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1. Gesù parlò così (ταῦτα ἐλάλησεν, taùta elàlesen: forma all’aoristo del verbo λ αλέω,
laleô, parlo) 2 e (καὶ, kaì)3 alzati i suoi occhi al cielo (ἐπάρας τοὺς ὀφθαλμοὺς αὐτοῦ
1
Il testo viene definito una preghiera, ma manca di fatto del vocabolario
neotestamentario della preghiera che invece ha come termini: προσεύχομαι,
proseuchomai, prego. Il testo è una preghiera? Il testo è in forma di monologo di
fronte ad un interlocutore assente, cioè ad un interlocutore che c’è ma non si vede,
al quale chi parla può fare delle richieste anche pressanti, come se Gesù vedesse il
Dio invisibile, il Padre che ha appena finito di parlargli. Questa è una caratteristica
del Gesù di Giovanni, che dice quello che ho visto dal Padre io vi racconto; quello
che ho udito, io vi dico. Gli stessi discepoli non si capisce bene dove siano. E’ certo
che c’è un cambiamento di direzione, Gesù parla orientato verso il cielo. In un testo
come quello del Vangelo che è in genere un testo narrativo, la divisione in pericopi
consente un’analisi più approfondita e circoscritta delle parti che lo compongono. Per
questo motivo occorre fare attenzione alle cesure delle pericopi (clôtures del testo),
per cui si utilizzano 4 criteri, che ci aiutano a rilevare il cambiamento scenico della
narrazione, quindi cambio di luogo, di tempo, del/dei protagonista/i, del tema. Questi
criteri funzionano molto bene in un testo narrativo. In realtà questi criteri non
funzionano molto per un testo come questo che di narrativo ha poco. Dal cap. 13
cambiano i personaggi, compaiono solo i discepoli, qui ancora c’è un cambiamento
segnato dalla formula iniziale ταῦτα ἐλάλησεν, taùta elàlesen. Stessa cosa si verifica
al v. 18,1: Detto questo Gesù uscì con i suoi discepoli, ove cambiano sia la scena
che l’ambientazione. La scena viene preparata per quanto deve accadere e ci sono
due proposizioni circostanziali che introducono il verbo principale che è ε ἶπεν, eìpen,
disse ( Gv 17,1).
2
τ αῦτα ἐλάλησεν, taùta elàlesen (vedi Gv 17,13): c’è stato già un parlare di Gesù, per
cui le cose che verrano dette adesso poggiano su quelle che sono state dette prima.
3
L’autore fa spesso ricorso alla paratassi, cioè costruisce un periodo con
proposizioni dipendenti legate tra loro solo dalla congiunzione καὶ, kaì, come era
d’uso al suo tempo. La gerarchia delle proposizioni si ricava dal contesto, soprattutto
dal verbo principale, in questo caso εἶπεν, eìpen che da una certa continuità a
quanto segue. Ciò che segna il cambiamento nella traduzione e nella scena è il
ταῦτα, taùta, così, che reso come un avverbio, per definizione modifica il senso del
verbo: Gesù prima parla avendo di fronte degli interlocutori, ma così parla ora in una
direzione differente. Ci troviamo di fronte ad un modificarsi della sequenza temporale
e spaziale, confermata dal participio che segue ἐπάρας, epàras che è una
proposizione subordinata. La cesura non è reale, ma definisce il cambio di
destinatario del discorso che diventa il Padre che lo sarà per tutto il capitolo. Ha
inizio una nuova sezione senza che ci sia una cesura netta della pericope.
εἰς τὸν οὐρανὸν, eìs tòn ouranòn: la preposizione eìs indica moto a luogo, ma non
necessariamente comprensivo di un movimento, così come ouranòn non definisce
esclusivamente e spazialmente il cielo, che potrebbe essere anche il posto in cui
abita Dio, confermato dal fatto che la prima parola che pronuncia è Padre (v. Padre
Nostro, il battesimo di Gesù, l’ascensione) . E’ evidente il collegamento tra due temi
fondamentali, introdotti dalle prime parole che Gesù pronuncia: ὥ ρα, hôra, ora e
δόξα,doxa, gloria (Gv 2 vedi nota 5).
εἰς τὸν οὐρανὸν, epàras toùs ofthalmous eìs tòn ouranòn)4 disse: (εἶπεν, eìpen, disse,
forma all’aoristo di λέγω, legô, dico), padre, è giunta l’ora (ὥρα, hôra)5, glorifica tuo
figlio (ἡ ὥρα δόξασόν σου τὸν υἱόν, e hôra doxasòn sou tòn huion)6, cosicché (ἵνα,
hina, con valore consecutivo) il figlio glorifichi te7 2. siccome (καθώς, kathôs) gli hai
4
Compaiono 2 verbi per esprimere l’idea del dire: λ αλέω, laleô e λέγω, legô (stessa
radice di logos). Legô l o traduciamo normalmente con dire, mentre laleô con parlare
con la differenza che il secondo in alcuni testi diventa il verbo della rivelazione e
sempre riferito a Gesù (Gesù diceva la parola), nonostante la radice del verbo nel
greco classico abbia a che fare con il fatto che escano suoni dalla bocca (ciarlare,
balbettare).
ταῦτα, tàuta, significa letteralmente queste cose, ma in questo caso lo rendiamo con
così.
5
ὥρα, hôra: l’ora è uno dei temi giovannei, che individua un tempo che ha inizio in
un determinato momento e poi evolve, la croce è l’apice della manifestazione. Alle
nozze di Canaan Giovanni usa una proposizione interrogativa introdotta dalla
negazione οὔπω, oupô, a cui deve seguire una risposta positiva. Dunque Gesù dice
forse non è giunta la mia ora? ( Gv 2,4). Che equivale a dire “si, la mia ora è giunta”,
tanto che a questa sua affermazione, la madre, che in quella occasione verrà
chiamata donna come sotto alla croce, dirà fate ciò che vi dirà. Il racconto infatti si
conclude con l’affermazione chiave manifestò la sua gloria e i suoi discepoli
credettero in lui, ove compaiono manifestazione e fede. L’ora è collegata alla
manifestazione della gloria, di cui la croce è una parte, il luogo da cui tale
manifestazione continua.
6
C’è un articolo, tòn, che se mantenuto nella traduzione sottolineerebbe o il figlio per
eccellenza o il figlio unico, altrimenti anche la presenza di altri figli.
7
δοξάζω, doxazô, glorifico: compare prima come imperativo δ όξασόν, doxasòn, poi
come congiuntivo: ὁ υἱὸς δοξάσῃ σέ, o huios doxàse se, il figlio glorifichi te. I 4
imperativi del testo (vedi Padre Nostro, ove c’è un’altra sequenza di imp.), l’altro al
v.5 molto più urgente: e adesso mi devi glorificare tu, padre; ancora al v.11: li devi
custodire nel tuo nome; v .17: devi santificarli nella verità, sono espressioni molto forti
ed indicano un rapporto singolare tra il destinatario e chi sta parlando. Inoltre al v.
24, come aggiunta alla forza delle richieste fatte con l’imperativo, Gesù si rivolge al
padre con il verbo telô, compio. Dovendo tirare una linea, tutta la storia della
salvezza è segnata da uomini che pregano con questa confidenza (Abramo, Mosè, i
profeti) a causa del tipo di relazione che hanno avuto con Dio, una relazione di tipo
filiale (sottolineata in tutto il Vangelo di Giovanni) che porta a rivolgersi all’altro con
l’imperativo e con la pretesa di essere ascoltati.
Diversamente da δοξάζω (doxazô), ὑψόω (hupsoô) significa propriamente
all’innalzamento (Gv 3,14) ed una parte della glorificazione. In Gv 9,24: da gloria a
Dio, d icono i farisei al cieco, che è un modo per dire “dì la verità”. Giovanni insiste
molto sul fatto che debba essere manifestata la gloria, sin dal Prologo, quasi che
non si veda. Il sostantivo δ όξα, doxa, gloria è molto vicino a δ
οκέω, dokeô, faccio un
progetto o un pensiero; εὐδοκέω, eudokeô, faccio un buon pensiero o un buon
progetto ( cf. Mc 1,11: in te mi sono compiaciuto, meglio su di te ho fatto un bel
progetto).
dato il potere di ogni carne, tutto hai dato a lui perché lo dia a loro. 3. Questa è poi la
vita eterna: conoscere te (ἵνα γ ινώσκωσιν, hina ghinòskosin, forma al congiuntivo
presente del verbo γινώσκω, ghinòsko)8, l’unico vero Dio9 e Gesù, il Cristo10, che hai
8
ἵ να, hina + congiuntivo introduce una finale ma in questo caso si tratta di un uso
completivo, come se seguisse un imperativo, dunque equivale nella punteggiatura ai
due punti.
γινώσκω, ghinòsko: οἶδα, oìda ( perfetto di ε ἶδον, eìdon) questo perfetto si usa con
valore di presente e significa sono, il valore di questa espressione sta nelle lettere al
centro ἶδ, ìd. La radice ìd che indica l’evidenza delle cose, una conoscenza che si ha
perché legata alla fede, all’esperienza, invece ghinòsko indica un processo
attraverso il quale si giunge alla conoscenza delle cose (cf. De la Potterie, οἶδα e
γινώσκω: i due modi della conoscenza giovannea). Oìda è la conoscenza tipica di
Gesù nel IV vangelo: Gesù conosce. Nell’ambito della letteratura giovannea, nelle
sette lettere dell’Apocalisse compare continuamente oìda s empre attribuito al Cristo
che parla: dopo l’autopresentazione del Cristo, questi parla della condizione della
Chiesa e dice oìda. La conoscenza che Cristo ha della Chiesa non è soltanto di tipo
informativo, è una conoscenza intima, diretta. In ebraico il termine per dire
conoscenza è ידה, YDH (yadàh), in Gn Adamo conobbe Eva, nel senso di una
conoscenza completa, totale, amorosa e con una sfumatura di possesso e questo è
il grado di conoscenza umana di Gesù. Anche se in Gv 2 il termine usato e che si
riferisce a Gesù è ghinòsko, nel senso che l’esperienza umana che faceva degli altri
uomini lo portava a non fidarsi di loro. Oìdè è una qualità divina, poi c’è oìda c he è
una conoscenza nella fede che equivale al sapere divino, ma anche la presunzione
di quanti pretendono di sapere, per es. in Gv 9 nell’episodio del cieco nato c’è un
confronto continuo per cui i farisei vanno da Gesù e dicono noi sappiamo, oìdamen.
Il testo continua sul gioco della cecità, per cui questi continuano a dire di sapere ma
in realtà non sanno niente e sono loro i ciechi. La radice id resta in molte forme
linguistiche per dire del vedere che corrisponde al sapere. La conoscenza domanda
uno sforzo, un percorso come è indicato dalla pazienza che Dio ha avuto nei
confronti del suo popolo, dell’umanità nella storia della salvezza, ma anche di Gesù
nei confronti dei suoi discepoli con i quali parla a due livelli diversi di significato. In
questo caso il cong. pres. indica un’azione ripetuta nel tempo quindi si tratta di una
conoscenza che non è mai definitivamente acquisita. La vita eterna è un percorso
continuo di avvicinamento, un percorso conoscitivo che ha per oggetto una persona.
Parlare di Dio in Gv equivale a stabilire una relazione personale, non è un caso
trovare in questo vangelo l’equivalenza Padre-Figlio: come il P...così il F fa con voi,
così voi fate… La relazione, che si stabilisce, finchè dura garantisce la permanenza
in questa condizione che si chiama vita eterna.
9
Il primo attributo divino è l’essere l’unico vero Dio, testimonianza e problema della
primitiva comunità. Dietro si respira lo shemà di Israele, la preghiera che il pio ebreo
ogni giorno deve dire e che si basa sull’ascolto, perché Israele ha conosciuto per
prima cosa la voce di Dio. Questo Uno è anche vero, ἀ ληθινός (alêthinos), ma anche
Gesù dirà di sè ἐγώ εἰμι ὰλήϑεια (e gò eìmi alètheia), q uindi una relazione personale
che si sdoppia perchè dopo il conoscere te c’è un altro destinatario di conoscenza:
καὶ ὃν ἀ πέστειλας Ἰ ησοῦν Χριστόν, kaì òn apésteilas Jesoùn xristòn. Nel IV Vangelo
inviato (καὶ ὃ ν ἀπέστειλας, kaì òn apésteilas, participio aoristo di ἀποστέλλω,
apòstello)11. 4. Io ti ho glorificato sulla terra compiendo (rendendo perfetta)
(τελειωσας, teleiosas, part. aoristo di τελειόω, teleioô)12 l’opera che mi hai dato da
13
νῦν, nun: adesso, sottolinea e accentua l’aspetto della pretesa nei confronti di chi
abbiamo di fronte (io ho fatto questo e adesso tu devi fare questo per me). I l gioco è
sostenuto dai due pronomi contrapposti: io, egò, del v.4 e tu, su, del v.5 che ha è un
tu enfatico. Io ti ho glorificato... e adesso glorificami tu.
14
παρά, parà compare due volte, ma nelle traduzioni uno scompare. Gesù ha
glorificato il Padre sulla terra, adesso vuole essere glorificato nei cieli, con la stessa
gloria che aveva prima che il mondo fosse. Il riferimento alla preesistenza di Gesù è
chiarissimo come in tutto il IV Vangelo. La ripetizione del parà n on può essere
omessa nè modificata (trad. CEI davanti) perchè questa la gloria che Gesù ha sulla
terra è proprio la stessa e identica che prima aveva presso il Padre.
15
Forma verbale all’aoristo che intende un’azione compiuta nel tempo.
Sintatticamente l'aoristo è una forma verbale che si usa tendenzialmente si traduce
come passato remoto. È uno dei tempi verbali che esprime l'andamento della
narrazione, è un tempo storico, indica un’azione puntuale, compiuta. Il perfetto,
invece, come tempo storico indica un'azione che avviene nel passato ma che
produce i suoi effetti nel presente. Il verbo φανερόω, phaneròo, è un verbo tipico
della manifestazione divina che Giovanni utilizza sia per la rivelazione, sia per
indicare la presenza fisica di Gesù. Lo incontriamo anche nell'apparizione sul lago di
Tiberiade. In questo caso potremmo pensare all'idea della puntualità in relazione al
contenuto, circoscritto dal verbo: ho manifestato il tuo nome , piuttosto che all'idea
della manifestazione.
16
Il nome, ὄνομα, ónoma, nella cultura antica mediorientale tende a coincidere con
ciò che il nome definisce: è la cosa stessa, è la persona stessa che esso individua.
Questo ci aiuta a capire che questa manifestazione ha assunto una prospettiva
relazionale, qui non si tratta di rivelare qualcosa ma di manifestare qualcuno. In
questo caso la Dei Verbum ci aiuta a comprendere che il contenuto della rivelazione
è Dio stesso, “al quale piacque rivelare se stesso” e che “si intrattiene con gli uomini
come con amici”. Quando il contenuto della rivelazione è Dio, il termine latino
utilizzato nel testo di DV è il verbo revelare, mentre per le cose dette nella Scrittura o
per le verità si usa il verbo notum facere. Quando si parla del tuo nome in GV 17, è
evidente che si parla del nome di Dio e Gesù in questo senso è venuto ad ampliare
la relazione tra Dio e gli uomini. Il nome del Dio trascendente dell’AT, che è allo
stesso tempo presente nella sua gloria nel tempio, non può essere nominato perché,
per un israelita del tempo, avrebbe significato possederlo. Nel rito del matrimonio
veterotestamentario ma anche nel NT, in particolare nel vangelo di GV, l’uomo che
prende una donna in sposa, la chiama per nome, ne prende il possesso. Nel
racconto dell’apparizione di Gesù a Maria nel sepolcro in Gv 20,11, Gesù la chiama
per nome. Israele non può dire il nome di Dio (Jhavè), lo chiama adonai o elohim,
anche nel racconto di Esodo il nome di Dio attende di essere scoperto. La novità del
cristianesimo, concentrata in Gv 17,6, sta in questo, nella rivelazione del nome, quel
nome che nessuno ha mai saputo. Quando Dio si manifesta a Mosè e rivela il suo
nome dice “IO”. La forma del verbo essere all’imperfetto dice “io sarò colui che sarò
uomini che mi hai dato dal mondo (κόσμος, k òsmos). Erano tuoi e li hai dati a me ed
hanno custodito (τετήρηκαν, tetérekan; f orma al perfetto di τηρέω, terèo) la tua
per te”, “quello che la storia dimostrerà, io sarò quello”, infatti nell’AT i nomi utilizzati
per dire Dio sono nomi molto articolati: “Io sono colui che ti ha fatto uscire
dall’Egitto”, “Io sono colui che ti ha condotto nella terra promessa”.
Ogni volta che finisce il nome di Dio c’è un pezzo di storia, collegato alla sua
possibilità di manifestazione nella storia del popolo d’Israele. Con il NT la novità è
che il nome si conosce e lo si può pronunciare. La tradizione sinottica ci tramanda la
preghiera del Padre Nostro, in cui Gesù insegna a chiamare Dio, Padre. Per un
israelita sarebbe stato azzardato rivolgersi a Dio chiamandolo così, perché essere
figlio di qualcuno significa condividerne le caratteristiche, in questo caso
significherebbe essere Dio come lui. Chiamarlo Padre, pensando di esserne i figli, è
per Israele una bestemmia. Ma nella letteratura giovannea nella I Lettera c’è una
bella dichiarazione del nome Dio: ò theòs agàpe, Dio è amore. Stessa cosa la si
riscontra in I Cor 13, ove Paolo si riferisce a Dio parlando ancora dell’amore: l ’amore
è paziente, ecc.
In particolare in Gv torna continuamente ἐ γώ εἰμι (e gò eìmi), io sono, o
gni volta con
una specificazione diversa: Io sono via, verità, vita, ecc. Anche la tradizione sinottica
nel passo di Gesù che cammina sulle acque riporta ἐ γώ εἰμι μή φοβεῑσθὴ (e gò eìmi
me phobeìste), Io sono non temete. “Non temete” è un altro nome di Dio, stessa
cosa accade per κ όσμος, kòsmos, che nel versetto individua gli uomini.
Ma Gesù è venuto a manifestare il nome di Dio a tutti gli uomini? Il testo dice che lo
manifesta agli uomini che mi hai dato, insinuando una separazione tra un gruppo
destinatario di questa manifestazione e il mondo. Resta allora da capire se la
salvezza è per tutti e solo per alcuni oppure se occorre capire chi siano questi
uomini che vengono dal mondo. U n’altra curiosità è che nel vangelo di Giovanni si
perde la categoria dell’amore per i nemici, mentre compare una qualità di amore
differente, l’amore reciproco: amatevi gli uni gli altri. Parallelamente nella tradizione
sinottica quest’ultimo non compare. Si potrebbe pensare ad una progressione tra
questi due stadi della rivelazione: quello più antico dei sinottici e quello posteriore di
Giovanni. Poiché la rivelazione è progressiva, si capisce che l’amore reciproco è più
grande rispetto all’amore per i nemici. Alcuni studiosi hanno pensato ad una
comunità, quella di Giovanni, chiusa al mondo esterno, per cui si giustificherebbe
l’idea dell’amore reciproco. In realtà, guardando da un’altra prospettiva, nell’idea
dell’amore reciproco non è previsto il nemico, perché l’altro è colui che riceve il mio
amore e lo ricambia. La logica nella prospettiva giovannea si ribalta come nella
parabola del buon samaritano, in cui non ci si deve preoccupare di amare l’altro, ma
di rendersi amabili. Amatevi come io vi ho amato, d ice il Gesù di Giovanni, cioè
nessuno può guardare Gesù e restare insensibile alla sua amabilità. Sono forse
questi gli uomini che sono stati dati a Gesù e che vengono dal mondo? Sono coloro
che lo hanno riconosciuto come tale? Poiché tra questi e Gesù si ripete quanto il
Padre ha fatto con Gesù: come il Padre ha mandato me nel mondo, così io il Figlio
mando loro nel mondo ed il mondo li odierà. Il rapporto con il mondo è conflittuale
eppure è il destinatario dell’amore di Dio ed è il destinatario della missione del Figlio.
parola (τὸν λόγον σου, tòn lògon su; λόγος, lògos)17 7. Adesso hanno conosciuto
(ἔγνωκᾰν, ègnokan; perfetto di γινώσκω, ghinòsko,) che tutte le cose18 che (tutto
quanto) mi hai dato sono da (παρά, p arà) te19, 8. poiché le cose che mi ha dato da dire
(tà rèmata, ῥῆμα, rèma) le ho date a loro20 ed essi accolsero (ἔλαβον, élabon; a oristo
17
Il lessico di Giovanni è un lessico limitato, questo significa che una parola può
corrispondere a più idee, quindi c’è un motivo per cui l’autore utilizza due lemmi
differenti ῥῆμα, rèma e λ όγος, lògos per una stessa idea: lògos, parola, potrebbe
el Prologo (più probabile) o ad un discorso. Nella versione latina il
riferire al logos d
termine è tradotto con sermo, sermone, distinguendo tra lògos, parola, e rèma,
discorso (Gv 17,8 ῥ ῆματα, rèmata, plu.), tradotto con verba (lat.). In questo caso
nella versione latina della Vulgata si farebbe diventare ònoma ( Gv 17,6), c he in
questo contesto il Nome di Dio, un discorso. S i potrebbe pensare ad un discorso, p er
l’idea che Gesù abbia fatto un discorso c he ha fatto e che ha bisogno di essere
ancora approfondito, tanto che ci sarà bisogno che venga ancora lo Spirito per
ricordare la verità tutta intera e le cose che lui ha detto. Ma in questo contesto si
farebbe riferimento ad una custodia stabile che dovrebbe già produrre i suoi frutti,
anche se da quanto accadrà al momento della passione Gesù rimarrà da solo, fermo
restando che il brano va letto sempre in una prospettiva post-pasquale. Se però si fa
riferimento al lògos d el Prologo, s i può osservare che costui, che venne tra i suoi m a
che non è stato accolto, sembra essere lo stesso lògos d i Gv 17 cui sono stati dati
quelli di “essi erano tuoi, li hai dati a me ed essi mi hanno custodito”. Ove rispetto a
quanti non hanno accolto, anche questi teoricamente “tutti suoi” (del lògos) dalla
creazione dell’umanità, a questo punto si distinguono quanti, invece, hanno
custodito. Il tempo perfetto del verbo τ ηρέω (terèo, custodire) fa pensare che non ci
si riferisca ai discepoli storici, quanto alla comunità del tempo dello scrittore, perché
si parla di coloro che hanno custodito in passato ed ancora al presente osservano la
Parola di Dio. Dunque si può intendere che quanti hanno custodito sono gli stessi di
“erano i suoi, veniva tra i suoi, i suoi non lo hanno accolto ma a quanti lo hanno
accolto ha dato il potere di diventare i figli di Dio”.
18
Nella koinè (lingua parlata nel I sec d.C), ma anche nel Nuovo Testamento,
quando c'è un soggetto plurale neutro, il verbo è al singolare, invece in questo caso
il verbo è al plurale, quindi l'autore vuole insistere sulla pluralità.
19
Espressione tipica di Giovanni che utilizza di solito ἐκ (èk), ma nel Prologo
troviamo “ci fu un uomo mandato da Dio”, παρά θεόῦ (parà theoù).
20
E’ forse più chiaro che il trasferimento non è soltanto delle parole ma delle cose da
dire, τα ῥῆματα (tà rèmata) che a questi sono state consegnate e da questi sono
state accolte.
ἔγνωσαν, ègnosan (γινώσκω, ghinòsko, f orma verb. all’aoristo), hanno conosciuto,
probabilmente fa riferimento al momento storico, in cui a cui si riferisce l’autore,
hanno accolto la rivelazione, cioè il presente della comunità. Quindi tutta la parte del
versetto b che inizia con gli aoristi fa riferimento al momento storico dell'accoglienza,
come per il Prologo: ove si trova π αρἔλαβον parélabon, forma intensiva di λαμβάνω,
lambàno, dunque non è semplicemente accogliere ma voler accogliere. A costoro
che hanno accolto (ἔλαβον, élabon) e conosciuto (ἔγνωσαν, ègnosan) che sono
uscito da te e credettero” (ἐπίστευσαν, epìsteusan) o hanno creduto che tu mi hai
mandato, a questi l’autore riferisce i verbi ἔ λαβον (èlabon), ἔγνωσαν (ègnosan),
di λαμβάνω, lambàno) e conobbero (ἔγνωσαν, ègnosan; aor. ) veramente che sono
ιστεύω pisteùo) che tu mi hai inviato
uscito da te e credettero (ἐπίστευσαν; aor. π
(ἀπέστειλας, apèsteilesas; part. aor. ἀποστέλλω, apòstello). 9. Io domando (ἐρωτῶ,
erotô pres. di ἐ ρωτάω, erôtaô) per loro, non domando per il mondo ma per quelli che
mi ha dato:21 sono tuoi 10. e le cose mie sono tue e le cose tue sono mie e sono stato
glorificato (δεδόξασμαι, dedòxasmai, perfetto del verbo δοξάζω, doxazô) 22 in mezzo
(ἐν αὐτοῖς, en autoìs)23 a loro. 11. ma ( καί, kaì dal valore avversativo, seguito da
οὐκέτι, oukèti) non sono più del mondo, loro sono nel mondo ed io (κἀγώ, kagò s ta
per καὶ ἐγώ, kaì egò) vengo (ἔρχομαι, érchomai) da24 te. Padre santo, custodiscili
(τήρησον, tèreson, aor. imperativo di τηρέω, téreó) con il tuo nome25 che mi hai dato,
epìsteusan (epìsteusan), verbi che hanno a che fare con il momento in cui Gesù, il
Logos del Prologo, è stato accolto. Il cambio dalla forma verbale del perfetto
all’aoristo ci aiuta a distinguere tra la condizione pre-pasquale e il momento
post-pasquale. Il fatto che anche il verbo ἀποστέλλω (apòstello) s ia all’aoristo,
apèsteilesas, fa riferimento al fatto storico dell’invio di Gesù, cioè al presente di
Gesù i cui effetti (perfetto verbale) continuano nel presente.
21
ὅτι, oti dichiarativo
22
Cambio di tempo del verbo δοξάζω, doxazô.
23
ἐν, en può avere varie accezioni, nel Prologo: kaì ò Lògos sarx eghèneto kaì
eskènosen èn emìn, e il Verbo si fece carne e ha messo la tenda in mezzo a noi, ma
potrebbe essere anche in noi. I n questo caso però èn s i legherebbe a σκηνόω,
skenòo (abitare in una tenda). Dunque come renderlo in Gv 17,11? Forse si
potrebbe intendere il verbo δ edòxasmai (perfetto. passivo di δ
εδόξασμαι, d οξάζω,
doxàzo), l’essere stato glorificato c ome un passivo teologico con un èn dal valore
strumentale, per mezzo loro. Se la gloria nella prospettiva giovannea ha a che fare
con la passione, si può pensare ad una glorificazione a causa o per mezzo di
qualcuno? Versetto 1: glorifica il tuo figlio, perché il figlio glorifichi te; versetto 4: io ti
ho glorificato sulla terra facendo l’opera che tu…, adesso tu glorifica me. Si evince
che se la glorificazione del Figlio sta nel compiere l’opera che il Padre gli ha dato da
compiere, adesso che l’opera è compiuta, dunque ora che è stato glorificato, questi
αυτοισ, autòis, q ueste persone, in che rapporto sono con il Figlio? Sono i testimoni di
quest’opera di glorificazione, sono coloro che hanno potuto riconoscere e accogliere
quanto accadeva in mezzo a loro (ἐν αὐτοῖς). Tuttavia se la riflessione si pone sul
piano della relazione d’immanenza Padre-Figlio, per cui il Padre è nel Figlio e il
Figlio è nel Padre, dunque il discepolo è nel Figlio e il Figlio è nel discepolo allora si
potrebbe tradurre anche in noi, in loro, t raduzione che non svincola dalla presenza
concreta nella corporeità.
24
Differenza tra πρὸς, p ròs e
παρά, parà, il primo indica un movimento, un andare
verso qualcuno o qualcosa (costruzione con l’accusativo), il secondo è più statico
(costruzione con il dativo), la tendenza nel NT è di usare il pròs, p erò Giovanni
mantiene distinte le due cose.
25
Intendendo il nome di Dio come sua presenza.
affinché siano una cosa sola proprio come (καθώς, katòs) noi. 12. Quando ero con
loro io li custodivo (ἐτήρουν, etèroun, τ ηρέω, téreó) con il tuo nome che mi hai dato e
ho vigilato (ἐφύλαξα, ephùlaxa, aor. di φ
υλάσσω, phulàsso) e nessuno di loro si è
perduto (forma pass. del verbo ἀπόλλυμι, apollumi) , se non il figlio della perdizione
(ἀπώλεια, apôleia)26 e così (ἵνα, hina)27 si è compiuta la scrittura. 13. Ma adesso
26
tratta di un semitismo: i figli di Israele sono gli israeliti, allo stesso modo il figlio
Si
della perdizione è uno che si è perduto. Il v. 12 presenta una contraddizione: com’è
possibile che Gesù possa contemporaneamente affermare che nessuno si è perduto
tranne uno? Inoltre, pur considerando che si tratti di un testo post-evento, come
conciliare la predestinazione di Giuda con la libertà degli uomini e la bontà di Dio?
Questo è un problema che anche le prime comunità si ponevano, lo dimostra
l’esistenza del vangelo gnostico di Giuda, in cui il discepolo è descritto come il
migliore tra i discepoli, perché è colui che libera Gesù dalla prigione della sua
corporeità. Giuda è un’eccezione? Nel Prologo la salvezza viene descritta come un
fatto universale, ma segue uno sviluppo teologico, rispetto ai sinottici, che raggiunge
vertici elevati. Nel Vangelo di Matteo la salvezza è legata all’idea del giudaismo, ove
i confini della comunità dei seguaci di Gesù si risolvono nell’ambito del giudaismo (i
precetti che Gesù dà ai discepoli sono rappresentativi). Luca allarga i confini
includendo i pagani con tutte le problematiche annesse al mondo pagano (racconto
della Pentecoste). Il IV Vangelo definisce chiaramente la prospettiva salvifica, infatti
nel Prologo v.9 si afferma era la luce vera che illumina ogni uomo che viene nel
mondo. L a luce che viene a cambiare il destino del mondo, benché abbia delle
resistenze, è una luce che illumina ogni uomo. Nel v. lo spostamento di virgola può
cambiare il senso della frase. 1) Era la luce vera che illumina ogni uomo che viene
nel mondo, c ioè ogni uomo che nasce, con un riferimento puntuale alla missione di
Gesù. 2) La luce vera che illumina ogni uomo, era veniente nel mondo: la forma
perifrastica non descrive un’azione puntuale della venuta della luce, ma che questa
luce ha come scopo e come ragione d’esistenza il suo venire permanentemente nel
mondo ed illumina ogni uomo. Qualunque sia la scelta, la salvezza è per ogni uomo.
Altro dato è che la luce riesce a portare a compimento la missione nonostante il
duello che deve affrontare con la tenebra: luce-tenebra (v. 5: l’evangelista usa
σκοτία, skotia, oscurità, termine raramente usato al femm. anche in italiano, più
usata è la forma masch.; il femm. traduce il sing., il masch. il pl.). La luce però è
vincitrice, dunque non si comprende come mai Giuda resti fuori da questo gruppo
designato come ogni uomo, inoltre se ci sono due fronti opposti, vuol dire che
l’essere umano può scegliere da che parte stare, dunque Giuda ha scelto
volontariamente. In Gv 3,19 si affronta il tema del giudizio, il testo dice che la luce è
venuta nel mondo ma gli uomini hanno le tenebre. Gli uomini hanno quindi amato le
tenebre perché le loro opere non vengano alla luce: Giuda esce dalla cena di notte,
Nicodemo la prima volta va da Gesù di notte.
ἀπώλεια, apôleia: in Gv è un hapax, nel NT compare 18 vv. In questo vers.nel
sintagma υ ἱὸς τῆς ἀπωλείας, a l genitivo accompagna il sostantivo figlio, (Gv 17,12;
2 Tes 2,3). L’espressione è rara e in Tes compare in contesto apocalittico. Il sost.
ἀπώλεια, apôleia deriva da ἀπόλλυμι (apollumi), v erbo che ricorre 90 vv. nel NT, 10
in Gv. In Gv 6 ricorre 3 vv.: 6,12; 6,27; 6,39; al v.12 si riferisce ai pezzi di pane che
devono essere raccolti perché nulla vada perduto (andare a male); v.27 si riferisce
alla ricerca di un cibo che non perisce (che non vada a male), ma che rimane per la
vita eterna; v.39). Nel capitolo 10 ricorre 2 vv.: nel cap. del pastore bello (Canaan:
vino bello), in 10,10 si parla del ladro, figura contrapposta al pastore, che viene per
sgozzare, uccidere e perdere, rovinare. Gesù da la vita in abbondanza, al contrario
di quanto il ladro perde. Il v. 28 riprende il v. 10 ma dal punto di vista del pastore e
con una progressione: si passa dalla vita in abbondanza alla vita eterna che il
pastore da. Le pecore non si potranno perdere mai e resteranno al sicuro in mano
sua e darà a loro la vita eterna e nessuno le potrà rapire dalla mia mano. G v 11,50:
dopo il risuscitamento di Lazzaro, Caifa sentenzia che Gesù muoia piuttosto che
vada in rovina l’intera nazione (tutta la nazione vada perduta): Gv 12,25: dopo il
loghion s ul chicco di grano, Gesù dice “chi ama la sua psychè, la perde e chi odia la
sua psychè in questo mondo la conserverà per la vita eterna. C ’è un passaggio da
psychè ad aionion: G v con la prima esprime l’idea della vita umana, misurabile dalla
nascita alla vita, altro dalla seconda sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo.
Nei sinottici si verifica lo stesso andamento e se, di solito, traduciamo psychè c on
anima non rendiamo l’idea reale del termine, che potrebbe essere tradotto con
animo. In Mc si racconta l’episodio dell’uomo con la mano atrofizzata che nella
sinagoga domanda a Gesù se sia lecito di sabato fare del bene o fare del male,
salvare una psychè oppure ucciderla (cf. Mt 10,39; 16,25; 8,35; Lc 9,24; 17,33 sono
in relazione con la tradizione giovannea. Già nelle lettere di Pt il termine già significa
anima). G v 3,16: Dio ha amato il mondo così che ha dato il suo figlio unigenito
perché chiunque creda in lui non vada perduto ma abbia vita eterna. I l contrario di
ἀπόλλυμι, apollumi è avere la vita eterna, che restando nell’ambito del cibo, significa
non avere scadenza. ὥ στε, hôste: introduce una consecutiva, ma diversamente da
quanto accade normalmente, non regge un verbo all’infinito ma un tempo finito,
accentuando molto l’aspetto della realizzazione, cioè è proprio così. Non si perde
chiunque crede nel Figlio, dunque Giuda non è un credente. Resta comunque una
tensione tra l’amore del Padre e l’esito fallimentare di questo amore, poiché non tutti
credono. Si incontra la stessa tensione con il termine κόσμος, kòsmos che esprime
l’idea di ordine, contrapposto al caos, ma anche l’idea di universo e di bellezza
dell’insieme o dell’insieme degli esseri umani. Il termine crea forte tensione tra
quanto Gesù è venuto a fare e domanda e la disponibilità del mondo. Il κόσμος,
kòsmos spesso odia Gesù e i suoi discepoli, tanto che Gesù dirà quando vi
odieranno penseranno di rendere gloria a Dio. La totalità degli esseri umani, però,
non è sottoposta al giudizio del Figlio, ma il Figlio è colui per mezzo del quale verrà
salvato. In Gv 3,17 continua l’idea del v. precedente, infatti Dio non ha inviato il Figlio
nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo fosse salvato attraverso di lui.
La forma passiva del verbo salvare potrebbe far pensare che la salvezza ha luogo
senza che ci sia alcun contributo da parte dell’essere umano, ma se dovessimo
leggere attraverso di lui c ome un compl. d’agente (διά, dia + genitivo; ὑ
πό, hupo+
genit.), dovremmo intendere che Gesù è venuto a salvare il mondo e, dunque, che la
salvezza sia opera esclusiva del Figlio, a cui l’essere umano non potrebbe
contribuire. Tuttavia un’altra soluzione lascerebbe più spazio alla libertà umana e ci
permette di considerare la salvezza come un dono, che può essere accettato o
meno, considerando il verbo come un passivo teologico, per cui la salvezza è opera
di Dio, ma si realizza perché il Figlio è un tramite, al quale è necessario accedere
per essere salvati. Gv 6,39: questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che non
vengo da te e parlo (λαλῶ, lalô, pres. di λ αλέω, laléo) così nel mondo affinché
abbiano la mia gioia piena (compiuta) in loro. 14. Io ho dato loro la tua parola dal
mondo ma (καὶ, kaì valore avversativo) il mondo li ha odiati28, perché essi non sono
dal mondo proprio come io non sono dal mondo. 15. Non domando perchè li tolga dal
mondo ma che li custodisca dal maligno (πονηροῦ, poneròu)29, 16. non sono dal
mondo proprio come io non sono dal mondo. 17. Santificali nella verità (ἀληθείᾳ,
aletheìa) : la tua parola (λόγος, lògos) è verità. 18. Proprio come mi hai inviato nel
mondo, anch’io li ho inviati nel mondo 19. e per loro io santifico me stesso, perché
anche loro siano santificati nella verità. 20. Ma non (οὐ δή, où de) domando solo per
questi, ma anche per chi crede in me per la loro parola, 21. cosicché (ἵνα, hina, valore
perda niente di tutto quello che il Padre mi ha dato, ma che risusciti nell’ultimo
giorno. L ’escatologia giovannea vede già realizzato l’ultimo giorno (Gv 11), in linea
con la volontà del Padre che nulla vada perduto. Il sostantivo pan, tutto è un neutro e
sta ad indicare una totalità, limitata solo da ciò che il Padre mi ha dato. G v 18,9
(arresto): di tutti quelli che mi hai dato, di questi non ho perso nessuno. Qualcuno
sarà escluso dalla totalità? Come si concilia con Giuda? E’ tutto già scritto? In Gv
17,12 la perdita di Giuda è giustificata con il riferimento alla Scrittura o con la
possessione.
27
ἵνα, hina: introduce una proposizione che non possiamo intendere come finale,
perchè significherebbe che la scrittura ha detto cose che devono accadere per forza
(predestinazione), ma consecutiva. La scrittura infatti può al massimo annunciare.
Quindi mentre la traduzione letterale è: cosicché fosse compiuta la scrittura, in
questo caso si preferisce una traduzione funzionale: e così fu compiuta la scrittura.
Oppure si potrebbe fare ricorso ad un si passivante: e così si è compiuta la scrittura
(trad. scelta) oppure e così è stata compiuta la scrittura. Il verbo è al passivo quindi
dovremmo aspettarci un complemento d’agente che non c’è. Nel NT l’assenza del
complemento in presenza del verbo al passivo ci pone di fronte ad un passivo
teologico o passivo divino: l’azione è compiuta da Dio. Da un punto di vista sintattico
in italiano la proposizione introdotta da hina non è più una consecutiva.
28
Quando uno passa dal mondo a Dio, il mondo lo odia. Giovanni però non è un
dualista,anzi è un creazionista convinto, per lui il mondo non è cattivo in sé. Al
versetto 15 dice, infatti, non domando che (ìna c ompletivo) li tolga al mondo.
29
Occorre cogliere se l’idea di fondo che l’autore vuole trasmettere sia quella di
un’entità fisica, che chiama maligno, o più generale come potrebbe essere l’idea del
male. Facendo riferimento alla tradizione degli scritti giovannei (Vangelo, I Lettera e
Apocalisse, Lettera agli Ebrei) potremmo ipotizzare una comunità giovannea o un
gruppo di persone che individua e descrive con linguaggio simbolico il male che è
nelle pieghe del potere politico del tempo (v. Ap 18: il numero della bestia, Babilonia,
che rappresenta un uomo o l’impero romano). Il maligno è colui che vuole e compie
il male.
consecutivo) tutti siano una cosa sola30, proprio come tu, padre, (sei)31 in me ed io in
te, così anche loro siano in noi, perché il mondo creda che tu mi hai inviato. 22. E la
gloria che tu hai dato a me, ho dato a loro, perché siano una cosa sola proprio come
noi (siamo) una cosa sola: 23. io in loro e tu in me, perchè (causale) siano compiuti
(part. perfetto di τελειόω, teleioô) nell’unità (possano giungere all’unità)32, cosicché il
mondo conosca ( cong. γινώσκω, ghinòsko) che tu mi hai inviato e li hai amati proprio
come hai amato me33. 24. Padre, voglio34 quello che mi hai dato35: devono stare con
30
Gesù non chiede solo per il suo gruppo di seguaci e Giovanni non pensa solo alla
Chiesa ma anche a chi ne è fuori, come in Gv 10 “le pecore che non sono di questo
ovile”, aprendo ad una dimensione universale.
31
frase ellittica del verbo essere.
32
Nel Prologo il logos di fronte a Dio sta pròs ton theon, verso, cioè sta in una
condizione al versetto 17-18 si dice che il Figlio unigenito è colui che ha spiegato il
dio che nessuno ha mai potuto vedere”, eis ton , indicazione di movimento. il tipo di
relazione che c’è tra Dio e l'umanità è una relazione che si configura nei termini della
filiazione, perciò ripetiamo la stessa sua condizione di figli senza che lui perda la sua
condizione di Padre.
τελειόω, teleioô è forma intensiva di τελεω, teleô , finire ma ha questa idea di
perfezione, una cosa perfetta è una cosa finita. che dice nella forma intensiva di una
33
Il mondo può conoscere l’amore di Dio se i figli credenti sono capaci di quel
percorso verso l’unità. Qui si ha una perfetta corrispondenza tra κόσμος, kòsmos e
αὐτούς, autoùs uno al singolare, l’altro al plurale; il κόσμος, kòsmos è un nome
collettivo, che nel greco della koinè è sempre accompagnato da un verbo o un
aggettivo al plurale, qui mantiene il significato di esseri umani. Nel IV Vangelo ogni
volta che c’è un qualcosa che abbia a che fare con la manifestazione della gloria,
con la rivelazione di Dio che Gesù opera c’è sempre una divisione tra la gente,
perché alcuni credono altri no. In questo caso il mondo che non lo ha conosciuto è il
mondo che ha rifiutato di accogliere Gesù, dalla prospettiva di Dio il κόσμος, kòsmos
che Dio ama potrebbe essere tutta l’umanità, libera di scegliere le tenebre o la luce.
34
hina + congiuntivo equivale ad un imperativo, come in questo caso.
35
richiesta fatta con forza. Siamo al culmine del discorso al Padre; Gesù dice che
vuole ciò che il Padre gli ha dato; i discepoli, la gloria. A partire da Canaan ove con
l’inizio dei segni manifestò la sua gloria, ora Gesù vuole quello che segue ovvero
che i discepoli siano con lui. Gesù è il titolare della gloria, è il portatore ma attende
che ora questa sia manifestata e, con la confidenza tipica di un figlio, vuole che si
veda, tanto che dice voglio la gloria, quella che mi hai dato perché mi hai amato
prima della fondazione del mondo. Senza la relazione Padre - Figlio non c’è nessuna
possibilità, questo autorizza a credere che l’unità stia in un percorso in cui le
distinzioni non vengono cancellate. Vale lo stesso per il discorso di Paolo sul
corpo-chiesa, che sostiene che la diversità delle membra non inficia l’unità, cosa
chiarissima nell’ecclesiologia paolina. Non si tratta di assimilazione,ma di
accoglienza della diversità che consente di poter percorrere un cammino verso
l’unità. Fare l’unità al prezzo dell’uguaglianza assoluta tra i membri di un gruppo è
me dove sono io (che dove36 sono io, là siano anche loro), perché contemplino la mia
gloria, che mi hai dato perché mi amasti prima della fondazione del mondo. 25. Padre
giusto37! E il mondo non ti ha conosciuto. Io invece ti ho conosciuto e questi hanno
conosciuto che tu mi hai inviato 26. e ho fatto conoscere (aoristo del v. γνωρίζω,
gnôrizô)38 loro il tuo nome39 e farò conoscere che40 l’amore con cui mi hai amato è in41
loro e io sono in loro.