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CAPITOLO 1: SEGRETI E SILENZI D’AUTORE.

DAL SIDEREUS NUNCIUS DI GALIELO ALLE VICENDE DI UNA


SINGOLARE RICEZIONE

Il Sidereus Nuncius di Galileo Galilei è uno dei libri più signi ca vi del primo 600. Come il telescopio divenne
un ogge o importan ssimo, anche quelle pagine e scri e in poco più di due se mane possedevano una
forza dirompente. Leggendole, si rimane a ascina per la concisione e l’e cacia. Il Sidereus è stato
paragonato a un moderno report di laboratorio, in cui è de o l’essenziale in maniera esa a.
Il lessico è omogeneo, c’è la sobrietà di un la no quasi privo di agge vi valuta vi, a favore dei rendicon
sperimentali, in cui a prendere la parola erano solo i fa osserva con il telescopio.
La decisione di Galileo di rendere note le novità astronomiche nella forma di un “nuncius“, di un “avviso“,
era de ata dalla volontà di evitare dispute sulla paternità delle scoperte. Presentare le osservazioni
separate dalla loro storia e dalla loro tradizione, senza alcun riferimento all'interpretazione degli an chi,
faceva di questo scri o il primo lavoro di una nuova astronomia. Il testo ha un signi cato di ro ura e di
originalità rispe o a qualunque ricerca precedente.
Il Sidereus con ene un testo intenzionalmente non scri o che corre parallelo a quello che appare con tanta
chiarezza e che occorre scoprire se si vuole comprendere gli scopi e gli obie vi del suo autore.
Nell'opera, riproponendo la vicenda della costruzione del cannocchiale, si faceva riferimento a una le era
ricevuta da Jacopo Badovere, che gli avrebbe dato no zia proprio di quegli ‘occhiali d’Olanda' che
perme evano di vedere ogge molto distan .
Badovedere, residente a Parigi, era di origine veneziana e viaggiava molto. Il suo sen mento religioso era
mobile: da riformato, dopo l’abiura di Enrico IV era diventato ca olico. Conver tosi al ca olicesimo oscillò
fra gallicani e gesui , poi si decise per ques ul mi.
Galilei, nelle pagine dell’opera, menzionando quell'uomo ormai vicino ai gesui , non sembrava compiere un
gesto generoso nei confron di Fra’ Paolo, avversario dei gesui . Galilei quindi ome e il nome dell’uomo.
Un caro amico di Galilei che aveva compiuto molte osservazioni celes insieme a lui fu Paolo Sarpi.
Quest'ul mo nelle le ere che aveva scambiato con Jacques Leschassier, faceva intendere proprio la
cooperazione che c’era stata tra lui e lo scienziato. Sarpi amme e di non aver mai le o il Sidereus Nuncius,
cosa davvero impossibile poiché l'opera era richiesta in tu a Europa. Egli prende le distanze dall'amico
matema co, il quale non aveva speso una parola sul contributo scien co degli amici veneziani né sui
bene ci ricevu dalla Repubblica di Venezia. Sarpi nelle le ere a Jacques parla in modo malinconico
descrivendo un'amicizia tradita. Probabilmente Sarpi aveva fa o cenno allo scienziato pisano anche del
fenomeno della luce cinerea della luna, citato nel Sidereus.
In realtà Galileo doveva allontanarsi dall'amico “scomunicato” dalla Chiesa di Roma, altrimen avrebbe
dovuto rinunciare ai propri proge .
E anche vero però che in questo periodo il centro della vita culturale era cos tuito dal sistema di corte,
infa lo scienziato tentò di ca urare i favori del granduca di Toscana, Cosimo II, con l'intento di lasciare
Venezia e trasferirsi a Firenze per vari mo vi: la maggiore tranquillità, i malumori suscita dopo la scoperta
del cannocchiale che mol veneziani ritenevano pagato a prezzo troppo alto, il dissapore con Sarpi. Galilei si
trasferisce a Firenze nel maggio del 1610, già il 13 febbraio aveva scri o a Belisario Vinta, segretario di stato
intermediario nei rappor con Cosimo II. Egli chiede se chiamare i qua ro piane scoper “cosmici”, in
onore di Cosimo II, o “medicea sydera”, in onore dei qua ro fratelli. L’ul mo è il nome favorito, ma la
risposta giungeva a Galileo troppo tardi, poiché i primi fogli del Sidereus Nuncius erano già sta stampa ,
ed in capo al primo si trovava già stampato l'appella vo di “Cosmica sydera”. L'ambiguità sarebbe stata
sciolta successivamente con la dedica del Sidereus Nuncius al Granduca Cosimo e l'in tolazione alla casa dei
Medici dei satelli di Giove. Tu o questo ci perme e di capire il rapporto tra l'intelle uale, la libertà di
ricerca e il potere poli co.
Galilei inizia ad imporre delle condizioni: uno s pendio di 3000 orini, l'esonero dall'insegnamento
pubblico, lezioni private solo ai principi. Il tolo della sua carica era quello di matema co e losofo; con
queste richieste lo scienziato imboccava un rapporto con i poten dai quali sperava di essere difeso,
a nché potesse approfondire sia lo studio scien co che l'a ermazione pubblica.
Dopo l’apparizione del Sidereus Nuncius, Keplero sarebbe stato sollecitato da Rodolfo II, nella cui corte
aveva il tolo di matema co imperiale, ad esprimere un proprio parere. Ma anche Galileo richiedeva un suo
parere: la situazione sembrava rovesciata rispe o a quella di alcuni anni prima, quando era stato Keplero a
inviare a Galileo una copia della sua prima opera, richiedendone un giudizio. Lo scienziato pisano in risposta
aveva reda o una semplice ringraziamento, mentre invece Keplero si dimostra n troppo buono rispe o a
Galielo anni prima.
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In verità si potrebbe cogliere l'ironia poiché Galileo, anziché essere intento alla le ura di un libro altrui, era
per suo conto intento a tra are un argomento quanto mai insolito riguardante qua ro piane da lui
scoper con l'uso di una doppia lente.
Mol loso parlavano dell'opera di Galileo come un insieme di fantasie inverosimili, infa l'ambasciatore
Giuliano dei Medici avrebbe assolto a un incarico propostogli dallo stesso Galileo accogliendo Keplero nella
schiera degli in mi, poiché gli uomini di corte erano morosi che il giovane granduca di Toscana dando
credito a Galileo e a quelle scoperte, diventasse lo zimbello di tu e le cor d’Europa. Keplero infa sosterrà
Galielo, dichiarando la fondatezza scien ca delle sue scoperte. Nella Dissera o e nella le era scri a
all’imperatore Rodolfo II, Keplero ado ava il linguaggio proprio di un bolle no di guerra de nendo
l'astronomia come un'impresa militare.
Le tesi circa l’opera di Galileo sono due:
TESI DI KEPLERO: secondo lui così come la terra alla sua luna che le gira a orno, così poteva ben darsi che
Galileo avesse visto altre qua ro piccolissima lune ruotare con stre ssimi giri a orno alle piccole moli di
Saturno, di Marte, di Giove o di Venere (escludendo mercurio troppo immerso nei raggi del sole);
Secondo Keplero il Sidereus Nuncius aveva la sua storia e non poteva essere le o separandolo dalle ricerche
cosmologiche e loso che che lo precedevano: autori come Bruno, pur ritenendo erroneamente le stelle
sse circondate da nuovi piane , dovevano essere considera auten ci predecessori della nuova scienza.
TESI DI WACKHER: secondo lui ques nuovi piane giravano intorno a qualche stella ssa. Egli sosteneva che
o questo nostro mondo è in nito o ci sono in ni altri mondi simili al nostro.

“La favola nella favola” tra ava delle fortune di un giovane chiamato Duracoto che gli an chi chiamavano
Thule. Duracoto non ricorda il padre, ma a de a della madre ques era un pescatore morto all’età di 150
anni, quando il glio era ancora piccolo. La madre, Foxilda, è una strega che si sostenta vendendo ai marinai
dei sacche di erbe. È una donna dal cara ere intra abile, infa una volta sorprendendo il glio mentre
stava esaminando il contenuto di uno di sacche , avvampando d’ira, pur di ricavare denaro, cede e
impulsivamente il ragazzo in proprietà a un marinaio.
Duracoto trascorse cinque anni su un’isola della Danimarca presso un astronomo,Tycho Brahe,
perfezionandosi nello studio e nell’osservazione degli astri. Il ragazzo sente nostalgia della madre e della
casa, e o enuta la licenza si me e sulla strada del ritorno.
Al suo ritorno trova la madre ancora viva e vegeta e occupata nelle faccende di un tempo; il fa o di essere
vivo e onorato pose ne al suo con nuo dolersi di aver perduto il glio per imprudenza.
Il viaggio non sembra giunto al lieto epilogo, ma a questo punto l’esperienza realizzata da Duracoto si rivela
povera: tanto viaggiare e tanto studiare per poi desiderare dalla madre una conoscenza auten ca e
profonda delle leggi dell’astronomia. A questo punto la donna, racconta a Duracoto, la storia di un’origine.
Il racconto dell’origine, è il racconto di una familiarità con l’ombra e con il silenzio: solo in questo modo si
può realizzare l’iniziazione a un nuovo sapere. Fra tu gli spiri , Foxilde dichiara di conoscerne
par colarmente uno mite e benevolo: astronomia copernicana. Con l’aiuto di questo spirito, la donna
dichiara di essere trasportata istantaneamente nei luoghi che gli indica, ma sopra u o vorrebbe che il glio
la accompagnasse nella conoscenza di quella regione, della quale lo spirito ne ha parlato tante volte: egli la
chiama Levania. Duracoto acconsente e dunque la donna evoca lo spirito. A questo punto, la madre si reca
da sola in un bivio vicino pronuncia la richiesta con delle parole segrete. Successivamente torna indietro e
non appena lei e il glio si avvolgono la testa con gli abi , uno spirito non visibile eme e una voce
balbe ante. Questo spirito esprime l’allegoria dell’origine di una nuova scienza che manifesterà una
procedura. Questo procedere verrà chiamato metodo. In questo modo l’origine della nuova scienza sembra
fondare le sue radici nelle sfere del magico. La dimensione fantasma ca tenderà a diventare il sogge o
dell’alienazione mentale, delle visioni e dei fenomeni magici. Non è un caso che, aldilà della vicenda
biogra ca di Keplero Che dovrà difendere la madre dall’accusa di stregoneria, nelle pagine del SOMNIUM
agirà una rappresentazione del paesaggio lunare in cui è il cara ere allucinatorio a emergere in primo
piano. La dimensione fantasma ca, si dispone in Keplero come una realtà aliena e tu avia simmetrica al
nuovo sapere scien co. La vecchia esperienza del corpo, incrociandosi con la scienza in un punto
archimedico astra o, stravolge la sfera della corporeità. Anche il corpo dovrà adeguarsi allo spirito da cui ha
inizio il metodo della nuova scienza. Le pagine del Somnium , indicano un’allegoria su un processo al limite
di una spiritualizzazione del materiale in cui consisterebbero il metodo della nuova scienza e le sue pra che
asce che. La voce dello spirito racconta che l’isola di Levania è posta a 50.000 miglia tedesche nell’etere
profondo. La strada per andarvi è facile solo per chi è simile allo spirito, mentre risulta di cile per gli uomini
comuni. Dunque per raggiungere l’isola, sarà obbligatorio rendere virtuoso il corpo, cioè bisognerà
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spiritualizzare il corpo, me ere a tacere i bisogni. È in ragione di tale codice “virtuoso” che nel Somnium, la
dimensione corporea è rappresentata in una chiave stravolta: basterà ascoltare lo spirito che illustra le
modalità di partenza dalla terra, in direzione di Levania, dei pochi uomini abilita al viaggio perché
par colarmente aderen alle virtù richieste.
Lo spirito spiega che un uomo di questo po lo a errano tu insieme e spingendo dal basso lo lanciano in
alto. Quegli uomini, i quali vorranno intraprendere il viaggio verso Levania, dovranno so oporsi a
un’esperienza durissima per il corpo. Al ne di ridurre il trauma sarà necessario addormentare il corpo con
narco ci per me ere a tacere, per un determinato lasso di tempo, i bisogni super ui del corpo. Durante il
viaggio un gran freddo e la conseguente fa cosa respirazione dei pochi ele viaggiatori, renderanno
necessario insu are nuove dosi di Spirito. Allegoricamente si tra a degli a anni della nuova scienza che
ambisce ad a rancarsi da vecchie servitù. Ma nalmente viaggiatori raggiungono la meta: l’isola di Levania.
Il risveglio è fa coso ed è seguito da torpore e stanchezza dalla quale i viaggiatori si riprenderanno
camminando; si tra a ancora una volta di un’allegoria che tra a la fa cosa ricerca del metodo. Intanto gli
spiri che hanno accompagnato i viaggiatori sull’isola si rifugiano in luoghi bui, a nché il sole non li cacci
dalle dimore scelte e li costringa a inseguire l’ombra sfuggente.
Ma Levania non è un luogo edenico. Appare divisa in due zone: Subvolva e Privolva. In questo emisfero il
paesaggio è desolato: la no e è lunga 15 o 16 giorni dei nostri giorni naturali; ogni cosa è gelata dal
ghiaccio e da ven rigidissimi. Alla no e segue il giorno, lungo 14 dei nostri giorni nel corso dei quali il sole
è più grande, più lento rispe o alle stelle sse e non c’è vento.
La vita in un paesaggio come questo non alcun rapporto con la nostra vita. La vita delle creature e delle
piante è breve, spesso nascono e muoiono nello stesso giorno. La civiltà come noi la intendiamo, non esiste.
Ci si imba e invece in creature dotate di una natura serpen na, anche se alcune sono alate, altre strisciano
ed altre ancora nuotano nell’acqua. Da questa visione di creature mostruose, l’autore si sveglia ritrovandosi
col capo sul cuscino e il corpo so o le coperte. È stato solo un incubo. Si potrebbe discutere a lungo sul
signi cato di questo incubo, cioè un signi cato legato a dramma che vicende autobiogra che di Keplero e
alla difesa sa rica dell’uomo alle origini della nuova scienza.
La lucida descrizione della luna è il punto su cui ri e ere. È proprio quando i viaggiatori di Keplero
raggiungono la luna, la fantasia cessa e ci troviamo nel mondo della luna. Quella di Keplero è una
descrizione della geogra a lunare. Gli scri ori non scien ci impegnano la loro originalità sopra u o in
metodi ingegnosi per viaggiare sulla luna e nella descrizione del viaggio. I loro mondi lunari sono di solito
utopie convenzionali per una sa ra sui costumi sociali e poli ci di questo mondo. Keplero, invece, sviluppa
nei più precisi de agli la geogra a della luna come l’aveva immaginata la scienza di Plutarco e come l’aveva
mostrata con il telescopio.
Il Somnium fu composto nel 1609, un anno prima della pubblicazione del Sidereus Nuncius. Keplero
dichiarerà che la sua visione del paesaggio lunare è anteriore al cannocchiale olandese ed è a ribuibile al
suo maestro. Tu avia ogni par colare del paesaggio lunare immaginato nel Somnium viene ra orzato
dall’uso del telescopio e da osservazioni di Galileo.
Keplero dissen va da Plutarco: non condivideva la sua tesi che le macchie oscure della luna fossero cavità o
mare, e le macchie luminose con nen o rilievi. Per Galileo, come aveva sostenuto Plutarco, la luce del sole
illumina più intensamente le montagne le pianure che non le depressioni nelle valli della luna. Nel 1610 la
luna Appariva una terra incognita, carica di simboli, sugges oni le erarie, speculazioni meta siche,
leggende e supers zioni.si tra ava di riferimen che risultavano esplici nella Disserta o di Keplero, ma
sono implici nel Sidereus di Galileo. Infa ad accezione di Copernico, Galileo non ha mai citato altri autori.
Da parte di Keplero vi era una consapevolezza secondo cui l’osservazione di un ogge o non dipende solo
dalle conoscenze che orientano l’a o stesso di vedere, ma dipende dalla forma linguis ca in cui si esprime
quanto si viene a conoscere. Il Somium rivelava anche che il viaggio di Keplero non poteva essere compiuto
senza incrociare il viaggio Galileiano.
Keplero riconosce gli insupera meri di Galileo: esalta la sua abilità perché si è rivolto alla tes monianza
degli occhi grazie al cannocchiale; ha disperso i dubbi e ha dimostrato con i fa quello che si poteva fare.
Nei primi mesi del 1610, Gian ba sta della Porta e aveva scri o al Marchese Cesi e si era lamentato
riguardo l’invenzione del cannocchiale che era stata la sua, e con esso Galileo aveva trovato qua ro piane
in cielo e migliaia sterili stelle sse. Cesi rileva le tre frasi della scoperta di Galileo del telescopio, prima
ritrovato, poi innalzato e perfezionato.
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CAPITOLO 3: Galileo e di cile compimento della istoria delle macchie solari. In margine alla
corrispondenza epistolare con MARK WELSER, con amici e solidali
Il gennaio del 1612, Mark WELSER Invia a Galileo una le era in cui avanzava la cortese richiesta di un parere
intorno a una novità celeste: le macchie solari, e e uata da uno scienziato grazie al cannocchiale. WELSER
allegava tre Le ere dello scienziato con osservazioni e interpretazioni del fenomeno. Welser Si era
impegnato A far stampare quelle le ere nelle quali il nome dell’autore, collocato alla ne, era celato so o lo
pseudonimo di Apelle .
Dopo la pubblicazione del Sidereus Nuncius, WELSER cambia a eggiamento nei confron di Galileo, che era
divenuto di di denza mascherata da cortesia, dal momento che dedicava a Galileo espressioni di vivissima
s ma. A giudizio di Apelle, quelle macchie dovevano corrispondere a delle stelle erran intorno al globo
solare. Di fronte a questa comunicazione, non erano poche le di coltà che Galileo incontrò prima di poter
comporre la risposta. Una prima di coltà era di natura psicologica: Galileo doveva essere turbato dal
sospe o che lo stesso Welser, O altri, avessero potuto dare no zia ad Apelle dell’osservazione del
fenomeno delle macchie solari da lui già e e uate a Padova, quando insegnava all’università. La risposta di
Galileo alla le era di Welser non poteva trascurare la ques one della priorità della scoperta del fenomeno
delle macchie solari.
Un’altra di coltà era legata ai rischi della redazione scri a di un parere intorno alla natura e al moto di
quelle macchie solari, dato che Galileo, all’indomani della pubblicazione della sua opera, aveva subìto delle
opposizioni. Inoltre nel gennaio del 1612, Galileo stava so rendo di for dolori e il ca vo stato di salute
non solo gli impediva di rinnovare le osservazioni celes , ma anche di alzarsi dal le o. In più non aveva la
certezza dell’iden tà di Apelle.
Molto importante è la tes monianza rappresentata da uno scambio di le ere tra Galileo e Federico Cesi,
fondatore dell’Accademia romana dei Lincei.
Nel febbraio del 1612, Federico Cesi scrisse a Galileo dichiarandosi dispiaciuto per il suo stato di salute e
informandolo che il signor Marco Velsero sosteneva che le macchie solari in Germania venivano di con nuo
osservate da un matema co che avrebbe parlato con la stampa.
Sempre nel febbraio del 1612, il pi ore Domenico Passignani, scrisse a Galileo riguardo le macchie solari,
an cipando un’opinione che avrebbe mostrato delle consonanze con la spiegazione di Galileo espressa per
iscri o nella prima le era a Welser. Come si può intuire, iniziava a con gurarsi un vero e proprio teatro
loso co intorno alla scoperta delle macchie solari: si muovevano domande rela ve a ques oni di cara ere
cosmologico e loso co. La prima Domanda era indo a da una possibile spiegazione del fenomeno solare
che revocasse in dubbio l’idea della purezza decidi secondo la teoria cosmologica tolemaico-aristotelica.
Dunque il 3 marzo del 1612 il Cesi si rivolse a Galileo, desideroso di risposte. Galileo tarderà a rispondere,
non solo al marchese ma anche a Welser , Il quale gli aveva inviato la prima le era il 6 gennaio del 1612.
Per questa ragione Welser si lamentava con Johann Faber in una le era del 16 marzo e lo faceva non
risparmiandosi della malignità, alludendo a un “travaglio d’animo” di Galileo.
Probabilmente non era vero Apelle non sapesse nulla delle osservazioni di Galileo. A tal proposito Michele
Camerota, ha rammentato che Apelle, dietro la cui maschera si nascondeva il gesuita Christoph Scheiner ,
doveva essere probabilmente venuto a conoscenza dell’osservazioni di Galileo intorno alle macchie solari.
Ma Welser scrisse una le era a Johann Faber a ermando che la ques one della priorità della scoperta, era
secondaria rispe o all’invenzione del viro, e cioè alla corre a spiegazione scien ca del fenomeno delle
macchie solari.
Il 23 marzo del 1612 il pi ore Ludovico Cigoli Scrive a Galileo, informandolo di aver compiuto delle
osservazioni con il cannocchiale, ma informandolo anche dei disturbi all’occhio a causa della di cile visione
del globo solare e dichiarando di ritenere verosimile che quelle macchie fossero stelle che si interpongono
tra noi c’è il sole. Diversa era la posizione di Benede o castelli, il quale a ermava che le macchie non
corrispondevano a delle stelle, ma piu osto erano il risultato della luce solare e della sua natura
corpuscolare. Il 12 maggio Galileo scrive al marchese annunciandogli che gli avrebbe inviato non solo la
copia del suo discorso sui corpi galleggian , ma anche la copia di una le era che, sulla ques one delle
macchie solari, aveva reda o in risposta alla richiesta di Welser di conoscere il suo parere come scienziato.
Nella le era Galileo a erma che le macchie, sono con gue alla super cie del sole, dove si generano e si
dissolvono con nuamente, nella guisa delle nuvole intorno alla terra, e dal sole vengono portate in giro.
Nella le era al marchese viene indicata la posizione decisa di Galileo in ordine alla sua futura ba aglia
scien co-culturale e al riconoscimento degli avversari. Cesi a ribuisce un comportamento animato ai corpi
celes , se non di gestualità a va, quasi come se il sole fosse a sostegno delle scoperte la nuova scienza.
Facendo riferimento ad un libro epistolico già proge ato dai Lincei , Galileo dichiarava che la sua le era a
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Welser Sarebbe stata congrua con quel proge o e poteva essere inserita nel libro. Inoltre Galileo in merito
alla posizione e alle eventuali reazioni os li dei loso aristotelici, si dichiarava sicuro e risoluto grazie la sua
scoperta e alle prime spiegazioni intorno al fenomeno delle macchie solari. In una le era successiva, del 26
maggio, ribadiva di poter celebrare il funerale degli aristotelici, riducendoli al silenzio; così da idio si
pagava al marchese le ques oni astronomiche da lui a rontate e alle quali dava risposta, dichiarandosi
ancora una volta risoluto e sicuro. Tu avia nella prima le era a Welser, A di erenza di quanto aveva
dichiarato al marchese Cesi, si mostra sospeso e irrisoluto: Qui informa della di coltà di una materia che
aveva tenuto lo scienziato sospeso e irrisoluto a causa della sua mala a. Nell’esordio epistolare di Galileo, i
problemi indo dalla mala a da un lato, e le di cili procedure dell’impresa scien ca dall’altro,
sembravano interagire nel segno di una nozione di temporalità. La sua cautela appariva improntata a una
sensibilità contraria a elaborare subito la spiegazione delle macchie solari. Quella cautela era indo a da una
condizione conseguente alle invidie e alle gelosie provocate dalle novità dichiarate nel Sidereus Nuncius.
Nel dare inizio al suo commento delle le ere del nto Apelle, Galileo doveva usare una benevolenza
diploma ca, dichiarando di concordare sul fa o che le macchie, come sosteneva anche Welser, erano cose
reali e non semplici apparenze o illusioni dell’occhio; ma a ermando subito dopo, con orgoglio, di averle già
osservate da 18 mesi in qua e dunque ben prima di Apelle.

TERZA PARTE – DA PAG.74 A 104


A proposito delle macchie solari, lo scienziato pisano ri ene che il parere di Apelle, secondo cui le macchie
scure non sono presen nel “corpo solare” perché il sole è lucidissimo, non sia corre o, in quanto siamo noi
a dargli il tolo di purissimo “perché in lui (sole) non sono state vedute tenebre”. Per cui, dopo aver
esaminato e confutato il pensiero di Apelle, è venuto fuori come quest’ul mo fosse considerato da Galileo
Galilei come un losofo naturale che, seppur propenso all’acce azione delle nuove teorie scien che,
restava ancora ingarbugliato nelle maglie loso che delle vecchie loso e. La Prima Le era solare a Welser
si concludeva invece con un’a ermazione di piena ducia nei confron del conseguimento di una verità
perseguibile a raverso i nuovi saperi della scienza. Welser allora rispose a Galileo comunicandogli di aver
ricevuto la sua scri ura sulle macchie solari ed elogiò lo scienziato pisano usando un linguaggio
cerimonioso: “divorai”, “gusto”, “desiderio”, tu termini facen parte del campo seman co
dell’abbondanza. Nella sua le era Welser a rontava due temi; il primo si riferiva all’uso della lingua volgare
usato da Galileo nella sua Le era solare, mentre il secondo rela vo alla possibilità di pubblicazione a
stampa di quel testo. C’è invece chi, nei confron degli scri dello scienziato pisano, reagisce con
un’acce azione passiva, come il Cigoli che, in una le era indirizzata a Galileo, allegava un suggerimento
molto signi ca vo di padre Grienberger: non me ere in dubbio le a uali ques oni scien che. In un’altra
le era, a Paolo Gualdo, lo scienziato pisano manifestava chiaramente la sua posizione nei confron dei
loso aristotelici e degli avversari: una visione di “spe atore” nei confron di coloro che non credono
perché non vogliono vedere le novità celes e ridono dinanzi l’a tudine “ferma” e indi erente di Galileo. A
di erenza di altri fenomeni naturali, quello delle macchie solari si presentava come ogge o di visione
permanente e dunque avrebbe dovuto cos tuire mo vo di tormento per gli aristotelici e per il loro “ozio”
mentale. Ormai, una delle ques oni più discusse e più a ese era la versione a stampa delle Le ere sulle
macchie solari del Galilei, il quale intanto scriveva a Giuliano de’ Medici per ria ermare ancora una volta
implicitamente la sua scoperta. Se si ene conto che Galileo, nei confron dei suoi amici, si era mostrato al
quanto rilassato e schie o nella spiegazione del fenomeno delle macchie solari, è da ipo zzare che la scelta
di mostrarsi più “ mido” e “perplesso” con Welser fosse suggerita da mere ragioni di cara ere
comportamentale e comunica vo. Pur tu avia, è proprio la sua schie ezza mostrata nello scrivere del
movimento del sole intorno al proprio asse, insieme al riconoscimento delle macchie solari vicine alla
super cie del sole che smen vano la teoria dei cieli puri e incorru bili, che ci fa capire come lo stesso
Galileo divenne consapevole delle implicazioni religiose di una riconosciuta corru bilità dei cieli,
a ermando che la Scri ura non favorisce di certo Aristotele, piu osto il contrario. Galluzzi ha commentato
che sul punto della corru bilità dei cieli occorreva agire con prudenza e il “senso del suo messaggio era
chiaro: la tesi dei cieli corru bili era plausibile e autorevole perché fondata sui tes sacri e non perché
suggerita dall’osservazione telescopica dei fenomeni celes ”. Intanto un altro corrispondente del Galilei,
Gallanzone Gallanzoni, gli scriveva di non aver ricevuto, a causa di un disguido, le Le ere solari, ma in ogni
caso lodava lo scienziato per la spiegazione che proponeva del fenomeno delle macchie solari ed esprimeva
la sua gra tudine. Inoltre, questo corrispondente faceva parte di coloro che sostenevano la causa di Galilei,
mostrando di voler conoscere le sue opinioni e di essere disponibili a di onderle oltre che pron a
confutare eventuali opposizioni nascen . In virtù della scoperta delle macchie solari, Galileo, come a erma
Michele Camerota, stava maturando una posizione loso camente più decisa rispe o a quando aveva
scri o il Sidereus Nuncius. Questo perché nella redazione delle Le ere solari si poneva per la prima volta, in
ne a evidenza un aspe o cruciale della scienza galileiana: il pieno riconoscimento dell’intrinseca unità di
tu i fenomeni dell’universo. Abba endo la separazione fra sfera celeste e regione elementare che
cos tuiva uno dei caposaldi del mondo aristotelico, Galilei dava vita a un impianto unitario valido per tu o
l’universo.
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QUARTA PARTE
Allo stesso tempo, anche l’invito di Galileo sollecitava a confutare la tesi di Apelle.
Nel mese di o obre del 1612 si potrebbe dire che, Lodovico Cigoli non solo fosse uno degli amici più lega a
Galileo,ma si a eggiava come un vero e proprio agente informatore di tu e le voci di use negli ambien
col dell’Urbe. Il 28 o obre del 1612 Federico Cesi scriveva a Galileo. Cesi, comunicando a Galileo che per
“la dedicazione si farà come comanda“, proseguiva sulla scelta del tolo dell’opera da stampare, rilevando
che dopo che nell’ Accura or Disquisi o di Apelle era stato ripreso il lemma Helioscopio già
precedentemente proposto dal marchese per l’opera di Galileo, bisognava optare per un altro tolo, che
non fosse in ogni caso solo quello di “le ere solari”, non abbastanza rilevato so o il pro lo comunica vo.
Galileo gli comunicò la volontà di preferire un tolo in volgare, Cesi integrava le sue considerazioni.il 3
novembre del 1612 il Cesi scriveva Galileo informandolo che lui è il Cigoli stavano seguendo la stampa dei
disegni dell’osservazione solari. Il Cesi era a en ssimo alla preparazione della stampa e alla composizione
dell’opera sull’area di Galileo; senza dire che tornava a sollecitarlo perché portasse a termine nel più breve
tempo la terza le era sulle macchie solari al ne di confutare Apelle e ammutolire quei peripate ci che
redigevano scri ure maledìche. Cesi toccava due ques oni molto importan . In primis invitava Galileo a
non prendersela con la nazione tedesca, del resto benemerita all’accoglienza della sua opera , La seconda
ques one riguardava l’opportunità di dare no zia delle osservazioni delle macchie compiute da Galileo a
Roma presumibilmente l’anno prima, nella primavera del 1611.
Il 3 novembre del 1612 era Cigoli Che scriveva a Galileo, informandolo che delle due le ere solari era
arrivata a Roma prima la seconda e successivamente la prima, aggiungendo che il Cesi non avrebbe dato
inizio alla stampa se Galileo non avesse inviato una copia della le era di Welser. Per quanto riguarda la
visione delle macchie solari operata per primo da Galileo, il Cigoli ricordava nella sua le era Che
e e vamente il pisano mi aveva dato no zie a tempo debito, a Roma, inoltre , Ribadendo una posizione
del Cesi, Che bisognava pungere Apelle come solo Galileo sapeva fare, Ma risparmiando assolutamente la
nazione tedesca. Il 4 novembre del 1612 Galileo scriveva al Cesi dichiarando la soddisfazione che le le ere
solari erano nalmente arrivate a Roma. Galileo ormai concepiva l’a ermazione della nuova scienza come
un evento pubblico che richiedeva un confronto aperto e palese su scoperte teorie, non già nello spazio
chiuso di discorsi elitari “a qua r’occhi” rivolgendosi al Cesi, Galileo lo sollecitava A dare inizio la stampa.
Il 9 novembre del 1612 Mark Welser scriveva a Johann faber che gli era venuta “l’acqua alla bocca” sapendo
della prossima edizione dell’opera sulle macchie solari, ma chiedeva se le le ere, quelle di Appelle E quelle
di Galileo, “resteranno nella lingua la na e italiana, come furono scri e o si accorderanno per via di
traslazione” quindi Welser allegava una le era che gli era stata inviata da Apelle E pregava Faber di farne
conoscere il contenuto a Galileo.
Il 10 novembre del 1612 il Cesi scrivilo a Galileo, comunicandoli di essere in a esa della terza le era
dichiarando sei sicuro che il mondo avrebbe visto quest’ul ma come le due preceden
In ne il marchese concludeva la sua le era ritornando sulla ques one del tolo da scegliere per l’opera di
prossima stampa e, sia pure brevemente, del suo gradimento per una orientata arte della confutazione nei
confron di Apelle nella terza le era solare di Galileo
Il 23 novembre 1612 Johann Faber scriveva Galileo riproducendo nella sua le era il testo della le era di
Welser , nella quale il banchiere tedesco si dichiarava con “l’acqua alla bocca” per la prossima stampa delle
le ere solari
Il 23 novembre del 1612 Paolo Gualdo informava Galileo che il Welser gli aveva mandato “un tra ato
stampato in Augusta De maculis solaribus” e che intendeva, lui Welser,“Anco essere usci altri discorsi in
simili proposi ”
Il 30 novembre il Cesi scriveva una le era Galileo in cui, avendo le o la terza le era solare, dichiarava la sua
soddisfazione. Ma in un post-scriptum il Cesi toccava una ques one assai delicata, rela va al tema della
incorru bilità dei cieli in rapporto alla version della Sacra Scri ura. Il 1 dicembre era Giovan ba sta
Agucchi Che scriveva Galileo una lunga le era sulle macchie solari. Probabilmente il luogo più importante
della Le era di Agucchi ruotava intorno a una domanda speci ca, rela va la spiegazione della causa delle
macchie solari. Il 14 dicembre del 1612 Cesi scriveva a Galileo una le era densa di ques oni tecniche, ma
non solo, dal momento che proprio in conclusione toccava la ques one delle Sacre Scri ure. La le era di
Cesi si chiudeva con un riferimento alla posizione dei revisori. Paolo Galluzzi è ritornato opportunamente
sulla posizione dei revisori per le le ere solari, intanto rammentando che, grazie alle sue osservazioni
astronomiche, Galileo con dava di poter dimostrare che il sole ruota sul proprio asse E che nella sua
risposta ad Apelle, Galileo aveva formulato “l’ipotesi che il movimento dei piane , terra compresa, potesse
dipendere dalla rotazione del sole sul proprio asse” quel passaggio testuale “non fu approvato dai revisori e
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dove e essere eliminato dall’edizione a stampa dell’Istoria”. Il 28 dicembre Federico Cesi pregava Galileo di
rivolgere una par colare a enzione alla scelta del tolo dell’opera, prossima alla pubblicazione è
pronunciare un implicito suggerimento perché il tolo fosse “nobile“ è “conveniente“.
Il 5 gennaio del 1613 Galileo scriveva al Marchese Cesi ringraziandolo di quanto stava facendo per la
pubblicazione dell’opera sulle macchie solari.
Galileo ringraziava Il Cesi e l’amico Cigoli Per quanto facevano a difesa della sua reputazione di losofo
naturale scienziato. In una successiva le era di Federico Cesi, Del 25 gennaio del 1613, Galileo ritornava
sulla correzione di una frase che aveva implicazioni teologiche.
Nel febbraio del 1613 due le ere toccavano ques oni rela ve al parà testo della Istoria solare. Una le era
di Francesco Stellu al marchese Cesi riproduceva un madrigale da stampare sulla soglia delle le ere solari,
madrigale nel quale si puntava sulle gure della luce e dell’ombra e su un gioco di alternanze a o a dare
vanto al valore indiscu bile di Galileo scopritore di novità celes . Il 22 febbraio del 1613 Federico Cesi
inviava una le era molto importante a Galileo, richiamando l’a enzione dello scienziato sulla funzione
decisiva di una prefazione all’opera sulle macchie solari. La prefazione era una le era al le ore nella quale
l’autore Il “linceo De Fiilis aveva pun gliosamente elencato i molteplici disvelamen celes dello scienziato
toscano rivendicandone con forza la priorità contro i numerosi sogge che avevano cercato di
appropriarsene” la scri ura di De Fiilis era in alcuni pun par colarmente perentoria, Composto certamente
di ossequio agli orientamen del Cesi e del Lincei . Infa dava tes monianza delle avvenute osservazioni di
Venere e Saturno e e uate da Galileo prima a Padova e poi a Firenze; ma sopra u o informava della
scoperta delle macchie solari compiuta dallo scienziato pisano e dalla circostanza che Galileo avesse fa o
osservare “le macchie in più d’un luogo, come in par colare nel giardino del quirinale dell’Illuminismo sig.
Cardinal Bandini. In ne, il De Fiilis Dichiarava di essere consapevole del di cile des no dell’opera solare di
Galileo è, rivolgendosi all’ipote co le ure non sprovveduto, mostrava di sollecitare la virtù della
perspicacia. Galileo non si lascia convincere e il De Fiilis dovete rivedere il testo, sfumando le osservazioni
più polemiche o perentorie. Ormai si era alla ne di una lunga vicenda composi va e l’opera sulle macchie
solari era vicino a vedere la luce.il 2 marzo del 1613 Federico Cesi scriveva Galileo una le era in cui gli dava
una no zia della avvenuta stampa di un primo numero di copie pur prive della Prefazione di Angelo. In data
12 aprile del 1613 Francesco Stellu scriveva Galileo, dando puntuale informazione di avergli inviato 20
copie della Istoria e dimostrazione intorno alle macchie solari E loro acciden , e di accingersi a inviargliene
altre 100,20 delle quali potevano essere corrisposte al Salvia , al quale il gruppo dei Lincei aveva nalmente
conferito l’onore di rmare la le era dedicatoria.
Dieci anni dopo: un nuovo epilogo
Dieci anni dopo la pubblicazione della Istoria solare, in una pagina del Saggiatore, Galileo ritornerà sulla
vicenda delle macchie solari, redigendo una apologia di sé, avversa a detra ori e usurpatori. Lo scienziato
riconosce pubblicamente di aver sbagliato non dando ascolto ad amici e sodali. Avrebbe dovuto tener conto
dei consigli del Cesi e di altri amici Lincei e avrebbe potuto rammentare gli orientamen di un amico ormai
disconosciuto nelle pagine del Siderius Nuncius, ovvero Paolo Sarpi che aveva scri o che chi è sopra la sola
difensiva, è necessario che soccomba. Nel Saggiatore Galileo mostrerà di aver appreso la lezione.

Capitolo 3
2 giugno 1612, Galileo scrive a Ma eo Barberini, che si trova a Bologna per informarlo sul fenomeno
celeste, cioè quello delle macchie solari, nel corso della le era, dopo aver dato no zia di una sua
corrispondenza epistolare con Mark Welser, banchiere di Augsburg, gli scrive del suo parere riguardo
l’argomento. Galileo usava un linguaggio a o a segnalare una inaudita novità, ovvero che nei cieli qualcosa
potesse nascere e morire, nella scri ura, il lessico è anche ironico.
Alla data dell’invio della Le era a Ma eo Barberini, Galileo era ascri o all’Accademia dei Lincei.
I lemmi usa nella Le era, sembravano rinviare al lessico di una loso a neo-storica.
Mark Welser era un esperto conoscitore della lingua e cultura italiana che aveva richiesto a Galileo un
parere sul fenomeno delle macchie solari osservate da Scheiner scrivendo dietro la maschera di Apelle, un
noto pi ore dell’An chità. Cosi Galileo, irritato dal fa o che lui aveva osservato le macchie solari prima di
Apelle ma ancora non aveva scri o nulla, doveva illustrare anche lui la sua posizione intorno al fenomeno
celeste con la redazione di tre Le ere.
Quando Galileo ordinerà di dare alla stampa le le ere inviate a Welser, vorrà in tolare la sua opere a
“Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro acciden ”, come a segnalare che le dimostrazioni
succedevano a una istoria delle macchie solari, una istoria fa a di acciden e di mutazioni, e istoria poteva
riferirsi alle fasi o ai momen della sua inves gazione scien ca.
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Ernaldo Bellini ha rilevato che in ragione di una sensibilità volt alla do a ricezione di un pubblico di
intenden , in Umanis e lincei, i Lincei collaboravano con Galielo per confermare il stampa il tolo di Istoria
per le tre le ere che lo scienziato pisano aveva inviato a Mark Welser.
Nel passaggio conclusivo della prima Le era a Welser, Galileo aveva informato il suo autorevole
interlocutore di aver provveduto a far disegnare da un suo allievo, varie gure delle macchie solari. Il
discepolo non era nominato nella prima Le era, ma si tra ava di Benede o Castelli.
Nella seconda Le era, Galileo provvedeva a indicare esplicitamente il nome del suo discepolo, autore dei
disegni delle macchie solari con le loro mutazioni, di famiglia di Brescia, uomo d’ingegno eccellente.
Galileo e Castelli si conoscevano da alcuni anni ed erano già in corrispondenza epistolare tra loro. Nell’anno
della pubblicazione della “Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro acciden ” IL 20 maggio
1613, Filippo Salvia scriveva a Federico Cesi, proponendolo a nome di Galileo, l’iscrizione di don Benede o
all’Accademia romana. Ma ciò che lo impossibilitava era che apparteneva all’ordine dei benede ni e
l’accademia escludeva la possibilità di associare personalità appartenen ad ordini religiosi regolari.
pochi mesi dopo, Castelli in una le era datata al 3 dicembre 1613, esprime intensa gra tudine nei confron
del Maestro. Don Benede o era ormai accolto nella corte dei Medici e anche alla loro tavola e Galileo
doveva proprio individuare in Benede o Castelli il des natario della sua prima Le era copernicana.

Da pag 136

A Galileo accadeva spesso di dover difendersi da confutazioni dei suoi avversari. Nella prima metà degli anni
10 del 600 Galileo veniva coinvolto in una disputa sulle cause del galleggiamento e dell’a ondamento dei
corpi. Uno degli oppositori era Ludovico delle Colombe. Galileo riba è con un magnanimo silenzio. Castelli-
Galileo segnalava inoltre l’inabilità dei propri scri nel riuscire a migliorare la natura malvagia
dell’oppositore, e con il proprio silenzio gli negava anche questa possibilità. Nella “Difesa” contro il Capra,
Galileo riprendeva gure e sintagmi già propos in precedenza, mentre nella “Risposta” a delle Colombe
tornava a interrogarsi sulle ragioni dell’o endere. Don Benede o Castelli rilevava una di erenza di
comportamen : mentre Galileo si era preoccupato unicamente di scoprire le cause dei fenomeni naturali, lo
scopo di delle Colombe era solo quello di a ermare la fondatezza delle teorie di Aristotele. In questo modo
la scri ura dei due des natari della “Risposta” era vana: parole lontane da tu i proposi e ado ate per
conseguire l’applauso. Alcuni anni dopo scriverà “Il Saggiatore”. Castelli ado ava uno schema retorico che
Galileo riprenderà nell’esordio del Saggiatore, giocato sulla denuncia di frecciate ingius cate da parte degli
oppositori, so olineando che ques ul mi fossero solo maschere del tu o sconosciute a Galileo. Il 1615 fu
un anno molto di cile, in quanto ci fu una di usa cri ca nega va delle Le ere copernicane. Il cardinale
Barberini d’altra parte, riteneva di conoscere le scene e le azioni del “teatro del mondo” o riteneva di essere
un uomo di mondo. Ciampoli invece, an cipava a Galileo la posizione de ni va della chiesa, molto
sostenuta da Bellarmino. L’anno dopo ci fu la condanna di Copernico e un severo avver mento rivolto a
Galileo. Il caso venne a dato al padre Guevara, che disse che la do rina del moto della terra non cos tuiva
un pericolo per la fede, quindi non aveva senso condannarla. Guiducci a ermava che la denuncia era stata
formulata alcuni mesi prima: dopo l’elezione al pon cio di Barberini nel 1623. Dopodichè don Benede o
toccò un nuovo argomento: appunto la recente elezione di Barberini. Secondo lui, la modalità u lizzata era
stata troppo severa e rigorosa.

Due anni dopo la triste vicenda della seconda denuncia, si ebbe una svolta tra Galileo e il Marchese Cesi. Le
relazioni epistolari rallentarono, e si pensò che ormai entrambi fossero consapevoli che le loro ricerche
andavano via via separandosi. I referen di Galileo per a ermare la teoria copernicana cambiarono: si passò
a Guiducci e Castelli. Nel 1626 Castelli fu chiamato a Roma dai Barberini, e gli venne o erto di servire la loro
casa. In seguito Castelli riceve e l’incarico di assistere monsignor Corsini nella “visita d’acque” nello stato
della chiesa. Questo rappresentò per lui un successo personale, che lo portò alla pubblicazione del primo
libro “Della Misura delle acque corren ”. Con Barberini al soglio pon cio venne is tuita una
congregazione permanente di cardinali con lo scopo di ges re gli a ari delle acque dello stato della chiesa:
sopra u o porre rimedio alla crisi delle province di Bologna, Ferrara e Ravenna per l’inondazione del ume

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Reno. La nomina di castelli faceva capire che ci si volesse servire della scienza anche per ques oni di
governo. Il tra ato “della misura delle acque corren ” sarà dedicato a Urbano VIII.

Castelli a ermava che la materia della misurazione delle acque corren richiedeva di essere a rontata con il
dovuto ordine, seguendo il metodo geometrico. A una prima parte dell’opera, sarebbe seguita una seconda,
separata, con le vere dimostrazioni. E’ plausibile che sia don benede o e sia questo tra ato fossero sta
in uenza dalla metodologia di Ciampoli. Castelli quindi manifestava non solo il suo debito verso il maestro
Galileo, ma anche verso Ciampoli. Galileo in seguito, volle sondare gli orientamen di Riccardi e Barberini.
Quest’ul mo si mostrava avverso, ritenendo che, dato il moto alla terra, sarebbe necessario che fosse una
stella. Alla pubblicazione dei Massimi sistemi seguì la tempesta che inves Ciampoli, allontanato poi dalla
corte pon cia. Castelli aveva scri o a Galileo insistendo sulla prassi del silenzio. Uomini di chiesa come lui
avevano dato un rinnovamento, un cris anesimo senza maschere. Torrini pensò che l'allontanamento di
Ciampoli da Roma fosse dovuto ai Massimi sistemi, Federica Favino ha invece rilevato la causa dell'eccessiva
libertà nella scri ura dei Brevi, che avrebbe irritato il papa.

Nel Discorso sopra la vista, l'autore dava no zia di una sugges va visione lunare, a ento al gioco della
sintassi e degli e e s lis ci, con una vena discorsiva pica di Galileo. Castelli richiamava una sta e a in
cui i risulta parziali o enu sarebbero sta ripresi dai successori. Buccian ni disse di questa opera, che
avrebbe esteso i con ni della do rina galileiana. Si presentava come un insieme di ipotesi e indirizzi di
ricerca, un modo di losofare. Mentre da Della Filoso a naturale di Ciampoli si evince un un orientamento
socra co. Nel Discorso sopra la vista prevaleva la disposizione gnoseologica di Castelli: vedere con il cervello
signi ca passare da un labirinto mutevole a uno spazio chiaro. Per don benede o il lume dell'intelle o
galileiano superava il lume degli occhi.

Capitolo 4. UNA BURLA RIUSCITA AI DANNI DI UN “GRAN FILOSOFO”. LESSICO E ARTE DI NARRARE IN TRE
LETTERE DI BENEDETTO CASTELLI A GALILEO.

Il 27 giugno del 1637 Benede o Castelli, matema co italiano, scrisse a Galileo. Il matema co accennava
alcune ques oni private che lo angosciavano da molto tempo con leggerezza e umorismo. Il Castelli, con
“gusto”, con nua la sua le era raccontando che un suo scolaro, molto intelligente, il quale gli disse che se
avesse preso un ma one e nto sulla stessa faccia sia di bianco che di nero, e lo avesse esposto al sole per
un’ora, la parte nera risulterebbe più riscaldata. Per don Benede o il fa o rappresentava “uno s le di
pensiero”. Ne “il saggiatore”, Galileo aveva scri o una storia di una curiosità gnoseologica, in cui si racconta
di un uomo solitario, il quale si ridusse a tanta di denza del suo sapere. Quando gli veniva chiesto da dove
provenissero i suoni, rispondeva di sapere alcuni modi, ma che c’è ne sarebbero potu essere altri cento
sconosciu . La morale è che l’unica certezza consiste nella capacità di dubitare.
Ezio Raimondi dubitava che nella le era del Castelli, fosse stato “un giovane scolaro”. Il giovane
sembrerebbe scolaro di “due maestri”. Castelli rappresenta prima Carlo Appiani come un suo giovane
scolaro, assai dotato, con il quale ha elaborato la do rina sul calore, nel secondo passaggio della le era il
“magister” sembra essere Padre Confalonieri. Galileo, invece nel “Saggiatore” parla di un uomo solitario,
come a pre gurare il mito del buon salvataggio, des nato a grande fortuna nel 1700. Appiani, avendo due
insegnan , ha l’opportunitàdi porre a confronto due metodi, due comportamen . La vicenda narrata da
Castelli a Galileo, ironicamente incentrata su coppie seman che, assumerà ben presto una movenza
scenica. Il giovane Appiani propone il quesito sul riscaldamento del ma one a Padre Confaloniero, e
“subito” gli rispose. La parola “subito”, usata dal Castelli, ci fa pensare al fa o che il Padre abbia risposto
senza alcuna ri essione. Padre Confaloniero risponde al giovane ragazzo, con una risposta vaga.
In una le era del giugno 1633, Castelli scrive a Galilei di un episodio avvenuto in una libreria romana dopo
la pubblicazione di “Fialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”. Nella narrazione troviamo Christoph
Scheiner, scienziato gesuita e avversario di Galileo, che viene messo in rilievo da Castelli. Scheiner, nel
racconto, dopo aver le o “Dialogo sui massimi …”, vorrebbe rispondere a Galilei.
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RIASSUNTI DA PAGINA 166 A 195
La riposta del Confaloniero assumeva un valore emblema co. Castelli, descrivendo il comportamento dello
scienziato peripate co, ado ava l’espressione “cominciò ad entrare in un labirinto ” di pseudo
ragionamen . Labirinto è una parola tema ca usata nel Saggiatore. Castelli avrebbe potuto però rilevare
che lo scienziato aristotelico in fondo rendeva ragione solo se stesso. Dopo la le ura del Dialogo in una sua
Le era al maestro, confessava signi ca vamente le sue risa irrefrenabili. Concluse “le grandissime risa” il
regista della burla faceva ricorso a una esperienza concreta.
Castelli considera una so le diale ca tra due parole chiave del lessico galileiano. “esperienza” e “discorso”
e sembrerebbe questa volta che la prima abbia maggiore importanza del discorso. Ma la contrapposizione
tra il “discorso” ed “esperienza “ non è poi da assumersi rigidamente in quanto “discorso” presuppone un
ricercare la verità a raverso la controversia e la di erenza ma anche l’esperienza bene usata, può rientrare
sulla scena della controversia scien ca.
Il lessico evoca una certa atmosfera colloquiale e domes ca di parole pronunciate con apparente bonomia
ma in realtà so lmente ironiche. La parola “faccenda” è intrisa di una domes cità tu a ironica. D’altra
parte il verbo “camminare” usato da Castelli, allude alla procedura peculiare di un metodo. Nella scri ura di
Castelli, il “ballo in maschera” assume una dimensione arguta e comica arrivando a disporre sulla scena lo
stesso “io” del monaco benede no ma come fosse “estraniato”. Nella rappresentazione si coglie una
autoironia so le di Castelli e a un tempo una ironia “terribile” per usare un agge vo del dizionario
manzoniano. Castelli assegna alla visione degli occhi della mente, preminenza rispe o alla esperienza.
Si direbbe che il senso di un di cile dialogo tra giovane scolaro e i vecchi losofo valga la osservazione fa a
in margine al rapporto tra esperienza e discorso per un galileiano l’esperienza doveva essere sorre a da un
discorso per un aristotelico l’esperienza si smarriva invece in un labirinto di innumeri altre esperienze. La
disputa sembra informarsi alle movenze di un duello. Si volga a enzione al lessico: un contendente ha il
“fa o” in mano, l’altro si riduce a “me ere mano alle più alte re so li speculazioni della più recondita
loso a”, ovvero a palloni e bolle d’aria.
Il commento di Castelli nella Le era a Galileo potrebbe far pensare a una celebre pagina che rappresenta
don Abbondio a fronte del cardinal Federigo Borromeo.
Castelli confessava di non ardire di proporre le sue conclusioni, secondo una procedura retorica già ado ata
da Galileo.
Per quanto riguarda la “Ma onata “ di Castelli la metafora teatrale sembrerebbe par colarmente congrua:
quasi che l’allievo intendesse raccontare al maestro Galileo della vicenda del riscaldamento del ma one
recitando.
Castelli nella Le era del 9 agosto dice che “l’intelle o e il cervello di questo losofo” e cioè di padre
Confaloniero, quanto più si mostrava pronto a prestare assenso senza di coltà alle conclusioni false,
avendo subito ammesso che la parte bianca di un ma one si riscaldava più che la parte nera , tanto più si
mostrava res o ad accogliere “la conclusione vera per vera” a questo punto la confuta o svolta dallo
scienziato galileiano si faceva stringente. Quindi Castelli aggiungeva sarcas co che “ a quelli che sanno
mol plicare un numero per un altro, potrebbero per avventura tali cautele parere impresa troppo
laboriosa”.
Il losofo aristotelico era rappresentato come quel naufrago il quale tenta di rare giù in acqua il compagno
che è rimasto su di una za era. Castelli esaminava quindi l’ul ma raccomandazione di cautela pronunciata
da Padre Confaloniero. Qui Castelli usava una espressione in cui Galileo mentre dichiarava di s mare
Apelle-Scheiner come persona di giudizio, in realtà stava dissimulando il proprio profondo risen mento nei
confron dello scienziato austriaco, il quale aveva omesso la no zia della priorità del pisano nella scoperta
delle macchie solari. Castelli ado erà, con signi cato bifronte due immagini, quelle del “labirinto” e del
“pelago”, stringendo i tempi della conclusione : quasi che lo scienziato galileiano temesse di entrare pure lui
in oscuri labirin . La conclusione era ispirata ad arguzia.
Il losofo era rappresentato nel mentre assegnava la ragione per cui si riscaldava la parte nera più della
bianca. Castelli dichiarava di essere incapace di intendere le sue tesi e con ironico e e o di auto-diminuito,
rivelava di aver colto solo l’esito di un gioco di pres gio consistente in una mera tautologia argomenta va,
che lasciava lo scienziato galileiano assai “meravigliato di cosi so le modo di losofare”. La storia che
riguarda il losofo si conclude qui.
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Lo scienziato galileiano stava me endo in scena un gioco paradossale al ne di ironizzare sul rimato che gli
aristotelici conferiscono ai “sensi” nell’ambito di una concezione tu a empirica della scienza. L’ironia di
Castelli faceva intendere che un cieco avrebbe potuto penetrare un fenomeno naturale più di uno “smarrito
e confuso” vedente.
L’osservazione di Castelli era che “allegrezza” poteva “esserci ”solo dopo il dolore, quasi che il dolore
cos tuisse una sorta di velo che occultava l’allegrezza. Don Benede o ,is tuiva una similitudine tra i sogno e
la vita, richiamando un immagine di lunga tradizione culturale e religiosa, della vita come sonno turbato da
tris sogni a tal punto che essa stessa potrebbe essere de nita sogno.
Castelli svolgeva una cauta considerazione intorno alla gioia e al dolore e, signi ca vamente, intorno all’alto
e al basso.
Castelli, propone un signi ca vo paragone tra la vita umana, da un lato, e il teatro comico e la musica
dall’altro, suggeriva che bisognava rendere grazie alla Maestà divina in quanto essa “favorisce” gli uomini
con le tribolazioni.
La “trasgressione” ha termine qui. Essa era stata indo a da una Le era di Castelli a galileo orami cieco, una
Le era nella quale Don Benede o “rimuoveva” il dolore del maestro per la perdita della vista, proponendo
una signi ca va dis nzione tra gli occhi della fronte e gli occhi della mente.
Nelle forme di un autoironia Castelli dichiarava qu una profonda verità.
Scienza galileiana e prassi religiosa sembravano is tuire una relazione.
In una “nuova” Le era, questa volta in terza stesura , Don Benede o osserverà che si sarebbe tra ato di
una presunta trasgressione a una delle regole del buon comportamento e dell’onore.
In una società come quella seicentesca, ossessivamente a enta al codice dell’onore, infrangerlo signi cava
perpetrare un deli o di lesa maestà.
La ques one del “buon termine“ risultava, nella cultura del Seicento, u a ques one di primaria importanza.
Intanto Castelli a ermava subito di aver raccontato il “fa o”, ovvero ges e reazioni dell’aristotelico.
Castelli ado ava un linguaggio secentesca mente iperbolico che contrasta con il suo vero s le di pensiero.
Non si può dimen care che don Benede o era solito usare per la sua prosa una misura s lis ca sobria e
colloquiale.
Castelli si confessava ma il confessore era Galileo, sodale con l’allievo.
Nella sua Le era -tra ato , Castelli, dopo aver dichiarato che , inseguiva le pedate del losofo aristotelico ,
aggiungeva subito che “per certo suo costume” non sapeva “quietarsi in quella brevità rigorosa loso ca ,
che è solita risolvere i quesi , di cilissimi, con due o tre parole solamente.”
Castelli si riferiva al metodo di Padre Confalogniero.
La precisione delle osservazione e dei disegni di Castelli era da Galileo ironicamente contrapposta al metodo
di uno scienziato come Scheiner , il quale ambiva a losofare pure intorno alle assenze delle macchie e
Galileo era sempre contro a ironizzare nei confron di chi presumeva di losofare intorno all’essenza dei
fenomeni naturali.
La nuova narra o che intraprendeva Castelli sarebbe stata volta a rilevare la di erenza tra il proprio metodo
e quello di Padre Confaloniero.
Castelli dichiara di voler seguire le pedate del losofo aristotelico , e punta sulla narra o di un episodio
vicino nel tempo presentato come “occasionale”.
Il personaggio-sponda, è nella terza relazione della Le era ha Galileo, un fanciullo “di spirito e di genio
vivacissimo e curiosissimo“
L’approssimarsi di un fanciullo e osservare allo spe acolo di una processione e il suo rivolgere l’a enzione
ad uno strano ma one è la scena che viene rappresentata.
Una nuova scena prende avvio dalla “meraviglia” di don Benede o.
La pedagogia di Castelli puntava sul fa o che il giovane marchese non “si quietava” e corrispondeva
esa amente al paradigma enunciato da Castelli quando voleva rilevare una di erenza tra il proprio metodo
e quello di Padre Confalonierio.
Viene rappresentata una commedia degli sguardi e degli occhi che interrogano. Infa il piccolo marchese,
“quasi chiedendo aiuto , voltava gli occhi verso il suo maestro”.

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La commedia loso ca aveva visto come protagonis don Benede o, un fanciullo e l’is tutore di
quest’ul mo. Durante tale commedia, don Benede o aveva sviluppato il suo “discorso” analogicamente,
secondo un procedimento che restava peculiare della nuova scienza; l’is tutore era stato uno spe atore,
spesso muto; il fanciullo, invece, avrà avuto l’impressione (giusta) di aver risolto il quesito, rela vo al
riscaldamento del ma one, ragionando autonomamente.
CAPITOLO QUINTO
TRA OPPOSIZIONI E APOLOGIE. BENEDETTO CASTELLI AUTORE DI SCRITTURE SULLA LAGUNA DI VENEZIA
Il 15 giugno 1641, Benede o Castelli – monaco benede no bresciano, probabilmente a quella data l’allievo
più noto di Galileo – scriveva a Taddeo Barberini informandolo che aveva realizzato un’opera (Considerazioni
intorno alla Laguna di Venezia) a par re da un “parere” in merito alla situazione che minacciava l’equilibrio
ambientale della Laguna, a lui chiesto da esponen autorevoli del Senato della Repubblica veneta. Ma la
parte più importante della Le era riguardava le contrastan reazioni del Collegio senatoriale di fronte alle
Considerazioni. Infa , alcuni senatori rimasero molto soddisfa , altri, invece, percepirono la durezza del
pensiero di Castelli. Quest’ul mo, infa , riteneva che la Laguna fosse minacciata da una “rovina
irreparabile” e che nessun rimedio poteva “rendere assolutamente immutabile ed eterno lo stato delle
cose”, in quanto tu o ciò che ha avuto un principio “dee ancora necessariamente il suo ne”. Più
precisamente, Castelli cri cava un proge o sostenuto da numerosi ingegneri, da esper e sopra u o da
non pochi senatori, ovvero il proge o di deviazione dalla Laguna del ume Sile e di altri corsi d’acqua
minori. Secondo lo scienziato bresciano, qualora tale proge o fosse stato approvato, avrebbe senza dubbio
provocato la totale rovina della Laguna di Venezia. Castelli, infa , aveva dedo o che la precedente
deviazione della Brenta fuori dalla Laguna era stato un errore che, in quanto tale, non poteva assolutamente
essere replicato. In un altro passaggio delle Considerazioni, Castelli dimostrava di essere consapevole di
andare contro opinioni consolidate nel tempo, ma, allo stesso tempo, egli a ermava il proprio diri o a una
libertà di pensiero in merito alla ques one lagunare. Tu avia, dalla Le era a Taddeo Barberini emerge uno
spirito o mis co da parte di Castelli, lo stesso spirito che guidò Galileo dopo la pubblicazione del Sidereus
Nuncius. Castelli, cioè, dimostra di essere ducioso del fa o che il suo pensiero a proposito della ques one
lagunare avrebbe a rato mol senatori ed esper già sce ci o addiri ura os li. Tu avia, oltre il suo
pres gio nel campo degli studi di idrodinamica, bisogna considerare il fa o che Castelli avesse una scarsa
conoscenza delle acque marine e lagunari. Ciò che appare lampante, invece, è l’uso, da parte dello
scienziato galileiano, di un linguaggio di segno “apocali co” riguardo la situazione ambientale veneta, con
espressioni come “rovine immense”, “disordine” e “grandissimi danni”; inoltre, tale linguaggio dava prova
della scomparsa dello scienziato mite, accorto e prudente, quale Castelli si era sempre dimostrato,
sopra u o nei momen di cili.
Successivamente Castelli scrisse una Seconda Parte aggiunta alle Considerazioni. Dall’incipit di tale scri ura
si evinceva un volto spesso dissimulato della “nuova scienza”, ovvero il volto “aristocra co” per il quale la
verità è una scoperta di pochi. Inoltre, sempre in questa Seconda Parte, Castelli esprimeva, da un lato, il suo
disappunto per l’a eggiamento dei mol senatori che, senza nemmeno ascoltare le sue parole, gli si
voltarono contro duramente, e dall’altro, la sua consolazione nel vedere i pochi senatori che decisero di
ascoltarlo, o si convinsero della fondatezza del suo pensiero o, almeno, sospesero il loro giudizio. E proprio a
uno dei “pochi”, il senatore Giovanni Basadonna, Castelli indirizzò una nuova scri ura: Discorso sopra la
Laguna. Quest’opera sembrava ripetere l’esordio del Saggiatore galileiano proponendo un excursus
autobiogra co, nel quale Castelli raccontava di essersi impegnato in diverse imprese in materia di acque e di
essersi avvalso, in tale ambito, proprio delle sue conoscenze geometriche e loso che; ma sopra u o
Castelli aggiungeva che quelle imprese erano sempre riuscite nel migliore dei modi. Dopo questa sequenza
autobiogra ca il Discorso proseguiva con una ri essione sulla polarità tra la teoria matema ca dei pochi
intenden , e la pra ca e l’esperienza di ingegneri ed esper privi di competenze matema che. Più
precisamente, Castelli denunciava il fa o che il mo vo per cui veniva escluso dalle ques oni veneziane, era
sempre e soltanto la sua mancanza di pra ca. A tal proposito la risposta dello scienziato era semplice e
dire a: ciò che era vero in teoria (matema ca) lo era anche in pra ca (ingegneria). Lo scienziato galileiano,
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dunque, polemizzava contro la gente comune, ma sopra u o contro gli esper , gli ingegneri e i loso dal
momento che essi credevano che le verità matema che fossero vere soltanto in astra o e non in concreto.
E le opposizioni al pensiero di Castelli in merito alla ques one lagunare, derivan dalla s ducia nella valenza
della matema ca applicata alla pra ca, avvenivano, secondo Castelli, o per ignoranza, o per interesse, o,
peggio ancora, per malignità o invidia. Quanto allo s le, invece, nel Discorso sopra la Laguna sembrano
riecheggiare le cara eris che della prosa di Galileo dal momento che, oltre alla semplicità e alla chiarezza,
vi è l’uso del tono colloquiale, del paradosso, del sarcasmo e della boutade scherzosa, tu e gure s lis che
che si allontanano dall’ogge vità richiesta dal discorso scien co.
Il 27 agosto 1642 Castelli inviava nuovamente una Le era a Taddeo Barberini in cui dava l’impressione di
chiudere simbolicamente l’intera vicenda delle sue inves gazioni sui problemi ambientali della Laguna.
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Da pagina 226 a 257

Raimondi rileva che l’interpretazione matematica aveva il fine di proporre una nuova fedeltà alle cose A cui si
associava poi, insieme alla curiosità artigianale dell’esperimento, una nuova forma di stupore. Il paradosso di
Whitehead aggiungeva che solo il contatto sistematico e paziente col mondo degli oggetti, può dar luogo al suo
potere di astrazione e al meccanismo della teoria. Galileo aveva mostrato come fosse possibile, nella prosa della
scienza, unire la precisione analitica dell’intelletto, al gusto di una civile conversazione; veniva assunto dei suoi allievi
come un modello.
Galileo ha un ruolo nella riabilitazione dell’impulso a una curiosità Conoscitiva. quindi la curiosità definisce la
condizione originaria dello spirito scientifico che sgorga dallo stupore dinanzi al nuovo. Raimondi ricordava che
Cesare ripa, nel codificare in immagine il paradigma aristotelico dello stupore, avvertiva che la figura corrispondente
si rappresenta giovane, perciò il meravigliarsi E tipico dei giovani, non essendo ancora in loro esperienza. Nella prosa
di Galileo, lo scienziato, come il curioso, avverte se stesso come un Socrate moderno che dal suo stesso sapere
apprende l’etica della modestia. Quando si ricostruisce un’esperienza e la si traduce nella scrittura, ciò che ne deriva
è una descrizione che segue il fenomeno in tutti i suoi momenti. Raimondi rileva che se si dovesse distinguere una
pagina del seicento di tipo scientifico da un capitolo letterario in cui la scienza vale come un pretesto, bisognerebbe
puntare sull’elemento della visione dinamica oltre che sul principio dell’esattezza per riconoscere una prosa che
risalga a una mentalità sperimentale. A tal proposito, Raimondi suggerisce che si potrebbe scegliere una pagina
tecnica del Torricelli, dagli scritti sulla bonifica di Val di Chiana, il cui fine escluderebbe ogni indugio decorativo anche
dove vi si descrive il paesaggio. Se infatti occorre rappresentare un luogo, sarà prima di tutto uno spazio da
sottoporre alla misura, in modo che non discendano errori di ragionamento e di giudizio. Torricelli descrive un luogo
nei suoi termini essenziali. Si potrebbe usare la sua descrizione come una mappa in cui la parola vuole adeguarsi alla
realtà. Raimondi osserva che, se lo studio della natura esige un occhio mentale che sappia trascrivere fedelmente
forme strutture di oggetti e degli organismi, il disegno e insieme una premessa di ogni osservazione e procede di pari
passo col discorso descrittivo del ricercatore. Gli uomini dell’Accademia dei lincei, si preoccupano di avere a
disposizione o di formare gli illustratori dei ritrattisti capaci di registrare esattamente le immagini delle cose.
L’epistolario Linceo, cioè la raccolta delle lettere tra gli accademici, è ricco di testimonianze. Quindi la sensibilità
visiva è alla base del paradigma Linceo.

In mancanza di conoscenze sull’educazione ricevuta dal Cesi in gioventù, Sugli studi da lui compiuti e sugli ambienti
frequentati, sarebbe possibile tentare ugualmente una ricostruzione basandosi sulla documentazione posteriore alla
fondazione dell’Accademia romana.
Quindi alla base del progetto accademico era una fiducia illimitata nella ricerca scientifica e nei risultati da essa
prodotti. Cesi Doveva avere un’attenzione e una predilizione particolari per il pensiero di Giusto Lipsio, Dal momento
che tutte le opere di quest’ultimo Erano presenti nella sua biblioteca

Intersezioni tra arti figurative, letteratura e nuova scienza.


Un libro di Dalma Frascarelli, propone delle tesi critiche che risultano di interesse non solo per gli studiosi di arte
figurative, ma anche per gli storici della nuova scienza, come la cultura del barocco.l’autrice, prendendo le mosse
dalla nozione di libertinismo, segnala l’opportunità - in virtù di un insieme di studi sull’argomento- di superare il
libertinismo legato al suo aspetto religioso, ma di considerare invece il termine plurale applicando a diversi ambiti.
La Frascarelli lasciandosi alle spalle un noto giudizio di Benedetto croce, il quale riteneva l’Italia cattolica un paese
poco propenso a raccogliere idee libertine. Accademia consentono la trasmissione delle idee nuove in forma
protetta. L’oralità era il mezzo principale di comunicazione e discorsi che si tenevano erano capolavori di
dissimulazione nel corso dei quali si mascheravano contenuti eversivi nell’ambito di temi apparentemente innocui,
Come per esempio l’arte del ridere. Vi erano poi i discorsi accademici su altri argomenti: per esempio intorno alla
maggiore importanza della virtù o della fortuna; questo significava ammettere implicitamente la non plausibilità di
una verità assoluta. Soprattutto le quadrerie della dimora gentilizia potevano disporsi come luoghi di trasmissione di
idee nuove e toste estive. Castiglione dichiarava che per lui i quadri erano libri aperti nei quali imparava a vivere da
uomo. Poussin, Pietro Testa, E molti altri artisti e collezionisti del loro secolo, andarono alla ricerca di figure ed
episodi della storia e soprattutto della filosofia antica, Al fine di individuare dei modelli morali alternativi a quelli
religiosi della cultura contro riformistica, e inaugurando un filone pittorico ancora oggi frequentato in Italia dagli
stessi storici dell’arte. Ma in Italia vi sarebbero state, tra gli storici dell’arte, eccezioni. Per esempio si evincerebbe
che Aristotele e Platone avrebbero trovato uno spazio ridotto nella pittura seicentesca rispetto a Democrito e
Eraclito. Un quadro di caroselli, rappresenta la vanità ed è visibile in una sala di palazzo Barberini. Qui non appare
Democrito, ma una donna che ride sguaiatamente e sembra folle esibendo un foglio sul quale si possono leggere le
parole delle ecclesiaste vanitas vanitatum, omnia vanitas. Nella scia della diffusione della filosofia democritea ed
epicurea, appare significativo un evento editoriale. Nel 1647 il medico toscano Giovanni nardi, pubblicava
un’edizione illustrata del De rerum natura, Caratterizzata dal collegamento delle teorie Lucreziane con le
investigazioni scientifiche del tempo. Raimondi è noto per la bellissima collezione di disegni del corpo archeologico
romano che dice costruire da un’équipe di artisti. Dei temi discussi nelle adunanze ispirate a un culto della natura
nella sua verità e semplicità, era partecipe anche Maffieo Barberini, il futuro Papa urbano VIII. Un orientamento di
pensiero che faceva riferimento a modelli filosofici dell’attività soprattutto l’epicureismo e lo specialissimo,
contribuiva a dare un forte credito alla funzione dei sensi in particolare alla vista. Negli ultimi 10 anni del seicento, il
marchese Federico Cesi, vuole dedicare la sua accademia scientifica alla lince che è è un animale legato al celebre
dipinto fuga in Egitto, di Adam Elsheimer. Un anno prima della pubblicazione del Sidereus Nuncius , Il pittore tedesco
nel suo dipinto raffigurava la luna con le macchie, è la via Lattea: il pittore infatti potè usare il cannocchiale,
probabilmente costruito gia nel 1609 da Federico Cesi. Una raffinato uso delle immagini e doveva caratterizzare
impresa culturali promosse dagli accademici.
Gli episodi riguardanti la vita interna dei lincei, danno conferma di una nuova arte del vedere, Che si è sviluppata in
virtù di strumenti nuovi come il cannocchiale e il microscopio. La rappresentazione delle immagini osservate
attraverso questi due strumenti, apriva le porte a universi sconosciuti. Dietro quelle osservazioni si nascondeva una
curiosità censurabile, come quella di Galilei sul sistema del mondo. Si trattava delle domande sull’origine della vita e
dell’universo. In ambito letterario si erano registrati in Italia e in Europa opere il cui solo titolo risultava emblematico,
come per esempio il mondo Creato, di T. Tasso.

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