Sei sulla pagina 1di 59

DIRITTO PRIVATO ROMANO

I. L’ETA’ ARCAICA

TITOLO PRIMO: LA CITTA’

CAPITOLO 1: LA CONSOLIDAZIONE DEGLI ASSETTI QUALIFICANTI (Pagg.39-62)

Romolo, diviso il popolo in CURIE, fu il primo a fare leggi, dopo che vi era stato un periodo incerto, i cui quello che riguardava i
rapporti tra i cittadini era stato risolto con la MANUS dall’autorità di un capo. Le curie avevano una propria organizzazione
gerarchica interna, ed erano utili soprattutto in termini di censimento. Il diritto, allora, doveva essere assai semplice. Bisogna
considerare che sicuramente vi sarà stato il bisogno di regole riferite alla persona, al suo status (servo o libero) e al suo divenire
(nascita, vita, morte), nonché ad aspetti familiari come matrimonio, filiazione, adozione, ripudio, morte degli elementi familiari. Poi
ve ne sarà sui beni e su come goderli, alienarli, perderli e distruggerli ed i legami che nascono dalle attività/commerci/negozi che si
stipulano tra due o più persone e i mezzi di tutela. La lex in questo periodo era intesa come un proposta del re all’assemblea perché
questa la approvi (lex publica). È consequenziale pensare anche a dei sistemi di tutela dei diritti sanciti dalla legge. Questa
amministrazione della giustizia era dapprima affidata al re, poi, verosimilmente col complicarsi delle componenti cittadine, egli avrà
fatto affidamento a suoi vice. Oltre al re agivano i patres, ovvero i componenti dell’assemblea che verrà poi chiamata SENATO. Vi è
poi L’ASSEMBLEA DEL POPOLO, ovvero di coloro che hanno deciso di vivere a Roma e si sono impiantati in una delle trenta curie. Vi
erano poi certamente altre figure delegate dal re. Agli albori della città di Roma vi fu questa dicotomia tra plebei e patrizi. I primi
rappresentavano la maggioranza della popolazione, ed era occupata in attività materiali, i secondi erano gli aristocratici, cui è
riservato il governo. Entrambe le classi sono libere e aventi gli stessi diritti, tranne quello del conubium, ovvero il matrimonio di un
plebeo con un patrizio. Dalla SECESSIONE DELL’AVENTINO DEL 494 a.C. si misero in evidenza delle strutturate istituzioni politiche
dei plebei come i concilia plebis curiata e tributa (a seconda della divisione tra curie o tribù) dalle quali nacquero le figure del
TRIBUNO DELLA PLEBE e dell’EDILE DELLA PLEBE.

1. GLI ORGANI COSTITUZIONALI

Alla COPPIA CONSOLARE dei patrizi, i plebei opposero il tribuno, dichiarato dagli stessi inviolabili, comminando la pena della
SACERTAS a chi osi recargli offesa. L’homo sacer poteva essere impunemente ucciso da qualsiasi cittadino. Il tribuno ha i poteri
dello IUS AUXILII (aiuto al cittadino, prima plebeo poi generale, contro le misure del magistrato patrizio contro di lui), INTERCESSIO
(veto contro la delibera del magistrato patrizio che leda gli interessi della plebe) e la COERCITIO (possibilità di sanzionare i
magistrati).

Altro tema di contrasto tra le classi è il dissidio riguardante l’AGER PUBLICUS, dove il dominium dovrebbe essere collettivo. Tuttavia
ben presto questo ager publicus divenne appannaggio solamente di colori i quali avevano beni da mettervi a frutto e armenti da
pascolare. Dunque i plebei vollero una divisione dell’ager anche ai meno facoltosi, pagando o meno un modesto canone
(VECTIGAL). Altro motivo di contrasto fu quello su conubium, che si risolverà più in là.

Oltre a patrizi e plebei vi era anche un’altra classe, intermedia tra libertà e schiavitù: i CLIENTES. Essi sarebbero vincolati a portare
servizi e prestazioni alle persone a cui fanno riferimento, i PATRONI.

Nell’età arcaica, che si divide in età monarchica (753 a.C.- 509 a.C.) ed età repubblicana (509 a.C.- 27 a.C.), la gerarchia potestativa
era, rispettivamente:

RE > ASSEMBLEA DEI PATRES > ASSEMBLEE DEI CITTADINI DELLE VARIE CURIE

CONSOLI > SENATO > ASSEMBLEE DEL POPOLO

2. LA COPPIA CONSOLARE E GLI ALTRI MAGISTRATI

I consoli hanno, come il re, la suprema potestate e l’imperium: comandano sui cittadini sia in città (imperium domi) sia sul campo
da battaglia (imperium militae). Tuttavia tale imperium venne temperato da quattro peculiarità fondamentali della carica
consolare: COLLEGIALITA’ (ognuno dei consoli ha potere di intercessio sull’altro), TEMPORANEITA’ (i consoli restavano in carica per
un solo anno), ELETTIVITA’ (sono eletti dal comitium centuriatum popolare) e RESPONSABILITA’ (alla fine della carica, il console
può essere giudicato per eventuali danni alla res publica).

Esistono poi anche altri limiti, posti dal tribuno della plebe, come: la PROVOCATIO AD POPULUM (quando i consoli arrogano
sanzioni coercitive, il tribuno richiede che esse siano giudicate e verificate davanti ad una assemblea popolare), la INTERCESSIO
1
TRIBUNICIA (potere di veto del tribuno). In particolare, quest’ultima prevede lo ius agendi cum patribus et cum populo: le
proposte consolari assumono il termine “rogatio” che diventa lex publica o lex rogata solo se ottiene la maggioranza dei voti delle
unità votanti. Anche il tribuno della plebe può avvalersi di tale ius e può emanare leges rogatae, votate dall’assemblea della plebe e
valide come plebiscitum che vincola i soli plebei.

I consoli, tuttavia, mantengono la iurisdictio, amministrano la giustizia, amministrano tutte le funzioni utili alla città e al
mantenimento dell’ordine pubblico, organizzano le riscossioni dei tributi, esercitano la leva, la spesa e il comando supremo
militare.

Vi sono poi altre figure che fanno da contorno ai consoli: i CENSORI (eseguono il censimento della popolazione, l’imputazione della
residenza in ciascuna unità territoriale e la consistenza delle famiglie e dei cespiti patrimoniali) ed i QUESTORI (subalterni dei
consoli nelle incombenze militari, amministrano il denaro pubblico.

3. IL SENATO

Il senato rappresentava gli interessi delle famiglie o dei grandi gruppi di famiglie. È composto dai patres. Dato che esso fino al IV
secolo venne visto come strumento del consolato per sfruttare i plebei, dal IV secolo in poi i senatori vennero chiamati PATRES
(=PATRIZI) ET CONSCRIPTIS (=PLEBEI). Il senato era costituito da 300 membri. I provvedimenti che essi votano vengono chiamati i
senatus consulta, essi non sono vincolanti come se fossero delle leggi, ma hanno una tale pregnanza rispetto al consenso dei
cittadini che possono rappresentare un provvedimento normativo fondamentale nella gestione degli atti della res publica. È il
magistrato l’incaricato a discutere dell’ordine del giorno e a sottoporre al voto del senato le varie rogationes.

4. LE ASSEMBLEE POPOLARI

Esse erano diverse a seconda della divisione in certe unità. La prima assemblea popolare sarebbe stata quella divisa in 30 comizi
curiati che poi, grazie a Servio Tullio, fece spazio ad una divisione del popolo per il censo che portò l’assemblea ad una
composizione di 193 comizi centuriati. Infine, sempre Servio Tullio, istituì dei comizi per i soli plebei a seconda delle divisioni
territoriali, divisi in tribù. Vi erano 4 tribù urbane e 16 tribù rustiche, aumentate poi a 31 nel 241 a.C., per un totale di 35. Così le
adunanze cittadine potevano avvenire prima attraverso la divisione in curie, poi per il censo e infine per tribù. I concilia plebis,
invece, prima si sarebbero riuniti per curie, e poi sempre per tribù. In ogni adunanza l’espressione del voto era di tipo maggioritario:
occorrevano nei comizi curiati 16 curie favorevoli, quello centuriato necessitava di 97 centurie e il comizio tributo di 17 tribù.

I comitia centuriata eleggono i magistrati maggiori (consoli, censori, pretori) e decidono le accuse che comportano la pena di
morte

I comitia tributa eleggono i magistrati minori e giudicano sulle multe irrogate dai magistrati

I concilia plebis eleggono i tribuni e gli edili della plebe e giudicano sulla irrogazione delle multe dei tribuni

TUTTE E TRE APPROVANO LEGGI.

5. IL PAREGGIAMENTO POLITICO FRA LE CLASSI

I passaggi fondamentali del progressivo pareggiamento politico fra le classi possono essere individuati nella lotta per il diritto scritto
e dunque nella storia inerente al decemvirato legislativo e all’istituzione del XII Tavole, nell’approvazione della Lex Canuleia de
conubio e nell’approvazione dell’intero pacchetto delle leggi Liciniae Sextiae, della Lex Ogulnia e nell’equiparazione dei plebisciti
alle leggi.

XII TAVOLE (451-450 a.C.): Si produsse un sistema organico di leggi scritte, valide per tutti, capace di consolidare lo status
individuale del cittadino con determinazione dei diritti a ciascuno spettanti e con definizioni dei mezzi idonei per la loro tutela. Si
parla, in via schematica, di: PROCESSO PRIVATO, ESECUZIONE DELLA CONDANNA, FILIAZIONE ED EMANCIPAZIONE, TUTELA,
SUCCESSIONE INTESTATA, CONTRATTI E SERVITU’ PREDIALI, PROPRIETA’, INGIURIA, DANNO, FURTO E OMICIDIO, PENA DI MORTE,
REPRESSIONE DEL LUSSO NEI FUNERALI, DIVIETO DI CONNUBIO, PEGNO.

LEGGI VALERIE ORAZIE (449 a.C.): Sanciscono: EQUIPARAZIONE DEI PLEBISCITI ALLE LEGGI (lex Valeria Horatia de plebiscitis),
RIPRISTINO DELLE MAGISTRATURE E DIVIETO DI CREARLE NON ASSOGGETTABILI ALLO IUS AUXILII DEI TRIBUNI (lex Valeria Horatia
de provocatione), RICONOSCIMENTO INVIOLABILITA’ DEI TRIBUNI (lex Valeria Horatia de tribunicia potestate).

LEGGE CANULEIA (445 a.C.): ELIMINAZIONE DEL DIVIETO DEL CONUBIUM (lex Canuleia de conubio).
2
LEGGI LICINIE SESTIE (367 a.C.): Importantissime nello sviluppo del pareggiamento delle classi, sanciscono che: I PLEBEI POSSONO
DIVENTARE CONSOLI; REGOLANO L’AMMONTARE DEGLI INTERESSI E DEI DEBITI (lex Licinia Sextiae de aere alieno); STABILISCONO
L’ESTENSIONE MASSIMA OCCUPABILE DA CIASCUN PATER FAMILIAS (=500 IUGERI+250 SE AVEVA FIGLI) (lex Licinia Sextia de modo
agrorum); DELEGANO LA IURISDICTIO AD UN SUBALTERNO DEL CONSOLE, IL PRETORE (lex Licinia Sextia de praetore creando);
ISTITUISCONO UNA NUOVA CARICA MAGISTRALE RISERVATA AI PATRIZI (lex Licinia Sextia de aedile curule creando).

PLEBISCITO OVINIO (312 a.C.): PLEBEI FACEVANO PARTE DEL SENATO, IN QUANTO LA LECTIO SENATUS SPETTA AI CENSORI, CHE DA
39 ANNI POSSONO ESSERE PLEBEI.

LEGGE OGULNIA (300 a.C.): I PLEBEI POSSONO ACCEDERE AI COLLEGI SACERDOTALI DEI PONTEFICI E DEGLI AUGURI

LEGGE DI PUBLILIO FILONE (339 a.C.) E LEGGE ORTENSIA (287 a.C.): Sanciscono, la prima che tutti i cives siano soggetti agli “scita
plebis” e, la seconda, che i plebisciti sarebbero stati definitivamente equiparati alle leggi

CAPITOLO 2: FONTI DEL DIRITTO E REPRESSIONE CRIMINALE (Pagg.63-74)

1. LE FONTI DEL DIRITTO REPUBBLICANO

Il posto preminente tra le fonti è occupato dal prodotto dell’attività deliberante dell’assemblea popolare, nelle varie forme in cui
può essere convocata: le leges publicae. L’assemblea è l’unico organo capace di esprimere lo iussum populi. Accanto alle leges
publicae (con le quali possiamo indicare indifferentemente le leggi comiziali, i plebisciti ed i mores), più a carattere generale, si
pongono le più specifiche XII tavole. I mores, una volta divenuti fondamentali nell’identità culturale del popolo diventano
immutabili ancor più dei contenuti della legge. Vi è poi l’interpretatio prudentium, ovvero “l’indagine conoscitiva di ciò che c’è
dentro operata da chi ha capacità valutative”. È un’attività interpretativa che consta di 3 elementi: 1. TESTO NORMATIVO CERTO; 2.
PRATICA DELLO IUS CIVILE; 3. “ACTIONES”/PROCESSO.

Lo Ius Aelianum è uno dei capisaldi fondanti dello ius civile. Per quanto riguarda le actiones, occorre la conoscenza e lo studio delle
forme per accedere alla tutela processuale dei diritti, un tempo di solo appannaggio patrizio, e giungere alla corretta utilizzazione
delle actiones.

Accanto alle fonti tipiche dello ius civile finora elencate, l’interpretatio prudentium contribuisce alla nascita di una nuova fonte:
l’editto giurisdizionale, un documento ufficiale utilizzato da tutti i magistrati che esercitano la iurisdictio (= potere di determinare in
via teorica lo stato e la titolarità del diritto all’interno del fatto portato alla conoscenza del magistrato). L’editto, o meglio, gli editti
ogni anno possono cambiare in quanto il magistrato che assume la carica ha infatti, tra le proprie prerogative il diritto di
promulgare il proprio editto. Sennonché ragioni di praticità spingono ad utilizzare le parti dell’editto del predecessore mostratesi
efficaci, e di modificare quelle che si sono dimostrate inefficaci. Dunque questo tipo di diritto che si fonda sugli editti giurisdizionali
e che viene posto non solo dalle leggi e dai mores ma dai magistrati stessi che definiscono, correggono o integrano punti non
perspicui nell’ordinamento vigente è detto IUS HONORARIUM (honor=carica magistrale). La sua fonte preponderante è lo IUS
PRAETORIUM, cioè quanto emerge dagli editti dei pretori, alle cui forme si ispirano quelli degli altri magistrati.

2. LA REPRESSIONE CRIMINALE

Le origini della repressione criminale si fondono col diritto sacrale, secondo il quale il comportamento illecito turba il rapporto tra
umanità e dei. Dunque il reo vieno punito in quanto viola la pax deorum. Il crimine viene perseguito in quanto viola l’interesse della
collettività intera, e punire è un dovere che incombe su colui cui è rimesso il benessere collettivo: prima il re e poi il magistrato.

I crimini minori possono essere espiati con un piaculum, cioè per mezzo di un’offerta da sacrificare, spesso un animale. Per lo
scelus, invece, che è un reato ben più grave, si paga con la vita, e dunque viene esercitata la condanna a morte. Tipi di scelus sono:
la perduellio (=tradimento); il furto notturno di messi; il paricidium.

Durante la repubblica si crede che fosse possibile concedere la “poena capitis” solo davanti ad un MAXIMUM COMITIATUM (=
adunata popolare più numerosa possibile).

A partire dai primi decenni del II secolo a.C. si introduce una competenza senatoria nei confronti di figure criminose di risonanza
pubblica e su reati a sfondo politico. Queste indagini sono dette QUAESTIONES EXTRAORDINARIAE e sono accese su iniziativa del
senato che le affida ai consoli, o al pretore, che giudica assieme ad una giuria. Si creano vari tipi di QUAESTIO:

1. QUAESTIO REPETENDARUM (CONTRO I GIOVERNANTI DELLE PROVINCE CHE ESTORCONO DANARO AGLI AMMINISTRATI)

3
2. QUAESTIO AMBITUS (CONTRO LA CORRUZIONE ELETTORALE)

3. QUAESTIO MAIESTATIS (CONTRO IL MAGISTRATO CHE HA INTESO VIOLARE LA “MAIESTAS POPULI ROMANI”)

4. QUAESTIO DE SICARIIS ET VENEFICIS

5. QUAESTIO PERDUELLIONIS (CONTRO L’ALTO TRADIMENTO)

6. QUAESTIO DE PLAGIO (CONTRO LA RIDUZIONE IN SCHIAVITU’ DI SERVI ALTRUI)

7. QUAESTIO DE ADULTERIIS ET DE PUDICITIA

8. QUAESTIO FALSI (CONTRO LE FALSIFICAZIONI NUMMARIE, DOCUMENTARIE E TESTIMONIALI)

9. QUAESTIO DE VI (CONTRO LA VIOLENZA PUBBLICA)

10. QUAESTIO PECULATUS (APPROPRIAZIONE INDEBITA DI DENARO PUBBLICO)

OGNUNA DI QUESTE CAUSE VIENE GIUDICATA DAL RISPETTIVO QUAESTIO (= TRIBUNALE CON DETERMINATE COMPETENZE).

TITOLO SECONDO: LO IUS CIVILE

CAPITOLO PRIMO: LE PERSONE E LA FAMIGLIA (Pagg. 75-104)

1. LE PERSONE

Per Gaio il diritto riguarda le persone, le cose e le azioni. È evidente che sono persone, cioè soggetti giuridicamente rilevanti, i nati
vivi e vitali, capaci cioè di permanere in vita. Il nato è sì di chi lo ha generato (la madre), e di chi lo ha raccolto (il padre), ma è anche
della collettività, che trae dalla sua presenza ogni motivo di sviluppo e sicurezza: non c’è spazio logico, quindi, per i romani, per
infanticidio e aborto. Altrettanto rilevante è il momento della morte, al cui momento si verifica la successione.

La dottrina romanistica riconosce tre “stati”: status libertatis, status civitatis e status familiae. Per essere titolare di qualsiasi
situazione soggettiva o di qualsiasi rapporto giuridico bisogna essere liberi, ovvero SUI IURIS. I sottoposti al potere di un familiare è
invece ALIENI IURIS, o ALIENI IURI SUBIECTUS, come per esempio i figli.

Le donne si trovavano, poi, in una situazione giuridica inferiore, perché non potevano essere a capo di una famiglia. O si trovavano
sotto la PATRIA POTESTAS o si trovavano IN MANUS del marito. E se entrambi fossero venuti a mancare, sarebbe stata posta sotto
TUTELA. Erano precluse alle donne qualsiasi attività politica. Ciò fa ben capire come quella romana fosse una società MASCHILISTA
E PATRILINEARE.

Altre cause di inferiorità erano l’età, distinta tra infanzia e pubertà, la pazzia o la prodigalità, se nociva al patrimonio familiare. Chi
si trovava in tali stati di inferiorità era sottoposto ad un TUTORE o ad un CURATORE. Vi erano poi uomini che, sebbene dotati di
capacità, erano soggetti al potere altrui, essendo obbligati ad obbedienza e lavoro. Si tratta dei CLIENTES. Essi erano sottomessi ad
un PATRONUS. Essi erano per lo più servi liberati, che continuavano a dare obbedienza al vecchio DOMINUS, che a sua volta ne era
vincolato per le regole etico-giuridiche derivanti dalla fides. Se infatti il patronus avesse danneggiato ingiustamente il clientes,
sarebbe stato condannato a sacertas.

Vi erano poi altre figure particolari sottoposte all’alieni iuris. Vi erano persone soggette ad altre per i propri debiti o per quelli di
altri. Si tratta dei NEXI e degli ADDICTI. I primi erano assoggettati per ripagare con la propria persona il debito, i secondi invece
sono stati sottoposti alla MANUS INIECTIO perché, convenuti una seconda volta in tribunale non hanno eseguito la sentenza che li
ha condannati. Il creditore li tiene in catene finchè qualcuno non li riscatti ma, passato il tempo previsto dalle XII tavole, può o
ucciderli o venderli trans Tiberim peregre.

Vi sono poi i VADES e i PRAEDES, soggetti che si sono vincolati come garanti di un debito o di un comportamento altrui, come il
presentarsi in giudizio. La loro soggezione è di tipo prettamente corporale. Il creditore infatti poteva tenerli incatenati presso di sé,
farli lavorare, venderli o addirittura ucciderli.

Gaio, poi, differenzia tra coloro che sono cittadini e stranieri, e tra coloro che sono liberi e servi, e tra coloro che sono liberi per
nascita o perché, da servi, sono stati liberati attraverso la MANUMISSIO. Nell’età arcaica le ragioni dello stato di servitù erano:
CAPTIVITAS (= prigionieri di guerra), ESSERE FIGLI DI MADRE SERVA, DEDITIO (= un’altra città consegna a Roma il proprio cittadino
4
che ha violato norme utili nei rapporti tra le due comunità), ESSERE DISERTORI, RENITENTI ALLA LEVA, “INCENSI” (= coloro che si
sottraevano al censimento), DEBITORI INSOLVENTI.

Il servo è tutelato, però, contro le lesioni personali, sebbene la sanzione fosse equivalente alla metà di quella che spetterebbe
all’uomo libero. Ma se è il servo a commettere danno, il dominus può esercitare la NOXAE DATIO, ovvero la consegna del servo al
danneggiato. Tuttavia il dominus poteva, da un certo momento, decidere di difendere il servo perché, magari, era costato più lui
che il danno che ha combinato, oppure il servo poteva essere utile in casa (magari era un cuoco o un precettore) o ancora poteva
portare un guadagno al suo padrone. In più è rilevante il fatto che tutti guadagni effettuati dal servo implementavano
immediatamente tutto il patrimonio familiari. Anche per questo motivo il dominus spesso liberava i servi che, evidentemente,
avevano compensato il prezzo per cui erano stati pagati. Tale liberazione veniva effettuata con la manumissio. Esistono tre tipi di
manumissio:

1. MANUMISSIO VINDICTA: si compie con la legis acti sacramenti. Davanti ad un magistrato, un terzo prestatosi alla causa d’intesa
col dominus asserisce che il servo è libero, il dominus, pur potendo, non controbatte e al magistrato non resta che dare ragione
all’adsertor libertatis e liberare il servo.

2. MANUMISSIO CENSU: si compie durante il censimento. Il censore, infatti, chiede, tra le altre cose, al padrone il numero di
persone libere e in servitù in casa. Il padrone allora potrebbe manomettere il servo inserendolo tra le persone libere. Questa
manomissione poteva essere effettuata solo ogni 5 anni, cioè solo ogni volta che si effettua il censimento.

3. MANUMISSIO TESTAMENTO: si compie utilizzando il testamento per dichiarare la volontà di liberare un servo: o come
condizione obbligatoria per diventare ereditari o come dato di fatto che deve essere accettato così come è dall’ereditario/legato.
L’erede diventerà il dominus del servo liberato, che gode del cosiddetto statuliber

Per quanto riguarda i peregrini, essi godono di situazioni protette in quanto liberi (ius gentium), ma non godono dei diritti dei
Romani (ius civile). Tuttavia, per favorire lo sviluppo dei commerci e dell’economia, ad un certo punto della storia Romana, si
introdusse la fictio civitatis, con la quale si fingeva che lo straniero fosse cittadino Romano. Nell’ambito dei peregrini sono compresi
anche i Latini, che tuttavia, a causa dei legami che avevano stretto con i Romani godevano, seppur sempre peregrini dello IUS
MIGRANDI, ovvero il diritto di trasferirsi a Roma acquistando così la cittadinanza romana; dello IUS SUFFRAGII, ovvero di poter
votare se si fossero venuti a trovare a Roma in un giorno comiziale; dello IUS CONUBII, ovvero la possibilità di contrarre valide
nozze con i Romani e infine lo IUS COMMERCII, ovvero il diritto di poter stipulare con i Romani la mancipatium e il nexum.

In più Gaio afferma che se si nasce da iustae nuptiae, si prenderà la cittadinanza del padre, se si nasce al di fuori del matrimonio, e
quindi non essendo un figlio legittimo, si prenderà la cittadinanza della madre.

2. LA FAMIGLIA

Con il termine familia si indica tutto l’insieme delle persone unite da vincoli di parentela e, allo stesso tempo, il patrimoni odi cui il
pater è titolare. La consanguineità è detta cognatio e la discendenza continuata da padre in figlio è detta “in linea retta”, mentre la
parentela tra cugini è detta “in linea collaterale”. Raramente in una famiglia si risale oltre il 6° grado. I membri maschi della famiglia
sono detti adgnati, sia che siano consanguinei sia che siano adotatti. Gli adgnati sono molto importanti perché, parlando di
successione, se il pater non ha figli, l’eredità va a loro. Alla morte del pater i figli formavano ciascuno le proprie famiglie. Il pater
esercita la patria potestas e dunque tutti gli altri componenti della famiglia sono alieni iuris. Innanzitutto i figli. Il padre non sa a
tutti gli effetti se il bambino appena nato posto in terra, come vuole tradizione, sia suo figlio. Se ritiene che lo sia, lo prende e lo
solleva davanti a testimoni, segno che ha riconosciuto il figlio. Tuttavia, se egli non è sicuro che il bambino sia suo figlio, lo lascia in
terra. Il bambino sarà cresciuto in famiglia ma non sarà suo, oppure sarà esposto perché cresca con chi vuole prenderselo.
Solamente nel caso di una deformità accertata dai vicini, il bambino può essere ucciso. Il pater esercita sul figlio lo ius vitae
necisque. Va notato però che in una società dove le risorse principali erano gli uomini, uccidere era considerato lo scelus massimo.
Il figlio, pur sottostando all’alieni iuri, può votare ai comizi ed essere votato e può, sicuramente, intraprendere la carriera militare,
una volta raggiunta la pubertà (circa 14 anni). Questo per i diritti politici. Non si può dire la stessa cosa per i diritti civili. In questo
caso il figlio viene trattato al pari di un servo, in quanto anch’egli sottoposto a patria potestas. Se conduce un’attività, i proventi non
amplieranno il suo patrimonio, ma quello del pater. Stesso dicasi per l’eventuale dote derivante da una moglie. Tuttavia la
condizione alieni iuris del figlio può essere modificata anche prima della morte del pater, attraverso la MANCIPATIO. Infatti,
ponendo il caso che il pater abbia contratto un debito che non può, momentaneamente, ripagare, ed egli decide di vendere al
creditore il proprio figlio, che gli verrà riconsegnato, LE PRIME DUE VOLTE, dopo aver saldato il debito, attraverso la manumissio
vindicta del filius in favore del pater, in quanto il primo si trovava “in causa mancipi”. Tuttavia SE IL PADRE VENDE IL FIGLIO PER LA

5
TERZA VOLTA, SECONDO LE XII TAVOLE, QUEST’ULTIMO E’ SCIOLTO DALLA PATRIA POTESTAS E DIVENTA SUI IURIS . Va notato
però che, in questo caso, il pater diventa patronus del figlio ormai sciolto dai vincoli potestativi paterni.

Accanto ai figli propri, il pater può avere anche figli adottivi. Gaio ricorda che anche i figli adottivi sono sotto la patria potestas.
L’adoptio può avvenire in due modi: o davanti l’assemblea popolare o ricorrendo all’autorità del magistrato. La prima forma,
detta anche ADROGATIO, prevedeva che un uomo sui iuris, restato magari senza famiglia, acconsenta a divenire filius di un altro
pater familias. La seconda riguarda un figlio alieni iuris che, una volta estintasi la pater potesta (magari per mancipatio), poteva
essere reclamato da un terzo come figlio proprio. Il magistrato, poiché nessuno ne contraddiceva l’affermazione, dichiarava ex
imperio che il reclamante fosse il padre dell’adottato. Parimenti sottoposti alla patria potestas sono le donne, i servi e chi si trovi
presso di lui in condizione di sottomissione a causa di vari negozi (nexi, addicti, vades e praedes). Le donne, tuttavia, potevano
anche trovarsi nello status di persone in manu. Con il termine manus si indica un potere in generale, ma, con significato più tecnico,
in questo caso si indica il potere del pater familias sulla propria moglie e sulla moglie dei propri figli, se questi continuano a vivere
con lui e non sono stati emancipati. Alcune fonti addirittura ritengono che il marito e il pater avessero avuto, sulle donne sposate e
facenti parte della familia, diritto di vita e di morte. Esistevano i seguenti tipi di “nuptiae”:

1. CONVENTIO IN MANUM: Divisa in:

A. CONFARREATIO: Cerimonia svolta davanti a 10 dieci testimoni e al “flamen Dialis”, il sacerdote di Giove. Si compivano gesti
rituali e si pronunciavano frasi solenni, oltre a sacrificare un pane, o una polenta di farina di farro a Giove, invocato qui come
“farreo”, protettore delle messi.

B. COEMPTIO: Applicazione della mancipatio mediante la quale si trasferiva la donna quale moglie o al marito o all’esercente
potestà su di esso.

2. USU: Gaio ci spiega che: “Faceva l’accordo per la mano con l’uso (la donna) che rimaneva moglie per un anno; poiché veniva
usucapita come in forza di possesso annuale, passava nella famiglia del marito e acquistava il posto di una figlia”. Se la donna non
avesse voluto divenire possesso del marito, le sarebbe bastato assentarsi ogni anno per tre notti.

Da notare come il matrimonio viene visto dai Romani come istituzione che, oltre alla doverosità della riproduzione della specie,
aggiunge elementi che la natura non contempla, come la convivenza, il rispetto reciproco e la monogamia.

I modi di scioglimento del matrimonio erano, invece: diffareatio (scioglie solo le nozze contratte per confarreatio), emancipatio (in
quanto la moglie presa in coemptio o in usu diveniva come una figlia, essa se venduta una volta[questo il limite di vendita per le
donne della famiglia], può emanciparsi dalla patria potesta).

I Romani osteggiavano il divorzio basato sul semplice di diniego di continuare la vita coniugale ( divortium ad nutum). Per divorziare
nella società romana occorrevano valide giustificazioni per la cessazione del matrimonio, come per esempio le colpe addossate alla
moglie per l’incertezza della filiazione. Va da sé che, una volta sciolto il vincolo coniugale, la donna torna sotto la patria potestas del
padre, mentre il marito e il pater di lui perdono la manus su di essa.

È tempo di analizzare le persone in causa mancipi. Esse potevano essere i filii familias e chi si fosse mancipato. Costoro potevano,
infatti, essere alienati dal pater familias ad un terzo mediante la mancipatio. La mancipatio veniva usata per ottenere denaro o altre
cose fungibile, o per liberarsi da un obbligo risarcitorio. Essa poteva essere a titolo definitivo o un trasferimento temporaneo per
garanzia. In questo caso il terzo era vincolato al pater per fides, ovvero egli garantiva che, una volta esauritosi il debito che il pater
gli doveva, avrebbe sottoposto nuovamente a mancipatio il filius/filia/servus, che sarebbero tornati sotto la patria potestas iniziale.
Tuttavia le XII tavole fissarono, in caso di mancipatio di figli, il limite di tre vendite, in caso di mancipatio di figlie, il limite di una
vendita. Poi essi sarebbero diventati cittadini sui iuris. Un altro tipo di mancipatio era quella che veniva effettuata per risarcire un
danno commesso da un sottoposto del pater, cedendo proprio il danneggiante al danneggiato: la noxae datio. Probabilmente essa
non era riscattabile.

Vi sono poi altre limitazioni della capacità per soggetti che, sebbene non sottoposti a patria potestas, come gli orfani, né a manus in
quanto orfane nubili, né a mancipium possano liberamente disporre, nonostante sulla carta siano sui iuris. Nemmeno le persone
con problemi di salute, soprattutto mentale, hanno la capacità di agire. Tutti questi soggetti erano sottoposti o a TUTELA o a
CURATELA.

Erano PUPILLI, cioè sottoposti a tutela, i soggetti sui iuris impuberi (= che non hanno ancora raggiunto la pubertà). Anche le donne
puberi erano sottoposte a tutela, proprio per salvaguardare il patrimonio del pater. Al tempo delle XII tavole erano tre i tipi di
tutore: LEGITIMUS, TESTAMENTARIUS e, più in là, venne aggiunto il tutor DATIVUS.

6
I tutores legitimi sono, per le XII tavole, nel caso in cui non sia stato specificato per testamento, gli adgnati proximi, ovvero i
parenti maschi più vicini alla persona da tutelare. L’interpretatio prudentium volle poi che i tutori dei liberti e delle liberte fosse il
vecchio dominus, ora patronus, che veniva così paragonato ad un adgnatus proximus. La tutela legittima del bambino
impubere/donna pubere dunque veniva affidata ad un familiare e siccome erano essi facevano parte del patrimonio familiare, egli
agiva anche secondo proprio interesse. Tuttavia poteva capitare che il tutor legitimus decidesse di rinunciare alla tutela e cedere i
suoi poteri tutelari ad un estraneo con la in iure cessio.

Ciò non poteva essere fatto dai tutores testamentarii. Essi, si ritiene, avevano un potere soprattutto di tipo protettivo nei confronti
dei sottoposti e siccome venivano scelti nel testamento, e non per legge, potevano anche non fare parte della famiglia ed agire non
secondo i propri interessi.

Il tutore veniva ritenuto il proprietario del patrimonio della donna o dell’impubere, ma non poteva usarlo per proprio godimento
ma, anzi, essendo vincolato dalla fides, egli aveva il compito di conservare e implementare il patrimonio suddetto. Se il tutore
moriva, i suoi eredi succedevano soltanto al patrimonio personale del tutore, mentre il patrimonio del pupillo era affidato ad un
nuovo tutore. Le donne erano SEMPRE sottoposte a tutela. Tuttavia, trattandosi spesso di donne adulte, il tutore col tempo limitò
la sua auctoritas tutoris solo con la ratifica degli atti, che presto, venne affidata ai pupilli. Chiaramente questo processo di diffuse
prima nella tutela muliebre in quanto si trattava di donne adulte e non, come in quella pupillare, di bambini o, addirittura, infantes.

Nel periodo successivo alle XII tavole venne anche introdotta la tutoris optio, ovvero la possibilità, in caso di morte del marito, che
quest’ultimo lasciasse scritto nel testamento che la moglie poteva scegliere il tutore da sola (= tutores optivi).

Abbiamo detto che il tutore è vincolato, nel suo munus, dalla fides. Se egli avesse violato tale fides, avvantaggiandosi
personalmente con i beni patrimoniali della donna o dell’impubere, egli poteva essere accusato da essi attraverso la ACTIO
RATIONIBUS DISTRAHENDIS e l’ACCUSATIO per il CRIMEN SUSPECTI TUTORIS. Nel primo caso, il tutore, se condannato, era
costretto a risarcire il doppio di quanto rubato, mentre nel secondo caso, parlandosi di crimen, il tutore rischiava vere e proprie
condanne penali o criminale.

Sono invece sottoposti a CURATELA i soggetti le cui condizioni di salute, soprattutto mentali, inficiano le possibilità di essere un
soggetto sui iuris. Si tratta del FURIOSUS. Secondo le XII tavole i loro beni e la loro stessa persona veniva affidata agli adgnati
proximi o ai gentiles. I beni del furiosus non vengono chiamati familia, ma pecunia, in quanto si faceva evidentemente solo
riferimento ai beni e non anche a quelle attività patrimoniali, personali ed affettive che caratterizzavano la familia e che il furiosus
non poteva sicuramente avere. Gli adgnati proximi, dunque, esercitavano la potestas sul furiosus, se non vi erano adgnati proximi,
la potestas passava ai gentiles. Col tempo si fece sempre più attenzione non solo alla pecunia del furiosus, ma anche alla cura della
sua stessa persona, e la potestas venne chiamata curatio, da cui curatela. I curatores potevamente solamente essere legitimi. Il
curator doveva occuparsi del patrimonio del furiosus, con poteri di amministrazione e gestione, come quelli del tutor legitimus. Egli
poi compiva gli atti che, evidentemente, il furiosus non poteva compiere. Vi erano tuttavia atti come l’adrogatio o l’emancipatio per
i quali l’incapacità del furiosus era assoluta. Un altro soggetto sottoposto a curatela era il prodigus, ovvero colui che scialacquava il
patrimonio familiare rischiando di mandare in miseria i propri figli. Per l’assegnazione del curator per il prodigus occorreva la
pronuncia del magistrato, prima dei consoli poi, con l’introduzione nel 367 a.C. della sua figura, il praetor urbanis. Il prodigus veniva
giudicato dal magistrato incapace di attuare determinati atti giuridici e dunque il curator (verosimilmente gli adgnati proximi o, in
mancanza di essi, i gentiles) avevano il compito di amministrare solo le faccende per cui egli veniva ritenuto incapace.

Occorre ora distinguere le tre strutture che componevano la società arcaica romana: la FAMILIA, la GENS e il POPULUS ROMANUS.

FAMILIA: Ha struttura autocratica che trovava nella figura del pater la sua ragione di unità ed omogeneità di intenti. Nel campo del
diritto privato egli era l’unica persona capace e quindi tutti gli altri familiares erano incapaci. Nel campo del diritto pubblico, i diritti
politici spettavano a tutti i componenti della famiglia maschi, sani e puberi. La sua esistenza come entità era curata dal censore.

GENS: E’ una collettività di pari (gentiles) che non si identificano più in capo vivente, ma in uno stipite comune, di cui si è perso ogni
riferimento se non il nome (gens Iulia, gens Claudia etc.). L’unico aspetto unitario che vi si può riconoscere è dunque la
conservazione dell’identità del gruppo. I gentiles dunque erano tutti coloro che portassero in sé il nomen del capostipite, ma
vivevano in famiglie diverse.

POPULUS ROMANUS: Nel tempo della monarchia il popolo era tutta quell’entità che si trovava sottoposta al rex. Esso era l’unico
soggetto a cui facevano capo le situazioni e gli atti giuridici inerenti agli interessi collettivi. Ma con la repubblica il populus acquistò
grande rilevanza esterna e divenne civica, per differenziare la collettività di soggetti distinti, dove coesistevano sia i magistrati, scelti
dal popolo, sia i cittadini, considerati come una formazione unitaria chiamata populus Romanus, o Quirites, da cui lo ius Quiritium.

7
CAPITOLO SECONDO: I BENI E LE SUCCESSIONI (Pagg. 105-134)

1. I BENI

Gaio differenzia tra cose del nostro patrimonio e cose non del nostro patrimonio, cose di diritto divino (cose sacre e religiose) e di
diritto umano, che si dividono in corporali (oro, vesti,servi, animali etc.) e incorporali (testamento, eredità, obbligazioni). Poi Gaio
differenzia anche tra COSE (= ciò che esiste in natura) e BENI (= cose suscettibili di una valutazione e che, quindi, possono essere
vendute, distrutte, comprate, trasferite etc.).

La prima distinzione che fa Gaio è quella tra i beni del nostro patrimonio e quelle non del nostro patrimonio. Dunque egli introduce
implicitamente il c.d. diritto di proprietà. È chiaro che in una società che fonda la sua economia sull’agricoltura e sulla pastorizia il
bene essenziale sia la terra. Vi è tuttavia differenza tra AVERE e DISPORRE. Il primo termine riguarda la proprietà del bene, il
secondo il possesso. Spesso proprietario e possessore non coincidono. Le fonti affermano che fin dai tempi di Romolo esistevano
terreni di proprietà individuale e terreni di possesso collettivo di una determinata gens, che erano da quella intesi come propri e
quindi difendibili da pretese di altri.

Va poi distinto tra res fondamentali, ovvero le RES MANCIPI, che in una società agro-pastorale erano i servi, i buoi, gli asini e le
servitù prediali. Erano le res economicamente più rilevanti. Mentre le res economicamente meno rilevanti erano dette RES NEC
MANCIPI ed erano gli animali di piccola taglia, gli attrezzi agricoli, le vesti. Con l’affermarsi della famiglia e dell’autorità del pater
familias si crede che le res mancipi divennero pian piano soggette al pater, mentre res nec mancipi come boschi, pascoli naturali e
mandrie brade potevano essere utilizzate da tutte le gentes. Progressivamente, però, si crede che la familia avrebbe eliso le
proprietà collettive delle gentes. Il denaro veniva considerato res nec mancipi.

I modi di trasferimento delle res variavano a seconda che queste siano mancipi o nec mancipi. Le res mancipi si trasferivano tramite
mancipium (o mancipatio) o con la in iure cessio. Le res nec mancipi con la semplice consegna (= traditio). Se la res mancipi veniva
trasferita senza mancipium non si poteva reclamare la proprietà di essa, ma solo il possesso. Importante ai fini dell’acquisto ( capio)
di un bene attraverso l’utilizzazione di fatto (usus) è la distinzione tra BENI MOBILI E BENI IMMOBILI. I primi venivano usucapiti
dopo un solo anno di utilizzazione di fatto, i secondi dopo due.

In più si poteva reclamare la proprietà di un bene da chi lo tenesse presso di sé senza titolo attraverso la legis actio sacramenti in
rem, che sarebbe stata diversa in termini di procedura a seconda che si trattasse di un bene mobile o immobile. È stato osservato
come la vindicatio e la controvindicatio faceva riferimento solo ai beni mobili, mentre lo schema per i beni immobili si sarebbe
sviluppato più recentemente. La proprietà della terra di una familia era solitamente di due iugeri ed era detta heredium in quanto
poteva essere passato dal padre ai figli. Il resto delle terre non assegnate a familiae, che dovevano essere prima proprietà collettive
delle gentes, divenne bene ben presto ager publicus populi Romani. Erano territori in cui ogni cittadino poteva andare a far
pascolare le greggi o a raccogliere legna, per esempio. Tuttavia l’ager publicus, di fatto, veniva spesso sfruttato da privati, più che
dall’intera popolazione.

Il metodo di sfruttamento meno privato era quello dell’AGER COMPASCUUS, che veniva utilizzato per il pascolo collettivo di coloro i
quali abitassero sugli appezzamenti confinanti.

Altro metodo era quello dell’AGER SCRIPTUARIUS, anch’esso dedicato al pascolo, ma utilizzabile solo dietro uno scriptum, ovvero
di una somma fissa da pagare per ciascun animale.

Vi era poi l’AGER OCCUPATORIUS, cioè il terreno occupato prima da famiglie patrizie, e poi anche plebee appartenenti al Senato.
L’occupatio era autorizzata dal Senato stesso solo per chi ne facesse parte, ovviamente. Si trattava di appezzamenti vastissimi,
talché ne sorse il problema di limitarne la quantità per ciascun pater familias, risolto dalla LEX LICINIA SEXTIA DE MODO
AGRORUM.

In epoca più recente i quaestores furono autorizzati ad assegnare le terre conquistate (= AGER QUAESTORIUS), che dovevano far
parte in realtà dell’ager publicus. Esse venivano assegnato solamente alle famiglie che disponessero della somma richiesta, e
dunque si trattava di famiglie ricche. L’assegnazione, però, non trasferiva la proprietà dell’ager al privato, ma solo di diritto di
utilizzazione di esso dietro la corresponsione annua di una tassa: la VECTIGAL.

Pressoché contemporanea fu la creazione dell’AGER VECTIGALIS, terra che veniva data in affitto dai censori, sempre dietro
pagamento di una vectigal, che aveva valore di 5 o più anni di utilizzo della terra.

8
Va ricordato che la disponibilità delle terre non va intesa come titolarità e dunque proprietà. Coloro, però, a cui venivano assegnati,
però, avevano il diritto di godere pacificamente dei terreni. La disponibilità di un terreno congiuntamente al diritto di difenderlo da
pretese di terzi è detta possessio. Tuttavia, non essendone il proprietario, essi non potevano disporre dei mezzi tutelativi della
vindicatio e della controvindicatio e, quindi, si crede che in un primo momento l’unico mezzo di tutela fosse quello della mera forza
fisica. In seguito, però, si sono introdotti dei mezzi di tutela, antesignani dei rimedi che poi utilizzerà il pretore, per vietare
l’esercizio della violenza per modificare lo stato di fatto o per prescrivere la reintegrazione nella terra di chi ne fosse stato espulso
con la violenza.

La relazione che lega i singoli beni alla persona che li tiene presso di sé e li utilizza, viene chiamata proprietà. È facile intuire che la
proprietà di certi beni fosse di colui il quale, quei beni, se li sia costruiti, non esistendo in natura e dunque frutto di un’inventiva e di
un lavoro manuale, come gli attrezzi per l’agricoltura. Questi beni nati dal lavoro del singolo verranno poi venduti e scambiati dando
vita al commercio. Altrettanto facile da intuire è che altri beni, come le pietre preziose e gli animali, siano di chi abbia la capacità di
prenderseli o di chi li trova.

Non esisteva un termine latino che fosse riferibile a proprietà. I termini che più si avvicinano a questo significato sono dominium e
mancipium. Essi, più che la proprietà, indicavano l’appartenenza. Per proprietà si intende il diritto di un proprietario, il dominus, di
poter fare qualunque cosa voglia con quel bene. Il dominus gode dei suoi beni indisturbato. Tuttavia il potere del dominus sul bene
aveva dei limiti, per esempio egli non poteva usare la forza propria o del suo gruppo contro un terzo che si fosse impossessato del
bene, ma doveva utilizzare la legis actio sacramenti in rem. Oppure vi erano dei limiti di utilizzazione dei bene per la loro stessa
natura. Perciò nacquero dei mezzi di tutela della proprietà, riferiti all’altezza degli alberi, o alla sporgenza dei propri rami, o al
deflusso delle acque piovane da un fondo all’altro. Tuttavia alla morte del pater/dominus, poteva nascere la situazione in cui vi
erano più domini di stessi beni. Secondo le fonti si poteva agire in due modi: o i coeredi istituivano il CONSORTIUM ERCTO NON
CITO, e dunque tutti erano comproprietari dei beni, o si dividevano l’eredità per QUOTE. Non si bene cosa accadesse se uno dei
coeredi morisse. Le XII tavole avrebbero conferito a ciascun coerede il diritto di richiedere la divisione del patrimonio ereditario
rimasto senza proprietario, istituendo un’apposita legis actio, chiamata PER IUDICIS ARBITRIVE POSTULATIONEM.

Al di là del consortium si deve tenere in mente che potevano nascere forme di comunione anche tra persone non coeredi, nel caso
in cui più persone comprino insieme una qualsiasi res mancipi. Probabilmente in questo caso nessuno aveva il potere di disporre da
solo del bene, ma dovevano disporre tutti insieme.

Veniamo ora descrivere le modalità di acquisto del dominium. Uno dei modi più immediati per l’acquisto dei beni mobili sarà stato
il saccheggio, mentre per i beni immobili l’assegnazione. Ogni pater familias poteva diventare proprietario dei terreni sottratti ai
nemici, o dell’ager publicus, attraverso un provvedimento dell’autorità di datio et adsignatio, nel caso in cui più patres
partecipavano alla fondazione di una colonia civium Romanorum, oppure essere beneficiari di un provvedimento di distribuzione
di terra a ciascuno vir, detta assegnazione viritiana, indipendentemente dal fatto che si volesse fondare una colonia. Un altro
metodo era l’occupatio res nullius. È il caso degli animali selvatici, oggetto di caccia e pesca, e di tutto ciò che venisse trovato sui
lidi del mare o trasportato dai fiumi. Potevano essere occupati anche beni immobili, è il caso della insula in flumine nata, ovvero di
un’isola nata dal deposito di detriti in mezzo al fiume. Questi tipi di acquisti, non essendovi un proprietario originario, sono detti
modi d’acquisto a titolo originario. Quando il bene viene, invece, comprato e trasferito da un soggetto ad un altro, si parla di modi
d’acquisto a titolo derivato. Nota bene: non si trasferiva il diritto di proprietà del bene, ma solo il bene stesso.

Distinguiamo ora i vari metodi di trasferimento per le res mancipi e le res nec mancipi.

MANCIPATIO: Nella sua accezione originaria era un negozio solenne con il quale si scambiavano i beni mancipi con il prezzo in
denaro contante. L’acquirente (mancipio accipiens), davanti all’alienante, e alla presenza di 5 testimoni cittadini romani puberi,
oltre ad un portatore di bilancia (libripens), diceva, tenendo il bene: “asserisco che questo bene è mio secondo il diritto dei Quiriti
e mi sia comprato con questo bronzo e questa bilancia di bronzo”. Quindi metteva la somma di bronzo pattuita sulla bilancia e si
portava via il bene. Poiché mancipatio deriva da manu e capere, ovvero prendere con la mano, è chiaro che si trattasse di uno
scambio bene-contanti di beni mobili. Tuttavia anche la terra era bene mancipi e dunque poteva essere trasferito attraverso
mancipatio. Probabilmente si sarà portato un oggetto simbolico del bene immobile (una zolla per la terra o un mattone per la casa).
Elemento caratterisco di questo metodo di trasferimento è la garanzia per l’evizione. Rifacendosi al diritto decemvirale del
godimento pacifico del bene, l’acquirente, nel caso compri, a sua insaputa, un bene da una persona che non ne è il proprietario,
non può essere accusato dal proprietario effettivo, che deve invece esperire la legis actio sacramenti in rem contro il falso
proprietario, costretto a ripagare il doppio della somma derivante dal bene venduto. La pesatura del bronzo durò fino a quando
Servio Tullio, secondo Timeo di Tauromenio, segnò il bronzo.

9
IN IURE CESSIO: Creato dalla giurisprudenza pontificale, la in iure cessio prevedeva che acquirente e alienante venivano dinanzi
all’autorità (“in iure”), portando il bene da trasferire o una parte simbolica. Mentre l’acquirente rivendicava il bene come suo
secondo il diritto dei Quiriti, l’alienante faceva un passo indietro. Il magistrato a questo punto assegnava il bene all’acquirente, in
quanto mancava la contravindicatio.

TRADITIO: E’ la semplice consegna materiale del bene, che è traslativa del bene se esso è una res non mancipi, quando sussista
nelle parti la volontà di cederlo, da un lato, e di acquistarlo dall’altro.

Infine vi è la USUCAPIONE, che abbiamo già descritto a pagina 16. L’usus non doveva essere necessariamente giustificato, né
occorreva che il soggetto fosse in buona fede, cioè che utilizzasse il bene nella convinzione di essere il proprietario, tuttavia doveva
essere, per essere valida, non violenta e non clandestina.

È necessario ora spiegare cosa siano le SERVITU’ PREDIALI. Esse sono l’iter e la via, per passare a piedi o col cavallo, l’actus, per
passare con gli armenti e l’aquaeductus per condurre l’acqua nella propria terra. Esse sono res mancipi e quindi venivano trasferite
con la mancipatio e la in iure cessio. Il proprietario delle servitù prediali, utilizzando la legis actio sacramenti in rem, poteva
affermare che la servitù prediale era sua nonostante passasse su terreno altrui. Questo non inficiava minimamente sul diritto di
proprietà. Essendo beni immobili essi potevano essere acquisiti tramite usucapione, dopo due anni di utilizzo.

Quando il mancipium viene usato per ottenere o uno scopo di conservazione di tutto o di parte del proprio patrimonio, oppure uno
scopo di garanzia, ci troviamo all’interno di un istituto chiamato fiducia. L’acquirente si impegna a rimancipare i beni dell’alienante
quando sarebbero cessate le ragione dell’alienazione o qualora il debito si fosse estinto. L’acquirente infatti era vincolato dalla
fides, e dunque da una norma etico-morale, nei confronti dell’alienante. Esistevano due tipi di fiducia:

1. FIDUCIA CUM AMICO: Ha una vasta gamma di impieghi, come per esempio quello di permettere all’acquirente di servirsi del
bene o anche del filius familias per un certo scopo e per un certo tempo; oppure per lasciare il bene in custodia o per evitare una
confisca.

2. FIDUCIA CUM CREDITORE: Serviva a trasferire al creditore una garanzia, costituita da un bene o anche dal filius; in caso di
inadempimento, il creditore garantito avrebbe potuto soddisfarsi nei modi che aveva concordato o, in caso di adempimento, in
base alla fides, avrebbe dovuto rimancipare il bene/filius all’alienante.

2. LE SUCCESSIONI

L’interesse generale del pater familias è che i suoi beni vadano ai figli che sono ancora sotto la patria potestas, tramite le
successioni. L’ordinamento, tramite la legge, deve garantire questo diritto del padre, nel caso in cui, ipoteticamente, egli fosse
morto in battaglia e non avrebbe potuto formulare un testamento. Dunque esistono due tipi di successione: la successione
legittima (o eredità intestata) e la successione testamentaria (o eredità testata). Se l’eredità testata è espressione diretta della
volontà del pater, è chiaro che vada data ad essa la priorità. Tuttavia, nella successione, non ci sono solamente gli interessi del
pater, ma anche quelli dei successori e quindi della famiglia, e poi anche della collettività dove tutto ciò avviene, in quanto dalla
morte di un singolo, si verrebbero a creare tante nuove famiglie, quanti sono i figli in potestate viventi. Dunque oltre a tutelare gli
interessi del pater, so dovranno anche tutelare i successori. Infatti il successore che ha diritto all’hereditas del pater, deve essere in
grado di rivendicare il patrimonio ereditario da chiunque lo possieda. E il mezzo di tutela è quello della legis actio sacramenti in
rem. È probabile che il successore si fosse presentato davanti al giudice con un simbolo del patrimonio ereditario, asserendolo
come suo. Se il convenuto lo avesse contraddetto, si celebrava il sacramentum, attraverso il quale si arrivava alla decisione finale
sull’appartenenza dei beni a seconda di chi avrebbe fornito le prove più convincenti. L’applicazione della legis actio sacramenti in
rem diede anche la possibilità di trasferire l’eredità ad altri attraverso la in iure cessio hereditatis: colui che doveva acquistare
l’eredità la rivendicava davanti al giudice, mentre l’erede, che avrebbe potuto comunque contraddirlo, taceva e si ritirava. Al
magistrato non restava altro che assegnare l’eredità all’acquirente. La in iure cessio portava a due possibili effetti: se il cedente era
un successore intestato ma era un filius in potestate, e non aveva ancora preso possesso dell’eredità, trasferiva all’altro il proprio
titolo per l’acquisto del patrimonio ereditario, dunque rinunciava all’intero patrimonio. Se, invece, il cedente aveva già preso
possesso dell’eredità, allora si trasferivano SOLO I BENI CORPORALI, mentre egli rimaneva vincolato ai crediti/debiti/obbligazioni
dovuti ad o da altre persone. Se invece l’erede era un filius in potestate, egli probabilmente non poteva disfarsi dell’eredità con la in
iure cessio, ma la giurisprudenza qui è divisa. Il patrimonio passava all’erede, o agli eredi, in tutto il suo complesso, ovvero anche se
ci fossero stati più eredi, tutti sarebbero diventati titolari dell’intero patrimonio. Non si potevano ereditare solo le obbligazioni
derivanti da delitto o da meri vincoli corporali, data la loro caratteristica specificatamente personale. Nel concetto di patrimonio
rientravano anche i sacra familiaria e quindi le spese per il culto degli dei. Non rientravano nel patrimonio ereditabile nemmeno i
vincoli di patronato e clientela, eccetto che ai figli del patrono, se ve ne erano. Gaio ci informa che se l’ereditando muore senza

10
lasciare testamento, e senza avere heredes sui (filii in potestate), allora l’eredità andava, secondo legge (= eredità legittima) o agli
adgnati proximi o, se non ve ne fossero stati, ai gentiles. Importante è anche il concetto di HEREDITAS IACENS. Infatti vi poteva
trascorrere un lasso di tempo tra la delazione dell’eredità e l’accettazione da parte dell’erede designato. In questo lasso di tempo
l’eredità rimane incustodita e rivendicabile da tutti, anche da estranei. Poteva capitare che un estraneo si impadronisse o dell’intera
eredità o di una parte di essa e solo col giungere dell’erede designato si passava alla rivendicazione dell’eredità dal terzo estraneo.
Ma se l’estraneo avesse goduto per un anno dell’eredità rimasta non rivendicata, allora la acquisiva per usucapione (usucapio pro
herede). Questo era un modo per dare un limite di riflessione all’erede indeciso se prendere l’eredità spettante gli, o rinunciarvi.

L’eredità intestata, abbiamo detto, passa all’adgnatus proximus SOLAMENTE nel caso in cui non vi siano sui heredes
dell’ereditando. In questa categoria rientrano sia i filii familias sia le filiae familias e dunque anche le eventuali mogli che, come
abbiamo detto, una volta entrate nel nuovo nucleo familiare, acquisiscono il titolo di filiae. Filii e filiae che possono essere o naturali
o arrogati o adottati. Abbiamo anche visto come, nel caso di più eredi, essi potevano formare un consortium ercto non cito, in cui
ognuno era possessore del patrimonio, ma doveva rispettare i limiti derivanti dal medesimo diritto che avevano gli altri eredi.
Tuttavia, con l’actio familiae erciscundae, gli eredi potevano anche decidere di sciogliere la comunione e dividersi l’eredità. Poteva
anche accadere che un erede fosse premorto all’ereditando, in quel caso se l’erede avesse avuto figli, la propria parte di eredità
sarebbe finita a loro. Questa divisione è detta “per stirpes” il passaggio dell’eredità spettante al premorto ai figli di esso è detta
rappresentazione, in quanto i figli “rappresentano” il padre. Se, però, l’ereditando fosse rimasto privo di sui heredes e in mancanza
di testamento, allora la legge chiama l’adgnatus proximus ad accettare l’eredità. È molto importante la distinzione tra tempo di
delazione dell’eredità e momento di accettazione. Infatti in questo lasso di tempo, che poteva durare anche un anno, l’adgnatus
proximus poteva morire, o potevano subentrarne altri, magari con la nascita o tramite adrogatio. Questo creava molte difficoltà
nello stabilire quale degli adgnati dell’ereditando fosse effettivamente quello più vicino, il proximus. Se vi erano più adgnati
proximi, non si stabiliva nessun consortium, ma l’eredità veniva divisa; e se uno degli adgnati fosse premorto, la parte di eredità che
gli spettava non veniva divisa tra i suoi figli, ma tra gli altri adgnati proximi. Dunque vi erano delle importanti differenze nei modi di
trasmissione ereditaria tra sui heredes e adgnati proximi. Questo sistema di divisione è detto “per capita”. In più, se l’adgnatus
proximus non accettava di esercitare il suo potere d’acquisto sull’eredità, e quindi non prendeva possesso della familia, era l’esclusa
la chiamata dell’adgnato di grado successivo. Ciò rischiava di allungare il tempo di giacenza dell’eredità e la possibilità della
usucapio pro herede.

Infine, se manca l’adgnatus proximus, la legge chiama i gentili. Essi succedevano solo se nessuno degli adgnati avesse acquistato il
patrimonio ereditario, e dunque i gentili potevano ottenerlo per usucapione pro herede. La norma poi non stabilisce nessuna
gerarchia tra i gentiles, e tutti dunque potevano rivendicare l’eredità con gli stessi diritti.

Analizziamo ora la successione testamentaria. Le fonti menzionano due tipi di testamento più antichi, ed uno più recente insieme
ad un atto chiamato mancipatio familiae.

TESTAMENTUM CALATIS COMITIIS: I calata comitia venivano convocati da un calator. Gaio afferma che questi tipi di comizi
venivano chiamati due volte all’anno. Dato che sappiamo che in questi comizi, ai quali partecipavano i comizi curiati e il collegio dei
pontefici, veniva anche formalizzata l’adrogatio (vedi pag. 11), si ritiene che il testamentum calatis comitiis prevedesse come
nucleo una votazione dei comizi curiati e che un soggetto sui iuris, designato dall’ereditando, diventasse suus heres dopo la sua
morte e, chiaramente, solo se fosse sopravissuto all’ereditando.

TESTAMENTUM IN PROCINTU: Si hanno poche notizie, ma si sa che veniva effettuato dinanzi all’esercito schierato, prima di
attaccare battaglia. L’esercito svolgeva il ruolo dei comizi curiati.

Questi due tipi di testamento erano previsti nell’epoca prima delle XII tavole, dopo di esse si svilupparono:

TESTAMENTUM PER AES ET LIBRAM: Si sviluppa dalla mancipatio familiae (vedi sotto). L’emptor in questo caso non acquistava più
nulla e il rito per aes et libram era divenuto una mera imitazione dell’atto antico della mancipatio. Il tratto fondamentale di questo
testamento era la nuncupatio, ovvero le parole che pronunciava il testatore, con le quali esprimeva le sue ultime volontà e
affermava di averle trascritte in delle tavole cerate che esibiva chiuse, per motivi di segretezza. Si crede che questo tipo di
testamento, idealizzato dalla mancipatio familiae, l’avrebbe totalmente sostituita tra il IV e la prima metà del III secolo a.C..

MANCIPATIO FAMILIAE: Si trattava di un atto che costituiva l’espediente adatto ad aggirare le difficoltà dei primi due testamenti
descritti. In pratica si faceva la mancipatio della familia (= patrimonio) a colui il quale si voleva far pervenire la parte più cospicua
dei beni ereditari, che veniva chiamato familiae emptor. L’emptor, dopo la morte dell’ereditando, avrebbe avuto il compito di
trasmettere l’eredità a delle date persone designate dall’ereditando. Era dunque un patto inter vivos che prevedeva, come termine
iniziale, la morte del mancipio dans.

11
La nascita di un testamento scritto poneva anche in essere la cosiddetta istituzione d’erede. Il testatore, infatti, designava nelle sue
tavole cerate chi avrebbe dovuto succedergli, fosse anche un estraneo o un adgnatus proximus. Ciò, dunque, segna un’evoluzione
delle successioni in quanto nel periodo precedente le XII tavole era permessa la successione solo ai sui heredes. Dopo le XII tavole,
dunque, più che guardare alla componente familiare, si iniziò a considerare di più la volontà del testatore.

CAPITOLO TERZO: LE OBBLIGAZIONI (Pagg.135-150)

1. LE OBBLIGAZIONI E LE GARANZIE

Tanto più è complesso il sistema sociale, tanto più sono soggetti a veri e propri vincoli i comportamenti di relazione tra i cittadini,
definiti obbligazioni. Queste possono nascere, e quindi creare un’aspettativa in un soggetto, indicato col nome creditore, ed un
comportamento obbligato nell’altro, definito debitore. L’ordinamento dunque tenderà a tutelare i creditori. La prima ipotesi che
risulta produttiva di un vincolo meritevole di tutela, è l’aiuto giuridico a chi avesse subìto un comportamento giudicato illecito. È
intuitivo che in un primo momento, magari nella flagranza di reato, il danneggiato potrebbe esercitare una vendetta privata,
consistente in un comportamento reattivo al danno (es. uno mi ferisce, io mi difendo). Tuttavia si poteva anche ricorrere al rex o al
magistrato, in caso di mancanza di flagranza. Col tempo sarà la Città ad occuparsi di svolgere il processo e di attribuire la pena
all’offensore. Pena che assumeva la forma di un comportamento obbligato da parte del danneggiante nei confronti del
danneggiato, sotto la minaccia dell’intervento coattivo della Città in caso di inadempimento. Dunque sarà la Città a decidere la
giusta pena per il danneggiante, che è salvo dalla vendetta privata del danneggiato (= ius puniendi). La Città deve anche intervenire
in aiuto a chi attende da altri un comportamento promesso. Dunque si vengono a creare, man mano, i diritti del creditore e i vincoli
del debitore. La più antica forma di vincolo obbligatorio è, sicuramente, la SPONSIO, che si può tradurre con “promessa”. Già prima
delle XII tavole questo vincolo era nell’uso giuridico e grava sulla persona da cui il creditore aspettava la prestazione oggetto della
promessa. La mancanza di questo comportamento necessitato (da oportere) portava prima all’asservimento corporale del
debitore, e poi all’esecuzione del suo patrimonio. Ciò rende ovvio che, nel suo lato attivo, il creditore possa richiedere, per
l’accertamento dell’esecuzione del comportamento necessitato, una garanzia. Questo spiega l’uso del mancipium dei figli, o dei
servi, o ancora dei beni. Nascono, sempre da questa necessità di garanzia, i vades, i praedes, i nexi e gli addicti.

Il NEXUM forse scomparve per primo. La soggezione del colpevole di un delitto alla pena corporale, inflittagli dal danneggiato,
sopravvisse per i soli reati flagranti. I vades presto vennero trasformati in VADIMONIUM, ovvero come garanti della presenza del
convenuto in giudizio in tribunale. I praedes invece cessarono la funzione che sostenevano nella legis actio sacramenti, e
continuarono ad essere utilizzati quali garanti degli appalti pubblici fino agli inizi dell’impero.

Le fonti che ci parlano dell’età arcaica ci parlano dei nexi, nel senso di persone soggette al nexum (= assoggettamento del proprio
corpo all’esecuzione della pena corporale). È certo che con la LEX POETELIA PAPIRIA DE NEXIS (326 o 313 a.C.), i nexi cessarono di
essere legati in quanto dovevano essere soggetti al credito i beni, e non il corpo del debitore. Se ne è dedotto che il nexum fosse un
atto librale, una garanzia per una prestazione, molto simile dunque al mancipio solo che, in caso di mancipatio, il figlio veniva
rimancipato al pater, mentre il nexus doveva essere sciolto, al termine della prestazione obbligata, attraverso la solutio per aes et
libram, che doveva essere eseguita di fronte a 5 testimoni e al libripens pronunciando frasi rituali.

I vades, invece, dovevano garantire la comparizione di un soggetto dinanzi all’organo giudicante. Non si sa bene il vincolo che legavi
i vades, probabilmente erano degli ostaggi.

I praedes, invece, intervenivano nella legis actio sacramenti in rem per garantire la restituzione a chi non avesse avuto il possesso
temporaneo della cosa controversa, ma che, avendo vinto la causa, aveva diritto ad averla assieme ai frutti nel frattempo prodotti.
Essi garantivano anche il pagamento della summa sacramenti, cioè di quella somma che era dovuta all’erario dalla parte che era
risultata soccombente.

La sponsio è presente nelle XII tavole in una forma già evoluta, e si ritiene atto capace di creare solo un vincolo di tipo sacrale. Si usa
la sponsio tanto per i rapporti internazionali, dove la componente religiosa svolge un ruolo primario e comune negli ordinamenti di
tutti i popoli, quanto per la promessa di matrimonio, sulla quale è invocata la protezione divina. La sponsio già al tempo del XII
tavole aveva natura giuridica ed imponeva di eseguire la prestazione promessa. Lo sponsor poteva senz’altro essere soggetto alla
manus iniectio, cioè all’esecuzione personale del creditore insoddisfatto; ma le XII tavole impedivano che esso procedesse alla
manus iniectio senza prima un accertamento giudiziale. Per lo schema verbale con cui si attua la sponsio (es.“ prometti che mi
saranno dati 100 sesterzi”), si può pensare che essa venisse stipulata anche per delle garanzie, o che comunque lo sponsor potesse
anche utilizzare un terzo nell’esecuzione della promessa (non dice infatti “prometti che TU MI DARAI...”). Questo apre due casi
particolari: quello della pluralità dei debitori (ADPROMISSIO) e quello della pluralità dei creditori (ADSTIPULATIO).

12
Una sponsio si esaurisce solo con un atto formale e contrario, chiamato acceptilatio, che prevedeva il debitore come interrogante e
il creditore come interrogato (e dunque a parti invertite rispetto alla sponsio). Il debitore chiedeva: “ Quello che io ti ho promesso
l’hai avuto (= accipio)?”. Se il creditore risponde “acceptum habeo”, la sponsio precedente si esaurisce con, sì, un’altra sponsio, ma
stavolta a carattere estintivo.

2. IL COMPORTAMENTO ILLECITO

Anche il comportamento considerato riprovevole genera obbligazioni, perché chi ha subìto un danno ingiusto, secondo
l’ordinamento, deve essere obbligatoriamente ripagato dal colpevole. Le fattispecie tipiche di illecito generanti obbligazioni,
riconosciute dall’ordinamento, comportano che, da un lato, il colpevole debba obbligatoriamente ripagare la pena assegnatagli per
il danno compiuto e, dall’altro, il danneggiato deve accontentarsi di quanto la pena stabilisce come risarcimento, dovendo
abbandonare qualsiasi forma di vendetta privata. Col tempo, soprattutto dopo le XII tavole, si è passati dalla consegna materiale
dell’offensore all’offeso, al risarcimento pecuniario accanto, però, alla constatazione che non tutti i danni possono essere risarciti
(es. omicidio). Il modello del risarcimento pecuniario era utilizzato nel condannare i delitti, anche non flagranti, o tali da non
lasciare tracce evidenti, come l’iniuria (comportamento lesivo del corpo e dell’onore, taglio degli alberi etc.). In questo caso ci
ritroviamo davanti una nuova forma di oportere. Il danneggiato, infatti, si aspetta una prestazione da colui che è ritenuto essere il
danneggiante. Con la legis actio sacramenti in personam il danneggiato richiedeva una somma pecuniaria al danneggiante che, se
non ottemperava, poteva essere soggetto alla manus iniectio. Resta tuttavia presente l’utilizzo della vendetta privata in casi come la
perduellio e il furtum. La vendetta privata, però, necessitava, per essere legittima, di un controllo pubblico che poteva anche essere
la constatazione dei vicini. La punizione corporale dell’offensore da parte dell’offeso era valida solo nel caso di delitti di tipo privato
(furto, omicidio...) colti in flagranza. In età arcaica il crimen era manifestus, ovvero flagrante, anche nel caso in cui, per esempio
dopo un furto, si rinveniva la refurtiva in casa dell’accusato con la perquisizione lance licioque. Essa prevedeva che l’accusante
entrasse in casa dell’accusato con un piatto ( =lance), probabilmente per poter guardare davanti, ma senza spaziare con lo sguardo
in ambienti privati e riservati come gli alloggi delle donne, e, alla lettera, col perizoma (= licio). Evidentemente l’accusante non
poteva indossare vesti perché vi era il rischio che nascondesse in esse degli oggetti per cui aveva fatto denuncia, facendo poi finta di
rinvenirle nella casa. Una volta accertato il furto, se il ladro era un uomo libero, egli poteva anche diventare servo dell’accusante
ma, se era schiavo, si procedeva alla fustigazione e alla messa a morte del reo, probabilmente gettandolo da una rupe.

Per coloro, invece, che subivano lesioni personali come la membris ruptio (= ferita ad un arto) e la ossis fractio (=frattura di un
osso), inizialmente, se colto il colpevole sul fatto, si passava all’utilizzo della legge del taglione (= talis, al colpevole veniva inflitto lo
stesso danno che aveva arrecato). Quando poi, però, si fece notare come la legge del taglione, in sé e per sé, non era un
risarcimento del tutto apprezzabile, esso venne sostituito dalla sanzione pecuniaria. La pena pecuniaria fu anche utilizzata per i
delitti come il furtum nec manifestum, l’iniuria senza lesioni, il taglio degli alberi altrui, il danneggiamento (rupitiae) e le
pauperies, ovvero i danni causati dagli animali, come il morso di un cane. Nel caso di iniuria, os fractum e arbores succisae la pena
consisteva in una somma fissa di danaro, stabilito dalle XII tavole: 25 assi per iniuria e taglio di alberi altrui, 300 per la frattura di un
osso di un uomo libero, 150 per quella di un servo. Nel caso del furto non flagrante colui che era stato ritenuto colpevole pagava il
doppio del valore dei beni rubati. Infine, in caso di pauperies, il padrone dell’animale era costretto a dare, attraverso la noxae datio
(vedi pag. 9), l’animale al danneggiante. Stessa cosa poteva avvenire nel caso che il danno venisse attribuito a servi o filii (rupitiae).

3. LE IPOTESI DI PRESTITO

Ci si è chiesto se il prestito formale, o di denaro, fosse già in uso nell’età arcaica e quali rapporti si sarebbero venuti a creare tra chi
presta e chi riceve il prestito. Sembra lecito ritenere che già i prudentes, e poi le XII tavole, avessero tentato di risolvere le
situazione di non restituzione del prestito. Infatti, pare che chi si fosse dimostrato inadempiente, sarebbe stato punito come un
ladro. Il prestito poteva d’essere o d’uso o di consumo. In caso di prestito d’uso, definito comodato, il comodante non fa pagare
nessuno somma o pigione al comodato (es. Io presto un libro a Tizio senza farglielo pagare). In caso di prestito di consumo, invece,
colui che presta o soldi o beni fungibili si aspetta che colui a cui ha prestato gli ridia la somma dopo un lasso di tempo convenuto
(es. Io do a Tizio 10.000 euro per aprire un’attività, e ci accordiamo che lui mi ridia i 10.000 tra 3 mesi). Se, nel caso di consumo,
colui che ha beneficiato del prestito poi non dia indietro quanto dovuto, viene considerato come un ladro. Dunque il prestito creava
effettivamente, fin dall’età arcaica, forti vincoli giuridici. La ragione giuridica dell’obbligo di restituzione era insita nel fatto di stesso
di aver ricevuto, per cui restituire è la conseguenza materiale dell’essere stata data la res. La giurisprudenza si avvide che
l’eventuale conservazione del bene da parte di chi lo aveva ricevuto non per farlo proprio, ma per servirsene fino ad un certo
tempo, diventava illegittima arrivati a quel certo tempo. E perciò ne è stato dedotto che a carico di colui che aveva avuto il prestito
sorgeva un dare oportere a contenuto restitutorio.

CAPITOLO QUARTO: IL PROCESSO ARCAICO (Pagg. 151-168)

13
1. LE AZIONI: IL PROCESSO ARCAICO

La prima azione processuale che va analizzata è, sicuramente, quella del SACRAMENTUM. Il nome già fa intuire come ci si impegni
nella sfera sacra, assumendosi tutte le conseguenze che ne possono derivare in caso di perdita. L’ attore, cioè colui che agisce in
giudizio perché vanta un diritto, o in rem (= reale) o in personam (= di obbligazione), nei confronti di chi gliene impedisce il pacifico
godimento o addirittura glielo nega. L’attore allora afferma solennemente che è titolare di quel certo diritto. La pena per chi avesse
perso la legis actio sacramenti era una multa da pagare all’erario, la multa sacramenti. Il convenuto, cioè colui che è stato chiamato
in giudizio, contraddice quanto afferma l’attore. “Contraddire” per i latini probabilmente voleva dire non “negare”, ma “affermare
una cosa contraria” (es. Io: “Dico che la sedia è mia”. Tizio: “Dico che la sedia è mia”). Il sacramentum è stato per molti anni l’unico
mezzo di tutela sia per i diritti reali sia per le obbligazioni. Una chiarificazione va fatta sulle servitù prediali. Infatti, per servitù
prediali non si intende il diritto astratto di passare col carro/gregge sulla tenuta altrui, ma l’oggetto vero e proprio (la strada,
l’acquedotto). È evidente che chi avrà nel dibattito un ruolo passivo, e farà esporre motivi e cause del diritto dell’altro sulla
proprietà senza intervenire, sarà quasi certamente lo sconfitto. Dunque bisogna essere sempre attivi in qualsiasi momento del
processo, e controbattere ad ogni esternazione dell’avversario.

Diverso è il caso dei diritti di obbligazione, perché le fonti sono lacunose riguardo al sacramentum in personam. Si può ritenere che
in questo caso il creditore avanzasse la sua pretesa ed il debitore la negasse. La tutela delle obbligazioni dovrebbe essere nata dopo
quella dei diritti reali. Ulteriormente successivo sarebbe stato il ricorso alla tutela giudiziaria per le obbligazioni nate da atto illecito.
Altro fatto peculiare è dove questo dibattito del sacramentum avvenga. Proprio per la sua portata religiosa, si crede che il
sacramentum, con tutti i suoi passaggi (conserere manus, individuazione dell’oggetto conteso, verifica dei sacramenta e sentenza)
si effettuasse davanti ad un’autorità, né re né delegato, in grado di prendere atto della perdita della promessa e di pronunciare
solennemente l’atto conclusivo. Ma questo non ricorrere ad autorità specifica, poneva il problema dell’autorevolezza della
sentenza, in quanto non si vedeva questa vincolatività alla sentenza del perdente. Si crede quindi che il vincitore venisse solo
legittimato a prendere ciò che era stato attribuito alla sua proprietà, bene o persona che sia. Infine rimane da esaminare ci dava la
qualificazione giuridica ai fatti dedotti in giudizio: pare che ciò fosse appannaggio dei collegi pontificali e sacerdotali. E che
inizialmente spettasse solo ai pontefici l’attività interpretativa riferita all’utilizzazione dei mezzi giuridici di tutela.

Fermo restando che non conosciamo i luoghi dove si svolgesse il processo privato in età regia, Gaio ci informa che in età arcaica si
utilizzassero nei processi le LEGIS ACTIONES. Il termine significherebbe o che erano state introdotte delle leggi quando non esisteva
ancora il diritto, o che, essendo un adattamento alle parole della legge, esse erano immutabili e andavano osservate come le leggi
stesse.

L’attore si avvaleva dello ius vocatio, ossia l’intimazione al convenuto di presentarsi “in iure”. Le XII tavole avevano statuito il
dovere del citato, addirittura consentendo all’attore l’impiego della forza per portarlo davanti all’autorità. Poi si procedeva al
dibattimento formale in iure e poi, inizialmente, l’autorità effettuava la sentenza, ma in seguito diventerà sempre più d’uso il
rinviare a giudizio, stavolta davanti ad un organo di valutazione, che poteva essere un arbitro o un giudice, o addirittura un collegio
di decemviri o centumviri. Quando si utilizzava il rinvio a giudizio l’attore e il convenuto chiedevano al pubblico che avesse assistito
alla controversia di essere testimoni di quello che avevano visto e udito (= litem contestari).

2. LE LEGIS ACTIONES

Esistono 5 tipi di legis actiones:

I. LEGIS ACTIO SACRAMENTI: Nascono dal sacramentum, ovvero da una scommessa di una somma di denaro (multa o summa
sacramenti) che il soccombente avrebbe dovuto pagare all’erario pubblico o, a detta di Terenzio Varrone, nell’erario del tempio di
Saturno. Le XII tavole avevano fissato la multa in 50 o in 500 assi, a seconda che il valore della cosa controversa fosse inferiore a
1.000 assi, mentre quando si discuteva intorno la libertà di una persona, e vi era un terzo che ne rivendicava la libertà contro colui
che ne pretendeva la servitù (adsertor libertatis), il sacramentum era di 50 assi. Per la legis actio sacramenti in personam, come
abbiamo visto, l’attore affermava l’esistenza di un’obbligazione a carico del convenuto, mentre quest’ultimo negava. Si sa, da Gaio,
che le due parti si sarebbero riviste dopo 30 giorni, come stabilito da una lex Pinaria, prima della quale si procedeva direttamente,
davanti ad un giudice, ossia di un privato, davanti al quale si sarebbe svolta la seconda fase del processo. Nel caso della legis actio
sacramenti in rem, invece, se si trattava di un bene mobile esso veniva portato davanti al pretore e ognuna delle due parti
rivendicava il diritto sul bene. Ciascuno afferrava la cosa e, toccandola simbolicamente con la festuca, affermava solennemente che
essa le apparteneva in conformità al diritto. Poi il primo che aveva rivendicato chiedeva al secondo di giustificare quella sua pretesa
e, ottenuta la risposta, faceva altrettanto. A quel punto di pretore interrompeva la lite e affidava il bene a chi dei due fornisse dei
garanti per l’eventuale restituzione del bene con i suoi frutti eventualmente maturati, e altri garanti per il pagamento della summa
sacramenti.

14
Se, invece, si trattava di un bene immobile, si portava una parte simbolica della res e su di questo si realizzavano le vindicationes.
Una volta impostata la causa, bisognava giudicare quale sacramentum fosse iustum, cioò conforme al diritto e quale iniustum.

II. LEGIS ACTIO PER IUDICIS ARBITRIVE POSTULATIONE: Essa si prevista dalle XII tavole in casi di crediti nascenti per stipulatio o per
divisione di eredità tra più coeredi, mentre un posteriore Lex Licinnia l’avrebbe imposta per la divisione delle altre cose comuni. Il
processo nasceva su un’affermazione formale dell’attore, che vantava in iure un credito nato da stipulatio. Tale affermazione era
contraddetta dal convenuto. Contro questa negazione, l’attore chiedeva formalmente al pretore l’assegnazione di un giudice o, se il
giudizio era divisorio, come in caso di eredità, di un arbitro. La richiesta del giudice/arbitro, da cui discende il nome stesso della
legis actio, doveva essere un suo elemento caratteristico ed esclusivo. Se l’oggetto della lite non è determinato, magari perché non
esiste ancora in natura, occorre tutelare il creditore. Per questo si doveva assegnare un giudice cui affidare l’onere di valutare la
quantificazione di una pretesa che ha ragione di esistere, in quanto oggetto di un contratto, ma pur sempre di pretesa su un
oggetto ancora indeterminato/inesistente e perciò ancora privo di valore conosciuto. Questa quantificazione è lasciata alla cognitio
del giudice/arbitro.

III. LEGIS ACTIO PER CONDICTIONEM: E’ caratterizzata dall’invito formale a presentarsi davanti al pretore (condicio= condicere=
dare appuntamento). L’attore voleva far valere un credito e, di fronte alla negazione del convenuto, lo invitava a ripresentarsi
davanti al pretore dopo 30 giorni. Essa è stata introdotta due o tre secoli dopo le XII tavole, da due leggi: la lex Silia per i crediti di
una somma determinata di denaro e la lex Calpurnia per quelli di ogni altra quantità determinata di cose fungibili.

IV. LEGIS ACTIO PER MANUS INIECTIONEM: Deriva dalla manus iniectio e prevedeva che dopo 30 giorni dalla condanna, in caso di
inadempimento il creditore si ripresentasse col debitore in iure e, posta la mano su qualunque parte del corpo del debitore,
aspettava che intervenisse un vindex a contraddirlo o a liberare il debitore dalla presa del creditore. Dunque il debitore non può
difendersi da solo. La presa del creditore ha una valenza simbolica, ed esprime la soggezione del debitore nei suoi confronti.
Soggezione che poteva pure arrivare alla morte, salvo esazione del debito. I debitori venivano portati a casa del creditore e
venivano tenuti legati e veninano nutriti per 60 giorni al massimo. Il vindex del resto deve ben valutare ciò che fa in quanto, se
soccombente, dovrebbe pagare una multa pari al doppio del valore del debito dovuto al creditore (litiscrescenza). Dunque per il
creditore il fatto che ci fosse un vindex non era uno svantaggio, ma un sostanziale vantaggio. Se non si fosse presentato nessun
vindex, allora l’autorità pronunciava in iure l’addictio, cioè l’aggiudicazione del debitore al creditore. Il debitore, dunque, sebbene
non perdesse né lo status libertatis né la civitatis, la sua libertà era fortemente limitata, in quanto “in vincoli”. A quel punto il
creditore, ogni volta che venisse il giorno delle nundiniae (mercati che si svolgono ogni 9 giorni), andava in piazza a tentare di
vendere il suo debitore al prezzo per cui era stato condannato. I parenti, allora, potevano anche riscattarlo. Ma passato il
trinundium, ovvero tre mercati nundinii, il creditore può o uccidere o vendere il debitore trans Tiberim peregre. Si pensa che, in
origine, il debitore (addictus) potesse diventare un servo del creditore. Procedendo col tempo e con la figura del vindex, è chiara la
volontà dell’ordinamento di voler considerare preferibile più il pagamento della pena che non già la persecuzione del debitore. E
dopotutto la manus iniectio, in un modo o nell’altro, si concludeva con il pagamento di una somma di denaro.

Vi sono poi dei tipi di manus iniectio, definita pura, che vengono imposti su soggetti non giudicati: manus iniectio dello sponsor che
paga il debito del debitore ma che poi non viene da esso ripagato dopo 6 mesi, manus iniectio contro il creditore che avesse chiesto
allo sponsor più del debito convenuto. In questi casi il convenuto può difendersi da solo.

V. LEGIS ACTIO PER PIGNORIS CAPIONEM: Si è discusso sull’effettivo valore di tale atto come legis actio, poiché è sì posto in essere
con quelle determinate e solenni parole tipiche di essa, ma si poteva esperire anche non al cospetto un magistrato, in assenza
dell’avversario e addirittura nei giorni nefasti, quando le legis actiones non potevano essere pronunciate. Questo tipo di atto era
utilizzato per la riscossione di un debito da parte dei soldati che lo avevano contratto perché avevano pagato l’allestimento di
propria tasca, invece che a carico della Città; oppure per debiti che si erano contratti per comprare quanto di necessario per
compiere sacrifici agli dei. Si suppone che il creditore si soddisfacesse sul pegno, o trattenendolo per sé, o vendendolo per
soddisfarsi sul ricavato.

LE PRIME TRE SONO CONSIDERATE AZIONI DICHIARATIVE O DI ACCERTAMENTO, LE ULTIME DUE AZIONI ESECUTIVE.

II.L’ETA’ DELL’ESPANSIONE DEL MEDITERRANEO

TITOLO PRIMO: L’EVOLUZIONE DELLO IUS CIVILE

CAPITOLO PRIMO: I MEZZI DI TUTELA: IL PRETORE GIUSDICENTE, L’EDITTO E LE FORMULE (Pag. 171-242)

1. L’EVOLUZIONE DEL SISTEMA DELLE LEGIS ACTIONES

15
Nel 242 a.C. viene creato un nuovo pretore: il praetor peregrinus, che si occupava delle liti fra peregrini o fra cittadini e peregrini.

Il processo si baserà sulle leges actiones a pagg.29, 30, 31, 32 finchè non verranno soppiantate dal processo formulare.

Nel contesto processuale si sviluppò la condictio, per la restituzione di certa credita pecunia, esperibile con la legis actio
sacramenti in personam oppure, se derivante da sponsio, con la legis actio per iudicis postulationem. La pratica venne estesa
anche per i crediti per omnis certa res. L’evoluzione consistette nel liberarsi nel vincolo del sacramentum e della multa sacramenti
in caso di soccombenza nel caso di legis actio per iudicis postulationem. Altro vantaggio fu quello della astrattezza, ovvero la
possibilità che l’attore non indicasse la causa del debito, in modo tale che non potesse sbagliarsi e pagarne eventuali conseguenze.
L’attore, chiamava con la in ius vocatio il convenuto che poteva o confermare il debito, e allora scattava la sentenza di condanna,
oppure poteva contestare e aprire una nuova fase del processo. Attore e convenuto si davano appuntamento INDEROGABILE a 30
giorni dopo. Probabilmente era il magistrato stesso, e non le parti, a scegliere il giudice del processo che avrebbe dovuto decidere
quale dei due schieramenti fosse prevalso.

Per quanto riguardava i crediti incerti essi trovarono spazi e tutela nei giudizi con un modus agendi definito agere per sponsionem.
L’attore si faceva promettere, con una sponsio, una somma di denaro: la summa sponsionis, che poteva essere poenalis, ovvero
doveva essere pagata dal soccombente, che poteva essere l’attore stesso, oppure preiudicialis, riferita solo al convenuto. Il
processo, che si basava su una legis actio sacramenti in rem, si basava sulla richiesta dell’attore di compiere una sponsio con il
convenuto (obbligato a “spondere”, pena una probabile situazione soggettiva sfavorevole come nel caso di una mancata
controvindicatio). Il convenuto poi doveva rilasciare anche la satisdatio. A quel punto si adiva al giudice che doveva decidere la
controversia una volta accertato che essa si fosse creata correttamente.

2. CRISI DELLE LEGIS ACTIONES

L’agere per sponsionem fu l’ultimo tentativo di tenere un vita un sistema processuale ormai morente, che in questa nuova fase fu
sostituito dal processo formulare, ben più versatile e completo, nel di capace di integrare casi che era difficile far rientrare in quelli
esperibili attraverso legis actio. Determinante fu il lavoro svolto sia dal praetor peregrinus sia dal praetor urbanus, che grazie al suo
imperium, riuscì a creare, senza una base legislativa, un nuovo tipo di processo. Esso non si basava più sullo ius Quiritum o su parte
dello ius civile frutto della giurisprudenza pontificale e laica, ma bensì su motivi commerciali, su consuetudini etico-sociali e sulla
fides. Grazie al processo si venne affiancando allo ius civile anche un nuovo ius honorarium, basato sull’imperium dei magistrati. La
convivenza tra legis actio e processo formulare durò poco più di un secolo, dopodiché prevalse quest’ultimo. Ciò fu fatto, tra la
prima metà del II sec. a.C. e il 130 a.C. con la lex Aebutia, che sanciva la soppressione della legis actio per condictionem,
sostituendola con la condictio certae pecunia e la condictio certae rei esperibili con processo formulare. La soppressione definitiva
delle legis actiones si ebbe solamente nel 17 a.C. con la lex Iulia iudiciorum privatorum, che mantenne in vita solamente la legis
actio damni infecti e il tribunale dei centumviri, decisivo per le rivendicazioni di eredità. Si istituirono due iudicia: gli iudicia
legitima e gli iudicia imperio continentia. Per i primi dovevano realizzarsi tre fattori:

A. CITTADINANZA ROMANA DI ENTRAMBE LE PARTI

B. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO A ROMA OD ENTRO UN MIGLIO AL DI FUORI DEL SUO POMERIUM

C. DEFERIMENTO DEL COMPITO DI GIUDICARE AD UN SOLO GIUDICE DI CITTADINANZA ROMANA

In tutti gli altri casi si aveva il secondo tipo di iudicium. La differenza era nell’imperium dell’autorità giudiziaria: il giudice nel primo e
il pretore nel secondo. Tuttavia la prassi consolidò la tendenza a richiedere che le situazione giuridiche soggettive civili venissero
fatto valere con iudicia imperio continentia mentre le situazioni giuridiche soggettive pretorie con lo iudicia legitima.

La formula si caratterizza come un periodo ipotetico nella cui protasi, introdotta da se e seguita dall’apodosi, si poneva il fatto o il
diritto vantato e nell’apodosi le conseguenze se esso non venisse fatto valere nel caso di accertamento positivo. Alla parte in iure,
davanti al magistrato (spesso il pretore), seguiva quella apud iudicem, che si basava sulla formula e sulla sentenza del magistrato. Il
giudice veniva scelto dalle parti. Le formule non erano legate a vincoli di forma come le legis actiones, ma erano libere, e non
soggette dunque a schemi pre-ordinati. L’utilizzo delle formule crebbe a dismisura per ogni tipo di caso degno di tutela possibile,
annualmente aggiornati dall’editto del pretore. Le formule col tempo dovettero garantire tutela per tutte le condizioni già tutelate
dalle legis actiones e dunque ne dovettero assimilare certi “punti saliente” dal quale era impossibile non prendere spunto. Il
giudicante ebbe maggiori poteri in quanto era lui a decidere se concedere o meno la formula per permettere la fase apud iudicem,
le parti potevano scegliere il giudice e decidere se continuare il giudizio con la litis contestatio. Inizialmente, prima della lex Iulia
iudiciorum privatorum, il processo formulare si utilizzava solo quando non era possibile la legis actio, poi chiaramente una volta
soppresse le legis actiones il processo formulare fu sempre utilizzato a parte nei due casi di cui sopra.
16
3. I SOGGETTI PROCESSUALI E LE FORMULE

Vi erano 4 figure che avevano lo ius edicendi (=diritto a comporre editti): pretore urbano, pretore peregrino, edile curule e
governatore provinciale. È chiaro che i primi due fossero i più importanti in quanto il primo era competente per le controversie tra
cittadini romani, il secondo tra peregrini o romano vs peregrino. Rivolgersi al pretore sbagliato comportava la nullità della litis
contestatio. Oltre alla cittadinanza, anche il territorio valeva come limite per la iurisdictio del pretore, infatti, qualora il convenuto
risiedesse in un municipium o in una colonia, ad esercitare la iurisdictio era il magistrato locale. Nelle province era il governatore,
una specie di pretore “aggiunto”. Poi col tempo nacquero le figure del proconsules, nelle province populi Romani, del legatus
Augusti propraetor o procurator, nella maggioranza delle province imperiali, e i praefecti in Egitto. L’actio formulare derivava
dalle situazioni contemplate nell’editto. Dunque le azioni si ritrovavano tutte nei vari editti emanati e dunque erano tipiche, poiché
corrispondevano ciascuno ad ogni situazione giuridica soggettiva prevista dallo ius civile/gentium/honorarium o creata da
senatoconsulti e costituzioni imperiali. L’editto poteva essere modificato con l’inserimento di una tutela per una situazione giuridica
soggettiva prima non prevista.

4. LE PARTI DELLA FORMULA

A. DEMONSTRATIO: Ragione su cui si basa la pretesa (=intentio). Necessaria se essa fosse generica.

B. INTENTIO: Pretesa dell’attore espressa attraverso la formula ipotetica “se risulta che...”.

C. ADIUDICATIO: Formula che conferiva al giudice il potere di attribuire a ciascun dividente quanto era proporzionato alla sua
misura di partecipazione alla res communis.

D. CONDEMNATIO: Assegnava al giudice il potere di condannare o di assolvere.

Nelle formule non ci sono quasi tutte queste parti, ma le più comuni sono l’intentio e la condemnatio.

Da Gaio gli studiosi fanno derivare due tipi di intentio: certa ed incerta. Certa quando la pretesa è determinata, incerta quando non
lo è. La prima veniva usata per la tutela di crediti certa pecunia o certa res, oppure per la tutela della proprietà nella rei vindicatio.
La seconda, dando luogo ad una formula incerta necessitava, per forza di cose, della demonstratio. Una variante di questa formula
si aveva per quei rapporti che si basavano sulla fides e che davano vita agli iudicia bonae fidei.

Per quanto riguarda la condemnatio va detto che il processo formulare si libera dai vincoli della doppia verifica delle due
affermazioni contrapposte, ascoltando solamente quella dell’attore che dovrà essere verificata. Dalla verifica si comprenderà se il
convenuto verrà condannato o non condannato (N.B. non assolto!). Gaio afferma che: “il giudice non condanna colui con cui si è
agito alla cosa stessa, come una volta soleva accadere, ma dato un valore al bene lo condanna alla somma ”. La prestazione in
denaro venne ritenuta più facilmente eseguibile ed evitava sempre più la manus iniectio. La condemnatio indicava la somma esatta
da pagare quando l’intentio indicava un oportere. Altrimenti indicava il criterio per determinare la somma incerta. Il valore
comunque era sempre quello di mercato. Raramente si dava all’oggetto controverso il valore che richiedeva l’attore. In più va
ricordato che nei casi di actio iudicati (actio depensi, actio legis Aquiliae e actio ex testamento) se si contestava il valore della lite
cresceva al doppio (lis inficiando crescit in duplum). In tutte quelle azioni in cui il valore della somma da pagare era incerto (rottura
di un braccio, lesioni morali etc.) era il giudice a dovere stabilire una somma “bona et equa” ed infatti queste azioni erano dette in
bonum et aequum conceptae. Spesso era il pretore stesso a stabilire la sanzione massima che poteva essere inflitta dal giudice
(taxatio). La taxatio era sempre presente nelle actio de peculio, perché chiaramente la sanzione non poteva superare il valore del
peculio. Si poteva evitare il pagamento in due modi: o con la noxae datio o con la deductio (quest’ultima nei casi di azioni esperite
da o contro il honorum emptor, ovvero colui che aveva comprato in blocco un patrimonio). Esistevano anche formule con sola
intentio (ex. Preiudiciales formulae) o con sola demonstratio (ex. Actio iniuriarum).

Vi sono poi due parti accidentali delle formule: le praescriptiones e le exceptiones. Si tratta di contestazioni che potevano essere
sollevate dal convenuto di vario stampo, da motivi di forma a motivi etico-sociali, che, se veniva accertata la veridicità, impedivano
che l’azione proseguisse, in quanto il giudice si avvaleva del “denegare actionem”. Tuttavia le praescriptiones, col tempo, vennero
eliminate e sostituite dalle exceptiones. L’exceptio si veniva a trovare tra la intentio e la condemnatio e poteva essere:

A. Exceptio doli: Quando l’attore aveva architettato scientemente un piano per ingannare il convenuto. Esso tradiva la bona fides
ed annullava l’azione.

17
B. Exceptio in factum: Quando il convenuto sosteneva che la condanna sarebbe stata ingiusta se basata solamente sulla pretesa
dell’attore. Se il pretore condivideva l’assunto del convenuto autorizzava l’exceptio nella formula e dunque la condanna si basava
sulla dimostrata verità dell’intentio e la dimostrata falsità dell’exceptio.

Le exceptiones poi si differenziavano tra proromptoriae e dilatoriae. Per le prime, se verificate, l’azione veniva annullata e non
poteva più essere richiesta, le seconde rimandavano il tempo dell’azione. All’exceptio, qualora l’attore si ritenesse leso da essa,
poteva seguire la replicatio dell’attore nei confronti del convenuto, che a sua volta aveva a disposizione la duplicatio, ovvero
duplicava, ribadiva, l’exceptio.

All’exceptio, ovvero alle praescriptio pro reo, si affiancavano le praescriptio pro actore, che servivano, sostanzialmente, a
specificare la causa petendi. Dunque questa praescriptio completava la demonstratio.

Col passare del tempo e l’evoluzione del processo si ebbe l’introduzione della restituito. Il convenuto, qualora non fosse stato
impossibilitato non per sua volontà, avrebbe dovuto restituire il bene conteso all’attore vincente. Se si constatava che il bene o non
era più a disposizione del convenuto o che quest’ultimo lo avesse ancora in possesso ma non voglia restituirlo, allora nel primo caso
si ricorre al pagamento della somma “di mercato” del bene, nel secondo caso il giudice concede all’attore la possibilità di stabilire
lui il prezzo. Proprio per il fatto che l’attore di norma chiedeva una cifra ben superiore al prezzo di mercato la restitutio serviva
acciocché l’interesse del convenuto fosse sempre quello di restituire il bene.

Venne poi creata, con la Actio Publiciana, un’actio ficticia, ovvero un’azione che si basava su un fatto non realmente avvenuto, ma
dato come tale in maniera fittizia, o viceversa.

Vengono poi create le c.d. formule con trasposizione di soggetto. Per esempio nel caso di un bonorum emptor che, una volta
comprato il patrimonio, agisce per riscuotere i debiti dell’ormai ex creditore. Rientrano in questo tipo di formule anche i tutori ed i
curatori di donne, infanti e furiosi, che non possono agire se non attraverso queste figure.

Altra figura di formule sono le actiones adiecticiae qualitatis, ovvero quelle azioni che derivavano da fatto che un soggetto,
generalmente un pater familias, mettesse a direzione di una sua azienda il filius o un servus. Esse sono 5:

A. Actio exercitoria: in caso che si trattasse di una preposizione in un’impresa marittima

B. Actio institoria: qualora si trattasse di una di una preposizione in un’impresa commerciale terrestre.

C. Actio quod iussu: a seguito dell’esecuzione di un carico appositamente ordinato.

D. Actio de peculio: a seguito dell’affidamento di un cespite patrimoniale ad un sottoposto per l’esercizio di un’attività economica.

E. Actio tributoria: a seguito di accordi presi su divisione di merci.

Di minore rilevanza erano le actiones ad exemplum, che venivano esperite per casi diversi da quelli che la fonte civile sveva
concepito. Per esempio, la lex Aquiliae prevede il risarcimento per danni “corpore corpori”, ma se io istigo il servo di un altro a
salire su un albero e lui cade e muore e quindi non sono stato io direttamente a colpirlo, verrà esperita dal dominus del servo l’ actio
ad exemplum legis Aquiliae.

5. COME CLASSIFICARE LE AZIONI

La prima distinzione va fatta tra actiones in personam e actiones in rem. È l’intentio a dimostrare se l’azione è in personam o in
rem.

18
Altra importante distinzione è tra actiones civiles e actiones honorariae. Queste ultime potevano essere o in factum conceptae o
in ius conceptae e si distinguevano dalle civili perché era possibile comprendere o una fictio o una trasposizione di soggetto.
Tuttavia Papiniano ci parla anche di una azione civile in factum.

Le azioni potevano essere, a seconda del fine che si perseguisse, reipersecutorie, penali e miste. Le prime quando si perseguiva la
res, la seconda quando si voleva che si irrogasse una pena, la terza quando si mirava all’uno e all’altro scopo. Se le reipersecutorie
stabilivano la certa res o la certa pecunia che il convenuto doveva al debitore, vi erano azione per cui ciò non accadeva ed era tutto
demandato alla discrezionalità del giudice secondo la regola del quidquid paret dare facere oportere. Il giudice si avvaleva poi di
formule bonum et aequum conceptae nelle quali determinava la condanna secondo quanto gli sembrava giusto e opportuno.

6. LA PROCEDURA DAVANTI AL MAGISTRATO

Necessario per l’avvio della litis contestatio era l’apparizione del convenuto davanti al giudice (in iure). L’attore poteva, con una in
ius vocatio formale, chiamare a giudizio il convenuto in qualunque momento. Se il convenuto quello stesso giorno non si fosse
potuto presentare davanti al giudice mandava un vindex che garantiva la presenza del convenuto in iure per il giorno e il luogo
prescelto dall’attore e dal magistrato. Se il convenuto rendeva impossibile volontariamente l’avvio della litis contestatio “fuggendo”
dalla vocatio o non rispettando la decisione presa quando aveva inviato il vindex al suo posto, egli allora poteva incorrere o nella
missio in possessionem dei beni del convenuto a vantaggio dell’attore che, con la bonorum venditio, vendeva i beni del convenuto
fino a coprire la somma prevista nella condemnatio del magistrato una volta accertata la volontaria assenza del convenuto. Altro
strumento per costringere le parti a presentarsi era il vadimonium ovvero una specie di multa, il cui valore veniva deciso dalle parti
stesse, che sarebbe stata inflitta a colui che non si fosse presentato nel giorno e nel luogo concordati. Se inizialmente il convenuto
non si presentava, l’attore aveva diritto al vadimonium, se l’assenza perseverava si arriva pure alla missio in possessionem o alla
restituzione dell’oggetto della controversia.

Se invece si costituivano entrambe le parti si dava avvio al processo, l’attore precisava l’editio actionis enunciando la pretesa
finalizzata alla confezione dell’intentio, e rivolgeva al magistrato la postulatio (=postulare=svolgere l’attività di causa) cationi. Tale
postulatio era vietata ai sordi e ai minori di 17 anni ai quali veniva assegnato un advocatus.

Si aprivano due possibilità per il convenuto: riconoscere infondata o fondata l’azione. Nel primo caso si potevano aprire due strade:
che il convenuto contestasse l’accusa dell’attore e sapesse come redigere la formula in modo tale che divenisse manifesta
l’infondatezza della richiesta dell’attore OPPURE dare avvio alle c.d. mutuae actiones, cioè quelle azioni in cui da una richiesta
dell’attore il convenuto giudicasse venisse meno il suo diritto di trattenere ciò che gli spettasse.

Se egli riteneva, invece, fondata l’azione eseguiva la c.d. confessio in iure, che sostanzialmente lo costringeva a dare quanto
dovuto, se l’azione era certa res/pecunia, oppure quanto stabilito nella litis aestimatio, se si agisce in azioni “incertae”. Lo stesso
comportamento passivo del convenuto era considerato negativamente e portava senza dubbio a situazione svantaggiose per il
convenuto. Il pretore allora utilizzava il mezzo giuridico dello iusiurandum: il convenuto o giurava di non dovere quella somma
all’attore oppure pagava. Se non giurava si esperivano la ductio/missio in possessionem/honorum venditio. Se giurava non poteva
essere più perseguito. Inoltre il convenuto poteva riferire il giuramento all’attore riguardo all’esistenza del dare oportere. Se
l’attore giurava il processo andava avanti, se non giurava perdeva la lite e non poteva più agire.

L’aspetto fondamentale del giudizio era, però, certamente la redazione della formula e la consegna al giudice. Era innanzitutto il
magistrato a valutare se l’accusa o la difesa fossero meritevoli di una formula e quindi si potesse giungere regolarmente alla datio
iudicii. Nel caso si agisse contro soggetti passivi (filii, servi...) il giudice doveva utilizzare l’interrogatio in iure per constatare se la
posizione passiva del convenuto fosse ancora vigente. Il giudice o i recuperatores venivano scelti davanti al magistrato dalle parti di
comune accordo da una lista ufficiale. Restava la possibilità di nominare uno iudex o arbiter fuori dalle liste solo previo accordo del
magistrato.

Era prevista il versamento di una satisdatio per i convenuti nelle azioni in rem, una sorta di garanzia affinché il convenuto
adempisse alla condanna. La satisdatio era obbligatoria anche per i procurator, tutor e curator per garantire che il soggetto che si
trovava sotto la loro tutela non avesse agito anch’egli sulla stessa controversia. Una volta terminate tutte queste procedure il
magistrato concedeva la iudicii datio, preludio necessario per la litis contestatio. Era sostanzialmente l’autorizzazione a procedere
apud iudicem.

7. LA LITIS CONTESTATIO ED I SUOI EFFETTI

La litis contestatio aveva un effetto conservativo per quanto riguardava l’azione, nel senso che non si potevano più modificare
termini ed oggetto del giudizio, e un effetto novativo per quanto riguardava l’obbligazione del convenuto, che non sarà più quella
19
richiesta dall’attore ma quella prevista da un’eventuale condanna del giudice. Ciò, però avveniva solo per gli iudicia legitima (vedi
pag. 34) mentre negli altri iudicia non si estingueva l’obligatio fatta valere dall’attore. Tuttavia se il convenuto vinceva la causa e
dunque estingueva l’obbligazione, veniva dotato di una eccezione che impedisse all’attore di ripresentare la stessa azione sulla
medesima obligatio (principio del de eadem re ne bis agatur). In questo caso la litis contestatio aveva anche un effetto estintivo.
(N.B. la litis contestatio è quel periodo del processo che va dalla autorizzazione del magistrato alla sentenza del giudice).

8. LA PROCEDURA DAVANTI AL GIUDICE

Questa parte del processo cominciava con la comperendinatio ovvero con l’intimazione del giudice alle parti di presentarsi due
giorni dopo di essa. È chiaro come, in questa parte del processo, il ruolo rilevante fosse quello degli esperti della parola. Nella
procedura apud iudicem l’attore poteva richiedere una nuova formula in quanto si erano mutati dei rapporti previsti nella
precedente (es. morte di uno dei convenuti). In questo caso, però, è chiaro che debba anche essere nuovamente intrapresa la litis
contestatio. Le XII tavole affermano, poi, che il giudice, se una parte non si fosse presentata per mezzogiorno del giorno previsto
dalla comperendinatio, avrebbe dovuto aggiudicare l’oggetto della lite a colui che era presente. La cosa più importante, però, era
quella di convincere il giudice perché egli giudicava secondo il proprio convincimento. È chiaro che l’onere della prova andasse
all’attore, che doveva provare quello di cui accusava il convenuto, il cui onore era quello di smontare la tesi rivale. In più, il
convenuto “diventa attore” quando solleva un’eccezione. Le prove potevano essere quelle di fama atque rumores, tabulae e testes
(i più rilevanti), iusiurandum, tormenta, confessio (compiuta prima della fase apud iudicem).

La testimonianza si divideva tra testimonianza scritta (per tabulas) e data in maniera diretta.

Se poi il giudice riteneva fondata l’azione dell’attore, dava la possibilità al convenuto di adempiere ante sententiam, se egli non
l’avesse fatto il giudice pronunciava la sentenza. Il giudice poteva anche dichiarare che la causa non gli era chiara e farsi sostituire,
mentre i recuperatores dovevano deliberare quando erano tutti presenti.

Primo effetto della sentenza è la decisione, immutabile, della lite. In più, come abbiamo già detto, se il convenuto viene assolto non
è possibile per l’attore riproporre la medesima azione. Poi vi era l’obligatio iudicati, ovvero l’obbligo di adempiere alla sentenza.
Negli iudicia legitima essa era effetto dello ius civile e veniva fatta valere da un actio iudicati, in quelli illegittima era effetto dello ius
honorarium e si facevano valere con un actio in factum. L’actio iudicati si doveva agire passati 30 giorni dalla pronunzia della
sentenza. La formula di tale actio si componeva di intentio e condemnatio che, se contestata, prevedeva un’ammenda al doppio (lis
inficiando crescit in duplum).

Il convenuto può anche contestare la sentenza solo in due casi: affermando di aver già pagato, oppure contestare la radicalità
nullità della sentenza adducendo motivi quali incompetenza giudice e/o magistrato, vizio di nomina, incongruenza fra sentenza e
formula oppure per irregolarità processuali. Tale contestazione può essere fatta tanto dal convenuto soccombente quanto
dall’attore soccombente. Verosimilmente si rischiava una multa al doppio.

9. L’ESECUZIONE DELLA SENTENZA

La sentenza aveva effetto diretto sul convenuto o sul suo patrimonio. Dopo la soppressione della manus iniectio da parte della lex
Iulia bonorum privatorum, il convenuto poteva essere soggetto a ductio in favore dell’attore, ma se in età arcaica era previsto che
se entro il periodo prestabilito dalle XII tavole (nundiniae) nessuno avesse pagato il riscatto per liberare il convenuto, egli sarebbe
stato o venduto o squartato, ora, se il pagamento non occorreva, il ductus poteva liberarsi con il suo lavoro. Per quanto riguarda gli
effetti sul patrimonio vi erano due possibilità: la bonorum venditio e la cessio bonorum. Nel primo caso veniva nominato dai
creditori un magister che procedeva alla lex venditionis, cioè le condizioni di vendita. Il bonorum emptor, ovvero chi avesse
comprato il patrimonio del convenuto, doveva dare ai creditori quanto pattuito nella lex venditionis, mentre il convenuto incorreva
nell’infamia. Per evitare l’infamia il convenuto poteva invece attuare la cessio bonorum, cioè abbandonare tutto il suo patrimonio
ai suoi creditori, in questo caso doveva dichiarare questa sua disponibilità al magistrato.

A partire dal I secolo d.C. venne introdotta la distractio bonorum, in aiuto di debitori esponenti di famiglie senatorie. In questo caso
un curator bonorum alienava singolarmente i beni fino a che era necessario per tacitare i creditori. Il resto tornava nella
disponibilità del debitore, che evitava l’infamia.

10. ALTRI POTERI DEL MAGISTRATO ESERCITATI A FINI DI GIUSTIZIA

20
Il magistrato amministrava la giustizia, ma di certo le sue attività derivanti dal suo imperium non si arrestavano ai processi, ma ve
ne erano altre negli interdicta, nelle in integrum restitutiones, nella missio in possessionem e nelle stipulationes praetoriae.

Gli interdicta erano ordini. Potevano essere di vario genere, anche militari. Imponevano a colui al quale era rivolto di adempiere a
tali ordini e, se non adempiva, si procedeva ad un’actio ex interdicta. Gli interdicta potevano essere: proibitori, ordinatori,
esibitori. I proibitori venivano usati per fermare la violenza per raggiungere un determinato scopo, gli ordinatori per ripristinare un
dato stato di fatto e gli esibitori per mostrare ciò che si tiene presso di sé. In più la giurisprudenza creò anche i c.d. interdetti
possessori, che tutelavano il possesso non solo dei padroni di beni, ma dei possessori stessi, ovvero di chi ne faceva uso. Questi
interdetti variavano negli scopi e si differenziavano in: adipiscendae (per l’acquisto), retinendae (per la conservazione) o
recuperandae (per il recupero del possesso).

Vi era poi l’interdictum fraudatorium, che imponeva la restituzione del bene che il convenuto aveva alienato ad un complice per
evitarne l’esecuzione.

Le in integrum restitutiones erano i mezzi con cui il pretore ripristinava il diritto ad agire nello stato in cui era prima di un certo
fatto. Il pretore concede la restitutio solo se viene dimostrata il metus causa, ovvero che si era agiti non liberi, ma in maniera
forzata. Lo stesso accade con una litis contestatio se il convenuto non avesse potuto eccepire un’eccezione.

La missio in possessionem era l’autorizzazione ad immettersi nel possesso di beni di un altro soggetto. Da differenziarsi da essa è la
missio in bona, che l’immissione nel possesso dell’intero patrimonio di un altro soggetto. La missio in possessionem poteva essere
richiesta come garanzia, per esempio quando si temeva che un erede avesse sperperato i beni dei legati. Il beneficiario non era
possessore, e dunque non si poteva arrivare, a parte casi rari, all’usucapione.

Infine le stipulationes praetoriae erano decreti con cui il pretore ordinava di promettere, tramite stipulatio, di dare una somma di
denaro o di tenere un determinato comportamento. Potevano essere garantite da terzi sponsores, a seconda di questo fatto erano
dette satisdationes, se garantite, o repromissiones, se non garantire dal terzo.

11. AL DI LA’ DELLE LEGIS ACTIONES E DELLE FORMULE

Là dove non era prevista la tutela formulare, ed una volta abolite le legis actiones, la giurisprudenza romana dovette trovare un
rimedio a questa lacuna procedurale. Essa venne superata grazie alle c.d. cognitiones. Prima da ricordare è quella cognitio affidata
al pretore fideicommissarius, che riguardava la tutela dei fedecommessi, cioè a quei testamenti validi solamente dopo l’avvenuta
realizzazione di un fatto (e dunque basati sulla fides.

Un’altra cognitio erano quelle riguardanti le vindicationes caduco rum, ovvero su quei beni che “cadevano” dalle mani dei celibi e
degli orbi (=sposati senza figli) in seguito alle leggi matrimoniali di Augusto. Queste cognitiones erano affidati al pretore erarii.

Altra situazione che meritò questo tipo di tutela giudiziale fu la situazione della ex moglie se, entro 30 giorni dal divorzio, notificava
al marito di essere incinta.

Per quanto riguarda brevemente lo svolgimento di questo tipo di processi va detto che non era l’attore a convocare il convenuto,
ma egli chiedeva all’autorità stessa di farlo con un edictum di convocazione. Se il convenuto non obbediva all’editto veniva definito
contumax e il processo andava avanti senza di lui. A questo punto si poteva ipotizzare che in questo processo non aveva luogo né la
litis contestatio né la differenziazione tra fase in iure e apud iudicem. Il potere del giudicante era molto ampio e poteva condannare
a sanzioni pecuniarie e “in ipsam rem”. Il vincitore non soddisfatto poteva anche chiedere all’autorità l’esecuzione forzata dei beni
del soccombente, che fungevano da pegno.

12. IL GIUDIZIO DI APPELLO

Nel 30 a.C. Ottaviano favorì la promulgazione di una legge che lo autorizzasse a giudicare su alcune cognitio che venero dette
imperiali. Su queste cognitio, ovviamente, non era possibile un giudizio di appello, in quanto il giudice era il princeps: la massima
carica dell’ordinamento. Sulle cognitiones non imperiali, invece, era esperibile tale giudizio. Veniva chiesto al princeps, o ai giudici
da lui nominati, di rivedere la sentenza in un secondo grado di giudizio. Se prima il giudizio di appello era previsto solo per le
cognitiones, con Claudio esso venne esteso anche per i giudizi formulari.

CAPITOLO SECONDO: LE PERSONE E LA FAMIGLIA (Pagg. 243-287)

21
1. LE PERSONE FISICHE E LE LORO ATTIVITA’

Con il fortunato esito delle guerre di conquista tra il III e il II secolo a.C. vennero catturati moltissimi prigionieri di guerre che
andarono ad arricchire un mercato degli schiavi mai così prosperoso. L’abbondanza degli schiavi portò conseguentemente ad un
peggioramento delle loro condizioni. Il divario tra stato di filius familias e servus si andò accentuando tant’è che per i servi venne
introdotta addirittura la tortura se il loro padrone fosse stato ucciso, perché ritenuti incapaci di difenderlo. Tuttavia il proliferare di
filosofie e religioni (come il cristianesimo) inneggianti alla parificazione degli uomini influenzarono non poco certi contenuti
normativi. Tuttavia mentre il filius familias non veniva più considerato res mancipis, sebbene ancora soggetto a mancipatio. Il servo
invece era considerato come un animale dotato di raziocinio e per questo poteva essere messo a capo di un’attività negoziale,
oppure i servi più intelligenti erano anche precettori o medici. Al servo venne addirittura concessa l’amministrazione di una
quantità di denaro, il peculium, necessaria per lo svolgimento di un’attività negoziale che era detto, non a caso, peculiare. Dunque
il servo, nei limiti del peculio, aveva piena facoltà, mentre tutto ciò che era in avanzo dal peculio veniva dato al dominus. Il servo
poteva pure comprare altri servi, che venivano chiamati vicarii. Tuttavia si tratta ora di risolvere la spinosa questione sui debiti dei
sottoposti nei confronti dei terzi e del pater/dominus. Nei confronti dei primi la questione si risolse con la creazione di un actio de
peculio che imponeva il risarcimento al creditore entro i limiti del peculio stesso. Se ciò non era possibile perché il pater/dominus
aveva attinto per qualsiasi ragione dal peculio del sottoposto, il creditore poteva richiedere la summa dai frutti che il pater/dominus
aveva avuto da quella attività. Se il creditore fosse stato il pater/dominus stesso la giurisprudenza aveva dato maggiore importanza
prima alla riscossione del credito da parte del pater/dominus, in seguito eventuali altri creditori avrebbero potuto vantare tale
diritto. Se questi ultimi ritenevano di aver avuto di meno rispetto a quanto aveva avuto il pater/dominus poteva agire con l’ actio
tributoria per ristabilire la par condicio. Il pater/dominus, però, rispondeva direttamente per i casi elencati a pag.38. Per quanto
riguarda la responsabilità nei casi di delitti privati commessi da sottoposti era sempre il pater/dominus a doverne rispondere, a
meno che non si liberasse del reo con la noxae datio.

2. LO STATUS DEI SERVI E IL MODO PER LIBERARLI

Secondo lo ius gentium si diventava schiavi se:

A. Si nasceva da madre schiava.

B. Si era prigionieri di guerra.

C. Ci si consegnava al nemico.

Lo ius civile, che prima prevedeva che il cittadino romano perdesse lo status libertatis perché venduto trans Tiberim peregre, in età
imperiale fu soppresso in cambio dell’addictio, che non comportava la perdita della libertas.

I nati da madre serva, anche se il padre era libero, seguivano lo status della madre perché nati fuori da iustae nuptiae. Il prigioniero
di guerra è il tipico oggetto del commercio dei servi. La giurisprudenza si preoccupò, però, della condizione del cittadino romano
captus ab hostibus che tornasse in patria. Si parla in questi casi di ius postliminii. I diritti del captus, sia attivi che passivi, venivano
“sospesi”, finchè il cives non fosse tornato in patria. Silla, poi, fornì un’azione fittizia nel caso di morte del captivus in prigionia.
Infatti, teoricamente, il testamento non sarebbe stato valido, ma con questa azione si agiva come se il captivus fosse morto in
patria (fictio legis Corneliae). Non fu mai indubbio che i dediti (=quelli che si sono consegnati) divenissero servi. Altre cause per
diventare servus fu, per la donna, il proseguimento di una relazione amorosa con un servo dopo 3 intimazioni del dominus a
cessare tale relazione. La donna tuttavia poteva mantenere il suo status libertatis se avesse garantito al dominus un figlio, che
sarebbe nato con lo status di servus.

Le uniche maniere di manomissioni dallo stato servile restarono quelle censu, vindicta e testamento (vedi pag. 9). Mentre le ultime
due sopravvissero, sebbene quella vindicta con qualche modificazione (non era più necessario l’adsertor libertatis e si poteva
svolgere dovunque si venisse occasionalmente a trovare il magistrato, purchè il dominus imponesse la festuca), quella censu venne
eliminata dall’ordinamento per ragioni amministrative.

Augusto intervenne e nel 2 a.C. venne emanata la lex Fufia Caninia, attinente alla manumissio testamento che vietava le
manumissiones nei seguenti casi:

A. In frode ai creditori

B. Ai “domini” minori di 20 anni, tranne che fosse vindicta e fosse provata una “iusta causa manumissionis”.

22
C. Di servi minori di 30 anni, con le stesse eccezioni del punto B.

D. Dei servos turpes (servi messi in catene dai padroni o marchiati con gli stigmata o adibiti ai ludi gladiatori).

In realtà la manumissio negli ultimi due casi non era nulla, ma conferiva una “libertà minore”, e non la cittadinanza romana. Al
servo minore di 30 anni veniva conferita la cittadinanza latina, ai servos turpes lo status di peregrinus dedicticius e, in quanto, tale,
doveva tenersi a 100 miglia lontano da Roma e, in caso di trasgressione, veniva venduto con i suoi bene all’asta. Al cittadino latino
(Latinus Aelianus) poteva essere data la cittadinanza romana se avesse sposato una cittadina latina sua pari, una latina colonaria o
una cittadina romana, faceva constatare il matrimonio da sette testimoni e faceva un figlio che doveva raggiungere almeno l’anno
di età.

Il servo, poi, poteva essere liberato da un fedecommesso di libertà. Si ha questo quando il testatore pregare l’erede di
manomettere il servo, di cui diventerà patronus. Se l’erede non avesse manomesso, il servo poteva rivolgersi al praetor
fideicommissarius per ottenere la libertà negatagli. Altra forma di manomissione riconosciuta era quella “ emptio suis nummis”. Il
servo dava dei suoi soldi ad un terzo perché lo comprasse e lo manomettesse. Poiché, in realtà, il servo non poteva avere “suis
nummis” era probabile che occorresse il beneplacito del dominus.

Altre cause di manomissione erano date ai servi ammalati e abbandonati dal dominus, da chi aveva denunciato l’uccisore del
proprio dominus, la serva alienata a patto che non fosse prostituita, o che non venisse alienata dal nuovo dominus senza quella
garanzia, pena la libertà della serva.

Vi erano poi forme non contemplate dalla legislazione:

A. Manumissio inter amicos: si dichiara agli amici l’intenzione di liberare il servo.

B. Manumissio per epistula: quando si dichiarava per lettera tale intenzione da parte del dominus al servo.

C. Manumissio per mensam: quando dopo la dichiarazione lo si invitava come commensale ad un banchetto.

Tali forme non concedevano la libertà giuridica al servus, che però cominciava ad essere trattato come libero. In seguito la lex Iunia
Norbiana stabilì ai servi manomessi in questa maniera lo status di Latini Iuniani.

I manomessi, però, non avevano la stessa condizione dei liberi. Essi venivano chiamati liberti. Un liberto non avrebbe mai potuto
sottrarsi al rapporto di patronato che lo legava al vecchio dominus e anche sul piano del diritto, pubblico e privato, subiva delle
limitazioni. In più il liberto era vincolato al patronus dal c.d. obsequium, che faceva sì che egli non potesse citare in giudizio il
patrono per crimen publicum e dovesse essere autorizzato dal pretore per la “in ius vocatio” ai danni del patrono. Il dovere, poi,
delle operae derivava da un giuramento del liberto durante la manomissione, detto promissio iurata liberti. Il patronus, poi, era
considerato come l’adgnatus proximus del liberto, con tutti i privilegi che ne conseguivano, e tutor legitimus del liberto impubere.

3. LA FAMIGLIA, I FIGLI E LE ADOZIONI

La famiglia era ancora totalmente imperniata sul pater, che deteneva sempre la patria potestas. Tuttavia i filii familias ottennero
sempre più libertà, sia i maschi che le femmine: i primi poterono iniziare ad allestire un patrimonio personale con le entrate
derivanti dal servizio militare (peculium castrense) e potevano usufruire di certe azioni, alle seconde venivano riconosciuti diritti
sulla dote. Anche nell’ambito del matrimonio venne abolita la trinoctii usurpatio e, in generale, l’usus nell’ambito matrimoniale.
Nemmeno la manus restò fondamentale, ma si poteva decidere se sposarsi con la manus con la confarreatio e la coemptio,
altrimenti la donna viveva nello status di moglie, ma non soggetta a tali vincoli. Solo i filii restarono le persone in mancipio e
potevano dati a nossa dal padre se avessero compiuto un reato, oppure i filii in causa mancipi per arrivare all’emancipazione.
Peraltro si hanno addirittura notizie di filli familias magistrati. Probabile che fosse stato abolito anche lo ius vitae necisque. Per
quanto riguarda il figlio tenuto senza titolo da un terzo, il pater poteva ottenere l’interdetto de liberis exhibendis, per presentare il
figlio davanti al pretore, o de liberis ducendi, ovvero di non usare la violenza sul padre che recupera il figlio. Il peculium derivante
dal pater, che non intacca quello della familia, perché resta sempre di proprietà del pater, e che egli può dare anche ai servi è detto
peculium profecticium. Il peculium castrense, invece, era di piena proprietà del figlio, e non poteva né essere revocato dal pater,
né sottoposto a bonorum venditio per debiti del pater.

Per quanto riguarda la capacità dei filii ad obbligarsi, essa era riconosciuta dal senatoconsultum Macedoniano, ma non pochi
dubbi sorgevano riguardo alle condanne in cui potevano incorrere. Chiaro che, per i risarcimenti pecuniari o di “res”, si andasse ad
intaccare il peculium castrense, mentre maggiori difficoltà incorrevano nei casi di condanna ad personam. Ulpiano afferma che tale

23
capacità di obbligarsi era valida solo per le obbligazioni non contrattuali da atto lecito (come la negotiorum gestio) e che, in questo
caso, la patria potestas subiva un ridimensionamento permettendo così la ductio del filius. Per le obbligazioni da delitto il filius,
continuò a essere responsabile il pater, che poteva decidere se difenderlo o darlo a nossa. Non è improbabile che, di fronte
all’inerzia del padre, il figlio si potesse difendere da solo.

Colui che esercitava la patria potestas era sempre l’ascendente più vecchio, che la esercitava su tutti i parenti nati ex iustae nuptiis.
Alla morte dell’ascendente più anziano la famiglia si divideva in tante famiglie quanti erano i filii del pater deceduto. Un figlio si
riteneva legittimo se nato almeno dopo 7 mesi dal matrimonio, stante comunque la discrezionalità del pater o presunto tale a
riconoscerlo o meno. Dunque il tollere liberos restò presente nell’ordinamento romano, in più il senatoconsultum Plancianum
garantì alla ex-moglie che, a meno di 30 giorni dal divorzio, potesse notificare all’ex-marito di essere incinta per costringere il
marito a prendere posizione circa il riconoscimento del nascituro.

Per quanto riguarda l’adozione essa continuava ad essere chiamata adrogatio, soltanto che adesso si compiva davanti a 30 littori,
simboli delle 30 curie. Essa era rilevante perché era necessaria per distinguere tra adoptio per populum e per praetore, che
permetteva che un filius familias passasse da una famiglia all’altra. L’arrogato, subendo capitis deminutio, non era di fatto più
obbligato verso i creditori ma, per evitare frodi, venne concesso ai creditori dell’arrogato il considerare il patrimonio dell’arrogato,
ormai confusosi con quello dell’arrogante, come “sciolto” da quest’ultimo (esercente potestas sull’arrogato). L’adoptio era anche
usata per la liberazione de filius dopo le tre mancipationes (come previsto dalle XII tavole). Col passare del tempo “adrogatio”
venne inglobata nella parola “adoptio”.

4. L’EVOLUZIONE ALL’INTERNO DELLA PATRIA POTESTAS

Abbiamo già visto come la patria potestas, in quest’epoca, iniziasse ad essere meno stringente. Essa si estingueva con la morte del
pater o del filius familias. Il postliminium teneva in sospeso la patria potestas, che si manteneva se il filius tornava in patria. Si
scioglie poi con le 3 mancipazioni del filius o l’unica della filia, come previsto dalle XII tavole. Per quanto riguarda la moglie, essa
non fu più soggetta né a manus (che restava in vigore solo nei casi di matrimonio confarreato o per coemptio, ma col tempo essi
vennero meno) né ad usus. Gaio scrive che la donna poteva compiere la coemptio fiduciae causa tanto con un estraneo, tanto col
marito, ed ottenere il cambiamento dei tutori legittimi con una persona da lei gradita. Se si fosse sposata cum manu, la donna
subiva la capitis deminutio e il suo patrimonio diveniva parte di quello del marito o esercente potestà su di lui. Per i debiti i limiti
erano gli stessi fissati per l’adrogatio. La capitis deminutio è l’esclusione di una persona da un contesto sociale o la perdita di uno
status. Esistono tre tipi di capitis deminutio:

A. MAXIMA: Se da libero diventi schiavo.

B. MEDIA: Se si perde la cittadinanza romana.

C. MINIMA: Se si passa dallo status “sui iuris” a quello “alieno iuris subiectus” (per esempio nell’adrogatio).

5. IL MATRIMONIO E I SUOI REGIMI

Il matrimonio, una volta abolito usus e manus, fu concepito come fondato da una voluntas comune alla celebrazione e di
un’affectio maritalis, segno del legame che univa i coniugi. Una volta che l’affectio cessava, o quantomeno cessava gli elementi che
la costituivano, la donna, che non faceva parte della famiglia del marito, poteva, col divorzio, separarsi. Chiaramente anche il
marito poteva divorziare. Tuttavia il marito al ritorno in patria, tipico del postliminium, non poteva considerare ancora valido il suo
matrimonio, in quanto la moglie poteva essersi risposata. Non c’erano vincoli che lo impedissero. Se la donna non si era sposata, il
matrimonio poteva dichiararsi legittimo se veniva fatta di nuovo la cerimonia, ed era dunque inteso come un nuovo matrimonio.

Per quanto riguarda il furiosus, egli non poteva contrarre matrimonio. Ma se lo era diventato da sposato, il matrimonio continuava
ad essere valido, in quanto la pazzia era probabilmente considerata come stato intermittente e transeunte. Poteva capitare dunque
che due coniugi non si frequentassero per molto tempo, ma il matrimonio restasse valido purché si mantenesse la maritalis
affectio.

I matrimoni poteva essere promessi. Gli sponsalia erano le promesse di matrimonio, e venivano eseguite come una normale
sponsio. Tuttavia se poi lo sponsus non manteneva la promessa, non era perseguibile in alcun modo e non incorreva in nessuna
condanna, anche se portava ad una disistima da parte del contesto sociale. Non si poteva contrarre i bina sponsalia (due promesse
di matrimonio allo stesso tempo), così come non si potevano celebrare bina nuptiae (due matrimoni).

24
I presupposti per le iustae nuptiis erano 3: pubertà, sanità mentale e conubium, ossia la capacità di contrarre un valido
matrimonio con l’altro nubente. Per quanto riguarda il conubium, lo stato servile lo impediva, mentre l’unione stabile di un uomo
ed una donna serva portava ad una condizione particolare detta contubernium. Ma il tema del conubium ha rilevanza nell’ambito
dei rapporti internazionali. Sappiamo come non fossero considerate iustae nuptiis quelle tra un cittadino romano e un peregrinus.
Alcuni accordi internazionali (foedera), però, già dall’età risalente avevano concesso tali matrimoni in certe città latine. Per quanto
riguarda la condizione dei Latini Aeliani vedi pag. 47. Il conubium rendeva iustum il matrimonio misto, ma non lo rendeva romano:
il figlio di un peregrinus sarebbe sempre stato un peregrinus. Da notare come il conubium potesse avere effetti anche una volta
contratto il matrimonio: per esempio il veterano che avesse ottenuto la cittadinanza romana per i suoi servigi vedeva il suo
matrimonio come riconosciuto iustum nell’ordinamento romano. Non era valido il conubium con i propri familiari. Questo tipo di
nozze erano dette incestae et nefariae. Altro problema era, poi, quello del nubente, che doveva ottenere il consenso dell’esercente
potestà su di esso. Se l’esercente era il nonno, egli doveva ottenere il consenso del padre e del nonno.

Una volta che la conventio in manum divenne desueta, si cominciò a dare importanza, per certificare che il matrimonio fosse
contractum, alla deductio in domum mariti. Il matrimonio concedeva diritti che per i concubini non erano previsti (per esempio tra
concubini non si rispondeva di uxoricidio) e i coniugi vivevano in un rapporto di uguaglianza. La fedeltà, tuttavia, era una
prerogativa della sola moglie, in quanto doveva assicurare che la discendenza fosse quella legittima. La morte o la captivitas di uno
dei due coniugi scioglieva il matrimonio, mentre infamia, seconde nozze o la scandalosità di rapporti adulterini ne ponevano la
fine. La perdita della cittadinanza romana impediva che il matrimonio fosse riconosciuto iustum dall’ordinamento romano. Il
repudium era segno della cessazione dell’affectio maritalis. Entrambi i coniugi potevano divorziare. Questo sta a sottolineare ancor
più nettamente come la sposa non fosse più soggetta al vincolo della manus.

Qui vanno anche ricordate, come incentivi delle nascite, limitazione delle manomissioni e delle immissioni nella comunità romana
di servi affrancati, le leggi Iulia Norbiana e Papia Poppaea nuptialis, che si univano in unico provvedimento chiamato lex Iulia et
Papia. La donna adultera, secondo la lex Iulia de adulteriis coercendis, poteva subire la relegatio in insulam o pene patrimoniali. Il
marito dell’adultera, se non avesse divorziato, veniva incriminato di lenocinium, in quanto considerato manutengolo degli affari di
una poco di buono. Agli ingenui (= nati liberi) era vietato il matrimonio con prostitute e mezzane o liberte di mezzani. Stesso divieto
vigeva per i senatori. La stessa legge prevedeva pesanti sanzioni per coloro che fossero rimasti o celibi o orbi (senza figli)come, per
esempio, l’incapacità di acquistare per testamento. I celibi non potevano acquistare nulla, gli orbi solo la metà, il resto era detto
caducum e veniva acquistato dagli altri eredi o legatari, altrimenti andava al fisco. Chi aveva dei figli poteva beneficiare di alcuni
vantaggi. Per esempio, secondo lo ius trium (quattuor) liberorum le donne che avessero partorito 3 o 4 figli poteva liberarsi dei
tutori e diventare eredi ab intestato del figlio, gli uomini beneficiavano di sgravi fiscali.

6. LA DOTE E I SUOI REGIMI

La dote, a partire dall’età classica, per quanto riguardava le filiae familias, coincideva con la parte di eredità che spettava loro se
fossero rimaste col pater. Tuttavia la dote poteva essere costituita anche da un terzo o dalla donna stessa, se sui iuris. Se il
costituente era il padre, la dote era detta profecticia, altrimenti era detta adventicia. La dote si poteva costituire in tre modi e ce lo
riportano i Tituli ex corpore Ulpiani, secondo i quali “la dote o è data, o è detta o è promessa. Nel primo caso si indica il
trasferimento in piena proprietà, nel secondo veniva usata la dotis dictio, un contratto verbale compiuto con le parole del
costituente, la terza indica il compimento di una stipulatio oppure di un legato per damnationem, che impegnava l’erede nei
confronti del suocero a costituire la dote. La dote, oltre che dei beni della donna, poteva essere anche composta dei diritti reali e di
credito. Chi riceveva la dote era il marito o lo sponsus (promesso sposo). Se essi erano alieno iuris era il pater familias che diveniva
titolare della dote. Il marito o il pater dovevano fare un uso oculato dei beni dotali, in quanto dovevano tener conto delle
aspettative della moglie e dei figli. La moglie decideva, poi, sul testamento dei beni totali, né il marito o il pater potevano liberare
un servo dotale senza la volontà della moglie. Augusto poi aveva previsto che il marito poteva disporre del fondo dotale sito in Italia
senza il consenso della moglie.

Se il matrimonio si scioglieva la dos profecticia andava restituita. Se la dos fosse stata adventicia occoreva vedere se il terzo o la
moglie si fosse fatta promettere, con una stipulatio, la restituzione della dote. In questo caso veniva detta dos recepticia. Se il
marito non avesse garantito la restituzione dovuta, venne creata l’actio rei uxoriae, con la quale si condannava il marito o i suoi
eredi al quid aequius melius erit reddi (ciò che fosse risultato più giusto da restituire). La condanna, consistente in retentiones
poteva variare a seconda di questi casi:

25
A. DIVORZIO PER COLPA DELLA MOGLIE: 1/6 per ogni figlio fino a metà della dote.

B. ADULTERIO: 1/6 della dote.

C. COLPE MINORI: 1/8 della dote.

(ALTRI TIPI DI RETENTIONES MINORI)

a. Propter res donatas: donativi ricevuti dal marito che la donna poteva trattenere.

b. Propter res amotas: per i beni sottratti dalla moglie in vista del divorzio

c. Propter impensas: per le spese sostenute dal marito sui beni dotali, per la loro conservazione ed il loro incremento.

7. LA TUTELA E LA CURATELA

I soggetti sottoposti a tutela o curatela erano rimasti quelli dell’età arcaica: impuberi, femmine, furiosi e prodighi, minori degli anni
25. Sono detti impuberi le femmine fino ai 12 anni e i maschi fino ai 14, previa, però, l’ inspectio corporis. Chiaramente i tutori
facevano gli interessi della famiglia del tutelato e per essi tale attività divenne un vero e proprio munus (dovere). Non lo era,
invece, per i tutori costituiti dalla lex Atilia de tutore dando, che prevedeva che il pretore urbano fosse investito del potere/dovere
di dare un tutore a tutti coloro che ne necessitassero. È chiaro che questo tutore, detto atiliano, non essendo scelto direttamente
dalla famiglia del tutelato non ne faceva gli interessi, come invece facevano il tuore legittimo e quello testamentario. Nell’età
classica venne poi concessa un’azione, l’actio tutelae, che prevedeva la chiamata in giudizio del tutore, che doveva rispondere
dell’utilizzo dei beni del pupillo. Sappiamo, poi, che la tutela del liberto impubere era affidata al suo vecchio dominus, mentre per il
figlio mancipato tre volte (1 per la figlia) era, a seconda di chi lo avesse manomesso, o il padre o l’amico.

Il tutor legitimus, cioè l’adgnatus proximus, non poteva sottrarsi alla tutela. Cosa che invece poteva fare il tutor testamentarius,
che poteva essere indicato anche da chi avesse la patria potestas (padre che aveva manomesso il figlio). Tuttavia il tutore
testamentario avrebbe dovuto rispondere degli eventuali danni subiti dal pupillo a causa del suo rifiuto e, per difendersi, gli
occorrevano delle excusationes (età sopra i 70 anni, ruolo di alto livello, numero di figli). Se il pupillo restava senza tutore, allora
spettava al pretore urbano, potere poi esteso anche ai magistrati municipali e coloniari, quello di affidare il pupillo ad un tutor
atilianus, detto anche dativo. Al tutor spettava il compito di educare ed istruire il pupillo, ma anche quello di gestire i suoi beni e le
sue eventuali attività. Spesso si lasciava che fosse il pupillo a decidere il tutto, mentre il tutore si limitava a far valere la propria
auctoritas. Se ciò non fosse stato possibile (pupillo infans o lontano), bastava, per le obbligazioni contratte dal tutore per il pupillo,
una trasposizione di soggetto. Se il tutore avesse sperperato o peggio frodato i beni del pupillo, egli aveva tre azione per far valere i
propri diritti:

A. Actio rationibus distraendis: esperibile contro i tutori che avessero sottratto dei beni del patrimonio del pupillo anche dopo la
fine della tutela. La condanna è “in duplum”

B. Accusatio suspecti tutoris: accusa contro il tutore ed esperibile da chiunque in caso di accertamento di atti fraudolenti o
grossolana negligenza

C. Actio tutelae directa/contraria: quella “diretta” prevedeva che venisse richiesto al tutore di rendere i conti e rispondere della
gestio. Se vi fossero stati danni al patrimonio il tutore doveva risarcirli. In quella “ contraria” il tutore poteva richiedere, alla fine
della tutela o del suo status di sospectus di rivedere i conti e farsi risarcire di eventuali esborsi di tasca propria per salvaguardare il
patrimonio del pupillo.

Il tutor muliebre invece aveva responsabilità attenuate, in quanto la decideva su tutto ciò che poteva, limitando i compiti del tutor a
quelli in cui la donna non aveva capacità di agire. In più la donna, con la coemptio fiduciae causa poteva sostituire il tutore
legittimo con uno di suo gradimento, previa in iure cessio del tutore legittimo, che permaneva , che così si faceva sostituire. La lex
Atilia e la lex Iulia et Titia avevano previsto anche per la donna il tutore dativo.

Per quanto riguarda la curatela , essa veniva fata ai furiosi, ovvero a colore che non erano in grado di capire ciò che stavano
facendo. Anche per loro il curatore legittimo era l’adgnatus proximus ma, in sua mancanza, era permesso che gli interessati ne
facessero richiesta al pretore. Trifonino scrive che il pretore doveva poi ratificare la nomina di curatori testamentari, anche nei casi
di furioso pubere e sopra i 25 anni.

26
Il curatore non poteva in alcun modo diminuire il patrimonio del furiosus e dunque non poteva manomettere. Come per il tutor per
le attività del curator sorgevano obbligazioni, che venivano ricondotte alla negotiorum gestio. In più venne predisposto un curator
anche per i minori di 25 anni ai quali era stata affidata un’ecceptio in caso di raggiri. L’ecceptio prevedeva l’inesperienza del giovane
e dissolveva l’obbligazione. Per tale motivo era rischioso contrattare con i minori di 25 e venne deciso di affidarli ad un curatore.

8. IL CONCETTO DI PERSONA E IL SUO SVILUPPO

Solo da annoverare il fatto che ormai non esistesse più un vero e proprio populus Romanus, ma che prevalesse solamente l’idea di
collettività di cittadini su quella dell’ideale unitarietà astratta. Altro problema fu quello del patrimonio del princeps e del suo
patrimonio che si divideva in res privata (beni propri del princeps) e fiscus (beni che passavano non al figlio, ma al nuovo princeps).
Si ebbe poi, in quest’èetà, la diffusione di collegi professionali e di associazioni religiose e funerarie. Ai collegia venne data,
attraverso la soggettivizzazione, la possibilità di stare in giudizio rappresentati da un actor.

CAPITOLO TERZO: I BENI, LA PROPRIETA’ E GLI ALTRI DIRITTI REALI (Pagg. 288-335)

1. I BENI

La prima distinzione che si fa è tra beni di diritto divino e beni di diritto umano. Il fulcro della divisione si basa sulla suscettibilità di
valore. Le res divini iuris si dividono in:

A. RES SACRAE: consacrate, per legge o senatoconsulto, agli dei che stanno in cielo.

B. RES RELIGIOSAE: beni che risultano consacrati ai Mani, le tombe e i relativi terreni

C. RES SANCTAE: sono le mura, le porte della città, i limites.

I beni di diritto umano sono o pubblici o privati, la distinzione è ora operata secondo l’appartenenza al populus Romanus o ai
singoli. Altra distinzione è tra beni utilizzabili omnium gentium (il mare, il lido) e beni che sono solo dei cittadini romani.

Altra distinzioni è tra beni corporali, che si possono toccare, e beni incorporali, quelli che non si possono toccare (usufrutto,
obbligazioni). Gaio poi divide tra res mancipi e nec mancipi. Per le prime sono da annoverare i servi, i fondi italici, gli animali da tiro
e soma e le servitù rustiche. Tutto il resto fa parte delle res nec mancipi. Poi è stata fatta la distinzione tra beni fungibili (che hanno
rilevanza nel loro peso o quantità, come grano o soldi) e infungibili (beni unici e irripetibili, come il quadro di un artista); beni
fruttiferi, ovvero quelli capaci di produrre qualcosa di economicamente rilevante senza danno (alberi da frutto, animali in quanto
partoriscono). Infine l’ultima distinzione che si fa è tra cose semplici, complesse e universali. I primi sono quelli impossibili da
separare senza che l’oggetto si snaturi (servo, trave), i secondi sono quelli composti da elementi diversi ma strettamente congiunti
(una nave, un armadio), i terzi si identificano come quelle entità che non si snaturano con l’aumento o la diminuzione dei loro
componenti (un gregge). Gli agnelli di un gregge possono essere considerati frutti solo se fanno aumentare il numero del gregge.

Per quanto riguarda le terre, la maggior parte di essa era ager publicus, fruibile per i Romani grazie al pagamento di un vectigal. Col
passare del tempo, tuttavia, si ebbe una sempre maggiore frammentazione dell’afer publicus in agri privati. Fuori dal territorio
italico si parla di fondi provinciali, di proprietà del popolo romano o del principe e Gaio parla di fondi soggetti a possessio vel
usufructus. Infine, si annoverano anche numerose coloniae civium Romanorum, le cui aree erano distribuite in proprietà ai coloni.

2. IL POSSESSO

Il possesso era utilizzato in età arcaica per indicare la signoria su una porzione di ager publicus (per cui si riveda la distinzione a pag.
17). Ciascuno di quei titoli legittimava il possesso e il terreno poteva essere trasferito o inter vivos o mortis causa. In caso di
rivendica chi si asseriva proprietario avrebbe dovuto agire a prescindere dalla possessio, che era un vantaggio per il convenuto.
Finché l’attore non avesse dimostrato la proprietà, era il possessore a conservare il bene. Si iniziò, dunque, a distinguere tra due tipi
di possessio: “possessio proprio nomine”, quando si possiede un bene proprio (oggi noi lo chiamiamo possesso), e “possessio
alieno nomine”, quando si intende che il possesso di un bene è dato da un altro per un certo fine e bisogna darlo indietro (oggi noi
la chiamiamo detenzione). La prima era sottoposta a tutela interdittale, la seconda no. Solo in 3 casi poteva essere concessa dal
pretore tale tutela per la possessio alieno nomine: accadeva per il precarista, per il creditore pignoratizio e per il sequestratario.

La precario habere è una benevola concessione da parte di possessori di ager publicus o proprietari/possessori di terre private a
favore dei clienti. La tutela andava a favore dei precariati riguardo ai terzi, che, però, soccombevano contro il concedente.

27
Il sequester è colui che deteneva un bene conteso in un processo per darlo al vincitore. In effetti il pegno perderebbe il suo scopo
se il creditore non potesse tutelarsi contro i casi di perdita della garanzia. Il creditore pignoratizio dispondeva dunque anche di una
tutela interdittale.

Altra distinzione tra “possessio proprio nomine” e “possessio alieno nomine” era, per il primo, la maturazione della usucapio,
mentre per la seconda si poteva ottenere solo la tutela interdittale.

Di distinse anche tra possesso meritevole e possesso non meritevole. Quest’ultimo indicava il possesso acquistato con la forza, il
furto o illecitamente. Da questo tipo di possesso non si otteneva mai il dominium(= proprietà). Se un bene fosse stato preso con la
forza/furto/armi/illecitamente la tutela interdittale prevedeva che chi avesse rubato venisse tutelato contro i terzi, ma fosse
costretto a ridare al danneggiato se fosse riuscito a provare l’illecito. Tuttavia quest’ultimo non poteva usare le armi per riprendersi
il bene di cui era stato privato. Nel possesso, poi, convivono due elementi sostanziali, ovvero la disponibilità materiale dell’oggetto
(corpus) e l’atteggiamento intenzionale che qualifica il disporre (animus). Occorrono entrambi per l’acquisto del possesso.

Vi possono essere alcuni tipi di situazioni che modificano il possesso, come nel caso in cui, per esempio, io alieno ad altri la mia
casa, ma mi intrattengo quale inquilino in forza di una locazione, in questo caso, detto constitutum possessorium, il possesso non
sarà più proprio nomine, ma alieno nomine. Al contrario può accadere che chi si trova in possessio alieno nomine, per volontà del
possessore, possa diventare possessore proprio nomine, in questo caso si ha la traditio brevi manu. Inoltre, si può anche possidere
solo animo, come nel caso di un pascolo, che cambia a seconda della stagione da pianura a montagna, il possesso “animo” è su
entrambi, ma il corpus varia.

Vi sono 3 tipi di interdetti possessori: adipiscendae possessionis (per l’acquisto del possesso), retinendae possessionis (la sua
manutenzione), recuperandae possessionis (il suo recupero).

Gli interdetti retinendae possessionis erano quello uti possidetis, per gli immobili e quello utrubi, per i mobili. Entrambi gli
interdetti erano duplicia, ovvero entrambi i soggetti erano al contempo attivi e passivi e proibitori, in quanto vietano l’uso della
forza.

Gli interdetti recuperandae possessionis erano quelli de vi e de vi armata, che erano destinati a chi fosse stato spogliato del
possesso con forza o con le armi.

Tuttavia l’effetto più rilevante era l’usucapione, che, però, per essere valida, doveva essere iusta causa, ovvero la possessio doveva
esser stata ottenuta con un atto giuridico o un negozio o un decreto dell’autorità, e fides bona, cioè che il possessore doveva essere
cosciente di non ledere il diritto altrui col possesso. La tutela interdittale si estese anche al diritto di utilizzo delle servitù prediali.

3. LA PROPRIETA’

La proprietà viene dette, in latino, dominium. Prima della guerra civile il dominium corrispondeva all’heredium di cui era titolare il
pater familias, mentre con la possessio si aveva a disposizione l’ager publicus. Ma dopo la guerra civile gran parte del terreno
agricoli, con le case e le strutture che vi poggiavano sopra, divennero per gran parte private, e dunque soggette al dominium ex
Iure Quiritum, esteso ovviamente anche per i beni mobili. Sulla falsariga di tale dominium si condusse quello per la proprietà
provinciale, non soggetto a iure quiritario. Il potere di disporre dei beni (dominium ex iure Quiritum) è la piena e diretta possibilità
di usarne e goderne, traendone frutti e disponendone liberamente. Il dominium ex iure Quiritum arrivare usque ad sidera et
usque ad inferos, cioè che il proprietario poteva disporre dei beni che vi fossero stati trovati al di sotto della propria terra. Tuttavia
il dominium conosceva dei limiti. Si tratta di limiti posti a causa di interessi generali o dei proprietari vicini, come per esempio, nel
primo caso, il non poter seppellire cadaveri in città o il dover lasciare 2 piedi e mezzo tra ogni aedes, per limitare la grande
urbanizzazione (XII tavole). Nel secondo caso, erano stati predisposti dei veri e propri interdetti, come quello “de arboribus
caedendis” e “de glande legenda”, che facevano sì che il proprietario della tenuta confinante potesse potare in maniera
indisturbata i rami sporgenti nella sua tenuta e tenerseli, oppure che il vicino potesse raccogliere i frutti. Altri limiti erano quelli
sulle immissioni, se un proprietario denunciava un danneggiamento della sua proprietà a causa del vicino. In questo caso la
giurisprudenza si attivò creando un actio aquae pluviae arcendae, che mirava alla demolizione di eventuali manufatti che
causassero danni alla tenuta altrui. Venne, poi, modificata la legis actio damni infecti in CAUTIO damni infecti: se si temeva un
danno, non ancora effettivamente verificatosi, ci si poteva garantire con questa cautio, in questo modo si otteneva la promessa di
risarcimento se il danno temuto si fosse realizzato.

28
Le proprietà potevano appartenere a più soci o privati. In questo caso, mentre nell’età arcaica il consortium ercto non cito faceva sì
che ogni singolo potesse disporre dell’intero patrimonio, questo tipo di consortium venne identificato con la societas, in cui i socii
partecipavano insieme alla titolarità ed utilizzazione della res communis. Il consortium divenne, invece, capacità di poter disporre
liberamente di una quota ideale del patrimonio. In caso di abbandono della propria quota, ovvero di derelictio, la quota del
rinunciante si smistava tra gli altri. Per dividere il consortium ercto non cito già le XII tavole avevano ideato la legis actio per arbitri
postulationem. Ma nel 210 a.C. la lex Licinnia istituì l’actio comuni dividundo.

4. I MODI DI ACQUISTO

Gaio distingue tra modi d’acquisto che operano naturali iure o ratione e iure civili. Nel primo caso fa rientrare la traditio, nel
secondo mancipatio, in iure cessio e usucapione. La dottrina civilistica, invece, distingue tra modi d’acquisto a titolo originario e a
titolo derivativo, poggiando l’attenzione sul momento della nascita del diritto nel primo caso, oppure sulla sua sola traslazione nel
secondo caso. Tra i modi di acquisto a titolo originario Gaio fa rientrare i beni presi al nemico, l’occupazione di una res nullius, che
valgono sia per gli animali, come i pesci o gli uccelli, sia per le res derelictae, cioè i beni abbandonati. Discorso a parte va fatto per il
tesoro, che sia o una cosa preziosa o una somma di denaro, trovato nel fondo altrui e di cui non si conosce il proprietario. Adriano
decise che si dovesse dividere equamente tra ritrovatore e proprietario.

Altro modo d’acquisto era l’accessione, ovvero, facendo un esempio: se io compro un terreno (= bene immobile) saranno miei
anche i frutti di esso (= beni mobili) anche se piantati da un altro. Stessa cosa vale per l’edificio costruito da un altro su u terreno da
me comprato. Erano previste anche altri casi di minore importanza, come per esempio l’ alluvio e l’avulsio. Altro modo d’acquisto è
la confusione, tipica di quei beni come il grano o il vino. Ci si chiedeva poi, in caso di specificazione, chi fosse il proprietario del
bene trasformato, se il proprietario del bene originario o il trasformatore (quello che ha dato l’oro o quello che ha composto il
bracciale?). I Sabiniani propendevano per il primo, i Proculiani per il secondo. La giurisprudenza classica decise che, se il prodotto
originale fosse ancora ricavabile da quello trasformato, come per esempio una statua di bronzo in quanto può essere fusa, il bene
poteva essere riottenuto dal proprietario, in tutti gli altri casi il proprietario era il trasformatore.

Le modalità d’acquisto a titolo derivativo sono:

A. MANCIPATIO: In età classica diventa solamente la formalità richiesta dallo ius civile per il trasferimento immediato del dominium
sulle res mancipi. Gaio la etichetta come “imaginaria venditio”, per sottolineare come fosse andata in disuso nel II d.C., dove ormai
seriva solamente per il trasferimento immediato del bene.

B. IN IURE CESSIO: L’in iure cessio si mantenne invariati e veniva utilizzata per la costituzione o la rinuncia a diritti reali quali
l’usufrutto. I filii familias non poteva compiere l’in iure cessio in quanto non aventi la capacità processuale (l’in iure cessio era
un’applicazione della legis actio sacramenti in rem).

C. TRADITIO: E’ la consegna materiale di un bene corporale, anche immobile, con la volontà di trasferirne la proprietà. La scienza
giuridica si rese conto che per fare ciò occorreva una iusta causa traditionis, cioè un motivo valido per trasferire. A differenza della
mancipatio essa però non trasferiva gli effetti previsti dallo ius civile sulle res mancipi.

D. ADIUDICATIO: Essa veniva compiuta dal giudice durante lo scioglimento di un consortium, aggiudicando le quote dovute ai
singoli.

E. LEGATUM PER VINDICATIONEM: Esso stabiliva invece il bene trasferimento al testatario al legatario, che poteva rivendicarlo
dall’erede o dal terzo possessore, se non avesse voluto darglielo.

F. USUCAPIO: Riguardo a questo punto abbiamo già detto di come questa pratica si ricollegasse al possesso. In più essa sembra più
un modo d’acquisto a titolo originario che a titolo derivativo, ma tuttavia si è deciso di inserirlo tra questi. Per ottenere l’usucapio
occorrevano 5 elementi fondamentali: che il bene fosse usucapibile, la iusta causa, la bona fides, il possesso e il decorso del
tempo (2 anni per i beni immobili e 1 per le ceterae res). I beni provinciali non erano usucapibili.

Abbiamo detto di come la traditio non esplicasse subito gli effetti previsti dallo ius civile con la mancipatio e dunque occorreva
l’usucapio per diventare dominus del bene a tutti gli effetti. Tuttavia, per la sua grande versatilità nel campo economico e del
mercato, si decise di concedere un’actio ficticia in difesa di coloro che non avessero ancora usucapito. Si tratta dell’ actio Publicana.
Infatti se colui che aveva ricevuto il bene con la traditio “a domino” (dal proprietario del bene), ne veniva spossessato, il suo diritto,
forte della iusta causa traditionis, vinceva anche se chi aveva spossessato era il dominus tradente, a cui poteva essere opposta
anche un’exceptio doli. Diverso il fatto se il tradente non fosse stato il vero dominus, in quel caso, se quest’ultimo rivendicava, non
c’era nulla da fare: il bene tornava al suo dominus.

29
5. I DIRITTI REALI

Nell’età arcaica iter, via, actus e aquaeductus erano considerati oggetti concreti, mentre con l’espansione urbanistica e l’età classica
si tese a considerare le servitù prediali non come mezzi di passaggio, ma come veri e propri diritti di servitù (= di passaggio). Non si
parlò più, pertanto, di res praediorum, ma di iura praedorium, che si differenziavano, a seconda che fossero fondi destinati
all’agricoltura/pastorizia o fondi costruiti o da costruire nelle aree urbane, in rusticorum o urbanorum . Il fondo che beneficia della
servitù viene detto dominante, quello che subisce la servitù viene detto servente. Sono, dunque, stati individuati tre principi
cardine dalla giurisprudenza: NEMO NEMINIS RES SUA SERVIT (la servitù si realizza solo se c’è uno, o più, fondi serventi, se il
proprietario della servitù acquista il/i fondo/i servente/i la servitù viene chiaramente meno); SERVITUS SERVITUTIS ESSE NON
POTEST (la servitù prediale non può essere soggetta ad usufrutto); SERVITUS IN FACIENDO CONSISTERE NEQUIT (il proprietario del
fondo servente non solo subisce la presenza della servitù altrui sul proprio fondo, ma deve anche accertarsi e, se vi sono, riparare
eventuali danni).

Per quanto riguarda i modi di costituzione dei diritti reali, essi sono:

A. MANCIPATIO: per le servitù più antiche, considerate res mancipi.

B. IN IURE CESSIO: per le servitù moderne, soprattutto urbane, considerate iura e res nec mancipi.

C. DEDUCTIO: in caso di divisione di un fondo, se l’alienante deduce per il fondo che trattiene il beneficio della servitù.

D. DESTINATIO BONI PATRES: Nello stesso caso della deductio, e specialmente nel caso di divisione del pater per i figli, egli,
secondo tale principio, destina le servitù ai fondi più disagiati, per esempio quelli più lontani dalla strada pubblica.

E. USUCAPIONE: valida solo nei casi di servitù corporali (iter, via, aquaeductus...) in quanto le servitù incorporali (per es. la veduta)
non potevano essere usucapite.

F. PACTIO ET STIPULATIO: per I fondi tributarii o stipendiarii.

I modi di estinzione, invece, erano questi:

A. PER RINUNCIA del proprietario del fondo dominante. Occorreva una in iure cessio rovesciata.

B. PER CONFUSIONE, quando le proprietà si riunivano nelle mani di uno solo, in omaggio al principio del NEMO NEMINIS RES SUA
SERVIT.

C. PER “NON USUS” ultrabiennale nel caso di fondi rustici, dove le servitù erano apparenti. Per le servitù urbane, che potevano
essere apparenti e in apparenti, bastava che il proprietario del fondo servente tenesse un comportamento contrario contrario e i
fondi venissero posseduti nel nuovo stato di fatto per due anni, senza che il proprietario del fondo dominante reagisse.

Analizziamo ora i mezzi di tutela per questi diritti, nel caso di rivendiche o di disturbo del pacifico godimento:

A. VINDICATIO SERVITUTIS: esperita prima con la legis actio sacramenti in rem, poi con l’agere in sponsionem, infine con la
procedura formulare.

B. OPERIS NOVIS NUNTIATIO: in caso di opere che minassero l’utilizzo della servitù.

C. INTERDETTO DEL PRETORE “QUOD VI AUT CLAM”: nel caso in cui l’esercizio delle servitù fosse stato interrotto con la forza o
illegittimamente.

Per quanto riguardo la successibilità della moglie, va detto che la donna non aveva a testamenti factio, ovvero la capacità di
lasciare beni in testamento. Se fosse stata presa “in manu” sarebbe diventata, nella famiglia del marito, come una figlia al
momento della successione. Se non si fosse sposata con la manus, i suoi beni finivano all’adgnatus proximus della sua famiglia,
verosimilmente uno zio i un fratello. La tradizione romana evitò di affidare i beni ereditari ad una moglie ma, se avesse avuto figli,
essi, che recepivano l’eredità, erano tenuti a mantenerla. Per tale motivo si vide nell’usufrutto una soluzione ottimale. Per tale
motivo si vide nell’usufrutto. Esso è il diritto di usare e di beneficiare dei frutti (ius uti frui). Nato per favorire la vedova, l’utilizzo

30
dell’usufrutto, che poteva essere a vita o per un termine di tempo stabilito, prese sempre più piede. L’usufrutto può essere
esercitato sui beni sia immobili che mobili. L’usufructuarius utilizza e raccoglie i frutti del bene in usufrutto, ma entro alcuni limiti:

A. L’usufrutto non può eccedere la vita dell’usufruttuario né può continuare se esso subisce una “capitis deminutio”.

B. L’usufruttuario deve restituire l’oggetto dell’usufrutto al proprio dominus nelle stesse condizioni in cui egli glielo aveva concesso.

C. Sull’appropriazioni dei frutti, pure, vi sono certi limiti. Sempre rispettando il limite “B”, nel caso in cui l’oggetto dell’usufrutto sia
un gregge, l’usufruttuario può prendere per sé senza problemi latte e lana, ma SOLO gli agnelli in eccedenza rispetto al numero
originario del gregge. Perciò se in un gregge di 10 pecore ne morivano 2 e nascevano 5 agnelli, l’usufruttuario avrebbe potuto
prendere 3 agnelli per sé.

Si riteneva in origine che i beni oggetti di usufrutto potessero essere solo quello non consumabili. Tuttavia Ulpiano ci riferisce che
un senatoconsulto avesse introdotto l’usufrutto anche per i beni consumabili, attraverso l’introduzione della cautio fructuaria,
ovvero l’obbligo di restituire al proprietario del bene consumabile in usufrutto altrettanti beni della medesima specie o la loro
aestimatio (somma pari al valore del quando quando è stato concesso). Questo espediente giurisprudenziale è detto quasi
usufrutto. Beni soggetti ad usufrutto possono essere anche beni a prima vista non fruttiferi, come gli edifici. In realtà l’usufruttuario
di un edificio potrebbe o viverci o affittarlo e riscuotere la somma dell’affitto.

Per quanto riguarda i modi di costituzione, essi sono:

A. INTER VIVOS, con una in iure cessio o una deductio.

B. MORTIS CAUSA, mediante il legatum per vindicationem o il legatum per damnationem (testatore obbliga l’erede a costituire
usufruttuario il beneficiario del lascito a titolo particolare).

L’usufrutto non era possibile per i fondi stipendiarii o tributarii e si poteva vendere o locare.

I modi di estinzione sono:

A. MORTE DELL’USUFRUTTARIO O CAPITIS DEMINUTIO.

B. PER RINUNCIA, attraverso una in iure cessio.

C. Se l’usufructuarius era una società, in tal caso l’usufrutto terminava dopo 100 anni.

La consolidazione era un altro modo per estinguere l’usufrutto e si verificava allorchè:

A. Il proprietario diventasse padrone del bene stesso.

B. L’oggetto dell’usufrutto venisse distrutto o trasformato.

C. Il diritto non fosse stato esercitato per due anni sui beni immobili o uno solo sui beni mobili.

D. Un consociato rinunciasse alla sua quota d’usufrutto, essa si divideva in parti uguali tra gli altri consociati finché, in questo modo,
non si giungeva ad un solo usufruttuario.

I mezzi di tutela dell’usufrutto sono:

A. VINDICATIO USUFRUCTIS: poteva essere esperite contro i terzi o contro il dominus stesso.

L’uso è quando si usa un bene senza usufrutto (e.g. l’usufruttuario di un edificio affitta l’edificio ad un usuario, secondo i Proculiani
quest’ultimo poteva concedere l’utilizzazione del bene ad un inquilinus cioè ad un terzo che pagava un corrispettivo, per i Sabiniani
ciò non era possibile.

La superficie: poteva accadere che un soggetto potesse ottenere l’autorizzazione a costruire sul suolo di proprietà del populus
Romanus o di municipi o di colonie o di privati. Se vi fosse su tale suolo una costruzione il superficiarius era autorizzato a disporne e
ne era tutelato il godimento di tale beneficio attraverso l’interdetto proibitorio.

Adesso bisogna analizzare le garanzie reali:

31
A. FIDUCIA CUM CREDITORE: trasferimento in garanzia dei beni dal debitore al creditore, che avrebbe dovuto restituire una volta
compiuta la prestazione.

B. PIGNUM DATUM: trasferimento del possesso dei beni del debitore a vantaggio del creditore poiché questi ne faccio uso in
mancanza di adempimento.

C. PIGNUM CONVENTUM: costituzione di un diritto sui beni del debitore a vantaggio del creditore, perché questi ne faccia uso in
mancanza di adempimento. Se quest’ultimo avesse avuto luogo il creditore doveva restituire, in caso contrario tratteneva.

Il creditore disponeva di un’actio pretoria contro il debitore e contro chiunque avesse il bene garanzia presso di sé. Il creditore non
può alienare il bene.

I modi di costituzione della fiducia sono i seguenti:

La fiducia si costituiva con mancipatio o in iure cessio, accompagnato dal factum fiduciae. Si usava, nella mancipatio, che,
trasferendosi il dominium del bene garanzia al creditore, quest’ultimo lasciasse il possesso del bene garanzia al debitore per poter
fargliene usufruire. Tuttavia in questo caso il debitore poteva usucapire il bene mancipato attraverso l’istituto della usureceptio.
Per evitare ciò il creditore poteva trasferire il bene sotto possesso alieno nomine, che impedisce l’usucapione. Il pactum fiduciae
comprendeva anche le lex venditionis. Con tale atto il creditore in caso di inadempimento era autorizzato il bene garanzia al miglior
prezzo. Se il miglior prezzo era inferiore all’entità del debito il debitore adempiere alla differenza, se superiore il creditore doveva
restituire al debitore il superfluum. Il creditore era obbligato comunque a restituire il bene in caso di adempimento o il superfluum
in caso di vendita per l’actio fiducia, istituito dal pretore, era un mezzo di difesa per il debitore raggirato e poneva la formula tra i
bonae fidei iudicia. Stesso tipo di formula era dato anche per il pignum datum attraverso l’actio pigneraticia, che rendeva anche
qui l’azione bonae fiduciae iudicia.

I modi di costituzione del pegno sono:

A. PIGNORIS CAUSA: specificazione dell’oggetto trasferito (conventio pignoris) sotto pegno fino ad un dato evento. Se il bene
garanzia non poteva essere trasferito materialmente, in quanto bene immobile o un diritto, esso prendeva il nome tecnico pignum
conventum. In caso di inadempimento al creditore venivano disposte due “leges”: LA LEX COMMISSORIA (stabiliva che il creditore
acquisiva la proprietà del bene dato in garanzia, quasi fosse stato oggetto di una vendita sotto condizione, il cui prezzo era il credito
garantito) e LA LEX VENDITIONIS (vedi sopra).

B. PIGNUS CONVENTUM: se il pegno era costituito da diritti o beni immobili, dall’età repubblicana, si ragionò così: i beni pegno
sarebbero andati al creditore solo in caso di adempimento, mentre gli oggetti garanzia erano gli invecta et illata (strumenti di
lavoro, scorte che l’affittuario portava sul fondo per coltivare, nonché i mobili o gli altri beni, servi compresi, che il conduttore o
l’inquilino traeva con nell’abitazione affittata). Poiché il creditore non aveva nulla per ottenere il possesso dei beni il pretore
concesse contro il colonus l’interdictum Salvianum, che però non aveva efficacia se i beni fossero stati in mano a terzi. In tal caso
venne istituita l’actio Serviana.

Per quanto riguarda il pegno e l’ipoteca Ulpiano ci dice che: “propriamente diciamo pegno quello che passa al creditore; ipoteca
quando non passa al creditore neanche il possesso.”

I modi di costituzione dell’ipoteca sono:

A. CONVENTIO: un patto sul presupposto che il concedente, debitore o terzo che sia, abbia l’oggetto in garanzia “in bonis”. In
quanto frutto di una conventio, oggetto del pignus conventium può essere qualsiasi bene.

La garanzia funzionava in questo modo: se è il debitore a possedere il bene garanzia e preferisce subire la condanna invece che
consegnare, la litis aestimatio da pagare è pari al valore del credito, se il bene garanzia è in possesso di un terzo la litis aestimatio da
pagare sarà pari al valore del bene; chiaramente il superfluum eventuale va restitutito.

L’ipoteca si estingue nei seguenti modi:

A. ADEMPIMENTO DELL’OBBLIGAZIONE GARANTITA

B. CONSOLIDAZIONE nella stessa persona di creditore e proprietario del bene garanzia.

C. RINUNCIA DEL CREDITORE ALLA GARANZIA

32
D. PRESCRIZIONE a favore di terzi possessori di bona fede “ex iusta causa”

E. VENDITA DEL BENE GARANZIA DA PARTE DEL CREDITORE INSODDISFATTO. A questo proposito vanno ricordati la LEX
COMMISSORIA (vedi pagina precedente), e il PACTUM DE DISTRAHENDO PIGNORE, cioè all’accordo circa la necessità del consenso
del debitore alla vendita per il caso di inadempimento.

CAPITOLO QUARTO: LE SUCCESSIONI E LE DONAZIONI (Pagg. 336-379)

La successio in ius può verificarsi inter vivos o mortis causa. L’hereditas, invece, viene definita da Salvio Giuliano come “la
successione all’intero diritto che il defunto abbia avuto”. Dunque si poteva avere la successio solamente dopo aver individuato
l’erede. L’eredità si può devolvere in due modi: devoluzione intestata (senza testo, secondo legge) e testamentaria (con volontà
scritte dal testatore stesso). Chi è l’erede designato è detto ereditando, chi scrive il testamentum testatario. Non si può pensare di
prevedere una devoluzione in parte testamentaria e in parte intestata. Le XII tavole chiamano l’adgnatus proximus solo in caso di
mancanza di heredes sui del testatario. Va specificato che essi erano i figli in potestate, ovvero sotto la patria potestas. Solo loro
avevano il diritto di succedere mentre gli altri componenti della famiglia avrebbero acquisito tale diritto solo con la morte degli
eredi. La presenza di un erede era fondamentale anche a livello economico e sociale, in quanto con i beni, egli acquisiva anche i
diritti reali, attivi o passivi che fossero, ed era il continuatore dei sacra. Verosimilmente, se il defunto non avesse avuto figli propri,
ne avrebbe potuto adottare uno per mezzo dell’adrogatio. Ma se ciò non fosse successo? La rilevanza dell’erede era troppo grande
per lasciare un patrimonio senza eredi e dunque si sviluppò una legislazione che mirava anche ai collaterali del testatore, nonché
ad estranei.

2. LA BONORUM POSSESSIO

Essa si ha quando il possessore dei beni o di parte dei beni dell’asse ereditario non è colui che ne ha il diritto, ovvero l’heres. In
questo caso quest’ultimo poteva esperire davanti al magistrato la bonorum petitio. Il magistrato, sulla scorta di valutazioni
sommarie, decideva chi dovesse avere la bonorum possessio, ma poi era il giudice a dover dichiarare se le ragioni di colui che si
asseriva heres erano dominanti sulle ragioni del bonorum possessor. Anche per la bonorum possessio valevano i tempi
dell’usucapio, e dunque una volta usucapito il bene, la petitio non aveva efficacia. Pian piano la bonorum possessio prese sempre
più piede nella società romana, tanto da essere accordata a chi dimostrava delle ragioni plausibili ed in più venne anche data al
bonorum possessor l’interdetto quorum bonorum col quale poteva richiedere la restituzione di quei beni ereditari in mano a terzi.
Dal punto di vista processuale, se l’erede dimostra il suo titolo, il possessor deve cedere. Questa condizione dell’erede sempre
vincente se dimostra il suo titolo è detta bonorum possessio sine re. Per quanto riguarda la bonorum possessio cum re essa poteva
essere data dal pretore stesso, che si preoccupava anche di rendere il possessor che lui stesso aveva designato più forte dell’erede,
tant’è che il possessor stesso poteva eccepire con una exceptio doli (ES. Vi è un testamento formalmente NON valido per lo ius
civile ma valido come testamento pretorio. Tale testamento prevede che l’eredità vada all’unico figlio del testatore, che però è
stato emancipato. Dunque, per lo ius civile dovrebbe andare tutto all’adgnatus proximus, ma il pretore, contro la sclerotica
tradizione che vorrebbe che l’eredità andasse solamente ai figli in potestate, afferma che l’eredità possa effettivamente anda re al
figlio emancipato e gli concede una exceptio doli).

Altro problema è, poi, il rapporto tra bonorum possessio e testamento. Vi sono tre casi

A. Se il testamento è conforme al minimo di formalità richiesta dallo ius civile e che il pretore rende inderogabili, e la bonorum
possessio è conforme all’atto, si ha la bonorum possessio secundum tabulas.

B. Se il testamento manca, si ha la bonorum possessio sine tabulis.

C. Se il testamento viola i requisiti di forma richiesti dallo ius civile ed appare contrario ai principi successivi radicatisi, si ha la
bonorum possessio contra tabulas.

3. IL TESTAMENTO

Inizialmente si utilizzava il gestum per aes et libram. Con esso il testatore dava in mancipatio il patrimonio ad un familiae emptor a
cui poi dava indicazioni su chi dovesse ricevere in eredità i singoli bene. Chiaramente il familiae emptor, nonostante gli venisse
ceduto il patrimonio con mancipatio, non poteva disporne. Col tempo poi si venne consolidando un nuovo atto costitutivo
dell’eredità: il testamentum per aes et libram. Qui il familiae emptor fu visto come una sorta di figurante, che doveva leggere il
testamento del defunto agli eredi e distribuire il patrimonio “come in queste tavolette cerate è scritto”. Da questa parte di formula
che l’emptor doveva dire si nota come il contenuto delle tavolette dovesse essere ignoto prima dell’apertura, dunque il testatore,
dopo averlo scritto, consegnava il testamento già sigillato a mo’ di quaderno, con le volontà scritte sulle lastre interne delle

33
tavolette. Erano necessari, affinchè il testamento fosse valido, 7 testimoni (5+il libripens e il familiae emptor stesso) all’apertura
delle tavolette. Nella parte esterna dovevano esserci designati gli eredi, pena l’invalidità del testamento. Di particolare rilievo,
soprattutto per la bonorum possessio, erano le formalità spettanti al familiae emptor e al testatore.

L’erede doveva essere istituito con l’uso del tempo imperativo e non potevano esserci clausole sospensive, fuorché quelle in cui si
richiedeva la volontà di un altro soggetto. Problematico fu, per la giurisprudenza, il caso in cui si intestasse a più coeredi, non tanto
per la divisione delle quote, ma per la loro eccedenza. Per quanto riguardava la divisione tra più coeredi ex certa res, la
giurisprudenza lasciò che ognuno prendesse ciò che gli era stato intestato, nonostante restassero dubbi su come si dovesse e se si
dovesse procedere ad un compenso in caso di valori sperequati.

Dal principio NEMO PRO PARTE TESTATUS PRO PARTE INTESTATUS DECEDERE POTEST derivò lo ius adcrescendi. Esso consisteva
nel fatto che, se morisse prima del testatore un coerede, la sua eredità veniva spartita tra gli altri coeredi e non tra i figli del
coerede deceduto. Questo ius venne poi complicato dalle leggi di Augusto riguardo i celibi e gli orbi e la loro capacità ridotta di
ricevere eredità. L’istituzione di un erede può determinare anche la sostituzione, che non per forza doveva essere un erede
“nuovo”, ma anche uno che avesse già ereditato altra parte dell’eredità (ES. lascio a Gianni i suppellettili, se rifiuta li lascio a Marco;
lascio gli argenti a Marco, se rifiuta li lascio a Gianni. Se Gianni accettasse sempre e Marco non accettasse, Gianni erediterebbe
anche la parte di Marco). La sostituzione poteva essere volgare o pupillare. Era volgare quando si istituiva un secondo erede
qualora il primo non accettasse. In questo caso al primo erede veniva dato un tempo massimo per l’accettazione dell’eredità, detto
cretio. Al termine di esso, spettava al secondo subentrare. Quella pupillare veniva inserita in quei casi in cui il testatore, ritenendo
che suo figlio impubere non giungesse alla pubertà, magari perché cagionevole di salute, istituiva un secondo erede che doveva
sostituire, qualora morisse, il primo.

Per ricevere o fare testamento occorre la testamenti factio. Per essa si intende sia a capacità attiva del fare testamento sia quella
passiva del riceverlo. Per essere capaci bisogna essere cittadini e far parte di una familia di cittadini. La libertà, invece, non è
requisito fondamentale, in quanto anche un servo può essere istituito erede. La differenza è che, se è un servo proprio,, è
necessario che si manometta il servo stesso affinchè diventi pieno titolare dei beni ereditari, se è servo altrui bisognerà che il
padrone accetti, e in quel caso i beni andranno a quest’ultimo. Non sempre, però, chi può ricevere può anche fare testamento. È il
caso dei filii familias, dei servi, degli impuberi, dei muti, dei sordi, dei pazzi e dei prodighi e per tutti coloro che hanno una capacità
di testare limitata. Per esempio i servi publici potevano disporre in testamento metà del peculio e i filii familias potevano disporre
del peculio castrense e quasi-castrense. Le donne avevano bisogno, per testare, di un tutore, a meno che non rientrassero nello ius
liberorum, dove erano capaci a tutti gli effetti. Tuttavia la coemptio (il poter scegliere un tutore compiacente) semplificò lo status
delle donne sotto questo punto di vista. La prigionia di guerra invalida il testamento, che però, in caso di postliminium, torna ad
essere valido.

Per quanto riguarda la testamenti factio passiva, le donne non potevano essere istituite nei confronti dei cittadini di censo
superiore ai 100 mila assi. Tuttavia questa norma, presente nella lex Voconia, veniva aggirata facilmente attraverso il legato e così la
donna riceveva a titolo particolare. Altri due tipi di soggetti che potevano essere istituiti ma non potevano disporre dell’eredità
erano gli incapaces, introdotti dalle leggi di Augusto sul matrimonio, e gli indegni, la cui parte veniva devoluta al fisco.

Il testamento è sempre stato considerato revocabile, perché la volontà del soggetto varia, è “ambulatoria”. Per questo fu vietato il
testamento congiuntivo, cioè di più persone. Dunque, era possibile redigere un altro testamento, ma doveva sempre possedere
quei caratteri fondamentali affinché sia valido. Se le tavolette venivano rovinate, non per forza andavano riscritte, bastava che
l’istituzione degli eredi fosse rimasta chiara. L’apertura del testamento doveva essere fatta nell’ufficio (statio) del pretore, se si era
in Roma, o del governatore, in provincia. Vi era una tassa del 5% sull’eredità e le manomissioni. All’apertura partecipavano il
familiae emptor, il libripens, i 5 testimoni che dovevano riconoscere i sigilli, i parenti più stretti e tutti coloro che venissero
considerati possibili ereditandi.

4. LA SUCCESSIONE SECONDO LA LEGGE

Qualora il testamento non fosse stato redatto l’eredità veniva assegnata per legge. Gli eredi legittimi erano i figli in potestate, la
moglie in manu era considerata “loco filiae”. Tuttavia con l’evoluzione del diritto si concesse la legittimità anche ai figli mancipati o
alla figlia andata in sposa, purchè inserissero nell’eredità eventuali acquisti fatti, in modo tale che non ci fossero diseguaglianze
(collatio bonorum/dotis). Gaio ci dice che nell’età arcaica, se questi fossero mancati, l’eredità spettava agli adgnati proximi e, se
non vi fossero o nessuno accettasse, ai gentiles. La classe gentilizia, però, venne meno e dunque non fu più considerata. In un primo
momento non si concesse la capacità di ereditare alle “adgnate” più lontane del primo grado (le sorelle). Per i liberti l’adgnatus era
il patronus, ma se aveva figli poteva intestare a loro l’eredità, cosa che non poteva fare il libero ex lege Iunia Norbiana, i cui beni era
devoluti al patrono o, se fosse morto, ai suoi figli secondo lo ius peculii. Per l’assegnazione dell’eredità si procedeva con la

34
successio ordinum (heres suiadgnati proximigentiles) e la successio gradum (successione per gradi dai più vicini). Per quanto
riguarda le madri e figli va detto che i beni della madre inizialmente veniva gestiti dal marito. Con il SC (= senatoconsulto)
Tertulliano si dispose che le moglie potessero succedere ai figli qualora questi fossero morti dopo la scomparsa del parens
manumissor. Per le madri che rientravano nello ius liberorum tutto ciò non serviva. Il SC Orfiziano dispose che i figli potessero
ottenere i beni dalla madre.

5. IMPUGNAZIONE DEL TESTAMENTO

Di fatto il testatario non poteva escludere o includere chi volesse. Vi erano degli obblighi per chi avesse generato. La società romana
pesava, prima di tutto, alla salvaguardia dei filii, che non potevano essere esclusi se non per exheredatio, ovvero per diseredazione
dal patrimonio. Se, invece, ci fossero stati praetermessi, ovvero figli “saltati” nel testamento senza aver subìto disheredatio, l’atto
era nullo in caso che essi fossero figli maschi, ma valido se erano le figlie o i parenti di grado ulteriore, che tuttavia concorrevano
della quota. Va detto che la exheredatio non avveniva quasi mai per motivi di indegnità, ma per motivi ragionevoli, come il caso di
una figlia che avesse già ricevuto la dote. Tuttavia, per coloro che ritenessero la diseredazione ingiusta, era concessa una querella
inofficiosi testamenti. La vittoria della querella portava alla totale nullità del testamento e la divisione secondo legge. Tuttavia il
querelante vittorioso poteva anche non annullare il testamento se avesse avuto un quarto della quota che gli sarebbe spettata “ ab
intestato”.

6. L’ACQUISTO DELL’EREDITA’

Sono state distinte due figure di eredi testamentarii: i voluntarii ed i necessarii, che si dividevano a loro volta in sui et necessarii o
solamente necessarii. La distinzione è fondamentale sul piano dell’accettazione e della capacità a succedere. L’estraneo era solo
invitato ad accettare, mentre l’erede doveva accettare. In più, se l’erede estraneo moriva, l’eredità non andava ai suoi figli ma ad
eventuali altri coeredi o sostituti. Se l’erede era un adgnatus proximus morto, l’eredità fu considerata “res nullius” finché non
venne accettata la successio graduum che permetteva, in caso di rifiuto o morte, di chiamare l’adgnatus successivo a succedere. Per
quanto riguarda i sui et necessarii, in caso di morte, l’eredità andava ai figli, nel bene (acquisto di beni) e nel male (debiti). Tuttavia
all’erede, di fronte a gravi debiti del defunto, venne affidata secondo lo ius abstinendi la possibilità, sempre rimanendo “heres”, di
affermare di non voler esercitare il proprio diritto ereditario. In questo caso la bonorum venditio dei beni del defunto veniva fatta a
suo nome. Si sviluppò una certa consuetudine di dichiarare eredi, in caso di patrimoni particolarmente gravati dai debiti, i servi, che
tuttavia conseguivano la libertà. I modi di accettazione erano due:

A. CRETIO: Atto solenne di fronte a 7 testimoni, venivano utilizzate delle parole rituali. L’accettazione della delazione aveva un
tempo massimo di 100 giorni per il primo invitato ad accettare, 60 per i vari sostituti.

B. PRO HEREDE GESTIO: Comportamento che lasci intendere univocamente di accettare l’eredità offerta. Può essere esperita in
qualunque momento.

I tempi dalla delazione all’accettazione dell’eredità producevano tre effetti della ritardata accettazione:

A. USUCAPIO PRO HEREDE: Considerando che fino al momento dell’accettazione il patrimonio era considerato “res nullius”
chiunque poteva appropriarsene. Ma sarebbe diventato il legittimo possessore soltanto una volta scaduti i tempi per la usucapione.
Tuttavia la sempre maggior presenza di eredi nelle successioni e anche la concessione di una restitutio in integrum a favore
dell’erede a danno di chi avesse usucapito in mala fede resero quasi o del tutto impossibili questa pratica, definiti da Gaio “ lucrativa
et improba”.

B. IN IURE CESSIO HEREDITATIS: Consisteva in un finto processo di eredità che consentiva, a chi non avesse ancora accettato e non
avesse nemmeno compiuto la pro herede gestio, di passare il diritto ad accettare ad un adgnatus di grado successivo.

C. HEREDITAS IACENS: E’ l’eredità non ancora adita. L’erede è stato chiamato ma non ha ancora accettato. Questo tipo di eredità
non è suscettibile di furto e per i ladri era prevista il crimen expilatae hereditatis.

Con l’accettazione tutti i diritti, attivi e passivi, passano dal defunto all’erede. Tuttavia poteva avvenire che il patrimonio del defunto
fosse così carico di debito da intaccare anche il patrimonio personale dell’erede. Per evitare che i creditori del defunto si trovassero
di fronte anche la concorrenza di eventuali creditori dell’erede e per facilitare quest’ultimo, fu concessa la separatio bonorum: il
patrimonio del defunto veniva lasciato ai creditori per rifarsi, mentre l’eventuale attivo e il patrimonio personale dell’erede
restavano “appannaggio” dei creditori dell’erede.

Vennero anche create una serie di azioni alle quali l’erede era attivamente o passivamente legittimato:

35
A. PETITIO HEREDITATIS: essa era la richiesta, da parte di un erede legittimato, di restituire il, o parte del, patrimonio da parte di chi
lo detenesse senza un valido motivo. In caso di vittoria, il possessore doveva pagare il valore del bene, sennò era assolto

B. ACTIO FAMILIAE ERCISCUNDAE: era destinata, alle origini, alla divisione dell’ercto non cito e terminava con l’adiudicatio.

7. I LEGATI

Il legato è la sottrazione di un bene dalla sorte del patrimonio ereditario. Questo bene viene assegnato ad una persona
determinata. I tipi di legato sono 4 a cui sono attribuiti diversi diritti

A. LEGATO PER VINDICATIONEM  DIRITTO REALE RIVENDICABILE: il diritto o bene passa subito al legato senza mai diventare
possesso dell’erede. Il legato dovrà rivendicare i beni se essi sono in possesso di un terzo

B. LEGATO PER DAMNATIONEM  DIRITTO DI CREDITO ESIGIBILE: ha come mezzo di tutela l’actio in personam ex testamento
certi/incerti, e come mezzo di acquisizione la mancipatio, traditio ed in iure cessio. Il diritto o bene può confondersi nel patrimonio
dell’erede, ma il legatario può rivendicarlo. Se il bene/diritto rivendicato è in possesso di terzi, dovrà occuparsene l’erede.

C. LEGATO SINENDI MODO  DIRITTO ESIGIBILE: ha come mezzo di tutela l’actio ex testamento incerti. Sinendi significa
“consentire” ed infatti è per obbligazione consentito che il legatario prenda un oggetto dal patrimonio dell’erede e lo usucapisca col
tempo

D. LEGATO PER PRAECEPTIONEM  DIRITTO RIVENDICABILE: l’acquisizione dell’oggetto del legato deve avvenire prima del
conteggio dell’asse ereditario.

Il diritto di accrescimento, ovverosia il beneficiare da parte dei legati agli eventuali beni rifiutati da altri legati, era possibile solo nei
casi del legato per vindicationem e per preaceptionem. Nel legato per damnationem, invece, qualora un legato rifiutasse, era
l’erede a beneficiarne. È chiaro che il legato avesse validità solamente dal momento in cui l’eredità venisse accettata. Ciò creò un
problema: il legato poteva trasferire, in caso di morte prematura, i propri benefici agli eredi? Ciò, per la giurisprudenza romana, era
possibile nei c.d. “dies cedens”, per cui si intendono i giorni che passano dalla delazione all’accettazione dell’eredità. Per “dies
veniens” si intendono, invece, i giorni da quando il bene/diritto è esigibili, ovvero quando l’eredità è stata adita. Ci possono essere
legati condizionati da un qualche avvenimento. Il legato è nullo se non rispetti i requisiti previsti, oppure se il legatario non ha la
testamenti factio, oppure se la cosa è già in possesso del legatario, oppure se è nullo il testamento. Chiaramente anche il testatore,
prima di morire, può variare il testamento e, magari, togliere un legato che inizialmente aveva previsto.

Tuttavia poteva capitare che, in certi testamenti, i legati potessero portarsi via tutto il patrimonio, lasciando l’erede senza nulla di
vantaggioso in mano. La giurisprudenza si attivò per eliminare questo problema, prima con due leggi risultate vane ( lex Furia
testamentaria del III sec. a.C. e lex Voconia del 169 a.C. . La prima prevedeva un limite dei legati a 1000 assi, ma ciò non risolveva il
problema dato che se il patrimonio è di 10,000 assi e predispongo 10 legati da 1000 assi del patrimonio non lascio nulla all’erede. La
seconda prevedeva che l’onorato non potesse ricevere un bene di valore maggiore alla quota spettante al meno favorito degli
eredi. Ma anche in questo caso la legge veniva aggirata). Si dovette aspettare il 40 a.C. per una legge soddisfacente: la lex Falcidia
de legatis. Essa prevedeva che l’erede testamentario dovesse comunque godere di almeno un quarto dell’attivo patrimoniale (se il
patrimonio è di 1,400 euro, di cui 600 di debiti, l’erede testamentario deve almeno ricevere 200 euro in quanto 1,400-600=800,
attivo del patrimonio800/4=200, quota minima dell’erede).

8. I FEDECOMMESSI

Si tratta di una richiesta dell’ereditando (= colui che lascia l’eredità) all’erede che avrebbe dovuto acquistare i beni di lasciare parte
o, addirittura, tutti i bene dell’asse a qualcuno. Il fedecommesso si poteva trovare sia nel testamento che in un atto indipendente. A
differenza del legato esso non era coercibile, né un ordine coattivo. In realtà, in origine, il fedecommesso era dovuto alla semplice
buona fede dell’erede, che avrebbe dovuto cedere. Tuttavia, per salvaguardare gli interessi del fideicommissario, col tempo
vennero istituiti mezzi e autorità per costringere all’esecuzione. Prima, con Augusto, si attivò un ricorso extra ordinem, poi con
Claudio una cognitio extra ordinem, utilizzabile in ogni fedecommesso, e infine si giunge alla creazione del pretore
fideicommissarius. Anche la figura dell’erede, però, andava salvaguardato dalla possibilità che si vedesse tolto l’intero patrimonio e
dunque anche per il fedecommesso venne prevista la quota della quarta Falcidia (vedi pag. prec.). Essa, tuttavia, poteva essere
revocata nel caso in cui l’erede non accettasse di adempiere al fedecommesso ( SC Pegasiano). In più, con il SC Trebelliano vennero
disposte al fideicommissario tutte le actiones utiles che sarebbero anche spettate all’erede, sia a favore che contro. Altro problema
si poneva di fronte al fideicommissus familiae relictum, sostanzialmente si affermava che un erede ricevesse un bene ma che non
ne potesse disporre e con l’obbligo di trasmetterlo ai suoi eredi, che non ne avrebbero potuto disporne e sarebbero stati obbligati a

36
ritrasmettere. In questo caso, chiaramente, la quarta pegasiana (o Falcidia) non ha alcun senso. Inizialmente questo tipo di
fedecommesso venne riconosciuto valido per due generazioni, ma poi al testatore fu permesso di superare le due generazioni.

Per quanto i documenti autonomi di cui si parlava all’inizio, essi sono i codicilli. Va differenziato innanzitutto tra codicilli semplici o
confirmati. I primi erano documenti separati dal testamento, mentre i secondi erano ricompresi in esso e dunque venivano usate
tutte le tutele, per esempio per eventuali legati inseriti, previste per i legati presenti nel testamento. Il legato, in un codicillo
confermato, valeva come tale, mentre se inserito in un codicillo semplice valeva come fedecommesso. Il tutore previsto in un
codicillo confermato era, di fatto, un tutore testamentario; mentre, se fosse stato previsto in un codicillo semplice, sarebbe
risultato solo un suggerimento al magistrato per la designazione di un tutore dativo.

9. LE DONAZIONI

Le donazioni, nella società romana, non erano ben viste, anche se non se ne comprende bene il motivo. Probabilmente nel libero
gioco del mercato su cui l’economia di Roma si reggeva era malvista la gratuità di tale atto, che veniva definito donandi causa.
Mentre, infatti, la donazione è giocoforza “mortis causa”, non si comprende bene la rilevanza “inter vivos”. Una donatio, per essere
tale, deve portare ad un aumento del patrimonio del donatario e una diminuzione, ovviamente, di quello del donante. Devono
essere una diminuzione ed un aumento effettivo, per questo non si riteneva donationes lo scambio di eventuali crediti o debiti.
Oltre la spontaneità non era richiesto nulla. A lungo si dibatté sul significativo dell’ animus donandi (= volontà di donare) e, alla fine,
si concordò che dovesse essere questo l’elemento fondante di una donazione. Tuttavia, proprio per essere malviste, si decise di
porre un limite alle donazioni. Con la lex Cincia de donis et muneribus del 204 a.C. si pose un limite forse di 1000 assi alle
donazioni (come la lex Furia per i legati). Nell’epoca repubblica si parlò pure di divieto tra donazioni tra coniugi. Non venivano
ritenuti donazioni, invece, i regali d’uso e le donazioni fatte per certi determinati scopi, come la manomissione di servi. Tipo
particolare di donazione fu la donatio mortis causa che prevedeva, alla morte del donante, che venisse fatta una donazione,
sempre che il donatario gli fosse sopravvissuto. Essa veniva esperita con la fiducia cum amico (vedi pag.21) e il bene veniva
trasmesso con mancipatio o traditio e dunque il donatario riceveva subito la proprietà. Anche per i doni mortis causa, essendo
comunque una riduzione dell’asse ereditario, venne prevista la quarta Falcidia.

CAPITOLO QUINTO: LE OBBLIGAZIONI (Pagg. 380-454)

1. LE FONTI DELLE OBBLIGAZIONI (per le obblig. dell’età arcaica rivedi da pag. 24)

Gaio divide tra due species di fonti delle obbligazioni: quelle sorte da contratto e quelle sorte da delitto. Poi, parlando delle prime,
le divide in quattro generes: “[...] per mezzo (della consegna) di una cosa, o per mezzo delle parole, o per mezzo di scritti, o per
mezzo del consenso.” Continuando, Gaio descrive le varie differenza tra questi generes, ma resta dubbioso sulla collocazione della
indebiti solutio, che analizzeremo più in là. Essa infatti non rientra né tra le obbligazioni da contratto né tra quelle da delitto. In più,
in seguito, Gaio affiancò a queste due specie una terza specie: le variae causarum figurae, obbligazioni sorte per i disparati motivi
non riconosciuti dallo ius civile.

2. LE OBBLIGAZIONI DA CONTRATTO

A. OBBLIGAZIONE RE CONTRACTA (= consegna di una cosa): Gaio afferma: “L’obbligazione si contrae per mezzo (della consegna) di
una cosa come nella dazione di un mutuo. [...] beni che o contando, o misurando, o pesando diamo con lo scopo che ci siano
restituiti, non gli stessi, ma altri della stessa natura”. La struttura del mutuo è semplice e lineare: io ti do un bene ed una scadenza,
alla scadenza io voglio che mi sia restituito un tantundem eiusdem naturae. Non c’è spazio per gli interessi, e dunque il mutuo è,
essenzialmente, gratuito. Un esempio sta nel fenus nauticum, attività marittima che dopo la vittoria su Cartagine prese piede in
maniera decisa. Il fenus nauticum era il prestito di una somma da destinare all’armamento di una nave o all’acquisto di merci. Era
un’operazione molto rischiosa perché si rischiava di non ricavarne nulla, ma se l’impresa avveniva con successo, allora vi erano
sicuramente grandi guadagni. Altro tipo di obbligazione che rientra in questo tipo è il deposito. Io depositante deposito un bene, o
un oggetto. La proprietà e il possesso restano miei, ma il depositario è obbligato a restituirmi il bene così come l’ho lasciato.
Dunque, se lascio una cavalla ad uno stalliere, egli non potrà né rifiutarsi di restituirmela, né rendermela in condizioni peggiori di
quelle in cui l’avevo lasciata, e se la cavalla ha avuto dei cuccioli, mi prenderò anche quelli. Tuttavia, secondo lo ius retentionis, lo
stalliere potrà tenersi la cavalla e gli eventuali frutti finché non avrò ripagato delle spese di mantenimento ed eventuali spese per i
danni procurati dalla cavalla allo stalliere. Il depositario, poi, non risponde del furto del bene, in quanto il possesso e la proprietà
sono sempre restate nelle mani del depositante. In caso di mancata restituzione volontaria del depositario, al depositante è
concessa una formula in factum. Vengono poi considerati da Gaio i depositi particolari, ovvero quei depositi fatti situazioni
particolari che non lasciavano tempo al depositante di valutare la qualità del depositario e l’opportunità del deposito. Il depositario,
37
in questo caso, se si rifiutava di restituire e lasciava dolo malo che i beni perissero, doveva pagare una sanzione pari al doppio. Altro
particolare genere di deposito è il sequestro, che avveniva quando due litiganti affidavano l’oggetto della contesa ad un sequester,
che disponeva della possessio ad interdicta. Il sequester doveva restituire una volta terminata la lite. Infine vi è il deposito
irregolare, ovvero la consegna di una certa quantità di beni fungibili, generalmente denaro, col patto che il depositario restituisca a
semplice richiesta. È ciò su cui si sono basati i sistemi bancari romani.

Il comodato, invece, è simile al deposito, anche se il comodatario può utilizzare il bene che gli viene dato. Il comodatario, tuttavia,
risponde del furto e non solo del fatto che non voglia restituire. Dunque al comodante viene data sempre un’ actio in factum, ma al
comodatario spetta sempre lo ius retentionis.

Il pegno, invece, veniva dato dal debitore al creditore quale garanzia. Esso viene considerato sia come una diritto reale sia come un
contratto di garanzia. La consegna comporta il trasferimento del possesso e la tutela del rapporto fu introdotta con un’actio in
factum pigneraticia. Il creditore, di fronte all’insolvenza del debitore, poteva vendere il bene per soddisfarsi del ricavato.

Altre figure che rientrano, anche se problematicamente, in questo genere di obbligazioni sono la fiducia cum amico e la fiducia
cum creditore. Con la prima si intende il trasferimento del dominium su un bene, e qui sta la differenza dal deposito,che il
trasferente non può conservare. Questo tipo di fiducia era molto usato durante i periodi di conflitti politici, per evitare gli espropri.
La fiducia cum creditore, invece, trasferiva anch’essa il dominium del bene al creditore, quale garanzia. Entrambi questi rapporti di
basano, per quanto riguarda la restituzione, sul pactum fiduciae e non tanto sulla consegna della res.

B. OBBLIGAZIONE VERBIS CONTRACTA

Gaio ci riferisce che questo tipo di obbligazioni sorgevano grazie ad una risposta, congrua a quello che veniva chiesto nella
domanda (Prometti di dare? Prometto). L’obbligazione di questo tipo, però, poteva anche sorgere senza la domanda, ma da una
semplice affermazione, specialmente nei casi di dotis dictio e ius iurandum liberti. Gaio insiste particolarmente sul termine
“spondeo”, da cui derivava la sponsio, utilizzabile solo presso i Romani, mentre gli stranieri potevano obbligarsi tramite stipulatio.
Dunque la stipulatio altro non è che un’evoluzione della sponsio stessa. In questo genere di obbligazioni si distinguevano le due
figure di stipulator (promissario creditore) e sponsor, o promissor (promissario debitore). L’utilità di questo tipo di obbligazioni era
la particolare astrattezza e genericità dei vari scopi raggiungibili. Non serviva una motivazione o una spiegazione, bastava
semplicemente che il promissor rispondesse con lo stesso verbo utilizzato dallo stipulator. Al promissor il pretore aveva concesso
delle exceptiones qualora riscontrasse iniquità dell’azione dell’attore rispetto all’accordo stipulato. Questi mezzi erano l’exceptio
pacti conventi o addirittura la stessa exceptio doli. Esempio di raggiro può essere la richiesta di restituire qualcosa che non si è mai
ricevuto. È evidente che, se a domanda si rispondeva congruamente, l’obbligazione era sorta. È chiaro anche che, se si contrae
un’obbligazione iniqua, nonostante sia validamente sorta, si può sempre eccepire. I mezzi di tutela di questo tipo di obbligazioni
sono caratterizzati dalla presenza dei presupposti causali della pretesa contenuta nell’intentio. Essi, se l’obbligazione sorge, come
nella maggior parte dei casi, su un qualcosa di indefinito, su un facere o un non facere, veniva accordata la actio (incertae) ex
stipulatu, occorreva mettere a conoscenza quei presupposti nella demonstratio. Se l’oggetto della prestazione fosse stato un
mutuo o un prestito d’uso venivano accordate o l’actio certae credita pecuniae, o la conditio certae rei oppure l’agere praescriptis
verbis (actio certae ex stipulato). In questi casi la causa petendi andava inserita nella praescriptio.

C. OBBLIGAZIONE LITTERIS CONTRACTA

Questo tipo di obbligazioni nascono dalle parole scritte (= litteris). Gaio identifica queste obbligazioni con il nomen
transscripticium, cui aggiunge sinografi e chinografi. Il nomen transscripticium nasceva da un debito generato dal fatto che avessi
speso una mia somma di patrimonio per un terzo, che doveva restituire. Il debito poteva sorgere da una datio rei qualsiasi, ma si
poteva richiedere la restituzione anche quando la datio rei non era (ancora) avvenuta. Altro problema che poteva sorgere in queste
obbligazioni era che si poteva costituire anche tra assenti. Spesso, dunque, risultava difficile se il documento, che aveva una valenza
probatoria, fosse stato redatto all’insaputa o meno del debitore, anche se talvolta erano registrate sui registri contabili del debitore
le stesse spese. Le singrafi e i chinografi sono due distinti istituti “peregrini”, che non vennero mai, in età classica, qualificati iuris
gentium. Essi erano utilizzati specialmente nelle province orientali e avevano la funzione di riportare debiti e adempimenti. In
provincia avevano il valore di obbligazioni, se riconosciute valide, a Roma solo di prova.

D. OBBLIGAZIONE CONSENSU CONTRACTA

Si ha quando, semplicemente, le parti sono d’accordo. A differenza delle precedenti obbligazioni, questo genere di obbligazioni si
contraddistingue per la reciprocità. Infatti, il fenomeno della compravendita, tipico delle obligationes consensu contractae, si
manifesta in questo modo: da un lato c’è chi deve dare una merx, dall’altro chi deve pagare un pretium ritenuto giusto e congruo
dalle parti. Per il trasferimento, poi, si dovrà utilizzare il negozio idoneo, mancipatio, in iure cessio o traditio che sia, oppure
38
semplicemente aspettare che l’usucapio faccia i suoi effetti. Questo tipo di obbligazioni sono essenziali nel sistema economico-
giuridico romano. La merx poteva essere qualunque tipo di res suscettibile di un prezzo. Poteva anche essere un’actio per la
riscossione dei debiti. Si possono stipulare questo tipo di obbligazioni anche per beni che possono ancora non esserci nel momento
in cui si stipula (per esempio la quantità di pesce dopo una giornata di pesce, o una sedia fatta dal falegname). In questo caso ci
sono due differenziazioni. Nel caso del pescatore egli non può essere accusato di inadempimento, mentre il falegname sì, in quanto
il risultato dell’uno è dovuto alla “fortuna”, quello dell’altro dalla perizia. Su questa casistica si è anche impiantato la differenza tra
emptio rei speratae ed emptio spei. La prima prevede l’accordarsi su un tot prezzo ogni tot merce (Es. 1 euro al kilo), la seconda
l’accordarsi su un tot prezzo per l’intera merce (Es. 100 euro su tutto il prodotto di una giornata di pesca). Il primo è molto più
sicuro, nel secondo il risultato può essere favorevole, se la pesca va bene, o sfavorevole, se la pesca va male. Va rilevato come il
pretium non poteva consistere in un’altra res. Dunque l’accordo non prevedeva il baratto, ma il pretium doveva essere in denaro, e
doveva essere certum, determinato, o quanto meno determinabile. Vi erano poi degli obblighi del venditore, come quello contro
l’evizione del bene e la garanzia per il pacifico godimento del bene. Con la garanzia contro l’evizione il venditore garantisce di
aiutare il compratore allorché eventuali terzi rivendicassero il bene come proprio e citassero il compratore in giudizio. In più è
impensabile che, per le res mancipi, si dovesse esperire la mancipatio, anche perché spesso i beni non erano nemmeno del
venditore, ma magari di un contadino che aveva dato il compito al venditore di vendere la merce. Se l’oggetto non fosse
corrispondente alla richiesta del compratore, o fosse peggiore, inizialmente egli poteva esperire un’ actio ex stipulatu contro il
venditore, ma poi ci si orientò per concedergli una actio empto. Per quanto riguarda, invece, i vizi occulti, ovvero i difetti non
subitaneamente riconoscibili e taciuti dal venditore, l’edile curule assegnava al compratore tradito due azioni: o un’actio
redhibitoria, con cui, previa restituzione della merce, il compratore poteva farsi ridare indietro il denaro, o un’ actio aestimatoria,
da richiedere entro 6 mesi dalla compera, con cui il compratore poteva avere una riduzione del prezzo o la differenza tra quanto
pagato e il valore effettivo del bene, che dunque restava nella disponibilità del compratore. Anche il compratore aveva degli
obblighi. Infatti doveva garantire che il denaro diventasse del venditore, azione che veniva fatta nel momento stesso della vendita,
altre volte prima, raramente dopo. Si ritiene che il ritardo del pagamento oltre i limiti generasse degli interessi. Dunque entrambi i
contraenti si ritrovavano obbligati in qualche modo l’uno nei confronti dell’altro, questo è tipico dei rapporti SINALLAGMATICI.
Questi obblighi si attenevano alla bona fides. Potevano anche esserci dei patti aggiuntivi, che erano l’ in diem addictio, la lex
commissoria e il pactum displicentiae. La in diem addictio era utilizzata per fermare il prezzo del bene, tuttavia il venditore poteva
accettare, se gliene venivano fatte, migliori offerte, che potevano essere non solo di più denaro, ma anche di meno rate, per
esempio. L’offerta migliore doveva essere riferita al primo compratore, che poteva adeguarsi o meno. La lex commissoria serviva, in
caso di mancato o ritardato pagamento, al venditore per rescindere il contratto stipulato col compratore. Il pactum displicentiae,
invece, era a favore del compratore, che poteva restituire indietro la merce e riavere il denaro se la merce non fosse stata di suo
gradimento.

È tempo, ora, di analizzare la locatio et conductio. Comune ad essa è il locare (= dare qualcosa in prestito) ad un conductor (=
beneficiario del locare) per una merces (canone, fitto). Si possono avere tre tipi di conduzioni: di una res (locatio rei), di un’opus
(locatio operis) o delle operae (locatio operarum) altrui.

Nella conduzione/locazione di res il locatore è colui che loca e riceve la merces, il conductor è colui che beneficia della res e paga.
Si può locare qualsiasi bene a patto che sia inconsumabile. Il conductor di un fondo rustico è detto colonus, di un’abitazione
cittadina, invece, inquilinus. La merces è, generalmente, una somma di denaro. Il locatore ha l’obbligo di lasciare che la res sia a
disposizione del locatore per tutto il tempo pattuito. Se la res è evitta (= è stata già data in locazione ad un terzo), e il locatore ha
taciuto di essere a conoscenza dell’eventualità, è citato per inadempimento con l’actio ex locato. Se, invece, è in buona fede, il
locatore non è responsabile, ma il conduttore può non pagare il canone, annullando il contratto. Se la res è viziata, se il locatore è in
buona fede, perde solo il diritto alla mercede, se è in mala fede, paga i danni. Il conduttore, invece, deve pagare la merces e
restituire alla fine del tempo pattuito nella stesa condizione in cui l’aveva trovata, e risponde di eventuali danni a lui imputabili.

Nella locatio operis, il locatore dà al conduttore una res affinchè egli vi eserciti sopra la sua arte o il mestiere, oppure quando il
locatore commissiona al conduttore una determinata opus. Un esempio del primo caso può essere l’andare dal lavandaio per far
lavare la giacca, del secondo caso la commissione della costruzione di una nave o un edificio. Nel primo caso, il locatore è obbligato
a pagare la merces e a consegnare la res, nel secondo a pagare la merces ed a fornire le materie prime, anche il terreno per
l’edificio. Il conduttore deve portare a termine la conduzione in maniera perfetta, rispondendo perciò di dolo e colpa ed anche
imperizia.

La locatio operarum era poco diffusa inizialmente, ma pian piano prese piede. Si tratta del pagare un uomo per ottenere i suoi
servigi (operae) per una qualche attività, a patto che non fossero artigianali ed artistiche, in quanto rientranti nella locatio operis.
Per esempio, si poteva richiedere la locatio operarum nei confronti di un precettore per i figli.

39
La societas è un contratto consensuale stipulato tra più persone che mettono in comune i loro beni oppure lo scopo commerciale
che vogliono raggiungere. Sembra chiaro il richiamo al “consortium ercto non cito”, ma sul contratto di società vi erano forti influssi
dello ius gentium. Non deve quindi sorgere confusione tra società (= contratto) e comunione (= titolarità dei beni). La società dura
finché tutti i soci perseverano nello stesso obiettivo, quando qualcuno rinuncia la società si scioglie (Gaio). Tale intenzione di far
parte di una società è detta affectio societatis. A differenza delle società moderne, in quelle romane non c’erano dei soci con
maggiori poteri di altri, erano idealmente formate da pari. Naturalmente può accadere che venga dato ad un determinato socio un
determinato impegno, previo, però, mandato. È evidente che in questo caso il terza è obbligato solo con il socio; mentre il socio ha
nei confronti dei consoci o l’actio mandati o l’actio negotiorum gestorum per la regolazione di rapporti interni. Non si creano
rapporti societari tra un socio e i soci di un consocio. Il diritto e la giurisprudenza romana hanno riconosciuto tipi particolari di
società, come le societates publicanorum, per la loro rilevanza pubblica delle loro attività di appalto delle imposte, e le societates
argentariorum, cioè dei banchieri. L’obbligazione nasce dal conferimento dei soci dei propri beni (tutti o parte di essi) e delle
attività per il raggiungimento dello scopo comune. I conferimenti potevano essere sia in beni che in operae. Era vietato che un
socio partecipasse o dei soli utili o delle sole perdite, ma andava tutto diviso in maniera eguale. Gaio ci racconta di due tipi
fondamentali di società: la societas omnium bonorum, dove è contemplata il conferimento della totalità dei beni, anche di quelli
che saranno acquistati per il futuro, per il raggiungimento dello scopo, e la societas unius negotiationis, nel cui caso era
contemplata il conferimento solo di una parte dei beni necessaria per il raggiungimento di uno scopo economico attraverso lo
svolgimento di una determinata attività negoziale. I soci erano tutelati dall’actio pro socio, che si oppone a tutti i comportamenti
contrari alla bona fides. È molto probabile che dall’esperimento dell’azione venisse meno da parte del socio la fiducia nella societas,
e dunque anche l’affectio societatis, e la società si sciogliesse. Altri modi di estinzione della società sono: raggiungimento del fine o
scopo prestabilito, morte di un socio (essendo la società basata sulla fiducia di una data persona in un’altra è chiaro che gli eredi
del defunto socio non ne possano prendere il posto), capitis deminutio o fallimento di un socio, che comporti la bonorum venditio
dei suoi beni.

Infine vi è da analizzare il mandato. Esso è l’incarico di compiere per conto di un mandante, o di un terzo, una determinata attività.
Anche qui si tratta di un contratto consensuale tipico dello iuris gentium e tutelato mediante actiones bonae fidei. La caratteristica
di questa obbligazione è che è assolutamente gratuito. Mandante e mandatario hanno entrambi a disposizione un’actio mandati, il
mandatario per eventuali rimborsi per spese sostenute per concludere il negozio delegato oppure per eventuali danni, il mandante
per ottenere dal mandatario gli effetti di tale negozio. Oggetto del mandato può essere qualunque attività, purchè nell’interesse del
mandante, lecita e determinata, affinché non possano nascerne incertezze. Non è ammesso un mandato nell’interesse del
mandatario. Né può essere oggetto di mandato un’attività da compiersi dopo la morte del mandatario o del mandante. Il
mandatario è obbligato a compiere l’attività secondo i patti prestabiliti. Nasce qui la questione sull’ eccesso di mandato, ovvero nel
caso in cui il negozio sia stato compiuto a condizioni più onerose di quelle pattuite. I Sabiniani ritenevano che si poteva imputare al
mandatario l’inadempimento, e dunque il mandante non doveva rimborsare. I Proculiani, invece, ritenevano che il mandante
dovesse pagare la differenza. Quest’ultima versione ebbe la meglio e si impose. Il mandato si estingueva per recesso unilaterale del
mandante o del mandatario, purché la revoca avvenisse prima dell’inizio dell’incarico, per morte di uno dei due o capitis
deminutio.

3. CONSIDERAZIONI DI SINTESI SUL CONCETTO DI CONTRATTO

Considerazioni non molto importanti e che aggiungono poco o niente che potete fare tranquillamente sul libro (pag.416-421).

4. I PATTI

Ulpiano distingue i patti tra convenzioni assistite da cause, tutelate con un’actio, ei meri accordi ulteriori (pattuizioni), tutelate da
un’exceptio. Anche questo tipo di accordo si basava sulla buona fede e, essendo contraddistinto dalla libertà delle parti per
accordarsi secondo i propri interessi, quanto più l’accordo sarà libero, tanto più sarà tutelato da formule di buona fede. Ulpiano,
poi, scrive che i patti stipulati al momento stesso della conclusione di un contratto tutelato da iudicia bonae fidei (= pacta adiecta
in continenti), sono parte del momento costituivo stesso dell’accordo e il giudice ne deve tener conto. Non così per i patti aggiunti
in seguito (= pacta ex intervallo), questi valgono solamente come contenuto di una exceptio. L’unico limite che incontra questa
libertà negoziale è la frode, cioè l’andare contro la buona fede. Vi sono poi dei veri e propri interventi del pretore su questi tipi di
accordi, tesi a rafforzare un’obbligazione già assunta con clausole edittali. SI parla di pecunia constituta, che può essere “debiti
propri”, se ad accordarsi sono creditore e debitore, oppure “debiti alieni”, se tra creditore e terzo. SI tratta di stabilire il giorno per
il pagamento di un debito. Essa è una clausola aggiuntiva che accede ad un vecchio debito ancora non saldato. Nella promessa c’è
l’aspettativa del suo mantenimento. Il “debiti alieni” si fa con i banchieri, affinchè paghino o procurino che sia pagato il debito del
cliente. Oppure si parla di recepta, che possono essere o nautarum o cauponum o stabularium se venissero indirizzati,
rispettivamente, o al capitano della nave o all’albergatore o allo stalliere, in caso di mancata restituzione o danneggiamento delle

40
cose dei clienti. Con il receptum arbitrii colui che è stato scelto per dirimere la controversia è obbligato a pronunciare la sua
decisione, mediante compromissum. Il receptum era lo strumento con cui il pretore costringeva l’arbitro a pronunciare la sentenza.

5. OBBLIGAZIONI DA ATTO LECITO NON CONTRATTUALE

Gaio riporta in questo tipo di obbligazioni le seguenti figure:

A. NEGOTIORUM GESTIO: è l’atto di colui che, senza averne ricevuto mandato, si prende cura di uno o più affari altrui. L’utile,
chiaramente, andrà al gestito e non al gestore. Se il gestore, poi, è consapevole di gestire affari altrui, allora si intende che siano
sorte delle obbligazioni reciproche e che si creino tra gestore e gestito un rapporto simile a quello tra mandante e mandatario. Tali
obbligazioni sono tutelato dall’actio negotiorum gestorum, che può essere directa (impugnata dal gestito) o indirecta (impugnata
dal gestore). Simile, in questo ambito, era anche il rapporto tra dominus e procurator. Al procurator veniva dato l’incarico di gestire
determinati beni, ma non si trattava di un mandato, in quanto non vi era il compito di compiere un determinato affare, ma tutto ciò
che fosse occorso a discrezione del procurator. Le fonti, poi, ci riportano di due tipi di actio negotiorum gestorum: una in ius
concepta, l’altra in factum, introdotta dall’editto del pretore. Quest’ultima era stata concessa in tutti i casi diversi dall’obbligazione
del procurator, in quanto, nel caso della gestione di un negozio di un defunto o di un assente, mancando qualunque autorizzazione,
non ci sarebbe stato spazio per un iudicium bonae fidei. Il gestore risponde per dolo, ma alcuni parlano anche di colpa. Nel caso in
cui il gestore avesse fatto un favore al gestito, allora si tende a farlo rispondere per dolo; nel caso in cui il gestore si fosse impicciato
in affari che non gli competevano, allora risponderà per colpa.

B. IUDICIUM TUTELAE: si tratta di uno iudicium bonae fidei che può essere esperito o dal pupillo o dal nuovo tutore (purché scelto
quando il pupillo fosse ancora impubere). L’azione era, insieme, di rendiconto e negotiorum gestorum.

A questo proposito va ricordato che il pupillo poteva concludere personalmente atti che producessero un acquisto in suo favore,
ma non poteva subire gli esiti sfavorevoli: poteva incassare i crediti, ma non estinguere i debiti, per esempio.

C. LEGATUM PER DAMNATIONEM: l’erede è responsabile dell’adempimento dei legati istituiti con la formula della damnatio. Lo
stesso dicasi per il legato sinendi modo. L’erede è obbligato a dare i beni previsti al legatario.

D. INDEBITI SOLUTIO: si tratta di un doppio errore: in colui che dà, che si ritiene erroneamente debitore, e in colui che riceve, che si
ritiene erroneamente creditore. L’obbligazione nasce re, e la restituzione si richiede con una condictio. Ci sono vari tipo di
condictiones: condictio sine causa, condictio ob turpem causam, condictio ob rem dati re non secuta etc.

Rientrano tra le obbligazioni sorte da atto lecito non contrattuale le c.d. “obbligazione da promessa”, tra le quali rientrano la
pollicitatio (promessa fatta dal candidato alla cittadinanza che lo deve eleggere, ebbe efficacia dopo la creazione di una cognitio
con cui ottenere l’oggetto della promessa), il votum (promessa fatta dal devoto alla divinità, anche essa divenne efficace dopo la
creazione di una cognitio come per la pollicitatio), la dotis dictio (dichiarazione della “sponsa”, del pater di lei, o di un debitore
dell’una o dell’altro, di voler inserire determinati bene nella dote) e la promissio iurata liberti (promessa con cui il servo si
impegnava a prestare le sue opere al patronus una volta manomesso).

6. LE OBBLIGAZIONI DA DELITTO

L’autore del delitto era obbligato sia nei confronti della società, cui doveva l’assolvimento della pena, sia nei confronti del
danneggiato, cui doveva il risarcimento. Vi erano diversissime specie di delictum, che andavano da quelli previste dalle leggi regie e
dalle XII tavole a quelle più attuali, dunque non è possibile definire il delictum. Col tempo era stata soppressa la pena corporale e si
era passati alla pena pecuniaria, obbligatoria in caso di condanna dopo il processo. La prima distinzione va fatta tra i delicta (anche
chiamati maleficia o peccata), ovvero i delitti privati, contro i quali veniva concessa un’azione privata, sebbene penale, e i crimina,
ovvero i delitti pubblici, contro i quali veniva concessa un’azione pubblica. Quest’ultimi erano crimini che danneggiavano gli
interessi della res publica e potevano essere denunciati da un cittadino, da un magistrato o da un funzionare penale, mentre per i
primi potevano essere denunciati solo dal privato leso. Le azioni penali sono state raggruppate insieme in base ad alcuni caratteri
corrispondenti quali la intrasmissibilità passiva, la cumulatività, la nossalità e la perpetuità o annualità.

Per intrasmissibilità passiva si intende il fatto che la poena non può ricadere sugli eredi del danneggiante, né può essere richiesta
dagli eredi del danneggiato. Questo fino all’età imperiale, nella quale venne introdotta la norma che prevedeva la possibilità degli
eredi del danneggiato di richiedere, per esempio nel caso di furto, ciò che era stato loro indebitamente tolto agli eredi del
danneggiante, che si erano arricchiti illiberalmente.

41
La cumulatività si ha nel caso in cui i criminali siano più d’uno. In questo caso tutti rispondono dell’intero, e non di dividere la pena
per il loro numero equamente.

La nossalità è la possibilità per il pater, o il dominus, di dare a nossa il colpevole di un crimine su cui lui detiene la potestas. Egli
risponde anche nel caso in cui sia stato un animale domestico a ferire il danneggiato. Dunque il pater/dominus si vedeva costretto a
decidere se pagare oppure consegnare.

Si parla di annualità nel caso in cui si tratti di azioni penali concesse dal pretore, ovvero esperibili entro un anno dalla commissione
del fatto. Perpetuità si attribuisce, invece, a tutte le azioni penali concesse dallo ius civile.

Infine, si parla di reipersecutorietà quando il danneggiante richiedesse non solo il pagamento per l’illecito, ma anche la restituzione
di ciò che gli era stato indebitamente sottratto.

Si parla, invece, di actiones in duplum in tutti quei casi in cui il convenuto neghi la propria responsabilità, ma poi venga
condannato. In questo caso egli doveva pagare il doppio, come anche previsto del resto dalla Lex Aquilia. Questa pena fungeva da
deterrente per evitare che il convenuto resistesse temerariamente anche nei casi in cui aveva ben poco a cui aggrapparsi.

Per quanto riguarda il furto va detto che il suo significato divenne ben più ampio di quello di “sottrazione”. La definizione nuova di
furto la dobbiamo a Paolo che afferma che “il furto è la sottrazione fraudolenta della cosa al fine di trarre un vantaggio
patrimoniale dalla cosa stessa o da suo uso o dal suo possesso”. Rientravano nei casi di furto, per esempio, anche l’istigazione alla
fuga del servo altrui o la falsificazione di un documento. Si mantenne la distinzione tra furtum manifestum (condannato al
quadruplo) e furtum nec manifestum (condannato al doppio). Scomparve la perquisizione “lance et licio”, e rimase possibile la
perquisizione informale. La giurisprudenza aveva poi enucleato le figure del furtum conceptum, ovvero quando, a seguito di una
perquisizione, si rinveniva la refurtiva a casa propria, e si veniva condannati al triplo, e quella del furtum oblatum, che, utilizzando
l’actio furti concepti il condannato per furtum conceptum si rifaceva su chi avesse nascosto la refurtiva nella sua proprietà. Il vero
ladro veniva condannato sempre al triplo. In caso, invece, di furtum prohibitum, che si aveva quando il reo impediva la
perquisizione, si veniva condannati al quadruplo.

Legittimato attivamente ad esperire l’actio furti era il dominus del bene sottratto, ma anche chiunque ne avesse interesse perché
altrimenti ne avrebbe dovuto rispondere in prima persone, come il comodatario che, in caso di furto, deve risponderne al
comodante. Legittimato passivo era chiunque fosse sospettato di aver commesso il furto, ed anche eventuali complici.

Accanto alla nozione di furto ruotano fattispecie simili a cui vennero date delle azioni, come l’ actio de arboribus succisis, risalente
all’età decemvirale, o l’actio arborum furtim caesarum, qualora degli alberi siano stati tagliati di nascosto. Il pretore, poi, si
preoccupò di punire anche coloro i quali, durante un incendio, avessero rubato, approfittando della situazione di panico, dei beni
altrui. Per evitare questi fenomeni di sciacallaggio dispose l’actio de incendio ruina naufragio rate nave expugnata. Fonti ci
rivelano, in più, che Lucullo nel 76 a.C. si occupò di porre un freno alle rapine, soprattutto in caso di azioni di bande armate, che
venivano condannate “in quadruplum”. Dunque, al delitto di “rapina”, introdotto repentinamente dal pretore, vi veniva aggiunto
l’eventuale aggravante dell’uso della violenza. Trattandosi di un’azione pretoria valeva entro l’anno dalla commissione del reato.

La lex Aquilia è un plebiscito del 286 a.C. composto di tre capitoli il cui contenuto ci viene riportato da Gaio: nel primo si parla
dell’uccisione del servo o dell’animale altrui, nel secondo parla del danno da debito rimesso (scomparso ben presto, già i classici ne
parlano solo come di un ricordo) e nel terzo su ogni altro danneggiamento. Gaio ci dice che ad ognuno di questi casi si accompagna
una condanna. Nel primo caso, il valore massimo che ha avuto quell’anno l’animale/servo, nel secondo il valore della stipulatio e
nel terzo si concede un’azione. La giurisprudenza si è concentrata soprattutto sul primo e sul terzo capitolo. Si incrinò il concetto di
danno corpore corpori datum (barbiere taglia barba di un servo per strada, un giocatore tira il pallone che finisce sulla mano del
barbiere che taglia la gola al servo). In questo caso sono tutti colpevoli, sia il giocatore che il barbiere, il primo per aver calciato il
pallone con forza non adatta, il secondo per esercitare in un luogo pericoloso. Labeone differenzia, poi, nel caso in cui una paziente
sia morta in seguito all’assunzione di una medicina prescrittagli dal medico: se il medico ha somministrato la medicina, è accusato
di omicidio, se è stato il paziente a somministrarsi da solo la medicina, il medico è solo accusato di aver procurato la causa di morte.

Col procedere del tempo la giurisprudenza affinò il concetto di “culpa”, che prescinde dalla volontarietà dell’evento dannoso ed
allarga il novero delle fattispecie punibili. Il danno risulta datum, infatti, anche nei casi di imprudenza, imperizia e di mancata
diligenza. Per quanto riguarda il risarcimento già le XII tavole avevano tentato di frenare il fenomeno della vendetta privata e il
taglione, che restava il risarcimento massimo, attraverso delle pene pecuniarie. Con l’introduzione di questa pena il risarcimento
veniva deciso caso per caso a seconda d quanti il giudice o il collegio dei recuperatores ritenessero bonum et aequum. Vennero
ricomprese nella fattispecie del danneggiamento anche il convicium, cioè lo schiamazzo insultante a più voci, e qualsiasi attentato

42
all’onorabilità morale e fisica (infamatio). Trattandosi di danneggiamenti personali, non è possibile la trasmissibilità. Se ad essere
offeso è un filius familias, l’azione spetta al padre.

7. GLI ILLECITI REPRESSI DALL’EDITTO

Il sempre maggiore utilizzo degli editti ampliò la sfera di illeciti perseguibili, anche per illeciti non direttamente previsti dallo ius
civile, come può essere l’inosservanza dei decreti magistruali o peggio la falsificazione dell’editto. Venne punito lo iudex qui litem
sua facit, ovvero il giudice che aveva giudicato a proprio vantaggio in una lite, magari perché legato a vincoli d’amicizia o
d’inimicizia con una delle parti, comminando pene maggiori rispetto a quelle previste nella formula, oppure giudicando
ingiustamente. Si procede anche contro il calumniator, ovvero chi aveva ricevuto denaro per non svolgere l’attività processuale
oppure per dare falsa testimonianza. In tutti questi tipi di illeciti ritroviamo la figura del dolus, ovvero l’aver agito volontariamente
sapendo di ledere l’interesse altrui. In certi casi si punisce chi si trovava in certi rapporti con la persona o con l’oggetto che aveva
provocato un danno. Con l’actio, in duplum, de effusis vel deiectis si puniva il padrone che avesse lanciato per strada un certo
oggetto. Se la vittima fosse stata un uomo libero, e morisse, il padrone era condannato a 50.000 sesterzi, se la vittima veniva
solamente danneggiata, allora il giudice doveva decidere una pena in bonum et aequum. Se a lanciare l’oggetto fosse stato un
servo, veniva aggiunta nella formula la nossalità. Una pena fissa era anche comminata a chiunque avesse posto sul balcone, o sul
cornicione, o in luoghi simili, un oggetto che avrebbe potuto recar danno a qualcuno cadendo da quella posizione instabile, qui si
parlo di actio de posito et suspenso. Venivano poi anche puniti con un’actio in duplum il nauta, il caupo e lo stabularius per
qualunque furto o danneggiamento avessero loro o i loro subalterni compiuto.

8. ALTRE VICENDE DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO

Gaio ci racconta che le obbligazioni non sono trasmissibili “inter vivos”, tranne che si proceda a novazione soggettiva, se poi sotto
questa cessione c’era una compravendita del credito, ciò non si sarebbe mai visto. Più complicata è la cessione del debito, in
quanto c’è differenza per un creditore avere questo o quel debitore.

Per quanto riguarda le garanzie va detto che vades, praedes e nexi scomparvero in età medio-repubblicana, i praedes
sopravvissero negli appalti pubblici fino al I sec. d.C. . Sopravvisse invece la figura dello sponsor che, col tempo, venne affiancata da
quelle del fideipromissor e del fideiussor, due operazioni che si basavano sulla fides e per questo vi poterono accedere anche i
cittadini non romani. Si trattava di garanzie che si potevano stipulare solo verbis. La lex Furia del III sec. a.C. limitò le garanzie a due
anni e ne impose la divisione eguale se vi erano coinvolte varie parti. Il fideiussore, essendo comunque sganciato dall’obbligazione
di debito principale, poteva inserirsi in qualunque obbligazione volesse garantire. L’imperatore Adriano concesse poi il beneficium
divisionis, ovvero la possibilità di dividere il pagamento tra i vari fideiussori solvibili, che inglobavano le quote di quelli insolvibili.
Venne anche superata l’iniqua norma che prevedeva che il debitore poteva anche non ripagare il fideiussor. A quest’ultimo venne
data come un’actio mandati, con tutti gli obblighi che spettavano al debitore. Tale actio fu, in seguito, estesa a tutti i garanti. Il
fideiussor, poi, poteva anche acquistare l’azione contro il debitore dal creditore con una trasposizione di soggetti oppure bastava
nominare il garante cognitor in rem suam. Quindi ora il debitore doveva pagare la somma al fideiussor. Se il pagamento del debito
fosse stato calendarizzato per una certa data, oppure il creditore avesse richiesto, con una interpellatio, al debitore di dare in quel
giorno, e il debitore non avesse dato, egli incorreva nella mora debendi, degli interessi per il mancato pagamento. Si escludeva se,
prima del giorno stabilito, ci fosse stata una causa di forza maggiore (es. terremoto) che avesse minato la possibilità di ripagare per
tempo. Ma se la forza maggiore si fosse presentata dopo il giorno stabilito, non era scusa valida per il ritardato pagamento e gli
interessi continuavano a salire. Altra situazione particolare si aveva qualora l’oggetto del debito, negli iudicia bonae fidei, in seguito
a perimento, non fosse stato più restituibile. Si distingue tra caso fortuito o volontà del debitore, in quest’ultimo caso l’azione
restava inalterata. Nelle obbligazioni in cui era prevista la dazione di un determinato oggetto, e il debitore rendesse impossibile la
restituzione, egli rispondeva di dolus malus, antitetici alla bona fides. Nei contratti che prevedevano la custodia di un qualche bene,
come il comodato o il deposito, il comodatario e il depositario rispondevano di furto se non avessero ridato o di danneggiamento,
ma, mentre il depositario rispondeva solo per dolo, il comodatario non solo per dolo e per custodia, ma anche per cattivo uso della
cosa data in comodato. Per quanto riguarda la culpa essa viene descritta come “violazione dei propri particolare doveri di
diligenza, prudenza e perizia”. Esenzione dalla colpa erano gli attacchi dei briganti, incendio non doloso, terremoto, naufragio e
simili.

43
9. L’ESTINZIONE DELLE OBBLIGAZIONI

Abbiamo già ricordato di come, nell’antichità, per estinguere un’obligatio bastasse la corrispondenza formale (es. negozio per aes
et libram richiedeva la solutio per aes et libram) tra quanto richiesto e quanto dato. Tuttavia per evitare il rischio che, da una
corrispondenza informale, e quindi qualora la solutio dell’obbligazione vi fosse stata, il creditore richiedesse anche la
corrispondenza formale. Gaio, infatti, ci dice che “l’obbligazione si estingue principalmente con l’adempimento di ciò che è
dovuto”. Dunque, da un certo punto in poi della storia romana, il formalismo della solutio venne meno. Il brano gaiano parla poi di
estinzione ipso iure e ope exceptionis. I Proculiani fecero coincidere la prima come modo di estinzione delle obbligazioni tipiche
dello ius civile, la seconda per quelle dello ius honorarium.

L’adempimento deve essere ciò che è stato promesso, nel tempo e luogo stabilito. Non si può “solvere” con beni altrui o con un
determinato servo nel frattempo manomesso sotto condizione (statuliber). Il luogo viene stabilito nella conventio, di solito è il
luogo in cui si trova l’oggetto contesto oppure il domicilio del debitore. Anche il tempo può essere stabilito, in quanto magari
l’obbligazione è legata ad avvenimenti come la mietitura di un raccolto. L’esecutore può essere, per quanto riguarda le obligationes
in dando, il debitore stesso o un terzo, purchè sia capace di alienare, il pupillo sine tutoris auctoritatis non può alienare, per
esempio. Nelle obligationes in faciendo, invece, l’esecutore deve essere colui che è specializzato, per esempio, nello scolpire,
dipingere o in qualunque campo previsto dall’obbligazione. Il pagamento va dato al creditore, o al suo mandatario, o al negotiorum
gestor. Se il creditore è il pupillo, occorre la auctoritas tutoris.

Se il debitore è pronto ad adempiere prima della scadenza del tempo, ma il creditore non accetta l’offerta, è nel suo interesse di
liberarsi comunque dell’oggetto della obbligazione, per evitare interessi o perimento/danneggiamento dell’oggetto stesso. In
questo caso si ha la mora credendi (= ritardo del creditore): il debitore fa constare la sua offerta e appone i sigilli su di essa, prima
di metterla nel deposito pubblico. Sarà ora interesse del creditore accettare l’offerta per evitare il suo perimento/danneggiamento.
Si può avere l’estinzione dell’obbligazione anche per compensazione, ovvero quando il creditore è debitore del suo debitore. La
compensazione, tuttavia, va accettata dal giudice, che può anche rifiutarsi di concederla. Obbligati ad agire per compensazione
erano gli argentarii, ovvero i banchieri, per la riscossione di crediti dai propri clienti. Anche il bonorum emptor era interessato a
riscuotere i crediti cum deductione dei debitori del soggetto da cui aveva comprato il patrimonio, che venivano condannato a
pagare la differenza.

Ulpiano ci dà la definizione della novazione: essa è “la trasfusione e la traslazione del precedente debito in un’altra obbligazione o
civile o naturale [...]”. L’estinzione dell’obbligazione novata travolgeva anche le garanzie. Se la stipulatio novativa era posta in
essere da un incapace senza l’auctoritas interpositio, l’effetto estintivo si produceva ugualmente, ma non si creava la nuova
obbligazione per il creditore. La stipulatio novativa doveva contenere il riferimento alla precedente obbligazione, se non c’era non
si aveva la novazione. Nella novazione oggettiva doveva poi esserci un’innovazione oggettiva (aggiunta o soppressione di una
condizione). Nella novazione soggettiva doveva invece cambiare o la figura del creditore o quella debitore. Essi sono far
promettere, nella delegatio, ai terzi che avrebbero adempiuto quanto dovuto. Tuttavia mentre il debitore non poteva opporsi al
cambiamento di creditore, il creditore poteva ben opporsi al cambiamento di debitore (di solito veniva delegato un debitore del
debitore originario). È, poi, in facoltà del creditore rimettere il debito, cioè liberare spontaneamente il debitore dal vincolo
obbligatorio. Il negozio più usato per la remissione dei debiti era l’acceptilatio, ovvero il riconoscimento da parte del creditore
dell’aver adempiuto il debitore ai suoi obblighi presi nella stipulatio. Bastava novare la vecchia stipulatio inserendo tutti i debiti che
si volevano rimettere in un’unica nuova stipulatio verbis contracta, detta stipulatio Aquiliana.

Si parla invece di contrarius consensus soprattutto nella compravendita o nella locazione. Quando si perde l’accordo originario, il
contratto si scioglie. Si poteva avere, invece, la remissione del debito anche attraverso dei patti. Se infatti il creditore fa un patto col
debitore in cui afferma non chiedere l’adempimento o mai più, o fino a un certo momento, il debitore viene tutelato per tutto il
tempo previsto dal patto dall’exceptio pacti conventi. Abbiamo già visto come il debitore sia esentato dall’adempimento per fatti
accaduti non per sua volontà (terremoto). Nelle obbligazioni corrispettive, l’obbligazione dell’uno si annulla quando l’obbligazione
dell’altro sia divenuta impossibile per causa a lui non imputabile. Altri casi di estinzione di un’obbligazione, abbiamo visto sono la
morte di un socio, la litis contestatio, poiché una volta dedotta nella formula l’obbligazione non vive più in quanto tale, ma in
quanto formula che si dovrà imporre sul contraddittorio. La capitis deminutio minima scioglieva l’obbligazione, anche se certe
volte era data un’azione ficticia che non considerava avvenuta la capitis deminutio, quella maxima estingueva tutti rapporti, salvo
nel caso del postliminium. Altro modo di scioglimento era il concorsus causarum, ovvero quando il creditore acquistava l’oggetto
dell’obbligazione in un’altra maniera. Infine si estingueva per confusione, ovvero quando la figura del creditore diventava la stessa
del debitore.

44
TITOLO SECONDO: LO SVILUPPO DELLA CITTA’

CAPITOLO PRIMO:IUS CIVILE, IUS HONORARIUM E GIURISPRUDENZA (pag.455-468)

1. L’ATTIVITA’ DELLA GIURISPRUDENZA

La legge, da sola, non ha vita , ed anxi la sua forza applicata altro non è che la vonce di un’interpretazione. Se fino al 300 a.C. questo
potere apparteneva solamente alla casta sacerdotale del collegio dei pontefici, con la lex Ogulnia di quell’anno si ebbe l’entrata
anche dei plebei nel collegio pontificale, con la possibilità di dare dei “responsa” in pubblico. Tuttavia, mentre i responsa,
nonostante fossero sempre parte dello ius, si applicavano solo ai casi determinati. Mentre lo ius civile repubblicano era ancora
composto dai mores, dall’interpretatio pontificale e dalle XII tavole. Dunque lex e responsa prudentium (= iussum populi) erano
due elementi compresenti di un unico ordinamento. In più si assistette all’avvento degli importantissimi edicta praetorium. Questi
editti dovevano amministrare la giustizia secondo le XII tavole e il lege agere, ma sappiamo che per certi casi i pretori
amministravano la giustizia in un’altra maniera, fondata su parole concordate e messe insieme nelle quali si sarebbe descritta la
pretesa ed il presupposto he la sorreggeva (concepta verba). Ferma restando l’attività decisiva dello iudex privatus, era compito del
magistrato (in iure) di dare una formula che dirimesse la contesa nella maniera più giusta.

Negli anni quaranta e trenta del II secolo a.C. Pomponio ricorda tre momenti importantissimi per la formazione del diritto civile
della più grande potenza mondiale. Il primo si ha con Giunio Bruto, Manio Manilio e Publio Mucio Scevola che fondarono il diritto
civile. Nel secondo abbiamo la figura di Quinto Mucio Scevola che costruì “per genera” il diritto civile e nell’ultima ritroviamo
Marco Antistio Labeone che introdusse molte innovazioni. La svolta è dovuta al passaggio dall’oralità alla scrittura, utile soprattutto
alla trasmissione non riservata del sapere. Si ebbe poi la rottura tra autorevolezza scientifica e rilevanza politica.

Quando, però, si ebbero mutamenti costituzionali importanti, come nel passaggio tra repubblica a principato, i giuristi dovettero
tentare di aiutare il principe a dare rilevanza giuridica alla consolidazione del suo potere, con la promessa che la giurisprudenza
sarebbe sempre stata la fonte suprema e preminente rispetto alle altre. Questo rapporto tra principe e giurisprudenza si interruppe
bruscamente una volta passati al dominato. Augusto stabilì che alcuni giuristi potessero dare responsa ex auctoritate principis.
Questo chiaramente creava una sorta di gerarchia tra giudici che, di fatto, non dovrebbe esserci. Il principe doveva essere la
garanzia della stabilità, della pace, della risolvibilità di ogni controversia e dunque il diritto doveva essere la sua forza, non la sua
debolezza.

In questo periodo si ebbe una fiorente produzione di testi giuridici che potevano avere natura didattica, antologica o di commento
rispetto alle grandi tematiche giuridice e ai vari casi che si erano presentati con il tempo, su molte fattispecie o anche su una in
particolare. Di tutto ciò ci è rimasto solo quello che è scritto nelle Pandette (Digesto) redatte dai commissari di Giustiniano. In
questo periodo nascono le scuole dei Sabiniani e dei Proculiani, fondate rispettivamente da Ateio Capitone e da Labeone, ma che
presero il nome dai loro allievi Masurio Sabino e Proculo. In età adrianea ritroviamo la figura di Salvio Giuliano, a cui si deve la
codificazione di un unico e definitivo editto, richiesto da Adriano, e riportatoci nei commentari di Paolo ed Ulpiano. Nell’età degli
Antonini rinveniamo la figura di GAIO, che scrisse due opere importantissime per il diritto privato romano, a scopo didattico.
Queste opere sono i quattro commentari del palinsesto veronese e le Res cottidianae, meglio conosciute come Aurea. Altre figure
importanti da citare sono quella di Fiorentino, cui dobbiamo un manuale di Institutiones, Papirio Giusto che riportò nei suoi libri
XX constitutionum alcune costituzioni di Marco Aurelio e Lucio Vero.. Con la dinastia dei Severi si ebbe, con la constitutio
Antoniniana l’estensione della cittadina romana a tutti i sudditi dell’impero. Durante la dinastia Severiana si mettono in luce
soprattutto tre giuristi: Emilio Papiniano, Giulio Paolo e Domizio Ulpiano. Erano tutti funzionari imperiali che scrissero importanti
testi giuridici.

2. IL NUOVO SISTEMA DELLE FONTI

Quando le leges e i plebiscita, a seguito delle guerre civili, vennero meno, si imposero come fonti del diritto i senatoconsulti, che
Gaio ci dice essere “ciò che il senato ordina e stabilisce, e questo ha valore di legge”. Anche Ulpiano conferma questa possibilità di
dettare legge da parte del senato. Tuttavia la vera svolta nel sistema delle fonti si avrà con l’avvento del principato. Sempre Gaio ci
dice: “La costituzione del principe è ciò che l’imperatore stabilisce con DECRETO o con EDITTO o con LETTERA ”. Constitutio
significa manifestazione di volontà precettiva e gli strumenti di questa volontà sono il decreto, l’editto e la lettera, cui vanno
aggiunti i rescripta e i mandata. Augusto tende a precisare che la sua auctoritas non mina i fondamenti della repubblica, che
continua l’esercizio delle sue capacità sebbene con l’assistenza di un primus inter pares. Gli editti sono atti rivolti a tutta o ad una
parte determinata della popolazione ed hanno valore perpetuo. Vi sono poi i decreta, ovvero atti che contengono decisioni
giurisdizionali imperiali su singole controversie sottoposte alla cognitio imperiale. Nelle epistulae sono contenute decisioni
destinate ad un tribunale diverso da quello imperiale. I rescripta indicano lo stilare la risposta alla domanda pervenuta per iscritto

45
in calce alla richiesta stessa. Infine, l’imperatore può impartire istruzioni generali in materia processuale, amministrativa ed
economica, e queste sono i mandata. È evidente che, a parte gli editti, tutte queste altre fonti abbiano efficacia limitata solo per il
caso cui sono destinate, a meno che l’interprete non ne trai un principio normativo ripetibile per i casi analoghi.

CAPITOLO SECONDO: I MUTAMENTI COSTITUZIONALI (pagg.469-489)

1. IL PRINCIPE DAVANTI ALLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA

Le ambizioni del senato, da una parte, e la classe dei cavalieri dall’altro, spalleggiata spesso dal partito dei populares, avevano
sempre più oscurato la voglia di partecipazione politica delle genti italiche a decidere sul destino dell’impero. Prima il primo
triumvirato, poi Augusto, tentarono di riallacciare i rapporti con questa parte della popolazione. Se il tentativo di Cesare fallì con la
sua morte, lo stesso non si può dire di Augusto. Una volta dimostratasi fallita e anacronistica una condotta amministrativa basata
sulla duplice figura magistratura/senato, ed attestata l’ormai totale incapacità della coppia consulare di gestire il governo di tutta
una serie di popolazione che ormai non erano più racchiuse solo nell’Urbe, ma sparse per tutta l’Europa, si dovette rinnovare
l’impianto governativo, attraverso una sempre più capillare burocrazia. Augusto aveva intuito che l’eccessiva urbanizzazione e le
troppe manomissioni avevano allontanato il popolo dai campi e, dunque, tentò, con la lex Fufia Canina del 2 a.C. e la lex Aelia
Sentia del 4 d.C. di limitare le manomissioni, anche utilizzando mezzi fiscali. La classe dei libertini, che si era creata con la
liberazione di moltissimi schiavi, era considerata corrotta e portatrice di vizi immorali. Augusto, tuttavia, non volendo apparire un
dictator o, peggio, un tyrannus, nel 23 a.C. afferma di avere solo poteri di revisione e di controllo per il corretto svolgimento di tutte
le funzioni istituzionali, nelle Res Gestae, la sua biografia, Augusto ammette di avere la stessa potestas delle altre cariche, ma di
avere maggiore auctoritas. I capisaldi del suo potere erano due: la tribunicia potestas e l’imperium proconsulare maius et
infinitum. Con il primo egli aveva il potere dell’intercessio, cioè del veto rispetto a tutti gli altri magistrati, e lo ius agendi cum
plebe, ossia il controllo del funzionamento e della gestione delle assemblee popolari. Con il secondo, egli aveva il comando
dell’esercito. Aveva poi anche la perpetua cura legum et morum ed era pontifex maximus.

2. SENATO, COMIZI E MAGISTRATURE NEL NUOVO ASSETTO DEL POTERE

Il principato durerà fino al 285 d.C. quando Diocleziano riunirà tutti i poteri nelle sue mani e darà avvio al dominato. Abbiamo già
parlato dell’auctoritas del principe. Va aggiunto che egli disponeva di nove cohortes praetoriae come guardia del corpo e che
l’imperatore utilizza il proprio patrimonio, detto res privata principis, per organizzare e mantenere il consenso non solo dei
collaboratori e dei funzionari, ma di tutto il contesto sociale col quale viene in contatto, attraverso manifestazioni solidaristiche
quali elargizioni, organizzazioni di spettacoli e costruzione di edifici pubblici. Questo fenomeno propagandistico è detto
evergetismo. Augusto, per legittimare il suo potere e non apparire un despota, cercò il consenso del senato e del popolo, in modo
tale da apparire legalizzato dall’intervento di una volontà suprema degli amministrati. Col tempo, però, le assemblee popolari
vennero meno, non avendo più senso rispetto alla base sociale, ormai estesa a tutta l’Europa. Le magistrature, di fatto, restavano in
vita, ma ben presto divennero o appannaggio dell’imperatore o dei suoi funzionari fidati, dunque il senso del cursus honorum
(consolato, pretura, censura, questura, tribunato ed edilità plebea) avevo perso ogni significato. I comizi, che erano il luogo di
elezione dei magistrati, con il principato e soprattutto con Tiberio, si videro costretti quasi a ratificare le scelte dell’imperatore, che
elencava i candidati attraverso una lista. Solo il senato riuscì a sopravvivere. Esso curava le innovazioni legislative con i
senatoconsulti e amministrava le province più antiche e la giurisdizione criminale, anche se in quest’ultimo compito veniva
affiancato dall’imperatore, che poteva intervenire nel processo o opporsi alla sentenza. Tuttavia al senato spettano ancora
importanti poteri quale quello di mettere sotto processo l’imperatore e dichiararòp anche hostibus publicus, o pronunciarne la
damnatio memoriae.

3. IL PRINCIPATO DAI GIULIO-CLAUDI AI SEVERI

Non ci fu mai chiarezza sul metodo di successione degli imperatore. Il senato, da parte sua, tese sempre ad assecondare le decisioni
prese dagli imperatori precedenti. Già Cesare non solo aveva adottato Ottaviano, ma lo aveva reso anche co-reggente quando era
ancora in vita. Augusto fece lo stesso con Tiberio, figlio della seconda moglie di Augusto, Livia. I problemi iniziarono a sorgere
quando Tiberio morì nel 37 d.C. senza aver lasciato eredi., ma avendo fatto il nome di Caligola nel suo testamento. Pertanto
Caligola divenne imperatore, ma nel 41 fu assassinato e salì al trono Claudio, suo zio, eletto dai pretoriani. Nel 54 Claudio fu
avvelenato dalla moglie Messalina che, sempre grazie all’esercito fece salire al soglio imperiale Nerone, che nel 68 si uccise. Tra il
68 e il 69 si avvicendarono Galba, Otone e Vitellio ed infine prevalse Tito Flavio Vespasiano, che si impose solo grazie alla sua forza
militare. Vespasiano, ricercato e trovato il consenso nei comizi, diede avvio alla dinastia dei Flavi, che vide al trono Tito e nell’81
Domiziano, che fu ucciso nel 96. Sarà Nerva, incalzato dai pretoriani, a indicare il nuovo imperatore in Ulpio Traiano, e nel 98 venne
ucciso. Traiano è l’iniziatore della dinastia degli Antonini, sotto i quali Roma e l’impero vivono un periodo di benessere. Dopo il trio
Traiano (98-117), Adriano (117-138) e Antonino Pio (138-161) divenne imperatore Marco Aurelio (161-180) che si associò al

46
governo il fratello adottivo Lucio Vero, che morirà nel 169. Alla morte di Marco Aurelio, che nel 177 si era associato al governo il
figlio Commodo, quest’ultimo salì al trono nel 180 e regnò per dodici anni, seguito dai brevi regni di Pertinace e Didio Giuliano. Nel
193 Settimio Severo sale al tronò presentandosi come figlio di Marco Aurelio e fratello di Commodo e prese il potere con questa
sorta di auto-adozione. Settimio designò il figlio, Caracalla, come suo erede, ma diede gli stessi poteri al secondo figlio Geta. Alla
sua morte nel 211 i due fratelli regnarono per pochi mesi insieme e poi Caracalla uccise Geta (212) e rimase imperatore fino al 217.
Abbiamo poi l’impero di Macrino (217-218) e quello di Eliogabalo (218-222), e quindi quello di Alessandro Severo (222-235), con lui
finisce l’età dell’oro del principato e della giurisprudenza classica.

4. LA BUROCRAZIA IMPERIALE ED I CONSILIA

Analizziamo in questo quadro la figura dei curatores, che sorvegliavano la città e le sue opere pubbliche. Abbiamo i curatores
aquarum (acqua e approvvigionamento idrico) , i curatores operum (per l’efficienza delle opere pubbliche) publicorum e i
curatores viarum (per l’efficienza delle strade e delle grandi vie di comunicazione militare). A questi Augusto affiancò il praefectus
annonae, che aveva il compito di sovrintendere agli approvvigionamenti, al trasporto e al magazzinaggio. Tutto questo a Roma. In
più vengono creati degli officia palatina, affidati prevalentemente a liberti imperiali. Essi si distingueva in ab epistulis, per le
domande scritte, a libelli et a cognitionibus, per le suppliche dei privati e quelli a memoria, a cui erano affidate delle pratiche
militari, e a rationibus, per quanto concervano il campo economico-finanziario. Vi fu, poi, una vera e propria gerarchizzazione della
burocrazia imperiale, molto ambita perché ben pagata, ma certamente riservata solo a grandi intellettuali. I funzionari imperiali
venivano eletti direttamente dall’imperatore, e dovevano confrontarsi con i colleghi magistrati e senatori, cui dovevano riferire i
fondamentali delle loro scelte operative. Al livello più alto c’erano i procuratores e rispondevano agli uffici superiori, le
praefecturae ed affidati alla responsabilità di un praefectus. Già descritto il praefectus annonae, vi sono anche da annoverarsi il
praefectus vigilum, responsabile delle funzioni di polizia e vigilanza, e il praefectus Urbi che sovrintende all’ordine pubblico. Il
praefectus praetorio è il più potente. Egli è a capo della guardia imperiale ed ha funzioni di vicario del principe nei consilia. I
consilia erano inizialmente delle cerchie di amici e consiglieri che l’imperatore radunava intorno a sé affinchè lo consigliassero sulle
decisione che doveva prendere. Col tempo i consilia divennero sempre più numerosi e specializzati, venendo istituiti caso per caso.
Questo processo culminerà con il consistorium di età costantiniana.

5. IL TERRITORIO IN ITALIA E IN PROVINCIA

Il territorio italico era diviso in municipia e coloniae, che venivano amministrate ancora come piccole città-stato, affidate al
governo di duoviri, o quattuorviri, quali esecutori dei deliberati dell’ordo decurionum. Quando Augusto divise l’Italia in 11 regioni
l’ordo fu progressivamente esautorato delle proprie competenze, che furono passate a funzionari di nomina imperiale. Segno di
questo lento e progressivo passaggio da autonomie locali a enti sottoposti al potere imperiale fu l’istituzione dei curatores rei
publicea, presenti negli enti locali finanziariamente dissestati, e dei correctores, funzionari preposti al controllo amministrativo del
territorio italico. Si distinse, poi, tra province senatorie, che erano quelle storiche (Africa, Asia e Grecia), sotto il governo di
praesides, scelti dall’ordine senatorio e in carica per un anno, sotto la supervisione di un funzionario imperiale, e province
imperiali, di recente conquista (Gallia Cisalpina, Spagna citeriore, Lusitania e Siria). Essendo quest’ultime regioni più turbolenti
dell’impero, l’imperatore vi esercitava direttamente il suo dominio attraverso i legati Augusti, accanto a loro vi era un legatus
iuridicus, che amministrava la giustizia. Amministrare la giustizia nelle province era chiaramente più difficile che farlo in Roma.
Dunque il governatore delle province girava da città a città per confrontarsi, in un conventus, con i vari magistrati/avvocati/giudici
presenti per analizzare le controversie. Nelle province imperiali in cui operava il legatus Augusti era possibile rimettere a lui il
giudizio per le cause civili.

6. I COSTI DELL’APPARATO

La divisione tra province senatorie e province imperiale comportò un’altra divisione, stavolta delle imposte, che si dividevano in
tributa e in stipendia. I primi erano le imposte delle province imperiali, riscosse dall’amministrazione del fisco, che diventavano
proprietà del principe. Gli stipendia, invece, era le tasse delle province senatorie e venivano riscosse dalle amministrazioni locali ed
erano proprietà del popolo romano, e dunque erano destinati all’aerarium populi Romani (o aerarmi Saturni, perché l’erario si
trovava in quel tempio). Da differenziare anche la differenza tra patrimonium e res privata del principe, amministrati da due
procuratores. Il primo dovrebbe essere il “fiscus”, ovvero i beni dell’amministrazione pubblica, il secondo i beni personali
dell’imperatore. Infine vi era anche l’aerarium militare, per ripagare i veterani di guerra con un appezzamento di terra, ma, dal 13
a.C., poi si passò ai premi in denaro, questo erario veniva gestito da tre praefecti.

47
7. POPOLO E CORONA ALLA FRONTIERA COSTITUZIONALE

L’ultimo atto del principato è tradizionalmente inteso come la constitutio Antoniniana, che prevedeva di estendere la cittadinanza
a tutte le popolazioni dell’impero. C’è chi ha scorto un modo per ottenere una serie di tasse, come per esempio quelle sulle
manomissioni, che gravavano solo sui cives Romani. In realtà si trattava semplicemente di un’opera di unificazione, che certamente
sapeva di avvio all’assolutismo. Tuttavia gli effetti che questa costituzione voleva ottenere non vennero mai raggiunti, ma si
crearono sempre più autonomie amministrativa e agglomerati urbani sparsi per tutto il territorio che altro non erano che gli
embrioni delle varie grandi città europee. Con Domiziano e la fine del principato si assistette al mutamento del princeps, primus
inter pares, in dominus, non solo un vero e proprio despota, ma anche un deus, degno di venerazione. Ed è qui che finisce l’età
classica.

8. NUOVI STRUMENTI DI GIUSTIZIA CRIMINALE

Nel 17 a.C. Augusto fece approvare una legge di riordino delle quaestiones perpetuae: la lex Iulia iudiciorum publicorum, parallela
alla lex Iulia iudiciorum privatorum. Si fissavano regoli uniformi di procedura e stabiliva i requisiti soggettivi per l’iscrizione negli
elenchi dei giudici. Oltre a rivedere la giustizia criminale già presente e di cui abbiamo già trattato, vennero introdotte nuove
fattispecie di illecito, quali crimini nell’ambito della sfera sessuale (stupro, lenocinio e incesto), e quelli in materia annonaria, per
evitare i prezzi sempre più alti dei generi alimentari dovuti alla dilagante inflazione. Esempi di questa estensione della sfera
criminale furono due senatoconsulti: la lex Cornelia de falsis e quella testamentaria nummaria, che estesero l’accusa “ex lege Iulia
repetendarum” alle matrone dei governatori per le vessazioni ai danni dei provinciali e agli avvocati per le parcelle troppo esose, ed
applicare la pena della “lex Iulia de adulteriis” alle matrone che, per evitare il giudizio sul commesso adulterio, si fossero date al
lenocinio, alla prostituzione o all’arte scenica. Si comiciò a fare ricorso ad un nuovo procedimento, al quale non partecipavano i
giurati, ma che era rimesso direttamente all’imperatore o, meglio, ad un suo incaricato. Questo procedimento si chiamava cognitio
extra ordinem e venne istituito per evitare che i giudizi venissero fatti da uomini che, magari, erano degli oppositori politici
dell’impero. Nascono tra aspetti fondamentali di una giustizia amministrata in questo modo: la avocazione, l’appello e la delega di
giurisdizione. Con il primo si rende possibile che il principe àvochi a sé la cognizione di cause particolare dove egli voglia far
risaltare il proprio pensiero. Con il secondo si rende possibile di lamentarsi dell’operato di un semplice mandatario con l’imperatore
mandante stesso. Tutto ciò per far rilevare la funzione dell’imperatore come supervisore e protettore del corretto funzionamento di
tutti gli organi del sistema. Con il terzo si consente all’imperatore di attribuire la cognizione di determinate materie a propri
funzionari o a speciali collegi giudicanti. Così facendo l’apparato dei funzionari imperiali gestiva una sempre maggior quantità di casi
criminali, soppiantando quasi del tutto il vecchio sistema criminale che risaliva agli iudicia publica di età repubblicana.

48
III. L’ETA’ TARDOANTICA E GIUSTINIANEA

TITOLO PRIMO: l’IMPERO

CAPITOLO 1: I NUOVI ASSETTI POLITICI (PAG. 493-513)

1.L’IMPERO DAI SEVERI A DIOCLEZIANO

Il periodo dal 235 al 284 è detto anarchia militare, perché ci furono continue lotte tra i pretendenti alla successione dell’impero.
Molti imperatori venivano nominati dal Senato. Nel 253 Valeriano prese il potere e dopo di lui Gallieno, che riformò l’esercito per
far fronte ai continui attacchi dei barbari. Dalla morte di Gallieno fino al 284 ci furono moltissimi imperatori.

2.LA CRISI DEL III SECOLO D.C.

Il III secolo fu un secolo caratterizzato da crisi in tutti i campi: epidemie di peste, la pressione fiscale altissima che rinforzò le fila del
banditismo, che a sua volta comportò l’abbandono dei latifondi. Per assicurare il gettito fiscale vennero istituiti i curiales, che
dovevano riscuotere i tributi dando in garanzia i propri beni. Il tenore di vita si abbassò e si generò un’inflazione galoppante. La crisi
investì anche il settore culturale. Dal punto di vista religioso, ci furono varie persecuzioni dei cristiani, la cui fede si stava
diffondendo in tutti gli strati della società.

3.DIOCLEZIANO E LE SUE RIFORME

Nel 284 prese il potere Diocleziano, che attuò varie riforme. Istituì una tetrarchia, nominando Massimiano come Augustus e
nominando due Caesares (Costanzio Cloro e Galerio), che doveva servire anche per facilitare la successione. Ripristinò la religione
romana e perseguì ferocemente i cristiani. Tentò invano di riformare l’economia istituendo il calmiere (editto che fissava i prezzi dei
beni e dei servizi), che ebbe l’unica conseguenza di incentivare il mercato nero, e l’annone (interveniva sul sistema della tassazione,
prevedendo un contributo in natura). Riforma decisamente più fortunata fu quella territoriale: province-diocesi-circoscrizioni. Le
diocesi era amministrata dal vicarius. A livello provinciale invece c’erano un praeses (civile) e un dux (militare). Roma restò
autonoma.

4.COSTANTINO E LE SUE RIFORME

La tetrarchia non riuscì a garantire una successione “legale” e dopo una serie di guerre interne, Costantino riuscì a prevalere e a
riunificare tutto l’impero. L’editto di Milano del 313 consentiva ai cristiani di professare il loro culto e restituiva loro i beni confiscati
dai persecutori. Anzi adesso vi è una politica di favore verso il culto cristiano, perseguendo gli eretici e promuovendo il primo
concilio ecumenico a Nicea. Inaugurò una nuova capitale, Costantinopoli. Riformò la burocrazia, istituendo 4 alti funzionari
dell’impero e il consistorium, un organo meramente consultivo. Creò una nuova truppa, la truppa di intervento, che era molto
mobile. Istituì anche il colonato, cioè l’obbligo per i coloni di lavorare sempre per lo stesso proprietario terriero; questo status non
inficiava lo status libertatis ed era, però, ereditario.

5.AMMINISTRAZIONE E GERARCHIE

Costantino crea 4 alti funzionari:

Magister officiorum: si occupa degli officia più importanti.

Quaestor sacri palatii: consulente dell’imperatore in materia giuridica.

Comes sacrarum largitionum: adibito al campo finanziario.

Comes rerum privatarum: amministra la res privata prinicipis

I nomi di tutti gli alti funzionari dell’imperatore sono riportati nel laterculum maius. Altro funzionario di livello è il praepositus sacri
cubiculi, che si occupa dei domestici dell’imperatore. In ciascuna capitale c’è un senato con funzioni consultive e ogni città è
governata dal praefectus Urbi, che è titolare anche della giurisdizione civile e penale. Nella città ci sono anche il defensor plebis
(poteri di polizia) e il curator civitatis (amministrazione locale). L’impero venne diviso in 4 grandi circoscrizioni, a capo delle quali
49
c’era un praefectus praetorio. Quindi ora lo schema territoriale era: 4 grandi circoscrizioni-diocesi-province. Il viacarius governa la
diocesi e ha poteri giurisdizionali.

6.IL DECLINO MILITARE

Nel 380 Teodosio I emanò l’editto di Tessalonica, con il quale imponeva l’obbligo di professare la religione cristiana. Questo portò
ad una copiosa legislazione inerente la chiesa e alla episcopalis audientia (giurisdizione dei vescovi in ambito religioso e civile, se le
parti fossero state d’accordo in tal senso). Dai primissimi anni del V secolo iniziarono le invasioni barbariche con i Visigoti, gli
Ostrogoti e gli Unni, fino ad arrivare al sacco di Roma da parte dei Visigoti (410). Successivamente, Odoacre spodestò Romolo
Augustolo, imperatore impubere, fatto acclamare imperatore dai mercenari barbarici. Odoacre inviò le insegne imperiali a
Costantinopoli e ricevette la legittimazione a governare in Italia. Fine dell’impero romano d’occidente (476).

7.L’IMPERO DA COSTANTINO A GIUSTINIANO

In oriente, dopo Costantino, ci fu una guerra fratricida in cui prevalse Costanzo che riunì tutto l’impero (siamo nel 337, prima della
caduta dell’occidente). Si associò Giuliano, che diventerà famoso come imperatore per essere l’apostata. Poi abbiamo Teodosio I
che emana l’editto di Tessalonica nel 380 e divise l’impero nuovamente. Poi ci fu Teodosio II, famoso per il Codex Theodosianus.
Dopo altri imperatori minori, giunse al potere Giustiniano nel 527, che sim impegnò nel restauro amministrativo , giuridico e
militare dell’impero.

CAPITOLO 2:IL SISTEMA ORDINAMENTALE

1.LE FONTI DEL DIRITTO IMPERIALE

Le due principali fonti del diritto imperiale sono le leges e gli iura.

Le leges sono il prodotto dello ius edicendi imperiale, che si era sostituito a quello pretorio o del popolo. Queste leges sono anche
dette costituzioni imperiali e hanno forza di legge. I giuristi hanno perso quel ruolo creativo-interpretativo del diritto: ora sono
semplici funzionari, che non si possono opporre al volere imperiale.

Gli iura, cioè gli scritti della giurisprudenza, tutto il materiale giuridico del passato.

La consuetudine non è più fonte del diritto, perché l’eventuale desuetudine di una leges imperiale non ne potrà mai diminuire la
forza o inficiare la vigenza.

2.LE COSTITUZIONI IMPERIALI E LE COMPILAZIONI PRIVATE

Le costituzioni imperiali possono assumere la forma di:

A.LEGES GENERALES: costituzioni a carattere generale

B.RESCRIPTA: costituzioni a carattere particolare

C.PRAGMATICA SANCTIO: provvedimenti dell’imperatore in risposta a quanto gli è stato chiesto da province, città, altra pars
imperii

D.ADONATIO: ciò che viene scritto a margine di una istanza all’imperatore

Per l’incompetenza degli uffici imperiali e la grande mole di testi mal ordinata, alcuni privati sentirono la necessità di redigere delle
compilazioni private che contenessero le costituzioni imperiali e in alcuni casi anche gli iura, per rendere i testi maggiormente
fruibili. Non venne usato più il volumen (rotolo) ma il codex (simile al moderno libro). I più importanti sono: Codex Gregorianus
(rescripta), Codex Hermogenianus (aggiorna il codex gregorianus).

3.IL CODICE TEODOSIANO (1 gennaio 439 d.C.)

Teodosio II istituì due commissioni per la realizzazione di questo codice: la prima aveva un progetto troppo ambizioso e fallì, mentre
la seconda, dopo aver ridimensionato il progetto, riuscì a redigere il codice. Esso compredeva le leges generales da Costantino in
poi, anche se abrogate. Si doveva accompagnare ai 2 codici privati. È composto di 16 libri. Non ci è pervenuto.

50
4.LA GIURISPRUDENZA DELL’ETA’ TARDOANTICA

In un frammento del codice teodosiano troviamo la legge delle citazioni, che disciplinava l’uso delle opere dei giuristi della
repubblica e del principato (Papiano, Paolo, Gaio, Ulpiano, Modestino): essa conferma la validità di questi giuristi e indica anche un
metodo per dirimere eventuali controversie tra di essi. L’insegnamento di base era impartito facendo riferimento ai testi di Gaio,
dopo i quali si studiavano i giuristi dell’età dei severi (ora ci sarebbero mille operette minori che io mi rifiuto di imparare, se volete
stanno a pagina 527).

5.LE LEGGI COSIDDETTE ROMANO-BARBARICHE

Dopo il 476, i barbari affermarono il principio della personalità del diritto, quindi ciascuna popolazione doveva regolare i proprio
rapporti interni utilizzando il proprio diritto. Vi era però il problema dei testi di riferimento e quindi furono redatti varie raccolte di
testi di diritto romano: la più importante è la Lex romana Wisigothorum, che conteneva parte del Codice Teodosiano e le Novellae
(nuove costituzioni).

6.LA COMPILAZIONE GIUSTINIANEA

Il corpus iuris civilis venne redatto tra il 529 e il 534 ed è composto dal Codice, dalle Pandette, dalle Institutiones e dalle Novellae.

A. CODEX IUSTINIANUS: l’imperatore incaricò una commissione di unificare i due codici privati, il codice teodosiano e le novellae
post-teodosiane.

B. PANDECTAE: compilazione di iura, non inserendo ciò che era caduto in desuetudine.

C. INSTITUTIONES: in sostituzione delle istituzioni gaiane, di cui ne segue lo schema espositivo, era rivolto agli studenti.

D. NOVELLAE: dato che il diritto muta in continuazione, le leges novellae erano i continui interventi legislativi successivi alla
compilazione.

A-B-C prima che venisse data la definizione di corpus iuris civils (1500), vennero riunite nel novus codex iusitnianus repetita
praelectio. Le novelle non furono mai raccolte ufficialmente da giustiniano, ma solo da privati. Egli autorizzò anche parafrasi e
traduzioni del suo codice.

TITOLO SECONDO: IL DIRITTO

CAPITOLO 1: LE PERSONE E LA FAMIGLIA

1.LIBERI E SERVI

Le conquiste dell’impero si erano bruscamente interrotte e di conseguenze ci fu una drastica riduzione del numero degli schiavi. Il
loro prezzo salì, così come la loro condizione, grazie al cristianesimo.

Cause della servitù: nascita da madre serva, la sanzione del SC Claudiano e la condanna ai lavori forzati. Giustiniano abolì gli ultimi
due. La vendita di neonati comportava che il neonato divenisse servo dell’acquirente (Giustiniano tentò di arginare il fenomeno).

Il servo è titolare del peculium, ma poi Giustiniano torna ad affermare la titolarità del dominus. Il processo di libertà si può ripetere
più volte, con un nuovo adsertor in libertatem.

Manommisioni valide:

A.MANUMISSIO VINDICTA: dichiarazione del dominus davanti al magistrato.

B. MANUMISSIO TESTAMENTO: sia diretta, che tramite fedecommesso.

C.MANUMISSIO IN SACROSANTIS ECCLESIIS: dichiarazione al vescovo.

Per Giustiniano acquista la libertà il servo abbandonato. I liberti ottennero maggiori libertà rispetto ai patroni.

51
2.I COLONI E I VINCOLATI AL PROPRIO STATO

Il colonato vincolò l’agricoltore e i membri della sua famiglia al fondo, in modo da garantirne la coltivazione. I coloni subirono una
grave limitazione della capacità giuridica, pur restando formalmente liberi. Neanche il dominus stesso poteva liberarli (servus
terrae=servo della gleba). Il colono era titolare di un peculium ma per alienarlo doveva ricevere l’autorizzazione del dominus fundi.
Lo staus di colono si eredita per nascita.

Furono istituiti i colleggia o corpora che erano delle corporazioni professionali oblligatorie, i cui membri si trovavano nelle stesse
condizioni dei coloni: esse erano state create per attività di particolare rilevanza economica e sociale.

Anche i decuriones e curiales subivano tali limitazioni, come anche i pagani, gli ebrei, i manichei, gli apostati, gli scismatici e gli
eretici. La noxae datio del filius era sparita.

3.CITTADINI E STRANIERI

Giustiniano estese la cittadinanza a tutto l’impero, quindi gli stranieri erano i popoli estranei all’impero. La cittadinanza si acquista
per nascita. Si perde con la deportatio in insulam, per perdita della libertà per captivitas e per acquisto di un’altra cittadinanza.

4.LA POSIZIONE NELLA FAMIGLIA

I poteri del pater familias continuarono a diminuire: per esempio lo ius vitae necisque venne abolito da una costituzione imperiale.
La vendita dei neonati era permessa, ma si combatté l’expositio dei bambini. Il filius familias era pienamente responsabile, anche
dal punto di vista penale. Venne istituito anche il peculium quasi-castrense, che comprendeva i ricavi di eventuali cariche pubbliche
ricoperte dal filius stesso.

I bona materna (l’eredità della madre) erano acquistati dal filius per impedire che il pater ne divenisse proprietario: egli aveva
l’usufrutto, ma alla sua morte il filius ne diveniva proprietario.

L’adrogatio fu ammessa solo per re scriptum principis (con un decreto imperiale) e fu concessa anche alle donne sui iuris.

L’adoptio divenne ante curiam, quindi dinanzi alla curia della città. Con Giustiniano, poi, si trasformò ancora: si faceva davanti ad un
funzionario, con l’intervento dell’adottante, del pater e dell’adottato. L’adottato non usciva dalla sua famiglia, perché ha solo una
posizione di erede ab intestato nella famiglia dell’adottante.

L’acquisto della patria potestas sui figli naturali nati fuori dal matrimonio si acquista in seguito alla legittimazione. L’emancipatio,
invece, si faceva davanti ad un funzionario.

5.IL MATRIMONIO E IL DIVORZIO

I due coniugi sono su posizioni paritetiche, grazie all’influenza del cristianesimo. Per i cristiani solo la morte scioglie il matrimonio: a
questa causa ne va aggiunta un'altra, la prigionia di guerra, che permetteva alla donna di risposarsi dopo 5 anni, solo se vi fosse
incertezza sulla sorte del marito.

Gli sponsalia si fusero con il fidanzamento arrale, caratterizzato dalle arra sponsaliciae, cioè denaro e beni dati a garanzia della
celebrazione. L’arrha poneva forti vincoli ai futuri sposi, pena gravi conseguenze sul piano matrimoniale.

Non ci furono più restrizioni riguardo del conubium riguardo allo status civitatis, dato che tutti avevano la cittadinanza: ogni
individuo, di una determinata età, capace di intendere e di volere, può contrarre matrimonio con altrettanto soggetto dell’altro
sesso. Ci sono 4 limiti alla capacità matrimoniale:

A.VINCOLI DI PARANTELA E DI AFFINITA’

B.VINCOLO DI PRECEDENTE MATRIMONIO

C.VINCOLI DI CARATTERE RELIGIOSO: ecclesiastici, cristiani con ebrei

D. VINCOLI DI ORDINE SOCIALE: membri di ceti diversi, vedova prima di 1 anno dalla morte del marito.

52
L’adulterio poteva essere commesso solo dalla moglie, il marito era perseguibile come adultero solo in quanto complice
dell’adulterio della moglie altrui. L’adulterio non era sollevabile da chiunque, ma solo da un membro della famiglia.

Come nelle epoche passate il divorzio era mal visto. Era lecito solo in caso di marito omicida, avvelenatore e violatore di tombe, o
di moglie adultera, avvelenatrice e mezzana.

6.I SOGGETTI DIVERSI DALLA PERSONE FISICHE

FISCO: in esso confluivano tutte le entrare dell’impero.

COLLEGIA: erano le corporazioni professionali di carattere coattivo.

CHIESE: erano anch’esse collegia, ma volontario. Potevano essere eredi e legati.

PIAE CAUSAE: complessi di beni lasciati o donati a scopo benifici, che possono essere di proprietà del vescovo o dell’ente che ne
benifca (ospedale, orfanotrofio, etc)

CAPITOLO 2: I BENI

1.I BENI

La differenza tra proprietà e possesso si perse e si creò una nozione di proprietà molto ampia in cui furono ricompresi quei diritti
reali che attribuivano l’uso e il godimento della res. La creazione del latifondo favorì la nascita di forme qualificate di possesso,
tutelate per la prosecuzione del loro godimento.

Le res possono essere o in nostro patrimonio o extra nostro patrimonium. Tra quelle extra nostro patrimonium dobbiamo
distinguere le res humani iuris e le res divini iuris. Le res divini iuris si dividono a loro volta in res sacrae (edifici e strumenti di culto
consacrati al vescovo), res religiosae (destinate al culto dei defunti) e res sancte ( mura, porte,etc.). Poi abbiamo la distinizione tra
res corporales (fondo, grano) e incorporales (diritti). La distinizioni tra res mancipi e nec mancipi sparì insieme alla mancipatio.
Altra distinzione quella tra beni mobili e immobili.

Tra i fondi distinguiamo quelli italici (usucapio di due anni) e quelli provinciali (usucapio di 10/20 anni). L’imperatore poi era
proprietario di immensi territori in italia e in provincia che dava in concessione.

2.IL POSSESSO

È divenuto preminente l’animus possidendi (intenzione del possessore di esercitare sulla cosa i suoi diritti) rispetto al corpus
possidendi (disponibilità materiale della cosa). Il quasi possessor è colui il quale esercita di fatto una servitù o l’usufrutto. Si punisce
qualsiasi autodifesa violenta. Per il recupero degli immobili abbiamo l’interdicutm unde vi e per il recupero di mobili l’interditum
uti possidetis.

3.L’USUCAPIO E LA LONGI TEMPORIS PRAESCCRIPTIO

L’usucapio (per i fondi italici, 2 anni in buona fede) e la longi temporis praescriptio (per i fondi provinciali, si perdeva dopo 10 o 20
anni)sono istituti creati per rendere certe delle situazioni traslative che risultavano mancanti di elementi essenziali per la
determinazione della titolarità del diritto. Giustiniano riformò l’usucapio e rese applicabile a tutti i fondi la longi temporis
praescriptio.

C’erano altre praescriptiones: una di 40 anni a favore del possessore in mala fede; una di 30 anni per estinguere tutte le actiones.

4.L’ENFITEUSI E LA SUPERFICIE NEL SISTEMA GIUSTINIANEO

L’enfiteusi è un diritto reale di godimento su cosa altrui, che attribuisce al titolare lo stesso potere di godimento del fondo del
proprietario, salvo l’obbligo di migliorare il fondo e di pagare al proprietario concedente un canone periodico. Può essere alienata
ed è trasmessa mortis causa. L’enfiteusi era nata per i fondi della dinastia imperiale e poi fu estesa alle terre delle città. Spettano
all’enfiteuta tutte le azioni spettanti al dominus.

53
Per quanto riguarda la superficie, vige il principio superficies solo cedit per i casi di costruzioni realizzate contro la volontà del
proprietario del suolo. Il superficiario ha piena disponibilità dell’edificio.

CAPITOLO 3: LE SUCCESSIONI E LE DONAZIONI

1.LA SUCCESSIONI SECONDO IL TESTAMENTO

Testamento civile: deriva dalla mancipatio familiae, è un documento di ultima volontà redatto per iscirtto e attestato da 5
testimoni. Attribuiva al chiamato l’hereditas.

Testamento pretorio: 7 testimoni, attribuiva al chiamato solo una honorum possessio secundum tabulas.

Testamento nuncupativo: orale, dichiarazione semplice che non segue il rito librale.

Testamento olografo: scritto tutto di pugno dal testatore e sottoscritto, senza l’intervento dei testimoni.

Testamento pubblico: può essere apud acta (consegnato ad un funzionario) oppure principi oblatum (consegnato all’imperatore,
che lo affida al funzionario).

Giustiniano introduce alcune riforme, come la differenza tra il testamento autografo (redatto interamente di suo pugno) e allografo
(redatto da un altro, ma sottoscritto dal testatore). Nel codice troviamo poi altri testamenti, detti speciali: il testamentum militis
(per militari impegnati in guerra), il testamentum tempore pestis conditum (formulato in tempo di peste, testimoni si presentano
alla spicciolata per non ammalarsi), il testamento del cieco, il testamentum ruri conditum (redatto in campagna), il testamento a
favore di chiese e quello dei genitori a favore dei figli.

Anche per i codicilli erano necessari 5 testimoni.

La capacità di testare è richiesta al momento della redazione del testamento e alla morte. Hanno la capacità di testare le donne, il
filius, i servi cubiolari (servizio dell’imperatore).

La capacità di succedere viene conferita anche alle donne, alle chiese o ai collegia, a favore di poveri o prigionieri.

Il testamento può essere revocato dal testatore stesso tramite un testamentum imperfectum. Non c’è più bisogno dell’imperativo
per designare l’erede, ma basta una chiara espressione di volontà.

Per Giustiniano gli eredi sono o necessarii (servi istituiti) o sui et necessarii (figli o discendenti in potestate) o extranei. Conferma lo
ius abstinendi e il beneficium separationis. La cretio sparisce, e si considera aver accettato il chiamato che non rifiuta entro un
anno.

Una grande novità fu la beneficium inventarii, cioè quel benificio che spetta all’erede che voglia verificare che gli sia conveniente
l’accettazione di una eredità. Deve essere attivata entro 30 giorni dall’apertura del testamento e termianta nei 60 successivi.

Venne istituita anche una terza tipologia di sostituzione, quella quasi-pupillare: con essa si poteva nominare un erede al
discendente infermo di mente per il caso che morisse in quello stato.

2.LEGATI E FEDECOMMESSI

Il legato e il fedecommesso erano istituti ormai sovrapponibili, dato che i mezzi di tutela per essi erano i medesimi. Il
fedecommesso universale era la richiesta di trasferimento del totale patrimonio ad un determinato soggetto (a tale erede venne
concessa la quarta falcidia). Il fedecommesso familiare era simile a quello universale, ma la preghiera era di conservare il
patrimonio e di lasciarlo ad un membro della famiglia.

3.LA SUCCESSIONE LEGITTIMA

Si preferisce sempre il vincolo di sangue. Giustiniano con alcune Novellae elimina la distinzione tra hereditas e honorum possessio,
equipara la parentela materna a quella paterna e equipara il filis familias all’emancipato.

54
Per quant riguarda l’ordine di successione abbiamo: discendenti legittimi, gli ascendenti, i fratelli e le sorelle e infine i cognati. Se
mancano i cognati, viene chiamato il coniuge. Se non vi sono eredi ab intestato, si devolve al fisco.

4.LA DONAZIONE E LA DONATIO MORTIS CAUSA

Mantenuto il divieto di donazione tra coniugi. L’atto era scritto ed era detto insinuatio. La donatio mortis causa si allineò col
testamento, con 5 testimoni.

Capitolo Quarto:

Le Obbligazioni

1.Le obbligazioni in generale

Per quanto riguarda il tema delle obbligazioni nell'età tardoantica e giustinianea,in linea con la volontà che caratterizzava questo
periodo di liberarsi dalle forme e di rivolgere la propria attenzione al contenuto in ambito giuridico,si passa a mettere in evidenza la
connessione tra obbligazione ed il fatto,o atto,che la generava.In sostanza,insomma,si voleva dare più riguardo all' interesse
dell'attore che molte volte non poteva rientrare nelle soluzioni proposte dai rigidi schemi processuali delle formule.Per questo
motivo ci fu una rivalutazione della distinzione tra bonae fidei (buona fede) e stricti iuris (stretto diritto) per la determinazione della
responsabilità e quindi della condanna,in modo da perseguire gli interessi soggettivi.In questo contesto,poi,ha un forte impatto la
morale cristiana(quindi un passaggio ad una visione soggettiva)connessa ad un grande dislivello nella distribuzione della
ricchezza,che vedeva una grande povertà dei ceti medio-bassi e che portava l'ordinamento ad una protezione del debitore nei
confronti di eventuali abusi del suo creditore.Allo stesso modo anche la figura del garante viene avvantaggiata da Giustiniano
attraverso una legge che permetteva a questi ultimi di chiedere al creditore di agire prima nei confronti del debitore e poi,solo in
un secondo momento e in caso di inadempienza,nei loro confronti.Anche il contenuto della obbligazione(ovvero la prestazione
promessa) veniva divisa,ormai,con i concetti di certum (ovvero una somma di denaro o un oggetto determinato) e incertum (ovvero
in tutti gli altri casi,compreso il fare un'opera determinata),che in un contenzioso permettevano al giudice di dare un valore in
denaro alle prestazioni così da emanare una conseguente condanna.

2.Figure particolari di obbligazioni

Si vengono a delineare in questo periodo tre ulteriori forme di obbligazioni particolari: le obbligazioni alternative;le obbligazioni
solidali e le obbligazioni fideiussorie.

Partiamo dal primo tipo,ovvero le obbligazioni alternative.Esse si presentano quando un debitore per errore consegna al creditore
due beni,tra i quali uno deve essere restituito al debitore in quanto la somma dei loro valori supera il valore del debito
contratto.Fino a quel momento,infatti,la giurisprudenza era divisa:è il creditore a dover scegliere di quale bene liberarsi o è il
debitore a stabilire quale bene riprendersi?Giustiniano decise di seguire questa seconda opzione,ovvero di lasciare la scelta al
debitore(ovvero a colui che ha consegnato entrambi i beni).Ovviamente c'erano dei limiti riguardo l'impossibilità di una
prestazione(ovvero se ad esempio io do due servi e uno di questi muore non posso riprendermi quello sano e lasciare al mio
creditore quello morto) e inoltre se il debitore danneggiava di proposito uno tra i due beni per pilotare a suo vantaggio la scelta
rischiava di subire un'actio de dolo da parte dal creditore che altrimenti rimaneva fregato.Altro limite per la scelta era la condizione
del bene(sempre con l'es. dei servi,se tra essi ce ne uno malaticcio e uno sano io debitore dovrò riprendermi quello malaticcio e
lasciare al creditore quello sano).

Per quanto riguarda le obbligazioni solidali,invece,esse rappresentano semplicemente un superamento delle obbligazioni
cumulative.Infatti,essendosi fatta strada l'idea che nelle obbligazioni l'interesse del creditore fosse il risarcimento,in caso di più
debitori esse implicavano che il pagamento per intero da parte anche solo di un debitore avrebbe sciolto tutti gli altri debitori (ad
esempio se Tizio e Caio mi devono 100 monete non è più importante che mi paghino 50 monete a testa ma che almeno uno mi
55
paghi l'intera somma in modo da sciogliere entrambi dall'obbligazione).Ciò non toglie però che in caso di più debitori ognuno sia
responsabile della propria quota e,in questo senso,per tornare all'esempio di prima,se Tizio e Caio mi devono 100 monete non
posso costringere Tizio a pagarmi l'intera somma se non vuole.Questo è il caso delle obbligazioni fideiussorie.

3.Le fonti delle obbligazioni

In età imperiale la classificazione delle fonti delle obbligazioni viene divisa in una prima generale divisione tra obbligazioni civili
(ovvero quelle regolate da legge o riconosciute dal diritto civile) e obbligazioni pretorie o onorarie (ovvero quelle create dai pretori
nella propria giurisdizione).La seconda divisone si fa in quattro specie:ci sono obbligazioni da contratto o quasi da contratto,da
maleficio o quasi da maleficio.Poi divide le obbligazioni di contratto in quattro ulteriori specie,ovvero obbligazioni contratte per
mezzo di una cosa,per mezzo di parole,per mezzo di scritti o per mezzo del consenso.

4.I contratti e i quasi contratti

Per quanto riguarda i contratti viene concepita la particolare figura dei contratti atipici o innominati,ovvero quei contratti che pur
non avendo un nome proprio implicano un'obbligazione (ad esempio gli schemi do ut des,do ut facias,facio ut des e facio ut
facias).Alla categoria dei contratti,poi,viene affiancata quella dei quasi contratti,ovvero "quelle obbligazioni non nate da contratto
ma che,non prendendo corpo dall'illecito,sembrano come se siano nate da contratto".In quanto si è già parlato dei rapporti tra
Institutiones e De obligationibus quasi ex contractu,vediamo alcune figure ricondotte a questa categoria.

La prima è la negotiorum gestio , ovvero la gestione degli affari nel caso in cui un soggetto sia impossibilitato a delegare tale
incarico ad un mandatario.In questo caso tale attività è ricondotta al procurator. Si ricorreva quindi ad una actio negotiorum
gestorum per creare delle obbligazioni nei confronti del gestore e per il gestito(ovvero al di là della presupposta utilità della
gestione,il gestito doveva rimborsare le spese sostenute dal gestore per il mantenimento degli affari),sebbene una situazione del
genere fosse rara e insolita,in quanto non era ben vista la gestione di un patrimonio altrui.Tale ipotesi serviva solo in casi di
emergenza quando,magari in un ampio lasso di tempo,gli affari rischiavano di andare male se lasciati incustoditi. Giustiniano,poi,
aveva stabilito che il gestore non potesse compiere un'azione contro il gestito se esso, in precedenza, avesse espressamente vietato
la gestione(ad esempio se io non voglio che nessuno gestisca i miei affari e qualcuno ne prende il possesso a mia insaputa, e mentre
gestisce il mio patrimonio perde un sacco di soldi e vuole che io lo rimborsi,s'attacca allegramente al cazzo).Parallelamente,quindi,
non posso rifiutarmi di pagare le spese fatte da un gestore che mi ha gestito il patrimonio correttamente e con il mio consenso.Allo
stesso modo anche i tutori e i curatori sono obbligati dall'astio tutelar nei confronti dei pupilli,malati di mente o prodighi che siano.

Vi è poi la communio incidens , ovvero quei casi in cui, in una comunione ereditaria, sorgono obbligazioni per i danni che uno o più
contitolari dell'eredità apportano ai beni comuni o agli altri cotitolari.

Con Giustiniano cade poi la differenza tra legato e fidecommesso, in quanto dal momento dell'accettazione di tale ruolo sorge una
generale obbligazione di adempiere la volontà del testatore.

Infine abbiamo l'indebiti solutio, ovvero il caso in cui che crede erroneamente di essere debitore e paga una somma a qualcuno che
si ritiene erroneamente creditore.In questo caso c'è la conditio che permette la restituzione di quanto pagato o dato.L'unica
eccezione sotto Giustiniano ,oltre alla ripetibilità di un'obbligazione naturale(che non può evidentemente essere restituita),
riguarda la consegna di un bene alla chiesa o a soggetti religiosi per il quale la conditio non sussiste e quindi non si può riottenere il
bene perso.Va sottolineato che in età giustinianea (ma presumibilmente anche in età classica) fosse utilizzata in maniera più
sistematica la condictio incertum , ovvero la condictio usata per una res incerta.

5.I delitti e i quasi delitti

In questo periodo si supera la vecchia distinzione tra crimini privati e crimini pubblici e si volge l'attenzione sempre al risarcimento,
stabilito dal diritto pubblico attraverso lo ius punendi, che un determinato comportamento illecito causa.I quattro delitti dello ius
civile(furto,rapina,danneggiamento e ingiuria) vengono solo rivisitati e le uniche differenze riguardano:

56
-la persecuzione del furto avviene attraverso un giudizio penale pubblico.

-l'esperibilità dell'azione per i casi di danneggiamento è allargata a tutte le fettispecie per cui si era fatto ricorso ad actiones
utiles,accomodatae o in factum ad exemplum legis Aquilie.

-il passagio dell'iniuria a delitto pubblico, per il quale si può chiedere che il reo sia perseguito con processo pubblico.

Per quanto riguarda i quasi delitti fanno sorgere obbligazioni "come se" fossero da delitto.In sostanza questa categoria ricopre gli
illeciti pubblici e pretori, come la violazione di un sepolcro o l'indicazione di misure false, dai quali il giudicato deve essere tutelato.

Per questo tipo di accusa era sufficente la culpa, ovvero una responsabilità di tipo oggettivo:quindi,ad esempio,se un mio ospite
lancia un vaso dalla finestra in strada e prende un passante,la colpa ricade non su chi ha lanciato materialmente il vaso,ma ricade su
chi risulta l'intestatario del luogo da cui il vaso è stato lanciato(che in questo caso sarei io).Allo stesso modo un capitano di una
nave o un albergatore sono responsabili di ciò che avviene nella rispettiva nave o locanda.Giustiniano, ad ogni modo, precisa che
questa è una culpa in eligendo, ovvero, per ritornare all'esempio di prima, la mia colpa non è stato il gesto in sè di tirare giù un
vaso(che tra l'altro è stato commesso da un diverso soggetto, cioè il mio ospite), ma l'aver permesso a quel soggetto di tirare un
vaso dalla mia proprietà.In altre parole la presenza di un individuo sulla mia proprietà mi rende obbligato verso le sue eventuali
cazzate che possano danneggiare qualcuno.

Capitolo Quinto

Processo Formulare, Cognitiones e Cognitio

1.Dalle formule alla cognitio

Col tempo, sin dall'età dioclezianeia, le formule rislutavano sempre più influenzate dalle cognitiones e molte volte venivano
direttamente sostituite da quest'ultime in particolare nelle provincie, dove spesso non erano recepiti l'ordinamento romano e il suo
processo.Con Costantino si inizia un'unificazioe tra le due procedure, fino ad arrivare ad un totale smantellamento del processo
formulare da parte dei suoi figli nel 342 d.C., e la nascita di una nuova forma di processo: la cognitio.

Innanzitutto, muta il significato stesso del termine iurisdictio, che ormai indica decisione e non più scelta della disciplina adatta a
risolvere una determinata controversia.Di conseguenza, vengono rinforzati i poteri dei giudici che possono contare sull'aiuto dei
loro ausiliari per l'emanazione e esecuzione della sentenza: l'assenza di un convenuto, ad esempio, non è più un'ostacolo all'inizio
del processo, ma può essere portato coattivamente portato davanti al giudice da questi ausiliari e, se neanche loro riescono a farlo
comparire in giudizio, il processo avviene comunque e il reus viene considerato contumax, cioè contumace(va da se che uno che
non si presenta lo fa a suo rischio e pericolo, un po perchè sta disobbedendo all'autorità pubblica ma sopratutto perchè se non è
presente non ha neanche la possibilità di difendersi).Il mutamento della iurisdictio, inoltre, implica il c.d. diritto di azione, ovvero il
giudice non ha più la facoltà di ammettere o meno un processo, ma deve solamente decidere quale parte ha vinto e quale è stata
sconfitta, tenendo sempre a mente che attraverso le sue decisioni egli fa le veci dell'imperatore.

Questo passaggio creò comunque molte difficoltà organizzative:innanzitutto, grazie anche all'organizzazione delle provincie, si era
formata una gerarchia tra i giudici, affinchè si potesse fare ricorso ad un giudice superiore se la sentenza non soddisaceva le
parti(ovviamente l'ultima possibilità era rappresentata dal tribunale imperiale o la supplicatio all'imperatore).Inoltre si venne a
creare una complessa macchina burocratica, che non solo era spesso lenta(Giustiniano parlò addirittura di contese che superano la
durata della vita umana) ma sopratutto corrotta, in quanto ora i giudici e gli ausiliari venivano retribuiti per il loro lavoro, e spesso
capitava che venissero corrotti o che chiedessero dei pedaggi anche solo per far entrare le parti in aula.

2.Organizzazione della cognitio

La riforme dell'organizzazione delle provincie di Diocleziano si rifletteva anche sulla gerarchizzazione delle autorità amministrative
che, come abbiamo già detto, trovavano il loro vertice ovviamente nel tribunale imperiale e nell'Imperatore stesso.

Il primo grado di giudizio veniva affidato solitamente al governatore, chiamato proconsul nelle provincie di Asia, Africa e Acaia (e
sottoposto solo all'imperatore) oppure consularis in tutte le altre provincie (e sottoposto alla figura del vicarius).Oltre queste due
figure, ne esistevano altre con competenze più specifiche a seconda dei casi.Come già detto in precedenza un eventuale "appello"
57
doveva essere rivolto al giudice gerarchicamente superiore a seconda dei casi, ma in realtà questo sistema era solamente molto
complesso ed inefficente.L'ultimo appello poteva essere fatto all'imperatore che delegava ai suoi giuristi la decisione da prendere.

3.La capacità processuale delle parti

Qualunque cittadino pienamente capace poteva stare tranquillamente da solo in giudizio, possibilità che dopo Diocleziano venne
concessa anche alle donne.Ovviamente gli unici che non potevano affrontare da soli un giudizio erano i malati di mente o i pupilli,
che venivano assistiti dai rispettivi tutori o curatori.E' sempre possibile farsi rappresentare da qualcun altro ( cognitor o defensor), o
comunque da qualcuno che assicuri il giudice che il rappresentato esegua la sentenza(procurator).C'era anche la posibilità che un
organo come una città fosse coinvolta in un processo, e in questo caso veniva rappresentata da un actor che non subiva gli effetti
della sentenza in quanto si riversavano sull'ente rappresentato.Inoltre, con Teodosio, anche gli schiavi non avevano più bisogno
della presenza dell'adsertor libertatis in giudizio, ma bastavano venti anni di libertà(con Giustiniano la figura dell'adsertor viene
invece definitivamente abolita).Anche la libertà processuale dei filii aumentò con il tempo, e per i processi penali potevano
difendersi da soli ma solamente con Giustiniano diventano personalmente responsabili nell'azione penale(in quanto venne abolita
la nossalità).Ad ogni modo venne a fortificarsi sempre di più la figura dell'advocatus, ovvero di una persona a cui delego la mia
difesa(che quindi va a ricoprire il ruolo di cognitor o procurator, figure che con Giustiniano si uniscono nella figura di procurator)
che doveva far parte di una corporazione professionale soggetta al controllo pubblico, in modo che chiunque volesse assoldarli
poteva contare sulla loro capacità di postulare pro aliis, ovvero assenza di cause di inferiorità come la cecità, il sesso femminile,
condanne penali o l'aver tenuto comportamenti riprovevoli o disonorevoli.

4.Aspetti della procedura e della sentenza

Come abbiamo già visto, non serve la presenza di entrambe le parti in un giudizio ma solamente la presenza di un impulso di parte
che dia inizio al processo.Allo stesso modo il giudice non deve per forza seguire ogni parte del processo, ma può delegare una parte
o l'intero processo ad un suo subordinato.Il giudizio non si può ritenere concluso prima di una sentenza, che può essere di
condanna o assoluzione.Il processo si divide in: comparizione delle parti davanti al giudice; litis contestatio; assunzione delle prove
e sentenza.Per dare inizio ad un processo, occorreva che l'actor scrivesse un libellus in cui fossero specificati i motivi della
citazione.Questa lettera veniva poi, previa autorizzazione del funzionario competente, consegnata al reus e le parti dovevano
presentarsi entro 4 mesi da questa fase, anche detta litis denuntiatio.Con il tempo anche questa fase venne trascurata, in quanto
venne sostituita dal libellus conventionis, sempre un atto scritto con la differenza che veniva recapitato da un ausiliario(executor)
che esigeva anche delle garanzie della presenza del convenuto, come il pagamento anticipato delle sportulae (ovvero una tassa
richiesta dagli ausiliari alle parti in causa) che, se non veniva pagata dal convenuto, autorizzava l'ausiliario ad arrestarlo fino alla fine
del processo.Inoltre con questo metodo il termine di comparizione venne fissato ad un tempo non minore di 10 giorni, nei quali il
convenuto poteva risolvere il problema(20 con Giustiniano).La contumacia nella litis denuntiatio del convenuto andava a suo
sfavore, in quanto la sentenza sarebbe stata di condanna, mentre con la libellus conventionis per poter emanare una condanna con
il convenuto in contumacia il giudice doveva solo assicurarsi della fondatezza della domanda.Se invece era l'attore a non presentarsi
entro 4 mesi dalla causa(nella litis denuntiatio) perdeva la causa e non poteva ripresentarla, mentre se non si presentava nella
libellus conventionis perdeva il processo e la sportula data all'executor, ma poteva ripresentare la causa.Dopo questa fase, il
convenuto poteva anche dare subito ragione all'attore facendogli vincere la caura.In caso contrario poteva esplicare la sua linea
difensiva nel libellus contradictorius.In ogni momento del processo le parti, compreso il giudice, potevano richiedere un giuramento
della parte opposta che, se non veniva recitato, incideva negativamente sulla sentenza.Inoltre le eccezioni processuali dovevano
essere poste subito alla prima udienza(come l'incompetenza del foro, il mancato termine di un adempimento o l'invalidità di un
negozio su cui si basa l'accusa della domanda).

Finita la contestazione della lite, si passava all'istruttoria e all'esaminazione delle prove, che era un onere imposto a entrambe le
parti, tenendo conto che esistevano gerarchie di affidabilità che i giudici dovevano seguire come la preferenza dei documenti scritti
alle testimonianze orali(non solo per l'affidabilità ma anche per la redazione di documenti pubblici).Era possibile anche fare
un'azione per verificare l'autenticità o meno di un atto (querela di falso) valutata dal giudice.Con Giustiniano si specifica anche che
non si può giudicare in base ad una sola testimonianza orale, mentre per i debiti non basta un solo documento scritto ma ne

58
servono almeno 5(in realtà l'unico mezzo per capire un eventuale falso era lo status di colui che lo aveva redatto).Poi si devono
considerare le prove legali, ovvero quelle che non possono essere valutate dal giudice per la loro validità, come la confessio e le
praesumptiones ( queste erano più orientative e sibasavno in primis sulle esperienze di vita del giudice stesso che gli permettono di
arrivare a determinate conclusioni).

Ultima parte del processo era la sentenza.Non abbiamo dati certi su questa parte, ma possiamo dedurre che non ci fosse un limite
prefissato per emetterla(così si spiegherebbe l'affermazione di Giustiniano riguardante l'eccessiva durata dei processi di cui ho
parlato prima).Essa, in ogni caso, prevedeva o un'assoluzione o una condanna che riguardava la consegna di un bene o
l'adempiento di una prestazione, o comunque di una somma in denaro(in più venivano fatte pagare le spese legali alla parte
soccombente).L'esecuzione era ovviamente coercitiva se la parte condannata si rifiutava di eseguirla ma si poteva fare ricorso in
appello sospendendo la sentenza.Poteva anche presentarsi la possibilità di un sentenza nulla in caso di violazione del diritto
imperiale.

5.Il giudizio d'appello e l'esecuzione

Per quanto riguarda l'appello, come abbiamo già detto, aveva dei termini di presentazione oltre i quali veniva consolidata la
sentenza precedente(che risultava quindi inoppugnabile).L'appello poteva basarsi su nuove prove o nuove eccezioni, e le regole del
processo erano le stesse di quelle in primo grado, sia riguardo la eventuale assenza di una delle due parti sia la nuova discussione e
infine la sentenza.Si poteva poi ricorrere ad un ulteriore appello nei confronti dell'imperatore, ma solo se le due precedenti
sentenze non fosseri conformi.Se invece si ricorreva all'imperatore, il giudice doveva inviare tutta la documentazione possibile e
egli(o chi per lui) dava una sentenza finale e ovviamente definitiva.Per quanto riguarda l'esecuzione, essa poteva avvenire tramite
gli exsecutor(se il condannato si rifiutava di eseguirla) oppure con l'immissione dei creditori nel patrimonio del condannato o con la
cessio bonorum(insomma le solite cose).L'unica particolarità poteva essere una esecuzione in forma specifica, quando la condanna
prevedeva la consegna di uno specifico bene a discrezione del giudice.

59

Potrebbero piacerti anche