Sei sulla pagina 1di 21

Facoltà Teologica Pugliese

Istituto Teologico “SAN NICOLA ”


Bari

MONACHESIMO BIZANTINO
E CIVILTA'/CULTURA RUPESTRE
NEL TERRITORIO DI BARI

Elaborato per il Seminario


“ Monachesimo bizantino e
civiltà/cultura rupestre in
Puglia e Basilicata”
tenuto dal prof. Donato Giordano
della studentessa Giovanna Fiermonte (matr. FTP191379)

ANNO ACCADEMICO 2019-2020


INDICE

Introduzione……………………………………………………………. 3

CAPITOLO I
La chiesa rupestre di Santa Candida........................................................ 4

CAPITOLO II
L'insediamento rupestre di via Martinez ….............................................. 9

CAPITOLO III
Chiesa di Santa Maria della Grotta …....................................................... 13

CAPITOLO IV
Laura di Santa Barbara …........................................................................ 14

Appendice …............................................................................................. 15

Bibliografia………………………………..…………………………....... 20
INTRODUZIONE

Fuori dall’area metropolitana barese si trovano alcune interessanti testimonianza di habitat

ipogei. Si tratta di rinvenimenti che risalgono agli anni successivi al 1970, e che con ritardo

dovuto alla maggior attenzione dedicata ad altre realtà pugliesi ( Massafra, Mottola, Grottaglie,

Fasano, San Vito dei Normanni, il Salento, il Gargano), dimostrano come anche il territorio di

Bari abbia avuto una ricca e articolata civiltà rupestre. La maggior parte del territorio comunale è

costituita da due diversi substrati geologici: i cosiddetti tufi e calcari. I primi sono depositi

calcarei arenacei o argillosi e risalgono al Pleistocene, mentre i secondi, detritici, risalgono al

Cretaceo, quindi più antichi e meno malleabili. Per tale ragione questi terreni non ospitarono il

fenomeno rupestre, se non per l’uso di cavità naturali, come per l’insediamento di Santa Maria

della Grotta. Inoltre la morfologia del territorio barese è caratterizzata dalle lame, toponimo

locale che indica quei solchi ampi e poco profondi, percorsi da antichi corsi d’acqua che dalla

Murgia scendono verso il Mar Adriatico. Nell’area barese questi micro-habitat si distendono a

ventaglio ( da Nord-Ovest a Sud-Est: Balice, Lamasinata,Villa Lamberti, Picone, Fitta,

Valenzano, San Marco, San Giorgio e Giotta) e si sono rivelati ambienti ideali per lo sviluppo di

antiche civiltà rupestri.


CAPITOLO I

La chiesa rupestre di Santa Candida è ubicata sul fianco destro della lama Picone (antico

torrente Japigio) ad una distanza di circa 300 metri dalla tangenziale di Bari. La chiesa, datata al

X-XI secolo, è stata scavata sulla parte alta della lama, e il ritrovamento sul piano dell’antico

torrente di manufatti e di resti architettonici come muretti, gradini e pozzi confermano la presenza

di un nucleo insediato nella zona.

La presenza di questa chiesa è citata in un documento del 1194 in cui un certo Romano vende ai

fratelli Garzanito e Gargano un appezzamento di terra con ben 24 olivi nei pressi della chiesa di

Santa Candida e Santa Elena, sante a cui la chiesa era appunto dedicata. L’ingresso della chiesa

oggi non è più esistente e la struttura appare mutilata di alcuni vani, collegati indirettamente al

vano principale, a causa di uno sbancamento effettuato per ricavare materiale da utilizzare per la

scarpata della tangenziale, che ha tagliato la parte anteriore della chiesa per una profondità di

circa 6 metri.

È la più grande basilica rupestre pugliese (circa 120 mq) e presenta una planimetria complessa e

articolata detta a ventaglio in quanto sull’aula centrale di forma quadrangolare, si innestano

quelle che, a prima vista, appaiono cinque navate divise da colonne con archi a tutto sesto e che

si concludono con cinque absidi. In realtà la navata all’estrema sinistra si presenta difforme e più

piccola rispetto alle altre, mentre la navata centrale è biabsidata dando così l’impressione che le

navate siano cinque, ma in realtà sono quattro.

Dalla planimetria è possibile ricostruire la suddivisione degli spazi che prevedeva due ingressi:

uno ad est collegato ad un vano voltato a botte di circa 2 x 3,5 m di larghezza, il nartece (portico
che precedeva la chiesa), decorato con due arcosoli (elemento decorativo a forma di nicchia che

in alcuni casi sovrasta una tomba) di cui quello sinistro adibito a sepoltura, e un ingresso a sud

che immetteva in tre vani, probabilmente adibiti ad abitazione del custode, o con funzione di

cappelle laterali. La presenza delle tombe nei pressi dell’ingresso della chiesa, o all’interno del

nartece, è una costante in tutte le chiese pugliesi e riprende la tradizione ipogeica paleo-cristiana.

Pianta della chiesa di Santa Candida.

L’ingresso posizionato ad est oggi non è praticabile perché occluso da un grosso blocco di roccia

e all’esterno non è visibile. L’aula centrale che misura circa m 3 x 4 presenta un soffitto piano: è
collegata alla navata centrale che presenta la prima campata a forma trapezoidale lunga quasi 3

metri, e che si allarga nei pressi del presbiterio. Questa campata ha il soffitto piano ed è

delimitato ai 4 angoli da grossi pilastri compositi. La funzione dei soffitti e delle volte non è né

decorativa, né tanto meno strutturale, ma serve solo a differenziare gli spazi liturgici: le volte a

botte contraddistinguono il santuario, mentre l’aula è caratterizzata dal soffitto piano.

Mentre il primo arco a sinistra immette nella navata più piccola, gli altri due archi immettono nel

bema, cioè nella parte riservata al clero durante la celebrazione, dove viene collocato l’altare, qui

costituito da due vani, comunicanti sia fra di loro che con i rispettivi vani delle navate laterali, di

circa m 3 x 2, voltati a botte e culminanti in due profonde absidi. A dividere i vani ci sono coppie

di archi separati da colonne rastremate prive di capitello. Alcuni di questi archi sono rifiniti con

ghiere incavate.

Il bema è diviso dal naos, cioè dall’area riservata ai fedeli, da un una parete con funzione di

iconostasi (probabilmente era a templon, cioè a forma di recinto presbiteriale caratterizzata dalla

scarsa visibilità del presbiterio da parte dei fedeli) con una sola porta in corrispondenza del vano

absidale sinistro. Al centro della zona presbiteriale doveva essere collocato un altare a blocco, o

alla greca, caratterizzato da un parallelepipedo in pietra, risparmiato nella roccia durante

l’escavazione dell’abside, intorno al quale il sacerdote celebrava il rito guardando verso i fedeli.

Questo tipo di altare rispetto all’altare a parete (entrato in uso in seguito al Concilio lateranense

del 1215) è meno documentato, a causa anche delle successive demolizioni a cui andavano

incontro le chiese.

La navata destra è suddivisa in tre campate: la prima, che è l’attuale ingresso, presenta il soffitto

piano e, sulla parete a sud, una sequenza di tre nicchie alte, strette, poco profonde e rialzate di

circa 40 cm dal pavimento (elemento decorativo presente anche nell'ultima navata a sinistra).

Le altre due campate della navata di destra sono invece voltate a botte; la seconda presenta un
muretto iconostatico integro e non collegato alla zona presbiteriale (forse il diaconico, un piano

d’appoggio posto solitamente a destra dell’altare centrale utilizzato per la conservazione del

vasellame e dei paramenti sacri). La navata termina con un abside poco profonda.

La navata a sinistra di quella centrale è divisa in due campate, la prima voltata a botte, la

seconda invece dall’andamento curvilineo. Prima della piccola abside sulla parete sinistra si

presenta una nicchia che farebbe pensare ad una protesi (piano d’appoggio posto a sinistra

dell’altare che accoglieva le offerte del pane e del vino e su cui avevano inizio l’azione liturgica

ed i riti propedeutici alla consacrazione).

La quarta navata della chiesa è diversa dalle altre tre: è divisa in due campate con soffitto piano

separata da un arco trasversale e presenta sei arcate cieche ad arco alte e strette, disposte tre per

parte lungo le pareti. Le arcate cieche sono frequenti nelle chiese rupestri e hanno la funzione di

dilatare lo spazio interno spesso angusto. Presenti in corrispondenza delle arcate sono le ghiere

decorative, che mancano però sul retro delle arcate tranne su quella di uscita verso il nartece.

Questo farebbe pensare ad un percorso preciso all’interno della chiesa, sottolineato dalla

decorazione architettonica e legato alla funzione religiosa. La presenza di vari fori rettangolari

sparsi per i vani della chiesa farebbero pensare alla presenza di elementi d’arredo mobili che a

causa della deperibilità del materiale, come il legno, e per vicende legate all’abbandono del sito,

sono andati persi.

Nella maggior parte dei casi le arcate cieche sono unite al ciclo pittorico (ad ogni arcata

corrisponde un soggetto) che purtroppo a Santa Candida non è più visibile. Gli affreschi originari

della chiesa sono andati distrutti, solo nelle absidi sono rimaste delle iscrizioni relative

probabilmente ai santi raffigurati: Giacomo, Tommaso, Erasmo, Elena, Candida.

L'area di S.Candida è inoltre interessata dalla presenza di un insediamento preistorico risalente

alla fase di transizione tra il neolitico finale e l'eneolitico, ma la mancanza di approfonditi saggi

archeologici non permette di stabilire se ci sia stata una continuità insediativa nella lama, dall'età
preistorica a quella medievale, o solo una sua frequentazione saltuaria.
CAPITOLO II

La chiesa e l'insediamento rupestre di via Martinez si collocano sul ciglio ovest di lama Fitta,

in località la Grava, alla periferia nord - est di Carbonara. Il complesso rupestre è esteso circa 220

mq ed è composto di una chiesa, di una grande camera centrale e di una serie di ambienti più

piccoli.

Non è possibile indicare il nome originario del complesso rupestre, anche se è stata proposta

l'identificazione del sito con il casale di Cillaro, in cui vi erano le chiese di S.Leone, S.Angelo e

S.Antonio.

Il complesso presenta alcune stringenti affinità con complessi rupestri della Cappadocia da poterlo

considerare quale centro monastico, probabilmente di origine greco - orientale. L'impianto

complessivo della chiesa inducono a datarla alla fine del IX secolo, nel gruppo degli insediamenti

colonizzatori greco - orientali, in seguito alla riconquista di Bari da parte dell'imperatore Basilio I

nell'876. L'insediamento di via Martinez si trova nel territorio del IV municipio di Bari-Carbonara:

dalla città si supera lo svincolo della circonvallazione su Corso Alcide de Gasperi e si imbocca via

Martinez a sinistra. L’ipogeo si apre sulla parete occidentale della Lama della Fitta (all’interno di

una proprietà privata, ma visibile) a circa tre metri sotto il livello stradale. Esteso su circa 220 meri

quadri, si componeva di una chiesa, di una camera centrale e di una serie di ambienti di dimensioni

più contenute che denotano affinità con complessi rupestri della Cappadocia, al punto da farlo

considerare come un centro monastico di origine orientale, risalente alla riconquista di Bari da parte

di Basilio I nell’876.

La piccola chiesa (di circa 45 metri quadri) presenta due navate asimmetriche rivolte verso Oriente,

secondo la tradizione ortodossa confermata dalle croci greche a rilievo che si trovano sulle pareti
delle absidi che chiudono le navate. L’originario ingresso è purtroppo oggi ostruito e alla navata

principale si accede tramite una delle finestre laterali. Questa è composta da due ambienti divisi da

un muretto iconostatico e con piani di calpestio posti a diversi livelli : quello inferiore costituiva

l’aula per i fedeli, l’altro il presbiterio. Il soffitto dell’aula è piano, mentre quello del presbiterio ha

forma conica e poggia su quattro colonnine, lasciando pensare alla struttura di un ciborio. La

seconda navata divisa da un muro con archi ribassati, si compone di quattro campate con il soffitto a

botte (la prima è destinata al presbiterio) e si presume svolgesse funzione di protesi in analogia con

le chiese di rito greco. E’ andata purtroppo perduta la ricca decorazione (ascrivibile ai monaci

basiliani fuggiti alla politica iconoclasta attuata a Bisanzio nel VII secolo Sicuramente più tardi

alcuni dei locali annessi alla chiesa (XIII - XIV secolo).

La chiesa, pur nelle ridotte dimensioni, rappresenta un vero gioiello architettonico: si compone di

due navate asimmetriche orientate secondo un asse principale est - ovest e presenta una leggera

apertura a ventaglio in corrispondenza dell'area presbiteriale. Un'altra lettura della planimetria della

chiesa identifica una sola navata divisa da un locale annesso (paraecclesion) da una fila di pilastri.

Dall'ingresso, ricavato nella parete nord, ci si immetteva nella navata principale, a soffitto piano;

nella parete nord sono inoltre ricavate due finestrelle ad arco a sesto leggermente ribassato. L'aula è

interamente a soffitto piano, ad eccezione del presbiterio che, delimitato da un originale muretto

iconostatico a colonnette, è caratterizzato da una copertura a volta. Interessante notare come il

livello del piano di calpestio sia molto articolato nelle differenti parti della chiesa: il livello del

presbiterio (bema) è più alto di quello dell'aula (naos), mentre nella zona absidale si riscontrano altri

due livelli. .

All'interno della chiesa sono presenti decorazioni a rilievo e dipinte: a rilievo è realizzata la croce

presente nel catino dell'abside, oggi parzialmente scalpellata; ghiere dipinte sono invece presenti su

tutte le arcate della navata principale e sull'abside laterale.

Lo studio dell'architettura della chiesa ha rivelato l'esistenza, nei rapporti tra le misure interne della

chiesa,di un modulo metrico basato sul "piede bizantino" ( unità di misura equivalente a 0,312 m
presenti nelle chiese paleocristiane). .

Gli altri ambienti del complesso rupestre si sviluppano in continuità con la chiesa. Oggi l'accesso è

costituito da un'unica apertura che immette direttamente nel primo vano, più ampio degli altri, a

pianta trapezoidale e interamente scavato nel tufo, con due pilastri centrali che reggono il soffitto.

La caratteristica principale di questo ambiente è data dalla presenza di numerose nicchie di forma e

funzione diversa tra loro, tutte accuratamente rifinite e disposte a differenti livelli lungo le pareti

perimetrali: alcune, di modeste dimensioni, erano presumibilmente destinate a contenere le lucerne;

altre di media ampiezza e scavate a una quota più alta risultano di difficile interpretazione; 4 grandi

nicchie ad arcosolio, in media grandi 1 metro e 80 per 1 metro, e a circa 90 cm dal piano di

calpestio, si configurano quali giacigli - alcova, corredati da un cuscino di pietra risparmiato durante

lo scavo e in alcuni casi da una nicchietta sulla parete di fondo. Due arcosolii simili si rinvengono

sulle pareti laterali di un altro vano più piccolo. Tali elementi sono essenziali per poter ipotizzare

l'esistenza in questo luogo di una comunità monastica di tipo cenobitico. Il complesso rupestre,

sorto intorno alla chiesa, aveva quindi la funzione di monastero, al cui interno si svolgevano le

attività di lavoro tipiche del mondo contadino: a questa funzione dovevano essere destinati gli

ambienti più piccoli contigui al vano principale.

La piccola chiesa (di circa 45 metri quadri) presenta due navate asimmetriche rivolte verso Oriente,

secondo la tradizione ortodossa confermata dalle croci greche a rilievo che si trovano sulle pareti

delle absidi che chiudono le navate. L’originario ingresso è purtroppo oggi ostruito e

alla navata principale si accede tramite una delle finestre laterali. Questa è composta da due

ambienti divisi da un muretto iconostatico e con piani di calpestio posti a diversi livelli: quello

inferiore costituiva l’aula per i fedeli, l’altro il presbiterio. Il soffitto dell’aula è piano, mentre quello

del presbiterio ha forma conica e poggia su quattro colonnine, lasciando pensare alla struttura di un

ciborio. La seconda navata divisa da un muro con archi ribassati, si compone di quattro campate con

il soffitto a botte (la prima è destinata al presbiterio) e si presume svolgesse funzione di protesi in
analogia con le chiese di rito greco. E’ andata purtroppo perduta la ricca decorazione (ascrivibile ai

monaci basiliani fuggiti alla politica iconoclasta attuata a Bisanzio nel VII secolo.
CAPITOLO III

Diversa dalle precedenti è la chiesa di Santa Maria della Grotta, che si trova sul fianco sinistro

della lama Lamasinata, al confine tra il territorio di Bari e quello di Modugno. Inglobata in un

contesto che comprende una villa ottocentesca e una torre campanaria del XIII secolo, la chiesa

sfrutta una cavità naturale di origine carsica. Dopo il largo ingresso la planimetria si restringe

progressivamente, mentre l’ambiente della chiesa presenta strutture murarie innalzate in epoche

diverse. Sul lato destro un angusto vano mette in comunicazione con altre cavità chiamate

“cunicolo di San Corrado”, perché la tradizione vuole che, il santo eremita qui sia vissuto e morto

nel 1155. I lavori di restauro che hanno rimosso alcune pareti hanno portato alla luce affreschi

realizzati sulla parete rocciosa e su murature del XII e XIV secolo. Nella zona dell’altare è stata

ritrovata una vasca a sezione circolare destinata a contenere acqua e, nella zona davanti all’altare,

brandelli di un mosaico pavimentale. Oltre alla singolarità di sfruttare una cavità carsica, Santa

Maria della Grotta è l’unica chiesa rupestre del territorio di Bari che conservi ancora affreschi

leggibili, riconducibili alla tradizione iconografica bizantina.


CAPITOLO IV

I monaci basiliani vivevano alcuni nei monasteri, altri nelle capanne come eremiti ed

anacoreti. Essi stessi costruivano rozze grotte isolate formanti le così dette "Laure". In ciascuna di

queste cellette, viveva ritirato un eremita od un anacoreta, senza avere comunicazioni con altri.

Solamente nella domenica o in feste religiose questi solitari eremiti, appartenenti ad una medesima

laura, si riunivano nella cappella o cripta per partecipare alla Messa e cibarsi dell'Eucarestia

Nelle campagne di Capurso, centro abitato a sud-est di Bari, nascosto dalla vegetazione rigogliosa e

incolta delle campagne che collegano il paesino a Valenzano, si trova un misterioso complesso ipogeo la

“Laura di Santa Barbara”. Si tratta di tre grotte abitate in antichità da monaci basiliani (che si ispiravano

cioè alla regola dettata da San Basilio Magno), affrescate con dipinti bizantini di rara bellezza.

La “laura” (la cristianità ortodossa indica in questo modo un agglomerato di celle abitate da monaci),

non è però indicata da alcun segnale, su internet non ci sono articoli che la riguardano e solo su

Wikipedia nella pagina riferita a Capurso, ci sono tre righe a lei dedicate. Eppure sempre

sull’enciclopedia online, in un altro paragrafo è scritto: “L'origine di Capurso è da collocare intorno

all'anno Mille. Tracce della sua esistenza si ritrovano, anzi, già prima dell'anno Mille, come si evince

dagli affreschi ritrovati nella Grotta di Santa Barbara nell'omonima contrada”.Notizia

Quindi quelli di cui stiamo parlando sarebbero affreschi molto antichi, di più di mille anni fa, che però,

chissà perché, giacciono in uno stato di completo abbandono, in rovina, nascosti ai nostri occhi.

La teoria che fa risalire queste opere all’Alto Medioevo è confermata da un libro di storia

popolare scritto da Gino Pastore, dal titolo “Capurso”, che recita: “La grotta di Santa Barbara è

una testimonianza riferibile al periodo della dominazione bizantina in Puglia (600-1070 d.C.). Il

733 d.C., alcuni monaci basiliani, sfuggiti alle persecuzioni iconoclaste di Leone Isaurico, si

stabilirono sulle coste pugliesi, in grotte naturali o da essi scavate, per mantenere vivo il culto di

quelle immagini che avevano venerato in Oriente”.No


Molto interessante la Laura Basiliana presente nella contrada campestre di Santa Barbara. Al di

sotto del livello stradale di un sentiero sterrato nei pressi del cimitero comunale è presente una

piccola grotta, collocata in una campagna appartenente a privati, nella quale è ritratta l'icona di una

Madonna. La Madonna di Santa Barbara è un'icona bizantina che ritrae la Vergine a mezzo busto

che sorregge sul braccio destro il bambino Gesù benedicente. Oggi questa importante testimonianza

basiliana è abbandonata ed in rovina.


APPENDICE

Alla distanza di circa sette chilometri da Bari si trova, piccolo centro agricolo,dove nulla rileva

l’esistenza di un importante centro antico.

Non sappiamo quando e come nacque l’antica “Caelia”.La presenza di alcune grotticelle permette di

pensare all’esistenza di qualche agglomerato umano della prima età del ferro. Le prime sicure

testimonianze di occupazione di almeno una parte dell’area (poi appartenuta alla città nel periodo

del suo massimo sviluppo) risalgono invece al VI sec. A.C..

Queste sono anche le conclusioni di diversi studiosi tra cui si citano il Roppo, la Baldassarre

la M. Miroslav Marin, che sono concordi nel ritenere che l’importante città peuceta di Kelia, sorta

nell’attuale territorio di Ceglie del Campo, abbia avuto almeno fino al III a.C. un ruolo di primo

piano rispetto all’insediamento costiero che diede origine alla città di Bari, essendo ubicata sulla via

Appia Traiana che, allora era un’importante arteria stradale a pochi chilometri dal mare. Possiamo

quindi dire che le radici di Bari sono a Ceglie (l’antica Kelia) essendo quest’ultima una delle sedi

principali della fiorente cultura che i Peuceti svilupparono sotto l’influsso greco a partire del IX-VII

sec. a.C. Come tutte le città peucete fu presto circondata da mura, innalzate tra VIII e VI sec. a.C.,

in direzione di Barion(Bari), giungendo fino a metà strada, tra la Ceglie e la Carbonara d’oggi.

La dimostrazione oggettiva dell’importanza e della ricchezza del sito peuceta è attestato sia dalle

autorevoli fonti storiche del tempo come Tolomeo, Stradone, Plinio, Tito Livio, sia dai più recenti

Mommsen e Mola, sia dall’enorme quantità di tombe ritrovate in quest’ultimi secoli nel territorio di

Ceglie del Campo. Col mutare delle condizioni storiche e sociali, l’insediamento peuceta, durante le

guerre sannitiche prima citate, divenne importante Municipium romano, com’è comprovato

dall’epigrafe, che parla delle importanti cariche pubbliche possedute da un suo magistrato di nome

Caio Bebio. In seguito l’importanza del sito decadde fino ad essere distrutto probabilmente, intorno
al IV secolo d.C., durante le invasioni barbariche. Nel 1348 una nuova distruzione incolse la piccola

terra di Ceglie: essa parteggiò coi bitontini alleati degli ungheresi qui discesi a vendicare il delitto

compiuto dalla regina Giovanna il 17 settembre 1347. La regina, infatti, aveva massacrato il

giovane sposo Andrea, fratello di Lodovico, re degli Ungheresi, onde sposare in secondo nozze

Luigi di Taranto.Ceglie, con Carbonara, Balsignano, Buteritto portò assedio contro Rutigliano e

Bari, e da quest’ultima, verso l’antico luogo dove nacque e prosperò, venne rasa al suolo. Dopo

detta distruzione l’antichissima città di Ceglie, venne nuovamente saccheggiata, martoriata e

distrutta così nel 1348 e nel 1799.

Quando nella notte del medioevo si affermarono gli ordini monastici basiliani e benedettini,

rappresentanti nelle Puglie del monachismo orientale e occidentale, sul piano deserto della distrutta

Ceglie sorsero e prosperarono le due storiche badie di Sant’Angelo Cilearum oggetto di studio e S.

Nicola d’Altoselice.

Oggi purtroppo sono pochi i rinvenimenti dei due monumenti, che in nulla furono da meno per

ricchezza di possedimenti, privilegi ecclesiastici ed importanza politica rispetto ad altre Badie più

celebrate. Dell’abbazia di S. Angelo, detta anche Syriis, si ammirano dei ruderi e dell’accenno di

qualche archetto come quello antistante il portale, c'è da desumere che la costruzione dell’Abbazia

esterna risale al XIV o XV secolo.

Ceglie del campo ebbe, come abbiamo scritto precedentemente, due monasteri di rito basiliano e

benedettino: Sant’Angelo Cilearum, inizialmente sede di monaci basiliani, e S. Nicola d’Altoselice,

sede celebrata di benedettini. La nostra attenzione si fermerà maggiormente sulla badia di

Sant’angelo oggetto del rilievo , anche perché non esistono più resti della badia di S.Nicola.

Si ignora l’origine di detta badia, nata sotto il nome di Sant’angelo in Syriis. Secondo il Garruba gli

abati, che nel tempo si occuparono della badia, presero parte ai concilii provinciali celebrati da vari

arcivescovi. Dai Basiliani passò ai benedettini sotto la dipendenza di un solo abate

commendatario. La badia di Sant’Angelo è delimitata ad est da una fabbrica, la cui struttura fatta di

pietra è caratterizzata dalla presenza di qualche arco incastrato nel muro e fa risalire detta opera
esterna tra XIV e XV secolo. Degno di riguardo è il portale d’ingresso basso e largo, il cui arco è

costituito da sezioni di pietra tutte perpendicolari alla tangente dell’asse principale. Al disopra di

detto arco, sporge fuori simmetricamente un elegante archetto sostenuto da due lesene, sotto cui

doveva esserci un icona rappresentante madonne bizantine venerate dai basiliani.

La badia era delimitata da alte mura quadrangolari, sia per la clausura che per difenderla dalle

frequenti incursioni barbariche. Dal portale coperto ad arco lunato con cornici tosate alle imposte si

entrava nel cortile antistante la badia destinato al passeggio e alla preghiera dei monaci: e pensabile,

quindi l’esistenza di un portico coperto sostenuto da colonnine, come si vede in altre badie

dell’epoca.

Rivolta al cortile era la chiesa; essa secondo il rito basiliano era rivolta ad occidente poiché il padre

officiante all’altare avesse lo sguardo a oriente. La chiesa di Sant’Angelo resta ad est del monastero,

ma ormai quasi tutto è distrutto; l’interno della chiesa rappresenta oggi una vegetazione spontanea.

Dall’età delle piante cresciutevi si può dedurre, che la manomissione del luogo deve risalire a circa

un secolo. Nell’interno dell’atrio dell’abbazia si vede un arco basso lunato, che probabilmente dava

accesso alla chiesa.

Nell’interno di essa notasi delle colonne marmoree distrutte, e possiamo dire che dalle ricerche

storiche effettuate vi erano delle pitture murali. La chiesa doveva avere la forma di doppia croce

greca, con archi poggianti su due colonne centrali, dietro di cui doveva esservi l’abside ed il coro

monastico. L’aspetto della chiesa induce a credere, che il tempio doveva essere di forma perfetta e

che esso deve risalire ad epoca anteriore al 1000. Adiacente alla chiesa vi era il monastero,

utilizzato fino a poco tempo come masseria e a ricovero di ovini e bovini.

Nella città vecchia di Bari si presupponeva la presenza di un monastero femminile S. Giacomo


di Bari alla Congregazione di Monte Oliveto e attribuiva al medesimo monastero antiche origini
bizantine. Ma alla luce di quel poco materiale di cui si può fare affidamento si può concludere
che:

1) origine del monastero di S. Giacomo va collocata negli anni tra la fine del sec. XIII e gli inizi
del sec. XIV, benché restino oscure le modalità della sua fondazione ed erezione canonica;

2) si trattò verosimilmente di un monastero femminile acefalo, soggetto alla giurisdizione


episcopale, che seguì la Regola di S.Benedetto;

3) con molta probabilità, verso la fine del sec. XV, confluirono a S. Giacomo anche alcune
monache benedettine, superstiti del monastero del S. Salvatore, ormai alla fine della sua illustre
vicenda storica;

4) la vita della comunità monastica ebbe alti e bassi, seguendo l’andamento politico ed economico
della storia della città, anche se non dovette essere esente da quella corruzione della vita monastica
cui il Concilio di Trento cercò di porre rimedio: formazione religiosa lacunosa e superficiale,
intromissione dei laici (a volte familiari potenti) negli affari della comunità, finalità secondarie che
avevano determinato la scelta delle giovani alla vita monastica;

5) fu in questo contesto che maturò l’adesione alla Congregazione Olivetana, vista come una
provvidenziale riforma dell’antico monachesimo benedettino, arrivata a far sentire la sua presenza
anche nelle regioni meridionali della Penisola;

6) la prassi abituale era l’avvicinamento a una comunità maschile, senza che ci fossero vincolanti
rapporti giuridici, salvo eccezioni, in modo che le monache assumessero alcune strutture, quali la
temporaneità dell'abbaziato, la forma e il colore dell’abito, la partecipazione alle indulgenze e ai
privilegi dell’Ordine;

7) sono incerte le modalità concrete con cui le monache di S. Giacomo divennero Olivetane,anche
perché non se ne trova traccia né nelle antiche
Cronache olivetane né nei documenti dell’Archivio di Monte Oliveto;

8) è da supporre che le stesse fecero diretto riferimento a un monastero della


Congregazione,che, a sua volta, se ne fece garante, almeno fino a quando l’Abate Generale
Lampugnani, nel1681, le dichiarò formalmente aggregate e partecipi a tutti i beni spirituali e
privilegi della Congregazione di Monte Oliveto.
Si è, come si vede, molto lontani dalla storia leggendaria narrata dall’anonimo autore della“minuta”,
in cui si esaltavano le origini avvolte dal mito bizantino e imperiale della Comunità delle monache
di S. Giacomo, cui seguì il passaggio alla Congregazione di Monte Oliveto, con gli auspici del
fondatore ancora vivente. Era, quello, racconto affascinante, ma difficile da sostenere storicamente.
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

CALÒ MARIANI M.S., L’arte medievale e il Gargano, in La montagna Sacra, San Michele, Monte Sant’Angelo, Il
Gargano, a cura di G.B. Bronzini, Galatina 1991.

Bari extra moenia, insediamenti rupestri ed ipogei, a cura di Carlo dell'Aquila e Francesco Carofiglio,
Quaderni monografici del Comune di Bari n. 2-3, Bari 1985.

DELL’AQUILA F. - MESSINA A., Le chiese rupestri di Puglia e Basilicata, Bari 1998.

DELL’AQUILA F., Bari. Ipogei e insediamenti rupestri, 1977.

LAVERMICOCCA N.,I sentieri delle grotte dipinte, Bari 2001.

G. PENCO, Storia del Monachesimo in Italia, Roma, 1961.

G. CONIGLIO, Note storiche sulle chiese di Puglia e Lucania dal V al IX sec. nei fondi pergamenacei, in Vetera
Christianorum, 7-1-1970.

G. JACOVELLI, Nuove indicazione di studio sulla civiltà rupestre medioevale pugliese, in Rivista Storica del
Mezzogiorno, 2,1,4,1967

A. MEDEA, Gli affreschi delle cripte eremitiche pugliesi,Roma, 1939.

D. Giordano, Il monastero di S. Giacomo e la sua unione alla Congregazione di Monte Oliveto.

Potrebbero piacerti anche