LA CULLA DI VITTORIO
EMANUELE III: UN’ANALISI
Storia delle arti applicate
Indice
La culla di Maria Pia di Savoia, poi culla di Vittorio Emanuele ………...….…..…. pag. 30
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Un primo approccio all’opera
L’opera venne donata dalla città di Napoli ai Savoia per la nascita del figlio e voleva quindi essere
un simbolo del Regno di Napoli e della sua prosperità: i soggetti rappresentati e i materiali utilizzati
alludono quindi alle ricchezze della città e al suo fiorente artigianato - esperto specie nei settori
scultoreo, dell’oreficeria, dell’ebanisteria e della seteria.
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La base della struttura, come si evince dalla foto dell’archivio Alinari, presentava in origine delle
frange in tessuto che nascondevano l’appoggio a terra.
Lungo il profilo superiore corre una sottile fascia in madreperla con applicazioni in corallo bianco,
raffiguranti alternamente una stella e una margherita, a significare che i primi pensieri del bambino
dovessero essere la madre, la regina Margherita di Savoia, il cielo e la casata dei Savoia, il cui
motto fa infatti riferimento alle stelle.
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cammei sono di Antonio Giansanti (1827 – 1900), docente d’incisione presso la Real Scuola
d’Incisione su Corallo di Torre del Greco, e dei maestri incisori Finizio, Stella e Laudicino. Da
questa fascia pendono, ad intervalli regolari, degli elementi torniti a trottola.
La parte terminale della culla, rientrante rispetto alle fasce superiori e delimitata da una sottile
modanatura a righe oblique bianche e nere, ha forma concava ed è decorata con intarsi in oro
cesellato, tartaruga e cabochon di corallo rosso del Mediterraneo su placchette in madreperla,
volti a rafforzare la destinazione regale dell’oggetto. La lavorazione dell’ebano presente nella
fascia centrale, della tartaruga e della madreperla sono opera di Luigi Giosa e di Vincenzo Paladini,
mentre alla base della culla vi è una rete in oro, opera dei già citati Emilio Franceschi e Luigi
Ottaiano, e infine varie decorazioni che richiamano i nodi delle funi del transatlantico sabaudo
Conte Verde.
L’uso del corallo non allude solo a Napoli e alla perizia partenopea nella sua lavorazione, ma ha
anche significati simbolici dalle antiche radici: fin dagli inizi, infatti, ha rappresentato la resurrezione
e la regalità divina; a causa delle proprietà magiche attribuitegli veniva inoltre donato ai neonati
per proteggerli dalle forze oscure e dal malocchio: appaiono dunque chiare le motivazioni di un
suo utilizzo tanto diffuso nell’opera.
Lo stile
Il manufatto già a prima vista appare come un compendio ottimamente riuscito non solo di
numerosi materiali, ma anche di differenti influenze stilistiche: elementi chiaramente ispirati ad
epoche e correnti artistiche tra loro diverse convivono infatti liberamente, senza entrare in conflitto
tra loro ma, al contrario, portando ad un risultato ricco di originalità ed armonia.
Il lazzariello che traina la culla apporta invece suggestioni rinascimentali, dovute al naturalismo e
all’attenzione anatomica con cui è raffigurato, mentre l’intaglio rappresentante i frutti di mare
e quelli di terra può considerarsi di stampo barocco, a causa della somiglianza stilistica con le
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opere, ad esempio, di Andrea Brustolon e con
altre sculture lignee del periodo. Vale la pena
inoltre ricordare che Napoli fu caratterizzata,
nel corso del XVII e del XVIII secolo, da una
fiorente e assai felice produzione di sculture
ed intarsi lignei, rappresentanti per lo più fiori
e foglie – basti ricordare nomi quali Aniello e
Michele Perrone e il loro allievo Nicola
Salzillo, le cui sculture ebbero grande fortuna
anche in Spagna- : la tradizione del genere
era quindi molto sentita e consapevole nella
città partenopea.
Per quanto riguarda la culla vi sono elementi
tra loro ugualmente contrastanti: se infatti la
fascia con i cammei è di stampo neoclassico,
le torniture pendenti e la modanatura a linee
oblique bianche e nere sono un rimando
tardogotico, così come la forma degli intarsi 5. Collocazione e aspetto della culla alla Reggia di Caserta.
in madreperla con cabochon in corallo.
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Gli autori: Domenico Morelli e Ignazio Perricci
Domenico Morelli (Napoli, 1823 – 1901) è stato con Filippo Palizzi uno dei più importanti artisti
napoletani del XIX secolo, oltre che, dal 1886, senatore del Regno d'Italia nella XVI legislatura.
Nel 1845 conobbe Giuseppe Verdi: il legame tra i due fu determinante per l’attività artistica di
Morelli, indirizzandolo verso filoni tematici legati al teatro romantico del tempo; dagli anni settanta
inoltre tra i due nacque una feconda collaborazione, con Morelli che spesso inviava fotografie dei
suoi lavori al compositore, ricevendo consigli, e fruttuosi confronti su temi di comune interesse,
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come ad esempio la rappresentazione dei
personaggi shakespeariani del Re Lear e
dell’Otello. Fu forse anche la suggestione
dell’Aida che portò Morelli, tra il 1874 e il 1883, a
sviluppare un gusto e delle tematiche più
orientaliste, sempre trovando ispirazione
nell’analisi approfondita delle fonti storiche.
Di questo periodo si può ricordare La sultana e
Bagno turco, opera che non venne però ben accolta
dalla critica ufficiale; la fama di Morelli, sia come
pittore che come intellettuale, era ormai comunque
consolidata e riconosciuta su scala nazionale e
internazionale: si era infatti interessato alle
problematiche storiche e sociali connesse alla
creazione dello Stato unitario, rendendosi punto di
riferimento per la ridefinizione di un nuovo ruolo 7. Domenico Morelli, Gli Iconoclasti, 1855.
dell’artista, che doveva essere impegnato e
partecipe della costruzione della nuova società civile.
Agli ultimi due decenni del secolo risalgono gli interventi decorativi per la facciata del Duomo di
Amalfi, alcune delle illustrazioni della Bibbia di Amsterdam (1895) e la direzione dell’Accademia
di Belle Arti di Napoli, che proseguì fino alla morte, nel 1901.
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Ignazio Perricci (Monopoli, 1834 – Napoli, 1907) è stato
un pittore, scultore, decoratore, arredatore e architetto
italiano; iniziò gli studi a Monopoli, presso il decoratore
Antonio Conti, e si trasferì successivamente a Napoli per
frequentare l'Istituto di Belle Arti e studiare pittura e
architettura. Qui, nel 1865, decorò alcune sale del Museo
Archeologico, mentre nel 1869 divenne insegnante
d’ornato presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli –
cattedra di cui diventerà titolare nel 1895 - oltre che, come
visto, partecipare al progetto per la culla di Vittorio
Emanuele III, opera per cui ottenne la nomina di cavaliere
della Corona d’Italia. Presso l’Accademia diventò
inoltre titolare della cattedra di pittura ornamentale nel
1878 e di quella di pittura decorativa nel 1886, divenendo
9. Ignazio Perricci, Ritratto di Franz Liszt, 1875
inoltre caposcuola della Scuola decorativa partenopea.
Nel 1870, sempre insieme al Morelli, portò a termine il sipario per il teatro di Salerno, oggi teatro
Comunale Giuseppe Verdi, mentre nel 1871 decorò l’abside del Duomo di Napoli e tra il 1870 e
il 1872 eseguì numerosi lavori al Castello Ducale di Corigliano Calabro, dove realizzò il Salone degli
Specchi, capolavoro del barocco napoletano. L’opera lì presente, Il palcoscenico della vita, consta
in una tela, dipinta a trompe l’œil e applicata al soffitto, in cui alcuni personaggi in costumi locali
salutano gli osservatori sullo sfondo di un cielo blu notte tempestato di stelle realizzate con
frammenti di cristallo.
Complessivamente Perricci nelle sue opere si rifà ad un classicismo interpretato con originalità,
dovizia di particolari e tecniche da lui spesso ideate e sperimentate. L’artista morirà a Napoli nel
1907 e verrà riscoperto solo in tempi recenti.
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I materiali della culla
Risalgono al tempo di Papa Leone III, nella seconda metà dell’VIII secolo, le prime testimonianze
circa l’alta qualità della manifattura tessile napoletana, soprattutto del lino e di tipo serico.
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rifornimento della corte e gli scambi commerciali, era la fabbrica, statale, in cui venivano svolte
tutte le lunghe fasi produttive, dall’allevamento dei bachi alla lavorazione del tessuto.
A primavera le uova del baco si schiudono e questo, dopo tre o quattro mute, secerne un filo,
lungo anche centinaia di metri e reso rigido dalla sericina, con cui formerà il bozzolo in cui subirà
la metamorfosi in crisalide e poi in farfalla; il bozzolo viene ammorbidito immergendolo in acqua
calda, così da estrarne la sericina, dipanato e tratto, ovvero tirato fino a formarne delle matasse
che vengono poi tessute. Il prodotto ottenuto viene quindi rifinito attraverso operazioni come la
marezzatura, ovvero la compressione sotto grandi cilindri, l’apprettatura, la cimatura e la
piegatura.
Attraverso questi procedimenti a San Leucio venivano prodotti, per l’abbigliamento come per
l’arredamento, una ricca gamma di rasi, broccati e velluti in una gamma cromatica assai vasta e,
all’epoca, ottenuta attraverso coloranti naturali: la fama della sua manifattura si estese presto in
tutte le corti d’Europa, divenendo un’eccellenza e superando la produzione francese.
Con il 1861 e la nascita del Regno d’Italia la fabbrica di San Leucio venne privatizzata e lo statuto
fu abolito; la manifattura però non scomparve e, sebbene con caratteristiche ovviamente assai
diverse, continua ancora oggi con industrie a conduzione per lo più familiare che, come un tempo,
portano avanti una produzione di gran pregio e le cui sete adornano il Vaticano, la Casa Bianca,
Buckingham Palace, la Camera dei Deputati, il Senato Italiano e molte case reali e di alta
rappresentanza europee e non.
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Madreperla
La madreperla è il rivestimento iridescente presente sullo strato interno della conchiglia che
racchiude alcune specie di molluschi; è formata da diversi strati di cristalli lamellari di aragonite,
un minerale composto da carbonato di calcio, ondulati e disposti simmetricamente intorno alla
valva. La conchiolina, una proteina, e l’acqua tengono insieme le molecole di aragonite, sostanza
responsabile dell’aspetto della madreperla: le piastrine di aragonite sono infatti trasparenti e
imitano lunghezze d'onda della luce visibile, permettendo l'assorbimento e la rifrazione dei raggi
luminosi in varie tonalità, con il conseguente fenomeno di iridescenza - detto anche lustro.
A causa della sua fragilità, la lavorazione è molto lunga e complessa: per prima cosa si rimuove la
crosta esterna dalle conchiglie, che vengono quindi tagliate in pezzi e lavorate con ruote a
smeriglio e con il tornio. A ciò seguono altre lavorazioni che dipendono dall’oggetto da produrre
– ad esempio trafilatura, profilatura o incisione – e la pulitura. I principali centri produttivi e
manifatturieri in Europa sono in Italia a Torre del Greco, in Austria a Vienna, in Francia a Merù, in
Germania ad Amburgo e a Soligen e in Inghilterra a Birmingham.
Nel Medioevo si diffuse in Europa attraverso l’Oriente, ma il suo periodo di maggiore fortuna fu
durante il regno di Elisabetta I, nel XVI secolo, che diede inoltre al materiale il nome “Mother of
Pearl”: in quegli anni la domanda crebbe incredibilmente e vennero prodotti molti oggetti
ornamentali, come tabacchiere, scatole, gioielli, lavori d’intarsio, tasti di strumenti musicali,
decorazioni di posate e, soprattutto, bottoni. In effetti, fino a quando la plastica non prese il
sopravvento, nel XX secolo, la madreperla era ampiamente usata per la produzione di bottoni
lucidi, artigianato che presenta tutt’oggi un centro fiorente a Broome, in Australia, in cui viene
raccolta e lavorata la madreperla della Pinctada Maxima.
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Tartaruga
In Italia la produzione di manufatti artistici in tartaruga è legata e nasce grazie alla presenza e
all’influenza degli ebanisti nordici, nonché ai continui scambi commerciali con il resto d’Europa
e, in particolare, all’arrivo nel XVII secolo di migranti cattolici in fuga dai Paesi protestanti a
seguito alle guerre di religione: numerosi artigiani giungono in tal modo nella Penisola e specie
nel Meridione, dove si svilupperà infatti un fiorente artigianato.
La lavorazione della tartaruga a Napoli e a Torre del Greco assume dunque velocemente grande
importanza tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo, quando nella capitale partenopea
1
Seneca, De Benificiis, VII, 9,2
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nascono importanti atelier, come quelli dei tabacchieri Giuseppe e Gennaro Sarao, Nicolas De
Turris e Antonio Laurentis, nominato tra l’altro orefice di corte nel 1747.
La tartaruga venne usata anche nei cosiddetti intarsi di Boulle, ottenuti creando un marquetry con
guscio di tartaruga, peltro e ottone su legni d’ebano: la lavorazione del carapace iniziava
bollendo il guscio in acqua saltata, quindi ammorbidendolo e appiattendolo sotto una pressa ed
infine pulendolo e lucidandolo con attenzione.
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La lavorazione del carapace per l’ottenimento
di superfici in tartaruga inizia scomponendo il
guscio e suddividendone le due parti principali in
placche poi sfaldate in scaglie. Vi è poi una
selezione volta ad identificare quelle utili ai fini
artistici in base a trasparenza, bellezza e macchie;
la cromia e la qualità dipendono dalla parte della
corazza da cui sono selezionate le scaglie: la
varietà più pregiata è la tartaruga bionda,
trasparente e dorata, seguita da quelle semi-
bionda, passa, jaspé e nera. Selezionate,
raschiate e pulite, le scaglie vengono quindi
saldate sovrapponendole e sfruttandone il potere
adesivo, in modo da ricavare uno strato che può
essere sottoposto a leggera pressione sotto
calore e umidità, così da essere curvato e
sagomato, con schegge e disomogeneità che
vengono inglobate, oppure tirato a mano,
incidendo la superficie con un disegno 20. Pubblicità della ditta Giovanni Ascione & Figlio di
prestabilito. Torre del Greco.
I pezzi vengono dunque puliti ed eventuali elementi preziosi possono essere applicati tramite
apporto di calore e pressione; la superficie interna può infine essere tinta con toni dal rosso al
nero oppure supportata da fogli di carta colorata o lamine metalliche, così da esaltare le sfumature
naturali della tartaruga ed ottenere maggiore luminosità.
Dal punto di vista conservativo i principali degradi sono correlati alla naturale alterazione del
materiale, alle tecniche di lavorazione, alla messa in opera e alla destinazione d’uso: il
deterioramento è quindi di tipo meccanico nella fase di adattamento a nuovi vincoli e chimico-
fisico in risposta alle variazioni termo igrometriche e agli agenti esterni; correlata a queste tipologie
di degrado vi è la comparsa di lesioni, incrinature, sconnessure, lacune e alterazioni cromatiche. Il
degrado biologico è dovuto ai bio-deteriogeni e soprattutto delle larve di insetti Dermestidae,
genere Attagenus sp., che causano fori di sfarfallamento, gallerie, erosioni e mutamenti nella
colorazione; il degrado antropico è invece imputabile ad incuria, danni accidentali e restauri
precedenti e può consistere in abrasioni, graffi, distacchi e depositi superficiali.
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Corallo
Nel XV secolo il corallo iniziò ad essere raccolto a Torre del Greco, ma il monopolio della
lavorazione, allora livornese, rimase tale fino al XVIII secolo, quando, grazie alla dinastia borbonica
e a Paolo Bartolomeo Martin, che introdusse nella cittadina partenopea la lavorazione, Torre del
Greco iniziò a divenire uno dei centri produttivi e manifatturieri principali della Penisola. Nel 1780
la città arrivò ad avventurarsi lungo le coste africane,
vincendo la concorrenza di Trapani, Genova, Livorno e
Marsiglia. Nel XIX secolo Re Ferdinando IV di Borbone,
riconoscendone il potenziale economico – chiamava
infatti la città “spugna d’oro” -, vi aprì la prima
fabbrica di produzione di oggetti e monili in corallo, con
una produzione che era già molto più votata alla
fabbricazione di manufatti decorativi e di uso comune
che sacri. Nel 1876 venne istituita a Torre del Greco la
Scuola d’Incisione sul Corallo e di Disegno Artistico
Industriale, rendendo in tal modo la cittadina torrese
uno dei principali centri produttivi mondiali per la
lavorazione del corallo e delle conchiglie, con cui si
realizzano ancora oggi i tipici cammei. 22. Artigiane infilano il corallo per farne collane.
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A causa delle infinite e microscopiche variabili che determinano il suo colore, le varietà di corallo
sono molteplici; quelle lavorate, dette octocoralli, vengono principalmente suddivise rispetto al
mare di raccolta e alla tonalità.
Il corallo del Mediterraneo, o Corallium rubrum, viene pescato nel bacino del Mediterraneo ed è
una delle tipologie più apprezzate e più lavorate dagli artigiani sin dall’antichità per la
lavorazione di collane, cabochons, gocce e pendenti; il suo colore va dall’arancione al rosso
scuro, presentando tonalità più o meno uniforme.
Anche il corallo Sciacca, ovviamente raccolto nei mari di Sciacca, viene chiamato Corallium rubrum,
ma è particolarmente raro perché corallo sub fossile, ovvero risalente ad alcuni milioni di anni fa;
dal colore arancio, chiaro o scuro, viene utilizzato soprattutto per farne spille, bottoni, spole e
cannette, ma data la sua rarità è difficilmente reperibile e molto prezioso.
Per quanto riguarda la lavorazione, essa inizia con il lavaggio del corallo, così da eliminare il
plancton che lo ricopre e poterne determinare colore, qualità e dimensione; l’artigiano quindi
seleziona quali coralli tagliare per la lavorazione a liscio, cioè quella volta a produrre sfere,
cabochon o altre forme. L’operazione verrà effettuata manualmente, usando un macchinario
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con lamerino e acqua, e ad essa seguirà l’arrotondatura, realizzata con mole smerigliata e con
acqua; se vi è la necessità di creare un foro passante o un mezzo buco l’operazione viene oggi
attuata con macchine semi automatiche, mentre in passato si utilizzava uno strumento a forma di
arco e con punta in acciaio. Dopo queste fasi vi è la lucidatura, che può avvenire a cera o tramite
il processo di burattatura, ovvero in piccoli barili in lattice o caucciù con all’interno della pomice
fatti ruotare per 24 – 36 ore.
Il corallo, a causa della sua particolarità, della sua estetica e della sua relativa rarità, ha inoltre da
sempre avuto particolare valore simbolico, valore che nel corso dei secoli si è declinato in
molteplici significati:
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Nell’Antica Roma il corallo aveva proprietà curative,
benefiche e di buon auspicio, probabilmente a causa della
sua forma, che ricorda un albero o un intrico di vasi sanguigni
e al suo colore rosso sangue: veniva infatti usato in polvere
per prevenire e curare crisi epilettiche, per scacciare gli incubi
e lenire il dolore della dentizione. Risale inoltre a questo
periodo l’uso del corallo come amuleto specifico
dell’infanzia, in quanto ai neonati venivano fatti indossare
dei pendenti in corallo come portafortuna e per scacciare le
forze maligne. 27. Collana cerimoniale celtica.
Questa particolare valenza venne conservata anche durante il Medioevo e il Rinascimento, come
testimoniano diverse opere d’arte: Gesù ad esempio indossa spesso del corallo, allusione inoltre alla
sua futura Passione. In questi secoli il corallo assunse anche, a causa delle sue caratteristiche
morfologiche, valore protettivo contro fulmini e morti improvvise, divenendo anche cura per
emorragie, anomalie nel ciclo mestruale e un coagulante per ferite, ulcere e cicatrici.
Specie nel Medioevo la sua forma venne assimilata a quella della Croce, rendendolo anche un amuleto
contro il Demonio; l’introduzione del rosario rese inoltre comune la realizzazione dei suoi grani con
il corallo, che, per il suo color rosso, richiamava in tal modo le rose mitiche del giardino mariano.
Nel corso del Manierismo il corallo assume valore alchemico, e il ritorno in auge della mitologia classica,
del potere della natura e del fascino del concetto
di metamorfosi fecero sì che la sua lavorazione
divenisse particolarmente elaborata: ciò porterà
poi, nel corso del XVII secolo, allo sviluppo di un
artigianato particolarmente raffinato specie nel Sud
Italia, ricco di oggetti devozionali e d’ispirazione
mitologica e rivolto soprattutto alle corti italiane e
spagnole. Ad oggi il corallo mantiene il valore
curativo e di buon auspicio che da sempre lo
connota, tanto che viene usato nelle pratiche di
28. Fase di restauro di un altarino in corallo e oro.
cristalloterapia e come amuleto.
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Cammei di Torre del Greco
Nel corso del Medioevo l’arte del cammeo vive un periodo di minore splendore, per poi
diffondersi e raggiungere il suo apice nel corso del Rinascimento italiano, quando vari artisti, come
20
ad esempio Grechetto, si distinsero in questo settore,
impreziosendo i monili con materiali pregiati e
rendendoli degnamente parte di importanti
collezioni, come quelle medicee. Il cammeo in
quest’epoca viene utilizzato anche sotto forma di
orecchini, pendenti, anelli e bracciali, come pegno
d’amore, gioiello nuziale e cerimoniale. L’Italia
mantenne il monopolio fino al XVII secolo, quando la
produzione principale si trasferì in Austria; gli artisti
principali erano tuttavia ancora italiani e tra loro si
31. Coppa dei Tolomei, I d.C.
possono ricordare Alessandro Masnago e Ferdinando
Eusebio Miseron.
Se dopo il XVIII secolo l’arte del cammeo iniziò a subire una parabola discendente, in Italia
intorno al 1830 la glittica si sviluppò in una forma particolare a Torre del Greco, già famosa per la
lavorazione del corallo. Fu la congiuntura di due eventi a portare allo sviluppo di questa fiorente
manifattura: da una parte l’arrivo d’ingenti quantità di conchiglie provenienti dal Nord Africa e
utilizzate dalle navi come zavorra, che iniziarono ad essere incise dai cittadini; dall’altro la crisi
della produzione in corallo, causata nel 1875 dalla scoperta a Sciacca di ricchi banchi dello stesso,
che determinò la saturazione del mercato e una forte concorrenza. Fu grazie alla lavorazione delle
conchiglie che Torre del Greco riuscì a sopperire al momentaneo stallo economico, forse anche
grazie all’arrivo di alcuni artigiani romani esperti nell’incisione di pietre dure.
I cammei si ottengono dalla lavorazione ad incisione di gemme, pietre dure e, come visto, dagli
inizi del XVIII secolo e solo a Torre del Greco, conchiglie. Tra le gemme utilizzate si ricordano
l’ametista, il topazio, lo smeraldo, il rubino e anche il diamante, mentre tra le pietre dure l’onice,
agata, il turchese, la malachite, il lapislazzulo e il diaspro.
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Le conchiglie che maggiormente si prestano alla lavorazione
per realizzarne cammei sono, a causa della presenza di due
strati di colore nettamente distinti, che consentono d’isolare
nitidamente dal fondo la figura a rilievo, quelle del genere
Cassis, pescate soprattutto nei Caribi, in Mozambico, Kenya e
Madagascar. Nello specifico, particolarmente rinomata è la
Cassis Madagascariensis, detta casco sardonico o conchiglia
sardonica: alta circa 30 centimetri, è di colore bruno sul fondo
e perfettamente bianca sullo strato esterno, che verrà poi
inciso. Importanti sono anche la Cassis Rufa, chiamata casco
corniola, di origine africana e alta circa 16 centimetri, con strato
interno rossastro e esterno carnacino pallido, e la Cassis
Cornuta, o casco arancio, alta 25 centimetri e con interno
arancio e esterno bianco.
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Storia collezionistica
In seguito la culla, come altre parti del mobilio dei Savoia, venne, forse perché considerata poco
coerente con la borbonica Versailles d’Italia, conservata nei depositi del museo e quasi
dimenticata fino al 1987, quando Enrico Colle, incaricato dal Ministero dei Beni Culturali a far parte
di una Commissione per il Censimento degli Arredi dei Palazzi Reali Italiani, individuò e catalogò
l’opera tra i vari oggetti presenti negli scantinati della Reggia.
È solo nei primi anni 2000 che però, grazie agli studi finanziati per l’iniziativa “Casa dei Re”, la
culla di Vittorio Emanuele III e quella di Maria Pia di Savoia, realizzata nel 1934, vengono restaurate
e incluse nella collezione dell’Appartamento Ottocentesco; saranno infine esposte alla Reggia
nel 2008 insieme ad altri reperti dei Savoia, come alcuni dipinti e busti, giochi di Carlo Alberto, un
biliardo e due organi borbonici.
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Il museo: la Reggia di Caserta
Fu l’architetto Luigi Vanvitelli (1700- 1773) ad essere incaricato, dopo alterne vicende, del
progetto: con un’area di 47 000 m² e oltre 1 000 000 m³, la residenza reale da lui ideata è la più
grande al mondo per volume e dal 1997 è parte del patrimonio UNESCO.
Con la proclamazione della Repubblica Partenopea nel 1799 il palazzo e le altre proprietà della
corona vennero espropriate: l'edificio venne depredato di gran parte del prezioso mobilio interno,
alcuni pezzi vennero poi recuperati con la Restaurazione.
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Nel 1806 Napoleone conquistò il Regno di Napoli e ne concesse la corona a suo fratello Giuseppe;
la monarchia borbonica venne restaurata dopo il Congresso di Vienna del 1815 e il palazzo servì
come residenza di caccia dei re borbonici, ma entrò in uno stato di decadenza. Nel 1861 il regno
di Napoli entrò a far parte del neonato Regno d'Italia e il palazzo venne occasionalmente abitato
da alcuni membri di casa Savoia, sino a quando, nel 1919, Vittorio Emanuele III non lo cedette allo
Stato Italiano.
Vi sono poi gli appartamenti veri e propri, divisi in Appartamento Nuovo e in Appartamento
Vecchio: il primo fu abitato prima della conclusione dei lavori da Ferdinando IV e Maria Carolina
e presenta la cosiddetta Sala Ellittica, che ospita un esempio di presepe napoletano con ben 1200
figure. Il secondo fu costruito tra il 1806 e il 1845 e vi si trova l’imponente Sala del Trono, decorata
con medaglioni dorati con l'effigie di tutti i sovrani di Napoli e con gli stemmi di tutte le province
del regno. Le sale presentano anche una quadreria e una collezione d’arte contemporanea – la
“Terrae Motus” – comprendente circa settanta opere.
Il complesso della reggia costituisce uno dei musei statali italiani, e dal 2016 il Ministero per i beni
e le attività culturali vi ha concesso autonomia speciale.
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Confronti: alcune culle di casa Savoia
La struttura consiste in quattro gambe con piedi a forma di zampa leonina e dotati di rotelle che
sorreggono due montanti a sezione circolare, uniti inferiormente da una traversa decorata con volute
vegetali, palmette e fiori in bronzo meccato. Il montante posteriore prosegue verso l'alto e termina con
una palmetta da cui nascono tralci fitomorfi dorati; sulla sommità vi è una statuetta intagliata e dorata
raffigurante un putto che regge una corona foderata in seta blu.
La culla presenta interiormente un’imbottitura rivestita in seta azzurra;
esternamente è invece decorata alle estremità con volute vegetali,
centralmente con una fascia con un motivo dorato alla greca e,
inferiormente, con baccellature ed un elemento tornito, sempre dorato.
Stilisticamente appare influenzata dallo stile Impero, ma decisamente
già legata all’eclettismo: così indicano le zampe leonine, la
decorazione alla greca, le linee rigide e geometriche della costruzione
e, al contempo, la presenza delle volute vegetali e del putto,
d’ispirazione barocca.
La culla presenta molte similitudini con quella in palissandro e bronzo
della principessa Maria Clotilde, primogenita di Vittorio Emanuele II e
Maria Adelaide, realizzata da Gabriele Capello nel 1843 proprio per la
camera da letto della regina Maria Adelaide, in cui sono conservati
40. La culla di Maria Clotilde di
entrambi i manufatti.
Savoia, 1843.
2
Scheda OA della culla, 2006
3
Noemi Gabrielli, Il castello di Racconigi., Istituto Bancario San Paolo di Torino, Torino 1972, p. 110
27
Culla della principessa Iolanda di Savoia - 1901
28
La struttura è rettangolare, con il lato anteriore
incurvato verso il centro, e presenta dei piedini a
forma di zampa di leone, mentre la culla è
argentata e appare oggi come una sorta di
canestro riccamente intrecciato e circondato da
una fascia centrale con medaglioni raffiguranti gli
stemmi dei rioni romani. Nel progetto originale
tuttavia, come si può notare nell’immagine 44,
il suo aspetto era differente, così come lo era
quello di altri elementi, ad esempio la base su cui
poggia l’angelo - che doveva rappresentare la
lupa con Romolo e Remo - e la presenza del 43. Particolare della culla: sono visibili i medaglioni con gli
stemmi dei rioni romani.
capitello sotto la statua della dea Roma.
44. Cartolina del 1901 raffigurante il progetto della culla di Iolanda Margherita di Savoia.
29
La culla di Maria Pia di Savoia, poi culla di Vittorio Emanuele - 1934
4
Come si riporta su http://www.culturaitalia.it/opencms/museid/viewItem.jsp?language=it&id=oai%3Aculturaitalia.it%3Amuseiditalia-
work_35639. Tuttavia la stessa culla, che il sito citato fa risalire alla nascita del principe Vittorio Emanuele nel 1937, appare nelle
fotografie del 1934 con la principessa Maria Pia; quest’ultimo manufatto viene inoltre detto essere conservato nello stesso luogo di
quello del fratello: a fronte di ciò l’unica possibilità realistica è che si tratti della stessa culla, realizzata nel 1934 e poi riutilizzata nel
1937, come attestano tra l’altro i filmati Luce del battesimo del Principe (https://patrimonio.archivioluce.com/luce- 30
web/detail/IL5000023689/2/battesimo-del-principe-napoli.html?startPage=0)
suo battesimo venne portata a Roma e tornò poi nelle residenze campane dei Savoia. Dopo la
Seconda Guerra Mondiale e l’avvento della Repubblica se ne persero però completamente le
tracce, fino a quando, nel 1979, non riapparve alla Reggia di Caserta, nella cui VIII Retrostanza
dell’Appartamento Ottocentesco si trova tutt’oggi.
Ancora eclettica, stilisticamente appare più contenuta e austera di quella del 1869, con maggiore
severità nelle forme e nello stile, probabilmente influenzato dal quello fascista, come mostrano
anche le due aquile poste simmetricamente alle estremità della base della culla.
47. Cartolina raffigurante Vittorio Emanuele nella culla, 1937 48. Fotografia presente nella rivista Emporium, Vol.
LXXXI, n. 483, p. 192, 1935
31
Bibliografia
Eduardo Cuomo, Ai primordi della lavorazione della tartaruga a Napoli e a Torre del Greco,
Vesuvioweb, s.d. 2016
Edoardo Cuomo, Gennaro Ascione, La Regia Scuola d’Incisione sul corallo e di Arti Decorative
Industriali di Torre del Greco, Vesuvioweb, s.d. 2017
Sitografia
Nota esplicativa: Poiché molte delle informazioni sono state reperite attraverso Internet, per
rendere la sitografia agilmente consultabile la si è impostata seguendo l’ordine in capitoli della
relazione e facendo risalire ad ogni capitolo le pagine web consultate.
http://www.viv-it.org/immagini/domenico-morelli-culla-di-vittorio-emanuele-iii-1869
https://www.alinari.it/it/dettaglio/BGA-F-012838-0000
http://caserta.arte.it/guida-arte/caserta/da-vedere/opera/culle-5217
https://www.reggiadicasertaunofficial.it/it/collezioni/mobili/culla-del-principe-di-napoli/
http://www.arte.it/opera/culle-5217
Lo stile pp. 4 - 5
https://www.reggiadicasertaunofficial.it/it/collezioni/mobili/culla-del-principe-di-napoli/
https://corsi.artedelrestauro.it/corsi/sma-storia-del-mobile-prima-meta-dell800/
https://www.vecchiesoffitte.it/leclettismo.html
https://www.delucaeditori.com/prodotto/la-circolazione-della-scultura-lignea-barocca-
nel-mediterraneo-napoli-la-puglia-e-la-spagna/
https://www.inforestauro.org/eccletismo/
32
Gli autori: Domenico Morelli e Ignazio Perricci pp. 6 - 8
https://it.wikipedia.org/wiki/Domenico_Morelli_(pittore)
https://www.treccani.it/enciclopedia/domenico-morelli_%28Dizionario-Biografico%29/
https://it.wikipedia.org/wiki/Ignazio_Perricci
https://www.treccani.it/enciclopedia/ignazio-perricci_(Dizionario-Biografico)
https://cantieredelbaco.wordpress.com/2017/11/03/san-leucio-la-seta-dei-
borboni/
http://www.napoliartigianatoartistico.com/la-tradizione-tessile-napoletana-e-le-
seterie-di-san-leucio/
https://www.reggiadicasertaunofficial.it/it/parco/san-leucio-belvedere-seta/
Madreperla pp. 11 - 12
https://www.artimondo.it/magazine/madreperla/
https://www.gemperles.it/la-madreperla
https://www.sapere.it/enciclopedia/madrep%C3%A8rla.html
https://anticonline.net/tartaruga-lutilizzo-nellarte-antica-e-la-tecnica-del-pique-a-
napoli/
https://antichecuriosita.co.uk/2020/01/24/andre-charles-boulle-ebanista/
Corallo pp. 16 - 19
https://www.luciavitiello.it/it/blog/il-corallo-le-varie-tipologie-2525
https://torredelgreco.jimdofree.com/coralli-e-cammei/
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Cammei di Torre del Greco pp. 20 - 23
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https://www.aucella.it/la-lavorazione-dei-cammei.html
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ascione/napoli.html?startPage=40&jsonVal={%22jsonVal%22:{%22query%22:[%22
*:*%22],%22fieldDate%22:%22dataNormal%22,%22_perPage%22:20,%22persone
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