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Studi / 10

Questa pubblicazione è stata sottoposta a peer review anonimo.


La documentazione relativa è disponibile presso l’editore
a cura di
MARIACRISTINA CAVECCHI
MARGARET ROSE

CARYL CHURCHILL
UN TEATRO NECESSARIO
Proprietà letteraria riservata Caryl Churchill. Un teatro necessario /
© 2012 ed.it, Firenze a cura di Mariacristina Cavecchi e
Via Lorenzo Viani, 74 Margaret Rose. -
50142 Firenze - Italy Firenze : ed.it, 2012. -
www.editpress.it 252 p. ; 21 cm
info@editpress.it ( Studi ; 10. )
Prima edizione: febbraio 2012 ISBN 978-88-89726-98-3
Printed in Italy ISBN eBook 978-88-97826-00-2
Permalink formato digitale:
<digital.casalini.it/9788897826002>

Progetto grafico: ed.it Questo libro viene pubblicato con il


In copertina: © Federica Anchieri contributo del Dipartimento di Scienze
del Linguaggio e Letterature Straniere
Comparate dell’Università degli Studi di
Milano.

L’Editore si dichiara disponibile ad


assolvere i propri impegni per quanto
riguarda eventuali pendenze relative
al materiale pubblicato.
Indice

7 Prefazione, di Laura Caretti


13 Un caffè con Caryl Churchill, di Margaret Rose
17 Sulle tracce di Caryl Churchill, di Mariacristina Cavecchi

Parte Prima. Sguardi critici

23 I Puritani ci hanno insegnato a mettere il mondo sotto-


sopra? Lettura di Light Shining in Buckinghamshire,
di Marialuisa Bignami

35 Top Girls e il collage postmoderno, di Anna Anzi

45 Amati fantasmi: la papessa Giovanna e altri role models del-


la rivolta, di Luca Scarlini

49 Serious Money e il Big Bang nella City, di Margaret Rose

65 Arte e politica nel calligramma disfatto di This is a Chair,


di Mariacristina Cavecchi

77 «This is not a war»: le neoguerre nel teatro di Caryl


Churchill, di Sara Soncini

101 Strategie di sovversione: ricorrenze tematiche e innovazio-


ne formale, di Paola Bono
Parte seconda. In scena

119 Teatro i chiama Caryl Churchill, di Federica Fracassi,


Francesca Garolla, Renzo Martinelli

131 Il teatro di Churchill. Un alfabeto, di Marco Ghelardi

143 Bambine d’Israele, di Francesco Randazzo

151 Abbastanza sbronzo da dire ti amo?, di Carlo Cecchi

153 Tradurre Light Shining in Buckinghamshire: il linguaggio del


cambiamento sociale, di Salvatore Cabras

Parte terza. Conversazioni

165 Mark Ravenhill. Caryl Churchill ci ha spinto a fare meglio

171 Marina Bianchi. Top Girls: amazzoni all’assalto del teatro

181 Marina Spreafico. Churchill surreale e assurda

189 Massimiliano Farau dirige Far Away

205 Valter Malosti. A Number: clonazione e autenticità

215 Annig Raimondi. Nelle nebbie della guerra

225 Caryl Churchill. Una breve biografia

227 Bibliografia
235 Indice dei nomi
241 Autori
Prefazione
di Laura Caretti

If you find someone who also likes her work,


you know you have a special connection.
(Wallace Shawn, 2008)

Quando più di vent’anni fa curai la prima edizione italiana del Tea-


tro di Caryl Churchill, che comprendeva Top Girls e Cloud Nine, era-
vamo davvero pochi in Italia a condividere l’ammirazione per que-
sta eccezionale drammaturga. Con Maggie Rose eravamo da tem-
po consapevoli della sua paradossale esclusione dai nostri palcosce-
nici, pronti ad accogliere altre esperienze del teatro inglese contem-
poraneo, ma sordi nei confronti della sua voce del tutto insolita e
poco addomesticabile. Con quel primo libro pensavamo di contri-
buire a farla conoscere, creando anche le premesse per la messin-
scena delle sue intrepide “visioni politiche e personali”, che svela-
vano l’infelicità del nostro mondo malato d’angoscia, percorso da
endemici conflitti, ma anche da slanci utopici di cambiamento.
Ci stupiva la sua capacità di penetrare a fondo nelle pieghe del
tessuto connettivo dei rapporti familiari, amorosi, professionali, po-
litici... con lo sguardo magnificante di un potente microscopio, sen-
za tuttavia perdere quel coinvolgimento empatico che dà verità uma-
na ai suoi personaggi. E poi c’era la fascinazione di un processo crea-
tivo che percorreva, nel suo caso, i due estremi della scrittura so-
litaria e della collaborazione aperta con compagnie come Monstrous
Regiment e Joint Stock, fondate su una comunanza di obiettivi, mez-
zi e talenti.
La partecipazione a questo nuovo lavoro di ensemble aveva mo-
dificato radicalmente la sua drammaturgia, l’aveva addestrata a una
scrittura duttile, pronta a ideare forme sempre diverse, adatte ad
accogliere i germi d’invenzione, nati nel “vivaio” dei laboratori, dal-
la sinergia di letture, discussioni, idee registiche e improvvisazio-
ni degli attori. Un metodo “enjoyable” oltre che stimolante, che
8 Caryl Churchill. Un teatro necessario

le aveva insegnato a “vedere” le parole in scena e l’aveva spinta a


sperimentare altri linguaggi, dalla musica alla danza. Scritti e riscrit-
ti in fasi successive, su progetti scelti ed elaborati collegialmente,
in stretto contatto con la compagnia e soprattutto col regista Max
Stafford Clark, erano stati composti alcuni dei suoi testi più ori-
ginali come Light Shining in Buckinghamshire (1976), Cloud Nine (1979)
e Serious Money (1982), che ci apparivano dotati di un’energia tra-
volgente che col tempo non si è perduta, ma che in Italia nessu-
no ha (ancora) raccolto.
Oggi possiamo infatti dire che quel riconoscimento della forza in-
novativa della sua scrittura che avevamo auspicato non c’è stato o me-
glio è stato soltanto sporadico. E tanto più meritano spazio, visibi-
lità e memoria le compagnie che hanno sfidato il silenzio e condivi-
so con il pubblico la scelta controcorrente di alcuni testi. Così si fa
in questo libro che raccoglie, dopo la sezione degli sguardi critici, le
testimonianze, le idee, le riflessioni, insomma il “punto di vista tea-
trale” di questi pionieri. Prima fra tutti la regista Marina Bianchi con
la sua Top Girls del 1988, bravissima nel concertare la polifonia del-
l’intreccio di storie diverse di donne, sospese nel tempo e nello spa-
zio, intorno a uno stesso grande tavolo-palcoscenico. Dopo questo
inizio, che aveva subito attratto l’attenzione della critica sulla sorpren-
dente commistione di linguaggi e di stili nella partitura scenica del-
la Churchill, un vuoto di dieci anni, fino alla versione italiana di A
Mouthful of Birds (tradotto purtroppo con un titolo di fantasia volu-
to dal produttore: A piedi nudi sotto le stelle!). A dirigerlo, nel 1998, è
Marina Spreafico, affascinata da questo incubo di efferata quotidia-
nità e dalla possibilità che offre di cogliere e rendere visibile quell’at-
timo terrificante, in cui improvvisamente si annulla il fragile confi-
ne tra normalità e follia, razionalità e possessione. Poco dopo, la ri-
troviamo impegnata a mostrare il cambiamento intervenuto nel lin-
guaggio sperimentale, addirittura autodistruttivo, dei due “antidram-
mi” che compongono Blue Heart resi, sul palcoscenico del teatro Ar-
senale di Milano, con una perfetta scansione di ritmi e permeati da
quell’ironia tipica della Churchill, che, come direbbe Eduardo, fa ri-
dere verde.
Prefazione 9

Cuore blu apre il nuovo secolo e anticipa l’interesse in Italia per


le opere più recenti di Caryl Churchill, per quei suoi drammi fat-
ti di scene tronche, apparentemente sconnesse, tessute da un filo
sottilissimo di battute che rompono il silenzio dominante e river-
berano lampi di luce su un mondo sempre più buio e distopico.
Le voci che sentiamo sono ora come sospese, impedite e rese fram-
mentarie. “Dire o non dire?” è diventato un dilemma che spezza
il dialogo, mette la sordina alle parole e occulta l’orrore che non
si vuol vedere o far conoscere. Così in Far Away (tradotto e mes-
so in scena da Massimiliano Farau); così in A Number (diretto da
Valter Malosti); e così in Seven Jewish Children (presentato in un dou-
ble bill con Far Away dalla regista Annig Raimondi), un testo che
ha suscitato accese discussioni in Inghilterra e un pretestuoso at-
tacco alle posizioni politiche della Churchill, dimostrando quan-
ta forza di verità ci sia nei suoi drammi.
Queste scelte dicono molto sulla nostra attuale sintonia con que-
sta fase più cupa della sua drammaturgia, che fa emergere come sem-
pre, da situazioni di fittizia normalità, paure e incubi che è impos-
sibile tenere lontani (“far away”, appunto) perché hanno invaso la
mente, il cuore e il linguaggio dei personaggi, protetti da schermi
di ipocrisia o di indifferenza, fragili nei loro desideri d’affetto e di
fuga, incapaci di capire la ragione del proprio male di vivere.
In questo panorama delle proposte teatrali degli ultimi anni, a
cui si aggiunge ora la messinscena di Carlo Cecchi di Drunk Enough
to Say I Love You?, spicca il progetto “Teatro i chiama il Royal Court”.
Promosso dall’infaticabile Maggie Rose e dall’Università di Mila-
no insieme a Teatro i, l’eccezionale incontro ha offerto, nel gen-
naio del 2009, l’occasione non solo di assistere, ma di discutere con
artisti, giornalisti e studiosi italiani e inglesi tre diversi drammi di
Churchill. Da Londra, Mark Ravenhill ha portato la sua “lettura
scenica” di Light Shining in Buckinghamshire, la regista Lyndsey Tur-
ner quella di A Number, mentre la compagnia del Teatro i, diretta
da Renzo Martinelli, ha contribuito con una dinamica mise-en-espa-
ce di Top Girls che ha saputo – merito anche delle bravissime in-
terpreti – dare voce alla “nostra” contemporaneità.
10 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Si è trattato di una rassegna che ha mostrato come le opere di


Churchill, così profondamente radicate negli anni in cui sono sta-
te scritte, siano tuttavia capaci di viaggiare nel tempo e arrivare “nuo-
ve” e con la stessa capacità di colpire nel segno fino a noi e a quan-
ti ancora non le conoscono. E questo non solo in Italia. Anche a
Londra sono stati in molti a scoprire quei testi che il Royal Court
Theatre ha deciso di “rileggere”, festeggiando così, nel 2008, i set-
tant’anni della scrittrice tanto che Michael Billington, recensendo
Light Shining in Buckinghamshire, non a caso sottolinea che è “too lit-
tle known”. A guardar bene, poco è stato messo in scena nei gran-
di teatri come il National Theatre, che per soli dieci giorni ha alle-
stito nel 2009 un testo breve degli anni ottanta, Three Sleepless Nights,
e lasciato il pubblico ad augurarsi di poter vedere altri “not so well-
known Churchill Shorts” (Michael Coveney, “The Independent”,
4 Agosto 2009). Insomma, come dice Wallace Shawn, anche quan-
do l’ammirazione per il suo teatro è grande, a condividerla è tutta-
via una stretta cerchia di persone, partecipi di una stessa visione del
mondo e unite da una “special connection”.
Ecco, questo libro, che guarda al teatro di Caryl Churchill da
una molteplicità di punti di vista, con sguardi e riflettori simulta-
neamente attenti alla pagina e alla scena, è scritto appunto da un
gruppo legato da una “special connection”, e vuole essere anche
un invito a partecipare a questa comunità speciale e ad allargarne
la cerchia.
Caryl Churchill. Un teatro necessario
1. Margaret Rose, Federica Fracassi, Antonio Calbi (Direttore del Settore Spettacolo del Comune di Milano)
presso Teatro i di Milano (28 gennaio 2009). © Federica Anchieri (2009).
Un caffè con Caryl Churchill
di Margaret Rose

Era il 1987. Dentro il Royal Court Theatre di Londra stavano pro-


vando Serious Money e in una pausa caffè ho conosciuto Caryl Chur-
chill. Ero già appassionata del suo lavoro; l’anno prima, nel me-
desimo teatro, mi aveva profondamente impressionato l’allestimen-
to di A Mouthful of Birds. Questo rifacimento di Le Baccanti di Eu-
ripide mi è sembrato un nuovo modo di fare teatro e proprio gra-
zie a questo spettacolo, dopo anni di studio dedicati al teatro di Bec-
kett e Pinter, ho iniziato a interessarmi al teatro delle donne. Ben-
ché questa pièce fosse decisamente politica e socialmente impe-
gnata, mi colpiva il modo diverso con cui Churchill affrontava ar-
gomenti come il potere e la sua gestione, la libertà della donna e
la sua interiorità, la violenza, offrendoci nel contempo una forma
teatrale nuova in cui le categorie di spazio e tempo venivano rin-
novate in modo sorprendente.
Sedere di fianco a Caryl Churchill mi fece sentire a disagio; mi
sembrò distante e chiusa; parlava molto più volentieri con una mia
studentessa che stava lavorando alla sua tesi di laurea su Top Girls.
Scoprii in seguito che quest’autrice nutriva una certa diffidenza ver-
so gli accademici. La diffidenza è poi scomparsa nel corso degli anni,
grazie a uno scambio di cartoline, qualche telefonata e qualche al-
tra occasione d’incontro.
Proprio quel nostro primo incontro mi ha dato la spinta ne-
cessaria per promuovere in Italia un allestimento di Top Girls.
Non fu facile. Il teatro italiano non era affatto aperto alle inno-
vazioni e provocazioni di questa autrice. Sembrava un’impresa
destinata a fallire, quando invece Marina Bianchi, già assistente
regista del Teatro alla Scala, decise di mettere in scena la pièce
14 Caryl Churchill. Un teatro necessario

con il sostegno di Gianni Valle, allora direttore del Teatro di Por-


ta Romana.
Le due sezioni che abbiamo voluto dedicare in questo volume
alla produzione e alla messinscena del lavoro di Caryl Churchill in
Italia riflettono il lungo e faticoso percorso delle opere di questa
scrittrice per “trovare una casa” in Italia. Mentre Churchill è con-
siderata una drammaturga di prima grandezza in patria e in altri pae-
si europei (soprattutto in Scandinavia e in Germania), oltre che ne-
gli Stati Uniti e in Giappone, in Italia è ancora una drammaturga
di nicchia, nonostante siano trascorsi ventiquattro anni dalla prima
messinscena e ventun’anni dalla pubblicazione delle prime tradu-
zioni (Il teatro di Caryl Churchill, 1990). Ad eccezione del Teatro Sta-
bile di Torino, che ha portato in scena A Number nel 2004 per la
regia di Valter Malosti, finora la maggioranza dei teatri stabili l’ha
trascurata, evitando rischi e privilegiando i classici o al più, nel caso
di contemporanei, preferendo autori che il pubblico italiano già co-
nosce e apprezza, come Harold Pinter o Alan Ayckbourn.
Vale la pena di tracciare un profilo dei registi e attori che han-
no deciso di cimentarsi con l’opera di Churchill in Italia. Di solito
si tratta di compagnie di piccola o media dimensione, i cui registi
nutrono una vera e propria passione per la drammaturgia contem-
poranea. Sono professionisti disposti a rischiare uno scacco sul pia-
no economico (e forse anche psicologico) nella convinzione che gli
autori contemporanei possano offrici non soltanto qualcosa di di-
verso, ma anche di importante per la nostra vita di cittadini: in al-
tre parole, credono ancora che il teatro possa essere quello spec-
chio della natura di cui parla Amleto. Le voci della maggior parte
di questi artisti hanno contribuito a questo nostro volume e di que-
sto siamo loro profondamente grate. I loro tentativi di fare cono-
scere Churchill in Italia hanno spesso raggiunto risultati eccellen-
ti – penso in particolare a Top Girls di Marina Bianchi in quel lon-
tano luglio caliente del 1988 o a Blue Heart della regista Marina Sprea-
fico nel 2000 presso il Teatro Arsenale di Milano. E mi rincresce
non aver potuto vedere sulla scena Far Away (2000) di Massimilia-
no Farau (2003) o A Number di Valter Malosti (2004), entrambe pro-
Un caffè con Caryl Churchill 15

duzioni che hanno goduto di un ampio consenso di critici e spet-


tatori. Spettacoli eccellenti che non sono stati più ripresi e che sono
finiti nel dimenticatoio, tranne il caso di Top Girls nella mise en espa-
ce di Renzo Martinelli presso il Teatro i di Milano nel 2009.
Una possibile spiegazione delle stentate fortune italiane del tea-
tro di Caryl Churchill potrebbe essere lo spiccato interesse che l’au-
trice nutre per le questioni politiche e sociali osservate da un pun-
to di vista femminile, per non dire femminista. Ciò non dovreb-
be sorprendere, dato che in Italia un vero teatro delle donne non
ha mai effettivamente decollato. Le pièce di Churchill nascono in-
vece in un contesto in cui il women’s theatre è ampiamente ricono-
sciuto e praticato. Folta è infatti la schiera di drammaturghe che
condividono i valori del femminismo. Va aggiunto che queste scrit-
trici britanniche possono avvalersi del sostegno statale dell’Arts
Council. I testi di Churchill, inoltre, sono spesso costruiti con un
numero elevato di personaggi e privi di star parts e questo certo non
ne favorisce la divulgazione sul territorio italiano.
Anche la difficoltà della traduzione può essere causa della sua scar-
sa diffusione: penso in particolare a Serious Money, scritto in versi e
infarcito di termini del gergo economico-finanziario o a Light Shi-
ning in Buckinghamshire, un testo che include una gamma di registri
linguistici che vanno dal linguaggio biblico, al quotidiano, ai discor-
si politici dei Digger. Salvatore Cabras, autore della prima traduzio-
ne del testo in lingua italiana, nella seconda sezione del volume ci
mostra queste difficoltà e anche le possibili soluzioni da lui adotta-
te. A ciò si aggiunga il problema di trovare case editrici disposte a
investire nella pubblicazione. I suoi pochi testi tradotti in italiano e
pubblicati sono stati inseriti in riviste specialistiche o stampati da pic-
cole e medie case editrici come Costa & Nolan, Gremesi, Arcadia
Publishers, Sipario. In Italia si pubblica poco il teatro, perché a dif-
ferenza di quanto accade nel mondo anglofono la gente non è abi-
tuata a leggerlo e quindi non vende. D’altro canto, l’abitudine non
si affermerà finché le opere non saranno disponibili.
Vorrei però concludere con una nota positiva, ricordando l’ini-
ziativa “Teatro i chiama Royal Court” realizzata da Teatro i in col-
16 Caryl Churchill. Un teatro necessario

laborazione con la nostra cattedra di Storia del Teatro Inglese. Du-


rante questa manifestazione ho avuto la netta sensazione che Ca-
ryl Churchill avesse finalmente messo radici anche in Italia; con gli
attori del Royal Court, Diana Borger (l’allora literary manager del
Court) e l’autore Mark Ravenhill, il dibattito sul suo teatro ci ha
non solo avvinto e appassionato, ma è anche servito a farci riflet-
tere sulle istituzioni teatrali italiane. Dalle dichiarazioni e raccon-
ti degli attori è emerso che il Royal Court è stato veramente la sua
seconda casa; la scrittrice si è formata in seno a quel teatro, e lì,
negli anni successivi, con grande generosità ha sostenuto e conti-
nua a sostenere e incoraggiare le giovani generazioni. Questo non
può che farmi pensare a quanto sarebbe importante che in Italia
le politiche culturali del Governo e dei teatri seguissero l’esempio
di questa sua collaborazione con il Royal Court e si occupassero
seriamente di nutrire e sostenere i giovani autori.
Sulle tracce di Caryl Churchill
di Mariacristina Cavecchi

Sulla cresta dell’onda dagli anni sessanta, Caryl Churchill ha lascia-


to segni profondi e indelebili nel teatro britannico ed europeo, per
non dire mondiale. I festeggiamenti per i suoi settant’anni, che il
Royal Court Theatre ha celebrato nel settembre 2008 con una se-
rie di reading dei suoi testi teatrali sono stati uno straordinario even-
to culturale di risonanza internazionale.
A fronte di un successo così conclamato, sfuggono le ragioni di
una presenza infrequente per non dire rara sui palcoscenici italiani
di un’autrice che, altrove, da più di quarant’anni invita i suoi spet-
tatori ad aprire gli occhi sulla realtà che li circonda, spesso mostran-
do loro nuovi orizzonti. Un teatro necessario, il suo. Necessario, ma
anche troppo spesso ignorato o dimenticato dalle istituzioni teatra-
li e forse anche accademiche italiane, che tardano a riconoscere e pro-
muovere una voce così significativa della drammaturgia contempo-
ranea. Con le dovute eccezioni. È infatti grazie alla collaborazione
di Teatro i, un teatro piccolo ma vivacissimo nel cuore di Milano,
che insieme a Margaret Rose siamo riusciti a dedicare alcune sera-
te teatrali e una giornata di studi al teatro di Caryl Churchill, presen-
tando quest’autrice ad una città che la conosce poco e solo grazie
alle sporadiche iniziative di pochi audaci registi italiani. Sulla scia del-
l’iniziativa “Teatro i chiama Caryl Churchill” che ha avuto luogo a
Milano nel gennaio 2009, promossa da Teatro i in collaborazione
con il Royal Court Theatre di Londra e la cattedra di Storia del tea-
tro inglese dell’Università degli Studi di Milano è nato questo volu-
me, che per la prima volta offre ad un pubblico italiano un insieme
di sguardi critici oltre ad una ricognizione degli allestimenti di que-
sta autrice in Italia.
18 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Il volume si compone di tre sezioni. I vari interventi della prima se-


zione, “Sguardi critici”, mettono in luce l’innegabile necessità della
scrittura di Churchill, la sua straordinaria capacità di affrontare temi
attuali e politicamente scottanti e alcuni momenti cruciali del passa-
to in modi che continuamente si rinnovano e sempre spiazzano le
aspettative degli spettatori. Apre la sezione il saggio di Marialuisa Bi-
gnami dedicato a Light Shining in Buckinghamshire (1976). Tra i primi
testi teatrali di Churchill, a metà strada tra dramma storico e dram-
ma politico, questa rappresentazione dell’ambiente rivoluzionario pu-
ritano secentesco offre lo spunto per auspicare una liberazione del-
l’individuo che sia non solo economica ma anche sessuale e che, se-
condo l’autrice, risultava ancora incompiuta negli anni settanta del se-
colo scorso. In un testo tutto coniugato al femminile e che nuova-
mente porta al centro della scena dinamiche di relazione tra i sessi,
Anna Anzi sofferma invece l’attenzione sull’estetica visiva di Chur-
chill, non estranea a istanze postmoderne, e rilegge la prima scena
di Top Girls (1982) come un collage costituito da frammenti di sto-
rie antiche e recenti e da una sovrapposizione di voci che pare usci-
ta da un film di Robert Altman. Ai modelli femminili “della rivolta”
messi in campo dall’autrice è invece dedicato il breve intervento di
Luca Scarlini, da anni instancabile promotore nel nostro paese del
teatro britannico contemporaneo. Sotto le spoglie della spy story, Mar-
garet Rose analizza in Serious Money (1987) lo spaccato politico e so-
ciologico del mondo dell’alta finanza in seguito al “Big Bang” che ha
sconvolto la City londinese. Costruzione per “scene simultanee”, scrit-
tura in versi, nonché manipolazione dello spazio e del tempo, sono
i tratti più evidenti di una scrittura disinibita e sperimentale e saran-
no tra le costanti di tutta la sua produzione successiva. Da questo pun-
to di vista This is a Chair, che debutta al Royal Court nel 1997, è un
testo importante che coniugando surrealismo e teatro epico pone al
centro della scena una riflessione sulle modalità di rappresentazio-
ne della realtà nella società contemporanea. Un’ulteriore riprova del-
la prontezza e lucidità con cui Churchill «sa percepire il cambiamen-
to, recepirlo nella sua scrittura e dargli forma scenica» viene da Sara
Soncini. Soffermandosi sui due testi più rappresentativi del suo tea-
Sulle tracce di Caryl Churchill 19

tro di guerra, il profetico Far Away (2000) e il più recente Drunk Enough
to Say I Love You? (2006), Soncini esplora il nuovo linguaggio ideato
da Churchill per parlare delle “neoguerre” che in questi testi vengo-
no evocate. Paola Bono, infine, evidenzia alcuni elementi tematici che
ricorrono in combinatorie variabili nella sua drammaturgia: la fami-
glia e la società, la norma e la devianza, le relazioni di potere, il cor-
po e la sua significazione.

La seconda e la terza sezione, “In scena” e “Conversazioni”, rin-


tracciano la presenza di Churchill sui palcoscenici italiani e cerca-
no di mettere in luce le ragioni che l’hanno tenuta così a lungo lon-
tana dal nostro teatro – tra le altre, forse anche le difficoltà lega-
te alla traduzione dei suoi testi, come mette in luce Salvatore Ca-
bras. Alla voce del drammaturgo Mark Ravenhill, secondo cui Chur-
chill avrebbe prodotto «alcune delle icone più significative del tea-
tro britannico contemporaneo», fanno così eco quelle di quanti han-
no messo in scena i suoi testi, a partire dall’allestimento di Top Girls
di Marina Bianchi nell’estate del 1988. Un debutto difficile – un
fuori stagione nell’ambito del festival estivo “Milano d’Estate” e
in uno spazio alternativo, la Chiesa di San Carpoforo a Brera – in
un sistema teatrale che non ha trovato lo spazio ma forse nemme-
no il coraggio per inserire questo testo nella programmazione del-
la stagione ufficiale, nonostante questa pièce avesse già riscosso gran-
de successo all’estero. Un destino condiviso da altri allestimenti che
sono seguiti e che pur suscitando talvolta un coro unanime di con-
sensi, non hanno mai avuto la forza trainante di imporre quest’au-
trice nelle programmazioni dei grandi teatri italiani – anche se, a
onor del vero, nella stagione 2004/2005 il Teatro Stabile di Tori-
no ha ospitato, con esiti estremamente positivi, A Number per la
regia di Valter Malosti. Pur latitando dai grandi teatri, i testi di Chur-
chill compaiono ogni tanto sui palcoscenici di qualche teatro off,
dove forse più che altrove è importante la sperimentazione; è il caso
del Teatro Arsenale di Milano dove Marina Spreafico ha messo in
scena sia A Mouthful of Birds (1998) che Blue Heart (2000) o di Pac-
ta Arsenale dei Teatri, sempre a Milano, che ha visto Annig Rai-
20 Caryl Churchill. Un teatro necessario

mondi alla regia di Sette bambine ebree e Far Away (2010). Churchill
non manca invece nei festival teatrali. Massimiliano Farau ha pre-
sentato Far Away nell’ambito del Teatro Festival Parma del 2003
e Sette bambine ebree ha debuttato nel 2009 nell’ambito della quar-
ta edizione della rassegna romana di drammaturgia contempora-
nea “In altre parole” per la regia di Francesco Randazzo. Quest’an-
no il cartellone di “Trend - nuove frontiere della scena britanni-
ca”, la rassegna ideata dal critico teatrale Rodolfo di Giammarco
giunta alla sua decima edizione e in cui, nel 2004, ha debuttato A
Number di Malosti, includeva una mise en espace di Far Away a cura
di Andrea Baracco, nella traduzione di Massimiliano Farau. D’al-
tro canto, come ricorda Marco Ghelardi che si è cimentato nella
messa in scena di Vinegar Tom con gli studenti della scuola di re-
citazione “Giovanni Poli” presso il teatro a l’Avogaria di Venezia,
«i testi di Caryl Churchill sono una buona occasione per diffon-
dere quei valori teatrali ed estetici che restano in ombra o ai mar-
gini della nostra cultura».
E mentre sul palcoscenico londinese del Trafalgar Studios un Top
Girls diretto da Max Stafford-Clark, collaboratore storico di Chur-
chill, nei mesi scorsi ha registrato il tutto esaurito, in Italia il teatro
di Churchill è un teatro ancora per pochi, benché ci sia grande at-
tesa a Milano per il debutto al Teatro Elfo Puccini di Abbastanza sbron-
zo da dire ti amo?, una produzione del Teatro Stabile delle Marche,
per la regia di Carlo Cecchi – una prima assoluta per l’Italia.
Lentamente, stagione dopo stagione, forse qualcosa si muove.
Il nostro è allora lo sforzo di offrire un ritratto di quest’autrice stra-
ordinaria e di scrivere una prima breve storia delle rappresentazio-
ni dei suoi testi in Italia in modo da ricordare alcuni allestimenti
a cui non sempre è stata dedicata dalla critica e dalle istituzioni ade-
guata attenzione. Ci auguriamo che questo volume possa suscita-
re in registi e attori, accademici e studenti la curiosità di scoprire
o riscoprire una delle autrici indubbiamente più interessanti della
scena contemporanea e il desiderio di cimentarsi con la messa in
scena o lo studio del suo teatro.
Parte Prima. Sguardi critici
2. Reading di Light Shining in Buckinghamshire presso Teatro i di Milano (30 gennaio 2009) con Bryan Dick,
Daniel Evans, Emmas Lowndes, Justin Salinger, Matt Smith, Nina Sosanya. Regia di Mark Ravenhill. ©
Federica Anchieri (2009).
I puritani ci hanno insegnato a mettere il mondo sot-
tosopra? Lettura di L i g h t S h i n i n g i n B u c k i n g h a m s h i r e
di Marialuisa Bignami

Nel 1976 Caryl Churchill mette in scena al Traverse Theatre di


Edimburgo Light Shining in Buckinghamshire, un testo a metà stra-
da tra il dramma storico e quello politico, di cui diremo subito che
maschera il grande impegno erudito dell’argomento con la legge-
rezza di tocco nello stile che è caratteristica dell’autrice e che sa
riscattare la qualità un po’ seriosa dell’impianto culturale e ideolo-
gico per farne uno spettacolo assai stimolante e godibile: saranno
soprattutto, come vedremo, i personaggi femminili a mettere in
risalto le aporie della società e a stimolare nello spettatore un con-
sapevole sorriso.
La grande capacità scenica dell’autrice riesce qui a proporre con
successo al suo pubblico un tema assai complesso, quello che può
essere definito dei diritti degli esclusi, difficile da trattare in modo
emotivamente coinvolgente e non ideologico, anche perché è, ne-
gli anni settanta, un tema alla moda nel mondo intellettuale non
solo britannico; l’autrice arriva a dare una lezione morale ai suoi
contemporanei e connazionali attraverso l’evocazione di un mo-
mento cruciale della storia inglese, ottenendo così il necessario di-
stacco. Per rendere evidente la sofferenza degli esclusi, di ogni tem-
po ed ogni paese, ella usa infatti l’espediente di attingere al giaci-
mento di memoria nazionale del periodo storico della rivoluzio-
ne puritana del medio Seicento, con la sua tensione millenaristi-
ca. Quella memoria di cui Vita Fortunati, pur alludendo ad altri pe-
riodi della storia europea, così opportunamente scrive: «...la me-
moria diventa non solo strumento di formazione identitaria, in-
dividuale e collettiva, ma anche un metodo per decostruire que-
sti stessi processi di formazione. La rivisitazione della memoria in-
24 Caryl Churchill. Un teatro necessario

tesa come un processo e non come una fuga o cristallizzazione del


passato include una progettualità per il futuro»1.
La complessa e raffinata operazione culturale condotta dall’au-
trice si attua innanzitutto a partire dall’elaborazione di un titolo op-
portuno: Churchill prende a prestito per il suo dramma il titolo di
un libello uscito anonimo nel dicembre 1648. Si tratta di uno scrit-
to che ha origine nell’ambiente dei Leveller ed è a volte attribui-
to alla penna dell’attivista e pensatore politico Gerrard Winstan-
ley, che sarà uno dei personaggi del dramma: benché il fatto non
sia esplicitamente spiegato dall’autrice, si deduce facilmente dalla
lettura del testo che è lo stesso Winstanley la “luce” del titolo, per
il quale vorremmo proporre la traduzione italiana “Si accende una
luce nel Buckinghamshire”2, a sottolineare la qualità innovativa ed
“illuminante” del pensiero del rivoluzionario inglese, che diventa
a sua volta personaggio del dramma. La sua luce si diffonderà poi
per tutta l’opera, sino a far brillare anche i personaggi più emar-
ginati: «Light shining from us» (p. 239)3, come dice la rivoluziona-
ria Hoskins nell’ultima scena del dramma.
Quella di Churchill non è l’unica rappresentazione novecente-
sca dell’ambiente rivoluzionario secentesco, come vedremo, ma ri-
spetto alle altre evocazioni contemporanee di tale ambiente, sia sto-
riche che teatrali (non a caso tutte ad opera di scrittori maschi), Chur-
chill aggiunge al suo mondo la novità della significativa presenza
di almeno un importante personaggio femminile (Margaret Bro-
therton, accanto ad altri minori), in un effetto dirompente e con
un atteggiamento decisamente di stampo femminista, per il qua-
le essa è ben nota: a differenza di altri autori, infatti, prendendo
spunto dalle lotte secentesche, ma ampliandone la portata in modo
da dare spazio alle componenti più trascurate e al tempo stesso più
sovversive della società vuoi secentesca vuoi novecentesca, essa au-
spica esplicitamente una liberazione dell’individuo che sia non solo
economica ma anche sessuale; una liberazione che risulta all’autri-
ce ancora necessaria negli anni settanta del Novecento, nonostan-
te l’illusione della nostra comunità sociale di aver fatto grandi pas-
si avanti rispetto al Seicento. In una prospettiva di teatro politico,
Parte Prima. Sguardi critici 25

assai frequentato in quegli stessi anni settanta, i testi con cui pos-
siamo paragonare più da vicino l’opera di Churchill sono soprat-
tutto il quasi contemporaneo dramma The World Turned Upside Down
di Keith Dewhurst, messo in scena nel 19784, e la pellicola Win-
stanley di Kevin Brownlow e Andrew Mollo del 19755, i quali en-
trambi, secondo i loro diversi codici, mettono in scena episodi sto-
rici del Seicento rivoluzionario.
Vi è poi, d’altro canto, tutto il vasto ambito degli studi storici
stricto sensu, alla cui lettura la stessa autrice allude, quando, nell’In-
troduzione, ci comunica di non essersi fermata alle fonti storiche
più ovvie: «La semplice storia di “Cavalieri e teste rotonde” inse-
gnata a scuola nasconde la complessità dei fini e dei conflitti di co-
loro che si trovavano alla sinistra del Parlamento»6. Con questo ri-
ferimento assai moderno alla sinistra extraparlamentare diventa al-
lora centrale il richiamo allo studio dello storico oxoniense Chri-
stopher Hill, autore per primo di quel titolo così incisivo, The World
Turned Upside Down7, reso ancora più emblematico ed autorevole
dal richiamo biblico (Atti, 17:6). Per noi spettatori e lettori non in-
glesi, solo marginalmente coinvolti in quella svolta cruciale della
storia inglese che fu la rivoluzione puritana e non sempre piena-
mente consapevoli del suo significato nella storia europea, è mol-
to utile continuare a seguire dunque la rivelatrice Introduzione che
si manifesta come assai densa, pur nella sua brevità. Così Churchill
a proposito del momento storico: «Per un breve periodo, dopo che
il re era stato sconfitto, tutto sembrava possibile e il dramma mostra
lo stupore e l’eccitazione da parte del popolo che prendeva in mano
la propria vita». E più avanti, nella stessa Introduzione, su cui pare
opportuno fermarci ancora: «il credo anarchico a proposito della
libertà economica e sessuale fu l’ultimo disperato scoppio di sen-
timenti rivoluzionari prima della restaurazione» – e su questa at-
mosfera di ripiegamento dopo la grande esplosione creativa do-
vremo tornare a proposito dell’ultima scena. Churchill sente poi
il bisogno di mettere in risalto il contrasto tra due atteggiamenti
politici che caratterizzarono gli anni quaranta del Seicento: quel-
lo della rivoluzione “ufficiale”, nata nelle aule del Parlamento e gui-
26 Caryl Churchill. Un teatro necessario

data da Cromwell, la quale difende il principio della proprietà pri-


vata e finirà col prendere il potere, e l’altro atteggiamento, rappre-
sentato dal gesto trasgressivo di Winstanley e dei Digger (a cui non
tarderemo a capire che vanno le simpatie dell’autrice), di mettere
a coltura i terreni destinati a pascolo comune; l’autrice conclude-
rà questa parte della sua introduzione sulle sue fonti storiche con
le parole: «The last long scene of the play is a meeting of Ranters»,
cioè dell’ala estrema del mondo puritano. Torneremo su questa di-
stinzione delle due anime della rivoluzione puritana quando ana-
lizzeremo più direttamente il testo, soprattutto nella parte che ri-
guarda i Dibattiti di Putney.
Questo radicare il dramma nella realtà storica differenzia Light
Shining in Buckinghamshire da altre esperienze drammaturgiche del-
la stessa Churchill, quali quella manipolazione cronologica e com-
positiva che sta alla base di una sua opera famosa come Top Girls
e la caratterizza stilisticamente come pastiche. Dunque, per chiari-
re che siamo di fronte ad una ricostruzione storica accurata, che
è una delle caratteristiche di questo dramma, Churchill sente il bi-
sogno di dirci che «i personaggi di Claxton e Cobbe si basano alla
lontana su Lawrence Clarkson, o Claxton, e Abiezer Coppe, o Cob-
be, due Ranter»: non solo le linee generali dell’azione, ma anche i
singoli personaggi sono dunque radicati storicamente.
Molte altre indicazioni utili per capire ed apprezzare questo te-
sto possiamo ricavare dal materiale introduttivo che nel 1978 l’au-
trice ritiene necessario premettere al testo per la prima volta a stam-
pa: innanzitutto, come si è visto, come fonte di informazione per
il lettore (che lo spettatore dovrà ovviamente piuttosto ricavare dal
testo agito sulla scena) sul contesto storico; ma l’autrice ritiene an-
che di dover fare una premessa metodologica, su cui pure ci sem-
bra che valga la pena di fermarsi. Ella ci informa dunque che le par-
ti del dramma non sono recitate dagli stessi attori in ogni messa
in scena, risultando quindi, intenzionalmente, rappresentative piut-
tosto di idee che di individualità. Questo ne fa forse un dramma
politico piuttosto che un dramma storico, un dramma di idee piut-
tosto che eventi: nonostante si evochi un episodio del passato del-
Parte Prima. Sguardi critici 27

l’Inghilterra, lo scopo dell’autrice appare quello di proporre una


vicenda esemplare che abbia qualcosa da insegnare all’oggi, anzi-
ché limitarsi a riprodurre eventi passati. Inoltre, aggiunge l’autrice,
«ogni scena può essere presa come un evento separato piuttosto
che una parte di una storia», minando con ciò una dimensione che
evidentemente non le interessa, quella della narratività, dato che
«questo sembra riflettere meglio la realtà di grandi eventi, come guer-
ra e rivoluzione, nei quali molte persone condividono lo stesso tipo
di esperienza»: quello che le interessa evidentemente è porgere una
storia esemplare. Come la lettura del testo dimostrerà, le istanze
in campo sono dunque della massima portata, trascendendo i più
semplici eventi storici.
Per concludere l’esame di questa Introduzione, vogliamo met-
tere in risalto il fatto che l’autrice sente il bisogno di informarci su
un dettaglio performativo apparentemente secondario, ma in real-
tà tutt’altro che trascurabile, ben percepito dagli spettatori, ma che
il testo stampato che abbiamo davanti non potrebbe mai da solo
restituirci: «il dramma fu rappresentato con un tavolo e sei sedie,
che venivano usate al bisogno in ogni scena. Quando le sedie non
venivano usate, venivano messe da un lato o dall’altro del palcosce-
nico e gli attori che non erano in scena si sedevano di lato e osser-
vavano l’azione». Un modo di procedere da “teatro povero” all’ap-
parenza (dati gli scarsi arredi), ma in realtà una sopravvivenza spon-
tanea, non artificiosa, dei modi del teatro elisabettiano, mai dimen-
ticati nelle realizzazioni sceniche inglesi: le persone più significati-
ve tra il pubblico sono infatti sedute direttamente sul palcosceni-
co, in un dialogo privilegiato con chi agisce la storia. Non si trat-
ta, per Churchill, di una semplice didascalia o di istruzioni di sce-
na, ma di un bisogno di definire una tipologia di scrittura teatrale:
per questo parlavamo di una premessa anche metodologica.
Veniamo ora ad una lettura ravvicinata di alcune delle ventu-
no scene del testo, la sola lettura che può restituircelo in tutta la
sua efficacia drammaturgica e scenica.
Benché l’autrice inserisca nel testo ben pochi riferimenti tempo-
rali espliciti, capiamo che il dramma si svolge in un periodo di tem-
28 Caryl Churchill. Un teatro necessario

po che si colloca tra il 1647 e il 1649, cioè quando i giochi della lot-
ta rivoluzionaria sono oramai fatti ed il re esce di scena (viene de-
capitato nel gennaio 1649); a questa compatta cronologia fa ecce-
zione la breve scena finale, collocata dopo la Restaurazione. Il dram-
ma si articola in ventuno scene, ora ampie ora rapide, sostanzialmen-
te indipendenti tra di loro, ma raggruppate in due atti ed una sorta
di breve epilogo (“After”, che allude appunto agli anni dopo la Re-
staurazione del 1660). Dato che, al modo postmoderno, esse non
hanno interesse a configurare uno “sviluppo”, le scene non sono nu-
merate, ma semplicemente presentano ciascuna un titolo che ce ne
anticipa il contenuto. Il dramma offre cioè un fermo-immagine del
momento di speranza dell’Inghilterra sospesa tra monarchia e re-
pubblica, con un triste finale che ha luogo una dozzina di anni più
tardi: un intervallo di tempo quest’ultimo che non viene presenta-
to sulla scena da Churchill, che evidentemente non ha interesse a que-
sti anni che potremmo chiamare di “normalizzazione” della rivolu-
zione, in cui il mondo sembra quasi essersi raddrizzato.
Il primo atto ci presenta le due facce della rivoluzione purita-
na, iniziando con quella degli emarginati, che per la prima volta nel-
la storia hanno voce, e presentando in seguito quella del dibatti-
to politico maggiore: si veda a questo proposito la lunga scena che
ci restituisce “Dibattiti di Putney” (una realtà storica rivisitata da
Churchill), che chiude il primo atto; in essa compaiono, trasfor-
mati in personaggi teatrali, tra gli altri, significativi personaggi sto-
rici quali Cromwell e Ireton, cioè vengono fatti agire in scena co-
loro che hanno sviluppato una visione politica più vasta dei sem-
plici sovvertitori dell’ordine quotidiano; si tratta quindi di quei po-
litici che impronteranno di sé il decennio immediatamente succes-
sivo della vita pubblica inglese, quello del Commonwealth, sino alla
Restaurazione monarchica.
Ma, prima della rievocazione assai seria del dibattito politico mag-
giore, il primo atto contiene la più riuscita scena di invenzione (“Mar-
garet Brotherton is tried”), tutto sommato gustosa, che ha per pro-
tagonista la mendicante Margaret Brotherton (destinata a ricom-
parire più volte nel testo), qui alle prese con una giustizia per lei in-
Parte Prima. Sguardi critici 29

comprensibile. Si tratta di uno di quei personaggi che si trovano esclu-


si da ogni area della rappresentatività del potere e che proprio per
ciò se lasciata libera di agire nella società potrebbe finire col met-
tere il mondo sottosopra. La donna e i rappresentanti delle istitu-
zioni parlano due linguaggi assai diversi, inevitabilmente destinati
a non intendersi. Quando i giudici di pace, infatti, accusandola di
mendicità e vagabondaggio, chiedono a Margaret se si dichiara “col-
pevole o non colpevole”, la sua risposta è un candido ed esitante
«I don’t know what you mean...» (p. 193), che rivela non solo la sua
ignoranza dei riti legali della incipiente democrazia inglese, ma an-
che il fatto che la vagabonda è in realtà portatrice di una cultura al-
ternativa, una carica civile dirompente, che non può che mettere in
risalto la pomposità dei due piccoli funzionari, legalmente corret-
ti, ma completamente privi di umanità: è così che si genera il sor-
riso negli spettatori, un sorriso di simpatia per Margaret, di scher-
no per i due giudici. È anche interessante notare come questa fun-
zione di satira dal basso nei confronti delle istituzioni sia affidata
da Churchill ad un personaggio femminile di bassa estrazione so-
ciale – una novità dirompente per gli anni settanta – mentre sia i
testi storici che gli altri testi drammaturgici di cui si è fatto cenno
rimangono sostanzialmente ancorati ad una prospettiva maschile.
Per completare il quadro dell’universo femminile, sempre nel pri-
mo atto, Churchill ci propone anche la scena intitolata “Claxton
Brings Hoskins Home”, in cui una donna (la moglie di Claxton) che
si conforma al modello corrente cerca di spiegare alla sovversiva
Hoskins le ragioni, legate alla loro fisicità femminile, per cui «We
have to obey» (p. 204). Poco più avanti, la scena “Two Women Look
in a Mirror”, rappresenta invece le donne nella loro quotidianità do-
mestica.
Nella ricreazione dei Dibattiti di Putney (scena “The Putney De-
bates”) si inizia con la presentazione, che avviene in prima perso-
na, di ciascuno dei partecipanti, con tutta la formalità del dibatti-
to politico pubblico: il primo a parlare è Rainborough: «The Put-
ney debates, October the twenty-eighth, sixteen forty-seven: I am
colonel Thomas Rainborough, a Leveller» (p. 208)8. Egli è segui-
30 Caryl Churchill. Un teatro necessario

to da tutti gli altri, che analogamente, uno per uno, si presentano.


Si tratta di un consesso di soli uomini, ovviamente, ma al suo in-
terno già costituisce una novità sovversiva il fatto che possano par-
teciparvi rappresentanti eletti dei soldati semplici del New Model
Army (conosciuti come “agitators”) accanto ai capi indiscussi come
Cromwell e Ireton; con loro gli “agitators” osano discutere alla pari
su un documento da essi stessi preparato e proposto, inteso a far
valere “our native rights” (p. 209), ciò a cui i cittadini hanno dirit-
to per il solo fatto di essere nati in Inghilterra. Churchill fa un sa-
piente uso drammaturgico di tale presenza degli strati più bassi del-
la popolazione inglese. Questo documento, anticipatore di un nodo
centrale della democrazia rappresentativa britannica, propone la so-
stanza di quello che sarà il Reform Bill del 1832 (come si debba-
no cioè formare i collegi per eleggere i rappresentanti in parlamen-
to, in particolare nella Camera dei Comuni, quella dei non-nobi-
li), quindi quali siano i criteri attraverso cui riceve la sua rappre-
sentanza in parlamento “the people of England”: la definizione
di questo sfuggente corpo politico, che proprio attraverso la rivo-
luzione puritana acquisirà la sua moderna collocazione di classe di
mezzo e la sua caratterizzazione come borghesia, risulta essere il
vero oggetto dei Dibattiti e Churchill non si lascia sfuggire l’oc-
casione di schierare sulla scena le varie posizioni che servono ad
animare la sua azione; questa risulta dunque più coinvolgente per
lo spettatore di un semplice dibattito ideologico. Churchill indivi-
dua bene quelle istanze in campo che influenzeranno lo sviluppo
politico dell’Inghilterra per breve ora repubblicana: si tratta sostan-
zialmente della posizione, ovviamente destinata per il momento a
soccombere, di chi ritiene necessario per avere diritto al voto il sem-
plice “birth right”, invocando quindi il suffragio universale maschi-
le, contrapposta al requisito della “property” (proprietà terriera na-
turalmente), perché è impossibile credere «that by a man’s being
born here he shall have a share in that power that shall dispose of
the lands here, I do not think it sufficient ground» (p. 212)9. Que-
sto è il parere espresso da Ireton, che non potrà avere altro esito
che la vittoria nella disputa con il Leveller Rainborough, che in-
Parte Prima. Sguardi critici 31

vano si appella al diritto naturale e al diritto delle nazioni, nonché


alla parola di Dio per sostenere a sua volta che «I do not find any-
thing in the law of God that a lord shall choose twenty members
[of parliament], and a gentleman but two, or a poor man shall choo-
se none» (pp. 212-3)10. Perciò vengono messi in campo tutti gli al-
tri personaggi, che intendono risolvere il problema alla radice col
mettere il mondo sottosopra.
Il secondo atto si apre con una scena (“Diggers”) che ci pro-
pone quello che è diventato, sia nella tradizione popolare che in
quella ufficiale, l’episodio più rappresentativo, anzi cruciale di que-
sta fase della storia d’Inghilterra, quello dell’insediamento dei Dig-
ger a St. George’s Hill nei pressi di Windsor: ci viene dunque an-
nunciato da un attore che legge un proclama che, guidati da Ger-
rard Winstanley e da “un certo Everard” – in realtà ben conosciu-
to alle cronache del tempo – un numero di emarginati ha preso pos-
sesso, su questa altura nei pressi di Windsor, delle terre comuni,
per antica tradizione diventata oramai legge riservate al pascolo per
tutta la comunità agricola; hanno incominciato subito a dissodar-
le (“dig”), piantandovi umili ortaggi che potranno servire a nutri-
re la popolazione affamata (p. 219), quasi la precedente destina-
zione a pascolo fosse uno spreco di terre fertili. Infatti, nella vi-
sione di questi rivoluzionari estremi, espressa qui per bocca dello
stesso Winstanley, nume tutelare del dramma, «England is not a
free people till the poor that have no land have a free allowance
to dig and labour the commons» (p. 219)11: l’attenzione dell’autri-
ce continua quindi ad oscillare tra i grandi eventi politici, quelli che
campeggeranno poi nei libri di storia, quali la discussione sul prin-
cipio di proprietà della terra, ed il vissuto quotidiano delle masse
più semplici, che debbono procacciarsi giorno per giorno il pro-
prio sostentamento. Al personaggio Winstanley si affiancano in que-
sta scena sei attori che non diventano tuttavia a loro volta perso-
naggi, non producono un’azione sul palcoscenico, ma, epicamen-
te, riferiscono agli spettatori ciò che fanno i Digger, con le con-
seguenze di queste azioni. Il dramma in verità è prodigo di que-
ste indicazioni dal di fuori, didascalie ed indicazioni sceniche, in-
32 Caryl Churchill. Un teatro necessario

tese a mostrare ai lettori come si deve svolgere l’azione e a guida-


re in modo inequivocabile chi lo mette in scena.
L’atto si chiude con la lunga scena corale intitolata “The Meeting”,
che si svolge in “A drinking place” (come spiega la didascalia che fun-
ge da sottotitolo), un titolo che sembra trasformare un luogo immo-
rale per eccellenza nel luogo in cui si svolge qualcosa di religioso, mes-
so in dubbio in una cupa parodia da un linguaggio intenzionalmen-
te profano. La scena vede riuniti in questa collocazione popolare la
maggior parte dei personaggi “bassi” che abbiamo incontrato nel dram-
ma: su di essi spicca ancora Margaret Brotherton, che abbiamo co-
nosciuto all’inizio del primo atto. Vediamo dunque l’inizio di questa
perturbante scena:

HOSKINS... Come on, plenty to drink...


BROTHERTON What do I do?
COBBE Anything you like. I worship you, more than the Virgin Mary.
HOSKINS She was no virgin.
CLAXTON Christ was a bastard.
HOSKINS Still is a bastard.
BROTHERTON I thought you said this was a prayer meeting.
CLAXTON This is it. This is my one flesh. (p. 229)12

Poco più avanti Brotherton incalza:

BROTHERTON When’s he coming?


COBBE Who?
BROTHERTON The preacher.
COBBE You’re the preacher.
BROTHERTON What? No. I can’t. (p. 229)13

Accanto al linguaggio blasfemo, altrettanto trasgressiva è l’idea


stessa che l’attività religiosa possa essere guidata da una donna; anzi,
Brotherton sembra non credere nemmeno lei nella possibilità di
trovarsi in una posizione così rivoluzionaria. Tutti i valori e tutti i
riti finiscono sottosopra.
Parte Prima. Sguardi critici 33

A conclusione del dramma abbiamo, dopo i dodici anni di or-


dine politico repubblicano, il breve epilogo “After” (“Dopo”); que-
sta definizione, così semplice e nella sua semplicità carica di signi-
ficati minacciosi, allude all’oscuro destino che toccherà ai perso-
naggi più attivi del dramma – ma in realtà a tutti gli inglesi aman-
ti della libertà – dopo la Restaurazione monarchica del 1660; un
destino che si esplicita in quell’atteggiamento mentale di ripiega-
mento a cui abbiamo già fatto allusione e che Christopher Hill ma-
gistralmente riassume nel titolo di un suo libro del 1984 come The
Experience of Defeat14 (seguito ideale di The World Turned Upside Down)
che registra il fallimento del rovesciamento dei valori del mondo.
In questa scena di commiato Churchill rappresenta ancora i per-
sonaggi che già sono stati i più impegnati nel sovvertire l’ordine,
quali Margaret Brotherton ed un anonimo ubriacone, ma soprat-
tutto mostra come quelli tra i capi dell’esperienza rivoluzionaria,
i personaggi storici che ad essa sono sopravvissuti, avvertendo quel-
la che è in realtà la propria sconfitta, decidano di annientarsi, in qual-
che modo, di scomparire, annullare la propria identità: cambia nome
Cobbe, per esempio, diventando “Dr. Higham” e Claxton lascia
l’Inghilterra per trasferirsi alle isole Barbado, dove vivrà in inco-
gnito, cercando di dimenticare e farsi dimenticare. Sue sono le scon-
fortanti parole conclusive del dramma, in cui dichiara il suo gran-
de desiderio di non vedere e non dire nulla: «My great desire is to
see and say nothing» (p. 241), come se tutta la passione che è sta-
ta messa in scena si fosse esaurita e gli spettatori se ne dovessero
andare dal teatro senza portare con sé un messaggio che li con-
forti nel loro cammino nel mondo.
34 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Note

1
V. Fortunati, “Introduzione” a Conflitti: strategie di rappresentazione della guerra nella cultura contempo-
ranea, a cura di M. Ascari, V. Fortunati, D. Fortezza, Meltemi, Roma 2008, p. 20.
2
Non esiste una traduzione italiana pubblicata dell’opera. L’unica disponibile è una traduzione di
lavoro, condotta in verità con perizia da Salvatore Cabras per accompagnare la lettura fatta del te-
sto al Teatro i di Milano nel gennaio 2009. Voglio qui ringraziare il traduttore per averci genero-
samente messo a disposizione il suo lavoro.
3
C. Churchill, Light Shining in Buckinghamshire, in Plays: One, Methuen, London 1993, p. 183. Tutte
le citazioni saranno tratte da questa edizione, a cui quindi si riferiscono i numeri di pagina.
4
Pubblicato (assieme ad altri drammi dello stesso autore) nella raccolta War Plays nel 1996 a Lon-
dra da Oberon Books.
5
Vale la pena ricordare anche, tra le rivisitazioni novecentesche in chiave politica della rivoluzio-
ne puritana, un mediocre romanzo del 1962, Comrade Jacob di David Caute, che fu allievo di Chri-
stopher Hill all’università di Oxford.
6
Le citazioni in italiano dall’“Introduzione” di C. Churchill a Light Shining in Buckinghamshire nel vo-
lume Plays: One sono di chi scrive.
7
C. Hill, The World Turned Upside Down, Maurice Temple Smith, London 1972. Ma l‘autrice dice di
annoverare, tra le sue letture storiche, anche, dello stesso Hill, Puritanism and Revolution: Studies in
Interpretation of the English Revolution in the17th Century, Secker & Warburg, London 1958, nonché The
Pursuit of the Millennium di N. Cohn (originariamente pubblicato nel 1957, ma più volte aggiorna-
to e ristampato) e i vari studi di A.L. Morton, in particolare quelli sui Ranter.
8
«I dibattiti di Putney, 28 ottobre 1647: sono il colonnello Thomas Rainborough, un Livellatore».
9
«che, per il fatto che un uomo nasca qui, egli partecipi di quel potere che potrà disporre delle ter-
re qui. Non credo che sia terreno sufficiente».
10
«Non trovo nulla nella legge di Dio secondo cui un lord possa designare venti membri [del par-
lamento], un gentiluomo soltanto due e un povero non ne designi nessuno».
11
«L’Inghilterra non sarà abitata da un popolo libero finché i poveri, che non hanno terra, non avran-
no il permesso gratuito di dissodare e lavorare le terre comuni».
12
HOSKINS Vieni qui, c’è da bere a volontà
BROTHERTON Che cosa devo fare?
COBBE Quello che ti pare. Io ti venero, più della Vergine Maria.
HOSKINS Non era vergine
CLAXTON Cristo era un bastardo.
HOSKINS È ancora un bastardo.
BROTHERON Credevo che tu avessi detto che questo era un incontro di preghiera.
CLAXTON Lo è. Questa è la mia unica carne.
13
BROTHERTON Quando arriva?
COBBE Chi?
BROTHERTON Il predicatore.
COBBE Sei tu il predicatore.
BROTHERTON Che cosa? No. Non posso.
14
C. Hill, The Experience of Defeat. Milton and Some Contemporaries, Faber and Faber, London 1984.
T o p G i r l s e il collage postmoderno
di Anna Anzi
La risposta postmoderna al moderno consiste nel
riconoscere che il passato, visto che non può essere
distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve
essere rivisitato: con ironia in modo non innocente1.

Tra le autrici del teatro britannico Caryl Churchill è certamente


una tra le prime interpreti di quell’estetica del visivo che oggi av-
volge la nostra vita in spire sempre più serrate di immagini e se-
gni. I suoi testi offrono modalità costruttive e soluzioni estetiche
differenti, ma sempre svincolate dai canoni naturalistici; in tutti
vi è viva attenzione oltre che per tematiche attuali, per la speri-
mentazione e il coinvolgimento dello spettatore che vede rappre-
sentati sulla scena il proprio tempo e la società contemporanea
in forme per lo più grottesche dove la parola è sempre centrale
ma è manipolata in modo innovativo. Il primo atto di Top Girls
(1982) è un esempio riuscito di questa sperimentazione.

Top Girls racconta la storia di Marlene, una giovane donna che ha


fatto carriera: quando inizia l’azione ha appena ottenuto il posto di
dirigente in un’agenzia di collocamento. Ha raggiunto questo risul-
tato con fatica e rinunciando a molto nella sua vita privata ma sem-
brerebbe soddisfatta. Tuttavia, la scissione tra care ed empowerment2
che fa parte da sempre dell’indole delle donne, farà sì che, alla fine,
Marlene ci lasci con molti dubbi sul successo ottenuto, sulle aspet-
tative offerte dalla salita al potere di Margaret Thatcher nella qua-
le in molti avevano riposto fiducia, sulle possibilità aperte dalle lot-
te delle donne per le donne e sulla attuazione di un vero e profon-
do cambiamento della società: per essere una top girl Marlene ha vo-
luto o dovuto abbandonare la figlia alle cure della sorella e gettar-
si nella competizione senza scrupoli del mondo del lavoro.
La vicenda è apparentemente lineare: vi si rilevano gli interessi
e le tematiche femminili3 e sociali tipici dell’autrice e del momen-
36 Caryl Churchill. Un teatro necessario

to storico. Già in opere precedenti come Owners (1970), Vinegar Tom


(1976) e Cloud Nine (1979), ma ancor più nel successivo Serious Mo-
ney (1987), sono i cambiamenti o i non cambiamenti in corso nel-
la società e negli individui che accendono l’interesse e la creatività
di Churchill. Tuttavia anche in Top Girls, come in altre sue opere,
la struttura del testo è particolare: a un primo atto che sembra pre-
scindere totalmente dalla vicenda, segue un secondo atto che rac-
conta la storia di Marlene oggi e, infine, un terzo atto che ci ripor-
ta ad un anno prima. Il percorso verso una conclusione è a osta-
coli e lo spettatore, lasciato senza dati, viene sospinto a formulare
delle ipotesi sulla sorte dei personaggi, a tentare di “decifrare” il mi-
stero della vita di Marlene, Joyce, Angie. La costruzione del testo
è ardita e stimola l’attenzione dello spettatore ma il vero colpo di
genio in questo dramma, quello che più colpisce ed allarga a dismi-
sura la prospettiva sulla disperante situazione femminile è il primo
atto: Marlene, ad una cena organizzata per festeggiare il suo nuo-
vo incarico lavorativo, invita cinque donne molto particolari usci-
te dalla storia, dalla pittura e dalla leggenda. In ordine di entrata tro-
viamo: Isabella Bird (1831-1904), appena tornata da una spedizio-
ne alle Hawai, indefessa esploratrice e autrice di molti libri di av-
venture e viaggi connessi alle sue spedizioni in varie parti del mon-
do; Lady Nijo, vissuta nella seconda metà del Tredicesimo secolo
alla corte dell’imperatore del Giappone, di lui concubina e più tar-
di monaca buddista; Dull Gret, protagonista di un quadro di Brue-
ghel (1562-1564)4 in cui compare armata di spada alla testa di un
esercito di donne infuriate e decisa a sfidare l’Inferno; Joan – la pa-
pessa Giovanna – che, travestita da uomo fu, secondo la leggen-
da, eletta Papa nell’855 e poi lapidata per aver concepito un figlio
durante una processione; infine Patient Griselda, la paziente Gri-
selda, personaggio leggendario che compare in Boccaccio e in Pe-
trarca, protagonista chauceriana di una triste storia di violenza ma-
schile nel racconto “The Clerk’s Tale” raccolto nei Canterbury Ta-
les. Con frammenti di leggende, biografie e immagini Churchill ha
creato un vasto tableaux vivant senza confini di spazio o di tempo
nel quale donne di epoche diverse, con storie diverse, sogni, desi-
Parte Prima. Sguardi critici 37

deri, aspirazioni apparentemente diverse, vengono raccolte attor-


no alla tavola di Marlene, accomunate dalla loro determinazione e
femminilità. Una femminilità combattuta, schiacciata e in alcuni casi
(Dull Gret e Joan) negata per poter vivere, sopravvivere o emer-
gere in una società fallocratica.
Ciò che tuttavia qui m’interessa mettere in luce più che il discor-
so al femminile, già ampiamente sviluppato dalla critica, è la stret-
ta relazione tra le storie di queste donne e le vicende di Marlene
– relazione che mette in luce la qualità postmoderna di questa pri-
ma scena. Frammenti di storie antiche e recenti creano sul palco-
scenico un mosaico colorato di costumi e abbigliamenti al quale
si aggiunge un brusio di voci che si sovrappongono; il nostro oc-
chio si muove freneticamente da una figura all’altra mentre il no-
stro orecchio cerca di capire e di non perdere nulla di ciò che sta
avvenendo sulla scena. In questo grande quadro d’apertura, in una
strenua ricerca di realismo che dovrebbe sopperire all’estremo ir-
realismo di ciò che sulla scena appare, Churchill fa parlare i suoi
personaggi con una modalità linguistica già usata nel cinema da Ro-
bert Altman5, ma nuova nel teatro. È una tecnica che sfrutta la so-
vrapposizione delle battute: «sulla battuta non ancora conclusa di
un personaggio parte quella di uno (a volte di due) degli interlo-
cutori: un effetto di verosimiglianza, se si vuole, che curiosamen-
te viene esaltato all’interno di una scrittura “epica anziché natura-
listica”»6. Verosimiglianza che maschera la non credibilità del con-
sesso: attorno al tavolo disposto al centro della scena sei donne di
epoche e paesi diversi parlano la stessa lingua e raccontano le loro
storie. I loro discorsi si incrociano interferendo l’uno nell’altro e
creano nello spettatore – già scioccato dal punto di vista visivo –
difficoltà nell’ascolto ma anche molta curiosità. La caratteristica sa-
liente di questa tecnica linguistica sta nel suo riuscire a far dimen-
ticare l’impossibilità dell’evento e a renderlo invece “quasi” pos-
sibile. Anche in questo caso di overlapping dialogue siamo nell’ambi-
to di un linguaggio postmoderno. Voci diverse, codici e registri lin-
guistici diversi (ci sono persino battute in latino!), toni e accenti di-
versi, atti a definire il ceto sociale o il carattere del personaggio, co-
38 Caryl Churchill. Un teatro necessario

struiscono un tessuto verbale variamente modulato e variegato che


attrae e nel contempo sconcerta. La frammentarietà e il continuo
sovrapporsi di una frase sull’altra sono segno di un nuovo uso del-
la forma dialogica, fuori dagli schemi e dagli stilemi tradizionali e
non rintracciabile nel teatro britannico precedente:

NIJO [...] Don’t you like getting dressed? I adored my clothes./ When I was
chosen to give sake to his Majesty brother,
MARLENE You had prettier colours than Isabella.
NIJO The Emperor Kameyana, on his formal visit, I wore raw silk plea-
ted trousers and a seven layered gown in shades of red, and two outer gar-
ments,/ yellow lined with green and a light
MARLENE Yes, all that silk must have been very...
The WAITRESS starts to clear the first course.
JOAN I dressed as a boy when I left home*.
NIJO Green jacket. Lady Betto had a five-layered gown in shades of gre-
en and purple.
ISABELLA * You dressed as a boy?
MARLENE Of course,/ for safety7.

È più che evidente, in tutto il primo atto e non solo in questa


breve citazione, l’incapacità di ascolto delle protagoniste: ognuna
parla e va dritta per la propria strada prestando poca attenzione o
spazio a chi ha iniziato a parlare e dimostrando così forse come
nessuna donna, nel corso dei secoli, abbia imparato qualcosa dal-
le esperienze vissute da quelle che l’hanno preceduta, pur avendo
avuto in comune padri autoritari, amanti violenti o mariti brutali.
Solo Marlene sembra libera da ogni condizionamento maschile e
solo lei cerca, a momenti, di creare un legame tra i vari discorsi.
Interviene per creare un collegamento con le sue ospiti ma lo sta-
to di ubriachezza di tutte nel finale spegne ogni possibilità di dia-
logo e, sembra, ogni speranza. Anche le uscite e le entrate della si-
lenziosa cameriera e le ordinazioni di piatti e bevande hanno una
loro precisa funzione: sono cesure nel dialogo che intensificano
la frammentazione del testo incentivando la costruzione a mosai-
Parte Prima. Sguardi critici 39

co. Se Rosalind Carne sul “Financial Times” sostenne che «da un


punto di vista rigorosamente strutturale la prima scena è superflua»
e Nicholas de Jong sul “Guardian” scrisse che «Churchill non rie-
sce davvero a convincerci che questa scena di apertura al dramma
possa sviluppare una qualsivoglia relazione o fornire un contrasto
ironico con ciò che segue»8, io credo invece che il primo atto di Top
Girls voglia, da un lato, rappresentare l’eredità del passato che agi-
sce sul presente e dar rilievo ed espressione al pensiero dell’autri-
ce per la quale «la Storia tende a ripetersi e gli esseri umani sono
fondamentalmente sempre gli stessi»9 e, nel contempo, mostrare
le nuove possibilità espressive del teatro. In Top Girls la dramma-
turgia di Churchill ha raggiunto la maturità e la tematica femmi-
nile viene trattata all’interno di un più vasto discorso di nuova este-
tica teatrale cui si accennava. Vi è, come in altre opere di questa
scrittrice, amarezza e senso di sconfitta nel futuro delle donne: se
tutte le ospiti di Marlene sono riuscite ad entrare nel gran libro del-
la Fama, tutte, in forma più o meno esasperata sono state impos-
sibilitate a esprimersi liberamente e a fondere armonicamente care
e empowerment. Tutto questo è presentato in una forma nuova.
Nella prima scena, a parte Marlene che ovviamente veste abi-
ti dell’oggi, tutte le altre invitate indossano costumi e/o masche-
re atte a riportarle nell’epoca in cui sono vissute. Null’altro se non
costumi appropriati potrebbero, almeno inizialmente, fornirci in-
formazioni su queste amiche di Marlene. È un primo approccio
di tipo visivo che ha un forte impatto sul pubblico. La scelta di que-
ste donne, invece di altre che pure si potrebbero rintracciare nel-
la Storia, ha un suo preciso significato che trascende il solo “ripe-
tersi della Storia”: tutte hanno in comune profonde frustrazioni e
però ambizioni e aspirazioni a ribellarsi ad un destino a loro asse-
gnato da sempre. Isabella Bird, nata nel 1831, anche se di salute
fragile e con una vita famigliare e sentimentale certo non felice, girò
il mondo e pubblicò sedici raccolte di descrizioni di viaggi viven-
do fino a settantatré anni ed entrando, nel 1892, come prima don-
na nella Royal Geographical Society. Lady Nijo, nata nel 1258 è al-
levata alla corte imperiale giapponese dove, a quattordici anni, di-
40 Caryl Churchill. Un teatro necessario

venta una delle mogli dell’imperatore. Ma Nijo ha due amanti dai


quali ha anche tre figli. Espulsa dalla Corte si fa monaca buddista
e si reinventa una vita scrivendo la sua storia. Dull Gret, tratta dal
dipinto di Brueghel e già usata come archetipo di ribellione pro-
letaria da Brecht per la figura di Grushe nel Cerchio di gesso del Cau-
caso, in contrasto con le molte interpretazione del personaggio for-
nite dalla critica10 viene vista da Churchill come una donna sem-
plice, che ha molto sofferto nel vedere la sua famiglia sterminata
dagli spagnoli e che si getta nella mischia all’attacco di mille dia-
voli. Griselda, la Paziente Griselda, sopporta umiliazioni e violen-
ze e “senza mutar viso” come narra Boccaccio nella centesima no-
vella del Decamerone, sopporta tormenti e violenze per ottenere ciò
che vuole: il suo ruolo e il suo titolo di moglie al fianco del mar-
chese Gualtieri di Saluzzo. Giovanna, la papessa, che avrebbe, se-
condo la leggenda, raggiunto il soglio pontificio tra l’853 e l’855,
era una donna inglese che vestì abiti maschili e divenne monaco
a Magonza con il nome di Johannes Anglicus. Eletta Papa, prese
il nome di Giovanni VIII. Ebbe vari amanti e rimase incinta. A
Roma, durante una processione partorì sul selciato e venne lapi-
data a morte dalla folla inferocita. La forza e la determinazione di
questo personaggio, la cui esistenza è stata sempre ampiamente con-
testata dalla Chiesa, è indiscutibile. Infine Marlene che, per “arri-
vare” ad essere “top girl” ha rinunciato alla figlia e vive conflittua-
li rapporti famigliari, si affianca alle donne del passato e comple-
ta questo collage postmoderno di impotenza dalla quale sembra,
a tutt’oggi, che non vi sia, per le donne, via d’uscita.
L’uso del doubling e del trebling, cioè del doppio o del triplo ruo-
lo affidato ad un unico interprete è un altro importante elemen-
to nella costruzione di Top Girls. Se la comparsa sul palcoscenico
dello stesso attore/attrice in due/tre diverse parti crea ambiguità
e invalida la forza delle sue affermazioni creando incertezza nel-
l’ascoltatore, il gioco in più ruoli è anche occasione di riflessione
sulle alternative di un cambiamento possibile. Come ricorda la stes-
sa autrice in una intervista del 198411, all’inizio ella non pensava a
doppi o tripli ruoli in Top Girls; pensava di far salire sul palcosce-
Parte Prima. Sguardi critici 41

nico sedici personaggi con sedici parti distinte. Fu il regista Max


Stafford-Clark a suggerirle l’uso dei ruoli doppi e tripli sia per ra-
gioni economiche sia per dar maggior spazio recitativo a ciascu-
na delle attrici della compagnia del Royal Court Theatre. Così fa-
cendo, già durante le prove, si venne evidenziando che il raddop-
pio o la triplicazione dei ruoli contribuiva a rendere i molteplici si-
gnificati del testo.
Top Girls mette in discussione i “ruoli” imposti alle donne ieri
e oggi e il raddoppio delle parti per un attore serve a ridurre la fis-
sità dei ruoli. Per esempio, Mrs. Kid e Joyce provengono da con-
testi sociali diversi. Individualmente sembrano bloccate nel loro ceto
che le limita e le definisce, ma se entrambe le parti sono recitate
dalla stessa attrice, come accadde nella prima messa in scena, la cer-
tezza sulla loro situazione svanisce. Come il primo atto mostra che
il passato era per molti aspetti diverso dal presente così il dram-
ma suggerisce che il presente potrebbe anche cambiare12.
Ironicamente (lo stesso titolo dell’opera è ironico), Marlene è
l’unica a non venire utilizzata nel doppio ruolo, perché ella repli-
ca, nella sua storia, le vicende di tutte le “top girls” e rivela il suo
(e il loro) fallimento proprio al banchetto, quando, con tutte loro,
vorrebbe festeggiare il suo successo.
La finalità di Caryl Churchill non è quella di trovare delle rispo-
ste né in ambito sociale né in ambito politico – solo a tratti si per-
cepisce la bruciante delusione provocata dal thatcherismo del qua-
le la protagonista sembra essere l’emblema vivente –, bensì di por-
re delle domande, che riflettono e nel contempo descrivono la si-
tuazione della donna oggi. «Ironia, gioco metalinguistico, enuncia-
zione al quadrato. [...] I collages che faceva Max Ernst, montando
pezzi di incisioni ottocentesche, erano postmoderni: si possono an-
che leggere come un racconto fantastico, come il racconto di un
sogno, senza accorgersi che rappresentano un discorso sull’incisio-
ne, e forse sul collage stesso»13. Queste parole di Eco ben chiarisco-
no come, in ambito postmoderno, il collage di passato e presente
possa ampliare e approfondire la tematica proposta, possa porre do-
mande, indurre a una riflessione. Il collage di passato e presente nel
42 Caryl Churchill. Un teatro necessario

primo atto di Top Girls, il linguaggio dissociato e scomposto, il rad-


doppio o la triplicazione dei ruoli, nonché la variegata composizio-
ne dei personaggi, sono indubbie metafore della frammentazione
postmoderna, della pluralità dei mondi e delle sensibilità che in essa
si sovrappongono caoticamente, come nell’arte tutta del secondo
Novecento, senza un preciso ordine e senza regole14. Proprio gra-
zie a questo mosaico di frammenti di esperienze, di linguaggi e di
vite vissute si può affermare che il primo atto di Top Girls spiega e
illumina tutto ciò che segue. La seconda parte dell’opera, gli atti se-
condo e terzo, non servono che a confermare ciò che viene pre-
sentato nel grande collage iniziale collocato fuori dal tempo e dal-
lo spazio: le cosiddette “top girls”, di ieri e di oggi, hanno pagato
e continuano a pagare a caro prezzo il loro tentativo di emergere,
di assomigliare agli uomini nella scalata alla realizzazione di se stes-
se e, allo spettatore, tocca l’amaro compito di constatarne la con-
fusione, la sofferenza e, sovente, la sconfitta.
Parte Prima. Sguardi critici 43

Note

1
U. Eco, Postille a Il nome della rosa, Bompiani, Milano 1983, p. 136.
2
“Care” sta per “accudimento”, dedizione agli altri, alla famiglia, ai figli ma anche attenzione, pre-
mura e sensibilità. “Empowerment” è “la concessione di autorità”, il rendere qualcuno capace di
imporsi, di emergere, di soddisfare le proprie ambizioni come, ad esempio, ottenere successo nel-
l’ambito del lavoro, salire nella scala sociale, realizzare se stessi.
3
M. Rose ricorda che Churchill «preferisce non definirsi “femminista” ma le si può attribuire un
costante punto di vista femminile». Cfr. M. Rose, Storia del teatro inglese. L’Ottocento e il Novecento,
Carocci, Roma 2002, p. 194.
4
Pieter Bruegel, Dulle Griet (c. 1562), olio su tela, 117.4 x 162 cm, Museo Mayer van den Bergh,
Anversa.
5
P. Bertinetti, Il teatro inglese del Novecento, Einaudi, Torino 1992, p. 261.
6
Ibidem.
7
C. Churchill, Top Girls, Methuen, London 1991, p. 8. Trad. it. di Margaret Rose e Laura Caretti,
copione di scena, Milano, Teatro i, 28 gennaio 2009, p. 12:
NIJO A te non piace vestirti? Io adoravo i miei vestiti.
Quando fui eletta a versare saké al fratello di Sua maestà,
MARLENE Tu avevi dei colori più belli di Isabella.
NIJO L’imperatore Kameyana, in visita ufficiale, indossava dei pantaloni a pieghe di seta pura, con
sopra una veste sfumata nelle tonalità del rosso, a sette veli e due casacche
foderate di giallo e verde, e una giacca
MARLENE Certo, tutta quella seta doveva essere molto….
LA CAMERIERA incomincia a portare via i piatti della prima portata.
JOAN ero vestita da ragazzo, quando me ne sono andata via di casa.*
NIJO verde chiaro. Lady Betto indossava un abito a cinque veli con sfumature verde e porpora.
ISABELLA *eri vestita da ragazzo?
MARLENE Certo. / Per prudenza.
Gli asterischi stanno ad indicare una frase che si ricollega a una frase non immediatamente prece-
dente. Il segno “ / ” segnala che un personaggio continua a parlare sovrapponendo le sue parole
a quelle di un altro personaggio.
8
Entrambi i giudizi sono riportati in Churchill, Top Girls, cit., p. l.
9
Rose, op. cit., p. 195.
10
Cfr. R.H. Marijnissen, Brueghel, Rizzoli, Milano 1990.
11
L. Truss, “A Fair Cop” (intervista a C. Churchill), «Plays and Players», January, 1984, p. 12.
12
Bill Naismith in Churchill, Top Girls, cit., p. LIII. Trad. it. di chi scrive.
13
U. Eco, Postille a Il nome della rosa, cit., p. 529.
14
Cfr. B. McHale, Postmodernist Fiction, Methuen, New York & London 1987.
3. Reading di Light Shining in Buckinghamshire presso Teatro i di Milano (30 gennaio 2009). Regia di Mark
Ravenhill. © Federica Anchieri (2009).
Amati fantasmi: la papessa Giovanna e altri r o l e
m o d e l s della rivolta
di Luca Scarlini

A partire dagli anni settanta il teatro inglese apre uno spazio a una
serie di autrici che affermano se stesse in toni e modi ben diversi
da quelli usati nel decennio precedente da Joan Littlewood o Ann
Jellicoe e Shelagh Delaney. Il femminismo era spesso la linea esat-
ta di demarcazione, nel momento in cui si formarono gruppi co-
me The Monstrous Regiment (che inaugura le proprie attività nel
1976 con Scum di Claire Luckham). In quel nome si evocavano i
precetti misogini della cultura occidentale, facendo un chiaro rife-
rimento al famigerato sermone di John Knox, che evocava squil-
li di trombe contro il mondo femminile visto come fonte di tutti
i mali del genere umano (The First Blast of the Trumpet Against the
Monstrous Regiment of Women, 1558). Un concetto oggi tutt’altro
che tramontato in questa novella epoca teocratica, se proprio
questa espressione è stata recentemente usata oggi negli USA co-
me titolo di un violento documentario dei cattolicissimi fratelli
Gunn, The Monstrous Regiment of Women (2007). Non stupisce,
quindi, che in breve sia iniziata la caccia ai role models, alla ricerca
delle donne di altre epoche che hanno messo in discussione lo
status quo e dichiarato un progetto esistenziale diverso da quello
che ci si attendeva da loro.
Timberlake Wertenbaker si fece notare nel 1981 all’ICA di Lon-
dra con New Anatomies, appassionata biografia immaginaria di Isa-
belle Eberhardt, viaggiatrice attratta dall’Islam, che decise di vive-
re in abiti maschili in Nord-Africa, per diventare mistico sufi. Fi-
delis Morgan, attrice e scrittrice, divenuta celebre nell’ultimo decen-
nio per i suoi gialli ambientati al tempo della Restaurazione che han-
no come protagonista la contessa-detective Ashby de la Zouche,
46 Caryl Churchill. Un teatro necessario

ha ingaggiato a lungo un corpo a corpo con la scandalosa Charlot-


te Charke, a cui ha dedicato il magnifico saggio-fiction, The Well Known
Troublemaker, pubblicato nel 1989. Altre autrici di teatro hanno pub-
blicato da allora monografie sulle loro eroine; tra le altre valgano
Bryony Lavery (già direttrice di Gay Sweatshop Theatre, celebra-
ta per Frozen, 2004), che ha dedicato un volume a Tallulah Bankhe-
ad (1999), e Jackie Kay, nota soprattutto come poetessa, che si è ci-
mentata in un appassionato omaggio biografico a Bessie Smith
(1997). Una sequenza di ritratti di signore che hanno segnato i ri-
spettivi tempi, vivendo la sessualità apertamente, mettendo in di-
scussione l’educazione ricevuta e non nascondendo la passione per
le donne, per gli uomini o quella per il sapere.
Il 1976 vede l’arrivo in Inghilterra del punk che fa piazza pulita di
tutti gli stereotipi love and peace della generazione precedente; la rabbia,
anche troppo spesso citata a chiave di lettura della produzione ingle-
se, divampa, esplode. Nel momento in cui Derek Jarman evoca spet-
tri elisabettiani per spiegare una Londra decisamente queer (in tutti i
possibili sensi del termine) dei Sex Pistols nel meraviglioso Jubilee (1977),
Caryl Churchill incrocia le armi con il Monstrous Regiment e il Joint
Stock per la creazione di un clamoroso double bill che rilegge in rela-
zione con il presente la storia del Seicento inglese come epoca osses-
sionata dalla Bibbia e maschilista in sommo grado. Nel 1976 vedono
infatti la luce due lavori di forte impianto epico, dal dichiarato sapo-
re brechtiano, in cui la storia serve come specchio al presente: Vine-
gar Tom e Light Shining in Buckinghamshire. Il primo si conclude con una
violenta canzone che dichiara ciò che gli uomini vogliono: «evil wo-
men/ is that what you want?/ Is that what you want to see?/ on the
movie screen/ of your wet dreams?»1. La riflessione sull’attrattiva del-
la figura femminile nelle sue vesti archetipiche di Lilith è il tema prin-
cipale della pièce, evocato anche da uno dei personaggi, Alice. Desti-
nata a diventare vittima della caccia alle streghe, all’inizio del testo ella
dichiara la sua volontà di vedere un rogo in una sequenza di parole
che hanno una esplicita risonanza erotica. La voce di tutte le perse-
guitate del furore macho, di quelle signore inseguite, catturate e mes-
se al rogo secondo la tremenda teologia del Malleus Maleficarum (1487)
Parte Prima. Sguardi critici 47

di Jacob Sprenger e Heinrich Institor Kramer, citato esplicitamente


nel testo, risuona in primo luogo nella condanna all’adozione di mo-
delli distruttivi, indotti da una società ostile. Nella crudele lotta reli-
giosa e politica che divide l’Inghilterra nelle vicende ripercorse da Light
Shining in Buckinghamshire a partire dai pamphlet del tempo, spicca la
figura di Hoskins, la predicatrice, profetessa di una nuova era, che ri-
schia di persona, sicura nel suo itinerario perché «viaggia con Dio» e
messa in discussione dalla ubbidiente Mrs Claxton, che vede con spa-
vento tutte le novità. Non a caso, tra i personaggi più complessi di Top
Girls (1982), la Papessa Giovanna spicca al centro della cena iniziale.
La storia di Johannes Anglicus, la donna che divenne papa dopo es-
sere vissuta en travesti per buona parte della sua vita rimane come fan-
tasma nella storia della chiesa, che ne ha sempre negato l’esistenza, mal-
grado una complessità di fonti disponibili. Il film Die Päpstin aka Pope
Joan (2009) di produzione tedesca diretto da Sönke Wortmann, a par-
tire dal bestseller di Donna Woolfolk Cross, Pope Joan (1996), che in
Italia giunge con due anni di ritardo con il titolo La Papessa, arriva a
oltre un trentennio dalla precedente pellicola di Michael Anderson con
Liv Ulmann (1971), dallo stesso titolo. Dalla fine dell’Ottocento, per
moti anticlericali o per attrazione verso una storia di ambiguità e tra-
vestimenti, questa vicenda ha avuto ampia eco, seducendo la musa di
Alfred Jarry, Lawrence Durrell, e Bertolt Brecht. All’inizio del decen-
nio che avrebbe collocato la nozione di gender come faro di una visio-
ne del mondo, superando i dettami precedenti del femminismo, Gio-
vanna spicca nel corteggio di signore della realtà e dell’immaginazio-
ne. A dieci anni, da perfetta visionaria delle cupe foreste del Medioe-
vo, sognava di angeli. Affascinata dalla teologia dichiara di essere lei
stessa una “eresia”, prova vivente di un modo di pensare diverso da
tutti gli altri, che ha come guida un disperato desiderio di assoluto, per
cui ha abbattuto tutti gli ostacoli, sfidando i secoli.
In questi acutissimi incisi si consuma un distacco dalla ricerca di
persone-simbolo dal passato e i testi seguenti di Churchill andran-
no verso altri meccanismi di racconto.
48 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Note

1
«donne cattive/ è quello che volete?/ È quello che volete vedere?/ Sullo schermo cinematogra-
fico/ dei vostri sogni bagnati?». La trad. it. è di chi scrive.
S e r i o u s M o n e y e il Big Bang nella City1
di Margaret Rose

Serious Money2 porta al centro della scena la City di Londra e il


mondo della finanza, del commercio e dell’insider trading durante
il cosiddetto Big Bang del 27 ottobre 1987, la straordinaria esplo-
sione della Borsa che precedette il collasso del cartello della City
e la liberalizzazione dei mercati finanziari. Sottotitolato “a city co-
medy”, è uno dei molti drammi della storia del teatro inglese che
punta l’attenzione sul mondo della finanza e analizza l’impatto
del denaro sulla vita delle persone. È stato riproposto al Birmin-
gham Rep nel 2009, a seguito della recessione globale che ha por-
tato sulla scena nuovi drammi sull’argomento: The Power of Yes
(2009) di David Hare, prodotto dal National Theatre di Londra e
incentrato sulla grande crisi finanziaria da cui ancora fatichiamo a
riprenderci, che è stato messo in scena prima al Chichester Festi-
val e successivamente al Royal Court e nel West End; Enron
(2009) di Lucy Pebble, rappresentato allo Hampstead Theatre e
prodotto dalla Royal Shakespeare Company, che rappresenta il
fallimento dell’omonima azienda americana; The Gods Weep (2010)
di Dennis Kelly, che si concentra sulle vicissitudini di personaggi
diversi, tra cui alcuni banchieri.

Tutto nasce con Shylock

Commercio, usura e impatto deleterio del denaro sull’individuo ven-


gono esplorati dal teatro britannico già a partire dalla fine del Cin-
quecento. Quando Shakespeare scrisse The Merchant of Venice (1598)
il capitalismo muoveva i primi passi e il commercio marittimo co-
50 Caryl Churchill. Un teatro necessario

nosceva una fase di rapida espansione non solo a Venezia, ma an-


che a Londra. Il riferimento di Shylock al Rialto – “Allora, che no-
vità a Rialto?” (III.1.1) – l’area in cui sorgeva la borsa a Venezia
alla fine del Cinquecento, non poteva non richiamare alla mente
del pubblico elisabettiano il Royal Exchange di Londra, nella zona
tra Cornhill e St. Bartholomew’s Lane. Questo magnifico palaz-
zo di quattro piani, costruito nel 1565, divenne sede del Royal Ex-
change nel 1570, quando Elisabetta I vi fece la sua prima visita uf-
ficiale3. Shakespeare doveva conoscere bene il luogo, con i suoi ne-
gozi opulenti e la sua immensa piazza delle contrattazioni, in cui
convergevano mercanti di tutto il mondo. È di grande interesse ci-
tare la testimonianza che il viaggiatore tedesco Paul Hentzner la-
scia nel 1598: «L’altra cosa degna di nota è il Royal Exchange, così
chiamato dalla regina Elisabetta, costruito dal londinese Sir Tho-
mas Gresham, motivo di orgoglio cittadino e sede di contrattazio-
ne dei mercanti. È luogo di grande importanza sia per la mole del-
l’edificio, la presenza di mercanti di molti paesi e la quantità di mer-
ci scambiate»4.
Anche Ben Jonson, in Volpone (1609), pone la propria attenzio-
ne sul denaro e sulla ricchezza. Il protagonista del dramma è ob-
nubilato dalla sete di beni materiali: l’oro è il suo dio come lo era
per molti cittadini inglesi del periodo. Uno dei seguaci di Jonson,
Richard Brome, ingiustamente ignorato dalla critica fino a tempi
recenti, in molte sue commedie cittadine, tra cui City Wit, esplo-
ra la questione del denaro e del commercio attraverso la figura del
mercante. Nei suoi testi Brome traccia una mappa dettagliata del-
la Londra carolina, conducendoci in luoghi pubblici come le taver-
ne, i parchi giochi, e persino la Royal Presence Chamber, ma non
al Royal Exchange, al quale il drammaturgo fa solo riferimento. In
un’altra commedia, intitolata The Volunteers, or The Stock-jobbers (1692)5,
da cui la stessa Churchill deriva una scena di Serious Money, Tho-
mas Shadwell fa salire sul palco alcuni speculatori di borsa allo sco-
po di esplorare il tema degli affari e del commercio nell’Inghilter-
ra della Restaurazione. L’autore scrive il suo dramma, la prima sa-
tira del mondo della City, in un momento di grande malcontento
Parte Prima. Sguardi critici 51

finanziario dovuto al diffuso insider trading e ai numerosi brogli. Nel


1697, cinque anni dopo il dramma di Shadwell, viene emanata una
legge che dovrebbe ridurre il numero di intermediari corrotti e spe-
culatori di borsa. Di nuovo l’autore non mostra i suoi personag-
gi all’interno del Royal Exchange – l’edificio originale era andato
distrutto durante il Great Fire del 1666 – ma molti dei dialoghi,
pur avvenendo nelle strade di Londra, alludono a scambi illeciti e
all’avidità dei personaggi di quel mondo.
Come molti suoi predecessori anche Churchill ambienta il suo
testo nella City londinese, ma introduce qualcosa di nuovo. Alcu-
ne scene avvengono all’interno dello Stock Exchange, che negli anni
ottanta si trovava in Threadneedle Street. Nel 1986 il Big Bang col-
se tutti di sorpresa e il modus operandi della City subì un profon-
do mutamento: si diffusero pratiche di insider trading, aumentò il gra-
do di corruzione e le transazioni finanziarie ebbero un’immedia-
ta risonanza internazionale. Un anno dopo, il mondo dell’alta fi-
nanza era ancora in pieno terremoto quando l’autrice decise di tra-
sformare alcuni di questi eventi in un dramma. Mentre scriveva ir-
ruppe inoltre il “Guinness scandal”, che diventò oggetto di una gran-
de attenzione mediatica e che ovviamente contribuì a rendere an-
cora più attuale Serious Money.
In un’intervista del 1987 l’autrice ha dichiarato di essersi deci-
sa a scrivere la pièce spinta dal desiderio di capire meglio le trasfor-
mazioni che il mondo degli affari stava subendo in quel periodo.
Ciò che l’aveva particolarmente interessata era stato scoprire che
molti uomini e donne del proletariato avevano trovato lavoro allo
Stock Exchange, fino ad allora una roccaforte della classe medio-
alta, e che per la prima volta posti di grande responsabilità erano
stati affidati a donne. Adottando il “Joint Stock Method” (dal nome
della compagnia con la quale collaborava) l’autrice, il regista Max
Stafford-Clark e altri membri del gruppo hanno condotto un la-
voro di ricerca sul campo, recandosi spesso allo Stock Exchange.
I giovani al lavoro nella City suscitarono in loro sentimenti con-
trastanti: «Quando visitammo la City molte cose destarono la no-
stra disapprovazione. Allo stesso tempo la carica e l’energia di tut-
52 Caryl Churchill. Un teatro necessario

ti quei giovani ci affascinarono e ci impressionarono»6. Fu con un


sentimento di ambivalenza, dunque, che Churchill cominciò a scri-
vere Serious Money.
Risulta allora particolarmente interessante analizzare il modo
in cui la City viene rappresentata in quest’opera. La posizione di
Churchill in quanto drammaturga femminista e socialista è stata
spesso messa in discussione dalla critica, paradossalmente proprio
da quella di ispirazione femminista7: in questo senso, la comme-
dia potrebbe confermare quell’ambivalenza rispetto alla politica e
al femminismo che è stata riconosciuta come un tratto tipico del-
l’estetica di Churchill8. Tuttavia, sebbene i critici che recensirono
la prima messinscena (21 marzo 1987) considerarono la comme-
dia una pungente satira sociale sul tema della corruzione nel mon-
do dell’alta finanza, il pubblico che applaudì entusiasticamente l’ope-
ra non era composto solo dai soliti habitués del Royal Court, ma
anche da operatori di borsa e della City9. Il fatto che la commedia
riuscisse a intrattenere più di una categoria sociale conferma la mia
ipotesi secondo la quale il dramma si apre a una molteplicità di in-
terpretazioni diverse e, talora, contraddittorie.
La trama è piuttosto avvincente: l’insider dealer di Churchill, un
market maker dell’alta borghesia di nome Jake Todd, viene ucciso
in circostanze misteriose all’inizio del dramma; sua sorella Scilla,
un agente di LIFFE (London International Financial Future Ex-
change), decide di fare luce sull’omicidio e durante le indagini sco-
pre che prima di morire il fratello stava facendo molti soldi (a que-
sti si riferisce il titolo del dramma) e anche di essere stata ingan-
nata da lui; decide perciò di cercare l’assassino per poter mettere
le mani sulla fortuna del fratello.
Dal punto di vista del discorso politico è interessante metter-
lo a confronto con Wall Street, il film di Oliver Stone uscito nel 1987
e dedicato allo stesso argomento. Nel dramma di Churchill non as-
sistiamo ad alcuno scontro dialettico come nel film di Stone: nes-
suno cerca di arginare la crescente corruzione e non vi è nessun
insider dealer del calibro di Buddy (Charlie Sheen) che si trovi a vi-
vere una crisi personale. Alla fine del film di Stone, Buddy decide
Parte Prima. Sguardi critici 53

di sacrificare sé e le sue ricchezze come atto di accusa verso il mon-


do corrotto nel quale egli stesso è invischiato. Nel finale di Serious
Money solo un insignificante funzionario statale mette invece ter-
mine alle proposte di acquisto della società “Albion”, nelle quali
è coinvolto Jake, mentre gli altri personaggi, tutt’altro che preoc-
cupati, proseguono nelle loro esistenze di doppiogiochisti senza
troppi scrupoli.

La rappresentazione della City

Scegliendo di mettere in scena la City londinese, Churchill esplo-


ra le relazioni interpersonali che si sviluppano nel cosiddetto ter-
ziario avanzato, rilevandone la frammentazione e la superficialità.
L’acuta previsione di Marshall McLuhan secondo cui il vecchio spa-
zio metropolitano si sarebbe alla fine dissolto in informazioni elet-
troniche appare davvero profetica per Serious Money10. Nella City le
relazioni e le emozioni degli operatori sono state modificate dal loro
frequente uso di computer e telefoni – una tendenza che, a distan-
za di un quarto di secolo, si è amplificata in modo stupefacente.
Se dunque è vero che in molti ambiti della società degli anni ot-
tanta il denaro e il profitto regnano incondizionati, ancora più vero
è che nella City essi sono assurti al rango di divinità venerate con
ostentata arroganza.
L’ammissione delle donne in quello spazio metropolitano risa-
le soltanto alla fine degli anni ottanta, ma è interessante notare che
cinque dei sette personaggi femminili di Serious Money hanno già
fatto carriera. È quindi ovvio – come vedremo più avanti – che al
pari dei loro colleghi maschi anche le donne dovranno affronta-
re quelle pressioni di lavoro che le porta a sviluppare un atteggia-
mento cinico, di cui il linguaggio e il comportamento sono delle
spie importanti.
Il mondo della City riflette inoltre un interesse specifico dell’au-
trice: quello per il nuovo tipo di mobilità sociale che è emerso con
la liberalizzazione dei mercati finanziari. Scilla e Jake Todd hanno
54 Caryl Churchill. Un teatro necessario

potuto beneficiare di scuole private, anche se ora entrambi con-


siderano questa loro formazione totalmente inutile per la loro vita
attuale e preferiscono frequentare i duri e potenti operatori della
City piuttosto che personaggi del loro rango. D’altra parte, Zac-
kerman e Grimes (un venditore di titoli di stato) è gente che si è
fatta da sé: deridono i privilegi sociali dei Todd, anche se entram-
bi riconoscono che un’educazione di stampo altoborghese possa
essere estremamente utile per fare carriera:

GRIMES Listen, Nomura’s recruiting a whole lot of Sloanes.


Customers like to hear them on the phones
Because it don’t sound Japanese.
If you want to get in somewhere big –
SCILLA Grimes, don’t be such a sleaze.
Daddy could have got me in at the back door
But you know I’d rather be working on the floor.
I love it down with the oiks, it’s more exciting.
(p. 21)11

In una società fortemente classista come quella britannica que-


sti profondi cambiamenti in nome del dio denaro sono di impor-
tanza primaria.
L’allestimento scenico è fondamentale per capire il modo in cui
Churchill rappresenta la City e la città di Londra. Se le indicazio-
ni sceniche contenute nel copione sono piuttosto scarne, è tutta-
via possibile ipotizzare che, com’è già avvenuto in altre occasio-
ni, l’autrice abbia elaborato insieme allo scenografo Peter Hartwell
tutti i dettagli relativi all’ambientazione durante il periodo di pro-
ve12. Lo spazio scenico per la prima produzione del Royal Court
Theatre era diviso per la maggior parte del dramma in quattro aree
cubiche: due a livello del pavimento e due posizionate direttamen-
te sopra di esse. Nelle scene ambientate nella City questi cubi, che
rappresentano le stanze delle transazioni e gli uffici disseminati in
varie parti del mondo, erano collegati da telefoni e computer, così
da rendere possibile l’interazione su scala internazionale tra i pro-
Parte Prima. Sguardi critici 55

tagonisti. La fredda linearità geometrica dei quattro ambienti cu-


bici riprodotti sulla scena funzionava da metafora degli stili di vita
di chi lavora nella City. Allo stesso modo, più in generale, la tota-
le mancanza di calore nell’ambientazione di questi spazi pareva ri-
specchiare il diffuso cinismo che caratterizzava le relazioni uma-
ne nell’epoca Thatcher. Solo in due occasioni l’area scenica diven-
tava unica: all’inizio, quando Churchill inserisce una breve scena
tratta dal già citato dramma di Shadwell, e una seconda volta, in
una scena di caccia, in cui la famiglia alto-borghese dei Todd in-
contra un banchiere arrivista appartenente al mondo delle merchant
banks, significativamente chiamato Zac Zackerman. Entrambi que-
sti momenti registrano un calo di tensione e di allentamento del-
la velocità.
Sullo sfondo dello spazio frammentato e asettico appena de-
scritto, le brevi scene che si susseguono in modo episodico e non
lineare secondo uno stile brechtiano, danno allo spettatore il sen-
so di rapidità tipica del mondo della finanza. Né d’altronde è li-
neare l’azione principale che ruota intorno all’omicidio di Jake e
all’acquisizione di Albion. Di fatto, le brevissime conversazioni che
si susseguono con ritmo frenetico per tutto il dramma e che av-
vengono nelle diverse aree sceniche impediscono allo spettatore
di identificarsi con gli eventi, così da creare un senso di straniamen-
to. Questo è rafforzato da una versificazione ripetitiva che rende
ancora più veloci gli scambi tra i personaggi. In questo modo lo
spettatore dovrebbe osservare il mondo del dramma con maggio-
re oggettività. Seduta in sala al debutto del 1987 al Royal Court ri-
masi invece quasi ipnotizzata dalle luci accecanti sapientemente ca-
librate da Rick Fisher e persino attratta dal cast di aitanti attori scel-
ti da Stafford-Clark per impersonare gli eleganti operatori della City
(Gary Oldman nel ruolo di Grimes, Alfred Molina come Zacker-
man e Linda Bassnett nei panni di Scilla Todd), oltre che dal loro
rapido eloquio in versi.
56 Caryl Churchill. Un teatro necessario

La City di Churchill tra ieri e oggi

Il mondo della City viene rappresentato in due epoche diverse:


alla fine del Seicento e alla fine degli anni ottanta del secolo scor-
so. Questa contrapposizione di diversi momenti storici, un trat-
to distintivo della tecnica drammaturgica di Churchill, porta il
lettore/spettatore a osservare le vicende da una prospettiva sto-
rica13.
Come accennato, Churchill decide di incastrare una scena trat-
ta dal dramma di Shadwell The Volunteers, or The Stockjobbers (1692)
e di utilizzarla come prologo. Sul proscenio vediamo due inter-
mediari che conversano con Mr Hackwell e sua moglie, entram-
bi personaggi desiderosi di comprare brevetti di ogni tipo, che sia-
no funamboli cinesi o trappole per topi, purché se ne possa trar-
re un profitto. È un frammento che consente all’autrice di sotto-
lineare in modo emblematico l’insaziabile avidità di quell’ambien-
te. Va detto che la ripresa dal dramma seicentesco è solo parzia-
le: non mostra l’altra faccia della medaglia, ossia il gruppo di “vo-
lonteers” che nella commedia di Shadwell si oppongono risolu-
tamente alla speculazione di borsa. Altre scene di Serious Money sono
collocate nei bar e nei ristoranti della capitale, dove in epoca That-
cher domina l’etica “yuppie” secondo cui il denaro è il valore su-
premo. Persino nelle scene di vita privata questa è la sola passio-
ne degli operatori della City. Nei versi seguenti, tratti dalla parte
finale del dramma, il corteggiamento tra Jacinta Condor, una ric-
ca donna d’affari peruviana, e Zackerman nel foyer del notissi-
mo Hotel Savoy è ironicamente infarcito di espressioni legate al
mondo del business:

JACINTA Zac, you’re so charming. I’m almost as fond of you as I am of


a Eurobond.
ZAC I thought we’d never manage to make a date.
You’re more of a thrill than a changing interest rate.
JACINTA This is a very public place to meet.
ZAC Maybe we ought to go up to your suite.
Parte Prima. Sguardi critici 57

They get up to go.


ZAC Did you ever play with a hoop when you were a child and when it stops
turning it falls down flat?
I feel kind of like that.
JACINTA I am very happy. My feeling for you is deep.
But will you mind very much if we go to sleep?
(p. 104)14.

Ad un certo punto del dramma i personaggi partono da Lon-


dra per una battuta di caccia in campagna, senza mai smettere di
pensare agli affari. Qui il nuovo mondo della finanza rappresen-
tato da Scilla e da Zackerman si scontra con l’atteggiamento del-
la famiglia conservatrice di Scilla e dei suoi vecchi amici, tutti rap-
presentanti della vecchia generazione di stock broker, pronti ad espri-
mere nostalgia per la City del passato. Dice Frosby, uno specula-
tore vecchio stile:

The stock exchange was a village street


You strolled around and met your friends
Now we never seem to meet
I don’t get asked much at weekends.
(p. 29)15

Gli esseri umani – parrebbe dire Churchill attraverso le contrap-


posizioni temporali e spaziali – sono sempre stati egoisti e avidi.
I personaggi in questa pièce non hanno grande spessore psicologi-
co. Nessuno dei venti personaggi (tredici uomini e sette donne) che
vi compaiono possiede un carattere a tutto tondo. Quasi tutti sem-
brano motivati, in gradi diversi, dall’avidità, dall’egoismo e da un’in-
saziabile sete di cose materiali. I loro stessi nomi (Zackerman, Gri-
mes, Durkfield, Marylou Baines) indicano il tratto dominante della
loro personalità alla maniera della commedia della Restaurazione. Allo
stesso tempo suscitano sentimenti contrastanti poiché la loro ener-
gia e il loro dinamismo, oltre che la loro pungente ironia, li rendo-
no affascinanti.
58 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Le donne, come gli uomini, conducono con straordinaria abi-


lità una serie di transazioni illegali e immorali, le cui regole sono
brillantemente descritte da Scilla Todd come un «incrocio tra una
roulette russa e guerre stellari». Quando Scilla, per esempio, appren-
de della morte del fratello, mostra scarsa emozione e il suo unico
obiettivo diventa di accaparrarsi i soldi di Jake. Marylou Baines,
un’americana specialista in arbitrati in vetta alla carriera in un mon-
do ancora ampiamente dominato dai maschi, si dimostra spieta-
ta quanto loro. Eppure, nonostante l’illegalità delle sue operazio-
ni e la sua dichiarata mancanza di scrupoli, Marylou possiede ca-
risma, come risulta evidente quando proclama spudoratamente la
sua adesione alla filosofia di vita dell’infame businessman ameri-
cano Ivan Boesky: «Greed is alright. Greed is healthy. You can be
greedy and still feel good about yourself» (Serious Money, p. 45)16.
In una battuta successiva esprime la sua totale mancanza di etica
professionale, ma nello stesso tempo, data l’evidente esagerazio-
ne dei toni che la caratterizza, le parole non sono certamente pri-
ve di umorismo:

I work twenty-hour days and take pills for stomach acidity –


So companies can be taken over easy,
Which means discharging superfluous works, discontinuing unprofitable
Lines, the kind of stuff that makes your lazy inefficient management queasy.
So considering the good we do the US economy
I reckon we should be treated with a little more respect and bonhomie.
I have a hundred and fifty telephones because I depend on information.
(p. 44)17

Jacinta Condor è ancora più spietata e violenta. Se, da una par-


te, il suo flirt con Zackerman e il suo senso dell’ironia risultano
divertenti, il modo in cui lei tratta Jake Todd è scioccante. Di fat-
to, poco prima di lasciarlo, Jacinta mente spudoratamente, mo-
strando che non ha nessun rispetto per le persone che la circon-
dano:
Parte Prima. Sguardi critici 59

Don’t worry Jake, I don’t pull out on you


I give you all my interest – except the cocaine.
And I keep the house of course and the aeroplane.
My country is beautiful, Jake, with mountains, jungle scenery.
My people will starve to death among the scenery.
(Let them rot. I’m sick of it.)
(p. 69)18

Il dialogo ha un ritmo serrato, parzialmente attribuibile al ver-


so. D’altro canto Churchill ha affermato di voler riprodurre l’ener-
gia dei giovani impiegati della City proprio attraverso la versifica-
zione: «la scelta di utilizzare il verso ha lo scopo di cogliere la loro
spinta e la loro ingenuità. Allo stesso tempo si è rivelata utile per-
ché ha trasformato un argomento che avrebbe potuto essere pe-
sante e noioso in qualcosa di profondamente teatrale»19. D’altra par-
te, il ritmo rapido degli scambi potrebbe non lasciare allo spetta-
tore il tempo di riflettere sul contenuto dell’evento scenico.
Dall’inizio del Settecento lo Stock Exchange è stato una ricca
fonte di neologismi, data la natura strettamente orale degli scam-
bi20. Il dialogo riportato di seguito illustra questa tendenza all’uti-
lizzo di una lingua gergale che può risultare persino incompren-
sibile per un non addetto ai lavori. Nello stesso tempo gli scambi
sono sintatticamente semplici, concisi e del tutto privi di afferma-
zioni ipotetiche. La scena mostra i due venditori di titoli di stato,
Grimes e Mates, nella sala di scambio titoli della Klein Merrick Bank;
contemporaneamente, in un’altra “zona del palcoscenico”, Scilla
si trova nell’ufficio di Liffe. Secondo le indicazioni sceniche, “cia-
scuno ha due telefoni”, cosa che rende gli scambi simultanei estre-
mamente frammentari:

GRIMES (phone) What you doing tonight?


SCILLA (phone one) Going out later – hang on.
(phone 2) 4 to 10 nothing doing. Will he go to 5?
(to floor) 5 to 10! 5 to 10!
GRIMES (phone 2) Bid 28 at the figure.
60 Caryl Churchill. Un teatro necessario

MATES (to Grimes) I’m only making a tick.


GRIMES (to MATES) Leg out of it.
SCILLA (phone) Grimes?
GRIMES (to MATES) Futures are up.
(phone) Champagne bar/at six?
MATES (phone) Selling one at the figure.
(to Grimes) I’m lifting a leg.
SCILLA (phone 2) We got you at 10 for 5 bid, ok?
(phone 1) Yes, champagne bar at 6.
(puts down phone 1, answers phone 2 again) Yes?
(p. 15)21

Un’altra caratteristica di questo linguaggio è il continuo ricor-


so ad allusioni sessiste: dato che le donne si sono affacciate solo
in tempi recenti al mondo finanziario, il gergo della City è frutto
dell’inventiva di un plurisecolare immaginario maschile. Bill affer-
ma che quella londinese è una «City della figa» e ciò che si evince
dalle sue parole è che gli uomini si sono follemente innamorati di
questa istituzione, rappresentata infatti come una donna provocan-
te. Anche le nuove operatrici finanziarie, che cercano di proietta-
re un’immagine di sé basata sul modello di successo maschile, non
solo hanno imparato a utilizzare perfettamente il linguaggio crea-
to dagli uomini, ma lo usano con ironia ed esagerazione. Non è
un caso se i due atti di Serious Money si concludono con una can-
zone il cui testo volgare rappresenta l’aggressività degli operatori
di borsa, ben consapevoli del fatto che, nella City, sesso, prostitu-
zione e denaro sono tutt’uno:

They call me a tart who can hardly fart when it’s bedlam in the pit
I’m the local tootsie playing footsie but I don’t mind a bit
Cos my future trusts my money lusts as far as it can spit
And my sterling works on mouthy jerks whose bids are full of shit.
(p. 61)22
Parte Prima. Sguardi critici 61

Possiamo concludere dicendo che Serious Money, mettendo in luce


una linea di continuità tra la City finanziaria degli anni ottanta del
secolo scorso, la City del dramma di Shadwell e la Londra thatche-
riana, ha un grande impatto teatrale grazie alla sua storia accattivan-
te di insider trading raccontata con continui salti temporali e spazia-
li e all’energia dei suoi giovani protagonisti, i cui dialoghi e canzo-
ni sono marcati da un ritmo incalzante. Allo stesso tempo, a me pare
che la pièce non offra una chiara presa di posizione critica su quel-
l’immoralità diffusa nel mondo dell’alta finanza; mancano perso-
naggi che si facciano portavoce di qualche speranza di cambiamen-
to o di una critica alla corruzione e al cinismo che li circonda. Inol-
tre le dinamiche rappresentate sono così brillanti che uno spetta-
tore potrebbe restare affascinato dal ritratto della “City” senza svi-
luppare l’atteggiamento critico desiderato. Sorge dunque il dubbio
che in questo caso il teatro politico di Churchill non raggiunga il
pubblico nel modo in cui l’autrice avrebbe voluto.
62 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Note

1
Una parte del presente capitolo è stata pubblicata in lingua inglese in La città delle donne. Immagi-
nario urbano e letteratura del Novecento, a cura di Oriana Palusci, Tirrenia Stampatori, Torino, 1992.
2
C. Churchill, Serious Money, Methuen, London 1987. Le traduzioni dei brani citati sono di chi scri-
ve.
3
Per ulteriori informazioni sul “Royal Exchange” e il suo fondatore, Sir Thomas Gresham cfr. “The
Royal Exchange”, in W. Thornbury, Old and New London, vol. I, Cassell, Petter and Galpin, Lon-
don 1878, pp. 494-513.
4
Cfr. P. Hentzner, Travels in England during the Reign of Elizabeth I (prima pubblicazione in tedesco
nel 1612); trad. di Horace Walpole, Late Earl of Orford, Edward Jeffery, London 1797, p. 29.
5
Cfr. T. Shadwell, The Volonteers or the Stockjobbers, a cura di D.M. Walmsley, Heath and Company,
London 1930.
6
Quest’affermazione e quelle che seguono fanno parte di una intervista con Caryl Churchill, con-
cessami nell’aprile del 1987 presso il Royal Court di Londra (d’ora in poi: “The Royal Court In-
terview”). Parte dell’intervista è stata pubblicata in Sguardo al femminile. «Sipario» incontra Caryl
Churchill, drammaturgo inglese di successo, «Sipario», novembre-dicembre, 1987, pp. 98-101.
7
Churchill ha espresso perplessità riguardo all’etichetta di “femminista” con cui parte della criti-
ca l’ha spesso definita: «Per tanti anni ho pensato a me stessa come scrittore tout court, senza pen-
sarmi in termini di gender. Recentemente ho però scoperto in me un lato femminista, forse per la
mia frequentazione di ambienti che hanno a che fare con le problematiche femminili. Ciò filtra in-
dubbiamente in quello che scrivo. Comunque, la mia posizione è lontana da certe femministe che
vogliono a tutti i costi porre delle questioni femministe». Cfr. l’intervista con A. McFerran pub-
blicata su «Time Out», 21-27 October 1977.
8
Autrici e drammaturghe femminista, come Micheline Wandor, non hanno accettato la posizione
di Churchill e hanno sottolineato l’ambiguità di alcune delle sue pièce. Cfr. M. Wandor, Carry on
Understudies. Theatre and Sexual Politics, Methuen, London 1981, pp. 167-174.
9
Cfr. The Joint Stock Book, a cura di R. Ritchie, Methuen, London 1987. Churchill ha collaborato
con “Joint Stock” per Light Shining in Buckingamshire (1976), Cloud Nine (1979), Fen (1983) e A Mou-
thful of Birds (1986).
10
M. McLuhan, Understanding Media, McGraw Hill, New York 1965, p. 104 e passim.
11
GRIMES Senti, Nomura sta reclutando un sacco di Sloanes.
Ai clienti piace sentirli parlare al telefono
perché il loro accento non è giapponese.
Se vuoi buttarti in qualcosa di grosso -
SCILLA Grimes, non essere sciocco.
Tu sai bene che papà avrebbe potuto farmi entrare con un bella raccomandazione,
ma sai anche che io preferisco stare in basso.
Mi piace stare con i pivelli: è più divertente!
12
L’autrice collabora con Joint Stock frequentando assiduamente le prove, cambiando il testo e di-
scutendo la scenografia, i costumi, le luci e la musica. Questo è il motivo per il quale le didascalie
sono minimali in tante sue opere. In Serious Money le didascalie iniziali indicano tre diverse sale, si-
multaneamente presenti sul palco e dotate di computer e telefoni (p. 14).
13
Cfr. M. Rose, Un viaggio nel tempo e lo spazio del teatro di Caryl Churchill in Forme drammatiche e tradi-
zione al femminile nel teatro inglese, a cura di R. Baccolini, V. Fortunati e R. Zacchi, Quattroventi, Ur-
bino 1992, pp. 192-211.
Parte Prima. Sguardi critici 63

14
JACINTA Zac, sei così affascinante. Mi piaci quasi quanto un eurobond.
ZAC Ero convinto che non saremmo mai riusciti a vederci.
Sei più eccitante di un tasso di interesse fluttuante.
JACINTA Questo è un posto troppo pubblico per un incontro.
ZAC Forse sarebbe meglio andare nella tua suite.
Si alzano e se ne vanno.
ZAC Hai mai giocato a hula-hop quando eri piccola? Hai in mente quando smette di girare e cade
a terra? Ecco, mi sento proprio così.
JACINTA Sono molto felice. Ti voglio tanto bene.
Ma ti dispiacerebbe se andiamo a dormire?
15
«La borsa era una stradina di paese
La si percorreva e ci si incontrava con gli amici
Ora nessuno si incontra mai
Non mi invitano mai a uscire nel fine settimana».
16
«L’avidità non è un problema. L’avidità è sana. Puoi essere avido e sentirti perfettamente in pace
con te stesso».
17
«Lavoro venti ore al giorno e prendo le pastiglie contro l’acidità di stomaco –
per questo le aziende si lasciano comprare tanto facilmente.
Questo significa eliminare lavori superflui, tagliare ciò che è inutile,
il tipo di cose che rende schifiltosi i tuoi oziosi dipendenti.
Se consideriamo quanto bene facciamo all’economia statunitense,
Credo che dovrebbero trattarci con maggiore rispetto e cura.
Ho centocinquanta telefoni perché io dipendo dalle informazioni».
18
«Non preoccuparti, Jake. Non ho intenzione di abbandonarti.
Ti offro tutto il mio sostegno – ma non la mia cocaina.
E ovviamente mi terrò la casa e l’aereo.
Il mio paese è meraviglioso, Jake: ci sono montagne e giungle verdissime. E la mia gente vi mori-
rà di fame. (Che marciscano. Non ne posso più!)».
19
Cfr. The Royal Court Interview, cit.
20
Cfr. K.O’Dean, “Bear Hugs and Bo Dereks on Wall Street” per una discussione dell’evoluzio-
ne del linguaggio all’interno della borsa americana, che è facilmente paragonabile a ciò che è suc-
cesso in Inghilterra, in The State of Language, a cura di L. Michaels and C. Ricks, University of Ca-
lifornia Press, Berkeley 1980, pp. 226-227.
21
GRIMES (al telefono) Cosa fai stasera?
SCILLA (telefono 1) Esco più tardi – Rimani in linea.
(telefono 2) 4 a 10 niente da fare. Non arriva a 5?
5 a 10! 5 a 10!
GRIMES (telefono 2) Offri 28.
MATES (a GRIMES) Sto solo facendo uno scatto.
GRIMES (a MATES) Lascia perdere.
SCILLA (al telefono) Grimes?
GRIMES (a MATES) I futures sono saliti.
(al telefono) Champagne bar alle 6?
MATES (al telefono) Ne vendo uno a questo prezzo.
(a GRIMES) Sto alzando l’offerta.
SCILLA (al telefono 2) Ti abbiamo rimediato un’offerta da 5 a 10, va bene?
(al telefono 1) Va bene, champagne bar alle 6.
64 Caryl Churchill. Un teatro necessario

(mette giù il telefono 1, risponde di nuovo al telefono 2) Sì?


22
«Mi chiamano sgualdrina che ha difficoltà a petare quando c’è casino nella baracca. Sono il te-
soruccio del quartiere: faccio il piedino, ma non me ne importa nulla. Il mio futuro si basa sui miei
soldi. Avrò soldi finché respirerò. Le mie sterline fanno effetto sulla gentaglia loquace, che fa of-
ferte piene di merda».
Arte e politica nel calligramma disfatto di T h i s i s
a Chair
di Mariacristina Cavecchi

Breve, di cinquanta minuti circa, in scena al Royal Court solo


per quattro serate nel giugno 1997, ma con un cast d’eccezio-
ne, la regia di Stephen Daldry e una tournée in tutta l’Europa e
in America, This is a Chair è un testo importante, che invita a
una riflessione, «non banale né innocua»1, sulle modalità di rap-
presentazione della realtà e sul ruolo politico, sociale, morale
del teatro nella società contemporanea. Ancora una volta, e sul-
la scia di Traps (1977), che secondo Churchill è costruito come
«un oggetto impossibile o come un quadro di Escher, dove gli
oggetti possono esistere in quel modo sulla carta, ma sarebbe-
ro impossibili nella vita reale»2, la chiave per la comprensione
del testo è un riferimento pittorico. Se Traps è modellato traen-
do ispirazione da Maurits Cornelis Escher, l’artista olandese
noto per le costruzioni impossibili e le distorsioni geometriche
dagli effetti paradossali, This is a Chair rimanda invece all’arte di
René Magritte, le saboteur tranquille capace d’insinuare dubbi sul
reale attraverso la rappresentazione del reale stesso. Sempre at-
tenta alla realtà contemporanea, che registra in testi dedicati a
questioni di grande attualità – dal Big Bang che ha investito la
City londinese a metà degli ottanta ai bombardamenti israeliani
su Gaza del 2009 – in This is a Chair Churchill sembra invece
concentrare l’attenzione su una riflessione precipuamente me-
tateatrale così da offrire un manifesto del suo modo di fare tea-
tro, benché anche qui si facciano sentire prepotenti le contin-
genze della vita moderna. D’altro canto, come in tutti i suoi te-
sti, anche in questo l’autrice mostra una straordinaria ricettivi-
tà e capacità di catturare le ansie e i cambiamenti del momento
66 Caryl Churchill. Un teatro necessario

e di offrire uno specchio estremamente lucido e significativo


della società contemporanea attraverso un linguaggio dramma-
turgico nuovo. Churchill porta al centro del palcoscenico una
riflessione sui modi con cui percepiamo e rappresentiamo la re-
altà cogliendo la crescente frenesia e frammentarietà delle vite
e dei comportamenti alla fine degli anni novanta, quando l’im-
porsi di Internet e della comunicazione e informazione virtua-
le hanno cambiato le relazioni interpersonali e hanno forse ac-
centuato una diffusa propensione a una costante, per quanto
inconscia, rimozione del bombardamento quotidiano di imma-
gini e informazioni.
In una delle sue prime riflessioni sulla natura del teatro, Chur-
chill scrive che «i drammaturghi non danno risposte, fanno doman-
de»3; da quando ha iniziato a scrivere per il teatro l’autrice non ha
mai smesso di porre domande e di spingere il suo pubblico a far-
si domande a sua volta. Quale deve essere il ruolo del teatro alla
fine degli anni novanta? Perché parlare del teatro attraverso le arti
figurative? Perché interrogare il teatro ricorrendo alla pipa di Ma-
gritte?

Un surrealismo epico

Nella sua ricerca continua e instancabile sperimentazione, con This


is a Chair Churchill crea un testo in cui riesce a coniugare e a fon-
dere linguaggi e codici molto diversi e lontani tra loro: da un lato,
il linguaggio teatrale ed epico di Bertolt Brecht; dall’altro quello pit-
torico e surrealista di René Magritte.
Spesso definita come “post-brechtiana”4, l’autrice, che ha cer-
tamente utilizzato alcune tecniche prese in prestito dal dramma-
turgo tedesco, tende tuttavia a svincolarsi da quell’etichetta ingom-
brante, invitando piuttosto a ripensare a Brecht e alla sua idea di
teatro come a qualcosa che nell’Inghilterra degli anni settanta era
parte di quel serbatoio di conoscenze a cui attingevano autori, re-
gisti e attori5.
Parte Prima. Sguardi critici 67

Così, è nel solco delle indicazioni brechtiane sulla “letterarizza-


zione del teatro”6, nel tentativo di esercitare il pubblico ad una vi-
sione complessa, che Churchill suggerisce l’utilizzo di cartelli per an-
nunciare le sette brevi scene che compongono il testo, anche se, a
ben vedere, il meccanismo da lei messo in moto si scosta non poco
da quello brechtiano. Là dove il drammaturgo tedesco raccoman-
dava l’uso dei cartelli per “storicizzare” la scena, in This is a Chair i
cartelli annunciano temi di grande risonanza e di interesse colletti-
vo (“La guerra in Bosnia”; “Pornografia e censura”; “Lo scivolone
verso destra del Partito Laburista”; “La tutela degli animali e le eco-
nomie del Terzo Mondo: il commercio d’avorio”; “Hong Kong”;
“Il processo di pace nell’Irlanda del Nord”; “Ingegneria genetica”;
“L’impatto del capitalismo sulla ex-Unione Sovietica”) che però poi
vengono puntualmente contraddetti dalle scene che seguono:
frammenti di scene domestiche, che portano sul palcoscenico spac-
cati e personaggi della vita di tutti i giorni. Una donna, Mary, si è im-
pegnata con un doppio appuntamento; in due scene distinte, una ra-
gazzina, Muriel, si rifiuta di mangiare nonostante le minacce dei ge-
nitori; due fratelli e una sorella bisticciano perché i primi due potreb-
bero aver causato il suicidio del ragazzo della donna, avendolo ac-
cusato di averla introdotta al mondo della droga; Deirdre è indeci-
sa se farsi anestetizzare durante un’accertamento medico; due uo-
mini, forse compagni, Leo e Tom, sono intenti a litigare fino a che
l’irruzione dell’amico Charlie ristabilisce la pace; due coniugi, Eric
e Maddy, andando a letto, ripensano al rumore (forse di un’esplo-
sione) sentito all’ora di pranzo. Brevi storie spezzate, difficili da ca-
pire fino in fondo, di cui non si conoscono né l’inizio, né la fine. Non
sapremo mai se la piccola Muriel cederà infine alle minacce dei ge-
nitori e mangerà la sua cena, così come non sapremo mai come si
concluderanno le altre storie: se Mary rivedrà Julian, se Anne potrà
mai perdonare i fratelli per la morte del suo ragazzo o se questi ver-
ranno condannati per omicidio; allo stesso modo potremo solo ipo-
tizzare che tipo di rumore hanno sentito Eric e Maddy: il boato di
una bomba, il fracasso di un incidente automobilistico piuttosto che
l’esplosione di un fuoco d’artificio.
68 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Così come ci interroghiamo sul significato dell’azione scenica


– di cui non abbiamo mai certezza – siamo anche portati a porci
delle domande su come funziona lo spettacolo: sulle ragioni di que-
sto scollamento cartello/scena e anche sulla disposizione inversa
della scena rispetto alla sala, con spettatori fatti accomodare sul pal-
coscenico che assistono allo spettacolo che avviene su una piat-
taforma appoggiata sulle sedie della platea.
È a questo punto che viene in soccorso la pittura di Magritte.
Il riferimento al pittore belga è evidente fin dal titolo, che evoca,
storpiandolo, il titolo di una serie di dipinti del pittore belga che
mostrano il disegno di una pipa e una didascalia in cui si legge «Ceci
n’est pas une pipe»; è poi ancora più esplicito nell’edizione pub-
blicata del testo7, che reca in copertina una riproduzione della pipa
che campeggia in La Trahison des images (1929)8. Dietro alla palese
contraddizione tra titolo e scena risulta così inevitabile scorgere un
meccanismo di dissociazione simile a quello messo in campo da
Magritte, un artista che in molti dei suoi dipinti esprime il proprio
interesse per i problemi della rappresentazione. Nello spettacolo
di Churchill i cartelli funzionano come le didascalie magrittiane e
mettono a nudo un simile gioco di contraddizioni e scollamenti che
ha inevitabili e sensibili ricadute di senso. L’eredità brechtiana, an-
cora testimoniata dai cartelli, dai jingle musicali che aprono le sce-
ne, dai temi politici, nonché dall’enfasi sul ruolo attivo degli spet-
tatori, incrocia l’estetica surrealista di Magritte in questo testo che,
nelle intenzioni dell’autrice, non deve essere tanto una guida, quan-
to una sfida. Churchill non accompagna gli spettatori, non li ar-
ringa, non spiega loro; viceversa, li pone di fronte a situazioni non
immediatamente comprensibili, non univocamente interpretabili,
che pongono domande e anche qualche mistero da risolvere. A par-
tire, forse, da quello di un titolo con evidenti echi magrittiani che
decide di focalizzare l’attenzione su una “sedia”. This is a Chair. Que-
sta è una sedia. Anche se Churchill ha negato che esista una ragio-
ne per questo titolo e per la scelta di questo tra i molti oggetti pos-
sibili9, evidentemente quello prescelto non è un oggetto qualsia-
si: la sedia è, viceversa, carica di senso e di rimandi intertestuali.
Parte Prima. Sguardi critici 69

E benché nel testo le uniche sedie in scena siano quelle estrema-


mente ordinarie e domestiche su cui siedono Muriel e i suoi ge-
nitori nella scena del pranzo, risulta inevitabile pensare ad altre se-
die in altri testi di Churchill – da quelle nella scena del banchetto
di Top Girls a quelle poi successivamente utilizzate in A Number –
nonché alla numerose sedie utilizzate dal teatro britannico e non.
Dai troni dei monarchi shakespeariani a le chaises vuote di Eugè-
ne Ionesco fino alle numerose sedie a dondolo, seggiolini, panchi-
ne e poltrone che affollano il teatro di Samuel Beckett10, la sedia
è un oggetto investito di senso e attraversato da una lunga catena
di rimandi. Ma la sedia a cui allude Churchill è forse anche quel-
la del regista e allora l’affermativa del titolo (“This is a Chair”) di-
venta l’asserzione di un programma: “questo è un teatro”. Il tea-
tro proposto da Churchill, un teatro che invita a pensare e riflet-
tere sulla realtà è teatro, deve essere il teatro. Non ultimo, la sedia
è anche quella su cui siede lo spettatore e forse anche proprio su
quella l’autrice intende puntare la propria attenzione. Non a caso
l’allestimento prevede un’inversione della relazione spaziale
sala/scena: facendo sedere gli spettatori su sedie sistemate sul pal-
coscenico e recitare gli attori su una piattaforma appoggiata sui se-
dili al centro della platea, si sottolinea proprio il ruolo primario di
un pubblico a cui viene lanciata la sfida di capire, innanzitutto, e
poi anche di agire in prima persona nel mondo. Al di là del riferi-
mento a Magritte, viene da pensare che il riferimento alla “sedia”
stia ad indicare come Churchill auspichi che il pubblico riconosca
come il suo posto non sia quello di stare comodamente seduto nel
buio di una platea, ma viceversa nel mezzo del palcoscenico del-
la Storia.

Ceci n’est pas une pipe

Al suo pubblico disorientato e un po’ perso, Churchill offre quin-


di un titolo che è una chiave per orientarsi nei meandri di un te-
sto di non immediata comprensione. Si tratta allora di accogliere
70 Caryl Churchill. Un teatro necessario

la sfida, seguire le indicazioni e provare a leggere This is a Chair at-


traverso il filtro di Magritte – e magari anche del breve saggio Ceci
n’est pas un pipe (1968) di Michel Foucault, un filosofo che l’autri-
ce conosce sicuramente e il cui saggio Surveiller et punir. Naissance
de la prison (1975) è stato fonte d’ispirazione per Softcops (1984).
Dell’enigmatico La Trahison des images magrittiano, Foucault of-
fre un’interpretazione estremamente suggestiva, leggendolo come
un calligramma costruito segretamente da Magritte, poi disfatto
con cura11. Secondo il filosofo francese, l’invisibile e preliminare
operazione calligrafica avrebbe intrecciato scrittura e disegno a tal
punto che, quando l’artista belga ha rimesso le cose a posto, si è
preoccupato che «la figura conservasse la pazienza della scrittura
e che il testo non fosse mai altro che una rappresentazione dise-
gnata»12. Le suggestioni di Foucault aiutano forse a decifrare lo scol-
lamento proposto da Churchill, leggendolo appunto nei termini
di un calligramma disfatto: di un allontanamento del cartello dal-
la scena, e anche della sfera del pubblico (enunciata dal cartello)
da quella del privato (rappresentata nelle scene). È in questa distan-
za che si gioca il testo – una distanza che secondo l’autrice è ne-
cessario colmare per riscoprire quel primigenio nesso tra pubbli-
co e privato ormai perduto e che solo potrebbe invece contribui-
re a ricomporre e sanare quelle fratture che lacerano la società con-
temporanea.
Con un meccanismo opposto ma complementare a quello con
cui anni prima e sullo stesso palcoscenico del Royal Court, in Bla-
sted (1995) Sarah Kane aveva mostrato come fosse possibile tro-
vare il seme della guerra nella società in tempo di pace trasforman-
do repentinamente l’interno domestico di un albergo di Leeds in
una zona di guerra che ricorda la Bosnia, Churchill marca la distan-
za tra interessi collettivi e individuali. Denuncia quindi l’indifferen-
za generalizzata che contraddistingue la società britannica, disamo-
rata della politica e del bene comune dopo i lunghi anni in cui Mar-
garet Thatcher ha posto il singolo e l’interesse personale al cen-
tro del proprio programma di governo. L’autrice mette in scena
personaggi che sono così presi dalle loro storie particolari da non
Parte Prima. Sguardi critici 71

aver tempo di prestare attenzione a questioni d’interesse colletti-


vo o alla Storia, che pure stanno contribuendo a fare – non che la
loro disattenzione o disinteresse li porti ad essere più sereni, dal
momento che quelle che vengono rappresentate sono comunque
vite quotidiane intessute da sofferenza, fisica o psicologica, malat-
tia, droga, conflitti. Ma forse, all’indomani delle elezioni che han-
no portato alla vittoria il New Labour di Tony Blair, Churchill in-
travede anche una possibile via d’uscita, fiduciosa, come molti, nel-
la possibilità di un futuro diverso e di una nuova epoca di parte-
cipazione collettiva alla vita del paese. Mary, Ann, Ted, John, Pol-
ly, Deirdre, Leo, Tom, Charlie, Eric, Maddy, nessuno di loro vie-
ne mai sfiorato dai temi enunciati dai cartelli che pure ne antici-
pano l’ingresso sulla scena. Non così gli spettatori. Sollecitati dal
titolo, questi sono infatti portati a pensare che, come in La Trahi-
son des images, anche in This is a Chair, forse, i titoli lascino traccia
di sé nelle scene che seguono e a cercare quindi possibili legami e
connessioni tra cartello e scena; così facendo sono spinti a colma-
re la distanza tra i due e a fissare finalmente la propria attenzione
sul tema enunciato e così smaccatamente assente dalla scena. Nel-
la prima scena, il titolo “The War in Bosnia” (“La guerra in Bo-
snia”), che punta i riflettori su un tema allora di grande attualità e
risonanza internazionale, introduce Mary che, dopo essere giun-
ta in ritardo al suo appuntamento con Julian che l’attende con un
mazzo di fiori in mano, si scusa e scappa via in taxi perché, spie-
ga, si è tardivamente e “stupidamente” resa conto di avere due di-
versi appuntamenti per lo stesso giorno alla stessa ora. Di fronte
ad un tale scollamento, gli spettatori del Royal Court, forse anche
memori della violenza e degli orrori presentati su quello stesso pal-
coscenico da Sarah Kane, sono spiazzati e anche indotti a doman-
darsi cosa c’entri la guerra in Bosnia con la scenetta di Mary. La
prima e più ovvia risposta è che tra i due non intercorra alcuna re-
lazione, appunto perché Churchill vuole mostrare che le tragedie
della Storia non scalfiscono le nostre vite e coscienze – un’indif-
ferenza emblematicamente evidente in “Genetic Engineering” (“In-
gegneria genetica”), dove il dubbio che possa essere scoppiata una
72 Caryl Churchill. Un teatro necessario

bomba non preoccupa più di tanto Eric e Maddy e certamente non


li esonera dal rito consueto dell’augurarsi la buonanotte. Ma dopo
un iniziale momento di disorientamento, spinti da Magritte alla ri-
cerca delle “tracce” di un calligramma disfatto, gli spettatori si sfor-
zano di trovare l’invisibile preliminare nesso tra i due e giungono,
forse, a confrontare il comportamento di Mary e il suo doppio ap-
puntamento con l’atteggiamento della Gran Bretagna nei confron-
ti della vicenda bosniaca, di cui la stampa ha spesso sottolineato
l’ambiguità e la doppiezza13. Alla stessa stregua, il titolo “The La-
bour Party’s Slide to the Right” (“Lo scivolone verso destra del Par-
tito Laburista”) invita forse a considerare come un suicidio, per quan-
to involontario, la svolta in senso riformista impressa alla sinistra
britannica da Tony Blair, accusato dai critici del suo stesso parti-
to di aver tradito i principi fondatori del Partito Laburista con la
revisione della “Clause IV” prima e il lancio del “New Labour” poi.
Similmente, “Pornography and Censorship” (“Pornografia e cen-
sura”) arricchisce di sottintesi inquietanti la minaccia del padre alla
ragazzina che si rifiuta di mangiare – «Muriel, if you don’t eat your
dinner you know what’s going to happen to you» (p. 11)14 – e che,
in assenza di quell’indicazione iniziale leggeremmo invece come
l’intervento di un genitore normalmente preoccupato per l’alimen-
tazione della figlia.
Ma il riferimento a Magritte ha anche altre ricadute sull’azio-
ne scenica. Significativamente la scena della bambina sollecitata a
mangiare dai genitori viene successivamente ripresentata con un
titolo differente, “The Northern Ireland Peace Process” (“Il pro-
cesso di pace dell’Irlanda del Nord”), che da un lato, rievoca gli scio-
peri della fame dei detenuti repubblicani del carcere di Long Kesh
per ottenere dal governo britannico lo status di prigionieri politi-
ci, dall’altro è un’ulteriore conferma del fatto che, per dirla con Ma-
gritte, «non vi è molta relazione tra un oggetto e ciò che lo rap-
presenta»15 e che non vi è “molta relazione” tra una scena e il car-
tello che la presenta. In “Hong Kong” la scena proposta porta alle
estreme conseguenze questo principio di non corrispondenza e in-
fatti non è costruita in modo da dover significare: i due protago-
Parte Prima. Sguardi critici 73

nisti, Tom e Leo interagiscono in quello che parrebbe un dialogo,


salvo che le loro battute non seguono un ordine logico, ma squi-
sitamente cronologico. Come spiega l’attore Desmond Barrit, la
loro conversazione è solo apparente ed è costituita da un collage
di battute slegate le une dalle altre ma assemblate seguendo la suc-
cessione cronologica in cui sono state pronunciate nel corso di una
giornata16. D’altro canto, tutte le scene di This is a Chair si offro-
no a plurime, molteplici interpretazioni, dal momento che ogni spet-
tatore legge in modo personale e individuale la relazione scena/car-
tello proposta dall’autrice ed è libero di immaginare diversi pos-
sibili finali per le storie che vengono presentate. È da questo pun-
to di vista emblematico che lo spettacolo si chiuda con un cartel-
lo che non viene seguito da alcuna scena, spiazzando nuovamen-
te (benché in modo diverso) gli spettatori. Questa volta il cartel-
lo “The Impact of Capitalism on the Former Soviet Union” (“L’im-
patto del capitalismo sull’ex Unione Sovietica”) funziona come i
titoli dei giornali o dei telegiornali da cui si viene quotidianamen-
te assillati – notizie con cui si possono fare i conti o che si posso-
no velocemente dimenticare.
L’instabilità semantica investe il testo anche nella ricca polise-
mia messa in gioco. Le parole rimbalzano di scena in scena, vesten-
dosi via via di nuovi e diversi significati e sottolineano l’ambigui-
tà e anche l’instabilità del linguaggio. Si prenda “tube”, che nella
prima scena è da intendersi come l’espressione colloquiale per “me-
tropolitana” (scena 1, p. 9), mentre successivamente viene utiliz-
zata da Deirdre come “sondino” (scena 4, p. 16); una parola che
cumula due diverse accezioni, che tuttavia sono parimenti veico-
lo di un senso poco rassicurante. Da un lato, la metropolitana si
blocca nel tunnel per cinque lunghissimi minuti facendo crescere
l’ansia dei passeggeri:

MARY: [...] there was a holdup on the tube it stopped in the tunnel for about
five minutes people were starting to get nervous you could see from the way
they kept on reading or just staring into space but deliberately because they
were getting nervous [...] (p. 9)17
74 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Dall’altro, il “sondino” che dovrebbe servire a quella che con ogni


probabilità dovrebbe essere una gastroscopia, è fonte di dubbi e
quindi di ansia per Deirdre che non sa decidere se farsi anestetiz-
zare o no (pp. 16-17). Analogo destino per la parola “drug”, che
nella quarta scena compare per indicare “anestetico”, anche se gli
spettatori non possono dimenticarne l’uso nel senso di “droga” nel-
la scena precedente, dove la droga è causa di morte. Rimbalzan-
do da una scena all’altra, questa parola rinforza il senso di aneste-
sia o di ottundimento dei sensi, di un’incapacità di relazionarsi al
mondo che l’autrice denuncia con forza.
Nell’ultima scena, in cui peraltro le battute e le parole vengo-
no costantemente riprese e ripetute, la parola “bath” ricorre inve-
ce nel finale come un balbettio, in cui ormai il suono è più impor-
tante del significato, secondo una modalità che Churchill ripropo-
ne in Blue Heart, ed è indice di una impossibilità/incapacità di espri-
mere un senso compiuto:

Eric: I’m going to have a bath I had a bath yesterday I don’t feel like a bath.
(p. 31)18

D’altro canto, questa scena, intitolata “Genetic Engineering”


(“Ingegneria genetica”), potrebbe essere letta come una scena for-
temente metadrammatica. Lo sforzo interpretativo dei due prota-
gonisti alle prese con la decodificazione di un rumore che hanno
udito ore prima e che ancora non sono riusciti a riconoscere riman-
da infatti allo stesso sforzo interpretativo degli spettatori. Indub-
biamente, le dissociazioni del testo creano uno spiazzamento nel-
le loro abitudini mentali invitandoli a riflettere su quanto i codi-
ci, i segni e la loro arbitrarietà influenzino il modo di percepire la
realtà. Churchill, che crede nel ruolo attivo e socialmente respon-
sabile del teatro, spiazza gli spettatori costringendoli a cercare una
propria interpretazione dei fatti presentati e, attraverso lo specchio
anamorfico delle pipe di Magritte, prova a restituire la complessi-
tà di un mondo e della sua rappresentazione e a porre domande
sul ruolo del teatro negli anni novanta.
Parte Prima. Sguardi critici 75

Note

1
P. Roberts, About Churchill: The Playwright and the Work, Faber and Faber, London 2008, p. XXVI.
2
C. Churchill, Traps, note di regia, Nick Hern Books, London 1978. Cfr. D. Jernigan, Traps, Soft-
cops, Blue Heart, and This is a Chair: Tracking Epistemological Upheaval in Caryl Churchill’s Shorter Plays,
«Modern Drama», XLVII, 1, 2004, Spring 4, pp. 33-43.
3
P. Roberts, op. cit., p. XXVI.
4
Churchill s’imbatte in Brecht presto, quando, nel 1958, a Oxford, prende parte come attrice ad
una messa in scena del Cerchio di gesso del Caucaso. Sul suo rapporto con il drammaturgo tede-
sco cfr. il capitolo “Caryl Churchill: Socialist Feminism and Brechtian Dramaturgy” in J. Reinelt,
After Brecht. British Epic Theater, The University of Michigan Press, Ann Arbor 1996, pp. 81-107.
5
Ivi, p. 86.
6
B. Brecht, Schriften zum Theater. Über eine nicht-aristotelische Dramatik, Suhrkamp Verlag, Frankfurt
am Main 1957; trad. it. Scritti teatrali, Einaudi, Torino 1962, pp. 37-42.
7
C. Churchill, This is a Chair, Nick Hern Books, London, 1999. Le traduzioni da questo testo sono
di chi scrive.
8
R. Magritte, La Trahison des images, olio su tela, 59x65cm, Art Institute, Chicago.
9
P. Roberts, op. cit., p. 250.
10
M. Cavecchi, “Nel museo di Samuel Beckett: alcune stanze”, in Tra le lingue, tra i linguaggi. Cen-
t’anni di Samuel Beckett, a cura di M. Cavecchi e C. Patey, Quaderni di Acme 97, Cisalpino, Milano
2007, pp. 235-262; E. Brater, “The Seated Figure on Beckett’s Stage” in The Tragic Comedy of Sa-
muel Beckett, a cura di D. Guardamagna e R.M. Sebellin, Laterza, Bari 2009, pp. 259-276.
11
Così scrive Foucault: «dietro quel disegno e quelle parole, prima che si fossero formati il dise-
gno del quadro e il disegno della pipa dentro di esso, prima che lassù fosse comparsa la grossa pipa
fluttuante, credo necessario supporre che fosse stato formato un calligramma, che poi si è decom-
posto» (M. Foucault, Ceci n’est pas une pipe, Editions Fata Morgana, Montpellier 1973; trad. it. Que-
sto non è una pipa, SE, Milano 1988, p. 26).
12
Ivi, p. 30.
13
Cfr. D. Conversi, “Moral Relativism and Equidistance in British Attitudes to the War in the For-
mer Yugoslavia”, in This Time We Knew: Western Responses to Genocide in Bosnia, a cura di S.G. Meštro-
vic e T. Cushman, New York University Press, New York 1996, pp. 244-281.
14
«Muriel, se non mangi la tua cena sai cosa ti succede».
15
R. Magritte, “Les mots et les images”, in La Révolution Surréaliste, 12, 15 Décembre 1929, pp. 32-
33; trad. it. “Le parole e le immagini” in S. Gablik, Magritte. La vita e le opere, Rusconi, Milano 1988,
p. 133.
16
D. Barrit in Roberts, op. cit., p. 251.
17
«[...] c’è stato un intoppo nella metro si è fermata nel tunnel per cinque minuti circa la gente ini-
ziava a innervosirsi si vedeva dal modo con cui continuava a leggere o fissava lo spazio ma volu-
tamente perché iniziavano a innervosirsi».
18
«Ho intenzione di fare un bagno ho fatto un bagno ieri non mi va di fare un bagno».
Copertina del volume This is a Chair, Nick Hern Books, London 1999.
«This is Not a War»: le neoguerre nel teatro di
Caryl Churchill
di Sara Soncini

Sipario. Musica. Titolo a scorrimento in alto sul fondale: «The


War in Bosnia». Scena: in una strada londinese, un uomo che
aspetta con un mazzo di fiori; arriva lei, si scusa per il ritardo e
spiega, imbarazzata, che la serata è rimandata perché non ricor-
dava di avere già preso un altro appuntamento. L’incipit di This
is a Chair (1997), con il suo scollamento magrittiano tra parola e
immagine, oggetto e segno, può essere retrospettivamente letto
come una vera e propria dichiarazione d’intenti da parte di una
drammaturga che, a fronte del sempre più ampio spazio dedica-
to ai modi e alle forme del conflitto contemporaneo nel suo tea-
tro recente, ha rifiutato in modo programmatico di portare in
scena la guerra. Come nella famosa serie delle pipe di Magritte,
debitamente citata sulla copertina del testo a stampa, la parados-
sale presenza/assenza del referente “guerra” in This is a Chair de-
nuncia l’inganno delle immagini e delle parole insieme, ponendo
al centro del discorso drammatico il problema della rappresenta-
zione e della rappresentabilità. Significativamente, a questo inte-
resse tematico corrisponde, nella drammaturgia churchilliana,
l’elaborazione di strategie espressive che è possibile collegare ad
alcune caratteristiche del nuovo paradigma bellico venutosi a de-
lineare con sempre maggior chiarezza in quelle che gli studiosi
hanno definito «neoguerre»1.
Da sempre la rappresentazione della guerra, a teatro, ha costi-
tuito una sfida ai mezzi espressivi di questa forma d’arte a vocazio-
ne mimetica, spesso costringendo gli artisti a ripensare ed estende-
re i limiti del linguaggio drammatico e scenico; il problema, tutta-
via, si è posto in modo ancor più pressante per i conflitti di nuo-
78 Caryl Churchill. Un teatro necessario

va generazione, con la loro dimensione globale da un lato, e la loro


natura sempre più virtuale, mediata e mediatica dall’altro. Se, come
spiega il prologo dell’Enrico V, Shakespeare aveva già il suo bel daf-
fare a costringere entro alla O di legno del Globe i «vasti campi di
Francia», come dare forma scenica, oggi, a una guerra infinita, com-
battuta contro un nemico per lo più invisibile, su un territorio che
non ha confini – «un iperspazio dalle rifrazioni multiple», secon-
do la suggestiva definizione di Baudrillard2? Inoltre, se il teatro oc-
cidentale sin dalle sue origini si è dimostrato una forma d’arte par-
ticolarmente adatta a fornire gli strumenti estetici per rappresen-
tare le dinamiche della guerra, della quale condivide il principio ago-
nistico, ha ancora senso una forma basata sul dialogo quando l’ar-
gomento che questa è chiamata a rappresentare ha assunto, nell’era
post-bipolare, una struttura sempre più asimmetrica, unilaterale e
con ciò fondamentalmente non dialettica, o addirittura non relazio-
nale? In che modo e fino a che punto il dialogo drammatico può
essere in grado di rendere conto di guerre nelle quali sembra or-
mai venuto meno l’elemento del conflitto?3 Soffermandosi sui due
testi più rappresentativi, per estensione e complessità, del teatro di
guerra di Caryl Churchill, il profetico Far Away (2000) e il più re-
cente Drunk Enough to Say I Love You? (2006), questo contributo in-
tende mettere in relazione le caratteristiche formali delle due piè-
ce con quelle degli scenari bellici che in esse vengono evocati. La
prontezza e la lucidità con cui Churchill ha saputo percepire il cam-
biamento, recepirlo nella sua scrittura e dargli forma scenica sono
un’ulteriore conferma della straordinaria vocazione camaleontica
che ha fatto di lei una delle maggiori innovatrici del linguaggio dram-
matico contemporaneo.

L’approccio antimimetico

Come nel magrittiano This is a Chair, anche nei war plays successi-
vi quelle di Caryl Churchill sono guerre di volta in volta annun-
ciate, raccontate, citate, rievocate, ma mai mostrate. Così, ad esem-
Parte Prima. Sguardi critici 79

pio, nel recentissimo Seven Jewish Children, andato in scena al Ro-


yal Court nel febbraio 2009 durante l’assedio di Gaza e descritto
dalla drammaturga stessa come un evento politico, oltre che tea-
trale4: sette brevi scene in cui un numero non specificato di adul-
ti, genitori o parenti, dibatte su cosa e quanto sia giusto racconta-
re a una bambina ebrea a proposito delle violenze subite dal po-
polo ebraico prima, e della ferocia del conflitto israelo-palestine-
se poi. Dal punto di vista cronologico, i sette movimenti traccia-
no un arco che va dalle persecuzioni naziste fino al bombardamen-
to di Gaza dopo la vittoria di Hamas, passando per la fondazio-
ne di Israele, la guerra dei sei giorni, l’occupazione dei territori, l’in-
tifada, i bulldozer e le code ai checkpoint: il racconto concentra-
to, intenso e poetico di una metamorfosi da vittime in oppresso-
ri che rende tanto più impossibile spiegare, giustificare o nascon-
dere l’orrore della guerra. In base al medesimo principio del displa-
cement inaugurato con This is a Chair, le sette bambine citate nel ti-
tolo e continuamente evocate dal ritornello «tell her/don’t tell her»
in principio di battuta non compaiono mai in scena: sono il cen-
tro vuoto di un discorso sulla guerra che le vuole polemicamen-
te invisibili tanto quanto le centinaia di bambini di Gaza cadute sot-
to il fuoco dei bombardamenti in quei giorni.
Secondo una strategia analoga, Drunk Enough to Say I Love You?,
rappresentato al Royal Court nel dicembre 2006, passa in rassegna
mezzo secolo di guerre sporche combattute o appoggiate dagli Sta-
ti Uniti seguendo le fasi alterne della special relationship tra (lo zio)
Sam e (Union) Jack in otto brevi conversazioni in cui i due prota-
gonisti si trovano, si amano, litigano, si lasciano, si riconciliano e poi
di nuovo si allontanano. Con l’eccezione della scena che fa da pro-
logo alla storia – Jack torna da Sam, dopo una notte d’amore tra-
scorsa insieme, della quale l’altro sembra avere un ricordo piutto-
sto vago, e proclama di essere disposto a lasciare la famiglia per se-
guirlo ovunque e comunque – i dialoghi tra i due amanti sono in-
teramente costituiti da riferimenti a scenari conflittuali che hanno
visto coinvolta la superpotenza americana, in uno spaccato tempo-
rale che va dalla guerra di Corea al Vietnam, all’assassinio di Lumum-
80 Caryl Churchill. Un teatro necessario

ba in Congo, al sostegno alle dittature militari in Grecia e Cile, sino


all’Afghanistan, a Gaza e a Guantanamo. Le battute di Sam e Jack
parlano solo e soltanto di bombe, scudi spaziali, strategie militari,
tattiche di destabilizzazione, colpi di stato, assassinii, torture, atti di
aggressione e controllo più o meno espliciti, ma vengono pronun-
ciate da due amanti seduti su un sofà avvolto nel buio e letteralmen-
te sospeso nel nulla: mentre sciorinano l’infinito catalogo dei con-
flitti che hanno travagliato e continuano a travagliare il loro mon-
do, il nostro mondo, il divano, unico oggetto presente in scena, vie-
ne sollevato di qualche spanna a ogni ripresa del dialogo fino a rag-
giungere, nel finale, il livello della galleria; nel frattempo “inservien-
ti in tuta nera, invisibili nell’oscurità” si affrettano a far sparire la
tazza di caffè o la cicca di sigaretta gettati con sublime noncuran-
za dai padroni dell’universo. Ad accrescere il senso di distacco dal-
la realtà, ma anche a sottolineare il ruolo del pubblico, il proscenio
è incorniciato da un arco di grosse lampadine sempre accese che
fanno pensare allo specchio di un camerino teatrale5. Come Sam e
Jack, la nostra immagine riflessa, anche noi siamo “guerrieri da di-
vano”, attori di guerre che ci reclutano come spettatori di eventi me-
diatici resi puliti, asettici, spesso scenografici – i missili americani
su Baghdad trasformati in innocue coreografie di luci – e in ogni
caso rigorosamente presentati all’interno di un format spettacola-
re godibile. Nella sua determinazione a lasciare fuori campo gli sce-
nari bellici evocati a livello verbale, Churchill sembra manifestare
una sopravvenuta sfiducia nei confronti delle immagini, la consa-
pevolezza della loro irrimediabile collusione con strategie di mani-
polazione del consenso tipiche dell’information warfare6. Al loro po-
sto, l’autrice ci offre una metafora scenica che, nell’occultare il re-
ferente “guerra”, denuncia l’invisibilità dei molti conflitti ignorati
o taciuti dalla macchina dell’informazione e, al tempo stesso, met-
te a fuoco in modo alquanto eloquente il nostro rapporto voyeu-
ristico con i suoi simulacri mediatici. Per difetto o per eccesso di
visibilità, in Drunk Enough to Say I Love You? la guerra globale rima-
ne avvolta nel buio pesto che circonda e lambisce il confortevole
salotto di Sam e Jack.
Parte Prima. Sguardi critici 81

Anche in Far Away, andato in scena al Court nel 2000 ma a po-


steriori acclamato dalla critica come una delle opere drammatiche
che meglio hanno saputo dar forma al conflitto globale del dopo
11 settembre7, la guerra che per gradi invade il mondo dei perso-
naggi fino a farlo sprofondare in una feroce lotta hobbesiana di
tutti contro tutti viene rimossa dallo spazio della rappresentazio-
ne e sostituita da situazioni di conflitto domestiche o professio-
nali le quali, operando secondo un principio analogico, costringo-
no lo spettatore a interrogarsi sul senso di questa dislocazione del-
la “scena primaria”.
La prima immagine che ci viene offerta dallo spettacolo è quel-
la di un telone dipinto con un verdeggiante scorcio di campagna
inglese, immerso nei suoni armoniosi della natura ai quali, dopo qual-
che minuto, si aggiunge una voce femminile che canta di una «Hap-
py Land, Far Far Away»8. Quando si alza a mo’ di sipario, dietro al
quadro idilliaco scopriamo un interno domestico nel quale Harper,
smesso il canto, cerca di consolare la nipotina Joan che si è sveglia-
ta nel cuore della notte. Nell’apparente normalità del dialogo e del-
la situazione comincia a insinuarsi un elemento di inquietudine al-
lorché la bambina ribatte alle banali rassicurazioni con le quali la
zia cerca di convincerla a tornare a letto con un interrogatorio sem-
pre più serrato nel corso del quale, rivelando poco alla volta ciò che
ha visto sgattaiolando fuori dalla sua cameretta, costringe l’inter-
locutrice ad ammettere la presenza nel fienile di un gruppo di uo-
mini, donne e bambini brutalmente seviziati dal marito prima di ri-
partire con un camion la mattina seguente. La posizione di forza
dalla quale Joan conduce la conversazione, smontando una dopo
l’altra le bugie o le parziali verità della zia, le deriva dal privilegio di
una testimonianza oculare che al pubblico viene invece risolutamen-
te negata. Al tempo stesso, però, Churchill mette fortemente in di-
scussione il nesso tra vedere e capire: una volta preso atto del po-
tere insito nello sguardo di Joan, Harper riesce a imbrigliarlo con
l’ideologia, a orientarlo verso la retorica della guerra giusta («he only
hit the traitors»), e sul finire della scena è proprio in virtù del suo
ruolo di spettatrice che la bambina viene cooptata nello sforzo bel-
82 Caryl Churchill. Un teatro necessario

lico («I’m not surprised you can’t sleep, what an upsetting thing to
see. But now you understand, it’s not so bad. You’re part of a mo-
vement now to make things better»)9.
La seconda parte di Far Away si svolge «alcuni anni dopo» (p. 16)
ed è ambientata in un cappellificio dove Joan, fresca di laurea in mo-
disteria, vince nell’arco di una settimana sia la diffidenza di Todd,
il suo collega senior, sia l’ambitissimo primo premio alla parata del
venerdì alla quale, scopriamo, le loro stravaganti creazioni sono de-
stinate. La scena muta in «una processione di prigionieri stremati,
vestiti di stracci, incatenati, ognuno con in testa un cappello» (p. 24)
che s’incamminano al patibolo ed è realizzata coreograficamente come
una sfilata di moda: i condannati quasi schiacciati dagli enormi cap-
pelli che vengono a esibire in proscenio. Il lunedì successivo, all’ini-
zio di una nuova settimana di lavoro, Joan continua a spronare Todd
a battersi contro l’economia corrotta dell’industria dei cappelli e in-
tanto si rammarica con agghiacciante indifferenza per la sorte effi-
mera delle loro opere, condannate, dopo tanto sforzo creativo, a es-
sere bruciate insieme ai corpi dei prigionieri, mentre solo alla vin-
citrice spetta l’onore del museo. Con altrettanta leggerezza Todd esal-
ta la bellezza fugace dell’arte («Tu crei bellezza e la bellezza svani-
sce. Lo trovo stupendo», p. 25) ma, soprattutto, ricorda alla nuova
arrivata che la distruzione dei cappelli è essenziale alla logica del con-
sumo, senza la quale il sistema produttivo che remunera la loro crea-
tività non potrebbe esistere10. Nella parte centrale della pièce, dun-
que, l’orrore della guerra è soggetto a un processo di spostamento
doppio e complementare: è sostituito dalle scene di vita lavorativa
di Joan e Todd, con la loro abitudine indotta alla rimozione e la con-
seguente incapacità di vedere oltre la micro-conflittualità del vive-
re quotidiano; ed è camuffato sotto le spoglie dell’arte nell’assurdo,
atroce show dei prigionieri – una forma di estetizzazione e spetta-
colarizzazione della violenza del tutto simile a quella dei processi a
carico dei nemici dello Stato che Todd guarda in TV fino alle quat-
tro del mattino «bevendo pernod» (p. 18).
È nella terza ed ultima parte dello spettacolo che il ruolo fonda-
mentale delle rappresentazioni nel creare, sostenere e perpetuare le
Parte Prima. Sguardi critici 83

situazioni di belligeranza emerge con maggiore evidenza. Dopo un


secondo stacco temporale di alcuni anni, Churchill ci riporta a casa
di Harper per un’unica lunga scena che, in evidente rapporto di sim-
metria con la prima parte, si apre in medias res con un dialogo tra la
padrona di casa e Todd, oggi marito di Joan. La prima battuta di Har-
per, «Hai fatto bene a dare il veleno alle vespe» (p. 28), riprende il tema
della giustificazione ideologica della violenza, qui esplicitamente col-
locata nel contesto di una «guerra» (p. 29) che ha ormai assunto pro-
porzioni globali. Con i toni realistici del chiacchiericcio domestico,
le parole di Harper e Todd evocano uno scenario apocalittico in cui
ogni creatura vivente è coinvolta nel conflitto, da «gli ingegneri, gli
chef, i bambini sotto i cinque anni, i musicisti» (p. 30) fino alle ve-
spe e alle farfalle, agli infidi gatti (da poco alleatisi con i francesi) e
ai sanguinari cervi (appena passati dalla parte dei “buoni”). Nel frat-
tempo Joan dorme, esausta per la lunga marcia con cui è fuggita dal
fronte per ricongiungersi con il marito in licenza. Benché la casa sia
un posto relativamente sicuro – «Tutti pensano che sia solo una casa»
(p. 29) – l’inquietudine generata dalla probabile diserzione della ni-
pote spinge Harper a saggiare la fedeltà alla causa di Todd, sottopo-
nendolo al gioco delle alleanze e delle opposizioni e tendendogli tra-
bocchetti che potrebbero smascherarlo come simpatizzante del ne-
mico. E in effetti, come Todd stesso deve ammettere, non è sempli-
ce restare al passo con i continui rivolgimenti di fronte decretati dal-
l’ideologia bellicista di cui Harper si fa portavoce, un’ideologia che
costruisce retoricamente le parti in conflitto sulla base di parametri
identitari sempre più frammentati ed esclusivi:

HARPER The cats have come in on the side of the French.


[...]
TODD But we’re not exactly on the other side from the French. It’s not
as if they’re the Moroccans and the ants.
HARPER It’s not as if they’re the Canadians, the Venezuelans and the mo-
squitoes.
TODD It’s not as if they’re the engineers, the chefs, the children under five,
the musicians.
84 Caryl Churchill. Un teatro necessario

HARPER The car salesmen.


TODD Portuguese car salesmen.
HARPER Russian swimmers.
TODD Thai butchers.
HARPER Latvian dentists.
TODD No, the Latvian dentists have been doing good work in Cuba.
They’ve a house outside Havana.
HARPER But Latvia has been sending pigs to Sweden. The dentists are
linked to international dentistry and that’s where their loyalty lies, with
dentists in Dar-es-Salaam.
(pp. 29-31)11

Il monologo nel quale Joan, al risveglio, descrive il suo viag-


gio attraverso un paesaggio da incubo sembra a prima vista cor-
roborare lo scenario costruito dal dialogo precedente: con una
surreale, ulteriore escalation del conflitto, in una guerra totale in
cui si è ormai persa cognizione degli schieramenti e «tutti van-
no di qua e di là e nessuno sa perché» (p. 37), si sono aggiunti al
novero dei combattenti anche il maltempo e, sebbene in forma
ancora sperimentale, la luce, la gravità e il rumore. «Chi riuscirà
a mobilitare l’oscurità e il silenzio?», si chiede Joan mentre per-
corre una strada lastricata di cadaveri uccisi «dal caffè o [...] da-
gli spilli, [...] dall’eroina, la benzina, le motoseghe, la lacca per ca-
pelli, la candeggina, la digitale purpurea» e tutto intorno a lei si
diffonde l’odore dell’erba bruciata per la sua ostinata renitenza
alla leva (p. 38). Al terzo giorno di cammino Joan arriva al fiu-
me; per raggiungere il marito deve attraversarlo ma non può sa-
pere se si trova di fronte un nemico, un alleato o, semplicemen-
te, un fiume. A monte c’è un gruppo di soldati cileni; a valle, del-
le mucche pezzate che si abbeverano; e al centro, dove la corren-
te è più forte, il fiume è torbido: nessun indizio è comprovante.
Alla fine, decide di provare a mettere un piede nell’acqua: «It was
very cold but so far it was all. When you’ve just stepped in you
can’t tell what’s going to happen. The water laps round your an-
kles in any case» (p. 38)12.
Parte Prima. Sguardi critici 85

Le ultime parole di Joan, che sono anche le ultime parole del-


lo spettacolo, lasciano in sospeso la questione della verificabi-
lità: il fatto che ella sia giunta sana e salva a casa di Harper a rac-
contare la sua storia deve far supporre che il fiume fosse inof-
fensivo, ma al pubblico non viene detto se o come esso sia sta-
to effettivamente attraversato. La storia potrebbe non finire qua,
tanto che, nella regia di James MacDonald per il Royal Court,
Katharine Tozer non pronunciava l’ultima frase del monologo
come se fosse la battuta finale della pièce13. Se per la protago-
nista dell’episodio vedere non serve a capire, allo spettatore di
Far Away viene invece sottratta la possibilità di verificare l’effet-
tiva esistenza di una guerra che risulta interamente mediata da
rappresentazioni verbali sulla cui autenticità, o comunque accer-
tabilità, viene gettata una pesante ipoteca: a partire dalla testi-
monianza oculare di Joan, resa quasi in stato di trance dopo un
lungo sonno, in un monologo di chiara matrice onirica. Sia Joan
nel suo resoconto che Todd e Harper nel dialogo precedente si
limitano a riportare episodi di violenza o a identificare le parti
in conflitto senza mai menzionare le ragioni e gli obiettivi di una
guerra alla quale diventa molto difficile attribuire una qualche
realtà extratestuale14. Persino gli attori del conflitto sono costrui-
ti su basi puramente rappresentative, non solo per il pubblico
ma anche per i personaggi: nemmeno i due combattenti, Joan
e Todd, sembrano infatti avere esperienza diretta di un attacco
da parte delle forze avversarie15; gli unici episodi che li hanno vi-
sti coinvolti in prima persona riguardano infatti violenze effe-
rate da loro inflitte a “nemici” apparentemente innocui, quan-
do non inermi:

TODD I’ve shot cattle and children in


Ethiopia. I’ve gassed mixed troops
of Spanish, computer programmers and
dogs. I’ve torn starlings apart with my
bare hands. (pp. 34-5)16
86 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Joan e Todd agiscono sulla base di distinzioni tra buoni e cattivi


create da fonti la cui collusione con il regime è palese: tra gli argo-
menti su cui fa perno l’ideologa Harper per demonizzare il nemico
figurano le inconfutabili prove oculari fornite dai media17.
Come in Drunk Enough to Say I Love You?, dunque, qui l’approc-
cio anti-mimetico risulta funzionale a incarnare, e al tempo stesso
denunciare, la natura sempre più virtuale e mediata dei conflitti con-
temporanei. La rinuncia alla referenzialità, tuttavia, si dimostra stra-
tegica anche sotto un altro aspetto. Con la sua virata in direzione
della fiaba esopica e del genere della distopia letteraria, Churchill
sembrerebbe indurre gli spettatori a considerare la situazione di bel-
ligeranza universale e permanente sulla quale si chiude Far Away alla
stregua di una fiction puramente speculativa e in ogni caso oppor-
tunamente far away rispetto alla loro realtà. Questa modalità di ri-
cezione, tuttavia, viene resa problematica dal fatto che proprio ne-
gli elementi più surreali dello scenario bellico evocato non è diffi-
cile riconoscere situazioni o dinamiche che appartengono alle guer-
re di ultima generazione: dalla notoria affermazione dell’allora se-
gretario di Stato americano Madeleine Albright che, di fatto, qua-
lificava il mezzo milione di bambini iracheni sotto i cinque anni mor-
ti a causa dell’embargo come un bersaglio legittimo18, alle storie un
po’ strampalate di animali arruolati come combattenti nell’uno o
nell’altro schieramento19. Analogamente, le tecniche di costruzio-
ne retorica e demonizzazione del nemico utilizzate dal regime in Far
Away ricordano molto da vicino alcuni casi recenti di information war-
fare20; e la grottesca proliferazione di particolarismi tribali nel con-
flitto su scala planetaria immaginato da Caryl Churchill risponde alla
stessa logica della «glocalizzazione»21 che informa il mondo post-
bipolare (benché qui dai tratti identitari rimanga significativamen-
te, e polemicamente, esclusa la componente religiosa). Se, nel no-
vembre del 2000, diverse recensioni potevano ancora definire Far
Away come un esempio di drammaturgia dell’assurdo o come «pure
theatre»22, dopo l’11 settembre le analogie con la guerra diffusa del-
l’era contemporanea sono diventate molto più percepibili, per il pub-
blico come per la critica. Col senno di poi, dunque, la “favola” di
Parte Prima. Sguardi critici 87

Far Away si è rivelata molto meno lontana, in senso sia cronologi-


co che spaziale, di quanto il titolo con il suo trabocchetto magrit-
tiano non volesse dare a intendere – un gioco ironico accentuato
dal fatto che l’allestimento di James MacDonald utilizzava la sala
piccola del Royal Court, accentuando così l’effettiva contiguità tra
mondo reale e fantasia distopica.
Nel finale dello spettacolo (anch’esso frutto di un’aggiunta regi-
stica non prevista dal testo), l’invisibilità della guerra veniva ricon-
dotta in modo inequivocabile al problema dello sguardo e della sua
portata cognitiva. L’ultima battuta del monologo di Joan era segui-
ta da un breve silenzio e dal buio; dopo di che, all’improvviso, il fon-
dale idilliaco dell’inizio calava a chiudere precipitosamente il sipa-
rio sulla vicenda, toccando terra con un tonfo sordo. Il gesto con
cui Far Away si congeda dallo spettatore è passibile di una doppia
decodifica, antitetica e complementare allo stesso tempo: potrebbe
indicare il brusco risveglio da un brutto sogno, un ritorno alla nor-
malità dopo il soggiorno angosciante in uno dei mondi possibili del-
la fiction; ma il telone dipinto somiglia anche a un’enorme palpe-
bra che si chiude, repentina, a occultare gli aspetti inquietanti di una
realtà che invece già appartiene al pubblico. Nel contesto di ricezio-
ne originario, lo scopo primario del coup de théâtre finale era proba-
bilmente quello di scuotere lo spettatore dal torpore affinché rico-
noscesse che l’era del conflitto globale era già iniziata, e che solo un
processo di rimozione poteva permettergli di escludere la guerra dal
proprio campo visivo. Si tratta però anche di una magistrale ogget-
tivazione della guerra delle immagini che, in Far Away, prende il po-
sto delle immagini della guerra e, così facendo, ne mina l’autorevo-
lezza. Esibendo in modo inequivocabile la propria matrice rappre-
sentativa, il testo finisce per rovesciare in modo paradossale i ter-
mini della dialettica realtà/finzione, costringendoci a ripensare que-
ste categorie nella loro applicazione al conflitto contemporaneo. Come
Magritte nei suoi quadri logoiconici, il teatro di Churchill ci invita
a diffidare delle immagini tanto quanto delle parole, a decifrare i pre-
supposti e le intenzioni di ogni rappresentazione: specie di quelle che
dichiarano di “essere una guerra”.
88 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Frammenti di un discorso bellicoso

A differenza della situazione bellica onirica e decontestualizzata di


Far Away, quelli citati in Drunk Enough to Say I Love You?, come già
accennato, sono tutti teatri di guerra reali accomunati dal coinvol-
gimento, in modi e forme diverse, della superpotenza statuniten-
se. È significativo, tuttavia, che gli innumerevoli scenari conflittua-
li di quest’ultimo mezzo secolo di Storia non vengano praticamen-
te mai designati nel testo col termine “war”; le uniche due occor-
renze, peraltro, caratterizzano il fenomeno come un evento appar-
tenente al passato («seconda guerra mondiale», p. 16) o alla dimen-
sione della fantascienza («guerre stellari», p. 24). Questo rifiuto non
solo di mostrare la guerra, come già in Far Away, ma anche di no-
minarla nei dialoghi è sintomatico del modo in cui, con questo te-
sto, Churchill cerca di rendere conto del volto mutato e mutevo-
le del conflitto contemporaneo: di fotografare una situazione, cioè,
in cui la guerra, come siamo stati abituati a pensarla per oltre quat-
tro secoli, ha lasciato spazio a un conflitto globale polimorfo e al
tempo stesso amorfo per la qualità surrettizia, diffusa23 e degene-
re24 del suo agire. Dopo la “drammaturgia del sospetto” di Far Away,
giocata sul conflitto tra piano visivo e piano verbale, con Drunk
Enough to Say I Love You? la volontà di trasporre in forma le neo-
guerre si riflette anche sulla struttura interna del testo, andando a
interessare, da un lato, la gestione delle categorie dello spazio e del
tempo e, dall’altro, la fisionomia stessa dei dialoghi.
Sotto il profilo cronologico, mentre la love story tra Sam e Jack
si sviluppa in modo sequenziale, il tema della guerra è organizza-
to tematicamente e improntato a un principio di circolarità e con-
tiguità. Ogni scena è dedicata infatti a una particolare forma o tec-
nica di belligeranza e alle varie sfaccettature che questa ha assun-
to in tempi e spazi diversi: dall’uso dell’informazione e della pro-
paganda per rovesciare i regimi sgraditi e favorire quelli alleati (sce-
na seconda), ai bombardamenti a tappeto per seminare il terrore
tra la popolazione civile (scena terza) sino ad arrivare al protezio-
nismo e alle guerre commerciali (scena quarta), o alla guerra am-
Parte Prima. Sguardi critici 89

bientale (scena ottava). Ogni scena passa in rassegna gli episodi sa-
lienti che attestano l’assidua frequentazione da parte statunitense
dell’una o dell’altra strategia bellica dal secondo dopoguerra a oggi:
così nella scena settima, che tratta dell’impiego sistematico della
tortura, si parte dalla Grecia dei colonnelli per poi spostarsi al Viet-
nam, alle dittature centro e sudamericane, all’Afghanistan e infi-
ne a Guantanamo. Ad ogni cambio di situazione, sottolineato da
uno stacco musicale, l’orologio viene riportato indietro e la storia
ricomincia dal principio, anche se con modalità e attori diversi, giun-
gendo a un nuovo climax con l’approdo ai giorni nostri. L’effet-
to complessivo è quello di una genealogia delle forme del conflit-
to contemporaneo che condivide l’andamento circolare e ripeti-
tivo della storia d’amore: al termine della scena sesta Jack lascia Sam
per tornare dalla famiglia, ma in quella seguente torna, dichiara di
non poter vivere senza di lui, e il ménage riprende identico a pri-
ma; il finale aperto dell’ultima scena, nella quale Jack manifesta nuo-
vamente il proposito di andarsene, sembra prefigurare beckettia-
namente il ripetersi di uno schema ormai divenuto abituale. Un pro-
cesso corrispondente interessa il piano della trama bellica: al ter-
mine di ogni scena la progressione lineare degli eventi sembra tro-
vare un punto d’arrivo nel presente, mentre in realtà la guerra muta
sembianze per ricominciare daccapo nella scena successiva. A sim-
boleggiare l’impossibilità di mettere la parola “fine” alla trama amo-
rosa, la pièce si chiude con una battuta sospesa di Sam che, a fron-
te dell’ennesimo tentennamento di Jack, gli intima «love me love
me, you have to love me, you» (p. 42)25. Analogamente, la litania
di bombardamenti condivisa da Sam e Jack e inframmezzata alle
altre battute di dialogo nella terza scena, anziché concludersi, vie-
ne semplicemente interrotta, trasmettendo la sensazione di un pro-
liferare dei conflitti che finisce per eccedere i limiti formali della
scrittura drammatica:

SAM bombing Vietnam now, bombing


Grenada, bombing Korea, bombing Laos,
bombing Guatemala, bombing Cuba,
90 Caryl Churchill. Un teatro necessario

bombing El Salvador, bombing Iraq,


bombing Somalia, bombing Lebanon
JACK but it’s Israel bombing
SAM so? bombing Bosnia, bombing Cambodia,
bombing Lybia, bombing
JACK used to be a village and now
SAM because we want it gone
JACK need a coffee
SAM get a coffee
JACK exhausting
SAM thrilling
JACK exhausting being so thrilled
SAM coffee but keep
JACK bombing China, bombing Panama
SAM good at this
JACK well
SAM did a whole lot before like second world
war and going right back
JACK all the back killings like the indians
SAM never sure how many we started
JACK maybe twenty million, fifty
SAM got them down to a quarter million so
JACK not looking at that
SAM no just get on with the job which is
bombing
JACK bombing Peru, bombing
(pp. 15-16)26

Sia lo spazio che il tempo della guerra, dunque, si estendono


oltre i confini della finzione scenica, dilatandosi potenzialmente al-
l’infinito. Al tempo stesso, però, tutte le situazioni conflittuali evo-
cate sono comprese entro la dimensione intima, quasi claustrofo-
bica, della relazione tra Sam e Jack di cui costituiscono la materia
prima. Ne consegue che anche la Storia risulta agganciata al pre-
sente della rappresentazione, assumendo una paradossale qualità
Parte Prima. Sguardi critici 91

diacronica e sincronica al tempo stesso. Così, nella scena sesta, gli


atti di terrorismo che hanno visto coinvolti gli USA in qualità di
mandanti o di esecutori materiali (come nel caso degli omicidi di
Stato a firma CIA) sono tutti citati al presente e si devono dun-
que supporre simultanei:

SAM got to plant bombs in the hotels in


Havana
JACK yes ok ok the Cuban exiles in Miami are just
SAM and get the money to Iraq
JACK done it, the Iraqi National Accord have
the
SAM and have they destabilised Saddam yet? No
JACK car bombs
SAM giving them millions
JACK hundreds civilians dead
SAM not enough to
JACK ok
SAM fucking results
JACK off my back, will you?
SAM desperate for
JACK mujahedeen
SAM yes yes train the
JACK so ok that’s something really good
SAM stop at nothing, flaying, explosions, whole villages
JACK and here we’re getting on with the assassinations
(pp. 29-30)27

Solo qualche battuta più in là ecco che i ruoli, per un momen-


to, si invertono e Sam e Jack, dopo aver ricevuto notizia degli at-
tentati alle ambasciate americane del 1998, assistono attoniti al crol-
lo delle torri gemelle28. Perpetue e istantanee, localizzate e scon-
finate: le infinite guerre di Drunk Enough to Say I Love You? diven-
tano così le tante facce di una guerra infinita e proteiforme che fa-
gocita il tempo e lo spazio, erode i confini tra passato, presente e
92 Caryl Churchill. Un teatro necessario

futuro, azzera le distanze tra lo spazio protetto del salotto e l’oscu-


ra immensità che lo lambisce.
Se è evidente lo stridente contrasto tra il cronotopo bellico che
emerge dalle parole del testo e la scomparsa della guerra dal piano
della rappresentazione scenica, le dinamiche del dialogo mettono
sapientemente a fuoco l’essenza relazionale di questa paradossale
(onni)presenza/assenza della guerra. Come si è già visto, il conflit-
to globale di Drunk Enough to Say I Love You? si gioca interamente
all’interno del legame di coppia. Oltre mezzo secolo di guerre rea-
li con i loro milioni di morti vengono sussunte in un rapporto for-
se non del tutto canonico, ma in fondo banale e prevedibile nei suoi
cliché. Massacri, orrori, genocidi sono ridotti a materia di mastur-
bazioni sentimentali all’interno di un salotto avulso dal resto del mon-
do. Sam, che è il partner dominante, incalza Jack, lo vuole sempre
operativo ed entusiasta, si irrita perché perde tempo a pensare, at-
tribuisce le sue esitazioni a semplice malumore – «abbiamo proprio
la luna di traverso oggi» – e, al primo cenno di dissenso, mette in
dubbio il suo amore. D’altro canto, le obiezioni di natura potenzial-
mente morale o politica sollevate da Jack sono solo il modo di ma-
nifestare a Sam la sua infelicità personale, di opporsi ai rapporti di
forza che regolano il loro ménage. La scena quarta si apre con Jack
che rivendica il diritto di mantenere i contatti con la famiglia e gli
amici di un tempo; ma presto, di fronte all’insofferenza di Sam, ca-
pisce che è meglio lasciar cadere il discorso e provare a scacciare
la malinconia rimettendosi al «lavoro» sugli accordi commerciali vol-
ti a garantire l’apertura dei mercati del Terzo Mondo alle esporta-
zioni statunitensi (p. 17).
Con questa ironica erotizzazione della guerra, che non lascia spa-
zio all’Altro, al nemico, nell’interazione dialogica, Caryl Churchill
ci offre un correlativo della «drammaturgia totalitaria»29 su cui si
regge il nuovo ordine mondiale: dove lo squilibrio delle forze in
campo fa sì che la guerra, suo elemento fondante e continuo, sem-
pre più si traduca in un’imposizione di forza o in una punizione
inflitta senza reale conflitto e contraddittorio. Peraltro, anche le di-
namiche del dialogo interne alla coppia configurano una situazio-
Parte Prima. Sguardi critici 93

ne di unilateralismo radicale che non contempla la possibilità del


negoziato. Il “contratto” che Jack ha stipulato con Sam nel pro-
logo fonda il loro rapporto sul presupposto dell’amore incondi-
zionato: nei momenti in cui il sadomasochismo consensuale sem-
bra entrare in crisi, ogniqualvolta Jack mette in discussione l’ope-
rato bellico di Sam, quest’ultimo non sente il bisogno di legittima-
re la propria posizione ingaggiando un confronto dialettico con il
suo interlocutore, ma si limita a ricordargli di aver preso un impe-
gno che non ammette riserve30. Nei confronti del suo partner, Jack
non può avere ragione o torto: può solo amarlo o non amarlo. Se
in Drunk Enough to Say I Love You? l’unica forma di azione sceni-
ca è l’interazione verbale tra Sam e Jack, questa non si configura
dunque come un dialogo vero e proprio, ma come un suo simu-
lacro privato della dimensione conflittuale.
A questo venir meno dell’elemento fondante del dialogo dram-
matico fa da controparte un’elevazione dell’ellissi a principio strut-
turale della scrittura. Secondo un processo già abbozzato in This is
a Chair, che si conferma così un’opera dal valore seminale, quello che
risuona in bocca ai personaggi non è un dialogo naturalistico ma una
specie di campionatura di brandelli appartenenti a una conversazio-
ne che è compito dello spettatore ricostruire31. La logica che sotten-
de l’operazione di editing è funzionale, in primo luogo, a rendere an-
cor più manifesto lo squilibrio di potere interno alla coppia: per Sam,
detentore della verità assoluta, ogni dettaglio è ridondante; dal can-
to suo Jack, attento a non contrariare il compagno, reagisce all’im-
perioso laconismo di Sam limitandosi perlopiù a confermare e, tal-
volta, integrare le sue battute. Al contempo, la cooperazione al dia-
logo sottolinea la complementarietà tra i due amanti, la loro adesio-
ne ai ruoli – attivo/passivo, dominatore/dominato – previsti dal co-
pione che regola il loro ménage. La scarnificazione del linguaggio,
infatti, aumenta d’intensità al succedersi di queste singolari “scene
da un matrimonio”. Sam e Jack, che hanno bisogno di sempre meno
parole per capirsi, nell’ultima scena approdano a una forma di sti-
comitia estrema dalla quale è stata espunta la dimensione relaziona-
le del linguaggio:
94 Caryl Churchill. Un teatro necessario

JACK carbon
SAM can’t see it in the air, so
JACK Kyoto?
SAM price of electricity in California
JACK but
SAM nuclear
JACK danger
SAM efficient
JACK waste
SAM solution
JACK Iran? (p. 40)32

Lavorando per sottrazione, riducendo le battute a singole pa-


role isolate, Churchill porta in scena le vestigia di una contrap-
posizione dialettica a cui non corrisponde più una reale possi-
bilità di negoziato, dato che l’assunto totalitario di fondo impo-
sto da Sam e sottoscritto da Jack non contempla la possibilità
del dissenso: come il partner gli fa notare in più di un’occasio-
ne, l’unica scelta concreta che si pone è quella tra restare al suo
fianco alle sue condizioni, o uscire di scena per sprofondare nel
buio profondo e indistinto del mondo “altro”. Oltretutto Sam
ha appena dimostrato, con l’agghiacciante monologo sulle tec-
niche di tortura pronunciato in apertura alla scena settima, di es-
sere perfettamente in grado di portare avanti il suo discorso bel-
lico anche senza Jack a fargli da spalla.
La costruzione ellittica dei dialoghi è carica di implicazioni an-
che sull’asse extrascenico. Se per Sam e Jack quei pochi brandelli
di conversazione sono più che sufficienti a comunicare in modo
efficace, lo spettatore chiamato a decodificare la loro conversazio-
ne è invece sollecitato a completare, esplicitare, contestualizzare:
uno sforzo di traduzione intralinguistica che lo rende partecipe, e
dunque in qualche misura complice, delle transazioni verbali che
si consumano in scena. Non è necessario il consenso esplicito di
Jack per aderire a una «way of life» (p. 23) la cui sostenibilità si fon-
da sulla belligeranza globale permanente: una guerra invisibile, non
Parte Prima. Sguardi critici 95

dichiarata, combattuta sempre in un remoto altrove, nella quale sia-


mo però già tutti, volenti o nolenti, reclutati come attori. Questa
non è una guerra; questa è, oggi, la guerra.
96 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Note

1
Cfr. U. Eco, Guerra diffusa, «L’Espresso», 12 settembre 2002, pp. 44-50; V. Coralluzzo, Nuovi nomi
per nuove guerre, in Guerre globali. Capire i conflitti del XXI secolo, a cura di A. d’Orsi, Carocci, Roma 2003,
pp. 51-67; M. Kaldor, New and Old Wars: Organized Violence in a Global Era, Polity Press, Oxford 1999
(trad. it. Le nuove guerre: la violenza organizzata nell’era globale, Carocci, Roma 1999).
2
J. Baudrillard, La guerre du Golfe n’a pas eu lieu, Éd. Galilée, Paris 1991, p. 49.
3
A. Asor Rosa, La guerra. Sulle forme attuali della convivenza umana, Einaudi, Torino 2002, p. 47.
4
C. Churchill cit. in M. Brown, Royal Court acts fast with Gaza crisis play, in «The Guardian» (edizio-
ne elettronica), 24 January 2009. A conferma della natura innanzitutto politica dell’evento, agli spet-
tatori non veniva chiesto di pagare il biglietto ma semplicemente di fare una donazione all’asso-
ciazione Medical Aid for Palestinians. Il testo dello spettacolo è stato messo da subito a disposi-
zione sul web, dove poteva essere scaricato gratuitamente e rappresentato ovunque, da chiunque,
senza bisogno di acquistarne i diritti, a patto di mantenere il format dell’ingresso libero unito alla
raccolta di fondi per Gaza. In Italia Sette bambine ebree è andato in scena nel settembre 2009 al Tea-
tro Lo Spazio di Roma, nell’ambito della rassegna di drammaturgia contemporanea internaziona-
le In altre parole. Negli ultimi anni l’impegno politico di Caryl Churchill contro la guerra è stato par-
ticolarmente intenso. Nel marzo 2003 la scrittrice ha partecipato al Lysistrata Project, l’iniziativa di
protesta contro l’intervento in Iraq che ha dato luogo a eventi e interventi teatrali in oltre cinquan-
ta nazioni di tutto il mondo; successivamente ha contribuito con Iraq.doc (un collage di citazioni
sulla guerra in Iraq raccolte da una chat su internet) alla serata con cui il Royal Court dava il suo
polemico benvenuto a G.W. Bush in visita a Londra (A Royal Welcome, 19 novembre 2003); nel-
l’aprile del 2004 è stata tra i protagonisti di War Correspondence, una rassegna, sempre a cura del Ro-
yal Court, di brevi reazioni a caldo sullo stesso conflitto; nello medesimo periodo è stata tra i fir-
matari di due lettere al «Guardian» contro l’appoggio americano alle attività di Israele nella striscia
di Gaza e in Cisgiordania; nel febbraio 2007 si è unita alla mobilitazione generale con cui il mon-
do del teatro ha lanciato un appello al governo britannico per il ritiro delle truppe dall‘Iraq e ha
invitato il parlamento a votare contro il rinnovo del programma di missili nucleari Trident.
5
Niente di tutto ciò è specificato nel testo a stampa, nel quale non compaiono didascalie. Le in-
formazioni sulla realizzazione scenica sono state tratte dalle recensioni dello spettacolo e dal vo-
lume di P. Roberts, About Churchill: The Playwright and the Work, Faber & Faber, London 2008.
6
Sull’insorgenza e le caratteristiche del nuovo paradigma dell’information warfare si cfr. F. Roncaro-
lo, La guerra tra informazione e propaganda. Vecchi e nuovi paradigmi della rappresentazione e del controllo, in
Guerre globali, a cura di A. D’Orsi, op. cit., pp. 225-251, in particolare il par. 17.I.3. Importanti stu-
di sul rapporto tra guerra e media che sostanziano le considerazioni presenti in questo saggio sono:
M. Ignatieff, Virtual War: Kosovo and Beyond, Chatto & Windus, London 2000; S.L. Carruthers, The
Media at War. Communication and Conflict in the 20th Century, Macmillan, London, 2000; F. Tonello, La
nuova macchina dell’informazione. Culture, tecnologie e uomini nell’industria americana dei media, Feltrinelli, Mi-
lano 1999.
7
Così, ad esempio, nella recensione di Paul Taylor dell’allestimento curato da Peter Brook al Bouf-
fes du Nord nel gennaio 2002. Cfr. P. Taylor, Peter Brook: An open brook, in «The Independent» (edi-
zione elettronica), 30 January 2002.
8
Anche queste sono aggiunte registiche elaborate nel corso delle prove (alle quali, com’è noto, Ca-
ryl Churchill prende regolarmente parte). Chi scrive ha potuto consultare la videoregistrazione del-
lo spettacolo presso l’archivio del “Theatre Museum”; alcuni dettagli sono stati tratti dalle recen-
sioni e dal già citato volume di Brown.
Parte Prima. Sguardi critici 97

9
«picchiava solo i traditori»; «Per forza non riesci a dormire, con le cose impressionanti che hai
visto. Ma ora che sai non è più così brutto. Ora fai parte di un movimento che vuole migliorare le
cose». Churchill, Far Away, Nick Hern, London 2000, p. 14. D’ora in avanti le citazioni dal testo
inglese saranno indicate nel corpo del testo con il numero di pagina tra parentesi. Le traduzioni in
nota sono di chi scrive.
10
Per una sorprendente coincidenza, i cappelli sono un elemento centrale anche in Homebody/Ka-
bul (2000) di Tony Kushner, l’altro grande testo “profetico” sulle guerre del nuovo millennio. Su
questo rimando alla mia analisi dettagliata nel saggio The ‘Translation Turn’ in Contemporary War Plays:
Tony Kushner’s Homebody/Kabul, in One of Us. Studi inglesi e conradiani offerti a Mario Curreli, a cura di
F. Ciompi, ETS, Pisa 2009, pp. 367-384. I cappelli di Kushner e Churchill sono posti a confronto
nell’articolo di U. Chaudhury, Different Hats, «Theater» 33:3 (2003), pp. 132-134.
11
HARPER I gatti sono passati dalla parte dei francesi.
[...]
TODD Ma noi non stiamo esattamente contro i francesi. In fondo non sono mica i marocchini
e le formiche.
HARPER Non sono mica i canadesi, i venezuelani e le zanzare.
TODD Non sono mica gli ingegneri, gli chef, i bambini sotto i cinque anni, i musicisti.
HARPER I venditori d’auto.
TODD I venditori d’auto portoghesi.
HARPER I nuotatori russi.
TODD I macellai tailandesi.
HARPER I dentisti lettoni.
TODD No, i dentisti lettoni stanno facendo un buon lavoro a Cuba. Hanno una casa fuori L’Ava-
na.
HARPER Ma la Lettonia manda maiali in Svezia. I dentisti sono legati all’odontoiatria internazio-
nale ed è con loro che stanno veramente, con i dentisti di Dar-es-Salaam.
12
«Era molto fredda, ma per il momento tutto qua. Appena messo dentro il piede non puoi sape-
re cosa accadrà. L’acqua ti circonda le caviglie comunque sia».
13
Brown, op. cit., p. 261.
14
Il riferimento, nello scambio citato in precedenza, a Dar-es-Salaam, recente teatro di un atten-
tato all’ambasciata americana rivendicato da al Quaeda, è l’unica eccezione alla regola della decon-
testualizzazione.
15
Todd a un certo punto fa vedere a Harper la cicatrice di una ferita per dimostrarle che conosce
bene il potenziale offensivo dei cervi. Tuttavia, quando Harper gli chiede se sia stata opera di un
cervo, Todd ammette: «In realtà è stato un orso. Non mi piace non essere creduto». Le circostan-
ze del presunto attacco, inoltre, non vengono chiarite.
16
«In Etiopia ho sparato al bestiame e ai bambini. Ho gassato reggimenti misti di spagnoli, pro-
grammatori informatici e cani. Ho squarciato storni a mani nude».
17
«Hai visto il programma sui coccodrilli?» chiede a Todd, per poi decretare, sulla base delle as-
surde nefandezze denunciate dal documentario, che «i coccodrilli sono cattivi e bisogna sempre sta-
re contro i coccodrilli».
18
L’affermazione risale a un dibattito pubblico nel corso della trasmissione 60 minutes del 12 mag-
gio 1996. All’intervistatrice che le faceva notare che erano morti più bambini in Iraq per via delle
sanzioni ONU che non a Hiroshima e le domandava se il prezzo di quelle morti fosse giustifica-
to, la Albright rispose: «I think this is a very hard choice, but the price – we think the price is worth
it» («Ritengo che sia una scelta molto difficile, ma il prezzo – riteniamo sia un prezzo che vale la
pena di pagare»).
98 Caryl Churchill. Un teatro necessario

19
Far Away ha anticipato l’insistenza con cui, nell’imminenza della seconda guerra del Golfo e poi
durante le ostilità, la macchina dell’informazione ha messo in luce il potenziale bellico del regno
animale. Per alcuni esempi relativi ai media italiani si veda cfr. S. Soncini, Stage Wars: The Representa-
tion of Conflict in Contemporary British Theatre, in Conflict Zones: Actions Languages Mediations, a cura di
C. Dente e S. Soncini, ETS, Pisa 2004, pp. 85-101.
20
Riprendendo un argomento che sappiamo essere stato storicamente usato per demonizzare l’Al-
tro, che si trattasse degli ebrei nella propaganda nazista o dei comunisti durante la Guerra Fredda,
nei discorsi di Harper la prova dell’intrinseca malvagità del nemico è più volte indicata in presun-
ti infanticidi: Harper riferisce di gatti che, nell’opportunamente lontana Cina, balzano di nascosto
nelle culle e uccidono i bambini, e di coccodrilli che, invisibili nel buio della notte, si spingono nei
villaggi e li portano via per poi mangiarseli. Nei mesi precedenti la prima guerra del Golfo, l’asso
nella manica della black propaganda orchestrata dalla Hill & Knowlton, la più grande agenzia di pub-
bliche relazioni del mondo, su mandato del governo dell’emiro e con l’appoggio del congresso sta-
tunitense, fu la notizia dei prematuri degli ospedali di Kuwait City strappati alle incubatrici dai sol-
dati iracheni e lasciati a morire (sul pavimento.) Dopo aver circolato per mesi senza essere verifi-
cata, e corroborata da false testimonianze, la storia venne smascherata come una bufala; nel frat-
tempo, però, il battage mediatico con il quale era stata sapientemente amplificata aveva contribui-
to in modo determinante nel creare un clima d’opinione favorevole all’intervento. A questo pro-
posito cfr. F. Roncarolo, art. cit., pp. 235-36.
21
Il saggio di Francesco Tuccari Dopo il 1989. Scenari della politica mondiale (in Guerre globali, cit., pp.
35-49) riprende da Ronald Robertson il concetto di «glocalizzazione» per designare la «complessa
miscela di globalizzazione e frammentazione» che caratterizza il mondo post-bipolare: da un lato
«sempre più interdipendente e uniforme, caratterizzato dal trionfo irresistibile dei mercati integra-
ti, attraversato e tenuto insieme da potenti e veloci autostrade informatiche, proiettato da una pro-
gressiva omologazione dei consumi, delle culture, degli stili di vita [...]; e dall’altro lato il profilo di
un “mondo in frammenti”, sempre più diviso, segnato da una imponente proliferazione di parti-
colarismi, dalla ricerca spasmodica delle “piccole patrie”, dal moltiplicarsi di fedi contrapposte e
di identità etniche, culturali, religiose, tribali sempre più esclusive, da inventare, costruire e difen-
dere con ogni mezzo e a ogni costo» (p. 37).
22
R. Koenig, recensione di Far Away, “The Independent”, 2 December 2000, in Theatre Record, 18
November-1 December 2000, pp. 1575-76, qui 1576.
23
Cfr. U. Eco, art. cit.
24
L’espressione «degenerate warfare» viene utilizzata da Martin Shaw per designare il venir meno
della distinzione tra guerra, crimine organizzato e violazioni sistematiche e massicce dei diritti uma-
ni che caratterizza le neoguerre, con particolare riferimento al conflitto etnico. Cfr. M. Shaw, War
and globality: the role and character of war in the global transition, in The New Agenda for Peace Research, a
cura di Ho-Won Jeong, Aldershot 1999, pp. 61-80.
25
«amarmi amarmi, tu devi amarmi, tu» o anche, interpretando la prima parte della battuta come
un’esortazione, «amami amami, tu devi amarmi, tu».
26
SAM ora bombardiamo il Vietnam, bombardiamo
Grenada, bombardiamo la Corea, bombardiamo il Laos,
bombardiamo il Guatemala, bombardiamo Cuba,
bombardiamo El Salvador, bombardiamo l’Iraq,
bombardiamo la Somalia, bombardiamo il Libano
JACK ma è Israele che bombarda
SAM e allora? bombardiamo la Bosnia, bombardiamo la Cambogia,
bombardiamo la Libia, bombardiamo
Parte Prima. Sguardi critici 99

JACK prima c’era un villaggio e ora


SAM perché non deve restare più niente
JACK bisogno di un caffè
SAM fatti un caffè
JACK spossante
SAM eccitante
JACK spossante tutta questa eccitazione
SAM caffè ma intanto
JACK bombardiamo la Cina, bombardiamo Panama
SAM niente male
JACK eh bé
SAM un bel po’ di esperienza alle spalle vedi la seconda guerra mondiale e prima ancora
JACK tutti gli stermini del passato come gli indiani
SAM ricordo mai quanti ne abbiamo
JACK qualcosa come venti milioni, cinquanta
SAM ridotti a duecentocinquantamila quindi
JACK non voglio pensare
SAM no tu vai avanti col lavoro e bombardiamo
JACK bombardiamo il Perù, bombardiamo.
27
SAM bisogna piazzare bombe negli hotel dell’Avana
JACK Sì ok ok gli esuli cubani di Miami sono appena
SAM e mandare soldi in Iraq
JACK fatto, quelli del movimento di Allawi hanno i
SAM e l’hanno destabilizzato o no Saddam? No
JACK autobombe
SAM milioni gli sto dando
JACK centinaia di vittime civili
SAM non basta per
JACK d’accordo
SAM cazzo di risultati
JACK di starmi addosso, va bene?
SAM pronto a tutto pur
JACK mujaheddin
SAM sì sì addestriamo
JACK d’accordo è veramente un ottimo
SAM fermarsi davanti a niente, esplosioni, interi villaggi
JACK e qui procediamo con gli assassinii.
28
JACK look out we’re being
SAM no no no the towers
JACK wow
SAM evil (p. 32)
(JACK attenti ci stanno / SAM no no no le torri / JACK wow / SAM canaglia)
29
P. Virilio, La strategia dell’inganno, trad. di M. Gennari, Asterios, Trieste 2000, p. 77 (Stratégie de la
déception, Éditions Galilée, Paris 1999).
30
Benché l’autrice abbia invitato a non interpretare Jack come un’allegoria della Gran Bretagna (am-
mettendo di essersi data la zappa sui piedi con quel nome che richiama inevitabilmente la bandie-
ra nazionale), e abbia negato che il rapporto tra Sam e Jack contenga un chiaro riferimento al so-
100 Caryl Churchill. Un teatro necessario

dalizio politico tra Bush e Blair durante la campagna irachena, è difficile, anche alla luce dell’udien-
za dell’ex premier laburista davanti la commissione d’inchiesta Chilton del gennaio di quest’anno,
non porre in relazione il “patto intimo” del prologo con il famigerato tête à tête nel ranch texano
nel corso del quale Blair si sarebbe impegnato a intervenire in Iraq a fianco degli Stati Uniti ben
prima di avere ottenuto l’autorizzazione dal parlamento britannico.
31
Nell’episodio intitolato «Hong Kong» Tom e Leo, i partner di una coppia omosessuale, litigano
finché l’arrivo di un amico scatena una dinamica di contrapposizione sé/altro che li porta a rap-
pacificarsi: un meccanismo del tutto simile a quello di cui si nutre il rapporto tra Sam e Jack. I dia-
loghi tra i personaggi sono frammenti di una conversazione più lunga che si deve supporre avve-
nuta in un arco di tempo di ventiquattr’ore; come in Drunk Enough to Say I Love you?, si tratta di fra-
si incomplete e pressoché prive di punteggiatura (nell’intera scena si contano solo tre punti di do-
manda e quattro punti fermi, tutti in corrispondenza della fine di una sequenza dialogica); la bat-
tuta conclusiva dello sketch, «love it when you», sembra prefigurare quella di Sam su cui si chiude
il testo del 2006.
32
JACK carbonio
SAM nell’aria non si vede, quindi
JACK Kyoto?
SAM costo dell’elettricità in California
JACK ma
SAM nucleare
JACK pericolo
SAM efficiente
JACK scorie
SAM soluzione
Iran?
Strategie di sovversione: ricorrenze tematiche e in-
novazione formale

di Paola Bono

Esplorare, scoprire, inventare, riuscendo ogni volta a spiazzare le


aspettative e a dimostrare (e nella fruizione richiedere) la capaci-
tà di andare oltre, di modificare modi di percezione radicati e per
questo dati per scontati. Affrontare temi politicamente scottanti,
nodi centrali della Storia e della nostra contemporaneità, che
chiamano in gioco sia situazioni specifiche che strutture più pro-
fonde dei rapporti di potere, a livello globale e a livello delle re-
lazioni interpersonali, nella consapevolezza di un legame tra i
due articolato e non sempre immediatamente evidente, ma pro-
prio per questo sempre da interrogare. Unire all’attenzione per la
complessità, materiale e simbolica, dei processi socio-economici
e di quelli che attengono alla costruzione della soggettività e del-
l’identità, una varietà di innovazioni formali di notevole impatto
in termini emotivi e cognitivi, che risignificano una concezione
univoca e lineare dello spazio e della temporalità, che propongo-
no e indicano – anche, ma non solo, relativamente al lavoro at-
toriale – modalità inedite di messa in scena, che indagano le pos-
sibilità del linguaggio verbale, mostrandone potenza e limiti,
spesso nell’intreccio con altri codici espressivi.
Così, per opinione ampiamente condivisa di cui fa fede la let-
teratura critica in proposito, si caratterizza il copioso e diversifi-
cato corpus delle opere di Churchill, ritenuta a ragione tra le voci
più importanti del teatro contemporaneo. Evitando di costruire una
litania di citazioni, basterà ricordare quel che ha detto di lei un al-
tro protagonista di quella stessa scena culturale, Mark Ravenhill,
in occasione del giusto omaggio tributatole per il suo settantesi-
mo compleanno: «per scrittori e scrittrici è nella capacità di rein-
102 Caryl Churchill. Un teatro necessario

ventare continuamente la forma che si identifica la sua genialità.


Nelle opere di Churchill vi è una costante ricerca di nuovi tipi di
linguaggio e di strutture teatrali che ogni volta rivelano l’essenza
di quel momento. [...] Naturalmente è possibile rintracciare temi
ricorrenti nel suo lavoro [...]. Ma è la varietà che più di tutto col-
pisce»1.
Nell’intreccio con tale ricchezza di innovazioni formali, questo
contributo vuole evidenziare proprio alcuni elementi tematici che
ricorrono in combinatorie variabili nella drammaturgia di Churchill:
la famiglia e la società, la norma e la devianza, le relazioni di pote-
re che anche violentemente regolano tali istituzioni e definiscono
tali concetti, il corpo e la sua significazione. Per far emergere pun-
ti di continuità e di trasformazione, l’analisi spazia tra decenni di-
versi all’interno della sua produzione, anche se inevitabilmente po-
trà interessare solo un numero limitato di testi; data la specifica an-
golazione sotto cui saranno presi in esame, a volte quasi per accen-
ni e a volte in modo più approfondito, non vi è alcuna pretesa di
rendere conto qui della loro ben maggiore complessità.
Un buon punto di partenza può essere Blue Heart (“Cuore blu”,
1997)2, composto da due parti – ognuna in qualche modo auto-
noma, ma entrambe percorse dalla stessa inquietudine e da doman-
de simili – che presentano “storie” non esplicitamente legate tra
loro, mettendo ancora una volta a tema l’ordinaria perversità del-
l’istituzione familiare e dei suoi meccanismi relazionali e sociali. In
termini formali, spezza la consequenzialità logico-temporale, al-
terna e confonde elementi di verosimiglianza realistica e altri fan-
tasticamente assurdi ed estremizza il processo, già presente in te-
sti precedenti3, di «deformazione o esplosione della parola, del lin-
guaggio, del sistema di segni attraverso la cui mediazione diamo
senso al mondo»4.
Brevemente, i due atti unici si incentrano uno sull’attesa e l’al-
tro sull’inganno. In Heart’s Desire (“Desiderio del mio cuore”) i ge-
nitori Alice e Brian, la zia Maisie, sorella di Brian, e più marginal-
mente il fratello Lewis attendono il ritorno a casa di una giovane
donna, Susy, dopo molti anni trascorsi lontano in Australia.
Parte Prima. Sguardi critici 103

Blue Kettle (“Bollitore blu”) ruota invece intorno alle menzogne


che un giovane truffatore (Derek) racconta a diverse donne di mez-
za età, con ognuna sostenendo di esserne il figlio dato in adozio-
ne appena nato. Piccole storie, che una consumata e inventiva ma-
nipolazione del linguaggio e della macchina teatrale trasforma in
parabole complesse: sulla futilità dell’esistenza, sulle aporie della
comunicazione, sulla natura costruita e fragile di un soggetto non
più concepibile come unificato e coerente. «Insoddisfatta del lin-
guaggio, Churchill sa però servirsene magistralmente per i suoi sco-
pi. [...] Passando dalla sovrapposizione di battute alla brillante “in-
sensatezza” di The Skriker, [...] Blue Heart intreccia con una logica
teatrale liberamente fluida i limiti della comunicazione, per crea-
re un testo in cui una famiglia si trova bloccata nella ripetizione con
variazioni di una scena, abbinato a un altro testo in cui le parole
del titolo, “bollitore blu”, sostituiscono quelle previste, necessarie
per dare senso alle frasi, mentre le identità dei personaggi e i te-
nui legami tra loro si disintegrano»5.
Heart’s Desire inizia in un’ambientazione realistica da dramma
domestico – la cucina di una classica kitchen sink play –, ma subi-
to la superficie di normalità e quotidianità della situazione si incri-
na nel primo di molti ritorni indietro che vedono i personaggi fer-
marsi e ricominciare da un punto precedente, riproponendo azio-
ne e dialogo con piccole modifiche e/o aggiunte. In modi diver-
si la distorsione creativa e spiazzante dell’elemento temporale, e spes-
so anche di quello spaziale, si ritrova in molte opere di Churchill:
in Cloud Nine (tradotta come “Settimo cielo”, 1979)6 il secondo atto
si colloca un secolo dopo il primo, ma per i personaggi sono tra-
scorsi solo venticinque anni; Top Girls (1982)7 vede donne reali e
immaginarie di secoli diversi cenare e chiacchierare insieme, e il ter-
zo atto si svolge un anno prima del secondo, con un effetto di ri-
significazione complessiva; malgrado l’orologio in scena segni le
ore “vere”, dunque inesorabilmente progredendo in avanti, la de-
liberata confusione di Traps (“Trappole”, 1977), «simile a un dise-
gno di Escher, che può esistere sulla carta, ma sarebbe impossi-
bile nella realtà», propone personaggi che sembrano muoversi in
104 Caryl Churchill. Un teatro necessario

una cronologia incerta, sicché «possiamo pensare che stiano viven-


do contemporaneamente molte possibilità»8; nella compressione
e dilatazione spazio-temporale di The Skriker (1991)9 il fantastico
personaggio eponimo, che in questo fa pensare anche alla fluidi-
tà del capitale multinazionale, controlla stravolgendole entrambe
le dimensioni10.
In particolare, nella forma di gioco delle ripetizioni che come
in Heart’s Desire interrompono e scompaginano l’ordinato fluire del
tempo, tale manipolazione è presente in The Judge’s Wife (“La mo-
glie del giudice”, 1972)11. Concepito per la televisione e andato in
onda su BBC2 nella serie “Thirty Minutes Theatre”, il dramma uti-
lizza le possibilità del mezzo di destinazione per alternare scene
filmate in esterni ad altre riprese in ambiente domestico, da un lato
riproponendo le stesse immagini più volte in giustapposizione al
dipanarsi della vicenda, dall’altro intrecciando un doppio ordine
temporale, di azioni che si susseguono in ordine cronologico e di
azioni che invece scorrono all’indietro. In apertura ci viene mostra-
ta l’immagine filmata di un uomo – capiremo in seguito che si trat-
ta del giudice – riverso a terra in un bosco; vediamo poi il momen-
to in cui viene ucciso e quello in cui esce dalla macchina con l’as-
sassino, il fratello di un giovane che per le sue attività politiche ha
subito dal giudice una condanna molto dura. Quindi l’azione si spo-
sta ancora più indietro, in tribunale, dove il giudice pronuncia la
sentenza prima di tornare a casa; lì avrà le cure della moglie Ca-
roline e il suo appoggio durante la cena, a fronte delle critiche del-
la sorella di lei Barbara, che considera eccessiva la pena commi-
nata a Vernon Warren, come pure è il caso della cuoca-governan-
te irlandese Peg, che per questo si licenzia. Le scene riprese in am-
biente domestico, in cui è predominante l’importanza del dialogo,
si alternano con scene filmate prive di dialoghi, che spezzano la
narrazione lineare sia riproponendo le immagini dell’assassinio e
sia costruendo la sequenza di azioni che culminerà (è culminata)
nell’uccisione12, sequenza che viene infine ripetuta nell’ordine tem-
porale corretto, mentre un titolo di giornale annuncia la morte del
giudice.
Parte Prima. Sguardi critici 105

Peraltro inficiato nella sua coerenza dall’intervento finale di Ca-


roline, che con un rovesciamento interpretativo presenta la figura
del giudice come una sorta di martire della rivoluzione, eccessivo ne-
gli atteggiamenti reazionari per metterne in luce la negatività13,que-
sto ricomporsi dei frammenti narrativi in un racconto conchiuso non
avviene nel susseguirsi di interruzioni e riprese che come si è det-
to segna fin dalla prima scena la struttura di Heart’s Desire:

Alice and Maisie. Alice setting knives and forks on table, Maisie fidgets about the room.
Brian enters putting on a red sweater.
BRIAN She’s taking her time.
ALICE Not really.
They all stop, Brian goes out. Others reset to beginning and do exactly what they did be-
fore as Brian enters putting on a tweed jacket.
BRIAN She’s taking her time.
ALICE Not really.
(p. 5)14

In questo come in altri casi l’interruzione non ha motivo ap-


parente e la ripresa di azione e dialogo in modi appena leggermen-
te diversi – qui, come si è visto, Brian entra nell’atto di indossare
dapprima un maglione rosso, poi una giacca di tweed15 – crea un
effetto di disorientamento causale e temporale, annullando la ve-
rosimiglianza del primo breve segmento e risignificando l’orizzon-
te di attesa.
Man mano che si procede, alla ripetizione non più completa dei
segmenti precedenti si assommano nuove informazioni, che da un
lato disegnano una “normale” situazione di difficili rapporti fami-
liari, e dall’altro sono sempre in bilico sull’orlo della finzione – come
si trattasse delle prove di una messa in scena, in cui i personaggi
incertamente recitano se stessi e la propria vita. Questa sensazio-
ne di irrealtà, in un contesto relazionale peraltro riconoscibile, come
riconoscibili sono le umane fragilità dei personaggi, viene accen-
tuata da irruzioni fantastiche e inspiegabili: «A horde of small chil-
dren rush in, round the room and out again», «Two GUNMEN
106 Caryl Churchill. Un teatro necessario

burst in and kill them all, then leave», «A ten foot tall bird enters»
(pp. 15, 17, 32)16. Alice, Brian e Maisie continuano ad attendere,
mentre sembrano emergere (ma saranno veri?) inquietanti ricor-
di del passato – un cadavere trovato in giardino, una storia adul-
terina di Alice – e certamente si disvelano tensioni irrisolte, ad esem-
pio nel rapporto dei genitori, in particolare del padre, con il figlio
disadattato e alcolista, nelle paure notturne di Maisie, nel deside-
rio auto-cannibalistico di Brian17, negli accenni a un suo possibi-
le desiderio incestuoso per la figlia.
Inoltre – e solo nella concretezza della messa in scena se ne può
fino in fondo avvertire l’effetto estraniante – accade che il dialo-
go cambi ritmo, pronunciato a velocità doppia per poi tornare a
quella normale, mentre anche i movimenti accelerano e nuovamen-
te rallentano; c’è però una possibile sfasatura, segnalata nelle di-
dascalie che sottolineano l’importanza dell’accuratezza e precisio-
ne dei movimenti, mentre non è essenziale la comprensibilità del-
le parole18. L’espressività corporea si accompagna ma anche si se-
para dal linguaggio verbale, cui viene disconosciuto il valore pri-
mario di mezzo di comunicazione – un processo di disfacimento
del sistema di segni linguistico che si accentua in corrispondenza
a interruzioni e/o a situazioni di più forte attrito nella coppia, con
la frammentazione delle battute, deformazioni e trasposizioni or-
tografiche e fonetiche, disgregazioni della sintassi.
In diversi momenti i personaggi pronunciano solo l’inizio o l’ul-
tima parola delle frasi – sempre sintonizzandole con i relativi mo-
vimenti (pp. 17-18; 24-25). Alice commenta l’atteggiamento del ma-
rito riguardo al ritorno di Susy attraverso un fantasioso rimesco-
lamento delle lettere all’interno della frase: «You don’t sleem pea-
sed – you don’t pleem seased –», chiarendo il senso dell’afferma-
zione solo nella ripresa immediatamente successiva: «You don’t seem
pleased, you seem cross» (p. 14)19. Brian a sua volta la incolpa, par-
lando a grande velocità, di sciupargli consapevolmente e maligna-
mente i possibili momenti di gioia: «It’s not that you don’t have a
sense of occasion. You know exactly what an occasion is and you
deliberately set out to ruin it. I’ve thought for forty years you were
Parte Prima. Sguardi critici 107

a stupid woman, now I know you’re simply nasty», per poi ripe-
tere l’accusa, dopo l’irruzione dell’uccello gigante, in modo insen-
satamente succinto: «It’s not occasion occasion deliberately ruin
it forty years stupid nasty» (pp. 31-32)20.
L’occasione è naturalmente l’arrivo di Susy, che sembra realiz-
zarsi tre volte – e dunque mai davvero. Dapprima la lungamen-
te attesa riunione familiare viene rappresentata in forma idealiz-
zata, con dimostrazioni di affetto quasi mielose: Alice e Brian si
abbracciano emozionati mentre Maisie va ad aprire, si sentono
esclamazioni di benvenuto, e Susy commossa dice: «Mummy. Dad-
dy. How wonderful to be home». Nel secondo caso è invece la ma-
dre, Alice, che va ad accoglierla, e Brian risponde al sobrio e fat-
tuale «Here I am» di Susy con un contenuto eppure emozionato
«You are my heart’s desire» (pp. 27, 33)21. Ma intanto è arrivata una
giovane donna australiana, che nega che Susy – che in Australia
convive con lei (altro potenziale elemento di disturbo rispetto alla
famiglia patriarcale a ai suoi codici di comportamento sessuale:
si tratta di una relazione lesbica?) – abbia davvero pensato di tor-
nare a casa. Finché la terza volta, dopo dichiarazioni fàtiche che
denunciano l’imbarazzo di una riunione carica di non detti, s’in-
terrompe sulla dichiarazione d’amore di Brian, in un ultimo ritor-
no indietro che ci riporta circolarmente all’inizio dell’attesa, smen-
tendo o forse solo rinviando ancora una volta la realtà della sua
conclusione:

SUSY Here I am.


BRIAN Here you are.
ALICE Yes here she is.
SUSY Hello aunty.
BRIAN. You are my heart’s –
Reset to top. BRIAN enters putting on old cardigan.
BRIAN. She’s taking her time
( p. 36)22
108 Caryl Churchill. Un teatro necessario

L’andamento circolare si ritrova diversamente in Blue Kettle, che


nel titolo segnala la domesticità quotidiana attraverso il termine
kettle, il bollitore immancabilmente presente nelle case inglesi. Nel-
la scena di apertura Mrs Plant, la prima donna cui Derek si pre-
senta come il figlio perduto, sopraffatta dalla rivelazione replica
di non riuscire a parlare: «I can’t speak» (p. 39), ricorrendo a una
frase fatta che però coglie bene l’impatto sconvolgente di quel ri-
trovamento inatteso, il limite che stati di perturbazione emotiva
oppongono al linguaggio. Il contrarsi e confondersi delle possi-
bilità comunicative a fronte di situazioni che chiamano in gioco
il senso di sé e il rapporto con la memoria e il passato, evidenzian-
do la costruzione relazionale di soggettività e identità, appare pie-
namente realizzato nella scena finale. Arriva qui al culmine il pro-
cesso di sovversione graduale del linguaggio istituito dal sempre
più insistito inserimento nelle battute delle parole “blu” e “bol-
litore” al posto di quelle che garantirebbero una corretta produ-
zione di senso, e poi della frantumazione di quelle parole in sil-
labe e fonemi.
Mrs Plant e lo stesso Derek davvero non sanno, non possono
più parlare; la falsa identità del giovane non ha retto, messa alla pro-
va nella relazione con le donne che vuole ingannare, ma insieme ad
essa – nella rete di illusioni e resistenze che il suo racconto incon-
tra – si frantumano anche le “vere” identità, che vorrebbero fon-
darsi in rimandi oggettivi: somiglianze fisiche e caratteriali, ricordi
ricostruiti in scambi linguistici la cui intelligibilità viene man mano
insidiata fino a scomparire. Ironicamente, è quando domina la men-
zogna che la comunicazione sembra funzionare correttamente, in
frasi sintatticamente ben costruite pur nel registro colloquiale, ad
esempio quando Derek asseconda il desiderio di Mrs Plant e Mrs
Oliver di trovare tracce concrete di un legame familiare – il colo-
re degli occhi, la forma della testa, il sorriso23. Il lento emergere del-
la verità mina tutte le certezze, traducendosi in un progressivo di-
sfarsi del linguaggio, mediazione del sé con il mondo che presiede
alla formazione del soggetto, un soggetto comunque fragile in quan-
to preso nell’intreccio di campi discorsivi spesso in contraddizio-
Parte Prima. Sguardi critici 109

ne e competizione tra loro; e l’ultima battuta è una sigla misterio-


sa che chiude il cerchio sul tradimento della parola.

MRS PLANT T t have a mother?


DEREK K.
MRS PLANT B happened b k?
DEREK Tle died ket I ket a child.
MRS PLANT Bl bl ket b b b excuse?
DEREK Ket b like. Or not.
MRS PLANT K k no relation. K name k John k k? K k k Tommy k k John.
K k k dead k k k believe a word. K k Derek.
DEREK B.
MRS PLANT Tle hate k later k, k bl bl bl bl shocked.
DEREK K, t see bl.
MRS PLANT T b k k k k l?
DEREK B. K.
(pp. 68-69)24

Lo stesso fallimento del linguaggio verbale, inadeguato a


esprimere la perdita di sé, si mostra nel silenzio del Paziente B in
The Hospital at the Time of the Revolution (“L’ospedale al tempo del-
la rivoluzione”, 1972)25, testo potente, e inspiegabilmente mai mes-
so in scena, sulla lotta di liberazione algerina negli anni cinquan-
ta, in cui rivivono “i dannati della terra” di Franz Fanon26. Egli stes-
so è presente tra i personaggi, quasi tutti identificati solo da riman-
di alla loro condizione – esistenziale, sociale, lavorativa – e a vol-
te da una lettera dell’alfabeto: Monsieur, Madame, un Giovane Dot-
tore, tre Pazienti (A, B, C), un Infermiere, un Ispettore di Polizia;
oltre a Fanon, l’altra eccezione è la giovane Françoise, figlia di Mon-
sieur e Madame, che è però priva di un cognome. Nel reparto psi-
chiatrico dell’ospedale di Blida-Joinville, in un’Algeria dove colo-
nizzatori e colonizzati sono diversamente ma con uguale impat-
to distruttivo presi nella ferocia di una lotta senza quartiere, il gio-
co tra parola e silenzio, tra simbolizzazione che le razionalizza e
nuda materialità che impietosamente le disvela, illumina le dina-
110 Caryl Churchill. Un teatro necessario

miche di potere e le strategie di rappresentazione ad esse consu-


stanziali.
B, combattente della resistenza algerina ricoverato in stato di
shock dopo efferate torture, non riesce a parlare se non in un gri-
do di rifiuto e di sottrazione che è anche abbandono alla morte;
è il suo corpo a dire l’orrore della violenza subita, a farsi raccon-
to di una storia di rivolta e di repressione così feroce da cancella-
re ogni possibilità di comunicazione che non sia quella del dolo-
re e della paura: «No no no. Don’t let him take me back. Let me
die. I can’t go back there» (p. 146)27. Il silenzio si rompe in questa
implorazione disperata quando B vede il suo aguzzino, l’Ispetto-
re, che si è recato in ospedale per farsi prescrivere qualche farma-
co che dia sollievo alle sue angosce. Costretto a un superlavoro come
torturatore a causa delle crescenti attività rivoluzionarie, l’Ispetto-
re da un lato soffre di insonnia e di incubi, dall’altro scopre di trar-
re piacere dalla violenza, che dunque non riesce a tener fuori dal-
la sua vita familiare, esercitandola sulla moglie e sulle figlie. A dif-
ferenza di B, l’Ispettore usa il linguaggio per razionalizzare il suo
disagio, per giustificare la brutalità del suo comportamento e del
potere coloniale in genere, in un circolo vizioso che rovescia i ter-
mini della questione: la supremazia imposta con la forza diventa
legittimazione di quella stessa forza e si specchia nell’abilità reto-
rica che trasforma le vittime in colpevoli.
«The work’s too hard and it’s getting me down. What really kills
me is the torture. No one thinks what hard work it is for the one
that’s doing it. The prisoners should have more consideration than
to force us to go on doing that to them and just tell us quietly what
we want to know. Because it’s no joke torturing someone for ten
hours» (p. 143)28. C’è una terribile verità in queste parole, una con-
sapevolezza nascente ma ancora non del tutto riconosciuta della
devastazione che la violenza opera su chi la perpetra. L’Ispettore
la porta sul suo corpo segnato dall’insonnia e dall’orrore di sé per
le sevizie cui sottopone chi ama, sebbene ancora cerchi di sfug-
girla; mentre nessun dubbio sembra toccare Todd quando in Far
Away (“Altrove”, 2000)29 discute di morte e uccisioni: «And I know
Parte Prima. Sguardi critici 111

it’s not all about excitement. I’ve done boring jobs. I’ve worked in
abattoirs stunning pigs and musicians and by the end of the day
your back aches and all you can see when you shut your eyes is peo-
ple hanging upside down by their feet» (p. 41)30.
Agghiacciante ritratto di un mondo preso in una guerra dav-
vero globale, Far Away è una «topografia grottesca [...] in cui “tut-
to è stato reclutato”; nell’ultima scena i tre personaggi ci fornisco-
no un ameno elenco dei combattenti: uccelli, gatti, bambini sot-
to i cinque anni, venditori di automobili portoghesi, venezuelani,
zanzare, coccodrilli, cervi, dentisti lettoni»31. Il testo ripropone estre-
mizzandola la coesistenza tra riconoscibile e assurdo presente in
Heart’s Desire, anche qui smentendo il supposto ruolo positivo del-
la famiglia, che per la piccola Joan si mostra invece luogo della men-
zogna e della “normalizzazione” dell’orrore: nella scena di aper-
tura la zia dapprima nega le brutalità che la bambina ha visto com-
mettere dallo zio, e poi le giustifica in nome di un bene superio-
re. Viene consegnata a un mondo di paura, come succedeva a An-
gie in Top Girls – “Frightening”, spaventoso, è la sua battuta che
chiude il dramma32 – e iniziata a sfuggirne gli orrori con la voluta
cecità che nel secondo atto la immunizza davanti alla parata di don-
ne e uomini in catene verso il macello, con in testa i cappelli in cui
insieme a Todd ha profuso la sua creatività: parabola di grande im-
patto visivo sulla necessità di non separare mai etica, estetica e po-
litica. L’eredità avvelenata di sopraffazione, pregiudizi e menzogne
che viene trasmessa di generazione in generazione, e di converso
l’appello a interrompere questo meccanismo, come riescono a fare
i personaggi di Cloud Nine, sono un altro tema ricorrente nei lavo-
ri di Churchill33, non ultimo il controverso Seven Jewish Children (“Set-
te bambine ebree”, 2008)34.
In The Hospital il padre di Françoise, burocrate disposto ad as-
sumersi altri compiti, è un torturatore che con le parole vorrebbe
dominare il senso delle cose, e la moglie Madame gli è complice
quando accetta la sua versione: «There is no war and there is no
revolution»; «The violence is committed by criminals. It is not part
of any revolution. [...] And it is only the French who can pacify
112 Caryl Churchill. Un teatro necessario

the land» (p. 110)35. In un’ala in disuso della loro casa, Monsieur
sevizia i “criminali” algerini; notte dopo notte, Françoise ne sen-
te le urla e pur nella sua impotenza rifiuta di esserne complice nel
silenzio; rifiuta di tacere, mettendo a rischio l’immagine che i ge-
nitori vogliono dare di lei e della famiglia. Come per Joan in Far
Away, la verità delle sue percezioni viene disconosciuta, cercando
di farle passare per prodotti malati della sua immaginazione; fin-
ché di fronte al suo crescente disagio psichico, che arriva a farle
sentire la propria vita minacciata dai genitori, questi la portano al-
l’ospedale in una manovra di distanziamento che confina il com-
portamento di Françoise nella devianza. Per la giovane donna la
follia che la emargina è anche il solo possibile rifugio, la sola pos-
sibilità di libera espressione nel momento in cui i segreti innomi-
nabili della sua famiglia, e più ampiamente della società colonia-
le, le esplodono dilaniandola nella mente e nel cuore.
Nell’ospedale tutti i pazienti, colonizzati e colonizzatori, sono
sintomi della patologia del sistema coloniale, con le sue gerarchie
di razza e i suoi meccanismi di identificazione coatta in una spi-
rale perversa di violenza; le morti che ha provocato mettendo una
bomba in un bar perseguitano il Paziente A, la tortura messa in atto
e subita lacera l’Ispettore e il Paziente B, la sua pelle chiara ango-
scia il Paziente C, mettendo in forse la sua appartenenza e confi-
gurandosi come indicatore di viltà e tradimento. Per Françoise –
non a caso una donna – agente patogeno è anche la famiglia, fun-
zionale al sistema patriarcale, disfunzionale nei termini dell’antip-
sichiatria di Laing, ai cui scritti Churchill ha attinto per creare que-
sto personaggio36. Intrappolata nella contraddizione tra il privile-
gio che essere bianca comporta e il destino di minorità e sottomis-
sione che la segna perché donna, si sottrae a entrambi imboccan-
do la strada della follia. Alla fine diventa incarnazione dell’intrec-
cio mortale tra relazioni di potere che nella sfera pubblica come
in quella privata si fondano sulla violenza e la cancellazione del-
l’altro; non vi è più distinzione per lei tra il terrore dei torturati e
il suo, tra l’annullamento che li minaccia e quello che la sommer-
ge nel suo monologo finale, «evocativo a molti livelli per il modo
Parte Prima. Sguardi critici 113

in cui interroga i confini del sé e la natura del corpo fenomeno-


logico [e che] in termini di corpo politico è metafora potente del
futuro della colonia»37. Infettata da una società malata e da una fa-
miglia che ne è specchio, Françoise ne allucina profeticamente il
consumarsi nel suo corpo anoressico: «The dress looked very pret-
ty but underneath I was rotting away. Bit by bit I was disappearing.
The dress is walking around with no one inside it. I undo the but-
tons and put my hand in. Under the dress I can’t find where I am.
So when I take it off there’s nobody there. [...] My mother made
that dress to kill me. It ate me away. That was a poison dress I put
on» (p. 146)38.
La dinamica tra differenti marche del sé – sesso, razza, classe –
nel legame con le loro significazioni sociali, e dunque con le defi-
nizioni di norma e devianza, ritorna in molti testi di Churchill, in-
sieme all’indagine sulle istituzioni, la famiglia in primis, che rego-
lamentano la vita associata e concorrono alla formazione di iden-
tità e soggettività. «Come la striscia di Mobius in Traps, le idee si in-
trecciano da testo a testo»39, e in verità, c’è nel corpus delle sue ope-
re una tessitura di rimandi e variazioni così fitta da richiedere ben
più di un breve saggio per dipanarne i fili in un’analisi che ad essa
renda onore; questo è appena un inizio di discorso.
114 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Note

1
M. Ravenhill, ‘She made us raise our game’, in «The Guardian», 3 September 2008, disponibile an-
che in rete sul sito <http://www.guardian.co.uk/stage/sep3/carylchurchill.theatre>: «it’s her abi-
lity to continually reinvent the form that most writers would identify as her genius. In Churchill’s
plays, there is a constant search for new kinds of language and theatrical structures: devices that
can reveal the essence of a moment. [...] Of course it’s possible to trace recurring themes in Chur-
chill’s work [...]. But it is the variety of her work that is most striking». Qui come altrove, le tradu-
zioni da testi non disponibili in edizione italiana, ivi inclusi i lavori di Churchill, si devono all’au-
trice di questo contributo. [N.d.A.]
2
C. Churchill, Blue Heart, Nick Hearn Books, London 1997.
3
Cfr. E. Aston, Caryl Churchill, Northcote House, London 2001, cap. 5: “Exploding Words and
Worlds”, pp. 80-102, dedicato a A Mouthful of Birds, Icecream, Hot Fudge, Lives of the Great Poisoners,
e The Skriker.
4
Ivi, p. 80: «deformation or explosion of the word, of language, the sign-system through which
we mediate and make sense of the world».
5
J. Reinelt, Caryl Churchill and the Politics of Style, in The Cambridge Companion to Modern British Women
Playwrights, a cura di E. Aston e J. Reinelt, Cambridge University Press, Cambridge 2000, p. 189.
La traduzione è di chi scrive.
6
C. Churchill, Plays 1. Owners, Traps, Vinegar Tom, Light Shining in Buckinghsmshire, Cloud Nine, Me-
thuen, Londra 1985.
7
C. Churchill, Plays 2. Softcops, Top Girls, Fen, Serious Money, Methuen, Londra 1990.
8
Churchill, Plays 1, cit., p. 71: «like an Escher drawing, where things can exist on paper, but would
be impossible in life»; «the characters can be thought of as living many of their possibilities at once».
Nota introduttiva dell’autrice a Traps. [N.d.A]
9
C. Churchill, Plays 3. Icecream, Mad Forest, Thyestes, The Skriker, Lives of the Great Poisoners, A Mou-
thful of Birds (with David Lan), Nick Hern Books, Londra 1998.
10
Cfr. C. Amich, Bringing the Global Home: The Commitment of Caryl Churchill’s The Skriker, «Modern
Drama», vol. 50, 2007, n. 33, pp. 394-413.
11
C. Churchill, Shorts. Three More Sleepless Nights, Lovesick, The After-Dinner Joke, Abortive, Schreber’s
Nervous Illness, The Judge’s Wife, The Hospital at the Time of the Revolution, Hot Fudge, Not Not Not Not
Not En ough Oxygen, Seagulls, Nick Hern Books, Londra 1990.
12
Cfr. a tale proposito l’interessante notazione sulla disgiunzione tra elementi visivi e audiviti pro-
posta in A.H. Kritzer, The Plays of Caryl Churchill. Theatre of Empowerment, Macmillan, London 1991,
p. 48.
13
Cfr. I. Lavell, Caryl Churchill. Representational Negotiations and Provisional Truths, tesi di dottorato ine-
dita, Murdoch University, 2004, cap. 6.
14
Alice e Maisie. Alice dispone coltelli e forchette sul tavolo, Maisie si muove irrequieta per la stanza. Brian en-
tra infilandosi un maglione rosso.
BRIAN Ci sta mettendo un sacco di tempo.
ALICE Non proprio.
Si fermano, Brian esce. Le altre tornano all’inizio e rifanno esattamente quel che hanno fatto prima, mentre
BRIAN entra infilandosi una giacca di tweed.
BRIAN Ci sta mettendo un sacco di tempo. Alice Non proprio.
15
In successive riprese del segmento, Brian cambia nuovamente capo di vestiario, forse segnalan-
do il suo nervosismo e l’ansia all’idea di rivedere la figlia Susy, ma anche un difficile rapporto con
Parte Prima. Sguardi critici 115

il proprio corpo, di cui gli abiti diventano proiezione di sé, elementi dell’immagine che cerca di co-
struirsi e di mostrare all’esterno. Si veda in proposito E. Monforte Rabascall, Gender, Politics, Sub-
jectivity. Reading Caryl Churchill, tesi inedita di dottorato, Universitat de Barcelona, 2000, pp. 243-45.
16
«Un’orda di bambini si precipita nella stanza correndo in giro, poi esce», «Due SICARI fanno
irruzione e sparano uccidendo tutti, poi se ne vanno», «Entra un uccello alto tre metri».
17
In un crescendo angoscioso, Brian confessa questa sua fame distruttiva, l’impulso a mordere e
masticare tutto se stesso riducendosi a un’enorme bocca spalancata e vorace che fagocita prima le
mani, poi le braccia, il torso, il pene, le gambe, finché restano solo i piedi – «solo i piedi che spor-
gono dalla mia bocca adesso gnam gnam ho inghiottito i piedi, c’è solo la mia testa e la mia boc-
ca enorme la vuole, la mia bocca enorme si torce e ahhh ecco la testa se ne va nella mia bocca ho
inghiottito la testa ho inghittitto tutto intero me stesso sono solo bocca ci riesce la mia bocca a in-
ghiottire la mia bocca sì sì la mia bocca sta facendone un gran boccone ahh». C. Churchill, Blue He-
art, cit., p. 22: «just the feet sticking out of my mouth now gollop gollop I’ve swallowed my feet,
there’s only my head and my big mouth wants it, my big mouth turns round and ahh there goes
my head into my mouth I’ve swallowed my head I’ve swallowed my whole self up I’m all mouth
can my mouth swallow my mouth yes yes my mouth’s taking a big bite ahh» (p. 22).
18
Ad esempio, ivi, pp. 11 e 29: «Questa volta ripetete a doppia velocità, tutti i movimenti accurati sebbene ve-
loci» («This time do the repeat at double speed, all movements accurate though fast»), mentre in una successi-
va ripetizione, l’istruzione richiede di essere «il più veloci possibile. La precisione è importante, l’intelligibi-
lità no» («as fast as possible. Precision matters, intelligibility doesn’t»).
19
«Non stembri cotento – non cembri sontento», «Non sembri contento, sembri seccato».
20
«Non è che tu non abbia il senso delle occasioni importanti. Sai perfettamente cos’è un’occasione
e deliberatamente cerchi di rovinarla. Per quarant’anni ho pensato che tu fossi stupida, ora so che sei
solo cattiva». «Non è occasione occasione deliberatamente rovinarla quarant’anni stupida cattiva».
21
«Mamma. Papà. Che bello essere a casa». «Eccomi qui». «Sei il desiderio del mio cuore».
22
SUSY Eccomi qui.
BRIAN Eccoti qui.
ALICE Sì eccola qui.
SUSY Ciao zia.
BRIAN Sei il desiderio –
Tornare all’inizio. Brian entra infilandosi un vecchio cardigan.
BRIAN Ci sta mettendo un sacco di tempo..
23
Cfr. il dialogo tra Derek e Mrs Plant e quello tra Derek e Mrs Oliver (pp. 39, 41-42).
24
MRS PLANT R r hai una madre?
DEREK B.
MRS PLANT U lu b successo?
DEREK Olli morta bo ero piccolo.
MRS PLANT Lu lu bo u u u scusa?
DEREK Bo u pare. Oppure no.
MRS PLANT B b c’è nessuna parentela. B nome b John b b? B b b Tommy b b John. B b b mor-
ta b b b credo una parola. B b Derek.
DEREK U.
MRS PLANT Olli odio b poi b, b lu lu lu lu sconvolta.
DEREK B, r vedere lu.
MRS PLANT L b b b b t?
DEREK B. K.
25
In C. Churchill, Shorts, cit.
116 Caryl Churchill. Un teatro necessario

26
F. Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 1962 (Les Damnés de la terre, Maspero, Parigi 1961).
27
«No no no. Non lasciate che mi riporti là. Lasciatemi morire. Non posso tornare là».
28
«Il lavoro è troppo duro e mi sta buttando giù. Quello che proprio mi uccide è la tortura. Nes-
suno pensa a quanto è dura per chi la fa. I prigionieri dovrebbero avere più riguardi invece di ob-
bligarci a continuare a farlo, e dirci tranquillamente quel che vogliamo sapere. Perché non è uno
scherzo torturare qualcuno per dieci ore di fila». La figura dell’Ispettore è basata in modo ricono-
scibile, a volte fin quasi alla parafrasi, come per la citazione appena riportata, su due casi della Se-
rie A – il n. 4 (dove si trova anche l’ispirazione per il Paziente B) e il n. 5 – presentati nel capitolo
5 di I dannati della terra di Franz Fanon, cit. [N.d.A.]
29
C. Churchill, Far Away, Nick Hern, London 2004.
30
«E lo so che non sono sempre cose eccitanti. Ho fatto anche dei lavori noiosi. Ho lavorato nei
mattatoi abbattendo maiali e musicisti e alla fine della giornata la schiena ti fa male e quando chiu-
di gli occhi vedi solo gente appesa per i piedi a testa in giù».
31
E. Diamond, On Churchill and Terror, in The Cambridge Companion to Caryl Churchill, a cura di E. Aston
e E. Diamond, Cambridge University Press, Cambridge 2009, p. 139.
32
Churchill, in Plays 2, cit., p. 141.
33
Cfr. le interessanti osservazioni in A.H. Kritzer, Political Theatre in Post-Thatcher Britain. New Wri-
ting 1995-2005, Palgrave Macmillan, Houndmills, Basingstoke, Hamps. 2008, pp. 68-77
34
C. Churchill, Seven Jewish Children. A Play for Gaza (2008); il testo può essere scaricato dal sito del
Royal Court Theatre (< http://www.royalcourttheatre.com/whats-on/seven-jewish-children-a-play-
for-gaza>).
35
«Non c’è nessuna guerra e nessuna rivoluzione», «La violenze sono opera di criminali. Non fan-
no parte di nessuna rivoluzione. [...] E solo i francesi possono pacificare questa terra».
36
Punto di partenza si può ritenere il caso n. 3 della Serie B presentato sempre nel capitolo 5 del
già citato libro di Fanon, in cui però il padre della paziente, che è maggiorenne e vive per proprio
conto, è morto in un attentato. Nella figura di Françoise si possono rintracciare inoltre elementi
del resoconto sul caso della famiglia Abbott e di quello sul caso di Julie, analizzati rispettivamen-
te in R. Laing e A. Esterton, Normalità e follia nella famiglia. Undici storie di donne, a cura di L. Jervis
Comba, Einaudi, Torino 1970 (Sanity, Madness and the Family. Families of Schizophrenics, Penguin Bo-
oks, London 1964) e in R. Laing, L’io diviso. Studi di psichiatria esistenziale, Einaudi, Torino 1969, (The
Divided Self. An Existential Study in Sanity and Madness, Tavistock Publications, London 1960). Come
Françoise, Maya Abbott vede le sue esperienze e percezioni costantemente negate, e a diciotto anni
viene ricoverata in ospedale, convinta che i genitori vogliano ucciderla; dal canto suo, come osser-
va Elaine Aston, Julie (ventisei anni, in ospedale da nove), viene infantilizzata dai genitori in modi
che ricordano il comportamento di Monsieur e Madame (vedi E. Aston, op. cit., p. 12).
37
I. Lavell, op. cit., p. 166. La traduzione è di chi scrive.
38
«Il vestito era proprio bello ma sotto io marcivo. Sparivo poco a poco. Il vestito se ne andava in
giro con nessuno dentro. Lo sbottono e ci infilo la mano. Sotto il vestito non trovo dove sono. Per-
ciò quando me lo levo non c’è nessuno. [...] Mia madre ha cucito quel vestito per uccidermi. Mi
ha mangiato; era un vestito velenoso quello che ho indossato».
39
G. Cousin, Churchill. The Playwright, Methuen, London 1989.
Parte Seconda. In scena
4. Da sin.: Federica Fracassi - Sabrina Colle - Laura Pasetti - Raffaella Boscolo - Debora Virello - Elena Russo
Arman interpreti del reading di Top Girls presso Teatro i di Milano (28 gennaio 2009). Regia di Renzo Martinelli.
Teatro i chiama Caryl Churchill

di Federica Fracassi, Francesca Garolla, Renzo Martinelli

Scrivere di Caryl Churchill addentrandoci analiticamente nella


vertigine delle sue opere, ognuna così importante in sé; ognuna
tracciata con acume impietoso e legata a doppio nodo con un
preciso momento storico, politico, emotivo; ognuna formalmen-
te innovativa eppure pertinente, esatta, non ci sembrava il giusto
apporto che Teatro i poteva donare a questo volume1. Altre vo-
ci più qualificate di noi si addentrano negli snodi rivelatori delle
opere di Churchill.
È indubbio però che qualcosa di significativo vada detto, se non
altro perché pare che il ruolo di Teatro i sia stato centrale nella ge-
nesi di questa pubblicazione. Il nostro progetto sull’autrice, rea-
lizzatosi a Milano nel gennaio 2009 e di cui parleremo in seguito,
è stata la classica goccia che fa traboccare il vaso, un vaso colmo
di idee e di voglia di fare. Una scintilla, che stranamente si è acce-
sa in Italia e che ha dato il via a un rinnovato – speriamo per mol-
to tempo – interesse nei confronti di un’autrice straordinaria che
il nostro paese, senza che ne siano chiari i motivi, ha finora pres-
soché ignorato.
Caryl Churchill è una tra le più note drammaturghe inglesi con-
temporanee che dagli anni sessanta dello scorso secolo ad oggi ha
portato in teatro le contraddizioni e le ferite della società occiden-
tale, criticandone i totalitarismi impliciti e sottolineando le limita-
zioni imposte dalla “regola della maggioranza” alla libertà di espres-
sione del dissenso e al valore della diversità. Definita una delle voci
del femminismo socialista, educata ad Oxford e figlia di una fami-
glia bene dell’alta borghesia, Churchill ha avuto un percorso pro-
fessionale ad ostacoli. Ha messo continuamente e quasi sciente-
120 Caryl Churchill. Un teatro necessario

mente in scacco il suo destino, scritto con la penna del mainstream,


tramite frequentazioni fringe e off. Per nulla assimilabile ad una tra-
dizione in particolare, ha disegnato con la sua condotta fuori da-
gli schemi una via personale, originale e di estrema coerenza nel
panorama teatrale internazionale, se si considera che, al di là del-
le differenze intrinseche, tutte le sue opere sono permeate da
un’identica portata rivoluzionaria nel pensiero e nella tecnica com-
positiva.

Perché allora l’Italia, tranne alcune poche e illuminate eccezioni,


l’ha così poco considerata? Perché è una donna e le donne han-
no più difficoltà di affermazione? Perché il suo è un teatro trop-
po intellettuale per il pubblico italiano? Perché nelle sue pièces ci
sono troppi personaggi e quindi troppi attori, troppi costumi e le
produzioni italiane sono troppo povere? Perché quando affronta
temi storici spesso parte da una storia che è troppo britannica per
varcare i confini nazionali? Eppure in Germania è un’autrice mol-
to rappresentata... Al momento ci sono tanti “troppo”, ma la ri-
sposta manca. È probabile anzi che questo scritto sia solo l’osses-
siva riformulazione di questa domanda a cui ancora non abbiamo
trovato risoluzioni soddisfacenti. Senz’altro il nostro contributo vuo-
le essere un reportage di ciò che abbiamo fatto, da un punto di vi-
sta artistico e da un punto di vista organizzativo, tentando di col-
mare questa lacuna.
Siamo giunti ad elaborare la domanda sul perché della scarsa
considerazione di Churchill nel nostro paese per la prima volta nel
2000 in occasione del ritorno da Berlino di Renzo Martinelli, re-
gista e direttore artistico di Teatro i. Martinelli, che era ospite di
Jens Hillje, Dramaturg della Schaubühne, per discutere di un pro-
getto, vide in scena per la prima volta un’opera di Churchill, Far
Away, per la regia di Thomas Ostermeier e ne rimase folgorato. Da
lì le prime ossessioni, il desiderio di realizzare una delle sue ope-
re e il continuo confronto con Margaret Rose, che aveva curato in-
sieme a Monica Castaldi la prima traduzione italiana di Top Girls
rappresentata a Milano nel 1988 per la regia di Marina Bianchi.
Parte Seconda. In scena 121

Mentre aspettavamo l’occasione giusta per un incontro con Chur-


chill, la nostra compagnia, dopo anni di nomadismo, ottenne una
sede in affitto dal Comune di Milano. La progettualità di Teatro i si
amplificò a dismisura e nacque anche la possibilità di collaborazio-
ni e progetti speciali dal respiro internazionale, con altri teatri o com-
pagnie. La nostra attenzione è stata da sempre rivolta al contempo-
raneo, inteso come ciò che succede contemporaneamente a noi, le
voci degli autori che scrivono nel nostro tempo, delle compagnie che
producono drammaturgie originali, degli artisti che si mettono in gio-
co per parlare del presente e di noi. Nelle nostre prime stagioni di
programmazione abbiamo avuto ospiti illustri tra i quali non sono
mancati esponenti della drammaturgia inglese. Abbiamo organizza-
to incontri con Mark Ravenhill, Martin Crimp, Tim Crouch, Den-
nis Kelly in occasione della presentazione, sul palco di Teatro i, di
loro opere messe in scena da artisti italiani. Con Ravenhill Federi-
ca Fracassi lavorava come attrice ospite nel monologo Product in sce-
na per il festival Milanoltre. Queste relazioni ci hanno portato sem-
pre più vicino all’area del Royal Court Theatre, quell’inesauribile fu-
cina londinese di drammaturgia contemporanea che continua a es-
sere punto di riferimento per tutta l’Europa e i paesi anglofoni. Ed
ecco che – mentre ci interrogavamo sull’effettiva possibilità di met-
tere in scena Top Girls – arrivò l’occasione insperata.
Nel settembre 2008 il Royal Court Theatre organizzò un proget-
to unico, dal respiro internazionale, per celebrare il settantesimo com-
pleanno di Caryl Churchill. Fu una decisione che travalicava la mera
formalità. Churchill è stata la prima donna “drammaturga in resi-
denza” al Royal Court nel 1974 e da allora è rimasta fedele a que-
sto luogo dove hanno debuttato la maggior parte dei suoi lavori e
dove ha insegnato, tenuto laboratori, guidato battaglie nell’ambito
della TWU (Theatre Writers’ Union) o semplicemente lasciato fio-
rire il lavoro di altri più giovani autori ed autrici, con la partecipa-
zione silenziosa e al tempo stesso totale e ricca di suggerimenti che
l’ha da sempre contraddistinta. La sua fama è andata ben oltre Sloa-
ne Square, ha varcato l’oceano. Le sue pièces sono andate in scena
a Berlino come a Broadway. È certamente una della poche autrici
122 Caryl Churchill. Un teatro necessario

donne ad avere guadagnato il rispetto che merita e l’eccezionalità del


suo lavoro ha retto il passare del tempo. Nonostante tutto Caryl Chur-
chill è rimasta fedele al Royal Court eleggendolo a dimora da cui par-
lare al mondo. Quello del Royal Court fu dunque innanzitutto un
gesto d’affetto nel giorno del suo compleanno, un regalo speciale
che si rivelò tale anche nella proposta. Il teatro chiese a dieci auto-
ri di spicco della drammaturgia internazionale di curare la lettura sce-
nica di un testo di Caryl Churchill: il loro preferito, quello che me-
glio li rappresenta. Nel maggio 2008 era già sul sito l’articolazione
dei Caryl Churchill Readings: come atto di celebrazione del settante-
simo compleanno di Caryl Churchill e come riconoscimento per
la sua collaborazione con il Royal Court, lunga e piena di succes-
si, dieci drammaturghi di spicco avrebbero curato un reading del
loro testo preferito.
Dando una veloce lettura ai nomi in elenco (April de Angelis,
Mark Ravenhill, Winsome Pinnock, Nicholas Wright, Debbie Tuck-
er Green, Wallace Shawn, Zinnie Harris, Marius von Mayenburg,
Martin Crimp, Joe Penhall) si intuiva subito la portata straordina-
ria del progetto e ancora di più si deduceva leggendo l’articolo en-
tusiasta che Mark Ravenhill dedicò a Caryl Churchill su “The Guar-
dian” nei giorni della celebrazione (pubblicato nella terza sezione
di questo volume). Impressiona l’enorme e unanime rispetto che
i drammaturghi più importanti delle ultime generazioni nutrono
nei confronti di Churchill. Tutti, senza eccezione, la considerano
un riferimento, un esempio, un faro.

Tornando a Teatro i, ciò che subito tentammo di fare fu di impor-


tare una parte di quel progetto costruendo una collaborazione Lon-
dra-Milano, Royal Court Theatre-Teatro i. Sarebbe stata questa l’oc-
casione per “incontrare” Caryl Churchill. Avevamo dalla nostra la co-
noscenza personale di alcuni degli autori coinvolti nel progetto; la for-
ma di realizzazione delle opere, e cioè il reading, molto più agile da
importare piuttosto che ospitare un vero e proprio allestimento. Il
reading è una forma che gli artisti inglesi sono molto abituati a fre-
quentare: attori e voce, e un pubblico che è a suo agio nel semplice
Parte Seconda. In scena 123

ascolto dei testi, nella concentrazione sulla parola. Infine avevamo


la preziosa collaborazione dell’Università degli Studi di Milano e tan-
to entusiasmo. Così siamo partiti, senza fondi sicuri a sostegno del
progetto, con tempi di realizzazione stretti per noi italiani e inimma-
ginabili per i nostri partner britannici e tutto il resto che remava con-
tro; ma abbiamo preso il primo volo per Londra cercando di stabi-
lire un contatto con il Royal Court e ce l’abbiamo fatta.
Le trattative sono state estenuanti e non per problemi di volon-
tà o carattere. Il Royal Court Theatre produce opere che sono de-
stinate al palco di Sloane Square ed è stato molto difficile organiz-
zare i trasferimenti. Alcuni autori non hanno potuto partecipare,
alcuni attori hanno dovuto essere sostituiti. Noi abbiamo fatto da
organizzatori, sovratitolisti, artisti, accompagnatori. È stata una set-
timana entusiasmante con un ricco programma.
Ciò che ci ha colpito nell’eterogeneità delle voci coinvolte nel pro-
getto milanese è stata la collettività del lavoro che ne è scaturito.
Un’unione di intenti sorprendente, se si pensa che deriva da saperi
così differenti: attori, attrici, drammaturghi, registi, studiosi.
In particolare, partendo dalla messa in scena di Top Girls, a cura
di Renzo Martinelli, è stato interessante confrontarsi con la com-
pagnia britannica parlando delle diverse modalità di realizzazione
di un reading nei due paesi.
Prendendo spunto dalla domanda provocatoria “Che top girls ce
l’ha fatta?” si è indagata la piccola eppure enormemente rappresen-
tativa comunità femminile di questa pièce. La riflessione si è focaliz-
zata soprattutto sui modelli di riferimento delle donne di oggi e di ieri:
Marlene, la top girl protagonista del testo che sempre antepone la car-
riera alla figlia, piuttosto che Margaret Thatcher, ascesa alla carica di
Primo Ministro nel 1979, sono davvero una celebrazione dei traguar-
di raggiunti dalle donne? Ci si è interrogati sulla natura di un testo che
se da un lato saluta, esultando, l’emancipazione femminile, dall’altro
smaschera l’ipocrisia di un modello aggressivo e individualistico. Top
Girls, particolarmente complesso da affrontare sotto la forma del rea-
ding, mette in scena veri e propri topos della personalità femminile
spaziando in tempi e in luoghi differenti.
124 Caryl Churchill. Un teatro necessario
Parte Seconda. In scena 125

La regia di Renzo Martinelli, nell’intento di rendere il più pos-


sibile fruibile il testo e di valorizzarne l’innegabile potenza dram-
maturgica e politica, ha scelto di privilegiare il sistema di relazio-
ni sotteso ai dialoghi tra i personaggi. Il copione è diventato così
punto di partenza per affrontare, grazie alla bravura e all’alta pro-
fessionalità delle attrici coinvolte, una lucida e spietata analisi del
rapporto lavoro-famiglia nella vita delle donne a partire da una an-
cora attuale riflessione sui concetti di femminilità e femminismo.
Le attrici, tutte note, ma provenienti da ambiti ed esperienze mol-
to diverse, hanno dato spessore ai personaggi e alla loro interazio-
ne proprio attraverso le loro peculiarità, dando vita ad una colla-
borazione particolarmente emozionante e ricca.
Tutto il progetto si è svolto nello spirito, oltremodo raro, di un
vero e proprio concorso di idee. Non è un caso forse che sia ar-
rivata anche in questa tappa di lavoro l’eco del tratto distintivo di
Churchill, della sua prima attitudine verso il teatro e la scrittura,
l’unico elemento che a ragione la rende definibile come sociali-
sta: il mettere in comune il lavoro e il sapere. Un pensiero e un
risultato che si definiscono, si chiarificano e acquistano spessore
attraverso il confronto di teorie anche rivali, preservando la ric-
chezza delle differenze. Caryl Churchill ci dimostra che la storia
si scrive (si rappresenta, si narra) soprattutto a partire dagli spa-
zi della diversità, anche se gli esiti di questa scrittura, spesso ad
opera dei settori più deboli della società, appartenenti a tradizio-
ni considerate marginali, vengono frequentemente occultati e nel
migliore dei casi, in seguito a un’emersione rivoluzionaria, ricon-
dotti al silenzio.

Recentemente parlavo con una giovane drammaturga tedesca. “Amo le au-


trici inglesi della tua generazione”, mi ha detto, “Sarah Kane, Debbie Tucker
Green, Caryl Churchill”. Sorridendo le ho fatto notare che la prima opera di
Churchill è andata in scena 35 anni fa e che lei ne compirà 70 questa settima-
na. “Ma come”, ha farfugliato la collega, “come può scrivere in modo così
giovane ed essere una signora così attempata?”.
126 Caryl Churchill. Un teatro necessario

C’è anche questo nell’articolo di Mark Ravenhill di cui abbia-


mo parlato in precedenza. Ed è questo in conclusione che, se non
dà la risposta sul perché il teatro di Churchill non venga abbastan-
za rappresentato in Italia, la dà certamente sul perché dovrebbe es-
serlo, sul perché a noi pare così importante che i palcoscenici del
nostro paese accolgano questa voce.
La risposta è nella contemporaneità di Churchill, in questo suo
narrare il presente scandagliandolo sorprendentemente da ogni pun-
to di vista. Affrontare i suoi testi significa affidarsi a una potenza
formale senza pari, osservare il mondo con uno sguardo che è pri-
ma di tutto politico e tenta di registrare i moti del presente met-
tendo in scena i desideri di chi è meno in grado di realizzarli. Ca-
ryl Churchill ha il pregio di cogliere i mutamenti della contempo-
raneità e di trasfigurarli, di evidenziarne il senso al di là del con-
testo storico. Le tematiche affrontate, i personaggi e le loro dina-
miche di relazione si pongono in una dimensione che non può mai
essere fuori moda perché Caryl Churchill parla il linguaggio di un’at-
tualità senza tempo.
Attento alle drammaturgie della contemporaneità e da sempre
interessato alla scrittura femminile, Teatro i non ha potuto igno-
rare la grandezza dell’opera di questa autrice, rappresentata sui pal-
chi europei e internazionali, ma a cui la scena italiana non ha an-
cora dedicato lo spazio adeguato.

*
Cogliamo ancora una volta l’occasione per ringraziare il Comune di Milano, nella persona di
Antonio Calbi, Direttore del Settore Spettacolo, che ha saputo cogliere quest’occasione preziosa
e che ha contribuito in modo sostanziale alla realizzazione del progetto e l’Università degli Studi
di Milano, nelle persone di Margaret Rose e di Mariacristina Cavecchi, consulenti letterarie del
progetto, che hanno condiviso il percorso di questa collaborazione.
Parte Seconda. In scena 127

5. Federica Fracassi al Teatro i di Milano il 30 genna-


io 2009. © Federica Anchieri (2009).

6. Nina Sosanya nel reading di Light Shining in


Buckinghamshire presso Teatro i di Milano (30 gen-
naio 2009). Regia di Mark Ravenhill.
© Federica Anchieri (2009).
128 Caryl Churchill. Un teatro necessario

7. Da sin.: Justin Salinger, Matt Smith e Nina


Sosanya interpreti del reading di Light Shining in
Buckinghamshire presso Teatro i di Milano (30 gen-
naio 2009). Regia di Mark Ravenhill.
© Federica Anchieri (2009).
Parte Seconda. In scena 129

Note

1
Teatro i, la cui esperienza produttiva si lega ai nomi dei due fondatori, Renzo Martinelli e Feder-
ica Fracassi, sceglie di rappresentarsi attraverso un segno semplice e fragile, la lettera “i”, un logo
in dialogo con una realtà artistica che, mantenendo un’identità forte, è pronta ad aprirsi a ogni nuo-
vo incontro. Teatro i realizza il suo progetto attraverso le proprie produzioni (si ricordano tra le
altre La Santa (2000), Prima della Pensione (2006), Dare al Buio (2007), Lait (2009)) e l’ospitalità di artisti
nazionali e internazionali che presentano le proprie creazioni nella sala di via Gaudenzio Ferrari,
11 a Milano, inaugurata nel 2003. Gli artisti ospiti scelgono questo luogo per proporre la loro ricer-
ca attraverso spettacoli, ma anche dibattiti, incontri, concerti, alla ricerca di un dialogo con un pub-
blico che Teatro i ha fatto crescere insieme alle sue stagioni. Molti sono i risultati a oggi raggiun-
ti, come il Premio Hystrio - Provincia di Milano (2007) e i numerosi riconoscimenti per l’attività
artistica di produzione (Federica Fracassi ha vinto il Premio Adelaide Ristori nel 2008 per la sua
interpretazione in Dare al buio, il Premio ETI “Gli Olimpici del Teatro” 2007 come attrice emer-
gente e la menzione d’onore quale miglior attrice emergente al Premio Duse 2006 che ha poi ot-
tenuto nel 2011). L’esperienza di Teatro i mostra inoltre importanti risultati per quanto riguarda
la propria attività sul territorio e sulla città, come il costante aumento dell’afflusso di pubblico, del-
l’attenzione della stampa, del riconoscimento presso gli enti pubblici.
8. Da sin: Federica Fracassi, Elena Russo Arman, Laura Pasetti, interpreti del reding di Top Girls presso Teatro
i di Milano (28 gennaio 2009). Regia di Renzo Martinelli. © Federica Anchieri (2009)
Il teatro di Churchill. Un alfabeto

di Marco Ghelardi

Sono un regista che lavora spesso su testi britannici, non solo


perché mi sono formato in Inghilterra, ma perché penso che un
testo d’Oltremanica sia spesso la cosa giusta da proporre al pub-
blico e al lavoro degli attori. La drammaturgia britannica forni-
sce storie che battuta dopo battuta invogliano a vedere cosa suc-
cede dopo: in Italia questo è raro. In particolare i testi di Caryl
Churchill sono una buona occasione per diffondere quei valori
teatrali ed estetici che restano in ombra o ai margini della nostra
cultura, come ho potuto sperimentare di persona nel 2009 du-
rante il mio lavoro su Vinegar Tom con la scuola di recitazione
“Giovanni Poli” presso il teatro a l’Avogaria di Venezia. Li elen-
co in ordine sparso: dialettica, ironia, umiltà. E ancora: polifonia,
montaggio, fiducia nel pubblico.
In questo contributo ho cercato di analizzare Caryl Churchill
quale professionista della scrittura teatrale, cioè analizzare la scrit-
tura come mestiere e non come estetica o intervento sociale o bio-
grafia: ho trattato questi campi solo quando necessari a illumina-
re alcuni particolari della mia indagine principale. L’analisi dove-
va per forza allargarsi al contesto che ha permesso a Caryl Chur-
chill di divenire Caryl Churchill, perché per capire lei dobbiamo
capire l’ambito in cui si è formata e come sia diverso da quello del
nostro paese. Poiché mancano ancora gli strumenti concettuali e
discorsivi per consentire appieno un discorso sul mestiere dello scri-
vere teatrale fuori dall’Accademia e oltre l’aneddotica e il memo-
riale, l’Alfabeto si propone di essere anche una prima sperimen-
tazione di soluzioni per colmare questa lacuna.
132 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Le ventisei voci, ordinate secondo l’alfabeto inglese, compon-


gono perciò una guida per orientarsi all’interno dell’opera di Chur-
chill. Queste comprendono: 1) ossessioni e simboli interni all’ope-
ra; 2) circostanze e ambienti di lavoro che l’hanno resa possibile;
3) testi chiave. Le voci possono essere lette in ogni ordine. Non
troverete voci per le lettere K, Q, X, Y e Z, ma ne troverete due
per la lettera I, R, S e tre per la lettera C. Come tutte le guide, an-
che questa deve essere agevole da consultare, dare informazioni
utili, saper soddisfare interessi di diversa natura ed essere la pre-
messa a un viaggio. Se il mio vademecum servirà a qualcuno per
mettere in scena Caryl Churchill sui palcoscenici italiani, mi riter-
rò più che soddisfatto.

ANTS. Testo per la radio trasmesso dal BBC Third Programme


il 27 novembre 1962. Negli anni sessanta la radio è uno dei me-
dia attraverso cui si possono esprimere le nuove voci drammatur-
giche. Churchill impara dalla radio precisione e libertà1. La sua spic-
cata sensibilità al linguaggio inizia ora a sposarsi con l’uso di altri
strumenti teatrali, come la musica e i suoni.

BERTOLT BRECHT. Drammaturgo tedesco (1898-1956) che ha


dato vita ad uno stile teatrale (1928-oggi). Nella sua carriera, Chur-
chill è stata più volte associata al nome di Bertolt Brecht e alle sue
tecniche di “straniamento”.
Quando nel 1956 il Berliner Ensemble di Brecht visitò Londra in
una tournée internazionale, il teatro britannico fu scosso dalle nuo-
ve possibilità che il modello brechtiano offriva per un teatro atten-
to ai contenuti contemporanei e soprattutto formalmente anti-na-
turalistico. Da quel momento, l’aggettivo “brechtiano” fu a por-
tata di mano per definire ogni testo scritto che (1) presentasse un
mondo sulla scena non limitato da tre mura domestiche e da una
consequenzialità e coerenza immediata di tempo e di azione, e/o
che (2) vedesse il suo mondo non realistico dominato da un mes-
saggio di riforma o di denuncia social politica. Il rimando a que-
sta reinterpretazione britannica di Bertolt Brecht è presente in Chur-
Parte Seconda. In scena 133

chill laddove la rottura del realismo cerca di stimolare una ricezio-


ne politica dell’opera da parte del pubblico (v. Mondo, Top Girls,
Vinegar Tom).

CENSURA. Rischio che corre ogni scrittore che ha un punto di


vista sul mondo (v.). The Legion Hall Bombing, è un television play del
1978 sull’Irlanda del Nord. Churchill subisce la censura del testo
da parte della BBC e ritira il proprio nome dal programma in se-
gno di protesta.

CLASSICO. Status sociale di un testo teatrale. Churchill sta diven-


tando un classico. I suoi testi sono ripresi nel Regno Unito oltre
la loro messinscena iniziale (ad esempio, Light Shining in Buckingham-
shire firmato da Mark Wing-Davey al National Theatre nel 1997,
o Cloud Nine per la regia di Peter Hall all’Old Vic sempre nel 1997)
e sono diffusi e prodotti in molti altri paesi (v. anche Interpreta-
zioni).

CLASS SYSTEM. Organizzazione gerarchica della società. Il class


system, l’ordine che determina l’esistenza dell’individuo nel suo de-
stino di lavoro, istruzione e nelle generali potenzialità dell’esisten-
za è un diffusissimo tema di dibattito nella società britannica. È
pressoché presente ovunque nell’opera di Churchill. In Top Girls
(v.) si fonde con la situazione della donna e il rapporto fra i sessi.

DIALOGO. Meccanismo base di espressione drammaturgica. Chur-


chill sperimenta con alcune innovazioni nella scrittura dei dialo-
ghi. Alcune assumono un aspetto tipografico, come lo slash (“/”)
all’interno di una battuta. Lo slash indica che la successiva battu-
ta comincia non dalla fine della precedente ma dallo slash stesso,
per esempio:

Joyce: Potevi vivere a casa. / O vivere con me


Marlene: Non essere stupida2.
134 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Dove l’attacco di “non essere stupida” non è “me” ma “casa”. Al-


tri esperimenti sono meno appariscenti, come le frasi troncate in
maniera ossessiva di Drunk Enough to Say I Love You? (vedi alla voce
USA). Alcune di queste innovazioni sono divenute famigliari nel-
la drammaturgia contemporanea e ci sono scrittori che non le spie-
gano più: è il caso dello slash in Enron di Lucy Prebble3.
L’esito sulla scena di molte di queste sperimentazioni non è quel-
lo di aumentare la distanza con il testo recitato, ma bensì quello
di farlo apparire più realistico, cioè più vicino alla percezione del
mondo da parte del pubblico. Suggestiva citazione: lo stile delle scrit-
trici del futuro «sarà più breve, e più concentrato di quello degli
uomini. Perché ci saranno sempre interruzioni. [...] il libro deve in
qualche modo adattarsi al corpo»4 (v. Femminismo).

ESPERIMENTO. Categoria usata in estetica per esorcizzare la no-


vità. Per Churchill, alla definizione di scrittrice “sperimentale” (un’eti-
chetta di controllo che pone un brutto accento sulla forma) pre-
ferisco quella di scrittrice libera (v. Giustificazione), aperta (v. Wor-
kshop) e con qualcosa da dire (v. Femminismo, Censura). L’“espe-
rimento” è solo una conseguenza di queste posizioni e di queste
attitudini.

FEMMINISMO. Movimento culturale e politico (v. Politica e ap-


plica qui quello che si dice là: qui diciamo solo una cosa in più).
Domanda in stile Churchill: quanto delle nostre aspettative con-
venzionali di drammaturgia (conflitto, climax, ecc.) vengono dal
fatto che fino al Novecento il teatro sia stato scritto in prevalen-
za da uomini per altri uomini? Gli “esperimenti” (v.) di Churchill
sono una risposta a questa domanda.

GIUSTIFICAZIONE. Obliqua sorella della spiegazione, la giu-


stificazione è un modo di far rientrare dalla finestra il realismo cac-
ciato dalla porta e di ridurre il possibile al verosimile («questa sce-
na irreale è un sogno», «si tratta di una visione», ecc.). Churchill im-
para a farne a meno con Top Girls (v.) il cui irrealismo surrealismo-
Parte Seconda. In scena 135

non realismo non viene mai giustificato. In questo modo: “nel tea-
tro tutto è possibile”5.

HOTEL. Interazione con musica e coreografia per 13 cantanti, 2


ballerini e 3 musicisti, realizzato in collaborazione con “Second Stri-
de” (v.), presentato a Londra come parte dello “Spring Loaded Dan-
ce Festival” al teatro The Place, una delle sale londinesi dedicate
alla danza contemporanea (il debutto allo Schauspielhaus di Han-
nover, 15 aprile 1997). Hotel è un esempio delle pratiche collabo-
rative con tutte le arti sceniche che Churchill affronta nel perio-
do successivo a Joint Stock (v.). Suggestiva citazione: «ci muovia-
mo verso una nuova definizione di authorship e di espressione per-
sonale. L’effetto della divisione del lavoro fra altrettanti collabo-
ratori [...] non è stato di diluire ma di intensificare le qualità per-
sonali dello show, come se infine un solo autore non fosse suffi-
ciente nemmeno per la realizzazione della visione di quell’autore»6.

INTERPRETAZIONI. L’apertura che Churchill lascia nei testi per-


mette interpretazioni che lei non riconosce come appropriate, come
è stato il caso di Top Girls in Grecia e soprattutto in Germania (allo
Schauspielhaus di Colonia, regia di Walter Adler, debutto 26 no-
vembre 1983).

ISRAELE. Oggetto del testo Seven Jewish Children: A Play for Gaza
(“Sette bambine ebree: uno spettacolo per Gaza”). Il testo è del
2009 e dura solo dieci minuti. Ha causato polemiche: l’autrice è sta-
ta accusata di antisemitismo ma è stata altrettanto difesa7. Ha pro-
vocato la pressoché immediata scrittura di altri due testi teatrali in
reazione e contrapposizione: Seven Other Children (“Altri sette bam-
bini”) di Richard Stirling e What Strong Fences Make (“Che cosa fan-
no le forti barriere”) di Israel Horovitz. L’essenzialità linguistica
e la musicalità del dialogo (v.) degli ultimi due testi di Churchill (Se-
ven Jewish Children e Drunk Enough to Say I Love You? [v. USA]) si col-
legano idealmente allo stile dei suoi primi testi (v. You’ve no Need to
be Frightened).
136 Caryl Churchill. Un teatro necessario

JOINT STOCK. Compagnia teatrale inglese fondata nel 1974 da


David Hare, David Aukin e dal regista Max Stafford-Clark. Nel 1976
Churchill abbandona per qualche anno il Royal Court Theatre (v.)
perché se ne sente limitata8 e abbraccia con Joint Stock un nuovo
metodo di lavoro basato sulla collaborazione, che inciderà, come
per altri9, in maniera considerevole sulla sua produzione, anche suc-
cessiva. Joint Stock, infatti, si distingue per le numerose collabo-
razioni con diversi scrittori ai quali propone un particolare meto-
do di lavoro basato su un forte coinvolgimento degli attori nell’idea-
zione del testo. Non è l’unica compagnia inglese che adopera que-
sto metodo, e tuttavia è quella che lo fa con la maggiore continui-
tà e con la tavolozza più prestigiosa di scrittori, rappresentando un
ponte fra le esperienze degli anni settanta e la riscoperta del devi-
sing theatre da parte delle nuove generazioni alla fine dei novanta
(attraverso la sua reincarnazione come Out of Joint nel 1993).
Churchill lavora con Joint Stock per Serious Money, Fen, Light Shi-
ning in Buckinghamshire, Cloud Nine. La relazione con Stafford-Clark
continua quando questo diventa direttore artistico del Royal Court
Theatre (v.).

LIMITI DI BUDGET. Origine di molte soluzioni drammaturgi-


che. Lavorando con Joint Stock (v.), Churchill deve fare i conti con
precisi limiti economici e sviluppa, ad esempio, un’arte del doubling,
cioè di fare interpretare più di una parte dallo stesso attore. Il dou-
bling diventa l’opportunità di avere ottimi attori anche in piccole par-
ti e di sviluppare una forma di teatralità che non dipenda dall’iden-
tificazione10. Allenata ai limiti, Churchill impara come sfruttare al
meglio la loro assenza. Invitata dal regista Howard Davies a lavo-
rare per un progetto con la Royal Shakespeare Company (una del-
le quattro compagnie teatrali nazionali britanniche: le altre sono il
Royal National Theatre, il National Theatre of Scotland e, dal 2009,
il National Theatre of Wales), Churchill sfrutta appieno l’occasio-
ne. L’esito sono le scene di massa di Softcops, in quanto solo la rsc
si può permettere scene di “esecuzioni” e di “folla”11.
Parte Seconda. In scena 137

MONDO. Tutto ciò (persone, cose, eventi) che è esterno al tea-


tro. Churchill è molto sensibile al proprio lavoro ed è altrettanto
sensibile al mondo – cosa non affatto scontata. Facciamo un esem-
pio: Serious Money è un sorprendente testo scritto nel 1987 per il
Royal Court Theatre diretto da Stafford-Clark. Si tratta di una de-
tective story in versi a rima baciata che sviscera il mondo della City
di Londra della fine degli anni ottanta, quando gli effetti delle ri-
forme delle istituzioni finanziarie da parte dei successivi governi
Thatcher iniziano ad avere un effetto percepibile nel mondo chiu-
so e tradizionalista dello Square Mile. La City perde molte delle sue
antiche e ingombranti caratteristiche per assumere il nuovo aspet-
to aggressivo, frenetico e cosmopolita mai più rinnegato e che dura
ancora oggi. Churchill è tra i primi autori teatrali a registrare que-
sto cambiamento e ancor oggi Serious Money rimane insuperato nel-
la compiutezza, efficacia e profondità della rappresentazione sul-
la scena del mondo finanziario. Per la sua diffidenza verso l’inno-
vazione stilistica in quanto tale, Churchill rimane un’artista non
d’avanguardia (v. Esperimento), nel senso che il carro della forma
non è mai posto davanti ai buoi dell’oggetto.

NARRAZIONE. Espediente drammaturgico attraverso il quale si


fa credere al pubblico che gli eventi sulla scena sono legati da una
catena di causalità. Nel 1976 Churchill inizia a raccontare. I suoi
testi precedenti tralasciavano l’intreccio (che – dice un critico a pro-
posito di Objections – «non è solo un trucco per abbindolare il log-
gione; è un meccanismo valido e destinato a chiarire i temi»)12. Chur-
chill trova il proprio intreccio (“i” minuscola) a contatto con l’In-
treccio (“I” maiuscola), cioè trova le proprie storie a contatto con
la Storia. La svolta, con Light Shining in Buckinghamshire e con Vi-
negar Tom (v.), è la Storia del diciassettesimo secolo inglese: Guer-
ra Civile e Caccia alle Streghe. L’austera essenzialità di questi due
testi è il marchio di fabbrica della narrazione di Churchill. Benché
per Churchill la Storia sia la chiave che apre le storie, nel suo tea-
tro il passato mantiene la propria identità e non diventa mero pa-
rallelo in costume del presente.
138 Caryl Churchill. Un teatro necessario

OXFORD. Università inglese attiva dal dodicesimo secolo. Chur-


chill è laureata a Oxford dove ha ottenuto un “First”: noi diremmo
che si è laureata a pieni voti. Emerge perciò dai canali più consue-
ti attraverso i quali il Regno Unito produce le proprie élite, non solo
culturali. Ancora oggi Oxbridge è, se non un passaporto necessa-
rio per entrare in “Theatreland”, almeno un utile lasciapassare.

POLITICA. Possibile punto di vista sul mondo (v.). Churchill non


rinnega mai la propria posizione politica, ma nemmeno rinnega mai
il proprio teatro per la politica. Per lei, politica vuol dire «solleva-
re preoccupazioni e domande e complessità che potresti non ave-
re se non fossi di una certa indole politica»13.

“RIGHT TO FAIL”. Uno dei motti principali acquisito da parte


del teatro di ricerca britannico negli anni settanta. Le produzioni
hanno il “diritto di fallire”, guadagnato attraverso il dovere alla ri-
cerca profonda, sincera e senza compromessi di discorso sulla so-
cietà alla società. Privato di questo diritto, al teatro non rimane che
l’obbligo al successo immediato e quindi la riproposta continua di
modelli drammaturgici già provati e affermati. I primi due testi di
Churchill prodotti dal Royal Court Theatre (v.), Owners (1972) e Ob-
jections to Sex and Violence (1975) nella sala piccola del proprio tea-
tro (Theatre Upstairs), vengono messi in scena in un periodo di for-
ti difficoltà economiche per il Royal Court nonostante il successo
commerciale di Rocky Horror Show (musical di Richard O’Brien e Jim
Sharman, 1973). Objections fece 27 repliche, con una percentuale di
affluenza del 29% e del 21% di vendita: costò al Royal Court 5555
sterline, ne recuperò 360714. Il Royal Court difese sempre il right to
fail nonostante le pressioni economiche.

ROYAL COURT THEATRE. Teatro di Londra fondato nel 1870


e dal 1956 casa della English Stage Company, diretta da George
Devine, dedicata a presentare un “teatro di scrittori” che rifiuta la
decorazione scenografica e vuole uno spazio dove attore e testo
siano al centro15. Nel 1969 aggiunge la sala del Theatre Upstairs
Parte Seconda. In scena 139

con capacità inferiore per testi dal botteghino meno sicuro (v. Right
to Fail). Il primo testo di Churchill per il Royal Court è Owners (1972).
Nel 1974-1975 Churchill è resident dramatist al Royal Court, con cui
costruisce negli anni un reciproco rapporto artistico che dura tut-
tora.

SECOND STRIDE. Compagnia britannica di danza fondata nel


1982 da Richard Alston, Ian Spink e Siobhan Davies. Churchill col-
labora prima con Ian Spink e poi con la compagnia stessa per Li-
ves of the Great Poisoners e Skriker. A causa dell’audacia e comples-
sità delle sue realizzazioni, la compagnia subisce il taglio totale del
proprio finanziamento da parte dell’Arts Council nel 1991, che non
riesce a trovare categorie per definirla16.

STUDENTI. Soggetti di collaborazione con Churchill in più oc-


casioni. Churchill collabora con la scuola di teatro “Central
School of Speech and Drama” di Londra per la realizzazione di
Mad Forest (1990), testo ispirato alla rivoluzione romena del 1989.
La collaborazione comprende un viaggio in Romania. Churchill è
tutor dello “Young Writers Group” del Royal Court nel 1980.

TOP GIRLS. Testo teatrale di Caryl Churchill che ha debuttato al


Royal Court Theatre il 28 agosto 1982, diretto da Max Stafford-
Clark. La pièce più celebre di Churchill è divisa in due parti. Nel-
la prima cinque donne famose del passato reale e leggendario sono
invitate a cena da Marlene e ciascuna racconta la propria storia. Nel-
la seconda vediamo la storia di Marlene stessa mentre confronta
il suo passato e la sua identità di “donna in carriera”. Marlene è una
falsa eroina e ce ne dobbiamo accorgere pian piano. Se Top Girls
potesse essere ridotto alla morale che l’emancipazione femmini-
le offerta dalla società altro non è che un’ennesima forma di schia-
vitù e di tradimento della propria femminilità, se, cioè, potesse con
convenienza essere sintetizzato in una formula, Top Girls non sa-
rebbe niente di speciale. È un capolavoro, invece, perché riassu-
me la ricerca e la dedizione con cui Churchill ha manipolato la strut-
140 Caryl Churchill. Un teatro necessario

tura drammatica per esprimere con passione un punto di vista sul


mondo (v.). Così si ritrovano: lavoro sul casting (v. Limiti di Bud-
get), sul dialogo (v.), sulla storia e sulla Storia (v. Narrazione). I pa-
radossi del nostro mondo emergono con violenza e nella loro am-
biguità lo spettatore incontra lo spazio stimolante dell’Enigma (v.
Giustificazione). Grande successo commerciale, trasferta a New
York e ritorno trionfale a Londra (90% di incasso) durante la rie-
lezione di Margaret Thatcher nel 1983.

USA. I rapporti USA-UK sono oggetto del testo Drunk Enough to


Say I Love You? del 2005. Caryl Churchill si situa con fermezza in
un’area culturale britannica fortemente critica degli USA e della po-
litica estera del Regno Unito nei loro confronti negli anni del go-
verno di Tony Blair. Come accade per molti drammaturghi britan-
nici, Churchill usa il proprio medium per assumere prese di posi-
zione decise in quest’ambito.

VINEGAR TOM. Testo che Churchill scrive nel 1976 per la com-
pagnia teatrale Monstrous Regiment (il nome è preso dal titolo di
un pamphlet misogino scritto nel 1558 da John Knox: The First Blast
of the Trumpet against the Monstrous Regiment of Women (“Il primo squil-
lo di tromba contro il mostruoso reggimento delle donne”). Vi-
negar Tom usa la caccia alle streghe nel diciassettesimo secolo come
metafora dell’oppressione femminile anche contemporanea. La sto-
ria di una piccola comunità inglese del Seicento è declinata in 21
scene alternate da canzoni che traducono in chiave contempora-
nea le tematiche della storia17. Il testo si chiude con Kramer e Spren-
ger, i due frati domenicani autori del Malleus Maleficarum (“martel-
lo delle streghe”), che espongono la propria misogina teologia in
chiave ironica e burlesca, secondo le convenzioni del music-hall.
L’economia e la tensione di una storia che incide nel presente sen-
za tuttavia sconfessare le idiosincrasie del passato ne fanno un pic-
colo capolavoro di equilibrio e determinazione e dimostrano che,
finché le è interessato, Churchill è stata uno dei più completi nar-
ratori della scena (v. Narrazione).
Parte Seconda. In scena 141

WORKSHOP. Attività teatrale interna alla compagnia dalla quale non


ci si aspetta un risultato formale per la messinscena; 2) punto di con-
tatto attivo e dinamico fra gli artisti al lavoro per uno spettacolo. Le
collaborazioni con Joint Stock (v.) sono basate sullo strumento del
workshop, che permette a scrittore e compagnia di formare un’im-
maginazione e una reazione al tema collettiva e condivisa, alla qua-
le tutti si sentono coinvolti oltre la gerarchia dei ruoli18.

YOU’VE NO NEED TO BE FRIGHTENED. “Testo per voci”19


scritto nel 1959. Prima della radio, per Churchill ci sono inizi, voci,
abbozzi di una scrittrice che sta trovando la propria scrittura. In que-
sto testo sono le voci dei personaggi a dominare: l’ossessione per
le parole e il linguaggio sono per lungo tempo la cifra di Churchill.
Gli eventi e i corpi degli attori verranno dopo20 (v. Narrazione).
142 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Note

1
Cfr. L. Fitzsimmons, File on Churchill, Methuen, London 1989, p. 85.
2
C. Churchill, Top Girls, in C. Churchill Plays: 2, Methuen, London 1990, p. 134. Trad. mia.
3
L. Prebble, Enron, Methuen, London 2009.
4
V. Woolf, A Room of One’s Own, Penguin, London (1929) 2004, p. 78. Trad. mia.
5
L. Fitzsimmons, op. cit., pp. 61-62.
6
G. O’Brien, A Northern New Jersey of the Mind, «The New York Review of Books», vol. 54, XIII,
2008, nota 3. L’articolo tratta della serie televisiva The Sopranos.
7
Una difesa su tutte: T. Kushner e A. Solomon, Tell her the Truth, “The Nation”, 13 April 2009.
8
L. Fitzsimmons, op. cit., p. 86
9
Cfr., per un punto di vista extrachurchilliano, quanto racconta David Hare in D. Hare Plays:2, Fa-
ber and Faber, London 1997, pp. VII-XVII.
10
L. Fitzsimmons, op. cit., p. 61.
11
Ivi, p. 73.
12
B.A. Young, in «Financial Times», 4 gennaio 1975, cit. in L. Fittzsimmons, op. cit., p. 26.
13
E. Aston, Caryl Churchill, Northcote House, Plymouth 1997, p. 88. Trad. mia.
14
R. Findlater, At the Royal Court, Amber Press, London 1981, p. 155 e Appendix 2.
15
Ivi, p. 84.
16
E. Aston, op. cit., pp. 96-97.
17
L. Fitzsimmons, op. cit., pp. 34-35.
18
Affascinanti paragoni possono essere tratti con le più avanzate tecniche di creazione nei mass me-
dia contemporanei, come i cartoni animati Pixar (E. Catmull, How Pixar Fosters Collective Creativity, «Har-
vard Business Review», September 2008) e la serie televisiva The Sopranos (G. O’Brien, op. cit.).
19
A.H. Kritzer, The Plays of Caryl Churchill, Macmillan, London 1991, pp. 15-16.
20
L. Fitzsimmons, op. cit., p. 85.
Bambine d’Israele

di Francesco Randazzo

9. Da sin.: Rossana Veracierta, Caterina Intelisano, Brunilde Maffucci, Giorgina Cantalini, Rebecca
Braccialarghe, Clara Costanzo, Matilde Piana, in Sette bambine ebree presso il Teatro Lo Spazio di Roma (17 set-
tembre 2009). Regia Francesco Randazzo.

Scritto sull’onda di sdegno causato dai bombardamenti israeliani


su Gaza del 2008/2009, durante i quali sono rimasti uccisi 1417
palestinesi e 13 israeliani (dei quali cinque per “fuoco amico”), Set-
te bambine ebree di Caryl Churchill è una breve e folgorante pièce da-
gli effetti brucianti. Questo era infatti l’intento dell’autrice che lo
ha concepito innanzitutto come atto poietico e politico, atto di
protesta contro la violenza israeliana verso i palestinesi, in partico-
lare i bambini. L’autrice mette in campo un impeto ed una deter-
minazione affatto comuni nell’occidente anglosassone ed europeo,
scendendo in campo con le proprie dirompenti armi, quelle della
scrittura. Compone il testo in forma di poemetto drammatico, lo
libera nei teatri e da lì il testo si diffonde attraverso video e Inter-
144 Caryl Churchill. Un teatro necessario

net; viralmente, ovunque, svincolata da royalties, l’opera, viene


rappresentata. Nelle intenzioni di Churchill, chiunque può utiliz-
zare questa sofisticata arma culturale, se ci crede, se vuole esporsi
e darne testimonianza viva. Di più, il pubblico sarà invitato alla fi-
ne della rappresentazione, in ogni parte del mondo avvenga, a do-
nare un piccolo contributo economico facoltativo (la visione del-
lo spettacolo è gratuita, per specifica indicazione della Churchill) a
favore dell’associazione “Medical Aid for Palestinians”.
Fin dal suo primo apparire sulla scena inglese e via via in al-
tri paesi, l’effetto è dirompente. Le comunità ebraiche si sentono
prepotentemente chiamate in causa e Churchill viene accusata di
aver scritto e diffuso un testo aspramente antisemita. Il Consiglio
dei Deputati ebrei britannici ha stigmatizzato questo testo come
«profondamente anti Israele» e «oltre i confini del ragionevole di-
scorso politico» mentre sull’“Atlantic Monthly” il critico israeloa-
mericano Jeffrey Goldberg l’ha definito «un libello insanguinato»
e «la canonizzazione dei peggiori stereotipi anti ebraici»1. Il testo
e la sua autrice vengono attaccati duramente, con toni spesso al
limite dell’isterismo culturale. Si arriva persino ad una versione in
forma di palinodia in chiave anti palestinese scritta da un’autrice
ebrea americana: Seven Palestinian Children di Deborah S. Margo-
lin, drammaturga e performer, professore associato alla Yale
University. Bisogna però anche dire che il testo trova estimatori
che lo difendono anche tra artisti ed intellettuali ebrei di alta le-
vatura come Tony Kushner (drammaturgo) e Alisa Solomon
(professore alla Columbia University) che su “The Nation” fir-
mano un memorabile articolo che nel titolo Tell Her the Truth
(“Ditele la verità”)2 riprende una battuta del testo di Churchill,
nel quale si pongono in netto disaccordo con le accuse rivolte al-
l’autrice da parte di critici e istituzioni ebraiche. È anche da no-
tare che la prima rappresentazione inglese al Royal Court anno-
vera un cast nella maggior parte di attori ebrei. E che la Churchill
stessa con poche ma risolute righe indirizzate ad un critico, riget-
ta tutte le accuse che ritiene speciosamente manipolatorie del ve-
ro senso della sua opera3.
Parte Seconda. In scena 145

Ma vediamo di cosa tratta questa breve opera teatrale in versi li-


beri, segnata non da personaggi ma da sette speaker senza nome (in-
dicati solo da un numero, da uno a sette, come le bambine destina-
tarie del discorso). Sette adulti (genitori o familiari) suggeriscono cosa
dire ad una bambina. Sette differenti bambine ebree, di epoche dif-
ferenti. Dall’Olocausto ai fatti di Gaza. Attraverso la percussività del-
la continua ripetizione conativa “Ditele...” e “Non ditele...” si attra-
versano la storia e le contraddizioni della coscienza di un popolo, dal-
l’essere vittima alla trasformazione nel suo contrario, in continua al-
ternanza. La successione scandisce sette periodi storici, dall’Olocau-
sto ai giorni nostri, passando per l’esodo post guerra, il Sinai e i prin-
cipali accadimenti della conflittuale esistenza d’Israele. Ciò che più col-
pisce è la conflittualità tra il dire e il non dire, tra l’affermare qualco-
sa e il manipolarla fino alla negazione, con il fine di rielaborare i fat-
ti per creare una realtà necessaria (anche se falsa) per gli israeliani. Al-
cuni esempi dal testo, nella traduzione di Masolino D’Amico:

(4)
Non le dite chi sono loro
Ditele qualcosa
Ditele che sono beduini, che sono sempre in viaggio
Ditele di cammelli nel deserto e di datteri
Ditele che vivono nelle tende
Ditele che questa non era casa loro
Non ditele casa, non parlate di casa, ditele che loro vanno via
...

(6)
Non le dite
Non le dite delle difficoltà per la piscina
Ditele che l’acqua è nostra, che abbiamo il diritto
Ditele che non è l’acqua per i loro campi
Non le dite niente dell’acqua.
Non le dite del bulldozer
Non le dite di non guardare il bulldozer
146 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Non le dite che stava abbattendo la casa


Ditele che è un’area fabbricabile
Non le dite niente dei bulldozer.
Non le dite delle file ai posti di controllo
Ditele che ci arriveremo in un momento
Non le dite niente che non domandi lei
Non le dite che hanno sparato al ragazzo
Non le dite niente.
...
(7)
Ditele che non può guardare il telegiornale
Ditele che può guardare i cartoni animati
Ditele che può restare alzata a guardare Friends.
Ditele che ci attaccano coi razzi
Non le fate paura
(...)
ditele che per me potremmo anche spazzarli via tutti, solo che il mondo ci
odierebbe, ditele che a me non importa se il mondo ci odia, ditele che a odia-
re siamo più bravi noi, ditele che siamo il popolo eletto, ditele che guardo
uno dei loro bambini coperto di sangue, e cosa sento? ditele che sento solo
la felicità che non sia lei.

Non le dite questo.


Ditele che le vogliamo bene.
Non le fate paura.

Sono solo tre estratti ma molto significativi, emblematici di quan-


to scorre nel testo, in continua alternanza e contraddizione, della
coscienza ebraica che si sforza di trovare ragioni sufficienti a crea-
re un sostrato sionista all’esistenza d’Israele. Come ha scritto Gi-
lad Atzmon, scrittore e musicista jazz israeliano, molto attivo con-
tro il sionismo, «Churchill rivela in maniera eloquente il livello zero
di integrità della causa nazionale, del pensiero e della versione del-
la storia ebraici. Nella versione ebraica della storia non si tratta di
dire la verità. Si tratta invece di inventare una “verità” che rientri
Parte Seconda. In scena 147

nelle necessità tribali attuali. [...] In breve, basta “dirle” che a vol-
te dobbiamo essere vittime innocenti, mentre altre volte razziamo,
uccidiamo e lanciamo armi di distruzione di massa. Dipende da ciò
che meglio risponde ai nostri interessi tribali in quel dato momen-
to»4. Non è dunque un’opera antisemita, ma sicuramente antisio-
nista. Antisionista l’autrice lo è, e di contro ai suoi detrattori, le opi-
nioni favorevoli sono di intellettuali ed artisti ebrei antisionisti.
Seven Jewish Children è un testo controverso e fastidioso. Vuole
scuotere, far discutere, mettere in dubbio, avviare pensiero e azio-
ne critica. Nasce per questo. Vive per questo. Certamente nel suo
risultato finale è un atto d’accusa, ma contro la guerra e la sopraf-
fazione, il calcolo e l’interesse. Soprattutto, ha l’urticante pregio di
mettere in evidenza le contraddizioni e le oscillazioni della coscien-
za di un popolo. Ed è proprio questa linea continua di affermazio-
ni di princìpi e immediati capovolgimenti, di certezze sobillate dal
dubbio, di scelte estreme che subito affiorano nella consapevolez-
za dell’errore che mi sembra il tratto essenziale di questo testo. Fon-
damentale, dal mio punto di vista, il lato femminile della storia ebrai-
ca, ed è per questo, almeno così a me è sembrato, che la destina-
taria è una bambina. Sempre Atzmon scrive che: «... la bambina cui
si riferisce Churchill è una metafora del “popolo di Israele”. Il neo-
nato Stato ebraico è di fatto un concetto molto giovane permeato
da un senso di rettitudine e innocenza. La bambina del monologo
serve a trasmettere un’immagine di ingenuità e innocenza. Ma è an-
che quella metaforica innocenza della bambina a rendere i crimini
di Israele così sinistri. Alla luce della propaganda israeliana che pre-
senta lo Stato ebraico come un’entità vulnerabile e innocente, la re-
altà devastante della brutalità israeliana conduce a un’inevitabile dis-
sonanza cognitiva»5. Ipotesi interessante che mi ha particolarmen-
te stimolato in sede d’interpretazione e regia del testo, nella mes-
sa in scena italiana che è stata rappresentata a Roma nel settembre
del 2009 nell’ambito della IV edizione della Rassegna di dramma-
turgia contemporanea internazionale “In altre parole”6. In partico-
lare sono stato stimolato soprattutto pensando alla linea matrilinea-
re dell’ebraicità, intesa come una sorta d’identità femminile che si
148 Caryl Churchill. Un teatro necessario

tramanda attraverso il corpo e la voce delle donne che, di volta in


volta, se pur diverse, rappresentano la storia della discendenza e dun-
que della storia ebraiche. Nel testo di Churchill queste possono di-
venire segno vivente del messaggio alle bambine e delle sue altale-
nanti ragioni, spinte fino alla falsificazione. Ho dunque immagina-
to sette donne, tutte madri e figlie, tutte allo stesso tempo mitten-
ti e destinatarie dei brevi monologhi che si sfilano come nella col-
lana di un retaggio che si sfalda e riafferma continuamente, a qua-
lunque costo, anche devastante.
Parte Seconda. In scena 149

Note

1
J. Goldberg, Caryl Churchill: Gaza’s Shakespeare, or Fetid Jew-Baiter?, in «Atlantic Monthly», March
25, 2009.
2
T. Kushner e A. Solomon, Tell Her the Truth, in «The Nation», April 13, 2009.
3
C. Churchill, My Play is not anti-Semitic, in «The Independent», 21 February 2009.
4
<http://www.gilad.co.uk/writings/from-victimhood-to-aggression-jewish-identity-in-the-light-
o.html> (ultimo accesso: 21 marzo 2010).
5
Ibidem.
6
Sette bambine ebree ha debuttato il 17 settembre 2009 nell’ambito della IV edizione della rassegna
“In altre parole: rassegna di drammaturgia contemporanea internazionale”, a cura di Marco Beloc-
chi e Pino Tierno, presso il Teatro Lo Spazio di Roma. Interpreti (in ordine di apparizione): Gior-
gina Cantalini, Clara Costanzo, Rossana Veracierta, Caterina Intelisano, Brunilde Maffucci, Matil-
de Piana, Rebecca Braccialarghe. Regia: Francesco Randazzo. Assistente alla regia: Annalisa Pao-
lucci.
Abbastanza sbronzo da dire ti amo?

di Carlo Cecchi

Per molto tempo ho desiderato portare in scena Serious Money,


che mi è sempre sembrata una grande commedia; la difficoltà
della traduzione e soprattutto il numero di attori richiesto per la
rappresentazione mi hanno costretto a rinunciarvi.
Così, quando alcuni anni fa, in una libreria di New York, mi im-
battei in un piccolo libro dal titolo formidabile Drunk Enough to Say
I love you?, intuii che forse c’eravamo. Era il momento di andare in
scena con Churchill.
Metterò in scena questa commedia, tradotta come Abbastan-
za sbronzo da dire ti amo? nel corso di questa stagione teatrale.
Non è facile tradurre il teatro di Caryl Churchill, ma in questo
caso la traduzione da me commissionata a Giorgio Amitrano mi
pare eccellente.
Un attore e un regista, se non sono troppo stupidi, conosco-
no un testo teatrale attraverso il teatro, ossia attraverso il lavoro con-
creto delle prove e delle recite: una commedia viene scoperta at-
traverso il gioco del teatro e le sue regole. E quando si tratta del
testo di un vero drammaturgo le scoperte sono sempre provviso-
rie. È anche il caso di Churchill.
Drunk Enough to Say I Love you? è una pièce politica, come sem-
pre è il teatro di Churchill. Scritta in uno stile originalissimo e af-
fascinante, molto lontano dallo stile barocco di Serious Money. Il tema
è il rapporto fra “a country” (gli Stati Uniti) e “a man” (un indi-
viduo europeo). “The Country” ha il suo vicario teatrale in un per-
sonaggio che si chiama, non per nulla, Sam.
Tra i due personaggi nasce e si sviluppa un rapporto gay dove
l’amato è, ovviamente, Sam.
152 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Ma, ed è qui l’aspetto stupefacente del testo, dentro il paradig-


ma di una banale storiella gay, attraverso un dialogo ellittico, spez-
zato, con battute en fuite che volentieri si sospendono sul vuoto, la
storiella erotico-sentimentale affonda le sue radici in un discorso
storico-politico che, per frammenti, erraticamente, passa in rassegna
la politica imperiale e imperialistica degli Stati Uniti nel mondo e
le complicità europee nella bella impresa.
Composta da scene molto brevi, senza neanche una didasca-
lia, per me è ancora una commedia affascinantissima e misterio-
sa. Quindi molto attraente.
Tradurre L i g h t S h i n i n g i n B u c k i n g h a m s h i r e :
il linguaggio del cambiamento sociale
di Salvatore Cabras

Nell’ambito dell’iniziativa “Teatro i chiama Caryl Churchill” del


gennaio 2009 sono stato invitato a tradurre Light Shining in Buck-
inghamshire per i sovratitoli della mise-en-espace recitata in inglese
dagli attori del Royal Court sulla scena del Teatro i.
Ambientato nella metà del Seicento, Light Shining in Buckingham-
shire è una delle quattro opere che l’autrice colloca in epoche pas-
sate – nel Seicento troviamo anche Vinegar Tom (1976), siamo nel-
l’Ottocento con Cloud Nine (1978), mentre le donne del banchetto
di Top Girls ci guidano in una carrellata di contesti storici e geogra-
fici, dal feudalesimo nipponico alla Londra degli anni ottanta.
Con Light Shining in Buckinghamshire – andato in scena per la pri-
ma volta al Traverse di Edimburgo nel 1976 – siamo introdotti ai
temi della rivoluzione antimonarchica e antifeudale inglese, del so-
pravvento della nuova borghesia e della sconfitta delle ali più ra-
dicali di quel movimento. Scrive Churchill nella prefazione:

Una fede rivoluzionaria di carattere millenaristico percorse il Medio Evo e


esplose dirompente in Inghilterra al tempo della guerra civile. I soldati com-
batterono il re persuasi che ci sarebbe stato l’avvento di Cristo per realiz-
zare sulla Terra il regno dei cieli. Fu invece l’avvento di un parlamento au-
toritario, del massacro degli Irlandesi, dello sviluppo del capitalismo1.

Il caleidoscopico affresco in ventun scene dipinto da quest’ope-


ra delinea la vicenda fondativa della storia dell’Inghilterra moder-
na e mette in scena contadini senza terra, possidenti, soldati, don-
ne maltrattate, mendicanti, parroci anglicani, predicatori puritani
e predicatrici erranti, bottegai, fino allo stesso Oliver Cromwell e
154 Caryl Churchill. Un teatro necessario

ai suoi più stretti collaboratori. Tutti furono travolti in un turbo-


lento vortice di avvenimenti che mescolava le rivendicazioni del-
la nascente borghesia inglese verso la monarchia assoluta di Car-
lo I Stuart con quelle dei contadini che aspiravano al possesso del-
la terra, con la lotta ai papisti e la spasmodica attesa della venuta
del Messia nel mondo. Precisamente il messianismo appare come
la cifra che consente di leggere con più nitidezza le intenzioni di
Caryl Churchill: è difficile infatti ritenere che l’autrice – femmini-
sta militante con note simpatie per la sinistra radicale – volesse con
Light Shining in Buckinghamshire dipingere unicamente un affresco
di carattere storico. Appare invece altamente plausibile che inten-
desse proporre una riflessione sugli esiti dell’utopia politica e ideo-
logica che sul finire degli anni sessanta del Novecento percorse e
travolse l’intera società occidentale (e non solo) come espressio-
ne di un’esigenza profonda di cambiamento nei rapporti sociali e
politici. Le convulsioni della rivoluzione borghese inglese funzio-
nano quindi come una sorta di occhiali che dovrebbero permet-
tere di meglio osservare le vicende contemporanee. E, agli occhi
di Caryl Churchill, l’elemento di maggiore sovrapposizione tra i due
grandi episodi storici è proprio la forza che scaturisce dalle ideo-
logie.

Il primo atto di Light Shining in Buckinghamshire descrive le motiva-


zioni dei singoli e dei gruppi – culminati con il dibattito avvenuto
nel 1647 nel sobborgo londinese di Putney tra Cromwell e i rappre-
sentanti dei soldati (gli “agitatori”). Nel secondo atto prendono cor-
po le delusioni di chi sulla rivoluzione contava per ottenere i “dirit-
ti di nascita”, spettanti secondo i capi dei movimenti politici radi-
cali a tutti gli abitanti (maschi) dell’Inghilterra, comprendenti il di-
ritto dei contadini a coltivare in proprio latifondi feudali e terre co-
munali, e il diritto di voto nelle elezioni per il parlamento.
L’attesa della salvezza ultraterrena s’intreccia dunque in modo
discreto a quelle rivendicazioni concrete, animandole ma non agen-
do da sostitutivo. In seguito tuttavia – con la frustrazione delle aspet-
tative “terrene” – il quadro assume toni parossistici e intimistici,
Parte Seconda. In scena 155

spingendo quasi tutti i personaggi a rifugiarsi in un messianismo


completamente avulso dalla realtà. Il finale di Light Shining in Buc-
kinghamshire è ambientato in un luogo di preghiera che però è
un’osteria. Vediamo riuniti tutti i personaggi della pièce che rap-
presentano le aspirazioni popolari al cambiamento: Zappatori, Li-
vellatori, Cercatori di Verità, Declamatori. Tutti prendono atto del-
la sconfitta subita sul terreno politico, ma al tempo stesso si pro-
pongono come comunità di liberi e uguali, prefigurando soluzio-
ni che storicamente sopravvissero con varia intensità nelle corren-
ti anabattiste e quacchere. Nel breve epilogo (“DOPO”) quei sei
personaggi sono ormai separati: chi ha cambiato nome dopo la re-
staurazione realista, chi è emigrato in America, chi ha ripreso la vita
dell’accattone, chi si è lasciato andare alla dissoluzione dell’io. Chi
ancora, come Joni Hoskins, la predicatrice radicale che andava va-
gando senza legami con alcuna chiesa (forse il filo conduttore più
robusto dell’intera pièce) afferma stupita che l’arrivo del Messia è
certamente avvenuto, ma inspiegabilmente è passato inosservato.
Caryl Churchill colloca questa figura sul gradino più elevato del-
la scala etica: donna oppressa, spesso seviziata, ma ribelle e capa-
ce di tenere testa ai maschi, che siano nemici di classe o compa-
gni di strada. Ma sarà proprio Joni Hoskins, citando il profeta Gioe-
le, ad annunciare un futuro in cui «accadrà che io spargerò il mio
spirito sopra tutte le carni; e i vostri figli e le vostre figlie profete-
ranno, i vostri vecchi sogneranno sogni e i vostri giovani uomini
vedranno visioni. E in quei giorni spargerò il mio spirito persino
sui servi e sulle serve»2. Forse più che in altri passaggi, in questi ver-
setti è evidente il ruolo svolto dalle sacre Scritture nel corso del-
la rivoluzione inglese come fonte di legittimazione delle rivendi-
cazioni popolari. Scritture che però sono utilizzate anche dal po-
tere costituito per legittimare se stesso: la Bibbia si rivela dunque
come una sorta di self-service ideologico, al quale ciascun perso-
naggio attinge come più gli conviene, qualunque sia la fazione in
cui milita.
156 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Il quadro descritto indica con chiarezza che il registro linguistico


dominante in Light Shining in Buckinghamshire è appunto quello pro-
fetico di fonte vetero-testamentaria, al quale si mescola uno più re-
cente ma anche più violento, proprio della promessa di salvezza
palingenetica. Dominante, certo, ma non unico. Prima di proce-
dere nell’analisi esploriamo in breve anche gli altri due registri mag-
giori: da un lato quello popolare dei personaggi che quelle predi-
zioni messianiche fanno proprie trasformandole in ideologia del-
la riscossa, dall’altro quello della discussione e dell’agitazione po-
litica che, come dichiara la stessa Churchill in varie interviste, è ba-
sato su documenti di epoca cromwelliana. Su di essi l’autrice ope-
ra piccole interpolazioni, riduzioni, adattamenti alla lingua ingle-
se contemporanea.
Osserviamo ora il dettaglio di questi registri. Nel primo atto una
delle scene coglie il popolano Briggs nel giorno in cui si arruola
nell’esercito di Cromwell e, col suo arruolatore/commissario po-
litico Star, di mestiere mercante di granaglie, parla un inglese af-
fatto contemporaneo e colloquiale.
Parte Seconda. In scena 157

Così, con il buffo scambio di battute tra inglese e francese sul-


la nomenclatura di salumi e animali da carne, Churchill delinea le
sue convinzioni circa uno dei più potenti motori della storia uma-
na – la lotta per le proteine animali – e la cala nel contesto stori-
co del dodicesimo secolo, al momento della guerra tra invasori nor-
manni e nativi anglo-sassoni.
Come sempre quando dobbiamo tradurre dei calembour gioca-
ti tra lingue differenti, anche in questo caso sono sorti dubbi sul
modo più efficace di rendere il gioco dell’allitterazione BF itera-
ta in beef/boeuf. Una prima soluzione – utilizzata proprio in occa-
sione dello spettacolo al Teatro i – fu quella di tradurre beef con
“bove”, con la sola sostituzione della labiale F con V. Durante l’in-
tervallo tra il primo e il secondo atto uno spettatore, non madre-
lingua italiano ma molto attento, mi domandò cosa significasse la
parola “bove”. Gli spiegai il motivo del termine desueto, ma mi
resi conto che quello era un caso da manuale in cui la precisione
filologica va a discapito della comprensibilità del testo teatrale.
L’altro registro consistente di Light Shining in Buckinghamshire è
quello politico. Come accennato, si tratta di adattamenti di docu-
menti d’epoca ormai di dominio pubblico – e perciò abbastanza
facilmente consultabili anche con mezzi di ricerca rudimentali. Nel
testo ne troviamo quattro, il più corposo dei quali è il “Dibattito
a Putney”, tratto dai verbali di quella che già allora fu celebrata come
una conferenza risolutiva per le vicende politiche di quegli anni.
Tale era stata la sua importanza che ne resta traccia non solo nei
testi ma anche in svariate stampe coeve.
Da un punto di vista traduttivo sembrano ancora più interes-
santi i libelli e i notiziari che Churchill rielabora a partire da do-
cumenti storici – cinque per la precisione, come la stessa autrice
avverte nella prefazione – conservandone essenzialità e rudezza.
Il secondo atto inizia, per esempio, con un attore che declama l‘ap-
pello lanciato dal leader degli Zappatori (the Diggers) per attira-
re i contadini senza terra a coltivare le terre comunali incolte.
158 Caryl Churchill. Un teatro necessario

In questo come nei passaggi analoghi occorre prestare atten-


zione a mantenere inalterato il sapore originario del proclama, la
cui sintassi complessa indica che chi lo scrisse – probabilmente lo
stesso Gerrard Winstanley – era persona colta appartenente alla
middle class.
Prendiamo infine in esame il linguaggio d’ispirazione biblica.
La prima delle domande sarà: quale è questa Bibbia che si presta
in modo così potente e versatile tanto ai disegni di eversione che
alla restaurazione dell’ordine sociale? E quali sono le particolari-
tà di quella lingua? I personaggi di Light Shining in Buckinghamshire
fanno riferimento alla cosiddetta King James Version (KJV) pub-
blicata nel 1611, che in qualità di capo della Chiesa anglicana il re
Giacomo I Stuart aveva commissionato a un gruppo di 45 chie-
rici di Oxford, Cambridge e Westminster. Essa rappresenta tutto-
ra la versione ufficiale (o autorizzata) della Chiesa anglicana e co-
stituisce il riferimento per quasi tutte le confessioni riformate di
lingua inglese. Non era la prima traduzione integrale, ma fu rite-
nuta necessaria per depurare il linguaggio ecclesiastico degli An-
glicani dall’influenza interpretativa della Chiesa cattolica. Una del-
le differenze più appariscenti fu la sostituzione dei latinismi pre-
senti nelle versioni utilizzate fino a quel momento. Un esempio in
proposito: nel KJV troviamo ben 278 occorrenze di una radice an-
glosassone come “truth” e una sola dell’omologa latina “verity”.
Si colmava a quel punto la lacuna che distingueva la confessione
anglicana dalle altre confessioni riformate europee: Lutero in per-
Parte Seconda. In scena 159

sona aveva provveduto già nel decennio 1520 alla traduzione te-
desca. Così come quest’ultima rappresentò un forte strumento di
unificazione linguistica delle popolazioni germaniche, la versione
giacobita non mancò di esercitare un’analoga influenza su quelle
britanniche, anche se non bisogna dimenticare la sua quasi perfet-
ta coincidenza temporale con la produzione shakespeariana e con
la fioritura letteraria degli elisabettiani. Tuttavia, a differenza di quel-
li, il King James Version si tiene costantemente e comprensibilmen-
te su un registro colto di inderogabile predicazione.
Il processo di traduzione delle citazioni bibliche presenti in Light
Shining in Buckinghamshire si è rivelato piuttosto tortuoso. Vi erano
diverse possibilità: anzitutto quella ovvia del tradurle daccapo. In
secondo luogo si poteva ricorrere a versioni esistenti, antiche o mo-
derne. Tra queste vi sono le edizioni cattoliche contemporanee, e
specificamente quella della Conferenza episcopale italiana (CEI)
– che per combinazione è stata pubblicata in una nuova versione
proprio a metà 2009, sostituendo la precedente post-conciliare del
1971. In alternativa – e all’altro estremo – si poteva pensare a qual-
cosa che in linea di principio fosse filologicamente puntiglioso, come
nel caso di un’edizione protestante in italiano contemporanea al
KJV, come la Bibbia Diodati, edita a Ginevra nel 1607 dal calvi-
nista lucchese in esilio Giovanni Diodati (1576-1649). È la tradu-
zione biblica per eccellenza dei protestanti italiani e, secondo al-
cuni, può essere ritenuta dal punto di vista stilistico uno dei capo-
lavori della lingua italiana del Seicento. Tuttavia, come si può os-
servare di seguito, gli arcaismi della versione Diodati appesantisco-
no il testo fino a sottrarre attenzione al senso; la sonorità è inol-
tre piuttosto sorda. Sarebbero difetti quasi trascurabili in un testo
destinato alla lettura. Noi dobbiamo tuttavia confrontarci con la
scena: per quanto possibile la battuta non deve assumere premi-
nenza sull’insieme del testo. L’opzione è andata quindi verso un
italiano moderno e privo di arcaismi (non sempre le due cose coin-
cidono), che pur facendo tesoro delle possibilità offerte da CEI e
da Diodati fosse lessicalmente più aderente alla versione inglese
utilizzata da Churchill.
160 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Di tutta l’opera, solo il titolo è rimasto quello originale. Ho ri-


tenuto che, data la finalità pratica di sovratitolazione di un’opera in
lingua straniera, tradurlo sarebbe stato poco appropriato. È tutta-
via indubbio che la messa in scena o la pubblicazione del testo ri-
chiederebbero che anche il titolo trovi un’efficace espressione ita-
liana. In tale prospettiva, va tenuto conto in primo luogo che Light
Shining in Buckinghamshire è il titolo esatto di un libello che propu-
gnava la causa degli Zappatori pubblicato nel 1649. L’opuscolo non
è firmato, ma lo studioso americano George H. Sabine lo attribui-
sce al capo del movimento, Everard Gerrard Winstanley3. Ritrovia-
mo in questa riproposizione un tratto metodologico caratteristico
di Churchill: i documenti d’epoca non sono soltanto elementi ispi-
ratori, ma spesso divengono intarsiature da incorporare integralmen-
te nel testo, come evidenziato sopra. In secondo luogo va tenuto
presente che nella penultima scena – al culmine di uno scambio di
battute cariche di un’autoesaltazione reciproca che sarebbe troppo
facile definire deliranti4 – la predicatrice vagante Joni Hoskins escla-
ma precisamente “Light shining from us” – ovvero qualcosa come
Parte Seconda. In scena 161

“Una luce sprigiona/divampa da noi”. All’occorrenza, dunque, il


titolo dovrebbe attestarsi intorno ai lampi della rivoluzione... (Cfr.
la proposta di traduzione di Marialuisa Bignami in questo volume:
Si accende una luce nel Buckinghamshire”).
La serata del reading al Teatro i è stata carica di soddisfazione
(e di una dose di emozione), per essere riuscito con un lavoro rea-
lizzato in tempi strettissimi a far cogliere al pubblico il significa-
to dell’opera. La recitazione della compagnia del Royal Court Thea-
tre – in un inglese molto “sassone”, all’uso delle contee del cuo-
re dell’Inghilterra – ha reso quell’evento altamente godibile, se non
addirittura memorabile.
162 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Note

1
C. Churchill, Light Shining in Buckinghamshire, Methuen, London 1978, p. 183. La trad. it. è di chi
scrive.
2
«It shall come to pass that I will pour out my spirit upon all flesh; and your sons and your dau-
ghters shall prophecy, and your old men shall dream dreams and your young men shall see visions.
And also upon the servants and upon the handmaids in those days will I pour out my spirit» (Gioe-
le 2; 28, 29).
3
G.H. Sabine, The Works of Gerrard Winstanley, Russel & Russell, New York 1965.
4
Churchill, Light Shining, cit., p. 239:
COBBE You are God, I am God , and I love you, God loves God
CLAXTON Oh, God, let me be God, be clear in me –
HOSKINS All the light now –
COBBE Sparks of glory under these ashes –
HOSKINS Light shining from us –.
Parte Terza. Conversazioni
10. Mark Ravenhill e Luca Scarlini in conversazione presso il Teatro I di Milano (28 gennaio 2009). © Federica
Anchieri (2009).
Caryl Churchill ci ha spinto a fare meglio*

di Mark Ravenhill

Recentemente parlavo con una giovane drammaturga tedesca.


«Mi piacciono i drammaturghi inglesi della tua generazione», mi
diceva, «Sarah Kane, Debbie Tucker Green, Caryl Churchill».
Sorridendo le ho fatto notare che la prima opera di Churchill è
andata in scena trentacinque anni fa e che lei ne compirà settan-
ta questa settimana. «Ma come», ha farfugliato la mia collega,
«come può scrivere in modo così giovane ed essere una signora
così attempata?».
Infatti, come può? Negli ultimi trentacinque anni Churchill ha
prodotto alcune delle icone più significative del teatro britannico
contemporaneo: i coloni travestiti di Cloud Nine; il banchetto che
vede raccolte allo stesso tavolo una serie di figure storiche femmi-
nili in Top Girls; gli yuppies vanagloriosi e sboccati di Serious Money;
la parata grottesca di prigionieri dai cappelli stravaganti di Far Away;
i fratelli clonati in A Number. I suoi drammi hanno espresso in ma-
niera perfetta le ansie e le potenzialità del momento preciso in cui
hanno debuttato, eppure sono sempre riusciti a sembrare nuovi in
ogni successiva messinscena.
Tra le personalità della drammaturgia britannica contemporanea
non riesco a trovarne una alla quale si guardi con maggiore affet-
to e rispetto di lei. Forse perché Churchill in tutti questi anni ha sem-
pre mantenuto un basso profilo – è raro che conceda interviste –
o perché ha sempre sostenuto gli autori emergenti. Forse perché
è riuscita, con pazienza e determinazione, a produrre un corpus stra-

*
Testo pubblicato su “The Guardian” il 3 settembre 2008 e tradotto da Mauro Spicci.
166 Caryl Churchill. Un teatro necessario

ordinario di testi teatrali, la maggior parte dei quali nati grazie al so-
dalizio con un solo teatro, il Royal Court Theatre di Londra. Ma è
nella sua capacità di rinnovare continuamente la forma che la mag-
gior parte dei drammaturghi scorge la sua genialità. Nei suoi dram-
mi Churchill è sempre alla ricerca di nuove forme di linguaggio e
di nuove strutture teatrali: tutti strumenti che colgono l’essenza di
un preciso momento storico. Il drammaturgo Wallace Shawn mi ha
detto: «Molti di noi amano il teatro, ma spesso lo troviamo privo
di interesse. Ma quando vedi un’opera di Caryl – drammi ricchi e
innovativi come Fen, The Striker, o A Mouthful of Birds – ti accorgi
di quanto possa essere stimolante scrivere per la scena».
Nicholas Wright, che nel 1972 ha curato la regia di Owners, l’ope-
ra con cui Churchill ha debuttato al Royal Court, ricorda il loro pri-
mo incontro: «Ci siamo incontrati in un pub vicino al teatro. Ebbi
l’impressione che si trattasse di una donna molto bella, certamen-
te timida, ma anche acuta e ironica. Lei mi ha chiesto, “vuole che
riscriva tutto il dramma, vero?”. La cosa mi sorprese: era una cosa
alla quale nessuno avrebbe pensato allora. Ma Caryl ha sempre an-
ticipato i tempi».
Per festeggiare il suo settantesimo compleanno, questo mese [set-
tembre 2008], il Royal Court inviterà molti autori teatrali, tra cui
me, a dirigere una serie di letture delle opere della Churchill. Per
due settimane verrà presentata una selezione cronologica dei suoi
lavori, da Owners – che mostra il ritratto presciente di un’ossessio-
ne per la proprietà e in cui si avverte la voce di Joe Orton – fino
alle opere dell’ultimo decennio, tra cui i frammentari antidrammi
che costituiscono il double-bill Blue Heart, e la disturbante favola
di un mondo in guerra di Far Away.
Il mio primo incontro con le opere di Churchill è avvenuto con
una produzione studentesca di Cloud Nine. Ero un giovane anco-
ra incerto sulla mia identità sessuale: per questo trovai la temati-
ca dell’opera – il viaggio dall’Africa coloniale del XIX secolo fino
all’approdo in un moderno parco cittadino di un gruppo di per-
sonaggi che fanno esperienza di nuove libertà sessuali – piuttosto
cupa e inquietante. Quando rividi l’opera dieci anni fa, in una nuo-
Parte Terza. Conversazioni 167

va messinscena all’Old Vic, rimasi impressionato non solo dalla for-


za con la quale l’opera riusciva a tenere in pugno una platea enor-
me, ma anche dalla maniera ancora fresca e perturbante con cui
l’autrice problematizza la questione dei ruoli sessuali. Anche l’ele-
gante candore con cui una donna anziana descrive la scoperta del-
la masturbazione sembra ancora oggi – dopo più di trent’anni da
quando l’opera fu scritta – assolutamente nuovo. Wright, che ha
visto la prima messinscena del dramma, ricorda di essere stato col-
pito più che dalla «maniera esplicita in cui veniva trattata la tema-
tica sessuale sulla scena – in fondo, all’epoca tutti avevamo già vi-
sto cose simili – dalla schiettezza morale del dramma. Le opere di
Caryl dicono cose che tutti pensiamo, ma che nessuno ha mai det-
to esplicitamente».
Per le letture al Royal Court, ho scelto di curare la regia di Light
Shining in Buckinghamshire del 1976. Scritto originariamente per la
compagnia di sinistra chiamata Joint Stock, il dramma traccia la ro-
vina delle prospettive di una politica radicale durante la guerra ci-
vile inglese, bilanciando abilmente esperienze individuali e collet-
tive. È un teatro dal linguaggio denso, fatto di preghiere, dibatti-
ti, riunioni accese… ovvero degli incerti tentativi, da parte di chi
è appena salito al potere, di trovare la propria voce. April De An-
gelis, che curerà Owners, parla del «vertiginoso senso di possibili-
tà di cui è permeato il lavoro – ogni battuta ti riserva una sorpre-
sa». Joe Penhall, che dirigerà A Number, loda la capacità demoti-
ca di Churchill: «Lei riesce a catturare le elisioni e le ambiguità del
linguaggio quotidiano. Ho letto montagne di testi contemporanei
all’inizio della mia carriera di regista: tutti erano affollati di perso-
naggi che parlavano tra loro come se fossero tutti laureati a Ox-
bridge. Ma quando ho letto Ice Cream di Churchill, ho pensato: Wow!
Quando hai a che fare con autori come Pinter o Churchill allora,
per la prima volta, avverti come parla realmente la gente».
Secondo De Angelis, Churchill ha cambiato il panorama della
drammaturgia femminile. «Quando ho iniziato a scrivere per il tea-
tro negli anni ottanta, la gente diceva che il testo teatrale aveva
un’unica cosa importante, la struttura, e che le donne non erano
168 Caryl Churchill. Un teatro necessario

capaci di creare strutture convincenti. Ma ora puoi guardare a dram-


mi come Cloud Nine e Top Girls e dire, “Sciocchezze. Caryl Chur-
chill, proprio a livello di struttura sa fare le cose più incredibili”.
Caryl Churchill ci ha spinto a fare meglio dal punto di vista intel-
lettuale. Le idee politiche che cercavo di esprimere nel mio lavo-
ro erano allora piuttosto ingenue: in pratica tentavo di scrivere par-
ti importanti per le donne. Ma quando mi capitava di assistere ad
un’opera di Churchill, non potevo fare a meno di interrogarmi sul
senso del mio lavoro». De Angelis ricorda un gruppo di dramma-
turghe che hanno deciso di fare un esperimento: avrebbero inter-
pretato dei ruoli in Top Girls al Royal Court all’inizio degli anni no-
vanta, in parte come tentativo di dimostrare le nuove possibilità
che Churchill con il suo lavoro aveva offerto alle altre donne a tea-
tro. «Nel nostro gruppo, oltre a me, c’erano Sarah Daniels e Win-
some Pinnock. Ero agitata e mi sentivo a disagio con il costume
di scena, ma mi sembrava una grande opportunità di fare esperien-
za della scrittura di Churchill dal suo interno. È un’opera comples-
sa, in cui l’autrice ha inventato un nuovo modo di sovrapporre i
dialoghi. Le donne in scena sono persone che hanno ottenuto ciò
che hanno ottenuto in una società così competitiva da aver can-
cellato ogni possibilità di ascolto: non sono una comunità di don-
ne, sono solo individui che raccontano la loro storia».
«La politica è molto importante per Caryl», sottolinea Wright,
che dirigerà la lettura di Top Girls. «Penso che lei abbia scelto di far
debuttare tante sue opere al Royal Court perché lo vede in con-
trasto con l’Establishment. È proprio questo che lo rende uno spa-
zio diverso dagli altri teatri». Per Marius von Mayenburg, dramma-
turgo del teatro Schaubühne di Berlino, è la capacità di Churchill
di catturare l’“essenza dell’emozione politica” a renderla una voce
così unica. «Molti drammaturghi tedeschi della sua generazione si
sono messi a scrivere in maniera didattica», dice von Mayenburgh,
«ma lei ha portato il teatro politico a un livello nuovo. I suoi testi
pongono domande importanti. Abbiamo messo in scena A Num-
ber a Berlino e il pubblico è stato rapito dalla dissoluzione dell’iden-
tità messa in atto nella pièce».
Parte Terza. Conversazioni 169

Wallace Shawn curerà la lettura di Ice Cream, una commedia ama-


ra sui rapporti anglo-americani. Lui sottolinea come in America
«Churchill non sia mai diventata tanto popolare da perdere la sua
aura di drammaturga di culto. Lei gode di un’ammirazione enor-
me. Noi ammiratori ci stringiamo le mani in segreto. Se trovi qual-
cun altro che ama il suo lavoro, sai che tra di voi esiste un legame
speciale». Ovviamente è possibile individuare le tematiche ricor-
renti nelle opere di Churchill – l’alienazione di figli e genitori, la
possibilità e il fallimento della rivoluzione. Ma è la varietà delle sue
opere a colpire maggiormente. Von Mayenburg dice: «In ogni dram-
ma Churchill sperimenta nuovi generi e forme. Li scardina e li mo-
difica, aprendo nuove prospettive di esplorazione agli altri dram-
maturghi. Credo che molti di quelli che scrivono oggi non sappia-
no di essere stati influenzati da lei. Lei ha cambiato il linguaggio
del teatro. Sono pochi gli autori che riescono in questo».
11. Da sin: Francesca Paganini, Augusta Gori, Corinna Agustoni, Pinara Pavanini, Carla Chiarelli, Marina
Bianchi, Alberica Archinto e Martino Malerba in Top Girls presso la Chiesa di San Carpoforo a Milano (16-23
giugno 1988). Regia di Marina Bianchi.
Marina Bianchi. T o p G i r l s : amazzoni all’assalto
del teatro

di Francesca Gorini

Nell’estate del 1988 la regista milanese Marina Bianchi mette in


scena Top Girls presentando per la prima volta l’autrice britanni-
ca nel nostro paese. Nella sua messinscena ogni singola fase del
prodotto teatrale viene curata da donne: dalla traduzione alla re-
gia, dalle scenografie alla creazione dei volantini dello spettaco-
lo. Dalle colonne de La Notte, Paolo Paganini riconobbe imme-
diatamente la portata di un’operazione del genere e la dichiarava
vincente: «una ventina di amazzoni all’assalto della cittadella del
teatro [...] Diciamo subito che la cittadella viene vittoriosamente
espugnata»1. Forti della crescente indipendenza conquistata a fa-
tica nei decenni precedenti, le donne volevano far sentire la pro-
pria voce. Far sentire la propria voce, tuttavia, non era semplice
e non a caso Top Girls è stato presentato fuori stagione in occa-
sione del festival estivo “Milano d’Estate” in uno spazio alterna-
tivo, la Chiesa di San Carpoforo nel quartiere di Brera. Un debut-
to difficile quindi, all’interno di un sistema teatrale, quello italia-
no, che non ha trovato il coraggio e lo spazio per inserire questo
testo nella programmazione della propria stagione, nonostante
questa pièce avesse già riscosso grande successo sia in Gran Bre-
tagna che negli Stati Uniti. La pièce debutta infatti al Royal Court
Theatre di Londra (per la regia di Max Stafford-Clark) nel 1982,
a tre anni dall’elezione a Primo Ministro della conservatrice Mar-
garet Thatcher e viene accolta con grande entusiasmo2; pochi
mesi dopo lo spettacolo approda con altrettanto successo al Pu-
blic Theatre di New York. In Italia invece i tempi non sono an-
cora maturi per misurarsi con un testo in cui una donna, la pro-
tagonista Marlene, abbandona la figlia per potersi dedicare libe-
172 Caryl Churchill. Un teatro necessario

ramente alla carriera: la provocazione è forse troppo grande e


ancora oggi la coraggiosa messinscena di Marina Bianchi rappre-
senta l’unico incontro di Top Girls con i palcoscenici italiani3.
La critica italiana ha tuttavia decretato il successo della regia di
Bianchi, riconoscendo l’abilità della regista nell’orchestrare le bat-
tute delle protagoniste che, come vuole il testo di Churchill, si so-
vrappongono dando luogo a una polifonia di voci che «s’interse-
cano e s’avvicendano, come nella ricerca di una fonematica mu-
sicalità, in una gara di sovrapposizioni talvolta temerarie, e sotto-
lineando come ne scaturiscono sensazioni di grande fascino, so-
stenute, peraltro da una eccentrica contaminazione di personag-
gi scenici, in dialettico antagonismo con le parti in video»4. Affa-
scinata dalla vivacità e dal brio della scena del ristorante, Marina
Bianchi ha voluto puntare l’attenzione su di essa, proiettando la sto-
ria precedente di Marlene su diversi schermi sospesi ai lati della ta-
vola imbandita. Anche Maria Grazia Gregori apprezza la conta-
minazione diventata la cifra stilistica di questo Top Girls: «lo spet-
tacolo ci attrae per questo suo intrecciarsi di linguaggi e di stili, per
questa sua confusione di tempi, alla ricerca di un modo di fare tea-
tro non scontato pur nella sua apparente quotidianità»5.

Intervista a Marina Bianchi6 - 7 luglio 2010

FRANCESCA GORINI La sua messinscena di Top Girls rappre-


senta il primo incontro di Caryl Churchill con l’Italia: quando ha
conosciuto questa drammaturga e come mai ha scelto proprio que-
sto testo?
MARINA BIANCHI Erano gli anni ottanta, anni in cui il tea-
tro era spesso una scelta militante. Tutto ciò che apparteneva al fem-
minismo, al post-femminismo, alla riscrittura dei vari movimenti
femminili e alla vita delle donne nel mondo del teatro e della po-
litica era per me un fattore primario nella scelta di un testo. Mi ero
da poco diplomata all’Accademia d’Arte Drammatica del Picco-
lo Teatro di Milano e avevo iniziato un percorso da regista e da at-
Parte Terza. Conversazioni 173

trice in compagnie off: nei vari viaggi all’estero, a Parigi e Londra


soprattutto, avevo scoperto la possibilità di trovare nelle librerie
testi teatrali di drammaturgia contemporanea estremamente stimo-
lanti. Avevo letto testi di Caryl Churchill, ma anche di altri autori
contemporanei, che ruotavano intorno al Royal Court Theatre. Ave-
vo la sensazione che in Inghilterra venissero investiti non solo sol-
di, ma grandi quantità di energia nel teatro. In Top Girls ho trova-
to diversi aspetti molto interessanti per la mia esperienza: una vi-
sione del mondo al femminile, una contaminazione tra fantasia e
realtà, tra personaggi storici, reali e inventati, nonché un pensie-
ro che attraversa lo spazio e il tempo; mi pare che l’aspetto dav-
vero geniale di Top Girls sia proprio quello di riunire intorno a un
tavolo donne diverse per esperienza e provenienza. Come regista
avevo messo al centro della rappresentazione la scena del ristoran-
te: ciò che accade prima e dopo è, a mio parere, piuttosto banale.
Oltre alla trasversalità di tempo e spazio, mi piaceva l’idea del cibo
come nutrimento del corpo e dello spirito, un nutrimento che pas-
sa sempre attraverso le mani delle donne. Mi interessava in sostan-
za l’aspetto psicanalitico del cibo e del nutrimento, che mi sembra-
va fosse sotteso al testo.
FG Il suo spettacolo è stato allestito in una chiesa milanese scon-
sacrata, la chiesa di San Carpoforo a Brera: come mai questa scel-
ta? Può dirci altro circa la messinscena?
MB Negli anni settanta e ottanta esisteva una ricerca teatrale che
cercava di far corrispondere il luogo teatrale all’idea, si cercava di
farsi sollecitare dai luoghi e di portare il teatro in spazi alternati-
vi. Inoltre mi piaceva l’idea di mettere il pubblico intorno al tavo-
lo delle attrici, che si trovava nel mezzo della navata centrale. Ogni
attrice, inoltre, sedeva su una sedia disegnata specificamente per
il suo personaggio, così come i costumi di scena, tutti ideati da Da-
niela Verdenelli7. Generalmente i personaggi di una pièce appar-
tengono allo stesso tempo e allo stesso spazio, mentre nel nostro
caso la situazione era ben diversa: la scenografa Nanda Vigo ave-
va quindi costruito una sedia per ogni donna, diversa per forma,
colore e struttura.
174 Caryl Churchill. Un teatro necessario

FG Il segno distintivo del suo spettacolo è il fatto di essere una


messinscena tutta al femminile: dalla regia, alla traduzione, alla sce-
nografia, tutto è stato affidato a donne, tanto che i giornali dell’epo-
ca vi hanno definito “amazzoni all’assalto del teatro”. Si ritrova in
questa definizione? Cosa significava all’epoca un’operazione di que-
sto tipo?
MB Lo spettacolo era completamente al femminile: avevo coinvol-
to solo donne, anche per la parte tecnica. La scenografa era Nan-
da Vigo8, un’artista visiva molto brillante. L’arte moderna e contem-
poranea è un’altra delle mie grandi passioni, sono infatti una gran-
de estimatrice di Marina Abramović, un’artista serba che si occu-
pa di body art e che lavora molto sul proprio corpo. Mi sembrava
in quel momento che Nanda avesse la capacità astratta e visiona-
ria per entrare in sintonia con un testo come Top Girls. La sceno-
grafia era composta da un tavolo centrale illuminato da neon. Le
protagoniste erano ovviamente tutte donne, così come le respon-
sabili della parte tecnica, dalla fotografa al tecnico delle luci, alla tra-
duttrice. Lavorare con le donne è l’esperienza che preferisco. Tut-
te le attrici si erano diplomate con me alla Scuola del Piccolo ed era-
no tutte diverse: dalla più mascolina, alla più femminile, alla più ma-
terna e legata alla famiglia. Per ognuna di loro ho cercato una cor-
rispondenza in un personaggio. Una di queste donne, Augusta Gori,
era una perfezionista, con un gusto un po’ borghese: proprio per
queste sue caratteristiche le ho assegnato il ruolo di Marlene. Ave-
vamo prestato attenzione anche alla promozione dello spettaco-
lo. Sul volantino di presentazione avevamo stampato l’immagine
di un allestimento tutto al femminile: era una fotografia di tutte le
donne che avevano collaborato alla messinscena all’interno della
chiesa dove si sarebbe tenuto lo spettacolo, tutte sedute su un gra-
dino dell’altare. Indossavamo dei cappellini retro, con velette e piu-
me, molto femminili e sotto ad ogni figura era scritto il nome e il
ruolo all’interno dell’allestimento. Questo perché mi piace occu-
parmi di tutti gli aspetti del prodotto teatrale, che, in quanto pro-
dotto, deve essere venduto: senza un pubblico, il teatro non ha ra-
gione di esistere.
Parte Terza. Conversazioni 175

FG Quindi si ritrova nella definizione “amazzoni all’assalto del tea-


tro”?
MB Sì, era un periodo molto ricco di stimoli per quanto riguar-
da il discorso sulla donna. Sembrava veramente che tutto potes-
se cambiare in Italia e che si potessero cogliere i frutti del lavoro
fatto dal secondo dopoguerra in poi, attraverso il boom degli anni
sessanta e le altre conquiste degli anni settanta, come il divorzio
e l’aborto. In realtà dopo non c’è stato più niente: adesso le don-
ne sono dappertutto, ma vivono in modo più individualistico. Ognu-
na segue la propria strada e non ha più la sensazione di apparte-
nenza a un gruppo. Nelle giovani generazioni di teatranti Serena
Sinigaglia è forse l’esempio di donna più in sintonia con quello che
ho fatto; Serena lavora infatti con un gruppo composto soprattut-
to da donne. Il mondo intorno a lei però è ben diverso: è pragma-
tico e molto poco visionario.
FG Nel testo di Churchill dietro alla top girl Marlene si sono colti
molti riferimenti a Margaret Thatcher, che, ai tempi del debutto
di Top Girls a Londra, era da pochi anni a capo del Governo, al pun-
to che Marlene fu considerata una caricatura dell’ultima top girl bri-
tannica, il Primo Ministro Margaret Thatcher9. Ai tempi della sua
messinscena, nel 1988, la situazione in Italia era ben diversa e la
carriera politica era ancora in gran parte preclusa alle donne. Que-
sto ha sicuramente influito sulla sua interpretazione del personag-
gio di Marlene, che, all’interno del suo spettacolo, mi sembra non
alluda più di tanto a Thatcher, tanto che la critica italiana si limi-
ta a definirla “una donna in carriera, arrivata, ma a prezzo della ri-
nuncia di sé, un po’ nevrotica”10. A quale modello di donna si è ispi-
rata per Marlene?
MB Più che Thatcher, come ispirazione per Marlene avevo in men-
te le donne manager del Nord Italia, come Marisa Bellisario, una del-
le prime donne ad essere nominate “capitano d’industria” in Italia.
In quel periodo si iniziava a porre il problema di come conciliare ma-
ternità, famiglia e lavoro a livelli dirigenziali. La stessa sensibilità si
ritrovava in una parte del cinema hollywoodiano. Avevo inoltre se-
guito sui giornali l’esperienza della donna manager del settore tessi-
176 Caryl Churchill. Un teatro necessario

le, che operava in Veneto e che cercava di conciliare il suo ruolo in


azienda con una famiglia di quattro o cinque figli. La mia esperien-
za è stata simile: nonostante abbia avuto due figli, ho sempre lavo-
rato, pagando un prezzo molto alto in termini di fatica, identità e an-
sia, benché mi sia resa conto che, in realtà, durante la gravidanza l’ener-
gia mentale si moltiplica. Mi sembrava che Marlene rappresentasse
una donna che potesse non rinunciare a questa parte della sua vita.
Il grande tema di quegli anni era quello di far coincidere le due vite
di una donna, la vita privata e quella professionale, che nella società
occidentale sono ugualmente importanti. In altre società, come quel-
la giapponese o araba, la situazione non è necessariamente così e le
donne sono talmente concentrate sulla maternità che non hanno bi-
sogno di altro. Un altro tema importante era quello della competi-
zione, tipicamente femminile, per cui spesso la vecchia si mette con-
tro la giovane, la brutta contro la bella, come nelle fiabe. Teniamo pre-
sente, comunque, che tante mie scelte legate allo spettacolo sono sta-
te dettate dall’istinto; la comprensione è arrivata dopo, anche grazie
alle riflessioni e alle letture di qualche critico. Inoltre ho sempre pen-
sato che la cultura inglese fosse molto diversa dalla nostra. In quel-
la civiltà le donne hanno sempre avuto un ruolo importante, tant’è
vero che sono governati da una regina. Certo, si parlava anche di That-
cher, ma questa non era una parte del testo che mi interessava, era
ininfluente. Mi sembra addirittura di aver tagliato alcune battute, per-
ché erano troppo contestualizzate e riguardavano poco il discorso che
avevo portato avanti sul teatro al femminile.
FG Per quanto riguarda la traduzione del testo, ha utilizzato quel-
la di Margaret Rose e Monica Castaldi: ha avuto esigenze partico-
lari?
MB No, non mi sembra che ci siano stati problemi. Era la prima vol-
ta che lavoravo con un traduttore presente [Margaret Rose], al mas-
simo ho chiesto di cambiare qualche parola per esigenze di scena.
FG L’emancipazione della donna, sempre in bilico tra dedizione
alla famiglia e realizzazione lavorativa, è un tema molto caro a Ca-
ryl Churchill. Quale concezione di femminismo emerge da que-
sto testo secondo lei?
Parte Terza. Conversazioni 177

MB Non vorrei sovrapporre il mio pensiero a quello di Churchill.


Mi sembra, tuttavia, che ci sia in questa drammaturga il rispetto per
il percorso individuale di ogni donna. Ognuna delle donne presen-
ti nella scena del ristorante era rappresentativa di qualcosa. Non
erano personaggi dallo spessore psicologico, bensì echi e simbo-
li di tradizioni diverse, che abbiamo cercato di rendere teatralmen-
te vivi. Carla Chiarelli, ad esempio, è una donna androgina; potreb-
be interpretare ugualmente un personaggio femminile o maschi-
le e per me era perfetta per il ruolo di Nijo, che è una donna che
ha vissuto nell’assenza dell’espressione di sé. Isabella Bird, inve-
ce, la viaggiatrice vittoriana, con l’energia della donna che è sem-
pre alla ricerca di qualcosa e non finisce mai di cercare era il per-
sonaggio giusto per Pinara Pavanini. Abbiamo inoltre amplifica-
to il meccanismo di sovrapposizione delle battute creato da Chur-
chill, tanto che nessuna attrice era mai in silenzio. Dovevano emer-
gere dalla partitura le battute volute da Churchill, ma le altre con-
tinuavano a parlare creando un tappeto sonoro di sottofondo. Mi
piace molto questo aspetto della scrittura di Churchill, lo trovo estre-
mamente femminile.
FG Quindi una concezione di femminismo che coincide con il cer-
care di seguire la propria strada?
MB Sì, direi di sì. A partire da una serie di diritti e doveri comu-
ni, ognuna deve essere poi in grado di seguire la propria strada. Tro-
vo che il fatto di far sedere allo stesso tavolo donne molto diver-
se sia un modo per dire che per ciascuna la strada è personale, non
esistono definizioni e categorie uguali per tutte. A quei tempi il pen-
siero femminista non lasciava molta libertà: chi non si uniforma-
va era accusato di revisionismo, mentre a me piaceva l’idea di un
mondo pieno di sfumature, in cui modi di vivere diversi possono
coesistere.
FG Ma quale sarebbe quindi la strada di Marlene? Quella della car-
riera?
MB Probabilmente sì. Ho sempre notato però in questo perso-
naggio una vena depressiva, una chiusura che la caratterizza. L’in-
dicazione che ci dà Churchill nei confronti di Marlene non è lu-
178 Caryl Churchill. Un teatro necessario

minosa e la scrittrice non dà grandi opportunità a questa donna.


Forse questo personaggio è frutto del periodo in cui è stato con-
cepito: negli anni settanta e ottanta era inimmaginabile portare avan-
ti sia la vita familiare sia quella lavorativa, esisteva una dicotomia
precisa tra questi due ambiti.
FG La critica ha lodato la sua capacità di intrecciare i diversi stili
e linguaggi presenti nel testo, ma anche l’innovativa contaminazio-
ne di media differenti. Era consapevole dell’innovazione portata
in scena?
MB Sì, ne ero consapevole. Innanzitutto sono una grande aman-
te del cinema; in più ho sempre amato le contaminazioni, infatti
la storia pregressa del personaggio di Marlene è stata risolta in vi-
deo, anche per dare a questa parte del testo un sufficiente distac-
co dallo spettatore. La contaminazione era un modo per rinnova-
re il teatro in quegli anni ricchi di sperimentazione. Mi affascina-
va il fatto di poter usare il mezzo visivo all’interno del teatro. Oggi
questo è ancora più vero dato che viviamo in un mondo segnato
dall’intreccio di culture diverse. Neanche il teatro può più rimane-
re chiuso alle contaminazioni.
FG Qual è stata la reazione del pubblico di fronte a questo spet-
tacolo così innovativo?
MB C’è stata una buona risposta da parte del pubblico, credo che
sia piaciuto molto.
FG Perché questo spettacolo non è più stato ripreso?
MB Per prima cosa, data la particolarità dell’ambientazione, sareb-
be stato difficile trasferire questo spettacolo in altri spazi. Inoltre, in
Italia non è molto radicata l’idea di fare uno spettacolo per poi por-
tarlo in tournée (a meno che non si tratti di grandi compagnie); si
ragiona molto di più in termini di evento e infatti l’allestimento era
stato prodotto dall’allora Teatro di Porta Romana in occasione del
festival “Milano d’Estate”. In più l’organizzazione teatrale è molto
frammentaria in Italia, non esistono scambi tra i festival.
FG Varrebbe la pena riproporlo oggi?
M.B.: Perché no? Potrebbero esserci delle parti datate, ma potreb-
bero essere modificate. Mi piacerebbe poterlo riproporre. Si po-
Parte Terza. Conversazioni 179

trebbe renderlo ancora più significante e emblematico inserendo-


lo maggiormente nel suo contesto storico. Alla fine degli anni ot-
tanta potevamo fingere che fosse un testo attuale; oggi, a più di
vent’anni di distanza, varrebbe la pena di recuperare l’ambienta-
zione precisa di quegli anni.
FG Secondo lei perché Churchill è così poco conosciuta in Italia?
MB Probabilmente perché è troppo sofisticata a livello linguistico:
in Inghilterra esiste un gusto per la parola che non appartiene alla
nostra cultura. Inoltre Churchill ha un modo molto elegante di por-
re i problemi e anche questo non è tipico della nostra cultura.
FG Per questo è forse difficile tradurre i testi?
MB La traduzione potrebbe essere un problema, ma molto dipen-
de anche dalla politica delle case editrici e dei teatri, soprattutto di
quelli più riconosciuti, come il Piccolo Teatro o il Franco Paren-
ti, che dovrebbero far conoscere gli autori contemporanei.
FG Potrebbe essere perché è una donna?
MB Questo è sicuro. È però anche una questione di moda del mo-
mento e di dipendenza dai finanziamenti: per averli è necessario che
l’autore attiri il pubblico, quindi deve essere un drammaturgo cono-
sciuto, meglio ancora se poi ne ricorre anche un anniversario.
180 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Note

1
P. Paganini, Una Ventina di Amazzoni all’Assalto del Teatro. Top Girls di Caryl Churchill a San Carpo-
foro in Brera Tutta al Femminile, “La Notte”, 18 giugno 1988, p. 21.
2
Si veda B. Robertson, “Top-Notch Churchill”, “The Spectator”, 11 settembre 1982, p. 25.
3
L’unica eccezione è una lettura scenica di Top Girls presentata appunto nel gennaio 2009 al Tea-
tro i di Milano, per la regia di Renzo Martinelli, all’interno del progetto “Il Teatro di Caryl Chur-
chill - Teatro i chiama Royal Court”.
4
P. Paganini, art. cit., p. 21.
5
M.G. Gregori, Ragazze di successo di ieri e di oggi, “L’Unità”, 19 giugno 1988, p. 17.
6
Marina Bianchi è diplomata in regia presso la Scuola del Piccolo Teatro di Milano, ha lavorato
con registi come Liliana Cavani, Eduardo De Filippo, Giorgio Strehler e Luca Ronconi, e con di-
rettori d’orchestra come Claudio Abbado e Leonard Bernstein. Attualmente collabora come regi-
sta con il Teatro alla Scala di Milano.
7
Daniela Verdenelli ha ricoperto il ruolo di costumista per numerosi progetti teatrali e cinemato-
grafici. Tra i primi ricordiamo i costumi de La Dodicesima notte (regia di Jerome Savary), andato in
scena nel 1991 durante il festival “Estate Teatrale Veronese” e de La bruttina stagionata (regia di Fran-
ca Valeri), andato in scena al Teatro Franco Parenti di Milano nel 1994. Tra i lavori cinematogra-
fici ricordiamo invece i costumi dei film Una Vita al Rovescio (Rolando Colla, 1998) e Oltre il Con-
fine (Rolando Colla, 2002).
8
Nanda Vigo (Milano 1940) è una designer italiana. Ha studiato all’Institute Politechnique di Lo-
sanna e ha collaborato con i designer Gio Ponti e Lucio Fontana. Ha partecipato per due volte alla
Triennale di Milano (nel 1964 e nel 1973) e alla Biennale di Venezia nel 1982.
9
F. Rich, Stage: Caryl Churchill’s Top Girls at the Public, “The New York Times”, 29 December 1982.
10
M.G. Gregori, art. cit., p. 17.
Marina Spreafico. Churchill surreale e assurda

di Chiara Biscella

Di nuovo una donna che si cimenta con Caryl Churchill. Di nuo-


vo un teatro alternativo, per quanto questa volta si tratti di spet-
tacoli inseriti nella programmazione della stagione teatrale e non
di “fuori stagione” come nel caso di Top Girls di Marina Bianchi.
Regista e attrice, Marina Spreafico, che più volte si è interessata
di teatro inglese presentando testi di Shakespeare e Pinter, ha
messo in scena A Mouthful of Birds e Blue Heart, che hanno de-
buttato rispettivamente nel 1998 e nel 2000 presso il teatro Litta
e il teatro Arsenale di Milano. Il primo, ispirandosi alle Baccanti di
Euripide, si sviluppa seguendo un’insolita struttura: sette scene,
indipendenti l’una dall’altra, presentano personaggi di volta in
volta diversi, ciascuno con la propria storia di follia, possessione,
violenza; a intervallare queste scene, comunque calate nella con-
temporaneità, interviene la storia di Penteo e dei culti bacchici.
Marina Spreafico si è lasciata affascinare dallo stretto confine che
separa la norma e la noia della routine da una quotidianità che di-
venta anormale e insana e ha voluto mostrare, attraverso la sua
produzione, come il crollo dei taboo possa condurre, più facil-
mente e più velocemente di quanto ci si aspetterebbe, allo squi-
librio e alla pazzia. A piedi nudi sotto le stelle, questo l’infelice tito-
lo che la regista ha dovuto accettare per portare in scena il suo
A Mouthful of Birds, non sembra però avere convinto del tutto.
Magda Poli, dalle pagine del “Corriere della Sera”, ha evidenzia-
to la bravura degli attori, ma non ha lesinato critiche sulla mes-
sinscena, «caotica, sfilacciata, senza ironia, senza crudeltà, senza
spirito dionisiaco»1. Gli stessi difetti sono stati rilevati da Giovan-
na Verna, di «Hystrio», che ha aggiunto anche come «le coreo-
182 Caryl Churchill. Un teatro necessario

grafie e le percussioni in scena, elemento portante dello spetta-


colo, riflettono invece il tentativo eccessivamente didascalico di
riprodurre l’atmosfera ancestrale e la forza inquietante della ri-
tualità dionisiaca»2. A discolpa della regista resta il fatto che, se la
sua regia non piace, lo stesso si può dire del testo di Churchill,
che Magda Poli ha descritto come “ingenuo” seppur “non privo
di fascino”3.
Più fortuna ha invece avuto l’apprezzato Blue Heart (Cuore Blu),
una pièce composta da due atti unici: nel primo, Heart’s Desire (L’amo-
re del cuore), una madre, un padre e una zia sono in attesa della fi-
glia, di ritorno dall’Australia; l’azione, però, viene continuamente
interrotta e ricominciata, ogni volta con varianti diverse, che pas-
sano dal banale al brutale o al divertente. Nel secondo, Blue Kettle
(letteralmente Bollitore Blu, ma tradotto come Caffettiera Blu perché
più vicino ai costumi italiani), un uomo cerca di convincere una
serie di donne di essere il loro figlio naturale, da loro abbandona-
to quando neonato; mentre la storia evolve, il linguaggio regredi-
sce e le parole ‘caffettiera’ e ‘blu’ vengono utilizzate sempre di più,
andando a sostituire un numero crescente di termini fino a che il
dialogo si sgretola. I testi sono interessanti e originali e coinvol-
gono il pubblico grazie al gioco continuo con il linguaggio e con
l’azione teatrale, un gioco che porta il lavoro di Churchill al limi-
te del surreale e dell’assurdo. Proprio in questa direzione onirica
si è mossa anche Marina Spreafico nella sua regia, che Magda Poli
ha elogiato come “attenta ai ritmi”4 e quindi decisiva per dare vita
a uno spettacolo “curioso e spumeggiante”5. L’accompagnamen-
to delle tastiere di Luca Rampini e lo spazio scenico di Massimo
Scheurer, che ha disposto il pubblico intorno agli interpreti e che
ha utilizzato «poche, essenziali cantinelle disposte via via a dise-
gnare spazi fisici e mentali»6 hanno senza dubbio contribuito al suc-
cesso di questo spettacolo.
Parte Terza. Conversazioni 183

Intervista a Marina Spreafico7 - 1 luglio 2009

CHIARA BISCELLA In che modo è avvenuto il suo incontro


con Caryl Churchill? Quali aspetti la colpiscono della sua dram-
maturgia?
MARINA SPREAFICO Il mio incontro con Caryl Churchill è
avvenuto tramite Margaret Rose, docente di Storia del teatro in-
glese: è stata lei che mi ha proposto alcuni testi, che ho letto e mi
sono subito piaciuti molto. Trovo infatti in Churchill una sensibi-
lità drammaturgica molto forte e una sensibilità visionaria che con-
divido. Inoltre intuivo come, al di là di quello che riuscivo a coglie-
re al primo impatto, ci fosse un mondo misterioso da esplorare.
Proprio questo aspetto mi ha attratto in modo particolare.
CB Fino ad ora ha messo in scena A Mouthful of Birds e Blue Heart.
Quale dei testi ha preferito e per quali ragioni?
MS Forse preferisco Blue Heart, che è costituito a sua volta da due
testi: Heart’s Desire e Blue Kettle. Personalmente ho apprezzato mag-
giormente il primo, perché il secondo è meno lineare. Per di più
si riferisce a una legge sconosciuta al pubblico italiano e questo co-
stituisce una difficoltà. In questo secondo testo però vi è un tema
molto interessante, il tema del regresso linguistico, una specie di
gioco da videogame e molto profondo. Heart’s Desire invece mi è
piaciuto subito moltissimo, è una specie di modello matematico,
la dimostrazione della forza del numero 3 e della immobilità del
numero 4. Ci sono tre personaggi: padre, madre e zia, che funzio-
nano in modo perfetto, ma solo finché sono in 3. Il numero 3, d’al-
tronde, è il numero perfetto; anche in teatro il trio è perfetto. Il 4
invece, ha una valenza mortale. Il 3 è il divenire, è dinamico, il 4
invece è statico. Credo ci sia addirittura una teoria sull’origine del-
l’universo secondo cui, se gli elementi fossero stati disposti per quat-
tro, nulla si sarebbe formato. In Heart’s Desire, chiunque arrivi e cer-
chi di inserirsi nel trio perfetto costituito dai personaggi principa-
li, viene respinto, inesorabilmente espulso e catapultato fuori, sep-
pure apparentemente desiderato e bramato. Le variazioni che Chur-
chill ne trae sono innumerevoli. Nel mio allestimento ho accom-
184 Caryl Churchill. Un teatro necessario

pagnato questo gioco matematico con un gioco di spazi: la sceno-


grafia era una sorta di tappeto volante, costituito da bastoni che
continuamente ne cambiavano la forma e lo modificavano. Era pro-
prio questa sequenza di variazioni sui numeri l’aspetto che più mi
intrigava di Heart’s Desire, tanto che avevo chiesto a un amico ma-
tematico se ne poteva ricavare un modello.
CB Rimaniamo su questo testo. Lei l’aveva definito “il gioco del
teatro portato all’estremo”. Eppure è anche la disgregazione del
teatro, poiché la trama viene continuamente interrotta. Allo stes-
so modo in Blue Kettle è il linguaggio a disgregarsi. Come spiega que-
sta contraddizione di un teatro che si distrugge nel suo farsi?
MS A parer mio non c’è contraddizione. Questi testi rimangono
un gioco, un teatro che si fa e non che si disfa. Nessuno scrittore
di teatro, mi auguro, vorrebbe distruggere il teatro. Anzi, ho sem-
pre trovato una grande forza in questo testo, che si basa su arche-
tipi fondamentali, come capita in molte altre opere di Churchill.
A volte questa autrice è scarna e asciutta nel linguaggio e forse que-
sto è un limite: se il suo linguaggio, la sua scrittura teatrale fosse-
ro più sviluppate, l’impatto sul pubblico potrebbe essere più for-
te. Così invece il suo teatro rimane un po’ “settario”, un po’ per
adepti. È un peccato. Quelli di Churchill non sono lavori che tra-
volgono, anche se possono intrigare, risultare divertenti e lascia-
re il segno; conosco difatti persone che, a distanza di anni, li ricor-
dano e me ne parlano.
CB Il venir meno del linguaggio è, secondo lei, un ritorno all’in-
fanzia, un balbettio positivo che permette a madre e figlio di com-
prendersi al di là delle parole, o piuttosto una totale incompren-
sione, un linguaggio stanco, logoro, incapace di esprimere?
MS Per la mia conoscenza, comunque parziale, della sua opera,
Churchill è un’autrice visionaria con tendenza a scandagliare. Così
arriva in Blue Kettle a qualcosa di molto primario, all’origine, al bal-
bettio infantile da cui appunto il linguaggio nasce. Non penso si
tratti di una regressione, credo piuttosto che si tratti di un proces-
so che porta alla sorgente viva della parola. Questo processo ver-
so il punto originale si verifica anche in un suo altro testo, che non
Parte Terza. Conversazioni 185

ho messo in scena, Far Away. Questo aspetto mi piace molto, per-


ché la sua scrittura è il contrario di una scrittura terminale, è una
scrittura viva, che dà vita.
CB L’attenzione al linguaggio e l’incapacità di continuare sembra-
no riportare al teatro di Beckett: penso che nella sua interpretazio-
ne dei testi di Churchill non sia così.
MS Secondo me Beckett e Churchill sono agli antipodi. Quello di
Beckett è un linguaggio finale, terminale, che si dissecca. Il teatro
di Beckett dà una sensazione di asfissia, di pesantezza. Nella dram-
maturgia di Churchill questa sensazione non c’è mai. Quando si
ha a che fare con un autore e lo si incarna, gli si dà voce, è come
se si entrasse dentro di lui, se ne conoscesse perfino il carattere:
nel carattere di Churchill si sta bene, in quello di Beckett malissi-
mo. Beckett innervosisce, Churchill no. Forse c’è anche una sostan-
ziale differenza tra donna e uomo, perché la donna, comunque, è
sempre portatrice di vita. Churchill, in quanto donna, va alla sor-
gente della vita.
CB Ci sono, soprattutto in A Mouthful of Birds, scene molto vio-
lente: quali sono le sue scelte registiche a questo proposito?
MS Non vi è tanto un problema di violenza, quanto di crollo di
tabù. In A Mouthful of Birds l’autrice propone una sequenza di sce-
ne in ognuna delle quali mostra il diaframma che separa la vita “nor-
male” da un’altra vita possibile... A Mouthful of Birds mostra come
questo diaframma si possa facilmente sfondare, come facilmente
ognuno di noi possa passare dall’altra parte. Penso che chi com-
mette un crimine nella maggioranza dei casi non sia un pre-deter-
minato agente di morte, non abbia la volontà di fare il male; è solo
che qualche diaframma viene abbattuto o scompare. Churchill ha
indagato proprio questo aspetto in modo molto interessante. Nel-
la mia regia ho cercato di trasmettere la stessa idea. Ho cercato cioè
di mostrare come nella quotidianità esista una parete che ogni tan-
to superiamo, che chiunque di noi potrebbe superare. È una situa-
zione che tutti abbiamo sperimentato nella vita, ma che poi rimuo-
viamo, perché la società e l’educazione sono lì affinché la si rimuo-
va. Nella prima scena del testo vi è una mamma che uccide il pro-
186 Caryl Churchill. Un teatro necessario

prio figlio ancora neonato; nello spettacolo la mamma confonde-


va il neonato con i suoi giocattoli, che le sembravano vivi, men-
tre la voce del marito le giungeva estranea e mortale. È una situa-
zione comune a molte madri; è una situazione molto reale. Lo spet-
tacolo è violentissimo, certo, ma è soprattutto il nostro giudizio ad
essere violento. In realtà il crollo dei tabù è qualcosa di misterio-
so e fa paura.
CB Quanto si sente, nella sua messa in scena, il legame con le Bac-
canti di Euripide, di cui questo testo è una moderna riscrittura?
MS Ho evitato i riferimenti diretti alle Baccanti e non perché non
funzionassero drammaturgicamente. Ho infatti provato a inserir-
li in diversi modi, ma alla fine ho tralasciato di metterli in primo
piano. Presupponevano infatti da parte del pubblico una familia-
rità con il testo di Euripide che non è così assodata. Il testo di Chur-
chill inoltre era già di per sé abbastanza difficile. Ho preferito quin-
di trasporre il riferimento alle Baccanti in alcuni pezzi di musica e
danza, facendomi aiutare da un ottimo percussionista e da una co-
reografa di cui ho grande stima. Lo spettacolo prevedeva quindi
degli inserti di danza bellissimi che creavano stupore, trascinava-
no lo spettatore fuori dal mondo reale, per poi farlo ricadere di nuo-
vo nel quotidiano. Caryl Churchill è l’unica che io conosca che in-
troduca in modo evidente questi passaggi da un mondo all’altro:
Shakespeare faceva normalmente entrare in scena i mondi invisi-
bili, folletti, spiriti, streghe, fantasmi… ma nei drammi shakespea-
riani lo si accetta con più facilità. L’autrice inserisce la rottura tra
mondo reale e mondo fantastico nell’oggi e questa è un bellissi-
ma caratteristica di A Mouthful of Birds. Il limite del testo, se vo-
gliamo, è che si sente un po’ troppo che è stato scritto “addosso”
a delle persone, per una specifica compagnia teatrale. C’è una sce-
na, ad esempio, che prevede come protagonista un’attrice dei Ca-
raibi e che contiene allusioni ai riti wodoo, forse anche ad alcuni fu-
metti americani ispirati al wodoo: trasporla non è stato facile e il ri-
sultato nemmeno molto felice.
CB Allo stesso modo non è stata felicissima la scelta del titolo, vi-
sto che A Mouthful of Birds è diventato A piedi nudi sotto le stelle…
Parte Terza. Conversazioni 187

MS È un titolo che non c’entra nulla con lo spettacolo; è sbaglia-


tissimo, ma ho dovuto accettarlo; mi è stato imposto dal produt-
tore che non voleva mantenere il titolo originale. Per questo era-
no state fatte diverse proposte di titoli alternativi; purtroppo è sta-
to scelto il peggiore.
CB Churchill è spesso definita la maggiore drammaturga britan-
nica contemporanea. È d’accordo? Perché?
MS Io non posso fare una valutazione del genere, perché non ho
sufficienti competenze. Del suo teatro conosco i testi che ho mes-
so in scena e pochi altri, anche perché per me il suo inglese è dif-
ficile da leggere. Per quello che conosco della drammaturgia bri-
tannica contemporanea Churchill è sicuramente una delle figure
più rappresentative. Personalmente l’ho incontrata una sola vol-
ta, a teatro, al Royal Court di Londra, ma abbiamo parlato molto
poco perché aveva appuntamento sia con me che con un altro. Ri-
masi male. Ricordo una bella signora, un po’ snob.
CB Quali altre opere di Churchill vorrebbe o ha in programma di
affrontare?
MS Vorrei mettere in scena Far Away. Ho già affrontato questo te-
sto con alcuni studenti della facoltà di Architettura del Politecnico
di Milano, all’interno di un laboratorio di scenografia. L’avevo pro-
posto come testo per lo studio di un allestimento da realizzare al
teatro Arsenale. In Far Away, c’è una forte immagine del mondo con-
temporaneo e del terzo mondo. Il testo suggerisce inoltre tre visio-
ni molto interessanti di spazio e di rapporti drammatici, che chia-
merei “volume”, “linea”, “punto”. È un modo di ridurre all’essen-
ziale, partendo dalle tre dimensioni (il volume) passando per due
(la linea) e arrivando a un punto, e questo punto è il confine ver-
so un mondo sconosciuto. Tra quelli che conosco di Churchill è il
testo che preferisco. Vorrei davvero metterlo in scena.
188 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Note

1
M. Poli, Le moderne Baccanti. Testo un po’ ingenuo e messinscena caotica, “Corriere della Sera”, 29 no-
vembre 1998, p. 53.
2
G. Verna, A piedi nudi sotto le stelle, «Hystrio», 3, 1999, pp. 79-80.
3
Poli, art. cit.
4
M. Poli, Blue Heart all’Arsenale. Tra comicità e tragedia uno spettacolo spumeggiante, “Corriere della Sera”,
11 febbraio 2000, p. 53.
5
Ibidem.
6
A. Ceravolo, La penna della Churchill esala rantoli e malie, «Hystrio», 3, 2000, pp. 74-5.
7
Allieva dell’“École Internationale de Théâtre Jacques Lecoq” di Parigi, Marina Spreafico è oggi
direttrice del Teatro Arsenale di Milano, da lei stessa fondato nel 1978. In questo luogo, che defi-
nisce straordinario, ha formato una compagnia stanziale e ha aperto una scuola di teatro. Attrice,
regista e traduttrice, ha realizzato numerosi spettacoli teatrali e musicali, sia per la propria compa-
gnia sia perché invitata da organizzazioni italiane e straniere, tra le quali La Fenice di Venezia, la
National Opera di Sofia, il Colorado Festival of World Theatre.
Massimiliano Farau dirige F a r A w a y

di Claudia Nocera

12. Tania Rocchetta (zia Harper) e Rossella Canuti (Joan, da bambina) in Far Away di Massimiliano Farau pre-
sentato presso il Teatro Due/Teatro di Parma e Reggio Emilia (14-15 giugno 2003).

In occasione della XXI edizione del Teatro Festival Parma del


2003, luogo d’incontro fra tradizione italiana e teatro europeo,
Massimiliano Farau presenta Far Away (2000) di Caryl Chur-
chill, una pièce teatrale di «bellezza devastante», come l’ha de-
finita l’inglese «The Sunday Times»1. Dopo il tutto esaurito al
Royal Court di Londra per la regia di Stephen Daldry (l’accla-
mato regista del film Billy Eliot), Far Away debutta con succes-
so due anni dopo a New York con un nuovo cast americano
guidato dall’attrice Frances McDormand (vincitrice del premio
190 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Oscar per la sua interpretazione in Fargo) nel ruolo che a Lon-


dra era stato di Linda Bassett. Nel 2000, quando Far Away è in
scena al Teatro Due di Parma in prima nazionale, non sono
molte le opere della drammaturga inglese ad essere già state
presentate sulle scene italiane, anche se già da tempo Caryl
Churchill scrive testi di fama internazionale, che dal Royal
Court Theatre di Sloane Square hanno raggiunto i teatri di tut-
to il mondo. A Parma lo spettacolo si assicura il consenso del
pubblico italiano e della critica. Valeria Ottolenghi della “Gaz-
zetta di Parma” lo descrive come «un bel lavoro, applausi me-
ritati, con molti pensieri che ancora si muovono confusi, uno
spettacolo breve dall’efficacia duratura, una lunga eco di emo-
zioni»2. Sulle pagine di «Hystrio» Dimitri Papanikas sottolinea
come «nelle tre scene allestite dal regista Massimiliano Farau
sembra che non ci sia più spazio per il dolore. I suoi personag-
gi si muovono come marionette dedite alla continua reiterazio-
ne di gesti automatici. Sono responsabili per la modalità delle
proprie azioni e non per il loro fine ultimo»3.
Se un regista è il primo interprete di un testo nel percorso er-
meneutico che dalla pagina conduce alla messa in scena, nel caso
di Far Away Massimiliano Farau lo è anche nel ruolo di tradutto-
re. Ciò lo porta ad uno studio dettagliato del copione e a un pro-
fondo rispetto per la scrittura di Churchill. Muovendo dal testo
drammatico per ricavarne gli elementi della scena, la visione regi-
stica si manifesta in una configurazione minimalista e precisa del-
lo spazio scenico e della scenografia, «come se la scena fosse la pun-
ta di un iceberg immane e terrificante». In linea con l’ambientazio-
ne domestica e il paesaggio idillico da allegoria pastorale, che nel-
la produzione originale lo scenografo Ian MacNeil aveva riprodot-
to sul sipario di apertura della piccola sala Theatre Upstairs del Ro-
yal Court, l’allestimento di Massimiliano Farau ricrea l’immagina-
rio da fiaba, ma dal finale tragico e sinistro. Così, nella prima sce-
na di Far Away, al centro del palcoscenico, Tania Rocchetta, nei pan-
ni di zia Harper, cuce su una sedia a dondolo. Ai suoi piedi un tap-
peto rosso, un cesto del lavoro a maglia a forma di cuore e una pic-
Parte Terza. Conversazioni 191

cola fattoria giocattolo creano un interno domestico rassicurante


nella piccola sala buia del Teatro Due, dove risuona la famosa nin-
na nanna Stay Awake, tratta dal film di Walt Disney Mary Poppins.
La ninna nanna, i riferimenti al mondo dell’infanzia e il tappeto ros-
so, in forte contrasto visivo con la sala buia, sono segni prolettici
dell’innocenza violata e della brutalità che verrà compiuta. Nei cin-
quanta minuti dello spettacolo, la Harper di Farau è una donna fer-
ma e risoluta, forse ancora più colpevole nei confronti della bam-
bina di quanto non lo fosse stata la Harper inglese interpretata da
Linda Bassett, che si stropicciava nervosa un fazzoletto tra le dita
e si tradiva nella voce tremolante e lo sguardo senza pace.
Data la scarsità di didascalie, non sono molti gli oggetti e gli ele-
menti scenici utilizzati da Daldry a Londra o da Farau a Parma; in
occasione del debutto newyorkese, viceversa, Daldry aveva inve-
ce utilizzato un bambolotto parlante e una TV dal segnale inter-
mittente, mentre i rumori assordanti di una fabbrica e della piog-
gia battente amplificavano in maniera quasi cinematografica la quo-
tidianità della vicenda, forse per avvicinarla alla realtà di un pub-
blico americano sensibile alla tematica di guerra dopo gli attacchi
terroristici dell’11 settembre 2001.
È tuttavia interessante l’impiego di Massimiliano Farau dei pic-
coli animali giocattolo che funzionano come centro di gravità del-
lo spettacolo. Dalla fattoria in miniatura ai piedi di zia Harper agli
animali sul tavolo di lavoro di Joan, fino alla scena conclusiva in
cui vengono posti sulla mappa per indicare gli schieramenti di guer-
ra, questi animali danno continuità alla vicenda nonostante l’el-
lissi spazio-temporale dei tre episodi della commedia. Rimane inol-
tre da segnalare come l’idea della mappa richiami un altro alle-
stimento chiave nella storia scenica di Far Away: quello di Peter
Brook a Parigi nel 2002, con il quale, tra l’altro, per la prima vol-
ta il pubblico francese assiste ad una rappresentazione di un te-
sto di Churchill.
Vivida è l’interpretazione che Massimiliano Farau ha dell’atti-
vità registica: «Un testo drammatico sta lì per dire qualcosa che non
si può dire altrimenti; non perché qualcuno ne riduca la comples-
192 Caryl Churchill. Un teatro necessario

sità, ne estragga un solo significato e con l’evidenziatore lo sbat-


ta in faccia al pubblico». Decisamente un obiettivo raggiunto nel
suo Far Away, dove il rispetto per la creatività immaginativa di Ca-
ryl Churchill e la precisione della rappresentazione scenica coin-
cidono con una scrittura nitida e cristallina.

Intervista a Massimiliano Farau4 - 25 giugno 2008

CLAUDIA NOCERA Massimiliano Farau è regista di teatro, do-


cente di recitazione all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica
“Silvio D’Amico” e traduttore appassionato di drammaturgia an-
glosassone. Cosa l’ha portata a rappresentare Far Away di Caryl Chur-
chill al Teatro Due di Parma nel giugno 2003?
MASSIMILIANO FARAU La messa in scena di Far Away mi è
stata proposta dalla direzione artistica del Teatro Due per il Tea-
tro Festival del 2003. In quel periodo avevo già lavorato al Teatro
Due, dove avevo presentato due spettacoli: La Memoria dell’Acqua
(The Memory of Water) di Shelagh Stephenson e un testo piuttosto
anomalo, non notissimo, di Michael Frayn, che si intitola Qui (Here).
Entrambi i testi erano stati allestiti in spazi abbastanza particola-
ri del Teatro Due, con il pubblico molto ravvicinato alla scena. La
Memoria dell’Acqua è un testo naturalistico, una commedia agrodol-
ce sul tema della memoria, dei legami familiari, della necessità di
perdonare ma anche di ritrovare in sé le tracce dei propri genito-
ri, di fare i conti con i retaggi familiari al di là di una comoda ri-
mozione, se si vuole andare avanti nella propria vita con dignità.
Qui è un testo molto singolare di Frayn, una specie di commedia
filosofica, dal realismo geometrico e rarefatto, influenzata dal Witt-
genstein delle Ricerche Filosofiche, ma i nodi teoretici che tocca sono
affrontati con una felicissima leggerezza. Il successo di questi due
testi ha spinto il Festival a chiedermi una mise en espace di Far Away,
con l’idea di riprenderlo poi eventualmente per una messa in sce-
na completa. L’ho messo in scena nella stessa sala dove avevo già
debuttato con La Memoria dell’Acqua, uno spazio capace di conte-
Parte Terza. Conversazioni 193

nere poco più di cinquanta posti e quindi di creare grande intimi-


tà con gli spettatori. Il testo di Frayn ha una originale misura di rea-
lismo “distillato” che per certi versi, anche se in un contesto to-
talmente diverso, si può avvicinare alla compostezza formale del-
la scrittura di Churchill, così cristallina e così tersa. Mi interessa mol-
to questa rarefazione del linguaggio quotidiano studiato talmen-
te nel dettaglio, al di là delle convenzioni naturalistiche (che pre-
vedono spesso un artificiosissimo eccesso di chiarezza e esposi-
zione), da produrre un effetto di iper-realismo, cioè di perfetta ri-
produzione del parlato – le interruzioni, gli inceppamenti, le pau-
se, ecc. – e al tempo stesso creare una sorta di raffinata e stranian-
te stilizzazione che coglie l’essenza dei conflitti drammatici con
un’icasticità e una precisione di segno impressionanti. Mi affasci-
nano le convenzioni di scrittura che hanno ormai preso piede nel-
la drammaturgia anglosassone, come usare il simbolo slash “/” per
indicare la sovrapposizione di due battute, e la tendenza all’ellissi
e alla sospensione della frase che ricorre con sempre maggior fre-
quenza negli ultimi testi di Churchill, anche se non tantissimo, for-
se, in Far Away. In Far Away c’è comunque una scrittura cesellata
che fa intravedere l’orrore attraverso la politezza quasi asettica del-
la parola; e poi c’è una grande densità drammatica, come se la vio-
lenza implodesse in un segno teatrale insieme controllatissimo e
agghiacciante. Questo è evidente nella seconda parte di Far Away
ambientata nella fabbrica dei cappelli, in cui lo spettatore intuisce
tutto il mondo esterno soltanto da piccoli accenni, come se la sce-
na fosse la punta di un iceberg immane e terrificante.
CN Far Away è una sorta di favola capovolta: Joan, la bambina pro-
tagonista, è una Alice in Alice nel Paese delle Meraviglie che nel bosco
incantato assiste ad un atto di violenza e cresce nella consuetudine
all’orrore. Questo testo le è piaciuto di più dal punto di vista for-
male o per l’argomento trattato?
MF Credo che si tratti di un testo estremamente interessante da
tutti e due i punti di vista. Mi sono piaciuti molto gli aspetti che
lei nota, soprattutto il tema del pervertimento dell’innocenza e del-
la natura attraverso il “gioco di prestigio” della zia che, nella pri-
194 Caryl Churchill. Un teatro necessario

ma scena, fornisce a Joan una sorta di spiegazione pseudo-etica del-


la violenza che rasserena la bambina, offrendole un quadro asso-
lutamente distorto, ma in qualche modo rassicurante, entro cui in-
serire e giustificare l’orrore. Da lì in poi si assiste a questa assue-
fazione terribile al male, accettato con totale indifferenza emoti-
va ed etica, fino all’idea di radicale sovvertimento della natura con
la guerra totale che viene raccontata alla fine. Fin dove esiste l’uma-
no dentro circostanze impossibili? Questo tema dell’abitudine al-
l’orrore, di una sorta di apprendistato alla rovescia che produce una
profonda corruzione della capacità di “compatire” – nel senso più
alto della parola – mi sembra centrale in Far Away. Un aspetto che
colpisce è che comunque un affetto autentico tra Joan e Todd esi-
ste pur all’interno di una totale perdita di senso e di qualsiasi pa-
rametro etico. È come se tutti noi fossimo chiamati a interrogar-
ci su quale sia il grado di resistenza dell’umano dentro situazioni
di violenza estrema.
CN Conosciamo la storia della bambina attraverso tre momenti
distinti della sua vita. Si nota una sorta di cronologia del male che
non è di immediata comprensione per lo spettatore, anche se Far
Away è un testo apparentemente semplice nella sua lettura. Che ne
pensa?
MF Penso si tratti della classica situazione in cui bisogna fare di
tutto per dare valore al conflitto in ogni singola scena, in manie-
ra tale che ogni momento abbia l’icasticità e l’evidenza dramma-
tica necessarie a farci intravedere per squarci, per illuminazioni ful-
minee, quello che i personaggi lasciano nel non detto. Bisogna ave-
re fiducia che il pubblico riempia i vuoti. Questa fiducia è assolu-
tamente parte del gioco drammaturgico che viene messo in cam-
po, perché di fronte ad una scrittura di questo tipo lo spettatore
deve fare un gran lavoro immaginativo. È parte essenziale, credo,
di quello che poi lo spettacolo ci lascia: non una soluzione pron-
ta, ma dubbi e interrogativi. Credo che sia l’obiettivo più impor-
tante in questo tipo di drammaturgia ellittica, che lascia una serie
di vuoti da colmare. Sull’aspetto etico del testo, ciò che mi ha col-
pito è che nella seconda parte, nei dialoghi tra il ragazzo e la ra-
Parte Terza. Conversazioni 195

gazza, emergono tre aspetti fondamentali. Prima di tutto l’affet-


tività, perché comunque si capisce da subito che i due si stanno cor-
teggiando: questo è l’inizio, anche tenero e toccante, di una storia
d’amore (e poi, infatti, ritroveremo Joan e Todd sposati quando in-
furia la guerra, nella terza parte della commedia). Come dire: c’è
una linea di affettività che può nascere anche all’interno dell’or-
rore. Poi c’è il fatto che loro sono degli artisti. La loro condizio-
ne si può considerare una metafora dell’arte e dei problemi dell’ar-
tista all’interno di un regime, anche se Joan e Todd si occupano,
per così dire, di arte applicata. Entrambi continuano a porsi, an-
che in maniera affascinante, dei problemi puramente estetici – fac-
ciamo i cappelli astratti, li facciamo figurativi, quali sono i valori
formali da perseguire – dimenticando totalmente lo scopo per cui
realizzano questi cappelli, che è di rendere spettacolari delle para-
te di condannati a morte. E questo è il terzo aspetto, allucinante:
il fatto che i due non si pongano nessun problema rispetto all’uso
politico della propria arte. Sembra che il loro sguardo abbia per-
so la capacità di abbracciare un quadro ampio di valutazione po-
litica e morale: discutono continuamente di problemi relativi al pro-
prio ambiente di lavoro, perché ritengono che la direzione della ma-
nifattura di cappelli sia corrotta e vengano commesse delle ingiu-
stizie nell’assegnazione di contratti e nelle condizioni lavorative e
retributive; sembra che siano mossi da una genuina spinta al rin-
novamento; sembra che vogliano cambiare il sistema, poi però, di
fatto, sia Todd che Joan sono concentrati sul proprio “particula-
re”, su piccole questioni sindacali, e sfugge loro il quadro genera-
le, il sistema repressivo e sanguinario a cui loro stessi sono ormai
asserviti. Che poi è la stessa questione che si pone il testo teatra-
le di Ronald Harwood Taking Sides, dedicato a Wilhelm Furtwän-
gler, il direttore d’orchestra che è stato accusato, dopo la liberazio-
ne di Berlino, di aver collaborato con il regime, nel senso che era
stato direttore dei Berliner Philharmoniker durante il nazismo e che
aveva suonato più volte in presenza del Führer. Quello dei rappor-
ti tra arte e regime è un problema che si pone continuamente. Si
pensi a uno scrittore straordinario – apolitico per eccellenza – come
196 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Borges, che ha lavorato nell’Argentina della dittatura e speso pa-


role di elogio per un regime feroce. Joan e Todd non sono degli
artisti puri, tuttavia la loro condizione riesce a essere una metafo-
ra potente del ruolo dell’intellettuale e dell’artista in condizioni po-
litiche entro le quali l’arte può essere pervertita e resa strumento
di propaganda. La parte più enigmatica e al contempo affascinan-
te è ovviamente la scena finale, che probabilmente è quella che sen-
to non del tutto risolta nello spettacolo. Ho avuto occasione di ri-
fare quella scena in un saggio dell’Accademia Nazionale d’Arte
Drammatica tre anni fa optando per una soluzione scenica diver-
sa. Nello spettacolo avevo avuto l’idea di sistemare sul palcosce-
nico un tavolo su cui era appoggiata una mappa e di usare come
pedine degli animali-giocattolo per segnalare sulla mappa i movi-
menti delle truppe e l’andamento della guerra totale. Fin dall’ini-
zio Joan giocava con questi animali-giocattolo che venivano poi uti-
lizzati come simboli dei surreali schieramenti zoomorfi di cui par-
lano Harper e Todd nella scena finale, e conservava sul suo ban-
co di lavoro uno di questi, un cervo, come ricordo o come porta-
fortuna. Questo espediente dava il vantaggio di avere una concre-
tizzazione di quello che si diceva e un centro scenicamente forte
verso cui far gravitare i personaggi. Poi però mi sono chiesto se
fosse giusto che questa fattoria si trasformasse in una sorta di quar-
tier generale. Come dicevo, ho avuto occasione di ripensare que-
sta scena nel contesto di un saggio d’Accademia che prevedeva vari
sketch d’autore sul tema dell’oppressione: Catastrofe di Samuel Bec-
kett, poi vari sketch di Harold Pinter di argomento politico, Con-
ferenza Stampa (Press Conference), Il Nuovo Ordine del Mondo (The New
World Order), Precisi (Precisely); Questa è una sedia (This is a Chair) di
Churchill e per ultima questa scena di Far Away. A quel punto l’ho
realizzata come se si trattasse di una normale colazione intorno al
tavolo da cucina. Todd e Harper non erano più concentrati attor-
no ad una mappa in una situazione di palpabile tensione, ma be-
vevano il tè mentre la conversazione si sviluppava come resocon-
to di quotidiani orrori. Si respirava un’atmosfera domestica, un po’
come nel primo atto, e questo lasciava emergere, con evidenza an-
Parte Terza. Conversazioni 197

cora più sgomentante, il racconto di quella vera e propria apoca-


lisse che aveva luogo di là dalle mura di casa.
CN È così anche nella versione originale diretta da Stephen Dal-
dry al Royal Court Theatre di Londra nel 2000.
MF Sì, e mi sembra più giusto che Harper, anche alla fine, abbia
una qualche forma di vulnerabilità e di paura, e la sua immagine
sia il più possibile simile a quella dell’inizio, mentre nella versio-
ne al Teatro Due indossava una specie di casacca militare e appa-
riva completamente indurita e anaffettiva. Nella scena finale, ol-
tre a questa idea geniale della natura che prende parte al conflit-
to, quello che mi sembra importante è che nella dinamica dei rap-
porti tra i personaggi ora domina il sospetto e la paura. Tutta la
terza scena prima dell’ingresso di Joan è un tentativo di Harper di
testare da che parte stia Todd. Si intuisce quindi un totale caos in
cui gli schieramenti e le alleanze sono fluttuanti. Si insinua il so-
spetto anche nei legami familiari più stretti, anche dentro casa, come
può succedere in situazioni estreme di guerra civile.
CN A proposito della canzone Stay Awake tratta dal film di Walt
Disney, Mary Poppins, che apre il suo spettacolo, lei preferisce un
teatro colto, fatto di simboli e citazioni, o un teatro diretto al pub-
blico, emozionale? A chi si rivolge il suo teatro?
MF Io penso e spero che arrivi al pubblico direttamente. Anche
nel caso di Stay Awake, è chiaro che uno si ricorda che la canzo-
ne è di Mary Poppins, ma più che altro mi aveva colpito questa ver-
sione “a cappella” (cioè con la voce nuda, senza accompagnamen-
to strumentale) un po’ inquietante, questa specie di contro ninna
nanna, in perfetta sintonia con quella linea di favola nera che an-
che lei ha individuato. Non è che lì per lì io abbia consapevolmen-
te usato dei riferimenti. Però, per esempio, avevo letto anni prima
il libro di Angela Carter, La Camera di Sangue (The Bloody Chamber),
una riscrittura “dark” di favole famose. Credo che questa lettura
abbia agito come suggestione sotterranea nel portarmi a creare, per
questa scena, un’atmosfera di oscura iniziazione all’età adulta, come
quella che domina i racconti di Carter, tutti incentrati, per quan-
to mi ricordo, sui riti di passaggio. Volevo creare un clima rassi-
198 Caryl Churchill. Un teatro necessario

curante da fattoria, anche con alcuni elementi che identificassero


facilmente l’ambiente – forse al limite del bozzettismo – come la
sedia a dondolo, la salopette e il cardigan. C’era solo il tappeto ros-
so che aveva una connotazione meno naturalistica e appariva come
un elemento scenico più stilizzato e con un più evidente valore sim-
bolico. E poi gli animali in miniatura volevano suggerire questo cli-
ma confortante, da camera dei giochi, pur alludendo agli sviluppi
futuri della vicenda. Ma non è che tutto ciò debba postulare nel-
lo spettatore uno sforzo di decifrazione di segni, simboli, citazio-
ni, ecc. Rispetto alla domanda, se preferisco un teatro colto e meta-
teatrale o un teatro emozionale e diretto, senz’altro sono per il se-
condo. Tutto quello che c’è di meta-teatrale, di intellettualistico, do-
vrebbe essere per me sufficientemente nascosto da passare per al-
tri canali, cioè da tradursi in qualcosa che raggiunge lo spettatore
ad un altro livello, più emozionale ed immaginativo; non deve es-
sere esibito in quanto tale. Non credo che gli spettatori debbano
andare a teatro per decrittare un esercizio di stile o per sorbirsi un
saggio critico vergato con gli strumenti, come si diceva una vol-
ta, della “scrittura scenica”. E anche rispetto ai classici, ad esem-
pio Amleto, il lavoro dello spettatore non dovrebbe essere quello
di decifrare lo scarto tra ciò che sta vedendo e le sue precedenti
conoscenze di quel testo. Per me uno che va a vedere Amleto po-
trebbe non conoscere la storia e dovrebbe comunque arrivargli tut-
to. Oppure regista e attori dovrebbero essere così bravi che, no-
nostante si sappia benissimo cosa succede, si riesca a creare quel-
la famosa “suspension of disbelief ” di cui parlava Coleridge, per
cui lo spettatore quasi dimentica ciò che accade un momento dopo.
Quando vedi un film che hai già visto e a cui pure partecipi emo-
tivamente, una parte di te sotto sotto spera che il film possa co-
munque prendere una piega diversa. Sai che sta per succedere una
cosa terribile e speri che magari questa volta il film finisca meglio.
Il che è paradossale chiaramente, ma fa parte dell’“esperienza dram-
matica”: sebbene sia chiaro alla tua parte razionale che stai assisten-
do a una storia che non è reale, pure partecipi empaticamente alla
vicenda e ti rendi parte attiva di questa indagine sull’umano che è
Parte Terza. Conversazioni 199

il teatro. Non sopporto l’idea che si possa andare a teatro per ve-
dere che cosa ne pensi il regista di un certo testo. Quei registi fa-
rebbero meglio a scrivere un saggio. In Inghilterra mi sembra che
sia diverso. Se tu prendi un programma della stagione della Royal
Shakespeare Company, per esempio, trovi il riassunto della trama
dei testi: «Il principe di Danimarca ha perso il padre, sua madre si
è affrettata a celebrare un secondo matrimonio con il fratello del
re defunto, ma lo spettro del padre appare ad Amleto e gli rivela
una verità agghiacciante... », con tanto di puntini di sospensione!
Gli inglesi si comportano come se la storia fosse nuova; Amleto è
un testo che conoscono tutti, fa parte del curriculum scolastico,
eppure questa cosa ingenua di mettere il riassunto come stimolo
per la curiosità del pubblico mostra che si va a teatro per veder vi-
vere questa storia e per interessarsi a una vicenda umana, non per
assistere alla dimostrazione di una tesi attraverso cui il regista spie-
ga che lui ha capito, e possibilmente corretto, Shakespeare. Uso Sha-
kespeare ovviamente come esempio più alto. Quello che dice Ha-
rold Bloom nel libro Shakespeare: l’Invenzione dell’Umano (Shakespeare:
The Invention of the Human) – attenzione, non pensate di spiegare
Shakespeare, è Shakespeare che spiega noi – penso che sia ovvia-
mente indiscutibile su Shakespeare, ma che possa applicarsi un po’
a tutto il teatro. Un testo drammatico sta lì per dire qualcosa che
non si può dire altrimenti; non perché qualcuno ne riduca la com-
plessità, ne estragga un solo significato e con l’evidenziatore lo sbat-
ta in faccia al pubblico.
CN Oltre alla regia di Far Away, lei ha anche tradotto il testo dal-
l’inglese e altri testi di Churchill. Quali sono le sfide del traduttore?
MF Ho appena letto l’ultimo suo testo, Drunk Enough to Say I Love
You?. Me l’ha mandato l’agente italiano; testo difficilissimo da leg-
gere e difficilissimo da tradurre. Sempre più Churchill scrive in modo
super-ellittico, usa tantissimo il gerundio senza verbo ausiliare, per
cui non sai mai come devi tradurlo; forzare è quasi inevitabile. Ti
chiedi, lo traduco con un infinito o con cosa? Si devono fare del-
le scelte forti che sottraggono ambiguità al testo. È davvero dif-
ficile. È stato così anche per Questa è una sedia, che io ho tradotto
200 Caryl Churchill. Un teatro necessario

e portato in scena nell’ambito del saggio di Accademia a cui face-


vo riferimento prima. Ma se dovessi dire di aver capito esattamen-
te che cosa dicono i personaggi in uno degli sketch, Hong Kong, di-
rei una bugia. Noi ovviamente abbiamo dato una lettura, azzarda-
to un’ipotesi, ma ci sono alcune battute di una tale ambiguità che
comportano un azzardo interpretativo sia sul piano della traduzio-
ne sia sul piano della resa scenica. Anche perché Churchill è un’au-
trice metamorfica, proteiforme; ha un’essenziale fedeltà a se stes-
sa ma il suo stile è cambiato enormemente negli anni.
CN Parliamo di A Number. Anche questo, come Far Away, ha una
forte componente distopica.
MF Ho visto A Number al Royal Court, con la regia di Stephen Dal-
dry, e Michael Gambon nei panni del padre, mentre tutti i figli era-
no interpretati da Daniel Craig, bravissimo. Anche qui è fortissima
l’influenza della letteratura e del cinema distopico. Un film che mi ave-
va colpito molto e che secondo me ha influenzato Churchill è quel-
lo tratto dal romanzo The Handmaid’s Tale di Margaret Atwood, sce-
neggiato da Harold Pinter, che immagina una società del futuro in
cui la maggior parte delle donne sono sterili e le poche donne ferti-
li sono come delle suore, non si possono sposare e vengono date alle
famiglie molto ricche che vogliono avere figli e possono pagare. Il
film mostra questo rituale di accoppiamento molto inquietante in cui
la moglie si mette sotto, la ragazza sopra la moglie e l’uomo penetra
la ragazza – insomma una scena terribile. Se una donna cerca di ave-
re una storia d’amore fuori da questo sistema viene impiccata in una
cerimonia pubblica agghiacciante, in cui tutte le altre devono tirare
la corda che la ucciderà. Devo dire che una certa influenza indiret-
ta l’ha esercitata su di me il cinema di fantascienza distopica degli anni
settanta. Per esempio La Fuga di Logan (Logan’s Run) di Michael An-
derson è un film che da bambino mi ha sconvolto. È un film dei pri-
mi anni settanta in cui si immagina una società del futuro, una città
sotto una cupola, meravigliosa, dove tutti sono giovani e belli e han-
no una specie di rubino incastonato nella mano. Tutti vivono in una
condizione di grande edonismo e libertà sessuale, che in qualche modo
anticipa l’era di Internet, perché il loro modo di conoscere e incon-
Parte Terza. Conversazioni 201

trare i partner è attraverso uno schermo che li collega ad altri uten-


ti e attraverso cui vengono realizzati incontri all’insegna di un fred-
do consumismo sessuale. Nessuno è sposato e i bambini nascono da
fecondazione artificiale. Il rubino si accende allo scadere dei trent’an-
ni, allora le persone devono presentarsi a una specie di rituale, il “Ca-
rousel”, nel corso del quale dovrebbero essere “rinnovati”; in realtà
muoiono in modo orrendo perché la società deve essere fatta solo
di individui giovani e belli.
CN Ricorda il film The Island di Michael Bay in cui degli individui,
in realtà cloni, vengono selezionati attraverso un finto sistema di
lotterie per essere riutilizzati…
MF Sì, lo ricorda tantissimo, infatti quando l’ho visto ci ho pen-
sato immediatamente.
CN Sempre nel 2005 c’è stato il romanzo Non lasciarmi (Never Let
me go) di Kazuo Ishiguro dove i bambini di una scuola molto par-
ticolare vengono cresciuti come pezzi di ricambio.
MF Molto bello. Anche lì c’è un orrore indicibile e senti l’assue-
fazione a questa condizione come una condizione normale. È uno
dei miei libri preferiti degli ultimi anni. Poi c’è un altro film abba-
stanza allucinante di fantascienza distopica degli anni settanta, Soy-
lent Green di Richard Fleischer, che in italiano è stato tradotto come
2022 I sopravvissuti. Anche questo è molto angoscioso. Parla di una
società del futuro sovrappopolata. Anche qui il protagonista, come
in La fuga di Logan, è un poliziotto; è il classico poliziotto solita-
rio. Si vede che esce dalla porta di casa e c’è gente che dorme sul
pianerottolo, sulle scale, e ci sono barboni in tutte le piazze. Il man-
giare scarseggia e l’unico cibo arriva ogni tanto dai camion nella
forma di tavolette verdi, il “soylent green”. La divisione tra ricchi
e poveri è fortissima. Ci sono dei condomini extra-lusso dove ogni
appartamento ha in dotazione una concubina. In tutto ciò c’è la
possibilità di morire con una specie di eutanasia. Nella parte fina-
le un vecchio decide di andare a morire e va in un istituto in cui
viene fatto sdraiare su un lettino in una enorme sala con uno scher-
mo panoramico, sceglie che musica sentire, che immagini vedere,
e gli viene iniettata un dose di veleno che gli procura una morte
202 Caryl Churchill. Un teatro necessario

dolce. Il poliziotto, inseguendolo, scopre che i corpi vengono poi


caricati su dei camion e portati in uno stabilimento per trasformar-
li in “soylent green”. Penso che questo tipo di immaginario (ac-
canto all’immancabile 1984 di George Orwell e a Brazil di Ter-
ry Gilliam) mi abbia influenzato nel pensare il mondo in cui vi-
vono Joan e Todd, fatto di abitazioni anguste e minime condi-
zioni di sopravvivenza. Un mondo iper-burocratizzato di funzio-
nari, un’umanità che fa sempre più fatica a vivere gli affetti, il la-
voro e la creatività. L’influenza di questo tipo di immaginario sul-
la mia regia non ha prodotto “segni” scenici di clamorosa eviden-
za, ma agito piuttosto sul piano di quel “lavoro invisibile” di cui
parla Declan Donnellan nel suo libro L’Attore e il Bersaglio (The
Actor and the Target), cioè di quell’insieme di suggestioni che non
vengono mostrate sulla scena, ma servono a nutrire l’immagina-
zione degli attori aiutandoli a sentire come autentico, o almeno
possibile, il “fictional world” che sono chiamati ad abitare.

13. La scena dei cappelli in Far Away presso il Teatro Due/Teatro di Parma e Reggio Emilia (14-15 giugno 2003).
Regia di Massimiliano Farau.
Parte Terza. Conversazioni 203

14. Paolo Briguglia (Todd) e Noemi Condorelli (Joan) in Far Away presso il Teatro Due/Teatro di Parma e Reg-
gio Emilia (14-15 giugno 2003). Regia di Massimiliano Farau.

15. Da sin.: Paolo Briguglia (Todd), Noemi Condorelli (Joan) e Tania Rocchetta (zia Harper) in Far Away pres-
so il Teatro Due/Teatro di Parma e Reggio Emilia (14-15 giugno 2003). Regia di Massimiliano Farau.
204 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Note

1
«A play of terrible, devastating beauty», J. Peter, Conflicts of interest, “The Sunday Times”, 10 Fe-
bruary 2002.
2
D. Papanikas, Innocenti complici del male, «Hystrio», XVI n. 3, luglio-settembre 2003, p. 65.
3
V. Ottolenghi, Far Away. Al Tfp l’educazione a non ascoltare la coscienza, “Gazzetta di Parma”, 17 giu-
gno 2003.
4
Formatosi all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, Massimiliano Farau
si è perfezionato presso la Guildhall School of Music and Drama di Londra e la Classe de Maitri-
se de Mise en Scène di Pélussin. Ha diretto testi di Shakespeare, John Ford, Euripide, Molière, Gol-
doni, Giovan Battista Andreini, Dylan Thomas, George Bernard Shaw, Harold Pinter, David Ma-
met, Philip Ridley, Arthur Miller, Ionesco, Maricla Boggio, Luigi Maria Musati, Matei Visniec, Mar-
tin Crimp, Stephen Sondheim, Shelagh Stephenson, Wallace Shawn, Michael Frayn, Caryl Chur-
chill, Simon Bent, Eduardo De Filippo, Pirandello, Dario Fo, Bryony Lavery, Anthony Minghel-
la, Duncan Macmillan, Beckett, Mohamed Kacimi, Steven Dietz e Tracy Letts, e ha lavorato, tra
gli altri, per il Teatro Due di Parma, il Centro Servizi e Spettacoli di Udine, Il Teatro Stabile di Na-
poli, il Teatro Stabile di Torino, il Teatro Stabile Abruzzese, il Teatro di Roma, Taormina Arte, il
Festival del Teatro Medievale e Rinascimentale di Anagni, il Wimbledon Theatre di Londra, il Can-
tiere Internazionale d’Arte di Montepulciano e l’American Conservatory Theater di San Franci-
sco. Insegna recitazione all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” e a “Pri-
ma del Teatro - Scuola Europea per l’Arte dell‘Attore”; ha insegnato al Centro Sperimentale di Ci-
nematografia, al Centro Internazionale “La Cometa”, alla Bernstein School of Musical Theatre,
alla New York Film Academy e alla National School of Drama (New Delhi). Svolge un’intensa at-
tività anche come traduttore di testi teatrali, alcuni dei quali sono pubblicati da Reading Theatre,
Melangolo e Besa Editrice.
Valter Malosti. A N u m b e r : clonazione e autenticità

di Andrea D’Addato

16. Andrea Giordana e Michele di Mauro in A Number di Valter Malosti presso il Teatro Belli di Roma (16-29
febbraio 2004).

Il modo di raccontare di Churchill apre la mente agli interrogati-


vi irrisolti che, partendo dalle fasi chiave della nostra contempo-
raneità, si snodano, si ripetono ciclicamente e potrebbero quasi
definirsi decontestualizzati, se la forza comunicativa di quest’au-
trice non avesse la straordinaria capacità di ricondurli al loro uni-
co, autentico habitat: il wesen, l’essenza dell’uomo. Il luogo esplo-
rato da Churchill è anzitutto quello della mente e della natura
umana, ragion per cui il suo teatro è in grado di valicare i confini
206 Caryl Churchill. Un teatro necessario

della natia Inghilterra e dialogare con differenti culture. Questa


caratteristica è stata colta da un artista audace come Valter Malo-
sti, attore, regista e direttore artistico del Teatro di Dioniso che,
nel 2004, ha scelto di mettere in scena l’oscuro dramma esisten-
ziale A Number, pubblicato due anni prima da Churchill.
Il testo racconta la storia, apparentemente avulsa da qualunque
dimensione spazio-temporale, di un padre, Salter, che, insoddisfat-
to del proprio figlio, Bernard, decide di farlo clonare per ottener-
ne copie “perfezionate”. La clonazione causa però una crisi d’iden-
tità nei vari figli di Salter e nel padre stesso, ognuno alla dispera-
ta ricerca della propria individualità e, ancora una volta, mostra come
il teatro di Churchill sia in grado di partire da una questione cen-
trale della nostra contemporaneità per trasformarla in un pretesto
da cui derivare “un dramma sull’identità, un dramma familiare, un
dramma sui padri e i figli, un dramma scientifico”1. Come sempre
accade nelle opere di Churchill, una delle chiavi di A Number è in-
dubbiamente il linguaggio, descritto da Valter Malosti come
«frammentato, quasi esploso, spesso disperatamente ironico,
emozionante ma estremamente preciso nel dissezionare, attraver-
so infinitesime variazioni di ritmo e lingua, i paesaggi interiori dei
quattro personaggi che compariranno in scena»2. Il linguaggio è quan-
tomai il frutto dell’urgenza espressiva dei personaggi, la comuni-
cazione dell’incontro/scontro fra Salter e i suoi figli in dialoghi che
si sgretolano davanti al progressivo emergere di tragiche verità.
Diretto da Malosti, tradotto in italiano da Pino Tierno e prodot-
to dalla compagnia del Teatro Moderno, lo spettacolo ha debutta-
to nel 2004 al Teatro Belli di Roma in occasione della rassegna “Trend
- Nuove frontiere della scena britannica”, organizzata da Rodolfo
Di Gianmarco, ed è stato poi ospite del Teatro Stabile di Torino al
Teatro Garybaldi di Settimo Torinese (26-31 ottobre 2004). Com-
plici gli attori Andrea Giordana, nel ruolo di Salter, e Michele di Mau-
ro nel triplice ruolo dei figli clonati, ha saputo conquistare critica e
pubblico senza spostare eccessivamente le coordinate dal testo ori-
ginale, ponendo l’accento sul ritmo e la musicalità del linguaggio di
Churchill attraverso l’utilizzo di musiche di Aphex Twin3.
Parte Terza. Conversazioni 207

Masolino D’Amico, dalle pagine de “La Stampa”, esalta «il dia-


logo brillante nell’adattamento di Pino Tierno e Valter Malosti,
l’ispirata regia di quest’ultimo e la superba interpretazione di An-
drea Giordana e del tripartito Michele di Mauro»4. La prova di
quest’ultimo viene sottolineata anche nella recensione di Paolo
Petroni sul “Corriere della Sera”: «Michele di Mauro, uscito dal-
la Scuola dello Stabile di Torino, stupisce nelle differenti, artico-
late ed emotive interpretazioni di tre personaggi, perché non si
limita alla caratterizzazione dei tre cloni che, per storie di vita di-
verse, hanno tre personalità e reazioni alla scoperta di essere uno
dei tanti»5.
La “prova intensa e impegnativa” degli attori e la “regia che pun-
ta all’essenziale”6 di Valter Malosti hanno perciò contribuito al suc-
cesso di uno spettacolo che ha saputo cogliere la forza comunicati-
va di Caryl Churchill e la sua capacità di parlare ad ognuno di noi.

Intervista a Valter Malosti7 - 18 aprile 2011

ANDREA D’ADDATO Come mai ha scelto di rappresentare A


Number?
VALTER MALOSTI Devo ammettere che prima di cimentar-
mi con A Number conoscevo Caryl Churchill praticamente solo per
via del suo nome altisonante. Sono amante della drammaturgia con-
temporanea ed effettivamente il nome di Caryl Churchill ricorre
spesso in quanto “madre” di grandi autori contemporanei come,
ad esempio, Sarah Kane. A Number è la prima opera di Churchill
che ho letto e mi ha subito intrigato innanzitutto per via del lin-
guaggio: il suo è un linguaggio solo apparentemente piano, che na-
sconde un lavoro molto sottile sulla lingua donando molteplici sfu-
mature ed una particolare ambiguità alla comunicazione. Ho tro-
vato molto interessante anche il personaggio di Salter, figura che
rimanda al villain delle opere di Shakespeare e che mi ha consen-
tito di portare avanti una specie di “carrellata” di figure paterne con
Andrea Giordana, il quale aveva già interpretato il ruolo di un pa-
208 Caryl Churchill. Un teatro necessario

dre devastato durante la messinscena di Bedbound di Enda Walsh


e che qui veste i panni di Salter. In quest’opera la figura paterna
mi ha ricordato molto quella del Lear shakespeariano, segnato dal
rapporto con le sue tre figlie. E proprio qui risiede, secondo me,
una delle chiavi di questo testo: dietro all’apparenza di una trama
scientifica o fantascientifica basata sul tema della clonazione si cela
una situazione strettamente legata alla realtà, che ha come corni-
ce il contesto familiare. Il linguaggio sembra invece seguire la tra-
iettoria inversa: parte da una dimensione quasi naturalistica per poi
disperdersi nel corso della vicenda.
AD Rimanendo proprio sul tema del linguaggio, certamente non
sarà stato facile cimentarsi con una comunicazione così frammen-
tata, di frasi incomplete e pensieri parzialmente inespressi.Quan-
to ha cercato di rimanere fedele, nel suo adattamento, al testo di
Churchill?
VM Per me è assolutamente fondamentale non perdere mai di vi-
sta il suono delle parole. Questo è un testo apparentemente mol-
to semplice che però nasconde delle misteriose chiavi musicali e
ritmiche. Il ritmo dell’opera di questa scrittrice è quel “qualcosa in
più” proprio dei grandi che sanno raccontare attraverso opportu-
ne scelte linguistiche come la concatenazione delle parole ed il loro
suono. In questo senso la difficoltà di lavorare con un testo simi-
le non è tanto quella di tradurre bene, quanto quella di tradurre “a
tempo”. Nei miei spettacoli sono solito utilizzare la musica come
una sorta di drammaturgia aggiunta e qui l’ho fatto proprio per-
ché volevo che emergesse questa particolare chiave musicale del
linguaggio, anche se in questo caso la musica non c’è durante le
azioni, ma serve solo a creare uno stacco ritmico e a dare il “tem-
po” alla scena successiva.
AD Per il suo spettacolo la scelta è ricaduta su alcuni brani di Aphex
Twin, uno dei più grandi esponenti della musica elettronica degli
ultimi vent’anni. In che modo la sua musica può definirsi comple-
mentare all’opera di Churchill?
VM Secondo me il ritmo dell’opera ha proprio a che fare con que-
sto tipo di esperienza musicale. In una traduzione magari rischia
Parte Terza. Conversazioni 209

di venir meno la componente musicale del discorso che io cerca-


to di compensare col ritmo compulsivo della musica di Aphex Twin,
il cui aspetto “tecnologico” si adatta bene alla componente fanta-
scientifica di questo testo. Inoltre vedo diverse analogie tra gli ar-
tisti Aphex Twin e Caryl Churchill: entrambi sono in grado di co-
municare in maniera semplice e diretta ma le loro opere sono co-
munque caratterizzate da una componente misteriosa che richie-
de grande attenzione per essere compresa fino in fondo.
AD Per quanto riguarda invece il suo lavoro con gli attori, quan-
to è stato difficile per Andrea Giordana e Michele Di Mauro riu-
scire ad interpretare un testo in cui molte battute, spesso anche lun-
ghi monologhi, sono prive di pause o punteggiatura?
VM Effettivamente è stato un lavoro abbastanza complesso. Devo
dire che ho iniziato a lavorare con Michele Di Mauro quando era-
vamo ragazzini, quindi tra noi c’è un’ottima intesa e, soprattutto,
è un grande attore che negli ultimi anni, giustamente, si sta pren-
dendo il suo spazio. La sua parte, quella del figlio, è molto com-
plicata, richiede un attore-musicista che sappia lavorare sul ritmo.
Anche il padre deve fare un lavoro simile e, in più, deve saper svi-
luppare il percorso di coscienza che lo accompagna durante il con-
fronto con i figli. Inoltre la scelta di un attore più che affermato
come Andrea Giordana mostra come la Churchill abbia le poten-
zialità per arrivare ad un pubblico più ampio, anche se questa in-
clinazione più “popolare” del suo teatro spesso sembra essere me-
glio recepita dal pubblico piuttosto che dagli organizzatori.
AD Dunque il pubblico ha reagito bene? È riuscito a cogliere i mo-
menti di sottile ironia presenti nel testo?
VM Il pubblico ha reagito molto bene proprio grazie al fatto che
quello di Churchill è un teatro di più ampio respiro rispetto ad al-
tri e, perciò, in grado di arrivare ad un pubblico più ampio. Mentre
con Bedbound di Enda Walsh ho avuto qualche problema e spesso
mi sono trovato costretto a salire sul palco prima della rappresen-
tazione per dare delle delucidazioni, con la Churchill è andato tut-
to benissimo; come dicevo, purtroppo il problema è spesso legato
agli organizzatori italiani, troppo abituati a storcere il naso davanti
210 Caryl Churchill. Un teatro necessario

ad opere poco “canoniche”, nonostante Caryl Churchill abbia riscos-


so un grande successo in Inghilterra. Il pubblico, invece, ha reagi-
to splendidamente.
AD Secondo Marina Spreafico, attrice e regista che ha messo in
scena A Mouthful of Birds e Blue Heart al teatro Arsenale di Mi-
lano [cfr. intervistata da Chiara Biscella in questo volume], il lin-
guaggio frammentario dell’autrice londinese non è sintomo di re-
gressione, ma, al contrario, è culmine di un processo che porta
alla sorgente viva della parola. La sua sarebbe quindi «una scrit-
tura che dà vita, strettamente legata al balbettio infantile da cui
nasce il linguaggio». Lei è d’accordo con questa visione? Secon-
do lei è questo il senso del modo in cui si esprimono i personag-
gi di A Number?
VM Personalmente trovo che Churchill sia una scrittrice molto com-
plessa dal punto di vista estetico, perciò è molto difficile limitare
il suo linguaggio in un’unica interpretazione. Sicuramente è pre-
sente l’aspetto evidenziato da Spreafico, ma è solo una delle mol-
teplici sfaccettature che compongono un universo complesso come
quello di Caryl Churchill, il cui linguaggio è difficilmente ricondu-
cibile a una visione univoca.
AD Nel sottotitolo il suo spettacolo viene presentato come un “adat-
tamento”. Quali sono stati gli interventi maggiori?
VM In realtà il sottotitolo “adattamento” ha uno scopo prevalen-
temente formale e riguarda semplicemente il fatto che il testo è sta-
to tradotto da me sulla base della traduzione fatta in precedenza
da Pino Tierno, non perché non fosse corretta, anzi, ma perché
come regista ho bisogno di usare la mia “musica”, o meglio la mu-
sica che io sento nel testo. Personalmente sono quasi ossessiona-
to dal rimanere il più vicino possibile all’opera originale, tant’è che
dell’opera di Churchill non ho tagliato quasi nulla. Credo che il te-
sto di A Number rasenti la perfezione formale, perciò ho tentato
di rimanere il più fedele possibile.
AD Considerata l’assenza di didascalie nel testo di Churchill, ha sen-
tito il bisogno di localizzare l’azione scenica in un luogo e in un mo-
mento precisi?
Parte Terza. Conversazioni 211

VM Ho semplicemente voluto che l’azione si svolgesse in una stan-


za oscura che richiamasse il luogo della mente, trafitto da un fle-
bile raggio di luce come un timido flusso di coscienza. I pochi ele-
menti caratterizzanti nella scena sono un lettino, che rimanda al-
l’infanzia del figlio originale, e una poltrona devastata dove siede
il padre per leggere i risultati delle corse dei cavalli. L’effetto che
volevo ottenere era quella di un match tra padre e figlio.
AD Perciò le scelte registiche sono state funzionali alla dislocazio-
ne spazio-temporale ricercata anche da Churchill nel suo testo?
VM Assolutamente sì. La stanza è semplicemente un oscuro an-
tro della memoria, all’interno del quale Salter irrompe dalle quin-
te con addosso una vestaglia ambigua che lo fa sembrare quasi una
figura materna. Oltretutto, questo spazio poco caratterizzante pone
ulteriormente l’accento sull’importanza delle parole.
AD Nelle note di regia il dramma viene anche presentato come «una
lieve riflessione sull’infelicità umana e sulla speranza». Esiste secon-
do lei una nota di speranza in questo testo oppure quest’ultima è sem-
plicemente destinata a tramutarsi nella condizione disperata dei quat-
tro personaggi dell’opera?
VM La speranza esiste finché i personaggi si parlano. Nella sce-
na finale Salter incontra il terzo figlio, Michael Black, simbolo di
una felicità parodistica che porta il padre a chiudere la frontiera
della comunicazione. Fin quando i personaggi riescono a parlar-
si rimane uno spiraglio, proprio perché la parola li sostiene, ma
nell’ultima scena l’incomunicabilità raggiunge l’apice e il padre ri-
torna nel suo antro oscuro.
AD Caryl Churchill ha saputo conquistarsi un posto d’onore nel-
la drammaturgia britannica contemporanea. Oltre alla sua capaci-
tà di raggiungere un pubblico ampio, a cui lei ha fatto riferimen-
to poc’anzi, dove risiede, secondo il suo parere, l’importanza di que-
st’autrice?
VM Caryl Churchill ha saputo mettersi sulle spalle dei grandi che
l’avevano preceduta e al contempo ha spinto decisamente in avan-
ti la drammaturgia influenzando moltissimi grandi autori dopo di lei,
tra cui Sarah Kane. Contrariamente a molti che l’hanno seguita Ca-
212 Caryl Churchill. Un teatro necessario

ryl Churchill è però sempre riuscita a mantenersi salda in tutti gli aspet-
ti della comunicazione: non ha mai dimenticato di lasciare uno spa-
zio per gli spettatori, ha sempre lasciato “la porta aperta”, come
dice Peter Brook, e questo, a mio avviso, è fondamentale.
AD Dopo l’esperienza di A Number le piacerebbe mettere in sce-
na un’altra opera di Caryl Churchill?
VM Mi piacerebbe molto, ma, purtroppo, le condizioni del teatro
in Italia sono un po’ strane e non è facile lavorare in scioltezza a
testi di teatro contemporaneo. In questo momento per poter es-
sere sul mercato è quasi indispensabile cimentarsi con operazio-
ni che abbiano una sicura vendibilità, oppure poter assicurarsi la
disponibilità di grandi attori per rappresentare testi come quelli di
Caryl Churchill e riuscire così a raggiungere un pubblico impor-
tante. Diciamo che, fantasticando, un’opera che mi piacerebbe rap-
presentare è Far Away.
Parte Terza. Conversazioni 213

Note

1
Valter Malosti, note di regia dello spettacolo teatrale A Number, Più di Uno, disponibili in rete sul
sito http://www.teatromoderno.it/ANumber/Index.html (ultimo accesso 23 ottobre 2011).
2
Ibidem.
3
Richard David James, in arte Aphex Twin, è unanimemente considerato come uno dei principa-
li esponenti della musica elettronica degli ultimi vent’anni. Le sue opere più celebri, come I Care
Because I Do, 1995, e DrukQs, 2001, sono in grado di costruire un collage musicale che parte dalla
musica “techno” e “drum and bass” per spaziare nell’”ambient” e nella musica classica.
4
M. D’Amico, Il futuribile A Number, “La Stampa”, 22 Febbraio 2004, p. 28.
5
P. Petroni, Il padre egoista, il figlio clonato, “Corriere della Sera”, 19 Febbraio 2004, p. 61.
6
Ibidem.
7
Attore, regista e direttore artistico del Teatro di Dioniso, il lavoro di Valter Malosti alterna ope-
re di teatro contemporaneo, spesso rappresentate in prima assoluta per l’Italia, e rivisitazioni di clas-
sici. Attento tanto al linguaggio del corpo, quanto alle arti visive e alla musica, il progetto si con-
solida nel corso degli ultimi anni ricevendo prestigiosi riconoscimenti come il Premio Ubu al mi-
glior testo straniero messo in scena in Italia per la rappresentazione di Inverno di John Fosse nel 2004;
il Premio Hystrio per la regia nel 2004 e il Premio della Critica per la Stagione Teatrale 2009, per
la messinscena di Quattro Atti Profani di Antonio Tarantino e Shakespeare/Venere e Adone da Shake-
speare.
17. Annig Raimondi (Joan) e Riccardo Magherini (Todd) in Far Away per la regia di Annig Raimondi presenta-
to presso Pacta Arsenale dei Teatri di Milano (26 gennaio-13 febbario 2011).
Annig Raimondi. Nelle nebbie della guerra

di Chiara Biscella

Intervista ad Annig Raimondi1 - 25 Novembre 2010

CHIARA BISCELLA Sette bambine ebree e Far Away sono spet-


tacoli che Pacta Arsenale dei Teatri inserisce nel più vasto proget-
to “Donne Teatro Diritti”: in cosa consiste questo progetto?
ANNIG RAIMONDI Il progetto è nato l’anno scorso e si pro-
poneva di far riflettere sulla violenza nei confronti dei più deboli,
tra cui appunto le donne. Due erano infatti le donne al centro del
progetto: Dacia Maraini e Simone de Beauvoir. Dacia Maraini è in-
tervenuta sia con un incontro alla libreria Mondadori, sia con uno
spettacolo teatrale, intitolato Passi Affrettati: una serie di storie vere
di donne che, in diverse parti dal mondo, hanno subito violenza fi-
sica o psicologica, dai propri familiari o da sconosciuti. Di Simo-
ne de Beauvoir ho portato invece in scena l’unico testo teatrale, Le
bocche inutili: è un testo che sembra irrappresentabile, perché è scrit-
to per un migliaio di attori. Mostra infatti la storia di un’intera cit-
tà sotto assedio, i cui governanti decidono di espellere dalle mura,
“di dare in pasto ai nemici”, le donne, i vecchi, i bambini, i mala-
ti, coloro che non hanno le forze per difendere la città; ne nasce una
discussione etico-morale che porterà poi alla decisione di combat-
tere tutti insieme. Gli eventi organizzati lo scorso anno non erano
solo teatrali: il progetto comprendeva anche, ad esempio, la proie-
zione di film allo spazio Oberdan, la presentazione del libro Le don-
ne reggono il mondo, curato a quattro mani da Elena Sisti e Beatrice
Costa edito da Altreconomia. Il progetto “Donne Teatro Diritti”
non vuole essere una presa di posizione femminista, ma si propo-
ne di analizzare alcuni problemi e di esplorare alcune tematiche par-
216 Caryl Churchill. Un teatro necessario

tendo da un punto di vista ben preciso. Tra l’altro quest’anno ab-


biamo allargato il campo, nel senso che le donne sono al centro del
progetto a volte in quanto autrici, altre volte in quanto protagoni-
ste: ci sarà uno spettacolo, che in realtà è un concerto poetico, su
Simone Weil e la sua storia; un altro, Deux petites dames vers le nord,
di Pierre Notte, racconta, in maniera molto ironica e quasi comi-
ca, il viaggio di due donne che girano per il mondo alla ricerca di
un luogo dove sotterrare le ceneri della defunta madre, nel tenta-
tivo di superarne il lutto. Da una stanza all’altra è invece un viaggio
nella letteratura femminile del Novecento e attraverso carteggi, poe-
sie, letture, mostra brandelli di vita di donne che nella scrittura han-
no trovato l’espressione della propria identità, come Emily Dickin-
son o Virgina Woolf. Il tema sviluppato quest’anno è proprio quel-
lo dell’identità, non solo individuale, ma anche collettiva.
CB Parlando di identità collettiva risulta quindi chiara ed eviden-
te la scelta di inserire nel progetto una scrittrice come Caryl Chur-
chill, soprattutto con la sua opera Sette bambine ebree.
AR Sette bambine ebree affronta nello specifico il problema israelia-
no, ma viene spontaneo allargare l’orizzonte anche ad altri conflit-
ti contemporanei, che a volte sono guerre lampo mentre altre vol-
te durano in eterno, ma che a noi, comunque, sembrano sempre
lontane. Eppure le guerre ci riguardano da vicino: basta pensare
al problema dell’immigrazione, che ancora una volta riporta all’idea
di un’identità che si modifica e dà vita a nuove culture e nuove iden-
tità. D’altro canto, la guerra, che è al centro anche di Far Away, mo-
difica l’identità, ne mina le fondamenta. La guerra è perenne, an-
che se spesso nascosta, si insinua in varie forme nella vita di tut-
ti, è una nebbia che ci avvolge. E in effetti il tema della guerra vie-
ne sfiorato anche nel testo di Pierre Notte e nello spettacolo su Si-
mone Weil, che si è spesso interessata al tema della guerra ed ha
anche preso parte attivamente alla guerra civile spagnola.
CB I temi dell’identità e della guerra non sono certo facili, così come
tutti i temi che emergono nei testi di Churchill, che sempre spin-
gono il pubblico alla riflessione. Il teatro può davvero incidere sul-
la società contemporanea?
Parte Terza. Conversazioni 217

AR Il ruolo che viene assegnato oggi al teatro, purtroppo, non è


lo stesso ruolo con cui il teatro è nato, nell’antica Grecia, quando
lo spettacolo era occasione di confronto, di discussione di temi po-
litici (nel senso che riguardavano la polis, la città). Purtroppo non
è più così e in Italia la situazione è ancora più devastante che al-
trove. Anche i tagli del Governo dimostrano che non viene dato
nessun ruolo alla cultura in generale e quindi al teatro. Oltre ai fi-
nanziamenti, quello che manca è l’abitudine e la cultura dell’anda-
re a teatro. Il Comune di Milano ha iniziato a sensibilizzare la cit-
tadinanza con il progetto Invito a teatro, che nelle altre città non esi-
ste. Quest’iniziativa, che ha comunque creato un certo pubblico
e un certo gusto, non basta però a rendere il teatro uno strumen-
to popolare. Sartre considerava il teatro così importante, come mez-
zo di diffusione delle idee, da riuscire ad esprimere a teatro la sua
filosofia, il suo pensiero, per quanto profondo e problematico. Il
teatro quindi ha, o dovrebbe avere, un ruolo importantissimo so-
prattutto nella comunicazione, proprio perché non è un prodot-
to finito, ma necessita, per vivere, della riflessione del pubblico, che
non deve rimanere passivo. A me piace molto suscitare il dibatti-
to dopo lo spettacolo teatrale, che in questo modo diventa davve-
ro occasione di confronto, dialogo, scambio. Questo modo di pen-
sare influenza anche il lavoro in scena, il modo di utilizzare lo spa-
zio alla ricerca di un contatto con il pubblico: la parete tra sala e
scena si può sempre abbattere e non perché questi due spazi va-
dano l’uno contro l’altro, ma proprio per coinvolgere lo spettato-
re, stimolarlo, evitare che rimanga passivo. Come direttore di un
teatro cerco di attirare il pubblico proponendo da un lato, autori
legati a tematiche particolari, dall’altro autori conosciuti, come può
essere Pirandello, a fianco di autori che al pubblico italiano sono
invece assolutamente sconosciuti, come Caryl Churchill. La dram-
maturgia contemporanea in Italia è poco frequentata: i teatri pic-
coli non possono permettersi di portare in scena troppi testi di au-
tori contemporanei, perché sarebbe un rischio economico trop-
po alto, ma anche i grandi teatri, i teatri stabili che avrebbero a di-
sposizione fondi pubblici, preferiscono puntare sui classici. In In-
218 Caryl Churchill. Un teatro necessario

ghilterra è diverso: i drammaturghi contemporanei sono rappre-


sentati, scrivono spesso a contatto con le compagnie teatrali e il
pubblico li apprezza.
CB Come hai conosciuto il teatro di Caryl Churchill?
AR L’ho conosciuta quando lavoravo al teatro Arsenale, dove ab-
biamo messo in scena A Mouthful of Birds e Blue Heart. L’ho co-
nosciuta quindi come un’attrice che si avvicina al testo di un’au-
trice notevole. Avevo visto, per la regia di Marina Bianchi, Top Girls,
che mi aveva colpito molto per il suo linguaggio particolare, così
asciutto, preciso, capace di definire anche quello che non viene det-
to. In ogni testo di Churchill c’è un’idea centrale, che però inizial-
mente non è del tutto chiara, c’è bisogno di riflessione, di scava-
re in profondità per coglierne tutta la densità e la ricchezza.
CB I testi di Churchill sono molto difficili: non c’è il rischio che
abbiano poco impatto sullo spettatore o che i tanti messaggi che
lei lancia non raggiungano il pubblico?
AR Sono testi che colpiscono e anche se all’inizio non si capisce
molto, rimane la voglia di capire. La scrittura di Churchill è mol-
to coinvolgente, riesce a rapire lo spettatore. Inoltre, nonostante
si tratti di una scrittura spesso visionaria, parte comunque dal rea-
le, da situazioni estremamente quotidiane. Quello che emerge, poi,
è che la normalità, a ben guardare, non esiste. Comprendere i suoi
testi significa anche imparare a decodificare la realtà, a capire in che
ingranaggi siamo immersi. Nel caso specifico di Far Away e di Set-
te bambine ebree, ciò che aiuta a interessare e coinvolgere profonda-
mente il pubblico è il tema attualissimo e devastante della guerra:
noi oggi viviamo tra armi, spie, nemici, c’è poca fiducia, siamo in-
vasi o invasori, siamo immersi in situazioni di cui i mezzi di comu-
nicazione offrono un’immagine solo parziale. Per portare in sce-
na il testo, che inizieremo a provare fra poco, ho intenzione di stu-
diare tutti i linguaggi della guerra di oggi, i modi in cui essa si ma-
nifesta, i suoi segni: la dissuasione, il duello, la minaccia con cui con-
viviamo. Non ci rendiamo conto che la nostra vita è scandita da
strategie. Nei due testi di Churchill non vengono risparmiati ne-
anche i bambini: anche loro vengono manipolati, quando invece
Parte Terza. Conversazioni 219

sarebbe necessario dire loro la verità. In quanto madre, sento l’esi-


genza di non nascondere ai miei figli un passato che loro non han-
no vissuto ma che devono conoscere e sapere: parlare della secon-
da guerra mondiale, dei campi di concentramento, dell’olocausto
(e tutte le situazioni attuali di conflitto ci riportano a quelle situa-
zioni), è necessario, perché si tratta di momenti terribili che loro
non hanno vissuto, ma che bisogna continuare a ricordare.
CB La domanda successiva riguarda proprio il vedere. Hai scrit-
to che “l’incapacità di vedere e la mancanza di un senso di respon-
sabilità sono destinati a produrre il caos”, eppure Joan, una dei tre
protagonisti di Far Away, vede esattamente quello che succede in-
torno a lei e, anzi, proprio a causa di quanto ha visto non riesce a
dormire. Fino a che punto, allora, vedere può ancora coincidere
con sapere?
AR L’adulto manipola, ma anche la bambina è disposta a lasciar-
si manipolare. Anche questa è una strategia di guerra, anche se non
strettamente europea: è caratteristica di popolazioni asiatiche, che
preferiscono lasciare che le cose accadano per poi adeguarsi, con-
formarsi a quello che sta succedendo. Del resto questo è proprio
l’artifizio della spia, che deve calarsi pienamente nei panni e nella
cultura dell’altro, non ai fini dell’integrazione, ma come strategia
bellica. Nel mio progetto teatrale c’è l’intenzione di mettere in sce-
na un mondo di spie, perché questo è il mondo di oggi. È una si-
tuazione che forse nasce da un grande qualunquismo. In Far Away
non c’è nessun ideale: tutto il mondo è in subbuglio e tutti sono
coinvolti in una grande guerra senza sapere perché. Non ci sono
ideologie e quindi non ci sono vie di fuga. Il qualunquismo è im-
perante. Anche Joan, che pure, fin da bambina, sembra desidero-
sa di conoscere la verità, anche se nella guerra ha un ruolo di ri-
lievo, rimane comunque una figura ambigua, perché non risulta mai
chiaramente quali siano le sue reali posizioni.
CB Torniamo alla scrittura visionaria di Churchill: la tua regia si
propone di enfatizzare questo aspetto, e quindi di mostrare il lato
meno realistico dei testi, o vuole invece suggerire in maniera espli-
cita dei legami con l’attualità?
220 Caryl Churchill. Un teatro necessario

AR C’è un legame con la realtà contemporanea, ma nel momen-


to in cui Churchill inserisce nel suo testo elementi visionari, il re-
gista non può tirarsi indietro. Lo spettacolo sarà quindi una con-
tinua commistione tra realtà e finzione, quotidiano e visionario. A
livello scenico non so ancora come questo verrà realizzato, pro-
prio perché non abbiamo ancora iniziato le prove e spesso lo spet-
tacolo nasce grazie agli spunti e ai suggerimenti di tutta la com-
pagnia.
CB A proposito di realtà e finzione, in Far Away sembra esserci una
vera scissione tra ciò che è e ciò che appare, a partire dal titolo che
si potrebbe tradurre come “Lontano lontano” e che quindi sem-
brerebbe riportare a un mondo fiabesco, incantato. Nella produ-
zione al Royal Court Theatre di Londra questo aspetto era enfatiz-
zato da una sorta di sipario che rappresentava una verde e accoglien-
te campagna inglese che poi si alzava lasciando apparire la reale sce-
nografia. Anche la sua regia si concentra su questo aspetto?
AR L’immagine che ha scelto il Royal Court e che sicuramente è
molto rappresentativa per l’immaginario inglese, è emblematica di
uno scontro che nel testo di Churchill è molto forte. In alcuni mo-
menti è come se lo spazio intorno sparisse e a prevalere fosse solo
la presenza dei corpi, della materia, ciascuno con la propria sto-
ria. Altre volte invece la situazione si ribalta: ciò che viene tenuto
lontano, lontano, ciò che è fuori, si manifesta con forza. C’è an-
che questo conflitto: si cerca di rimanere nel proprio antro buio,
nella propria storia, nel proprio lavoro (per quanto tutte le attivi-
tà rappresentate sembrino clandestine), ma la presenza violenta,
dell’esterno non si può negare: il “lupo cattivo” vuole entrare, vuo-
le essere il protagonista a sua volta.
CB Qual è, secondo te, il messaggio più forte tra i tanti che Chur-
chill vuole mandare al pubblico? O il messaggio, che, tra i tanti, vor-
resti emergesse nella tua regia?
AR Il fatto che il non vedere è responsabile della china che sta pren-
dendo il mondo. Ciascuno è responsabile delle proprie scelte e chi
non vede, o chi non vuole vedere ma continua a considerare i con-
flitti come qualcosa di “lontano lontano”, è lui stesso causa del pro-
Parte Terza. Conversazioni 221

trarsi continuo di quegli stessi conflitti. Anche non vedere è una


scelta, mentre imparare a vedere, e vedere oltre le poche e mani-
polate informazioni che offrono i mezzi di comunicazione, è in sé
un atto di cultura. La grande capacità di Churchill è che cerca di
farti vedere, seppure giocando all’opposto, proprio perché non par-
te da situazioni reali.
CB Quali altri opere di Churchill ti piacerebbe mettere in scena?
AR Mi piacerebbe molto leggere i radiodrammi di Churchill, che
non sono ancora stati tradotti in italiano e d’altro canto di suo non
è stato tradotto moltissimo. Per il resto devo dire che mi è piaciu-
to molto Top Girls. Considero Caryl Churchill una grande autrice
per la sua commistione di impegno, ironia, preveggenza. È un’au-
trice che sa vedere, appunto. Ammiro anche la sua abilità tecnica,
tipicamente inglese. Il suo linguaggio, che a volte è ritmico-musi-
cale mentre a volte esplode in modo visionario, è sicuramente sem-
pre ricco di senso: quello che si legge o che si vede è in effetti solo
la punta di un iceberg, sotto cui si nasconde un’immensità di si-
gnificato.
222 Caryl Churchill. Un teatro necessario

18. Riccardo Magherini (Todd) in Far Away presso Pac-


ta Arsenale dei Teatri di Milano (26 gennaio-13 feb-
bario 2011). Regia di Annig Raimondi.

19. Riccardo Magherini, Annig Raimondi, e Maria Eugenia D’Aquino in Sette bambine ebree presso Pacta Arsena-
le dei Teatri di Milano (26 gennaio-13 febbario 2011). Regia di Annig Raimondi.
Parte Terza. Conversazioni 223

Note

1
Direttrice artistica di Pacta Arsenale dei Teatri, che ha fondato nel gennaio 2008, Annig Raimon-
di ha lavorato a lungo presso il teatro Arsenale di Milano, di cui è stata non solo co-fondatrice con
Marina Spreafico, ma anche presidente e direttore artistico per dodici anni. La sua è un’attività tea-
trale a tutto tondo: prima di tutto attrice di prosa, è anche regista originale e attenta, che ama ci-
mentarsi non solo con testi teatrali di alcuni dei maggiori drammaturghi, classici e contemporanei
(come Pirandello, Sartre, Ginsberg e ovviamente Churchill), ma anche con altre forme narrative
mettendo in scena testi poetici, come La terra desolata di T.S. Eliot, o romanzi, come Gli indifferen-
ti di Moravia; tiene inoltre stage di preparazione vocale, regia e drammaturgia.
Caryl Churchill. Una breve biografia

di Valentina Berardi

Caryl Churchill nasce a Londra nel 1938 e dopo la Seconda Guer-


ra Mondiale emigra con la famiglia in Canada. Ritornata in Inghil-
terra, nel 1960 si laurea in letteratura inglese presso il Lady Mar-
garet Hall dell’Università di Oxford. Qui inizia la carriera di scrit-
trice teatrale; i suoi primi lavori, Downstairs (1958), Having a Wonder-
ful Time (1960), You’ve No Need to be Frightened (1961) e Easy Death
(1962), vengono rappresentati da compagnie studentesche di Ox-
ford. Questi sono anche gli anni di una ricca produzione radiofo-
nica in cui già si rivela una fervente oppositrice del sistema capita-
listico e di un patriarcato che tiene ancora in soggezione le donne.
Il suo primo testo per il teatro professionista è Owners, una satira
in due atti che prende posizione contro la speculazione edilizia, che
debutta a Londra nel 1972.
La collaborazione con il Royal Court Theatre comincia già nel
1974 quando le viene assegnato il posto di Resident Dramatist e
il suo Objections to Sex and Violence debutta sul palcoscenico del Ro-
yal Court con la regia di John Tydeman. Nel 1976 inizia la frut-
tuosa collaborazione con Joint Stock Theatre Company di David
Hare e Max Stafford-Clark; con quest’ultimo realizza Light Shining
in Buckinghamshire (1976). Il lavoro della compagnia è caratteriz-
zato da workshop a cui partecipano tutti i membri del gruppo e
Churchill impara a scrivere per il teatro a partire da un processo
creativo collettivo. Un altro sodalizio importante è quello con Mon-
strous Regiment, un gruppo femminista con cui elabora un testo
sulle streghe, Vinegar Tom (1976) e Fen (1983). Sempre con Joint
Stock, segue Cloud Nine (1979), una tragicommedia sulle politiche
sessuali in cui si tracciano precisi parallelismi tra l’oppressione del-
226 Caryl Churchill. Un teatro necessario

la donna e quella coloniale, con il quale vinse un “Obie Award”


nel 1982 come migliore opera teatrale dell’anno.
Con gli anni ottanta inizia una nuova stagione della sua scrittu-
ra, sempre più libera dai vincoli delle convenzioni realistiche e vi-
cina alle tematiche femministe. Rappresentativo di questo periodo
è Top Girls (1982), in cui l’autrice esplora le contraddizioni dell’eman-
cipazione femminile negli anni di Margaret Thatcher. Con A Mouth-
ful of Birds (1986) comincia a sperimentare un teatro totale, incor-
porando danza, musica e canto nella sua drammaturgia. The Skrik-
er (1994) è la visionaria storia di una specie di fata capace di meta-
morfosi sorprendenti; il linguaggio è frammentato e antinaturali-
stico e dà vita a un testo che mescola teatro, danza e musica nello
stile del realismo magico. Con Serious Money (1987), una tragicom-
media che descrive le conseguenze del Big Bang che ha sconvolto
la City londinese e gli eccessi nel mondo della finanza, debutta al
Royal Court e ottiene un considerevole successo, anche perché vie-
ne rappresentata subito dopo il crollo della borsa del 1987. La ri-
voluzione rumena è l’argomento di Mad Forest: a Play from Romania
(1990), realizzato a Bucarest insieme a un gruppo di studenti.
Con This Is a Chair (1997), che affronta il motivo dello scollamen-
to tra la vita quotidiana e la sfera politica e sociale, si apre ancora un’al-
tra stagione della produzione di Churchill, caratterizzata da una mag-
giore rarefazione del linguaggio e da più intensi rapporti con le arti
visive. In questo filone si inserisce Blue Heart, composto da due bre-
vi pièce, Heart’s Desire e Blue Kettle, che sconcertano per la graduale
disintegrazione del linguaggio e gli inganni e autoinganni dei per-
sonaggi. Nelle sue ultime tre pièce, Far Away (2000), Drunk Enough
to Say I Love You? (2006) e Seven Jewish Children: a Play About Gaza (2009),
l’autrice focalizza invece l’attenzione sulle nuove guerre.
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228 Caryl Churchill. Un teatro necessario

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Light Shining in Buckinghamshire, trad. di S. Cabras, depositato SIAE.
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Wandor M., Carry on Understudies. Theatre and Sexual Politics, Methuen, London 1981.
Woolf V. , A Room of One’s Own, Penguin, London (1929) 2004.

Foto di scena nel volume

1. Margaret Rose, Federica Fracassi, Antonio Calbi (Direttore del Settore Spet-
tacolo del Comune di Milano) presso Teatro i di Milano (28 gennaio 2009).
© Federica Anchieri (2009).
2. Reading di Light Shining in Buckinghamshire presso Teatro i di Milano (30 gen-
naio 2009) con Bryan Dick, Daniel Evans, Emmas Lowndes, Justin Salinger,
Matt Smith, Nina Sosanya. Regia di Mark Ravenhill. © Federica Anchieri (2009).
3. Reading di Light Shining in Buckinghamshire presso Teatro i di Milano (30 gen-
naio 2009). Regia di Mark Ravenhill. © Federica Anchieri (2009).
4. Da sin.: Federica Fracassi - Sabrina Colle - Laura Pasetti - Raffaella Bos-
colo - Debora Virello - Elena Russo Arman interpreti del reading di Top
Girls presso Teatro i di Milano (28 gennaio 2009). Regia di Renzo Mar-
tinelli.
5. Federica Fracassi al Teatro i di Milano il 30 gennaio 2009. © Federica An-
chieri (2009).
6. Nina Sosanya interprete del reading di Light Shining in Buckinghamshire pres-
so Teatro i di Milano (30 gennaio 2009). Regia di Mark Ravenhill. © Fede-
rica Anchieri (2009).
7. Da sin.: Justin Salinger, Matt Smith e Nina Sosanya interpreti del reading
di Light Shining in Buckinghamshire presso Teatro i di Milano (30 gennaio 2009).
Regia di Mark Ravenhill. © Federica Anchieri (2009).
Bibliografia 233

8. Da sin.: Federica Fracassi, Elena Russo Arman e Laura Pasetti, interpreti


del reading di Top Girls presso Teatro i di Milano (28 gennaio 2009). Regia
di Renzo Martinelli. © Federica Anchieri (2009).
9. Da sin.: Rossana Veracierta, Caterina Intelisano, Brunilde Maffucci,
Giorgina Cantalini, Rebecca Braccialarghe, Clara Costanzo, Matilde Piana,
in Sette bambine ebree presso il Teatro Lo Spazio di Roma (17 settembre 2009).
Regia di Francesco Randazzo.
10. Mark Ravenhill e Luca Scarlini in conversazione presso il Teatro I di Mi-
lano (28 gennaio 2009). © Federica Anchieri (2009).
11. Da sin: Francesca Paganini, Augusta Gori, Corinna Agustoni, Pinara Pavani-
ni, Carla Chiarelli, Marina Bianchi, Alberica Archinto e Martino Malerba in
Top Girls presso la Chiesa di San Carpoforo a Milano (16-23 giugno 1988).
Regia di Marina Bianchi.
12. Tania Rocchetta (zia Harper) e Rossella Canuti (Joan, da bambina) in Far
Away presso il Teatro Due/Teatro di Parma e Reggio Emilia (14-15 giug-
no 2003). Regia di Massimiliano Farau.
13. La scena dei cappelli in Far Away presso il Teatro Due/Teatro di Parma e
Reggio Emilia (14-15 giugno 2003). Regia di Massimiliano Farau.
14. Paolo Briguglia (Todd) e Noemi Condorelli (Joan) in Far Away presso il Teatro
Due/Teatro di Parma e Reggio Emilia (14-15 giugno 2003). Regia di Mas-
similiano Farau.
15. Da sin. Paolo Briguglia (Todd), Noemi Condorelli (Joan) e Tania Rocchet-
ta (zia Harper) in Far Away presso il Teatro Due/Teatro di Parma e Reg-
gio Emilia (14-15 giugno 2003). Regia di Massimiliano Farau.
16. Andrea Giordana e Michele di Mauro in A Number di Valter Malosti pres-
so il Teatro Belli di Roma (16-29 febbraio 2004).
17. Annig Raimondi (Joan) e Riccardo Magherini (Todd) in Far Away presso Pacta
Arsenale dei Teatri di Milano (26 Gennaio-13 Febbario 2011). Regia di An-
nig Raimondi.
18. Riccardo Magherini (Todd) in Far Away presso Pacta Arsenale dei Teatri di
Milano (26 Gennaio-13 Febbario 2011). Regia di Annig Raimondi.
19. Da sin.: Riccardo Magherini, Annig Raimondi, e Maria Eugenia D’Aquino
in Sette bambine ebree presso Pacta Arsenale dei Teatri di Milano (26 Gennaio-
13 Febbario 2011). Regia di Annig Raimondi.
Indice dei nomi

Abbado, C., 180 Belocchi, M., 149


Abramovićć, M., 174 Bent, S., 204
Adler, W., 135 Berliner Ensemble, 132
Agustoni, C., 170 Berliner Philarmoniker, 195
Albright, M., 86, 97 Bernstein, L., 180
Alston, R., 139 Bertinetti, P., 43, 228
Altman, R., 18, 37 Bianchi, M., 8, 13-14, 19, 120, 170,
American Conservatory Theater, 204 171, 172-179, 180, 181, 218
Amich, C., 114 Bignami, M., 18, 161
Amitrano, G., 151 Billington, M., 10
Anderson, M., 47, 200 Bird, I., 36, 39, 62, 177
Andreini, G.B., 204 Birmingham Rep, 49
Anzi, A., 18 Blair, T., 71-72, 100, 140
Archinto, A., 170 Bloom, H., 199
Ascari, M., 34, 229 Boccaccio, G., 36, 40
Asor Rosa, A., 96 Boggio, M., 204
Aston, E., 114, 116, 142 Bono, P., 19
Atwood, M., 200 Borger, D., 16
Atzmon, G., 146-147 Boscolo, R., 118
Aukin, D., 136 Bouffes du Nord, 96
Ayckbourne, A., 14 Braccialarghe, R., 143, 149
Bankhead, T., 46 Brater, E., 75
Baracco, A., 20 Brecht, B., 40, 46, 47, 55, 66-68, 75, 132
Barrit, D., 73, 75 Briguglia, P., 203
Bassett, L., 190-191 Brome, R., 50
Bassnett, L., 55 Brook, P., 96, 191, 212
Baudrillard, J., 78, 96 Brown, M., 96, 97
Bay, M., 201 Brownlow, K., 25
Beckett, S., 13, 69, 75, 89, 185, 196, 204 Brueghel, P., 36, 40, 43
Bellisario, M., 175 Bush, G.W., 96, 100
236 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Cabras, S., 15, 19, 34 Davies, S., 139


Calbi, A., 12, 126 De Angelis, A., 122, 167-168
Canuti, R., 189 de Beauvoir, S., 215
Caretti, L., 43, 120 De Filippo, E., 180, 204
Carne, R., 39 De Jong, N., 39
Carruthers, S.L., 96 Delaney, S., 45
Carter, A., 197 Dente, C., 98
Castaldi, M., 120, 176 Devine, G., 138
Caute, D., 34 Dewhurst, K., 25
Cavani, L., 180 Di Giammarco, R., 20
Cavecchi, M., 75, 126 Di Mauro, M., 206-207, 209
Cecchi, C., 9, 20 Diamond, E., 116
Charke, C., 46 Dick, B., 22
Chaucer, G., 36 Dickinson, E., 216
Chaudhury, U., 97 Dietz, S., 204
Chiarelli, C., 177 Diodati, G., 159
Ciompi, F., 97 Donnellan, D., 202
Cohn, N., 34 Durrell, L., 47
Colla, R., 180 Eberhardt, I., 45
Colle, S., 118 Eco, U., 41, 43, 96, 98
Condorelli, N., 203 Eliot, T.S., 223
Conversi, D., 75 English Stage Company, 138
Coppe, A., 26 Ernst, M., 41
Coralluzzo, V., 96 Escher, M.C., 65, 103, 114
Costa, B., 215 Esterton, A., 116
Costanzo, C., 149 Euripide, 13, 181, 186, 204
Cousin, G., 116 Evans, D., 22
Coveney, M., 10 Fanon, F., 109, 116
Craig, D., 200 Farau, M., 9, 14, 20, 189, 190, 191,
Crimp, M., 121-122, 204 192-203, 204
Cromwell, O., 26, 28, 30, 153-154, 156 Fischer, R., 55
Crouch, T., 121 Fleischer, R., 201
Cushman, T., 75 Fo, D., 204
D’Amico, M., 145, 207, 213 Fontana, L., 180
D’Aquino, M.E., 222 Ford, J., 204
D’Orsi, A., 96 Fortezza, D., 34
Daldry, S., 65, 189, 191, 197, 200 Fortunati, V., 23, 34, 62
Daniels, S., 168 Fosse, J., 213
Davies, H., 136 Foucault, M., 70, 75
Indice dei nomi 237

Fracassi, F., 12, 118,121, 127, 129, 130 Jellicoe, A., 45


Frayn, M., 192-193, 204 Jeong, H., 98
Furtwängler, W., 195 Johannes Anglicus, 36, 40, 47
Gablik, S., 75 Joint Stock Theatre Company, 7, 46,
Gambon, M., 200 51, 62, 135-136, 141, 167, 225
Gay Sweatshop Theatre, 46 Jonson, B., 50
Ghelardi, M., 20 Kacimi, M., 204
Gresham, sir T., 50, 62 Kaldor, M., 96
Giacomo I Stuart, 158, 159 Kane, S., 70-71, 125, 165, 207, 211
Gilliam, T., 202 Kay, J., 46
Ginsberg, A., 223 Kelly, D., 49, 121
Giordana, A., 206-207, 209 Knox, J., 47, 140
Globe Theatre, 78 Koenig, R., 98
Goldberg, J., 144 Kramer, H., 47, 140
Goldoni, C., 204 Kritzer, A.H., 114, 116, 142
Gori, A., 170, 174 Kushner, T., 97, 142, 144, 149
Gregori, M.G., 172, 180 Lady Nijo, 36, 38-40, 43, 177
Guardamagna, D., 75 Laing, R.D., 112, 116
Gunn, B. e S., 45 Lan, D., 114
Hall, P., 133 Lavell, I., 114, 116
Hampstead Theatre, 49 Lavery, B., 46, 204
Hare, D., 49, 136, 142, 225 Letts, T., 204
Harris, Z., 122 Littlewood, J., 45
Hartwell, P., 54 Luckham, C., 45
Harwood, R., 195 Lutero, M., 158
Hentzner, P., 50, 62 MacDonald, J., 85, 87
Hill, C., 25, 33, 34 Macmillan, D., 204
Hillje, J., 120 MacNeil, I., 190
Horovitz, I., 135 Maffucci, B., 149
ICA, 45 Magherini, R., 214, 222
Ignatieff, M., 96 Magritte, R., 65-66, 68-70, 72, 74,
Intelisano, C., 149 75, 77, 87
Ionesco, E., 69, 204 Malerba, M., 170
Ireton, W., 28, 30 Malosti, V., 9, 14, 19-20, 206-207,
Ishiguro, K., 201 213
James (Aphex Twin), R.D., 206, 208- Mamet, D., 204
209, 213 Maraini, D., 215
Jarman, D., 46 Margolin, D.S., 144
Jarry, A., 47 Marijnissen, R.H., 43
238 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Martinelli, R., 9, 15, 118, 120, 123, Papanikas, D., 190, 204
125, 127, 128, 129, 180 Pasetti, L., 118, 130
McDormand, F., 189 Patey, C., 75
McFerran, A., 62 Pavanini, P., 170, 177
McHale, B., 43 Pebble, L., 49
McLuhan, M., 53, 62 Penhall, J., 122, 167
Mestrovic, S.G., 75 Peter, J., 204
Michaels, L., 63 Petrarca, F., 36
Miller, A., 204 Petroni, P., 207, 213
Minghella, A., 204 Piana, M., 149
Molière, J.B., 204 Piccolo Teatro, 172, 174, 179, 180
Molina, A., 55 Pinnock, W., 122, 168
Manforte Rabascall, E., 115 Pinter, H., 13-14, 167, 181, 196, 200,
Monstrous Regiment, 45-46, 140, 204
225 Pirandello, L., 204, 217, 223
Moravia, A., 223 Ponti, G., 180
Morgan, F., 45 Prebble, L., 134, 142
Morton, A.L., 34 Raimondi, A., 9, 214-223
Musati, L.M., 204 Randazzo, F., 20, 149
Naismith, B., 43 Ravenhill, M., 9, 16, 19, 22, 101, 114,
National Theatre of Scotland, 136 121-122, 126, 164
National Theatre of Wales, 136 Reinelt, J., 75, 114
New York Public Theatre, 171 Rich, F., 180
Notte, P., 216 Ricks, C., 63
O’Brien, R., 138, 142 Ridley, P., 204
O’Dean, K., 63 Ritchie, R., 62
Old Vic, 133, 167 Roberts, P., 75, 96
Oldman, G., 55 Robertson, R., 98
Orton, J., 166 Rocchetta, T., 189, 190, 203
Orwell, G., 202 Roncarolo, F., 98
Ostermeier, T., 120 Ronconi, L., 180
Ottolenghi, V., 190, 204 Rose, M., 7, 9, 17, 18, 43, 62, 120,
Out of Joint, 136 126, 176, 183
Pacta Arsenale dei Teatri, 19, 214, Royal Court Theatre, 9-10, 13, 15-
215, 222, 223 18, 41, 49, 52, 54-55, 62, 63, 65,
Paganini, P., 171, 180 70-71, 79, 85, 87, 96, 116, 121-
Paganini, F., 170 123, 136-139, 142, 144, 153, 161,
Palusci, O., 62 166-168, 171, 180, 187, 189-190,
Paolucci, A., 149 197, 200, 220, 225-226
Indice dei nomi 239

Royal National Theatre, 10, 49, 133, Stone, O., 52


136 Strehler, G., 180
Royal Shakespeare Company, 49, Tarantino, A., 213
136, 199 Taylor, P., 96
Russo Arman, E., 118, 130 Teatro a l’Avogaria, 20, 131
Sabine, G.H., 160, 162 Teatro alla Scala, 13, 180
Salinger, J., 22, 128 Teatro Arsenale, 8, 14, 19, 181, 187,
Sartre, J.P., 217, 223 188, 210, 218, 223
Savary, J., 180 Teatro Belli, 205, 206
Scarlini, L., 18, 164 Teatro di Porta Romana, 14, 178
Schaubühne, 120 Teatro di Roma, 204
Schauspielhaus Colonia, 135 Teatro Dioniso, 206, 213
Schauspielhaus Hannover, 135 Teatro Due, 190-192, 197, 202, 203,
Sebellin, R.M., 75 204
Second Stride, 135, 139 Teatro Elfo Puccini, 20
Sex Pistols, 46 Teatro Franco Parenti, 179, 180
Shadwell, T., 50-51, 55-56, 61, 62 Teatro Garybaldi, 206
Shakespeare, W., 49-50, 78, 149, 181, Teatro i, 9, 12, 15, 17, 22, 34, 43,
186, 199, 204, 207, 213 44,119-122, 126, 127, 128, 129,
Sharman, J., 138 130, 153, 157, 161, 164, 180
Shaw, M., 98 Teatro Lo Spazio, 143, 149
Shawn, W., 7, 10, 122, 166, 169, 204 Teatro Moderno, 206, 213
Sheen, C., 52 Teatro Stabile Abruzzese, 204
Sinigaglia, S., 175 Teatro Stabile di Napoli, 204
Sisti, E., 215 Teatro Stabile di Torino, 14, 19, 204,
Smith, B., 46 206-207
Smith, M., 22, 128 Thatcher, M., 35, 41, 55-56, 61, 70,
Soncini, S., 18-19, 98 116, 123, 137, 140, 171, 175-176,
Sondheim, S., 204 226
Sosanya, N., 22, 127, 128 Thomas, D., 204
Spicci, M., 165 Thornbury, W., 62
Spink, I., 139 Terno, P., 149, 206-207, 210
Spreafico, M., 8, 14, 19, 181-183, Tonello, F., 96
188, 210, 223 Tozer, K., 85
Sprenger, J., 47, 140 Trafalgar Studios, 20
Stafford-Clark, M., 8, 20, 41, 51, 55, Traverse Theatre, 23, 153
136-137, 139, 171, 225 Truss, L., 43
Stephenson, S., 192, 204 Tuccari, F., 98
Stirling, R., 135 Tucker Green, D., 122, 125, 165
240 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Turner, L., 9 Visniec, M., 204


Twin Aphex (James R.D.), 206, 208- von Mayenburg, M., 122, 168-169
209, 213 Walsh, E., 208-209
Tydeman, J., 225 Wandor, M., 62
Ulmann, L., 47 Weil, S., 216
Valeri, F., 180 Wertenbaker, T., 45
Valle, G., 14 Wimbledon Theatre, 204
Valota, I., 118 Wing-Davey, M., 133
Veracierta, R., 149 Winstanley, G., 24-26, 31, 158, 160, 162
Verdenelli, D., 173, 180 Woolf, V., 142, 216
Vigo, N., 173-174, 180 Woolfolk Cross, D., 47
Virello, D., 118 Wortmann, S., 47
Virilio, P., 99 Wright, N., 122, 166-168
Autori

Hanno collaborato a questo volume

Anna Anzi è stata docente di Storia del Teatro Inglese presso l’Università degli
Studi di Milano. Ha pubblicato numerosi saggi su Shakespeare, sul teatro di cor-
te inglese, sulla fortuna di Shakespeare in Italia e sul teatro inglese del Novecen-
to. Tra i volumi: Riscritture nel teatro inglese contemporaneo (1989); Storia del teatro ingle-
se dalle origini al 1660 (1997); Shakespeare e le arti figurative (1998); Varie e strane for-
me. Shakespeare, il masque e il gusto manieristico (1998 (1984); Shakespeare nei teatri mi-
lanesi del Novecento (1980 e 2001). Ha fondato, insieme a Paolo Bosisio e Marga-
ret Rose, TESS - rivista di teatro e spettacolo. Ha curato e diretto seminari su Shake-
speare nel Novecento e il Laboratorio shakespeariano fondato da Agostino Lombar-
do e Giorgio Strehler che, per diciotto anni, ha avuto la sua sede nelle sale del Pic-
colo Teatro di Milano-Teatro d’Europa.

Valentina Berardi si è laureata in Lingue e Letterature Straniere presso l’Uni-


versità degli Studi di Milano.

Marialuisa Bignami è stata professore di Lingua e Letteratura Inglese pres-


so l’Università degli Studi di Milano, dove si è dapprima occupata delle origini
secentesche del giornalismo inglese, di utopia e di romanzo, con un libro su De-
foe e saggi su Defoe, Swift, George Eliot, Samuel Butler, Joseph Conrad ed Iris
Murdoch. In ambito teatrale ha scritto sul La Tempesta di Shakespeare, Shake-
speare e Iris Murdoch, sulla versione teatrale di Robinson Crusoe ed infine su te-
sti ispirati alla guerra civile inglese.

Chiara Biscella sta ultimando un dottorato di ricerca presso il Dipartimento


di Scienze del Linguaggio e Letterature Straniere Comparate dell’Università de-
gli Studi di Milano con una tesi dedicata a Shakespeare nella narrativa del No-
vecento.
242 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Paola Bono insegna Teatro inglese nel corso di laurea in DAMS dell’Univer-
sità degli Studi Roma Tre. Tra le fondatrici della Società Italiana delle Lette-
rate e sua prima presidente, ha fatto a lungo parte della redazione di DWF e
dello European Journal of Women’s Studies ed è nel comitato consultivo interna-
zionale di Signs. Tra le sue pubblicazioni, oltre a numerosi saggi, Il mito di Di-
done (con M. Vittoria Tessitore, 1998), Esercizi di differenza (1999), Il romanzo del
divenire (a cura sua e di Laura Fortini, 2007), Il bardo in musical (2009). Ha inol-
tre curato con Sandra Kemp due volumi sul femminismo italiano – Italian Fe-
minist Thought. A Reader (1991); The Lonely Mirror. Italian Perspectives on Feminist
Theory (1993) – e due numeri monografici dello European Journal of Women’s Stu-
dies. I suoi ambiti di ricerca includono le riprese e trasformazioni di temi, sto-
rie e figure – nel tempo, tra culture, tra diversi mezzi espressivi – e la scrittu-
ra delle donne, con particolare attenzione alla drammaturgia inglese contem-
poranea.

Salvatore Cabras, dopo una lunga esperienza nel marketing dell’editoria e in


seguito nel giornalismo, dal 2004 traduce e scrive per il teatro, con una parti-
colare attenzione ai temi sociali. Parti della sua opera Inferni Maggiori (2004-2007)
sono state rappresentate con letture sceniche a Milano e Edimburgo. Insieme
a Margaret Rose ha tradotto The War Plays di Edward Bond; ha inoltre tradot-
to in inglese Biblioetica di G. Corbellini et al., Il silenzio dei comunisti di V. Foa et.al.
e Lo specchio del diavolo di G. Ruffolo. Ha tradotto alcuni monologhi della rac-
colta I Confess (2008). Nel 2006 la rivista britannica “Plays International” ha pub-
blicato la versione inglese del suo monologo Hilda; il suo monologo Festa del
Perdono è stato rappresentato alla Festa del Teatro di Milano del 2008. Nel 2009
ha tradotto le opere di Caryl Churchill Light Shining in Buckinghamshire e Sette Bam-
bine Ebree, nonché – insieme a Margaret Rose – il testo di Alan Bennett The Hi-
story Boys, messo in scena al teatro Elfo Puccini di Milano. Ha in corso la tra-
duzione della biografia di Dario Fo di Joe Farrell.

Laura Caretti insegna Drammaturgia all’Università di Siena e co-dirige la Scuo-


la Europea di Studi Comparati “Synapsis”. È life member del college Clare Hall
di Cambridge. I suoi studi teatrali riguardano in particolare Shakespeare in per-
formance, la “scrittura scenica” degli attori, il teatro di Ibsen, la regia, la dram-
maturgia moderna e contemporanea, le intersezioni tra teatro e cinema. Di re-
cente, ha curato un volume sulle “streghe” nella storia, nel teatro e nel cinema
(Incanti e sortilegi, 2002). Attualmente è impegnata in una ricerca teatrale euro-
pea: “Playing Identities”.
Autori 243

Mariacristina Cavecchi è ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze del Lin-


guaggio e Letterature Straniere Comparate dell’Università degli Studi di Mila-
no, dove insegna Letteratura Inglese e Storia del Teatro Inglese. Le principali
aree di interesse sono il teatro shakespeariano e il teatro contemporaneo, di cui
privilegia l’analisi dei rapporti con le arti figurative. È autrice del volume Sha-
kespeare mostro contemporaneo.‘Macbeth’ nelle riscritture di Marowitz, Stoppard e Bren-
ton (1998) e co-curatrice di Caledonia Dreaming. La nuova drammaturgia scozzese (2001);
Shakespeare Graffiti. Il Cigno di Avon nella cultura di massa (2002); EuroShakespea-
res. Exploring Cultural Practice in an International Context (2002); Shakespeare & Sce-
spir (2005), e Tra le lingue, tra i linguaggi. Cent’anni di Samuel Beckett (2007).

Carlo Cecchi è uno dei registi più innovativi della scena teatrale contempora-
nea, con una formazione che coniuga Living Theatre ed Eduardo, sceneggia-
ta e Pinter, Shakespeare e teatro dell’assurdo. In qualità di attore e regista rap-
presenta testi di autori come Majakovskij, Brecht, Shakespeare, Cechov, Moliè-
re, e ottiene unanimi consensi per il suo stile che fonde insieme classicità e in-
novazione. Alterna il lavoro di regista teatrale a quello di attore teatrale e cine-
matografico. Memorabili sono la sua interpretazione di Renato Caccioppoli in
Morte di un matematico napoletano (1991) di Mario Martone e di Hamm in un Fi-
nale di partita di cui è anche regista e che si è aggiudicato il Premio Ubu 1995
come miglior spettacolo e miglior regia. Nel 2007 ha vinto il Premio Gassman
come miglior attore teatrale italiano.

Andrea D’Addato si è laureato con una tesi su A Number di Churchill presso


l’Università degli Studi di Milano.

Federica Fracassi, attrice, si è formata alla Scuola d’Arte Drammatica “Paolo


Grassi” e al Corso Europeo di Formazione Superiore per Attori “Parole in azio-
ne” organizzato da ERT. Ha fondato e dirige insieme al regista Renzo Martinel-
li la compagnia Teatro Aperto, oggi Teatro i, che dal 2004 gestisce l’omonimo spa-
zio a Milano. Oltre a curare pubblicazioni e incontri teorici è stata protagonista
di diversi spettacoli della compagnia tra i quali: La Santa di Antonio Moresco, che
ha vinto il premio “Sette spettacoli per un nuovo teatro italiano per il 2000” in-
detto dal Teatro di Roma; Prima della pensione di Thomas Bernhard, per cui ha ri-
cevuto la menzione d’onore quale miglior attrice emergente al Premio Duse 2006;
Dare al buio-la fine l’inizio di Letizia Russo, per cui ha ricevuto il Premio Adelaide
Ristori come miglior attrice del Mittelfest 2007. Nel 2002 ha scritto il testo del-
lo spettacolo Sinfonia per corpi soli - Omaggio a Sarah Kane, condividendo con Bar-
bara Nativi e Pierpaolo Sepe il Premio Ubu al lavoro di Sarah Kane come mi-
244 Caryl Churchill. Un teatro necessario

gliore novità straniera. È autrice e attrice insieme a Nicola Russo dello spettaco-
lo La regina delle nevi da H.C. Andersen e attrice dello spettacolo Le muse orfane di
M.M. Bouchard per la regia di Nicola Russo, per il quale ha vinto il Premio ETI
“Gli Olimpici del Teatro” 2007 come attrice emergente. Nella stagione 2008/2009
è stata impegnata in Un giorno d’estate di Jon Fosse per la regia di Valerio Binasco,
una produzione del Teatro Eliseo di Roma; nel melologo Parla Persefone compo-
sto dal maestro Fabio Vacchi su testo di Aldo Nove che ha debuttato nell’esecu-
zione dell’Ensemble Sentieri Selvaggi alla Fondazione Arnaldo Pomodoro a Mi-
lano; nello spettacolo Superwoobinda di Aldo Nove per la regia di Monica Nappo
prodotto in collaborazione con Mercadante Teatro Stabile di Napoli; in Lait di
Magdalena Barile per la regia di Renzo Martinelli prodotto da Teatro i. Nella sta-
gione 2009/2010 è protagonista di Donne in Parlamento di Aristofane per la regia di
Nicoletta Robello, prodotto dal Teatro Due di Parma e di Corsia degli incurabili di
Patrizia Valduga per la regia di Valter Malosti prodotto da Teatro di Dioniso, per
cui è stata finalista ai Premi Ubu 2010 come Miglior Attrice. Nel 2010/2011 è at-
trice protagonista di Incendi di Wajdi Mouawad, di Mi chiamo Roberta, ho 40 anni,
guadagno 250 euro al mese di Aldo Nove e di Hilda di Marie NDiaye, regia di Ren-
zo Martinelli, produzione Teatro i. Nel 2012 sarà attrice ne La signorina Giulia di
August Strindberg, regia di Valter Malosti, produzione Teatro Stabile di Torino.
Ha inoltre vinto il premio Eleonora Duse 2011.

Francesca Garolla si è diplomata in regia all’Accademia d’arte drammatica “Pao-


lo Grassi” di Milano nel 2005. Dal gennaio 2005 fa parte della direzione artisti-
ca di Teatro i, partecipando alle principali produzioni della compagnia come Dra-
maturg e assistente alla regia. Ha firmato i seguenti progetti: nel 2006 regia e dram-
maturgia scenica di Elettra. Quel che rimane da Elettra di M. Yourcenar; nel maggio
2008 regia e drammaturgia scenica di Non dirlo a nessuno, liberamente tratto da Il
Buon Dio di Manhattan di Ingeborg Bachmann; nel 2010 è autrice di N.N., che va
in scena a Teatro i per la regia di Renzo Martinelli. Ha precedentemente colla-
borato ai seguenti progetti: nel giugno 2004, è aiuto regia nello spettacolo La bam-
bina gelata di Von Mayenburg, per la regia di Sophia Pelczer; nel 2004 è aiuto regia
nello spettacolo Ippolito di Euripide, per la regia di Giovanna Bozzolo. Nel 2002
firma regia e drammaturgia dello spettacolo Sete tratto da Yerma di F. Garcia Lor-
ca, presentato all’interno della rassegna Giffoni Teatro Festival. Nel 2002 è fina-
lista al Premio Chiara Giovani con il racconto Un nuovo mondo, poi pubblicato.

Marco Ghelardi è regista e drammaturgo. Si è formato in Inghilterra studiando


regia teatrale alla “Central School of Speech and Drama” e al National Theatre di
Londra. Ha scritto diversi testi teatrali, tra cui Parti Oscure – in margine ai Promessi Spo-
Autori 245

si e Turno di Notte. In Italia ha tradotto e diretto sette opere shakespeariane. Per la


nuova drammaturgia ha tradotto e diretto, tra l’altro La scelta del mazziere di Patrick
Marber che ha debuttato in prima nazionale al Teatro Stabile di Genova nel 2008.
Nel 2003 ha vinto il concorso per la messinscena annuale di Shakespeare all’“Arts
Theatre” di Cambridge, per il quale ha diretto La bisbetica domata. Nel 2008 ha ri-
cevuto il Premio Regionale Ligure per il Teatro da parte della Regione Liguria.

Francesca Gorini sta completando un dottorato di ricerca presso il Diparti-


mento di Scienze del Linguaggio e Letterature Straniere Comparate dell’Uni-
versità degli Studi di Milano, con una tesi dal titolo Shakespeare al cinema.

Renzo Martinelli, regista, è stato in passato corridore motociclista. Ha studiato


musica alla Scuola Civica di Milano. È direttore artistico di Teatro i, compagnia di
produzione nata come Teatro Aperto nel 1996 e fondata insieme all’attrice Fede-
rica Fracassi. Teatro i ha vinto il premio Hystrio-provincia di Milano per il 2006
e gestisce, dal 2004, l’omonimo spazio teatrale a Milano. Le regie di Martinelli pri-
vilegiano un’autonoma costruzione scenica in costante dialogo con una dramma-
turgia della contemporaneità. Tra i suoi lavori: Lenti in amore da Marguerite Duras
(1996) selezionato alla prima edizione di Scena prima, che ha debuttato al Teatro
dell’Elfo di Milano; La Santa di Antonio Moresco (2000) vincitore del premio “Set-
te spettacoli per un nuovo teatro italiano per il 2000”; Sinfonia per corpi soli - omag-
gio a Sarah Kane (2001) che ha ottenuto importanti riconoscimenti nell’edizione 2002
dei prestigiosi Premi Ubu; Kamikaze (2004) selezionato per il progetto Petrolio di
Mario Martone; Prima della Pensione di Thomas Bernhard (2006) per il quale Fede-
rica Fracassi ha ricevuto la menzione d’onore quale migliore attrice emergente al
Premio Duse 2006. Incendi di Wajdi Mouawad e Hilda di Marie Ndiaye. Dal 2011
Renzo Martinelli cura la direzione della sezione teatrale di Hangar Bicocca e sta
attualmente collaborando con la casa discografica Sugar Music di Caterina Casel-
li, per la quale ha curato nel maggio 2009 la regia del concerto degli Avion Travel
“Nino Rota: L’amico Magico” all’interno della manifestazione MusicAcross 2009,
ripreso in occasione del Festival del cinema di Roma in ottobre 2009, e la regia di
“COPYNIGHT - Serata d’autore / Concerto dedicato alla tutela dei diritti d’au-
tore” in programma al Festival dei Mondi 2009 di Spoleto.

Claudia Nocera si è formata tra Italia e Inghilterra, dove nel 2010 ha conse-
guito il Master of Arts in Theory and Practice of Translation alla University
College London e ha vinto una borsa di collaborazione per la DH 2010 Digi-
tal Humanities Annual Conference presso il King’s College London. Vive e la-
vora a Londra.
246 Caryl Churchill. Un teatro necessario

Francesco Randazzo si è laureato in Regia all’Accademia Nazionale d’Arte


Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma nel 1991. È attivo in Italia e
all’estero come regista e autore per importanti teatri e festival, tra i quali: Todi
Festival, Teatro Stabile di Catania, Ortigia Festival, Dramma Italiano - Narod-
no Kazaliste “I. Zaic” di Rijeka, Festival di Dubrovnik, Teatro Nacional Juve-
nil de Venezuela, Teatro IT&D di Zagabria, Playwright Festival of New York,
Festival des Films du Monde di Montréal, Festival Universcènes de Toulouse,
Festival de Dramaturgia Europea Contemporanea de Santiago de Chile. È fon-
datore della Compagnia degli Ostinati - Officina Teatro, della quale è diretto-
re artistico. Ha pubblicato con vari editori testi teatrali, poesie, racconti e un ro-
manzo, e ha ottenuto numerosi riconoscimenti in premi di drammaturgia na-
zionali e internazionali, tra i quali: Premio Fondi La Pastora, Premio Candoni,
Premio Fersen, Premio Schegge d’autore, Sonar Script, Premio Leonforte, Pre-
mio Maestrale San Marco, Premio Ugo Betti, Premio Officina Teatro. Suoi te-
sti teatrali sono stati tradotti e rappresentati in spagnolo, francese, inglese e ceco.
Parallelamente ha svolto e svolge un’intensa attività didattica con corsi di reci-
tazione, storia dello spettacolo, stages e conferenze per varie istituzioni pubbli-
che e private, tra le quali: Scuola di Teatro Antico dell’Istituto Nazionale del Dram-
ma Antico, Cinars Montreal, TNJV Caracas, Centro Teatro Educazione-Ente
Teatrale Italiano, Centro Studi Uilt, International Playwright Institute, Ostina-
ti Open Studio e International Acting School Rome.

Mark Ravenhill, classe 1966, drammaturgo e collaboratore del quotidiano The


Guardian, debutta nel 1995 con i monologhi Fist e His Mouth. Il successo inter-
nazionale arriva l’anno successivo grazie a Shopping and Fucking, messo in sce-
na dalla compagnia Out Of Joint al Royal Court Theatre di Londra. Del 1999
è Some Explicit Polaroids. Nel 2001 va in scena al National Theatre di Londra Mo-
ther Clap’s Molly House. Nel 2005 scrive il monologo The Product (dove debutta
come attore) presentato al Fringe Festival di Edimburgo. Del 2006 è The Cut,
che debutta al Donmar Warehouse con Sir Ian McKellen. Sempre al Fringe Fe-
stival di Edimburgo nel 2008 presenta diciassette testi brevi raccolti sotto il ti-
tolo Ravenhill for Breakfast, che viene poi ripresentato come Shoot/Get Treasure/Re-
peat in contemporanea al Royal Court, Gate Theatre, National Theatre, Out of
Joint e Paines Plough.

Margaret Rose è docente presso l’Università degli Studi di Milano, dove inse-
gna Storia del Teatro Inglese e Letteratura Inglese. Tra le sue pubblicazioni: Mo-
nologue Plays for Female Voices (1996), Political Satire and Reforming Vision in Eliza Hay-
wood’s Works (1996), Storia del Teatro Inglese. L’Ottocento e il Novecento (2002). È co-
Autori 247

curatrice di A Theatre That Matters; a Collection of Essays on Scottish Theatre (2000),


Caledonia Dreaming, an Anthology of Contemporary Scottish Plays (2001), Scottish Ita-
lian Connections and Identities (2001) e La poesia di Liz Lochhead (2006). Nell’ultimo
decennio si è dedicata alla teoria della traduzione teatrale, frequentando conve-
gni presso le università di Norwich, Glasgow, Warwick, Londra e Belfast.

Luca Scarlini è saggista, drammaturgo, traduttore e performer. Insegna allo


IED (Scuola internazionale di design, moda e arti visive) e in numerose univer-
sità e scuole d’arte, in Italia e all’estero. Ha tradotto molti drammaturghi con-
temporanei. Tra i suoi libri recenti: Lustrini per il regno dei cieli (2008), Sacre sfila-
te (2010), Un paese in ginocchio (2011), Nella terra del piacere (2011).

Sara Soncini è ricercatore di Letteratura Inglese presso l’Università di Pisa, dove


collabora con la cattedra di Storia del Teatro Inglese. Ha pubblicato saggi e vo-
lumi sulla civiltà teatrale britannica, con particolare enfasi sul periodo contem-
poraneo e sull’early modern. È autrice di un volume sulle rivisitazioni moderne
del teatro della Restaurazione, Playing with(in) the Restoration (1999) e di nume-
rosi contributi sulle traduzioni e le rivisitazioni contemporanee dell’opera di Sha-
kespeare; ha co-curato inoltre l’edizione di diversi volumi di ricerca, tra cui Sha-
kespeare Graffiti: Il Cigno di Avon nella cultura di massa (2002), Conflict Zones: Actions
Languages Mediations (2004), Myths of Europe (2007), Crossing Time and Space: Sha-
kespeare Translations in Present-Day Europe (2008). È attualmente impegnata nel-
la stesura di una monografia sulla rappresentazione della guerra e delle situa-
zioni conflittuali nella drammaturgia britannica contemporanea, e nella cura-
tela del volume Shakespeare and Conflict: A European Perspective.
Pubblicati
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per conto di ED.IT - Firenze
presso Atena.net - Grisignano (Vicenza)

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