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Questioni di genere

Sguardi interdisciplinari su linguaggi,


pratiche, relazioni, corpi, rappresentazioni
collana diretta da
Irene Biemmi, Stefano Ciccone, Barbara Poggi

comitato scientifico
Sandro Bellassai, Sonia Bertolini, Caterina Botti, Giuseppe Burgio,
Alessandra Gissi, Silvia Leonelli, Francesca Marone, Catia Papa,
Cirus Rinaldi, Giulia Selmi, Luisa Stagi, Giovanna Vingelli
immagine in copertina:
JeongMee Yoonm, Jeeyoo and Her Pink Things, Light jet Print, 2008

© 2017 Rosenberg & Sellier

Pubblicazione resa disponibile


nei termini della licenza Creative Commons
Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0

www.rosenbergesellier.it

Rosenberg&sellier è un marchio registrato utilizzato per concessione della società Traumann s.s.

prima edizione italiana, dicembre 2017

isbn 978-88-7885-569-4

LEXIS Compagnia Editoriale in Torino srl


via Carlo Alberto 55
I-10123 Torino
rosenberg&sellier@lexis.srl
INTRODUZIONE

Mentre stiamo finendo di scrivere questo testo, in Gran Bretagna si stanno


discutendo le nuove regole della Advertising Standards Authority (ASA)1,
per rendere più rigidi i criteri di valutazione di pubblicità che contengano
evidenti stereotipi di genere2, che incoraggino le diseguaglianze tra uomini
e donne o che reifichino il corpo femminile. Le nuove regole verranno
scritte nei prossimi mesi sulla base di un rapporto3 − a cura dell’ASA e
intitolato Rappresentazione, percezione e danno − sulla presenza di
stereotipi di genere nelle pubblicità del Regno Unito. Il rapporto riporta
alcuni tipi di pubblicità che saranno vietate con l’introduzione delle nuove
regole: sarà, per esempio, permessa una pubblicità con una donna che
pulisce, mentre verrà vietata una in cui i componenti di una famiglia fanno
confusione in casa per poi lasciare sola una donna a mettere in ordine; non
si potrà mostrare che un’attività è inadatta a una ragazza perché tipicamente
associata ai ragazzi o viceversa, oppure una in cui un uomo è mostrato
incapace di svolgere semplici compiti domestici o di cura dei figli.
Una delle pubblicità che ha mosso questa iniziativa, e molte polemiche, è
stato lo spot di un latte in polvere che mostrava come nel futuro immaginato
di una bambina ci fosse una carriera da ballerina mentre in quella di un
bambino una carriera da matematico4, sulla stessa linea di un’altra
pubblicità di pannolini5 circolata in Italia nel 2015, che recitava «lei penserà
a farsi bella, lui a fare goal, lei cercherà tenerezza, lui avventure, lei si farà
correre dietro, lui invece ti cercherà».
Tra le motivazioni per la scelta di una politica di vigilanza su queste
pubblicità, nel suddetto rapporto si afferma che esse «hanno conseguenze
sugli individui, sull’economia e sulla società» e che «anche se la pubblicità
è solo uno dei tanti fattori che contribuisce alle discriminazioni basate sul
genere, standard più rigidi possono svolgere un ruolo importante nel
combattere le disuguaglianze»6.
Ovviamente, questa notizia è stata subito oggetto di polemica e di
derisione da parte di alcuni giornali italiani, che sono usciti con titoli come:
Lui lavora e lei cucina? In Gran Bretagna sarà vietato mostrarlo negli
spot. L’autorità britannica che vigila sulla propaganda commerciale contro
gli stereotipi di genere. Ecco l’ultima follia del politicamente corretto7.
Come sempre, cioè, ogni tentativo di mettere in discussione l’ordine sociale
di genere produce scherno e altre forme di una “resistenza” sociale.
Questo lavoro si occupa degli stereotipi di genere, di come siano rilevanti
nella socializzazione e nella riproduzione di genere, di come siano
naturalizzati e rassicuranti e di come, per questo, sia difficile – ma non
impossibile − metterli in questione o decostruirli. Su di essi si basa l’ordine
sociale di genere che è l’ambito organizzato di pratiche umane e relazioni
sociali che danno forma alle maschilità e alle femminilità, secondo la
celebre definizione di Rawyen Connell (2006) che riprenderemo più volte
nel corso del testo.
L’ordine simbolico di genere è un prodotto storico-culturale che definisce
e legittima gerarchie e rapporti di potere, il cui farsi e disfarsi è sotto gli
occhi di tutte e tutti, e proprio per questo non viene visto. Il momento
migliore per vederlo è quando viene infranto, quando il disordine minaccia
l’ordine, quando le prescrizioni vengono violate. È il momento in cui si
attiva la collaborazione sociale che ripara la trasgressione, e che lavora per
ripristinare almeno l’apparenza dell’ordine (Gherardi, Poggio 2003: 6).
Il 16 marzo scorso, il settimanale “Time” ha intitolato la copertina Beyond
He ore She: The Changing Meaning of Gender and Sexuality 8, cioè «Oltre
lui e lei: come cambia il significato di genere e sessualità». Poco prima, a
gennaio, il National Geographic ha dedicato il numero monografico a
quella che nel titolo è definita “Gender Revolution” 9.

Fig. 1. Le copertine di Time e National Geographic


Il caso del National Geographic è stato così rilevante che la rivista AG-
AboutGender gli ha dedicato lo spazio Incursioni del primo numero del
2017, con un articolo, a cura di Alessandra Gissi, dal titolo La ‘rivoluzione’
di gennaio. Genere e identità a partire da un numero speciale di National
Geographic 10. La portata storica di questo avvenimento è resa esplicita
dalla (auto)definizione di rivoluzione che «da un verso sancisce il
posizionamento della rivista rispetto all’argomento, dall’altro ambisce a
legittimare e decretare l’acquisizione del tema delle identità di genere nel
discorso pubblico e scientifico-divulgativo» (Gissi 2017: 413). Proprio la
rivista National Geographic, infatti, che in passato si è caratterizzata per
una visione “istituzionalizzata” nella rappresentazione e definizione delle
categorie sociali, ratifica che i corpi e le identità sociali non sono dunque
dati di natura ma una costruzione sociale e culturale da contestualizzare
dentro processi storico-sociali. Le due copertine, una per l’edizione
destinata alle edicole e l’altra per gli abbonamenti, sono entrambe assai
significative. I sette giovani ritratti nella prima sono chiamati «ad
autodefinirsi e fissare questa definizione dentro lo scatto» (ivi: 412).
Sembra una qualsiasi foto di gruppo – di amici, familiari, compagni – ma
invece ha il fine di «descrivere l’ampio “spettro” delle “identità e delle
espressioni” del genere, di affermare che l’ordine binario dei generi (M/F) è
“innaturale” al cospetto di una molteplicità di soggetti e soggettività e
inadeguato a rappresentare non comunità patologizzate ma l’ordinario»
(ibidem). La seconda copertina è una fotografia che ritrae Avery Jackson,
una ragazzina transgender di nove anni, accompagnata dall’affermazione:
«la cosa migliore dell’essere femmina è che adesso non devo più fingere di
essere maschio» (ivi: 413). Semplice ed efficace, ha difatti scatenato molte
reazioni «orgogliose, grate, furiose o scandalizzate». Susan Goldberg, prima
donna a dirigere la rivista, ha così commentato le molte reazioni: «i ritratti
di tutti i bambini sono belli. In particolare abbiamo apprezzato il ritratto
forte e orgoglioso di Avery. Abbiamo pensato che, in un colpo d’occhio,
riassumesse il concetto di “rivoluzione di genere”. Tutti ci portiamo
addosso etichette applicate dagli altri. L’etichetta più resistente, e quella che
probabilmente influenza di più la nostra vita, è la prima che ci viene
assegnata: “è un maschietto!” o “è una femminuccia!”» (ibidem).
Negli ultimi mesi è anche successo che uno dei primi atti del presidente
del Stati Uniti Trump fosse annullare il pßrovvedimento con cui il suo
predecessore Obama aveva garantito protezione ai membri della comunità
LGBTQI, consentendo loro, tra le altre cose, di andare nei bagni che ritengono
più affini alla propria identità di genere. Poco tempo dopo il “New York
Times” ha pubblicato un articolo dal titolo Raising a Transgender Child. Al
centro, il desiderio di un bambino di quattro anni − assecondato dai genitori
− di presentarsi alla scuola materna «con il suo vero sé» ovvero come una
bambina di nome Ellie. Secondo Alessandra Gissi, anche questi successivi
episodi sono esito della risonanza, dell’onda lunga di approfondimenti,
dibattiti, commenti e contrasti provocati dall’uscita del numero del National
Geographic, che a sua volta è il segnale istituzionale, e quindi
estremamente emblematico, del cambiamento in atto (2017).
Se il cambiamento genera sempre reazioni – una sorta di risacca che nel
testo chiameremo “controattacco”, non stupisce che possa essere in atto un
processo di ri-genederizzazione, che è uno dei presupposti da cui parte
questo lavoro.

Fig. 2. Campagna “BusdellaLibertà” sui muri di Roma, settembre 2017

La figura 2 mostra una recente campagna – ideata da Citizengo e


Generazione Famiglia11– che ha proprio la funzione di richiamare nelle
persone, a cui capiterà di vederla12, un insegnamento, appreso nell’infanzia,
sull’importanza di rigidi confini per i destini di genere. Una tale
affermazione – i bambini sono maschi e le bambine sono femmine – mostra
quanta paura e avversione, finanche panico, possa generare l’idea che la
realtà possa essere diversa da quella che si è conosciuta durante i processi di
socializzazione ed educazione. L’ordine sociale di genere infatti è qualcosa
che apprendiamo fin da piccolissime/i ed è un principio organizzatore così
pervasivo da divenire uno dei principali modi che si utilizzano per dare
senso al mondo circostante. Come tutte le costruzioni sociali, infatti, anche
l’ordine di genere è introiettato e naturalizzato attraverso un processo
complesso nel quale corpi e identità di genere plasmate dal processo di
socializzazione (livello individuale), si confrontano con stereotipi e
aspettative sociali (livello interazionale), in un contesto organizzativo
(livello macro/istituzionale) tutt’altro che neutro dal punto di vista del
genere. Il genere può, dunque, essere concepito come una “struttura
sociale” (Risman 2012; 2018), persistente, ma non immutabile, dal
momento che un cambiamento in uno dei tre livelli che lo costituiscono
(individuale, interazionale e istituzionale) ha riflessi sugli altri. Nessun
ordine di genere è per sempre, ma la rappresentazione socialmente costruita
di due generi, diversi e complementari, rassicura. E il cambiamento fa
paura. Ogni qualvolta, dunque, che rischia di emergere o di rendersi
evidente il carattere artificiale di tale costruzione binaria, si attivano dei
meccanismi riparatori volti a richiamare la norma e a rassicurare sulla
naturalità delle realtà che conosciamo. Ed è proprio questa la funzione di
campagne simili: richiamare, attraverso la messa in risonanza, qualcosa che
si tende a considerare come giusto e naturale perché appreso precocemente
attraverso il sistema valoriale con cui siamo stati “programmate/i” dalla
società.
In questo libro ci si occuperà proprio di questo, dando conto di una
ricerca, svolta per conto del Comune di Genova (Ufficio pari opportunità),
su alcune scuole dell’infanzia. Oggetto della ricerca sono gli stereotipi di
genere, strumento essenziale nel processo di semplificazione e ancoraggio
dell’ordine di genere. Essendo una semplificazione rigida e grossolana della
realtà, gli stereotipi di genere rappresentano una forma di difesa contro la
complessità del mondo (Leccardi 2007) che, specificando come ci si aspetta
che donne e uomini siano e agiscano, giustificano di fatto credenze e
comportamenti delle attrici e degli attori sociali. In quest’ottica, dunque, gli
stereotipi assicurano la continuazione dell’ordine e della gerarchia di
genere, favorendo il mantenimento di un ordine definito da disuguaglianze
e asimmetrie di potere e giustificando come naturali, desiderabili e
moralmente corretti, certi ruoli e modelli di maschilità e femminilità.
In questo lavoro mostreremo come gli stereotipi di genere rappresentino lo
sfondo dell’interazione quotidiana fin dalla scuola dell’infanzia, e di come
attrici e attori, partecipino, spesso inconsapevolmente, alla loro continua
riproduzione. Tuttavia, gli stereotipi sono sì persistenti, ma non immutabili,
e, come vedremo, bambine e bambini hanno un ruolo di rilievo nella co-
costruzione della realtà anche in direzione del cambiamento, poiché
soggetti dotati di agency e protagonisti di un processo di “riproduzione
interpretativa” (Corsaro 1992; 2005; 2010) dagli esiti non sempre
prevedibili.
Nella prima parte del libro si ricostruirà la contestualizzazione teorica e
metodologica della ricerca. Il primo capitolo ripercorrerà come sono nate e
poi si sono sviluppate le ipotesi, ricostruendo il contesto da cui sono emerse
le prime domande di ricerca. Il presupposto da cui siamo partite, infatti, è
che sia in atto un processo di ri-genderizzazione, che riguarda soprattutto
l’infanzia, e che tale fenomeno si ripercuota maggiormente sulle classi
sociali più fragili. Nel secondo capitolo saranno esplicitati i concetti
utilizzati nella ricerca; si tratta di una sorta di glossario strumentale a
rendere più comprensibili, in particolare a un pubblico più ampio e non
necessariamente di addette/i ai lavori, le riflessioni contenute nel libro. Il
disegno della ricerca è stato costruito per rispondere alla declinazione –
operativizzazione – dei concetti utilizzati nella costruzione delle ipotesi
della ricerca, prevedendo un impianto metodologico complesso, che si
avvale di diverse tecniche e strumenti, di cui si darà conto nel terzo
capitolo. In questo capitolo, inoltre, si fornirà un’accurata spiegazione di
come la parte successiva, si strutturi sulla base dei diversi intenti e obiettivi
conoscitivi. Il quarto capitolo, infatti, ricostruirà gli atteggiamenti e gli
stereotipi delle insegnanti partecipanti alla ricerca, nella considerazione
dell’importanza del loro ruolo di agenti di socializzazione. Il quinto
capitolo, il cuore di questo lavoro, sarà incentrato sull’analisi della parte
etnografica, in cui le note, utilizzate come affreschi dal campo,
rappresentano le basi su cui si dipanano le riflessioni. Il sesto e settimo
capitolo, infine, cercheranno di porsi dalla parte di bambine e bambini,
ricostruendo le loro visioni rispetto al genere.
Libro e ricerca sono frutto di un lavoro comune delle due autrici, parte di
un più ampio percorso di riflessione, formazione, scrittura e insegnamenti
condivisi in molti anni. Per questo motivo è particolarmente difficile
riconoscere i contributi individuali nelle diverse parti, tuttavia, a meri fini
accademici, sono da attribuire i capitoli quinto e settimo a Emanuela
Abbatecola e primo e sesto a Luisa Stagi.
Questo, però, non è stato solo un percorso a due, perché abbiamo avuto la
fortuna di condividerlo con coloro che animano l’associazione AG-
AboutGender e, in particolare, con tutte le colleghe e tutti i colleghi della
redazione della nostra omonima rivista, che ringraziamo sinceramente per
la straordinaria esperienza intellettuale e umana che ci regalano da diversi
anni.
Infine, desideriamo ringraziare il Comune di Genova – Ufficio Pari
opportunità – nelle persone che hanno promosso e animato il progetto STEP,
da cui nasce questo libro, ma anche gli altri attori istituzionali che in questi
anni ci hanno sostenuto e accompagnato, credendo nel nostro lavoro, tra i
quali, in particolare, vogliamo ricordare il DiSFor (Dipartimento di Scienze
della Formazione dell’università di Genova) e Palazzo Ducale-Fondazione
per la cultura.
Un ringraziamento speciale, infine, alle insegnanti delle scuole
dell’infanzia che hanno partecipato al progetto e che, mettendosi in gioco
con onestà intellettuale, ci hanno accolte con grande entusiasmo e spirito di
collaborazione.
Questo libro è dedicato ai nostri genitori che hanno cercato in ogni modo,
per quanto potevano, di renderci libere dagli stereotipi di genere.

1
ASA è l’organizzazione di autoregolamentazione dell’industria pubblicitaria del Regno Unito.
2
Le nuove regole contro gli stereotipi di genere nelle pubblicità non sono ancora state scritte con
precisione, ma solo delineate dalle conclusioni dello studio: saranno introdotte dall’anno prossimo,
dopo essere state scritte dall’organizzazione gemella dell’ASA, la CAP, che si occupa di preparare i
codici di comportamento.
3
https://www.asa.org.uk/asset/2DF6E028-9C47-4944-850D00DAC5ECB45B.C3A4D948-B739-
4AE4-9F17CA2110264347/.
4
https://www.youtube.com/watch?
list=PLiHFvXh4F1n4gD5E05hEyG_1s2Xj86c4N&v=f_lSZRtWGU0.
5
https://www.youtube.com/watch?v=R2R-6T-CB34.
6
http://www.ilpost.it/2017/07/19/regno-unito-pubblicita-stereotipi-genere-sessismo/.
7
http://www.ilfoglio.it/cultura/2017/07/23/news/gran-bretagna-pubblicita-ultima-follia-del-
politicamente-corretto-145670/.
8
http://time.com/magazine/us/4703292/march-27th-2017-vol-189-no-11-u-s/.
9
http://www.nationalgeographic.com/magazine/2017/01/gender-issue-reader-comments-faq/.
10
“National Geographic”, 2017, 6, 1, pp. 410-418.
11
Tra gli organizzatori anche Massimo Gandolfini, Portavoce del Family Day.
12
Oltre ai manifesti sono previsti bus con le medesime scritte che gireranno per alcune città
italiane.
1. LE IPOTESI DELLA RICERCA
Luisa Stagi

Le riflessioni contenute in questo lavoro si appoggiano a una ricerca-


azione svolta nel corso di due anni per il Comune di Genova: il progetto
1
STEP – acronimo di Stereotipi Educazione e Pari opportunità – composto in
parte da un percorso di ricerca e in parte da un percorso di formazione, a cui
hanno partecipato insegnanti e dirigenti di alcune scuole dell’infanzia
genovesi.
Oggetto della ricerca è la riproduzione degli stereotipi di genere nelle
scuole dell’infanzia: la nostra analisi si è mossa dal presupposto che i
modelli e i ruoli di genere siano costantemente prodotti, riprodotti e
veicolati attraverso pratiche e modalità che sfuggono al controllo e alla
coscienza dei soggetti, poiché l’ordine sociale di genere è qualcosa di
invisibile e dato per scontato. L’ipotesi da cui siamo partite è che sia in atto
un processo di ri-genderizzazione – un ritorno a più marcati confinamenti di
genere – e che questo riguardi soprattutto le categorie sociali più fragili.
Gli stereotipi, che descrivono come crediamo che il mondo sia, infatti, si
trasformano in prescrizioni su come il mondo dovrebbe essere. Una volta
appresi, poi, stereotipi e pregiudizi sono resistenti al cambiamento: le
persone, per esempio, abbracciano aneddoti che rinforzano i loro pregiudizi,
mentre ignorano l’esperienza che li contraddice. L’immagine stereotipata,
quindi, ha effetti sulla formazione delle identità e delle capacità delle
persone, a un punto tale che può anche arrivare a influenzare e ad arginare
lo sviluppo delle potenzialità dell’individuo, fino a condizionare lo sviluppo
della sua personalità (Pojaghi 2011).
La “pericolosità” degli stereotipi consiste nella loro capacità di persistere
nel tempo; difatti, la semplicità di queste immagini riduttrici della realtà, fa
sì che esse siano tramandate di generazione in generazione, mantenendo
spesso in vita concetti di per sé già superati dalle leggi e dalla cultura e
fungendo così da “veicoli del senso comune” (Priulla 2011: 136). Come ha
mostrato Pierre Bourdieu, peraltro, gli stereotipi di genere sono tra gli
stereotipi sociali più potenti e anche i più difficili da decostruire «perché ciò
implica una denaturalizzazione delle rappresentazioni sociali e una
decostruzione di questo mondo incorporato sotto forma di habitus»
(Bourdieu 1998: 16).
Forse ancor più comprensibile, in questo senso, è parlare di “attitudini”
maschili e femminili, di come queste vengano considerate caratteristiche
naturali dell’essere uomo o donna e di come invece possano rappresentare
delle “profezie che si autoadempiono”, esito dell’interiorizzazione di
stereotipi; come ben esplicitato nei manuali di sociologia, infatti:
«l’attitudine è una persistente inclinazione che spinge l’individuo verso
oggetti, situazioni, persone, concetti o credenze. Le attitudini sono apprese
e si possono considerare spesso come espressioni di valori o credenze»
(Giner 1999: 322).
L’altro aspetto che incentiva la persistenza nel tempo degli stereotipi di
genere consiste nel senso di “rassicurazione” che inducono in coloro che,
inconsciamente, li mantengono attivi: dinanzi al confronto con una realtà
complessa e mutevole nel tempo, gli stereotipi ne restituiscono una visione
parziale e inalterata che, ben lungi dall’essere una visione completa del
mondo, ha il vantaggio di far sentire le persone a proprio agio, in quanto le
colloca in un ambiente limitato, familiare, in cui potersi comportare
secondo certe previsioni (Priulla 2011: 137).
Tale “normalità” è particolarmente rassicurante in epoche di transizione in
cui si trovano a convivere modelli differenti di socializzazione di genere.
Nei momenti di anomia, cioè di mancanza, o sovrabbondanza, di norme, è
più facile fare riferimento al noto, al conosciuto, a ciò che viene chiamato
“naturale”. Essendo il genere un territorio di costruzione e rafforzamento
dell’identità, agire sui suoi confini significa lavorare sui sostegni identitari.
Non stupisce perciò che in un’epoca di crisi economica e di cambiamento
delle relazioni di genere, riappaiano modelli e corporeità di genere di tipo
tradizionale: come hanno mostrato alcune ricerche a ridosso del debutto
della crisi economica, gli uomini che avevano perso il lavoro ri-ancoravano
la loro costruzione identitaria al territorio della paternità e della maschilità
di tipo tradizionale (Jamoulle 2008), mentre i body builder, raccontati in
molte ricerche degli stessi anni (Bridges 2009) negoziavano i confini di una
maschilità, messa in discussione dalla condizione di fragilità occupazionale,
con un lavoro sul rafforzamento della maschilità corporea rappresentata
dall’espansione dei muscoli.
La ri-genderizzazione può quindi avere una funzione di strumento di
negoziazione individuale rispetto alle spinte contraddittorie del
cambiamento e della persistenza dei modelli di genere proposti a livello
sociale, ma certamente è anche stata intercettata dal sistema consumistico
che ne ha immediatamente compreso le potenzialità in termini commerciali.
Come spesso avviene in un’epoca a elevata riflessività, non si può stabilire
nettamente quale sia la causa e quale sia l’effetto di un fenomeno, è tuttavia
possibile cercare di comprendere come i diversi fattori interagiscano,
collaborando alla diffusione e alla circolazione di un certo ordine
discorsivo.

1.1. Da dove nascono le ipotesi

Proprio nel periodo in cui stavamo iniziando a immaginare la ricerca, ci


siamo trovate immerse in alcune polemiche sulla “genderizzazione” di
alcuni prodotti per l’infanzia, prima confezionati come “neutri”.
Circolava già da qualche tempo la polemica intorno a un famoso gioco di
costruzioni che aveva di recente subito una genderizzazione: un gioco da
sempre neutro aveva iniziato a differenziare le confezioni e le costruzioni
dei suoi mattoncini per le bambine e per i bambini. E, sempre nello stesso
periodo, le famose uova di cioccolato con all’interno una piccola sorpresa,
passione di diverse coorti di bambine e bambini, hanno visto la
trasformazione sia della confezione esterna – il rosa e l’azzurro si sono uniti
al più neutro amaranto – sia delle sorprese interne, ora differenziate in
giochi femminili e maschili.

Fig. 1. Rachel Giordano nella pubblicità del 1981 e nella riproposizione del 20142
Genderizzare significa caratterizzare qualcosa affinché sia immediatamente chiaro il
genere “di riferimento”

Il termine genderizzazione è il tentativo di traduzione dei concetti


anglosassoni di “gendering” e “engender(ed)”, che hanno l’intento di
mettere in evidenza la qualità continua e processuale delle relazioni di
genere.
In termini semplici, qualcosa è genderizzato quando il suo carattere è o
maschile o femminile, oppure quando presenta modelli differenziati per
genere. Rosa e azzurro, per esempio, sono i colori “di genere”, il primo
considerato “femminile” e il secondo “maschile”. Gendered è anche
utilizzato come verbo e dunque dà espressione all’azione, o al concetto di
«fare il genere» (Pilcher, Whelehan 2004).
Già da qualche anno molti giochi, attrezzi sportivi e oggetti della vita
quotidiana, prima completamente neutri, hanno iniziato a genderizzare
l’estetica. Unnecessarily Gendered Products3, che potrebbe tradursi in
“prodotti inutilmente sessuati”, per esempio, è il nome di un piccolo blog
che da tempo raccoglie foto e testimonianze della recente
“genderizzazione” di alcuni oggetti quotidiani. In questo spazio si possono
trovare moltissime foto di oggetti genderizzati rintracciati da chi partecipa
alla sfida lanciata dal blog: dai tappi per le orecchie alle sigarette, dai
lassativi agli accendini, dalla forma della pasta ai dolci. Poco o nulla
sembrerebbe sfuggire alla segmentazione per genere, nel packaging e nel
colore, spesso ridicolizzata dalle semplici ma efficaci domande che
accompagnano la pubblicazione di queste immagini e che aiutano,
attraverso il paradosso, a svelare la totale inutilità di tale produzione
diversificata.

Fig. 2. La genderizzazione delle penne Bic, recente oggetto di polemiche e di satira4


Quando abbiamo iniziato a costruire la ricerca, il fenomeno della
cosiddetta “pinkizzazione” da tempo occupava dibattiti e servizi
giornalistici5, che segnalavano anche un altro fenomeno piuttosto evidente e
significativo: il forte ritorno per le bambine della figura della principessa,
soprattutto a opera della Walt Disney. La scrittrice Peggy Orenstein, nel suo
best seller del 2011 Cinderella ate my daughter, teorizza a questo proposito
le 3 P – Pink, Pretty, and Princess – come fenomeni connessi e prodotti da
esigenze di marketing.

Pinkizzazione è la traduzione di “Pinkification”, un neologismo inglese utilizzato per


indicare il processo per cui un prodotto o un servizio si avvale del colore rosa per
attrarre il pubblico femminile.

Un “rinnovamento cromatico” che in alcuni casi comprende anche una


caratterizzazione formale con linee morbide, curvilinee e una maggiore
presenza di decorazioni (fiori, cuori e altri segni) ed effetti luccicanti
(glitter, brillantini).
L’associazione tra rosa e femminile, in particolare nel contesto
occidentale, è molto radicata, sebbene non così lontana nel tempo. Fino agli
anni Trenta e Quaranta del secolo scorso il rosa, assimilato al rosso, era
utilizzato preferibilmente per l’abbigliamento dei maschi, mentre il blu
ritenuto più freddo e “calmo” per le bambine, anche se questo non
rappresentava una regola (Hains 2013).

Fig. 3. La pubblicità di laptop per maschi e femmine: diversi colori e diverse funzioni
Secondo Jo Paoletti, autrice di Pink and Blue: Telling the Girls From the
Boys in America (2012), sarebbero state le spinte consumistiche a
genderizzare i prodotti per l’infanzia, ma il percorso che ha portato a
“colorare” il genere non è stato affatto né rapido né lineare. Per secoli
bambini e bambine hanno indossato abiti bianchi per rendere più agevole il
lavaggio. Rosa e azzurro, insieme a una varietà cromatica sui toni del
pastello, arrivarono come colori per l’infanzia a metà del XIX secolo.
Sebbene infatti i due colori fossero diventati significanti di genere poco
prima della Prima guerra mondiale, ci volle diverso tempo prima che si
diffondessero nella cultura popolare6. Dagli anni Quaranta in avanti, in
seguito a studi di marketing che hanno raccolto e interpretato le preferenze
dei consumatori americani, e anche grazie ad alcune tappe storiche legate a
personaggi influenti – efficacemente ricostruite nel video How did pink
become a girly color? 7 – il rosa comincia a essere associato alla
femminilità, attestandosi poi negli anni Cinquanta, in concomitanza con la
comparsa della Barbie.
Dalla metà degli anni Sessanta, in seguito alle pressioni dei movimenti
femministi, ci si muoverà invece verso una neutralizzazione del genere, che
nell’abbigliamento produce la cosiddetta moda Unisex. Tale tendenza
permarrà fino ai primi anni Ottanta, quando, secondo l’autrice, da un lato
aumenta il consumismo intorno all’infanzia8 sotto la spinta del marketing e
della pubblicità, dall’altro, le giovani madri, convinte che le conquiste del
femminismo siano ormai attestate, abbracciano senza troppa cautela la
genderizzazione – fatta di pizzi, capelli lunghi e Barbie – nella convinzione
che non possa più di tanto influire sulle traiettorie biografiche femminili9.
Si ritiene, inoltre, che, a partire dagli anni Ottanta, con la diffusione della
diagnosi prenatale e la possibilità di conoscere il sesso del nascituro, la
divisione di rosa (per le bambine) e blu (per i bambini) sia quindi divenuta
abituale, insieme a una serie di associazioni stereotipate in relazione al
genere legate all’infanzia, sostenute da strategie di marketing che nel tempo
sono divenute sempre più sofisticate10 (Linn 2005: 400).
Da segnalare, tuttavia, come di recente il rosa sia invece divenuto simbolo
della protesta femminile: con il pussy-hat – il berretto rosa – simbolo della
marcia delle donne contro Donald Trump e con Ni una menos, lo sciopero
globale del marzo 2017, dove il rosa è stato abbinato al nero, si è avviata
una “inversione dello stigma”, un processo attraverso il quale un’identità
fino ad allora considerata come destino si trasforma in affermazione
culturale e viene vissuta con orgoglio (Wieworka 2001).

Fig. 4. Il pussy-hat alla Marcia delle Donne a Washington

Ma cosa significa genderizzare gli oggetti della vita quotidiana? Il rosa, i


fiori e i fiocchi sono per le femmine; il blu, il celeste e tutti gli altri colori
per i maschi, come anche le macchine, lo sport, i soldatini. Sono
confinamenti talmente ovvi, che non si mettono in discussione, e chi lo fa
rischia di subire una stigmatizzazione. E cosa rappresentano i fiori, il rosa, i
fiocchi e i lustrini se non il corrispettivo simbolico di attributi come la
delicatezza, la frivolezza, l’apparenza? Caratteristiche che culturalmente
vengono valorizzate come qualità femminili e che le bambine devono
apprendere fin da piccolissime. Di contro, ai maschi è lasciata una gamma
molto più vasta di colori e di territori simbolici, che hanno a che fare con lo
spazio pubblico, con la competitività, con la fisicità, con
quell’addestramento alla virilità11, che, come ha spiegato Stefano Ciccone
(2009) – sempre labile e provvisoria, poiché da confermare continuamente
attraverso l’esibizione del controllo delle emozioni – rappresenta anch’essa
una gabbia e una limitazione.
Gli effetti di questa segmentazione dei valori, infatti, non si manifestano
solamente sotto forma di oggetti, ma abbracciano ogni aspetto della vita del
bambino e della bambina (ma anche dell’adolescente e dell’adulto/a), senza
risparmiare gusti, carattere o personalità. Da una donna ci si aspetta che
abbia un certo tipo di passioni, che si dedichi a un certo tipo di attività, che
apprezzi un certo tipo di cose e che abbia un certo tipo di atteggiamento; lo
stesso vale per un uomo, anche se con un diverso sistema valoriale di
riferimento. Questo processo ovviamente ha effetti nei confinamenti delle
traiettorie biografiche, negli immaginari, negli orizzonti di senso,
riverberandosi anche sulle scelte affettive, su quella formative prima e
lavorative poi.

Fig. 5. Bavaglini azzurri da maschi/dottori e rosa da femmine/ballerine


Rebecca Hains, autrice del lavoro Why pinkification matters?, sostiene che
gli esiti di questo fenomeno non sono chiaramente legati di per sé al colore
rosa, ma all’utilizzo strumentale di questo colore, poiché:
– non indica soltanto quali sono le “cose da bambine”, ma esclude la
possibilità di effettuare scelte “neutre”;
– si rivolge principalmente alle bambine perché sono in una fascia d’età
vulnerabile e facilmente influenzabile;
– insegna gli stereotipi alle bambine e ai bambini, limitando il modo di
percepire se stessi e gli altri;
– esclude ed emargina i bambini e le bambine che non si identificano in
ruoli e stereotipi tradizionali12.

.
Fig. 6. Immagine tratta dal video Gender box
Nel video Gender box 13 si riesce efficacemente a rappresentare come le
aspettative di genere agiscano nel confinamento di due giovani all’interno
della loro “scatola”. L’immagine mostra come modelli, ruoli e aspettative di
genere immobilizzino le azioni e le scelte dei due protagonisti e come il
loro spazio sia confinato e sorvegliato da figure adulte.
Una recente ricerca (Bian, Leslie, Cimpian 2017), realizzata attraverso una
serie di esperimenti, ha cercato di mostrare come gli stereotipi assorbiti da
bambine e bambini in età precoce porti a una diversa percezione delle
proprie attitudini e delle proprie capacità. Lo studio, condotto su 400
partecipanti, ha cercato di individuare il momento in cui nell’infanzia
cambia la valutazione delle capacità di genere; il periodo pare potersi
collocare tra i cinque e i sei anni. Fino a quel momento, bambini e bambine,
chiamati a dare valutazioni sul proprio genere, fornirebbero risposte
identiche; in seguito – intorno ai sei sette anni – le risposte mutano. Gli
esperimenti consistevano nel raccontare una serie di storie con personaggi
davvero brillanti, furbi, geniali, senza svelare chi fosse il/la protagonista.
Quando poi veniva chiesto alle e ai partecipanti di cinque anni di indicare,
tra due figure maschili e due femminili, quale fosse secondo loro, i bambini
sceglievano quasi sempre un maschio e le bambine una femmina. Solo un
anno più tardi, i maschi davano la stessa risposta e le femmine la
modificavano: per lo più indicavano anche loro il maschio.
In un altro esperimento venivano proposti giochi da tavolo di due
categorie: per bambini/e “molto intelligenti” e per bambini/e “che si
impegnano al massimo”. Le femmine di sei, sette anni, dimostravano di
apprezzare quanto i maschi il secondo gioco; meno dei maschi il primo.
Secondo questa ricerca, con l’inizio della scuola l’esposizione ai media, il
giudizio dei pari, i bambini e le bambine assumono la prima considerevole
dose di stereotipi sul “genere” dell’intelligenza, cominciando a
interiorizzare le aspettative rispetto alle loro capacità e attitudini.

Fig. 7. Nell’immagine di questa pubblicità, ritirata dopo le polemiche che ha fatto scaturire, lui è un
“piccolo scolaro”, lei è “socievole”

La segregazione formativa, come spiegano Biemmi e Leonelli (2016), può


essere interpretata come una sorta di cartina al tornasole delle
diseguaglianze di genere tuttora presenti nel nostro sistema scolastico e
accademico. Si tratta di una suddivisione sessista, insita nel nostro
ordinamento scolastico, che conduce alunni e alunne verso “indirizzi
maschili” (materie tecnico-scientifiche) e “indirizzi femminili” (materie
umanistiche). Il fenomeno che emerge già a partire dalla scelta della
secondaria superiore, diventa più evidente nel passaggio all’università14:
solo il 23 per cento delle ragazze si iscrive a ingegneria e il 26 per cento
nell’area scientifica (ivi: 65). «Le scelte delle studentesse e degli studenti
sono vincolate da un immaginario sessista che impone alle une e agli altri
percorsi ritenuti “adatti” al proprio genere di appartenenza» (ivi: 66). È
come se esistessero due curricula: uno dichiarato ed evidente in cui ragazzi
e ragazze hanno ormai «pari cittadinanza all’interno delle mura scolastiche»
e “uno nascosto” in cui si collocano gli orizzonti di senso acquisiti, gli
immaginari, i confinamenti delle traiettorie ritenute possibili, in cui
diventano variabili significative il tempo, le aree di competenza, le
caratteristiche cognitive ritenute importanti, le attese delle varie figura
adulte di riferimento (Mapelli et al. 2001 cit. in Biemmi, Leonelli 2016).
La famiglia, con il suo capitale culturale ed economico, gioca ancora un
ruolo fondamentale prima nelle scelte e poi anche negli esiti formativi,
ovvero nella visione del futuro e della sua percorribilità. Nelle famiglie con
un buon capitale culturale i figli e le figlie si indirizzano verso i licei, ma
«le femmine più dei maschi» e lo stesso vale per l’università. Secondo
Biemmi le famiglie investono più sulla prosecuzione degli studi delle figlie
che su quella dei figli, incoraggiando i percorsi universitari. Queste
aspettative, interiorizzate dalle ragazze, sono probabilmente tra i fattori15
che concorrono all’ottenimento di migliori risultati.
La segregazione formativa è uno degli esiti più evidenti della
socializzazione di genere. Stereotipi e pregiudizi funzionano proprio così:
che quanto gli altri si aspettano da noi diventa ciò che ci aspettiamo da noi
stesse/i, diventa un modo di essere; le caratteristiche che sono attribuite al
gruppo entro il quale siamo costrette/i appartenere diventano parte di noi,
della nostra identità. Il genere è infatti «un insieme di attributi,
caratteristiche psico-attitudinali e comportamenti che si ritengono adeguati
a un uomo o a una donna, e prima ancora a un bambino o a una bambina,
esseri sociali» (Busoni 2000: 22).

Fig. 8. Body per bambine e bambini: colori e messaggi differenti


Nei due body ritratti nella foto, diversi per colore e messaggi perché
destinati a un maschio e una femmina: lei è rosa, lui è azzurro; lei è jolie
(carina), lui è courageux (coraggioso); lei è têtue (testarda), lui è fort
(forte); lei è douce (dolce), lui è vaillant (vigoroso); lei è coquette (graziosa,
elegante), lui è rusé (furbo); lei è amoureuse (innamorata), lui è espiègle
(birichino). E naturalmente, lei è elegante e bella, mentre lui è “cool”16.
Caratteristiche ritenute corrette, che sono apprese e che poi influenzano le
capacità di giudizio, di scelta autonoma e di autorappresentazione.

1.2. Dividi e vendi, ma non solo

Abbiamo allora provato a interrogarci su questo processo di “ri-


genderizzazione della vita quotidiana”, che è molto evidente soprattutto nei
giocattoli e nelle pubblicità rivolte all’infanzia, per rintracciare il momento
di comparsa e il contesto nel quale si è manifestato. Per questa riflessione ci
è stata utile la ricerca di Mona Zegaï (2010) condotta sulle pubblicità dei
giocattoli dei grandi magazzini francesi dal 1980 al 2010. In questo lavoro
si rintraccia il punto di svolta della ri-genderizzazione all’inizio degli anni
Novanta, un periodo che coincide con il successo delle televisioni
commerciali e del loro bisogno di differenziare il pubblico a fini
pubblicitari17. A partire da questo momento, secondo l’analisi dell’autrice,
la divisione di genere diventa esplicita e gradualmente sempre più
connotata; fino ad allora, l’associazione tra gioco e genere, benché fosse
sempre stata presente, si esprimeva in alcuni casi attraverso immagini che
ritraevano i bambini e le bambine impegnati in giochi differenti e con scritte
che richiamavano l’imitazione ai genitori (“come la mamma…”). I primi
anni Novanta, invece, rappresentano il periodo cerniera: inizialmente
compare la distinzione in categorie di giochi da bambini e da bambine, poi
vengono assegnati ambiti ben distinti che i testi sottolineano e confinano,
quindi appaiono i colori, dove il rosa diventa territorio esclusivo della
femminilità. I molti elementi rintracciati dall’autrice (per esempio, la
presenza degli adulti, l’essere in compagnia o da soli) agiscono come
ingiunzioni a rispettare identità e ruoli di genere fortemente stereotipati. I
codici di questi confinamenti sono immediatamente accessibili e
collaborano, insieme alle altre istanze, alla socializzazione differenziata. La
conclusione dell’autrice ci ha condotto a cercare anche altre risposte, poiché
ipotizza che, se fosse stato preso in considerazione un periodo più lungo,
probabilmente si sarebbero registrate altre informazioni, mostrando come le
categorie di genere non sono fissate per sempre ma «evolvono, spariscono,
riappaiono, i confini si spostano, a volte sono porosi, a volte molto
assertivi» (ivi: 24).

Fig. 9. Divisione per genere nei reparti giocattoli di alcuni grandi magazzini
Elizabeth Sweet, che nei suoi lavori (2013 e 2014) si è mossa su un più
ampio arco temporale, ha infatti scoperto molte altre cose, rintracciando
alcuni fondamentali momenti per la genderizzazione dei giochi.
Nella sua ricerca ha scoperto, per esempio, che nei primi anni del
Novecento i giocattoli erano pubblicizzati in modo neutro; nei cataloghi si
rintracciano pochi stereotipi sia nei giochi sia negli annunci. Da
considerare, certamente, che in quel periodo l’acquisto di giocattoli era un
fattore minimo nella vita quotidiana della maggior parte delle persone e che
la differenziazione di genere non era una caratteristica centrale
dell’infanzia, molto più significativo, semmai, era il confine tra infanzia ed
età adulta.
Nel corso di venti anni, però, la crescita dell’economia e del consumo e
l’aumento della separazione delle sfere economiche e domestiche hanno
prodotto un terreno fertile per la crescita della differenziazione di genere nei
giocattoli per bambini. Nel 1925, nei cataloghi analizzati metà delle
pubblicità dei giocattoli risultano divisi per genere. Tuttavia, l’anno che
segna la svolta verso l’enfatizzazione dei ruoli di cura femminili nei giochi
è il 1945. Il periodo corrisponde allo smantellamento del lavoro di fabbrica
delle donne, che durante la guerra avevano sostituito gli uomini impegnati
al fronte. La donna va riconfinata nella sfera domestica, perché in quella
pubblica non serve più, e tutto deve concorrere a questa riconfigurazione
della divisione dei ruoli. I giocattoli vengono quindi progettati per preparare
le ragazze a una vita di casa e le attività domestiche sono sempre più
raffigurate come appaganti per le donne. Tale processo arriva alla massima
espressione negli anni Sessanta, quando la struttura sociale prevede un
modello di famiglia che è funzionale se, al suo interno, presenta una netta
divisione di ruoli e di funzioni e produce la figura della donna “angelo del
focolare” e dell’uomo breadwinner 18.
Mentre i giocattoli delle ragazze si concentrarono quindi sulla sfera
domestica e di cura, i giocattoli dei ragazzi, tra gli anni Venti e gli anni
Sessanta, saranno orientati alla preparazione del lavoro nell’economia
industriale.
Tale codificazione di genere diminuisce intorno agli anni Settanta;
l’entrata delle donne nel mondo del lavoro, i cambiamenti demografici e la
spinta della seconda ondata femminista, produrranno, una sensibilizzazione
sulla genderizzazione dei giochi, che, infatti, a metà degli anni Settanta
tende quasi a scomparire dai cataloghi19.
L’orientamento verso un’attenzione alla neutralità dei giochi, tuttavia,
subisce repentinamente una battuta d’arresto: nel 1984 la
deregolamentazione della programmazione televisiva per bambini ha
improvvisamente liberato le aziende del giocattolo dai vincoli sugli annunci
pubblicitari e il genere diviene una variabile fondamentale per la
costruzione di target nel mercato dei giocattoli.
Durante gli anni Ottanta, la pubblicità neutra gradualmente scompare e nel
1995 i giocattoli genderizzati arrivano a rappresentare nuovamente la metà
dell’offerta di giochi nei cataloghi. Tuttavia, Sweet rileva che il marketing
del tardo secolo è meno basato su un esplicito sessismo mentre si affida
maggiormente a indicazioni implicite di genere come i colori e i nuovi ruoli
di genere basati su «belle principesse o muscolosi eroi di azione». Questi
ruoli sono ancora costruiti su stereotipi di genere – mostrando la potenza
maschile e la passività femminile – ma risultano più mascherati rispetto
all’esplicita divisione di ruoli degli anni Cinquanta (in pratica si passa
«dalla piccola casalinga alla piccola principessa»).
Un altro studio (Auster, Mansbach 2012) ha rilevato che tutti i giocattoli
venduti sul sito di Disney Store sono stati categorizzati in modo esplicito
come “per ragazzi” o “per ragazze”; i pochi giochi non esplicitamente
dichiarati “per ragazzi e ragazze” si trovano su entrambe le liste.
La genderizzazione dei giocattoli, quindi, segue le esigenze sociali,
svolgendo una funzione di addestramento a ruoli e a modelli sociali che
collabora a illustrare e rafforzare20.
Secondo le conclusioni di queste analisi, la categorizzazione di genere
dipende sempre dall’alto, senza essere davvero il risultato della domanda
dei consumatori. Detto questo, è difficile stabilire quanto poi, in una
prospettiva di riflessività, ciò abbia inciso sulla costruzione del gusto dei
consumatori.
In letteratura il dibattito intorno alla causalità tra mercato e costruzione del
gusto genderizzato è molto animato (Blakemore, Centers 2005; Fine, Rush
2016). Sinteticamente, la discussione si sviluppa su tre punti critici: se il
marketing dei giocattoli di genere influenzi le preferenze o semplicemente
rifletta i gusti e gli interessi di bambini e bambine; se gli effetti della
genderizzazione dei giocattoli siano negativi, neutrali o positivi; se un
ritorno a un mercato di giochi più neutro possa essere economicamente
sostenibile.
Da molte ricerche (per un excursus, si veda per esempio Dinella,
Weisgram, Fulcher 2017) sembra emergere come il marketing rispecchi sì le
preferenze di bambine e bambini, ma sovrapponendosi a categorie e a
interessi che in qualche modo sono stati costruiti, soprattutto per ciò che
riguarda la fascia di età prescolare e per le categorizzazioni “maschili”.
Decenni di ricerche comportamentali hanno mostrato come molte delle
caratteristiche cognitive (di personalità o sociali) siano comuni a bambine e
bambini (Zell et al. 2015). Ciò che in generale emerge è come il genere sia
un territorio fondamentale per la costruzione identitaria. Siccome, infatti,
nell’infanzia il lavoro sulla soggettività è difficile, rispetto per esempio a
un’età adulta che ha a disposizione maggiori repertori sociali, bambine e
bambini utilizzano quindi il genere come supporto identitario, diventando
“detective di genere” che continuamente cercano e captano informazioni su
che cosa sia maschile e femminile, per utilizzarle poi nella propria
rappresentazione di sé, ma anche per aumentare il senso e i confini di
appartenenza al gruppo21 (Fine, Rush 2016).
La genderizzazione dei giochi, le etichette esplicite, la pinkizzazione, sono
suggerimenti che i bambini e le bambine possono usare per classificare e
dare significato al mondo a loro circostante, su che cosa possono o non
possono scegliere o fare (Weisgram et al. 2014). Sono proprio questi primi
stereotipi a influenzare i bambini e le bambine in età prescolare, nella
costruzione degli interessi prima e degli atteggiamenti poi; essi
rappresentano uno dei fondamentali meccanismi di socializzazione al
genere. È, infatti, risaputo quanto il gioco influenzi lo sviluppo sociale e
cognitivo dei bambini e delle bambine e di come la possibilità di ampliare i
territori ludici favorisca lo sviluppo di un maggior ventaglio di capacità e
competenze (Blakemore, Centers 2005).
Molti di coloro che abbracciano la genderizzazione dei giochi sostengono
che i giocattoli di genere neutro eliminerebbero la possibilità di scegliere,
costringendo i bambini a diventare automi androgini che possono giocare
solo con oggetti noiosi. Tuttavia, ripercorrendo la varietà e la diversità dei
giochi “neutri” presente nei cataloghi degli anni Settanta, si può facilmente
comprendere come, ampliando la gamma di opzioni disponibili, si possa
offrire ai bambini e alle bambine la possibilità di esplorare i loro interessi e
sviluppare competenze diverse, non vincolati dai dettami degli stereotipi di
genere (Sweet 2014).
Il giocattolo è parte integrante del processo di sviluppo di genere dei/delle
bambini/e; tale processo è talmente scontato che le preferenze di bambine e
di bambini sulla loro conoscenza della natura genderizzata dei giocattoli è
sovente utilizzato come misura del genere22.
I repertori di giochi forniscono esperienze di genere che hanno a che fare
con ruoli e competenze. La bambine, indirizzate a fare esperienze con
giocattoli che aiutano a costruire l’etica della cura degli altri (Gilligan 1982)
e la responsabilità della cura di sé, i bambini con giochi funzionali a
stimolare le competenze spaziali e fisiche, a sviluppare competizione,
gestione del rischio e aggressività (Blakemore, Centers 2005). Si
svilupperanno così differenti caratteristiche cognitive, abilità, ma anche
tecnologie di autosorveglianza, rispetto ai ruoli e agli spazi, che si nutrono
di sentimenti di responsabilità e di frustrazione.

1.3. Cambiamenti e persistenze

L’Institution for Engineering and Technology (IET)23 ha di recente


condotto un’analisi sui principali motori di ricerca e siti web che
vendono/pubblicizzano giocattoli, rilevando che il 31 per cento dei
giocattoli scientifici è etichettato come “giocattoli per ragazzi”, mentre solo
l’11 per cento compare fra i “giocattoli per ragazze”. La ricerca effettuata
utilizzando i termini “boys’ toys” e “girls’ toys”, mostra che ben nove su
dieci (pari all’89 per cento) dei giocattoli elencati per le ragazze sono rosa,
rispetto all’1 per cento di quelli per i ragazzi.
La conclusione di questa analisi è che gli stereotipi che stanno alla radice
dei criteri per mezzo dei quali si compilano le liste in base al genere hanno
il potere di influenzare le future scelte delle bambine, e sono una delle
cause del fatto che, a dispetto dell’entusiasmo che le giovani studentesse
mostrano nei confronti delle materie scientifiche (il 39 per cento afferma di
amare particolarmente l’informatica, il 38 per cento la matematica, il 36 per
cento le scienze), solo il 9 per cento degli ingegneri della Gran Bretagna è
donna24. I giocattoli con cui giocano bambini e bambine, infatti, hanno un
impatto non solo sul modo in cui si vedono ma anche sulle abilità che
apprendono.
Nella già citata indagine di Biemmi e Leonelli (2016) emerge che le
ragazze iscritte a Ingegneria e/o a Informatica (così come i ragazzi iscritti a
Scienze della Formazione o Scienze del servizio Sociale) sono fortemente
motivate, appassionate e mosse da interessi autentici. Le ragazze che
operano questa scelta “atipica” hanno alle spalle rendimenti scolastici molto
elevati e un contesto familiare favorevole, che sostiene appieno l’opzione
non consueta. Le ragazze perciò appaiono serene e decise. Diverso è per i
ragazzi, che arrivano alla scelta di professioni di cura attraverso traiettorie
più articolate, e che rischiano un maggior biasimo sociale, anche se
entrambi, ragazze future ingegnere e ragazzi futuri maestri, sanno che
stanno operando uno sconfinamento e che ciò avrà delle conseguenze (ivi:
193-196).
Quando poi gli sconfinamenti proseguono nello spazio dei lavori maschili
e femminili, le strategie, individuali e sociali, di negoziazione sono
piuttosto complesse.
Per esempio, se è «lui a trasgredire, magari diventando maestro in un asilo
nido, la discriminazione è molto spesso solo iniziale, ma una volta superati i
timori rispetto all’integrità di genere della persona (sarà un vero maschio?)
e ai suoi obiettivi reconditi, l’uomo facilmente sarà messo su un piedistallo,
diventando, agli occhi di tutti e di tutte, forse specialmente agli occhi delle
donne, il migliore» (Abbatecola 2012). Quando invece a trasgredire è «lei,
la discriminazione non è solo in ingresso, ma sembra persistere a lungo, o
comunque rimanere in agguato, puntando su un progressivo e logorante
processo d’invalidazione. Gli stereotipi sulle donne nei lavori da uomini,
non riguardano solo l’identità professionale e i dubbi sulle loro capacità,
laddove siano richieste qualità considerate maschili come forza, coraggio,
competenze tecnico-meccaniche e destrezza al volante, ma anche l’identità
femminile, posta in questione da una rappresentazione stereotipata che
dipinge le donne ribelli come poco femminili nelle pratiche e nell’aspetto»
(Abbatecola 2015: 114). Il corpo diviene allora il territorio privilegiato per
l’azione dei dispositivi di controllo e di ripristino dell’ordine simbolico
violato, attraverso pratiche individuali di soggettivazione o sociali di
(s)valutazione di un’adeguata femminilità.

Fig. 10. Immagine finale dello spot Goldieblox

Nell’estate del 2103 uno spot pubblicitario25 di una ditta californiana che
produce giochi ingegneristici per bambine diventò in poco tempo quasi
virale. Il video si apre con un’immagine sullo sguardo deluso di una
bambina, quando subito l’inquadratura si allarga mostrando che la bambina,
vestita da ballerina, sta inchiodando le sue scarpe da danza a uno skateboard
e, successivamente, spinta da un nuovo intento – sottolineato dallo sguardo
e dalla musica – decide di correre fuori casa. La scena seguente mostra
un’altra bambina vestita da principessa che è seduta sull’uscio di casa in un
atteggiamento di attesa; anche qui avviene un mutamento repentino di
atteggiamento e, infatti, dopo aver inforcato gli occhiali da sole e il casco,
sale sulla sua bicicletta piena di fronzoli femminili per correre via libera
lungo un viale. La storia torna quindi sulla prima bambina che, sempre
vestita da ballerina, ma ora anche lei provvista di un casco, sta correndo sul
suo skate che “indossa” attraverso le sue scarpe da ballerina. La potenza di
questo video sta nel fatto che, mettendo in scena lo sconfinamento di
territori e di spazi simbolici, mostra che esiste un ordine sociale di genere e
che esso solitamente è dato per scontato. Questo video racconta che esiste
una divisione per generi dello spazio (casa/strada), che ci sono giochi e
sport maschili e femminili e che gli sconfinamenti richiedono delle pratiche
di negoziazione: le due bambine pur sconfinando mantengono tratti di
genere negli accessori, ma soprattutto utilizzano le risorse del proprio
territorio simbolico per trovare un equilibrio nello sconfinamento (le
scarpette inchiodate)26 (Stagi 2015).
In questo caso una pubblicità di giocattoli ha mostrato l’ordine di genere
cercando di sovvertirlo, mentre, come si è visto, solitamente si utilizzano gli
stereotipi di genere per vendere giocattoli e non solo. Anche nelle
pubblicità di abbigliamento, per esempio, si trova riproposta una divisione
degli ambiti, degli spazi e dei ruoli di genere.

Fig. 11. Immagini di pubblicità di abbigliamento per bambini e bambine


Come mostra l’analisi compiuta da Elisa Giomi (2013a; 2013b), nelle
pubblicità per l’abbigliamento infantile, appaiono in modo immediatamente
evidente alcuni elementi per la suddivisione dei territori maschili e
femminili; i codici interpretativi generalmente riguardano i colori, le
ambientazioni, la divisione di ruoli: per i maschi cioè colori forti e accesi,
toni del blu e grigio, mentre per le femmine prevalgono i toni del rosa e i
colori tenui; i bambini vengono ritratti in movimento e negli spazi aperti,
privilegiando azione e fisicità, mentre per le bambine prevale la staticità, lo
spazio privato e la cura di sé e degli altri. Anche il tipo di socialità subisce
spesso una rappresentazione differente: per i bambini più rappresentazioni
in gruppo, per simboleggiare i valori dell’amicalità e del “sano
cameratismo”; per le bambine, invece, i giochi e i passatempi sono
rappresentati come più individuali e solitari.
Le differenze costruite dalla pubblicità nei ruoli/interessi/gusti attribuiti a
maschi e a femmine sono riassunte da un’opposizione di fondo che riguarda
in particolare gli ambienti. Il maschile è rappresentato in spazi aperti,
associabili ai valori della scoperta, dell’esplorazione, dell’avventura,
dell’interazione con il territorio, della sfera pubblica. Il femminile è quasi
sempre inserito in spazi chiusi, nello spazio domestico, lo spazio delle
relazioni personali, dell’intimità, una sfera privata per definizione separata
dal mondo esterno.
Sempre secondo l’analisi di Elisa Giomi, la pubblicità di abbigliamento
per l’infanzia, come quella per adulte/i, non si limita a vendere uno stile
estetico, ma suggerisce un preciso modello identitario e un modo di stare
nel mondo. Sia per i maschi sia per le femmine, il corpo è centrale in questa
operazione. Tuttavia, nelle pubblicità che raffigurano i maschi, il corpo in
linea di massima è uno strumento “per fare” e le attività rappresentate
(giochi, salti…) forniscono soddisfazione in sé e per sé. Il modello per il
maschile è autoriferito. Per le bimbe invece il corpo è strumento per
“apparire” e la gratificazione che se ne può ricavare deriva da uno sguardo
esterno, implica un pubblico: è eteroriferito.
E proprio l’ipotesi che il corpo sia uno dei territori privilegiati della
genderizzazione, poiché, come si è detto, è uno dei territori privilegiati del
lavoro sui confini di genere, ci ha portato a concentrare parte della ricerca,
sia attraverso l’osservazione, sia con l’ausilio di alcuni test che abbiamo
somministrato, sul legame tra stereotipi, corpi e aspirazioni.
Se il corpo gioca un ruolo fondamentale nella costruzione/rafforzamento
delle soggettività maschili e femminili, ciò diventa particolarmente
rilevante quando ci si trova a lavorare sul senso e sul controllo, perché
inseriti in narrazioni di crisi (Le Breton 2005). Accade spesso che un
fenomeno sia alimentato da più variabili che concorrono, riflessivamente,
alla sua espansione. Sicuramente la pubblicità e in generale le esigenze
commerciali hanno dato un forte contributo, ma la ri-genderizzazione
dipende da molti fattori, e tra queste non si può trascurare l’importanza
della cosiddetta “crisi della maschilità” (Buchbinder 2004).
Si è visto, infatti, che la genderizzazione varia a seconda dei periodi
storici: spinte al superamento di un certo ordine di genere si alternano a
momenti in cui viene restaurato lo stato precedente. Susan Faludi (1992) ha
chiamato questa tendenza backlash, in italiano tradotto con “contrattacco”.

Per gender backlash si intende la risacca che ciclicamente trascina indietro le


conquiste che riguardano i generi, in questo senso parlare di “ondate” a proposito dei
femminismi è anche evocativo rispetto a questo moto perpetuo di avanzate e reflussi.

Backlash significa letteralmente il blocco di una ruota, o un’altra parte


delle macchine, che non è correttamente allineato. Figurativamente, è un
termine che significa una forte reazione contro un sistema o stato di cose
che era stato cambiato27.
I cambiamenti, infatti, e quelli prodotti dai femminismi sono stati notevoli,
necessitano di tempi lunghi di realizzazione e di sedimentazione. Il
cammino verso la messa in discussione dell’ordine di genere non è lineare,
ma consiste in passi in avanti, battute d’arresto, ritorni all’indietro. Uno di
questi si è verificato a partire dagli anni Ottanta, quando si sono avviati
spazi di regressione e reazione. I primi hanno portato a un ripiegamento
nostalgico verso il passato, particolarmente presente in alcune fasce della
popolazione, i secondi all’esplosione di dinamiche maschiliste.
Come ha efficacemente ricostruito Chiara Volpato (2013), lavorare per
ripristinare l’ordine di genere ha spesso a che fare con un processo che noi,
sinteticamente, definiamo di “riparazione della mascolinità”. Susan Jeffords
(1989 cit. in Volpato 2013) ne ha parlato affrontando la
“rimascolinizzazione” del discorso pubblico americano, avvenuta dopo la
guerra del Vietnam, attraverso l’analisi della maschilità in film e romanzi di
guerra: si pensi, a titolo esemplificativo, alla figura di Rambo, un reduce
della guerra del Vietnam, macho e ipermuscolarizzato, “riparatore” di torti
subiti e di conti in sospeso. I corpi messi in scena a metà degli anni Ottanta
da icone hollywoodiane come Arnold Schwarzenegger e Sylvester Stallone
sono corpi al lavoro sulla maschilità attraverso l’esibizione muscolare. Il
corpo diviene quindi il territorio privilegiato per il rafforzamento della
maschilità raccontata in una dimensione di crisi (Boni 2004). La vigoressia,
sindrome che affligge i body builder, ma anche l’anoressia come disturbo
che oramai riguarda entrambi i generi, sono pratiche che hanno a che fare
con il bisogno di lavorare sui confini corporei per negoziare con la
complessità del cambiamento dei modelli identitari di genere (Stagi 2008,
Dalla Ragione e Scopetta 2009).
In uno scenario di crisi sociali ed economiche, infatti, i mutamenti dei
ruoli di genere sono narrati in termini conflittuali creando miscele
esplosive. Nei momenti di crisi, poi, sono le categorie sociali più fragili che
hanno un maggiore bisogno di lavorare sulla ricostruzione di senso
attraverso il rafforzamento dei confini identitari. Secondo la prospettiva
intersezionale, infatti, il genere è una variabile che interagisce fortemente
con la posizione sociale: i vari capitali (simbolici, culturali, economici e
sociali) sono elementi fondamentali nei processi di negoziazione di genere
(McDowell 2006).
Dal punto di vista intersezionale, si può dire che ogni persona
“appartiene” a più categorie sociali e che queste interagiscono fra loro sia a
livello soggettivo, che a livello di gruppi e istituzioni. Per parlare di
intersezionalità non basta tuttavia fare un elenco di queste categorie, ma è
necessario considerare la relazione che esiste fra loro.28

Al centro dell’intersezionalità risiede il desiderio di indicare i diversi modi in cui


interagiscono e si sovrappongono categorie e posizioni sociali quali razza, genere e
classe, producendo ineguaglianze sociali sistemiche40.

Con la narrazione della crisi del maschile come esito dell’avanzata


femminista (Badinter 1993), sono poi nati, soprattutto tra le fasce più deboli
della popolazione, una serie di movimenti revanscisti. Un esempio sono i
movimenti mitopoietici, una forma di terapia maschile basata sul
presupposto che gli uomini potranno cambiare il loro comportamento dal
momento in cui riconosceranno e affronteranno il dolore e gli abusi che
subiscono. Uno dei momenti fondanti dei movimenti poietici è considerata
la pubblicazione, all’inizio del 1990, del libro Iron John a opera del poeta e
scrittore Robert Bly, in cui, attraverso l’analisi di archetipi fiabeschi e un
continuo ricorso a poesia, miti, leggende, folklore e teorie psicologiche
(quelle di Jung) si tenta di valorizzare la mascolinità profonda, “reale”.
L’obiettivo principale del movimento è recuperare l’antico potere della
“vera mascolinità” dell’uomo selvaggio simboleggiato da Iron John29
(Govers 2010).
Susan Faludi, che inizialmente ha utilizzato il concetto di contrattacco
proprio per indicare la nascita di tali movimenti maschili, successivamente
integra le sue riflessioni con quell’idea di “riparazione” pubblica già trattata
da Jeffords. In Sesso del terrore (Faludi 2008), infatti, l’autrice analizza le
reazioni maschiliste emerse nella cultura americana dopo gli attentati
dell’Undici Settembre: l’ossessione per il terrorismo avrebbe cioè fatto
riemergere un patriottismo, misogino, puritano, basato appunto sulla
“riparazione” del sex gender system di tipo tradizionale (Volpato 2013).
Salzman et al. hanno sostenuto una tesi analoga, mostrando come in tempi
di crisi possa riemergere un modello di maschilità di tipo tradizionale che
riassume nell’acronimo RAMM (Resurgent Angry Macho Man) (2006 cit. in
Volpato 2013). E arrabbiati sono anche gli uomini che Michael Kimmel ha
intervistato per il suo libro Angry White Men: American Masculinity at the
End of an Era (2013): neonazisti, attivisti dei diritti dei padri, membri della
milizia, tifosi, omofobi, cristiani ultraconservatori; tutti uomini che si
sentono minacciati dal cambiamento dello status quo socio-economico.
L’epoca, che Kimmel considera finita e per cui questi uomini si sentono
defraudati e scippati, è quella del patriarcato cristiano bianco, degli
indiscussi e illimitati diritti maschili.
Questi angry men si sentono minacciati dal “politicamente corretto”
(affermano: «Non puoi più fare una battuta, senza offendere qualcuno»);
provano rancore contro le donne, contro gli immigrati, contro i neri, contro i
gay, contro le élite urbane. Internet è il luogo dove trovano forza e anche in
cui si nascondono. Se, tuttavia, nella prima edizione Kimmel ne parla come
sempre più numerosi ma anche meno influenti, nell’ultima prefazione
all’edizione, uscita dopo l’elezione di Donald Trump, ammette che l’epoca
non è finita e occorrerà più tempo di quanto previsto per un futuro equo e
diversificato. Proprio in questa seconda prefazione riconosce che «come
molti americani, non ho previsto la vittoria di Trump, ho sottovalutato la
profondità del rancore degli uomini bianchi arrabbiati30». Sono uomini
nostalgici degli anni Cinquanta, quando, dicono: «era così facile essere un
ragazzo, tutti conoscevano il loro posto» (ibidem). È su di loro, e su alcune
donne che hanno votato come “mamme e casalinghe”, che ha potuto
contare Trump, convincendoli che avrebbe riportato l’America a
quell’ordine sociale31.
In questo contesto, si radica – e riflessivamente concorre a rafforzare gli
altri discorsi – la narrazione della Fatherless society – “società senza padri”
– il racconto che tende ad assumere i toni di retoriche nostalgiche, quando
non reazionarie, sull’esautorazione dell’autorità paterna come una delle
principali cause dei disagi sociali contemporanei (Petti, Stagi 2015). La
narrazione della società sofferente per i conflitti delle relazioni tra i generi è
un racconto appiattito sul presente, che ipotizza un passato “ideale” nel
quale sia esistito un unico modello di famiglia: quella tradizionale o
borghese. Invece, è bene ricordarlo, la famiglia “borghese” si impone come
modello tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento (in Italia più
verso i primi del Novecento)32 anche nelle altri classi come il proletariato,
che nella prima metà del secolo aveva evitato il matrimonio e la stabilità
coniugale. La norma familiare diventa allora la famiglia nucleare con una
rigida divisione dei ruoli tra marito e moglie (strumentale e affettivo)
(Campani 2012: 28-29). Qualsiasi analisi di matrice storica o antropologica
può, infatti, facilmente mostrare che le forme familiari, come anche il
rapporto tra pubblico e privato e le relazioni di genere, sono state e sono
variegate e multiformi e che la famiglia cosiddetta tradizionale è solo uno
dei tanti adattamenti che la vita familiare ha avuto nel corso dei secoli»
(Casanova 2009). Il fatto poi che l’aggettivo “naturale” sia spesso utilizzato
come sinonimo di “tradizionale”, è un ulteriore dispositivo funzionale a
costruire il discorso della normalità della famiglia eterosessuale
monogamica in contrapposizione a tutte le altre possibili forme di affettività
e di famiglia (Tin 2010). Questo discorso in Occidente entra anche nel
pensiero dei legislatori che fonderanno le norme giuridiche sulla base di
modelli che si strutturano intorno ai ruoli e alle funzioni del maschio,
bianco eterosessuale, borghese (Schuster 2011b). Attraverso il processo di
giuridificazione, il diritto non plasma semplicemente le norme giuridiche
secondo assunti eteronormativi ma tende ad ammantare questi assunti di
naturalità, proponendoli come normali e dando per scontato che la visione
della società che essi propongono sia la sola possibile e reale (Wilkinson,
Kizinger 1993).
I discorsi intorno alla fatherless society sono costruiti attraverso richiami
ancestrali e culturali che, inoltre, ricercano sostegno e validazione nell’uso
manipolatorio di dati e di evidenze empiriche: si pensi a tutte le
associazioni che vengono operate senza adeguati sostegni empirici tra
forme di devianza adolescenziale e assenza del “padre”. L’utilizzo di
riferimenti psicanalitici, religiosi o mitologici permette di richiamare – e
quindi “far reagire” – nelle persone tutti i dispositivi culturali incorporati
attraverso i processi educativi e di socializzazione (Petti e Stagi 2015).
Il concetto di eteronormatività indica l’esistenza di un paradigma a fondamento di
norme morali, sociali e giuridiche basato sul presupposto che vi sia un orientamento
sessuale corretto, quello eterosessuale, che vi sia una coincidenza fra il sesso
biologico e il genere e che sussista una naturale e necessaria complementarietà fra
uomo e donna.

La nostra tesi è che siano i discorsi intorno alla costruzione sociale del
disordine che generano nelle persone atteggiamenti reazionari e
conservatori (Ehremberg 2010) e il bisogno di riparo in “verità” che sono
riconoscibili come tali perché già introiettate attraverso i diversi processi di
apprendimento.
L’ordine sociale di genere è rassicurante, aiuta a organizzare la realtà
esterna e quella interiore, poiché è basato su una serie di credenze
introiettate attraverso il processo di socializzazione.
Nel prossimo capitolo, perciò, si cercherà di mettere a fuoco i concetti utili
a comprendere i processi alla base delle nostre ipotesi.

1
http://www.comune.genova.it/content/stereotipi-educazione-pari-opportunità-step e
http://www.arcos ricerca.it/ Lavori/step/stereotipi.html.
2
L’immagine è tratta dall’articolo The little girl from the 1981 Lego ad is all grown up, and she’s
got something to say in cui la giornalista Lori Day intervista la protagonista della famosa pubblicità
degli anni Ottanta che ha accettato di riproporre l’immagine per denunciare la genderizzazione dei
giocattoli, affermando che la sua scelta di divenire medico è dipesa anche dalla possibilità di giocare
con giocattoli neutri come il set da dottore, che invece ora si trova negli scaffali dei giochi da
maschio. «Nel 1981, spiega Giordano, i Lego erano “set di costruzione universali” ed erano per
ragazzi e ragazze. I giocattoli dovrebbero favorire la creatività […]. Nel 2014, è il contrario: il
giocattolo trasmette un messaggio ai bambini e alle bambine, ed è un messaggio sul genere»,
http://womenyoushouldknow.net/little-girl-1981-lego-ad-grown-shes-got-something-say/ (ultima
consultazione 1° settembre 2017).
3
http://unnecessarilygenderedproducts.tumblr.com.
4
Notissimo, quasi virale, è diventato il pezzo della comica statunitense Ellen DeGeneres sulla
produzione delle penne Bic per donne, https://www.youtube.com/watch?v=JnusO2OXWp4 (ultima
consultazione 30 luglio 2017).
5
Per esempio, S. Minardi, Giochi da bambine, “L’Espresso”, 30 gennaio 2012,
http://espresso.repubblica.it/visioni/societa/2012/ 01/30/news/giochi-da-bambine-1.40243 (ultima
consultazione 07 luglio 17) e L. Penny, Il culto delle principesse non è una favola, “Internazionale”,
n. 897, 2011, http://www.internazionale.it/il-culto-delle-principesse-non-e-una-favola (ultima
consultazione 10 maggio 2015). Tra i video di sensibilizzazione si segnala Pinkification: should boys
be boys and girls be girls?, https://www.youtube.com/watch?v=XiCIeORj4fY. Sempre nello stesso
periodo si realizzava la mostra Pinkification. Let’s Think Outside The Colour di un collettivo di
artiste, https://www.weekend notes.com/pinkification-lets-think-outside-the-colour-exhibition/
(ultima consultazione 1° settembre 2017).
6
Il rosa è stato a lungo considerato un colore maschile, grazie alla sua vicinanza col rosso del
sangue e delle battaglie, lo stesso delle camicie e delle divise, mentre alle femmine era assegnato il
celeste virginale del velo della Madonna. Per esempio, in un articolo della pubblicazione
commerciale “Earnshaw’s Infants Department” (giugno 1918) si diceva: «La regola generalmente
accettata è rosa per i ragazzi e blu per le ragazze. La ragione è che il colore rosa, più deciso e più
forte, è più adatto per il ragazzo, mentre l’azzurro, più delicato, è più bello per le ragazze» (Paoletti
2012).
7
Il video How did pink become a girly color? (2015, Jennifer Wright) racconta la storia di questo
colore ripercorrendo alcune tappe fondamentali, ricostruendo come l’associazione tra rosa e
femminile si sia sviluppata nel corso degli anni Cinquanta, passando dalla moda, al cinema e al
design (arredo ed elettrodomestici), https://www.youtube.com/watch?v=KaGSYGhUkvM (ultima
consultazione 28 luglio 2017).
8
Lo studio di Lynch (2005), condotto attraverso l’analisi di pubblicità, mostra come le madri siano
state indotte dal marketing a mostrare il funzionamento del loro istinto materno, e quindi il loro
essere “buone madri”, attraverso pratiche consumistiche. In questa analisi si individuano diverse
tipologie di “maternità” a partire dagli anni Venti, fino ad arrivare alla fine degli anni Ottanta, quando
di sviluppa quella che viene definita la «maternità intensiva», ovvero un’ideologia per cui, per essere
una buona madre, una donna deve mettere al primo posto i desideri e i bisogni del/la suo/a bambino/a
ed è l’unica responsabile di un sano sviluppo fisico e psicologico dei figli, che deve perseguire anche
attraverso il consumo.
9
Paoletti (2012) sostiene che le nuove mamme, anche se sono femministe, lo sono in modo
differente dalle femministe “baby boomer”.
10
La campagna Pinkstink – il rosa puzza – è nata per contrastare l’immaginario che propone alle
bambine un’idea del femminile come passivo e ossessionato da shopping, bellezza e moda
(http://www.pinkstinks.co.uk). Molte sono state le artiste e performer che in questi anni hanno
prodotto opere provocatorie utilizzando parodie sul rosa o sulle principesse, la più famosa è Dina
Goldstein (https://www.dinagoldstein.com), ma una rassegna si può trovare in
http://www.tpi.it/mondo/stati-uniti/chi-ha-picchiato-cenerentola-1/# (ultime consultazioni per tutti i
siti citati 28 luglio 2017).
11
Secondo la ricostruzione di David Gilmore la virilità sembra essere definita quasi universalmente
(tranne qualche rara eccezione) da tre capacità considerate fondamentali in un uomo: procreare,
proteggere e provvedere ai suoi cari. Da ciò deriverebbero le caratteristiche della virilità che quasi
tutte le culture tendono a valorizzare: durezza, aggressività, stoicismo, potenza sessuale (1993).
12
Una sintesi è reperibile in https://rebeccahains.com/2014/03/29/whats-the-problem-with-pink-
and-princess/ e in http://www.pinkisforboys.org/blog/why-pinkification-matters (ultima
consultazione 28 luglio 2017).
13
Il video Gender box, prodotto dalla Tumblr page Planned Parenthood Los Angeles, mostra come
comuni stereotipi di genere possano limitare le azioni e le scelte di questi due personaggi, ma essi
usano il loro potere di interrogarsi, sfidarli e modificarli. Affermando il loro diritto di essere se stessi
e permettendo agli altri la libertà di fare lo stesso, scoprono un mondo di possibilità,
https://www.youtube.com/watch?v=NOqMSaaIEEA (ultima consultazione 30 luglio 2017).
14
Nell’a.a. 2014-2015 la componente femminile nelle iscrizioni è del 56 per cento, tuttavia il 75
per cento è presente nelle scienze umanistiche e il 61 per cento nelle scienze sociali.
15
Si citano anche l’identificazione con il modello materno, la consapevolezza di dover recuperare
una distanza con il maschile, uno specifico interesse per la cultura, ma anche la femminilizzazione
della scuola (Biemmi, Leonelli 2016).
16
https://ilricciocornoschiattoso.wordpress.com/2014/12/16/genderizzazione/(ultima consultazione
08 agosto 2017).
17
A questo proposito è interessante il video Gendered Marketing di Kirsten Drysdale e Zoe Norton
Lodge, dalla serie Tv Checkout, che con ironia mette in luce le contraddizioni di questo tipo di
strategie: https://www.youtube.com/watch?v=3JDmb_f3E2c (ultima consultazione 28 luglio 2017).
18
Secondo Durkheim (1962), con il progredire della civiltà l’uomo e la donna si sono sempre più
differenziati sia a livello biologico sia a livello funzionale. Tale progressiva differenziazione tra i due
sessi è considerata funzionale da Durkheim per la «solidarietà coniugale», fondata nella differenza e
complementarietà dei due generi. In nome della “solidarietà” la divisione del lavoro tra i sessi diventa
norma; la specializzazione delle funzioni affettive femminili e delle funzioni intellettuali maschili
assume allora un valore morale, perché serve alla coesione e alla stabilità della società. Su una linea
di sostanziale continuità con l’elaborazione di Durkheim, anche Talcott Parsons analizza la
differenziazione dei ruoli sessuali coerentemente con la sua teoria generale; il suo interesse si
focalizza in particolare sulle condizioni per il mantenimento e il funzionamento del sistema. Una di
queste condizioni consiste nell’efficacia del processo di socializzazione, che si realizza soprattutto
nella famiglia, il cui compito principale è quello di essere «una agenzia di socializzazione di
bambini» (Parsons 1964: 61), organizzata sulla base della divisione dei compiti del marito-padre e
della moglie-madre. I ruoli familiari derivano secondo Parsons da «una differenziazione lungo due
assi, quello gerarchico e del potere e quello della funzione strumentale contrapposto alla funzione
espressiva» (Parsons, Bales 1974: 49). A partire da queste funzioni all’interno della famiglia avviene
l’apprendimento dei «ruoli da parte dei figli, che spingerà i maschi ad assumere ruoli più tecnici,
dirigenziali e giudiziari», e le femmine ruoli più di sostegno, di «integrazione e di governo delle
tensioni» (ibidem).
19
Negli annunci del catalogo Sears del 1975, meno del 2 per cento dei giocattoli sono stati
esplicitamente commercializzati a ragazzi o ragazze. Negli anni Settanta, inoltre, si potevano trovare
anche molti annunci che contestavano attivamente gli stereotipi di genere: i ragazzi sono stati
mostrati in attività con giocattoli domestici e le ragazze sono state mostrate in ruoli tipicamente
maschili come medico, carpentiere e scienziato (Sweet 2013).
20
Una simile ricostruzione è percorribile nell’analisi delle forme del corpo femminile che muta nei
diversi periodi storici, corrispondendo ai ruoli sociali attribuiti alle donne. Nei primi del Novecento,
fino alla Seconda guerra mondiale, le forme sono quasi annullate (Marlene Dietrich è l’icona di
quest’epoca), sicuramente a influire è la povertà di quegli anni, ma è anche il ruolo della donna a
essere più attivo: spesso deve sostituire l’uomo – che è al fronte – in tutte le attività pubbliche-
produttive. A metà secolo, invece, la donna viene restituita alla sfera domestica e privata, il suo ruolo
è prettamente riproduttivo e di cura, il suo corpo è formoso e “materno”, Sofia Loren e Marlyn
Monroe ne sono esempi. Negli anni Settanta, i corpi femminili sono magri, poiché devono parlare
dell’emancipazione dal ruolo di cura simboleggiato dalle curve femminili: l’icona di quegli anni è
infatti la modella Twiggy (per un approfondimento, Stagi 2008: 55).
21
Gli studi di Zosuls et al. (2009, 2014) hanno mostrato che a 17 mesi bambine e bambini erano
altrettanto interessati a bambole, tazze del tè e a spazzole e pettinini, anche se le bambine passavano
meno tempo a giocare con camion e automobiline. Quattro mesi dopo, per le bambine aumentava il
tempo dedicato alle bambole, mentre i maschi mostravano una maggiore conoscenza delle etichette
associate agli stereotipi. A 24 mesi cominciavano a evidenziarsi le capacità di categorizzazione di
“maschile” e “femminile”. A 36 mesi le preferenze stereotipiche di genere, e i giochi con bambole o
macchinine si erano definiti.
22
Nei percorsi di riassegnazione di sesso, i test di valutazione psicologica hanno generalmente
un’attenzione particolare per la storia dei segni della manifestazione di un transegenderismo,
attraverso in particolare la ricognizione delle preferenze dei giochi e dell’abbigliamento nell’infanzia.
Un tempo, durante la visita militare veniva indagata la genderizzazione dei gusti: l’apprezzamento
per i fiori, per esempio, era considerato indicatore di un possibile orientamento sessuale non
conforme all’eteronormatività.
23
http://www.theiet.org/about/.
24
«La commercializzazione di giocattoli per le ragazze è un ottimo punto di partenza per cambiare
la percezione delle opportunità all’interno dell’ingegneria. La gamma di giocattoli per le bambine
dovrebbe comprendere altro, non solo le bambole e i vestitini, in modo che possano coltivare il loro
entusiasmo, e magari, una volta adulte, diventare ingegnere», affermano nel sito
https://www.theguardian.com/lifeandstyle/2016/dec/08/gendered-toys-deter-girls-from-career-
engineering-technology cit in https://ilricciocornoschiattoso.wordpress.com/2016/12/19/chi-gioca-
col-futuro-delle-bambine/ (ultima consultazione 10 settembre 2017).
25
https://www.youtube.com/watch?v=pz7g4qy0l9M.
26
Tali operazioni sono riconducibili a ciò che si definisce “manovra di genere” (gender
maneuvering): «Quando una o più persone manipolano le proprie performance di genere − o
manipolano il significato delle performance di genere altrui − per rafforzare, disturbare o modificare
il rapporto intorno e tra le maschilità e le femminilità» (Schippers 2002: XIII).
27
Negli anni Cinquanta e Sessanta la parola circola negli Stati Uniti per descrivere la reazione
politica contro l’integrazione nera; generalmente, infatti, tale concetto connota una forte oscillazione
a tornare a un precedente status quo.
28
L’intersezionalità, che all’inizio è stata concepita attorno alla triade “razza/classe/genere”, fu
successivamente ampliata da Patricia Hill Collins per includere concezioni sociali quali nazione,
abilità, sessualità, età ed etnicità (Purkayastha 2012).
29
In Italia ci sono i corrispettivi Maschi selvatici fondati da Claudio Risé:
http://www.maschiselvatici.it (ultima consultazione 1° settembre 2017).
30
Dall’intervista Angry white men’: the sociologist who studied Trump’s base before Trump, a cura
di Oliver Conroy per “The Guardian” (27 febbraio 2017),
https://www.theguardian.com/world/2017/feb/27/michael-kimmel-masculinity-far-right-angry-white-
men (ultima consultazione 1° settembre 2017).
31
Secondo Raewyn Connell, la femminilità enfatizzata, insieme alla maschilità complice, è
subordinata alla maschilità egemone, ai suoi desideri e bisogni (Connell 1996).
32
Con l’Ottocento la famiglia è investita di una nuova funzione di stabilizzazione sociale, la cui
necessità era tanto più sentita dai ceti borghesi dopo la tempesta rivoluzionaria e due decenni di
guerre europee. La famiglia borghese ottocentesca viene concepita sulla base di un modello
disciplinante imperniato intorno all’autorità del padre. Il padre assicura nella sfera privata
quell’ordine e quella sottomissione dei minori, siano essi la moglie o i figli, che il governo persegue
nella sfera pubblica (Barbagli 1984).
2. I CONCETTI DELLA RICERCA
Emanuela Abbatecola e Luisa Stagi

Donne e uomini non si nasce ma si diventa, attraverso un processo di


socializzazione accuratamente e sapientemente differenziato per i generi,
secondo un modello rigidamente binario. Un processo che inizia sin dalla
nascita, anzi ancor prima, con la preparazione del giusto contesto: i colori,
l’abbigliamento, i giochi (Lombardi 2005); difatti la prima domanda che
viene posta a una donna in gravidanza è: “Maschietto o femminuccia?”.
Quando poi la figlia o il figlio è nata/o, in alcune zone dell’Italia è abitudine
esporre un fiocco colorato fuori dall’abitazione. Secondo un’interpretazione
antropologica, il colore del fiocco indicherebbe l’orizzonte identitario
auspicato, dove il rosa rappresenterebbe un augurio rispetto alla fertilità,
considerata indispensabile nel compimento identitario femminile, mentre
l’azzurro segnalerebbe le infinite possibilità delle traiettorie biografiche
maschili, oltre che la protezione del cielo (Pastoureau 2009).
Per tutta l’infanzia, poi, genitori, parenti e conoscenti continueranno a
trattare le bambine e i bambini in modo stereotipato. Come mostra il video
No More Boys and Girls: Can Our Kids Go Gender Free? 1, che riproduce
un classico esperimento riportato in forma simile anche da Antony Giddens
in un manuale di sociologia2, gli adulti, a seconda che si trovino a interagire
con una bambina o con un bambino, si rapportano in modo differente;
diversi i linguaggi e i giochi, diverse le posture. Nel caso specifico la
bambina e il bambino sono stati abbigliati secondo i dettami previsti per il
genere opposto e per tutto il tempo hanno subito trattamenti genderizzati
“errati”, dimostrando, peraltro, di gradirli molto. Gli adulti, ignari
partecipanti all’esperimento, intervistati successivamente, sono rimasti assai
stupiti e imbarazzati nello scoprire “l’inganno”. La rappresentazione della
maschilità e della femminilità come due poli complementari, costituisce uno
dei principi organizzatori della vita sociale: «ci si aspetta che le bambine
amino le coccole e siano dolci, mentre i bambini vengono trattati in modo
sbrigativo e godono di una maggiore indipendenza» (Andersen, Taylor 2004:
224).
Dopo la riflessione di opere quali Il secondo sesso di Simone de Beauvoir
(1949) e di L’uno e l’altra di Margaret Mead (1949), sul carattere sociale e
culturale del genere, i femminismi hanno sviluppato diverse prospettive
analitiche per spiegare e descrivere il processo di costruzione sociale e
culturale in gioco nell’assegnazione sessuata «delle funzioni e degli spazi
che determinano la posizione degli agenti nella struttura sociale,
indipendentemente dalla loro volontà», e dei meccanismi sociali che entrano
in gioco perché gli stessi agenti «sviluppino le predisposizioni e le attitudini
che li porteranno ad accettare di distribuirsi in queste posizioni e funzioni»
(Descarries 1980: 20).
Negli anni Settanta numerosi sono i contributi di studiose femministe su
questo tema in diverse parti del mondo occidentale: in Gran Bretagna Ann
Oakley (1972), negli Usa Gayle Rubin (1975) e Nancy Chorodow (1978), in
Francia Colette Guillaumin (1978), in Germania Naomi Weisstein (1970),
solo per citarne alcune.
In Italia due testi possono essere considerati i capostipiti di un’area più
ampia di ricerca, che ha avuto sviluppi e approfondimenti sui modelli di
educazione “sessuati”: Maschio per obbligo di Carla Ravaioli, del 1973, e
Dalla parte delle bambine di Elena Gianini Belotti, sempre del 1973.
Carla Ravaioli muove da un preciso presupposto: l’analisi del ruolo sociale
maschile e la dimostrazione di come la norma venga indotta nell’uomo
attraverso una pressione coercitiva analoga a quella cui è soggetta la donna,
cioè «capire le ragioni storiche di un modello culturale» (Ravaioli 1973: 3-
4). Vale forse la pena sottolineare come, allora, parlare delle maschilità come
esito di un processo di costruzione sociale, non fosse affatto banale. Gli studi
sulle maschilità sarebbero nati solo una decina di anni più tardi in Gran
Bretagna e negli Stati Uniti (Piccone Stella, Saraceno 1996), e in Italia
avrebbero ricevuto un’attenzione di rilievo solo a partire dalla seconda metà
degli anni Novanta. Carla Ravaioli può, dunque, essere considerata una
precorritrice, e le sue considerazioni sulla necessità di una liberazione
maschile come «l’altra faccia della liberazione della donna» (1973: quarta di
copertina), apparivano in quegli anni estremamente innovative, in quanto
permettevano finalmente di posare lo sguardo su una dimensione – la(le)
maschilità – solitamente invisibile in quanto resa neutra dal suo essere
dominante.
Gianini Belotti struttura il suo lavoro in modo simile a quello di Ravaioli,
focalizzando però l’attenzione sulle bambine e analizzando i
condizionamenti sociali che si sviluppano già a partire dal momento della
gravidanza. L’autrice, individuando i meccanismi di base della riproduzione
della “femminilità”, mostra esplicitamente quest’ultima come una categoria
sociale, anzi ideologico-sociale, messa in opera da condizionamenti culturali
pervasivi ed efficaci.
Il contributo di Elena Gianini Belotti è stato sicuramente un passaggio
fondamentale. L’opera ha mostrato (e continua a mostrare) l’influenza dei
condizionamenti sociali che si manifestano nei gesti del quotidiano e che
intervengono dalla nascita sulla formazione di un ruolo femminile aderente
alle aspettative sociali. Che si tratti di comportamenti dei genitori, di gioco o
di trasmissione di valori di genere, i processi di socializzazione di genere
portano a un’opposizione binaria, non neutra e gerarchica tra maschile e
femminile.
Processo di cultura e non di natura, questo modo di strutturare i rapporti tra
donne e uomini si inscrive in un continuum di norme, principi e pratiche
storicamente trasmessi. Concretamente, una tale strutturazione risulta dal
processo di adattamento alle condizioni ideologiche, religiose, culturali e
sociali nel quale si attua. I processi di socializzazione convergono verso
un’unica direzione, che è quella di trasporre quasi automaticamente nelle
pratiche quotidiane gli stereotipi sessuali, rendendo molto difficile resistere
al loro contenuto cognitivo e ideologico (Aa. Vv. 2010).
Gli studi femministi e gli studi di genere3 vantano una produzione
scientifica ormai pluridecennale, che ha dato vita a uno scenario ricco e
sfaccettato, sempre in movimento, caratterizzato da prospettive e
posizionamenti differenti. Non è dunque sempre facile, per una persona non
esperta, orientarsi, e la difficoltà è forse alimentata anche dall’uso di un
linguaggio a volte non immediatamente accessibile. La ricostruzione del
dibattito esula dalle finalità di questo saggio, ma cercheremo qui di fare
chiarezza su alcuni concetti cardine che ritroveremo nel corso del libro.
Questo perché crediamo che la sociologia debba rendersi comprensibile,
uscire dalle mura dell’accademia e tornare alla società, per offrire a tutte e
tutti gli strumenti per disvelare e riconoscere i meccanismi che, a volte, ci
intrappolano, e che favoriscono la riproduzione di diseguaglianze,
discriminazioni e, finanche, violenze.
I paragrafi che seguono, dunque, sono da intendersi come una sorta di
glossario ragionato, che non intende essere esaustivo, ma semplicemente
funzionale alla lettura del libro.

2.1. Il genere

Da qualche anno a questa parte si parla moltissimo di genere. Molto di più


di quanto non si facesse anche solo vent’anni fa. Se ne parla in alcuni ambiti
del dibattito scientifico, nelle trasmissioni televisive, alla radio, sui giornali,
nell’arena politica. A scuola difficilmente se ne parla, e negli ultimi anni è in
atto una violenta campagna denigratoria − e sempre di più anche
intimidatoria4 − per impedire che se ne parli. Ma in generale, è ormai
difficile che una persona non abbia mai sentito nominare la parola “genere”.
Se ne parla spesso e in molti modi: a volte con competenza, a volte in
modo ingenuamente superficiale (genere come sinonimo di donne), non di
rado in modo volutamente deformato e demonizzante. Poche persone, però,
a dispetto di questo proliferare di discorsi, sarebbero in grado di spiegarne il
significato. Forse anche perché è un concetto sfaccettato che costruisce, ma
allo stesso tempo permette di comprendere, la realtà.

Il concetto di genere si riferisce ai modi in cui le società definiscono, nello spazio e


nel tempo, la(le)femminilità e la(le)maschilità (le donne sono…; gli uomini sono…).

Proviamo ad andare per ordine, cercando di fare chiarezza, salvaguardando


però la complessità e la ricchezza.
Come scrivevano Simonetta Piccone Stella e Chiara Saraceno più di
vent’anni fa, in un libro che ha contribuito alla diffusione degli studi di
genere in Italia: «Il genere propone un nome per il modo sessuato con il
quale gli esseri umani si presentano e sono percepiti nel mondo: nella società
convivono due sessi e il termine “genere” segnala questa duplice presenza»
(Piccone Stella, Saraceno 1996: 8).
Le autrici parlano di duplice presenza perché nella nostra cultura prevale
una concezione rigidamente binaria ed eteronormativa della società, in base
alla quale si dà per assunta una relazione chiara tra le caratteristiche sessuali
del corpo, il genere e l’orientamento sessuale. In altre parole: se alla nascita
il mio corpo ha una vagina, sarò definita femmina e addestrata a
comportarmi da femmina per diventare donna («donna non si nasce», De
Beauvoir 1949), e si darà per scontato che da grande mi innamorerò dei
maschi. Non sono previsti corpi dalla sessualità indefinita5, transizioni
(specie se incomplete), né orientamenti sessuali6 non conformi.
Eteronormatività e ineguaglianza di genere sono quindi strettamente
connesse (Butler 1990).
Il genere, dunque, ci dice chi siamo (come abbiamo visto,
inequivocabilmente femmine o maschi, anche se esistono diversi modelli di
femminilità e di maschilità), ma soprattutto chi dovremmo essere, come
dovremmo comportarci e presentarci al mondo in virtù delle caratteristiche
sessuali del nostro corpo, e finanche di chi dovremmo innamorarci. Le
bambine e i bambini, come vedremo, imparano prestissimo a mettere in
scena femminilità e maschilità considerate adeguate, e sanno bene che in
queste rappresentazioni nulla può essere lasciato al caso: il modo di
muoversi, vestirsi, parlare, ridere, piangere, giocare, sporcarsi, porsi in
relazione con gli adulti e con il mondo dei pari, attraversare lo spazio
pubblico e rapportarsi alla sessualità. Il genere è, dunque, anche un fare che
poniamo in essere per andare incontro alle aspettative delle persone che ci
circondano (West, Zimmerman 1987), che allo stesso tempo definisce e
costruisce.
Il genere si mostra così come una struttura produttiva delle relazioni
interpersonali, si rapporta ai corpi7 e produce pratiche sessuate che hanno
effetti sulle nostre vite personali e sulla riproduzione (non solo biologica)
della società (Connell 2006). In questo senso può essere considerato un
processo in perenne divenire:
Caratteristica del genere è che esso è un dispositivo variabile (dal punto di vista storico e
geografico), contrastivo (dato che un genere si definisce per opposizione all’altro), relazionale (si
circoscrive nell’interazione con gli altri e le altre) e scalare (dato che possiamo definire una donna
più femminile di un’altra o un uomo più virile di un altro). Le differenze di genere, poi, non essendo
date ma socialmente costruite, sono sottoposte a processi discorsivi che le mantengono, riproducono,
trasformano o che le creano. Il genere non è quindi un oggetto, ma un processo continuo di
produzione e riassestamento di schemi socio-culturali (Burgio 2015: 183).
Il genere, da intendersi come processo, produce identità (a volta
costrittive), definisce criteri di inclusione ed esclusione, plasma le traiettorie
biografiche delle persone, influenzando preferenze (si pensi ai corsi di
studio, per esempio) e favorendo meccanismi di esclusione e auto-esclusione
rispetto a lavori o settori del mercato non considerati consoni all’uno o
all’altro genere. Il genere ha, quindi, effetti concreti sulle nostre vite, e
rappresenta, altresì, un importante principio organizzatore della società
poiché influenza:

– l’organizzazione del lavoro familiare (chi si occupa del lavoro domestico


e di cura, e chi fa che cosa);
– le caratteristiche del mercato del lavoro (chi accede a certi lavori e a certe
carriere, chi ha maggiore probabilità di trovare o perdere lavoro, chi
guadagna di più, a chi vengono affidate certe mansioni);
– la cultura del lavoro all’interno delle organizzazioni (la strutturazione
degli orari, e i criteri di affidamento di incarichi, mansioni e promozioni);
– i tempi della società (gli orari delle scuole dell’infanzia e delle scuole
primarie, e delle riunioni scolastiche, per esempio);
– il tipo di welfare (quali servizi e per chi);
– l’organizzazione dello spazio pubblico (quali campi da gioco per esempio
– calcio vs. pattinaggio −, ma anche le regole non scritte su chi, come e
quando può attraversare questi spazi);
– e finanche la regolamentazione formale o simbolica della sessualità e
della violenza di genere (si pensi agli interventi in materia di prostituzione,
violenza sessuale e omo-trans-fobia, ma anche alle sanzioni sociali e ai
meccanismi di creazione dello stigma).

Infine, il genere può diventare uno sguardo sul mondo (Abbatecola, Fanlo
Cortés, Stagi 2012), una lente attraverso la quale leggere e interpretare le
diverse dimensioni del vivere sociale, una modalità del conoscere e del
giudicare (Bimbi 1987, 2003). Il genere può essere inteso anche come
concetto analitico-critico, poiché, come sottolinea Busoni, consente di
riunire in un’unica immagine «tutto quel che vi è di sociale, costruito e
arbitrario nella ripartizione delle differenze tra sessi, mettendo in luce sia la
variabilità tra una società e l’altra, sia la possibilità di mutamento di quella
attribuzione» (Busoni 2000: 279).

2.2. Ordine di genere, potere ed egemonie

Il concetto di genere, che ha cominciato a prendere forma nel dibattito


femminista degli anni Settanta8, ha modificato in modo straordinario lo
sguardo sulla società e sul vivere sociale poiché ha reso visibili rapporti di
dominazione prima invisibili: il patriarcato e l’eternormatività. Il genere ha
così disvelato l’esistenza di un ordine nel quale le differenze si fanno
gerarchia a giustificazione dei rapporti di potere. Il rapporto tra genere e
potere è, infatti, inestricabile (Scott 1988).

L’ordine di genere, invisibile e naturalizzato, è il complesso dei modelli culturali e


delle pratiche umane che concorrono a definire le femminilità e le maschilità e a
regolare le relazioni di potere tra uomini e donne. L’ordine di genere è persistente ma
non immutabile.

Secondo Raewin Connell (2006) ogni società ha un proprio ordine di


genere, composto dall’insieme dei regimi di genere – vale a dire delle
relazioni di genere – che caratterizzano ogni singola istituzione sociale. In
particolare, l’autrice ha in mente tre dimensioni rilevanti, distinte, ma
interdipendenti: il lavoro, che riguarda la divisione sessuale delle attività, in
ambito sia professionale sia familiare; il potere, che opera attraverso
relazioni sociali basate sull’autorità, sulla violenza o sull’ideologia; la
catessi, che concerne la dinamica dei rapporti intimi, affettivi, ed emozionali.
Un aspetto importante di questa proposta teorica consiste nel rilievo al
cambiamento come possibile. Scrive l’autrice:
I regimi di genere vigenti nelle diverse istituzioni di solito corrispondono all’ordine di genere di una
società; talvolta, però, possono anche allontanarsene. Questo è un punto importante per quanto
riguarda il cambiamento: alcune istituzioni cambiano velocemente, altre restano indietro; o, per dirla
in altre parole, il cambiamento spesso ha inizio in un settore della società e ci vuole tempo perché
filtri anche negli altri (Connell 2006: 106).

Le gerarchie che attraversano l’ordine di genere di una società non sono


solo quelle tra uomini e donne, poiché vi sono gerarchie anche entro
l’ambito delle maschilità e delle femminilità. Come ci ha insegnato il
femminismo dell’intersezionalità (Lorde 1981; Crenshaw 1989; Collins
1990), di cui si è parlato nel capitolo precedente, le diseguaglianze si
delineano lungo una varietà di altre dimensioni trasversali, quali, per
esempio: la razza − da cui ha preso avvio il dibattito sull’intersezionalità nel
femminismo nord americano −, la classe sociale, l’età, la nazionalità, la
sessualità.
Un concetto molto rilevante e discusso, che noi riprenderemo più volte nel
corso della riflessione sulla nostra ricerca, è quello di maschilità egemonica,
che ha trovato larga diffusione a partire dal saggio di Connell sulle
Maschilità (1995), e che è stato rivisitato dieci anni più tardi da Connell
stessa e da Messersschmidt anche alla luce del dibattito ricco e proficuo
sollevatosi attorno al concetto.

Il concetto di maschilità egemonica fa riferimento a un modello di maschilità


vincente in un contesto spazio-temporale dato, purché questo legittimi le disparità di
potere tra uomini e donne. Le maschilità dominanti, infatti, non sono necessariamente
egemoniche perché non è detto che giustifichino le diseguaglianze di genere.

Le maschilità egemoniche possono essere plurali e/o ibride (Demetriou


2001), e le maschilità subordinate godono di agency e possono sperimentare
gradi diversi di oppressione e riconoscimento anche nel medesimo contesto
locale. Nell’analisi delle maschilità, avvertono Connell e Messerschmidt, è
opportuno tenere conto dei tre livelli locale, regionale e globale e delle
interazioni tra questi (Connell, Messerschmidt 2005).

2.3. Gli stereotipi di genere

Uno stereotipo è una visione semplicistica e riduttrice della realtà.


Fare uso di stereotipi è categorizzare e stigmatizzare un gruppo di individui
attraverso una generalizzazione delle caratteristiche che si considerano
comuni a questo gruppo. Si tratta prima di tutto di credenze e immagini
parziali della realtà, attribuite al soggetto come caratteristiche personali,
generalmente tratti di personalità, ma anche comportamenti attesi, di un
gruppo di persone (Bosche 2005).
Gli stereotipi sono un prodotto culturale che corrisponde all’epoca nella
quale si iscrivono. Non sono fissi né immutabili (Leyens,Yzerbit, Schadron
1996), ma sono persistenti al cambiamento perché, come sottolinea Chiara
Volpato (2013), si perpetuano attraverso l’autostereotipizzazione, vale a dire
la pratica di attribuire a se stesse/i le caratteristiche delineate nello
stereotipo. La psicologa sociale sottolinea anche come gli stereotipi di
genere siano «più prescrittivi di quelli razziali o etnici, sia perché vengono
appresi molto presto nel corso dell’infanzia, sia perché si sviluppano sulla
base di molteplici esperienze personali più di quanto non succeda per quelli
di altri gruppi sociali» (2013: 31).
Gli stereotipi si caratterizzano e svolgono una funzione in quanto sono:

– riduttori: si basano su una semplificazione arbitraria della realtà che


sfugge alla conoscenza diretta;
– cristallizzati: costituiscono una categoria rigida raramente conforme alla
realtà; essi possono anche essere mutevoli per permettere una riproduzione
e far posto al cambiamento sociale;
– autosufficienti: servono a “risparmiare” sulla riflessione e la messa in
discussione;
– globalizzanti: non si prestano a un pensiero rivolto alla soggettività e alla
differenziazione;
– ripetitivi: sono utilizzati e ripresi senza attenzione alle circostanze e alla
pluralità del reale;
– valutativi: raramente sono neutri e i loro effetti possono essere
difficilmente positivi nella negoziazione dei rapporti sociali di classe, razza
e sesso (Aa. Vv. 2010).

Gli stereotipi sessuali si basano sul sesso biologico delle persone per spiegare i
comportamenti, i tratti di personalità, le competenze ma, anche, i differenti ruoli di
donne e uomini nella società.
Si tratta di una generalizzazione arbitraria che, basandosi su una differenza
sessuale, permette di esplicitare e giustificare le diseguaglianze e le
discriminazioni esistenti tra uomini e donne. La difficoltà sta proprio nella
naturalizzazione delle differenze, che porta a considerarli ovvi e scontati.
Gli stereotipi sessuali sono resistenti agli attacchi e ai tentativi di
superamento poiché essi hanno un potere reale nella costruzione delle
rappresentazioni sociali dei soggetti femminili e maschili, come anche
dell’idea che maschi e femmine hanno di sé stessi e delle realtà nella quale
vivono. Lo stereotipo della “buona madre”, con tutti gli attributi di cui è
portatore (generosità, accoglienza, bontà) è esempio di uno stereotipo di
genere che genera una serie di aspettative, e quindi comportamenti attesi,
che possono contribuire a condizionare la costruzione dell’identità
femminile, ma non appare come negativo (Aa. Vv. 2010).

Gli stereotipi sessisti sono invece la parte più potente e violenta degli stereotipi
sessuali. Generalmente veicolano una concezione negativa delle donne o hanno un
intento discriminatorio.

Tuttavia, è bene sottolineare che la differenza tra stereotipi sessuali e


sessisti può essere a volte fuorviante perché, in realtà, sono entrambi
portatori di conseguenze nei termini di comparazione e contrapposizione dei
generi. In particolare, è da notare come anche gli stereotipi sessuali
contribuiscano e partecipino alla riproduzione del sessismo attribuendo
comportamenti e attitudini specifici a femmine e a maschi e che, anzi, poiché
sono più difficilmente riconoscibili e meno stigmatizzati socialmente
(oramai il politically correct limita anche l’uso degli stereotipi sessisti),
risultano anche più difficili da contrastare e sradicare.

Riassumendo:

gli stereotipi sessuali: rinviano a un’immagine ideale (i modelli di genere);

gli stereotipi sessisti: riguardano il confronto e la discriminazione tra i generi.


Gli stereotipi si acquisiscono da diverse fonti, alcuni si basano sulle norme
e le credenze della nostra cultura. Possono essere appresi semplicemente
guardando la televisione, leggendo certi libri e giornali, discutendo con gli
amici. Gli stereotipi sono anche trasmessi dalle istituzioni della nostra
società, come per esempio, la famiglia e la scuola (Gosselin 2000).

2.4. Educazione di genere e pedagogia di genere

Con educazione di genere si intende «l’insieme dei comportamenti, delle azioni, delle
attenzioni messi in atto quotidianamente, in modo più o meno intenzionale, da chi ha
responsabilità educativa (genitori, insegnanti, eccetera) in merito al vissuto di genere,
ai ruoli di genere e alle relazioni di genere delle/dei giovani e delle/dei
giovanissime/i» (Leonelli 2016: 46).

Se l’educazione di genere non è sottoposta al vaglio critico può


configurarsi come una mera pressione omologatrice alla tradizione (Leonelli
2011: 1-2). Laddove l’educazione di genere è pensata, organizzata,
concordata, ovvero laddove è ottimale, prevede percorsi costruiti ad hoc sia
finalizzati a evitare la cristallizzazione degli stereotipi legati all’identità di
genere e ai ruoli di genere; sia rivolti a promuovere la costruzione
individuale della persona, riconosciuta nella sua infinita processualità
(ibidem). Secondo la proposta di Gamberi et al. (2010), si possono
distinguere:

– un’educazione sul genere inteso come oggetto (che fornisce alle/ai


discenti informazioni, contenuti);
– un’educazione al genere (che si concentra sul vissuto, sull’elaborazione
personale, sulla decostruzione degli stereotipi);
– un’educazione di genere (che assume un’ottica sessuata, che percepisce la
sessuazione dei contenuti culturali e che adotta una metodologia basata sul
riconoscimento della differenza sessuale).
Con pedagogia di genere si intende la riflessione sull’educazione di genere, condotta
da pedagogiste/i, coordinatrici/ori di servizi educativi, esperte/i nei processi formativi
(Leonelli 2011: 3).

La pedagogia di genere procede invece a livello meta. Se le famiglie e gli


altri agenti di socializzazione realizzano una qualche forma di educazione di
genere, è poi compito delle/dei professioniste/i dell’educazione analizzare le
caratteristiche, le linee guida, gli assunti che riguardano quel fare.
La pedagogia di genere si occupa, in particolare, dei seguenti aspetti:

– rilevare i modelli impliciti di bambine e bambini cui fanno riferimento


quotidianamente le insegnanti, le educatrici, le famiglie;
– osservare come quei modelli si traducano nella pratica (regole, rinforzi,
sanzioni, eccetera);
– confrontare l’educazione di genere contemporanea con le istanze della
tradizione (che permangono inavvertite sullo sfondo) e con le più recenti
acquisizioni sul genere (teoriche ma anche legate a nuovi atteggiamenti
sociali);
– studiare i legami tra l’educazione di genere, praticata oggi comunemente,
e il mondo globale dell’educazione (le traiettorie, gli obiettivi, eccetera), al
fine di verificarne congruenze e lontananze (Leonelli 2011: 3).

2.5. La socializzazione di genere

La socializzazione è il processo mediante il quale le aspettative della


società vengono insegnate e apprese. Pertanto attraverso la socializzazione
al/di genere – definita anche differenziata − le donne e gli uomini
apprendono le aspettative associate dalla cultura al loro sesso, le quali
incidono sul concetto di sé, sugli atteggiamenti sociali e politici, sul modo in
cui stabiliscono e intrattengono relazioni (Lombardi 2005).

La socializzazione di genere è il processo mediante il quale gli attori sociali


forniscono elementi al soggetto affinché possa negoziare e consolidare la propria
appartenenza, i ruoli e le aspettative di genere (Ghigi 2009).

Dalla nascita si viene socializzati in modi differenti in funzione dei


significati che i modelli culturali prevalenti costruiscono in funzione del
nostro sesso biologico e degli stereotipi a essi associati: le ragazze imparano
a diventare donne, i ragazzi uomini. Si acquisiscono un genere, un’identità,
dei ruoli, e si apprendono i comportamenti che, agli occhi della società,
corrisponderebbero al nostro sesso.
Donne e uomini interiorizzano le norme specifiche convenzionalmente
associate al loro sesso attraverso il processo di socializzazione. Apprendono
quindi che cosa sarebbe “naturale” fare in quanto nate e nati in corpi
sessuati.

Per ruoli di genere s’intende l’insieme delle aspettative di comportamento associate


alla femminilità e alla maschilità. In quanto socialmente costruite, queste aspettative
possono mutare nello spazio e nel tempo.

Come per altre forme di socializzazione anche per quella di genere contano
le molte agenzie di socializzazione come la famiglia, la scuola, le parrocchie,
i mass media, la cultura popolare, e altre ancora. Chiaramente la
socializzazione al genere è rafforzata ogni qual volta i comportamenti
vengono approvati o disapprovati dalle varie agenzie.

2.6. I meccanismi e gli agenti della socializzazione di genere

Dai primi mesi della loro vita, cioè molto prima di imparare a verbalizzare,
le bambine e i bambini utilizzano essenzialmente due categorie sociali per
comprendere il mondo che li circonda: il sesso e l’età. In tutti gli stadi del
loro sviluppo, bambine e bambini costruiscono, attivamente e
soggettivamente, che cosa significhi essere maschi o essere femmine. Sono
diverse le tappe che portano a questa costruzione e passano attraverso tempi
e situazioni; solo verso i cinque-sette anni avviene la piena integrazione del
concetto.
Gli studi sulle conoscenze delle bambine e dei bambini in materia di
stereotipi di genere, mostrano come questi ultimi siano acquisiti molto
rapidamente nel loro sviluppo. A partire dai venti mesi, i bambini e le
bambine hanno già degli oggetti preferiti tipici del genere di appartenenza e
dai due-tre anni hanno già delle conoscenze sostanziali sulle attività,
professioni, comportamenti e aspettative stereotipicamente attribuite a
ciascun genere (Dafflon Novelle 2004). La conoscenza degli stereotipi di
genere prevalenti aumenta considerevolmente con l’età, in particolare
rispetto a ciò che ci si aspetta dal proprio sesso, e con essa aumenta
l’attenzione alle convenzioni sociali e al loro rigoroso rispetto. Dai sette ai
dodici anni c’è un periodo di maggiore flessibilità in termini di
comportamenti e manifestazioni sessuate, mentre nell’adolescenza si ritorna
a una più accentuata rigidità, e questo è dovuto al necessario bisogno di
confinamento rispetto alle modificazioni corporee e alla necessità di
ancorare la propria costruzione identitaria.
2.6.1. La famiglia
Bambine e bambini ricevono una socializzazione molto differente sia
all’interno della famiglia sia nel contesto scolastico. Come è noto, tuttavia, la
famiglia è l’agenzia di socializzazione primaria ed è qui che si apprendono i
primi comportamenti di genere rispetto ai ruoli, ai luoghi di gioco e ai giochi
stessi, a fare più o meno capricci, a occuparsi degli altri o a affermare
principalmente se stessi. I processi di socializzazione, tuttavia, non sono tutti
uguali, e si riscontrano delle differenze tra tipi di famiglie e strati sociali: per
esempio, nelle famiglie in cui le donne lavorano fuori casa, in quelle
omogenitoriali, oppure di alto capitale culturale ed economico, è possibile
che la definizione dei ruoli sia meno rigida (Anderson, Taylor 2004,
Ottaviano 2016, Trappolin, Tiano 2015).
Fin da principio i processi di costruzione sociale del femminile e del
maschile favoriscono la produzione di traiettorie, aspettative e parole
differenti: già dalla nascita i genitori descrivono diversamente le/i loro
figlie/i (delicate, belle e tenere le prime, grandi, forti con tratti marcati i
secondi), contornano la neonata/o di oggetti e colori sessuati e, anche a
livello emotivo, interpretano i suoi segnali in modo differente: se una
neonata piange sarà perché ha paura, se piange un neonato sarà perché è
arrabbiato (Zaouche-Gaudron 2002; Mosconi 1999). Tutti questi
comportamenti differenziati, che vengono adottati in funzione del sesso di
una/o neonata/o, andranno perciò a influenzare il suo sviluppo. I genitori e i
parenti tendono a incoraggiare le bambine e i bambini a conformarsi ai ruoli
associati dalla società al loro sesso di appartenenza, e a scoraggiare ogni
comportamento percepito come proprio del genere opposto. Questi rinforzi
differenziati dei genitori sono più marcati fino al secondo anno di vita e
riguardano diverse dimensioni, dalla scelta dei giochi, alle emozioni
accettate o scoraggiate (“non piangere: sei un maschio!”), fino alle
manifestazioni di dipendenza femminile contro l’indipendenza maschile. Da
questa età in avanti, i bambini e le bambine andranno a conformarsi essi
stessi agli stereotipi di genere e dai tre anni in poi saranno coscienti dei
comportamenti differenziali degli adulti in base al genere: saranno capaci,
per esempio, di prevedere che un adulto sceglierà una bambola per una
bambina e una macchinina per un bambino (Dafflon Novelle 2004).
2.6.2. Il gruppo dei pari
Chiaramente, il momento in cui bambine e bambini iniziano e giocare in
compagnia è un momento interessante, perché mette in evidenza l’esistenza
dei confini di genere, perciò i genitori tenderanno a favorire gli incontri con
coetanei appartenenti allo stesso sesso. Questo fenomeno, presente in molte
culture, si osserva più precocemente nelle bambine che nei bambini (due
anni contro i tre anni). Dai cinque anni in poi, però, sono i maschi a mostrare
più marcatamente la preferenza a giocare con appartenenti al loro stesso
genere (Aa. Vv. 2010).
Bambole e automobiline sono prefigurazioni di ambiti sociali; il rosa e il
celeste (insieme a molti altri segnali), simboli di quegli ambiti. Comportarsi
“da maschiacci” è sconfinare in uno spazio già riservato ad altri; comportarsi
“da femminucce” è scadere da uno status ritenuto superiore. Fin da quando
siamo piccolissime/i ci viene insegnato che ciò che fanno femmine e maschi
è diverso (e che è giusto che sia così), e che a ciascuno di questi gruppi è
attribuito un valore e prestigio sociale differente (Busoni 2000: 22).
Maccoby (1990) ha mostrato che, qualsiasi sia l’origine di questa forte
volontà a evitare l’altro genere, è importante sottolineare che è solo
indirettamente collegata alla pressione degli adulti, nel senso che la scelta si
fonda su criteri di affinità di giochi e comportamenti. Le bambine
preferiranno giochi più calmi, cooperando verbalmente e rivolgendosi agli
adulti in caso di necessità, mentre i bambini, si mostreranno più turbolenti,
preferiranno giochi più competitivi, instaurando gerarchie all’interno del
gruppo basate su forza e carisma. È evidente che i rinforzi a questi
comportamenti sono un indirizzo sociale non evidente ma assolutamente
pregnante.

I rinforzi consistono nell’incoraggiare comportamenti percepiti dalla società come


conformi al proprio genere di appartenenza, e scoraggiare ciò che è considerato tipico
dell’altro. Perciò il comportamento sarà modificato in funzione delle conseguenze:
ripetuto se è stato apprezzato (rinforzo positivo) e abbandonato se non ha avuto
apprezzamento o è stato scoraggiato.

Verso i tre-quattro anni la maggior parte delle bambine e dei bambini ha


già imparato a evitare le attività considerate proprie del genere opposto e a
concentrare l’attenzione su quelle ritenute appropriate per il genere di
appartenenza e, parallelamente, ha maggior coscienza degli stereotipi
sessuati legati ai giochi attribuiti al proprio genere che a quelli dell’altro (Aa.
Vv. 2010).
I maschi sono molto più scoraggiati a intraprendere comportamenti ritenuti
femminili di quanto non lo siano le femmine rispetto ai comportamenti
considerati maschili (“non fare la femminuccia” è più forte come rinforzo di
“non fare il maschiaccio”, per ragioni che comprenderemo meglio nei
prossimi capitoli). In alcuni esperimenti, per esempio, le bambine
sceglievano giochi anche maschili con frequenza maggiore di quanto non
facessero i bambini rispetto ai giochi femminili, e i maschi mostravano così
di aver interiorizzato la forte disapprovazione sociale connessa agli
sconfinamenti in “territori” femminili (Dafflon Novelle, 2004).
Bambine e bambini apprendono i modi “appropriati” di “fare genere”
anche attraverso l’imitazione: osservando, imparano a riconoscere i
comportamenti considerati femminili e maschili – quali sono messi in atto
più spesso da donne e raramente dagli uomini, e viceversa − per poi
riprodurli, per esempio, attraverso il gioco (Aa. Vv. 2010).
2.6.3. Altri agenti di socializzazione
Molti degli apprendimenti avvengono per via mediatizzata: televisione,
cartoni animati e pubblicità, video giochi e giochi, sono territori di grande
stereotipizzazione, ma lo sono, purtroppo anche i libri, i giochi interattivi del
pc, i manuali scolastici. Diverse ricerche hanno mostrato quanto questi
materiali, molto spesso così fortemente impregnati di sessismo, influenzino i
bambini e le bambine, ma soprattutto queste ultime: la mancanza di modelli
di riferimento, la conformità ai ruoli tradizionali, la scelta delle professioni
sono alcune delle principali conseguenze (Biemmi 2010).
Anche lo sport e, in generale, le attività svolte nel tempo libero sono
territori di divisione e rafforzamento delle differenze di genere (Stagi 2015).
I riflessi di questa separazione nelle attività si riverberano a tanti livelli:
nello sviluppo di capacità e competenze, nella costruzione e percezione dei
sé, nei modelli relazionali, come anche nella rappresentazione dei corpi,
aspetto quest’ultimo di cui si parlerà più specificatamente nel sesto capitolo.
2.6.4. La scuola
Nella scuola dell’infanzia, bambine e bambini costruiscono sistemi amicali
complessi e condividono con i loro pari codici culturali molto specifici.
Questo tipo di affiliazione è legata alle norme sociali. Bambine e bambini
sviluppano prestissimo una cultura marcata da ruoli sessuati che vengono
prodotti dalla socializzazione differenziata, familiare e scolare. Si tratta di un
processo dialettico all’interno del quale l’attività dei bambini e delle
bambine e la socializzazione orizzontale giocano un ruolo centrale. Lo
sviluppo di culture infantili nella scuola dell’infanzia contribuisce a
rinforzare gli stereotipi veicolati dalla socializzazione di genere familiare, e
partecipa alla cocostruzione dell’identità di genere (Aa. Vv. 2010).
Gli studi già citati hanno evidenziato come bambine e bambini preferiscano
gruppi omogenei rispetto al genere e come questa tendenza aumenti nel
corso della scuola dell’infanzia fino a un picco di rigidità verso i quattro-
cinque anni. Ciò porta i maschi a rifiutare (critiche, abbandono di gioco e di
attenzione) ciò che non considerano conforme ai ruoli di genere a loro
attribuiti.
Bisogna inoltre sottolineare che i gruppi di bambine e bambini così formati
presentano un certo numero di peculiarità. I maschi creano, durante la scuola
dell’infanzia, gruppi di pari piuttosto netti, marcati dal contatto fisico più
forte e conflittuale. Giocano più spesso a inseguirsi, a pallone o fanno la
lotta, tutte attività che rafforzano e marcano lo spirito di competizione
(Dafflon Nouvelle 2004). Sul piano comunicativo i maschi spesso
interrompono chi parla e anche loro s’interrompono se non hanno più voglia
di comunicare. Le femmine, al contrario, tendono a formare gruppi più
piccoli, a prendere poco spazio fisico, a fare giochi simbolici e, spesso, di
imitazione di ruoli di adulti, in particolare materni e familiari. Dal punto di
vista comunicativo, le bambine sono in generale più rispettose della parola
dell’altro e si arrestano per dare spazio di parola. Tutte questi
comportamenti, che come abbiamo visto sono indotti soprattutto dalla
famiglia, ma anche dalle altre agenzie di socializzazione, si rafforzano e si
stabilizzano proprio nel gioco libero tra pari che avviene nella scuola
dell’infanzia e, già all’inizio della scuola primaria, la cultura infantile di
genere è piuttosto riconoscibile e produce conseguenze importanti. Le
bambine appaiono più pronte a essere integrate sia nelle scuola dell’infanzia
sia nella primaria, perché la vivono come un prolungamento della vita
familiare, mentre i bambini svilupperanno con gli anni una maggiore
competitività scolare, alla quale vengono addestrati attraverso gli sport, i
rapporti conflittuali nei giochi e modelli vincenti di riferimento (Aa. Vv.
2010).
Attraverso la stigmatizzazione, la discriminazione e la categorizzazione
che avviene tra pari, si rafforzano i confini di genere, tanto che più i bambini
e le bambine passano tempo con i loro pari più i loro comportamenti saranno
differenziati. Per i bambini e le bambine, infatti, questo tipo di adesione è un
ausilio alla costruzione e alla conferma della loro identità di genere, ma non
si può non considerare che tutti gli elementi di questo tipo di processo
originano e sono rafforzati dalla famiglia e dal contesto scolastico (Mieyaa,
Rouyer 2011).
È chiaro e riconosciuto come le insegnanti e gli insegnanti, per la relazione
privilegiata e le loro interazioni linguistiche e pedagogiche con le allieve e
gli allievi, abbiano un ruolo fondamentale nella rappresentazione che maschi
e femmine si fanno dei rapporti uomo-donna. Spesso le insegnanti e gli
insegnanti partecipano a questa riproduzione inconsciamente, attraverso
gesti, parole o comportamenti di rinforzo e condizionamenti che trovano un
terreno fertile nell’essere già stati percepiti in famiglia. Guidati dalle proprie
rappresentazioni stereotipizzate, riguardanti le capacità cognitive
differenziate di maschi e femmine, le/gli insegnanti rischiano di trasmetterle
inconsciamente agli allievi e alle allieve, incoraggiando, meno le bambine
che i bambini, per esempio, ad adottare comportamenti autonomi o a
prendere delle iniziative. Il trattamento differenziato delle attitudini e delle
competenze (di quelle che si percepiscono come tali) delle/dei bambine/i,
partecipa al processo di riproduzione delle diseguaglianze sociali. La stessa
lingua strutturata sul maschile neutro è «uno specchio culturale che fissa le
rappresentazioni simboliche e si fa eco di stereotipi e pregiudizi e la nozione
di “uomo” come luogo dell’essere umano rinvia la donna a un non luogo»
(Baudoux e Noircent 1993: 155). Spazio di apprendimento della lingua, la
scuola costituisce, per il fatto stesso di utilizzarla, un territorio di
trasmissione costante della simbolizzazione dei generi e della costruzione
sociale della differenziazione e della gerarchizzazione dei sessi.
La socializzazione differenziata prende forza dal solo fatto che esiste la
coabitazione di due gruppi categorizzati e stererotipizzati in modi precisi e
simmetrici.

2.7. Ripensare il concetto di socializzazione. Il coprotagonismo delle


bambine e dei bambini

Il concetto di socializzazione è senz’altro utile per ricostruire, almeno in


parte, i processi che concretamente fanno sì che bambine e bambini imparino
a diventare donne e uomini, riproducendo e perpetuando così l’ordine di
genere. Tuttavia, la sociologia delle bambine e dei bambini ci offre gli
strumenti per coglierne anche i limiti.
Nella prospettiva mainstream, le analisi centrate sul processo di
socializzazione, lasciano sullo sfondo l’agire delle attrici e degli attori
sociali, offrendo l’immagine di relazioni tra le generazioni nelle quali il
ruolo creativo e costruttivo delle bambine e dei bambini rimane
costantemente fuori fuoco (La Mendola 2010). Bambine e bambini sono
solitamente rappresentate/i come soggetti passivi, ricettacoli non reattivi di
un processo di socializzazione unidirezionale e mai teso a una cocostruzione
della realtà e del vivere sociale. In realtà, le bambine e i bambini «non sono
meri ripetitori della cultura degli adulti, non si limitano cioè a emulare o
interiorizzare la realtà circostante, ma interpretano creativamente tale cultura
ed esse/i stesse/i producono culture dei pari specifiche e differenti da quelle
degli adulti» (Satta 2012: 54). La sociologia dell’infanzia parla, in questo
senso, di «riproduzione interpretativa» (Corsaro 1992; 2005; 2010).

Per riproduzione interpretativa si intende quel processo per cui, bambine e bambini
assorbono la cultura degli adulti, la fanno propria e la riproducono interpretandola
creativamente nel gruppo dei pari e nelle interazioni con gli adulti, contribuendo,
così, attivamente alla produzione e al mutamento culturale (Corsaro 2010; Corsaro e
Molinari 2010).

Il concetto di riproduzione interpretativa, riconosciuto come centrale nella


sociologia dell’infanzia contemporanea, sarà, come vedremo, una lente
importante per cogliere e interpretare alcuni momenti del nostro lavoro sul
campo.

2.8. Il genere come struttura sociale

Come forse si evince da questa rapida rassegna dei principali concetti che
ci accompagneranno nel corso del lavoro, il campo di riflessione teorica dal
quale attingiamo è vastissimo, ricco, sfaccettato. Impossibile da ricostruire,
in modo esaustivo, nello spazio di un capitolo. Ci siamo nutrite di un sapere
costruito nel corso di decenni, e siamo cresciute sulle “spalle delle giganti”,
spalle molto solide.
Come abbiamo visto il concetto di genere è sfaccettato, complesso, non
autoevidente. Il genere, oltre a rappresentare un imprescindibile sguardo sul
mondo, costruisce identità, plasma relazioni e gerarchie, definisce un ordine,
rapporti di potere, criteri di inclusione e esclusione, produce effetti sia sulle
traiettorie biografiche sia sull’organizzazione sociale in diversi ambiti del
vivere (il lavoro, la famiglia, la sessualità, e molto altro). Contribuisce alla
creazione della realtà sociale, in un processo dialettico e non lineare tra
attrici e attori sociali e struttura.
A nostro parere, un contributo capace di ricomporre la complessità sopra
analizzata tenendo insieme le molteplici dimensioni in gioco, è quello di
Barbara Risman (2012; 2018), la quale propone il concetto di genere come
struttura sociale.
Fig. 1. Concetto di genere come struttura sociale

Fonte: Risman (2018)

Barbara Risman concettualizza il genere come una struttura sociale nel


quale assumono importante rilievo analitico tre livelli − individuale,
interazionale e macro/istituzionale – entro i quali entrano in gioco sia la
dimensione materiale sia quella culturale. Entro questi tre livelli, si
verificano processi che entrano in relazione dinamica tra di loro, dando vita
a effetti domino: ogni cambiamento nell’ambito di ognuno di questi, produce
effetti a catena, e nessun livello domina sugli altri.
Questa prospettiva analitica ci pare interessante perché permette di tenere
insieme e cogliere le dinamiche complesse del rapporto tra individuo e
società, riconoscendo sia gli aspetti di agency sia i condizionamenti della
struttura.
Inoltre, si presta bene come strumento analitico di fondo per leggere i
processi osservati nelle nostre classi, dove corpi e identità di genere,
plasmate dal processo di socializzazione (livello individuale), si confrontano
con stereotipi e aspettative sociali (livello interazionale), in un contesto
organizzativo (livello macro/istituzionale) definito da strategie di selezione
del personale (insegnanti preferibilmente donne), organizzazione degli spazi
e delle attività, nonché rappresentazioni condivise, non neutre dal punto di
vista del genere, in un gioco non sempre prevedibile tra incorporazione dei
modelli e «riproduzione interpretativa».

1
http://www.bbc.com/news/av/magazine-40936719/gender-specific-toys-do-you-stereotype-children
(ultima consultazione 21 agosto 2017).
2
Nell’esperimento riportato da Giddens, alcune giovani madri sono state invitate a interagire con
una bambina di sei mesi chiamata Beth e poi con un bambino chiamato Adam. Le donne tendevano a
sorridere spesso a Beth, offrendole le sue bambole per giocare. Successivamente, Beth è stata descritta
come “dolce” e i suoi gridolini come “morbidi”. Il secondo gruppo di mamme ha offerto a Adam treni
e altri giocattoli da “maschi”. Tuttavia, Beth e Adam erano effettivamente lo stesso bambino, solo
vestito in modo diverso (Giddens 2006: 170). Questo esperimento evidenzia come la socializzazione
di genere inizi fin dalla nascita, affinché bambine e bambini apprendano e interiorizzino le norme e le
aspettative corrispondenti al loro sesso biologico. In questo modo sono anche acquisiti ruoli e identità
di genere (Giddens 2006: 477-478).
3
Noi autrici, e con noi la redazione di AG-AboutGender, concordiamo con la posizione di Barbara
Risman, secondo la quale «Women and Gender Studies is by definition a feminist interdisciplinary
enterprise» (2012: 3). Tuttavia, poiché in Italia alcune femministe hanno pubblicamente preso le
distanze dagli studi di genere (pensiamo, per esempio, a Luisa Muraro, esponente di spicco del
Pensiero della Differenza italiano), così come non tutte e tutti gli studiosi di genere si riconoscono nel
femminismo, scegliamo qui di tenere analiticamente distinti i due filoni di ricerca.
4
Mentre stiamo scrivendo (settembre 2017), è notizia di cronaca il fatto che il comitato
“Difendiamo i nostri figli-Family Day” ha schedato le scuole della provincia di Bologna con bollini di
colore verde, arancione e rosso a seconda dell’infiltrazione della cosiddetta “ideologia del gender”. Per
saperne di più sulla crociata antigender, si vedano i contributi di: Sara Garbagnoli (2014), Giulia Selmi
(2015) e Emanuela Abbatecola (2017), Michela Marzano (2015) e Chiara Lalli (2016).
5
L’intersessualità – definita dalla presenza di caratteri sessuali che non rientrano nelle tipiche
nozioni binarie del corpo maschile o femminile − mette in discussione questo ordine binario, e per
questo la tendenza è quella di intervenire precocemente sui caratteri sessuali senza attendere lo
sviluppo di un’identità di genere autodiretta (come si percepisce la persona). Per le stesse ragioni, in
alcuni paesi la “riassegnazione chirugica” del sesso è considerata un prerequisito fondamentale ai fini
dell’assegnazione del nome sociale di una persona in transizione.
6
Negli ultimi quindici anni, anche nel nostro paese, si sono registrati significativi segnali di apertura
nei confronti degli orientamenti sessuali considerati non conformi (omosessualità e bisessualità), ma
l’omofobia rimane un problema molto grave, ancora non riconosciuto dal nostro ordinamento sul
piano legislativo. L’omosessualità fa ancora molto paura perché mette in discussione l’ordine sociale.
7
Il sesso non è da considerarsi come qualcosa di oggettivamente dato e distinto dal genere. Il
rapporto tra corpi e genere, infatti, è un rapporto di coproduzione e cosignificazione, nel senso che
sarà la società, di volta in volta, a definire i corpi e a stabilire quale caratteristica socialmente definita
dei corpi assumerà rilevanza in funzione della costruzioni dei generi. La costruzione binaria, per
esempio, nasce solo a partire dal XVIII, quando il corpo femminile comincia a essere considerato, in
campo medico, diverso da quello maschile. Prima di allora, gli organi sessuali femminili erano ritenuti
una versione imperfetta e manchevole di quelli maschile, e, non a caso, l’ermafroditismo (copresenza
nello stesso corpo dei gameti femminili e maschili) trovava un’accoglienza che si sarebbe
progressivamente indebolita (Nicholson 1996). Per approfondimenti si veda anche: Foucault (1976);
Laqueur (1992); Rinaldi (2016).
8
Uno dei contributi considerati più rilevanti nel dibattito inaugurato negli anni Settanta è quello di
Gayle Rubin, la quale nel 1975 conia il concetto di sex-gender system. Rubin (1975) «con sex-gender
system denomina l’insieme dei processi, adattamenti, modalità di comportamento e di rapporti, con i
quali ogni società trasforma la sessualità biologica in prodotti dell’attività umana e organizza la
divisione dei compiti tra gli uomini e le donne, differenziandoli l’uno dall’altro: creando appunto il
“genere”» (Piccone Stella, Saraceno 1996: 7).
3. IL DISEGNO DELLA RICERCA
Luisa Stagi

3.1. Le fasi della ricerca

Per sviluppare le nostre ipotesi abbiamo immaginato un impianto


metodologico pluralistico e aperto alla cooperazione di diverse tecniche, che
coinvolgesse le attrici e gli attori implicati nella nostra ricerca – insegnanti,
bambine e bambini − a diversi livelli e attraverso più strumenti.
La ricerca ha coinvolto un gruppo di insegnanti che hanno preso parte a un
percorso di formazione sugli stereotipi di genere. All’inizio e alla fine di
questo percorso sono stati somministrati degli strumenti di rilevazione a
tutte/i le/i partecipanti: un questionario e due focus group, uno all’inizio e
l’altro alla fine del percorso formativo. Il questionario è stato costruito
dall’équipe che si è occupata del processo di valutazione1, con la duplice
funzione di raccogliere informazioni sul grado di percezione degli stereotipi
ma, soprattutto, di misurare l’apprendimento prima e dopo il corso di
formazione. Parte dei risultati, inoltre, è stata utilizzata come stimolo
dell’ultimo focus, il quale ha avuto un carattere più valutativo, ovvero
registrare cosa ha prodotto in termini di mutamento degli stereotipi il
percorso di formazione (e la condivisione della ricerca) nelle insegnanti.
Gli esiti sia del questionario sia del primo focus group saranno discussi nel
quarto capitolo, in quanto costituiscono informazioni preziose per ricostruire
le rappresentazioni prevalenti tra le insegnanti e il ruolo di queste nel
riprodurre l’ordine di genere.
Le insegnanti e le/i dirigenti che hanno aderito al progetto sono state/i
dunque coinvolte/i in focus group − uno all’inizio e uno alla fine del
percorso − e nella somministrazione di un questionario, e solo alcune
maestre, quelle delle scuole scelte, sono state coinvolte nella ricerca
etnografica, mentre le bambine e i bambini, sempre delle scuole selezionate,
hanno preso parte alla ricerca attraverso l’osservazione e una serie di
tecniche che hanno utilizzato strumenti come il disegno o l’intervista
attraverso stimoli.
Le due scuole sulle quali è stata condotta la ricerca etnografica sono state
scelte poiché appartengono a due realtà sociali molto differenti: una è nel
cuore di un quartiere popolare, con un’alta percentuale di migrazione e di
disagio sociale, l’altra, invece, è in un quartiere misto, composto
prevalentemente da persone appartenenti alla piccola borghesia e a quello
che viene attualmente definito ceto medio; tale scelta è stata improntata,
secondo la prospettiva intersezionale, a considerare la classe sociale come
variabile rilevante nel processo di ri-genderizzazione.

Fig. 1. Schema delle fasi della ricerca


3.2. I focus group

Negli ultimi anni le tecniche di gruppo, e in particolare il focus group, sono


diventati piuttosto popolari. Sulle motivazioni di tale moda in molti si sono
interrogati e hanno cercato plausibili spiegazioni, talvolta denunciandone
anche quello che, in certi casi, è divenuto un “abuso” (Bezzi 2005). Detto
questo, i focus group sono una risorsa preziosa per documentare le
complesse e mutevoli dinamiche attraverso cui si formano le opinioni, si
elaborano e si applicano le norme e i significati propri del gruppo. La
popolarità è anche riconducibile alla scoperta della potenzialità che la
dimensione gruppo può fornire di per sé; la loro peculiarità consiste
nell’interazione tra i soggetti che permette di far emergere una
concatenazione di opinioni e di pensieri non necessariamente consapevoli o
già strutturati. Dalla dinamica di gruppo possono risultare nuovi punti di
vista e prospettive non valutate a priori; il grande vantaggio dell’interazione,
infatti, è quello di riprodurre in modo più realistico il processo che presiede
alla formazione delle opinioni (Stagi 2005).
3.2.1. Il primo focus group
Il primo focus è stato improntato a una modalità esplorativa e poco
direttiva, e ha avuto la funzione di comprendere la percezione e la
consapevolezza delle insegnanti riguardo ai loro stereotipi.
Al fine di produrre questo tipo di interazione è stata predisposta una traccia
di intervista e prevista una modalità di conduzione volte entrambe a favorire
l’orizzontalità e un clima collaborativo. Sempre per questo obiettivo è bene
utilizzare stimoli neutri e poco direttivi come, per esempio, immagini e
vignette, alternati ad altri di tipo più strutturato; in tal modo la discussione
dovrebbe risultare funzionale a ricostruire le dinamiche sottostanti alla
formazione delle opinioni senza che, tuttavia, tali dinamiche diventino
inibitorie per i membri più fragili del gruppo.
In questo caso si è deciso di partire da uno stimolo scritto per diversi
motivi: lo stimolo scritto ha la funzione di “rompere il ghiaccio”, tutti hanno
la stessa possibilità di partecipare e non ci si condiziona reciprocamente. È
stato quindi chiesto alle partecipanti di scrivere almeno tre associazioni
(idee, aggettivi, parole, eccetera) associate a “maschile” e “femminile”;
ognuna, poi, doveva essere scritta su un post-it diverso, in modo da poter
procedere alla sistematizzazione per gruppi omogenei sulla lavagna di carta.
I risultati di questa prima parte sono stati molto interessanti: le persone
hanno risposto mostrando una certa interiorizzazione dei modelli di genere
di tipo classico. Le risposte sono state quindi raggruppate in gruppi
omogenei. In generale, si può affermare che, inizialmente, gli atteggiamenti
e le opinioni delle partecipanti si siano riferite soprattutto alle proprie
esperienze di coppia o familiari, interpretando la maschilità in termini di
difetti, mancanze del partner, e accostando la femminilità ai pregi personali.
In seguito, la discussione è scivolata sulle bambine e i bambini, a partire
dalla loro esperienza professionale.
La prima fase ha portato a un buon sviluppo della discussione, che si è
avviata senza dovere introdurre stimoli di altro tipo. Gli altri stimoli, tutti di
tipo visuale (foto neutre, foto stimolo di contrapposizione e associazione,
immagini di cartoni animati e di personaggi delle favole), sono perciò stati
inseriti in modo quasi consecutivo rispetto agli argomenti emersi e, in questo
senso, sono risultati efficaci.
3.2.2. Il secondo focus group
Il secondo focus group ha avuto la funzione di valutare l’efficacia del
percorso effettuato e lo sviluppo di una qualche forma di competenza di
decostruzione/consapevolezza degli stereotipi di genere. Si è perciò partiti
dall’analisi delle risposte che erano state date nel primo questionario, per
registrare eventuali scostamenti, quindi sono stati mostrati i disegni e i
risultati dei test costruiti con le bambine e i bambini, infine, sono stati ripresi
alcuni temi delle lezioni di formazione in forma di stimolo, per registrare le
reazioni o eventuali rielaborazioni.
In generale, si ritiene che il percorso abbia portato a un notevole
accrescimento della consapevolezza da parte delle insegnanti ma, allo stesso
tempo, si è registrato anche un considerevole disagio derivante dalla
resistenza che produce in ognuna/o di noi la messa in discussione gli
stereotipi di genere. Certamente − come loro stesse hanno affermato − alla
fine del percorso niente è più stato come prima poiché la prospettiva di
genere è entrata fortemente nel loro sguardo, tuttavia, alcuni comportamenti
e atteggiamenti automatizzati sono risultati difficili da modificare.

3.3. L’etnografia

Per questa fase della ricerca sono state scelte due scuole e, all’interno di
queste scuole, due classi. Le due scuole, come già anticipato, appartengono a
due quartieri molto differenti: una in una zona periferica di prevalente classe
popolare, l’altra in centro con una classe sociale mista ma definibile di ceto
medio. Ciascuna ricercatrice ha seguito nel corso di due anni sempre la
stessa classe. L’osservazione, infatti, è una tecnica in cui fa ricerca si
inserisce in modo diretto e per un periodo temporale relativamente lungo in
un gruppo sociale preso nel suo ambiente naturale, instaurando un rapporto
di interazione personale con i componenti del gruppo, con l’obiettivo di
descriverne le azioni e di comprenderne le motivazioni, mediante un
approccio empatico. L’osservazione è una delle tecniche principali del
metodo etnografico, che mira a descrivere e comprendere «le strutture
sociali, le interpretazioni/spiegazioni dei partecipanti, il contesto
dell’azione» (Gobo 2001: 110).
L’etnografia è una pratica che prevede la “presenza sul campo” al fine di
cogliere il dato per scontato, spesso prodotto da una struttura sociale che si
riproduce nelle pratiche e nei discorsi: per questo motivo nell’osservazione è
necessario porre “attenzione ai dettagli”, “prendere sul serio le banalità” e
osservare la quotidianità fatta di riti e pratiche.
Le pratiche sociali sono costituite da piccole azioni, da cerimoniali apparentemente banali e
superflui, che […] rappresentano l’angolatura privilegiata per scoprire le convenzioni e quindi le
strutture sociali (ivi: 110-111).

Nell’etnografia di grande importanza è l’attenzione al linguaggio e ai


discorsi che «riproducono la struttura sociale oltre ad aiutarci a comprendere
l’azione e […] non sono quindi indipendenti o separati dalle pratiche sociali
in cui vengono pronunciati» (ivi: 113). I discorsi inoltre: «permettono di
risalire alle interpretazioni dei partecipanti, cioè alla cornice sociale
(framing) formata dai significati che essi reciprocamente attribuiscono alle
loro azioni» (ivi: 114).
3.3.1. Le fasi dell’osservazione
L’osservazione prevede diversi momenti consequenziali che si possono
così riassumere:
PRIMA FASE: osservazione descrittiva − è una descrizione ampia del contesto
che si vuole osservare, nella quale la ricchezza di particolari viene
sacrificata a vantaggio di una visione d’insieme.
SECONDA FASE: osservazione focalizzata − descrizione più specifica e
dettagliata, che si basa sulla scelta di chi conduce l’etnografia di
approfondire un particolare tema (per esempio, un rito o una festa);
analizzare un aspetto specifico della cultura ospite, intendendola come
espressione del tutto, con il rischio però di passare dall’interpretazione alla
sovra interpretazione della cultura.
TERZA FASE: osservazione strutturata − è realizzata quando diviene
necessario rilevare la frequenza dei comportamenti, magari anche per poi
analizzare i risultati ricorrendo a procedure statistiche. Per operare in questa
terza fase è necessario costruire una griglia di osservazione, frutto del
confronto tra i prodotti delle prime due fasi e la letteratura teorica di
riferimento.
Anche in questa ricerca si è proceduto con questa consequenzialità: le fasi
descrittiva e focalizzata hanno portato alla costruzione di una griglia di
osservazione che, dopo essere stata condivisa insieme alle insegnanti in un
momento di discussione collettiva, è stata testata e poi validata dalle
insegnanti stesse che hanno provato a utilizzarla autonomamente.

Fig. 2. Fasi della nostra osservazione

3.3.2. Il diario di campo e le note etnografiche


Per fare una buona etnografia occorre prendere appunti in modo metodico
e continuativo; generalmente gli etnografi scrivono anche, abitualmente fin
dall’inizio della loro ricerca, appunti, promemoria e soprattutto note di
campo: il diario di ricerca (Marzano 2006: 103). L’etnografo/a registra fatti,
eventi, ma anche spunti e idee:
scrivere il diario è indispensabile non solo per fissare nella memoria avvenimenti e riflessioni
altrimenti destinati a scomparire o a diventare in poco tempo flebili ricordi, ma anche per rafforzare
la produzione del significato, per stimolare la formazione degli intrecci narrativi e delle trame
analitiche del testo finale (ibidem).

Le note etnografiche sono l’elaborazione degli appunti presi con il diario di


campo; secondo il metodologo Cardano (2011) esse dovrebbero assomigliare
alla sceneggiatura di un film che consente perciò di rendere visibile,
attraverso la ricostruzione meticolosa dei dettagli, la scena culturale a cui si
è assistito. Nello scrivere le note etnografiche, specie quelle osservative, è
fondamentale «preservare la variazione linguistica» (Gobo 1999: 144). Per
questo è necessario non ridurre la variabilità linguistica e trascrivere
fedelmente le parole usate dagli attori e dalle attrici per descrivere,
classificare, commentare, giustificare un evento. Inoltre, negli appunti
occorre prestare attenzione alle definizioni, descrivere le pratiche sociali di
base quotidiane e i microeventi (ibidem).
Nel corso della ricerca sono stati redatti copiosi diari di campo che sono
poi diventati le note etnografiche di cui ci avvarremo per introdurre le
considerazioni e argomentazioni nei capitoli dedicati alla restituzione dei
risultati della ricerca.

3.4. I disegni e gli altri stimoli

Durante la fase di osservazione focalizzata, si è deciso di somministrare,


alle bambine e ai bambini, diversi stimoli. La letteratura sulle metodologie
applicabili alle bambine e ai bambini è abbastanza concorde nell’affermare
la necessità di pensare, quando si tratta di ricerche che riguardano l’infanzia,
a strumenti alternativi (rispetto) a quelli classici (Vanhee 2010). In tutti i testi
che si occupano di questi temi appare centrale la questione di tentare di
conoscere le bambine e i bambini a partire da loro stesse/i e dai loro modi di
raccontare e vedere il mondo che le/li circonda. È perciò necessario costruire
dei nuovi quadri interpretativi che siano capaci di captare le voci e gli
sguardi infantili e che non siano centrati sulle visioni degli adulti. La
concezione della bambina e del bambino come attrici e attori sociali e del
disegno come espressione e produzione simbolica e culturale propria
dell’infanzia, ci ha portato a cercare metodologie capaci di rilevare il punto
di vista delle bambine e dei bambini. Considerando i disegni come una
produzione culturale, abbiamo cercato di ascoltare le parole che li
accompagnano, implicandoci empaticamente nel modo di essere, pensare e
di sentire il loro mondo, e, successivamente, di comprendere e decostruire,
attraverso i disegni, la voce di espressione simbolica e culturale di cui sono
portatori e portatrici (Meyer Borba 2010).
Il disegno è perciò stato utilizzato come strumento di cocostruzione di
conoscenza, una forma di risposta a input che potevano essere liberamente
interpretati.
Infine, è stato utilizzato il gioco per rintracciare proiezioni e visioni di
genere durante le fasi consolidate delle pratiche routinarie che avvengono in
classe. In una delle classi durante l’appello bambine e bambini erano
abituate/i ad associare al loro nome cose che amano: nel nostro esperimento,
per esempio, è stato chiesto di raccontare le loro preferenze rispetto alla
scelta di giochi, personaggi e lavori che prediligono.
In sintesi gli stimoli che sono stati utilizzati:

– il mio gioco preferito − durante l’appello, al posto del nome, il loro gioco
preferito;
– test degli orsetti, tratto dal lavoro torinese “Quante donne puoi
diventare2”;
– il mio personaggio preferito − durante l’appello, al posto del loro nome, il
loro personaggio preferito;
– cosa farò da grande − in una classe, durante l’appello, al posto del nome,
la professione che vorrebbero fare da grandi; nell’altra classe, disegno e
racconto del disegno;
– le femmine hanno; i maschi hanno − disegno su di un foglio diviso a metà
da una parte “le femmine hanno” e dell’altra “i maschi hanno”;
– come mi vedo da grande – chiedere di disegnarsi e raccontarsi3.

3.5. Dalle ipotesi, alle scelte metodologiche verso l’analisi


Ciascuna tecnica utilizzata ha quindi cercato di “operativizzare” una parte
delle ipotesi.
Con il questionario e i focus group, anche se in modo diverso, si è cercato
di raccogliere informazioni sugli stereotipi incorporati dalle insegnanti,
secondo il presupposto per cui il loro comportamento è considerato decisivo
nella riproposizione dei ruoli di genere, nella costruzione delle aspettative e
più in generale nella socializzazione differenziata.
La parte seguente, inerente la ricerca empirica, inizierà pertanto con un
capitolo (quarto) che, muovendo proprio dal concetto di riproduzione, come
è stato definito da Bourdieu e Passeron (1972), ricostruisce le opinioni e gli
atteggiamenti degli/delle insegnanti sulle questioni di genere, con brevi
incursioni nella ricerca etnografica.
Il capitolo successivo (quinto), invece, sarà focalizzato sulla ricerca
etnografica. Le note di campo saranno utilizzate per restituire fedelmente le
informazioni raccolte durante le osservazioni condotte nelle due scuole, e
saranno lo spunto per introdurre considerazioni in merito alle strategie
relazionali di genere, ai confini e agli sconfinamenti.
Infine, gli ultimi due capitoli saranno incentrati soprattutto sugli esercizi
che abbiamo chiesto di fare alle bambine e ai bambini delle due scuole: il
sesto capitolo si occuperà di quelli che abbiamo chiamato “rivestimenti di
genere”, ovvero tutto quello che ha a che fare con gli universi sessuati, le
proiezioni di sé nel futuro e i confini corporei, mentre il settimo e ultimo
capitolo sarà incentrato sulla capacità di immaginare le traiettorie
biografiche, in particolare nel mondo del lavoro, ma anche sulle pratiche di
soggettivazione e di resistenza agli ordini simbolici.

1
Il questionario è stato a lungo discusso in équipe, ma la sua formulazione e somministrazione si
deve al collega Giulio Peirone, allora docente di psicologia del lavoro presso l’Università degli Studi
di Genova, coadiuvato dalla dott.ssa Emanuela Picozzi. L’elaborazione dei dati è stata effettuata da
Sebastiano Benasso, sociologo del Disfor.
2
Cfr. http://www.comune.torino.it/politichedigenere/po/po_attivita/po_progetti/quante-donne-puoi-
diventare-nuovi-mo delli -per-bamb.shtml.
3
Gli ultimi tre stimoli sono stati ispirati dalle esperienze del libro Sguardi di genere tra identità e
culture (Del Buono 2002).
4. STEREOTIPI, RIPRODUZIONE E SEGNALI DI CAMBIAMENTO. LO
SGUARDO DELLE INSEGNANTI
Emanuela Abbatecola e Luisa Stagi

Un giorno un bambino era senza il suo grembiule e allora gliene ho messo uno rosa: lui ha pianto tutto
il giorno. Da allora quando fa il birichino basta minacciarlo di mettergli di nuovo il grembiule rosa e
smette (focus 2, insegnante FA).

I genitori sono sempre preoccupati che i figli non siano abbastanza maschi. Il corso mi ha aiutato a
capire come aiutarli in certe situazioni: una volta una mamma era preoccupata perché un venerdì
(quando i bimbi e le bimbe possono portare a casa un libro della biblioteca) il figlio ha scelto un libro
di fate. Io l’ho rassicurata dicendole che lo aveva sicuramente fatto perché sono raffigurate belle
fanciulle e a lui piacerà guardarle [risata] (focus 2, insegnante CD).

Iniziare dalla fine significa un po’ svelare dove si va a parare, diminuendo


forse il piacere della scoperta, ma la scelta di partire da alcuni brani tratti
dall’ultimo focus group ci è sembrata efficace per mostrare fin da principio
quanto, nonostante un lavoro di riflessione e decostruzione, possa essere
difficile rapportarsi con gli stereotipi di genere. A dimostrazione del buon
esito del percorso, i due aneddoti sono raccontati nell’ultimo incontro,
durante il focus di restituzione e riflessione, da due insegnanti che avevano
preso parte sia al corso di formazione sia direttamente alla ricerca. Nel primo
caso, l’insegnante sembra voler dire: “Ora che mi avete fatto capire quanto
sono rilevanti i confini di genere, li uso strumentalmente per controllare le
esuberanze di genere”. Nel secondo caso, di nuovo la consapevolezza della
paura degli sconfinamenti diventa supporto nei confronti di altri agenti di
socializzazione: “Adesso so riconoscere le tue paure e ti conforto”.
Supporto, che come avremo modo di vedere in seguito, assume i tratti della
normalizzazione: “Tranquilla, non devi avere paura. Vuole quel libro perché
è attratto dalle belle fanciulle. Tutto a posto, è un vero maschio!”.
Cominciare l’analisi dei risultati con la parte riguardante le tecniche che
hanno cercato di indagare gli atteggiamenti e le opinioni delle insegnanti
sulle questioni di genere e, in particolare, sugli stereotipi significa partire
dalla considerazione dell’importanza del concetto di riproduzione sociale
che ci ha lasciato Pierre Bourdieu (Bourdieu, Passeron 1972).
Alla fine degli anni Sessanta Bourdieu e Passeron pubblicavano un libro
molto influente, La riproduzione, in cui i due autori utilizzavano la metafora
del pellicano, descritto da Robert Desnos nella poesia in epigrafe al volume,
per alludere alla funzione riproduttiva della scuola. Come il pellicano di
Jonathan depone «un uovo tutto bianco e ne esce un pellicano che gli
somiglia straordinariamente» (1972: 31) e questo secondo pellicano depone,
a sua volta, un uovo tutto bianco da cui esce un altro pellicano uguale al
primo in una catena riproduttiva della specie, così la scuola conserva il
patrimonio culturale assicurando, appunto, la riproduzione.
Secondo Bourdieu (1998), nella società occidentale moderna la “violenza
simbolica” dei dominanti nei confronti dei dominati − un esempio è quella
degli uomini nei confronti delle donne − si esercita attraverso
l’incorporazione di schemi di percezione e valutazione di sé e degli altri,
ovvero con la complicità di strutture mentali inconsce, precocemente apprese
attraverso ingiunzioni corporee che vengono definite col termine di habitus
(De Conciliis 2012). Per questo tale violenza è anche definita dolce: il
dominante, infatti, non ha bisogno di imporsi con forza, poiché un certo
ordine gerarchico è accolto come naturale anche dalle/dai dominate/i,
attraverso appunto l’incorporazione dell’habitus, che si fonda sulla dialettica
descrizione-prescrizione. I sistemi simbolici più potenti sono, infatti, quelli
che, mentre sembrano descrivere una realtà sociale (la relazione tra uomini e
donne, lo Stato, la famiglia, …), in realtà prescrivono un modo di esistenza
(Paolucci 2009).
Si tratta di qualcosa di ricevuto o acquisito durante il processo di
socializzazione, prima attraverso l’educazione familiare e poi attraverso
quella scolastica e che, tuttavia, viene vissuto dall’individuo che lo “indossa”
come disposizione naturale, contribuendo a costituire il senso e il valore
della sua identità sociale. Per Bourdieu, in altri termini, la dominazione
maschile sul genere femminile si appoggia su continue e precoci abitudini
simboliche (modi di camminare, di parlare, di atteggiarsi, di rivolgere lo
sguardo, di sedersi eccetera), incorporate grazie al sistema d’educazione
familiare e scolastica (De Conciliis 2012).
Nell’opera La riproduzione (Bourdieu e Passeron 1972), una serie di
assiomi collegati in teoremi (teoremi da cui discendono corollari definiti
come “scoli”) pongono in relazione, in una catena logica e coerente, rapporti
sociali, scuola e cultura, mettendo in luce i meccanismi attraverso i quali
agiscono i condizionamenti sociali e la loro interiorizzazione da parte di
entrambi i soggetti del rapporto pedagogico (le/i docenti e le/i discenti).
Ecco alcuni tra i primi assiomi (ivi: 21-22):

– ogni potere di violenza simbolica, cioè ogni potere che riesce a imporre
dei significati e a imporli come legittimi dissimulando i rapporti di forza su
cui si basa la sua forza, aggiunge la propria forza, cioè una forza
specificamente simbolica, a questi rapporti di forza;
– ogni azione pedagogica è oggettivamente una violenza simbolica in
quanto impone, attraverso un potere arbitrario, un arbitrario culturale;
– ogni sistema d’insegnamento istituzionalizzato deve le caratteristiche
specifiche della sua struttura e del suo funzionamento al fatto che deve
produrre e riprodurre, attraverso i mezzi propri dell’istituzione, le
condizioni istituzionali la cui esistenza e persistenza sono necessarie tanto
all’esercizio della sua funzione propria […] che alla riproduzione di un
arbitrario culturale, […] la cui riproduzione contribuisce alla riproduzione
dei rapporti tra i gruppi e le classi.

L’habitus – in quanto struttura strutturante e strutturata – risulta perciò


l’elemento centrale della riproduzione sociale e culturale in quanto è capace
di generare comportamenti regolari e attesi, che condizionano la vita sociale
degli individui in relazione alla loro classe di appartenenza. Trovandovi il
senso sociale della propria identità, l’habitus è molto difficile da trasformare,
anche e soprattutto quando dispone all’obbedienza; ciò aiuta a comprendere
l’assoggettamento volontario, ovvero la violenza dolce. Per Bourdieu − che
è un convinto anticartesiano − la logica emancipativa della coscienza
(compresa quella di classe) appare scalzata, o meglio aggirata, dalla logica
inconscia della disposizione: lo sguardo femminile su di sé e sul mondo
circostante risulta opacizzato da “lenti deformate” dalle categorie di
percezione e valutazione. Inoltre, secondo la prospettiva di Bourdieu, è
ingenuo supporre che le/i dominate/i (siano essi donne o proletari) possano
liberarsi dalla dominazione attraverso la semplice consapevolezza dei suoi
meccanismi, poiché tali meccanismi sono presenti sia nell’oggettività (sotto
forma di differenze anatomiche, divisione del lavoro eccetera) sia nella
soggettività, cioè nelle strutture mentali, sotto forma di habitus (de Conciliis
2012).
Ovviamente ciò non significa che sia impossibile dis-fare il genere o che le
attrici e gli attori sociali siano prive/i di agency ma, per dirla con Butler, non
è affatto facile assumere un rapporto critico e trasformativo con quelle stesse
norme di cui l’Io è costituito e da cui dipende (Butler 2014: 34). Per queste
ragioni ci è parso interessante partire da quanto sia stato difficile, per alcune
insegnanti che hanno preso parte a un corso di formazione sugli stereotipi di
genere durato due anni, riuscire a distanziarsi da essi. Certamente nell’ultimo
focus è emerso in modo deciso che il loro sguardo era cambiato, che era
ormai abituato a “vedere” l’ordine sociale di genere. Ma, in un certo senso si
può affermare che è anche emersa una sorta di rassegnazione: “ora vedo, ma
non posso certo essere io a modificare le cose”. Molte maestre hanno
dichiarato di aver modificato il loro comportamento, soprattutto nelle
aspettative in relazione alle “attitudini”: per esempio, in una minore
clemenza rispetto alla mancata esecuzione di compiti considerati non di
genere (se i maschi non apparecchiano bene, se sono disordinati o non
rispettano le consegne).
In generale si è registrata una specie di frustrazione rispetto al loro ruolo di
educatrici che, a loro parere, risulta essere sempre meno supportato da una
generazione di genitori, descritta come confusa e poco propensa a rendere
autonomi i propri figli, oltre che molto assoggettata al consumismo. Sono i
genitori, sempre a detta delle insegnanti, che vogliono il grembiule rosa e
azzurro, che comperano tanti, troppi, giocattoli genderizzati e che, per il
poco tempo a disposizione, oppure per una scarsa attenzione, rendono
scarsamente autonomi le proprie figlie e i propri figli.
In realtà, andando a vedere le informazioni raccolte con il questionario e il
primo focus group, si evince una forte incorporazione di stereotipi e
pregiudizi da parte delle insegnanti. Più precisamente, quello che emerge è
uno scenario a tratti contraddittorio, nel quale dichiarazioni “politicamente
corrette” sembrano poi vacillare negli item sugli atteggiamenti della Scala
Likert (questionario), come anche nelle provocazioni verbali (focus group).
Il questionario, che non ha nessuna pretesa di rappresentatività, poiché
pensato solo per comprendere meglio gli universi di riferimento delle
insegnanti e delle/dei dirigenti delle scuole dell’infanzia genovesi che
avevano aderito al progetto, è stato somministrato a 18 insegnanti e a 6
persone con ruoli dirigenziali. Qui riporteremo brevemente solo alcuni dei
risultati a nostro parere più significativi, relativi alle risposte delle
insegnanti, tutte donne.
Tredici delle diciotto insegnanti avevano, al momento dell’intervista, tra i
51 e i 60 anni. Si tratta quindi di donne nate tra gli anni Cinquanta e
Sessanta, e a queste corrisponde una visione più conservatrice rispetto ai
generi e ai ruoli di genere.
Su alcuni temi, come quello dell’omosessualità, le risposte delle insegnanti
danno luogo a rappresentazioni almeno in parte contraddittorie, come se ci
fosse una tensione tra le affermazioni di principio legate alle pari
opportunità, alle quali si vuole o si ritiene opportuno aderire, e il sentire, che
non riesce o non può prendere le distanze dall’eteronormatività acquisita e
diventata, in un certo senso, corpo. Osservando le diverse risposte alle
batterie di item somministrate attraverso il questionario, si registra, infatti,
un generale accordo su affermazioni quali “non ho problemi a frequentare
persone dichiaratamente omosessuali”, “l’omosessualità è un fatto naturale
quanto l’eterosessualità”, e “omosessuali si nasce e non si diventa”, ma allo
stesso tempo è alto il grado di accordo con affermazioni di segno opposto
come “le frequentazioni e gli stimoli esterni possono a volte far diventare
omosessuali” e “l’educazione dei miei figli non può essere assegnata a un
insegnante omosessuale”. Rispetto a questo ultimo item, è interessante
notare come le resistenze intorno all’idea che una persona omosessuale
possa insegnare, siano rivolte soprattutto ai gay. Il grado di accordo rispetto
alla non opportunità di affidare la professione educativa nella scuola
dell’infanzia a donne omosessuali è, infatti, negativo.
Questa ambivalenza ritorna anche nel focus, benché il tema non sia mai
affrontato in modo diretto. Nell’ambito di una discussione critica sulle
gabbie stereotipate del maschile, vale a dire su quanto le aspettative di
genere condizionino le scelte dei maschi, e di come sia difficile per un
bambino scegliere la danza classica, un’insegnante interviene dicendo:

Il ballerino di danza classica ti viene in mente Nureyev, e effettivamente nello stereotipo Nureyev era
tutto fuorché uomo […]. Non so, nello stereotipo preferisco trovarmi un Totti che un Nureyev (focus
1, insegnante 23).

Al paragone tra Totti e Nureyev le altre insegnanti reagiscono dissentendo,


ma il dissenso sembra più legato al fatto che Totti possa essere una
compagnia migliore, piuttosto che all’idea che la maschilità di Nureyev
potesse essere messa in discussione dal suo orientamento sessuale.
Altre contraddizioni tra affermazioni di principio e atteggiamenti,
riguardano il rapporto tra carriere lavorative e genere, nel senso che, se da un
lato, sembrerebbe condivisa l’idea che gli uomini dovrebbero pensare meno
alla carriera e più alla cura della famiglia, è forte anche il consenso rispetto
all’affermazione “le donne possono fare carriera a patto che non trascurino la
famiglia”. Dividendo le rispondenti in base alla coerenza interna alle risposte
agli item qui analizzati, si nota una netta prevalenza della visione sessista su
quella paritaria (72,5 per cento vs. 27,8 per cento). Tale visione tradizionale
rispetto alla tensione tra lavoro per il mercato e lavoro di cura, e alla
divisione dei compiti familiari tra i generi, sembra essere coerente con
quanto emerge dal primo focus, dove la discussione converge
spontaneamente verso il tema della fatica fisica e psicologica legata al fatto
di doversi dividere su più fronti. L’input lo lancia un’insegnante riflettendo
sulle difficoltà incontrate dalle giovani donne di oggi:

Forse [le donne di oggi] hanno anche una nuova maschera da mettere addosso, quella della dolcezza,
nel senso che la vita di oggi non è molto facile da affrontare e non ti invita a essere molto dolce, non
so come dire, come ritmo di vita. Io sento abbastanza la fatica di dover gestire un lavoro, una famiglia,
tanti stimoli a livello sociale (focus 1, insegnante 6).

Le altre insegnanti si riconoscono in questa fatica, e la collega rilancia,


sottolineando come la fatica dipenda anche dalla solitudine e dalla mancanza
di supporti esterni, contrapponendo la situazione di oggi a un passato
idealizzato nel quale le donne godevano di reti informali e non lavoravano:

Per esempio, non avere dei giardini sotto casa, non avere l’aiuto della vicina, non avere più tutta una
serie di supporti, una rete che ti possa tirare fuori la dolcezza che magari ti trasmetteva tua nonna
quando ti prendeva sulle ginocchia e ti cantava la filastrocca. Lei aveva tanto tempo per poterlo fare
(focus 1, insegnante 6).

Un aspetto che ci colpisce riflettendo sugli esiti del focus è l’assenza


assoluta, nei discorsi delle insegnanti, della figura maschile come potenziale
risorsa nella gestione del lavoro familiare e di cura. Si sentono sole per la
mancanza di strutture (il giardino) e di reti femminili informali di sostegno
(la vicina) esterne al nucleo familiare ristretto, ma il ruolo del partner
convivente non viene mai citato, né come supporto pratico effettivo, né
come persona cui chiedere una presenza più attiva. Si descrivono sole nella
gestione del quotidiano, ma la figura maschile non viene mai annoverata né
tra le cause della, né tra le potenziali soluzioni alla solitudine e alla fatica.
A fronte delle considerazioni sulla vita quotidiana delle donne che lavorano
come «percorso a ostacoli» (focus 1, insegnante 8), una delle partecipanti al
focus reagisce dicendo:

È stata una scelta nostra lavorare… quindi (focus 1, insegnante 7).

In questa semplice considerazione si può − a nostro parere − cogliere la


tensione tra tradizione e cambiamento che spesso accompagna, in modo non
di rado contraddittorio, le biografie delle donne lavoratrici, specie se madri.
L’elemento di rottura rispetto alla tradizione consiste, in questo caso, nel
leggere la propria partecipazione al mercato del lavoro come una scelta
consapevole finalizzata a un progetto di realizzazione identitario anche al di
fuori del ruolo di moglie e di madre (Abbatecola 2002), mentre la continuità
con una rappresentazione conservatrice dei ruoli di genere si evince da quel
“quindi”. In altre parole, questa donna ci sta dicendo che fatica e solitudine
sarebbero il prezzo da pagare. Manca, dunque, una dimensione
rivendicativa, nei suoi discorsi come in quelli delle altre partecipanti, e non
si intravede la volontà o la capacità di immaginare un altro ordine di genere.
Così è. E (forse) così è giusto che sia (nelle loro rappresentazioni) alla luce
dell’ampio grado di accordo complessivamente accordato dalle “nostre”
insegnanti all’item del questionario “le donne possono fare carriera a patto
che non trascurino la famiglia”.
Peraltro, non tutte sembrano condividere l’idea di una traiettoria lavorativa
scelta in sé, a prescindere da considerazioni di natura economica.
Un’insegnante dichiara, infatti:

Se io riuscissi a stare a casa con lo stipendio di mio marito, me ne starei a casa a godermi i figli. Però
non si può, perché se non lavoriamo in due non paghi il mutuo e non puoi fare niente. Purtroppo è
così. Io ci starei volentieri a casa (focus 1, insegnante MM).

La reazione generale è di consenso a questa affermazione. E ciò è


indicatore di una visione tradizionale del rapporto tra lavoro e identità, nel
quale il lavoro retribuito è descritto non come scelta identitaria ma come
necessità economica, reddito economico aggiuntivo (Leccardi 2002b;
Abbatecola 2002).
A rafforzare questo quadro più tendente alla tradizione piuttosto che al
cambiamento si rileva un significativo accordo rispetto all’item “le donne
sono naturalmente più portate per certi tipi di lavoro”, nonché una quota,
minoritaria ma non irrilevante, di intervistate (38,9 per cento) che ritiene che
vi sia stata una inversione di ruoli di segno negativo: uomini che avrebbero
perso il loro ruolo e la loro autorità e donne che sarebbero diventate troppo
aggressive.
Proviamo ora ad analizzare le rappresentazioni delle bambine e dei
bambini che emergono sia dal questionario sia dal focus.
Nel questionario, gli item legati agli stereotipi sul maschile che raccolgono
il maggior grado di accordo sono:

– i maschi hanno più bisogno di sfogare le proprie energie attraverso il


movimento;
– i maschi sono naturalmente più portati allo scontro fisico.

Questo tipo di rappresentazione stereotipata e tesa a naturalizzare le


differenze, è coerente con i giochi generalmente percepiti come maschili e
indicati come tali dalle stesse insegnanti.
In corrispondenza dell’idea che i maschi abbiano più bisogno di sfogare le
energie attraverso il movimento, troviamo due tipi di giochi: uno legato ad
attività motorie all’aria aperta – giocare a calcio e correre; l’altro, a
giocattoli che richiamano simbolicamente l’avventura, il viaggio, la
conquista di spazi aperti e, ancora, una maschilità proiettata all’esterno –
macchinine (tante, alcune telecomandate), moto e trenini.
Alla rappresentazione dei bambini come “naturalmente portati allo scontro
fisico”, corrispondono altri giochi citati con frequenza come la guerra, la
lotta, i soldatini, i ninja, le spade e i fucili.
Accordo positivo, seppur con livelli di adesione minore, anche rispetto ad
alcune immagini stereotipate delle bambine, rappresentate come
“naturalmente più protettive e materne”, “più affidabili”, “più calme”, anche
se “chiacchierano troppo”. Coerentemente, i giochi femminili più citati sono
le bambole, i pentolini, la casetta, mentre sono assenti i giochi di
movimento. Presenti, seppur in misura minore, anche i giochi legati a una
femminilità fashion: la parrucchiera, le barbie e i vestitini.
Tra i giochi neutri sono annoverati i puzzle, le costruzioni, il Lego, la
bicicletta e la casetta. Il dato interessante è che la casetta è l’unico gioco che
appare sia femminile sia neutro. Come vedremo nel prossimo capitolo, la
casetta, benché contesa da bambine e bambini, può assumere rimandi
simbolici differenti a seconda di chi la “abita” e del tipo di rappresentazione
messa in scena.
Dal questionario emergono anche una serie di informazioni legate alle
rappresentazioni, prevalenti tra le nostre insegnanti, delle caratteristiche
positive e negative di maschi e femmine.
Per ragioni di natura puramente analitica, potremmo suddividere queste
caratteristiche in tre dimensioni legate rispettivamente ai modi di essere, fare
e porsi in relazione, ben consapevoli del carattere arbitrario di questi confini
artificiali che non rendono conto delle molte ibridazioni.
Una prima osservazione è che da queste rappresentazioni prevalenti1
sembrerebbe confermata la percezione dell’esistenza di confini chiari tra
femminile e maschile. Bambine e bambini avrebbero dunque caratteristiche
− sia in positivo sia in negativo – non solo differenti, ma per certi versi
anche complementari, quanto meno rispetto a certe dimensioni. Le uniche
caratteristiche neutre, poiché indicate come positive sia per le bambine sia
per i bambini, sono la “fantasia” e la “furbizia”.
I bambini sono prevalentemente descritti in positivo come “più ingenui”,
“più spontanei”, “meno contorti” e “vivaci”, mentre le bambine sono
percepite come “più tranquille”, “calme” e “dolci”. Il dato interessante, che
facilmente può sfuggire a una lettura superficiale poiché per tutte e tutti noi
costituisce una norma non scritta incorporata, è che la vivacità è considerata
positiva solo per i maschi mentre per le femmine è la caratteristica contraria,
vale a dire la calma e la tranquillità, a assumere un’accezione positiva. La
vivacità maschile è, per certi versi, pretesa e incentivata. Come scriveva
Elena Gianini Belotti:
Per quanto sia un maschio dolce e remissivo, poco vitale, Marco viene spinto a essere più
aggressivo, più competitivo. Se fosse una bambina verrebbe lasciata in pace perché il suo
comportamento rientrerebbe negli schemi (1973: 56).

In negativo i bambini, “mammoni”, “tontoloni” e “più immaturi”, la cui


vivacità socialmente imposta si traduce facilmente in “iperattività”,
“irruenza”, “agitazione” e “esuberanza in eccesso”, presentano, sempre nelle
rappresentazioni prevalenti delle insegnanti, delle caratteristiche
diametralmente opposte a quelle riconosciute in positivo alle bambine: a
bambini “poco autonomi”, “indipendenti” e “imbranati”, corrisponderebbero
bambine “autonome”, “responsabili”, “attente”, “volenterose”, “precise” e
“determinate nell’eseguire i compiti assegnati”. La maggiore autonomia e
determinazione delle femmine non è letta, però, come intraprendenza e
capacità di autodeterminarsi, ma come propensione a eseguire in modo
preciso quanto loro richiesto.
Sulla minore autonomia dei bambini e la maggiore attenzione delle
bambine, troviamo diversi riscontri sia nel focus sia nell’osservazione.
Riportiamo qui di seguito alcune considerazioni delle insegnanti:

Effettivamente, un maschio e una femmina a tre anni, la femmina si vestiva da sola, il maschio no… è
una cosa primordiale (focus 1, insegnante 50).

Ero lì che assistevo alla lezione e lui [l’insegnante di educazione motoria] fa lavorare prima le
femmine, perché così lui sa già che le femmine capiscono e i maschi copiano. Io gli ho detto: «Falli
passare prima», e lui, ragazzo di 28 anni risponde: «No, no, prima le femmine, perché i maschi non
capiscono niente». È una cosa legata alla pigrizia. Perché la femmina ti sta a sentire a tre anni, il
maschio se ne frega altamente (focus 1, insegnante 43).

Un aspetto che è importante sottolineare è lo stretto legame tra


rappresentazioni stereotipate, modelli educativi e pratiche di adesione al
modello da parte di bambine e bambini. Le immagini legate alle
caratteristiche positive di bambine e bambini rilevate nella nostra ricerca,
corrispondono a ciò che la nostra società generalmente si aspetta dalle
femmine e dai maschi. Gli adulti di riferimento, dunque,
educheranno/addestreranno bambine e bambini a mettere in scena un fare
coerente con le aspettative di genere, attraverso rinforzi e sanzioni, e
bambine e bambini si adegueranno alle aspettative fornendo alla società
apparenti evidenze empiriche dell’esistenza di differenze “naturali” tra
femmine e maschi.
La società si aspetta che le bambine siano più brave − vale a dire attente,
diligenti e affidabili − e le educatrici, confermano di condividere questo
comune sentire, un sentire talmente incorporato da tradursi in
comportamento “istintivo”:

Se pensi al maschio… poi ce ne sono tantissimi bravissimi… così come delle femmine dico che sono
più affidabili, perché se penso così d’istinto di dire: «Vai a prendermi questo», io d’istinto penso a una
bambina. Poi in realtà […], ma a me d’istinto viene da dire così (focus 1, Insegnante 40).

Questa affermazione trova riscontro anche in un episodio registrato nel


nostro diario di campo, che riportiamo qui:
Passano i mesi e noi osservatrici siamo diventate parte della classe. C’è confidenza e fiducia. Arriva
nuovamente il momento della frutta e le maestre, con grande onestà intellettuale, ci “confessano”
che loro tendono ad assegnare compiti alle bambine (accompagnare i piccoli in bagno, andare a
lavare i pennelli, etc.), perché: «È inutile… delle bimbe ci si può fidare di più» (diario di campo,
scuola B, 13 -11).

Gli adulti di riferimento, in questo caso le insegnanti, si aspettano di più


dalle bambine in termini di responsabilità e affidabilità, e inconsapevolmente
agiranno per far sì che la profezia si autoadempia gratificandole, sia
affidando loro compiti delicati (come accompagnare i più piccoli in bagno),
sia attraverso rinforzi verbali. Sempre dai nostri diari di campo:
Interessante annotazione che la bambina che aveva la responsabilità di mettere a posto è stata
definita dalla maestra «proprio una donnina» perché aveva svolto bene il suo compito (diario di
campo, scuola A, 24 -11).

È il momento della frutta. Tutte e tutti a tavola. La maestra sta per chiamare una bimba a distribuire la
frutta, ma poi ci guarda e si corregge. Decisamente non passiamo inosservate, ma questo non ci
impedisce di cogliere diversi segnali importanti (diario di campo, scuola B, 30 -11).

Un altro tipo di rinforzo, inconsapevole, è intervenire per porre rimedio


alle inadeguatezze dei maschi, senza dare segno di aspettarsi o di pretendere
un’esecuzione migliore del compito assegnato, come nel caso osservato in
una delle classi scelte per la nostra etnografia:

[Quando viene assegnato un compito] i maschi lo fanno in modo approssimativo e la maestra finisce
quello che loro lasciano incompleto (diario di campo, 11 -11).

Delegare le femmine in quanto più affidabili, rimediare e concludere ciò


che i maschi lasciano incompleto e palesare un senso di rassegnazione a
fronte delle inadeguatezze maschili, sono tutti dispositivi (inconsapevoli) di
rafforzamento dei ruoli sessuati. Anche in questo modo contribuiamo ai
processi di costruzione sociale del femminile e del maschile e, senza volerlo,
invitiamo bambine e bambini a comportamenti conformi alle aspettative
sociali: “Sono come tu mi vuoi”. Diverse, infatti, le occasioni in cui abbiamo
potuto osservare un adeguamento di bambine e bambini alle aspettative
sociali, come si rileva da diverse delle nostre note raccolte durante
l’osservazione:

Al momento dell’arrivo i bambini devono scrivere il loro nome sul calendario personale e poi riporlo
ordinatamente; la prima cosa che ho notato è che tutte le bambine, tranne un maschietto, hanno
prestato più attenzione a questa operazione (diario di campo, scuola A, 17-11).

Un altro momento interessante è stata l’attività di espressione corporea svolta nel salone. I bambini
dovevano rispondere ai comandi dell’insegnante e in questo caso ho osservato che le bambine erano
mediamente più disciplinate nei compiti assegnati, ma i maschi erano più sciolti nei movimenti (diario
di campo, scuola A, 24-11).

C’è stato poi il momento della merenda, questa volta a servire ai tavoli era un maschio e direi, senza
ombra di dubbio, che non è stato in grado di svolgere questo compito (diario di campo, scuola A, 1-
11).

Come già accennato, le caratteristiche positive attribuite a un genere


sembrano spesso la rappresentazione speculare delle caratteristiche negative
riferite all’altro: autonomia vs. dipendenza; affidabilità vs. inaffidabilità;
vivacità vs. tranquillità. Emblematiche, in questo senso, le rappresentazioni
stereotipate relative al modo di relazionarsi: i maschi vengono, infatti,
descritti, come “leali”, “sinceri” e “capaci di coalizzarsi tra di loro”,
diversamente dalle femmine descritte, secondo un cliché molto tradizionale,
“più false”, “permalose”, “gelose” e “rivali tra loro”, laddove la rivalità
femminile, attribuita al contendersi lo sguardo e il consenso altrui, non è
accolta al pari della competizione maschile, legata alla prestazione e
considerata “sana”.
Per contro, le bambine sono descritte come “empatiche”, laddove i bambini
sono descritti “indifferenti”, “incapaci di riconoscere le ragioni dell’altro”,
“egocentrici”, ma anche “arroganti”, “aggressivi” e “violenti”2.
Alle bambine – e più in generale alle donne – viene attribuita la capacità di
stringere relazioni personali, qualità che nella letteratura psicosociale, come
ci ricorda Chiara Volpato (2013), è definita communality ed è legata al
calore, al dare aiuto e, per l’appunto, all’empatia. All’universo maschile,
viceversa, viene attribuita l’agency, rinforzata dagli stereotipi sia positivi sia
negativi attribuiti alla maschilità e connessa all’autocentratura, alla
competenza e al potere. Come spiega l’autrice, i tratti di communality
incidono favorevolmente sul giudizio positivo che accompagna le pratiche
discorsive prevalenti sulle donne, perché «quando s’incontra un’altra
persona o gruppo, la prima questione che ci si pone è se sarà un amico o un
nemico» (ivi: 36), e le donne sono generalmente descritte come
«meravigliose perché s’interessano agli altri e dedicano loro amore e
attenzione» (ibidem). In letteratura, questa forma di idealizzazione
dell’universo femminile (rappresentato come indifferenziato), molto diffusa
anche nel dibattito pubblico e nelle rappresentazioni mediatiche, è definita
women wonderful effect (l’effetto donne meravigliose), in base al quale le
donne sono più amate, ma meno rispettate. Tuttavia «essere rispettati è
fondamentale dal punto di vista dello status e del potere, fin da Macchiavelli,
è noto che un leader deve essere più rispettato che amato» (ibidem).
Tale prospettiva ci offre, dunque, gli strumenti per capire come mai le
donne sono amate e idealizzate, ma gli uomini sono più rispettati e percepiti
come più autorevoli, a dispetto delle rappresentazioni di senso comune che li
dipingono egoisti, autocentrati, arroganti e violenti, oltre che forti,
competenti, dotati di senso logico e adatti ai ruoli di potere. Ci permette,
altresì, di interpretare meglio la ragione per la quale gli uomini nelle
professioni maschili, superate le barriere e i pregiudizi iniziali, diventano
facilmente “i migliori” (Abbatecola 2012), e ci fornisce le lenti per cogliere
e inquadrare con più chiarezza anche alcuni scambi avvenuti nel focus, che
trascriviamo qui di seguito, che contengono dei “lapsus” interessantissimi
sul piano sociologico, poiché rivelatori della pervasività del modello della
superiorità maschile a prescindere dal posizionamento dichiarato e/o
desiderato:

Insegnante 43: Noi abbiamo un maschio come maestro di ginnastica.

Insegnante 44: Beate! (focus 1).

[Il maschio] fa meno fatica a concentrarsi… sta lì un po’ così… può darsi che capisca, perché
capiscono, ma lui deve pensare, non lo so (risate generali) e sa benissimo che è più intelligente… cioè,
intelligente, mi sono sbagliata… poi ci arriva, sono sicura che ci arriva prima, cioè ha capito
benissimo, che è più sveglio, però intanto lui deve pensare e aspetti… e l’altra ne ha già fatte quattro
di cose (focus 1, insegnante 47).

Per tornare agli esiti del nostro questionario in riferimento alle


caratteristiche positive e negative attribuite alle bambine e ai bambini,
possiamo notare altre rappresentazioni stereotipate. Ci riferiamo qui al fatto
che ai maschi sono attribuite qualità positive storicamente non riconosciute
alle femmine, come la praticità e il senso logico, ma anche all’attribuzione
alle bambine di aggettivi negativi quali chiacchierone, capricciose e civette.
Nulla di nuovo, dunque. Le bambine sono ancora definite “civette”
esattamente come nel secolo scorso, ma oggi, come allora, gli stereotipi
producono aspettative e favoriscono rinforzi, dai quali discenderanno
comportamenti che serviranno da conferma dello stereotipo. Ancora attuale e
efficace, in questo senso, l’analisi di Elena Gianini Belotti:
I movimenti del corpo, i gesti, la mimica, il pianto, il riso sono pressoché identici nei due sessi
all’età di un anno o poco più mentre cominciano in seguito a differenziarsi. A questa età non è tanto
evidente la maggiore aggressività che si attribuisce ai maschi; sono aggressivi maschi e femmine.
[…] «il civettare» a un anno e anche oltre è comune ai due sessi […]. È molto comune osservare un
maschietto in braccio alla madre, alle prese con un interlocutore dal quale sia attratto ma con il quale
non abbia molta familiarità, nascondere la faccia sulla spalla della madre, o fra le mani, sorridere
ammiccando, riagganciando successivamente lo sguardo dell’interlocutore con un alternarsi di
mimica provocatoria che reclama attenzione e movimenti di fuga ritualizzati, una vera e propria
esibizione di civetteria. Con il progredire dell’età questo tipo di comportamento si attenua nei
maschi ma perdura nelle femmine proprio a causa delle diverse risposte dell’adulto a simili
atteggiamenti. Nel primo caso, rallegrandosi che la bambina sia già così “femminile”, si sollecita e si
incoraggia la sua civetteria; nel caso si tratti di un bambino non si raccolgono i suoi eventuali
tentativi di usarla mentre gli si insegnano altri modelli (1973: 56-57).

L’analisi fin qui condotta riproduce uno scenario delle rappresentazioni del
femminile e del maschile ancora fortemente ancorato alla tradizione che non
sembra dare conto delle profonde trasformazioni che hanno attraversato la
nostra società negli ultimi cinquant’anni. Questo perché, come abbiamo
visto nel secondo capitolo, lo stereotipo è per definizione un modello rigido,
difficile da modificare e facilmente replicabile (Volpato 2013).
Difficile da modificare, ma non immutabile. Anche nel quadro descritto,
infatti, si riescono a cogliere importanti segnali di resistenza a un ordine
simbolico che tende a riprodursi mantenendo inalterati rapporti gerarchici e
di potere tra i generi attraverso un processo di naturalizzazione delle
differenze. In questo gioco di riproduzione e conservazione dei confini “le
femmine sono…”, “i maschi sono…” − le bambine continuano a essere
descritte come timide e introverse, ma queste caratteristiche, insieme alla
incapacità di imporsi, sono ora descritte come qualità negative.
Nessun ordine è per sempre poiché, nonostante l’ordine si mostri così
fortemente incorporato, la riflessività delle pratiche porta a curvature che
modificano, spesso del tutto inconsapevolmente, gli atteggiamenti delle
persone in questo caso fondamentali agenti di socializzazione −
contribuendo così impercettibilmente al cambiamento.

1
Due delle diciotto insegnanti qui, come nella domanda sui giochi, hanno risposto che non
ritenevano opportuno fare distinzioni tra maschile e femminile perché sono le caratteristiche
individuali quelle che contano.
2
Sul tema dell’aggressività, dei “modi bruschi” e della socializzazione a un modello anche violento
di maschilità, avremo modo di tornare nel prossimo capitolo.
5. ENTRANDO NELLE SCUOLE. PROVE DI FEMMINILITÀ E DI
MASCHILITÀ
Emanuela Abbatecola

L’osservazione è terminata da qualche tempo ormai e abbiamo avuto il


tempo di far sedimentare impressioni, immagini e ricordi. A volte si ha la
sensazione che prendere le distanze dal lavoro sul campo aiuti a dipanare la
complicata matassa di stimoli ricevuti. Serve tempo per metabolizzare, e
ora ci apprestiamo a rileggere i diari e ad analizzare i disegni e il materiale
raccolto.
Il primo dato che colpisce la nostra attenzione è la coerenza tra quanto
ciascuna di noi ha rilevato nelle due scuole. Diverse le maestre, diverse/i le
bambine e i bambini, diversi gli spazi, eppure i nostri sguardi rilevano
similitudini riconducibili a processi di costruzione sociale della realtà tesi a
riprodurre mondi fortemente sessuati. Ciò che entrambe cogliamo è il
bisogno, culturalmente indotto, di caratterizzare e distinguere il femminile e
il maschile e, nella riproduzione di una realtà irriducibilmente binaria, nulla
sembra lasciato al caso: non gli spazi, non i giochi, non le aspettative né,
tantomeno, gli abiti, il taglio dei capelli, i colori. Tutto è
inequivocabilmente sessuato, più di quanto non appaia il mondo degli
adulti. Proviamo a entrare nelle scuole.

5.1. Indizi di pinkizzazione

I maschi tutti rigorosamente con il grembiule a quadretti azzurri e le femmine rosa. I maschi tutti con
i capelli corti e le femmine tutte con i capelli lunghi e fermagli piuttosto vistosi (diario di campo,
scuola A, 17 gennaio).

Su nove bambine, tutte sono vestite di rosa o, comunque, hanno qualche elemento rosa nella
pettinatura così come nelle scarpe (diario di campo, scuola B, 23 marzo).
L’immagine più vivida che ritroviamo nei nostri diari, così come nei
ricordi, è legata alla sensazione di essere entrate in universi nettamente
sessuati, nei quali il tratto distintivo prevalente sembra essere il bisogno di
ribadire che bambine e bambini appartengono a sottouniversi che non
desiderano confondersi e/o essere confusi.

100 sfumature di rosa


Veronika Koller in un saggio del 2008, ci avverte che i significati socialmente
attribuiti al rosa nel mondo occidentale variano anche in funzione della gradazione e
del livello di saturazione.

Se il rosa pastello è facilmente associato all’idea di purezza, da intendersi in termini


di assenza non solo di colpa, ma anche di desiderio e di esperienza sessuale, il rosa
shocking [l’aggettivo è eloquente] può richiamare la sessualità, e può percepito sia
come positivo rimando all’esuberanza e all’avventura, sia come volgare, vistoso,
inelegante e connotato dal punto di vista della classe sociale in quanto più proprio
della femminilità della cosiddetta classe lavoratrice.

Il dato visivo più appariscente quando cominciamo a guardarci intorno è


la presenza di colori caratterizzanti: il blu e il rosa. Soprattutto il rosa. Rosa
nei grembiuli, nei vestiti, nelle scarpe, rosa negli accessori. Rosa come
colore simbolo della femminilità delle bambine di oggi. Un rosa che noi
bambine di ieri, nate tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà degli
anni Settanta, proprio non riusciamo a rintracciare nei ricordi della nostra
infanzia. Non riusciamo non per inganni della memoria, ma perché quaranta
anni fa il rosa1 − benché simbolicamente legato al femminile già da qualche
decennio, ancora non era così pervasivo − e solo qualche anno dopo
avrebbe cominciato a giocare un ruolo così di rilievo nei processi di
costruzione e rappresentazione identitaria delle bambine.
Il rosa ci parla dunque di femminilità. Ma poiché i modelli prevalenti di
femminilità e maschilità non sono statici e si modificano nello spazio e nel
tempo, di quale femminilità ci parla? Di una femminilità pacata, fragile,
delicata, tranquilla, accogliente, accudente, stanziale, giovane, capace di
cura per sé e per gli altri, attenta all’aspetto esteriore, seduttiva al di là delle
intenzioni. Attraente ma non erotica. Una femminilità tradizionale,
immatura e mai minacciosa, come quella riproposta dalle pubblicità per
bambine e bambini, così come analizzate nei saggi di Elisa Giomi (2013a;
2013b) già citato nel primo capitolo. Nelle pubblicità di abiti e giochi le
bambine sono, infatti, ritratte in spazi chiusi e domestici e la loro immagine
è legata a una rappresentazione statica di bambine belle e tranquille,
soggetti docili il cui valore sembra dipendere dallo sguardo altrui.
Tra i maschi sembrano prevalere il blu e l’azzurro, ma per ricostruire
questo dato dobbiamo rileggere attentamente i diari perché non è facile
ricordare come fossero vestiti i bambini. Nei nostri ricordi, infatti,
sembrerebbe il rosa il colore dominante e, comunque, la ricostruzione
tramite le note etnografiche di allora non trova piena corrispondenza con la
nostra percezione di cosa fosse realmente immediatamente visibile allo
sguardo. Come dire, nel nostro sforzo di registrare ogni informazione
potenzialmente utile abbiamo rilevato anche il colore dei grembiuli dei
bambini così come pure il taglio dei capelli, ma rimane la percezione che
queste dimensioni (abbigliamento e acconciatura/taglio2) così centrali nei
processi di costruzione sociale dell’identità femminile, perdessero di
pregnanza e incisività quali marcatori della maschilità.
Come mai il rosa è efficace nel delineare un confine identitario chiaro,
mentre l’azzurro non sembra esserlo altrettanto? Perché qui è più facile
notare il capello lungo delle bambine piuttosto che il taglio corto dei
bambini? Quanto il nostro sguardo di ricercatrici, benché allenato, rischia di
cadere nelle trappole tese dai processi di costruzione della femminilità e
della maschilità dominanti e dalle aspettative a essi connessi?
Una prima ipotesi è legata alla dibattuta questione della neutralità del
maschile. Il maschile in quanto dominante tende a passare inosservato e a
essere percepito come neutro, non caratterizzato dal punto di vista del
genere (Bourdieu 1998; Abbatecola 2012 e 2015). Come scrive Sandro
Bellassai:
Gli uomini considerano quasi sempre se stessi non come un genere […] ma come l’umanità stessa;
e le donne, in questa concezione, rappresenterebbero una sorta di variante dell’umanità, una parte
quasi a sé, quasi una sorta di minoranza. La donna sarebbe insomma una forma specifica che
assume l’umanità; l’uomo è invece l’universale umano, aspecifico, è l’essere umano per
antonomasia (2004: 19).
Se l’uomo è considerato l’universale umano − non solo dagli uomini ma
anche dalle stesse donne − va da sé che l’azzurro e il blu, benché
identificativi della maschilità, possano essere percepiti come marcatori
identitari più deboli rispetto al rosa. Se il maschile è percepito come non
caratterizzato dal punto di vista del genere, il blu potrà essere indossato
anche da una bambina senza che questo rappresenti necessariamente una
violazione dei confini, mentre il rosa, in quanto marcatore di una forma
specifica che assume l’umanità, non potrà essere indossato da un
bambino/ragazzino, senza che ciò venga percepito come attraversamento
indebito che non può passare inosservato.

Maschile neutro
Il maschile neutro: anche nella lingua italiana prevale l’uso del maschile neutro o
non marcato. «Ci troviamo, dunque, di fronte a un paradosso, per cui quella che
siamo soliti definire lingua madre, è in realtà infarcita di paterno (Cavarero, 1987) di
un maschile non marcato che passa per neutro: “tutti gli uomini sono mortali”, un
tutti che include anche le donne. Parlando di uomini, quindi, ci si illude di poter
parlare anche delle donne (Sabatini 1987), come se il maschile non fosse mai
davvero caratterizzato dal punto di vista del genere, mentre parlando di donne si
parla di soggetti profondamente caratterizzati in termini di genere (Bourdieu 1998;
Abbatecola 2012). Parlando di donne posso parlare solo delle donne, per cui
un’espressione come tutte le donne sono mortali solleverebbe un’obiezione
percepita come ovvia: e gli uomini no?» (Abbatecola 2015b: 140).

Una seconda ipotesi, complementare e non alternativa alla precedente, è il


diverso ruolo assunto dal corpo nei processi di costruzione, identificazione
e riconoscimento del femminile e del maschile. Come accennato nel primo
capitolo e come vedremo in modo più approfondito nel capitolo seguente,
nel mondo occidentale il corpo femminile è un corpo da guardare,
giudicare, esibire o nascondere e trasformare a seconda dell’aderenza o
meno ai canoni di bellezza prevalenti nei diversi periodi storici, mentre
quello maschile è un corpo percepito, veicolato e rappresentato come uno
strumento per agire, muoversi, esplorare, combattere, vincere, sconfiggere,
dominare e minacciare. La maschilità si costruisce quindi non attraverso
l’estetica del corpo e dei suoi rivestimenti come valore in sé, come nel caso
della femminilità, ma attraverso le prestazioni corporee (Connell 1996), di
cui semmai l’aspetto fisico (i muscoli, per esempio) è un indicatore. Già
dagli inizi del XIX secolo, infatti, l’attività ginnica prima (Mosse 1997) e lo
sport poi hanno cominciato a essere percepiti come arene di addestramento
alla maschilità (Bellassai 2004) e, ancora oggi, il riuscire o meno negli sport
competitivi è un criterio per misurare l’adeguatezza della maschilità dei
ragazzi rispetto al modello di maschio vincente (Messner 1990).
Tornando ai bambini delle nostre scuole, la parziale neutralità del colore
da loro indossato in prevalenza così come del taglio di capelli, può dunque
essere almeno in parte spiegata con la consuetudine socialmente appresa di
guardare al corpo maschile non in termini di aspetto, quanto piuttosto di
prestazione. Ecco che la dimensione estetica del corpo maschile e dei suoi
rivestimenti tende a offuscarsi e a opacizzarsi al nostro sguardo.

5.2. Stili accoglienti e «modi bruschi». Strategie relazionali di genere

Entro in classe. Mi presentano come “l’amica della maestra”. Le bimbe si avvicinano incuriosite, mi
dicono il loro nome, sono affascinate da una mia collana. Sono accoglienti. Usando degli stereotipi
mi verrebbe da dire “seduttive”. Più distanti i maschietti, quasi si volessero dare un tono (diario di
campo, scuola B, 24 novembre).

C’è stato poi un gruppo di bambine, ma in particolare una, che ha cercato di comunicare con me
moltissimo, mentre i maschi non mi hanno praticamente rivolto la parola (diario di campo, scuola A,
17 novembre).

Bambine e bambini imparano precocemente a riconoscere le aspettative di


comportamento connesse alla femminilità e alla maschilità, e si allenano fin
dai primi anni a diventare donne e uomini assumendole e adeguandosi a
esse. Bambine e bambini mostrano in questo senso competenze sociali
elevate. Sono, infatti, consapevoli dei confini simbolici che la società
traccia tra femminile e maschile e mettono quotidianamente in scena
pratiche che rispettino e ribadiscano tali confini. Come ci ha insegnato
Simone De Beauvoir (1949), donne [e uomini, aggiungiamo noi] non si
nasce ma si diventa, e questo divenire complesso, infinito e non sempre
lineare implica un fare nel quale nulla è lasciato al caso. Diventare donne e
uomini significa, dunque, acquisire competenze specifiche rispetto a come
muoversi nello spazio sociale, tra le quali rientra anche il modo di porsi e di
relazionarsi alle altre persone.

Non si è mai maschi abbastanza


«Occorre ricordare che a lato del machismo – i “modi bruschi” – esiste l’angoscia
maschile di fronte alla necessità di dimostrare di essere maschi. L’idea costante e
continua dell’inadeguatezza dell’esserlo solo biologicamente. Lo sforzo
performativo, il doverlo far vedere.

La mascolinità […] è in questo senso una pratica dell’inadeguatezza: non si è mai


maschi abbastanza, e se non lo si è, allora si è pericolosamente non maschi. […] Il
maschio vero è un po’ maldestro, brusco, duro con il suo corpo. Se rimane
aggraziato (Peter Pan che sa volare, rotondo nei movimenti), resta nella dolce
infanzia e nei sogni sul ventre della madre. Il maschio deve perdere la “grazia”,
diventare “sgraziato”, “disgraziato”» (La Cecla 2010: 55-56).

Nelle nostre due scuole, dunque, notiamo entrambe differenze di rilievo


tra le bambine e i bambini nello stile relazionale esibito al nostro ingresso
nelle classi: accoglienti, comunicative e accattivanti le bambine; distanti e
apparentemente poco interessati i maschi.
Certamente il nostro essere donne non sarà stato irrilevante nel plasmare
le loro reazioni, e non è dato sapere come sarebbe stato accolto un uomo
della stessa generazione e con lo stesso ruolo, ma, riflettendo a posteriori su
questa differenza, sorge un interrogativo: quanto questa iniziale ritrosia dei
maschi nei nostri confronti è dovuta alla necessità, socialmente imposta, di
mostrare i «modi bruschi» di cui parla l’antropologo Franco La Cecla
(2010) per essere riconosciuti come “veri maschi” o, quantomeno, come
“maschi adeguati”?
Nel nostro immaginario, infatti, il “vero maschio”, vale a dire colui che
sembra aderire al modello di maschilità vincente, non è né accogliente, né
solare, né, tantomeno, affettuoso; il “vero maschio” è ombroso, schivo ed è
in grado di dominare l’affettività. Quanto, dunque, questi futuri uomini, così
impacciati ai nostri occhi nel relazionarsi a noi, sono già imbrigliati nel
modello?
Con il passare del tempo, i maschi delle rispettive classi prendono
confidenza. Sembrano abbassare le difese e si mostrano molto più
comunicativi di prima, anche se con modalità che permangono molto
diverse rispetto a quelle delle bambine: più seduttive le ultime − ti prendono
per mano, ti sorridono e mostrano di apprezzare i marcatori della
femminilità così come prescritta dall’ordine di genere (la collana vistosa o i
capelli biondi, lunghi e lisci3 della collega psicologa) − più indiretti (goffi?)
i primi.

5.3. «Maestra! Andrea prende la gomma delle femmine!». Spazi, giochi e


confini di genere

La struttura dell’aula, fatta per zone di gioco, rende forse questo meccanismo [scelta sessuata dei
giochi] ancora più evidente. Lo spazio del gioco delle macchinine con il tappeto che riproduce
strade e parcheggi viene scelto esclusivamente dai maschi. Lo spazio delle Barbie viene scelto
prevalentemente dalle femmine, ma anche i maschi partecipano, anche se poi scelgono di tenere in
mano bambole maschili (Ken, Action man…) e partecipano al gioco facendo i maschi. La casetta è il
gioco più ambito, tutti ci vogliono andare e, anche se la maestra mi ha spiegato che usa la
turnazione, mi pare di poter affermare che privilegi le femmine. I giochi da tavolo invece sono
abbastanza neutri, ma si sceglie di giocare insieme a componenti del proprio genere. Questo l’ho
verificato soprattutto nelle costruzioni. Diverso è il discorso per i giochi come la tombola eccetera
(diario di campo, scuola A, 11 aprile).

Lo spazio sociale non è mai neutro (James Jenks, Prout 1998; Holloway,
Valentine 2000), poiché si nutre delle relazioni, dei modelli culturali, dei
codici e dei linguaggi (non necessariamente verbali) della società più ampia
riproducendoli e/o sfidandoli. Lo spazio non può esistere al di fuori delle
relazioni (Simmel 1908; Satta 2010) ed è un ambito nel quale entrano in
gioco significativi processi di costruzione identitaria. Questo vale per tutte e
tutti, ma in modo particolare per le bambine e i bambini, le cui vite e le cui
identità si costruiscono nell’ambito di spazi debitamente pensati come
dedicati o, quantomeno, ritenuti adeguati (Holloway, Valentine 2000): la
casa, il nido, la scuola, i centri estivi, le ludoteche, le palestre, eccetera.
Questi spazi, a loro volta, sono concepiti, costruiti e organizzati alla luce
dei discorsi e delle rappresentazioni che danno vita a una particolare
concezione dell’infanzia. Non a caso, l’esigenza di individuare spazi ad hoc
per questa particolare fase del corso di vita sembra che si sia
progressivamente sviluppata con il crescere di quello che Ariès (2006)
chiama “sentimento dell’infanzia”, da intendersi con un’accezione
polisemica (Becchi 2010) in quanto al contempo idea, rappresentazione e
assegnazione di valore. Con il passaggio verso la modernità, dunque,
l’infanzia ha acquisito un’immagine più nitida e le bambine e i bambini
sono diventati soggetti distinti dagli adulti prima, e bene affettivo poi. Ciò
ha comportato l’esclusione progressiva dal mercato del lavoro (Zelizer
1985) ed è nata l’idea che l’infanzia fosse una stagione della vita
vulnerabile da proteggere, educare e controllare (Satta 2010). Proteggere,
educare e controllare, anche nel tempo libero, in spazi, preferibilmente
chiusi, per bambine e bambini – più raramente delle bambine e dei bambini
– costruiti in ambienti istituzionalizzati, ad hoc, in luoghi separati, gestiti
solitamente da personale qualificato (Satta 2010).
Insieme alla casa, la scuola diventa luogo privilegiato di costruzione
identitaria delle bambine e dei bambini fin dai primi anni (a volte mesi) di
vita, e l’organizzazione degli spazi scolastici ricalca le relazioni socio-
spaziali più ampie riproducendole e favorendo così performance delle
maschilità e della femminilità intellegibili agli altri poiché fondate su codici
culturali condivisi (Dixon 1997; Shilling 1991; Hollaway, Valentine 2000).
I microspazi delle classi sono, dunque, contesti di analisi rilevanti perché
ricalcati su codici regolativi di classe, razza e genere (Dixon 1997;
Holloway, Valentine 2000).
Vediamo, quindi, come sono organizzati gli spazi delle nostre classi.
In una delle scuole, che chiameremo per semplicità A, l’aula è più grande
e, di conseguenza, c’è spazio per la definizione di vere e proprie postazioni
di gioco: c’è l’angolo della casetta, quello della pista per le macchinine,
quello delle Barbie. Nell’aula della scuola B, viceversa, lo spazio è ridotto.
L’aula è piccola e quindi gli spazi sono meno definiti, ma non per questo
meno sessuati: non c’è una vera casetta, ma c’è un angolo che ne svolge la
funzione, e non mancano Winxs e Pokemon. Tutto è rigidamente
caratterizzato dal punto di vista del genere, finanche il possesso legittimo di
oggetti potenzialmente neutri, al punto che una bambina, subito dopo
l’inizio delle attività, richiama l’attenzione della maestra urlando:

Maestra! Andrea prende la gomma delle femmine!! (diario di campo, Scuola B, 24 novembre).
Noi ricercatrici proviamo a muoverci in questi spazi sessuati assumendo il
punto di vista delle straniere catapultate in mondi lontani, e non possiamo
non notare un implicito “patto intergenerazionale” tra maestre/genitori e
bambine/i, teso a rafforzare i confini tra maschile e femminile.
Le postazioni dei giochi sono, infatti, molto sessuate, e di questo
sembrano essere consapevoli anche, o forse soprattutto, bambine e bambini.

Una bambina (T.) si è offerta di farmi da “mediatrice” rispetto ai loro usi e costumi. Mi ha spiegato
che esistono i giochi solo per maschi uno in particolare che si chiama “maschi” che è una cesta di
super eroi e mostri di ogni tipo, alla mia domanda perché si chiama così la sua risposta è stata
“perché sono tutti maschi”, alla mia domanda se ci fossero giochi simili per le femmine, lei ci ha
pensato un po’ e poi mi ha risposto di no, allora io le ho chiesto se le Barbie per caso non
appartenessero alla categoria “femmine” e lei mi ha detto: “Eh no, ci giocano anche i maschi
perché ci vogliono i fidanzati per andare a mangiare la pizza (diario di campo, scuola A, 17
gennaio).

Teresa, mediatrice preziosa, ci prende per mano illustrandoci terreni di


gioco simbolo di riproduzione di modelli di genere rigidi, binari e poco
permeabili. La pista delle macchinine è solitamente disertata dalle bambine,
così come in una delle classi la cesta denominata, per l’appunto, maschi.
Bimbi e bimbe tendono a contendersi la casetta e, se nella classe non c’è,
se ne costruiscono una immaginaria. Nella scuola A, le maestre stabiliscono
dei turni sulla base dell’appartenenza di genere, anche se:

[…] la maestra mi ha spiegato che usa la turnazione, ma mi pare di poter affermare che privilegi le
femmine (diario di campo, scuola A, 16 gennaio).

Nella scuola B non sono previste turnazioni, e quando bimbe e bimbi


smettono di litigare per gli spazi e capiscono che possono giocare insieme,
tendenzialmente non mettono in scena ruoli stereotipati, ma cucinano,
maschi e femmine.
Un giorno, vedendo un gruppetto di bambini cucinare, abbiamo chiesto
loro cosa fosse quello spazio, per comprendere se per loro rappresentasse la
casa o un ristorante. Era una casa. Allora abbiamo chiesto al bambino che,
ai nostri occhi, era quello che incarnava maggiormente la maschilità
tradizionale, se avesse avuto voglia di prepararci qualcosa da mangiare, e
lui e un altro bimbo hanno cominciato a prepararci “pranzetti”. Casa e
cucina, dunque, non sembrano più rappresentare un confine invisibile tra
maschile e femminile. In particolare, negli ultimi anni l’azione del cucinare
si è progressivamente sganciata dalla rappresentazione di attività simbolo
della femminilità tradizionale, non tanto per diventare neutra, quanto
piuttosto per rimarcare il confine tra femminile e maschile. La preparazione
dei cibi assume, per esempio, significati e rimandi simbolici molto
differenti nelle trasmissioni televisive a seconda del genere di chi cucina.
Come sottolinea Luisa Stagi nel suo libro Food porn (2016), i palinsesti
televisivi prevedono trasmissioni di cucina tesi a riprodurre codici e simboli
della femminilità e della maschilità tradizionale ancora fondate sul doppio
binario privato/pubblico. Nella televisione generalista italiana, in
particolare, le rappresentazioni femminili sono prevalentemente collocate
entro spazi che rimandano alla dimensione della casa e della cucina a uso
quotidiano, nei quali donne apparentemente poco esperte in cucina e prive
di autorevolezza (si pensi, per esempio, ad Antonella Clerici) preparano e
assaggiano – senza mai gustare – piatti virtualmente destinati a familiari e
ospiti. Cuoche e non chef, dunque, che spesso operano grazie ai consigli di
un sapere esperto maschile. Gli uomini, viceversa, sono chef autorevoli e
aggressivi, situati in spazi simbolicamente pubblici, nei quali si ergono
spesso al ruolo di giudici impietosi mettendo in scena performance proprie
di una maschilità testosteronica che vuole ribadire la propria estraneità al
femminile. Emblema di questa messa in scena della maschilità, i giudici di
MasterChef.
La tensione tra tradizione e cambiamento è, dunque, ancora forte, per cui,
se casa e pentolini non rappresentano più un tabù per i maschi, non
necessariamente bambini e bambine interpretano performance neutre dal
punto di vista del genere, e non è raro che nel gioco riemerga una divisione
dei ruoli di sapore antico:

Decido di mettermi in una posizione che mi consenta di osservare e udire quello che avviene nella
casetta, ma senza che loro abbiano l’idea che io stia osservando. La cosa funziona, dopo un po’ le
tre bambine e il bambino non si accorgono della mia presenza. Le bambine scelgono i ruoli: una fa
la mamma e le altre due le figlie, al maschio viene attribuito il ruolo del dottore che va a visitare le
figlie malate. Dopo la visita del dottore, il bambino si mette a giocare sulla porta della casetta e solo
ogni tanto viene chiamato per assaggiare i piatti che nel frattempo le bambine si sono messe a
cucinare. A un certo punto, non sapendo che ruolo interpretare il bambino si mette a fare il cane da
guardia, mentre le bambine continuano a rassettare e a cucinare (diario di campo, scuola A, 12
febbraio).
È il terzo giorno di osservazione nella scuola B, e arriva l’ora di attività
motoria. Ci rechiamo in palestra, dove ci aspetta un ragazzo giovane.
L’unico educatore maschio, in verità, e non è un caso che si occupi
dell’attività motoria poiché, come vedremo meglio in seguito, il rapporto tra
sport e maschilità è molto stretto. Mentre bambine e bambini giocano,
corrono, gareggiano, esultano per la vittoria, le differenze di genere si
smorzano via via, fino a scomparire. La differenza tra i due contesti ci
sorprende. Il nostro sguardo si sforza di ritrovare i segni della distanza
simbolica tra femminile e maschile, tanto evidenti solo pochi minuti prima,
ma fallisce. L’attività fisica, così come l’assenza di spazi e di stimoli
sessuati, sembra avvicinare i due mondi. Le bambine, a dispetto degli
stereotipi, se lasciate libere di esprimere la propria energia, sono attive,
energiche e (sanamente) competitive tanto quanto i bambini. Ma allora,
quanto le nostre aspettative di irrequietezza maschile e di compostezza
femminile possono essere generatrici della cosiddetta profezia che si
autoadempie? Non siamo forse noi – società − a costruire le condizioni
culturali per la produzione di differenze lette, a posteriori, come “naturali”?
E se provassimo a modificare il nostro sguardo non solo verso il mondo
femminile, ma anche verso quello maschile, non riusciremmo (forse) a
favorire un cambiamento i cui effetti, sul lungo periodo, potrebbero
condurci, in modo meno ambivalente, verso una diversa cultura delle
femminilità, delle maschilità e delle relazioni tra i generi?

5.4. Fashion dolls e action figures. Prove di maschilità

Dall’esempio della casetta e dei pentolini si evince che la caratterizzazione


di genere dei giochi non è intrinseca, nel senso che non dipende solo dai
significati che la società attribuisce loro, ma anche dal modo in cui bambine
e bambini si approcciano al gioco, conformandosi o meno alle aspettative di
genere veicolate dai media e dai diversi agenti di socializzazione. Facciamo
un passo indietro. Teresa, la nostra piccola mediatrice, illustrandoci le
diverse postazioni di gioco ci aveva spiegato che la postazione con mostri e
Gormiti era denominata “maschi”, mentre quella delle Barbie4 non poteva
essere definita “femmine” perché ci giocavano anche i maschi poiché «ci
vogliono i fidanzati per andare a mangiare la pizza».
Teresa parla di fidanzati perché i maschi non giocano con le Barbie, ma
con la versione maschile delle Barbie. Non ci è dato sapere se anche i
maschi che ci giocano li vedano come fidanzati, ma inequivocabilmente
adottano stili di gioco profondamente differenti da quelli delle bambine.
Leggiamo nei nostri diari:

I maschi hanno scelto di utilizzare solo bambole maschili e la loro modalità di gioco è stata
completamente diversa. Tenendo in mano queste bambole, le battevano sopra quelle degli altri
simulando degli scontri (diario di campo, scuola A, 20 novembre).

I due [bambini], che hanno scelto il ruolo di figli, hanno passato tutto il tempo a scontrare le
bambole tipo lotta (diario di campo, scuola A., 25 novembre).

I bambini, dunque, evitano le Barbie e giocano solo con la loro versione


maschile. Più precisamente, non giocano con le bambole (maschili) –
emblematicamente dette action figures − ma contro di esse, le impugnano
non per rappresentare schegge di vita quotidiana, ma per inscenare lotte
cruente, battaglie, sfide, scontri, per ribadire che sono maschi e, in quanto
maschi, diversi dalle femmine e a proprio agio nella rappresentazione della
violenza fisica. I modi bruschi di cui sopra.
Il fatto che i bambini giochino sovente non con ma contro gli action
figures, trova riscontri anche nella letteratura internazionale (Klugman
1999) e appare coerente con il carattere genderizzato dei giochi − da noi
affrontato nel primo capitolo e le aspettative di ruolo a esso collegato. Nella
cultura occidentale, i giochi definiti e percepiti come maschili sono
associati alla competizione, al movimento, all’esplorazione e pongono
spesso enfasi sulla violenza e l’aggressività come carattere di rilievo nella
costruzione di una maschilità adeguata. I giochi femminili, viceversa,
puntano sull’aspetto fisico, sulla bellezza e sui ruoli e doveri sociali legati
alla cura (Klugman 1999; Dinella et al. 2017; Blakemore, Centers 2005;
Blackmore et al. 2009). Il linguaggio, con le sue gabbie, si mostra ancora
una volta uno strumento prezioso di analisi dei modelli culturali prevalenti.
Le bambole che ricalcano il modello della Barbie, non sono chiamate
semplicemente bambole, ma fashion dolls, a sottolineare il carattere
rilevante della dimensione estetica nei processi di socializzazione a una
femminilità adeguata. I corrispettivi maschili, come gli storici Big Jim o
Ken, non possono essere chiamati dolls, in quanto il termine “bambola” è
talmente impregnato di femminile da non prevedere il corrispettivo
maschile neanche in una lingua, come quella inglese che sul piano
prettamente grammaticale si presterebbe più facilmente a un uso neutro del
termine. Sono quindi definiti action figures5, dove il termine figure
(letteralmente sagoma, personaggio, ma anche personalità), preceduto
dall’aggettivo action, rimanda a una soggettività, attiva, agita,
intraprendente, protagonista, una soggettività molto diversa da quella
passiva e estetizzata evocata dall’espressione fashion dolls.
Naturalmente le differenze tra fashion dolls e action figures non si
esauriscono nel nome, ma toccano molte altre dimensioni che rimandano, a
loro volta, a modelli di genere binari, stereotipati e dai confini marcati dalla
dicotomia action versus fashion. Come rileva un interessante studio di
Klugman (1999) di qualche anno fa ma ancora stimolante, le differenze
riguardano la mobilità dei corpi, le parole scelte nel linguaggio
pubblicitario, il tipo di accessori e finanche il grado di individualizzazione.
I corpi degli action figures, ci ricorda Klugman, sono sempre stati molto più
snodati6 e mobili di quelli delle fashion dolls, le quali, nella versione
tradizionale, lo erano solo in corrispondenza delle spalle e dei fianchi.
Questo dettaglio, apparentemente banale e secondario, ricalca la necessità
di riprodurre corpi sessuati corrispondenti alle aspettative di genere. Come
già ricordato e come approfondiremo meglio nel prossimo capitolo, la
centralità del corpo assume tratti e rimandi simbolici differenti nei processi
di costruzione sociale delle maschilità e delle femminilità. Se la maschilità
action si misura attraverso le prestazioni corporee (Connell 1996) legate a
un immaginario di esplorazioni, avventure pericolose e scontri violenti, è
chiaro che il corpo dovrà essere flessibile e mobile. Viceversa, la
femminilità fashion è legata alla prestanza e non alla prestazione, e quindi il
corpo può essere rigido e poco mobile.
La comparsa da qualche anno di un nuovo modello di Barbie snodabile,
sembra modificare solo parzialmente l’immaginario. La nuova linea “Made
to move” riproduce una Barbie dedita al fitness (termine riportato in
stampatello sulla scatola), vestita con dei leggins neri e un top colorato
(rosa per la Barbie principale, vale a dire quella bionda con gli occhi
azzurri). L’assenza delle scarpe rimanda a un tipo di attività fisica
considerata femminile (yoga o pilates) da svolgersi al chiuso. Tra gli
accessori, eventualmente, ci sono anche delle scarpe da ginnastica (rosa)
per andare in bicicletta (rosa e con il cestino rosa), non senza aver indossato
il casco (rosa). In sintesi, questa recente acquisizione di mobilità sembra
legata più che ai cambiamenti della moda che a una rivoluzione culturale
profonda. E il corpo, benché snodato, rimane fashion e lontano dalla
dimensione esplorativa del corpo action. Non a caso, infatti, la voce di una
blogger conclude il suo messaggio promozionale della Barbie “Made to
move”, con le seguenti parole: «Sicuramente ti batterà di brutto alla prova
costume!7».

Il corpo delle Winx


Le Winx, fatine italiane di nascita che hanno dominato il mercato tra il 2004 e il
2012 circa, rappresentano un interessante caso di ibridazione, sintomatica di una
schizofrenica e irrisolta tensione tra tradizione e cambiamento nei modelli di
costruzione della femminilità occidentale contemporanea.

Per certi versi rappresentano il cambiamento rispetto alle principesse in stile “bella
addormentata” in quanto vivono avventure pericolose dove mostrano coraggio,
arguzia e intelligenza (benché supportate dalla magia), intervenendo spesso anche in
difesa dei loro fidanzati, oltre che dell’ambiente e del pianeta; al tempo stesso, però,
sono decisamente fashion, hanno dei fidanzati per l’appunto, e incarnano modelli di
bellezza estetica irraggiungibili in quanto non esistenti in natura: gambe
sproporzionatamente lunghe, vita inesistente, occhioni enormi e chiome fluenti (a
eccezione di Tecna, geniale con una competenza considerata maschile come
l’informatica e, non a caso, l’unica con i capelli corti). Ovviamente magre e
bellissime. Il carattere avventuroso delle loro vite sembra dunque sfumare nella
configurazione dei corpi e delle loro rappresentazioni.

I corpi sono, infatti, poco snodati, come quello di tutte le fashion doll tradizionali, e
si presentano in posizioni statiche da modelle nelle immagini così come nella sigla,
anche quando ritratte in volo, quasi si trattasse di scatti fatti in studio.

La ricerca di Klugman (1999), dicevamo, rivela anche altre differenze.


Secondo la studiosa, gli action figures sono più individualizzati, nel senso
che hanno corpi, peso, nazionalità, storie e appartenenze differenti, mentre
le fashion dolls appaiono tendenzialmente tutte uguali, a eccezione dei
colori, dell’outfit 8 e del nome. Il nome delle nuove Barbie “Made to
move”, per esempio, è legato al colore del top (pink-top, violet-top, green-
top). Inoltre, gli accessori contribuiscono a sottolineare il confine
simbolicamente invalicabile tra la femminilità fashion e la maschilità
action: spazzole, borsette, scarpe con il tacco, coroncine, orecchini, collane,
braccialetti e tanti, tanti vestiti (di cui alcuni anche molto costosi), per la
prima; tute mimetiche, spade, armi, bombe, mitragliatrici e granate, per la
seconda, questo quando gli action figures non hanno armi estraibili dal
corpo.
Riguardo al potenziale violento degli action figures, c’è da fare un’altra
considerazione. I bambini sono sempre stati addestrati all’aggressività e alla
violenza. Prima degli action figures, infatti, c’erano i soldatini, i quali però
veicolavano l’idea che la violenza maschile fosse legittima in quanto
finalizzata al perseguimento di un obiettivo ideale alto (la difesa della
patria, per esempio). Non entreremo qui nel merito del nostro
posizionamento rispetto alla guerra, poiché irrilevante ai fini dell’analisi,
ma ci preme sottolineare la differenza sostanziale tra ieri e oggi. La
violenza degli action figures (e, più avanti con l’età, di molti videogiochi)
appare perlopiù come una violenza fine a se stessa, svincolata da
qualsivoglia codice etico. Produrre dei giochi sulla cui scatola è riportata la
scritta «Killers» significa trasmettere l’idea di una maschilità che trova
realizzazione in una violenza senza direzione, e quindi legittimare
indirettamente anche l’abuso e la sopraffazione anche solo per il gusto di
farlo.
Per tornare alla nostra riflessione sulla caratterizzazione di genere delle
bambole (termine usato qui in senso neutro), abbiamo, dunque, una
femminilità fashion statica, curata nell’aspetto, da ammirare sul piano
estetico e dalla personalità indistinta, contrapposta a una maschilità action,
mobile, performante, individualizzata e costretta (o comunque caldamente
incoraggiata) a misurarsi con l’aggressività e la violenza per trovare
legittimità e conferme.
Alla luce di questa riflessione sulla caratterizzazione di genere delle
bambole, non sorprende che i bambini giochino contro e non con, e che si
mostrino così a proprio agio nel rappresentare la violenza9. Tuttavia, ciò
dovrebbe interrogarci come società. Quale modello di maschilità
proponiamo loro?
5.5. Quando “lui” vuole giocare con le bambole. Maschilità, confini e
sconfinamenti

Il primo giorno di osservazione nella scuola B. Nel desiderio di comunicare con noi, le maestre
raccontano di un bimbo che era in classe loro qualche anno fa, un “bimbo un po’ strano”: aveva
modi femminili e voleva sempre giocare con le bambole. I genitori, raccontano le maestre, erano
molto preoccupati, e lo hanno portato da uno psicologo, che ha consigliato loro di “impedire al
bambino di giocare con le bambole”. Le maestre ricordano la frustrazione di questo bambino, che
guardava triste le bambole con le quali non poteva più giocare. Terminato il racconto, una di loro
chiede: “Ma tu che te ne intendi, credi che sia possibile guarire da un problema come questo?”
(diario di campo, scuola B, 24 novembre).

Quando un bambino o un ragazzino esprime preferenze per accessori o


attività codificate dalla società come femminili, la reazione degli adulti è di
disorientamento, panico, censura. E la reazione dei coetanei, specie
nell’adolescenza, può diventare violenta. Cerchiamo di comprendere cosa
fa paura e quali sono le radici culturali di questa reazione.
La femminilità fashion e la maschilità action evocate e suggerite dai
giochi sopra descritti, non si pongono come estremi di un continuum
disponibile ad accogliere espressioni sfumate o divergenti dell’identità di
genere, e tutto quanto analizzato finora, i colori, i modelli relazionali, gli
spazi e le modalità di gioco, contribuiscono a disegnare confini simbolici
resistenti che è bene non valicare.
L’esistenza di un ordine staticamente dualistico appare, infatti,
rassicurante, e le norme implicite sottostanti vengono esplicitate solo nel
momento in cui qualcuna, ma soprattutto qualcuno, minacci di romperlo. I
confini, infatti, sono attualmente più permeabili per il femminile, mentre la
maschilità non prevede sconfinamenti e ibridazioni. Una bambina può
vestirsi di blu, indossare i pantaloni e giocare con le macchinine o i
Gormiti, anche se ci aspetta che tenga sotto controllo comportamenti
spericolati o smodati e aggressività fisica. Viceversa, un bambino non può
vestirsi di rosa o giocare con le bambole senza che questo susciti reazioni di
preoccupazione e censura anche pesante, non solo da parte del mondo
adulto, ma anche dei pari.
Riflettendo su questo, torna alla mente anche uno dei due incontri
preliminari di presentazione del progetto ai genitori. In entrambe le scuole, i
genitori hanno mostrato grande interesse (certamente al di sopra delle
nostre aspettative), ma c’è stato un papà che ha palesato la sua
preoccupazione rispetto a una nostra potenziale azione di neutralizzazione
delle differenze di genere:

non farete mica giocare mio figlio con le bambole vero? I bambini giocano a pallone e le bambine
no, ed è giusto così, queste cose non vanno cambiate (diario di campo, scuola A, incontro genitori, 13
novembre).

Il fatto che entrambi gli episodi illustrati riferiscano la preoccupazione


degli adulti rispetto alla possibilità che i figli maschi giochino con le
bambole, gioco simbolo della femminilità tradizionale, non è casuale, e
queste reazioni diventano più facilmente comprensibili se lette alla luce dei
processi di costruzione della maschilità egemone. Come si diventa maschi?
Come bisogna essere per sentirsi maschi adeguati?
Uomo non si nasce e questo (faticoso?) percorso di costruzione di
un’identità di genere consona alle aspettative sociali, deve cominciare il
prima possibile. La pressione sui bambini è in questo senso precoce e
fortissima e, come dicevamo, ancora più vincolante di quello delle bambine
perché, come scrive Badinter (1993), è in rapporto alle donne e contro le
donne che gli uomini si definiscono. Il maschio vincente, quindi, deve
essere in primo luogo diverso dalle femmine. Non solo dalle femmine, però,
ma anche dai gay (impropriamente assimilati alle femmine), dalle
transessuali e da tutte le maschilità che la società considera perdenti perché
non adeguate al modello (bambini e ragazzini timidi, emotivi, poco
intraprendenti, ma anche studiosi, rispettosi delle regole e incapaci di
rispondere alla violenza con la violenza). La maschilità egemonica (Connell
1996; Connell, Messerschmidt 2005) qui in gioco, infatti, assume corpo sul
non-essere, si definisce per differenza (Bellassai 2001; Kimmel 2002;
Bourdieu 1998) rispetto alle categorie che la società rappresenta come
inferiori. I maschi, fin da piccolissimi, per acquisire cittadinanza agli occhi
della società, e, soprattutto, degli altri maschi, devono dunque distinguersi
dalle femmine, e per farlo devono curare ogni più piccolo dettaglio:
dall’aspetto, al modo di muoversi, di camminare, di sedersi, di parlare, di
incrociare le gambe, di vestirsi, di raccontarsi, di esprimere l’affettività e
l’amicizia, di giocare prima e di rapportarsi alla sessualità poi, fino anche al
tipo di linguaggio e alle parole per esprimersi (Abbatecola, Stagi 2014). In
sintesi, devono fare molta attenzione a maschilizzare il loro doing gender, il
che implica nell’infanzia anche rifiutare i giochi da femmina:

«Le Winx?? Bleahhh»… dice un bimbo, allontanando le braccia (diario di campo, scuola B, 31
gennaio).

L’obbligo sociale al rifiuto del femminile da parte dei maschi, se non in


termini di “terreno di conquista”, nasce come strategia di mantenimento di
un ordine di genere nel quale il potere maschile trova legittimazione
nell’inferiorizzazione del femminile. Una pratica diffusa tesa a rafforzare
l’idea che l’asimmetria di potere tra uomini e donne sia giustificata dal
minore valore del femminile, è quella, per esempio, di reprimere il pianto di
un bambino dicendogli: “Non fare la femminuccia!”. Così dicendo si induce
il bambino a provare vergogna e a interrompere il pianto, e al contempo lo
si educa a pensare che le bambine e le donne in generale valgano meno.
“Non fare la femminuccia” è un’espressione talmente diffusa da non essere
percepita come portatrice di un messaggio sessista, ed è assimilata anche
dalle bambine che progressivamente la incorporeranno durante la crescita
facendola propria, con esiti rilevanti in termini di autoesclusione da alcuni
percorsi sportivi, scolastici e lavorativi e/o con un senso di inadeguatezza o
ansia da prestazione in arene simbolicamente considerate maschili10.
Il sessimo, vale a dire l’inferiorizzazione delle donne e del femminile, non
solo permea i rapporti di potere tra donne e uomini, ma contribuisce anche a
plasmare implicitamente le gerarchie tra uomini e il dominio dei maschi
egemoni sugli “altri maschi”. Gli “altri maschi” − gay, transessuali e maschi
non aderenti al modello vincente − infatti, valgono meno dei maschi
egemoni perché assimilati, nelle rappresentazioni prevalenti, alle femmine.
Ma c’è di più. Il sessismo contribuisce a definire le gerarchie di potere
anche nell’ambito dello stesso mondo gay, all’interno del quale la
marginalizzazione degli omosessuali effeminati è pratica diffusa. Come ci
mostra Cirus Rinaldi:
La costruzione delle nuove maschilità si fonda infatti sull’epurazione del femminile e
dell’effeminatezza, attraverso una serie di contesti e pratiche […] che attestano quanto le maschilità
omosessuali egemoni e normative considerino accettabili e giustificabili le condotte e gli
atteggiamenti effeminofobi. La storica associazione dell’omosessualità con il femminile non stimola
dunque un ripensamento della maschilità omosessuale (e della maschilità in generale), al contrario
la fa arroccare su posizioni difensive e distanzianti, su forme contro-reattive e controculturali che di
fatto riproducono la norma. Il paradosso della maschilità consiste allora nella ricerca
dell’affrancamento culturale attraverso la proposta di una maschilità vera che non mette in
discussione però misoginia, patriarcato e “checcofobia” (2015: 452).

Tornando al nostro esempio iniziale, il panico del mondo adulto di fronte a


un bambino che mostri di essere attratto dai giochi e/o dagli abiti femminili,
nasce in prima battuta dall’obbligo di mettere in scena una maschilità
distante dal femminile per evitare una perdita di status e di credibilità in
quanto maschi, ma anche dall’idea che l’assunzione di comportamenti
codificati dalla società come femminili nasconda un orientamento sessuale
o un’identità di genere non aderenti alla norma, e quindi percepiti come
problematici.
L’ordine simbolico di genere si fonda, dunque, non solo sulla costruzione
di due generi binari (femminile e maschile) diversi, complementari e in
rapporto gerarchico tra loro, ma anche su un presupposto eteronormativo
per lungo tempo taciuto anche nella letteratura sociologica: femmine e
maschi devono agire in modo conforme alle aspettative relative al genere di
appartenenza − assegnato alla nascita in base al sesso biologico − le quali
comprendono anche l’innamorarsi e intrattenere relazioni sessuali con
persone del sesso opposto.
In un interessante saggio dall’evocativo titolo William Wants a Doll. Can
He Have One? [William vuole una bambola. Può averla?], la sociologa
statunitense Karin Martin (2005) riporta alcune riflessioni tratte dall’analisi
di 34 libri di supporto alla genitorialità, pubblicati in Nord America nei
primi anni Duemila, e di 42 articoli postati su 15 siti web concepiti per
offrire consigli ai genitori. Un primo dato di rilievo è che la maggior parte
dei consigli riguarda risposte a domande, vere o ipotetiche, poste da genitori
preoccupati per comportamenti legati a sconfinamenti di genere da parte di
figlie (andare in giro senza indossare una maglietta o giocare con i maschi),
ma soprattutto di figli (vestirsi con abiti femminili, truccarsi, indossare
gioielli, giocare con le bambole o anche solo con le femmine). A fronte
dello smarrimento e delle “grida di aiuto” dei genitori, le risposte di esperte
e esperti assumono solitamente toni rassicuranti tesi a normalizzare e a non
stigmatizzare queste non conformità di genere, dicendo che si tratta di
fenomeni normali nella prima infanzia, destinati a risolversi
spontaneamente nel tempo, da non contrastare per evitare “conseguenze
peggiori”. La strategia prevalente di esperte e esperti è quella dunque di
ricodificare le pratiche generatrici di paure, normalizzandole – “gioca alle
bambole per prepararsi al futuro ruolo di padre o per anticipare il momento
in cui uscirà con ragazze come le Barbie” – negando che vi siano prove
tangibili del fatto che tali non conformità di genere possano essere
considerate predittive di ciò che i genitori temono pur senza nominarla:
l’omosessualità. Così facendo, tuttavia, esperte ed esperti problematizzano
gli orientamenti sessuali non normativi così, come la transessualità −
benché questa ultima solo raramente sia nominata − e patologizzano di fatto
ogni deviazione persistente dalla norma suggerendo, con tatto, di rivolgersi
a un medico nel caso in cui la situazione non dovesse evolversi. In sintesi,
conclude Martin (2005), il fatto che esperte ed esperti accolgano
comportamenti non normativi, come il gioco delle bambole da parte di un
bimbo, con toni rassicuranti, induce a ritenere che il messaggio del
femminismo liberale di seconda ondata sia stato, almeno in parte, recepito,
ma il permanere di una rappresentazione problematica dell’omosessualità
suggerisce che «il successo di una rivoluzione di genere può richiedere una
rivoluzione sessuale, che ancora non è stata realizzata» (p. 475, traduzione
nostra).
Senza nessuna pretesa di completezza o di rappresentatività, guardando
alcuni siti web italiani11 ci sembra di poter ravvisare la medesima
preoccupazione da parte delle mamme (i papà sono apparentemente silenti)
nei confronti di giochi o comportamenti non normativi da parte dei figli
maschi. Nei primi due articoli qui presi in analisi, a nostro parere
esemplificativi delle retoriche discorsive prevalenti su questo tema da parte
del sapere esperto, lo/le psicologo/ghe tendono a rassicurare con i medesimi
argomenti riscontrati nella ricerca sopracitata, sintetizzabili come segue:
non è necessario allarmarsi perché la sperimentazione nei primi anni di vita
è normale; non bisogna reprimere la creatività del bambino (o della
bambina) negando giochi e sperimentazioni criticando e giudicando le sue
scelte; non esistono evidenze scientifiche che provino che giocare con le
bambole (o con spade e laser) sia predittivo di un orientamento sessuale non
normativo nell’età adulta. Non mancano, anche in questo caso, strategie soft
di ricodifica normalizzatrice (fanno così per imitazione della sorella o per
richiedere coccole), così come rimandi più o meno espliciti ai
comportamenti da incoraggiare o evitare al fine di scongiurare esiti di lungo
periodo. Di seguito alcuni passaggi significativi.
Le limitazione nei giochi, secondo gli stereotipi tradizionali che li dividono per convenzione in
“maschili” e in “femminili”, rappresenta una forma di censura nei confronti della piena espressione
della personalità e della creatività del bambino. […] Se da un lato, quindi, occorre lasciare che i
bimbi maschi giochino liberamente con le bambole se lo desiderano, così da non reprimere in loro
le componenti “femminili”, allo stesso tempo, però, facciamo in modo che possano anche
“ispirarsi” a un modello maschile forte che stimoli il loro desiderio di emulazione. Spesso, quando
in famiglia è la madre che appare al bambino come la figura più forte, il confronto con il padre può
diventare poco stimolante. In questo caos potremmo per esempio mettere Michele nelle condizioni
di condividere un hobby, uno sport o un interesse con il papà. Vedendo che il padre si impegna e si
prodiga per insegnargli, il bambino lo stimerà e ammirerà sempre di più. È questo il modo migliore
per introdurre il bambino nel gruppo sociale dei maschi, abituandolo ad abbandonare lo spazio
morbido e protetto delle cure materne che forse lui ha “proiettato” inconsciamente sulle sue piccole
amichette d’asilo12.

Quindi nessun divieto sui giochi. E attenzione anche al contesto: se in famiglia ci sono due
femmine e un maschio, è naturale che quest’ultimo scelga anche le bambole. Ogni comportamento
va sempre riportato alla realtà in cui si manifesta. E non va caricato delle paure che noi grandi
possiamo avere rispetto all’identità sessuale. «Non c’è alcuna corrispondenza tra la tipologia di
giochi prediletti durante tutta l’età scolare e le future inclinazioni sessuali» spiega Daniele Novara.
Quindi i genitori non devono trarre alcuna conclusione. «Sarà molto più in là, negli anni
dell’adolescenza,che un ragazzo o una ragazza cominceranno a scoprire da quale genere sono
attratti. E faranno le loro prime esperienze eterosessuali oppure no. […] Un’altra cosa che, fino a 6-
7 anni, può interferire sull’identità sessuale, poi, è l’eccesso di confidenza su certi temi. Per
esempio, la mamma che spiega alla bambina cosa sono le mestruazioni dà un’informazione delicata
che, invece, va trasmessa al momento giusto e con tatto. A quell’età può spaventare»13.

In entrambi gli esempi selezionati, si sottolinea con decisione che i


genitori dei bambini (ma anche delle bambine) che attraversano i confini di
genere non hanno nulla di cui preoccuparsi, poiché si tratta di
comportamenti esplorativo-imitativi non predittivi. Allo stesso tempo
sembrano tuttavia suggerire, più timidamente il primo, in modo più deciso il
secondo, che questa non conformità ai modelli forse del tutto aproblematica
non è, visto che potrebbe essere, inconsapevolmente indotta da: mancanza
di figure maschili forti di riferimento – «In questo caos [corsivo nostro]
potremmo, per esempio, mettere Michele nelle condizioni di condividere un
hobby, uno sport o un interesse con il papà», o comunque da un intervento
educativo maldestro − «Un’altra cosa che, fino a sei-sette anni, può
interferire sull’identità sessuale, poi, è l’eccesso di confidenza su certi
temi». Il messaggio indiretto, sembra dunque essere che l’orientamento
sessuale non normativo, di cui in ultima analisi gli sconfinamenti possono
essere un campanello se non abbandonati precocemente, non è una normale
espressione del sé, ma l’esito di un contesto famigliare o di modelli
educativi non del tutto adeguati.
Il terzo articolo preso come esempio, si discosta molto dai primi poiché
fin dal titolo problematizza il gioco non conforme come sintomo di una
patologia medicalizzabile. Leggiamo alcuni stralci dell’inchiesta:
Se il bambino gioca con le bambole. Incertezza di genere fin dai primi anni.

In passato i pazienti che si presentavano in ambulatorio erano adolescenti in crisi, oggi sono sempre
più numerosi quelli fra i sette e i nove anni. […]

Roma – Francesco preferiva le bambole alle macchinine. Con il passare del tempo i suoi gusti sono
diventati sempre più femminili. Può accadere che un bambino manifesti una preferenza per giochi e
passatempi tipici dell’altro sesso. Secondo gli studi più recenti in materia il 10-20 per cento dei
soggetti nella fase prepuberale soffre di disturbi di genere, che possono continuare in adolescenza e
in età adulta. Esiste infatti una condizione clinica dell’infanzia che riguarda un’alterazione della
normale coincidenza tra identità sessuale e di genere. E oggi in casi in cura nelle strutture sanitarie
sono in aumento e coinvolgono persone sempre più giovani14.

In questo articolo, nel quale l’esperto intervistato non è un/a psicologo/a


ma un endocrinologo, i bambini sono definiti pazienti, si parla di sofferenza
da disturbi di genere, di condizione clinica dell’infanzia e di ragazzini in
cura. Apparentemente si parla solo di maschi dai comportamenti non
normativi, ma non è dato sapere se questo dato registri la realtà (solo i
maschi finiscono precocemente dal medico?) o se sia l’esito di una
selezione giornalistica dettata dalla percezione culturalmente indotta di una
gravità maggiore nel caso di sconfinamenti agiti da maschi.
Cambia il linguaggio e cambia la rappresentazione dei significati attribuiti
al gioco non normativo. Tuttavia, questo è anche uno dei pochi articoli nei
quali si nomina esplicitamente il transgenderismo, a oggi forse l’ultimo
tabù. Nel secolo della rivendicazione dei nuovi diritti, lesbiche e gay hanno
acquistato una visibilità e una cittadinanza inimmaginabile solo fino a pochi
decenni fa, benché ancora molto precaria e sempre revocabile, specie nel
nostro paese. L’omofobia non è sconfitta e produce ancora molte vittime,
ma l’omosessualità può finalmente dirsi e può essere nominata. Il
transgenderismo, viceversa, fatica ancora a trovare spazi di riconoscimento
ed è il grande innominato anche nei numerosi forum di discussione, blog,
siti, persino negli articoli scientifici nei quali si affronta il panico suscitato
dagli sconfinamenti dei bambini. Innominato anche nella nostra esperienza
etnografica («ma tu che te ne intendi, credi che sia possibile guarire da un
problema come questo?», vedi supra). Le mamme (anche a nome dei papà),
chiedono aiuto e conforto se i figli mostrano interesse per trucchi, tacchi e
bambole. Esprimono senza remore la loro preoccupazione rispetto al futuro
dei loro bambini, ma senza mai fare cenno alla paura che il loro piccolo
possa desiderare di essere una bambina. Il transgenderismo aleggia come
grande implicito sia nelle domande che nelle risposte delle/degli esperte/i o
delle altre mamme, ma difficilmente trova cittadinanza nei discorsi. È più
facile nominare l’orientamento sessuale o anche l’omosessualità. Mentre il
transgenderismo rimane la grande indicibile paura.
Il disagio diffuso nei confronti degli sconfinamenti di genere, specie se
agiti dai bambini, ci parla dunque di sessismo, di rapporti di potere, di
gerarchie, di rapporti di dominazione tra uomini e donne che si intersecano
con orientamento sessuale e identità di genere, dando vita a paure non
sempre nominabili. Osservando anche solo il modo in cui bambine e
bambini giocano, i giochi di genere a loro dedicati e le aspettative degli
adulti, si impara molto del nostro mondo sociale e dell’ordine di genere che
tanto permea le nostre biografie e si possono anche cogliere le chiavi per
leggere e decostruire alcune forme di violenza che nascono da un certo
modo di costruire, immaginare e rappresentare il femminile, il maschile e i
rapporti di dominazione.

5.6. Chi ha paura di Cappuccetto Rosso? I giochi di ruolo e la letteratura


per l’infanzia

Usciamo in palestrina per fare un gioco di ruolo: Cappuccetto Rosso e il lupo. Le maestre chiedono
alle bambine e ai bambini quale ruolo vogliono interpretare (lupo, mamma o Cappuccetto), quindi
inizia la recita secondo un canovaccio rigido e sempre uguale, scandito da una canzoncina: la
mamma manda Cappuccetto dalla nonna e le dà consigli su come attraversare il bosco; Cappuccetto
si avvia e incontra il lupo, inizia a scappare, ma inevitabilmente alla fine il lupo la raggiunge e la
mangia. Finito il gioco una maestra si avvicina e mi dice: “Hai visto che maschi e femmine si
scambiano i ruoli?” (diario di campo, scuola B, 31 marzo).

In realtà, il nostro sguardo ha colto altro. Le bambine avevano scelto


indifferentemente uno dei tre ruoli, mentre i maschi avevano chiesto, in
prima battuta, di fare il lupo e, solo come seconda scelta, la mamma. La
maestra non aveva notato che nessuno dei bambini aveva chiesto di fare
Cappuccetto Rosso.
Come ci ricorda Corsaro (2010), i giochi di ruolo, molto apprezzati da
bambine e bambini dai due ai cinque anni di età, acquistano significato e
appetibilità poiché permettono di inscenare il potere. Potere dal quale sono
escluse/i nel loro quotidiano. I giochi di ruolo piacciono perché prendere ed
esercitare potere è divertente (ivi: 99).
La differente flessibilità mostrata da maschi e femmine nello scegliere i
ruoli messi a disposizione dalla cornice del gioco, deriva dunque, ancora
una volta, dall’inestricabile rapporto tra genere e potere (Scott 1988). E il
potere, a sua volta, può assumere significati e rilievi differenti a seconda
dello sguardo dei soggetti in virtù del loro posizionamento nell’ordine
simbolico di genere. Come si configura il potere maschile? Quali sfumature
può assumere il potere femminile?
Il potere maschile è simbolicamente rappresentato dalla capacità di
imporsi, dominare, vincere, finanche uccidere (come abbiamo visto a
proposito degli action figures e della presenza, tra i possibili accessori, di
pugnali, fucili, e bombe a mano), e questo tipo di potere deve incutere
timore e rispetto, ma non necessariamente apprezzamento. Il maschio
vincente non ha bisogno di piacere (Volpato 2013) e quindi può anche
essere un personaggio negativo e poco amato. Il lupo cattivo, in questo
senso, si presta perfettamente a incarnare il piacere legato all’esercizio
maschile, tanto più in un gioco di ruolo dal quale il lupo esce sempre
vincente perché nessun cacciatore lo ucciderà dopo aver mangiato
Cappuccetto Rosso. I bambini, quindi, in prima battuta chiedono di
interpretare il ruolo del lupo, e se ciò non fosse possibile, allora ripiegano
sulla mamma. La mamma, infatti, per un bambino di tre-cinque anni,
rappresenta la figura adulta di riferimento per eccellenza, amata, rispettata
ma anche detentrice di un potere di rilievo, concreto e tangibile. Quindi, in
questo caso, la regola cardine dei processi di costruzione di una maschilità
“adeguata” che, come abbiamo visto, obbliga i maschi a essere diversi dalle
femmine, può essere infranta senza gravi danni d’immagine.
L’autorevolezza del ruolo della mamma, del resto, era già emerso in un
altro momento dell’osservazione:
Nella fase di osservazione mi sono messa vicino alla postazione Barbie, dove questa volta c’erano
due bambine e un bambino. Le bambine hanno scelto le Barbie, il bambino Action man. In questo
spazio ho potuto capire che esiste una gerarchia prestabilita di ruoli: chi fa la mamma è la più
potente. Infatti, a turno, passavano gli altri bambini della classe e chiedevano: «Chi è la mamma?».
Quella che si era conquistata il ruolo rispondeva con grande orgoglio: «Sono io la mamma» (diario
di campo, scuola A, 11 novembre).

In questo caso erano solo femmine a interpretare il ruolo di mamma, ma la


postazione era quella delle Barbie e il gioco consisteva nel vestire e
prendersi cura, tuttavia il potere del ruolo era riconosciuto anche dai
maschi.
Tornando al nostro gioco di ruolo, i bambini si sentono legittimati a
scegliere il ruolo di mamma, ma non quello di Cappuccetto Rosso. Le
gabbie culturali imposte dalle aspettative di genere rappresentano in questo
senso un disincentivo non leggero. Cappuccetto Rosso, in fondo, non è che
una bambina sprovveduta che si addentra nel bosco non per desiderio di
avventura, ma per rispondere a una richiesta coerente con il ruolo
tradizionale che assumerà una volta divenuta donna: prendersi cura della
nonna vecchia e malata portandole da mangiare. Incontrando il lupo,
correrà via spaventata e finirà inevitabilmente tra le sue fauci. Decisamente
un ruolo privo di attrattiva agli occhi di una bambino, o quantomeno privo
di attrattiva “dichiarabile”.
Più libere di scegliere le bambine. Possono indistintamente: assumere il
ruolo della madre, figura femminile autorevole e di prestigio; divertirsi
interpretando il lupo cattivo, uscendo così dalla gabbia della compostezza
imposta dalla femminilità moderata e gentile, senza però il rischio di
incorrere in sanzioni, perché comportandosi da maschio non perdono status;
immedesimarsi in Cappuccetto Rosso, una bambina come loro. Poco
importa che sia poco coraggiosa, o che non esca vincente dal gioco. Anzi,
che finisca male, divorata dal lupo. È pur sempre la protagonista della
storia, e le bambine, sono addestrate a immedesimarsi in protagoniste il cui
valore non risiede nell’intraprendenza, nel coraggio, nella forza fisica o
nell’astuzia, ma nell’essere educate, brave e gentili (Biemmi 2010).
Solitamente anche belle, ma non è il caso di Cappuccetto Rosso, il cui
aspetto fisico è irrilevante, forse anche perché non ancora in “età da
marito”. Le protagoniste delle favole tradizionali, che ancora affascinano le
bambine di oggi e contribuiscono a costruire il loro immaginario fantastico,
oltre a essere principesse o destinate a divenire tali, si trovano sempre in
situazioni di pericolo per cause non legate all’intraprendenza, e riescono a
salvarsi non per capacità personali, ma solo grazie all’intervento di un
uomo (solitamente il principe, ma anche il cacciatore, come nella versione
di Cappuccetto Rosso giunta a noi).
Lasciamo la palestra e torniamo in classe.

Arriva il momento della lettura di un racconto sui diritti. La maestra tira fuori un libretto, ci dice che
quest’anno stanno lavorando sui diritti dei bambini (intesi come maschi e femmine − secondo la
consueta e predominante tradizione linguistica del maschile neutro) e che hanno trovato questo libro
molto molto bello (diario di campo, Scuola B, 13 aprile).

Principesse postmoderne
Negli ultimi anni, la Walt Disney ha prodotto alcuni film nei quali le protagoniste
femminili si discostano molto dal modello tradizionale della principessa bella e
passiva. Citiamo, per esempio: Maleficent, nel quale Malefica viene riscattata dal
ruolo di cattiva, e il bacio del vero amore, in grado di risvegliare Aurora, sarà quello
di Malefica stessa e non quello del principe che infatti bacerà la ragazza senza
successo; Ribelle, principessa coraggiosa (il titolo originale è The Brave, La
coraggiosa), che si ribella alle convenzioni che la vorrebbero sposa-trofeo del
principe che vincerà una prova di abilità.

Ribelle, agile, avventurosa e bravissima nel tiro con l’arco, non rispetta i canoni di
bellezza tradizionali, e ha una chioma, folta, riccia e rossa. Viceversa, Maleficent
rimane imbrigliata nella gabbia della perfezione estetica richiesta alle donne. È
interpretata, infatti, dalla bellissima attrice Angelina Jolie.

Le bambine e i bambini sembrano molto contente/i. Intervengono alle


stimolazioni iniziali sul diritto a essere ascoltate/i in modo rumoroso, e ci
sembra di cogliere, ancora una volta, un diverso stile comunicativo tra
femmine e maschi. Le femmine rispettano di più il loro turno e rispondono
compostamente rivolgendo lo sguardo alla maestra, mentre tendenzialmente
i maschi cercano di imporsi di più e sembrano più interessati a mostrarsi
che a interagire. Quanto osservato in un contesto spazio-temporale molto
circoscritto come quello della nostra classe, trova conferma in alcuni studi
sugli stili comunicativi e le differenze di genere condotti in altri spazi e in
altri tempi. Kay E. Payne, in un saggio del 2001, propone una rassegna
della letteratura internazionale sul tema, dove si pone in rilievo come le
ragazze siano più propense dei ragazzi a rispettare i turni di parola e a
osservare le regole implicite della conversazione (Rategan 1993). Sempre le
ragazze, utilizzerebbero più di frequente espressioni di cortesia come per
favore, grazie, mi spiace (Balswick, Averett 1977) e nel fare richieste
sarebbero meno dirette − potrei, sarebbe possibile – (Goodwin 1988).
Infine, secondo uno studio di Zeldin et al. (1982), i ragazzi farebbero
domande per avere informazioni mentre ragazze farebbero domande per
mostrare interesse.
Maschi centrati su di sé; femmine centrate sulle/gli altre/i.
Inizia la lettura della storia. Si tratta di una bimba che non riesce a farsi
ascoltare. Va in cantina a prendere dei piselli su richiesta della mamma che
sta cucinando, mentre il fratello maggiore è intento a giocare ai giochini
elettronici. In cantina si accorge che c’è un tubo che perde. Tenta di
avvertire i suoi che però non l’ascoltano, e alla fine la casa si allaga.
Apparentemente si tratta di una storia neutrale la cui morale distoglie la
nostra attenzione da una cornice descrittiva che ripropone, di fatto,
stereotipi tradizionali che sembrano resistere al tempo e ai cambiamenti
sociali. Stereotipi che sfuggono al nostro sguardo, a meno che non si tratti
di uno sguardo allenato. Sfuggono perché resi naturali, e quindi ovvi e
invisibili, dalla ripetizione. E ancora una volta sorprende la continuità di
alcuni aspetti della tradizione nello spazio e nel tempo. Partiamo dalla
composizione della famiglia. Scriveva Elena Gianini Belotti nel suo
celeberrimo Dalla parte delle bambine ormai quarantaquattro anni fa,
riportando un’inchiesta pubblicata sul quotidiano “Il Giorno” inerente i libri
di testo dedicati alle scuole elementari: «Nei libri di testo esaminati, la
famiglia tipo segue certi schemi: padre, madre, due bambini dei quali il
maggiore è sempre il maschio» (1973: 108).
Leggiamo poi in un altro testo scritto a più mani sempre negli anni
Settanta nel quale si prendono in analisi testi per l’infanzia vincitori di
premi negli Stati Uniti, pubblicato poi in Italia in un volume la cui
introduzione porta la firma sempre di Elena Gianini Belotti:
Nei libri di testo presi in esame, la donna adulta è stereotipata e limitata. Gli uomini predominano
nelle attività fuori casa, le donne sono viste per la maggior parte in casa, dove svolgono quasi
esclusivamente attività di servizio, prendendosi cura degli uomini, dei bambini, della loro famiglia
(Weitzman et al. 1978: 25).

Torniamo al XXI secolo e alla nostra storia, letta in un giorno di aprile in


una classe di una scuola dell’infanzia genovese. La famiglia è composta da
mamma, papà, una figlia e un figlio maschio, il quale, come da copione, è il
figlio maggiore. La mamma è in cucina a preparare la cena e indossa un
grembiule, dettaglio questo ultimo non irrilevante in quanto simbolo della
femminilità tradizionale, come ci ricorda una bella ricerca promossa dal
comune di Torino qualche anno fa dal titolo Quante donne puoi diventare?.
Peraltro c’è da chiedersi quante mamme indossino realmente il grembiule
oggi cucinando cene routinarie, dubbio che sembra confermare quanto
scriveva già allora Gianini Belotti a proposito del fatto che chi scrive libri
per l’infanzia sembra a volte proporre modelli addirittura «superati dalla
realtà sociale in atto» (1973: 106).
La mamma non ha tempo di ascoltare la bambina perché ha qualcosa in
forno (altro simbolo della femminilità tradizionale). Il papà è sulla soglia e
sta rientrando dal lavoro. Anche lui non ha tempo di ascoltare la bambina
perché impegnato in una conversazione al cellulare, presumibilmente legata
sempre alla sfera lavorativa. Rimane centrato su di sé e il cellulare sembra
rappresentare, in questo senso, il giornale letto sul divano delle storie di
qualche decennio fa.
Ritorna il ritratto della famiglia tradizionale nella quale la mamma non
lavora (o almeno così parrebbe) e il padre, procacciatore di reddito, rientra
tardi, e non considera la cura come un suo dovere. Naturalmente questo
modello di famiglia è ancora molto presente nella nostra società, ma non
esaurisce i modelli di famiglia e la pluralità di configurazioni esistenti
(famiglie nelle quali entrambi i genitori lavorano, famiglie con madri sole o
con padri soli, famiglie nelle quali è la madre la principale o l’unica
procacciatrice di reddito, famiglie con due mamme o due papà).
Gli stereotipi tradizionali presenti nella nostra storia non si esauriscono
qui. La commissione richiesta alla bambina – andare in cantina a prendere i
piselli − è anch’essa coerente con la femminilità tradizionale, e rappresenta
una sorta di anticipazione del ruolo che le sarà chiesto di assumere da
adulta. Questa ipotesi sembra suffragata dal fatto che il fratello maggiore
non è coinvolto nella preparazione della cena, anzi. Lui continua
indisturbato a giocare ai giochini elettronici (un’anticipazione della logica
del giusto riposo dopo il lavoro?), nonostante le proteste della sorella. Il
fatto che la nostra protagonista si lamenti dell’iniqua distribuzione dei
compiti tra lei e il fratello sembra essere l’unico vero elemento di novità,
ma l’indifferenza della madre alle rivendicazioni della figlia non lascia
molta speranza alle giovanissime fruitrici del racconto.
Un ultimo elemento riguarda la passività del ruolo della piccola
protagonista. La bambina esegue refrattaria un compito che ritiene iniquo e,
a fronte dell’imminente pericolo, si limita a cercare di avvertire, senza
successo, i genitori. Non fa nulla per trovare soluzioni e salvare la casa
dall’allagamento annunciato. È il personaggio principale, ma non si
distingue per intraprendenza, ingegno e coraggio. Non risolve la situazione
e non si trasforma in un’eroina. L’ordine di genere tradizionale è salvo.
Non tutti i libri per l’infanzia propongono rappresentazioni tradizionali
della realtà e dei generi, e in una delle due scuole ne abbiamo trovati alcuni
innovativi. Ma come ci ricorda Irene Biemmi (2010) nella sua ricerca nei
libri delle elementari, gli stereotipi di genere sono ancora molto presenti nei
testi per l’infanzia, e in questo senso la storia appena analizzata sembra
perfettamente in linea con la letteratura mainstream. Come scrive Biemmi:
Le attività domestiche, nei testi scolastici, appaiono ancora la principale occupazione delle donne.
[…] Il lavoro, che per l’uomo è l’attività principale (spesso l’unica), per la donna appare un’attività
facoltativa che si va ad aggiungere al ruolo primario di madre e casalinga e rischia di
comprometterlo. […] Gli aspetti che le accomunano [donne e bambine] sono molti: il fatto di
essere buone ed educate, affettuose, premurose ma facili al pianto, belle e vanitose. Questa
conformità è facilmente giustificabile. Nella realtà, le bambine considerano come modelli di
riferimento le donne adulte e tentano di imitarle; nei testi analizzati viene enfatizzato questo
processo di addestramento delle bambine a diventare delle brave donne e mamme adulte. Parlo di
addestramento e non di educazione perché sembra di assistere a una vera e propria imposizione alle
bambine dei ruoli e delle caratteristiche più stereotipate, tradizionalmente applicate al proprio
sesso. (2010: 190).

In questo breve passaggio, Biemmi ci offre nuovi strumenti analitici. In


particolare ci pare interessante la distinzione tra educazione e
addestramento. Il fatto che la nostra protagonista sia costretta a svolgere il
compito assegnatole dalla madre come forma di addestramento alla
femminilità tradizionale e che la ragazzina protesti, ci appare ora sotto una
nuova luce. Quello che prima poteva apparire come un dettaglio casuale e
privo di rilievo si rivela, infatti, una strategia narrativa ricorrente, forse spia
di una tensione irrisolta tra tradizione e spinta al cambiamento, di cui il
backlash di cui abbiamo parlato in apertura del libro, è un indicatore
significativo.
Peraltro, l’analisi dei testi per la scuola primaria offerta da Biemmi, pone
in luce le molte contraddizioni che stanno attraversando l’ordine di genere.
I testi da lei analizzati propongono modelli stereotipati per genere e
generazione, dove il modello maschile si pone come polo positivo. In
questa rappresentazione statica e tradizionale, le eccezioni riguardano in
modo quasi esclusivo le bambine, le quali a volte sembrano discostarsi dal
modello per assomigliare un po’ di più ai coetanei maschi: avventurose,
coraggiose, ribelli, appassionate di sport e computer. Queste deviazioni dal
modello sono accolte positivamente, mentre gli sconfinamenti delle donne
adulte tendono a essere criticati e a essere presentati come esempi negativi.
Cristallizzate e stereotipate le rappresentazioni del maschile. In parole
povere, è come se questi testi suggerissero alle bambine: i maschi vanno
bene così come sono – forti, coraggiosi, disubbidienti, avventurosi e
sportivi da piccoli, padri lavoratori e procacciatori di reddito da grandi −
mentre voi potrete anche concedervi degli sconfinamenti finché sarete
bambine ma, attenzione, una volta divenute adulte dovrete ritornare al
vostro posto e riabbracciare, senza esitazioni, la tradizione, perché così
dev’essere!
L’ordine tradizionale è rassicurante.
5.7. Piccoli voyeurs. Maschilità, sessualità e false libertà

Scuola B: è il momento del pranzo, e bisogna andare in bagno. Le maestre raccontano che
inizialmente andavano prima le femmine e poi i maschi, per ragioni puramente igieniche, ma che in
seguito si sono viste costrette a un’alternanza perché i bambini spiavano le bambine mentre facevano
la pipì e le prendevano in giro (diario di campo, scuola B, 31 gennaio).

L’episodio riportato ci induce ad affrontare un tema percepito come


scomodo15, specie se associato all’infanzia, rappresentata come pura per
definizione e quindi necessariamente da proteggere dalla sessualità. Questo
perché la sessualità, benché percepita come naturale, è ancora rappresentata
come intrinsecamente impura, sporca, pericolosa, potenzialmente
contaminante. Anche se per le donne sembra esserlo un po’ di più.
Come ci ricorda Cirus Rinaldi in Sesso, Sé e Società (2016), «Il sesso non
è mai solo “sesso”» (p. VI, virgolette in originale), intendendo che nasciamo
esseri sessuati, e solo con il tempo impariamo a essere sessuali, in un
processo mai finito di socializzazione sessuale nel quale, attraverso
l’interazione con gli altri, «[…] impariamo ad apprendere credenze,
rappresentazioni, preferenze, sistemi di valutazione e pratiche, assumere
ruoli e vocabolari specifici» (ivi: 136).
Questo processo di socializzazione, che forse potremmo declinare al
plurale, poiché in realtà si tratta di processi tra loro rigorosamente differenti
in base al genere, ci insegna: cosa e chi possiamo desiderare; quando, se,
come e in che contesti possiamo esprimere il desiderio; chi può esprimerlo;
quale sessualità possiamo agire; quando, dove e con chi possiamo agirla;
cosa possiamo dire della sessualità, con quali linguaggi e registri
comunicativi; chi può dire la sessualità.
Le donne sono meno libere degli uomini di esprimere, dire e agire il
desiderio e la curiosità, perché a dispetto degli importanti cambiamenti che
hanno attraversato il XX secolo e che hanno mutato le culture sessuali del
mondo occidentale, la sessualità continua a essere pensata come potenziale
minaccia alla cittadinanza femminile, la quale si gioca ancora oggi sulla
reputazione sessuale, benché siano cambiati i criteri distintivi per
distinguere le “donne per bene” dalle “donne per male”. Viceversa, la
cittadinanza maschile si gioca, ora come allora, sulla sessualità, o meglio
sull’esibizione di una potenza sessuale, vera o presunta (Abbatecola 2015a;
2015b). Il vero maschio deve mostrare interesse nei confronti della
sessualità – inequivocabilmente eterosessuale – e deve mostrarsi
sessualmente adeguato agli occhi degli altri maschi, specie negli anni
giovanili di addestramento alla virilità. In questo senso c’è da chiedersi se la
maggiore libertà maschile di esprimere, dire e agire la sessualità sia vera
libertà. Come scrive Stefano Ciccone nel suo libro Essere maschi. Tra
potere e libertà:
Non si diventa uomini con il menarca, con un messaggio che giunge dal nostro corpo, ma con riti di
iniziazione e tramite il riconoscimento da parte della comunità maschile. […] Il corpo maschile è
pensato come silenzioso e il sesso maschile è percepito e rappresentato come uno strumento che
misura la sua esistenza fuori di sé. Un uomo accerta e dà prova della propria identità sessuale non a
partire da sé e dai propri desideri, ma dalla propria resistenza e potenza: anche il rapporto sessuale
diventa così una prestazione, un’ansiosa verifica di identità. Un uomo è un uomo per le conquiste
che fa, per le donne che possiede (nella realtà o nella sua rappresentazione a beneficio della
comunità maschile); senza queste verifiche esterne la sua identità sessuale resta dubbia. Così
mentre una donna vergine (non segnata dal corpo di un uomo) non è considerata priva di identità
sessuale, ma anzi tradizionalmente più desiderabile per questa condizione di “purezza”, l’uomo che
non abbia fornito prove delle sue “capacità sessuali” non è considerato tale a tutti gli effetti (2009:
89-90, corsivo e virgolette in originale).

Cos’è il pulling train


«Un fenomeno che evidenzia la costruzione di una reputazione maschile
eterosessuale attraverso strumenti violenti è quello statunitense del pulling train.
L’antropologa Peggy R. Sanday, in uno studio sulle confraternite studentesche dei
college americani, ha osservato come l’ansia di genere determini comportamenti
eterosessuali aggressivi (Sanday 1990). Sanday ha mostrato come alcuni giovani
studenti, temendo di essere considerati poco maschi, mettano in atto comportamenti
eterosessuali aggressivi che possono sfociare nella violenza. I pulling train
consistono in stupri di gruppo di donne o ragazze (solitamente stordite da alcol o
droghe) cui i giovani partecipano, o verso cui, verosimilmente, avvertono una forte
pressione a partecipare, dal momento che ogni forma di resistenza è interpretata
come poco maschile o addirittura come possibile segno di omosessualità occultata»
(Rinaldi 2016: 159).

I maschi, attraverso la socializzazione alla sessualità, imparano molto


presto che per apparire maschi agli occhi degli altri maschi, dovranno
continuamente esibire i segni di una sessualità attiva, insaziabile,
predatoria, anche a costo di risultare molesta o violenta (si pensi per
esempio allo stupro del “branco” o al fenomeno statunitense del pulling
train). E come già ribadito altrove, la socializzazione ai «modi bruschi»
deve cominciare il prima possibile.
Quanto emerge sia dalla sociologia delle sessualità, sia dagli studi sulle
maschilità, ci fornisce dunque il quadro interpretativo per rileggere
l’episodio, sopra descritto, dei nostri bambini della scuola dell’infanzia che
approfittavano del momento del bagno per spiare le bambine mentre
facevano pipì e prenderle in giro. Ora abbiamo gli strumenti per interpretare
quanto accaduto come forma di addestramento alla maschilità egemonica,
nel quale la complicità molesta tra maschi ai danni delle femmine è una
strategia inconsapevole, ma culturalmente appresa, per riconoscersi ed
essere riconosciuti come maschi adeguati. In altre parole, un rito di
iniziazione per placare l’ansia derivante dalla paura di non essere
abbastanza maschi agli occhi della comunità maschile, una sorta di
anticipazione delle performance predatorie e del linguaggio volgare che
garantiranno loro, una volta divenuti a adolescenti, di testare la loro virilità
eterosessuale nel gruppo dei pari (Rinaldi 2016).
Attraverso processi di glorificazione del pene16 del neonato o del piccolo,
e rinforzi e sanzioni legate alla dimensione morale – “non si fa”,
“vergognati”, “bravo” (Rinaldi 2016), le socializzazioni di genere
scoraggiano l’interesse delle bambine nei confronti della sessualità, e
promuovono quello dei bambini, i quali devono imparare a mostrare
interesse, ma, incoraggiando una sessualità maschile costretta a mostrarsi
predatoria, genitori e adulti di riferimento di fatto si rendono
inconsapevolmente complici di performance virili che possono sfociare
nella violenza (Messerschmidt 2000).
E (anche) su questo la società dovrebbe cominciare seriamente a
interrogarsi.

1
Per approfondimenti sull’invenzione sociale del rosa come simbolo del femminile e sul processo
di pinkizzazione, si rimanda al primo capitolo.
2
Si noti che il termine “acconciatura”, benché sinonimo di “taglio”, è percepito come più adeguato
se riferito alla femminilità. Parlando di maschilità saremmo, viceversa, indotte a usare il termine
“taglio”. “Taglio” rimanda, infatti, a una concezione pratico-strumentale più neutra rispetto alla
dimensione estetica.
3
Sulla centralità dei capelli lunghi, biondi e lisci come canone di bellezza, idealizzato dalle
bambine, al quale aspirare, avremo modo di tornare nel prossimo capitolo.
4
Usiamo qui il termine Barbie per indicare genericamente le cosiddette fashion dolls, tra le quali
Winx e Bradtz.
5
Il termine action figure fu coniato in origine dalla Hasbro nel 1964, quando fu commercializzato
il primo modello di G.I. Joe. Trattandosi di giocattoli orientati a un pubblico di bambini maschi, la
Hasbro preferì evitare il termine più convenzionale di doll (bambola) per descrivere il proprio
prodotto ( https://it.wikipedia.org/wiki/Action_figure, ultima consultazione il 25 agosto 2017). Nel
testo manterremo i termini inglesi fashion dolls e action figures poiché di uso comune e difficilmente
traducibili con espressioni altrettanto dirette ed efficaci.
6
Questa caratteristica a volte è chiaramente posta in evidenza sulla confezione.
7
Il riferimento è a un video caricato da Arlie’s Chest il 25 giugno del 2016, da noi visitato il 28
agosto del 2017. L’indirizzo è https://www.youtube.com/watch?v=nZ1vwBo-aZ4.
8
Outfit significa letteralmente, abito, abbigliamento, ma negli ultimi anni il termine inglese è
entrato prepotentemente nel vocabolario comune delle ragazzine italiane, anche giovanissime.
9
Blakemore e Centers (2005) riportano che alcuni studi condotti negli anni Novanta (Watson, Peng
1992; Goldstein 1995; Hellendoorn, Harinck 1997) sembrerebbero aver dimostrato che la presenza di
armi giocattolo e di action figures aumenterebbe il livello di aggressività.
10
Sulla paura di non farcela e l’ansia da prestazione delle ragazze e delle donne in contesti
considerati maschili, si vedano: Biemmi, Leonelli 2016 per quanto riguarda le scelte formative;
Abbatecola 2012 e 2015a per quanto riguarda le professioni; Laurendeau, Sharara 2008, per gli sport
maschili.
11
Mettendo sul motore di ricerca la frase “se un bambino vuole giocare con le bambole”, sono
usciti molti link a rubriche di giornali e di forum femminili di discussione. In questa breve e non
esaustiva analisi abbiamo selezionato tre siti, scelti perché corrispondenti a testate molto conosciute e
perché riportavano il parere di esperte/i: “Riza Psicosomatica”; “Donna Moderna”; “la Repubblica”.
12
http://www.riza.it/figli-felici/vita-in-famiglia/4111/aiuto-il-mio-bambino-gioca-con-le-
bambole.html (ultima consultazione il 31 agosto 2017).
13
http://www.donnamoderna.com/mamme/bambini-4-12-anni/figlio-gioca-con-
bambole/photo/Diventera-omosessuale#dm2013-su-titolo (ultima consultazione il 31 agosto 2017).
14
http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-
it/2013/09/02/news/sesso_il_bambino_gioca_con_le_bambole-65770827/ (ultima consultazione il 31
agosto 2017).
15
La sessualità è sempre stata considerata un tema scomodo anche nell’ambito della sociologia
accademica italiana, dove gli studi sulle sessualità stanno solo di recente cominciando timidamente
ad affacciarsi come ambiti meritevoli di attenzione. Per una ricostruzione esaustiva dello sviluppo
della sociologia della sessualità in Italia si veda il manuale di C. Rinaldi, Sesso, Sé e Società (2016:
99 e sgg).
16
Questa considerazione ci riporta alla mente la testimonianza di l’intervento di un’insegnante di
una scuola dell’infanzia, coinvolta in uno dei corsi di formazioni previsti dal progetto STEP, nel quale
sottolineava quanto fosse frequente l’orgoglio esibito di papà e di mamme, riguardo alla “dotazione”
del piccolo “maschio”.
6. I RIVESTIMENTI DELLA FEMMINILITÀ E DELLA MASCHILITÀ
Luisa Stagi

I confinamenti del femminile e del maschile, come si è evidenziato nel


capitolo precedente, sono stati i primi segnali − la prima impressione avuta,
la più vivida e netta − che abbiamo incontrato entrando nelle classi. Il rosa e
l’azzurro dei grembiuli, le “acconciature”, le scarpe, i diversi stili
comunicativi dell’accoglienza, ci hanno immediatamente mostrato quelli che
abbiamo definito “universi sessuati”.
Attraverso l’osservazione delle varie forme di comunicazione verbale e
non verbale, delle pratiche e dei “balletti rituali”, abbiamo potuto annotare
(prima) e analizzare (poi) come si realizza la socializzazione di genere, una
socializzazione che abbiamo detto “differenziata”.
Come già accennato nella premessa metodologica, tuttavia, ci è parso
importante cercare di capire anche come il processo di genderizzazione sia
percepito e “incorporato” dalle bambine e dai bambini. A questo scopo ci
siamo avvalse di alcuni strumenti che abbiamo utilizzato in declinazioni e
momenti diversi delle ricerca etnografica.
In particolare, in questo capitolo, ci soffermeremo su quelli che abbiamo
definito “rivestimenti” della femminilità e della maschilità, intesi come
supporti alla rappresentazione delle soggettività di genere, nel duplice senso
dell’insieme di oggetti e sistemi simbolici che bambine e bambini
percepiscono come adeguati a un genere, ma anche come corporeità
immaginate (o auspicate) come idonee.

6.1. Cose da maschi e cose da femmine

La consegna di disegnare “cose da maschio” e “cose da femmina” (più


precisamente noi chiedevamo di raffigurare su un foglio diviso a metà “le
femmine hanno, i maschi hanno”, per poi eventualmente tradurre il senso in
“cose da”) è risultata molto significativa per rintracciare quel processo di
genderizzazione e confinamento di cui si è parlato nella parte introduttiva
sulla costruzione delle ipotesi. Il materiale raccolto conferma che i bambini e
le bambine percepiscono territori nettamente divisi per genere, dove per le
bambine prevale significativamente la cura di sé e l’apparire, mentre per i
bambini l’azione, lo spazio pubblico, l’elettronica.

Fig. 1. Le femmine hanno, i maschi hanno

Come si può notare nella parte di foglio dedicato a “le femmine hanno”, in
questo disegno realizzato da una bambina, abbondano trucchi, vestiti e
coroncine. I maschi, invece, guardano la Tv, hanno la macchinina e altri
attrezzi meccanici ma, soprattutto, possono giocare all’aria aperta con
aquilone e palloncino.

Fig. 2. Le femmine hanno, i maschi hanno


In questo disegno, il mondo maschile è invaso da televisioni e schermi, da
colori piuttosto spenti, ma anche da un sole sottostante una riga di cielo
azzurro, che forse potrebbe nuovamente richiamare la possibilità di scegliere
lo spazio aperto. Nello studio di Cherney e London (2006) emerge
nettamente questa divisione delle attività: computer, sport e televisione −
quest’ultima soprattutto come supporto ai videogiochi ma anche per la
visione di un certo tipo di cartoni animati − sono gli ambiti per esercitare e
sviluppare alcune di competenze considerate maschili: un addestramento alle
abilità spaziali, all’esplorazione, alla competizione, in parte anche
all’aggressività.
Teresa, l’autrice di questo disegno, raffigura invece l’universo femminile
come popolato di vestitini, accessori, trucchi, che mette in risalto sul corpo
(lo smalto) oppure come oggetti che gravitano intorno alla bionda e curata
figura, che in qualche modo dovrebbe rappresentarla. Questi universi
simbolici trovano riscontro in ciò che abbiamo osservato. In generale, infatti,
come già accennato, le bambine con le quali abbiamo avuto la possibilità di
interagire durante la ricerca portano i capelli lunghi pettinati con fermagli o
elastici colorati, a volte braccialetti, spesso orecchini (questo soprattutto
nella scuola del quartiere più popolare). L’abbigliamento è molto curato e ci
tengono a ostentarlo, scostando il grembiule per mostrare i vestiti o alzando
il piede per far vedere le calzature. Le scarpe sono quasi sempre piuttosto
vezzose, con brillantini o scritte luccicanti; d’inverno, poi, gli stivali
presentano un accenno di tacco, mentre d’estate i sandali ricordano le scarpe
da adulte ma in miniatura.
Blaise ha chiamato identità girly girl l’insieme di pratiche per “indossare la
femminilità” da parte delle bambine: gli atteggiamenti corporei, i movimenti
di capelli o dei vestiti (twirling e curtseying), il trucco, il modo di parlare,
sono elementi della messa in scena della femminilità (2005: 85). Le pratiche
incarnate dai bambini, invece, si sviluppano intorno alle competenze, la
produzione di lavoro visibile e la valutazione dei successi individuali
(ibidem).
Bambini e bambine costituiscono il loro rapporto con tali “rivestimenti”
sotto l’influenza di una pluralità di agenti di socializzazione, portatori di
modelli e di ingiunzioni a volte anche contrastanti. Diversi studi (per
esempio, Court 2007) hanno mostrato quanto, in questo aspetto della
socializzazione, sia determinante il ruolo della madre. L’acquisto di vestiti e
la sorveglianza quotidiana dell’aspetto, e in generale dell’apparire, è infatti
compito quasi esclusivo delle madri (nel 86 per cento dei casi è solo la
madre che aiuta i figli e le figlie a scegliere “correttamente” gli abiti), che
perciò esercitano l’influenza maggiore sull’apprendimento dei gesti di cura
del corpo e sulle pratiche estetiche delle loro figlie. Del resto, come si è visto
nel quarto capitolo, anche le insegnanti hanno dichiarato che la scelta che va
dal colore dei grembiuli agli oggetti che bambini e bambine portano a scuola
è sempre di governo materno. Questo “potere” delle madri è tuttavia
prodotto e rinforzato dagli altri componenti della famiglia e dai pari ma
anche, e soprattutto, dai media che, con diversi tipi di rinforzi, concorrono a
definire queste pratiche. Spesso, infatti, le bambine ci hanno detto di
desiderare oggetti o capi di abbigliamento fortemente sessuati, rivelando
tuttavia che le proprie mamme non li possiedono affatto oppure difficilmente
li portano.
Da tempo, moltissime ricerche (si veda, per esempio, la metanalisi di
Herrett-Skjellum, Allen 1996) hanno ampiamente mostrato quanto
l’esposizione ai media possa rafforzare l’atteggiamento di bambini e
bambine nei confronti degli stereotipi di genere e di come, in generale, la
visione di molta televisione influenzi la percezione di “adeguatezza di
genere” nei confronti di giochi e giocattoli (Coyne et al. 2016) e
l’interiorizzazione dei ruoli di genere (Signorielli 2011).
Fig. 3. Le femmine hanno, i maschi hanno

Anche questo disegno mostra una forte divisione degli ambiti di genere:
orecchini, scarpe con i tacchi, ciglia, elementi floreali, capelli lunghi da un
parte, motori, pesi e soldi dall’altra. Una rappresentazione che parla di
costruzione di femminilità e di maschilità secondo parametri molto
tradizionali: l’apparire, percepito fin dall’infanzia, come compito
fondamentale per le bambine, lo spazio pubblico, i motori, i muscoli e
l’essere breadwinner come destino per i bambini.
Le caratteristiche proprie della femminilità e della maschilità, si è visto,
sono assegnate dalla cultura e determinano e delimitano lo spazio: quello
pubblico per i maschi, quello privato per le femmine. L’ordine di genere è
istituito e legittimato socialmente e ciascun individuo, fin dalla più giovane
età, è tenuto a conformarsi, attraverso l’interiorizzazione delle norme e delle
pratiche, a tale struttura gerarchica. Per i maschi significa familiarizzare con
i valori maschili tradizionali come forza, virilità, competitività; le femmine
invece devono apprendere gentilezza, sensibilità, bellezza e “istinto”
materno. Questa socializzazione differenziata è funzionale, dunque, a
preparare ciascun individuo ai ruoli (e relative aspettative) adulti. I territori
ludici, infatti, sono funzionalmente diretti a mettere in scena i futuri ambiti
di azione attraverso l’esercitazione di ruoli e a modelli di genere – con il
fondamentale passaggio all’Altro generalizzato − che il gioco attiva (Vallet
2009).

Fig. 4. Le femmine hanno, i maschi hanno

Quelli che abbiamo chiamato rivestimenti di genere, o si potrebbe anche


dire sostegni della maschilità e femminilità, in questo disegno emergono
come due mondi distinti ma collegati. Se ancora una volta troviamo nella
parte maschile attrezzi per lo spazio aperto (bicicletta e skateboard), in
entrambi gli ambiti comincia altresì a delinearsi l’importanza della
costruzione corporea come supporto identitario. Nella parte femminile,
infatti, oltre ai soliti accessori, troviamo ciglia e capelli lunghi staccati dal
corpo, come protesi pronte a entrare in gioco nel supporto all’incorporazione
di genere. Nella parte maschile, oltre ai pugni e alla faccia arrabbiata,
evidentemente configurabili come attributi di virilità, si trovano muscoli di
braccia staccate dal corpo ma collegate idealmente ai numerosi manubri e
bilancieri, strumenti essenziali per l’espansione fisica della maschilità.

6.2. Come ti vedi da grande?

Lo stimolo “Come ti vedi da grande?” è stato da noi proposto sia come


gioco da fare durante l’appello, sia come disegno da realizzare. In entrambi i
casi bambine e bambini hanno interpretato questa consegna sia rispetto a
ruoli futuri (questa parte sarà analizzata più approfonditamente nel prossimo
capitolo) sia − e soprattutto − rispetto al proprio aspetto.
Una riflessione sul corpo e sulle dimensioni sociali e culturali delle
caratteristiche fisiche maschili e femminili appare a questo punto un
passaggio quasi obbligato. Il corpo è ciò che lega un individuo al suo
ambiente sociale e dunque agli altri. Ciò significa che un individuo cercherà
di costruire e adattare caratteristiche e comportamenti fisici per farli
corrispondere a ruoli e modelli di genere adeguati culturalmente, ovvero
relativi a un certo tempo e situati in un certo spazio. L’incorporazione è,
infatti, il processo attraverso il quale la cultura in cui siamo immersi si
trasforma in corporeità.
L’utilizzo della categoria concettuale di genere aiuta perciò a comprendere
quanto anche il sentimento del proprio corpo, e l’immagine del sé che ne
deriva, siano stati socialmente costruiti, utilizzando schemi della virilità e
della femminilità variabili nelle diverse epoche storiche, aree geografiche e
classi sociali. Nel discorso sul genere non si può prescindere, quindi, dal
trattare la connotazione che assume il corpo. L’identità corporea va infatti
considerata da un punto di vista culturale considerando quindi il corpo come
un’esperienza e non un’entità data. In tutte le società sono presenti
distinzioni tra maschile e femminile riguardo la corporeità e queste
differenze sono costruite secondo diversi schemi valoriali.
Il genere è uno degli elementi su cui si fonda la socializzazione che, come
si è visto, è il processo attraverso il quale si interiorizzano gli elementi socio-
culturali del proprio ambiente integrandoli con la struttura della propria
personalità per adattarsi alle aspettative sociali. Questo concetto è raramente
affrontato attraverso la prospettiva del corpo, che invece rappresenta uno dei
territori più significativi per la socializzazione: è infatti attraverso le “cornici
corporee” che organizziamo la nostra esperienza distinguendo le persone in
quanto definite da attributi fisici che vengono percepiti come differenze
(Sassatelli 2005). La socializzazione passa, infatti, per uno specifico
rapporto con il corpo che ciascun individuo cerca di conformare a ciò che
percepisce come adeguato. I bambini “apprendono il proprio corpo”
soprattutto nel movimento e nello sforzo, come energia e prova di forza. Le
bambine lo apprendono allo specchio, guardandosi attraverso lo sguardo
altrui e come ambito di giudizio e di valutazione del proprio valore (Stagi
2010).
Il genere non si sovrappone a posteriori come una forma culturale che
accoglie in sé le differenze fisiche e preesistenti tra uomini e donne, ma è il
modo in cui storicamente e socialmente, in un determinato contesto, si
attribuiscono significati a quelle stesse differenze fisiche e rilevanza ai fini
della differenziazione sociale (Piccone Stella e Saraceno 1996: 19). La
società quindi non «solo forma la personalità e il comportamento, ma
influenza anche il modo di vedere il corpo» (ibidem).

Fig. 5. Come ti vedi da grande?

In questo disegno di Gaia, quattro anni, molto simile ad altri composti dalle
compagne, appare una figura femminile vestita da sposa con scarpe da
principessa. Nelle spiegazioni a voce, e che noi abbiamo segnato sul
disegno, ha aggiunto che vorrebbe i capelli biondi. La corrispondenza con le
immagini di principesse e protagoniste di cartoni animati e film di
animazione risulta abbastanza evidente.
L’aspetto delle principesse, in particolare quelle di Disney, è un argomento
assai trattato in letteratura (Coyne et al. 2016). La tipica principessa è
solitamente ritratta come giovane, attraente, con grandi occhi, naso piccolo,
carnagione chiara e capelli lucenti (Lacroix 2004). Oggetto di riflessione,
tuttavia, è stato soprattutto l’ideale di corpo magro che queste immagini
veicolano. Diverse ricerche (Tremblay et al. 2011) hanno mostrato che già
alla scuola dell’infanzia le bambine esprimono paura di ingrassare e
collegano la stima di sé con l’autovalutazione del proprio corpo e del proprio
aspetto, mostrando consapevolezza del legame tra magrezza, bellezza e
desiderabilità femminile. Le protagoniste dei film Disney, principesse belle e
magre, sono modelli assai rilevanti per veicolare il messaggio che essere
attraenti è una componente necessaria dell’identità femminile. Inoltre, molti
studi hanno anche rilevato come un’esposizione precoce agli ideali di
magrezza, proposti dai media, porti a sviluppare forme di dismorfofobia e
possa favorire lo sviluppo di disturbi della condotta alimentare (Coyne et al.
2016).
Gli ideali corporei maschili proposti dai media si costruiscono, invece,
intorno ai muscoli e alla prestanza fisica (di solito gli eroi hanno un fisico
muscoloso e la vita sottile) e, seppure in misura minore rispetto alle
bambine, anche in questo caso influenzano la stima e la valutazione di sé che
i bambini hanno (Hargreaves, Tiggemann 2009).

Fig. 6. Come ti vedi da grande?


Abbiamo chiamato ri-genderizzazione il processo che porta a un
rafforzamento dei confini di genere. Se negli ambiti di divisione di giochi e
giocattoli non si sono rilevate particolari differenze tra le due scuole, per
quanto riguarda i rivestimenti corporei delle maschilità e delle femminilità,
nella scuola nel quartiere popolare è emersa una certa caratterizzazione. Di
seguito, la trascrizione delle risposte fornite alla consegna “come ti vedi da
grande” durante l’appello di questa scuola.
Per le femmine si immaginano destini di bellezza e di maternità:
Sarò alta, grassa, con gli orecchini. Mi voglio sposare e avere bambini. Sarò alta, magra, con le
collane e bionda. Mi sposerò e avrò bambini. Sarò alta come papà, magra, con i tacchi e i capelli
lunghi e biondi. Mi sposerò. Sarò alta magra e i capelli biondi. Mi sposerò e avrò tanti bimbi. Avrò
capelli corti e unghie lunghe con lo smalto e avrò tanti bambini. Sarò alta e magra, con i capelli
lunghi. Mi sposerò e avrò due bambini. Sarò magra, capelli lunghi biondi, la minigonna e il trucco,
mi sposerò e avrò tanti bambini. Sarò alta e magra, mi sposerò e avrò tanti bambini. Sarò alta, capelli
lunghi e senza tatuaggi, mi sposerò e avrò tanti bambini (Diario di campo, scuola A, 2 maggio).

I maschi, invece, si vedono muscolosi e tatuati:


Da grande sarò papà di tre bambini, alto, magro e con tanti tatuaggi. Sarò alto e muscoloso, con un
tatuaggio. Non mi voglio sposare. Sarò con i muscoli e i tatuaggi, ma non mi sposo. Sarò forte e con
i muscoli. Sarò basso e muscoloso, magro con i tatuaggi e i capelli corti. Sarò alto e magro e mi farò
un tatuaggio con un drago. Sarò basso e senza muscoli. Sarò basso magro, mi farò i tatuaggi e mi
sposerò. Sarò alto e biondo (ora è riccio e nero… è di origine araba) senza barba e baffi. Mi voglio
sposare. Sarò senza barba e baffi, capelli rasati e l’orecchino. Sarò alto e magro e mi sposerò. Sarò
alto e magro con i muscoli, un tatuaggio. Mi sposerò (Ibidem).

Come si è cercato di argomentare nella prima parte, più le persone si


sentono minacciate dai cambiamenti e più metteranno in atto comportamenti
e pratiche volte a ristabilire, anche solo simbolicamente, l’ordine sociale
preesistente. Nella società contemporanea, le contraddizioni prodotte a
livello sociale e culturale spesso devono essere risolte a livello individuale,
senza adeguati supporti. In un tale contesto, il corpo diviene uno dei territori
privilegiati per canalizzare i propri disagi ma anche per negoziare pratiche di
soggettivazione (Stagi 2010). La corporeità si iscrive nella struttura
simbolica: il corpo permette di essere classificato e riconosciuto, integrato o
escluso, da un gruppo sociale di riferimento. In questa prospettiva ciascun
individuo apprende che il suo corpo deve essere messo in relazione alle
aspettative sociali relative al suo genere. Più ci si sente fragili da un punto di
vista identitario, più il corpo diviene territorio per ridefinire e rafforzare i
confini della rappresentazione di genere. Per le donne può significare
rafforzare la femminilità agendo sul supporto identitario per eccellenza che è
la bellezza. Per gli uomini, i corpi devono esprimere al contrario la forza, la
virilità e il controllo. Agendo sul corpo con segni di virilità, gli uomini
lavorano simbolicamente sui confini della maschilità (tutto questo è
particolarmente visibile nei body builder) (Vallet 2009). Tali lavori sul corpo
risultano maggiormente significativi per le categorie più fragili che devono
rinegoziare i fondamenti identitari messi in questione dalla società del
rischio e dell’incertezza di cui hanno parlato Beck e Bauman. I tatuaggi
possono perciò rappresentare l’indelebilità in un contesto dove si percepisce
di non avere altre possibilità di certezze (Le Breton 2005), mentre i muscoli
possono divenire sostegno e rafforzamento per identità maschili messe in
discussione dalla precarietà lavorativa e dalla narrazione della crisi della
relazione tra i generi. Tali codici poi, in una prospettiva di forte riflessività,
circolano attraverso i corpi televisivi delle piccole star del quotidiano e, in
particolare per chi fruisce di una certa produzione mediatica, possono
diventare modelli di femminilità e maschilità vincenti. Quindi, arrivano ai
bambini e alle bambine.
7. POLIZIOTTI E BALLERINE. PROIEZIONI action E fashion NEL
MERCATO DEL LAVORO DI DOMANI
Emanuela Abbatecola

Come più volte ribadito, bambine e bambini iniziano da subito il lungo


addestramento per acquisire le competenze necessarie per mettere in scena
modelli di femminilità e maschilità che la società considera adeguati, e
imparano presto come dovranno muoversi, giocare, vestirsi, parlare,
comunicare con il corpo, relazionarsi con adulti e coetanei, con le femmine o
con i maschi; ma anche quali sport è preferibile che scelgano, quali emozioni
potranno manifestare e quali no, come dovranno rapportarsi all’aggressività,
alla cura, alle regole; se e in che termini potranno/dovranno mostrare
curiosità nei confronti della sessualità e come dovranno manifestare
attrazione per un/una coetaneo/a − purché rigorosamente dell’altro sesso1.
Il genere è anche un fare. Ma se «il genere non è qualcosa che si è ma è
qualcosa che si fa» (West, Zimmerman 1987: 139), non significa che
possiamo decidere semplicemente di cambiare genere modificando il nostro
fare. Un addestramento riuscito alle pratiche di genere, e quindi a ciò che la
società ritiene opportuno si faccia in funzione del corpo nel quale si è nate/i,
si tradurrà nel tempo in un sentire, che diverrà presto anche un sentirsi.
Come scrive Sassatelli, nella sua introduzione al libro di Connell Questioni
di Genere: «Si tratta […] di un “fare il genere” che fa sì che (un certo tipo)
di maschilità o femminilità diventino per noi l’unica, irrinunciabile pelle»
(2006: 11). Questo sentirsi, sempre in divenire e potenzialmente mutevole,
condizionerà in parte anche la nostra capacità di pensarsi, di immaginarsi: in
un ruolo, in un percorso formativo, in una traiettoria di vita, in un lavoro.
Questo ultimo esempio ci riporta alla mente un gioco da noi proposto in
classe, nel quale avevamo chiesto di rispondere alla domanda “Cosa farai da
grande?” attraverso il disegno.
La figura professionale più citata tra i maschi è quella del poliziotto (3/15).

Fig. 1. Disegno del poliziotto


Il poliziotto rappresenta un modello tradizionale di maschilità action: forte,
coraggioso, autorevole, armato, come molti degli action figures. Inoltre, si
muove all’aperto come fosse il padrone dello spazio pubblico al punto che
può fermare il traffico, circondare un edificio o irrompere in un locale – e
guida macchine veloci, in modo spericolato e a sirene spiegate. Ultimo, ma
non meno importante, incute timore e può uccidere.

Tra le bambine prevale in modo netto la figura della ballerina (6/15).


Fig. 2. Disegno della ballerina

La ballerina rappresenta simbolicamente, in questo caso, una femminilità


fashion coerente con quella delle dolls con le quali le bambine delle nostre
classi giocano, ma anche, come abbiamo visto nel capitolo precedente, con
l’importanza che le stesse attribuiscono alla dimensione estetica nel definire
la femminilità. La ballerina, qui immaginata come giovane, bella,
preferibilmente bionda e ammirata, è più vicina al polo delle veline che a
quello dell’étoile del Teatro alla Scala. Il suo corpo è un corpo al quale
aspirare non per le performance straordinarie, ma per l’aspetto esteticamente
rilevante.
Naturalmente, la femminilità non è solo fashion. Nelle proiezioni delle
bambine come nella realtà, non esiste un unico modello di femminilità (così
come non esiste un unico modello di maschilità), per cui la seconda figura
nella quale le bambine si proiettano è quella della dottoressa (3/15).

Fig. 3. Disegno della dottoressa


Il fatto che alcune bambine si siano pensate come future dottoresse, è lo
specchio del cambiamento nel rapporto tra donne, lavoro e identità che ha
attraversato le società occidentali negli ultimi cinquant’anni. Il lavoro per il
mercato, infatti, ha assunto significati diversi nel passaggio tra le
generazioni. Se fino agli anni Sessanta del Novecento, il lavoro femminile
era considerato «reddito economico aggiuntivo», vale a dire un’integrazione
ai proventi del capofamiglia maschio e, in quanto tale, assolutamente
periferico in termini di costruzione dell’identità femminile (Leccardi 2002b),
dagli anni Settanta ha assunto un altro significato, passando da strumento di
indipendenza economica fondamentale per contrattare e ridefinire i rapporti
di potere nell’ambito della famiglia tradizionale, a occasione di definizione
del sé e di realizzazione personale (Abbatecola 2002). Le donne, sempre più
istruite e motivate a realizzarsi anche tramite il lavoro indipendentemente da
qualsivoglia considerazione di natura economica, hanno dunque cominciato
a diventare competitive anche in settori centrali e qualificati del mercato,
diventando avvocate, magistrate e, per l’appunto, dottoresse. La professione
di medico è sempre stata tradizionalmente maschile – la declinazione al
maschile del termine e l’assenza di un corrispettivo femminile è indicativa in
questo senso – ma da qualche decennio si è progressivamente femminilizzata
e ora è percepita come neutra, quando non addirittura femminile. In una
ricerca condotta qualche anno fa su un campione di 136 bambine e bambini
italiane/i tra gli otto e i dodici anni, per esempio, questa professione è stata
valutata come femminile (De Caroli, Sagone 2007), a differenza di quanto
risultava in altre ricerche simili, analizzate dalle ricercatrici, condotte negli
anni Ottanta (si vedano Carter, Patterson 1982; Signorella, Liben 1985).
Un dato interessante è che nei disegni delle nostre bambine, la dottoressa
cura le bambine (o i bambini). È facile, dunque, immaginarsi in quella
posizione, poiché sembrerebbe rappresentare una versione aggiornata e al
passo con i tempi della figura più tradizionale della mamma che si prende
cura.
Nel rispondere allo stimolo “Cosa farai da grande?”, le proiezioni dei
bambini rimandano a una rappresentazione più magica del loro futuro –
mago, pirata, principe, cowboy a cowboylandia –, mentre le bambine, con
un’unica eccezione – fata –, si mostrano molto più concrete – cuoca,
bagnina, bigliettaia delle giostre, cameriera.
La capacità delle nostre bambine e dei nostri bambini di immaginarsi in
una professione futura è fortemente influenzata dalla classe sociale di origine
e dai lavori svolti da mamma e papà. Questo perché la possibilità di
immaginarsi è strettamente legata al campo di pensabilità (Leonelli 2016) il
quale, specie nell’infanzia, fatica a prescindere dalle caratteristiche dei
mondi sociali nei quali si sta crescendo. Tuttavia, nella nostra ricerca, la
classe e il relativo capitale sociale – da intendersi come l’insieme delle
risorse economiche, culturali, sociali e simboliche a esse associate (Bourdieu
1980) – sembrano influenzare più lo status connesso alla professione
(dottoressa vs. cameriera; dottore vs. macchinista), piuttosto che la capacità
di immaginarsi in ruoli difformi dalle aspettative di genere.
Il futuro immaginato è qui un futuro “rispettoso” dei confini. Le figure
delle proiezioni, siano esse magiche o concrete, o sono neutre (cameriera,
bigliettaia alle giostre, cassiere per esempio), oppure sono molto
caratterizzate dal punto di vista del genere.
Del resto, anche il mercato del lavoro reale, poiché profondamente
incorporato nella società (Bagnasco 1988; Solow 1990; Negrelli 2005), è
plasmato dai processi di costruzione sociale del femminile e del maschile –
le donne sono…gli uomini sono… – e il genere, come si accennava nella
prima parte del libro, favorisce la caratterizzazione sessuata dei lavori, delle
mansioni, dei settori e delle carriere, disegnando confini invisibili che
contribuiscono a plasmare le traiettorie biografiche di donne e uomini.
Confini che è bene non valicare. Quando corpi sessuati, infatti, attraversano
questi confini, il sessimo, sempre presente, ma solitamente impalpabile e
silente, riemerge con forza come per ristabilire un ordine violato. Uomini e
donne possono ormai convivere in molti ambiti del mercato del lavoro,
purché simbolicamente divisi da riconoscimenti differenziati (retribuzioni,
mansioni, possibilità di carriera), ma ci sono delle aree estreme, quelle
appunto dei cosiddetti lavori da donne e dei lavori da uomini, che la società
vorrebbe pure. Il caso o la scelta, inducono alcune persone a travalicare
questi limiti, e la società reagisce per rimettere ordine. La reazione, tuttavia,
cambia in base al genere di chi viola le regole. Quando è Lui a trasgredire,
magari diventando maestro in un nido o di una scuola dell’infanzia, la
discriminazione è molto spesso solo iniziale, ma una volta superati i timori
rispetto all’integrità di genere della persona (“sarà un vero maschio?”) e ai
suoi obiettivi reconditi (“possiamo fidarci?”), l’uomo facilmente sarà messo
su un piedistallo, diventando, agli occhi di tutti e di tutte, forse specialmente
agli occhi delle donne, il migliore (Abbatecola 2012). Quando invece a
trasgredire è Lei, la discriminazione non è solo in ingresso, ma sembra
persistere a lungo, o comunque rimanere in agguato, puntando su un
progressivo e logorante processo d’invalidazione (Abbatecola 2015a).
Le bambine e i bambini, mostrano dunque di essere già molto competenti
rispetto alle regole di genere vigenti nel mondo dei grandi, e le loro
proiezioni tendono ad appiattirsi sul campo di possibilità che la società rende
pensabile.
In particolare, la caratterizzazione di genere del loro immaginarsi nel
futuro (“cosa farò da grande”), sembra essere più netta se riferita ai bambini
(macchinista, batterista, cowboy, principe, pirata).
Ciò non stupisce per almeno due ragioni. La prima è legata al discorso, più
volte richiamato, della costruzione sociale del maschile per differenza, per
cui il bambino impara presto a mostrarsi “diverso dalle femmine”. La
seconda, al fatto che le femmine hanno a disposizione un panorama di
professioni specificatamente femminili più ridotto (Abbatecola 2012) e
devono dunque pescare anche da un bacino di professioni neutre (cuoca,
cameriera, bigliettaia alle giostre). Anche, ma non solo, visto che non
mancano le proiezioni tipicamente femminili (ballerina, pattinatrice, fata).
Il capitale sociale del contesto familiare influenza il campo di pensabilità
di bambine e bambini, e può favorire forme di distanziamento dalla
tradizione ma, quantomeno nella nostra ricerca, non sembra incidere in
modo rilevante sulla capacità di immaginare una violazione dei confini di
genere. I modelli di femminilità e di maschilità, infatti, sono plurali e non
mancano gradi di libertà nel “fare il genere”, ma l’ordine di genere definisce
dei confini, percepiti come impermeabili, che è bene non attraversare,
frontiere apparentemente invalicabili di un ordine dualistico, binario
(femminile vs. maschile) e implicitamente eteronormativo2.

7.1. “Da grande farò il papà!”. Riproduzione interpretativa e resistenze

Finora abbiamo avuto modo di osservare come le bambine e i bambini


imparino prestissimo a “fare il genere” che la società si aspetta che facciano,
riproducendo così un ordine simbolico pervasivo e apparentemente
monolitico e immutabile. L’educazione/addestramento al “fare genere
corretto” passa attraverso diversi agenti di socializzazione, tra i quali i
genitori, le educatrici, il gruppo dei pari ma anche i giochi, le pubblicità, i
cartoni animati, i film, i libri per l’infanzia e le fiabe. Bambine e bambini
impareranno a individuare il modello di femminilità o maschilità più gradito
nel proprio ambito socio-culturale di riferimento e per molte/i, ma non per
tutte/i (pensiamo alle persone transgender ma non solo), quel modello
diventerà una «pelle» (Sassatelli 2006).
In questo scenario, le bambine e i bambini potrebbero essere
ingannevolmente percepiti come soggetti passivi, ricettacoli di una
socializzazione trasmessa in modo unidirezionale, privato e arelazionale, e
incapaci di contribuire alla costruzione del vivere sociale. In realtà, le
bambine e i bambini sono attrici e attori sociali che nel loro agire danno
forma ai mondi (La Mendola 2010: 48). Assorbono la cultura degli adulti, la
fanno propria e la riproducono interpretandola creativamente nel gruppo dei
pari, contribuendo, così, attivamente, nelle interazioni reciproche e con gli
adulti, alla produzione e al mutamento culturale (Corsaro 2010; Corsaro,
Molinari 2010). Si parla in questo senso di riproduzione interpretativa
(Corsaro 1992; 2005).
Il concetto di “riproduzione interpretativa”, riconosciuto come centrale
nella sociologia dell’infanzia contemporanea, ci fornisce gli strumenti per
leggere con più chiarezza alcuni momenti dell’osservazione.
Nelle proiezioni sopra analizzate, la capacità di pensarsi sembra
prevalentemente ancorata a modelli molto tradizionali di maschilità. Con una
significativa eccezione. Un bimbo ha infatti risposto alla domanda “cosa
farai da grande?” disegnando un papà.

Fig. 4. Disegno del papà

La figura del papà non è accompagnata da quella di una/un figlia/o, come a


dire che il ruolo del padre non si identifica necessariamente con la cura.
Questa rappresentazione della paternità come scissa dalla cura, ci rimanda a
un altro episodio riportato nei nostri diari.

Una bimba disegna delle tigri: una tigre grande vicina a due tigri piccole e, un poco distante, un’altra
tigre grande. Le chiediamo spiegazioni e lei risponde che quella vicina ai piccoli è la mamma, mentre
quella distante (espressione mia) è il papà (diario di campo, scuola B, 31 gennaio).

Fin qui siamo nell’ambito della riproduzione, nel senso che nella cultura
degli adulti il ruolo tradizionale del padre come mero procacciatore di
reddito e depositario della norma è entrato in crisi. Stanno dunque
emergendo nuovi «modi di percepire e vivere la paternità» (Murgia, Poggio
2011: 8), ma manca ancora la capacità di pensare fino in fondo «la paternità
come relazione» (Ciccone 2011: 44). Sono molte le spinte contrarie alla
trasformazione del ruolo paterno3, e:
Uno dei dispositivi di controllo più potenti contro il cambiamento maschile è il ridicolo. La perdita
di autorevolezza, di dignità. Un uomo che non corrisponda all’aspettativa sociale corrispondente al
suo ruolo appare ridicolo, la sua identità sessuale viene messa in dubbio. […] La svalutazione,
spesso anche femminile, di uomini che stanno a casa a fare le pappine e o a cambiare pannolini frena
il cambiamento che stiamo confusamente cercando (ivi: 46, corsivo in originale).

Filippo, dunque, riproduce la cultura adulta della paternità ancora a disagio


con l’idea di un ruolo centrato sulla relazione, ma allo stesso modo interpreta
e innova, riuscendo a immaginare e a proporre un’identità maschile adulta
nuova: non più solo lavoratore, ma semplicemente “papà”.
Anche il disegno di Andrea mostra la tensione creativa tra tradizione e
cambiamento presente in quello di Filippo.
Andrea, che da grande si immagina mago (vedi box), vede accanto a sé un
assistente maschio. Da un lato, dunque, riproduce la cultura adulta
proiettandosi in un modello di maschilità considerato adeguato poiché
incarna il potere (anche se magico in questo caso), ma dall’altro, la
reinterpreta creativamente innovando, non curandosi dell’immaginario
prevalente che rappresenterebbe l’assistente donna, giovane, bella e
(s)vestita in modo sexy.
Professionisti brillanti e pericolose seduttrici

La figura del mago è solo apparentemente neutra. Esiste sì la maga, ma


nell’immaginario mago e maga assumono sfumature differenti.

Leggiamo le due definizioni nel dizionario on line del “Corriere della Sera”*:

maga: chi esercita la magia. Personaggio di leggende e fiabe dotato di poteri


soprannaturali.

Fig.: persona dotata di grande abilità nella sua professione, in un arte, eccetera.

maga: donna che esercita la magia e che può operare malefici.

Fig.: donna molto seducente e affascinante.

Spreg.: fattucchiera.

Questa differenza sembra suggerire che il potere trasformativo può diventare negativo
se in mano a una donna (come nel caso della protagonista di Frozen) perché mette in
discussione il dominio maschile, e che l’unico potere femminile tollerabile è quello
della seduzione. Viceversa, il potere maschile è neutro (naturale?) e trova piena
espressione nella realizzazione professionale.

* http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/M/maga.shtml (ultima consultazione


14 settembre 2017).

Fig. 5. Disegno del mago

Interessante anche un altro episodio registrato nei nostri diari:

Torniamo in classe, e la maestra propone di fare dei disegni da regalare a un bimbo che compie gli
anni. È il momento della scelta del colore della cartellina e la maestra, guardandoci con complicità,
chiede: «Alessio, di che colore la facciamo la cartellina? Va bene il rosa?» (diario di campo, scuola B,
23 novembre).

Alessio, bimbo di quattro anni, molto a proprio agio con le bambine e con
una maschilità vissuta (apparentemente) senza ansia da prestazione, risponde
di sì. Un altro bimbo, che già in altri contesti aveva mostrato di aver fatto
proprio il modello tradizionale di maschilità egemone che tende a definirsi
per differenza dal femminile (irrequieto, alza le mani con facilità, risponde
disgustato se gli si chiede un parere sulle Winxs), urla:
Noooo, il rosa è da femmine (diario di campo, scuola B, 23 novembre).
La sua reazione è abbastanza scontata in quanto riproduce un modello
condiviso nella cultura degli adulti, ma quella degli altri bimbi lo è molto
meno:
Perché no? In fondo, anche la pelle è rosa (diario di campo, Scuola B, 23
novembre).
Alessio non sembra preoccuparsi molto del giudizio degli altri e, con il
supporto di tutti i maschi (escluso uno), si opta per la cartellina rosa!
L’episodio è molto utile perché rivelatore di come bambine e bambini
possano intervenire creativamente nella produzione del cambiamento grazie
alle interazioni entro e tra i gruppi generazionali. Alessio risponde
positivamente allo stimolo dell’educatrice e accoglie di buon grado
l’opportunità di mettere in discussione il modello di maschilità egemone, che
richiederebbe una presa di distanza dal rosa poiché femminile. Ciò produce
una reazione interna al gruppo dei pari che dà luogo a un processo di
revisione e risignificazione del simbolo – il rosa – al centro della tensione.
L’esito è una rottura delle pratiche tradizionali che non comporta, però, la
creazione di un nuovo ordine simbolico. La soluzione individuata dal gruppo
dei pari, infatti, si muove nella direzione di una normalizzazione, ma non di
una rivoluzione delle gerarchie e dei rapporti di potere tra i generi. In altre
parole, così come gli esperti (come visto nel quinto capitolo) rassicurano i
genitori dicendo che giocare con le bambole non è necessariamente da
femmine, Alessio e i suoi coetanei, accettando la sfida di «fare genere» in
modo non convenzionale, sentono in bisogno di giustificare questa scelta, e
ci dicono che in fondo non c’è nulla di male a usare il rosa perché il rosa
rimanda a qualcosa di diverso rispetto al femminile. Il femminile come Altro
inferiorizzante non è in discussione. L’ordine di genere è salvo.
Eppure qualcosa è cambiato.

1
Poiché l’omosessualità è percepita come non normativa, non sono previsti copioni condivisi per il
corteggiamento tra due persone dello stesso sesso.
2
Un indicatore del carattere normativo dell’ordine di genere è il fatto che, nell’immaginario, il
ballerino è gay e “camionista” è un termine usato per riferirsi alle lesbiche mascoline.
3
Per un’analisi approfondita dei conflitti attorno al tema della paternità si veda Petti, Stagi (2015).
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