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DAL CAPITOLO 6

IL PARADIGMA DELLA SINTASSI


La sintassi: concetto chiave della teologia trinitaria

La lezione di Basilio a difesa della divinità dello Spirito

Ciò che sta maggiormente a cuore a Basilio e che anima il De Spiritu Sancto è difendere
e professare la vera e piena divinità dello Spirito contro coloro che la negavano o la
presentavano in modo tale che ne risultasse profondamente compromessa l’autenticità.
In altre parole, Basilio continua sul fronte dello Spirito la stessa lotta appassionata
che lo aveva condotto in precedenza, opponendosi ad uno dei maggiori esponenti
dell’arianesimo radicale, Eunomio, a difendere la divinità del Figlio. Questo è attestato
nell’altra sua fondamentale opera teologica, il Contro Eunomio. È lo stesso Basilio a
richiamare, nel De Spiritu Sancto, quanto egli ha trattato nel Contro Eunomio. Infatti,
riferendosi agli autori delle “bestemmie contro l’Unigenito”, afferma: «Rispondere a costoro
sarebbe più lungo di quanto comporti il presente impegno, tanto più che anche altrove
l’empietà è stata da noi confutata, nella misura delle nostre forze» (DSS XVII,43).
Inoltre, che sullo sfondo della difesa della divinità dello Spirito Santo vi sia ancora la
lotta contro l’arianesimo, è lo stesso Basilio ad attestarlo quando si riferisce ai suoi avversari
come a coloro che «separano con degli intervalli di tempo il Figlio dal Padre e lo Spirito
Santo dal Figlio» (DSS XXV,59), con una chiara allusione alla dottrina ariana che riconosce
solo al Padre la nota dell’eternità.
Di conseguenza, è naturale che tutta la “battaglia” contro gli pneumatomachi si fondi
sulla definizione dogmatica sancita a Nicea nel 325 che professa la consustanzialità del
Figlio al Padre, in risposta all’eresia ariana. L’oJmoouvsioç del Simbolo di Nicea, infatti,
sebbene avesse aperto, a conclusione del concilio, tutta un’intricata discussione circa la
bontà o meno del termine, sancì tuttavia con estrema chiarezza l’affermazione della piena
divinità del Figlio.
In seguito, non mancarono alcuni teologi che, spostando l’attenzione dal Figlio allo
Spirito Santo, posero quest’ultimo su un gradino inferiore rispetto al Padre e al Figlio,
compromettendone così la piena divinità: per questo, a tali pensatori verrà attribuito il nome
di “pneumatomachi”, in quanto è contro lo Spirito, per l’appunto, che si dirige la loro
“battaglia”.1 Ciò che caratterizza la loro dottrina, sulla scia di Eunomio e del suo esasperato
razionalismo, è una fiducia illimitata nelle possibilità dell’intelletto umano di conoscere Dio
e il mistero della sua essenza.
Basilio a loro contrappone un sistema di pensiero che, consapevole dei limiti della
conoscenza dell’uomo, cerca una guida sicura nella Sacra Scrittura e nei suoi insegnamenti
e, in particolare, pone al centro della propria indagine teologica le preposizioni che la
Scrittura utilizza in relazione al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo. A queste preposizioni
e al loro significato Basilio è particolarmente attento poiché, sebbene possano sembrare
insignificanti per la loro brevità, diventano determinanti nel valutare quale forma debba
essere adottata per la dossologia: al Padre (tw/` Qew/` kaiV Patriv) insieme al Figlio (meVn metaV tou`
UiJou`) con lo Spirito (suVn tw/` Pneuvmati tw/` aJgivw/) o al Padre per mezzo del Figlio (diaV tou` UiJou`) nello
Spirito Santo (ejn tw/` aJgivw/ Pneuvmati) (DSS I,3)? In particolare, Basilio confuta l’uso che di
queste preposizioni fanno gli ariani e gli pneumatomachi, costruendo su di esso l’intero loro
sistema di pensiero. Ne è una riprova la sua denuncia, formulata nel Contro Eunomio, in base
alle quale si deve ritenere «un bugiardo chi afferma con cavilli che alla differenza di nomi
faccia seguito la differenza di sostanza, poiché la natura delle cose non è conseguente ai
nomi, ma i nomi sono stati inventati dopo le cose» (II,4).

1
«Preparativi di guerra si fanno contro di noi; ogni pensiero è ordinato contro di noi e le lingue di quei blasfemi
dardeggiano, colpendo più violentemente di quanto quei cristicidi non colpissero Stefano con le pietre» (DSS
X, 25).

1
Ma si proceda con ordine: nel De Spiritu Sancto, Basilio si chiede innanzitutto quale
sia l’interpretazione che gli ariani attribuiscono alle preposizioni ejk, diav e ejn nel loro
accostamento alle tre persone divine. In particolare, il Cappadoce richiama l’opinione di
Aezio, fondatore del gruppo degli anomei (che vide in Eunomio l’esponente più noto), di
coloro cioè che, in quanto ariani radicali, professavano la totale dissomiglianza (ajnovmoioç)
del Figlio dal Padre:
Essi si accaniscono nel difendere la diversità nelle espressioni che riguardano il Padre, il
Figlio e lo Spirito Santo per dedurre facilmente anche la dimostrazione della differenza di natura.
Si attengono a un vecchio sofisma escogitato da Aezio, il fondatore di questa eresia, che scrisse in
qualche parte delle sue lettere: «Degli esseri dissomiglianti per natura, si parla in modo dissimile»
e, inversamente, «gli esseri di cui si parla in modo dissimile, sono dissimili per natura». E, a
conferma della sua affermazione, tirava dalla sua l’Apostolo, che dice: «Unico è Dio e Padre, dal
quale sono tutte le cose, e unico è il Signore Gesù Cristo, per mezzo del quale sono tutte le cose»
(1Cor 8,6). […] Da qui assegnano a Dio Padre, come un privilegio riservato, «colui dal quale», e
al Figlio e Dio «per mezzo del quale», allo Spirito «nel quale». Asseriscono anche che non si deve
mai cambiare l’uso di queste formule, perché – come ho detto – sia manifesta con la differenza
dell’espressione insieme anche la differenza della natura. (DSS II, 4)
Basilio ovviamente non accetta questa interpretazione e, in particolare, non concorda
con la scelta di applicare in modo fisso ed esclusivo le tre preposizioni alle tre persone
divine, proprio perché intende guardarsi da quella logica di subordinazione tra di esse, che
è tipica della dottrina degli anomei.
Il Cappadoce afferma con decisione, dopo aver mostrato come nella Scrittura le
preposizioni ejk e diav siano riferite entrambe ora al Padre, ora al Figlio e ora allo Spirito (cf.
DSS V,7-12), che si deve riconoscere al Figlio la stessa gloria che si riconosce al Padre (DSS
VI,15); pertanto, proprio per rendere esplicito questo riconoscimento, sposta l’attenzione su
una nuova preposizione che – a suo giudizio – è più adatta delle altre ad esprimere la
dossologia: suvn (DSS VII,16), mettendo così in risalto l’assoluta pariteticità tra il Padre e il
Figlio, che tutto opera insieme con il Padre (DSS VIII,19).
Proseguendo nella sua argomentazione, Basilio passa dal Figlio allo Spirito, che è il
protagonista del trattato. Già questo è un primo aspetto che merita di essere evidenziato, in
quanto l’attenzione riservata al Figlio, prima ancora che allo Spirito, in un’opera dedicata
proprio allo Spirito, svela che Basilio aveva una piena consapevolezza che la posizione degli
pneumatomachi fosse profondamente legata a quella degli ariani, rappresentandone quasi
un’appendice. Se quindi strettamente interdipendenti sono le dottrine degli ariani e degli
pneumatomachi, analogamente affini possono e debbono essere gli strumenti e le
argomentazioni utilizzati per combatterne gli errori.2
Trattando esplicitamente dello Spirito, Basilio ne enumera innanzitutto i nomi e
passa quindi a tratteggiarne la figura, narrando la pluralità di azioni che egli compie
nell’uomo, prima fra tutte la santificazione e la capacità di perfezionare. Uno dei titoli che
Basilio gli attribuisce e che merita di essere sottolineato è quello di zwh`ç corhgovç, corego
della vita (DSS IX,22); il corego, nell’antica Grecia, era un ricco cittadino che godeva di
altissima considerazione, a cui la polis affidava l’onere della coregia e la responsabilità e le
spese di allestimento di un coro lirico o tragico. Applicare tale titolo allo Spirito, pertanto,
diviene un invito a guardare a Lui come a colui che mette in ordine gli esseri viventi e li
abilita a compiere movimenti artistici come la danza e la musica. Questo stesso titolo ritorna
in una forma simile nel prosieguo del trattato, dove lo Spirito è presentato come il korufaivoç
della sumfwniva degli angeli, con i quali vive una profonda sunergeiva.3 Questo corifeo, che è
«semplice nell’essenza, vario nei suoi prodigi, tutto intero presente a ciascuno e tutto intero


2
Anche nelle Lettere a Serapione di Atanasio, specialmente nella seconda, si può ritrovare l’attestazione di
un’analoga connessione tra pneumatomachi e ariani.
3
«È impossibile condurre fino alla fine la vita conforme alla legge senza lo Spirito: non più almeno del buon
ordine dell’esercito senza il comandante, o dell’accordo del coro senza che sia presente a dirigerlo il corifeo
(corou` thVn sumfonivan, tou` korufaivou mhV sunarmovzontoç). Come potrebbero cantare i serafini: “Santo, santo,
santo” (Is 6,3) se non avessero appreso dallo Spirito quante volte convenga alla pietà proclamare questa lode?
Se dunque lodano Dio tutti i suoi angeli, se lo lodano tutte le sue potenze, questo avviene per il concorso dello
Spirito (th`ç tou` Pneuvmatoç sunergeivaç)» (DSS XVI, 38).

2
presente dovunque» (DSS IX,22), esegue una correlazione incomparabile tra unità e
molteplicità; e lo fa grazie al “primato” che in qualche modo gli si deve riconoscere nella
sumfwniva, nell’armonia delle creature. Infatti il titolo di korufaivoç, che gli è attribuito, non
richiama solo la sua funzione di corifeo, di capo del coro, ma anche il primato che gli spetta
per la sua dignità, per la sua natura; in tal modo, al korufaivoç è riconosciuta la korufhv, il
vertice, la sommità, la “primazialità” che gli è propria in quanto Dio come il Padre e il Figlio.
La scelta di far partire la teologia trinitaria dallo Spirito consente a Basilio di porre al
centro del suo pensiero non l’essenza astratta di Dio, ma l’esperienza personale e
comunitaria delle “energie” divine, e cioè delle opere delle persone divine, che rivelano la
comunione del Padre e del Figlio e dello Spirito a cui il mondo deve la sua esistenza,
mostrando così come fra di esse «esiste una comunione ontica, una “synápheia”, termine che
indica una unificazione e una unione dinamica, un ritmo di vita e un consenso continuo».4
Ed è qui che Basilio introduce la suvntaxiç, la sintassi. Si deve innanzitutto precisare
che, con tale termine, il Cappadoce non intende semplicemente guardarsi dal subordinare
il Figlio e lo Spirito al Padre. Se così fosse, sarebbe stato sufficiente parlare di
consustanzialità, di comunione ontica, di synontia, come in altri passi del trattato, quale – ad
esempio – il seguente:
Si dice dunque che lo Spirito è negli esseri creati in molti gradi e modi diversi, ma
riguardo al Padre e al Figlio è più conforme alla pietà dire non che egli è in loro, ma con loro (oujciV
ejnei`nai ma`llon, ajllaV sunei`nai). La grazia che viene da colui che abita in coloro che ne sono degni
e nei quali egli compie le sue opere, si può ben dire che è in coloro che la accolgono. L’esistenza
anteriore ai secoli e la permanenza senza fine con il Figlio e il Padre, una volta che sia
contemplata, esige vocaboli che esprimano unione eterna (th`ç aji>divou sunafeivaç). “Essere con”
(sunupavrcein) si dice infatti con precisione e con verità di quegli esseri che coesistono
inseparabilmente gli uni dagli altri (ejpiV tw`n ajcwrivstwç ajllhvloiç sunovntwn). (DSS XXVI, 63)
Come si è constatato, anche in questo testo Basilio argomenta il proprio pensiero sulla
base dell’analisi teologica delle preposizioni, in questo caso in e con, utilizzate come prefissi
del verbo essere (e[n-eimi e suvn-eimi).
Tornando all’argomentazione precedente, si deve sottolineare come Basilio scelga
oculatamente di non limitarsi a parlare di consustanzialità, ma ritenga più opportuno
riferirsi alla suvntaxiç; ed è questa la grande intuizione che gli si deve riconoscere. Egli è ben
consapevole, infatti, che l’assoluta pariteticità delle tre persone divine deve essere in
qualche modo “temperata” dalla taxis trinitaria, che sola può consentire di non trascurare la
natura di fonte ed origine che spetta solo al Padre e che è autorevolmente attestata
dall’economia della salvezza nella storia del Figlio e dello Spirito Santo.
Volendo ora cogliere il senso attribuito da Basilio alla sintassi, si ritiene utile partire
con il mostrare come il Cappadoce senta ripetutamente il bisogno di ribadire il dato
teologico della taxis trinitaria. Lo si può constatare con immediatezza nella sezione del
trattato in cui elenca le azioni dello Spirito, partendo proprio dal riconoscimento del dono
dei carismi.

Il mistero della taxis

Il vescovo di Cesarea mostra, con una pregevole argomentazione, come la taxis


trinitaria, la si sperimenti nel godere dei doni di Dio. Infatti, se è lo Spirito che sta in primo
piano quando si guarda ai carismi, in quanto è lui a distribuirli «secondo il proprio volere
(aujtexousivwç), in conformità alla dignità di ciascuno», questo – annota immediatamente
Basilio – non deve assolutamente far pensare che qui «l’ordine sia stato rovesciato
(ajntestravfqai thVn tavxin)» (DSS XVI,37). Paolo, infatti, in 1Cor 12,4-6, menzionando per
primo lo Spirito, per secondo il Figlio e per terzo Dio, il Padre, «prende l’avvio dalle nostre
forme (th`ç hJmetevraç scevsewç thVn ajrchVn e[laben): quando riceviamo dei doni ci imbattiamo
per primo con chi li distribuisce, poi pensiamo a chi li invia, infine spingiamo la nostra
mente alla sorgente e alla causa dei beni» (ivi).


4
GANOCZY, Il creatore trinitario, 37.

3
È evidente, quindi, che menzionare per primo lo Spirito non rovesci la gerarchia, la
tavxiç che vede nel Padre il primo, nel Figlio il secondo e nello Spirito il terzo, bensì la rafforzi.
Infatti, partire dallo Spirito non significa in alcun modo eliminare il primato del Padre né
capovolgere la gerarchia, ma dare credito all’esperienza del cristiano che, in quanto
destinatario dei doni di Dio, incontra lo Spirito per primo ed è da Lui condotto al Figlio e al
Padre, dal quale ogni dono deriva proprio per mezzo del Figlio nello Spirito. L’intento di
Basilio è, pertanto, quello di narrare con decisione la taxis trinitaria.
Ciò che si sperimenta con la realtà dei carismi, vale anche e ancor prima per l’opera
creatrice, che consente con eguale chiarezza, di cogliere la tavxiç trinitaria. Nel confessare
Dio come “causa” di tutto il creato, Basilio riconosce che, in forza della sinergia delle
persone divine, tutte e tre sono “causa” degli esseri creati. Ma questo deve essere predicato
in maniera diversa per ogni persona: si deve, infatti, considerare il Padre come
prokatarktikhV aijtiva, e cioè – tentando di rendere il senso dell’aggettivo greco, difficilmente
traducibile per il riecheggiare in esso, per assonanza, dei termini ajrchv e provtoç – come causa
prima di ciò che è stato fatto, causa fondamentale, causa principale, causa antecedente; il
Figlio come dhmiourgikhV aijtiva, causa operante o creante; lo Spirito come teleiwtikhV aijtiva,
causa perfezionante (DSS XVI,38). Basilio precisa subito dopo che tale distinzione non
significa che nella Trinità vi sia un mutuo completamento di azioni parziali di per sé
insufficienti; molto opportunamente, Ganoczy fa notare che «la convergenza e la
cooperazione dei tre trovano la loro motivazione unicamente e soltanto nella loro libera
volontà comunionale, in ultima analisi nel loro amore reciproco. Nel processo dell’opera
della creazione si potrà anche riconoscere una triade di momenti operativi, però in fondo
esiste solo “una unica origine degli esseri” (DSS XVI,38)» (Il creatore trinitario, 39).
Il Cappadoce, infatti, afferma con decisione che, fatte salve le precisazioni sopra
esposte in merito alle distinzioni con cui Padre e Figlio e Spirito devono essere considerati
causa della creazione, si deve riconoscere che «uno solo è il principio degli esseri (ajrchV gaVr
tw`n o[ntwn miva), che opera mediante il Figlio (di j UiJou` dhmiourgou`sa) e perfeziona nello Spirito
(kaiV teleiou`sa ejn Pneuvmati)» (DSS XVI,38). Come interpretare l’affermazione basiliana
relativa a questo “solo principio” (miva ajrchv), a questa “sola origine” di tutti gli esseri creati?
Chi è tale “origine” e tale “principio”?
Sono dell’opinione che l’interpretazione più fedele al testo sia quella che riconosce
l’unica ajrchv, menzionata da Basilio, proprio e precisamente nella persona del Padre. Una
solida conferma la si ritrova nel prosieguo della riflessione, dove il Cappadoce cita un testo
paolino che fuga ogni dubbio: «Uno solo è Dio, che opera tutto in tutti» (1Cor 12,6); e qui
“Dio” – come è evidente dal resto del versetto biblico, nel quale si fa riferimento allo Spirito
e al Signore – è chiaramente il Padre.
Ganoczy è di parere diverso; egli si chiede: «Quest’unica origine va identificata
esclusivamente con il Padre? Sembra che il testo favorisca effettivamente una simile
interpretazione. In maniera a quanto pare “patrocentrica” esso dice: “L’unica origine crea
per mezzo del Figlio e perfeziona per mezzo dello Spirito” […]. A mio giudizio sarebbe però
sbagliato interpretare questo testo non molto chiaro dicendo che Basilio fa del Padre l’unico
creatore» (p. 39). Personalmente, come ho già detto, ritengo più fedele alla dottrina basiliana
l’interpretazione che vede nel Padre l’unica origine, in quanto è l’interpretazione che il testo
consegna in maniera immediata. E, a differenza di quanto sembra affermare Ganoczy, non
ritengo che riconoscere nel Padre l’unica origine comporti il rinvenimento di una traccia di
“patrocentrismo”, né tantomeno la volontà di affermare che solo il Padre sia il creatore;
infatti, a mio parere, qui si deve semplicemente scorgere il bisogno da parte del Cappadoce
di ribadire la realtà della tavxiç ogni qualvolta si tratti della comunione e della sinergia
trinitaria.
Affermare che il Padre è l’unica origine, l’unica ajrchv, non intende escludere il Figlio
e lo Spirito dall’opera creatrice, ma vuole semplicemente rimarcare il posto assegnato al
Padre nella tavxiç trinitaria. In altre parole, non basta affermare che le tre persone divine sono
un unico principio, quasi come se lo fossero in maniera indifferenziata; né sarebbe corretto
affermare che principio della creazione è solo il Padre. Ma, contemplando l’azione creatrice
di Dio, si deve riconoscere come il Padre e il Figlio e lo Spirito creino insieme e, operando

4
insieme nella loro sinergia, non adombrino la natura di fonte e di origine che solo al Padre
spetta, già nel seno della vita eterna di Dio; anzi, mostrano come anche questo rappresenti
un riflesso della Trinità immanente nell’economia della salvezza.
Tale bisogno imprescindibile di rimarcare l’essenzialità della taxis, tanto più
significativo se si considera che l’occasione del trattato sullo Spirito è proprio quella di
rispondere agli ariani e agli pneumatomachi che della taxis facevano un pretesto per
affermare la subordinazione ontologica al Padre sia del Figlio che dello Spirito, in Basilio si
accorda con l’affermazione della consustanzialità delle tre divine persone. È quanto emerge
dal ricorso che il Cappadoce fa al paradigma della syntaxis.

Il “dogma” della syntaxis

L’attestazione principale della sintassi nella teologia di Basilio è quella che si ritrova
nel comando battesimale di Gesù consegnato dall’evangelista Matteo: «Fate discepoli tutti i
popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28,19). È
proprio nel commentare questa formula che il Cappadoce, riportando la posizione e le
opinioni degli pneumatomachi, e le ragioni da essi addotte per sostenerle, prende con
decisione le distanze da loro, giungendo così a illustrare il significato della suvntaxiç
trinitaria:
Non bisogna, essi dicono, coordinare (suntetavcqai) lo Spirito Santo al Padre e al Figlio a
causa della differenza di natura e della inferiore dignità.
A costoro è giusto rispondere con la parola degli apostoli: «Si deve obbedire a Dio
piuttosto che agli uomini» (At 5,29). Che se il Signore, affidandoci il battesimo della salvezza,
chiaramente ordinò ai discepoli di battezzare tutti i popoli «nel nome del Padre e del Figlio e dello
Spirito Santo» (Mt 28,19) senza disdegnare la comunione (koinwniva) con lui, e questi invece dicono
che non bisogna coordinarlo (suntavssein) al Padre e al Figlio, come può dirsi che non contrastino
apertamente con il precetto di Dio? Che se poi tale coordinazione (suvntaxin) non significa, come
dichiarano, una comunione (koinwnivaç) e una unità (sunafeivaç) <di natura>, dicano che cosa
autorizza a crederlo e quale altro modo più appropriato hanno per esprimere l’unione
(sunafeivaç).
In ogni caso, se il Signore ha stabilito una unione fra sé, lo Spirito e il Padre, nel battesimo,
non ci rimproverino di porli in collegamento poiché noi non pensiamo né esprimiamo alcunché
di diverso <da ciò che è scritto>. Se nella formula del battesimo lo Spirito è unito al Padre e al
Figlio e non v’è persona alcuna così impudente da dire il contrario, non ci rimproverino se
seguiamo quel che sta scritto. (DSS X,24)
Qui Basilio, fondando la sua riflessione sulla lex orandi, afferma esplicitamente che la
suvntaxiç la si deve intendere come espressione dell’unità e della comunione trinitaria. Non
semplice comunione tuttavia, non semplice unità; ma unità (suvn-) nella taxis, senza che
quest’ultima conduca a ritenere di inferiore dignità lo Spirito, e prima ancora il Figlio, come
invece volevano gli pneumatomachi sulla scia degli ariani.
Ma è soprattutto una delle ultime affermazioni basiliane che merita di essere
sottolineata. Eccola: se per loro, gli pneumatomachi, «la suvntaxiç non significa una
comunione e una unità, dicano […] quale altro modo più appropriato hanno per esprimere
l’unione». Si ritiene particolarmente significativa questa affermazione perché è una chiara
attestazione di come il Cappadoce riconosca nella syntaxis il modo “più appropriato” per
esprimere l’unione divina. Non basta, sembra suggerire Basilio, parlare di unione e di
comunione. Lo si deve fare non tralasciando la taxis che lega indissolubilmente e
inseparabilmente le persone divine tra loro, e non c’è termine più appropriato per farlo che
quello di suvntaxiç.
È per questo che il Cappadoce può affermare, con una certa solennità, che «il Signore
(oJ Kuvrioç) ci ha consegnato (paradevdwke) come necessario e salutare dogma (ajnagkai`on kaiV
swthvrion dovgma) la sintassi dello Spirito con il Padre (thVn metaV PatroVç suvntaxin tou` aJgivou
Pneuvmatoç)» (DSS X,25).

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