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Brevi note sull’economia italiana tra 1620 e 1880

La perdita del primato, il costituirsi ed il consolidarsi di


nuovi equilibri tra Seicento e primi anni dell’Ottocento
(1620-1815)

1. L’economia della penisola italiana all’inizio del Seicento

1.1
All’inizio del Seicento l’Italia centro-settentrionale, nelle sue varie articolazioni politiche, deteneva
ancora un primato nella vita economica dell’Europa. La vivacità delle attività produttive e di inter-
scambio aveva un riscontro nell’alto tasso di urbanizzazione di questa parte della penisola. Certo
Londra e Parigi si avviavano a diventare centri urbani con centinaia di migliaia di abitanti, anche
grazie al loro ruolo di capitali di forti stati nazionali, ma in nessun altro contesto europeo, salvo le
Fiandre, si aveva una così alta percentuale di persone stabilmente residenti in agglomerati superiori
ai diecimila abitanti. Anche se l’agricoltura restava l’attività fondamentale, fatto tipico di tutte le re-
altà di antico regime, i sistemi economici locali dell’Italia centro-settentrionale erano caratterizzati
da una forte vivacità delle attività manifatturiere e commerciali. Essi potevano contare sulla presen-
za di numerosi centri urbani, grandi e medi, attivi come sede di importanti attività di intermediazio-
ne e di trasformazione. Soprattutto erano numerose le botteghe artigiane di tessitori di panni di lana
e di prodotti in seta, questi ultimi finemente lavorati con l’utilizzo di fili in metallo prezioso. Le
maggiori città (Genova, Milano, Firenze e Venezia) ospitavano inoltre significative attività di inter-
scambio commerciale, anche su vasto raggio, e case bancarie private dedite al commercio del dena-
ro, che concedevano prestiti ad operatori economici non solo locali e fornivano liquidità ai governi
dell’Europa (i genovesi in particolare erano ancora i banchieri dei re di Spagna).

1.2.
In questo periodo, definito da Carlo Maria Cipolla l’estate di san Martino della vita economica ita-
liana, interessanti legami si avevano tra il Centro-Nord della penisola e le aree del Mezzogiorno.
Dal Sud arrivavano i prodotti agricoli, cereali in particolare, che il resto dell’Italia era costretto ad
importare, vista l’alta densità demografica raggiunta (alta per quei tempi), una densità che metteva a
dura prova i deboli sistemi agricoli del periodo. Sempre dal Mezzogiorno partivano lana grezza e
sete grezze e filate, per alimentare le botteghe artigiane attive nei centri urbani della Toscana,
dell’Emilia, del Veneto e della Lombardia.

1.3.
L’assetto economico-sociale del Centro-Nord dell’Italia non era certo privo di elementi di debolez-
za all’inizio del XVII secolo. Area ad economia matura, da secoli in posizione guida nel vecchio
continente, questa parte dell’Italia, come accennato, era dotata di sistemi agricoli che a fatica pro-
ducevano quanto era necessario per garantire il sostentamento di una popolazione che superava i 7,8
milioni di abitanti. La tenuta dell’economia locale si legava così alla vivacità delle attività commer-
ciali e manifatturiere, capaci di generare le risorse necessarie per importare i prodotti agricoli indi-
spensabili per mantenere la popolazione urbana e per alimentare le botteghe artigiane. Anche per
quanto riguarda i traffici non mancavano difficoltà. A un secolo dall’apertura della via delle Indie
orientali che passava per il capo di Buona Speranza, il lucroso commercio delle spezie, secolare
monopolio dei veneziani, era ormai stabilmente nelle mani degli olandesi. Nello stesso Mediterra-
neo le marinerie dei Paesi Bassi, dell’Inghilterra e della Francia tendevano ormai a sostituire gli ar-
matori genovesi e veneziani anche nel commercio tra la penisola italiana e i porti del Mediterraneo
orientale e del Mar Nero. Con la caduta dei traffici, vennero meno anche le attività cantieristiche,
con la costruzione delle navi ormai saldamente controllata dai cantieri che si affacciavano sull’A-
tlantico o sul Mare del Nord. Problemi si iniziavano a manifestare anche per le tradizionali manifat-
ture tessili. In campo serico si divenne sempre più difficile reggere il peso della concorrenza france-
se e, in quello laniero, erano i produttori olandesi ed inglesi a mettere in crisi i lanaioli fiorentini,
veneziani o milanesi con i loro panni, inferiori per qualità, ma decisamente più convenienti in ter-
mini di prezzo.

2. I cambiamenti del quadro politico tra 1620 e 1814

2.1.
Tra il 1559 (trattato di Cateau-Cambrésis) ed il 1713 (pace di Utrecht) la penisola italiana rimase
sotto il controllo politico della Spagna, controllo che di fatto coincise con un lungo periodo di pace,
interrotto solo da brevi conflitti (guerra di Mantova). La corte di Madrid poteva vantare un dominio
diretto sul Mezzogiorno continentale ed insulare, cui si aggiungevano il Ducato di Milano e lo Stato
dei Presidi (isola d’Elba, altre isole dell’arcipelago toscano e piazzeforti sulla costa della Toscana
meridionale). Anche gli altri stati della penisola finivano col gravitare nell’orbita spagnola. Una
maggiore autonomia poteva vantare la Repubblica di Venezia, peraltro impegnata a resistere, nel
corso di tutto il Seicento, alle pressioni di due potenti vicini, l’impero asburgico e quello ottomano.
Nella visione tradizionale la crisi del Seicento viene spiegata con il malgoverno degli spagnoli; in
realtà, come in parte evidenziato, le ragioni della crisi furono molto più complesse

2.2.
Dopo la fine della guerra di successione spagnola (1701-1713/1714), cambiò radicalmente il volto
politico dell’Italia ed iniziò il predominio della corte di Vienna sulla penisola.
Il Settecento può essere diviso in due distinte fasi. Nella prima la penisola fu teatro di una serie di
guerre che ebbero termine con il 1748 (pace di Aquisgrana), mentre nella seconda cessarono i con-
flitti e non si ebbero cambiamenti politico-territoriali degni di rilievo fino alla calata in Italia delle
armate rivoluzionarie francesi (1796). Intorno alla metà del secolo l’Austria controllava solo una
parte della Lombardia, pur esercitando una larga influenza sulla penisola. Erano ancora presenti le
antiche repubbliche aristocratiche di Genova e di Venezia, realtà politiche ormai in decadenza.
Sempre al Nord era cresciuta l’importanza dell’antico ducato di Savoia, ora Regno di Sardegna, che
aveva portato il suo confine orientale al Ticino. Nel centro della penisola la Toscana era nelle mani
di una dinastia straniera, i Lorena, imparentata con la corte viennese; restavano intatti gli antichi
domini del Papato, mentre il Mezzogiorno (Sardegna esclusa), dopo un ventennio di controllo vien-
nese, dal 1738 venne affidato alla dinastia dei Borbone. Un deciso sconvolgimento della carta poli-
tica dell’Italia si ebbe con la vittoriosa campagna di Napoleone in Italia, che portò alla fine del pre-
dominio austriaco su Milano, alla creazione di una serie di repubbliche sorrette dalle armi francesi e
al definitivo tramonto della Serenissima. Dopo la parentesi del 1799 e il ritorno vittorioso del Bona-
parte, iniziò un breve, ma significativo periodo di predominio francese sull’Italia. Piemonte, Ligu-
ria, Toscana, Lazio ed Umbria diventarono parti di dipartimenti francesi. Nel Mezzogiorno si formò
il Regno di Napoli, dal 1808 sotto la guida di Gioachino Murat, mentre la Sicilia restava ai Borbone
e la Sardegna ai Savoia. L’esperienza politica più interessante di questo periodo fu quella del Regno
d’Italia, una realtà statuale che arrivava a comprendere Lombardia, Veneto, Friuli, Istria, Dalmazia,
Emilia-Romagna e Marche.
3. Note sugli andamenti economici tra 1620 e 1814

3.1.
Gli anni successivi al 1620 furono indubbiamente caratterizzati da una crisi generalizzata della vita
economia della penisola italiana. I nodi irrisolti degli assetti demografici e produttivi nella parte più
avanzata del paese vennero al pettine in un contesto caratterizzato, a livello europeo, da peculiari
difficoltà. Va infatti osservato che, in tutta l’Europa, si dovette fare i conti in quegli anni con una
repentina caduta delle produzioni agricole, dovuta ad un mutamento significativo delle condizioni
climatiche (piccola glaciazione).
La carenza di cereali ed il loro alto prezzo segnarono profondamente realtà come quella dell’Italia
centro-settentrionale, già obbligate a dipendere dalle importazioni dall’estero. Furono anni di care-
stia, resi ancor più drammatici dal manifestarsi, prima nel Centro-Nord e poi nel Sud della penisola,
di epidemie di peste che falcidiarono la popolazione, disarticolando il tessuto economico di molti
centri urbani, alcuni dei quali conobbero una caduta della popolazione pari o superiore la 30%. Nel
contempo la concorrenza dei paesi del Mare del Nord rese ancor più drammatica la crisi dei lanifici
urbani e ridusse in modo drastico la presenza dei mercanti italiani su tutte le piazze del Mediterra-
neo. In campo serico il primato dei tessitori del Centro-Nord fu spezzato dai lionesi, che potevano
contare sul sostegno politico ed economico della corte di Parigi. Il risultato di tale situazione di dif-
ficoltà fu una caduta generalizzata delle attività commerciali e manifatturiere, accompagnata da un
significativo declino sul piano demografico delle maggiori realtà urbane.

3.2.
La crisi del Seicento è stata ed è oggetto di continue rivisitazioni; non mancano neppure letture che
ne hanno messo in discussione l’importanza, avendo nel contempo ridimensionato la crescita eco-
nomica del Quattrocento e del Cinquecento. Di fatto il risultato dei drammatici avvenimenti che se-
gnarono la prima metà del Seicento fu un netto declino delle attività manifatturiere nei principali
centri urbani del Centro-Nord (dalle botteghe veneziane uscivano ad inizio Seicento 28.000 panni
lana ogni anno, ridotti a 2000 all’aprirsi del XVIII secolo) ed il concentrarsi delle attività commer-
ciali nel Mediterraneo nelle mani di operatori inglesi, olandesi e francesi. Le attività agricole diven-
nero così l’elemento portante dei sistemi economici locali ed i detentori delle maggiori fortune indi-
rizzarono i loro capitali all’acquisto ed alla gestione di terre, individuate ormai come la fonte più si-
cura di investimento. Non vennero meno l’interesse per i pubblici appalti e la disponibilità a fornire
denaro ai governi centrali e locali, mentre in campo commerciale i maggiori operatori si dedicavano
ora all’intermediazione su vasta scala dei prodotti del suolo (cereali, vini, olio, bestiame, latticini,
bozzoli, legname) e delle sete. Per quanto riguarda l’allevamento del baco da seta e la lavorazione
delle sete una precisazione è indispensabile. La crisi delle attività di tessitura nei maggiori centri ur-
bani nel corso del Seicento fu infatti accompagnata da una riconversione del settore serico nel Nord
della penisola. Le regioni settentrionali infatti videro crescere, proprio in questi anni, la coltivazione
dei gelsi nei seminativi, conobbero uno sviluppo importante dell’allevamento del baco da seta e del-
le attività di prima lavorazione (trattura) e di seconda lavorazione (torcitura). Lombardia, Piemonte
e Veneto divennero così grandi produttori di semilavorato serico in larga misura destinato all’espor-
tazione. Un assetto peculiare assunse l’attività di torcitura, spesso esercitata in grandi filatoi dove
apparati complessi, che davano lavoro anche ad un centinaio di persone, erano mossi dall’energia
dell’acqua. Per l’evoluzione economica in precedenza descritta si spezzarono i legami economici tra
le varie parti della Penisola. Il Sud, in particolare, cessò di essere il fornitore di prodotti agricoli e di
filati serici alle altre regioni, visto che in queste ultime aree l’agricoltura e le attività seriche erano
ora il cuore del sistema produttivo.

3.3.
Il settore secondario non scomparve completamente nella vita produttiva della penisola, sia per la
capacità di tenuta del settore serico, ora impegnato soprattutto nella produzione di semilavorato, sia
per la vivacità di alcune zone rurali, che si affermarono come aree protoindustriali. Specie al Nord,
quasi sempre in zone di bassa montagna, di collina o di pianura non irrigata, come il Biellese, il Vi-
centino, le valli lecchesi, bergamasche e bresciane, l’alto Milanese e la Brianza, crebbero di impor-
tanza attività di trasformazione, dalla tessitura della lana, alla lavorazione del cotone, alla produzio-
ne di attrezzi e oggetti in ferro, svolte in piccole unità produttive, quasi sempre coincidenti con le
case di contadini e collegate ai mercati, almeno regionali, da mercanti imprenditori. D’altro canto,
tali iniziative compensarono solo in parte la caduta di larga parte della manifattura urbana; soprat-
tutto gli operatori italiani scomparvero dai grandi mercati internazionali, mentre crescevano le im-
portazioni di prodotti del secondario nella penisola.

3.4.
Con il Seicento cambiò così il ruolo dell’Italia centro-settentrionale nel contesto europeo. Da centro
della vita economica continentale, queste regioni divennero aree marginali ed i loro sistemi econo-
mici si caratterizzarono per un nuovo assetto, che è stato definito come equilibrio agricolo-
commerciale. Con tale espressione si è voluta indicare la connotazione economico-sociale assunta
da aree ora prevalentemente dedite all’agricoltura, legate al contesto internazionale in quanto forni-
trici di beni agricoli, prodotti in eccedenza rispetto al consumo interno, e di semilavorati, sete in
particolare. Va peraltro ricordato che l’equilibrio agricolo-commerciale, che avrebbe caratterizzato
la vita economica della penisola italiana sino al secondo Ottocento inoltrato, non fu semplicemente
un peculiare assetto economico, ma anche un intreccio di interessi, di convenienze, di consuetudini,
di convincimenti culturali, destinati a condizionare per molto tempo le scelte dei ceti egemoni, as-
sunte sia come operatori economici, sia come principali attori della vita politica.

3.5.
L’equilibrio agricolo-commerciale si consolidò lungo tutto il Settecento ed il primo quindicennio
dell’Ottocento. In questo periodo infatti si registrò una staticità quasi completa del settore manifat-
turiero. Le novità che si sperimentarono in quei decenni in Inghilterra e, in misura minore, in altri
contesti europei, furono oggetto di attenzione, furono studiate e conosciute, ma scarsamente appli-
cate. La fabbrica moderna, con la lavorazione centralizzata e meccanizzata, organizzata da un im-
prenditore capitalista, fece capolino solo in alcune realtà locali e quasi sempre per opera di stranieri,
svizzeri in particolare. L’agricoltura rafforzò ulteriormente il suo ruolo di cardine dei diversi sistemi
economici, affiancata da un setificio in ulteriore espansione sul piano produttivo, ma sempre impe-
gnato nelle prime fasi della lavorazione della seta, cioè nella valorizzazione di un prodotto
dell’agricoltura locale. Crebbero in particolare alcune produzioni come quella del mais, del riso e
dei latticini. L’incremento delle produzioni, d’altro canto, non fu accompagnata da un superamento
di pratiche di coltivazione tradizionali e da forme antiquate di regolazione dei rapporti tra proprieta-
ri e contadini. Certo non mancarono alcune eccezioni, come le zone collinari piemontesi, dove la
maggiore produzione di vini si accompagnò anche ad una più adeguata cura delle forme di coltiva-
zione della vite e di “confezionamento” del vino, o l’irriguo lombardo, dove peraltro ci si limitò ad
estendere ed a razionalizzare i modi più avanzati di sfruttamento della terra e di gestione delle a-
ziende rurali utilizzati da qualche secolo. Si ebbe dunque un ulteriore rafforzamento del ruolo del
primario, senza che i diversi contesti potessero sperimentare quei processi di radicale trasformazio-
ne che, nel caso inglese, sono stati individuati con i termini di rivoluzione agricola e di rivoluzione
agraria.
4. Azione pubblica e trasformazioni economico–sociali tra 1714 e 1815

4.1.
La vita economica non conobbe nel Settecento e nel primo quindicennio dell’Ottocento cambiamen-
ti significativi degli equilibri ereditati dal secolo precedente. Al tempo stesso tuttavia il mutare degli
assetti politici e l’azione dei governi che, in questi decenni, ressero le sorti delle diverse realtà della
penisola, non mancarono di lasciare tracce profonde sulla società e sulla stessa attività produttiva

4.2.
I primi cambiamenti si ebbero nella prima metà del Settecento, quando i nuovi padroni della peniso-
la, austriaci e piemontesi, impegnati in continue guerre, promossero riforme dei sistemi fiscali dei
loro stati al fine di reperire risorse per coprire le spese militari. Tali razionalizzazioni finanziarie
nacquero senza un preciso disegno di rinnovamento della vita politica e sociale, ma produssero tra-
sformazioni degne di rilievo. In Lombardia, in particolare, l’azione della corte viennese portò, dopo
il 1748, non solo ad una razionalizzazione dei sistemi di esazione delle imposte, con l’attivazione
del catasto teresiano dopo un trentennio di lavori e la redenzione delle regalìe alienate, ma anche ad
un deciso rafforzamento, rispetto al periodo spagnolo, del potere statale, con la messa in discussione
della centralità del patriziato ambrosiano, il ceto che dai primi del Cinquecento aveva dominato la
vita dello Stato di Milano.

4.3.
L’azione di riforma si fece più organica nel secondo Settecento. Nella Lombardia Austriaca il go-
verno non si limitò a portare a compimento il riassetto complessivo della finanza pubblica; ma, spe-
cie dopo la salita al potere di Giuseppe II, l’attacco agli antichi assetti fu ancor più radicale, con in-
terventi sulla proprietà ecclesiastica e sulla stessa vita religiosa. Nel Granducato di Toscana, Pietro
Leopoldo, fratello di Giuseppe II, fece propri gli orientamenti della fisiocrazia, abolendo ogni vin-
colo alla circolazione interna dei grani e adottando una nuova disciplina degli scambi con l’estero,
decisamente orientata in senso liberista. Risultati positivi si ebbero anche nel Regno di Napoli, dove
la Corona cercò di affermare il potere dello Stato, riducendo il ruolo politico della nobiltà feudale,
vero arbitro, specie in Sicilia, della vita civile dei diversi territori. In quest’ultimo caso peraltro
l’azione riformatrice fu molto più debole, anche per la capacità dell’aristocrazia locale di difendere
gli antichi privilegi, fonti di ricchezza economica e non solo di potere politico.

4.4.
Il ruolo dell’amministrazione pubblica, come soggetto di cambiamento della vita economica e so-
ciale italiana, fu ancor più marcato negli ultimi anni del Settecento e nel primo quindicennio del se-
colo successivo, periodo di continue guerre prima e, dopo il 1800, di stabile dominio dell’Italia da
parte dei francesi. Come ricordato, in questo periodo venne completamente ridisegnata la carta poli-
tica della penisola e, sia pure per breve tempo, si formò una nuova entità statuale, il Regno d’Italia,
dotata di una dimensione territoriale particolarmente rilevante. Nel contempo, su pressione della
Francia, in tutta la penisola si dovettero adottare regole doganali tali da garantire la possibilità, per
gli operatori francesi, di collocare i loro manufatti in Italia, fatto che non mancò di creare malumori
nella penisola, ma che fu ampiamente compensato dallo possibilità di smerciare sui mercati francesi
i prodotti agricoli ed i filati serici italiani. Gli interventi più importanti si legarono alla drammatica
esigenza, per i diversi governi, di garantirsi entrate adeguate per far fronte alle continue richieste di
denaro dei “liberatori” francesi e per fornire uomini e risorse alla grande armata napoleonica. In
particolare dalle repubbliche nate dopo il 1796 vennero imposte a più riprese contribuzioni forzose
ai titolari di fortune mobiliari ed immobiliari; vennero così contratti enormi debiti che furono saldati
con la massiccia vendita di beni immobili confiscati ai diversi enti ecclesiastici, in particolare agli
ordini monastici. Si ebbe così, in un arco di tempo decisamente breve, una massiccia redistribuzione
del possesso fondiario che, per la sua stessa origine, finì con l’ampliare, quasi in ogni contesto terri-
toriale, i patrimoni della nobiltà fondiaria, dei maggiori operatori commerciali del tempo, di quanti
avevano accumulato o stavano accumulando fortune con operazioni di prestito allo Stato e la ge-
stione di pubblici appalti. Una situazione ben diversa si venne così a creare nelle campagne italiane
rispetto alla Francia. Oltralpe la rivoluzione portò con sé il deciso rafforzamento della piccola pro-
prietà contadina, già largamente presente prima del 1789. In Italia, invece, in nome dei principi di
libertà ed eguaglianza, non vennero compiuti passi importanti per colmare l’enorme divario di ric-
chezza da secoli esistente tra la cerchia ristretta dei grandi proprietari fondiari e la grande massa dei
lavoratori della terra.

4.5.
Tra le riforme poste in essere dai governi voluti da Napoleone, va certamente ricordata l’abolizione
del regime feudale decretata nel 1806 dal governo napoletano. Anche nel Mezzogiorno si sperimen-
tò così una drastica modifica degli assetti giuridici della proprietà fondiaria. Lo Stato affermò pie-
namente la sua autorità sui territori del Regno e vennero rimossi integralmente l’esercizio della si-
gnoria da parte dei baroni ed il loro predominio politico sulle comunità rurali. I nobili furono privati
del potere giurisdizionale, fu loro impedito l’esercizio di diritti proibitivi e cessarono di godere di
immunità fiscali; da quel momento, sul piano giuridico, divennero soltanto dei grandi proprietari,
titolari di beni goduti come proprietà private. “Dei loro feudi conservarono in libera proprietà i ter-
reni goduti e amministrati in via esclusiva, inoltre ricevettero una quota variante da uno a tre quarti
delle terre sottoposte ad usi civici, mentre la parte restante venne ceduta alle municipalità per essere
ripartita in quote da assegnare ai cittadini più poveri come compenso dei diritti comuni perduti” (A.
Carera). L’opera di quotizzazione, d’altro canto, non raggiunse, in molte realtà del Mezzogiorno, i
risultati sperati. I nuovi piccoli proprietari, in alcuni casi, vendettero ai maggiori possidenti le terre
ricevute, non avendo i mezzi per metterle a frutto e avendo la garanzie di poterle poi riavere in usu-
frutto con contratti di colonìa; in altri furono costretti con la forza a cedere quanto avevano ricevuto,
visto che non potevano contare sulla presenza di uno Stato capace di metterli al riparo dalle prepo-
tenze degli antichi signori. Attraverso la vendita di beni ecclesiastici e la fine del sistema feudale i
governi sostenuti dalle armi francesi attuarono dunque una vera rivoluzione agraria nella penisola,
nel senso che operarono per la piena affermazione della proprietà privata della terra come fulcro
della vita economica e sociale. A tale trasformazione strutturale, peraltro solo raramente si accom-
pagnò il costituirsi di nuovi nuclei di imprenditori agricoli, pronti ad adottare le forme di gestione
dei rapporti con le maestranze e di coltivazione dei suoli più consone ad un’agricoltura capitalistica.
Troppo spesso i nuovi proprietari continuarono a comportarsi come i vecchi signori laici ed eccle-
siastici, semplici percettori di rendite certe e non operatori capaci di promuovere lo sviluppo delle
campagne italiane.
Maturità e crisi dell’equilibrio agricolo-commerciale
(1815-1880)

1. L’economia della penisola italiana al 1815

1.1.
Nel 1815 in tutte le regioni della penisola italiana l’attività prevalente era quella agricola. Se fossero
disponibili stime sulla ripartizione della popolazione attiva, avremmo valori di molto superiori al
50% per il settore primario e quote molto inferiori per le attività manifatturiere e per i servizi. In ta-
le contesto il ceto dominante, a livello economico, erano formati dai proprietari terrieri e dai grandi
commercianti di derrate agricole e di semilavorati (seta essenzialmente). Mentre l’Inghilterra speri-
mentava un deciso accentuarsi del processo di industrializzazione, che avrebbe portato alla definiti-
va trasformazione del sistema economico, le varie realtà della penisola continuavano ad essere ca-
ratterizzate dal prevalere di assetti consolidati.

1.2.
La prevalenza del settore primario era accompagnata da un’estrema varietà delle forme di gestione
delle attività agricole e delle modalità di regolazione dei rapporti contrattuali tra proprietari dei ter-
reni e contadini. Caratteristica comune di tutte le realtà della penisola, escluse le zone di montagna e
parte della collina piemontese, era la netta prevalenza della grande e della grandissima proprietà.
Alla centralità del grande possesso non faceva peraltro riscontro la gestione diretta dei fondi da par-
te dei maggiori proprietari o la loro ripartizione in grandi unità aziendali. Come in passato, i deten-
tori delle maggiori fortune agrarie erano, quasi sempre, dei semplici percettori di rendita, preoccu-
pati di salvaguardare il valore dei loro fondi, ma non sempre disponibili al miglioramento degli
stessi attraverso opere di bonifica e di miglioria. Quasi in ogni contesto era così prevalente la picco-
la conduzione, con le singole unità poderali affidate al lavoro di una famiglia contadina, che colti-
vava i terreni, ricavando quanto era necessario per vivere e per pagare un affitto, quasi sempre assai
oneroso, ai proprietari. Raramente si incontravano figure di imprenditori capitalisti, cioè di organiz-
zatori dei lavori dei campi che gestivano ampie unità colturali prese in affitto, dando lavoro a sala-
riati (braccianti) e vendendo i prodotti sul mercato. Era questo il caso della ristretta fascia di pianura
irrigua lombarda tra Ticino ed Adda (Basso Milanese, Pavese, Lodigiano), dove le rotazioni a fo-
raggiera erano praticate da secoli, grazie alla rete dei canali alimentati da corsi d’acqua e fontanili, e
dove l’allevamento del bestiame da latte era praticato in forma intensiva, alimentando un vivace
commercio di prodotti caseari. In quest’ultimo contesto centrale era la figura del fittabile, un affit-
tuario che dirigeva la cascina come un’impresa e decideva le destinazioni colturali dei fondi presi in
affitto a seconda dell’andamento del mercato.

1.3.
A quella data debole restava il tessuto manifatturiero. Non mancavano attività di lavorazione delle
fibre tessili o dei metalli, ma si andava incrementando il distacco da aree in trasformazione come
quella inglese, belga, svizzera o francese. Nettamente prevalente era la lavorazione in piccole unità
disperse sul territorio, talvolta collegate al mercato grazie all’azione di mercanti imprenditori, come
i cotonieri dell’Alto Milanese o i mercanti di ferrarezza delle vallate lombarde. Fabbriche vere e
proprie erano presenti solo in alcuni contesti, si trattava di esperienze pionieristiche, spesso legate
alla presenza di imprenditori o di tecnici stranieri, svizzeri soprattutto, ma anche francesi e tedeschi,
e di fatto costituite da alcuni opifici dediti alla filatura meccanizzata del cotone. L’attività di tra-
sformazione più significativa era quella serica, con impianti localizzati al Nord, lungo tutta l’area
pedemontana della catena alpina, dal Cuneese alla Carnia. In Italia erano prevalenti la prima lavora-
zione del filo serico (trattura), esercitata da un numero straordinariamente alto di filande che lavo-
ravano per poche settimane impiegando un numero esiguo di donne e di bambine, e la seconda la-
vorazione (torcitura), spesso esercitata in opifici di una certa dimensione, che arrivavano ad occupa-
re anche cento persone, utilizzano complessi macchinari in legno mossi da energia idraulica e attivi
per l’intero corso dell’anno. Anche nel caso del setificio, comunque, ci si limita a produrre semila-
vorati, mentre i prodotti finiti (tessuti) erano importati dalla Francia e dalla Svizzera. Certo le attivi-
tà seriche consentivano di mantenere attivi interessanti circuiti commerciali con l’estero e permette-
vano l’accumulo di significative conoscenze e di grandi ricchezze per quanti controllano i circuiti
commerciali, dall’approvvigionamento dei bozzoli alla vendita sulle piazze di tutta l’Europa (Russia
compresa) dei semilavorati.

1.4.
Le attività commerciali più significative non erano rappresentate, salvo eccezioni, da interscambi tra
le diverse aree regionali della penisola, ma da transazioni di beni tra i diversi contesti locali e le na-
zioni straniere. Dall’Italia partivano derrate alimentari (vino, olio, bestiame, formaggio grana), se-
milavorati (sete grezze e filate) e materie prime (marmi, minerali); mentre dall’estero arrivavano
semilavorati (ferro), materie prime (carbone) e prodotti finiti (essenzialmente filati e tessuti). Anche
all’interno dei singoli contesti statuali i circuiti commerciali erano scarsamente attivi. Un’eccezione
importante era costituita dall’area lombarda, dove esisteva una significativa integrazione tra la bassa
pianura capace di produrre forti eccedenze alimentari (grani, latticini), la fascia collinare pedemon-
tana, regno dell’allevamento del baco da seta e delle attività seriche, ma anche sede di interessanti
attività di lavorazione domestica del cotone, della lana e del lino, e le vallate montane, interessate
da attività di estrazione e di lavorazione del ferro. In quest’ultima regione crebbe così tra Settecento
e Ottocento un mercato regionale, che aveva il suo cuore nella città di Milano e che finì col costitui-
re una delle premesse fondamentali della successiva industrializzazione di questa parte della peniso-
la italiana.

1.5.
Alla debolezza del tessuto economico faceva ovviamente riscontro un assetto demografico di antico
regime. In tutte le zone del paese alti restavano i tassi di natalità e di mortalità, con picchi dramma-
tici per la mortalità infantile anche in zone, come quella lombarda, che erano caratterizzate da un
certo dinamismo della vita produttiva. Una sostanziale staticità demografica caratterizzava anche i
maggiori centri urbani di un territorio che, per antica vocazione, continuava ad essere interessato
dalla diffusa presenza, nel Centro-nord, di centri di piccola e media dimensione, cui si univa una
grande capitale (Napoli) con una dimensione demografica paragonabile ai grandi centri europei. Per
quanto riguarda le condizioni di vita non abbiamo a disposizione, per questi decenni dell’Ottocento,
indagini statistiche. D’altro canto alcuni indicatori indiretti segnalano la diffusa presenza di un forte
malessere sociale, dalla pratica diffusissima di abbandonare in brefotrofi gli infanti, anche legittimi,
affidati così alla pubblica carità, alla pesante incidenza di malattie sociali quali la pellagra, che col-
piva le campagne tra Lombardia e Veneto come esito di un’alimentazione assai povera sul piano
qualitativo, e la malaria, che tra il Centro e il Sud testimoniava di assetti idrogeologici fortemente
deteriorati da secoli di incuria e di sfruttamento poco razionale dei suoli, al ricorso frequente a for-
me di appropriazione indebita dei beni altrui, con il lamento costante dei proprietari per il furto
campestre e con la difficile situazione dell’ordine pubblico in molte contrade, non solo nell’Italia
meridionale.
2. La vita economica negli anni della maturità dell’equilibrio agricolo com-
merciale (1815-1848)

2.1.
Il settore secondario, comparto caratterizzato da staticità ed arretratezze al 1815, non conobbe alcun
processo significativo di sviluppo nella prima metà dell’Ottocento. Fulcro del comparto rimase il
settore serico, che conobbe una crescita importante delle produzioni di sete grezze e torte, sostenuta
da un fortissimo incremento della disponibilità di materia prima da filare, specie in Lombardia, e
continuò ad alimentare importanti correnti di traffico con i paesi d’Oltralpe. Forte di un primato a
livello internazionale, il setificio italiano non conobbe però, nel periodo in questione, una crescita
sul piano qualitativo. Nella quasi totalità degli impianti si continuarono ad utilizzare i metodi di un
tempo. Solo alcuni operatori maggiori, specie in Piemonte e in Lombardia, modernizzarono le loro
filande e le ampliarono, sostituendo le caldaiole riscaldate a fuoco diretto con bacinelle dove
l’acqua era portata alla giusta temperatura dal vapore, vapore utilizzato anche per muovere gli appa-
rati necessari ad avvolgere il filo e formare le matasse. Allo stesso modo solo in alcuni filatoi ven-
nero sostituiti gli antichi mulini da seta in legno, ideati nel Seicento, con nuovi impianti in ferro im-
portati dalla Francia. Una maggiore apertura al nuovo si ebbe nella filatura del cotone grazie al di-
namismo di imprenditori italiani e stranieri che in Lombardia, in Piemonte ed in Campania, in pre-
senza di legislazioni protezionistiche che mettevano gli operatori locali al riparo dalla concorrenza
straniera, non solo inglese, ma anche francese e svizzera, fondarono nuovi opifici per la lavorazione
meccanizzata del filato di cotone. I ritardi maggiori si accumularono nel comparto siderurgico, dove
continuarono ad essere attivi forni di antica concezione alimentati con carbone vegetale, e nel setto-
re meccanico, caratterizzato da officine concepite per produrre ogni genere di attrezzi e di macchi-
nari, e quindi prive della ormai necessaria specializzazione produttiva, o da impianti, quali quelli
napoletani, che operavano solo grazie al sostegno della domanda pubblica. In tale contesto è eviden-
te come il sistema di fabbrica restasse un’eccezione nella penisola. E non ci deve meravigliare di
questo visto la diffusa e radicata presenza, tra gli uomini di cultura e tra i detentori delle maggiori
fortune immobiliari e mobiliari, di una cultura antindustrialista, attenta a rimarcare i rischi
dell’investimento nel secondario e gli effetti negativi della fabbrica moderna nella vita sociale e po-
litica.

2.2.
L’agricoltura rimase il settore portante della vita economica in ogni regione della penisola, senza
che il comparto fosse interessato da trasformazioni significative degli assetti agricoli ed agrari vi-
genti. Nei diversi contesti locali non mancarono operatori che cercarono di diffondere pratiche col-
turali più avanzate e forme più moderne di regolazione dei rapporti tra proprietà e conduzione. Le
proposte degli innovatori si scontrarono tuttavia con le resistenze del mondo contadino, povero di
risorse economiche e culturali, profondamente legato alle pratiche della tradizione, e con la diffi-
denza dei possidenti, timorosi delle novità, specie di quelle che avrebbero dovuto interessare i con-
tratti agrari. L’apertura al nuovo fu inoltre ostacolata dal brusco mutamento della congiuntura dopo
il 1815. Dopo un lungo periodo di ascesa dei prezzi dei prodotti più largamente coltivati, incremen-
to che era iniziato alla metà del Settecento e che si era accentuato durante l’età francese, caratteriz-
zata in Europa da continue guerre, il mercato dei cereali, del vino e dell’olio dovette fare i conti con
andamenti decisamente negativi. La discesa dei prezzi, che conobbe il suo culmine alla metà degli
anni Venti, periodo seguito da una stabilizzazione a livelli comunque bassi, e che fu provocata
dall’incremento generale delle produzione e dall’arrivo del grano russo sui mercati europei, fu va-
riamente contrastata dalle autorità politiche e dai maggiori operatori economici. I governi, con la si-
gnificativa eccezione del Granducato di Toscana, adottarono in genere politiche protezionistiche,
che utilizzarono anche per difendere le deboli produzioni manifatturiere dalla concorrenza estera,
inglese in particolare. Dal canto loro i proprietari terrieri ed i grandi affittuari reagirono aumentando
le superfici coltivate, inasprendo i rapporti contrattuali e puntando, dove possibile, su produzioni
ancora remunerative, come l’allevamento del bestiame da latte e del baco da seta. Fu questo il caso
della Lombardia, dove crebbero, nell’irriguo, le colture foraggiere e la connessa produzione di latti-
cini, mentre nella zona di pianura asciutta e di collina si estesero la coltivazione del gelso e
l’allevamento del baco da seta.

2.3.
La crescita certo debole del secondario e le difficoltà dell’agricoltura resero ancor più precarie le
condizioni di vita di larga parte della popolazione italiana. A livello demografico non si ebbero mu-
tamenti dei tassi di natalità e mortalità; in generale la popolazione complessiva continuò a crescere
su ritmi non particolarmente elevati, ma tali da creare ulteriori squilibri tra le bocche da sfamare e le
risorse disponibili. Già si è ricordata la presenza di indicatori qualitativi del forte disagio sociale
presente nei contesti urbani e rurali; un disagio che non fu in grado di mettere in discussione la coe-
sione sociale solo perché contenuto dal concreto operare di forme di redistribuzione del reddito
promosse dagli stessi ceti dominanti e dalle congregazioni religiose. Nel sostegno ai poveri impor-
tante fu l’azione dei nuovi istituti di vita attiva, nati nel seno della Chiesa cattolica dopo la crisi del
secondo Settecento e dell’età francese con una particolare vocazione alla carità. In un contesto ca-
ratterizzato da bassi livelli di reddito, dove larga parte della popolazione riusciva a stento a soddi-
sfare i bisogni primari, la domanda interna restava così inevitabilmente debole ed il sistema produt-
tivo non era certo sollecitato a razionalizzare i suoi processi al fine di aumentare l’offerta.

3. Politica ed economia nel decennio di preparazione (1849-1859)

3.1.
Nell’arco di tempo compreso tra la sconfitta nella prima guerra d’indipendenza e l’avvio del proces-
so di unificazione nazionale i sistemi agricoli della penisola dovettero fare i conti con nuove crisi
che, per la prima volta, insinuarono dubbi sulla decantata sicurezza dell’investimento nella terra,
che pure rimase la forma largamente prevalente di impiego dei capitali nei diversi stati della peniso-
la. All’aprirsi del decennio Cinquanta, infatti, alcune malattie colpirono la vite (oidio) e il baco da
seta (pebrina), abbattendo radicalmente i livelli produttivi di due settori fondamentali per gli assetti
economici e sociali di molti sistemi agricoli della penisola. Per entrambe le attività le perdite nei
“raccolti” furono drammatiche e il cammino per uscire dalla crisi fu lento ed accidentato. In campo
serico, in particolare, si dovettero attendere quasi vent’anni per ritornare alle produzioni dei primi
anni Cinquanta, con un recupero reso possibile solo attraverso l’utilizzo di varietà di seme-bachi
importate dal Giappone, dalle quali si otteneva una seta di qualità peggiore rispetto a quella prodotta
prima della diffusione del terribile flagello.

3.2.
Nell’Italia settentrionale, durante il decennio di preparazione, la vita economica fu segnata profon-
damente anche dall’azione delle pubbliche autorità. Nel periodo in questione infatti le corti di Vien-
na e di Torino elaborarono due diversi progetti dove l’iniziativa in campo economico, che certo do-
veva rispondere ad istanze di carattere squisitamente politico, non mancò di avere effetti sulla evo-
luzione dei diversi comparti produttivi. Gli austriaci in particolare, dove aver dedicato particolari
risorse al potenziamento delle infrastrutture viarie nella Lombardia degli anni Venti, cercarono di
portare a compimento il progetto, avviato sul finire degli anni Trenta, di un collegamento ferrovia-
rio tra Venezia e Milano, al fine di favorire l’ulteriore integrazione della Lombardia e del Veneto
nei mercati della Monarchia e di aumentare i traffici che gravitavano sui loro porti in Adriatico. Nel
contempo, nel quadro di un disegno di grande unione doganale tra il Baltico e il Mediterraneo, cer-
carono di promuovere una lega doganale degli stati italiani sul modello dello zollverein tedesco.
Limitati furono i risultati raggiunti con quest’ultima iniziativa, che non incontrò il favore dei gover-
nanti della penisola anche per la scarsa complementarietà delle diverse economie regionali. D’altro
canto, il costituirsi di una lega austro-estense-parmigiana contribuì sicuramente all’ulteriore raffor-
zamento del tessuto manifatturiero della Lombardia e consentì a Milano di affermare ulteriormente
il suo ruolo di centro di riferimento del mercato padano.

3.3.
Non meno dinamica fu l’azione del Regno di Sardegna sotto la guida del Conte di Cavour. Anche in
questo Stato venne avviato e portato a compimento un progetto di rapida ferroviarizzazione del ter-
ritorio, pensato per valorizzare il porto di Genova e per incrementare gli scambi commerciali con la
Svizzera e con la Francia. Ben diverso fu il disegno di politica commerciale voluto dallo statista
piemontese. In questo caso infatti si scelse di adottare, come nel Granducato di Toscana, un regime
liberoscambista, che rispondeva al duplice obiettivo di incrementare le simpatie di francesi e inglesi
verso il piccolo regno subalpino e di rispondere alle istanze dei ceti economicamente egemoni, inte-
ressati soprattutto, non solo nel Piemonte ma anche nel resto della penisola, al progresso del settore
primario, possibile solo grazie al facile collocamento sui mercati stranieri del sovrappiù agricolo e
delle sete torte e filate. L’azione politico-amministrativa fu certo meno incisiva nelle altre realtà sta-
tuali della penisola, giudizio che può essere suffragato dal diverso sviluppo della rete ferroviaria al-
la vigilia dell’unificazione nelle singole regioni italiane.

4. L’invenzione dell’Italia unita

4.1.
L’assetto politico della penisola, definito dal Congresso di Vienna, rimase stabile tra il 1815 ed il
1859. Certo un forte sconvolgimento si ebbe tra il 1848 ed il 1849, ma l’esito della prima guerra di
indipendenza confermò il controllo politico dell’Austria sulla penisola italiana.

4.2.
Con il 1859 ebbe inizio un’avventura diplomatica e militare che portò il piccolo Regno di Sardegna
ad unificare sotto la sua bandiera e la sua corona quasi tutta la penisola italiana. Nata dal genio poli-
tico-diplomatico del Conte di Cavour, l’unificazione nazionale, esito solo in parte previsto di un’a-
zione preparata negli anni Cinquanta, fu possibile solo per l’aperto sostegno della Francia prima
(seconda guerra di indipendenza) e dell’Inghilterra poi (avventura garibaldina). In un arco di tempo
brevissimo venne posto termine al secolare dominio degli Asburgo sull’Italia, venne cancellato un
regno, quello meridionale, che affondava le sue radici nella conquista normanna del Mezzogiorno, e
si compì il passo decisivo per superare il potere temporale dei papi. Ovviamente una costruzione
così rapida, certo non sorretta da forti motivazioni economiche e in parte non programmato dagli
stessi promotori, portò con sé una serie di problemi di carattere politico-istituzionale di grande rilie-
vo, resi ancor più complessi dall’improvvisa scomparsa dalla scena politica del maggior artefice
dell’Italia unita, il Conte di Cavour. La costruzione effettiva dello stato unitario risultò ben presto
impresa assai ardua e laceranti contraddizioni si manifestarono con tutta evidenza. Emblematico
quanto si verificò nel Mezzogiorno, dove gli entusiasmi popolari della campagna garibaldina si tra-
sformarono repentinamente nel sordo rancore della guerra civile condotta dai “briganti” contro gli
“invasori piemontesi”.

5. La vita economica nel primo ventennio postunitario

5.1.
Nel ventennio postunitario l’agricoltura rimase il settore portante della vita economica. Alcune atti-
vità del comparto sperimentarono anche significativi processi di crescita quantitativa, grazie ad un
regime daziario che favoriva le esportazioni di derrate alimentari. Crebbero al Nord le superfici irri-
gue, anche per la realizzazione di importanti opere idrauliche (canale Cavour, opere irrigue nella
pianura cremonese), mentre nel Mezzogiorno le produzioni arboree conobbero significativi incre-
menti nelle superfici coltivate e nei beni prodotti. Nel contempo tuttavia, un settore portante come
quello gelsibachicolo dovette fare i conti, fino ai primi anni Settanta, con la crisi dovuta alla diffu-
sione della pebrina. Più in generale non si conobbe un generalizzato superamento delle pratiche più
arretrate e delle forme contrattuali più arcaiche. Il volume degli investimenti rimase complessiva-
mente limitato e, anche per questo, i rendimenti unitari continuarono ad essere ben lontani da quan-
to registrato nelle moderne agricolture dell’Europa nord-occidentale. In tale contesto si comprende
l’apparente paradosso di un paese dove eccessiva era la superficie agraria destinata ai cereali, a
danno delle foraggiere, e dove il frumento rappresentava una delle principali merci importate.

5.2.
Negli anni Sessanta il già debole comparto manifatturiero conobbe un’indubbia battuta di arresto.
La politica di liberoscambio voluta dai nuovi governanti mise infatti in difficoltà i produttori nazio-
nali di filati e di tessuti di lana e di cotone, quest’ultimi duramente colpiti anche dalla scarsità di co-
tone sodo, dovuta alla guerra di secessione americana. Nel Mezzogiorno, in particolare, imprese a-
bituate ad operare su mercati fortemente protetti dovettero cessare le loro produzioni. Difficoltà non
meno gravi si ebbero nei settori siderurgico e meccanico, dove si scontava il grave ritardo accumu-
lato rispetto ai paesi industrializzati o in via di industrializzazione, un’arretratezza che impedì alle
industria nazionali di trarre pienamente vantaggio dalla politica di forte espansione della rete ferro-
viaria voluta dalla destra storica. Chiari segni di ripresa, in particolare in alcune regioni settentriona-
li, si ebbero nel decennio Settanta. Con l’avvio del nuovo decennio, infatti, fu definitivamente supe-
rata la crisi serica, con la conseguente ripresa delle attività di trattura e torcitura del filato, ora quasi
completamente svolte in opifici meccanizzati, dove il lavoro non si concentrava più in alcune setti-
mane dei mesi estivi. Una crescita significativa si ebbe anche negli altri segmenti del comparto tes-
sile, con lo sviluppo delle tradizionali localizzazioni laniere (il Biellese, la zona di Prato, l’alto Vi-
centini per la lana) e cotoniere (l’alto Milanese, la Brianza monzese, la Valle Seriana) e con l’affac-
ciarsi sulla scena, proprio in questi settori, di una prima serie di anonime. Persino nel settore side-
rurgico e in quello meccanico si registrarono nel periodo segnali di un maggiore dinamismo. Certo
il processo di industrializzazione stava ancora muovendo i primi passi, ma in alcuni contesti regio-
nali, Lombardia, Piemonte, Liguria e parte del Veneto, si coglievano i primi cenni di un cambia-
mento di struttura.

5.3.
La vita economica della penisola, dopo la nascita nel 1861 del nuovo Regno, fu necessariamente in-
fluenzata dal concreto operare di un nuovo attore istituzionale.
In campo commerciale, con l’unificazione nazionale venne adottata una politica doganale libero-
scambista, attraverso l’estensione a tutti i territori del Regno della tariffa piemontese, adottata negli
anni Cinquanta nel Regno di Sardegna. L’apertura dei mercati si accentuò anche grazie a una serie
di accordi commerciali, in particolare grazie all’intesa del 1863 con la Francia, il paese che per qua-
si un trentennio sarebbe stato il principale partner commerciale dell’Italia. La scelta liberoscambista
rispondeva ad esigenze politiche, conservare ottimi rapporti con la Francia e la Gran Bretagna in un
fase in cui l’unificazione nazionale era un processo da portare a compimento, ma nasceva anche da
un preciso calcolo economico. Nella mente dei governanti, e nella realtà del tempo, l’Italia era un
paese agricolo che continuava ad avere la necessità di esportare derrate alimentari e semilavorati e
che, per raggiungere tali obiettivi, doveva aprire i suoi mercati ai prodotti industriali dei paesi già
industrializzati. Il calcolo non era certo privo di una sua razionalità, ma il prezzo da pagare era un
ulteriore rinvio del processo di mutamento strutturale del sistema economico in senso industriale.
Solo nella seconda metà degli anni Settanta lo scenario e gli orientamenti sarebbero mutati e, in un
contesto nuovo, si sarebbe arrivati al varo di una prima tariffa protezionistica nel 1878.
Negli anni Sessanta e Settanta, i governi della destra storica si impegnarono in un’intensa attività di
modernizzazione delle infrastrutture e del sistema dei trasporti. Somme ingenti vennero spese per
potenziare le reti stradali e per ampliare la capacità di carico dei maggiori porti della penisola. Fu
soprattutto la ferrovia ad assorbire ingenti risorse pubbliche. In un ventennio si passò da una rete di
poco più di duemila chilometri, formata da tratti non collegati fra loro, ad un sistema complesso di
quasi novemila chilometri che consentiva di mettere in comunicazione, in modo relativamente, age-
vole quasi tutte le aree del paese. Lo sforzo di dotare l’intero paese di infrastrutture di comunicazio-
ne più efficienti non rispose unicamente a logiche di tipo economico, ma fu il risultato di motiva-
zioni anche di carattere squisitamente politico, dal controllo del territorio, al bisogno di testimoniare
nei fatti l’avvenuta unificazione del paese. Si costruì molto, ma si finì col realizzare anche linee
scarsamente utilizzate, fonti di costanti esborsi finanziari per le società di gestione e per lo Stato,
chiamato anche ad operazioni di salvataggio. La ferroviarizzazione del paese precedette l’industria-
lizzazione della penisola, con il risultato che la costruzione di linee ed il loro esercizio finì col reca-
re benefici, fino ai primi anni Ottanta, ai produttori stranieri di rotaie e di materiale viaggiante.
Per quanto riguarda la politica monetaria va ricordata la mancata creazione di un unico istituto di
emissione della carta moneta operante in stretto rapporto con il Tesoro. Le leggi del 1862 e del 1874
sancirono la pluralità degli istituti di emissione (sei dopo il 1874) e non dotarono il governo di ade-
guati strumenti di controllo della circolazione. Le conseguenze negative di una legislazione inade-
guata si sarebbero manifestate in modo drammatico nei primi anni Novanta, in una fase caratteriz-
zata da una grave crisi finanziaria e da un serie di scandali politici. In quel drammatico frangente,
peraltro, venne varata una nuova normativa, con la conseguente nascita della Banca d’Italia.
Di fondamentale importanza per l’andamento della vita economica furono infine le scelte adottate
per la gestione delle pubbliche finanze. Tra il 1861 ed il 1866, in una fase in cui il sistema fiscale
del paese doveva ancora essere realizzato, i diversi esercizi del bilancio dello Stato si chiusero con
pesantissimi deficit, coperti con un massiccio ricorso all’indebitamento, con ripetute emissioni di
rendita italiana consolidata, collocata in misura significativa sulla piazza di Parigi. In questi anni lo
Stato, per dotare il paese di infrastrutture più moderne, per sostenere ingenti spese militari e per pa-
gare gli interessi di un debito pubblico salito da tre ad oltre sei miliardi, ricorse con frequenza ai
mercati mobiliari, offrendo comode forme di investimento della liquidità disponibile e sottraendo
risorse agli investimenti produttivi. Una svolta si ebbe nella primavera del 1866, quando l’annuncio
della possibile partecipazione del paese ad un nuovo conflitto militare, provocò una rapidissima ca-
duta dei corsi della rendita italiana, specie sulla borsa di Parigi, innescando fenomeni speculativi as-
sai consistenti. In tale contesto si dovette adottare un provvedimento tampone. Il governo negoziò
un mutuo di duecentocinquanta milioni con la principale banca di emissione attiva nella penisola, la
Banca nazionale nel Regno d’Italia, concedendo alla stesso l’esenzione dall’obbligo di convertire le
proprie banconote in monete d’oro e d’argento. Di fatto il fabbisogno dello Stato venne finanziato
con la creazione di moneta, con l’ampliamento della base monetaria di quasi il 40% nel corso di un
solo anno. Adottato tale provvedimento, i governi si impegnarono immediatamente in una politica
di riordino dei conti pubblici, puntando a raggiungere il pareggio del bilancio attraverso un fortis-
simo incremento delle entrate tributarie. Con l’inasprimento delle imposte dirette e indirette, attra-
verso la creazione di nuove fonti di entrata, in particolare con l’istituzione nel 1868 della tassa sulla
macinazione dei cereali, venne raggiunto, a metà degli anni Settanta il pareggio del bilancio. Il go-
verno poté così ridurre la sua pressione sui mercati mobiliari, liberando risorse per gli investimenti
produttivi; nel contempo tuttavia, la repentina crescita della pressione fiscale non mancò di avere
riflessi negativi sulle condizioni di vita e, di conseguenza, sul volume complessivo della domanda
interna.

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