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Costanza Benini 

                      Indirizzo di Restauro, PFP2

Anno Accademico 2020/2021 Anno III

LA CULLA DI VITTORIO
EMANUELE III: UN’ANALISI
Storia delle arti applicate

 
   

 
Indice 

Un primo approccio all’opera ………………………………………………………………..…………………..……..…. pag. 2

Lo stile …..…………………………………………………………………………..……………………………………….…………..… pag. 4

Gli autori: Domenico Morelli e Ignazio Perricci …….……………………………………………………..……...… pag. 6

I materiali della culla …….………………………………………………………………………………………………..……...… pag. 9

Seta di San Leucio…………………………………………………………….………………….………..…. pag. 9

Madreperla ………………………………………………………………………………….………………..…. pag. 11

Tartaruga ……………………………………………………………………………..……………………....…. pag. 13

Corallo ……………………………………………………………………………………………………..…..…. pag. 16

Cammei di Torre del Greco ………………………………………………………………………..…. pag. 20

Storia collezionistica …………………………………………………………………………………………………..….………. pag. 24

Il museo: la Reggia di Caserta …………………………………………………………………………………..….…...…. pag. 25

Confronti: alcune culle di casa Savoia ……………………………………………………………………..….….….…. pag. 27

La culla di Umberto I .………………………………………………………………………..…..………. pag. 27

La culla di Iolanda di Savoia ……………………………………………………………..….…..…... pag. 28

La culla di Maria Pia di Savoia, poi culla di Vittorio Emanuele ………...….…..…. pag. 30

Bibliografia …………………………………………………………………………………………………………………..….…..…. pag. 32

Sitografia ………………………………………………………………………………………………………………………...……… pag. 32

 

Un primo approccio all’opera

L’opera d’arte applicata presa in esame è la


culla di Vittorio Emanuele III, principe ereditario di
Napoli: si tratta di un oggetto che ben rappresenta
l’eclettismo napoletano risorgimentale e
l’abilità delle maestranze partenopee coinvolte;
la culla è dal 2008 esposta alla Reggia di Caserta,
nelle Retrostanze dell’Appartamento
dell’Ottocento.

Il manufatto risale al 1869, anno di nascita del


futuro re d’Italia, e venne eseguito in soli
trentacinque giorni e su disegni e progetto del
pittore Domenico Morelli (1923 – 1901), del
professore d’ornato Ignazio Perricci (1834 -1907)
e degli architetti Errico Alvino (1809 – 1876),
Alessandro Bobbio e Antonio Francesconi (1810 – 1. La culla al Palazzo reale di Capodimonte (1879 –
1890). 1910). Collezione archivi Alinari – archivio Brogi, Firenze.

L’opera venne donata dalla città di Napoli ai Savoia per la nascita del figlio e voleva quindi essere
un simbolo del Regno di Napoli e della sua prosperità: i soggetti rappresentati e i materiali utilizzati
alludono quindi alle ricchezze della città e al suo fiorente artigianato - esperto specie nei settori
scultoreo, dell’oreficeria, dell’ebanisteria e della seteria. 

Nello specifico, la struttura portante in legno di


mogano, che presenta intagliato lo stemma dei
Savoia, è realisticamente scolpita in una metà con
spighe, uva, melograni, pere, farfalle, grilli e altre
piante ed animali, a rappresentare l’abbondanza
del suolo campano, mentre dall’altra sono
intagliati alcuni simboli della ricchezza delle acque
napoletane, come crostacei, alghe marine, una
conchiglia da cui fuoriescono altre conchiglie e un 2. Foto di un dettaglio dell’intaglio dei frutti di terra.
delfino o tritone, che con la coda avvolta a spirale
regge posteriormente la culla. I frutti di terra sono opera di Luigi Ottaiano e dei suoi allievi
Salvatore Pagano, Giovanni de’Bernardi, Vincenzo di Maio, Luigi Mastrodonato e Giuseppe de
Vivo, mentre gli artefici di quelli di mare sono Emilio Franceschi (1839 – 1890) e dei suoi allievi
Giuseppe Ferrara, Guglielmo Cuniberti, Vincenzo Alfano, Achille Todisco e Luigi Filardo.

 

La base della struttura, come si evince dalla foto dell’archivio Alinari, presentava in origine delle
frange in tessuto che nascondevano l’appoggio a terra. 

Sempre intagliato, ma in un altro legno, è


l’elegante angelo reggi cortina, ricordante
una polena di nave e scolpito da Tommaso
Solari (1820 – 1889) - autore peraltro della
statua marmorea di Carlo I d’Angiò nel
Palazzo Reale di Napoli – Ernesto Solitario,
Giovanni de Bernardi e Emilio Franceschi.
Opera di Stanislao Lista (1824 -1908) è invece
il lazzariello: come se la stesse trainando,
sorregge anteriormente la culla, che nel
complesso può ricordare una sorta di
conchiglia a causa dell’imbottitura in seta,
prodotta nelle fabbriche di San Leucio e
ricamata in oro da Boschetto. La culla
presenta all’esterno modanature in
tartaruga e un copioso e articolato decoro
3. L’aspetto attuale della culla.
sviluppato in tre fasce principali:

Lungo il profilo superiore corre una sottile fascia in madreperla con applicazioni in corallo bianco,
raffiguranti alternamente una stella e una margherita, a significare che i primi pensieri del bambino
dovessero essere la madre, la regina Margherita di Savoia, il cielo e la casata dei Savoia, il cui
motto fa infatti riferimento alle stelle.

Vi sono quindi degli intagli in ebano ed una


fascia intermedia in madreperla, dove
ventiquattro cammei di forma concentrica, in
corallo di Torre del Greco e con puttini
sorridenti in conchiglia sardonica, sono alternati
a due a due con uno scudo in cui, nei due
centrali, sono raffigurate le armi dei Savoia e
una corona decorata con pietre preziose; in uno
degli scudi vi è inoltre il motto della casa reale
J’atteins mon astre, ovvero “Ecco la mia
4. Dettaglio della fascia decorata.
stella”. Gli scudi e le gioie incastonate sopra le
corone sono opera di Salvatori Negri, mentre i

 

cammei sono di Antonio Giansanti (1827 – 1900), docente d’incisione presso la Real Scuola
d’Incisione su Corallo di Torre del Greco, e dei maestri incisori Finizio, Stella e Laudicino. Da
questa fascia pendono, ad intervalli regolari, degli elementi torniti a trottola.

La parte terminale della culla, rientrante rispetto alle fasce superiori e delimitata da una sottile
modanatura a righe oblique bianche e nere, ha forma concava ed è decorata con intarsi in oro
cesellato, tartaruga e cabochon di corallo rosso del Mediterraneo su placchette in madreperla,
volti a rafforzare la destinazione regale dell’oggetto. La lavorazione dell’ebano presente nella
fascia centrale, della tartaruga e della madreperla sono opera di Luigi Giosa e di Vincenzo Paladini,
mentre alla base della culla vi è una rete in oro, opera dei già citati Emilio Franceschi e Luigi
Ottaiano, e infine varie decorazioni che richiamano i nodi delle funi del transatlantico sabaudo
Conte Verde.

L’uso del corallo non allude solo a Napoli e alla perizia partenopea nella sua lavorazione, ma ha
anche significati simbolici dalle antiche radici: fin dagli inizi, infatti, ha rappresentato la resurrezione
e la regalità divina; a causa delle proprietà magiche attribuitegli veniva inoltre donato ai neonati
per proteggerli dalle forze oscure e dal malocchio: appaiono dunque chiare le motivazioni di un
suo utilizzo tanto diffuso nell’opera.

Lo stile
Il manufatto già a prima vista appare come un compendio ottimamente riuscito non solo di
numerosi materiali, ma anche di differenti influenze stilistiche: elementi chiaramente ispirati ad
epoche e correnti artistiche tra loro diverse convivono infatti liberamente, senza entrare in conflitto
tra loro ma, al contrario, portando ad un risultato ricco di originalità ed armonia.

L’angelo reggi cortina, ad esempio, può


ricordare la Nike di Samotracia (200 – 180 a.C.), qui
rivisitata, con le sue linee più sintetiche e pulite, in
chiave decisamente neoclassica: questo richiamo
classico può leggersi quindi sia come invocazione
alla protezione divina per il bambino - in quanto
ad essere raffigurato è un angelo - che come
auspicio per la sua futura vita da regnante, poiché
4. Dettaglio dell’angelo reggi cortina.
il rimando è alla Vittoria Alata. 

Il lazzariello che traina la culla apporta invece suggestioni rinascimentali, dovute al naturalismo e
all’attenzione anatomica con cui è raffigurato, mentre l’intaglio rappresentante i frutti di mare
e quelli di terra può considerarsi di stampo barocco, a causa della somiglianza stilistica con le

 

opere, ad esempio, di Andrea Brustolon e con
altre sculture lignee del periodo. Vale la pena
inoltre ricordare che Napoli fu caratterizzata,
nel corso del XVII e del XVIII secolo, da una
fiorente e assai felice produzione di sculture
ed intarsi lignei, rappresentanti per lo più fiori
e foglie – basti ricordare nomi quali Aniello e
Michele Perrone e il loro allievo Nicola
Salzillo, le cui sculture ebbero grande fortuna
anche in Spagna- : la tradizione del genere
era quindi molto sentita e consapevole nella
città partenopea.
Per quanto riguarda la culla vi sono elementi
tra loro ugualmente contrastanti: se infatti la
fascia con i cammei è di stampo neoclassico,
le torniture pendenti e la modanatura a linee
oblique bianche e nere sono un rimando
tardogotico, così come la forma degli intarsi 5. Collocazione e aspetto della culla alla Reggia di Caserta.
in madreperla con cabochon in corallo.

La caratteristica dell’opera di essere frutto di un tanto creativo ed eterogeneo mix d’ispirazioni,


oltre che la sua datazione, permette d’inserirla nella corrente stilistica dell’eclettismo e in
particolare, data la provenienza e i materiali usati, di quello napoletano.

 

Gli autori: Domenico Morelli e Ignazio Perricci

Domenico Morelli (Napoli, 1823 – 1901) è stato con Filippo Palizzi uno dei più importanti artisti
napoletani del XIX secolo, oltre che, dal 1886, senatore del Regno d'Italia nella XVI legislatura.

Iniziò a frequentare l'Accademia di Belle Arti di


Napoli nel 1836 e i suoi primi dipinti furono
improntati all'ideale romantico, con numerosi
influssi medievali; nel 1855 partecipò
all'Esposizione Universale di Parigi e prese parte ai
dibattiti dei macchiaioli sul realismo pittorico,
iniziando a sviluppare uno stile meno accademico
e maggiormente libero, oltre che un approccio ad
una diversa concezione della pittura che ben si
esplicano nell’opera Gli Iconoclasti. In questa tela
dallo spunto rinascimentale Morelli infatti, a partire
dai modelli letterari e dalle fonti storiche,
intendeva “rappresentar figure e cose, non viste,
ma vere ed immaginate all’un tempo”,
inserendosi dunque nella corrente artistica poi
6. Domenico Morelli, Autoritratto, 1840
definita come verismo storico.
Nella seconda metà degli anni cinquanta fu impegnato nella decorazione della chiesa di San
Francesco a Gaeta e negli affreschi della cappella neobizantina di palazzo Nunziante a Napoli; il
progetto fu condotto nel 1859 da Errico Alvino, architetto con il quale avrebbe poi collaborato
dieci anni dopo per la realizzazione della culla del principe Vittorio Emanuele III. La prestigiosa
commissione segnò tuttavia la conclusione del rapporto tra la Casa reale e Morelli, che a partire
dal 1863 era stato inoltre nominato consulente del Museo nazionale di Capodimonte per
l’acquisizione di nuove opere.
Nel 1868 divenne titolare della cattedra di pittura dell'Accademia di Belle Arti di Napoli, educando
tutta una generazione di pittori e profondendo le sue energie nel rinnovare i modelli didattici con
lo scopo di garantire agli allievi una più adeguata formazione artistica: col suo interesse per il
realismo napoletano del Seicento, l'adesione al realismo e allo studio dal vero, portò infatti la
rivolta antiaccademica nel seno stesso dell'Accademia.

Nel 1845 conobbe Giuseppe Verdi: il legame tra i due fu determinante per l’attività artistica di
Morelli, indirizzandolo verso filoni tematici legati al teatro romantico del tempo; dagli anni settanta
inoltre tra i due nacque una feconda collaborazione, con Morelli che spesso inviava fotografie dei
suoi lavori al compositore, ricevendo consigli, e fruttuosi confronti su temi di comune interesse,

 

come ad esempio la rappresentazione dei
personaggi shakespeariani del Re Lear e
dell’Otello. Fu forse anche la suggestione
dell’Aida che portò Morelli, tra il 1874 e il 1883, a
sviluppare un gusto e delle tematiche più
orientaliste, sempre trovando ispirazione
nell’analisi approfondita delle fonti storiche.
Di questo periodo si può ricordare La sultana e
Bagno turco, opera che non venne però ben accolta
dalla critica ufficiale; la fama di Morelli, sia come
pittore che come intellettuale, era ormai comunque
consolidata e riconosciuta su scala nazionale e
internazionale: si era infatti interessato alle
problematiche storiche e sociali connesse alla
creazione dello Stato unitario, rendendosi punto di
riferimento per la ridefinizione di un nuovo ruolo 7. Domenico Morelli, Gli Iconoclasti, 1855.
dell’artista, che doveva essere impegnato e
partecipe della costruzione della nuova società civile.

Nel 1882 fu ad esempio istituito a


Napoli il Museo Artistico Industriale,
volto a garantire un’educazione
completa ad artisti e fruitori, così da
promuovere la disciplina ed il
progresso delle arti applicate, e il cui
regolamento ebbe la direzione proprio
di Morelli e del già citato Palizzi.
Sempre al fianco di Palizzi Morelli fu
inoltre uno dei fondatori della Società
Promotrice di Belle Arti, una libera
associazione sorta nel 1862 che,
attraverso esposizioni annuali, 8. Domenico Morelli, Bagno Turco, 1862.
intendeva dare sostegno ai giovani
artisti.

Agli ultimi due decenni del secolo risalgono gli interventi decorativi per la facciata del Duomo di
Amalfi, alcune delle illustrazioni della Bibbia di Amsterdam (1895) e la direzione dell’Accademia
di Belle Arti di Napoli, che proseguì fino alla morte, nel 1901. 

 

Ignazio Perricci (Monopoli, 1834 – Napoli, 1907) è stato
un pittore, scultore, decoratore, arredatore e architetto
italiano; iniziò gli studi a Monopoli, presso il decoratore
Antonio Conti, e si trasferì successivamente a Napoli per
frequentare l'Istituto di Belle Arti e studiare pittura e
architettura. Qui, nel 1865, decorò alcune sale del Museo
Archeologico, mentre nel 1869 divenne insegnante
d’ornato presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli –
cattedra di cui diventerà titolare nel 1895 - oltre che, come
visto, partecipare al progetto per la culla di Vittorio
Emanuele III, opera per cui ottenne la nomina di cavaliere
della Corona d’Italia. Presso l’Accademia diventò
inoltre titolare della cattedra di pittura ornamentale nel
1878 e di quella di pittura decorativa nel 1886, divenendo
9. Ignazio Perricci, Ritratto di Franz Liszt, 1875
inoltre caposcuola della Scuola decorativa partenopea.
Nel 1870, sempre insieme al Morelli, portò a termine il sipario per il teatro di Salerno, oggi teatro
Comunale Giuseppe Verdi, mentre nel 1871 decorò l’abside del Duomo di Napoli e tra il 1870 e
il 1872 eseguì numerosi lavori al Castello Ducale di Corigliano Calabro, dove realizzò il Salone degli
Specchi, capolavoro del barocco napoletano. L’opera lì presente, Il palcoscenico della vita, consta
in una tela, dipinta a trompe l’œil e applicata al soffitto, in cui alcuni personaggi in costumi locali
salutano gli osservatori sullo sfondo di un cielo blu notte tempestato di stelle realizzate con
frammenti di cristallo. 

Nel 1876 curò l’allestimento in stile Luigi


XV della sala degli Specchi nel palazzo del
Quirinale a Roma, mentre dal 1886 al 1891,
nel corso della ristrutturazione di Villa
Giulia a Barra, in provincia di Napoli, ideò
e talvolta eseguì direttamente molte opere
e arredi della dimora, tra cui emergono
quelli del grande salone rococò e della sala
giapponese, in cui è presente una finta
tappezzeria realizzata con carta dipinta a
tempera per, secondo il gusto per le
10. Ignazio Perricci, Il palcoscenico della vita, dettaglio, 1872.
cineserie dell’epoca, riprodurre la
brillantezza delle sete orientali.

Complessivamente Perricci nelle sue opere si rifà ad un classicismo interpretato con originalità,
dovizia di particolari e tecniche da lui spesso ideate e sperimentate. L’artista morirà a Napoli nel
1907 e verrà riscoperto solo in tempi recenti.

 

I materiali della culla

Seta di San Leucio

Risalgono al tempo di Papa Leone III, nella seconda metà dell’VIII secolo, le prime testimonianze
circa l’alta qualità della manifattura tessile napoletana, soprattutto del lino e di tipo serico.

Durante il periodo aragonese la qualità crebbe ancora,


con stoffe che venivano lavorate sovrapponendo vari
motivi, così da ricordare dei bassorilievi, e impegnando
in un lavoro certosino sempre più tessitori, sarti e
ricamatori. Dal 1735, con Carlo di Spagna, e durante
tutto il periodo barocco l’artigianato tessile si rinnova
sia circa il gusto e lo stile delle stoffe prodotte, sia circa
la loro qualità e tipologia: Napoli diventa infatti centro
produttivo del damasco, del taffetà e del broccato. Col
tempo però alla città partenopea si sostituirà, in
quanto polo serico, il territorio di Caserta e in
particolare la città di San Leucio: intorno al 1776
Ferdinando IV di Borbone infatti aveva istituito, in 11. Progetto di Ferdinandopoli.
quella che all’epoca era la residenza di caccia del
Complesso Monumentale del Belvedere di San Leucio, la Real Colonia di San Leucio, chiamandovi
i migliori tessitori dell’epoca e accarezzando il sogno di fondarvi una città industriale,
Ferdinandopoli, che fosse economicamente autonoma e producesse sete superiori a quelle di
Lione, all’epoca considerate le migliori.

La colonia era dotata di una seteria, di


una fabbrica di tessuti e di una struttura
urbanistica organica e simmetrica, oltre
che di un proprio statuto che il sovrano
volle ispirato al socialismo reale ed
utopico. La Costituzione di San Leucio si
reggeva su tre cardini: l’educazione,
considerata l’origine dell’ordine
pubblico e perciò gratuita e
obbligatoria per tutti, la fede, prima
delle virtù sociali, e il merito, unica reale 12. Uno degli antichi telai della fabbrica, oggi esposto al museo di San
distinzione tra i cittadini, che recepivano Leucio.
infatti uguale salario a prescindere dal sesso e a cui il sovrano donò un telaio per famiglia. Il centro
di questa realtà, vicina alla Reggia di Caserta e a Napoli e dunque in ottima posizione per il

 

rifornimento della corte e gli scambi commerciali, era la fabbrica, statale, in cui venivano svolte
tutte le lunghe fasi produttive, dall’allevamento dei bachi alla lavorazione del tessuto. 

A primavera le uova del baco si schiudono e questo, dopo tre o quattro mute, secerne un filo,
lungo anche centinaia di metri e reso rigido dalla sericina, con cui formerà il bozzolo in cui subirà
la metamorfosi in crisalide e poi in farfalla; il bozzolo viene ammorbidito immergendolo in acqua
calda, così da estrarne la sericina, dipanato e tratto, ovvero tirato fino a formarne delle matasse
che vengono poi tessute. Il prodotto ottenuto viene quindi rifinito attraverso operazioni come la
marezzatura, ovvero la compressione sotto grandi cilindri, l’apprettatura, la cimatura e la
piegatura.

Attraverso questi procedimenti a San Leucio venivano prodotti, per l’abbigliamento come per
l’arredamento, una ricca gamma di rasi, broccati e velluti in una gamma cromatica assai vasta e,
all’epoca, ottenuta attraverso coloranti naturali: la fama della sua manifattura si estese presto in
tutte le corti d’Europa, divenendo un’eccellenza e superando la produzione francese.

Nei primi decenni del XIX secolo vennero


introdotti a San Leucio il telaio Jacquard e la
macchina a lisage, che permisero di arricchire la
produzione con stoffe di seta broccate in oro e
in argento, scialli, fazzoletti, corpetti, merletti,
oltre che con prodotti locali come i cosiddetti
gros de Naples e un tessuto per abbigliamento
chiamato leuceide. L’Ottocento, a causa di
queste invenzioni e dei grandi cambiamenti
sociali che lo caratterizzano, è inoltre un secolo
in cui la seta divenne ancor più un prodotto di
lusso, appannaggio e simbolo distintivo delle 13. Macchine tessili oggi esposte al museo di San Leucio.
classi nobiliari e perciò ben distinto da altri tessuti, come lana e cotone, ormai di più largo consumo
per via della meccanizzazione dei procedimenti. In effetti, a causa della sua luminosità, la seta era da
sempre stata un simbolo di lusso, tanto che anticamente era accessibile solo a re, imperatori e alle loro
corti ed era utilizzata per rappresentare i simboli del potere e delle famiglie aristocratiche.

Con il 1861 e la nascita del Regno d’Italia la fabbrica di San Leucio venne privatizzata e lo statuto
fu abolito; la manifattura però non scomparve e, sebbene con caratteristiche ovviamente assai
diverse, continua ancora oggi con industrie a conduzione per lo più familiare che, come un tempo,
portano avanti una produzione di gran pregio e le cui sete adornano il Vaticano, la Casa Bianca,
Buckingham Palace, la Camera dei Deputati, il Senato Italiano e molte case reali e di alta
rappresentanza europee e non. 

 
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Madreperla

La madreperla è il rivestimento iridescente presente sullo strato interno della conchiglia che
racchiude alcune specie di molluschi; è formata da diversi strati di cristalli lamellari di aragonite,
un minerale composto da carbonato di calcio, ondulati e disposti simmetricamente intorno alla
valva. La conchiolina, una proteina, e l’acqua tengono insieme le molecole di aragonite, sostanza
responsabile dell’aspetto della madreperla: le piastrine di aragonite sono infatti trasparenti e
imitano lunghezze d'onda della luce visibile, permettendo l'assorbimento e la rifrazione dei raggi
luminosi in varie tonalità, con il conseguente fenomeno di iridescenza - detto anche lustro. 

La madreperla è un materiale duro e molto


fragile, motivo per cui si graffia facilmente, di
colore bianco perlaceo iridescente: viene
prodotta dal mollusco come protezione dai
predatori e riparo dalle intemperie con un
processo chiamato incistamento che, nel caso
in cui sia seguito da una reazione irritante,
potrà dare origine ad una perla. Per questo
motivo la madreperla viene utilizzata anche
come nucleo di coltivazione delle perle.  14. Dischetti in madreperla.

A causa della sua fragilità, la lavorazione è molto lunga e complessa: per prima cosa si rimuove la
crosta esterna dalle conchiglie, che vengono quindi tagliate in pezzi e lavorate con ruote a
smeriglio e con il tornio. A ciò seguono altre lavorazioni che dipendono dall’oggetto da produrre
– ad esempio trafilatura, profilatura o incisione – e la pulitura. I principali centri produttivi e
manifatturieri in Europa sono in Italia a Torre del Greco, in Austria a Vienna, in Francia a Merù, in
Germania ad Amburgo e a Soligen e in Inghilterra a Birmingham.

Le tipologie di madreperla sono molteplici, e le più ricercate


sono quelle dei Bivalvi, dei Cefalopodi e di alcuni
Gasteropodi. La madreperla più pregiata per dimensioni e
spessore si ottiene in genere dalle conchiglie provenienti dai
mari tropicali, come sono quelle appartenenti al genere
Meleagrina e Pinctada Maxima. Anche il colore, che si
differenzia a seconda della specie e dell’aria geografica, è
importante per determinare la pregevolezza del materiale:
può essere bianca, bianco gialla, verde e nera, come sono
le conchiglie neozelandesi Paua, per questo motivo dette
opale del mare. La madreperla viene distinta in tipologie in 15. Set di cucchiai in madreperla.
 
11 
base a fattori quali la provenienza, la grandezza e lo spessore delle conchiglie ed il colore: una
delle più diffuse è la madreperla della conchiglia perlifera, che può raggiungere quasi 5 chili di
peso, ma si può ottenere anche da ostriche e artificialmente. 

La madreperla è stata molto apprezzata sin dall’antichità


per il suo aspetto caratteristico: in Cina ad esempio
scoprirono già molti secoli prima di Cristo che, inserendo
piccole figure all’interno di molluschi ancora in vita, le si
poteva poi ritrovare interamente ricoperte di madreperla; gli
indiani Yaqui, in Messico, erano soliti indossare collane in
madreperla, chiamate Dettehopo’Orosim, con lo scopo di
proteggersi dal male, e nei corredi funebri dei Sumeri sono
presenti numerosi ornamenti in legno e strumenti musicali 16. Bottoni in madreperla prodotti a
Broome.
ricoperti di madreperla.

Nel Medioevo si diffuse in Europa attraverso l’Oriente, ma il suo periodo di maggiore fortuna fu
durante il regno di Elisabetta I, nel XVI secolo, che diede inoltre al materiale il nome “Mother of
Pearl”: in quegli anni la domanda crebbe incredibilmente e vennero prodotti molti oggetti
ornamentali, come tabacchiere, scatole, gioielli, lavori d’intarsio, tasti di strumenti musicali,
decorazioni di posate e, soprattutto, bottoni. In effetti, fino a quando la plastica non prese il
sopravvento, nel XX secolo, la madreperla era ampiamente usata per la produzione di bottoni
lucidi, artigianato che presenta tutt’oggi un centro fiorente a Broome, in Australia, in cui viene
raccolta e lavorata la madreperla della Pinctada Maxima. 

 
12 
Tartaruga

La tartaruga è stata considerata un materiale prezioso sin dalle epoche


più antiche: secondo la mitologia la lira di Ermes era stata ricavata da una
tartaruga e già durante l’epoca di Cesare l’artigianato dedicato a
questa lavorazione era assai sviluppato, tanto che anche Seneca, nel I
secolo d.C., afferma, nel suo De Benificiis, che “La tartaruga viene
lavorata in scaglie sottilissime e, comprati a grande prezzo, (così lo sono
anche) i gusci degli animali più repellenti e pigri, in cui quella screziatura
che li fa apprezzare viene ravvivata artificialmente a imitazione della
natura”1.

I gusci utilizzati sono quelli di grandi specie di tartarughe, soprattutto della


tartaruga verde o della tartaruga embricata, apprezzata per le grandi
dimensioni, la forma insolita e il colore delicato del carapace. La specie è
però considerata a rischio dal 1975 e molte delle 327 specie di tartarughe
e testuggini esistenti sono attualmente a rischio di estinzione, anche a
causa della caccia volta alla lavorazione del loro guscio. 

L’utilizzo della tartaruga come rivestimento di pregio è massicciamente


documentato dal XVII secolo principalmente in centri di produzione quali
Augusta di Baviera, Anversa, la Francia e l’Austria, dove veniva
impiegata per il rivestimento di scatole portagioie, piccoli arredi come i
monetieri e monili vari, oltre che mobili come i tavoli di stile pompeiano
e alcune culle. Accanto a questa manifattura di grande pregio esiste però
anche un’infinità di oggetti di uso comune realizzati in tartaruga, quali
servizi da toeletta, pettini, scatole, cofanetti, pomi, servizi da scrittoio,
17. Elementi decorativi in
cornici, astucci, montature di occhiali, tagliacarte e altre piccole
tartaruga.
applicazioni del genere.

In Italia la produzione di manufatti artistici in tartaruga è legata e nasce grazie alla presenza e
all’influenza degli ebanisti nordici, nonché ai continui scambi commerciali con il resto d’Europa
e, in particolare, all’arrivo nel XVII secolo di migranti cattolici in fuga dai Paesi protestanti a
seguito alle guerre di religione: numerosi artigiani giungono in tal modo nella Penisola e specie
nel Meridione, dove si svilupperà infatti un fiorente artigianato.

La lavorazione della tartaruga a Napoli e a Torre del Greco assume dunque velocemente grande
importanza tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo, quando nella capitale partenopea

                                                            
1
 Seneca, De Benificiis, VII, 9,2 
  13 
nascono importanti atelier, come quelli dei tabacchieri Giuseppe e Gennaro Sarao, Nicolas De
Turris e Antonio Laurentis, nominato tra l’altro orefice di corte nel 1747.

Nella prima metà del XVIII secolo gli


oggetti decorati o fabbricati in tartaruga
riscuotono particolare successo nel
mercato nazionale ed internazionale
dedicato all’aristocrazia e all’alta
borghesia: ciò porta allo sviluppo di
particolari tipi di lavorazione, tra cui
spicca quella a piquè, utilizzata per
produrre oggetti volti ad essere doni di
scambio tra regnanti. Tale tecnica, forse
18. Esempio di intarsio di Boulle.
nata verso la fine del XVI secolo, consiste
nel riscaldare il carapace con acqua bollente miscelata ad olio d’oliva in modo da ammorbidirlo
e, quindi, potervi inserire inserti in metallo pregiato – oro, argento, platino –, avorio o lamine di
conchiglie madreperlacee; il guscio della tartaruga viene poi immerso in acqua fredda, così da
restringersi, indurirsi e trattenere dunque al suo interno il prezioso materiale senza l’uso di colle.

La tartaruga venne usata anche nei cosiddetti intarsi di Boulle, ottenuti creando un marquetry con
guscio di tartaruga, peltro e ottone su legni d’ebano: la lavorazione del carapace iniziava
bollendo il guscio in acqua saltata, quindi ammorbidendolo e appiattendolo sotto una pressa ed
infine pulendolo e lucidandolo con attenzione. 

La tecnica a piquè ebbe particolare fortuna a Napoli


e, come detto, a Torre del Greco, la cui manifattura
si sviluppa soprattutto nella Scuola del Corallo di
Torre del Greco, che da Scuola per la Lavorazione
del Corallo nel 1880 diviene Scuola di Incisione sul
Corallo e di Arti Decorative Industriali, con corsi sulle
tecniche di lavorazione di materiali organici quali
madreperla, conchiglie, pietra lavica, avorio, corno e
tartaruga. Nel 1934, tuttavia, a causa degli alti costi di
produzione e alla difficoltà di reperire materia prima,
il laboratorio di lavorazione della tartaruga venne
chiuso; la produzione di manufatti in tartaruga
continuò comunque nella tradizione artigiana 19. Scrigno porta tè in tartaruga.
torrese, che ne conservò e tramandò i segreti.

 
14 
La lavorazione del carapace per l’ottenimento
di superfici in tartaruga inizia scomponendo il
guscio e suddividendone le due parti principali in
placche poi sfaldate in scaglie. Vi è poi una
selezione volta ad identificare quelle utili ai fini
artistici in base a trasparenza, bellezza e macchie;
la cromia e la qualità dipendono dalla parte della
corazza da cui sono selezionate le scaglie: la
varietà più pregiata è la tartaruga bionda,
trasparente e dorata, seguita da quelle semi-
bionda, passa, jaspé e nera. Selezionate,
raschiate e pulite, le scaglie vengono quindi
saldate sovrapponendole e sfruttandone il potere
adesivo, in modo da ricavare uno strato che può
essere sottoposto a leggera pressione sotto
calore e umidità, così da essere curvato e
sagomato, con schegge e disomogeneità che
vengono inglobate, oppure tirato a mano,
incidendo la superficie con un disegno 20. Pubblicità della ditta Giovanni Ascione & Figlio di
prestabilito. Torre del Greco.

I pezzi vengono dunque puliti ed eventuali elementi preziosi possono essere applicati tramite
apporto di calore e pressione; la superficie interna può infine essere tinta con toni dal rosso al
nero oppure supportata da fogli di carta colorata o lamine metalliche, così da esaltare le sfumature
naturali della tartaruga ed ottenere maggiore luminosità.

Dal punto di vista conservativo i principali degradi sono correlati alla naturale alterazione del
materiale, alle tecniche di lavorazione, alla messa in opera e alla destinazione d’uso: il
deterioramento è quindi di tipo meccanico nella fase di adattamento a nuovi vincoli e chimico-
fisico in risposta alle variazioni termo igrometriche e agli agenti esterni; correlata a queste tipologie
di degrado vi è la comparsa di lesioni, incrinature, sconnessure, lacune e alterazioni cromatiche. Il
degrado biologico è dovuto ai bio-deteriogeni e soprattutto delle larve di insetti Dermestidae,
genere Attagenus sp., che causano fori di sfarfallamento, gallerie, erosioni e mutamenti nella
colorazione; il degrado antropico è invece imputabile ad incuria, danni accidentali e restauri
precedenti e può consistere in abrasioni, graffi, distacchi e depositi superficiali.

 
15 
Corallo

Il corallo è una sostanza organica che si presenta come un


ramoscello lungo dai 15 ai 30 centimetri; è composto dallo
scheletro calcareo di migliaia di polipetti facenti parte della
classe Anthozoa, che vivono in colonia nelle acque calde dai
cinquanta ai duecento metri di profondità, e la sua
composizione chimica è quindi carbonato di calcio,
magnesio e sostanze organiche, la cui percentuale
determina la tonalità di colore, che va dal rosso cupo, detto
moro, al rosa salmone, pallido e anche al bianco.

In Asia i mari che danno le qualità migliori sono quelli tra


Cina e Corea del Nord, mentre in Europa si raccoglie
soprattutto a Torre del Greco, nel Golfo di Napoli, a Capri,
Ischia, in Sardegna e in Corsica, ad una profondità di 100
metri e da sub specializzati, con metodi mirati e meno
21. Corallo del Mediterraneo.
devastanti per l’ambiente rispetto al passato.

Nel XV secolo il corallo iniziò ad essere raccolto a Torre del Greco, ma il monopolio della
lavorazione, allora livornese, rimase tale fino al XVIII secolo, quando, grazie alla dinastia borbonica
e a Paolo Bartolomeo Martin, che introdusse nella cittadina partenopea la lavorazione, Torre del
Greco iniziò a divenire uno dei centri produttivi e manifatturieri principali della Penisola. Nel 1780
la città arrivò ad avventurarsi lungo le coste africane,
vincendo la concorrenza di Trapani, Genova, Livorno e
Marsiglia. Nel XIX secolo Re Ferdinando IV di Borbone,
riconoscendone il potenziale economico – chiamava
infatti la città “spugna d’oro” -, vi aprì la prima
fabbrica di produzione di oggetti e monili in corallo, con
una produzione che era già molto più votata alla
fabbricazione di manufatti decorativi e di uso comune
che sacri. Nel 1876 venne istituita a Torre del Greco la
Scuola d’Incisione sul Corallo e di Disegno Artistico
Industriale, rendendo in tal modo la cittadina torrese
uno dei principali centri produttivi mondiali per la
lavorazione del corallo e delle conchiglie, con cui si
realizzano ancora oggi i tipici cammei. 22. Artigiane infilano il corallo per farne collane.

 
16 
A causa delle infinite e microscopiche variabili che determinano il suo colore, le varietà di corallo
sono molteplici; quelle lavorate, dette octocoralli, vengono principalmente suddivise rispetto al
mare di raccolta e alla tonalità.

Il corallo del Mediterraneo, o Corallium rubrum, viene pescato nel bacino del Mediterraneo ed è
una delle tipologie più apprezzate e più lavorate dagli artigiani sin dall’antichità per la
lavorazione di collane, cabochons, gocce e pendenti; il suo colore va dall’arancione al rosso
scuro, presentando tonalità più o meno uniforme.

Anche il corallo Sciacca, ovviamente raccolto nei mari di Sciacca, viene chiamato Corallium rubrum,
ma è particolarmente raro perché corallo sub fossile, ovvero risalente ad alcuni milioni di anni fa;
dal colore arancio, chiaro o scuro, viene utilizzato soprattutto per farne spille, bottoni, spole e
cannette, ma data la sua rarità è difficilmente reperibile e molto prezioso.

Un altro corallo molto raro, poiché quasi introvabile, è il


corallo pelle d’angelo, raccolto in Giappone e lavorato
per crearne cabochon, anelli ed orecchini o, più
raramente, collane. Ha colore rosa chiaro e un’anima in
calcare bianco: meno questa è visibile dopo la lavorazione
e più il pezzo è prezioso, così anche come quando il color
rosa è compatto e senza macchie biancastre. Ancora più
raro è però il corallo blu, prodotto da una specie chiamata
Acori e raccolto in Africa, vicino alle coste del Camerun. 
23. Collana in corallo pelle d’angelo.
Esteticamente simile al corallo pelle d’angelo vi è il
corallo miss, che può essere bianco, bianco rosato o rosa
pallido. Viene raccolto nei mari del Giappone e delle
Filippine ed è utilizzato soprattutto per realizzare pallini e
cabochons. 

Il corallo nero viene raccolto nei mari dei Tropici e in quelli


della Nuova Zelanda; il suo colore varia dal marrone al
nero ed è piuttosto diffuso e quindi meno prezioso,
nonostante la sua durezza ne renda difficile la
24. Collana in corallo nero.
lavorazione.

Per quanto riguarda la lavorazione, essa inizia con il lavaggio del corallo, così da eliminare il
plancton che lo ricopre e poterne determinare colore, qualità e dimensione; l’artigiano quindi
seleziona quali coralli tagliare per la lavorazione a liscio, cioè quella volta a produrre sfere,
cabochon o altre forme. L’operazione verrà effettuata manualmente, usando un macchinario

 
17 
con lamerino e acqua, e ad essa seguirà l’arrotondatura, realizzata con mole smerigliata e con
acqua; se vi è la necessità di creare un foro passante o un mezzo buco l’operazione viene oggi
attuata con macchine semi automatiche, mentre in passato si utilizzava uno strumento a forma di
arco e con punta in acciaio. Dopo queste fasi vi è la lucidatura, che può avvenire a cera o tramite
il processo di burattatura, ovvero in piccoli barili in lattice o caucciù con all’interno della pomice
fatti ruotare per 24 – 36 ore.

Se il corallo dev’essere inciso, dopo


l’arrotondamento il pezzo viene messo in pece,
ovvero posto su delle asticelle di legno, dette fusi,
con del mastice caldo, in moda da consentire
all’artigiano un’agevole manipolazione del
corallo, che viene inciso con strumenti di
precisione quali bulini o motorini elettrici. Il pezzo
viene infine depurato e pulito, donandogli così
lucentezza. 25. Fase della lavorazione a liscio di un pezzo di corallo
del Mediterraneo.
Alcuni dei principali prodotti della lavorazione del corallo sono le frange, fili sottilissimi lunghi tra i
cinque e i cinquanta millimetri, le olivette, molto lisce, di dimensioni ridotte e dalla tipica forma ad
oliva, le flotticelle, con forma cilindrica, le chiattelle, dall’aspetto di rondelle, i tondi, palline
perfettamente sferiche, e i fili accordati, fili di uguale spessore ma messi in ordine crescente di
lunghezza. 

Il corallo, a causa della sua particolarità, della sua estetica e della sua relativa rarità, ha inoltre da
sempre avuto particolare valore simbolico, valore che nel corso dei secoli si è declinato in
molteplici significati: 

Nell’antichità classica, come narra Ovidio


nelle sue Metamorfosi, si riteneva che il
minerale fosse nato dal contatto della testa
recisa di Medusa con alcune alghe, che
avevano così subito il potere pietrificante del
suo sguardo. Per gli antichi Celti, invece, il
corallo era simbolo della bellezza femminile,
di vita e rigenerazione, motivo per cui veniva
utilizzato per decorare i corredi funebri dei
26. Incisione del corallo.
guerrieri. 

 
18 
Nell’Antica Roma il corallo aveva proprietà curative,
benefiche e di buon auspicio, probabilmente a causa della
sua forma, che ricorda un albero o un intrico di vasi sanguigni
e al suo colore rosso sangue: veniva infatti usato in polvere
per prevenire e curare crisi epilettiche, per scacciare gli incubi
e lenire il dolore della dentizione. Risale inoltre a questo
periodo l’uso del corallo come amuleto specifico
dell’infanzia, in quanto ai neonati venivano fatti indossare
dei pendenti in corallo come portafortuna e per scacciare le
forze maligne. 27. Collana cerimoniale celtica.

Questa particolare valenza venne conservata anche durante il Medioevo e il Rinascimento, come
testimoniano diverse opere d’arte: Gesù ad esempio indossa spesso del corallo, allusione inoltre alla
sua futura Passione. In questi secoli il corallo assunse anche, a causa delle sue caratteristiche
morfologiche, valore protettivo contro fulmini e morti improvvise, divenendo anche cura per
emorragie, anomalie nel ciclo mestruale e un coagulante per ferite, ulcere e cicatrici.
Specie nel Medioevo la sua forma venne assimilata a quella della Croce, rendendolo anche un amuleto
contro il Demonio; l’introduzione del rosario rese inoltre comune la realizzazione dei suoi grani con
il corallo, che, per il suo color rosso, richiamava in tal modo le rose mitiche del giardino mariano. 
Nel corso del Manierismo il corallo assume valore alchemico, e il ritorno in auge della mitologia classica,
del potere della natura e del fascino del concetto
di metamorfosi fecero sì che la sua lavorazione
divenisse particolarmente elaborata: ciò porterà
poi, nel corso del XVII secolo, allo sviluppo di un
artigianato particolarmente raffinato specie nel Sud
Italia, ricco di oggetti devozionali e d’ispirazione
mitologica e rivolto soprattutto alle corti italiane e
spagnole. Ad oggi il corallo mantiene il valore
curativo e di buon auspicio che da sempre lo
connota, tanto che viene usato nelle pratiche di
28. Fase di restauro di un altarino in corallo e oro.
cristalloterapia e come amuleto.

 
19 
Cammei di Torre del Greco

Il termine cammeo, derivato dall’arabo gama’, ovvero


bocciolo di fiore, e dal francese camaheu, è utilizzato per
indicare monili incisi a bassorilievo con soggetti e scene
spesso mitologiche, conchiglie, gemme o pietre dure. Il
cammeo ha nel tempo assunto molti significati e,
accompagnando la storia umana per secoli, attraverso le
raffigurazioni che vi sono incise ci racconta gli usi, i
costumi, il pensiero, gli eventi sociali e storici delle epoche
passate e la loro evoluzione fino ad oggi: ha infatti svolto, 29. Un cammeo di Torre del Greco.
tra i tanti, anche un ruolo celebrativo e diplomatico,
celebrando casati e regni. La glittica, ovvero l’arte d’incidere il cammeo, è in effetti un’arte
che affonda le sue radici nella civiltà micenea: nel XII secolo a.C. tuttavia, al declino di Micene
corrispose anche il declino dell’incisione su pietra dura, arte che venne recuperata nel XI – VIII
secolo a.C. dai Greci, che, specie a Cipro e a Creta, la portarono a livelli di grande raffinatezza. 

Nel III – II secolo a.C., durante l’ellenismo,


l’incisione su cammeo si diffuse in varie zone del
Mediterraneo e venne perfezionata grazie all’uso di
materiali con più strati e colori, come la conchiglia
sardonica, l’onice e l’agata, provenienti
dall’Arabia e dall’India. A questo periodo
risalgono i primi cammei propriamente detti, ritrovati
ad esempio in alcune tombe in Crimea e risalenti al
30. Lotta tra l’imperatore Valeriano e il re sasanide
281 a.C.; degna di nota è in particolare la Tazza
Sapore I, 259 -260 circa.
Farnese, un piatto da libagione inciso in conchiglia
sardonica attualmente esposto al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Il periodo più florido
nell’antichità per l’arte del cammeo va tuttavia dal III – VII secolo e si colloca in Persia e in
Mesopotamia, con esempi tra cui spicca, ad esempio, Lotta tra l’imperatore Valeriano e il re
sasanide Sapore I. 

Lo stile e la tecnica di lavorazione ellenistica vennero assorbite e replicate durante il periodo


imperiale romano, a cui risalgono alcuni dei più famosi cammei, come ad esempio la Coppa dei
Tolomei, risalente agli anni di Nerone, la Gemma Augustea, decorata da Dioscuride con scene
esaltanti Augusto, e il Cammeo di Francia, conchiglia sardonica di età tiberiana. 

Nel corso del Medioevo l’arte del cammeo vive un periodo di minore splendore, per poi
diffondersi e raggiungere il suo apice nel corso del Rinascimento italiano, quando vari artisti, come
 
20 
ad esempio Grechetto, si distinsero in questo settore,
impreziosendo i monili con materiali pregiati e
rendendoli degnamente parte di importanti
collezioni, come quelle medicee. Il cammeo in
quest’epoca viene utilizzato anche sotto forma di
orecchini, pendenti, anelli e bracciali, come pegno
d’amore, gioiello nuziale e cerimoniale. L’Italia
mantenne il monopolio fino al XVII secolo, quando la
produzione principale si trasferì in Austria; gli artisti
principali erano tuttavia ancora italiani e tra loro si
31. Coppa dei Tolomei, I d.C.
possono ricordare Alessandro Masnago e Ferdinando
Eusebio Miseron.

Se dopo il XVIII secolo l’arte del cammeo iniziò a subire una parabola discendente, in Italia
intorno al 1830 la glittica si sviluppò in una forma particolare a Torre del Greco, già famosa per la
lavorazione del corallo. Fu la congiuntura di due eventi a portare allo sviluppo di questa fiorente
manifattura: da una parte l’arrivo d’ingenti quantità di conchiglie provenienti dal Nord Africa e
utilizzate dalle navi come zavorra, che iniziarono ad essere incise dai cittadini; dall’altro la crisi
della produzione in corallo, causata nel 1875 dalla scoperta a Sciacca di ricchi banchi dello stesso,
che determinò la saturazione del mercato e una forte concorrenza. Fu grazie alla lavorazione delle
conchiglie che Torre del Greco riuscì a sopperire al momentaneo stallo economico, forse anche
grazie all’arrivo di alcuni artigiani romani esperti nell’incisione di pietre dure.

La qualità della manifattura divenne tanto elevata che


nel 1876 venne istituita nella città la Real Scuola
d’Incisione su Corallo e di Disegno Artistico
Industriale, rendendo così Torre del Greco uno dei
centri produttivi mondiali per la lavorazione del
corallo e dei cammei: un primato che perdura ancora
oggi, grazie ad una tradizione artigianale di livello
tale da riconoscere comunemente la cittadina come
capitale mondiale del cammeo. 32. Cammeo in Cassis Madagascariensis.

I cammei si ottengono dalla lavorazione ad incisione di gemme, pietre dure e, come visto, dagli
inizi del XVIII secolo e solo a Torre del Greco, conchiglie. Tra le gemme utilizzate si ricordano
l’ametista, il topazio, lo smeraldo, il rubino e anche il diamante, mentre tra le pietre dure l’onice,
agata, il turchese, la malachite, il lapislazzulo e il diaspro.

 
21 
Le conchiglie che maggiormente si prestano alla lavorazione
per realizzarne cammei sono, a causa della presenza di due
strati di colore nettamente distinti, che consentono d’isolare
nitidamente dal fondo la figura a rilievo, quelle del genere
Cassis, pescate soprattutto nei Caribi, in Mozambico, Kenya e
Madagascar. Nello specifico, particolarmente rinomata è la
Cassis Madagascariensis, detta casco sardonico o conchiglia
sardonica: alta circa 30 centimetri, è di colore bruno sul fondo
e perfettamente bianca sullo strato esterno, che verrà poi
inciso. Importanti sono anche la Cassis Rufa, chiamata casco
corniola, di origine africana e alta circa 16 centimetri, con strato
interno rossastro e esterno carnacino pallido, e la Cassis
Cornuta, o casco arancio, alta 25 centimetri e con interno
arancio e esterno bianco. 

Sebbene le conchiglie più utilizzate per farne cammei


appartengano alla specie Cassis, vengono utilizzate anche la
Cypraea Tigris e la Strombus Gigas: la prima, detta anche
tigrina, viene pescata nell’Oceano Indo Pacifico, è alta 5 – 10
centimetri e presenta sette strati di diverso colore – in ordine
bruno tigrato, bianco giallino, grigio azzurro, due tonalità di
viola e un azzurro chiaro. La seconda, alta 26 centimetri e
raccolta presso le Isole Bahamas e le Antille, è anche chiamata
conchiglia rosa a causa dei suoi strati bianco e rosa, che non
risultano però sempre perfettamente distinti tra loro: per
questo motivo viene meno utilizzata per farne cammei e viene
preferita per realizzare bottoni e collane.

La lavorazione del cammeo inciso su conchiglia si effettua


artigianalmente attraverso una lunga serie di complicati
passaggi, che iniziano con la scelta della conchiglia adatta al
tipo di monile che si desidera ottenere; a ciò segue la
scoppatura, ovvero il taglio della parte superiore e più
convessa della conchiglia, la coppa. Tale operazione era in
passato eseguita con un disco a tornio senza denti, cosparso
di polvere di smeriglio e acqua, mentre oggi si effettua con
una sega a disco diamantato. Si procede quindi con la 33. Scoppatura, segnatura, sagomatura e
segnatura: l’incisore traccia, all’interno della coppa e con aggarbatura.
 
22 
inchiostro indelebile, i contorni del cammeo e il segno del
taglio esterno da eseguire; quindi il perimetro del
cammeo, nella fase della sagomatura, viene tagliato lungo
i margini precedentemente tracciati, ottenendo un pezzo
di forma poligonale che viene rifinito, durante
l’aggarbatura, con una molla di carborundum. Il
cammeo viene quindi fissato su dei fusi in legno con
mastice a caldo, composto da pece greca, cera e scagliola,
e avviene la scrostatura, ovvero l’abrasione della parte
più esterna della conchiglia volta a lasciare in superficie lo
strato chiaro da incidere, su cui l’incisore disegna il
soggetto da riprodurre. Durante l’abbozzatura questo
viene inciso prima con bulini a punta larga nei suoi volumi
essenziali e poi, con bulini progressivamente più sottili, nei
dettagli e particolari. 

Il cammeo viene dunque staccato dal fuso su cui è stato


lavorato e spazzolato con pomici e olio, così da levigarne la
superficie, mentre il fondo è strofinato con uno stecco di
legno ed una mistura a base di vetriolo, olio e pomice.
Durante questa fase, quella della finitura, si effettua anche la
prima sgrassatura, lavando l’oggetto con acqua corrente e
sapone, immergendolo poi in olio per migliorane l’aspetto,
lavandolo quindi nuovamente con acqua e sapone e infine
asciugandolo con un panno di lino bianco. 

34. Scrostatura, disegno, abbozzatura e definizione dei particolari.

 
23 
Storia collezionistica

La culla fu un dono alla principessa di


Napoli Margherita di Savoia e al
marito Umberto I da parte della
municipalità di Napoli, guidata dal
sindaco e padrino di Vittorio
Emanuele III Guglielmo Capitelli:
venne conservata, con l’originaria
cortina retta dall’angelo, a Napoli,
nella Sala di Tiberio degli 35 La Reggia di Capodimonte, il primo luogo in cui venne conservata
Appartamenti Reali di Palazzo la culla.
Capodimonte, allora una delle residenze dei Savoia. Il 13 dicembre del 1925 la culla, insieme parte
del mobilio ad imitazione settecentesca fatto realizzare dalla regina Margherita nel 1860 per
l’alcova della Reggia di Capodimonte, viene trasferita ad un’altra residenza sabauda, la Reggia
di Caserta, che, sebbene fosse stata ceduta allo Stato Italiano nel 1919, nel 1929 doveva accogliere
Vittorio Emanuele III e Elena di Montenegro.

In seguito la culla, come altre parti del mobilio dei Savoia, venne, forse perché considerata poco
coerente con la borbonica Versailles d’Italia, conservata nei depositi del museo e quasi
dimenticata fino al 1987, quando Enrico Colle, incaricato dal Ministero dei Beni Culturali a far parte
di una Commissione per il Censimento degli Arredi dei Palazzi Reali Italiani, individuò e catalogò
l’opera tra i vari oggetti presenti negli scantinati della Reggia.

È solo nei primi anni 2000 che però, grazie agli studi finanziati per l’iniziativa “Casa dei Re”, la
culla di Vittorio Emanuele III e quella di Maria Pia di Savoia, realizzata nel 1934, vengono restaurate
e incluse nella collezione dell’Appartamento Ottocentesco; saranno infine esposte alla Reggia
nel 2008 insieme ad altri reperti dei Savoia, come alcuni dipinti e busti, giochi di Carlo Alberto, un
biliardo e due organi borbonici.

 
24 
Il museo: la Reggia di Caserta

Le origini della Reggia di Caserta e del


suo parco risalgono al 1750, quando
Carlo di Borbone, re di Napoli e di
Sicilia, decise di erigere una costruzione
che fosse il centro ideale del nuovo
regno di Napoli, ormai autonomo e
svincolato dall’egida spagnola. Il
palazzo doveva quindi essere tale da
competere con le altre residenze reali
europee, specie con la Reggia di 36. Il vialone d’entrata della Reggia di Caserta.
Versailles, per sfarzo ed imponenza. Il progetto si inseriva nel più ampio progetto politico di re
Carlo di Borbone, che probabilmente voleva anche spostare alcune strutture amministrative dello
Stato nella nuova Reggia, collegandola alla capitale Napoli con un vialone monumentale di oltre
15 chilometri, piano che fu però realizzato solo in parte. 

Fu l’architetto Luigi Vanvitelli (1700- 1773) ad essere incaricato, dopo alterne vicende, del
progetto: con un’area di 47 000 m² e oltre 1 000 000 m³, la residenza reale da lui ideata è la più
grande al mondo per volume e dal 1997 è parte del patrimonio UNESCO.

I lavori iniziano il 20 gennaio del 1752 nel


corso di una cerimonia, ricordata
nell’affresco di Gennaro Maldarelli sulla
volta della Sala del Trono, e procedettero
rapidamente fino al 1759, quando Carlo
di Borbone venne incoronato sovrano di
Spagna col nome di Carlo III e lasciò
Napoli per raggiungere Madrid: a causa
di ciò i lavori rallentarono
considerevolmente, tanto da essere
completati solo nel 1845 da Carlo 37. Progetto originale di Luigi Vanvitelli.
Vanvitelli, figlio di Luigi.

Con la proclamazione della Repubblica Partenopea nel 1799 il palazzo e le altre proprietà della
corona vennero espropriate: l'edificio venne depredato di gran parte del prezioso mobilio interno,
alcuni pezzi vennero poi recuperati con la Restaurazione. 

 
25 
Nel 1806 Napoleone conquistò il Regno di Napoli e ne concesse la corona a suo fratello Giuseppe;
la monarchia borbonica venne restaurata dopo il Congresso di Vienna del 1815 e il palazzo servì
come residenza di caccia dei re borbonici, ma entrò in uno stato di decadenza. Nel 1861 il regno
di Napoli entrò a far parte del neonato Regno d'Italia e il palazzo venne occasionalmente abitato
da alcuni membri di casa Savoia, sino a quando, nel 1919, Vittorio Emanuele III non lo cedette allo
Stato Italiano.

La Reggia di Caserta è comunemente definita “l’ultima architettura barocca italiana” e consta


in un grandioso complesso di 1 200 stanze, 1 742 finestre e in un parco che si estende per 3
chilometri di lunghezza e che ricopre 120 ettari, con diverse fontane, un giardino all’italiana e
uno all’inglese.

Il palazzo, tra i vari ambienti, presenta la


Residenza Reale, che ha in mostra una ricca
pinacoteca e una notevole collezione di
porcellane riunite da Maria Carolina, moglie
di re Ferdinando IV di Napoli (1751 -1825), e
la Cappella Palatina, ispirata a quella della
Reggia di Versailles e danneggiata durante
la II Guerra Mondiale, sul cui retro è posto il
Teatro di Corte. 38. Progetto dei giardini della Reggia di Caserta, 1756.

Vi sono poi gli appartamenti veri e propri, divisi in Appartamento Nuovo e in Appartamento
Vecchio: il primo fu abitato prima della conclusione dei lavori da Ferdinando IV e Maria Carolina
e presenta la cosiddetta Sala Ellittica, che ospita un esempio di presepe napoletano con ben 1200
figure. Il secondo fu costruito tra il 1806 e il 1845 e vi si trova l’imponente Sala del Trono, decorata
con medaglioni dorati con l'effigie di tutti i sovrani di Napoli e con gli stemmi di tutte le province
del regno. Le sale presentano anche una quadreria e una collezione d’arte contemporanea – la
“Terrae Motus” – comprendente circa settanta opere.

Il complesso della reggia costituisce uno dei musei statali italiani, e dal 2016 il Ministero per i beni
e le attività culturali vi ha concesso autonomia speciale.

 
26 
Confronti: alcune culle di casa Savoia

La culla di Umberto I – 1842 2

La culla analizzata, in quanto probabilmente realizzata per


Umberto I di Savoia3, è datata 1842; tuttavia nell'inventario
del 1955 la descrizione fatta dell'oggetto corrisponde a
quella appartenuta a Vittorio Emanuele II (1820 – 1878) e
non a quella di Umberto I, portando dunque nel caso ad
anticipare la datazione al 1820.
La culla a navicella, alta 283, larga 66 e profonda 142
centimetri, è stata progettata da Pelagio Palagi (1775 –
1860) ed è attualmente conservata al primo piano nobile,
nella camera da letto della regina Maria Adelaide, del
Castello Reale di Racconigi, a Cuneo, dove sono presenti
molte altre opere di Palagi. A realizzarne la struttura lignea
invece fu Giovanni Chiavassa, esecutore di altri mobili
presenti nella stanza in cui è esposta la culla. 39. La culla di Umberto I, 1842.

La struttura consiste in quattro gambe con piedi a forma di zampa leonina e dotati di rotelle che
sorreggono due montanti a sezione circolare, uniti inferiormente da una traversa decorata con volute
vegetali, palmette e fiori in bronzo meccato. Il montante posteriore prosegue verso l'alto e termina con
una palmetta da cui nascono tralci fitomorfi dorati; sulla sommità vi è una statuetta intagliata e dorata
raffigurante un putto che regge una corona foderata in seta blu.
La culla presenta interiormente un’imbottitura rivestita in seta azzurra;
esternamente è invece decorata alle estremità con volute vegetali,
centralmente con una fascia con un motivo dorato alla greca e,
inferiormente, con baccellature ed un elemento tornito, sempre dorato.
Stilisticamente appare influenzata dallo stile Impero, ma decisamente
già legata all’eclettismo: così indicano le zampe leonine, la
decorazione alla greca, le linee rigide e geometriche della costruzione
e, al contempo, la presenza delle volute vegetali e del putto,
d’ispirazione barocca.
La culla presenta molte similitudini con quella in palissandro e bronzo
della principessa Maria Clotilde, primogenita di Vittorio Emanuele II e
Maria Adelaide, realizzata da Gabriele Capello nel 1843 proprio per la
camera da letto della regina Maria Adelaide, in cui sono conservati
40. La culla di Maria Clotilde di
entrambi i manufatti.  
Savoia, 1843.

                                                            
2
 Scheda OA della culla, 2006 
3
 Noemi Gabrielli, Il castello di Racconigi., Istituto Bancario San Paolo di Torino, Torino 1972, p. 110 
  27 
Culla della principessa Iolanda di Savoia - 1901

La culla venne donata dalla città di Roma ai Savoia nel


1901, in occasione della nascita della principessa
Iolanda Margherita di Savoia. La culla è attualmente
conservata a Roma, nella Sala della Culla del Museo
Boncompagni Ludovisi ed è stata progettata e
realizzata da Giulio Monteverde (1837 – 1917), mentre
la coperta originaria era opera della Scuola
Professionale femminile.

L’autore, Giulio Monteverde, aveva più volte


lavorato per la famiglia Savoia, eseguendo nel 1871 un
busto in marmo per Vittorio Emanuele II, nel 1877
quello della regina Margherita, nel 1881 il Monumento
a Vittorio Emanuele II di Rovigo e nel 1888 quello di
Bologna, oltre che collaborando nel 1902 alla
decorazione del Vittoriano di Roma con il gruppo del
Pensiero. 41. La culla di Iolanda di Savoia, 1901.

La struttura portante del manufatto è in legno dorato e


presenta, come quella del 1869, due sculture: anteriormente
vi è un angelo che regge la culla e che, anche in questo caso,
ricorda la Nike di Samotracia, sebbene interpretata con ben
altro stile. L’angelo è quindi una Vittoria alata e può
sembrare quasi una polena; sostiene con un braccio uno
scudo con rappresentati una corona, una stella e lo stemma
dei Savoia e dei Petrović, simboli rispettivamente del padre,
re Vittorio Emanuele III, e della madre, Elena del Montenegro.

Posteriormente vi è invece una statua reggi cortina di


evidente impronta classica, raffigurante, come suggerisce
l’elmo e la committenza, la dea Roma; la statua posa su di
un piedistallo decorato con ghirlande di frutti posto su un
capitello rettangolare, decorato riprendendo sinteticamente
quelli corinzi, sotto cui vi è una colonna, sempre rettangolare,
istoriata con i trofei e le insegne dell’Impero romano con 42. Gli stemmi dei Savoia e dei Petrović
fusto ornato con motivi ad ispirazione vegetale. raffigurati sullo scudo sorretto dalla Vittoria
alata.

 
28 
La struttura è rettangolare, con il lato anteriore
incurvato verso il centro, e presenta dei piedini a
forma di zampa di leone, mentre la culla è
argentata e appare oggi come una sorta di
canestro riccamente intrecciato e circondato da
una fascia centrale con medaglioni raffiguranti gli
stemmi dei rioni romani. Nel progetto originale
tuttavia, come si può notare nell’immagine 44,
il suo aspetto era differente, così come lo era
quello di altri elementi, ad esempio la base su cui
poggia l’angelo - che doveva rappresentare la
lupa con Romolo e Remo - e la presenza del 43. Particolare della culla: sono visibili i medaglioni con gli
stemmi dei rioni romani.
capitello sotto la statua della dea Roma.

44. Cartolina del 1901 raffigurante il progetto della culla di Iolanda Margherita di Savoia.

 
29 
La culla di Maria Pia di Savoia, poi culla di Vittorio Emanuele - 1934

Così come fece per la nascita di Vittorio Emanuele


III, anche nel 1934, per quella della primogenita di
Umberto II di Savoia e di Maria José del Belgio, Maria
Pia di Savoia, la città di Napoli donò alla famiglia
reale una culla. Il manufatto presenta, come quello
del 1869, imbottitura in seta broccata, tartaruga
impiallacciata al legno, coralli del Mediterraneo,
cammei in conchiglia sardonica e decorazioni in
argento e bronzo, oltre che due sculture lignee
argentate di aquile. La culla, interamente in mogano,
fu progettata e realizzata nella sua struttura lignea
da Giuseppe Squillante (1867 – 1942), sebbene
alcune fonti riportino come progettista il Tomasi4,
mentre la ditta Giovanni Ascione & Figlio, in
collaborazione con la Scuola d’Incisione sul Corallo
di Torre del Greco, curò i rivestimenti e le
45. La culla di Maria Pia di Savoia, poi utilizzata anche per
decorazioni. In particolare, furono i professori Noto Vittorio Emanuele.
e Palomba a realizzare i sei grandi cammei
decorativi, raffiguranti vedute del Vesuvio e di
Castel Nuovo, che ornano il bordo esterno del
manufatto. Fu poi la manifattura Ascione ad
inserirli, presso i propri laboratori, nella
struttura costruita da Squillante e a realizzare
l’importante sfera in corallo, unica per colore
e dimensione, che orna la base della struttura
della culla. 

Da quanto è possibile evincere dalle fonti, tra


loro contrastanti, pare che la culla venne
riutilizzata nel 1937, in occasione della nascita
di Vittorio Emanuele, principe di Napoli: per il 46. Artigiani della manifattura Ascione assemblano la culla, 1934.

                                                            
4
 Come si riporta su http://www.culturaitalia.it/opencms/museid/viewItem.jsp?language=it&id=oai%3Aculturaitalia.it%3Amuseiditalia-
work_35639. Tuttavia la stessa culla, che il sito citato fa risalire alla nascita del principe Vittorio Emanuele nel 1937, appare nelle
fotografie del 1934 con la principessa Maria Pia; quest’ultimo manufatto viene inoltre detto essere conservato nello stesso luogo di
quello del fratello: a fronte di ciò l’unica possibilità realistica è che si tratti della stessa culla, realizzata nel 1934 e poi riutilizzata nel
1937, come attestano tra l’altro i filmati Luce del battesimo del Principe (https://patrimonio.archivioluce.com/luce- 30 
web/detail/IL5000023689/2/battesimo-del-principe-napoli.html?startPage=0) 
 
suo battesimo venne portata a Roma e tornò poi nelle residenze campane dei Savoia. Dopo la
Seconda Guerra Mondiale e l’avvento della Repubblica se ne persero però completamente le
tracce, fino a quando, nel 1979, non riapparve alla Reggia di Caserta, nella cui VIII Retrostanza
dell’Appartamento Ottocentesco si trova tutt’oggi.

Ancora eclettica, stilisticamente appare più contenuta e austera di quella del 1869, con maggiore
severità nelle forme e nello stile, probabilmente influenzato dal quello fascista, come mostrano
anche le due aquile poste simmetricamente alle estremità della base della culla.

47. Cartolina raffigurante Vittorio Emanuele nella culla, 1937 48. Fotografia presente nella rivista Emporium, Vol.
LXXXI, n. 483, p. 192, 1935

 
31 
Bibliografia

Eduardo Cuomo, Ai primordi della lavorazione della tartaruga a Napoli e a Torre del Greco,
Vesuvioweb, s.d. 2016

M. Sebastianelli, M. Orlando, M. Bruno, M. Vitella, Opere d’arte in tartaruga dai naturalia al


restauro: nuove proposte per la reintegrazione delle superfici, s.n., Palermo 2015

Edoardo Cuomo, Gennaro Ascione, La Regia Scuola d’Incisione sul corallo e di Arti Decorative
Industriali di Torre del Greco, Vesuvioweb, s.d. 2017

Eduardo Cuomo, Il corallo nella culla, Vesuvioweb, s.d. 2016

Anon., Enciclopedia degli stili, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1976

Sitografia

Nota esplicativa: Poiché molte delle informazioni sono state reperite attraverso Internet, per
rendere la sitografia agilmente consultabile la si è impostata seguendo l’ordine in capitoli della
relazione e facendo risalire ad ogni capitolo le pagine web consultate.

Un primo approccio all’opera pp. 2 - 4

http://www.viv-it.org/immagini/domenico-morelli-culla-di-vittorio-emanuele-iii-1869

https://www.alinari.it/it/dettaglio/BGA-F-012838-0000

http://caserta.arte.it/guida-arte/caserta/da-vedere/opera/culle-5217

https://www.reggiadicasertaunofficial.it/it/collezioni/mobili/culla-del-principe-di-napoli/

http://www.arte.it/opera/culle-5217

Lo stile pp. 4 - 5

https://www.reggiadicasertaunofficial.it/it/collezioni/mobili/culla-del-principe-di-napoli/

https://corsi.artedelrestauro.it/corsi/sma-storia-del-mobile-prima-meta-dell800/

https://www.vecchiesoffitte.it/leclettismo.html

https://www.delucaeditori.com/prodotto/la-circolazione-della-scultura-lignea-barocca-
nel-mediterraneo-napoli-la-puglia-e-la-spagna/

https://www.inforestauro.org/eccletismo/

 
32 
Gli autori: Domenico Morelli e Ignazio Perricci pp. 6 - 8

https://it.wikipedia.org/wiki/Domenico_Morelli_(pittore)

https://www.treccani.it/enciclopedia/domenico-morelli_%28Dizionario-Biografico%29/

https://it.wikipedia.org/wiki/Ignazio_Perricci

https://www.treccani.it/enciclopedia/ignazio-perricci_(Dizionario-Biografico)

I materiali della culla

Seta di San Leucio pp. 9 - 10

https://cantieredelbaco.wordpress.com/2017/11/03/san-leucio-la-seta-dei-
borboni/

http://www.napoliartigianatoartistico.com/la-tradizione-tessile-napoletana-e-le-
seterie-di-san-leucio/

https://www.reggiadicasertaunofficial.it/it/parco/san-leucio-belvedere-seta/

Madreperla pp. 11 - 12

https://www.artimondo.it/magazine/madreperla/

https://www.gemperles.it/la-madreperla

https://www.sapere.it/enciclopedia/madrep%C3%A8rla.html

Tartaruga pp. 13- 15

https://anticonline.net/tartaruga-lutilizzo-nellarte-antica-e-la-tecnica-del-pique-a-
napoli/

https://antichecuriosita.co.uk/2020/01/24/andre-charles-boulle-ebanista/

Corallo pp. 16 - 19

https://www.luciavitiello.it/it/blog/il-corallo-le-varie-tipologie-2525

https://torredelgreco.jimdofree.com/coralli-e-cammei/

https://www.coralswaves.com/torre-del-greco-patria-di-coralli-e-cammei/

https://www.reservationonline.it/il-corallo-estrazione-e-lavorazione/

https://it.wikipedia.org/wiki/Corallium_rubrum

 
33 
Cammei di Torre del Greco pp. 20 - 23

https://www.piscopojewels.it/cammei/

https://www.coralswaves.com/torre-del-greco-patria-di-coralli-e-cammei/

http://www.napoliartigianatoartistico.com/la-lavorazione-artistico-artigianale-del-
cameo/

https://it.wikipedia.org/wiki/Cammeo

http://www.leperlediaudrey.it/blog/dettaglio?id=12&lang=it

https://www.aucella.it/la-lavorazione-dei-cammei.html

https://www.blogdeipreziosi.it/cosa-e-un-cammeo/

https://www.cellinigallery.com/shop/index.php/factory/cameos-factory/

https://it.wikipedia.org/wiki/Cammeo

Storia collezionistica p. 24

http://www.guideturistichefrosinone.altervista.org/joomla/reggia-di-caserta/la-reggia-di-
caserta-ed-i-borbone

https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/caserta/cronaca/17_marzo_10/reggia-sabauda-
venaria-mostra-culla-re-37668242-0569-11e7-a320-3d3c40ef9d12.shtml

Il museo: la Reggia di Caserta pp. 25 - 26

https://www.reggiadicaserta.beniculturali.it/storia/

https://it.wikipedia.org/wiki/Reggia_di_Caserta

Confronti: alcune culle di casa Savoia

La culla di Umberto I p. 27

http://www.culturaitalia.it/opencms/museid/viewItem.jsp?language=it&case=&id=
oai%3Aculturaitalia.it%3Amuseiditalia-work_43555

https://www.amicipalazzoreale.it/mostra-vittorio-emanuele-ii-il-re-galantuomo/

 
34 
https://www.vbs50.com/public/Castello%20Racconigi/slides/CastelloRacconigi_113.
html

La culla di Iolanda di Savoia pp. 28 - 29

http://www.culturaitalia.it/opencms/viewItem.jsp?language=it&case=&id=oai%3As
calarchives.com%3A0124325

https://hu.pinterest.com/pin/655977501945099789/

https://www.tripadvisor.it/LocationPhotoDirectLink-g187791-d2005158-
i224002613-Museo_Boncompagni_Ludovisi-Rome_Lazio.html

https://www.tripadvisor.it/LocationPhotoDirectLink-g187791-d2005158-i210928739-
Museo_Boncompagni_Ludovisi-Rome_Lazio.html

La culla di Maria Pia di Savoia, poi culla di Vittorio Emanuele pp. 30 - 31

http://caserta.arte.it/guida-arte/caserta/da-vedere/opera/culle-5217

http://www.culturaitalia.it/opencms/museid/viewItem.jsp?language=it&id=oai%3A
culturaitalia.it%3Amuseiditalia-work_35639

http://www.culturaitalia.it/opencms/viewItem.jsp?language=it&id=oai%3Aculturait
alia.it%3Amuseiditalia-work_35639

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Squillante

https://www.napolitan.it/2015/02/05/11976/eccellenze-campane-il-museo-del-
corallo-
ascione/napoli.html?startPage=40&jsonVal={%22jsonVal%22:{%22query%22:[%22
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%22:[%22\%22Vittorio%20Emanuele%20di%20Savoia\%22%22]}}

http://www.arte.it/opera/culle-5217

https://patrimonio.archivioluce.com/luce-web/detail/IL5000023689/2/battesimo-
del-principe-napoli.html?startPage=0

http://www.artivisive.sns.it/fototeca/scheda.php?id=49399

 
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