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Domenico Cecere Cacce Reali e Cacce Baronali
Domenico Cecere Cacce Reali e Cacce Baronali
Corti e principi
fra Piemonte e Savoia
5
Hanno contribuito alla pubblicazione del volume:
In copertina: Jan Miel, Caccia all’orso, 1659, Sala di Diana, Reggia di Venaria
(proprietà: Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica, Torino).
ISBN 9788871581910
a cura di
Paola Bianchi
Pietro Passerin d’Entrèves
Paola BIANCHI
p. 15 Premessa
Pratiche e territorio
Pietro PASSERIN D’ENTRÈVES
19 Dalla vénerie royale alle riserve di montagna. Tecniche e uso dello spazio
Anna Maria PIOLETTI
37 Spazi e luoghi delle cacce reali
Davide DE FRANCO
53 La caccia in Altessano Superiore: partecipazione della comunità e mutamenti
negli assetti economici e sociali del territorio
Fulvio CERVINI
71 La caccia rappresentata. Armi di lusso per la corte sabauda
Mario GENNERO
81 Il cavallo da caccia: razze e tipologie
Roberta CEVASCO, Anna Maria STAGNO, Robert A. HEARN
91 Archeologia del lupo. Controllo delle risorse animali nella montagna ligure
del XIX secolo
Giurisdizioni
Federico Alessandro GORIA
109 «Venatio est cuilibet permissa de iure gentium». La regolamentazione della cac-
cia nella dottrina del tardo diritto comune
Vittorio DEFABIANI
117 La «Misura Reale»: territori e caccia
Alviero SISTRI
121 I distretti riservati di caccia nei dintorni di Torino nel corso del Settecento
Confronti italiani
Enrica GUERRA
137 La caccia nel territorio estense tra pratica e legislazione nel XV secolo
Stefano CALONACI
153 Nello specchio di Diana. La corte e la riforma della caccia nella Toscana di
Cosimo III
Domenico CECERE
171 Cacce reali e cacce baronali nel Mezzogiorno borbonico
Referenze fotografiche
Tavv. 2-3 Vincenzo Piccione, Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoan-
tropologici del Piemonte, Torino; tavv. 5-18 Ornella Savarino, Soprintendenza per i
Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici del Piemonte, Torino.
Tav. 11 fotografia di L. Ramirez.
Tavv. 3, 5, 33-44, Archivio di Stato di Torino.
La riproduzione fotografica dell’immagine di copertina è dell’Archivio fotografico
Consorzio “La Venaria Reale”.
Elenco delle abbreviazioni
b. busta
m., mm. mazzo, mazzi
n. numero
reg. registro
Abbreviazioni archivistiche:
ACS Archivio Centrale dello Stato, Roma
APNSM Archivio parrocchia Natività di Santa Maria a Venaria Reale
AS Pisa, Scuola Normale Superiore, Archivio Salviati
ASCT Archivio Storico della Città di Torino
ASCVR Archivio Storico Comune di Venaria Reale
ASFi, MDP Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del Principato
ASMo Archivio di Stato di Modena
ASN Archivio di Stato di Napoli
AST Archivio di Stato di Torino
BNP Bibliothèque Nationale de Paris
BNT Biblioteca Nazionale di Torino
BRT Biblioteca Reale di Torino
PCF Archivio di Stato di Torino, Camerale, Patenti Controllo Finanze
Opere a stampa:
DUBOIN F.A. DUBOIN, Raccolta per ordine di materie delle leggi, cioè editti,
patenti, manifesti, etc. …, pubblicati negli Stati di terraferma dal
principio dell’anno 1681 sino l’8 dicembre 1798 dai Sovrani della
Real Casa di Savoia, Torino, 1826-1869, 29 tomi in 31 volumi,
più indici
MANNO A. MANNO, Il patriziato italiano. Notizie di fatto storiche, genea-
logiche, feudali ed araldiche, 2 voll. a stampa, Torino, 1906, e 25
voll. dattiloscritti in consultazione presso le principali biblioteche
e gli archivi torinesi
Cacce reali e cacce baronali nel Mezzogiorno borbonico
Domenico Cecere
Sono ben noti agli studiosi i passi della Storia del Reame di Napoli in cui Pietro
Colletta descrive le stragi di animali delle riserve di caccia reali compiute dalle popo-
lazioni del Regno nel 17991. Il brano è inserito nelle pagine in cui il generale e scrit-
tore napoletano rievoca la fuga del re a Palermo e l’istituzione del nuovo governo re-
pubblicano, e il successivo manifestarsi di segnali dell’insofferenza dei sudditi verso i
simboli e verso più concreti aspetti della regalità e del dominio baronale. Colletta ri-
corda che per iniziativa popolare, o dietro le pressioni popolari, furono invasi i «do-
minii feudali», abbattute le immagini regie, aboliti i titoli di nobiltà; quindi, aggiun-
ge un’informazione per noi molto preziosa: «Altro indizio di popolare avversione si
manifestò per le cacce regie: avvegnaché i cittadini, al sentirsi liberi, uccisero le be-
stie, svanirono i confini; e spregiando le ragioni della proprietà, recidevano i boschi,
piantavano a frutto nei campi, dividevano come di conquista le terre. Così che il
Governo dichiarò le cacce già regie, ora libere, terreni dello Stato».
Sessantatré anni dopo si verificarono episodi che denotavano la persistenza di
quell’«avversione». L’occasione fu l’emanazione del decreto del 9 agosto 1862 con
cui il sovrano piemontese abolì alcuni aspetti della legislazione borbonica intorno
alle «Regie Cacce» nell’ex Regno delle Due Sicilie. Il capitano di caccia del nuovo
re d’Italia, Giuseppe Rosati, descrisse l’accoglienza che le popolazioni meridionali
riservarono alla riforma dell’amministrazione delle regie cacce senza troppo preoc-
cuparsi di scivolare in un linguaggio iperbolico e in immagini poco realistiche: il
giorno in cui fu abolito quel regime, fondato «sull’abuso e sulla prepotenza», «fu
un giorno di festa per tutt’i poveri proprietarii dei fondi imprigionati nel maledet-
to miglio di rispetto; le benedizioni al Re magnanimo salirono, senza ostentazione,
al cielo; il parallelo fra la libertà ed il servaggio si mostrava in tutta la sua luce; fu
una gioia universale»2.
Le due citazioni, tratte da opere di autori lontanissimi tra loro e ostili alla dina-
stia borbonica per ragioni diverse, c’introducono ai temi principali di questo con-
tributo: gli spazi in cui si praticava la caccia nel Mezzogiorno borbonico, i privilegi
e le restrizioni che ne limitavano l’esercizio, i risentimenti e i conflitti che ne di-
scendevano.
1 P. COLLETTA, Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825. Con una notizia intorno alla vita
dell’Autore scritta da Gino Capponi, Losanna, 1847, tomo II, p. 12. Il passo è citato in chiusura
del saggio di H. ZUG TUCCI, La caccia, da bene comune a privilegio, in Storia d’Italia, Annali 6,
Economia naturale, economia monetaria, a cura di R. Romano e U. Tucci, Torino, 1983, pp.
397-445.
2 G. ROSATI, Le cacce reali nelle provincie napoletane. Ricordi di Giuseppe Rosati Capitano di Cac-
cia di S.M. il Re d’Italia, Napoli, 1871, la citazione dalle pp. 9 e 5.
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di caccia in programma per quel giorno6. D’altra parte la stessa regina non si sottrae-
va al compito di accompagnare il consorte nelle battute a cavallo, seguendo i sugge-
rimenti che Elisabetta Farnese dava alla coppia reale7. Del figlio Ferdinando, Collet-
ta riferisce che da fanciullo «godeva mostrare o narrare come sapesse abbattere cigna-
li o cervi, colpire a volo uccelli, frenar destrieri, esser sagacissimo alla pesca». Una
passione che non si sarebbe esaurita in età adulta e che lo avrebbe accompagnato fi-
no agli ultimi anni di vita: anche quando divenne re, secondo Colletta, «le malattie o
le morti della famiglia, le sventure del regno, la perdita di una corona nol distoglie-
vano dalla caccia né da’ giuochi villani»8. Quando nel 1819 suo fratello, Carlo IV,
già re di Spagna e in esilio da diversi anni a Roma, si ammalò gravemente, Ferdi-
nando ne fu informato mentre si trovava nella riserva di caccia di Persano; ma ordi-
nò che non si aprissero le lettere provenienti da Roma e da Napoli «prima della tor-
nata da una caccia, pronta per lo indimani, e sperata dilettevole dall’abbondanza di
cignali e cervi da uccidere. Si obbedisce al comando. Venuti dalla caccia ed aperto il
trattenuto foglio, fu letto esser Carlo agli estremi di vita, e sforzare il debole fiato
dell’agonia per richiedere del fratello»9.
Gli osservatori contemporanei e gli storici dei decenni successivi notavano con
frequenza che la smisurata passione per i divertimenti venatori indusse tanto Carlo
quanto Ferdinando a sottrarre tempo e ingenti somme di denaro agli affari di go-
verno, alla cura delle relazioni diplomatiche e ad altri, più utili impieghi. Ma, al di
là delle loro osservazioni, divertite, imbarazzate o sprezzanti, occorre rilevare che
questo non fu solo il prezzo pagato al capriccio dei due sovrani. Come ha osserva-
to Luigi Mascilli Migliorini, la caccia rappresentò anche un momento di una più
articolata strategia con cui i sovrani cercarono, attraverso i molteplici strumenti
della socialità cortigiana, di conciliarsi la nobiltà: pratica sempre più formalizzata,
essa fu parte di quel processo di disciplinamento mirante a regolare i costumi del-
l’aristocrazia regnicola, irrigidendosi in un rituale in cui, attraverso il gioco delle
precedenze, il sovrano poteva rinsaldare o modificare gli equilibri sociali e politici
di cui era al centro10.
Ma per poter essere praticata secondo le esigenze di una società di corte del
XVIII secolo, questa attività necessitava di ampi spazi. E nel Mezzogiorno continen-
tale, che per circa 230 anni era stato governato a viceregno e perciò non era stato re-
sidenza di un sovrano, le aree riservate alla caccia erano esigue e mal tutelate. In età
vicereale alcune superfici boschive, per lo più nei pressi della capitale (come il bosco
degli Astroni, che oggi è inglobato nel territorio urbano di Napoli) erano riservate ai
divertimenti venatori del viceré e della sua corte. Con cadenza irregolare venivano e-
manati bandi che, per lo spazio di un anno, vietavano l’uccisione di animali e il ta-
glio di legna in alcune località a nord della capitale (nell’area flegrea, lungo il litorale
domizio, nelle zone interne di Terra di Lavoro) che negli ultimi secoli del Medioevo
i sovrani angioini e aragonesi avevano riservato a sé11; ma tutto lascia pensare che tali
ordinanze rimanessero largamente inosservate. Peraltro, l’impressione che agli occhi
del governo vicereale la caccia rivestisse scarsa importanza è corroborata da due ele-
menti: l’inconsistenza della produzione normativa in tale materia nei secoli XVI e
XVII; la vendita dell’ufficio di montiere maggiore. Questa carica, istituita alla fine
del Medioevo col compito di vigilare sulle aree che i sovrani angioini e aragonesi a-
vevano riservato a sé, e di sovrintendere ai «Mastri Forestarj» posti a guardia di cia-
scuna di esse, nel 1630 fu alienata e, tra devoluzioni e rivendite, passò tra le mani di
alcune importanti famiglie dell’antica e della recente aristocrazia del regno (gli Zeval-
los, i Firrao, i Gambacorta nei due rami di Macchia e di Limatola, infine i Carafa di
San Lorenzo)12.
Le restrizioni d’età angioina e aragonese in materia venatoria erano venute a
limitare, ma in misura abbastanza contenuta, un diritto di caccia riconosciuto, al-
meno in astratto, a tutti i sudditi. Sulla base di un principio del diritto romano,
generalmente accolto dalle legislazioni medievali, la selvaggina era res nullius e se
ne acquistava il diritto tramite la presa di possesso13: perciò nel regno la caccia, co-
sì come la pesca, quantomeno formalmente era consentita a ciascun abitante nel
proprio fondo, oltre che nei terreni aperti e in quelli comuni. Secondo un testo
giuridico napoletano sui diritti delle università, ciascuno poteva «cacciare, e pesca-
re, perché va in traccia di quelle cose, che per natura sono acquistabili, per non es-
sere nel dominio di veruno»14. Se si tralasciano quelle derivanti dalla tutela degli
interessi reali, che si moltiplicarono proprio nel periodo borbonico, le principali
limitazioni alle attività venatorie derivavano dalla necessità di salvaguardare l’agri-
coltura e l’allevamento, dunque di preservare le aziende agricole dalle incursioni
degli animali selvatici e di chi li inseguiva: perciò – e questa è una delle rarissime
11 La pratica di riservare a sé la caccia in alcune aree e di vietarla ai sudditi fu tipica dei sovrani
aragonesi, in particolare di Alfonso il Magnanimo, che adottò provvedimenti analoghi anche in
Sicilia: nel 1451, ad esempio, vietò ai sudditi del Vallo di Mazara di cacciare i cinghiali. Cfr. H.
BRESC, Un monde méditerranéen. Économie et société en Sicile (1300-1450), 2 voll., Roma-
Palermo, 1986, vol. II, p. 906.
12 ASN, Archivio Carafa di Castel San Lorenzo, Carte, b. 5, fascicoli sciolti, Supplica al sovrano
dei Deputati dei Capitoli, Grazie e Privilegi di Napoli, 1741. In età aragonese la funzione di su-
pervisore dei «mastri forestari» preposti a ogni singola riserva rientrava tra le competenze del
gran siniscalco, uno dei sette «grandi uffici» del regno. La funzione fu poi affidata a una figura
istituzionale creata ad hoc e chiamata, sull’esempio spagnolo, montiere maggiore, che appartene-
va al rango degli «uffici minori» e che in età vicereale fu alienata, venduta per la prima volta nel
1630 a Giovanni Zevallos; nel 1751, anno in cui Carlo di Borbone la riacquistò al Fisco Regio,
apparteneva ai Carafa di Castel San Lorenzo.
13 H. ZUG TUCCI, La caccia, da bene comune a privilegio cit., pp. 397-445. Cfr. anche il saggio
di Goria in questo volume.
14 R. PECORI, Del privato governo dell’università, 2 voll., Napoli, 1770-1773, vol. I, p. 348.
CACCE REALI E CACCE BARONALI NEL MEZZOGIORNO BORBONICO 175
norme emesse prima del 1734 – una prammatica del 1588 vietava a chiunque, an-
corché munito di licenze, di «andare a cacciare, ed entrar ne’ territorj padronati, e
serrati, per gl’inconvenienti e danni che ne nascono»15.
Ma, al di là di questo, sulla base degli indizi che si possono rinvenire nella lettera-
tura giuridica e nei testi normativi, e in mancanza di studi specifici, mi sembra di po-
ter dire che in età vicereale, a causa della lontananza del sovrano, la tutela delle riserve
reali lasciò molto a desiderare e la legislazione forestale fu applicata blandamente.
15 A. DE SARIIS, Codice delle leggi del Regno di Napoli, Napoli, 1794, lib. IV, Delle Regalie, de’
Ministri di Azienda, e del Real Patrimonio, tit. XVII, Degli Uccellatori, o sia Cacciatori, p. 443.
16 Per le questioni finanziarie, fiscali e giurisdizionali l’ufficio del montiere era sottoposto alla vigi-
lanza della Camera della Sommaria, nella persona di un delegato scelto tra i giudici superiori («pre-
sidenti»), il quale giudicava «tutte le cause nelle quali hanno interesse gli affittatori della caccia»: cfr.
G.M. GALANTI, Nuova descrizione storica e geografica delle Sicilie, Napoli, 1792, vol. I, p. 225.
17 ASN, Archivio Carafa di Castel San Lorenzo, Carte, fascicoli sciolti: relazione del coadiutore
fiscale dell’ufficio del montiere maggiore al giudice delegato Lorenzo Paternò, 1765. La relazio-
ne metteva a fuoco i «molti abusi nell’esercizio» dell’ufficio consolidatisi nei circa 120 anni in
cui era stato alienato.
176 DOMENICO CECERE
18 Ivi, b. 5, f. 8: il procedimento è del 1718, ma riporta consulte, memorie e sentenze degli anni
precedenti (1703, 1716) relative a casi analoghi.
19 Ivi, f. 13.
20 L. BIANCHINI, Storia delle finanze del Regno di Napoli, 2 voll., 2a ed. riveduta e accresciuta
dall’autore, Palermo, 1839, vol. I, p. 443. Nel Regno di Napoli la principale unità monetaria, il
ducato, equivaleva a 10 carlini e a 100 grana.
21 ASN, Archivio Carafa di Castel San Lorenzo, Carte, b. 5, f. 9, copia di atto notarile del 1735.
22 Ibidem, supplica dell’affittatore Bonaventura Adamo, 1746.
23 R. PECORI, Del privato governo dell’università cit., vol. I, pp. 350-353.
CACCE REALI E CACCE BARONALI NEL MEZZOGIORNO BORBONICO 177
24 Se la ricompera dell’ufficio da parte della Corona consentì di ricondurre l’azione del montiere
agli interessi del sovrano, non per questo semplificò la gestione delle riserve di caccia reali: il
montiere maggiore era a capo dell’amministrazione venatoria, comandava i guardacaccia e gui-
dava le battute alle quali prendeva parte il re; tuttavia, gli amministratori (intendenti) dei singoli
siti reali dipendevano dall’amministrazione della Casa Reale: di qui i frequenti contrasti tra il
montiere e gli intendenti, che nemmeno i regolamenti emanati nel 1815 dal segretario della Ca-
sa Reale riuscirono a evitare del tutto.
25 A. DE SARIIS, Codice delle leggi del Regno di Napoli cit., lib. IV, pp. 444-446.
26 G. GALLUCCI - P. GRANDIZIO, I Borbone e la caccia cit.
27 A. DE SARIIS, Codice delle leggi del Regno di Napoli cit., lib. IV, pp. 452-453.
178 DOMENICO CECERE
28 M. SCHIPA, Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, 2 voll., Milano-Roma, 1923, cit.
da G. BRANCACCIO, I siti reali, in La caccia al tempo dei Borbone cit., pp. 17-45.
29 Ibidem.
30 P. COLLETTA, Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825 cit., tomo II, p. 68.
CACCE REALI E CACCE BARONALI NEL MEZZOGIORNO BORBONICO 179
31 Cfr. S. RUSSO - B. SALVEMINI, Ragion pastorale, Ragion di Stato. Spazi dell’allevamento e spazi
dei poteri nell’Italia moderna, Roma, 2007, pp. 159-168 e passim.
32 E. P. THOMPSON, Whigs e cacciatori. Potenti e ribelli nell’Inghilterra del XVIII secolo, a cura di
E. F. Biagini, Firenze, 1989 (ed. or. London, 1975).
33 B. TANUCCI, Epistolario, vol. XV, a cura di M.G. Maiorini, Napoli, 1996, lettera al Re Cat-
tolico, Caserta 25 maggio 1765, p. 393.
34 ASN, Segreteria di Stato di Casa Reale, Scavi e Reali Cacce, b. 1541, f. non numerato, 22 set-
tembre 1767.
35 Ibidem, f. 84, 25 febbraio 1766.
36 ASN, Segreteria di Stato di Casa Reale, Scavi e Reali Cacce, b. 1542, f. 9, relazione del 4 ot-
tobre 1768.
37 Ibidem, f. 51, relazione del 3 ottobre 1769.
38 Ibidem, fl. 71, relazione del 19 dicembre 1769.
180 DOMENICO CECERE
nutritivo fondamentale per ampie fasce delle popolazioni rurali39. A giudicare dalle
parole e dai toni impiegati in alcuni dei reclami che ho potuto consultare, in cui ci si
lamenta delle limitazioni recenti alle attività venatorie, esse sono presentate prevalen-
temente come un esercizio occasionale e accessorio, talora anche come un semplice
svago per i gentiluomini e i notabili del luogo; di certo, la caccia non conferiva una
chiara caratterizzazione socio-professionale a chi la esercitava40.
A dolersi delle nuove limitazioni erano in primo luogo coloro che avevano acqui-
stato dal montiere la concessione di rilasciare i permessi di caccia. Nel 1746 l’af-
fittatore del «jus della caccia» per i borghi napoletani dei Vergini, Fonseca, Sant’An-
tonio Abate, Capodimonte e Avvocata lamentava che molti di coloro che erano soliti
acquistare licenze o non le avevano rinnovate o volevano restituirle ed essere rimbor-
sati, a causa dell’«estinzione de’ luoghi per li tanti, e tanti luoghi Banditi, e proibiti»:
le licenze del 1744 consentivano infatti di «andare a caccia de volatili con scoppetta a
miccio, o vero a grillo in qualsivoglia parte del presente Regnjo … eccettuandone la
Palude di questa fedelissima Città … e lo Bosco dell’Incoronata di Foggia»; ma già le
licenze del 1745 contenevano nuove «riforme, e restrizzioni … assaj più vaste, con
strabocchevole estinzione di territorio», soprattutto nelle aree boscose e collinari
prossime alla capitale «in maniera tale che l’abitanti di detti Borghi affatto non si so-
gnjano più di pigliar licenze, per non avere dove possono andare a sparare; Ma solo
qualche licenza si smaldisce a’ qualche galant’uomo, che in tempo di Autunno se ne
va’ nelle vicinanze a’ divertire»41. Una rimostranza di analogo tenore sarebbe venuta
una ventina d’anni dopo da un cittadino di Nocera, affittatore del diritto di conce-
dere licenze in alcune località a sud di Salerno: egli lamentava le grosse perdite sof-
ferte da quando era stato introdotto il divieto di cacciare da novembre ad aprile nei
territori di Eboli e Persano, sicché «niun particolare attenti tai ordini ha voluto pren-
der le licenze Reggie»42.
43 Cfr. M. ARMIERO, Il territorio come risorsa. Comunità, economie e istituzioni nei boschi abruz-
zesi (1806-1860), Napoli, 1999.
44 Cfr. R. SANSA, Il mercato e la legge: la legislazione forestale italiana nei secoli XVIII e XIX, e W.
PALMIERI, Il bosco nel Mezzogiorno preunitario tra legislazione e dibattito, in Ambiente e risorse nel
Mezzogiorno contemporaneo, a cura di P. Bevilacqua e G. Corona, Corigliano Calabro, 2000,
risp. pp. 3-26 e 28-62; M. ARMIERO, Il territorio come risorsa cit. Cfr. inoltre, più in generale
«Quaderni storici», 1992, n. 81, numero monografico su Risorse collettive.
45 ASN, Segreteria di Stato di Casa Reale, Affari diversi, b. 861, fl. 23, relazioni dell’ingegnere
Domenico Piana 5 agosto e 9 settembre 1761, e dell’intendente delle Cacce di Persano Scipione
Loffredo, 23 agosto 1761, che operarono sotto la supervisione dei ministri dell’Udienza provin-
ciale di Salerno.
182 DOMENICO CECERE
46 Sotto la duplice spinta dell’incremento demografico e della crescita dei prezzi delle derrate a-
limentari, la seconda metà del XVIII secolo, in particolare a seguito della carestia del 1764 e poi
dell’editto di divisione dei demani comunali del 1792, conobbe una forte espansione delle aree
coltivate e la conseguente riduzione delle superfici boschive, con incendi, tagli, danneggiamenti
di vaste aree forestali, soprattutto in province ricche di superfici collinari, come il Molise o la
Capitanata: processi che spesso violavano apertamente la legislazione forestale settecentesca, il
cui tassello più importante era costituito dalla prammatica del 1759 de incisione arborum, intesa
a contrastare la riduzione a coltura dei terreni boschivi. Oltre alle pagine di riformatori come
Longano, Palmieri, Lamanna, cfr. B. VECCHIO, Il bosco negli scrittori italiani del Settecento e
dell’età napoleonica, introduzione di L. Gambi, Torino, 1974; G. CORONA, Demani ed indivi-
dualismo agrario nel Regno di Napoli (1780-1806), Napoli, 1995.
47 Cfr. i resoconti dei diversi rapporti sulle reali cacce in ASN, Segreteria di Stato di Casa Reale,
Scavi e Reali Cacce, b. 1541, f. 84, relazioni degli anni 1765-1766.
48 Ivi, b. 1542, f. 34, relazione del 13 dicembre 1768.
49 Ibidem, f. 75, relazione del 2 gennaio 1770.
50 Ibidem, f. 122, relazione dell’intendente di Torre Guevara, 3 agosto 1773.
51 Ibidem, f. 125, relazione del 17 agosto 1773.
CACCE REALI E CACCE BARONALI NEL MEZZOGIORNO BORBONICO 183
cune università delle alture circostanti: nel 1786 la giunta che amministrava il sito
reale di Caserta vietò alle comunità del non lontano monte Taburno il taglio di
alberi e il pascolo, attività sospettate di apportare danni alle acque che irrigavano le
reali delizie a valle. Le popolazioni del Taburno manifestarono da subito il proprio
malcontento, ma solo dieci anni dopo l’estensione della riserva fu ridotta52.
Alla luce di questi episodi si comprendono le ragioni delle violenze e delle stra-
gi di selvatici compiute dalle popolazioni nelle riserve reali durante i brevi mesi
della Repubblica, riferite da Colletta e citate in apertura53.
ro dal rivolgersi anche alle corti superiori napoletane o ai segretari di Stato per impe-
dire ai propri vassalli o agli abitanti di comunità confinanti di cacciare nei boschi dei
loro feudi o d’introdurvisi per accedere alle risorse forestali: come il barone Girolamo
de Lerma, che nel 1736 scomodava addirittura l’allora segretario di Giustizia Tanucci
e i giudici di un tribunale supremo, qual era la Camera di Santa Chiara, per denun-
ciare l’intrusione nelle sue cacce dell’Oliveto, in Basilicata, da parte di abitanti della
terra limitrofa di Accettura, in violazione del «jus prohibendi della Caccia» che aveva
acquistato insieme al feudo60; o il principe di Sansevero Raimondo di Sangro, il quale
attraverso i ministri regi faceva pressione sul preside di Lucera perché emanasse un
bando che impedisse agli abitanti dei suoi feudi in Capitanata e delle terre confinanti
«di andare per la caccia nei suoi boschi e territori»61; o, infine, come il principe Mi-
chele Pignatelli il quale si lamentava perché gli abitanti dei suoi feudi in Terra d’O-
tranto (provincia corrispondente all’area salentina) e quelli dei villaggi limitrofi ucci-
devano gli animali selvatici che, usciti dai boschi, ne danneggiavano i poderi62.
Ma di quanto l’aristocrazia feudale del Regno fosse gelosa delle proprie prero-
gative anche in materia di caccia è prova soprattutto la dura lite che poco prima
della metà del Settecento contrappose il fiore della nobiltà napoletana a uno dei
suoi membri, il principe Carafa di San Lorenzo che in quegli anni ancora deteneva
l’ufficio di montiere maggiore. La lite ruotava, come al solito, attorno alla facoltà
di concedere le licenze di caccia; a rappresentare gli interessi della feudalità napole-
tana intervenne persino la Deputazione dei Capitoli, Privilegi e Grazie della capi-
tale, una commissione municipale che era emanazione dei Seggi napoletani (in
cui, è bene ricordarlo, sedeva la maggior parte del più cospicuo baronaggio regni-
colo, e che aveva sostanzialmente ereditato le funzioni del Parlamento del Regno,
non più convocato dal 1642). Prendendo spunto dall’«attentato» compiuto dal
montiere maggiore contro i diritti del marchese di Pietramelara nel suo feudo in
Terra di Lavoro, i nobili napoletani chiedevano al sovrano di pensare «al pregiudi-
zio gravissimo, che ad esempio di questi, à tutti gli altri Baroni, e luoghi demaniali
del Regno poteasi arrecare»; inoltre rivendicavano il diritto di rilasciare licenze ai
propri vassalli, menzionando la consuetudine, avallata da precedenti sentenze dei
tribunali regi, secondo cui «moltissimi Baroni tanto nel Regno, quanto nel distret-
to [della capitale] essi privativamente han’ sempre mai conceduta, e tuttavia con-
cedono agl’huomini de’ loro Feudi la licenza di andare a’ Caccia»63.
La risolutezza con cui il baronaggio intervenne a difesa delle proprie prerogative
in materia di caccia si comprende bene se si pone mente al principale oggetto del
contendere. In questione sembra essere non tanto il diritto dei singoli baroni di te-
60 ASN, Real Camera di Santa Chiara, Bozze di Consulte, vol. 6, f. 5, 9 maggio 1736.
61 Ibidem, vol. 39, f. 26, 17 febbraio 1740.
62 D. GATTA, Regali dispacci, nelli quali si contengono le Sovrane Determinazioni de’ Punti Gene-
rali, e che servono di norma ad altri simili casi, nel Regno di Napoli, parte III, Che riguarda il Cri-
minale, Napoli, 1776, t. II, p. 326, dispaccio del 13 maggio 1769 al preside di Lecce: il sovrano
ribadiva il diritto dei proprietari dei fondi di uccidere i selvatici usciti dai boschi del barone.
63 ASN, Archivio Carafa di Castel San Lorenzo, Carte, b. 5, f. 7, n. 29, copia della supplica del-
la Deputazione, 1741.
CACCE REALI E CACCE BARONALI NEL MEZZOGIORNO BORBONICO 185
nere riservate, per il proprio diletto, alcune porzioni dei territori infeudati, quanto
quello correlato di poter concedere in esclusiva licenze di caccia ai propri vassalli: un
diritto che poteva rivelarsi, in qualche caso, una fonte non trascurabile di entrate, ma
che soprattutto poteva rappresentare un utile strumento per consolidare il proprio
potere nel feudo o per favorire una delle fazioni locali in lotta, attraverso l’elargizione
di cariche e di privilegi64. È, questo, un aspetto che emerge con chiarezza dalla lunga
controversia che nella seconda metà del Settecento oppose il patriziato di Monteleo-
ne (l’odierna Vibo Valentia) a uno dei principali baroni del Regno, Ettore Pignatelli
duca di Monteleone, titolare di un vasto e compatto patrimonio feudale nella Cala-
bria meridionale, comprendente una quarantina di «popolazioni» tra città, terre e ca-
sali. La principale accusa mossa al barone era quella di governare il vasto complesso
feudale come un regno autonomo: a sostegno di questa imputazione i patrizi ricor-
davano, tra le altre cose, che la struttura che regolava le attività venatorie ricalcava,
persino nei nomi, quella regia, con al vertice un montiere maggiore, coadiuvato da
un capocaccia per ogni feudo e da centinaia di cacciatori e «sottocacciatori»65. Essi
lamentavano, tra l’altro, che nell’intero territorio feudale fosse proibito uccidere «sar-
ni, lepri, pernici, faggiani, cignali, e capri per tutti i luoghi anche appadronati de’ va-
sti stati», così come «nella maggior parte de’ tenimenti anche non chiusi, ed appa-
dronati per qualunque sia sorte di caccia, e questo sotto le pene di carcerazioni, per-
dita di armi, ed altre pecuniarie ad arbitrio». A ispirare queste durissime restrizioni
non era stata, presumibilmente, la passione per la caccia del duca Pignatelli, che fino
allora non aveva mai messo piede nei suoi feudi calabresi: esse servivano piuttosto a
riservare una serie di piccoli privilegi al nutrito «corpo dei Cacciatori», i quali peral-
tro, insieme alle loro famiglie, erano sottratti alla giurisdizione ordinaria e soggetti a
quella del locale montiere maggiore. È chiaro, dunque, che il rafforzamento delle
strutture incaricate della vigilanza sulla caccia e sulle risorse forestali rappresentava
per gli apparati feudali, a Monteleone, un mezzo per legare a sé, attraverso l’elar-
gizione di cariche, di qualche emolumento, di una serie di minuti privilegi, alcune
centinaia di vassalli e poter così meglio proteggersi dagli attacchi di un patriziato ca-
parbiamente ostile al dominio ducale66.
64 Sulle lotte tra signori e vassalli nelle province napoletane la storiografia è sconfinata: mi limito
qui a rinviare ad alcuni saggi che illustrano molto bene le forme della lotta per il potere nei feudi
nella tarda età moderna e il ruolo della Corona: A.M. RAO, La questione feudale nell’età tanuc-
ciana, «Archivio Storico per la Sicilia Orientale», 1-2, 1988, pp. 77-162; A. SPAGNOLETTI, Il go-
verno del feudo. Aspetti della giurisdizione baronale nelle università meridionali nel XVIII secolo,
«Società e Storia», 55, 1992, pp. 61-79; ID., Ufficiali, feudatari, notabili. Le forme dell’azione po-
litica nelle università meridionali, «Quaderni Storici», 79, 1992, pp. 231-261.
65 ASN, Archivio Pignatelli Aragona Cortes, Fondo Napoli, scansia 67, f. 1, n. 4, Foliarij, note
di fatti, ed altre scritture attinenti alli capi dati contro il Signor Duca di Monteleone da D. Gianpie-
tro Fabiani, foll. 69-92, copia di un ricorso dei cittadini di Monteleone e Mesiano contro il du-
ca, presentato alla Camera della Sommaria, s.d. [ma 1770].
66 Sulla lite tra i Pignatelli e il patriziato di Monteleone nel secondo Settecento cfr. F. CAMPEN-
NÌ, La Patria e il sangue. Città, patriziati e potere nella Calabria moderna, Manduria-Roma-Bari,
2004, pp. 492-520.