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Diversi testi per trattare

la tematica
delle Beatitudini

Tertulliano
scrittore latino
tratto da “Apologetico” in cui parla delle persecuzioni dei primi
cristiani

F12. Ma continuate pure, o buoni governatori: ché molto migliori agli occhi del popolo
diventerete, se dei Cristiani gli immolerete. Tormentateci, torturateci, condannate-
ci, stritolateci: la vostra iniquità infatti della nostra innocenza è prova. Per questo
Dio tollera che noi codesto si patisca. 13. Né tuttavia giova a nulla ogni vostra più
raffinata crudeltà: è piuttosto un’attrattiva alla setta. Più numerosi diventiamo, ogni
volta che da voi siamo mietuti: è semenza il sangue dei Cristiani. 14. Molti tra di voi
il dolore e la morte a sopportare esortano, come Cicerone nelle Tusculane, come
Seneca nei Casi fortuiti, come Diogene, come Pirrone, come Callinico. Né tuttavia
le parole tanti discepoli trovano, quanti i Cristiani ne ottengono ammaestrando con
i fatti. 15. Quella stessa ostinazione che ci rimproverate, fa da maestra. Chi, infatti,
considerandola, non si sente scosso a ricercare che cosa ci sia in fondo alla cosa? E
quando ha indagato, chi non vi accede?. E quando vi è acceduto, chi non brama pati-
re, per acquistarsi la pienezza della grazia di Dio, per ottenere intero da lui il perdono
a prezzo del proprio sangue? 16. Ché tutte le colpe a questo atto sono condonate.
Da ciò il fatto che lì sul posto, noi vi rendiamo grazie per la vostra sentenza. Come
v’è contrasto fra il divino e l’umano, quando da voi siamo condannati, da Dio siamo
assolti.

M. L. King
tratto dal discorso “I have a dream”

Ma c’é qualcosa che devo dire al mio popolo, fermo su una soglia rischiosa, alle porte
del palazzo della giustizia: durante il processo che ci porterà a ottenere il posto che
ci spetta di diritto, non dobbiamo commettere torti.

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Non cerchiamo di placare la sete di libertà bevendo alla coppa del rancore e dell’odio.
Dobbiamo sempre condurre la nostra lotta su un piano elevato di dignità e disciplina.
Non dobbiamo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica.
Sempre, e ancora e ancora, dobbiamo innalzarci fino alle vette maestose in cui la
forza fisica s’incontra con la forza dell’anima.
Il nuovo e meraviglioso clima di combattività di cui oggi é impregnata l’intera co-
munità nera non deve indurci a diffidare di tutti i bianchi, perché molti nostri fratelli
bianchi, come attesta oggi la loro presenza qui, hanno capito che il loro destino é
legato al nostro.
Hanno capito che la loro libertà si lega con un nodo inestricabile alla nostra.
Non possiamo camminare da soli.
E mentre camminiamo, dobbiamo impegnarci con un giuramento: di proseguire sem-
pre avanti.
Non possiamo voltarci indietro.
C’é chi domanda ai seguaci dei diritti civili: “Quando sarete soddisfatti?”.
Non potremo mai essere soddisfatti, finché i neri continueranno a subire gli indescri-
vibili orrori della brutalità poliziesca.
Non potremo mai essere soddisfatti, finché non riusciremo a trovare alloggio nei
motel delle autostrade e negli alberghi delle città, per dare riposo al nostro corpo
affaticato dal viaggio.
Non potremo mai essere soddisfatti, finché tutta la facoltà di movimento dei neri
resterà limitata alla possibilità di trasferirsi da un piccolo ghetto a uno più grande.
Non potremo mai essere soddisfatti, finché i nostri figli continueranno a essere spo-
gliati dell’identità e derubati della dignità dai cartelli su cui sta scritto “Riservato ai
bianchi”.
Non potremo mai essere soddisfatti, finché i neri del Mississippi non potranno vota-
re e i neri di New York crederanno di non avere niente per cui votare.
No, no, non siamo soddisfatti e non saremo mai soddisfatti, finché la giustizia non
scorrerà come l’acqua, e la rettitudine come un fiume in piena.
Io non dimentico che alcuni fra voi sono venuti qui dopo grandi prove e tribolazioni.
Alcuni di voi hanno lasciato da poco anguste celle di prigione.
Alcuni di voi sono venuti da zone dove ricercando la libertà sono stati colpiti dalle
tempeste della persecuzione e travolti dai venti della brutalità poliziesca.
Siete i reduci della sofferenza creativa.
Continuate il vostro lavoro, nella fede che la sofferenza immeritata ha per frutto la
redenzione.

Madre Teresa
Lettera scritta nel 1991 alla vigilia della Guerra del Golfo

Cari presidente Bush e presidente Saddam Hussein, mi rivolgo a voi con le lacrime
agli occhi e l’amore di Dio nel cuore per supplicarvi a nome dei poveri e di coloro

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che diventeranno tali se scoppierà la guerra a cui tutti guardiamo con paura e or-
rore. Vi supplico con tutto il cuore di prodigarvi per la pace di Dio e per la vostra
riconciliazione.
Tutti e due avete le vostre ragioni da far valere e il vostro popolo a cui badare, ma vi
prego prima di prestare ascolto a Colui che venne al mondo per insegnarci la pace.
Voi avete il potere e la forza di distruggere la presenza di Dio e la sua immagine. I
suoi uomini, le sue donne, i suoi bambini. Vi prego, ascoltate la volontà di Dio. Ci
ha creati perché ci amassimo attraverso di Lui e non perché ci distruggessimo con
l’odio.
È probabile che a breve termine ci saranno vincitori e vinti in questa guerra a cui
tutti guardiamo con timore, ma nulla può, né potrà mai, giustificare le sofferenze, il
dolore e le perdite causate dalle vostre armi.
Mi rivolgo a voi nel nome di Dio, quel Dio che tutti amiamo e che è uno solo, per
supplicarvi di risparmiare gli innocenti, i nostri poveri e quelli che diventeranno tali
a causa della guerra.

Molti soffriranno in particolar modo perché privi di vie di scampo. Vi prego in ginoc-
chio per loro. Soffriranno, e quando questo avverrà, sarà nostra la colpa per non
avere fatto tutto ciò che era in nostro potere per proteggerli e amarli. Vi supplico
per coloro che resteranno orfani, vedovi e soli perché i loro genitori, i loro sposi, i
loro fratelli e bambini saranno stati uccisi. Vi prego salvateli. Vi supplico per coloro
che resteranno invalidi e sfigurati. Sono figli di Dio. Vi supplico per coloro che rimar-
ranno senza casa, senza cibo e senza amore.
Vi prego, pensate a loro come ai vostri figli. In ultimo, vi supplico per coloro a cui
verrà tolto il dono più prezioso di Dio, la vita. Vi imploro di salvare i nostri fratelli e le
nostre sorelle, che ci sono stati dati da Dio perché li amassimo e ne avessimo cura.
Non è per distruggerli che ci sono stati dati. Vi imploro, vi imploro, fate che la vostra
mente e la vostra volontà divengano la mente e la volontà del Signore. Voi avete il
potere di portare nel mondo la guerra o di costruire la pace. Vi prego di scegliere la
via della pace.
Io, le mie sorelle e i nostri poveri preghiamo per voi. Il mondo intero prega perché
apriate i vostri cuori all’amore di Dio. Potete vincere la guerra, ma quale ne sarebbe
il costo in termini di vite umane, devastate, mutilate e annientate?
Faccio appello a voi, al vostro amore, al vostro amore per Dio e per il prossimo.
Nel nome di Dio e nel nome di coloro che renderete poveri, non distruggete la vita
e la pace. Fate invece che l’amore e la pace trionfino e che i vostri nomi vengano
ricordati per il bene che avrete fatto, per la gioia che avrete donato e l’amore che
avrete condiviso.
Pregate per me e per le mie sorelle perché possiamo servire e amare i poveri che
appartengono a Dio e da Lui sono amati, così come noi e i nostri poveri preghiamo
per voi. Preghiamo affinché amiate e proteggiate ciò che Dio vi ha affidato con tanta
fiducia.
Possa Dio benedirvi ora e sempre.

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Kipling
“Se”

Se saprai mantenere la testa quando tutti intorno a te


la perdono, e te ne fanno colpa.
Se saprai avere fiducia in te stesso quando tutti ne dubitano,
tenendo però considerazione anche del loro dubbio.
Se saprai aspettare senza stancarti di aspettare,
O essendo calunniato, non rispondere con calunnia,
O essendo odiato, non dare spazio all’odio,
Senza tuttavia sembrare troppo buono, né parlare troppo saggio;
Se saprai sognare, senza fare del sogno il tuo padrone;
Se saprai pensare, senza fare del pensiero il tuo scopo,
Se saprai confrontarti con Trionfo e Rovina
E trattare allo stesso modo questi due impostori.
Se riuscirai a sopportare di sentire le verità che hai detto
Distorte dai furfanti per abbindolare gli sciocchi,
O a guardare le cose per le quali hai dato la vita, distrutte,
E piegarti a ricostruirle con i tuoi logori arnesi.
Se saprai fare un solo mucchio di tutte le tue fortune
E rischiarlo in un unico lancio a testa e croce,
E perdere, e ricominciare di nuovo dal principio
senza mai far parola della tua perdita.
Se saprai serrare il tuo cuore, tendini e nervi
nel servire il tuo scopo quando sono da tempo sfiniti,
E a tenere duro quando in te non c’è più nulla
Se non la Volontà che dice loro: “Tenete duro!”
Se saprai parlare alle folle senza perdere la tua virtù,
O passeggiare con i Re, rimanendo te stesso,
Se né i nemici né gli amici più cari potranno ferirti,
Se per te ogni persona conterà, ma nessuno troppo.
Se saprai riempire ogni inesorabile minuto
Dando valore ad ognuno dei sessanta secondi,
Tua sarà la Terra e tutto ciò che è in essa,
E — quel che più conta — sarai un Uomo, figlio mio!

Luigi Garlando
racconto tratto dal libro “Camilla che odiava la politica”

Terza parola: Ministrum


Accomodati, Camilla, questo è il tuo seggio parlamentare…» dice Aristotele, invitan-
domi con un inchino elegante.
Sorride anche Marisol.

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Il vecchio è tornano in gran forma, ma, per precauzione, continua a dormire nel ca-
pannone di nonno Anselmo, così il mio sgabello è cambiato: non è più un fustino di
detersivo, ma uno scatolone di caramelle al minestrone pronto per essere spedito in
Canada.
Aristotele, seduto sul letto, s’infila gli occhialini rotondi sulla benda e comincia: «Sia-
mo arrivati alla terza parola, la più importante. Hai portato i fogli delle lezioni prece-
denti?» Glieli mostro.
«Bene» commenta. «Fammi un veloce riassunto delle cose che ci siamo detti finora,
poi proseguiamo.» Attacco: «La politica è il capito, cioè capire i bisogni delle persone
e impegnarsi per soddisfarli. La politica riempie il vuoto che separa chi comanda da
chi obbedisce. In una democrazia tutti devono partecipare al governo della città o
dello Stato. Quando non è possibile partecipare direttamente, come nelle antiche
città greche, dove i cittadini si ritrovavano tutti in piazza e votavano per alzata di
mano, si partecipa attraverso i nostri rappresentanti.»
«Perfetto» approva Aristotele.
Vado avanti: «Noi, attraverso le elezioni, scegliamo le persone che riteniamo più
adatte a difendere le nostre idee, a soddisfare i nostri desideri e a creare le leggi che
riteniamo più giuste. Queste persone si occupano di politica per mestiere e si chia-
mano, appunto, politici. A seconda delle loro idee e delle soluzioni per risolvere i vari
problemi, i politici si dividono in gruppi diversi, che si chiamano partiti. Se in un Paese
c’è un partito solo, non esiste la democrazia, perché non sono rappresentate le idee
di tutti. I partiti che ricevono più voti, cioè più fiducia dalla gente, hanno il compito di
governare, di fare le leggi e di provare a risolvere i problemi a modo loro.»
«Cosa mi dici dei soldi?» chiede Aristotele.
«Ah, sì… Rappresentare le nostre idee è il mestiere dei politici che perciò ricevono
uno stipendio pagato dai cittadini. È giusto, perché i politici si impegnano per far
funzionare bene la città o la nazione, che appartengono a tutti.»
«Molto bene, Camilla. Ora leggi la terza parola. È una parola latina.» Aristotele pren-
de un foglio bianco e una delle tre biro che gli ho regalato. Come al solito, scrive
grandi lettere in stampatello.
Leggo: «MINISTRUM.»
«Non significa “ministro“» mi spiega il vecchio. «Ai tempi degli antichi romani, questa
parola aveva un significato molto più comune. Prova a indovinare.» Ci penso un po’.
Mi vengono subito in mente i ministri che si vedono al telegiornale, cioè i politici dei
partiti che hanno vinto le elezioni, quelli che comandano la nazione. Sono sempre
eleganti, viaggiano su auto di lusso e d’estate si fanno fotografare su certe barche
che non finiscono più.
Perciò provo a dire: «Potente.» ; «No» risponde Aristotele.
«Importante?»
«No.»
«Ricco?»
«NO.»
«Famoso?»
«No.»

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«Mi arrendo.» Aristotele afferra il foglio, lo solleva sopra la testa, come per farlo leg-
gere a una persona lontana, e annuncia: «Ministrum significa “servo”.»
«Servo?» ripeto, sorpresa.
«Sì, Camilla, e se ripensi a tutto quello che ti ho detto, non c’è niente di strano. Il po-
litico prima di tutto dev’essere un servitore. È al servizio della gente che ha bisogno
e che lo ha eletto per risolvere i suoi problemi. Come hanno fatto tanti sindaci che
hanno guidato la Città in passato, persone oneste, in gamba. A fine Ottocento c’era
Gaetano, lo chiamavano il sindaco della michetta, perché aveva tolto la tassa sul
pane per aiutare i più poveri che non potevano comprarlo. Il sindaco Virgilio, un se-
colo dopo, ha costruito l’ospizio per i vecchi e ci è morto dentro, come un poveretto
qualsiasi. Poi venne Pietro, che era un medico famoso: arrivava in Comune in tram e
non volle la segretaria personale, perché diceva che bisognava risparmiare e usare i
soldi per le spese utili. Questi signori erano veramente servi della loro gente! Questa
è la politica bella, Camilla! Cosa fa invece il tuo sindaco?»
Rispondo di getto: «Si fa portare a spasso su una Mercedes di lusso che ha fatto
comprare con i sol di del Comune, mentre i bambini vanno a scuola sullo scuolabus
scassato; si è costruito una piscina per la sua villa, dove non si poteva; lascia sempre
l’auto in divieto di sosta, perché tanto i suoi vigili non gli danno mai la multa; e il non-
no dice che si è inventato anche una legge per aumentarsi lo stipendio da sindaco.»
Aristotele volta il foglio, che tiene ancora sollevato sopra la sua testa. Ora la parola
MINISTRUM si legge al contrario.
«Tu mi chiedevi perché tanta gente parla male dei politici. Per questo, Camilla: perché
la parola MINISTRUM è stata capovolta e i politici oggi non sembrano più dei servi,
ma dei padroni. Approfittano del potere che hanno per diventare come dicevi tu:
potenti, ricchi, famosi…»
«È accaduto questo al partito di mio papà?» domando.
«Purtroppo sì, Camilla.»
«Ma Roby ha costruito le Case Rosse per i poveri, andava in Comune in bicicletta,
si è battuto per difendere il parco naturale che appartiene a tutti, non per farsi la
piscina. È stato un buon servo!»
«Ne sono convinto anch’io, Camilla. E ce n’erano altri come lui, ma si sono ritrovati
in una cassa di mele marce. Nel suo partito tutti volevano diventare padroni. Prendi
il foglio della lezione scorsa e rileggi la frase che abbiamo scritto sotto la parola PO-
LIS.» Apro il foglio bianco che avevo piegato in quattro e leggo: «I SOLDI SERVONO
PER FARE POLITICA.»
«Hanno capovolto anche questa frase» spiega Aristotele.«Ora LA POLITICA SERVE
PER FARE SOLDI. Pensa al guardiano del canile. Ci ha detto: “Io ho il potere di
liberare il Capitano. Se mi pagate, lo lascio libero.” Ha sfruttato la sua carica per
guadagnare dei soldi. Il partito di Roby, che aveva vinto le elezioni, occupava posti
molti importanti e tanti politici si comportavano come il guardiano del canile. Vuoi un
lavoro? Vuoi il permesso per costruire una casa? Dammi tanti soldi e io ti accontento.
Capisci, Camilla?»
«Credo di sì» rispondo. «È come se il nostro prof usasse il suo potere per costringerci
a lavargli la macchina in cortile.»

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«È andata proprio così, Camilla. Hanno usato male il voto ricevuto dagli elettori. In-
vece di servire, si sono arricchiti. Si sono trasformati in servitori di se stessi. Quando
tutto è venuto a galla e i giudici hanno cominciato ad arrestare i politici corrotti, la
gente si è arrabbiata, si è sentita tradita, ha tirato le monetine ai ministri. Anche oggi
c’è poca fiducia nella politica, perché tante volte la politica sembra davvero come la
pensavi tu: un polipo che bada solo a riempirsi la pancia e con i suoi tentacoli arraffa
dappertutto. I politici, invece di usare il tram come il sindaco Pietro, usano gli aerei
pagati dai cittadini per andare in vacanza; non fanno le leggi più utili alla gente, ma
quelle che servono per mettersi a posto la villa al mare e per aumentarsi lo stipendio.
Ma rifletti bene, Camilla: la colpa è della politica? O degli uomini che sbagliano? È a
questa domanda che devi rispondere prima di decidere se odiare o no il lavoro che
faceva tuo papà.» Aristotele piega in quattro in foglio con scritto MINISTRUM, si
alza e me lo consegna, sorridendo: «Tieni. In questo momento stringi in pugno il cuore
della politica, perché la politica vera, quella buona, è tutta in tre parole: ascoltare,
partecipare, servire. IL CAPITO, POLIS, MINISTRUM.
E poi ho imparato che la politica, in fondo, è un’azione a tre tocchi, come la pallavolo:
ascoltare, partecipare, servire.

Manfredi Borsellino
Lettera scritta in ricordo di suo padre Paolo

Il primo pomeriggio di quel 23 maggio studiavo a casa dei miei genitori, preparavo
l’esame di diritto commerciale, ero esattamente allo “zenit” del mio percorso uni-
versitario. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come solo lui sapeva
fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via Zandonai, dove nel
bel mezzo del “taglio” fu raggiunto dalla telefonata di un collega che gli comunicava
dell’attentato a Giovanni Falcone lungo l’autostrada Palermo-Punta Raisi.

Ricordo bene che mio padre, ancora con tracce di schiuma da barba sul viso, avendo
dimenticato le chiavi di casa bussò alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi la
televisione che in diretta trasmetteva le prime notizie sull’accaduto. Aprii la porta ad
un uomo sconvolto, non ebbi il coraggio di chiedergli nulla né lui proferì parola.

Si cambiò e raccomandandomi di non allontanarmi da casa si precipitò, non ricordo se


accompagnato da qualcuno o guidando lui stesso la macchina di servizio, nell’ospe-
dale dove prima Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero spirati tra le
braccia. Quel giorno per me e per tutta la mia famiglia segnò un momento di non ri-
torno. Era l’inizio della fine di nostro padre che poco a poco, giorno dopo giorno, fino a
quel tragico 19 luglio, salvo rari momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell’uomo
dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti conoscevamo.

Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto mentre vegliavamo la
salma di Falcone nella camera ardente allestita all’interno del Palazzo di Giustizia.

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Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega ed
amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo stessi già
piangendo la sua.
Dal 23 maggio al 19 luglio divennero assai ricorrenti i sogni di attentati e scene di
guerra nella mia città ma la mattina rimuovevo tutto, come se questi incubi non mi
riguardassero e soprattutto non riguardassero mio padre, che invece nel mio subcon-
scio era la vittima. Dopo la strage di Capaci, eccetto che nei giorni immediatamente
successivi, proseguii i miei studi, sostenendo gli esami di diritto commerciale, scienze
delle finanze, diritto tributario e diritto privato dell’economia. In mio padre avvertivo
un graduale distacco, lo stesso che avrebbero percepito le mie sorelle, ma lo attri-
buivo (e giustificavo) al carico di lavoro e di preoccupazioni che lo assalivano in quei
giorni. Solo dopo la sua morte seppi da padre Cesare Rattoballi che era un distacco
voluto, calcolato, perché gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci
abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in qualche modo “preparati”
qualora a lui fosse toccato lo stesso destino dell’amico e collega Giovanni.

La mattina del 19 luglio, complice il fatto che si trattava di una domenica ed ero
oramai libero da impegni universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto
all’orario in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni
giorno (compresa la domenica) alle 5 del mattino per “fottere” il mondo con due ore
di anticipo. In quei giorni di luglio erano nostri ospiti, come d’altra parte ogni esta-
te, dei nostri zii con la loro unica figlia, Silvia, ed era proprio con lei che mio padre
di buon mattino ci aveva anticipati nel recarsi a Villagrazia di Carini dove si trova
la residenza estiva dei miei nonni materni e dove, nella villa accanto alla nostra, ci
aveva invitati a pranzo il professore “Pippo” Tricoli, titolare della cattedra di Storia
contemporanea dell’Università di Palermo e storico esponente dell’Msi siciliano, un
uomo di grande spessore culturale ed umano con la cui famiglia condividevamo ogni
anno spensierate stagioni estive.

Mio padre, in verità, tentò di scuotermi dalla mia “loffia” domenicale tradendo un
certo desiderio di “fare strada” insieme, ma non ci riuscì. L’avremmo raggiunto suc-
cessivamente insieme agli zii ed a mia madre. Mia sorella Lucia sarebbe stata im-
pegnata tutto il giorno a ripassare una materia universitaria di cui avrebbe dovuto
sostenere il relativo esame il giorno successivo (cosa che fece!) a casa di una sua
collega, mentre Fiammetta, come è noto, era in Thailandia con amici di famiglia e
sarebbe rientrata in Italia solo tre giorni dopo la morte di suo padre.

Non era la prima estate che, per ragioni di sicurezza, rinunciavamo alle vacanze
al mare; ve ne erano state altre come quella dell’85, quando dopo gli assassini di
Montana e Cassarà eravamo stati “deportati” all’Asinara, o quella dell’anno pre-
cedente, nel corso della quale mio padre era stato destinatario di pesanti minacce
di morte da parte di talune famiglie mafiose del trapanese. Ma quella era un’estate
particolare, rispetto alle precedenti mio padre ci disse che non era più nelle condi-
zioni di sottrarsi all’apparato di sicurezza cui, soprattutto dolo la morte di Falcone,

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lo avevano sottoposto, e di riflesso non avrebbe potuto garantire a noi figli ed a
mia madre quella libertà di movimento che negli anni precedenti era riuscito ad
assicurarci.

Così quell’estate la villa dei nonni materni, nella quale avevamo trascorso sin dalla
nostra nascita forse i momenti più belli e spensierati, era rimasta chiusa. Troppo
“esposta” per la sua adiacenza all’autostrada per rendere possibile un’adeguata pro-
tezione di chi vi dimorava. Ricordo una bellissima giornata, quando arrivai mio padre
si era appena allontanato con la barchetta di un suo amico per quello che sarebbe
stato l’ultimo bagno nel “suo” mare e non posso dimenticare i ragazzi della sua scor-
ta, gli stessi di via D’Amelio, sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a
godersi quel sole e quel mare.
Anche il pranzo in casa Tricoli fu un momento piacevole per tutti, era un tipico pranzo
palermitano a base di panelle, crocché, arancine e quanto di più pesante la cucina
siciliana possa contemplare, insomma per stomaci forti. Ricordo che in Tv vi erano le
immagini del Tour de France ma mio padre, sebbene fosse un grande appassionato
di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era risparmiato nel “tenere
comizio” come suo solito, decise di appisolarsi in una camera della nostra villa. In
realtà non dormì nemmeno un minuto, trovammo sul portacenere accanto al letto un
cumulo di cicche di sigarette che lasciava poco spazio all’immaginazione.

Dopo quello che fu tutto fuorché un riposo pomeridiano mio padre raccolse i suoi
effetti, compreso il costume da bagno (restituitoci ancora bagnato dopo l’eccidio)
e l’agenda rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo
avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata sul piazzale limi-
trofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre lo salutò sull’uscio della villa del
professore Tricoli, io l’accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo
che aveva l’appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo per cui non ebbi
bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore
ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii.

Ho realizzato che mio padre non c’era più mentre quel pomeriggio giocavo a ping
pong e vidi passarmi accanto il volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena ap-
preso dell’attentato dalla radio. Non so perché ma prima di decidere il da farsi io e
mia madre ci preoccupammo di chiudere la villa. Quindi, mentre affidavo mia madre
ai miei zii ed ai Tricoli, sono salito sulla moto di un amico d’infanzia che villeggia lì
vicino ed a grande velocità ci recammo in via D’Amelio.

Non vidi mio padre, o meglio i suoi “resti”, perché quando giunsi in via D’Amelio fui
riconosciuto dall’allora presidente della Corte d’Appello, il dottor Carmelo Conti, che
volle condurmi presso il centro di Medicina legale dove poco dopo fui raggiunto da
mia madre e dalla mia nonna paterna. Seppi successivamente che mia sorella Lucia
non solo volle vedere ciò che era rimasto di mio padre, ma lo volle anche ricomporre
e vestire all’interno della camera mortuaria. Mia sorella Lucia, la stessa che poche

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ore dopo la morte del padre avrebbe sostenuto un esame universitario lasciando
incredula la commissione, ci riferì che nostro padre è morto sorridendo, sotto i suoi
baffi affumicati dalla fuliggine dell’esplosione ha intravisto il suo solito ghigno, il suo
sorriso di sempre; a differenza di quello che si può pensare mia sorella ha tratto una
grande forza da quell’ultima immagine del padre, è come se si fossero voluti salutare
un’ultima volta.

La mia vita, come d’altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è certamen-
te cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta ed abbiamo
capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza “se” e senza “ma” a qualsivoglia
sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in particolare.
Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in “familiari
superstiti di una vittima della mafia”, che noi vivessimo come figli o moglie di …..,
desiderava che noi proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella
vita, e gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare chiedeva
“Paolino” sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se
fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo
e, per il momento, unico nipote maschio.

Oggi vorrei dire a mio padre che la nostra vita è sì cambiata dopo che ci ha lasciati
ma non nel senso che lui temeva: siamo rimasti gli stessi che eravamo e che lui ben
conosceva, abbiamo percorso le nostre strade senza “farci largo” con il nostro co-
gnome, divenuto “pesante” in tutti i sensi, abbiamo costruito le nostre famiglie cui
sono rivolte la maggior parte delle nostre attenzioni come lui ci ha insegnato, non ci
siamo “montati la testa”, rischio purtroppo ricorrente quando si ha la fortuna e l’ono-
re di avere un padre come lui, insomma siamo rimasti con i piedi per terra. E vorrei
anche dirgli che la mamma dopo essere stata il suo principale sostegno è stata in
questi lunghi anni la nostra forza, senza di lei tutto sarebbe stato più difficile e molto
probabilmente nessuno di noi tre ce l’avrebbe fatta.

Mi piace pensare che oggi sono quello che sono, ossia un dirigente di polizia ap-
passionato del suo lavoro che nel suo piccolo serve lo Stato ed i propri concittadini
come, in una dimensione ben più grande ed importante, faceva suo padre, indipen-
dentemente dall’evento drammatico che mi sono trovato a vivere.

D’altra parte è certo quello che non sarei mai voluto diventare dopo la morte di mio
padre, una persona che in un modo o nell’altro avrebbe “sfruttato” questo rapporto
di sangue, avrebbe “cavalcato” l’evento traendone vantaggi personali non dovuti,
avrebbe ricoperto cariche o assunto incarichi in quanto figlio di …. o perché di co-
gnome fa Borsellino. A tal proposito ho ben presente l’insegnamento di mio padre,
per il quale nulla si doveva chiedere che non fosse già dovuto o che non si potesse
ottenere con le sole proprie forze. Diceva mio padre che chiedere un favore o una
raccomandazione significa mettersi nelle condizioni di dovere essere debitore nei
riguardi di chi elargisce il favore o la raccomandazione, quindi non essere più liberi

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ma condizionati, sotto il ricatto, fino a quando non si restituisce il favore o la racco-
mandazione ricevuta.

Ai miei figli, ancora troppo piccoli perché possa iniziare a parlargli del nonno, vorrei
farglielo conoscere proprio tramite i suoi insegnamenti, raccontandogli piccoli ma
significativi episodi tramite i quali trasmettergli i valori portanti della sua vita.

Caro papà, ogni sera prima di addormentarci ti ringraziamo per il dono più grande, il
modo in cui ci hai insegnato a vivere.

Andrea Franzoso
Libro “#Disobbediente”
Un libro contro la paura; la storia vera di un uomo che ha avuto
il coraggio di andare controcorrente.

Prefazione di Matteo Bussola


Da piccolo Andrea era obbediente, riservato, timido. Tanto che di fronte alla pre-
potenza non sapeva come reagire, e quando un gruppo di bulli l’ha preso di mira
ha preferito cambiare scuola pur di levarseli di torno. Poi è cresciuto, ha studiato,
lavorato sodo e dopo mille fatiche ed esperienze diverse ha trovato la stabilità e un
posto di lavoro in un’azienda pubblica. E proprio allora, tra i suoi superiori, ha incro-
ciato altri bulli, che approfittavano delle loro posizioni di vertice per imporre le loro
regole e tessere i loro giochi di potere. Uno di questi, il presidente, rubava: utilizzava
i soldi dell’azienda per spese personali, sotto gli occhi di molti colleghi che fingevano
di non vedere, per indifferenza o paura. Questa volta Andrea ha deciso di reagire e
ha denunciato tutto, senza preoccuparsi delle conseguenze e delle ritorsioni, che
inevitabilmente sono arrivate. Da quel giorno la sua vita è cambiata, ma nel modo più
imprevedibile. Ha scoperto che non puoi essere davvero libero se non sei onesto con
te stesso e con gli altri. E che spesso il nemico più grande non è il bullo ma la paura:
sconfitta quella, ti si apre un universo di possibilità.
https://www.tv2000.it/beltemposispera/video/la-storia-di-andrea-franzoso-il-di-
sobbediente/

Liliana Segre
Testo del primo discorso al Senato

Signor Presidente, signor Presidente del Consiglio, colleghi senatori, prendendo la


parola per la prima volta in quest’Aula non possa fare a meno di rivolgere innanzi-
tutto un ringraziamento al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il quale ha
deciso di ricordare l’ottantesimo anniversario dell’emanazione delle leggi razziali,
razziste, del 1938 facendo una scelta sorprendente: nominando quale senatrice a

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vita una vecchia signora, una persona tra le pochissime ancora viventi in Italia che
porta sul braccio il numero di Auschwitz.

Porta sul braccio il numero di Auschwitz e ha il compito non solo di ricordare, ma


anche di dare, in qualche modo, la parola a coloro che ottant’anni orsono non la eb-
bero; a quelle migliaia di italiani, 40.000 circa, appartenenti alla piccola minoranza
ebraica, che subirono l’umiliazione di essere espulsi dalle scuole, dalle professioni,
dalla società, quella persecuzione che preparò la shoah italiana del 1943-1945, che
purtroppo fu un crimine anche italiano, del fascismo italiano.
Soprattutto, si dovrebbe dare idealmente la parola a quei tanti che, a differenza di
me, non sono tornati dai campi di sterminio, che sono stati uccisi per la sola colpa di
essere nati, che non hanno tomba, che sono cenere nel vento. Salvarli dall’oblio non
significa soltanto onorare un debito storico verso quei nostri concittadini di allora, ma
anche aiutare gli italiani di oggi a respingere la tentazione dell’indifferenza verso le
ingiustizie e le sofferenze che ci circondano.  A non anestetizzare le coscienze, a es-
sere più vigili, più avvertiti della responsabilità che ciascuno ha verso gli altri.
In quei campi di sterminio altre minoranze, oltre agli ebrei, vennero annientate. Tra
queste voglio ricordare oggi gli appartenenti alle popolazioni rom e sinti, che ini-
zialmente suscitarono la nostra invidia di prigioniere perché nelle loro baracche le
famiglie erano lasciate unite; ma presto all’invidia seguì l’orrore, perché una notte
furono portati tutti al gas e il giorno dopo in quelle baracche vuote regnava un silen-
zio spettrale.
Per questo accolgo con grande convinzione l’appello che mi ha rivolto oggi su «la
Repubblica» il professor Melloni. Mi rifiuto di pensare che oggi la nostra civiltà de-
mocratica possa essere sporcata da progetti di leggi speciali contro i popoli nomadi.
Se dovesse accadere, mi opporrò con tutte le energie che mi restano. Mi accingo
a svolgere il mandato di senatrice ben conscia della mia totale inesperienza politi-
ca e confidando molto nella pazienza che tutti loro vorranno usare nei confronti di
un’anziana nonna, come sono io. Tenterò di dare un modesto contributo all’attività
parlamentare traendo ispirazione da ciò che ho imparato. Ho conosciuto la condi-
zione di clandestina e di richiedente asilo; ho conosciuto il carcere; ho conosciuto il
lavoro operaio, essendo stata manodopera schiava minorile in una fabbrica satellite
del campo di sterminio. Non avendo mai avuto appartenenze di partito, svolgerò la
mia attività di senatrice senza legami di schieramento politico e rispondendo solo alla
mia coscienza.

Una sola obbedienza mi guiderà: la fedeltà ai vitali principi ed ai programmi avanza-


tissimi – ancora in larga parte inattuati – dettati dalla Costituzione repubblicana. Con
questo spirito, ritengo che la scelta più coerente con le motivazioni della mia nomina
a senatrice a vita sia quella di optare oggi per un voto di astensione sulla fiducia al
Governo.
Valuterò volta per volta le proposte e le scelte del Governo, senza alcun pregiudizio,
e mi schiererò pensando all’interesse del popolo italiano e tenendo fede ai valori che
mi hanno guidata in tutta la vita.

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Gandhi
Pensieri

L’umanità può uscire dalla violenza solo attraverso la non violenza. L’odio può essere
vinto solo dall’amore. Ricambiare l’odio con l’odio serve solo ad allargarlo e ad ap-
profondirlo.

Nel vocabolario del non violento non esiste la parola nemico. Anche per chi si suppo-
ne nemico, il non violento avrà un sentimento di compassione. Egli deve credere che
nessun uomo è intenzionalmente malvagio, che ogni uomo è dotato della facoltà di
distinguere il giusto dall’ingiusto e che, se tale facoltà fosse interamente sviluppata,
sfocerebbe nella non violenza.

La felicità dell’uomo sta nel sapersi accontentare. Chi non sa accontentarsi, anche
se possiede molto, diventa schiavo dei propri desideri. E non c’è schiavitù peggiore
di quella dei propri desideri. Tutti i saggi hanno proclamato ad alta voce che l’uomo
può diventare il peggior nemico di se stesso, come anche il proprio migliore amico.
Sta a lui, alla sua volontà, essere libero o schiavo. Ciò che vale per l’individuo, vale
anche per la società.

I ricchi possiedono una quantità di cose superflue che, come tali, sono spesso messe
da parte o sprecate, mentre milioni di altri uomini patiscono la fame o muoiono per
il freddo per la mancanza di quelle stesse cose. Se ognuno conservasse il possesso
solo di ciò che effettivamente usa, nessuno mancherebbe di niente e tutti vivrebbero
contenti.

Josif Brodskij
C’è gente che muore

Mentre pensi a versarti uno scotch,


schiacci una blatta,
e controlli l’orologio,
mentre con la mano ti sistemi la cravatta,
c’è gente che muore.
In queste città dai nomi strani,
sotto i colpi di fucile,
in mezzo alle fiamme,
senza nemmeno sapere perché,
c’è gente che muore. 
In posti piccoli che non conosci,
ma grandi abbastanza
Per reclamare il diritto a un grido o a un addio,
Sei troppo lontano per amare il prossimo tuo nel fratello Slavo,

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dove i tuoi angeli hanno paura di volare,
c’è gente che muore.
Mentre guardi un atleta segnare,
controlli l’ultimo estratto conto,
o canti la ninnananna al tuo bambino,
c’è gente che muore.
Il Tempo, che con la punta tagliente del suo pennino
assetato di sangue separa le vittime dagli assassini,
scriverà tra questi il nome di quelli come te.

Tiziano Terzani
Lettera
Nell’Himalaya indiana, 17 gennaio 2002

Mi piace essere in un corpo che ormai invecchia. Posso guardare le montagne senza
il desiderio di scalarle. Quand’ero giovane le avrei volute conquistare. Ora posso
lasciarmi conquistare da loro. Le montagne, come il mare, ricordano una misura di
grandezza dalla quale l’uomo si sente ispirato, sollevato. Quella stessa grandezza è
anche in ognuno di noi, ma lì ci è difficile riconoscerla. Per questo siamo attratti dalle
montagne. Per questo, attraverso i secoli, tantissimi uomini e donne sono venuti
quassù nell’Himalaya, sperando di trovare in queste altezze le risposte che sfuggiva-
no loro restando nelle pianure. Continuano a venire.
L’inverno scorso davanti al mio rifugio passò un vecchio sanyasin vestito d’arancio-
ne. Era accompagnato da un discepolo, anche lui un rinunciatario. «Dove andate,
Maharaj?» gli chiesi. «A cercare dio», rispose, come fosse stata la cosa più ovvia del
mondo.

Io ci vengo, come questa volta, a cercare di mettere un po’ d’ordine nella mia testa.
Le impressioni degli ultimi mesi sono state fortissime e prima di ripartire, di « scen-
dere in pianura» di nuovo, ho bisogno di silenzio. Solo così può capitare di sentire la
voce che sa, la voce che parla dentro di noi. Forse è solo la voce del buon senso, ma
è una voce vera.

Le montagne sono sempre generose. Mi regalano albe e tramonti irripetibili; il silen-


zio è rotto solo dai suoni della natura che lo rendono ancora più vivo. L’esistenza qui
è semplicissima. Scrivo seduto sul pavimento di legno, un pannello solare alimenta il
mio piccolo computer; uso l’acqua di una sorgente a cui si abbeverano gli animali del
bosco – a volte anche un leopardo -, faccio cuocere riso e verdure su una bombola
a gas, attento a non buttar via il fiammifero usato. Qui tutto è all’osso, non ci sono
sprechi e presto si impara a ridare valore ad ogni piccola cosa. La semplicità è un
enorme aiuto nel fare ordine.
A volte mi chiedo se il senso di frustrazione, d’impotenza che molti, specie fra i gio-
vani, hanno dinanzi al mondo moderno è dovuto al fatto che esso appare loro così

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complicato, così difficile da capire che la sola reazione possibile è crederlo il mondo
di qualcun altro: un mondo in cui non si può mettere le mani, un mondo che non si
può cambiare. Ma non è così: il mondo è di tutti. Eppure, dinanzi alla complessità di
meccanismi disumani – gestiti chi sa dove, chi sa da chi – l’individuo è sempre più
disorientato, si sente al perso, e finisce così per fare semplicemente il suo piccolo
dovere nel lavoro, nel compito che ha dinanzi, disinteressandosi del resto e aumen-
tando così il suo isolamento, il suo senso di inutilità. Per questo è importante, secon-
do me, riportare ogni problema all’essenziale. Se si pongono le domande di fondo, le
risposte saranno più facili.

Vogliamo eliminare le armi? Bene: non perdiamoci a discutere sul fatto che chiudere
le fabbriche di fucili, di munizioni, di mine anti-uomo o di bombe atomiche creerà dei
disoccupati. Prima risolviamo la questione morale. Quella economica raffronteremo
dopo. O vogliamo, prima ancora di provare, arrenderci al fatto che l’economia deter-
mina tutto, che ci interessa solo quel che ci è utile?
« In tutta la storia ci sono sempre state delle guerre. Per cui continueranno ad esser-
ci», si dice. «Ma perché ripetere la vecchia storia? Perché non cercare di cominciarne
una nuova?» rispose Gandhi a chi gli faceva questa solita, banale obbiezione.

L’idea che l’uomo possa rompere col proprio passato e fare un salto evolutivo di
qualità era ricorrente nel pensiero indiano del secolo scorso. L’argomento è sem-
plice: se l’homo sapiens, quello che ora siamo, è il risultato della nostra evoluzione
dalla scimmia, perché non immaginarsi che quest’uomo, con una nuova mutazione,
diventi un essere più spirituale, meno attaccato alla materia, più impegnato nel suo
rapporto col prossimo e meno rapace nei confronti del resto dell’universo? E poi, sic-
come questa evoluzione ha a che fare con la coscienza, perché non provare noi, ora,
coscientemente, a fare un primo passo in quella direzione? Il momento non potrebbe
essere più appropriato visto che questo homo sapiens è arrivato ora al massimo del
suo potere, compreso quello di distruggere sé stesso con quelle armi che, poco sa-
pientemente, si è creato.

Guardiamoci allo specchio. Non ci sono dubbi che nel corso degli ultimi millenni ab-
biamo fatto enormi progressi. Siamo riusciti a volare come uccelli, a nuotare sott’ac-
qua come pesci, andiamo sulla luna e mandiamo sonde fin su Marte. Ora siamo
persino capaci di donare la vita. Eppure, con tutto questo progresso non siamo in
pace ne con noi stessi ne col mondo attorno. Abbiamo appestato la terra, dissacrato
fiumi e laghi, tagliato intere foreste e reso infernale la vita degli animali, tranne quella
di quei pochi che chiamiamo « amici » e che coccoliamo finché soddisfano la nostra
necessità di un surrogato di compagnia umana.
Aria, acqua, terra e fuoco, che tutte le antiche civiltà hanno visto come gli elementi
base della vita – e per questo sacri – non sono più, com’erano, capaci di autorigene-
rarsi naturalmente da quando l’uomo è riuscito a dominarli e a manipolarne la forza ai
propri fini. La loro sacra purezza è stata inquinata. L’equilibrio è stato rotto. Il grande
progresso materiale non è andato di pari passo col nostro progresso spirituale. Anzi:

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forse da questo punto di vista l’uomo non è mai stato tanto povero da quando è di-
ventato così ricco. Da qui l’idea che l’uomo, coscientemente, inverta questa tendenza
e riprenda il controllo di quello straordinario strumento che è la sua mente. Quella
mente, finora impegnata prevalentemente a conoscere e ad impossessarsi del mondo
esterno, come se quello fosse la sola fonte della nostra sfuggente felicità, dovrebbe
rivolgersi anche all’esplorazione del mondo interno, alla conoscenza di sé.

Idee assurde di qualche fachiro seduto su un letto di chiodi? Per niente. Queste sono
idee che, in una forma o in un’altra, con linguaggi diversi, circolano da qualche tem-
po nel mondo. Circolano nel mondo occidentale, dove il sistema contro cui queste
idee teoricamente si rivolgono le ha già riassorbite, facendone i «prodotti» di un già
vastissimo mercato « alternativo » che va dai corsi di yoga a quelli di meditazione,
dall’aromaterapia alle «vacanze spirituali» per tutti i frustrati della corsa dietro ai
conigli di plastica della felicità materiale. Queste idee circolano nel mondo islamico,
dilaniato fra tradizione e modernità, dove si riscopre il significato originario di jihad,
che non è solo la guerra santa contro il nemico esterno, ma innanzitutto la guerra
santa interiore contro gli istinti e le passioni più basse dell’uomo.

Per cui non è detto che uno sviluppo umano verso l’alto sia impossibile. Si tratta di
non continuare incoscientemente nella direzione in cui siamo al momento. Questa
direzione è folle, come è folle la guerra di Osama bin Laden e quella di George W.
Bush. Tutti e due citano Dio, ma con questo non rendono più divini i loro massacri.
Allora fermiamoci. Immaginiamoci il nostro momento di ora dalla prospettiva dei no-
stri pronipoti. Guardiamo all’oggi dal punto di vista del domani per non doverci ram-
maricare poi d’aver perso ima buona occasione. L’occasione è di capire una volta per
tutte che il mondo è uno, che ogni parte ha il suo senso, che è possibile rimpiazzare la
logica della competitività con l’etica della coesistenza, che nessuno ha il monopolio
di nulla, che l’idea di una civiltà superiore a un’altra è solo frutto di ignoranza, che
l’armonia, come la bellezza, sta nell’equilibrio degli opposti e che l’idea di eliminare
uno dei due è semplicemente sacrilega. Come sarebbe il giorno senza la notte? La
vita senza la morte? O il Bene? Se Bush riuscisse, come ha promesso, a eliminare il
Male dal mondo?

Questa mania di voler ridurre tutto ad una uniformità è molto occidentale. Viveka-
nanda, il grande mistico indiano, viaggiava alla fine dell’Ottocento negli Stati Uniti
per far conoscere l’induismo. A San Francisco, alla fine di una sua conferenza, una
signora americana si alzò e gli chiese: «Non pensa che il mondo sarebbe più bello se
ci fosse una sola religione per tutti gli uomini?» «No», rispose Vivekananda. «Forse
sarebbe ancora più bello se ci fossero tante religioni quanti sono gli uomini.»
« Gli imperi crescono e gli imperi scompaiono», dice l’inizio di uno dei classici della
letteratura cinese, II Romanzo dei Tré Regni. Succederà anche a quello americano,
tanto più se cercherà d’imporsi con la forza bruta delle sue armi, ora sofisticatissime,
invece che con la forza dei valori spirituali e degli ideali originali dei suoi stessi Padri
Fondatori.

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I primi ad accorgersi del mio ritorno quassù sono stati due vecchi corvi che ogni
mattina, all’ora di colazione, si piazzano sul deodar, l’albero di dio, un maestoso ce-
dro davanti a casa e gracchiano a più non posso finché non hanno avuto i resti del
mio yogurt – ho imparato a farmelo – e gli ultimi chicchi di riso nella ciotola. Anche
se volessi, non potrei dimenticarmi della loro presenza e di una storia che gli indiani
raccontano ai bambini a proposito dei corvi. Un signore che stava, come me, sotto
un albero nel suo giardino, un giorno non ne potè più di quel petulante gracchiare dei
corvi. Chiamò i suoi servi e quelli con sassi e bastoni li cacciarono via. Ma il Creato-
re, che in quel momento si svegliava da un pisolino, si accorse subito che dal grande
concerto del suo universo mancava una voce e, arrabbiatissimo, mandò di corsa un
suo assistente sulla terra a rimettere i corvi sull’albero.
Qui, dove si vive al ritmo della natura, il senso che la vita è una e che dalla sua to-
talità non si può impunemente aggiungere o togliere niente è grande. Ogni cosa è
legata, ogni parte è l’insieme.

Thich Nhat Hanh, il monaco vietnamita, lo dice bene a proposito di un tavolo, un tavoli-
no piccolo e basso come quello su cui scrivo. Il tavolo è qui grazie ad una infinita catena
di fatti, cose e persone: la pioggia caduta sul bosco dove è cresciuto l’albero che un
boscaiolo ha tagliato per darlo a un falegname che lo ha messo assieme coi chiodi fatti
da un fabbro col ferro di una miniera… Se un solo elemento di questa catena, magari
il bisnonno del falegname, non fosse esistito, questo tavolino non sarebbe qui.

I giapponesi, ancora quando io stavo nel loro paese, pensavano di proteggere il clima
delle loro isole non tagliando le foreste giapponesi, ma andando a tagliare quelle
dell’Indonesia e dell’Amazzonia. Presto si son resi conto che anche questo ricadeva
su di loro: il clima della terra mutava per tutti, giapponesi compresi.
Allo stesso modo, oggi non si può pensare di continuare a tenere povera una grande
parte del mondo per rendere la nostra sempre più ricca. Prima o poi, in una forma o
nell’altra, il conto ci verrà presentato. O dagli uomini o dalla natura stessa.
Quassù, la sensazione che la natura ha una sua presenza psichica è fortissima. A
volte, quando tutto imbacuccato contro il freddo mi fermo ad osservare, seduto su
un grotto, il primo raggio di sole che accende le vette dei ghiacciai e lentamente
solleva il velo di oscurità, facendo emergere catene e catene di altre montagne dal
fondo lattiginoso delle valli, un’aria di immensa gioia pervade il mondo ed io stesso
mi ci sento avvolto, assieme agli alberi, gli uccelli, le formiche: sempre la stessa vita
in tante diverse, magnifiche forme.

È il sentirsi separati da questo che ci rende infelici. Come il sentirci divisi dai nostri
simili. «La guerra non rompe solo le ossa della gente, rompe i rapporti umani », mi
diceva a Kabul quel vulcanico personaggio che è Gino Strada. Per riparare quei rap-
porti, nell’ospedale di Emergency, dove ripara ogni altro squarcio del corpo, Strada
ha una corsia in cui dei giovani soldati talebani stanno a due passi dai loro «nemici»,
soldati dell’Alleanza del Nord. Gli uni sono prigionieri, gli altri no; ma Strada spera
che le simili mutilazioni, le simili ferite li riavvicineranno.

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Il dialogo aiuta enormemente a risolvere i conflitti. L’odio crea solo altro odio. Un cec-
chino palestinese uccide una donna israeliana in una macchina, gli israeliani reagi-
scono ammazzando due palestinesi, un palestinese si imbottisce di tritolo e va a farsi
saltare in aria assieme a una decina di giovani israeliani in una pizzeria; gli israeliani
mandano un elicottero a bombardare un pulmino carico di palestinesi, Ì palestinesi…
e avanti di questo passo. Fin quando? Finché son finiti tutti i palestinesi? tutti gli
israeliani? tutte le bombe?

Certo: ogni conflitto ha le sue cause, e queste vanno affrontate. Ma tutto sarà inutile
finché gli uni non accetteranno l’esistenza degli altri ed il loro essere eguali, finché
noi non accetteremo che la violenza conduce solo ad altra violenza.
«Bei discorsi. Ma che fare?» mi sento dire, anche qui nel silenzio.
Ognuno di noi può fare qualcosa. Tutti assieme possiamo fare migliaia di cose.

La guerra al terrorismo viene oggi usata per la militarizzazione delle nostre società,
per produrre nuove armi, per spendere più soldi per la difesa. Opponiamoci, non vo-
tiamo per chi appoggia questa politica, controlliamo dove abbiamo messo i nostri ri-
sparmi e togliamoli da qualsiasi società che abbia anche lontanamente a che fare con
l’industria bellica. Diciamo quello che pensiamo, quello che sentiamo essere vero:
ammazzare è in ogni circostanza un assassinio. Parliamo di pace, introduciamo una
cultura di pace nell’educazione dei giovani. Perché la storia deve essere insegnata
soltanto come un’infinita sequenza di guerre e di massacri?
Io, con tutti i miei studi occidentali, son dovuto venire in Asia per scoprire Ashoka,
uno dei personaggi più straordinari dell’antichità; uno che tre secoli prima di Cristo,
all’apice del suo potere, proprio dopo avere aggiunto un altro regno al suo già grande
impero che si estendeva dall’India all’Asia centrale, si rende conto dell’assurdità del-
la violenza, decide che la più grande conquista è quella del cuore dell’uomo, rinuncia
alla guerra e, nelle tante lingue allora parlate nei suoi domini, fa scolpire nella pietra
gli editti di questa sua etica. Una stele di Ashoka in greco ed aramaico è stata sco-
perta nel 1958 a Kandahar, la capitale spirituale del mullah Ormar in Afghanistan,
dove ora sono accampati i marines americani. Un’altra, in cui Ashoka annuncia l’a-
pertura di un ospedale per uomini ed uno per animali, è oggi all’ingresso del Museo
Nazionale di Delhi.

Ancor più che fuori, le cause della guerra sono dentro di noi. Sono in passioni come
il desiderio, la paura, l’insicurezza, l’ingordigia, l’orgoglio, la vanità. Lentamente bi-
sogna liberarcene. Dobbiamo cambiare atteggiamento. Cominciamo a prendere le
decisioni che ci riguardano e che riguardano gli altri sulla base di più moralità e meno
interesse. Facciamo più quello che è giusto, invece di quel che ci conviene. Educhia-
mo i figli ad essere onesti, non furbi.

È il momento di uscire allo scoperto, è il momento d’impegnarsi per i valori in cui si


crede. Una civiltà si rafforza con la sua determinazione morale molto più che con
nuove armi.

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Soprattutto dobbiamo fermarci, prenderci tempo per riflettere, per stare in silenzio.
Spesso ci sentiamo angosciati dalla vita che facciamo, come l’uomo che scappa
impaurito dalla sua ombra e dal rimbombare dei suoi passi. Più corre, più vede la
sua ombra stargli dietro; più corre, più il rumore dei suoi passi si fa forte e lo turba,
finché non si ferma e si siede all’ombra di un albero. Facciamo lo stesso. Visti dal
punto di vista del futuro, questi sono ancora i giorni in cui è possibile fare qualcosa.
Facciamolo. A volte ognuno per conto suo, a volte tutti assieme. Questa è una buona
occasione. Il cammino è lungo e spesso ancora tutto da inventare. Ma preferiamo
quello dell’abbrutimento che ci sta dinanzi? O quello, più breve, della nostra estinzio-
ne? Allora: Buon Viaggio! Sia fuori che dentro.

Beati gli operatori di pace: eroi cattolici della Resistenza


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