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ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITA’ DI BOLOGNA

SCUOLA DI LETTERE E BENI CULTURALI

Corso di Laurea in Lettere – Curriculum Moderno

GLI STRUMENTI MUSICALI NELLE FIGURE RETORICHE


DELLA COMMEDIA DI DANTE

Tesi di Laurea in Letteratura e Critica Dantesca

Relatore: Presentata da:


Prof. Giuseppe Ledda Emidio Ranieri Tomeo

Primo appello
Anno accademico 2017-2018
Indice

Introduzione…. …………………………………………………………………………………….…….2

I. Gli strumenti musicali della “musica diaboli”

I.1. L’ “angelica tromba” e la trombetta di Barbariccia (If. VI, XIX, XXII; XXI)…………….……..4

I.2. Trombe, campane, tamburi e cennamella (If. XXII)………………………………….…………..9

I.3. Lëuto e tamburo: l’immagine di Maestro Adamo (If. XXX)……………………………………13

I.4. Il corno di Nembrot (If. XXXI)………..…………………………………………………..…….18

II. Le metafore musicali del Purgatorio

II.1. “Cantar con organi”: un passo problematico (Pg. IX)…………………………………….……22

II.2. Le “mille tube” (Pg. XVII)………………………………………………………………….….32

III. Strumenti musicali nel Paradiso

III.1. Le “dolci tube” del Cielo del Sole (Pd. XII) e la tuba (Pd. VI, XXX)……………………..……34

III.2. I cordofoni del Paradiso: la giga, l’arpa e la lira (Pd. XIV, XV)……………………………...…36

III.3. La “dolce armonia da organo” (Pd. XVII)……………………………………………………….47

III.4. Flailli, cetra e sampogna: gli strumenti musicali del canto XX………………………………….52

Conclusioni……………………………………………………………………………………………......…61

Bibliografia………………………………………………………………………………………………..…64

1
Introduzione

Il tema della musica e degli strumenti musicali presenti all’interno della Commedia è uno degli
aspetti meno trattati dagli studiosi, salvo qualche eccezionale studio come ad esempio l’articolo
di Bellaigue o il volume di Arnoldo Bonaventura di inizio secolo scorso. Gli ultimi dieci anni
hanno visto la rinascita di un interesse per la presenza musicale nel poema che ha portato alla
fioritura di nuove speculazioni, si pensi al lavoro di Cappuccio o di Ciabattoni sulla polifonia e
altri. Prima di qualsiasi approccio al tema della musica nella Commedia, si devono però fare delle
premesse: innanzitutto la parola “musica” indicava nel medioevo la “teoria della musica”, poiché
essa era una disciplina teorica annoverata tra le arti matematiche del Quadrivio. E certamente,
nota il musicologo Pirrotta, come per ogni altro pensatore medievale, anche per Dante la musica
era innanzitutto una delle arti liberali. Inoltre, scrive lo stesso Pirrotta: «la musica ha un posto
elevato nella gerarchia di valori stabilita da Dante, a giudicare dalla ricchezza e varietà di
immagini che egli ne trae. Si direbbe, in base a un passo ben noto del Convivio, che il suo suono
esercitasse su di lui un effetto magico, paragonabile soltanto al potere di astrazione assorta
esercitato su di lui dall’immaginazione esaltata dalla sua fantasia»1.
Le basi concettuali dei pitagorici giunsero nel pensiero dei primi trattatisti medievali, tra cui
spiccano molti Padri della Chiesa (si pensi al De Musica di Sant’Agostino), fino a giungere nelle
mani di colui che fu considerato il magister tra i teorici: Manlio Severino Boezio. Nel suo De
Institutione Musicae Boezio compendiò tutto quanto concerne lo scibile e la speculazione
musicale ed elaborò la prima grande classificazione della musica, divisa tra musica mundana,
musica humana e musica instrumentalis. La prima consiste nella musica dell’Universo, la sua
struttura e le relazioni numeriche che governano e regolano tutti i moti dei corpi celesti. La
humana comprendeva l’armonioso rapporto, la coesistenza tra anima e corpo e le loro facoltà:
una proiezione sul piano umano dell’armonia cosmica. Infine la minore musica instrumentalis, su
cui si concentra in particolar modo lo studio qui proposto, la quale è la sola udibile, quella prodotta
dall’uomo con lo strumento naturale della voce o con gli strumenti artificiali, «divisi, a lor volta,
nelle tre categorie degli inflatilia (a fiato), tensibilia (a corde), percussionalia (a percussione)»2;
strumenti creati dall’ingegnosità dell’uomo, volta ad imitare l’inaudibile perfezione della musica
coelestis. A ben notare, tale suddivisione non era certo estranea a Dante, tanto che sembra
possibile, a patto che non si cerchi una rigida corrispondenza, ricondurre la tripartizione boeziana
della musica alle tre cantiche dantesche: infatti l’Inferno è la cantica per eccellenza dei suoni, che

1
Nino Pirrotta, Dante musicus: goticismo, scolasticismo e musica in Musica tra Medioevo e Rinascimento, Torino,
Einaudi editore, 1984, pp. 20-36, p. 30.
2
Raffaele Arnese, Storia della musica nel Medioevo europeo, Firenze, Leo Olschki editore, 1983, p. 84.
2
compongono la “musica diaboli”. Il Purgatorio mostra un’ampia presenza del cantus planus, che
potremmo considerare ancora concentrato sul piano dell’uomo: una musica humana, appunto. Nel
Paradiso infine sembra chiaramente individuabile la musica mundana, molti sono infatti i
riferimenti all’“armonia delle sfere” individuati dai critici.
Sappiamo, grazie a Boccaccio, che il poeta «sommamente si dilettò in suoni e canti nella sua
giovinezza, e a ciascuno che in quei tempi era ottimo cantore e suonatore fu amico […]; ed assai
cose da questo diletto tirato compose, le quali di piacevole e maestrevole nota a questi cotali
faceva rivestire»3. Di queste conoscenze abbiamo testimonianza dallo stesso poema dantesco, in
cui è presente il musico Casella, il pigro Belacqua, che come ricorda Bonaventura, fu «fabbricante
e suonatore di cetre»4, il trovatore Folchetto e altri ancora.
La sua conoscenza della musica e degli strumenti musicali ha inoltre suggerito al poeta la
formulazione di una serie di similitudini e metafore musicali all’interno della sua opera maggiore,
di cui, ancora oggi, alcune risultano di problematica interpretazione. Nello studio qui proposto è
esposta un’analisi dei passi riportanti tutti gli strumenti musicali presenti nella Commedia,
effettuando anche puntuali confronti con altri episodi musicali all’interno nel poema. L’obiettivo
proposto è quello di fornire un contributo all’esegesi dei passi, confrontando le diverse
interpretazioni presentate dai commentatori antichi sino ai più recenti studi dei moderni,
proponendo così una serie di osservazioni volte a fornire nel complesso una maggiore
comprensione dei loci musicali.

3
Giovanni Boccaccio, Vita di Dante, Roma, Oreste Garroni editore, 1908, pp. 54-55.
4
Arnoldo Bonaventura, Dante e la musica, Livorno, R. Giusti Editore, 1904, cit., p. 233.
3
I. Gli strumenti della musica infernale

I.1 “L’angelica tromba” e la trombetta di Barbariccia (If. VI, XIX, XXII;


XXI)

Nel terzo cerchio della prima cantica è presente il primo riferimento a uno strumento musicale, un
luogo in cui in una pioggia d’acqua sudicia, mista a grandine e a neve colpisce i golosi e genera al
suolo una maleodorante fanghiglia. I dannati sono inoltre graffiati, scuoiati e squartati dal guardiano
del cerchio, Cerbero, il quale su di loro «caninamente latra» e li stordisce con il suo latrato. Le stesse
anime dei golosi, colpite dalla forte pioggia, urlano dal dolore «come cani». L’immagine animalesca
del cane, cieco nella sua ingordigia suggella così lo scenario del canto dei golosi. Mentre Dante e
Virgilio passano tra le anime dei peccatori immerse nel fango, una di queste si solleva apostrofando
Dante e avviando un discorso politico sulla tragica condizione di Firenze. È Ciacco, un fiorentino non
ancora chiaramente identificato. Dopo una profezia sugli avvenimenti futuri e dopo aver dato notizia
a Dante della condizione dei grandi uomini fiorentini del passato «ch’a ben far puoser li ngegni»,
conclude il suo discorso con la richiesta di fama presso i vivi5, dopodiché «Li diritti occhi torse allora
in biechi;/ guardommi un poco e poi chinò la testa:/ cadde con essa a par de li altri ciechi». A questo
punto interviene Virgilio, per offrire a Dante una spiegazione ulteriore e inattesa:

E 'l duca disse a me: “Più non si desta


di qua dal suon de l'angelica tromba,
quando verrà la nimica podesta:
ciascun rivederà la trista tomba,
ripiglierà sua carne e sua figura,
udirà quel che in etterno rimbomba.
(If. VI, vv. 94-96)

Nella condanna di Virgilio risuonano le parole evangeliche di Matt. 24, 30-16, Dante infatti riprende
la formula biblica secondo cui le trombe angeliche annunceranno il giudizio divino7. Scrive Rachel
Jacoff: «This purely negative vision of the Last Judgment, relevant only to the souls in Hell, makes
the resumption of flesh and form a threat rather than a promise and sets the tone for the many brief

5
Cfr. il commento ad locum di Chiavacci Leonardi (DDP).
6
«Allora nel cielo apparirà il segno del Figlio dell’uomo [...] 31 E con un forte suono di tromba egli manderà i suoi
angeli, ed essi raduneranno i suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all’altro dei cieli».
7
Apocalisse 8:6 sgg in Nuova Riveduta online, 1927.
4
references to the resurrection and to the Last Judgment scattered throughout the canticle»8. La tromba
che egli immagina è verosimilmente la tromba lunga dritta, uno strumento di provenienza romana
riapparso sulla scena musicale del IX sec. in una sua nuova versione9. È tra il XII e il XIII secolo,
infatti, che compaiono in Italia affreschi raffiguranti delle trombe dotate di campane e costruite
probabilmente in argento, ne sono un esempio le “trombe di Capua” (presenti nel “Giudizio
Universale” di S. Angelo in Formis), «prima testimonianza dell’influsso musulmano sulla decaduta
tradizione occidentale della tromba».10 Già nell’VIII secolo però, miniature irlandesi raffigurano una
tromba diritta di metallo senza padiglione, probabilmente una tuba romana corrotta. Acquisì poi un
padiglione più ampio e una forma più sottile e più lunga dopo l’anno 1000, grazie ai contatti avuti
con le trombe arabe che gli eserciti cristiani incontrarono in Spagna, in Terra Santa e nell’Italia del
Meridione11. Nel testo latino della Bibbia al posto della tromba appare la parola tuba (“et mittet
angelos suos cum tuba magna”), come nel Libro dei Salmi e in quello dell’Apocalisse; il termine
ebraico shofar (un corno d’animale più volte citato nell’Antico Testamento) era stato infatti,
erroneamente tradotto da San Girolamo con la parola latina tuba, invece del più appropriato buccina
(poi buisine, in francese)12. Tromba va dunque inteso come sinonimo di tuba, ma la sua occorrenza
nell’Inferno al posto del termine latino (che invece compare solamente nelle altre due cantiche) non
può essere casuale. Le ragioni alla base di questa scelta vanno ricercate, come osserva Monterosso,
sia nella maggior dignità di cui godeva il lemma tuba rispetto alla parola volgare tromba, in relazione
alla differente qualità dell’argomento poetico trattato, sia nella contrapposizione tra due differenti
impieghi dello strumento indicato con il termine tromba. Una distinzione che, aggiunge Monterosso,
emerge già dall’Antico Testamento (Num.10, 2-10), dove si contraddistingue «il suono della tromba
come segnale di allarme e come richiamo per le varie incombenze del vivere civile»13, e si rimanifesta
anche nel XIII secolo quando nacquero corporazioni di musici professionisti con l’intenzione di
assurgere a una maggiore dignità sociale e distinguersi dai “musici vacantes”. Resta certo comunque
che con questa distinzione terminologica Dante abbia voluto esprimere «una differente qualità
semantica ed espressiva»14.
In questa sezione del canto prende spunto una questione teologica: risulta infatti chiaro da questi versi
che Ciacco non si ridesterà più fino a quando la tromba angelica non suonerà nel giorno del giudizio,

8
Rachel Jacoff, “Our Bodies, our Selves”: The Body in the Commedia in Sparks and Seeks: Medieval Literature and its
Afterlife, Turnhout, Brepols Publishers, 2000, p.119-137, p. 126.
9
Elena Ferrari Barassi, La materia prima sonora: gli strumenti musicali, in Atlante storico della musica del Medioevo,
Milano, Editoriale Jaca Book S.p.A., 2011, pp.198-207; p.198.
10
Anthony Baines, Il medioevo in Gli ottoni (edizione italiana a curia di Renato Meucci), Torino, EDT, 1991, pp. 48-
73, p. 53.
11
Curt Sachs, Europa in Storia degli strumenti musicali, Milano, Mondadori editore S.p.A., 1980, pp.329-330, p.329.
12
Anthony Baines, Il medioevo in Gli ottoni, cit., p. 48.
13
Raffaello Monterosso, Tromba in Enciclopedia dantesca online.
14
Ibidem.
5
quando la «nimica podesta», interpretata dalla maggior parte dei critici con Cristo, nemico per i
dannati, tornerà («cum potestate magna et maiestate»15) per giudicarli: allora vi sarà la resurrezione
dei corpi e i peccatori udiranno la sentenza finale che deciderà il loro destino nell’aldilà. Un dantista
francese, André Pézard, ritenne l’espressione poco adatta a Cristo e la intese come la «seconda morte»
dopo il Giudizio Universale. Tuttavia un’interpretazione poco plausibile, in quanto l’immagine di
Cristo giudice è avvalorata anche dalla osservazione, fatta da molti critici tra cui Bosco e Reggio, che
il magistrato del comune era detto “Messer la Podestà”16.
La tromba del giudizio risuona anche più avanti:

O Simon mago, o miseri seguaci


che le cose di Dio, che di bontate
deon essere spose, e voi rapaci
per oro e per argento avolterate
or convien che per voi suoni la tromba,
però che ne la terza bolgia state.
(If. XIX, vv. 1-6)

Questa volta ad essere giudicati sono i simoniaci, coloro che fecero mercato dei beni spirituali o degli
uffici ecclesiastici; si trovano ora capovolti con la testa verso la terra come in vita il loro animo fu
rivolto sempre ai beni terreni, mentre sulle piante dei loro piedi brucia un fuoco che è chiara immagine
del fuoco dello spirito santo. Prendono il nome da Simon Mago, un tale che esercitava le arti magiche
in Samaria, di cui si racconta negli Atti degli Apostoli che volle comperare dai discepoli di Cristo
Pietro e Giovanni la facoltà di comunicare lo spirito santo ai battezzati. La simonia è infatti il peccato
che corrompe l’ordine del mondo voluto da Dio perché arricchisce la Chiesa, custode dei beni celesti,
dei beni terreni17. Come osserva Sapegno, «peccato che ha tanta parte nella storia della civiltà
medievale e si trova alla base sia dei grandi conflitti tra i poteri religioso e laico (si pensi alla lotta
delle investiture), sia delle polemiche tra correnti ortodosse ed ereticali in seno alla Chiesa»18. Il peso
che Dante attribuisce a questo peccato, in quanto manifestazione più evidente della corruzione della
Chiesa, è sottolineato dalle varie apostrofi presenti nel canto, dove il furore dell’invettiva acquisisce
a tratti un tono comico, beffardo in cui emergono le ragioni personali e ideali del poeta, ora giudice
delle azioni dei potenti antagonisti del suo tempo: Bonifacio VIII e Clemente V. Nel verso «or
convien che per voi suoni la tromba» (v.5) il riferimento è però doppio: per tromba potremmo

15
Vangelo secondo Luca 21, 27.
16
Cfr. il commento ad locum di Bosco e Reggio (DDP).
17
Cfr. il commento ad locum di Chiavacci Leonardi (DDP).
18
Cfr. il commento ad locum di Sapegno (DDP).
6
intendere non solo lo strumento annunciatore del giudizio divino, ma anche la voce poetica dell’autore
che si prepara a emanare la sentenza, come «la tromba del banditore, che leggeva in piazza la sentenza
del giudice»19. Alcuni critici, come ad esempio Pasquini e Quaglio, sembrano propendere unicamente
per un’interpretazione di tale tipo: «adesso è giocoforza che la mia voce squilli contro di voi»20, ma
anche Francesco da Buti offre una lettura simile del verso: «cioè la mia Comedia suoni per voi»21.
L’Anonimo fiorentino, invece, presenta un’esaustiva chiosa, scorgendo una mera intenzione
dell’autore di riecheggiare la poesia epica: «Alla tromba s'assomiglia quello stilo de' poeti che
esclama, o veramente quello ch'egli discrive parla con altri eccellenti vocaboli; et pertanto è a Lucano
attribuita la tromba, perchè cercò ne' suoi libri di parlare altamente, et con vocaboli eccellenti; ma
non con molta dolcezza. A Virgilio la musetta, però che il parlare di Virgilio è alto, dolce et reflessivo,
et ha in sè ogni modo bello di parlare che dee avere verun poeta»22.
Nell’Inferno appare poi anche un riferimento “comico” allo strumento:

Per l'argine sinistro volta dienno;


ma prima avea ciascun la lingua stretta
coi denti, verso lor duca, per cenno;
ed elli avea del cul fatto trombetta.
(If. XXI, vv.136-39)

Siamo nel canto dedicato alla baratteria che vede i suoi dannati immersi nella pece bollente e dilaniati
dai diavoli Malebranche, guardiani della bolgia. Dante e Virgilio, giunti all’ingresso della quinta
bolgia, incontrano i diavoli e la saggia guida intavola una trattativa per far transitare Dante verso la
sesta bolgia. Viene però imbrogliato dal loro capo Malacoda, il quale assegna una scorta di diavoli ai
due per condurli verso un ponte, che poi si scoprirà essere crollato23.

Il canto si conclude al momento della partenza della scorta: Barbariccia emette un peto come sconcio
segnale della partenza e i diavoli rispondono con lo stesso tono, come spiega Benvenuto da Imola:
«tenebant linguam dispositam et paratam ad trulizandum»24. Osserva Cattaneo che «l’ironia è un
elemento raro nell’umorismo dantesco, spesso carico di risentimento troppo greve e amaro per
identificarsi nell’ironia, ma in questi due canti ve n’è qualche esempio, mescolato a motivi burleschi

19
Ibidem.
20
Cfr. il commento ad locum di Pasquini e Quaglio (DDP).
21
Cfr. il commento ad locum di Francesco da Buti (DDP).
22
Cfr. il commento ad locum di Anonimo fiorentino (DDP).
23
Giuseppe Ledda, Leggere la Commedia, Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 27-28.
24
Cfr. il commento ad locum di Benvenuto da Imola (DDP).
7
più grossolani, consoni al carattere plebeo dei demoni»25. La conclusione è, dunque, in perfetta
linearità con lo stile adottato da Dante per questa parte della Commedia: un linguaggio comico, che
tocca nella battuta finale il suo culmine.

Per tutta la narrazione, osserva Chiavacci Leonardi, sono presenti scene riprese dalla vita militare,
per cui anche il finale del canto rappresenterebbe una parodia militare della milizia terrena, e allo
stesso tempo della milizia angelica, essendo stati anche i diavoli, in origine, angeli militanti
dell’esercito di Dio. Il suono della trombetta starebbe dunque per il segnale che emette la tromba
nell’esercito, un topos codificato della letteratura comica26. Come rileva Cerocchi: il suono molesto
di Barbariccia rientra nei rumori appartenenti alla dimensione infernale e simboleggia «il disgusto e
la derisione di Dante per i diavoli affrontati […] nella bolgia delle Malebolge»27.

Nel Medioevo per trombetta si intendeva un tipo di tromba con particolari caratteristiche, già indicata
con il diminutivo latino: l’imperatore Federico II, attorno al 1240, donò alla città di Arezzo «quattro
tubae e una tubecta, tutte d’argento.» Anche in una lista di pagamento francese del conte di Poitou
del 1313-14 (“menestrel de trompette”) appare il diminutivo latino ad indicare la “trombetta”
vernacolare, in uso in molte corti italiane, tra cui anche quella di Lucca, la città presa di mira in questo
canto. In molte testimonianze antiche compaiono due diversi nomi di trombe, i trompours (o tubae,
ecc) e la trompette (e simili). Poche raffigurazioni e molte testimonianze antiche attestano la presenza
di trombe lunghe accanto a una tromba corta che si distingueva per particolari caratteristiche sonore
che le consentivano il ruolo di solista. «La trompette dovrebbe essere dunque una tromba corta. In
alternativa è possibile ipotizzare che i suffissi diminutivi (-ecta, ette) siano entrati nell’uso a causa di
un suono “piccolo”, ossia “acuto”»28.

La presenza di strumenti quali la trombetta e la cennamella a Firenze è attestata anche da altre


testimonianze del periodo; da una ricerca in TLIO risulta che nella Nuova Cronica di Giovanni Villani
si legge «Trombadori e banditori del Comune, che sono i banditori VI e trombadori, naccheraio e
sveglia, cenamelle e trombetta, X, tutti con trombe e trombette d’argento, per loro salato l’anno libre
M di piccioli» dove gli strumenti indicano metonimicamente i loro suonatori29.

L’ultima citazione della tromba nella Commedia (di cui dirò meglio nel paragrafo successivo) si
riferisce più propriamente al suo uso militare e alla sua funzione segnalatoria; «La tromba fu sempre

25
Giulio Cattaneo, La trombetta di Barbariccia in Il lettore curioso: figure e testi della letteratura italiana, Firenze,
Sansoni editore, 1992, pp. 11-17, p. 14.
26
Cfr. il commento ad locum di Chiavacci Leonardi (DDP).
27
Marco Cerocchi, La funzionalità della musica nella Divina commedia in Funzioni semantiche e metatestuali della
musica in Dante, Petrarca e Boccaccio, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2010, pp. 17-46, p.35.
28
Anthony Baines, Il medioevo in Gli ottoni, cit., p. 67-8.
29
Giovanni Villani, Nuova Cronica, a cura di Giovanni Porta, Parma, Fondazione Pietro Bembo, Ugo Guanda, 1991,
vol. 3, L. XII, cap. XCIII, p. 1350.
8
considerata uno strumento del potere nelle mani delle corporazioni privilegiate, dell’esercito…»30.
Dalla fine del secolo XIII infatti, la tromba fu regolarmente partecipe delle attività legate all’ordine
cavalleresco sia in battaglia che nei tornei (una sorta di addestramento bellico), nelle cavalcate e nei
banchetti. I suoni emessi dalla tromba e i suoi segnali avevano denominazioni inequivocabili; i nomi
che gli venivano attribuiti risalgono all’incirca all’epoca delle crociate, ma noi li conosciamo da fonti
più tarde (manoscritti tedeschi e italiani del secolo XVI). Le varie discrepanze che presentano questi
testi dimostrano che essi erano il risultato di varietà locali31.

I.2 Trombe, campane, tamburi e cennamella (If. XXII)

Oltre alla tromba, di cui si è già detto, Dante annovera anche altri strumenti con funzioni militari:

Io vidi già cavalier muover campo,


e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo;

corridor vidi per la terra vostra,


o Aretini, e vidi gir gualdane,
fedir torneamenti e correr giostra;

quando con trombe, e quando con campane,


con tamburi e con cenni di castella,
e con cose nostrali e con istrane;

né già con sì diversa cennamella


cavalier vidi muover né pedoni,
né nave a segno di terra o di stella.

(If. XXII, vv.1-12)

Dopo l’indecente segnale di Barbariccia in chiusura del canto precedente, ora Dante riprende
l’argomento con un rapido elemento autobiografico: afferma infatti che, malgrado le varie occasioni
in cui poté rendersi conto dei tanti segnali utilizzati, mai gli capitò di ascoltarne uno come quello
emesso dal diavolo. Commenta Landino: «la sententia è 'io ho veduto dar cenno a' soldati, o quando

30
Giampiero Tintori, Gli strumenti musicali, Torino, UTET, 1971, p. 828.
31
Anthony Baines, Il medioevo in Gli ottoni, cit., p. 63-4.
9
muovono el campo, o quando combattono, o quando fanno la mostra, o quando fuggono; ma non
chon tale suono'»32.

Il suono emesso dal diavolo è stavolta indicato metaforicamente con un riferimento a un altro
strumento: la cennamella, cioè, come spiega Francesco da Buti, «uno istrumento artificiale musico
che si suona con la bocca di sopra sì, che ben fu diversa da questa quella di Barbariccia»33. Osserva
Cattaneo che «all’intenzione ironica, al significato di “chiosa eroicomica” di questa terzina si
potrebbe tuttavia aggiungere la consapevolezza del distacco sempre presente in Dante tra la sua
dignità di poeta e di uomo civile e il mondo tellurico e repellente dei bruti». Così, dopo aver
rappresentato i caratteri della natura diabolica, con un improvviso cambio di stile indica «la volontà
di distinguersi nel fatto stesso di commentare il segnale di Barbariccia»34. Da una attenta ricerca
mediante il database TLIO, si può notare che ulteriori ricorrenze del termine sono nel
volgarizzamento inedito del 1298 fatto da Andrea da Grosseto dei trattati morali di Albertano da
Brescia: «però che dicie Giovan Sirae: cennamelle e salterii o dolci e suavi versi, et sopra tutti è la
lingua soave»35 o nella Vita di Petronio: «facendo sonare trombe e cenamelle e più altri
instromenti…»36.

Il termine designa dunque uno strumento a fiato, più precisamente una canna ad ancia le cui prime
citazioni si trovano nella letteratura francese del XII secolo. Un esempio, seppur del XIII secolo, è
contenuto anche nel celebre romanzo provenzale di Flamenca; nel passo, riportato da Barassi nel suo
lavoro sugli strumenti musicali medievali, si legge:

L’us musa, l’autre caramella


L’us mandura e l’autr’acorda
Lo sauteri ab manicorda
(«L’uno suona la cornamusa, l’altro la cennamella, l’uno suona la mandora e l’altro accorda il salterio
col monocordo»37)

Il corrispettivo francese chalemele e il tedesco rôrphîfe derivano dal latino calamus e dal tedesco rôr
che significano entrambi canna. Qui nasce però un problema terminologico, poiché le due parole

32
Cfr. il commento ad locum di Cristoforo Landino (DDP).
33
Cfr. il commento ad locum di Francesco da Buti (DDP).
34
Giulio Cattaneo, La trombetta di Barbariccia in Il lettore curioso: figure e testi della letteratura italiana, Firenze,
Sansoni editore, 1992, pp. 11-17, p. 14.
35
Andrea da Grosseto, Trattati morali di Albertano da Brescia volgarizzati (edizione Dei Trattati morali di Albertano
da Brescia volgarizzamento inedito del 1268, a cura di Francesco Selmi, Commissione per i testi di lingua, Bologna,
Romagnoli, 1873), p.183.
36
Anonimo, Vita di S. Petronio (edizione a cura di Maria Corti, Bologna), cap. 3, p.16.
37
Elena Ferrari Barassi, Strumenti musicali e testimonianze teoriche nel Medio Evo, Cremona, Fondazione Claudio
Monteverdi, 1979, p.32.
10
indicano sia quegli strumenti che hanno un’ancia come imboccatura sia dei flauti fatti di canna, e in
particolar modo siringhe. Lo strumento con canna ad ancia in senso stretto è l’oboe38. Le fonti
iconografiche attestano la presenza di due tipi di oboi differenti: «uno piuttosto largo e probabilmente
con un suono grasso e ampio, vicino a quello di certi oboi popolari dell’Italia meridionale (piffero) e
della Spagna (caramillo). L’altro oboe, raffigurato in opere d’arte della frontiera mediterranea nei
secoli XII e XIII, è sottile e presenta una campana piriforme: il suo timbro doveva essere più
delicato»39. Dunque quando Gui de Bourgogne accomuna gli oboi ai “rumorosi” corni e alle trombe
scrivendo in un suo verso: “Olifans, grelles et chalemiaux et busines bruiants”, si riferisce certamente
al secondo tipo di oboe, più «largo e tozzo».40

Stando a quanto detto, è a questo tipo di oboe (detto, in base alle varietà locali, anche piffero,
piffera, bbifera, fiffero, cennamella, cennamedda, chiaramedda o ciaramella) che si riferisce Dante,
anche perché grazie alla sua forte resa acustica fu utilizzato anche negli eserciti: «La cennamella,
antenata dell’oboe moderno, aveva da sei a nove fori. Apparteneva al gruppo degli ‘strumenti
hauts’, cioè sonori, ma era adatto alle scene pastorali, come a quelle militari»41.

L’altro strumento che compare al seguito della tromba è la campana: le campane appartengono alla
categoria organologica degli idiofoni, secondo la classificazione Hornbostel-Sachs, che comprende
quegli strumenti il cui suono è prodotto dalla vibrazione del corpo stesso dello strumento. Il suono
prodotto è la somma della nota musicale predominante emessa e la serie degli armonici della nota
stessa che si propagano secondo una scala campanaria.
Come scrive Barassi, «il paesaggio sonoro medievale comincia ad essere connotato dalle campane
nel VI secolo, quando le fonti storiche distinguono i tintinnabula (campanelli) di epoca romana da un
nuovo oggetto» chiamato in diversa maniera «a seconda degli ambiti geografico-culturali e anche
della funzione». Il termine campana «è un neologismo mutuato probabilmente dai classici vasa
campana, analoghi per forma, materiale bronzeo e produzione.»42.

Le prime campane del Medioevo sono state probabilmente realizzate nell’ambito monastico, sono
molte infatti le fornaci temporanee per realizzare le campane ritrovate nelle chiese altomedievali.
Grazie alla loro forte resa acustico-musicale, percepibile anche a distanze elevate e per merito della
semplicità e immediatezza del loro messaggio acustico, che poteva essere compreso anche da una

38
Il termine oboe è utilizzato per indicare un aerofono di legno con un’ancia doppia come imboccatura, non in
riferimento allo strumento moderno.
39
Curt Sachs, Storia degli strumenti musicali, Milano, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A, 1980, p. 338.
40
Ibidem.
41
Gustav Reese, L’apogeo dell’”organum” e del discanto in Europa nei secoli XII e XIII in La musica nel Medioevo,
Firenze, Sansoni editore, 1960, pp. 365-403, p. 401.
42
Silvia Lusuardi Siena ed Elisabetta Neri, Il sacro e il profano nella produzione di campane in Atlante storico della
musica del Medioevo, Milano, editoriale Jaca Book S.p.A, 2011, pp. 210-213, p. 210.
11
popolazione illetterata, le campane costituivano i mezzi di comunicazione simbolica più efficaci usati
per governare e organizzare le città. Il suono delle campane, dunque, commenta Minazzi, diventa
presto «mediatore di un sistema di segnali di immediata decifrazione e di potente penetrazione,
segnali di ordine diverso: civile, militare, politico, rituale, religioso, simbolico.»; poteva indicare
attività legate all’esercito, come il raduno, la sua mobilitazione, l’uscita della cavalleria, ma anche le
adunate pubbliche, l’ora delle pulizie delle strade, la scansione delle ore, l’accensione dei lumi
ecc…43 . Il riferimento dantesco sembra essere rivolto, come è possibile leggere dall’enciclopedia
dantesca, alle campane che venivano collocate «sopra i carrocci o altri carri di guerra, come la
fiorentina Martinella di cui in G. Villani (VI 75), e che servivano per la trasmissione, a distanza, di
ordini»44.

Un esempio dell’uso delle campane è offerto nel Purgatorio, in questo caso le campane scandiscono
l’ora della “compieta”, l’ultima ora dell’ufficio ecclesiastico:

Era già l'ora che volge il disio


ai navicanti e 'ntenerisce il core
lo dì c'han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d'amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more;
(Pg. VIII, vv. 1-6)

A differenza delle campane del canto XXII dell’Inferno, qui invece le «squilla» trovano la loro precisa
origine «nel suono di campane sulle torri e sui campanili, largamente espanso nelle vallate»45. Questa
la spiegazione offerta da Jacopo della Lana: «Ancora per uno altro esemplo mostra quella ora, e dice:
ella era simile a quella che punge e fa trattare più tosto il pellegrino, quando elli ode squilla, cioè
campana che li notifichi la morte del giorno, cioè le compiete, che hanno a significare ch'elle suonano
nel compimento del giorno. E dice pianger, cioè che quasi le campane, quando suonano verso la sera,
non paiono di quello suono che il dìe, ma paiono piangere; e questo avviene per la cagione
dell'aiere.»46.
Il loro riconoscimento avveniva mediante l’intonazione e il timbro delle singole campane, in base a
questi esse acquisivano anche dei diversi nomi, ad esempio a Firenze vi era la Cagnazza, una campana

43
Vera Minazzi, Il suono delle campane nello spazio medievale in Atlante storico della musica del Medioevo, cit., pp.
214-217, p.215.
44
Vedi la voce Campana in Enciclopedia dantesca online
45
Ibidem.
46
Cfr. il commento ad locum di Jacopo Della Lana (DDP).
12
che produceva un suono simile a quello di una “cagna abbaiante”. Uno strumento, pertanto, di
fondamentale importanza per la città, al punto che, come osserva Minazzi, la loro sottrazione era
«l’umiliazione più radicale inflitta ai territori conquistati»47.

L’altro strumento che nomina Dante è il tamburo, un membranofono che veniva percosso di solito da
un esecutore, il quale suonava contemporaneamente un corno o un flauto (tabor and pipe, chiamano
gli inglesi quest’accoppiamento, o piffero e tamburo). Sachs nel suo enorme lavoro sugli strumenti
musicali riporta che «la pelle veniva percossa con un mazzuolo dalla forma talvolta abbastanza
curiosa»48. Nel Medioevo il tamburo riuscì ad assicurarsi uno stabile ruolo come strumento militare.
La nascita della nuova fanteria, avvenuta mediante l’utilizzo di soldati mercenari nelle Crociate,
s’impadronì del piffero traverso e del tamburo per creare una musica che riuscisse ad animare e
incoraggiare l’esercito: «Lì battere il tempo era più importante della melodia e la fragorosità una
necessità urgente»49.

I.3 Lëuto e tamburo: l’immagine di Maestro Adamo (If. XXX)

Dopo aver attraversato altre quattro cornici delle Malebolge, dopo aver incontrato ipocriti, ladri e
fraudolenti di ogni tipo, Dante e Virgilio giungono nella decima e ultima bolgia, qui sono puniti i
falsari, la cui rappresentazione occupa due canti: il XXIX e il XXX. I peccatori sono colpiti da orribili
malattie che deturpano il loro aspetto, così come essi alterarono la natura di ciò che modificarono.
Sono divisi in quattro gruppi: i falsatori di metalli, cioè gli alchimisti, prostrati a terra senza forze e
colpiti da una forma di lebbra che genera squame scabbiose sul corpo. Un secondo gruppo è composto
dai falsatori di persona, colpiti da una grave forma di idrofobia che li rende rabbiosi e violenti, mentre
un terzo gruppo è quello dei falsari di moneta. Qui i due viaggiatori incontrano «la miseria del maestro
Adamo», un falsario che su istigazione dei conti Guidi di Romena falsificò fiorini d’oro e per questo
fu condannato al rogo. Egli è ora colpito dall’idropisia che gli rigonfia il ventre e gli provoca
un’insaziabile sete. Infine un quarto gruppo è formato dai falsificatori di parola, o mentitori, che «per
febbre aguta gittan tanto leppo», tra i quali vi è il greco Sinone che avrà uno scontro fisico e verbale
con il maestro Adamo50.

47
Vera Minazzi, Il suono delle campane nello spazio medievale in Atlante storico della musica del Medioevo, cit.,
p.216.
48
Curt Sachs, Storia degli Strumenti Musicali, cit., pp. 340-1.
49
Curt Sachs, Ibidem.
50
Giuseppe Ledda, Leggere la Commedia, cit., p.29.
13
Io vidi un, fatto a guisa di lëuto,
pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia
tronca da l’altro che l’uomo ha forcuto.
(If. XXX, vv. 49-51)

Nell’incontro con il falsario arso a Firenze, Dante dà di lui una descrizione fisica richiamando
all’immaginazione due strumenti musicali; egli infatti, prima paragona la forma grottesca del corpo
a quella del liuto, poi nel sentir risuonare la sua pancia rigonfia colpita da Sinone, crea una
similitudine con un tamburo percosso. Entrambi i paragoni sono fortemente realistici, la figura del
liuto è la prima che salta all’immaginazione, sebbene, come scrive Dante, egli non avrebbe dovuto
avere le gambe51. Osserva Guido da Pisa: «Leiutum est illud instrumentum quod inter omnia musica
instrumenta ventrem obtinet grossiorem; et vocatur pater omnium musicorum»52. Le fonti
iconografiche in proposito sono molto scarse per riuscire ad intuire la forma che avesse questo
strumento nel Medioevo, per cui da questi versi si è potuto ipotizzare quale fosse la morfologia di
questo strumento, che «soprattutto al tempo di Dante […] costituiva un'autentica rarità»53.
Arnoldo Bonaventura nel suo lavoro sulla musica della Commedia scrive: «Vincenzo Galilei dedusse
appunto da questi versi l’antichità del liuto, il quale apparso, secondo che sembra, all’epoca delle
Crociate, subì poi molte modificazioni sia nelle forme che nel numero delle corde»54, infatti come
osservato anche da Monterosso la ricorrenza del termine nella terzina citata «costituisce la prima
testimonianza cronologica del liuto che si trovi nella letteratura italiana»55.
Gli scambi culturali che si ebbero con il mondo islamico nei contatti bellici medievali (l’invasione
araba della Spagna e della Sicilia e le crociate) promossero infatti, tra i tanti strumenti, anche
l’introduzione del liuto, che deriva dallo strumento arabo del al’ud (ovvero il legno)56.
Osserva Baines che «una delle prime testimonianze della sua esistenza compare nel Roman de la
Rose»57, Boccaccio invece ne parla come uno strumento di accompagnamento: «Dopo la qual cena,
fatti venir gli strumenti, comandò la Reina che una danza fosse presa, e quella menando la Lauretta,
Emilia cantasse una canzone, dal leudo di Dioneo ajutata»58.

51
Cfr. il commento ad locum di Chiavacci Leonardi (DDP).
52
Cfr. il commento ad locum di Guido da Pisa (DDP).
53
Raffaello Monterosso, Leuto in Enciclopedia dantesca online.
54
Arnoldo Bonaventura, Dante e la musica, Livorno, R. Giusti Editore, 1904, pp. 67-76, p. 69.
55
Raffaello Monterosso, Leuto in Enciclopedia dantesca online.
56
Elena Ferrari Barassi, La materia prima sonora: gli strumenti musicali, in Atlante storico della musica del Medioevo,
cit., p.198.
57
Anthony Baines, Storia degli strumenti musicali, cit., p.165.
58
Boccaccio, Decameron, a cura di Vittore Branca, UTET, Torino, 1956, chiusura della prima giornata, p. 68.
14
Nel Medioevo esistevano due generi di liuto: un liuto lungo, scritto e miniato nel salterio
dell’Università di Utrecht in Olanda, attorno all’832 nella Champagne, ma che rappresenta uno stadio
ancora primitivo. Presenta «un manico snello e sottile due o tre volte più lungo della cassa, un
cavigliere piatto e circolare con due o tre piroli posteriori e sei tasti», la cassa, vista frontalmente, ha
le spalle o diritte o concave o ricurve «nella forma di petali di tulipano». Il Salterio aureo di San
Gallo, un manoscritto del IX secolo, raffigura David, «l’umile salmista», con uno strumento molto
simile che lascia pensare a una sua ulteriore raffigurazione. L’altro genere di liuto che si manifesta a
partire dal X secolo è un liuto corto, questo insolito strumento a corda è raffigurato in dieci immagini
presenti in un salterio tedesco dell’epoca, lo Stuttgart-Psalter (Württembergische Landesbibliothek
Stuttgart, Bibl. fol. 23), ripubblicato in un fac-simile dalla Princeton University. Appare come un
liuto pesante, costituito da un unico blocco ligneo in cui, precisa Sachs, «la stretta cassa è diritta con
lati paralleli e spalle inclinate, con un cavigliere piriforme, piroli posteriori con disposizione a
semicerchio, una cordiera aggettante dall’estremità in basso e un ponticello vuoto (costituito cioè dal
solo contorno o cornice)». Il nome con il quale è indicato nel testo latino questo strumento, in tutte le
dieci miniature, è il termine biblico di cythara59. A questo proposito, è opportuno aggiungere
un’attenta osservazione di Ferrari Barassi: «per cythara allora si poteva intendere ogni specie di
strumento a corda», se ne deduce che «i nomi conferiti agli strumenti in questa età spesso sono di
ardua interpretazione, ed a volte è pure difficile dare un nome sicuro agli strumenti conservati o
raffigurati; i termini variano secondo l’epoca, le circostanze e le zone geografiche»60. Anche nelle
miniature di codici spagnoli del X e XI secolo si distinguono due generi di liuti: uno definitivamente
corto, stretto e piriforme che si rastrema nella parte superiore rendendo poco chiara la distinzione con
il manico e un altro che presenta una cassa stretta ed ellittica e un manico di pari lunghezza
chiaramente distinto61. L’immagine del lëuto è dunque utilizzata da Dante per fornire un’immagine
grottesca, ma ancor di più patetica del Maestro, senza alcun riferimento prettamente musicale
dell’episodio.

Una similitudine musicale che aderisce perfettamente all’immagine contestuale, e sulla quale si
legano una serie d’immagini più precisamente patologiche (l’«idropesì», «l’etico», «l’anguinaia»,
«ventraia», «l’epa croia»)62.

Procedendo con la lettura del canto si legge l’alterco tra maestro Adamo e lo spergiuro Sinone, un
battibecco botta e risposta che riprende le forme di un certo tipo di tenzone due-trecentesca a carattere

59
Curt Sachs, Storia degli Strumenti Musicali, cit., p. 320.
60
Elena Ferrari Barassi, La materia prima sonora: gli strumenti musicali in Atlante storico della musica del Medioevo,
cit., p.198.
61
Curt Sachs, cit., p. 321.
62
Gianfranco Contini, Un’idea di Dante, Saggi danteschi, Einaudi, 1976, pp.159-170, p.163-4.
15
comico-realistica, e richiama per analogia la tenzone tra Dante e Forese Donati63. Il parallelo si farà
più esplicito al momento dell’incontro tra i due nel Purgatorio, dove al posto del rimprovero di
Virgilio («che voler ciò udire è bassa voglia» (v.148)) vi sarà il rammarico da parte di entrambi: «Se
tu riduci a mente / qual fosti meco, e qual io teco fui, / ancor fia grave il memorar presente.» (Pg.
XXIII, vv. 115-117)64.

E l'un di lor, che si recò a noia


forse d'esser nomato sì oscuro,
col pugno li percosse l'epa croia.

Quella sonò come fosse un tamburo;


e mastro Adamo li percosse il volto
col braccio suo, che non parve men duro,

(If. XXX, vv. 100-105)

A differenza del canto XXII (v.8) in cui il tamburo ricorre nella sua comune accezione di suoni unito
a trombe e campane, qui necessita di una considerazione terminologica: la parola tamburo è infatti la
traduzione in volgare del latino tympanum («tympanum, quod vulgo dicitur tamburo»65). Isidoro di
Siviglia nelle sue Etymologiae dà un’ampia descrizione di questo strumento:
«Tympanum est pellis vel corium ligno ex una parte extensum; est enim pars media symphoniae in
similitudinem cribri. Tympanum autem dicitur, quod medium est, unde et margaretum (margaritum)
medium tympanum dicitur, et ipsum ut symphonia ad virgulam percutitur»66.

Il lemma ricorre però anche in diversi trattati medici medievali e in enciclopedie, tra cui il De
proprietatibus rerum (1240 circa) di Bartolomeo Anglico, il quale nel VII libro, «premesso che
nell’idropisia “virtus digestiva degeneratur in epate” (e il vocabolo è ripetuto assai spesso), individua
una variante, la timpanite, così chiamata “quod ad modum tympani sonat venter”, nella quale
“extenditur venter et sonat sicut tympanum”, “collum et extrema efficiuntur gracilia”, la sete si fa
ardente»67. Anche Avicenna riporta «et quum venter percutitur manu, auditur ex eo sonitus utris».
In questa strofa il termine indica dunque non una semplice canzonatura all’idropico, ma una notazione
tecnico-medica molto precisa, infatti Ippocrate descrisse tre tipologie di idropisia: leucoflegma, ascite

63
Cfr. il commento ad locum di Umberto Bosco e Giovanni Reggio (DDP).
64
Cfr. il commento ad locum di Chiavacci Leonardi (DDP).
65
Cfr. il commento ad locum di Guido da Pisa (DDP).
66
Isidoro di Siviglia, Etymologiae, lib. III, cap. 21.
67
Gianfranco Contini, Un’idea di Dante, Saggi danteschi, Einaudi, 1976, pp.159-170, p.168.
16
o idrope-ascite e idrope secca. Quest’ultima, onde evitare l’ossimoro, nei libri medievali di medicina
fu chiamata tympanite per i motivi sopra esposti68.
Il primo che ebbe un’intuizione su questa corrispondenza fu Guido da Pisa: «Quia ydropsis ystius
Adami fuit ex quarta specie que dicitur tympanites, ideo dicit autor quod, dum fuit percussus in ventre,
quod venter sonuit sicut tympanum, quod vulgo dicitur tamburo»69.
Le similitudini del liuto e del tamburo sono dunque utilizzate da Dante nella descrizione di Maestro
Adamo per le loro caratteristiche morfologico-acustiche (oltre che “etimologiche”, nel caso del
tamburo), le quali forniscono un’immagine ad hoc dell’idrope, ma sono anche altre le motivazioni
che molto probabilmente suggerirono a Dante l’uso di queste due similitudini musicali. Bisogna
notare, infatti, come il poeta modifichi totalmente i termini della similitudine usati per descrivere
Adamo: egli da liuto diventa tamburo, la sua immagine viene stravolta e la sua anima
«metaforicamente “scordata”, disarmonizzata», scrive Iannucci; il quale aggiunge anche che
«nell’ambito della scala gerarchica degli strumenti musicali, la caduta è considerevole. Il tamburo è
di molto inferiore al liuto che, in quanto strumento a corda, è associato», come vedremo nel canto
XIV del Paradiso, «al Mondo-Lira e alla perfezione»70. Il tamburo infatti, così come gli strumenti a
percussione in genere, godeva di una bassa considerazione, poiché veniva associato alle esecuzioni
della musica popolare. Questa cattiva reputazione degli strumenti a percussione ha radici molto
profonde, infatti, sempre Iannucci in un suo lavoro in inglese sull’episodio in analisi mostra come ciò
sia chiaramente illustrato in una miniatura contenuta in un Salterio del XII secolo: la miniatura è
divisa in due parti che rappresentano due contrapposte allegorie. La parte superiore più grande
rappresenta Davide con una lira, circondato «by figures seriously engaged in the singing of hymns
and the playing of other instruments appropriate to sacred music», mentre la parte inferiore mostra
una bestia demoniaca, forse un orso, spiega, suonare un tamburo71. Conclude Iannucci scrivendo che
Dante è perfettamente consapevole delle connotazioni simboliche del tamburo e per questo motivo lo
confina nell’Inferno, «once in relation to Barbariccia’s scatological tune» (If. XXII, v. 8) e «the other
to describe Mastro Adamo’s paunch»72.
Il motivo per cui Dante paragona il dannato ad un liuto, prima di rivelare la sua “vera” somiglianza
all’altro strumento si può spiegare, secondo Iannucci, nel fatto che i falsi fiorini di Adamo che
portarono l’immagine di Giovanni Battista, apparirono per qualcosa che non erano. Dunque

68
Vittorio Bartoli, L’idropisia di Maestro Adamo in Inferno XXX. Importanza della dottrina umorale di Galeno nel
Medioevo in Tenzone. Revista de la Asociaciòn Complutense de Dantologìa, VIII, Firenze, 2007, pp. 19 e sgg.
69
Cfr. il commento ad locum di Guido da Pisa (DDP).
70
Amilcare A. Iannucci, Musica e ordine nella Divina Commedia in Studi Americani su Dante, Milano, Franco Angeli
Libri s.r.l., 1989, pp. 87-111, p. 95.
71
Amilcare A. Iannucci, Musical Imagery in the Mastro Adamo Episode in Da una riva e dall’altra: studi in onore di
Antonio D’Andrea, Fiesole (FI), Edizioni Cadmo, 1995, pp. 103- 118, pp. 116-117.
72
Amilcare A. Iannucci, Musical Imagery in the Mastro Adamo Episode, cit., p. 117.
17
metaforicamente «he tried to peddle a drum for a lute, but his deception was soon unmasked», per
questo motivo Dante lo presenta prima per qualcosa che non è, ovvero un liuto: una tradizionale figura
di Cristo nonché simbolo dell’armonia cosmica. Secondo questa interpretazione Mastro Adamo
sarebbe quindi la parodia del nobile strumento, «and all that is exactly for as a symbol»73. La
convincente interpretazione offerta da Amilcare Iannucci spiegherebbe, in maniera certamente più
esaustiva, l’anomala presenza di un cordofono come il liuto nella cantica infernale piuttosto che
accanto all’arpa, alla giga, alla cetra o alla lira nel Paradiso. Pertanto si può concludere che
nell’Inferno non esiste alcuna musica piacevole, ma il contesto infernale è occupato soltanto dalla
musica diaboli, priva di ogni ordine e armonia musicale74.

I.4 Il corno di Nembrot (If. XXXI)

Con la bolgia dei falsari si fuoriesce dall’ultima cornice delle Malebolge, dove il confine è segnato
da un pozzo circolare sul cui fondo si trova il nono e ultimo cerchio. Mentre percorrono l’ultimo
argine, per la lontananza e la nebbia, Dante pensa di vedere una città fortificata («ond' io: “Maestro,
dì, che terra è questa?”»). La città inoltre, sempre a causa della lontananza e la bassa visibilità, appare
a Dante cinta di torri, ma la sua guida spiega che non si tratta di torri, ma di giganti posti tutt'intorno
alla parete interna del pozzo. I giganti sono i ribelli di Flegra, il luogo che per poeti e mitografi fu
teatro della gigantomachia. Essi furono fulminati da Giove per aver accatastato un monte sull'altro
per scalare il cielo. Come spiega Chiavacci Leonardi, «il loro significato è chiaro ed ampiamente
documentato: essi rappresentano, nella loro stessa possanza fisica e nel tentativo materiale di
raggiungere il cielo (con montagne o con torri), la superbia dell'uomo che per l'eccellenza intellettuale
e morale avuta in sorte crede di potersi fare eguale a Dio»75. Nell’Inferno dantesco risultano incatenati
e dalla riva ne emerge solamente il busto e la testa; il loro contrappasso si evidenzia nella loro attuale
condizione di impotenza fisica e intellettiva, essi infatti comprendono ma non sono in grado di
comunicare. Tra i giganti vi è il biblico Nembrot, il capo dei costruttori della torre di Babele, Fialte,
il più forte e audace dei ribelli a Flegra e infine Anteo, l’uccisore di leoni, noto per la sua lotta con
Ercole; è a questi che Virgilio chiede di chinarsi per far salire i due viandanti nelle palme delle sue

73
Amilcare A. Iannucci, ibidem, cit., p. 118.
74
Amilcare A. Iannucci, Musica e ordine nella Divina Commedia in Studi Americani su Dante, Milano, Franco Angeli
Libri s.r.l., 1989, pp. 87-111, p. 95.
75
Cfr. il commento ad locum di Chiavacci Leonardi (DDP).
18
mani «ond' Ercule sentì già grande stretta» e per poi deporli sul fondo del pozzo76. Prima di incontrare
i giganti, ancora distanti dall’ingresso dell’ultimo cerchio infernale, l’attenzione di Dante verso quelli
che a lui appaiono come torri è richiamata da un suono forte «tanto ch'avrebbe ogne tuon fatto fioco»;
si tratta del corno di Nembrot:

Quiv’ era men che notte e men che giorno,


sì che l viso m’andava innanzi poco;
ma io senti’ sonare un alto corno,
tanto ch’avrebbe ogne tuon fatto fioco,
che, contra sé la sua via seguitando,
dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.
(If. XXXI, vv. 10-15)

Il corno di Nembrot è l’unico strumento che Dante, pellegrino dell’Oltretomba, sente realmente
risuonare nella Commedia, tutti gli altri strumenti ricorrono in immagini metaforiche o similitudini,
«benché il poeta mostri di conoscerne caratteristiche e proprietà tecniche e li menzioni in perfetta
concordanza con l’immagine contestuale», scrive Elisabetta Schurr. L’idea di assegnare il corno a
Nembrot nasce dalla designazione biblica del gigante nella Genesi come “robustus venator”, poi
divenuto un empio gigante edificatore della torre di Babele nella tradizione dei Padri della Chiesa e
del Medioevo77.

Tintori scrive che «Nell’alto Medioevo, i cavalieri usavano un corno d’avorio a insufflazione diritta,
dalla punta, portato dalla cultura bizantina nel X secolo, ma di origine africana, finemente intagliato,
ornato con metalli preziosi e chiamato olifante, una evidente corruzione da “elefante”»78. L’olifante
fiorì alla fine dell’XI secolo e permase per più di duecento anni, ma le testimonianze letterarie della
sua presenza e del suo uso in questo periodo sono rare. Nella lettura di questo passo risulta impossibile
non pensare alla leggenda del paladino Orlando, uno dei dodici Cavalieri favoriti di Carlo Magno, il
cui paragone con quell’episodio è voluto da Dante stesso:

76
Giuseppe Ledda, Leggere la Commedia, cit., p. 30.
77
Claudia Elisabetta Schurr, Dante e la musica: Dimensione, contenuto e finalità del messaggio musicale nella “Divina
Commedia”, Perugia, Università degli Studi: Centro di Studi Musicali in Umbria,1994, p.137.
78
Giampiero Tintori, Gli strumenti musicali, cit., p. 802.
19
Dopo la dolorosa rotta, quando
Carlo Magno perdé la santa gesta,
non sonò sì terribilmente Orlando.

(If. XXXI, vv.16-18)

L'iperbole dantesca (v. 13) non lascia dubbi che, come osserva anche Monterosso, «lo strumento qui
ricordato sia da accostarsi all'epico olifante, e ciò anche per l'esplicito richiamo a Orlando»79. Il poema
epico La chanson de Roland canta infatti del 778, anno in cui la retroguardia di Carlo Magno, guidata
da Orlando, fu assalita a tradimento nella gola di Roncisvalle, sui Pirenei, in Navarra. Orlando suonò
lungamente il suo strumento e morì squarciandolo con un terribile soffio. Riportano Bosco e Reggio:
«Rolando ha portato l'olifante alla bocca, / ben gli dà fiato, con gran forza lo suona. / Alti sono i
monti, e il corno ha lunga voce: / ben trenta leghe l'udirono echeggiare» (vv. 1753 e ss.)80. Iannucci
scrive che, essendo il suono terribile del corno paragonato a quello prodotto dall’olifante di Orlando
che annuncia la sconfitta di Carlo Magno, egli «introduce l’idea della distruzione della comunità
cristiana, tema dominante di Cocito»81.

L’incontro con Nembrot è caratterizzato anche dal suo grido, un tentativo di esprimersi che dà vita
ad un linguaggio incomprensibile («“Raphèl maì amècche zabì almi,”» un verso costruito con parole
ebraiche, stravolte da Dante in modo da mascherarne il significato). La punizione inflitta da Dio fu
infatti la confusione delle lingue: «questi è Nembrotto per lo cui mal coto/ pur un linguaggio nel
mondo non s'usa». Virgilio lo apostrofa con parole dure, suggerendogli di accontentarsi di suonare il
corno e con quello dare sfogo alle passioni, senza tentar di parlare:

E 'l duca mio ver' lui: “Anima sciocca,


tienti col corno, e con quel ti disfoga
quand' ira o altra passïon ti tocca!

(If. XXXI, vv.70-72)

A confermare l’immagine del gigante come “robustus venator” ecco che Nembrot, come scrive
Bonaventura, «secondo l’uso dei cacciatori» porta «lo strumento a tracolla legato con una soga o
correggia di cuojo»; poi aggiunge un’osservazione: «e come quel corno dovesse essere di proporzioni
superiori alle ordinarie, giacché segnava una striscia sul gran petto del gigante: e così si spiega come

79
Raffaello Monterosso, Corno in Enciclopedia dantesca online.
80
Cfr. il commento ad locum di Bosco e Reggio (DDP).
81
Amilcare A. Iannucci, Musica e ordine nella Divina Commedia in Studi Americani su Dante, Milano, Franco Angeli
Libri s.r.l., 1989, pp. 87-111, p. 95.
20
il suo suono reboante “avrebbe ogni tuon fatto fioco”»82. Mentre il corno di Orlando (l’olifante) era
scolpito in avorio, non possiamo constatare il materiale del corno di Nembrot. In pochi anni si
diffusero anche corni di metallo o legno, più tardi inoltre si praticarono in essi vari fori per ottenere
un maggior numero di suoni83. «Gli esemplari rimasti conservati mantengono la caratteristica foggia
della zanna elefantina o del corno taurino; non hanno bocchino e sono spesso finemente scolpiti, con
rappresentazioni di figure animalesche od ornamentazioni geometriche»84.

Da una attenta ricerca nel database TLIO, possiamo affermare con maggior fiducia che nel Medioevo
l’olifante si suonava in guerra, a caccia («e sempre a ssuon di corno / pigliando lepri e altri
selvag[g]iumi / chi vuole e pote invita poi [a mangiare] / gli amici suoi, e fa il convito addorno…»85)
per i segnali utili alla vita del castello («a suono di trombetta tutti i vegghiamenti si commettono, e
finite le ore, a suono di corno se ne vanno a dormire»86, come riporta Tintori), per annunciare l’arrivo
di personalità o come tazza per brindare nelle grandi occasioni 87(«Lo mperadore giunse e chieseli
bere; e l poltrone rispuose: “Con che ti dare’ io da bere? A questo nappo non porrai tu bocca! Se tu
hai corno del vino, ti do io volentieri!»)88.

Infine, per quanto riguarda la semantica del corno nell’Inferno di Dante, Claudia Elisabetta Schurr
afferma di poter «avanzare l’ipotesi che la forma di questo strumento sia un’immagine simbolica
dell’imbuto infernale e che di conseguenza, il suono da esso emesso rappresenti la sintesi fragorosa
e assordante delle manifestazioni a-musicali dei dannati e della disarmonica “musica diaboli”»89.

82
Arnoldo Bonaventura, Dante e la musica, Livorno, R. Giusti Editore, 1904, cit., p. 73.
83
Gustav Reese, L’apogeo dell’”organum” e del discanto in Europa nei secoli XII e XIII in La musica nel Medioevo,
cit., p. 401.
84
Raffaello Monterosso, Corno in Enciclopedia dantesca online.
85
Franco Sacchetti, Solian mangiar gli antichi delle ghiande /canzone/, in Rime estravaganti del Sacchetti, «Lettere
italiane», XIII, Franca Ageno editore, 1961, p. 5.
86
Bono Giamboni, Arte della guerra di Vegezio Flavio volgarizzata (a cura di Francesco Fontani), Firenze, Marenigh,
1815, L.3, cap.8, pp. 100-1.
87
Giampiero Tintori, Gli strumenti musicali, Torino, UTET, 1971, cap. X, p. 802.
88
Anonimo, Novellino XIII u.v. (fior.), Libro di novelle, et di bel parlar gentile. Nel qual si contengono cento nouelle
altrauolta mandate fuori da messer Carlo Gualteruzzi da Fano. Di nuouo ricorrette. Con aggiunta di quattro altre nel
fine. [...], Firenze, Giunti, 1572, cap. 21, pp. 180-1.
89
Claudia Elisabetta Schurr, Dante e la musica: Dimensione, contenuto e finalità del messaggio musicale nella “Divina
Commedia”, Perugia, Università degli Studi: Centro di Studi Musicali in Umbria,1994, p.137.
21
II. Le metafore musicali del Purgatorio
II.1 “Cantar con organi”: un passo problematico (Pg. IX)

Il canto IX della seconda cantica è l’ultimo dell’Antipurgatorio, si conclude infatti con il passaggio
al Purgatorio vero e proprio mediante la descrizione sonora dell’apertura della porta d’ingresso. È un
canto volutamente strutturale, come il nono dell’Inferno che narra il passaggio della porta di Dite e
come il nono del Paradiso, che narra il passaggio dai tre cieli raggiunti dal cono d’ombra della Terra
ai cieli successivi. L’importanza del passaggio è sottolineata da Dante stesso: «Lettor, tu vedi ben
com' io innalzo/la mia matera, e però con più arte/non ti maravigliar s'io la rincalzo» (vv. 70-72).
Conclusa l’esperienza dell’Antipurgatorio, Dante, «vinto dal sonno», si addormenta sull’erba e sogna
di essere rapito da un’aquila «terribil come folgore» che lo conduce in alto alla sfera di fuoco. Virgilio
gli racconterà poi di essere stato trasportato da Santa Lucia nei pressi della porta del Purgatorio. Qui
il poeta compie un rito, figura della confessione sacramentale, e dopo aver ricevuto dal guardiano
della porta il disegno delle sette P sulla fronte, segno dei sette peccati capitali dai quali sarà purificato
durante il tragitto, l’angelo apre la porta del Purgatorio90. Il fragore generato dalla sua apertura è
talmente forte che Dante, riprendendo una similitudine lucanea, lo paragona all’apertura della rocca
Tarpea compiuta da Cesare quando volle impossessarsi del tesoro del Campidoglio, sebbene Cecilio
Metello tentò di impedirglielo91.

E quando fuor ne’ cardini distorti


li spigoli di quella regge sacra,
che di metallo son sonanti e forti,
non rugghiò sì né si mostrò sì acra
Tarpëa, come tolto le fu il buono
Metello, per che poi rimase macra.
(Pg. IX, vv. 133-138)

Il fragore («primo tuono») emesso dai cardini della porta cattura l’attenzione del poeta, il quale subito
ode un canto sacro provenire dall’interno:

Io mi rivolsi attento al primo tuono,


e “Te Deum laudamus” mi parea
udire in voce mista al dolce suono.

90
Giuseppe Ledda, Leggere la Commedia, cit., p.34-35.
91
Cfr. il commento ad locum di Chiavacci Leonardi (DDP).
22
Tale imagine a punto mi rendea
ciò ch'io udiva, qual prender si suole
quando a cantar con organi si stea;
ch'or sì or no s'intendon le parole.
(Pg. IX, vv. 139-145)

Dante descrive un’esecuzione musicale che si sta avendo all’interno del Purgatorio, ma che non riesce
a percepire con chiarezza. Il poeta è però colpito dalla sua grandiosità che tenta di rappresentare
mediante un esempio musicale, sia esso riferito alla nuova tecnica polifonica o all’accompagnamento
dell’organo, per certo il canto eseguito è il Te Deum laudamus: si tratta di un inno ambrosiano di
ringraziamento a Dio, annota Chiavacci Leonardi, «ancor oggi usato nella Chiesa romana nelle feste
maggiori» e «che qui Dante immagina cantato nel purgatorio al momento in cui un'anima entra nel
regno della salvezza»92. Viene considerata una dossologia analoga al Gloria risalente con tutta
probabilità al V secolo93. Landino sottolinea che si tratta di un inno scritto da Sant’ambrogio con
l’aiuto di Sant’Agostino, poiché «havendo messo Ambrogio grande industria in tradurre Augustino
alla fede christiana, poi che dopo molte predicationi et disputationi lo convertì, per sommo gaudio
d'havere riguadagnato tale huomo, Ambrosio rendendo gratie a Dio dixe: “Te Deum laudamus”. Et
Augustino subgiunse: “Te Dominum confitemur”»94.
Questa conclusione di canto presenta, però, due punti problematici e strettamente connessi tra loro: il
primo è la «voce mista al dolce suono» (v.141), dove la difficoltà è nell’indicare a cosa si riferisca
Dante con «dolce suono», l’altro è il «cantar con organi» (v.144), in cui il problema interpretativo è
dato dall’uso di una parola avente un duplice significato nella terminologia musicale. Il lemma infatti,
con la nascita della nuova tecnica polifonica, poteva riferirsi sia all’omonimo strumento musicale
(oggi detto organo ma un tempo chiamato quasi esclusivamente al plurale) sia alla tecnica vocale del
canto polifonico (detta appunto organum). È proprio nel XIII secolo che inizia ad affermarsi questa
nuova pratica corale, subito diffusasi anche a Firenze nella liturgia di Santa Reparata. Queste forme
venivano dette “canere cum organo” nel Liber ordinalis della cattedrale fiorentina95, ma erano diffuse
anche le forme “canere sub organo”, “canere in organis”, “canere ad organum”96. Come nota
giustamente Reese: «Alcuni studiosi hanno creduto che il termine “organista” volesse dire
semplicemente “suonatore di organo”, secondo il significato moderno della parola. Senonché il

92
Cfr. il commento ad locum di Chiavacci Leonardi (DDP).
93
Cfr. il commento ad locum di Bosco e Reggio (DDP).
94
Cfr. il commento ad locum di Cristoforo Landino (DDP).
95
Francesco Ciabattoni, Il dolce ruggito del tuono: per un’interpretazione di Purgatorio IX 144 e Paradiso XVII 44 in
Dante e l’arte 2, 2015, p. 66-7.
96
Raffaele Casimiri, “Quando a cantar con organi si stea”: profilo dell’organo attraverso i secoli, Roma, Edizioni
Psalterium, 1929, p. 29.
23
vocabolo appare a Chartres prima del 1150, con il significato di clericus cantor; e qui vuol dire senza
dubbio “cantore [o compositore] di organa”. Viceversa, sembra che l’organista si dicesse
organator»97.
La tecnica polifonica dell’organum è inizialmente riportata da alcune fonti trattatistiche della fine del
X secolo circa, come il De harmonica institutione di Reginone di Prüm, il Musica enchiriadis e
Scholia enchiriadis di Hucbald, è descritto poi nel Micrologus di Guido d’Arezzo (XI secolo) e in
altri testi, per poi giungere nella creazione del Magnus liber organi, la straordinaria raccolta di
composizioni polifoniche dei maestri della scuola di Notre-Dame, Leonin e Perotin (XIII secolo), il
punto di arrivo della pratica organale. Questi documenti ci forniscono informazioni sul nuovo
procedimento utilizzato per rendere l’esecuzione di un testo liturgico musicalmente più ricca e varia.
Osserva Fubini che l’innovazione è descritta ed esemplificata nei primi testi «come una
sovrapposizione o una sottoposizione al testo musicale originale (= vox principalis) di una seconda
voce (= vox organalis) che segue la melodia nota contro nota per moto parallelo (cioè con le parti che
procedono parallelamente compiendo lo stesso movimento melodico) ad intervalli consonanti»98.
Monterosso afferma che l’uso del plurale nella trattatistica medievale indica quasi sempre lo
strumento musicale e non la tecnica polifonica, citata sempre al singolare. Aggiunge che un’ulteriore
conferma ci è data dai reperti della «musicografia medievale» e cita un passo di un Anonimo IV
particolarmente interessante99, che spiega come solo in rari casi organum (al singolare) può designare
lo strumento musicale, «poiché abitualmente esso indica invece strutture varie di polifonia vocale»100.

A propendere per un’interpretazione di questo tipo, che legge organi inteso come lo strumento
musicale, vi sono diversi critici moderni. Secondo Bosco e Reggio il canto del Te Deum è alternato
alla parte musicale dell’organo, più che propriamente accompagnato, poiché «sino al Cinquecento
l’organo non fu mai strumento per accompagnare le voci»101 e dunque il verso «ch'or sì or no
s'intendon le parole» (v. 145) va inteso come se un versus ora è cantato, ora taciuto mentre suona
l’organo. A conferma di ciò aggiunge che era «da tempo invalsa la consuetudine di alternare l'organo
alle voci durante la Messa, nel Te Deum, e nel Magnificat», come risulta dal codice Bonadies della
Biblioteca comunale di Faenza, che pur essendo del XIV secolo, raccoglie composizioni per organo
e voci di molto anteriori. Aggiunge inoltre un’interessante osservazione: «si ricordi che il Landino
era pronipote del famoso organista Francesco Landino, detto il Cieco degli Organi», per cui al
commento di Landino («Preterea pone, che tale himno si cantassi l'un verso con la voce, l'altro co

97
Gustav Reese, L’apogeo dell’”organum” e del discanto in Europa nei secoli XII e XIII in La musica nel Medioevo,
cit., p. 367.
98
Enrico Fubini, La monodia ecclesiastica in Storia della musica, Torino, Einaudi, 1988, pp. 26-45, p. 38.
99
Raffaello Monterosso, Organo in Enciclopedia dantesca online.
100
Ibidem.
101
Giovanni Fallani, Il canto IX del Purgatorio, Firenze: Le Monnier, 1963, pp.17-19, p.18.
24
gl'organi. Il perchè intervenia, che nella voce di quegli spiriti s'intendeano le parole. Ma non nel suono
de gl'organi»102) si potrebbe conferire una maggiore attendibilità. L’organista Landino è ricordato dal
maestro Bossi nella sua opera sull’organo, in cui, a proposito del Medio Evo riecheggia le parole di
Antonio Bonuzzi103 fornendoci ulteriori informazioni sulla pratica organaria: «È nota la circostanza
in cui Francesco Landino di Firenze, detto il Cieco degli organi […] ebbe a misurarsi quale organista
con Francesco da Pesaro […]. Questo fatto, unito a diversi altri, dànno diritto al Bonuzzi di ammettere
che si può pertanto asserire con sicurezza come nel secolo decimoquarto l’arte organaria avesse
raggiunto in Italia un grado di perfezione abbastanza inoltrato e che l’organo si fosse oramai
appropriato molti di quei mezzi di cui lo vediamo ora riccamente fornito»104. In conclusione l’ipotesi
che il riferimento sia ad un canto «alternatim cum organo» certo non significa che esso sia realmente
eseguito al di là della porta purgatoriale, poiché si tratta di una similitudine105.
Tra la maggior parte dei commentatori antichi non compare il problema terminologico, essi si
limitano a chiosare il verso riportando dei calchi dell’espressione dantesca e lasciando così
l’interpretazione ambigua. Talvolta sottolineano una differente percezione tra suono e parole, così,
ad esempio, Jacopo della Lana «Qui comincia a trattare del suono delle anime, overo voci che udìo
dentro del Purgatorio, le quali erano miste tra di espresse parole e di suono, chè ora udìa pur lo suono,
e ora udia pur le parole sicome avviene nel cantare delli organi, ch'elli pone per esemplo»106, mentre
l’Ottimo: «E sogiugne, che questo canto lì procedea, come fa il canto delli organi nel nostro mondo,
che alcuna volta intendea le parole dello Inno, alcuna volta non le 'ntendeva, o per difetto di sè, o per
la eccellenzia delle voci cantanti»107 o anche l’Anonimo fiorentino: «Dice che qui gli parve quel canto
simile a quello degli organi; chè, stando a cantare cogli organi, alcuna volta il suono scolpisce le
parole del canto, et quando l'offusca col tuono»108.
La fragorosità del suono dell’organo non è il solo a poter offuscare le parole del canto, il discorso
vale anche per l’omonima tecnica polifonica, perché, come ricorda Cappuccio, anche i nuovi elementi
introdotti nel sistema musicale «impediscono un corretto intendimento delle parole dal momento che
su di esse non solo viene imposto un ritmo sentito come artificiale ed estraneo all'andamento metrico
del verso ma vengono anche sovrapposte differenti linee melodiche, ognuna regolata da un ritmo
proprio, che mettono in seria difficoltà le possibilità dell'uditorio di comprendere il contenuto del

102
Cfr. il commento ad locum di Cristoforo Landino (DDP).
103
Antonio Bonuzzi (1833-1894) fu sacerdote, pianista, organista e compositore: un vero pioniere del rinnovamento
dell’organo.
104
Marco Enrico Bossi e Giovanni Tebaldini, Storia dell’organo: Costruzione dell’Organo, Gli Organisti e la Musica
per Organo (estratto dal Metodo teorico-pratico per Organo), Milano, A. & G. Carisch & C., 1893, pp. 4-6, p.6.
105
Cfr. il commento ad locum di Bosco e Reggio (DDP).
106
Cfr. il commento ad locum di Jacopo della Lana (DDP).
107
Cfr. il commento ad locum de L’Ottimo Commento (DDP).
108
Cfr. il commento ad locum dell’Anonimo Fiorentino (DDP).
25
testo eseguito polifonicamente»109. Prima di lei anche Fallani ricordava come l’innestarsi di una voce
sull’altra faceva sì che «le parole si ascoltassero e non si ascoltassero»110. A conclusione, Chiavacci
Leonardi riferendosi ai commentatori scrive che «Gli antichi, a differenza dei moderni, non trovavano
difficoltà in questo testo, perché essi sapevano come si cantavano gli inni in chiesa, e cosa voleva
dire cantar con organi»111.
Moretti nel suo lavoro sull’organo italiano inserisce un’interessante osservazione, ovvero, senza
alcun riferimento al passo dantesco, scrive: «Il sorgere e lo svilupparsi della primitiva forma di
polifonia vocale, chiamata o r g a n u m (o diafonia, o discanto) ingenuamente fiorita tra il secolo X
ed il XIV, ha tratto talvolta in equivoco facendo interpretare in senso moderno, come
accompagnamento ai canti corali, le espressioni dei musicologi medievali: canere cum organo, canere
sub organo, canere in organo, canere ad organum, ars organandi, ad organum faciendum, ecc»112. Per
l’autore dunque l’espressione indica la pratica polifonica corale.
L’uso dell’organo in Chiesa è attestato da molte fonti che riportano in particolar modo la potenza
sonora di questo strumento, potenza che può essere ben compresa acquisendo informazioni sulla sua
morfologia nel XIII secolo. Nel medioevo, scrive Ferrari Barassi, «entro la lussureggiante quantità e
varietà degli strumenti in uso si precisò una distinzione fra quelli “alti” (fragorosi) e quelli “bassi” (di
sonorità dolce). Teoricamente in chiesa si suonava solo l’organo, ma in realtà a volte (anche se
abusivamente) intervenivano come sussidio alle voci anche strumenti di diverso genere, ad esempio
le vielle»113.

L’organo è uno strumento musicale ad aria di origine probabilmente bizantina, costituito da una serie
di canne in cui s’inserisce la colonna d’aria, per mezzo di un mantice o altro meccanismo, con
un’emissione di suoni regolata da tastiere e pedaliera. La definizione che fu ufficialmente accolta nel
Secondo Congresso Internazionale di Musica Sacra, riportata da Moretti nel suo notevole studio sullo
strumento, asserisce che «L’organo è strumento musicale ad aria fluente, fatta vibrare in un sistema
di canne che emettono note fondamentali ed armonici artificiali, intrinsecamente inerti, ma
componibili in sonorità sintetiche di tono, timbro e intensità variabile»114. Nell’alto Medioevo gli
organi erano di piccole dimensioni, trasportabili e per questo detti “portativi”. L’organo di
Winchester, databile attorno al 950, definito il più grande dell’epoca da molti trattati, costituiva

109
Chiara Cappuccio, «Quando a cantar con organi si stea» (Purg. IX, 144). Riflessi danteschi della polemica contro la
polifonia? in Tenzone. Revista de la Asociaciòn Complutense de Dantologìa, VIII, Firenze, 2007, p. 41.
110
Giovanni Fallani, Il canto IX del Purgatorio, Firenze, Le Monnier, 1963, pp.17-19, p. 18.
111
Cfr. il commento ad locum di Chiavacci Leonardi (DDP).
112
Corrado Moretti, Definizione di Organo in L’Organo Italiano: profilo storico, analisi tecnica ed estetica dello
strumento, sintesi delle sue sonorità a servizio della liturgia cattolica, Cuneo, S.A.S.T.E., 1955, p. 13.
113
Elena Ferrari Barassi, La materia prima sonora: gli strumenti musicali, in Atlante storico della musica del
Medioevo, cit., p.200.
114
Corrado Moretti, Definizione di Organo in L’Organo Italiano: profilo storico, analisi tecnica ed estetica dello
strumento, sintesi delle sue sonorità a servizio della liturgia cattolica, Cuneo, S.A.S.T.E., 1955, pp. 47- 54, p. 47.
26
indubbiamente un’eccezione115. Guillame de Machaut, uno dei più importanti compositori francesi
del periodo, definì l’organo «de tous les instruments le roi», a questo appellativo ha concorso
indubbiamente anche la varietà timbrica e potenza sonora dello strumento.

Molti cronisti antichi sottolineano il potente suono dell’organo e la dolcezza del suo timbro, qualità
che si ritrovano anche nel testo della Commedia. Scrive Curt Sachs: «Autori coevi asserivano che
l’organo potesse eguagliare («coaequabat») il rombo del tuono, la loquacità della lira e la dolcezza
dei cimbali». Le capacità timbriche e sonore, secondo Sachs, non bisogna ricondurle alla possibilità
di inserire i vari registri, come negli organi moderni, ma già il suonare alternativamente le varie
tastiere (grave, media e acuta) suggeriva simili paragoni, esagerati dallo stile poetico medievale.
Inoltre aggiunge che «la dolcezza dell’organo medievale era dovuta dal fatto che, a differenza degli
organi moderni, il diametro delle canne non variava con la loro altezza; di conseguenza le canne più
acute erano in relazione troppo grosse e ciò concorreva alla produzione di un suono più dolce»116.
Una conferma dell’estrema dolcezza dello strumento nel Medioevo è riportata da Moretti, il quale
scrive che Walafrido Strabone ha narrato di una donna morta a causa di una sincope provocata
dall’insostenibile dolcezza del suo suono117. La sua composizione è conservata nell’Abbazia di St.
Blasien, in essa si legge:

Dulce melos tantum vanas deludere mentes


Coepit, ut una suis decedens sensibus ipsam
Foemina perdiderit, vocum dulcedine, vitam.

Di parere contrario al diffuso utilizzo dell’organo in Chiesa è l’abate inglese Aelredo di Rievaulx che
paragona il suono dell’organo, per l’appunto, a quello del tuono:

«Unde, quaeso, cessantibus iam typis et figuris, unde in Ecclesia tot organa, tot cymbala? Ad quid,
rogo, terribilis ille follium flatus, tonitrui potius fragorem, quam vocis exprimens suavitatem…»
(“Perché vi sono tanti organi e carillons in Chiesa? A che scopo – dite - quest’ansito possente dei
mantici che assomiglia più al rombo minaccioso del tuono che alla dolcezza della voce?”)118. Ma
nonostante ciò, come nota Ciabattoni, l’esplicito riferimento alla dolcezza non può essere casuale119.

115
Raffaello Monterosso, Organo in Enciclopedia dantesca online.
116
Curt Sachs, Storia degli strumenti musicali, cit., p. 337.
117
Corrado Moretti, Definizione di Organo in L’Organo Italiano: profilo storico, analisi tecnica ed estetica dello
strumento, sintesi delle sue sonorità a servizio della liturgia cattolica, Cuneo, S.A.S.T.E., 1955, pp. 11-18, p. 12.
118
Ibidem.
119
Francesco Ciabattoni, Il dolce ruggito del tuono: per un’interpretazione di Purgatorio IX 144 e Paradiso XVII 44,
cit., p. 71-72.
27
Chiavacci Leonardi dichiara di propendere per l’interpretazione di Fallani, proposta già avanzata da
Casimiri, secondo cui organi sta a designare il canto polifonico dove le parole non sono intese, a
tratti, dall’armonizzare delle voci e non dallo strumento120.

Una spiegazione del verso 141 può indubbiamente condurre ad un chiarimento del verso del cantar
con organi. Il dolce suono udito da Dante è stato inteso da Michele Barbi come il rumore della porta
che si apre, equivalente del primo tuono, il quale inoltre propende per il significato “strumentale” del
termine organi. Dunque la porta, sebbene «rugghiò» e fu tanto «acra» sui suoi cardini stridenti,
conserverebbe una dolcezza musicale che, che come scrivono Bosco e Reggio, torna più volte nel
Purgatorio «a designare la qualità lenitiva, terapeutica del canto»121. Inoltre l’acredine e la dolcezza
sono due qualità che si addicono alla situazione purgatoriale, dove per giungere alla gloria di Dio
bisogna prima scontare la pena necessaria. Una proposta contestata da molti critici e resa difficile dal
cambio di registro così repentino: Dante passerebbe nel giro di una terzina dall’attribuzione di un
rumore sgradevole dell’apertura della porta ad un piacevole suono emesso da essa. Una contestazione
possibile, come osserva Cappuccio, sarebbe che la dolcezza non avrebbe un connotazione meramente
musicale, ma più che altro simbolica e morale: «l’aggettivazione relativa alla sfera semantica della
dolcezza collegata all’ambito concettuale della musicalità (topica in Dante e anche nella trattatistica
musicale coeva e precedente) non indica generalmente un fattore tecnico ma etico ed in questo caso
potrebbe quindi prestarsi alla descrizione simbolica relativa al passaggio dalla chiusura della porta
alla sua apertura»122.

Potrebbe risultare interessante per eventuali spunti analitici un confronto, come quello compiuto dalla
stessa Cappuccio, con le altre occorrenze del dolce suono nella Commedia.

Una prima occorrenza è in Pg. VI, al sentir pronunciare il nome della sua terra per bocca di Virgilio,
un suo concittadino, Sordello diventa festoso e affettuoso perché quella pronuncia suona dolce al suo
orecchio:

Quell' anima gentil fu così presta,


sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;

(Pg. VI, vv. 79-81)

120
Cfr. il commento ad locum di Chiavacci Leonardi (DDP).
121
Cfr. il commento ad locum di Bosco e Reggio (DDP), per una trattazione più ampia della proposta, vedi Michele
Barbi, Problemi di critica dantesca, Firenze, Sansoni S.p.A., 1975, pp. 247-248.
122
Francesco Ciabattoni, Il dolce ruggito del tuono: per un’interpretazione di Purgatorio IX 144 e Paradiso XVII 44,
cit., p. 74.
28
In questo primo caso il dolce suono designa quindi il parlato, nessun riferimento al canto o alla musica
è qui presente. Un’altra occorrenza del termine, certo più pertinente, è offerta nel paesaggio
primaverile del Paradiso Terrestre, dove Dante, incontrata Matelda, la invita a farsi avanti per meglio
intendere il suo canto. Matelda si avvicina cantando e rendendo chiare a Dante le sue parole:

e fece i prieghi miei esser contenti,


sì appressando sé, che 'l dolce suono
veniva a me co' suoi intendimenti.

(Pg. XXVIII, vv. 58-60)

L’espressione connota qui il canto monodico della donna. Infine nel canto successivo, sempre
nell’Eden, l’arrivo di Beatrice è accompagnato da una serie di elementi che si vanno precisando con
il suo appressarsi: un balenare improvviso per la foresta, che cresce d’intensità sino a divenire una
fiamma accesa, l’udire di una «dolce melode» che si precisa in un coro di voci e un mutamento
dell’aria, che diventa ardente come un fuoco123:

dinanzi a noi, tal quale un foco acceso,


ci si fé l'aere sotto i verdi rami;
e 'l dolce suon per canti era già inteso.

(Pg. XXIX, vv. 34-36)

La dolcezza del suono sta qui ad indicare non un canto monodico, bensì una polifonia corale, come
d’altronde, nel canto VI della cantica successiva quando Giustiniano utilizza il ricordo della polifonia
delle voci per spiegare a Dante l’armonia del Paradiso, formata dalla diversità dei gradi di beatitudine.
Anche qui la qualità musicale che affiora e ricorre in ben due versi della terzina è la dolcezza124:

Diverse voci fanno dolci note;


così diversi scanni in nostra vita
rendon dolce armonia tra queste rote.

(Pr. VI, vv. 124-126)

Osserva sagacemente Cappuccio che «la percezione indistinta di un canto […] viene descritta come
quella di un suono dolce, considerata la vaghezza dei suoi contorni estetici» e aggiunge che ciò che
ascolta Dante all’ingresso del Purgatorio, non è né un’esecuzione polifonica (presente forse solo

123
Cfr. il commento ad locum di Chiavacci Leonardi (DDP).
124
Cfr. il commento ad locum di Bosco e Reggio (DDP).
29
all’interno del discorso retorico) né un canto monodico, ma «un’intonazione monodica e corale
dell’inno festivo che celebrava la fine della salmodia notturna nei cori monastici che nella lontananza
non può essere da lui compresa nella sua pienezza ed integrità». Tale esecuzione viene percepita per
la distanza dalla fonte sonora a momenti alternati in cui «a volte vi distingue al suo interno le voci, a
volte il coro si perde nella lontananza di un dolce suono»125. Per concludere, credo sia interessante
l’osservazione espressa da Fallani, in cui l’ingresso della porta purgatoriale è comparata all’entrata
in una cattedrale sia per gli elementi che ne caratterizzano l’ingresso (un canto sacro come il Te Deum
e il cantar con organi), sia perché entrambi sono luoghi che consentono di incamminarsi per la via
della penitenza e l’ascensione verso Dio126.

Dunque riassumendo: i punti problematici dal punto di vista interpretativo sono due, il «Te Deum
laudamus» udito «in voce mista al dolce suono» (vv. 140-1) e il «quando a cantar con organi si stea»
(v.144). Su questo secondo punto l’esegesi antica non è di alcun aiuto all’interpretazione poiché
riportano solamente dei calchi dell’espressione dantesca, fornendo così delle spiegazioni ambigue e
a loro volta aperte alle diverse chiavi di lettura dei moderni. Sulla prima problematica questione la
maggior parte dei critici intendono il «dolce suono» riferito all’indistinto canto udito provenire
dall’interno della porta purgatoriale, eccetto il critico Barbi che lo interpreta come un equivalente del
«primo tuono», inteso per cui come un rumore prodotto dalla porta alla sua apertura. Essa pertanto
suonerebbe “acre”, ma allo stesso tempo “dolce” alle orecchie del pellegrino. Sul secondo punto
problematico vi sono diverse interpretazioni: quella tradizionale intende il canto del Te Deum
accompagnato dall’organo, ciò fa sì che le parole non siano chiaramente percepite a causa della
fragorosità dello strumento. Un’interpretazione avanzata da don Piero Damilano e sostenuta da Bosco
Reggio afferma invece che si tratta di un canto alternato ad una parte musicale dell’organo, il quale
interludia brevemente mentre il coro tace, e questo spiegherebbe perché le parole siano intese a tratti.
Le argomentazioni a favore di questa tesi vertono sia sull’uso del plurale per designare lo strumento
musicale (la cui presenza al singolare organum è comunque attestata, ma più rara), sia sulla
consuetudine di eseguire alla fine dei drammi liturgici il Te Deum in forma vocale-strumentale, una
pratica che i codici indicano con l'espressione «alternatim cum organo». Un’altra interpretazione
invece intende il «cantar con organi» un riferimento alla pratica polifonica dell’organum, nata e
sviluppatasi di lì a poco, in cui l’armonizzare le varie melodie delle voci rende poco chiaro il testo
cantato. Le argomentazioni a sostegno di questa tesi sono la diffusa pratica dell’organum del periodo
e la non ancora invalsa pratica dell’accompagnamento corale con lo strumento musicale omonimo.

125
Chiara Cappuccio, «Quando a cantar con organi si stea» (Purg. IX, 144). Riflessi danteschi della polemica contro la
polifonia? in Tenzone. Revista de la Asociaciòn Complutense de Dantologìa, VIII, Firenze, 2007, p. 56.
126
Giovanni Fallani, Il canto IX del Purgatorio, Firenze, Le Monnier, 1963, pp.17-19, p. 19.
30
Giacalone risponde a questa tesi citando lo stesso Dante, «il quale, nel De Vulgari eloquentia, II, VIII,
5-6 scrisse: “Nullus enim tibicen, vel organista, vel citharedus melodiam sua{m} cantionem vocat,
nisi in quantum nupta est alicui cantioni”, tradotto “infatti nessun suonatore di flauto, di organo, di
cetra chiama canzone la sua melodia, se non in quanto è unita con qualche canzone”. Il che conferma
che anche l'organo (oppure la vièle o l'organistrum) poteva essere strumento di accompagnamento di
voci e di canto»127. Un’osservazione, a mio parere interessante, ma che non può certo bastare ad
affermare con sicurezza l’uso dell’organo come strumento d’accompagnamento, a maggior ragione
perché studi musicologici e organologici sostengono il contrario. Infine una recente interpretazione è
avanzata da Chiara Cappuccio, la quale avanza l’ipotesi che il canto a cui fa riferimento Dante
potrebbe essere un canto monodico alternato a un canto corale, come era d’uso nelle salmodie
notturne dei cori monastici.
Spiegate le varie motivazioni che spingono i critici verso diversi spunti interpretativi, è chiaro che,
all’interno della similitudine dantesca, risulta oggi impossibile affermare con certezza cosa intenda il
poeta per «cantar con organi». L’unica evidenza è che tra le possibili interpretazioni del passo si
debba escludere l’ipotesi che si tratti di un canto accompagnato dall’instrumentum organorum,
poiché, come già detto riecheggiando Fallani, l’organo non fu uno strumento utilizzato per
accompagnare le voci almeno fino al Cinquecento. Anche Casimiri scrive: «tutti i musicologi
concordemente riconoscono che l’organo, fino alla fine del secolo XVI, non è stato mai istrumento
che accompagnasse le voci»128. Inoltre, da un’attenta lettura del considerevole lavoro sull’organo di
Moretti, possiamo constatare che anch’egli afferma: «Pare assodato che, almeno dal secolo X,
l’organo abbia iniziato la sua lenta penetrazione nelle chiese, per interludiare, alternato al canto, ma
non ancora per accompagnare»129.
L’esecuzione musicale udita ricorda forse al pellegrino un canto “alternatim cum organo”, in cui lo
strumento esegue delle parti musicali riempiendo le pause in cui il coro non canta: una rilettura che,
secondo Persico, «non è confermata solamente dalla prassi alternata nell’esecuzione del Te Deum
laudamus, ma è rafforzata dalla documentazione storica che attesta, nella Firenze di Dante, la
diffusione dei primi strumenti toscani di rilievo. Per l’ordine dei Servi di Maria in Sant’Annunziata,
ad esempio, un non meglio identificato Frate Petruccio (o Pietruccio) da Bologna costruisce nel 1299
uno strumento degno di nota, già ricordato, senza alcun riferimento ai dettagli tecnici e fonici, nei

127
Cfr. il commento ad locum di Giuseppe Giacalone (DDP).
128
Raffaele Casimiri, “Quando a cantar con organi si stea”: profilo dell’organo attraverso i secoli, Roma, Edizioni
Psalterium, 1929, p. 27.
129
Corrado Moretti, Definizione di Organo in L’Organo Italiano: profilo storico, analisi tecnica ed estetica dello
strumento, sintesi delle sue sonorità a servizio della liturgia cattolica, Cuneo, S.A.S.T.E., 1955, pp. 11-18, p. 12.
31
lavori storiografici di Lunelli e Vicentini»130. Ma non è ancora completamente da escludere l’ipotesi
che il riferimento possa essere ad un’esecuzione corale polifonica o, come ipotizzato da Cappuccio,
ad un’esecuzione monodica alternata ad un canto corale, poiché, come osserva Drusi, anche la
demarcazione fra plurale e singolare condiziona solo fino a un certo punto la referenzialità all’uno o
all’altro oggetto, «tanto che gli stessi polifonisti avvertivano l’opportunità di qualche
puntualizzazione al momento di introdurre l’organum» o persino di derogare alla regola del
singolare/plurale131.

II.2 Le “Mille tube” (Pg. XVII)

Il canto XVII, posto esattamente a metà della cantica, è dedicato al passaggio alla quarta cornice e
alla spiegazione dell’ordinamento purgatoriale. Dopo l’incontro con Marco Lombardo nella cornice
degli iracondi, infatti, Dante racconta l’uscita dal fumo della terza cornice e lo fa rivolgendosi al
lettore e invitandolo a ricordare il momento in cui la nebbia in montagna si dirada e lascia filtrare la
luce del sole, così che tramite il paragone sarà in grado di comprendere più facilmente ciò che egli
vide («e fia la tua imagine leggera /in giugnere a veder com' io rividi / lo sole in pria, che già nel
corcar era»). Successivamente il poeta, nella descrizione di quanto accaduto, inserisce un’apostrofe
alla vis imaginativa, che nella filosofia scolastica, scrive Chiavacci Leonardi, «era la facoltà
dell'anima che riceve e conserva le immagini offerte dai sensi, detta anche phantasia»132, una
definizione condivisa anche da Bosco Reggio e da altri commentatori. Alcuni di essi, però, intendono
diversamente questi versi, ad esempio Torraca legge «la tua imagine» come «la “forma” d'una cosa,
concepita, per mezzo de' sensi, dalla mente» a differenza dell’«imaginativa» che invece è intesa come
«la potenza o facoltà della mente, che riceve le imagini»133.

O imaginativa che ne rube


talvolta sì di fuor, ch'om non s'accorge
perché dintorno suonin mille tube,

130
Thomas Persico, Il «cantus» come dimensione performativa. Musica per poesia al tempo di Dante. in «Modulatio» e
«Cantus»: actio poetica e ars musica in Dante Alighieri. Rassegna bibliografica e studio lessicografico, Dottorato di
ricerca in teoria e analisi del testo, Bergamo, Università degli studi di Bergamo, 2016, p. 356.
131
Riccardo Drusi, Musica polifonica nella Commedia: indizi storici e miti storiografici in L’Alighieri. Rassegna
dantesca (42, Nuova serie, luglio- dicembre 2013, anno LIII), Ravenna, Longo Editore s.n.c., 2014, pp. 5- 58, pp. 48-
49.
132
Cfr. il commento ad locum di Chiavacci Leonardi (DDP).
133
Cfr. il commento ad locum di Francesco Torraca (DDP).
32
chi move te, se 'l senso non ti porge?
Moveti lume che nel ciel s'informa,
per sé o per voler che giù lo scorge.
(Pg. XVII, vv. 13-18)

Il poeta sottolinea in questi versi la capacità dell’imaginativa di estraniarci dalla realtà al punto di non
accorgerci di ciò che accade intorno, anche se suonassero mille trombe. Osserva Schurr: «Qui viene
additata una fonte divina, quindi puramente spirituale, inviante ed emanante immagini (visive o
sonore che siano) talmente soverchianti, da risucchiare e assorbire l’anima intera, non più distratta
nemmeno dal suono assordante di mille tube»134. Molti commentatori ricordano, nel chiosare la
terzina, la straordinaria capacità di concentrazione di Dante riportando l’aneddoto riferito da
Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante, in cui racconta che mentre leggeva un libro su una panca
per una strada di Siena, non si accorse neppure che intorno a lui si stava svolgendo una grande festa
con danze e suoni135. Sul termine tuba e sullo strumento si è già detto nel primo capitolo, qui mi
limiterò a sottolineare l’impiego del latinismo al posto del volgare tromba, che conferma un uso più
aulico del lessico musicale nella cantica del Purgatorio rispetto alla cantica infernale, il quale, come
nota Monterosso, è dovuto alla «differente qualità dell’argomento poetico»136. La parola va
ovviamente intesa come un sinonimo, ne sono una prova i molti commenti sul passo, ad esempio,
Jacopo della Lana scrive: «E però dice: ella, cioè la immaginativa, molte fiate astringe sì a sè l'uomo,
che se mille trombe sonasseno di fuori, elli non se ne accorgerebbe»137 oppure Francesco da Buti:
«mille tube; cioè mille trombe»138.
In questo passo, per concludere, le tube hanno soltanto valore metaforico e «servono solo a
sottolineare l'iperbole della situazione, espressa mediante il numero infinito e l'intensità della sorgente
sonora»139, inoltre la scelta dello strumento va probabilmente attribuita al suo carattere sonoro: il
suono brillante e squillante della tromba è, almeno solitamente, in grado di ridestare gli animi da
qualsiasi sopore.

134
Claudia Elisabetta Schurr, Dante e la musica: Dimensione, contenuto e finalità del messaggio musicale nella
“Divina Commedia”, Perugia, Università degli Studi: Centro di Studi Musicali in Umbria,1994, p. 109.
135
Giovanni Boccaccio, Fattezze, usanze e costumi di Dante in Vita di Dante, Firenze, Sansoni editore, 1888, pp. 45-46.
136
Raffaello Monterosso, Tromba in Enciclopedia dantesca online.
137
Cfr. il commento ad locum di Jacopo della Lana (DDP).
138
Cfr. il commento ad locum di Francesco da Buti (DDP).
139
Raffaello Monterosso, Tromba in Enciclopedia dantesca online.
33
III. Strumenti musicali nel Paradiso

III.1 “Le dolci tube” del Cielo del Sole (Pd. XII) e la tuba (Pd. VI, XXX)

Il canto XII del Paradiso è strettamente connesso al precedente, tanto da formare con esso, potremmo
dire, un’unica unità. Il primo narra la vita di San Francesco d’Assisi, riportata dal domenicano
Tommaso d’Aquino, mentre il secondo narra la vita di San Domenico, riferita dal francescano
Bonaventura. Nei primi versi del canto la «santa mola» (ovvero la corona dei beati), concluso il
discorso di Tommaso, riprende il suo giro di danza, ma prima di poter concludere il cerchio descritto,
un’altra corona di beati la circonda iniziando a danzare e cantare nel preciso punto in cui erano («e
moto a moto e canto a canto colse», v.6). È in questa prima parte descrittiva del canto che troviamo
il primo riferimento a uno strumento musicale dell’ultima cantica infatti:

canto che tanto vince nostre muse,


nostre serene in quelle dolci tube,
quanto primo splendor quel ch'e' refuse.
(Pd. XII, vv. 7-9)

La parola tube, già discussa nelle pagine precedenti, che vale propriamente come “trombe”, qui per
alcuni critici designerebbe gli strumenti musicali in genere, ai quali però, osserva Chiavacci Leonardi,
sono assomigliate anche le voci140. Già Francesco da Buti aveva osservato: «cioè in quelle dolci voci
di quelli spiriti beati: certo le voci dei beati spiriti vinceno ogni dolcezza di canto nella lode che
rendeno a Dio»141. Anche Bonaventura, riecheggiando Lombardi, afferma che il vocabolo
strumentale tube indica «le gole canore dei Beati»142. Monterosso invece scrive che nelle dolci tube
«sono metaforeggiati gli spiriti della corona angelica nel cielo del Sole», senza la specificazione delle
voci, inoltre, diversamente dai precedenti, afferma che esse «vogliono puntualizzare non tanto la
qualità timbrica dello strumento specifico cui si fa riferimento, ossia il clangore di squilli militareschi,
quanto il senso di reverenza che il termine latineggiante, unito all'aggettivo ' dolce ', vuol rievocare
davanti allo splendore della santa mola. Si noti peraltro che la parola è usata in rima»143. Singleton
dopo aver osservato come in soli due versi siano presenti ben quattro termini collegati alla musica (il

140
Cfr. il commento ad locum di Chiavacci Leonardi (DDP).
141
Cfr. il commento ad locum di Francesco da Buti (DDP).
142
Arnoldo Bonaventura, Dante e la musica, Livorno, R. Giusti Editore, 1904, cit., p 106.
143
Raffaello Monterosso, Tuba in Enciclopedia dantesca online.
34
canto, le muse, le sirene e le tube), anch’egli afferma che in questo caso lo strumento «refers to the
voices of the singing saints»144.
È possibile un confronto di questo passo con l’ultima ricorrenza del termine tuba del poema, che
troviamo verso la fine della cantica:

Cotal qual io la lascio a maggior bando


che quel de la mia tuba, che deduce
l'ardüa sua matera terminando,
(Pd. XXX, vv. 34-36)

I commentatori sono d’accordo con il designare lo strumento come una metafora della voce del poeta,
un ritorno a toni epici come in Inferno VI, nel verso già discusso nel primo capitolo: «or convien che
per voi suoni la tromba» (v.5): una possibile interpretazione, infatti, vi leggeva la voce poetica
dell’autore, pronta ad emanare la sentenza come un giudice. In questo passo però, all’immagine del
giudice sembra adeguarsi meglio quella di un banditore. È opportuno ricordare il commento di
Torraca: «I banditori suonavano la tromba prima di fare il bando, ed avevano, tra gli altri nomi quello
di tubatori, trombettieri»145. Dante dice di lasciare ad una voce con maggiore forza poetica la
descrizione di Beatrice, poiché la sua bellezza «si trasmoda», ovvero supera le capacità percettive e
annulla le facoltà della mente del poeta («la mente mia da me medesmo scema», v. 27), per questo
motivo scrive «ma or convien che mio seguir disista» (v.31) e si dedichi piuttosto a condurre sino alla
fine la difficile materia che sta trattando. Secondo Chiavacci Leonardi è difficile pensare che egli
alluda a un altro poeta, ma che più ragionevole sarebbe forse pensare al bando delle trombe angeliche
nell’ultimo giorno146. Benvenuto da Imola commenta: «quam sit praeconium meae vocis poeticae,
quae non potest amplius proclamare»147, dove il termine latino «praeconium» indicava il proclama
del banditore. Il termine è utilizzato dallo stesso Dante nel canto XXVI del Paradiso: «Sternilmi tu
ancora, incominciando / l'alto preconio che grida l'arcano/di qui là giù sovra ogne altro bando» (vv.43-
45), in cui la parola si riferisce al “sublime annuncio” di san Giovanni, che proclama il mistero della
divinità. Come osservato da Chiavacci Leonardi, il termine passò «nell'uso degli autori cristiani per
significare l'annuncio della parola di Dio fatto nei testi profetici ed evangelici»148, pertanto è lecito
pensare, secondo i critici, ad un velato riferimento al giorno del giudizio. Io credo che lo strumento
stia ad indicare metaforicamente la voce del poeta che, sopraffatto dalla bellezza della splendida
Beatrice, decide di cedere la descrizione della donna ad una voce poetica maggiore della sua.

144
Cfr. il commento ad locum di Charles Singleton (DDP).
145
Cfr. il commento ad locum di Francesco Torraca (DDP).
146
Cfr. il commento ad locum di Chiavacci Leonardi (DDP).
147
Cfr. il commento ad locum di Benvenuto da Imola (DDP).
148
Cfr. il commento ad locum di Chiavacci Leonardi (DDP).
35
La scelta della tuba io credo sia dovuta a motivazioni sonore legate alla qualità timbrica dello
strumento e per il legame con la tradizione letteraria, infatti molti altri autori utilizzano la tuba o la
tromba per indicare la voce. Non ha valore di traslato invece la «pompeiana tuba» del canto VI, dove
lo strumento indica propriamente la tromba da guerra, già incontrata in Inferno XXII; qui riudita,
secondo la descrizione del volo dell’aquila di Cesare, in Spagna, dove egli distrusse le ultime truppe
dell’esercito di Pompeo, nella battaglia di Munda:

Antandro e Simeonta, onde si mosse,


rivide e là dov' Ettore si cuba;
e mal per Tolomeo poscia si scosse.
Da indi scese folgorando a Iuba;
onde si volse nel vostro occidente,
ove sentia la pompeana tuba.
(Pd. VI, vv. 67-72)

III.2 I cordofoni del Paradiso: la giga, l’arpa e la lira (Pd. XIV, XV)

Il canto XIV descrive il passaggio dal Cielo dei sapienti al Cielo di Marte, in cui risiedono gli spiriti
combattenti per la fede. Diversi commentatori lo definiscono “il canto della luce” per eccellenza, per
il gran numero di figure di luce e riferimenti ad essa presenti. La prima parte del canto (vv.1-66) è
dedicata al chiarimento dei dubbi di Dante: il primo è sulla luminosità dei beati quando saranno
rivestiti dei loro corpi, mentre il secondo è sulla capacità visiva di sopportare quella che sarà la loro
luce amplificata. A dargli una spiegazione è la voce di Salomone che emerge durante l’esecuzione di
un canto da parte delle anime beate presenti. Egli spiega che nel giorno del giudizio, ricomposta
l’unità tra anima e corpo, si avrà una maggiore perfezione della persona e di conseguenza anche gli
organi del corpo ne risulteranno più forti, per cui saranno in grado di sostenere la maggiore luminosità
dei beati149. Chiarito ogni dubbio, attorno alle corone dei beati appaiono uno sterminato numero di
anime luminosissime, al punto che Dante deve volgere, come in altre occasioni, gli occhi verso
Beatrice per far sì che essi acquistino la forza necessaria a reggere lo sguardo. Qui nota la bellezza
della donna accresciuta, segno del passaggio al cielo superiore. Comprende, poi, di esser salito al
Cielo di Marte per lo splendore di colore rosso che scorge, come una fiamma. In questo cielo il poeta
ha la visione dei beati combattenti e martiri per la fede, disposti in forma di croce e in «quella croce

149
Giuseppe Ledda, Leggere la Commedia, cit., p.46.
36
lampeggiava Cristo» (v. 104). Così dopo il paragone delle luci dei beati con la grandiosità della Via
Lattea, e dopo il paragone del movimento dei beati con quello del pulviscolo atmosferico filtrato in
un raggio di luce, ecco che Dante inserisce anche una similitudine che racchiude la percezione uditiva
del fenomeno osservato:

E come giga e arpa, in tempra tesa


di molte corde, fa dolce tintinno
a tal da cui la nota non è intesa,
così da' lumi che lì m'apparinno
s'accogliea per la croce una melode
che mi rapiva, sanza intender l'inno.
(Pd. XIV, vv. 118-123)

Il senso complessivo della similitudine è che in quella croce formata dalla luce dei beati si udiva un
dolce suono formante una melodia da cui il poeta è fortemente attratto, sebbene non riesca a
distinguere le parole dell’inno cantato. Una situazione che ricorda, per analogia, quella del Te Deum
udito sulla soglia della porta purgatoriale, i versi successivi Dante afferma di riconoscere che si tratta
di un inno «d’alte lode», in cui percepisce le parole «… “Resurgi” e “Vinci” / come a colui che non
intende e ode» (vv. 125-126). Come osservato dai critici, le due parole pronunciate dalla croce, seppur
non identificabili in un inno, sono un chiaro riferimento alla resurrezione di Cristo e alla sua vittoria
sulla morte. Aggiunge Francesco da Buti che «debitamente finge lo nostro autore ch'elli non
apprendeva se non Risurgi e vinci; ma l'altre cose no, perchè elli era anco viatore»150. Sul verso 120
(«a tal da cui la nota non è intesa») legato al «dolce tintinno», la più corrente spiegazione afferma che
esso è percepito come tale anche da chi non ha una chiara percezione delle note, cioè che non riesce
a differenziarle nella melodia, Monterosso invece ribatte che «non si tratta di maggiore o minore
capacità recettiva da parte dell'ascoltante, sì piuttosto di indeterminatezza originaria del suono stesso,
il quale esce dalla sorgente che lo genera non articolato in una serie acustica matematicamente
scomponibile, ma ovattato e stemperato in un'unica sensazione, fatta di estrema vaghezza appunto
perché rimane a uno stadio quasi premusicale»151.

I due strumenti qui citati appartengono alla famiglia degli strumenti a corda o cordofoni, secondo la
classificazione Sachs-von Horbostel: mentre l’arpa è ampiamente documentata, scarse sono le
testimonianze sulla giga (da non confondere con l’omonimo tempo di danza facente parte della suite

150
Cfr. il commento ad locum di Francesco da Buti (DDP).
151
Raffaello Monterosso, Arpa in Enciclopedia dantesca online.
37
sei e settecentesca). Senza contare, inoltre, la confusione terminologica che la contrassegna, poiché,
persa la sua antica nobiltà, essa «era divenuta strumento musicale caratteristico dei giullari, e poteva
quindi, senza alcuna irriverenza, identificarsi con altro oggetto casualmente dotato dello stesso
nome»152. Francesco da Buti riguardo la giga scrive semplicemente: «questo è uno istrumento musico
che fa dolcissimo suono»153; può essere comunque descritto, stando a quanto sappiamo, come un
cordofono dall’aspetto piriforme: la parte inferiore tondeggiante con il fondo convesso e la superiore
che si restringe in prossimità del manico, su cui prende forma la tastiera. Era dotato di un numero
variabile di corde messe in vibrazione da un arco, sebbene l’accostamento ad un cordofono a pizzico
come l’arpa e il suono descritto come un «dolce tintinno» lascino pensare alla qualità sonora del
pizzicato più che del vibrato. D’altronde, conclude Monterosso, per la confusione terminologica di
cui si è detto, non è un’eventualità da escludere154. A conferma di questa confusione basta ricordare
che Reese nel suo lavoro sulla musica del Medioevo scrive che il termine giga (gigue in Francia e
geige in Germania) indicava uno strumento chiamato anche rebec, «uno strumento a forma di liuto
suonato con un archetto», avente un tono acuto e fino al secolo VIII indicato con il nome generico di
lyra155. Favilli descrive la giga come un antenato del violino che «cadde presto in disuso non
potendosi per la sua forma panciuta, simile al mandolino, suonare con l’arco, mancando dei due incavi
laterali che ebbe appunto il violino più tardi, per potere scorrere l’arco sulle corde»156. Barassi invece
riporta che il termine giga designava anche uno strumento monocordo suonato ad arco, che è
raffigurato nel bassorilievo adornante il timpano della chiesa abbaziale di Saint-Pierre a Moissac,
risalente al 1120 circa. Ma aggiunge poi che lo stesso strumento, qualora fosse pizzicato, era indicato
con il nome di citola157. In effetti anche Monterosso ricorda che in diverse fonti medievali la giga è
presente con una sola corda, ma che diversamente nel passo dantesco fa esplicita menzione «di molte
corde» «in tempra tesa», ovvero con le corde tese e armonizzate tra loro158 (un’interpretazione
condivisa dalla maggior parte dei critici). Francesco da Buti commenta l’espressione scrivendo: «cioè
tirate le sue corde, sicché abbiano temperanzia e convenienzia» e poi aggiunge: «imperò che sono
istrumenti, che ànno molte corde, e tutte convegnono concordevilmente essere temperate»159. Così
anche Serravalle: «Et sicut gyga et harpa, duo instrumenta musicalia, in temperamento tensa

152
Raffaello Monterosso, Giga in Enciclopedia dantesca online.
153
Cfr. il commento ad locum di Francesco da Buti (DDP).
154
Ibidem.
155
Gustav Reese, L’apogeo dell’”organum” e del discanto in Europa nei secoli XII e XIII in La musica nel Medioevo,
Firenze, Sansoni editore, 1960, pp. 399-400.
156
Enrico Favilli, Compendio di storia della musica (Appendice: Dante e la musica nella Divina Commedia), Piacenza,
Carlo Tarantola editore, 1924, pp. 233-261, pp. 252-253.
157
Elena Ferrari Barassi, Strumenti derivati dal monocordo in Strumenti musicali e testimonianze teoriche nel Medio
Evo, Cremona, Fondazione Claudio Monteverdi, 1979, p.35.
158
Raffaello Monterosso, Giga in Enciclopedia dantesca online.
159
Cfr. il commento ad locum di Francesco da Buti (DDP).
38
multarum cordarum, faciunt dulcem tintinnum»160. Mentre Bosco e Reggio traducono: «con le corde
tese e armonizzate tra loro»161 e così anche Chiavacci Leonardi: «con l’armonizzata tensione delle
corde»162. Vale la pena ricordare l’osservazione di Favilli riguardo l’accordatura dell’arpa: «è cosa
difficilissima, e non di tutti i provetti suonatori, di saperla bene accordare atteso il numero rilevante
delle sue corde di minugia»163. Già da questi primi commenti, antichi e moderni, si può fare
un’osservazione sul verso: gli antichi parlano di “temperamento” delle corde, mentre i moderni di
“accordatura”, ma il senso resta ovviamente immutato.

In altri luoghi del poema il lemma «tempra», quando si presenta nella sua accezione musicale, non è
mai interpretato dai commentatori in maniera univoca. Alcuni, come Ciabattoni, ritengono la sua
presenza significativa per svelare alcune delle allusioni alla musica polifonica nel poema, invero
intendono il lemma una mera «parola-chiave per la polifonia vocale»164. Prima di ritornare all’analisi
e all’interpretazione del passo di Paradiso XIV, ritengo sia interessante un breve excursus sulle altre
due presenze del termine con accezione prettamente musicale all’interno del poema in modo da avere
cognizione della difficoltà interpretativa del lemma e della sua eccezionale chiara ricorrenza nel passo
in esame. La prima presenza è all’interno del Paradiso Terrestre, dove leggiamo:

ma poi che 'ntesi ne le dolci tempre


lor compartire a me, par che se detto
avesser: “Donna, perché sì lo stempre?”

(Pg. XXX, vv. 94-96)

Qui Dante, dopo l’apparizione di Beatrice, sembra scorgere nelle «dolci tempre», da Chiavacci
Leonardi e anche da Pasquini e Quaglio tradotte come accordi o armonie del canto degli angeli165, un
tono compassionevole da parte loro nei suoi confronti per i duri toni della donna. Altri commentatori
come Bosco e Reggio, Giacalone e Fallani, però, traducono il termine come «le dolci modulazioni
del canto»166. Pertanto l’esegesi è divisa, potremmo dire, in due diverse interpretazioni che sebbene
non influenzino il senso complessivo del passo, non offrono comunque una chiara spiegazione del
termine. Infatti entrambe le soluzioni comprendono anche l’aspetto armonico (modulazione è
propriamente un cambio di tonalità secondo precisi processi armonici), ma mentre nella prima

160
Cfr. il commento ad locum di Johannis de Serravalle (DDP).
161
Cfr. il commento ad locum di Bosco e Reggio (DDP).
162
Cfr. il commento ad locum di Chiavacci Leonardi (DDP).
163
Enrico Favilli, Compendio di storia della musica (Appendice: Dante e la musica nella Divina Commedia), Piacenza,
Carlo Tarantola editore, 1924, pp. 233-261, p. 253.
164
Francesco Ciabattoni, Il dolce ruggito del tuono: per un’interpretazione di Purgatorio IX 144 e Paradiso XVII 44 in
Dante e l’arte 2, 2015, pp. 80-83, p. 82.
165
Cfr. il commento ad locum di Chiavacci Leonardi e Pasquini Quaglio (DDP).
166
Cfr. il commento ad locum di Bosco Reggio, Giuseppe Giacalone, Giovanni Fallani (DDP).
39
interpretazione riportata risulta essere un chiaro riferimento alla polifonia, nella seconda potrebbe
trattarsi anche di modulazioni in canti all’unisono.

L’altra occorrenza è nel canto X del Paradiso, all’interno di una similitudine che presenta inoltre
anche un «dolce tintinno», questa volta però di un orologio:

Indi, come orologio che ne chiami


ne l'ora che la sposa di Dio surge
a mattinar lo sposo perché l'ami,
che l'una parte e l'altra tira e urge,
tin tin sonando con sì dolce nota,
che 'l ben disposto spirto d'amor turge;
così vid'ïo la gloriosa rota
muoversi e render voce a voce in tempra
e in dolcezza ch'esser non pò nota
se non colà dove gioir s'insempra.
(Pd. X, vv. 139-148)

Dante paragona il dolce suono dell’orologio, che tintinnando richiama i fedeli alla preghiera liturgica
eseguita alla prima ora del giorno alla corona degli spiriti gloriosi, i quali in ugual modo si trasmettono
moto e suono nel volgersi del cerchio. Tutto ciò in una splendida metafora amorosa che rende la
Chiesa come un’amata che si alza per farsi cantar la “mattinata” dallo sposo sotto la finestra, «che
specie all’epoca dei trovatori», scrive Bonaventura, «solevansi cantare sul far del giorno […] dalla
persona amata»167. Il verso 146, scrive Chiavacci Leonardi, va inteso come «cantare rispondendo una
voce all'altra in tempra, cioè “in armonia”»168, così anche Giacalone, in maniera ancor più specifica,
traduce come «accordarsi tra loro nel canto in accordo armonico»169 e allo stesso modo lo intendono
altri commentatori (Landino e altri). Bosco e Reggio, sebbene traducano il lemma come «in
armonioso accordo», ritengono l’esplicito riferimento al canto, più probabilmente come un canto
corale all’unisono. Ciò sta a significare che intendono la parola “accordo” come una “reciproca
intesa” delle voci nel canto, non nella sua accezione specificatamente musicale, poiché l’accordo
musicale, per definizione, per essere eseguito richiede la compresenza di più voci. Bonaventura
afferma invece con sicurezza che il «moversi e render voce a voce in tempra» (v. 146) è un chiaro
riferimento ad un canto a più voci che, nell’esecuzione di diverse parti, si rispondono tra loro come

167
Arnoldo Bonaventura, Dante e la musica, Livorno, R. Giusti Editore, 1904, cit., pp. 124-125.
168
Cfr. il commento ad locum di Chiavacci Leonardi (DDP).
169
Cfr. il commento ad locum di Giuseppe Giacalone (DDP).
40
nella struttura di un Canone o di una Fuga. Poi chiarisce che la proposta del tema può essere eseguita
da una o più voci, ma anche da strumenti a cui con un preciso ordine altri strumenti o altre voci
opporranno una risposta. Infine conclude scrivendo che questo tipo di composizione era ritenuta «una
forma arida e puramente scolastica», perciò Dante, con l’intenzione di «dissipare quell’impressione
di aridità che poteva derivare dall’idea di una musica a canone, a imitazione […] si affretta ad
aggiungere che si svolgeva con una dolcezza tale che non può esser conosciuta se non colà dove il
gioire è eterno»170. Ad ogni modo, anche un confronto con le presenze nel poema del verbo
«temperare» (in Pg. XXXII, v. 33 e Pd. I, v. 78) non offrono una chiara soluzione al problema
terminologico. Tornando alla presenza del lemma nel passo di Paradiso XIV, Drusi invece afferma
che «poiché giga e, soprattutto, arpa sono strumenti a vocazione polifonica, ecco che la voce tempra
si confermerebbe stigma di polifonia»171. È evidente dunque che nella sua accezione musicale molti
lo intendono un chiaro riferimento alla musica polifonica. Anche Monterosso traduce il lemma come
una «fusione di suoni», e quindi per estensione “accordo” e “armonia”172.
I commentatori lo traducono come un riferimento all’accordatura delle corde tramite la loro
armonizzata tensione, la cui consonanza, aggiungerei, genera una polifonia che, come nella maggior
parte dei riferimenti polifonici nel poema, trasmette una sensazione di indefinita dolcezza. Anche
commentatori, come Bosco e Reggio, solitamente distanti da chiose che leggono facilmente presenze
musicali polifoniche nei passi danteschi, qui invece sembrano concordi nell’interpretazione dei versi.
Drusi, riflettendo sul valore di “temperamento” e “accordatura” che nel passo della giga e dell’arpa i
commentatori attribuiscono al lemma «tempra», cita un passo del commento tomistico alle Sententiae
di Pietro Lombardo, in cui ricorda che san Tommaso nel porre mano a uno strumento a corde afferma
che la tensione delle corde deve essere generalizzata, perché in caso contrario vi sarà dissonanza. Una
comparazione in cui osserva Drusi: «Dante, come Tommaso, associa a tempra l’idea dell’accordatura
in astratto, la precisione della quale si riscontra anche senza conoscere l’altezza assoluta delle note
(la nota “non intesa”), semplicemente arpeggiando sullo strumento. E l’arpeggio, cioè il pizzico
consecutivo delle corde, che permette di apprezzare la corretta tensione dell’arpa anche per le corde
intonate alla seconda o in altri intervalli dissonanti; ed è l’arpeggio, non l’accordo, la tecnica esecutiva
che meglio si adatta alla “melode” che gli esegeti antichi interpretano come ‘canto monodico’»173.
Pertanto, secondo Drusi, per il «dolce tintinno» che producono le gighe e le arpe, s’intende un
arpeggio di corde in consonanza tra loro (ben accordate) paragonato per la sua dolcezza alla «melode»
che attira l’attenzione del poeta e di cui non egli non riesce a percepire chiaramente il testo.

170
Arnoldo Bonaventura, ibidem, cit., pp. 125-126.
171
Riccardo Drusi, Musica polifonica nella Commedia: indizi storici e miti storiografici in L’Alighieri. Rassegna
dantesca (42, Nuova serie, luglio- dicembre 2013, anno LIII), Ravenna, Longo Editore s.n.c., 2014, pp. 5- 58, p. 45.
172
Raffaele Monterosso, Tempra in Enciclopedia dantesca online.
173
Riccardo Drusi, Musica polifonica nella Commedia: indizi storici e miti storiografici in L’Alighieri. Rassegna
dantesca, cit., p. 47.
41
Abbiamo ulteriori testimonianze della presenza della giga accanto all’arpa in altri testi medievali, ad
esempio, attraverso una ricerca nel dizionario storico online TLIO, emerge che in un poemetto
anonimo del XIII sec., si legge: «audi’ sonar d’un arpa e smisurava/ cantand’u· llai onde Tristan
morie; / d’una dolze viuol’ audi’ sonante, / sonand’ una donzella lo ̕ndormante; / audivi suon di gighe
e ciunfonie»174. Inoltre è significativo che nella Bataille des VII Ars, riportata da Reese, il troviero
del secolo XIII, Henry d’Andely nel dare una descrizione della Musica e del suo corteo, ricorda anche
le gighe: «Ma dame Musique aus clochetes/ et si clerc plain de chanconnetes/ portoient gigues et
vieles, salte rious et fleuteles…»175.

L’arpa è un cordofono a pizzico «che fa similmente dolcissimo suono»176, scrive Francesco da Buti,
un commento che unitamente alla definizione della giga ci dà solamente una chiara conferma della
dolcezza che sono in grado di trasmettere i due cordofoni e tutt’al più della loro positiva
considerazione sociale. Vincenzo Galilei scriveva, sul finire del `500, che lo strumento in questione
«commemorato da Dante», non sarebbe altro che un’antica chitara con molte corde portata
dall’Irlanda, infatti gli abitanti dell’isola si esercitano nella costruzione dello strumento da moltissimi
secoli e per questo motivo, ipotizza che essi discendano dal «Regio profeta David», essendo l’arpa lo
strumento davidico per eccellenza177. L’arpa fu uno strumento apprezzato al punto da non rimanere
legato all’impiego strettamente professionale, ma da essere suonato anche dai membri delle famiglie
aristocratiche. Poiché non risulta aver subito grossi cambiamenti dal Medioevo al Rinascimento,
osserva Monterosso, si può affermare che l’arpa a cui fa riferimento Dante non doveva essere
differente dal punto di vista acustico e timbrico da quella descritta da Vincenzo Galilei nella sua
opera, per cui sostanzialmente simile a quello moderno178. Esisteva di varie dimensioni e possedeva
un gran numero di corde, ma veniva accordata diatonicamente, quella cromatica entrerà in vigore nel
Cinquecento179. La viola e l’arpa, scrive Mazzotta in riferimento alla descrizione di questa esibizione
di musica e canto di Paradiso XIV, «sono i due strumenti nella combinazione contrappuntistica di
suoni e parole e di diverse melodie che formano il dialogo corale della musica polifonica o del canto
liturgico gregoriano», inoltre nel descrivere la terminologia musicale che ricorre nel passo, afferma
che il termine tecnico «melode» indica una «canzone corale come una dolce successione di suoni che
possono essere prodotti da una singola voce», l’«inno» descrive un canto ecclesiastico in lode della

174
Anonimo, L'Intelligenza. Poemetto anonimo del secolo XIII, (a cura di Marco Berisso), Parma, Fondazione Pietro
Bembo / Ugo Guanda Editore, 2000, p.120.
175
Gustav Reese, L’apogeo dell’”organum” e del discanto in Europa nei secoli XII e XIII in La musica nel Medioevo,
Firenze, Sansoni editore, 1960, p. 397.
176
Cfr. il commento ad locum di Francesco da Buti (DDP).
177
Raffaele Arnese, Gli strumenti musicali in Storia della musica nel Medioevo Europeo, Firenze, Leo S. Olschki editore,
1983, pp. 289-297, p. 295.
178
Raffaello Monterosso, Arpa in Enciclopedia dantesca online.
179
Gustav Reese, ibidem, cit., p. 397.
42
Croce e «nota» sta per la composizione strumentale. Termini adottati per sottolineare la particolarità
e la specificità della situazione che si presenta a Dante, «spettatore di questo spettacolo musical-
teatrale»180.

In conclusione, volendo dare un’interpretazione d'insieme al passo, direi che la melodia, proveniente
dalla corona dei beati, che rapisce l’attenzione del poeta e di cui egli non intende il testo, salvo due
parole che la identificano come un canto in lode alla resurrezione di Cristo, per la sua gradita dolcezza
alle orecchie del viaggiatore, è paragonata al dolce suono che scaturisce (seguendo l’interpretazione
di Drusi) dall’arpeggio, più che dall’accordo («dolce tintinno») delle corde, di una giga o di un’arpa,
quando sono tese in perfetta consonanza intervallare tra loro («in tempra tesa / di molte corde»). La
dolcezza generata dalla consonanza degli intervalli musicali delle corde è percepita come tale anche
da chi non conosce l’altezza assoluta delle note prodotte («a tal da cui la nota non è intesa») o
seguendo l’interpretazione di Monterosso, è percepita come tale malgrado l’indeterminatezza e la
vaghezza della fonte sonora da cui prende origine.

Nel canto successivo, prima di dar spazio all’incontro con Cacciaguida, il trisavolo del poeta, la cui
discesa dal braccio destro della croce è paragonato al rapido e improvviso passaggio di una stella
cadente, il coro dei beati si interrompe e si stabilisce un improvviso silenzio per consentire a Dante
di parlare. «Con questo silenzio della musica sullo sfondo», commenta Mazzotta, «si svolge il vero
dramma della storia. Un dramma in cui l’armonia musicale non può essere sentita»181:

Benigna volontade in che si liqua


sempre l'amor che drittamente spira,
come cupidità fa ne la iniqua,
silenzio puose a quella dolce lira,
e fece quïetar le sante corde
che la destra del cielo allenta e tira.
(Pd. XV, vv.1-6)

Il senso complessivo delle due terzine sembra essere che la volontà di fare il bene in cui si manifesta
sempre l’amore che si muove nella giusta direzione, cioè verso il bene supremo, così come la cupidità
che si risolve nella volontà di fare il male, pose silenzio a «quella dolce lira» e fece tacere «le sante
corde» che la mano di Dio allenta e tende come si fa per accordare uno strumento o anche per

180
Giuseppe Mazzotta, Musica e storia nel Paradiso (XV-XVII) in Confine quasi orizzonte. Saggi su Dante, Roma,
Edizioni di Storia e letteratura, 2014, pp.67-71, p. 70.
181
Giuseppe Mazzotta, ibidem, cit., p. 71.
43
suonarlo, come intendono molti commentatori182. La tradizionale spiegazione scorge nella metafora
del dolce strumento il coro dei beati che intonavano l’inno, in cui le «sante corde» rappresenterebbero
i singoli beati del coro o più specificatamente le loro voci che Dio accorda ai suoi fini, in questo caso
per consentire di parlare al pellegrino. In effetti anche in altri momenti della cantica essi dimostrano
di agire solo in stretta dipendenza dalla volontà di Dio, come osserva Chiavacci Leonardi: «E 'n la
sua volontade è nostra pace:/ ell' è quel mare al qual tutto si move/ ciò ch'ella crïa o che natura face.”»
(Pd. III, vv. 85-87) o ad esempio nel canto XX, dove si legge: «perché il ben nostro in questo ben
s’affina,/ che quel che vole Dio, e noi volemo» (vv. 137-138).

Ben tre cordofoni offrono dunque una rappresentazione del coro dei beati: nel canto precedente la
giga e l’arpa, qui invece la lira, che Francesco da Buti definisce uno «istrumento di corde che si
nomina chitarra, che toccata suona», dando ulteriore dimostrazione della già discussa confusione
terminologica che affliggeva gli strumenti musicali nel Medioevo183. Amilcare Iannucci, riferendosi
al passo della giga e l’arpa (Pr. XIV, vv.118-126) afferma che vi è un’implicita connessione di natura
metaforica tra la musica instrumentalis (nella sua forma celeste) e la musica humana della divisione
di Boezio, e aggiunge che in questo passo del canto XV è ripresa la stessa immagine, però qui Dante
«la innalza introducendovi la raffigurazione di Dio, quale supremo Musicus», e aggiunge che «con
questo “dolce” suono, le tre categorie musicali di Boezio (e di Dante) si fondono in una sola e sono
riprodotte nell’immagine (di derivazione platonica) del Mondo-Lira, lo strumento a corde
dell’anima»184.

Una breve considerazione storico-organologica sulla lira potrebbe risultare illuminante per
l’identificazione dello strumento a cui Dante fa riferimento e per tentare di individuare delle soluzioni
di continuità con gli strumenti del canto precedente. Innanzitutto il termine lyra indicava nel
medioevo due famiglie di strumenti: una lyra classica, di tradizione greco-romana, che su sua
imitazione diede vita a uno strumento di diverse dimensioni e avente un numero variabile di corde
che venivano pizzicate; e un’altra famiglia in cui il principale elemento di distinzione era dato dal
fatto che le corde venivano messe in vibrazione da un arco e non dal pizzico delle dita. Questo genere
di strumento, non presente nell’antichità classica, darà poi vita, mediante una serie di trasformazioni
e modifiche, a molti moderni strumenti ad arco185.

A conferma del suo uso anche senza arco (e quindi a pizzico), «oltre che alla sua variabilità nel
numero delle sue corde (da una a cinque, o anche sei divise in tre ordini) e alla varietà delle sue fogge,

182
Cfr. i commenti ad locum di Chiavacci Leonardi, Bosco e Reggio e Pasquini Quaglio (DDP).
183
Cfr. il commento ad locum di Francesco da Buti (DDP).
184
Amilcare A. Iannucci, Musica e ordine nella Divina Commedia in Studi Americani su Dante, Milano, Franco Angeli
Libri s.r.l., 1989, pp. 87-111, p. 93.
185
Raffaello Monterosso, Lira in Enciclopedia dantesca online.
44
pure tutte ricondotte a un modello di base», riporta Barassi che una miniatura della seconda metà del
XII secolo, presente all’interno dell’Hortus deliciarum della badessa Herrade di Landsberg conserva
uno strumento monocordo sprovvisto di arco definito come lyra, mentre un altro identico, ma ad arco
e con lo stesso nome fa parte di un manoscritto del XIII secolo custodito nella biblioteca abbaziale di
St. -Blasien186. Curt Sachs, nel suo lavoro sulla storia degli strumenti musicali, conclude che le lire
«erano pizzicate prima del 1000 d.C., dopodiché esse venivano sonate con l’arco. Le corde venivano
smorzate o pizzicate da dietro con la mano sinistra distesa, alla maniera antica, fino all’ VIII secolo.
Lo strumento era impugnato nella parte superiore fino al XIII secolo; con inizio del XII secolo e
continuando fino ai nostri giorni la mano sinistra tasta le corde raggiungendole da dietro attraverso lo
strumento»187. Stando a quanto affermato da Sachs dunque, la «destra del ciel» andrebbe intesa in
senso generico per mano divina e non per mano destra. Nonostante questa linea di confine, comunque,
all’inizio del canto XV, come osserva Monterosso, «sembra fuor di dubbio il riferimento a una lira
concepita secondo le strutture classiche, le cui corde la destra del cielo allenta e tira: espressione
adatta a qualunque strumento a pizzico e che, oltre tutto, riprende, senza soluzione di continuità
estetica, il fascino sonoro del dolce tintinno udito alla fine del canto precedente»188. Malgrado, però,
questa valida e interessante interpretazione di Monterosso, si può anche intendere, come già detto,
che la «destra del cielo» che allenta e tira le sue corde, ricordi l’operazione di accordatura dei
cordofoni (“accordati al suo volere”), pertanto non è da escludere l’ipotesi che la lira in questione sia
ad arco.
La lira, a differenza della giga e dell’arpa, non è un hapax nel poema, ma si ripresenta nel canto
XXIII. Dopo aver attraversato i cieli dei sette pianeti, Dante giunge nel cielo delle Stelle fisse. Qui
egli vede apparirgli Cristo circondato dal trionfo dei beati, la sua vista, che non riusciva a sostenere
lo sguardo, viene sopraffatta e rafforzata dalla luce. Il viaggiatore è ora in grado di sostenere il sorriso
di Beatrice e su suo invito volge lo sguardo ai beati, a Maria, «la rosa in che ‘l verbo divino / carne si
fece …» (vv.73-74) e agli apostoli presenti, «li gigli/ al cui odor si prese il buon cammino» (vv.74-
75)189. Così Dante ammira la luce più intensa della Vergine e mentre ha gli occhi fissi in essa «per
entro il cielo scese una facella,/ formata in cerchio a guisa di corona,/ e cinsela e girossi intorno ad
ella». La fiaccola, cioè la luce infuocata che cinge Maria e ruota attorno ad essa è stata riconosciuta
come l’arcangelo Gabriele, colui che scese sulla Terra ad annunciarle la maternità190.

186
Elena Ferrari Barassi, Strumenti derivati dal monocordo in Strumenti musicali e testimonianze teoriche nel Medio
Evo, Cremona, Fondazione Claudio Monteverdi, 1979, p.35.
187
Curt Sachs, Storia degli Strumenti Musicali, cit., p. 312.
188
Raffaello Monterosso, Lira in Enciclopedia dantesca online.
189
Giuseppe Ledda, Leggere la Commedia, cit., p.48.
190
Cfr. i commenti ad locum di Chiavacci Leonardi, Bosco e Reggio e Pasquini Quaglio (DDP).
45
Qui il poeta inserisce la similitudine che concerne la seconda e ultima ricorrenza nel poema del
cordofono:

Qualunque melodia più dolce suona


qua giù e più a sé l'anima tira,
parrebbe nube che squarciata tona,
comparata al sonar di quella lira
onde si coronava il bel zaffiro
del quale il ciel più chiaro s'inzaffira.
(Pd. XXIII, vv. 97-102)

Dunque qualsiasi melodia terrena, seppur dolcissima al punto da attirare a sé l’anima dell’uditore per
la sua bellezza, sembrerebbe un fragore di tuono se paragonata al «sonar di quella lira» che cingeva
Maria e ornava il cielo più fulgidamente di ogni altra, come una gemma preziosa. Come in altri luoghi
della cantica, osserva Chiavacci Leonardi, «non c'è cosa terrena che possa reggere il confronto con
queste luci o musiche celesti»191. Monterosso osserva che l’immagine ancor più sfumata della
precedente, non consente un preciso riferimento organologico, ma lascia pensare che il riferimento
sia sempre alla lira classica greco-romana «per la nobiltà derivante dallo strumento dalla sua stessa
antichità di sangue e dall'eleganza delle sue forme esteriori», rispetto alla più recente lira medievale
che sembra essere caratterizzata da una costruzione più rozza, legata alla tradizione giullaresca. Ad
ogni modo, in entrambe le occorrenze dello strumento, esso è ricordato per motivazioni
esclusivamente estetico-acustiche e non «per circoscrivere la rappresentazione a elementi
organologici di materiale esattezza ed evidenza». L’arcangelo Gabriele sarebbe dunque designato
come una lyra per la positiva considerazione acustica ed estetica che caratterizzava questo strumento
così come i cordofoni in genere. La sua presenza insieme alla dolcezza e alla bellezza del suono da
essa emessa, il «sonar di quella lira» ornava così questo cielo come una gemma preziosa. Si può
concludere dunque che, con parole di Monterosso, «l'immaterialità e insieme la vastità della visione
poetica sono tali, che ogni tentativo di dare una spiegazione filologicamente esatta del termine rischia
di rimpicciolire l'afflato dell'ispirazione e di non chiarire affatto quanto è già così limpido per virtù
propria»192.

191
Cfr. il commento ad locum di Chiavacci Leonardi (DDP).
192
Raffaello Monterosso, Lira in Enciclopedia dantesca online.
46
III.3 La “dolce armonia da organo” (Pd. XVII)

L’incontro con Cacciaguida, il padre del bisnonno di Dante, vissuto nel XII secolo a Firenze e morto
in Terra santa durante la seconda crociata dopo essere stato nominato cavaliere dall’imperatore
Corrado III di Svevia, abbraccia tre canti: inizia con il XV e si chiude con il XVII. In questo canto
che conclude la trilogia, Beatrice invita Dante a chiedere chiarimenti al suo anziano parente riguardo
le profezie di sventura che ha udito durante il suo viaggio. Cacciaguida conferma l’esilio che dovrà
subire e le conseguenti sofferenze, ma annuncia anche la generosa ospitalità che riceverà dagli
Scaligeri di Verona (Alberto e Cangrande). Conclude il suo discorso, dopo aver chiarito i dubbi del
nipote, ribadendo l’investitura profetica e indicando alcuni tra i più autorevoli beati di questo cielo193.
Prima che il discorso di Cacciaguida circa il destino di Dante abbia inizio, egli inserisce, però, una
sorta di preludio in cui ribadisce come la prescienza divina non annulli il libero arbitrio: la
contingenza non prende condizione di necessità proprio come il movimento di una nave, che scende
lungo la corrente di un fiume (impetuoso secondo Petrocchi, che al posto di corrente legge torrente),
non è determinato dall’occhio di chi la guarda (vv.37-42)194. Così prosegue Cacciaguida:

Da indi, sì come viene ad orecchia


dolce armonia da organo, mi viene
a vista il tempo che ti s'apparecchia.
(Pd. XVII, vv.43-45)

Cioè dal cospetto eterno, dalla mente di Dio, arriva alla mia vista la tua vita futura così come una
«dolce armonia da organo» giunge alle orecchie di chi la ascolta. Troviamo qui la seconda occorrenza
del termine organo con un’accezione musicale nel poema, sempre inserito in una similitudine; già
nel capitolo precedente, a proposito del «cantar con organi» paragonato al dolce suono proveniente
dall’interno della porta purgatoriale (Pg. IX, v. 144), si ha avuto modo di constatare il problema
terminologico che ruota attorno a questa parola: essa può riferirsi alla pratica corale polifonica
denominata organum o all’omonimo strumento musicale. Si possono subito notare delle differenze
sostanziali con il rispettivo passo della cantica precedente, come già osservato da Ciabattoni: la prima
che salta all’occhio è che il termine organo qui ricorre al singolare rispetto al plurale del «cantar con
organi», la seconda è che la risposta di Cacciaguida giunge alle orecchie di Dante «per chiare parole
e con preciso latin» (vv. 34-35) a differenza della vaghezza del canto udito dalla porta purgatoriale

193
Giuseppe Ledda, Leggere la Commedia, cit., pp.46-47.
194
Cfr. i commenti ad locum di Chiavacci Leonardi, Bosco e Reggio e Pasquini Quaglio (DDP).
47
(«ch’or sì or no s’intendon le parole», v. 145)195. Cacciaguida si esprime con un linguaggio preciso,
senza l’ambiguità che caratterizzava le profezie degli antichi oracoli. Già nel capitolo precedente
abbiamo osservato che nella trattatistica medievale così come in altre fonti (tra cui quelle già citate
dell’Anonimo IV o l’abate inglese Aelredo di Rieavulx), salvo rare eccezioni, il termine al plurale
indica lo strumento musicale, mentre al singolare si riferisce la pratica polifonica delle voci. Lo
ricorda anche Monterosso nel commentare il passo dell’Anonimo IV: «solo eccezionalmente
organum può designare l'instrumentum organorum, poiché abitualmente esso indica invece strutture
varie di polifonia vocale» e successivamente, a conclusione del suo discorso aggiunge che la presenza
del lemma armonia «rende maggiormente plausibile l'immagine di una ben dosata compagine sonora
quale può essere più facilmente evocata dalla polivocalità corale che non da quella strumentale»196.
A questa osservazione bisogna aggiungere quella di Drusi, il quale, ricordando il lavoro di Leo Spitzer
sulla evoluzione semantica del termine, afferma che «leggere nella Commedia “armonia” o “sinfonia”
e ricondurli quasi automaticamente alla sfera della accordalità significa applicare categorie musicali
per noi ma non per i contemporanei di Dante». Infatti «nella teoria musicale più diffusa – quella di
ascendenza pitagorico-boeziana – i termini avevano accezione monodica, indicando la consecutività
di intervalli consonanti». I trattati che riportano le prime descrizioni di organa a più voci, a questo
proposito, introducono il termine concordantia 197. D’altro canto già Monterosso aveva osservato che
il termine, che ricorre nel poema solamente tre volte, assume «significato prevalentemente generico
ed è in sostanza sinonimo di musica» e aggiunge che «è lecito pertanto avanzare la supposizione che
Dante, usando il termine, intendesse indicare la commessura, il reciproco rapporto e la stretta
interdipendenza che legano insieme tutti gli elementi di cui la musica è composta»198.
Successivamente Drusi evidenzia come Dante non presenti mai un equivalente volgare per i termini
indicanti i generi polifonici del tempo (conductus, clausula, ecc), così come i suoi contemporanei. In
questo senso risulterebbe dunque un’eccezione la presenza di organo inteso come un volgarizzamento
di organum199.
Non sarebbe certo la prima presenza della polifonia corale nella cantica: una prima esplicita allusione
all’organum si legge già nel canto VIII, in cui, (così intendono il passo la maggior parte dei
commentatori) Dante paragona, in una bellissima similitudine, il movimento delle anime dei beati
prima al moto delle faville nelle fiamme e poi a quello delle voci in un organum200:

195
Francesco Ciabattoni, Il dolce ruggito del tuono: per un’interpretazione di Purgatorio IX 144 e Paradiso XVII 44 in
Dante e l’arte 2, 2015, pp. 80-83, p. 80.
196
Raffaele Monterosso, Organo in Enciclopedia dantesca online.
197
Riccardo Drusi, Musica polifonica nella Commedia: indizi storici e miti storiografici in L’Alighieri. Rassegna
dantesca (42, Nuova serie, luglio- dicembre 2013, anno LIII), Ravenna, Longo Editore s.n.c., 2014, pp. 5- 58, p. 32.
198
Raffaele Monterosso, Armonia in Enciclopedia dantesca online.
199
Riccardo Drusi, Musica polifonica nella Commedia: indizi storici e miti storiografici, cit., pp. 47-48.
200
Cfr. i commenti ad locum di Chiavacci Leonardi, Bosco e Reggio e Fallani (DDP).
48
E come in fiamma favilla si vede,
e come in voce voce si discerne,
quand’una è ferma e l’altra va e riede,
vid’io in essa luce e altre lucerne
muoversi in giro più e men correnti,
al modo, credo, di lor viste interne.
(Pd. VIII, vv. 16- 21)

Già Drusi aveva osservato che «l’evidenza polifonica del passo […] è tale che potrebbe agevolmente
sopportare la funzione di parametro valutativo per altre occorrenze sospette o dubbie. L’indubitabilità
del significato anche in caso di estrapolazione dal contesto e, per esempio, elemento da non trascurare,
perché mette nero su bianco una precisa modalità descrittiva e ne permette così l’eventuale riscontro
con altre parti del testo»201. Dante sembra chiaramente alludere, come osservato da Pirrotta, ai
primitivi organa del maestro Leonino (derivanti forse dalle «sue reminiscenze parigine»), in cui si
distinguevano una vox principalis che teneva note lunghe molto ampie a sostegno della vox organalis,
la quale, invece, fioriva su di essa dei motivi melismatici202. Ancor prima troviamo una chiara
testimonianza della pratica polifonica nel Paradiso terrestre, in cui il poeta afferma che lo stormire
delle foglie sosteneva il canto degli uccelli come un bordone, vale a dire come un accompagnamento
alla melodia principale tramite l’emissione di suoni continui e solitamente gravi:

non però dal loro esser dritto sparte


tanto, che li augelletti per le cime
lasciasser d'operare ogne lor arte;
ma con piena letizia l'ore prime,
cantando, ricevieno intra le foglie
che tenevan bordone a le sue rime,
(Pg. XXVIII, vv. 13-18)

Dunque anche qui vi è un esplicito riferimento al cantus firmus, in cui il canto degli ‘augelletti’
rappresenterebbe la voce superiore, ovvero la vox organalis che è solita snodarsi in lunghi melismi,
mentre lo stormire delle foglie è la voce inferiore (tenor o vox principalis), la quale invece, come già

201
Riccardo Drusi, ibidem, cit., p. 45.
202
Nino Pirrotta, Dante “musicus”: goticismo, scolasticismo e musica in Musica tra Medioevo e Rinascimento, Torino,
G. Einaudi, 1984, pp. 20-36, p. 34.
49
detto, è solita tenere note a lungo203. Proseguendo su questa linea si potrebbe ricordare il già citato
canto X del Paradiso, («muoversi e render voce a voce in tempra», v.146) sebbene il verso sia meno
esplicito e di conseguenza maggiormente discusso, ma tali ricorrenze sono già sufficienti a
testimoniare con assoluta certezza la presenza della pratica dell’organum nella Commedia, così che
non desti meraviglia l’interpretazione, già proposta dai critici moderni, della «dolce armonia da
organo» e in modo tale che non venga considerata come una presenza polifonica d’eccezione
all’interno del poema. Contrariamente a quanto affermato sin ora, l’esegesi antica, senza porsi alcun
problema interpretativo, riferisce la voce «organo» unanimemente all’ambito strumentale. Jacopo
della Lana scrive: «Cioè sì come dello instrumento sonabile viene per l'aiere, che è conforme mezzo,
alla orecchia il suono, così alla mia vista, dice messer Cacciaguida, viene da Dio lo tempo tuo futuro,
sì ch'io veggio chiaro ogni tua predestinazione»204, così anche Benvenuto da Imola non lascia dubbi
che il riferimento sia allo strumento musicale: «Sicut enim auris humana recipit dulcem sonum ab
organo bene temperato, ita intellectus beatus videt dulciter eventum futurorum in illo organo
temperatissimo, a quo emanat harmonia per diversas fistulas organales, scilicet novem ordines
angelorum»205 e allo stesso modo commenta Francesco da Buti: «cioè come viene a l'orecchio la
dolce sonorità dell'organo o d'altro istrumento musico, che viene rappresentato per l'aire, mezzo nel
quale tale suono si crea, così mi viene; cioè a me Cacciaguida»206. Drusi osserva come, tramite la
consultazione dei commenti antichi (riferendosi in particolar modo al commento di Jacopo della
Lana), riemerga un elemento non presente nel testo dantesco e perso con il tempo tra i commentari:
l’aria che veicola i suoni, «indispensabile per stabilire un tramite tra l’umana capacità intellettiva di
Cacciaguida e l’onniscienza divina». Interpreta il passo scrivendo che «il suono che si propaga nel
mezzo a ciò predisposto è dunque immagine di nozioni che risiedono nella mente di Dio e che di lì
emanano, nello spazio come nel tempo, allo stesso modo in cui ogni melodia emana dalla struttura
ben compaginata, cioè armoniosa, dello strumento musicale che già la racchiudeva in potenza»207.
In altre parole: la «dolce armonia» che risiede potenzialmente in un organo, è l’immagine di
informazioni che risiedono nella mente di Dio e che giungono dinanzi agli occhi di Cacciaguida
tramite l’aria che veicola i suoni.
Il paragone della dolcezza dell’armonia dell’organo accostata all’amarezza degli eventi che si
prospettano a Dante («il tempo che ti s’apparecchia») è parso come contradditorio ed ha suscitato non

203
Per maggiori informazioni sulla pratica polifonica vedi Enrico Fubini, Evoluzione e rinnovamento del canto liturgico
tra la fine del primo e l’inizio del secondo millennio in Storia della musica, Torino, Einaudi editore S.p.A., 1999, pp.
36-42, p. 39.
204
Cfr. il commento ad locum di Jacopo della Lana (DDP).
205
Cfr. il commento ad locum di Benvenuto da Imola (DDP).
206
Cfr. il commento ad locum di Francesco da Buti (DDP).
207
Riccardo Drusi, Musica polifonica nella Commedia: indizi storici e miti storiografici in L’Alighieri. Rassegna
dantesca (42, Nuova serie, luglio- dicembre 2013, anno LIII), Ravenna, Longo Editore s.n.c., 2014, pp. 5- 58, p. 50.
50
poche perplessità tra i commentatori. Secondo Bosco e Reggio si tratta di una semplice immagine
musicale, per cui i due termini non devono per forza coincidere in tutto208, invece Chiavacci Leonardi
vi scorge un significato più profondo: «nella eterna mente divina ogni fatto contingente di una umana
vicenda non esiste per sé solo, ma nell'intero svolgersi e compiersi di quella vita e della storia. Così
la dolorosa vita di Dante è vista da Cacciaguida sullo sfondo dell'alta missione profetica e della futura
gloria che a lui è riservata, come la fine del canto dichiarerà», per cui la dolcezza che inserisce Dante
nel passo prende senso in quanto vista dal poeta nella sua storia con lo stesso sguardo di Dio 209.
D’altro canto anche Drusi osserva che con l’impiego di organo nel passo di Cacciaguida, Dante
«avrebbe implicato alla simultaneità delle parti polifoniche il senso della compresenza nell’intelletto
di Dio dei futuri contingenti e della armonizzazione di essi, ancorché contrastanti, entro un disegno
organico e universale»210.

Ciabattoni ha sostenuto che la polifonia nella Commedia riveste una sorta di investitura simbolica,
allegorica e che anche in questo passo il suo inserimento non è una scelta casuale, ma al contrario
esso vuole sottolineare la solennità della profezia di Cacciaguida e del futuro esilio e riscatto di Dante,
sulla base di proprietà intrinseche alla pratica polifonica stessa, ovvero la capacità di «temperare
dissonanze e consonanze in uno sviluppo sia diacronico che sincronico» che le conferirebbe, pertanto,
la funzione di «temperare il dolce con l’amaro della storia». Questo inserimento è spiegato dal sottile
collegamento esistente tra la musica e la profezia, che ha lunga tradizione nei testi sacri, poiché
quest’ultima è spesso eseguita in forma di canto o accompagnata da uno strumento musicale, in modo
da conferirle maggiore forza. In questo senso, spiega Ciabattoni, «la voce umana dell’organum
evocato da Cacciaguida, accentua il carattere trascendentale della profezia, distingue la parola della
semplice comunicazione linguistica dal “verbo” (Pd. XVIII 3) profetico, portatore di verità future: la
musica, dunque, invera la profezia, conferendo all’atto verbale il tono di sacralità divinatrice»211.
Contro questo simbolismo polifonico si batte invece Drusi, il quale proprio riferendosi al lavoro di
Ciabattoni afferma che «le poche evidenze incontestabili entro il dettato dantesco si richiamano ad
aspetti generici, verrebbe da dire puramente sensibili, del canto polifonico, e che proprio per questo
assolvono egregiamente alle proprie funzioni retoriche», pertanto «la destinazione retorica cui Dante
la adibisce sembra costituire anche il limite entro il quale e consentita la speculazione sul ruolo della
polifonia stessa nella Commedia: scendere al di sotto di questo livello comporta l’impiego di

208
Cfr. il commento ad locum di Bosco e Reggio (DDP).
209
Cfr. il commento ad locum di Chiavacci Leonardi (DDP).
210
Riccardo Drusi, Musica polifonica nella Commedia: indizi storici e miti storiografici, cit., p. 48.
211
Francesco Ciabattoni, Il dolce ruggito del tuono: per un’interpretazione di Purgatorio IX 144 e Paradiso XVII 44 in
Dante e l’arte 2, 2015, pp. 80-83, p. 84.
51
strumentazioni arbitrarie la cui scarsa adeguatezza espone al rischio di deviazioni significative
rispetto alle direzioni che si riteneva di imboccare» 212.

Per concludere, stando a quanto ho riportato, anche qui come in Purgatorio IX, risulta quasi
impossibile dare una certa interpretazione dell’organo; come già detto, è significativo che i
commentatori antichi riconoscano nel verso, senza porsi problemi d’interpretazione, lo strumento
musicale e la sua contestabilità solamente sulla base della “regola” della demarcazione fra singolare
e plurale nel plurilessema non è sufficiente, poiché, come osservato da Drusi, essa non ha validità
assoluta, infatti molti polifonisti la derogano. Eppure una lettura del verso come un’altra delle già
citate più o meno esplicite allusioni alla pratica polifonica vocale conserva fascino e verosimiglianza,
ancor di più dopo la tesi avanzata di Ciabattoni, di cui si è già detto sopra, per quanto sia stata
contestata da Drusi, il quale giudica il lavoro nel suo complesso fuorviante sulla questione affrontata
«per la parvenza di obiettività che gli deriva dalla sua ricchezza bibliografica e dalla già ricordata
solidità del corredo musicologico»213.

III.4 Flailli, cetra e sampogna: gli strumenti musicali del canto XX

Il canto XX del Paradiso è il secondo canto del cielo di Giove, il cielo degli spiriti giusti ed è in
perfetta unità narrativa con il precedente. Nel canto XIX infatti, i beati, dopo aver composto in volo
le prime parole del libro biblico della Sapienza (“Diligite iustitiam qui iudicatis terram”), si erano
disposti in volo a formare la figura di un’aquila che affronta i dubbi di Dante circa la giustizia divina,
ribadendo la sua incomprensibilità per le menti umane e conferma al pellegrino che per la salvezza è
necessaria la fede in Cristo. Non è sufficiente però una fede superficiale e a dimostrazione di ciò,
elenca una serie di malvagi regnanti cristiani e le loro rispettive colpe 214. La sequenza iniziale del
canto XX, osserva Chiavacci Leonardi, è dominata da una «musicale armonia», che poi si ripresenta
nella chiusa «dove ritroveremo il suonatore di cetra che accorda il suo suono alla voce del cantore»215.
Infatti appena l’aquila smette di parlare («nel benedetto rostro fu tacente», v. 9), i beati che la
compongono, aumentando il loro splendore, «cominciaron canti / da mia memoria labili e caduci»
(vv. 11-12). Sul cominciare di questi canti “destinati a cadere”, a sparire dalla memoria del
viaggiatore, egli apostrofa:

212
Riccardo Drusi, Musica polifonica nella Commedia: indizi storici e miti storiografici in L’Alighieri. Rassegna
dantesca, cit., pp. 5- 58, pp. 50-1.
213
Riccardo Drusi, ibidem, cit., pp. 5- 58, pp. 56-57.
214
Giuseppe Ledda, Leggere la Commedia, cit., p. 47.
215
Cfr. il commento ad locum di Chiavacci Leonardi (DDP).
52
O dolce amor che di riso t'ammanti,
quanto parevi ardente in que' flailli,
ch'avieno spirto sol di pensier santi!
(Pd. XX, vv. 13-15)

Il dolce amore di carità delle anime beate verso Dio, che si ammanta, cioè si fa manto di luce, in
quanto essa è l’espressione della letizia dei beati, «quasi traduzione di ciò che nel volto umano è il
sorriso», scrivono Bosco e Reggio216, sembrar pieno di ardore «in que’ flailli», cioè in quegli spiriti
beati. Troviamo qui uno dei punti filologicamente più problematici della Commedia, infatti la già
difficile interpretazione della metafora e resa ancora più ardua dal fatto che il lemma consiste in un
hàpax legòmenon, come osservano Bosco e Reggio, «non solo dantesco, ma in senso assoluto»217.
Alcuni manoscritti riportano «flavilli», «favilli» o «frailli», e così lo intendono anche molti
commentatori. Come già detto, la parola non ha nessun altro riscontro in testi della letteratura italiana
e, oltre al problema delle diverse lezioni tramandate, non si ha conoscenza certa neppure della sua
etimologia. Il Codice Cassinese è il primo a ricondurre l’origine della parola nel verbo flagrare, cioè
“ardere”, “risplendere”: «vocando illos beatos ioviales 'flaillos', idest 'ardentes et ignitos splendores',
ita dictos a 'flagro, flagras', quod idem est quod 'ardeo' est»218. Lo stesso significato attribuiscono alla
parola le Chiose ambrosiane, che riportano: «quasi flavillis idest resplendentibus»219. Antonino
Pagliaro per primo, e poi altri commentatori come Torraca, sebbene attribuiscano lo stesso significato
al termine, cioè traducono «flailli» come “anime luminose, splendori”, fanno derivare la parola dal
francese antico flael, attraverso flacilla < flaca < flacula, e quindi traducono come “facelle”, fiaccole.
Torraca, infatti, commenta che «tutto il contesto mostra che Dante intende parlare non del canto de'
beati – del quale non ricorda niente con precisione – bensì dello – splendore»220.
Scartazzini propone la lezione «failli», dal francese antico faille (cioè fiaccole), specificando che si
tratta solamente di una sua congettura poiché non è presente nei codici221. Alcuni invece propongono
come etimologia, la derivazione dal latino flăvus, cioè “dorato”, dunque le anime dei beati sarebbero
splendenti di luce dorata. In ogni caso, le proposte riportate si riferiscono ad una qualità visiva degli
spiriti, che appaiono appunto splendenti di luce, luminosi. Una proposta avanzata da Blanc,
riprendendo Benvenuto da Imola, e condivisa poi da Ernesto Parodi spiega invece che «flailli» è
etimologicamente analogo al francese medievale flavel/flavelle (flautino), termine che indica appunto

216
Cfr. il commento ad locum di Bosco e Reggio (DDP).
217
Ibidem.
218
Cfr. il commento ad locum del Codice Cassinese (DDP).
219
Cfr. il commento ad locum delle Chiose Ambrosiane (DDP).
220
Cfr. il commento ad locum di Francesco Torraca (DDP).
221
Cfr. il commento ad locum di G.A. Scartazzini (DDP).
53
dei piccoli flauti, a sua volta proveniente dal latino flare che significa “spirare”; gli spiriti giusti
sarebbero paragonati dunque a degli strumenti celesti per essere rappresentati come delle anime
cantanti. Secondo Parodi la forma «flailli» invece di flaelli si spiega «con una mutazione, tipo “rima
siciliana”, che ne cambia la -e- tonica in -i-»222, inoltre ribatte all’osservazione di Torraca affermando
che «Non serve dire che Dante non ricorda nulla di ciò che ha udito: non ricorda i particolari, ma
bensì […] che era tutto un grido d’amor divino», e aggiunge che il periodo poetico sarebbe ben
frazionato se dopo aver annunciato il tema dei “canti”, ritornasse sugli splendori e poi nuovamente
agli «squilli»223. Già Benvenuto da Imola, difatti, aveva individuato nei favilli il riferimento alle voci
dei beati, senza attribuire al termine alcuna etimologia: «in vocibus canoris illorum spirituum»224.
Questa proposta interpretativa è divenuta poi la più condivisa (tra i sostenitori oltre Parodi: Del
Lungo, Porena, Sapegno, Giacalone, Chiavacci Leonardi, Singleton e altri).
Salvatore Frascino accetta l’idea dei flauti, ma con una diversa l’etimologia: secondo lo studioso la
parola deriverebbe dal latino flabellum, un diminutivo di flabrum (da flare, soffiare). Carsaniga
osserva la stranezza del ricondurre flabellum all’idea di uno strumento a fiato, poiché com’è noto, «il
flabello era una specie di ventaglio fatto con penne di pavone», che oltre ad avere la funzione, come
riporta Marziale, di allontanare le mosche dalla tavola, svolgeva un analogo uso liturgico, ovvero
allontanare le tentazioni del male. Pertanto secondo Carsaniga è plausibile pensare che l’Aquila agiti
le ali come «flailli» (flabelli), la cui funzione era, per l’appunto, quella di «simboleggiare
l’allontanamento delle tentazioni e dei pensieri peccaminosi e diabolici durante la messa225.
Interessante l’osservazione di Persico, il quale afferma che «tra le modalità di comunicazione adottate
dalle anime del Paradiso, risulta anche l’atto dello “spirare”», e ricorda226:

Mentr’io dubbiava per lo viso spento


de la fulgida fiamma che lo spense
uscì uno spiro che mi fece attento
dicendo: «Intanto che tu ti risense
de la vista che hai in me consunta
ben è che ragionando la compense.

222
Giovanni Carsaniga, «FLAILLI» in Dal Medioevo al Petrarca, Firenze, Leo S. Olschki editore, 1983, pp. 305- 313,
p. 307.
223
Ernesto Giacomo Parodi, Note alla “Divina Commedia” in Lingua e Letteratura: Studi di teoria linguistica e di
storia dell’italiano antico, Venezia, Neri Pozza Editore, 1957, p. 394.
224
Cfr. il commento ad locum di Benvenuto da Imola (DDP).
225
Giovanni Carsaniga, «FLAILLI» in Dal Medioevo al Petrarca, Firenze, Leo S. Olschki editore, 1983, pp. 305- 313,
pp. 307-309.
226
Thomas Persico, Il «cantus» come dimensione performativa. Musica per poesia al tempo di Dante. in «Modulatio» e
«Cantus»: actio poetica e ars musica in Dante Alighieri. Rassegna bibliografica e studio lessicografico, Dottorato di
ricerca in teoria e analisi del testo, Bergamo, Università degli studi di Bergamo, 2016, pp. 360-1.
54
(Pd. XXVI, vv. 1-6)

Il lemma, che ricorre ben sei volte nel poema ad indicare sempre la duplice natura visiva e uditiva
delle anime, ha una connotazione più prettamente musicale nel canto XXV, dove il «suon del trino
spiro», spiega Persico, «accoglie, all’interno dei suoi referenti la voce, il canto e la parola, ma anche
la stessa conformazione delle anime che producono quella sonorità celestiale»227:

A questa voce l’infiammato giro


si quïetò con esso il dolce mischio
che si facea nel suon del trino spiro
(Pd. XXV, vv. 130-132)

Proseguendo con la lettura del canto XX, notiamo che le terzine successive possono contribuire
all’interpretazione complessiva del passo:

Poscia che i cari e lucidi lapilli


ond' io vidi ingemmato il sesto lume
puoser silenzio a li angelici squilli,
udir mi parve un mormorar di fiume
che scende chiaro giù di pietra in pietra,
mostrando l'ubertà del suo cacume.
(Pd. XX, vv. 16-21)

Nei versi che seguono leggiamo infatti che non appena le anime dei beati posero silenzio ai loro canti,
a Dante personaggio parve di udire un mormorio di acque correnti limpide che scendono di sasso in
sasso, mostrando l’abbondanza della sorgente che si trova sulla cima del monte («l’ubertà del suo
cacume»). Come osserva Chiavacci Leonardi, «la voce celeste assomigliata ad acque correnti è
immagine biblica»228. Le anime dei beati vengono chiamate «cari e lucidi lapilli», ovvero pietre
preziose e splendenti, le quali con la loro presenza ornano il sesto cielo. Detto ciò, credo che, qualora
i «flailli» venissero tradotti come un diretto riferimento alla lucentezza, allo splendore dei beati,
questo secondo rimando alla loro qualità visiva risulterebbe ridondante. Bisogna infatti tenere a mente
che, sebbene il termine «flailli» sia riferito alla qualità sonora delle anime beate, Dante scrive che la

227
Thomas Persico, Ibidem, cit., p. 361.
228
Cfr. il commento ad locum di Chiavacci Leonardi (DDP).
55
loro letizia («il dolce amor») appariva «ardente», cioè splendente, brillante in essi: in altre parole
indicando le anime con la loro qualità sonora, Dante-protagonista resta estasiato nella sua percezione
visiva di esse. La metafora dei «flailli» rientrerebbe, pertanto, nel campo della sinestesia, il fenomeno
della percezione, per cui nel verso sono associati due elementi riferiti a sfere sensoriali differenti, ma
che contribuiscono alla rappresentazione di un’unica immagine poetica. Inoltre il verso seguente è
un’ulteriore conferma del fatto che gli spiriti del «sesto lume» stessero eseguendo dei canti; risulta
per questo motivo forse inadeguata l’osservazione del Torraca riguardo i canti dei quali, afferma il
commentatore, il pellegrino «non ricorda niente con precisione». Infatti per «labili e caduci» deve
intendersi, come già detto, che sono destinati a sparire dalla memoria, ma che nel momento del
racconto il viaggiatore ricorda bene, al punto che, nelle terzine che seguono il verso in questione,
intende riferirsi ad essi.
Riguardo la diffusione del flauto nel medioevo, Sachs afferma che quest’epoca «possedette due generi
di flauti; il poeta e compositore francese del ‘300, Guillaume de Machaut, li chiama “flaustes
traversaines” e “flaustes dont droit joues quant tu flaustes”, ossia: “flauti traversi e flauti che tu tieni
dritti quando suoni”». Inoltre afferma il cammino di questo strumento dall’Impero Bizantino verso
Occidente «è individuato da un sonatore di questo strumento inciso su un acquamanile del 1100
circa», conservato a Budapest nel Museo Nazionale229. Reese, invece, riporta che il troviero Colin
Muset, in un suo poemetto, menziona un piffero chiamato “flajolet”, descritto come «un piccolo
flauto, non trasversale, con l’imboccatura a forma di grande fischio. Era di suono alquanto acuto, al
pari di altri flauti a fischio figuranti sotto il nome di pifferi, “flaustes” e “flausteles”»230, già citati da
Sachs. Questo “flajolet” è molto probabilmente il “flagioletto” di cui parla Favilli: «Abbiamo ancora
negli organi più vecchi il registro Flagioletto, che era un antico flauto a becco specie del nostro piffero
volgare dei ragazzi», inoltre aggiunge che «la radicale fla oltre essere comune ai termini flauto,
flagioletto o flaillo, è anche la radicale che dà l’idea di soffiare in un tubo o in una canna di legno o
di metallo»231. Per quanto riguarda le presenze iconografiche dello strumento, abbiamo solamente
due testimonianze in epoca medievale: la prima nell’Hortus deliciarium dell’abbadessa del monastero
di Hohenburg (XII sec.) in cui, in un’allegoria delle tentazioni, il flauto alluderebbe secondo Howard
Mayer Brown alla vanagloria, e un’altra raffigurazione sempre del sec. XII nel salterio di Wiblingen,
dove compaiono due flautisti accanto a re David232.

229
Curt Sachs, Storia degli Strumenti Musicali, cit., p. 337.
230
Gustav Reese, L’apogeo dell’”organum” e del discanto in Europa nei secoli XII e XIII in La musica nel Medioevo,
Firenze, Sansoni editore, 1960, p. 400.
231
Enrico Favilli, Compendio di storia della musica (Appendice: Dante e la musica nella Divina Commedia), Piacenza,
Carlo Tarantola editore, 1924, pp. 233-261, p. 257.
232
Gianni Lazzari, Il flauto medievale in Il flauto traverso: storia, tecnica, acustica, Torino, EDT, 2003, pp. 3- 13, pp.
6-7.
56
Proseguendo con la lettura del canto, nelle terzine che seguono leggiamo una similitudine che riporta
ben due immagini musicali:

E come suono al collo de la cetra


prende sua forma, e sì com' al pertugio
de la sampogna vento che penètra,
così, rimosso d'aspettare indugio,
quel mormorar de l'aguglia salissi
su per lo collo, come fosse bugio.
(Pd. XX, vv. 22-27)

Parafrasando: come il suono prende forma al collo della cetra (cioè scrive Favilli: «al manico dove il
suonatore preme le dita»233), e così come l’aria soffiata dal suonatore, che penetra all’interno della
zampogna, prende forma in prossimità del foro (alcuni, come Bosco e Reggio, Favilli e Giacalone,
intendono i fori di diteggiatura, altri come Chiavacci Leonardi vi leggono il foro d’uscita della canna,
più correttamente detto chanter, che si collega all’otre di pelle che alimenta lo strumento), così senza
indugio, quel mormorio di acque salì attraverso il collo dell’aquila come se esso fosse “bucato”, cioè
cavo. Qui Dante utilizza due similitudini, più che musicali, «di fisica del suono», come osservano
Bosco e Reggio234; il poeta infatti dimostra di conoscere alcune basi di acustica musicale. Come
riporta Monterosso, la cetra della similitudine dantesca non ha nulla a che vedere con la cetra
dell’antichità classica, ma mostra piuttosto notevoli affinità con la chitarra; è costituita da una «tavola
armonica e da un fondo, tenuti insieme dalle consuete fasce. Sulla tavola si appoggia il manico, sopra
cui è stesa la tastiera, munita di sbarrette per la delimitazione dei tasti»235. Una descrizione con cui
concorda l’esegesi antica, ad esempio l’Ottimo commenta: «come il suono prende forma e distinzione
di tuono e semituono, acuto o grave, al collo di quello strumento che con le dita si suona, siccome è
cetera, chitarra, o leuto»236. Si tratta, più precisamente di uno strumento chiamato anche “citola”, una
variante della viella medievale, che invece di essere suonato con l’arco, veniva pizzicato237, Reese la
descrive come «uno strumento a forma di pera, con quattro corde metalliche e con nervature»238.
Anche Emanuel Winternitz afferma che «cetra sta qui a significare la citola, non la cetra dell’antichità
(anch’essa chiamata cetra ai tempi di Dante), poiché il “collo” è descritto come il luogo dove il suono
“prende sua forma”, la parte cioè dove le corde vengono premute». Aggiunge poi, a rimarcare la già

233
Enrico Favilli, ibidem, cit., p. 258.
234
Cfr. il commento ad locum di Bosco e Reggio (DDP).
235
Raffaello Monterosso, Cetra in Enciclopedia dantesca online.
236
Cfr. il commento ad locum dell’Ottimo commento (DDP).
237
Raffaello Monterosso, Cetra in Enciclopedia dantesca online.
238
Gustav Reese, L’apogeo dell’”organum” e del discanto in Europa nei secoli XII e XIII in La musica nel Medioevo,
Firenze, Sansoni editore, 1960, p. 399.
57
denunciata confusione che affligge i nomi degli strumenti musicali, «che spesso lo stesso strumento
ha diversi nomi, e spesso un solo nome indica strumenti differenti. Già il vocabolario medioevale ha:
kithra, citola, cistôle, sitole, cuitole, sytole, cycolae; mentre più tardi troviamo: gittern, getern, kitaire,
quitare, guiterne, guitarra»239. Bonaventura fornisce un’interessante osservazione: afferma che Dante
conobbe probabilmente le caratteristiche di strumenti come la cetra e il liuto frequentando la bottega
del suo amico Belacqua, il pigro uomo incontrato nel canto IV della cantica del Purgatorio il quale,
riporta Bonaventura, fu «fabbricante e suonatore di cetre»240. Il medesimo strumento ritorna, inoltre,
sul finir del canto, in un’altra bellissima similitudine:

E come a buon cantor buon citarista


fa seguitar lo guizzo de la corda,
in che più di piacer lo canto acquista,
sì, mentre ch'e' parlò, sì mi ricorda
ch'io vidi le due luci benedette,
pur come batter d'occhi si concorda,
con le parole mover le fiammette.
(Pd. XX, vv. 142-148)

La similitudine chiama in causa questa volta il suo suonatore: come un buon citarista accompagna
(«fa seguitar»), con le vibrazioni prodotte dalle corde del suo strumento («lo guizzo della corda»), la
voce di un buon cantore, in modo tale che il canto stesso acquista maggior piacevolezza, così, per
tutto il tempo che parlò l’Aquila, il pellegrino ricorda di aver visto due luci beate muoversi («muover
le fiammette», cioè il loro stesso splendore) in perfetta concordanza con le parole dell’Aquila, proprio
come è simultaneo un battito delle ciglia241. Si può osservare come il poeta, per rendere chiara nella
mente del lettore la perfetta concordanza del movimento delle luci da lui viste (nella finzione
narrativa, s’intende) adoperi in una doppia similitudine un procedimento sinestetico: infatti nella
prima similitudine, il termine di paragone abbraccia la sfera sensoriale uditiva (la perfetta intesa tra
musico e cantore in una esecuzione musicale), nel secondo il riferimento è invece ad un fenomeno
percepito visivamente (la simultaneità perfetta del battito delle ciglia). Come ha osservato Guido
Salvetti nel suo studio sulla musica in Dante, il passo testimonia l’uso dell’abbinamento voce-
strumento, egli afferma inoltre che si tratta di una testimonianza a favore «di chi insiste sul carattere
improvvisatorio di quel canto, e sulla tradizione orale dello stesso, quindi essenzialmente libera. Per

239
Emanuel Winternitz, La sopravvivenza dell’antica cetra e l’evoluzione della citola in Gli strumenti musicali e il loro
simbolismo nell’arte occidentale, Torino, Editore Bollati Boringhieri, 1982, pp.250-1.
240
Arnoldo Bonaventura, Dante e la musica, Livorno, R. Giusti Editore, 1904, cit., p. 233.
241
Cfr. i commenti ad locum di Bosco e Reggio e Chiavacci Leonardi (DDP).
58
cui la parte strumentale, ove ci fosse, veniva liberamente “cercata” secondo una abilità
improvvisatoria di cui ci dà testimonianza quotidiana, anche nei nostri giorni, la musica popolare»242.
Riporta Gallo che: «Solo chi ha con la musica un rapporto puramente intellettuale, diceva Boezio, è
musicus, trae cioè la propria denominazione dal nome della disciplina; chi invece ha con la musica
un rapporto materiale, il citharedus, il tibicen, trae la propria denominazione dagli strumenti che
adopera»243. Per essere nominato “citarista” bisogna dunque avere un rapporto materiale con lo
strumento, nel senso che bisogna suonarlo, adoperarlo, infatti è lo stesso Dante a chiarire la questione:
da una ricerca sul portale TLIO, si può leggere che il poeta, a proposito del citarista, scrive nel
Convivio che «non si dee chiamar citarista chi tiene la cetera in casa per prestarla per prezzo, e non
per usarla per suonare»244, e poco più avanti, come riporta Mariani, aggiunge che «lo malo citarista
biasima la cetera, credendo dare la colpa […] del mal sonare […] a la cetera, e levarla a sé» 245. Il
Convivio dantesco fornisce dunque una descrizione del «malo citarista», nel canto XX si riferisce
invece al «buon citarista», visto come un accompagnatore del canto che deve prestare attenzione a
far vibrare le corde in armonia con le note prodotte dalla voce del cantore. Fallani ricordando come
questo sia un canto pieno di immagini musicali, scrive che «il mistero della predestinazione,
formulato per esempi, è come avvolto, per tutto il canto, da riferimenti alla melodia e alla luce»246.

Per quanto riguarda il secondo strumento citato, la «sampogna», la stragrande maggioranza dei
commentatori legge nella parola lo strumento ad otre di diffusione popolare, cioè un aerofono in cui
le canne sono alimentate attraverso una riserva d’aria (sacco)247; una identificazione, a mio parere, da
non dare troppo per scontato: Febo Guizzi e Roberto Leydi infatti, nel loro lavoro sulle zampogne in
Italia ricordano che «va tenuto presente che assai spesso (e ancora oggi) in qualche scritto il termine
zampogna/sampogna è usato per indicare non già l’aerofono a sacco, ma il flauto di Pan e anche certi
strumenti effimeri, fatti con stelo di grano o di avena»248. Il flauto di Pan, detto appunto sampogna o
siringa, ha anch’esso un’origine agreste antichissima e un uso pastorale e popolare. Riporta Moretti
che è Ovidio ad informarci, nelle sue favole mitologiche, che «Pan, nume tutelare della vita agreste,
invaghito della ninfa Siringa, la inseguì per i campi: quando la raggiunse, però, la trovò già mutata in
un cespo di canne palustri, gementi all’alitar del vento. Pan le recise e ne formò lo strumento a cui
diede il nome della ninfa, perché ne riproduceva il caratteristico lamento». La siringa aveva sette

242
Guido Salvetti, La musica in Dante in Rivista italiana di musicologia, nº6 (1971), Firenze, Leo S. Olschki editore,
1972, p. 165.
243
F. Alberto Gallo, Il compositore di professione in La polifonia nel medioevo, Torino, E.D.T., 1991, pp. 87-92, p. 87.
244
Dante, Convivio (a cura di Franca Brambilla Ageno), Firenze, Le Lettere (Società Dantesca italiana. Edizione
Nazionale), 1995, 3 tomi (testo: t. III), pp. 1-456, p. 38.
245
Andrea Mariani, Citarista in Enciclopedia dantesca online.
246
Cfr. il commento ad locum di Giovanni Fallani (DDP).
247
Roberto Leydi, La zampogna in Europa, Como, tipografia editrice Cesare Nani, 1979, p. 9.
248
Febo Guizzi e Roberto Leydi, Le zampogne in Italia, Milano, Ricordi, 1985, p.17.
59
canne di varia lunghezza allineate rigidamente tra loro per mezzo del mastice o della cera; facendo
scorrere il labbro inferiore su di esse, si otteneva con una sola emissione di fiato un’ampia gamma di
suoni249. Lo stesso Dante lo ricorda negli ultimi canti del Purgatorio, paragonando il suo
addormentarsi al canto del dolcissimo inno al mito amoroso di Pan e Siringa, il quale, cantato da
Mercurio ad Argo dai cento occhi, fece addormentare quest’ultimo, così che Mercurio poté ucciderlo
e sottrargli Io, la ninfa amata da Giove250:

Io non lo 'ntesi, né qui non si canta


l'inno che quella gente allor cantaro,
né la nota soffersi tutta quanta.
S'io potessi ritrar come assonnaro
li occhi spietati udendo di Siringa,
li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro;
(Pg. XXXII, vv. 61-66)

Anche alcuni commentatori leggono nella similitudine del canto XX la sampogna di Pan piuttosto
che lo strumento ad otre, ad esempio Bennassuti, (a differenza di altri commentatori che, dando per
scontato l’identificazione strumentale, lasciano l’interpretazione ambigua) chiosa esplicitamente: «Il
mormorare lo prese dal fiume ubertoso, la voce dal collo della cetra, la parola dal pertugio della
sampogna o flauto, dove avviene l'ultima differenza della voce, e il pertugio della sampogna,
corrisponde al becco dell'aquila»251. È bene ricordare, come notiamo dal commento riportato che, pur
intendendo lo strumento come l’antico flauto ancora diffuso nell’età medievale, l’interpretazione del
passo resta la stessa, per il suo «pertugio» si intenderà infatti il foro d’uscita della canna in cui è stata
insufflata l’aria. Proprio come questa insufflazione d’aria nella sampogna diventa suono, così il
mormorio dell’Aquila che, scrive Bonaventura, «è pure il concetto dell’aquila romana destinata a
dominare il mondo», si converte in voce e in viva parola252.

249
Corrado Moretti, Definizione di Organo in L’Organo Italiano: profilo storico, analisi tecnica ed estetica dello
strumento, sintesi delle sue sonorità a servizio della liturgia cattolica, Cuneo, S.A.S.T.E., 1955, pp. 4-5.
250
Clara Kraus, Siringa in Enciclopedia dantesca online.
251
Cfr. il commento ad locum di Luigi Bennassuti (DDP).
252
Arnoldo Bonaventura, Dante e la musica, Livorno, R. Giusti Editore, 1904, pp. 257- 258.
60
Conclusioni

Giunto al termine dell’analisi proposta, dopo aver discusso l’interpretazione dei vari passi e le
possibili motivazioni avanzate circa la presenza degli strumenti musicali in essi, dopo aver almeno
tentato di trarre già delle conclusioni alla fine dei rispettivi paragrafi, mi sembra opportuno fare una
ricapitolazione di ciò che di più interessante è emerso dai luoghi della Commedia che sono stati
oggetto di questo studio. Innanzitutto credo di poter concludere che gli strumenti musicali, nelle
similitudini in particolar modo ma anche nelle metafore, acquisiscono un valore funzionale: hanno
sempre lo scopo di fornire un’immagine più nitida della scena vista all’interno della narrazione del
poema, talvolta ricorrendo anche a rappresentazioni sinestetiche: ne è un esempio la complessa
metafora dei «flailli», oltre alla similitudine del citarista, (in cui però è riportato lo strumentista e non
lo strumento). Alle volte probabilmente la citazione strumentale nasconde dei significati più profondi:
mi riferisco all’episodio di maestro Adamo dove, secondo un’interessante e condivisibile
interpretazione avanzata da Iannucci, il falsario rappresenterebbe la parodia del liuto davidico,
immagine cristologica e il suo inserimento nel luogo della bolgia servirebbe a creare l’effetto-sorpresa
nel momento in cui la comparazione del dannato al tamburo stravolge la sua figura e mostra la sua
vera natura di peccatore. Come già detto, l’interpretazione è convincente in quanto spiegherebbe
l’anomala presenza di un cordofono nella cantica infernale piuttosto che accanto all’arpa, alla giga,
alla cetra o alla lira nel Paradiso. Inoltre la presenza del tamburo andava giustamente spiegata non
soltanto con motivazioni legate alla reputazione del membranofono, ma anche con la considerazione
terminologica del suo lemma di provenienza: da tympanum aveva infatti dato il nome ad una forma
di idropisia detta tympanite. La similitudine del ventre dell’idrope al tamburo sta ad indicare dunque,
non una semplice burla, ma una notazione tecnico-medica. L’unico strumento in tutto il poema che
Dante-personaggio sente suonare davvero è il corno di Nembrot, un’idea nata dalla designazione
biblica del gigante nella Genesi come “robustus venator”. Il corno del gigante, riferimento al corno
davidico dei salmi, potrebbe acquisire nella sua collocazione infernale, il valore simbolico di massima
manifestazione fragorosa e disarmonica della “musica diaboli”. Inoltre paragonando il terribile suono
del corno a quello prodotto dall’olifante di Orlando che annuncia la sconfitta di Carlo Magno, il poeta
introduce un tema, poi dominante in Cocito: l’idea della distruzione della comunità cristiana.

Alle volte nel poema la citazione strumentale assolve solamente alla sua funzione retorica e narrativa
(si pensi alle “mille tube” del Purgatorio XVII o la “pompeana tuba” di Paradiso VI). L’occorrenza
“strumentale” del poema più discussa dai critici è probabilmente la duplice presenza del termine
“organo” / “organi” (Pg. IX e Pd. XVII); un lemma che comporta non poche difficoltà interpretative,
ampiamente esposte nelle pagine precedenti. Ad oggi, salvo possibili nuove scoperte storico-
61
musicologiche, sembra impossibile fuoriuscire dall’ingorgo interpretativo creatosi, fermo tra una
possibile lettura strumentale del termine e una lettura indicante la pratica corale polifonica detta
organum. In particolar modo, per quanto riguarda il passo purgatoriale del “cantar con organi”,
l’unica interpretazione che si può escludere con sicurezza è l’ipotesi che si tratti di un canto
accompagnato dallo strumento musicale dell’organo, in quanto era d’uso nel Medioevo interludiare
tra le voci e non accompagnarle.

Prendendo in considerazione la divisione strumentale compiuta da Boezio, certamente ben nota a


Dante, notiamo un netto predominio dei tensibilia (strumenti a corde) nell’ultima cantica, mentre i
percussionalia (strumenti a percussione) sono presenti solamente nella cantica infernale; ciò si spiega
facilmente prestando attenzione alla considerazione sociale di cui godevano questi strumenti: i
tamburi e le percussioni in genere non beneficiavano di buona stima, in quanto erano associati alla
musica popolare e, ancor peggio, erano ritenuti una manifestazione della musica diaboli. I cordofoni,
invece, potevano vantare una buona reputazione per la dolcezza del loro suono e per un’altra serie di
motivazioni legate all’aspetto estetico dello strumento e anche dell’esecuzione, ad esempio la postura
del suonatore. Non a caso infatti l’arcangelo Gabriele viene designato come una lyra (come spiegato
nel rispettivo paragrafo, probabilmente classica e non medievale) e lo stesso Dio, nella sua
rappresentazione di Musicus supremo, è descritto come un citaredo che tende e allenta, secondo la
sua volontà, le «sante corde» del cielo: una possibile riformulazione cristiana dell’immagine di
derivazione platonica del Mondo-Lira.

Un’altra necessaria considerazione verte sulla terminologia musicale, la quale risente dell’attenta
scelta linguistico-lessicale compiuta da Dante nelle diverse cantiche; si è potuto notare infatti come
il termine strumentale volgare “tromba” compaia solamente nella cantica infernale, per ben due volte
su tre occorrenze ad indicare la tromba dell’Apocalisse decisa a suonare la sentenza che la «nemica
potesta» emanerà per tutti i peccatori, mentre è preferito il lemma più aulico di tuba nelle altre due
cantiche, in relazione all’innalzamento della qualità dell’argomento trattato dal poeta. Lo stesso
discorso vale per la presenza della trombetta di Barbariccia indicante il peto emesso come segnale di
partenza per la marcia a parodiare la milizia terrena e celeste, un linguaggio comico e volgare
perfettamente consono alla cantica infernale. A lungo si è discusso anche del complesso passo dei
«flailli», un problema questa volta specificatamente filologico, in quanto si tratta di un hapax
legòmenon in senso assoluto. Tra le possibili interpretazioni esposte io credo che quella avanzata da
Blanc e ripresa da Parodi sia la più plausibile, poiché traducendo il lemma come “piccoli flauti”, la
metafora designa gli spiriti beati in relazione alla loro qualità sonora: il canto, che però rende le anime
più «ardenti» d’amore, per cui il verso indicherebbe una rappresentazione sinestetica delle anime
cantanti. Infatti risulterebbe forse eccessivo un ulteriore diretto riferimento alla qualità visiva poiché

62
questa verrà espressa anche successivamente, nel chiamarli «cari e lucidi lapilli». In tal modo invece
il periodo appare ben frazionato poiché dopo il tema dei “canti”, torna sugli splendori e poi
nuovamente agli «angelici squilli». Inoltre, a conferire maggiore plausibilità all’interpretazione
strumentale del lemma, si è potuto notare in un confronto con altri luoghi del poema che l’atto dello
spirare (appunto flare > flael/ flavelle) risulta presente per ben sei volte nel poema ad indicare la
natura visiva e uditiva delle anime del Paradiso.

Per concludere riporto anche qui in conclusione due osservazioni riguardo gli ultimi due strumenti
trattati: la cetra e la sampogna, inserite in una similitudine che dimostra perfettamente le conoscenze
acustico-organologiche possedute dal poeta. Sul primo strumento, bisogna precisare che non
s’intende la cetra dell’antichità classica, simile all’arpa, ma si tratta della citola, un cordofono di
origine medievale. Infatti per il «collo de la cetra» s’intenderà il manico e di conseguenza il punto su
di esso in cui il suono «prende sua forma» sarà il luogo in cui le dita esercitano la pressione sulle
corde. Infine sulla sampogna, mi limito ad osservare che il termine indicava anche il flauto di Pan e
non solamente lo strumento ad otre, per cui credo bisogni almeno prendere in considerazione l’idea
che potrebbe trattarsi del flauto citato. Entrambi gli strumenti infatti godono di un’umile origine
agreste e un uso pastorale antichissimo, ed entrambi sono costituiti da canne in cui viene insufflata
l’aria. Si può concludere, dunque, che anche il flauto ben si addice all’immagine descritta da Dante e
non cambia l’interpretazione del passo, per «pertugio» si dovrà intendere il foro d’uscita della canna.
L’unico commentatore che legge nella sampogna il flauto e lo scrive esplicitamente nel suo
commento è Bennassuti, mentre una buona parte di commentatori, non specificando l’identificazione
strumentale, lasciano l’interpretazione vaga.

A questo punto, credo sia superfluo ribadire il ruolo fondamentale che la musica riveste all’interno
della Commedia; mi limiterò a riaffermare che la sua indispensabile funzione si manifesta pure
attraverso il puntuale uso di strumenti musicali nelle figure retoriche, che oltre a precisare l’immagine
fornita dalla narrazione, contribuiscono ad arricchire i passi di ulteriori significati.

63
Bibliografia

Opere di Dante

Il testo delle opere di Dante è citato secondo le seguenti edizioni:

La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di Giorgio Petrocchi, Firenze, Le Lettere, 19942.

Convivio, a cura di Francesca Brambilla Ageno, Firenze, Le Lettere, 1995.

Commenti alla Commedia

Tutti i commenti citati sono tratti dal database Dante Dartmouth Project (DDP), consultabile online
all’indirizzo https://dante.dartmouth.edu/.

Altre fonti online

Alcune informazioni sono prese dal dizionario storico dell’italiano antico: il Tesoro della lingua
Italiana delle Origini, consultabile all’indirizzo http://tlio.ovi.cnr.it/TLIO/.
Le citazioni bibliche sono prese dalla Nuova Riveduta online, consultabile al sito
https://www.bibleserver.com/start/NRS.
Altre informazioni sono prese dalle voci dei rispettivi strumenti musicali nell’Enciclopedia dantesca
online.

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