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Il co-fondatore dei The Jackal racconta le difficoltà di un autore e regista nell'epoca dei social e di Internet: "Sono molto
curioso ma ho sempre paura di non farcela"
https://www.repubblica.it/dossier/spettacoli/italia-di-domani/2021/05/12/news/francesco_ebbasta_-300602887/ 1/6
29/8/2021 Francesco Ebbasta: "La creatività oggi è un bivio" - la Repubblica
Dice Francesco Ebbasta, classe ’86, nome d’arte di Francesco Capaldo, regista e co-fondatore dei The Jackal, che
la cosa più importante a volte è agire. “Sto attraversando un periodo particolare; non riesco più a perdere
tempo, nemmeno sui social. Non mi piace fermarmi, non mi piace mettermi in mostra”.
Nella sua carriera ci sono sempre state delle costanti. I suoi amici, che sono anche i suoi colleghi. E Napoli. “Noi”,
dice, “non la raccontiamo ossessivamente. Ma c’è. Ci hanno chiesto spesso di parlarne. A me non piace farlo:
l’identità di una città è fatta dalle persone che ci vivono, e noi vogliamo andare oltre il pregiudizio. Oltre il solito
luogo comune. Vogliamo essere associati a Napoli, ma con le nostre storie”.
Negli anni, Ebbasta ha diretto cortometraggi e video; ha firmato un film e ha lavorato con Alessio Maria Federici
alla direzione di “Generazione 56K”, la serie di Netflix. Su Youtube, con la The Jackal, ha trovato la sua Terra
Promessa. “Quando ci siamo iscritti, era la novità: nessuno lo conosceva; per noi era una piattaforma dove
caricare i nostri video, dove poterli condividere. Oggi i ragazzi vogliono, talvolta letteralmente, fare questo
lavoro”.
Ha diretto anche un film, “Addio fottuti musi verdi”. Era quello il suo obiettivo?
“No, non lo era. Un film non è la fine, ma l’inizio di un viaggio. Girandolo, ci siamo resi conto del resto. Il cinema
ha regole precise e sono regole che vanno rispettate. E la stessa cosa succede in televisione, con le serie. C’è
sempre qualcosa da imparare”.
Cosa conta di più, la sua visione come autore o collaborare con gli altri?
“Il gioco di squadra è fondamentale. Io ho scelto le persone con cui lavorare. La visione di un autore è sempre, a
modo suo, di parte: monca, incompleta; a volte addirittura ottusa. Non prende immediatamente in
considerazione gli interessi del pubblico. Nel confronto si ottiene il meglio delle cose”.
C’è chi chiede apertamente un altro finale per una serie o per un film. È un problema?
“Lo è, ma è una fase. Siamo fatti di fasi, dopotutto. Anche il cinema, ora, ne sta attraversando una. Si producono
tanti sequel, tanti blockbuster, tanti reboot. Si punta a un pubblico specifico, agli affezionati della sala”.
Riflette mai sull’impatto che il successo dei The Jackal ha avuto sugli altri? Molti, vedendovi, hanno deciso
di fare il vostro stesso lavoro.
“In realtà no. Forse siamo troppo presi da quello che facciamo. Quando abbiamo scritto il nostro libro (Non siamo
mai stati bravi a giocare a pallone così abbiamo aperto un canale Youtube, Rizzoli) ci siamo fermati per la prima
volta, e ci siamo guardati indietro”.
Di cosa?
“Di non saper gestire un set, di non trovare una soluzione per un problema. Di non farcela”.
parte di The Jackal. Spesso ci dimentichiamo che nei momenti di debolezza, di difficoltà, abbiamo bisogno degli
altri. In The Jackal ci sosteniamo a vicenda”.
È soddisfatto?
“Mai. Non mi sono mai detto prima di andare a dormire: ce l’abbiamo fatta. Tutto cambia velocemente, troppo
velocemente, per poterlo dire. E devi sempre essere pronto a rimetterti in gioco”.
Perché?
“Perché serve. Se non stai tra le persone, non riesci a essere creativo e non puoi raccontare la vita”.
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