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29/8/2021 Francesco Ebbasta: "La creatività oggi è un bivio" - la Repubblica

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Francesco Ebbasta: "La creatività oggi è un bivio"


di
Gianmaria Tammaro

Il co-fondatore dei The Jackal racconta le difficoltà di un autore e regista nell'epoca dei social e di Internet: "Sono molto
curioso ma ho sempre paura di non farcela"

12 MAGGIO 2021 4 MINUTI DI LETTURA

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29/8/2021 Francesco Ebbasta: "La creatività oggi è un bivio" - la Repubblica

Dice Francesco Ebbasta, classe ’86, nome d’arte di Francesco Capaldo, regista e co-fondatore dei The Jackal, che
la cosa più importante a volte è agire. “Sto attraversando un periodo particolare; non riesco più a perdere
tempo, nemmeno sui social. Non mi piace fermarmi, non mi piace mettermi in mostra”.

Nella sua carriera ci sono sempre state delle costanti. I suoi amici, che sono anche i suoi colleghi. E Napoli. “Noi”,
dice, “non la raccontiamo ossessivamente. Ma c’è. Ci hanno chiesto spesso di parlarne. A me non piace farlo:
l’identità di una città è fatta dalle persone che ci vivono, e noi vogliamo andare oltre il pregiudizio. Oltre il solito
luogo comune. Vogliamo essere associati a Napoli, ma con le nostre storie”.

Negli anni, Ebbasta ha diretto cortometraggi e video; ha firmato un film e ha lavorato con Alessio Maria Federici
alla direzione di “Generazione 56K”, la serie di Netflix. Su Youtube, con la The Jackal, ha trovato la sua Terra
Promessa. “Quando ci siamo iscritti, era la novità: nessuno lo conosceva; per noi era una piattaforma dove
caricare i nostri video, dove poterli condividere. Oggi i ragazzi vogliono, talvolta letteralmente, fare questo
lavoro”.

Lei ha sempre voluto fare il regista?


“Sempre. Chi mi conosce dice che è tutto quello che sono. Io, però, non riesco a definirmi unicamente così. Mi
piace avere una visione più ampia; non sono solo questo. Come molte professioni moderne, è un lavoro
estremamente fluido. Scrivo, curo la direzione artistica, faccio la regia. Quello che mi interessa è raccontare
storie. Oggi posso farlo in tanti modi diversi: il cortometraggio, il cinema, la story di Instagram. Ma è una cosa
che ho sempre voluto. Fin da bambino”.

Ha diretto anche un film, “Addio fottuti musi verdi”. Era quello il suo obiettivo?
“No, non lo era. Un film non è la fine, ma l’inizio di un viaggio. Girandolo, ci siamo resi conto del resto. Il cinema
ha regole precise e sono regole che vanno rispettate. E la stessa cosa succede in televisione, con le serie. C’è
sempre qualcosa da imparare”.

Cosa conta di più, la sua visione come autore o collaborare con gli altri?
“Il gioco di squadra è fondamentale. Io ho scelto le persone con cui lavorare. La visione di un autore è sempre, a
modo suo, di parte: monca, incompleta; a volte addirittura ottusa. Non prende immediatamente in
considerazione gli interessi del pubblico. Nel confronto si ottiene il meglio delle cose”.

Serve saper fare un passo indietro.


“Devi trovare un equilibrio. Non puoi ignorare il tuo gusto; devi tenerlo sempre presente. Ma devi anche
1 ascoltare gli altri. Devi capire di non poter fare tutto da solo”.
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È difficile non lasciarsi sommergere?


“Sì. Ma se sai cavalcare le tendenze senza lasciarti schiacciare, ti trovi in una posizione unica. Anche quando
abbiamo lavorato a Lost in Google, anni fa, abbiamo provato a fare una cosa del genere. Abbiamo usato i
commenti degli utenti per i vari episodi e abbiamo conservato la nostra identità. Quando le persone decidono di
vedere un film, vogliono ascoltare una storia. Non vogliono dire la loro. Pensano di volerlo, sì. Ma non è così”.

C’è chi chiede apertamente un altro finale per una serie o per un film. È un problema?
“Lo è, ma è una fase. Siamo fatti di fasi, dopotutto. Anche il cinema, ora, ne sta attraversando una. Si producono
tanti sequel, tanti blockbuster, tanti reboot. Si punta a un pubblico specifico, agli affezionati della sala”.

E secondo lei questa fase passerà?


“Certo. Il cinema ha influenzato generazioni intere, proprio perché ha saputo adattarsi, ha saputo evolversi e
trasformarsi. Non è finita la creatività. Siamo davanti a un bivio, proprio com’è successo alla mia generazione su
Internet”.

Riflette mai sull’impatto che il successo dei The Jackal ha avuto sugli altri? Molti, vedendovi, hanno deciso
di fare il vostro stesso lavoro.
“In realtà no. Forse siamo troppo presi da quello che facciamo. Quando abbiamo scritto il nostro libro (Non siamo
mai stati bravi a giocare a pallone così abbiamo aperto un canale Youtube, Rizzoli) ci siamo fermati per la prima
volta, e ci siamo guardati indietro”.

E che cosa avete imparato?


“Abbiamo ripercorso un periodo di 15 anni, abbiamo capito che 15 anni sono tanti, soprattutto su Internet; e
abbiamo rivissuto i vari momenti che abbiamo affrontato. Ma non pensiamo mai alla nostra influenza sugli altri,
non veramente. Non ci piace abbandonarci a questa masturbazione mentale”.

Come la fa sentire questa consapevolezza?


“Mi sento vecchio. Francamente mi sento vecchio da quando ho 20 anni. Ma allo stesso tempo mi sento come un
bambino alle prime armi, pronto a imparare. Da una parte, insomma, sono sempre curioso; e dall’altra sono
terrorizzato”.

Di cosa?
“Di non saper gestire un set, di non trovare una soluzione per un problema. Di non farcela”.

C’è ancora un certo snobismo nei confronti del web?


“Per fortuna le cose sono cambiate. Adesso il talento di chi viene da Internet viene riconosciuto. Dopo il boom
iniziale, ci siamo tutti adattati”.

È facile rimanere aggiornati?


“No. Su TikTok seguo una serie di creator molto giovani che fanno cortometraggi montati in macchina, come
facevamo noi una volta. Grazie alla tecnologia, riescono a inserire musiche, a fare una color migliore; e creano
cose pazzesche. Io, però, su TikTok non so come muovermi. Per la prima volta sono diventato spettatore”.

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parte di The Jackal. Spesso ci dimentichiamo che nei momenti di debolezza, di difficoltà, abbiamo bisogno degli
altri. In The Jackal ci sosteniamo a vicenda”.

Come si trova la storia giusta da raccontare?


“Devi divertirti, e deve piacerti. Se quello che stai dicendo non ti tocca, non riuscirai a raccontarlo bene”.

Qual è il futuro del cinema?


“Assolutamente in streaming. Io sono un fan della sala, mi piace, ma perché sono vecchio, ci sono cresciuto; quel
tipo di esperienza è diversa. Questa pandemia ha avvicinato molti spettatori allo streaming. La tecnologia si sta
evolvendo, e si sta investendo moltissimo nell’home video. La sala, secondo me, diventerà un evento e offrirà
qualcosa di veramente speciale”.

È soddisfatto?
“Mai. Non mi sono mai detto prima di andare a dormire: ce l’abbiamo fatta. Tutto cambia velocemente, troppo
velocemente, per poterlo dire. E devi sempre essere pronto a rimetterti in gioco”.

Che cosa le manca?


“Siamo sempre tutti collegati, e questa cosa sta diventando estremamente faticosa. Ci stiamo sforzando di
creare un mondo su un altro mondo. Prima i social erano una via di fuga. Oggi sono quasi l’opposto. Sono un
impegno. Sono litigare, sono dire la propria; sono urlare. Mi manca poter spegnere il telefono e godermi le cose
concrete della vita”.

Perché?
“Perché serve. Se non stai tra le persone, non riesci a essere creativo e non puoi raccontare la vita”.

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