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Al confine del cielo

REINHOLD MESSNER
15 Agosto, 2021

La montagna ha quattro dimensioni: oltre alle tre coordinate cartesiane anche una
quarta, che è quella delle nostre emozioni. Non è soltanto una percezione mia, è una
realtà. E sono due le parti del territorio montano da considerare: quella fino a 2.000
metri di altitudine, che coincide con la terra lavorata e con la storia dell’uomo salito
fino a quella quota già ottomila anni fa, e quella che va fino al confine del cielo, più o
meno selvaggia. E proprio in questa fino a 250 anni fa l’uomo non andava, non era così
sciocco dal farlo, perché non sapeva che farsene di terre alte e senza frutto, non
aveva nessun motivo per rischiare di finire in un crepaccio d’un ghiacciaio o di
prendere un sasso in testa sotto un muro di roccia.
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OK disagevoli e dall’altro i turisti che in questi posti trascorrono parte del
loro tempo libero. Io sono montanaro e alpinista, ma ora sono più che altro
montanaro. Ho masi in montagna e so una volta di più quanto sia difficile poter
sopravvivere coltivando queste terre, allevando bestiame in queste aree.

Le mete del turismo coincidono con la parte della montagna antropizzata. I


montanari hanno imparato nei secoli a convivere con un ambiente complesso, a volte
ostile. Campi e boschi e da tempo immemorabile anche sentieri che percorrono
versanti, raggiungono i luoghi di pascolo. È, appunto, il paesaggio, quello plasmato
dall’uomo, mantenuto per poter avere il necessario per la vita.

Il 90 per cento del turismo si concentra in questo paesaggio; fa parte del restante
dieci per cento chi raggiunge gli ultimi pascoli, il limite della vegetazione e l’esigua
minoranza di chi affronta le vie alpinistiche. Sento dire che l’alpinismo è in grande
crescita e che oggi gli scalatori sono molti di più d’un tempo. Considerazione
generica e soprattutto falsa. Quando ero giovane e salivo le vie dolomitiche di grande
impegno, per esempio nel gruppo del Civetta, non c’era fine settimana di luglio o
agosto in cui non incontrassi almeno dieci cordate impegnate sulle vie classiche. Oggi
se ne conta una al mese.

Parlo di alpinismo, cioè di salite su pareti di montagne non addomesticate, non


bisogna confonderle con le falesie cariche di spit, di assicurazioni e nemmeno con le
ferrate. I club alpini in genere vogliono che la gente sia il più possibile in sicurezza,
arrampicare ma senza la possibilità di caduta. Sia chiaro, questo è un diritto, ma non
fa parte della wilderness, ma non è la montagna dell’alpinismo. Se togli la gravità, la
montagna diventa un’altra cosa.

Se parliamo di aumento di frequentatori della montagna facciamo, per esempio,


riferimento a coloro che scelgono le falesie, dove, appunto, non ti importa della
gravità: la sua forza ti costringe alla fatica per liberartene, ma i chiodi o l’attrezzatura
delle ferrate evitano che ti trascini nel vuoto. Vie chiodate e ferrate sono aumentate e
tutto ciò mi induce allo scetticismo, perché alla fine in questo modo la montagna
perde gran parte del suo fascino.

Pensiamo a quanto accade in Himalaya. Sull’Everest, la montagna più alta del pianeta,
ci sono vie preparate per salire, quelle che io definisco piste. Servono al turismo d’alta
quota, per portare il più possibile gente. Ci sono giorni che si contano trecento
persone in fila, lungo le corde fisse, neanche al rifugio Torino sul Monte Bianco se ne
possono contare tante.

Non è più una montagna, ma un terreno di gioco e di ambizione per chi non è capace
di salire da solo. Seguono tutti una pista preparata fino alla cima. L’alpinista, al
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Allora, ancora una volta, facciamo una divisione: da una parte i turisti, dall’altra gli
alpinisti. Non sto né condannando, né osannando questi o quelli, sto soltanto
esaminando un fenomeno di cui occorre avere consapevolezza. Se il «gioco» in atto
sull’Everest avvenisse su tutte le montagne sarebbe una sciagura ambientale.

Tornando alla contrapposizione duale, è un errore voler addomesticare la zona


selvaggia, non coltivata né pascolata, così come è grave l’abbandono delle zone che
possono essere coltivate. Il turismo è l’economia portante nelle Alpi. Ma non bisogna
ridurre o addirittura tentare di far scomparire le terre più selvagge e non soltanto a
favore di chi ancora pratica l’alpinismo, ma anche per chi può goderne la bellezza
percorrendola nei tratti più agevoli o anche semplicemente guardandola.

L’abbandono di campi, il degrado di malghe e villaggi, allo stesso modo, respinge il


turismo. C’è necessità di un equilibrio: puoi vendere la vacanza in montagna con la
somma dei due ambienti, mantenendo l’agricoltura di montagna e non aggredendo le
terre selvagge. Se vedo una malga lasciata andare, penso a un degrado generale, così
come se vedessi la wilderness con strade o costruzioni penserei a un fascino ferito.
Questione di sintonia.

In Sud Tirolo l’abbandono della montagna coltivata è stato evitato grazie al maso
chiuso, cioè non dividendo l’unità, quindi l’efficienza di un’azienda, ma è sempre
presente il pericolo di cambiare una vita che presuppone un grande e faticoso lavoro
per mantenere campi e stalle. E certo in questa fascia montana ci devono essere
strutture, partenze di funivie, alberghi, ristoranti, servizi insomma. Proprio perché è
la zona antropizzata. Spostando lo sguardo più in alto, però, bisogna pensare a far
godere della montagna. Non è pensabile essere inseguiti da ciò che fuggi, cioè dalla
città. Una fuga intesa come incontro con la natura, con un ambiente d’aria pura in cui
è fondamentale camminare.

La montagna non coltivata, quella dove incontri i sentieri dei cervi, le tracce dei
camosci, per essere goduta ha necessità di essere sentita appieno. E la velocità per
poterlo fare è quella del camminare, non del viaggiare in auto. Ci vuole silenzio e
tranquillità. Non devi incontrare ciò che hai lasciato in città, la puzza di scarichi, il
rumore dei motori. Altrimenti ti senti come in città con un paesaggio diverso.

Oltre l’ultimo villaggio, più in alto, qualsiasi forma di locomozione che non siano i
nostri piedi deve essere esclusa. Il limite è quello delle aree antropizzate. Dove l’uomo
vive e lavora sia per coltivare la terra sia per i servizi del turismo ci deve essere
accoglienza. Oltre c’è la natura dove l’uomo può incontrare la montagna e scalarla.
(Testo raccolto da

Enrico Martinet)
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