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comitato scientifico
Sandro Bellassai, Sonia Bertolini, Caterina Botti, Giuseppe Burgio,
Alessandra Gissi, Silvia Leonelli, Francesca Marone, Catia Papa,
Cirus Rinaldi, Giulia Selmi, Luisa Stagi, Giovanna Vingelli
immagine in copertina:
JeongMee Yoonm, Jeeyoo and Her Pink Things, Light jet Print, 2008
www.rosenbergesellier.it
Rosenberg&sellier è un marchio registrato utilizzato per concessione della società Traumann s.s.
isbn 978-88-7885-569-4
1
ASA è l’organizzazione di autoregolamentazione dell’industria pubblicitaria del Regno Unito.
2
Le nuove regole contro gli stereotipi di genere nelle pubblicità non sono ancora state scritte con
precisione, ma solo delineate dalle conclusioni dello studio: saranno introdotte dall’anno prossimo,
dopo essere state scritte dall’organizzazione gemella dell’ASA, la CAP, che si occupa di preparare i
codici di comportamento.
3
https://www.asa.org.uk/asset/2DF6E028-9C47-4944-850D00DAC5ECB45B.C3A4D948-B739-
4AE4-9F17CA2110264347/.
4
https://www.youtube.com/watch?
list=PLiHFvXh4F1n4gD5E05hEyG_1s2Xj86c4N&v=f_lSZRtWGU0.
5
https://www.youtube.com/watch?v=R2R-6T-CB34.
6
http://www.ilpost.it/2017/07/19/regno-unito-pubblicita-stereotipi-genere-sessismo/.
7
http://www.ilfoglio.it/cultura/2017/07/23/news/gran-bretagna-pubblicita-ultima-follia-del-
politicamente-corretto-145670/.
8
http://time.com/magazine/us/4703292/march-27th-2017-vol-189-no-11-u-s/.
9
http://www.nationalgeographic.com/magazine/2017/01/gender-issue-reader-comments-faq/.
10
“National Geographic”, 2017, 6, 1, pp. 410-418.
11
Tra gli organizzatori anche Massimo Gandolfini, Portavoce del Family Day.
12
Oltre ai manifesti sono previsti bus con le medesime scritte che gireranno per alcune città
italiane.
1. LE IPOTESI DELLA RICERCA
Luisa Stagi
Fig. 1. Rachel Giordano nella pubblicità del 1981 e nella riproposizione del 20142
Genderizzare significa caratterizzare qualcosa affinché sia immediatamente chiaro il
genere “di riferimento”
Fig. 3. La pubblicità di laptop per maschi e femmine: diversi colori e diverse funzioni
Secondo Jo Paoletti, autrice di Pink and Blue: Telling the Girls From the
Boys in America (2012), sarebbero state le spinte consumistiche a
genderizzare i prodotti per l’infanzia, ma il percorso che ha portato a
“colorare” il genere non è stato affatto né rapido né lineare. Per secoli
bambini e bambine hanno indossato abiti bianchi per rendere più agevole il
lavaggio. Rosa e azzurro, insieme a una varietà cromatica sui toni del
pastello, arrivarono come colori per l’infanzia a metà del XIX secolo.
Sebbene infatti i due colori fossero diventati significanti di genere poco
prima della Prima guerra mondiale, ci volle diverso tempo prima che si
diffondessero nella cultura popolare6. Dagli anni Quaranta in avanti, in
seguito a studi di marketing che hanno raccolto e interpretato le preferenze
dei consumatori americani, e anche grazie ad alcune tappe storiche legate a
personaggi influenti – efficacemente ricostruite nel video How did pink
become a girly color? 7 – il rosa comincia a essere associato alla
femminilità, attestandosi poi negli anni Cinquanta, in concomitanza con la
comparsa della Barbie.
Dalla metà degli anni Sessanta, in seguito alle pressioni dei movimenti
femministi, ci si muoverà invece verso una neutralizzazione del genere, che
nell’abbigliamento produce la cosiddetta moda Unisex. Tale tendenza
permarrà fino ai primi anni Ottanta, quando, secondo l’autrice, da un lato
aumenta il consumismo intorno all’infanzia8 sotto la spinta del marketing e
della pubblicità, dall’altro, le giovani madri, convinte che le conquiste del
femminismo siano ormai attestate, abbracciano senza troppa cautela la
genderizzazione – fatta di pizzi, capelli lunghi e Barbie – nella convinzione
che non possa più di tanto influire sulle traiettorie biografiche femminili9.
Si ritiene, inoltre, che, a partire dagli anni Ottanta, con la diffusione della
diagnosi prenatale e la possibilità di conoscere il sesso del nascituro, la
divisione di rosa (per le bambine) e blu (per i bambini) sia quindi divenuta
abituale, insieme a una serie di associazioni stereotipate in relazione al
genere legate all’infanzia, sostenute da strategie di marketing che nel tempo
sono divenute sempre più sofisticate10 (Linn 2005: 400).
Da segnalare, tuttavia, come di recente il rosa sia invece divenuto simbolo
della protesta femminile: con il pussy-hat – il berretto rosa – simbolo della
marcia delle donne contro Donald Trump e con Ni una menos, lo sciopero
globale del marzo 2017, dove il rosa è stato abbinato al nero, si è avviata
una “inversione dello stigma”, un processo attraverso il quale un’identità
fino ad allora considerata come destino si trasforma in affermazione
culturale e viene vissuta con orgoglio (Wieworka 2001).
.
Fig. 6. Immagine tratta dal video Gender box
Nel video Gender box 13 si riesce efficacemente a rappresentare come le
aspettative di genere agiscano nel confinamento di due giovani all’interno
della loro “scatola”. L’immagine mostra come modelli, ruoli e aspettative di
genere immobilizzino le azioni e le scelte dei due protagonisti e come il
loro spazio sia confinato e sorvegliato da figure adulte.
Una recente ricerca (Bian, Leslie, Cimpian 2017), realizzata attraverso una
serie di esperimenti, ha cercato di mostrare come gli stereotipi assorbiti da
bambine e bambini in età precoce porti a una diversa percezione delle
proprie attitudini e delle proprie capacità. Lo studio, condotto su 400
partecipanti, ha cercato di individuare il momento in cui nell’infanzia
cambia la valutazione delle capacità di genere; il periodo pare potersi
collocare tra i cinque e i sei anni. Fino a quel momento, bambini e bambine,
chiamati a dare valutazioni sul proprio genere, fornirebbero risposte
identiche; in seguito – intorno ai sei sette anni – le risposte mutano. Gli
esperimenti consistevano nel raccontare una serie di storie con personaggi
davvero brillanti, furbi, geniali, senza svelare chi fosse il/la protagonista.
Quando poi veniva chiesto alle e ai partecipanti di cinque anni di indicare,
tra due figure maschili e due femminili, quale fosse secondo loro, i bambini
sceglievano quasi sempre un maschio e le bambine una femmina. Solo un
anno più tardi, i maschi davano la stessa risposta e le femmine la
modificavano: per lo più indicavano anche loro il maschio.
In un altro esperimento venivano proposti giochi da tavolo di due
categorie: per bambini/e “molto intelligenti” e per bambini/e “che si
impegnano al massimo”. Le femmine di sei, sette anni, dimostravano di
apprezzare quanto i maschi il secondo gioco; meno dei maschi il primo.
Secondo questa ricerca, con l’inizio della scuola l’esposizione ai media, il
giudizio dei pari, i bambini e le bambine assumono la prima considerevole
dose di stereotipi sul “genere” dell’intelligenza, cominciando a
interiorizzare le aspettative rispetto alle loro capacità e attitudini.
Fig. 7. Nell’immagine di questa pubblicità, ritirata dopo le polemiche che ha fatto scaturire, lui è un
“piccolo scolaro”, lei è “socievole”
Fig. 9. Divisione per genere nei reparti giocattoli di alcuni grandi magazzini
Elizabeth Sweet, che nei suoi lavori (2013 e 2014) si è mossa su un più
ampio arco temporale, ha infatti scoperto molte altre cose, rintracciando
alcuni fondamentali momenti per la genderizzazione dei giochi.
Nella sua ricerca ha scoperto, per esempio, che nei primi anni del
Novecento i giocattoli erano pubblicizzati in modo neutro; nei cataloghi si
rintracciano pochi stereotipi sia nei giochi sia negli annunci. Da
considerare, certamente, che in quel periodo l’acquisto di giocattoli era un
fattore minimo nella vita quotidiana della maggior parte delle persone e che
la differenziazione di genere non era una caratteristica centrale
dell’infanzia, molto più significativo, semmai, era il confine tra infanzia ed
età adulta.
Nel corso di venti anni, però, la crescita dell’economia e del consumo e
l’aumento della separazione delle sfere economiche e domestiche hanno
prodotto un terreno fertile per la crescita della differenziazione di genere nei
giocattoli per bambini. Nel 1925, nei cataloghi analizzati metà delle
pubblicità dei giocattoli risultano divisi per genere. Tuttavia, l’anno che
segna la svolta verso l’enfatizzazione dei ruoli di cura femminili nei giochi
è il 1945. Il periodo corrisponde allo smantellamento del lavoro di fabbrica
delle donne, che durante la guerra avevano sostituito gli uomini impegnati
al fronte. La donna va riconfinata nella sfera domestica, perché in quella
pubblica non serve più, e tutto deve concorrere a questa riconfigurazione
della divisione dei ruoli. I giocattoli vengono quindi progettati per preparare
le ragazze a una vita di casa e le attività domestiche sono sempre più
raffigurate come appaganti per le donne. Tale processo arriva alla massima
espressione negli anni Sessanta, quando la struttura sociale prevede un
modello di famiglia che è funzionale se, al suo interno, presenta una netta
divisione di ruoli e di funzioni e produce la figura della donna “angelo del
focolare” e dell’uomo breadwinner 18.
Mentre i giocattoli delle ragazze si concentrarono quindi sulla sfera
domestica e di cura, i giocattoli dei ragazzi, tra gli anni Venti e gli anni
Sessanta, saranno orientati alla preparazione del lavoro nell’economia
industriale.
Tale codificazione di genere diminuisce intorno agli anni Settanta;
l’entrata delle donne nel mondo del lavoro, i cambiamenti demografici e la
spinta della seconda ondata femminista, produrranno, una sensibilizzazione
sulla genderizzazione dei giochi, che, infatti, a metà degli anni Settanta
tende quasi a scomparire dai cataloghi19.
L’orientamento verso un’attenzione alla neutralità dei giochi, tuttavia,
subisce repentinamente una battuta d’arresto: nel 1984 la
deregolamentazione della programmazione televisiva per bambini ha
improvvisamente liberato le aziende del giocattolo dai vincoli sugli annunci
pubblicitari e il genere diviene una variabile fondamentale per la
costruzione di target nel mercato dei giocattoli.
Durante gli anni Ottanta, la pubblicità neutra gradualmente scompare e nel
1995 i giocattoli genderizzati arrivano a rappresentare nuovamente la metà
dell’offerta di giochi nei cataloghi. Tuttavia, Sweet rileva che il marketing
del tardo secolo è meno basato su un esplicito sessismo mentre si affida
maggiormente a indicazioni implicite di genere come i colori e i nuovi ruoli
di genere basati su «belle principesse o muscolosi eroi di azione». Questi
ruoli sono ancora costruiti su stereotipi di genere – mostrando la potenza
maschile e la passività femminile – ma risultano più mascherati rispetto
all’esplicita divisione di ruoli degli anni Cinquanta (in pratica si passa
«dalla piccola casalinga alla piccola principessa»).
Un altro studio (Auster, Mansbach 2012) ha rilevato che tutti i giocattoli
venduti sul sito di Disney Store sono stati categorizzati in modo esplicito
come “per ragazzi” o “per ragazze”; i pochi giochi non esplicitamente
dichiarati “per ragazzi e ragazze” si trovano su entrambe le liste.
La genderizzazione dei giocattoli, quindi, segue le esigenze sociali,
svolgendo una funzione di addestramento a ruoli e a modelli sociali che
collabora a illustrare e rafforzare20.
Secondo le conclusioni di queste analisi, la categorizzazione di genere
dipende sempre dall’alto, senza essere davvero il risultato della domanda
dei consumatori. Detto questo, è difficile stabilire quanto poi, in una
prospettiva di riflessività, ciò abbia inciso sulla costruzione del gusto dei
consumatori.
In letteratura il dibattito intorno alla causalità tra mercato e costruzione del
gusto genderizzato è molto animato (Blakemore, Centers 2005; Fine, Rush
2016). Sinteticamente, la discussione si sviluppa su tre punti critici: se il
marketing dei giocattoli di genere influenzi le preferenze o semplicemente
rifletta i gusti e gli interessi di bambini e bambine; se gli effetti della
genderizzazione dei giocattoli siano negativi, neutrali o positivi; se un
ritorno a un mercato di giochi più neutro possa essere economicamente
sostenibile.
Da molte ricerche (per un excursus, si veda per esempio Dinella,
Weisgram, Fulcher 2017) sembra emergere come il marketing rispecchi sì le
preferenze di bambine e bambini, ma sovrapponendosi a categorie e a
interessi che in qualche modo sono stati costruiti, soprattutto per ciò che
riguarda la fascia di età prescolare e per le categorizzazioni “maschili”.
Decenni di ricerche comportamentali hanno mostrato come molte delle
caratteristiche cognitive (di personalità o sociali) siano comuni a bambine e
bambini (Zell et al. 2015). Ciò che in generale emerge è come il genere sia
un territorio fondamentale per la costruzione identitaria. Siccome, infatti,
nell’infanzia il lavoro sulla soggettività è difficile, rispetto per esempio a
un’età adulta che ha a disposizione maggiori repertori sociali, bambine e
bambini utilizzano quindi il genere come supporto identitario, diventando
“detective di genere” che continuamente cercano e captano informazioni su
che cosa sia maschile e femminile, per utilizzarle poi nella propria
rappresentazione di sé, ma anche per aumentare il senso e i confini di
appartenenza al gruppo21 (Fine, Rush 2016).
La genderizzazione dei giochi, le etichette esplicite, la pinkizzazione, sono
suggerimenti che i bambini e le bambine possono usare per classificare e
dare significato al mondo a loro circostante, su che cosa possono o non
possono scegliere o fare (Weisgram et al. 2014). Sono proprio questi primi
stereotipi a influenzare i bambini e le bambine in età prescolare, nella
costruzione degli interessi prima e degli atteggiamenti poi; essi
rappresentano uno dei fondamentali meccanismi di socializzazione al
genere. È, infatti, risaputo quanto il gioco influenzi lo sviluppo sociale e
cognitivo dei bambini e delle bambine e di come la possibilità di ampliare i
territori ludici favorisca lo sviluppo di un maggior ventaglio di capacità e
competenze (Blakemore, Centers 2005).
Molti di coloro che abbracciano la genderizzazione dei giochi sostengono
che i giocattoli di genere neutro eliminerebbero la possibilità di scegliere,
costringendo i bambini a diventare automi androgini che possono giocare
solo con oggetti noiosi. Tuttavia, ripercorrendo la varietà e la diversità dei
giochi “neutri” presente nei cataloghi degli anni Settanta, si può facilmente
comprendere come, ampliando la gamma di opzioni disponibili, si possa
offrire ai bambini e alle bambine la possibilità di esplorare i loro interessi e
sviluppare competenze diverse, non vincolati dai dettami degli stereotipi di
genere (Sweet 2014).
Il giocattolo è parte integrante del processo di sviluppo di genere dei/delle
bambini/e; tale processo è talmente scontato che le preferenze di bambine e
di bambini sulla loro conoscenza della natura genderizzata dei giocattoli è
sovente utilizzato come misura del genere22.
I repertori di giochi forniscono esperienze di genere che hanno a che fare
con ruoli e competenze. La bambine, indirizzate a fare esperienze con
giocattoli che aiutano a costruire l’etica della cura degli altri (Gilligan 1982)
e la responsabilità della cura di sé, i bambini con giochi funzionali a
stimolare le competenze spaziali e fisiche, a sviluppare competizione,
gestione del rischio e aggressività (Blakemore, Centers 2005). Si
svilupperanno così differenti caratteristiche cognitive, abilità, ma anche
tecnologie di autosorveglianza, rispetto ai ruoli e agli spazi, che si nutrono
di sentimenti di responsabilità e di frustrazione.
Nell’estate del 2103 uno spot pubblicitario25 di una ditta californiana che
produce giochi ingegneristici per bambine diventò in poco tempo quasi
virale. Il video si apre con un’immagine sullo sguardo deluso di una
bambina, quando subito l’inquadratura si allarga mostrando che la bambina,
vestita da ballerina, sta inchiodando le sue scarpe da danza a uno skateboard
e, successivamente, spinta da un nuovo intento – sottolineato dallo sguardo
e dalla musica – decide di correre fuori casa. La scena seguente mostra
un’altra bambina vestita da principessa che è seduta sull’uscio di casa in un
atteggiamento di attesa; anche qui avviene un mutamento repentino di
atteggiamento e, infatti, dopo aver inforcato gli occhiali da sole e il casco,
sale sulla sua bicicletta piena di fronzoli femminili per correre via libera
lungo un viale. La storia torna quindi sulla prima bambina che, sempre
vestita da ballerina, ma ora anche lei provvista di un casco, sta correndo sul
suo skate che “indossa” attraverso le sue scarpe da ballerina. La potenza di
questo video sta nel fatto che, mettendo in scena lo sconfinamento di
territori e di spazi simbolici, mostra che esiste un ordine sociale di genere e
che esso solitamente è dato per scontato. Questo video racconta che esiste
una divisione per generi dello spazio (casa/strada), che ci sono giochi e
sport maschili e femminili e che gli sconfinamenti richiedono delle pratiche
di negoziazione: le due bambine pur sconfinando mantengono tratti di
genere negli accessori, ma soprattutto utilizzano le risorse del proprio
territorio simbolico per trovare un equilibrio nello sconfinamento (le
scarpette inchiodate)26 (Stagi 2015).
In questo caso una pubblicità di giocattoli ha mostrato l’ordine di genere
cercando di sovvertirlo, mentre, come si è visto, solitamente si utilizzano gli
stereotipi di genere per vendere giocattoli e non solo. Anche nelle
pubblicità di abbigliamento, per esempio, si trova riproposta una divisione
degli ambiti, degli spazi e dei ruoli di genere.
La nostra tesi è che siano i discorsi intorno alla costruzione sociale del
disordine che generano nelle persone atteggiamenti reazionari e
conservatori (Ehremberg 2010) e il bisogno di riparo in “verità” che sono
riconoscibili come tali perché già introiettate attraverso i diversi processi di
apprendimento.
L’ordine sociale di genere è rassicurante, aiuta a organizzare la realtà
esterna e quella interiore, poiché è basato su una serie di credenze
introiettate attraverso il processo di socializzazione.
Nel prossimo capitolo, perciò, si cercherà di mettere a fuoco i concetti utili
a comprendere i processi alla base delle nostre ipotesi.
1
http://www.comune.genova.it/content/stereotipi-educazione-pari-opportunità-step e
http://www.arcos ricerca.it/ Lavori/step/stereotipi.html.
2
L’immagine è tratta dall’articolo The little girl from the 1981 Lego ad is all grown up, and she’s
got something to say in cui la giornalista Lori Day intervista la protagonista della famosa pubblicità
degli anni Ottanta che ha accettato di riproporre l’immagine per denunciare la genderizzazione dei
giocattoli, affermando che la sua scelta di divenire medico è dipesa anche dalla possibilità di giocare
con giocattoli neutri come il set da dottore, che invece ora si trova negli scaffali dei giochi da
maschio. «Nel 1981, spiega Giordano, i Lego erano “set di costruzione universali” ed erano per
ragazzi e ragazze. I giocattoli dovrebbero favorire la creatività […]. Nel 2014, è il contrario: il
giocattolo trasmette un messaggio ai bambini e alle bambine, ed è un messaggio sul genere»,
http://womenyoushouldknow.net/little-girl-1981-lego-ad-grown-shes-got-something-say/ (ultima
consultazione 1° settembre 2017).
3
http://unnecessarilygenderedproducts.tumblr.com.
4
Notissimo, quasi virale, è diventato il pezzo della comica statunitense Ellen DeGeneres sulla
produzione delle penne Bic per donne, https://www.youtube.com/watch?v=JnusO2OXWp4 (ultima
consultazione 30 luglio 2017).
5
Per esempio, S. Minardi, Giochi da bambine, “L’Espresso”, 30 gennaio 2012,
http://espresso.repubblica.it/visioni/societa/2012/ 01/30/news/giochi-da-bambine-1.40243 (ultima
consultazione 07 luglio 17) e L. Penny, Il culto delle principesse non è una favola, “Internazionale”,
n. 897, 2011, http://www.internazionale.it/il-culto-delle-principesse-non-e-una-favola (ultima
consultazione 10 maggio 2015). Tra i video di sensibilizzazione si segnala Pinkification: should boys
be boys and girls be girls?, https://www.youtube.com/watch?v=XiCIeORj4fY. Sempre nello stesso
periodo si realizzava la mostra Pinkification. Let’s Think Outside The Colour di un collettivo di
artiste, https://www.weekend notes.com/pinkification-lets-think-outside-the-colour-exhibition/
(ultima consultazione 1° settembre 2017).
6
Il rosa è stato a lungo considerato un colore maschile, grazie alla sua vicinanza col rosso del
sangue e delle battaglie, lo stesso delle camicie e delle divise, mentre alle femmine era assegnato il
celeste virginale del velo della Madonna. Per esempio, in un articolo della pubblicazione
commerciale “Earnshaw’s Infants Department” (giugno 1918) si diceva: «La regola generalmente
accettata è rosa per i ragazzi e blu per le ragazze. La ragione è che il colore rosa, più deciso e più
forte, è più adatto per il ragazzo, mentre l’azzurro, più delicato, è più bello per le ragazze» (Paoletti
2012).
7
Il video How did pink become a girly color? (2015, Jennifer Wright) racconta la storia di questo
colore ripercorrendo alcune tappe fondamentali, ricostruendo come l’associazione tra rosa e
femminile si sia sviluppata nel corso degli anni Cinquanta, passando dalla moda, al cinema e al
design (arredo ed elettrodomestici), https://www.youtube.com/watch?v=KaGSYGhUkvM (ultima
consultazione 28 luglio 2017).
8
Lo studio di Lynch (2005), condotto attraverso l’analisi di pubblicità, mostra come le madri siano
state indotte dal marketing a mostrare il funzionamento del loro istinto materno, e quindi il loro
essere “buone madri”, attraverso pratiche consumistiche. In questa analisi si individuano diverse
tipologie di “maternità” a partire dagli anni Venti, fino ad arrivare alla fine degli anni Ottanta, quando
di sviluppa quella che viene definita la «maternità intensiva», ovvero un’ideologia per cui, per essere
una buona madre, una donna deve mettere al primo posto i desideri e i bisogni del/la suo/a bambino/a
ed è l’unica responsabile di un sano sviluppo fisico e psicologico dei figli, che deve perseguire anche
attraverso il consumo.
9
Paoletti (2012) sostiene che le nuove mamme, anche se sono femministe, lo sono in modo
differente dalle femministe “baby boomer”.
10
La campagna Pinkstink – il rosa puzza – è nata per contrastare l’immaginario che propone alle
bambine un’idea del femminile come passivo e ossessionato da shopping, bellezza e moda
(http://www.pinkstinks.co.uk). Molte sono state le artiste e performer che in questi anni hanno
prodotto opere provocatorie utilizzando parodie sul rosa o sulle principesse, la più famosa è Dina
Goldstein (https://www.dinagoldstein.com), ma una rassegna si può trovare in
http://www.tpi.it/mondo/stati-uniti/chi-ha-picchiato-cenerentola-1/# (ultime consultazioni per tutti i
siti citati 28 luglio 2017).
11
Secondo la ricostruzione di David Gilmore la virilità sembra essere definita quasi universalmente
(tranne qualche rara eccezione) da tre capacità considerate fondamentali in un uomo: procreare,
proteggere e provvedere ai suoi cari. Da ciò deriverebbero le caratteristiche della virilità che quasi
tutte le culture tendono a valorizzare: durezza, aggressività, stoicismo, potenza sessuale (1993).
12
Una sintesi è reperibile in https://rebeccahains.com/2014/03/29/whats-the-problem-with-pink-
and-princess/ e in http://www.pinkisforboys.org/blog/why-pinkification-matters (ultima
consultazione 28 luglio 2017).
13
Il video Gender box, prodotto dalla Tumblr page Planned Parenthood Los Angeles, mostra come
comuni stereotipi di genere possano limitare le azioni e le scelte di questi due personaggi, ma essi
usano il loro potere di interrogarsi, sfidarli e modificarli. Affermando il loro diritto di essere se stessi
e permettendo agli altri la libertà di fare lo stesso, scoprono un mondo di possibilità,
https://www.youtube.com/watch?v=NOqMSaaIEEA (ultima consultazione 30 luglio 2017).
14
Nell’a.a. 2014-2015 la componente femminile nelle iscrizioni è del 56 per cento, tuttavia il 75
per cento è presente nelle scienze umanistiche e il 61 per cento nelle scienze sociali.
15
Si citano anche l’identificazione con il modello materno, la consapevolezza di dover recuperare
una distanza con il maschile, uno specifico interesse per la cultura, ma anche la femminilizzazione
della scuola (Biemmi, Leonelli 2016).
16
https://ilricciocornoschiattoso.wordpress.com/2014/12/16/genderizzazione/(ultima consultazione
08 agosto 2017).
17
A questo proposito è interessante il video Gendered Marketing di Kirsten Drysdale e Zoe Norton
Lodge, dalla serie Tv Checkout, che con ironia mette in luce le contraddizioni di questo tipo di
strategie: https://www.youtube.com/watch?v=3JDmb_f3E2c (ultima consultazione 28 luglio 2017).
18
Secondo Durkheim (1962), con il progredire della civiltà l’uomo e la donna si sono sempre più
differenziati sia a livello biologico sia a livello funzionale. Tale progressiva differenziazione tra i due
sessi è considerata funzionale da Durkheim per la «solidarietà coniugale», fondata nella differenza e
complementarietà dei due generi. In nome della “solidarietà” la divisione del lavoro tra i sessi diventa
norma; la specializzazione delle funzioni affettive femminili e delle funzioni intellettuali maschili
assume allora un valore morale, perché serve alla coesione e alla stabilità della società. Su una linea
di sostanziale continuità con l’elaborazione di Durkheim, anche Talcott Parsons analizza la
differenziazione dei ruoli sessuali coerentemente con la sua teoria generale; il suo interesse si
focalizza in particolare sulle condizioni per il mantenimento e il funzionamento del sistema. Una di
queste condizioni consiste nell’efficacia del processo di socializzazione, che si realizza soprattutto
nella famiglia, il cui compito principale è quello di essere «una agenzia di socializzazione di
bambini» (Parsons 1964: 61), organizzata sulla base della divisione dei compiti del marito-padre e
della moglie-madre. I ruoli familiari derivano secondo Parsons da «una differenziazione lungo due
assi, quello gerarchico e del potere e quello della funzione strumentale contrapposto alla funzione
espressiva» (Parsons, Bales 1974: 49). A partire da queste funzioni all’interno della famiglia avviene
l’apprendimento dei «ruoli da parte dei figli, che spingerà i maschi ad assumere ruoli più tecnici,
dirigenziali e giudiziari», e le femmine ruoli più di sostegno, di «integrazione e di governo delle
tensioni» (ibidem).
19
Negli annunci del catalogo Sears del 1975, meno del 2 per cento dei giocattoli sono stati
esplicitamente commercializzati a ragazzi o ragazze. Negli anni Settanta, inoltre, si potevano trovare
anche molti annunci che contestavano attivamente gli stereotipi di genere: i ragazzi sono stati
mostrati in attività con giocattoli domestici e le ragazze sono state mostrate in ruoli tipicamente
maschili come medico, carpentiere e scienziato (Sweet 2013).
20
Una simile ricostruzione è percorribile nell’analisi delle forme del corpo femminile che muta nei
diversi periodi storici, corrispondendo ai ruoli sociali attribuiti alle donne. Nei primi del Novecento,
fino alla Seconda guerra mondiale, le forme sono quasi annullate (Marlene Dietrich è l’icona di
quest’epoca), sicuramente a influire è la povertà di quegli anni, ma è anche il ruolo della donna a
essere più attivo: spesso deve sostituire l’uomo – che è al fronte – in tutte le attività pubbliche-
produttive. A metà secolo, invece, la donna viene restituita alla sfera domestica e privata, il suo ruolo
è prettamente riproduttivo e di cura, il suo corpo è formoso e “materno”, Sofia Loren e Marlyn
Monroe ne sono esempi. Negli anni Settanta, i corpi femminili sono magri, poiché devono parlare
dell’emancipazione dal ruolo di cura simboleggiato dalle curve femminili: l’icona di quegli anni è
infatti la modella Twiggy (per un approfondimento, Stagi 2008: 55).
21
Gli studi di Zosuls et al. (2009, 2014) hanno mostrato che a 17 mesi bambine e bambini erano
altrettanto interessati a bambole, tazze del tè e a spazzole e pettinini, anche se le bambine passavano
meno tempo a giocare con camion e automobiline. Quattro mesi dopo, per le bambine aumentava il
tempo dedicato alle bambole, mentre i maschi mostravano una maggiore conoscenza delle etichette
associate agli stereotipi. A 24 mesi cominciavano a evidenziarsi le capacità di categorizzazione di
“maschile” e “femminile”. A 36 mesi le preferenze stereotipiche di genere, e i giochi con bambole o
macchinine si erano definiti.
22
Nei percorsi di riassegnazione di sesso, i test di valutazione psicologica hanno generalmente
un’attenzione particolare per la storia dei segni della manifestazione di un transegenderismo,
attraverso in particolare la ricognizione delle preferenze dei giochi e dell’abbigliamento nell’infanzia.
Un tempo, durante la visita militare veniva indagata la genderizzazione dei gusti: l’apprezzamento
per i fiori, per esempio, era considerato indicatore di un possibile orientamento sessuale non
conforme all’eteronormatività.
23
http://www.theiet.org/about/.
24
«La commercializzazione di giocattoli per le ragazze è un ottimo punto di partenza per cambiare
la percezione delle opportunità all’interno dell’ingegneria. La gamma di giocattoli per le bambine
dovrebbe comprendere altro, non solo le bambole e i vestitini, in modo che possano coltivare il loro
entusiasmo, e magari, una volta adulte, diventare ingegnere», affermano nel sito
https://www.theguardian.com/lifeandstyle/2016/dec/08/gendered-toys-deter-girls-from-career-
engineering-technology cit in https://ilricciocornoschiattoso.wordpress.com/2016/12/19/chi-gioca-
col-futuro-delle-bambine/ (ultima consultazione 10 settembre 2017).
25
https://www.youtube.com/watch?v=pz7g4qy0l9M.
26
Tali operazioni sono riconducibili a ciò che si definisce “manovra di genere” (gender
maneuvering): «Quando una o più persone manipolano le proprie performance di genere − o
manipolano il significato delle performance di genere altrui − per rafforzare, disturbare o modificare
il rapporto intorno e tra le maschilità e le femminilità» (Schippers 2002: XIII).
27
Negli anni Cinquanta e Sessanta la parola circola negli Stati Uniti per descrivere la reazione
politica contro l’integrazione nera; generalmente, infatti, tale concetto connota una forte oscillazione
a tornare a un precedente status quo.
28
L’intersezionalità, che all’inizio è stata concepita attorno alla triade “razza/classe/genere”, fu
successivamente ampliata da Patricia Hill Collins per includere concezioni sociali quali nazione,
abilità, sessualità, età ed etnicità (Purkayastha 2012).
29
In Italia ci sono i corrispettivi Maschi selvatici fondati da Claudio Risé:
http://www.maschiselvatici.it (ultima consultazione 1° settembre 2017).
30
Dall’intervista Angry white men’: the sociologist who studied Trump’s base before Trump, a cura
di Oliver Conroy per “The Guardian” (27 febbraio 2017),
https://www.theguardian.com/world/2017/feb/27/michael-kimmel-masculinity-far-right-angry-white-
men (ultima consultazione 1° settembre 2017).
31
Secondo Raewyn Connell, la femminilità enfatizzata, insieme alla maschilità complice, è
subordinata alla maschilità egemone, ai suoi desideri e bisogni (Connell 1996).
32
Con l’Ottocento la famiglia è investita di una nuova funzione di stabilizzazione sociale, la cui
necessità era tanto più sentita dai ceti borghesi dopo la tempesta rivoluzionaria e due decenni di
guerre europee. La famiglia borghese ottocentesca viene concepita sulla base di un modello
disciplinante imperniato intorno all’autorità del padre. Il padre assicura nella sfera privata
quell’ordine e quella sottomissione dei minori, siano essi la moglie o i figli, che il governo persegue
nella sfera pubblica (Barbagli 1984).
2. I CONCETTI DELLA RICERCA
Emanuela Abbatecola e Luisa Stagi
2.1. Il genere
Infine, il genere può diventare uno sguardo sul mondo (Abbatecola, Fanlo
Cortés, Stagi 2012), una lente attraverso la quale leggere e interpretare le
diverse dimensioni del vivere sociale, una modalità del conoscere e del
giudicare (Bimbi 1987, 2003). Il genere può essere inteso anche come
concetto analitico-critico, poiché, come sottolinea Busoni, consente di
riunire in un’unica immagine «tutto quel che vi è di sociale, costruito e
arbitrario nella ripartizione delle differenze tra sessi, mettendo in luce sia la
variabilità tra una società e l’altra, sia la possibilità di mutamento di quella
attribuzione» (Busoni 2000: 279).
Gli stereotipi sessuali si basano sul sesso biologico delle persone per spiegare i
comportamenti, i tratti di personalità, le competenze ma, anche, i differenti ruoli di
donne e uomini nella società.
Si tratta di una generalizzazione arbitraria che, basandosi su una differenza
sessuale, permette di esplicitare e giustificare le diseguaglianze e le
discriminazioni esistenti tra uomini e donne. La difficoltà sta proprio nella
naturalizzazione delle differenze, che porta a considerarli ovvi e scontati.
Gli stereotipi sessuali sono resistenti agli attacchi e ai tentativi di
superamento poiché essi hanno un potere reale nella costruzione delle
rappresentazioni sociali dei soggetti femminili e maschili, come anche
dell’idea che maschi e femmine hanno di sé stessi e delle realtà nella quale
vivono. Lo stereotipo della “buona madre”, con tutti gli attributi di cui è
portatore (generosità, accoglienza, bontà) è esempio di uno stereotipo di
genere che genera una serie di aspettative, e quindi comportamenti attesi,
che possono contribuire a condizionare la costruzione dell’identità
femminile, ma non appare come negativo (Aa. Vv. 2010).
Gli stereotipi sessisti sono invece la parte più potente e violenta degli stereotipi
sessuali. Generalmente veicolano una concezione negativa delle donne o hanno un
intento discriminatorio.
Riassumendo:
Con educazione di genere si intende «l’insieme dei comportamenti, delle azioni, delle
attenzioni messi in atto quotidianamente, in modo più o meno intenzionale, da chi ha
responsabilità educativa (genitori, insegnanti, eccetera) in merito al vissuto di genere,
ai ruoli di genere e alle relazioni di genere delle/dei giovani e delle/dei
giovanissime/i» (Leonelli 2016: 46).
Come per altre forme di socializzazione anche per quella di genere contano
le molte agenzie di socializzazione come la famiglia, la scuola, le parrocchie,
i mass media, la cultura popolare, e altre ancora. Chiaramente la
socializzazione al genere è rafforzata ogni qual volta i comportamenti
vengono approvati o disapprovati dalle varie agenzie.
Dai primi mesi della loro vita, cioè molto prima di imparare a verbalizzare,
le bambine e i bambini utilizzano essenzialmente due categorie sociali per
comprendere il mondo che li circonda: il sesso e l’età. In tutti gli stadi del
loro sviluppo, bambine e bambini costruiscono, attivamente e
soggettivamente, che cosa significhi essere maschi o essere femmine. Sono
diverse le tappe che portano a questa costruzione e passano attraverso tempi
e situazioni; solo verso i cinque-sette anni avviene la piena integrazione del
concetto.
Gli studi sulle conoscenze delle bambine e dei bambini in materia di
stereotipi di genere, mostrano come questi ultimi siano acquisiti molto
rapidamente nel loro sviluppo. A partire dai venti mesi, i bambini e le
bambine hanno già degli oggetti preferiti tipici del genere di appartenenza e
dai due-tre anni hanno già delle conoscenze sostanziali sulle attività,
professioni, comportamenti e aspettative stereotipicamente attribuite a
ciascun genere (Dafflon Novelle 2004). La conoscenza degli stereotipi di
genere prevalenti aumenta considerevolmente con l’età, in particolare
rispetto a ciò che ci si aspetta dal proprio sesso, e con essa aumenta
l’attenzione alle convenzioni sociali e al loro rigoroso rispetto. Dai sette ai
dodici anni c’è un periodo di maggiore flessibilità in termini di
comportamenti e manifestazioni sessuate, mentre nell’adolescenza si ritorna
a una più accentuata rigidità, e questo è dovuto al necessario bisogno di
confinamento rispetto alle modificazioni corporee e alla necessità di
ancorare la propria costruzione identitaria.
2.6.1. La famiglia
Bambine e bambini ricevono una socializzazione molto differente sia
all’interno della famiglia sia nel contesto scolastico. Come è noto, tuttavia, la
famiglia è l’agenzia di socializzazione primaria ed è qui che si apprendono i
primi comportamenti di genere rispetto ai ruoli, ai luoghi di gioco e ai giochi
stessi, a fare più o meno capricci, a occuparsi degli altri o a affermare
principalmente se stessi. I processi di socializzazione, tuttavia, non sono tutti
uguali, e si riscontrano delle differenze tra tipi di famiglie e strati sociali: per
esempio, nelle famiglie in cui le donne lavorano fuori casa, in quelle
omogenitoriali, oppure di alto capitale culturale ed economico, è possibile
che la definizione dei ruoli sia meno rigida (Anderson, Taylor 2004,
Ottaviano 2016, Trappolin, Tiano 2015).
Fin da principio i processi di costruzione sociale del femminile e del
maschile favoriscono la produzione di traiettorie, aspettative e parole
differenti: già dalla nascita i genitori descrivono diversamente le/i loro
figlie/i (delicate, belle e tenere le prime, grandi, forti con tratti marcati i
secondi), contornano la neonata/o di oggetti e colori sessuati e, anche a
livello emotivo, interpretano i suoi segnali in modo differente: se una
neonata piange sarà perché ha paura, se piange un neonato sarà perché è
arrabbiato (Zaouche-Gaudron 2002; Mosconi 1999). Tutti questi
comportamenti differenziati, che vengono adottati in funzione del sesso di
una/o neonata/o, andranno perciò a influenzare il suo sviluppo. I genitori e i
parenti tendono a incoraggiare le bambine e i bambini a conformarsi ai ruoli
associati dalla società al loro sesso di appartenenza, e a scoraggiare ogni
comportamento percepito come proprio del genere opposto. Questi rinforzi
differenziati dei genitori sono più marcati fino al secondo anno di vita e
riguardano diverse dimensioni, dalla scelta dei giochi, alle emozioni
accettate o scoraggiate (“non piangere: sei un maschio!”), fino alle
manifestazioni di dipendenza femminile contro l’indipendenza maschile. Da
questa età in avanti, i bambini e le bambine andranno a conformarsi essi
stessi agli stereotipi di genere e dai tre anni in poi saranno coscienti dei
comportamenti differenziali degli adulti in base al genere: saranno capaci,
per esempio, di prevedere che un adulto sceglierà una bambola per una
bambina e una macchinina per un bambino (Dafflon Novelle 2004).
2.6.2. Il gruppo dei pari
Chiaramente, il momento in cui bambine e bambini iniziano e giocare in
compagnia è un momento interessante, perché mette in evidenza l’esistenza
dei confini di genere, perciò i genitori tenderanno a favorire gli incontri con
coetanei appartenenti allo stesso sesso. Questo fenomeno, presente in molte
culture, si osserva più precocemente nelle bambine che nei bambini (due
anni contro i tre anni). Dai cinque anni in poi, però, sono i maschi a mostrare
più marcatamente la preferenza a giocare con appartenenti al loro stesso
genere (Aa. Vv. 2010).
Bambole e automobiline sono prefigurazioni di ambiti sociali; il rosa e il
celeste (insieme a molti altri segnali), simboli di quegli ambiti. Comportarsi
“da maschiacci” è sconfinare in uno spazio già riservato ad altri; comportarsi
“da femminucce” è scadere da uno status ritenuto superiore. Fin da quando
siamo piccolissime/i ci viene insegnato che ciò che fanno femmine e maschi
è diverso (e che è giusto che sia così), e che a ciascuno di questi gruppi è
attribuito un valore e prestigio sociale differente (Busoni 2000: 22).
Maccoby (1990) ha mostrato che, qualsiasi sia l’origine di questa forte
volontà a evitare l’altro genere, è importante sottolineare che è solo
indirettamente collegata alla pressione degli adulti, nel senso che la scelta si
fonda su criteri di affinità di giochi e comportamenti. Le bambine
preferiranno giochi più calmi, cooperando verbalmente e rivolgendosi agli
adulti in caso di necessità, mentre i bambini, si mostreranno più turbolenti,
preferiranno giochi più competitivi, instaurando gerarchie all’interno del
gruppo basate su forza e carisma. È evidente che i rinforzi a questi
comportamenti sono un indirizzo sociale non evidente ma assolutamente
pregnante.
Per riproduzione interpretativa si intende quel processo per cui, bambine e bambini
assorbono la cultura degli adulti, la fanno propria e la riproducono interpretandola
creativamente nel gruppo dei pari e nelle interazioni con gli adulti, contribuendo,
così, attivamente alla produzione e al mutamento culturale (Corsaro 2010; Corsaro e
Molinari 2010).
Come forse si evince da questa rapida rassegna dei principali concetti che
ci accompagneranno nel corso del lavoro, il campo di riflessione teorica dal
quale attingiamo è vastissimo, ricco, sfaccettato. Impossibile da ricostruire,
in modo esaustivo, nello spazio di un capitolo. Ci siamo nutrite di un sapere
costruito nel corso di decenni, e siamo cresciute sulle “spalle delle giganti”,
spalle molto solide.
Come abbiamo visto il concetto di genere è sfaccettato, complesso, non
autoevidente. Il genere, oltre a rappresentare un imprescindibile sguardo sul
mondo, costruisce identità, plasma relazioni e gerarchie, definisce un ordine,
rapporti di potere, criteri di inclusione e esclusione, produce effetti sia sulle
traiettorie biografiche sia sull’organizzazione sociale in diversi ambiti del
vivere (il lavoro, la famiglia, la sessualità, e molto altro). Contribuisce alla
creazione della realtà sociale, in un processo dialettico e non lineare tra
attrici e attori sociali e struttura.
A nostro parere, un contributo capace di ricomporre la complessità sopra
analizzata tenendo insieme le molteplici dimensioni in gioco, è quello di
Barbara Risman (2012; 2018), la quale propone il concetto di genere come
struttura sociale.
Fig. 1. Concetto di genere come struttura sociale
1
http://www.bbc.com/news/av/magazine-40936719/gender-specific-toys-do-you-stereotype-children
(ultima consultazione 21 agosto 2017).
2
Nell’esperimento riportato da Giddens, alcune giovani madri sono state invitate a interagire con
una bambina di sei mesi chiamata Beth e poi con un bambino chiamato Adam. Le donne tendevano a
sorridere spesso a Beth, offrendole le sue bambole per giocare. Successivamente, Beth è stata descritta
come “dolce” e i suoi gridolini come “morbidi”. Il secondo gruppo di mamme ha offerto a Adam treni
e altri giocattoli da “maschi”. Tuttavia, Beth e Adam erano effettivamente lo stesso bambino, solo
vestito in modo diverso (Giddens 2006: 170). Questo esperimento evidenzia come la socializzazione
di genere inizi fin dalla nascita, affinché bambine e bambini apprendano e interiorizzino le norme e le
aspettative corrispondenti al loro sesso biologico. In questo modo sono anche acquisiti ruoli e identità
di genere (Giddens 2006: 477-478).
3
Noi autrici, e con noi la redazione di AG-AboutGender, concordiamo con la posizione di Barbara
Risman, secondo la quale «Women and Gender Studies is by definition a feminist interdisciplinary
enterprise» (2012: 3). Tuttavia, poiché in Italia alcune femministe hanno pubblicamente preso le
distanze dagli studi di genere (pensiamo, per esempio, a Luisa Muraro, esponente di spicco del
Pensiero della Differenza italiano), così come non tutte e tutti gli studiosi di genere si riconoscono nel
femminismo, scegliamo qui di tenere analiticamente distinti i due filoni di ricerca.
4
Mentre stiamo scrivendo (settembre 2017), è notizia di cronaca il fatto che il comitato
“Difendiamo i nostri figli-Family Day” ha schedato le scuole della provincia di Bologna con bollini di
colore verde, arancione e rosso a seconda dell’infiltrazione della cosiddetta “ideologia del gender”. Per
saperne di più sulla crociata antigender, si vedano i contributi di: Sara Garbagnoli (2014), Giulia Selmi
(2015) e Emanuela Abbatecola (2017), Michela Marzano (2015) e Chiara Lalli (2016).
5
L’intersessualità – definita dalla presenza di caratteri sessuali che non rientrano nelle tipiche
nozioni binarie del corpo maschile o femminile − mette in discussione questo ordine binario, e per
questo la tendenza è quella di intervenire precocemente sui caratteri sessuali senza attendere lo
sviluppo di un’identità di genere autodiretta (come si percepisce la persona). Per le stesse ragioni, in
alcuni paesi la “riassegnazione chirugica” del sesso è considerata un prerequisito fondamentale ai fini
dell’assegnazione del nome sociale di una persona in transizione.
6
Negli ultimi quindici anni, anche nel nostro paese, si sono registrati significativi segnali di apertura
nei confronti degli orientamenti sessuali considerati non conformi (omosessualità e bisessualità), ma
l’omofobia rimane un problema molto grave, ancora non riconosciuto dal nostro ordinamento sul
piano legislativo. L’omosessualità fa ancora molto paura perché mette in discussione l’ordine sociale.
7
Il sesso non è da considerarsi come qualcosa di oggettivamente dato e distinto dal genere. Il
rapporto tra corpi e genere, infatti, è un rapporto di coproduzione e cosignificazione, nel senso che
sarà la società, di volta in volta, a definire i corpi e a stabilire quale caratteristica socialmente definita
dei corpi assumerà rilevanza in funzione della costruzioni dei generi. La costruzione binaria, per
esempio, nasce solo a partire dal XVIII, quando il corpo femminile comincia a essere considerato, in
campo medico, diverso da quello maschile. Prima di allora, gli organi sessuali femminili erano ritenuti
una versione imperfetta e manchevole di quelli maschile, e, non a caso, l’ermafroditismo (copresenza
nello stesso corpo dei gameti femminili e maschili) trovava un’accoglienza che si sarebbe
progressivamente indebolita (Nicholson 1996). Per approfondimenti si veda anche: Foucault (1976);
Laqueur (1992); Rinaldi (2016).
8
Uno dei contributi considerati più rilevanti nel dibattito inaugurato negli anni Settanta è quello di
Gayle Rubin, la quale nel 1975 conia il concetto di sex-gender system. Rubin (1975) «con sex-gender
system denomina l’insieme dei processi, adattamenti, modalità di comportamento e di rapporti, con i
quali ogni società trasforma la sessualità biologica in prodotti dell’attività umana e organizza la
divisione dei compiti tra gli uomini e le donne, differenziandoli l’uno dall’altro: creando appunto il
“genere”» (Piccone Stella, Saraceno 1996: 7).
3. IL DISEGNO DELLA RICERCA
Luisa Stagi
3.3. L’etnografia
Per questa fase della ricerca sono state scelte due scuole e, all’interno di
queste scuole, due classi. Le due scuole, come già anticipato, appartengono a
due quartieri molto differenti: una in una zona periferica di prevalente classe
popolare, l’altra in centro con una classe sociale mista ma definibile di ceto
medio. Ciascuna ricercatrice ha seguito nel corso di due anni sempre la
stessa classe. L’osservazione, infatti, è una tecnica in cui fa ricerca si
inserisce in modo diretto e per un periodo temporale relativamente lungo in
un gruppo sociale preso nel suo ambiente naturale, instaurando un rapporto
di interazione personale con i componenti del gruppo, con l’obiettivo di
descriverne le azioni e di comprenderne le motivazioni, mediante un
approccio empatico. L’osservazione è una delle tecniche principali del
metodo etnografico, che mira a descrivere e comprendere «le strutture
sociali, le interpretazioni/spiegazioni dei partecipanti, il contesto
dell’azione» (Gobo 2001: 110).
L’etnografia è una pratica che prevede la “presenza sul campo” al fine di
cogliere il dato per scontato, spesso prodotto da una struttura sociale che si
riproduce nelle pratiche e nei discorsi: per questo motivo nell’osservazione è
necessario porre “attenzione ai dettagli”, “prendere sul serio le banalità” e
osservare la quotidianità fatta di riti e pratiche.
Le pratiche sociali sono costituite da piccole azioni, da cerimoniali apparentemente banali e
superflui, che […] rappresentano l’angolatura privilegiata per scoprire le convenzioni e quindi le
strutture sociali (ivi: 110-111).
– il mio gioco preferito − durante l’appello, al posto del nome, il loro gioco
preferito;
– test degli orsetti, tratto dal lavoro torinese “Quante donne puoi
diventare2”;
– il mio personaggio preferito − durante l’appello, al posto del loro nome, il
loro personaggio preferito;
– cosa farò da grande − in una classe, durante l’appello, al posto del nome,
la professione che vorrebbero fare da grandi; nell’altra classe, disegno e
racconto del disegno;
– le femmine hanno; i maschi hanno − disegno su di un foglio diviso a metà
da una parte “le femmine hanno” e dell’altra “i maschi hanno”;
– come mi vedo da grande – chiedere di disegnarsi e raccontarsi3.
1
Il questionario è stato a lungo discusso in équipe, ma la sua formulazione e somministrazione si
deve al collega Giulio Peirone, allora docente di psicologia del lavoro presso l’Università degli Studi
di Genova, coadiuvato dalla dott.ssa Emanuela Picozzi. L’elaborazione dei dati è stata effettuata da
Sebastiano Benasso, sociologo del Disfor.
2
Cfr. http://www.comune.torino.it/politichedigenere/po/po_attivita/po_progetti/quante-donne-puoi-
diventare-nuovi-mo delli -per-bamb.shtml.
3
Gli ultimi tre stimoli sono stati ispirati dalle esperienze del libro Sguardi di genere tra identità e
culture (Del Buono 2002).
4. STEREOTIPI, RIPRODUZIONE E SEGNALI DI CAMBIAMENTO. LO
SGUARDO DELLE INSEGNANTI
Emanuela Abbatecola e Luisa Stagi
Un giorno un bambino era senza il suo grembiule e allora gliene ho messo uno rosa: lui ha pianto tutto
il giorno. Da allora quando fa il birichino basta minacciarlo di mettergli di nuovo il grembiule rosa e
smette (focus 2, insegnante FA).
I genitori sono sempre preoccupati che i figli non siano abbastanza maschi. Il corso mi ha aiutato a
capire come aiutarli in certe situazioni: una volta una mamma era preoccupata perché un venerdì
(quando i bimbi e le bimbe possono portare a casa un libro della biblioteca) il figlio ha scelto un libro
di fate. Io l’ho rassicurata dicendole che lo aveva sicuramente fatto perché sono raffigurate belle
fanciulle e a lui piacerà guardarle [risata] (focus 2, insegnante CD).
– ogni potere di violenza simbolica, cioè ogni potere che riesce a imporre
dei significati e a imporli come legittimi dissimulando i rapporti di forza su
cui si basa la sua forza, aggiunge la propria forza, cioè una forza
specificamente simbolica, a questi rapporti di forza;
– ogni azione pedagogica è oggettivamente una violenza simbolica in
quanto impone, attraverso un potere arbitrario, un arbitrario culturale;
– ogni sistema d’insegnamento istituzionalizzato deve le caratteristiche
specifiche della sua struttura e del suo funzionamento al fatto che deve
produrre e riprodurre, attraverso i mezzi propri dell’istituzione, le
condizioni istituzionali la cui esistenza e persistenza sono necessarie tanto
all’esercizio della sua funzione propria […] che alla riproduzione di un
arbitrario culturale, […] la cui riproduzione contribuisce alla riproduzione
dei rapporti tra i gruppi e le classi.
Il ballerino di danza classica ti viene in mente Nureyev, e effettivamente nello stereotipo Nureyev era
tutto fuorché uomo […]. Non so, nello stereotipo preferisco trovarmi un Totti che un Nureyev (focus
1, insegnante 23).
Forse [le donne di oggi] hanno anche una nuova maschera da mettere addosso, quella della dolcezza,
nel senso che la vita di oggi non è molto facile da affrontare e non ti invita a essere molto dolce, non
so come dire, come ritmo di vita. Io sento abbastanza la fatica di dover gestire un lavoro, una famiglia,
tanti stimoli a livello sociale (focus 1, insegnante 6).
Per esempio, non avere dei giardini sotto casa, non avere l’aiuto della vicina, non avere più tutta una
serie di supporti, una rete che ti possa tirare fuori la dolcezza che magari ti trasmetteva tua nonna
quando ti prendeva sulle ginocchia e ti cantava la filastrocca. Lei aveva tanto tempo per poterlo fare
(focus 1, insegnante 6).
Se io riuscissi a stare a casa con lo stipendio di mio marito, me ne starei a casa a godermi i figli. Però
non si può, perché se non lavoriamo in due non paghi il mutuo e non puoi fare niente. Purtroppo è
così. Io ci starei volentieri a casa (focus 1, insegnante MM).
Effettivamente, un maschio e una femmina a tre anni, la femmina si vestiva da sola, il maschio no… è
una cosa primordiale (focus 1, insegnante 50).
Ero lì che assistevo alla lezione e lui [l’insegnante di educazione motoria] fa lavorare prima le
femmine, perché così lui sa già che le femmine capiscono e i maschi copiano. Io gli ho detto: «Falli
passare prima», e lui, ragazzo di 28 anni risponde: «No, no, prima le femmine, perché i maschi non
capiscono niente». È una cosa legata alla pigrizia. Perché la femmina ti sta a sentire a tre anni, il
maschio se ne frega altamente (focus 1, insegnante 43).
Se pensi al maschio… poi ce ne sono tantissimi bravissimi… così come delle femmine dico che sono
più affidabili, perché se penso così d’istinto di dire: «Vai a prendermi questo», io d’istinto penso a una
bambina. Poi in realtà […], ma a me d’istinto viene da dire così (focus 1, Insegnante 40).
È il momento della frutta. Tutte e tutti a tavola. La maestra sta per chiamare una bimba a distribuire la
frutta, ma poi ci guarda e si corregge. Decisamente non passiamo inosservate, ma questo non ci
impedisce di cogliere diversi segnali importanti (diario di campo, scuola B, 30 -11).
[Quando viene assegnato un compito] i maschi lo fanno in modo approssimativo e la maestra finisce
quello che loro lasciano incompleto (diario di campo, 11 -11).
Al momento dell’arrivo i bambini devono scrivere il loro nome sul calendario personale e poi riporlo
ordinatamente; la prima cosa che ho notato è che tutte le bambine, tranne un maschietto, hanno
prestato più attenzione a questa operazione (diario di campo, scuola A, 17-11).
Un altro momento interessante è stata l’attività di espressione corporea svolta nel salone. I bambini
dovevano rispondere ai comandi dell’insegnante e in questo caso ho osservato che le bambine erano
mediamente più disciplinate nei compiti assegnati, ma i maschi erano più sciolti nei movimenti (diario
di campo, scuola A, 24-11).
C’è stato poi il momento della merenda, questa volta a servire ai tavoli era un maschio e direi, senza
ombra di dubbio, che non è stato in grado di svolgere questo compito (diario di campo, scuola A, 1-
11).
[Il maschio] fa meno fatica a concentrarsi… sta lì un po’ così… può darsi che capisca, perché
capiscono, ma lui deve pensare, non lo so (risate generali) e sa benissimo che è più intelligente… cioè,
intelligente, mi sono sbagliata… poi ci arriva, sono sicura che ci arriva prima, cioè ha capito
benissimo, che è più sveglio, però intanto lui deve pensare e aspetti… e l’altra ne ha già fatte quattro
di cose (focus 1, insegnante 47).
L’analisi fin qui condotta riproduce uno scenario delle rappresentazioni del
femminile e del maschile ancora fortemente ancorato alla tradizione che non
sembra dare conto delle profonde trasformazioni che hanno attraversato la
nostra società negli ultimi cinquant’anni. Questo perché, come abbiamo
visto nel secondo capitolo, lo stereotipo è per definizione un modello rigido,
difficile da modificare e facilmente replicabile (Volpato 2013).
Difficile da modificare, ma non immutabile. Anche nel quadro descritto,
infatti, si riescono a cogliere importanti segnali di resistenza a un ordine
simbolico che tende a riprodursi mantenendo inalterati rapporti gerarchici e
di potere tra i generi attraverso un processo di naturalizzazione delle
differenze. In questo gioco di riproduzione e conservazione dei confini “le
femmine sono…”, “i maschi sono…” − le bambine continuano a essere
descritte come timide e introverse, ma queste caratteristiche, insieme alla
incapacità di imporsi, sono ora descritte come qualità negative.
Nessun ordine è per sempre poiché, nonostante l’ordine si mostri così
fortemente incorporato, la riflessività delle pratiche porta a curvature che
modificano, spesso del tutto inconsapevolmente, gli atteggiamenti delle
persone in questo caso fondamentali agenti di socializzazione −
contribuendo così impercettibilmente al cambiamento.
1
Due delle diciotto insegnanti qui, come nella domanda sui giochi, hanno risposto che non
ritenevano opportuno fare distinzioni tra maschile e femminile perché sono le caratteristiche
individuali quelle che contano.
2
Sul tema dell’aggressività, dei “modi bruschi” e della socializzazione a un modello anche violento
di maschilità, avremo modo di tornare nel prossimo capitolo.
5. ENTRANDO NELLE SCUOLE. PROVE DI FEMMINILITÀ E DI
MASCHILITÀ
Emanuela Abbatecola
I maschi tutti rigorosamente con il grembiule a quadretti azzurri e le femmine rosa. I maschi tutti con
i capelli corti e le femmine tutte con i capelli lunghi e fermagli piuttosto vistosi (diario di campo,
scuola A, 17 gennaio).
Su nove bambine, tutte sono vestite di rosa o, comunque, hanno qualche elemento rosa nella
pettinatura così come nelle scarpe (diario di campo, scuola B, 23 marzo).
L’immagine più vivida che ritroviamo nei nostri diari, così come nei
ricordi, è legata alla sensazione di essere entrate in universi nettamente
sessuati, nei quali il tratto distintivo prevalente sembra essere il bisogno di
ribadire che bambine e bambini appartengono a sottouniversi che non
desiderano confondersi e/o essere confusi.
Maschile neutro
Il maschile neutro: anche nella lingua italiana prevale l’uso del maschile neutro o
non marcato. «Ci troviamo, dunque, di fronte a un paradosso, per cui quella che
siamo soliti definire lingua madre, è in realtà infarcita di paterno (Cavarero, 1987) di
un maschile non marcato che passa per neutro: “tutti gli uomini sono mortali”, un
tutti che include anche le donne. Parlando di uomini, quindi, ci si illude di poter
parlare anche delle donne (Sabatini 1987), come se il maschile non fosse mai
davvero caratterizzato dal punto di vista del genere, mentre parlando di donne si
parla di soggetti profondamente caratterizzati in termini di genere (Bourdieu 1998;
Abbatecola 2012). Parlando di donne posso parlare solo delle donne, per cui
un’espressione come tutte le donne sono mortali solleverebbe un’obiezione
percepita come ovvia: e gli uomini no?» (Abbatecola 2015b: 140).
Entro in classe. Mi presentano come “l’amica della maestra”. Le bimbe si avvicinano incuriosite, mi
dicono il loro nome, sono affascinate da una mia collana. Sono accoglienti. Usando degli stereotipi
mi verrebbe da dire “seduttive”. Più distanti i maschietti, quasi si volessero dare un tono (diario di
campo, scuola B, 24 novembre).
C’è stato poi un gruppo di bambine, ma in particolare una, che ha cercato di comunicare con me
moltissimo, mentre i maschi non mi hanno praticamente rivolto la parola (diario di campo, scuola A,
17 novembre).
La struttura dell’aula, fatta per zone di gioco, rende forse questo meccanismo [scelta sessuata dei
giochi] ancora più evidente. Lo spazio del gioco delle macchinine con il tappeto che riproduce
strade e parcheggi viene scelto esclusivamente dai maschi. Lo spazio delle Barbie viene scelto
prevalentemente dalle femmine, ma anche i maschi partecipano, anche se poi scelgono di tenere in
mano bambole maschili (Ken, Action man…) e partecipano al gioco facendo i maschi. La casetta è il
gioco più ambito, tutti ci vogliono andare e, anche se la maestra mi ha spiegato che usa la
turnazione, mi pare di poter affermare che privilegi le femmine. I giochi da tavolo invece sono
abbastanza neutri, ma si sceglie di giocare insieme a componenti del proprio genere. Questo l’ho
verificato soprattutto nelle costruzioni. Diverso è il discorso per i giochi come la tombola eccetera
(diario di campo, scuola A, 11 aprile).
Lo spazio sociale non è mai neutro (James Jenks, Prout 1998; Holloway,
Valentine 2000), poiché si nutre delle relazioni, dei modelli culturali, dei
codici e dei linguaggi (non necessariamente verbali) della società più ampia
riproducendoli e/o sfidandoli. Lo spazio non può esistere al di fuori delle
relazioni (Simmel 1908; Satta 2010) ed è un ambito nel quale entrano in
gioco significativi processi di costruzione identitaria. Questo vale per tutte e
tutti, ma in modo particolare per le bambine e i bambini, le cui vite e le cui
identità si costruiscono nell’ambito di spazi debitamente pensati come
dedicati o, quantomeno, ritenuti adeguati (Holloway, Valentine 2000): la
casa, il nido, la scuola, i centri estivi, le ludoteche, le palestre, eccetera.
Questi spazi, a loro volta, sono concepiti, costruiti e organizzati alla luce
dei discorsi e delle rappresentazioni che danno vita a una particolare
concezione dell’infanzia. Non a caso, l’esigenza di individuare spazi ad hoc
per questa particolare fase del corso di vita sembra che si sia
progressivamente sviluppata con il crescere di quello che Ariès (2006)
chiama “sentimento dell’infanzia”, da intendersi con un’accezione
polisemica (Becchi 2010) in quanto al contempo idea, rappresentazione e
assegnazione di valore. Con il passaggio verso la modernità, dunque,
l’infanzia ha acquisito un’immagine più nitida e le bambine e i bambini
sono diventati soggetti distinti dagli adulti prima, e bene affettivo poi. Ciò
ha comportato l’esclusione progressiva dal mercato del lavoro (Zelizer
1985) ed è nata l’idea che l’infanzia fosse una stagione della vita
vulnerabile da proteggere, educare e controllare (Satta 2010). Proteggere,
educare e controllare, anche nel tempo libero, in spazi, preferibilmente
chiusi, per bambine e bambini – più raramente delle bambine e dei bambini
– costruiti in ambienti istituzionalizzati, ad hoc, in luoghi separati, gestiti
solitamente da personale qualificato (Satta 2010).
Insieme alla casa, la scuola diventa luogo privilegiato di costruzione
identitaria delle bambine e dei bambini fin dai primi anni (a volte mesi) di
vita, e l’organizzazione degli spazi scolastici ricalca le relazioni socio-
spaziali più ampie riproducendole e favorendo così performance delle
maschilità e della femminilità intellegibili agli altri poiché fondate su codici
culturali condivisi (Dixon 1997; Shilling 1991; Hollaway, Valentine 2000).
I microspazi delle classi sono, dunque, contesti di analisi rilevanti perché
ricalcati su codici regolativi di classe, razza e genere (Dixon 1997;
Holloway, Valentine 2000).
Vediamo, quindi, come sono organizzati gli spazi delle nostre classi.
In una delle scuole, che chiameremo per semplicità A, l’aula è più grande
e, di conseguenza, c’è spazio per la definizione di vere e proprie postazioni
di gioco: c’è l’angolo della casetta, quello della pista per le macchinine,
quello delle Barbie. Nell’aula della scuola B, viceversa, lo spazio è ridotto.
L’aula è piccola e quindi gli spazi sono meno definiti, ma non per questo
meno sessuati: non c’è una vera casetta, ma c’è un angolo che ne svolge la
funzione, e non mancano Winxs e Pokemon. Tutto è rigidamente
caratterizzato dal punto di vista del genere, finanche il possesso legittimo di
oggetti potenzialmente neutri, al punto che una bambina, subito dopo
l’inizio delle attività, richiama l’attenzione della maestra urlando:
Maestra! Andrea prende la gomma delle femmine!! (diario di campo, Scuola B, 24 novembre).
Noi ricercatrici proviamo a muoverci in questi spazi sessuati assumendo il
punto di vista delle straniere catapultate in mondi lontani, e non possiamo
non notare un implicito “patto intergenerazionale” tra maestre/genitori e
bambine/i, teso a rafforzare i confini tra maschile e femminile.
Le postazioni dei giochi sono, infatti, molto sessuate, e di questo
sembrano essere consapevoli anche, o forse soprattutto, bambine e bambini.
Una bambina (T.) si è offerta di farmi da “mediatrice” rispetto ai loro usi e costumi. Mi ha spiegato
che esistono i giochi solo per maschi uno in particolare che si chiama “maschi” che è una cesta di
super eroi e mostri di ogni tipo, alla mia domanda perché si chiama così la sua risposta è stata
“perché sono tutti maschi”, alla mia domanda se ci fossero giochi simili per le femmine, lei ci ha
pensato un po’ e poi mi ha risposto di no, allora io le ho chiesto se le Barbie per caso non
appartenessero alla categoria “femmine” e lei mi ha detto: “Eh no, ci giocano anche i maschi
perché ci vogliono i fidanzati per andare a mangiare la pizza (diario di campo, scuola A, 17
gennaio).
[…] la maestra mi ha spiegato che usa la turnazione, ma mi pare di poter affermare che privilegi le
femmine (diario di campo, scuola A, 16 gennaio).
Decido di mettermi in una posizione che mi consenta di osservare e udire quello che avviene nella
casetta, ma senza che loro abbiano l’idea che io stia osservando. La cosa funziona, dopo un po’ le
tre bambine e il bambino non si accorgono della mia presenza. Le bambine scelgono i ruoli: una fa
la mamma e le altre due le figlie, al maschio viene attribuito il ruolo del dottore che va a visitare le
figlie malate. Dopo la visita del dottore, il bambino si mette a giocare sulla porta della casetta e solo
ogni tanto viene chiamato per assaggiare i piatti che nel frattempo le bambine si sono messe a
cucinare. A un certo punto, non sapendo che ruolo interpretare il bambino si mette a fare il cane da
guardia, mentre le bambine continuano a rassettare e a cucinare (diario di campo, scuola A, 12
febbraio).
È il terzo giorno di osservazione nella scuola B, e arriva l’ora di attività
motoria. Ci rechiamo in palestra, dove ci aspetta un ragazzo giovane.
L’unico educatore maschio, in verità, e non è un caso che si occupi
dell’attività motoria poiché, come vedremo meglio in seguito, il rapporto tra
sport e maschilità è molto stretto. Mentre bambine e bambini giocano,
corrono, gareggiano, esultano per la vittoria, le differenze di genere si
smorzano via via, fino a scomparire. La differenza tra i due contesti ci
sorprende. Il nostro sguardo si sforza di ritrovare i segni della distanza
simbolica tra femminile e maschile, tanto evidenti solo pochi minuti prima,
ma fallisce. L’attività fisica, così come l’assenza di spazi e di stimoli
sessuati, sembra avvicinare i due mondi. Le bambine, a dispetto degli
stereotipi, se lasciate libere di esprimere la propria energia, sono attive,
energiche e (sanamente) competitive tanto quanto i bambini. Ma allora,
quanto le nostre aspettative di irrequietezza maschile e di compostezza
femminile possono essere generatrici della cosiddetta profezia che si
autoadempie? Non siamo forse noi – società − a costruire le condizioni
culturali per la produzione di differenze lette, a posteriori, come “naturali”?
E se provassimo a modificare il nostro sguardo non solo verso il mondo
femminile, ma anche verso quello maschile, non riusciremmo (forse) a
favorire un cambiamento i cui effetti, sul lungo periodo, potrebbero
condurci, in modo meno ambivalente, verso una diversa cultura delle
femminilità, delle maschilità e delle relazioni tra i generi?
I maschi hanno scelto di utilizzare solo bambole maschili e la loro modalità di gioco è stata
completamente diversa. Tenendo in mano queste bambole, le battevano sopra quelle degli altri
simulando degli scontri (diario di campo, scuola A, 20 novembre).
I due [bambini], che hanno scelto il ruolo di figli, hanno passato tutto il tempo a scontrare le
bambole tipo lotta (diario di campo, scuola A., 25 novembre).
Per certi versi rappresentano il cambiamento rispetto alle principesse in stile “bella
addormentata” in quanto vivono avventure pericolose dove mostrano coraggio,
arguzia e intelligenza (benché supportate dalla magia), intervenendo spesso anche in
difesa dei loro fidanzati, oltre che dell’ambiente e del pianeta; al tempo stesso, però,
sono decisamente fashion, hanno dei fidanzati per l’appunto, e incarnano modelli di
bellezza estetica irraggiungibili in quanto non esistenti in natura: gambe
sproporzionatamente lunghe, vita inesistente, occhioni enormi e chiome fluenti (a
eccezione di Tecna, geniale con una competenza considerata maschile come
l’informatica e, non a caso, l’unica con i capelli corti). Ovviamente magre e
bellissime. Il carattere avventuroso delle loro vite sembra dunque sfumare nella
configurazione dei corpi e delle loro rappresentazioni.
I corpi sono, infatti, poco snodati, come quello di tutte le fashion doll tradizionali, e
si presentano in posizioni statiche da modelle nelle immagini così come nella sigla,
anche quando ritratte in volo, quasi si trattasse di scatti fatti in studio.
Il primo giorno di osservazione nella scuola B. Nel desiderio di comunicare con noi, le maestre
raccontano di un bimbo che era in classe loro qualche anno fa, un “bimbo un po’ strano”: aveva
modi femminili e voleva sempre giocare con le bambole. I genitori, raccontano le maestre, erano
molto preoccupati, e lo hanno portato da uno psicologo, che ha consigliato loro di “impedire al
bambino di giocare con le bambole”. Le maestre ricordano la frustrazione di questo bambino, che
guardava triste le bambole con le quali non poteva più giocare. Terminato il racconto, una di loro
chiede: “Ma tu che te ne intendi, credi che sia possibile guarire da un problema come questo?”
(diario di campo, scuola B, 24 novembre).
non farete mica giocare mio figlio con le bambole vero? I bambini giocano a pallone e le bambine
no, ed è giusto così, queste cose non vanno cambiate (diario di campo, scuola A, incontro genitori, 13
novembre).
«Le Winx?? Bleahhh»… dice un bimbo, allontanando le braccia (diario di campo, scuola B, 31
gennaio).
Quindi nessun divieto sui giochi. E attenzione anche al contesto: se in famiglia ci sono due
femmine e un maschio, è naturale che quest’ultimo scelga anche le bambole. Ogni comportamento
va sempre riportato alla realtà in cui si manifesta. E non va caricato delle paure che noi grandi
possiamo avere rispetto all’identità sessuale. «Non c’è alcuna corrispondenza tra la tipologia di
giochi prediletti durante tutta l’età scolare e le future inclinazioni sessuali» spiega Daniele Novara.
Quindi i genitori non devono trarre alcuna conclusione. «Sarà molto più in là, negli anni
dell’adolescenza,che un ragazzo o una ragazza cominceranno a scoprire da quale genere sono
attratti. E faranno le loro prime esperienze eterosessuali oppure no. […] Un’altra cosa che, fino a 6-
7 anni, può interferire sull’identità sessuale, poi, è l’eccesso di confidenza su certi temi. Per
esempio, la mamma che spiega alla bambina cosa sono le mestruazioni dà un’informazione delicata
che, invece, va trasmessa al momento giusto e con tatto. A quell’età può spaventare»13.
In passato i pazienti che si presentavano in ambulatorio erano adolescenti in crisi, oggi sono sempre
più numerosi quelli fra i sette e i nove anni. […]
Roma – Francesco preferiva le bambole alle macchinine. Con il passare del tempo i suoi gusti sono
diventati sempre più femminili. Può accadere che un bambino manifesti una preferenza per giochi e
passatempi tipici dell’altro sesso. Secondo gli studi più recenti in materia il 10-20 per cento dei
soggetti nella fase prepuberale soffre di disturbi di genere, che possono continuare in adolescenza e
in età adulta. Esiste infatti una condizione clinica dell’infanzia che riguarda un’alterazione della
normale coincidenza tra identità sessuale e di genere. E oggi in casi in cura nelle strutture sanitarie
sono in aumento e coinvolgono persone sempre più giovani14.
Usciamo in palestrina per fare un gioco di ruolo: Cappuccetto Rosso e il lupo. Le maestre chiedono
alle bambine e ai bambini quale ruolo vogliono interpretare (lupo, mamma o Cappuccetto), quindi
inizia la recita secondo un canovaccio rigido e sempre uguale, scandito da una canzoncina: la
mamma manda Cappuccetto dalla nonna e le dà consigli su come attraversare il bosco; Cappuccetto
si avvia e incontra il lupo, inizia a scappare, ma inevitabilmente alla fine il lupo la raggiunge e la
mangia. Finito il gioco una maestra si avvicina e mi dice: “Hai visto che maschi e femmine si
scambiano i ruoli?” (diario di campo, scuola B, 31 marzo).
Arriva il momento della lettura di un racconto sui diritti. La maestra tira fuori un libretto, ci dice che
quest’anno stanno lavorando sui diritti dei bambini (intesi come maschi e femmine − secondo la
consueta e predominante tradizione linguistica del maschile neutro) e che hanno trovato questo libro
molto molto bello (diario di campo, Scuola B, 13 aprile).
Principesse postmoderne
Negli ultimi anni, la Walt Disney ha prodotto alcuni film nei quali le protagoniste
femminili si discostano molto dal modello tradizionale della principessa bella e
passiva. Citiamo, per esempio: Maleficent, nel quale Malefica viene riscattata dal
ruolo di cattiva, e il bacio del vero amore, in grado di risvegliare Aurora, sarà quello
di Malefica stessa e non quello del principe che infatti bacerà la ragazza senza
successo; Ribelle, principessa coraggiosa (il titolo originale è The Brave, La
coraggiosa), che si ribella alle convenzioni che la vorrebbero sposa-trofeo del
principe che vincerà una prova di abilità.
Ribelle, agile, avventurosa e bravissima nel tiro con l’arco, non rispetta i canoni di
bellezza tradizionali, e ha una chioma, folta, riccia e rossa. Viceversa, Maleficent
rimane imbrigliata nella gabbia della perfezione estetica richiesta alle donne. È
interpretata, infatti, dalla bellissima attrice Angelina Jolie.
Scuola B: è il momento del pranzo, e bisogna andare in bagno. Le maestre raccontano che
inizialmente andavano prima le femmine e poi i maschi, per ragioni puramente igieniche, ma che in
seguito si sono viste costrette a un’alternanza perché i bambini spiavano le bambine mentre facevano
la pipì e le prendevano in giro (diario di campo, scuola B, 31 gennaio).
1
Per approfondimenti sull’invenzione sociale del rosa come simbolo del femminile e sul processo
di pinkizzazione, si rimanda al primo capitolo.
2
Si noti che il termine “acconciatura”, benché sinonimo di “taglio”, è percepito come più adeguato
se riferito alla femminilità. Parlando di maschilità saremmo, viceversa, indotte a usare il termine
“taglio”. “Taglio” rimanda, infatti, a una concezione pratico-strumentale più neutra rispetto alla
dimensione estetica.
3
Sulla centralità dei capelli lunghi, biondi e lisci come canone di bellezza, idealizzato dalle
bambine, al quale aspirare, avremo modo di tornare nel prossimo capitolo.
4
Usiamo qui il termine Barbie per indicare genericamente le cosiddette fashion dolls, tra le quali
Winx e Bradtz.
5
Il termine action figure fu coniato in origine dalla Hasbro nel 1964, quando fu commercializzato
il primo modello di G.I. Joe. Trattandosi di giocattoli orientati a un pubblico di bambini maschi, la
Hasbro preferì evitare il termine più convenzionale di doll (bambola) per descrivere il proprio
prodotto ( https://it.wikipedia.org/wiki/Action_figure, ultima consultazione il 25 agosto 2017). Nel
testo manterremo i termini inglesi fashion dolls e action figures poiché di uso comune e difficilmente
traducibili con espressioni altrettanto dirette ed efficaci.
6
Questa caratteristica a volte è chiaramente posta in evidenza sulla confezione.
7
Il riferimento è a un video caricato da Arlie’s Chest il 25 giugno del 2016, da noi visitato il 28
agosto del 2017. L’indirizzo è https://www.youtube.com/watch?v=nZ1vwBo-aZ4.
8
Outfit significa letteralmente, abito, abbigliamento, ma negli ultimi anni il termine inglese è
entrato prepotentemente nel vocabolario comune delle ragazzine italiane, anche giovanissime.
9
Blakemore e Centers (2005) riportano che alcuni studi condotti negli anni Novanta (Watson, Peng
1992; Goldstein 1995; Hellendoorn, Harinck 1997) sembrerebbero aver dimostrato che la presenza di
armi giocattolo e di action figures aumenterebbe il livello di aggressività.
10
Sulla paura di non farcela e l’ansia da prestazione delle ragazze e delle donne in contesti
considerati maschili, si vedano: Biemmi, Leonelli 2016 per quanto riguarda le scelte formative;
Abbatecola 2012 e 2015a per quanto riguarda le professioni; Laurendeau, Sharara 2008, per gli sport
maschili.
11
Mettendo sul motore di ricerca la frase “se un bambino vuole giocare con le bambole”, sono
usciti molti link a rubriche di giornali e di forum femminili di discussione. In questa breve e non
esaustiva analisi abbiamo selezionato tre siti, scelti perché corrispondenti a testate molto conosciute e
perché riportavano il parere di esperte/i: “Riza Psicosomatica”; “Donna Moderna”; “la Repubblica”.
12
http://www.riza.it/figli-felici/vita-in-famiglia/4111/aiuto-il-mio-bambino-gioca-con-le-
bambole.html (ultima consultazione il 31 agosto 2017).
13
http://www.donnamoderna.com/mamme/bambini-4-12-anni/figlio-gioca-con-
bambole/photo/Diventera-omosessuale#dm2013-su-titolo (ultima consultazione il 31 agosto 2017).
14
http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-
it/2013/09/02/news/sesso_il_bambino_gioca_con_le_bambole-65770827/ (ultima consultazione il 31
agosto 2017).
15
La sessualità è sempre stata considerata un tema scomodo anche nell’ambito della sociologia
accademica italiana, dove gli studi sulle sessualità stanno solo di recente cominciando timidamente
ad affacciarsi come ambiti meritevoli di attenzione. Per una ricostruzione esaustiva dello sviluppo
della sociologia della sessualità in Italia si veda il manuale di C. Rinaldi, Sesso, Sé e Società (2016:
99 e sgg).
16
Questa considerazione ci riporta alla mente la testimonianza di l’intervento di un’insegnante di
una scuola dell’infanzia, coinvolta in uno dei corsi di formazioni previsti dal progetto STEP, nel quale
sottolineava quanto fosse frequente l’orgoglio esibito di papà e di mamme, riguardo alla “dotazione”
del piccolo “maschio”.
6. I RIVESTIMENTI DELLA FEMMINILITÀ E DELLA MASCHILITÀ
Luisa Stagi
Come si può notare nella parte di foglio dedicato a “le femmine hanno”, in
questo disegno realizzato da una bambina, abbondano trucchi, vestiti e
coroncine. I maschi, invece, guardano la Tv, hanno la macchinina e altri
attrezzi meccanici ma, soprattutto, possono giocare all’aria aperta con
aquilone e palloncino.
Anche questo disegno mostra una forte divisione degli ambiti di genere:
orecchini, scarpe con i tacchi, ciglia, elementi floreali, capelli lunghi da un
parte, motori, pesi e soldi dall’altra. Una rappresentazione che parla di
costruzione di femminilità e di maschilità secondo parametri molto
tradizionali: l’apparire, percepito fin dall’infanzia, come compito
fondamentale per le bambine, lo spazio pubblico, i motori, i muscoli e
l’essere breadwinner come destino per i bambini.
Le caratteristiche proprie della femminilità e della maschilità, si è visto,
sono assegnate dalla cultura e determinano e delimitano lo spazio: quello
pubblico per i maschi, quello privato per le femmine. L’ordine di genere è
istituito e legittimato socialmente e ciascun individuo, fin dalla più giovane
età, è tenuto a conformarsi, attraverso l’interiorizzazione delle norme e delle
pratiche, a tale struttura gerarchica. Per i maschi significa familiarizzare con
i valori maschili tradizionali come forza, virilità, competitività; le femmine
invece devono apprendere gentilezza, sensibilità, bellezza e “istinto”
materno. Questa socializzazione differenziata è funzionale, dunque, a
preparare ciascun individuo ai ruoli (e relative aspettative) adulti. I territori
ludici, infatti, sono funzionalmente diretti a mettere in scena i futuri ambiti
di azione attraverso l’esercitazione di ruoli e a modelli di genere – con il
fondamentale passaggio all’Altro generalizzato − che il gioco attiva (Vallet
2009).
In questo disegno di Gaia, quattro anni, molto simile ad altri composti dalle
compagne, appare una figura femminile vestita da sposa con scarpe da
principessa. Nelle spiegazioni a voce, e che noi abbiamo segnato sul
disegno, ha aggiunto che vorrebbe i capelli biondi. La corrispondenza con le
immagini di principesse e protagoniste di cartoni animati e film di
animazione risulta abbastanza evidente.
L’aspetto delle principesse, in particolare quelle di Disney, è un argomento
assai trattato in letteratura (Coyne et al. 2016). La tipica principessa è
solitamente ritratta come giovane, attraente, con grandi occhi, naso piccolo,
carnagione chiara e capelli lucenti (Lacroix 2004). Oggetto di riflessione,
tuttavia, è stato soprattutto l’ideale di corpo magro che queste immagini
veicolano. Diverse ricerche (Tremblay et al. 2011) hanno mostrato che già
alla scuola dell’infanzia le bambine esprimono paura di ingrassare e
collegano la stima di sé con l’autovalutazione del proprio corpo e del proprio
aspetto, mostrando consapevolezza del legame tra magrezza, bellezza e
desiderabilità femminile. Le protagoniste dei film Disney, principesse belle e
magre, sono modelli assai rilevanti per veicolare il messaggio che essere
attraenti è una componente necessaria dell’identità femminile. Inoltre, molti
studi hanno anche rilevato come un’esposizione precoce agli ideali di
magrezza, proposti dai media, porti a sviluppare forme di dismorfofobia e
possa favorire lo sviluppo di disturbi della condotta alimentare (Coyne et al.
2016).
Gli ideali corporei maschili proposti dai media si costruiscono, invece,
intorno ai muscoli e alla prestanza fisica (di solito gli eroi hanno un fisico
muscoloso e la vita sottile) e, seppure in misura minore rispetto alle
bambine, anche in questo caso influenzano la stima e la valutazione di sé che
i bambini hanno (Hargreaves, Tiggemann 2009).
Una bimba disegna delle tigri: una tigre grande vicina a due tigri piccole e, un poco distante, un’altra
tigre grande. Le chiediamo spiegazioni e lei risponde che quella vicina ai piccoli è la mamma, mentre
quella distante (espressione mia) è il papà (diario di campo, scuola B, 31 gennaio).
Fin qui siamo nell’ambito della riproduzione, nel senso che nella cultura
degli adulti il ruolo tradizionale del padre come mero procacciatore di
reddito e depositario della norma è entrato in crisi. Stanno dunque
emergendo nuovi «modi di percepire e vivere la paternità» (Murgia, Poggio
2011: 8), ma manca ancora la capacità di pensare fino in fondo «la paternità
come relazione» (Ciccone 2011: 44). Sono molte le spinte contrarie alla
trasformazione del ruolo paterno3, e:
Uno dei dispositivi di controllo più potenti contro il cambiamento maschile è il ridicolo. La perdita
di autorevolezza, di dignità. Un uomo che non corrisponda all’aspettativa sociale corrispondente al
suo ruolo appare ridicolo, la sua identità sessuale viene messa in dubbio. […] La svalutazione,
spesso anche femminile, di uomini che stanno a casa a fare le pappine e o a cambiare pannolini frena
il cambiamento che stiamo confusamente cercando (ivi: 46, corsivo in originale).
Leggiamo le due definizioni nel dizionario on line del “Corriere della Sera”*:
Fig.: persona dotata di grande abilità nella sua professione, in un arte, eccetera.
Spreg.: fattucchiera.
Questa differenza sembra suggerire che il potere trasformativo può diventare negativo
se in mano a una donna (come nel caso della protagonista di Frozen) perché mette in
discussione il dominio maschile, e che l’unico potere femminile tollerabile è quello
della seduzione. Viceversa, il potere maschile è neutro (naturale?) e trova piena
espressione nella realizzazione professionale.
Torniamo in classe, e la maestra propone di fare dei disegni da regalare a un bimbo che compie gli
anni. È il momento della scelta del colore della cartellina e la maestra, guardandoci con complicità,
chiede: «Alessio, di che colore la facciamo la cartellina? Va bene il rosa?» (diario di campo, scuola B,
23 novembre).
Alessio, bimbo di quattro anni, molto a proprio agio con le bambine e con
una maschilità vissuta (apparentemente) senza ansia da prestazione, risponde
di sì. Un altro bimbo, che già in altri contesti aveva mostrato di aver fatto
proprio il modello tradizionale di maschilità egemone che tende a definirsi
per differenza dal femminile (irrequieto, alza le mani con facilità, risponde
disgustato se gli si chiede un parere sulle Winxs), urla:
Noooo, il rosa è da femmine (diario di campo, scuola B, 23 novembre).
La sua reazione è abbastanza scontata in quanto riproduce un modello
condiviso nella cultura degli adulti, ma quella degli altri bimbi lo è molto
meno:
Perché no? In fondo, anche la pelle è rosa (diario di campo, Scuola B, 23
novembre).
Alessio non sembra preoccuparsi molto del giudizio degli altri e, con il
supporto di tutti i maschi (escluso uno), si opta per la cartellina rosa!
L’episodio è molto utile perché rivelatore di come bambine e bambini
possano intervenire creativamente nella produzione del cambiamento grazie
alle interazioni entro e tra i gruppi generazionali. Alessio risponde
positivamente allo stimolo dell’educatrice e accoglie di buon grado
l’opportunità di mettere in discussione il modello di maschilità egemone, che
richiederebbe una presa di distanza dal rosa poiché femminile. Ciò produce
una reazione interna al gruppo dei pari che dà luogo a un processo di
revisione e risignificazione del simbolo – il rosa – al centro della tensione.
L’esito è una rottura delle pratiche tradizionali che non comporta, però, la
creazione di un nuovo ordine simbolico. La soluzione individuata dal gruppo
dei pari, infatti, si muove nella direzione di una normalizzazione, ma non di
una rivoluzione delle gerarchie e dei rapporti di potere tra i generi. In altre
parole, così come gli esperti (come visto nel quinto capitolo) rassicurano i
genitori dicendo che giocare con le bambole non è necessariamente da
femmine, Alessio e i suoi coetanei, accettando la sfida di «fare genere» in
modo non convenzionale, sentono in bisogno di giustificare questa scelta, e
ci dicono che in fondo non c’è nulla di male a usare il rosa perché il rosa
rimanda a qualcosa di diverso rispetto al femminile. Il femminile come Altro
inferiorizzante non è in discussione. L’ordine di genere è salvo.
Eppure qualcosa è cambiato.
1
Poiché l’omosessualità è percepita come non normativa, non sono previsti copioni condivisi per il
corteggiamento tra due persone dello stesso sesso.
2
Un indicatore del carattere normativo dell’ordine di genere è il fatto che, nell’immaginario, il
ballerino è gay e “camionista” è un termine usato per riferirsi alle lesbiche mascoline.
3
Per un’analisi approfondita dei conflitti attorno al tema della paternità si veda Petti, Stagi (2015).
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