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I GUERRIERI ASTRATTI DI RAZZA PIAVE

Sentieri di una terra impossibile: il meglio di VenetoBlog

1. Qui non accade mai nulla


8/8/2002

Meno di trentamila abitanti. Vittorio Veneto è così da quando era bambino,


trent'anni fa : sempre ferma a meno di trentamila. La chiamo L'ultima frontiera
ai piedi delle Alpi, perchè appena cinque chilometri più a sud è un altro
universo, lo stesso che si legge sui giornali quando gli analisti spiegano il
"miracolo" dei 95 comuni del trevigiano con oltre 350 aree industriali. Qui
invece è tutto fermo. Forse sono i monti che le coprono le spalle a fare da
barriera. La giunta leghista, insediata dalle precedenti amministrative, si è
messa in testa di modernizzarla. Così ha cominciato ad asfaltare e a giocare
con la viabilità. Nel lungo senso unico che percorre le due vie principali della
cittadina ha creato una specie di circuito e adesso il traffico si ingolfa - appena
un po' - solo fino alle otto e mezza di mattina. Come prima. In fondo, anche se
ci hanno modernizzati, restiamo sempre fermi a meno di trentamila.

A Vittorio Veneto non accade mai niente. Non lo dico io che ci abito, ma il
fumettista serbo Aleksandar Zograf che nel suo "Saluti dalla Serbia" scrive :
"Non abbiamo resistito e siamo tornati a Vittorio Veneto, un posto meraviglioso
dove in realtà non accade mai nulla. Lo so che forse i miei lettori si
innervosiranno perché nei miei fumetti parlo sempre tanto del 'non fare nulla'.
Ma ricordate : non fare nulla a Vittorio Veneto è un'arte".

Certe volte d'estate, per provare una botta di vita, mi infilo in qualche sagra
paesana di cui sono piene le colline intorno. Mi piace guardare Giovanna o
Samantha o Luana (tutte con dei bei nomi che c'hanno gli zatteroni e le tette
grosse solo a pronunciarli) e le loro orchestre romagnole imitare i soliti refrain
di Casadei. Mi piace soprattutto osservare il popolo della polenta e del rosso
mentre smaltisce la cena in pista.

Qualche sera fa ho incrociato lo sguardo di Ernesto, uno che conosco di vista, o


quasi, da un sacco di tempo. Chissà se mi ha riconosciuto.

Ernesto deve averne passate parecchie. Con il suo sguardo lesso da tanguero
stanco, la sigaretta sempre miracolosamente in equilibrio all'angolo della
bocca, il capello impomatato dalla nascita, pare faccia ancora una vittima ad
ogni casché. Invischiato nell'affollato girotondo dei valzer, si muove sempre
con passo felpato e non diresti che ha superato la settantina. Ad ogni giro
cambia partner e sono ancora in molte ad aspettare il proprio turno. Lui le
conquista con il mistero del ballo e lo sguardo assassino sopra il baffo da
pampero trevigiano.
Ernesto l'ho conosciuto parecchi anni fa. Collaboravo con l'assistente sociale
del comune e insieme facevamo visita ai suoi assistiti. In una viuzza laterale
ancora più immobile del centro città, siamo entrati in una casetta grigia, una
costruzione anonima anni sessanta o settanta. Sul divano era stesa Rosa.
Viola. Dappertutto. Ricordo che distinguevo sulla pelle semicoperta da un
vestitino con dei fiori gialli, al massimo una o due chiazze chiare. Il resto era di
un blu violaceo uniforme.

- Chi ti ha picchiata così ? -


- Lui e i miei figli - ci disse indicando l'uomo che silenzioso fumava all'altro lato
della stanza. Lui, incrociando i nostri sguardi, non modificò per nulla
l'espressione del viso, solo, con un gesto lento, spostò la sigaretta da un
angolo all'altro della bocca. Un leggero tremore della mano sembrò tradire un
movimento nervoso. Ma è stato solo un attimo perchè qui, a Vittorio Veneto,
non accade mai nulla.

2. Il camping sotto il mare


12/8/2002

a. A dare ascolto alle riviste di viaggi e turismo, l'Italia altro non sarebbe che
un'oasi di 300.000 kmq di paesaggi mozzafiato, monumenti unici al mondo,
spiagge incontaminate.

b. La traversata del deserto per raggiungere queste foto su carta patinata è


invece affidata ad Onda Verde, a cura del Cis - Viaggiare informati.

c. Mai dimenticare a casa guide e depliant del bengodi che ci attende all'arrivo,
nelle ore di attesa in coda a sezionare i bulloni del guard rail o ad osservare il
panorama del Tir mozzafiato (per via degli scarichi) nella carreggiata a fianco,
sono letture rasserenanti da praticare in alternativa allo yoga.

Tesi, antitesi e sintesi. Il problema - almeno così pensavo fino a pochi giorni fa
- è che inseguiamo in massa il turismo d'élite, quello morbidamente new age
ed ecologically correct, indifferenti ad ogni contraddizione, convinti come siamo
che la nostra scelta personale sarà la sintesi perfetta almeno per i quindici
giorni che servono.

Il campo dei girasoli. Un mese fa, la mia panettiera ha stravolto queste


convinzioni così insopportabilmente radical-chic quando, senza nessun
imbarazzo a dire il vero, mi ha confessato di frequentare da almeno vent'anni
la stessa spiaggia di Caorle, un posto dove gli ombrelloni hanno la densità di
un campo di girasoli. - Mi piace stare in mezzo a tutta quella gente, osservare i
vicini d'ombrellone, ascoltare i loro discorsi, sapere che musica preferiscono...
- Ma hanno la radio, mica scelgono loro la musica ! - Sì, ma telefonano con il
cellulare per le dediche. - Mmmmm - E poi non nuoto. Mi basta il mio
fazzolettino di mare per rinfrescarmi ogni tanto. Sai, a me piace fare la
lucertola !
Da allora sono cominciate, sempre più frequenti, le mie crisi e quella domanda
che mi intossica il cervello : perchè, se non tutti sono come me, anzi molti
sono come lei, nelle spiagge incontaminate siamo sempre in cinquantamila ?

Il mistero s'infittisce. Pochi giorni dopo sono finito a Sottomarina di Chioggia.


Forse qui la marina si dice "sotto" perchè ci arrivi scendendo da un cavalcavia
che si impenna in curva per poi lanciarsi direttamente tra i palazzoni del viale
principale, un bello stradone a doppio senso di marcia con un'aiuola minuscola
a far da infradito. Al secondo semaforo, tra la pellicceria e la banca, si gira a
destra verso la zona dei campeggi. Dopo qualche centinaio di metri, i palazzoni
cedono in altezza fino a scomparire, lasciando il posto ad una decina di
camping uno dopo l'altro. Ci fermiamo all'ultimo : l'Oasi (si chiama proprio
così). Tra il parcheggio auto, quello dei natanti e una canaletta di scolo di
natura imprecisata con il classico topone da cartolina che si guadagna il suo
posto al sole, si entra nel campeggio, anzi nella roulottopoli.

Gli ex carrozzoni trasformati in casette dotate di ogni comfort, sono tutti


stanziali, piazzati lì a far le quattro stagioni. Alcuni sono addirittura senza
targa. In compenso quasi tutte le auto hanno una sigla unica : Padova.
Sottomarina è la piscina vista mare dei padovani. Non è un modo di dire. E'
proprio la piscina, perchè al mare c'è il divieto di balneazione. In quella zona
scaricano i loro liquami le pattumiere di tutto il nord, il Brenta e, poco più a
sud, l'Adige e il Po. Dicono che i cartelli col divieto vengono rimossi
regolarmente dai proprietari degli stabilimenti perchè tanto lo sanno tutti che il
bagno non si può fare (anche se molti lo fanno lo stesso). Ma che importa ? A
Padova sanno anche che i medici di base consigliano ai loro pazienti quest'aria,
ricca di iodio. Qui non ci sono turisti, ma solo traghettatori del weekend lungo
(anche due mesi). Ci facciamo largo tra le roulotte incollate una all'altra in
mezzo ad un giungla di paraboliche, verande e barbecue, lanciando solo
un'occhiata alla piscina con una fila in attesa al trampolino degna della
tangenziale di Mestre.

In spiaggia, spossati, ci abbandoniamo sulle sdraio sotto l'ombrellone. Sarà che


è mezzogiorno, ma qui non c'è una bava di vento e fa un caldo africano.
Dicono che di solito tira sempre una bella arietta, ma va a capire cosa significa
"arietta" per gente abituata ad inverni con una nebbia da tagliare col coltello e
ad estati con un'afa mozzafiato (ancora !).

La spiaggia è proprio come nella realtà : non manca neppure il solito coloured
che passa tra gli ombrelloni a vendere collanine e asciugamani. Sotto quel
solleone avrà anche lui un caldo bestia e per placare il senso di colpa generato
dalle mie continue lamentazioni, gli compro un paio di braccialetti.

Una conclusione del tutto provvisoria. Non ce la faccio proprio più, sul giornale
leggo il resoconto dell'ultima partenza intelligente dei dieci milioni in 24 ore. Mi
giro e rigiro sulla sdraio per cercare di capire dove sbaglio io, dove sbagliano
quelli come me e anche quelli che non sono come me. Concludo che vorrei
essere come tutti quelli dell'ombrellonopoli intorno, e basta. Ma alla fine, la
stanchezza ha la meglio e cedo al sonno sperando che, prima o poi, passi
quello del cocco.

3. Un lampo accecante, un pauroso boato


15/8/2002

Risalendo quell'incisione ruvida nella terra che è la Val di Susa, così


drammatica e lontana rispetto alla morbida ouverture prealpina delle colline
che abito, ho trovato qualcosa anche mio.

Luigi, faccia rugosa da montanaro senza compromessi, guarda sconsolato il


letto sfatto del torrente che fiancheggia Fenils, una minuscola frazione
aggrappata alla montagna a pochi chilometri da Cesana Torinese. Le piene di
due anni fa hanno lasciato cicatrici profonde. Io e Luigi ci siamo salutati
appena per giorni, poi, per caso, ho tirato fuori la parola magica.

- E' che la montagna non viene più curata - bestemmia - Su in alto, nei pascoli
senza bestie, l'erba cresce alta e nessuno si preoccupa di tagliarla. E quando
piove si piega e sembra asfalto, e il terreno diventa impermeabile. L'acqua
scorre, scende a valle, s'ingrossa, travolge tutto. Io, agli esperti che vengono
qui quando c'è l'emergenza, gli darei la falce in mano - dice senza sorridere.

- Sì, ho fatto anch'io come tutti. Negli anni '60 me ne sono andato ad Ivrea a
lavorare. Si stava bene, eh ! Non è mica che non mi piacessero tutti quei soldi
che mi giravano per le tasche, ma insomma, mi mancava l'aria, ecco. Tanti poi
sono rimasti lì, tornano a trovarmi d'estate per le vacanze, ma io sono
rientrato quasi subito. Ma di', tu di dove sei ?

Ah, veneto. Bel posto il Veneto. C'ho fatto il viaggio di nozze nel '63. Con la
Cinquecento di mio cugino siamo partiti da qui. Che viaggio, va là. Ma bello, eh
! Ci credi ? Ci siamo fermati in una pensioncina vicino a Longarone. La notte
prima. Ma a mia moglie non piaceva quel posto. C'era un'aria strana. Non dico
un presentimento, perchè è facile dirlo adesso.... Ma insomma siamo venuti via
quella mattina. Poi, la sera, lo sai, no ? Il Vajont..."

Adesso la parola magica l'ha tirata fuori Luigi.

E' che qui, un novello crociato come il deputato veronese Bricolo che vuole i
crocefissi in ogni aula e gli arabi fuori dall'Europa, o i Serenissimi che occupano
il "loro" campanile di San Marco, ti fanno passare la voglia di memoria. I
leghisti usano la storia come una spada. Invece il passato è un ponte, luogo di
passaggio e congiunzione tra sponde diverse bagnate dallo stesso fiume.
Basterebbe chiederlo ai veneziani, che lo sanno. Treviso è la provincia più
leghista d'Italia : alle elezioni del maggio scorso i seguaci locali del dio Po
correvano da soli. Al primo turno hanno racimolato il 44% per poi passare
trionfalmente al ballottaggio. Visto da questa riva, il veneto è davvero cosa
loro.
Non il Vajont.

Sarà che la tragedia della diga è un ricordo un po' "rosso", perchè L'Unità,
grazie al coraggio della giornalista bellunese Tina Merlin, fu l'unica a
denunciare quello che stava accadendo, i soprusi e le bugie della società
veneziana SADE, titolare della gestione della diga, che portarono al disastro del
9 ottobre 1963.

La Merlin, anni dopo, scrisse anche un libro imperdibile : Sulla pelle viva. Come
si costruisce una catastrofe. Dimenticato da troppi per anni, sconosciuto alle
giovani generazioni, il caso del Vajont - dramma dell'arroganza del potere,
dell'assenza di ogni regola (che oggi viene riproposta in versione anglofona),
della brama del guadagno ad ogni costo - è stato dissepolto nel '93
dall'indimenticabile monologo teatrale di Marco Paolini e, più di recente, dal
controverso film di Renzo Martinelli.

"Inizia l'ultimo giorno. Il 9 ottobre 1963 è una stupenda giornata di sole. Di


questa stagione la montagna è splendida, rifulge di caldi colori autunnali. La
gente di Casso va e viene ancora dal Toc, portando via dalle case e dagli
stavoli più cose possibili. Ma altra gente non vuole abbandonare le case e i beni
malgrado l'avviso fatto affiggere dal Comune, pressato dalle richiese
provenienti dal cantiere...(Viene la sera) e la gente, adesso, è tutta nei bar a
vedere la televisione. Sono ancora pochissimi i televisori privati, e in
eurovisione c'è la partita di calcio Real Madrid-Rangers di Glasgow. Due
squadre molto forti, una partita da non perdere. E infatti molta gente è scesa
dalle frazioni a Longarone, e anche da altri paesi della valle, per godersi lo
spettacolo nei bar. La gente si diverte, discute, scommette sulla squadra
vincente. Sono le 22,39. Un lampo accecante, un pauroso boato. Il Toc frana
nel lago sollevando una paurosa ondata d'acqua. Questa si alza terribile
centinaia di metri sopra la diga, tracima, piomba di schianto sull'abitato di
Longarone, spazzandolo via dalla faccia della terra. A monte della diga un'altra
ondata impazzisce violenta da un lato all'altro della valle, risucchiando dentro il
lago i villaggi di San Martino e Spesse. La storia del "grande Vajont", durata
vent'anni, si conclude in tre minuti di apocalisse, con l'olocausto di duemila
vittime" Tina Merlin : Sulla pelle viva - Cierre Edizioni.

Chissà se il leghisti che oggi occupano tante poltrone nell'odiata Roma si


ricordano mai, nelle loro adunate paraceltiche, del tempo in cui anche Venezia
era "ladrona" ?
4. Graciela
19/8/2002

Lucio traduce lo spagnolo della cugina :

- Sono venuta qui perchè non ho più niente e soprattutto, nessuna speranza.
Lo faccio per i miei figli - ne ho tre -, voglio che vengano in Italia, loro devono
avere un futuro. Non è solo per via della crisi economica; certo, quella conta
moltissimo... Ma anche il domani non sarà meglio : quello che viviamo oggi è il
risultato del golpe del '76. Lo stiamo ancora pagando. Chissà per quanto
ancora. Hanno ucciso tutti i migliori, i più carismatici, i più intelligenti, quelli
che oggi, forse, potrebbero darci un po' di speranza. Lo hanno fatto in maniera
chirurgica, sai ? Tutti insieme, esercito, polizia, marina, servizi segreti, con agli
americani. Li prendevano uno ad uno. E' stato un massacro. I politici di oggi
sono i servi di allora. Saranno servi anche in futuro. Ma sai chi potrebbe essere
il futuro presidente ? Menem ! Lui, ancora lui. No, non c'è proprio speranza - e
quasi diventa viola dalla rabbia e dal dolore.

Graciela è un'infermiera di cinquant'anni e da tre giorni è arrivata qui. Il lavoro


non c'è ancora, ma all'alloggio ha già provveduto una delle tante associazioni
cattoliche. Per il vitto le darà una mano, almeno per un po', il cugino Lucio. Lui
è cittadino italiano da più di dieci anni.

Nella stanza che le fa da casa dormono in cinque, tutte argentine, ma "va


bene, va bene così" mi dice lei determinata, "io potrò lavorare anche sedici ore
al giorno se serve, sono ancora forte sai ? Non ho paura. Maria, che sta con
me, ha anche i figli piccoli qui. Lei non potrà fare più di tanto. A me va molto
meglio. I miei figli sono dai nonni".

Graciela è un'argentina di origine veneta, come tanti a Còrdoba, la seconda


città dello sterminato paese. I primi contadini (molti proprio dalla provincia di
Treviso), poverissimi e nulla più che servi della gleba, partirono nella seconda
metà dell'Ottocento per cercar fortuna. La maggior parte finì negli Stati Uniti,
ma moltissimi anche in Brasile e Argentina. Lo so perchè, anche se non erano
veneti, tra loro c'erano anche i miei bisnonni. Proprio a Còrdoba si trova la
comunità veneta più importante.

L'epopea dei veneti d'Argentina, una specie di cerchio che si chiude dopo gli
anni del benessere di quella comunità, potrebbe offrire un qualche
insegnamento ai tanti di qui storditi dal successo del "miracolo del nord-est".
Ma chissà, forse la storia è solo l'invenzione bislacca di qualche romanziere : gli
ultimi emigranti di cui ho sentito (un articolo sul Corriere di qualche anno fa)
sono stati i capitani dell'industria locale - si fa per dire - più famosa al mondo
che, "stanchi della affollata campagna veneta", si sono comprati una hacienda
in Patagonia, per rilassarsi l'estate e allevare pecore per far maglioni d'inverno.
Adesso i figli di quegli emigranti che non si chiamano Benetton sperano di
tornare nella terra promessa, che è poi quella vecchia che avevano lasciato un
secolo fa.

- Per fortuna che gli argentini hanno un canale privilegiato, non riesco ad
immaginare gli altri. Fino all'anno scorso era molto più facile venire in Italia,
adesso è un casino. - interviene Lucio che corre da un ufficio all'altro per avere
tutte le carte di Graciela in regola.

- Ma se dicono che si stanno facendo in quattro ! - ribatto.

- Sarà, io so solo che ho fatto e sto facendo una fatica bestiale per lei e tanti
altri miei connazionali. Io non ci tornerò mai laggiù. Dopo tanti anni qui
sarebbe impossibile vivere là. Faccio tutto quello che posso per quelli che
vogliono fare come me -.

- Io voglio essere italiana. I miei bisnonni erano italiani. Sono come voi. Voglio
tornare qui, nel vostro paese - insiste Graciela e poi, a mezza voce : - Lo faccio
per i miei figli -.

Ci sediamo e le offro una sigaretta. Mi ringrazia e, finalmente, la sfiora un


sorriso.

5. I guerrieri astratti di razza Piave


1/9/2002

E' fatta. Questa volta il sceriffo ha scaricato le sue colt sul bersaglio sbagliato,
colpendo incidentalmente il vaso di Pandora pazientemente costruito in secoli
da genti forti, laboriose, silenziose, magari un po' servili (quell'orribile
"comandi" in bocca a troppi vecchi), ma certo affidabili, infaticabili, quasi
ostrogote (almeno secondo il sindaco di Treviso). Insomma, la razza Piave,
quella genia che da migliaia d'anni popola le due rive del fiume.

Gentilini avrebbe forse fatto meglio a lasciar riposare la bella leggenda


addormentata tra le braccia amorevoli degli ultimi esegeti rimasti che, ancora,
ne discettano in coda ai loro simposi in osteria, quando i fumi del dio romano
favoriscono grandemente lo spiegarsi del mito.

Ma a danno compiuto, ora che il nostro segreto silenzioso - la natura intima di


questa "razza" - ha invaso come un'orda antica le prime pagine di tutti i
giornali, il sceriffo raccolga i cocci. Anzi, i bulloni.

Quelli che gli tirerebbe in faccia Remo, sommo poeta locale di pura razza Piave
da non so quante generazioni.
E' fantastico vederlo incedere a testa alta, lungo i viali del centro, fendendo
come una lama la coorte di lavoratori del braccio (lavora, lavora, e ancora
lavora) tanto graditi a Gentilini. La lunga barba bianca, cappottone fino ai piedi
d'inverno, spolverino fino ai piedi d'estate, ti blocca piazzandoti davanti al naso
l'inseparabile ventiquattr'ore.

- Ehhhhhh, senza di lei mi sentirei perduto. Ci tengo tutti i miei progetti, i miei
scritti e soprattutto le poesie. L'intera raccolta a tema : Ode alla vite. (ode a
che ???) Ahhhhhh, o infedele ! Non conosci tu forse la possanza metallica del
bullone ? La perfettibile geometria dell'ingranaggio ? Metafore. M-e-t-a-f-o-r-e
mio caro ! Sono stato sette anni tornitore prima di dedicarmi all'arte. Da lì
traggo la maggior parte del mio immaginario poetico -.

Sublime. Gli pago un caffè in cambio di un paio di sonetti ("Ho tenuto anche un
reading a Firenze!") e ci separiamo. Giusto il tempo di lanciare un saluto
all'Indiano (non lo conosco in altro modo, lo chiamano tutti così), che passa lì
davanti. Un pellerossa di pura razza (Piave) che gira a petto nudo
indipendentemente dalla stagione. Abita in collina e quando deve andare a
Treviso (40 km) parte la mattina presto per essere a casa prima che tramonti il
sole. L'Indiano non usa altro mezzo di locomozione che le sue gambe. Due
tronchi mobili.

Nonostante le diversissime radici culturali, il suo migliore amico è il Bucho,


pittore astratto e cowboy, per via del cappellaccio texano che ha incollato al
cranio per nascondere le calvizie. Il Bucho è una specie di genio locale, non
tanto per la qualità delle sue opere pittoriche di cui si favoleggia (anche se
nessuno ne ha mai vista una), ma per l'eccezionale abilità nel convincere
l'occasionale modella a posare per lui. A suo tempo, ha iniziato all'arte decine
di ragazze.
Secondo i critici più attenti, ancora oggi, quando lo si vede sgambettare felice
sulla sua Graziella ultratrentenne, vuol dire che la sera prima ha terminato
l'ultima fatica.

Remo, il Bucho e l'Indiano (quest'ultimo un po' meno per via della distanza),
sono degli habitué di una sedicente osteria che Robby (uno spurio originario di
Venezia) apre - friends only - nella discarica in cui abita proprio in riva al
Piave. Deve essere una specie di malattia, Robby raccoglie tutti i tipi di rifiuti
che pensa possano essere riutilizzati (biciclette, materassi, tubi, finestre rotte,
polistirolo espanso, una decina di frigoriferi, scarpe, vestiti, mobili.... la lista è
infinita) e dopo aver riempito la casa è passato al piccolo pezzo di terra
intorno. Il risultato è che per arrivare anche solo all'ingresso ci vuole un
machete. Ma è un'avventura ogni volta e anch'io, d'estate, ci vado spesso a
mangiare l'anguria.

Tutti loro, molto più di me, sono fancazzisti d.o.c renitenti ai Gentilini.

Uno di questi giorni, ci metteremo stesi con i piedi nell'acqua, l'anguria fresca
con tutti i semi in canna pronti allo sputo, a guardare scorrere il fiume, in
attesa che passi il cadavere di Gentilini e di tutti quelli come lui, nemici giurati
della nostra tribù astratta di pura razza Piave.
6. Il pensionato in dotazione
23/10/2002

Il Merciaio è un sporco trevigiano. Il che, per un blog dedicato al Veneto, è una


vera botta di culo : la storiella - a dir poco favolosa - del pensionato-full-
optional in dotazione con la soffiatrice, merita una citazione rigorosamente
integrale. E resto pure in tema col mio blog !

Il pensionato che guarda

La premessa:
Avete mai notato che dove c’è un cantiere stradale immancabilmente c’è un
pensionato sul bordo della buca che guarda gli operai all’opera?

Ecco, ho lentamente maturato la convinzione che il pensionato lo diano in


dotazione con la scavatrice, senza sovrapprezzo.

Il Fatto:
Un bel giorno, colto da Colombite acuta (Colombo è un mio amico che non
appena vede un attrezzo o una macchinetta assolutamente useless li compra),
ho deciso di comprarmi una soffiatrice per sparare via le foglie dal parcheggio
di fronte al negozio.

Mai e poi mai avrei immaginato che in dotazione con la soffiatrice mi avrebbero
dato anche il pensionato che guarda.

Fin qui niente di stravagante, il pensionato che guarda non consuma e non
sporca, lui si limita a materializzarsi come un ologramma non appena accendi
la diabolica macchinetta.

Il problema è che il mio probabilmente è difettato, lui non si limita ad


osservare da lontano ma si piazza esattamente di fronte alla soffiatrice e sente
irrefrenabile l`impulso di disquisire con me di metafisica... o di massimi sistemi
in generale. Soffiargli addosso le foglie (visto che si piazza di fronte alla
macchinetta) pare brutto, non cagarlo pare pure peggio visto che mi hanno
insegnato ad essere quanto più possibile educato con le persone anziane.

L`unica soluzione è spegnere la soffiatrice e mettersi a parlare col pensionato,


peccato che costui si smaterializzi non appena la macchinetta viene spenta
salvo poi rimaterializzarsi con diversa fisionomia non appena la si riaccende.

Non trovando soluzione al problema credo che chiederò al negoziante di


riprendersi indietro l`infernale aggeggio.
7. Per chi suona la campana
24/10/02

Abito a ridosso di un campanile.


Ogni mezz'ora ci sono i rintocchi dell'orario. L'ora peggiore, per noi, è
mezzanotte e mezza : ben tredici rintocchi. Poi, all'una, comincia il riposo
notturno.

Ma questo è niente. La domenica mattina (gli altri giorni, passi), alle sette e
mezza, è un'apoteosi, un'orgia, una sinfonia. Senti le campane in camera da
letto. No, di più, sotto il cuscino. Forse ormai le abbiamo tutti trapiantate nel
cervello. Comincio a sentirle anche quando sono fuori casa...

Se poi vai a vedere (abbiamo protestato anche con una bella petizione, ma non
è servita a niente), tutta l'orchestra suona per quattro vecchiette che vanno a
messa la domenica prestissimo. Il resto del pueblo ci va alle undici, orario più
comodo per chi si può permettere di alzarsi con una comunissima sveglia, che
so, alle dieci (in fondo è domenica per tutti).

Dopo dieci anni che abito da queste parti, confesso di aver accumulato una
certe dose d'odio amplificata dal senso d'impotenza per una cosa così assurda.

Ma di recente ho percepito la malefica (e piacevole) sensazione del mal


comune, mezzo gaudio.
C'è un paesino del trevigiano che si chiama Fossalunga che, a quanto pare, è
infestato dai topi d'appartamento (la Lega ha perfino fatto un'interrogazione in
parlamento a riguardo. Pensa un po'...).

Gli empi si sono permessi perfino di fregare il cofanetto con le offerte per la
parrocchia al vecchio parroco del paese e, onta su onta, mentre questo
recitava la messa delle diciotto.

Non l'avessero mai fatto. E' immediatamente scattata la contromossa del


parroco che ha deciso di convertirsi in antifurto. In fondo, nessun teologo ha
mai dichiarato incompatibili le due funzioni.

Così, l'anziano prelato ha invitato gli abitanti di Fossalunga a telefondargli a


qualsiasi ora in caso di tentativo di furto (o anche solo di rumori sospetti). "Io",
dice, "farò immediatamente suonare le campane per svegliare la popolazione e
mettere in fuga i malintenzionati".

Decisa anche la sequenza antifurto : i primi rintocchi saranno "a morto",


distanziati tra loro. Seguiranno i botti ad intervalli minori. In caso di mancata
fuga dei banditi (aggiornamento in tempo reale ??) partiranno le campane a
festa.
Non vorrei che la cosa costituisse un precedente. Magari anche il parroco di
qui, campanaro da Guinness dei primati, potrebbe trarre ispirazione dal suo
collega di Fossalunga.

Nel qual caso, se per malaugurata sorte dovessi avere una visita di qualche
ladro, lo aiuterò a caricare il furgone (tanto ce la caviamo in trenta secondi con
ciò che di mio potrebbe interessargli). Perchè se le campane suonassero "a
morto" pure alle tre di notte, potrei fare a meno della fatidica domanda "per
chi suona la campana".
Son certo suonerebbe per me.

8. Radici?
20 marzo 2003

2003. In aereo, di notte, è una distesa di luci che continua per molti minuti e
disegna l’orizzonte fino alla barriera inviolabile delle Alpi. Una montagna di
schei riversati in un milione di capannoni e un miliardo di villette - e poco altro
– raccolte intorno alle direttrici stradali, quasi le stesse da quarant’anni, a
formare un’enorme area metropolitana. Lungo le statali, puoi partire dalle
prealpi trevigiane e arrivare a Verona senza accorgerti di aver passato
centinaia di paesini, ognuno con la sua bella sede municipale, la piazza, la
chiesa, il bar (e poco altro).

1961. Solo quarantadue anni fa : un millennio. Su 100 case, 48 sono senza


acqua corrente, 52 senza gabinetto, 72 senza il bagno, 15 senza luce elettrica,
81 senza il gas a rete, 86 senza il termosifone. (Cfr : G. A. Stella “Schei” – Ed.
Baldini & Castoldi).

In mezzo, la rivoluzione industriale che ha cambiato per sempre il volto del


“sud del nord”, - in un secolo, una impressionante diaspora di oltre 5 milioni di
persone - trasformando il Veneto da terra affamata di pane e rose (l’entroterra
schiacciato per secoli da “Venezia ladrona”) in uno dei motori industriali
dell’intero occidente.

Finita la stagione dell’orgoglio e del riscatto, i nodi – intrecciati e ingarbugliati


sulla testa di un orco onnivoro che ci si ostina a considerare “foresto”, ma che
è nato qui e qui continua a trovare la sua linfa – vengono al pettine. L’orco è il
caos urbanistico e sociale cresciuto come un fungo velenoso tra i campi, quasi
a punire la terra dei secoli di miseria che ha regalato alle sue genti, al di là di
certa retorica revisionista che vuole dare al Veneto un passato imperioso (e
imperiale) quanto il fiume economico che lo attraversa oggi. Checché se ne
dica, la Serenissima repubblica di Venezia non è mai stata il Veneto - i patrizi
veneziani si trovavano a San Marco, mica a spaccarsi la schiena nella
campagna padovana -, e il campanilismo atavico e istintivo, oggi come allora,
è lì a dimostrarlo. Anche volendo, è quasi impossibile pianificare qualcosa di
collettivo, e le infrastrutture a labirinti ed imbuti non sono solo colpa di una
miopia prospettica ancora dura a morire, anche se oggi di alternative non ce
n’è più. C’è il gioco dei veti incrociati tra i comuni, tra le provincie, la terra
invasa di edifici come cavallette bibliche; in mezzo magari ci si mette pure il
demanio che è roba lontana e con la burocratija romana parlarsi è impossibile.
E siano maledetti anche i verdi. Un caos. Per ora la Regione è corsa ai ripari
bloccando tutto : niente più autorizzazioni a nuove aree industriali.

Il “modello veneto” non sfiora, salta addosso rubando ogni altro orizzonte
possibile. Pagine gialle sfogliate una ad una lungo strade da percorre in coda
alla velocità di un trattore - salvo poi tentare sorpassi impossibili per essere
just in time -, bestemmiando contro dio e l’Anas, la Regione e Roma, che tanto
il nemico si nasconde da qualche altra parte. La strage (13 morti e 103 feriti)
del 13 febbraio sull’A4 (bloody thursday), all’altezza di Cessalto, provincia di
Treviso ? Colpa di due camion, di certo gente dell’Est. Roba straniera. “Non
sono disciplinati come noi, li trovi nella corsia di sorpasso, superano i novanta
truccando il limitatore, bevono prima di mettersi in strada.” ha raccontato in
un’inchiesta del Corriere del Veneto, uno dei tanti camionisti di San Michele di
Cimadolmo, sempre Treviso, dove sette adulti su dieci lavorano nel settore.
Giocando a rimpiattino anche col campanile, probabilmente sarà colpa dei
veneziani che in macchina non ci sanno andare – sono gente di mare e
l’automobile mica è una gondola - se i dati appena forniti dalla Provincia
relativi agli incidenti stradali del primo bimestre 2003 sono sempre i soliti (21
morti, uno in meno rispetto all’anno scorso ma quattro in più del 2001) e fanno
della Marca trevigiana una delle aree più incidentate d’Italia.

Mai a raccontarsi che un modello è qualcosa che si progetta, si programma, si


organizza mentre qui non è successo niente del genere. “Andate e
moltiplicatevi” : la balena bianca ha interpretato in questo modo la voglia di
essere finalmente tutti “siori”, con il bagno in marmo e la Jacuzzi. Solo che
adesso, dopo qualche ora di coda sulla tangenziale di Mestre a domandarsi se
era proprio questo il benessere sognato, nemmeno un bel bagno caldo – con la
testa ancora stordita dalle ore di lavoro alla giapponese, anzi, alla veneta –
basta più. E nella notte che scende a rallentare, ma non a spegnere, il respiro
di questo polmone meccanico, riaffiora il ventre oscuro di un mondo malato
della più terribile delle malattie di un genos: l’anomia. L’individualismo e tutte
le altre norme non scritte, efficientissime rispetto al fine, hanno portato ad un
benessere traboccante che ha fatto piazza pulita non tanto di ogni altro valore
– in Veneto resta fortissimo il volontariato di matrice cattolica anche se la
pratica religiosa è in caduta libera – ma certo del senso delle proprie origini e
della propria identità. La Regione Veneto è l’unica ad avere un assessorato alla
cultura e all’identità. Se si supera per un attimo il fastidio per i proclami più
volgari inneggianti alla “razza” a cui fa da megafono uno come il sindaco di
Treviso Gentilini, resta il segno di una perdita ormai sentita come una
lacerazione acuta.

Ho assistito a Zero Branco, un paese dell’hinterland trevigiano, al primo


incontro fra associazioni che si occupano di identità veneta, riunitesi con
l’obiettivo di darsi un coordinamento che favorisca il “lungo cammino teso a far
riappropriare i Veneti della propria cultura”. Un risultato minimo che forse
riusciranno a raggiungere. Per il resto la confusione è tanta. Tra un gruppo che
mette in piedi una carnevalata come il processo a Napoleone colpevole di aver
fatto cadere e poi svenduto la millenaria Serenissima, un branco di neo-celtici
ammalati di nostalgia contadina e desiderosi di riappropriarsi della “spiritualità
e del culto del territorio” (“il bosco parla, una zona industriale non dice niente”)
e chi invece realizza un menù in veneto per word97, tra una specie di indiano
(la definizione se la appiccica lui stesso) con cappello piumato che vorrebbe
ritornare all’antica cultura “maschia” (sic!) e chi cerca – vanamente – di
attirare l’attenzione sul dramma più atroce che sta vivendo il Veneto di oggi, la
cannibalizzazione del suo territorio (“senza più territorio non ci sarà più lingua,
né cultura, né identità”), due sembrano gli elementi in comune a questo
variegato sottosuolo culturale : la formazione abbastanza recente della
maggior parte di queste associazioni, l’uso di Internet come strumento
movimentista di comunicazione - tra dialetto e inglese -, esattamente come
accade per tutte le voci dissenzienti o le culture minoritarie che da tempo si
rivolgono alla rete come qualcosa di ben più importante di un semplice
medium.

Per il resto, notte fonda. Gli organizzatori hanno più volte richiamato i presenti
alla necessità di “tener fuori la politica” da quell’incontro, perché “bisogna
valorizzare quello che unisce, non ciò che divide”. Come se la politica si
esaurisse nella dialettica destra/sinistra (forse qui, meglio, Lega
Nord/movimenti radicalmente autonomisti) e raccogliere quell’urlo che
comincia a far capolino scarabocchiato su più di un muro, “basta fabbriche in
Veneto”, non fosse “politica”. Quella vera. “Addio capannone selvaggio”,
titolava un recente inchiesta di Famiglia Cristiana per raccontare le 1.800 aree
industriali in 581 comuni, i 17,9 mq per ettaro edificati nel 2002 (un record
rispetto alla media nazionale che è ferma al 7,9%), i 19 milioni di metri cubi di
fabbricati non residenziali del 2001, il 24,8% in più rispetto al 2000).

Di questo non si parla, perché l’identità veneta si recupera – secondo loro –


con le mascherate della Milizia Veneta in giro per città e paesi in costumi
settecenteschi per dare – parole del suo rappresentante – un “messaggio
molto forte”, con i loro fucili ad avancarica caricati a salve e il target (come si
tradurrà in veneto ?) giovanile che la domenica mattina partecipa agli
addestramenti della milizia. No, meglio non parlare di certi macigni a cui è
difficile trovare un demiurgo all’est o a sud. Meglio fare come il professore del
liceo trevigiano, consulente dell’assessore alla cultura della regione Serrajotto,
che tenderebbe a non correggere gli errori in italiano derivanti dalla parlata
veneta (ad esempio il vizio di soprassedere alle doppie) per avviare un
processo di venetizzazione dell’italiano.

E’ la solita schizofrenia intellettuale di queste genti, il nanismo politico che qui


ha una storia lunghissima : “a Roma e Venezia se ciacola, qui si lavora”. E
allora la deriva attuale ha ragioni antiche e, al solito, “foreste”. Dallo scarso
pubblico si alza un signore a ricordare i duecento anni di “occupazione
‘taliana”, un chiodo mai rimosso, come se l’accelerazione violenta della
globalizzazione che qui fa rima con industrializzazione selvaggia e pesa come
un macigno, fosse un piano architettato a Roma. Ma se è vero che lo Stato,
con particolare accanimento negli anni che hanno dato il via alla rivolta (Cfr.
Paolo Rumiz “La secessione leggera” – Feltrinelli), ha sempre guardato con
sospetto e ostacolato ogni tentativo di autonomia culturale prima ancora che
politica, non saranno certo le sceneggiate celtiche a restituire spazi possibili e
la dignità che spetta di diritto a questa cultura antichissima. In un lampo di
saggezza, è lo stesso professore che non corregge gli errori ad offrire un
salvagente : “Non si può opporsi alle istituzioni, bisogna convertirle”. Vero, ma
la lingua non basta, la storia non basta, bisogna imparare a fare politica (e
cultura che non sia un puro esercizio nostalgico) prima che sia troppo tardi. Pur
con le sue molteplici contraddizioni, un esperimento interessante mi pare
quello del periodico Raixe venete (Radici venete) che tenta di coniugare lingua
e attualità in uno sforzo evidente di ancorarsi al presente, dargli un senso
nuovo e compiuto per uscire dal circolo vizioso di un “Veneto che si morde la
coda”. Perché Treviso, Padova, Mestre, Verona - e ormai anche i centri minori -
sono ammorbate da asfalto e smog e, davvero, “non se ne pol più”. Ma,
racconta Rumiz in un recente articolo su Repubblica “Mestre : un fiume di schei
a passo d’uomo”, se poi infliggi le targhe alterne, la gente si lamenta con le
stesse parole.
Internet e celti, industrializzazione selvaggia e nostalgia contadina, inglese e
dialetto : Good morning Veneto, che Mestre fosse la tua Saigon, forse, non
l’hanno deciso solo a Roma.

9. Pane e centesimi
12 maggio 2003

Non sono tra quelli che da vent'anni mangiano sempre lo stesso pane. Mi piace
cambiare. Provarne tipi nuovi. E poi in famiglia siamo in quattro. Ognuno con i
suoi gusti, possibilmente da accontentare caso per caso.
La "mia" panettiera ha il negozio esattamente a 20 metri da casa mia. Una
bella comodità: la mattina presto, alla bisogna, esco i ciabatte con gli occhi
cisposi e i capelli alla Branduardi e lei mi accoglie lo stesso con un bel sorriso.

La "mia" panettiera ci sa fare con i clienti. E' una bella ragazzona simpatica che
deve aver mangiato un sacco di pane. A guardare le guanciotte rotonde e
colorate ti viene subito voglia di ficcar dentro una bella fettona di prosciutto ai
panini che ti allunga nel sacchettino bianco e odoroso di farina. La carne
chiama carne.

La "mia" panettiera sarebbe quasi perfetta se non avesse un grande difetto:


inchiappetta i clienti. Non dico tutti, non lo so. Me di sicuro. Me ne sono
accorto, la prima volta, circa 6 mesi fa. Se tu prendi diversi tipi di pane, che
ovviamente hanno prezzi diversi, lei ne applica uno solo: sempre il più alto.

Così se acquisti 8 ciriole (€ 3,00 al kg) e 1 zoccoletto (€ 3,10 al kg) ti mette


tutto a € 3,10.

Ho sopportato il giochino per mesi, forse per il quieto vivere, forse perchè da
anni la "mia" panettiera sopporta alito pesante, ciabatte, e "capelli al vento",
forse non me lo spiego e basta, ma stamattina mi sono incazzato come una
bestia. Forse era arrivato il momento.
- Scusa, ma perché applichi il prezzo più alto se ho preso 5 panini di un tipo e
3 di un altro?

- Eh??

- Hai capito benissimo.

- Scusa, ho sbagliato, non me ne sono accorta.

- Col cazzo. So benissimo che fai sempre così. Se non te ne accorgi tu, me ne
sono accorto io.

- Eh, sì, sì. Scusa hai ragione.

- Scusa un cazzo (avevo proprio perso la testa...), la prossima volta che mi fai
un tiro così ti mando la Finanza come un missile rapido ed invisibile.

- Mi sono sbagliata.

E giù un sorrisone da un orecchione all'altro. Mi ha allungato i panini e ha fatto


ciao ciao con la manona.

In negozio c'era solo un'altra cliente ultraottantenne che probabilmente non


avrà capito una mazza.

Io tornerò a servirmi da lei, non ci posso fare niente, è troppo comodo.

Ma mi spiace che la "mia" panettiera sia una stronza.

10. Quando la sopressa la si teneva per sé


5/9/2002

La polemica innescata dall'uscita di Gentilini, sindaco di Treviso, sull'ormai


famosa razza "Piave" (che non dovrebbe, secondo il nostro uomo, annacquarsi
con etnie impure) non sembra estinguersi ed è diventata un cavallo di battaglia
della Lega.
L'ultimo intervento, che chiameremo "della sopressa", è del consigliere
regionale leghista Federico Caner, come riportato oggi su La Tribuna di Treviso
:

«La razza Piave esiste. O volete "sopprimere" la sopressa?»

«Di questo passo, vogliamo anche abolire la sopressa, nell'attacco frontale a


tutto ciò che nel Veneto è sinonimo di radici?». Può sembrare semplicemente
un gioco di parole, un invito a sorridere, ma è invece un'uscita che ha una forte
connotazione politica.

E' la provocazione del consigliere regionale leghista Federico Caner, che


interviene sulle polemiche sorte dopo il caso immigrati sgomberati dalle
casette Ater borgo Venezia e che hanno «occupato» il sagrato del Duomo per
una settimana, con le esternazioni di Gentilini sulla razza Piave da non
«annacquare».
«Bocce ferme», sembra voler dire nella sua nota Caner a chi si «azzuffa sotto i
riflettori mediatici». E il giovane esponente del Carroccio puntualizza:
«L'espressione "Razza Piave" ha radici storiche, non indica un'etnia, ma un
modo di essere, sorto dai lutti della Grande Guerra, alimentato dal
temperamento combattivo della popolazione di quell'area, e che poi ha preso
persino un profilo sportivo».

Caner individua un errore (fra virgolette) anche a Gentilini. E spiega: «Si era
illuso forse che gli "sputasentenze" conoscessero questa espressione, dal
momento che chi in genere si arroga di dare del razzista ai leghisti se ne
intende di tradizioni di cultura e usi popolari. O così crede, tra un piatto di cous
cous e uno di sushi, consumato in un rinomatissimo ristorante che fa tanto
glamour. Ma la razza Piave - conclude Caner - preferisce polenta e sopressa,
piatti poco vicini al popolo, almeno a quello dei disubbedienti».

Paccato che, al solito, i leghisti mitizzino quel che gli fa comodo e usino il
passato a loro uso e consumo. A titolo di esempio, ecco un breve brano del
volume "Inediti della grande guerra" di Corni-Bucciol-Schwarz, Edizioni B &
M Fachin di Trieste. Nel libro si parla proprio del Veneto e della sua gente
durante la Grande Guerra citata da Caner :

Vorrei comunque ricordare come, fra tutti, coloro che subirono i colpi più duri
furono i profughi. Sballottati senza alcun ordine da un paese all'altro, costretti
a vivere in pessime condizioni igieniche, senza casa, senza lavoro, senza un
campetto da coltivare, i profughi si collocano indubbiamente al gradino più
basso della gerarchia sociale in quel periodo. Inoltre, si ha la netta sensazione
dalle fonti disponibili che, anzichè scattare un meccanismo di compassione e di
mutua assistenza da parte degli abitanti dei villaggi in cui i profughi vennero
smistati, si ebbero delle reazioni negative. (...)

La vicenda dei profughi, del loro arduo inserimento nel tessuto sociale di
villaggi i cui abitanti ne condividevano cultura, costumi e dialetto, testimonia
quali scossoni l'eccezionale situazione dovuta all'occupazione militare abbia
suscitato nella società veneta. Persino a guerra finita - come risulta da molti
documenti - essi continuavano a rappresentare un fattore scomodo, di cui tutti
volevano liberarsi al più presto". (Op. cit. pag. 91)

Certo, allora era durissima per tutti, ma non si può dire che la "razza Piave"
avesse un atteggiamento particolarmente "sportivo"; o no, consigliere Caner ?
11. Estetica leghista
13/9/2002

In questi giorni i vigili di Vittorio Veneto stanno pattugliando la città(dina)


cercando di beccare qualcuno a spasso con il cane.
Le regole sono precise : bisogna avere con sé la paletta per raccogliere gli
escrementi e l'animale deve avere la museruola.

Girano in tre (si vede che un po' di timore per le reazioni c'è..), li ho visti due
volte nel giro di un'ora bloccarsi e fare la contravvenzione al malcapitato di
turno. Di solito per via della museruola (che nessuno, ma proprio nessuno, ha
comprato per il proprio cane) più che per la paletta, che viene abbastanza
usata .

Premetto che :
1) io ho un cane, quindi sono decisamente partigiano;
2) il sindaco mi sta sulle palle a prescindere;
3) è anche giusto che le strade siano pulite (sulla museruola avrei da
ridere...mica tutti abbiamo un pitbull).

Ciò detto, mi fa ridere che "l'accanimento contro i cani" sia diventato uno dei
cavalli di battaglia dell'amministrazione (a parte questo : asfaltano strade).

Quest'estate il sindaco, presentando una manifestazione culturale, ha visto un


cane ai piedi del palco e si è lanciato (si fa per dire, ho già scritto in un
precedente post che 'sto tizio non sa mettere 5 parole in fila una dietro l'altra)
in un pistolotto contro i cani che lordano (il verbo è mio, lui non so se lo
conosce) i marciapiedi.

Al di là della "battaglia dei cani", una delle riflessioni che mi vengono in mente
in queste occasioni, è legata al concetto di "bellezza", cioè all'estetica, dei
leghisti.

Si sente spesso dire che, a Treviso, Gentilini ha "ripulito" la città. Qui a Vittorio
Veneto, Scottà sta cercando di fare lo stesso.

Il che significa : strade pulite e ben asfaltate, belle aiuolette verdi, i muri lindi
(a parte le scritte "forza lega" che vanno bene), la gente che cammina ordinata
la domenica (gli altri giorni si lavora), gli alberi lungo il viale, le feste di paese,
le belle tradizioni popolari.

Credo che qualcuno dovrebbe cimentarsi in uno studio specifico sull'estetica


leghista, ondeggiante tra pane e sopressa (componente "di lotta" nei raduni
strapaesani) e vialetti alberati copie bonsai di Unter den Linden (componente
"di governo", la Lega istituzionalizzata).

A me la loro idea di bellezza ricorda tanto quel gusto piccolo borghese, banale,
piatto, ordinatissimo quanto sciatto, dei quadri di Hitler.
Sotto l'ordine apparente, si agitava un tumulto di follia omicida (e suicida)
dovuto al "difetto" fondamentale di una realtà non conforme ai sogni (alla
volontà di potenza) di quel genio del male. Insomma, anche quando Hitler fece
di Berlino, per un breve periodo, la capitale del mondo, dietro l'angolo del
vialetto, si nascondeva sempre un mare di merda di cane.

12. Non disturbate la selvaggina


22/9/2002

Fa un po' specie sentirle chiamare "norme per la protezione della fauna


selvatica" nella regione che ha il numero più alto di specie cacciabili d'Europa,
comprese alcune decisamente rare.

Una strage continua.

Il WWF e altre associazioni hanno raccolto 72.000 firme presentando in regione


una petizione popolare che chiede una maggiore protezione della fauna ed una
forte limitazione della caccia nella nostra regione.

Parlo della caccia (che per altro non sopporto e abolirei del tutto senza tante
storie) per raccontare un episodio di stamattina.

Sono uscito con il mio cane per portalo a fare una passeggiata in mezzo ai
boschi tra le colline qui intorno visto che in città prosegue la "battaglia" del
sindaco che vorrebbe i cani al guinzaglio anche in casa.

Ad un certo punto incontro due cacciatori e il loro cane (che manco aveva il
collare), mi bloccano e mi fanno : "Lo sa che il suo cane dovrebbe stare al
guinzaglio ? Se la trova la Forestale le dà un multone..."

"Cosa ?" penso io "pure qui ????"


"Ma perchè ?" gli chiedo.
E questo serio : "Ad esempio perchè il suo cane potrebbe disturbare la
selvaggina".

Chissà se a quel tizio viene mai in mente che, forse, la "selvaggina" la disturba
molto più lui del mio cagnetto.

13. La Kosice d'Italia


4/10/2002

A leggere il nome dell'impresa, Us Steel Kosice, sembrerebbe uno dei soliti casi
in cui gli americani riprendono o storpiano la toponomastica della vecchia
Europa. Kosice, Arkansas, come la ben più nota Paris, Texas. Invece le
"acciaierie americane" hanno sede proprio nella seconda città della Slovacchia
e sono le capofila di un insediamento industriale ormai di rilievo. In questi
giorni il Centro per lo Sviluppo Economico (Edc), ufficio studi dell'Us Steel
Kosice, sta portando in passeggiata alcuni industriali veneti per valutare la
possibilità di "delocalizzare" (si dice così), in tutto o in parte, la loro attività
produttiva. Non sarebbero i primi, grandi industrie venete come la Geox e la
Marzotto hanno laggiù dei loro impianti già in produzione.

Dopo la rumena Timisoara, ormai chiamata la "piccola Treviso", fonderemo in


Slovacchia un'altra provincia veneta ? I segnali ci sono tutti : In Slovacchia il
reddito medio pro capite è di 380 euro, ma quello degli operai è inferiore.
Costi: la metà per i capannoni e per i terreni rispetto all'Italia. Insomma,
questo matrimonio, ne sono certo, si farà, portando in dote grandi promesse di
sviluppo per quell'area dell'est europeo. Il modello, si dichiara un articolo su La
Tribuna di Treviso, è già stato tracciato dalla Us Steel : investimenti nelle
infrastrutture e un "rapporto molto profondo con le istituzioni e il tessuto
sociale. Un esempio è la raccolta di fondi con l'obiettivo di aiutare le vittime
delle inondazioni in Slovacchia e Repubblica Ceca. A tale scopo la società ha
aperto correnti, uno per ciascuno Stato, mettendo a disposizione un milione di
corone slovacche per i bisognosi". Chi arriverà, dovrà adeguarsi (forse).

Facile dire che in Slovacchia il costo della vita è decisamente inferiore e con
meno di 300 euro al mese si vive dignitosamente (forse) e che comunque gli
imprenditori compiono azioni meritorie creando opportunità in aree altrimenti
in difficoltà. Nell'era della globalizzazione, ogni "delocalizzazione" di questo tipo
produce un effetto domino e per ogni posto di lavoro che si crea laggiù se ne
toglie uno qui, e peggio ancora, si rende "precario" e "flessibile" oltre ogni
limite il modello d'impiego complessivo.

E' chiaro che un operaio italiano non potrà mai costare all'imprenditore meno
di 300 euro al mese e dunque, quando non si "delocalizza" scegliendo di
rimanere in Italia, si dilatano al massimo orari e modi del lavoro e si agisce sul
welfare che è la voce che più incide sui costi d'impresa. Sembra paradossale,
ma in Veneto questo giro di vite trova difficilmente opposizione, semmai molti
consensi. Il tradizionalissimo "comandi", tipica risposta del contadino veneto
quando gli si rivolgeva la parola, non è più usato se non da vecchi, ma non è
mai morto dentro la testa della gente. La cultura del lavoro (che
impropriamente viene scambiata con la semplice brama "de schei") favorisce
enormemente le scelte strategiche di Confindustria : qui molti lavorano
davvero come bestie e un impiego è considerato il "sommo bene" prima di ogni
altro. Per possederlo si è disposti a tutto e per "salvarlo" si fanno i salti mortali
: anche 14 ore al giorno, se serve.

Un atteggiamento miope e ottuso che ha portato ricchezza economica ma


anche la frantumazione del tessuto sociale. Un prezzo evidentemente molto
alto. Un esempio di come in Veneto il modello scelto - più o meno
consapevolmente - per coniugare "tradizione" (anche la peggiore) e
"modernità" sia fondamentalmente scellerato tanto da poterci definire, a buon
titolo, la "Kosice d'Italia".
14. Muratori
7/10/2002

Ci sono dei momenti in cui il tempo si prende una pausa dal presente.
Semplicemente, ferma le lancette e si autosospende per un po' per aprirci a
visioni "diverse". Qualche secondo. O minuti. Non di più.

Stamattina ero in macchina ad aspettare che uscissero da scuola le mie figlie.


Alla radio un favoloso pezzo di Roland Kirk (si possono ascoltare alcuni brani
del suo magico repertorio qui).

All'improvviso si sono materializzati cinque o sei muratori che si sono seduti a


fumare su un muretto lì vicino. Ho visto le loro facce stanche, i movimenti
lenti, le braccia appoggiate sulle ginocchia. Ogni tanto si scambiavano qualche
parola silenziosa musicata dal flute di Roland Kirk. Alcuni erano più anziani. Nei
loro occhi, una vita di milioni di mattoni e tonnellate di calce, pause sigaretta e
braccia abbandonate sulle ginocchia.

Spero che siano riusciti a costruire almeno una casa dei sogni.

15. I giganti che sfidano le vetrine


9/10/2002

Ieri sono stato un paio d'ore a Treviso. Come al solito, mi sono fermato a dare
un'occhiatina alle vetrine di Marton, la libreria più importante della città, in
pieno centro (Corso del Popolo).

In bella vista, leggermente spostate a sinistra, hanno attirato la mia attenzione


due torri (gemelle) realizzate in cartone. Si tratta di due espositori identici al
WTC, alti circa un metro, per il libro di fotografie delle Edizioni White Star,
"World Trade Center. I giganti che sfidavano il cielo". Il libro, a sua volta, è
oblungo : ben 38 cm.

Ma Marton ha fatto di più e meglio : una bella colonna di libri sulla tragedia
delle due torri di NY posizionati uno sopra l'altro in modo da formare, poco
distante, una terza torre.

Complimenti alla White Star e ai vetrinisti di Marton. Parafrasando Carlo


Rossella, direttore di Panorama che, a suo tempo, presentò una videocassetta
in vendita col settimanale come un'esclusiva "con le più belle immagini della
tragedia di NY", posso dire che, finalmente, qualcuno ha pensato anche al più
bell'espositore della storia delle vetrine italiane.
Il più bello sì, ma non si dica che è anche il più alto : nei supermercati le torri
di cartone con le creme "pour femmes" (et pour hommes) battono di gran
lunga il WTC di Marton.

15. Una domenica a cavallo


13/10/2002

A volte è davvero fantastico leggere i quotidiani locali. Riporto un paio di pezzi


da Il Gazzettino di oggi perchè ne vale veramente la pena :

Notizia a (in memoria di Luigia Pallavicini caduta da cavallo?) : Infortunio ieri


mattina al Circolo Ippico di Fontane (questo è l'occhiello). Titolo : Cade da
cavallo e sviene la figlia del sen. Archiutti
La figlia del senatore Carlo Archiutti è rimasta vittima, ieri mattina, poco prima
di mezzogiorno, di un serio infortunio avvenuto al Circolo Ippico di Fontane.
Denise Archiutti, ventottenne, stava in sella ad un cavallo quando
improvvisamente è caduta, stramazzando a terra: la giovane ha subito perduto
conoscenza...il resto ve lo risparmio per puro orgoglio campanilista.

Notizia b questa è nelle brevi : Oggi il presidente della Provincia, il leghista


Luca Zaia, sarà a cavallo sul Montello con un gruppo di butteri maremmani.
Interessante. La prima domanda che mi viene in mente : Cazzo ha fatto Zaia
domenica scorsa? E la prossima?? Corsetta defatigante in mountain bike dopo
essersi fatto il culo coi butteri?

Come informazione locale si può dire che siamo letteralmente a cavallo.


Fortunatamente posso chiudere in bellezza con una notizia seria sempre dal
Gazzettino :

Occhiello - La federazione di tiro a segno ha coinvolto gli insegnanti in un


progetto che porterà al poligono alunni di medie e superiori
Titolo - A scuola ora si impara a sparare
Sommario - Successo immediato, gli organizzatori non temono critiche: «Non
c’è posto per chi si sente Rambo».
Treviso. Il tiro a segno entra nelle scuole. Anzi: gli studenti trevigiani delle
medie e delle superiori stanno per entrare nei poligoni di tiro e per impugnare
pistola e carabina. Spinti dall'entusiasmo dei loro insegnanti di educazione
fisica. O, almeno, di quella trentina che, al di là di ogni più rosea previsione
degli organizzatori, si è presentata al corso di formazione e ora parla del tiro a
segno in termini entusiastici: «Una bellissima disciplina»..

E "il" sceriffo Gentilini? Naturalmente è entusiasta : «Saper maneggiare le armi


è una virtù». Potrebbe mettere i brividi questa affermazione dello sceriffo. Una
sorta di «armiamoci e partite» rivolto alle nuove generazioni di trevigiani. Ma
Gentilini, riflettendo sull'iniziativa promossa dalla sezione Tiro a segno di Mario
Bruniera, è lontano dal pensare a una Treviso in cui, un domani, i cittadini
girino armati come i suoi vigili. «Io penso semplicemente - spiega lo sceriffo -
che quando, come in questo caso, in un ambiente sicuro, impari a conoscere
cos'è un'arma, capisci anche quali possano essere i pericoli e i rischi che corri
se non la sai usare o se la usi impropriamente».

Peste !, ora sì che siamo in sella con la vecchia sputafuoco che ricomincia a
intonare la sua serenata.

16. Breve prologo alla storia di Lei


21/10/2002

Sono salito sulla più alta montagna è ho guardato il cielo un po' più in basso. E'
successo proprio così : davanti a me il panorama delle mia cittadina e due soli
elementi a increspare l'orizzonte piatto verso sud, la cattedrale (e va bene, ci
sta) e una fabbrica.
Due poteri, due altari diversi, lì a fronteggiarsi, a dichiarare la loro potenza nel
silenzio uguale dei tetti e delle strade.

La Mafil ha prodotto milioni di tessuti, miliardi di chilometri di filatura, migliaia


di mani e schiene si sono piegate a cucire quelle vesti.

Non so neppure se adesso produca ancora o faccia la cattedrale nel deserto del
modernariato.

So solo che conoscevo due delle migliaia di occhi attenti alle macchine e
all'orologio in attesa dell'ora in cui i vestiti sarebbero tornati oggetti da
comprare in un negozio del centro.

Lei ha lavorato trent'anni in quella fabbrica umida ed era la mamma di un mio


amico caro come un fratello.

Lei adesso non c'è più.

Ho sfiorato il mio maglione per accarezzare le sue mani e tornare a sentire la


sforzo del suo lavoro e la dignità della sua fatica che, ne ho parlato stasera al
telefono col mio amico, vorrei riuscire a far rivivere in poche parole. La sua
storia. Che pochi ricordano e troppi - circuiti dalla scansione frenetica del
tempo - credono sia conclusa.

Ma il mio maglione mi pizzica - come quella lana, che oggi non fanno più,
quella che arrossava la pelle per il troppo vigore - perchè la racconti.

Presto.

17. Pezzi di ricambio


3/11/02

Un mio amico, per motivi di studio, tiene sulla scrivania il teschio di un


clochard francese.
Lo ha ribattezzato François e, visto che il suo tavolo da lavoro si trova in
ingresso, i resti dell'ignoto franzoso sono un po' l'attrazione della casa.
Quando entri un saluto a François è imprescindibile.
"In Francia si trovano facilmente" mi ha spiegato "li paghi meno di 500 euro".

Non so perchè, François mi è venuto in mente leggendo questa storia,


edificante, secondo Il Nuovo che l'ha presentata.

Titolo : Giovane clandestina moldava dona gli organi

Sommario : Non ha fatto in tempo a completare la regolarizzazione, ma ha


lasciato un grande dono: i suoi organi hanno salvato 5 persone. In Veneto, in
proporizione, gli immigrati donano più dei residenti.

PADOVA – Non ce l’aveva ancora fatta ad assicurarsi una vita alla luce del sole,
senza problemi di clandestinità, in Italia. Ma la giovane badante di origine
moldava ha comunque lasciato nel nostro Paese un dono che ha salvato cinque
persone.

La ragazza di 28 anni, che lavorava come colf in una famiglia vicentina e stava
completando l’iter della legge Bossi-Fini, è rimasta uccisa in un incidente
stradale, mentre tornava a casa in bicicletta. I sanitari in breve tempo hanno
contattato i suoi conoscenti in zona e poi i parenti in Moldavia, ottenendo
l’assenso all’espianto.Cinque equipe chirurgiche di Vicenza e Padova, in tutto
150 persone, hanno agito in simultanea, con un coordinamento attivato per la
prima volta in Veneto per operazioni di questo tipo.

I dati delle Asl del resto, dimostrano che la sensibilità per la donazione di
organi in Veneto è più spiccata tra gli immigrati extracomunitari che tra i
residenti. A sostenerlo il coordinatore regionale dei trapianti, Giampietro
Rupolo: “Lo scorso anno - spiega - su 106 donatori, sei erano immigrati, in
particolare provenienti dall' Est europeo; rispetto ai residenti la percentuale è
nettamente maggiore”. Quest’anno è già il quarto trapianto con donatore
straniero in Veneto. “Crediamo - ha aggiunto Rupolo - che sia importante dare
anche queste notizie, per aumentare la cultura della donazione, e per
dimostrare che vi sono modelli di solidarietà che vengono anche da molto
lontano”.

Un lettore del quotidiano on line, nello spazio riservato ai commenti, ha scritto:


Ma che razza di notizie date?

Ok, abbiamo capito che voi media gli immigrati ce li volete far digerire a tutti i
costi facendoci il lavaggio del cervello; tuttavia evitate di dare dati inesatti (o
parziali) e poi non vorrei generalizzare, ma date un occhiata alla percentuale di
reati effettuati da extracomunitari rispetto alla percentuale degli italiani, li si
che c'è un divario. Ma certo voi tirate in ballo solo le vostre statistiche di
dubbia veridicità.
Anch'io, come il lettore de Il Nuovo, non vorrei generalizzare, ma non capisco
cosa c'entrino degli ottimi pezzi di ricambio con i reati che potrebbe
commettere qualche bosniaco/kurdo/tunisino che magari poi non ci dona
neppure i resti ancora utilizzabili dallo sbarco malriuscito.

18. Monika Bircsak


4/11/02

Pensieri sciolti :
Disquisire sui morti forse fa schifo.
Probabilmente anche il modo in cui lo faccio io.
Questo blog dovrebbe parlare del Veneto e finisco spessissimo a parlare di
extracomunitari.
C'è qualcosa che non torna.

Eppure oggi ho letto una notizia che mi ricollega a quella di ieri e, in parte, alle
polemiche che ha provocato.

E' il titolo del pezzo, il titolo, che mi colpisce, e ferisce. E anche il fatto che,
contrariamente al pezzo del Nuovo, in questo caso ci siano anche nomi e
cognomi (dei protagonisti della vicenda fuorché del ventiquattrenne di
Cordenons. Lui è solo G.M.).

Ballerina ungherese di lap dance muore in uno scontro.

Statale 53 Postumia, di fronte alla locale stazione dei Carabinieri, poco dopo le
4 di mattina. Due ragazze si trovavano a bordo di una Volkswagen Polo con
targa ungherese quando si sono scontrate con una Mercedes guidata da un
ventiquattrenne di Cordenons (Pn), G. M..

Una delle due ragazze è sembrata subito gravissima: incastrata tra le lamiere,
i Vigili del Fuoco hanno impiegato quasi un'ora per tirarla fuori. Trasportate
entrambe in ospedale a Treviso, quella che era al volante è deceduta, mentre
l'altra si trova in prognosi riservata, dopo una lunga operazione eseguita nel
pomeriggio.

Monika Bircsak era al volante, aveva 26 anni, era sposata con due bambini che
si trovano a Budapest; la donna, il cui marito ieri era venuto a trovarla, si
recava in Ungheria ogni due settimane per stare in compagnia dei piccoli.

La ragazza ricoverata in gravi condizioni ha invece 22 anni, si chiama


Alexandra Banhazi, e risulta anche lei residente in Ungheria. Le due giovani in
Italia avevano un permesso come badanti, ma esercitavano anche la
professione di lap dancers in un locale di Oderzo.

Mentre era in corso l'operazione su Alexandra, molte delle compagne di lavoro


si sono riunite, disperate, accanto alle due amiche, in ospedale.
Difficile anche per i Carabinieri di Oderzo stabilire una dinamica dei fatti con le
relative responsabilità. Pare che il giovane di Cordenons stesse andando a
prendere la fidanzata - che forse fa lo stesso mestiere delle due ungheresi,
vista l'ora - quando le due auto si sono scontrate.

Il botto è stato fortissimo: la Polo girava sulla jesolana, la Mercedes proseguiva


dritta, il giovane non si è fatto nulla.

Le ragazze tornavano «a casa», cioè all'hotel Belvedere dove risiedevano.

I mezzi sono rimasti a lungo sulla strada, visto che sono usciti dal sinistro
completamente distrutti; la Polo era per di più stata tagliata a pezzi per poter
liberare la ragazza dalle lamiere.

Tanto lavoro non è comunque servito a salvarle la vita.

Il pezzo è tratto da Il Gazzettino di oggi.

Oggi non ci sono vite salvate di mezzo, nè una, nè cinque. Solo una lap-
badante che, ricordo, io sì mi ricordo, si chiamava Monika.

19. Industrial disease


5/11/2002

Ne avevo già accennato in un precedente intervento : il territorio della


provincia di Treviso, con 30 milioni di metri quadrati occupati, è il più
sacrificato all'industria di tutto il Veneto. E probabilmente d'Italia. Oltre 300
aree industriali (alcuni comuni ne hanno anche quattro !) stritolano - è il caso
di dirlo - i 95 comuni della Marca.
Il fenomeno, negli ultimi trent'anni di sviluppo imperioso (e del tutto
incontrollato) è, come suol dirsi, visibile ad occhio nudo.
Potrei definirlo un progetto a "pianificazione zero".
Perchè ne parlo ?

Perchè la Regione si è svegliata - magari con qualche anno di ritardo - e ha


deciso di mappare la situazione in tutta la regione.
Il risultato è stato da paura : un vero e proprio industrial disease dove le
regole sono figlie del Caso. E' così che Antonio Padoin, assessore regionale
all'Urbanistica, ha dichiarato - bontà sua - : «E giunto il momento di dire stop.
Una stagione si è chiusa. Non è più pensabile continuare ad usare in modo così
spregiudicato il territorio. Rispetto dell'ambiente, razionalizzazione delle aree
industriali non possono restare uno slogan».

Se alle parole seguiranno i fatti (cosa di cui si può tranquillamente dubitare),


«D'ora in poi la Regione non concederà più l'autorizzazione per nuove aree
industriali. L'ampliamento delle vecchie sarà rilasciato con il contagocce. E in
futuro lo sviluppo sarà limitato ad attività produttive leggere, concentrate in
un'unica area industriale della provincia». La dichiarazione è sempre del buon
Padoin.

La notizia mi ha fatto pensare perchè ieri ho letto un articolo di Alberto Statera


su Repubblica Affari & Finanza dove si legge : "Una ricerca dell'Unione europea
rivelava qualche tempo fa che il 10 per cento dei fallimenti delle imprese nel
vecchio continente è dovuto non a ragioni di competitività esterna, ma a
conflitti familiari, tanto che solo un'impresa su quattro arriva alla seconda
generazione e una su dieci alla terza. Una più recente indagine
dell'Associazione dele piccole industrie di Vicenza sostiene che nel Nordest
d'Italia addirittura il 30 per cento delle imprese non sopravvive alla prima
generazione per conflitti familiari".

Ora, come si sa, il modello imprenditoriale veneto è interamente fondato sulla


"famiglia" e sono davvero pochissime le imprese riuscite a darsi, nel tempo,
una organizzazione moderna ed efficiente indipendente dalla figura del padre-
padrone-fondatore.

Insomma, il modello veneto, stando ad indagini e statistiche, è un modello


molto fragile.

Non che di questo me ne freghi molto, ma il mio problema è : che ce ne


faremo, tra una ventina d'anni, di tutti gli orribili capannoni "selvaggi" che
infestano città e campagne ?

Si accettano proposte.

20. Pugnar cantando


15/11/02

In regione si sta litigando sul nuovo Statuto regionale. Galan lo aveva


promesso già da due anni e mentre la Lega presenta la sua proposta redatta in
italiano e veneziano, An rilancia su un elemento chiave : l'inno.

Lo prevede la bozza dello statuto presentata dal presidente della commissione,


il leghista Cavaliere : "un inno regionale da eseguire, con quello nazionale,
nelle manifestazioni solenni e ufficiali" (articolo 6, commi 3 e 4).

Secondo il consigliere regionale di AN, Elena Donazzon, "la scelta non è facile,
ma un inno deve essere marziale e lirico: non può quindi essere ricercato tra le
pur bellissime canzoni della tradizione popolare e folklorica (sic !) veneta".

E continua : "Il Veneto, terra di pace e di solidarietà, ha anche un suo


patrimonio di canti patriottici, legati alle tradizioni militari degli alpini del Monte
Grappa, come dei lagunari e dei marinai. Abbiamo intenzione di preparare un
cd di canti patriottici del Veneto da distribuire a tutte le scuole medie inferiori
della regione. Si tratta di un importante patrimonio da riscoprire e rivalutare, e
questo è compito della Regione".
Morale della favola ? La Donazzon propone come inno veneto (da cantare
anche a scuola ? Suggerisco al consigliere Donazzon una versione karaoke
all'interno del cd cosicché i ragazzi possano impararlo più facilmente) l'Inno al
San Marco, che è poi l'inno dei Lagunari, specie latina di Marines.

Vale la pena riportarne il testo integrale :

Popol d’Italia avanti, avanti,


bagna nel mar le tue bandiere,
gente di mille primavere
l’ora dei forti suonerà.
Stretto il patto con la morte
chiusa in pugno abbiam la sorte,
sui leoni l’abbiam giurato per l’eterna libertà, la libertà...

San Marco San Marco


cosa importa se si muore
quando il grido del valore con i fanti eterno stà.

Arma la prora o marinaio


Vesti la giubba di battaglia
per la salvezza dell'Italia forse doman si morirà.
Come a Lissa così a Premuda
pugneremo la spada nuda
sui leoni l'abbiam giurato
per l'eterna libertà (la libertà).

San Marco San Marco


cosa importa se si muore
quando il grido del valore con i fanti eterno stà.

Bellissimo e, soprattutto, molto lirico, quasi intimistico. Non vedo l'ora di


cantarlo insieme a Fratelli d'Italia. Ma, prima o dopo?

21. Per amore, solo per amore


20/11/09

La vicenda mi fa venire in mente un vecchio scoop di Trascendentale che era


riuscito a farsi pubblicare sul giornale più trash d'Italia (questione d'affinità ?),
Cronaca vera, un falso caso di molestie del tutto inventato. A ciò si aggiunga la
prurigine dell'elemento "suora" che da De Sade a Manzoni ha regalato
sugosissimi contributi alla letteratura. Ecco allora, da La Tribuna di Treviso di
oggi, una storiella davvero poco edificante (si sa, quando ci sono di mezzo
anche i bambini...) di un anziano respinto dove averci provato per quasi un
anno.
Molestie alle suore, denunciato

Aveva uno strano vizietto: telefonare alla scuola materna e molestare le suore.
Il giochetto è durato quasi un anno fino a che la direttrice di un asilo in centro
a Treviso si è recata all'ufficio di polizia giudiziaria della polizia municipale che
ha avviato le indagini e le intercettazioni telefoniche per smascherare il
molestatore. Sabato scorso le minuziose ricerche hanno portato all'esito
sperato: gli agenti della polizia municipale hanno colto in flagranza un
pensionato trevigiano di 73 anni. Aveva la cornetta in mano, un vigile l'ha
afferrata e dall'altra parte c'era la suora in compagnia di un altro agente che
registrava le telefonate. L'anziano è stato accompagnato al comando dove gli è
stata notificata la denuncia per molestie.

La storia - secondo la denuncia presentata dalle suore dell'asilo - durava da


gennaio. Sistematicamente l'uomo chiamava il centralino della scuola materna
e importunava la suora che in un primo momento non ha dato più di tanto
peso alla vicenda. Nei mesi successivi le telefonate si sono infittite, anche due-
tre volte al giorno, tanto che durante i fine settimana il centralino suonava ad
orari fissi dalle 16,30 alle 18,30, specie di sabato, e alla domenica anche
durante il mattino.

A settembre, alla riapertura dell'asilo, le telefonate sono proseguite in maniera


insistente. A quel punto la suora non si è arresa e si è presentata al comando
dei vigili di piazza Duomo dove ha presentato querela contro ignoti
preoccupata anche dal fatto che la scuola materna è frequentata da centinaia
di bambini. La suora ha cominciato a segnare gli orari in cui giungevano le
telefonate.
Gli agenti della polizia municipale hanno avviato le indagini coordinate dal
sostituto procuratore Luisa Napolitano. E' stato messo sotto controllo
l'apparecchio telefonico dell'asilo, ma subito si sono presentate delle difficoltà: i
vigili hanno accertato che l'uomo chiamava soprattutto da telefoni pubblici
della provincia di Treviso, ma anche dal Veneziano.

In seguito alle indagini degli uomini del reparto di polizia giudiziaria dei vigili,
comandati da Francesco Carlomagno, è stato accertato che le telefonate
arrivavano da cinque cabine.
Sabato pomeriggio la svolta delle vicenda. Verso le 16,30 i vigili si appostano
nei pressi di una cabina. L'uomo compone il numero di telefono. Squilla
l'apparecchio della scuola materna. Risponde la suora. Immediatamente
interviene un vigile in abiti borghesi che afferra la cornetta e sorprende l'uomo
in flagranza. Gli viene sequestrata la scheda telefonica.

Il 73enne, incensurato, rimane inerme e si consegna agli agenti. Viene


accompagnato nel comando di piazza Duomo dove gli viene notificata la
denuncia per molestie, reato per cui è indagato. «Ho commesso una
stupidaggine» ammette ai vigili. E' stata effettuata anche una perquisizione
nell'abitazione dell'uomo per verificare che non fosse in possesso di materiale
pedopornografico. L'esito è stato negativo.

A parte tutto, mi fa parecchio ridere come ha trattato la vicenda il giornalista,


con dettagli falsamente inquietanti e una sapiente costruzione della suspence.
L'inserimento dell'elemento "bambini" che, senza neppure andare tanto in
fondo, non c'entra un bel nulla, crea una sana indignazione che aggira la vera
sostanza del pezzo : il nonnino (orrore !!) voleva scoprire le segrete virtù di
una locale Monaca di Monza, magari, chissà, per amore, solo per amore.

E' questo il giornalismo locale che mi piace, quasi un'arte : romanzare il nulla.

22. Una passeggiata solitaria


12/1/2003

Prima di aver la fortuna di conoscere personalmente il delizioso fumettista


serbo Aleksandar Zograf, una conoscente me l'aveva presentato come uno
"che aveva scritto in un suo fumetto che noi, qui a Vittorio Veneto, non
abbiamo voglia di far niente".

In effetti, nel bellissimo "Saluti dalla Serbia", Zograf ha dedicato alcune


vignette alla mia cittadina. Le trascrivo integralmente, purtroppo senza poter
inserire le immagini che le accompagnano :

1. E' stato stupendo partecipare alla festa del quotidiano L'unità tenutasi a
Bologna e incontrare tutti i fumettisti della città. Poi, non abbiamo resistito e
siamo tornati a Vittorio Veneto, un posto meraviglioso dove non accade mai
nulla...
2. Semplicemente vagare per la parte medievale della città...senza nulla da
fare...mi rilassava e gratificava profondamente.
3. Lo so che forse i miei lettori si innervosiranno perché nei miei fumetti parlo
sempre tanto del "non far nulla".
4. Ma ricordate : non fare nulla a Vittorio Veneto è un'arte.

L'episodio (il fraintendimento della conoscente che mi aveva riportato così


maldestramente, senza mai averlo letto, il pensiero di Zograf) mi è tornato in
mente perchè ho saputo che il mio articolo "Qui non accade mai nulla"
pubblicato qualche mese fa su questo blog, è girato per un ufficio provocando
reazioni indignate del tipo : "chi cazzo è questo che parla male di noi ?".

Saputolo, ho sospirato, ho preso il cane e siamo andati a farci una lunga


passeggiata in collina dove si incontrano solo alberi, sassi, erba e cielo. Gli
altri, tutti in ufficio.
24. Ethnos e civiltà.
20/01/2003

Il sondaggio sulla Treviso "gentiliniana", come prevedibile, sta scatenando una


ridda di giudizi sommari. E', in parte, conseguenza della povertà stessa dello
strumento : utile per approssimare a linee generalissime quanto insufficiente a
spiegare ed analizzare nel merito, il sondaggio è, di per sè, un'accetta buona
per far legna grossa. Va bene, lo sapevamo anche prima di promuoverlo.
Alcuni commenti sparsi qua e là stigmatizzano le diverse posizioni rispetto alla
percezione della città (e non solo : Treviso, in qualche modo, assurge a
modello di tutto il Veneto), da cui : il Veneto è la regione d'Italia con il più alto
numero di nazi-skin! e la pronta risposta : e col piu' alto numero di donatori di
sangue, di donatori di organi, di associazioni di volontariato...

Un bel guazzabuglio sociale difficilissimo da dipanare. Non ci proverò certo io


visto che il tema è, da anni, oggetto di discussione accademica al più alto
livello. Però un contributo posso darlo, aggiungendo alla discussione alcune
categorie che permettano una riflessione più argomentata. Il tema è
ovviamente quello dell'identità (veneta in questo caso, ma vale per chiunque
e ovunque) sentita o (dall'esterno) percepita.

Nel suo volume "Ethnos e civiltà" (Ed. Feltrinelli), l'antropologo Carlo Tullio-
Altan rileva alcuni temi essenziali alla costruzione del tipo ideale di un'etnìa.
Vale la pena riportarli :

a) l'epos, come trasfigurazione simbolica della memoria storica in quanto


celebrazione del comune passato;
b) l'ethos, come sacralizzazione dell'insieme di norme e di istituzioni, tanto di
origine religiosa quanto civile, sulla base dei cui imperativi si costituisce e si
regola la socialità del gruppo;
c) il logos, attraverso il quale si realizza la comunicazione sociale;
d) il genos, come trasfigurazione simbolica dei rapporti di parentela e dei
lignaggi, nonché di quello dinastico, attraverso il quale si trasmette di
generazione in generazione il potere;
e) il topos, come immagine simbolica della madre-patria, e del territorio
vissuto come valore in quanto matrice della stirpe e dei prodotti della natura, e
come fonte di suggestione estetica ed affettiva.

Orbene, per capire a fondo i sommovimenti che agitano la società veneta (è


perchè di questo sto parlando ma, va da sè, il discorso sarebbe estendibile
all'Italia intera e pure agli scovolgimenti epocali che scuotono tutto il pianeta),
bisogna partire (anche) da qui. Usando Gentilini e quelli che agiscono sulla sua
scia come cunei intrepretativi di un processo, evidentemente, a ritroso rispetto
ad una terra scossa da trent'anni a questa parte da un processo di
industrializzazione che non sfigura affatto con il famoso precedente inglese a
cavallo tra '700 e '800 o con quello, a noi più vicino, dell'Italia del dopoguerra
(da cui il Veneto, a parte qualche mastodonte industriale tipo Marghera, era
rimasto escluso).
a) Tradizione, difesa della. Non si sente parlare d'altro. E' una specie di ansia.
Gentilini che accetta l'appoggio di Forza Nuova nel Suo Nome : «Accetterei e
molto volentieri un loro appoggio, l'ho già detto che sono italiani (alla bisogna,
Gentilini diventa "italiano"), a differenza di Adel Smith che distrugge la nostra
civiltà». In realtà FN non ha assolutamente nulla a che fare con la storia e la
tradizione veneta, ma in questo periodo confuso, "serve", fa brodo, si mischia
nel resto del minestrone. Evidentemente è considerata una sorta di male
minore, il vero pericolo è un altro : la definitiva perdita dell'identità.

b) Anche qui, ad attenersi ai fatti, è notte fonda : l'insieme delle norme, civili o
religiose, che tengono insieme la società veneta sono profondamente in crisi.
La chiesa, tradizionale cemento della comunità nella regione "bianca" per
eccellenza, si dibatte in una crisi che il papato mitiga ma non può spegnere. A
ciò si aggiunga la sirena del neocapitalismo di matrice veneta, una ricchezza
immensa piovuta d’improvviso su una terra contadina e, anche nel recente
passato, profondamente povera. Fattori di per sé esplosivi che nessuna
pantomima inventata per l’occasione può sopire (il dio Po della Lega nord che
finisce a Venezia ma che è una tradizione inventata di sana pianta e che non
attecchisce da nessuna parte se non su pochi disperati talmente bisognosi di
ritrovarsi al punto da accettare anche un simulacro che sembra un film di Walt
Disney).

c) Linguisticamente il Veneto è la regione d’Italia dove il dialetto rimane


diffusissimo ad ogni livello ed in ogni classe sociale (per quanto si sia
italianizzato e abbia perso il lessico più antico. Ma questo è un processo
naturale di ogni lingua in ogni tempo). E’, attualmente, il vero tratto comune
sopravvissuto all’uragano dell’industrializzazione. Di qui il tentativo di renderlo
materia scolastica, in modo da sottrarlo ad ogni pericolo di estinzione (ma
anche come affermazione “riconosciuta dallo stato” dell’identità veneta persa
nell’insopportabile – per alcuni – egualitarismo stutuale. Paradossale che lo
Stato Italiano, restìo alla “liberalizzazione di questo processo” tramite la
devolution, non faccia altro che attenersi alla stessa istanza che muove i
fautori del “rinascimento veneto” : la difesa dell’identità, l’italianità nel suo
caso).

d) E’ l’elemento più controverso, discutibile, drammatico se vogliamo. Scrive


Tullio-Altan : “nel progressivo trasformarsi delle società tradizionali in società
democratiche basate su istanze universalistiche, il genos è venuto perdendo
molto del suo antico primato simbolico”. La storia veneta, la grande storia
veneta usata come specchio per rimirarsi in un passato glorioso quanto lontano
è, essenzialmente, una sola : la storia della repubblica di Venezia. Una Venezia
di nobili e signori, dogi e damine buone per il carnevale che, nel suo splendore
rievocativo, oscura un entroterra povero e sfruttato da “Venezia ladrona”. Il
Veneto è terra dei mille campanili. Il recupero acritico della sua storia va bene,
ancora una volta, come simulacro, stendardo da usare in battaglia, ma da
sbandierare con molta più attenzione se mai dovesse venire, un giorno, un
“tempo di pace”.
e) Altro nodo fondamentale. Secondo una recente campagna della
Confederazione Agricoltori Italiana di Treviso, i veneti sono coloro che per
primi, hanno violentato e stanno ammazzando la terra-madre in nome del
miraggio del benessere. Il male ha un nome solo : industrializzazione
selvaggia. Un elemento ecologicamente (culturalmente, socialmente)
drammatico che può essere utile a comprendere i controversi scenari che sono
all’origine di questo intervento.

Ovviamente, non finisce qui, ma mi pare che gli spunti di riflessione, per chi
vorrà coglierli, non siano pochi. Considerando che questo è un blog (e non
certo il "Blog della Crusca"), mi pare di essere andato anche troppo oltre…

25. L’orda
7/02/2003

La feccia del pianeta, questo eravamo. Meglio : così eravamo visti. Comincia
così, con un sonoro schiaffone, il libro di Gian Antonio Stella, L'orda Ed. Rizzoli,
il racconto - per nulla romanzato - di quando la parte degli albanesi,
marocchini, nigeriani e tutti gli islamici-fottuta-razza la interpretavamo noi
italiani, con notevole successo di pubblico, in ogni angolo del mondo.
Disprezzati, odiati, sbeffeggiati, gente che defeca per terra come i maiali,
campioni di ogni bassezza, avvezzi all'imbroglio sistematico, alla sporcizia, alla
lussuria con tali e tante varianti fetish e sadomaso da riuscire a scandalizzare
anche un habitué d'ambienti hard tardo settecenteschi come il Marchese De
Sade. Mica un chierichetto.

Stella sta ben attento a distinguere, ogni volta che ne ha la possibilità, tra
stereotipi e dati, storia e leggenda. Arrichisce la sua indagine di una
bibliografia sterminata, cita documenti, libri, giornali, a frotte : ogni pagina.
All'interpretazione, a distinguo e obiezioni, viene lasciato ben poco : per molti
secoli, volenti o nolenti, qui in Italia o da emigranti, abbiamo fatto gli albanesi,
con grande sollazzo - quando andava bene - e infinito disgusto altrui. E ce n'è
per tutti, non si salva nessuno, dalle Alpi alla Sicilia.

Non era forse la Venezia d'allora una specie di Bangkok di oggi ? Non diceva un
adagio che "le fiorentine son libertine, le veneziane tutte puttane" ? Non
sosteneva la famosa guida turistica The Grand Tour, pubblicata nel 1794 da
Thomas Nugent, che il nome veniva da Venus e che era "la città ideale per
passare la notte con una donna sfacciata" ? Proprio questo era il Grand Tour
per la stragrande maggioranza dei viaggiatori : una immersione tra
monumenti, sapori forti e peccati.

Rispetto al truce resoconto di Stella, la polemicuzza contro il povero Tobias


Jones che sul Financial Times ha osato dichiarare che la televisione italiana fa -
senza mezzi termini - schifo, sembra un revanscismo da operetta,
maldestramente interpretato dai qualificati rappresentanti di un novello amor
di patria : Costanzo, Gerry Scotti, Gasparri.

E fin qui va bene : un click sul telecomando e d'incanto spariscono tutti e tre.
Altro discorso invece va fatto per i tanti Gentilini, Borghezio, Bricolo, Cé, Boso
e i loro cupi seguaci che abitano il Veneto (e pure Roma Ladrona) con la
sicumera tronfia degli uomini di potere o dei (sempreverdi)lacché dell'idiozia,
farseschi (ma non troppo) epuratori razziali di uomini, bestie e culture che non
siano quella gloriosa d'Italia - quando fa comodo - o del Veneto.

"Quest'Italia è un pozzo di peccati", s'indignava Hester Lynch Thrale, un


celebre diarista inglese, " e chiunque ci viva a lungo deve essere un po'
corrotto". (...) John Addington Symonds, dal suo entresol veneziano alle
Zattere, vedeva un mondo tutto rosa : "Sono appena sopra un ponte sul quale
vanno e vengono esseri divini : marinai, soldati, pescatori vestiti di blu, vistosi
gondolieri". Manco a dirlo : perse la testa per un gondoliere. Si chiamava Toni
Fusato e pare vivesse senza tante fisime morali e psicologiche questa
disponibilità agli "extra" che (...) accomunava un po' tutti i leggendari barcaroli
veneziani. (...) L'Italia dei papi e dei preti e dei bigotti offrì a tutti una grande
libertà accettando il turismo sessuale "come una valvola di sfogo sociale per
più di due secoli".

Sono solo poche, e su un tema specifico, le citazioni che ho riportato dal libro
(che mi riservo di utilizzare ancora, in futuro, pescandovi a piene mani), ma
spero sufficienti ad interessare qualcuno a questa vera e propria miniera di
vicende oggetto di una ottusa rimozione collettiva. Un libro che andrebbe
proposto in tutte le scuole come testo fondamentale di studio. Non per
umiliarci, ma per non dimenticare, per non essere come chi ha ucciso,
violentato, disprezzato, ferito, fino a non più di una generazione fa (e come
molti di noi oggi rispetto ad altri) la nostra gente. Un libro da recapitare in un
bel pacco dono natalizio a Gentilini e Borghezio, in mille, diecimila copie da
sventolar loro sotto la finestra come bandiere con tante, tantissime firme sotto
la dedica di Stella che apre il volume :

A mio nonno Toni "Cajo" che mangiò pane e disprezzo in Prussia e in Ungheria
e sarebbe schifato dagli smemorati che sputano oggi su quelli come lui.

26. Stars
12/02/2003

Ogni tanto, osservando le cose del mondo, mi torna in mente una vecchia
canzone di Roberto Vecchioni : I pazzi sono fuori (non cercateli qui / il mondo
dietro i muri / è più disperato di qui). Una Weltanschaung sempre in bilico fra
tragico e ridicolo, lo so.

Una volta in cui ricordo chiarissimamente quella canzone a farmi da colonna


sonora, è stata quando un tizio, chiacchierando dei Beatles, mi ha confidato
sospirando : "Sai, da giovane ho lavorato per un periodo come lavapiatti in un
ristorante di Londra e una sera, sapessi... una botta di culo, non entra Paul
McCartney !".
"Wow, fico" faccio io ironico. "E ti ricordi per caso che ha mangiato ?"
"Beh, quello no, però sai, alla fine il piatto dove ha mangiato l'ho lavato io !".

Chissà se Il Gazzettino, avendolo saputo, avrebbe dedicato anche a questo un


pezzo così come ha fatto oggi con quest'altro gioiello : "Quella volta che
baciai Richard Gere". Ed ecco l'incipit : Già, Michela Marin potrà raccontarlo
ai nipoti, lei che il sogno nel cassetto suo e (di molte colleghe casalinghe) l'ha
tirato fuori e realizzato per davvero. E' successo lunedì sera, a Roma,
all'anteprima italiana di "Chicago", il film col bellone americano di Pretty
woman e tanti altri successi; la casalinga di Ceneda - ospite della settimana di
Casa RaiUno - dopo avergli posto un paio di domande ha fatto il blitz e si è
gettata al collo del divo, che pur sorpreso da tanta irruenza ha ricambiato il
generoso abbraccio. «Non ci ha pensato su un attimo - commenta divertito
Massimo Giletti - Michela si è comportata come una cronista d'assalto e si è
buttata. E' stata una bella scena, molto spontanea, e ho visto che anche
Richard Gere era sinceramente divertito dalla situazione».

Anch'io, sia della situazione che dell'articolo, che conclude cercando di dare un
taglio pseudo-sociologico :

Giletti mostra di apprezzare anche la compagnia delle signore trevigiane: in


questa settimana tocca a una spigliatissima Michela Marin, ma la mottense
Caterina Vidali non era stata da meno. «Diciamo che loro hanno una marcia in
più, questa cadenza dialettale che è bellissima, estremamente musicale. Posso
ben dirlo io, che sono piemontese: il nostro dialetto di musicale non ha
nulla...». La Sinistra Piave, in particolare, sta vivendo giorni da protagonista in
televisione: la "Domenica del villaggio" di Retequattro da Conegliano ha fatto il
record di share. E si è visto che i trevigiani sono fin troppo sensibili al fascino
della televisione: spintoni per un posto in prima fila, qualche discussione
accesa con i responsabili dell'organizzazione, telefonate continue a casa per
verificare l'avvenuto passaggio televisivo. «Questo è in effetti spiacevole -
osserva Giletti - e guardando i filmati d'epoca della Rai posso dire che è un
fenomeno dei nostri giorni: una volta al massimo facevano ciao con la mano,
ora fanno di tutto per apparire, in maniera anche un po' scomposta. Tanta
gente sembra pensare che se non appari in tivù non sei nessuno». Come
cantava Vasco, qualche anno fa (da incorniciare il commento di Giletti).

Parecchi anni fa, in campeggio, io e mia moglie siamo in bagno. Da una toilette
esce una bambinella americana piccolissima, biondissima e bellissima, ma
sporca di cacca. Sola, è chiaramente in difficoltà. Mia moglie, presa da un
assalto d'istinto materno, l'aiuta a sistemarsi e a pulirsi. La lava perfino
(insomma, si sa, cacca e pipì dei bambini sono cose che danno quasi
soddisfazione). Il sorriso felice della bambina la ripaga di ogni sforzo. Torniamo
in tenda dopo che lei si è accuratamente lavata le mani. Nell'aria, un terribile
fetore di hamburger, patatine fritte, ciambellone ripiene di crema e altre
leccornie targate iuessei. Si annusa le mani : il fetore arriva da lì. Rilavaggio
totale, a fondo, completo. Si strofina con la spugnetta ruvida per i piatti intrisa
di detersivo. Nulla. Ripete il tutto più e più volte, con scarsissimi esiti.
Per circa due giorni, non so per quale mistero, quell'odore le è rimasto
appiccicato addosso.

Uno schifo ?

Macché ,vuoi vedere che niente niente, mia moglie ha avuto la fortuna di
lavare il culo a Britney Spears ?

27. Le risate omeriche di Catullo


22/04/2003

Un articolo di Gian Antonio Stella pubblicato sul Corriere della Sera di venerdì
18 aprile ha fatto indignare l'assessore alla Cultura e all'Indentità veneta
Ermanno Serrajotto. Il pezzo (purtroppo non disponibile on line) è ironico già
nel titolo: Devolution a scuola: poesie di Catullo in dialetto veneto.
Nuova edizione di uno strano libro sulla cultura della regione promosso da un
assessore.

Stella si riferisce ad una specie di sussidiario sulla cultura della regione veneta
in cui il veronese Catullo viene tradotto in dialetto. Impropriamente, Il Nuovo
ne parla come un libretto fresco di stampa. In realtà il sussidiario "Noi veneti"
di Manlio Cortellazzo è del 2001 e ristampato l'anno scorso.

Nemmeno la polemica "dialetto a scuola", ad onor del vero, è recentissima. La


Padania del 23 febbraio cita Massimo Cacciari (il barbuto filosofo) che tronca
così un'analoga iniziativa (distribuire in tutte le scuole dell’obbligo un
vocabolario e una grammatica della lingua lombarda) dell'assessore alla
Cultura della regione Lombardia (Albertoni, ex consigliere nella Rai di
Baldassarre) definendola una "barzelletta. Questa gente dovrebbe essere
sommersa da risate omeriche".

Probabilmente l'occasione a Stella per l'apertura del nuovo fronte viene


dall'entusiasmo dell'assessore Serrajotto per la possibilità offerta dalla riforma
Moratti (che modestamente ho definito "la riforma dell'aria fritta") di affidare
alle regioni parte della programmazione.

All'ironia di Stella, il leghista reagisce con il solito spirito greve alla Bossi, la
ben nota sindrome da assedio permanente attuato dai tanti che sono contro il
cambiamento (da leggersi nella tonalità roca propria del Senatùr): "A quanto
pare, quando comincia a tirare aria di elezioni, si risveglia dal suo torpore
anche Gian Antonio Stella. Impigrito, forse dalle sue infinite analisi sui Veneti e
sul loro rapporto con i 'schei' dev'essere stato probabilmente richiamato
all'ordine e da buon ventriloquo ha ripreso qualcuno degli argomenti che
ciclicamente le forze politiche del centrosinistra sventolano contro i partiti al
governo, soprattutto in alcune Regioni e soprattutto contro la Lega''
(Adnkronos del 18 aprile).
Se poi, come in questo caso, la patologia leghista si innesta sul refrain delle
destre di una scuola (e una cultura) "occupata militarmente dalla sinistra",
ecco spiegata la reazione scomposta dell'assessore, che però dovrebbe dirigere
altrove i suoi pesanti strali: se questo è il modo per "coniugare passato,
presente e futuro", le risate omeriche non vengono dal ventriloquo o dal
barbuto, è Catullo che si scompiscia nella tomba.

A proposito: come si traduce "scompisciarsi" in veneziano, padovano,


veronese, trevigiano, bellunese o vicentino? (e lasciamo stare le mille varianti
comunali).

28. Il mio amico geco


29/04/2003

Ho avuto cani fin da piccolo. Ricordo a due anni un enorme pastore tedesco
chiamato Iles (eh, beh, mica glielo avevo dato io il nome) che cavalcavo come
una specie di Furia (cavallo del west). E lui impassibile mi scarrozzava qua e là.
Poi Billo, Pepa, Brick che mi facevano compagnia mentre, da ragazzino,
divoravo (io, umano) Konrad Lorenz e Gerald Durrell.

Vuoi per conoscenza diretta, vuoi per quelle antiche e appassionate letture,
due o tre cose di cani ne capisco.

Ad esempio che cane e padrone, non di rado, si somigliano anche fisicamente.


Di certo caratterialmente. Per una questione di imprinting, se come spesso
accade il cane viene preso da cucciolo; perché il cane risponde sempre ai criteri
estetici e psicologici di chi lo ha scelto.

L'altro giorno, il mio attuale compagno canino (Pepe, per la cronaca) ha ridotto
a malpartito un dobermann. Stavamo passeggiando al parco quando i due si
sono incrociati. La solita annusata veloce a pelo dritto (in certe occasioni basta
annusarsi a distanza per capire che finirà male) e poi la rapida zuffa che tanto
terrorizza i proprietari ma che, il 90 per cento delle volte, risulta una
sceneggiata volta a stabilire una insondabile (a noi umani) gerarchia tra i due
contendenti.

Solo che questa volta Pepe (un bastardo di taglia medio-piccola) ha fatto una
feritina all'orecchio del dobermann che ha perso dalle 10 alle 15 gocce di
sangue. Non so come possa essere successo visto la disparità di forza tra i
due, ma è successo.

La cosa sarebbe finita lì, se il proprietario, angosciato alla vista del sangue,
non avesse chiamato immediatamente il veterinario (di domenica pomeriggio)
per chiedere assistenza. Gli ho consigliato ironicamente il 118, ma quello non
l'ha presa bene e vorrebbe essere rimborsato (di che? dei danni morali?) dalla
mia assicurazione.

Poco male, pago un po' di euro all'anno, se riesce a valersi di qualcosa, ad


esempio la telefonata al veterinario, buon per lui.
Quello che mi fa imbestialire (me, umano) è il tentativo dichiarato del tizio
(una sorta di tesi d'accusa) di far passare il mio Pepe come un potenziale
azzanna-bambini ("Il suo cane è aggressivo, e se attaccasse un bambino?"),
una specie di pericolo pubblico, per riuscire a tirar su qualche centesimo. Come
se il suo dobermann (adulto) fosse un transfuga - appena un po' cresciutello -
dalla carica dei 101.

Al di là dell'episodio pure un po' ridicolo - la mia montagn(ol)a di pelo che


mette sotto un dobermann - la verità è che è sempre più difficile avere un
cane. Tra il sindaco di qui che ha promosso di recente una vera e propria
campagna anticane, un dogabomber locale che gira seminando bocconi
avvelenati, improbabili cacciatori di rimborsi, norme e regolamenti sempre più
restrittivi (ad esempio non sapevo che un cane "normale", durante la stagione
di caccia, potrebbe essere multato per disturbo della cacciagione e quindi deve
girare al guinzaglio anche in un terreno aperto), è meglio scegliere un migliore
amico tra qualche altra specie. Le rogne cominciano a diventare veramente
troppe.

Vuoi mettere tenersi in casa un bel geco leopardato? Una volta comprato un
pratico terrario e cacciato dentro l'amico geco (molto attraente e di carattere
docile), il massimo dell'impegno sta nell'andar a caccia di insetti per lui avendo
cura di integrare una buona dose di calcio nella dieta.

29. Il cerchio
28/08/2003

Attilio, così come le sorelle Rosanna e Maria e il fratello Antonio-Toni per forza,
è nato in uno dei tanti paesini della bassa one-to-one, una casa-una fabbrica,
una specie di cartolina spalmata orizzontalmente per tutto il territorio
dell’incredibile scalata verticale del Veneto e delle sue genti.

Papà Raimondo è il patriarca di famiglia. E’ lui che un giorno, dopo tanti saluti
e inchini al paròn vecio che gli aveva insegnato l’arte, si è messo in proprio a
lavorare anche la notte di sabato e domenica per la mettere in piedi l’impresa
di famiglia: RAIMONDO DAL BO & FIGLI – PITTURE EDILI. Nel suo piccolo, una
potenza: quattro squadre di operai perennemente in trasferta su su fino alle
vette delle Alpi, fino a Belluno dove li prendono in giro e li chiamano
“veneziani”, anche se la loro stanno in provincia di Padova.

Attilio ha fatto la sua parte, così era scritto nel libro mastro dell’impresa di
famiglia, e, a quindici anni, ha cominciato la sua carriera di imbianchino.
Naturalmente partendo da zero, il ragazzo ha da imparare il mestiere, così
come ha fatto – il titolo ormai è acquisito- il vecio Raimondo. 12 ore al giorno e
il sabato mattina (i tempi sono cambiati e perfino paròn Raimondo si rende ben
conto che i giovani non possono più tenere i ritmi di una volta). Pomeriggio di
sabato e domenica libere.

La famiglia Dal Bo adesso è una di quelle famiglie a cui non manca più niente.
Mamma Renata che ha sempre fatto la casalinga non ha mai smesso di fare la
pasta in casa anche se adesso usa l’impastatrice elettrica. Nella nuova casa, ha
la televisione nelle camere, in salotto, in cucina così da potersi guardare tutte
le telenovele che vuole anche senza smettere di lavorare dovunque si trovi.
Alla sera la cena è una festa di sapori, e i ragazzi e il marito stanchi, divorano
in silenzio tutto quel ben di dio. Tanto a far casino e ad alzare la voce c’è già
Gerry Scotti che grosso e simpatico com’è, fa tanta di quella compagnia e poi
piace davvero a tutti.

In questo modo, i ragazzi Dal Bo vengon su dritti come tronchi, bravi ragazzi
lavoratori con pochi grilli per la testa, giusto qualche bravata di sabato sera.

Davide Lombardi

2002/2003

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