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Per la storia dell’educare e dell’educazione.

Una prima definizione dei concetti

Dal Dizionario Treccani:


di educare, o di educarsi, come sviluppo di facoltà e attitudini, come affinamento della sensi-
bilità, come correzione del comportamento, come trasmissione e acquisizione di elementi culturali,
estetici, morali: curare l’e. della mente, dello spirito, dell’ingegno, della fantasia, della memoria, del
senso estetico, del gusto, dei sensi; avere, non avere un’e. letteraria, artistica, musicale. Più in par-
tic., il processo di trasmissione culturale, diverso per ogni situazione storicamente e culturalmente
determinata, mediante il quale, all’interno di determinate istituzioni sociali (famiglia, scuola, ecc.),
viene strutturata la personalità umana

educazióne s. f. [dal lat. educatio -onis, der. di educare: v. educare].


– 1. In generale, l’attività, l’opera, e anche il risultato integrata nella società: e. della prole,
come obbligo imposto dalla legge ai genitori; dare un’e. ai proprî figli; dedicarsi all’e. dei giovani;
conferire un’e. civile, morale, religiosa; trascurare, perfezionare la propria e.; e con riguardo al modo
di educare, di essere educato: sistemi, metodi di e.; dare, ricevere un’e. severa, rigida, seria, debole,
falsa; avere ricevuto una sana educazione. In senso ampio, e di uso più recente, e. permanente,
processo di formazione dell’individuo che si sviluppa lungo tutta la vita, scolastica e post-scolastica,
soprattutto se favorito dall’integrazione in un sistema omogeneo che unisca i varî momenti della vita
associata: famiglia, scuola (come centro di processi formativi), luogo di lavoro, istituzioni culturali e
ricreative, ecc.
In pedagogia, s’intende per e. l’insieme delle attività, individuali o collettive, che tendono a
favorire sistematicamente, con l’ausilio di particolari tecniche e metodi, il raggiungimento di prefis-
sate conoscenze e abilità da parte di individui generalmente giovani.
Scienze dell’e., l’insieme di studî e discipline che si sono via via aggiunti alla pedagogia (e cioè
didattica, docimologia, istruzione programmata, sociologia dell’educazione, ecc.), sottolineandone
la natura interdisciplinare, con riguardo anche al complesso dei rapporti e dei fenomeni sociali che
sono per essa oggetto di considerazione.

Nel corso della storia, con la parola “educazione” si sono indicati fenomeni diversi (Cfr. Chio-
sso):
• il processo di trasmissione culturale, diverso per ogni situazione storicamente e cul-
turalmente determinata, mediante il quale alcune istituzioni sociali procedono a strutturare la
persona umana e a integrarla nel gruppo sociale;
• l’organizzazione di un sistema finalizzato al fine sopra esposto;
• l’acquisizione dell’identità personale;
• la promozione delle capacità personali fino alla piena manifestazione;
• l’azione degli adulti verso i minori, nella cura e nell’intento di “far crescere” (augeo,
auctor);
• il risultato raggiunto attraverso le attività predisposte a far crescere le persone.

Etimologicamente hanno a che fare col termine tre parole:


• E-ducare - E-ducere → Trarre fuori dall'individuo i difetti e le potenzialità mediante
un’apposita azione di cura, portare la persona ad assumere comportamenti e atteggiamenti con-
siderati desiderabili;
• E-docere → Fornire all’educando le informazioni, le istruzioni, i modelli necessari ad
assumere quegli atteggiamenti e quei comportamenti di cui sopra.
Tutto questo suppone (pre-suppone, più o meno coscientemente) che si abbia un’idea più o
meno esplicitata e formalizzata di ciò che costituisce il proprium della persona, del soggetto da edu-
care, in modo tale da poterlo “trarre fuori”, farlo crescere, farlo maturare (educazione è strettamente

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connessa a coltivare, custodire, far maturare: coltura-cultura). Per fare ciò è necessario mettere a
punto una teoria di ciò che costituisce la realizzazione del soggetto da educare. Qui entrano in gioco
la filosofia, e le scienze dell’educazione. A questo livello l'educazione è il costrutto teorico di una
scienza, la pedagogia.

Educazione, ovvero allevamento e cura dei bambini, graduale inserimento nel gruppo sociale,
del quale deve apprendere riti e usi e costui, è prassi costante degli umani, sin dai tempi antecedenti
l’uso della scrittura. Accompagna il costante passaggio degli umani sia nella loro dimensione biolo-
gica sia in quella “culturale” (nel senso antropologico)

Tre modalità principali dell’agire educativo:


• preparare l’individuo in vista dell’inserimento sociale (norme e forme di vita comune,
patrimonio culturale identificante il gruppo ..);
• sviluppo personale (promozione delle potenzialità proprie di ciascuna persona, di cia-
scun soggetto educando: farlo “crescere” e “diventare uomo”);
• principio della reciprocità tra adulto e minore (tra educatore ed educando): imparare
a vivere.

L’educazione è dunque un insieme di pratiche sociali oltre che di saperi.


Kultur in senso antropologico: conoscenza, credenze, arte, morale, diritto, costume, capacità
e abitudini sociali. L’acquisizione della Kultur è il processo di educazione. L’educazione assicura la
continuità tra le generazioni

P. Sensi: della triplice radice della cura nel contesto scolastico (2008)
L’uomo è un essere che si occupa di e si pre-occupa-di in quanto è da sempre “situato” in una
rete di relazioni che lo costituiscono in quanto esistente.
Ciò che appare sin da subito dell’essere umano è l’essere inserito in un con-testo, in una fitta
trama di rapporti che sostanziano la sua esistenza. L’essere umano è strutturalmente relazionale, e
perciò “aperto”, ex-posto; in quanto ex-posto è anche pro-teso verso, in un costante processo di
superamento della propria posizione iniziale. Perciò è un essere costituvamente “storico”.
In questo essere esposto e in questo protendersi risiede la necessità della cura e, nella cura,
della educazione.
L’educazione è una delle forme della cura. I contenuti educativi sono legati strettamente alle
cure che la famiglia eroga ai venienti sin dalla nascita

Sull’educabilità:
Jaeger, Paideia: “nell’antinomia tra il dubbio pensoso circa l’educabilità e l’indomabile volontà
di educare sta l’eterna grandezza e fecondità dello spirito greco”

Due paradigmi:
a. «Datemi una dozzina di neonati di sana e robusta costituzione fisica e lasciate che li
tiri su in un mondo scelto da me e garantisco che di qualunque di loro potrò fare qualunque cosa:
medico, avvocato, artista, capovendite, e, sì, persino straccione o ladro, indipendentemente dalle
sue capacità, tendenze, inclinazioni, abilità, vocazioni, e dalla razza dei suoi antenati». (J.B. Watson,
Behaviourism, Norton, New York, 1930, p. 104)

b. «Il carattere individuale è innato: non è opera dell'arte o delle circostanze soggette al
caso, bensì opera della natura stessa. Esso si manifesta già nel bambino dove mostra in piccolo ciò
che nell'avvenire sarà in grande. Perciò data un'educazione e un ambiente perfettamente uguali,

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due bambini rivelano chiaramente caratteri del tutto diversi» (A. Schopenhauer, La libertà del volere
umano, Laterza, Roma-Bari, 1988, p. 98).

Il primo “maestro” dell'Occidente: Socrate.


Per l'antropologia socratico-platonica l'avventura dell'uomo consiste nell'aprire lo spazio di
massima libertà consentito dalla struttura finita-biologica dell'uomo. Platone trovò la soluzione più
originale al problema che muoveva tutta la cultura arcaica e che ha in Eschilo la sua espressione
più chiara: l'uomo che erra lo fa perché indotto dagli dèi (mito di Ate) e tuttavia la sua colpa non è
per questo meno grave.
Alla forza del mito di Ate, Platone oppone la paideia, che ha come presupposto la libertà di
scelta. È qui che nasce l'uomo europeo e cioè quella forma unica al mondo che contrappone alla
comunità, allo stato, a dio la propria irriducibilità di singolo. (A. Biuso)

.W. Jaeger, Paideia: “Tutti i popoli che attingono un certo grado di sviluppo hanno naturalmente
l’impulso a educare. […] La natura dell’uomo quale essere corporeo e spirituale dà luogo a speciali
condizioni per la conservazione e la trasmissione del tipo umano e promuove speciali istituti materiali
e morali, la cui essenza noi designiamo con la parola: educazione.
Nell’educazione, quale è praticata dall’uomo, opera quella medesima volontà di vita, plastica
e generatrice, della natura, la quale spontaneamente tende a propagare e conservare ogni specie
vivente nella sua forma; ma in questo gradino è portata alla massima intensità mediante il finalismo
della conoscenza e della volontà umana consapevoli.
Ne derivano tal uni corollari generali. L’educazione, in primo luogo, non è faccenda individuale,
ma, per sua natura, è cosa della comunità. Il carattere di questa si imprime nei singoli suoi membri,
e nell’uomo, zoon politikón, è sorgente d’ogni azione e comportamento in una misura che non ha
riscontro nell’animale. Non v’è altro caso, in cui l’influenza determinante della comunità sui suoi
membri si faccia valere maggiormente, che nel suo sforzo di plasmare consapevolmente secondo
la propria idea, mediante l’educazione, i nuovi individui continuamente sorgenti dal suo seno.
L’edificio d’ogni comunità riposa sulle leggi e norme, scritte o non scritte, in essa vigenti, le
quali vincolano essa medesima e i suoi membri. Ogni educazione è perciò emanazione diretta della
viva coscienza normativa d’una comunità umana, sia quella della famiglia, sia della professione o
del ceto, sia delle associazioni più vaste, come la tribù e lo Stato.
L’educazione partecipa al processo di crescita e di vita della comunità con le mutazioni di
questa, e così alle sue vicende esteriori come al suo sviluppo interno e alla sua evoluzione spirituale.
A questa è soggetta anche la coscienza generale dei valori che interessano la vita umana; la storia
dell’educazione è quindi essenzialmente determinata dalle trasformazioni della concezione dei valori
in una comunità.
La stabilità delle norme vigenti significa anche saldezza dei principii educativi d’un popolo;
l’abbattimento e la dissoluzione delle norme genera incertezza e oscillazioni nell’educazione, sino a
renderla impossibile affatto. Questa situazione si ha non appena la tradizione sia abbattuta violen-
temente o si corrompa internamente. D’altra parte la stabilità non è per se stessa sintomo sicuro di
salute; essa domina anche in uno stato di irrigidimento senile, nel periodo tardivo delle civiltà”

Sugli “stili educativi”

Con “stile educativo” si intende una modalità stabile del comportamento e di relazione tra edu-
catore, educando e contesto. K. Lewin, negli anni Trenta, parlava di stile autoritario, lasseiz faire e
democratico. Gli stili si definiscono in relazione alla maggiore o minore importanza che danno a
queste caratteristiche costitutive del rapporto educativo: autorità, libertà, relazione interpresonale.
Classificazione di Chiosso (2018)
Stile direttivo o dell’autorità – ove si privilegia la funzione guida dell’adulto e dove opera un
modello direttivo. Dialettica tra autorità e autorevolezza (ricordando che auctor deriva da augeo,
faccio crescere);
Stile non direttivo o della libertà – valorizzazione delle risorse autonome dell’educando, l’edu-
catore ha un’azione indiretta o negativa, “organizza esperienze” (Rousseau e Rogers);

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Stile relazionale o della cooperazione – autenticità e reciprocità della relazione educando-edu-
catore (rischio della confusione dei ruoli).

Contesti educativi
Contesti formali: ambienti per loro natura destinati all’educazione (scuola, famiglia, formazione
professionale). Di solito è possibile individuare chiaramente i soggetti responsabili del processo edu-
cativo e le finalità dello stesso.
Contesti non formali: esterni ai sistemi formalizzati (ad esempio: associazioni sportive, attività
di volontariato)
Contesti informali: i vari gruppi sociali che si frequentano nel quotidiano, i media, i social ecc…

Caratteri specifici dell’educazione:

Educazione intenzionale o formale


• Si costruisce intorno a questi concetti:
• Oltrepassamento o divenire (oltrepassare un limite, trasformarsi);
• intenzionalità educativa: deliberato proposito di creare condizioni per promuovere la trasfor-
mazione dell’educando;
• processualità (durata nel tempo). Processi educativi primari:
o costruzione dell’identità personale
o elaborazione del senso personale
o senso di appartenenza
o partecipazione operativa attiva;
• gradualità: rispettare i temi di maturazione dell’educando (evitare adultismo e ritardismo);
• globalità (unitarietà): maturazione complessiva.

L’educazione non è:
il semplice sviluppo fisico o psicologico
la socializzazione
una cura terapeutica
un addestramento
(anche se implica e ingloba questi aspetti).

Formazione
Analogie e Differenze tra educazione e formazione.
Nella concezione classica della paideia (vedi sotto) educazione e formazione erano in gran parte
sinonimi. Fino al concetto classico e romantico di Bildung.
Nella ultima parte del Novecento formazione è concetto usato per chiarire la necessità imposta dalla
“società della conoscenza” e dai continui adattamenti che lo sviluppo industriale impone ai lavoratori
di adeguarsi costantemente alle nuove sfide. (Insegnare ed apprendere. Verso la società della co-
noscenza, libro bianco “Cresson”, 1995).
• Lifelong learning;
• Formazione per l’età adulta (andragogia, educazione degli adulti);
• Lavoro e maturazione della persona;
• dall’addestramento a una professione all’acquisizione di un ampio spettro di competenze;
• Interazione tra scuola e ambienti professionali;
• aumento delle iniziative destinate ad adulti e anziani (unitre ecc.)
Il concetto di formazione si viene a differenziare da quello di educazione, ma mantiene alcune ana-
logie e sinergie:
• prospettiva intenzionale;
• accoglienza e risposta ai bisogni del soggetto;
• incidenza delle dimensioni relazionali;
• rapporto con l’etica;
• costruzione di forme di cittadinanza consapevole (verso il “bene comune”).

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Istruzione
Apprendimento e scuola
Un po’ di etimologia. Istruzione: in-struere, addestrare a mettere in ordine a strati (struere), costruire,
rendere abile.
Apprendimento – ad-prehendere, ad-prehensum, intensificativo di prendere; afferrare (con la
mente), prendere con fermezza, saldamente.
Scuola: dal grecho scholè, ozio, riposo, aver tempo per dedicarsi ad attività piacevoli. Riposo dalla
fatica fisica per dedicarsi ad attività intellettuali. (di qui e discipline di insegnamento come “arti libe-
rali” nel medioevo: ci si può dedicare chi è “libero” dalla fatica fisica, dal lavoro-travaglio).

Per secoli istruzione e scuola sono stati un binomio inscindibile.

I nuovi mezzi che possono “istruire”, in particolare il web, hanno fatto riaprire il dibattito sulla possi-
bilità di fare a meno della scuola, rilanciando in diverse forme le teorie sulla “descolarizzazione di
Illich e Reimer (anni settanta)

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Per la STORIA DELLA EDUCAZIONE

Prolegomeni sul fare “storia dell’educazione”


Quando si parla di storia dell'educazione, il termine educazione va inteso come processo che
conduce un individuo verso la massima attuazione possibile delle sue potenzialità grazie al rapporto
guidato e sistematico con altri individui, all’interno di un gruppo sociale, di un contesto culturale, di
una struttura economica, ecc …
Diremo allora che la storia dell'educazione è l'insieme di tutte quelle discipline che si occupano
con metodologia critica e secondo un taglio storico e, quindi, interpretativo – ricostruttivo, delle pro-
blematiche che attengono a quel processo che si chiama educazione. (Fabretti)
La storia dell’educazione, perciò, oggi è un contenitore di molte “storie”, interconnesse in
quell’oggetto complesso che è l’educazione: accanto alla storia delle teorie si pongono le storie delle
istituzioni, delle politiche, della storia sociale, dell’immaginario ecc. (Cambi)
Storia dell'educazione e storia della pedagogia NON sono espressioni intercambiabili. La
prima indica la ricerca condotta sull'oggetto di una scienza, la seconda indica la ricerca condotta
sulla scienza di quell'oggetto.
L'espressione storia dell'educazione è entrata ormai da tempo nell'uso degli addetti ai lavori,
al punto da sembrare più che giustificato usarlo per designare un settore di ricerca più vasto, quello
storico – educativo all'interno del quale si ritagliano altri ambiti specifici quali la Pedagogia, la didat-
tica, la scuola.
Il prender piede di tale espressione aveva fatto credere di essere riusciti a incrinare nettamente
il monopolio di una Pedagogia che rifiutava ogni articolazione interna e che dipendeva in toto dalla
filosofia.

La “Preistoria”
Il Mediterraneo come “crovevia”. Non più solo Grecia e Roma. Le grandi civiltà “idrauliche”
nelle grandi pianure fluviali.
Qui come vedremo si comincia a porre quel processo di emancipazione del logos dal mythos
che caratterizzerà la filosofia e la paideia greco-romana

Educazione “naturale”
1. propria della preistoria, ma sopravvive
2. si basa su oralità e imitazione (mimesi)
3. Bassa intensità formale e ampia partecipazione del gruppo sociale

Educazione “familiare”, parte della educazione naturale


1. accompagna sia filogenesi che ontogenesi
2. legata a allevamento dei figli
3. muta spaziotemporalmente, perché legata a culture
4. ha un ruolo fondamentale

Distinguere allevamento dei figli da addestramento nel mestiere

Modalità orali di trasmissione


massime, proverbi, narrazioni (vedi Iliade), preghiere, discorsi religiosi (tabù ecc)

Insegnamento per imitazione (vedere come si fa)


Anche nei popoli cacciatori le abilità pratiche venivano apprese per imitazione

Meccanismo educativo di rinforzo: approvazione o disapprovazione sociale

Ha ragione Rousseau? L’agricoltura è il cambiamento di scenari. L’invenzione della agricoltura


ha parecchie date a seconda dei popoli e delle zone (civiltà idrauliche, 11.000 anni fa)

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Peculiarità della organizzazione sociale dei raccoglitori cacciatori e nomadismo conseguente
Surplus di ricchezza e divisione del lavoro grazie alla agricoltura

Il tempo dell’educazione
Otium e negotium

LA SCRITTURA E L’INIZIO DELLA “STORIA”

Anche la scrittura è legata alle popolazioni stanziali (e alla fissazione del diritto: Nehmen, Tei-
len; Weiden: appropriarsi, dividere, produrre, Carl Schmitt)

etimi della parola greca “Nomos” (Nemein) che significa “diritto”,

L’iscrizione sul terreno del diritto di proprietà della terra e l’iscrizione su supporto dell’atto di
appropriazione hanno una medesima origine.

Prime tracce della “scrittura”: i Sumeri (tra 5000 e 3000 anni prima di Cristo) . Creta e la doppia
“lineare”.
Esprimere concetti, pensieri, mediante segni grafici, nati forse per inventariare, catalogare i
prodotti immagazzinati e tenere traccia degli scambi

Socrate, Platone e la diffidenza nei confronti della scrittura (il dono di Teuth, Fedro; Lettera
VII, dottrine non scritte). Impoverimento dell’oralità e della memoria? (da Platone al dibattito sugli
smartphone a scuola!)

Il dio si fa parola scritta: Ebraismo, Cristianesimo, Islam

Verba volant _ scripta manent

Ruolo centrale dello scriba (custode del sapere, della parola divina, della parola giuridica, della
parola efficace, della memoria collettiva, della pedagogia strutturata …)
La scrittura rafforza il nesso tra sapere e potere
Cardona: il sapere dello scriba è il potere dello scriba che può diventare anche oggetto di un
possesso riservato a pochi, comunicato solo iniziaticamente.

Thesaurus: l’insieme dei saperi o dei significati delle parole, repertori scientifici, enciclopedie,
dizionari.

Presso i Sumeri “Lo scriba ha il mondo in mano”. Qui il nesso potere sapere

Con l’invenzione della scrittura si apre lo spazio per la nascita della scuola (“lo spazio chiuso”,
dove si insegna soprattutto a scrivere e si viene iniziati ai saperi che costituiscono il “tesoro” dello
scriba, a partire dal tesoro di base, la scrittura)

Le prime scuole nascono per “formare lo scriba”: memoria, copiatura, ripetizione, uso delle
punizioni più che dei rinforzi (“mi hai percosso sulla schiena ed è così che la tua dottrina è entrata
nel mio orecchio”)

La scuola nei centri del potere religioso o politico (viene dopo le forme di educazione naturale,
familiare, ma anche “fuori”). La formalizzazione del sapere e dell’educazione, per dare forma a varie
specializzazioni che “funzionano”

La scuola sumerica ha un’organizzazione che sopravvivrà alla scomparsa di quella civiltà. Usa
un modello familiare (Padre dirige, fratello maggiore coadiuva, l’arte insegnata è la madre dei futuri
artigiani o artisti)

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Usa repressione e punizione, subordinazione e obbedienza (ma attenti all’etimo di ob audire)
L’istruzione è ammaestramento (ma anche qui attenti all’etimo)
Già presso i sumeri ci si lamentava della pedanteria e c’erano le lezioni private … e anche “i
prosciutti” per le promozioni

Gli uomini della porpora (i Fenici) e l’invenzione dell’alfabeto fonetico (22 consonanti). Non
più solo agricoltori, ma soprattutto commercianti e navigatori

Il dio si fa Parola: gli Ebrei e la religione del libro


Monoteismo, rivelazione, scrittura, arca dell’alleanza, privilegiamento del popolo, identità et-
nico-culturale
L’educazione delle future generazioni è prescritta nel libro sacro.
Il contenuto da trasmettere è la Torah- Ma la Torah è scritta, la parte visibile del dio invisibile.
Di qui il ruolo centrale degli interpreti. Scribi, saggi, rabbi, sinagoghe, che diventano scuole. Solo nei
gradi più alti dell’insegnamento la ripetizione lasciava il passo alla discussione.

Luoghi dell’educazione: non solo la “scuola” o la “famiglia”, ma il thyasos (il cenacolo di amici)
la sinagoga, le comunità di mestiere ecc …

LA GRECIA E LA NASCITA DELLA PEDAGOGIA

Civiltà Minoica (xxi-xv ac)


centrale ruolo del “Palazzo” (re e corte, templi, santuari, edifici dell’amministrazione, depositi
alimentari, officine … Labirinto di Cnosso).
Commercio di metalli e scrittura
Governo monarchico aristocratico, èlite militari e sacerdotali

Modello di vita e di educazione dei poemi fondamentali:


Iliade
Autobiografia delle classi aristocratiche dominanti le poleis
Virtù del guerriero e saggio uomo politico: forza, coraggio, onore, abilità in combattimento,
lealtà … ma anche saggezza, abilità oratoria
Odissea:
trapasso dalla oralità alla scrittura (ruolo centrale della “memoria”)
Odisseo si fa riconoscere quando torna per segni legati a vicissitudini esistenziali o artigianali,
non come capo politico regale. Odisseo è meno “leale” degli altri re partecipanti alla guerra di Troia
Le Opere e i giorni (Esiodo)
Lavori agricoli, concezioni religiose e teorie cosomgoniche, storie esemplari di divinità e di eroi
“popolari”.
Mito di Prometeo (dona fuoco, intelligenza e memoria, sfida gli dei. Prevede. Il gemello Epi-
meteo vede dopo)

Inizio del periodo classico (dal VII a.C.)


Centrato sulle poleis. La Grecia diventa polo culturale e politico del Mediterraneo
La nascita della filosofia come riflessione sulla verità e la totalità.
Katà to creon, secondo necessità

Centratura progressiva della riflessione sull’uomo.


La Sofistica e l’insegnabilità della virtù

I “discorsi doppi” e “l’uomo misura di tutte le cose” (Protagora)


La tragedia: La responsabilità, la scelta e la Hybris. La nemesis divina . Fato e destino.
Atene e Sparta
paideia Traslitt. dal gr. παιδεία, der. di παῖς παιδός «ragazzo». (da Treccani)

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Il termine, che nell’accezione originaria è l’equivalente di «educazione», assunse ben presto
in Grecia il significato di «formazione umana», per arrivare poi a indicare il contenuto e il risultato di
tale formazione, cioè la cultura nel senso più elevato e personale. Nel senso di «formazione spiri-
tuale» il termine è impiegato con frequenza da Platone (Protagora, 327 d; Gorgia, 470 e; Alcibiade
maggiore, 122 c) che addirittura ne estende l’influenza alle sorti dell’anima dopo la morte, di cui la
p. condiziona – insieme al suo vissuto – il destino futuro (Fedone, 107 d), e che ne fa una sorta di
‘virtù’ capace di dirigere piaceri e dolori dell’anima (Leggi, 653 c). P. è perciò non tanto la pedagogia
come mezzo per un traguardo formativo, quanto piuttosto il fine stesso dell’educazione, l’ideale di
perfezione morale, culturale e di civiltà cui ogni uomo deve tendere; essa è «un ornamento (κόσμος)
quando si è felici, un rifugio quando si è infelici», come si legge in un frammento attribuito a Demo-
crito (framm. 68 B 180 Diels-Kranz). Secondo il modello ispiratore greco, che da Platone e Isocrate
al tardo ellenismo ha assunto varie sfumature, il raggiungimento della p. è frutto di un processo
continuo, mai compiuto, che impegna tutto l’uomo, ma attraverso il quale questi realizza pienamente
sé stesso come soggetto autonomo, consapevole di sé e in armonia con il mondo. In questo senso
l’ideale della p. non è raggiungibile se non nella dimensione della vita associata, della comunità,
della polis, in cui l’individuo realizza la propria natura umana – che è essenzialmente sociale e poli-
tica – nel senso più alto. Per questo in uno Stato che nella sua totalità ha un unico fine, l’educazione
deve essere unica e uguale per tutti, e pubblica e non privata deve esserne la cura, come dichiara
Aristotele nella Politica (VIII, 1, 1137 a), lodando il grande impegno nell’educazione dei giovani pro-
fuso dagli Spartani

Pedagogo: dal lat. paedagogus, gr. παιδαγωγός, comp. di παῖς παιδός «fanciullo» e ἀγωγός
«che guida», der. di ἄγω «condurre»; propr. «accompagnatore di fanciulli»]
Persona cui è affidata l’educazione di un fanciullo; precettore, istitutore. In partic., nell’antica
Atene, servo, spec. anziano, che aveva il compito di accompagnare il padroncino a scuola, alla
palestra, al passeggio, a teatro, e cui erano forse assegnate anche funzioni di ripetitore; nell’antica
Roma, precettore greco che istruiva i giovinetti romani nella lingua greca, assistendoli finché indos-
savano la toga virile (cioè fino a 17 anni).

pedante s. m. e f. e agg. [prob. der. del lat. pes pedis «piede» (dall’accompagnare a piedi),
raccostato a pedagogo, colui che accompagna a piedi il fanciullo].
a. Maestro di scuola, istitutore, pedagogo.
b. Personaggio della letteratura e spec. della commedia cinquecentesca che incarna il tipo del
maestro presuntuoso, di cultura limitata ma pomposo nella parlata latineggiante spesso scorretta,
sordido nei vestiti e nei costumi (apparso per la prima volta nella commedia Il pedante, di F. Belo,
del 1529 circa, finisce con l’irrigidirsi nella maschera del Dottor Balanzon della commedia dell’arte)

Da Jaeger, “Paideia”

L’importanza storica dei Greci quali educatori deriva dalla nuova e consapevole concezione della posi-
zione dell’individuo nella comunità. […] Storicamente è certo incontrovertibile che i Greci, al culmine del loro
sviluppo filosofico, avevano già preso in considerazione anche il problema dell’individuo; la storia della perso-
nalità europea deve indubbiamente muovere da essi. […]
I Greci hanno un senso innato di ciò che corrisponde alla «Natura». Il concetto di Natura, che essi per
primi coniarono, è senza dubbio sgorgato dalla loro particolare disposizione di spirito. Molto prima che la loro
mente producesse quest’idea, essi vedevano già le cose con tali occhi, cui nessun elemento del mondo si
presentava mai isolato nella sua particolarità, ma sempre e soltanto inquadrato nel nesso vivo di un tutto, dal
quale riceveva la sua posizione e il suo significato. Noi chiamiamo questo modo di vedere «organico», perché
concepisce il singolo quale membro di un tutto. Il bisogno dello spirito greco di una comprensione cosciente
delle leggi della realtà, che si rivela in ogni campo della vita, nel pensiero, nella parola e nell’azione come in
ogni specie di creazione artistica, è connesso con questa capacità di cogliere la struttura naturale, insita,
originaria, organica dell’essere.
[…] Le forme letterarie dei Greci nella loro molteplicità e nella loro sapiente struttura, sono sorte orga-
nicamente dalla trasposizione delle semplici e schiette forme naturali della vita espressiva umana nella sfera
ideale dell’arte e dello stile. […] Sotto questo rispetto molto abbiamo da imparare dai Greci, e ciò che ne
abbiamo appreso è il patrimonio inalienabile delle forme del discorso, del pensiero e dello stile, tuttora valevoli
per noi.

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Ciò vale anche per il massimo miracolo dello spirito greco, che per la sua struttura
incomparabile reca testimonianza più eloquente d’ogni altra cosa: la filosofia. In questa assume lo svi-
luppo più visibile quella forza che è radice dell’arte e del pensiero greco: la chiara visione delle norme costanti
su cui si basa ogni accadimento e cangiamento nella natura e nel mondo umano. Tutti i popoli hanno prodotto
le loro leggi, ma i Greci cercano dappertutto quella «legge» che opera nelle cose stesse, e si sforzano di
regolare in conformità la vita e il pensiero dell’uomo. Il greco è il popolo filosofo fra tutti. La «theoria» della
filosofia greca è intimamente connessa con la figurazione artistica e con la poesia greca. […]
Anche il posto singolare occupato dalla Grecità nella storia dell’umana educazione si
fonda sulle medesime peculiarità della sua organizzazione interna, sulla sete di forma, che tutto domina,
con la quale i Greci non affrontano soltanto i compiti artistici, ma del pari le cose della vita, e sul senso filoso-
fico, che afferra l’universale, delle leggi profonde della natura umana e delle norme, che ne derivano, del
governo dell’animo individuale e della struttura della comunità. Invero l’universale, il logos, secondo il profondo
intendimento che ha Eraclito dell’essenza dello spirito, è appunto l’elemento comune, come la legge nella
polis. La chiara coscienza dei principii naturali della vita umana e delle leggi immanenti secondo le quali ope-
rano le forze fisiche e psichiche dell’uomo doveva acquistare la massima importanza nel momento in cui i
Greci si trovarono di fronte al problema dell’educazione. Mettere tutte codeste conoscenze, quali forze forma-
trici, al servizio dell’educazione, e plasmare uomini reali così come il vasaio dà forma alla creta e lo scultore
alla pietra, ecco un’ardita idea creatrice, che non poteva maturare se non nella mente di quel popolo d’artisti
e di pensatori. L’opera d’arte suprema, di cui si trovò assegnata la realizzazione, fu per esso l’uomo vivente.
Ai Greci per primi balenò l’idea che anche l’educazione dev’essere un processo costruttivo consapevole.
[…] Sin dalle prime tracce che abbiamo di loro, troviamo l’uomo al centro del loro pensiero. Gli dèi
antropomorfi; il predominio assoluto del problema della figura umana nella plastica greca e nella pittura stessa;
il procedere conseguente della filosofia dal problema del cosmo a quello dell’uomo, nel quale culmina con
Socrate, Platone ed Aristotele; la poesia, il cui tema inesauribile, da Omero in poi, per tutti i secoli seguenti, è
l’uomo in tutta l’estensione del termine; infine lo Stato greco, di cui comprende la natura solo chi lo intenda
quale plasmatore dell’uomo e di tutta la sua esistenza: tutti questi sono raggi d’un medesimo lume. Sono le
manifestazioni di un sentimento antropocentrico della vita, che non trova ulteriore derivazione o spiegazione
e che compenetra ogni creazione dello spirito greco. I Greci furono così il popolo antropoplasta per eccellenza.
[…] La loro scoperta dell’uomo non è la scoperta dell’Io soggettivo, ma l’acquistar coscienza delle leggi uni-
versali della natura umana. Il principio spirituale dei Greci non è l’individualismo, bensì l’«umanismo», se è
lecito usare volutamente la parola in questo suo classico significato originario.
Umanismo viene da humanitas. Questa parola, oltre al significato più antico e volgare di disposizione
umanitaria, che qui non c’interessa, dal tempo di Varrone e di Cicerone al più tardi ne ebbe anche un altro,
più alto e severo: indica l’educazione dell’uomo alla sua vera forma, alla vera umanità. È questa la vera paideia
greca […]. Essa non muove dal singolo, bensì dall’idea. Al disopra dell’uomo-gregge, come al disopra
dell’uomo preteso io autonomo, sta l’uomo quale idea, e tale lo considerarono sempre i Greci, come educatori
o poeti, artisti e indagatori. Ma l’uomo-idea significa l’uomo quale immagine universale ed esemplare della
specie. L’imprimere al singolo la forma della comunità, in cui ravvisammo l’essenza dell’educazione, procede
presso i Greci, con consapevolezza sempre crescente, da siffatta immagine dell’uomo e, con sforzo indefesso,
mette capo infine ad un’impostazione e ad un approfondimento filosofico del problema dell’educazione, così
sistematici e sicuri come non furono realizzati da alcun altro popolo.
L’ideale umano dei Greci cui doveva informarsi l’individuo non è un vuoto schema, non sta fuori dello
spazio e del tempo. È la forma viva sorta dall’almo suolo della nazione, soggetta quindi continuamente all’evo-
luzione storica. Essa accolse tutte le vicende della collettività e tutti i gradi del suo sviluppo spirituale. […] Una
storia della letteratura greca isolata dalla comunità sociale, dalla quale le sue opere sorsero, cui si rivolgevano
e su cui poggiavano, non è più possibile per noi. Appunto nelle profonde radici dello spirito greco in questo
terreno della comunità sta la sua forza superiore […]. L’educazione greca non è una somma d’arti e d’imprese
private, avente per fine il perfezionamento dell’individuo, pago di se stesso. […] Le massime opere della grecità
sono monumenti d’una coscienza civica di grandiosità unica, il cui travaglio si esplica senza lacune attraverso
tutti i gradi di sviluppo […]. Un futuro umanismo dovrà essere orientato essenzialmente sul fatto fondamentale
di ogni attività educativa greca, che l’umanità, «l’esser uomo», fu sempre sostanzialmente riconnesso dai
Greci alla natura politica caratteristica dell’uomo. Segno dell’intimo legame della vita intellettuale produttiva
con la comunità è il fatto che le personalità cospicue, tra i Greci, si considerano interamente al servizio di
questa. […] Ma i grandi uomini, presso i Greci, non si presentano affatto quali profeti della divinità, bensì quali
autonomi maestri del popolo e foggiatori dei propri ideali. […] In quest’atmosfera di libertà interiore, che per la
sua conoscenza dell’essenza delle cose si sente obbligata verso la totalità in virtù di leggi supreme, concepite
come divine, la creatività dei Greci è salita alla sua grandezza educativa, che la colloca ben al disopra del
virtuosismo artistico ed intellettuale della moderna civiltà individualistica. Essa solleva la «letteratura» greca
classica, oltre la sfera di quanto sia meramente estetico, movendo dalla quale si cerca invano d’intenderla,
all’incommensurabile influsso essenziale che esercitò sui millenni.
[…] Pure, vero strumento della paideia secondo i Greci non sono le mute arti dello scultore, del pittore
e dell’architetto, bensì il poeta e il musico, il filosofo e il rètore, cioè l’uomo politico. Il legislatore, secondo la

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concezione greca, è sotto un certo rispetto più affine al poeta che non l’artefice delle arti figurative: è la loro
funzione pedagogica che li accomuna. Soltanto quell’artefice che forma l’uomo vivente ha un diritto specifico
a questo nome. Per quanto spesso i Greci paragonino l’attività educativa con quella dell’artefice delle arti
plastiche, presso un popolo artista quale è il greco, non si fa quasi parola dell’efficacia educativa della con-
templazione di opere d’arte nel senso winckelmanniano. La parola e il suono, e – in quanto agiscono mediante
la parola o il suono o per mezzo d’entrambi – il ritmo e l’armonia sono per i Greci le forze formatrici dell’animo,
senza più, giacché decisivo in ogni paideia è l’elemento attivo, il quale nella formazione dello spirito diviene
anche più importante che nell’agón delle capacità fisiche

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I modelli educativi dell’antichità.

I primi modelli filosofici. La scuola pitagorica


Anassagora e Democrito

La “svolta” antropologica.
L’educazione del cittadino all’interno della polis (Platone, Protagora, 318-329; Aristotele, Poli-
tica, VII, 17; VIII, 1-4)
Il concetto di educazione nella tradizione filosofica greca del periodo classico - Sofisti, Socrate,
Platone, Aristotele - non può essere compreso se non nel contesto della polis: educare una persona
significa per questi filosofi educare il cittadino. Le ragioni per cui è visto in maniera così stretta il
legame tra l'uomo e il cittadino sono diverse da filosofo a filosofo; tutti subiscono l'influsso della
concezione tipicamente greca dell'uomo, una concezione che non aveva eguali nelle culture dei
popoli vicini e che i Greci sentivano fortemente come propria: l'uomo come portatore di una cultura
che si esprime nella sua libertà individuale, resa possibile soltanto dalla vita nella libera comunità
politica, la polis.
Da questa idea prende le mosse Jaeger in quello che è forse il più importante e approfondito
studio dedicato alla nozione greca di paideia: "L'educazione, in primo luogo, non è faccenda indivi-
duale, ma, per sua natura, è cosa della comunità. (…) L'edificio di ogni comunità riposa sulle leggi
e norme, scritte e non scritte, in essa vigenti, le quali vincolano essa medesima e i suoi membri.
Ogni educazione è perciò emanazione diretta della viva coscienza normativa d'una comunità
umana".
Va sottolineato che questo aspetto dell'educazione - il legame tra la formazione dell'individuo
e la cultura della comunità - così fortemente sottolineato dai greci come carattere dell'uomo libero,
può costituire il filo conduttore di tutto il percorso, da Platone a Dewey, perché per tutti, pur nella
grande differenza della visione dell'uomo e della comunità, i problemi mantengono una base co-
mune:
qual è la vera natura dell'uomo che l'educazione deve valorizzare, ed innanzitutto rispettare
ed esprimere?
quale rapporto deve esservi tra l'educazione come trasmissione di valori acquisiti dalla comu-
nità e l'educazione come cammino personale, libero, per la realizzazione di sé?

Si tratta di questioni tipicamente filosofiche, ed in questo senso la pedagogia è stata per tutta
la sua storia disciplina filosofica: infatti, la domanda sulla vera natura dell'uomo - sulla sua identità
nel mondo - rimanda ai più complessi problemi metafisici ed etici (rimanda al rapporto con la natura,
con Dio, con le finalità e il senso della vita, e così via), e lo studio del rapporto tra individuo e comu-
nità, dal punto di vista della libera espressione di sé nella cultura, rimanda ai fondamentali temi
filosofici della libertà, dei fondamenti del diritto e della legge, dei suoi limiti, e così via.

La questione che Socrate pone a Protagora all'inizio del Protagora di Platone va allora inqua-
drata in rapporto alle problematiche che abbiamo fin qui visto: Socrate chiede se la virtù sia inse-
gnabile. Pone la sua domanda all'interno di un contesto tipicamente sofista: il giovane Ippocrate
desidera essere accolto tra gli allievi del celebre maestro Protagora, ed è quindi giusto che sappia
che cosa potrà guadagnare; se Protagora promette di educarlo alla virtù politica, evidentemente
ritiene che la virtù sia insegnabile; ma lo è davvero? Non sembra, perché i figli degli uomini politici
spesso non traggono affatto profitto dalla virtù dei padri, ed inoltre nella Assemblea della polis di
Atene nessuno è riconosciuto dai suoi concittadini maestro nelle cose politiche, e tutti sembrano
considerarsi al pari degli altri su queste cose.

La domanda di Socrate tocca uno dei punti chiave della pratica del Sofisti: Protagora è uno
dei primi maestri a pagamento, cioè uno dei primi professionisti dell'insegnamento in un settore non
tecnico (come sarebbe il caso della formazione di un mestiere specifico), ma generale, quale quello
della formazione del cittadino. Mettere in dubbio che la virtù politica sia insegnabile significa mettere
in dubbio la legittimità stessa di Protagora ad insegnare.

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L'argomentazione di Socrate poggia in realtà su antiche tradizioni: l'obiezione non è una novità
per Protagora che è ben pronto a rispondere. Nell'insegnamento sofista, infatti, c'era una radicale
rottura con la tradizione: il loro insegnamento infrangeva l'antico codice per cui la formazione di una
persona avveniva nel contesto della famiglia, sotto il controllo della comunità. I sofisti erano maestri
itineranti, sottraevano letteralmente i loro allievi all'autorità dei padri. Tra l'altro, sostenevano idee
nuove, potenzialmente pericolose: insegnavano che le leggi della città non necessariamente dove-
vano essere fondate sulle antiche tradizioni o sui valori religiosi della comunità, che la natura umana
richiede libertà all'individuo, capacità di affermazione di sé.
Su che cosa si fondava la loro autorità? Che cos'era per loro la virtù?

L'autorità dei Sofisti


Si fonda esclusivamente sui loro successi come maestri; Protagora promette che Ippocrate,
frequentandolo, diventerà migliore ogni giorno che passa: "Il mio insegnamento consiste nella facoltà
di prendere decisioni riguardo alle questioni private, come per esempio si possa amministrare nel
modo migliore la propria casa, e a quelle pubbliche, come essere cioè il più idoneo a parlare e a
gestire gli affari della città" (Protagora, 318). Dunque il maestro non è colui che sa e trasmette un
sapere, ma colui che aiuta a saper fare, e più esattamente a saper fare nel contesto della comunità
privata (la casa, l'oikos) e pubblica (la polis).
Che cos'è la virtù (areté)
E' il fondamentale problema di Socrate, ed è problema centrale anche per Platone, mentre in
Aristotele è legato alle sole scienze pratiche (etica e politica, peraltro fondate su una visione
dell'uomo che discende dalla metafisica). La parola areté ha una lunga storia che si intreccia con la
storia stessa della cultura greca e della concezione dell'uomo. In Omero e in tutta l'età arcaica desi-
gna il valore di un uomo in termini non etici, ma pratici, legati all'abilità e alla forza: l'areté non è un
valore, ma un insieme di abilità diverse da persona a persona a seconda del ceto sociale e dell'atti-
vità svolta. L'areté del nobile è il suo comportamento in guerra e nel suo ruolo di capo, è il fonda-
mento del suo onore, della considerazione sociale di cui gode e per cui vive (è così per esempio per
l'eroe omerico).
Ma al tempo dei sofisti cominciava a farsi strada l'idea che l'areté sia piuttosto l'espressione
della personalità dell'uomo, della natura (physis) stessa che costituisce l'identità di ciascuno. Si co-
minciava quindi a contrapporre la physis al nomos, cioè al complesso delle antiche tradizioni, e si
sosteneva che la vera virtù è la forza e l’abilità con cui l'uomo è in grado di vivere esprimendo al
meglio le potenzialità della propria natura nel contesto in cui opera, la polis.
Molti sofisti come Protagora erano dei moderati, e questa tesi in loro significa soltanto che le
tradizioni non possono soffocare la libera vitalità dell'individuo; ma esistevano correnti radicali della
sofistica (di cui è espressione, ad esempio, il sofista Antifonte) che portavano alle estreme conse-
guenze queste nuove idee, fino a farle apparire come una sostanziale legittimazione della legge del
più forte. Da molti il nuovo e indubbiamente rivoluzionario movimento sofista era accusato di dare
una interpretazione radicale dell'areté dei loro padri, con il sostenere che la vera virtù dell'uomo è lo
sviluppo in massimo grado della natura individuale, anche contro ogni tradizione. Molti ritenevano
che questo potesse mettere in pericolo i fondamenti su cui riposava la vita della polis: educazione e
comunità sembravano potere entrare in rotta di collisione.
Socrate si oppone in modo molto netto alla sofistica su questo punto. La sua domanda sulla
possibilità che la virtù sia insegnabile ne nasconde un'altra assai più radicale su chi sia in realtà il
vero maestro della virtù, chi sappia che cosa è la virtù. Non può trattarsi di quel che ritengono i
Sofisti. E infatti tutto il percorso del Protagora porta ad una nuova definizione: alla fine del dialogo
Socrate mostra che la vera virtù è legata alla conoscenza del bene, perché l'uomo segue in realtà
sempre quello che crede bene, ma molto spesso non sa quale sia (è il cosiddetto intellettualismo
etico di Socrate). Si tratta davvero allora di conoscere se stessi, non solo nel senso tradizionale di
questa massima (cioè di avere coscienza dei propri limiti), ma anche e soprattutto di imparare a
scavare nella propria coscienza (attraverso la dialettica) per far luce su che cosa sia il bene. La vera
virtù è quindi legata al sapere.
Ne deriva la tesi, questa volta sostenuta da Socrate contro la sua stessa posizione iniziale,
che la virtù sia insegnabile: non nel senso che qualcuno la possiede e la insegna ad un altro che
non la possiede, ma nel senso che è possibile educare l'uomo ad apprenderla da se stesso, nell'in-
teriorità della propria coscienza.

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Il legame tra questione educativa e vita della comunità (polis) non è quindi risolto da Socrate
in termini tradizionali: Socrate non torna indietro rispetto ai sofisti, non è un restauratore del nomos.
Anzi, con Socrate prende avvio quel processo di forte accentuazione del valore individuale della
persona, nella pienezza della sua libertà e responsabilità morale, che costituisce uno dei caratteri
tipici della cultura occidentale e che ritroveremo nel Cristianesimo.
Questo però non significa affatto che l'individuo possa fare a meno della comunità. Al contrario,
senza l'apporto degli altri, l'individuo non è in grado di migliorare se stesso, di progredire sulla via
della ricerca interiore. Per Socrate è essenziale la piazza, il luogo della continua ricerca dialettica, il
confronto con i suoi concittadini. La dialettica, infatti, è il mezzo per acquisire la virtù, se la virtù è
così strettamente connessa alla coscienza di cosa sia il bene. E' la dialettica, infatti, il mezzo per
scavare nella propria coscienza, e la dialettica implica una comunità in dialogo.

Nella Repubblica Platone enuncia un programma educativo basato anch'esso sulla dialettica
come strumento per la ricerca del bene, ma in un contesto diverso. Platone ritiene infatti che nella
mente dell'uomo vi sia la memoria della idee oggettive ed eterne, e che l'idea del bene sia la più
importante, perché illumina tutte le altre, dando loro un senso comprensibile dall'intelletto. La dialet-
tica è lo strumento per acquisire consapevolezza della verità ricordando le idee che sono già in noi
(conoscenza come reminiscenza).
Fin qui la novità rispetto a Socrate è la teoria delle idee (di derivazione socratica, ma in Socrate
assente) e questo non riguarda l'educazione. Ma Platone ritiene che tutta l'organizzazione dello
Stato (le ricerche condotte nella Repubblica sono finalizzate alla descrizione dello Stato ideale)
debba essere sottoposta al controllo dei filosofi, perché soltanto essi hanno la migliore comprensione
della verità (il mondo delle idee). Il problema educativo è quindi impostato in Platone come problema
politico in senso stretto, molto diversamente che in Socrate, perché dall'educazione dei giovani di-
pende la loro corretta collocazione nello Stato. E soprattutto la massima attenzione deve essere
dedicata alla formazione dei giovani che accederanno alla classe dei filosofi, perché da essi dipende
il buon governo dello Stato.
E' in questo contesto che Platone colloca sia la dura polemica contro i poeti, sia la condanna
dell'arte, che al contrario della filosofia allontanerebbe i giovani dalla vera comprensione delle idee:
l'arte infatti è intesa come imitazione della natura, e quindi come imitazione di quella che Platone
interpreta come una imitazione imperfetta delle idee. Insomma, una imitazione di una imitazione,
che certo non avvicina all'originale. La via corretta per educare i giovani è invece il continuo esercizio
dialettico, è la filosofia stessa quindi. Ma il tutto sottoposto al diretto controllo dello Stato, per una
finalità propria dello Stato: il governo orientato dalla idea del bene.
La polemica di Platone contro i poeti va inquadrata nel suo giusto contesto: i "maestri della
Grecia", dice Platone nella Repubblica e gli studiosi moderni confermano, sono sempre stati i poeti,
perché, all’interno di una cultura ancora essenzialmente orale, è attraverso Omero, Esiodo e gli altri
che le antiche tradizioni, il nomos, si è tramandato. Il programma educativo di Platone tende quindi
a sostituire la filosofia, come conoscenza dialettica delle idee, al predominio degli antichi maestri,
che non sanno aiutare l'uomo a raggiungere la verità ma si fermano ad un mondo di vuote apparenze
(le "ombre" della caverna platonica).

Aristotele non accetta per nulla l'impostazione politica della Repubblica di Platone, sia perché
non accetta la teoria delle idee, sia perché ritiene che nelle materie pratiche (l'etica e la politica) non
si debba procedere proponendo un modello ideale, ma cercando il meglio nelle situazioni reali.
Tuttavia anche per Aristotele il luogo in cui parlare della educazione dei giovani è la politica ed
è nel contesto delle lezioni di Politica che si trova il programma educativo da lui proposto, proprio
nei libri VII e VIII in cui si studiano i caratteri della migliore costituzione. Anzi, Aristotele esplicita-
mente dichiara che "poiché lo Stato nella sua totalità ha un unico fine, è evidente di necessità che
anche l'educazione è unica e uguale per tutti, che la cura di essa è pubblica e non privata (...). Delle
cose comuni, comune dev'essere anche l'esercizio" (Politica, VIII, 1)
Qual è la ragione di questo? E' la stessa concezione aristotelica dell'uomo a imporre questa
tesi. Nell'Etica Nicomachea Aristotele aveva chiarito che la politica ("lo Stato nella sua totalità ") ha
un fine preciso: il bene supremo della città, cioè del luogo in cui i cittadini vivono. Perché si tratta di

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una cosa così importante? Perché è soltanto lì, nella città, che l'uomo, animale politico per eccel-
lenza, può raggiungere la felicità. Perseguire la felicità individuale è, in termini di realtà, possibile
soltanto a condizione che vi sia una comunità che lo consenta.
Ora, che cos'è la felicità per un uomo? E' la piena realizzazione di sé. Quindi per sapere in
concreto che cosa sia la felicità è indispensabile sapere che cosa sia questo sé dell'uomo, quale sia
la sua più profonda natura. Ma ciò che l'uomo ha di proprio rispetto ad ogni altro essere vivente è la
sua mente. Dunque una vita felice è una vita che rispetta le potenzialità insite nella mente dell'uomo:
una vita teoretica, che Aristotele contrappone alla vita pratica, la vita del lavoro necessario a produrre
le cose necessarie alla vita.
Poiché questo può avvenire soltanto nel contesto di uno Stato ben ordinato, si tratta di vedere
quale sia la migliore costituzione (cioè il miglior ordinamento dello Stato). Aristotele argomenta a
favore di una costituzione che oggi chiameremmo democratica, in cui i cittadini siano tutti in condi-
zioni di eguaglianza e in cui la libertà sia garantita, e così la sicurezza di vita.
Il principio chiave della educazione per Aristotele è allora chiaro: il giovane va guidato in modo
da essere educato a vivere una vita sociale piena, in condizioni di eguaglianza con i suoi simili.
L'educazione è quindi la condizione per l'espressione di sé e per condurre una vita teoretica che dia
la felicità.
Questa la cornice generale del tema dell'educazione in Aristotele. Vi sono però poche indica-
zioni di dettaglio, perché se ne è occupato quasi di passaggio, e non vi sono opere espressamente
dedicate. Ma alcune indicazioni specifiche si trovano. La più importante è questa, che il giovane va
educato prima con l'azione che con la ragione, e solo per gradi condotto ai più alti livelli della cono-
scenza intellettuale. Le buone abitudini sono la chiave di una buona educazione. Questo perché la
capacità intellettiva matura col tempo e l'educazione va invece impostata sin dalla primissima infan-
zia. Aristotele sembra dare una grande importanza a questa prima formazione. In un passo sostiene
che "al riguardo non diceva male Teodoro, l'attore tragico: egli non permetteva mai a nessuno, nep-
pure a un attore di poco valore, di comparire sulla scena prima di lui, perché gli spettatori si lasciano
attirare da quel che ascoltano per primo: lo stesso accade nei rapporti con la gente e con le cose,
perché ci affezioniamo di più a tutto quel che ci colpisce per primo. Bisogna perciò rendere estranee
ai giovani tutte le cose cattive, specialmente quelle che hanno in sé malvagità e malignità" (Politica,
VII, 17)
Per esempio, va data grande importanza al gioco, ma i giochi devono essere "per la maggior
parte imitazioni delle loro successive occupazioni" (ivi).
La teoria aristotelica dell'abitudine va poi inquadrata nel contesto della sua concezione della
virtù. Per Aristotele la virtù è una disposizione dell'animo che ci spinge ad adottare comportamenti
che stiano a metà tra i due eccessi che sempre un'azione può avere (è la teoria del giusto mezzo).
La virtù non è quindi soltanto legata, come volevano Socrate e Platone, pur con le loro importanti
differenze, essenzialmente al sapere, ma è soprattutto il frutto di un esercizio costante, di una edu-
cazione a comportarsi senza sforzo secondo certi criteri, essenzialmente di buon senso, adatti alla
società in cui si vive. Aristotele non crede infatti che nelle discipline pratiche si possano raggiungere
i princìpi supremi e che una scienza piena in questo campo si possa avere.
Naturalmente va ricordato che le persone di cui Aristotele sta parlando sono i cittadini, non
tutti gli uomini. I Greci, liberi per natura. Non gli schiavi, che tali sono altrettanto per natura. Poiché
il giovane deve essere educato ad una vita teoretica, e non ad una vita legata alla produzione, le
discipline che formeranno il suo percorso di studi comprendono diverse materie proprie di quelle che
nel Medioevo si chiameranno "arti liberali", come la musica: discipline che si coltivano per il piacere
che danno alla mente, non per una loro intrinseca utilità pratica.

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ELLENISMO ED EDUCAZIONE.

Monarchie ellenistiche e polis greca


Alessandro Magno aveva cercato di esportare nei territori occupati il modello della polis, ma il
suo tentativo era fallito…
Il Regno di Macedonia e le monarchie costruite dai successori di Alessandro, il regno d’Egitto,
il regno di Siria, e infine il regno di Pergamo, sono delle realtà multietniche, rette da monarchie
assolute ordinate su base territoriale, dove non esistono cittadini ma sudditi, e in cui la sola forma di
partecipazione alla vita politica è quella riservata ad una burocrazia chiamata ad eseguire gli ordini
del monarca.
Su queste basi si sviluppano nuove forme di vita economica e culturale sconosciute alle poleis
greche, mentre dalla scissione tra vita pubblica e vita privata emergono punti di riferimento nuovi,
ricercati al di là del «piccolo cosmo» della comunità di riferimento, nel cosmopolitismo, o rintracciati
nell’individualismo, nell’interiorità dell’esperienza etica.

Caratteri delle monarchie ellenistiche


«Le forme e i metodi di governo furono pressappoco gli stessi in tutte le monarchie ellenistiche,
grandi e piccole. Onnipotente è il re: egli impersona lo Stato, che protegge e difende, e il suo bene
si identifica con quello dello Stato; sulle monete, al posto dell’effige delle divinità, c’è ora la sua
effige. Il suo governo è assoluto: non ha ministri, ma cortigiani; se un Consiglio di cortigiani è chia-
mato a decidere sugli affari più importanti, esso non ha mai potere deliberativo; il diadema, lo scettro,
il manto di porpora, la guardia del corpo, i paggi lo separano nettamente dai sudditi di qualunque
grado e attestano la sua potenza. Il suo potere si appoggia soprattutto sulla compattezza e sulla
fedeltà dell’esercito, in parte mercenario, tutto però ben tenuto e ben pagato: alle rilevanti spese
militari provvedono gli alti cespiti forniti da un ben congegnato sistema tributario, al cui funziona-
mento attende una burocrazia numerosa e devota». (G. Giannelli, Trattato di storia romana, I, L'Italia
antica e la repubblica romana, Patron, Bologna 1975 e ss.; S. Mazzarino, L'impero romano, 2 voll.,
Laterza, Bari 1986;)

Crisi della polis.


divenuta struttura amministrativa rispetto ad un centro politico che le è estraneo, essa vede
progressivamente svuotarsi di contenuti decisionali significativi le proprie istituzioni pubbliche, … si
affievolisce fino ad esaurirsi la partecipazione dei cittadini alla vita politica.
… la crisi della polis, spezzando questa trama di legami politici ed etici, assume il significato e
la consistenza di una crisi culturale ed esistenziale di proporzioni drammatiche. Né la Grecia riuscirà
più a riprendersi.
Lo sviluppo delle scienze in età ellenistica
«Un netto progresso segnano, in età ellenistica, le scienze tutte, senza eccezione: matematica
e astronomia, medicina e scienze naturali. La durata dell’anno solare è calcolata per la prima volta,
con errore minimo, dal babilonese Kidinnu di Sippar (Kidenas); scoperte astronomiche sorprendenti,
per chi non disponeva di alcuno dei moderni strumenti di osservazione, sono quelle della rotazione
della Terra intorno al proprio asse e della rivoluzione di Mercurio e di Marte intorno al Sole (Eraclide
di Eraclea), della grandezza del Sole e della gravitazione della Terra intorno ad esso (Aristarco di
Samo); benché poco dopo Ipparco di Nicea sia tornato al sistema geocentrico che, confermato due
secoli d.C. da Tolomeo nel suo trattato di astronomia (l’Almagesto degli Arabi), rimase indiscusso
fino a Copernico. Ad Ipparco resta peraltro il merito di aver compilato un catalogo di circa 900 stelle
fisse. Il campo della matematica è illustrato dai nomi di Euclide di Alessandria, di Archimede di Si-
racusa, di Eratostene di Cirene; e fra gli studiosi di medicina va ricordato quell’Asclepiade di Prusa,
che introdusse la nozione di nuove norme terapeutiche non medicamentose, come bagni, massaggi,
dieta, esercizi fisici, come le più adatte a conservare o a ridonare la salute al corpo.» (Giulio Giannelli
cit.)

Individualismo e cosmopolitismo.
Le due categorie con le quali comunemente si definiscono i tratti salienti dell’ellenismo, l’in-
dividualismo e il cosmopolitismo, vanno correttamente intese nel loro contenuto problematico.

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L’individualismo sta ad indicare che il soggetto, nella nuova società burocratica che ha so-
stituito la polis, deve affidare la propria affermazione sociale alle sue competenze personali e non
più al suo status sociale (si pensi ai diritti e alle opportunità legati all’appartenenza etnica nella polis
spartana, ma anche in Atene); ma sottolinea anche una condizione di smarrimento e di isolamento
dell’individuo, ora che, per i suoi problemi esistenziali, non dispone più delle certezze offerte dalle
leggi cittadine e deve contare solo su se stesso (vedi gli orientamenti individualistici dell’etica).
Il cosmopolitismo esprime il superamento del disprezzo tradizionale dei Greci nei riguardi dei
non Greci (Barbari); ma in positivo non riflette alcuna realtà nuova né esprime un ideale politico di
una qualche consistenza. L’individuo si dichiara cittadino del mondo; ma così esprime più il senti-
mento di una mancanza che il possesso di un valore nuovo. Si è idealmente cosmopoliti perché,
nella realtà, non si ha, o non si ha più, una patria.

Il pre-ellenismo di Isocrate
Isocrate è allievo di Gorgia, e la sua Scuola di retorica è attiva negli stessi anni di vita dell’Ac-
cademia di Platone, cui oppone un programma educativo per molti aspetti alternativo. La sua collo-
cazione, in apertura dell’età ellenistica, non ubbidisce dunque a criteri «cronologici», ma «culturali»,
e sta ad indicare che Isocrate, con la sua proposta educativa, anticipa alcuni dei motivi fondamentali
dell’ellenismo, proiettando la sua influenza sulla cultura occidentale fino ai nostri giorni. Il supera-
mento della polis – che costituisce il riferimento tradizionale e imprescindibile della formazione
dell’uomo greco – in direzione panellenica e, in particolare, l’idea che la formazione di livello su-
periore vada affidata alla retorica, e dunque agli studi letterari, sono motivi che Isocrate consegna
non solo alla sua età, ma ai secoli futuri. Il modello platonico prevedeva studi superiori che ruotavano
intorno alla matematica e alla dialettica (filosofia); quello aristotelico un programma che affiancava
alla filosofia un vasto piano di studi naturalistici: l’uno e l’altro, e soprattutto il secondo, pur ponendo
al vertice della formazione il momento filosofico (che conduce alla sapienza e alla virtù), erano riusciti
a conferire alla formazione generale un orizzonte molto ampio, differenziato ed equilibrato. Con Iso-
crate l’idea educativa della cultura generale subisce una contrazione interna per insufficiente
respiro dialettico, con conseguenze durature negli orientamenti della formazione dell’uomo occi-
dentale.

L’etica epicurea
In Epicuro (341-270 a.C.) l’ontologia (concezione atomistica della realtà) e la gnoseologia
(spiegazione del processo conoscitivo affidato alla sensazione) vengono elaborate con molta cura
non solo per esigenze di “sistema”, ma soprattutto in funzione dell’etica. Agli uomini del suo tempo,
coinvolti in una crisi profonda (crollo della polis e dei valori tradizionali), Epicuro intende offrire un
progetto di vita in grado di condurli alla felicità attraverso gli strumenti di cui essi stessi possono
disporre in via diretta (autarchia). L’uomo può bastare a se stesso nella realizzazione di una vita
felice perché il bene consiste nel piacere, e questo è alla portata di tutti, purché lo si intenda corret-
tamente, come assenza di dolore per il corpo (aponia) e come assenza di perturbazioni per l’anima
(atarassia). Cercare unicamente i beni naturali e necessari alla sopravvivenza libera dai mali del
corpo; astenersi dalla vita politica e liberarsi dalle false opinioni sugli dei, sulla morte e sull’immorta-
lità dell’anima, libera dai mali dell’anima. Aponia e atarassia richiedono impegno etico, e dunque una
vita diretta dalla ragione.

Il «sistema» stoico
Lo Stoicismo vive e si trasforma nel corso di cinque secoli. Nella sua storia vengono solita-
mente distinte: l’antica Stoa del III secolo a.C., fondata da Zenone (333-263 a.C.); la media Stoa,
che abbraccia il II e il III secolo a.C.; e, infine, lo Stoicismo romano, che si estende fino al II secolo
d.C. Allorché si parla di Stoicismo sembra dunque opportuno definirne la fase di sviluppo. Negli stoici
lo «spirito di sistema» è una eredità di Platone e Aristotele, ai quali peraltro risalgono per definire
momenti cruciali della loro filosofia. L’influenza di Aristotele si coglie nella concezione della realtà
(Physis), che gli stoici concepiscono come corporeità (componente passiva) e pneuma (componente
attiva), in cui chiaro è il richiamo al sinolo aristotelico di materia e forma, anche se qui vengono tratte
conseguenze di tipo immanentistico e deterministico: la realtà, in quanto corporeità, è determinata
da una serie di cause che nel loro insieme costituiscono il Fato o il Destino; il mondo è quello che è,
e non potrebbe essere diversamente. Evidente è altresì l’influenza di Platone nella caratterizzazione

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che gli stoici danno del Logos: il principio attivo della realtà (pneuma) è logos, per cui si deve anche
dire che l’ordine necessario del mondo è un ordine razionale, che tende ad un fine (teleologia), così
che il Fato (il Destino) si qualifica altresì come Provvidenza. Si comprende bene, così, perché saggio
è colui che sceglie ciò che è necessario, che si conforma al corso degli eventi, che cerca l’impassi-
bilità, il distacco da un mondo che non è modificabile, ma che comunque è in sé razionale. Vivere
secondo natura è dunque vivere secondo ragione; e scegliere la necessità è conquistare la libertà.
È interessante rilevare che gli stoici – sul fondamento della unicità del Logos che spira in tutti gli
uomini – giungono a scoprire l’uguaglianza e la fratellanza tra gli uomini, che considerano cittadini
di una sola grande città (superamento della separazione tra Greci e Barbari nel cosmopolitismo),
chiamati ad ubbidire all’unica legge della natura (giusnaturalismo).

L’etica scettica
Lo Scetticismo non costituisce una scuola in senso proprio, ma un movimento di pensiero che,
cronologicamente, precede Epicureismo e Stoicismo, dei quali condivide la domanda fondamentale:
Come assicurare all’uomo la conquista della felicità in un mondo che ha perduto tutte le certezze del
passato? Fondatore dell’indirizzo scettico è Pirrone di Elide (360 ca-270 ca a.C.). II termine «Scet-
ticismo» deriva da skepsis, che significa critica, e trae origine dall’interpretazione particolare che
viene data al «non sapere» di Socrate. Lo Scetticismo si pone come critica di ogni indirizzo filosofico
e, dal postulato della non conoscibilità della realtà, trae la conclusione che occorre porsi di fronte a
tutte le cose in uno stato di indifferenza. Ogni rappresentazione ci fa conoscere le cose quali ap-
paiono a noi, mentre la loro essenza ci rimane nascosta. Per questo le sensazioni e le opinioni sono
«indifferenti» rispetto alla verità, nei confronti della quale conviene che il saggio mantenga il silenzio
(afasia) attraverso la sospensione del giudizio (epochè). Proprio per l’indifferenza di ogni cosa, il
saggio rimane imperturbabile (atarassia); e in ciò consistono la sua autosufficienza e la felicità

L’EDUCAZIONE A ROMA

Il diritto di famiglia a Roma


I Romani indicavano con il termine familia un complesso di persone, libere o schiave, sottopo-
ste a un capo, denominato paterfamilias. Costui era un uomo libero, senza alcun ascendente ma-
schio vivente in linea maschile (non contava, per esempio, il nonno per parte di madre). Il paterfa-
milias era l’unico ed esclusivo proprietario del patrimonio familiare (res familiaris) e di quei beni che
per qualsiasi motivo i suoi sottoposti acquistassero. Egli aveva poi su tutti costoro un potere (pote-
stas) che giungeva fino al diritto di metterli a morte. Per questo Cicerone definì la familia un piccolo
Stato.
Erano subordinati al capofamiglia, per tutta la durata della sua vita, tutti i suoi discendenti
legittimi in linea maschile (cioè figli e figlie e prole dei figli, ma non quella delle figlie) e tutti quelli che
entravano nella familia attraverso l’atto giuridico dell’adozione. Di norma anticamente erano intro-
dotte nella famiglia la moglie e le mogli dei figli e dei nipoti con l’atto denominato conventio in manum,
così come, quando si sposavano, ne uscivano le figlie e le nipoti. Ovviamente non era necessario
che tutti i discendenti convivessero con il capofamiglia in un’unica domus; pur restando in potestà
del padre, i figli, anche non sposati, potevano vivere separatamente, utilizzando un patrimonio più o
meno grande (peculium) da lui concesso. A Roma però il matrimonio non era di per sé sufficiente a
formare una nuova familia dal punto di vista giuridico.
Solo alla morte del paterfamilias ciascuno dei suoi discendenti maschi diventava a sua volta
capofamiglia; anche la moglie si liberava dalla potestas e diveniva proprietaria di beni e di schiavi,
ma non aveva l’autorità sui figli o sugli altri discendenti; gli schiavi passavano agli eredi insieme con
il patrimonio. L’ammissione del figlio nella famiglia Nel mondo romano, la nascita non implicava
necessariamente e automaticamente che il bambino entrasse subito a far parte della famiglia. I ge-
nitori, infatti, non avevano l’obbligo né morale né giuridico di accogliere tutti i figli nati dal matrimonio.
Anche se l’eventuale rifiuto era deplorato e condannato nell’opinione comune, esso venne sentito
come ammissibile fino al I secolo d.C., quando si diffuse nei confronti della procreazione e dei doveri
dei genitori un atteggiamento più responsabile, rafforzato poi dall’affermazione del Cristianesimo.
La tradizione romana voleva che il neonato fosse deposto ai piedi del padre; se questi decideva di
riconoscerlo e allevarlo, doveva raccogliere il figlio (filium tollere) e prenderlo sulle ginocchia ( di qui

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il significato del termine genuino); altrimenti il piccolo veniva esposto, cioè abbandonato, general-
mente in un luogo pubblico (a Roma, per esempio, davanti alla colonna detta «del latte» presso il
tempio della Pietà), dove chiunque poteva prenderlo con sé.
Talvolta l’abbandono dei figli indesiderati era reso ufficiale, in modo che potessero essere
adottati da altre famiglie. Quest’uso era praticato sia dai poveri sia dai ricchi: dai primi per difficoltà
economiche, dai secondi per una scelta tesa a evitare un’eccessiva frammentazione dell’eredità. Ne
facevano le spese soprattutto le bambine, sentite più spesso dei maschi come un peso per il bilancio
familiare. I bambini malati, deformi o anche solo troppo gracili venivano uccisi, come prescriveva
addirittura una legge delle XII Tavole. Va però detto che i bambini riconosciuti e accolti nella famiglia
di provenienza rappresentavano la stragrande maggioranza. Già Catone, alla fine del III secolo a.C.,
testimonia che il buon paterfamilias tiene nella più alta considerazione sia la moglie sia i figli. In
seguito l’istituzione del matrimonio entrò in crisi, soprattutto a causa di una certa rilassatezza dei
costumi, ma ciò riguardò essenzialmente i rapporti tra uomo e donna nei gruppi sociali medio-alti e
aristocratici: gli uomini ricchi si sposavano più tardi o restavano scapoli. Questo comportò una mi-
nore natalità e a tale problema demografico cercò di porre rimedio la politica famigliare di Augusto,
il quale concesse per legge notevoli privilegi ai nobili sposati che avessero almeno tre figli (ius trium
liberorum).

La prima infanzia dei bambini romani


Fin dal primo giorno si appendevano al collo del neonato degli amuleti che tenessero lontano
il malocchio; i maschi più ricchi usavano anche un pendente d’oro (bulla) che era deposto solo a
diciassette anni, quando il giovane diventava maggiorenne. Il nome veniva attribuito nei primi giorni
di vita: ai maschi nell’ottavo, alle femmine nel nono. Negli ultimi secoli della Repubblica, seguendo
un costume greco, le famiglie che se lo potevano permettere affidavano il bimbo per l’allattamento
a una nutrice (nutrix), poi per la prima educazione a un pedagogo (paedagogus o nutritor). Dato che
queste persone erano quasi sempre schiavi greci, il bambino imparava la loro lingua insieme con
quella latina dei genitori; si spiega anche così l’ampia diffusione del bilinguismo dei ceti abbienti. I
bambini si rivolgevano al padre chiamandolo dominus («signore», «padrone»), in ossequio alla sua
patria potestas («potere del padre») e probabilmente dovevano averne una certa soggezione.
L’ antico costume romano affidava al padre l’istruzione del figlio. Nei primi secoli della Repub-
blica gli insegnamenti erano impartiti solo ai maschi ed erano molto rudimentali. Il bambino imparava
a leggere, scrivere, far di conto, ma anche a nuotare e a praticare attività sportiva. Non tutti, però,
seguivano la buona norma antica. Già Catone possedeva uno schiavo, Chilone, che insegnava a
pagamento a molti ragazzi; pare che la prima scuola pubblica a Roma sia stata aperta verso la fine
del III secolo a.C. da un liberto, Spurio Carvilio. A partire da questo periodo, a mano a mano che i
contatti con la cultura greca divenivano sempre più stretti, la maggior parte dei padri, troppo impe-
gnati nel lavoro, negli affari o nella carriera politica, affidava il figlio a un pedagogo (cioè un precettore
che restava sempre al fianco del ragazzo), di solito un Greco, o lo mandava a scuola (ludus, ludus
litterarius), frequentata anche da alcune fanciulle. Una differenza sostanziale rispetto a quanto ac-
cade oggi è che a Roma la scuola era sì pubblica, nel senso che tutti vi potevano accedere, ma
privata, cioè pagata direttamente dal padre dello studente; lo Stato non si intrometteva nell’educa-
zione dei giovani, considerata una funzione essenzialmente della famiglia. L’ordinamento scolastico
romano era suddiviso in tre gradi, paragonabili rispettivamente ai nostri cicli elementare, medio e
superiore:
1° insegnamento del maestro (litterator o ludi magister);
2° insegnamento del «professore di lettere» (grammaticus);
3° corso di perfezionamento, non così frequentato come i primi due, ossia la scuola del mae-
stro di retorica (rhetor), che addestrava i giovani nell’eloquenza prima che entrassero nella vita pub-
blica. Le lezioni elementari si svolgevano nella scuola del ludi magister, un privato che per un mo-
desto compenso insegnava a leggere e a scrivere. I modi dei maestri dovevano essere piuttosto
bruschi. Lo stesso Quintiliano, celebre autore di testi sull’educazione, deve prendere posizione con-
tro le pene corporali inflitte ai piccoli scolari, il che significa che questo metodo violento era conside-
rato normale.
L’orario scolastico era di sei ore: le lezioni cominciavano di buon mattino, venivano interrotte
verso mezzogiorno, quando gli scolari tornavano a casa per il prandium, e riprese nel pomeriggio.

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L’anno scolastico cominciava a marzo, dopo le Quinquatrus, festa in onore di Minerva e sacra so-
prattutto agli scolari; vi erano delle vacanze nei giorni festivi e ogni nove giorni (nundinae). Non è
chiaro se fosse ufficialmente stabilito un periodo estivo di vacanze, ma vi era l’uso di far riposare i
ragazzi due o tre mesi d’estate. Questo corso di studi, come gli altri del resto, non prevedeva un
esame finale: gli alunni potevano accedere al grado successivo quando dimostravano di avere com-
pletamente assimilato gli insegnamenti ricevuti e quindi non c’era un termine prestabilito.
Compiuti gli studi elementari, cominciava sotto la guida del grammaticus l’insegnamento me-
dio. Anche questo, secondo gli usi e le possibilità delle famiglie, veniva impartito o in casa o in una
scuola pubblica, ma sempre gestita da un privato. Nella scuola del grammaticus si imparavano la
lingua e la letteratura greca e latina, studiandole soprattutto sui testi poetici, e un corredo di nozioni
fondamentali di linguistica, storia, geografia, fisica, astronomia, mitologia necessarie a comprendere
ciò che si leggeva. Come si vede, lo studio delle discipline scientifiche era piuttosto marginale e
comunque subordinato rispetto all’insegnamento umanistico. Questo accadeva perché l’educazione
era finalizzata alla formazione del buon cittadino, non del tecnico, e il buon cittadino doveva com-
prendere e saper usare la parola per partecipare consapevolmente alla vita politica. I brani così
imparati si esponevano oralmente e per iscritto: queste ultime esercitazioni avevano una funzione
simile a ciò che è per noi il componimento e contenevano un giudizio finale basato su criteri non solo
estetici, ma anche morali. Dalla scuola del grammaticus si usciva conoscendo alla perfezione il latino
e il greco; cioè le due lingue che una persona colta doveva necessariamente parlare.
Il corso superiore era compiuto presso il rhetor, «professore di eloquenza»; alla sua scuola i
giovani si preparavano alla vita pubblica allargando la propria cultura allo studio dei testi classici e
perfezionandosi nella difficile arte del dire. L’insegnamento richiedeva agli alunni esercizi sia scritti
sia orali. I primi consistevano in composizioni graduate secondo la difficoltà: narrazioni, lodi o biasimi
di uomini celebri della storia, brevi discussioni, confronti ecc. Oralmente si facevano degli esercizi
pratici di eloquenza che avevano la forma o di suasoriae o di controversiae. Le suasoriae erano
monologhi nei quali noti personaggi della mitologia o della storia, prima di prendere una grave deci-
sione, ne pesavano gli argomenti favorevoli e contrari; nelle controversiae si svolgeva un dibattito
fra due scolari che sostenevano due tesi opposte. Gli studi di matematica, geometria e scienze na-
turali si svolgevano nelle scuole di filosofia, riservate ai pochi specialisti che se le potevano permet-
tere.
Con la sua sintesi di motivi ellenistici e temi della tradizione arcaica romana, il pensiero edu-
cativo da Catone (234-149 a.C.) a Quintiliano (35/40-96 a.C.) ha avuto un’influenza fondamentale
sulla tradizione occidentale. A differenza del pensiero greco, la cultura romana non dispone di
un’opera letteraria a cui riferirsi come elemento fondativo, i valori e i principi comuni vengono
dunque rintracciati all’interno della tradizione, cioè di quella vita di un popolo di contadini che si
affidava ai motivi etici della famiglia, della dedizione allo stato, del rispetto delle leggi e della
tradizione, della pietas verso gli dèi, della fermezza (virtus), della dignità personale (gravi-
tas) e del lavoro. Questo insieme di valori, codificato nelle leggi non scritte del mos maiorum e in
quelle inscritte nel bronzo delle Dodici tavole – una legificazione che fu, di fatto, una codificazione
del mos maiorum del 451 a. C. per rispondere a conflitti sociali tra patrizi e plebei – costituisce il ca-
rattere romano della riflessione sviluppata nei circa quattro secoli che prendiamo in considerazione.
Questa identità originaria costituisce il filtro attraverso cui Roma si confronta con la cultura
greca da Marco Porcio Catone, che considera nefasta la sua influenza e le attribuisce la crisi morale
e il declino delle istituzioni avite, a Cicerone (106-43 a.C.) che la considera con circospezione ma
la pone a fondamento delle virtù fondamentali dell’uomo pubblico.

Marco Porcio Catone (234 – 149 a. C.)


Catone fu dunque uno strenuo difensore dei valori e dell’identità romana di cui temeva la dis-
soluzione a causa del contatto con il mondo greco. Nel De liberis educandis – secondo Quintiliano
il primo scritto romano sull’educazione – indica il culmine del percorso educativo nella formazione
del «vir bonus, dicendi peritus», l’uomo pubblico irreprensibile che legava alla fermezza ed eti-
cità del carattere la perizia oratoria.

Marco Tullio Cicerone (106 – 43 a.C.)

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Cicerone rappresenta il momento maturo del confronto di Roma con la cultura greca, in cui si
assiste all’ellenizzazione dell’educazione romana. A differenza di Catone, infatti, Cicerone non at-
tribuiva la crisi morale di Roma all’influenza greca, ma a motivi interni di discordia, di lotta tra
classi e di competizione individuale per il potere. Pur non essendo un pensatore originale, Cicerone
ha il merito di tradurre in latino la filosofia greca – alla quale era stato formato dallo stoico Panezio e
da maestri greci quali Diogene, Carneade e Critolao – con un’opera di straordinaria importanza per
la diffusione occidentale della cultura ellenistico-romana.
Cicerone è il fondatore della filosofia politica romana i cui fondamenti teorici rintraccia
nello stoicismo, attraverso la mediazione di Panezio che riporta la sfera della virtù dalla dimen-
sione individuale assunta nell’ellenismo a quella pubblica del dovere attraverso la parteci-
pazione alla vita politica. Centrale, nella dottrina ciceroniana è l’idea di origine stoica di una legge
naturale eterna, universale e intrinseca alla natura stessa dell’uomo, anteriore a ogni diritto positivo:
Esiste una legge vera ed è la retta ragione, conforme alla natura, presente in tutti, sempre
consonante con se stessa, non soggetta a perire. Nessuna correzione a questa legge è mai con-
sentita, non è lecito abrogarla né del tutto né in parte. Né il senato né il popolo possono esentarsi
dal prestarle ubbidienza. Tale legge è universale, né è diversa ad Atene, diversa a Roma, diversa
oggi, diversa domani. Essa è una sola e stessa legge eterna e immutabile che regge tutti i popoli
e in tutti i tempi. De re publica
Come si vede, la legge naturale indicata da Cicerone è anteriore a ogni norma giuridica
positiva e si pone rispetto alle leggi date, come principio di fondazione e criterio di valuta-
zione. La sua universalità, inoltre, implica l’uguaglianza degli uomini e la comune possibilità degli
uomini di uniformare la propria condotta a criteri di eticità.
Come la legge naturale è la base del diritto, il diritto è il fondamento della res publica: lo
stato ha origine da questo vincolo giuridico.
La cosa pubblica è la cosa (res) del popolo e col termine popolo occorre intendere non già un
qualsiasi raggruppamento di uomini uniti come un gregge, cioè in un modo qualunque, ma un
gruppo numeroso di uomini che si sono reciprocamente associati in forza della loro comune
adesione a una stessa legge (iuris consensu) e in forza di una certa comunità di interessi (utilitatis
comunione). De re publica
Proprio avendo individuato nella decisione comune di sottomettersi ad una stessa legge l’ori-
gine della stato, la sovranità risiede nel popolo, quale che sia la forma di governo che si dà. Colui
che esercita il potere (in nome del popolo) è pertanto al «servizio della legge» e deve quindi con-
formarsi alla legge naturale e alla legge scritta. E’ alla formazione di un tale uomo pubblico, l’ora-
tor, che si rivolge l’azione educativa di Cicerone. L’oratore ciceroniano è, a tutti gli effetti, l’uomo
pubblico di Isocrate, ma Cicerone preferisce richiamare la formula di Catone del vir bonus dicendi
peritus.
E’ in questa continuità con l’identità romana che Cicerone colloca dunque il suo ideale di hu-
manitas, l’educazione integrale dell’uomo pubblico romano .

Marco Fabio Quintiliano (35 – 95)


Nato nella provincia spagnola nel 35 d.C., il maestro di retorica Quintiliano si rivolge come
Cicerone, alla figura del perfetto oratore di cui traccia l’educazione nell’ Institutio oratoria. E’ nel suo
capolavoro che Quintiliano traccia la fisionomia di un tipo di uomo che non sembra già essere più
l’avvocato del foro, quanto un ideale universale: la formazione dell’uomo infatti, precede quella
dell’oratore. E’ fin dalla prima pagina dell’Institutio oratoria, che Quintiliano afferma, quindi, il princi-
pio dell’educabilità di tutti gli uomini:
“Appena gli sia nato un figlio, il padre fin dall’inizio ne concepisca la migliore speranza: in tal
modo sarà più attento fin dall’inizio alla sua educazione. Falsa è infatti quella triste opinione che solo
a pochissimi uomini sia concessa la forza di capire ciò che viene loro insegnato e che la maggior
parte perde invece fatica e tempo per la lentezza dell’ingegno. E’ vero invece il contrario, e cioè che
è possibile trovare più persone portate ad immaginare e pronte ad imparare. E ciò perché è naturale.
Come gli uccelli sono generati per volare, i cavalli per correre, le bestie per incrudelire, così è in noi
connaturata l’agile attività delle mente: per questo motivo l’origine dell’anima si crede celeste. Gli
ottusi e i ribelli non vengono dunque generati secondo la natura umana più di quanto non lo siano i
corpi prodigiosi o mostruosi, che infatti sono assai pochi.”

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Potrebbe essere una testimonianza di questa nostra tesi il fatto che nei fanciulli risplende una
grandissima speranza, e quando questa svanisce con l’età è chiaro che è venuta a mancare non la
natura, ma la cultura. Ammetto che uno può essere superiore a un altro così che possa progredire
più o meno; non si potrà comunque trovare nessuno che non abbia conseguito nulla con lo studio.
Institutio Oratoria
L’intuizione di Quintiliano che, pur senza farvi riferimento, si riconnette alle tesi di Platone e
Aristotele al riguardo, concerne l’educabilità universale e il valore fondamentale dell’educazione
nello sviluppo umano. Quintiliano è l’autore antico che con più chiarezza perviene alla distinzione
tra natura e cultura nei fatti umani che sarà un’acquisizione pienamente moderna, attribuendo a
quest’ultima il maggior ruolo nella definizione della personalità individuale.
Come in Cicerone, Quintiliano guarda alla formazione dell’uomo integrale, giungendo a iden-
tificare retorica e filosofia: «quanto all’oratore io l’ho stabilito perfetto, quale non può essere che
l’uomo onesto». Non c’è quindi in Quintiliano alcuna separazione tra l’eloquio ben fatto e l’animo
retto.
Non meno originali sono le anticipazioni di questo latino del primo secolo in relazione alla
critica della crudeltà pedagogica e delle punizioni corporali, alla necessità della penetrazione psico-
logica del docente e al valore del gioco e del ruolo della passione personale (che Platone chiame-
rebbe eros) nei processi d’apprendimento.
Quintiliano è quindi, a pieno titolo, il protagonista di una pedagogia umanistica, sostenuta da
una proposta metodologica e didattica coerente, che anticipa di molti secoli la sua completa codifi-
cazione.

Dalla paideia classica alla cultura cristiana

La paideia greca nasce e si svolge sul fondamento dell’aretè che ha, fin dalle origini, un con-
tenuto eticopolitico: l’eroe omerico richiede che la propria aretè riceva un riconoscimento pubblico;
e simile dimensione pubblica accompagna la formazione dell’uomo greco sino all’ultimo, nel mo-
mento di crisi della polis, se è vero che il filosofo-reggitore dello Stato ideale di Platone si eleva al
sommo grado della cultura per porre la cultura a fondamento della ricostruzione dello Stato. In que-
sto cosmo, che va dall’individuo alla polis, la religione adempie ad una funzione che è sempre di
ordine strumentale, in direzione politica: gli dei sono le divinità della polis, e ad essi l’individuo deve
devozione per il bene della polis.

La paideia greca trapassa nel mondo della cultura romana conservando le sue note fonda-
mentali, tant’è vero che la tentazione della saggezza stoica di spezzare il vincolo che lega l’individuo
allo Stato mediante una scelta di vita sciolta dalle occupazioni «perturbanti» della vita pubblica, può
venir teorizzata soltanto in presenza di uno Stato che ha già consumato storicamente ogni valore
etico e giuridico. Sotto questo aspetto è particolarmente significativa la tragedia umana di Seneca
che, vissuto come consigliere del Principe (Nerone) deve, per volere dello stesso Principe, darsi la
morte: a testimonianza che la res publica teorizzata da Cicerone non è riuscita a calarsi dal mondo
dei sogni nel mondo della storia. Al filosofo greco, peraltro, Roma non riesce che a far seguire l’ora-
tore e infine il retore, prigionieri di una cultura (ellenismo) nata dalla crisi ed essa stessa cultura di
crisi, che travolge le vecchie divinità senza riuscire a sostituirle se non con principi astratti e intellet-
tualistici.

La nuova cultura cristiana, che riceve da Agostino una prima solida sistemazione, pone al
proprio vertice l’ideale del santo. La paideia classica, in termini di contenuti di cultura, scade a stru-
mento propedeutico per la comprensione delle nuove verità delle Scritture (reductio artium ad theo-
logiam); essa non ha dunque più nessun valore autonomo, anche se può esser letta come «antici-
pazione», nei termini dell’umana ricerca, della Parola rivelata attraverso i Testi Sacri. La nuova
«aretè», che eleva ad ideale di umana perfezione il santo, non solo prende atto del distacco che
storicamente si è ormai attuato tra politica e morale, ma teorizza la propria indifferenza rispetto alla
politica, mentre attribuisce una posizione di centralità alla religione, la quale, da strumento di potere
politico, si trasforma in principio attivo di liberazione e di piena attuazione della personalità. La figura

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di Cristo, che è via, verità e vita, riassume in modo perfetto i caratteri della nuova paideia, dell’idea
pedagogica che il Cristianesimo, erede di Atene e di Roma, offre all’Occidente. L’educazione ri-
guarda la persona in sé, perché è in sé un valore. La dipendenza, presente in tutto il passato, dallo
Stato è vinta. (Anche se si profila all’orizzonte una dipendenza di tipo nuovo, qualora la religione
dell’amore si istituzionalizzi e si faccia essa stessa figura del potere: vedi la lotta tra Papato e Impero
in tutto il Medio Evo. Ma tutto questo va oltre sant’Agostino; anche se si giustificherà con l’agostini-
smo.)

La tavola dei nuovi valori del Cristianesimo

Il mondo classico aveva costruito una costellazione di valori individuali e collettivi fondati sulle
capacità di affermazione autonoma dell’individuo: nell’isolamento, come per gli Stoici, o all’interno
della polis, come per Platone e Aristotele. L’aretè è forza fisica, intelligenza, capacità di conoscere
fino in fondo se stessi, contemplazione del Bene; e, ancora, è fortezza, temperanza, sapienza, giu-
stizia. Nel discorso sulle beatitudini, Gesù non celebra come valori positivi le condizioni di povertà,
ingiustizia, ecc., ma dischiude un orizzonte di beatitudine per tutti, e soprattutto per i più semplici.
La vita beata non è una conquista autonoma del singolo (autarchia stoica); non è onore, potere,
ricchezza, ecc.; beata è la vita condotta nel completo abbandono alla volontà di Dio. Allorché Gesù
dice beati i miseri perché di essi è il Regno dei Cieli non si riferisce all’aldilà, ma al Regno di Dio che
Gesù stesso istituisce qui, sulla terra, in unità con l’umile adesione degli uomini alla volontà di Dio.

Atteggiamento religioso e atteggiamento filosofico

Il Cristianesimo, attraverso un vasto lavoro di pensiero diretto alla chiarificazione del messag-
gio biblico, ha dato origine ad una filosofia cristiana che, obiettivamente, ha il merito storico di aver
posto in dialogante correlazione due differenti visioni del mondo, quella biblica e quella greca. L’ori-
ginalità delle due prospettive e la radicalità (o irriducibilità) di alcuni motivi di differenziazione rendono
ancor oggi di difficile comprensione la «mentalità religiosa» che attraversa sia l’Antico che il Nuovo
Testamento. La traduzione in forme metafisiche di numerosi motivi veterotestamentari e evangelici
costituisce, di volta in volta, un contributo di chiarificazione razionale oppure un ostacolo, una bar-
riera che impedisce di cogliere il motivo profondo di un modo di essere e di pensare dell’uomo nei
termini del Cristianesimo primitivo. (Si pongono qui problemi di metodo e questioni culturali di fon-
damentale importanza per la pedagogia.)

L’atteggiamento storico-culturale di fronte alle Scritture

Il messaggio contenuto nell’Antico Testamento viene presentato come messaggio ispirato da


Dio; quello contenuto nel Nuovo Testamento viene interpretato come perfezionamento del prece-
dente ad opera di Gesù di Nazareth. La Bibbia, dunque, viene presentata nel suo insieme come il
libro della Parola rivelata da Dio agli uomini. Da qui l’atteggiamento fondamentale che essa richiede,
che è atteggiamento di fede. Va però rivendicato anche un diverso tipo di lettura, che analizzi il testo
biblico nella sua autonomia, così da consentire la enucleazione di motivi culturali e religiosi che la
Bibbia contiene come motivi che vanno iscritti nella storia della cultura e della civiltà occidentale.
Dopo la predicazione di Gesù, il mondo non è più stato quello di prima, perché Gesù ha messo in
discussione pressoché tutta la cultura precedente, costringendo dunque a ripensarla in forme nuove.
In linea generale si può dire che il problema culturale, dopo la predicazione di Gesù, si è posto, e
continua a porsi, come ricerca di una «mediazione» (o integrazione) fra due piani culturali distinti.
Per alcuni studiosi in materia si tratta di conciliare il problema dei «limiti della ragione» con l’adesione
ragionevole a «motivi di fede» che investono i più gravosi problemi dell’esistenza.

Il problema etico
a) Nell’ebraismo La concezione del rapporto uomo-Dio in termini storici comporta come con-
seguenza un’impostazione del problema etico (del «dover essere», delle modalità secondo cui im-
postare l’esistenza) nei termini orizzontali-temporali del «prima» e del «dopo»: prima e dopo l’inter-
vento salvifico di Dio. L’ebraismo, cioè, proprio perché pensa e vive il rapporto religioso in termini
storici, manca della concezione di un altro mondo (il mondo dell’aldilà), distinto e separato dal mondo

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storico (separazione del tipo: mondo sensibile e mondo intelligibile o sovrasensibile), così come in
esso è assente l’idea dell’immortalità dell’anima. Solo in età piuttosto tarda, in coerenza peraltro col
proprio realismo storico, elabora l’idea della resurrezione dei corpi. Così al giudaismo rabbinico si
pone ad un certo momento il problema di chiarire le condizioni che consentono di poter partecipare
nel «mondo a venire» all’evento della resurrezione. La risposta viene in linea generale trovata
nell’obbedienza rigorosa alla legge.
b) La posizione di Gesù La posizione di Gesù è molto più articolata. Da un lato Gesù radica-
lizza l’intero contenuto della legge; dall’altro lato, sottolinea la centralità del comandamento
dell’amore che, se è presente anche nell’insegnamento rabbinico, in lui s’arricchisce di una forza
straordinaria, come motivo di fondazione di una decisione totale. In pari tempo, Gesù chiede ai suoi
discepoli di essere perfetti come perfetto è il Padre suo che è nei cieli; e poiché egli sa che nessuno
può essere giusto (può raggiungere la perfezione), accosta al comandamento dell’amore il conforto
di un Dio che è misericordia infinita (vedi la parabola del figliol prodigo).

Dopo la resurrezione di Gesù, i discepoli interpretano il sacrificio di Gesù come espiazione di


tutti i peccati del mondo. San Paolo, nel far propria questa interpretazione, giunge alla conclusione
che la «salvezza» non può essere una conquista autonoma dell’uomo che è «carne» e cioè «debo-
lezza», ma che essa consegue dalla fede come fiduciosa apertura alla misericordia di Dio. La posi-
zione di san Paolo pone l’accento sui fatto che la salvezza non può prescindere dalla grazia, e cioè
deve porsi come «dono». Ciò non significa, però, come peraltro sottolineano numerosi altri testi
neotestamentari, che l’uomo non concorra alla propria salvezza attraverso la propria volontà. Sul
piano etico-pedagogico, un atteggiamento di pura fede comporterebbe una soluzione dell’educa-
zione e della morale assai vicina a quella teorizzata dallo Stoicismo, con la coincidenza di Provvi-
denza e Destino. (È opinione ampiamente condivisa che il messaggio di Gesù sottolinea la propria
grandezza con l’introduzione di un Dio della misericordia, ma anche con l’apertura per tutti gli uomini
della via della salvezza. Gli uomini sono, e restano, responsabili della loro storia.)

AGOSTINO
Il De Magistro è stato composto nel 389, dopo il ritorno a Tagaste, in Africa, poco dopo la
conversione. E' quindi legato al momento in cui Agostino tenta di definire il rapporto tra fede e ra-
gione, prima delle grandi opere del suo periodo più maturo. Il suo problema è individuare le condi-
zioni che rendono possibile la comprensione razionale dei contenuti dottrinali del cristianesimo.
Il De Magistro è uno degli ultimi scritti di Agostino in forma di dialogo: cioè una delle ultime
occasioni in cui il metodo dialettico per la formazione della persona, di derivazione platonica, viene
utilizzato.
I temi trattati sono due, strettamente connessi tra loro:
▪ il rapporto tra i segni e i significati (un tema tipico di quella che oggi chiamiamo filosofia del
linguaggio)
▪ la natura dell'apprendere e dell'insegnare, e più esattamente chi può insegnare, chi è il mae-
stro, e se si può apprendere da un altro (un tema chiaramente pedagogico).
I due temi sono solo apparentemente diversi. In realtà la questione è una sola: Agostino in-
tende definire come e da chi l'uomo possa apprendere la verità che dà la felicità: dagli altri uomini
attraverso i loro discorsi, le parole? Dalla esperienza sensibile? La risposta a queste ipotesi è nega-
tiva. Il maestro vero è soltanto quello interiore (Cristo/Logos in noi), la verità non può essere appresa
dal mondo esterno, fatto di parole e di segni che rimandano sempre ad altre parole e ad altri segni,
ma deve essere appresa dal mondo interiore. E questo richiede un approccio diverso rispetto all'u-
niverso dei segni che utilizziamo quando entriamo in relazione con altri uomini e con le cose.
I temi del De Magistro sono quindi sì temi appartenenti alla filosofia del linguaggio e alla pe-
dagogia, ma sullo sfondo la questione è quella tipicamente platonica e neoplatonica: qual è la vera
natura dell'anima, come essa possa partecipare della verità che, in sé, non appartiene affatto al
mondo in cui viviamo. Come, insomma, la mente dell'uomo possa accedere alla più intima verità di
se stesso, che in realtà lo trascende. Il maestro interiore - se siamo preparati a intendere l'illumina-
zione che esso consente - ci permette infatti la comprensione di noi stessi, ma questa via si dimostra
in realtà una via verso Dio, perché in lui è la nostra verità: una via quindi che ci trascende.

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Gli interpreti si sono divisi nel valutare le diverse parti di cui è composto il dialogo [3], ma c'è
sostanziale unità nel valutare come centrale in quest'opera la questione del maestro interiore e
quindi dell'accordo tra fede e ragione che ci permette di superare la sfera della sensibilità e di com-
piere il salto verso una verità che è sì in noi, ma soltanto come apertura ad una realtà trascendente
(secondo la celebre tesi: "nell'interiorità dell'uomo abita la verità")
Sintesi
Il dialogo si svolge tra Agostino e suo figlio Adeodato. E' possibile che si basi su un dialogo
effettivamente avvenuto.
La prima parte (§ 1-18) si apre con la domanda di Agostino su quali siano le funzioni del lin-
guaggio, e la risposta è che esse sono due: insegnare e far ricordare [si tratta di una ripresa di tesi
stoiche]. E questo anche nel caso che si canti o si preghi:
• nel canto, la bellezza della melodia non vuole certo né insegnare né far ricordare;
tuttavia questa bellezza non appartiene al linguaggio in quanto tale, ma si aggiunge alle pa-
role che usiamo;
• nella preghiera, certo non vogliamo insegnare o far ricordare qualcosa a Dio, ma "le
parole servono a spingere noi stessi a ricordare o a far sì che altri siano spinti a ricordare o
siano istruiti per nostro mezzo". Dunque la tesi è molto netta: dove ci sono parole, c'è qual-
cuno che ha uno scopo, insegnare o far ricordare.
Ma le parole non sono altro che segni, e significano qualcosa soltanto se rimandano a un
significato [quindi permettono di insegnare e far ricordare, in modo autentico, soltanto se consentono
di passare dal segno al significato]. Agostino e Adeodato discutono allora a lungo sul passaggio dal
segno al significato. In un lungo passo viene analizzato il significato delle singole parole del verso
Si nihil ex tanta superis placet urbe relinqui (è un verso di Virgilio, Eneide 2, 659). La questione più
seria la pone la parola nihil, perché non si trova qualcosa che possa esistere e corrisponda a nihil:
viene suggerita l'ipotesi che con questa parola "si indica forse la stessa disposizione della mente
quando cerca qualcosa e scopre che non esiste". Tuttavia Agostino rimanda ad altro momento la
discussione di questa questione, perché troppo complessa [nel De Magistro la questione non sarà
ripresa].
L'analisi delle altre parole mostra poi con chiarezza che discutendo tra loro Agostino e Adeo-
dato non stavano affatto passando dalla parola come segno al significato delle parole, ma stano
semplicemente tentando di spiegare il significato di una parola con altre parole, sostituendo quindi
parola a parola e restando sempre dentro un mondo di segni senza mai andare davvero al signifi-
cato.
Adeodato si accorge addirittura che quando indichiamo qualcosa con il dito, per mostrare il
significato di una parola che corrisponde ad una cosa presente, oppure quando dei mimi o dei sor-
domuti usano dei gesti per fare intendere un significato, senza usare parole, anche in questi casi
non si fa altro che rimanere in un universo di segni, perché anche i gesti sono segni: lo è il dito che
indica, lo è la posizione del corpo del mimo, il gesticolare del sordomuto. Si va da segno a segno,
mai dal segno al significato.
E' allora possibile mostrare le cose, comunicare dei significati (e quindi insegnare e far ricor-
dare in modo autentico), senza un sistema di segni, ma andando direttamente alle cose stesse? Sì,
è possibile. Ma senza segni si possono mostrare soltanto "le azioni che possiamo fare dopo che ci
siano state chieste": ad esempio metterci a camminare dopo che abbiamo usato la parola cammi-
nare. Tuttavia questo non riguarda il linguaggio in sé perché l'atto di camminare in quanto tale è del
tutto separato dalla parola camminare: il legame tra la parola e la cosa non è diretto, e dunque non
c'è passaggio tra segno e significato. C'è direttamente un significato mostrato senza segni.
Ha così termine la prima parte del De Magistro, caratterizzata da un esame della questione
dei segni attraverso un fitto rapporto dialettico tra Agostino e Adeodato. E' da notare che si tratta di
una ricerca in comune: il gioco dialettico non è usato da Agostino soltanto per educare il figlio, ma
anche come metodo di ricerca; certo, la guida esperta è Agostino, ma il gioco dialettico è costruito
in modo che Adeodato faccia da specchio alla ricerca di Agostino. Da qui la tortuosità del percorso,
davvero complesso e contorto in alcuni casi. A conclusione di questa parte Agostino chiede ad
Adeodato di fare una sintesi di quanto fin qui detto, e Adeodato svolge bene il suo compito.
La seconda parte del De Magistro (§ 19-31) inizia con una netta dichiarazione di Agostino: non
stiamo facendo questa analisi dialettica per divertirci con argomenti futili, ma per una ragione precisa

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ed elevata: per "irrobustire le forze e lo sguardo della mente" in vista di un cammino che ci conduca
"alla vita felice ed eterna", che dà la conoscenza della verità, e cioè di Dio, che è la verità stessa.
Questo è dunque il vero scopo del lavoro dialettico che si sta compiendo.
Riprendendo l'argomento, Agostino e Adeodato, dopo un tortuoso percorso dialettico, giun-
gono alla conclusione che il rimando dalle parole ad altre parole, e quindi da segni a segni, non
permetterebbe affatto alcun tipo di comprensione se non vi fosse ad un certo punto un rimando a
ciò che i segni significano, cioè al significato.
Ora, "le cose significate devono essere di maggior valore dei segni. Ciò che esiste in funzione
di altro è necessariamente di valore inferiore rispetto a ciò per cui è". Su questo punto si accende
nuovamente una discussione, ma la conclusione alla fine è chiara: "l'uso delle parole è più impor-
tante delle parole: le parole infatti esistono per essere usate e le usiamo per insegnare. (...) Ciò che
viene insegnato vale assai più delle parole con cui viene insegnato". La conoscenza dei significati è
più importante dei segni.
Tuttavia, è possibile insegnare senza ricorrere ai segni?
Ha così inizio la terza parte e ultima parte del De Magistro (§ 32-46), caratterizzata dall'abban-
dono del metodo dialettico: adesso è Agostino che conduce da solo un lungo discorso. L'avvio è
questo: sì, è possibile insegnare senza ricorrere ai segni, ma mostrando direttamente le cose stesse.
Se uno non ha mai visto un uccellatore al lavoro, capirà il suo strano abbigliamento e il senso degli
attrezzi che porta quando lo vedrà al lavoro mentre tende le sue trappole agli uccelli. E la cosa può
essere estesa alla natura stessa: "non è forse vero che Dio e la natura pongono di fronte a chi
guarda e mostrano direttamente in se stessi questo sole e la luce che diffondendosi riveste ogni
cosa, la luna e le altre stelle, le terre, i mari e tutti gli innumerevoli esseri che vi nascono?"
Anzi, Agostino estende la sua tesi: "nulla si impara mediante i segni con cui viene indicato".
Infatti io mi accorgo che un segno è segno di qualcosa perché conosco questo qualcosa, altrimenti
non me ne accorgo. La parole capo per indicare la testa di un uomo mi è comprensibile come segno
soltanto perché so che il suo significato è la testa di un uomo, altrimenti è per me soltanto un suono,
non un segno. Quindi "è il segno ad essere imparato in seguito alla conoscenza della cosa, anziché
la cosa in seguito all'osservazione del segno".
Le parole quindi "non possono mostrarci le cose per farcele conoscere", possono soltanto
stimolarci alla loro ricerca: quindi o a ricordare ciò che sappiamo già o a ricercare qualcosa di nuovo.
La conoscenza delle parole rimane solo conoscenza di parole, nulla più. Mi insegna invece qualcosa
chi presenta ai miei sensi o alla mia mente le cose che desidero conoscere. E dunque:
• per le cose esteriori la fonte dovranno essere i sensi;
• per le cose interiori (e quindi per l'intero mondo non sensibile, per ciò che riguarda il
mio intelletto) la fonte non potrà che essere nella mia interiorità: quella luce interiore, parallela
alla luce esteriore che permette ai miei occhi di vedere, che abita dentro di noi: Scrive Ago-
stino "Il Cristo, cioè l'immutabile Virtù di Dio e l'eterna Sapienza" [queste parole sono una
citazione da San Paolo].
Dunque non si ha comprensione intellettuale perché qualcuno attraverso le parole ci insegna,
ma perché vediamo in noi stessi la verità intellettuale. "Le parole possono soltanto aiutare a verificare
se egli sia in grado di imparare nella propria interiorità". A questo servono quindi gli esercizi dialettici:
avere degli stimoli per imparare come si fa a leggere nella propria interiorità, e verificare i risultati
raggiunti.
Il De Magistro si conclude quindi con un ammonimento contro una sapienza fatta soltanto di
parole: alle parole non va attribuita "più importanza di quanta sia opportuna; in tal modo (…) comin-
ceremo anche a capire la verità di quanto è stato scritto per insegnamento divino, e cioè che nessuno
dobbiamo considerare nostro maestro in terra, perché il solo maestro di tutti è in cielo" [queste parole
sono una citazione dal Vangelo di Matteo]. Ma questo maestro è anche dentro di noi. Il Maestro
interiore ci mostra direttamente la verità. "Per mezzo delle parole l'uomo è soltanto spinto a impa-
rare".
La felicità è frutto della visione diretta della verità. Il percorso del De Magistro è quindi una
preparazione a questa contemplazione. Il nostro intelletto deve rendersi capace di sostenere la luce
della verità che è in noi, luce abbagliante, bellezza pura.

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"Solo in virtù del rapporto di circolarità che la lega alla ragione, la fede può restituire l'esistenza
umana al proprio statuto originario. Se infatti la fede escludesse la ragione, l'adesione a Cristo si
ridurrebbe per l'uomo a un atto che contraddice la sua natura razionale. Inoltre gli precluderebbe la
possibilità di aspirare a raggiungere la beatitudine e quindi la felicità, perché l'uomo sarebbe inca-
pace di compiere l'atto intellettivo della ragione richiesto per raggiungere la visione di Dio. Una si-
tuazione analoga si determinerebbe se la fede non presupponesse la ragione; in tal caso infatti la
fede in Cristo non avrebbe alcuna giustificazione e si risolverebbe in un atto semplicemente irrazio-
nale, ovvero disumano" (A. Pieretti, Introduzione a Agostino, Il maestro, Edizioni Paoline, Milano
1990, pp. 14-15)
La verità, in quanto si identifica con Dio, è di per se stessa trascendente nei confronti dell'uomo
e quindi inaccessibile al suo intelletto. Essa tuttavia si incarna nel Cristo perché, come insegnano
anche i neoplatonici, Cristo è il Logos, il verbo divino, vale a dire la verità nel suo manifestarsi, nel
suo aprirsi alla comprensione" (ib. p. 10)

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Medioevo
Il Medioevo è spesso considerato, in modo semplicistico, come un’età di completo decadi-
mento per la cultura e l’istruzione, soprattutto in relazione alla precedente epoca romana. In questa
prospettiva appare quindi come un’età fondamentalmente “illetterata”, almeno per quanto riguarda
l’Europa occidentale, in cui il sapere e il suo insegnamento erano patrimonio di pochissimi. Ma è
proprio in questo periodo, seppur attraverso un percorso evolutivo molto lungo e tortuoso, che si
pongono le basi della scuola così come la concepiamo oggi.
Punto di partenza di questo percorso sono i secoli dell’Alto Medioevo, nei quali l’Europa si
trova a fare i conti con il crollo del sistema scolastico antico conseguente alla caduta dell’Impero
romano e all’insediamento nei territori occidentali delle popolazioni germaniche. I popoli che, river-
sandosi entro i confini dell’impero, si organizzarono nei nuovi stati romano-germanici, infatti, non
conservarono o allestirono un apparato scolastico strutturato, caratterizzati come erano da una cul-
tura tipicamente orale e da una concezione della formazione giovanile che riguardava esclusiva-
mente la preparazione militare. Questa nuova situazione determinò nel corso di pochi decenni la
totale scomparsa della scuola pubblica antica dai territori occidentali, ragione per la quale fu
necessario ricostruire gradatamente un sistema scolastico completamente nuovo. Un compito per
la chiesa: la scolarizzazione I secoli dell’Alto Medioevo furono caratterizzati dalla quasi totale as-
senza di istituzioni civili forti in Europa occidentale. Fu allora la chiesa a diventare l’unica depositaria
del patrimonio culturale antico e a impegnarsi per ricostituire e mantenere viva una rete di strutture
per la formazione scolastica primaria e di livello più alto.

Il Concilio di Toledo del 527 e quello di Vaison (Provenza) del 529 stabilirono che presso le
sedi vescovili e nelle pievi rurali dovessero essere attivate scuole per istruire i fanciulli. Scuole
non più pubbliche e “statali”, come erano quelle di epoca romana, ma ecclesiastiche, all’interno delle
quali i principali insegnamenti erano il latino, le Sacre Scritture e gli autori cristiani.
A partire dal VI secolo, accanto alle grandi cattedrali come alle piccole chiese di campagna,
iniziarono a sorgere scuole vescovili, monastiche e plebane (cioè legato a una pieve), dedicate sia
all’insegnamento elementare sia a corsi di studi più elevati. La priorità delle autorità ecclesiastiche
era trasmettere agli studenti i primi rudimenti per imparare a leggere e far di conto, in modo da
avviare quanti più giovani possibili alla vita ecclesiastica. La chiesa svolgeva questo compito in “re-
gime di monopolio” sapendo di poter contare sull’assenza del potere laico, oppure sull’appoggio
diretto di quest’ultimo.
Dice Gregorio Magno nella Regula Pastoralis destinata ai vescovi, un testo fondamentale per
gli educatori medievali:
«Bisogna istruire in un modo gli uomini ed in un altro le donne, in un modo i giovani ed in un
altro i vecchi; in un modo i poveri ed in un altro i ricchi; in un modo quelli che sono allegri ed in un
altro quelli che sono tristi; in un modo i sottoposti ed in un altro i superiori; in un modo i servi ed in
un altro gli ignoranti… ». Un atteggiamento che rivela, oltre ad un senso profondo delle distinzioni
sociali, una duttilità di fronte ai dati di fatto che è tipica, come vedremo, di molti educatori medievali.
regola di san Benedetto.
Nel monastero, entrano anche fanciulli («nutrire» è il termine usato dai biografi come equiva-
lente di «educare» i futuri monaci), appartenenti a tutte le classi della società feudale. Essi devono
essere seguiti da un monaco esperto che, come l'abate, sappia alternare con avvedutezza la du-
rezza e l'affetto, poiché ai fanciulli e ai vecchi si deve usare un rispetto particolare in ragione dell'età.
Le punizioni corporali, d'altra parte, furono in uso in tutti i tipi di scuole, e ogni maestro, non
esclusi i pedagoghi privati, che anzi sembrano spesso i più inclini ad abusarne, le considerarono un
mezzo indispensabile di correzione e di incitamento. Ma la polemica contro i maestri troppo severi
ritorna spesso negli scritti degli autori medievali, e non soltanto di quelli che ne sono stati vittime da
ragazzi. Molti educatori proclamano di rifiutare la brutalità nei mezzi di correzione proprio perché
inefficace ai fini educativi.

Per fare un esempio, ai vescovi riuniti in sinodo ad Aquisgrana nel 789 Carlo Magno – re dei
franchi e dei longobardi, non ancora consacrato imperatore – chiedeva di porre grande impegno nel
servizio scolastico, raccomandando in particolare di far sì che fosse aperto a tutti i ragazzi, anche

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ai più poveri. Chiedeva, inoltre, che si organizzassero scuole di lettura per i ragazzi in ogni mo-
nastero o vescovado, dove si potessero apprendere i salmi, le note, il canto, il computo, la gramma-
tica in modo da migliorare l’istruzione media degli abitanti dei territori franchi. Nonostante questi
interventi del potere temporale – peraltro piuttosto rari fino all’epoca carolingia –le scuole annesse
alle canoniche o comprese nei complessi degli edifici ecclesiastici di fatto non avevano una funzione
pubblica, ma erano riservate a tutti quei fanciulli che genitori e parenti avevano destinato alla carriera
ecclesiastica. Vi si forniva, quindi, una formazione prevalentemente biblico-religiosa, con pochi ru-
dimenti di grammatica e retorica.
Non si trattava poi di cicli di studio eccessivamente strutturati. Non vi erano, infatti, norme
che stabilissero l’età di accesso a un corso di studi predefinito, ma generalmente i ragazzi iniziavano
a sedersi ai banchi di scuola intorno ai sette, otto anni. La consuetudine prevedeva poi che, arrivati
ai diciotto anni, gli studenti potessero scegliere di rinunciare alla carriera ecclesiastica.
Si trattava, però, di una scelta poco praticata: le figure di intellettuali laici nei primi secoli del
Medioevo furono assai rare e anche il potere temporale, che spesso si avvaleva dei servigi di mer-
cenarii literati (professionisti della scrittura, indispensabili per redigere atti di governo), sceglieva
queste figure tra le schiere del clero. Il percorso scolastico, però, era l’unica strada per formare
funzionari di alto livello. Il potere civile comprese, già in epoca carolingia, di non poterlo lasciare del
tutto nelle mani della chiesa.
Anche per questo motivo nell’825 il re d’Italia Lotario istituì nove grandi scuole sul territorio
italico: una vera e propria rete distribuita in modo strategico così che, come recita il capitolare ema-
nato da Lotario, «l’impedimento della distanza e la mancanza di mezzi non siano di scusa per nes-
suno». Si trattava di scuole di livello alto dove era possibile apprendere le arti liberali – del Trivio,
cioè grammatica, retorica, dialettica, e del Quadrivio, cioè aritmetica, geometria, astronomia, mu-
sica – e le scienze religiose. La maggior parte dei maestri che vi insegnavano era reclutata fra i
membri del clero, così come il destino di molti tra gli scolari era la carriera ecclesiastica, ma la matrice
statale dell’organizzazione voluta da Lotario rappresentava un primo importante passo verso la
scuola pubblica.

Dopo l’anno Mille: la diffusione delle scuole laiche


La rinascita dei commerci e delle città, avvenuta dopo l’anno Mille, ebbe conseguenze signifi-
cative anche sull’evoluzione del sistema scolastico. L’offerta formativa esistente, indirizzata a chi
sceglieva la vita religiosa o al massimo di funzionario di corte, non era adeguata alle necessità del
nuovo ceto cittadino e mercantile. Questo nuovo ceto aveva infatti bisogno di scuole dove, oltre al
latino, si insegnassero anche saperi pratici, come far di conto e orientarsi tra le diverse monete e
unità di misura esistenti. Sorse quindi la necessità di scuole il cui controllo non fosse esclusivamente
nelle mani delle autorità ecclesiastiche. Queste necessità concrete portarono a una vera e propria
rivoluzione nell’ambito della scuola, con la nascita della figura dell’insegnante professionista che
operava esclusivamente dietro compenso, e non più per “vocazione”. Parallelamente si diffusero –
prima nelle Fiandre e in Italia, poi in tutta l’Europa occidentale – nuove scuole laiche, gestite da
fondazioni private o municipali, dove i figli di artigiani e mercanti potevano acquisire anche gli stru-
menti utili a portare avanti con profitto l’impresa paterna.

Nella scuola pre-universitaria


Nella scuola pre-universitaria basso medievale cominciarono a essere previsti tre differenti
gradi di istruzione: la scuola di base, la scuola di grammatica e la scuola delle arti liberali. Ciascuna
prevedeva differenti livelli della durata media di un anno, ma l’avanzamento dello studente era di
prassi stabilito dall’insegnante che ne valutava arbitrariamente i progressi: una generosa elargizione
da parte dei genitori rendeva spesso più veloce anche la più faticosa carriera scolastica. La scuola
di base prevedeva due-tre livelli, necessari per apprendere i rudimenti di scrittura e lettura, basan-
dosi esclusivamente sull’apprendimento a memoria.
Gli alunni del primo livello erano i pueri de tabula, così chiamati perché si esercitavano alla
lettura con una tavola alfabetica affissa alla parete; i pueri de quaterno, successivamente, inizia-
vano a tracciare le prime lettere su quaderni realizzati con tavolette in legno ricoperte da uno strato
di cera. Al terzo e ultimo livello della scuola elementare vi erano gli psalmisti che apprendevano le
basi della lingua latina leggendo, ripetendo e trascrivendo salmi e semplici testi sacri.

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Chi ne aveva la possibilità economica, completato questo primo ciclo di studi, proseguiva con
la scuola di grammatica che prevedeva quattro livelli: gli studenti erano detti latinantes perché
approfondivano la conoscenza della lingua latina, la sua grammatica e ortografia, imparando a com-
porre testi di retorica e dialettica e ad utilizzare formulari notarili e trattati giuridici. Questo ciclo sco-
lastico era, infatti, soprattutto diretto a coloro che volevano intraprendere la professione notarile e
forense.
Le porte della scuola delle arti liberali si aprivano quasi unicamente a chi possedeva adeguate
risorse economiche: qui venivano formati i funzionari di alto livello e la classe dirigente della società
dell’epoca. Sette erano le arti liberali sulle quali verteva l’insegnamento: grammatica, retorica, dia-
lettica, aritmetica, geometria, musica e astronomia, ossia le materie comprese nel Trivio e nel Qua-
drivio. La specializzazione della scuola e degli insegnanti andò crescendo nel corso del Basso Me-
dioevo e in relazione alle necessità legate alle professioni mercantili ed artigianali. Sorsero così,
intorno al 1100, le scuole d’abaco. Si trattava di veri e propri istituti professionali ante litteram
dove l’insegnamento era basato sulla matematica, spiegata con metodi applicativi, tratti dall’espe-
rienza quotidiana. L’alunno apprendeva attraverso il ricorso ai metodi dell’osservazione e dell’eser-
citazione su problemi inerenti al mestiere che stava imparando, disponendo in alcuni rari casi anche
di manuali scritti, redatti in lingua volgare e non in latino.

L’antenata della scuola pubblica: la scuola comunale


La reazione della chiesa allo svilupparsi di una rete scolastica laica e alternativa a quella ec-
clesiastica fu duplice: da un lato, infatti, venne scelta una linea di apertura rendendo accessibili le
scuole vescovili anche a coloro che non avevano intenzione di intraprendere la carriera religiosa e
agli studenti meno abbienti, così come stabilito dal Concilio Lateranense del 1179 voluto da papa
Alessandro III. D’altro canto, però, non mancarono occasioni di conflitto, anche violente, con sco-
muniche comminate anche a intere città in risposta alle lamentele di frati o vescovi contro lezioni
tenute da istituzioni laiche. Di fatto, la chiesa riuscì a mantenere il primato dell’istruzione, ma a partire
dal XII secolo non poté più ripristinare un vero e proprio monopolio in questo ambito. Così, nel corso
degli ultimi secoli del Medioevo, coesistettero due principali tipologie di insegnamento: quello delle
scuole ecclesiastiche, tenuto da insegnanti informali – ossia preti, monaci, missionari e docenti
volontari – e quello delle scuole laiche, esercitato dagli insegnanti formali cui venivano riconosciuti
una precisa professionalità e un salario, spesso commisurato al prestigio di cui godevano. Inizial-
mente i docenti erano pagati dagli studenti stessi, mentre le autorità locali si limitavano nella maggior
parte dei casi a provvedere ai locali per l’insegnamento e all’alloggio per gli insegnanti.
Nel corso del XIII secolo però si affermarono le scuole comunali – Firenze fu tra le prime
città italiane a crearne –, istituzioni in cui i docenti erano sotto il diretto controllo delle autorità citta-
dine, che li sceglievano e stipendiavano. La nascita delle scuole comunali, finanziate dagli organi
municipali, consentì così di ampliare ulteriormente le possibilità di istruzione anche per i ceti meno
abbienti, raggiungendo ampi strati di popolazione prima esclusi. Ai chierici si andò ad affiancare un
numero sempre più ampio di giuristi e notai, insegnanti, artigiani, cortigiani letterati e mercanti
alfabetizzati secondo un percorso ormai inarrestabile di apertura e laicizzazione della società. Nel
XIV secolo la situazione era ormai consolidata: le scuole laiche potevano essere comunali o private
e si suddividevano in elementari, frequentate da bambini e bambine a partire dai 6-7 anni di età, e
superiori.
Al termine delle scuole elementari generalmente le ragazze -le poche che avevano avuto l’op-
portunità di iniziare a studiare – erano costrette ad abbandonare i banchi di scuola, mentre i ragazzi
cercavano un posto come apprendista presso la bottega di qualche artigiano o completavano le
scuole superiori, secondo specializzazioni diverse: le scuole di grammatica, logica e retorica erano
dedicate a chi avrebbe poi proseguito gli studi, mentre le scuole di “abbaco e logaritmo” istruivano i
ragazzi che volevano cimentarsi nella mercatura.

All’interno delle aule scolastiche


Concretamente, però, quali caratteristiche aveva la scuola pubblica medievale? Prima di tutto
bisogna dire che l’insegnamento, soprattutto nelle scuole comunali e destinate ai ceti meno abbienti,
era considerato «l’ultimo e più ripugnante mestiere». I maestri nel Basso Medioevo erano infatti mal
pagati e ben poco motivati. I “contratti” di impiego che i comuni destinavano ai docenti riguarda-
vano più questioni di carattere economico e disciplinare che non formativo e didattico. Compito del

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maestro era, come recita uno statuto comunale dell’epoca: «ammonire gli scolari che non giochino
né cantino per strada, non gettino pietre, non dicano male parole, non giurino, non bestemmino, non
evochino il diavolo, non facciano altre cose sconvenienti». Di quanto veniva insegnato in aula ci si
preoccupava invece poco. Le stesse aule scolastiche erano, purtroppo, luoghi malsani, dove gli
alunni stipati in spazi angusti, sporchi, fumosi e mal areati – gelidi e umidi d’inverno e soffocanti in
estate –(Così nel 1371 lo definisce il notaio e umanista veneziano Paolo de Bernardo (1331 ca-
1393) in una lettera all’amico Giovanni Coversini) dovevano troppo spesso a convivere con cimici e
pidocchi, facili portatori di infezioni ed epidemie. Dal punto di vista pedagogico, poi, la scuola me-
dievale si fondava sul costante ricorso alle punizioni corporali: la disciplina era mantenuta a suon
di bacchettate e le nozioni erano inculcate spesso a bastonate. Il re longobardo Cuniperto (688-700
d.C.) fece dono al grammatico di corte Felice non di un libro, ma di una verga in argento rivestita
d’oro come riconoscimento delle sue doti di maestro, mentre la regola benedettina prescriveva per
fanciulli e adolescenti punizioni con «digiuni prolungati o con gravi battiture, dimodoché si correg-
gano». Una “linea dura” che non venne mai meno tanto che ancora alla fine del Trecento il cardinale
fiorentino Giovanni Dominici ribadiva la regola aurea: «l’infanti van battuti con notevole frequenza,
siano essi in colpa o meno. O son battuti che l’hanno meritato, o che non l’hanno. Nel primo caso,
ringrazino di giustizia. Nel secondo, meritano avendo pazienza. E però sempre e in ogni caso sono
loro utili le busse e le battiture». Preventivamente o per correggere, insomma, l’importante era ba-
stonare in modo da irreggimentare gli scolari.
Anche dal punto di vista didattico non si tendeva a privilegiare la libera iniziativa degli studenti.
I pilastri della didattica medievale erano l’oralità – i testi scritti erano pochi e costosissimi – e l’ap-
prendimento mnemonico. Il maestro solitamente leggeva un testo ad alta voce e gli studenti lo ripe-
tevano sempre a voce altra provocando cosi un frastuono continuo «più fastidioso del martellare dei
fabbri» come affermato da uno statuto bolognese di epoca comunale. Nel Duecento cominciò a
diffondersi la lettura “mentale”, seppur ancora bisbigliata, al posto della lettura “sonora”, un metodo
nuovo che favoriva la riflessione personale e un rapporto diretto tra scolaro e testo da leggere. Tale
uso divenne sempre più comune quando anche gli strumenti didattici si perfezionarono e l’invenzione
della stampa a caratteri mobili portò a una graduale diffusione dei libri di testo. Il bastone, però,
rimase a lungo il principale simbolo, “mezzo” di istruzione, tanto che nel corso del Medioevo,
l’espressione sub virga magistri degenere – “sottostare alla bacchetta del maestro” – divenne
sinonimo di “andare a scuola”.

Lo sviluppo crescente delle città – in cui già sono presenti alcune scuole private di diritto pratico
e attività notarile – e la progressiva chiusura di molte scuole nei grandi monasteri rurali, portarono
ad una vera e propria “rivoluzione scolastica” che vide la crescita dell’attività di insegnamento proprio
all’interno dei centri urbani. Nate come semplici accordi tra maestri e allievi, e finanziate almeno
inizialmente dalle prebende di questi ultimi, le scuole si sviluppano rapidamente in molte città euro-
pee, assumendo sempre più le caratteristiche giuridiche di una vera e propria corporazione (spesso
chiamata proprio universitas). Alle università sorte spontaneamente se ne affiancano altre fondate
dal papa o dall’imperatore ed altre ancora generate dalla secessione promossa da alcuni studenti o
maestri di università già esistenti. A Parigi e a Bologna vi sono tracce di queste corporazioni alla fine
del XII secolo, ma la presenza di scuole cittadine è attestata già nel secolo precedente; a Napoli
invece l’università sorge per volere dell’imperatore Federico II (1194-1250), mentre Padova o Or-
leans sono due esempi di università nate dalla migrazione di maestri, rispettivamente di Bologna e
Parigi.
Per svolgere la loro attività, i maestri devono disporre della cosiddetta licentia docenti, la cui
validità dapprima circoscritta alla diocesi di provenienza, viene in seguito estesa ovunque (licentia
ubique docenti). Si tratta perlopiù di chierici o ecclesiastici, già attivi presso le scuole cattedrali, a cui
si aggiunge nel XIII secolo l’apporto fondamentale dei docenti provenienti dall’ordine francescano e
domenicano.
Tra XI e XII secolo lo studio di grammatica, dialettica e retorica non consiste unicamente nel
riproporre l’interesse classico per queste discipline, ma nel rinnovarne le strutture, come documen-
tano in modo particolare le riflessioni filosofiche di autori ancora estranei al mondo universitario come
Pietro Abelardo (1079-1142) o Gilberto de la Porrèe (1085-1154). Con l’avvento della Facoltà delle

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Arti, il trivium subisce ulteriori mutamenti: la grammatica inizia progressivamente a perdere impor-
tanza e alle opere antiche di Donato (IV secolo) e Prisciano (V-VI secolo) si sostituiscono gramma-
tiche più recenti, come quelle di Alessandro di Villadei e di Eberardo di Bethune, dove però la cor-
rettezza sintattica prevale su ogni preoccupazione di eleganza letteraria o di composizione retorica.
Le modificazioni più sostanziali tuttavia coinvolgono la dialettica. Considerata disciplina fondamen-
tale tra le tre artes e studiata sui testi dell’Organon aristotelico e dei grandi logici del XII secolo (Abe-
lardo e Gilberto de la Porrèe), essa tende a trasformarsi da disciplina preparatoria alla facoltà teolo-
gica a studio autonomo. Nel XII secolo la diffusione della logica nova, ovvero delle opere logiche
aristoteliche ancora sconosciute, non fa che accelerare questo processo.
La dialettica si affranca dal sistema delle sette arti liberali, acquisendo sempre più la determi-
nazione di logica o metodo di pensiero. La conoscenza e l’applicazione di grammatica, retorica e
dialettica restano fondamentali per avvicinarsi allo studio delle altre discipline, in modo particolare la
teologia, tuttavia ciò non impedisce il loro costituirsi progressivo come discipline autonome nel me-
todo e nel contenuto. L’insegnamento del trivium dunque non si limita a predisporre gli studenti allo
studio successivo, ma incomincia ad acquistare un’importanza e una validità autonoma, che rende
i maestri delle Arti sempre più consapevoli della loro forza. Nel XIII secolo sorgono numerosi con-
trasti con i teologi, interessati invece a smentire la presunta libertà della Facoltà delle Arti e a riba-
dirne la funzione strettamente preparatoria. Nel XIV secolo il processo di emancipazione delle arti
del trivium dalle facoltà superiori è pressoché definitivo: specialmente nelle università inglesi si ha
sempre più un’ampia diffusione di trattati e studi logici, che presentano un accentuato carattere tec-
nico. Vi si dedicano molti maestri, che non sempre però sono in grado di fornire una loro interpreta-
zione personale, ma si limitano all’applicazione rigida di regole argomentative. Tra i più importanti si
possono ricordare Tommaso Bradwardine, Guglielmo di Heytesbury, Riccardo Kilvington.

Le Facoltà e i curricula
Le scuole cattedrali e monastiche non avevano strutture, curricula e programmi ben definiti, e
rilasciavano titoli di studio privi di valore al di fuori dell’ambito locale.
Le corporazioni universitarie invece si organizzano fin da subito attraverso statuti che regolano
il loro ordinamento e la loro struttura: esse sono studium generale, cioè istituti di studi superiori dotati
di un preciso stato giuridico confermato dall’autorità papale o imperiale e riconosciuto in tutta la
cristianità. Perciò il termine stesso universitas non rappresenta i contenuti di studio, ma l’organizza-
zione di cui fanno parte gli studenti, i maestri delle diverse facoltà, ma anche un certo numero di
lavoratori manuali che operano per conto delle università: bidelli, librai, copisti, e sotto la facoltà di
medicina, barbieri e farmacisti. All’interno dell’organizzazione di base dell’università si sviluppa una
suddivisione in “nazioni” e “facoltà”: nel primo caso si tratta dell’aggregazione autonoma di gruppi e
studenti della stessa nazionalità, volta ad assicurare buona accoglienza, aiuto e fraternità ai compa-
trioti; l’organizzazione in facoltà invece riguarda direttamente la struttura didattica e amministrativa
dello studium. L’ufficiale più importante dell’università ha il titolo di rettore; a Oxford viene chiamato
cancelliere perché è anche il rappresentante del vescovo. Assistito da un consiglio di delegati delle
nazioni e delle facoltà, vigila sull’attività didattica e governa le finanze dell’università, in modo parti-
colare pagando gli affitti delle chiese o dei conventi, utilizzati come aule per i corsi o per le dispute.
Il termine stesso universitas esprime il desiderio di coprire i principali ambiti disciplinari per
raggiungere l’universalità del sapere, perciò oltre allo studio delle arti liberali, si istituiscono quattro
facoltà superiori: medicina, diritto (civile e canonico) e teologia. Tuttavia, non riuscendo ad attivare
tutte queste cattedre o non avendone l’autorizzazione, la maggior parte delle università si accontenta
di specializzarsi in un ambito particolare: Parigi, per esempio, detiene per molti anni il monopolio
dell’insegnamento teologico, mentre Bologna deve la sua notorietà agli studi giuridici. Le gerarchie
tra le facoltà sono stabilite secondo il sistema dei saperi caratteristico dell’età medievale, perciò se
alla Facoltà delle Arti spetta il ruolo di studio preparatorio, la teologia è considerata la “regina delle
scienze” tra le facoltà superiori ed è l’unica facoltà che accetta esclusivamente studenti già in pos-
sesso di un magistero nelle Arti, mentre medicina e diritto molto spesso non sono cosi esigenti.
Gli studenti si immatricolano alla Facoltà delle Arti intorno ai 14 anni e iniziano così un qua-
driennio di studi che prevede, nel primo biennio lezioni di grammatica, logica, filosofia naturale e arti
liberali; nel secondo biennio invece si aggiunge a queste discipline anche l’obbligo di partecipare
alle dispute accademiche. Al termine dei quattro anni, raggiunta un’adeguata preparazione, lo stu-
dente viene promosso baccelliere. Durante il baccellierato, lo studente continua a seguire le lezioni

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del suo maestro e a partecipare alle dispute, ma è anche incaricato di tenere alcuni corsi introduttivi
o di svolgere attività didattiche integrative per gli studenti più giovani (ripetitiones).
Al termine del baccelierato, lo studente si candida alla licentia docendi, per diventare maestro
a tutti gli effetti: dopo la cerimonia dell’inceptio, il neo-maestro rimane nella facoltà delle Arti per
svolgere un biennio di docenza obbligatoria. A questo punto il curriculum studiorum può svilupparsi
in diversi modi: alcuni abbandonano il mondo universitario per andare a insegnare nelle scuole infe-
riori o per lavorare nella pubblica amministrazione, altri accedono alle facoltà superiori, in modo
particolare a teologia. Questo nuovo ciclo di studi è della durata di sette anni e prevede corsi sulla
Bibbia e sulle Sentenze di Pietro Lombardo (1065-1160), al termine dei quali si consegue il titolo di
baccelliere biblico. Quindi seguono altri quattro anni in cui il nuovo baccelliere deve, nel primo bien-
nio, partecipare alle dispute teologiche e spiegare il testo sacro, mentre nel secondo biennio, con-
seguito il titolo di baccelliere sentenziario, deve occuparsi delle Sentenze, molto spesso stilandone
dei commenti scritti. Dopo altri quattro anni di studio si ottiene il titolo di maestro di teologia e il
giovane studente, immatricolatosi a 14 anni, è ormai un uomo di 35-40 anni. Al termine di questi 15
anni di studio all’interno della facoltà di teologia, il periodo di docenza non è molto lungo, sia per
ragioni strettamente anagrafiche, che per il limitato numero delle cattedre disponibili e ciò determina
un continuo ricambio dei docenti.
Il curriculum studiorum non è unicamente un percorso individuale, ma consiste spesso nel la-
voro comune di studenti e maestri che formano così una comunità intellettuale aperta. È importante
sottolineare infatti come la loro distinzione non sia sempre molto netta poiché gli studenti sono
spesso a loro volta insegnanti nelle facoltà inferiori, inoltre la tecnica delle dispute accademiche
prevede una comune partecipazione all’attività didattica. Esistono forti legami tra i diversi centri uni-
versitari, che non solo arricchiscono l’attività accademica, ma consentono in molti casi l’equipollenza
dei titoli di studio e la mobilità di studenti e docenti, senza tuttavia privare ogni singola università
delle sue caratteristiche specifiche in merito alle forme di insegnamento, ai programmi e ai testi
adottati.

I programmi e i testi scolastici


I programmi di studio comprendono essenzialmente la lettura dei testi composti dagli autori
posti a fondamento delle singole discipline (auctoritates), a cui si aggiunge quella dei commenti più
accreditati, che ne facilitano la comprensione. Nel XIII secolo la lista dei libri di testo universitari è
completata dalle glosse e dalle summe di molti professori.
I testi fondamentali di diritto sono racchiusi nel Corpus iuris canonici e nel Corpus iuris civilis,
di cui le parti fondamentali, come il Decretum e le Decretali per il diritto canonico e il Digesto e il Co-
dice per il diritto civile, sono studiate nei corsi ordinari tenuti dai maestri; mentre il Digesto Nuovo,
l’Infortiatum, le Istituzioni, il Liber feudorum e le Clementine e altri testi di minore importanza, sono
affrontati dai baccellieri nei corsi straordinari. A Bologna, centro di studi giuridici per eccellenza,
questi testi sono commentati con l’aiuto delle glosse dei dottori bolognesi, sintetizzate da Francesco
Accursio alla metà del Duecento nella Glossa ordinaria. Altre università a loro volta compongono i
propri commenti originali: è il caso delle glosse scritte verso la fine del XIII secolo da Jacques de
Revigny (?-1296) ad Orleans.
Per gli studi medici si fa riferimento a Ippocrate (460a.C. - 377a.C.), Galeno (131-201), Co-
stantino Africano (1020-1087) e ad alcuni trattati arabi, soprattutto il Canone di Avicenna (980-1037)
e ai Colliget di Averroè (1126-1198). Dal XIV secolo nell’università di Montpellier e in alcune univer-
sità si inizia anche il sezionamento dei cadaveri.
Lo studio della teologia si basa invece su due testi fondamentali: la Bibbia e il Libro delle Sen-
tenze di Pietro Lombardo, che era considerato un trattato completo di dogmatica cristiana; a questi
studi si aggiunge la lettura delle opere dei Padri della Chiesa e dei commenti di alcuni teologi mo-
derni. I teologi utilizzano anche testi strettamente filosofici, destinati di norma alle Facoltà delle Arti,
come gli scritti di Aristotele e di alcuni pensatori arabi.
Infine alle Arti gli scritti aristotelici hanno un ruolo fondamentale, ma non egemone, infatti dal
XII secolo, all’Organon è affiancato lo studio del Liber sex principiorum e in seguito delle Summulae
logicae di Pietro Ispano (1210 ca.-1277) e dei Modi significandi di Martino di Dacia (1250/60-1304).
Particolare è il caso delle università inglesi in cui invece si leggono soprattutto l’anonima Logica cum
sit nostra e le Introductiones di Guglielmo di Sherwood (?-1272). Si può inoltre constatare che, nel

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corso del XIV secolo, nei commenti di Oxford alle Sentenze viene dato sempre maggiore risalto alla
tradizione inglese, a discapito del contributo degli autori parigini.
In ogni facoltà l’insegnamento si svolge secondo due forme fondamentali: la lezione e la di-
sputa. La prima ha lo scopo di far conoscere allo studente gli autori fondamentali della disciplina
studiata; la seconda permette al maestro di approfondire alcune tematiche più liberamente di quanto
non sia consentito durante il commento di un testo.
Le lezioni si distinguono in ordinarie e straordinarie: le lezioni ordinarie sono tenute perso-
nalmente dai maestri sui libri più importanti del programma e si svolgono generalmente nelle prime
ore della mattina; il baccelliere invece si occupa delle lezioni straordinarie che si svolgono nella
tarda mattinata o nelle prime ore pomeridiane. Il metodo di entrambe le lezioni è lo stesso: dopo un
discorso introduttivo, il maestro o il baccelliere, nel caso delle lezioni straordinarie, legge il testo da
spiegare, interrompendosi per commentarlo in modo più o meno approfondito; mentre gli studenti
seguono la lettura sulla copia di loro proprietà e prendono appunti (reportationes). I commenti del
docente possono essere letterali (expositio o sententia) oppure per temi o questioni (commentum
per modum quaestionis)
Le dispute sono invece molto più originali e rappresentano l’esercizio più caratteristico del
metodo scolastico, tanto che i professori più bravi si dedicano con maggior interesse proprio a que-
sta attività, trascurando le lezioni.
Inizialmente in forma privata all’interno della scuola, nel corso del XIII secolo le dispute ordi-
narie assumono sempre più un carattere definito. La durata è di due giorni non necessariamente
consecutivi, il primo dei quali il maestro sceglie il tema (quaestio) e presiede la discussione tra due
suoi baccellieri, rispettivamente nel ruolo di opponens e respondens. Nella seconda giornata il
maestro valuta gli argomenti posti dai suoi assistenti e propone la sua soluzione (determinatio).
Dalla seconda metà del XIII secolo si diffonde un altro tipo di disputa che, nata alla facoltà di
teologia di Parigi, si diffonde presto in molti altri atenei: si tratta della disputa quodlibetale (quodli-
bet). A differenza della disputatio ordinaria, il tema non è scelto dal maestro, ma dal pubblico, anche
da persone estranee all’università, che possono chiedere al maestro di trattare qualunque argo-
mento. Le numerose domande sono spesso una strategia per mettere in difficoltà il maestro o scre-
ditarne la carriera, non per niente le dispute quodlibetali sono privilegiate dai pensatori più maturi e
preparati: Tommaso d’Aquino (1225 ca. - 1274), Enrico di Gand (?-1293), Goffredo di Fontaines (?-
1306 ca.) fanno di queste dispute un’occasione per diffondere il loro pensiero. Negli anni tuttavia
i quodlibet perdono la loro utilità, diventando perlopiù un mero virtuosismo formale.
La formazione è quindi largamente orale nei mezzi e nei fini che sono l’abilità di discutere, di
predicare, di perorare una causa e di emettere un giudizio; tuttavia anche il libro diventa sempre più
uno strumento indispensabile al lavoro universitario. Alcuni editori si procurano un exemplar dei
testi più importanti usati nelle facoltà, che viene messo in circolazione, dopo essere stato esaminato
da una commissione di maestri. Quando un maestro o uno studente hanno bisogno del testo, lo
prendono in affitto e lo fanno copiare da un amanuense. Poiché l’exemplar è composto da fascicoli
separati (peciae), potevano lavorare contemporaneamente più copisti.

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Altri ideali pedagogici invece rimarranno un po' ai margini della vita della scuola proprio perché
si sviluppano in una cultura che, per sua natura, per l'ambiente cui è legata, si trasmette per altre
vie che non sono quelle dell’insegnamento scolastico: sono gli ideali dell'educazione cavalleresca.

La figura del cavaliere


La nobiltà dell'epoca, basata sul sistema feudale, aveva una posizione opposta rispetto a
quella dei monaci nei confronti della cultura messa decisamente in secondo piano rispetto alle virtù
guerriere.
Di conseguenza la formazione dei signori feudali seguiva ben altro percorso rispetto a quella
dei futuri ecclesiastici.
I bambini erano affidati alle cure della madre fino ai sette anni, quando venivano mandati a
servire come paggi presso la corte di altri signori, amici o alleati del padre. Successivamente, intorno
ai quattordici anni, i giovani venivano promossi a scudieri e accompagnavano il loro signore alle
guerre o ai tornei; questo tirocinio durava circa fino al compimento dei vent'anni quando general-
mente arrivava la nomina a cavaliere, la cui vita sarebbe poi stata impegnata tra tornei, guerre e
crociate.
A livello ideologico i cavalieri disprezzavano il lavoro manuale e chi lo praticava. Di conse-
guenza i cavalieri, pur alternando imprese nobili e protettive nei confronti dei poveri e degli indifesi
ad altre basate sul sopruso nei confronti dei loro sottoposti, contribuirono a instaurare un sistema
non volto alla produzione di nuova ricchezza ma allo sfruttamento delle risorse già esistenti, tanto
che la cavalleria decadde proprio quando il sistema feudale iniziò a entrare in crisi con lo sposta-
mento della “forza produttiva” dalle campagne e dagli insediamenti nati intorno ai castelli verso le
città, nuovi centri di produzione e commercio.
Durante il periodo del feudalesimo è possibile però riscontrare dei modelli educativi anche
nelle classi popolari, basati da una parte sull'educazione reciproca all'interno delle comunità rurali
(che si estendeva dalla formazione a livello sociale data dal rispetto di precise gerarchie alla condi-
visione di saperi pratici) e, naturalmente, sulla trasmissione generazionale di nozioni pratiche colle-
gate al lavoro.

Le corporazioni di arti e mestieri

Dopo l'XI secolo il commercio conobbe una forte ripresa che portò non solo una ripresa eco-
nomica ma anche un notevole cambiamento nella vita della popolazione che iniziò progressivamente
a spostarsi dalla campagna nei nuovi borghi dove crescenti erano le richieste di manodopera spe-
cializzata e di commercianti.

Iniziarono a sorgere le prime corporazioni di arti e mestieri, che favorirono la specializzazione


di alcuni artigiani e rafforzarono il collegamento tra artigianato e commercio.

Sia per gli artigiani che per i commercianti era ovviamente previsto un preciso iter formativo,
che, nel caso della prima categoria era piuttosto rigido e scarsamente aperto a innovazioni, basato
sull'apprendimento pratico scaglionato in lunghi anni di apprendistato, che non sempre culminavano
con il conseguimento della piena padronanza delle tecniche collegate al mestiere intrapreso. Per la
formazione dei mercanti era necessario invece considerare nuove metodologie che si adattassero
ai nuovi contenuti introdotti con lo sviluppo del commercio – quali le tecniche di calcolo, competenze
cartografiche e nautiche, e via di seguito. Tali iter formativi non erano però facilmente accessibili a
giovani che non avevano alle spalle famiglie che avessero fatto fortuna. Solo le famiglie più ricche,
infatti, potevano permettersi di fare accedere i propri figli a questo tipo di istruzione, soprattutto per-
ché, oltre a essere piuttosto limitato l'accesso ai tirocini delle diverse arti, era anche estremamente
costoso.

Le corporazioni prevedevano al loro interno norme precise per un lungo e specifico tirocinio
che terminava con un severo esame da sostenersi davanti a rappresentanti della corporazione
stessa. Il tirocinio era impostato sulla base della modalità didattica che per secoli era stata alla base

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dei rapporti formativi legati all'apprendimento di un mestiere, e quindi il rapporto maestro-apprendi-
sta era avvicinabile a quello padre-figlio, con l'aggiunta però della competitività tra apprendisti, che
era un fattore sconosciuto all'interno dell'educazione familiare. Siccome poi non a tutti gli apprendisti
sarebbe stata offerta la possibilità di diventare maestri e per molti gli anni di studio sarebbero culmi-
nati in una condizione stabile di lavorante salariato presso la bottega del maestro, il tirocinio stesso
era strutturato in modo da fomentare la competitività per il raggiungimento delle più alte vette pro-
fessionali.

Resta il fatto che nonostante diventasse sempre più difficoltoso diventare maestro, e nono-
stante la tendenza sempre più radicata a trasmettere le conoscenze solo all'interno delle medesime
famiglie, l'educazione offerta dalle corporazioni artigiane fu di gran lunga la più valida riscontrabile
in tutto il Medioevo. Infatti era l'unica ad avere una sua struttura ed esami periodici che richiedevano
una seria preparazione. Queste organizzazioni della borghesia diedero poi origine a scuole comu-
nali, che si occupavano di trasmettere agli alunni un'educazione di base, ma, andando a integrare il
sistema formativo collegato alle arti del trivio e del quadrivio posero anche la base per la nascita
delle università.

• La nascita delle università

Nel XII e nel XIII secolo con il termine “università” si indicavano associazioni che raggruppa-
vano al loro interno più corporazioni: c'erano, per esempio, le corporazioni a cui facevano capo le
arti meccaniche – quali quelle collegate alla tessitura, alla tintura alla concia delle pellicce – contrap-
poste a quelle liberali – a cui si riferivano giudici, notai, medici speziali... Successivamente il termine
università rimase a indicare solo il corso di studio associato alle arti liberali, e aveva la caratteristica
di non poter vantare una sede fissa, tanto che professori studenti erano costretti per lo più a vagare
alla ricerca di ospitalità per le loro lezioni. A meno che i docenti fossero ecclesiastici, in questo caso
le lezioni si tenevano ovviamente presso il convento di appartenenza dei professori.
Ma è da sottolineare come una delle caratteristiche principali delle nascenti universitas studio-
rum fosse la loro autonomia dal controllo ecclesiastico, anche se spesso tale autonomia era garantita
a prezzo dell'accettazione nominale di un supervisore, nominato dal vescovo, che concedeva la
licentia docendi (l'abilitazione all'insegnamento).
Un altro aspetto saliente delle prime università era che spesso erano promosse e gestite da
studenti (per lo più borghesi non giovanissimi) e che quindi i professori erano in tutto e per tutto dei
dipendenti. Come tali venivano rimproverati o multati se a parere degli studenti non compivano il
loro dovere in maniera sufficientemente accurata.
La loro attività era assicurata tramite appositi contratti, che data la forte competizione tra uni-
versità dovettero presto comprendere una clausola di fedeltà, per impedire che i docenti lasciassero
improvvisamente la loro sede di lavoro per raggiungerne un'altra economicamente più vantaggiosa.
All'interno dell'università tutti i dipendenti, dai professori ai librai, ai bidelli erano sottoposti al
magnifico rettore che era eletto tra gli studenti dell'università stesso che spesso arrivava ad assu-
mere un'importanza e un'influenza superiore addirittura a quella del vescovo locale.
Per essere ammessi agli studi universitari non era previsto alcun esame di ammissione, ma
veniva richiesta solo una conoscenza base della lingua latina oltre, naturalmente, ai soldi necessari
a pagarsi gli studi.

• Il pensiero pedagogico di san Tommaso


All'epoca dello sviluppo delle prime università la distinzione tra materie rispecchiava chiara-
mente la mentalità dell'epoca e vedeva quindi la filosofia subordinata alla teologia.

Già Alberto Magno (1206-1280) aveva posto il primo passo verso una rivalutazione delle
scienze filosofiche ponendo una netta distinzione tra filosofia e teologia, e rivalutando notevolmente
il potere dell'intelletto umano.

Da parte sua Tommaso d'Aquino (1225-1274) si impegnò a conciliare quelle che all'epoca
apparivano come due posizioni inconciliabili: fede e ragione. La sua posizione trae origine dalle idee
aristoteliche – rese compatibili con l'ideologia cristiana. Tommaso postula che “niente è nell'intelletto

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se prima non è stato registrato dai sensi”: di conseguenza ogni forma di apprendimento, anche
quello teologico, deve passare attraverso la percezione dell'esistente; la conoscenza è possibile solo
grazie alla mediazione sensoriale che garantisce l'astrazione delle immagini universali riscontrabili
dietro le forme particolari dell'essere e la loro elaborazione e ordinazione nel pensiero.

L'educazione per Tommaso ha lo scopo di disciplinare le naturali tendenze comportamentali


dell'uomo, confermando le buone disposizioni e eliminando progressivamente le cattive che, colti-
vate o anche lasciate a se stesse porterebbero all'insorgere dei vizi. Come per la didattica promossa
dalle scuole monastiche è dunque la disciplina a essere vista come base per ogni forma educativa.

Ciò che non varia rispetto al passato nella posizione pedagogica propugnata da san Tommaso
è l'importanza riservata alla ricerca della verità che sta dentro di noi nel cammino formativo. L'inse-
gnante, per quanto la sua influenza e la sua importanza didattico-pedagogica siano notevolmente
rivalutate da san Tommaso sulla scia della sua accresciuta fiducia nelle possibilità dell'intelletto
umano – rispetto alle posizioni, per esempio, di Agostino – continua a essere un aiuto esterno il cui
contributo è limitato a guidare un cammino che lo studente è chiamato a percorrere comunque in
autonomia. Dio non è più visto come l'unico maestro, Tommaso considera anche l'importanza e il
ruolo educativo della realtà esterna, ma nonostante l'accresciuta importanza attribuita a fattori edu-
cativi esterni (gli insegnanti, l'ambiente, le esperienze...), la ricerca della verità guidata da Dio resta
sempre la strada maestra della formazione.

La dottrina agostiniana avrà un grandissimo successo nel corso del Medioevo. Quando Tom-
maso d'Aquino in una quaestio riprende il tema dell'educazione e il problema di chi sia il maestro,
non può che appoggiarsi interamente ad Agostino. Anche per Tommaso, quindi, il maestro è essen-
zialmente Cristo, maestro interiore. Tuttavia Tommaso riserva alla ragione dell'uomo un posto di-
verso rispetto alla fede. Per Tommaso la ragione deve essere del tutto autonoma e indipendente
dalla fede. Certo, non potrа arrivare a conclusioni diverse, perché la verità è una sola. Ma questo
dipende appunto dal fatto che la retta ragione, quando cerca la verità e la trova, non trova un'altra
verità rispetto alla fede, ma la stessa. Tuttavia il legame tra fede e ragione che Agostino aveva
instaurato, su base platonica e neoplatonica, viene reciso. Tommaso si rivolge piuttosto ad Aristotele
per trovare i concetti chiave per la sua filosofia, e in Aristotele non c'è alcuna apertura razionale alla
trascendenza dentro di noi, come invece si trovava in Platone e nei neoplatonici.

Nella Quaestio De Magistro quindi Tommaso distingue due forme di educazione: la prima ha
un carattere passivo e si ha quando un uomo insegna ad un altro attraverso segni (parole); la se-
conda ha un carattere attivo e si ha quando un uomo con la propria intelligenza impara da se stesso.
Sembrerebbe quindi che Tommaso non accolga la tesi agostiniana che non si possa imparare attra-
verso segni. In realtà sta soprattutto dando una diversa interpretazione dell'intelligenza umana.

Per Tommaso, infatti, imparare da un altro attraverso segni significa soltanto far uso della
propria ragione in rapporto alle parole di un altro: dunque l'educazione avviene sempre attraverso
un uso corretto della ragione, e non si impara da un altro senza quest'uso corretto: nessun altro che
noi stessi può usare la nostra ragione, l'insegnante che dialoga con noi non può farlo. Dunque anche
per Tommaso il maestro, in fondo, è sempre il maestro interiore.

Ma non si tratta più di una illuminazione di tipo agostiniano, della presenza di Cristo/Logos in
noi come realtà che ci trascende, anche se vive nella nostra interiorità. Ciò di cui si parla è sempli-
cemente la ragione dell'uomo, che ci è stata data da Dio, ma Dio le rimane tuttavia estraneo in
quanto creatore (il creatore è diverso per natura dalla creatura), anche se la ragione umana è im-
magine stessa della ragione di Dio: "Tale lume della ragione (…) è posto in noi da Dio come una
sorta di immagine della verità increata presente in noi. Pertanto, visto che ogni insegnamento umano
non può avere nessuna efficacia se non in virtù di quel lume della ragione, è chiaro che è soltanto
Dio che interiormente e principalmente insegna". Ma non direttamente: solo in quanto creatore della
nostra mente.

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