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Rapporto
sull'analfabetismo
religioso in Italia Rapporto
a cura di
sull'analfabetismo
Alberto Melloni
religioso in Italia
D 38,00
Comitato scientifico
a cura di
Alberto Melloni
I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insieme delle attività della Società editrice il Mulino
possono consultare il sito Internet www.mulino.it
ISBN 978-88-15-25129-9
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edizioni/fotocopie
Flavio Pajer
Non è da oggi che il problema della cosiddetta «incultura religiosa» agita e turba,
a ragione o a torto, la coscienza degli europei. È risaputo infatti che da almeno cin-
que secoli l’«Europa cristiana» è andata escogitando espedienti rigorosi e vincolanti
per lottare contro la «minaccia» dell’ignoranza religiosa, investendo in strategie e
risorse d’ogni genere, e ricorrendo talora persino a sanzioni penali. Riforma pro-
testante e riforma cattolica avevano orchestrato le rispettive egemonie territoriali
rivendicando una riappropriazione popolare del patrimonio di fede, privilegiando da
una parte l’accesso diretto al testo biblico e al suo libero esame, e imponendo dall’al-
tra lo studio della dottrina autorizzata dal magistero, ponendo al bando non solo i
«libri proibiti» ma anche le edizioni bibliche prive di un apparato esplicativo che ne
autenticasse la canonicità. Gutenberg aveva grandemente agevolato la via a processi
dirompenti di alfabetizzazione di massa. Il libro del catechismo fu invenzione tipica,
e quanto mai tempestiva, di quel periodo. Da Lutero a Bellarmino, e ai loro rispettivi
epigoni nei secoli successivi, è stata una lunga sfida a chi offriva le formule verbali
più incisive e memorizzabili per far acquisire le nozioni del testo biblico, le verità del
credo e i precetti della morale. Tutto all’insegna di recinti confessionali ormai ben
marcati. Anche i seminari diocesani voluti dal Tridentino rientravano nella logica
della formazione di un clero più istruito che, accanto alla amministrazione rituale
dei sacramenti, potesse esercitare un più decoroso ministero della parola (sotto le
forme dell’omelia, della catechesi, delle missioni popolari, delle missioni estere, della
direzione spirituale, ecc.) in una società rurale percorsa ancora da sacche di vecchie
superstizioni, ma che, con il processo di alfabetizzazione rapidamente avviato, stava
insidiando il monopolio del sapere religioso alle élite clericali.
In buona parte del continente, la progressiva scolarizzazione delle città e delle
campagne si rivelò la strategia vincente: alfabetizzazione primaria e istruzione re-
ligiosa erano indissociabili, talmente l’una era pensata in funzione dell’altra. Dalle
Scuole della dottrina cristiana nella Lombardia di Borromeo alla Panpaedia e alla
Didactica Magna del vescovo moravo Jan Amos Komensky, dalla fioritura di decine
di congregazioni religiose insegnanti nei paesi cattolici alla intensa proliferazione di
60 Flavio Pajer
1
Solo qualche dato esemplificativo: quando Lutero scriveva l’opera Ai consiglieri di tutte le città della
Germania sul dovere di istruire e mantenere scuole cristiane (1524), il Wüttemberg contava tre scuole, nel 1559
ne aveva ottanta, nel 1600 quattrocento. In Polonia, già sul finire del XVI secolo, esisteva una scuola
parrocchiale ogni 1.300 abitanti. In Francia, dopo il 1650, entrava in vigore la norma che imponeva il
catechismo come dovere grave dei parroci e dei genitori. In quel clima nasceva il movimento gianse-
nista delle Petites écoles di Port Royal, mentre il canonico Jean-Baptiste de La Salle fondava la Società
dei Fratelli delle scuole cristiane, religiosi non sacerdoti dediti all’insegnamento profano di base (il
classico «saper leggere, scrivere e far di conto»), ma i cui programmi comprendevano l’obbligo di forti
dosi quotidiane di «dottrina e morale». In Svezia e in Finlandia vigeva l’uso di partecipare una volta
all’anno alla verifica della conoscenza della Bibbia: l’adulto che non superava l’esame non poteva rice-
vere l’eucaristia né sposarsi. In Inghilterra una delle prime conquiste della Riforma fu la produzione e
distribuzione di una Bibbia in volgare, libro che non mancava mai nelle famiglie. A scuola il bambino
inglese disponeva di un abbecedario su cui erano impressi l’alfabeto, le sillabe di base e il Padre nostro
in lingua volgare; passava poi a studiare su un sussidiario che conteneva il Credo, i dieci comandamenti
e brevi esercizi catechistici sui fondamenti della fede, e disponeva anche di un libretto con preghiere
e versioni metriche dei Salmi. Credo, morale, sacramenti e il Padre nostro sono rimasti per secoli il
classico contenuto dei catechismi cattolici, strutturati a domande-risposte e destinati all’apprendimen-
to mnemonico. In breve, in ogni angolo d’Europa, Bibbia e catechismo costituivano l’ossatura del
curriculum elementare; si potrebbe dire che fungessero da grammatica della prima alfabetizzazione
e del successivo sapere scolastico. Afferma uno storico dell’educazione moderna: «Il catechismo era
centrale nell’esperienza educativa elementare dei giovani. La sua conoscenza era il risultato atteso
dell’avviamento controllato alla alfabetizzazione elementare. L’insegnamento del catechismo divenne
presto il modo corrente di indottrinamento religioso dei giovani. La frequenza della lettura e della
recitazione delle sue formule veniva stabilita dai regolamenti scolastici e dalle norme ecclesiastiche.
L’enfasi posta sulla cultura catechistica si rivela in modi diversi, ma soprattutto nella centralità del suo
ruolo nell’esperienza scolastica» (H.J. Graff, Storia dell’alfabetizzazione occidentale. L’età moderna, Bologna
1991, p. 74; ed. or. The Legacies of Literacy. Continuities and Contradictions in Western Culture and Society,
Bloomington-Indianapolis 1987). In tema di lotta all’ignoranza religiosa nell’Europa moderna, si veda
J. Delumeau, Cristianità e cristianizzazione. Un itinerario storico, Casale Monferrato 1983, spec. il cap. VI,
Ignoranza religiosa, mentalità magica e cristianizzazione, pp. 135-161.
Scuola e università in Europa 61
dalla fede e della corruzione dei costumi. È la conoscenza religiosa che fa i buoni
cristiani; è l’ignoranza che li perde. È il retto credere – o più precisamente il corretto
conoscere gli articoli del credere – che sta a condizione e garanzia di un retto agire.
Gli stessi risultati della catechesi venivano valutati in base ai livelli di conoscenza
delle nozioni religiose apprese, conoscenza che – come hanno confermato indagini
storiche2 – restava però il più delle volte letterale o mnemonica più che accedere
a una comprensione ragionata. Persino un’enciclica di papa Pio X si era fatta eco
delle diffuse lamentele di tanti vescovi e parroci che deploravano in coro l’incultura
religiosa dei propri fedeli3, e ancora trent’anni dopo, un decreto vaticano4 tornava
sull’argomento riaffermando che «ciò che ogni cristiano deve necessariamente co-
noscere è rinchiuso, in forma esatta e appropriata, nell’insegnamento catechistico».
Ma non è questo il luogo per attardarmi oltre su questi squarci di sfondo storico.
Li ho voluti qui appena richiamare allusivamente al solo scopo di situare meglio la
continuità, ma anche e soprattutto le svolte e fratture dei diversi ruoli cui l’istruzione
religiosa è stata chiamata ad assolvere nel passato più recente e che ancora tenta di
assolvere nell’Europa d’oggi, ma ovviamente in condizioni socioculturali e su basi
antropologiche ed epistemiche indubbiamente inedite rispetto a ieri.
Ancora un paio di avvertenze, in premessa. La prima è geografica: parlando
qui di educazione-istruzione religiosa in un orizzonte europeo, intendo abbracciare
non solo il perimetro dell’attuale Unione europea, ma la più ampia area dei 47 paesi
membri del Consiglio d’Europa. E ciò a motivo della competenza e autorevolezza
che questo organismo sovranazionale (nato nel 1949), a differenza dell’Ue, rivendica
nel campo specifico delle politiche culturali ed educative del continente. Nel seguito
dell’analisi si vedrà infatti come specialmente negli anni più recenti stiano partendo
proprio dal Consiglio d’Europa – e da organismi specifici ad esso connessi – diverse
iniziative atte a propiziare nell’incalzante pluralismo della scuola pubblica la cono-
scenza reciproca tra etnie e culture, tra religioni e spiritualità. La seconda avvertenza
riguarda il binomio scuola-università che compare nel titolo. È una chiara scelta limi-
tativa del campo di osservazione. L’analisi verte qui sul sistema integrato dell’istru-
zione primaria, secondaria e superiore, inteso come spazio pubblico, democratico e
pluralista, come luogo dell’insegnamento-apprendimento dei saperi formali, incluso
il sapere religioso, pur sapendo che ben altri e non meno influenti sono i luoghi
formali e informali che in Europa (come altrove) producono «cultura religiosa», ed
eventualmente relative forme di incultura o analfabetismo religioso: in primo luo-
2
P. Braido, Lineamenti di storia della catechesi e dei catechismi, Leumann 1991, pp. 379-383; L. Nor-
dera, Il Catechismo di Pio X. Per una storia della catechesi in Italia (1896-1916), Roma 1988, pp. 461-465; M.
Castro, Le temps des catéchismes, in «Mélanges de science religieuse», 69, 2 (2012), pp. 17-31; J. Molina-
rio, Le catéchisme, une invention moderne. De Luther à Benoît XVI, Paris 2013, pp. 89-107.
3
«A Noi sembra dover convenire con coloro che ripongono nell’ignoranza delle cose divine la
radice precipua dell’odierno rilassamento e quasi insensibilità degli animi, e dei gravissimi mali che
ne derivano […]. E che infatti fra i cristiani dei nostri giorni siano moltissimi quelli i quali vivono in
una estrema ignoranza delle cose necessarie a sapersi per la eterna salute, è lamento oggi comune, e
lamento giustissimo!» (Pio X, enciclica Acerbo nimis, 15 aprile 1905, in Enchiridion delle Encicliche, Bolo-
gna 1998, vol. 4, pp. 107-108).
4
Decreto Provido sane concilio della Congregazione del Concilio, 12 gennaio 1935, in «Acta Apo-
stolicae Sedis», 27 (1935), pp. 145 ss.
62 Flavio Pajer
Dando oggi uno sguardo globale al mosaico molto frastagliato dei sistemi edu-
cativi nazionali vigenti in Europa, e alle relative modalità di istruzione religiosa5, non
si possono non sottolineare due dati di fatto a prima vista sorprendenti:
– primo, l’immancabile presenza di una qualche forma di insegnamento reli-
gioso in tutti i sistemi educativi, sia esso obbligatorio, opzionale o facoltativo, con-
fessionale o multireligioso, curricolare o paracurricolare, biblico o coranico o etico,
gestito da una chiesa o dall’autorità scolastica o di comune accordo… Non fanno
eccezione nemmeno i paesi a regime separatista o quelli di più pronunciata secola-
rizzazione. Semmai proprie in queste aree, l’aver occultato nel passato la dimensione
pubblica del religioso provoca oggi un rigurgito più acceso di tale problematica in
seno all’educazione scolastica, sia in termini di ristrutturazione post-confessionale
dei corsi di religione confessionale precedentemente esistenti (Belgio, Austria, Olan-
da), sia in termini di accensione di nuovi corsi vertenti sull’esplorazione oggettiva
del multiforme fenomeno religioso (paesi scandinavi), sia sotto forma di verifica-
aggiornamento dei contenuti culturali delle discipline profane dal punto di vista
delle scienze religiose (Francia);
– secondo, l’estrema diversità delle forme dell’offerta conoscitiva e formativa
in materia di istruzione religiosa. Diversità che si radica anzitutto nello specifico
della storia religiosa dei singoli paesi europei; paesi democratici che ancor oggi si
riconoscono più o meno affiliati all’ethos dell’una o dell’altra delle grandi tradizioni
confessionali cristiane, ciascuna delle quali a sua volta, come si sa, si è sviluppata in
sintonia e sul sedimento del genio proprio di particolari culture regionali come il
cattolicesimo romano nella cultura latino-mediterranea, l’ortodossia nell’area slavo-
bizantina, il protestantesimo nell’area anglo-sassone e scandinava… Ma la diversità
di insegnamenti religiosi è dovuta anche ad altri fattori strutturali: ai distinti sistemi
di rapporti istituzionali instauratisi tra Stato e organizzazioni religiose riconosciute
(regimi di connivenza storica, di collaborazione negoziata, di separazione), ai tipi di
gestione amministrativa delle scuole (potere centrale o delega ai poteri locali, regimi
di insegnamento libero o monopolio di Stato, ecc.), alla presenza o meno degli studi
teologici o storico-religiosi superiori nell’università pubblica; per non parlare di al-
5
Nella bibliografia in calce al contributo è indicata una selezione di indagini empiriche che
rendono conto, spesso Stato per Stato, delle variegate situazioni del rapporto scuola-religione sotto
l’aspetto storico, giuridico, organizzativo, pedagogico.
Scuola e università in Europa 63
tri fattori congiunturali sempre possibili (alternanza dei governi, ricorrenti riforme
ministeriali del sistema educativo, mobilità e riconfigurazione etnico-culturale della
popolazione scolastica, dibattiti pubblici in materia etico-religiosa, e così via), cir-
costanze tutte che di fatto possono incidere, con effetti ambivalenti, sull’evoluzione
dei principi teorici e dell’assetto pratico degli insegnamenti di religione.
Quanto dire, insomma, che l’Europa dell’istruzione religiosa è tutt’altro che ri-
ducibile ad un unico profilo, ad una definizione concettuale unitaria e onnicompren-
siva, che permetta di parlare indifferentemente della religious education o dei religious
studies inglesi allo stesso modo del Religionsunterricht tedesco, o che legga la singolare
figura dell’enseignement des faits religieux della scuola francese con le stesse categorie
con cui si designa l’insegnamento concordatario della religione inteso all’italiana
o alla spagnola. L’ampiezza semantica dei presupposti (storici, giuridici, teologici,
epistemologici ecc.) che legittimano i curricoli scolastici in materia di religione varia
da una frontiera all’altra e spesso anche all’interno di uno stesso territorio naziona-
le, là dove, per esempio, la politica educativa, anziché sopravvivere arroccata su un
arcaico centralismo statale di stile napoleonico, è gestita in parte e con ragionevole
autonomia dalle diverse comunità linguistiche (come in Belgio), dalle autorità regio-
nali e provinciali (come nei Länder tedeschi, nelle contee inglesi, o nelle autonomías
spagnole), o dai singoli dipartimenti cantonali (come nella Confederazione svizze-
ra). Soprattutto quando si tratta di gestire pubblicamente la diversità religiosa su
un territorio, e di gestirla in tempi di rapidi mutamenti, tanto appare necessario un
quadro legislativo nazionale di sicuro riferimento normativo e di garanzia per tutte
le identità, altrettanto appare utile e funzionale disporre localmente di agili stru-
menti applicativi capaci di adeguarsi pragmaticamente e celermente alle esigenze
specifiche del contesto regionale. Il caso della scuola è sintomatico: là dove parte
del potere decisionale in materia scolastica è delegato dal ministero centrale alle
autorità locali delle contee, dei Länder, dei cantoni, ecc., non solo riesce agevolato
l’iter per introdurre tempestive innovazioni di programmi, reclutare insegnanti, atti-
vare sperimentazioni e verificarne gli esiti, ma il principio di sussidiarietà, applicato
alla gestione dell’istruzione religiosa, può suggerire scelte strategiche discrezionali
immediatamente risolutive, a differenza della pesantezza burocratica dei sistemi cen-
trali come quelli concordatari…
Per evitare allora una lettura frammentaria del «caso per caso», s’impone il con-
sueto ricorso a un’approssimazione tipologica, che possa in qualche modo coagulare
in pochi ideal-tipi le variegate casistiche nazionali. Potremmo chiamare paradigmi
(alla scuola di Thomas Kuhn) i raggruppamenti di diverse figure nazionali o subna-
zionali di insegnamento religioso, individuate per affinità/differenza o per conti-
nuità/frattura di strutture portanti, di presupposti ideologici ed epistemologici, di
profili disciplinari, di approcci metodologici, di criteri di valutazione, e così via. Ne
risultano così, in estrema semplificazione, tre paradigmi contigui (si veda la tabella
a pagina seguente), assimilabili – e nel contempo distinguibili – attraverso una serie
articolata di componenti strutturali.
Prima di passare a delinearne il profilo complessivo, è opportuno ribadire, a
scanso di equivoci, che questi tre paradigmi non vanno intesi come mondi separati,
esclusivi l’un dell’altro: di fatto, coesistono e convivono in contemporanea sullo
scacchiere frastagliato del continente europeo; in parte si sovrappongono e si spal-
Scuola e università in Europa 65
leggiano, se non sul piano delle legittimazioni giuridiche, sul piano dei macropro-
cessi educativi, dei contenuti a volte magmatici dei curricoli, della didattica speri-
mentale degli insegnanti. Ma va pure notato che questi tre paradigmi sono andati
emergendo cronologicamente un dopo l’altro nell’evoluzione socio-religiosa delle
nazioni europee, dei sistemi educativi e dei rispettivi modelli di istruzione religiosa
degli ultimi cinque-sei decenni. La comparsa di un nuovo paradigma non annulla
però il paradigma precedente, semmai lo calamita entro una nuova logica educativa,
lasciandone cadere gli aspetti incompatibili o anacronistici; il paradigma primitivo,
forte del suo collaudo storico, resiste nel suo nocciolo duro ma nel contempo può
anche in parte amalgamarsi tatticamente con alcune delle novità emergenti, le quali
invece diventeranno il punto di gravità dei paradigmi successivi. La tabella sinottica
allegata vuol dare solo una prima idea sommaria sia delle tappe dell’emergere crono-
logico, sia della parziale contemporaneità e coabitazione dei tre paradigmi. In pratica
la transizione da un paradigma all’altro non solo non avviene quasi mai interamente
e simultaneamente all’interno dei singoli paesi e tanto meno nell’insieme del conti-
nente, ma si verificano facili e comprensibili coabitazioni parziali di un paradigma
con gli altri due, al punto che tanti dibattiti e conflitti del recente passato e di oggi
sulla questione della scuola di religione possono essere interpretati proprio come
segnali rivelatori di tali riposizionamenti o transizioni da un modello all’altro.
In prima approssimazione, diciamo che i tre paradigmi corrispondono tenden-
zialmente a una triplice polarizzazione strutturale degli insegnamenti pubblici in
materia di religione:
– anzitutto, una polarizzazione sulla trasmissione del patrimonio dottrinale e
morale di una data confessione cristiana storicamente prevalente in un dato paese;
polarizzazione che si verifica quando e fintantoché una società civile permane cul-
turalmente omogenea con la sua tradizione religiosa; qui autorità civili e religiose
della/delle chiese definiscono, solitamente mediante accordi politico-diplomatici, il
profilo giuridico, pedagogico e amministrativo del corso di religione monoconfes-
sionale e del suo insegnante titolare. È il paradigma 1 (P1), che chiamiamo politico-
concordatario, comprensivo non solo degli insegnamenti a base legale propriamente
concordataria, ma anche dei non pochi insegnamenti a base legale costituzionale,
che abbisognano comunque dell’accordo con le chiese quanto a definizione dei pro-
grammi e preparazione degli insegnanti; senza dimenticare che anche gli insegna-
menti religiosi della complessa rete delle scuole libere o di tendenza (cristiane e non)
rientrano ovviamente nella medesima prospettiva dell’educazione religiosa confes-
sionale, controllata dalle rispettive autorità religiose;
– una polarizzazione, poi, sui requisiti disciplinari di un «formato» propriamen-
te scolastico della cultura religiosa in quanto materia del curricolo (P2), nel senso
che la scuola pubblica – sospinta a perseguire capacità e competenze funzionali a
una società europea che ama autoproclamarsi «società della conoscenza»6 – tende
a fungere sempre più come un selettore epistemologico del sapere religioso, delle sue
Commissione europea, Libro bianco. Insegnare e apprendere verso una società conoscitiva, a cura di E.
6
finalità educative, delle metodologie didattiche; qui l’istruzione religiosa, per poter
armonizzarsi nel curricolo comune delle altre discipline, è spinta a conformarsi più
alle esigenze accademiche delle scienze avalutative della religione che non restare di-
pendente dai vincoli dell’ortodossia imposti dalle scienze teologiche valutative delle
chiese (come nel P1); in altre parole, il sapere religioso, per aver titolo di dignità di-
sciplinare nella sfera pubblica e democratica, non ha bisogno di rinnegare l’identità
epistemologica del modello concordatario, ma la assume entro l’orizzonte del più
vasto fenomeno religioso universale, e in un’ottica di lettura oggettiva e compara-
tiva che, tra l’altro, non può non tornare a vantaggio anche dell’alunno credente
che vive ormai in contesto pluralistico. Tale transizione non avviene senza assodare
alcune previe inevitabili distinzioni concettuali e operative, come quelle tra fede e
religione, tra ruolo pastorale della comunità credente e competenze culturali della
scuola pubblica, tra l’insegnante-testimone incaricato per idoneità dalla sua chiesa
e l’insegnante-professionista assunto per competenza e concorso dalla amministra-
zione scolastica;
– una terza polarizzazione, infine, è quella prodotta dall’acuirsi attuale di una
emergenza educativa inedita nelle società europee diventate «post-cristiane» ma nel
contempo anche multietniche e multireligiose, con l’evidente temuta fragilizzazio-
ne del tessuto sociale sottoposto a rischio di smembramento in forza delle diverse
e talora opposte appartenenze identitarie, qualora queste dovessero svilupparsi in
contesti amorfi, indifferenti o ostili al portato simbolico delle nuove culture: è la
stagione – specie da un ventennio a questa parte – in cui le agenzie educative nazio-
nali (ministeri della Pubblica istruzione) e sovranazionali (organismi del Consiglio
d’Europa) fanno appello allo studio «laico» del fatto religioso non più o non tanto
per garantire la trasmissione di un patrimonio di dottrine etico-religiose (P1) né
solo per assicurare una cultura religiosa omologa alle discipline curricolari e capace
di interloquire alla pari con esse (P2), ma per cooperare a elaborare – nella logica
universale dei diritti umani e mediante una pedagogia dell’intercultura – una tavola
di valori comuni e condivisi in vista di abilitare alla cosiddetta «nuova cittadinanza
europea» (P3), da diverse parti auspicata, ma che è ancora in via di collaudo in molti
ambienti della socializzazione pubblica.
Come già detto, nessuno di questi paradigmi esiste allo stato puro, né in prospet-
tiva diacronica, né in quella sincronica. Se infatti è innegabile una certa successione
cronologica che vede evolvere il carattere confessionale del P1 al transconfessionale
del P2, e da questo al transreligioso del P3, è altrettanto plausibile la permanente at-
tualità di insegnamenti confessionali locali, nonostante si siano imposti nel frattem-
po sullo scenario europeo insegnamenti del secondo e del terzo tipo. Comprensibile
poi che le politiche educative e le riforme non camminino alla stessa velocità nei
vari paesi, caratterizzati come sono, dal basso, da diversi tassi di secolarizzazione e
dall’erosione delle maggioranze religiose da parte di minoranze più o meno aggres-
sive, e dall’alto dal gioco imprevedibile dei rapporti, spesso in fibrillazione, tra poteri
politici, accademici e religiosi. Visti in un’ottica geografica, i tre paradigmi sono
abbastanza facilmente abbinabili a determinate aree culturali-confessionali del con-
tinente, ma si farebbe torto alla realtà di fatto se non si riconoscessero reciproche e
progressive contaminazioni da una frontiera nazionale all’altra, da un’area confessio-
nale all’altra, o anche da un sistema didattico a un altro (per esempio, da un modello
Scuola e università in Europa 67
inglese di interfaith religious education a uno belga o tedesco di etica non confessionale,
o da questi al profilo dell’insegnamento concordatario rinnovato).
Per meglio intravvedere la logica di queste contaminazioni – che oltretutto si
iscrivono anche nel vasto processo di spontanea «europeizzazione» di tutta l’edu-
cazione pubblica, al seguito dell’analogo Bologna Process relativo all’educazione
superiore – converrà dapprima delineare in termini più analitici il profilo di ciascun
paradigma, per procedere poi a qualche riflessione trasversale e comparativa.
In origine fu la religione di Stato. I moderni Stati europei fin dal loro nascere
hanno introdotto e generalizzato la scuola primaria obbligatoria. Una necessità di
prim’ordine per le società di tre-quattro secoli fa, ancora in gran parte analfabete, ma
anche uno strumento potente in mano all’autorità statale per garantirsi l’adesione
e la coesione delle nascenti società civili attorno a un basilare ethos comune. Ecco
perché accanto all’insegnamento della lingua e della storia nazionale, non mancava
nei programmi di scuola l’insegnamento della religione natìa, assunta naturalmente
nella specifica declinazione confessionale del paese (in ossequio al noto principio
cuius regio eius et religio), al punto che quell’insegnamento religioso fungeva spesso an-
che da catechesi pubblica, sostitutiva o almeno integrativa di quella parrocchiale. Ciò
contribuiva a saldare nella stragrande maggioranza degli alunni europei una identità
civile e insieme religiosa. Non che l’«insegnare a credere» fosse di competenza di-
retta della scuola pubblica, ma questa si incaricava almeno di tener unito l’apprendi-
mento dei saperi scolastici con la loro naturale matrice storico-etico-religiosa. Que-
sta saldatura tra sacro e profano si è formalizzata più tardi in molti stati mediante
l’istituto del concordato7. Finché, come si sa, democratizzazione, decolonizzazione,
secolarizzazione, globalizzazione, e da ultimo la dilagante multireligiosità, non han-
no finito per erodere via via gli argini di quella complicità strumentale tra il credere
e il sapere, tra la fede e il sapere della fede. Finché – e siamo all’oggi – l’Europa non
si è scoperta post-cristiana, tacciata di «apostasia» (lo affermano i vescovi europei in
un documento vaticano), diventata quasi immemore della propria singolare genealo-
gia culturale, restìa persino ad ammettere nella sua carta costituzionale la tradizione
ebraico-cristiana nel novero delle sue radici storiche etico-culturali.
Sta di fatto che la maggior parte degli Stati europei è passata attraverso l’espe-
rienza di una «chiesa di Stato» nel periodo dell’assolutismo del Sei-Settecento8. In
epoca più recente e fino ad oggi si distinguono sostanzialmente tre sistemi di rap-
7
Si ricorderà come nel caso italiano, emblematico ma non unico in Europa, «l’insegnamento
della dottrina cristiana secondo la formula ricevuta dalla tradizione cattolica» fosse considerato nien-
temeno che «fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica», definizione sancita dall’art. 36 del
concordato del 1929, e attenuata solo in parte dalla revisione del 1984, che rilegittima lo studio della
religione cattolica, riconoscendo «che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico
del popolo italiano» (art. 9,2 della l. 25 marzo 1985, n. 121). Si veda in proposito il contributo di V.
Pacillo in questo Rapporto.
8
Cfr. S. Ferrari, Religione, nazionalismo, diritti umani e globalizzazione, in «Coscienza e libertà», 35,
46 (2012), pp. 10-20.
68 Flavio Pajer
9
Dall’anno 2000 è sta formalizzata ufficialmente la separazione della chiesa di Svezia dallo Stato;
d’altronde la società svedese, come le contigue, conosce tassi di secolarizzazione tra i più elevati in
Europa (la pratica religiosa domenicale è stimata al 2%; solo il 35% degli adolescenti fa la cresima,
quando nel 1970 erano ancora l’80%…).
10
Paesi occidentali a regime concordatario (con data della prima firma e data della/delle succes-
sive revisioni): Italia (1929, 1984), Austria (1933, 1960, 1976), Germania (1933, e successivi accordi
regionali 1967-1974), Spagna (1953, 1979), Portogallo (1940, 2004), Malta (1989). Paesi baltici: Estonia
(1999), Lettonia (1927, 2000), Lituania (1927, 2000), Polonia (1925, 1993). Paesi danubiani: Unghe-
ria (1990), Slovacchia (2002), Repubblica Ceca (2002), Slovenia (2001). Paesi balcani: Albania (2007),
Bosnia-Erzegovina (2007), Croazia (1998).
11
Cfr. C. Corral Salvador, La garantía de la enseñanza de la religión en los Estados concordatarios de
Europa, in «Estudios Eclesiásticos», 343, 87 (2012), pp. 759-771.
12
Giova ricordare, nel caso dei paesi scandinavi, che il tradizionale statuto di «chiesa di Stato»
riconosciuto alla chiesa luterana evangelica non comporta ipso facto una posizione di privilegio dell’in-
segnamento religioso evangelico. In Danimarca, con la riforma scolastica del 1993, l’insegnamento
religioso (detto «Studi cristiani»), pur partendo dal contesto storico della tradizione cristiana e dai
suoi documenti biblici e post-biblici, si apre alla conoscenza di «altre visioni del mondo e altre scelte
esistenziali» e ha come obiettivo prioritario quello di far «prendere coscienza all’alunno dell’impor-
tanza della dimensione religiosa per l’individuo e per i suoi rapporti con chi ha diversa appartenenza
ideologica religiosa». In Finlandia la legge assicura il diritto al corso di religione cattolica in presenza di
un minimo di tre allievi cattolici della stessa scuola. In Svezia, dal 1969, l’insegnamento confessionale
luterano si è trasformato in corso obbligatorio di «conoscenza del cristianesimo». In Norvegia, dopo
le leggi scolastiche del 1969 e del 1988, l’istruzione religiosa ha smesso il carattere confessionale per
diventare un corso accademico e neutrale di «conoscenza cristiana, delle religioni, dell’etica».
Scuola e università in Europa 69
13
Cfr. U. Hemel, Introduzione alla pedagogia religiosa, Brescia 1990, pp. 82-86; E. Drewermann, C’è
speranza per la fede? Il futuro della religione all’inizio del XXI secolo, Brescia 2002, pp. 258-283; P.-A. Tur-
cotte, Intransigeance ou compromis? Sociologie et histoire du catholicisme actuel, Québec 1994, spec. la parte II,
Intégration culturelle et intégralité doctrinale à l’école publique, pp. 135-152.
70 Flavio Pajer
14
G. Barberini, La libertà di religione nel processo di democratizzazione degli Stati dell’Europa centrale ed
orientale, in S. Ferrari et al. (a cura di), Diritto e religione nell’Europa post-comunista, Bologna 2004, pp.
9-30; F. Pajer, Scuola e istruzione religiosa nei paesi dell’Europa post-comunista, «EuForNews», 2, 1 (2005),
pp. 1-10.
Scuola e università in Europa 71
15
A. Szyjewski, Political Factors in Religious Knowledge Teaching. The Case of Religious Education in
Poland, in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni», 75, 2 (2009), pp. 443-456; R. Globocar (a cura
di), Religious Education in Slovene Schools: Evaluation and Perspectives, Ljubljana 2010, pp. 311-358; D. Barič,
L’insegnante di religione cattolica in un contesto di cambiamenti socio-religiosi. Ricerca empirica sulla formazione degli
IdRC nell’arcidiocesi di Zagabria, tesi di dottorato in Teologia, Roma 2010, pp. 465-470.
16
Per una panoramica informata sul concetto giuridico di «a-teismo», scrive un’attenta analista
del diritto comparato europeo: «Guardando alla lista dei paesi che prevedono una considerazione
esplicita della libertà di non credere, si può notare che molti di essi fanno parte dell’area dei paesi
dell’Est, che ha vissuto l’esperienza del regime comunista, caratterizzato da un favor per l’ateismo
anziché per le religioni. Probabilmente, la presenza di norme a tutela dell’ateismo è, da un lato, un
retaggio del recente passato, dall’altro un segnale della perdurante rilevanza dell’ideologia ateistica in
questi Stati, una rilevanza che emerge anche dai dati sulla composizione socio-religiosa della popola-
zione. In alcuni di questi paesi, infatti, sono molto forti la diffusione dell’ateismo o, più in generale, la
disaffezione rispetto alle chiese tradizionali e l’abbandono della pratica religiosa: di conseguenza, una
considerazione di questo fenomeno anche dal punto di vista giuridico appare del tutto giustificabile»,
S. Coglievina, Il trattamento giuridico dell’ateismo nell’Unione europea, in «Quaderni di diritto e politica
ecclesiastica», 19, 1 (2011), pp. 51-85, qui pp. 64-65.
17
Cfr. F. Kozirev, Orthodoxy and Teaching in the Last Two Centuries. Russian Experience, in «Rivista di
Storia del Cristianesimo», 9, 1 (2012), pp. 25-39; A. Drakouli, L’insegnamento della religione ortodossa nella
72 Flavio Pajer
scuola statale greca, in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni», 75, 2 (2009), pp. 457-468; V. Kozhu-
harov, Relation between Church and State in Establishing Religious Education in Public Schools in Bulgaria and
Russia, Paper for Intereuropean Commission on Church and School Conference in Prague, 30 June
2011, sul sito www.iccsweb.com.
18
Die Deutschen Bishöfe, Die Bildende Kraft des Religionsunterricht. Zur Konfessionalität des katholi-
schen Religionsunterrichts, Bonn 1996.
19
Der Religionsunterricht in der Schule, in L. Bertsch et al. (a cura di), Gemeinsame Synode der Bistümer
und der Bundesrepublik Deutschland, Offizielle Gesamtausgabe, Freiburg-Brisgau 1978, vol. I, pp. 113-152.
20
B. Porzelt, Nuove pubblicazioni e sviluppi nella pedagogia della religione tedesca, in «Itinerarium», 12,
1 (2004), pp. 67-93, qui p. 69.
Scuola e università in Europa 73
(in effetti il 78% di studenti cattolici frequenta il corso di religione nelle scuole
pubbliche e un altro 6% nelle scuole cattoliche), mentre ben altre tredici comunità
religiose regolarmente riconosciute21 si contendono frazioni minori ma crescenti di
popolazione scolastica; in più di un centinaio di scuole è previsto inoltre l’obbligo
di etica non confessionale per gli alunni non iscritti a un corso confessionale. Le
scuole cattoliche non chiudono più le iscrizioni ai non cattolici, ma offrono loro
l’opportunità (peraltro prescrittiva) di frequentare il corso della propria religione.
L’insegnamento della religione cattolica nel sistema pubblico è impostato ovvia-
mente secondo le finalità e i contenuti dottrinali controllati dagli uffici competenti
della gerarchia (non mancano pubblici riconoscimenti a questa disciplina quando
sa anche rivalutare il potenziale cognitivo dello studio del fenomeno religioso), ma
la domanda educativa delle famiglie e in particolare quella degli studenti curvano i
contenuti piuttosto verso tematiche antropologiche e sociali attinenti l’educazio-
ne etico-morale ed «ecologico-spirituale», tendenza, questa, che incoraggia anche
alunni di diversa appartenenza a frequentare il corso cattolico al riparo da pressioni
proselitistiche (almeno da quelle esplicite). Le chiese cristiane hanno in progetto
di fondare insieme un centro superiore di pedagogia religiosa in vista di preparare
docenti ed esperti competenti almeno sulle diverse tradizioni cristiane e sui grandi
monoteismi, mentre sul versante politico è andata disattesa la proposta del «Foro
Liberale» di introdurre lezioni di etica obbligatoria per tutti le classi relegando l’i-
struzione religiosa alla parrocchia.
In Belgio la diversità religiosa – oggi molto avanzata anche per la forte propor-
zione di «liberi pensatori» (tali si dichiarano il 19% degli adulti) – si accompagna,
com’è noto, alla diversità delle tre comunità linguistiche, alla diversità amministrativa
(la scuola è di competenza degli Stati federati), alla singolare consistenza numerica
delle scuole libere sovvenzionate (tra il 60 e il 75%, in maggioranza cattoliche, specie
nel ciclo secondario) rispetto alla minor entità delle scuole statali dette «ufficiali». La
chiesa cattolica ha avvertito fin dagli anni Settanta, nel pieno della stagione di seco-
larizzazione di massa, la necessità di giocare una nuova carta nella scuola: quella di
puntare a «umanizzare» l’alunno in età evolutiva mentre lo si avvia a interrogarsi sul
problema religioso. Significativa una definizione di insegnamento religioso, uscita in
una rivista cattolica del 1977:
Insegnare ai giovani, in modo sistematico e responsabile, in vista della loro umanizzazio-
ne personale, come essi con tutta la loro persona possano confrontarsi con i veri problemi
della vita e la domanda circa il mistero profondo e globale dell’esistenza (problema del senso),
quali vengono posti e risolti nelle religioni (dimensione multireligiosa), e particolarmente nella
religione ebraica e cristiana (dimensione cristiana)22.
21
Anche solo un elenco notarile di queste denominazioni può dare un’immagine meno astratta
del concetto di «diversità religiosa» quando questa si radica in un determinato territorio e in una so-
cietà civile che si dota di strumenti giuridici per garantire parità di diritti ai vari gruppi religiosi: chiesa
cattolica, chiesa evangelica di confessione augustana, chiesa evangelica di confessione elvetica, chiesa
cattolica antica (vetero-cattolici), chiesa greco-orientale, chiesa ortodossa siriana, comunità religiosa
israelitica, chiesa evangelica metodista, chiesa di Gesù Cristo dei santi dell’ultimo giorno, chiesa apo-
stolica armena, chiesa neoapostolica, comunità di fede islamica, comunità religiosa buddhista, chiesa
ortodossa copta.
22
«Tijdschrift voor catechese», 4 (1977), pp. 35-47 (ora estinta). Per una ridefinizione critica e
74 Flavio Pajer
argomentata del ruolo della scuola cattolica belga e in particolare del corso di religione che propone,
si veda il documento della Secrétariat National de l’Enseignement Catholique, Pour penser l’école
catholique au XXIe siècle, a cura di J. De Munck et al., Bruxelles 2012, 28 pp., dove si possono legge-
re affermazioni chiarificatrici come questa (p. 23 del testo online: http://enseignement.catholique.
be/segec/index.php?id=1837): «Le cours de religion ne relève donc pas de la catéchèse, qui vise la
maturation de la foi dans un contexte communautaire ecclésial. Son objectif, dans le contexte scolaire
des études, est d’exposer, de manière aussi fidèle et respectueuse que possible, la foi chrétienne, ses
significations et les démarches qu’elle implique, sans présupposer la foi des élèves, ni la leur imposer.
Ce faisant, bien sûr, il rend la foi accessible à l’intelligence et à la liberté des élèves, mais toujours sous
le mode de la proposition ouverte à la critique et au débat. C’est dire aussi que le cours de religion ne
relève pas d’une approche historique purement externe et objectivante. Une telle approche explicative
constitue, certes, un moment éclairant, pourvu qu’elle débouche sur un travail de réflexion, d’inter-
prétation et de formation des convictions. Quand il arrive au cours de religion de croiser d’autres
confessions, il adopte la même attitude».
23
Federation de l’enseignement catholique, Programme de religion catholique dans l’enseignement
secondaire. Introduction: finalités et référentiel de compétences, Bruxelles 2001.
Scuola e università in Europa 75
alle tradizionali teologie di chiesa, e l’evoluzione dei principi e della pratiche della
pedagogia scolastica. Un terzo fattore non meno rilevante (che qui suppongo noto,
per cui non mi soffermo oltre) è indubbiamente quello relativo alle nuove sensibilità
dei giovani di fronte al «religioso» in contesti sempre più secolarizzati, e di conse-
guenza il diffondersi di inedite modalità della loro socializzazione religiosa e del loro
apprendimento religioso24.
La produzione del sapere religioso, è risaputo, non è più un’esclusiva delle teolo-
gie interne alle tradizioni credenti. In Europa l’esilio della teologia dall’università sta-
tale decretato dalla cultura positivistica di fine Ottocento è compensato ampiamente
dallo sviluppo delle scienze religiose nel Novecento25. Le ricerche storiche, lingui-
stiche, empiriche sul fenomeno religioso si accompagnano ormai da decenni alle
riflessioni filosofiche, antropologiche, ermeneutiche sui grandi testi delle religioni.
La teologia di chiesa si apre alla teologia delle religioni, dialoga con la filosofia, con
le scienze, con i diritti umani26, mentre le scienze religiose interrogano la teologia sul
terreno dei suoi presupposti, delle sue procedure, delle sue ricadute nel sociale e nel
24
Cfr. C. Béraud e J.-P. Willaime (a cura di), Les jeunes, l’école et la religion, Paris 2009; R.J. Cam-
piche (a cura di), Cultures jeunes et religions en Europe, Paris 1997; A. Castegnaro (a cura di), Apprendere
la religione. L’alfabetizzazione religiosa degli studenti che si avvalgono dell’Irc, Bologna 2009; M. Milot, Sociali-
sation religieuse des jeunes, in R. Azria e D. Hervieu-Léger (a cura di), Dictionnaire des faits religieux, Paris
2010, pp. 1168-1173. Segnalo in particolare una corposa tesi di dottorato sostenuta congiuntamente
all’Università di Strasburgo e alla Technische Universität di Berlino, nel 2011, da B. Michon, La culture
religieuse des adolescents en France et en Allemagne. Des connaissances aux défis de l’exculturation, de la popularisation
et de l’altérité, 579 pp., online all’indirizzo scd-theses.u-strasbg.fr/2301/01/MICHON_Bruno_2011.
pdf. La ricerca comparata mette in luce dapprima il tema della «perdita di cultura religiosa» e delle sue
origini confessionali; analizza poi le diverse modalità di costruzione di una «cultura religiosa» in stu-
denti di cinque regioni, in parte francesi in parte tedesche, per concludere con un saggio sui concetti
sociologici di «exculturation» e di «popularisation».
25
Ne sono testimonianza le sistematiche e ponderose pubblicazioni come il Dizionario del sapere
storico-religioso del Novecento, a cura di A. Melloni, 2 voll., Bologna 2010, 1814 pp., il Dictionnaire des
faits religieux, a cura di R. Azria e D. Hervieu-Léger, Paris 2010, 1340 pp., e il brasiliano Compêndio de
Ciência da Religião, a cura di J.D. Passos e F. Usarski, São Paulo 2013, 704 pp. La rivista «Humanitas» ha
dedicato il numero monografico 1 (2011) a cura di G. Casadio e C. Prandi a Le scienze delle religioni nel
mondo, registrando e discutendo situazioni e problemi delle scienze religiose, specialmente della storia
delle religioni, presenti in buona parte dei paesi europei: Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna,
Italia, Lussemburgo, Russia, Spagna, Svizzera. In anni precedenti avevano fornito un analogo servizio
altre due testate scientifiche: «Religione e Società», 15, 2 (2000), con una monografia su L’insegnamento
delle scienze religiose in Europa, a cura di F. Pajer, e «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 9 (2001)
1, su L’insegnamento universitario delle scienze religiose e teologiche. Prospettive italiane ed esperienze straniere, a cura
di A. Zanotti.
26
Un esempio tra altri: un recente manuale tedesco di sistematica teologica in 4 volumi per com-
plessive 2600 pagine (P. Eicher [a cura di], Neues Handbuch Theologischer Grundbegriffe, München 2005;
ed. it. G. Francesconi [a cura di], I concetti fondamentali della Teologia, Brescia 2008), su 140 lemmi circa
un terzo appartengono significativamente al lessico delle scienze umane, ma la stessa trattazione delle
classiche voci bibliche, dogmatiche, liturgiche, etiche interpella sistematicamente il punto di vista delle
scienze sociali, antropologiche, linguistiche.
76 Flavio Pajer
politico. Anche gli atei sanno di religione, spesso più dei credenti. Se è vero, come
ricorda un professionista della storia religiosa27 al seguito del cardinal Newman, che
vi sono tre autorità nella chiesa – la tradizione (nella gerarchia ecclesiastica), la ragio-
ne (nelle università), l’esperienza (nel popolo credente) – sarebbe sempre più plausi-
bile e necessario un coinvolgimento della ricerca e dell’insegnamento superiore nel
campo delle discipline religiose, e ciò per almeno un paio di ragioni evidenti: perché
teologia e scienze religiose costituiscono oggi in Europa un patrimonio culturale e
strategico di assoluto rilievo per scongiurare lo scontro di civiltà, e poi perché gli stu-
di storico-religiosi, esegetici, interreligiosi sono ambiti di ricerca che non interessano
più, se non in quote ormai molto ridotte, la formazione dei futuri funzionari delle
chiese (sacerdoti, pastori, missionari, catechisti, ecc.).
In effetti non si contano le iniziative di varia ispirazione (confessionale, ecu-
menica, interreligiosa, secolare), nate in tutto il continente per promuovere infor-
mazione e consapevolezza critica sul fenomeno religioso. Università statali e libe-
re, centri accademici di ricerca, associazioni professionali di docenti producono
e diffondono attraverso le loro pubblicazioni periodiche28 una gamma svariata e
crescente di inchieste, analisi, interpretazioni teoriche, applicazioni operative, la
cui portata cognitiva non può restare confinata nell’ambito della ricerca e dell’in-
segnamento accademici, ma dovrebbe ricadere a beneficio anche della pedagogia
religiosa dei cicli secondario e primario dell’istruzione pubblica. Operazione che
risulta certamente facilitata in quei paesi dove l’università statale integra nel pro-
prio ordinamento le facoltà confessionali di teologia con i rispettivi istituti di for-
mazione professionale degli insegnanti di religione, com’è il caso della Germania
(con la disciplina specifica della Religionspädagogik) o il caso del Regno Unito (con
gli Higher Education Colleges), o dei paesi scandinavi (dove per insegnare religione
occorre disporre di una laurea statale in due discipline umanistiche con un esame
complementare in «Religione»).
Nella gran maggioranza dei paesi però la formazione accademica dell’insegnan-
te di religione è ancora affidata alle strutture ecclesiastiche (gli istituti superiori di
scienze religiose in area cattolica, analoghe «accademie» pedagogiche in terra prote-
stante, le facoltà teologiche in area ortodossa), che tentano comunque di superare
un certo isolamento culturale e monoconfessionale incrementando l’offerta for-
mativa con materie e docenti di matrice non teologica, e osando qualche percorso
interdisciplinare. Nel caso italiano – ma lo stesso può dirsi di altri paesi a tradizione
cattolica – va aggiunto che una delle gravi assenze dall’università è quella del testo
biblico. La sua assenza impedisce allo studente di cogliere la centralità del «grande
Codice della cultura occidentale» e l’averne confinato l’accesso e lo studio alle sole
università ecclesiastiche «ha prodotto esiti nefasti per la formazione culturale gene-
27
M. Faggioli, La ricerca storico-religiosa in Europa, in «il Mulino», 54, 420 (2005), pp. 758-767, qui
p. 765.
28
Un repertorio, a cura di M.C. Giorda, dei Journals of Religious Studies editi in Europa enumera
ben 41 titoli tra edizioni cartacee ed edizioni online: cfr. il notiziario trimestrale telematico «ERE-
news», 7, 1 (2009), pp. 10-13; un analogo repertorio dei Journals of Religionspädagogik and Religious Edu-
cation raccoglie altri 43 titoli, ibidem, 7, 2 (2009), pp. 7-9 e 3, pp. 11-12.
Scuola e università in Europa 77
rale dello studente italiano»29. L’indagine storica conferma e rincara questo addebito
alla autorità ecclesiastica, invitando tuttavia a distinguere tra ignoranza religiosa in
generale e ignoranza biblica, perché:
prima responsabile di quest’ultima, paradossalmente, è stata proprio l’autorità ecclesiastica
con le sue diffide e interdizioni tridentine verso una più ampia conoscenza del testo biblico
tra i fedeli. Con conseguenze perduranti fino a tempi recentissimi, perché la rimozione sia
del testo integrale della Bibbia che dei suoi adattamenti segnò una profonda frattura nelle
pratiche di lettura e di ascolto dei fedeli, eliminando dal loro orizzonte culturale e religioso
un patrimonio di cui si erano nutriti sin dal tardo medioevo e sostituendolo con una cono-
scenza del catechismo essenzialmente mnemonica30.
Non va sottovalutata poi, nel panorama europeo, la cospicua azione dei centri
superiori di insegnamento e ricerca religiosi (ma spesso con altri curricoli nell’orga-
nico accademico), dette oriented Universities («università di tendenza»): formano una
galassia di oltre 150 atenei, di cui un’ottantina sono cattolici, 43 ortodossi e una
trentina protestanti e anglicani, senza dimenticare la nota Université libre di Bruxel-
les, che si ispira a una filosofia dichiaratamente laica, ma non per questo indifferente
al dibattito teologico. Oltre il 40% di queste università sono sorte dopo il 1965, e il
16% tra le due guerre mondiali31.
In un contesto fortemente secolarizzato come quello europeo, anche la rifles-
sione teologica cerca vie nuove per esprimersi al meglio nella città secolare e tollera
quindi sempre meno certi limiti, posti dall’autorità religiosa o anche civile, alla libertà
di ricerca. Esemplare il franco reclamo di un teologo cattolico:
Quando il freno della libertà di ricerca negli studi teologici è stabilito nelle stesse strut-
ture, come accade per esempio nel caso di accordi e concordati stipulati tra le autorità re-
ligiose e lo stato, la cosa non può essere vista se non come una grave anomalia. Una simile
limitazione della libertà in certe università dell’Occidente depriva gli studenti e il pubblico
dei vantaggi di una facoltà di insegnamento altamente competente e di ottima qualità, e
potrebbe essere espressione di autoritarismo oscurantista, non consono ad una istituzione
accademica che dovrebbe essere guidata da scelte razionali tanto nella sua organizzazione
quanto nella scelta della facoltà di insegnamento. In passato la teologia pretendeva molte
eccezioni, ma nel corso del tempo ha dovuto abbandonarle. Le circostanze esterne e la
forza della necessità hanno portato alla consapevolezza che la teologia può esistere senza
pretendere esenzioni. Un’istanza degna di nota è il caso dell’ermeneutica teologica. È merito
29
Cfr. l’intervento di E. Prinzivalli, in A. Autiero (a cura di), Teologia nella città, Teologia per la città.
La dimensione secolare delle scienze teologiche, Bologna 2005, p. 207. Può supplire al deficit istituzionale
l’azione, talora pionieristica e meritoria, di associazioni culturali come nel caso italiano di «Biblia, asso-
ciazione laica di cultura biblica», che opera in particolare per la formazione degli insegnanti di scuola
(non solo di religione) mediante apprezzate iniziative di mediazione della ricerca biblica alta in favore
dell’utenza scolastica. Cfr. G.G. Vertova (a cura di), Bibbia, cultura, scuola. Alla scoperta di percorsi didattici
interdisciplinari, Roma 2011. Si veda il contributo di P. Stefani in questo Rapporto.
30
G. Fragnito, La Bibbia tra diffusione e interdizione, in A. Autiero e M. Perroni (a cura di), La
Bibbia nella storia d’Europa, Bologna 2012, pp. 141-154, qui p. 152.
31
Un’ampia riflessione critica e interdisciplinare su questi dati è stata offerta dal convegno inter-
nazionale dell’Università Cattolica di Milano (3-5 settembre 2004), i cui atti sono pubblicati nel volu-
me di A.G. Chizzoniti (a cura di), Organizzazioni di tendenza e formazione universitaria. Esperienze europee e
mediterranee a confronto, Bologna 2006. Sul Processo di Bologna e le sue ricadute sugli studi religiosi, cfr.
A.V. Zani, Le università e lo spazio comune europeo, in «Seminarium», 45, 4 (2005), pp. 997-1032.
78 Flavio Pajer
di Friedrich Schleiermacher averci resi consapevoli che la teologia non perde assolutamente
niente se sottopone se stessa, la Bibbia e la fede alle leggi generali dell’ermeneutica senza
cercare una collocazione privilegiata. A lungo andare, questo approccio aiuta la teologia più
di quanto ci si potrebbe aspettare32.
Moniti come questo non sono certo estranei alla logica conoscitiva e pedagogi-
ca di tante legislazioni scolastiche attuali quando entrano nel campo dell’istruzione
etico-religiosa: il rifiuto dell’indottrinamento ideologico, del plagio delle coscienze
minorenni, dell’inculcazione moralistica è un punto di non ritorno della pedagogia
scolastica (almeno di quella fissata nella normativa giuridica).
Come si è accennato, l’istruzione religiosa era entrata nella scuola e vi era rimasta
a lungo, come lezione di catechismo. La scuola del passato – scuola del consenso,
della trasmissione, della conferma di una identità culturale predefinita – trovava
compatibile, anzi utile e indispensabile, tale profilo di insegnamento. Quella svi-
luppatasi negli ultimi decenni – a partire dai noti Rapporti Faure (1972) e Delors
(1996) fino alle direttive di politica educativa provenienti dal Consiglio d’Europa,
e al seguito di decisive riforme scolastiche nazionali – è piuttosto una scuola della
trasformazione, della costruzione, dell’elaborazione della cultura, delle competenze.
L’identità culturale e religiosa della persona va costruita e abilitata a interagire in un
contesto di pluralismo delle visioni religiose e non religiose. Le stesse revisioni dei
concordati, lo si è già visto, hanno recepito l’avvento dei nuovi indirizzi pedagogici,
e, pur di conservare alla religione il diritto di rimanere dignitosamente nella scuola,
hanno accettato uno statuto facoltativo o opzionale, e curvato il profilo dell’istru-
zione religiosa verso un formato di vera disciplina scolastica.
Dopo un collaudo durato anni, si può affermare, con buona approssimazione,
che una cospicua parte degli insegnamenti di religione praticati in Europa al seguito
delle riforme scolastiche attivate nei vari paesi, prendono le distanze dal formato
catechistico-pastorale (ancora presente, in certi casi, nel P1) per presentare i caratteri
di una specifica disciplina curricolare. Infatti:
– dispongono generalmente delle condizioni di fattibilità comuni ad ogni discipli-
na scolastica: si tratta di insegnamenti che si svolgono all’interno delle strutture e delle
finalità della scuola; sono insegnamenti che vogliono collocarsi in continuità e com-
plementarità con il quadro delle discipline contigue, specialmente con quelle dell’area
32
F. Wilfred, La teologia nell’università moderna, in «Concilium», 42, 2 (2006), pp. 31-42, qui p.
35. Notevole in questo dibattito il documento che il Consiglio per le scienze (Wissenschaftsrat) della
Repubblica federale tedesca ha presentato in materia di politiche della religione, dal titolo Suggerimenti
per lo sviluppo delle teologie e delle discipline riferite alla religione nelle università tedesche, 1° febbraio 2010 (www.
wissensschaftsrat.de), teso a tener conto della «società pluralizzata» e delle nuove forme del «religioso
non denominazionale», a salvaguardare i diritti di libertà di religione delle nuove comunità, a costruire
nuovi criteri per ripensare le classiche discipline teologiche di chiesa. Parte del documento è pubblica-
ta, in traduzione italiana: Teologie e religioni nelle università tedesche, in «Il Regno-documenti», 55, 7 (2010),
pp. 235-256.
Scuola e università in Europa 79
33
Una selezione minima di riferimento sul processo di «scolarizzazione» dell’istruzione religio-
sa: R. Artacho López, La enseñanza escolar de la religión, Madrid 1989; G. Stachel, Metodi e proposte per
l’insegnamento della religione, Leumann 1992 (ed. orig. Methodenanalyse, Mainz 1988); B. Jendorff, Religion-
sunterrichten - aber wie?, München 1992; B. Watson, The Effective Teaching of Religious Education, Harlow
80 Flavio Pajer
1993; E. Damiano e P. Todeschini (a cura di), Progettare la religione secondo la didattica per concetti, Bologna
1994; T. García Regidor, La educación religiosa en la escuela, Madrid s.d.; B. Wiame, Pour une inculturation
de l’enseignement religieux en Belgique, Bruxelles 1997; El área de Religión en la LOGSE - Claves curriculares
de la reforma - Claves teológicas de la ERE, Madrid 1998; H. Lombaerts, A Hermeneutical-Communicative
Concept of Teaching Religion, in «Journal of Religious Education», 48, 4 (2000), pp. 18-24; C. Estéban
Garcés, Enseñanza de la religión y Ley de calidad, Madrid 2003; A. Join-Lambert (a cura di), Enseignement
de la religion et expérience spirituelle, Bruxelles 2007; P. Decormeille, I. Saint-Martin e C. Béraud (a cura
di), Comprendre les faits religieux. Approches historiques et perspectives contemporaines, Dijon 2009; R. Artacho
López, Enseñar competencias sobre la religión. Hacia un currículo de Religión por competencias, Henao 2009; H.
Lombaerts e D. Pollefeyt, Pensées neuves sur le cours de religion, Bruxelles 2009; Z. Trenti e C. Pastore
(a cura di), Insegnamento della religione: competenza e professionalità, Leumann 2013.
34
Si fa riferimento ad alcuni scritti di questi autori della post-secolarizzazione: D. Hervieu-
Léger, Sécularisation, in Dictionnaire des faits religieux, cit., pp. 1151-1158; O. Roy, La sainte ignorance.
Scuola e università in Europa 81
Nel paradigma 1, a far da protagonista è il gioco dei poteri tra una chiesa mag-
gioritaria garante di una verità, e uno Stato interessato a permetterne l’insegnamento
nelle proprie scuole, non senza ricadute vantaggiose per la formazione di un comu-
ne ethos civile; nel paradigma 2, protagonista è invece la scuola, che organizzando
i saperi in forma disciplinare, tende a elaborare cultura religiosa ed etica in linea con
il principio di intelligibilità delle scienze religiose in dialogo con le scienze teologi-
Le temps de la religion sans culture, Paris 2008; L. Ferry e M. Gauchet, Le Religieux après la religion, Paris
2004.
35
Cfr. H.-G. Ziebertz, Pluralismo religioso e processi di apprendimento interreligioso. Considerazioni sul-
la ricerca dell’identità religiosa nella società (post-)moderna, in «Orientamenti Pedagogici», 43, 4 (1996), pp.
731-752; F. Pajer, Scuola e religioni tra identità e alterità, in «Pedagogia e vita», 69, 1 (2011), pp. 125-146;
G. Meyer, L’apprentissage de l’interreligieux dans le contexte de post-sécularisation des sociétés européennes, in L.
Collès e R. Nouailhat (a cura di), Croire, savoir: quelles pédagogies européennes?, Bruxelles 2013, pp. 135-
148; A. Fossion, Éduquer au dialogue interconvictionnel, ibidem, pp. 207-222.
36
Intersectoral Platform for a Culture of Peace and Non-violence, Bureau for Stra-
tegic Planning, Intercultural Competences. Conceptual and Operational Framework, Paris 2013, 28 pp., online
all’indirizzo www.unesco.org/new/en/bureau-of-strategic-planning/themes/culture-of-peace-and-non-vi
olence/.
82 Flavio Pajer
che; nel terzo paradigma, infine, al centro dell’attenzione pedagogica non stanno
più tanto le verità, né solo i saperi, ma piuttosto i valori. Cambiano i contesti sociali
e le aspettative dell’opinione pubblica, cambia il volto della scuola con la scala del-
le sue priorità educative, ma l’istruzione religiosa vi resta comunque «impigliata»:
naturalmente con profili, funzioni e strumenti culturali in una continua dinamica
di «accomodamenti ragionevoli», per dirla con Charles Taylor, teorico della «laicità
aperta» canadese.
Concorrono alla genesi di questo terzo paradigma il regime di accentuata diver-
sità religiosa in cui si trovano e si troveranno a vivere le società europee, l’urgen-
za di una educazione alla cittadinanza democratica in contesti civili spesso minati
dall’intolleranza o dal conflitto, il bisogno di ritrovare criteri condivisi per ricostruire
un’etica pubblica in un tempo di ipertrofia del privato, la diffusa rivendicazione del
primato dei diritti fondamentali della persona e la lotta contro ogni discriminazione
(etnica, sessuale, religiosa, ecc.), il conseguente coinvolgimento della scuola come
primo laboratorio di educazione alla comprensione e alla convivenza responsabile e
pacifica nella pari dignità tra diversi.
Sono tematiche che rientrano ovviamente in pieno nelle competenze del dirit-
to, della politica, della pedagogia sociale, ma la religione non può chiamarsi fuori,
quando questa è invitata nel dibattito democratico e in istituzioni pubbliche come
la scuola e l’università, a confrontarsi con le diverse visioni della persona, del sen-
so del vivere, del perché e del come vivere da cittadini solidali in una comunità
civile, ecc.
Resta pacifico che le chiese cristiane, come anche altre religioni, e non solo in
Europa, possono offrire e di fatto offrono esperienze, dottrine (vedi il magistero
sociale delle varie confessioni), strutture operative in ordine all’educazione ai valori
personali e sociali nella scuola pubblica. Ma ora un altro «magistero» – laico, ma non
per questo anti-religioso, come poteva avvenire spesso nel passato – viene a inserirsi
in questo progetto37. Infatti ciò che, in questo campo dell’educazione pubblica, si
è verificato in questi ultimi decenni in Europa ha i tratti di una congiuntura storica
inedita. Eccone i tratti: le società europee, quale prima quale dopo, si secolarizzano
incrinando la forza di quel tradizionale collante sociale costituto da un cristianesimo
ridotto a religione civile; nello stesso tempo gli afflussi migratori immettono culture
e credi religiosi diversi, talvolta aggressivi, in questo tessuto sociale già fragilizzato38;
gli Stati nazionali, a cominciare da quelli maggiormente compromessi con la storia
coloniale, faticano a collaudare un modello di integrazione per i nuovi arrivati, men-
tre nel contempo entra in crisi anche nel cittadino comune quel senso dello Stato,
che in epoca moderna aveva fatto la forza e l’orgoglio delle culture nazionali, e che
ora l’incerta, burocratica e mercantilista Unione europea non riesce certo a rimpiaz-
37
Cfr. F. Pajer, Il «magistero etico» dell’Europa nella sfera pubblica delle politiche educative, in S. Scotti e
M. Zárate Vidal (a cura di), Etica pubblica e Religioni, Firenze 2011, pp. 73-82.
38
Uno degli attuali paradossi della società europea è che là dove ieri le religioni trovavano una
«formattazione» nel bagno culturale di un territorio nazionale, oggi il «religioso» viene sì preso in con-
siderazione dalle istituzioni pubbliche degli Stati, ma in una prospettiva deterritorializzata di «diritti
dell’uomo», di libertà religiosa, di multiculturalismo, di educazione alla cittadinanza, come ricorda
Roy, La sainte ignorance, cit., pp. 23-25.
Scuola e università in Europa 83
zare; la stessa voce delle chiese, già flebile dentro le rispettive comunità cristiane,
arriva disattesa alle istituzioni civili e al mondo della cultura secolare. È in questo
frangente storico che si fa sentire la voce dell’Europa, non tanto quella dell’Unione
(statutariamente incompetente, tra l’altro, a intervenire in materia di educazione,
di cultura, di diritti umani)39, ma quella del Consiglio d’Europa e di altri organismi
connessi.
Il Consiglio d’Europa fin dalle sue origini (1949) aveva mantenuto un atteggia-
mento strettamente riservato di fronte alle questioni religiose, sia perché i suoi mem-
bri avevano indubbiamente memoria delle guerre di religione che avevano devastato
la storia europea del Cinque-Seicento, sia perché, all’indomani della seconda guerra
mondiale, era ancora dominante la visione di un’Europa divisa e ingessata nei due
blocchi40. Ma con la caduta del Muro di Berlino (1989), la dissoluzione dell’impero
sovietico, il crollo dell’ideologia comunista, la lenta restaurazione dello stato di diritto
nell’Europa centro-orientale, in concomitanza con il pullulare in Occidente di nuovi
movimenti religiosi e di spiritualità e l’espandersi di nuove comunità (islamiche e non
solo) nel tessuto sociale del continente, si è imposta la necessità «politica» di verifi-
care il ruolo dell’educazione pubblica quale luogo principe per promuovere, sotto
nuova luce, i valori basilari della coesione sociale minacciata da un’inedita insorgenza
del fattore religioso. Fu così che il Consiglio d’Europa, dopo una serie di seminari
di studio organizzati durante gli anni Ottanta con esperti intergovernativi in tema
di promozione dell’educazione ai diritti umani, emanava nel biennio 1992-1993 due
raccomandazioni – Sette e nuovi movimenti religiosi e Tolleranza religiosa nella società democra-
tica – con un’attenzione non marginale ai nuovi doveri della scuola. Si raccomanda, tra
l’altro, ai ministri dell’Istruzione degli Stati membri di operare affinché
il programma del sistema generale d’istruzione comprenda obbligatoriamente un’informazio-
ne concreta e obbiettiva sulle religioni maggiori e le loro principali varianti, sui principi dello
studio comparativo delle religioni, e sull’etica e i diritti personali e sociali [racc. 1178, 7,1].
Si osserva che
la questione della tolleranza religiosa deve dare spazio alla più ampia riflessione. E che con-
verrebbe spingere le tre religioni monoteistiche a mettere maggiormente l’accento sui quei
valori morali fondamentali di tolleranza, che sono assai simili tra loro nelle questioni di
principio [racc. 1202, 12].
Si raccomanda di
vegliare affinché si inseriscano nei programmi scolastici dei corsi sulle religioni e la morale,
e sforzarsi di ottenere nei manuali (compresi i libri di storia) e nell’insegnamento una pre-
sentazione differenziata ed accurata delle religioni allo scopo di migliorare e di approfondire
conoscenza delle diverse religioni [racc. 1202, 16, 3],
39
Si veda comunque il cospicuo elenco di progetti, alcuni portati a termine e altri in corso, che
la Commissione europea ha curato con il dossier informativo Pluralism and Religious Diversity, Social
Cohesion and Integration in Europe. Insights from European Research, Luxembourg 2011.
40
Cfr. A. Amatucci, A. Augenti e F. Matarazzo, Lo spazio europeo dell’educazione. Scuola, Università,
Costituzione per l’Europa, Roma 2005.
84 Flavio Pajer
senza dimenticare
che la conoscenza della propria religione o dei propri principi etici è una condizioni prelimi-
nare ad ogni vera tolleranza e che può ugualmente servire da difesa contro l’indifferenza e i
pregiudizi [racc. 1202, 16, 4].
Il gruppo pubblicava nel 2004 i risultati della comune riflessione, tra i quali al-
Scuola e università in Europa 85
Senza dimenticare tuttavia alcuni limiti della educazione religiosa scolastica: pri-
mo, «se la scuola ha il dovere di far conoscere criticamente il fatto religioso, non
per questo essa detiene il monopolio della ricerca di senso»; secondo, «se va attivata
o mantenuta una disciplina specifica di cultura religiosa, ciò non esonera le altre
discipline del curricolo dal riconoscere la dimensione religiosa insita nei vari saperi
scolatici»; terzo, «se le autorità statali si incaricano di istruzione religiosa, ciò non
significa espropriazione dei compiti propriamente pastorali delle chiese e delle altre
organizzazioni religiose, che continuano ad esercitarli liberamente sia nella scuola
(confessionale) sia fuori della scuola».
Sulla scia di questi seminari europei, una Giornata di studio tra esperti (indet-
ta dal Consiglio d’Europa a Strasburgo, il 28 aprile 2005) sulla Sensibilizzazione non
confessionale al fatto religioso: quale contributo alla cittadinanza democratica? è approdata a
coagulare alcune ragioni plausibili per fare della cultura religiosa un approccio acon-
fessionale e curricolare nella scuola di tutti. In sintesi41:
1) un insegnamento sulle religioni offre delle chiavi di intelligibilità che contribu-
41
Cfr. J. Barnett (a cura di), Education that Takes Sccount of Religion: How Can This Contribute to
Democratic Citizenship?, Report on an INGO Study Day in the Council of Europe, pro manuscripto, Stras-
bourg 2005, 82 pp.
86 Flavio Pajer
3) tale studio dovrebbe avere un profilo organizzativo così caratterizzato: met-
tere a programma – su iniziativa delle autorità pubbliche (art. 14,6) – l’origine e
la storia delle principali religioni (art. 14,2), anche nei paesi che hanno una sola
tradizione predominante (art. 8), privilegiando però i tre monoteismi abramitici i
cui valori sono alla radice dell’ethos europeo (art. 12) e acquisendo per questo la
consulenza dei rappresentanti delle confessioni religiose interessate (art. 14,6). Di-
datticamente, la preferenza va al metodo di lettura comparativo (art. 10), applicabile
in moduli progressivi per livelli di scuola (art. 13,1). L’insegnante deve disporre di
una formazione specifica, con ulteriori competenze disciplinari preferibilmente di
tipo umanistico (art. 14,5), deve essere capace di rispettare l’identità confessionale
dei suoi alunni (art. 14,1), di rispettare il confine tra il culturale e il cultuale (art. 14,4).
A tale scopo è prevista anche la creazione di un «istituto europeo di formazione di
insegnanti per lo studio comparato delle religioni» (art. 13,3).
Esce poi nel 2007, sotto l’autorità dell’OSCE (Organizzazione per la sicurezza
e la cooperazione europea), un corposo e assai rilevante documento dal titolo Toledo
Guiding Principles on Teaching about Religions and Beliefs in public schools42, preparato da un
gruppo di giuristi esperti in diritti umani e in particolare nell’area della libertà religio-
sa. In materia educativa, definisce l’orizzonte di criteri e procedure per garantire li-
bertà di scelta per le famiglie, correttezza professionale per gli insegnanti, non discri-
minazione per le minoranze religiose, rispetto per le convinzioni di tutti. Una specie
di autorevole know-how destinato alle autorità pubbliche e religiose, ai funzionari dei
ministeri dell’educazione, ai formatori degli insegnanti, ai redattori di programmi e
libri di testo di cultura religiosa. Una specie di «digesto» che dovrà orientare le poli-
tiche educative dell’intero continente, se le competenti autorità nazionali avranno la
coerenza e la lungimiranza di applicarlo nelle scuole del proprio paese.
Nel maggio 2008 i ministri degli Affari esteri del Consiglio d’Europa lanciano il
Libro Bianco sul dialogo interculturale, Vivere insieme in una uguale dignità43, che rap-
presenta oggi il condensato più maturo delle direttive pedagogiche istituzionali in
tema di dialogo interculturale. La religione è considerata dimensione integrante delle
culture; la diversità religiosa – in concreto, il cristianesimo, l’ebraismo e l’islam – è
valorizzata non solo perché ha fondato e arricchito larga parte della cultura europea,
ma perché è capace di offrire ancora oggi risposte sensate alla universale ricerca
di senso e di valori. Si riconosce che «la pratica religiosa è una componente della
vita e non può essere esclusa dalla sfera d’interesse delle autorità pubbliche, anche
se lo Stato deve conservare il suo ruolo di garante neutro e imparziale di fronte a
fedi e convinzioni non religiose» [par. 3,5]. Al fine di applicare questi principi nella
didattica scolastica, i ministri dell’educazione degli Stati membri hanno approvato
nel dicembre 2008 una raccomandazione (racc. c.m. 12) su Dimensione delle religioni e
delle convinzioni non religiose nell’educazione interculturale44. Vi si definisce la prospettiva
in cui la religione e le convinzioni filosofiche devono essere assunte nel contesto
42
Warsaw 2007, 130 pp. Per una più dettagliata presentazione del significato e dei contenuti di
questi principi-guida, mi permetto rinviare al mio articolo Da Toledo a Roma via Strasburgo: per una cultura
religiosa pubblica secondo Costituzione, in «Protestantesimo», 66, 3 (2011), pp. 235-259.
43
Strasburgo 2008, 72 pp. (nelle versioni inglese e francese).
44
Strasburgo 2008, 32 pp. (nelle versioni inglese e francese).
88 Flavio Pajer
45
Strasburgo 2008, 42 pp. (nelle versioni inglese e francese).
46
REDCo (acronimo di: La Religion dans l’Education: Contribution au Dialogue ou facteur de Conflit dans
l’évolution des pays européens?) è un progetto europeo di ricerca sull’atteggiamento dei giovani studenti di
fronte all’insegnamento religioso ricevuto a scuola, e di fronte alla diversità religiosa percepita attorno
a loro; ricerca che si estende anche ai metodi preferiti dagli insegnanti di religione e alle loro strategie
didattiche. Coordinata dal prof. Wolfram Weisse dell’Università di Hamburg, e condotta nell’arco del
triennio 2006 al 2009 mediante inchieste qualitative e quantitative, la ricerca ha riguardato parecchie
migliaia di studenti adolescenti (tra i 14 e i 16 anni circa) di otto paesi: Estonia, Francia, Germania,
Inghilterra, Norvegia, Olanda, Russia, Spagna. I risultati sono stati messi a disposizione dei ministeri
nazionali dell’istruzione e degli esperti incaricati di redigere programmi di religione (confessionali e
non) e relativi libri di testo. Cfr. C. Béraud e J.-P. Willaime (a cura di), Les jeunes, l’école et la religion, Paris
2009. Le raccomandazioni qui sintetizzate sono alle pp. 269-275.
Scuola e università in Europa 89
mi selettivi che sono in Europa i diversi sistemi educativi nazionali; questi, come ab-
biamo ripetuto in precedenza, restano più vincolati alla storia religiosa del paese e ai
modelli locali di rapporto Stato-chiesa che non interessati a omologarsi agli indirizzi
educativi sovranazionali di un’Europa ancora in costruzione.
In conclusione su questo profilo del paradigma 347, richiamiamo la sua ragion
d’essere: convivere in una società pluralista presuppone – oltre alla coscienza della
relatività della propria cultura, o superamento dell’etnocentrismo – una conoscenza
non ingenua ma scientificamente fondata dell’«altro», come occorre anche basarsi
sulla condivisione di una tavola di valori universali irrinunciabili. Tali valori, iscritti
nelle costituzioni delle società occidentali, includono la dignità della persona, la sa-
cralità della vita, l’uguaglianza tra tutti gli esseri umani (a prescindere dall’età, dall’et-
nia, dalla salute fisica e mentale, dalla religione), la libertà religiosa (che include il
diritto di cambiare fede o di non averne nessuna), la pari dignità tra uomo e donna,
tra credenti e non credenti. Non senza riconoscere però la diversa fonte di legitti-
mazione dei valori: mentre, per esempio, in Occidente la legge civile è dirimente
rispetto a quella religiosa, nelle società musulmane accade il contrario… Ma anche
all’interno di un quadro di principi etici collaudati e sanciti dalla legge, il compito
della scuola pubblica non può ridursi a trasmettere un patrimonio solidificato di
sole regole per una buona convivenza, perché queste regole camminano con la vita
stessa. Conoscere le regole va di pari passo con il saper reinventare le regole del
vivere insieme in contesti nuovi. Torna l’esigenza di coniugare informazione su la
cittadinanza e formazione per vivere la cittadinanza48. Per redimere la scuola dalla
sua deriva burocratica, va riscoperta la sua funzione etico-civile come generatrice
di valori in contesto laico (ma non per questo a-religioso o anti-religioso) e plura-
lista. La riflessione etica contemporanea non consente più di proporre una morale
«assoluta», ma spinge a rinegoziare principi etici e percorsi pedagogici entro i limiti
problematici ma realistici della relatività della morale e del diritto.
Educazione alla cittadinanza e istruzione religiosa sono chiamate a valicare il loro
tradizionale orizzonte nazionale per guardare più decisamente all’orizzonte europeo, e
oltre: l’una, perché dal Trattato di Maastricht, non esiste più legalmente una cittadinan-
za nazionale avulsa da quella comunitaria, l’altra perché sarebbe insufficiente acquisire
l’identità relativa alla sola tradizione confessionale nazionale ignorando il quadro delle
47
Il modello trova applicazioni concrete nei numerosi insegnamenti di Etica non confessionale
in almeno una decina di paesi, sia come corso autonomo sia in funzione alternativa a un corso di istru-
zione religiosa. Ma emblematici sono altri tre casi nazionali: quello del Québec con il corso curricolare
Éthique et culture religieuse, attivato dal 2008 in sostituzione dei precedenti corsi confessionali cattolico
e protestante; quello della Turchia, Cultura religiosa e conoscenza dell’Etica, in vigore fin dal 1982 nella
scuola secondaria; e quello della Francia che sta predisponendo l’accensione di un Enseignement laïque
de la morale per il 2015 (il cui testo-base, 66 pp., pubblicato il 22 aprile 2013, è disponibile su: www.
education.gouv.fr/cid71583/morale-laique-pour-un-enseignement-laique-de-la-morale.html).
48
Cfr. J. Bindé (a cura di), Où vont les valeurs? Entretiens du XXI siècle, Paris 2004; Fondazione
Lanza, Per una rinnovata etica civile, documento del Secondo Forum nazionale di Etica applicata, Padova
2013, 8 pp. (stampato in proprio); F. Audigier, L’éducation à la citoyenneté dans ses contradictions, in «Revue
internationale d’éducation de Sèvres», 44 (2007), pp. 25-34. Sul caso dei recenti conflitti spagnoli tra
gerarchia cattolica e ministero dell’istruzione in merito alla Educación para la ciudadanía, cfr. L. Cap-
puccio e D. Gamper, L’educazione alla cittadinanza nell’esperienza spagnola: insegnamento della Costituzione o
ateismo di Stato?, in «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 19, 1 (2011), pp. 147-158.
Scuola e università in Europa 91
altre tradizioni nazionali del continente e ora anche delle altre consistenti presenze reli-
giose e filosofiche. Cura della cittadinanza europea e avviamento al dialogo ecumenico
si richiamano e si includono reciprocamente, se si vogliono fugare dall’orizzonte gli
antichi spettri delle guerre di religione e allontanare anche quei rigurgiti di oltranzismo
identitario etnico-religioso che appena pochi anni fa hanno sconvolto regioni europee
come quelle della ex Jugoslavia, dell’Irlanda del Nord, di Cipro, ecc.
Una lettura trasversale e comparativa dei tre profili invita a rilevare elementi di
continuità e di rottura, punti di forza ed elementi di criticità in ciascuno dei modelli,
e in particolare invita a individuare quando e sotto che aspetti un’alfabetizzazione
religiosa si ritiene riuscita, e quando invece può sfociare nell’incultura.
Già si è ricordato come i tre paradigmi siano contestuali sia alla velocità e ai
livelli di secolarizzazione di una società, sia ai vincoli storici contratti dallo Stato
con le chiese, sia alla tipologia dei sistemi educativi e dell’eventuale presenza delle
scienze teologiche e religiose nel sistema accademico nazionale. Il che dissuade
subito dalla tentazione di voler emettere giudizi di valore, enfatizzando un modello
e squalificandone un altro. Se una valutazione è permessa, questa va ovviamente
formulata sulla base degli esiti educativi e cognitivi prodotti in contesto. Esiti che,
a loro volta, andrebbero misurati non solo nei tempi brevi dell’anno o del ciclo
scolastico (verifica fattibile e sempre auspicabile)49, ma sulla «tenuta» a medio e
lungo termine dell’insegnamento e della formazione ricevuti, quindi ben oltre i
tempi della scuola.
49
Solo un cenno marginale a questo aspetto tecnico, ma non minore, della didattica religio-
sa. Man mano che gli insegnamenti in materia di religione abbandonano il tradizionale approccio
confessionale per entrare nella logica secolare dell’apprendimento di competenze disciplinari e di
comportamenti sociali, le une e gli altri possono e devono diventare normali oggetti della comune
verifica scolastica. Il «voto» in religione è prassi normale nel P2 e P3, era e resta problematico nel
P1. In non pochi casi la religione rientra oggi tra le possibili materie dell’esame finale della seconda-
ria. Significativo il caso dell’Austria: il ministero dell’Istruzione ha chiesto ai responsabili delle varie
religioni presenti nel paese di formulare un breve syllabus di conoscenze relative alla rispettiva reli-
gione, e ora l’insieme di quei syllabi è proposto allo studio e all’esame dei maturandi di tutte le scuole
pubbliche (Bundesministerium für Unterricht, Die kompetenzorientierte Reifeprüfung aus Religion, Wien
2012, p. 157). In Belgio, la Federazione delle scuole secondarie cattoliche ha pubblicato fin dal 2004
uno strumento per la verifica pubblica e periodica delle conoscenze/abilità/ competenze acquisite in
«religione» dagli alunni nel percorso della loro scolarità (cfr. Fédération de l’Enseignement Secon-
daire Catholique, L’évaluation au cours de religion. Outil pédagogique évolutif d’accompagnement du Programme
de religion, 2004, 52 pp., online all’indirizzo www.segec.be/documents/fesec/secteurs/religion/evalua-
tion_religion.pdf). Per una riflessione critica sull’esperienza tedesca, cfr. A. Reese-Schnitker, Leistung
im Religionunterricht. Chancen und Gefahren für eine Evaluation, in «Orientamenti Pedagogici», 57, 2 (2010),
pp. 295-321. Sull’esperienza turca (insegnamento dell’Etica): http://jcs.oxfordjournals.org/content/
early/2012/10/03/jcs.css082.full.
92 Flavio Pajer
revisioni dei concordati, che profilano uno statuto «culturale» del corso di religione,
aprendo così le classi anche ad alunni di altra o di nessuna fede, l’insegnante conser-
va ancora la posizione into faith, ma il suo approccio didattico sarà solo into religion,
per avvicinarsi tendenzialmente all’about religion nella misura in cui il corso non deve
più avere i caratteri della catechesi. Invece l’insegnamento curricolare sulle religioni
si caratterizza chiaramente per un approccio oggettivo, imparziale, about religion, che
può combinarsi efficacemente con il from religion nel caso di una didattica che non si
limiti all’arida conoscenza dei dati ma arrivi a sfruttarne l’immancabile insegnamen-
to etico, spirituale, estetico ecc. Valgono i saperi sulle religioni, ma non meno quelli
che provengono dalle religioni. Più decisamente spostato su un approccio del tutto
secolare il terzo paradigma che può diventare, al limite, sinonimo di educazione
civica. Qui il fatto religioso, da cui insegnante e allievi possono anche sentirsi per-
sonalmente alieni (in una postura di out of religion, appunto), serve da «pretesto», da
utile materiale di passaggio (trough religion), per coltivare convinzioni, virtù civiche,
comportamenti sociali consoni alla dignità della persona e ai suoi diritti.
apparire un’uscita dal sistema, un abbandono dei grandi territori cristiani della cul-
tura, della teologia, della mistica, della spiritualità, delle ecclesiologie, dello stesso
ecumenismo; una strumentalizzazione del patrimonio religioso a fini filantropici.
C’è da tener conto anche di possibili esiti incresciosi, come ci insegnano gli analisti
della secolarizzazione avanzata dell’Europa «post-cristiana». Ma in realtà è questio-
ne, ancora una volta, di saper distinguere e poi riconciliare i diversi regimi di verità
religiosa generati dalla ragione simbolica o dalla ragione strumentale.
L’idea di una verità in sé, da imparare come cognizione, cede il posto al con-
cetto di verità da costruire insieme e per il bene comune. Nel campo educativo la
comprensione cognitiva ha sempre bisogno di una convalida affettiva e questa di un
riconoscimento comunitario, sociale.
Infatti i diversi sistemi di discorso religioso che abbiamo rilevato attraverso la
griglia dei tre paradigmi ci confermano nella convinzione che non si tratta di visioni
esclusive, tanto meno schizofreniche, ma sempre complementari se comprese nella
loro contestualità storica e geografica, e sostanzialmente «complici» e solidali nel
compito di educare le giovani generazioni a capire le proprie radici e a immaginare
una città terrena più vivibile. Compito arduo se si pensa che già le generazioni adulte
di oggi, più che colpevoli di ignoranza religiosa, sembrano colpite da un più radicale
deficit culturale, quello dell’amnesia di un intero capitale simbolico che l’Occidente
aveva maturato per secoli, e che ora esita a trasmettere ai nuovi europei di domani.
Un salto nel vuoto, o una sfida?
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Scuola e università in Europa 97
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