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Lessicografia dialettale

Oggi parliamo di lessicografia dialettale, ovvero la scienza e la tecnica di raccolta e


definizione dei vocaboli appartenenti ad un dialetto, nonché il complesso delle opere
lessicografiche relative ad un dialetto. Ma prima di addentrarci nella questione,
dovremo domandarci: cosa è precisamente un dialetto? E in cosa i dialetti italo-
romanzi si distinguono dalla lingua tetto? E ancora: come si possono classificare i
nostri dialetti?
Per quanto riguarda la definizione di dialetto, forniamo quella della Treccani: un
dialetto è un sistema linguistico di ambito geografico o culturale limitato, che non ha
raggiunto o che ha perduto autonomia e prestigio di fronte a un altro sistema divenuto
dominante e riconosciuto come ufficiale, col quale tuttavia, e con altri sistemi
circostanti, forma un gruppo di idiomi molto affini per avere origine da una stessa
lingua madre. I dialetti sono varietà di uso prevalentemente orale, di estensione areale
e diffusione demografica inferiori rispetto alla lingua standard, poco codificate ed
espressione di una realtà e cultura regionale. La distinzione tra lingua e dialetto è
quindi basata principalmente su considerazioni sociali e storico-culturali.
Per una breve classificazione dei dialetti italiani, ci serviremo della Carta dei dialetti
d’Italia, approntata da Giovan Battista Pellegrini. Lo studioso ha anche elaborato il
concetto di italoromanzo, con riferimento al complesso delle parlate dialettali della
nostra penisola e delle isole a esse adiacenti che riconoscono come lingua guida o
lingua tetto l’italiano.
Sul piano dialettologico, si distingue principalmente tra dialetti settentrionali, parlati
nelle zone a nord della cosiddetta linea Massa-Senigallia, anche detta La Spezia-
Rimini, e dialetti centromeridionali, parlati a sud di questa linea. I primi presentano
caratteristiche che li accomunano alle lingue romanze occidentali (francese,
portoghese, spagnolo, catalano, provenzale), mentre i secondi fanno parte, insieme al
rumeno della cosiddetta Romania orientale. Piccolo discorso a parte per i dialetti
toscani, che presentano tratti in comune con i due gruppi e non sono facilmente
identificabili.
Tra i dialetti settentrionali, distinguiamo i dialetti gallo-italici, parlati nelle zone
anticamente abitate dalle popolazioni celtiche (Piemonte, Liguria, Lombardia ed
Emilia Romagna) e i dialetti veneti, parlati nelle zone anticamente abitate dai Veneti,
ovvero Veneto, Trentino e Venezia Giulia.
Tra i dialetti centro-meridionali distinguiamo invece: i dialetti mediani, parlati
principalmente a nord della linea Roma-Ancona, tra cui Lazio, Marche e Umbria; i
dialetti alto-meridionali, parlati a sud di questa linea, tra cui Abruzzo, Molise,
Campania, Lucania, Calabria centro-settentrionale, Puglia settentrionale e, infine, i
dialetti meridionali estremi, tra cui il Salento, la Calabria meridionale e la Sicilia.
Non dialetti italiani, ma sistemi linguistici a parte sono invece considerati il ladino
dolomitico, il friulano e i vari dialetti sardi. Non considereremo invece le lingue
minoritarie presenti nel dominio italoromanzo come il tedesco di Bolzano o lo
sloveno di Gorizia e Trieste. La classificazione da noi fornita è stata ovviamente
semplificata: si pensi soltanto ad alcuni centri della Sicilia, come Nicosia o Piazza
Armerina, che corrispondono a dei dialetti galloitalici di Sicilia, anche detti più
ambiguamente gallo-siculi o lombardo-siculi.
Dopo avere fatto le giuste premesse, passiamo adesso al topic della presentazione, la
lessicografia dialettale: iniziamo da alcuni cenni storici di fondamentale importanza.
I primi esperimenti di lessicografia dialettale, realizzati ancora con metodi
premoderni, risalgono al XVII secolo: ricordiamo come primissimo esempio una lista
di alcune centinaia di parole milanesi raccolte nel “Varon Milanes de la lengua de
Milan” risalente al 1606. Vocabolari dialettali italoromanzi strutturati in senso
moderno sono già settecenteschi e cominciano ad apparire dalla metà del secolo in
poi. Siamo ancora lontani dai moti risorgimentali e tali vocabolari rappresentano in
fondo una spinta centrifuga rispetto alla centralità del toscano, già ben presente in
campo letterario e da qualche tempo anche lessicografico.
Si pensi solo alla presa di distanza dall’Accademia della Crusca dichiarata dal
vocabolario dell’Accademia napoletana dei Filopatridi, un’opera di fine settecento.
L’Avvertimento del vocabolario si apre con le seguenti parole:
“Se ai Signori Accademici della Crusca (dopo che ai Toscani riuscì incorporare il loro particolare
Dialetto, e farlo divenir un tutto unito alla general lingua d’Italia) conveniva far il Vocabolario di
tutte le parole del Dialetto Toscano, ciò a noi sarebbe stato ridicolo, e non esente dalla raccia di
presunzione. Noi abbiamo voluto indicar le varietà, ed abbiam taciute le rassomiglianze”

Si tratta di un’esplicita dichiarazione di selezione differenziale delle entrate, non rara


nei vocabolari dell’epoca; ovvero, vengono selezionati solo i vocaboli caratteristici
del dato dialetto, scartando quelli comuni ad altri o così simili da renderne superflua
la spiegazione. Tale criterio sistematico giunge ad applicarsi sino alla semantica.
Recita ancora l’Avvertimento:
“Perciò allorchè qualche nostra voce si prende in più sensi, e di essi taluno è simile a quello, che ha
nella lingua Italiana, e l’altro è diverso, abbiam soltanto indicata la varietà […]. La voce filo, per
esempio, è stata da noi rapportata solo, allorchè dinota paura, e nulla abbiam detto del suo natural
senso, che ha in Napoletano, come in Italiano, di refe”

Passando a parlare del secolo successivo, l’Ottocento, questo è irrimediabilmente


caratterizzato da una coloritura politica più netta. E se da una parte cresce l’urgenza
di divulgare l’uso dell’italiano, dall’altra eruditi e intellettuali iniziano a preoccuparsi
della conservazione di un lessico regionale in rapida evoluzione. Si oscilla tra la
volontà di costituzione di un thesaurus locale e l’adesione di stampo risorgimentale.
Un caso a parte è rappresentato dal dialetto piemontese, che è sospeso tra due lingue
tetto, l’italiano ma anche il francese. Così, i due vocabolari contemporanei, il
Dictionnaire Portatif di Capello e il Disionari piemontéis di Zalli, al di là delle
innegabili somiglianze, erano orientati nelle scelte grafiche, rispettivamente, sul
francese e sull’italiano.
Nel frattempo si apre un divario tra Nord e Sud nella produzione di dizionari
dialettali. Se le maggiori città settentrionali acquisiscono in questo periodo i loro
monumentali dizionari, Roma piomba nel silenzio, mentre al Sud abbiamo solo
Napoli con D’Ambra e Rocco e la Sicilia con Traina.
Infine, il Novecento. Il secolo XX è inevitabilmente contraddistinto dalla pressione
della lingua tetto sui dialetti, ma la dialettologia finalmente è una scienza e ha inizio
l’attività dei grandi raccoglitori sul campo. Il Sud Italia può giovarsi infatti del
fattore R, ovvero dell’attività costante di Gerhard Rohlfs, che dota il salentino con il
VDS ed il calabrese con l’NDC di vocabolari-capolavoro. Tuttavia, tramontata
l’epoca di Rohlfs, la produzione lessicografica meridionale si paralizza. Nel nord
Italia nascono invece imprese di alto profilo come il Vocabolario dei dialetti della
Svizzera italiana (VSI) e il Vocabolario dei dialetti liguri (VPL) promosso da Manlio
Cortelazzo, ma non solo. Insomma, il divario tra Nord e Sud non accenna ad essere
neanche parzialmente colmato.
Abbiamo evidenziato per sommi capi il quadro diacronico della lessicografia
dialettale. Osserviamo adesso la questione della selezione lessicale: se questa
costituisce un problema già per i vocabolari di lingua, lo è a maggior ragione per i
vocabolari dialettali più antichi, per via delle deboli attrezzature teoriche e
organizzative. Rimarchiamo alcune delle principali tendenze: la sovraestensione, se
non addirittura l’ipertrofia, l’atteggiamento didattico e la ricerca della differenzialità,
che avevamo già prima fatto presente con il vocabolario dell’Accademia napoletana.
Per quanto riguarda la prima tendenza, ovvero la sovraestensione del lemmario di un
vocabolario dialettale, possiamo darci la seguente motivazione: si vuole dimostrare
che le parlate locali hanno poco da invidiare all’italiano e si inonda quindi il
lemmario di italianismi e di alterati con tutti i suffissi possibili. Quasi tutti i
vocabolari dialettali ottocenteschi hanno lemmari sovraestesi ma due in particolare
raggiungono dimensioni straordinarie: il vocabolario siciliano di Traina, abbastanza
noto, e quello roveretano di Azzolini. Ed è lo stesso Azzolini che intende spiegarci
perché ha incluso nel suo dizionario anche i toscanismi più ovvi:
“mi corse per la mente il pensiero, se un tal Vocabolario debba essere formato dei soli vocaboli
strani del dialetto, o piuttosto di quelli eziandìo, che in tutto corrispondono ai vocaboli italiani,
come sarebbero, Acqua, Terra, Mondo, Vita, Anima, e così via. Il partito di formarlo dei soli
vocaboli strani del dialetto è sostenuto da forti ragioni; ma il partito di formarlo tale, che contenga i
vocaboli tutti dell’intero dialetto, è difeso da ragioni più forti, poichè restringendosi alla
compilazione dei soli vocaboli strani, omettendo gli altri, potrebbesi fare insorgere dubbio, se questi
sieno stati a bella posta omessi, o piuttosto dimenticati; e così inviluppare in mille sospetti chi fosse
per giovarsi di questo lavoro; con di più ancora, che seguendo questo secondo partito, mostrerebbesi
ad evidenza quanto il dialetto nostro tenga nel suo universale del pretto italiano.”

Una volta scelto il criterio, Azzolini decide di inondare in modo ossessivo il suo
dizionario di derivati. Ecco un piccolo campionario riferito a un solo aggettivo:
BULBER -A. agg. Burbero, austero, burbanzoso.
BULBERAZ, BULBEROM. accr. di bulber. Burbero grande, burberone.
BULBERAZ -AZZA, BULBEROM -ONA. accr. di BULBER -A. Assai burbero, austero.
BULBEROT. dim. di BULBER. Piccolo burbero.
BULBEROT -OTTA. dim. di BULBER -A. Perché no bulberetto, austeretto, burbanzosetto?

Il “perché no?”, che si ripete per centinaia di volte in tutto il vocabolario, indica la
proposta di un alterato possibile nella lingua italiana, come il derivato in -otta
dell’esempio, ma che nessun roveretano ha mai usato. Qualcosa di simile accade nel
vocabolario siciliano del Traina, che include cultismi inutili come cuntaggiusissimu,
superlativo di cuntagiusu, o cuntaggiusamenti.
Parliamo adesso dell’atteggiamento didattico, che distingueremo in due
sottotipologie, l’una necessariamente opposta all’altra. La prima riguarda
l’insegnamento di una parola italiana da una dialettale e ha un periodo di punta nel
corso dell’Ottocento, ma si esaurisce presto durante il secolo successivo con
l’avanzamento dell’italianizzazione. Fornire un corrispettivo italiano alle parole del
dialetto è la logica con cui i più noti esponenti della cultura manzoniana promossero
nel 1890 un concorso governativo per il miglior dizionario dialettale atto a favorire
l’apprendimento dell’italiano; nella commissione sedeva anche Graziadio Isaia
Ascoli, per un momento anche nella veste di presidente.
La seconda riguarda invece il processo inverso: si scrivono i vocabolari dialettali per
tentare di riportare i giovani ad usare il dialetto, ad esempio con una glossa in italiano
per rendere chiaro il significato, non sempre afferrabile, di una parola del dialetto.
Tuttavia, fermare il tempo è impossibile e nessun vocabolario è dunque mai riuscito a
portare le nuove generazioni alla lingua dei padri.
Infine, la ricerca della differenzialità, della quale abbiamo già dato qualche cenno
come dicevamo. Aggiungiamo soltanto una breve notazione di Rohlfs, tesa a
illustrare i criteri di inclusione e di esclusione nel suo VDS:
“Non ho avuto l’intenzione di accumulare nel mio Vocabolario tutte quelle voci che in tempi recenti
o passati sono state prese dalla lingua comune italiana [...] e ho dato poca importanza alle parole
appartenenti a tutta la regione salentina senza varianti notevoli”

In generale, vocabolari di questo tipo registrano principalmente le parole di tradizione


popolare e, solo se indispensabili, le parole di tradizione dotta.
I dizionari che abbiamo osservato finora descrivono i loro rispettivi dialetti in un dato
momento; ma non esistono solo i vocabolari dialettali sincronici. Pensiamo ai recenti
progetti del Vocabolario ligure di Sergio Aprosio, del 2001-03, e del Vocabolario
veneziano di Manlio Cortelazzo, del 2007. Il primo descrive l’evoluzione del volgare
ligure, dal lessico medioevale latino dello spazio linguistico ligure sino al XVIII
secolo; il secondo considera invece soltanto un secolo, il Cinquecento, e una singola
varietà, il dialetto di Venezia città-stato, non tutto quanto il Veneto per intenderci.
Sono questi gli ultimi vocabolari integralmente storici concepiti e realizzati da una
sola persona: Aprosio e Cortelazzo hanno dovuto lavorare sodo per vent’anni circa,
ma i loro dizionari presentano un grande vantaggio, che è l’unitarietà di impianto.
Diciamo ancora che, a parte i due esempi sopra, esiste la possibilità di inserire
elementi storici all’interno di strutture sincroniche: ad esempio, il siciliano VS attinge
con larghezza a vocabolari siciliani del passato, mentre quelli di Rohlfs fanno spesso
riferimento a documentazione scritta di secoli passati. Quanto poi alle ricerche
etimologiche sul lessico dialettale ricordiamo un’altra fatica di Cortelazzo, stavolta
con il prezioso contributo di Carla Marcato: stiamo parlando de “I dialetti italiani.
Dizionario etimologico”, al cui interno si presentano e si descrivono intere aree
lessicali regionali.
Quasi tutti i vocabolari dialettali italiani puntano alla descrizione del lessico di una
sola località, al massimo con l’estensione del contado; questi sono chiamati
vocabolari puntuali. D’altra parte, alcuni vocabolari dialettali possono però occuparsi
di più punti. A seconda dell’ampiezza dell’area presa in considerazione, si distingue
tra vocabolari micro-areali e areali.
Un esempio della prima tipologia è l’eccellente Lessico dei dialetti del territorio
veronese di Giorgio Rigobello. L’area descritta è quella della provincia
amministrativa di Verona; leggendo alcune righe dell’Introduzione, scopriamo che il
lessico è così distribuito:
“Ampio spazio viene dato al dialetto della Valpolicella (10%), della Val d’Alpone, delle valli di
Illasi e di Mezzane, della Lessinia, della zona baldense, di quella benacense (complessivamente
ancora un 5%), alle tre stazioni di rilevamento di Albisano, Raldon e Cerea inserite nell’Atlante
Italo Svizzero (circa l’8%); la percentuale maggiore, il 15%, è riservata alla Bassa Veronese
(Introduzione di Gian Paolo Marchi, pp. 6-7).”

La parte restante, maggioritaria, è ovviamente dedicata al dialetto cittadino.


I vocabolari areali puntano invece a descrivere aree linguistiche anche molto ampie e
rappresentano prodotti ambiziosi quanto rari. Uno di questi è il Lessico della Svizzera
italiana (LSI), che con i suoi 56600 lemmi costituisce il più imponente vocabolario
dialettale italoromanzo mai realizzato. Eppure si è trattato di una realizzazione
fulminea, dato che il progetto è divenuto realtà concreta in soli nove anni, tra il ’95 e
il 2004.
In realtà esiste un’ultima tipologia di descrizione areale, che può essere etichettata
con il nome di cluster, “grappolo”. Si tratta della straordinaria esperienza condotta
dallo studioso valtellinese Remo Bracchi e dall’IDEVV, l’Istituto di dialettologia e di
Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca. Il progetto consiste nella produzione di
vocabolari puntuali di singole località della Valtellina e della Val Chiavenna, ma
all’interno di un progetto organico, di tipo specificamente areale. Segnaliamo come
esempio alcuni vocabolari: Antonioli-Bracchi 1995 sul dialetto di Grosio, Pola-Tozzi
1998 su Tirano, Branchi-Berti 2002 su Teglio, Scuffi-Bracchi 2005 su Samòlaco.
Infine, un caso sui generis di descrizione dialettale puntuale è quella del vocabolario
dialettale d’autore, ovvero al cui interno il corpus è costituito da un solo autore. Gli
esempi italoromanzi sono in realtà pochissimi: ricordiamo il vocabolario goldoniano,
basato quindi sul veneziano settecentesco, e alcuni vocabolari di autori romani, che
suppliscono quasi alle tradizionali carenze della lessicografia del romanesco: seppur
modesti, abbiamo infatti i vocabolari del lessico di Belli e poi quello di Trilussa.
Proiettandoci ora sul presente, sono ancora numerosi in Italia coloro che, anno dopo
anno, si fanno carico delle immani fatiche lessicografiche, specializzandosi su varietà
regionali, idiomi minoritari, dialetti locali di comunità appartate e marginali. Gli
studiosi si dedicano con abnegazione al lavoro di raccolta, anche perché spinti da un
interesse non episodico e da una viva passione per la parlata della quale si occupano.
Ma la passione autoreferenziale che lo studioso coltiva nei confronti del suo lavoro e,
diremmo, della sua terra non è ancora un motivo valido per fare lessicografia
dialettale oggi. D’altronde l’italiano sta prendendo sempre più spazio nei confronti
del dialetto e i soli dizionari non potranno ripristinarne l’uso. Le motivazioni sono
altre: i dizionari dialettali salvaguardano la memoria delle parlate e rievocano un
momento storico-culturale di un territorio, indissolubilmente legato al suo dialetto:
dimenticarlo, ancorandoci soltanto all’oggi, non sarebbe giusto.
Inoltre, chi si occupa della lingua non potrà certo credere di potere trascurare la
dimensione strettamente locale e regionale. La riflessione sulla lingua italiana è
inevitabilmente legata ad una considerazione d’insieme sul patrimonio lessicale del
dominio italo-romanzo; gran parte dei problemi etimologici e storico-linguistici
relativi alla lingua nazionale trovano la loro interpretazione soltanto attraverso la
documentazione locale. Si pensi soltanto al ruolo svolto da alcune varietà come il
veneziano, il siciliano o il genovese, nel processo di formazione dell’italiano comune.
Se si mettesse in dubbio l’interesse sulla ricerca dialettale, tanto varrebbe allora
mettere in discussione le ricerche sul lessico della lingua italiana, e non solo.

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