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ESTRATTO

Corti e principi
fra Piemonte e Savoia

5
Hanno contribuito alla pubblicazione del volume:

In copertina: Jan Miel, Caccia all’orso, 1659, Sala di Diana, Reggia di Venaria
(proprietà: Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica, Torino).

ISBN 9788871581910

© 2011 Silvio Zamorani editore


Corso San Maurizio 25
10124 Torino
www.zamorani.com
info@zamorani.com
La caccia nello Stato sabaudo
II. Pratiche e spazi (secc. XVI-XIX)

a cura di
Paola Bianchi
Pietro Passerin d’Entrèves

Silvio Zamorani editore


Indice

Paola BIANCHI
p. 15 Premessa

Pratiche e territorio
Pietro PASSERIN D’ENTRÈVES
19 Dalla vénerie royale alle riserve di montagna. Tecniche e uso dello spazio
Anna Maria PIOLETTI
37 Spazi e luoghi delle cacce reali
Davide DE FRANCO
53 La caccia in Altessano Superiore: partecipazione della comunità e mutamenti
negli assetti economici e sociali del territorio
Fulvio CERVINI
71 La caccia rappresentata. Armi di lusso per la corte sabauda
Mario GENNERO
81 Il cavallo da caccia: razze e tipologie
Roberta CEVASCO, Anna Maria STAGNO, Robert A. HEARN
91 Archeologia del lupo. Controllo delle risorse animali nella montagna ligure
del XIX secolo
Giurisdizioni
Federico Alessandro GORIA
109 «Venatio est cuilibet permissa de iure gentium». La regolamentazione della cac-
cia nella dottrina del tardo diritto comune
Vittorio DEFABIANI
117 La «Misura Reale»: territori e caccia
Alviero SISTRI
121 I distretti riservati di caccia nei dintorni di Torino nel corso del Settecento
Confronti italiani
Enrica GUERRA
137 La caccia nel territorio estense tra pratica e legislazione nel XV secolo
Stefano CALONACI
153 Nello specchio di Diana. La corte e la riforma della caccia nella Toscana di
Cosimo III
Domenico CECERE
171 Cacce reali e cacce baronali nel Mezzogiorno borbonico

187 Indice dei nomi


Indice delle tavole

Tra le pp. 80-81:


1. C. Pittara: L’accampamento di Vittorio Emanuele II a Vermiana (Val-
nontey, Cogne) nel 1873. Olio su tela. Castello di Racconigi.
2. De Toma, disegnatore e Arghinenti, incisore: Guida del Cacciatore in
Piemonte ossia Carta Perimetrale del Distretto riservato per le R.e Caccie
colla distinzione dei quattro piccoli Distretti a norma del R. Editto 15
marzo 1816 Approvato da S.E. il Gran Cacciatore di S.M. Incisione
acquerellata. Collezione privata.
3. G. Monte, Carta corografica continente la linea perimetrale del nuovo
Distretto riservato per le Regie Caccie in giusta misura conformemente al-
la Misura Reale fatta dall’infrascritto Ingegnere d’ordine di S.S.R.M. e
secondo l’Istruzione di S.E. il Sr Cte. di Genola Gran Cacciatore, nel
1741 e 1742. 1744. Inchiostro e acquerello su carta. AST, Corte,
Carte topografiche per A e B, Torino, n. 18.
4. P. Viarengo, Piano generale del Gran Real Parco della Regia Mandria
presso Venaria Reale e delle attigue Reali Tenute di Valsorda e Pralungo
di proprietà particolare di S.S.M.M. Vittorio Emanuele II Re d’Italia.
11 giugno 1874. Inchiostro e acquerello su carta. Collezione privata.
5. Plan de la Forêt de Stupinis, s.d. [1810]. Inchiostro e acquerello su
carta. AST, Carte topografiche e disegni, Carte topografiche per A e
per B, Stupinigi, mazzo 2.
6. Distretto delle Reali Caccie di Racconigi. Pedaggera e Boschi di Santa
Maria. Inchiostro su carta. ACS, Roma, Real Casa, Ufficio Gran
Cacciatore.
7. V.A. Cignaroli, Bat-l’eau e hallaly (seconda metà del XVIII secolo,
ante 1773), olio su tela. Castello di Racconigi.
8. G. Brocherel, Accampamento reale di Orvieille, Valsavarenche. Foto-
grafia. Collezione privata.
9. Palina in marmo indicante i confini della Grande Riserva. Collezione
privata.
10. Palina in legno indicante i confini del Distretto di Aosta. Collezione
privata.
11. L. Ramirez, Resti di una posta reale di caccia. Lauson, Cogne. Fotogra-
fia. Collezione privata.
12. Schizzo delle cacce di S.M. a Ceresole. 1895 ca. Inchiostro su carta. ACS,
Roma, Real Casa, Ufficio Gran Cacciatore, miscellanea, b. 1, f. 2, n. 4.
13. G.B. Panzeri detto Zarabaglia e M.A. Fava, Milano, Spiedo di Ferdi-
nando II del Tirolo, 1560 ca. Kunsthistorisches Museum, Vienna,
Hofjagd-und Rüstkammer, A 752.
14. Artista sapi-portoghese, Sierra Leone, Olifante da caccia, 1495-1521
ca., particolare. Armeria Reale,Torino, Q 10.
15. E. Sadeler e A. Vischer, Monaco, Archibugio da caccia con chiave,
1599 ca., particolare. Armeria Reale,Torino, M12.
16. Scuola di Monaco, Parure di coltella da caccia, inizio del XVII secolo.
Museo Nazionale del Bargello, Firenze.
17. P. Cisteron, Figeac, Archibusetto da caccia, 1660 ca., particolare. Ar-
meria Reale,Torino, M 38.
18. P. Cisteron, Figeac, Archibusetto da caccia, 1660 ca., particolare. Ibidem.
19. P. Cisteron, Figeac, Archibusetto da caccia, 1660 ca., particolare. Ibidem.
20. P. Cisteron, Figeac, Archibusetto da caccia, 1660 ca., particolare. Ibidem.
21. P. Cisteron, Figeac, Archibusetto da caccia, 1660 ca., particolare. Ibidem.
22. P. Cisteron, Figeac, Archibusetto da caccia, 1660 ca., particolare. Ibidem.
23. P. Parreaux, Verrua, Fucile sperimentale a ripetizione, 1680 ca., parti-
colare. Armeria Reale,Torino, M 66.
24. P. Parreaux, Verrua, Fucile sperimentale a ripetizione, 1680 ca., parti-
colare. Ibidem.
25. B. Scalafiotto, Torino, Fucile a due canne con baionetta per Vittorio
Amedeo III, 1782-1796 ca., particolare. Armeria Reale,Torino, U 25.
26. B. Scalafiotto, Torino, Fucile a due canne con baionetta per Vittorio
Amedeo III, 1782-1796 ca., particolare. Ibidem.
27. B. Scalafiotto, Torino, Fucile a due canne con baionetta per Vittorio
Amedeo III, 1782-1796 ca., particolare. Ibidem.
28. G.B. Lecler, Torino, Fucile a due canne per Vittorio Emanuele I, 1818,
particolare. Armeria Reale, Torino, M 49.
29. G.B. Lecler, Torino, Fucile a due canne per Vittorio Emanuele I, 1818,
particolare. Ibidem.
30. G.B. Lecler, Torino, Fucile a due canne per Vittorio Emanuele I, 1818,
particolare. Ibidem.
31. Trappola per lupi del modello della piége a rabat; incisione nel tratta-
to di Jacques du Fouilloux, La Vénérie et Fauçonnerie in un’edizione
pubblicata a Parigi da Pierre Billaine nel 1635 (collezione privata).
32. Trappola per lupi del modello della piége a rabat; incisione nel tratta-
to La chasse du loup, nécessaire à la maison rustique par Jean Clarmor-
gan... En laquelle est contenue la nature des loups & la maniere de les
prendre, tant par chiens, filets, pieges qu’autres instrumens: le tout enri-
chy de plusieurs figures & portraicts reprensentez apres le naturel di Jean
de Clamorgan in un’edizione pubblicata nel 1640 a Parigi da Nicolas
de la Vigne (collezione privata).
33. Carta Topografica Continente la Linea Perimetrale del distretto delle Re-
gie Caccie divisa in quindici Foglj; senza data [ma sec. XVIII] e senza
sottoscrizione. Inchiostro e acquerello su carta. AST, Carte topografi-
che e disegni, Carte topografiche per A e per B, Torino, Torino 17,
mazzo 1.
34. Indice della Carta Topografica Continente la Linea Perimetrale del di-
stretto delle Regie Caccie divisa in quindici Foglj, ibidem.
35. Moncalieri, Cavoretto e Torino, foglio 15 della Carta Topografica Con-
tinente la Linea Perimetrale del distretto delle Regie Caccie divisa in quin-
dici Foglj, ibidem.
36. Carta dimostrativa contenente il Distretto delle Regie Cacce. Inchiostro
e acquerello su carta, ibidem.
37. Carta della linea perimetrale del distretto delle Regie Cacce in 36 fogli;
senza data [ma sec. XVIII]. Inchiostro e acquerello su carta, ibidem.
38. Torino, [foglio 1] della Carta della linea perimetrale del distretto delle
Regie Cacce in 36 fogli…, ibidem.
39. Moncalieri, foglio 36 della Carta della linea perimetrale del distretto
delle Regie Cacce in 36 fogli…, ibidem.
40. Foglio 1 della Carta Topografica della Caccia, senza data [1760-1766
ca.] e senza sottoscrizione. Inchiostro e acquerello su carta. AST, Car-
te topografiche, Carte topografiche segrete, Torino, 15 A VI Rosso.
41. Foglio 2 della Carta Topografica della Caccia, ibidem.
42. Foglio 3 della Carta Topografica della Caccia, ibidem.
43. Stupinigi, particolare del foglio 2, ibidem.
44. Venaria e Saffarona, particolare del foglio 3, ibidem.

Autorizzazioni alle riproduzioni

La riproduzione del particolare dell’illustrazione di copertina è stata concessa con auto-


rizzazione del Consorzio “La Venaria Reale”, lettera prot. n. 2719/cvc del 25 maggio
2011, con divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione.
La riproduzione delle tavv. 1, 7 avviene su concessione del Ministero per i Beni e le
Attività Culturali, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Piemon-
te, Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le Province di Torino,
Cuneo, Asti, Biella, Vercelli, lettera prot. 14341 cl. 28.13.10/6.1 con divieto di ulte-
riore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo.
La riproduzione delle tavv. 6, 12 è stata autorizzata dal Ministero per i Beni e le Attivi-
tà Culturali, Archivio Centrale dello Stato, Roma con lettera prot. 2281 cl. 45.10.00,
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Per le tavv. 3, 5, 33-44 la riproduzione è stata autorizzata dal Ministero per i Beni e le
Attività Culturali, Archivio di Stato di Torino, con lettere prot. 2818/28.28.00, con
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La riproduzione delle tavv. 14-15, 17-30 è stata autorizzata dal Ministero per i Beni e le
Attività Culturali, Armeria Reale di Torino, con lettera prot. 6855 13.10-12/3, con
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La tav. 16 è riprodotta su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali,
Soprintendenza speciale per il Patrimonio storico, artistico ed etnoantropologico e per
il Polo museale della Città di Firenze con lettera prot. 28.13.10-5863, con divieto di
ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo.

Referenze fotografiche
Tavv. 2-3 Vincenzo Piccione, Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoan-
tropologici del Piemonte, Torino; tavv. 5-18 Ornella Savarino, Soprintendenza per i
Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici del Piemonte, Torino.
Tav. 11 fotografia di L. Ramirez.
Tavv. 3, 5, 33-44, Archivio di Stato di Torino.
La riproduzione fotografica dell’immagine di copertina è dell’Archivio fotografico
Consorzio “La Venaria Reale”.
Elenco delle abbreviazioni

b. busta
m., mm. mazzo, mazzi
n. numero
reg. registro

Abbreviazioni archivistiche:
ACS Archivio Centrale dello Stato, Roma
APNSM Archivio parrocchia Natività di Santa Maria a Venaria Reale
AS Pisa, Scuola Normale Superiore, Archivio Salviati
ASCT Archivio Storico della Città di Torino
ASCVR Archivio Storico Comune di Venaria Reale
ASFi, MDP Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del Principato
ASMo Archivio di Stato di Modena
ASN Archivio di Stato di Napoli
AST Archivio di Stato di Torino
BNP Bibliothèque Nationale de Paris
BNT Biblioteca Nazionale di Torino
BRT Biblioteca Reale di Torino
PCF Archivio di Stato di Torino, Camerale, Patenti Controllo Finanze

Opere a stampa:
DUBOIN F.A. DUBOIN, Raccolta per ordine di materie delle leggi, cioè editti,
patenti, manifesti, etc. …, pubblicati negli Stati di terraferma dal
principio dell’anno 1681 sino l’8 dicembre 1798 dai Sovrani della
Real Casa di Savoia, Torino, 1826-1869, 29 tomi in 31 volumi,
più indici
MANNO A. MANNO, Il patriziato italiano. Notizie di fatto storiche, genea-
logiche, feudali ed araldiche, 2 voll. a stampa, Torino, 1906, e 25
voll. dattiloscritti in consultazione presso le principali biblioteche
e gli archivi torinesi
Cacce reali e cacce baronali nel Mezzogiorno borbonico
Domenico Cecere

Sono ben noti agli studiosi i passi della Storia del Reame di Napoli in cui Pietro
Colletta descrive le stragi di animali delle riserve di caccia reali compiute dalle popo-
lazioni del Regno nel 17991. Il brano è inserito nelle pagine in cui il generale e scrit-
tore napoletano rievoca la fuga del re a Palermo e l’istituzione del nuovo governo re-
pubblicano, e il successivo manifestarsi di segnali dell’insofferenza dei sudditi verso i
simboli e verso più concreti aspetti della regalità e del dominio baronale. Colletta ri-
corda che per iniziativa popolare, o dietro le pressioni popolari, furono invasi i «do-
minii feudali», abbattute le immagini regie, aboliti i titoli di nobiltà; quindi, aggiun-
ge un’informazione per noi molto preziosa: «Altro indizio di popolare avversione si
manifestò per le cacce regie: avvegnaché i cittadini, al sentirsi liberi, uccisero le be-
stie, svanirono i confini; e spregiando le ragioni della proprietà, recidevano i boschi,
piantavano a frutto nei campi, dividevano come di conquista le terre. Così che il
Governo dichiarò le cacce già regie, ora libere, terreni dello Stato».
Sessantatré anni dopo si verificarono episodi che denotavano la persistenza di
quell’«avversione». L’occasione fu l’emanazione del decreto del 9 agosto 1862 con
cui il sovrano piemontese abolì alcuni aspetti della legislazione borbonica intorno
alle «Regie Cacce» nell’ex Regno delle Due Sicilie. Il capitano di caccia del nuovo
re d’Italia, Giuseppe Rosati, descrisse l’accoglienza che le popolazioni meridionali
riservarono alla riforma dell’amministrazione delle regie cacce senza troppo preoc-
cuparsi di scivolare in un linguaggio iperbolico e in immagini poco realistiche: il
giorno in cui fu abolito quel regime, fondato «sull’abuso e sulla prepotenza», «fu
un giorno di festa per tutt’i poveri proprietarii dei fondi imprigionati nel maledet-
to miglio di rispetto; le benedizioni al Re magnanimo salirono, senza ostentazione,
al cielo; il parallelo fra la libertà ed il servaggio si mostrava in tutta la sua luce; fu
una gioia universale»2.
Le due citazioni, tratte da opere di autori lontanissimi tra loro e ostili alla dina-
stia borbonica per ragioni diverse, c’introducono ai temi principali di questo con-
tributo: gli spazi in cui si praticava la caccia nel Mezzogiorno borbonico, i privilegi
e le restrizioni che ne limitavano l’esercizio, i risentimenti e i conflitti che ne di-
scendevano.

1 P. COLLETTA, Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825. Con una notizia intorno alla vita
dell’Autore scritta da Gino Capponi, Losanna, 1847, tomo II, p. 12. Il passo è citato in chiusura
del saggio di H. ZUG TUCCI, La caccia, da bene comune a privilegio, in Storia d’Italia, Annali 6,
Economia naturale, economia monetaria, a cura di R. Romano e U. Tucci, Torino, 1983, pp.
397-445.
2 G. ROSATI, Le cacce reali nelle provincie napoletane. Ricordi di Giuseppe Rosati Capitano di Cac-
cia di S.M. il Re d’Italia, Napoli, 1871, la citazione dalle pp. 9 e 5.
172 DOMENICO CECERE

Trattandosi di un contributo di carattere comparativo, mi è sembrato oppor-


tuno, anziché mettere a fuoco un singolo aspetto della pratica venatoria, adottare
un taglio più generale, che consentisse d’individuare più di un elemento di con-
fronto con problemi e aspetti della caccia nello Stato sabaudo e negli altri territori
italiani. E tuttavia, dovendo confrontarmi con un ventaglio di problemi così am-
pio, mi è parso utile osservarli attraverso la lente dei conflitti che si accendevano
intorno alle norme che regolavano la pratica venatoria e agli spazi in cui essa si e-
sercitava. Conflitti che nei decenni terminali dell’antico regime opponevano – per
dirla in termini estremamente schematici – almeno tre attori: il sovrano, il baro-
naggio, le comunità rurali.

1. La Corte borbonica e la caccia


Prima di entrare nel cuore del problema, è però opportuno indicare concisa-
mente gli spazi, fisici e giuridici, entro cui questi tre attori agivano e, insieme, de-
lineare la situazione sulla quale vennero a incidere le innovazioni introdotte da
Carlo e Ferdinando di Borbone, i quali accrebbero in maniera esponenziale le
«reali delizie» e moltiplicarono le prammatiche e le ordinanze che regolavano le at-
tività venatorie. Sarà quindi utile richiamare brevemente i non molti studi sul te-
ma – studi che, peraltro, si sono concentrati per lo più sulla caccia come diverti-
mento regale e come attività della società di corte3.
La grande passione dei due sovrani borbonici per la caccia era ben nota a diplo-
matici e visitatori, che immancabilmente ne discorrevano nella propria corrispon-
denza o nelle proprie memorie. Appena giunto nel Regno, ancor prima di fare il
proprio ingresso nella capitale, nel 1787 Goethe scriveva, non senza una punta
d’ironia: «il re va a caccia, la regina è in attesa del lieto evento, e meglio di così non
potrebbe andare»4. L’amore dei sovrani borbonici per le imprese venatorie, che a
molti apparve smodato, era tale da scandire i tempi dell’attività di governo, da in-
fluenzare l’agenda politica, da condizionare costumi e gusti della società di corte5. E
naturalmente non mancò di fornire alimento a voci e pettegolezzi all’interno della
corte e tra le corti, offrendo ricco materiale all’aneddotica. Di Carlo si disse che nel
dicembre 1757 per un giorno intero avesse nascosto alla moglie, Maria Amalia di
Sassonia, la notizia della morte della madre, per non dover rinunciare a una battuta

3 La bibliografia in materia è molto ampia, comprendendo opere d’ispirazione e destinazione e-


stremamente diseguale (accademica, erudita, turistica ecc.). Oltre ai volumi citati più avanti, mi
limito a segnalare G. ALISIO, Siti reali dei Borboni. Aspetti dell’architettura napoletana del Sette-
cento, Roma, 1976; AA.VV., Napoli 1804. I siti reali, la città, i casali nelle piante di Luigi Mar-
chese, Napoli, 1990; C. DE SETA, Il Real Palazzo di Caserta, Napoli, 1991; L. SORRENTINO, Siti
Reali borbonici in Terra di Lavoro, Napoli, 1999.
4 J.W. GOETHE, Viaggio in Italia, a cura di H. von Einem, trad. di E. Castellani, Milano, 1983,
27 febbraio 1787, p. 204.
5 M. MARGOZZI, Il tema della caccia nella Reggia di Caserta, in Un elefante a Corte. Allevamenti,
cacce ed esotismi alla Reggia di Caserta, Napoli, 1992, pp. 51-64; V. GIORDANO, I sovrani caccia-
tori, in La caccia al tempo dei Borbone, a cura di L. Mascilli Migliorini, Firenze, 1994, pp. 47-64.
CACCE REALI E CACCE BARONALI NEL MEZZOGIORNO BORBONICO 173

di caccia in programma per quel giorno6. D’altra parte la stessa regina non si sottrae-
va al compito di accompagnare il consorte nelle battute a cavallo, seguendo i sugge-
rimenti che Elisabetta Farnese dava alla coppia reale7. Del figlio Ferdinando, Collet-
ta riferisce che da fanciullo «godeva mostrare o narrare come sapesse abbattere cigna-
li o cervi, colpire a volo uccelli, frenar destrieri, esser sagacissimo alla pesca». Una
passione che non si sarebbe esaurita in età adulta e che lo avrebbe accompagnato fi-
no agli ultimi anni di vita: anche quando divenne re, secondo Colletta, «le malattie o
le morti della famiglia, le sventure del regno, la perdita di una corona nol distoglie-
vano dalla caccia né da’ giuochi villani»8. Quando nel 1819 suo fratello, Carlo IV,
già re di Spagna e in esilio da diversi anni a Roma, si ammalò gravemente, Ferdi-
nando ne fu informato mentre si trovava nella riserva di caccia di Persano; ma ordi-
nò che non si aprissero le lettere provenienti da Roma e da Napoli «prima della tor-
nata da una caccia, pronta per lo indimani, e sperata dilettevole dall’abbondanza di
cignali e cervi da uccidere. Si obbedisce al comando. Venuti dalla caccia ed aperto il
trattenuto foglio, fu letto esser Carlo agli estremi di vita, e sforzare il debole fiato
dell’agonia per richiedere del fratello»9.
Gli osservatori contemporanei e gli storici dei decenni successivi notavano con
frequenza che la smisurata passione per i divertimenti venatori indusse tanto Carlo
quanto Ferdinando a sottrarre tempo e ingenti somme di denaro agli affari di go-
verno, alla cura delle relazioni diplomatiche e ad altri, più utili impieghi. Ma, al di
là delle loro osservazioni, divertite, imbarazzate o sprezzanti, occorre rilevare che
questo non fu solo il prezzo pagato al capriccio dei due sovrani. Come ha osserva-
to Luigi Mascilli Migliorini, la caccia rappresentò anche un momento di una più
articolata strategia con cui i sovrani cercarono, attraverso i molteplici strumenti
della socialità cortigiana, di conciliarsi la nobiltà: pratica sempre più formalizzata,
essa fu parte di quel processo di disciplinamento mirante a regolare i costumi del-
l’aristocrazia regnicola, irrigidendosi in un rituale in cui, attraverso il gioco delle
precedenze, il sovrano poteva rinsaldare o modificare gli equilibri sociali e politici
di cui era al centro10.
Ma per poter essere praticata secondo le esigenze di una società di corte del
XVIII secolo, questa attività necessitava di ampi spazi. E nel Mezzogiorno continen-
tale, che per circa 230 anni era stato governato a viceregno e perciò non era stato re-
sidenza di un sovrano, le aree riservate alla caccia erano esigue e mal tutelate. In età
vicereale alcune superfici boschive, per lo più nei pressi della capitale (come il bosco
degli Astroni, che oggi è inglobato nel territorio urbano di Napoli) erano riservate ai
divertimenti venatori del viceré e della sua corte. Con cadenza irregolare venivano e-

6 G. GALLUCCI - P. GRANDIZIO, I Borbone e la caccia, in AA.VV., Un elefante a Corte cit., pp.


67-84.
7 A.M. RAO, Corte e Paese: il Regno di Napoli dal 1734 al 1806, in All’ombra della Corte. Donne
e potere nella Napoli borbonica (1734-1860), a cura di M. Mafrici, Napoli, 2010, pp.11-30.
8 P. COLLETTA, Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825 cit., tomo I, p. 129.
9 Ivi, tomo II, p. 154.
10 L. MASCILLI MIGLIORINI, La caccia in una società di corte, in La caccia al tempo dei Borbone
cit., pp. 7-14.
174 DOMENICO CECERE

manati bandi che, per lo spazio di un anno, vietavano l’uccisione di animali e il ta-
glio di legna in alcune località a nord della capitale (nell’area flegrea, lungo il litorale
domizio, nelle zone interne di Terra di Lavoro) che negli ultimi secoli del Medioevo
i sovrani angioini e aragonesi avevano riservato a sé11; ma tutto lascia pensare che tali
ordinanze rimanessero largamente inosservate. Peraltro, l’impressione che agli occhi
del governo vicereale la caccia rivestisse scarsa importanza è corroborata da due ele-
menti: l’inconsistenza della produzione normativa in tale materia nei secoli XVI e
XVII; la vendita dell’ufficio di montiere maggiore. Questa carica, istituita alla fine
del Medioevo col compito di vigilare sulle aree che i sovrani angioini e aragonesi a-
vevano riservato a sé, e di sovrintendere ai «Mastri Forestarj» posti a guardia di cia-
scuna di esse, nel 1630 fu alienata e, tra devoluzioni e rivendite, passò tra le mani di
alcune importanti famiglie dell’antica e della recente aristocrazia del regno (gli Zeval-
los, i Firrao, i Gambacorta nei due rami di Macchia e di Limatola, infine i Carafa di
San Lorenzo)12.
Le restrizioni d’età angioina e aragonese in materia venatoria erano venute a
limitare, ma in misura abbastanza contenuta, un diritto di caccia riconosciuto, al-
meno in astratto, a tutti i sudditi. Sulla base di un principio del diritto romano,
generalmente accolto dalle legislazioni medievali, la selvaggina era res nullius e se
ne acquistava il diritto tramite la presa di possesso13: perciò nel regno la caccia, co-
sì come la pesca, quantomeno formalmente era consentita a ciascun abitante nel
proprio fondo, oltre che nei terreni aperti e in quelli comuni. Secondo un testo
giuridico napoletano sui diritti delle università, ciascuno poteva «cacciare, e pesca-
re, perché va in traccia di quelle cose, che per natura sono acquistabili, per non es-
sere nel dominio di veruno»14. Se si tralasciano quelle derivanti dalla tutela degli
interessi reali, che si moltiplicarono proprio nel periodo borbonico, le principali
limitazioni alle attività venatorie derivavano dalla necessità di salvaguardare l’agri-
coltura e l’allevamento, dunque di preservare le aziende agricole dalle incursioni
degli animali selvatici e di chi li inseguiva: perciò – e questa è una delle rarissime

11 La pratica di riservare a sé la caccia in alcune aree e di vietarla ai sudditi fu tipica dei sovrani
aragonesi, in particolare di Alfonso il Magnanimo, che adottò provvedimenti analoghi anche in
Sicilia: nel 1451, ad esempio, vietò ai sudditi del Vallo di Mazara di cacciare i cinghiali. Cfr. H.
BRESC, Un monde méditerranéen. Économie et société en Sicile (1300-1450), 2 voll., Roma-
Palermo, 1986, vol. II, p. 906.
12 ASN, Archivio Carafa di Castel San Lorenzo, Carte, b. 5, fascicoli sciolti, Supplica al sovrano
dei Deputati dei Capitoli, Grazie e Privilegi di Napoli, 1741. In età aragonese la funzione di su-
pervisore dei «mastri forestari» preposti a ogni singola riserva rientrava tra le competenze del
gran siniscalco, uno dei sette «grandi uffici» del regno. La funzione fu poi affidata a una figura
istituzionale creata ad hoc e chiamata, sull’esempio spagnolo, montiere maggiore, che appartene-
va al rango degli «uffici minori» e che in età vicereale fu alienata, venduta per la prima volta nel
1630 a Giovanni Zevallos; nel 1751, anno in cui Carlo di Borbone la riacquistò al Fisco Regio,
apparteneva ai Carafa di Castel San Lorenzo.
13 H. ZUG TUCCI, La caccia, da bene comune a privilegio cit., pp. 397-445. Cfr. anche il saggio
di Goria in questo volume.
14 R. PECORI, Del privato governo dell’università, 2 voll., Napoli, 1770-1773, vol. I, p. 348.
CACCE REALI E CACCE BARONALI NEL MEZZOGIORNO BORBONICO 175

norme emesse prima del 1734 – una prammatica del 1588 vietava a chiunque, an-
corché munito di licenze, di «andare a cacciare, ed entrar ne’ territorj padronati, e
serrati, per gl’inconvenienti e danni che ne nascono»15.
Ma, al di là di questo, sulla base degli indizi che si possono rinvenire nella lettera-
tura giuridica e nei testi normativi, e in mancanza di studi specifici, mi sembra di po-
ter dire che in età vicereale, a causa della lontananza del sovrano, la tutela delle riserve
reali lasciò molto a desiderare e la legislazione forestale fu applicata blandamente.

2. Una figura ambigua: poteri e funzioni del montiere maggiore


Al montiere maggiore era affidata la cura delle riserve reali e il controllo sull’e-
sercizio venatorio in tutto il Regno, con annessa giurisdizione sulle infrazioni com-
messe in tale ambito16. Nei secoli in cui Napoli fu sottoposta al dominio spagnolo e
austriaco, chi occupò questo ufficio si limitò per lo più a concedere le licenze di caccia
ai singoli: licenze che avevano una forte richiesta (e che spesso erano rilasciate in nu-
mero sovrabbondante), anche perché consentivano di portare armi senza restrizioni,
come denunciavano alcuni magistrati17; i guardacaccia, a lui sottoposti, avevano so-
prattutto il compito di vigilare sui permessi posseduti da coloro che venivano sorpresi
a catturare prede. Non è un caso, quindi, che le poche controversie d’epoca vicereale
di cui si conservano le tracce nell’Archivio dei Carafa di San Lorenzo (l’ultima fami-
glia detentrice dell’ufficio) siano relative a dissensi e scontri intorno a chi dovesse con-
cedere le licenze in determinate aree, o intorno a quali soggetti fossero dispensati
dall’acquistare le licenze. Alcuni gruppi professionali, infatti, come gli ufficiali della
«truppa regolata», avevano facoltà di uccidere animali selvatici anche senza le patenti
del montiere maggiore: attratti dai benefici derivanti da questo privilegio, anche uffi-
ciali e soldati appartenenti ad altri corpi armati, così come i subalterni e i birri dei tri-
bunali supremi della capitale, pretendevano analoghe esenzioni, avviando controver-
sie giudiziarie che talora furono accompagnate anche da disordini e scontri. Una dura
contesa contrappose nei primi anni del XVIII secolo il montiere maggiore duca di
Limatola ai «Patentati Officiali, e Sudditi di questa fedelissima Città, Scrivani de Tri-
bunali, Patentati, Officiali, e Sudditi del Regio Auditor Generale delle Galere», che
pretendevano di poter andare a caccia senza il bisogno di ottenere le sue licenze e di
non essere sottoposti alla sua giurisdizione: nel corso della disputa non mancarono
tafferugli tra i subalterni del montiere e i soldati di diversi corpi dell’esercito, con arre-

15 A. DE SARIIS, Codice delle leggi del Regno di Napoli, Napoli, 1794, lib. IV, Delle Regalie, de’
Ministri di Azienda, e del Real Patrimonio, tit. XVII, Degli Uccellatori, o sia Cacciatori, p. 443.
16 Per le questioni finanziarie, fiscali e giurisdizionali l’ufficio del montiere era sottoposto alla vigi-
lanza della Camera della Sommaria, nella persona di un delegato scelto tra i giudici superiori («pre-
sidenti»), il quale giudicava «tutte le cause nelle quali hanno interesse gli affittatori della caccia»: cfr.
G.M. GALANTI, Nuova descrizione storica e geografica delle Sicilie, Napoli, 1792, vol. I, p. 225.
17 ASN, Archivio Carafa di Castel San Lorenzo, Carte, fascicoli sciolti: relazione del coadiutore
fiscale dell’ufficio del montiere maggiore al giudice delegato Lorenzo Paternò, 1765. La relazio-
ne metteva a fuoco i «molti abusi nell’esercizio» dell’ufficio consolidatisi nei circa 120 anni in
cui era stato alienato.
176 DOMENICO CECERE

sti incrociati ed effrazioni violente delle carceri18. Ad analoghe pretese di privilegi ed


esenzioni da parte di ufficiali e soldati è da ricondurre il procedimento avviato dagli
abitanti di Santa Maria Maggiore, presso Capua, che erano soliti acquistare «per di-
vertir[s]i dall’otio» le licenze per poter cacciare nel vicino bosco di Carditello: nel
1737 tale attività fu loro vietata dagli ufficiali di un reggimento di cavalleria di stanza
ad Aversa, i quali sostenevano di avere in esclusiva il privilegio di poter andare a ucci-
dere volatili e quadrupedi in quel bosco; contro la pretesa dei militari si schierò il
montiere, dal quale i cittadini di Santa Maria avevano acquistato le licenze19.
La facoltà di concedere ai singoli le licenze di caccia, secondo i calcoli di uno sto-
rico dell’economia del primo Ottocento, fruttava al titolare dell’ufficio circa 50 000
ducati all’anno; il costo di ogni licenza era di 50 grana all’anno per la caccia col fuci-
le e di 2 ducati e 40 grana per la caccia con le reti20. Il montiere dava in affitto a pri-
vati, di anno in anno, il diritto di concedere licenze nelle aree sottoposte alla sua giu-
risdizione: la quota annuale per chi prendeva in appalto tale diritto era estremamen-
te variabile, andando dai 15 ducati per i casali napoletani di Miano e Mianella, per
l’anno 1735-3621, ai 750 ducati versati da chi alla metà degli anni Quaranta conce-
deva le licenze di caccia agli abitanti dei borghi dei Vergini, Fonseca, Sant’Antonio
Abate, Capodimonte e Avvocata22, borghi ben più popolosi che si trovavano a nord
della cinta muraria di Napoli. Al di fuori del raggio di trenta miglia intorno alla ca-
pitale, il montiere maggiore condivideva il diritto di concedere licenze e patenti con i
governatori regi o con i baroni23, alcuni dei quali (talora fondatamente, in forza di
clausole contenute nelle concessioni feudali) pretendevano di detenere in esclusiva i
diritti sugli animali viventi sulle proprie tenute, e di poter concedere licenze secondo
il proprio arbitrio. Per la verità la normativa sui diritti di caccia era tutt’altro che
chiara e coerente, ed era anzi caratterizzata da una notevole incertezza, da cui aveva-
no poi origine frequenti contrasti e conflitti. E su una simile incertezza, a partire da-
gli anni Trenta-Quaranta del Settecento, intervenne la mano del re, accrescendo la
confusione e spesso moltiplicando le occasioni di attrito.

3. Spazi per la nuova dinastia


Il ritorno a Napoli di un «re proprio», destinato a risiedere stabilmente nel regno,
determinò profondi cambiamenti anche in questo ambito. Atto emblematico della ri-
levanza assunta dalla caccia agli occhi della nuova monarchia «nazionale» fu, nel
1751, la ricompera per 85 000 ducati dell’ufficio di montiere maggiore dai principi

18 Ivi, b. 5, f. 8: il procedimento è del 1718, ma riporta consulte, memorie e sentenze degli anni
precedenti (1703, 1716) relative a casi analoghi.
19 Ivi, f. 13.
20 L. BIANCHINI, Storia delle finanze del Regno di Napoli, 2 voll., 2a ed. riveduta e accresciuta
dall’autore, Palermo, 1839, vol. I, p. 443. Nel Regno di Napoli la principale unità monetaria, il
ducato, equivaleva a 10 carlini e a 100 grana.
21 ASN, Archivio Carafa di Castel San Lorenzo, Carte, b. 5, f. 9, copia di atto notarile del 1735.
22 Ibidem, supplica dell’affittatore Bonaventura Adamo, 1746.
23 R. PECORI, Del privato governo dell’università cit., vol. I, pp. 350-353.
CACCE REALI E CACCE BARONALI NEL MEZZOGIORNO BORBONICO 177

Carafa. Ritornato nella piena disponibilità della Corona, fu assegnato a un nobile


molto vicino a Carlo di Borbone, don Inigo de Guevara, duca di Bovino24. Ma il
processo destinato a incidere maggiormente sugli equilibri di vaste aree del regno fu la
sensibile espansione e moltiplicazione delle aree riservate alle «reali delizie», allo svago
dei sovrani. Ampie distese rurali e boschive, individuate per lo più nelle adiacenze del-
la capitale perché fossero facilmente raggiungibili, furono dichiarate riserve di caccia
reali: sicché le campagne prossime a Napoli e ampie porzioni delle province di Terra
di Lavoro e di Principato Citra (corrispondenti pressappoco alle attuali province di
Caserta e di Salerno) risentirono fortemente dell’incremento del numero delle riserve.
Alcune di esse sorsero attorno alle residenze regie di nuova costruzione (come Portici,
Capodimonte, Caserta) e su territori acquistati dal sovrano o confiscati ai baroni filo-
austriaci; altre, invece, risultarono dalla pratica di riservare al re la caccia in aree che
continuarono a essere possedute, coltivate, abitate dalle popolazioni locali. In queste
località vigeva il divieto non solo di uccidere volatili e quadrupedi, ma anche di «rac-
cogliervi sparagi, finocchi, fiori», e di «portarvi animali a pascere, o tagliar legna né
verdi, né secche, né fruttifere, né infruttifere», secondo quanto recitava una pramma-
tica del 175525: chi veniva sorpreso a catturare prede o anche solo ad aggirarsi armato
rischiava una condanna a tre anni di galea e una multa di 50 ducati. Le pene poteva-
no poi essere inasprite in base ai bandi emanati dai governatori delle singole riserve: a
Procida, uno dei siti prediletti da Carlo, ad esempio, veniva punito con sette anni di
presidio, se nobile, e sette anni di galea, se ignobile, chiunque venisse sorpreso nei bo-
schi con armi da fuoco o a lanciare pietre o bastoni agli uccelli26. Infine, una pram-
matica del 1785 rendeva più facile e spedita la punizione di chi esercitava la caccia di
frodo: essa estendeva anche a questo reato il sistema delle «prove privilegiate»27, vale a
dire di quelle prove che, pur non essendo incontrovertibili, e pertanto insufficienti di
per sé a mostrare la colpevolezza dell’imputato, in caso di reati molto gravi erano con-
siderate sufficienti per pronunciare una sentenza di condanna.
La già citata ordinanza del 1755 conteneva anche un paragrafo in cui erano
enumerati e fissati con chiarezza i siti riservati al reale diletto. Vi erano comprese
diverse località prossime alla capitale (Portici e i vicini monti Vesuvio e Somma,
Capodimonte, Astroni, i laghi di Licola, Patria e Agnano); l’isola di Procida, parti-
colarmente gradita a Carlo; molte località nella provincia di Terra di Lavoro: Ca-
serta «e tutt’i Boschi convicini», Sant’Arcangelo, Carbone, Carditello, Demanio di
Calvi, Monte Marsico, Pantano di Mondragone, Torcino; Torre Guevara, in Ca-

24 Se la ricompera dell’ufficio da parte della Corona consentì di ricondurre l’azione del montiere
agli interessi del sovrano, non per questo semplificò la gestione delle riserve di caccia reali: il
montiere maggiore era a capo dell’amministrazione venatoria, comandava i guardacaccia e gui-
dava le battute alle quali prendeva parte il re; tuttavia, gli amministratori (intendenti) dei singoli
siti reali dipendevano dall’amministrazione della Casa Reale: di qui i frequenti contrasti tra il
montiere e gli intendenti, che nemmeno i regolamenti emanati nel 1815 dal segretario della Ca-
sa Reale riuscirono a evitare del tutto.
25 A. DE SARIIS, Codice delle leggi del Regno di Napoli cit., lib. IV, pp. 444-446.
26 G. GALLUCCI - P. GRANDIZIO, I Borbone e la caccia cit.
27 A. DE SARIIS, Codice delle leggi del Regno di Napoli cit., lib. IV, pp. 452-453.
178 DOMENICO CECERE

pitanata (corrispondente all’odierna provincia di Foggia); infine, a sud di Salerno,


Tremolito, Persano, Vaporello, Lagorosso, Campagna di Eboli, Pruno.
In queste riserve la selvaggina – soprattutto cinghiali, cervi, daini – e i volatili –
in particolare fagiani, pernici, beccacce, folaghe – erano sorvegliati da guardacaccia
e allevati da personale specializzato, con spese ingenti per le casse reali: secondo
Schipa, si attestavano sui 500 000 ducati all’anno28, vale a dire tra 1/8 e 1/10 di un
bilancio statale medio della metà del Settecento.
Secondo Giovanni Brancaccio i siti reali, moltiplicati nel corso del XVIII secolo e
tutelati da una legislazione sempre più copiosa e minuziosa, svolsero un ruolo im-
portante nel rilancio delle strutture agricole e manifatturiere, nella trasformazione
del paesaggio agrario, nella tutela del patrimonio boschivo, nella bonifica di luoghi
paludosi29: i siti reali sarebbero stati, in sostanza, un fattore di razionalizzazione del-
l’uso del territorio e delle risorse naturali. Non ho elementi per sottoscrivere un simi-
le giudizio, né per contestarlo; né, d’altra parte, sarebbe questa la sede appropriata
per una simile discussione. Mi preme però notare che alcuni dati e alcune testimo-
nianze suggeriscono valutazioni più articolate: a cominciare da una notazione di
Colletta, secondo cui nella valle del Calore, nel Cilento, la porzione di territorio ri-
cadente nello spazio della regia caccia di Persano era «selvaggia»; l’altra, soggetta alla
giurisdizione del comune di Postiglione, «divisa fra’ cittadini, è coltivata a campi, a
vigne, ad oliveti, sparsa di nuove case, albergatrici di famiglie industriose e beate»30.
Quel che in questa sede occorre mettere in rilievo e indagare sono, soprattutto,
gli echi della crescente conflittualità attorno al controllo e alle modalità di sfrut-
tamento delle risorse faunistiche e forestali, che le carte d’archivio ci restituiscono
distintamente: una conseguenza pressoché inevitabile degli interventi e dei divieti
regi, perché il più delle volte gli interessi del sovrano erano in contrasto con quelli
delle popolazioni locali.
A seguito degli interventi borbonici i sovrani poterono praticare la caccia in va-
ste aree che venivano sottratte agli usi collettivi e alle pratiche ordinarie: in queste
aree, la complessa economia delle foreste finiva per essere completamente subordi-
nata alle esigenze degli animali che venivano allevati per il «divertimento Reale
della Maestà Sua», secondo quanto recitavano alcuni bandi. Come s’è visto, sulle
terre che venivano dichiarate «cacce reali» era introdotto il divieto, per gli abitanti,
non solo di cacciare, bensì anche di raccogliere la legna e talora persino di disporre
liberamente delle acque e dei pascoli; tali divieti, peraltro, erano estesi anche alle a-
ree prossime ai siti reali, definendo il cosiddetto «miglio di rispetto». Mi sembra
pertanto di poter consentire con quanto osservato da Biagio Salvemini e Saverio
Russo, secondo cui l’intervento sovrano in un universo dominato da una pluralità
di diritti e di usi, e caratterizzato da una conflittualità spesso latente ma pressoché
permanente, non condusse a una semplificazione normativa né a una chiara gerar-
chia dei diritti e degli usi preesistenti, ma ne complicò il quadro e attivò nuovi

28 M. SCHIPA, Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, 2 voll., Milano-Roma, 1923, cit.
da G. BRANCACCIO, I siti reali, in La caccia al tempo dei Borbone cit., pp. 17-45.
29 Ibidem.
30 P. COLLETTA, Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825 cit., tomo II, p. 68.
CACCE REALI E CACCE BARONALI NEL MEZZOGIORNO BORBONICO 179

conflitti31. Certo, di fronte all’affermazione dell’interesse del sovrano, ogni altra


pretesa doveva cedere; ma, non di rado, riemergeva poi nelle continue spinte ri-
vendicative delle popolazioni coinvolte.
L’espansione delle riserve, le crescenti restrizioni, l’inasprimento delle pene cui
ho sommariamente accennato non portarono certo a un’esplosione di contrasti vio-
lenti paragonabile a quella che nell’Inghilterra del primo Settecento seguì all’irrigi-
dimento della legislazione forestale, e che provocò l’emanazione del Black Act, magi-
stralmente ricostruita da Edward P. Thompson32. Ma malumori e attriti vi furono, e
si espressero in suppliche e reclami, nonché in violazioni individuali e collettive degli
spazi che il re aveva riservato al proprio diletto. Nel 1765 il segretario di Stato e reg-
gente Bernardo Tanucci apprendeva dal governatore di Foggia che nelle cacce di
Torre Guevara si erano avute ingenti «perdite» a causa dell’«ingresso della gente con
cani nel bosco, li quali uccidevano e predavano li frescamente partoriti; senza
schioppo – aggiungeva il ministro toscano – la gente credeva di essere impunita»33.
Due anni dopo i guardacaccia dello stesso sito arrestavano un uomo sorpreso a ucci-
dere un daino34. Nel 1766 il governatore di Calvi riferiva dell’arresto in flagrante di
quattro cacciatori di frodo e informava che nella riserva erano «piutosto sminuiti i
selvatici»35. Nel 1768 il governatore del sito di Persano riferiva che in casa di un sa-
cerdote erano stati trovati carne fresca di cinghiale, munizioni e un fucile da caccia36;
l’anno successivo lo stesso governatore rivelava che nella tenuta di tal Simone Pisani,
posta all’interno del sito reale, era stata rinvenuta una «Tagliola, o sia Trappola di
ferro per uso di prendere selvatici», per cui era stato arrestato un garzone possidente
accusato di averla approntata37. Anche a Mondragone, località costiera sita alcune
decine di chilometri a nord-ovest della capitale, negli stessi mesi i guardacaccia sor-
presero un bracconiere nelle cacce riservate38.
Sulla base degli studi disponibili è difficile dire se in queste aree, e in che misura,
il divieto di uccidere quadrupedi e volatili avesse leso gli equilibri alimentari delle
popolazioni locali, perché è difficile stabilire se e per quali gruppi, nel XVIII secolo,
la selvaggina costituisse un complemento essenziale in un regime alimentare a base
di cereali; in linea generale, però, sembra improbabile che essa conservasse un valore

31 Cfr. S. RUSSO - B. SALVEMINI, Ragion pastorale, Ragion di Stato. Spazi dell’allevamento e spazi
dei poteri nell’Italia moderna, Roma, 2007, pp. 159-168 e passim.
32 E. P. THOMPSON, Whigs e cacciatori. Potenti e ribelli nell’Inghilterra del XVIII secolo, a cura di
E. F. Biagini, Firenze, 1989 (ed. or. London, 1975).
33 B. TANUCCI, Epistolario, vol. XV, a cura di M.G. Maiorini, Napoli, 1996, lettera al Re Cat-
tolico, Caserta 25 maggio 1765, p. 393.
34 ASN, Segreteria di Stato di Casa Reale, Scavi e Reali Cacce, b. 1541, f. non numerato, 22 set-
tembre 1767.
35 Ibidem, f. 84, 25 febbraio 1766.
36 ASN, Segreteria di Stato di Casa Reale, Scavi e Reali Cacce, b. 1542, f. 9, relazione del 4 ot-
tobre 1768.
37 Ibidem, f. 51, relazione del 3 ottobre 1769.
38 Ibidem, fl. 71, relazione del 19 dicembre 1769.
180 DOMENICO CECERE

nutritivo fondamentale per ampie fasce delle popolazioni rurali39. A giudicare dalle
parole e dai toni impiegati in alcuni dei reclami che ho potuto consultare, in cui ci si
lamenta delle limitazioni recenti alle attività venatorie, esse sono presentate prevalen-
temente come un esercizio occasionale e accessorio, talora anche come un semplice
svago per i gentiluomini e i notabili del luogo; di certo, la caccia non conferiva una
chiara caratterizzazione socio-professionale a chi la esercitava40.
A dolersi delle nuove limitazioni erano in primo luogo coloro che avevano acqui-
stato dal montiere la concessione di rilasciare i permessi di caccia. Nel 1746 l’af-
fittatore del «jus della caccia» per i borghi napoletani dei Vergini, Fonseca, Sant’An-
tonio Abate, Capodimonte e Avvocata lamentava che molti di coloro che erano soliti
acquistare licenze o non le avevano rinnovate o volevano restituirle ed essere rimbor-
sati, a causa dell’«estinzione de’ luoghi per li tanti, e tanti luoghi Banditi, e proibiti»:
le licenze del 1744 consentivano infatti di «andare a caccia de volatili con scoppetta a
miccio, o vero a grillo in qualsivoglia parte del presente Regnjo … eccettuandone la
Palude di questa fedelissima Città … e lo Bosco dell’Incoronata di Foggia»; ma già le
licenze del 1745 contenevano nuove «riforme, e restrizzioni … assaj più vaste, con
strabocchevole estinzione di territorio», soprattutto nelle aree boscose e collinari
prossime alla capitale «in maniera tale che l’abitanti di detti Borghi affatto non si so-
gnjano più di pigliar licenze, per non avere dove possono andare a sparare; Ma solo
qualche licenza si smaldisce a’ qualche galant’uomo, che in tempo di Autunno se ne
va’ nelle vicinanze a’ divertire»41. Una rimostranza di analogo tenore sarebbe venuta
una ventina d’anni dopo da un cittadino di Nocera, affittatore del diritto di conce-
dere licenze in alcune località a sud di Salerno: egli lamentava le grosse perdite sof-
ferte da quando era stato introdotto il divieto di cacciare da novembre ad aprile nei
territori di Eboli e Persano, sicché «niun particolare attenti tai ordini ha voluto pren-
der le licenze Reggie»42.

39 Benché si disponga di dati esigui e alquanto imprecisi sull’alimentazione delle popolazioni


contadine, perché basata in gran parte sull’autoconsumo, si stima che in età moderna il regime
alimentare delle popolazioni rurali, e in particolare dei ceti medio-bassi, fosse costituito per l’80-
90% da cereali. Gli altri alimenti (ortaggi, frutti, formaggi, carni) erano per lo più complemen-
tari; i consumi carnei attestati dalle consuetudini gastronomiche derivavano prevalentemente da
animali da allevamento. Cfr. Storia dell’alimentazione, a cura di J.-L. Flandrin e M. Montanari,
Roma-Bari, 1996, pp. 465-489.
40 H. ZUG TUCCI, La caccia, da bene comune a privilegio cit., p. 439. Per un confronto con
l’importanza decisiva che molti antropologi, etnologi e studiosi delle civiltà preistoriche e protosto-
riche attribuiscono alla caccia e alla spartizione del bottino nel processo di ominazione e di inven-
zione della cultura, e con il carattere sacrale che essa rivestì anche presso molte società extraeuropee
(«una sorta di culto laico del nutrimento, ossia di religione di salvezza dalla fame»), cfr. P.G. SOLI-
NAS, Caccia, spartizione, società, «Studi Storici», 4, 1984, pp. 897-911.
41 ASN, Archivio Carafa di Castel San Lorenzo, Carte, b. 5, f. 9, supplica dell’affittatore Bona-
ventura Adamo, 1746.
42 Ibidem, supplica di Domenico Tortora, 1765.
CACCE REALI E CACCE BARONALI NEL MEZZOGIORNO BORBONICO 181

4. Riserve reali e usi collettivi


È più facile, invece, immaginare quanto i divieti, le restrizioni, le servitù legate
all’espansione delle reali delizie pesassero sulle attività agricole e pastorali, che spes-
so trovavano nelle aree silvestri importanti risorse e spazi da sfruttare43. A subire le
conseguenze delle crescenti limitazioni furono tanto i campi coltivati posti all’in-
terno o a ridosso delle aree riservate, quanto, e anzi soprattutto, le attività agro-
silvo-pastorali che si svolgevano nelle aree boschive. Il bosco era infatti oggetto di
usi molteplici da parte delle popolazioni che su di esso avanzavano diritti: pascolo,
coltivazione di foraggi e cereali in piccoli appezzamenti, caccia e pesca, raccolta di
frutti selvatici e di legna. Attività che spesso erano integrative dell’agricoltura pra-
ticata sui terreni aratori di dimensioni più ampie e nei «giardini» chiusi, ma che
non di rado erano essenziali per il mantenimento degli equilibri economici e socia-
li delle comunità rurali44. Ma questo complesso di pratiche risultava incompatibile
con gli ampi spazi e con le risorse alimentari di cui avevano bisogno, per crescere e
riprodursi, alcune tra le prede preferite dei sovrani cacciatori, come i daini e i cin-
ghiali. In questo modo venivano sottratte a un tipo di sfruttamento consacrato
dalla consuetudine alcune aree rurali su cui le comunità esercitavano diritti d’uso
collettivi, generalmente considerati inalienabili e non di rado indispensabili al
soddisfacimento dei bisogni fondamentali di alcuni gruppi sociali.
Considerata la difficoltà di conciliare i diversi interessi in campo, talora il pote-
re regio esibiva il suo volto paterno e, mostrando di comprendere i disagi in cui
venivano a trovarsi le popolazioni, cercava di compensare i danni che esse soffriva-
no a causa della vicinanza ai siti reali. Così nel 1761 il governo accolse le rimo-
stranze degli abitanti di alcune università nei dintorni di Persano, che lamentavano
le ingenti somme spese per custodire i seminati e le vigne costantemente minaccia-
ti dagli «animali selvaggi delle Reali Cacce»: il sovrano dichiarò che gli abitanti di
Eboli, Serre, Postiglione, Controne, Altavilla e Albanella non dovessero patire «de-
trimento alcuno per causa de Reali Cacce» e che perciò dovessero essere «esatta-
mente combenzati a ciascuno quei danni, che effettivamente, e senza alcun dub-
bio, se inferiscono ne j loro seminati, e frutti, dagli cignali, e dagl’altri animali sel-
vaggi»; la Corona volle giungere a una transazione con quelle università, stabilen-
do che due periti fissassero una volta per tutte le somme che annualmente il Regio
Fisco avrebbe dovuto corrispondere, come indennizzo, alle comunità interessate45.

43 Cfr. M. ARMIERO, Il territorio come risorsa. Comunità, economie e istituzioni nei boschi abruz-
zesi (1806-1860), Napoli, 1999.
44 Cfr. R. SANSA, Il mercato e la legge: la legislazione forestale italiana nei secoli XVIII e XIX, e W.
PALMIERI, Il bosco nel Mezzogiorno preunitario tra legislazione e dibattito, in Ambiente e risorse nel
Mezzogiorno contemporaneo, a cura di P. Bevilacqua e G. Corona, Corigliano Calabro, 2000,
risp. pp. 3-26 e 28-62; M. ARMIERO, Il territorio come risorsa cit. Cfr. inoltre, più in generale
«Quaderni storici», 1992, n. 81, numero monografico su Risorse collettive.
45 ASN, Segreteria di Stato di Casa Reale, Affari diversi, b. 861, fl. 23, relazioni dell’ingegnere
Domenico Piana 5 agosto e 9 settembre 1761, e dell’intendente delle Cacce di Persano Scipione
Loffredo, 23 agosto 1761, che operarono sotto la supervisione dei ministri dell’Udienza provin-
ciale di Salerno.
182 DOMENICO CECERE

Ma la decisione di giungere a un compromesso con quelle popolazioni era intesa


unicamente come l’effetto della sovrana magnanimità: lo ricordava, in una delle rela-
zioni al governo, uno degli ingegneri incaricati dell’«apprezzo», quando scriveva che
«resta nell’arbitrio di S.M., di risolvere, se voglia o nò degnarsi di rifare a Padroni
predetti de seminati, quel che esitano per le spese della custodia de medesimi». E in
effetti il più delle volte la Corona mostrava di non riconoscere alcun obbligo verso le
comunità il cui territorio era stato inglobato nelle riserve di caccia reali. Una circo-
stanza che talora sovvertiva usi e consuetudini radicati e alterava consolidati equilibri
economici ed ecologici, precludendo il godimento di importanti risorse forestali e
ostacolando lo svolgimento di attività produttive, peraltro in una fase di generale e-
spansione demografica46. Sicché alcune comunità, spinte dalla necessità, non di rado
passarono alle vie di fatto. Negli anni Sessanta e Settanta sono frequenti le relazioni
di governatori delle singole cacce in cui si riferisce di tagli di alberi o di mandrie e
greggi portate a pascolare nei boschi riservati47. Nel 1768 il governatore di Foggia
denunciava che nel sito di Torre Guevara «non ostante la proibizione fatta di lasciar
intrar alcuno in quel Bosco a raccogliere Ghianda tuttavia vi era stata una irruzione
di Gente nel Feudo di San Lorenzo in Valle a raccoglierla»; nella non lontana locali-
tà di Cervellino erano invece stati tagliati degli alberi, in violazione del dettato delle
prammatiche48; nel 1770 il capocaccia di Mastrati, in Terra di Lavoro, riferiva di a-
ver scoperto in quei boschi riservati «un gran trafico di Neri domestici», e che questa
frode era stata agevolata dalla complicità di uno dei guardacaccia49. Anche il duca di
Bovino, sui cui feudi si estendeva il sito reale di Torre Guevara, nei mesi invernali la-
sciava che s’introducesse bestiame nei boschi riservati50; lo stesso duca, che era anche
montiere maggiore, nel 1773 denunciava diverse «controvenzioni» commesse dagli
abitanti di Orsara nelle selve di Cervellino e dagli abitanti di Bovino in quelle di
Torre Guevara51.
Un altro conflitto si registrò tra gli interessi del re in territorio casertano e al-

46 Sotto la duplice spinta dell’incremento demografico e della crescita dei prezzi delle derrate a-
limentari, la seconda metà del XVIII secolo, in particolare a seguito della carestia del 1764 e poi
dell’editto di divisione dei demani comunali del 1792, conobbe una forte espansione delle aree
coltivate e la conseguente riduzione delle superfici boschive, con incendi, tagli, danneggiamenti
di vaste aree forestali, soprattutto in province ricche di superfici collinari, come il Molise o la
Capitanata: processi che spesso violavano apertamente la legislazione forestale settecentesca, il
cui tassello più importante era costituito dalla prammatica del 1759 de incisione arborum, intesa
a contrastare la riduzione a coltura dei terreni boschivi. Oltre alle pagine di riformatori come
Longano, Palmieri, Lamanna, cfr. B. VECCHIO, Il bosco negli scrittori italiani del Settecento e
dell’età napoleonica, introduzione di L. Gambi, Torino, 1974; G. CORONA, Demani ed indivi-
dualismo agrario nel Regno di Napoli (1780-1806), Napoli, 1995.
47 Cfr. i resoconti dei diversi rapporti sulle reali cacce in ASN, Segreteria di Stato di Casa Reale,
Scavi e Reali Cacce, b. 1541, f. 84, relazioni degli anni 1765-1766.
48 Ivi, b. 1542, f. 34, relazione del 13 dicembre 1768.
49 Ibidem, f. 75, relazione del 2 gennaio 1770.
50 Ibidem, f. 122, relazione dell’intendente di Torre Guevara, 3 agosto 1773.
51 Ibidem, f. 125, relazione del 17 agosto 1773.
CACCE REALI E CACCE BARONALI NEL MEZZOGIORNO BORBONICO 183

cune università delle alture circostanti: nel 1786 la giunta che amministrava il sito
reale di Caserta vietò alle comunità del non lontano monte Taburno il taglio di
alberi e il pascolo, attività sospettate di apportare danni alle acque che irrigavano le
reali delizie a valle. Le popolazioni del Taburno manifestarono da subito il proprio
malcontento, ma solo dieci anni dopo l’estensione della riserva fu ridotta52.
Alla luce di questi episodi si comprendono le ragioni delle violenze e delle stra-
gi di selvatici compiute dalle popolazioni nelle riserve reali durante i brevi mesi
della Repubblica, riferite da Colletta e citate in apertura53.

5. Diritti di caccia e poteri baronali


L’ostilità delle popolazioni non era diretta solo contro le riserve regie, bensì an-
che contro i privilegi e i diritti proibitivi che, in materia di uso delle risorse forestali,
molti baroni si arrogavano e cercavano di far valere. Persino dopo l’eversione della
feudalità, i diritti di caccia furono spesso una delle ragioni di contrasto tra comuni
ed ex baroni, e hanno un posto di rilievo in alcuni dei processi che in età murattiana
furono celebrati davanti alla Commissione feudale per dirimere tali vertenze. Rimo-
stranze contro gli ex feudatari che ancora pretendevano di esercitare in esclusiva le
attività venatorie nei vecchi demani feudali e persino nei territori demaniali dei co-
muni, e che pertanto vietavano agli ex vassalli di «legnare» e di portarvi gli animali al
pascolo, sono avanzate, tra il 1808 e il 1810, dai cittadini di Paola, in Calabria, con-
tro il marchese Spinelli di Fuscaldo54, da quelli di Melfi contro i principi Doria55,
dai cittadini di Montalbano contro la principessa Serra di Gerace56, dal comune di
Pescolanciano in Molise57, da quello di Lauria58, ancora in Basilicata, dal comune
calabrese di Fiumara di Muro contro i Ruffo duchi di Bagnara59.
Si trattava, il più delle volte, degli strascichi di controversie cominciate decenni,
talora secoli prima, originate dalle opposte mire dei signori feudali e delle comunità
sulle risorse boschive. Nel corso del XVIII secolo baroni di alto rango non si astenne-

52 Archivio di Stato di Caserta, Platea di Caserta, cit. in G. GALLUCCI - P. GRANDIZIO, I Borbo-


ne e la caccia cit.
53 A quegli episodi accenna anche lo storico delle finanze Bianchini, il quale scrive che dei
«grandiosi proponimenti» dei rivoluzionari «uno solo ne fu mandato ad effetto per odio che nu-
trivasi contro la regal famiglia, cioè di dichiararsi terre dello Stato quelle che già erano destinate
alle regie caccie, dove molti dello sfrenato popolo uccisero le bestie, recisero i boschi, e senza né
anche rispettare i confini della proprietà, quelle del pari invasero che vicino stavano»: cfr. L.
BIANCHINI, Storia delle finanze del Regno di Napoli cit., vol. I, p. 455. Non ho trovato menzione
di questi episodi tra le carte d’archivio, poiché mancano documenti relativi al breve periodo del-
la Repubblica e ai mesi immediatamente successivi.
54 «Bollettino delle sentenze della Commissione Feudale», 1809, n. 8 (agosto), p. 220 e sgg.
55 Ibidem, p. 458 e sgg.
56 «Bollettino delle sentenze della Commissione Feudale», 1810, n. 1 (gennaio), p. 431 e sgg.
57 Ibidem, p. 698 e sgg.
58 «Bollettino delle sentenze della Commissione Feudale», 1809, n. 11 (novembre), p. 330 e sgg.
59 «Bollettino delle sentenze della Commissione Feudale», 1810, n. 12 (dicembre), p. 246 e sgg.
184 DOMENICO CECERE

ro dal rivolgersi anche alle corti superiori napoletane o ai segretari di Stato per impe-
dire ai propri vassalli o agli abitanti di comunità confinanti di cacciare nei boschi dei
loro feudi o d’introdurvisi per accedere alle risorse forestali: come il barone Girolamo
de Lerma, che nel 1736 scomodava addirittura l’allora segretario di Giustizia Tanucci
e i giudici di un tribunale supremo, qual era la Camera di Santa Chiara, per denun-
ciare l’intrusione nelle sue cacce dell’Oliveto, in Basilicata, da parte di abitanti della
terra limitrofa di Accettura, in violazione del «jus prohibendi della Caccia» che aveva
acquistato insieme al feudo60; o il principe di Sansevero Raimondo di Sangro, il quale
attraverso i ministri regi faceva pressione sul preside di Lucera perché emanasse un
bando che impedisse agli abitanti dei suoi feudi in Capitanata e delle terre confinanti
«di andare per la caccia nei suoi boschi e territori»61; o, infine, come il principe Mi-
chele Pignatelli il quale si lamentava perché gli abitanti dei suoi feudi in Terra d’O-
tranto (provincia corrispondente all’area salentina) e quelli dei villaggi limitrofi ucci-
devano gli animali selvatici che, usciti dai boschi, ne danneggiavano i poderi62.
Ma di quanto l’aristocrazia feudale del Regno fosse gelosa delle proprie prero-
gative anche in materia di caccia è prova soprattutto la dura lite che poco prima
della metà del Settecento contrappose il fiore della nobiltà napoletana a uno dei
suoi membri, il principe Carafa di San Lorenzo che in quegli anni ancora deteneva
l’ufficio di montiere maggiore. La lite ruotava, come al solito, attorno alla facoltà
di concedere le licenze di caccia; a rappresentare gli interessi della feudalità napole-
tana intervenne persino la Deputazione dei Capitoli, Privilegi e Grazie della capi-
tale, una commissione municipale che era emanazione dei Seggi napoletani (in
cui, è bene ricordarlo, sedeva la maggior parte del più cospicuo baronaggio regni-
colo, e che aveva sostanzialmente ereditato le funzioni del Parlamento del Regno,
non più convocato dal 1642). Prendendo spunto dall’«attentato» compiuto dal
montiere maggiore contro i diritti del marchese di Pietramelara nel suo feudo in
Terra di Lavoro, i nobili napoletani chiedevano al sovrano di pensare «al pregiudi-
zio gravissimo, che ad esempio di questi, à tutti gli altri Baroni, e luoghi demaniali
del Regno poteasi arrecare»; inoltre rivendicavano il diritto di rilasciare licenze ai
propri vassalli, menzionando la consuetudine, avallata da precedenti sentenze dei
tribunali regi, secondo cui «moltissimi Baroni tanto nel Regno, quanto nel distret-
to [della capitale] essi privativamente han’ sempre mai conceduta, e tuttavia con-
cedono agl’huomini de’ loro Feudi la licenza di andare a’ Caccia»63.
La risolutezza con cui il baronaggio intervenne a difesa delle proprie prerogative
in materia di caccia si comprende bene se si pone mente al principale oggetto del
contendere. In questione sembra essere non tanto il diritto dei singoli baroni di te-

60 ASN, Real Camera di Santa Chiara, Bozze di Consulte, vol. 6, f. 5, 9 maggio 1736.
61 Ibidem, vol. 39, f. 26, 17 febbraio 1740.
62 D. GATTA, Regali dispacci, nelli quali si contengono le Sovrane Determinazioni de’ Punti Gene-
rali, e che servono di norma ad altri simili casi, nel Regno di Napoli, parte III, Che riguarda il Cri-
minale, Napoli, 1776, t. II, p. 326, dispaccio del 13 maggio 1769 al preside di Lecce: il sovrano
ribadiva il diritto dei proprietari dei fondi di uccidere i selvatici usciti dai boschi del barone.
63 ASN, Archivio Carafa di Castel San Lorenzo, Carte, b. 5, f. 7, n. 29, copia della supplica del-
la Deputazione, 1741.
CACCE REALI E CACCE BARONALI NEL MEZZOGIORNO BORBONICO 185

nere riservate, per il proprio diletto, alcune porzioni dei territori infeudati, quanto
quello correlato di poter concedere in esclusiva licenze di caccia ai propri vassalli: un
diritto che poteva rivelarsi, in qualche caso, una fonte non trascurabile di entrate, ma
che soprattutto poteva rappresentare un utile strumento per consolidare il proprio
potere nel feudo o per favorire una delle fazioni locali in lotta, attraverso l’elargizione
di cariche e di privilegi64. È, questo, un aspetto che emerge con chiarezza dalla lunga
controversia che nella seconda metà del Settecento oppose il patriziato di Monteleo-
ne (l’odierna Vibo Valentia) a uno dei principali baroni del Regno, Ettore Pignatelli
duca di Monteleone, titolare di un vasto e compatto patrimonio feudale nella Cala-
bria meridionale, comprendente una quarantina di «popolazioni» tra città, terre e ca-
sali. La principale accusa mossa al barone era quella di governare il vasto complesso
feudale come un regno autonomo: a sostegno di questa imputazione i patrizi ricor-
davano, tra le altre cose, che la struttura che regolava le attività venatorie ricalcava,
persino nei nomi, quella regia, con al vertice un montiere maggiore, coadiuvato da
un capocaccia per ogni feudo e da centinaia di cacciatori e «sottocacciatori»65. Essi
lamentavano, tra l’altro, che nell’intero territorio feudale fosse proibito uccidere «sar-
ni, lepri, pernici, faggiani, cignali, e capri per tutti i luoghi anche appadronati de’ va-
sti stati», così come «nella maggior parte de’ tenimenti anche non chiusi, ed appa-
dronati per qualunque sia sorte di caccia, e questo sotto le pene di carcerazioni, per-
dita di armi, ed altre pecuniarie ad arbitrio». A ispirare queste durissime restrizioni
non era stata, presumibilmente, la passione per la caccia del duca Pignatelli, che fino
allora non aveva mai messo piede nei suoi feudi calabresi: esse servivano piuttosto a
riservare una serie di piccoli privilegi al nutrito «corpo dei Cacciatori», i quali peral-
tro, insieme alle loro famiglie, erano sottratti alla giurisdizione ordinaria e soggetti a
quella del locale montiere maggiore. È chiaro, dunque, che il rafforzamento delle
strutture incaricate della vigilanza sulla caccia e sulle risorse forestali rappresentava
per gli apparati feudali, a Monteleone, un mezzo per legare a sé, attraverso l’elar-
gizione di cariche, di qualche emolumento, di una serie di minuti privilegi, alcune
centinaia di vassalli e poter così meglio proteggersi dagli attacchi di un patriziato ca-
parbiamente ostile al dominio ducale66.

64 Sulle lotte tra signori e vassalli nelle province napoletane la storiografia è sconfinata: mi limito
qui a rinviare ad alcuni saggi che illustrano molto bene le forme della lotta per il potere nei feudi
nella tarda età moderna e il ruolo della Corona: A.M. RAO, La questione feudale nell’età tanuc-
ciana, «Archivio Storico per la Sicilia Orientale», 1-2, 1988, pp. 77-162; A. SPAGNOLETTI, Il go-
verno del feudo. Aspetti della giurisdizione baronale nelle università meridionali nel XVIII secolo,
«Società e Storia», 55, 1992, pp. 61-79; ID., Ufficiali, feudatari, notabili. Le forme dell’azione po-
litica nelle università meridionali, «Quaderni Storici», 79, 1992, pp. 231-261.
65 ASN, Archivio Pignatelli Aragona Cortes, Fondo Napoli, scansia 67, f. 1, n. 4, Foliarij, note
di fatti, ed altre scritture attinenti alli capi dati contro il Signor Duca di Monteleone da D. Gianpie-
tro Fabiani, foll. 69-92, copia di un ricorso dei cittadini di Monteleone e Mesiano contro il du-
ca, presentato alla Camera della Sommaria, s.d. [ma 1770].
66 Sulla lite tra i Pignatelli e il patriziato di Monteleone nel secondo Settecento cfr. F. CAMPEN-
NÌ, La Patria e il sangue. Città, patriziati e potere nella Calabria moderna, Manduria-Roma-Bari,
2004, pp. 492-520.

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