse le dita verso il
Globo; all’ultimo si fermò.
Quale sarebbe stata la conseguenza nell’affrontare un potere che
solo un Cherubino avrebbe retto?
Sollevò lo sguardo per incrociare la moltitudine di occhi del Trono,
poi toccò la sfera.
Si sentì catapultare sul piano terrestre, come fosse stato lanciato
con potenza da una forza invisibile. Gli fu impossibile fermarsi o
anche solo rallentare. Il suo corpo saettava tra centinaia di luoghi
sulla Terra.
La testa girava, le vertigini lo sopraffecero e quando fu sul punto di
vomitare venne espulso da quella realtà.
Chris cadde di schiena sul pavimento.
Era sempre stato lì ma con la mente aveva viaggiato senza
controllo sul piano terrestre.
Scioccato alzò la testa e la scosse per riprendersi. «Cosa è
successo?» si domandò. Il Trono lo osservava e lui si sentì a
disagio. Scattò in piedi e, sistemandosi i capelli, sedette una
seconda volta. Non si era mai sentito così carico di adrenalina e
agitato al tempo stesso. Posò le falangi sulla superficie del Globo e
venne trasportato di nuovo in quel turbine di luoghi, si muoveva
veloce, come su pericolosissime montagne russe. Il senso di
vertigine tornò più forte di prima.
Poi, all’improvviso, tutto si fermò.
Stava guardando una città dall’alto. Sapeva che quella era
Bangkok, anche se niente lo suggeriva. Percepiva il proprio corpo
fluttuare, ma sapeva anche di non essere solo. Da qualche parte vi
era qualcun altro. La sua presenza era ovunque, ma non vedeva
nessuno.
«Chi sei? So che sei qui» disse.
«Ti sei accorto di me, Chris». Una voce con una nota metallica gli
riempì la testa. Fredda, cavernosa.
«Chi sei? Mostrami la tua faccia». Il Serafino era intimorito, si era
addentrato in una nuova dimensione, qualcosa a metà tra Cielo e
Terra.
Come richiesto, l’interlocutore si palesò.
Di fronte a Chris comparve un angelo dalle fattezze che egli non
aveva mai visto.
Il volto era in parte coperto da due piccole ali che lasciavano
scoperta solo la bocca dalle labbra sottili, scure e con venature nere.
Otto ali ingiallite gli avvolgevano il corpo e da sotto gli arti piumati
spuntava l’orlo di una veste bianca e sgualcita. Era all’interno di un
anello in pietra posto in verticale che riportava incisa più volte, in
enochiano, la parola Prigione. I simboli brillavano di un’energia
elettromagnetica, la stessa che intrappolava l’angelo dentro il
marchingegno. Chris rimase a fissarlo imprimendosi ogni dettaglio
nella memoria. «Chi sei?» chiese flebile.
«Sapevo me l’avresti chiesto» rispose l’altro «poiché la mia
memoria si è perduta nel tempo. Ma il mio essere è rimasto nello
spazio in cui sarò confinato per l’eternità. Il mio nome è Sandalphon,
primogenito di colui che considerate vostro unico Dio».
Chris si accigliò, il cuore salì in gola. «Sandalphon? È impossibile,
credevo fosse una leggenda la vostra esistenza».
Le labbra dell’angelo si aprirono in un sorriso beffardo, pieno di
denti affilati come aghi. «La nostra? Anche mio fratello è stato
dimenticato?»
Chris annuì incerto. Deglutì. «La vostra è la più antica leggenda
del nostro mondo».
«Ogni leggenda ha un fondo di verità. E ora, amico mio, hai la
conferma che quelle storie sono reali. Ma ora dimmi: perché sei qui
con me?»
«Volevo toccare con mano il potere che il Cherubino Barakiel ha
sempre maneggiato e ora che l’ho sperimentato non voglio
separarmene».
Sandalphon, in un battito di ciglia, fu a un soffio dal Serafino: era
alto almeno tre metri e le piccole ali che gli coprivano gli occhi non
erano attaccate al cranio, bensì connesse a esso con una pulsante
energia magnetica. «Cosa pensi di poter fare di me?»
«Dammi quello che hai dato a Barakiel. Consegnami il tuo potere
e io potrò controllare non solo il DEM ma tutti i mondi». Gli occhi di
Chris divennero euforici, ma la risata divertita dell’altro angelo, quasi
macabra, lo spense.
«Tu pensi di meritarlo? Pensi di essere in grado di reggere e
gestire un simile potere? Ho visto la tua reazione, prima».
«Posso farlo, eccome! Mettimi alla prova» Chris insistette, punto
sul vivo.
«I fatti parleranno. Soprattutto i risultati nella ricerca che mi
aiuterai a compiere. Una ricerca molto importante, motivo per cui
sono stato rinchiuso qui. Mai io non mi sono mai fermato».
«Cosa vuoi che faccia?»
Sandalphon sorrise ancora. «Permettimi di mostrartelo».
Le piccole ali che gli coprivano gli occhi si aprirono, sprigionando
una potente luce che accecò Chris. Il Serafino indietreggiò e gli
diede le spalle, ma in un secondo momento iniziò a vedere ben altro.
Vide due angeli molto simili, entrambi fatti di luce, impossibile
comprenderne le fattezze. Il primo sedeva su un grande trono d’oro,
il secondo indossava una corona con quattro gemme.
La seconda immagine fu la corona in frantumi e le gemme
disperse sulla Terra. La loro caduta dal Regno dei Cieli fu potente e
lui si sentì parte di essa.
«Vuoi che trovi le gemme, non è vero?» domandò titubante il
Serafino.
«Non sarà semplice. Guarda».
Chris si ritrovò catapultato in quelli che sembravano essere i
ricordi di Sandalphon.
Vide le gemme fondersi con alcuni esseri umani: la pietra verde
aveva colpito un vecchio contadino, quella blu un pescatore in
mezzo al mare, la bianca un giovane mendicante, la rossa un
cavaliere furioso assetato di vendetta. Morirono tutti, ma dalla loro
dipartita nacquero altrettanti popoli la cui natura rispecchiava quella
delle pietre.
Chris assistette alla venuta dei quattro popoli elementali e in
seguito li vide sprofondare a causa di Dio in ciò che sapeva essere
l’Abisso.
«Sono andate perdute» disse l’angelo. «Io e mio fratello le
cercammo e nostro padre ci punì».
«Se sono andate perdute nell’Abisso sarà impossibile ritrovarle,
non esisteranno più ora» ragionò Chris.
Sandalphon si allontanò, ora di nuovo le piccole ali a coprire gli
occhi. «Ti sbagli, una è a spasso per il piano terrestre».
La luce era diminuita, la visione cessata e Chris potè riaprire gli
occhi, anche se facevano male. «Sulla Terra? E dove?»
«In questo momento si trova in Inghilterra. Ma è molto debole,
sembra quasi stia soffocando…»
«Come faccio a recuperarla?»
«Hai detto di meritare il mio dono. Dimostramelo».
«Londra è grande, dimmi dove posso trovare la gemma e andrò a
prenderla per dimostrarti il mio valore». Il Serafino drizzò il mento
con aria di sfida.
«Impara a usare il Globo» rispose l’altro con la stessa intenzione,
poi sorrise beffardo e scomparve proprio com’era comparso.
Chris venne catapultato fuori e cadde dallo sgabello, battendo la
schiena sul pavimento.

III

Passi veloci, agitati. Voci infervorate fuori dalla villa a Notting Hill.
Tutto ciò attirò l’attenzione dei presenti in casa.
Karen si era appena alzata per portare i piatti sporchi in cucina,
quando quei rumori la fecero voltare di scatto verso l’ingresso; gli
altri lo stesso.
«Aiutateci!»
Satan scattò in piedi e corse ad aprire, dietro di lui Raphael. Gli
bastò abbassare la maniglia per venire travolto da tutti gli Arcangeli.
Saltò all’occhio Michael che imbracciava due spade, ferito e con le
ali percorse da piccoli spasmi, aiutato da Uriel che lo invitò a
distendersi sul divano. Anche il turco perdeva sangue, così come
Mathael, anch’essa dagli arti piumati. Raziel era nervoso e pesto e la
sua comparsa fu seguita dal rumore di piatti in frantumi. Karen gli si
sarebbe gettata addosso se solo fosse stato meno malmesso.
L’ultimo a entrare, e chiudere la porta, fu Barakiel che rimase in
disparte mentre tutti si preoccupavano per i feriti.
Gabriel lo osservava, cupo: l’abbigliamento che indossava era
rimasto indietro di millenni a causa dell’isolamento. La tunica bianca
dalle maniche larghe, impreziosita da cuciture e merletti argentati,
era lunga fino a coprire i piedi e stretta in vita da una fusciacca
abbinata.
Raphael si avvicinò a Michael. «È stato Chris?»
«Lui e i suoi amici» rispose Uriel.
Satan portò le mani tra i capelli, incredulo. «Come avete fatto a
scappare?» Tastò Mathael con attenzione per accertarsi che non
avesse ferite gravi.
«Michael ha tenuto occupato Chris, Raziel ha fatto lo stesso con
Yovus e Holian» rispose lei «ma senza Barakiel non ci saremmo mai
riusciti» e il demone, di tutta risposta e visibilmente preoccupato, la
strinse facendo attenzione a non farle male, lasciandola senza
parole.
Karen aveva costretto Raziel a sedersi su una poltrona, pronta a
occuparsi personalmente delle medicazioni; la tensione l’ammutoliva
e l’Arcangelo trovò la forza di sorriderle e stringerle una mano.
«Chi è lui?» Vicky si aggregò alla conversazione indicando lo
sconosciuto che, intanto, stava abbottonando la camicia.
«Barakiel, il Cherubino che ha sempre tenuto d’occhio i movimenti
sulla Terra» rispose Michael «e se non vi dispiace avrei bisogno di
attenzioni anche io perché ho crampi alle ali, buchi quasi ovunque e
una mano che mi cadrà da un momento all’altro».
«Raphael si occuperà di te, resisti ancora un pochino». Ania
sbucò da dietro la schiena del francese. Gli si affiancò e gli sistemò i
cuscini per farlo stare comodo creando una nicchia confortevole.
«Non capisco» Odry avanzò grattandosi la fronte. «Voi siete stati
attaccati dai Serafini e nessuno del vostro dipartimento è
intervenuto?»
Barakiel rispose: «I Serafini hanno preso il controllo di tutte le
forze armate del DEM, dopodiché hanno ucciso chiunque e hanno
provato a fare lo stesso con noi».
Gabriel scosse il capo. «Le Dominazioni che facevano?
Dormivano?»
«Sono morte anche loro».
Raphael, Gabriel e Mathael, che non ne erano al corrente,
rimasero scossi dalla notizia.
«Cioè fammi capire. Hanno sterminato l’intero dipartimento e ora
regnano sovrani e incontrastati?» Odry era allucinata.
«Sì, il DEM ora è sotto il loro comando» confermò il Cherubino.
«Dobbiamo trovare il modo di tornare su» convenne Gabriel.
«Calmo, dobbiamo ragionare» lo rimbeccò Raphael, alle prese
con Michael.
«Sì! Andiamo!» ribatté Raziel scattando in piedi, ma ricevette un
colpo sulla spalla da Karen che, agitata, lo costrinse a tornare
seduto.
«Non impiegheranno molto a trovare il nostro nascondiglio per
provare ad ammazzarci» continuò la rossa ricevendo in risposta lo
sguardo crucciato di Satan che non smetteva di stringere Mathael al
petto.
Odry sospirò; tutto le sembrò sul punto di crollare. Non riusciva ad
avere più il controllo di niente. Si passò una mano sulla fronte umida,
la stanza sembrò minuscola e soffocante, la vista le tremava. «Devo
prendere aria» disse allontanandosi a grandi passi.
«Loro non riusciranno a conoscere la nostra posizione» ragionò
Mathael «perché non c’è più Barakiel a localizzarci! Nessuno di loro
ha un potere tale per prendere il suo posto lassù».
«Se vogliono, un modo lo trovano». Gabriel indicò il Cherubino.
«Non si faranno fermare da questo».
Quello confermò «Ne sono certo anch’io. Si inventeranno qualsiasi
cosa pur di risultare credibili e se al DEM andranno nuovi Cherubini
e Arcangeli, non avranno problemi a trovare un sostituto».
Un ricordo entusiasmò Mathael, i suoi occhi brillarono.
«Schneider! Possiamo chiedere aiuto a lui!»
«Chi?» domandò Raphael, perplesso.
«Giusto!» rispose Uriel. «Constantine Schneider è un Serafino del
DEP, il Distretto per l’Equilibrio del Paradiso, ingaggiato dopo la
vostra scomparsa».
«Con uno stile incredibile» aggiunse Michael, debole.
«E come farete a contattarlo se non potete salire in Paradiso?
Immagino voi siate ricercati» considerò Vicky.
«Troveremo un modo di sicuro» dichiarò Uriel, con più speranza
che sicurezza.
«La notizia viaggerà» affermò Raphael «e giungerà anche a quel
Distretto. Alcuni saranno dalla loro parte, ma possiamo sperare in
questo Schneider e nel suo appoggio».
Mathael annuì con fermezza. «Ne sono certa».
«C’è da fidarsi? Insomma, sembra quasi che da voi sia pieno di
despoti e assassini tanto quanto da noi» continuò la succube,
scodinzolando nervosa.
«Di lui sì» precisò la donna angelo. «Voglio fidarmi come avete
fatto voi con noi, senza avere la certezza di svegliarvi sulla Terra o in
Paradiso dietro le sbarre».
La succube ammutolì e Satan strinse con vigore Mathael una
seconda volta. «Sono così felice di vederti e vedere che sei sana e
salva» e Mathael gli sorrise mesta.
Raphael interruppe il discorso rivolgendosi ad Ania: «Recupera
uno straccio da piegare e faglielo mordere».
La ragazza annuì e si allontanò per recuperare l’occorrente. Salì al
piano superiore e prese il primo asciugamano che le capitò a tiro. Lo
arrotolò e lo portò a Michael, imponendogli di mordere forte. Poi si
sedette accanto a lui stringendogli la mano con entrambe le sue e lo
guardò con intensità. «Coraggio».
Raphael iniziò a massaggiargli le ali tremanti e contratte. L’altro
riuscì a resistere alcuni minuti poi iniziò a ringhiare per il dolore, la
rabbia e per essere stato impotente di fronte al massacro al DEM e
aver lasciato che Chris lo riducesse in quello stato.
Era davvero diventato un debole? Durante il combattimento si era
sentito una vera e propria nullità.
Michael, il fiero Arcangelo che aveva cacciato il crudele Lucifer dal
Paradiso. Tutta la fama e la gloria che si portava dietro erano solo
menzogne.
Lo sguardo vagò sulle pareti, evitando quello degli amici. La
vergogna lo stava schiacciando.
Ania gli accarezzò i capelli, percependo il suo stato d’animo.
«Raph fai presto, non ha una bella cera e non vorrei che
svenisse». Vicky si era avvicinata a controllare la situazione e
sorrise a Michael cercando di sdrammatizzare.
Barakiel quasi trasalì, riprendendosi dal suo rispettoso silenzio.
«Abbiamo lasciato tutte le armature all’interno dell’armeria! È un
vero problema non averle dietro».
Mathael si staccò da Satan e si voltò verso il compagno. «Sono
nata previdente e ho nascosto qualcosa a casa di Ania, col suo
consenso».
«A proposito, Mathael, noi abbiamo diversi problemi qui» avanzò
Satan passandosi una mano tra i capelli. «Il generatore non
funziona, Belial è bloccato all’Inferno e non abbiamo idea se sia vivo
o morto».
L’espressione della donna angelo mutò e divenne una smorfia di
orrore. «Come mai Odry non ha ancora aggiustato il generatore?»
Satan sospirò. «Non ci riesce, non… non sta bene».
E Mathael cercò di trovare nel suo sguardo qualche altra
informazione, ma preferì non chiedere oltre notando la
preoccupazione di Satan. «Ne parliamo dopo» rispose quasi
sussurrando.
«Finito» enunciò Raphael «Ora procedo con i fori e i tagli. Michael
te la senti?»
«Sì».
«Posso fare qualcosa per voi?» domandò Barakiel in imbarazzo.
«Ora no. In futuro ci sarai di grande aiuto» rispose il francese.

Raziel, per tutto il tempo, era stato sottoposto alle premurose cure
di Karen. Aveva seguito i discorsi dei presenti, ma poi si era arreso
alla vista dell’umana. Lei aveva disinfettato e coperto le ferite come
se le sue condizioni fossero gravi quanto quelle di Michael.
«Oh Seigneur, merci de l’avoir sauvé[5]» la sentì dire tra sé, ignara
che lui potesse comprendere qualsiasi lingua. «C’est un miracle qu’il
soit encore en vie[6]».
E lui sorrise compiaciuto.
Infine l’aveva seguita fino al terzo piano.
«Può stare nella mia camera» gli disse, sistemando al meglio le
coperte. «Io dormirò con Georgette, nella stanza accanto. Così, se
dovesse avere problemi, potrà chiamarmi senza indugio».
Raziel ringraziò con un cenno del capo mentre lei si apprestava a
svuotare l’armadio, e rispose: «Smetti di essere così formale con
me, pensavo avessi iniziato a darmi del tu dopo il nostro ultimo ballo
in giardino».
Karen fremette, ma non lo guardò. «Non mi ha mai dato il
permesso, io sono la sua governante e…»
«E visto come si son messe le cose, pensavo avessi smesso di
esserlo. Non c’è più una casa, a Budapest, da gestire».
«D’accordo» la francese posò gli abiti sul letto ed estrasse una
valigia da sotto di esso che aprì di fronte al comodino.
«Come ti trovi con queste persone?»
«È come se fossero tutti figli miei, qui non ci si annoia mai:
litigano, urlano, ma sono tutti così divertenti e ci si prende cura a
vicenda». Sistemò con imbarazzo la biancheria nella valigia. «Sto
davvero bene qui».
«Sei sempre stata molto materna». L’Arcangelo sedette ai piedi
del letto ignorando i dolori.
«Chissà se un giorno potrò essere madre».
E lui percepì quanto il fatto di non esserlo le pesasse come un
macigno.
Karen aveva trentadue anni e non aveva costruito nulla di
concreto, possedeva solo un minuscolo appartamento in Francia
lasciatole in eredità dalla madre quando era venuta a mancare.
«Senti, guardami» le disse raggiungendola. Quando lei, sorpresa,
obbedì, lui continuò: «Mi sono sempre posto dei limiti nei tuoi
confronti. L’ho fatto per rispettare la memoria di Ephenael, poi per
tenere ben distinte la vita di un angelo e quella di un’umana,
seguendo così le regole del Trattato. Quando ho iniziato a vedere
che la convivenza tra angeli e demoni poteva essere possibile, mi
son detto: “Perchè non dovrebbe esserlo anche tra angeli e
umani?”» La accarezzò e lei sussultò per la dolcezza e la profonda
calma che non aveva mai esternato prima. «Quando ero in cella ho
sviluppato una consapevolezza che mi ha fatto male, tu nemmeno
sai quanto, ma che mi ha dato anche una forza enorme. Mi son reso
conto di aver perso tempo, di non averti dimostrato prima quanto per
me tu sia meravigliosa, quanto valga la pena infrangere le regole del
Paradiso per te. Mi farei strappare le ali se ciò mi permettesse di
svegliarmi accanto a te ogni giorno».
Karen sentì le lacrime salire con prepotenza, lo sguardo si perse
nella profondità degli occhi neri dell’uomo di fronte a lei.
Come avrebbe potuto vivere con lei? Sarebbe invecchiata,
l’avrebbe lasciato presto.
«Lei è… sei crudele» rispose con voce spezzata. «Lo vedo come
mi guardi da quando sei tornato. È uno sguardo che hai sempre
avuto, certo, ma… sei diverso. E mi fa male. Con gli altri sei
scontroso, con me sei gentile. Non puoi illudermi in questo modo!»
Raziel sollevò le mani sul suo bel volto, ma lei le scansò. «Come
puoi dirmi tutto ciò sapendo che la mia vita sarà breve e insulsa?
Come osi afferrare il mio cuore sapendo che non potrai tenerlo per
sempre? Non voglio che tu stia insieme a una vecchia che non potrà
più camminare da sola. Questa è una cosa che non voglio tu veda».
«Io voglio solo rifarmi una vita degna con una donna degna. E tu
lo sei. Sei perfetta, voglio stare con te, anche a costo di farti da
bastone della vecchiaia, e poi portarti i fiori freschi ogni mattina
quando sarai sotto una lastra di pietra. E anche se dovessi tornare
come angelo o demonessa anziana, ti prenderei lo stesso».
«Non è giusto…»
«Ti prego, non piangere. Accetta questo amore che intende averti
fino all’ultimo respiro. Se me lo impedissero, passerei sui loro
cadaveri. Se mi imprigionassero per starti lontano, mi ribellerei pur di
farmi cacciare. Ma tu guardami negli occhi e dimmi che non mi vuoi,
solo allora mi rassegnerò e ti lascerò vivere come desideri».
Karen aveva amato Raziel anche in presenza dell’ormai defunta
moglie e di certo non si sarebbe mai aspettata che lui potesse
provare qualcosa per lei. Mandò giù un nodo alla gola, accettò il suo
tocco: le mani calde, ruvide a causa delle armi e degli allenamenti,
ma rassicuranti. Non aveva nulla da perdere, soltanto la possibilità di
stare accanto all’uomo che amava.
Gli poggiò le mani sul petto, sfiorò la catenina d’oro col crocifisso.
Chiuse gli occhi, lasciando che le dita dell’Arcangelo affondassero
tra le onde dorate dei suoi capelli, e scendessero sul collo, e giù fino
alle spalle. Gli si fece più vicino, si aggrappò alla stoffa bianca della
canottiera ormai rovinata. Aprì gli occhi.
Raziel le sollevò il mento con un dito; l’altra mano sulla schiena
scendeva ancora, pericolosa. E con un impeto trattenuto da troppo
tempo, la baciò con forza lasciandola senza fiato; lei rispose
stringendolo più che poteva. Gli si aggrappò alle braccia forti, alle
spalle, di nuovo alla canottiera dando l’impressione di volergliela
strappare di dosso e lui seguì quel desiderio levandola. «Ti amo così
tanto» ammise Karen con quel suo adorabile accento.
«Ora ti dimostro quanto ti adoro io».
«Ma potrebbe essere sconveniente, c’è una bambina… E sei
ferito!» balbettò con le guance in fiamme.
«Quindi hai intenzione di gridare?» Raziel sorrise eccitato,
recuperando l’espressione malefica che lo caratterizzava.
Karen non riuscì a rispondere in maniera sensata, era accaldata e
confusa ma poi si lasciò andare alle carezze dell’angelo che si era
fatto più audace. Chiuse gli occhi. Era tanto immersa nella passione
che quando li riaprì si trovò distesa sul letto, sotto di lui, impaziente
di provare il folle piacere che le avrebbe donato. Lo aiutò a spogliarsi
e si fece spogliare, si lasciò baciare ovunque e trattare in un modo
che la faceva sentire dea e preda al tempo stesso. Divaricò le
gambe, rispose a un bacio passionale, spalancò gli occhi quando lo
sentì entrare: le labbra di Raziel erano macchiate del suo rossetto.
Si persero in un turbine di desiderio.
Karen si dimostrò meno pudica del previsto. Spettinata e con il
rossetto disfatto, lo incoraggiava a spingere più forte, lo toccava
bramosa, godendosi fino in fondo il momento. Raziel traeva piacere
da ogni respiro, da ogni curva e morbidezza, dalla sua vista e dal
languido calore. Sentirla gemere in francese non faceva altro che
renderlo più impetuoso.
La passione andava di pari passo con la malinconia che Karen e
Raziel provavano stringendosi tra le braccia. Si appartenevano e
quell’atto d’amore fu un marchio a fuoco sulla pelle, un patto eterno
che sarebbe andato oltre il tempo.

«Hey! Che ti prende?» Gabriel era uscito nel giardino retrostante


per raggiungere Odry che sedeva sul primo gradino del loggiato.
«Avevo bisogno di prendere aria, stavo soffocando lì dentro» con
un gesto noncurante si deterse la fronte allontanando i capelli dal
viso. «È una situazione di merda» continuò.
«Ti hanno messo in agitazione gli altri?» le si sedette accanto «Ti
vedo sempre peggio, hai una faccia orribile».
«Grazie per averlo puntualizzato». Con un pizzico di risentimento
Odry spiegò: «Più la situazione va avanti, più tutto diventa
impossibile da gestire e io non riesco a pensare in modo lucido»
sospirò. «Belial è ancora all’Inferno, non riesco a sistemare il
generatore e l’ultima volta che ho dormito nemmeno la ricordo».
Come avrebbe potuto aiutarla? Gabriel non seppe darsi una
risposta. Forse non ci sarebbe stato il modo. Annuì comprensivo. «E
dire che tutto è partito dall’idea di Satan. Ma dimmi un po’…» si
assicurò che non ci fosse nessuno nei paraggi «…allo scoppio della
guerra civile saresti rimasta al Quartier Generale?»
«Tutto questo è partito da Asmodeus, non da Satan» precisò lei
«ma credo che non ci sarebbe stata nessuna guerra civile se non
fossimo scappati e se non avessimo convinto Belial a spingere la
rivoluzione».
«Ma se Satan non ti avesse proposto di aiutarlo, tu non saresti
qui».
Forse fu il tono di voce o lo sguardo sfuggente, ma ci fu qualcosa
nella considerazione di Gabriel che le fece percepire disagio, forse
senso d’impotenza, di colpa. E questo non la aiutò di certo. «Senti,
Gabriel, non è infangando Satan che riuscirai ad alleviare il mio
malessere e, sai una cosa? Non devi disturbarti a farlo». Stizzita si
alzò in piedi e con quell’inflessione dura e nervosa, che lui non
sentiva da tanto, continuò: «Non hai nessun dovere nei miei
confronti, quindi smettila di preoccuparti e vai a riposare» e lì,
l’angelo sbottò alzandosi in piedi. «Perché continui a ripetermi
questa cosa? Vuoi convincere me o te stessa?»
«Vai a fare in culo». Odry non si voltò, intenta com’era a cercare di
accendere un sigaro che teneva saldo tra i denti.
L’Arcangelo fece per rispondere, ma preferì mordersi la lingua,
quindi le si avvicinò. «Scusa, non volevo essere scortese. Ma,
insomma… è normale preoccuparsi quando qualcuno sta male».
Due ampie nuvole di fumo si levarono in alto, sospinte dal vento.
«Appunto, dovresti stare a riposo e approfittarne, perché la casa
sarà un casino da oggi in avanti, più del solito dato che siamo in
sovraffollamento». Odry tenne lo sguardo fisso di fronte a sé con un
nodo allo stomaco insopportabile, causato dalla presenza di Gabriel.
Aveva una voglia matta di strillare, di dare fuoco a tutto. Di piangere.
Senza aggiungere altro, Gabriel rientrò in casa, scuro in viso.
Evitò lo sguardo di Vicky che, perplessa, si voltò verso il giardino
intercettando la figura rigida di Odry, intenta a fumare e a
nascondere il suo malessere.
“Peggiora sempre, senza fermarsi mai”

La sera del giorno seguente passò lenta e sofferta per la maggior


parte dei feriti.
Raphael teneva d’occhio tutti e Vicky si ricredette un pochino su di
lui. Lo aveva osservato per tutto il tempo e quando era giunto il
momento di sparecchiare la tavola, gli impedì di fare un solo passo.
«Vai a letto a riposare, hai un aspetto di merda, non sei per nulla
attraente» e con un sorriso mal trattenuto lo mandò via, ricevendo in
cambio uno sguardo colmo di riconoscenza.
La casa calò nel silenzio in poco tempo, comprensibile visto ciò
che gli Arcangeli avevano dovuto affrontare.
Odry passò due ore a fissare il buio, seduta sul letto con le mani
strette tra i capelli. La voce nella sua testa era più rabbiosa e forte, le
rimbombava nelle orecchie, le riempiva il cervello.
Erano mesi che soffriva, che cercava di trattenere ogni possibile
emozione ed erano settimane che in quella casa si sentiva
soffocare. Era spaventata da se stessa e aveva confessato solo a
Raphael una parte delle sue preoccupazioni. Dentro sentiva che se
fosse rimasta, avrebbe ucciso tutti, senza riuscire a fermarsi.
Quindi si decise.
Afferrò lo zaino e poche cose utili che gettò dentro alla rinfusa.
Prese un respiro profondo, cercò di controllare il tremito alle mani,
ma una fitta alla testa, seguita dal grido di quella voce gutturale che
non le dava tregua, la fece piegare su se stessa.
«Devo andarmene» rantolò, sorreggendosi al comò e, senza
aspettare oltre, uscì barcollando dalla camera, emettendo il minimo
rumore possibile. Gabriel, che dormiva profondamente nel lato
sinistro, non si accorse di nulla.
Dolorante e assordata uscì dalla porta di casa e si smaterializzò.
Satan si svegliò di soprassalto e scattò a sedere, accese la luce e
tese le orecchie. Mathael, assopita al suo fianco, non sembrò
avvertire il movimento. Nulla, solo una strana sensazione. “Forse è
stato un brutto sogno”. Lo sguardo cadde sulle natiche della donna:
gli dava le spalle, era ancora nuda e percorsa da brividi. Tirò le
coperte per tenerla al caldo, le baciò più volte una spalla e lei si girò
verso di lui.
«Sei ancora sveglia».
«Colpa della luce. Tutto bene?»
Satan annuì e si sporse per baciarle le labbra, poi la guancia.
«Scusa, ora spengo».
Ma lei, in tutta risposta, scostò le coperte fino a scoprire il seno.
«Sicuro di non voler dare un’occhiata?»
Era fatta. Satan si riscoprì abbastanza sveglio per affrontare una
seconda volta quel seducente angelo. Si morse le labbra poco prima
di posargliele sul collo e scendere fino al petto, la morse e lei trasalì,
afferrandogli le spalle e invitandolo a sovrastarla.
Si scambiarono un bacio lungo e caldo, abbastanza da rinvigorire
lui e rendere accogliente lei. E fecero di nuovo l’amore.
Mathael lo guardava negli occhi, senza più il tormento del
fantasma della vecchia vita, di Chris, del Patto delle Anime. Da
quando aveva smesso di avere timore di stare nello stesso letto del
demone? Forse non l’aveva mai avuto. Come poteva avere paura di
Satan?
Si soffermò sugli occhi blu, i capelli fulvi che rispecchiavano
l’animo focoso. Chi l’avrebbe mai detto fosse così selvaggio sotto le
coperte. Era bravo, dannatamente bravo e la faceva sentire
bellissima.
Un’ora dopo lui l’abbracciava da dietro, lei gli accarezzava il dorso
di una mano. Non c’era bisogno di parlare.
Eppure, la strana sensazione tornò a tormentare Satan.
Con delicatezza si sciolse dall’abbraccio, sottraendo la mano alla
stretta morbida di Mathael, ora assopita.
Si alzò, indossò il pigiama e a piedi nudi sul parquet seguì il suo
sesto senso. Buttò un’occhiata al corridoio. Tutto era buio e
silenzioso. Troppo silenzioso.
Così avanzò e si diresse verso la camera di Odry. Bussò ma non
arrivò risposta e così, senza troppi scrupoli, girò la maniglia ed entrò.
«Odry?» chiamò a bassa voce. «Sei sveglia?» Si avvicinò al letto e
lo tastò sperando di trovare l’amica, ma lo scoprì vuoto. «Odry?!»
Tornò alla porta e accese la luce. Dall’altra parte del letto Gabriel
dormiva dando la schiena alla porta. Di Odry non vi era traccia.
“Come? E lui che ci fa qui? Hanno dormito insieme tutto questo
tempo?” Scosse il capo. “Mi deve una spiegazione, questo è sicuro.
Vediamo… starà lavorando al generatore, adesso” si disse e
motivato da quel pensiero scese le scale. La cercò per tutta la villa e
nei due giardini ma Odry era sparita.
«Se n’è andata…» e sentendosi mancare il pavimento sotto ai
piedi, Satan corse ai piani superiori raggiungendo Gabriel. «Odry è
andata via!» disse col fiatone. «Non la trovo da nessuna parte!
Gabriel svegliati maledizione!»
L’Arcangelo aprì gli occhi e scattò a sedere solo dopo aver
realizzato le parole del demone. «Cosa ha fatto?» come oltraggiato,
si alzò e si vestì in velocità pensando a dove potesse essersi
cacciata.
Intanto, Satan aveva svegliato tutti e Uriel e Vicky furono tra i primi
a uscire dai loro letti. «Perché lo ha fatto?» domandò il turco e Vicky
rispose: «Forse è uscita solo per prendere una boccata d’aria, non
sembrava stare bene».
Raphael spuntò dalla stanza della demonessa. «Non c’è il suo
zaino e mancano alcuni abiti. Non penso sia intenzionata a tornare
presto».
Gabriel lo guardò storto. «E tu come fai a conoscere i suoi
vestiti?»
«Osservo, io».
Satan mise le mani davanti alla bocca, incredulo. «Non credevo
fosse grave al punto da spingerla ad andare via! Qualcuno di voi sa
qualcosa? Avete visto o sentito niente da parte sua? Con me non ha
parlato nonostante le chiedessi…» guardò la succube che scosse il
capo corrucciata poi fece lo stesso con Karen appena arrivata e
l’umana, così come la succube, disse che non sapeva nulla
mandandolo nel panico.
Raphael, che era a conoscenza dei fatti, non seppe se parlare.
Odry gli aveva fatto giurare di non spifferare il suo segreto, ma vista
la situazione, rivelarlo, le avrebbe potuto salvare la vita. E quando fu
sul punto di rispondere, Uriel lo interruppe. «Qualcuno ha sentito la
porta d’ingresso chiudersi? Siamo in quattordici qui dentro e se una
porta si chiude qualcuno la deve sentire per forza».
Tutti scossero il capo.
Gabriel taceva. “Maledetta! Che fine hai fatto?” pensò, ma alla
domanda del turco la sua mente aprì il cassetto dei ricordi per
cercare qualche informazione utile. Inoltre, se Odry non aveva avuto
intenzione di sbollire passeggiando in città, si era di certo
smaterializzata per andare più lontano.
Anche gli altri si aggiunsero al gruppo, tranne la piccola Georgette
e Michael che dormivano beati.
«È il caso che cerchi anche lei come ho fatto con Cassiel?»
domandò Ania, laconica.
«No» rispose Gabriel. «Forse so dov’è. Ma vado da solo, troppe
persone la soffocano». Quindi si smaterializzò.

La brezza marina lo investì così come l’odore pungente di


salsedine. Era una notte fredda e il mare calmo lambiva il
bagnasciuga creando un piacevole suono in grado di calmare anche
l’animo più dannato. Alle sue spalle una parete rocciosa.
La spiaggia sarebbe stata deserta se non fosse stato per un
gruppo di studenti da un lato, intenti ad animare un falò con canti e
risate, e la presenza di Odry nel punto più isolato, seduta poco
distante dalla riva. La sua schiena Gabriel l’avrebbe riconosciuta tra
mille.
Tirò un sospiro di sollievo, deglutì per darsi un contegno e si
avvicinò a grandi passi; ma a due metri da lei decise di rallentare:
questa volta sarebbe rimasto calmo.
«Ragazzina» disse piano.
«Torna a casa e lasciami in pace». La voce era piatta; la
demonessa non smise di scrutare il mare e lui, anche se titubante, si
sedette sulla sabbia accanto a lei. «Non ti disturberò, promesso».
«Voglio che te ne vada. Se sono venuta qui è perché volevo stare
da sola, lontana da tutti e soprattutto lontana da te».
Lui esitò, ma dopo un lungo silenzio si convinse a chiedere:
«Dimmi cosa ti ho fatto, per favore».
«Esisti, Gabriel! Ecco qual è il fottuto problema!» con un pugno
colpì la sabbia. «Ho passato tre mesi chiedendomi se stessi bene,
se fossi ferito, se e quando ti avrei rivisto, e ora che ti vedo? Mi
sento male, la tua presenza mi mette a disagio perché non so come
devo comportarmi: il mio corpo dice una cosa, il mio cervello un’altra
e il mio cuore un’altra ancora!» Si alzò in piedi furiosa. «Porca
puttana! Ma non lo vedi come stiamo?! Non vedi come sto?! Ho
mandato Belial a morire all’Inferno, io sto vivendo un Inferno qui e
vederti, sentirmi così… avrei preferito non fossi mai tornato».
Gabriel di colpi bassi ne aveva ricevuti in vita sua, e tanti, ma
quelle parole furono ciò che di peggio potesse sentirsi dire. Le
avrebbe accettate da chiunque, ma non da lei.
Si alzò con stizza e le puntò un dito contro. «Ti ho seguita in
giardino e qui in spiaggia per non lasciarti sola ed è così che mi
tratti? Cosa sono per te? Un disturbo? Pensi che io mi stia
divertendo?»
«E allora sparisci! Conoscerti mi ha solo rovinato l’esistenza. Tutto
ciò che provo non voglio provarlo ed è colpa tua se è così!» gli diede
uno schiaffo sulla mano allontanando quel dito accusatorio da sé.
«Oh sì! La colpa è solo mia!» la canzonò lui. «La colpa è mia che
ho creduto di poterti aiutare visto che nessuno dei tuoi amici ci è
riuscito! La colpa è mia che ho pensato di mantenere la promessa e
tornare da te, che ho creduto lo volessi davvero».
Odry iniziò a urlargli contro. «Hai rotto le palle con questa tua
voglia di salvare la gente, non sei un supereroe, mettitelo bene in
testa! Una promessa mantenuta per cosa Gabriel?! Cosa siamo
noi?! Dimmelo!»
«Abbiamo intesa, ci siamo coperti le spalle a vicenda, abbiamo
scopato e tu volevi che tornassi, poi hai deciso di allontanarmi e io
non ci capisco più niente. Mi stai facendo impazzire da giorni, e tutto
ciò perché ho solo mantenuto una fottuta promessa! Sei tu che non
vuoi che siamo qualcosa!» Iroso le si fece vicino, con uno sguardo
non poi tanto amichevole. «Ma se vuoi possiamo continuare a
scopare come due sconosciuti» aprì le braccia in un provocatorio
invito. «Forza ragazzina! Lo vedo come mi guardi».
In risposta Odry gli sferrò un pugno sul naso, facendogli voltare il
capo, dolorante. «Eccome se vorrei scoparti! Ma più ti guardo più mi
fai uscire fuori di testa. Ci sono due cose che più di tutte non
sopporto: la prima è vedere come non riesci a prendere coraggio e
dirmi quello che provi per me, la seconda è la mia totale incapacità
nel controllare i miei sentimenti e le mie emozioni a causa tua».
«E tu pensi di avere le palle?» tuonò Gabriel afferrandola per un
polso. «Tu dimostri coraggio evitandomi e trattandomi come se non
esistessi?»
«Leva quella mano» sibilò Odry dimenandosi, ma la presa di
Gabriel era salda e impossibile da allentare. «Cosa vuoi che ti dica?!
Che provo qualcosa per te? Oppure vuoi che mi sfoghi con te?
Ebbene, ho paura dei miei sentimenti e non so gestirli, ora più che
mai! Contento?»
Gabriel mollò la presa. Temeva anche lui i propri sentimenti e
realizzò il fatto solo in quel momento. Odry lo allontanava per paura
e lui non era in grado di chiarire per la medesima ragione. «Io sono
preoccupato per te, questo devi accettarlo. Almeno questo me lo
devi».
«Io non ti devo niente» Odry parlò con disprezzo, ma stanchezza
e dolore presero il sopravvento. «Sono stufa di tutto questo, se sono
andata via è perché sento che non siete al sicuro chiusi in una casa
con me». Mise una mano tra i capelli stringendo così forte da farsi
male, tirò su col naso. «Quella voce che sentivo a casa di Uriel e poi
da Raziel, non mi lascia più in pace. Prima era sporadica, andava e
veniva; adesso è costante, la sento gridare anche in questo
momento. Io… non so più cosa fare». Singhiozzò. «Ti supplico,
voglio solo essere lasciata in pace» si voltò a guardarlo in maniera
significativa. «Ti prego…»
No, il suo sguardo diceva altro, Gabriel riuscì a comprenderlo.
Così azzardò.
Recuperò un po’ di tatto, si avvicinò e, piano, la strinse a sé. Tutta
la rabbia venne spazzata via, proprio come la sabbia sotto i loro
piedi, trasportata dal vento. Lasciò che piangesse, che si
aggrappasse alla giacca e che, poi, gli cingesse le braccia attorno al
busto, cadendo in ginocchio insieme a lui.
Come aveva potuto arrabbiarsi in quel modo con una creatura
tanto fragile e sofferente? Non osò dire nulla. Lasciò che fosse il
dolore della demonessa a comunicare attraverso le lacrime.
Per mesi era rimasta sola con se stessa senza potersi sentire
libera di sfogarsi con qualcuno, nonostante ci fosse Satan con lei.
Odry aveva bisogno di ben altro e Gabriel, nel profondo, sperò di
non essere arrivato troppo tardi per salvarla. Ciò gli fece così male
da mozzargli il respiro, perché non c’era stata una sola volta in cui
fosse riuscito a salvarla con le proprie mani.
Chiuse gli occhi concentrandosi su di lei.
Quanto gli era mancata, solo Dio lo sapeva.
Il calore del suo corpo fu piacevole in mezzo al vento freddo del
mare.
Odry lo strinse con più forza, respirò a fondo il suo profumo, gli fu
grata di quel momento solo per lei, di averle permesso di lasciare
uscire fuori tutto. Poi le si affacciò un pensiero, come fosse riuscita a
leggergli nella mente. «Mi sei mancato» sussurrò tra le lacrime e le
mani si insinuarono sotto la maglia tastandogli la schiena. «Mi sei
mancato».
Sotto i polpastrelli, percepì i brividi di Gabriel solo in seguito a un
suo unico tocco. Quel gesto gli accelerò i battiti del cuore e lei lo
sentì. Le braccia dell’Arcangelo la avvolsero con più forza. E se
anche non era riuscito a parlare, il suo corpo lo fece per lui.
Odry non riusciva a smettere di toccarlo, in realtà non voleva
smettere; gli allacciò le braccia al collo e glielo baciò, lo fece chinare
verso di sé e gli baciò la guancia, l’orecchio. Il respiro pesante
d’eccitazione ne accompagnò il movimento.
Gabriel tolse la giacca con un impeto che la sorprese. La gettò
sulla sabbia, l’afferrò per i fianchi e la fece stendere: lei si lasciò
prendere e guidare.
Si fissarono per un breve attimo, tanto intenso da sembrare non
finire mai: il mare profondo e il cielo infinito.
L’Arcangelo le infilò le mani sotto la canotta, andando alla ricerca
dei seni che bramava ogni secondo di più. Il riflesso della luna
illuminava le curve perfette di quel corpo la cui immagine, durante le
notti dietro le sbarre, gli aveva tenuto compagnia.
Ma la vista della carne bianca e delicata della demonessa era
incompleta senza il suo volto. Labbra rosso sangue, lo stesso che
avrebbe versato per averle. La paura di diventarne schiavo gli
impedì ancora una volta di baciarle.
Si sentì ubriaco e non poté fermarsi.
Odry percepì ogni singola sfumatura della sua paura. Si tolse la
canotta e sbottonò i pantaloni facendo lo stesso con quelli di lui. Di
baciarlo però non se la sentì nemmeno lei, temeva un rifiuto, ma allo
stesso tempo che ricambiasse e così si limitò a farlo sul petto. Si
vide sfilare i pantaloni e sollevare il bacino.
Gabriel si accomodò tra le sue cosce e la penetrò. Fu brusco e
impetuoso. Entrò in lei mettendo a poco a poco a tacere quella voce
nella testa. Una mano sotto la schiena, una sotto la nuca a stringere
quei capelli rossi che amava. Pendeva dalle sue labbra, dallo
sguardo languido e lussurioso, dai gemiti che lo invitavano a non
smettere. Nascose il volto nell’incavo tra spalla e collo. Respirava
con affanno, lasciandosi andare al piacere. «Non fuggire più» le
impose all’orecchio in un sussurro, cercando di contrastare quel
senso di dipendenza. Il suo orgoglio tralasciò “da me” e “ti prego”.
Odry gli strinse le gambe intorno alla vita affondandogli le unghie
nella carne. «Continua…» si limitò a rispondere tra un ansito e
l’altro. Posò la fronte su quella di lui e chiuse gli occhi ansimando.
«Più forte…» intimò, serrando ora la presa sui suoi capelli.
Gabriel era tutto ciò che desiderava e di cui aveva paura. Era su
una zattera in balia di una corrente di sentimenti troppo forte per
poter essere contrastata. Eppure non riusciva a dirgli di no, a fare a
meno di lui.
Lui sarebbe sempre andato a cercarla e lei si sarebbe sempre
fatta trovare.
Sarebbe bastato un bacio per suggellare il loro legame, se si
fossero baciati le barriere sarebbero crollate e si sarebbero potuti
amare alla luce del sole. Un passo, però, troppo pericoloso e difficile
per entrambi. Così Odry si ritrovò a osservare e toccare con le dita
quelle labbra, senza poterle assaporare. «Gabriel…»
L’Arcangelo fissò le sue godendo solo a sentirsi chiamare.
«Ripetilo… ripeti il mio nome».
Odry fece come richiesto gemendo a un soffio da lui e l’Arcangelo
socchiuse la bocca in preda al piacere.
Consumarono il loro rapporto, stringendosi l’uno all’altra per
avvicinare due anime che non avrebbero saputo come fare,
altrimenti.

Gabriel l’aiutò a rivestirsi senza smettere di fissarla.


«Ora torna a casa» esordì però Odry, tirando fuori la testa
scarmigliata dalla maglia.
«Torna?» Gabriel sorrise sardonico. «Vieni anche tu».
«No Gabe, io non vengo. Non sarà una scopata a farmi cambiare
idea». La demonessa prese lo zaino e Gabriel intuì fosse pronta per
smaterializzarsi in chissà quale altro posto, ma le afferrò il polso e se
lei l’avesse fatto lui l’avrebbe seguita. «Sono tutti preoccupati per te.
Andiamo e parliamoci, così ti lasceranno i tuoi spazi. Se non
dovessimo trovare una soluzione, troveremo un posto alternativo».
«Lo troverò adesso il mio posto alternativo e lo troverò da sola».
Cercò di divincolarsi, senza successo. «Cosa nella frase “con me
non siete al sicuro” non riesci a capire?!»
«Pensi invece di riuscire a guarire e stare meglio isolandoti dalle
persone che ti amano?»
Odry rispose con la solita ironia sprezzante: «È evidente che
parliamo due lingue diverse, ma voglio provarci un’ultima volta: con
me non siete al sicuro, non ho il controllo delle mie fottute emozioni,
sono esausta perché non dormo da mesi − come se avessi mai
dormito, ma questo è un altro discorso − perciò sì, me ne vado per
proteggere le persone che amo da me e da quella cosa che mi urla
nella testa». Sospirò. «Vai a casa, mi farò sentire io».
Gabriel respirò a fondo, le mise una mano sulla spalla e l’altra
sotto il mento, invitandola a farsi guardare. «Facciamo così:
cerchiamo un posto per due e vediamo come procede. Se dovesse
degenerare, farò come dici. Non intendo lasciarti da sola».
«E invece te ne vai!» Odry furiosa lo spinse. «Non voglio avere
questo peso sulla coscienza, non potrei vivere col pensiero che sei
morto per causa mia. Perché non riesci a rispettare il mio volere?»
alzò la voce puntandogli un dito contro. «Non costringermi a farti
allontanare con le cattive, sai che lo…» si bloccò nel mezzo della
frase ricadendo in ginocchio con una mano sulla tempia. Un lamento
di dolore le uscì dalle labbra serrate. Ogni suono intorno le arrivò
distorto e confuso. Una nuova fitta la fece accartocciare e prendere
fuoco.
Gabriel sgranò gli occhi, d’istinto allungò una mano verso di lei ma
si bruciò. Ringhiando per il dolore indietreggiò: non sarebbe mai
riuscito a gettarla in acqua e comunque non si sarebbe spenta.
«Hey! Voi laggiù!» gridò ai ragazzi in fondo, alzati per osservare la
scena sconvolti; alcuni di loro avevano già il telefono incollato
all’orecchio. Il fuoco del falò di colpo avvampò con così tanta
violenza da farli cadere sulla sabbia tutti quanti, la maggior parte con
gli abiti in fiamme. Iniziarono a gridare.
La situazione peggiorò in un battito di ciglia.
Il mare iniziò a bollire e Gabriel si ritrovò a guardare quel
fenomeno con terrore: i pesci salirono a galla, morti, mentre le bolle
aumentavano di volume.

«Peggiora sempre, senza fermarsi mai».

Le parole che Odry gli aveva detto dopo l’esplosione a Istanbul gli
rimbombarono nel cervello. “Sta diventando sempre più forte” pensò
con orrore. Impotente, spostò lo sguardo su Odry: stava riversa a
terra con le mani premute sulla testa.
«Basta, basta, basta non voglio più sentirti, basta!» strillò lei.
L’aria si fece irrespirabile, bollente e pesante. La sabbia intorno a
Odry divenne vetro e l’Arcangelo capì: ciò che sarebbe capitato a
breve non avrebbe potuto paragonarsi a quanto accaduto a Istanbul
o al Quartier Generale.
«Vattene via, ti prego!» gridò in un attimo di lucidità la demonessa,
con gli occhi carichi di lacrime.
Gabriel si rivide nell’affollata abitazione in Turchia, diviso tra il
volerla salvare senza sapere come fare e il voler salvare se stesso
da quella potenza distruttiva.
E per la terza volta fu costretto ad abbandonarla al suo destino.
Si voltò e spiegò le ali per accorrere da quei giovani esposti al
pericolo, ma non fece in tempo: Odry esplose prima, travolgendoli.
Il bagliore fu così forte da illuminare a giorno la spiaggia per
miglia. Vapore caldo si alzò dal mare, entro il perimetro
dell’esplosione, la temperatura divenne insostenibile come dentro un
vulcano. Gli studenti più in là non fecero nemmeno in tempo a
realizzare cosa stesse accadendo.
Gabriel fu costretto a smaterializzarsi.
Attese per un tempo indeterminato tra le nuvole, osservando con
raccapriccio le condizioni in cui versava la spiaggia.
La sabbia era diventata una grande distesa di vetro, non vi erano
corpi carbonizzati, solo polvere. Dall’acqua continuava a uscire un
vapore denso e nervoso. Le rocce della scogliera erano annerite e
roventi.
Odry giaceva inerme.
Gabriel scese a terra; lo strato vetrificato, si rompeva sotto il suo
peso a ogni passo. Le si avvicinò e la prese tra le braccia,
stringendola d’istinto.
Le ambulanze si udirono da lontano: era ora di tornare a casa.

II

Voci.
Erano sconnesse in un primo impatto, ma più il tempo seguiva il
suo corso, più Odry riusciva a distinguerle. Erano due, entrambe dal
tono preoccupato.
Riconobbe la prima come quella di Satan e la seconda come
quella di Vicky.
«Sono tre giorni che dorme».
«Lascia che dorma, se lo merita».
“Sono a casa?” Odry cercò di muoversi, ma le lenzuola
sembravano pesare come massi sul suo corpo. Provò ad aprire gli
occhi e, nonostante la camera fosse al buio, lo spiraglio di luce
proveniente dal corridoio la infastidì. Era da sola, di certo gli amici
erano fuori dalla stanza. Portò una mano alla testa, le doleva da
impazzire ma, stranamente, era silenziosa. Tentò una seconda volta
di muoversi, riuscì a mettersi seduta e una forte nausea la fece
barcollare. Chiuse gli occhi compiendo profondi respiri per
controllare i conati e spostò le coperte per alzarsi; cadde in
ginocchio e il rumore allarmò chi stava dietro alla porta.
«Vado a chiamare Raphael e Gabriel» disse Vicky, correndo giù
dalle scale.
Satan aprì piano e le andò in aiuto, sorreggendola tra le braccia.
«Sei a digiuno e non sei in forze, non dovresti muoverti» le disse
accarezzandole i capelli, ma Odry scosse il capo.
«Perché sono qui?»
Satan ringraziò lo stordimento dell’amica che le impedì di notare la
sua espressione preoccupata. Non rispose, in effetti non aveva idea
di cosa dirle.
Raphael li raggiunse pochi attimi dopo. Odry ebbe il tempo di udire
solo la sua voce: un capogiro più forte degli altri le fece perdere di
nuovo i sensi.
Si risvegliò dopo quattro ore, distesa nel letto, le coperte fino al
bacino. Raphael era seduto accanto a lei. Una stretta intorno al
braccio le fece intuire che l’Arcangelo le stava misurando la
pressione. Le parlò, ma la voce le giunse ovattata.
«Che cosa mi è successo?» domandò flebile.
«Sei debole, poi ti spiego» si limitò a rispondere il francese; Odry
annuì qualche secondo in ritardo. «Ti va di andare nel caminetto?»
propose lui.
«Prima voglio sapere che cosa mi è accaduto».
«Hai perso il controllo delle tue facoltà, poi i sensi e hai dormito
per tre giorni».
«…cosa?» quella notizia la svegliò quasi del tutto. «Io non ricordo
nulla».
«È normale» ribatté Raphael alzandosi e facendosi da parte.
«Deve essere stato traumatico. Ora andiamo in soggiorno: il camino
è già acceso».
Gabriel comparve nel campo visivo della demonessa, taciturno. La
prese in braccio e la portò fuori dalla stanza. Il francese al seguito.
La luce le fece male e nascose il viso contro il petto
dell’Arcangelo, la testa le doleva a ogni passo compiuto da Gabriel e
quando furono al pian terreno tutti ammutolirono.
Satan spense il televisore, che dalla mattina presto mandava in
onda le immagini terribili di quanto successo alla spiaggia. Cercò di
sorriderle. «Ti ho fatto qualcosa da mangiare immagino tu sia
affamata».
Odry scosse il capo.
«Uscite tutti» ordinò Raphael e nessuno osò ribattere.
La stanza si svuotò e lei venne posizionata accanto alla brace; da
sola entrò tra le fiamme. Gabriel si spostò in un angolo del soggiorno
a osservare.
L’altro Arcangelo si sedette su una poltrona, in attesa che lei fosse
in grado di parlare e pensare a mente lucida.
Lo stesso fece Satan che, mordendosi le labbra, si accomodò
poco distante da Raphael.
«Non sopporto questo silenzio, abbiate il coraggio di dirmi ciò che
è successo». Rabbiosa, Odry puntò lo sguardo di cristallo su ognuno
di loro.
«Sei scappata e Cooper ti ha raggiunta» spiegò Blanchett. «Avete
litigato, hai perso il controllo, hai preso fuoco e sei esplosa».
«Come a Istanbul» aggiunse Satan.
«Molto peggio di Istanbul» precisò Gabriel.
Odry strinse i pugni e alzò la voce, disperata. «Lo sapevo, sapevo
che sarebbe successo! Per questo me n’ero andata!»
«Ti prego calmati, non ti fa bene questo stato d’animo» provò
pacato Satan, ma Odry ormai era partita.
«Lo sapevo che non potevo stare con voi, è pericoloso e mi avete
chiuso qui ancora una volta. Siete pazzi?»
Il fuoco avvampò bruciando le frange del tappeto che Satan si
affrettò a spegnere con il piede. «Gabriel ti ha portata qui perché ha
avuto paura che morissi o peggio… avrebbero potuto trovarti altre
persone. Siamo in bilico, senza certezze e ha voluto portarti al
sicuro».
«Ma voi non siete al sicuro!»
«A proposito di questo… c’è una cosa che non avrei mai voluto
arrivare a fare, ma viste le circostanze sono costretto». Satan mise
una mano in tasca ed estrasse un piccolo dispositivo.
Sia Odry che Raphael e Gabriel lo osservarono con un misto di
timore e curiosità.
«Mi dispiace Odry, non odiarmi ma è per il bene di tutti».
«Che cosa vuoi fare?» gli domandò.
La risposta arrivò presto.
La collanina che le aveva regalato si animò: prima la catenella
divenne più spessa e più robusta, poi si accorciò scomparendo
all’interno del ciondolo, stringendole il collo.
Odry portò le mani tremanti sul metallo freddo. «Mi hai messo…
mi hai messo un collare? Come cazzo ti permetti?!» strillò.
«Toglimelo subito!»
«Non posso, è per il bene di tutti». Satan si accigliò, mortificato.
Raphael e Gabriel si irrigidirono per la sorpresa. Solo quest’ultimo
riuscì a fare un passo in avanti per comprendere meglio. «Che
diavolo è quella roba?»
Satan sospirò. «Ho commissionato questo collare a un artigiano
del Kokilon di Londra – senza farmi riconoscere – dopo che siete
tornati dal Quartier Generale. Ci sono voluti diversi mesi per metterlo
a punto: serve per impedirle di perdere il controllo, è dotato di
rilevatori in grado di resistere ad altissime temperature e rilasciare,
quando necessario, una scarica elettrica in grado di metterla fuori
gioco e impedirle di esplodere».
«Lurido figlio di puttana!» Odry si lanciò fuori dal camino con la
chiara intenzione di mettergli le mani al collo, ma una scarica le
percorse il corpo facendola cadere in ginocchio col fiato mozzo e
spasmi alle articolazioni. «Ti ammazzo, ti ammazzo Satan, giuro che
ti ammazzo» sibilò.
«Mi dispiace, ma qui ci sono persone ferite, altre non sono in
grado di difendersi e c’è una bambina. Io devo poter proteggere tutti
loro».
Un pugno di Gabriel gli sfiorò il volto, Raphael aveva trattenuto il
collega giusto in tempo. «Si fidava di te! Ma che cazzo ti dice il
cervello?!»
«Ragiona Gabriel! Questa casa è composta per il settanta
percento di legno e noi stiamo vivendo con una bomba pronta a
esplodere! C’è una bambina qui e a prescindere nessuno di noi è
abbastanza potente da potersi proteggere da lei». Il demone si alzò
in piedi affrontandolo. «Tu eri lì, hai visto quello che ha fatto: il mare
è evaporato, i pesci sono morti, quasi tutta la sabbia è diventata
vetro e quindici innocenti sono stati ridotti in cenere!»
Gabriel non poté controbattere.
Odry spalancò gli occhi. Con le poche forze recuperate si alzò e a
grandi passi raggiunse le scale dove tutti stavano origliando.
«Levatevi di torno!» sbottò, spingendo chiunque avesse davanti per
farsi strada. «Per me siete morti! Tu più di tutti» sibilò contro Satan.
Vicky le corse dietro seguita da Uriel e Michael, Gabriel provò a
raggiungerla, ma Raphael ordinò a gran voce, prima che qualcuno
potesse anche solo sfiorarle una spalla. «Basta! Dovete lasciarla in
pace una volta per tutte». Si voltò verso Gabriel che lo guardava con
rabbia. «Soprattutto tu, perché se è successo ciò che è successo è
anche a causa della vostra litigata».
«Sarebbe esplosa lo stesso» si intromise Mathael.
«Non lo puoi sapere» ribatté il francese. «Forse le sarebbe
bastata qualche ora in riva al mare per rilassare i nervi».
Gabriel lo spinse e tutti, d’istinto, indietreggiarono. «Si sarebbe
calmata come? Da sola con i suoi pensieri e con quella voce nella
testa che la sta facendo impazzire?»
«Non osare più toccarmi con un solo dito, ti avverto».
«Raphael ha ragione!» Vicky mosse qualche passo in avanti.
«Ha subìto una grossa dose di stress occupandosi di mille cose e
sapere che Belial non riesce a tornare la corrode nel profondo.
Anche se te la prendi con lui non sistemerai le cose!» la succube si
accostò al francese e diede una spinta a Gabriel.
«Quale voce? Di quale voce state parlando?» s’intromise Satan
allarmato e infastidito dalla rivelazione.
«Come? Non lo sai?» Gabriel ignorò Vicky avvicinandosi di più,
quasi schiacciandola contro Raphael. «È da mesi ormai che una
voce le urla nel cervello e le impedisce di dormire».
Satan si voltò verso Raphael. «Tu lo sapevi… lei te l’ha confidato
e non hai detto nulla, di’ la verità».
«Avrei dovuto dirlo per ottenere cosa? Uno scimmione apprensivo
sempre incollato a lei e un ansioso patologico che le gira intorno e la
fa stare peggio?»
Anche Satan diede in escandescenze e colpì Raphael sullo
zigomo. «Tu sapevi e non hai parlato! Ci hai tenuto all’oscuro di
tutto, potevamo morire!» gridò provando a colpirlo ancora ma Vicky
lo spinse con forza. «Non toccarlo!»
Uriel si avvicinò per dare manforte alla succube e provare a far
ragionare Raphael. «Non siamo bambini, avremmo potuto discutere
come persone civili della situazione, se qualcuno avesse parlato».
«Tu ragioni da persona matura» rispose il francese
massaggiandosi la guancia dolente «ma qui c’è chi perderebbe il
controllo, facendosi sopraffare dall’ansia e dalla paura».
«Sei stato meschino, Raphael, meritavamo di essere messi a
conoscenza di una simile condizione. È addirittura peggio di quanto
pensassi!» Satan aprì le braccia facendole ricadere sui fianchi. «Ma
dopotutto a te che doveva importare? Tu non vivevi qui, a te non
interessava minimamente di nessuno di noi, eppure quando tuo
fratello è stato cacciato sei venuto a chiedere aiuto come un bravo
opportunista!»
Vicky lo schiaffeggiò e Raphael le si pose di fronte, invitandola a
calmarsi. «Non l’ho fatto in malafede e non ritengo di aver agito da
opportunista. Lei si è confidata solo con me, in quanto suo medico, e
Cooper».
«Si fidava di noi» continuò Gabriel rivolto ora al demone.
Satan non ci vide più e stavolta il pugno se lo prese Gabriel che,
però, non reagì. «Mi sono stancato di te e del tuo atteggiamento! Tu
non sei niente per lei, mettitelo bene in testa. Come non ha voluto
me al suo fianco, non ha voluto nemmeno te».
La pazienza di Gabriel si esaurì. Si gettò su Satan, afferrandolo
per il collo e attaccandolo alla parete. Mathael si interpose tra loro e,
aiutata da Molly, la sorella muscolosa di Vicky, riuscì a spingere via
Gabriel. «Smettila di fare il coglione e vattene via da qui. Vai in una
stanza o fuori in giardino, basta che tu la smetta di comportarti in
questo modo».
Satan si portò una mano al collo senza smettere di guardare
Gabriel con odio. «È sempre colpa tua» gli disse prima di andarsene
dal salotto.
Vicky guardò Raphael apprensiva, gli prese il viso con una mano.
«Stai bene?»
«Non ti preoccupare, sono duro anche io» la rassicurò, poi la sua
attenzione venne catturata da Gabriel intento a farsi largo per
andare nel giardino retrostante e prendere una boccata d’aria.
«Che nessuno lo raggiunga» disse Mathael. «Fatelo sbollire».
«E Odry?» Karen si avvicinò.
«Uscirà per smaltire la rabbia e non ci darà modo di contattarla»
considerò il francese. «Se non dovesse rientrare entro il pomeriggio,
direi di cercarla».
In effetti che ne sarebbe stato del patto stipulato con Balthazar e
della liberazione di Cassiel, se lei fosse scomparsa? Raphael si
sentì un egoista, ma si consolò giustificando la doppia utilità della
presenza di Odry. “Dovremmo cercarla anche prima del pomeriggio”
ragionò.
«Allontanatevi dall’ingresso». Ania aveva appena raggiunto gli
altri, che la guardarono perplessi. «Allontanatevi. Adesso».
La porta esplose. Le schegge volarono ovunque e qualcuno venne
colpito; una vampata di calore insopportabile pervase la stanza.
Sulla soglia comparve Zachary, con un cappello a falda larga e un
lungo cappotto, entrambi neri. «Odry! Dove sei?» esordì a gran
voce.
I presenti impiegarono alcuni istanti per realizzare cosa stesse
accadendo, ma poi attaccarono.
Una fiammata blu di Uriel lo raggiunse insieme a un’onda d’urto di
Satan, ma lui si protesse con una barriera di fiamme scure: il
pavimento sotto di lui annerì. Raphael e Mathael evocarono le
spade. Il primo gli si lanciò addosso e il fendente colpì lo scudo
fiammeggiante senza infrangerlo. Subito dopo la donna entrò con un
dritto tondo, ma il colpo andò a vuoto.
Michael lo attaccò alle spalle con la speranza di cogliere una falla;
anche lui fallì miseramente.
Zachary aveva dimostrato in pochi secondi tutta la sua resistenza
e gli Arcangeli percepirono in lui la presenza del Graal a dargli
potere. «Mi spiace deludervi, ma non ho tempo da perdere». Ci fu un
improvviso ampliamento della barriera che ustionò i due Arcangeli
più vicini.
Prima che Raziel potesse attaccare, una lingua di fuoco afferrò
Karen e la trascinò verso il demone che la usò come ostaggio. «Ora
le mie fiamme non le faranno del male» disse braccandola «ma
osate fare un solo passo e le capiterà qualcosa di brutto».
«Lasciala, bastardo!» gridò l’ungherese e si lanciò per provare ad
abbattere lo scudo, ma non ci fu verso: dovette assistere al terrore di
Karen mentre Zachary la trascinava su per le scale. Dietro di lui una
lunga bruciatura sul pavimento.
«Collabora e non sarà poi così spaventoso» le sussurrò
quest’ultimo.
Gabriel gli si materializzò davanti. «Lasciala, vigliacco, o ti spezzo
le ossa».
Raziel gli chiuse la strada da sotto, bloccandolo in mezzo alla
rampa, Satan gli si affiancò, le mani in posizione d’attacco avvolte da
un’aura oscura. «Sei da solo e circondato. Ma sei anche in tempo
per liberarla e sparire».
Zachary rise. Con sguardo di sfida caricò Karen sulla spalla
facendola gridare ancora, poi aprì un piccolo varco nello scudo,
proprio di fronte al volto della francese. «Dovreste avere una bella
mira per non deturparle il viso. Quindi non vi conviene attaccarmi
ancora».

Odry raccolse pochi vestiti e li infilò in maniera disordinata dentro


lo zaino. Le lacrime di rabbia le appannavano gli occhi. La furia
incontrollata per il torto subito attivava il collare che le rilasciava
dolorose scariche elettriche. “Maledetto traditore” pensò, rivolta a
Satan. Singhiozzò e colpì più volte il materasso, unico modo di
sfogarsi per non subire altre scariche.
All’improvviso un’esplosione.
Si voltò verso la porta, rimase in ascolto.
Qualcuno la chiamò: un uomo. Non riuscì a riconoscerlo.
Rumori di colluttazione, poi un grido di Karen.
Odry sgranò gli occhi. “No” pensò con timore. “Non adesso, non
ora che non posso combattere”.
Sentì un altro grido dell’umana, a seguire dei passi pesanti sulle
scale. E la voce di Zachary.
Si precipitò alla porta, l’aprì e uscì sul pianerottolo. Il fratello
teneva Karen su una spalla ed era avvolto da fiamme nere.
«Ciao Odry, sono venuto a prenderti».
Gabriel si materializzò ancora, stavolta tra loro due; evocò la
spada dalla lama larga trenta centimetri. «Non osare toccarla»
minacciò.
«Levati» sibilò Zachary.
Odry superò l’Arcangelo e sputò sulla barriera; la saliva evaporò.
«Fottiti, traditore pezzo di merda».
Zachary avanzò di un passo, la lama di Gabriel gli scintillò di
fronte. Spostò lo sguardo di nuovo sulla sorella, sorrise divertito.
«Perché non sento potere in te?»
Gabriel la anticipò. «Non sono affari che ti riguardano».
Odry aggiunse: «Sei da solo contro otto persone. Ti consiglio di
sparire».
«Contro sette, vorrai dire».
Lei rispose ancora, ma lui non udì una sola parola. Si concentrò
sulla sorella e sul suo sguardo colpevole e rabbioso. Ma soprattutto
sulla debolezza dell’aura che la circondava. «Molto bene».
Gettò Karen tra le braccia di Gabriel e, avvolto dal proprio fuoco, si
avventò sulla gemella intrappolandola in una spirale.
La videro volteggiare sul pianerottolo, sbattere su pareti e
pavimento come se al suo interno i due stessero lottando. La stessa
poi tornò verso la porta, serpeggiando così veloce che fu impossibile
bloccarla.
«Odry!» gridarono in contemporanea Satan e Vicky. Tutti si
precipitarono fuori di casa, ma la spirale nera era già sparita.
«Cazzo!» ringhiò Gabriel.

Odry si trovò in un parcheggio sotterraneo. Vi erano poche


macchine e loro due erano in mezzo a due furgoni bianchi, lontani
dalle telecamere.
Zachary, che le stringeva una mano attorno al braccio, la costrinse
a camminare fuori dal nascondiglio. «Ti vedo triste, sorellina. Che è
successo?» domandò come se nulla fosse.
«Non sono cazzi tuoi. Perché sei qui?»
«Per te, tesoro. Per chi altri sennò?»
«Dimmi la verità! Che cosa vuoi da me?!» Odry quasi gli gridò
contro, si staccò da lui e lo guardò con disprezzo. «Non osare
mentirmi».
«Non sto mentendo, son venuto per te». Zachary aprì le braccia e
si guardò intorno. «Vedi qualcuno di interessante qui?»
«Che fossi fuori di testa già lo sapevo, ma ora stai raggiungendo
un livello di pazzia che va ben oltre le mie aspettative. Scordati che
venga con te, solo se fossi morta avresti una chance».
«Mi servi viva». L’afferrò per il polso e la tirò verso di sé,
costringendola a riprendere il cammino. Dopo essersi beccato un:
«Che pezzo di merda!» da parte di Odry, disse: «Quel collare che
hai addosso non passa inosservato. Di che si tratta? E non rifilarmi
cazzate perché tanto poi lo scopro».
«Serve per impedirmi di fare qualsiasi cosa, non appena
raggiungo una temperatura “elevata” mi viene data una scossa in
grado di mettermi fuori gioco» ghignò. «Sarai felice immagino,
traditore bastardo».
«Sì, così non creerai scompiglio. Per di qua». Uscirono dal
parcheggio. Zachary la condusse nella corte interna di un palazzo
storico, utilizzata come posto auto per i residenti. «Ti presenterò
alcuni cari amici, tra loro ce n’è uno che già conosci».
«Non ho intenzione di assecondare le tue stronzate. Quindi ora mi
lasci e io me ne vado e faresti bene a non provare a toccarmi;
collare o no, se ti metto le mani addosso ti ammazzo. Gabriel e gli
altri ti troveranno. O vuoi continuare ad acchiappare ostaggi per
salvarti il culo?»
In un angolo, tra due macchine, Karasi li attendeva impaziente.
«Perciò lei sarebbe il contenitore?» Mosse qualche passo in avanti
intromettendosi nella discussione.
«E questa chi cazzo è? Prendo a pugni pure lei se osa fare un
altro passo» continuò Odry, furiosa.
Zachary rise di gusto e le scompigliò i capelli. «Sì! Un contenitore
pronto a scoppiare, oserei dire».
La sciamana lo fulminò con lo sguardo. «Molto bene».
Odry notò, dopo quella brutta occhiata, un cambio repentino
nell’atteggiamento del fratello, che divenne serio. Poi rispose: «Io
non sono il contenitore di un bel niente».
«Lei non lo sa?» Karasi guardò il ragazzo perplessa che, a sua
volta, si rivolse a Odry. «Non sai davvero nulla?»
«Che cazzo dovrei sapere?!»
Lui, scontroso, disse: «Che sei il contenitore di Rakelech».

III
Odry si ritrovò segregata al primo piano di un edificio
abbandonato. Era in una stanza con una finestra dai vetri sporchi;
sempre sotto sorveglianza. Stava distesa su un letto, scomodo e
puzzolente, a ridosso di una parete, vicino a un comodino
impolverato.
Quella stessa sera, la serratura della porta scattò e quando si aprì
Odry vide Zachary entrare.
Si irrigidì, gli occhi puntati su di lui al fine di cogliere ogni minimo
movimento. Poi, una busta di carta con il logo di un ristorante cinese
attirò la sua attenzione più di tutto. Zachary chiuse la porta e le si
avvicinò. «Ho comprato la cena» le disse in un tono che lei non
seppe decifrare.
Odry alzò un sopracciglio «La cena. Vuoi avvelenarmi?»
«L’avrei già fatto, cretina». Il demone sedette sul letto ed estrasse
le confezioni di cibo ancora caldo e quattro lattine di birra.
Odry rimase colpita. “Alcolici? Pensavo volesse tenermi a secco”.
Incerta, allungò una mano verso una di esse. «Fa che non siano
analcoliche o ti prendi un pugno in faccia».
«Sono alcoliche, ma sono così blande che ti sembrerà di bere
succo di frutta» sghignazzò lui scartando il suo riso con frutti di mare
«o pensavi che mi fossi rincoglionito?»
«Lo sei già, ti sei fatto fottere il cervello da quella strega che ti porti
appresso» frugò nella busta. «Cosa hai preso per me?»
Lui ignorò la prima considerazione e rispose: «Noodles con manzo
piccante e un’alternativa di sole verdure». Attese che la sorella
iniziasse a mangiare e disse: «Pensavo avresti reagito in modo
diverso».
«Sto facendo il tuo gioco, non ho molte alternative se non
partecipare a questa partita come parte attiva».
«Wow, hai svelato il tuo segreto! Io, però, non sto affatto
giocando».
«Tu hai sempre giocato, dal primo momento che ci siamo
incontrati e hai mosso il tuo pezzo contro il re quando hai preso il
Graal» si portò alla bocca le bacchette, si sporse verso di lui e
abbassò la voce. «La domanda ora rimane questa: quanto aspetterai
prima di tentare lo scacco?»
«Scacco? Già fatto quando ho preso la reliquia, sorellina» rispose
lui come fosse ovvio. «Ho davvero fame e ho preso la cena perché
avevo davvero intenzione di cenare con te».
«No, so per certo che quella non era la tua mossa decisiva per
chiudere la partita. Ma del resto come posso crederti? Eri la mia
famiglia».
«Lo sono ancora, il sangue non mente. Sta a te scegliere se
tagliarmi fuori o meno, ma rimarrò sempre tuo fratello. Lo stesso che
ti prometteva di portarti a vedere i prati verdi e il cielo azzurro».
Odry sentì la gola chiusa in una morsa. Le lacrime pizzicarle gli
occhi. «Un fratello che mi ha tradito e che ha smarrito la ragione, che
mi ucciderà o che mi costringerà a ucciderlo».
Zachary scosse il capo e mandò giù un boccone. «Non finirà in
questo modo. Ti ho cercata tutto questo tempo e intanto osservavo
la nostra prima e ultima foto. Non avevo niente, solo il tuo ricordo».
«Sei ancora in tempo Zac… liberati di quella strega, ritrova te
stesso! Credi che non abbia notato come cambi atteggiamento
quando lei è nei paraggi o ti dà un semplice ordine?» lo disse con
impeto, sbattendo la confezione di noodles contro il materasso.
«Abbi un po’ di rispetto per il cibo» la fulminò. «E poi sono già
libero. Il fatto è che le devo tutto».
«Non le devi nulla! Ti stai rovinando la vita e la stai rovinando a
tutti coloro che ti stanno intorno». Riprese a mangiare, risentita.
«È vero che ho faticato per essere ciò che sono ora. Ma se non mi
avesse accolto… In ogni caso sono qui per godermi in santa pace
questo pasto con te» sorrise con una punta di amarezza. «Beh? Non
mi chiedi qual è il mio piano?»
«Me lo diresti? Non ci credi nemmeno tu» sospirò irritata. «Io
rivorrei solo mio fratello».
«Voglio unire i mondi». La risposta fu spiazzante, e ciò che la
spaventò fu la nota di orgoglio nella voce e nell’espressione di
Zachary.
«Questo è impossibile» con fatica Odry mandò giù il boccone.
«Quella strega ti ha fatto il lavaggio del cervello».
«È più che possibile, invece!» Zachary mise la confezione di riso
ormai a metà sul comodino accanto al letto e aprì una lattina di birra.
«Ma ci pensi? Niente più rotture di palle da parte degli angeli non
appena mettiamo piede sul suolo terrestre, e sai perché? Perché il
pavimento su cui cammineremo sarà lo stesso».
«Questa cosa non potrà mai accadere perché prima che accada ci
sarà una guerra così grande che porterà, con molta probabilità,
l’estinzione delle nostre specie. Non devi credere a tutto quello che ti
dicono, Zac».
«Ho un piano per eliminare chi potrebbe crearci questo tipo di
problemi, non ti preoccupare».
Odry ebbe un brivido lungo la schiena che le salì fino alla nuca.
Non rispose, si concentrò sulla cena bevendo con avidità quanto più
alcol poteva.
«Pensavo ti attizzasse il mio piano» ammise Zachary dopo alcuni
minuti di silenzio, riempiti solo dal cibo e dalla birra. «Pensavo
volessi vivere con Gabriel Cooper».
Odry fece crollare le spalle, si sentiva vulnerabile. «Sì, lo voglio
più di qualsiasi altra cosa al mondo. Lo amo ma se ti permettessi di
attuare questo tuo piano folle non ci sarebbe alcun posto in cui
vivere per noi».
Lui ruotò gli occhi e sbuffò. «Che pallosa! E perché no? Il mio
obiettivo è proprio questo!»
«Perché ci ammazzerai tutti! Ti ho già spiegato che questa cosa
non può accadere! Devi capirlo, ragionare con la tua testa non con
quella di coloro che ti manipolano!» Odry sbottò soffocando la voce.
Una mano lo aveva afferrato per la maglia.
Zachary però rimase impassibile. «Se mamma e papà non fossero
stati costretti a nascondersi, pensi che saremmo a questo punto io e
te?»
«Sono stati costretti per via di Lucifer! Lui ha mandato Balthazar
da loro come spia, non aveva previsto che si sarebbe innamorato.
Hanno fatto di tutto per salvarci da lui!»
«Appunto, è proprio ciò che voglio dire. Se fossero stati liberi noi
adesso vivremmo in pace. Invece tu sei disturbata, io pure».
«Disturbata? Come cazzo ti viene in mente una cosa simile?
Guarda che ti spacco la faccia! E poi come sai tutte queste cose?»
«Me l’ha detto Karasi con una delle sue magie» continuò l’altro,
minimizzando con un gesto della mano «e comunque ciò che è
accaduto a loro potrebbe capitare anche a te e a Cooper».
«Tu mi stai privando di vivere con lui, di dirgli cosa provo, ti rendi
conto di questo?»
Zachary scoppiò a ridere. «Ma per favore! L’ultima volta che vi ho
visti a momenti non riuscivate nemmeno a guardarvi negli occhi!
Vuoi farmi credere che adesso avresti le palle?»
Odry strinse i denti. «Tu non hai idea di quello che è accaduto tra
noi, non è così semplice, lui non è abituato e io…»
Lo guardò per una frazione di secondo, distolse lo sguardo, ma
poi tornò sui suoi occhi, così identici e al contempo diversi dai propri.
Occhi che trasmettevano una marea di messaggi diversi. “Provo
tenerezza per te” e “Sappi che con me puoi parlare”.
«Karasi è tutto per me» disse lui. «Ma io per lei non sono niente,
l’ho capito da molto tempo. Eppure, mi tiene incatenato, e io ho così
bisogno di qualcuno che le lascio le redini di me stesso. Tu hai
Gabriel e potresti averlo per sempre…»
«E se quello che lui prova per me non fosse amore ma solo…
l’illusione di un qualcosa di diverso da ciò che ha sempre
conosciuto? Come un incantesimo che, una volta finita la magia,
scompare lasciando solo dolore» sorrise amara «Se avessi dato
retta al mio cuore non gli avrei mai permesso di lasciare il mio letto e
lo avrei baciato così tante volte da lasciarlo senza fiato».
«Forse non avrebbe cambiato il corso degli eventi». All’improvviso
Zachary tornò serio.
«Verrà a cercarmi, so che lo farà e lo sai anche tu. Se fossi in voi
pregherei gli dèi che non mi trovi mai» Odry gli riservò la medesima
occhiata.
Lo sguardo di lui prese un’altra sfumatura, mutando così
velocemente da farla preoccupare. «Bene! Questa è una bella
notizia! Speriamo faccia presto, allora!» Riprese a mangiare con un
sorriso stampato sul volto, così soddisfatto da farlo sembrare
euforico.
“Ti prego non venire, ti scongiuro, stavolta non venire” Odry lo
pensò con talmente tanta forza che credette di averlo detto ad alta
voce.
Silenziosa, riprese a mangiare.
Poi ripensò al piano folle del fratello, del quale non aveva voluto
sapere i dettagli. Pensò alla pazzia e alla speranza che muoveva lui
o la strega che lo manipolava.
E anche a quanto avrebbe sacrificato se avesse avuto la certezza
che quello stesso folle piano si sarebbe potuto realizzare. Per
Gabriel.
Non si torna indietro

Cassiel fissava il soffitto ricoperto di macchie di muffa;


l’appartamento ne era pieno, ma lui era grato di essere vivo e al
sicuro. Gli sembravano brave persone, quelle, e anche se si trattava
di un gruppo guidato da Zachary, poteva approfittare della loro
protezione e delle loro cure per rimettersi in sesto e provare a
contattare Raphael e gli altri. Inoltre i propositi sembravano buoni e
nonostante fosse un gruppo composto sia da demoni che da angeli,
sembravano affiatati.
Si mise a sedere, cercando di resistere alle fitte provocate dalle
pugnalate di Chris, una sofferenza ancora vivida nel corpo e nella
mente. Sistemò meglio il cuscino per poggiarvi la schiena e strinse i
denti a causa del dolore causato dai monconi delle ali strappate.
Ancora una volta si sorprese di essere vivo.
Agatha, nascosta dietro la porta e su una vecchia sedia a rotelle,
cercava di farsi coraggio. Avrebbe voluto parlare con Cassiel ma la
paura le impediva di farsi avanti. Ripensandoci, se erano finiti in
quella situazione un po’ era anche per causa sua e lo stesso valeva
per il suo attuale stato di salute. Se non fosse stato per la magia di
Karasi, lei sarebbe ancora a letto in preda all’agonia. “Avanti, entra e
non avere paura!” si disse e con un movimento maldestro la
carrozzina urtò la porta.
«Chi c’è?» domandò Cassiel dall’altra parte.
«Sono… sono Agatha. Ti disturbo?» e la testa della succube
sbucò da dietro la porta.
Cassiel si irrigidì e strinse d’istinto le coperte. «Tu… cosa ci fa
qui?» Rimase bloccato mentre lei entrava con cautela e una
titubanza mai vista.
«Mio padre mi ha cacciata dal Paradiso e sono stata trovata da
Zachary e portata qui» spingendo le ruote arrugginite con fatica, si
avvicinò.
«Ti ha buttata… da lassù?» Cassiel era incredulo. «E sei
sopravvissuta».
«Un po’ ammaccata. Mi hanno detto che non potrò tornare a
camminare, ma mi basta sapere di essere viva». Agatha gli sorrise.
Cassiel aveva mille domande, ma non gliene uscì nemmeno una.
Ma soprattutto: perché lei era così tranquilla? Dopo la caduta era
cambiata così tanto? Oppure era merito della detenzione?
Annuì e portò lo sguardo altrove.
Lei abbassò il suo, a disagio. «Credo che delle semplici scuse non
bastino».
«Dovrebbero? Non ti basterebbe una vita intera per rimediare a
ciò che hai fatto. Hai tradito la fiducia di tutti quanti, soprattutto la
mia. Avresti potuto fare la spia di Baal senza rovinarmi la vita,
eppure hai preferito divertirti» indicò il proprio corpo e aggiunse:
«Guardami, guarda cosa mi è successo. Mi hai spinto contro Gabriel
e gli altri e io, stupido, ci sono cascato. Mi hai messo contro Dunne.
Mi ha pugnalato, mi ha strappato le ali e per tutto il tempo…» le mani
iniziarono a tremare, il volto si fece paonazzo per la rabbia. «Ricordo
ancora la lama che mi squarciava la carne. Mi ha schiacciato sotto i
piedi, usandomi come uno zerbino per pulire le suole dalla merda su
cui tu l’hai fatto camminare. Per colpa della mania di quelli come te,
io ho perso un occhio, sono sfigurato, sono un angelo a metà. E tu
mi parli di “semplici scuse”?»
«Cassiel io voglio solo chiarire. Sono stata costretta a…»
«Non mi interessa!»
Agatha indietreggiò d’istinto poi gli occhi le divennero lucidi. «Ma
non vedi come mi hanno ridotta?» gridò anche lei. «Mi hanno rasata,
torturata, sono stata stuprata sul pavimento gelido di una
merdosissima stanza, sopra il mio stesso sangue. Ho perso il nostro
bambino!» Ignorò lo sguardo sbalordito di Cassiel per la rivelazione.
«Ho pagato per ciò che ho fatto e tu me lo fai pesare ancora di più?
Ma come osi? Mi vomiti addosso colpe che non riesci a prenderti a
causa della tua ingenuità! Sei sempre stato un fottuto bamboccio
senza spina dorsale, uno che ha sempre vissuto all’ombra del
fratello e dei colleghi più esperti. E sai che ti dico? Te la meriti quella
faccia di merda che hai ora! E ti meriti pure di stare senza ali! Pensi
di risolvere qualcosa riversando su di me i tuoi fallimenti?» Lo colpì.
«Cresci Cassiel! Pensavo che questa esperienza ti fosse servita per
maturare, invece vedo che sei lo stupido di sempre!»
L’Arcangelo si alzò in piedi ignorando le fitte, la spinse facendola
cadere all’indietro. Il tonfo della sedia a rotelle contro il pavimento
rimbombò. «Sei solo una puttana».
«Lasciami stare! Non osare fare un altro passo o inizierò a urlare
così forte da svegliare chiunque» provò ad allontanarsi. «Pensavo
davvero che potessimo avere un dialogo civile, invece dentro di te
hai solo rancore e odio. Victoria non ti vorrà mai, fattene una
ragione, lei vuole uomini in grado di darle tutto ciò che desidera, e tu
non puoi darle nulla perché sei solo un povero idiota».
«Ti uccido». Cassiel divenne sordo agli insulti e alle minacce
successive. Si chinò mentre quella cercava di allontanarlo e
difendersi e prima che la succube potesse aprir bocca per chiedere
aiuto, l’angelo le afferrò con forza il collo tra le mani e iniziò a
stringere, senza smettere di fissarla. Agatha cercò di schiaffeggiarlo,
ma lui era una statua di pietra, con uno sguardo furente.
Distaccato dalla realtà, l’Arcangelo non si accorse che la porta
veniva aperta piano.
Malik aggrottò le sopracciglia nell’assistere alla scena; la
demonessa girò lo sguardo disperato verso di lui, chiedendogli aiuto.

Malik era nascosto da almeno tre quarti d’ora dietro un rigoglioso


roseto, nel giardino della villa del Serafino Dunne. Attendeva con
pazienza che la luce della stanza da letto del padrone di casa si
spegnesse. Vide Mathael con una veste da notte passare di fronte
alla finestra mentre si legava i capelli con l’espressione di chi si sta
preparando a qualche ora di fuoco col proprio partner. E finalmente
la stanza divenne buia.
L’angelo attese ancora qualche minuto per essere sicuro di poter
uscire allo scoperto, poi prese due sassolini e si avvicinò con cautela
alla parete ricoperta di edera che si ramificava fin sotto la finestra al
primo piano di Agatha.
Le imposte erano aperte: perfetto.
Tirò il primo sassolino ma non udì alcun rumore. Tirò il secondo e
sentì trasalire la ragazza che si precipitò alla finestra. «Che stai
facendo? Vuoi che mio padre ti ammazzi? Lo sai che non devi
presentarti qui!» a stento Agatha riuscì a soffocare la voce.
«Ma dai! Ora non posso nemmeno venire a trovarti per farti
passare qualche minuto di pura trasgressione?»
«Sai come la pensa! Non potevi aspettare domani?»
«No» ammise Malik «mi manchi troppo. Dai, vieni giù almeno dieci
minuti. Tuo padre è impegnato con sua moglie, non ci scoprirà».
Agatha era combattuta, ma le bastò un altro sguardo su di lui per
convincersi. «D’accordo, aspetta lì» disse. Chiuse le imposte e si
avviò verso l’uscita; aprì la porta e si allacciò la vestaglia in vita,
raggiungendolo. «Solo un bacio poi vai via».
«Sei sempre così dolce con me» ironizzò lui. «Domani in fabbrica
finirò in anticipo, quindi puoi venire a cena e a dormire da me;
potresti dire al signor Serafino che vai a stare da un’amica».
«Vediamo, potrei riuscire a organizzarmi per stare da te. Se non
erro domani dovrebbe stare in riunione fino a tardi e poi partire per
Nolist per qualche giorno» a malapena riuscì a trattenere un sorriso
e gli fece cenno di avvicinarsi, ma qualcosa la afferrò e con
malagrazia venne spinta di lato.
La faccia scura di Chris comparve all’improvviso. «Cosa ci fai in
casa mia?» tuonò verso Malik.
Agatha si nascose dietro la porta.
Il ragazzo aveva violato la proprietà privata di qualcuno che lo
detestava. “Ed ecco che scatta la denuncia” pensò. «Sono solo
venuto a trovare la mia ragazza». Provò a mantenere la calma.
«Ragazza? Vorrai scherzare spero, sei solo un poveraccio, cosa
pretendi di poter fare con lei? Vattene subito o ti farò pentire di
essere venuto».
«Signor Dunne, io sono innamorato di sua figlia e posso renderla
felice».
«Sei patetico e insignificante, ti do l’ultimo avviso. Vattene» urlò
minaccioso avanzando a piedi nudi sul selciato.
«Per favore signore, io voglio solo parlare…»
Ma Chris gli diede un pugno sul naso che lo fece indietreggiare e
piegare con le mani premute sul volto. «Ti ho detto di andartene da
casa mia!» alzò la voce, così tanto da far fuggire Agatha dentro
casa.
Il ragazzo borbottò un «Va bene» sofferente e si allontanò,
uscendo dalla proprietà.

Serrò i pugni per resistere alla tentazione di lasciarla lì a soffocare,


soprattutto a causa dei ricordi riaffiorati a tradimento.

Il giardino del DEM era rigoglioso e ben curato, Malik non l’aveva
mai visto da così vicino. In realtà non aveva mai visto un giardino del
genere.
Per l’occasione indossava abiti migliori rispetto a quelli utilizzati
per lavorare in fabbrica; non era ricco e una camicia bianca ben
stirata per lui era il massimo. Il naso rotto, steccato e bendato. Entrò
e si avvicinò alla reception per chiedere di Chris.
«Se non ha un appuntamento con lui, non posso farla entrare. Mi
spiace» rispose la donna sulla cinquantina dietro il banco.
«Ma sono venuto adesso proprio perché so che è in pausa!»
Quella fu irremovibile. «No. Il signor Dunne può accoglierla
dopodomani alle nove del mattino. E mi serve anche un suo
documento».
“Cavolo, non posso nemmeno mentire sulla mia identità. E se lui
dovesse scoprire che l’appuntamento è con me, lo annullerebbe”
pensò. «Devo valutare in base ai miei orari di lavoro» rispose. «A
quale piano si trova, nel caso?»
«Quarto» rispose l’altra, gelida.
Malik ringraziò e salutò, uscendo avvilito. Non poteva aspettare il
Serafino lì fuori, presto sarebbe dovuto tornare in fabbrica e non
sapeva quanto comoda se la sarebbe presa Chris.
“Ma ogni struttura ha un’uscita di sicurezza”.
Questa idea, arrivata come un lampo, lo costrinse a fermarsi a
metà del viale.
Quindi, con la speranza di non venir ripreso dalle telecamere e
bloccato dalle guardie, tornò indietro e percorse la fascia laterale di
giardino che l’avrebbe condotto all’ingresso retrostante.
Avrebbe trovato Chris e l’avrebbe convinto a lasciare in pace sia
lui che Agatha. Non poteva costringerlo a provare simpatia per lui,
ma Dunne non aveva nemmeno il diritto di intromettersi nella
relazione di una figlia maggiorenne.
Una volta entrato, procedette su per le scale di servizio fino al
quarto piano e aprì la porta di emergenza.
L’ambiente era calmo e meno affollato rispetto al piano terra, un
via vai di clienti e impiegati; e fu fortunato perché, grazie al suo
abbigliamento, venne scambiato per un frequentatore della struttura,
forse dei piani bassi.
Malik cercò di capire come e dove avrebbe potuto trovare Chris e
fu proprio la sua voce, mentre era intento a chiacchierare con alcuni
colleghi, a condurlo nel salotto che accoglieva le pause dei Serafini.
Il ragazzo si specchiò nel vetro di un quadro floreale e sistemò i
capelli biondi a spazzola, si diede coraggio e si palesò di fronte ai
pezzi grossi.
«Buongiorno signor Dunne, posso parlarle?»
Chris, oltraggiato, lo squadrò da capo a piedi. «Tu? Come hai fatto
a passare la reception?» si alzò, seguito dagli sguardi incuriositi dei
colleghi.
«Poi glielo spiego. Vorrei solo scambiare qualche parola con lei».
«Tu e io non abbiamo niente da dirci e vedi di filare via all’istante
se non vuoi che chiami la sicurezza!»
Malik notò un misto di perplessità e divertimento tra gli altri
Serafini. Uno di loro, con i capelli chiari, mossi e lunghi fino alle
spalle, scosse la testa, indignato. Ma pensò che, se avesse giocato
bene le sue carte, avrebbe potuto far leva sul loro possibile
appoggio.
«Io non posso costringerla ad apprezzarmi, ma lei non può
impedire a sua figlia e a me di vederci».
«Posso eccome! Devi capire una cosa, io ho degli standard e mia
figlia anche» si avvicinò con un sorriso odioso stampato sul viso.
«Per lei sei solo un passatempo, non andrebbe mai fino in fondo con
un pezzente come te».
Holian sorrise sotto i baffi, mescolando il suo caffè.
«Questo è quello che vuole credere lei e far credere pure a me.
Ma io lo vedo lo sguardo di sua figlia e riconosco qualcosa di più
profondo».
Chris rise e con lui i suoi compagni. Si grattò la fronte con il
mignolo ingioiellato e scosse il capo «Sei patetico, ingenuo e mi hai
stancato! Vattene, non te lo voglio ripetere».
Malik serrò la mascella e gli puntò un dito contro. «Sa che le
dico?» disse nervoso, attirando l’attenzione dei presenti. «Lei può
avere influenza qui dentro e a casa sua, ma fuori da queste e quelle
mura lei non è nessuno. Io amo sua figlia e intendo renderla molto
più felice di quanto possa fare un ricco spocchioso come voi. Perché
non compro l’amore degli altri, io».
Chris, come il giorno precedente, gli sferrò un pugno che lo fece
stramazzare a terra. «Chiama la sicurezza, Kazel, abbiamo
un’infestazione di topi» lo guardò con disgusto e in cambio ricevette
l’approvazione del collega.
In pochi minuti Malik fu trascinato fuori, attraversando gli ambienti
di lavoro per mostrare cosa accade ai trasgressori.
Il ragazzo stringeva i denti per sopportare il dolore al naso rotto, e
la vergogna che gli provocavano le spinte delle guardie e le occhiate
dei curiosi.
Lo cacciarono in malo modo e lui si ritrovò nei giardini.
Con la camicia intrisa del suo stesso sangue, brucianti fitte che dal
setto nasale si ramificavano nel viso e il cuore che batteva a mille,
provò a ignorare altri sguardi invadenti. Avanzò e udì una risatina,
strinse i pugni e lanciò un’occhiata di fuoco in quella direzione.
Il mondo gli crollò addosso.
Vide Agatha dietro un grosso albero, mentre toccava con malizia i
bicipiti di un uomo alto e muscoloso.
Malik si fermò d’improvviso e gli parve che anche il suo cuore si
fermasse, soprattutto quando la ragazza fece chinare l’uomo per
baciarlo sulle labbra.
A cosa era servito tutto l’impegno che ci aveva messo nella loro
relazione?
Un groppo in gola gli impedì di parlare, le gambe si mossero verso
Agatha senza però completare il tragitto: le guardie della sicurezza,
ancora dietro di lui per controllare che se ne andasse per davvero, lo
raggiunsero e lo atterrarono con alcuni pugni sulla schiena e sui
fianchi.
Il trambusto allarmò chiunque fosse nei paraggi e quando la vide
spostare l’attenzione da Gabriel a sé, lesse nella sua espressione il
panico per essere stata scoperta.
Il ragazzo, alla fine, si alzò e uscì dal cancello del DEM col cuore
spezzato.

Lo sguardo di Malik divenne freddo, si spense. Chiuse la porta con


cautela e tornò dagli altri.
Zachary lo osservò di nascosto, poi spostò lo sguardo sulla porta
della stanza in cui stava avvenendo l’omicidio. Sorrise soddisfatto.
«Tutto bene?» e alla sua richiesta il ragazzone annuì, si sedette di
fronte al fuoco scoppiettante e ci si perse.

«Tienilo fermo!»
«Facile a dirsi! Non so se l’hai notato, ma è enorme questo qui!»
«Tu tienilo il più possibile, io farò in fretta».
Malik, stordito per essere stato tramortito all’uscita dal lavoro, non
riuscì a realizzare ciò che gli stava accadendo intorno.
Quelle frasi gli giunsero distorte.
Alcune mani cercavano di tenerlo ben saldo al suolo, ma non
seppe dire quante fossero. Provò a focalizzarsi sulla luce calda di un
lampione sopra di lui.
«Hai bagnato il filo nell’Etere?»
«Certo che sì».
Percepì due ginocchia bloccargli il capo e la sagoma di una
persona togliergli la luce.
Alcune dita gli afferrarono le labbra serrandole tra loro e altro
dolore lo costrinse ad agitarsi per liberarsi.
«Si è svegliato, devi fare in fretta Holian!» continuò la prima voce.
«Zitto!» rispose l’altro. E senza indugio iniziò a cucirgli le labbra.
Malik si agitava come un forsennato, i sensi purtroppo tutti vigili.
Le grida soffocate rischiavano di mettere in allarme eventuali
passanti, ma per sua sfortuna nessuno lo aiutò.
«Ho quasi fatto, Chris. Cerca di tenere fermo questo bestione, sto
facendo fatica».
Il ragazzo pianse dopo aver udito quel nome e tutta la frustrazione
riuscì, in quel momento, a cancellare il resto.
«Ho finito!»
Malik si sentì agguantare dalle mani fredde di Dunne che lo
girarono supino, poi un’improvvisa smaterializzazione lo fece
trasalire.
L’aria nel posto in cui si trovavano era fresca, la luce era forte,
come fosse giorno.
Aprì gli occhi pieni di lacrime e ciò che vide lo fece quasi svenire.
Si trovava ai confini del Paradiso. Di fronte vi era una grossa
voragine piena di Etere che galleggiava come acqua in una piscina:
il Pozzo dell’Infedele.
Una fitta lancinante alla schiena gli strappò un grido trattenuto dai
fili che gli lacerarono le labbra cucite. Chris gli aveva affondato la
lama di un coltello in mezzo alle scapole; i suoi colleghi rimasero a
guardare.
L’arma calò con violenza inaudita più e più volte per strappargli le
due ali bianche e le grida ovattate di Malik inondarono la placida
landa.
Ben presto l’erba si macchiò di sangue.
Il Serafino, dopo una decina di pugnalate, si chinò su di lui, lo
afferrò per i capelli e gli avvicinò la bocca all’orecchio. «Buona
permanenza sulla Terra, straccione».
Il ragazzo lo percepì sorridere e in un secondo venne catapultato
dentro la voragine.

Cassiel continuò a stringere la presa attorno al collo di Agatha


anche dopo la sua morte. Stringeva forte, con odio, come potesse
stritolarle anima e cuore e renderli carta straccia, come i suoi.
Si allontanò da lei solo quando qualcuno bussò alla porta. Allora
indietreggiò attaccando le spalle alla parete retrostante e rimase a
fissare il cadavere con l’assurda speranza che si rialzasse.
Agatha, invece, era riversa sul pavimento, gli occhi sbarrati nel
vuoto. Cassiel voleva sparire.
Nella stanza entrò Zachary.
«Io… io…» balbettò il francese. «Mi dispiace…» seguì con lo
sguardo il demone che sfilò un lenzuolo dal letto e lo stese sopra il
corpo. Poi gli si avvicinò e si piegò sui talloni per un contatto visivo
più diretto e ravvicinato. «Come ti senti?»
Quella domanda spiazzò Cassiel. Rimase a fissarlo e l’unico
occhio si riempì di lacrime fatte di tutta la tristezza che sentiva e che
gli toglieva ogni energia: «Non volevo farlo…»
«Posso capire come ti senti. Sei stato strappato ai tuoi affetti più
cari, sei stato tradito da persone fatte della tua stessa carne. Ti senti
con le spalle al muro, come se le pareti di questa stanza ti stessero
per schiacciare. Ma sappi che qui con te ci sono anche io. Non ti
lascerò da solo a marcire nella tua sofferenza, nessuno deve essere
lasciato indietro».
Cassiel nascose il volto nella mano, vergognandosi come un
bambino, ma Zachary sedette sul pavimento freddo, si tolse la
camicia in flanella e l’adagiò sulle spalle del francese. «Se vuoi tolgo
il disturbo».
«No, rimani».

II

«Ci voleva proprio un bel bagno» Vicky sospirò rilassata; sedeva


sul letto, con i capelli bagnati e l’asciugamano attorno al busto,
spalmava sul braccio destro una crema prestatale da Karen. «In
questa casa c’è sempre più casino» continuò, parlando tra sé, ma
ciò che più la disturbava era la fonte di quel disordine.
La scomparsa di Belial all’Inferno, Odry che non riuscivano a
rintracciare, la fuga degli Arcangeli dal Paradiso e la cacciata di due
di loro. Inoltre, la costrizione di dover restare rinchiusi in casa –
soprattutto chi come lei e le sorelle aveva un aspetto che avrebbe
terrorizzato ogni umano ignaro della loro esistenza – e la presenza
di alcuni elementi in casa, non aiutavano a mantenere un’atmosfera
rilassata.
Pensò a Raziel che era tranquillo solo quando si chiudeva in
camera con Karen, per il resto del tempo discuteva e cercava rogne.
Gabriel e Satan si punzecchiavano a vicenda e ogni volta che
parlavano di Odry gli animi si scaldavano e occorreva fare i salti
mortali per riportarli alla tranquillità. L’Arcangelo era sempre più
irritabile.
Quei pensieri vennero interrotti da un rumore proveniente dalla
finestra, coperta da spesse tende chiare.
Vicky si voltò verso di essa, accigliata. Si alzò sistemando il nodo
dell’asciugamano attorno al busto e le si avvicinò. Scostò le tende
per chiudere meglio le imposte, convinta fosse quello il problema,
ma di fronte si trovò Cassiel, accovacciato sul davanzale. E fu un
vero colpo.
Spettinato, il viso scavato e le occhiaie scure, pallido e con lo
sguardo spento.
La succube indietreggiò trattenendo con fatica un grido. «Cassiel!
Come… cosa ci fai tu qui? Stai bene?»
Lui balzò dentro e le sorrise con dolcezza. «Scusa se ti ho
spaventata, Vicky. Spero di non disturbarti».
«Certo che non disturbi, ma sembri stare male! Adesso chiamo
tuo fratello» e senza attendere risposta, apprensiva andò verso la
porta.
La mano di Cassiel la trattenne.
«Non chiamarlo, sto bene. Sono venuto per te».
«Per me? Ma tesoro, non sembri stare bene, ti stavamo cercando,
tuo fratello è disperato e devo chiamarlo».
«Dopo». L’angelo la superò e poggiò la schiena contro la porta,
chiudendola a chiave. «Ho bisogno di stare qui con te, Raphael non
ne morirà».
«Cassiel, dico davvero, tuo fratello deve sapere che sei qui, devi
farti visitare!» Vicky si impuntò cercando di stargli lontana, ma quello
non rispose e accorciò le distanze. «Non riesco a capacitarmi della
tua bellezza. Mi sembra ieri che abbiamo passato la notte assieme».
La succube sorrise a disagio. «Ti ringrazio, ma non credo sia il
momento adatto per fare ciò che immagino tu stia pensando».
«Perché no?» si tolse il maglione rosso prestatogli e Vicky notò
con orrore le tumefazioni sul suo busto. Seguendo il suo sguardo lui
le disse: «Sto bene, ho solo dei lividi. Apprezzo il fatto che ti stia
preoccupando, mi fa capire quanto tu ci tenga a me. Voglio solo
rendere migliore il nostro incontro».
«Cassiel io non verrò a letto con te». Vicky si allontanò ancora con
uno sguardo contrariato, quasi riluttante. «Quindi ora chiamo
Raphael». Scattò verso la porta, ma Cassiel la bloccò, le strappò
l’asciugamano di dosso e la spinse sul letto, costringendola a
stendersi. Lei gli menò uno schiaffo al volto e un calcio sul ventre.
«Lasciami subito!»
«Zitta! Perché devi rendere tutto complicato?» le tappò la bocca e
le morse il seno così forte da farla gridare. Con l’altra mano le bloccò
entrambi i polsi e si fece largo tra le sue cosce, strusciando il bacino
con foga.
Vicky riuscì a morderlo ferendolo in profondità grazie ai canini
appuntiti, senza smettere di scalciare con tutta la forza che aveva.
Cassiel ringhiò per il dolore e allontanò la mano.
Fu grazie a ciò che Vicky riuscì a farsi sentire da sua sorella Molly,
la quale, già allertata dai rumori insoliti, la stava raggiungendo. La
succube strappò la maniglia, ruppe la serratura e si precipitò dentro.
Gli piombò addosso, lo fece cadere permettendo a Vicky di mettersi
in salvo. Il francese si rimise in piedi e saltò sul materasso; evocò il
fioretto, con un affondo fulmineo trapassò la trachea di Molly da
parte a parte e con un tondo verso destra le squarciò il collo. Il suo
corpo cadde a terra con un tonfo sordo, imbrattando di sangue il
pavimento.
Vicky strillò con così tanta violenza che fu udita anche nel
quartiere.
Lo scalpiccio di passi in corsa diede speranza alla succube
disperata che fece per uscire in corridoio, ma venne nuovamente
trascinata dentro. Cassiel non riuscì a chiudere per tempo la porta:
qualcuno ci infilò una gamba per impedirglielo.
Fuori, le voci concitate di Uriel, Satan e Gabriel. La più vicina era
quella di Raphael. «Cassiel, so che sei lì dentro. Apri questa porta!»
Ma il gemello gliela sbatté più volte sul ginocchio, con l’intenzione
di romperlo. L’altro lo ritrasse e Cassiel chiuse bloccando l’entrata
con un mobile. Si voltò verso Vicky che, intanto, aveva recuperato la
pesante lampada per difendersi.
Ma non ci fu il bisogno di usarla.
La porta venne sfondata dallo stesso Raphael che irruppe in
camera e strinse un braccio attorno al collo di Cassiel.
Vicky afferrò una coperta, se l’avvolse intorno e corse fuori
mettendosi al sicuro tra le braccia di Satan. «L’ha ammazzata! Ha
ammazzato mia sorella!» gridò tra le lacrime.
«Che ti prende?» Il grido di Raphael fece sobbalzare Raziel e
Uriel, che avrebbero voluto aiutarlo, ma era impossibile entrare nella
lotta. Erano sorpresi dalla forza di Cassiel: nonostante fosse
debilitato, dimostrava una tenacia non indifferente.
«Perché devi mettermi sempre i bastoni fra le ruote?» rispose
Cassiel, senza controllo e pericoloso con l’arma in pugno.
Raphael faceva il possibile per neutralizzarlo, ma quello si
dibatteva con rabbia e sembrava volerlo uccidere. Infatti riuscì a
liberarsi e ferirlo. La lama del fioretto gli provocò un taglio profondo
nel petto.
Raphael indietreggiò e schivò un nuovo fendente, con un calcio gli
colpì il polso e il fratello mollò la presa lasciando cadere la spada.
Infine Cassiel scivolò sul sangue di Molly trascinando con sé il
gemello; la situazione si ribaltò quando Raphael riuscì stringergli il
busto con le gambe e un braccio attorno al collo, impedendogli di
agitarsi troppo.
«Non voglio continuare a lottare contro di te. Respira e ne
parliamo, sei al sicuro e nessuno ti farà più del male».
Seguì un momento di silenzio, rotto solo dal pianto sommesso di
Vicky.
«Non hai più potere su di me» sibilò Cassiel. «Mi libererò di ogni
peso, di ogni cosa che vorrà ostacolarmi. E tu sei uno di questi. Ho
ammazzato Agatha con le mie mani, ora sono libero a metà: manchi
solo tu».
Raphael, d’istinto, allentò la presa e il gemello ne approfittò per
sgusciare via. Raziel corse verso di lui per afferrarlo, ma l’altro aveva
già raggiunto la finestra; la scavalcò e fuggì via.
Vicky si staccò dalle braccia di Satan, l’unico desiderio che aveva
era di stringere a sé il corpo straziato della sorella. Anche Ruby e
Summer avevano raggiunto la stanza. La loro disperazione spezzò i
cuori di tutti. Molly le aveva sempre protette e quella volta nessuno
era riuscito a fare altrettanto con lei.
Satan, con un groppo in gola, si rivolse a Raziel e Uriel.
«Dobbiamo setacciare il giardino e il quartiere, potrebbe rintanarsi
nei paraggi». Poi si rivolse a Raphael. «È meglio che tu stia in casa
insieme a Barakiel e a Gabriel, nel caso Cassiel dovesse tornare».
L’Arcangelo si limitò ad annuire. Il taglio nel petto bruciava, la
testa era piena del pianto delle tre sorelle e in mezzo parevano
riecheggiare le ultime parole sprezzanti del suo gemello.
«Ho ammazzato Agatha con le mie mani, ora sono libero a metà:
manchi solo tu».

“Cosa gli ho fatto di così crudele?” pensò, scuro.


Fu l’aggiunto grido di Karen a strapparlo da quei pensieri e a
bloccare Satan e gli altri due sulla soglia di casa. La francese corse
in corridoio e con le lacrime agli occhi esclamò: «Georgie è sparita!»
“Hai scelto lei e dimenticato me”

Il sacco di iuta le venne tolto dalla testa e Georgette fu libera di


vedere dove quella persona dal profumo conosciuto l’aveva portata.
Non le fu difficile abituarsi alla fioca luce dell’ambiente, rischiarato
da un lampadario metallico a cupola. Sedeva su un letto dal
piumone azzurro, accanto a esso un comodino di legno chiaro e di
fronte un armadio; sulla destra una porta e dalla parte opposta una
finestra, coperta da pesanti tende blu.
Le si parò di fronte Malik che, timido, le porse un bicchiere
d’acqua.
Georgie deglutì cercando di trattenere le lacrime alla vista di quel
viso martoriato. Scosse piano la testa rifiutando. «Dove sono?»
domandò.
Behetan entrò in camera dopo aver bussato e Malik le lanciò uno
sguardo impotente.
La bambina comprese e pose per la seconda volta la domanda,
cosicché la donna potesse rispondere.
«Sei al sicuro, tesoro. Siamo ancora in Inghilterra» si chinò di
fronte a lei. «Piacere, io sono Behetan e lui è Malik. Hai freddo? Vuoi
andare vicino al camino?»
«No, sto bene… chi siete voi? Perché mi avete portato qui?»
Georgie spostò lo sguardo da Behetan a Malik.
«Perché abbiamo bisogno del tuo aiuto…» la donna venne
interrotta dall’irruenza di Jelos, appena entrato con un piatto caldo
su un vassoio. «La bambina deve mangiare! Siete pazzi? Che
cavolo è quel bicchiere d’acqua?»
Georgette si riprese dallo spavento e l’uomo calvo le si avvicinò
poggiando il tutto sul comodino. «Mangia piccolina, non fare
complimenti. Ho fatto una crostata, se vuoi un dolce».
«Non ho fame, voglio solo andare a casa!» rispose lei a voce alta,
ma non si mosse di un centimetro, intimorita dai due uomini di fronte
a lei.
«Non statele addosso». Zachary si fece avanti e i tre si
spostarono. «Scusa Georgie, sono molto apprensivi. Spero tu stia
bene».
«Voglio tornare a casa!» continuò lei.
Il demone le sorrise. «Comprendo il tuo desiderio di tornare da
Karen o chicchessia, ma abbiamo bisogno di te qui».
Karasi lo raggiunse e lui divenne d’improvviso serio.
«Non perdete tempo, abbiamo cose importanti da fare e lei è solo
un portale» disse glaciale la donna, mettendosi a braccia conserte.
Georgie spalancò i grandi occhi neri e indietreggiò sul materasso.
«No, no… non potete fare questo!» disse in preda al panico, ma
Zachary la trascinò giù e ordinò agli altri di uscire. Quando furono
soli e la porta fu chiusa, con un cenno rivolto a Karasi si rese
disponibile. «Sono pronto. Ricordi dove indirizzare l’uscita?»
«Certo, ma non possiamo tenerla in questa stanza, con il suo
potere risucchierebbe ogni cosa e noi con lei». Karasi si avvicinò,
afferrò il viso di Georgie con una mano, la sua stretta fu ferrea e la
piccola non riuscì a muovere nemmeno un muscolo. La sciamana la
osservò con attenzione, persa in chissà quali ragionamenti.
«Quindi dove? Senti, dovevi pensarci prima. Noi dobbiamo
sbrigarci».
«Dovevi informarti, Zac. Avresti dovuto chiedere a quella testa
calda di tua sorella. Portala in giardino!»
«Ma che vuoi che ne sappia io di queste cazzate?» Il demone
afferrò Georgette per il polso e la trascinò fuori in malo modo,
seguito dalla donna. «Spero non ci veda nessuno».
«Non ci vedrà nessuno» rispose quella, piccata.
Raggiunsero il giardino retrostante. C’era freddo, ma la piccola
rabbrividì più per la paura.
Karasi alzò le mani, chiuse gli occhi e recitò una litania in una
lingua sconosciuta a Zachary, evocò una barriera lattiginosa in modo
che nessuno al di fuori degli abitanti della casa potesse vedere cosa
stava per accadere.
Odry, affacciata alla finestra della sua stanza al primo piano,
notando il tutto, si lanciò in una corsa disperata spingendo Behetan
e Jelos che si erano trovati sul suo percorso. «Non vi permetterò di
farle del male!» gridò scattando verso la bambina, che cercò di fare
altrettanto, ma fu bloccata dalla mano ferma di Zachary.
«Tranquilla, non durerà a lungo» disse laconico.
Karasi iniziò una nuova cantilena: la bambina entrò subito in
trance e da essa si liberò un portale violaceo.
Odry, trattenuta da Malik, protestò cercando di liberarsi. Tutto ciò
che riuscì a fare fu assistere impotente a quella crudeltà.
«È pronto, puoi andare» disse Karasi, ma Zachary ordinò
all’angelo caduto di lasciare la sorella. «Lei verrà con me, dobbiamo
fare una cosa insieme».
L’altro obbedì e spinse quasi con gentilezza la demonessa
accanto a lui.
«Non asseconderò le tue pazzie e non ti seguirò! Lascia Georgie
in pace all’istante!» protestò Odry afferrando Zachary per la maglia
con una voglia matta di prenderlo a pugni, ma lui sorrise furbo e le
strinse la presa sulle spalle. La rossa non riuscì ad agire abbastanza
in fretta: venne gettata dentro il portale e lui le fu dietro. Entrambi
sparirono dentro il chiarore violaceo, Karasi li seguì.

Odry cadde sull’erba di un giardino ben curato. Imprecò contro


Zachary che la superò e fu solo quando volse lo sguardo intorno che
capì dove si trovavano.
Di fronte a lei si ergeva l’imponente villa di Balthazar, con le
rifiniture eleganti che conosceva sin da quando era bambina. Il
sangue le si gelò nelle vene e un brutto presentimento si fece strada.
Zachary le ordinò di stare al passo.
La rossa batté un pugno sul terreno e si alzò, raggiungendolo. «Se
non vi fermate vi disintegro, bastardi!»
Zachary si voltò pronto a difendere se stesso e Karasi, ma non
appena Odry provò a infiammarsi venne sconquassata da una
scarica elettrica che la mandò al tappeto.
«Peccato» considerò lui facendo spallucce. «Non assisterà allo
spettacolo».
«Non osare fare un altro passo…» rantolò la demonessa cercando
di tornare salda sulle gambe. Il suo orgoglio era stato frantumato in
un batter d’occhio e la consapevolezza di non poter fare nulla le fece
ancor più male. I muscoli erano percorsi da spasmi, la testa vuota e
piena al tempo stesso, nelle orecchie un fastidioso ronzio. La vista
appannata e tremolante le permise solo di vedere ciò che sembrava
il portone aprirsi, Zachary attaccare con una fiammata e abbattere
una donna appena affacciata.
Con tutto il cuore sperò che non si trattasse di Zora, la giovane
moglie di Balthazar. Cercò di rimettersi in piedi, ma cadde di nuovo.
“Devo salvarli” si disse maledicendo Satan, per averle messo al collo
quell’abominio.
Non aveva la piena certezza di cosa stesse accadendo, riuscì
però a distinguere la fumosa figura di Zachary entrare in casa.
Prese un respiro profondo e si alzò in piedi, compiendo piccoli
passi verso il portone. Il ronzio nelle orecchie quasi del tutto
scomparso le permise di udire le grida della servitù. Giunse sulla
soglia e con una fitta al cuore ebbe la conferma dell’identità del
primo cadavere: era proprio Zora.
La trentenne giaceva scomposta sul pavimento, lo sguardo fisso
segnato dal terrore e un buco in mezzo al petto dai bordi ancora
brucianti
La scavalcò e con impotenza assistette all’uccisione di camerieri e
servitori, i pochi che avevano avuto la sfortuna di trovarsi lì o la
stoltezza di avvicinarsi per capire cosa stesse accadendo.
Una voce tuonò dalla cima della scalinata in marmo.
Odry aggrappata a una colonna alzò lo sguardo e il cuore le si
fermò.
«Vattene» sussurrò senza voce, osservando suo padre pronto a
fronteggiare Zachary.
Balthazar si scompose in uno sciame di mosche che investì il figlio
e la sciamana al suo fianco, ma una parte di esse venne
polverizzata da uno scudo di fuoco dietro il quale i due si protessero.
Balthazar si materializzò alle loro spalle e raggiunse Odry a grandi
passi. «Che ci fai tu con lui?» e se non fosse stato per il suo sguardo
terrorizzato, non si sarebbe salvato da una fiammata alle sue spalle.
Un nuovo sciame ronzante si spostò verso di loro e si aprì
gettandosi sugli sgraditi ospiti. Alcune di loro provarono a entrare
nelle narici o nelle orecchie, ma una barriera di fortuna di Karasi le
allontanò ancora.
Balthazar si ricompose di fronte a loro con rabbia furente e viso
paonazzo. «Cosa sei venuto a fare qui? Hai ucciso mia moglie e i
miei servi quando potevi vedertela con me! Sei un essere senza
spina dorsale!»
Sul volto di Zachary si dipinse un sorriso maligno. «Abbandona
questa terra, come hai fatto con me».
Una lingua di fuoco investì Balthazar che però fece in tempo a
scomporsi. Le mosche iniziarono a bruciare, a perire in pochi
millesimi di secondo e ogni singolo briciolo della coscienza del
demone, disseminata in loro, comprese di aver fatto un errore.
Balthazar riacquistò forma umanoide, ma ormai era bloccato dentro
una bolla incandescente.
Cercò di uscire, di trovare un modo per sopravvivere.
Zachary lo stava cuocendo piano piano, voleva vederlo soffrire.
«Senti come manca il fiato? Ti senti in trappola? Sai che la tua ora
giungerà da un momento all’altro, vero?» si avvicinò alla sfera scura.
«Ne sei consapevole, sì, te lo si legge negli occhi. Ora sai come mi
sono sentito io quando mi abbandonasti e poi come mi sono sentito
quando ho scoperto che avevi scelto lei e dimenticato me» indicò
Odry che ora veniva tenuta ferma da un potente incanto di Karasi.
«Io sono colui che ti condurrà nella tomba».
«Papà!» la voce di una bambina bloccò Zachary con un’azione a
metà.
Dorothy, capelli a caschetto castani, vestito color glicine e un
fiocco in testa, piangeva di fronte a quella scena terribile. La voce
ovattata di Balthazar le gridò qualcosa, ma lei non comprese. Vide
Odry e mosse qualche passo incerto verso di lei.
«Vattene!» le gridò la demonessa con tutta la forza che riuscì a
trovare.
Zachary però le sorrise lasciando il padre a mezz’aria, mentre le
sue grida di dolore si facevano più forti. Si chinò e le sistemò il
colletto in pizzo dell’abito. «Ciao! Io non ti conosco, come ti chiami?»
La piccola non rispose.
«Lascia andare almeno lei, è innocente!» gridò ancora Odry.
Il demone annuì e aggiunse: «Puoi chiamarmi Zac. E sappi che
sono davvero felice di fare la tua conoscenza. Coraggio! Dimmi il tuo
nome, non ti mangio mica!»
«Dorothy» rispose lei, singhiozzando, il dito indice tra i denti
serrati.
«Bene, ora ti porterò al sicuro. D’accordo?»
Odry ebbe un tuffo al cuore, sussultò e con un cenno del capo
consigliò da lontano alla bambina di annuire e lei obbedì. Ma la
speranza della rossa si spense quando Karasi si avvicinò a Zachary
e domandò: «Cosa stai facendo? Non vorrai mica fare il fratellone
protettivo proprio adesso?»
Lui la ignorò, tenendo un sorriso per la sorellastra. «Non
ascoltarla, ora sembra brutta e cattiva, ma a volte sa anche essere
dolce».
La sciamana strinse i denti e cercò di darsi un contegno. Gli
poggiò una mano sulla spalla che salì lenta e sensuale sulla nuca.
Le labbra si avvicinarono al suo orecchio. «Non sei ancora pronto e
organizzato per poter crescere una bambina. Non pensavo ti facessi
intenerire in questo modo».
«Cosa stai dicendo? Io sono pronto».
«A crescere e a educare un essere che tuo padre ha preferito a
te? Ti ricordo che addirittura Odry è stata recuperata da lui. Per
Balthazar sei uno scarto; vuoi tenerti lei che ha scelto di crescere e
proteggere?» le sue parole si fecero dure. «Vuoi vivere guardando
negli occhi chi avresti dovuto essere?»
Lo sguardo di Zachary si spense, perso tra i ricordi. Mise una
mano sul capo di Dorothy che rimase a guardarlo con terrore. Poi la
sua testa prese fuoco. La piccola fece in tempo solo ad aprire la
bocca per provare a gridare: il fuoco nero le mangiò il cervello prima
che potesse arrivare a provare troppo dolore.
Il corpicino cadde con un tonfo sordo.
A Odry morì la voce in gola e le provocò un forte senso di nausea
vedere Karasi baciare Zachary con trasporto, come fosse fiera di lui.
Balthazar gridava e piangeva disperato.
Il calore aumentò all’improvviso e così tanto che il demone
all’interno della bolla tacque, come soffocato. Sgranò gli occhi, il
corpo perse il controllo e si dissolse in tante mosche che
incenerirono nell’immediato. La schiena ormai non c’era, le mani
avevano perso le dita, le gambe si consumarono fino a sparire. Il
demone fece in tempo a voltarsi verso Odry, era addolorato,
terrorizzato.
E lei era impotente.
«Muori» sibilò Zachary.
La sfera esplose.
Odry gridò così forte da ferirsi la gola e continuò a urlare
nonostante il collare le scaricasse addosso una serie di scosse
violente. Karasi stessa ebbe difficoltà a reggere l’incantesimo, finché
la sciamana non fu scaraventata lontano dal suo stesso potere.
«Ti ammazzo lurido figlio di puttana!» strillò ancora in lacrime. «Ti
ammazzo con le mie mani!»
Non aveva potuto parlargli, gridargli ancora quanto fosse
scontenta di lui e della scelta di averla abbandonata al suo destino
per poi riprenderla; non aveva potuto ringraziarlo per averla aiutata a
fuggire dalla cella e dalle torture di Baal. Non aveva fatto in tempo a
dirgli grazie per tutto ciò che aveva fatto per lei. L’idea di potersi
ricongiungere a suo padre scomparve come il corpo del demone e
stentava a credere non esistesse più.
Avrebbe potuto salvare nella memoria tutti i bei ricordi, ma l’ultima
immagine di Balthazar sarebbe stata quella del suo volto contratto
dal dolore atroce. Lo stesso che le impediva di smettere di gridare.
Karasi le impose un nuovo sigillo più forte del precedente e Odry
venne bloccata al suolo e legata da catene luminescenti.
Zachary indicò la sorella con un cenno del capo. «Quando avrà
perso le forze chiamami. Io esco da questo posto di merda».
«Sei un assassino!» gli gridò dietro Odry fuori di sé dal dolore. La
sciamana le si fece vicino, le afferrò saldamente il viso con una
mano e la studiò da quella distanza. «Ora capisco molte cose»
strinse la presa sulle guance affondando le unghie nella pelle.
Odry non si mosse, continuando a fissarla con odio mentre le
lacrime scorrevano ininterrottamente.
«Nati in epoche tanto distanti eppure forgiati dallo stesso dolore e
dalla stessa voglia di vendetta. Così soli, così uguali…» continuò
l’altra.
Odry riuscì a fissarla con uno sguardo che Karasi avvertì fin
dentro le ossa. «Arriverà il momento in cui la vostra vita finirà per
mano mia. Solo allora avrò la mia vendetta». Un barlume violaceo
coprì i suoi occhi color cielo.
Karasi, cercò di camuffare il brivido che le percorse la nuca e
sorrise lasciva. «Quel giorno non arriverà mai perché morirai prima
di quanto immagini» alzò la mano e per Odry tutto divenne buio.

II

Altri due giorni e Belial e Belphagor oltrepassarono il confine della


Capitale per arrivare a Brogox, conosciuta soprattutto per l’alta
concentrazione di agenzie di mercenari e bordelli.
Era notte fonda ma la città era ancora viva. Vi era una grande
povertà, eppure nessuno si fermava mai.
In quella zona non c’erano forze dell’ordine, in compenso giravano
molti loschi figuri che non perdevano di vista i due forestieri.
«Il luogo perfetto per celare uno degli ingressi alla galleria» disse
Belphagor, col capo interamente celato dal cappuccio.
Belial, coperto da un cappello in lana e una sciarpa voluminosa,
rispose guardandosi intorno affascinato: «Non sono mai stato qui».
«Hai tempo per ammirarlo, dobbiamo camminare ancora per un
po’».
Il villaggio era illuminato da fiaccole e rari lampioni a olio. Mentre
camminavano scese rapida la nebbia, scivolando tra i tetti delle case
e limitando la vista. Faceva freddo e Belial si ritrovò a rabbrividire,
stringendosi nelle spalle e alitando sulle mani coperte da logori
guanti di lana senza dita.
Dopo quaranta minuti si fermarono.
Belphagor indicò l’insegna rettangolare con luci al neon scariche
di una tavola calda: il Graum’s. «Mangeremo qualcosa e ripartiremo
immediatamente. Hai fame?»
«Troppa».
«Il proprietario allora ti tratterà molto bene».
Aprirono la pesante porta in legno scheggiato e metallo, entrando
in un ambiente carico di fumo, illuminato da torce e candele. Il locale
non aveva finestre e gli unici sbocchi erano la canna fumaria del
caminetto nella sala principale e quello del forno nelle cucine. Vi
erano tavoli tondi e rettangolari e le sedie diverse tra loro davano un
senso di disordine, accentuato dalle decorazioni appese alle pareti:
specchi, quadri sconci, lampade a olio consunte e teschi dalle forme
più disparate.
Gli ospiti, in raccoglimento, cantavano in coro una canzone che
Belial non aveva mai sentito.

…l’oscurità è di fronte a me e la luce è alle spalle.


Oh guerriero, perdona la mia mancanza.
L’anima è ormai rassegnata.

Ma ora la pioggia cade, lavando via il timor.


Alza il pugno al cielo, oh guerriero, combatti con onore.
La fredda morte ha posato il suo velo, ci prenderà alle prime luci.
Ma tu combatti, oh guerriero, combatti con onore…

Belphagor e Belial occuparono un tavolo vicino al caminetto nel


quale cuoceva a fuoco lento una grossa coscia dalla pelle blu e
squamosa.
«Perché cantano tutti in questo modo?» domandò Belial.
«Sembrano… tristi».
«È l’inno del progetto Thoctar. Ogni giorno a quest’ora ci si raduna
nei punti d’incontro della resistenza e si canta per ricordare i caduti e
chi ancora combatte».
Il ragazzo annuì e aprì la bocca per rispondere, ma li raggiunse un
demone alto due metri, muso da maiale e pelle grigio topo,
interrompendolo. «Buonasera piccoletti, sono Graum. Cosa posso…
porco mondo! Belph?»
«In carne e ossa, vecchio mio» Belphagor sorrise facendo cadere
il cappuccio sulle spalle. Si scambiarono una stretta di mano
amichevole.
«Cosa ci fai da queste parti? È da parecchio che non ti vedo
bazzicare nella nostra zona».
«Affari di lavoro». Belphagor indicò con uno sguardo l’ospite
accanto a sé. «Belial mi aiuterà a salvare… qualcuno».
Graum annuì, afferrando all’istante. «Parli di Leviatano, giusto?
Beh, se non è morto è fortunato. Anche se penso si stia cibando dei
familiari chiusi in cella con lui, per sopravvivere».
Il ragazzo sgranò gli occhi e l’altro demone chinò il capo
dispiaciuto.
Ma il taverniere quasi saltò sul posto, afferrando in ritardo un’altra
informazione. «Belial?» chiese soffocando la voce. «Lui?»
Il principe tolse la sciarpa e gli sorrise. «Meno male, pensavo di
doverla tenere per sempre».
«Qui voi siete il benvenuto! Ma permettetemi di dirvi che entrambi
avete scelto il tavolo sbagliato. Troppo vicino all’ingresso».
«Qui i soldati non circolano!» protestò il giovane. «Di fronte al
camino si sta bene».
Il grosso demone arricciò il naso, ma non osò ribattere: dopotutto
si trattava di un reale loro alleato. Fu Belphagor a convincerlo a
spostarsi: «Ci metterà vicino alla cucina, il cibo arriverà più in fretta».
Mangiarono, come promesso, coccolati dagli inebrianti profumi
delle pietanze che i cuochi facevano uscire a gran velocità.
Belial si guardava intorno curioso. Nella Capitale, soprattutto nel
Quartier Generale, era circondato da demoni dalle sembianze
umane e le uniche presenze fuori dal comune erano succubi e
incubi. Lì dentro, invece, era pieno di demoni di ogni tipo e
caratteristica, con corna articolate e zanne appuntite, pelli squamate
di vari colori, musi dalle fattezze canine o così lontani da ogni
parvenza animale da renderne impossibile la descrizione.
Ma non sentì la solita pressione che gli aveva sempre appesantito
le spalle.
«So a cosa pensi» lo interruppe Belphagor «e mi fa piacere che
stia uscendo dalla tua zona di comfort. Adesso, attorno a te, ci sono
persone che fanno cose riprovevoli per sopravvivere, ma ci sono
anche lavoratori onesti che si spaccano la schiena. Graum, per
esempio, nei sotterranei ospita sempre rifugiati politici o persone in
serie difficoltà e in cambio di lavoro li rimette in società, spesso
donando loro una nuova identità. Non sempre sono lavori puliti,
come ho accennato, ma ci si aiuta l’un l’altro e nessuno viene
lasciato indietro».
Il ragazzo abbassò lo sguardo sul pane che aveva immerso nel
sugo della carne già terminata. «Mi dispiace essermi comportato in
quel modo…»
«Stai maturando, vedo in te la luce. Sono fiero di ciò che stai
diventando».
Belial lo guardò con tanto d’occhi. Qualcuno era fiero di lui?
Eppure sentiva di non aver fatto nulla di speciale, anzi. A causa sua,
l’ultima volta, erano morte centinaia di persone.
Il locandiere li interruppe. «La capsula sta arrivando».
Belphagor si alzò e consegnò delle monete all’amico, lo ringraziò
e lo stesso fece il giovane, ricevendo un significativo cenno del capo
da Graum.
Superarono la cucina percorrendo un corridoio in semi oscurità
lungo una decina di metri, che terminava con una scalinata
illuminata da una luce a sensori posizionata in cima. Dopo venti
gradini, che Belial contò per non farsi sopraffare dall’agitazione,
arrivarono a un pianerottolo quadrato con una porta di metallo sulla
destra, aperta. Il ragazzo curiosò e intravide una grande stanza con
divani vecchi e una giovane succube dalla pelle viola che allattava
un neonato avvolto in una copertina bianca. “Dev’essere il posto
dove Graum tiene al sicuro le persone in difficoltà” pensò.
Proseguirono in basso fino a raggiungere un’altra porta uguale alla
precedente, ma con uno sportellino su cui Belphagor bussò quattro
volte.
Dietro la piccola anta sbucò il volto stanco di un vecchio pallido
con un occhio solo. «Che volete? Chi siete?» domandò con voce
roca e scocciata.
«Thoctar olgadar».
Belial rimase perplesso e l’uomo fece scattare la serratura.
I due si ritrovarono in una galleria molto fredda e, anch’essa, quasi
al buio, tant’è che in entrambe le direzioni i binari arrugginiti si
perdevano nell’oscurità.
Proprio in quel momento un rumore di ferraglia li sorprese.
Rallentando, arrivò ciò che a Belial ricordava il vagone di un treno,
ma più piccolo e ovale. E fluttuava. Sul tetto e sulla superficie
sottostante era dotato di barre di metallo magnetico collegate alle
rotaie. La porta scorrevole si aprì con lentezza e i due entrarono.
Dentro c’erano sette posti a sedere e odore di muffa e urina.
La porta si chiuse e senza aspettare che si sedessero, il mezzo
ripartì con un grosso strattone e un sinistro cigolio che ne suggerì la
precarietà.
«Che hai detto prima al vecchio?» dal tono di voce di Belial
trasparì tutta la sua perplessità.
«Thoctar olgadar. Thoctar è il nome che Asmodeus ha dato al
progetto per spodestare Lucifer. Olgadar è la fusione di olgaf e
adar».
«Lodare e resistere in lingua narok…»
«Esatto, è una parola d’ordine che invita a lodare il progetto e a
resistere per lui».
Ci fu un momento di silenzio, poi Belial domandò: «E dove stiamo
andando?»
«Direttamente al castello di Leviatano. Tempo fa sono state
costruite gallerie dai regnanti che in origine hanno fatto parte del
progetto, servivano a collegare i vari castelli e i punti di ritrovo, come
la locanda di Graum. Certi di loro si sono rivelati dei traditori, quindi
alcuni di quei passaggi sono stati murati o fatti crollare di proposito.
In sostituzione, coloro che ancora sono fedeli al Thoctar ne hanno
costruito di nuovi».
Belial ragionò in silenzio su tutto ciò di cui era sempre stato
all’oscuro. I suoi frivoli interessi non gli avevano permesso di
orientarsi verso cose più importanti. Tutto d’un tratto si era trovato
nei panni del principe condottiero immischiato in una rivolta civile.
«Pensavo camminassimo fin lì» disse più a se stesso che al
compagno. «È davvero pericoloso se sono stati costruiti addirittura
dei passaggi sotterranei».
Belphagor si limitò a confermare e a lasciarlo ai suoi pensieri.
Il viaggio durò mezz’ora e si resero conto di essere giunti a
destinazione quando il mezzo rallentò. La porta si aprì e scesero.
Erano soli.
Belial notò quanto in quel punto il soffitto scavato nella roccia
fosse più alto e il tunnel più largo.
La capsula ripartì e liberò la vista: dall’altro lato dei binari vi era
un’altra grande porta di ferro e il ragazzo immaginò fosse stata
installata per impedire l’eventuale passaggio alle forze nemiche.
La raggiunsero, Belphagor bussò a uno sportello posto al centro
della porta. «Thoctar olgadar».
Comparvero degli occhi gialli che li osservarono. Alla vista del
principe le iridi nere si dilatarono e la porta si spalancò.
Un uomo magrissimo, alto quando Graum e con la schiena curva,
li accolse con uno squittio eccitato. Con una riverenza li invitò a
procedere sulle scale di fronte a loro, poi richiuse.
Belial gli sorrise in imbarazzo mentre quello, con il suo muso da
topo, lo annusava da vicino.
I gradini, tanti e scivolosi, resero difficile la salita; dovettero
affidarsi all’equilibrio, alle pareti laterali, ma soprattutto al fiato: il
castello si trovava su una collina e il tragitto era faticoso.
A metà percorso, le grida e i lamenti dei prigionieri iniziarono a
farsi sentire.
«Quindi questa scalinata conduce direttamente alle segrete, molto
bene» considerò Belphagor.
«Non ci sei mai stato?» Belial si sentì meno fiducioso. Come
avrebbero fatto a salvare il regnante e fuggire se Belphagor non
conosceva il luogo? «Almeno c’è qualcuno che può aiutarci?»
«Sì, c’è. Si chiama Brax ed è una demonessa dell’ordine dei
Cerebro, come Satan. Ha acquistato la fiducia di Leviatano quando
lo ha salvato da una congiura circa cinquant’anni fa».
L’attenzione di Belial venne attirata da qualcosa sulla sua testa.
Sollevò lo sguardo e vide il demone–topo strisciare rapido sul soffitto
roccioso per raggiungere la cima della scalinata prima di loro.
Quando anche i due furono arrivati, la guida estrasse un mattone dal
muro che si parava di fronte, infilò le mani ossute dentro lo spazio
vuoto e forzò l’apertura della falsa parete, aprendo un passaggio. I
lamenti e le grida dei prigionieri si fecero più chiari.
Belphagor ringraziò e lo stesso fece il principe che notò di nuovo
le pupille dilatate su sfondo giallo degli occhi del demone.
Attraversarono il passaggio trovandosi di fronte a una scena
raccapricciante.
Al centro della sala circolare, sul pavimento sporco di sangue e
polvere, vi era il corpo nudo e squartato di una demonessa dai
capelli corti e bianchi. Il volto ancora contratto in un’espressione di
dolore. Ammassati alle pareti un numero indefinito di cadaveri, tutti
soldati con lo stemma della casa di Leviatano. A giudicare dal
gonfiore della donna e dall’odore dovevano essere morti già da
qualche giorno.
Il passaggio alle loro spalle si chiuse facendo trasalire Belial.
Belphagor lo zittì con un cenno della mano. «È Brax…»
«Era» precisò il ragazzo.
«Lei e le forze armate erano riusciti a riprendersi questa parte del
castello» continuò Belphagor a bassa voce «soprattutto per tenere al
sicuro il regnante che non riuscivano a portare fuori dalla cella a
causa di un sigillo». Avanzò aggirando il cadavere dell’amica e
indicò il corridoio delle celle a destra. «Cerca Leviatano, io vado a
sinistra. Fa’ attenzione e silenzio».
Belial obbedì. Imitò l’altro nei movimenti finché quello non
scomparve, poi sbirciò il corridoio assegnato: una torcia sulla parete
in fondo lo illuminava in parte; lì la puzza era ancora più
insopportabile. Non seppe dire quante celle ci fossero, ma le voci
suggerivano un gran numero di presenti. “Se dovessi passare come
se nulla fosse, questi probabilmente attirerebbero l’attenzione”
ragionò. Quindi si arrampicò, abile come un geco, fino al soffitto.
Con attenzione osservò da una parte e dall’altra, sperando di
scorgere qualcuno con abiti importanti, magari con qualche gioiello
che gli permettesse di identificare Leviatano.
Alcune mosche gli ronzarono nelle orecchie.
Belial si fermò, come se gli insetti gli avessero comunicato
qualcosa di significativo. Lo sguardo venne attirato da un cadavere
gonfio e grigio dentro uno di quei buchi chiusi da sbarre: indossava
abiti femminili luridi e la tanto sperata collana in oro. Dietro, tre
scheletri davvero piccoli, quasi del tutto scarnificati, e accanto a essi
un adolescente che ne spolpava le ossa.
Il principe d’improvviso ricordò il racconto di Vicky e le parole di
Graum: Leviatano era stato rinchiuso con la moglie e i figli. C’erano
effettivamente una nobildonna morta e quattro ragazzi, quello ancora
in vita indossava abiti di un certo lignaggio.
Dov’era il regnante?
Belial guardò dentro ogni singola cella, ma non vi trovò nessun
altro nobile.
Un brutto presentimento lo scosse.
Atterrò sul pavimento come un gatto, senza emettere un suono. Si
avvicinò alla cella tappandosi il naso e da così vicino notò che la
decomposizione della signora del castello era peggiore di quanto
sembrasse dall’alto.
Si rivolse al ragazzo: «Hey! Dove è tuo padre?»
Nessuna risposta, quello continuava a mangiare con lo sguardo
perso sullo scheletro del fratellino.
Belial allungò un braccio verso di lui per quanto gli fu possibile, ma
non riuscì a toccarlo. «Parlo con te! Mi senti?»
Furono i lamenti degli altri prigionieri, disturbati dalla voce del
principe, a destare il nobile dal suo momento di trance. Sollevò il
capo. Il volto era magro e segnato, aveva un occhio gonfio e pieno di
pus che colava, lo sguardo spento.
«Dove… dov’è tuo padre?» la domanda venne ripetuta con
titubanza. “Non risponderà mai”.
Un rumore lo fece trasalire.
Belial si arrampicò sulle sbarre per tornare ad appendersi al
soffitto.
Comparvero due persone provenienti dalla parte opposta rispetto
all’ingresso nascosto da cui lui e Belphagor erano entrati. Scorse
solo le gambe e si domandò da dove fossero giunti. “Forse ci sono
altri passaggi” pensò.
«Jill ha detto che li ha condotti fin qui, conte» disse uno dei due, a
giudicare dalla voce poteva avere tra i venticinque e i trent’anni.
Belial si avvicinò silenzioso. Potè vedere chiaramente un uomo
ben vestito, con abiti neri in velluto e broccato, una collana di
smeraldi, lunghi capelli blu e barba e baffi folti girati all’insù dello
stesso colore. Accanto a lui quello che doveva aver appena parlato:
un giovane uomo con abiti militari, capelli corvini e occhi con pupille
da serpente.
“Non ci credo… quello è Leviatano”. Belial non si aspettava di
vedere il signore del castello fuori dalla cella e in perfetta salute. In
lui montò la rabbia. Come poteva un padre lasciare l’unico erede
sopravvissuto in una situazione come quella in cui l’aveva trovato?
Poi ricordò che un padre simile lo aveva conosciuto anche lui.
Il demone alto e col muso da topo li raggiunse alle spalle
annusando l’aria. «Sono rimasti qui, signore» disse gracchiante.
«Non hanno trovato nessun altro passaggio».
La rabbia lasciò spazio al terrore. Erano in trappola.
“Dov’è Belphagor?” In effetti, buttando l’occhio oltre i tre demoni,
l’amico non si vedeva. “Devo trovare il modo di uscire da questo
posto di merda”.
«Trovateli, li voglio vivi per consegnarli a Lucifer».
Jill il topo non se lo fece ripetere due volte e scelse subito la
direzione di Belial, mentre il soldato, che aveva l’aria di ricoprire un
alto grado militare, andò dalla parte opposta.
Il corpo aggrappato del principe si trovò a pochi centimetri dalla
testa del demone che arrivò fino alla fine del corridoio. Guardava sia
a destra che a sinistra, terrorizzando i prigionieri più consapevoli. Le
narici dilatate annusavano l’aria in cerca dell’odore dell’ospite,
nascosto tra le decine di odori forti e pungenti. Tornò indietro e Belial
trattenne il fiato, sperando di passarla liscia.
Ma Jill allungò un braccio, lo afferrò per i capelli e lo strappò dal
nascondiglio per lanciarlo sul pavimento.
Il ragazzo, come una molla, si mise subito in piedi pronto ad
affrontarlo e di certo non si aspettava la manata che lo fece
schiantare contro una cella. Di nuovo si fece trovare in piedi ed evitò
un altro colpo. Indietreggiò e schivò fino a trovarsi con le spalle al
muro. Provò a passargli in mezzo alle gambe, ma scivolò su
qualcosa e finì faccia a terra. Vide due serpenti strisciare veloci
verso di lui e trasformarsi in soldati, non fece in tempo a rialzarsi che
Jill lo sollevò dal pavimento, permettendo ai due di prenderlo a pugni
sullo stomaco e sul volto. Il principe rese il favore a Jill cavandogli un
occhio poi mutò forma diventando identico a lui. Si liberò e gli si
buttò addosso, spingendolo fuori dal buco con tutta la forza di cui
disponeva.
Di sfuggita vide Leviatano indietreggiare e altri soldati correre nel
corridoio dove era entrato Belphagor.
Entrambi, poi, inciamparono sul cadavere di Brax. Belial batté il
capo ma non perse il controllo, l’avversario invece si rialzò subito e
gli sferrò un calcio al viso. Fu in quel momento che il ragazzo decise
di tornare all’aspetto originale per essere più agile.
«Topo di fogna!» disse sprezzante il regnante. «Lascialo vivo!»
Belial sgusciò via e si diresse alla parete d’uscita. Non ricordava
quale mattone fosse stato estratto per aprire l’accesso, ma si
domandò se per uscire il metodo sarebbe stato lo stesso.
«Generale Kotho! Servono più rinforzi!» gridò Leviatano con una
voce pastosa, incollandosi con preoccupazione alla parete più
lontana.
In effetti tutti i soldati entrati nel corridoio a sinistra non uscivano
più o, se accadeva, venivano ritrovati nella loro originale forma di
serpente, tagliati a metà o dilaniati.
Nonostante la distrazione, Belial evitò due attacchi del demone–
topo e si decise a passare al contrattacco. Le braccia divennero
lame: con fendenti e affondi minacciò l’avversario, allontanandosi
però dalla parete. Poi gli venne un’idea. Si voltò e di corsa raggiunse
il passaggio da cui erano entrati.
Jill rise e stridulo squittì: «Principe! Volete fuggire senza sapere
come fare?» Ma presto il suo sorriso si spense.
Belial si era liquefatto ed era riuscito a infilarsi tra i mattoni del
falso muro.
Belphagor uscì dalla galleria di celle, gli occhi rossi si spensero e
tornarono normali, aveva gli abiti sporchi di sangue e in parte
lacerati. Cercò il ragazzo e quando non lo vide temette il peggio.
Quell’attimo di distrazione gli costò caro: il generale Kotho lo
raggiunse alle spalle e lo colpì sulla nuca, lo fece cadere e infierì con
una serie di calci sui fianchi e sul volto.
«È fuggito!» esclamò Leviatano.
«Non andrà lontano. I codardi come lui hanno vita breve» lo
tranquillizzò il topo.
Belphagor sentì quelle parole ben chiare e non volle crederci. Era
accaduto davvero?
«Generale! È il momento di dare fuoco alle segrete» ordinò il
regnante. «Sir Anuman sarà fiero del suo operato».
Il giovane militare diede un’ultima pedata alla sua vittima
facendola piegare in posizione fetale; si allontanò mentre Belphagor,
col volto coperto dalla chioma, osservava le loro mosse.
Nella sala, oltre ai cadaveri, ad alcuni soldati rimasti e ai tre
demoni, vi era un troll di grosse dimensioni, con un secchio e una
torcia accesa, la cui fiamma gli illuminava il volto sfregiato.
«Getta la benzina su vivi e morti» disse Kotho.
Il troll avanzò lento. Bagnò ogni singolo prigioniero, anche il figlio
di Leviatano che si limitò ad annusare il liquido fetido. In seguito
versò la benzina sui cadaveri e raggiunse Belphagor per terminare,
ma il demone con un colpo di reni si risollevò e lo centrò in mezzo
alle gambe con una pedata così forte da farlo cadere seduto, infine
atterrò sopra di lui afferrando la torcia. Gli versò in testa la poca
benzina rimasta nel secchio e gli diede fuoco.
Belphagor non si fece anticipare dal generale in arrivo. Parò col
braccio una ginocchiata e rispose con una gomitata sul fianco. Kotho
assottigliò gli occhi da serpente per l’affronto subìto e si tramutò in
un gigantesco boa.
Belphagor evitò il primo morso e lo allontanò agitando la torcia
davanti a sé. L’effetto non durò a lungo. “Devo trovare il modo di
andarmene” pensò.
In sottofondo le grida grottesche del troll che andava a fuoco.
Il boa si alzò sempre più sulla coda raggiungendo il soffitto, poi
inarcò il corpo e scese col muso. Un movimento lento e minaccioso.
Sibilò.
“Mi tiene d’occhio, sarebbe in ogni caso più veloce di me”.
Belphagor gli bruciò il ventre e il rettile si ritrasse, poi allungò il muso
e gli morse la spalla. L’altro serrò la mascella, lo colpì vicino al capo
è riuscì ad allontanarlo, ma si trovò con le spalle al muro.
Il boa parve sorridere. Aprì le fauci e Belphagor immaginò come
sarebbe potuta andare a finire: sarebbe stato tramortito e stritolato
fino alla rottura della spina dorsale, o sarebbe stato inghiottito senza
accorgersene.
Il serpente scattò e lui riuscì a evitare l’attacco. Una lama appena
spuntata dalla parete retrostante infilzò la bestia.
Belphagor sbarrò gli occhi ed esultò.
Belial non era scappato, era riuscito ad aprire il passaggio
dall’esterno e gli aveva salvato la vita. «Via!» gridò il principe.
L’amico sgusciò verso l’uscita e lanciò la torcia su un cumulo di
cadaveri.
Leviatano e Jill guardarono il fuoco avvampare, impotenti.
Furono i pochi soldati di Kotho rimasti ad aprire l’altro ingresso
segreto per chiedere i rinforzi. I fuggitivi avevano però iniziato a
chiudere il primo passaggio.
Il demone–topo si fiondò e infilò le mani nella fessura, bloccandoli.
«Principino!» lo canzonò. «Se ti prendo ti mangio il cuore!»
«No! Lo voglio vivo!» gli gridò il regnante.
«Oh, giusto! Tu non hai un cuore» continuò Jill, mentre giocava di
forza contro gli altri due. «Fai solo finta di averne uno grande e
puro!»
«Pezzo di merda!» gridò Belial, calciò le dita ossute del demone e
si sentì tirare giù per le scale da Belphagor. Si lanciarono in una
corsa disperata, rischiando più volte di cadere. «Torniamo al tunnel»
gli disse «ma dovremo correre, la capsula non ci sarà!»
«Smaterializziamoci!»
«Tuo padre lo proibisce, lo sai! E capterebbero la nostra
presenza!»
Jill riuscì ad aprire il passaggio con la forza prima che si
richiudesse schiacciandogli le mani, e strisciò sulla parete laterale
per raggiungere i fuggitivi; quando fu abbastanza vicino si lanciò su
Belial, trascinandolo in una caduta lungo la scala ripida. Rotolarono
fino a schiantarsi contro il portone blindato che li separava dal
tunnel.
Il demone–topo si rialzò subito e attaccò il ragazzo alla parete,
creando una barriera per rimanere solo col principe. Lo colpì più
volte approfittando del suo stordimento, ignorando i pugni e le
minacce di Belphagor.
Più quest’ultimo colpiva lo scudo giallognolo, più temeva per il
giovane: non si aspettava una tale resistenza dalla protezione di un
demone di rango tanto inferiore.
«Voglio strapparti la tua bella faccia, sire» squittì Jill, dopo aver
leccato la guancia di Belial «e custodirla come il tesoro più
prezioso».
Il giovane riuscì a sgusciare via, il demone lo afferrò per il collo e
lo attaccò alla barriera. Lo sguardo si spostò dalla preda alla cima
delle scale: Leviatano stava scendendo con due soldati, gridandogli
insulti crudeli. «Non sarà mai tuo» sibilò Jill. «È mio, ormai!»
Belphagor tenne lontano il sovrano e il seguito con una propria
barriera mentre provava a sfondare quella del topo, ma ogni
tentativo sembrava inutile. Assistette alla colluttazione tra lui e Belial
che, per quanto riuscisse a fuggire dalle viscide attenzioni del
nemico, non aveva modo di ucciderlo: si trovava sempre un secondo
in ritardo.
«Non riesci ad affrontarmi, principino? La tua codardia è
conosciuta in tutto il regno».
Belial strinse i denti, sferrò un nuovo fendente col braccio
tramutato in lama ma lo mancò per l’ennesima volta.
«Non sei abbastanza allenato! Sei veloce, ma io lo sono di più».
Un manrovescio mandò Belial a terra e una pedata sullo sterno gli
ruppe alcune costole. Il rumore sinistro attirò le grida di rabbia di
Leviatano che ordinò ai suoi di trovare qualsiasi modo di uccidere il
topo, coprendo quelle di Belphagor e del giovane.
«Sei un essere strano, tu» disse Jill, godendo del dolore di Belial.
«Hai imitato la vita, sei la copia perfetta di un altro essere vivente,
dentro e fuori». Con un’unghia affilata gli strappò il maglione, con
l’altra mano lo colpì ripetutamente sul volto, poi lo tenne bloccato per
il collo. Fremette alla vista della pelle bianca. «Tutto pur di avere
un’identità, per essere qualcuno. Se ti entro dentro trovo davvero un
cuore?» Con un colpo secco gli bucò il petto, rompendo lo sterno.
Stavolta il grido del principe fu devastante.
Jill infilò la mano fino al cuore, lo accarezzò con la punta delle dita
e con un sorriso sinistro aggiunse: «Non batte, ancora non sai come
fare?»
Belial non smise di urlare e Jill si rese conto troppo tardi che
qualcosa non andava. Una pressione al petto lo allontanava dalla
sua vittima, qualcosa di invisibile si era interposto tra i due. Belial
provava a liquefarsi per sfuggire all’aguzzino, ma il dolore era troppo
forte.
Solo Belphagor aveva capito. “Ha ereditato il potere di suo
padre…” pensò con raccapriccio.
Un’esplosione immensa sventrò la scalinata, piegò il portone
blindato e sfogò nel tunnel. Belphagor aveva fatto in tempo a
proteggersi con uno scudo, e Leviatano, che aveva assunto la forma
di un drago bluastro, sgusciò al piano di sopra; gli altri con lui
perirono.
Belphagor afferrò Belial ed evitò alcuni massi dal soffitto del
tunnel, corse lungo i binari senza guardarsi indietro. Jill, col volto
sfigurato e in carne viva, provò ad afferrarlo ma un cumulo di mattoni
gli cadde addosso, spappolandogli il cranio.
«Dobbiamo correre, sta crollando tutto!» esclamò Belphagor.
«Non ce la faccio. Dobbiamo smaterializzarci». Rispose il ragazzo,
tra le lacrime per la sofferenza.
«Te l’ho già detto! Se lo facciamo tuo padre ci troverà subito».
«Io non voglio morire qui e tu devi tornare da tua moglie, un
modo» insisté «lo troveremo, ma dobbiamo smaterializzarci
adesso».
L’altro tentò di controbattere ancora, ma uno dei binari superiori
cigolò e rovinò al suolo. Il principe fu più veloce: ancora sorretto
dall’amico, si smaterializzò con lui.
Il soffitto della galleria crollò.
12 Novembre 2025 d.C.
Castello di Capricorno, Regno di Trystor – Inferno

Il cielo era sempre più scuro, la morte avanzava.


Il castello era invaso da nebbia e polvere. Le mura macchiate di
sangue, il pavimento disseminato di corpi. L’aria intrisa del puzzo di
cadaveri bruciati, tutti ammassati al centro della corte interna.
Il clangore delle armi superato dalle grida di uomini uccisi e donne
e bambini stuprati. Pochi popolani erano sopravvissuti e ora si
trovavano negli alloggi del signore, le abitazioni e le botteghe rase al
suolo.
L’esercito nemico tentava l’ultima conquista: il mastio.
Capricorno teneva loro testa. Era stato ferito, diverse frecce erano
conficcate nella sua carne, ma non sentiva alcun dolore. Nei giardini
dell’alta corte, in mezzo alla mischia torreggiava su ogni guerriero.
Proteggeva i suoi uomini come poteva e come un vero leone
manteneva alta la speranza, nonostante questi cadessero a decine.
Il cammino di ronda non era ancora stato preso d’assalto e lì
sopra le guardie resistevano, lasciando cadere grossi massi e olio
bollente che, però, iniziavano a scarseggiare.
August era morto il giorno precedente: colpito da una freccia, era
caduto oltre la merlatura finendo sotto gli zoccoli delle cavalcature
nemiche. Un’immagine che Capricorno non riusciva a togliersi dalla
testa, simbolo di tutti i caduti per mano di chi sarebbe dovuto essere
dalla loro parte.
Quelle lunghe ore di massacri e violenza gli facevano rimpiangere
il tempo trascorso in una pace fasulla.
Se mai la luce c’era stata, aveva voltato le spalle a tutti loro.
All’improvviso un corno risuonò cupo nell’aria umida, all’esterno
delle mura, e il fracasso e le urla si ridussero a un brusio.
L’esercito nemico si fermò, ogni uomo arretrò e s’inginocchiò. I
suoi, invece, si guardavano intorno, perplessi.
Il corno suonò ancora.
Capricorno serrò la presa sull’arma. Poi anche lui vide:
dall’ingresso delle mura esterne giunse un ristretto gruppo di
guerrieri. Dietro di loro tre demoni a cavallo con un’aura così oscura
che anche il suo esercito, percependola, non poté fare a meno di
indietreggiare.
Solomon fu il primo a smontare dal destriero, aiutò Nahenia a
scendere. L’ultimo fu Anuman Valentine.
I tre regnanti avanzarono e i guerrieri si spostarono lasciando
libero il passaggio.
Il primo, petto nudo fasciato da cinghie di cuoio, era così
maestoso da incutere timore.
Le vesti della donna accanto, sua amante, fluttuavano e lei pareva
una sirena assetata di sangue.
L’ultimo, capelli rossi come lo stesso sangue che imbrattava la
pietra ed espressione piena d’odio, non staccava gli occhi dal muso
leonino del signore del castello.
«Che schifo di posto» commentò Solomon, mentre rigirava con i
denti uno stecchino. «Puzza di morte e merda ovunque».
Capricorno digrignò i denti e mostrò le zanne. «Sicuro che non
siate proprio voi a puzzare di merda, barone?»
Nahenia gli puntò un dito contro. «Siete in una scomoda
posizione. Potremmo essere i vostri salvatori o i vostri giustizieri,
Capricorno. L’ultimatum che vi stiamo dando non è cosa da poco,
soprattutto non è un’occasione da sprecare».
Ma il duca, in risposta, sputò per terra. «Ecco cosa me ne faccio
del vostro aiuto».
Anuman non aveva mai distolto lo sguardo.
«Siete solo contro tutti» proseguì la demonessa «e state
conducendo il vostro popolo alla morte. Tutto ciò per cosa? Per
amore della vostra libertà? Vale così poco la vita dei vostri sudditi?»
«La nostra libertà! E quella del mondo intero!» ruggì in risposta il
duca, avanzando.
Solomon si interpose tra lui e Nahenia, ma gli occhi della donna
divennero bianchi, in preda a un attacco di rabbia. «Noi siamo già
liberi, stupido!» La demonessa superò l’amante e aprì le braccia
come per accogliere il signore del castello, un gesto che comportò
un aumento della forza di gravità che costrinse i soldati al suolo.
Capricorno, per quanto ne patisse, resistette.
«Nahenia!» Anuman fu duro. Avanzò con un sorriso che
nascondeva una concreta minaccia. «Non renderti ridicola. Duca,
non potete nulla contro tutti noi, perciò ribadisco: deponete le armi!
Siete vecchio, leone, è giunto il tempo per voi di riposare».
«Mai!» Capricorno si lanciò all’attacco.
La demonessa schivò in tempo un colpo di scure che le avrebbe
aperto in due il cranio, poi Solomon lo deviò con la sua scimitarra e
avanzò verso di lui.
Il castellano quasi scivolò nel terriccio, ma riuscì a colpire con una
spallata l’avversario. Solomon, nonostante la prestante forma fisica,
non poteva competere con il duca, ma incassò, dando inizio a una
serie di fendenti e rovesci che fecero indietreggiare il demone–
leone.
La scherma del barone era fluida e avvalorata dalla tecnica di
combattimento Tahtib che gli permetteva di sfuggire con semplicità
dagli attacchi nemici, e in breve Capricorno si trovò in difficoltà:
Solomon sgusciava via a ogni affondo o colpo dall’alto, bloccando la
lama nemica con le sue scimitarre. Il duca non avrebbe potuto
reggere un simile ritmo, troppo pesante e stanco per far fronte a un
nemico riposato e agile.
Il barone, con un’ennesima capriola, riuscì a insinuarsi nella sua
difesa, aprì la mano e gli soffiò sul muso una polvere violacea che gli
bruciò gli occhi. Quello si contorse, ruggendo e colpendo alla cieca
con la scure.
Solomon gli scivolò per la seconda volta sotto le gambe e con un
movimento fulmineo menò due fendenti che gli ferirono gli stinchi.
Capricorno ruggì di dolore, si ritrovò con un ginocchio a terra e la
vista sfocata. Avrebbe voluto servirsi del potere che lo accomunava
al defunto fratello Asmodeus: creare copie di sé per affrontarli tutti.
Ma era troppo stanco e sarebbe stato tutto inutile.
Gli altri due vassalli approfittarono di quel momento di confusione.
Impugnarono a loro volta le armi e ingaggiarono battaglia.
Erano tre contro uno, in mezzo ai due eserciti che avevano ripreso
a scontrarsi.
Capricorno alzò il braccio, intercettò la berdica di Valentine e le
scimitarre. Le scintille si sparsero attorno a loro, lo stridio delle lame
ferì le orecchie. Tornò in piedi e con un colpo di coda e uno spintone
riuscì ad allontanarli, ma subito si trovò schiacciato a terra dal potere
di Nahenia.
«Traditori» ringhiò lui tossendo poi sulla polvere.
La donna fece per sferrargli un calcio sul muso leonino, ma quello
le afferrò la caviglia tirandola giù. Scivolò, perse il controllo sulla
gravità e ricevette una serie di pugni, bloccati solo dall’intervento di
Solomon.
I due ripresero a lottare.
Parata, affondo, parata; sudore e sangue scorrevano lungo il
dorso di Capricorno impegnato nello scontro, sotto il cielo nero di
quella giornata priva di speranza. Ma doveva dare il meglio di sé per
vendicare tutti coloro che erano morti a causa di Lucifer e per gli altri
che sarebbero stati uccisi se solo avesse deciso di arrendersi.
Eppure la vista era offuscata, le ferite e la stanchezza si facevano
sentire.
Un sibilo. Una freccia gli si conficcò nella schiena. I ruggiti di
dolore si elevarono al di sopra del clangore della battaglia. Poi una
seconda e una terza: l’esercito nemico aveva deciso di aiutare i tre
regnanti traditori.
Solomon sferrò un violento fendente, fece vibrare braccio e spalla
di Capricorno che riuscì a reagire e si avventò su di lui non solo con
la scure ma anche con i denti. Anuman scivolò sul sangue, ma
riacquistò subito l’equilibrio e riuscì a scartare di lato giusto in tempo.
Al suo posto, Solomon fu azzannato alla spalla. I denti del duca
affondarono nella carne, il sangue schizzò ovunque e insieme al
grido di dolore di Solomon si unì quello disperato di Nahenia.
Capricorno lo dilaniò strappandogli via l’intero arto per poi avventarsi
sulla sua gola, strappargli la testa con gli artigli e gettarla ai piedi
della marchesa.
Le gambe le si sporcarono di sangue e quella cadde in ginocchio,
tra le mani la testa del suo amante. Urlò a squarciagola, pianse, lo
maledisse.
Il muso rosso e grondante sangue di Capricorno puntò il viso di
Anuman, ma una pioggia di frecce lo distolse dalla sua figura.
Troppo in ritardo cercò di proteggersi e molti dardi lo colpirono.
Rabbrividì, serrò le mani: come poteva salvare se stesso e ciò che
rimaneva dei suoi sudditi? Come poteva salvare il suo mondo se
tutto sembrava sull’orlo del crollo? La morte aveva deposto un velo
gelido su tutto il regno e lui stava lottando per impedirle di portarsi
via anche quel briciolo di luce, ormai fievole e lontana.
Capricorno strinse le braccia attorno al busto. Il dolore era troppo.
Doveva trovare un modo per ucciderli entrambi. Si prese alcuni
istanti per riprendere il controllo sul proprio corpo, approfittando del
fatto che Anuman fissava la sua sofferenza con soddisfazione.
Nahenia sarebbe stata la più facile da eliminare ora che, disperata,
aveva occhi solo per l’amante ucciso. Per farlo, però, doveva tenere
lontano il conte.
Ora li aveva dinanzi. Se li avesse uccisi entrambi, gli eserciti
sarebbero rimasti senza guida e lui se ne sarebbe appropriato.
Così decise. Scattò verso la marchesa, ma il conte aveva intuito il
suo piano e gli si parò davanti. Anuman vibrò un colpo violento con
la sua berdica e l’altro, colto di sorpresa, non riuscì a reagire in
tempo e a impedire che la lama del nemico gli lacerasse il braccio.
Anuman schivò un secondo attacco più maldestro, in una frazione
di secondo estrasse un pugnale dalla cintola e lo conficcò nel petto
di Capricorno. Al duca cadde di mano la scure, colse un lampo di
soddisfazione negli occhi verdi dell’aggressore mentre questo alzava
ancora il pugnale. Schivò il secondo affondo, ma non i successivi.
Nonostante il lancinante dolore gli colpì il polso e gli strappò
l’arma, rivolgendola contro Anuman. «Non mi avrete mai, maledetti».
«Stai morendo, leone. La tua resistenza sta giungendo al
termine».
Il combattimento ebbe un momento di stasi, poi l’improvviso grido
di dolore di Capricorno risuonò sul sagrato.
Il signore del castello venne colpito alle spalle da Nahenia che ora,
col viso contratto in una smorfia di odio, impugnava una delle lame
di Solomon. Fu forse a causa della disperazione che il castellano
riuscì a voltarsi e tagliarle la gola di netto con la lama rubata,
un’azione che sorprese i due traditori. La demonessa cadde con le
mani premute sulla ferita, senza riuscire a fermare il violento flusso
di sangue.
Anuman colse l’attimo. Serrò la presa sul manico della berdica,
rapido balzò addosso a Capricorno che non potè fare altro che
soccombere: cadde a terra e venne disarmato.
Era finita, era esausto. Anuman entrò nel suo campo visivo, alzò
la berdica.
L’oscurità inglobò la luce.
Il WENDIGO

«Credevate che non me ne sarei mai accorto, non è così? Che


non avrei mai scoperto il vostro doppio gioco?» Il Signore Oscuro
gridò contro Awinita, col respiro mozzo, sospesa a mezz’aria, mentre
gli occhi furiosi e sanguigni del Sovrano la fissavano con disprezzo e
rabbia folle.
La cucina della casa accogliente di Belphagor era stata messa a
soqquadro durante la breve colluttazione per il tentativo di fuga della
donna, in quel momento sola a casa.
La demonessa cercò di divincolarsi dalla stretta invisibile, ma
Lucifer strinse tanto da spezzarle le ossa del collo e farle esplodere
gli organi interni. Awinita cadde sul pavimento perdendo sangue da
ogni orifizio.
Lucifer fece appena in tempo a scostare la preziosa veste,
evitando venisse in contatto con quella che considerava schifosa
immondizia. Con il respiro pesante si guardò intorno: aveva lasciato
il palazzo con l’unico intento di sterminare i traditori che avevano
osato agire alle sue spalle, non poteva certo permettere che
continuassero. Avevano superato ogni limite.
Belphagor sarebbe rientrato a momenti e lui lo sapeva: era
avvenuta una smaterializzazione.
Espirò dalle narici stringendo i pugni, il controllo sulla propria
natura stava venendo meno. Voltò il capo verso la finestra, soffrendo
ancor di più alla vista del proprio riflesso: le corna fuoriuscivano dal
cranio ed emettevano un rumore simile a uno scricchiolio, insieme al
suono della carne lacerata.
Non tollerava di fallire.
Come evocato, Belphagor rientrò.
Salutò a gran voce, ma non ricevette risposta. Rimase in attesa.
Gettò un’occhiata verso l’andito e i cocci di un vaso sul pavimento lo
insospettirono; poi vide alcuni schizzi di sangue sul parquet e sulla
parete. Trattenne il fiato e avanzò con passo silenzioso. Si affacciò
alla cucina e ciò che vide gli fece sperare di essere in un incubo: la
cucina sottosopra, il corpo esanime di sua moglie.
Si gettò in ginocchio accanto a lei, con mani tremanti le toccò
spalle e viso; le lacrime gli appannarono la vista. Era pallida,
ricoperta di sangue. Fissava un punto indefinito, gli occhi vitrei
macchiati di rosso. «Amore mio…» sussurrò con voce rotta.
La voce oscura di Lucifer dietro di lui lo fece rabbrividire. «Sai che
è proibito smaterializzarsi, eppure lo hai fatto. Io ti ho percepito,
pensavi di sfuggirmi? Per troppo tempo avete agito indisturbati
approfittando della mia magnanimità. Da oggi in poi mi riprenderò ciò
che è mio e nessuno di voi sopravvivrà, nessuno assisterà al nuovo
mondo. Il mio mondo, creato a mia immagine e somiglianza» avanzò
di un passo. La veste frusciò.
«Devi uccidermi e assicurarti di farlo per bene, Lucifer» rispose
Belphagor di spalle, mentre accarezzava il volto della sua compagna
di vita ormai defunta «perché se dovessi sopravvivere, per te non ci
sarebbe scampo». Si voltò corrucciando la fronte. Non aveva mai
visto il Sovrano in quelle condizioni: aveva le corna fuori dal cranio e
gli occhi rossi brillavano di luce propria.
Lucifer sorrise. «Tu non puoi niente contro di me, nessuno di voi
può. Siete stati meri burattini e ora siete troppo rotti per usarvi
ancora».
«Sarai punito per il male che hai fatto» Belphagor smise di
ragionare.
Dal capo gli sbucarono delle corna tanto ramificate da perdere
ogni somiglianza con quelle di qualsiasi altro essere vivente. Pelle e
muscoli del cranio vennero lacerati da un teschio che stava
prendendo fattezze animalesche, con quattro zanne affilate e
grondanti sangue. Le ossa delle braccia gli si allungarono, le mani
divennero grandi e deformi e al posto delle unghie crebbero artigli
acuminati. Le gambe presero un aspetto caprino. Il corpo si ingrossò
aumentando di volume, lacerando gli abiti e le scarpe. Dalla schiena
fuoriuscirono vertebre appuntite e una coda della potenza di una
frusta.
Lucifer piegò la testa di lato. «Il famoso Wendigo. Beh, è un
peccato che tu debba morire». Evitò una zampata e indietreggiò per
sfuggire a un morso alla giugulare, ma gli bastò un gesto della mano
per liberare uno spostamento d’aria tanto tagliente da ferire il petto di
Belphagor. Anche se dell’uomo non vi era più nulla ormai, né il corpo
né la mente.
Si buttò su Lucifer con furia cieca, ma quello era irraggiungibile:
schivava ogni attacco e godeva nel vedere così ridotto il traditore.
Un altro attacco invisibile colpì il Wendigo, stavolta tagliandogli di
netto un braccio.
La quiete della collina nella quale si trovavano venne spezzata dal
verso stridulo di dolore della bestia.
Il sangue zampillò sporcando l’adorata veste di Lucifer, che decise
che il gioco doveva concludersi.
Trapassò il demone da parte a parte con il braccio sinistro. Gli
afferrò una spalla e avvicinò il corpo dell’essere per far penetrare
l’arto dentro carne e cuore, unico punto debole.
Un altro grido stridulo squarciò l’abitazione.
«Morirete tutti» sibilò il Sovrano.
Il petto del Wendigo esplose. Il corpo cadde sopra quello di
Awinita.
Lucifer rimase fermo in mezzo alla stanza, fissando di nuovo il
proprio riflesso sul vetro della finestra. Il volto schizzato di sangue,
così come buona parte degli abiti, il braccio completamente bagnato
e sporco di viscere.all’improvviso venne colto da un capogiro che lo
costrinse a inginocchiarsi sul pavimento scivoloso. L’effetto della
corruzione del portale primordiale persisteva e la sua salute si
aggravava. Con l’unica mano pulita, ora tremante, scostò un
fastidioso ciuffo dal volto imperlato di sudore.
«Ora manchi solo tu, Balthazar».

Belial era lì e aveva sentito tutto.


Era accovacciato sotto la finestra della cucina, con le mani tra i
capelli e lo sguardo fisso sulla punta delle scarpe.
Suo padre, forse troppo distratto dal traditore e dalle proprie forti
emozioni, non lo aveva percepito.
Se solo avesse avuto un’aura percepibile, la sua codardia sarebbe
stata punita, il suo nascondiglio scovato e si sarebbe trovato
costretto a combattere insieme a un amico che gli aveva salvato la
vita, al quale non era riuscito a ricambiare il favore.
Finalmente l’aura di Lucifer era scomparsa: doveva essersene
andato.
Il ragazzo si lasciò sfuggire un singhiozzo. “Codardo, codardo,
codardo”. Si colpì più volte la testa col pugno. “L’hai lasciato morire!
Lui ti ha salvato e tu l’hai lasciato morire! Odry ha sempre avuto
ragione. Sei solo un codardo.”
Aveva freddo. Sarebbe potuto entrare in casa e stare al caldo, ma
non ci riuscì. La pena lo inchiodava lì sotto e non se la sentiva di
profanare con la sua presenza la casa di un uomo che aveva tradito.
E per la prima volta desiderò che qualcuno ponesse fine alla sua
vita.

II

Odry si svegliò grazie alla pioggia che la bagnava. Stordita,


percepì il busto all’ingiù, poi comprese di essere appesa alla spalla
di Zachary.
«È lì, vai tu e rassicuralo» lo sentì dire a Karasi «perché di me non
si fiderebbe mai».
Belial era seduto sotto una finestra da sei giorni, la schiena
poggiata alla parete e le gambe distese in mezzo all’erba bagnata.
Aveva gli occhi vuoti, arrossati dal pianto; il maglione strappato,
sporco e fradicio come il resto dell’abbigliamento di fortuna. Vide
avvicinarsi una donna con un ombrello scuro che, una volta di fronte,
si chinò per ripararlo dalla pioggia e gli sorrise. «I miei omaggi,
principe Belial» disse «sono qui per portarvi al sicuro».
«Chi sei?»
«Il mio nome è Karasi e col mio amico vorremmo portarvi via da
qui».
Belial sollevò lo sguardo e vide un uomo alto con cappotto e un
cappello neri che su una spalla teneva Odry: la riconobbe subito. Si
illuminò e le lacrime ripresero a scorrere. «È Odry! Ma cos’ha?» si
alzò di scatto portando la donna a fare lo stesso. «Le avete fatto del
male?»
«No, non potremmo mai. Ma è stata tradita e ha avuto bisogno di
aiuto. Sappiamo che siete amici, giusto?»
Belial confermò e raggiunse la demonessa, chiamandola più volte.
Odry biascicò qualcosa di incomprensibile.
La presa che Zachary esercitava attorno alla vita della ragazza si
serrò come un muto avvertimento.
«Se ci seguirete, vi informeremo di ogni cosa». Karasi lo
raggiunse. «Intanto posso chiedervi cosa vi è accaduto?»
E il ragazzo ricominciò a piangere. «Un mio caro amico e sua
moglie sono stati uccisi da mio padre. Si chiamava Belphagor e io
non ho potuto fare niente per salvarlo».
Per Odry fu un colpo sentire quelle parole.
Un altro membro del Concilio deceduto, una persona dalla loro
parte. Tutto le sembrò perduto: Lucifer e Zachary avanzavano e il
resto indietreggiava, di lì a poco avrebbero fatto il lavaggio del
cervello a Belial e lei temette di non poter fare nulla.
Si sentì sola.
«Non ascoltare ciò che dicono» sussurrò sperando con tutto il
cuore che il giovane la sentisse, ma la pioggia incessante copriva
ogni suono con il suo fracasso. «Non ascoltarli» continuò
imperterrita.
Karasi parlò, coprendo ulteriormente il debole avvertimento: «È
ora di andare, Lucifer potrebbe percepire la nostra presenza».
Quindi attraversarono il portale che si richiuse dopo pochi istanti,
lasciando il giardino di Belphagor al buio.

III

Georgette era ben avvolta in una coperta grigia di lana, al caldo.


Dopo la chiusura del portale, due ore prima, era caduta in terra
come un fantoccio e non si era più svegliata. Karasi aveva spiegato
quanto fosse normale dato il grande dispendio di energia a cui era
stata sottoposta. Poi, però, dopo un’attenta analisi, la sciamana si
era accorta di qualcosa: la bambina era entrata in coma.
Loro, gruppo di angeli caduti e demoni rinnegati in precarie
condizioni, non avrebbero potuto fare molto. Ricoverarla in ospedale
sarebbe stato rischioso, avrebbero potuto attirare l’attenzione.
Quindi Zachary aveva deciso di riportarla a casa di Ania.
Il demone approfittò delle ultime ore di buio per spostarsi con più
facilità; entrò nella proprietà della ragazza valutando quale fosse il
punto più adatto per lasciare il fagotto.
Una luce proveniente dalla finestra della cucina al pian terreno lo
mise in allarme.
«Non preoccuparti Karen, la troveranno». La voce di Satan fu
inconfondibile, anche se coperta in parte dai singhiozzi dell’umana.
«Ania sta preparando l’occorrente per il rituale di ricerca, vedrai che
a breve tornerà a casa».
“Ania ancora sveglia? Devo sbrigarmi, il suo sesto senso potrebbe
captare la mia presenza” pensò Zachary. Quindi si mosse con
cautela e si nascose dietro una palma, adagiò la piccola in mezzo
all’erba e lanciò un sasso che andò a urtare il vetro della finestra. Poi
fuggì tra le piante.
Satan percepì il rumore e si avvicinò alle imposte, gettò uno
sguardo tra il fogliame ma qualcosa attirò la sua attenzione. Aguzzò
la vista.
Karen vide la sua schiena irrigidirsi. «Qualcosa non va?»
domandò, e in tutta risposta il demone si allontanò in fretta verso la
porta di casa. Uscì senza dire una parola, allarmando Karen che lo
seguì con lo sguardo, stringendo un fazzoletto tra le mani.
Tutto all’esterno taceva, compreso il demone.
Dopo attimi di silenzio il demone irruppe in casa come un tornado,
gridando e tenendo tra le mani un fagotto di coperte. «Raphael!
Raphael! Vieni qui, presto!»
Karen scattò in piedi con un orribile presentimento nel cuore.
«Non dirmi che…» la voce le morì in gola.
Satan poggiò l’involucro sul divano e lo svolse piano scoprendo la
piccola Georgie priva di sensi.
Karen gridò.
«Raphael!» tuonò ancora Satan.

IV
«Sei il principe, è ovvio che ti seguiranno. Odry e Satan ti avranno
anche aiutato, ma non ti hanno regalato una personalità. Tu ne hai
una, sfruttala, perché sarà grazie a quella che il popolo
s’infiammerà».
Belial annuì, grato per quelle parole.
Il giovane aveva passato giorni ad ascoltare e a capire il piano di
Zachary e Karasi. Era studiato bene, ma ancora in fase di
perfezionamento.
«L’ispirazione principale mi è stata data da Raziel e Karen» disse
ancora il gemello di Odry. «Noi demoni e gli angeli sappiamo molto
bene l’esistenza degli uni e degli altri. Gli umani credono in noi,
anche se la maggior parte non al cento per cento; di sicuro non
vivrebbero sonni tranquilli nel vederci in carne e ossa. Ma una volta
che prenderanno piena consapevolezza di noi come possibili
conviventi in questo mondo, accadranno le unioni che ci
aspettiamo».
Belial non era affatto convinto. Era a conoscenza del fatto che gli
esseri umani faticavano a tollerare le differenze tra di loro e con
esseri soprannaturali sarebbe stato anche peggio.
L’altro demone, come ad avergli letto nel pensiero, aggiunse: «È
vero, gli esseri umani allontanano ciò che li terrorizza. Ma noi non
siamo come loro, non possiamo permettere che un essere umano
sia a capo di tutto: dovremmo prendere le redini del nuovo mondo».
Odry era costretta a udire il lento processo del lavaggio del
cervello del principe.
Il ragazzo era trattato con amore e una certa confidenza, che lui
apprezzava; Zachary aveva visto come in precedenza era stato
trattato e aveva azzeccato il nuovo approccio. La demonessa aveva
provato svariate volte a far ragionare Belial, senza però riuscirci.
Corrosa dal senso di colpa per come lei e Belial si erano lasciati,
tutto ciò che poteva fare era restare inerme, legata mani, piedi e
collo a delle catene attaccate al muro in quello che era divenuto la
sua nuova prigione dopo essere scappata dalla vecchia stanza e
aver provato a salvare Georgette: il seminterrato.
Abbassò la testa, esausta.
Alle dieci del mattino la porta venne aperta.
Belial entrò, tra le mani un vassoio di plastica con un piatto pieno
di carne e un tozzo di pane. Socchiuse con un colpo d’anca e la
raggiunse, poggiando il pasto su una panca posizionata accanto alla
brandina a mo’ di comodino.
«Hai fame?»
«No» Odry non alzò il capo.
«Non avevo dubbi». Il ragazzo le sedette accanto, prese il piatto e
glielo porse.
«Non devi ascoltare quello che ti dicono… loro mentono, tutti,
nessuno escluso e tu non devi dar loro ascolto. So che mi detesti e ti
capisco, ma non permettere che ti prendano, non voglio che ti
facciano del male!» Odry spostò il piatto e puntò sul ragazzo il suo
sguardo di solito cristallino, ma in quell’ultimo periodo spento.
«Mangia, Zachary non vuole che tu deperisca» le sorrise. «Come
pensi di tornare in forze, altrimenti?»
«Tu non capisci! Non devi credere a ciò che ti dice, le sue parole
sono veleno e lui mente ogni fottutissimo istante. Belial, devi darmi
ascolto stavolta».
«Lo so» rispose il principe in un sussurro. «I poteri della strega
non funzionano su di me e credo anche di essere abbastanza
cresciuto per distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è».
Lo sguardo di Odry si rilassò e in un impeto lo strinse,
abbracciandolo forte. Non gli disse nulla, non ci riuscì. La voce era
rimasta bloccata in gola. Chiuse gli occhi e serrò la presa sulla
schiena del ragazzo che ricambiò più che volentieri, trattenendo le
lacrime.
«È il tuo modo per chiedermi scusa?»
«Dillo un’altra volta e ti spacco la faccia». Odry si allontanò
sorridendo, poi tornò seria puntando gli occhi in quelli del principe.
«Dobbiamo organizzarci e trovare il modo di sabotarli dall’interno».
«Mangia!» la esortò lui ad alta voce, tornando a farsi capire dagli
altri. «Tra poco torno a ritirare il piatto vuoto».
Odry si limitò ad annuire ed entrambi si scambiarono un’occhiata
significativa.
Belial andò via, ma lei di mangiare ancora non se la sentiva.
Karasi inoltre aveva espressamente vietato a chiunque di
somministrarle alcolici di qualsiasi tipo, così da poterla tenere sotto
controllo, e lei si sentiva sempre più debole.
Le ore passavano lente, chiusa in quella specie di cella non
riusciva a distinguere se fosse mattina o sera, non vi erano finestre e
l’unica fonte di illuminazione era una lampadina vecchia e
impolverata, appesa al soffitto con i cavi a vista.
Ondeggiava.
Odry si era incantata più volte su quel movimento ferendosi gli
occhi, fino a quando Behetan non l’aveva spenta, lasciandola al
buio.
Tra le tante cose che detestava, restare sola con i suoi pensieri
era la peggiore. Tenere la mente occupata era sempre stata la sua
priorità, e ora era sopraffatta da tutto e tutti. La voce nella testa tornò
e sembrò sussurrarle parole di conforto, parole che lei non riusciva a
comprendere; nonostante tutto la sua compagnia la fece sentire
meno sola.
Pensò a tutta la sua vita, seduta per terra in un angolo sudicio tra
il letto e la parete. Si sentì patetica con quel collare, in trappola come
mai si era sentita. Cercò in tutti i modi di non pensare al tradimento
di Satan e alla discussione avuta con Gabriel, ma fallì. Si guardò le
mani, poi le scarpe e, con stizza, asciugò gli occhi bagnati. «Devo
andarmene» disse a bassa voce stringendo i denti.

«Malik! Vieni, porta questo alla ragazza, è ora di cena e non ha


toccato cibo questa mattina» Jelos tese il braccio in direzione del
giovane tenendo una ciotola con della zuppa di farro e legumi e
qualche fetta di pane.
Malik annuì e adagiò il tutto su un piccolo vassoio. Raggiunse la
porta dello scantinato, ma Cassiel lo intercettò scendendo piano le
scale. «Vorrei parlare con lei, le porto io da mangiare».
Il ragazzone annuì comprensivo e lo accontentò, tornando di
sopra.
Cassiel entrò e richiuse la porta alle spalle. Accese la luce
infastidendo la demonessa e poggiò il pasto sul mobile. «Stavolta
non riceverai sorrisi imbarazzati».
Odry sollevò il capo e quando il suo sguardo intercettò quello di
Cassiel si accigliò. Si alzò in piedi sulla difensiva. «Che cosa vuoi?»
Un improvviso manrovescio la fece tornare seduta. Lo stordimento
fu forte, almeno quanto il colpo, ma non ebbe la possibilità di
riprendersi poiché un potente ceffone raggiunse l’altra guancia.
Odry afferrò le estremità della catena che la teneva legata, la
piegò in due e con quella provò a frustare le gambe di Cassiel, ma
per sua sfortuna era troppo corta.
Quello rise e con un pugno la costrinse a stare seduta. «È bello
essere impotenti, vero? Quando vorresti reagire e qualcosa te lo
impedisce. Allora sei lì a subire, come un manichino». Cassiel si
avvicinò troppo e venne raggiunto da una gomitata sul ventre; Odry
saltò in piedi sul letto e gli attorcigliò la catena al collo, eppure non
riuscì a serrare la presa come avrebbe voluto. «Come ti senti a fare
il gradasso con qualcuno legato? Da un codardo come te ci si
aspetta di tutto» sibilò.
Cassiel ghignò, non rispose alla provocazione e continuò a
inveire. «Com’è passare da un inferno all’altro? Sei scappata da
Lucifer e alla fine ti sei trovata qui, segregata dal tuo stesso fratello».
«Posso domandare lo stesso a te, sfigurato e solo a seguire le
parole di un folle».
«Penso che ci sentiamo allo stesso modo: due inutili merde. La
differenza è che tu sei legata come un animale, io sono libero».
Odry mollò la presa e gli calciò la schiena, Cassiel quasi cadde in
avanti ma non reagì più; si sedette sul pavimento di fronte a lei,
lasciandosi scappare una smorfia di dolore.
La demonessa gli sputò tra i piedi con disprezzo. «Prega il tuo Dio
che non mi liberino mai».
«Fanculo. Hai finito?»
«Sei tu che sei entrato a rompere il cazzo».
Cassie sospirò annuendo. «Hai ragione, volevo sfogarmi sulla tua
brutta faccia perché pensavo fosse anche colpa tua se la mia è
inguardabile».
Odry rimase in silenzio, il petto si alzava e abbassava veloce in
preda al nervoso. Si terse il sangue che le colava dalla bocca. Con
movimenti lenti, poi, si sedette a terra, poggiando la schiena contro il
materasso. Lo osservò: Cassiel scuoteva il capo con dissenso, di
sicuro verso se stesso, con due dita sfiorava la pelle grinzosa che
spuntava da sotto la benda sull’occhio. Poi gli domandò: «Cosa vuoi
da me?»
Lui sollevò lo sguardo. «Sono stato torturato, mi hanno strappato
le ali, buttato qui. Vicky mi ha rifiutato…»
«Quindi? Cosa dovrebbe fregarmene?»
«…ho ucciso Agatha, la vecchia amante di Gabriel, e Molly. Poi
volevo fare lo stesso con mio fratello».
Odry si irrigidì. «Perché hai ucciso la sorella della donna che dici
di amare?» le venne spontaneo chiedere.
«Perché volevo avere Vicky…» la voce gli si ruppe. «E invece ora
lei mi odierà per sempre».
«Sì, ti odierà perché le hai portato via una delle persone per lei più
importanti» lo studiò con attenzione. «Vicky ha combattuto molto per
tenere al sicuro le sue sorelle, per garantire loro una vita degna o
quantomeno lontano dalla strada. È stata venduta e si è venduta a
sua volta per proteggerle e tu… tu hai ucciso una di loro. Non si
torna indietro, Cassiel, le nostre azioni ci segnano nel profondo e
segnano soprattutto chi ci sta intorno» abbassò lo sguardo, sospirò e
stavolta fu Cassiel a sentire la sua voce incrinarsi. «I tradimenti, i
litigi, i desideri, i sogni, il silenzio. Tutto lascia il segno e certe volte
fanno così male da lasciarti sopraffare dal tuo dolore, un dolore così
grande che puoi quasi vedere o toccare».
«Speravo fossi abbastanza in forze da uccidermi, invece a
momenti svenivi nel tentativo di strozzarmi con la catena».
Odry s’incupì. Tutta quella voglia di morire e nessun tentativo di
farla finita da solo? No, Cassiel non era così. Non lo conosceva
bene, ma l’aveva inquadrato abbastanza da capire che avrebbe di
gran lunga preferito morire combattendo. Non seppe dire se fosse
più coraggio o viltà, la sua.
«E tu?» domandò lui dopo un lungo momento di silenzio. La
demonessa sperò non chiedesse ciò che temeva, invece aveva
indovinato. «Per cosa soffri?»
Lei prese un respiro e chiuse gli occhi, sentendo la presenza di
quel dolore chiuso nello scantinato con loro. «Tutto ciò che sono
riuscita a fare da quando Gabriel è tornato è stato allontanarlo e
dargli addosso. Ho paura di… lui» la pressione le tenne bloccata la
confessione a metà. «Io sono vulnerabile e non voglio più essere
ferita. Satan, mio fratello per scelta, mi ha messo al collo questo per
tenere tutti gli altri al sicuro senza domandarsi se io mi sentissi
altrettanto al sicuro. Avrei potuto ucciderli da un momento all’altro.
Mio fratello biologico mi ha costretta ad assistere all’assassinio di
nostro padre e della sua famiglia. Ha ucciso una bambina, Dorothy,
di fronte a lui, e poi ha ucciso Balthazar. Ho perso tutto. Tutto».
«Pensi morirai qui? Perché parli come una che non ha più una via
d’uscita».
Odry alzò lo sguardo su di lui e Cassiel fu trapassato da parte a
parte. «Mi uccideranno, vogliono qualcosa che a quanto pare vive
dentro di me e di cui ho preso coscienza da poco. Mi tengono
lontana dagli alcolici in modo che io sia sempre debole e facile da
tenere sotto controllo» sorrise amara.
«Zachary mi ha salvato, mi sta vicino e si prende cura di me. Per
lui sono qualcuno».
«Per lui sei solo una pedina sulla sua grande scacchiera: quando
ti avrà usato, ti butterà via» Odry fu tagliente.
Cassiel chinò il capo. «Possibile. Sento che non resisterò a lungo
e il poco tempo a mia disposizione voglio passarlo da beato fesso. È
così che si direbbe, no?» si alzò con cautela e fatica.
Odry annuì. «Per quello che può valere, scusa se ti ho ridotto in
questo stato». Lo seguì con lo sguardo mentre quello andava verso
la porta. Poi aggiunse: «Guardati le spalle, Cassiel».
L’addio e il benvenuto

Satan camminava avanti e indietro nella sala d’aspetto del St.


Mary, l’ospedale più vicino a Notting Hill. Si torturava le unghie coi
denti e sventolava una rivista di fronte al viso per contenere il
sudore.
Karen sedeva rigida quasi al bordo della seduta, di fronte alla
porta oltre la quale sperava di intravedere Raphael che, in quel
momento, stava discutendo con i medici sulle condizioni di
Georgette. Teneva le mani così serrate sulla borsetta da far
sbiancare le nocche. Raziel le sedeva accanto cercando di
tranquillizzarla con parole sussurrate tra un bacio sulla guancia e
l’altro, ma lei non riusciva a calmarsi.
Il francese era dentro da quasi quindici minuti. Gli altri in sala
d’attesa sentivano solo il parlottio della conversazione, ovattato e
impossibile da comprendere.
Infine, la porta si aprì.
Karen e Satan quasi gli si gettarono addosso. «Cos’hanno detto?»
domandarono in coro.
Raphael attese che il medico con cui aveva parlato si dileguasse,
poi scosse il capo con amarezza. «Sembra non sia in pericolo di
vita, ma non avrà un’esistenza semplice».
«Che vuoi dire?» chiese ancora Karen stringendo il braccio di
Satan.
«Georgette adesso è in coma e, se ne uscirà, non potrà più
camminare: la corteccia motoria del cervello è danneggiata».
Karen mise una mano davanti alla bocca e scoppiò in lacrime;
Raziel, con delicatezza, la invitò a sedersi.
Satan era incredulo. «Potrebbe anche non uscire dal coma?» La
voce tremante era un chiaro segno che anche lui stava per piangere.
La figlia di Asmodeus, l’unico legame che ancora aveva con l’uomo
che aveva stimato e amato, da quel momento in poi avrebbe dovuto
affrontare un inferno e nessuno di loro era stato in grado di impedire
che le venisse fatto del male.
«I medici mi hanno dato la possibilità di analizzare la cartella
clinica e in effetti è ciò che trapela. Potrebbe rimanere così a vita,
sempre che non venga deciso altro… sai cosa intendo».
Satan annuì con la morte nel cuore. «Quando potremo vederla?»
Raphael si fece da parte indicando la porta. «Anche ora».
Insieme raggiunsero Georgette.
Karen non ebbe la forza di seguirli e Satan si pentì subito della
scelta. Vederla in quello stato era straziante.
La bambina era collegata a diversi apparecchi e intubata per
evitare che potesse andare in apnea. Satan le toccò una mano e le
lacrime scesero veloci. «Come pensi sia potuto accadere?»
domandò piano.
Raphael sospirò e tolse gli occhiali per pulirli col panno appena
estratto dalla tasca dei pantaloni. «È scomparsa quando Cassiel è
entrato in casa. Lui indossava degli abiti di fortuna e se contiamo
che è stato preso da Zachary così come ha fatto con Odry, posso
solo pensare che ci sia ancora lui dietro tutto questo».
«Dobbiamo trovarlo, potrebbe ucciderla» considerò Satan con
rinnovata ansia.
«Sì, potrebbe. Dopotutto è da sola e con meno della metà dei suoi
poteri».
E quella nuova considerazione fece ancora più male al demone.
«Sono stato io a renderla vulnerabile. Dobbiamo salvare almeno
lei».
Karen aveva deciso di restare in ospedale con la bambina alla
quale si era affezionata tanto da considerarla una figlia. Raziel non
se l’era sentita di lasciarla sola, quindi era rimasto con lei.

Raphael e Satan, a casa, attendevano seduti sul divano.


Di fronte a loro, Ania aveva posizionato sul tappeto il materiale per
il rituale di ricerca e intanto purificava la stanza con uno smudge di
salvia bianca, passandolo nell’ambiente in senso orario e prestando
particolare cura attorno a finestre e porte.
Michael la fissava, non perdeva un movimento, come ipnotizzato
da quella pratica così antica e precisa. Se Barakiel, ora in piedi
dietro di lui, avesse avuto accesso ai suoi strumenti al DEM, avrebbe
potuto aiutarli. Ma Ania, con le sue facoltà, era capitata proprio al
momento giusto.
«Non essendoci nessuno qui presente che abbia un legame di
sangue con lei, sarà più difficile rintracciarla» la strega ruppe il
silenzio. Nessuno azzardò una risposta. Lei si mise in ginocchio al
centro del salotto, alle sue spalle il caminetto. Si pulì con forza i
palmi con del sale grosso. «Qualcuno ha a disposizione un oggetto
al quale è molto legata?»
Satan guardò Gabriel interdetto, che si strinse nelle spalle e a sua
volta domandò: «Non funziona con i capelli o roba del genere?
Perché nella sua stanza ci sono parecchi capelli…»
«Il sangue sarebbe stato più efficace, ma proviamo con tre
capelli» continuò laconica Ania, mentre procedeva a purificare il
materiale per il rituale.
Gabriel si allontanò e tornò poco dopo con la spazzola che porse
alla ragazza in maniera un po’ troppo brusca. Ma la tensione
aleggiava su ognuno di loro e i suoi modi non vennero considerati.
La strega sfilò i capelli e li posò sulla tavola di legno, poi sparse
sopra di essi della cenere presa dal camino. Chiuse gli occhi
facendo ondeggiare il tutto.
La cenere s’illuminò, divenne incandescente e bruciò i capelli. Dal
miscuglio si liberò un fumo rossiccio che si mosse verso l’alto in
piccoli, morbidi vortici.
Ania pronunciò alcune parole dal significato sconosciuto agli
spettatori, poi inalò il fumo agitando con più vigore la tavola, ma
quello divenne tanto, troppo, la avvolse inglobandola in un guscio
vellutato che le vorticava placido intorno.
Ania aprì gli occhi, ora del tutto bianchi, e le sue mani iniziarono a
vagare in mezzo alla nuvola, come se cercasse qualcosa o
qualcuno.
Satan trattenne il respiro senza riuscire a staccarle gli occhi di
dosso, così come Barakiel, Raphael e Michael, incantati
dall’esperienza della ragazza nonostante la sua giovane età.
La ragazza voltava il capo e con le braccia spostava il fumo, come
si stesse muovendo in mezzo alla nebbia, con il corpo dentro casa
ma la mente in un’altra dimensione.
All’improvviso sgranò gli occhi: sembrava aver trovato qualcosa.
Le braccia si mossero più rapide, il respiro si fece corto.
Satan e Michael scattarono in piedi quasi nello stesso momento,
troppo presi dall’agitazione per stare seduti.
Poi Ania si fermò. Guardò di fronte a sé, spalancò la bocca e
venne scaraventata sulla libreria retrostante da una forza invisibile.
Ruppe alcune mensole e rovinò a terra sommersa dai libri.
Michael corse verso di lei, scavalcando gli oggetti disposti a terra.
«Ania! Tutto bene?!» domandò liberandola e lei rantolò parole
incomprensibili per poi prendere un respiro profondo. «Qualcosa mi
ha bloccata. Non mi sono potuta spingere più in là… c’è una forza
troppo grande che non mi fa avvicinare».
«Quindi c’eri quasi!» esclamò Gabriel che si accostò alla tavola
ancora fumante. «Forza, riprova».
«Sei pazzo? Per poco non si è spezzata l’osso del collo» protestò
Satan.
«Non posso andare oltre, non mi è permesso» ripetè la ragazza
alzandosi a fatica. «Se volete scusarmi, devo andare in bagno»
aggiunse, tamponando con la manica il sangue che le colava dalle
narici.
Raphael la seguì e Michael fece per risistemare la strumentazione
di Ania quando Barakiel lo fermò. «Meglio che lasciamo tutto così
com’è, lei saprà di certo come riordinare le sue cose».
Gabriel fece crollare le spalle, sbuffando contrariato. «Non ci resta
che aspettare di sapere cosa ha visto».
«Senti, portale rispetto. Si fa in quattro per noi e stavolta ha
rischiato grosso. Almeno sii felice del fatto che Odry è ancora viva»
ribatté Michael.
L’altro non rispose.
Satan però si lasciò andare alla preoccupazione. «E se fosse
ferita? Non sappiamo dove Zachary l’abbia portata, non abbiamo
nulla per contattarla e ciò che Ania ha affrontato non mi lascia
presagire niente di positivo».
Questa serie di considerazioni condizionò anche lo stato d’animo
di Gabriel, che raggiunse l’appendiabiti accanto alla porta d’ingresso
e afferrò la giacca. «Vado a cercarla. Chiamatemi quando avete
qualche novità».
«Vengo con te!» disse il demone con slancio raggiungendo
l’Arcangelo «in due copriremo più territorio».
«Sarebbe inutile, non trovate? Non penso che il suo gemello si sia
rintanato in un luogo così semplice da trovare» constatò Barakiel.
«Sempre meglio che stare con le mani in mano» ribatté Gabriel.
Michael scosse il capo. «E che intendete fare? Andare nelle zone
periferiche e bussare alle porte delle case più losche?»
Satan ammutolì di fronte alla veridicità di quelle parole. «Hai
ragione. Se solo si fosse portata con sé Cintia sarebbe tutto molto
più semplice…»
«Non è localizzabile, dovresti saperlo» grugnì Gabriel in risposta.
Michael fece spallucce. «Ma anche se lo fosse stata, nessuno di
noi sarebbe in grado di farlo».
«Io esco lo stesso» ribadì Gabriel senza dare adito alle proteste di
Michael e Barakiel.
«Non la troverà, ma almeno prenderà una boccata d’aria. Va bene
così» considerò il Cherubino.

II

Georgette era stata ridotta a un vegetale; una bambina tanto


piccola esposta a così tanta crudeltà.
Raphael non aveva saputo proteggerla.
Cassiel brutalizzato, buttato giù, abbandonato. Ora furioso con lui
e con se stesso. Incattivito dalla sofferenza.
Non aveva saputo proteggere nemmeno lui.
Una demonessa innocente morta per difendere la sorella dal
pericolo, vendendo cara la vita per un capriccio altrui.
E infine Odry, rapita dal suo gemello ed esposta a chissà quali
pericoli, con un malessere psicologico da farle perdere ogni
controllo.
Non aveva saputo impedirlo.
Quattro macigni sulla coscienza. Quattro macigni che pesavano
più della consapevolezza di non essere onnipotente.
Questi pensieri tormentavano l’Arcangelo durante la preparazione
della cena.
“Non ho più il controllo sulla mia vita” fu l’ultima cosa a cui pensò,
poi fu distratto da un taglio sul palmo della mano destra causato dal
coltello che stava maneggiando. Forse una punizione divina per la
troppa superbia, forse il contrario, una pausa concessa dall’alto per
far stare in pace il cuore. Premette la ferita con un panno e andò in
bagno per medicarsi. Dopo dieci minuti era già tornato in cucina.
«Vuoi una mano?» la voce gentile di Satan gli arrivò alle spalle, il
demone gli si accostò con un sorriso stanco sul viso preoccupato.
«Ormai ho finito. Vado a portare qualcosa alle sorelle Jiménez che
non saliranno a mangiare nemmeno stavolta. Tu, per favore,
apparecchia per gli altri».
Satan annuì estraendo la tovaglia dal cassetto sotto il tavolo.
Da quando Molly era venuta a mancare, le tre sorelle si erano
rintanate nello scantinato e chiuse nel loro dolore. Vista la carenza di
posti, si erano accontentate senza mai avanzare pretese, ma dalla
tragedia non erano più uscite.
Raphael scese le scale con cautela, con ognuna delle mani
teneva un vassoio con pietanze fumanti, pane, acqua e del vino. «È
arrivata la cena» enunciò a gran voce.
La porta si aprì poco dopo. La faccia di Vicky fece capolino,
provata, con gli occhi gonfi e cerchiati. In sottofondo si sentivano i
singhiozzi di Ruby. La succube prese i vassoi e li consegnò a
Summer arrivata per dare una mano.
«Ruby, la cena» disse con dolcezza la ragazzina alla sorella.
Vicky fissò Raphael per qualche istante. «Siete degli egoisti
bastardi» disse tra i denti.
Lui tacque e attese una spiegazione, anche se aveva già intuito a
cosa si riferisse la demonessa.
«Molly è morta da due giorni e noi abbiamo dovuto metterla dentro
un fottuto freezer perché nessuno di voi ha avuto il tempo di
seppellirla o anche solo un briciolo di rispetto per lei e per noi che
siamo segregate qui, perché in questa merda di mondo non c’è
posto per noi!»
Raphael prese un respiro profondo per mandare giù l’amara
verità. «Mi dispiace molto, davvero».
«Non me ne faccio nulla del tuo dispiacere! Sei come tutti gli altri,
un egoista bastardo, un quattrocchi di merda che è venuto a stare
qui solo perché gli faceva comodo. Per colpa della tua presenza, mia
sorella è morta!» Furiosa e in preda a un pianto rabbioso, Vicky lo
schiaffeggiò, poi iniziò a colpirlo ovunque le capitasse.
L’Arcangelo però la bloccò afferrandole i polsi. «D’accordo,
adesso ascoltami» e dovette ripeterglielo più volte lottando contro la
rabbia della succube per farsi dare retta. «Ti prometto che domani vi
porterò in campagna e la seppelliremo sotto l’erba fresca, ai piedi di
un albero sempreverde».
Vicky abbassò il capo, questa volta nelle sue lacrime vi era solo
una smisurata sofferenza.
Raphael gettò uno sguardo nella stanza e vide Ruby e Summer
già intente a mangiare, a piccoli e forzati bocconi. Quindi socchiuse
la porta e invitò Vicky a sedersi accanto a lui su uno degli scalini.
Lei piangeva a dirotto, in un silenzio che faceva più rumore di
grida disperate. Era sfinita, nel suo sguardo l’Arcangelo poté
scorgere ancora l’incredulità, e lui era sicuro che di fronte agli occhi
le stesse passando decine e decine di volte la scena di come era
stata uccisa sua sorella.
Raphael in quel momento fu capace di una grande empatia: gli
bastò immaginare la morte di Cassiel. «Sei davvero coraggiosa,
credimi».
«In cosa avrei dimostrato coraggio? Rimanendo inerme mentre
assistevo all’assassinio di mia sorella?»
«Hai cresciuto tre ragazze, hai fatto tutto il possibile per dar loro
una vita sempre migliore. Satan mi ha detto che pianificavi di
portarle via con te, prima che le cose peggiorassero. Mi ha anche
raccontato di come ti sei fatta in quattro quando erano piccole, per
sfamarle, vestirle e tenerle al caldo».
Vicky si asciugò le lacrime con il dorso della mano. «Ci ho
provato, ma non ci sono riuscita…»
«Siamo superiori agli esseri umani per tante cose, ma siamo pur
sempre tutti figli dello stesso Dio. Tutti possiamo sbagliare. A volte,
per quanto ci impegniamo per tenere tutto in ordine e sotto controllo,
capita sempre qualcosa che fa crollare il castello di carte, perché è
di questo che si tratta. So che è una visione pessimistica della vita,
ma pensala così: c’è sempre un motivo per cui le cose accadono.
Forse il compito ultimo di Molly era proteggerti dall’attacco di
Cassiel, prendersi la lama al posto tuo» le accarezzò la schiena,
incerto. «Lei ora sarebbe felice di vederti sana e salva, ha compiuto
il suo ciclo».
«Io vorrei solo riaverla con me». Vicky lo abbracciò nascondendo
il viso sul suo costato, gli cinse un braccio intorno alla vita e continuò
a piangere su di lui. Quell’uomo, che in un primo momento aveva
detestato con tutta se stessa, ora era lo scoglio perfetto su cui
aggrapparsi per non annegare e il suo profumo così dolce e
malinconico, come ogni aspetto di Raphael, la fece sentire al sicuro.
L’Arcangelo non ebbe bisogno di nascondere l’imbarazzo, tanto lei
non ci avrebbe nemmeno badato. Continuò ad accarezzarle la
schiena lasciando che si sfogasse. «Mi dispiace che stiate soffrendo
per essere rinchiuse qui. Troveremo un modo per farvi respirare aria
fresca una volta ogni tanto».
Vicky annuì. «Sai essere gentile quando vuoi…» bisbigliò.
«È meglio che tu vada a mangiare, ora».
Ma la succube si avvicinò non curandosi delle sue parole. Gli mise
una mano dietro la nuca e lo baciò, senza però ricevere risposta.
Anzi, Raphael si allontanò e la scrutò corrucciato.
Vicky restò interdetta. Entrambi rimasero a studiarsi in assoluto
silenzio nella semi oscurità delle scale. Lei assottigliò lo sguardo e si
alzò tornando nella stanza insieme alle sorelle. Non gli disse nulla,
richiuse la porta con uno strattone.
«Raph, tutto bene?» La voce di Satan giunse come a salvarlo da
altri pensieri, pensieri di nuova natura.
«Arrivo, stavo solo parlando con Victoria».

III

«Ruby! Basta per favore! Devi calmarti!» Summer cercava in tutti i


modi di tranquillizzare la sorella che, nel vedere Raphael in
compagnia di Gabriel estrarre il corpo di Molly dal freezer in cantina,
aveva iniziato a gridare e a piangere. La succube, disperata, aveva
addirittura provato ad avventarsi sugli Arcangeli, ma era stata
trattenuta da Vicky e Barakiel.
Karen e Raziel erano in ospedale; tutti gli altri, in rispettoso
silenzio, erano riuniti per l’ultimo saluto.
«Non la toccate!» gridò ancora Ruby tra le lacrime che le
appannavano la vista.
Vicky e Summer la costrinsero a sedersi. «Dobbiamo portarla in
un posto dove riposerà in pace, ma devi calmarti!» ordinò la più
piccola, sudando per la fatica; fu solo uno schiaffo di Vicky a mettere
Ruby a tacere per qualche istante. «Pretendo che tu ti dia un
contegno. Molly merita di essere sepolta con dignità e tu dovrai
essere insieme a noi».
La voce severa ammutolì la succube che poi, in tutta risposta, si
accasciò al suolo singhiozzando con il viso tra le mani. «Non voglio
che la portino via, voglio stare con lei».
«È necessario» si intromise Barakiel con tatto e dolcezza «perché
anche lei merita un posto dignitoso dove riposare. Sono certo che
nemmeno tu vorresti vederla per sempre in un congelatore. Ora
prenditi il tuo tempo, così potrai assistere alla sepoltura con le tue
sorelle».
Summer si scostò dal viso i capelli sfuggiti alla crocchia. «In
queste condizioni, continuando a piangere così, attirerebbe
l’attenzione su di noi e non possiamo farci vedere. Saremo in aperta
campagna, ma non possiamo permetterci il minimo errore». Vicky,
suo malgrado, annuì e la piccola aggiunse: «Resteremo qui, saluta
Molly anche da parte nostra».
Summer era fredda, sotto certi aspetti la più matura delle sorelle
nonostante l’età, ma l’abbraccio che diede a Vicky fu quello di una
bambina in cerca di consolazione e protezione.
La succube la strinse forte baciandole il capo e si chinò per
accarezzare l’inconsolabile Ruby. «Un giorno saremo di nuovo tutte
insieme e potremmo vivere la vita che non abbiamo mai vissuto»
disse con voce rotta.
Raphael e Gabriel, intanto, avevano avvolto con rispetto il corpo
rigido di Molly in un lenzuolo bianco.
Mathael si accostò a Ruby e si lasciò abbracciare dalla succube
disperata. «Se doveste avere problemi fatevi sentire» disse.
Gabriel annuì. «Ci dispiace tanto ragazze».
Satan, dal fondo della stanza, osservava con orrore il corpo di
Molly coperto dal lenzuolo che iniziava a impregnarsi d’acqua.
Quella sorte sarebbe potuta capitare a chiunque di loro, nessuno era
al sicuro, nessuno lo era mai stato.
Odry aveva sempre avuto ragione.
Quanta gente sarebbe dovuta vedere morire ancora? Si voltò di
spalle nascondendo le lacrime.
Vicky si allontanò dalle sorelle e dopo aver ricevuto l’abbraccio di
Satan si accostò a Raphael armato di pala, pronto per
smaterializzarsi.
Summer si strinse a Ruby e distolse lo sguardo da Molly solo
quando i tre scomparvero, dopodiché abbassò la testa e pianse in
silenzio.

Raphael e Vicky si trovarono in mezzo a un bosco.


La luce della luna filtrava tra i rami degli alberi con tronchi alti e
sottili, illuminando l’erba folta e rigogliosa. La quale assumeva un
particolare colorito bluastro che rendeva l’atmosfera suggestiva, a
tratti magica. Attorno a loro vi erano chiazze sparse di narcisi dorati.
L’aria era fredda e pulita.
«Dove siamo?» domandò la succube, stringendosi nel cardigan di
lana.
«Ancora in Inghilterra, a North Greenwich». Raphael piantò la pala
nel terreno e prese un respiro profondo. «Ti piace?»
«È meraviglioso… non ho mai visto niente del genere» ammise
con sincero stupore. «Nel nostro mondo non esiste nulla di simile, o
meglio, esisteva ma è andato perduto. Come tutto il resto».
«È giusto così, merita un posto tranquillo». L’Arcangelo iniziò a
scavare proprio sotto un mucchio di narcisi, facendo attenzione a
conservarli in zolle compatte da poter mettere in seguito sulla tomba.
Vicky lo osservò fermarsi per legare i capelli e riprendere a
scavare, e continuò a studiarlo per tutto il tempo in cui fu impegnato
a smuovere la terra. Non era obbligato a faticare in quel modo,
eppure lo faceva senza lamentarsi.
Non erano mai andati d’accordo, anzi, si erano odiati per la
maggior parte del tempo e tutto si sarebbe aspettata tranne di
vedere proprio lui, in quella circostanza, a prendersi cura di lei e
delle sue sorelle. Era molto più simile a Cassiel di quanto volesse
dare a vedere. Erano entrambi due anime gentili quanto sole e in
quella solitudine lei ci si rivedeva.
In mezz’ora Raphael riuscì a scavare una buca abbastanza larga
e profonda. Si fece aiutare dalla succube a calare piano sul fondo il
corpo della ragazza e tirò un sospiro di sollievo. Poi riprese in mano
la pala per iniziare a ricoprirlo.
Si sentì di nuovo osservato, così come era stato per tutto il tempo
dello scavo. Provò ad allentare la tensione. «Se vorrete venire a
trovarla, tu e le tue sorelle, non esitate a chiedere».
Vicky annuì senza aggiungere altro e gli lasciò finire il lavoro. Solo
quando Raphael posò la pala per togliersi il sudore dalla fronte la
succube gli si fece vicino. «Ti chiedo scusa» disse mettendogli una
mano sul braccio.
«Non devi. Non sono stato abbastanza attento in questa
situazione delicata. Inoltre, sono io che devo scusarmi per ciò che ti
ha fatto mio fratello. Non avrei mai creduto potesse arrivare a tanto».
«Ti chiedo scusa per averti vomitato tutto l’odio che provavo senza
motivo» ripetè lei come se non lo avesse sentito. «Ti ho giudicato
male e ho preteso che tu non lo facessi con me, sono stata ipocrita e
me ne dispiace» si morse le labbra.
«Non ti preoccupare…» indicò la tomba già ricoperta di fiori.
«Vogliamo dire qualche parola?»
Vicky osservò i fiori con gli occhi lucidi, deglutì. «Lei già sa che la
amo, che è stata la mia roccia e il mio orgoglio. Ma non so se voglio
che sappia che mi mancherà e che temo di non riuscire ad andare
avanti senza di lei. Anche se devo farlo per me, per Ruby e per
Summer» si strinse nel cardigan di lana facendosi più vicina.
«Non l’ho conosciuta a fondo, come non conosco bene te, ma ciò
che ho visto in lei è stato ciò che ho sempre visto in me: una figura di
riferimento per mio fratello. Si è battuta per te che sei stata l’amore
della sua vita e si è sacrificata per far sì che vivessi.
L’ha fatto per farti andare avanti, anche se sarà dura. Posso solo
immaginare cosa tu stia passando e ho timore di pensare a come
starei se dovesse capitare a me. Amo Cassiel con tutta l’anima e se
dovesse andarsene morirei anch’io. Per questo ti sono e vi sono
vicino. E lo sono anche gli altri, non sarete più sole. Ve lo prometto».
Vicky lo guardò per un istante che bastò a notare ogni suo
particolare: i raggi della luna gli illuminavano l’incarnato chiaro,
doravano ancor di più i suoi capelli, gli occhi erano profondi e caldi.
Era smarrita e fu quello stesso senso di smarrimento e timore a
smuoverla, lo stesso che sentiva provenire anche da lui. Così si alzò
sulle punte e con le mani sulle sue guance gli impose di chinarsi.
Lo baciò con trasporto, chiuse gli occhi lasciandosi inondare le
narici da quel profumo che segretamente aveva iniziato ad amare.
Lui rispose e fu inaspettato.
L’attirò a sé, afferrandola per i fianchi, aggrappandosi a lei. Le
mani salirono fino alla schiena e la costrinsero ad avvicinarsi,
portandola quasi a perdere l’equilibrio. Vicky lasciò che le mani del
francese la toccassero con desiderio. Mosse la lingua biforcuta
contro la sua bramandolo con avidità a ogni bacio. I loro respiri si
fecero veloci e ansanti senza dare alcun segno di volersi
interrompere. Ma come se un lampo li avesse attraversati, entrambi,
nello stesso momento, si allontanarono recuperando contegno.
«Dovremmo tornare…» esordì la succube, mal celando un forte
disagio.
«Dovremmo» confermò Raphael sistemandosi gli occhiali,
impacciato. Quindi afferrò la pala, si accertò di aver reso la tomba
meno evidente possibile, poi poggiò una mano sulla spalla di Vicky e
con lei si smaterializzò tornando da Ania.
Nel soggiorno non c’era nessuno, era buio come il resto della
casa.
Una voce maschile e una luce fioca provenivano dalle scale che
conducevano al seminterrato: qualcuno stava facendo compagnia a
Ruby e a Summer.
«Stai con me stanotte» avanzò Vicky e Raphael fece per
rispondere, ma qualcun altro li interruppe.
Ania, con indosso solo le lunghe calze di lana chiare e una felpa
larga che usava per la notte, si avvicinò a loro tenendo tra le braccia
un bambino di poco più di tre anni. «Abbiamo un nuovo ospite»
disse apatica, mentre il piccolo le affondava le mani tra i capelli
arancioni.
Vicky aggrottò la fronte e guardò il bimbo. «Da dove è spuntato
fuori?»
Ania piegò la testa e si accomodò sul divano. «Ora ve lo
racconto».

“Sono già le dieci di sera” pensò Ania mettendosi a sedere sullo


sgabello di fronte alla finestra, nella sua camera situata nella grande
soffitta. Michael stava in stanza con lei invece che dormire sul
divano, viste le gravi ferite riportate.
Lei aveva dato dimostrazione di non provare alcun tipo di disagio
o vergogna nel dividere il letto oppure ospitare qualcuno nel suo
spazio. L’unica cosa che gli aveva chiesto era di non disturbarla
mentre dipingeva; l’Arcangelo non aveva osato contestare
quell’unica condizione.
Si era presa una pausa da un lavoro che portava avanti da due
settimane. Una pausa, però, che non era dipesa dalla sua volontà.
Da almeno venti giorni sognava qualcosa a cui non riusciva a dare
una spiegazione e aveva deciso di assecondare ciò che vedeva solo
una settimana dopo l’inizio di questi sogni. In ogni momento utile si
dirigeva in automatico verso la tela più grande e vi spennellava
macchie di colore e forme che a un primo impatto sembravano non
avere senso, ma che piano piano avrebbe compreso, ne era certa.
Un rumore metallico proveniente dal soggiorno la distolse dal suo
lavoro: la bozza di un dipinto che, una volta ultimato, avrebbe
rappresentato un sogno a cui, da tempo, cercava di dare
interpretazione.
«Hai sentito?» chiese a Michael, coricato sul proprio lato del letto.
L’Arcangelo, un po’ assonnato, tese le orecchie, ma poi scosse il
capo: «Nulla. Cos’hai sentito?»
«Un rumore di metallo, sembrava venire dal salotto». Così si alzò
dirigendosi verso la porta. «Vado a vedere». Scese le scale.
Sentì alle sue spalle i passi di Michael che raggiungevano la porta
per assicurarsi che non ci fossero pericoli.
Il soggiorno era buio, e la ragazza dovette accendere la luce per
capire quale fosse la fonte del rumore, che si presentò ancora e con
più forza, facendo trasalire l’Arcangelo.
Ania percepì un brusco movimento nella grande gabbia coperta da
un telo nero, in cui il gufo di Belphagor, rimasto lì, si rifugiava per la
notte. «Hakam?» domandò piano, avvicinandosi. Poggiò una mano
sul telo e lo rimosse.
Ciò che rivelò lasciò entrambi di sasso.
«Cosa?» Michael, ora dietro di lei, sussultò spiazzato.
Al posto del gufo c’era un bambino di circa tre anni, nudo e
rannicchiato che li guardava con i suoi occhi grandi e scuri, sull’orlo
del pianto.
Ania si mosse in un secondo, aprì la gabbia e con la coperta di
lana che stava piegata sul divano avvolse il piccolo. «Una
trasmutazione» constatò a bassa voce, toccando la guancia del
bimbo.
La sua apatia fu spiazzante ancora una volta.
«Non ci credo» disse l’Arcangelo. «Quindi abbiamo tenuto un
bambino trasmutato tutto questo tempo? Cosa sta succedendo?»
«Non lo so, ma è il caso che tutti sappiano. Spero che Satan
possa spiegarci qualcosa di più. In ogni caso attendiamo l’arrivo di
Raphael, una trasmutazione così duratura potrebbe avergli
provocato dei danni». I suoi occhi color dell’oro si posarono in quelli
neri del piccolo. «Deve essere successo qualcosa per far sì che
tornasse umano». Si avvicinò a Michael che ancora faticava a
metabolizzare la nuova realtà, fissando il bambino con un misto di
incredulità e timore. Si allontanò per tornare al piano delle camere
da letto e bussare nella stanza in cui Satan dormiva insieme a
Mathael.

«Capisco» disse Raphael mentre osservava il piccolo ora


coccolato da Vicky. E si rivolse proprio a lei: «Tu che conoscevi
Belphagor ne sapevi qualcosa? Era solito fare cose simili?»
Vicky scosse il capo. «Belphagor era un uomo acuto e soprattutto
molto cauto. Nessuno di noi aveva idea che lui e Awinita avessero
avuto un figlio – sempre che lo sia – e ho il presentimento che gli sia
stato fatto questo per proteggerlo da Lucifer». La succube guardò
Satan che annuì grave, aggiungendo: «Quindi se ha ripreso la sua
forma umana, vuol dire che è fuori pericolo. Che sia accaduto
qualcosa a Lucifer?»
Raphael si fece cupo. «Aspettate» disse portando via il bambino
dalle braccia di Vicky. Gli scoprì il petto rivelando una voglia violacea
dalla forma rettangolare e dai contorni indefiniti.
«Quella prima non c’era» affermò Ania.
Satan si avvicinò cercando di guardare meglio e lo stesso fecero
anche Vicky e Michael.
Gabriel rimase in disparte poco interessato alla situazione. Il suo
unico pensiero rimaneva Odry.
«Potrebbe avere un significato» considerò Michael.
«Non chiedere a me» rispose Ania apatica «se ho capito bene,
Belphagor usa una magia che io non conosco».
«Se n’è occupata sua moglie Awinita» precisò Satan «e se c’è
davvero un significato, per noi sarà impossibile scoprirlo dato che
quei due sono irraggiungibili».
«Belphagor e Awinita sono troppo astuti per lasciare tutto al caso»
ribatté la succube. «Deve esserci un motivo se è tornato in questo
stato e se la voglia è comparsa nel giro di poco tempo».
«Il bambino non ha nemmeno imparato a parlare» considerò
Michael «e di certo non ci può aiutare. Ma se i genitori sono così
scaltri come dici, devono averci lasciato degli indizi per poter
affrontare tutto questo».
«Mi auguro sia così, ne va della sua vita, di quella di tutti noi.
Dobbiamo essere pronti a ogni possibile conseguenza, non
possiamo affidarci al caso» ragionò Satan sedendosi sul divano e
lasciandosi andare contro lo schienale. Guardò Mathael che gli
accarezzava le spalle, in piedi dietro di lui. «Tu cosa ne pensi?»
«Non ho idea di cosa pensare, a dire il vero» ammise lei. «Per
quanto ne so quella voglia può essere una fattura, un sigillo, un
messaggio nascosto. Oppure c’è sempre stata, Ania non se n’è
accorta subito e stiamo facendo mille congetture inutili».
«Bisognerebbe studiare quel tipo di magia» consigliò Michael.
«Ania» si intromise Gabriel «esistono incantesimi per rivelare
messaggi nascosti? O sono solo favolette per bambini?»
Ania annuì guardandolo in modo indecifrabile. «Sì, esistono e ne
conosco qualcuno, ma dovrei rileggere alcuni dettagli nel mio
grimorio» e, all’espressione perplessa di Vicky, aggiunse: «Anche
se, come ho detto prima, è un tipo di magia differente. Quindi
potrebbe servire ben altro per rivelare la verità».
«Aspettate, aspettate». Satan attirò l’attenzione su di sé, lo
sguardo rivolto verso il basso era lo specchio di una ricerca tra i
ricordi. «Vicky, dicevi sempre che Belphagor fumava qualcosa che
puzzava, il cui odore ti nauseava. Qualcosa che usava anche come
tisana».
«E che c’entra?» ribatté la succube, perplessa.
Satan aprì le braccia con l’espressione di chi trova l’ovvio.
«Ricordi che fumava e beveva quella roba quando doveva ragionare
su qualcosa? Diceva che lo aiutava a trovare la giusta via, a
scorgere la verità».
«Sì era una specie di frutto» confermò Vicky, ragionandoci su.
«Fammi ricordare… mi pare ci fosse una y nel nome. Forse oyote…
coyote…»
«Il coyote non è un frutto» precisò Mathael.
«Peyote?» domandò Raphael.
«Sì!» esclamò la succube e Satan batté le mani, facendo trasalire
il bambino.
«Il peyote è il nome comune della Lophophora williamsii, un
cactus» Raphael era incuriosito. «Belphagor lo inalava?»
«Sì, e lo beveva» confermò Vicky.
«Non ditemi che dobbiamo farlo bere o fumare al bambino»
avanzò Michael, divertito.
«Non penso siano tanto screanzati Belphagor e Awinita» lo
smontò Satan. «Forse dobbiamo farlo noi per scoprire cosa si
nasconde dietro questa voglia».
«Quindi dobbiamo fumare e sballarci tutti insieme?» continuò
Michael, Mathael lo colpì alla nuca con una manata.
«Direi di andare per gradi» consigliò Raphael. «Prima di tutto
dobbiamo trovare questa pianta, fare ricerche e capire come veniva
trattata dai nativi americani: penso che i genitori di Hakam si
attengano alle tradizioni. Intanto Ania si informerà in merito a questo
tipo di magia e cercheremo di tirarne fuori qualcosa. Male che vada
tutto ciò che faremo sarà inutile e avremo solo trovato un diversivo
per passare il tempo e non pensare al fatto di avere le mani legate
su ogni fronte».
Tutti annuirono alle sue parole.
«Portiamolo a dormire, solo gli dèi sanno quanto questa
esperienza potrebbe averlo segnato» esordì Vicky, ma Satan la
precedette. «Lo teniamo noi, per stanotte e quelle a venire. Ci tengo,
voglio prendermi cura del figlio di uno degli uomini che stimo di più»
abbassò lo sguardo e si sentì in colpa per il destino al quale non era
riuscito a sottrarre Georgette.
IV

«Sei sicuro di volerlo fare tu?» Vicky si poggiò contro lo stipite


della porta, fissava la schiena di Raphael intento a sistemarsi la
camicia.
«Una nuova esperienza» rispose lui. «Mi piace ampliare i miei
orizzonti».
Ma lei aveva fiutato odore di menzogna. «Non ti fidi degli altri,
giusto?»
«Può darsi».
La succube gli si fece vicino e gli accarezzò il braccio. «Non voglio
che ti faccia male, Belphagor era abituato a queste sostanze, tu non
mi sembri il tipo».
«Apprezzo la tua apprensione nei miei confronti, ma considerala
da parte mia una nuova opportunità di studio». Si rimboccò le
maniche piegandole con cura e aprì una scatola di legno appena
acquistata, contenente una pipa di alta qualità.
«Starò qui con te» e detto questo Vicky si sedette sulla poltrona
accanto al letto, seria. Scodinzolava nervosa.
Raphael tacque per la durata della preparazione della pipa,
concentrato. Poi esordì indicando fuori dalla porta con un cenno del
capo. «Dobbiamo andare fuori, questa roba puzzerà. E dobbiamo
prendere il bambino».
«Andiamo in giardino, io porto il marmocchio» rispose la succube
alzandosi e dirigendosi fuori.
Una volta all’aperto, nel giardino retrostante alla casa, lontano da
occhi e orecchie indiscrete, Vicky e Raphael si accomodarono sul
dondolo sotto gli sguardi curiosi e divertiti di Satan, Michael e degli
altri.
«Si sballerà di brutto» sussurrò il demone contro la spalla
dell’Arcangelo al suo fianco, entrambi affacciati dalla finestra della
cucina.
Raphael lanciò loro una brutta occhiata che però non sortì alcun
effetto: quei due continuarono a sorridere. Prese un respiro profondo
per concentrarsi e accese la pipa, la imboccò e cominciò a fumare. I
primi colpi di tosse non tardarono ad arrivare, accompagnati dagli
ironici incoraggiamenti di Michael e dagli sguardi apprensivi di Vicky.
«Un bel respiro Raph» incitò Satan trattenendo le risate.
«Tappati quella bocca o provvedo io a calci!» lo minacciò la
succube strozzando la voce.
Raphael cercava di ignorare i due compari e il loro scimmiottare, e
il fumo, piano piano, lo aiutò. Percepì dapprima un senso di nausea,
che durò pochi minuti, poi la testa e gli arti leggeri. Le
preoccupazioni scomparvero, come non fossero mai esistite.
Vicky si accorse dell’effetto andato a segno grazie allo sguardo
languido, seppur corrucciato, del francese.
Gabriel si unì a loro, seguito da Uriel, incuriosito.
«Vedi o senti qualcosa?» chiese la succube e la sua voce arrivò
alle orecchie di Raphael distorta, come proveniente da lontano.
Intorno a lui tutto era fumoso, nulla aveva importanza. Nonostante
ciò, si impose di concentrarsi: non aveva ancora perduto la lucidità.
Puntò lo sguardo sul piccolo e la succube comprese che era arrivato
il momento.
«Scoprigli il petto» la incoraggiò Uriel. Lei avvicinò il bambino a
Raphael e gli scoprì il lato sinistro del petto cercando di tenerlo
quanto più possibile al caldo.
L’Arcangelo scosse il capo. «Niente» sussurrò.
Gabriel prese posto accanto a Vicky. «Non è la strada giusta».
Uriel si posizionò, invece, dietro Raphael.
«Aspettate» disse quest’ultimo.
«Vedi qualcosa?» Satan drizzò le spalle.
L’Arcangelo aggrottò ancor di più le sopracciglia. Dalla voglia sul
petto emersero, come sul pelo dell’acqua, le incisioni di alcuni
simboli che nemmeno aguzzando la vista riuscì a decifrare. «Non è
enochiano…»
«Che cosa vedi?» aggiunse la succube con l’adrenalina nelle
vene.
Satan si armò di carta e penna e a grandi passi raggiunse gli altri
in giardino. «Scrivi ciò che leggi» disse mettendogli tra le dita la
penna e sulle ginocchia il foglio di carta.
Raphael iniziò a vergare con attenzione, per quanto gli fosse
possibile, i simboli in lingua narok.
Il rosso si morse l’unghia del pollice e con Vicky si scambiarono
un’occhiata intensa.
L’operazione sembrò durare troppo tempo. Hakam aveva iniziato a
piangere per il freddo, ma l’Arcangelo era riuscito a non farsi
condizionare o distrarre.
Gabriel si stava innervosendo, Uriel incoraggiava il francese a
sbrigarsi per mettere al caldo il piccolo, Vicky cercava di decifrare lo
sguardo di Satan che a sua volta leggeva il contenuto del messaggio
e si incupiva.
Raphael mise la penna sull’erba e Vicky poté portare dentro il
bambino e lasciarlo alle cure di Uriel.
Satan si passò con forza le mani sul viso, camminando lontano
dagli altri.
«Cosa c’è scritto?» domandò la succube tornando da loro di corsa
e afferrando il foglio. Il comportamento di Satan non le trasmise nulla
di rassicurante.
«Belphagor è morto e con lui anche Awinita» ammise grave
l’amico.
Victoria sgranò gli occhi e iniziò a leggere:
Il mio nome è Hakam e ho tre anni e mezzo. I miei genitori mi hanno protetto per non
risentire degli effetti del Progetto Thoctar, sotto consiglio del mio padrino.
Se sono tornato alla mia forma umana è perché mia madre e mio padre non ce l’hanno
fatta, sono quindi pronto a prendere il loro posto nel progetto.
I miei poteri sono grandi, ma devo imparare a usarli.
Grazie per avermi accolto.

«È terribile» esordì Michael. «Fortuna che il padrino ha avuto


questa idea… chiunque esso sia».
Vicky abbassò lo sguardo lucido. «L’unico membro del Concilio,
oltre a Belphagor, che faceva parte del progetto era Asmodeus»
guardò Satan che di spalle fissava il vuoto.
«Lui aveva predetto ogni cosa» ammise a bassa voce il rosso.
«Forse non immaginava che i genitori di Hakam sarebbero morti
così presto» ribatté Gabriel senza tatto «o pretendono davvero di
inserire subito il bambino appena inizierà a parlare?»
Satan scrollò le spalle. «Non ne ho idea e penso che non lo
sapremo presto».
«Non c’è scritto come sono morti i genitori del piccolo Hakam?»
domandò Michael.
Vicky scosse il capo. «Nulla di tutto ciò ma penso che…»
«Sarà stato Lucifer, nessun altro» s’intromise Satan.
Michael strinse i pugni in un moto di rabbia. «Vi sta decimando, ci
manca solo che trovi voi due e Odry».
«Penso sia molto più vicino a noi di quanto possiamo
immaginare». Sul viso di Satan vi era l’ombra di un presagio.
«Dobbiamo trovare Odry prima che la trovi Lui» continuò.
Gabriel grugnì in risposta e gli lanciò un’occhiata velenosa che il
demone ricambiò.

Gabriel era seduto in cucina, i gomiti poggiati sul tavolo e le mani


a reggergli la testa pesante.
Dopo aver assistito alla scoperta del messaggio sul corpicino di
Hakam, era uscito e rimasto fuori ore per cercare Odry, ma di lei
nessuna traccia.
Erano le undici di sera e Michael, dopo aver fatto una doccia per
scaldarsi un po’, scese con passo pesante al piano terra per uno
spuntino. Rimase di sasso quando trovò Gabriel seduto lì, in quello
stato. «Ciao». Articolò il saluto con cautela, quasi certo che un tono
più alto lo avrebbe fatto imbestialire; in cambio gli mise una mano
sulla spalla con fare fraterno. «Hai fame?»
«Sì». La risposta fu secca.
«Io mi faccio un sandwich. Ne vuoi uno?»
«Sì».
Michael prese gli ingredienti dal frigo e preparò gli spuntini sul
piano di marmo accanto ai fornelli, dandogli le spalle. Quando si
voltò per porgergli il pasto, Gabriel era ancora nella stessa posizione
e fu l’odore di burro di arachidi e marmellata di fragole a smuoverlo.
Ora che Michael lo vide così da vicino, poté notare un viso stanco
con la barba in ricrescita e gli occhi rossi di sonno. «Immagino tu
non l’abbia trovata» dedusse, sedendogli di fronte.
Gabriel batté un pugno sul tavolo che fece saltare il piatto.
«Nessuna traccia di lei e di quel bastardo».
Il biondo si lasciò sfuggire un sorrisetto amaro. «Lo sospettavo.
Satan aveva ragione quando diceva che nessuno di noi sarebbe
riuscito a trovarla, se Zachary non avesse voluto così. Quel tipo
diventa sempre più forte e imprevedibile. Si vede che sono fratelli,
sono matti come dei cavalli, quelli. Vuoi da bere?»
Gabriel attese. Diede un generoso morso al sandwich soppesando
le parole, poi domandò: «Quali sono le nostre priorità? Quelle del
gruppo, intendo».
Michael sospirò e ripose il panino nel piatto, certo di dover
attendere per poterselo gustare. «Le priorità sono tante, Gabe, e lo
sai. Per prima cosa dobbiamo mantenerci tutti vivi. Odry non è
l’unica, c’è anche Belial. Poi abbiamo appreso questa brutta notizia
sulle condizioni di Georgie e, come se non bastasse, dobbiamo
prendere Cassiel che sta dalla parte del nemico. Perciò, ovviamente,
catturare Zachary e riprenderci la reliquia prima che ci metta le mani
Lucifer, e infine Chris, che ha preso il controllo del DEM». Gli sorrise.
«Non vorresti prendere a pugni quelle facce di cazzo?»
«Tutto questo è assurdo».
«Scusa? È assurdo che vogliamo trovare persone che ci sono
sempre state accanto? Capisco che alcuni di loro non ti stiano
simpatici, ma dov’è finito il senso del dovere di Gabriel Cooper?»
«Nessuno si rende conto che è Odry l’anello mancante. Ania è
stata scaraventata contro la libreria per aver provato a cercarla con
la sua magia, mentre se Odry provasse a cercare qualcuno non
sarebbe tanto debole e vulnerabile; lei è molto più importante di
quanto immaginiamo. La sua ricerca potrebbe essere più veloce e
invece sembra che io sia l’unico a volerla trovare. Se mi aiutaste,
potremmo pattugliare la zona in modo più efficiente e avere più
speranze di trovarla».
«Ti ricordo che Ania ha fatto il possibile».
«Infatti hanno collaborato per trovare Cassiel».
«Sì, hanno collaborato».
«Quella bambina da sola si farebbe pestare da entità invisibili».
Michael sospirò, distolse lo sguardo e ricacciò indietro i capelli
che, in quel momento, gli davano un gran fastidio. «Dovresti essere
riconoscente ad Ania, e non è una bambina».
«Non ho detto che non le sono riconoscente».
Ci fu un momento di silenzio.
«Sembra sempre di più che importi solo a me. Odry è ciò di cui
abbiamo bisogno per andare avanti» continuò poi Gabriel.
«Odry è ciò di cui tu hai bisogno per andare avanti. Perché non lo
ammetti?»
Di nuovo silenzio.
Michael scosse il capo con dissenso. «Io non ti capisco, davvero.
Non mi riferisco alla tua dedizione nel cercarla, ma ai sentimenti che
nutri nei suoi confronti».
Gabriel mandò giù l’ultimo boccone dopo averlo masticato poco e
con nervosismo. Si alzò, aprì il frigo, prese e stappò una bottiglia di
birra. L’osservazione dell’amico era dura da digerire.
«Quando si parla di lei diventi strano, sei diventato egoista da
quando è stata presa. Sembri ossessionato».
Michael aveva ragione? Gabriel non poteva vedersi da fuori, ma
conosceva la persona con cui stava parlando e dovette ammettere
che non avrebbe mai detto qualcosa che non pensava.
«Ti sei innamorato di lei?»
«Non esageriamo».
«Allora infatuato. Pesantemente. Guarda che con me puoi parlare,
ho smesso di pensare di poterti fare la paternale».
Gabriel sbuffò e si sedette. Forse, per una volta, si sarebbe potuto
confidare. «Non lo so, l’ho trovata diversa da quando ci siamo rivisti.
Fredda, distaccata. Mi evitava».
«Quindi hai notato un cambiamento. Prima che tutti ci
separassimo, com’era?»
«Non così». Gabriel notò perplessità nello sguardo dell’amico e
aggiunse: «Intendo dire che non era così strana. Eravamo più vicini,
parlavamo molto, quasi nottate intere. Forse è stata la distanza».
«E se lei avesse reagito in quel modo di riflesso? È probabile che
abbia visto in te lo stesso atteggiamento. E non mi sorprenderebbe,
devo essere sincero. Sei sempre scorbutico, silenzioso. Anche
quando fai una gentilezza sembri un orso con le catene». Michael
scosse il capo. «Ti dirò cos’ho visto io: ho visto due adulti impacciati.
Tu che non sapevi mai che cosa dire e come guardarla, lei lo stesso.
La sua non era freddezza, solo non sapeva come prenderti e come
reagire alle tue stranezze. Per te è stato uguale, se non peggio».
«Abbiamo fatto sesso, Michael».
«Ah». Il biondo batté più volte le palpebre. «Quando? No, aspetta,
riformulo la domanda: quante volte?»
«Che importanza ha? L’abbiamo fatto e siamo stati bene. Poi,
altrettante volte, si ripiombava nell’imbarazzo o in occhiatine o
battutine che non portavano a nulla».
«Con Agatha non era così, vero? Con Agatha era diverso perché
faceva parte del nostro mondo, o almeno lo pensavamo. Tu hai
ragionato con serietà sul mio discorso, sui miei avvertimenti e questo
ti ha bloccato. Dovrei considerarmi la causa delle tue insicurezze».
Michael decifrò lo sguardo di Gabriel e abbassò il capo annuendo.
«Sì, io ti ho messo in guardia e credo di aver fatto bene. Guarda
come si stanno evolvendo le cose, sta peggiorando tutto. Tu stai
andando fuori di testa per una con cui hai solo scopato, e non una
qualsiasi: una demonessa! Una che da un momento all’altro
potrebbe finire in una situazione peggiore per via di Lucifer, di quel
pazzo di Zachary, per via di se stessa…»
«Potrebbe capitare a chiunque, Michael». Gabriel si corrucciò.
«Lei invece è forte, intelligente, indipendente, astuta e ha più
possibilità di sopravvivere di una semplice donna angelo. A te cosa
preoccupa, invece? Che io possa innamorarmi di una persona dal
guaio facile o di una demonessa in quanto tale?»
«Io temo che tu possa infilarti in una storia d’amore pericolosa,
tutto qui. E non fare il buonista, non ti rompo i coglioni solo perché lei
è una demonessa; perché potreste soffrire come cani nel rendervi
conto della vostra incompatibilità e se doveste riuscire a stare
insieme, sareste costretti a nascondervi come ladri. Devo
continuare?»
«Non so nemmeno io ciò che provo». Gabriel sbuffò di nuovo,
poggiandosi allo schienale della sedia. «Ci conosciamo da poco e la
nostra relazione si è basata su scopate, pericoli scampati, salvataggi
reciproci, scornate…»
«Ma sono state scopate significative, me l’hai detto prima. Non
credo che il tuo “L’abbiamo fatto e stavamo bene sempre” fosse
riferito al semplice appagamento sessuale, no?»
L’altro confermò, lasciando che il capo pesante gli crollasse in
avanti. «Se la trovassi, potrei capire…»
Michael annuì. «Sì, concordo. Ma non farne una malattia, ok?
Stiamo vivendo una brutta situazione e, se non potessi più vederla,
cosa che spero non accada, non vorrei finissi per impazzire. Sembra
assurdo, ma so cosa significhi mangiarsi le mani per non aver
saputo salvare qualcuno. Comunque, Odry saprebbe cavarsela
anche senza gambe o braccia, e lei e Mathael sono le donne più forti
che abbia mai incontrato. Sta bene, non temere».
Gabriel annuì come a ringraziarlo per l’incoraggiamento. Non volle
guardarlo in faccia, si sarebbe specchiato nei suoi occhi e sarebbe
stato come ammettere di soffrire.
Stava male, almeno questo poteva concederlo a se stesso, ma
per cosa di preciso?
Per l’assenza di lei? Ne sentiva così tanto il bisogno?
Per la totale incapacità di tenerla al sicuro, di trovarla e salvarla?
Ciò che provava per lei andava oltre qualsiasi sentimento provato
per Agatha, eppure la detestava. Eppure, la voleva lì con sé.
E se gli stessi sentimenti fossero stati come una cometa?
In tal caso sarebbe stato meglio, per lui, perché si sarebbe dato
pace.

VI
03 gennaio 2026 d.C.
Quartier Generale - Capitale, Inferno

“Che aspetto… disgustoso” Lucifer fissava con stizza il proprio


riflesso, mentre chiudeva il primo bottone sul colletto della camicia.
Infilò la giacca, mise la cravatta e chiuse la cintura dei pantaloni.
Vestito interamente di nero, si diede un’ultima occhiata. Il viso, sul
quale spiccavano profonde occhiaie, era più pallido del solito; con
grande fatica riusciva a restare in piedi per lungo tempo.
«È arrivato il momento» disse voltandosi verso Eva che lo
guardava apprensiva.
La donna, seduta sul divano, godendo del tepore del fuoco vivace
nel caminetto, scosse il capo. «Devi proprio? È necessario che tu lo
faccia?»
«Non ho altra scelta. Per breve tempo ho percepito la presenza
del Graal qui, all’Inferno, poi la percezione è sparita. Sono certo che
ora si trova sulla Terra, non può essere altrove vista la natura di colui
che lo possiede». Si sistemò i capelli dietro le orecchie e, infastidito,
distolse con riluttanza lo sguardo dallo specchio. “Detesto sentirmi
così” pensò.
«La Terra è piccola e ovunque verrà portato tu lo troverai. Intanto
puoi riposare e attendere che sistemino il collegamento tra i portali.
Voglio dire… non puoi attraversare il primordiale in quelle
condizioni».
«Posso eccome!» tuonò lui. «Non osare dubitare di me, ricorda chi
sono!» e senza darle il tempo di ribattere, si avviò verso l’uscita.
Durante il breve tragitto sudò per la fatica, rimuginando sulle
perplessità di Eva: non aveva tutti i torti. Il dubbio si insinuò in lui.
“Come farò ad attraversare il portale così conciato?” e continuò ad
arrovellarsi. Chiuse la pesante doppia porta e si poggiò a essa,
prendendo un lungo respiro.
Osservò con orrore il portale: il riflesso scarlatto della piscina
lungo le pareti rocciose era debole, si era addensato ancora
divenendo melmoso e in alcuni punti presentava delle macchie
scure, come di muffa. Non vi era più nulla di bello, lì dentro.
Riluttante quanto furioso, Lucifer si immerse e ciò che sentì fluirgli
fin dentro le vene gli mozzò il fiato. Strinse gli occhi e a malapena
riuscì a trattenere un grido di dolore. Sentì la pelle in fiamme così
come tutti gli organi: l’Etere era un nemico anche per uno come lui.
Il portale faticava a smaterializzarlo e più il tempo passava, più il
Sovrano soffriva.
Le grida si infransero contro la pietra.
La pena del corpo parve interminabile, ma anche la mente pativa
un dolore senza eguali.
Lui, il Sovrano dell’Inferno, l’Imperatore, era costretto a prendere
vie traverse poiché messo alle strette da un figlio che mai avrebbe
voluto, un ragazzino.
Infine accadde. Riuscì a smaterializzarsi e si ritrovò carponi in un
vicolo.
Con lo sguardo nel vuoto, sudato da capo a piedi, la bocca
spalancata così come gli occhi, il fiato corto, il Signore Oscuro capì
di avercela fatta. Traballante si alzò, puntando le mani contro un
muro. “Ho temuto di morire” si disse con raccapriccio, muovendo i
primi passi incerti.
Una folata di vento freddo gli sferzò il volto e lui chiuse gli occhi
godendone appieno. L’aria del piano terrestre era diversa e, anche
se non volle ammetterlo, gli giovava.
Diede un’occhiata in giro: era mattina, il quartiere nel quale si
trovava era caotico, le luminarie addobbavano le strade gremite di
persone frenetiche, chi in ritardo per l’ufficio, chi di corsa per un
appuntamento al bar dopo un turno di lavoro o chi, affaccendato,
scrutava le vetrine alla ricerca dei regali di Natale perfetti.
Cercò di mostrarsi al meglio. Sistemò i capelli e il colletto della
giacca e, imponendosi un’andatura sicura, avanzò, ignorando gli
sguardi dei più.
“Devo essere penoso” continuò a dirsi, tentando di non sbirciare il
suo riflesso nelle vetrine. “Dovrei essere vicino, questa tortura finirà
presto” pensò concentrandosi sulle sue sensazioni.
Lento e sempre più affaticato, Lucifer riuscì a raggiungere la villa
di lady Anastasia Ide Fletcher. Si mosse oltre il cancelletto e una
volta messo piede nel vialetto alberato chiuse gli occhi e respirò a
fondo. Raddrizzò la schiena e passo dopo passo fu dinnanzi alla
porta d’ingresso. Poggiò la mano sull’infisso, era esausto e sul punto
di svenire.
Bussò.
Il silenzio venne spezzato da alcuni passi in avvicinamento dietro
la porta, a seguire lo sfregare dello spioncino che veniva aperto. Poi
di nuovo silenzio.
Era stato riconosciuto da qualcuno.
La porta si aprì con cautela e Lucifer si trovò di fronte Barakiel,
che non poté trattenere uno sguardo tra la sorpresa e l’orrore.
Si scrutarono senza proferire parola, il primo poggiato con
entrambe le mani allo stipite esterno dell’infisso; l’altro sulla soglia,
pietrificato.
«Posso entrare?» domandò il Signore Oscuro rompendo la
tensione.
Barakiel indietreggiò permettendogli di passare. Lo fissava pallido,
bianco quasi quanto i suoi capelli, mentre quello prendeva posto sul
divano. Chiuse la porta ma rimase lì, senza muovere un muscolo.
Lucifer si passò le mani tremanti sul viso. «Vorrei bere» disse e fu
lì che il Cherubino scattò, andando verso la cucina a grandi passi
per recuperare un bicchiere d’acqua e tornare indietro. Glielo porse
cercando di controllare il fremito. «Cosa ci fai qui?» riuscì a
chiedere.
«Sono venuto per discutere di alcune… faccende». Riservò a
Barakiel uno sguardo in grado di farlo rabbrividire. «Voglio parlare
con tutti. Chiamali. Ora».
«Ma tu stai male, si vede, che hai…»
«Fa’ come ti dico» sibilò il Sovrano.
Barakiel trattenne il respiro e fece dietrofront per raggiungere gli
altri, ma nel corridoio incrociò Satan, che si stava già avvicinando
per la curiosità.
«Chi era alla porta?» domandò infatti fermando il Cherubino, che
con espressione persa e indecifrabile rispose: «È qui».
«In che senso? Chi, è qui?»
«Lui…»
Satan strinse la presa sulle spalle del Cherubino, rigido e col
cuore in gola spostò lo sguardo verso il salotto. «Perché… perché lo
hai fatto entrare?» bisbigliò sconvolto.
«Sta male, è debole… e vuole parlare con tutti noi».
Satan lo trascinò lontano per poi scuoterlo con forza. «Ma dico, sei
uscito di senno? Ci vuoi far ammazzare tutti?» soffocò la voce
quanto possibile, ma anche Michael in avvicinamento notò la sua
collera nei confronti di Barakiel.
«Per favore» supplicò il Cherubino «diamogli la possibilità di
parlare!»
«Che succede?» domandò Michael.
«Barakiel ha fatto entrare in casa Lucifer». Satan, furente, si voltò
a guardare l’amico. «Non so cosa gli abbia detto il cervello».
Michael, dopo quelle parole, non volle sentire nient’altro.
“Non può essere” pensò, e come risvegliatosi schiaffeggiò il
Cherubino, sorprendendo anche il demone che gli stava accanto.
Poi li superò per raggiungere il salotto ed evocare la spada.
«Sparisci dalla mia vista».
Lucifer non si mosse di un millimetro. Staccò le labbra dal
bicchiere e si voltò piano verso di lui, un mezzo sorriso malizioso
comparve sul volto esausto. «Dopo tutto questo tempo è così che mi
accogli?»
«Fottiti, cosa vuoi da noi?»
Barakiel raggiunse l’Arcangelo cercando di calmarlo, ma la voce
rabbiosa del biondo aveva attirato l’attenzione degli altri presenti in
casa che accorsero a vedere.
E una volta che tutti videro, ammutolirono all’istante.
Vicky si portò le mani alla bocca. Ania rimase sulle scale
accigliata, mentre il resto degli Arcangeli e Satan erano pronti a ogni
evenienza.
Lucifer posò il bicchiere sul tavolino al centro del tappeto e con
simulata lentezza si alzò in piedi. «Sono venuto in pace, mettiamola
così» mise una mano sulla spalla di Barakiel, ignorando Michael.
«Abbassate le armi e sedetevi. Tutti» ordinò.
Nessuno riuscì a tirarsi indietro, chi più convinto e chi meno.
Tranne Michael, che rimase a un passo da lui a fissarlo torvo.
L’Imperatore si accomodò con Barakiel che cercava di assisterlo e
questo non passò inosservato. Poi prese un respiro profondo e si
rivolse a Satan: «Tu e la tua amichetta mi avete giocato un brutto
scherzo contaminando il mio portale con quella dose di Etere. È
stata una mossa astuta, subdola e mi congratulo con te, Satan, dato
che lei non è qui. Immagino sia stata sua l’idea» e con un accenno di
disprezzo Lucifer ghignò.
Satan mandò giù il groppo alla gola senza farsi intimidire, lo
guardò allo stesso modo e rispose: «Odry ti manderebbe a fare in
culo e così faccio io».
«Vacci piano, ragazzo, non dimenticare mai chi hai davanti» lo
ammonì Lucifer. «A ogni modo sono qui perché abbiamo un nemico
comune e vorrei discutere di questo con voi».
«Come no!» esclamò Michael. «Perché non dici cosa vuoi davvero
e ci risparmi la vista della tua faccia di merda?»
«Pensi che io mi sia divertito ad attraversare un portale
contaminato dall’Etere? Pensi che mi faccia piacere stare qui e
abbassarmi al punto da chiedervi un’alleanza?» Lucifer scattò in
piedi furioso, ma un capogiro lo fece barcollare all’indietro.
Ossequioso, Barakiel lo sorresse.
Satan era di marmo.
«Abbiamo un nemico comune. Io voglio il Graal, ma ciò che mi
preme di più è annientare colui che me lo ha sottratto. Voi volete lo
stesso. Unendo le forze potremmo arrivare a un accordo» continuò a
fatica guardando Michael con astio.
E l’Arcangelo scoppiò in una fragorosa risata. «Puttanate!»
«Un accordo?» Gabriel avanzò seguito dallo sguardo sconvolto di
Uriel. «Pensi davvero che ci berremo tutto ciò che dici? Il Graal non
è roba tua».
Lucifer lo raggiunse con quel sorriso sprezzante sul viso; lo
superava in altezza e lo squadrò dalla testa ai piedi. Gli occhi rossi
brillavano sinistri. «Tu vuoi la ragazza, no? Stringiamo questo
accordo e ti assicuro che la riavrai sana e salva».
Uriel affiancò Cooper. «Lui vuole la ragazza, io e gli altri il Graal.
Come la mettiamo?»
«Sediamoci e discutiamone» ripeté tra i denti Lucifer che proprio
non riusciva a tollerare di dover ripetere le cose due volte.
Satan parlò: «Assecondiamo il volere di Sua Maestà, sedetevi».
Chi si era alzato prese posto di nuovo. Barakiel rabboccò il
bicchiere di Lucifer e glielo portò, indifferente agli sguardi attoniti dei
coinquilini.
Michael venne costretto a sedersi da Uriel, ma decise di tenere in
pugno la sua arma. «Parla» disse.
«Quella spada non è necessaria, fratello, richiamala o non dirò
un’altra parola».
Barakiel abbassò lo sguardo, dispiaciuto, ma gli altri nella stanza
si congelarono al suono di quella parola.
Fratello?
Buona parte di loro sperò fosse detto in senso amichevole, ma
l’espressione contrita di Michael diede una risposta differente.
«Come osi…» sibilò questo.
«Come oso? Come oso chiamarti fratello? Puoi negarlo a te
stesso, ma nulla cambierà il nostro legame di sangue» sibilò Lucifer
e tutti gli occhi puntarono Michael, che rispose velenoso: «Tu non
sei più niente per me. Sei morto quel giorno e sei morto ogni volta
che hai fatto del male nel corso di questi millenni».
«Sono io ad aver fatto del male? Allora perché Chris spadroneggia
in Paradiso? Lui ha fatto e sta facendo molto più male di quanto ne
abbia fatto io».
«Come lo sai?» s’intromise Uriel, serio come non mai.
«So più cose di quanto immaginiate» e lo sguardo furbo si
concentrò per poco su Barakiel, accomodato sul tappeto vicino a lui.
Michael sbottò: «Parla e poi liberaci della tua presenza!»
«Fino a quando i portali non saranno attivi, io non potrò muovermi
da qui. Di morire adesso non mi sembra il caso, sia per voi che per
me non ci sarebbe divertimento» si sistemò la giacca e dopo un
breve silenzio riprese: «Io posso scoprire dove si trova il gemello di
Odry Crane, percepisco il Graal dentro quel ladro e con un po’ di
riposo e concentrazione potrei condurvi da lui».
«E poi?» domandò Uriel.
«E poi, una volta ucciso, il primo che arriva al Graal vince»
scherzò il Sovrano, ma nessuno rise.
«A cosa ti serve il Graal?» avanzò Mathael risentita. «A cosa ti
sono servite tutte le altre reliquie?»
«Questo non posso dirvelo, mia cara, rovinerebbe la sorpresa».
Michael si alzò di scatto, indicando la porta con la spada tesa.
«Vai fuori di qui. Questo non è un gioco e il tuo stato di salute non ti
mette nella posizione di poterti prendere gioco di noi».
«Non mi pare che voi abbiate così tanta scelta. Io sono l’unico in
grado di rintracciare il Graal e a voi questo fa più che comodo. Ma
dato che sei così sicuro di te, dimmi, fratello, che cosa avete
scoperto in questo lasso di tempo? Sapete dove si trova la ragazza?
Sapete dove si trova lui? Non mi pare».
«No dimmelo tu, che ti riempi tanto la bocca: pensi di ottenere il
nostro appoggio così? Facendoci prendere per il culo da te che
sembri più morto che vivo?»
«Quindi alla fine dei giochi il Graal sarà la tua ricompensa»
considerò Uriel.
«No, non sarà la mia ricompensa. Una volta che la reliquia sarà
separata da quell’essere, ognuno di voi potrà provare a prenderla
prima di me. Uno scontro ad armi pari, diciamo così».
«Ci sto» disse Gabriel.
«E tu che cazzo dici?» Michael sbottò con l’amico, rafforzato dal
borbottio contrariato di Satan.
Gabriel intendeva stare al gioco dell’Imperatore, Uriel sembrava
essere d’accordo. Quanto tempo sarebbe passato prima che tutti gli
Arcangeli decidessero di passare dalla parte di Lucifer?
Si voltò proprio verso di lui e gli andò incontro con brutte
intenzioni, ma Barakiel attivò tra loro una barriera rossa.
«Credo che per oggi basti così» considerò il Sovrano, come se
nulla fosse accaduto. «Io andrei volentieri a riposare, se gentilmente
lady Anastasia mi indicasse la strada» intercettò la strega che con
un cenno rigido del capo lo invitò a seguirla. «Da qui faccio da solo,
grazie» e dopo avergli messo una mano sulla spalla salì le scale
sparendo ai piani superiori.
Quindi Michael sfogò la sua rabbia su Barakiel, attaccandolo al
muro e sferrandogli un pugno sul volto. «Che cazzo ti dice il
cervello? All’improvviso sei diventato la sua puttana?»
Quello non rispose, non ebbe nemmeno il coraggio di guardare
l’Arcangelo negli occhi.
Uriel gli si avvicinò. «Barakiel vuoi spiegarci perché gli sei stato
dietro come un cagnolino?»
«Mi dispiace» fu la risposta che ricevette.
«Ma tu da che parte stai?!» inveì ora Satan e Vicky dietro di lui
rimase in silenzio insieme a tutti gli altri. La succube, soprattutto, era
stata schiacciata dalla presenza di Lucifer che, solo con uno
sguardo, era riuscito a incutere timore e paura, come se il tempo
della rivolta non fosse mai esistito.
«Cosa gli hai detto?» l’inflessione della voce di Raphael portò
l’attenzione di tutti su lui e Barakiel. E qualsiasi cosa intendesse
l’Arcangelo, aveva messo ancor più in difficoltà il Cherubino.
«Che significa?» Michael era confuso.
«Parla!» ringhiò Satan scuotendo Barakiel contro il muro.
«Cosa gli hai detto?» insistette Raphael.
Michael sgranò gli occhi, intuendo qualcosa e indietreggiò per
l’incredulità. «Spero che stia scherzando. Hai detto qualcosa a
Lucifer, Barakiel? Gli hai passato informazioni sul nostro conto?»
Uriel scosse il capo, disgustato. «Certo, altrimenti come farebbe
Lucifer a sapere di Chris?»
Il Cherubino sollevò gli occhi sul turco, uno sguardo colpevole.
Satan rimase folgorato e anche lui si fece indietro allontanandosi
quanto possibile dalla ressa che si era creata. Un pensiero maligno
gli balenò nella mente. «Come faceva Lucifer a sapere dove erano
nascoste tutte le reliquie? Era davvero frutto della sua percezione
superiore o, anche in quel caso, gliel’ha detto lui?» Guardò gli
Arcangeli tetro.
Un ringhio furioso di Michael precedette un suo pugno così forte
sul volto del Cherubino da fargli sbattere la testa contro il muro e
creparne la superficie. «Pezzo di merda! Maledetto bastardo! Ci
siamo fatti in quattro per proteggere le reliquie e sono morte delle
persone! È stato tutto inutile perché tu gli dicevi tutto!» L’Arcangelo
gli diede un calcio nel fianco e venne bloccato da Gabriel prima che
potesse sferrare altri colpi.
Barakiel si allontanò, ma venne raggiunto da Mathael che lo
schiaffeggiò, furiosa. «Sei sempre stato dalla sua parte, traditore!»
«Non è dandogli addosso che sistemerete le cose» s’intromise
Ania interponendosi tra Mathael e Barakiel. «È chiaro che ha
sentimenti contrastanti nei vostri confronti e in quelli di Lucifer.
Dovreste dargli il tempo e la possibilità di esprimersi» guardò
Michael severa.
«Ti sei bevuta il cervello? Me ne fotto dei sentimenti contrastanti.
Ci ha traditi!» le urlò contro lui.
«Sì, lo ha fatto, ma picchiarlo non cambierà la situazione».
Gabriel spalleggiò Ania. «Siete così incazzati che non vi siete resi
conto che abbiamo la possibilità di recuperare Odry».
«E il Graal» precisò Uriel «ma non abbiamo la certezza che dica la
verità. Sappiamo molto bene che tipo è Lucifer».
«A lui piace giocare in modo subdolo. Ci darà il tempo di
accaparrarci il Graal, penso che su questo dica la verità» continuò
Satan, indeciso sul da farsi.
«Durante questo gioco tenterà di ucciderci» ragionò Uriel.
«Se non lo farà stanotte per colpa di questo stronzo» precisò
Michael.
Gabriel lo allontanò da Barakiel e Ania, per sicurezza. «Ma non
hai visto com’è conciato? Ha attraversato il portale pieno di Etere e
questo fa parte del piano di Odry. Non stava mentendo, quindi non ci
farà del male».
«Non credo ne abbia la forza» confermò Ania, ma dallo sguardo
che le riservò Satan, intuì che il demone non era affatto tranquillo.
«In tutto questo» riprese Gabriel con una nota di ironia «Michael
va contro Lucifer, che ci dà la possibilità di trovare Odry, e contro
Barakiel che ci ha traditi, ma anche lui pare stia nascondendo
qualcosa. Dico bene amico?»
Mathael si voltò di scatto verso il biondo. «Devi dirci qualcosa?»
«Ormai non ha più senso che tu lo tenga nascosto, qualsiasi cosa
sia» precisò Satan.
«È da quando hai visto Lucifer che ti stai comportando come un
pazzo» Mathael gli puntò un dito contro, costringendolo ad
allontanarsi da Satan. «Siete davvero fratelli?»
«E se anche fosse?» Michael serrò la mascella e distolse lo
sguardo. «È semplice odio nei confronti di un maledetto come lui».
«Siete fratelli» confermò Barakiel. «E la tua rabbia non è causata
solo dal suo comportamento e dalla crudeltà che si è sviluppata in
lui, ma anche dai tuoi sensi di colpa. Sai benissimo che non c’era
altro modo, devi darti pace».
Satan tacque, così come molti di loro.
«Immagino che non sia facile per te, ma devi mantenere la calma»
disse Ania.
«Andate tutti a fare in culo». Michael scansò Satan con una
spallata e tornò in soffitta.

Ania lo raggiunse dopo cena.


L’Arcangelo non era più uscito dalla stanza, non si era fatto sentire
nemmeno quando era andato in bagno e a cambiare cerotti e
fasciature.
Lei entrò con cautela, bussando prima di aprire la porta cigolante.
«Ti ho portato da mangiare» disse poggiando il vassoio sul
comodino.
Michael, disteso sul letto a pancia in giù, borbottò qualcosa
accettando il pasto; si mise a sedere, la ringraziò senza nemmeno
guardarla in volto e iniziò a mangiare con rabbia.
«Puoi smetterla?» Ania non ricevette risposta. Rimase a
osservarlo per diversi minuti quando si diresse verso lo sgabello.
Iniziò a sistemare i pennelli e i colori. «Mi aspettavo un
atteggiamento più maturo da parte tua».
«Vai a fare in culo anche tu, Ania».
«Come prego?»
«Hai sentito molto bene. Poi detto da te che hai difeso Barakiel e
Lucifer…»
«Barakiel ha agito seguendo i suoi sentimenti per Lucifer, Lucifer
invece sta agendo per se stesso. Questo, però, ci fa comodo, molto
più di quanto immagini. Solo che non vuoi rendertene conto».
«Perciò difenderesti chiunque agisse in modo sbagliato pur di
assecondare i suoi sentimenti nei confronti di qualcuno? Che
discorsi sono? Tu sei stata investita dal suo potere o fascino o quello
che è, e quindi sei tu che non vuoi vedere quanto sia grave la
situazione: Barakiel può anche succhiargli l’uccello per quanto mi
riguarda, ma ci ha traditi e Lucifer viene qui a sfotterci e a chiederci
aiuto».
«Quindi cosa hai intenzione di fare? Cacciarlo e perdere
l’opportunità di sfruttare le capacità di cui dispone per trovare il Graal
e Odry?»
«Ah no, non preoccuparti! Tanto tu, Gabriel e Barakiel mi fareste il
culo se solo ci provassi». Michael, ormai disgustato, poggiò il piatto
ancora a metà.
«Riesci per un secondo a smettere di starnazzare e a comportarti
in questo modo?»
«Se ti dà fastidio il mio starnazzare posso anche andare a dormire
sul divano! Perché la tua comprensione si è limitata a quella frase
del cazzo detta prima in soggiorno, poi sei venuta qui a giudicare e a
farmi la morale. Sei meno empatica da quando hai iniziato a sbavare
dietro Lucifer».
Il volto di Ania si contrasse, ferita dalle parole che le aveva
vomitato addosso, per poi scomparire dandogli le spalle. «Vi ho
accolti senza battere ciglio e non vi ho mai chiesto nulla. E c’è stata
solo una persona per cui ho provato qualcosa, ma mi ha usata e ha
tradito tutti voi, compresa sua sorella. Come se non bastasse ha
lasciato una bambina in fin di vita. Ora, vorrai scusarmi se prima di
tutto voglio che venga trovata e che sia fatta giustizia per le atrocità
che ha commesso. Tu vai pure a dormire sul divano, magari
imparerai che non sempre si può avere ciò che si desidera, ogni
tanto occorre scendere a compromessi e allearsi a Lucifer è uno di
questi».
«Sì, brava, vedo che sai rinfacciare molto bene i favori fatti a chi
non aveva altro posto in cui stare». Michael si alzò, afferrò il cuscino
con stizza e raggiunse l’uscita. «Troverò un altro posto dove stare,
così potrai desiderare la tua giustizia ancor più ardentemente una
volta recuperato il pieno possesso della tua stanza». Uscì e si
richiuse la porta alle spalle con una certa forza e scese al pian
terreno, salutando in modo svogliato Karen e Raziel che, appena
tornati dall’ospedale, stavano ascoltando sconvolti Satan che
raccontava loro ciò che era accaduto poche ore prima. Si coricò e
chiuse gli occhi. La pelle del divano era gelata, ma fece finta di
dormire tutto il tempo, anche quando il rosso, l’umana e l’altro
Arcangelo, spostandosi più lontano, iniziarono a discutere della
parentela sua e di Lucifer. Anche Raziel confermò di non saperne
nulla e il demone non si aspettò niente di diverso.
«Pensavo che almeno Gabriel e Raphael lo sapessero» disse
Satan. «Da quello che ho capito sono Arcangeli perpetui, quindi
dovevano esserci al tempo in cui sono accaduti i fatti».
Raziel fece spallucce. «C’erano, ma con differenti corpi. Al cambio
di corpo una parte dei ricordi viene perduta. Non mi sorprende non
ricordino nulla. Barakiel invece c’è sempre stato».
Satan annuì mesto. «Bene, fate attenzione quando salite al
secondo piano, Lucifer sta nella prima camera a sinistra».

VII

Quanto tempo era passato da quando si era coricato sul divano?


Un’ora? Due?
Michael non riusciva a chiudere occhio.
Pensava e ripensava alla discussione avuta ore prima con Ania, al
volto di Lucifer e alle sue risposte fastidiose. “Vorrei sapere perché
cazzo ha detto a tutti che siamo fratelli. Lui e le sue manie di
protagonismo”.
Si mise a sedere sfregandosi le mani sul volto per scacciare la
voglia di prendere a pugni qualcuno e si lasciò andare sullo
schienale. Lo sguardo percorse le scale fino in cima. “Deve
andarsene”.
Si alzò e a grandi passi salì al piano superiore, non perse tempo a
bussare. «Te ne devi andare» irruppe.
Lucifer sedeva di fronte alla finestra. «Era da tanto tempo che non
rimanevo a osservare un cielo limpido. Chiudi la porta, c’è gente che
dorme».
«Sii serio e dimmi la verità: mi prendi per il culo?»
«Non ti prendo per il culo». Lucifer si voltò e Michael capì,
guardandolo in quegli occhi così diversi da quelli che aveva
conosciuto una volta, che stava parlando sul serio. «Hai paura del
diavolo, Mickey? Hai davvero paura di me?»
«Non chiamarmi così». L’Arcangelo chiuse la porta e avanzò.
«Ora dimmi tutta la verità, dimmi cosa ci fai qui e quali sono davvero
le tue intenzioni. Tanto puoi stare tranquillo, nessuno mi crederà se
mai dovessi andare a spifferarlo in giro: domani li avrai già tutti
incantati».
Lucifer sospirò, si sentiva davvero esausto. Si guardò le mani
tremanti poggiate sulle ginocchia. «Ciò che sono venuto a fare l’ho
già detto a te e ai tuoi amici» si alzò con fatica e si diresse verso il
letto, batté una mano sul materasso come segno di invito. «Siedi,
non ti mordo mica».
Michael scosse il capo rifiutando. «E poi?» chiese. «Intendi
davvero giocare come un bambino annoiato per accaparrarti il
Graal?»
«Io ho solo detto che, una volta separato il ladro dal Graal, il più
veloce lo potrà prendere. Questo non implica che non combatterò e
se sarò costretto ad ammazzarvi tutti non esiterò un solo istante» gli
sorrise.
«Ti meriti tutto quello che hai subìto».
«Sai benissimo che non è così. Non meritavo nulla di quello che
mi è accaduto, così come non lo meritavi tu».
«Allora mettiamola così: sono felice che tu sia caduto in quel buco,
visto lo scarto che sei diventato».
Lucifer tacque annuendo con un sorrisetto canzonatorio stampato
sul volto, che Michael aveva sempre trovato irritante. «Mi sono
incattivito, puoi biasimarmi?»
«Non posso, no. Ma tu poi ci hai preso gusto e te ne sei
approfittato. Come se non bastasse sei venuto qui con aria
strafottente e morente: la tua credibilità sta crollando, proprio come
accadrà a tutto ciò che hai costruito. E sarà solo per colpa tua,
anche questa volta».
«È probabile, ma vuoi davvero convincere te stesso che la prima
volta accadde per colpa mia?» Lucifer alzò le sopracciglia. «Aver
amato Eva, aver chiesto di essere trattato da pari è paragonabile
all’aver distrutto ogni cosa?»
«Ma certo che non è stata colpa tua» sbuffò Michael. «Questo lo
sanno anche i muri».
«E allora perché sostieni che “anche questa volta la colpa sarà
mia?” So benissimo di essere stato un pessimo Sovrano, sono stato
accecato dall’odio e dalla brama di potere, che ora fanno parte di
me. Non riesco più ad amare niente e nessuno, anche il sentimento
che provavo per Eva è svanito quasi del tutto, come quando ti svegli
la mattina e cerchi di ricordare quel bellissimo sogno che avevi fatto.
Tutto è grigio e sfumato, eppure l’amore che provo per te, fratello,
quello… non sparirà mai».
«Fanculo alle stronzate che dici. È sempre stata colpa tua e delle
tue manie di grandezza, del tuo egocentrismo e del tuo bisogno di
mettere in ombra chiunque pur di stare in luce: perché tu di luce non
ne hai mai avuta, solo nel nome che porti. Sei egoista, sei
vergognoso. Dici di amarmi ma hai fatto di tutto per gettarmi nella
merda per quattro reliquie del cazzo che hai preso solo per
capriccio».
«Tu sei un Morningstar! Brilli della stessa mia luce e come tale ti
devi elevare! Non osare mai scordare le nostre illustri origini».
Lucifer scattò in piedi e scosse Michael con forza soffocando la voce
rabbiosa. «Presto scoprirai a cosa sarà servita la mia ricerca delle
reliquie e tutto avrà senso» lo fissò intensamente con i suoi occhi
color del sangue «e arriverà il momento in cui ci scontreremo
ancora: quella sarà l’ultima volta, nessuno dei tuoi amici o Barakiel,
nemmeno Dio è in grado di affrontarmi. Ma tu, tu, fratello mio, sei e
sarai sempre l’unico che vorrò incontrare alla fine del mondo».
Michael fu quasi terrorizzato da quelle parole. Reagì d’istinto
colpendo Lucifer sul volto con un pugno e quello indietreggiò con
una mano sulla bocca, si guardò il palmo insanguinato e sorrise.
«Sei sempre stato così irruento, ora però i tempi sono cambiati e tu
dovrai fare una scelta. Uccidermi o essere ucciso». I suoi occhi rossi
brillarono sinistri nella penombra che sembrò avvolgerlo, ma sorrise
mesto e forse, per un secondo, anche con una certa malinconia. «Mi
sei mancato, ragazzino».
Michael gli riservò uno sguardo carico di rancore e uscì dalla
stanza chiudendosi con forza la porta alle spalle.
Tornò sul divano e vi si rannicchiò in posizione fetale col volto
verso lo schienale.
Rabbrividì, ma il freddo che provava veniva da dentro.
Si sentiva senza via di fuga. Gli sembrava di poterla toccare
quell’oscurità fatta di sensi di colpa e di ricordi che lo pugnalavano,
fatta di viscido risentimento.
Ma ciò che più gli pesava era la solitudine che aveva sempre
negato di provare.
Il grande Arcangelo Michael, colui che aveva spedito Lucifer nel
fondale più nero e sudicio, colui che aveva trionfato sul fratello
sbagliato, in quel momento, quel fratello avrebbe voluto abbracciarlo
e chiedergli scusa cento, mille volte.
E si riscoprì impotente, ancora e ancora.
Riscoprì il sapore delle lacrime che aveva versato millenni prima
quando aveva visto suo fratello maggiore cadere per sempre.
Portò una mano alla bocca e quasi si strozzò per soffocare i
violenti singhiozzi che cercavano una via d’uscita. Le palpebre si
chiusero e lo fecero tornare ai bei ricordi ai quali si aggrappava fin
da allora per non cedere alla disperazione. Ma era sempre più
difficile.
Portò il cuscino contro il volto, gridò con tutto il fiato che aveva in
corpo. Strinse le ginocchia al petto lasciandosi andare al dolore.
Solo all’alba si addormentò.
“Vieni a cercarmi ogni dannata volta”

La porta del seminterrato si aprì e un fascio di luce illuminò il


pavimento dalle mattonelle opache e sbeccate. Venne accesa la
luce e la lampadina emise uno strano ronzio per poi iniziare a
lampeggiare più del solito.
«Ciao sorellina». Zachary entrò con uno zaino verde militare
consunto e piuttosto pieno.
«Chissà perché ho l’impressione che tu mi stia per chiedere di fare
qualcosa» rispose lei, accovacciata su letto.
Zachary rise di gusto annuendo, chiuse la porta con tre mandate e
rimise la chiave in tasca. Poi le slegò il collo. «Apri la borsa e dimmi
che mi vuoi bene» ironizzò.
Riluttante, Odry si avvicinò alla sacca, l’aprì con due dita e un
brivido le percorse la schiena. «Cosa significa?»
«Quel generatore va terminato, quindi fai una lista di ciò che ti
occorre: Jelos trova sempre tutto».
«Non so cosa tu abbia in mente, ma non ho intenzione di
assecondarti».
«Cassiel va spesso a spiare Victoria e stanotte ha visto Lucifer da
loro» il suo sguardo si fece perfido. «Hai scelta?»
«Mi rifiuto» ripeté perentoria. Ma Zachary notò un lampo di
preoccupazione che ne tradì il tono duro. Quindi le si sedette
accanto. «Sai cosa comporterà il tuo rifiuto? Lucifer condurrà i tuoi
amici da noi per uccidermi e liberarti. Ha intenzione, una volta
fattomi fuori, di giocare con le loro vite gareggiando per la reliquia e
una volta ottenuta non ci penserà due volte ad ammazzare te e
Satan. E accadrà lo stesso a coloro che si metteranno in mezzo per
evitarlo, compreso il tuo adorato Gabriel. Ma io ho un piano migliore,
ovvero attivare il portale che mi condurrà da un alleato molto
potente, il quale impedirà a Lucifer di prendersi la reliquia. Lucifer
non otterrà il Graal e non avrà motivo di far del male ai tuoi amici in
quanto potrebbero servirgli ancora».
«Stronzate. Non riuscirai a manipolarmi».
Zachary alzò gli occhi al soffitto. «Senti un po’: non ti sto
manipolando, non ho finto nulla nei tuoi confronti. Mai. Devi
credermi».
«Come posso? Ti sei servito di me per arrivare al Graal».
«Mi sono servito un po’ di tutti, a dire il vero. Ma le emozioni che
ho provato quando ti ho rivista erano sincere. E so che anche le tue
lo erano. Tu hai sempre desiderato avere una famiglia, in realtà,
anche se lo neghi a te stessa».
«Tu non sai proprio un cazzo di me» ringhiò lei.
«Mi è bastato guardarti negli occhi. L’hai detto proprio tu: è come
guardarsi allo specchio. Ricordi?»
Un groppo in gola le impedì di deglutire. «Vattene».
Zachary ridacchiò. Si sentì chiamare da Karasi che lo esortava a
sbrigarsi, e d’improvviso si fece serio. «Tutto quello che vuoi,
l’importante è che ti sbrighi a stilare quella cazzo di lista».
«Non ho niente su cui scrivere, faccia di merda».
Lui, in tutta risposta, da una tasca dello zaino tirò fuori penna e
blocchetto.
Controvoglia la demonessa appuntò il necessario, poi gli tese il
blocco.
«Ti facevo più divertente». Zachary ritirò tutto e andò verso la
porta. «Ti lascio il collo libero, così potrai lavorare meglio. Intanto
mando Jelos al Kokilon di Londra».
Odry non rispose fissando con disgusto il suo stesso lavoro a
metà, lavoro che in settimane non era riuscita a terminare. «Indietro
non si torna» disse accigliata, a bassa voce.
Prima di chiudere, lui si fermò e voltò il capo verso la sorella. Sul
volto l’ombra di un sorriso triste. «Oggi è il tre gennaio. Tanti auguri a
noi».

II

Attese un giorno chiusa nello scantinato e l’unica magra


consolazione era avere il collo libero dal fastidioso anello che
sfregava contro il collare di Satan.
Era da sola con i suoi pensieri, con quella voce nella testa che non
la lasciava dormire, che a tratti non le permetteva di pensare. Ma
quando la lasciava in pace e le concedeva del risposo, la mente la
riportava al tradimento degli amici, a suo fratello che fin dall’inizio
aveva avuto brutte intenzioni, alla morte di quel padre con il quale
non aveva fatto in tempo a recuperare il rapporto, alla notizia della
morte di Belphagor. All’ultima notte con Gabriel e alla loro litigata, al
loro rapporto insensato e pieno di forse. E ora alla presenza
minacciosa di Lucifer dagli altri.
«Devo andarmene da qui» si ripeté per la millesima volta, ma non
aveva molta possibilità di fuggire: era debole e la casa era piena di
persone più forti di lei, in quel momento. Se non avesse dimenticato
il tablet alla villa, avrebbe potuto mettere da parte l’orgoglio, inviare
un messaggio e chiedere aiuto. Era l’unico oggetto da cui non si era
mai separata. Fino ad allora, per ironia della sorte. Per lei fu come
l’ennesimo cattivo presagio.
Passò un altro lungo giorno, Zachary si vide poco, di sicuro
soggiogato dalla strega che continuava inesorabile a fargli il lavaggio
del cervello. Diverse volte aveva avuto il pensiero che fosse troppo
tardi per recuperarlo. La sera, un’ora dopo la cena, la serratura
scattò e Jelos accese la luce. Odry nascose il viso contro il cuscino,
infastidita.
«Si sta bene qui sotto, c’è un bel calduccio» constatò lui. «È
merito tuo, giusto?»
«Ci provo» ammise lei scrutandolo con gli occhi a fessura.
L’uomo annuì e le si avvicinò, portandosi dietro un’ampia sacca in
tela verde scuro. La svuotò esponendo vari oggetti sul pavimento di
fronte al letto: i pezzi mancanti segnati nella lista data a Zachary.
«C’è tutto?» domandò speranzoso, sfilando dal capo lucido il
vecchio cappello di lana.
«No, manca l’alimentatore, senza corrente non si può fare nulla»
rispose secca.
«Alimentatore? E di cosa?»
«Di corrente!» Odry lo guardò in modo da farlo sentire stupido e
inadeguato. «Niente corrente, niente generatore».
«Ah! Torno subito». Jelos corse al piano di sopra lasciando sola la
demonessa e dopo nemmeno un minuto tornò con il pezzo
mancante.
Odry notò il suo atteggiamento mentre socchiudeva la porta senza
far rumore, accertandosi che non ci fosse nessuno sulla scala o in
prossimità. Dalla cuffietta che ancora teneva in mano estrasse una
lattina di birra.
«Zachary è troppo duro con te e non penso che un po’ di alcol
possa renderti una belva. Mi ricordi mia figlia e vederti tanto
indebolita non mi piace».
Odry guardò la birra, poi allungò la mano afferrando la lattina.
«Per lui tenermi in forze sarebbe controproducente». La aprì e in
due sorsi riuscì a finirla tutta. «Non ne hai un’altra?» chiese con un
briciolo di speranza.
«Non posso dartela, mi dispiace. Forse tra qualche giorno». Prese
la lattina vuota per nasconderla nella cuffia. «Comunque Zachary è
un bravo ragazzo, il problema è l’influenza di quella vecchia puttana
che ha al fianco».
«Quello che tu consideri un bravo ragazzo ha ucciso una bambina
di sette anni» lo sguardo di Odry si fece furioso e terribile: «Le ha
bruciato la testa e ha fatto assistere suo padre alla sua morte, è
ancora così bravo come dici?»
Jelos abbassò lo sguardo e annuì, non disse nulla. Si limitò a
salutarla e a uscire chiudendo la porta a chiave.

III

Erano passati due giorni dall’arrivo di Lucifer.


Gabriel fissava la porta della stanza in cui il Sovrano riposava.
Prese un respiro profondo e bussò.
«Vieni avanti, Gabriel» la voce di Lucifer suonò invitante e
tranquilla.
L’Arcangelo aprì piano ed entrò con estremo rispetto, come non
aveva mai fatto con nessuno in vita sua. Chiuse la porta. «Devo
parlarti».
«Riguardo alla ragazza?» Lucifer sedeva sulla poltrona da camera
che aveva posizionato di fronte alla finestra così da poter ammirare il
cielo notturno.
«Sì» confermò l’altro, rigido. «Devo trovarla».
Gabriel e i suoi compagni non lo avevano mai visto da vicino, al
contrario di Michael e Barakiel. Lucifer non aveva avuto vergogna
nel mostrare il proprio malessere, nonostante ciò era bello e
manteneva un’innata fierezza.
«Cos’hai da offrirmi in cambio?»
Gabriel si morse il labbro e tentennò.
Cosa avrebbe potuto dargli, in effetti? Non aveva denaro, ma
poteva donargli la sua amata spada. “Ne avrà a bizzeffe di armi,
anche migliori della mia” pensò. «Cosa vuoi?»
«Tutto ciò che sei in grado di offrirmi; cosa faresti per lei?»
Gabriel fece per rispondere quando Lucifer lo interruppe. «Niente
banalità, per favore. Niente risposte come “morirei per lei”».
«Non voglio morire. Non potrei stare con lei, altrimenti».
«Molto bene. Potresti offrirmi i tuoi servigi, in cambio». Lucifer si
voltò di poco verso di lui e con gli occhi lo rese incapace di muoversi.
«E ci permetteresti di avere una vita… insieme?»
«Una vita, dei figli, tutto quello che desideri».
Gabriel abbassò lo sguardo.
Era davvero ciò che voleva? Tradire i suoi e passare dalla parte
del nemico per lei? Davvero non c’era altro modo?
«Gabriel» lo chiamò Lucifer, e non appena lui alzò gli occhi,
incrociò il suo sguardo di sangue.
Immagini di una vita futura gli si mostrarono di fronte.
Una casa in un paese simile a quello in cui aveva vissuto il suo
corpo umano, due bambini scalmanati che si rincorrevano nel
giardino di casa: gemelli, un maschio e una femmina. Odry
indaffarata sul tavolo del soggiorno a trafficare con apparecchi per
lui troppo complicati. Bella, felice. Una fede che luccicava sul suo
anulare sinistro.
Gabriel si svegliò dal potente sogno a occhi aperti. «Dimmi cosa
devo fare».
Lucifer sorrise; un sorriso che lui non riuscì a decifrare o che non
volle osare interpretare. «Inginocchiati qui accanto a me».
Gabriel tentennò ancora: quella sarebbe stata l’ultima cosa che
avrebbe fatto, ma non in quella circostanza. Avrebbe dunque dovuto
mettere da parte il suo orgoglio e obbedire. Così fece.
Lucifer gli prese la mano sinistra e la strinse con forza. Gabriel si
sentì pervaso da un senso di bruciore che gli pizzicò il palmo fin
dentro la carne e nelle vene.
«Ora sei marchiato come servitore. Agirai seguendo le mie
direttive, farai quello che ti ordinerò quando lo riterrò opportuno.
Potrà essere tra un giorno come tra dieci anni. Quando io ti
chiamerò tu dovrai ubbidire».
«La pena per la trasgressione?» domandò tetro Gabriel.
«La morte» confermò Lucifer con ovvietà. «Il patto dell’Infante è
ora su di te, sarai libero solo da morto o se io dovessi morire e,
credimi, non ho intenzione di farlo».
Sul palmo di Gabriel comparve il simbolo circolare, simile a una
ferita cicatrizzata. L’Arcangelo si alzò ragionando su quelle parole.
Forse aveva commesso l’errore più grande della sua vita, ma ormai
non poteva più tirarsi indietro. “Perderò tutti” disse a se stesso.
«È probabile» confermò Lucifer leggendogli l’animo «a ogni modo
un patto è un patto: lei si trova a quaranta minuti a piedi da qui, in
una villetta disabitata, al civico 22 di Roxwell Road. Ah, comunque,
due giorni fa era il suo compleanno».
Gabriel trattenne il fiato. «Non avrei mai pensato di dirlo, ma…
grazie». Senza pensarci due volte si smaterializzò.
«No, grazie a te» rispose Lucifer con lo stesso sinistro sorriso,
prima di voltargli le spalle e tornare a osservare fuori dalla finestra.
Lucifer prestò interesse ai profili bassi delle villette e delle
palazzine del quartiere.
Il silenzio lo cullava, fu sul punto di chiudere gli occhi, quando una
presenza fuori dalla porta lo attirò. Sporse il busto in avanti. «Venga
avanti Lady Fletcher».
La strega entrò con passo lento e strascicato, lo sguardo spento e
lattiginoso. Tra le mani teneva la spada con l’impugnatura di velluto
rosso che Michael aveva sottratto a Chris e poi nascosto sotto il suo
letto in mezzo alle doghe. Gliela porse.
Lucifer ebbe un fremito nel trovarsela di nuovo tra le mani. Quanti
secoli erano passati? Aveva perso il conto, ma ora si erano ritrovati,
lei era riuscita a tornare dal suo padrone, ancora più bella di come la
ricordava.
«La ringrazio mia cara, può andare».
Priva di qualsivoglia volontà, Ania si allontanò. Lucifer si assicurò
che avesse chiuso la porta e tornò a dedicarsi alla spada. Ne
accarezzò il profilo e quando afferrò l’elsa sentì il richiamo dentro di
sé e la assorbì. Un breve fascio di luce rischiarò la stanza.

IV

In meno di un secondo Gabriel fu di fronte all’abitazione.


Questa aveva tutta l’aria di essere abbandonata da anni: molte
finestre – almeno quelle che davano sulla strada – erano state
murate, alcune avevano qualche mattone mancante ed erano state
sbarrate da tavole di legno e da tubi di ferro; anche la porta
d’ingresso era stata murata.
Le attività di Zachary, al suo interno, si svolgevano sotto il naso
dei vicini e dei passanti.
“È probabile che passino dal retro” pensò Gabriel accedendo alla
proprietà con l’intento di aggirarla ed entrare da dietro, ma il cigolio
di una porta lo convinse a tornare indietro. A grandi passi si nascose
tra delle macchine parcheggiate sul marciapiede opposto.
Un uomo alto e incappucciato raggiunse il primo lampione, pescò
una sigaretta mozza dalla tasca dei jeans, la accese e dopo aver
tirato una generosa boccata di fumo iniziò a camminare verso il
centro.
“Sarà più complicato del previsto, non so nemmeno quanti sono e
dove la tengono” pensò l’Arcangelo.
Aspettò per accertarsi che non ci fosse nessuno, uscì dal
nascondiglio precario e tornò verso la porta sul retro: era stata
lasciata socchiusa, forse l’uomo incappucciato sarebbe tornato a
breve. “Devo sbrigarmi”. Aprì piano per evitare scricchiolii molesti.
Si introdusse in una grande cucina, fredda quanto l’ambiente
esterno, con un arredamento datato e malridotto, divorato dalle
termiti. L’attraversò con passo felpato fino a raggiungere un
soggiorno più grande e un po’ più caldo grazie a un camino acceso.
Di fronte a esso un vecchio divano, al centro della stanza un tavolo
con sei sedie lasciate in modo disordinato.
All’improvviso percepì un numero incerto di persone: non erano
angeli, non erano demoni. La loro aura indefinita lo mise in allarme.
Cercò di capire come e dove nascondersi, ma non c’era molta
scelta e con la sua mole non sarebbe stato facile. Intanto le aure
divennero più intense. Erano in avvicinamento: sarebbe stato
scoperto.
“Cazzo!” pensò raggiungendo la scala che conduceva al piano
superiore. Si infilò sotto di essa sfiorando con un orecchio qualche
ragnatela. Con tutto il cuore sperò che l’oscurità lo coprisse.
Comparve una donna con indosso un pigiama pesante.
Camminava a piedi nudi e si guardava intorno.
«Behetan, la ragazza è ancora rinchiusa nel seminterrato?»
domandò Jelos dalla cima alle scale.
«Che domanda del cazzo è?» rispose lei. «Certo che sì! O pensi
che voglia farle sgranchire le gambe? Qui c’è qualcun altro».
«Io non sento niente, è la tua immaginazione: sei troppo stanca.
Torna a letto».
Gabriel la vide andare verso le scale e sentì prima dei passi
frettolosi che salivano, poi il rumore di due porte che, una dopo
l’altra, venivano chiuse. “Odry è di sotto. Benissimo” pensò.
Attese una manciata di secondi: il respiro quasi assente, l’udito
teso, i muscoli pure.
Nessun rumore in casa.
Uscì dal sottoscala facendo attenzione a non produrre alcun
suono, avanzò e si diresse verso i gradini che l’avrebbero condotto
di sotto.
Percepiva numerose aure, di sicuro appartenenti all’uomo che
aveva appena parlato, alla donna che aveva visto e forse a persone
chiuse in altre stanze. C’era anche quella di Zachary? Non aveva
mai fatto caso alla sua, in effetti.
Mosse i primi passi verso il basso, su quella scalinata di pietra
piuttosto ripida. “Bene, ci siamo quasi” ma alla nuca gli giunse un
colpo che lo colse di sorpresa, facendolo ruzzolare giù. Fu tutto così
veloce che riuscì a rendersi conto solo della botta che diede con la
testa a una porta.
Una luce in cima alle scale si accese, rivelando una figura in
controluce. Quella scese e, non appena Gabriel evocò la spada, i
suoi occhi s’illuminarono divenendo di un verde acido.
L’Arcangelo d’un tratto si sentì pesante, impossibilitato a compiere
un singolo movimento. Sentì una pressione al petto che gli tolse il
respiro.
Behetan si chinò di fronte a lui, fissandolo con le iridi luminescenti.
«Un esemplare di angelo, interessante. Da secoli non ne vedevo
uno ancora in attività, qui intorno sono tutti angeli caduti che sanno
di morte. Anche se pure tu non sei un granché profumato».
Gabriel fece in tempo a emettere solo qualche parola: «Puttana,
lasciami andare».
«Risposta sbagliata, stronzo».

Odry stava distesa sul materasso da un tempo indefinito, con un


braccio sugli occhi a pregare che le venisse concessa una piccola
pausa per poter dormire. Il generatore giaceva smembrato per metà,
quanto più possibile lontano.
Era in procinto di prendere sonno quando un forte colpo la fece
scattare a sedere. Si voltò allarmata verso la porta e si sporse
quanto poté per cercare di capire cosa stesse accadendo.
Dopo pochi secondi udì una voce femminile ovattata, passi sulle
scale, poi la voce di suo fratello, anch’essa non chiara.
Infine silenzio.
Odry rimase in ascolto col fiato sospeso.
La porta si aprì, lasciando entrare un fascio di luce proveniente dal
piano superiore. Ma non solo.
Gabriel entrò fluttuando, privo di sensi. Behetan, subito dopo di lui,
con gli occhi verdi e luminosi, conduceva l’Arcangelo dalla parte
opposta della stanza. Dopo entrò Zachary.
Odry rimase pietrificata. Il cuore le era balzato nello stomaco,
incrociò lo sguardo del gemello e la collera si accese come una
scintilla. «Che cosa gli hai fatto, bastardo?!» strattonò le catene
ignorando il dolore. «Lui non c’entra niente in questa storia, lascialo
andare!»
Zachary si mostrò divertito da quella reazione e fece spallucce. «È
venuto lui a salvarti, a dire il vero. O almeno ci ha provato. Ma
siccome è grosso e stupido è stato impossibile ignorarlo».
Odry digrignò i denti. «Maledetto» gli ringhiò contro «scordati che
io ripari il generatore!»
La risata del fratello fu agghiacciante, ma lo fu ancora di più la sua
espressione. «Non mi serve più. Ora ho lui».
La rossa sentì il gelo nelle vene. Non riuscì a rispondere,
soffermandosi con orrore al significato di quella considerazione. «Fin
dove vuoi arrivare…?» le uscì spontaneo chiedere prima che lui si
dileguasse oltre la soglia insieme a Behetan.
Gabriel era stato legato alla parete di fronte: caviglie, polsi e collo.
Il seminterrato era attrezzato alla perfezione per fungere da prigione.
Odry rimase a guardarlo, ma legata così come lui non le venne in
mente una sola idea per farlo scappare da lì. “Quella strega merdosa
avrà messo un sigillo per impedire ogni tentativo di
smaterializzazione e anche se Gabriel dovesse riuscire a scardinare
le catene non ci sono finestre da cui uscire, solo la porta” rimuginò
spostando lo sguardo in ogni angolo della stanza.
Trascorse in silenzio altri minuti a osservarlo fino a quando
l’impulso di chiamarlo fu incontenibile: «Gabe! Gabe svegliati!» disse
soffocando la voce. Afferrò la lattina di birra vuota che teneva sotto
al letto e gliela tirò contro. «Gabe!»
L’Arcangelo si svegliò trasalendo. Confuso, sbatté le palpebre e
scosse il capo.
«Gabe sono qui!»
Gabriel sollevò il capo nella sua direzione, in attesa che la vista si
abituasse e quando mise a fuoco scattò in piedi. «Ti ho trovata!»
«Non muoverti!» gli intimò lei con la mano. «Sei legato per bene e
potresti farti più male di quello che credi». Lo fissò e il suo sguardo si
fece sofferente. «Perché sei venuto?»
«Che cazzo di domande fai?» le rispose tentando di studiare la
situazione. «Qui non c’è nemmeno una finestra».
«Perché cazzo devi sempre venire a cercarmi?! Hai visto in che
situazione ti sei cacciato? Perché Gabriel? Perché?!» Odry sentì la
gola serrata e le lacrime pungerle gli occhi. «Perché sei dovuto
venire? Ogni volta che sanguini, che ti ferisci o che rischi la vita è
per causa mia. Vieni a cercarmi ogni dannata volta…» poggiò le
mani sulle ginocchia e chinò la testa. Pianse, esausta; lasciò che i
capelli le nascondessero il viso per sentirsi meno vulnerabile.
Gabriel fece crollare le braccia e abbassò lo sguardo dandosi dello
stupido per averla fatta piangere. «Vorrei proteggerti…»
«Tu dovevi stare al sicuro con gli altri, ora Zachary vorrà qualcosa
da te e io non posso salvarti!» Alzò la testa e i suoi occhi di cristallo
trapassarono Gabriel fin dentro al cuore. «Non posso salvarti
stavolta!» ripeté, e la sua disperazione fu palpabile.
«Non devi» ribatté lui. «È stata colpa mia, me la vedrò da solo».
Odry strinse i pugni. «Ho visto mio padre morire insieme a sua
moglie e a sua figlia, ho assistito alla barbarie che è stata attuata su
Georgie, non voglio assistere anche alla tua morte… Gabe, non lo
sopporterei».
Gabriel sgranò gli occhi. «Balthazar? Georgette?»
Odry annuì asciugandosi le lacrime con nervosismo. «Non ho idea
di dove voglia arrivare e di cosa voglia ottenere davvero, mi ha
portato qui il generatore, poi quando ti ha legato ha detto che
avrebbe usato te e che il mio lavoro da ora in poi sarebbe stato
inutile» tacque pensierosa. «Devi cercare di smaterializzarti».
«Io mi smaterializzo con te… appena riuscirò a capire come fare».
L’Arcangelo si concentrò per qualche istante e con stizza aggiunse:
«Non ci riesco, queste catene sono come quelle delle prigioni al
Quartier Generale. Devo trovare un altro modo. Tu sei in grado di
combattere?»
Odry scosse la testa. «Mi tengono a stecchetto. In tutti questi
giorni ho potuto bere di nascosto solo due lattine di birra, nulla di più,
e sono più debole di quanto io stessa voglia ammettere». Si morse
la guancia analizzando le catene. «Riusciresti a scardinarle?»
Sul volto dell’uomo comparve un sorriso divertito. «Certo,
ragazzina, questo lo posso fare». Così le diede le spalle per avere
una visione più chiara sulla sua prigionia. Osservò la parete: le
quattro catene erano collegate ad anelli infilati nel muro, non
sembrava esserci alcun sigillo magico. Niente di niente. Diede uno
strattone vigoroso con il braccio destro, non accadde nulla. «Non
sembrano esserci protezioni».
«Riprova». Odry era sulle spine.
Gabriel annuì e avvolse entrambe le catene attorno a mani e polsi.
Iniziò a tirare e in pochi secondi saltarono entrambe.
Odry aggrottò le sopracciglia. Possibile che Zachary avesse scelto
di legarlo proprio lì conoscendo la sua forza? «Non sono convinta,
sembra tutto troppo semplice e Zachary non è uno che organizza le
cose in modo approssimativo».
Quelle parole lo spaventarono tanto da indurlo a mettere ancor più
forza per liberarsi le caviglie. Cedettero anche quelle catene e lui,
trascinandosi dietro la ferraglia, raggiunse Odry abbracciandola con
trasporto. «Buon compleanno, piccola, anche se in ritardo. Ora ti
porto a casa».
La demonessa ricambiò sentendo quel contatto necessario e
sorrise, intenerita dagli auguri. «Ti prego vattene via» gli sussurrò
all’orecchio senza voler accennare a lasciarlo andare.
«No, andremo via insieme».
Il rumore della porta spalancata e la voce di Zachary fecero
trasalire i due prigionieri: «Ma che bel quadretto!»
Gabriel non ebbe il tempo di reagire: il suo corpo venne sollevato
da una forza misteriosa, le catene ancora penzoloni lo avvolsero e
gli bloccarono ogni tentativo di movimento in una morsa serrata.
Odry comprese subito che era opera di Behetan, e ne ebbe
conferma dal bagliore verde che illuminava la base della scalinata, il
tutto alle spalle del fratello. «Farò ciò che vuoi, ma ti prego, lascialo
andare!» Odry supplicò Zachary e fu la seconda volta in vita sua: per
salvare Gabriel avrebbe supplicato anche Dio.
«Non ti sei mostrata così preoccupata nemmeno per nostro padre,
sono colpito, dico davvero!» rispose quello mettendosi una mano sul
cuore. «Potrei usare questa tua debolezza a mio vantaggio, tanto ho
capito che non riusciresti a farne a meno nemmeno volendo».
Odry serrò i denti, non rispose ma i suoi occhi lo fecero per lei.
«È il caso che ci sbrighiamo». La voce di Karasi arrivò inaspettata:
la donna si accostò a Zachary, porgendogli il cappello.
«Bastardo!» disse Gabriel, prima di sparire dietro la porta con tutti
gli altri.
Le grida di Odry risuonarono fino al pian terreno. Piangeva e
cercava in tutti i modi di sciogliere le catene che la imprigionavano,
ma più provava più le scosse del collare la indebolivano. Si sentiva
inerme e inutile. Si lasciò cadere sul materasso in posizione fetale,
con il corpo percorso da spasmi. “Aiutami, ti prego aiutami” pensò
rivolta a quella voce che ora stava in silenzio.
Dopo alcuni minuti qualcuno bussò alla porta ma non attese
risposta.
Jelos entrò con discrezione e tacque nel vedere la demonessa in
quello stato. Chiuse e le si avvicinò. «Odry, ti ho portato un regalo».
«Se ti avvicini troppo ti ammazzo» sibilò lei ancora piangendo di
rabbia.
«È la stessa cosa che mi ha detto Maria la prima volta che mi ha
visto» ridacchiò nervoso e le si fece comunque vicino. «Ti ho portato
due birre e delle patate arrosto».
«Voglio sapere dove hanno portato Gabriel! Dimmelo, so che lo
sai!»
«Non posso».
«Vuoi che Zachary uccida altri innocenti? Ma come puoi
permettere che scorrazzi incontrastato facendo strage anche di
bambini?» Odry gli afferrò un lembo della giacca e lo strattonò. Non
ci volle molto perché lui riuscisse a liberarsi.
«Ho una moglie umana, lei a giorni darà alla luce due gemelli: i
miei bambini. Ma ho un’altra figlia che lavora al Distretto di
Economia e Commercio in Paradiso e non la vedo da… non so, ho
perso il conto. Se il piano di Zachary dovesse andare in porto, io
potrei ufficializzare il mio nuovo matrimonio con la donna che amo e
rivedere Johanna, e magari conoscere i miei nipoti, se dovessero
esistere». Jelos sedette sul pavimento, di fronte a lei. «Zachary
vuole unire i mondi. È una grande impresa, molto pericolosa, e come
tale richiede dei sacrifici. E chiamami pure egoista, ma a me
interessa solo avere una vita con le persone che amo. Io sono
fortunato perché ho un aspetto più umano, ma ci sono demoni e
angeli che non possono passare inosservati. Per loro sarà più
difficile».
«E come la metti con l’assassinio di suo padre e della sua
sorellastra? Lui l’ha fatto per vendetta». Odry sibilò quelle parole con
odio, avrebbe sputato veleno sul pavimento se avesse potuto.
«Stupido ragazzo» commentò l’angelo caduto scuotendo il capo
con dissenso. «Non è un essere perfetto, nessuno lo è. Quella
fattucchiera che gli sta accanto ha un brutto ascendente su di lui».
«Dimmi dove sono andati, aiutami ad annientare lui e quella
strega! Ti posso assicurare che la sua intenzione di unire i mondi
non è nobile come ti fa credere».
«Quindi vorresti vivere un amore proibito per il resto della tua
esistenza?»
«E se non ci fosse un’esistenza da poter vivere?»
«E se invece ci fosse? Vuoi buttare all’aria questa possibilità
perché sono state sacrificate delle persone? Io non voglio: Maria mi
ha salvato la vita ancora prima che lo facesse Zachary e non voglio
perdere l’occasione di stare con lei».
«Sei così accecato dal desiderio di rivedere tua moglie che non
vuoi vedere come stanno le cose in realtà! Zachary creerà un mondo
a sua immagine e somiglianza e sono certa che tu e Maria vivrete
nella paura. Ragiona! Non devi fidarti di lui».
Jelos le porse le birre e il piatto di patate arrosto. «Tieni.
Chiamami appena finisci, prenditela con calma: non dovrebbero
tornare a breve». Poi uscì chiudendo la porta.
Odry si lasciò andare con la schiena contro il muro. Guardò la
cena, di malavoglia iniziò a mangiare cercando di razionare la birra.
La sete però era tanta. Così in cinque minuti terminò e si distese
nascondendo la testa sotto il cuscino, con la speranza di riposare
almeno un’ora. “Se riuscissi a dormire sarei in grado di pensare e di
farmi venire un’idea che mi permetta di uscire da qui e salvare
Gabriel” pensò per poi chiudere gli occhi e lasciarsi cullare
dall’oscurità.
Il Globo

Chris scosse il capo, riprendendosi dal contatto intenso con il


globo, l’ennesimo. Si alzò e i cerchi concentrici del Trono lo
lasciarono allontanare. I numerosi occhi lo osservarono mentre
usciva dalla porta.
Chiuse a chiave, cercando di controllare la nausea che non aveva
ancora imparato a gestire. Ogni contatto con Sandalphon, e la
prigione nella quale era costretto, era traumatico; nonostante ciò non
era intenzionato ad arrendersi. Inserì la chiave nella tasca e tornò ai
piani inferiori, concentrandosi sul formicolio ai polpastrelli per
ignorare i capogiri.
I corridoi erano avvolti dal silenzio, la morte dominava il DEM.
Il Serafino posò una mano sulla maniglia, aprì ed entrò nel suo
studio. Si accorse che la poltrona non era nella posizione in cui
l’aveva lasciata, lui così preciso e ordinato. Dall’ingresso ne vedeva
lo schienale e seduto su di essa vi era qualcuno, ma la penombra
dalla quale era avvolto non gli permise di comprendere subito chi
fosse. Sulla scrivania vide un cappello di feltro scuro.
Chris chiuse la porta, fidandosi dell’istinto. «Devi avere coraggio
per sedere nella poltrona di un Serafino. Mostrati».
La poltrona girò su se stessa.
Zachary gli sorrise.
«Spero di non disturbare troppo». Si alzò invitando il Serafino ad
accomodarsi. «Non mi tratterrò a lungo».
Chris lo studiò e, con circospezione, andò verso di lui. «A dire la
verità, l’unico quesito che mi sorge spontaneo è: come può uno della
tua razza essere qui?»
Zachary sogghignò, si aspettava quella domanda. «Grazie a un
piccolo aiuto» rispose, sedendosi sulla poltrona dall’altra parte della
scrivania «e se vorrai, te lo rivelerò al termine della nostra
conversazione».
«Mi sembra il minimo» convenne il Serafino mettendosi comodo.
La postura rigida suggeriva quanto poco gradisse la presenza del
demone. «A cosa devo la tua visita nel mio mondo?»
«Sei incline agli scambi, se equi?»
«Di che genere di scambi si tratta? Noi non facciamo affari con
quelli come voi».
Zachary sogghignò, si aspettava quella domanda. «Grazie a un
piccolo aiuto» rispose, sedendosi sulla poltrona dall’altra parte della
scrivania «e se vorrai, te lo rivelerò al termine della nostra
conversazione».
«Mi sembra il minimo» convenne il Serafino prendendo posto. La
postura rigida suggeriva quanto poco gradisse la presenza del
demone. «A cosa devo la tua visita nel mio mondo?»
«Sei incline agli scambi, se equi?»
«Di che genere di scambi si tratta? Noi non facciamo affari con
quelli come voi».
Zachary annuì, fissandolo negli occhi. «Quelli come me possono
aiutarti a ottenere qualcosa che cerchi. Gli Arcangeli, per esempio».
Chris sminuì con un gesto della mano. «Non mi interessano così
tanto gli Arcangeli, ora sono sulle tracce di qualcosa che mi importa
molto di più».
Zachary assottigliò lo sguardo, incuriosito. «Di cosa si tratta?»
Chris congiunse le mani e l’espressione sul viso si fece sinistra,
oscurata dall’ombra. «Voglio le gemme».
L’altro esitò e un brutto presentimento si fece largo. «Gemme?»
Chris annuì. «Sì, le gemme! Le pietre elementali, quelle che
caddero sulla Terra quando la corona di Metatron venne distrutta.
Non conosci la leggenda?»
Il demone rise. «È stata la favola della buonanotte che mi ha
aiutato nei periodi bui. Però, appunto, è una favola».
«E se ti dicessi che ti sbagli?»
«Ti ascolto».
Il Serafino si prese qualche secondo per scrutare ancora una volta
il suo interlocutore. «Ho visto attraverso il Globo, ho controllato la
Terra e ho appreso tutto ciò che Lui ha voluto mostrarmi. Le pietre
sono reali e so che tu ne hai una».
Zachary tacque, pensieroso. Forse Chris si riferiva a Dio? E di
quale pietra stava parlando? «Non mi risulta» rispose poi.
«Non ti risulta? Le cose sono due: o fai il finto tonto oppure
davvero tu non hai idea di cosa ti trovi tra le mani» la voce di Chris si
fece dura.
Il demone si sporse in avanti. «Io non ho nessuna pietra, ma visto
che lo sai meglio di me illuminami! Dove sarebbe?»
«Si trova appuntata nella maglia di quella puttana che Gabriel
portò qui in Paradiso e che poi i suoi amici vennero a recuperare.
Adesso lei sta rinchiusa in uno scantinato nella periferia di Londra.
Così è più chiaro?»
Zachary si poggiò sullo schienale e accavallò le gambe. «Parli di
mia sorella e mi stai dicendo che ciò che vuoi è incastonato in una
spilla che le ha regalato nostro padre. La storiella racconta delle
gemme cadute dalla corona di Metatron, uno dei primi angeli.
Ognuna di loro ha dato vita sulla Terra a popolazioni di elementali
che poi sono state esiliate da Dio nell’Abisso. Pensi davvero che la
pietra rossa nella spilla di Odry sia una di quelle che cerchi?»
«Io non penso, io lo so perché l’ho visto».
«Quindi tu hai davvero usato il Globo…»
«Sì, ed è per questo che so tutto».
Zachary sorrise soddisfatto. «Ed è proprio di questo che volevo
parlarti. Dunque, ricapitoliamo: a te interessano le gemme, no? A me
interessano un’alleanza e il Globo. Ti sembra abbastanza equo
questo scambio?»
«Senza di esso non posso conoscere l’ubicazione delle gemme».
«Lo userai per trovarle e io ti aiuterò a prenderle, dato che
immagino tu debba stare qui a dirigere questo posto. La prima sarà
quella di mia sorella come dimostrazione della mia fedeltà».
Ma il Serafino non sembrò tanto convinto. «Vorrai scusare la mia
diffidenza, ma prima devo vedere la ragazza e la gemma, poi ti darò
il Globo. Ci stai?»
Zachary annuì con fermezza. «Mi sembra più che ragionevole»
rispose alzandosi e tergendo il sudore da collo e fronte con un
fazzoletto estratto dalla tasca del cappotto. «Ora, come promesso,
dovrei dirti come sono riuscito a salire fin qui. Ma forse potrei
mostrartelo».
Chris si alzò insieme a lui. «Ti seguo».
Il demone fece strada fino a uscire dal DEM. Nel tragitto si unirono
Holian e Yovus su richiesta di Chris che, com’era evidente, ancora
non si fidava.
Zachary soffriva, stare lì era come avere un masso sul petto, ma
era consapevole che senza il Graal dentro di sé sarebbe stato molto
peggio. Ripensò alle notti insonni salvate da Karasi e la sua storia
per bambini, una storia che, forse, era vera. Gli tornò alla mente
anche l’immagine della preziosa spilla di Balthazar: forse quella era
davvero la gemma di Metatron e lui l’aveva avuta sotto il naso per
tutto quel tempo. “In ogni caso a me la gemma non serve” pensò
“perché ciò che mi interessa sta dentro Odry, non fuori”.
Nonostante tutto, il racconto suonava più assurdo di prima.
I tre Serafini vennero condotti oltre la barriera di Etere che
Zachary fu costretto ad attraversare una seconda volta, con difficoltà
e parecchia sofferenza che però riuscì a nascondere in modo
magistrale.
«Bene signori, ecco a voi il mio mezzo di trasporto». Il demone
indicò una persona tra le mastodontiche statue bianche: Gabriel,
seduto sull’erba e con la schiena poggiata a una di esse, era stato
convinto ad aspettare con la promessa della liberazione sua e di
Odry.
Il sorriso di Chris si allargò e divenne crudele. «Tutto potevo
immaginare tranne questo» si voltò verso Yovus. «Prendilo e portalo
qui».
Il Serafino annuì e aprì le sei ali bianche scattando verso Gabriel.
L’Arcangelo si rese conto della sua presenza solo quando venne
steso da una potente ginocchiata sulla tempia. Così Yovus lo
trascinò in volo dagli altri e lo lasciò cadere davanti ai loro piedi.
Chris posò un piede sulla testa di Gabriel e si voltò verso Zachary.
«È il più bel regalo che potessi ricevere da uno sconosciuto» gli tese
la mano. «Andremo sulla Terra e avvieremo il nostro accordo, ma ti
chiedo di attendere».
Zachary fece qualche passo indietro e con un cenno del capo
rispose: «È stato un piacere. Io vi aspetto qui».
Chris premette più forte sul capo di Gabriel non appena quello
provò a muoversi, in seguito fece segno ai due colleghi di
immobilizzarlo e di tornare al DEM. «Saremo qui tra poco» disse a
Zachary.
I quattro scomparvero in un fascio di luce.
Si materializzarono nella Piazza delle Anime, alla base dei gradini
che conducevano all’altare.
Alcuni cittadini presenti deviarono il cammino o tornarono indietro
per non avvicinarsi troppo, altri si nascosero ma rimasero nei
paraggi per osservare. Avevano riconosciuto l’Arcangelo e i Serafini
e dopo gli ultimi avvenimenti nessuno osò fare domande. Tutti, però,
avevano intuito cosa stesse per accadere.
Gabriel provò ad alzarsi ma il suo tentativo venne neutralizzato
dallo stesso Chris.
Yovus rise di gusto, agì dando un calcio all’orecchio di Cooper e
infierì nel constatare la sua resistenza.
Questo diversivo diede il tempo a Dunne di indossare i tirapugni e
di sferrare su Gabriel un destro sul fianco capace di fargli sputare
sangue.
Holian incoccò una freccia di luce e Chris gli fece spazio, in preda
all’euforia. Il Serafino si posizionò di fronte a Gabriel con l’arco teso.
Scoccò mirando alla spalla; non contento dei lamenti della vittima ne
incoccò una seconda.
«Vuoi farlo già a pezzi? Non è divertente così» protestò Chris.
«Voglio fargli male, quanto più male possibile» rispose l’arciere.
Yovus rise ancora. «Però sarebbe bello se i suoi amici lo
vedessero, no?»
Gabriel azzardò un colpo di reni per rialzarsi, ma lo stesso
Serafino menò sulla prima ferita una tallonata che, stavolta, lo fece
urlare.
E la seconda freccia di Holian lo centrò nell’altra spalla, in seguito
altre due si conficcarono nelle cosce.
Chris gli diede un pugno nel fianco sconquassandolo per poi
colpirgli le reni e farlo sanguinare.
L’Arcangelo riuscì a fuggire dagli ultimi pugni smaterializzandosi,
ma lo stordimento non gli permise di andare troppo lontano.
«Forza Holian!» lo incoraggiò Yovus. «Perché non ti alleni al tiro a
segno?»
Gabriel aprì le ali e si chiuse in esse. Era uno scudo che non
avrebbe retto a lungo, ne era consapevole. Le fitte di dolore agli arti
piumati e le risate dei torturatori gli fecero comprendere che l’unica
via d’uscita era la fuga, ma un forte colpo alla fronte gli spense i
pensieri.
Un’ala era stata perforata per metà dall’ascia di Yovus, riuscendo
a fermare la corsa della lama e impedendo che raggiungesse il
cranio di Gabriel.
Holian incoccò e lasciò andare l’ennesima freccia che si piantò
qualche centimetro sopra il cuore, facendolo cadere in ginocchio. Il
sangue di ogni ferita fluiva veloce, colando e macchiando il granito
chiaro della piazza.
«Chris!» esclamò Yovus. «Quanto pensi possa resistere se lo
stiriamo come un elastico? Prendiamo due Troni e vediamo che
succede!»
«Non mi dispiacerebbe assistere, lo hanno sempre esaltato per
essere il più forte nella struttura quindi vediamo di cosa è capace».
Non fu difficile attirare due Troni. In base alle nuove disposizioni,
questi avrebbero risposto solo ai comandi delle Potestà e dei
Serafini di quel Distretto, quindi bastò un fischio di Chris per attirarne
quattro in più.
«Afferratelo per gambe e braccia: deve diventare una bandierina»
ordinò Yovus.
I Troni, grandi sfere alate ricoperte di occhi, obbedirono.
Gabriel, nonostante si divincolasse, non riuscì a contrastare gli
angeli fluttuanti; i loro occhi lo fissavano come volessero assistere
alla sua disfatta, lo stesso facevano i pochi cittadini che erano stati
costretti ad assistere.
«Restate qui! Restate a vedere ciò che capita ai traditori come lui»
disse Chris e all’Arcangelo la sua voce giunse ovattata, forse lui
stesso volle ignorarla per concentrarsi e resistere alla forza dei Troni
che avevano già iniziato a tirare.
Gabriel serrò la mascella e fece forza con gambe e braccia per
contrastare la potenza delle bestie. Non poteva permettere che
qualche muscolo si strappasse, ma quella tensione prolungata gli
avrebbe di certo causato più di un problema. Gli fu impossibile fare
qualsiasi movimento, poi provò ad agitare in modo frenetico le ali per
migliorare la propria situazione in qualche modo, senza sapere
davvero come agire: mani e piedi erano bloccati in un campo
energetico.
Si sentì uno stupido e un debole nello stesso momento e sentiva
di voler cedere.
Chris si spostò accostandosi a Yovus e ordinò: «Fatelo girare.
Holian, tu divertiti col tiro al bersaglio».
Holian si posizionò al centro e impose ai Troni di fare come
richiesto. Incoccò una freccia e rimase in attesa.
Gli angeli iniziarono a ruotare e Gabriel chiuse gli occhi: fortuna
per lui avevano smesso di tirare, ma già si preparava a venir
trapassato da parte a parte, più volte, da Holian e dal suo sadismo.
Il Serafino prese la mira: la prima freccia si conficcò nel braccio
destro dell’Arcangelo. «Suggerimenti su dove colpire?» rispose
freddo l’altro.
«Cento punti su inguine e zone vicine, prova a rendere sterile
questo pezzo di merda. Centocinquanta se riesci a sfiorare punti
vitali e a non ucciderlo» disse Yovus. «Questo sarà un grande
allenamento!»
Holian alzò un sopracciglio e tese una nuova freccia.
«Centocinquanta punti, eh?» Scoccò e la freccia si conficcò nel collo
a pochi millimetri dalla giugulare. La seconda invece arrivò senza
dare a Gabriel il tempo di gridare: si conficcò nell’inguine facendo
schizzare sangue ovunque. «Duecentocinquanta, dovremmo
scommettere soldi» riprese Holian e Yovus rispose sputando in terra.
«Col cazzo! Tu mi spenni».
Gabriel fu trapassato da una decina di nuove frecce. Il suo sangue
fuoriusciva formando una pozza sotto i piedi, proprio di fronte ai
cittadini inorriditi e in lacrime. Le sue urla sospinte dal vento
riempivano Sila.
Chris godeva nel vederlo martoriato e lo sguardo crudele non
aveva abbandonato il suo viso nemmeno per un secondo.
«Io ho finito» ammise Holian richiamando l’arco che sparì in un
fascio di luce.
«Già, dopo un po’ diventa noioso» confermò Yovus che subito si
rivolse a Chris: «Che facciamo? Torniamo dal tuo nuovo amico?»
«Voi aspettate qui, vado a prendere una cosa e vi raggiungo. Nel
frattempo, appendete questo bastardo al timpano del DEM, sotto le
Dominazioni. Che sia da monito per tutti i trasgressori» disse Dunne,
prima di smaterializzarsi.

Il Serafino corse nel seminterrato, in palestra, per rubare uno dei


tanti borsoni. Poi non perse tempo ad attendere l’ascensore, si
smaterializzò dinnanzi alla porta dell’ultimo piano. Si sistemò i capelli
e il colletto della camicia, girò la maniglia ed entrò.
Il Trono lo fissò con i suoi cento occhi e lui ne ebbe timore. Mise
una mano sulla sfera e una voce lo sorprese facendolo sobbalzare.
«Sei sicuro di volerglielo consegnare?» Holian si mise a braccia
conserte, lo aveva raggiunto di soppiatto lasciando a Yovus e ai
Troni il compito di appendere Gabriel; ora osservava la schiena di
Dunne chinata a recuperare il Globo. «Ricorda che è un demone, di
loro non ci si può fidare».
«Non temere, amico mio, so quello che faccio. Userò il ragazzo
per arrivare alle gemme, poi lo ucciderò e mi terrò questo gioiellino,
non posso sperare di controllare il Paradiso o il mondo senza
questo». Chris inserì la sfera dentro la sacca, sperando così di
attenuarne la naturale luminosità. Raggiunse il compagno e gli mise
una mano sulla spalla. «Sono solo demoni, non possono competere
con noi» e dopo un sorriso spavaldo lo superò imboccando le scale.
Holian, però, non era molto convinto, così chiuse a chiave la porta
seguendo il collega.

II
03:03

“Non respiro”. Questo pensiero la martellava da ore. Odry si


agitava nel letto, fradicia dalla testa ai piedi. Le coperte inzuppate
erano fastidiose e si appiccicavano sulla pelle.
Scattò a sedere, gli occhi sbarrati nel vuoto e il respiro irregolare.
Spostò lo sguardo febbrile intorno, la vista era appannata e tutto
sembrava vibrare come sotto una forte fonte di calore. Scostò le
lenzuola, ora in fiamme così come il materasso, e cadde carponi sul
pavimento battendo le ginocchia. Si sorresse puntando i palmi,
osservò le gocce di sudore colare a terra poi evaporare al contatto
col pavimento bollente. Il collare di Satan cadde, molle come
plastilina.
Voltò il capo alla sua sinistra: le due lattine di birra stavano
iniziando a sciogliersi e questo le fece comprendere che qualcosa di
terribile stava per accadere. “Il punto di fusione non è stato
raggiunto, ma di questo passo…” Con un briciolo di lucidità cercò di
alzarsi, mosse qualche passo, guardò le catene; chiuse gli occhi e
non ebbe bisogno di tirare troppo. Un anello di metallo si aprì,
rovente, lasciando cadere la prima catena. Così tirò anche la
seconda e quelle nelle gambe. Ringraziò Jelos per essersi scordato
di legarle il collo. Barcollante raggiunse la porta, vi batté una mano
lasciando impressa l’impronta. “Sta aumentando troppo in fretta”
pensò agghiacciata. Si passò il polso sugli occhi detergendo il
sudore fastidioso.
«Aprite, vi prego aprite!» rantolò cadendo in ginocchio. Esausta
batté un nuovo colpo e chiamò ancora e ancora, finché sentì un
rumore di passi veloci giù dalle scale.
Udì Jelos gridare: doveva aver provato ad aprire e si era ustionato
con la maniglia di metallo. Poi sentì le sue imprecazioni e dopo
alcuni minuti Odry vide l’estremità di un piede di porco frapporsi e
forzare l’apertura. Questa si aprì all’istante ed entrò una folata d’aria
fresca che durò poco.
L’uomo dovette risalire di corsa le scale per allontanarsi dal calore
insopportabile. Un secondo in più lì davanti e la sua pelle avrebbe
preso fuoco o si sarebbe sciolta. «Che cazzo sta succedendo?» urlò.
«Va’ in bagno e mettiti sotto l’acqua!» Era terrorizzato, tutto attorno a
lei era rovente e sarebbe stato impossibile raggiungerla.
«State facendo troppo casino… non capisco…» Odry si sedette
spalle al muro, che andò in fiamme. Chiuse gli occhi e si asciugò il
sudore, provò a mettere a fuoco il tragitto ma tutto tremava ed era
offuscato. «Da che parte?» rantolò ancora verso Jelos.
«A destra! Il bagno sta a destra!» le disse quello a voce alta.
«Non gridare!» urlò di rimando Odry facendo agitare le fiamme
che spaventarono anche Malik e Behethan, appena sopraggiunti
dalle camere ai piani alti.
Karasi arrivò invece dalla cucina e, gettando uno sguardo verso il
seminterrato, fu presa dal panico. Fissò Odry seduta a terra avvolta
dal fuoco e strinse i denti. «Che cosa state facendo lì impalati?
Volete che la casa crolli? Muovetevi! Allarmate tutti gli altri!»
E così si separarono. Malik raggiunse Belial e gli fece capire che
avrebbe dovuto aiutare a domare l’incendio mettendogli tra le mani
un secchio. Il principe, preoccupato, si allontanò in fretta insieme a
lui.
Odry si alzò a fatica appoggiandosi alla parete.
«Non osare fare un altro passo» le intimò Karasi, ma Odry la
ignorò, avanzò verso il bagno alla base delle scale, malferma sulle
gambe.
Una volta dentro, si gettò nella vasca, la ceramica si annerì e il
getto d’acqua che aprì alla massima potenza evaporò prima di
entrare in contatto col suo corpo. «Sto impazzendo» disse disperata.
«Sto impazzendo». Portò le mani tra i capelli stringendoli come
volesse strapparli. Pianse.
Tutto intorno a lei prendeva fuoco. Dall’esterno arrivarono le voci
concitate di Jelos e di tutti coloro che erano in casa a quell’ora.
Karasi strillava ordini che a lei giungevano incomprensibili.
«Basta…» singhiozzò chiudendo forte gli occhi. «Aiutami, ti
prego».
La luce del bagno si spense.
«Avvicinati».
Odry spalancò gli occhi sulle fiamme. Si voltò e puntò lo specchio
sopra il lavandino. “Quella voce”. Si alzò barcollante, uscì dalla
vasca e si aggrappò al lavandino, annerendolo. Con terrore alzò la
testa e fissò il suo riflesso sullo specchio.
Di fronte a lei non c’era la sua solita immagine, ma una diversa:
aveva le sembianze di un uomo fatto di fuoco, il fisico di un
guerriero, alto e muscoloso che indossava un’armatura nera di una
fattura bellissima, elegante e austera.
Odry lo aveva osservato senza tralasciare il minimo dettaglio. I
suoi occhi di cristallo fissarono quelli viola dell’elementale.
«Non ho mai voluto farti soffrire e tutto quello che ti sta accadendo
è solo il tuo risveglio». L’uomo mise la mano sul vetro e così fece lei
senza badarci, ignorando i richiami esterni e il fuoco che aumentava
tutt’intorno.
«Chi sei… perché ti mostri solo adesso? No, aspetta…» Era
incredula. «Tu ci sei sempre stato, vero? Eri presente anche nel mio
incubo, ma io non ti capivo… votharte, che significa?»
Quello annuì. «Il mio nome è Rakelech, dio del fuoco, e siamo
stati destinati dal giorno della tua consacrazione al mio altare: da
quel momento tu sei stata mia e sempre lo sarai, così come io sarò
per sempre tuo. Nel sogno c’ero anche io e volevo salvarti, ti
ordinavo di svegliarti». Si avvicinò e Odry indietreggiò d’istinto. «Mia
amata, non avere paura di me, capisco che sei spaventata, ma tu sei
la causa del tuo malessere, non io, non l’uomo che ami. Tu».
«Che cosa vuoi dire?» chiese deglutendo.
Rakelech si mosse in avanti uscendo dallo specchio, passando
attraverso il lavandino, fino a un passo da lei: alto, immenso. Le
pose le mani sulle guance asciugandole le lacrime. «Hai sempre
avuto la brutta abitudine di trattenere le emozioni, ma ti capisco
meglio di chiunque altro. Siamo uguali noi due. Voglio però che tu
sia migliore di me. Non trattenere più, lasciati andare, chiudi la
mente e abbandonati al potere che ti scorre nelle vene. Niente e
nessuno può tenerti in gabbia» le baciò la fronte e Odry tenne gli
occhi spalancati, tremando dalla testa ai piedi. «Lasciati andare, io
sono e sarò sempre con te».
Odry mise le mani sulle sue, chiuse gli occhi. Annuì.
Rakelech sorrise e la strinse al petto tornando a occupare il suo
posto dentro di lei.
La demonessa fu di nuovo sola, sapeva che ciò che aveva appena
vissuto non poteva essere un’allucinazione, o almeno ci sperò.
Espirò a fondo. Calmò il tremore alle mani e l’agitazione che
provava. Nella sua testa percepì solo silenzio e si sentì anche
rincuorata. E così decise.
«Io mi abbandono».
La casa si illuminò a giorno.

III
I Serafini si smaterializzarono in una strada di Londra illuminata
dai lampioni e da qualche luce proveniente dalle case circostanti.
Zachary, con loro, indicò la dimora in apparente stato di
abbandono. «Si trova lì, vogliamo entrare?»
«Bada di non fregarci» avanzò Chris, tenendo salda la sacca sulla
spalla.
«Io e Holian restiamo qui, Chris» disse Yovus. «Non mi fido
nemmeno io di questo tizio».
Zachary sospirò. «Perché parlate come se non ci fossi?»
«Perché sei un demone» ammise Holian con una scrollata di
spalle.
«Avanti muoviamoci, non mi va di perdere tempo». Dunne
spazientito si accostò a Zachary ed entrambi raggiunsero la dimora.
Il padrone di casa lo condusse sul retro. «Ovviamente» spiegò
«dobbiamo evitare il più possibile di farci notare, quindi useremo
l’entrata secondaria, anche se temo che qualcuno inizierà a
insospettirsi. Potevi evitare di portarti le guardie del corpo».
«Le precauzioni non sono mai troppe. Coraggio apri!»
Zachary tolse il cappello e fece per afferrare la maniglia quando il
colorito rossastro del metallo e una strana sensazione lo bloccarono.
Anche Chris riconobbe in lui un po’ di titubanza, quindi fece un
passo indietro e tese i sensi.
Alla fine il demone si decise e afferrò la maniglia che scoprì
rovente. Non si fece male, ma quel presentimento divenne
minaccioso, così aprì di scatto.
Un’esplosione li investì, schiantandoli contro l’alta parete
perimetrale.

Zachary scosse il capo e si massaggiò la nuca, digrignò i denti per


il dolore e aprì gli occhi.
Le macerie della casa erano in fiamme, le ultime pareti crollarono
in quel momento e lui dovette scattare verso sinistra per evitare di
finire in una voragine che stava dividendo in due il lotto di terreno.
Dall’altra parte vide Chris disteso, privo di sensi e guardò dentro
l’immensa spaccatura: il seminterrato era stato sventrato, era ormai
irriconoscibile e aveva dilaniato il terreno circostante; con molta
probabilità gli altri due Serafini stavano vedendo la stessa immagine.
Di fronte a lui vi era solo devastazione.
Ma il suo cuore si fermò: Odry.
Raggiunse il cumulo di macerie roventi e si fece inghiottire dalle
alte e rabbiose fiamme entrando in quella che una volta era la
cucina. Il cappotto nero, unico pezzo di abbigliamento acquistato in
un negozio terrestre, si disintegrò.
«Zac!» Karasi urlò.
Lui la sentì, ma la raggiunse solo quando fu certo di non avere la
minima idea di dove fosse la sorella.
La sciamana, che cercava di tenere salda una barriera che aveva
creato, era ormai allo stremo delle forze tra le braccia di Malik,
insieme a loro vi era anche Belial che chiamava Odry a gran voce.
Zachary quindi si avvicinò ai superstiti e respinse le fiamme,
creando una bolla sicura per permettere alla donna di riposarsi.
«Cosa è successo?» domandò con una certa freddezza.
«Quella puttana! È riuscita a liberarsi, non so come abbia fatto ma
si è rintanata nel bagno del seminterrato! Jelos ha detto che voleva
abbassare la temperatura, invece ha squagliato ogni cosa ed è
esplosa! E ora la casa sta per crollare in una voragine!»
«Vedo» constatò Zachary.
«Dobbiamo trovarla!» Belial era disperato. «Non le è mai
successa una cosa del genere, stava soffrendo! Non capisco come
sia potuto accadere!»
«Dove sono gli altri?»
«Morti» rispose Karasi.
Il demone fece un respiro profondo. «Non l’ho trovata» disse.
«Noi siamo gli unici sopravvissuti e dobbiamo andarcene subito»
s’impuntò la donna.
«Sta per crollare tutto!» esclamò Belial.
«Allora smettila di piagnucolare e smaterializzaci via da qui»
ribatté Karasi, seccata e allarmata.
Il giovane obbedì senza perdere tempo, quindi in pochi istanti il
gruppo si trovò distante dal pericolo.
«L’esplosione è stata devastante, l’avrà sentita l’intera città»
considerò Zachary.
«Il seminterrato è sprofondato per chissà quanti metri» ribatté
Karasi, si scostò una treccia dal viso e squadrò Zachary. «Hai
trovato le persone che cercavi?»
Lui annuì. «Trovati e portati qui. Ma poi la casa è esplosa e ciò
che ci interessava è scomparso». Si voltò verso di lei con uno scatto
d’ira incontrollato. «Tutto perché sei stata incapace di gestire la
situazione! Sei stata inutile e io ho perso il Globo e quella stronza di
mia sorella!»
Karasi lo schiaffeggiò. «Come osi far ricadere la colpa su di me?!
Tu non hai preso alcuna precauzione! Avresti dovuto ucciderla subito
e invece hai preferito giocarci!»
Il demone digrignò i denti. Avrebbe voluto strozzarla e ci avrebbe
tentato se solo Malik non l’avesse allontanata da lui per
tranquillizzarla. «Non si uccide una come lei. Non osare, sciacquati
la bocca con l’acido prima di parlarne ancora in questo modo».
«Dovevi ucciderla quando lo dicevo io e prendere l’elementale! Ma
tu ti lasci andare a stupidi sentimentalismi, verso chi poi? Le sei
stato vicino per qualche giorno! Sei solo uno stupido ragazzino!»
Karasi avanzò per provare a schiaffeggiarlo una seconda volta, ma
fu sempre il repentino intervento di Malik a impedirglielo.
«Stronza» sibilò Zachary; ignorò lo sguardo furioso della donna.
«Il Globo è sparito, i Serafini pure… o almeno non riesco a
percepirli, ma di certo sono feriti».
«E se fossero morti?» chiese Belial.
«Meglio così» considerò l’altro «perché in questo modo ci saranno
meno rotture di palle e per me sarà più semplice recuperare il Globo.
I Serafini sono forti e avrei avuto difficoltà». Si voltò verso Karasi
squadrandola con disprezzo. «A questo punto direi di smuovere un
po’ la situazione».
«Non perdere altro tempo» rispose lei velenosa.

IV
03:15

Il suo libro, quella notte, non era soddisfacente. Raphael ne aveva


già cambiati tre, ma nessuno di essi l’aveva rilassato abbastanza.
Non riusciva a chiudere occhio e a smettere di chiedersi da dove
provenisse il boato che cinque minuti prima lo aveva allarmato.
Prese l’ennesima boccata dalla pipa, ormai divenuta una
piacevole compagna. Osservò il cielo, ma non vide nessuna stella, le
nuvole coprivano la luna rendendo impossibile capire da che parte
fosse.
E si sentì come lei.
Da dove veniva di preciso? Dalla Francia, almeno da lì
provenivano il corpo e una parte dei ricordi. Dal Paradiso, da lì la
sua anima e l’altra parte di ciò che ricordava.
Ma da un po’ di tempo aveva messo in discussione tutta la sua
esistenza. Non seppe nemmeno dire più in cosa credesse davvero.
“Ciò che ci capita, è ciò che Dio vuole”. Questa era stata la sua
giustificazione per lungo tempo, ma ormai non gli bastava più come
risposta.
Stava agendo nel modo giusto?
No. Ma non avrebbe potuto fare di meglio.
Il vuoto provocato dall’assenza e dal cambiamento di Cassiel lo
devastava. O forse gli faceva male non aver saputo gestirlo? Era
sempre stato tanto egoista, impedendogli di ragionare con la sua
testa e portandolo a ragionare con la propria. Ma si trattava di
egoismo o apprensione?
Chiuse il libro, prese un’altra boccata di fumo.
Se c’era una cosa che riusciva a smuovere quel vuoto era un
preciso ricordo, anche se lo stesso portava sempre la nascita di
nuovi dubbi: il bacio con Victoria.
Avrebbe dovuto affrontare la situazione, almeno quella, e scusarsi
con lei.
Si alzò e tornò dentro. Udì un rumore provenire dalla cucina e
passandoci di fronte diede uno sguardo, ma poi si fermò e sollevò un
sopracciglio.
La succube stava al buio, l’anta del frigo aperta era l’unica fonte di
illuminazione e lei, in vestaglia, addentava con appetito ciò che
restava della crostata che Karen aveva preparato quella mattina.
Raphael entrò, facendo di proposito rumore con le pantofole e lei,
colta di sorpresa, tese le orecchie a punta, ingoiò in fretta l’ultimo
boccone e richiuse il frigo. Accese la luce e alla vista di Raphael, si
irritò. «Brutto quattrocchi! Mi hai fatto prendere un colpo!»
«Perché non soddisfi le tue voglie notturne in camera tua? Così la
gente che vive qui con te non ti farà spaventare».
«Non rompere le palle» gli ringhiò contro. Strinse la cinta della
vestaglia in vita, si diresse verso le scale scodinzolando nervosa e
borbottando qualcosa che comprese solo lei.
«Ti devo parlare» la interruppe. «Avresti un attimo?»
«Perché? Vuoi farmi la predica per il fatto che mangio di
nascosto?»
«Voglio parlarti di ciò che è accaduto dopo aver sepolto Molly».
Vicky si fermò all’inizio della scalinata, voltò appena il capo e gli
fece cenno di seguirla.
Lo fece entrare nella propria stanza, non lo guardò in faccia e
mentre lui si prendeva il suo tempo lei chiuse la porta. «Dimmi».
«Volevo chiederti scusa. Non avrei dovuto approfittarmi di te in un
momento così delicato». L’Arcangelo poggiò pipa e libro sul primo
mobile a disposizione. «Vedi, ci ho pensato a lungo e sono giunto
alla conclusione che è stata una grossa mancanza di rispetto».
«Certo che ne dici di cazzate» Vicky scosse la testa. «Siamo
adulti e sappiamo quello che facciamo, Raphael, non credere di
esserti approfittato della situazione o che ero così sconvolta e in
preda alla disperazione da prendere e baciarti» lo guardò irritata.
«L’ho fatto perché lo volevo, tutto qua».
Problema risolto. Raphael si era fatto solo un sacco di inutili
congetture. Ma gli crebbe la confusione.
«E io che pensavo mi detestassi e avessi scelto la tregua».
«Ti detesto, infatti» Vicky fu sprezzante «eppure, nonostante tu sia
la persona più odiosa, un pallone gonfiato di saccenza, un
quattrocchi di merda, ti bacerei anche adesso».
«Ti senti quando parli? Perché dovresti voler baciare una persona
che detesti?»
«Ma che vuoi?! Che ti elenchi i motivi che mi spingono a volerlo
rifare? Sei fuori di testa se speri che lo faccia!» avanzò verso di lui a
muso duro.
«Ti prego, non mi dire che ti ricordo Cassiel» nel suo tono c’era
una certa ironia. «Non ha davvero senso ciò che dici. Vuoi finire a
letto con me?»
«Non potresti mai ricordarmi Cassiel! Lui era gentile, ingenuo e
dolce, tutte cose che tu non sei e non sarai mai perché sei uno
stronzo! Ma sai cosa? In effetti ho pensato di venire a letto con te
perché mi fai pena».
«Coraggio, dimmi la verità e basta con le sciocchezze».
La succube avanzò ancora e lo spinse con un dito puntato sul
petto sfiorando la ferita da fioretto e facendogli male. I bracciali che
aveva al polso tintinnarono. «Sai essere così odioso, Raphael.
Giudichi tutti e più degli altri giudichi me senza che io abbia mai fatto
niente per meritarlo!» le tremò la voce. «Stavo iniziando a provare
interesse per te, ma per ogni azione buona e gentile nei miei
confronti ne spuntavano altrettante di insopportabili. Allontani tutti
senza motivo e poi, cazzo quanto ti detesto: ti guardo e ti leggo negli
occhi una solitudine immensa, la stessa di Cassiel. Solo ora ho
capito che quella povera anima ha subito la tua negatività. Sai,
nonostante tutto ho provato a venirti incontro, ma tu mi disprezzi e
questo mi ferisce! Meriti di restare solo» si allontanò accostandosi
alla porta. «Adesso vattene» girò la testa dall’altro lato. Il respiro
accelerato.
«Hai ragione su tutto» ammise l’Arcangelo. «Probabilmente ho
ingabbiato mio fratello per paura che soffrisse e di sicuro hai ragione
anche sul fatto che merito di stare solo. Ma non è vero che ti
disprezzo: ho imparato a conoscere te come gli altri e posso dire di
non detestare nessuno di voi».
«E allora perché mi tratti come se non ne facessi mai una giusta?
Come se non fossi alla tua altezza?! Ora dimmela tu la verità!»
Raphael scosse il capo. «Forse è il mio modo per allontanare le
persone alle quali temo di affezionarmi».
Vicky aggrottò le sopracciglia, non più sicura sul da farsi. In realtà
non si sarebbe mai aspettata da parte sua una rivelazione simile e
ciò la fece vacillare. «Anche se dall’altra parte fossi ricambiato?»
«Non ho più certezze di nessun genere, da nessuno».
«Te la sto dando io, eppure non mi consideri». Vicky scodinzolò, lo
osservò attraverso la semi oscurità della stanza. Se non fosse stato
per un lampione sulla strada sarebbero stati al buio.
Raphael abbassò la voce. «Beh… se smettessi di chiamarmi
quattrocchi…»
«Non posso smettere, è un dato di fatto che tu sia un quattrocchi».
Raphael annuì, arrendendosi. E si arrese anche al desiderio di
accarezzarle una guancia col dorso delle dita.
Vicky ebbe difficoltà a non guardarlo e quando lo fece si sentì
meschina, ancora una volta. Lo aveva accusato di tante cose, ma lei
era forse stata la prima a porsi in modo ostile nei suoi confronti. «Se
ti baciassi adesso, mi allontaneresti?» domandò osservandogli un
bottone della camicia del pigiama che indossava.
«No, stavolta no».
«E perché stavolta no?» Vicky si avvicinò posandogli una mano
sul petto, facendo ora attenzione alla brutta ferita.
L’Arcangelo la ignorò, le prese il viso tra le mani e la baciò con la
dolcezza che sentiva di provare in quel momento. Una dolcezza
latente, assopita chissà da quanto. Eppure, sarebbe bastato così
poco fin da subito.
Vicky chiuse gli occhi e si lasciò andare. Si alzò sulle punte
stringendogli le braccia attorno al collo. La delicatezza di Raphael
lasciò spazio alla passione della succube che aveva allentato ogni
freno inibitore e cacciato via tutto l’astio.
Il bacio si fece intenso, i respiri pesanti e Raphael fu costretto a
indietreggiare fino a quando, urtando il letto, non si ritrovò seduto.
Vicky gli tolse gli occhiali e gli osservò il viso da quella breve
distanza. Era identico a Cassiel, ma diverso al tempo stesso. Si
sedette sul suo bacino, gli leccò le labbra e il bacio riprese facendosi
lungo, interrotto di tanto in tanto da un respiro e da uno sguardo
profondo.
Poco dopo entrambi furono nudi: due corpi diversi che riuscivano
a combaciare alla perfezione.
Vicky si percepì per la prima volta tra le braccia di qualcuno che
non l’avrebbe mai e poi mai trattata come un oggetto.

Cassiel non riusciva a smettere di fissare quella scena.


Vicky era piegata contro il materasso, sul volto le si leggeva puro
godimento e Raphael dirigeva l’amplesso con vigore, stringendole i
fianchi morbidi. La coda della succube a tratti si agitava, a tratti
poggiava sul petto fasciato dell’Arcangelo, scossa da piccoli tremiti.
L’ex Arcangelo non aveva mai smesso di andare a far visita di
nascosto alla succube, nonostante avesse ucciso la sorella e fosse
stato cacciato da Raphael. Quella notte si pentì di averlo fatto.
“Traditore” pensò. “Ti sei preso la donna che amo. È per questo
che non sei mai venuto a cercarmi. Bastardo”.
Malgrado la sofferenza, non riuscì a staccarsi dalla finestra.
Così vide Raphael sussurrarle qualcosa all’orecchio; la succube
scese dal letto, gli cinse le braccia intorno al collo e lui la prese in
braccio. Quindi l’Arcangelo raggiunse una porzione di parete libera
tra letto e porta e la penetrò ancora.
Cassiel strinse i pugni nel vedere l’espressione appagata di Vicky,
la lingua biforcuta leccare le labbra del suo amante. La guardò
mentre diceva qualcosa che lui non poté sentire e la risposta del suo
gemello la fece sorridere vogliosa. La coda agitata gli accarezzava le
natiche.
Un gemito fin troppo forte della demonessa riuscì a passare oltre
la finestra e Cassiel lo udì: “Con me non ha mai goduto così tanto…
Lui è riuscito a essere migliore di me?”
Raphael le tappò la bocca e lei spalancò gli occhi con eccitazione,
poi lo costrinse ad allontanarsi e a spostarsi sul letto: stavolta
avrebbe diretto lei.
Cassiel rimase a bocca aperta nel vederla: bellissima, sensuale,
perfetta. Ma lei non lo avrebbe più voluto.
E in quel momento decise: se non avesse potuto averla lui, non
l’avrebbe avuta nemmeno Raphael.
L’ora è giunta

I
03:45

«A trenta metri da Buckingham Palace. Vi piace?» Zachary si


mostrò fiero del luogo in cui si erano materializzati, indicandolo con
entrambe le mani, come volesse abbracciare il suo piano.
Era notte fonda e non v’era un’anima in giro. Il cielo era terso e se
Londra non fosse stata tanto luminosa, avrebbero potuto vedere le
stelle.
«È ciò che volevi, il cuore di questa città è in mano tua, devi solo
restare concentrato» precisò Karasi muovendo qualche passo in
avanti. Si guardò intorno calcolando i possibili danni che da lì a poco
si sarebbero verificati.
La piazza, le abitazioni, i luoghi di ritrovo più prossimi quali pub e
ristoranti. Ma il putiferio sarebbe scoppiato anche solo se avessero
scalfito il cancello della residenza ufficiale del re d’Inghilterra. Ed era
certa sarebbe accaduto, Zachary voleva attirare tutta l’attenzione su
di sé: quale modo migliore se non un tale affronto?
«Sai che poi di questo luogo non rimarrà quasi nulla?» domandò.
«Cos’è questo luogo in confronto al mondo intero?» Zachary fece
spallucce. «Si tratta solo di un sacrificio insignificante in nome di
qualcosa di grandioso, non trovi?»
La donna non rispose, si limitò ad annuire.
Belial, in disparte, ascoltava con orrore. Non avrebbe mai voluto
assistere a nulla di tutto ciò, lì intorno un alto numero di esseri umani
sarebbe stato eliminato in poco tempo. «Dobbiamo per forza mettere
in mezzo i civili?» chiese titubante. «Voglio dire, non ti basta metterti
in mostra appiccando qualche grosso incendio e mettendoti al centro
come, non so…»
Zachary alzò gli occhi al cielo e lo interruppe per rivolgersi a
Karasi. «Il tuo controllo sta facendo cilecca sul principino».
«È inevitabile» continuò Karasi rispondendo al principe «è sempre
stato così e così sempre sarà, sire: per la creazione di un nuovo
mondo è necessario sacrificare delle vite e versare tutto il sangue
necessario; vostro padre è stato impeccabile in questo e così faremo
noi».
Malik posò una mano sulla spalla del ragazzo per rassicurarlo, ma
aggrottò la fronte e si fece da parte nel vedere Karasi in
avvicinamento. Lei afferrò il viso di Belial con una mano, affondando
le unghie nelle guance; scrutandolo sibilò: «Sei forte, ma stai al tuo
posto o sarò costretta a metterti un sigillo più potente» lo lasciò
andare in malo modo per tenere a bada i capelli mossi dal vento.
Alzò gli occhi al cielo e pensò: “Questo è libeccio, a breve
arriveranno nuvole cariche di pioggia”. Si rivolse a Zachary,
spazientita. «È ora di cominciare o sarai costretto a combattere sotto
il temporale».
Il demone annuì. «Non aspettavo altro». Sollevò la mano sinistra,
il palmo verso l’alto.
La punta delle dita divenne grigia e con una serie di capillari scuri
si diramò fino alla mano, poi coprì il braccio e la spalla e raggiunse il
volto. L’arto interamente percorso da brividi, i muscoli tesi, le vene in
evidenza per lo sforzo.
«Karasi connettiti con Ania e osservali attraverso di lei» disse
sotto sforzo «e appena percepiscono il Graal fammelo sapere».
Detto ciò, a mezz’aria, sopra la sua mano, si materializzò un
placido vortice cremisi che al centro si cristallizzava in qualcosa di
pulsante.
«Non ce ne sarà bisogno, lo vedrai da solo» rispose invece la
donna, che si fece da parte lasciando a Zachary più spazio, e intimò
anche a Belial e a Malik di fare altrettanto. «Ora non ci resta che
aspettare» disse, con una luce folle nello sguardo.
Il principe aggrottò la fronte nel vedere per la prima volta ciò che
era il Graal: così bello e ipnotico nei suoi movimenti, sembrava
animato di vita propria. Pericolosissimo se lasciato in mano
sbagliata. «Ci ucciderà prima che ce ne rendiamo conto» disse,
confortato da Malik, ora con entrambe le mani sulle sue spalle.
Osservò la sciamana dire qualcosa all’orecchio di Zachary, senza
avere la possibilità di sentire.
«E non dimenticare il tuo vero obiettivo» sussurrò lei. «Ricorda chi
devi uccidere».
«Sì» ribatté il demone emulando il suo tono di voce «puoi stare
tranquilla: Satan morirà stanotte».

II
03:48

Eva lo teneva per mano. Era bella, sorrideva, i lunghi capelli


ramati le coprivano le forme perfette. «Andiamo! Non farti
trascinare» esclamò.
Lucifer le stava dietro, in effetti si stava facendo trascinare: sotto il
calore che il suo animo provava nel rivedere quell’antico amore, un
buio presentimento lo rendeva riluttante.
Sapeva di sognare, era lucido.
Qualcosa disturbò il suo sonno. Le immagini divennero sfocate e
ripresero poco dopo.
Michael era lì, nel sogno. Lo osservava, ma Lucifer non riusciva a
comprenderne le emozioni: arrabbiato, sorpreso, malinconico. A ogni
battito di ciglia le espressioni sul volto del fratello mutavano,
rendendone indecifrabili le sfumature.
Ed ecco di nuovo l’interferenza.
Vide rosso, si sentì trascinare fuori dalla realtà onirica.

Lucifer sbarrò gli occhi nel buio.


Sedeva ancora sulla poltrona davanti alla finestra, si era
addormentato senza accorgersene.
Si mise una mano sul petto e analizzò la sensazione che lo aveva
destato così all’improvviso. Aggrottò le sopracciglia e una nuova
pulsazione, forte e penetrante, lo costrinse ad alzarsi.
Scrutò fuori dalla finestra, guardò il cielo che veniva coperto da
nuvole trasportate dal vento. «Il Graal» disse a bassa voce «è vicino,
lo sento». Percepiva il suo richiamo, come potesse parlargli,
chiamarlo per nome. Lo sguardo si spostò fugace sulla porta della
stanza.
Tutte le luci della villa si accesero all’improvviso. Le porte delle
camere da letto si spalancarono battendo su mobili o pareti
retrostanti.
Nessuno ebbe il tempo di lamentarsi o gridare dallo spavento,
poiché la voce del Signore Oscuro tuonò dentro la testa di ognuno
dei presenti.
«Prendete le vostre armi, andiamo a prendere il Graal».
Satan scattò in piedi col cuore in gola e uscì in corridoio, sperando
di trovare una spiegazione. «Il Graal?! Come sarebbe “andiamo a
prenderlo”? Adesso?»
I passi pesanti di Michael non si fecero attendere e prima che lui
potesse parlare, Raziel esclamò: «Che cazzo di modi!»
Karen era ancora nel letto, seduta con la schiena premuta contro
la testiera del letto, le coperte come scudo. Il suo sguardo
terrorizzato incrociò per un istante quello di Uriel, giunto a
tranquillizzare l’ungherese.
«Ci puoi spiegare?» domandò Mathael a gran voce, rivolgendosi
al Signore Oscuro.
Lucifer uscì in corridoio, accigliato guardò il fratello che ricambiava
lo sguardo con perplessità. «Ho sentito la presenza del Graal qui
vicino; in questo momento è fermo, ma dobbiamo sbrigarci per
recuperarlo» spostò l’attenzione verso l’ultima porta a sinistra.
«Quando il dottore e la succube si degneranno di terminare la loro
conversazione allora potremmo andare» stizzito si sistemò i capelli
dietro le orecchie.
I due amanti uscirono proprio in quel momento.
Satan e Mathael li fissarono con la bocca sbarrata.
«Le nostre armature?» considerò Uriel. «Sarebbe imprudente
andare scoperti».
«Non ti preoccupare, come già accennai ci ho pensato» gli ricordò
Mathael. «Mi sono permessa di nascondere qualche armatura in uno
dei tanti armadi polverosi del seminterrato».
«Cosa?» domandò Michael sbalordito.
La donna scostò i capelli dalla spalla con fierezza e alzò gli occhi
al soffitto. «Pensavo di averne già parlato. Useremo le vecchie
armature che indossavamo durante le simulazioni di battaglia, come
quando eravamo reclute. Io non sono cambiata e la mia mi calza a
pennello. Dovrete provare le vostre».
«Manca quello stronzo di Gabriel! Dove cazzo è?» chiese Raziel,
senza stare a sentire una sola parola.
«È andato a cercare la sua bella» ghignò Lucifer «ergo non sarà
dei nostri, a quanto pare. Adesso sbrigatevi! Stiamo solo perdendo
tempo prezioso!»
«Pezzo di merda» borbottò Raziel. «Muoviti Raphael, dobbiamo
andare!»
Nella villa scattò il delirio.
I pochi Arcangeli rimasti si precipitarono nel seminterrato per
indossare le armature di fortuna. Raziel non fece altro che
lamentarsi, in quanto avrebbe preferito salire a recuperare la sua.
«Smettila» lo rimproverò Mathael. «Se avessi portato via le nostre
se ne sarebbero accorti. E ringrazia di avere qualcosa con cui
proteggerti, Satan non ha nulla!» e al solo pensiero sentì una morsa
allo stomaco.
«Come facciamo con Cooper? Secondo voi Lucifer ha detto il
vero?» domandò Uriel mentre aiutava l’amica a sistemare i gambali,
per fare più in fretta.
Raziel schioccò un suono di dissenso con la bocca. «Fottuto
egoista, non ha fatto altro che pensare a quella donna, è diventato il
suo cane da guardia».
Michael non commentò. Ricordo l’ultima conversazione avvenuta
con Gabriel e lo maledisse col pensiero. “Se ti cacci nei guai per
inseguire Odry, giuro che ti prendo a calci nel culo”. I suoi pensieri
vennero interrotti dall’arrivo di Satan, intenzionato ad aiutare gli
Arcangeli pur di non sentire il peso dell’attesa e dell’ansia.
Il demone sostituì Uriel e si beccò svariati insulti da parte di
Raziel, che si chiedeva come avesse potuto lasciare sola Karen con
Lucifer in giro.
Mathael udì la voce del demone non appena le grida
dell’ungherese si furono spente, una volta giunto al piano superiore.
«Sta attenta» le disse, mentre con mani tremanti le sistemava il
busto.
«Satan lo sai bene che…»
«Che sei forte, risoluta, abile e sai tenere testa al nemico. Lo so,
ma stai attenta. A chiunque» e il suo sguardo fu significativo, tanto
da portare Mathael ad abbassare il proprio. «Se le cose dovessero
mettersi male voglio che ti allontani» le disse infine e lei non riuscì a
controbattere notando quanto preoccupato fosse quel viso che
adorava.
Vicky, ancora al piano di sopra, cercava di tranquillizzare Karen
insieme alle sorelle, Ruby e Summer. L’umana si era da poco unita
con l’amore della sua vita e ora temeva di perderlo per sempre. Lo
stesso fu per la succube.
Questa intercettò con la coda dell’occhio Raphael, già pronto, e
lasciò la francese alle cure delle altre due demonesse. Quindi uscì
dalla stanza, lo raggiunse chiamandolo e quando lui si girò, lei lo
strinse con trasporto. «Vedi di tornare tutto intero, quattrocchi…»
«E tu proteggile» rispose lui baciandole la fronte.
Vicky annuì con fermezza stringendosi nel cardigan e si fece da
parte per far passare Barakiel.
Il Cherubino scese nel seminterrato e li sbirciò a uno a uno,
rimanendo nascosto dietro lo stipite della porta. Erano impreparati,
con equipaggiamenti di modesta qualità, eppure nei loro occhi vi era
una forza bruciante, la sintonia era palpabile.
Il passaggio di Ania lo fece trasalire e tornare da Lucifer, ma vi fu
un breve e intenso contatto visivo: un Cherubino messo in
soggezione da un’umana.
La strega si avvicinò silenziosa a Michael, con le sue dita sottili gli
infilò qualcosa tra il busto dell’armatura e la maglia. L’Arcangelo se
ne accorse solo quando lei, con rapidità, si diresse di nuovo alle
scale.
Questo estrasse con difficoltà un foglio ripiegato tre volte, sorrise
nel vedere un sigillo di protezione angelico tracciato a mano. “La
ragazza è esperta” pensò compiaciuto. Si guardò intorno notando
che, forse, nessun altro aveva ricevuto quel dono.
Divenne cupo.
La colonna di fuoco

I
04:00

Cassiel attese che la casa fosse priva di ogni ostacolo. Karen,


Vicky e le sorelle, Ania e il piccolo di cui non conosceva l’identità
erano soli, finalmente.
“Si pentiranno di avermi trattato come uno zerbino per una vita
intera, di avermi tradito, di avermi abbandonato” pensò.
Passeggiò attorno al perimetro della casa, ragionando sulla sua
ultima idea. Un’idea azzardata ma che, di certo, gli avrebbe donato
un senso di piacere e soddisfazione. E sarebbe stata la sua
vendetta.
Forse solo Ania avrebbe potuto rappresentare un problema, visti i
suoi poteri da sensitiva, quindi doveva agire in velocità, dopodiché
non ci sarebbe stato più posto per i sensi di colpa.
“Avete sempre dato la precedenza a Odry, ovunque essa sia
andate a cercarla e pendete dalle sue labbra”.
Vide un cumulo di sterpaglie e constatò quanto sarebbero state
perfette se non fosse stato per la pioggia. Fu una fortuna che la
padrona di casa stesse bruciando delle erbe, forse per purificare
l’ambiente dopo la presenza di Lucifer: ai piani più alti aveva lasciato
qualche finestra aperta per arieggiare.
Cassiel si arrampicò con fatica fino alla stanza di Satan e Mathael,
quindi si sedette sul davanzale. Infilò una mano nella tasca della
felpa verde prestatagli da Jelos e tirò fuori un accendino e alcuni
pezzetti di tessuto bagnati. Li osservò alcuni istanti, poi li portò al
naso inalando a occhi chiusi. Sorrise soddisfatto. “Adoro il profumo
della benzina”.

II
La prima cosa che Zachary e i compagni videro fu il gruppo di
Arcangeli materializzarsi intorno a loro, accerchiandoli.
Satan, proprio di fronte a lui, aveva l’espressione più seria che gli
si fosse mai vista in volto.
Fu la voce tagliente di Lucifer a costringere il gemello di Odry a
voltarsi: «Dunque, hai intenzione di consegnare il Graal oppure devo
venire a strappartelo di mano personalmente?» Il Sovrano passò tra
gli Arcangeli con un sorriso forzato.
Zachary si mostrò sicuro. Assorbì il Graal dentro il proprio corpo,
la pelle tornò ad assumere un colorito umano, niente più vene scure
e grigiore. Li guardò a uno a uno con una certa delusione, ignorando
del tutto l’Imperatore. «Non c’è Odry. Quindi non vi ha raggiunti?»
Karasi strinse i pugni cercando di contenere il nervoso “Devi
pensare prima a Satan” pensò come se lui potesse percepirlo.
«Dammi il Graal» sibilò Lucifer, allungando una mano verso il
demone «dammelo subito».
«Dov’è Odry?»
«Non mi piace ripetere le cose. Ti do l’ultima possibilità di
consegnarmi la reliquia».
«E io ho chiesto dove cazzo è mia sorella».
Attorno a Zachary, come filtrato dal cemento, apparve un cerchio
di fiamme scure; l’espansione fu così veloce che i presenti dovettero
indietreggiare per evitare di venirne investiti. Entro quel perimetro il
pavimento divenne nero e, con un boato, una maestosa e alta torre
di fuoco raggiunse il cielo plumbeo, squarciandolo. Aveva gli occhi
furiosi.
«Lei non è qui! Potrebbe essere morta per quanto mi riguarda»
sbraitò Lucifer. «Ora dammi quella reliquia!»
Satan, preoccupato per la rapida degenerazione degli eventi,
scambiò un’occhiata con Michael che riportò l’attenzione sul nemico:
non intendeva perderlo di vista. Anche se in cuor suo sapeva di
dover tenere d’occhio Lucifer.
Che fine aveva fatto il desiderio di uccidere Zachary per l’affronto
ricevuto?
Lo sguardo del gemello di Odry all’improvviso gli diede i brividi e
una sensazione pericolosa lo investì, così come accadde a Satan.
La perdita di controllo di Zachary provocò un ulteriore
allargamento della colonna di fuoco.
E iniziò la devastazione.
Qualsiasi cosa nel raggio di trecentocinquanta metri venne
investita da un’ondata di fiamme scure. La porzione di giardini
all’interno del perimetro venne rasa al suolo, a Buckingham Palace e
nei palazzi più vicini tutti i vetri andarono in frantumi, lo stesso fu per
le automobili. Solo le abitazioni su cui si fermò il fuoco infernale si
incendiarono e presto le grida e gli allarmi svegliarono il quartiere.
I presenti si guardarono intorno inorriditi. Satan faticò a reggere la
barriera evocata attorno a sé e agli altri. “Dev’essere a causa del
Graal dentro di lui”.
Lucifer scosse il capo, sbuffò annoiato e seccato per l’attesa, ma
per nulla intimorito. D’improvviso scagliò su Zachary una sfera
d’ombra avvolta da scariche elettriche di un viola intenso, con una
potenza che fece tremare l’aria. Il demone volò a una decina di metri
di distanza, battendo la schiena contro un palo che tremò con
violenza sotto l’urto.
La colonna di fuoco, però, rimase stabile per sua silenziosa
volontà.
Satan deglutì con orrore constatando l’autocontrollo del loro
nemico. “Non si torna più indietro” pensò.

III
04:34

Il fuoco continuava ad ardere furioso. Il calore era soffocante.


Nonostante fosse passata un’ora e mezza, Yovus e Holian ancora
sedevano tra i rami di uno degli alberi abbastanza distanti da
resistere all’esplosione. Di fronte a loro uno spettacolo da brividi.
La casa di Zachary era ormai ridotta a un cumulo di macerie quasi
del tutto soffocate dalle fiamme; una buona parte era sprofondata in
una voragine così ampia che aveva trascinato con sé anche le
abitazione intorno, le automobili e le strade entro un raggio di
almeno cento metri.
Vigili del fuoco, ambulanze e forze dell’ordine erano già sul posto,
in molte unità vista la superficie coinvolta.
«Andiamo a cercare Chris» ordinò Holian. «Se ci
smaterializziamo più vicino possibile, possiamo sfruttare le fiamme
per nasconderci dagli umani».
«Sarà morto, cazzo» considerò Yovus. «Se è vero che lì dentro c’è
la sorella di quel pazzoide, ormai sarà abbrustolito».
«E se fosse vivo? Dobbiamo accertarcene, non possiamo
abbandonarlo così».
«In ogni caso dovremmo aspettare che le fiamme diminuiscano».
«Siamo qui da un’ora e mezza. Non ti sei chiesto perché ancora
non siano diminuite?» Holian scosse il capo. «Andiamo».
Scomparvero e con cautela si materializzarono a circa cinque
metri dal punto in cui sorgeva la casa di Zachary, in uno spiazzo
libero, senza il rischio di bruciarsi. Potevano udire lamenti e pianti
dei pochi sopravvissuti.
Yovus imprecò. «Dobbiamo scavare e trovarlo prima che arrivino
gli umani in questa zona… tutto per quella grossa cazzata delle
gemme».
«Chris!» Holian si chinò e smosse alcune travi continuando a
chiamarlo con insistenza.
Il fuoco ancora presente rendeva l’aria irrespirabile e presto i due
Serafini iniziarono a tossire a causa della polvere e della cenere. Si
coprirono la bocca con il braccio. E del Globo non vi era traccia.
Un rantolo li attirò.
Si voltarono verso sinistra e intravidero un braccio fuoriuscire dalle
macerie. All’anulare l’anello distintivo dei Serafini.
Holian e Yovus si precipitarono verso di lui inciampando sulle
macerie. Il primo gli afferrò la mano. «Siamo qui, amico. Ora ti
tiriamo fuori» e con un gesto incoraggiò l’altro ad aiutarlo.
«Spostiamo queste assi».
Con fatica, stando attenti a non farsi vedere da superstiti e
soccorsi, riuscirono a liberare Chris e con orrore notarono le sue
gravi condizioni: il Serafino era in parte ustionato, gli abiti si erano
incollati alla pelle del lato sinistro del busto. Questo rantolò: «Il
Globo… il Globo».
Holian guardò Yovus e strinse la mano di Dunne. «È andato
perduto».
Chris spalancò gli occhi insanguinati e si agitò.
«Ma non ne siamo certi». Yovus diede uno scappellotto al collega,
a denti stretti e bassa voce aggiunse: «Abbiamo cercato lui,
riprendiamo a cercare anche quello che ci è più utile, no?»
Dunne a fatica si mise in piedi e con lo sguardo allucinato iniziò a
smuovere le macerie dicendo: «Devo trovarlo, devo prenderlo, è
mio».
«Chris sei completamente ustionato, ti riportiamo al DEM e lo
cerchiamo noi, va bene?» propose Yovus, ma quello sembrò non
sentirlo.
Holian rivolse al collega un’occhiata in tralice; si fece vicino
all’amico e lo aiutò nella ricerca spostando travi, mobili e tutto quello
che trovava. Quindi si aggiunse anche il terzo Serafino.
Del Globo nessuna traccia.
Cosa sarebbe accaduto se li avessero visti gli umani? Dovevano
ridurre al minimo la loro presenza sul piano terrestre, ma Chris
sembrava non pensare ad altro che a quel prezioso oggetto.
«Certo che se avesse evitato di portarlo con sé, a quest’ora
saremmo al sicuro al DEM» constatò Yovus.
«Taci!» gli ringhiò contro Chris voltandosi e Holian subito si mise in
mezzo prendendo Yovus per un braccio. «Siamo già in una
situazione precaria, vuoi farlo uscire di testa più di quanto non lo sia
già? Tieni chiusa quella bocca del cazzo e continua a cercare».
Yovus continuò a imprecare tra sé quando uno strano rumore
attirò la sua attenzione. Scavando trovò un rubinetto quasi fuso e
immaginò di essere vicino a ciò che fino a poco prima era stato un
bagno. Il rumore si ripeté, ma lui lo interpretò più come un rantolo.
«Fate silenzio, qui sotto c’è qualcuno. Chris! Forse è il tuo amico, il
traditore!»
Dunne si avvicinò traballando e Holian non poté che rabbuiarsi
nell’osservarlo. “È fuori di sé” pensò. “Le sue ustioni sono gravi e,
nonostante il dolore, il suo pensiero va solo al Globo”.
Chris si accostò al collega. «Voglio ammazzare quel bastardo».
Insieme scavarono, spostando pezzi di muro e mobili bruciati.
L’odore era insopportabile: plastica e metallo fuso, legno, e tanfo di
esseri viventi carbonizzati.
«È troppo profondo» constatò Holian passandosi un braccio sulla
fronte. «È rischioso, il terreno potrebbe cedere ancora».
«Voglio ammazzare quel bastardo!» s’impuntò però Chris,
calandosi nella voragine.
Yovus quasi rise di fronte alla situazione. Si rivolse a Holian con
ironia e voce bassa: «Tieni chiusa quella bocca, vuole ucciderlo!
Aiutiamolo».
L’altro Serafino lo guardò malissimo e si calò nello sprofondo
accanto a Chris che, con mani ustionate e sanguinanti, cercava
Zachary.
Ma al posto del demone trovò un viso familiare che non vedeva da
tempo.
Odry era sepolta sotto metri di macerie e terra, priva di sensi, con
contusioni, graffi, lividi e sporca di sangue.
La collera gli ribollì nelle vene. «Ammazzatela!» gridò contro gli
altri due, così entrambi i Serafini evocarono le armi e Holian, più
veloce, caricò una freccia luminosa.
La demonessa spalancò gli occhi viola e i Serafini indietreggiarono
d’istinto. Tutto si aspettavano tranne quel risveglio repentino. Holian
fece per scoccare quando tutte le fiamme vennero risucchiate dal
corpo di Odry avvolgendola come uno scudo.
“Ecco perché queste fiamme non si spegnevano e rimanevano
circoscritte” ragionò l'arciere. “Rispondono solo a lei”.
«Ammazzala!» ordinò Chris e lui scoccò. La freccia oltrepassò le
fiamme per conficcarsi in un pezzo di cemento annerito.
Odry e il fuoco che la circondava erano spariti nel nulla.
All'improvviso.
Yovus rimase a bocca aperta. Holian aggrottò le sopracciglia e
Chris imprecò ad alta voce, insultandola.
I soccorritori si muovevano a piedi a causa della devastazione,
solo l’elicottero che girava lì intorno poteva scorgere qualcosa di
concreto.
«Hey, voi laggiù! È pericoloso!» Alcuni pompieri guardavano i tre
Serafini, allarmati.
Dunne, deformato dall’odio e dalla sofferenza, strappò a Yovus
una delle sue asce e la lanciò contro il primo umano in
traiettoria. L’arma gli fracassò il torace. L’uomo cadde a terra senza
un fiato e i colleghi indietreggiarono, poi corsero a dare l’allarme.
«Inutili creature, levatevi di torno!»
Holian guardò Yovus ed entrambi concordarono per portare via il
collega fuori di senno. E nell’osservare i pompieri allontanarsi e
minacciarli, videro anche qualcosa che li lasciò a bocca aperta.
Una colonna di fuoco scuro, alta fino al cielo, tagliava in verticale
la visione della città penetrando i nuvoloni e creando con essi un
vortice minaccioso.
Senza perdere altro tempo si smaterializzarono sotto lo sguardo
attonito e terrorizzato degli umani.

IV
04:42

La colonna di fuoco era impossibile da spegnere. I camion dei


pompieri la circondavano, potenti getti d’acqua provavano ad
arrestare quella forza sconosciuta che divorava le abitazioni lungo il
perimetro infuocato. Invano. I soccorsi cercavano di evacuare l’area.
I morti erano decine e decine e tutte le forze di Londra erano
concentrate in quella zona. Le ambulanze andavano e venivano;
sostavano per caricare i feriti e ripartivano, ma molti non giungevano
vivi in ospedale.
L’allarme, però, non si era fermato ai civili.
I mezzi militari della Royal Army avevano circondato Buckingam
Palace e si accingevano a portare al sicuro i reali.
Gli elicotteri non riuscivano a penetrare nell’alto scudo infuocato.
Due di loro ci avevano provato, puntando sull’alta velocità, ma la
temperatura era così elevata da averli disintegrati all’istante.
Lo scontro al suo interno veniva ripreso, per quanto possibile, dai
reporter che si tenevano a debita distanza.
Michael e Uriel avevano raggiunto Zachary, impegnando battaglia.
Il primo aveva provato a neutralizzarlo utilizzando tutta la forza
possibile, senza il minimo risparmio d’energia. Il secondo aveva
cercato di soffocare gli attacchi di fuoco col proprio, ma la sua
sacralità era quasi inutile: il demone veniva potenziato dal Graal.
Barakiel intanto restava accanto a Lucifer, come volesse
proteggerlo ed essere pronto ad agire a ogni ordine. Malik stava
incollato a Karasi per lo stesso motivo.
Belial approfittò di un momento di distrazione di questi ultimi per
allontanarsi e raggiungere Satan. «Lui che cazzo ci fa dalla nostra
parte? È uno scherzo?» domandò, riferendosi al padre.
Il rosso, senza staccare gli occhi dall’azione, rispose: «È una
lunga storia. Tu, piuttosto, che fine avevi fatto? Come sei tornato
qui?!»
«Grazie a Belphagor… che è morto. Poi la strega e Zachary mi
hanno portato via tramite il portale di Georgie». Belial rispose di
getto, come volesse togliersi quel peso.
E per Satan fu la conferma del messaggio che Hakam aveva
portato con sé e dello sfruttamento della piccola da parte del fratello
di Odry. «D’accordo, adesso devi aiutarci» disse al principe che si
guardava intorno spaesato e intimorito. «Concentrati e fai ciò che
facesti nella prima battaglia: non pensare a nulla» lo guardò con
intensità e gli sorrise. «È bello rivederti».
L’altro gli rispose con un occhiolino e si voltò, puntando di nuovo
Karasi e Malik pronto a coglierli di sorpresa. Ma si bloccò all’istante,
sconcertato.
Attorno al ridotto campo di battaglia, proprio fuori dal perimetro
infuocato, vi erano innumerevoli persone. Erano immobili, la loro
aura rendeva l’atmosfera pesante. Fu impossibile comprendere da
quanto fossero lì, ma chiunque, chi prima e chi dopo, venne distratto
da una strana sensazione. Solo Belial la riconobbe: era la stessa
percepita durante il recupero delle Tre Spine.
«Sono loro» sussurrò più a se stesso che all’amico. «Sono
sempre stati loro fin dall’inizio, ci hanno impedito di prendere le
reliquie».
Satan sbiancò, constatando la loro netta inferiorità numerica.
Deglutì, indietreggiò d’istinto, diede un’occhiata alla posizione di
Mathael, attenta al combattimento degli amici contro Zachary e
vicina a Raziel e Raphael. «Sono tantissimi…» sussurrò «e noi
siamo soltanto in nove».
Ma Belial non lo sentì, tanto era perso nei suoi ragionamenti.
“Abbiamo sempre pensato volessero proteggere le reliquie e favorire
gli angeli, ma la nota stonata è stato il furto del Graal da parte di
Zachary”.
Le persone si mossero. Passarono attraverso l’alta parete nera
tramite varchi aperti da Zachary, che non aveva perso il controllo
sullo scontro. Dieci di loro scattarono di corsa verso Raziel, Mathael
e Raphael, ingaggiando battaglia.
“Quindi, in realtà, le volevano anche loro ma non sono mai stati in
grado di trovarle. Ci osservavano e seguivano i nostri movimenti per
capire dove fossero, ma non potevano percepirle come abbiamo
potuto fare noi. Zachary le avrebbe volute tutte, come Lucifer?” Un
colpo di catena colpì Belial alla schiena, facendolo barcollare in
avanti. Si era distratto e l’arma di Raziel gli era finita addosso.
«Levati!» gli gridò quello.
«Belial! Che ti prende?» fece Satan allarmato.
«Poi ne parliamo!» Il giovane si allontanò per aiutare gli Arcangeli,
mentre Karasi esortava Malik ad allontanarsi e trovare un posto
sicuro per evitare di venire coinvolti.
Buckingham Palace era in fermento, le guardie armate dietro il
cancello puntavano i fucili sul gruppo di pazzi che lottavano tra
fuochi ed esplosioni, mentre gli ultimi civili venivano portati fuori dalla
struttura.
Zachary iniziò a provare soddisfazione mentre Uriel e Michael
cercavano di contrastarlo. «Karasi! Tra poco gli umani vedranno!»
riuscì a dirle mentre si difendeva.
Lei rispose con un sorriso tirato poi borbottò: «Esibizionista, si è
già dimenticato il suo vero obiettivo. Forza Malik, occupati di Satan:
deve morire oggi».
Intanto anche il rosso aveva ingaggiato battaglia contro uno degli
strani esseri dall’aura vibrante: una donna bionda e riccia con una
benda sull’occhio. Bianca sollevò lo sguardo e intercettò la figura di
un alleato in avvicinamento, quindi si allontanò. Satan dapprima
pensò a una fuga, poi si sentì sollevare e lanciare, finendo addosso
a Uriel.
Raziel si voltò infastidito e, da una distanza di cinque metri,
agganciò Malik al collo con la catena argentata trascinandolo a sé:
aveva trovato un nuovo avversario.
Satan si rialzò; lottava contro se stesso, non aveva intenzione di
lasciare che la parte bestiale prendesse il sopravvento. Ogni volta
che accadeva, una piccola parte razionale di lui spariva con i sigilli.
Eppure li sentiva pulsare dolorosi sotto la maglia. La voglia di
abbandonarsi al suo vero io era invitante. Poté prendere il respiro
per poco perché subito gli furono addosso almeno cinque avversari.
Un gruppo di nemici alle sue spalle venne bruciato dal fuoco di Uriel
che, con una fiammata blu, illuminò l’area per un istante.
Il demone lo ringraziò mentalmente, mentre si sbarazzava degli
altri che, nel frattempo, lo avevano circondato. «Dov’è Gabriel?!
Sono troppi!» strillò verso i compagni che avevano avuto lo stesso
pensiero. Quella domanda disperata gli costò un calcio sulle costole
e uno nella schiena.
«Non finiscono più!» esclamò Mathael dopo essersi liberata di due
di loro.
«Sono gli esiliati: angeli caduti e demoni rinnegati». Raphael li
aveva riconosciuti quasi subito. «E puoi solo immaginare quanti di
loro nel corso dei millenni siano stati cacciati sulla Terra».
Lucifer si teneva distante dallo scontro e i suoi occhi non
perdevano un solo movimento di Zachary. Attendeva il momento
giusto. Sarebbe arrivato presto e lui non se lo sarebbe fatto
scappare.
Barakiel, accanto, era in fibrillazione, ma riusciva a contenersi
molto bene. «Perché non vai a prendere il demone?»
«Preferisco un’entrata a effetto».
Nonostante questo, il Cherubino riconobbe in lui un certo
nervosismo. «Però è contro Michael e Uriel. Non si aspetterebbe mai
un tuo attacco e potresti farla finita subito».
Il Sovrano non rispose, assottigliò lo sguardo.
In meno di quindici minuti lo scontro prese una piega brutale.
Malik si mise di nuovo contro Satan, dopo essersi liberato dalla
presenza di Raziel.
Il rosso lo accolse a braccia aperte e si lasciò travolgere per poi
sfruttare a proprio favore la forza dell’avversario: lo scaraventò
lontano quanto bastava per lasciare il passo al suo demone interiore.
Aveva ceduto.
Il muso si era allungato, le zanne e i denti erano ancora più aguzzi
rispetto alle precedenti trasformazioni. Gli occhi feroci assunsero
una luce sinistra, non vi era più ragione in loro.
Quello tra lui e l’angelo caduto fu uno scontro in cui la forza fisica
era l’unica a venire utilizzata.
Malik fermò molti attacchi del mostro che aveva di fronte, ma poi
dovette scansarsi per evitare di finire sbranato. Poche volte riuscì a
colpirlo, e ottenne in cambio solo attacchi sempre più potenti,
fomentati dalla furia omicida. Dopo svariati tentativi riuscì a balzargli
sul dorso e afferrargli mascella e mandibola: ci mise una forza
disumana per aprirgli le fauci con l’intenzione di spezzargli le ossa.
Satan si divincolò, Malik gli strinse le gambe attorno al busto per
rimanere ben saldo. La bestia si agitò ancora e approfittò del
momento in cui il parassita si concentrò sulla presa delle gambe, per
chiudere la bocca e addentargli una mano, scrollandoselo di dosso e
tenendolo penzoloni. Scosse con forza e gli ruppe l’osso del braccio,
ma l’angelo non potè gridare quanto avrebbe voluto: le cuciture sulle
labbra presero a sanguinare. Con un morso Satan gli dilaniò la carne
e gli strappò via metà arto, allontanandosi per masticarlo.
Una versione della bestia nuova agli occhi di Mathael, che, come
nella battaglia precedente, non lo perdeva d’occhio. Si era ricordata
della sua ricerca e aveva notato subito che la forma mostruosa del
demone era ancora più terribile rispetto all’ultima volta. Avrebbe
voluto osservarlo più da vicino, ma la curiosità le costò uno strattone
all’ala inferiore destra: due degli uomini di Zachary la trascinarono a
terra colpendola più volte; lei recuperò presto il controllo e schivò un
colpo di scure che avrebbe potuto ucciderla. In mezzo alla mischia
utilizzò le ali per difendersi, spingere e colpire via gli avversari.
Raphael si accertò che la compagna stesse bene e tornò a lottare.
Esperto nelle brevi distanze e dotato di un’abilità mortale con il
fioretto d’oro, combatteva fianco a fianco con Raziel a cui non
sfuggiva nessun nemico. La catena sgusciava da una parte all’altra
come un serpente, afferrando e frustando gambe e braccia per
impedire di portare a compimento gli attacchi, focalizzandosi
soprattutto su teste e spezzando ossa del collo con forti strattoni. I
due si coprivano le spalle a vicenda e rendevano impossibile la vita
agli avversari intorno a loro. Ruotavano per scambiarsi i rivali e chi
veniva afferrato e trascinato da Raziel, si trovava in serie difficoltà, o
periva sotto gli affondi letali di Raphael.
Lo scontro più importante, intanto, era in continuo spostamento.
Zachary riusciva a reggere il confronto, i due Arcangeli non
sapevano come ribaltare la situazione.
Uriel si era presto reso conto che combattere contro il demone
equivaleva a combattere contro un Serafino. E sperare nell’aiuto di
Dunne e degli altri sarebbe stato impossibile perché, di certo, per
vendetta, avrebbero pensato prima a spazzare via dal campo di
battaglia qualsiasi forma di vita che non fosse stata di origine
demoniaca. Come se non bastasse, doveva tamponare gli errori di
Michael, che sembrava parecchio distratto.
L’Arcangelo, infatti, di tanto in tanto osservava Lucifer, sembrava
aver perso interesse per Zachary. Nemmeno le fiamme azzurre che
gli passavano a un soffio dal viso riuscivano a farlo tornare alla
realtà. I pensieri andavano al fratello e al motivo per cui rimaneva
lontano, come uno spettatore, ad ammirare angeli e demoni che si
ammazzavano tra loro e lo svantaggio della fazione che diceva di
appoggiare. Gli Arcangeli erano forti e il contributo di Satan e Belial
era un grande salto di qualità, ma l’esercito di caduti e rinnegati non
sembrava cedere.
Gli avversari erano troppi.
Michael prese un colpo alla testa così forte da stenderlo.
Cadde a occhi chiusi e quando li riaprì si rese conto di quanto
fosse grave la situazione all’esterno della parete infuocata. Vide le
luci degli elicotteri e il rumore dei rotori sembrò arrivargli chiaro solo
in quel momento. Vide i camion dei pompieri, le ambulanze. Le
sirene erano numerose. Sentì anche le grida disperate degli umani.
Una palazzina crollò sotto le fiamme. I mezzi militari circondavano
l’area e in lontananza vide avvicinarsi un carro armato.
Ebbe timore di loro come fossero creature sovrannaturali, ma
erano solo qualcosa che cercavano di evitare da millenni.
Si mise a sedere, mentre Uriel lo proteggeva da eventuali attacchi
di Zachary e lo esortava a combattere. Poi, a poco a poco,
comparvero nel cielo delle luci. Prima dieci, poi quindici e infine
troppe per poterle contare. Erano tutte dorate.
“Non sono elicotteri, non potrebbero attraversare la parete di
Zachary”. Pensò, poi si alzò e venne spinto via da Uriel che,
stavolta, gli riversò addosso alcuni insulti. Ma lui era troppo
impegnato a capire cosa stesse succedendo sopra le loro teste.
Sollevò di nuovo il capo e constatò quanto quei bagliori si fossero
avvicinati. Tre di loro, posti a triangolo, spiccavano tra gli altri poiché
più intensi e vibranti. Non rallentavano, da un momento all’altro si
sarebbero schiantati al suolo, ne era certo.
Si fecero ancora più vicini.
Michael le riconobbe tutte e tre e sgranò gli occhi. Prese quanto
più fiato poté e gridò: «I Serafini! Arrivano!»
Il fuoco della vendetta

I
04:45

Odry si materializzò nell’unico punto che conosceva, l’unico che,


malgrado tutto, aveva imparato a considerare come una casa in cui
poter tornare. Ma la sua vista non fu un sollievo.
Gli occhi sbarrati riflettevano le immagini della villa in fiamme. Una
colonna di fumo denso si levava alta e spessa, ma nessuno del
vicinato era accorso. “La barriera visiva di Satan regge” pensò.
Ancora un po’ stordita dal risveglio improvviso di poco prima, si
mosse verso l’entrata principale. Riuscì a evitare le travi crollate del
soffitto. Tese le orecchie. Il fumo la fece lacrimare. «Ania! C’è
qualcuno?» gridò. Tossì mettendo una mano davanti alla bocca.
«Karen! Parlate vi prego!» continuò, spostando i mobili in fiamme
che le ostruivano il passaggio.
Udì in lontananza delle grida di aiuto. “Vicky!” riconobbe con
raccapriccio.
Doveva fare qualcosa, altrimenti avrebbe perso chiunque fosse
stato ancora lì dentro.
Attraversò il soggiorno evitando il crollo di altre travi e scese di
corsa verso il seminterrato, le urla della succube provenivano da lì.
«Siamo qui!» urlò Vicky.
«State ferme dove siete, sto entrando!» Tese il braccio e assorbì
le fiamme che divoravano l’ingresso del piano di sotto, sferrò un
calcio alla porta sfondando il legno annerito.
La succube le si gettò tra le braccia stringendola forte.
«Perdonami se ho pensato che fossi pericolosa» le disse e lei non
poté che stringerla a sua volta. «Avevate ragione a pensarlo, ma ora
dovete uscire da qui!» Mise in salvo lei e Ruby smaterializzandosi
nel giardino di fronte alla villa, nessuno le avrebbe viste.
Le grida di aiuto di Karen scossero Odry; subito dopo giunse il
debole e ovattato pianto di un bambino. «Stiamo soffocando!»
La demonessa mise da parte sorpresa e curiosità ed entrò di
nuovo in casa, cercando di capire da dove provenisse la voce della
francese. «Dove siete?» gridò, e aprì un varco in mezzo alle fiamme,
risucchiandole. Gli occhi vennero attraversati da un lampo viola. Poi
la vide: Karen, i capelli scarmigliati, il volto pallido e le lacrime agli
occhi. Teneva tra le braccia un fagotto di lenzuola che piangeva.
Stava ai piedi della scalinata. L’umana prese coraggio e corse verso
l’amica e nel constatare che la via era libera, si diresse di corsa fuori
casa quasi scontrandosi contro Ruby e Vicky, tossendo con violenza
e posando il piccolo Hakam sull’erba.
Odry fece per aprir bocca e chiedere di altri eventuali inquilini della
casa, ma il soffitto del corridoio crollò sollevando polvere e grida sul
fondo di esso.
«Arrivo, resistete!» Mosse qualche passo verso il crollo senza
smettere di assorbire le fiamme. “Questa non è opera di Zachary”
pensò guardandosi intorno per cercare le amiche rimaste. “È un
incendio doloso”.
Oltre le macerie e la polvere comparve il volto provato di Ania:
teneva un panno umido sulla bocca e, anche lei, aveva i capelli
incollati sulla fronte e il collo per il sudore. Guardò in alto con gli
occhi che lacrimavano per assicurarsi di non correre rischi, quindi
attraversò il resto della casa che la separava dalla salvezza, seguita
da Summer.
La prima raggiunse la porta, illesa. Subito dopo il suo passaggio vi
fu un altro crollo che la sfiorò.
La seconda, invece, venne investita.
Vicky gridò a squarciagola e si gettò in avanti, venne bloccata da
Ruby e rischiò di inciampare.
Odry si fiondò verso la piccola succube e iniziò a liberarla da detriti
e calcinacci, ma inorridì alla vista del corpo: il cranio era sfondato, il
cervello era visibile e sotto di lei una pozza di sangue si allargava
sempre di più, la schiena era spezzata in due. Strinse i denti e si
allontanò. Un rumore sopra la testa preannunciò l’imminente
cedimento del bagno del primo piano e a malincuore dovette uscire.
Giusto in tempo: il soffitto finì per spezzarsi in due e tutti i sanitari
crollarono, le tubature esplosero schizzando acqua ovunque.
Vicky era distrutta e non cessava di strillare in direzione della
casa. Ruby la stringeva per le spalle con lo sguardo carico di lacrime
fisso sull’ingresso. Si lasciò scivolare a terra insieme a lei.
Odry le raggiunse con il volto pieno di orrore, domandò ad Ania se
ci fosse ancora qualcuno, lei negò. Quindi si girò verso la casa e
allungò le braccia, si concentrò e richiamò in lei le fiamme rimaste,
assorbendole con sempre maggior velocità. “Avrei dovuto farlo
prima. Come ho potuto agire tanto d’impulso…” pensò con il cuore
pesante. E quando le fiamme si furono ritirate, tirò un sospiro e con
uno sguardo si accertò che le amiche stessero bene. Si mosse verso
di loro, a disagio. Chiese come mai Molly non ci fosse.
Rispose Karen, con la voce di nuovo spezzata dalla tristezza e dal
fumo. «È stata uccisa da Cassiel perché ha provato a difendere
Vicky dalle sue violenze, è entrato in casa pochi giorni fa».
Strinse i pugni.
«Perdonatemi… io, non ho potuto fare nulla» disse addolorata, ma
Vicky la schiaffeggiò gridandole contro: «Perché non l’hai fatto
prima? Perché non hai assorbito prima queste maledette fiamme?
Se l’avessi fatto, mia sorella sarebbe ancora viva!»
Un’altra amata sorella, la più piccola, con una vita intera ancora da
scoprire, se n’era andata per raggiungere Molly in un mondo in cui
ancora lei e Ruby non potevano andare, anche se avrebbero voluto.
Odry chiuse gli occhi, non seppe cosa dire. Avrebbe voluto
giustificarsi e spiegarle cosa le era accaduto, parlarle dello
stordimento iniziale, della confusione che ancora provava. Sarebbe
servito? No, ma sperava si sarebbero potute chiarire in un secondo
momento.
La casa ormai era come il residuo di un fiammifero appena spento
e lei non poté che ragionare con amarezza alle catastrofi che
avevano colpito chiunque avesse ospitato lei e Satan negli ultimi
tempi.
Fu il pianto di Hakam a distrarla. Abbozzò un sorriso tirato. «Chi è
questo bambinone?» domandò.
Karen, tra le lacrime, rispose: «Lui è Hakam, figlio di Belphagor.
Lui e sua madre sono morti».
Odry agli occhi di Karen non sembrò colpita, anzi, la nuvola nera
che le aleggiava sul viso si scurì, rabbuiandola.
«L’ho sospettato». In effetti, la demonessa aveva un ricordo vago
di lei sulla spalla di Zachary di fronte alla casa di Belphagor, con
Belial in lacrime. Alzò la mano, calda e piacevole, accarezzò la
guancia al piccolo. «Benvenuto in famiglia, Hakam».
Erano passati cinque minuti da quando aveva assorbito le fiamme.
Si sentiva rinvigorita, ma vedere quelle povere donne disperate
quasi le tolse il respiro. “Quante altre morti ci saranno?”
All’improvviso qualcosa le bloccò i pensieri. Un presentimento
intenso e pungente, come mille aghi conficcati nella nuca, la mise in
allerta. «C’è qualcuno qui» disse accigliata.
Silenzio.
Nessuna osò fiatare. Le altre, terrorizzate, si guardarono intorno
facendosi più vicine a lei. Anche il pianto delle succubi cessò tanto si
alzò la tensione.
Odry percepì qualcosa in movimento, una sensazione mai sentita
prima. Era più un’aura vibrante, niente a che vedere con un angelo o
un demone. Qualcosa nel mezzo. Proveniva dal lato sinistro della
dimora, era in giardino. Andava verso la strada, ma a breve
l’avrebbe visto.
Le sue braccia divennero rosse e brillanti illuminandosi dal fuoco
che viveva in lei, caricò un colpo e lasciò andare un cannone
infuocato nella direzione che i sensi le indicavano; fu così potente e
rapida da lasciare tutte a bocca aperta.
L’attacco squarciò l’angolo delle mura esterne e attraversò una
porzione di giardino, colpendo qualcuno. I lamenti e le imprecazioni
giunsero chiare, così come il rumore dei passi del fuggitivo che
cominciò a scappare.
Odry, avvolta dalle fiamme, si materializzò di fronte all’intruso. Lo
riconobbe e sbarrò gli occhi scintillanti ora di un viola intenso. «Tu?!»
sibilò.
Cassiel, terrorizzato, indietreggiò ma ricevette un pugno sul naso.
Fece per contrattaccare e una palla di fuoco lo raggiunse al petto;
una seconda lo colpì al volto facendolo cadere al suolo.
Gli sembrò di tornare indietro nel tempo, sulla strada deserta per
Ashdod.
«Mi hai davvero rotto le palle! Che cosa ci fai qui?» La demonessa
lo afferrò per la felpa e lo strattonò per poi colpirlo sul viso una terza
volta, rimandandolo a terra.
Cassiel si rialzò e tentò di reagire, ma era ancora troppo debole e
lei fin troppo forte e piena di energie per potersi far sorprendere da
un attacco tanto lento. Con un calcio sul collo, Odry lo buttò giù
ancora una volta.
«Non ho più niente da perdere, ormai» rispose l’ex Arcangelo,
sputando sangue.
«Allora comprenderai se ti ammazzerò qui come il verme schifoso
che sei» disse lei tra i denti. Caricò un colpo, le braccia si
infuocarono e Cassiel venne accecato dalla luce delle fiamme.
Ma Ania le mise una mano sulla spalla, fermandola. «No» le disse
dura.
La demonessa si voltò a guardarla e furiosa rispose: «Non è il
caso di essere misericordiosi con una merda come lui!»
«Non è compito tuo» continuò la strega e il suo sguardo fu
significativo. Odry, titubante, si voltò verso Cassiel. Abbassò le
braccia e lui aprì piano gli occhi. Aveva ascoltato e il cuore gli era
balzato in gola. Scattò in piedi, indietreggiando.
Odry lo guardò con odio. «Ringraziala, sei vivo solo per merito
suo».
«Devi andare» ora Ania si rivolse a Odry. «Qui non puoi più nulla,
ormai. Nessuno di noi può».
«Non posso lasciarvi da sole, non è sicuro!» ribatté lei rabbiosa.
«Sto perdendo tutti, non voglio perdere anche voi».
Ania la abbracciò, spiazzandola. «Odry, tu sei l’unica che può fare
qualcosa, noi staremo bene. Devi andare. È il tuo destino». Sciolse
l’abbraccio, le afferrò entrambi i polsi con una forza inaspettata e la
fissò dritta negli occhi. «Il legame del sangue dei gemelli è quanto di
più potente esista. Il vostro va spezzato».
Odry annuì con le lacrime agli occhi: in cuor suo l’aveva sempre
saputo. «Mi dispiace per tutto, Ania…» sussurrò, e la strega le diede
un secondo abbraccio, poggiando il mento sulla sua spalla. La
demonessa ricambiò la stretta nascondendo il volto provato
nell’incavo del collo dell’amica.
«Questa è casa tua e sempre lo sarà» aggiunse Ania.
«Dimmi dove sono andati, così posso mettere un punto a questa
storia».
«Alza gli occhi di fronte a te».
Odry puntò lo sguardo oltre le macerie e le altre case. Il cuore le si
fermò: una grossa colonna di fuoco nero si perdeva oltre le nuvole.
Da essa si sentì chiamare.
«Ti sta cercando» confermò l’altra.
La demonessa, avvolta da nervose lingue di fuoco, si
smaterializzò.
Ma non scomparve da sola.
Cassiel si era allungato all’ultimo momento per toccarle la spalla,
smaterializzandosi insieme a lei.

II
05:15

L’atmosfera venne invasa da fastidiose vibrazioni.


Gli elicotteri esplosero, decine e decine di anelli di energia
luminosa si schiantarono al suolo e su qualche malcapitato che
venne tagliato a metà.
Bastò poco per scorgere le terribili creature in arrivo e la paura
dilagò in fretta.
Centinaia di esseri alati si abbatterono su entrambe le fazioni. Lo
scontro fra Troni, Potestà, Arcangeli e uomini di Zachary fu brutale.
I Serafini erano giunti per regolare i conti.
Sui tetti della case, fuori dal raggio di distruzione, i giornalisti
cercavano di catturare quella scena degna del Giudizio Universale.
Cameraman armati di potenti teleobiettivi non si lasciavano sfuggire
una singola azione. Le televisioni trasmettevano in diretta ciò che
stava accadendo.
Michael si guardava intorno con agitazione mentre le truppe del
Paradiso si mettevano contro chiunque. Fu lui, allora, a coprire le
spalle a Uriel permettendogli di scontrarsi con Zachary. Poi si trovò a
lottare contro un demone e una Potestà.
Anche gli altri Arcangeli dovettero ampliare il raggio d’azione.
Una freccia di Holian colpì Raziel sulla spalla. Il Serafino, ancora
in volo, puntava l’arco in direzione dell’ungherese e da quella
altezza, avendo a disposizione la visuale totale sullo scontro, era
davvero pericoloso.
L’ungherese, alla ricerca del colpevole, imprecando, sollevò lo
sguardo e con gran fortuna deviò un altro attacco di Holian con un
colpo di catena. Il Serafino scese in picchiata seguito da due Troni.
Scoccò una terza freccia mentre le bestie al suo fianco puntarono
Raziel. Il primo Trono si schiantò contro l’Arcangelo, schiacciandolo
al suolo.
Raphael giunse subito in suo soccorso. I Troni gli si lanciarono
addosso e il francese riuscì a tenere testa a entrambi. Ma il suo
obiettivo era Holian. Doveva fermarlo poiché era il più pericoloso tra i
Serafini rimasti: attaccava da lontano, stando al sicuro dallo scontro,
e la sua infallibile mira non avrebbe risparmiato nessuno.
Il francese fu però raggiunto anche da Chris che lo colpì al centro
della colonna vertebrale con un pugno foderato di metallo.
«Chiudiamo la faccenda, Blanchett». Gli occhi folli puntarono
quelli dell’Arcangelo che si voltò, trasfigurato da rabbia e dolore.
«Lâche[7]» sibilò e partì all’attacco.
Il suo primo fendente venne parato; un gancio in contrattacco
venne schivato. Il francese provò ad afferrare il Serafino, ma questo
si scansò verso destra e lo colpì al fianco con un pugno. L’Arcangelo
indietreggiò e ruotò su se stesso calciando col tallone la spalla
ustionata di Dunne, che si sbilanciò di lato.
Il francese venne colpito al braccio da una freccia.
Chris, aiutato da Holian, non si lasciò scappare l’occasione. Le
lame laterali dei tirapugni gli lacerarono un fianco.
Come se non bastasse, arrivarono altri due Troni.
Raphael fu contento di far parte della ressa, almeno Holian
sarebbe stato rallentato dal rischio di colpire i compagni.
Un Trono, impossibilitato a muoversi vista la calca, liberò un anello
di luce che tagliò a metà il suo simile e qualche uomo di Zachary; gli
altri lo schiavarono giusto in tempo.
All’improvviso Dunne venne sollevato per il collo e lanciato
lontano. Si alzò rapido per affrontare il nuovo avversario, quando
riconobbe un volto che non vedeva da tempo: Malik.
Dunne sorrise macabro. «Ancora tu?» Gli andò contro con la
guardia alta, ma la marcia dell’angelo caduto fu interrotta da Satan,
che, privo ormai di qualsivoglia inibizione, lo travolse. La mascella
spalancata quasi si serrò sulla testa del giovane, trovando un blocco
nel braccio muscoloso. Malik fece leva con le gambe per scrollarselo
di dosso, ma la bestia ruotò su se stessa spezzandogli la spalla e
strappandogli l’unico arto funzionante. Il dolore atroce lo bloccò sul
posto rendendolo appetitoso agli occhi di Satan. Quindi la bestia gli
saltò addosso avventandosi sul suo stomaco, strappando pelle e
carne. Malik lottò fino all’ultimo, morendo affogato nel suo stesso
sangue.
Chris, soddisfatto, era tornato a occuparsi di Raphael.
L’Arcangelo, come richiamato dall’odio del Serafino, si voltò e
camminò verso di lui facendo roteare il fioretto. La lama si schiantò
contro il pugno dell’avversario che non si tolse dal volto, ustionato e
incrostato di sangue e pus, un fastidioso sorriso. La lotta tra i due si
fece serrata. La lama dell’Arcangelo vibrava sotto le parate del
nemico, i pugni energici del Serafino erano come macigni.
«Ti stai mettendo contro la tua gente» disse con rabbia il francese
prima di evitare un calcio.
«Non vi ho mai considerato la mia gente, preferisco creare un
mondo a mia immagine». Chris lo trafisse con una lama nel fianco
scoperto dall’armatura, voltando il gancio di lato. Strappò facendo
schizzare il sangue su di sé e gioì nel vedere il francese in difficoltà.
Raphael premette una mano sul fianco e richiamò a sé l’arma che
si dissolse. Sollevò la guardia con entrambi i pugni. «Fatti sotto,
bastardo».
La lotta riprese a mani nude. Il Serafino incassava e infieriva come
se non fosse mai stato ferito: la sua follia e la sete di vendetta lo
avevano portato a un livello di adrenalina tale da non fargli percepire
nulla.
L’Arcangelo si trovò in difficoltà quando una nuova freccia lo colpì
al braccio sinistro. Indietreggiò per prendere respiro, evitando per un
pelo di venire investito da una fiammata nera.
Chris avanzò a grandi passi, impaziente di farlo a pezzi, ma
qualcuno lo afferrò al collo e lo scaraventò sul terreno, facendolo
atterrare prono. Lui non fece nemmeno in tempo ad alzarsi che un
peso gli atterrò sulla schiena per inchiodarlo al pavimento.
«È tutto tuo!» Mathael scese e corse ad affrontare altri nemici.
Raphael ne approfittò. Sotto le fitte di dolore, prese Chris per una
caviglia, lo fece roteare e lo scaraventò contro Yovus. Poi lo
raggiunse, furioso. «Mi hai sottovalutato, Chris. Pensavi che Gabriel
potesse essere l’unico in grado di farti volteggiare come una
bandierina?»
Dunne calpestò Yovus per potersi mettere in piedi e in posizione
d’attacco quanto prima. Sputò per terra. «Coraggio, dottore, fatti
avanti» e senza attendere gli si lanciò addosso come una furia.
Intorno a loro la battaglia era feroce, ma quasi mai incontrarono
ostacoli. Sembrava che il destino volesse farli incontrare, forse per
l’ultima volta.
«Hey tu!»
Una voce melliflua attirò l’attenzione di Mathael che si voltò.
Yovus, con un’ascia per mano, la squadrava con espressione
volgare. «Visto che tuo marito non si occupa di te, lo farò io».
Mathael, disgustata, fece roteare la spada e partì all’attacco. Il
Serafino trattenne il colpo incrociando le asce, Mathael incastrò uno
dei bracci dell’elsa in una delle lame nemiche e sollevò con forza per
entrare nella guardia di Yovus con un calcio sull’addome. Quello
indietreggiò di un passo, ma tornò presente sferrando due colpi che
la sfiorarono. Ricambiò il calcio nel momento in cui lei saltò per
colpirlo dall’alto, allontanandola. La donna atterrò in piedi e ringraziò
col pensiero l’armatura di fortuna.
«Vedo che sei solo una perdita di tempo. Mi aspettavo di più da
chi spera di salire di grado» disse velenoso.
Mathael trattenne un insulto e tornò alla carica. Con la coda
dell’occhio vide una fiammata nera in arrivo e, prima di essere
investita, entrò in scivolata. Yovus venne distratto dal fuoco e scivolò
sotto il suo calcio, cadendo e battendo il capo sul pavimento.
Mathael ne approfittò e gli colpì il volto col tallone, poi il Serafino
l’afferrò per la caviglia e la trascinò verso di sé. Le diede una forte
gomitata sul collo, facendole strabuzzare gli occhi. Per alcune
secondi Mathael non fu in grado di respirare, dando il tempo
all’avversario di tornare in piedi per riempirla di calci sui fianchi, suoi
punti scoperti.
Intanto Lucifer stava a guardare. Le mani infilate nelle tasche dei
pantaloni, gli occhi rossi concentrati sulla schiena del fratello e su
Zachary. «Perché stai ancora qui?» domandò a Barakiel.
Il Cherubino aggrottò le sopracciglia e si voltò verso di lui. «Ma
come? Io sono qui per proteggerti da eventuali attacchi. Non sei
molto in forma…»
«Non ho bisogno del tuo aiuto, Barakiel».
«Non ne avevi bisogno nemmeno l’ultima volta, non è così?». Il
Cherubino aprì le due ali rosse sprigionando con quel solo gesto
un’onda d’urto che si propagò per una decina di metri, buttando a
terra demoni rinnegati, angeli caduti e allontanando i Troni; e
permettendo anche ad Arcangeli e Serafini di abbattere i più deboli.
Poi sulla sua fronte si aprì un terzo occhio.
Il primo a incrociarne lo sguardo fu un demone che si immobilizzò
all’istante. Barakiel gli andò incontro e gli bastò penetrargli il petto
con una mano da parte a parte per ucciderlo. Poi sorprese Yovus
alle spalle uccidendolo allo stesso modo. Lasciò cadere il corpo
scosso da tremiti e superò Mathael senza aiutarla a risollevarsi.
«Sei sempre lo stesso, in secoli di vita non hai mai smesso di
essere così infantile» parlò tra sé il Sovrano. Voltò la testa verso la
folla di umani in costante aumento.
Le macchine militari e l’esercito lo irritavano e gli facevano lo
stesso effetto le telecamere che sentiva puntate addosso e il forte
ronzio delle pale degli elicotteri. Sollevò lo sguardo e si godette lo
spettacolo di un Trono impazzito mentre ne sfondava uno da parte a
parte, facendolo schiantare al suolo. I pompieri tentavano, ancora, e
invano, di spegnere l’incendio provocato da Zachary.
“Poveri illusi, insulsi esseri umani” pensò. “Non capisco cosa ci
trovi Dio in loro, perché li ami tanto; creature imperfette, così deboli”.
A mezz’aria, Holian non era riuscito a fare nulla, soprattutto a
causa di Raziel.
L’Arcangelo lo aveva puntato e aveva preso ad attaccarlo con la
catena, a distanza, rendendogli impossibile usare l’arco.
«Hai visto bastardo? Il tuo amico ha fatto la fine che farai tu a
breve!» lo informò a gran voce l’ungherese, frustandolo al fianco.
Holian digrignò i denti e imprecò. Mise l’arco a tracolla e con una
spinta delle sei ali puntò l’Arcangelo. Si schiantò su di lui ed
entrambi rotolarono a terra. Il Serafino fu il primo ad alzarsi, sputò
sangue e afferrò Raziel per il busto rinforzato, lo colpì con una
testata. «Non hai mai capito qual è il tuo posto, Bàlint».
Raziel scosse il capo e gli saltò addosso, lo spinse sul pavimento,
la faccia contro la polvere. Holian si liberò, parando e
contrattaccando con un pugno che fece rotolare Raziel di lato.
Quest’ultimo non demorse e arrotolò un’estremità della catena
attorno alla mano sinistra. Una freccia velocissima scoccata
dall’avversario gli si conficcò nella coscia destra; a una velocità
impressionante il Serafino ne scoccò una seconda a colpire l’altra
gamba. La terza volta mirò alla testa. «Fine della corsa» gli disse,
ma l’attacco non partì.
Belial gli schizzò davanti strappandogli l’arma di mano, il Serafino
quasi si tagliò le falangi con la corda. Il ragazzo gli mostrò il dito
medio. «Vieni a prenderlo, stronzo!»
E così il Serafino si lanciò all’inseguimento. Gli venne difficile
volare tra la ressa ma era l’unico modo per raggiungere quel
dannato ragazzino. Belial aveva cambiato direzione svariate volte,
innervosendolo più di quanto già non fosse: si stava prendendo
gioco di lui e non poteva permetterglielo. Ma si accorse anche che il
giovane demone stava rallentando, forse quella corsa era troppo
anche per lui. Mangiò i metri e i centimetri che li separavano, allungò
una mano per afferrarlo.
Belial chiamò Uriel a gran voce.
Holian comprese.
Il ragazzo deviò la corsa all’improvviso e il Serafino venne
investito da una potente fiammata blu.
Holian si scansò per evitarla. «Pensi che l’attacco di un Arcangelo
possa fermarmi? Illuso di un…»
La gamba di Belial, mutata per diventare una lama affilata come
quelle delle Potestà, con un calcio gli recise la testa dal busto.
Il corpo del Serafino tremò ancora per qualche secondo e il
principe rimase a fissarlo con una certa soddisfazione. “Ho ucciso un
pezzo grosso!” pensò allontanandosi per continuare a fare il suo
dovere. Passò accanto a Raziel che, non appena lo vide, imprecò.
«Era mio! C’ero quasi!»
Zachary era sempre più nervoso, di Odry non v’era traccia. Karasi
si era allontanata ancora, vista la brutta piega che avevano preso gli
eventi: il loro esercito di caduti e rinnegati veniva decimato con
grande velocità. Lei e Zachary avevano impiegato tanto tempo
prezioso per conquistare la fiducia di tutti e il loro contributo era stato
fondamentale durante i furti delle reliquie, ma sperare nei grandi
numeri a discapito della qualità era stata una scelta errata. La
sciamana mal trattenne un’imprecazione.
Il vero pericolo in campo erano le fiamme blu e nere. Non solo
uccidevano chi aveva la sfortuna di trovarsi sul loro tragitto, ma
fungevano da repellente per gli esseri umani lì attorno.
Uriel combatteva con tutto se stesso, comprendendo che non
sarebbe servito a nulla risparmiare le energie contro un nemico del
genere. Zachary aveva dato piena conferma delle sue abilità e del
potere rinforzato dalla reliquia: il fuoco sacro serviva a ben poco.
Cosa avrebbe potuto purificare? Inoltre era un misto di agilità e forza
ben equilibrati.
Michael aveva la mente occupata da ben altro: non riusciva a
staccare gli occhi da Lucifer che stava ancora lì ad ammirare la
battaglia. Per giunta Gabriel non si vedeva, Odry neppure. Tre
elementi che avrebbero potuto ribaltare i risultati. L’arrivo dei Serafini
aveva contribuito a eliminare con più velocità angeli caduti e demoni
rinnegati, ma anche a complicare loro la vita.
Durante la lotta contro il nemico comune si era beccato qualche
insulto per la scarsa concentrazione e per l’ennesima volta fu
necessario un attacco ben assestato da parte di Zachary per farlo
tornare presente a se stesso.
Il demone, dopo averlo colpito così forte da farlo indietreggiare di
almeno due metri, gli lanciò addosso una palla di fuoco grande
quanto un pallone da basket che lo colpì al centro del petto. Il busto
dell’armatura divenne rovente in meno di un secondo e Michael
dovette sfilarlo in fretta e furia per non rimanere ustionato. Sacrificò
le mani per questo. Si rialzò, ma l’avversario tornò a occuparsi di
Uriel, quindi si decise ad aprire le quattro ali.
“Non abbiamo bisogno di loro per vincere” si disse con rabbia. “Li
elimineremo con le nostre forze”. Anticipò il turco e colpì Zachary
alla nuca con l’elsa della spada e, prima che quello potesse voltarsi,
Uriel rincarò la dose con un pugno sul volto. Michael attaccò di
nuovo con una ginocchiata sulla schiena e il compagno con un
calcio nello stomaco.
Una fiammata blu avvolse il demone e in un primo momento ne
bloccò i movimenti, ma quando il turco si rese conto che presto si
sarebbe liberato, le fiamme si espansero e divennero una bolla.
Zachary sembrò divertito. «Pensi davvero di potermi fermare in
questo modo?» prese a pugni la gabbia alternando palle di fuoco,
ma a ogni crepa l’Arcangelo creava sempre nuovi strati.
Michael si voltò verso Lucifer e volle metterlo alla prova; a gran
voce disse: «Eccolo, è tutto tuo! Vieni a prenderlo!»
L’Imperatore non si mosse di un passo. Lo sguardo era fisso sul
demone e in Michael crebbe la consapevolezza che lui aveva
mentito.
«È tuo!» ripeté. «Volevi fargliela pagare, no?»
Il fratello rimase lì, con lo stesso sguardo e la stessa postura,
rigida e austera.
L’Arcangelo serrò la mascella con una delusione che superava la
rabbia. “Bugiardo” pensò. “A lui interessa il Graal, ma col cazzo che
lo avrà”.
Lucifer abbozzò un mezzo sorriso facendogli un piccolo cenno col
capo, poi la piega sulle sue labbra si appiattì.
Un fascio di luce color amarena illuminò a giorno il campo di
battaglia.
Nuove fiamme serpeggiarono a una velocità impressionante tra
angeli caduti, demoni rinnegati, Potestà e Troni senza risparmiare
alcuna anima. Il loro obiettivo ultimo fu Zachary, sul quale si
schiantarono con potenza inaudita, spezzando la prigione di fuoco di
Uriel e facendolo volare lontano.
Odry avanzava circondata da turbini infuocati che parevano agire
con coscienza propria, incenerendo chiunque osasse avvicinarsi a
lei. Un lampo di soddisfazione negli occhi viola. «Ora te la vedrai con
me!» gridò al fratello. Si smaterializzò e ricomparve a un centimetro
da lui.
Michael sorrise nel vederla, si allontanò e lo stesso fece il turco,
per lasciare la questione ai gemelli.
Zachary si alzò, sorrise beffardo. «Sapevo che saresti venuta».
«Ti ho promesso che ti avrei ucciso, no? Il momento è arrivato».
Odry rilasciò la potenza dei due cannoni infuocati che aveva caricato
e Zachary si ritrovò investito per la seconda volta. «Alzati figlio di
puttana!»
Quello tornò in piedi, si girò verso di lei e aprì le braccia. «Vuoi
sfogarti prima di dire addio a Gabriel? Ah no, aspetta: Gabriel non
verrà più».
Furiosa, Odry gli si lanciò contro colpendolo con un pugno
infuocato, dando il via a una serie di colpi sul volto del gemello; lui
rispose con dei calci consecutivi sul fianco, facendola allontanare.
Dalle fiamme di Zachary fuoriuscirono due lingue scure che
l’afferrarono e la fecero schiantare con violenza in terra. Odry batté
la testa. Digrignò i denti, con un colpo di reni tornò salda sulle
gambe. Aprì le mani creando delle sfere di fuoco che volarono e si
schiantarono su di lui, avvolgendolo ed esplodendo in sequenza.
Zachary si protesse come meglio potè, ma non contrattaccò.
Sogghignò in modo sinistro.
Lei dalla sua aveva l’appoggio dell’elementale, con una voglia di
rivalsa incontenibile dopo tutti gli anni passati da dormiente, la
stessa che provava e bramava anche lei.
Zachary invece veniva alimentato dal Graal.
La colonna di fuoco usata per attirare l’attenzione della
demonessa si spense: finalmente erano solo loro due.
«L’Inferno oggi è venuto per te» sibilò Odry.
“Combatti, Gabriel”

I
05:17
Schneider osservava l’insolita barriera che circondava Sila:
schiere di Troni proteggevano e scrutavano con i numerosi e attenti
occhi il nuovo confine da loro creato. Più indietro, a una decina di
metri di distanza, una Potestà era pronta a ogni evenienza;
camminava su e giù e il ritmico tintinnio dei suoi passi spezzava il
silenzio assoluto dell’area.
Il terreno era insanguinato, cadaveri di guardie giacevano
sull’asfalto delle strade deserte. Fu un sollievo non vedere civili nelle
stesse condizioni.
Nessuno poteva entrare in città, nessuno poteva uscire.
Gli angeli primordiali erano troppi, le altre Potestà dovevano
essere lontane, ma si sarebbero avvicinate subito se avessero
fiutato il pericolo.
Come erano giunti a quel punto?
Il giorno prima il suo DEP aveva ricevuto una chiamata allarmante:
i Serafini a Sila avevano combattuto contro alcuni Arcangeli tra le vie
della città, i lavoratori del DEM non erano tornati a casa e non
rispondevano alle chiamate; sulla facciata e sulle pareti della grande
struttura erano stati appesi cadaveri e la città era stata circondata e
occupata dai Troni.
In effetti molti abitanti di altre città che lavoravano al DEM erano
stati dati per dispersi.
Il Serafino Al Benson, rosso irlandese con una lunga barba
intrecciata, fece l’ultimo tiro di sigaretta, la buttò in terra e la calpestò
con la punta della scarpa laccata. «Sono davvero troppi per noi» e
con un gesto del capo indicò i dieci soldati dietro di loro.
«I miei pensieri sul DEM peggiorano di minuto in minuto, non si
era mai vista una situazione del genere». Schneider indicò la città.
«Sono troppi, hai ragione, ma dobbiamo trovare il modo di passare.
Suggerimenti?»
«Penso che la soluzione più logica sia puntare alla Potestà. I Troni
son veloci, ma noi dobbiamo superarli per raggiungerla e
neutralizzarla. Dobbiamo fare molta attenzione alle gambe: quelle
lame tagliano anche la pietra».
«Concordo, potremmo anche provare a prenderne una in
ostaggio, sempre che non ordini di attaccarci anche a costo di
morire… o che ne arrivino altre».
Il tempo concesso per studiare la situazione cessò: un improvviso
attacco quasi colpì Constantine e Al che erano stati segnalati come
nemici.
Entrambi schivarono due lame di luce dei Troni di fronte a loro, ma
non furono abbastanza veloci da evitarne altre: il primo fu colpito al
collo e il secondo al braccio. Aprirono le ali e si allontanarono di una
decina di metri.
«Cazzo!» esclamò Al scrollando le spalle. «Dobbiamo sfondarli
per poter passare, altrimenti resteremo qui fino a tarda notte».
«In volo?»
«Come fottuti proiettili, amico».
In contemporanea si diedero la spinta con le ali e scattarono in
avanti fulminei, schivando altri attacchi taglienti e aprendosi un
varco.
Erano dentro. Troppo facile.
Infatti, come se li avessero attesi, i Troni lasciarono subito la
postazione al confine per accerchiarli.
I Serafini evocarono le armi per difendersi, colpire e coprirsi le
spalle a vicenda. Fu davvero complicato per loro procedere.
Schneider, agile e con una spada corta per mano, infilzava occhi e
lacerava ali, spingeva via i nemici con i calci. Al li finiva con la sua
mazza d’arme di pietra e ferro. Molti non morivano sul colpo e in
ogni caso ne spuntavano sempre di nuovi.
Una bestia colpì Constantine alla schiena facendolo cadere sul
cemento: il Serafino dovette rotolare a destra per evitare di venire
schiacciato. Si rialzò con un colpo di reni e vide Al Benson distante
almeno quattro metri. «Al! Ci serve una Potestà! È l’unico modo per
fermarli» gridò.
L’altro lanciò con precisione la mazza verso una Potestà che dava
direttive, ma quella con un calcio dimezzò la lunghezza
dell’impugnatura. «Cazzo!» imprecò.
«Dobbiamo isolarla, poi tagliarle le gambe!» gli gridò Constantine.
Si chinò flettendo sulle ginocchia per evitare l’ala di un Trono e con
le spade corte la tranciò di netto.
Il collega non gli rispose, ma il suo avanzare verso la Potestà fu la
chiara dimostrazione che avesse un’idea. O almeno Schneider ci
sperò.
Quindi quest’ultimo forzò la barriera di avversari fluttuanti e
avanzò per potergli dare manforte. Le guardie a disposizione si
sarebbero sacrificate per loro e questa consapevolezza gli fece
male, ma non sarebbero potuti entrare nel cuore di Sila, altrimenti.
All’improvviso udì le grida di Al, zampilli di sangue macchiarono
l’asfalto: la Potestà, con un calcio circolare, gli aveva tagliato una
mano. Senza pensarci due volte, afferrò una delle armi per la lama e
la lanciò contro l’avversario del collega. Riuscì a piantargliela
nell’inguine, strappandogli un grido di dolore stridulo. Il suono attirò
l’attenzione di decine di Troni e di un’altra Potestà a venti metri di
distanza.
Gli esseri primordiali si fiondarono su Al, convinti fosse lui l’artefice
dell’offensiva, ma il Serafino riuscì ad attivare una barriera attorno a
sé e alla Potestà colpita e crollata a terra. Prima che questa potesse
rialzarsi, staccò la testa di pietra e ferro della mazza scoprendo una
lama affilata con cui infilzò più volte l’altra gamba, soffrendo a sua
volta per la mano monca. Il grido della Potestà fu un potente stridio,
così forte che Al temette di perdere l’udito. Abiti e viso macchiati
anche del sangue del comandante, lui stesso ne perdeva in
abbondanza e il dolore iniziava a salire fino al braccio. Le piantò la
lama nel fianco per indebolirla ma non ucciderla e continuò a colpire:
voleva tagliare quanti più nervi e muscoli possibile per rendere
inutilizzabile l’arto.
I Troni, intanto, cercavano di sfondare la barriera.
«Fammi entrare dall’alto!» la voce di Schneider lo sorprese, ma
comprese e obbedì. Al aprì un varco nella parte superiore della bolla
protettiva, in modo da accogliere il collega che vi entrò in volo.
Constantine atterrò con la lama tesa sulla gamba rimasta della
Potestà, recidendola del tutto. Fusi a tendini e vene vi erano cavi.
“Ma che diamine…” pensò.
Proprio in quel momento Al ebbe una fitta al moncherino così forte
da fargli perdere il controllo sulla barriera, che si spense, ma il
collega fu più veloce di qualsiasi altro Trono assetato di sangue e
prese la Potestà agonizzante per usarla come scudo vivente.
Funzionò.
Le creature si bloccarono, i cento occhi fissi sul loro superiore che
non ebbe la forza di dire una parola.
“È una fortuna che non sia in condizioni di lanciare alcun
comando” pensò Schneider. «Al, dobbiamo proseguire. Troveremo
qualcosa per curarti la mano… il polso…»
L’altro ringhiò. «Sì, ho capito. Portiamo questo bastardo con noi».
I Serafini richiamarono le uniche tre guardie sopravvissute che li
raggiunsero, mentre i Troni si tenevano a debita distanza. Al si era
fatto aiutare da uno di loro a snodare la cravatta e legarla attorno al
polso per arrestare la fuoriuscita di sangue.
«Qualcuno ha da accendere?» Al, tremante, indicò la sigaretta
che era riuscito a mettersi in bocca.
Costantine scosse il capo. «È necessario, Al?» Ma uno dei tre
soldati avvicinò un accendino alla bocca del Serafino che si giustificò
con un: «Ora più che mai ne ho bisogno».
Il piccolo gruppo si addentrò a Sila passando da una periferia
deserta a un centro un po’ più vivo.
Constantine riconobbe la differenza rispetto alla prima visita alla
città: gli abitanti erano rari, nessuna macchina, anche lì regnava il
silenzio. I pochi che incrociavano si dileguavano terrorizzati, e i
coraggiosi rimanevano dietro qualche angolo a osservare.
«Siamo qui per voi» annunciò Schneider, faticando per reggere la
Potestà a peso morto. «Siamo del DEP».
Una informazione che non rassicurò più di tanto.
«Sono davvero paralizzati» borbottò Al buttando fuori il fumo.
«Comunque, oltre il reggimento spiegato al confine e quelli che ci
seguono, non ho visto nessuno».
«Chi ci segue?»
Un gran numero di Troni e almeno cinque Potestà stavano alle
costole degli intrusi. Nessuno osava attaccare, di sicuro attendevano
il momento propizio per farlo.
«Dobbiamo sperare che il Signore non faccia morire il nostro unico
capro espiatorio prima di arrivare a destinazione» rimuginò
Schneider. Migliorò la presa sotto le ascelle del comandante.
Lenti, arrivarono ai cancelli del DEM e lo spettacolo che si
presentò davanti ai loro occhi fu agghiacciante: i corpi di tutti i
dipendenti e degli stagisti erano stati appesi sia sul lato sinistro che
sul destro della struttura, e oscillavano piano mossi dal vento.
Le pareti esterne erano rigate da lunghe strisce rosse.
In alto, le tre teste delle Dominazioni erano state infilate sulle
guglie del frontone centrale, dai loro colli spuntavano dei cavi
elettrici; in basso, legati a delle corde, penzolavano i loro corpi.
I Serafini e i loro uomini rimasero con le bocche spalancate a
osservare il martirio esposto con così tanta crudeltà Ma ciò che più
di tutto li mise in allarme fu scoprire la vera natura dei tre giudici
celesti.
«Anche loro?» domandò Schneider stupito.
«Non so che dire…» commentò l’altro.
Posizionato al centro, sotto i corpi delle Dominazioni, vi era
l’Arcangelo Gabriel.
Era l’unico appeso per le braccia tramite robuste catene, in una
posizione che ricordò loro una crocifissione.
«Forse è rischioso entrare» considerò Al.
«Non abbiamo altra scelta. Non possiamo permettere che questo
scempio continui a essere sotto gli occhi di tutti» sibilò Schneider e
fuori di sé si voltò verso i suoi uomini. «Sfondate il cancello!»
«Zitto! L’Arcangelo ha detto qualcosa!» lo interruppe il collega.
Gabriel stava farfugliando, ma loro erano troppo lontani per
potergli leggere le labbra.
«Parli più forte!» gli ordinò Constantine, bloccando per il momento
l’ordine appena impartito ai soldati.
Gabriel prese un respiro profondo e con la forza che riuscì a
trovare gridò: «Ci sono… solo guardie!»
«Ottimo!» esclamò Al.
«Noi siamo in cinque» disse Schneider «ma non contarci perché
tu sei a metà, io sto reggendo questo qui. I nostri sono solo tre».
«Ordiniamo alla Potestà di mettere i Troni a nostra disposizione.
Non se l’aspetteranno di certo, lì dentro».
E Schneider puntò una delle lame alla gola della Potestà che
trattenne il respiro. «Ordina ai tuoi cari figliuoli di sfondare il cancello
e di occupare il DEM».
«Mi ucciderebbero… scordatevelo».
«Siete andati tutti contro la legge. Ma se ci aiuterai, avrai la
possibilità di redimerti e le tue gambe ti verranno reinstallate. Quindi
scegli: la salvezza o la morte. Non dovrebbe essere tanto difficile».
La Potestà strinse i denti e ordinò ai Troni ciò che il Serafino gli
aveva chiesto.
Sfondarono il cancello dorato e fecero irruzione all’interno dei
giardini. In poco tempo furono sotto Gabriel, organizzarono una
piccola squadra in tutta velocità e con fatica lo calarono giù.
«Che cosa è successo qui?» gli chiese Schneider.
«Chris… e gli altri hanno ucciso tutti, hanno preso il DEM. Ma c’è
di più…» sussurrò a fatica l’Arcangelo.
Schneider guardò il collega con tanto d’occhi. «Dove sono andati i
Serafini?»
«Credo sulla Terra…» e vomitò di fronte ai suoi salvatori.
«Sulla Terra? Per cosa?» continuò a domandare Costantine
mettendogli una mano sulla spalla.
Gabriel scosse il capo, provò a rispondere ma perse i sensi.

II
07:23

Una forte nausea insieme a un penetrante mal di testa svegliarono


Gabriel. Il respiro, dapprima calmo e regolare, si fece affannoso; gli
occhi si aprirono ma si richiusero subito per la luce accecante.
Combatté con tutte le forze per ricacciare indietro un conato di
vomito e riuscì a distrarsi dalla brutta sensazione solo grazie a una
voce ovattata, ma vicina, che lo chiamava.
«Signor Cooper» diceva. «Signor Cooper, mi sente?»
Giungeva dalla sua destra.
Gabriel voltò il capo, aprì gli occhi lacrimando e distinse una figura
in controluce, in piedi, che lo osservava, sporgendosi su di lui.
L’Arcangelo provò a parlare ma non ci riuscì, passò la lingua sulle
labbra aride e spaccate.
«Non si sforzi, ha riportato numerose ferite, alcune piuttosto gravi,
non c’è fretta» continuò la voce.
Nessuna Risposta. Schneider non la pretese e si rivolse al
Serafino Hezef Yan, a bassa voce, e gli domandò: «Quando
riprenderà conoscenza?»
«Dipende da come reagirà il suo corpo. Ma, sono fiducioso, non
pensavo si sarebbe svegliato tanto presto».
Gabriel spostò lo sguardo di fronte a sé, la vista si fece di poco più
chiara: i piedi erano nudi ed era coperto da una camiciola
d’ospedale, la mano collegata a una flebo. “Io non dovrei essere qui”
pensò.
Sedette di colpo allontanando con una spinta Yan, il quale finì a
terra. Una moltitudine di fitte, dolori e bruciori in tutto il corpo lo
fecero ruggire costringendolo a tornare disteso.
Schneider osservò il collega che si rialzava, tenendo le mani
raccolte in grembo. Si avvicinò di un passo al lettino. «Signor
Cooper, la prego di stare calmo, abbiamo dovuto legarla per…
precauzione» lo squadrò. «Se la sente di interloquire un momento
con me?»
«Liberatemi!» gridò l’Arcangelo. «Devo andarmene!»
«Si calmi!» ripeté Schneider aprendo una mano verso di lui.
«Purtroppo non possiamo permetterci di lasciarla andare; le sue
ferite sono gravi, inoltre abbiamo alcune cose di cui discutere» e con
gli occhi gli indicò la mano sinistra.
Gabriel respirava veloce, il petto si alzava e abbassava come
dopo una corsa di ore. Lo sguardo torvo e per nulla limpido. «Sto
benissimo e non ho proprio un cazzo di cui discutere».
«Non mi costringa a usare la forza, signor Cooper». Schneider
avanzò ancora. «Nel suo palmo vi è il marchio infernale del
cosiddetto Patto dell’Infante; con chi ha stipulato l’accordo?»
“Merda” pensò chiudendo gli occhi. “Devo uscire, altrimenti mi
rinchiuderanno al DEM per tradimento”.
«Mi è stato imposto con la forza».
Il Serafino lo fissò imperscrutabile per diversi secondi. «Sta
mentendo».
Gabriel lo afferrò per il colletto e lo tirò verso di sé. «Saresti dovuto
arrivare prima. Ora invece mi stai facendo solo perdere tempo».
Schneider non si scompose. «Molto bene, è chiaro che lei sta
delirando». Si liberò dalla presa e si diresse verso la porta, seguito
dal dottor Yan, sconcertato. «Cerchi di riposare, signor Cooper.
Quando sarà in grado di parlare, tornerò a farle visita».
Gabriel venne lasciato solo all’interno della grande stanza fredda,
a rimuginare. Si era fatto catturare, fregare, torturare e rinchiudere in
una sottospecie d’ospedale.
Con una veloce occhiata notò le pareti rinforzate in cemento
armato e una trama di acciaio lasciata a vista, la porta blindata e un
oblò di plexiglas anch’esso rinforzato.
Era stato rinchiuso lì non per caso, era stato tutto ben ponderato
da Schneider.
Si mise a sedere con cautela, cercando di analizzare il suo stato
d’animo che andava via via peggiorando; si toccò il petto, le braccia,
le gambe, percependo fasciature e punti di sutura. Ricordò le frecce
di Holian e il desiderio dei Serafini di farlo soffrire il più possibile. Ma
non l’avevano ucciso. Forse avevano intenzione di farlo in un
secondo momento? Di sicuro, ma i soccorsi li avevano anticipati.
Provò ad alzarsi, ma le manette agganciate con brevi catene al
letto non gli permisero di andare lontano. Poté poggiare i piedi nudi
sul pavimento gelido. Guardò fuori, attraverso l’oblò: sul fondo del
corridoio bianco dalle alte pareti vi era una porta, una vera e propria
lastra d’acciaio.
Come avrebbe potuto liberare Odry?
Un’improvvisa pressione nel petto lo mise in guardia. Chiuse gli
occhi, deglutì diverse volte, provò a respirare ma ci riuscì solo a
fatica.
Era in trappola.
Lo sorprese un violento capogiro, la nausea tornò con prepotenza.
Si chinò sul lettino poggiando la fronte sul materasso e stringendo le
braccia al petto.
Aveva paura. Ma la rabbia che provava era più forte.
Si rimise in piedi, strappò la flebo e prese l’asta, spaccandola
contro una parete. Scardinò i bulloni che tenevano il letto bloccato al
pavimento e con esso scollegò i macchinari che andarono in tilt, e li
distrusse. Trascinando il lettino andò contro la porta e la prese a
spallate sempre più forti. I punti si aprirono, le ferite gli fecero male e
più dolevano più lui gridava e provava a buttar giù la porta.
I due Serafini, che intanto si erano fermati a parlare a metà
corridoio, si voltarono verso la cella medica nella quale era stato
rinchiuso Gabriel.
«Dobbiamo fermarlo! Presto o scardinerà la porta!» Schneider si
allontanò in fretta chiamando a raccolta cinque soldati semplici
armati, per dare il tempo al dottor Yan di procurarsi la dose
necessaria per sedare l’Arcangelo.
Una volta arrivati, i soldati coprirono il Serafino e intimarono a
Gabriel, con le armi da fuoco, di stare indietro.
Schneider mise le mani avanti. «Signor Cooper questo non è il
modo per migliorare la sua posizione».
Venne portata una pistola caricata a sonniferi e lasciata a Yan.
«Sbloccate l’ingresso» ordinò.
«Ma signore» replicò un infermiere oltre l’uscita dall’altra parte del
corridoio «sarà pericoloso per voi».
«Fa’ come ti dico. Schneider stia pronto a colpire alla testa» e una
volta ricevuta la conferma, la porta blindata si aprì.
Gabriel di certo non se l’aspettava e quasi cadde in avanti; intanto
venne sparato il primo sonnifero che lo colpì al petto. L’Arcangelo
caricò i due Serafini ma Yan gli sparò altre sei dosi, cogliendolo di
nuovo di sorpresa, e quando Gabriel provò ad avanzare barcollò,
sbattendo contro la parete a sinistra.
«Prendetelo e legatelo stretto!» Schneider si voltò verso il dottore.
«Una camicia di forza, presto! Non possiamo permettere che ricapiti
un episodio simile».
«Allora dovremmo tenerlo sedato» consigliò Yan, mentre gli altri
obbedivano agli ordini.
Gabriel venne spogliato, rivestito e legato con una camicia di forza
e dei pantaloni bianchi, poi rinchiuso nella stanza, una volta
ripristinati i macchinari e l’attrezzatura che aveva distrutto.
«Non possiamo tenerlo in questo stato troppo a lungo, deve darci
delle risposte e per questo deve essere lucido» ragionò Schneider
sistemandosi i capelli.
Hezef Yan ribatté: «Allora lo immobilizzeremo trattandolo come
l’animale che si è dimostrato di essere. Schneider, è un soggetto
molto pericoloso e come se non bastasse porta il marchio… al
novantanove per cento lavora con Lucifer e per noi è rischioso. La
responsabilità ora è la sua e se dovesse tentare un nuovo atto tanto
barbaro, ordinerò la sua uccisione. Non intendo mettere a rischio i
miei collaboratori».
L’altro Serafino annuì grave. «Spero non ci costringa ad arrivare a
tanto, dopotutto è uno dei membri più forti del DEM e ci deve essere
un motivo valido per il marchio che porta, anche se questo non
toglierà il fatto che verrà comunque processato per tradimento».
«Cosa può portare un Arcangelo perpetuo a stipulare un patto del
genere? Gloria? Potere?» Yan scosse il capo, contrariato. «Il mio
compito è tenerlo in vita. Non appena sarà in grado di affrontare un
viaggio, verrà interrogato nel vostro Distretto».
«Se riusciamo a ottimizzare i tempi tanto meglio. Abbiamo l’intero
DEM nel caos, le ripercussioni si abbatteranno sulle altre città in
meno di una settimana». Schneider tolse un guanto e si grattò la
fronte, preoccupato.
«Mi tolga una curiosità: è vero che è stato ucciso chiunque
lavorasse lì dentro, tranne il corpo di guardia?»
Constantine annuì tetro. «Chiunque. I cadaveri oscillavano appesi
lungo le mura della struttura. Le Dominazioni sono state
decapitate… è stata una visione demoniaca».
«Quindi è anche vero che sono stati i Serafini» apprese Yan con
disappunto, più cupo di prima. «Mi chiedo cosa stia accadendo.
Serafini che massacrano i propri simili, Arcangeli che patteggiano col
male. È possibile che Gabriel sia stato torturato proprio in virtù del
sigillo?»
«Potrebbe essere, ma da ciò che ho avuto modo di apprendere
dagli altri Arcangeli, i Serafini del DEM mostravano atteggiamenti
violenti nei loro confronti da parecchio tempo».
L’altro annuì osservando la porta della stanza. «Manderò la mia
assistente a sedarlo a intervalli regolari, direi tra un’ora vista la dose
potenzialmente letale alla quale è stato appena sottoposto, per poi
diminuire gli intervalli a ogni mezz’ora. Dovrebbe essere il giusto
compromesso per lasciarlo tranquillo ma abbastanza lucido».
«Bene, confido nel vostro giudizio, dottore».

08:40

Un’infermiera si presentò puntuale per ordine del Serafino Yan.


Una guardia armata le aprì la porta dopo averla perquisita. La
donna, agitata, si mosse spedita verso l’Arcangelo. Dopo attimi di
titubanza gli si mise a fianco, gli toccò un braccio. «Gabriel…» disse
a bassa voce e quello aprì gli occhi solo dopo essere stato chiamato
altre due volte. «Odry?» sussurrò.
La donna si irrigidì e dopo attimi di silenzio e indecisione si sporse
entrando nel suo campo visivo. «Gabriel… sono io, Anne».
Anne, vecchia collega al DEM e prima amante di Gabriel in
Paradiso. Ma lui, al tempo, era fin troppo immaturo per reggere una
relazione con una donna che desiderava una famiglia.
«Quindi ora lavori qui…» rispose lui.
Lei annuì, gli occhi le divennero lucidi. «Che cosa hai fatto,
Gabriel? Perché ti sei ridotto a tanto?»
«Ci sono cose più importanti di quelle che ci impongono di vedere
e io l’ho capito troppo tardi». L’Arcangelo si mise a sedere, i
movimenti ridotti dalla camicia di forza. «Devo uscire da questo
posto di merda».
«Non muoverti troppo». Anne lo aiutò a sistemarsi. «Senti, non
posso stare qui a lungo o si insospettiranno, perciò ora devo sedarti»
seria, avvicinò la siringa alla flebo.
«No, aspetta» Gabriel provò a scendere dal letto. «Non sedarmi,
non farò nulla di pericoloso, però devi aiutarmi a uscire da qui. Devo
salvare una persona».
«Non posso e tu non puoi uscire da qui, non fin quando
decideranno loro». Anne era contrita e l’Arcangelo notò nei suoi
occhi l’ansia in rapida crescita.
«Si chiama Odry» Gabriel partì in quarta, stando attendo a
controllare il volume della voce «ed è in pericolo. Colui che le fa del
male è lo stesso che ha preso il Graal, che mi ha consegnato a
Dunne e gli altri Serafini, loro mi hanno ridotto in questo stato.
Ricordi Chris, vero? Ha picchiato Mathael, ha buttato giù Cassiel e
se non fossimo scappati dal DEM ci avrebbe uccisi senza pietà, tutti
quanti».
«Gabriel, ti prego… mi metti nei casini così» disse Anne, ma,
guardandolo negli occhi, riconobbe la determinazione di uno che
sarebbe stato disposto a smuovere il mondo. Si guardò intorno e
Gabriel capì che aveva una speranza.
«Non te lo chiederei se non fosse di vitale importanza. Non posso
lasciare che le accada qualcosa. Fammi andare, per favore».
La porta dalla parte opposta del corridoio si aprì, interrompendoli;
a seguire dei passi pesanti.
«Va bene, ma ora fai finta di essere sedato!» Anne gli impose di
stendersi e svuotò in fretta la siringa dentro il materasso. «Verrò più
tardi». Mise la siringa in tasca e si diresse verso l’uscita.
Quando Yan entrò, dopo aver incrociato la donna, trovò
l’Arcangelo disteso col capo riverso dalla parte opposta.
Gabriel si impose calma e un respiro regolare.
Anne riuscì ad allontanarsi senza che il Serafino si accorgesse di
nulla. Venne solo ammonita con un: «Dovresti parlare meno con i
pazienti di questa zona».
I minuti passavano lenti e insopportabili per Gabriel.
Anne tornò trenta minuti più tardi monitorata da una guardia vigile.
Diede le spalle alla porta e fissò Gabriel facendo finta di trafficare
con la flebo e con voce tremante parlò: «Il mio turno è terminato,
questo vuol dire che non verrò io tra mezz’ora. Tu non farti trovare a
letto».
Gabriel aggrottò le sopracciglia. «Bene, poi? Cosa devo fare?»
«Quello che ti riesce meglio» gli mise una mano sulla spalla
«combatti, Gabriel». Gli sorrise commossa per poi accarezzargli una
guancia e andare via.
Lui, anche in quel caso, fece finta di dormire. Ma il suo cervello
era in movimento. Non aveva a disposizione un orologio per capire
quando sarebbero scaduti i prossimi trenta minuti, avrebbe dovuto
solo affidarsi al proprio udito.
Anne gli aveva fatto il favore di non addormentarlo e i sensi
stavano tornando vigili, purtroppo insieme ai dolori.
Di più non era riuscita a fare ma andava bene così, Gabriel le era
grato.
09:40

“Questa attesa mi sta facendo impazzire”. Gabriel si era


posizionato accanto alla porta e attendeva, gonfiando i muscoli e
tirando aveva strappato le maniche della camicia, trascinato con sé il
lettino e ora, se qualcuno avesse guardato in stanza attraverso
l’oblò, avrebbe visto solo dei macchinari.
L’Arcangelo si domandò che senso avesse avuto riposizionarlo
nello stesso letto che aveva scardinato e l’unica spiegazione fu una
certa superficialità da parte del personale ospedaliero. “Idioti”.
Aveva in mente il da farsi, ma nessuna idea su come uscire da lì.
Di certo sapeva che si sarebbe lanciato dalla prima finestra
disponibile e che avrebbe volato, perché non era sicuro di avere la
forza di smaterializzarsi.

Sentì la porta del corridoio aprirsi e dei passi in avvicinamento.


L’infermiere, alto e corpulento e dall’incedere strascicato, puntò la
porta blindata. Addentò una mela rossa e il succo gli colò dal mento
fino al camice. Salutò la guardia. «Doppio turno oggi?»
«Lascia perdere, non ho avuto tempo nemmeno per andare a
pisciare».
L’infermiere sorrise e sbirciò dall’oblò.
Del paziente–prigioniero non vi era traccia.
Batté una mano sul braccio della guardia. «Quello non c’è» disse
allarmato «tu non hai sentito niente?»
L’altro negò e attivò la ricetrasmittente attaccata alla spalla. «Mi
servono rinforzi nella stanza 037. Ripeto: mi servono rinforzi nella
stanza 037». Afferrò meglio il mitra e intimò all’infermiere di farsi da
parte. La porta si aprì ed entrarono. Il lettino non era nella sua
posizione. Solo in ritardo ricordarono che il paziente avrebbe dovuto
essere attaccato a esso tramite le manette.
Sbirciarono da dietro la porta, ma in quel momento il lettino venne
sollevato e sbattuto loro addosso con una forza inaudita.
La guardia sparò alla cieca cadendo di schiena insieme
all’infermiere e Gabriel riuscì a uscire illeso dalla stanza, sempre
legato al letto che da zavorra era diventato arma. Percorse il
corridoio e attese che arrivassero i rinforzi richiesti. Scattò la sirena.
Alcuni passi veloci gli suggerirono il numero dei prossimi ostacoli.
“Tre. Ce la faccio, devo solo trovare una finestra dalla quale uscire”.
La porta blindata si aprì di scatto sbattendo sulla parete. L’impatto
tra Gabriel e un infermiere grande quasi quanto lui fu immediato.
L’Arcangelo lo colpì e le gambe pieghevoli del letto si spezzarono
rimanendo penzoloni. Le strappò per utilizzarle come arma contro un
secondo infermiere più piccolo ma con una pericolosa pistola a
sonniferi.
Avanzò, il primo lo afferrò per il collo con un braccio, facendolo
ruggire di dolore. Il tentativo di Gabriel di appropriarsi della pistola
venne neutralizzato, ma non si arrese. Mentre veniva trascinato
verso la sua stanza si liberò dalla presa gettandosi più volte di spalle
contro la parete e schiacciando l’infermiere contro di essa.
Il terzo era rimasto stordito a guardare la scena, incapace di
muovere un solo passo. Di certo non si aspettava un paziente del
genere, la cui forza superava quella del collega forzuto.
Gabriel gli si avvicinò e lo spinse verso l’altro angelo in
precedenza armato. Finalmente era fuori dal corridoio.
Evocò la spada e recise le catene, liberandosi del letto.
Si ritrovò in un ambiente più ampio e lungo con una serie di porte
sulla destra, ma niente finestre; alla sua sinistra vi era un altro
corridoio che l’avrebbe portato a uno stanzone immerso nel buio.
Alcuni uomini in camice bianco lo guardavano spaventati; uno
tolse dalla tasca un walkie–talkie senza tasti, premette su un piccolo
schermo e diede l’allarme: il prigioniero numero 037A stava
scappando.
Decise di lasciarli in piedi e li superò, ignorando l’ordine di tornare
indietro. Era ancora armato di pistola e spada, anche se ammaccato.
Il disimpegno terminava con una curva verso destra e Gabriel
rimase in attesa dietro l’angolo: aveva sentito passi e voci in
avvicinamento. Ma lo raggiunse anche il grosso infermiere.
Gabriel gli sparò al petto due tranquillanti che lo fecero sbandare e
cadere subito.
L’Arcangelo non ebbe il tempo di pensare da che parte andare
che dovette difendersi dai tentativi di tramortirlo dei nuovi arrivati. Tra
loro vi erano anche guardie armate di manganello elettrico e il primo
colpo parato con la spada non fu certo una buona idea. Dopo una
prima scossa, il fuggitivo si allontanò e colpì la guardia con un calcio
nel petto, buttandolo contro tre colleghi alle sue spalle.
«Signor Cooper, si fermi, è un ordine!» la voce dura di Schneider
giunse dal corridoio sulla destra. Il Serafino seguito da altri quattro
soldati lo stava raggiungendo. Il mantello nero dell’uomo ondeggiava
a ritmo del suo incedere nervoso.
«Stammi lontano!» ringhiò l’Arcangelo, affrontando due uomini in
contemporanea e beccando qualche colpo sui fianchi. «Non
costringetemi ad ammazzarvi tutti!»
«Deve stare calmo o io non potrò aiutarla o evitarle la condanna
per tradimento!» Schneider iniziava a perdere le staffe.
«Voi non capite cosa c’è in ballo!» Gabriel colpì più forte i suoi
avversari, andando dalla parte opposta rispetto al Serafino.
«Cosa c’è in ballo? Parli!» tuonò il Serafino fuori di sé.
«Il Graal!» Gabriel aprì le ali ancora doloranti e intorno a lui ci fu il
vuoto, tutti si tennero a debita distanza.
Non aveva detto la verità, o almeno non tutta. Nei suoi pensieri
non c’era il Graal, o meglio, non era di certo al primo posto. Lui
voleva andare da Odry, voleva lei. Aveva fatto un patto con
l’acerrimo nemico per averla di nuovo con sé. Nemmeno volle
credere a ciò che stava facendo, eppure non poté più negarlo.
Avvampò di rabbia, una forza adrenalinica lo percorse e strinse la
presa sull’arma, fidata compagna.
«Non osi mentirmi» avanzò il Serafino, nero in volto. «Il Graal è
andato perduto! Con chi ha stipulato il patto?!»
Gabriel rispose con tutta la furia che aveva in corpo: «Lucifer! Ho
patteggiato con Lucifer perché è l’unico che può fare qualcosa! Voi
tutti siete inutili! E non mi pentirò mai della mia fottuta scelta».
Schneider, così come gli altri, vennero folgorati da quelle parole.
«È uscito di senno?! Ha idea di cosa questo comporterà?! Mi
dispiace signor Cooper, ma non posso lasciarla andare via». Il
Serafino aprì le mani ed evocò le due spade corte. Attese un
secondo e poi andò all’attacco, impegnando battaglia con
l’Arcangelo.
Ebbe così inizio lo scontro serrato tra un Serafino deluso e
arrabbiato per il tradimento e uno degli Arcangeli più potenti, che
quasi non ragionava e combatteva per la vita, a costo di uccidere.
La lama della sua spada incontrò più volte i corpi di infermieri
troppo lenti per scappare e presto le pareti bianche e i pavimenti si
tinsero di rosso. Ma Gabriel sapeva di essere in svantaggio:
Schneider era sano, non affaticato, era un Serafino e stava iniziando
a saggiarne tutta la potenza; lui invece soffriva a ogni movimento, la
vista iniziava a essere offuscata e, per la prima volta la spada gli
parve quasi pesante.
Riuscì a schivare gli affondi precisi di Schneider e rimase illeso,
con solo qualche taglio abbastanza superficiale. “Forse sta
combattendo per neutralizzarmi e non uccidermi, oppure il sigillo di
Lucifer serve a tenermi in vita” pensò concentrato nell’intercettare i
movimenti dell’avversario.
Ma non poteva permettersi di perdere altro tempo.
Con un potente battito d’ali si allontanò, investì almeno cinque
persone e abbatté una porta per ritrovarsi in un atrio collegato ad
altri piani della struttura tramite due larghe scalinate e quattro
ascensori.
Ancora non vi era l’ombra di finestre.
A inseguirlo c’era Schneider, che non aveva nessuna intenzione di
lasciarlo scappare. «Chiudete tutto! Non deve uscire da qui!» ordinò
a gran voce.
Gabriel aveva già iniziato la discesa verso il piano inferiore,
facendosi scudo con le ali e riuscendo a evitare diverse fiale di
sonnifero sparate da più mani. Agitando gli arti piumati riuscì a far
cadere una decina di dardi. Ma la stanchezza si fece sentire, come
se non avesse dormito per giorni.
Qualcuno gli sparò alla spalla e il dolore del proiettile lo fece
barcollare in avanti.
I punti delle ferite erano saltati e lui aveva ripreso a sanguinare, la
vista si offuscava sempre di più e le gambe tremavano a ogni passo.
Arrivò al piano di sotto: un altro atrio con scale, ascensori e corridoi.
Il cuore in gola. Doveva uscire, ma ogni passo sembrava più
difficile del precedente.
Spostò lo sguardo verso una porta che in quel momento si stava
aprendo. Ne uscì una dottoressa con espressione terrorizzata, dietro
di lei vide una finestra dalla quale filtrava luce naturale.
«Cooper!» gridò Schneider alle sue spalle.
L’Arcangelo, con un altro battito d’ali, raggiunse la donna ma
venne piantato agli stipiti dalle spade appena lanciate dal Serafino
alle ali superiori.
Il ruggito dell’uomo fece indietreggiare la dottoressa,
spaventandola.
Gabriel fu obbligato a lacerarsi le ali pur di procedere.
Schneider dietro di lui continuò a chiamarlo, sconvolto dal male
che il fuggitivo stava infliggendo a se stesso pur di evadere.
L’Arcangelo entrò e con velocità chiuse la porta a chiave,
consapevole che sarebbe rimasta entro i cardini ancora per poco.
Raggiunse la finestra e spaccò il vetro con una manata. Salì sul
davanzale e si gettò di sotto. Ma fuori dalla struttura vi erano
numerosi uomini armati, con i mirini puntati su di lui.
L’unica cosa che poté fare fu proteggere la zona del volto con il
lato piatto della spada e volare a zigzag.
Non fu abbastanza.
Un proiettile lo colpì alla coscia, alcuni gli sfregiarono le braccia,
quattro colpirono le ali. L’ultimo il fianco.
Gabriel avvertì i sensi abbandonarlo.
L’ultima cosa che udì fu la voce di Schneider, affacciato alla
stessa finestra da cui era appena fuggito, gridare: «Lasciatelo vivo!»
Chiuse gli occhi e con le ultime forze si smaterializzò.

10:17

Gabriel si materializzò a un’altezza di venti metri sulla casa di


Ania. Quindi precipitò cercando di attutire l’urto planando, ma senza
riuscirci del tutto.
L’impatto su ciò che rimaneva del bagno del pian terreno sollevò
grida di terrore da una parte della casa che lui non riuscì a
localizzare. Però si svegliò del tutto.
Si mise a sedere, serrò la mascella e ruggì per il dolore. Ormai era
impossibile tenere il conto dei punti dolenti.
La vista di ciò che lo circondava lo sconvolse.
Il bagno era distrutto, bruciato. Di fronte a lui solo macerie e fumo,
alla sua destra poteva vedere, oltre la parete ormai crollata, che non
vi era più un piano superiore.
Si alzò con fatica prendendo in mano l’arma e zoppicando si
mosse verso quello che una volta era il soggiorno.
Ania si aggirava tra le macerie con lo sguardo perso. La sua casa,
i ricordi di una vita, della sua dinastia, ciò che amava per metà era
andato perduto.
Karen stringeva al petto il piccolo Hakam, cullandolo, mentre Vicky
e Ruby erano in lacrime. Tutte erano scosse, ferite e annerite da
fumi e cenere.
«Chi c’è? Che cazzo è successo?» la voce affaticata di Gabriel le
raggiunse come uno spiraglio di luce.
«Non c’è nessuno oltre noi, non c’è più nulla ormai» la voce di
Ania fu piatta e Gabriel la percepì come un terribile presagio.
Lasciò cadere sul pavimento la spada, il tonfo sordo del metallo
sul pavimento vibrò nell’aria, e zoppicando le si avvicinò, mettendole
le mani sulle spalle. La scosse piano. «Come è successo? Dove
sono gli altri?»
«È stato Cassiel, ha appiccato l’incendio e se siamo vive è solo
grazie a Odry» alzò lo sguardo su di lui. «Lei ha raggiunto gli altri,
Zachary ha lanciato il suo attacco. La guerra è cominciata».
Gabriel sorrise amaro. «È riuscita a fuggire». “Tutto ciò che ho
fatto è stato inutile. Lei non ha mai avuto bisogno di me” pensò in
seguito.
Ania annuì.
«Quindi sta bene? Era ferita?» chiese ancora lui.
«Aveva qualche ferita, nulla di grave».
Gabriel sentì l’angoscia crescergli dentro. «Come fai a sapere che
è stato Cassiel ad appiccare l’incendio?»
«Era nascosto e l’ho visto un attimo prima che Odry sparisse. L’ha
toccata per smaterializzarsi con lei. Era l’unico tassello fuori posto».
«Bastardo». Gabriel avanzò e una nuova fitta alla spalla ferita
riacutizzò tutti gli altri dolori: dovette poggiarsi ai resti di una parete.
«Dove sono?»
«C’era una colonna di fuoco nero e lei è andata in quella
direzione, ma è sparita poco dopo che Odry si è smaterializzata.
Parecchie ore fa».
Gabriel si sentì morire. «Ore fa?»
Ania annuì piano. «Sono passate cinque ore da quando lei ha
raggiunto Zachary. Mi dispiace Gabriel, ma non abbiamo più nulla
per poterti curare o ricucire. Devi andare».
«Da che parte era la colonna di fumo?»
«In direzione di Buckingham Palace».
E senza rispondere, Gabriel scomparve.
Il sangue dei gemelli

I
06 gennaio 2026 d.C.
Londra - Regno Unito, Terra
10:25

Lo scontro tra i gemelli andava avanti da ore.


Le morti tra gli umani si contavano a migliaia, molte delle quali
erano avvenute dopo la scomparsa della colonna di fuoco. Sempre
più forze giungevano da fuori Londra per dare manforte: truppe di
supporto di soldati speciali, organizzati in luoghi strategici con
bazooka e altre armi pesanti.
Nonostante il pericolo, i giornalisti continuavano a riprendere
senza sosta dai punti più sicuri e da alcuni elicotteri, tenendo incollati
alla TV milioni di telespettatori da tutto il mondo. Alieni o Angeli? Era
questa la domanda che continuavano a porsi.
Zachary e Odry avevano preso il monopolio di ciò che era
diventato campo di battaglia e cimitero. Lingue di fuoco, turbini e
sfere infuocate venivano rilasciati senza alcun controllo. Erano
entrati in un vortice di odio reciproco e sete di vendetta. Nessuno dei
due aveva intenzione di mollare o di lasciarsi sopraffare dall’altro. La
pressione era schiacciante e il loro scontro sembrava non avere un
termine, né un vinto né un vincitore. Erano in costante parità, in
alcuni momenti lei aveva la meglio, ma poi la situazione si ribaltava
in favore di Zachary.
I combattimenti attorno a loro avevano ripreso il ritmo.
Gli Arcangeli si erano ormai rassegnati all’idea che Lucifer
sarebbe rimasto a guardare fino al momento propizio, erano certi
che prima o poi avrebbe cercato di prendere il Graal, confermando
l’idea che Michael aveva avuto fin dall’inizio, rivelandosi quindi come
bugiardo e traditore.
Il Sovrano in effetti non perdeva di vista per un solo momento il
demone. Analizzava ogni singulto, ogni attacco, ogni parata. Teneva
le mani serrate dentro alle tasche dei pantaloni per la
concentrazione e la sofferenza, anche se a quest’ultima nessuno
faceva caso. Sentiva la forza venire meno a ogni ora. Sudava, la
febbre che lo aveva accompagnato nei giorni precedenti stava
tornando. “Ho una sola possibilità” si disse, concentrandosi ora sul
petto del ragazzo. Percepiva il Graal pulsare dentro di lui, quella
potenza sarebbe stata sua, in un modo o nell’altro. “Concentrati” si
disse ancora, infastidito dalla vista tremolante.
A un certo punto Zachary ricevette una serie di attacchi da parte
della sorella, non riuscì a pararne nemmeno uno e cadde con la
schiena contro il pavimento spaccato. Nel suo sguardo una velata
fatica.
E giunse il momento temuto da tutti.
Lucifer spalancò gli occhi rossi e con le poche forze che aveva si
smaterializzò, comparendo di fronte al giovane. Zachary, a terra, si
ritrovò il viso pallido dell’Imperatore a un metro; questi si chinò
ulteriormente, poggiando un ginocchio sul pavimento. All’improvviso
gli conficcò il braccio in mezzo allo sterno. Il volto contratto di rabbia.
Odry si fermò sorpresa.
Il Sovrano strinse i denti. Un dolore immenso gli attraversò il
corpo. Il braccio s’irrigidì, la pelle divenne grigia ricoprendosi di
capillari neri che salirono fino al collo e al viso. Percepì un bruciore
nel palmo della mano e quando la tirò fuori vide una spirale
amaranto che vorticava placida per poi cristallizzare al centro. Era
magnifica, ipnotica.
Zachary non riuscì a muoversi né a respirare, i muscoli contratti.
Anche la sua sofferenza fu immensa. Lo sguardo sbarrato fisso sul
cielo. La paura lo investì quando Lucifer disse: «Il Graal è mio».
Un lampo di esaltazione comparve sul volto del Sovrano che si
alzò barcollante, ansimante per lo sforzo. Si allontanò mettendo il
Graal al sicuro dentro di sé, e nel farlo dovette stringere i denti per
non gridare di dolore.
Ma finalmente era suo.
Aveva dovuto attendere fin troppo e aveva usato quasi tutta
l’energia che gli era rimasta, ma ne era valsa la pena.
«Lo sapevo! L’ho sempre saputo che ci avresti traditi!» gli gridò
Michael, avvicinandosi a grandi passi.
«Niente di personale, Mickey» si limitò a rispondere Lucifer,
allontanandosi quanto più veloce possibile dallo scontro.
Odry, intanto, ne aveva approfittato per attaccare il fratello.
«Certo, non si tratta di me, ma solo di te e del tuo egoismo! A cosa
ti serve quella reliquia, si può sapere?» L’Arcangelo gli stava alle
calcagna.
«Non sono cose che ti riguardano» ringhiò il Sovrano sofferente.
Un ginocchio cedette e lui si trovò con lo stesso poggiato e terra.
A quella vista Michael aggrottò le sopracciglia, la mano strinse la
presa sull’elsa della claymore. “È la fine” pensò.
Lucifer era debole, a portata di lama. La schiena offerta a lui per
chiudere il ciclo di morte e distruzione.
Il braccio dell’Arcangelo si mosse da solo, l’arma dorata scintillò
sotto i raggi del sole. Calò.
Una spada molto più grande volò tra i due, piantandosi sul
pavimento e spaccandolo in due, con lui anche la spada di Michael
fece la stessa fine.
Gabriel era arrivato. Si avvicinava con uno sguardo tempestoso, la
postura corrotta dalle dolorose ferite, le ali maestose e sanguinanti.
Lucifer chiuse gli occhi, trasse un sospiro di sollievo. Si rialzò con
difficoltà e lo sguardo che riservò a Gabriel fu severo. «Hai fatto
bene a presentarti» gli disse superandolo, sistemò il colletto della
giacca con stizza.
«Sparisci finché sei in tempo, perché non lo farò ancora».
L’Arcangelo estrasse la spada dal pavimento e andò verso il cuore
della battaglia. Ignorò lo sguardo sofferente di Michael. Fu incapace
di provare compassione, nonostante ammettesse l’ultima azione
come un messaggio chiaro e preciso: ti ho tradito, amico mio.
Lui cercava Odry.
La demonessa attaccava con ferocia il fratello, ma allo stesso
tempo cercava di liberarsi da una ferrea e invisibile presa che la
avvicinava a lui. Zachary era a mezz’aria, braccia aperte e occhi
spalancati su di lei. Assorbiva il fuoco dei suoi attacchi e le rubava
tutto quello che aveva in corpo. «Voglio lui!» lo sentì gridare.
«Dammi Rakelech!»
Odry strinse i denti così forte da farsi male. Puntò i piedi a terra
opponendosi, ma il gemello e la forza invisibile la stavano
trascinando con sempre maggior facilità; i suoi talloni avevano
creato due profonde scie nel terreno bruciato.
La marcia di Gabriel fu interrotta da un Trono che gli sbarrò la
strada. L’angelo primordiale stridette generando l’anello letale in
grado di tagliarlo in due, ma questo si scontrò con il piatto della lama
usata come scudo, scalfendola. L’Arcangelo si spostò di lato e fallì
un attacco volto a neutralizzarlo.
Ormai era troppo lento.
Un altro Trono lo raggiunse schiacciandolo contro il primo e
Gabriel riuscì a sollevare la spada giusto in tempo per tagliarlo in
verticale.
Così come quegli avversari agguantavano Gabriel, Chris,
malgrado le gravi ferite riportate, puntò Michael, di schiena rispetto a
lui e intento a levarsi di mezzo una Potestà con la spada monca. Il
Serafino si lasciò sfuggire un sorriso sadico. Nel tragitto per
raggiungerlo estrasse una lancia da un cadavere.
Prese la mira.
Michael vide esplodere il cranio della Potestà, il sangue gli tinse il
viso di rosso. Poi sentì un gorgoglio sommesso alle spalle; si voltò,
teso come la corda di un violino.
Chris teneva le braccia protese verso di lui, la bocca spalancata
dalla quale fuoriuscì un fiotto di sangue. Il braccio di Lucifer, dietro di
lui, gli spuntava dal petto. La rabbia gli aveva fatto perdere il
controllo sul corpo: le corna erano fuoriuscite dal cranio, le zampe
caprine avevano preso il posto delle gambe. «È l’ultima volta,
questa, che provi a fare del male a mio fratello» sibilò il Sovrano,
furioso.
Dunne, con gli occhi così strabuzzati che sembrava potessero
uscirgli dalle orbite, vomitò altro sangue.
Michael si isolò dalla battaglia. I suoi sentimenti, le sue emozioni e
il suo stato d’animo erano più confusi che mai.
Lucifer l’aveva prima tradito, poi salvato da morte certa. Nessuno
avrebbe dovuto far del male a suo fratello minore, questo era l’unico
motivo, nessun’altra giustificazione. Gli voleva bene davvero? No, lo
amava.
Michael l’aveva capito troppo tardi e aveva capito anche che, per
lui, Lucifer era disposto a sporcarsi le mani. L’Imperatore aveva
ottenuto ciò che voleva, il Graal, e sarebbe potuto andar via senza
alcun problema. Eppure era tornato indietro con le poche forze che
gli erano rimaste, solo per lui. L’Arcangelo inorridì nel vedere la
condanna con cui Dio lo aveva marchiato.
«Perché…»
Lucifer estrasse l’avambraccio dal busto del Serafino che cadde a
terra: gli occhi privi di vita fissi sul pavimento polveroso e
insanguinato, la schiena verso il cielo, il mondo che aveva tradito.
«Quando giungerà il momento, noi due ci scontreremo» si voltò a
guardarlo accigliato e sfigurato. «Sei l’unico che voglio affrontare alla
fine del mondo, fratello mio».
Michael non ebbe la forza di rispondere. Lo guardò mentre si
smaterializzava con fatica e dolore, poi si ritrovò solo.
Si voltò e la prima cosa che vide furono cadaveri e sangue.
Decine, centinaia di morti. Angeli, demoni e umani. Come nella
precedente battaglia non vi era differenza tra loro. Lì in mezzo ci
sarebbe potuto essere Lucifer. Volle piangere, ma si sentì arido.
Fu attirato da un suono e puntò lo sguardo alla sua sinistra verso il
rumore metallico e stridente della spada che Gabriel, ormai senza
energie, trascinava.
L’Arcangelo andava verso Odry.

II

Il panico per ciò che stava accadendo al centro della città


aumentava. All’ospedale St. Mary le cose non erano diverse. Medici,
infermieri, operatori sanitari erano occupati con l’enorme afflusso di
feriti.
Lucifer sbucò da un androne e ringraziò la fortuna per averlo
assistito: tutto il personale correva da una parte all’altra, nessuno si
sarebbe accorto di lui. Con passo svelto accorciò il tragitto che lo
separava dall’unica porta che lo avrebbe ricondotto a casa:
Georgette.
Ritornare ad avere un aspetto umano lo stava prosciugando. “Se
non mi sbrigo, per me sarà la fine” si disse con raccapriccio. Tese i
sensi per individuare la bambina, isolò l’udito dal chiasso che
invadeva la sala d’aspetto, tra commenti di chi stava lì e dei
giornalisti alla TV. Svoltò a sinistra, spinse la porta che conduceva al
corridoio dove si trovavano le camere dei pazienti. Sbirciò dentro
ogni stanza celando la stanchezza di fronte a inservienti o infermieri,
fino a quando non la vide.
Georgie era distesa sul letto, gli occhi chiusi come se dormisse. Si
stava riprendendo e i macchinari ai quali era collegata segnavano
l’assenza di anomalie nei suoi valori.
Lucifer entrò e chiuse la porta. Si piazzò di fronte al letto e la
osservò per qualche istante, i pugni serrati. “Asmodeus credeva che
non lo avrei scoperto. Ha osato sottovalutarmi, così come tutti gli
imbecilli di cui mi sono circondato”. Si affiancò al lato sinistro
spostando in malo modo i macchinari che lo intralciavano. Le mise
una mano sul petto e la piccola sbarrò gli occhi bianchi nel vuoto.
Da lei si staccò la luce violacea del portale che si materializzò di
fronte a entrambi, ma fece fatica ad aprirsi a causa dello spazio
ristretto.
La stanza iniziò subito a collassare.
Lucifer imprecò tra i denti. Mosse la mano e spostò il letto di
Georgie, facendolo schiantare contro un altro vuoto.
Il soffitto si piegò, il rumore di travi spezzate fu agghiacciante,
alcuni grossi pezzi di legno caddero a terra. Si piegarono anche le
tubature e l’acqua prese a schizzare ovunque, facendo andare in tilt
alcuni macchinari, i cavi elettrici scoperti divennero pericolosi.
Lucifer si protesse con un braccio; nello stato di salute in cui era,
creare uno scudo sarebbe stato impensabile. Non attese che il
portale si dilatasse al suo massimo: vi si lanciò dentro, lasciandosi
alle spalle il piano terrestre.
La stanza continuava a sgretolarsi, il personale aveva chiamato i
soccorsi, qualcuno si era spinto troppo oltre tentando di salvare la
piccola, e morì sotto i calcinacci.
Il pavimento si aprì, il lettino con sopra Georgette cadde al piano
di sotto. Il corpo della bambina non resse quella potenza.
Il portale collassò, sprigionando un’onda d’urto che fu devastante
per l’ospedale. E la bambina scomparve tra le macerie.
III

Gabriel preferì usare le poche energie rimaste per liberarsi da chi


si frapponeva tra lui e il suo obiettivo. Per fortuna trovò aiuto in
alcuni compagni. Raziel e Mathael avevano provato a chiedergli che
fine avesse fatto, ma lui non aveva risposto.
Gli era andata bene fino a quel momento con i Troni, ma giunse il
momento di affrontare una Potestà che con movimenti meccanici e
precisi si mise in posizione di difesa. Impercettibile, la creatura
spostò una gamba metallica che rifletté la luce del sole accecando
l’Arcangelo. Si lanciò in un attacco veloce e gli conficcò la punta
della lama nel fianco. Gabriel arretrò premendo la mano sulla ferita,
provò a colpirla col pomolo dell’elsa, ma fallì, scivolando sul
pavimento. L’avversario usò il piatto della lama dell’Arcangelo come
rampa per avvicinarsi al suo viso e quasi gli tagliò il capo. Gabriel si
scansò giusto in tempo, sollevò una gamba per colpirlo e la Potestà
schivò tentando una sforbiciata che per poco non fece perdere a
Gabriel una mano, poi atterrò e tornò su di lui con l’intenzione di
trafiggerlo. L’Arcangelo rotolò a sinistra evitando la morte e sollevò
la spada giusto in tempo per parare calci in successione e schivarne
uno proveniente da destra.
“Eccolo”. Finalmente un buco nella difesa della Potestà.
Gabriel sferrò un pugno al volto dell’avversario, ma non fece in
tempo a colpirlo perché la testa saltò via dal collo. Con occhi
sbarrati, non si accorse degli schizzi di sangue sul proprio volto,
rimase a guardare il capo rotolare lontano e il corpo cadere.
Raphael, dall’altra parte, lo fulminò con un’occhiata. «Sei un
disastro. Cosa sei venuto a fare se non riesci nemmeno a
combattere?»
Gabriel sputò, poté rilassarsi per qualche secondo. Si limitò a
ringraziarlo con un cenno del capo e lo superò zoppicante,
procedendo verso Odry.
Intanto il fuoco aumentava, mangiava terreno ed era impossibile
fermarlo.
Il francese scosse il capo con dissenso, si voltò e trasalì. Si trovò
faccia a faccia con un demone che, però, lo fissava con sguardo
spento. Una lama finissima gli attraversava il collo da parte a parte.
«Lui è mio».
Raphael spostò lo sguardo a destra e, anche lui, sgranò gli occhi.
Cassiel estrasse la spada e spinse via il cadavere. Senza
attendere si lanciò addosso al fratello che non ebbe il tempo di
reagire. Caddero entrambi e Cassiel riuscì a sfogargli sul volto una
furia incredibile. Gli occhiali si ruppero. I frammenti di vetro delle lenti
ferirono entrambi. Raphael si riprese e gli bloccò entrambi i polsi,
Cassiel rispose con due testate ma venne spinto via prima che
potesse infierire oltre. Ora Raphael gli fu sopra, restituendogli il
favore.
Cassiel sembrò cedere sotto i pugni e il gemello si calmò quando
lo intuì dal suo sguardo. «Perché fai questo? Sei arrabbiato, lo so,
ma cerca di essere ragionevole!»
«Sei schifoso» rispose l’altro con la bocca insanguinata. «Hai
sempre cercato di tenermi buono per cosa? Per fotterti le mie
cose?»
Raphael lo schiaffeggiò così forte da fargli girare il capo. «Non
osare pensare questo di me. Tu sei ancora mio fratello e io ti amo».
«Tu sapevi tutto e hai preferito manipolarmi fino alla fine. Hai
lasciato che Agatha mi facesse del male, l’hai lasciata fare per avere
da me informazioni sugli altri Arcangeli. Sei uno sporco
doppiogiochista».
«Non osare ripeterlo».
«La verità brucia, vero?»
Raphael si alzò e lo costrinse a fare lo stesso afferrandolo per la
felpa. «Ora tu mi stai vicino. Quando saremo fuori da questa
battaglia, tornerai a casa con me e ne parleremo da persone civili».
Ma Cassiel gli sputò in faccia. «Se non posso avere io Victoria per
me, non l’avrai nemmeno tu». Estrasse con rapidità un pugnale e
Raphael si accorse della sua esistenza solo quando venne infilzato
al fianco. Questo si piegò in avanti per il dolore, ma riuscì a evitare
un altro affondo.
La ferita sanguinava copiosa, l’Arcangelo ci premette la mano per
attenuare l’emorragia, la mascella serrata per controllare il dolore; la
vista opaca gli rendeva difficile decidere sul da farsi. “Se non mi
sbrigo mi ammazza” si disse; di fronte a lui Cassiel camminava
lateralmente tastando il terreno e il range di attacco a sua
disposizione. “Potrebbe aver colpito la milza, in tal caso avrei poco
più di sei minuti per neutralizzarlo”. Si mise in posizione,
camminando in cerchio, seguendolo. “È debole, non ha le ali, ma ha
un pugnale ed è veloce” valutò. Non voleva fargli del male, era
questo il suo freno. Sarebbe bastato fargli perdere i sensi.
La tensione crebbe, il caldo pure.
Il fuoco continuava a bruciare, Zachary ad assorbire il potere di
Odry e lei a cercare di liberarsi, perdendo il controllo sulle fiammate
che colpivano amici, nemici ed esseri umani con i loro mezzi, senza
distinzione, che avanzavano creando un reticolo di fuoco in cui molti
si trovarono intrappolati.
Raphael e Cassiel videro sfrecciare una fiammata che li separò.
Il primo aprì le ali e con un balzo cercò di passare oltre la parete di
fuoco per recuperare il gemello, ma gli spostamenti d’aria da esse
generati non facevano altro che fomentare le fiamme, e le scintille
bruciavano le piume. «Salta!» ordinò.
«No».
«Cosa dici? Morirai!»
«Non sarebbe una liberazione per tutti?» Cassiel abbassò lo
sguardo annebbiato.
Raphael sentì come un pugno nel petto quella domanda retorica.
«Dammi la mano!» gli gridò. «In nome di Dio, allunga quella mano!»
la disperazione di Raphael cancellò il bruciore alle ali.
«Ero sempre io a proteggere te da bambino, quando eravamo
umani, ricordi?» la voce di Cassiel giunse distorta dal rumore
stridente delle fiamme sempre più alte e fameliche.
«Sì! Fammi ricambiare il favore una volta per tutte! Ti scongiuro!»
«Beh, se quel giorno non avessi provato a salvarti, forse mi sarei
salvato io e avrei evitato di finire in Paradiso con te. Una fine di
merda seguita da una nuova vita non molto differente».
Ecco un’altra dolorosa considerazione. Quanto potevano far male
le parole di una persona tanto amata?
«Ma ormai non ho più nulla da perdere: voi mi avete tolto tutto».
Le fiamme erano divenute una trappola mortale per Cassiel, dai suoi
poveri abiti uscì fumo. «Tutta questa storia è iniziata col fuoco e con
esso finirà».
«No!» gridò Raphael cercando il modo di oltrepassare la barriera
letale. Se avesse bruciato le ali non avrebbe potuto portarlo in salvo,
se si fosse smaterializzato il drastico cambio energetico avrebbe
potenziato le fiamme che avrebbero inghiottito anche lui; ogni
tentativo sarebbe stato inutile. «Aiuto!» chiamò a gran voce.
Nessuno sentì.
«A nessuno importerà» la voce di Cassiel si ruppe, il dolore ebbe il
sopravvento «come è sempre stato. Forse tu farai la mia stessa fine,
il nostro sangue ci lega».
Raphael gridò ancora e sbatté le ali più forte che poté, con la
speranza di crearsi un varco. Ma non ci fu nulla da fare. Il fuoco
avvolse Cassiel che urlò e a Raphael non restò che assistere alla
sua lenta morte.
Si sentì agguantare per le spalle da due mani, Uriel lo trascinò via
di forza. «Non c’è più nulla da fare» disse.
Eppure lui continuava a gridare, come se qualcun altro potesse
udire e fare qualcosa.
Cassiel si era lasciato andare.
Raphael sentì di aver fallito. Spinse via Uriel, cadde in ginocchio e
vomitò.
Raziel fece per raggiungerlo ma il turco glielo impedì. «Lascialo,
tra poco ci spostiamo. Qui sta bruciando tutto ed è troppo pericoloso,
per noi, rimanere».
Il grido di dolore e fatica di Odry diede piena conferma alle parole
di Uriel.
La demonessa stava rapidamente perdendo il controllo di sé. Non
distingueva nessuno: amici, nemici, chiunque lì presente doveva
morire. In un unico lampo di lucidità riconobbe Zachary come un
codardo in grado solo di assorbire la sua potenza pur di proteggersi
da lei.
Digrignò i denti con rabbia. Andava eliminato una volta per tutte.
Si lasciò andare a quella forza che l’attraeva a lui, allungò le mani,
creò un canale di fuoco letale che gli scaricò addosso.
Zachary riuscì ad assorbire quell’ennesimo attacco. Una volta
dissipato il maggior numero di fiamme, se la ritrovò di fronte e
ricevette un pugno, il volto della donna trasfigurato dalla rabbia, gli
occhi viola e brillanti.
Assistere allo scontro e percepire la forza inarrestabile di Odry
fece cadere definitivamente Karasi nel panico. Si guardò intorno: era
riuscita ad allontanarsi abbastanza dall’epicentro della lotta, ma
anche dalle telecamere e dal caos di esseri umani che venivano
soccorsi e portati in salvo. Le fiamme però continuavano a
espandersi e i terresti a indietreggiare. Adesso temeva che Zachary
avrebbe potuto fare ben poco senza Graal e non sarebbe più riuscito
a portare a termine la missione. La morte di Satan avrebbe atteso
ancora.
Infine notò qualcosa di terribile: tutti i carri armati presenti, o
almeno quelli che riusciva a vedere, stavano puntano i cannoni su
Odry e Zachary.
Due di loro spararono al centro del campo di battaglia.
Vi fu un’esplosione violenta. Numerosi corpi di angeli e demoni
vennero sbalzati a metri e metri di distanza, alcuni di loro divennero
irriconoscibili ammassi di carne e sangue mischiati a terra e macerie.
Gli stessi gemelli volarono via, ma i loro fuochi furono in grado di
proteggerli. Odry intercettò i grossi mezzi e lanciò due attacchi in
grado di farli esplodere. I terrestri attorno perirono senza nemmeno
accorgersene.
Nella mente di Karasi rimbombavano minacciose le ultime parole
che aveva scambiato con la ragazza.

“Vi ammazzerò a costo di morire io stessa per questo”.

Così indietreggiò ancora, si smaterializzò sparendo.


La battaglia tra Odry e Zachary degenerava con velocità,
contando soprattutto il contributo della Royal Army che non faceva
altro che rendere difficili i movimenti in campo.
Lui studiava le mosse della gemella con soddisfazione: aveva
davanti ciò che voleva davvero e avrebbe lottato per ottenerlo.
Alla nascita solo lei era stata consacrata a Rakelech. Un dono,
una benedizione, che sarebbe potuta spettare a entrambi. Perché lui
no? Era stato scartato, poi scartato di nuovo quando era stato
lasciato in mezzo alla strada, mentre Odry era stata accolta dal
padre. Il Dio del fuoco aveva scelto lei come involucro.
Si era sentito una nullità, l’eterno secondo. Probabilmente il
desiderio di stare a capo di una società mista era reale, forse solo
una finzione inculcatagli da Karasi insieme all’intento di uccidere
Satan. In ogni caso voleva Rakelech.
Questa pretesa e il suo atteggiamento rendevano Odry più furiosa
a ogni attacco; non ragionava più e l’unico obiettivo che perseguiva
era quello di uccidere un fratello che non l’amava come sosteneva o
che provava un sentimento ambiguo, che si era dimostrato amico e
carceriere.
Eppure era sfiancata e col fiato corto. Terse sangue e sudore dal
volto. “Non ce la faccio” si disse con sconforto.
Nessuno dei due sarebbe riuscito a prevalere sull’altro, lui senza
Graal era più debole, ma lei si stava prosciugando.
Quante ore erano passate? Odry non ne aveva idea.
Provò ad attaccare, ma cadde a terra. Provò a risollevarsi mentre
il corpo si accendeva e spegneva come una lampadina quasi del
tutto fulminata.
Zachary sorrise crudele. «Potresti vivere con lui, se solo
rinunciassi a ciò che ti chiedo. Oppure colui che vive in te è più
importante dell’Arcangelo?»
Odry girò il capo verso la battaglia, vide Gabriel intento a farsi
strada in mezzo alla ressa, veniva in ogni modo bloccato dai Troni,
Potestà e dai pochi rinnegati e angeli caduti rimasti in vita. «Non ci
sarebbe nessuna vita se ti dessi ciò che possiedo». Sentì le forze
abbandonarla, il capo crollò. Era conscia che presto sarebbe finita,
per cui non doveva arrendersi.
«Odry!» Gabriel riuscì a farsi sentire per la prima volta, da quando
era arrivato. «Resisti!»
La voce le arrivò e, contorta, divenne un eco, sempre più distante.
Alzò lo sguardo, volle intercettarlo di nuovo ma non ci riuscì.
Poi l’udito si spense. Nessun rumore, nessun grido. Tutto era
cessato.
Le bastò sbattere le palpebre per passare dal campo di battaglia
al nero più infinito.
Una dimensione scura, senza pareti o pavimenti, senza fine.
«Dove sono?» Odry si guardò intorno, stranita. Dolori e
stanchezza erano un ricordo.
«È la dimensione dell’anima, Odry».
La voce dell’elementale la fece sobbalzare. Era di fronte a lei,
glorioso e fiero come lo ricordava, l’unica fonte di luce in quel buio
sconfinato.
«Com’è possibile tutto questo?»
Rakelech tacque. Lo sguardo di fuoco fisso su di lei, le tese una
mano aiutandola ad alzarsi. «Se ti arrendi ora sarà la fine per tutti»
rispose invece, con la voce più simile a un tuono.
«Io… sono stanca, non riesco più a combattere».
L’elementale le toccò il viso con una dolcezza che lei stentò a
credere potesse avere una creatura tanto grande. «Siamo nati in
epoche distanti, nonostante questo siamo stati forgiati dalla stessa
materia. Tu sei coraggiosa, forte e incosciente e io sapevo che non
mi avresti mai deluso. Se ti ho scelta è perché siamo uguali,
sconsiderati ma leali, sanguinari ma misericordiosi, temibili ma
gentili». Le sorrise paterno, mentre lei faceva fatica a reggerne lo
sguardo. «Combatti, Odry, combatti per chi ami e dona una vita fatta
di pace, anche se ciò ti porterà lontano da loro».
A Odry venne spontaneo concentrarsi sul tocco di Rakelech, una
creatura quanto più vicina a un padre. Il cuore si riempì di orgoglio e
soprattutto d’amore. Strinse i pugni ed ebbe il coraggio di lasciarsi
sfuggire qualche singhiozzo, di piangere.
Un suono di catene strascicate discordava con il nulla che li
circondava.
Odry tirò su col naso e fece per voltarsi, ma Rakelech glielo
impedì stringendola in un amorevole abbraccio. Una mano premuta
contro la sua nuca, lo sguardo fisso su chi regnava in quella
dimensione. «Non ascoltare, non ti voltare, focalizza le energie che ti
sono rimaste».
Odry si lasciò alle spalle quel suono in avvicinamento, la straniva
ma Rakelech aveva ragione, nulla era più importante di quello che
avrebbe dovuto compiere. Annuì con rinnovata decisione. «È giunto
il momento?»
Lui confermò col capo e la demonessa chiuse gli occhi dandosi
forza.
Zachary la vide alzarsi e voltarsi verso di lui, di nuovo in fiamme.
Gli corse incontro e lui aprì le braccia per accoglierla, sul volto un
sorriso malefico e soddisfatto.
Gabriel sgranò gli occhi e spiccò il volo per raggiungerla, ma
venne trascinato giù per le gambe da un’altra Potestà e in seguito
salvato da Uriel, Raziel e Mathael, che gli si disposero attorno per
eliminare alcuni degli ultimi superstiti. «Dobbiamo andarcene
subito!» gridò l’ungherese.
Gabriel non riusciva a staccare gli occhi da Odry. Tutto intorno a
lui sembrava andare piano, dolorosamente piano. “Guardami” pensò
disperato.
L’aveva stretta a sé troppo poco, bloccato dai mille dubbi e dal
timore di allontanarla. Non era riuscito a baciarla, a proteggerla. Se
solo avesse avuto il coraggio di aprirsi, di affrontare lei che era paura
e desiderio.
Fino ad allora non aveva voluto fare i conti con se stesso, scavare
a fondo per comprendere meglio i propri sentimenti. Troppo stupido
orgoglio in un solo stupido uomo. Ma ora si sentiva pronto, la paura
di perderla l’aveva schiacciato con tutta la sua forza fino a spremerlo
e far uscire il coraggio.
«Ora ho capito. Sono qui e ci sarò sempre. Non andare via».
Avrebbe voluto gridare, ma dalla bocca non uscì un suono.
«Non lasciarmi qui, ti prego. Io ti amo».
Poi, all’improvviso, un boato.
Il corpo di Zachary, avvolto da fiamme nere e rosse che
danzavano nervose e si scontravano, era quasi al collasso. Il
demone non aveva nemmeno la forza di gridare.
Il corpo della demonessa, quasi impossibile da distinguere in
mezzo al fuoco, sembrava dissolversi verso di lui.
Satan li raggiunse. Aveva riacquistato il suo aspetto umano e,
privo di forze e ricoperto di ferite, cercava di vedere cosa stesse
accadendo. Un brutto presentimento lo portò a spingere Raziel
affinché gli liberasse la visuale. «Odry!» gridò.
Di lei non vi era più traccia, rimaneva solo Zachary, stordito e con
gli occhi sbarrati nel vuoto.
Niente più fuoco, tutto si era spento in un lampo.
Il demone si guardò intorno, si toccò il petto percependo il cuore
accelerato. “Ci sono riuscito” pensò. “È dentro di me, è mio”. Si
guardò intorno.
Karasi era sparita. I demoni rinnegati e gli angeli caduti, il suo
esercito, tutti erano stati decimati e annientati, i pochi superstiti si
stavano dando alla fuga. Era solo.
Gli esseri umani, a debita distanza con i loro mezzi e le
telecamere, tacevano, come in attesa di qualcosa. I cecchini
appostati sui palazzi l’avevano sotto tiro.
Gli Arcangeli, Belial, Barakiel e Satan lo fissavano.
Il principe portò una mano allo stomaco, come si fosse attorcigliato
e volesse fermare quel dolore. Vagò con lo sguardo con la speranza
di scorgere Odry, gli sarebbe bastato anche trovarla in mezzo ai
cadaveri per poter salvare almeno il corpo. Era la sua assenza a
destabilizzarlo. «Dove…» si voltò verso Gabriel che fissava di fronte
a sé con sguardo perso.
Zachary esplose in una risata liberatoria. «Questo strazio ha
trovato una fine!» avanzò con passo sicuro, l’espressione beffarda.
«Sono desolato per la vostra perdita, io per primo sono affranto;
avrei voluto assistere alla nascita dei vostri figli, Gabriel, giuro! Non
temete però, Odry vivrà dentro di me per sempre».
«Ti ammazzo!» gridò Satan spintonando chiunque incontrasse;
corse verso di lui, ma Zachary caricò un cannone infuocato che lo
scaraventò lontano.
«Ragazzi, non intendo combattere» disse poi quest’ultimo e indicò
attorno con entrambe le mani. «Guardate: ora il mondo intero sa
della nostra esistenza e non saremo più costretti a nasconderci.
Siamo esseri superiori, perché mai dovremmo avere il timore di
mostrarci all’umanità? Potremmo vivere allo scoperto».
«Sta zitto, coglione!» Raziel lo attaccò con la catena e lo stesso
fece Uriel con il fuoco, ma il demone neutralizzò entrambi i tentativi.
«Raziel» disse «tu potrai stare con la tua adorata Karen e potrai
proteggerla, perché nessuno oserebbe mettersi contro un
Arcangelo».
«Non osare nominarla, bastardo!»
«Ben presto vi renderete conto che i sacrifici sono inevitabili e
giusti, se volti a un bene superiore e…» Zachary aggrottò la fronte e
guardò per terra: vista e mani tremolanti, il battito ancor più veloce.
«E mi ringrazierete…» Parole dette con troppa fatica.
Il demone si domandò il perché. “Deve essere lo sforzo che il mio
corpo compie per contenere l’elementale, è solo questione di
abitudine”. Ma si aggiunsero una pressione al petto e una
sensazione di bruciore che salì fino al cervello.
Si voltò di spalle per non farsi vedere in quelle condizioni e Gabriel
ne approfittò: con uno scatto gli fu vicino e sarebbe riuscito a
tagliarlo a metà con la spada se non fosse stato per i sensi tesissimi
del demone. Quello si voltò giusto in tempo per lanciargli addosso
una palla di fuoco che lo fece volare via.
Qualcosa non andava, Zachary lo sentiva e non riusciva a capire
come fermare il dolore in aumento a ogni respiro. Le ginocchia
cedettero e lui si ritrovò a terra, sudato dalla testa ai piedi. “No… ti
prego. Desidero solo questo”.
Era davvero così inadatto il suo corpo? Era questo che voleva dire
non essere stato scelto? Non essere all’altezza di contenere un
simile potere?
Le mani andarono sull’addome, poi sul petto. I palmi presero a
pizzicare e poi a bruciare, ma di un fuoco non suo. Fiamme rosse lo
invasero senza che lui potesse controllarle.
Tutto dentro di lui iniziò a bruciare e a quel calore non poté
resistere. Il capo si piegò all’indietro, le mani furono percorse da
violenti spasmi, la bocca si spalancò e sbarrò gli occhi in
un’espressione di dolore lancinante. Gli abiti presero fuoco e il
corpo, ormai nudo, divenne rosso come illuminato dall’interno.
Il sogno fatto mesi addietro si stava concretizzando. La
consapevolezza lo terrorizzò: Odry lo stava uccidendo.
Il primo grido fece rabbrividire i presenti.
I cecchini spararono e cinque proiettili gli perforarono lo sterno,
incenerendosi dentro di lui.
Satan venne schiaffeggiato da una sensazione negativa.
«Dobbiamo allontanarci. Siamo troppo vicini».
Gli altri indietreggiarono, Belial più di tutti. Gabriel non gli diede
retta.
«Gabriel! Sta per esplodere!» Satan lo afferrò per una spalla
tirandolo all’indietro e Uriel lo aiutò a trascinarlo via.
Zachary gridò ancora. I capelli bruciarono, la pelle si sciolse. Gli
occhi e le orecchie esplosero e il sangue ribolliva.
L’aria si riempì subito di puzza di carne bruciata.
Il demone ebbe il tempo solo di rivedere brevi frammenti della sua
vita, momenti in cui aveva lottato per sopravvivere e aveva fatto di
tutto per compiacere l’unica donna che gli aveva fatto da madre. E
che era fuggita, abbandonandolo.
Una vita spesa a dimostrare di essere qualcuno solo per
compiacere gli altri.
La luce proveniente dal corpo in pochi istanti divenne accecante.
«Correte!» gridò Satan.
Gli Arcangeli afferrarono chi non poteva volare e si diedero a una
fuga disperata.
I reporter con le telecamere ripresero gli esseri sovrannaturali
scappare e nessuno osò rimanere. Fuggirono anche loro creando
una reazione a catena.
Satan attivò una barriera e lo stesso fece Barakiel.
Poi tutto divenne bianco.

IV

Il primo a svegliarsi fu Michael. Sbatté più volte le palpebre, non


seppe dire quanto dovette rimanere in quella posizione, disteso
supino, per riprendersi. Si mise seduto e si guardò intorno: i suoi
compagni erano attorno a lui, fortunatamente ne percepiva l’energia
vitale.
Le barriere evocate avevano attutito il colpo, ma non erano state
abbastanza forti per resistere a lungo. Si erano infrante e molti di
loro avevano subito gravi lesioni; le ali quasi del tutto ustionate. Ci
avrebbero impiegato più tempo del dovuto per rigenerarsi.
Almeno erano salvi…
Avrebbe voluto svegliarli partendo da Mathael, distesa accanto a
sé, ma la vista di ciò che li circondava era terribile. Per avere una
visione più chiara della situazione spiccò il volo.
Il suo corpo divenne di pietra, il sangue di ghiaccio.
Alberi, statue, case, carri armati ed esseri umani: tutto era stato
spazzato via da quella potenza inarrestabile. Buckingham Palace
era una massa di detriti, l’acqua del Tamigi era fuoriuscita dagli
argini abbattendosi sulla strada. Era stato investito anche il London
Eye, adesso piegato verso la banchina. L’atrocità avvenuta aveva
raso al suolo Westminster, St James, SoHo, My Fair, forse anche
Covent Garden e Waterloo.
Uno spettacolo macabro, grottesco. Un massacro senza
precedenti.
L’esplosione sembrava aver scosso le nuvole e la pioggia aveva
iniziato a cadere, nonostante ciò il caldo era soffocante. Le gocce
come spilli sulle armature degli Arcangeli.
Di Zachary non v’era più traccia.
Mathael si svegliò all’improvviso, prendendo un respiro come dopo
una lunga apnea. Quasi in contemporanea aprirono gli occhi anche
Barakiel e Uriel. La donna sollevò il capo, vide l’Arcangelo sospeso
ad almeno cinquanta metri che si accingeva ad atterrare.
«È finita» considerò il Cherubino.
Michael confermò. «Sembra giunta l’apocalisse».
«Non percepisco forme di vita da qui a centinaia di metri di
distanza» disse il turco.
Satan si svegliò in silenzio e, sempre senza dire una parola, si
alzò a fatica e si guardò intorno, avanzando incredulo.
In poco tempo anche Raziel, Gabriel e Belial si svegliarono.
Nessuno osò aprire bocca per dire qualcosa in più di uno: «State
bene?» Il suono di una parola di troppo sembrava potesse disturbare
la quiete ritornata.
Raphael era scomparso.
Barakiel fu il primo a spezzare la linea di immobilità, proponendo
di spostarsi dall’epicentro, in virtù dell’arrivo di altri possibili rinforzi.
«Non possiamo farci vedere ancora, dobbiamo sparire».
Michael concordò con un debole cenno del capo.
«Ma Odry…» accennò Belial con la voce spezzata.
Tacquero di nuovo tutti.
«Non la cerchiamo?» domandò ancora con le lacrime agli occhi.
«Magari l’esplosione l’ha fatta volare chissà dove e basta solo
cercare…»
Le parole dure e amare di Gabriel lo fecero ammutolire. «Non la
vedrai mai più».
Nessuno era stato in grado di proteggerla. Fin dall’inizio nessuno
aveva compreso cosa stesse vivendo, portandola ad allontanarsi.
Lei, invece, si era sacrificata per ognuno di loro.
Satan chinò il capo e un forte dolore al petto lo portò a serrare i
pugni. Se solo avesse provato a starle più vicino… Questo e altri
sensi di colpa gli scavarono l’anima, tradendolo con le immagini del
volto ferito di Odry, riportandolo indietro per rivivere l’imposizione del
collare che, ora, aveva tutto il sapore del tradimento più grande. Lo
sguardo appannato dalle lacrime andò a Gabriel e si pentì di non
aver provato a salvarla come aveva fatto lui. “Non avrò mai pace”
pensò, ma avrebbe voluto gridarlo. Sentì i singhiozzi di Belial. Il
rimorso gli diede un’altra struggente certezza: era tutta colpa sua. E
ci avrebbe dovuto fare i conti per l’eternità.
«Andiamo» disse piano Uriel, visto che nessuno aveva dato retta
al Cherubino. «Dobbiamo limitare la nostra presenza. Torniamo da
Ania».
Si smaterializzarono e ciò che i loro occhi videro fu un nuovo duro
colpo.
La villa di Ania era distrutta per metà, le pareti annerite e l’acre
odore di bruciato ancora persistente dopo ore.
Raziel chiamò Karen col cuore in gola.
La donna uscì fuori da uno dei pochi ambienti al pian terreno
ancora integri e non appena lo vide gli corse incontro e lo strinse
forte, tra le lacrime. A seguire uscirono Vicky, con gli occhi gonfi, e
Ania più pallida del solito.
«Cosa è successo qui?» chiese Satan muovendo qualche passo
in avanti.
«È stato Cassiel» ammise Ania. «Odry è arrivata appena in tempo
e ci ha salvate».
«Dov’è lei? E Raphael?» domandò Vicky.
Nessuno ebbe il coraggio di rispondere. Lo fece la padrona di
casa per loro: «Lui sta bene, tornerà presto. Ma lei non c’è» annuì
piano. «Sapeva che sarebbe andata a finire così».
Vicky poggiò una mano sulla bocca e le lacrime ripresero a
scorrere rapide. «Non è vero! No, anche lei no!» gridò, tremando da
capo a piedi. Dovette sedersi, un capogiro l’aveva colta di sorpresa;
risentì dell’ultimo scambio avuto con l’amica: uno schiaffo che non si
sarebbe mai perdonata. Sollevò lo sguardo, Satan le si era fatto
vicino. Si guardarono per qualche istante, lui provò a inghiottire il
dolore, invano. Si strinsero con forza e trasporto, lasciandosi andare
a un pianto liberatorio.
In un angolo della stanza, sul pavimento ripulito, vi era un corpo
avvolto da un lenzuolo, accanto a esso Ruby lo fissava come in
trance: non aveva visto o sentito nessuno. Tutti compresero che
Summer non ce l’aveva fatta. Solo Uriel ebbe la forza di avvicinarsi
alla succube e di sedersi accanto a lei, raccogliendosi in una
profonda preghiera.
«Dobbiamo trovare una sistemazione» disse Mathael guardandosi
intorno.
«Io resterò qui, questa è la mia casa e non posso lasciarla». Ania
riprese a rovistare tra le macerie e sotto il crollo di una parte della
libreria di destra estrasse il suo antico grimorio, lo ripulì dalla cenere
e lo strinse al petto.
Mathael non osò ribattere, non era il momento.
«Forza» incoraggiò Michael «raccogliamo quanti più effetti
personali intatti».
Karen scosse il capo. «No! Dovete riposare! Siete feriti,
guardatevi!»
Raziel l’abbracciò per zittirla, premendole il volto contro la propria
spalla. «Non riposerà nessuno, credo».
Michael abbassò lo sguardo e percepì la rabbia montare,
improvvisa. «Se solo non ci avesse traditi…»
Mathael gli mise una mano sulla spalla. «Non potevamo
immaginarlo».
«E invece sì, potevamo. Io lo sapevo». L’Arcangelo cercò Ania
con gli occhi e ne incrociò lo sguardo, ma lei lo abbassò subito,
cogliendo il senso del messaggio silenzioso. «Dobbiamo trovarlo»
aggiunse. Si voltò alla ricerca di Barakiel, marchiato da lui stesso
come traditore, ma il Cherubino era sparito e nessun altro pareva
essersene accorto.
«Ci penseremo in un altro momento!» sbottò l’ungherese a denti
stretti. «Fino a prova contraria molti di noi non hanno un posto in cui
stare. Quindi ingoia il rospo, per ora».
Gabriel, dolorante, si era messo all’opera non appena l’amico
aveva dato l’ordine. Era silenzioso, la mente vuota, il cuore anche.
Un bagliore bluastro attirò la sua attenzione là dove c’erano alcuni
detriti.
Si avvicinò, ma Satan lo anticipò ed entrambi vennero colpiti dal
ritrovamento: il tablet di Odry.
«È ancora intatto» disse il demone, flebile. «Lo aveva costruito
così da resistere alle sue temperature. Ha usato un vetro resistente,
ma non ho mai capito di cosa si trattasse nello specifico». Si accostò
a Gabriel pulendo l’apparecchio con mani tremanti e glielo porse
come segno di pace. «Penso debba averlo tu».
Gabriel lo prese, lo maneggiò con cura e attenzione ignorando le
fitte alle braccia, come potesse esserci ancora qualcosa di Odry in
quell’oggetto. Annuì per ringraziare.
«Avrei preferito non accadessero tante cose» disse il demone.
«Avrei preferito che Asmodeus mi avesse tenuto all’oscuro di tutto,
che tu non avessi mai incontrato Odry… Ora, magari, tutti saremmo
al sicuro, vivi». Deglutì con dolore. «Poi penso a quanto amore e a
quanta amicizia abbiamo trovato nello stare insieme. Sono davvero
grato di ciò che mi avete dato… mi pento solo di non essere al posto
suo».
«Già. Sarebbe stato meglio se ci fossi stato tu». E senza
nemmeno degnarlo di uno sguardo, Gabriel si smaterializzò
portandosi via il tablet.
Nella stanza calò il gelo.
«Dov’è andato?» domandò Mathael.
«Che gli è preso?» si accodò Raziel.
Michael non osò dar voce alla sua opinione, era chiaro quanto
Gabriel stesse soffrendo.
Non aveva mai smesso di cercarla, di provare a salvarla. Era
sparito e tornato in battaglia nonostante le condizioni pietose, di cui
nessuno conosceva la causa. E anche lì aveva provato a
raggiungerla.
Alzò il capo e osservò la casa, distrutta e spezzata come ognuno
di loro.

Infine il gruppo si divise.


Non c’era più motivo di stare lì, non c’era più la dimora che li
aveva tenuti uniti fino ad allora. Quindi, quasi con naturalezza, si
separarono.
Non esisteva più il DEM, la rivolta civile era stata un fallimento, il
Thoctar era stato annientato…
Ognuno di loro sentiva la necessità di lasciarsi tutto alle spalle e di
tornare a una vita, per quanto possibile, normale. Sarebbe stato
difficile, doloroso come provare a strapparsi le manette dai polsi, ma
alla fine avrebbero vissuto in pace.
Raphael, ferito, era ricomparso poche ore dopo, nessuno aveva
osato chiedergli dove fosse stato. Ania aveva rifiutato la gentile
proposta di stare da lui nella sua tenuta in Francia, sostenendo di
voler rimanere a Londra in affitto o in hotel fino a quando i lavori di
ricostruzione non le avrebbero permesso di poter tornare a vivere
dov’era cresciuta. Era fin troppo legata alla sua città per poter anche
solo pensare di separarsene, anche per breve tempo. Un legame
così viscerale che sarebbe stato spezzato solo con la morte.
Michael fu invitato a restare insieme a lei, che estese l’invito anche
a Belial. Entrambi non volevano lasciarla sola, e poi quel posto era
diventato un po’ anche casa loro. Il giovane demone, del resto, non
aveva alternative. L’Arcangelo sarebbe potuto tornare al DEM, ma a
lui, come agli altri Arcangeli, la sola idea di rimettere piede nel loro
mondo, dopo le ingiustizie subite, lo ripugnava.
Non c’era più Chris, non c’erano i Serafini al seguito e, per legge,
il DEP avrebbe preso le redini della struttura. Nessuno avrebbe
scambiato quella vita con ciò che avrebbero potuto avere a breve,
sulla Terra: la libertà.
Proprio per questo, Raziel aveva chiesto a Karen di sposarlo e lei,
tra le lacrime, aveva accettato. L’Arcangelo non aveva perso tempo,
dopotutto non avrebbero avuto tutta la vita: Karen era umana e
quindi mortale. Tanta era la fretta di vincolare le loro anime, che la
cerimonia ebbe luogo a Budapest una settimana dopo; fu intima e
semplice.
La coppia aveva deciso di adottare la dolce Georgette, ormai
orfana. Karen ci si era legata come una madre. Le condizioni della
piccola erano peggiorate dopo la visita di Lucifer e, a causa del
dispendio di energie e dello sforzo fisico causati dal portale, aveva
perso anche la vista. Ma i medici restavano fiduciosi e Raphael si
era offerto di assisterla nel periodo di riabilitazione.
Uriel aveva deciso di fare ritorno all’amata Istanbul e vivere come
quando era stato un mortale.
La sua casa era in ricostruzione – ormai quasi ultimata – e una
volta lì, avrebbe pianificato e realizzato il sogno di una vita: aprire un
bazar di spezie. Ma si offrì volontario per aiutare ognuno di loro,
soprattutto i novelli sposi che avrebbero di certo avuto difficoltà nel
crescere la sfortunata Georgie.
Raphael e Vicky si trasferirono a Parigi, nella villa che una volta
era appartenuta anche a Cassiel. Come coppia erano sempre più
affiatati, nonostante non volessero ammettere di provare profondi
sentimenti l’uno per l’altra. Con loro andò anche Ruby, da cui Vicky
non avrebbe mai pensato di separarsi.
La morte di Cassiel, di Molly e Summer, che era stata sepolta tre
giorni dopo accanto alla sorella, aveva reso l’Arcangelo ancor più
premuroso nei confronti delle due succubi. Ma forse, e Vicky ne
aveva avuto il presentimento, il francese aveva iniziato a sentirsi
molto simile a loro in quanto accomunati dallo stesso dolore.
Raphael aveva bisogno di prendersi cura di qualcuno per chiudere il
conto in sospeso col fantasma del gemello.
Mathael aveva deciso di tornare in Grecia, la sua terra natia.
Satan sarebbe rimasto volentieri con Vicky, l’unica amica d’infanzia
rimasta, ma l’idea di appesantire Raphael lo aveva lasciato
dubbioso. L’invito di Mathael a seguirla si era rivelato molto allettante
e fu ben contento di lasciare la succube alle cure dell’Arcangelo.
Qualcosa gli disse di portare il piccolo Hakam via con sé e la donna
accettò senza problemi: lo avrebbero cresciuto come meritava, come
i defunti genitori avrebbero fatto. Sapevano che quello sarebbe stato
un fardello importante, ma Satan lo doveva alla memoria di
Belphagor e di Awinita.
Gabriel, invece, non si era fatto più né vedere né sentire. Non
aveva risposto all’invito del matrimonio a Budapest e non si era
presentato.
Di lui nessuno seppe più nulla.
Epilogo

I pesanti portoni del Quartier Generale si spalancarono.


Il Signore Oscuro aveva fatto ritorno.
Sull’orlo del crollo, Lucifer diede una rapida occhiata intorno per
poi dirigersi nella parte più antica del palazzo.
Nessuna guardia, impiegato o servo lo accolse; durante la sua
assenza il castello si era svuotato. Ne avevano approfittato tutti per
scappare. Gli unici rimasti erano Aini e Inia, che lo raggiunsero e
seguirono in silenzio.
“Era solo questione di tempo” si disse procedendo fiero.
L’Imperatore aveva ottenuto il Graal. Ci era riuscito e ora tutti i
tasselli sarebbero andati al posto giusto.
Congedò i gemelli dinanzi alla camera della consorte. «Da ora farò
da me, voi radunate il necessario per il rituale» disse invitandoli, con
una mano aperta, ad andare via.
I servi si allontanarono senza emettere un suono.
Lucifer prese un respiro profondo, si deterse il sudore dal viso,
sistemò i capelli e si decise.
Entrò piano.
«Eva» disse grave, stando sulla soglia della camera, in penombra
«è il momento».
La donna, seduta sul divano di fronte al camino, si voltò di scatto
verso di lui. L’espressione un misto di sollievo e di incontenibile
felicità. «Lo hai preso?»
Lucifer annuì. «Serve uno spazio ampio, mia cara. Voglio che sia
perfetto». Si avvicinò, l’aspetto bestiale non del tutto riassorbito la
fece trasalire; aveva provato a contenersi, ma non le riuscì bene.
«Nella… nella sala del trono?»
Lucifer annuì piano. Aveva notato il disagio di Eva nel vederlo in
quelle condizioni e come se il tempo non fosse mai passato, in una
zona soppressa della sua vecchia anima, quell’espressione gli fece
male. L’aiutò a spostarsi sulla sedia a rotelle e con la stessa lentezza
che lo aveva condotto da lei, procedettero a ritroso verso la sala
principale. «Sei emozionata?» le domandò.
«Non vedo l’ora di riabbracciarlo e di vivere la vita che ho sempre
sognato da quando Dio ce l’ha portato via» rispose lei. Notò
l’assenza di personale e aggiunse: «Sono sempre stata rinchiusa lì,
ma avevo intuito che i tuoi servi ti avessero abbandonato…»
«Aini e Inia sono rimasti e lo hanno fatto anche per te» ammise a
bassa voce.
Eva percepì qualcosa di strano, come se Lucifer le tenesse lo
sguardo sanguigno puntato sulla testa.
Si fermarono al centro della sala.
Sul pavimento scuro erano state già disposte le reliquie in un
preciso ordine.
I servi gemelli li raggiunsero poco dopo con il figlio. I capelli tanto
lunghi da toccare terra, il volto deturpato, scavato dalla sofferenza;
sulla fronte aveva l’orribile corno che gli aveva spaccato la pelle,
ormai in suppurazione. La condanna di Dio a Caino. Lo posarono sul
pavimento, sopra un lenzuolo di seta nera.
La donna ebbe un sussulto nel vederlo, ma il momento era
finalmente giunto: sarebbe risorto.
“Tutto tornerà come prima” si disse Lucifer e si sforzò di sorridere
a Eva. «Vuoi avvicinarti prima di iniziare?»
Quando lei annuì, la portò più vicina al corpo sfigurato del figlio. La
donna scese dalla sedia a rotelle e sedette in maniera scomposta
accanto a lui, accarezzandogli la guancia raggrinzita. «Come
avverrà?»
«Lo vedrai tra poco».
Aini e Inia trascinarono la grandiosa croce accanto a Caino.
«Non fargli troppo male» pregò lei.
«Non è per lui».
Eva non ebbe il tempo di ribattere e di metabolizzare quelle
parole, che lui la prese in braccio e la adagiò sul legno.
Aini gli passò la prima spina e Inia gli consegnò un martello. Poi la
tennero ferma.
«È per il bene di nostro figlio» le disse Lucifer corrucciato,
affondando la spina nel palmo sinistro per poi battere su di essa. Il
sangue schizzò e lei cominciò a gridare.
«Farò veloce» continuò lui senza riuscire a guardarla in viso.
Eva non poteva muovere le gambe, tutta la frustrazione e il dolore
si mostrarono tramite il busto e il capo che prese ad agitare in modo
convulso. Le grida strazianti si persero nei corridoi e nelle stanze
vuote del Quartier Generale.
Lucifer inchiodò anche la seconda mano alla croce, poi passò ai
piedi, faticando più del previsto. Le mise con delicatezza una mano
sulla bocca, poggiò la fronte sulla sua e con la voce rotta, supplicò:
«Ti prego, ti prego non gridare. Finirà presto, te lo prometto».
Inia lo interruppe porgendogli la Corona di Spine e suo fratello,
accanto, già reggeva la Sacra Spugna.
Il Sovrano con mani tremanti afferrò la Corona e la posò con una
certa forza sul capo di Eva, che non riuscì a sopportare l’ennesima
afflizione. Il sangue colò copioso sul viso. Lucifer la baciò sulle
labbra e si allontanò. «Sollevate la croce» intimò ai due servi che,
con un grande sforzo, la misero in piedi, ma al contrario. La ragazza
lanciò un altro grido quando il peso del corpo la trascinò giù e sentì i
chiodi strapparle pelle e muscoli.
Fu uno spettacolo raccapricciante. La croce capovolta regnava
nella stanza e il corpo magro e provato di Eva era scosso dal dolore
e dalla paura.
«Sire» disse Aini porgendogli la lancia. Sullo sfondo, l’altro
sistemava la Sacra Spugna sotto il corpo di Eva.
Lucifer rigirò la lama tra le mani e con un movimento secco si
squarciò il palmo sinistro, il sangue gocciolò sul pavimento
macchiandogli le scarpe. Si avvicinò alla croce, si chinò e chiuse
forte il pugno impregnando la Spugna. Guardò Eva che lo supplicava
con gli occhi, perché parlare le veniva impossibile.
Si guardarono per diversi istanti, Lucifer a stento trattenne le
lacrime ma non si tirò indietro. «Lo facciamo per lui» affermò flebile
per poi infilzarla nel costato. Infilò la lama in profondità affinché lei
morisse in fretta, senza soffrire troppo. La Spugna si inzuppò, così,
anche del suo sangue.
La sofferenza era enorme, ma stava per trovare consolazione.
Mancavano solo pochi passaggi e il sacrificio di Eva avrebbe avuto
senso.
Eva smise di piangere, di ribellarsi, gli occhi arrossati erano ora
sbarrati nell’oscurità.
Lucifer prese un respiro profondo, raccolse la Spugna zuppa e si
accostò al corpo di Caino. S’inginocchiò, lo spogliò e con la stessa
lama gli aprì uno squarcio sul petto all’altezza del cuore. Gli lavò il
viso e il corpo con la reliquia, macchiandolo ovunque e si assicurò
che, infine, penetrasse all’interno della ferita.
Chiuse gli occhi e con fatica estrasse dal suo corpo il Graal.
Sofferente e debole lo posò su quello inerme del figlio, spingendolo
al suo interno. I gemelli gli consegnarono la Sindone e Lucifer la
adagiò su di lui con precisione.
Si allontanò, passò l’avambraccio sulla fronte e cominciò: «Come
il figlio del falso Dio risorse il terzo giorno, così io ti richiamo alla vita,
Caino, figlio mio. Colui che porterà i mondi sotto il mio regno, colui
che solo potrà varcare i cancelli Celesti. Sorgi, erede al trono dei
Morningstar, sorgi e cammina al mio fianco».
Mosse qualche altro passo indietro e rimase in attesa, col cuore in
gola.
Il silenzio era disturbante.
Aini e Inia si erano fatti da parte e osservavano il loro Signore dal
fondo della sala.
D’un tratto l’aria si fece pesante.
Lucifer lo percepì. Sussultò.
La croce divenne polvere nera e il cadavere di Eva cadde al suolo.
Mani e piedi rimasero bucati poiché anche le Tre Spine utilizzate per
bloccarla si erano polverizzate. Il suolo tremò con violenza, la
polvere incastrata tra le fessure del soffitto, cadde sul pavimento.
Il Sovrano si accorse in ritardo che anche la Spugna e la Lancia
nelle sue mani avevano subito la stessa sorte.
Una sensazione di terrore lo pervase, da tempo non ne provava di
tanto forte.
Guardò di fronte a sé.
La Sindone e il corpo di Caino, in un battito di ciglia, divennero un
tappeto di polvere nera.
Sbarrò gli occhi, non voleva credere a ciò che vedeva. Si gettò
accanto al giaciglio dove poco prima era stato riposto l’unico figlio
che aveva desiderato. Con le mani tastò tra la polvere, sporcandosi.
«No… no… no!» ripeté con sempre maggior forza.
La rabbia lo invase. Ogni passo compiuto, tutto ciò che aveva
sacrificato, i torti subiti dentro e fuori dalla Capitale erano stati
convogliati a quel momento, e adesso? Era stato tutto inutile.
Si alzò, guardò Eva e il dolore si unì alla rabbia che provava:
anche il suo sacrificio era stato vano. La prese tra le braccia e la
strinse al petto. Chiuse gli occhi e serrò con violenza la mascella.
Gridò.
Aini e Inia si diedero alla fuga.
«Perché?!» gridò così forte da sentire il sapore acre del sangue
invadergli la bocca.
Dio lo aveva punito, gli aveva inferto l’ultimo colpo che poteva
sopportare. Gli aveva permesso di agire fino alla fine, indisturbato,
per poi punirlo di nuovo. Gli aveva portato via tutto e la
consapevolezza che pervase Lucifer fu forse la più dolorosa della
sua esistenza. Non avrebbe mai potuto eguagliarlo, non sarebbe mai
riuscito a essere un suo pari. La volontà di Dio era stata emessa.
Lucifer pianse, la sua mente cedette.
Rimase lì, da solo, circondato dalla morte; a cullare, tra le lacrime,
il corpo dell’unica donna che aveva amato.
Era rimasto solo. Era finita.
Non seppe quanto tempo passò con il corpo di Eva stretto contro il
petto, ma non sarebbe stato mai abbastanza.
L’aveva tradita, ingannata, usata. Lei non lo meritava e lui lo
sapeva fin troppo bene. Ci avrebbe fatto i conti per il resto della sua
esistenza.
Si alzò senza lasciarla, sporco di sangue e cenere. Abbandonò la
sala e tornò verso la camera da letto della donna. Entrò e chiuse gli
occhi umidi nel vedere cosa era accaduto alla stanza. Tutta la
vegetazione che l’abbelliva era appassita, il camino si era spento.
Eva aveva perso tante energie negli anni anche per ricreare
qualcosa che somigliasse al posto da cui provenivano e ora, senza
di lei, non era rimasta vita nemmeno lì.
Avanzò verso il letto e con un movimento della mano creò una
teca di cristallo poggiata sulle coperte, disposta al centro. Vi posò il
corpo dell’amata e con un altro movimento la chiuse. All’interno
comparve una luminescenza violacea che avvolse il cadavere.
«Avrei voluto donarti la meraviglia che hai sempre creato tu per
me, per farti riposare come meriti, ma non riesco a fare cose belle.
Eri tu quella brava, qui… In questo modo riposerai meravigliosa per
sempre».
Il dolore tornò prepotente prendendo possesso di quel cuore che
credeva di non avere più. Lo soffocò. Pianse per la frustrazione, per
la rabbia, per l’impotenza. E rimase lì insieme a lei per ore, finché le
lacrime smisero di scendere. Quindi chiuse la stanza con un sigillo
che solo lui avrebbe potuto spezzare.
Tornò nella sala e si sedette sul trono; il riflesso sul pavimento era
silenzioso, rispecchiava ciò che c’era nella sua mente: il vuoto.
Lucifer fissò un punto indefinito di fronte a sé.
Il tempo trascorse rapido e inesorabile, corrodendo gli ultimi
brandelli della sua anima.
Non aveva idea di che ore fossero, non aveva la forza di guardare
oltre le finestre, sapeva solo che era notte poiché dalle vetrate
decorate filtrava solo la luce pallida e morta della luna.
All’improvviso un rumore di metallo pesante e stridente interruppe
il silenzio nel quale il castello era avvolto.
I portoni si aprirono con fatica. Dei passi risuonarono nella sala e
nel marmo dell’ingresso.
Qualcuno si inginocchiò dinanzi a lui.
«Mio Signore, sono venuto a portarvi un dono». Anuman Valentine
posò poco distante dai suoi piedi la testa leonina di Capricorno.
«Come voi avevate richiesto» continuò, ma Lucifer parve non
sentirlo.
Il conte vassallo, interdetto, prese quel silenzio come un invito ad
andarsene e così fece, seguendo la sua intuizione. Se Lucifer non
aveva proferito parola era allora il caso di sparire il più in fretta
possibile.
Il Sovrano non degnò il trofeo di guerra di uno sguardo, anzi,
esausto, si addormentò avvolto dall’oscurità.

Una brezza leggera lo scosse.


Aprì gli occhi. Una forte luce lo accecò, costringendolo a
richiudere le palpebre doloranti.
Tentò di nuovo, riaprì gli occhi questa volta con lentezza; ciò che si
trovò attorno fu una pugnalata.
Giardini rigogliosi, cinguettii vivaci, natura, prosperità, cascate.
Tutto era come lo ricordava.
“Sono a casa” si disse, muovendo qualche passo sull’erba.
Dal giorno del suo esilio, le giornate erano sempre state grigie,
tetre, e aveva dimenticato cosa volesse dire gioire dei colori e della
bellezza del mondo. Un mondo che non lo aveva mai voluto.
Qualcuno lo prese per mano e lo tirò appena per convincerlo a
camminare. Lucifer puntò lo sguardo davanti a sé, sussultò.
Eva gli sorrise, bella e radiosa, i lunghi capelli ramati le coprivano
la schiena fin oltre le natiche. Era felice e lui capì quanto sbagliato
fosse stato averla costretta in un regno che l’aveva appassita, come
un fiore privato dell’acqua. Commosso, le sorrise e la seguì
stringendole con tenerezza la mano.
Eva lo condusse di fronte a un bellissimo albero carico di lucide
mele nere.
«Mi hai convinta» esordì «e sono certa che questa sia la giusta
via». Gli lasciò la mano e indicò ciò che avevano di fronte. «Ecco
l’Albero della Conoscenza, non sei emozionato? Potrai assaggiarne
una, io ti coprirò».
«Non mi sembra il caso, Eva, ci sono altri modi per arrivare alla
conoscenza… non è necessario». Lucifer si fermò poco distante dal
fusto, costringendola a fare lo stesso. «Dammi retta».
«E quali altri modi potrebbero esserci? Chiedere a Dio di
insegnarti qualcosa ogni tanto?» la ragazza rise di gusto, tirandolo
verso di sé. «Forza! Non accadrà nulla».
Ma lui scosse la testa, impuntandosi. «Credimi, ci sono altri modi,
questo va al di là di tutto».
Un rumore alle loro spalle lo mise in allerta. Eva non sembrò
curarsene; lui si voltò.
Michael li osservava nascosto dietro un cipresso e Lucifer strinse i
denti nel guardarlo.
Ma qualcun altro era lì.
In mezzo a loro, un angelo alto e imponente teneva il capo chino.
Aveva otto grandi ali, ognuna con un occhio attento. Due più piccole
gli celavano la parte superiore del volto, una lunga veste lo
avvolgeva. Sollevò un braccio, stanco, e voltò il capo nella direzione
dell’albero, indicandolo con un dito teso, lungo e ossuto.
Eva, ignara, distrasse i due fratelli dicendo: «Va bene, se non vuoi
farlo tu lo farò io, per entrambi».
L’ignoto angelo aprì la bocca in un moto d’orrore, mostrando una
fila di denti aguzzi.
Michael riportò l’attenzione sulla ragazza che addentava una delle
tante mele. Indietreggiò e mise una mano di fronte alla bocca.
«Perché?» chiese. «Perché lo hai fatto?»
Vide fare capolino sul volto di Eva un’espressione seria e non
riuscì a capacitarsi di tale incoscienza; anche suo fratello pareva
sconvolto dall’azione sconsiderata. L’Arcangelo spostò lo sguardo
dove aveva visto la quarta, ignota figura: era scomparsa.

Michael spalancò gli occhi e si mise a sedere, gemendo per lo


spavento. «Lucifer!» esclamò.
Si guardò intorno, il respiro corto.
Era notte fonda e si trovava nella stanza di un albergo londinese
che avevano scelto per quella settimana. Non era più di fronte
all’Albero della Conoscenza, a Eva, a Lucifer e allo strano e
immenso angelo mai visto prima.
Belial dormiva beato nel letto accanto al suo, non aveva sentito
nulla.
Il biondo sospirò e si alzò, rendendosi conto di essere sudato solo
quando sentì le lenzuola scollarsi dalla pelle. Entrò in bagno,
sciacquò il viso stando nella semioscurità. Si specchiò approfittando
della flebile luce notturna prodotta dai lampioni e dalle insegne dei
pochi locali di fronte all’hotel. Abbassò lo sguardo.
Era da tanto che non sognava più quel momento, e non avrebbe
mai più voluto farlo.
Perché era da lì che tutto aveva avuto inizio.
Paradiso

Agatha Dunne

Succube. Figlia adottiva del Serafino Chris. Ex amante di Gabriel e Cassiel.

Al Benson

Serafino del Distretto per l’Equilibrio del Paradiso. Collega e fidato amico di Schneider.

Anne

Infermiera del Distretto Sanitario.

Barakiel

Cherubino. Ha il compito di monitorare la Terra e i movimenti dei demoni per conto di


Dio.

Cassiel Blanchett

Arcangelo. Gemello dell’Arcangelo Raphael.

Chris Dunne

Serafino del Distretto per l’Equilibrio dei Mondi. A capo della squadra degli Arcangeli,
leader dei Serafini, padre adottivo di Agatha, marito dell’Arcangelo Mathael.

Costantine Schneider

Serafino a capo del Distretto per l’Equilibrio del Paradiso. Collega e fidato amico di Al.

Gabriel Cooper

Arcangelo. È conosciuto in tutto il Paradiso per la sua forza fisica. Amante di Odry, ex
amante di Agatha.

Hamenam Schmidt

Serafino del Distretto per l’Equilibrio dei Mondi.

Holian Burgos
Serafino del Distretto per l’Equilibrio dei Mondi.

Jolin Silva

Serafino del Distretto per l’Equilibrio del Paradiso.

Kazel Askarov

Serafino del Distretto per l’Equilibrio dei Mondi.

Mathael

Arcangelo. Moglie del Serafino Chris, matrigna di Agatha.

Michael

Arcangelo. Colui che ha cacciato Lucifer.

Raphael Blanchett

Arcangelo. Medico del DEM e gemello dell’Arcangelo Cassiel.

Raziel Bálint

Arcangelo.

Sandalphon

Il secondo angelo mai creato.

Uriel ErdoGan

Arcangelo. Detentore del fuoco sacro di Dio.

Hezef Yan

Serafino del Distretto Sanitario.

Yovus Bruun

Serafino del Distretto per l’Equilibrio dei Mondi.


Inferno

Aini

Incubo e fedele paggio di Lucifer, gemello di Inia.

Anuman Valentine

Conte. Vassallo di Lucifer.

Asmodeus Gallach

Ex membro del Concilio Ristretto. Mentore di Satan, defunto marito di Mina, padre di
Georgette e fratello di Capricorno e Karasi.

August

Capitano delle guardie di Capricorno.

Awinita

Moglie di Belphagor.

Balthazar Krause

Membro del Concilio Ristretto. Avvocato di Lucifer e padre di Odry e Zachary.

Belial

Membro del Concilio Ristretto. Bastardo di Lucifer e figlio di Lilith, viene comunque
considerato il principe dell’Inferno.

Belphagor

Membro del Concilio Ristretto. Marito di Awinita

Capricorno

Duca. Vassallo di Lucifer e fratello di Asmodeus e Karasi.

Eva

Figlia e seconda moglie di Adamo. Antico amore di Lucifer.

Georgette Gallach
Strega. Figlia di Asmodeus e Mina.

Graum

Taverniere di Brogox. Rivoltoso.

Hakam

Gufo di Belphagor.

Inia

Incubo e fedele paggio di Lucifer, gemello di Aini.

Ishtar

Membro del Concilio Ristretto.

Jill

Demone-topo al servizio di Leviatano.

Karasi

Sciamana dell’ordine dei Korkur. Sorella di Asmodeus e Capricorno. Tutrice di Zachary.

Kotho

Generale delle truppe del conte Anuman.

Leviatano

Conte. Vassallo di Lucifer.

Lilith

Membro del Concilio Ristretto. Madre di Belial ed Eva, pretendente di Lucifer, prima
moglie di Adamo.

Lucifer Morningstar

Imperatore dell’Inferno, angelo caduto, ex Cherubino, padre di Belial, antico amore di


Eva.

Meeshan
Del popolo della Nura ed ex moglie di Balthazar. Madre di Odry e Zachary.

Molly Jiménez

Succube dell’harem di Belial. Sorella di Vicky, Ruby e Summer.

Moloch Deverer

Arciduca. Vassallo di Lucifer e padre di Cordelia.

Nahenia

Marchesa e vassallo di Lucifer. Amante di Solomon.

Odry Crane

Ex membro del Concilio Ristretto. Ex fisico e ingegnere del Quartier Generale, ex


generale di Lucifer, migliore amica di Satan e Vicky, figlia di Balthazar e gemella di Zachary.
Amante di Gabriel.

Rakelech

Dio del fuoco venerato dal popolo della Nura.

Ruby Jiménez

Succube dell’harem di Belial. Sorella di Vicky, Molly e Summer.

Satan Crane

Ex membro del Concilio Ristretto. Gestiva le casse Imperiali, migliore amico di Odry e
Vicky. Amante di Mathael.

Sergei Baal Katromirov

Ex membro del Concilio Ristretto ed ex Gran Generale di Lucifer.

Solomon

Barone e vassallo di Lucifer. Amante di Nahenia.

Straygor

Ufficiale di Odry.

Summer Jiménez
Succube dell’harem di Belial. Sorella di Vicky, Ruby e Molly.

Victoria Blanca Conchita Jiménez (Vicky)

Succube. Segretaria di Asmodeus, migliore amica di Satan e Odry, sorella di Ruby,


Molly e Summer.

Zachary

Gemello di Odry e figlio di Balthazar. Protetto di Karasi.

Zenda

Iena di Ishtar.
Terra

Anastasia Ide Fletcher (Ania)

Umana. Sensitiva e ospita Zachary nella sua villa a Notting Hill.

Karen Bonnet

Umana e domestica nella casa terrestre di Raziel.

Maria

Compagna di Jelos.
Gli esiliati

Amon

Demone rinnegato.

Behetan

Demonessa rinnegata.

Bianca

Angelo caduto.

Brutus

Demone rinnegato. Ex amante di Lilith.

Eniel

Angelo caduto.

Jelos

Angelo caduto

Kaf

Angelo caduto.

Malik

Angelo caduto.
Paradiso

Albero della Conoscenza

Albero da cui Eva colse una mela per mangiarla.

Angeli caduti

Angeli a cui son state strappate le ali e gettati oltre il Pozzo dell’Infedele.

Angeli soldato

Comuni angeli facenti parte della milizia del DEM.

Arcangeli

Angeli con quattro ali. Hanno il compito di impedire ai demoni di interferire con la realtà
terrestre e violare il Patto delle Anime.

Arcangeli mortali

Arcangeli che dopo la morte non possono reincarnarsi.

Arcangeli perpetui

Arcangeli che dopo la morte si reincarnano in un nuovo corpo mantenendo la stessa


anima ma non i ricordi del corpo precedente.

Cancello del Paradiso

Schiera di Guardiani Celesti.

Cherubini

Angeli con due ali rosse. Rappresentano la nobiltà del Paradiso.

Denari

Moneta angelica.

Distretto per l’Equilibrio dei Mondi (DEM)

Principale distretto per il monitoraggio dell’equilibrio dei tre mondi paralleli (Terra,
Paradiso e Inferno) sito nella città di Sila. Sede della prima squadra di Arcangeli, di Serafini
e Dominazioni.
Distretto per l’Equilibrio del Paradiso (DEP)

Distretto per il monitoraggio dell’Equilibrio del Paradiso. Regola le leggi del Paradiso e
prende il controllo degli altri Distretti in caso di malfunzionamento.

Distretto Sanitario (DS)

Distretto che regola le strutture sanitarie del Paradiso.

Dominazioni

Angeli senza ali. Rappresentano la giustizia e parlano in nome di Dio. Giudici supremi
del Tribunale Celeste. La più alta carica angelica.

Enochiano

Lingua del Paradiso, utilizzata anche per comunicare con i demoni (i quali l’hanno
rinnegata con l’avvento della monarchia di Lucifer).

Etere

Materia angelica più pura che compone la barriera del Paradiso. Utilizzata anche come
fonte primaria di energia.

Globo

Oggetto di forma sferica utilizzato da Barakiel per il controllo del Paradiso e del piano
terrestre.

Guardiani Celesti

Colossi di pietra che circondano la barriera del Paradiso. Rappresentano il Sacro


Cancello.

Moera

Città che ospita il DEP.

Patto delle Anime

Patto stipulato tra angeli, demoni e umani al fine di mantenere l’equilibrio tra i tre mondi
con leggi e norme che regolano i movimenti e i rapporti tra le parti, affinché si
evitino i contatti tra razze.
Piazza dei Giudici
Piazza che ospita il Tribunale Celeste, a sud di Sila.

Piazza delle Anime

Piazza centrale poco distante dal DEM, a Sila. Ospita, all’occorrenza, grandi cerimonie
che coinvolgono l’intera città.

Potestà

Angeli con due ali, le gambe terminano con delle lame affilate che sostituiscono i piedi.
Si occupano della sicurezza della città e dei confini tramite i Troni.

Serafini

Angeli con sei ali. Dirigono le squadre di Arcangeli.

Sila

Capitale che ospita il DEM.

Telechel

Angelo capace di leggere la mente. Utilizzato solo durante i casi più complicati del
DEP.

Tribunale Celeste

Sito nell’anfiteatro a sud di Sila.

Troni

Angeli primordiali, sfere con quattro ali e ricoperte di occhi. Conosciute anche come
Bestie di San Pietro, sono comandate dalle Potestà e presiedono i confini del Paradiso.
Inferno

Bosco di Baard

Bosco al confine della Capitale.

Bosco di Eranthe

Bosco vicino alla città Bianca.

Brogox

Città fuori dalla Capitale.

Capitale

Città fulcro dell’Impero. Primo dei sette regni e circondato dagli altri sei.

Concilio Ristretto

Concilio a numero chiuso che si occupa degli affari interni ed esterni al Quartier
Generale.
In origine composto da dodici membri.

Ethernit

Costosa droga sintetica utilizzata all’Inferno.

Graum’s

La locanda di Graum a Brogox.

Narok

L’attuale lingua parlata all’Inferno. Evoluta dall’antico abissale con influenze enochiane,
imposta da Lucifer dopo la sua ascesa al trono.

Orfanotrofio Theseus Willimor Crane

Orfanotrofio che ospita Odry, Satan e Vicky durante la loro infanzia.

Patto dell’Infante

Un giuramento che lega due o più persone. Il simbolo circolare viene inciso nella pelle.
Se spezzato conduce alla morte oppure, in caso di morte per altre circostanze, il patto si
infrangerà da solo.

Pietre elementali

Gemme appartenute alla corona di Metatron.

Popolo della Nura

Antico popolo di elementali, diretti discendenti di Rakelech, Dio del fuoco.

Portale primordiale

L’unico portale naturale esistente venuto a crearsi con la caduta di Lucifer. Di un rosso
intenso, con l’aspetto di una piscina.

Portale transdimensionale

Portale reso perpetuo da alimentazione tramite un generatore a batterie quantiche. È in


grado di permettere gli spostamenti tra dimensioni diverse. Di un viola brillante di forma
ellittica.

Primordiale

Ordine demoniaco di cui fanno parte solo ex creature celestiali, come Lucifer e Lilith.

Progetto Thoctar

Movimento rivoluzionario che intende spodestare Lucifer dal trono per instaurare una
democrazia.

Quartier Generale

Fortezza dove Lucifer trova la sua dimora. È anche la sede amministrativa dell’Impero.

Regione di Dounber

Territorio un tempo appartenente ad Anuman Valentine.

Regno di Albor

Regno del conte Anuman Valentine.

Regno di Babylon

Uno dei regni nei territori di Lucifer.


Regno di Deverer

Regno del arciduca Moloch.

Regno di Trystor

Regno del duca Capricorno.

Succubus

Demonesse di basso rango, dedite al sesso e utilizzate soprattutto come schiave e


all’interno di harem. Di sesso femminile. Spesso riescono a risalire la scala sociale
ricoprendo ruoli di segretarie, impiegate, operaie, assistenti, ecc.

Valle Herith

Valle all’Inferno in cui è sito l’orfanotrofio Theseus Willimor Crane.

Thoctar olgadar

Parola d’ordine utilizzata dai rivoltosi del progetto Thoctar.


NOTA

Tutto ebbe inizio, più o meno, cinque anni fa.


Cominciò come il passatempo di due care amiche che per fuggire
dalla tristezza del loro mondo ne crearono uno tutto personale.
Questa che state leggendo è solo la versione adulta di ciò che
eravamo un tempo.
A volte, però, dentro i nostri cuori, ci sentiamo ancora quelle
bambine sperdute ma con la differenza che, adesso, abbiamo la
consapevolezza che stiamo scrivendo da sole il nostro destino.
Probabilmente lo abbiamo sempre fatto ma avevamo paura di
ammetterlo a noi stesse.
Questo libro nasce anche grazie alla nostra passione per il mondo
dell’occulto, l’attrazione verso lo studio della demonologia e
dell’angeologia e per questo ci teniamo a precisare che abbiamo
volutamente invertito alcune gerarchie, soprattutto quelle angeliche,
semplicemente per restare fedeli alle storie originali che ci
accompagnano dall’adolescenza e per dare un tocco tutto nostro al
romanzo.
La prima stesura, decisamente diversa (e a tratti oscena), narrava
le vicende degli stessi personaggi ma in circostanze imbarazzanti.
Le loro improbabili avventure si sono evolute (per fortuna) fino a
concretizzarsi in questo primo volume che stringete tra le mani.
Alla fine, non erano semplici “storie” erano qualcosa di più e
chissà fin dove ci condurranno.
Questo è soltanto l’inizio.
RINGRAZIAMENTI

Dopo un anno dalla pubblicazione di “Come in Alto, Così in Basso


– L’ossessione dell’Imperatore” torniamo da voi con questo secondo
volume: “Il Sangue dei Gemelli”.
È stato faticoso, ma ne è valsa la pena.
Come sempre ringraziamo i nostri editor, Michele e Lucia, che ci
hanno dato una grande mano d’aiuto; anche questa volta ci hanno
insegnato tanto. Vi saremo grate per sempre.
Un altro immenso grazie va ai nostri beta reader che hanno
dedicato il loro tempo e le loro energie per aiutarci a perfezionare
l’opera. Ma va anche a tutti coloro che ci hanno supportate senza
mai smettere di credere in noi e nella nostra storia.
Se siamo a questo punto è anche grazie a voi.

E, infine, grazie a te che hai deciso di tornare nel mondo a cui,


evidentemente, appartieni.
Prologo 9
1 Eroi o traditori? 13
2 Il principe 31
3 Paura di non farcela 57
4 Non siamo al sicuro 75
5 Il dittatore 81
6 Gli esiliati 89
7 L’Etere 101
8 Odry Crane 109
9 La rivolta 117
10 Raphael Blanchett 139
11 Balthael 151
12 Un barlume di speranza 171
13 I caduti 179
14 Un fratello da salvare 197
15 Solo cenere… proprio come lei 213
16 Zachary 225
17 Costantine Schneider 249
18 La caccia 261
19 “Peggiora sempre, senza fermarsi mai” 287
20 Non si torna indietro 313
21 “Hai scelto lei e dimenticato me” 327
22 Il Wendigo 355
23 L’addio e il benvenuto 369
24 “Vieni a cercarmi ogni dannata volta” 409
25 Il Globo 425
26 L’ora è giunta 445
27 La colonna di fuoco 451
28 Il fuoco della vendetta 465
29 “Combatti, Gabriel” 481
30 Il sangue dei gemelli 501
Epilogo 525
Personaggi 534
Glossario 544
Nota 415
Ringraziamenti 416
[1] «Sbrigati! Stupido liquido»
[2] «Sì»
[3] «Patetica»
[4] Sigillo di Balthazar
[5] «Oh Signore, grazie per averlo salvato».
[6] «È un miracolo che sia ancora vivo».
[7] «Vigliacco»

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